The Grice Club

Welcome

The Grice Club

The club for all those whose members have no (other) club.

Is Grice the greatest philosopher that ever lived?

Search This Blog

Thursday, April 7, 2022

GRICE ITALICVS DEFGHIJ

 

2mKG3XG-2mKbpiZ

Grice e Dalmasso – la giustizia nel discorso – filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano). Filosofo. Grice: “Dalmasso is what at Oxford we call a ‘derivative’ philosopher, and at Cambridge a ‘Derrideian’! But he’s written some original work too, mostly as editor, as in “La passione della ragione” – he has also explored ‘discourse’ in terms of ‘rationality’ and ‘fairness’ – In my model, both conversationalists are symmetrical, so questions of unfairness do not apply! I took the inspiration from Chomsky!” – Si laurea a Milano. Insegna a Calabria, Roma, Pisa, e Bergamo. Membro della Societa Italiana di Filosofia Teoretica. Studia Derrida, ha commentato “La voix et le phénomène” e “De la grammatologie (Jaca Book). Comments on “L’offerta obliqua” e “Passioni” --Dai problemi del soggetto del discorso e della genesi del segno nel dibattito sul nichilismo i suoi interessi si sono rivolti alla ragione in rapporto all'etica e Hegel. Pubbllica in Oltrecorrente, di Magazzino di Filosofia. Altre opere: Hegel, probabilmente. Il movimento del vero (Milano: Jaca).Hegel e l'Aufhebung del segno, Chi dice io. Chi dice noi (duale). L’implicatura del noi duale. Razionalità e nichilismo, Jaca, Milano, La passione della ragione. Il pensiero in gabbia. La politica dell’imaginario, la verita in effetti. La sovranita in legame. Etica e ontologia: fatto, valore, soggetto, l’interosoggetivo. Il tra noi. Di-segno – la giustizia nel discorso. –  Hegel e l’Aufhebung del segno. L'implicatura del noi duale. L’in­trec­cio fra sa­pe­re e ra­gio­ne Il tema della filosofia di Dalmasso ri­guar­da la do­man­da ori­gi­na­ria. Do­man­da e ori­gi­ne sono pro­ble­mi del pen­sie­ro che, fin dal­l’i­ni­zio della fi­lo­so­fia, non co­sti­tui­sco­no un ap­proc­cio di con­trol­lo e di do­mi­nio del­l’e­si­sten­za, quan­to piut­to­sto un ri­pie­ga­men­to su sé stes­si che si in­ter­ro­ga sulla pro­pria ge­ne­si. In ter­mi­ni meno esi­sten­zia­li e più an­ti­chi tale que­stio­ne oc­cu­pa il posto del­l’a­ni­ma. Dalla con­sa­pe­vo­lez­za del­l’in­com­be­re della morte nel primo sta­si­mo del­l’An­ti­go­ne al co­sti­tuir­si, per così dire, di un’interiorità nella so­fi­sti­ca e in Pla­to­ne, l’a­ni­ma (animatum) ha fun­zio­na­to come prin­ci­pio ori­gi­na­rio in una forma di­ver­sa che il do­mi­nio. Prin­ci­pio che an­no­da e che ma­ni­fe­sta, se­con­do vie non solo im­me­dia­te e spe­cu­la­ri, il logos (la ragione), il noein come co­no­scen­za e mi­su­ra di un or­di­ne. Quan­do il nous, at­tra­ver­so Ari­sto­te­le, ac­qui­sta tutto il suo svi­lup­po con­cet­tua­le e stra­te­gi­co, nel pen­sie­ro tardo-​an­ti­co, a par­ti­re da Plo­ti­no, l’ anima ri­ma­ne ed è ri­ba­di­ta come il luogo e il ve­ni­re a co­scien­za del rap­por­to con lo stes­so “nous,” cioè con il for­mu­lar­si del­l’o­ri­gi­na­rio (uno, bene o atto che sia).  Grice e Dalmasso scel­gono di leg­ge­re Bradley e Hegel. Scel­ta mo­ti­va­ta da loro in­te­res­si di ri­cer­ca, ma anche, più am­pia­men­te, dall’attualità di un lin­guag­gio che è in grado di ri­for­mu­la­re que­stio­ni sul­l’as­set­to mo­der­no del sa­pe­re e sul sog­get­to – e l’intersoggetivo -- di tale sa­pe­re. Su un ‘noi’ duale, che, nella espli­ci­ta stra­te­gia he­ge­lia­na, ar­ti­co­la e rad­dop­pia il ruolo di due anime. Sa­pe­re su di un noi duale è co­mun­que per Hegel un sa­pe­re sulle strut­tu­re di un noi duale chi, che sono in grado di for­mu­la­re una do­man­da ori­gi­na­ria.  Il testo, di cui Bradley propone al­cu­ne note es­sen­zia­li di com­men­to, ri­guar­da i pa­ra­gra­fi dal 440 al 458 della “Psi­co­lo­gia razionale” se­zio­ne della Fi­lo­so­fia dello Spi­ri­to con­te­nu­ta nella edi­zio­ne dell’En­ci­clo­pe­dia. A dif­fe­ren­za dell’“an­tro­po­lo­gia”, in cui due a­ni­me sono con­si­de­ra­te come l’a­spet­to im­me­dia­to della vita dello spi­ri­to (le due anime con­si­de­ra­te come il sonno dello spi­ri­to, pro­ble­mi del rap­por­to del­le due anime con I due corpori, que­stio­ni del sonno, della ve­glia, delle sen­sa­zio­ni ecc.) la Psi­co­lo­gia non è scien­za delle due a­ni­ma, ma scien­za del sa­pe­re in­tor­no al­le due a­ni­me, cioè scien­za ve­ra­men­te tale, nella sua por­ta­ta con­cet­tua­le. Per Bradley e Hegel, ‘scien­za’, Wis­sen­schaft, ogni scien­za, e so­prat­tut­to quel­la scien­za mas­si­ma­men­te ri­go­ro­sa che è la fi­lo­so­fia (‘regina scientiarum) è scien­za sem­pre di se­con­do grado: scien­za che con­trol­la e che ha come og­get­to la sua stes­sa ge­ne­si. La filosofia e la regina scientiarum, la scien­za che mi­su­ra il ne­ga­ti­vo ri­spet­to al suo as­sun­to e al suo stes­so me­to­do, scien­za che è in grado di smar­car­si dal piano del suo stes­so sa­pe­re e di com­pren­de­re il rap­por­to di­na­mi­co, ge­ne­ra­ti­vo e mai astrat­ta­men­te “spe­cu­la­re” o reflessivo delle due anime, in cui la inter-co­no­scen­za si co­sti­tui­sce. Così, nel caso del testo com­men­ta­to da Bradley, i con­te­nu­ti della psi­co­lo­gia sono cu­rio­sa­men­te tutti di­ver­si da quel­li che nel­l’as­set­to della fine del­l’Ot­to­cen­to e del primo No­ve­cen­to ci si aspet­te­reb­be da una psi­co­lo­gia del tipo elaborato a Oxford dai Wilde lecturer in ‘mental philosophy”: Stout, -- cf. Prichard – cit. da Grice, “Intention and dispositions”. La psi­co­lo­gia filosofica o razionale non è scien­za delle leggi delle anime o psi­chai, ma del mo­vi­men­to ge­ne­ra­ti­vo delle leggi delle anime o delle psi­chai.  I testi che sono og­get­to del com­men­to di Bradley sono, come Bradley nota, estre­ma­men­te dif­fi­ci­li. Prima di co­min­cia­re Bradley fa qual­che ri­lie­vo sul pro­ble­ma della difficoltà in ge­ne­ra­le nella let­tu­ra del testo di Hegel. La que­stio­ne si pone se­con­do tre punti di vista. In­nan­zi tutto come que­stio­ne della na­tu­ra e della de­sti­na­zio­ne del testo. Ad esem­pio l’ “En­ci­clo­pe­dia delle scien­ze fi­lo­so­fi­che”, nel no­stro caso, è pen­sa­ta come un rias­sun­to delle le­zio­ni per i ‘tuttee’. In se­con­do luogo il pro­ble­ma del si­gni­fi­ca­to espres­so, del voler dire del di­scor­so he­ge­lia­no. In terzo luogo, che è quel­lo de­ci­si­vo, la que­stio­ne del me­to­do di com­po­si­zio­ne del testo di Hegel, me­to­do che ri­guar­da, d’un colpo solo, due anime: mittente e recipiente. Que­stio­ni, dette al­tri­men­ti, di sin­to­niz­zar­si con il testo che, per quan­to ri­guar­da il me­to­do filosofico di Hegel, non può es­se­re altro che ri­per­cor­re­re l’e­le­men­to ge­ne­ra­ti­vo del si­gni­fi­ca­to di ciò che Hegel explicitamente communica. Senza di que­sto in­ces­san­te ri­per­cor­ri­men­to a li­vel­lo della ge­ne­si del testo, il suo ‘segnato’ posse appare in­com­pren­si­bi­le o ap­piat­ti­to. Ap­piat­ti­to come su di una su­per­fi­cie, in modo che il gioco delle in­ter­pre­ta­zio­ni del tutee, anche nel caso si trat­ti di stu­dio­so molto qua­li­fi­ca­to, tende spes­so a sbiz­zar­rir­si in gro­vi­gli di ipo­te­si fi­lo­lo­gi­che o di ca­rat­te­re ideo­lo­gi­co-​me­ta­fi­si­co. Il mi­ni­mo comun de­no­mi­na­to­re è la per­di­ta del nesso fra il segnato di ciò che è detto nel testo con li mo­vi­men­to ge­ne­ra­ti­vo di tale segnato. Così si può se­pa­ra­re per­fi­no il con­cet­to di ne­ga­ti­vo dal con­cet­to di ge­ne­ra­zio­ne so­vrap­po­nen­do l’uno sul­l’al­tro e ren­den­do in­com­pren­si­bi­li en­tram­bi. Que­stio­ne che si pone in modo non in­fre­quen­te, anzi ma­les­se­re spes­so dif­fu­so anche nel com­men­to di Bradley. Ini­zia­mo la let­tu­ra par­ten­do dalle prime righe del par. 440.  Lo spi­ri­to si è de­ter­mi­na­to di­ve­nen­do la verità del­l’a­ni­ma e della co­scien­za, cioè la verità di quel­la totalità sem­pli­ce e im­me­dia­ta e di que­sto sa­pe­re.  Ades­so il sa­pe­re, in quan­to forma in­fi­ni­ta, non è più li­mi­ta­to da quel con­te­nu­to, non sta in rap­por­to con esso come con un og­get­to, ma è sa­pe­re della totalità so­stan­zia­le, né sog­get­ti­va né og­get­ti­va, ma intersoggetiva. ll pro­ble­ma del rap­por­to fra il sa­pe­re e la ra­gio­ne inau­gu­ra qui il di­bat­ti­to sulla scien­za della psi­che. L’in­trec­cio fra sa­pe­re e ra­gio­ne ini­zia a di­pa­nar­si nel pa­ra­gra­fo se­guen­te:  L’a­ni­ma è fi­ni­ta nella mi­su­ra in cui è de­ter­mi­na­ta im­me­dia­ta­men­te, cioè de­ter­mi­na­ta per na­tu­ra.  La co­scien­za è fi­ni­ta nella mi­su­ra in cui ha un og­get­to.  Lo spi­ri­to è in­ve­ce fi­ni­to, “in­so­fern ist end­lich,” nella mi­su­ra in cui esso, nel suo sa­pe­re (in sei­nem Wis­sen) non ha più un og­get­to, ma una de­ter­mi­na­tez­za, nel senso che è fi­ni­to per via della sua im­me­dia­tez­za e — che è la stes­sa cosa — perché è sog­get­ti­vo, è cioè come il Con­cet­to. Lo spi­ri­to è fi­ni­to nella mi­su­ra in cui esso, nel suo sa­pe­re, non ha più un og­get­to, ma una de­ter­mi­na­tez­za. Lo spi­ri­to sem­bra es­se­re quell’attività in grado di con­te­ne­re e con­trol­la­re l’in­trec­cio fra la ra­gio­ne e il sa­pe­re, anche se ora solo nella forma del­l’im­me­dia­tez­za. L’in­trec­cio si or­ga­niz­za su due poli: la ra­gio­ne e il sa­pe­re. Essi si im­pli­ca­no re­ci­pro­ca­men­te. A se­con­da che si con­si­de­ri come con­cet­to la ra­gio­ne o il sa­pe­re.  Qui è in­dif­fe­ren­te ciò che viene de­ter­mi­na­to come con­cet­to dello spi­ri­to e ciò che viene in­ve­ce de­ter­mi­na­to come realità o “Realität” di que­sto con­cet­to. Se in­fat­ti la ra­gio­ne as­so­lu­ta­men­te in­fi­ni­ta, og­get­ti­va, viene posta come con­cet­to dello spi­ri­to, al­lo­ra la realità è il sa­pe­re, cioè l’in­tel­li­gen­za; se in­ve­ce è il sa­pe­re a es­se­re con­si­de­ra­to come il con­cet­to, al­lo­ra la realità del con­cet­to è que­sta ra­gio­ne e la rea­liz­za­zio­ne (Rea­li­sie­rung) del sa­pe­re con­si­ste nel­l’ap­pro­priar­si della ra­gio­ne.  La fi­ni­tez­za dello spi­ri­to per­tan­to con­si­ste in ciò: il sa­pe­re non com­pren­de l’Es­se­re in-​sé-​e-​per-​sé della sua ra­gio­ne. In altri ter­mi­ni: la ra­gio­ne non si è ma­ni­fe­sta­ta pie­na­men­te nel sa­pe­re.4  C’è un di­sli­vel­lo dun­que strut­tu­ra­le con la ra­gio­ne che fun­zio­na nel sa­pe­re. Di­sli­vel­lo strut­tu­ra­le che per i greci era in­ve­ce co­sti­tui­to dal rap­por­to fra il sa­pe­re e la verità. Co­mun­que la realtà, con­si­de­ra­ta come realtà del sa­pe­re o come realtà della ra­gio­ne, si co­sti­tui­sce e fun­zio­na per Hegel come un farsi che è un in­trec­cio ine­stri­ca­bi­le. Una purità e verginità del­l’o­ri­gi­ne è in­tro­va­bi­le.  La que­stio­ne di un sa­pe­re dello/sullo spi­ri­to si ar­ti­co­la ul­te­rior­men­te nel pa­ra­gra­fo 442:  Il pro­ce­de­re dello spi­ri­to è svi­lup­po (Ent­wic­klung) nella mi­su­ra in cui la sua esi­sten­za, il sa­pe­re, ha entro se stes­sa l’es­se­re — de­ter­mi­na­to in sé e per sé, cioè ha per con­te­nu­to, “Ge­hal­te,” e per fine, “Zweck” il ra­zio­na­le, “Ver­nunf­ti­ge.” L’attività di tra­spo­si­zio­ne è dun­que pu­ra­men­te e sol­tan­to il pas­sag­gio for­ma­le nella ma­ni­fe­sta­zio­ne e, in que­sta, è ri­tor­no entro sé, “Rückkehr in sich.” Nella mi­su­ra in cui il sa­pe­re, af­fet­to dalla sua prima de­ter­mi­na­tez­za, è sol­tan­to astrat­to, cioè for­ma­le, la meta dello spi­ri­to è quel­la di pro­dur­re il ri-em­pi­men­to og­get­ti­vo, “die ob­jec­ti­ve Erfüllung her­vor­zu­brin­gen,” e quin­di, a un tempo, la libertà del suo sa­pe­re. In que­sto testo il mo­vi­men­to del sa­pe­re e il suo sa­per­ne si ar­ti­co­la come que­stio­ne della co­no­scen­za del­l’o­ri­gi­na­rio. Tale que­stio­ne, che ha la forma del ri­tor­no, è pen­sa­bi­le come libertà. L’av­ven­tu­ra dello spi­ri­to che è sem­pre un ap­pro­priar­si, un far pro­prio, qui, e se­con­do la radicalità della sua strut­tu­ra, fun­zio­na come ap­pro­priar­si del sa­pe­re e coin­ci­de con l’av­ven­tu­ra della libertà.  Il cam­mi­no dello spi­ri­to con­si­ste per­tan­to nel­l’es­se­re spi­ri­to teo­re­ti­co, cioè nel­l’a­ve­re a che fare con il ra­zio­na­le nella sua de­ter­mi­na­tez­za im­me­dia­ta, e di porlo ades­so come il suo. Il cam­mi­no con­si­ste in­nan­zi tutto nel li­be­ra­re il sa­pe­re dal pre­sup­po­sto e, con ciò, dalla sua astra­zio­ne, e ren­de­re sog­get­ti­va la de­ter­mi­na­tez­za. Poiché in tal modo il sa­pe­re è in sé e per sé de­ter­mi­na­to come sa­pe­re entro sé, e poiché la de­ter­mi­na­tez­za è posta come la sua, quin­di come in­tel­li­gen­za li­be­ra, il sa­pe­re è  volontà, spi­ri­to pra­ti­co, il quale in­nan­zi tutto è an­ch’es­so for­ma­le. Il sapere a un con­te­nu­to che è sol­tan­to il suo. Esso vuole im­me­dia­ta­men­te, e ades­so li­be­ra la sua de­ter­mi­na­zio­ne di volontà dalla soggettività e l’intersoggetivita che la con­di­zio­na­ come forma uni­la­te­ra­le del pro­prio con­te­nu­to. In tal modo gli spi­ri­ti  di­vie­neno come spi­ri­ti li­be­ri, nel quale è ri­mos­sa quel­la dop­pia unilateralità. Lo scor­cio teo­ri­co for­ni­to in que­sto pa­ra­gra­fo me­ri­ta una pun­tua­liz­za­zio­ne. Ab­bia­mo in pre­ce­den­za ac­cen­na­to alla cor­ni­ce della psi­co­lo­gia filosofica o razionale come pro­get­to scien­ti­fi­co: scien­za delle anime che si pone come scien­za dei fat­to­ri ge­ne­ra­ti­vi delle anime.  Il per­cor­so dei spi­ri­ti che si sfor­zano di co­no­sce­re se stes­si, che tentano di com­pren­de­re l’e­spe­rien­za della lor libertà, che nella Fe­no­me­no­lo­gia dello spi­ri­to pren­de la via della mo­ra­le come sto­ria, in que­ste pa­gi­ne pren­de la via della psi­co­lo­gia come scien­za della libertà. Che il sa­pe­re possa af­fer­ra­re se stes­so, possa ap­pro­priar­si di sé. La stra­te­gia he­ge­lia­na im­pli­ca che l’o­ri­gi­na­rio, per i sog­get­ti (l’intersoggetivo) e per il sa­pe­re, fun­zio­ni e sia co­no­sci­bi­le come ef­fet­to di que­sto ap­pro­priar­si che è etico, pra­ti­co.  Se non si pensa il si­gni­fi­ca­to del sa­pe­re e di suoi sog­get­ti come etico, pra­ti­co, i sog­get­ti del sa­pe­re si di­bat­teno «in una bi-lateralità»: la rap­pre­sen­ta­zio­ne che i sog­get­ti fano di sé come suoi e l’im­me­dia­tez­za di tale rap­pre­sen­ta­zio­ne. Le libertà dell’anime è pen­sa­bi­le come lo spiaz­za­men­to in cui i sog­get­ti del sa­pe­re co­no­sceno il loro es­se­re fatto, no­no­stan­te e at­tra­ver­so il loro co-fare (co-operare) im­pos­si­bi­li­ta­to a co­glie­re l’identità fra sé e le loro im­ma­gi­ni. Que­sta di­vi­sio­ne e di­sli­vel­lo in­ter­no che è l’impossibilità di co­glie­re l’o­ri­gi­ne del pro­prio co­sti­tuir­si è per Hegel l’In­tel­li­gen­za (cf. H. L. A. Hart, su Holloway, “Language and Intelligence” – Signs). Nel mon­tag­gio lin­gui­sti­co di que­sto testo tale di­vi­sio­ne e tale di­sli­vel­lo vanno ad oc­cu­pa­re il posto della clas­si­ca op­po­si­zio­ne fra il den­tro e il fuori.  L’in­tel­li­gen­za, in quan­to è que­sta unità con­cre­ta dei due mo­men­ti — vale a dire, im­me­dia­ta­men­te, di es­se­re ri­cor­da­ta entro sé in que­sto ma­te­ria­le este­rior­men­te es­sen­te, e di es­se­re im­mer­sa nel­l’es­se­re fuori-​di-​sé men­tre entro sé si in­te­rio­riz­za col pro­prio ri­cor­do —, è in­tui­zio­ne. Il cam­mi­no del­l’In­tel­li­gen­za sta pro­prio nel bat­te­re in brec­cia l’op­po­si­zio­ne fra il den­tro e il fuori.  Le in­tel­li­gen­za, quan­do ri­cor­dano ini­zial­men­te l’in­tui­zio­ne, poneno il con­te­nu­to del sen­ti­men­to nella pro­pria interiorità, nel loro pro­prio spa­zio e nel loro pro­prio tempo. In tal modo il con­te­nu­to è im­ma­gi­ne, li­be­ra­ta dalla sua prima im­me­dia­tez­za e dalla dualità astrat­ta ri­spet­to all’altro soggetto, in quan­to essa è ac­col­ta nella dualità del­ noi. Que­sto bat­te­re in brec­cia, visto dal punto di vista del­l’in­tel­li­gen­za, è l’im­ma­gi­ne. L’in­tel­li­gen­za pos­sie­de dun­que le im­ma­gi­ni. L’in­tel­li­gen­za è il Quan­do e il Dove del­l’im­ma­gi­ne.  L’im­ma­gi­ne è per sé “tran­s-eun­te”,  nomade, da una anima ad altra anima, e l’in­tel­li­gen­za stes­sa, in quan­to at­ten­zio­ne, è il tempo e anche lo spa­zio, il Quan­do e il Dove, del­l’im­ma­gi­ne.  L’in­tel­li­gen­za però non è sol­tan­to la co-­scien­za e l’es­ser­ci delle pro­prie de­ter­mi­na­zio­ni, bensì, in quan­to tale, ne è anche i sog­get­ti e l’In-​sé. Ri­cor­da­ta nel­l’in­tel­li­gen­za, perciò, l’im­ma­gi­ne non è più esi­sten­te, ma è con­ser­va­ta in­con­scia­men­te. Nell’An­mer­kung dello stes­so pa­ra­gra­fo Hegel inau­gu­ra la me­ta­fo­ra del pozzo not­tur­no per de­fi­ni­re il fun­zio­na­men­to del­l’in­tel­li­gen­za come un luogo in cui sono con­ser­va­te im­ma­gi­ni e rap­pre­sen­ta­zio­ni che l’in­tel­li­gen­za stes­sa non co­no­sce. Hegel pro­se­gue la sua in­da­gi­ne at­tra­ver­so una sorta di tiro in­cro­cia­to fra in­tui­zio­ne ed im­ma­gi­ne, met­ten­do in azio­ne uno stile ago­sti­nia­no alla “De ma­gi­stro”. Anche la no­zio­ne, clas­si­ca, di “re-­praesentatum” (il rappresentato) entra, ri­com­pre­sa e ri­pen­sa­ta, come dal­l’in­ter­no, nel mo­vi­men­to pro­dut­ti­vo del­l’in­tel­li­gen­za.  La no­zio­ne di “me­mo­ria” (stato temporario totale) è an­ch’es­sa ri­per­cor­sa, nella sua strut­tu­ra clas­si­ca, come mo­vi­men­to at­ti­vo e im­pren­di­bi­le, fun­zio­nan­te nel­l’in­tel­li­gen­za e pro­dut­ti­va di essa, in una svol­ta de­ci­si­va del pa­ra­gra­fo. L’in­tel­li­gen­za è la po­ten­za che do­mi­na sulla ri­ser­va di im­ma­gi­ni e il rappresentato che le ap­par­ten­go­no. Essa è quin­di con­giun­zio­ne e sus­sun­zio­ne li­be­ra di que­sta ri­ser­va sotto il con­te­nu­to pe­cu­lia­re. L’in­tel­li­gen­za si ri­cor­da ed in­te­rio­riz­za in modo de­ter­mi­na­to entro quel­la ri­ser­va, e la pla­sma im­ma­gi­na­ti­va­men­te se­con­do que­sto suo con­te­nu­to. Essa è quin­di fan­ta­sia, im­ma­gi­na­zio­ne SIMBOLIZZANTE, al­le­go­riz­zan­te o poe­tan­te.  Que­sta for­ma­zio­ne im­ma­gi­na­ti­va più o meno con­cre­te, più o meno in­di­vi­dua­liz­za­te, e an­co­ra delle sin­te­si nella mi­su­ra in cui il ma­te­ria­le, in cui il con­te­nu­to intersog­get­ti­vo con­fe­ri­sce un es­ser­ci al rap­pre­sen­tato, pro­vie­ne dal Tro­va­to, “dem Ge­fun­de­nen,” del­l’in­tui­zio­ne. Passività, evi­den­za, sor­pre­sa di fonte al darsi ori­gi­na­rio delle cose ri­guar­da perciò per Hegel un mo­vi­men­to che ha come suo ele­men­to lo sce­na­rio dell’intersoggetività. Il tro­va­to del­l’in­tui­zio­ne, in­con­tro, evi­den­za, ac­co­glien­za della realtà è pen­sa­bi­le in un re­gi­stro che è già una tra­du­zio­ne, ‘trans-latum.” È nel re­gi­stro di una tra­du­zio­ne (“trans-latum”) che nel per­cor­so di que­sto testo di Hegel, di una tra­du­zio­ne (trans-latum) del fuori nel den­tro e vi­ce­ver­sa, che si può av­vi­sta­re ciò in fi­lo­so­fia si chia­ma realtà.  Quan­do l’in­tel­li­gen­za, in quan­to ra­gio­ne, parte dal­l’ap­pro­pria­zio­ne del­l’im­me­dia­tez­za tro­va­ta entro sé, cioè la de­ter­mi­na come un “universale”, ecco al­lo­ra che la sua attività ra­zio­na­le pro­ce­de dal punto at­tua­le, “dem nun­meh­ri­gen Punk­te,” a de­ter­mi­na­re come es­sen­te ciò che in essa si è svi­lup­pa­to in au­to-in­tui­zio­ne con­cre­ta, pro­ce­de cioè a ren­de­re se stes­sa Es­se­re, cosa, il reale. L’in­tel­li­gen­za stes­sa così si fa es­sen­te, si fa cosa, si fa il relae.  Quan­do è at­ti­va in que­sta de­ter­mi­na­zio­ne, l’in­tel­li­gen­za si estrin­se­ca, “aus­sernd,” pro­du­ce, “pro­du­zie­rend,” in­tui­zio­ne: è fan­ta­sia che si espri­me in un “segno,” “Zei­chen ma­chen­de Phan­ta­sie,” token-making fantasy – fantasia che fa segno, fantasia che segna. L’in­tel­li­gen­za esi­ste in quan­to fan­ta­si. Tesi non im­me­dia­ta­men­te pre­ve­di­bi­le nel di­spo­si­ti­vo, in­tri­ca­to, di que­sto per­cor­so he­ge­lia­no. Tesi cui pure spin­ge, con ri­go­ro­sa necessità, que­sta ana­li­si scien­ti­fi­ca delle anime – una anima segna, l’altra capisce. Que­sto testo di Hegel in­ne­sca con­sa­pe­vol­men­te una po­le­mi­ca ed anche una ri­for­mu­la­zio­ne me­to­do­lo­gi­ca ra­di­ca­le nei con­fron­ti della tra­di­zio­ne em­pi­ri­sta, dei sen­si­sti, di Con­dil­lac e degli ideo­lo­gues. At­tra­ver­so le scor­ri­ban­de del­l’in­tel­li­gen­za fra sa­pe­re e “segno” (Zeichen, la fantasia che fa segno, la fantasia che segna), scien­za e realtà, at­tra­ver­so e al di là della dia­let­ti­ca fra il po­si­ti­vo e il ne­ga­ti­vo, fra i sog­get­ti e la verità ecc, Hegel af­fer­ma che l’in­tel­li­gen­za è il suo atto. Esi­ste­re non è l’im­me­dia­tez­za di un che ri­spet­to a se stes­si, ma è l’at­to in cui, in un con­te­nu­to de­ter­mi­na­to, l’in­tel­li­gen­za si rap­por­ta a se stes­sa.  La fan­ta­sia è il punto cen­tra­le in cui l’u­ni­ver­sa­le e l’es­se­re, il pro­prio e il tro­va­to, l’in­ter­no e l’ester­no – cf. Bradley, relazione interna, relazione esterna -- sono per­fet­ta­men­te uni­fi­ca­ti. Le sin­te­si pre­ce­den­ti del­l’in­tui­zio­ne, del ri­cor­do ecc., sono uni­fi­ca­zio­ni del me­de­si­mo mo­men­to, tut­ta­via si trat­ta pur sem­pre di sin­te­si. Solo nella fan­ta­sia l’in­tel­li­gen­za non è più come il pozzo in­de­ter­mi­na­to e come l’u­ni­ver­sa­le, bensì è come sin­go­la­re, cioè come intersoggettività CONCRETA nella quale l’­re­la­zio­ne è de­ter­mi­na­ta sia come es­se­re sia come universale.L’in­tel­li­gen­za è intersoggettività con­cre­ta solo nella fan­ta­sia condivisa. Tale que­stio­ne è chia­ri­ta dal se­gui­to della stes­sa An­mer­kung. Tutti ri­co­no­sco­no che le im­ma­gi­ni della fan­ta­sia co­sti­tui­sco­no tali uni­fi­ca­zio­ni del pro­prio e del­l’in­ter­no dello spi­ri­to con l’e­le­men­to in­tui­ti­vo. Il loro con­te­nu­to ul­te­rior­men­te de­ter­mi­na­to ap­par­tie­ne ad altri am­bi­ti, men­tre qui que­sta fu­ci­na in­ter­na va in­te­sa sol­tan­to se­con­do quel mo­men­to astrat­to.  In quan­to attività di que­sta unio­ne, la fan­ta­sia è ra­gio­ne, ma è ra­gio­ne for­ma­le, solo nella mi­su­ra in cui il con­te­nu­to in quan­to tale della fan­ta­sia è in­dif­fe­ren­te. La ra­gio­ne in quan­to tale, in­ve­ce, de­ter­mina a verità anche il con­te­nu­to. Nell’An­mer­kung suc­ces­si­va nello stes­so pa­ra­gra­fo Hegel opera la svol­ta de­ci­si­va nel per­cor­so che qui ci in­te­res­sa:  In par­ti­co­la­re bi­so­gna an­co­ra ri­le­va­re que­sto fatto. Poiché la fan­ta­sia porta il con­te­nu­to in­ter­no a im­ma­gi­ne e a in­tui­zio­ne, e ciò viene espres­so di­cen­do che essa lo de­ter­mi­na come es­sen­te, non deve sem­bra­re sor­pren­den­te l’e­spres­sio­ne se­con­do cui l’in­tel­li­gen­za si fa­ es­sen­te, si fa­ cosa, si fa il relae. Il con­te­nu­to del­l’in­tel­li­gen­za, in­fat­ti, è l’in­tel­li­gen­za stes­sa, e lo è al­tret­tan­to la de­ter­mi­na­zio­ne che essa gli con­fe­ri­sce. L’im­ma­gi­ne pro­dot­ta dalla fan­ta­sia è intersog­get­ti­va­men­te in­tui­ti­va, men­tre è nel segno (Zeichen, token) che la fan­ta­sia ag­giun­ge a ciò l’au­ten­ti­ca intuibilità (ei­gen­tli­che An­schau­li­ch­keit); nella me­mo­ria mec­ca­ni­ca, poi essa com­ple­ta in sé que­sta forma del­l’es­se­re.  L’im­ma­gi­ne solo nel “segno” (Zeichen, token) è au­ten­ti­ca intuibilità di ciò che è. L’es­sen­te è co­gli­bi­le come “segno” (Zeichen, token) non come dato, come dono. Dato e dono non sono pen­sa­bi­li, ma nep­pu­re spe­ri­men­ta­bi­li nella forma della pre­sen­za, cioè in un darsi (che, in ter­mi­ni he­ge­lia­ni, è la ma­te­ria del­l’in­tui­zio­ne). Essi sono già tra­scrit­ti nel con­te­nu­to in­ter­no del­l’in­tel­li­gen­za, cioè come un segno (Zeichen, token). L’e­le­men­to im­pren­di­bi­le, enig­ma­ti­co della co­no­scen­za è il segno (Zeichen, token) e non il dato, il dono. Nella strut­tu­ra di que­sto testo Hegel af­fer­ma che il non pro­prio, il non nostro so­vra­sta e spiaz­za nella forma del segno (Zeichen, token), non nella forma del dono.  In que­sta unità, pro­ce­den­te dal­l’in­tel­li­gen­za, di una rap­pre­sen­ta­zio­ne au­to­no­ma, “selb-ständiger Vor­stel­lung,” e di una in­tui­zio­ne, la ma­te­ria del­l’in­tui­zio­ne è certo in­nan­zi­tut­to un qual­co­sa di ac­col­to, di im­me­dia­to e di dato, “ein auf­ge­nom­me­nes, etwas un­mit­tel­ba­res oder ge­ge­be­nes,” per esem­pio il co­lo­re della coc­car­da e af­fi­ni. In que­sta identità però l’in­tui­zio­ne non ha il va­lo­re di rap­pre­sen­ta­re po­si­ti­va­men­te e di rap­pre­sen­ta­re se stes­sa, bensì di rap­pre­sen­ta­re qual­co­s’al­tro. Essa è un’im­ma­gi­ne che ha ri­ce­vu­to entro sé una rap­pre­sen­ta­zio­ne au­to­no­ma del­l’in­tel­li­gen­za come anima, che ha ri­ce­vu­to, cioè, il suo segnato. Que­sta in­tui­zio­ne è il segno (Zeichen, token). L’in­tui­zio­ne, rap­por­ta­ta scien­ti­fi­ca­men­te alla sua ori­gi­ne, ha la forma del segno (Zeichen, token). Tale forma ha una strut­tu­ra che coin­vol­ge i ter­mi­ne stes­si del­l’in­tel­li­gen­za. L’in­tel­li­gen­za sem­bra fun­zio­na­re in una de­ri­va di cui il segno (Zeichen, token) co­sti­tui­sce una sorta di cer­nie­ra, snodo in cui l’in­tel­li­gen­za stes­sa è tolta-​con­ser­va­ta.  L’in­tui­zio­ne che im­me­dia­ta­men­te e ini­zial­men­te è qual­co­sa di dato e di spa­zia­le, “ge­ge­be­nes und raum­li­ches,” una volta im­pie­ga­ta come segno (Zeichen, token) ri­ce­ve la de­ter­mi­na­zio­ne es­sen­zia­le di es­se­re sol­tan­to come in­tui­zio­ne ri­mos­sa. Que­sta sua negatività è l’in­tel­li­gen­za.  Perciò la fi­gu­ra più au­ten­ti­ca del­l’in­tui­zio­ne, che è un segno (Zeichen, token), è di es­se­re un es­ser­ci nel tempo: un di­le­gua­re, “Ver­sch­win­den,” del­l’es­ser­ci men­tre l’es­ser­ci è.  Inol­tre, se­con­do la sua ul­te­rio­re de­ter­mi­na­tez­za este­rio­re, psi­chi­ca, la fi­gu­ra più vera del­l’in­tui­zio­ne è un es­se­re-​posta dal­l’in­tel­li­gen­za, esser-​posta che viene fuori dalla naturalità pro­pria, an­tro­po­lo­gi­ca, del­l’in­tel­li­gen­za stes­sa: è il tono, “Ton,” cioè l’e­strin­se­ca­zio­ne riem­pi­ta dell’interiorità an­nun­cian­te­si.  Il “tono” che si ar­ti­co­la ul­te­rior­men­te in vista del rap­pre­sen­tato de­ter­mi­na­te è il di­s-cor­so –dis-cursus – general principles of rational discourse -- e un si­ste­ma del di­scor­so è la communicazione. In que­sto am­bi­to il “tono” con­fe­ri­sce a una sen­sa­zio­ne, una in­tui­zio­ne e un rap­pre­sen­ta­to  un *se­con­do* (duale) es­ser­ci, più ele­va­to del­l’es­ser­ci im­me­dia­to. In ge­ne­ra­le con­fe­ri­sce loro un’e­si­sten­za che ha va­lo­re nel regno dell’attività rap­pre­sen­ta­ti­va. Que­sto pro­get­to he­ge­lia­no di una scien­za della psi­che tenta qui un ul­te­rio­re ra­di­ca­le ap­proc­cio alla ge­ne­si del­l’in­tel­li­gen­za. L’in­tui­zio­ne, in quan­to fun­zio­nan­te come segno (Zeichen, token), ri­ce­ve la de­ter­mi­na­zio­ne es­sen­zia­le di es­se­re sol­tan­to come in­tui­zio­ne ri­mos­sa, “zu einem Zei­chen ge­brau­cht wird, die we­sen­tli­che Be­stim­mung nur als auf­ge­ho­be­ne zu sein.” In que­sto esser ri­mos­so, tolto-​con­ser­va­to del­l’in­tui­zio­ne sta l’o­ri­gi­ne del­l’in­tel­li­gen­za. La negatività di cui essa è fatta si in­trec­cia strut­tu­ral­men­te alla no­zio­ne di tempo. L’in­tui­zio­ne non è do­mi­na­bi­le da due sog­get­ti se non nella forma del dopo, un di­le­gua­re del­l’es­ser­ci men­tre es­ser­ci è. Quel­l’al­tro in­trec­cio che co­sti­tui­sce l’in­tui­zio­ne, l’in­trec­cio fra il den­tro e il fuori si espri­me nel “tono,” suono ar­ti­co­la­to. Il tono, visto in rap­por­to ad una rap­pre­sen­ta­zio­ne de­ter­mi­na­ta, è il di­scor­so (“Rede”) e il si­ste­ma del di­scor­so è la lin­gua (Spra­che) e la communicazione. A que­sto punto del suo per­cor­so la stra­te­gia di Hegel si in­con­tra con il pri­vi­le­gio greco e pla­to­ni­co ac­cor­da­to all’espressione, la pa­ro­la, al logos in quan­to vi­ven­te pro­nun­cia­to, detto, dictum – cf. indice, segnalato, segnato. Come nel Cratilo di Pla­to­ne anche in Hegel l’espressione come segno è cen­tra­le nella vita del­l’in­tel­li­gen­za, ma di una centralità che oc­cu­pa il luogo di un mo­vi­men­to ori­gi­na­rio ed im­pren­di­bi­le.  Per un com­men­to cri­ti­co ed espli­ca­ti­vo dei pa­ra­gra­fi della «Psi­co­lo­gia» nella se­zio­ne sullo «Spi­ri­to sog­get­ti­vo», anche per ciò che con­cer­ne le fonti di Hegel e la sag­gi­sti­ca re­la­ti­va, cfr. La «magia dello spi­ri­to» e il «gioco del con­cet­to». Con­si­de­ra­zio­ni sulla fi­lo­so­fia dello spi­ri­to sog­get­ti­vo nel­l’En­ci­clo­pe­dia di Hegel, Mi­la­no, Gue­ri­ni e As­so­cia­ti, 1995. ︎  Uso la re­cen­te tra­du­zio­ne di Vin­cen­zo Ci­ce­ro (En­ci­clo­pe­dia delle scien­ze fi­lo­so­fi­che in com­pen­dio, ed. 1830, Mi­la­no, Ru­sco­ni, 1996) che ri­ten­go pun­tua­le ed av­ver­ti­ta delle que­stio­ni poste dal testo, no­no­stan­te la discutibilità di al­cu­ne so­lu­zio­ni su cui per altro pesa in certa mi­su­ra la re­si­sten­za ad ab­ban­do­na­re tra­du­zio­ni fa­mi­lia­ri e con­so­li­da­te.  Hegel e l’Aufhebung del segno Gianfranco Dalmasso 21/11/2000 1. L’in­trec­cio fra sa­pe­re e ra­gio­ne Il tema di que­sto col­lo­quio ri­guar­da la do­man­da ori­gi­na­ria. Do­man­da e ori­gi­ne sono pro­ble­mi del pen­sie­ro che, fin dal­l’i­ni­zio della fi­lo­so­fia, non co­sti­tui­sco­no un ap­proc­cio di con­trol­lo e di do­mi­nio del­l’e­si­sten­za, quan­to piut­to­sto un ri­pie­ga­men­to su sé stes­si che si in­ter­ro­ga sulla pro­pria ge­ne­si. In ter­mi­ni meno esi­sten­zia­li e più an­ti­chi tale que­stio­ne oc­cu­pa il posto del­l’a­ni­ma. Dalla con­sa­pe­vo­lez­za del­l’in­com­be­re della morte nel primo sta­si­mo del­l’An­ti­go­ne al co­sti­tuir­si, per così dire, di un’«interiorità» nella So­fi­sti­ca e in Pla­to­ne, l’a­ni­ma ha fun­zio­na­to come prin­ci­pio ori­gi­na­rio in una forma di­ver­sa che il do­mi­nio. Prin­ci­pio che an­no­da e che ma­ni­fe­sta, se­con­do vie non solo im­me­dia­te e spe­cu­la­ri, il logos, il noein come co­no­scen­za e mi­su­ra di un or­di­ne. Quan­do il nous, at­tra­ver­so Ari­sto­te­le, ac­qui­sta tutto il suo svi­lup­po con­cet­tua­le e stra­te­gi­co, nel pen­sie­ro tardo-​an­ti­co, a par­ti­re da Plo­ti­no, l’ anima ri­ma­ne ed è ri­ba­di­ta come il luogo e il ve­ni­re a co­scien­za del rap­por­to con lo stes­so nous, cioè con il for­mu­lar­si del­l’o­ri­gi­na­rio (Uno, Bene o Atto che sia).  Scel­go di leg­ge­re Hegel. Scel­ta mo­ti­va­ta da miei in­te­res­si at­tua­li di ri­cer­ca, ma anche, più am­pia­men­te, dall’attualità di un lin­guag­gio che è in grado di ri­for­mu­la­re que­stio­ni sul­l’as­set­to mo­der­no del sa­pe­re e sul sog­get­to di tale sa­pe­re. Su un io, che, nella espli­ci­ta stra­te­gia he­ge­lia­na, ar­ti­co­la e rad­dop­pia il ruolo del­l’a­ni­ma. Sa­pe­re su di un io è co­mun­que per Hegel un sa­pe­re sulle strut­tu­re di un chi, che è in grado di for­mu­la­re una do­man­da ori­gi­na­ria.  Il testo, di cui in­ten­do pro­por­re al­cu­ne note es­sen­zia­li di com­men­to, ri­guar­da i pa­ra­gra­fi dal 440 al 458 della Psi­co­lo­gia, se­zio­ne della Fi­lo­so­fia dello Spi­ri­to con­te­nu­ta nella edi­zio­ne dell’En­ci­clo­pe­dia del 1830.1  A dif­fe­ren­za della An­tro­po­lo­gia, in cui l’a­ni­ma è con­si­de­ra­ta come l’a­spet­to im­me­dia­to della vita dello spi­ri­to (anima con­si­de­ra­ta come il sonno dello spi­ri­to, pro­ble­mi del rap­por­to del­l’a­ni­ma con il corpo, que­stio­ni del sonno, della ve­glia, delle sen­sa­zio­ni ecc.) la Psi­co­lo­gia non è scien­za del­l’a­ni­ma, ma scien­za del sa­pe­re in­tor­no al­l’a­ni­ma, cioè scien­za ve­ra­men­te tale, nella sua por­ta­ta con­cet­tua­le. Per Hegel scien­za, Wis­sen­schaft, ogni scien­za, e so­prat­tut­to quel­la scien­za mas­si­ma­men­te ri­go­ro­sa che è la fi­lo­so­fia, è scien­za sem­pre di se­con­do grado: scien­za che con­trol­la e che ha come og­get­to la sua stes­sa ge­ne­si. Scien­za che mi­su­ra il ne­ga­ti­vo ri­spet­to al suo as­sun­to e al suo stes­so me­to­do, scien­za che è in grado di smar­car­si dal piano del suo stes­so sa­pe­re e di com­pren­de­re il rap­por­to di­na­mi­co, ge­ne­ra­ti­vo e mai astrat­ta­men­te spe­cu­la­re, in cui la co­no­scen­za si co­sti­tui­sce. Così, nel caso del testo che stia­mo per com­men­ta­re, i con­te­nu­ti della psi­co­lo­gia he­ge­lia­na sono cu­rio­sa­men­te tutti di­ver­si da quel­li che nel­l’as­set­to della fine del­l’Ot­to­cen­to e del primo No­ve­cen­to ci si aspet­te­reb­be da una psi­co­lo­gia in senso mo­der­no e scien­ti­fi­co. La psi­co­lo­gia non è scien­za delle leggi della psi­che, ma del mo­vi­men­to ge­ne­ra­ti­vo delle leggi della psi­che.  I testi che sono og­get­to del mio com­men­to sono, come è noto, estre­ma­men­te dif­fi­ci­li. Prima di co­min­cia­re vor­rei fare qual­che ri­lie­vo sul pro­ble­ma della difficoltà in ge­ne­ra­le nella let­tu­ra del testo di Hegel. La que­stio­ne si pone se­con­do tre punti di vista. In­nan­zi tutto come que­stio­ne della na­tu­ra e della de­sti­na­zio­ne del testo. Ad esem­pio l’En­ci­clo­pe­dia delle scien­ze fi­lo­so­fi­che, nel no­stro caso, è pen­sa­ta come un rias­sun­to delle le­zio­ni per gli stu­den­ti. In se­con­do luogo il pro­ble­ma del si­gni­fi­ca­to espres­so, del voler dire del di­scor­so he­ge­lia­no. In terzo luogo, che è quel­lo de­ci­si­vo, la que­stio­ne del me­to­do di com­po­si­zio­ne del testo di Hegel, me­to­do che ri­guar­da, d’un colpo solo, au­to­re e let­to­re. Que­stio­ni, dette al­tri­men­ti, di sin­to­niz­zar­si con il testo che, per quan­to ri­guar­da il me­to­do di la­vo­ro di Hegel, non può es­se­re altro che ri­per­cor­re­re l’e­le­men­to ge­ne­ra­ti­vo del si­gni­fi­ca­to di ciò che Hegel dice. Senza di que­sto in­ces­san­te ri­per­cor­ri­men­to a li­vel­lo della ge­ne­si del testo, il suo si­gni­fi­ca­to ri­sul­ta ine­vi­ta­bil­men­te in­com­pren­si­bi­le o ap­piat­ti­to. Ap­piat­ti­to come su di una su­per­fi­cie, in modo che il gioco delle in­ter­pre­ta­zio­ni del let­to­re, anche nel caso si trat­ti di stu­dio­so molto qua­li­fi­ca­to, tende spes­so a sbiz­zar­rir­si in gro­vi­gli di ipo­te­si fi­lo­lo­gi­che o di ca­rat­te­re ideo­lo­gi­co-​me­ta­fi­si­co. Il mi­ni­mo comun de­no­mi­na­to­re è la per­di­ta del nesso fra il si­gni­fi­ca­to di ciò che è detto nel testo con li mo­vi­men­to ge­ne­ra­ti­vo di tale si­gni­fi­ca­to.. Così si può se­pa­ra­re per­fi­no il con­cet­to di ne­ga­ti­vo dal con­cet­to di ge­ne­ra­zio­ne so­vrap­po­nen­do l’uno sul­l’al­tro e ren­den­do in­com­pren­si­bi­li en­tram­bi. Que­stio­ne che si pone in modo non in­fre­quen­te, anzi ma­les­se­re spes­so dif­fu­so anche nei com­men­ti «pro­fes­sio­na­li».  Ini­zia­mo la let­tu­ra par­ten­do dalle prime righe del par. 440.  Lo spi­ri­to si è de­ter­mi­na­to di­ve­nen­do la verità del­l’a­ni­ma e della co­scien­za, cioè la verità di quel­la totalità sem­pli­ce e im­me­dia­ta e di que­sto sa­pe­re.  Ades­so il sa­pe­re, in quan­to forma in­fi­ni­ta, non è più li­mi­ta­to da quel con­te­nu­to, non sta in rap­por­to con esso come con un og­get­to, ma è sa­pe­re della totalità so­stan­zia­le, né sog­get­ti­va né og­get­ti­va.2  ll pro­ble­ma del rap­por­to fra il sa­pe­re e la ra­gio­ne inau­gu­ra qui il di­bat­ti­to sulla scien­za della psi­che. L’in­trec­cio fra sa­pe­re e ra­gio­ne ini­zia a di­pa­nar­si nel pa­ra­gra­fo se­guen­te:  L’a­ni­ma è fi­ni­ta nella mi­su­ra in cui è de­ter­mi­na­ta im­me­dia­ta­men­te, cioè de­ter­mi­na­ta per na­tu­ra.  La co­scien­za è fi­ni­ta nella mi­su­ra in cui ha un og­get­to.  Lo spi­ri­to è in­ve­ce fi­ni­to (in­so­fern ist end­lich) nella mi­su­ra in cui esso, nel suo sa­pe­re (in sei­nem Wis­sen) non ha più un og­get­to, ma una de­ter­mi­na­tez­za, nel senso che è fi­ni­to per via della sua im­me­dia­tez­za e — che è la stes­sa cosa — perché è sog­get­ti­vo, è cioè come il Con­cet­to.3  Lo spi­ri­to è fi­ni­to nella mi­su­ra in cui esso, nel suo sa­pe­re, non ha più un og­get­to, ma una de­ter­mi­na­tez­za. Lo spi­ri­to sem­bra es­se­re quell’attività in grado di con­te­ne­re e con­trol­la­re l’in­trec­cio fra la ra­gio­ne e il sa­pe­re, anche se ora solo nella forma del­l’im­me­dia­tez­za. L’in­trec­cio si or­ga­niz­za su due poli: la ra­gio­ne e il sa­pe­re. Essi si im­pli­ca­no re­ci­pro­ca­men­te . A se­con­da che si con­si­de­ri come con­cet­to la ra­gio­ne o il sa­pe­re.  Qui è in­dif­fe­ren­te ciò che viene de­ter­mi­na­to come con­cet­to dello spi­ri­to e ciò che viene in­ve­ce de­ter­mi­na­to come realità (Realität) di que­sto con­cet­to. Se in­fat­ti la ra­gio­ne as­so­lu­ta­men­te in­fi­ni­ta, og­get­ti­va, viene posta come con­cet­to dello spi­ri­to, al­lo­ra la realità è il sa­pe­re, cioè l’in­tel­li­gen­za; se in­ve­ce è il sa­pe­re a es­se­re con­si­de­ra­to come il con­cet­to, al­lo­ra la realità del con­cet­to è que­sta ra­gio­ne e la rea­liz­za­zio­ne (Rea­li­sie­rung) del sa­pe­re con­si­ste nel­l’ap­pro­priar­si della ra­gio­ne.  La fi­ni­tez­za dello spi­ri­to per­tan­to con­si­ste in ciò: il sa­pe­re non com­pren­de l’Es­se­re in-​sé-​e-​per-​sé della sua ra­gio­ne. In altri ter­mi­ni: la ra­gio­ne non si è ma­ni­fe­sta­ta pie­na­men­te nel sa­pe­re.4  C’è un di­sli­vel­lo dun­que strut­tu­ra­le con la ra­gio­ne che fun­zio­na nel sa­pe­re. Di­sli­vel­lo strut­tu­ra­le che per i greci era in­ve­ce co­sti­tui­to dal rap­por­to fra il sa­pe­re e la verità. Co­mun­que la realtà, con­si­de­ra­ta come realtà del sa­pe­re o come realtà della ra­gio­ne, si co­sti­tui­sce e fun­zio­na per Hegel come un farsi che è un in­trec­cio ine­stri­ca­bi­le. Una purità e verginità del­l’o­ri­gi­ne è in­tro­va­bi­le.  La que­stio­ne di un sa­pe­re dello/sullo spi­ri­to si ar­ti­co­la ul­te­rior­men­te nel pa­ra­gra­fo 442:  Il pro­ce­de­re dello spi­ri­to è svi­lup­po (Ent­wic­klung) nella mi­su­ra in cui la sua esi­sten­za, il sa­pe­re, ha entro se stes­sa l’es­se­re — de­ter­mi­na­to in sé e per sé, cioè ha per con­te­nu­to (Ge­hal­te) e per fine (Zweck) il ra­zio­na­le (Ver­nunf­ti­ge); l’attività di tra­spo­si­zio­ne è dun­que pu­ra­men­te e sol­tan­to il pas­sag­gio for­ma­le nella ma­ni­fe­sta­zio­ne e, in que­sta, è ri­tor­no entro sé (Rückkehr in sich).  Nella mi­su­ra in cui il sa­pe­re, af­fet­to dalla sua prima de­ter­mi­na­tez­za, è sol­tan­to astrat­to, cioè for­ma­le, la meta dello spi­ri­to è quel­la di pro­dur­re il riem­pi­men­to og­get­ti­vo (die ob­jec­ti­ve Erfüllung her­vor­zu­brin­gen) e quin­di, a un tempo, la libertà del suo sa­pe­re.5  2. La via della psi­co­lo­gia come scien­za della libertà In que­sto testo il mo­vi­men­to del sa­pe­re e il suo sa­per­ne si ar­ti­co­la come que­stio­ne della co­no­scen­za del­l’o­ri­gi­na­rio. Tale que­stio­ne, che ha la forma del ri­tor­no, è pen­sa­bi­le come libertà. L’av­ven­tu­ra dello spi­ri­to che, he­ge­lia­na­men­te, è sem­pre un ap­pro­priar­si, un far pro­prio, qui, e se­con­do la radicalità della sua strut­tu­ra, fun­zio­na come ap­pro­priar­si del sa­pe­re e coin­ci­de con l’av­ven­tu­ra della libertà.  Il cam­mi­no dello spi­ri­to con­si­ste per­tan­to:  nel­l’es­se­re spi­ri­to teo­re­ti­co, cioè nel­l’a­ve­re a che fare con il Ra­zio­na­le nella sua de­ter­mi­na­tez­za im­me­dia­ta, e di porlo ades­so come il Suo; in altre pa­ro­le: il cam­mi­no con­si­ste in­nan­zi tutto nel li­be­ra­re il sa­pe­re dal pre­sup­po­sto e, con ciò, dalla sua astra­zio­ne, e ren­de­re sog­get­ti­va la de­ter­mi­na­tez­za. Poiché in tal modo il sa­pe­re è in sé e per sé de­ter­mi­na­to come sa­pe­re entro sé, e poiché la de­ter­mi­na­tez­za è posta come la sua, quin­di come in­tel­li­gen­za li­be­ra, il sa­pe­re è  volontà, spi­ri­to pra­ti­co, il quale in­nan­zi tutto è an­ch’es­so for­ma­le: ha un con­te­nu­to che è sol­tan­to il suo: esso vuole im­me­dia­ta­men­te, e ades­so li­be­ra la sua de­ter­mi­na­zio­ne di volontà dalla soggettività che la con­di­zio­na­va come forma uni­la­te­ra­le del pro­prio con­te­nu­to. In tal modo lo spi­ri­to  di­vie­ne come spi­ri­to li­be­ro, nel quale è ri­mos­sa quel­la dop­pia unilateralità.6  Lo scor­cio teo­ri­co for­ni­to in que­sto pa­ra­gra­fo me­ri­ta una pun­tua­liz­za­zio­ne. Ab­bia­mo in pre­ce­den­za ac­cen­na­to alla cor­ni­ce della Psi­co­lo­gia he­ge­lia­na come pro­get­to scien­ti­fi­co: scien­za della psi­che che si pone come scien­za dei fat­to­ri ge­ne­ra­ti­vi della psi­che.  Il per­cor­so dello spi­ri­to che si sfor­za di co­no­sce­re se stes­so, che tenta di com­pren­de­re l’e­spe­rien­za della sua libertà, che nella Fe­no­me­no­lo­gia dello spi­ri­to pren­de la via della mo­ra­le come sto­ria, in que­ste pa­gi­ne pren­de la via della psi­co­lo­gia come scien­za della libertà Che il sa­pe­re possa af­fer­ra­re se stes­so, possa ap­pro­priar­si di sé: la stra­te­gia he­ge­lia­na im­pli­ca che l’o­ri­gi­na­rio, per il sog­get­to e per il sa­pe­re, fun­zio­ni e sia co­no­sci­bi­le come ef­fet­to di que­sto ap­pro­priar­si che è etico, pra­ti­co.  Se non si pensa il si­gni­fi­ca­to del sa­pe­re e del suo sog­get­to come etico, pra­ti­co, il sog­get­to del sa­pe­re si di­bat­te «in una dop­pia unilateralità»: la rap­pre­sen­ta­zio­ne che il sog­get­to fa di sé come suo e l’im­me­dia­tez­za di tale rap­pre­sen­ta­zio­ne.  An­ti­ci­pia­mo. La libertà è pen­sa­bi­le come lo spiaz­za­men­to in cui il sog­get­to del sa­pe­re co­no­sce il suo es­se­re fatto, no­no­stan­te e at­tra­ver­so il suo fare, im­pos­si­bi­li­ta­to a co­glie­re l’identità fra sé e la sua im­ma­gi­ne. Que­sta di­vi­sio­ne e di­sli­vel­lo in­ter­no che è l’impossibilità di co­glie­re l’o­ri­gi­ne del pro­prio co­sti­tuir­si è per Hegel l’In­tel­li­gen­za.  Nel mon­tag­gio lin­gui­sti­co di que­sto testo tale di­vi­sio­ne e tale di­sli­vel­lo vanno ad oc­cu­pa­re il posto della clas­si­ca op­po­si­zio­ne fra il den­tro e il fuori.  L’in­tel­li­gen­za, in quan­to è que­sta unità con­cre­ta dei due mo­men­ti — vale a dire, im­me­dia­ta­men­te, (1) di es­se­re ri­cor­da­ta entro sé in que­sto ma­te­ria­le este­rior­men­te es­sen­te, e (2) di es­se­re im­mer­sa nel­l’es­se­re fuori-​di-​sé men­tre entro sé si in­te­rio­riz­za col pro­prio ri­cor­do —, è in­tui­zio­ne.7  3. La centralità della pa­ro­la nella vita del­l’in­tel­li­gen­za Il cam­mi­no del­l’In­tel­li­gen­za sta pro­prio nel bat­te­re in brec­cia l’op­po­si­zio­ne fra il den­tro e il fuori.  L’in­tel­li­gen­za, quan­do ri­cor­da ini­zial­men­te l’in­tui­zio­ne, pone il con­te­nu­to del sen­ti­men­to nella pro­pria interiorità, nel suo pro­prio spa­zio e nel suo pro­prio tempo In tal modo il con­te­nu­to è im­ma­gi­ne, li­be­ra­ta dalla sua prima im­me­dia­tez­za e dalla singolarità astrat­ta ri­spet­to ad altro, in quan­to essa è ac­col­ta nella singolarità del­l’Io in ge­ne­ra­le.8  Que­sto bat­te­re in brec­cia, visto dal punto di vista del­l’in­tel­li­gen­za, è ll’im­ma­gi­ne. L’in­tel­li­gen­za pos­sie­de dun­que le im­ma­gi­ni. L’in­tel­li­gen­za — dice Hegel — è il Quan­do e il Dove del­l’im­ma­gi­ne.  L’im­ma­gi­ne è per sé tran­seun­te, e l’in­tel­li­gen­za stes­sa, in quan­to at­ten­zio­ne, è il tempo e anche lo spa­zio — il Quan­do e il Dove — del­l’im­ma­gi­ne.  L’in­tel­li­gen­za però non è sol­tan­to la co­scien­za e l’Es­ser­ci delle pro­prie de­ter­mi­na­zio­ni, bensì, in quan­to tale, ne è anche il sog­get­to e l’In-​sé. Ri­cor­da­ta nel­l’in­tel­li­gen­za, perciò, l’im­ma­gi­ne non è più esi­sten­te, ma è con­ser­va­ta in­con­scia­men­te.9  Nell’An­mer­kung dello stes­so pa­ra­gra­fo Hegel inau­gu­ra la me­ta­fo­ra del pozzo not­tur­no per de­fi­ni­re il fun­zio­na­men­to del­l’in­tel­li­gen­za come un luogo in cui sono con­ser­va­te im­ma­gi­ni e rap­pre­sen­ta­zio­ni che l’in­tel­li­gen­za stes­sa non co­no­sce. Hegel pro­se­gue la sua in­da­gi­ne at­tra­ver­so una sorta di tiro in­cro­cia­to fra in­tui­zio­ne ed im­ma­gi­ne, met­ten­do in azio­ne uno stile ago­sti­nia­no alla De ma­gi­stro. Anche la no­zio­ne, clas­si­ca, di rap­pre­sen­ta­zio­ne entra, ri­com­pre­sa e ri­pen­sa­ta, come dal­l’in­ter­no, nel mo­vi­men­to pro­dut­ti­vo del­l’in­tel­li­gen­za.  La no­zio­ne di me­mo­ria è an­ch’es­sa ri­per­cor­sa, nella sua strut­tu­ra clas­si­ca, come mo­vi­men­to at­ti­vo e im­pren­di­bi­le, fun­zio­nan­te nel­l’in­tel­li­gen­za e pro­dut­ti­va di essa, in una svol­ta de­ci­si­va del pa­ra­gra­fo 456.  L’in­tel­li­gen­za è la po­ten­za che do­mi­na sulla ri­ser­va di im­ma­gi­ni e rap­pre­sen­ta­zio­ni che le ap­par­ten­go­no; essa è quin­di con­giun­zio­ne e sus­sun­zio­ne li­be­ra di que­sta ri­ser­va sotto il con­te­nu­to pe­cu­lia­re. L’in­tel­li­gen­za si ri­cor­da ed in­te­rio­riz­za in modo de­ter­mi­na­to entro quel­la ri­ser­va, e la pla­sma im­ma­gi­na­ti­va­men­te se­con­do que­sto suo con­te­nu­to: essa è quin­di fan­ta­sia, im­ma­gi­na­zio­ne sim­bo­liz­zan­te, al­le­go­riz­zan­te o poe­tan­te.  Que­sta for­ma­zio­ni im­ma­gi­na­ti­ve più o meno con­cre­te, più o meno in­di­vi­dua­liz­za­te, sono an­co­ra delle sin­te­si nella mi­su­ra in cui il ma­te­ria­le, in cui il con­te­nu­to sog­get­ti­vo con­fe­ri­sce un Es­ser­ci alla rap­pre­sen­ta­zio­ne, pro­vie­ne dal Tro­va­to (dem Ge­fun­de­nen) del­l’in­tui­zio­ne.10  Passività, evi­den­za, sor­pre­sa di fonte al darsi ori­gi­na­rio (?) delle cose ri­guar­da perciò per Hegel un mo­vi­men­to che ha come suo ele­men­to lo sce­na­rio dell’interiorità. Il tro­va­to del­l’in­tui­zio­ne, in­con­tro, evi­den­za, ac­co­glien­za della realtà è pen­sa­bi­le in un re­gi­stro che è già una tra­du­zio­ne. È nel re­gi­stro di una tra­du­zio­ne che nel per­cor­so di que­sto testo di Hegel, di una tra­du­zio­ne del fuorinel den­tro e vi­ce­ver­sa, che si può av­vi­sta­re ciò in fi­lo­so­fia si chia­ma realtà.  Quan­do l’in­tel­li­gen­za, in quan­to ra­gio­ne, parte dal­l’ap­pro­pria­zio­ne del­l’im­me­dia­tez­za tro­va­ta entro sé (par. 445; cfr. par. 455 Anm.), cioè la de­ter­mi­na come Uni­ver­sa­le, ecco al­lo­ra che la sua attività ra­zio­na­le (par. 438) pro­ce­de dal punto at­tua­le (dem nun­meh­ri­gen Punk­te) a de­ter­mi­na­re come es­sen­te ciò che in essa si è svi­lup­pa­to in au­toin­tui­zio­ne con­cre­ta, pro­ce­de cioè a ren­de­re se stes­sa Es­se­re, Cosa.11  L’in­tel­li­gen­za stes­sa così si fa es­sen­te, si fa Cosa.  Quan­do è at­ti­va in que­sta de­ter­mi­na­zio­ne, l’in­tel­li­gen­za si estrin­se­ca (aus­sernd), pro­du­ce (pro­du­zie­rend) in­tui­zio­ne: è fan­ta­sia che si espri­me in segni (Zei­chen ma­chen­de Phan­ta­sie).12  L’in­tel­li­gen­za esi­ste in quan­to fan­ta­sia… Tesi non im­me­dia­ta­men­te pre­ve­di­bi­le nel di­spo­si­ti­vo, in­tri­ca­to, di que­sto per­cor­so he­ge­lia­no. Tesi cui pure spin­ge, con ri­go­ro­sa necessità, que­sta ana­li­si «scien­ti­fi­ca» della psi­che. Que­sto testo di Hegel in­ne­sca con­sa­pe­vol­men­te una po­le­mi­ca ed anche una ri­for­mu­la­zio­ne me­to­do­lo­gi­ca ra­di­ca­le nei con­fron­ti della tra­di­zio­ne em­pi­ri­sta, dei sen­si­sti, di Con­dil­lac e degli ideo­lo­gues.  At­tra­ver­so le scor­ri­ban­de del­l’in­tel­li­gen­za fra sa­pe­re e segno, scien­za e realtà, at­tra­ver­so e al di là della dia­let­ti­ca fra il po­si­ti­vo e il ne­ga­ti­vo, fra il sog­get­to e la verità ecc, Hegel af­fer­ma che l’in­tel­li­gen­za è il suo atto. Esi­ste­re non è l’im­me­dia­tez­za di un che ri­spet­to a se stes­si, ma è l’at­to in cui, in un con­te­nu­to de­ter­mi­na­to, l’in­tel­li­gen­za si rap­por­ta a se stes­sa.  La fan­ta­sia è il punto cen­tra­le in cui l’U­ni­ver­sa­le e l’Es­se­re, il Pro­prio e il Tro­va­to, l’In­ter­no e l’E­ster­no, sono per­fet­ta­men­te uni­fi­ca­ti. Le sin­te­si pre­ce­den­ti del­l’in­tui­zio­ne, del ri­cor­do ecc., sono uni­fi­ca­zio­ni del me­de­si­mo mo­men­to, tut­ta­via si trat­ta pur sem­pre di sin­te­si. Solo nella fan­ta­sia l’in­tel­li­gen­za non è più come il pozzo in­de­ter­mi­na­to e come l’U­ni­ver­sa­le, bensì è come Sin­go­la­re, cioè come soggettività con­cre­ta nella quale l’au­to­re­la­zio­ne è de­ter­mi­na­ta sia come Es­se­re sia come Universalità.13  L’in­tel­li­gen­za è in­tel­li­gen­za di un in­di­vi­duo, di un sin­go­lo, è soggettività con­cre­ta solo nella fan­ta­sia. Tale que­stio­ne è chia­ri­ta dal se­gui­to della stes­sa An­mer­kung:  Tutti ri­co­no­sco­no che le im­ma­gi­ni della fan­ta­sia co­sti­tui­sco­no tali uni­fi­ca­zio­ni del Pro­prio e del­l’In­ter­no dello spi­ri­to con l’e­le­men­to in­tui­ti­vo. Il loro con­te­nu­to ul­te­rior­men­te de­ter­mi­na­to ap­par­tie­ne ad altri am­bi­ti, men­tre qui que­sta fu­ci­na in­ter­na va in­te­sa sol­tan­to se­con­do quel mo­men­to astrat­to.  In quan­to attività di que­sta unio­ne, la fan­ta­sia è ra­gio­ne, ma è ra­gio­ne for­ma­le, solo nella mi­su­ra in cui il con­te­nu­to in quan­to tale della fan­ta­sia è in­dif­fe­ren­te. La ra­gio­ne in quan­to tale, in­ve­ce, de­ter­mia a verità anche il con­te­nu­to.14  Nell’An­mer­kung suc­ces­si­va nello stes­so pa­ra­gra­fo Hegel opera la svol­ta de­ci­si­va nel breve per­cor­so che qui ci in­te­res­sa:  In par­ti­co­la­re bi­so­gna an­co­ra ri­le­va­re que­sto fatto. Poiché la fan­ta­sia porta il con­te­nu­to in­ter­no a im­ma­gi­ne e a in­tui­zio­ne — e ciò viene espres­so di­cen­do che essa lo de­ter­mi­na come es­sen­te-​, non deve sem­bra­re sor­pren­den­te l’e­spres­sio­ne se­con­do cui l’in­tel­li­gen­za si fa­reb­be es­sen­te, si fa­reb­be Cosa. Il con­te­nu­to del­l’in­tel­li­gen­za, in­fat­ti, è l’in­tel­li­gen­za stes­sa, e lo è al­tret­tan­to la de­ter­mi­na­zio­ne che essa gli con­fe­ri­sce.  L’im­ma­gi­ne pro­dot­ta dalla fan­ta­sia è solo sog­get­ti­va­men­te in­tui­ti­va, men­tre è nel segno che la fan­ta­sia ag­giun­ge a ciò l’au­ten­ti­ca intuibilità (ei­gen­tli­che An­schau­li­ch­keit); nella me­mo­ria mec­ca­ni­ca, poi essa com­ple­ta in sé que­sta forma del­l’Es­se­re.  L’im­ma­gi­ne solo nel segno è au­ten­ti­ca intuibilità di ciò che è. L’es­sen­te è co­gli­bi­le come segno, non come dato, come dono. Dato e dono non sono pen­sa­bi­li, ma nep­pu­re spe­ri­men­ta­bi­li nella forma della pre­sen­za, cioè in un darsi (che, in ter­mi­ni he­ge­lia­ni, è la ma­te­ria del­l’in­tui­zio­ne). Essi sono già tra­scrit­ti nel con­te­nu­to in­ter­no del­l’in­tel­li­gen­za, cioè come segni.  L’e­le­men­to im­pren­di­bi­le, enig­ma­ti­co della co­no­scen­za è il segno e non il dato, .il dono. Nella strut­tu­ra di que­sto testo Hegel af­fer­ma che il non pro­prio, il non mio so­vra­sta e spiaz­za nella forma del segno, non nella forma del dono.  In que­sta unità, pro­ce­den­te dal­l’in­tel­li­gen­za, di una rap­pre­sen­ta­zio­ne au­to­no­ma (selbständiger Vor­stel­lung)) e di una in­tui­zio­ne, la ma­te­ria del­l’in­tui­zio­ne è certo in­nan­zi­tut­to un qual­co­sa di ac­col­to, di im­me­dia­to e di dato (ein auf­ge­nom­me­nes, etwas un­mit­tel­ba­res oder ge­ge­be­nes) (per esem­pio il co­lo­re della coc­car­da e af­fi­ni).  In que­sta identità però l’in­tui­zio­ne non ha il va­lo­re di rap­pre­sen­ta­re po­si­ti­va­men­te e di rap­pre­sen­ta­re se stes­sa, bensì di rap­pre­sen­ta­re qual­co­s’al­tro. Essa è un’im­ma­gi­ne che ha ri­ce­vu­to entro sé una rap­pre­sen­ta­zio­ne au­to­no­ma del­l’in­tel­li­gen­za come anima, che ha ri­ce­vu­to, cioè, il suo si­gni­fi­ca­to. Que­sta in­tui­zio­ne è il segno.15  L’in­tui­zio­ne, rap­por­ta­ta «scien­ti­fi­ca­men­te» alla sua ori­gi­ne, ha la forma del segno. Tale forma ha una strut­tu­ra che coin­vol­ge i ter­mi­ne stes­si del­l’in­tel­li­gen­za. L’in­tel­li­gen­za sem­bra fun­zio­na­re in una de­ri­va di cui il segno co­sti­tui­sce una sorta di cer­nie­ra, snodo in cui l’in­tel­li­gen­za stes­sa è tolta-​con­ser­va­ta.  L’in­tui­zio­ne che im­me­dia­ta­men­te e ini­zial­men­te è qual­co­sa di dato e di spa­zia­le (ge­ge­be­nes und raum­li­ches) una volta im­pie­ga­ta come segno ri­ce­ve la de­ter­mi­na­zio­ne es­sen­zia­le di es­se­re sol­tan­to come in­tui­zio­ne ri­mos­sa. Que­sta sua negatività è l’in­tel­li­gen­za.  Perciò la fi­gu­ra più au­ten­ti­ca del­l’in­tui­zio­ne, che è un segno, è di es­se­re un Es­ser­ci nel tempo: un di­le­gua­re (Ver­sch­win­den) del­l’Es­ser­ci men­tre l’es­ser­ci è.  Inol­tre, se­con­do la sua ul­te­rio­re de­ter­mi­na­tez­za este­rio­re, psi­chi­ca, la fi­gu­ra più vera del­l’in­tui­zio­ne è un es­se­re-​posta dal­l’in­tel­li­gen­za, esser-​posta che viene fuori dalla naturalità pro­pria (an­tro­po­lo­gi­ca) del­l’in­tel­li­gen­za stes­sa: è il tono (Ton), cioè l’e­strin­se­ca­zio­ne riem­pi­ta dell’interiorità an­nun­cian­te­si.  Il tono che si ar­ti­co­la ul­te­rior­men­te in vista delle rap­pre­sen­ta­zio­ni de­ter­mi­na­te è il di­scor­so, e il si­ste­ma del di­scor­so è la lin­gua. In que­sto am­bi­to il tono con­fe­ri­sce a sen­sa­zio­ni, in­tui­zio­ni e rap­pre­sen­ta­zio­ni un se­con­do Es­ser­ci, più ele­va­to del­l’Es­ser­ci im­me­dia­to: in ge­ne­ra­le con­fe­ri­sce loro un’e­si­sten­za che ha va­lo­re nel regno dell’attività rap­pre­sen­ta­ti­va.16  Que­sto pro­get­to he­ge­lia­no di una scien­za della psi­che tenta qui un ul­te­rio­re ra­di­ca­le ap­proc­cio alla ge­ne­si del­l’in­tel­li­gen­za. L’in­tui­zio­ne, in quan­to fun­zio­nan­te come segno, «ri­ce­ve la de­ter­mi­na­zio­ne es­sen­zia­le di es­se­re sol­tan­to come in­tui­zio­ne ri­mos­sa» (zu einem Zei­chen ge­brau­cht wird, die we­sen­tli­che Be­stim­mung nur als auf­ge­ho­be­ne zu sein). In que­sto esser ri­mos­so, tolto-​con­ser­va­to del­l’in­tui­zio­ne sta l’o­ri­gi­ne del­l’in­tel­li­gen­za. La negatività di cui essa è fatta si in­trec­cia strut­tu­ral­men­te alla no­zio­ne di tempo. L’in­tui­zio­ne non è do­mi­na­bi­le da un sog­get­to se non nella forma del dopo: «un di­le­gua­re del­l’Es­ser­ci men­tre Es­ser­ci è».  Quel­l’al­tro in­trec­cio che co­sti­tui­sce l’in­tui­zio­ne, l’in­trec­cio fra il den­tro e il fuori si espri­me nel tono, suono ar­ti­co­la­to (Ton). Il tono, visto in rap­por­to ad una rap­pre­sen­ta­zio­ne de­ter­mi­na­ta, è il di­scor­so (Rede) e il si­ste­ma del di­scor­so è la lin­gua (Spra­che).  A que­sto punto del suo per­cor­so la stra­te­gia di Hegel si in­con­tra con il pri­vi­le­gio greco e pla­to­ni­co ac­cor­da­to alla pa­ro­la, al logosin quan­to vi­ven­te pro­nun­cia­to, detto. Come in Pla­to­ne anche in Hegel la pa­ro­la è cen­tra­le nella vita del­l’in­tel­li­gen­za, ma di una centralità che oc­cu­pa il luogo di un mo­vi­men­to ori­gi­na­rio ed im­pren­di­bi­le.  Per un com­men­to cri­ti­co ed espli­ca­ti­vo dei pa­ra­gra­fi della «Psi­co­lo­gia» nella se­zio­ne sullo «Spi­ri­to sog­get­ti­vo», anche per ciò che con­cer­ne le fonti di Hegel e la sag­gi­sti­ca re­la­ti­va, cfr. Ros­sel­la Bo­ni­to Oliva, La «magia dello spi­ri­to» e il «gioco del con­cet­to». Con­si­de­ra­zio­ni sulla fi­lo­so­fia dello spi­ri­to sog­get­ti­vo nel­l’En­ci­clo­pe­dia di Hegel, Mi­la­no, Gue­ri­ni e As­so­cia­ti, 1995. ︎  Uso la re­cen­te tra­du­zio­ne di Vin­cen­zo Ci­ce­ro (En­ci­clo­pe­dia delle scien­ze fi­lo­so­fi­che in com­pen­dio, ed. 1830, Mi­la­no, Ru­sco­ni, 1996) che ri­ten­go pun­tua­le ed av­ver­ti­ta delle que­stio­ni poste dal testo, no­no­stan­te la discutibilità di al­cu­ne so­lu­zio­ni su cui per altro pesa in certa mi­su­ra la re­si­sten­za ad ab­ban­do­na­re tra­du­zio­ni fa­mi­lia­ri e con­so­li­da­te. ︎  Par. 441. ︎  Ibi­dem. ︎  Par. 442. ︎  Par. 443. ︎  Par. 449. ︎  Par. 452. ︎  Par. 453. ︎  Par. 456. ︎  Par. 457. ︎  Ibi­dem. ︎  Par. 457, An­mer­kung. ︎  Par. 457, An­mer­kung I. ︎  Par. 458. ︎  Par. 459. Grice: “There’s something otiose about the ‘faciendi signum’ of the Romans, why not just ‘signare’?” – Who or what ‘makes’ the sign of a dark cloud (=> rain)?” “While it seems natural enough to say that a dark cloud is a sign of rain,it  or better, that a dark cloud signs *that* it may rain, I wouldn’t say that the cloud “MAKES” anything --. Grice: “It’s sad that Hegel’s Latin wasn’t that good – the Romans used ‘signare’ (Italian ‘segnare’) much more than they did use ‘significare’. “With all my love and kisses” “You used to sign your letters ‘with all my love and kisses” – Sam Browne --. Horatio Nicholls – aka as something else. Gianfranco Dalmasso. Keywords: la giustizia nel discorso, sign-make, fare segno, fare segno a se – zeichen Machen, to sign versus to signify -- Bradley, Hegel, io, noi, intersoggetivo, Hegel on Zeichen, zeichen-machende fantasie” – zeichen-interpretand fantasie” -- “l’implicatura del noi duale” “il tra noi” – la prossimita del tra noi -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Dalmasso” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51766507517/in/dateposted-public/

Grice e Dandolo – Roma pagana, filosofia romana – Carneade e compagnia -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Varese). Filosofo. Grice: “I love Dandolo; you know why? Because he was an amateur, not a professional; I mean, he was a country gentleman and an earl, so if he philosophised it wasn’t for the colour of the money! Plus, he owned a lovely ‘palazzo,’ which I would call ‘villa’! Neoguelfo. Figlio dal conte Vincenzo e Mariana Grossi. Il padre era esponente della Municipalità di Venezia, ma dopo il trattato di Campoformio, con il quale si sancì la fine della Repubblica, dovette esulare in Francia. Venne in seguito nominato da Napoleone senatore del Regno italico e conte. Fu anche governatore civile della Dalmazia. Passa quindi un'infanzia assai agitata; fu cresciuto da una "cameriera disattenta" e poi sballottato per vari collegi. Si laurea a Pavia. Passa alcuni anni girando per l'Europa e conducendo una vita mondana. In questo periodo venne a contatto con illustri personalità culturali politiche dell'epoca. Venne sospettato dal governo austriaco di aver partecipato alle congiure degli anni precedenti, e per questo fatto rientrare in modo coatto in Italia (senza tuttavia essere perseguitato). In Italia, si dedica ampiamente alla filosofia, e sposa la sorella di Bargnani; uno dei cospiratori mazziniani. Morta la sposa affida ad un amico i figli. Sposa la contessa Ermellina Maselli, da cui ebbe altri due figli. I primi due figli presero parte alle Cinque giornate e ad altre operazioni belliche e lo stesso Tullio fu uno dei principali autori della rivoluzione e capo della rivolta varesina (scoppiata in concomitanza con quella di Milano), ma a Roma, durante la difesa della repubblica di Mazzini, Su figlio muore e l’altro rimase gravemente ferito. Questo evento tocca molto Tullio che tuttavia, pur dovendosi prendere cure molto onerose del superstite, continua comunque i suoi studi di filosofia. Sui due figli raccolse un gran numero di documenti, memorie e storie pubblicati in “Lo spirito della imitazione di Gesù Cristo esposto e raccomandato da un padre ai suoi figli adolescent: corrispondenze di lettere famigliari: riicordi biografici dell'adolescenza d'Enrico e d'Emilio Dandolo, Milano). Un filosofo che fece delle critiche alla sua attività fu Tommaseo, ma risultò essere piuttosto duro ed aspro, tanto da scrivere. “Fin da giovane scarabocchiò librettucci compilati o piuttosto arruffati. Né di quelli che scrisse dal venticinque al cinquantacinque sapresti quale sia il più decrepito e il più puerile. Ma fece due opere buone, un figliolo che morì valentemente in Roma assediata da Galli vendicatori delle oche; e un altro figliolo che scrisse la storia, e direi quasi la vita della Legione Lombarda capitanata da Manara, libro di senno virile e d'affetto pio.” I suoi saggi trattano gli argomenti più vari: dalla pedagogia all'autobiografia, da quelli di carattere storico a quelli religiosi. Molti di essi sono schizzi letterari e filosofici o riguardano descrizioni di viaggi, città e munomenti. Inoltre, scrisse molto intorno alla storia romana antica, alla nascita del Cristianesimo, al Medioevo e al Rinascimento, pubblicando anche molti discorsi e documenti inediti. Più che ad un contributo critico, mira a dare un'informazione non faziosa per una migliore conoscenza del passato. Questi suoi scritti storici sono molto diversi fra di loro. In alcuni predilige uno stile aulico, mentre in altri un tono popolare e facile; trattando ora gli argomenti con approssimazione ed ora dando al racconto la coinvolgenza di un romanzo. Altre opere: “Roma”; “Napoli” (Milano); “Firenze”; “Torino”; “La Svizzera”; “Il Cantone de' Grigioni” (Milano); “Prospetto della Svizzera, ossia ragionamenti da servire d'introduzione alle lettere sulla Svizzera); “La Svizzera considerata nelle sue vaghezze pittoresche, nella storia, nelle leggi e ne' costume”; “Venezia”; “Il secolo di Pericle”; “Schizzi di costume”, “Il secolo d'Augusto”; “Semplicità” (o rapidi cenni sulla letteratura e sulle arti”; “Album storico poetico morale, compilato per cura di V. de Castro” (Padova); “Reminiscenze e fantasie. Schizzi letterari, Peregrinazioni. Schizzi artistici e filosofici (Torino); Roma e l'Impero sino a Marco Aurelio” (Milano); “Firenze sino alla caduta della Repubblica”; “Il Medio Evo elvetico”; “Racconti e leggende”; “La Svizzera pittoresca, o corse per le Alpi e pel Jura a commentario del Medio Evo elvetico; “I secoli dei due sommi italiani Dante e Colombo; “Il Settentrione dell'Europa e dell'America nel secolo passato; “L'Italia nel secolo passato; Il Cristianesimo nascente; La Signora di Monza. Le streghe del Tirolo. Processi famosi del secolo decimosettimo per la prima volta cavati dalle filze originali, ibid. 1855 (rist. anast., Milano); Il pensiero pagano ai giorni dell'Impero. Studii, Il pensiero cristiano ai giorni dell'Impero. Studii; Il pensiero pagano e cristiano ai giorni dell'Impero. Studii; “Monachesimo e leggende. Saggi storici; “Roma e i papi. Studi storici, filosofici, letterari ed artistici, Il secolo di Leone Decimo. Studii, Lo spirito della imitazione di Gesù Cristo esposto e raccomandato da un padre ai suoi figli adolescenti (corrispondenza di lettere famigliari). Ricordi biografici dell'adolescenza d'Enrico e d'Emilio Dandolo, Milano); “La Francia nel secolo passato, “Corse estive nel Golfo della Spezia; Il secolo decimosettimo, Ragionamenti preliminari ed indici ragionati degli studi del conte Tullio Dandolo su Roma pagana e Roma cristiana pubblicati ad annunzio e prospetto dell'opera, Assisi  (estr. da Stella dell'Umbria); “Ricordi di Tullio Dandolo”; “Lettera a D. Sensi. Indice della materia, Assisi); “Ricordi”; “Ricordi inediti di G. Morone gran cancelliere dell'ultimo duca di Milano, a cura di D., Milano; Alcuni brani delle storie patrie di Giuseppe Ripamonti per la prima volta tradotti dall'originale latino dal conte T. Dandolo, Il potere politico cristiano. Discorsi pronunciati dal Ventura di RaulicaR. P., a cura di Dandolo, Milano); “Vicende memorabili narrate da Alessandro Verri precedute da una vita del medesimo di G. A. Maggi, a cura di D., A. F. Roselly de Lorgues. Ricordi, primo e secondo periodo, Assisi. di Roberto Guerri, direttore delle Civiche raccolte storiche di Milano.  Colloqui col Manzoni, T. Lodi (Firenze). Treccani, Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiano. LA FILOSOFIA ROMANA. Nei primi secoli della repubblica i romani non diedersi pensiero di filosofia. Appena ne conobbero il nome. Intenti da principio a difendersi, poi a consolidare la loro dominazione sui popoli vicini, la loro saviezza fu figlia della sperienza e d'un ammirabile buon senso affinato dalle difficoltà esteriori in mezzo a cui si trovarono collocati, e dal godimento di un'interiore libertà, le cui procelle incessanti valevano ad elevare ed afforzare gli animi. Volle taluno che le instituzioni del re Numa non andassero digiune di pitagorismo. Gli è da credere piuttosto, avuto riguardo all'ordine cronologico, che Pitagora attignesse nelle dottrine sacerdotali del secondo re di Roma qualcuna delle sue teoriche intorno la religione. Allorchè i romani strinsero i primi legami co' greci delle colonie italiche e siciliane, non credettero di ravvisare che leggerezza mollezza e corruzione in que' popoli i quali a ricambio qualificarono i romani di barbari. Sul finire della prima guerra punica fu resa nota ai vincitori la letteratura drammatica de greci; e vedemmo Livio Andronico avere per primo tradotto tragedie, le quali cacciarono di scanno i versi fescennini, i giuochi scenici etruschi e le informi atellane. Ennio, oltre ai componimenti poetici di cui facemmo menzione, voltò in latino la storia sacra di Evemero, scritto ardito, inteso a dimostrare che gli dei della Grecia altro non erano che antichi uomini dalla superstizione divinizzati. I romani non videro nelle ipotesi del filosofo che un oggetto di mera curiosità. Non erano ombrosi come gl’ateniesi, non avevano peranco sperimentato qualc’azione efficace la filosofia esercitar potesse sulla religione. Accolsero del pari con indifferenza la sposizione poetica che del sistema d'Epicuro loro presentò Lucrezio. Germi erano questi gettati in terreno non preparato ancora à riceverli. La conquista non tardò a dischiudere colla Grecia più facili mezzi di comunicazione. I conquistatori trasportarono in patria schiavi tra’ quali vi avevano non filosofi, ma retori e grammatici; e loro fidarono l'educazione de' proprii figli. L'introduzione degli studii filosofici in Roma risale alla celebre ambasceria di Carneade accademico, Critolao peripatetico, Diogene stoico. Avidi di brillare e lusingati dall'ammirazione che destavano in un popolo non avvezzo a sottili investigazioni, quei tre fecero pompa di tutta la profondità e desterità della loro dialettica ad abbagliare la romana gioventù che loro s'affoltava intorno, incantata di scovrire usi dianzi ignorati della parola. I magistrati s'adombrarono di cotesto subitano commovimento. I vecchi Se. natori armaronsi di tutta l'autorità delle prische costumanze per respingere studi speculativi, che teme vano come pericolosi e disprezzavano come futili. Catone il censore ottenne che si allontanassero tosto dalla romana gioventù i retori che davano opera a distruggere le più venerate tradizioni e a smovere le fondamenta della morale. I sofismi di Carneade, il quale faceva pompa della spregevole arte di sostenere a piacimento le opinioni più contraddittorie, forne a Catone plausibili argomenti di vituperarlo. Sicchè i primordi della filosofia furono contrassegnati in Roma da sfavorevoli apparenze. Il rigido Censore non prevede che, un secolo dopo, quella filosofia che aveva voluto proscrivere, meglio approfondita e meglio conosciuta, sarebbe il solo rifugio del suo pronipote contro le ingiurie della fortuna e la clemenza di Cesare. Non possiamo trattenerci dal simpatizzare con que’ vecchioni, i quali opponevano al torrente da che avvisavano minacciata la patria lor capegli canuti e la loro antica esperienza, evocando a respignere pericolose novatrici dottrine la religione del passato e le  tradizioni di seicent anni di vittorie di libertà divirtù. Ma se a codesto spontaneo sentimento tien  dietro la riflessione, saremo costretti di riconoscere  che a rintuzzare il progresso della filosofia ed anco de sofismi di Grecia, il senato mal si appose con quel suo violento procedere. Tutto ciò che è pericoloso racchiude in sè un principio falso che è sempre facil cosa scovrire. Affermare il contrario sarebbe muovere accusa alla Divinità, quasi ch'ella con innestare il male nella conoscenza del vero avesse teso un laccio all’umana intelligenza. Convien dunque adoperarsi  a dimostrare la falsità delle opinioni perniziose, non  proscriverle alla cieca, quasi rifuggendo esaminarle  conscii dell'impossibilità di confurtarle. Sì ardua impresa rispondere agli ateniesi sofisti? o sì difficile dimostrare che quelle loro argomentazioni pro e contra lo stesso principio di morale erano assurde? O sì temerario lo appellarsene, ne' cuori romani, a’sentimenti innati del vero e del giusto, il risvegliare in  quelle anime ancor nuove sdegno e disprezzo per teoriche, le quali, consistendo tutte in equivoci, dovevano vituperosamente cadere dinanzi la più semplice analisi? Catone anda altero dell'ottenuta vittoria. Gli ambasciadori ateniesi furono tosto rimandati. Per un secolo ancora severi editti, frequentemente rinnovati, lottarono contro ogni nuova dottrina. Ma l' impulso era dato, nè poteva fermarsi. I giovani romani conservarono impresse nella memoria le dottrine dei sofisti. Era poi e riguardarono la dialettica di Carneade non tanto come un sistema che conveniva esaminare, quanto come una proprietà che stava bene difendere. Giunti ad età provetta nel bivio d'abbandonare ogni speculazione filosofica o di disobbedire alle leggi, furono tratti a disobbedire dalla loro inclinazione per le lettere, passione la quale, dacchè è nata, va crescendo ogni dì, siccome quella che ha riposte in sè medesima le proprie soddisfazioni. Gli uni tennero dietro alla filosofia nel suo esiglio ad Atene. Altri mandarono colà i loro figli. I capitani degli eserciti furono i primi a lasciarsi vincere apertamente da questa tendenza generale degli spiriti. L'accademico Antioco fu compagno di Lucullo. Catone il censore cedè egli stesso, a malgrado delle sue declamazioni, alla seduzione dell'esempio, ed assistè alle lezioni del peripatetico Nearco. Silla fece trasportare in Roma la biblioteca d'Apellico di Teo. Catone d'Utica allorch'era tribuno militare in Macedonia peregrino in Asia a solo oggetto d'ottenere che lo stoico Atenodoro abbandonasse il suo ritiro di Pergamo e si conducesse a dimorare con lui.  Pure gli spiriti che con siffatto entusiasmo s'abbandonarono alle filosofiche investigazioni non trovavansi da studii anteriori preparati ad astratte speculazioni. Ne avvenne che la filosofia penetra in coteste menti dirò come in massa e nel suo insieme. Ma non s'indentificò col rimanente delle loro opinione. La sua efficacia fu nel tempo stesso più gagliarda e mento continua che in Grecia. Più gagliarda nelle circostanze importanti nelle quali l'uomo trascinato fuori del circolo delle sue abitudini cerca appoggi, motivi d'agire, conforti straordinarii. Meno continua perchè, se niun evento tnrbava l'ordine abituale, ella ridiventava pe’ romani una scienza, piuttostochè una regola di condotta applicata a tutti i casi della vita sociale. Che se non iscorgiamo in Roma individui che a somiglianza dei sapienti della Grecia consacrassero alla filosofia esclusivamente il loro tempo. Non ci appare nè anche, ad eccezione di Socrate, che i greci abbiano saputo trarre dalla filosofia quegli efficaci soccorsi che invigorivano gli illustri cittadini di Roma in mezzo ai campi, nelle guerre civili, tra le proscrizioni, allora suprema.  I romani si divisero in sette. Effetto della maniera d'insegnamento di cui i retori greci usavano con essi. Per la maggior parte schiavi od affrancati, dovevano costoro, qualunque fosse il loro convincimento o la loro preferenza per queste o quelle dottrine, studiarsi di piacere a' padroni; ond'è che chiaritisi come una tale ipotesi respignesse colla sua severità o stancasse colla sua sottigliezza, affrettavansi di sostituirne altra più accetta. Tali sono i risultamenti della dipendenza. L’amore stesso del vero non basta ad affrancare l'uomo dal giogo. S’egli non abjura le sue opinioni, ne cangia le forme; se non rinnega i suoi principii, li sfigura. Allorchè a questi retori schiavi succedettero i retori stipendiati, le dottrine diventarono derrata di cui itanto per greci trafficarono, e della quale per conseguenza lasciarono la scelta a' compratori. Le varie sette non trovarono in Roma uguale favore. L'epicureismo benchè in bei versi esposto ed insegnato da Lucrezio, vi fu dapprima respinto, non la sua morale di cui bene non si conoscevano ancora i corollarii, quanto per la raccomandazione che faceva d'attenersi ad una vita speculativa e ritirata, aliena non meno da fatiche che da pericoli. Gli è questo difatti il principale rimprovero che fa Cicerone alla filosofia epicurea. I cittadini d'uno stato libero non sanno concepire la possibilità di porre in dimenticanza la patria, perciocchè ne posseggono una; e considerano come colpevole debolezza quell'allontanamento da ogni carriera attiva, che sotto il dispotismo diventa bisogno è virtù di tulli gli uomini integri e generosi. L'epicureismo ebbesi per altro un illustre seguace; nè qui vo' accennare d'Atlico, che senza principii senza opinioni fu bensì amico caldo e fedele, ma cittadino indifferente e di funesto esempio, avvegnachè sotto forme eleganti insegnò alla moltitudine ancora indecisa e vacillante come chicchessia può accortamente isolarsi e tradire con decenza i proprii doveri verso la patria. Il romano di cui intendo parlare è Cassio che fino dall'infanzia si consacrò alla causa della libertà, e rinunziando ai piaceri alle dolcezze della vita, non ebbe che un pensiero un interesse una passione, la patria. Fu centro della cospirazione contro Cesare; e dolendosi di non potere sperare in un'altra vita, muore dopo avere corso un arringo continuamente in contraddizione colle sue dottrine. Le sette di Pitagora, di Aristotile, e di Pirrone incontrarono a Roma ostacoli d'altra maniera. La prima, per una naturale conseguenza del segreto in cui si avvolse fino dal suo nascere, contrasse affinità con estranie superstizioni; perciocchè uno degli inconvenienti del mistero, anche quando n'è pura l'intenzione primitiva, è di fornire all' impostura facile mezzo d'impadronirsene. Nigido Figulo è il solo pitagorico di qualche grido che abbia fiorito in Roma. L'oscurità aristotelica ebbe poche attrattive per menti più curiose che meditative. L'esagerazione pirronista per ultimo ripugna alla retta ragione de’ romani. Il platonismo che ancor non era ciò che di. venne due secoli dopo per opera de' novelli platonici. Lo scetticismo moderato della seconda accademia, e lo stoicismo furono i sistemi adottati in Roma. Lucullo, Bruto, Varrone sono platonici. Cicerone, a cui piacque porre a riscontro tutte le varie dottrine, inclina per l'indecisione accademica. Lo stoicismo solo fu caro alla grand'anima di Catone Uticense. “Non  possum legere librum Ciceronis de Se. nectute, de Amicitia, de Officiis, de Tusculanis Quæstionibus, quin aliquoties exosculer codicem, ac venerer sanctum illud pectus aflatum celesti Qumine.  ERASM. in Conviv --. M. Tullio adotta egli per convinzione i sistemi filosofici della nuova accademia, o diè loro la preferenza perchè più propizii all’oratore in fornirgli arme con cui combattere i proprii avversarii! Corse grand' intervallo tra un Cicerone ambizioso, e un Cicerone disingannato. Ciò che pel primo era oggetto subordinato a speranze a divisamenti avvenire, diventa pel secondo un bisogno del cuore, un'intensa occupazione della mente. Ei pose affetto alle dottrine del platonismo riformato; e a quelle parti della morale in esse contenuta di cui si tenne men soddisfatto, altre ne sostituì fornitegli dallo stoicism. E propriamente ecclettico, od amatore del vero e del buono ovunque lo riscontrava. Ad imitazione di Platone pose in dialoghi i suoi scritti filosofici. Per eleganza di stile ed elevatezza di concetti non cede al modello. Per chiarezza e per ordine lo vince. Ne cinque libri, De finibus, intorno la natura del bene e del male si propose una meta sublime; la ricerca cioè del bene supremo; in che cosa consista; come si consegna; ove dimori. Tu cerchi però inutil mente in quelle pagine da cui traluce tanta sapienza plausibile soluzione del quesito. Gli antichi ingolfandosi in cotali disamine faceano ricerca di ciò che trovare non potevano; chè gli è impossibile che il bene supremo rinvengasi in ordine di cose che necessariamente è imperfetto.Verità che il Vangelo ci rese ovvia insegnandoci come la felicità sognata dai gentili pel loro saggio non sia fatta per uomo mortale, essondechè stanza le è riserbata imperibile sublime. In che cosa consiste il sommo bene? Ecco di che venivano continuamente richiesti i filosofi. Epicuro ed Aristippo rispondevano, nel piacere; Jeronimo, nell'assenza del dolore; Platone, nella comprensione del vero, e nella virtù che ne è conseguenza; Aristotile, nel vivere conformemente alla natura. Cicerone associa le sentenze di Platone e d'Aristotile, e si appose meglio di quanti nell'arduo arringo l'avevano preceduto. Dalle più elevate astrazioni sceso ad argomenti che si collegano co' bisogni e co' vantaggi dell'uomo, M. Tullio si propose nelle Tusculane di cercare i mezzi adducenti alla felicità. Cinque ne noverò; il dispregio della morte; la pazienza ne' dolori; la fermezza nelle varie prove; l'abitudine di combaltere le passioni, e finalmente la persuasione che la virtù dee unicamente cercare premio in sè stessa: e la dimostrazione di cotesti assiomi si fa vaga, sotto la penna del filosofo, di tutte le grazie dell'eloquenza.  All' Anima, egli scrive, tu cercheresti inutilmente un'origine terrestre, perocchè nulla in sè accoglie di misto e concreto; non un atomo d'aria d'acqua di fuoco. In cotesti elementi sapresti tu scorgere forza di memoria d'intelligenza di pensiero, valevole a ricordare il passato a provvedere al futuro ad abbracciare il presente? Prerogative divine sono queste, nè troveresti mai da chi sieno state agli uomini largite, se non 'da Dio. È l'anima pertanto informata di certa quale sua singolar forza e natura ben diverse da quelle che reggono i corpi tutti a noi noti. Checchè dunque in noi sia che sente intende vuole vive; divina cosa certo è cotesta; eterna quindi necessariamente esser deve. Nè la divinità stessa, quale ce la figuriamo, comprenderla in altra guisa possiamo, che come libera intelligenza scevra d'ogni mortale contatto, che tutto sente e muove, d’eterno moto ella stessa fornita. L’anima umana per genere e per natura somiglia a Dio. “Dubiterai tu, a veder le meraviglie dell'universo, che tal opera stupenda non abbiasi (se dal nulla fu tratta, come afferma Platone) un creatore; o se creata non fu, come pensa Aristotile, che ad alcun possente moderatore non sia data in custodia? Tu Dio non vedi; pur le opere sue tel rivelano: così ti si fa palese dell'anima, comechè non vista, la divina vigoria, nelle operazioni della memoria nel raziocinio nel santo amore della virtù.” I discepoli d'Epicuro, commentando, esagerando ciò che vi avea d'incerto d'oscuro nei principii del loro maestro. l'universo nato dal caso affermarono, negarono la provvidenza, piegarono all'ateismo. Tullio si fa a combatterli nel suo libro Della natura degli Dei. Le lettere antiche non inspiraronsi mai di più sublime eloquenza. Vedi primamente la terra, collocata nel centro del mondo, solida, rotonda, in sè stessa da ogni parte per interior forza ristrella; di fiori d'erbe d'arbori di messi ammantarsi. Mira la perenne freschezza delle fonti, le trasparenti acque de' fiumi, il verdeggiare vivacissimo delle rive, la profondità delle cave spelonche, delle rupi l'asperità, delle strapiombanti vette l’elevazione, delle pianure l'immensità, e quelle recon. dite vene d'oro e d'argento, e quell' infinita possa di marmi. Quante svariate maniere d'animali! quale aleggiare e gorgheggiar d'uccelli e pascere d'armenti, ed inselvarsi di belve! E che cosa degli uomini dirò, che della terra costituiti cultori non consentono alla ferina immanità di toruarla selvaggia, all’animalesca stupidità di devastarla, sicchè per opera loro campi isole lidi mostransi vaghi di case, popolati di città! Le quali cose se a quella guisa colla mente comprendere potessimo, come le veggiamo cogli occhi; niune in gettare uno sguardo sulla terra potrebbe dubitar più oltre che esista ia provvidenza divina. “Ed infatti, come vago è il mare! come gioconda dell'universo la faccia! Qual moltitudine e varietà d'isole é amenità di piani, e disparità d'animali, sommersi gli uni nei gorghi, gnizzanti gli altri alla superficie, nati questi a rapido moto, quelli all’imobi, lità delle loro conchiglie! E l'acre che col mare con: fina qua diffuso e lieve s'innalza, là si condensa e accoglie in nugoli, e la terra colle piove feconda; e ad ora ad ora pegli spazii trascorrendo ingencra i vento ti, e fa che le stagioni subiscano dal freddo al caldo loro consuete mutazioni, e le penne de' volatori sostiene, e gli animali mantien vivi.” 5 Giace ultimo l'etere dalle nostre dimore disco. stissimo, che il cielo e tutte cose ricigne, remoto confine del mondo; per entro al quale ignei corpi con maravigliosa regolarità compiono il loro corso. Il sole, uno d'essi, che per mole vince di gran volte la terra, intorno a questa s'aggira, col sorgere e il tramontare segnando i confini del giorno e della notte; coll'avvicinarsi e il discostarsi quelli delle stagioni; sicchè la terra, allorehè il benefico astro s'allontana, da certa qual tristezza è conquisa; pare che invece insieme col ciclo ši allegri allorchè torna. La luna, che a dire de matemateci, è più che una mezza terra, trascorre pe' medesimi spazii del sole, ed ora facendoglisi incontro; ora dipartendosi, que' raggi che da lui riceve a noi trasmette; ed avvengonle mutazioni di luce; perciocchè talora postasi innanzi al sole lo splendore ne oscura; talora nell'ombra della terra s'immerge e d'improvviso scompare. Per quegli spazii medesimi le stelle che denominiamo vaganti girano intorno a noi e sorgono e tramontano ad uno stessso modo; il moto delle quali ora è affrettato ora s'allenta ora  cessa; spettacolo di cui altro avere non vi può più ammirando e più bello. Tiene dietro la moltitudine delle non vaganti stelle, delle quali sì precisa è la reciproca giacitura, che si poterono ad esse applicar nomi di determinate figure. “E tanta magnificenza d'astri, tanta pompa di cielo, qual sano intelletto mai potrà figurarsele surte dal raccozzarsi di corpi qua e là fortuitamente? Chi potrà credere che forze d' intelligenza e di- ragione sprovvedute fossero state capaci di dar compimento a tali opere delle quali, senza somma intelligenza e robusta ragione, ci sforzeremmo inutilmente di comprendere, non dirò come si sieno fatte, ma solo quali veramente sieno?” Dopo d'avere additato virtù e religione siccome scaturigini del bene, maestre di felicità, dopo d'avere spaziato pegli immensi campi d'un'alta e confortevole metafisica, dopo di avere falto tesoro negli insegnamenti della greca filosofia di ciò ch'essa mise in luce di più puro e sublime intorno l'anima e Dio; argomento degno della gran mente di Cicerone era la felicità, non più studiata e ricercata pegli individui, ma per le nazioni; ed a sì nobile soggetto consacrò i suoi trattati, in gran parte perduti, Della repubblica e Delle leggi. Nei frammenti che ce ne restano scorgiamo essersi il filosofo serbato fedele al suo assioma favorito: - nella giustizia divina contenersi l'unica sanzione dell'umana giustizia.  u Fondamento primo d'ogni legislazione, egli scrive,  sia un generale convincimento che gli Dei sono di tutto arbitri, di tutto moderatori; che benefattori del. l'uman genere scrutano che cosa è in sè stesso ogni uomo, che cosa fa, che cosa pensa, con quale spirito pratica il culto; sicchè i buoni sanno discernere dagli empii. Ecco di che gli animi voglionsi compene. trati, onde abbiano la coscienza dell' utile e del vero.” Ma se M. Tullio della virtù della felicità delle leggi ravvisava nella religione le scaturiggini, la religione voleva che santa e pura fosse, onninamente sgombra dalle supestizioni dalle credulità, da che vituperata miravala. A tal uopo dettò l'aureo trattato De divinatione, nel quale usò d'un argomentare nel tempo stesso seyero e faceto, con abbandonarsi in isferzare la credulità e la sciocchezza a'voli più opposti della sua proteiforme eloquenza.  Capolavoro di Cicerone è il libro Degli Officii, ossia de' doveri morali degli uomini in qualunque condizione si trovino essi collocati. I Greci ebbero costume di spaziare troppo ne' campi delle filosofiche astrazioni; le loro dottrine trovarono meno facile applicazione a' casi pratici della vita, perchè sovraccaricate di vane disputazioni, oppurtune più spesso a trastullare l'imaginazione, che ad illuminare l'intelletto. Tullio grande e saggio anche in questo volle spoglia la sua filosofia di quell' ingombro, e ricondussela alla più semplice e precisa espressione degli inculcati doveri. 6 Cicerone (scrive- a proposito del libro degli Officii un critico tedesco) fu dotato  di luminosa intelligenza di rello giudizio di gran. de altività, doti opportunissime a coltivare la ragione, a fornirle argomento d' incessanti meditazioni. Ma Cicerone non possedeva lo spirito speculativo che si richiede a poter ben addentrarsi ne' primi principii delle scienze: il tempo venivagli meno a minute indagini, la sua indole stessa fare non gliele poteva famigliari. Uomo di stato più che filosofo, le scienze morali lo interessavano per quel tanto che gli servivano a rischiarare le proprie idee intorno ad argomenti politici. Vissulo in mezzo a rivoluzioni, quali traversie non ebbe egli a sopportare ! Niun politico si trovò mai in situazione più propizia per fare tesoro d'osservazioni intorno l'indole della civile società, la diversità de' caratteri, l'influenza delle passioni. Pure cotesta situazione sua stessa era poco alla a fornirgli opportunità d’approfondire idec astralte o meditare sulla natura delle forze invisibili, i cui visibili risultamenti s'appalesano nell' umano consorzio.  La situazione politica in cui M. Tullio si trovò collocato improntò la sua morale d'un carattere speciale. Gli uomini dei quali ed a’ quali ragiona sono quasi sempre della classe a cui spetla d'amministrare la repubblica: talora, ma più di rado, rivolgesi agli studiosi delle lettere e delle scienze. Per la moltitudine de cittadini hannovi bensì qua e là precetti generali comuni applicabili agli uomini tutti; ma cercheresti inutilmente l'applicazione di que' precelli alle circostanze d'una vita oscura e modestà. Caso invero singolare! Mentre le forme del reggimento repubblicano raumiliavano l'orgoglio politico con dargli a base il favore popolare, i pregiudizii dell'antica società alimentavano l'orgoglio filosofico, con accordare il privilegio dell'istruzione unicamente a coloro che per nascita o per fortune erano destinati a governare i loro simili. In conseguenza di questo modo di vedere i precetti morali di Cicerone degenerarono sovente in politici insegnamenti.  Coi trattati “Dell' amicizia” e “Della vecchiezza” M. Tullio a confortevoli meditazioni ebbe ricorso onde ricreare la propria mente dalla tensione di più ardui studii e dagli insulti della fortuna. E veramente che cosa avere vi può sulla terra di più dolce e santo d'una fedele amicizia? Che cosa vi ha di più dignitoso e simpatico d'una vecchiezza onorata e felice? Cice, rone in descrivere quelle pure e nobili dilettazioni consulto il proprio cuore: beato chi trova in sè stesso l' inspirazione e la coscienza della virtù!” --  Wikipedia Ricerca Mitologia romana narrazioni mitologiche dell'antica Roma Lingua Segui Modifica Ulteriori informazioni Questa voce o sezione sull'argomento mitologia romana non cita le fonti necessarie o quelle presenti sono insufficienti. La mitologia romana riguarda le narrazioni mitologiche della civiltà legata all'antica Roma, e può essere suddivisa in tre parti:  Periodo repubblicano: nata nei primi anni della storia di Roma, si distingueva nettamente dalla tradizione greca ed etrusca, soprattutto per quanto riguarda le modalità dei riti. Periodo imperiale classico: spesso molto letteraria, consiste in estese adozioni della mitologia greca ed etrusca. Periodo tardo-imperiale: consiste nell'assunzione di molte divinità di origine orientale, tra le quali il Mitra persiano, sincretizzato nel culto del Sol Invictus.  Il mito di Romolo e Remo Natura dei primi miti romaniModifica È possibile affermare che i primi romani avessero miti. Detta in altro modo: finché i loro poeti non entrarono in contatto con gli antichi greci verso la fine della Repubblica, i romani non ebbero storie sulle loro divinità paragonabili al mito dei Titani o alla seduzione di Zeus da parte di Era, ma ebbero miti propri come quelli di Marte e di Fauno.  A quell'epoca i romani già avevano:  un sistema di rituali ed una gerarchia sacerdotale ben definiti; un insieme molto ricco di leggende storiche sulla fondazione e sviluppo della loro città che avevano per protagonisti degli umani ma vedevano anche interventi divini. Prima mitologia sulle divinità                                           Modifica Il modello romano comportò un modo molto diverso di definire il concetto di divinità rispetto a quello greco che ci è noto. Per esempio se avessimo chiesto ad un antico greco chi fosse Demetra, avrebbe probabilmente risposto raccontando la famosa leggenda del suo folle dolore per il rapimento della figlia Persefone da parte di Ade. Al contrario un romano antico avrebbe risposto che Cerere aveva un sacerdote ufficiale chiamato flamine, che era più giovane dei flamini di Giove, Marte e Quirino (la Triade arcaica), ma più anziano dei flamini di Flora e Pomona. Avrebbe anche potuto dire che era inserita in una triade con altre due divinità agresti, Libero e Libera e avrebbe anche potuto elencare tutte le divinità minori con funzioni specifiche che la assistevano: Sarritor (il sarchiatore), Messor (il mietitore), Convector (il carrista), Conditor (il magazziniere), Insitor (il seminatore) e altri ancora. Così la mitologia romana arcaica, almeno per quello che riguardava gli dei, era costituita non da storie, ma piuttosto da complesse interrelazioni reciproche tra dei e uomini e all'interno della sfera umana, dall'una parte, e della sfera divina dall'altra.  La religione originaria dei primi romani venne modificata in periodi successivi dall'aggiunta di numerose e conflittuali credenze e dall'assimilazione di gran parte della mitologia greca. Quel poco che sappiamo della religione romana arcaica lo conosciamo non attraverso fonti contemporanee, ma grazie a scrittori tardi che cercarono di salvare le antiche tradizioni dall'abbandono in cui erano cadute, come lo studioso del I secolo a.C. Marco Terenzio Varrone. Altri scrittori classici, come il poeta Ovidio nei suoi Fasti, furono fortemente influenzati dai modelli ellenistici e nei loro lavori impiegarono spesso miti greci per riempire i vuoti della tradizione romana.  Prima mitologia sulla "storia" romanaModifica In contrasto con la scarsità di materiale narrativo arrivatoci sugli dei, i Romani avevano una ricca fornitura di leggende quasi storiche sulla fondazione e sulle prime fasi dello sviluppo della loro città. I primi re di Roma come Romolo e Numa avevano una natura quasi interamente mitica ed il materiale leggendario può estendersi fino ai racconti della prima repubblica. In aggiunta a queste tradizioni in gran parte indigene, fin dai tempi antichi materiale tratto da leggende eroiche greche venne inserito in questo blocco originario, facendo diventare, ad esempio, Enea un antenato di Romolo e Remo. L'Eneide e i primi libri di Livio sono le migliori fonti esistenti per questa mitologia umana.  Divinità romaneModifica Ulteriori informazioni Si propone di dividere questa pagina in due, creandone un'altra intitolata Divinità romane. Dèi greci e romaniModifica La pratica rituale romana dei sacerdoti ufficiali distingueva nettamente due classi di dèi, gli dèi indigeni (di indigetes) e i nuovi dèi (di novensiles).  Gli dei indigeni erano gli dèi originari dello stato romano e i loro nomi e la loro natura erano rivelati dai titoli degli antichi sacerdoti e dalle feste fissate sul calendario; trenta dèi di questo tipo erano onorati con feste speciali.  I nuovi dèi erano divinità più tardi i cui culti vennero introdotti nella città in periodi storici, di solito in una data conosciuta e in risposta a una specifica crisi o a una determinata necessità.  Le divinità romane arcaiche includevano, oltre agli dèi indigeni, un insieme di dèi cosiddetti specialisti i cui nomi venivano invocati nel corso di diverse attività, come la mietitura. Frammenti di antichi rituali che accompagnano tali azioni come l'aratura o la semina rivelano che in ogni fase delle operazioni veniva invocata una divinità specifica, il cui nome derivava sempre dal verbo che identificava l'operazione stessa. Tali divinità possono essere raggruppate sotto la definizione generale di dei assistenti o ausiliari, che venivano invocati a fianco delle divinità più grandi. Il culto romano arcaico, più che essere politeista, credeva a molte essenze di tipo divino: degli esseri invocati i fedeli non conoscevano molto più che il nome e le funzioni e il numen di questi esseri, ossia il loro potere, si manifestava in modi altamente specializzati.  Il carattere degli dèi indigeni e le loro feste mostrano che i Romani arcaici non solo erano membri di una comunità agreste, ma amavano anche combattere ed erano spesso impegnati in guerre. Gli dei rappresentavano chiaramente le necessità pratiche della vita quotidiana, secondo le esigenze della comunità romana a cui appartenevano. I loro riti venivano celebrati scrupolosamente con offerte ritenute adatte. Così Giano e Vesta custodivano la porta e il focolare, i Lari proteggevano i campi e la casa, Pale il pascolo, Saturno la semina, Cerere la crescita del grano, Pomona i frutti, Consus e Opi la mietitura.   Tavola illustrata degli Acta Eruditorum del 1739 raffigurante divinità romane Anche Giove supremo, il signore degli dèi, era onorato perché recasse assistenza alle fattorie e ai vigneti. In una accezione più vasta egli era considerato, grazie all'arma del fulmine, il direttore delle attività umane e, per mezzo del suo dominio incontrastato, il protettore dei Romani durante le campagne militari oltre i confini della loro comunità. Rilevanti nei tempi arcaici furono gli dei Marte e Quirino, che venivano spesso identificati. Marte era il dio dei giovani e specialmente dei soldati; veniva onorato a marzo e a ottobre. Gli studiosi moderni ritengono che Quirino fosse il protettore della comunità in armi.  A capo del pantheon originario vi era la triade composta da Giove, Marte e Quirino (i cui tre sacerdoti, o flamini, appartenevano all'ordine più elevato), insieme a Giano e Vesta. Questi dèi nei tempi arcaici avevano una individualità molto ridotta e le loro storie personali non conoscevano matrimoni e genealogie. Diversamente dagli dei Greci, si riteneva che non agissero come i mortali e così non esistono molti racconti sulle loro imprese. Questo culto arcaico era associato a Numa Pompilio, il secondo re di Roma, che si credeva avesse avuto come consorte e consigliera la dea romana delle fontane e del parto, Egeria, spesso considerata una ninfa nelle fonti letterarie successive.  Tuttavia, nuovi elementi vengono aggiunti in un periodo relativamente tardo. Alla casa reale dei Tarquini la leggenda ascrive l'introduzione della grande triade capitolina di Giove, Giunone e Minerva, che occupò il primo posto nella religione romana. Altre aggiunte furono il culto di Diana sull'Aventino e l'introduzione dei libri sibillini, profezie di storia mondiale, che, secondo la leggenda, vennero acquistate da Tarquinio alla fine del VI secolo a.C. dalla Sibilla cumana.  Divinità straniereModifica L'assorbimento degli dèi dei popoli vicini avvenne quando lo stato romano conquistò il territorio circostante. I Romani generalmente garantivano agli dèi locali dei territori conquistati gli stessi onori degli dèi caratteristici dello stato romano. In molti casi le divinità di recente acquisizione venivano formalmente invitate a trasferire la propria dimora nei nuovi santuari di Roma. Nel 203 a.C. l'oggetto di culto rappresentante Cibele venne trasferito da Pessinos in Frigia e accolto con le dovute cerimonie a Roma. Inoltre, lo sviluppo della città attraeva stranieri, a cui era consentito mantenere il culto dei propri dèi. In questo modo Mitra giunse a Roma e la sua popolarità tra le legioni ne fece diffondere il culto fino in Britannia. Oltre a Castore e Polluce, gli insediamenti greci in Italia, una volta conquistati, sembra che abbiano introdotto nel pantheon romano Diana, Minerva, Ercole, Venere e altre divinità di rango inferiore, alcune delle quali erano divinità italiche, altre derivavano originariamente dalla cultura della Magna Grecia. Le divinità romane importanti venivano alla fine identificate con gli dei e le dee greche che erano più antropomorfiche e assumevano molti dei loro attributi e miti.  Principali divinità romaneModifica AnimaliModifica Lupo Picchio Sirena Strige Dèi e deeModifica Ulteriori informazioni Questa voce o sezione sull'argomento mitologia è ritenuta da controllare. Abbondanza: personificazione dell'abbondanza e della prosperità nonché la custode della cornucopia Abeona: protettrice delle partenze, dei figli che lasciano per la prima volta la casa dei genitori o che muovono i loro primi passi. Adeona: protettrice del ritorno, in particolare di quello dei figli verso casa dei genitori. Aequitas: l'origine, il principio ispiratore di matrice divina, del diritto. Aeracura: dea ctonia e della fertilità Aesculanus: divinità romana protettrice dei mercanti e preposta alla coniazione delle monete Aio Locuzio: dio dell'avvertimento misterioso, avvisò Roma dell'invasione dei Galli nel 390 a.C Alemonia: dea della fertilità per cui le si dedicavano dei sacrifici per avere figli, ma era anche responsabile della salute del bimbo nel ventre materno. Era infatti lei che si occupava del suo nutrimento mentre viveva nel corpo della madre, garantendo quindi altresì la salute del corpo della madre Alma: colei che portava la vita Angerona: dea del silenzio o dei piaceri, protettrice degli amori segreti, guaritrice dalle malattie cardiache, dal dolore e dalla tristezza Angizia: divinità ctonia adorata dai Marsi, dai Peligni e da altri popoli osco-umbri, associata al culto dei serpenti Anguana: una creatura legata all'acqua, dalle caratteristiche in parte simili a quelle di una ninfa Anna Perenna: dea che presiedeva il perpetuo rinnovarsi dell'anno Annona: un'antica dea italica, dea dell'abbondanza e degli approvvigionamenti Antevorta: dea del futuro, presiede alla nascita dei bambini quando sono in posizione cefalica Attis: paredro di Cibele, il servitore autoeviratosi, che guida il carro della dea. Aquilone: dio del vento del nord Aurora: dea dell'aurora Auster: dio del vento del sud Averna: una dea della morte Bacco: dio della follia, delle feste, del vino, dell'uva, dell'ebrezza e della vendemmia Barbatus: dio a cui si rivolgevano i ragazzi non solo perchè facesse crescere copiosa la barba, ma anche per non tagliarsi quando ci si liberava di essa con una lama piuttosto affilata Bellona: dea che incarna la guerra Bona Dea: antica divinità laziale, il cui nome non poteva essere pronunciato, dea della fertilità, della guarigione, della verginità e delle donne Bonus Eventus: una delle dodici divinità che presiedevano all'agricoltura e concetto di successo Bubona: dea protettrice dei buoi Candelifera: dea romana della nascita Caligine: dea della nebbiosa oscurità primordiale, generò dapprima Caos, poi, Notte, Giorno (Emera), Erebo ed Etere Caos: dio del caos primordiale Cardea: dea della salute, delle soglie e cardini della porta e delle maniglie, associata anche al vento Carmenta (Carmentis): dea protettrice della gravidanza e della nascita e patrona delle levatrici Carna: dea con il compito di proteggere gli organi interni, in particolare dei bambini, e più in generale di assicurare il benessere fisico all'uomo Cerere: divinità materna della terra, dell'agricoltura, del grano, della fertilità, dei raccolti e della carestia Cibele (Cibelis): dea della natura, degli animali e dei luoghi selvatici. Clementia: dea della clemenza e della giustizia Cloacina: dea protettrice della Cloaca Maxima, la parte più antica ed importante del sistema fognario di Roma Concordia: spirito dell'armonia della comunità Conso: divinità del seme del grano, dei depositi per la sua conservazione, dei granai e degli approvvigionamenti Cupido: dio dell'amore divino, del desiderio sessuale, dell'erotismo e della bellezza Cunina: dea della tenerezza, protettrice dei lattanti, che veniva supplicata a lungo quando il pargolo era insonne e non faceva dormire, o quando aveva la febbre, o male al pancino Cura: dea della vita e dell'umanità Dea Tacita: dea degli inferi che personifica il silenzio Devera: una delle tre divinità che insieme a Pilumnuse Intercidona proteggevano le ostetriche e le donne in travaglio Diana: dea della Luna, delle selve, degli animali selvatici, delle giovani fanciulle vergini e della caccia, custode delle fonti e dei torrenti Disciplina: personificazione della disciplina Discordia: dea della discordia, del caos e del male Dis Pater: dio del sottosuolo Domidicus: dio che guida la casa sposa Domizio: dio che installa la sposa Dria: dea che assicurava un buon flusso esente da dolori nelle mestruazioni Edulica: dea spesso invocata perché alla madre non mancasse il latte Edusa: dea che provvedeva a far provare al bambino il desiderio della semplice acqua Egeria: dea romana delle fontane e del parto Epona: dea dei cavalli e dei muli Ercole: dio del salvataggio Erebo: dio ancestrale dell'oscurità, le cui nebbie circondavano il centro della Terra Esculapio: dio della medicina Etere: dio dell'aria superiore che solo gli dei respirano Fabulinus: dio che insegna ai bambini a parlare Falacer: dio del Cermalus (un'altura del Palatino) Fama: personificazione della voce pubblica Fascinus: incarnazione del divino fallo Fauno: dio dei pascoli, delle selve, delle foreste, della natura, dei campi, dell'agricoltura, della campagna e della pastorizia Favonio: dio del vento dell'ovest Febo o Apollo: dio del Sole, delle arti, della musica, della profezia, della poesia, delle arti mediche, delle pestilenze e della scienza Fecunditas: dea della fertilità Felicitas: divinità dell'abbondanza, della ricchezza e del successo, presiedeva alla buona sorte Ferentina: dea dell'acqua e della fertilità Feronia: una dea romana della fertilità di origine italica, protettrice dei boschi e delle messi, celebrata dai malati e dagli schiavi riusciti a liberarsi Febris: dea della Febbre, associata alla guarigione dalla malaria Fides: personificazione della lealtà Flora: dea della primavera e dei fiori Fontus o Fons: dio delle fonti Fornace: dea del forno in cui si cuoce il pane Fortuna: dea del caso e del destino Furie: personificazioni femminili della vendetta Furrina: dea delle acque Giano: dio dei bivi, delle scelte, dell'inizio e della fine Giorno: dea del giorno Giove: re degli dei, dio del fulmine e del tuono Giunone: regina degli dei, dea della donne e del matrimonio Giustizia: personificazione della giustizia Giuturna: dea dei corsi d'acqua dolce del Lazio Insitor: dio della protezione della semina e degli innesti Inuus: dio del rapporto sessuale Iride: dea dell'arcobaleno e messaggera degli dei Iuventas: dea della giovinezza Jugatinus: dio che unisce la coppia in matrimonio Lari: spiriti protettori degli antenati defunti che, secondo le tradizioni romane, vegliavano sul buon andamento della famiglia, della proprietà o delle attività in generale Laverna: protettrice dei ladri e degli impostori Levana: dea protettrice dei neonati riconosciuti dal padre Libero (Liber): dio italico della fecondità, del vino e dei vizi Libertas: divinità romana della libertà Libitina: divinità arcaica romana, incaricata di badare ai doveri ed ai riti che si tributavano ai morti e che perciò presiedeva ai funerali Lua: dea a cui erano consacrate le armi dei nemici sconfitti Lucina: dea del parto, salvaguardava inoltre le donne nel lavoro Luna: personificazione della Luna Luperco: dio protettore della fertilità Lympha: dea che influenzava l'approvvigionamento idrico Maia: dea della fecondità e del risveglio della natura in primavera Mani: anime dei defunti. Esse talvolta venivano identificate con le divinità dell'oltretomba Manturna: dea che teneva la sposa a casa Marìca: divinità italica. Ninfa dell'acqua e delle paludi, era signora degli animali e protettrice dei neonati e della fecondità Marte: dio della guerra violenta Matres: divinità femminili dell'abbondanza e della fertilità Mefite: dea delle acque, invocata per la fertilità dei campi e per la fecondità femminile Mena (21°figlia di Giove): dea della fertilità e delle mestruazioni Mors: personificazione della morte Mercurio: messaggero degli dei, dio della velocità, dell'astuzia, delle strade, del commercio, dei messaggi, dei viaggiatori, dei ladri, dell'eloquenza, dell'atletica, delle trasformazioni di ogni tipo, della destrezza e della farmacia, protettore dei messaggeri, dei ladri e dei viaggiatori Minerva: dea dell'intelligenza, delle tattiche militari, della tessitura e delle arti casalinghe Mitra (Mithra): dio delle legioni e dei guerrieri Muse: 9 divinità delle arti Mutuno Tutuno: divinità matrimoniale fallica Nemesi: dea della vendetta, dell'equilibrio e del castigo Nettuno: dio del mare, dei terremoti, dei maremoti, delle piogge, del vento marino, delle tempeste e della siccità Notte: dea della notte Numeria: dea italica della matematica, preposta al conto dei mesi del parto Nundina: dea che si occupava della purificazione dei nuovi nati Opi: dea della terra e dispensatrice dell'abbondanza agraria Orco: dio degli Inferi Ore: dee delle ore Ossilao: dio che si doveva occupare che le ossa dei bambini crescessero sane e robuste Palatua: dea del Palatino Pale: dio degli allevatori e del bestiame Partula: dea del parto, che determina la durata di ogni gravidanza Pax: dea della pace Pavenzia: dea che si occupava di proteggere i bambini dagli spaventi improvvisi Pellonia: divinità che faceva scappare i nemici Penati: spiriti protettori di una famiglia e della sua casa ed anche dello Stato Pertuda: dea che consente la penetrazione sessuale Picumnus: dio della fertilità, dell'agricoltura, del matrimonio, dei neonati e dei bambini Pietas: dea del compimento del proprio dovere nei confronti dello Stato, delle divinità e della famiglia Pilunno: dio protettore dei neonati nelle case contro le malefatte di Silvano Plutone: dio della morte e degli inferi Pomona: dea dei frutti Potina: dea che si occupava di accompagnare il bimbo nello svezzamento Portuno: dio dei porti e delle porte Postvorta: dea del passato, presiede la nascita dei bambini quando essi sono in posizione podalica Prema: dea che tiene la sposa sul letto Priapo: dio della fertilità maschile Proserpina: dea dei fiori e della primavera Providentia: personificazione divina dell'abilità di prevedere il futuro Psiche: dea delle anime, personificazione dell'Anima gemella, ossia l'amore umano e protettrice delle fanciulle Pudicizia: dea romana della castità coniugale Quirino: dio delle curie e protettore delle pacifiche attività degli uomini liberi Robigus: dio romano della ruggine del grano Roma: dea della patria e della città di Roma Rumina: dea delle donne allattanti Salacia: dea dell'acqua salata e custode delle profondità dell'oceano Salus: personificazione dello stare bene, della salute e della prosperità Sanco: dio protettore dei giuramenti Saturno: titano del tempo e della fertilità Securitas: personificazione della sicurezza Silvano: dio dei boschi Senectus: dio della vecchiaia Sogno: dio dei sogni Sole: personificazione del Sole Sol Indiges: antica divinità solare Sol Invictus: antica divinità solare Somnus: dio del sonno e padre dei sogni Soranus: dio solare infero Speranza: dea della speranza Statano: divinità che aiutava i bimbi ad avere forza sulle gambe e quindi a camminare speditamente Statulino: dio che era accanto ai bambini nel muovere i primi passi perché non cadessero donandogli la stabilità Sterculo: dio inventore della concimazione dei campi e degli escrementi Stimula e Sentia: dee che, negli adolescenti, affinavano i sensi ed i ragionamenti, curandone l’intelligenza ed il raziocinio, li rendevano consapevoli e gli insegnavano da un lato l’indipendenza e dall'altro l'onere dei loro doveri Strenia: simbolo del nuovo anno, di prosperità e buona fortuna Subigus: dio che sottomette la sposa alla volontà del marito Summano: dio dei tuoni e dei fenomeni atmosferici notturni Terminus: dio dei confini dei poderi e delle pietre terminali Tellus: dea romana della Terra e protettrice della fecondità, dei morti e contro i terremoti Tiberino: dio delle sorgenti e del fiume Tevere Trivia: dea della magia, degli incroci, degli incantesimi, degli spettri e protettrice degli incroci di tre strade ed era la potente signora dell'oscurità, regnava sui demoni malvagi, sulla notte, sulla Luna, sui fantasmi e sui morti, associata anche ai cicli lunari rappresentava la Luna calante. Era invocata da chi praticava la magia nera e la necromanzia Uterina: assistente alla puerpera nel momento delle doglie che aiutava a superare il dolore delle doglie Vacuna: patrona del riposo dopo i lavori della campagna. Divinità di ampio utilizzo, ma soprattutto riconosciuta e invocata per la fertilità, legata alle fonti, alla caccia, e al riposo Vaticano: dio la cui funzione era assistere i neonati nel loro primo vagito Veiove: protettore dell'Asylum, il bosco sacro di rifugio che si trovava nella sella del Campidoglio Venere: dea della bellezza, dell'amore e del desiderio Verità: dea e personificazione della verità Vertumno: dio della nozione del mutamento di stagione e presiedeva alla maturazione dei frutti Vesta: dea del focolare, della casa e del cibo Vica Pota: dea della vittoria e della conquista Victoria: dea della vittoria e dei giochi Viduus: dio minore, deputato a separare l'anima dal corpo dopo la morte Virginiensis: dea che scioglie la cintura della sposa Viriplaca: dea romana che "placa la rabbia dell'uomo" Virtus: divinità del coraggio e della forza militare, la personificazione della virtus (virtù, valore) romana Volturno: dio del fiume Volturno e patrono del vento caldo di sud-est Volupta: personificazione del piacere sensuale Vulcano: dio del fuoco, della metallurgia e dei vulcani, protettore dei fabbri Festività                                               Modifica Magnifying glass icon mgx2.svg                            Lo stesso argomento in dettaglio: Festività romane. Consualia Fontinalia Fornacalia Lupercalia Nettunalia Parentalia Saturnali Primavera sacra Floralia Località        Modifica Averno (lat.Avernus) Campidoglio Cariddi Lete Palatino Stige (lat.Styx) Personaggi, eroi e demoni                                           Modifica Almone - eroe Anteo - eroe Ascanio - eroe Caca - demone Caco - demone Camene - demoni Camerte - eroe Caronte - demone Cidone e Clizio - eroi Clauso - eroe Clelia - eroe Curiazi - eroe Didone - personaggio Egeria - demone Enea - eroe Ercole - eroe Eurialo e Niso - eroi Evandro - eroe Fauna - demone Fauno - demone Feziali - eroe Flamini - personaggi Galatea - demone Lamiro e Lamo - eroi Laride e Timbro - eroi Lavinia - personaggio Lica - eroe Luca - eroe Marica - demone Messapo - eroe Murrano - eroe Numa Pompilio - eroe Orazi - eroi Pallante - eroe Pico - demone Pontefice massimo - personaggio Publio Cornelio Scipione Psiche - personaggio Ramnete - eroe Rea Silvia - personaggio Remo - eroe Reto - soldato Romolo e Remo - eroi Salii - personaggi Salio - eroe Serrano - eroe Sibilla - personaggio Tagete - demone Tarquito - eroe Terone - eroe Tirro - personaggio Turno - eroe Ufente - eroe Umbrone - eroe Venulo - eroe Vestali - personaggi Volcente - eroe Popoli        Modifica Aborigeni Equi Latini Marsi Messapi Rutuli Sabini Troiani Volsci Note   Bibliografia                                                Modifica Licia Ferro e Maria Monteleone, Miti romani. Il racconto, Torino, Einaudi, 2010. Anna Ferrari, Dizionario di mitologia, Torino, Utet, 1999. Voci correlate                                       Modifica Religione romana Sacerdozio (religione romana) Numen Mitologia Mitologia etrusca Mitologia greca Dodici dei (religione romana) Quirino (divinità) Altri progetti Modifica Collabora a Wikibooks Wikibooks contiene testi o manuali su mitologia romana Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su mitologia romana Controllo di autorità                            Thesaurus BNCF 30362 · LCCN( EN ) sh85089423 · J9U( EN ,  HE ) 987007558138205171 (topic) · NDL( EN ,  JA ) 00569679   Portale Antica Roma   Portale Letteratura   Portale Mitologia Ultima modifica 5 ore fa di Pulciazzo PAGINE CORRELATE Lista di divinità lista di un progetto Wikimedia  Dèi Consenti dodici dèi principali della mitologia romana  Triade arcaica Wikipedia Il Conte Tullio Dandolo. Tullio Dandolo. Dandolo. Keywords: storia della filosofia romana – ambasceria di Carneade – e tutto il resto! -- “Il secolo di Augusto”; “Roma e l’impero fino a Marc’Aurelio” “Corse estive nel Golfo della Spezia”; roma pagana “indici ragionati degli studi del conte Tullio Dandolo su Roma pagana” -- -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Dandolo” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51688599022/in/photolist-2mRnYF2-2mPqEYR-2mKG3XG-2mKxzFL-2mKC3nj

 

Grice e Daniele – implicatura numismatica -- filosofia italiana – Luigi Speranza (San Clemente). Filosofo. Grice: “Daniele is an interesting philosopher, if you are into numismatics, his pet topic!” Figlio di Domenico e Vittoria De Angelis, studia a Napoli, dove frequenta gli intellettuali della città. Entra in amicizia con vari studiosi tra cui Genovesi, Cirillo, ed Egizio. Cura un'edizione delle opere di A. Telesio, illustre filosofo cosentino, lavoro che gli procurò l'interesse di intellettuali di giornali letterari dell'epoca, specialmente per l’epistola dedicatoria e la vita del Telesio filosofo in purgato latino. Cura la pubblicazione le “Opuscoli” di Mondo, che era stato il suo primo maestro, premettendovi una dotta prefazione di tutte le veneri e la grazie pellegrine dell’idioma toscano, che merita gli elogi di Zanotti. Pubblica le nuove “Orazioni” latine di Vico, ch’erano state lette da quest’altissimo ingengno mentre filosofava sull’eloquenze e la colloquenza alla Regia Univerista. Publicca la l’aureo romanzo de Longo – que sembra dettato dall’amore, reso in volgare da Caro, con deliziosa e spontanea gracia, faciendo un dono preziossimimo agli ananti della toscana favella – corredandolo di una dotta prefazione escritta con ammirabile purita di lingua. A San Clemente cura le proprietà della famiglia. Si dedica al studio dell’antico e agli studi della classicità acquisendo documentazioni – collezione epigrafica -- e creando una collezione di oggetti antichi legati al territorio di San Clemente. Pubblica una critica ad alcuni studi sulle storia di Caserta (“Crescenzo Espersi Sacerdote Casertano al Signor Gennaro Ignazio Simeoni, un ufficiale di artiglieria napoletano”). Il marchese Domenico Caracciolo lo fa richiamare a Napoli dove entra nella segreteria di Stato. Riordina la raccolta delle leggi e dei diplomi dell'imperatore Federico II. E nominato "regio istoriografo", carica che era stata di Vico e di Assemani. Alla carica era associato un sussidio economico. Pubblicò Le Forche Caudine illustrate (Napoli), lavoro che gli permise di entrare all'Accademia della Crusca. Ricoprì nella Reale Accademia di Scienze e Belle Lettere, creata da Ferdinando IV, la carica di censore per le memorie delle classi terza e quarta. Riceve l'incarico di sistemare la biblioteca della Collezione Farnese, in seguito confluita nella Biblioteca di Napoli. Divenne uno dei 15 soci dell'Accademia Ercolanese, dove cura la pubblicazione degli studi su Ercolano e Pompei. Suo malgrado anzi fu coinvolto, a causa della sua vicinanza con gli intellettuali vicini alla repubblica, nei fatti che successero dopo la caduta della Repubblica partenopea. Perse tutti gli incarichi e di conseguenza torna agli amati studi. Pubblicò un saggio di numismatica, Monete antiche di Capua, con la descrizione delle monete capuane di cui sei inedite. Sotto Bonaparte, riottenne le sue cariche e l'anno dopo divenne segretario perpetuo dell’Accademia di storia e di antichità e fu nominato direttore della Stamperia Reale. Fu anche socio dell'accademia Cosentina, della Plautina di Napoli, e dell'Accademia Etrusca di Cortona. Altre opere: “Antonii Thylesii Consentini Opera” (Napoli); “Crescenzo Esperti Sacerdote Casertano al Signor Gennaro Ignazio Simeoni” (Napoli) – una lettera sotto un falso nome in cui dimonstra la vera origine di Caserta --;  “Le Forche Caudine illustrate” (Caserta) – dove stabilisce il vero luogo ove furono piantati que’ gioghi sotto cui passarono le vite legion romane, provando con compoisoa e ben adattata erudizioone, chef u la Valle d’Arpaia, contro l’opinione di Cluvero, Olstenio, e di altri eruditi di chiaro nome --; “I Regali Sepolcri del duomo di Palermo riconosciuti et illustrate” (Napoli) – imprese anche ad illustrare le tombe de’ re di Sicilia. Rispende in questa la purita della lingua, e la ‘erudizione piu estesa, che possa desiderarse tanto nella patria storia degli antichi tempi,, quanto in quella del medio evo --  “Monete antiche di Capua” (Napoli)  dove interpreta le antiche monete di Capua gia pubblicate fino al numero di dodici, ne pubblica altre sei del tutto ignote agli eruditi; e nel fine dell’opera tratta in un erudite discourse del culto di Giove, di Diana, e di Ercole presso i Campani. Opera inedita: Ricerca storica, diplomatica, e legalle sulla condizione feudale di Caserta; Vita e Legislazione dell’Imperatore Federico II, “Codice Fridericiano” contenente tutta la legislazione di Federico. Propurca l’onoro di iiverine region storiografico, segretario perpetuo dell’accademia ercolanese e l’accademia della Crusca.– che le merita membro della Crusca – Vita ed opuscoli di Camilo Pellegrino il giovane; Topografia dell’antica Capua illustrate con antichi monumenti; Il Museo Casertano. “Cronologia della famiglia Caracciolo di Francesco de Pietri” (Napoli). Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Danilele epigrafista e l’epigrafe probabilmente sua per la Reggia di Caserta,La collezione epigrafica del Daniele a Caserta; Una pagina di storia dell’Anfiteatro Campano, Francesco Daniele: un itinerario emblematico, in classica a Napoli, La famiglia Daniele e i suoi due palazzi in San Clemente di Caserta: note genealogiche ed araldiche, descrizione degli edifici superstiti e ipotesi e proposte per la loro corretta attribuzione”; Daniele e lo studio del mondo antico” -- Lettere di Francesco Daniele al principe di Torremuzza”; “Lettera di Francesco Daniele a Giovanni Paolo Schultesius”, Lettere di Francesco Daniele al dottor Giovanni Bianchi di Rimini” Pseudonym: ‘Crescenzo Esperti’.  Francesco Daniele. Keywords: filosofia antica, roma antica, filosofia romana, l’antico in Roma antica, l’antico, idea dell’antico, ercolano, pompei, collezione farnese, palazzo Daniele, San Clemente, Caserta. Opera di Mondo, A. Telesio. “Regio Istoriografo,” carica cheera state di Divo e di Assemani, Giove, Diana, Ercole, Campania, le vinte legion legion romane, l’origine di Caserta, A. Telesio, filosofo. Mondo, filosofo, opuscoli. Romanzo di Longo reso in volgare da Caro, vita di Talesio, orazioni sull’eloquenza di Vico, valle d’Arpaia, gioghi, re di Sicilia.  Numismatica romana studio della monetazione romana Lingua Segui Modifica Ulteriori informazioni A questa voce o sezione va aggiunto il template sinottico {{Coin image box 1 double}} La numismatica romana studia la monetazione romana, cioè l'insieme delle monete emesse da Romae dal suo Impero dalla prime emissioni di monete fuse, delle monete romano-campane sino alla fine dell'Impero Romano.  Articolazione della materia                     Modifica monetazione romana repubblicana monetazione imperatoriale monetazione imperiale monetazione provinciale La monetazione repubblicana comprende monete dalle prime emesse da Roma a partire dal III secolo a.C. sino alla guerra civile che scoppia intorno al 49 a.C.  La monetazione imperatoriale comprende monete emesse nel periodo delle guerre civili, dai vari generali in lotta in virtù dell'imperium posseduto. Alcuni studiosi non accettano questa categoria ed includono queste monete in quelle repubblicane.  La monetazione imperiale romana comprende monete emesse dalla nascita del principato fino alla fine dell'Impero romano.  La monetazione provinciale invece tratta di quelle monete che sono state emesse da colonie ed alleati di Roma. Si tratta principalmente di monete sussidiarie o di monete emesse dagli imperatori romani utilizzando tipi che fossero meglio compresi da popolazioni di lingua greca. Spesso queste monete sono indicate col termine di coloniali. Una volta erano anche chiamate Greche imperiali.  I punti più rilevanti nella monetazione romana sono l'emissione del denario nel III secolo a.C., l'emissione dell'antoniniano verso il 215 d.C. da parte di Caracallanonché lo studio del sesterzio vero e proprio veicolo di propaganda dell'antichità.  Sono anche fondamentali le riforme monetarie di Augusto, Caracalla, Aureliano e Diocleziano.  Classificazione delle monete romane repubblicaneModifica  Antonia 1; Syd. 742; Craw. 364/1b  Pompeia 1; Syd. 461; Craw. 235/1a Per le monete repubblicane uno dei riferimenti più usati è il testo di Ernest Babelon (Description historique et chronologique des monnaies de la république romaine vulgairement appelées monnaies consulaires) pubblicato in due volumi nel 1885-1886. Nel testo viene utilizzata la suddivisione proposta da Eckhel:   monete fuse monete romano-campane monete anonime, senza cioè l'indicazione del magistrato responsabile dell'emissione monete divise per gens. All'interno della gens le monete sono catalogate in ordine cronologico. Le monete vengono quindi indicate con l'indicazione delle gens ed un numero progressivo: ad es. Claudia 6, Pomponia 1. La Description di Babelon è stata ristampata.  Altri lavori più moderni sono quello di Sydenham e quello di Michael H. Crawford, che elencano le monete in ordine cronologico.  Il lavoro di Crawford è il più recente sulla monetazione repubblicana. Nell'elenco delle monete il primo numero indica il monetario mentre il secondo numero indica la singola moneta.  Sydenham, E.A.: Coinage of the Roman Republic Crawford, M. H.: Roman Republican Coinage. Quest'ultimo lavoro è considerato il migliore attualmente esistente  Bisogna anche citare due studi particolari:  Campana, Alberto: La monetazione degli insorti durante la guerra sociale (91-87 a.C., l'unico studio approfondito su questo tema, che riporta anche il corpus completo e lo studio dei coni. Thurlow, B. - Vecchi I.: Italian Aes Grave and Italian Aes Rude, Signatum, and the Aes Grave of Sicily, sulla monetazione fusa in Italia e Sicilia. Classificazione delle monete romane imperiatorialiModifica Non esistono pubblicazioni specifiche che classifichino le monete di questo periodo. Si usano sia testi sulle monete repubblicane che testi sulle monete imperiali.  Alcuni dei testi sono già stati analizzati per le monete repubblicane e sono:  Babelon, E.: Monnaies de la République Romaine, che usa la divisione per gens. Sydenham, E.A.: The Coinage of the Roman Republic, che usa una suddivisione cronologica e si ferma grosso modo al 36 a.C. Crawford, M. H.: Roman Republican Coinage, che arriva fino al ca. 30 a.C. Altri testi, che riguardano anche la monetazione imperiale sono:  Cohen H. Déscription Historique..., un testo in otto volumi del 1880 che riguarda le monete dell'Impero Romano e che il più usato per classificare le monete imperiali R.I.C. Roman Imperial Coinage, vol. 1. (a cura di Harold Mattingly e Edward A. Sydenham). Il primo volume di 9. A partire dal 29 a.C. Classificazione delle monete romane imperialiModifica I testi di riferimento per la monetazione imperiale sono i "Cohen" ed il RIC.  Henry Cohen: Déscription Historique des Monnaie frappées sous L'Empire Romain, comunemént appelées Médailles Imperiales, un testo in otto volumi, tra il 1880 ed il 1982. Riguarda le monete dell'Impero Romano e che il più usato per classificare le monete imperiali. Ovviamente ormai molte delle informazioni contenute sono diventate obsolete. Copre le monete emesse dal 49 a.C. fino al 476 d.C.Le monete sono ordinate prima cronologicamente per Imperatore, poi per l'ordine alfabetico della scritta al rovescio. Questo ordine, certamente poco scientifico, comunque permette di identificare abbastanza rapidamente la moneta. È oggi disponibile in rete. R.I.C. Roman Imperial Coinage, Nove volumi a cura di Mattingly e Sydenham. Copre il periodo dal 29 a.C. al 395 ed è lo standard di riferimento per le centinaia di libri e cataloghi di collezioni su questo periodo. BibliografiaModifica GeneraliModifica Theodor Mommsen: Die Geschichte des römische Münzwesen - Berlin 1860. Tr. fr.: Histoire de la monnaie romain. Paris 1865. (Ristampa Graz 1956. Ristampa Forni 1990) Andrew Burnett: Coinage in the Roman World,London: Seaby, 1987. ISBN 0900652853 C.H.V. Sutherland,  Roman Coins 1974 ISBN 0-399-11239-1 Kenneth W. Harl: Coinage in the Roman EconomyISBN 0-8018-5291-9 IniziModifica Rudi Thomsen, Early Roman Coinage: a Study of the Chronology, 3 voll., Copenaghen, 1957-61. RepubblicaModifica Ernest Babelon, Description historique et chronologique des monnaies de la République Romaine vulgairement appelées monnaies consulaires, 2 voll., Paris, Rollin et Feuardent, 1885-86 (ristampato da Forni). Alberto Banti, Corpus Nummorum Romanorum. Monetazione repubblicana, 9 voll., Firenze, Banti editore, 1980-82. Gian Guido Belloni, La moneta romana. Società, politica, cultura, Firenze, NIS, 1993. Gian Guido Belloni (a cura di), Le monete romane dell'età repubblicana. Catalogo delle raccolte numismatiche, Milano, Comune di Milano, 1960. Michael H. Crawford, Roman Republican Coinage, 2 voll., London, Cambridge University press, 1974. Michael H. Crawford, Roman Republican Coin Hoards, London, Royal Numismatic Society, 1969. E. A. Sydenham, The Coinage of the Roman Republic, New York 1952 (ristampato da Durst, 1995). ImperoModifica Alberto Banti, I grandi bronzi imperiali, 9 voll., Firenze, Banti editore, 1983-87. Henry Cohen, Description des Monnaies frappées sous l'Empire Romain, II ed. Paris, 1880-92 ed. digitale H. Mattingly - E.A. Sydenham (et al.), Roman Imperial Coinage, Londra, 1936-84 Eupremio Montenegro, Monete imperiali romane, Con valutazione e grado di rarità, Torino, Montenegro edizioni numismatiche, 1988. Herbert Allen Seaby, Roman Silver Coins, Second edition, 4 voll., London, B.A. Seaby, 1967-71. David R. Sear, Roman Coins and their Values, Millennium edition, 3 voll., London, Spinx, 2000-05. Voci correlateModifica Categoria:Monetazione romana Monetazione romana Monetazione fusa Monetazione romano-campana Monetazione romana repubblicana Monetazione imperatoriale Monetazione imperiale Monetazione provinciale Monetazione bizantina Monetazione italiana antica Collegamenti esterniModifica Sito con le immagini delle monete repubblicane ed imperiali, su wildwinds.com. Introduction to Roman Coins by The Museum of Antiquities on the University of Saskatchewan, su usask.ca. Risorse numismatiche on line. Università di Bologna, su numismatica.unibo.it. URL consultato il 14 aprile 2006 (archiviato dall' url originale  il 7 maggio 2006). Rassegna degli Strumenti Informatici per lo Studio dell'Antichità Classica: Fonti numismatiche, su rassegna.unibo.it.   Portale Antica Roma   Portale Numismatica Ultima modifica 2 anni fa di Messbot PAGINE CORRELATE Numismatica studio della moneta e della sua storia  Monetazione romana repubblicana monetazione di Roma repubblicana  Roman Imperial Coinage catalogo britannico delle monete romane di età imperiale  Wikipedia Il Daniele. Keywords: implicatura numismatica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Daniele” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51690282405/in/photolist-2mN8ym7-2mLGod1-2mPV6V9-2mKGd6B-2mKNWFh-2mKAuZM-2mPHbXQ-2mJLMNt-E4u3XA-Bq5PrV-BYy4NX-nRMNgJ-npxWhK-nsMM3K-noAhH4-hJHSQv-hJJo1T-hJH1Be-hJGLZx-hJG5wa

 

Grice e Dati – ELEGANTIOLÆ – filosofia italiana – Luigi Speranza (Siena). Filosofo. Grice: “Dati is a good one if you are into Ciceronian rhetoric as given a running commentary by an unknown philosopher from Siena! – But mind, he also wrote, like Shropshire, on the immortality of the soul!” Noto per il suo manuale di grammatica Elegantiolae. Erasmo lo loda come uno dei maestri italiani di eloquenza. Nato da una agiata famiglia senese, passò la maggior parte della sua vita a Siena. Studia con Filelfo. Dopo aver insegnato per qualche tempo a Urbino, torna in patria e insegna retorica. E nominato segretario di Siena. Altre opere: Elegantiolae. L'Isagogicus libellus pro conficiendis epistolis et orationibus fu stampato per la prima volta a Ferrara da Andrea Belfortis. Elegantiae minores; “Opusculum in elegantiarum precepta cum Jodoci Clicthovei Neoportunensis et Jodoci Badii Ascensii commentariis; “Ascensii in epistolarum compositionem compendium”; “Sulpitii de epistolis componendis opusculum”; “Tabule in Augustino Datto contentorum index”; “Francisci Nigri elegantie regularum elucidatio”; “Magistratum Romanorum nominum declaratio”; “Ortographie regularum Ascensiana traditio. De grecis dictionibus apex ex Tortellio depromptus.” “Augustini Datii Senensis opera (Siena) – include diciassetteopusculi: I piu importanti sono: “Oratium libri septem”, “Fragmenta senensium historiarium libris tribus; “Isagogicus libellus pro conficiendis epistolis et orationibus” – ristampato “Elegantiarum libellus”. Le Elegantiolae, ristampato ocon cari titoli, era considerato "il manuale par excellence". Sirve da base per i “Rudimenta grammatices” di Perotti. Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, “Plumbinensis Historia”, Firenze, SismelEdizioni del Galluzzo. Vedi Bandiera, “De laudibus eloquentiae A. Datii” –  BOpSTr . JULLgi  I &   £■     '•%v  cm 1     8     10 11 12 13 14 15 <  / > cm 1 6 7 8 10 11 12 13 14 15     CgyyS W^  Qj u-u-wo-m     **v  I  r   cm 1 III 7 8 9 10 11 12 13 14 15 og  u  1 -   I I  ■  l  cm 1 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15  I   I     o=w zxt ri (yauM^ -zn j  r  J *  cm 17 8 9 10 11 12 13 14 15  I  <  cm 1 6 7 8 10 11 12 13 14 15  H 1     (jflV<3 VSTINI DttTI Senenfis Ifagogi?  cus libellus in eloquftie precepta/ab JPvnbrea b«=  mini ctyriftof eri filium f eliciter incipit/ 8     RebimugiambufeumaplcnfcKviiris i * *' L     *■>     £?"     etiam bifertiflimis perfuafiitum be- v ' ,. .,.. t v t , „ v r ,  mum artem quepiam in bicebo non . ^*«,,.   '<$•/ J nuliam abipifcu y fi veteru fectatu vef 6  tigia/optia fibi quifcp feper ab imita  bum propofueriFTNecj^ eni qui biutius I.M» Ci= |  ceronis lectione veriatus fit,n5 m bicebo/et orna= '  T  ■   t«s/et copiofus effe poterit. Na et fjorribiora cre= i ,•.»>>-  brius cofectati l ipfi qucqp anbi ieiuni et inculti fi  ant neceffe eft. 4jLectitati igitur micfyi Ciceronis  voJuminaCque eloquenhe parentem appellaueri) - j   pauca anotatioe bigna vifa fut. iquibus fi vtemur 41   vulctanufermoneaipernati/abeloquetiamrroxi i s i   mius.accebemus/ v   ((TPrimum preceptum l varietati/comutati^   onio^vtftubeamus/ t*Tl.   d Seb cu ib i primis quirc| abmouebus fiti quob  rfyetor ille biligetittimus / et inlignis abmobu ora*  tor/fabius Quitilianus be oronis partibus bicere  cofueuit.JMeq; eni leges fut oratoru / quaba velu- .   tiiniu.atihjKceflitdtecoltitute; ncc roaaiignibus < L -v* GI-NEVIEVM  ;vt i&cm bicebat)plebifl ve fcitis.Tancta [vt ifta pre  cepta.feb vti in ftatuis/picturis pozmatibus ccte=  rif^ita quocgin exornaba viri eloquetis oratione  plurimum feper roboris/ac vcnuftatis r;abuit va=  rietas . &tc$Cquob bici ibfet) tenenbu /cauenbucj  — illub eft antc omniainears vlla bicebi (u fieri po-  teft) fTe vibeatur . Hec igitur lex prima fit comu«  tafionis/varietatiTaj/qua erubitoru aures nobiffi  cile iubicet. ilHoc iajtar iacto fubaireto /per*  pauca beitfps fcritan C 7>vnorea amicc fuauilhme)  qae et fi ron femper^ vt plurimi m tamen l;is ra=  tionitus titi feruar.ba erunt t fcb iam nofiri ialti'  tuti ita nafcetur exorbium.  (JBecunbum preceptum be fitu fuppofiti/ verbi  etappctti i oratione;   ^Jplcrua; enim qui oratorie artis fforibussc  faleratis.vtaiuOveibisftufccntkotratnu  vulgataci gramaticorum confuetubinem bamna=  tcsi quob in calce abiolute orationis locari cofue=  uitiib illi potms coaptantinicioi quob oir.ne tibi  exemplo erit manifeftms . £cis plena orationera  conltaretribuspartitus. qucbfuppofitun Cvte-  orum ipforum vocabulis vtar)quob verbu/ quob  appcfitum vocant.Diciit igitur nramatici {5cipia  afiicanus telcu A l.aitf;£gin«ri, ciwticrie vcro L  r   h   ■   1 r *  l eloquii bemines couerfo potius vtuntur orbine. Al-*— a  liarttjacune lcipio africanus &eleuft.illi.'M/r.Ci &*—*-**  cero vtitur famuiariter.p4cntulo.no8 vero.'p«le^ ^ **f'**T  tulo.M.T.Cicerofarmliarir vtitur. Quib? tf^'J*t-r  me exeplis patere arbitror appofitum prirnu 1 owr^V^ * >  tione/fuppofitu mebiul nouiflmuiverolocu ver^^  bu tenere.([Seb et u quibCpro graraaticor5 «•*. A;  re)poft appofitu fitum eriti ib iitio oratioms poi^J^     L-_/     Scncr^^.      ras.Ligurgus conbibit fancttflimas legcs lacebc* *~i awu^yfc.  monis. LacebemonisfanctillimasIecreB ligursr..^*- <*, e ~3  aus conbibit.mulfag; cofimili ratione* ~pao„tfi^c , *~l'*-**~   9 _ ■*! __. __ i !_____. *.l.*-«*«_i     \-->     k      igitur pieruncj principioappomturi hppoiitutnf^/  mebiojline vei bum.vtanopagu folon. fclammuBf™  primu coftituit vbi granwtici bicut j fol5 primus ,  coltituitanopasum. {[Ceterum biueriis orttmc * __ v  feus i et iocis tollocabe fut partes pro aunum iu*r7 " a ^ fW  do j quob quibem folo vfu coparatur» __.» ^ a*A *»   (?Tertjum preceptum be abuerbioru fitu ♦ *_^r * — ^ |*r^   lam vero be abuerbiisC que funt veluti abiecjjftc*^»^*- ""   verb?rum)5id poteft pauW vbi uia lpci ~ A effeivfei bemu aptius congruere vifa tuerint«mos  bo in principioJmobo in finelmobo intenecta m<  ter vti ucg.qua in re biligeti vtenbuin eft conhho*  Seb prope verfcum f requetius per venuftam reb«=  bunt oratione. vt fabius maximus ante alios for-  titer atcj animofe pugnauit.C.lehus fcipioe fami  hanfume vtebatur.Qementiflimus ceiar l?umiti=  teHcjngfcebat . Nunc vero ab rehqua .  {jQuartu preceptum be prepofitionu/et  integrarum pferumaj orationuiteriectioet  inter fubftatiuum et abiectiuum;  PR8POfitiones pcrpulcf;rc intcr fobftafiua at  q abiectiua nomina interiiciutur.vt feraci in agro  ornatiflimo in loco.maximas ab res.fyanc ob cau*  fam. iuftis be caufis . aliacji l;uiufmobi complura*   Ncc prcpofitionea folum ( kb alia pretcrea eiufc»  mobi nuncfumemus eyempla.Maxima i rep. bi*  ligentia. magna in parentes pietas.increbibilis m  omnes ciues obferuantw.fummain l;oftes hbera   ([Quintu preceptum be fmedecticne genis   fiuora iter buos nominatiuos/et ecotra.  7Ktq etiarn pulcf;crriinu i iter buos cafus / puta no  minatiuoe buos/ahquib cotmue pomtur. Vt om  »ia reip.iura coftates miljtum ammi.macma fces  <     i»     f     ■  m leratorum fyominum flagitiaf Bcouerfo etia cofti   tuta ac trafpolita oratio piurimu exornah Vtl?u   ius daritubo viri.fyuius qmrites auctoritate locif   Ci Sextupreceptubeabiectiuorufituf   Venufte etiam pieruqj precebit abiectiuum nome   fubft4tiuum*Vttuabigmtas«optimavirtus»biui   »u igemuin.exquifitaboctrina*Magni ehirefert/   quo ioco quecg bictio iita fit. quob teftatur Boeti -   us in iis comontariis l quos in ariftotelis librum   cofcripfit.vbi et Ciceronis et virgilii ponit exepla   Boetii autem ipfius fyec verba fut ♦ Sfenim c£tum   ab copofitionem orationisfpectaf/maximum bif-   f ert l quo vcrba et nom \ na pr ebicationis fue orbi-   ne proferantur* Multum enim itereft in eo quob f* A *   aitCicero^bb9ncteamctiamnaturapeperit-'vo> .T^T^> i \   lutas exercuit/fortuna fcruauit ♦' ita bixiffe vt biz J ;   ctum eft/an lta ab Ijanc te amentjam peperit naf u +4 £ j ^   raiexercuitvoluntasiieruauitfortuna* jSicei'im>>' 4 * »   minor elt fetentie magnitubo. minuf^ in ealucet _^.^ v   ib quob fi fic coponatur emmet i et fefe vel nolen? ., -^* » • * *   tib«s i^ominum aunbus/aifqj patefacit « Rurius   quoqi bicit Virgduis pactqj iponere moremipo^   iuilfet feruaffe metrum li ita bixifiet l moreq? im=   ponere paciifeb elt bebilior fonus* nec eo lctu ver   fus ta preclare vt uhc compojitue oiceretur* quod ibera non eft apub byalcticos . ljccBoetius . Nuc   aorciiqua;   <J Septimu preceptu bc fitu ncgatiue bictionisf   Negatiua bictioapte i calceoratioms ponitur» Vt   preitanticrem te vibi nemi :em. Scipicne clario=   re m bellicis laubibus iuenies nemincm.Tua er=   ga me beniuolentia.' tuo in me aimo gratius e ni=   cbil.gui tearoenti js amet.' fyabes nemine*   (jfpctauu preceptu be pouellcns ante pof=   fefnonem fitu/   S8D et polleffor ate poifeffione. Vt opti viri bi*   uitie. preftantis viri virtus.prubetifumi fyominis   confilium;   dHonu prcceptu bc vlu gerunbiuorum   nominu pro gerunbus;  CXVIQ vero pull?i-ms.'§ £i pro gerunbiis que   appellant vtamur gerubiuis nominibus. 7Kc trjs  tu e prifciani exempiu . Veni ca amabi virtutem/  vcni amabe virtutis caufa.gra gerebi bella t geren=  borum bellorum gratia.ab amplexaba virtute ma  gis.qi ab amplexabum virtute. Que vna preceps  tio optima eft.crebraq? cius apub.M.T.aLolqj c*  loquetes viros tuit cbleruatio;  {fPecimu preceptu be congruentia nomi  nis relatiui $kruq, cum confequete/ l     +  *.     '^m     \     *     Nunc aatem mu!ta confkiam. quc li biligeter ab   uertens ^mb pavu ornatus ktino cobucent elo=   quio.Seb ib micfci imprjmis aniabuertenbu vibe   tur,'vtquom tna luerint^antccebesJ cofeques/ et   eorum mebiu relatiuu nomeifr fitib confequens/   vel l?ominis / vel rci cuiulpiam propriu nome.' re   latiuu cofequeti femper cogruat.ftlioquin no la*   tina oratio f it ( fcb a boctiUimorum fyominu confu   etubine longe ahena , frhas poteft cum aiterutro   conuenire fi ncn con cquatur propi ium ncmen.   Qua rem facile exempla beclaratiet prifcoru au=   ctoritafes coplures.M.Cicero primo tufculanaru   quefhonum.btubio fapietie que pl ia bicitur , Et   fexto be rep.contilia - cetuigj fycmmu mre fcciati;   que dujtates appellantur. Mq lteru i cx illis lem=   piternis ignibus/ que vcsfytera etfteliasnucus   ett.s.Saluftii quoq; llluo tritum cft, Eftiocus in   carcere quob tullianu appellatur/inuncrabilia h   netufiis cobicibus ib genus iucnias.Hcc ib e ara=   maticeartis vitiumiquobquibam Ljnari littcraru   arbitrantur.Seb et nos ahquio exemplorum af fe   ramus predarum eft ciceroms opus(qui cato ma   ior bicitur.nam quob Cato maior bicitur /non ia=   tinc profertur.Confiiniliter vrbis vifcenbus con   ilcr.bu eft i qui iut ciucs. pcrbiti vin cx vrbibus  pellenbi funt /que eft ciuitatum pernities ♦' fentina  Sebecoris.Plerunq* igitur relatiuum nomen cura  eo concors eft quob fequitur/  CjVnbccimu preceptum be cogruentia in cafu   ex trib^/eoru buoru que proximius iugutur^  Illub quoqj fpectabum efttNam cum tria exiftant  qaorum vnum relatiuum lit nome;frequetihime  coram buo in eiufbem cafus exitu conuemut/ na  (vt exempli caula bicam aliquib)Si quis l?unc fer  monem protulerit l liber in quo be virtutc agitur  preclarus eft .'rectius atqj ornatiusbicitur;in quo  hbro be virtute agitur/predarus eft.Concorfcant  nantj eobem cafu ex tnbus buo llla que maion vi  cinitatc iuncta funti ahub lterum exemplum ^u^  iulcemobi fit* Qaias mifif*i htteras ab mc locubc  f jerunt.Sermoce queaubifas no eftmeustQua  exiftirras bemoftI;eIs orationem/cfcJ^ms elt. atq  Ijuius fermonis crebru muenii e potens apub ve-  tercs vfum.M.T.officioru pricnoi quorum au*  tcm offinorum precepta trabutur / ea quancy p«  tincant ab finem bonoriu Virgihus Maro m ene  ibc/ vrbcm quam ftatuo veftra eluTerentius in i  bna/poltl^ac quas faciet be integro comebi.s fpec  tanbc an exigenbe funt vobis prius.Ibem.popu*  lo vt placcrcnt quag f ecilfet fabulas* Ibem, quaa  t  :  r  * * creois cffc \)islno funt vere nuptie. $tcj eiufrao   bi fermo plurimum exornat;  (JDuobcc.mu preieplum t e auxefi potxti*   ucrum cum per;  3D c.ucxj oigmlfimu cft annotatu. vt quom pofi=  tiud€<auger^ velimus normnaivtnsper prepofi  f um aecebdt.Gcero m cpjftola ab cunonemkui z  cai us eque fisiet teriocunbus . Ibcm be oratore  p r;m o.perboati quite frater ilhviben folet.Tere.  in eunucr;o. perpulc^ra irebo bona fyaub nof tns fi  miha.nam pergratum vaibegratum fignifrcatM  in cratione Jepibe p crfonat;   (jTrebecimu preceptum be fuperJatmis   cum multo/longe/et §;  PST fupcrlatiuis/inulto/ioge/et qj abuerbia pre  ponimus ibqj fepenumero pei pulcl;ru viberi fo^  let. Vt longe amatilfnnus veftri.mulfo ommu  foituanllmus-St acjo tibi q-maxias gratias  (JJDerimumquai tum preceptum be com*   parati uis cum multo / aut longc .  GOMPAratmis vero vel multo vel fonge p  poni Jblet. Vt mfticia multo predarior eft ceteris  vir tutibus.8t focrates loge aliis pfyis fapientioi }  (jDecimuquitu preceptu be quibufba noibus  quc agrecis prpfecta/bccfinatiorie mutant,  ({ILLVD nequacp omifc;'imus,'q> quom nomina  quepiam funt profccta a grecis tertie fiex.onis d  obiiquos cafus fjabentia qui rectum bperanttf»  tini oratores rrequentifume calibus ac.uf tiuis il=  lorum quibufbam immutatis fmgunt ahamm be  dinationum nomina et genus feruant . qualiafut  poematum / entfymematum / oelpijims / elepbans  tus / ctlampaba^aue a plerifg? tertia flettione pro  f erutur poema/entfymema/beipbin/ elepfyas la-  pas . fyanc tu obleruationem biligenter manba me   morie/ -.   (TDecimu fextu preceptu vteleganferoftebemus   quippam nobis eife/iocubu/ vtilc/ vell)Oneftu<et   ettevaibgenus;   ^JXuo aut volumus oftebere nobis aliquiD jocti  bu/^oneftum/vtile eftei batiuis cil verbo vtimur  fum/es/elt fubltatiuoru/ quoru illa abiectiua fut  Mi(ne ab exeplis bilceba^quib aiiub iignif icat l?«e  res raicfy locunbitati eft JcJ bec res eft micfy iocu-  bVlbemc$ l lpfe micfyitue littete fuerut gaubio*  quob elt ab gaubium vel gau&iu micfyi attulerut.  Predara vrbis ebificiaciuibusbecorifunt. Vitia  bsbecon ful viris Jibeft bebecus pariut viris . beq   ceteriscolimriiratione;   ([Decimufeptun preceptu be af ricio et af Fiaor»     <l  *     \ *  '     k.   m     «#"»     Vevbum aftido Jet pulcfyru eft/et late patet.nam  afficio te voluptate ibciit tibi voluptate affero. M  i icio te fyonore lbeft facio tibi Ijonoi em et te fycno  ro.aff <cio te laubibus l&efi tc laubo. affkio te pro  bro lbelt vitupero te . afficio te comobis lbeit tibi  ccnioba facio.afficio cabauera fepuftura lbcft caba  uera icpelio.T^if icio inimicos miuria tbeft facio i  iunam mimicis, 7\tq fimihter affiaor bolore lbe  boleo.af ficior gaubio ibeft gaubeo. aificior vere?  cubia ibelt verecunbor. Latiilimacj eftlmius ver=  bi vlurpatio.Nec tum lateat tc/af f icerc bifponere  ficjmficare.Hinc eft plauti iflub/ viua vos magis  arficit.Neq} cnim fme optimis caufis ta l&ta / tao;  bilfula fit eius verbi fignif icatio. feb be i?oc latis;  CjPrecepf um be tum vel   et «jeminatis . (jxviii >   Non eit aute ignoranbu cp i\ ouo/ aut plura buo*  tusCquob perraro vfu velt)paritcr fe l;abuennt.'  vtri<$ tum bictiomm prepcnemus.Qoicb Iiqueat  exemplo.Par eftin.C. lelioboctrina/ ac virtus.  qitacj dt eius viri pvobitasitata quoc| ett eius fci=  entia, tunc lf lenbibe / ac rccte bixcrim . C. lcfius  vir tum boitus e/t/ tum probus •Itibemcji magna  ineit.M.C.ieiiotum virtus/ tum etiam boctrina   C« ivltus p..uMnu tu iaute/tu reru icietia valet .  \     OTub iterum exemplum» tfyemiftocks tum con-  filio polletin vrbams rebus/tui beliicss negociis  viribus atcg animi magnitubine f ioret . Stc eni ta*  tum oftebit in rebus vrbatiis effe cofiiium cjtj in  beilicis magoif ubinem animi <$ tum geminatum  pofitu eft*Seb eanbem quoqj vim fyabet .jeminata  et coiuctiua Virgiliusi eneibe.MuItum xlle et ter  tis iactatus et alto. ibe profecto fignat.'eneas t tum  pelagi /tum terrarum labores perpeffus eft.7?vfri  canus fuit figularis et vir et imper.ator l lbem Qy>  vult«africanus magnus extitit tum vir tuntfmpe  i-ator ; (J Preceptu be cu et tu ♦ (Jxix*  Qi fi buo contra nequaty paria futi (eb aheru mi=  bus complechtur /alteru vero magisiita etficiens  bum eft* vt quob leuius exiftit locemue pnus/at=  cj ei cum bictione preponamus.quob aute graui-  us valibmf$.'ib pofterius politum/ tu bictio pre=  cebat.Qoiob patefaciemus exemplis*G. ielius a-  mat fcipionem propterea <$ eu boctum cognouit  fyominem/et fempzr virum optimum/ quob po*  Itremu vefyemSter ab amorem impellit. quare ita  oratio eft inftituenba«G.lelius amat lcipionem tu  ob boctrina eius tu propter virtute. ita virtus in  fyac bemuoletia pius mometi fyabet. JPvtqj ibem lta  ubixerim.Gu oes. fortunati funj qui bene. viuwt» -I     *'  tum perbeati qui omnia befetfit / et virtute iblaui  coplectuntur, Ijos na<$ pofteriores multo beatio=  res elfe conltat.Si quis fuperius mo aliatam pre*  ccptiorem intellexerit.l;ec. M. Ciccro lmpnmis  i requeter vfurpat.£x quo iiiub.'cum cmnibus co  fulenbum eft/tum lllis qui armis politis ab lmpe  ratoris fibem conf ugiunt.Sigmficat enim fumc-  tibus ab lmperatores/et lefe bebetibus multo ma=  gis confulenbum elle.$ttc| m catone maiorc nura  ti fele aicbat Iceuola.M. catonis cum ceteraru re=  rum perfectam fapientiam/tum q> nug> fuerit jlli  feneaus gra uis . kb be f,flc re faiia/  (JVtquapia laubari aut vituperari oporteat, xx  lam vcro explicanbum clt qua ratione quapiam  perfonam/ autlaubari/ aut vituperan oporteati  quob ab bccorem iermoms pertineat .riam it trj=  f anam polfe f icri coperimus ex monumehs litte-'-  rarum.li cnim velim oftenbere.M.catonem fjabe  • remagnamvirtutemicum verbofum/es/elti ita  comobiflime f iet,Marcus cato vir eft magna virtu  te, M.cato vir eft magne virtutis.M.cato vir cft  magnua virtute»popuio pfyilofoptus fuit preftas  igemo/vel preftatis igemi.'vel preftanti ingenio.  mulier eclara morib^/claroru moru. 1 claris mori   b^wregregiojaiibc egregie, iaufys egrcgia laube  Se* iliub prius magig poetaru eft. poftremu ve~  rofplenbibiffimum/et perpolitum,ffiriltoteUs clt  fcietie copia pbiioCoplug^exquifita boctrinai vir a  ctrimo isenio ! Quob qu.beCvt bifertfcus pri  fcianus inquit )hcjmficatariftotele fcbentem fa-  cntie copiam* ac qui l?abeat esqaifitam ooctrmam  cetcra cj confimiii ratione. Cluob quibcm ttulus  qelius confcntirc vibetur in noc, ac, bft erura vjf  fut befectio quebam ifeb ca ttifa / vforpat** ab elo  quentiffimis viris/ac darilhmis oratonbui. qut  et vobis quocg vtenbum fit ;  fTDc accufatiuis etablatmis participioru lo*   cum tenentibus infimtim verbi. <[xxi.  flT& VI participioru cum accufatim calus ie«  pe tum ablatiuilocum tenet mfmitiui verbi. J?wt  feluftianum illub , nam et priufc* iopias colulfo*  tt vbi coolulueris mature facto opus elt.bt tere»  tianu Mius gliceriumalioqueflamicam pamptjui  lam iam inquit muentum tibi curabo 1 ec abOujs* ^  tumtoumpamlpilum.Omnian5c|iUay colulto/;  factoinuentuiabbuctu^cofulcreyfactre/luemre/   aooucere befignat. veru frequeter l?is ratiombus  abltluoru cafibus vtutur l accuktiorum perraro?  4jDe ijoc nomie opus cu variis cafibus. .xxiiv   %quomam*eMa»ne quo>eft©ou8 •«»»«**,     i •   v     metione iiteHigen&um elt / opus eft micfyi ^ac re i  fignif icare me egere Ijac re.feb ib variis caubus m  cu folet Nam etiam opus cft micfy tua opera/no-  minabi cafu«'et tue opere/et tuam operam/ et tua  operaJeb ljoc poftrcmu ornatius eft 'z totum ora  torium.Cetens rationbus poete pctius / fyyftcris  •grap^icj vtuntur ,tloa autem queca precip imus  vt cocrncfcamus a veteribus vfurpata eifoecg vta*  mur.quecam veroM cognofcamus lolum.i^am  rpus eft miclpi l;anc rcm/ nun§ oraior oicit i feb   fcacre?   (Jpe comutafione abitctiui tt fubftantiuj'   in vqcc geuere et calu. ijxxiiii*   O uib illub.^ncne puldjerrirr.u cTt .' vt quom fcuo  ncrowa alterum abiectiuum /alterii lubftatiuu co  bem cafus cxitu proferri cebenf)vtfrpe crcberri*  mccfCquocarno tertia abiecfiui nominis voce que  cli neutra i vim iubitaf j'ui trafferamus/et fubftan  tiuu iliub prius cafu collccemus geitiuo.quob vt  Irequts e ciubitis atqs bifertis vir;s. ita quog erit  excmplo manileitiuB. Mam quom muitam vir lu  tem bicturus fum i li «nultcm virtufis loco eius 9  taiionis pofuero / multo protukrim vcouftius»  «Multu pecunie eni fignificatmulta pccunia.pl u*  mmi &nm t f limmas vra»quife anmi tltt    1  ■   qiiis aimus.quib rei.'que res*quib caufe.' que cau  fa.ftlia quocp lta permulta.Seb amabuertenbum  efl/q, fi genitiuus ille cafus fingularis fuerit.'toti  itera orationem fiogulariter exponere bebemus,  Bi pluralisipmraliter.Naqi (exempli caufa)mul  tu pecunie ibcft multa pecunia / fingulari numero  atconfcramultum pecuniarum figmfieat multas  pecuuias.Similis <* eft ct aliorum ratio. vt muls  tum roboris/fingularem^plurimum virium/plu  rale quocj fabet fignif ication€ . Et abuerbia quoc$  nonnulla eanbem vim retinenfc ♦ prefertim vero  buo l?ec/parum et fatis.Nam paru fepientie lbeft  parua fapiifia.fatis virium ibett fufficietes vires,  8t nifyil quog fiue nomen/ fiue abuerbium ht . m  canbem fepe obferuantiam eabit, Hec igitur ^ac^   Vt gemioanbum eft epitl?eton fequentibus.  ' fubftantiuis aut econtra» <£ xxiiii.  Q.uonia aute figula fyc fere iueftigamusiib quo*  a oignum cognitione ctti vt cum buo meminen=  nius nomina fubftantiua/ quorum vtrio; ibem e*  pitfyeton abicienbum efU vt abiectiuum ipfum pri  cipiocollocemus<et fequentibue fubftantiuis / vel  tumgeminatum/velbuplicatum^tpreponamus   Bxempli vero caufa ef i erantur» Giceroms verba.     3     $fricanus figularis *t vir ct imperatori quob eft  afrixanus ficujlaris vir z figularis iperafor ♦.ppter  magoa el boctoris auctoritatem/et vrbis/ eft pro  pter magnam auctorif ate ooctoris et propf er ma=  gna auctontafena vrbis^predarus/etrailesyet ci=  uis iliuftns/tu vir/tu pfyus optimus/tum pafrie  foefefor/tum gubernatcr/iuftus/etrex/ etiubex»  Coniumliacj eobcnmobo fe fyabeot. Seb et fepe=  numcro contra co&em orbine vni fubftatiuo pre ;  pcfito buo aoiectiua/aut plura beferuiunt.8xcm=  pia funt que nunc conftituam . Vir tum bonus fu  temperatus.imperator et callibus etfortis, iubex  etiteger et foflers. owamefa ciuifafis tum mulfa  tum predara. alia fu ipfe coniecta. Non nungj» ef  buo lubftitiua ita fe r^bent vt alterum vim fuam  vbi$feruef actueaf ur/ alferum quafi qugbam ofc  tineat abiectiui nommis iocu/ ef eiusfugafur of=  ficio.&uale eft illub Virgilianu primo eney, mo  lemqi et montes infuper altos impofuit. ac fi bicat  molem montuoiam impofuit ♦ Cauenbum eftne  ab fyoneftate naturacj oilcebamus.' ac ii bixerit ca   uenbum ne a naturali Ijoneftate bifcebamus. Scb  tibi f)ec fatig finf/   (jpe extremis fupinis/pro gerubiis  accyfafjui eafus, xxv.  -.^-  iSzb m qotfi i;iftonam texens biceborum fenem  nectami lta quecg patefecerim vtlefemicfy forte  quabam obtulennt.Ceterum no ignoranbum effe  vibetur ,vt ipfc arbitror>xtrema fupina pleruncj  ornate/ac peruenuite fignif icare gerunbia accufa*  tiui cafus ao bictione prepofita , Vt res biii icilis  crebitu ibeft ab crebenbum. miferabilis vifuibeft  ab vibenbum . iocunba aubitu ibeft ab aubienbum  fuauis guftu ibeft ab guftanbum .permulta fimili/  ac pari ratione fe fyabent/   - {£ De exafperatione orationis permutationem  fuperlatiui cum abiectione abuerbii fuperiafcjui ab  mobum / vel in primis» {f.xxvi .   (fNec ib te amice lateatM quomfuerit fuperlas  tiuum quobpiamburius/afperiufcj et fuperiatiue  fignificanbum fit l vt pro fuperlatiuo poutiuum   afferamus.' et ei aptum abuerbiuro fuperlatiuum  apponamus.Nam maxime memorabiie hciausi  eft memorabiliffimufacinus»Maxime rarum ge-  nus fyoimieft ranflimu genus fyominum»Seb ab  mobum/et in primis / poiitiuis abiucta vi fermc  eabem retinet. Vt abmobu memorabile facinusi  vel inprimis rarum genus ^ominum i  ^Txxvii . vt quepiam mebiocritet «ut   vetyementcr ia ubabimus/ <  * I  Jb aute nequaqj filetio preterierim. Vt fi que qui  virtutcro fyabeat v lim mebiocriter faubare i bica  (exempli caufe) perides virtute preftas princeps  erat atfyenisfvelmulta predara gelferat. Trjcmis  ftocles rebus geftisfloruit.Sin velim vefycmenttr  ac plurimu iaubare abiiuam gloria fiue faubem^z  caufam laubatiois calu genitiuo coftituta Perides  (Vtibem exemplu aga)virtutis gloria preftans a=  tfyenis daruit.'tl)emiftodes geftarum rerum laube  emicuit. £ict{. M .antoniuS preffabat eloquentia  mebiocriter huoatur ac fere exditer. L . Craflus  efoquetijgforia excelluit ve^emetiffime laubatur  Seb tu pro tui ingenii bcnitate oebucitof  ([ xxvui. CLuotiens figularis et plurahs numes  rus connedutur* viciniori relpobebu i ibecj Ht   jn oiueriis generibus;   QuotiesCquob ipfe quot| teftatur gramaticus fer  uius")Ggularis etpfuralis numerus ccnnectutur/  refponbemus viciniori. Virgi.primo cnei,'r;ic il  lius arma V>ic currus fuit.no aute fuerut.Teren.  in anbria J amatiu ire amoris reintegratio e.xeno=  pfyotis belitie mee fut.fyoftes eorucj exercitus pro  perabit.atcg ita frequlius obferuat*.ibe f it I biuer  fis gencribj.na fiue niafculinu" / fiuc f eininu e. vici  no refpoDgmus. vt vir atcy mlier optia ab me venit    ■ >*?  c£» ft     \ **1    *   ft.  ■:  Intelligitur naq? optimu effe viru et optima mut  here que vemnt. Verum fi plurali numero ve.'i=  mus vtiteb mafculinu trifire nece fe eft. vt vit et  mulier leti properant.T^vlexaber et olipias clari es   Ittterunt?   ^TxxixToperepretium eft.   Opereptetiu eftCquob peruenuftum eJft)ficmif icat   mo vtile efteimobo neceflanuimo locubu i mobo   laubabile.i^tq* \)is fignificationib^ ib nominis ve   teres vlurpant/   {J»xx.v.frui.  Frui quapiam reieft fructu/ fme vtilitate veJ vc^  luptatem percipere ex ea. vt cum bixerit quis ocio  fruor,   {jxxxi^pre fe f erre.  JPre f e f erre ahquib eft verbis *ut ibiciif quibufba  ib oftenbere/et quobamobo confiteri/vt. M. cato  pre fe f art gramatica.lelius pre le f ert hberalitate  fyz vuit oftenbere <$ i f fe fit iiberalis;   ^Txxxii.Rat.one fyabere.  tiaticncm babere eft refpectu fyabere. feb(vt pla*  nius xpona)fyabere rationem alicuius rei eft rem  conliberare. vt fyabeo ratione temporum loci per  fonaru eftea ratione oia coplecti / et conhberve/  {JjTxxiii .Complector anuno»     t Hanc r em animo mcnteej complectcr l ibeft tflat  rem conhbero et voluof   (Jxxxiiii.In animo eff ♦.  In animo eft / lignihcat in animo IjabeQ.a aimus  mictyeft/ibeftvolojj   ^Jxxxv.CeKtum micfyi efti  Certum eltmicf)i libelt beliberat»m ct oecrefum/  v«I bejjberaui et becreui.   {JxxxvuProfequor?  Profequor te fyonore ioeft te fconero» Profequbr  te laube ibeft te laubo • profequor te probro ibeff  vifupero f e.profequor te amore ifceff amo te/   ^lxxxvii.Benemereri;  Eenemerltus [um be rep, ibeft beneficium i illam  confuli.benemereribearoicifl/eft cpnferrein arai  cos beneficia* «^sxxviu.eque»  Eque pro ita.'ac pro vel/afc| pro vf vel quafi orni  tilfime ponutur.exemplum cft eque te laubo ac ci  ceronemj   ^xxxix .Haub lecus ♦   Haub pro non/ fecu9 pro aliter venufte in eabem  oratione continue fe Ijabet vt feaub fecus fetio atcj  f u ibeft fentio ita ficut tu/   (l*h9* coparatioo Igcp pofitiui*  K  4 ■ I  i  MdnficJ et pulcljre coparatiui prb pofitiuis ponu  tur. Vtalexanber macebo corpus babebat imbes  cilliusiquobimbeciliufismficat.Satiriinlcele»  vefyemetius inuefyuntuWquob eft vefyemeter.   {[xli ,Dar e rem vitio / vel laubi .  Do tibi fyanc rem vitio lbeft vitupero te be bac re.  bo laubi ibcft laubo.bo crimini ibelt crimmor;  (jjdii.De fubiuctiuo loco inbicatiui.'et  illiua pro l)uius temporibus;  Seb nec illub quibem negligenbu elUfubiuctiuus  mobus pro inbicauuoiz ujius tempora pro i?uius  temponbus interbu l?aub illepibe ponutur. vt ve  Jim fepe pro volo.et gercrem pro gerebam bilexe  rim pro bilexi.feciuem pro feceram. fuerit gratu  pro gratum erit.feccris pro facies.Ib oim multo  ornatiffimui li cportunis locisagatur . quob vbi  factitanbum fit. 7 peritorum aures facile ceiebunt.  Quaobrem exercitatio abfybeba e non mebiocris  que omniu magiftroru precepta fuperat.Quob fi  quis nouerit grecas litterasiei quob mobo explis  cauimus non bif f icile perfuabetur ;  (fxliii . Partim l>ominu et eius  abuerbii geminatione/  partim ^oruinu venerant perfepe bicitur.Et.^v.  gelio tefte eft ibem quob pars Ijominu ibeft quib»      Ijomincs^nampartiminfyocloco abuerbiunj elt  neqj indinatur cafus fine.St cum partim fyominu  bici poteft lbeft cunVquifcuiba fyomimbus et quafi  cum quabam parte fyominu.Seb l?oc tame cft fple  bibiuskum in oratione iterum fuerit abbitum vt  eft illub.M, T.in epiftolis.nam qui iftinc veniut  pirtim te fuperbum effe bicunt/quob nicfyl refpo  teas/partim cotumehcfuyqj malerefponbeas. 8t  qui ciuitatibus perfunt partim nobiles funt/par^  tim populares.quob elt aliqui nobilesfunt aliqui   populares]>   ^TxJiiii.Decimus quifc|;  (f Xb ett optimum eognitu/ g» becimufquifcj} eft  vnus ex numero benario . ficut millefimufquifqs  elt vnus ex numero millenario.fyinc cft illub cefa  ris in commentariis eognofcit no becimuquec| ee  reliquu militem fine vulncre.quo exeplo vti per=  pulcljru eft vt vix becimufquifc$ remafit fme vul  neremtaliconfjictuf   ifxl v . Quotu fquifqj ;  Q.uorufcquifqf I;omo eft ibelt quot fyomines.  Quotufquifcg rrnleB ibeft quot milites;   /Txlvi.PercJ cu pofitiuo*  Per§ vna bictio bumtaxat puleljerrime pottiuis  abiucutur nominib^ vt percj> boctus pr/ilofopfyus     \t   p  per $ bonus amicuS/   ^Jxlvii^lias geminatu locom tcnet  mobo abuerbii»  Cuibillub.^nunquiblepibiffime vfurpamus/vt i  oratione eabem iterum alias vfurpatum /locu ops  tmeat mobo abuerbii.Quale pffet fi quis Dicat oes  l^omines eobem ferme nati fut ingenio.alias qui*  bem ribet/alias vero lacrimatur. omes item riues  alias boni alias mali.nuq» eifbe fut monbuaf   {fxlviiulnire caftra.  M. Tfaitrjonius iuit i caftra multifariam bicitur.'  M.Tfatfyonius caftra petiuit ♦' in caftra profecrus  thik ab caftra cotulit . fe in caftra recepitife ao ca«  ftra perbuxit»   4jxftx7Vim'nti annos natus|  Hic fyabet viginti annos. quob veteru cofuetubine  bicitur cotra pebagogam opinionem/aliiftg ratio*  nibus bicitur.J;ic vixefimu anu attigit.agit /bec^it  vicefimu anu etatis. vigiti anos natus eft.3? ^oc  poftremu magis oratori couemtf   {Q ♦ £loquetia laborare ♦  Cicero laborat eloqugtia. Cicero in eloquetia tera  pus cofumit . tempus in eloquetia coterit.in elo-  quetia operam pomt.ba^eloquentie operam.etate  in eloquetia cdiumit. In ftubiu incubit eloquetie.         '5      £t> alia oe&uc pro tuo iuUciof   {TIi«Habeo/teneo I?anc rem memoria.  Habeo ^anc rem memoria non minus vfit ate bici  tur ♦' q> fyabeofiue teneo Ijancrem memorie.teneo  ^ac re memoria /f;uius rei memoria fyabeo;   fljii . Voluptatis me capit obliuio .  Obliuiff or voluptatis vel cuiufcun^ alterius rei»  vcluptatis me capit oMiuio.St ibem verbu cu ce-  teris iunctu nommibus fignificat biuerfa/cofimis  h orbine ♦' vt capit me facietas ciuitatis ibeft capit  tne Jjoim obiu vel tebium;   dJui.Contineo me ruri/vel in vybe^  Virgilius incolit ciuitate l)cc perpulct)re bicitut*  cum teneo/ vel etiam cum cotineo verbo«vt virgj*  tuxtfc continet. Virgi.tenet fefe in vrbe;  41 liiii.Prefer et pre venufte oftentaf  aliquam rcm aliam anfeceifere.  Si quis velit offefare aliqua rem alia antecellere/  «t vltra illa valerc i venufte ib bicitur / vei per ac*  tufatim prepofita preter / vel cu pre ablatiuo prc=  polita. Vt cefar preter ceteros rebus bellicis polje  bat» vel pre cetcns pollebat;   IjIvXelius efacili igenig vcl facilff  mis moribus natus.   Lejios ftabs faciles mmsj ; vd f acilcm naf uram/   I     ornatiusbicitur Jelius eftleui ingenio natus ( vel  faciiimusnatusmoribus . Scipionatusefttrifti  ingenio.Stbereliquiscofimiiitcr;   iTIvi. Valeo/polleo cu ablatiuis.  Valeo et polleo verba et fplenbiba fut.' et latiffime  patcnti x ablatiuo iuguntur.fyoc pacto, ; 7>vureliu&  auguftinus plurimuingenio valuit. ijypocrateai  ingenii bonitate poUebat.Mitnbates memoria cb  ruit vel poUuit.M.cato in ciuitate plurimu aucto   ntate pollebat;   (jlvii.Clareofpolfum. *   Clareo et poffum verba eabe ferme r atione fe ga*  bent. cHgo apub bominum cefarem multum (iue  poffum fiue clareotomate et IplenbiOe bicitur^ a*  pub bominum ceferem plurimum mea ciaret au*  ctoritas.fyortenfius rhultum poteftin fenatu* or* ;  natius/multum fyortenfii in fenatu poteit aurtori  tas .que potj{fimu jGgmficat eam opimonem que  eftapub ijomines be alicuius viri preftantia . que  vulgo et trita cofuetubine reputatio nuncupatur*   (Jjyiii ♦ Sum batiuo iunctfi tyabere  fignificat.'et quobamo poffibere;  Geterum ib perbelium eft.Sft rnidji apub te fibea  ibeft tu abfyibes micfyi fibem. quob eft accuratius  abuertenbum.nam plerumtj foiet fum es e verbil  "  batiuo iuctu/ugnificare rjabere.' et quobammobo  pollibere. Vt e micfyi pecun/aiett cefari rnagna po  teltas liue pietas^ilJub befignatme pecuniam i^a=  bere.fyoc rjabere cefare magna poteftate. Cuius cq.  Ititutiois crebra apub prifcos et bilertos viros ct«   leruatio cit.   {Jlix.Recorbor fyanc rera.fyec  res micbi in mentem venit.  Ejo recorbor r;ac rem potius § l)uius rei bicitur.  Jst ibem bicitur ljuius rei me fubit recorbatio.fyec  res micr;i ln mentem venit lbeft micr;i occurrit i  vel mict)i fuccurrit/quobpoltteinum minus vfi=  tatebicitur?   {T Ix.Prefto antecelio aliquabo cu accu?  fatiuo aliquanbo cum ablatiuo.'  Prefto et anf ecelloCque venuftefonant verba>li=  quabo batiuo aliquabo acculatiuo perpulcfyre iun  guntur cum acceflione ablatiuoru eius rei cuius e  preftatia. Vt ego prefto tibi ingenii acumine.flo.  preceilit petru acumine ingenii.equus preltat afi=  no velocitate curfus?   flhi. De frequetatiuis verbis  loco primitiuorum/  £>cpe numero f requetatiua verba que appellaf ur  pnijuuuorw verboru a quibus traxerunt origine"     14  fignificatione retinet.prefertim fi prima illa afpe*  riora f uerit. vt coiecto pro conutio.mafo pro ma*  aeo.imperito proimpero . amplexor proample*  ctor. ct alia itcm pcnc inumcrabilia fi quabo etia  verbi arpcritas vlla cotingat ,'quob erubitorum iu  bicio nunc berelinquimus?  lJlKii.De et bis mutant»  Dc jttepofitio verbis abiccta pcrfepe cofraria mu<=  tat fignificationem vt prccor ct beprecor cotrana  lut^ortor ct befyortor , Nonuno) lbcm bie eff icit  vt fuabeo biffuabeo Quauis in iifoem vtfbto no*  nu^ auget perpotius cj vim coinutetj   flixiii . Gx ct be aplificat*  Sx ct 6e vejjementer ampiiticat, Vt exoro .' quob  ab ex ct oro bebuctu fignif uat ipetro ? Tere.in a%  gnatavtbetoro/vixc|ibexaro* .   iQxiiii.Suaoco perfuabeotfacio perficio,  Sic et fuabco fignificat oratoris off icium quob I  benebico ,atc* perfuabco bencbixiffc fignif icat quii  cft oratoris f inis,ibeft impeteo atc$ obtineo , vnbe  et crebro non folum fuabeo/ feb etiam perfuabeo£  beb i acio etperficio explorata funt;   {fixv.De abuerfatiua bictione*  Pfurimuetiam fermonem ac oratione exornat ab  uerfatiua bictio quag? ibicatiuo iucta, duob vbicj         M.Cicero feruauit aliiqs fcocfiffimi* feb I; uwe cx  cmplum fit.Qua§ tc ante I;ac tiJigeba.' nuc tame  cbfmgnkrem vir^ufem veI;emiterabmiror. J\)a  tha funt que quobam fibi orbine luicem iugutur.  quoru prius ac leuius e biligere i pcftremum ab^  mkotlqixob ve!?en.es^ac precipuuiet eoru mebiu  ofcleruo quoi> cft vencror /et colo . cx quo obfer *  uanfiam et reuerentiam fignificat.Seb itcrum ali  u5 exemplu quancp miclji fint omniu amicoru io*  cunbe iittreitue tame iocubiflime fuerut.Seb ct  pro Umen polt §uis raro collocamus. Vt qu*n§  micfji anfe ^ac carus eras,'feb ct nuc pi ofecto a -  riffimus^es;   {jJxvuHonfolum y febetia* verurnetia/  verumquoq?»  7Kb fjec jll* buo orationem pcruenufta rebbut fibi  inuiccm correfponfcentia.quoi n alteru eft non fo  lum/Cucnon mobo /fiue nontantu l alteru efeb-  etiam/ vel veruetia/vel loco etia pofito quoqj/ et  aliquibusintenectis.quoru ommu exempla fub=  necta* fyec miciji res n^n folum grafa eft kb etiam  iocubatMtAntonjus non rrtobo ciceronis crat ini  micus/vcruetiam Ijoftis patne*M*Catoncn folu  ingenio pollebatifeb etiam vurtute florcbat pluri*  mu ♦ftlexanber no foium reliqua vrbem iubegiti     is veruquo? ipf u romanii iperiu cogitabat attigere }   /Tlxvii.Tametcji.  £t fic etiam tam et $ fibi correfponbe-f . vt tam ca*  ra micfy patria efMcj tibi iocuba vita ( ieb facile ttt   te boc mteUijes r   (Jlxviii.cgoipfe pro erjomet?   Pro eoautem <$ ceteri exprimere cofueuere pros  nominibu» abbentes vclteveimet fyllabicasao*  icctiones . Cicero potius lbem eiiicitljoc piono*  mine ipfe/ipfa/ipfum; quob illarum fcre abiecti*  onu locu optinet. Vt egoipfe magis q> egomet.tf  Ieipfe 1 nosipfiivt nucp lecus fenSbo U,  {Jlxix.De mccum et mc cumf  K\i* <ft abiectio puldjra. Vt m?cum ipfe cogitafc  fem.etfyoc vt mecum fit vna bictio. Item me cum  ipfeviccre.quombuefuntbictunes;  {] Ixx. Vt familiarinte couerlatione et (imiiw   ornateexprimemns;  Seb fi tibibicebu «rt tu micfy familians es.'orna  tius oicit* ego te vtor f aiiianter ,Tu rnify amicus  es .ego te amico vtor.Tu micty es magifter iorna  tius ego te vtor magiltro, 830 tecu f requeter ver  for.frequeT mify tecu e cofuetubo.que fepe couer=  fatione fignif icat Tecu magna amicitia ljabeo . ma  gnamicfy tecu eft amicitia, 8t ita aiia per murta.     *v     L  Vtfit inicfyi cu oib^ malis viris iimicitie.na recti=  us bixcrimus iimicitic pluraii numero/cp ficjfari.   (Jjxxi .£3id)iJ cii cdparatiuis.  Seb neutra vox nid;il ac potiffimii in comparati =  uis nominibus tu femim rebbit oratione.tu ma=  lcuiina. Vt nici;il cft J>oc fyomie melius/f ere ibi |  vt nulius jtjomo eit l;oc fyomine melior.Kityii l;ac  virgine eft formofius .' quaft nulla virgo fyec virgi  ne e formoficr,£t i ceteris aliquabo confimiliter;  iflxxii,Munus pro officio/et coumiliter partes;  Munus pro officio ornatiffime bicitur , V t l?oc e  nmici munua ibdtamici officiu,Funa;or boni viri  munere^ferme ibi cft facio boni vin offjciu.Seb  et partes plurali numero confimilem l;abet fcgnis  ficationem, vt mee partes lut lbeft officiu me  vel perf inet ib rae;   (flxxiii»Caueo cum ablatiuo fignificaf pro   uibeo»cu accufatiuo vito ac f ugio .  Caueo verbff etfi fepe fignifccat prouibeo. vt  tu eft lege perornate accuiatiuo iuctu pro vitol  fugio vfurpant eloquentes viri, vt turpis viri/ m  genui cauent mores/  "% (J Ixxiui , Memini cu accufatiuo/  fttqui et memini rectius ac vfitatius iugitur accu  fatiuo § gcuitiuo vt inenani plaiocis fapiectiant» Virffi.inbuc.Stnumerosmemi fimeteverbai*  ner«m . nec miru f. in iis que funt potius folute  orationis. Vir.ma.ois aff eram teftimonium que"  non folum poetam egregie erubitum* ieb et rfceto  hce artis vbic| obferuat.ffimu f mffe conftat.  |TQv.Penitet ibeft parum vioetur.  Penitet me qmcquib f igmf icet notif umu" «f t l feb  et paru vibetur vfarpat auctores et t reftates boc=   trina vin» t ^ , , .. .   {flxxvi, Vaco cum batiuo/attenbo cu ablatiuo/   vacuumeffe. (   Scb ibem perfepe verbum vanis coftructiombus  cofitum/baub eabem retinet fignif icationis vrau  Vaco buic rei.'eft attenbo l?uic tei.vaco r,ac re.'eft  W re fum vacuus I et ornatilfimu eft, vt bom vin  4nt opera vt perturbatiombus vaceut ibeft Iiberi   et vacui fintr ; -• ■   iTlxxvii.Deaiabuertoetaiabuerfio.   flmiabuerto ibeft fore vibeo/et quobamobo mtel*  Iicto Ht aiabuerto coftructu cu acculatiuo m pre-  sofita/ibemfibi vult <$ punio.Vt pleutippus ai=  abuertit in feruum platonis lbeft pumt platoms  (cruum.cix quo aiabuerfio pumtione quabam no   nuq> l ^^ lii: p c x<i fa Q c ^ oa tiuo et accufatie  n     cm 1 1 1 1 1 1 1 1 1 1 1 II II 1 M II    IIM|llll|lllljllll    4 6 7 3 10     i: 12 13  14 15 - ♦     mebiante ab.   7Ktc$ iterfi ref ero tibi l)ac rem ibfft narro tibi fyac  rem.feb refero ab fenatum/ refero ab popula Jtjac  rem ibeft pono f?anc rcm confultationem populi  vel fenatus.Qui vfus verbi eius apub fyyftoriaru  fcriptores frequctiffime eft/   {JJxxix.Dare litteras tibi/vel ab te.  Quib varii quoq? cafus /eibem verbo fepe coniun=  tii/nom magnam aclonge biuerfam vim f>abeV  Quale eft bo bibaculo ab cefarem litteras . Nam  bantur bibaculo beferenti / vt cefari rebbatab que  mittuntur littere.Sas igitur leQtt CeIar.Bibaca=  fus quibem velut tat Ilarius befert ♦ Na qui fert  Iras/confueuit tabellarius appellari ♦ Verum ne  quib buius nunc ignores bare lras fignifkat fcri=  feerefeu mittere Jitteras/   <X Jx*x. Vuas/binas/trinas/Iras/pro vna   buabus t tribus ve epiftolis bicim us/  Nec tef ugiat q> pro epiftola bicimus litteras plus  rali numero.Necobftatpoetarum cofuetubo ♦ £t  pro vna epiftola bidmus vnas litteras.Na ib no=  me vnus.a.u -cu iis que pluralit' folu Iflectuntnr  plurale" quo<# retiet natura* Vt vne nuptie vne bi  geivaa menia .8tCvtabpropofitu rebea)pro bua  bf epiltolis bicitnus ite binas littcras ino aut buas     IV.  ) pro tribus cpiftolis ternas i non autem trcs. pro  quatuor quaternas . £t que beinceps funt rehqua  cofimili ratione proferentur;   (JJxkk i . inf mitiua oratio pro conc   iunctiua peruenufte ponitur.   Inf initiua oratio pro coiunctiua pergjpulcfyra eft,   V t volo te ab me Icribere.cupio te atfyeuas proh*   cilci . £t ib teretianu quib facere te in fyac re velim   ficmif icat eni quib velim quob tu in f;ac re facias.   velim ciues omes vnanimes efle ibclt q> vnanimes   fint et cocorbes.Seb fjoc tibi fit cocinnius vt nul=   lum fit ambigui iermonis bifcrimen, neq? eni om   ninorcctum iit/fi quis oicatvoio te me amare « g>   uis pleruqi lb fuppofitionis lccum r;abcat l quob 1   i lmtiuum veibu mimebiatius precellent. vt puto   pyrrfyu romanos vmcere poffe ibilt crebo cp roma   ni poffot vincere pyrrfjum, kb ib pro viribus ca=   ueat orator.St quob mobo prcceptum eratbe co ■   iuctiua atcg mf initiua oratione precipue in abfola   tis verbis<vel vbi alteri calui i uerit abiecta propo   {itio feruanbum fit. vt vofo te amari a ine;   {£ l.\xxn.£x vel £ pro a vel ab.  Ex vel e propofitiones pro a vei ab/et fepe et pers  ©rnate ponutur. vt aubiui ex maionbj nris pro i  maiqnb$ nris.accepi ex patre tuo vel e patre tuo*     *  lllllllll  cm 1 7     H     10 11 12 13     14 15     IZ     Cluero ex te et a te.'quob eft te confulo/et te intsr   rogo.Quob abuerteiet vlui trabe*   (£ixxxiii.De pro/Ioco in et fecunbujm   Pro ornate ponitur loco in et fecunbii . Vt pro ro   ftris .ibeft in roftris.pro tribunali ibelt in tribuna   h. et alia . pro viribus tuis ib eft fecunbum tuas   vires.pro tui ingenii bonitate.pro virili tua.et fi=  milia/ __   (Jlxxxiiii ♦ Sub ia compofitione aut  dam/aut biminute fignificat/  Sub copofita aut clam aut biminute fignif icat vt  fubrnouit me permeno ibeftdam et occulte.fubi^  rafcor tibi quob eft pauiulum irafcor»   {Jlxxxv . Mor emgererc complacere /   obfequifignificat.  Moremgerere perornatum verbum complacere  fignificat/atqj obfequi vnbe moriger a.um. quob  a morofo quob bif Lcilem fignificat i et a mojrato  quob inftitutu fignificat plurimu biff ert?   42 Ixxxvi.Confequor pro exprimoj  Confequor pro exprimo pulcfyemmum eft.Non  poflu ego verbia cofequi ibeft exprimere . Iitferis  cofequi ibeft per lras explicare;   {fjxxxvn.Metuo timeo multis cafi-  bu3 coniunguntur/  •*>     "V* Metuoettimeo verba aliquanbo tnultis cafibus  ab.unguntur ,Metuit Cicero a.p.dobio fibi extre  mu periculum,Tim«omicl?iabfternortem Ncn  nun$ abfolute ponutur folo batiuo liicta . vt me=  tui papl?iIo- papfyili vite timeo , kb fyc eft poUus   poeticus^fus/   {]Txxxviii.8uabo pro fio/et efficior.  Suabo pro fio et ef i icior ornatum vfitatumcp eft,  Vt dcero euafit eloqu€tiffimus.ftriftoteles eua*  fit fumus pf;ilofopr;uB , cefar vero euafit inciitua  imperator.St bz ahis quogj fimiliterf   {J lxvxix.Fore futurum cffe.  Fore f utura femper l?abet fignificationem . et eft  ibem <$ futurum ee.M.G. be eratore tertiolibro  loquensbe fyortenfio, Que quibem eortfioo omis  bus iftia laubibusi quas tuaorationecomplexup  es excelletiore fore. 8tcraffusforebicisinquit/  ego vero effe iam mbico;   {£xc Quib Iter bimibiu z bimibiatu itereft  Quib inter bimibium et inter bimibiatum inter  fit nofce perutile e.Cum enim bimibiatu fit quafi  in partes buas biuifumi nifiaiiquibbiuiuim fit/  bimibiatum non poteftbici.&imibiu veroappella  tur no q> ipfu biuifu fit/feb q ex bimibiato pars al  tera eft .Hd jgitur recte bixerit quis pco fetentta/         \3     M.varronisCvtait.ft.gelius I noc.ae)bimibiulJ  fcrum Iegi.bioiibiam fabulam aubiui. feb bimibia  tu libru i bimibiata fabula recte quis bixerit. quia  &imi:<iatumCex caufa)bigitum appellamus. feb al  terufram parte bimibiu.Quob eft accurate bilige^  tercg afpicietibum .   (jxci. Interfum et prefum quib bifferut;  Plurimii aute cobucit vcbis itelligcre que fut no=  minu bif feretie/ac verborum bilcrimma 8a quo-  q res miru imobu oratione exornabat. Vt fi quis  nouent quib bifferut prefum/et ir terfum interfe  verba.'puJcfjerrime bicet.M.C.publicis negociis  «on interf uit folum .'fcb pref uit . quoru illub figni  ficat comitem effe alicuius rei.fjoc vero buce>   ^[xcii.Confiteor profiteor gratulor gaubio*  Egonon folum cofiteor/quob eft per vimifeb tti  am profiteor quob qmbe eft fpote.St apub Mar.  Tulliu peifepe tibi gratulor.micfyi gaubeo. gau  bemus nobis* gratulamur aliis cj> abepti funtali  qua bona/ ;   -4jxcui*#vgo ref ero fyabeo bebeo;  Bt tibi ago gratia quob quibem eft verbis.Refero  gratias quob eft re et factis.Habeo gratiam quob  efti animo.Debeo gratia'vbialiqua obligationis  vis ceroitur.Etite alias opiniones Jjis fimries?  -rf   •        {Jxciiii«Hec res mi\)i cobucit.bono tc i;ac re.  Optimu cft non ignorare nominu bii i erentias vt  ct vberior et ornatiot nra rebbatur oratio. l?cc res  micfji conbucit* elt lbcrn q> mic^i rcs fyec vtiiis eft  St quob ceten pleruqj bicunt/ bono tibi f>ac temi  pulcfyrius bicitur ac Iplebibius bono tc I>ac re* Vt  miles nauali corona bonatus e!t«Sabinos romani  ciuitatebomuerut/quobeftciuesfecerunt ♦ quob  ite bicut labinos romani I ciuitate acceperuntf  {£xcv* Prepofitio que iolet abiungi  nomini pulcfyrius vcrboabiungitur*  Jnterbu vcro prepofitio/que nominj ac cafui pre==  ponitur l pulc^rius venuftiuicg vcrbu preceltent  in quibufba verbis ♦ Ooiale cTt Ii quis bicat co ab  Ul vt bicat potius abeo te. etloquor ab te/ potius  afioquqr te.Cebit bc vita.'becebit vita. ccbit ex Iju   manisrebus' excebit rebus fyumanis ♦ £t in aliis  quibulbi cofimihter.   ^Txcvi*Minus abuerbium.  Minus abuerbium quaq» fepc iiapii icat nonnu^  tame cu pofitiuo iunctu cotrane fignifrcationis co  paratiuu bemoftrat* Vt Teretianu lllub p^ebria^  nemo fuitirinus incptus'pto prubentior. etne^  aio elt tc minus formoius lbeft beformior 4 et fic  be alus coitmilibus;  2 o  ^JxcviuQoiib inter becem annos./  et becem annis intereft  Quotiens multos aut bies autannos bicimus per  accufatiuuiitelligimusiuge teporis curriculu efife  £ere cotinuu^Seb per ablatiuu fignificatur anno-  ru fiuebieruiteriectio/intermifiioi^ . Quare( vt  ait marcellus^optates rectms acculatio vtibebent  fiquibem ab fecuba fortuna attineat, In fereft jgi-  tur ita li quis bixmtJbece anos i re militari verfa  tus (uia ltaibece annis bebi opera rebus bdlicis ;   4jxcviii»Corbi eft,  Corbi l?cmo etia flexibiliteir corbi l;ominu(vt pri  fcianus Iquit, Dgificat iocubus fci.bo* ficut et fru=  gi.Seb iatiusUnca fetetia; Marcellus dpinatus e.  Dicit eni corbi eft ibeft animo febet* Nam fyec res  mid^i corbi eft ibeft placet* Teren.in abria ^n ti  bi l?e nuptie fut corbi^M*Cicero be perfecto ora=  tore flumealiis verboru voiubihtas corbi eft . £t  Lucilius probe beclarat cu iquit.St quob tibi ma  gnopere corbi eft* y micl?i vefyemeter bifplicet^  {[xcix.De Tatifpei:.  Tantifper qucb quafi eft tambiu Qrnaf e poft  febepofcitbum» quobfermeeftfconec ♦ Vtillub  Terentianum in ^eauto.Tantiiper meum bici te  yolo.'bum qucbtebignumefaqias.  i 8gotantiIper magna voluptate afficior/ bu apub   te viuo? {jC.quib Iter Delecto et oblecto itercft.  Tu micl?i earus es.ego te amo.tu mil?i iocunbus  es.ego te bclecto.feb belecto ct oblecto non fimilis  ter ffruuntur» Nam bicimus belect.it me rjec res.  feb oblecto me ac re. belectabat Socrate vite intes  gritas.Pitfyicus fefe virtute/ et loctnna obiecta=   baUego me oblecio ruri/   ^JGuFero banc re facuVmo*  befte/moberate/equo animo  Fero fyacre pacietor feu patienti animo/fplebibiusr  bicitur .'ego f>ac ref acilepafior .et mobefte fero/z  moberate/ct equo almo.Ecotra fignificatia abuer  bia grauiter/acerbe/egre/molefte/et iiquoaimo.  Ijec micfyi iocuba rcs e.fyec res placet micl;i,et que  molefta eft/bifplicet;   <£C.ii.be Affero.et bolef micfji*  ^ffero comunilTimu verbu ilet quo mulfis locig  vti poffumus.Secuba fortuna affert micf» vofup  tate ibcft mc bclectat. Tsbuerfa f ortuna af f ert mi=  cf;i bolore ibeft bolet mitfyu Nabicimus z fyec res  milji bolet ibeft boleo fyac re.feb rebeo vnbe bigref  fus fu. liftere tue afferut micip abmiraeione lbeff  eftitiut vt abmirer. affcrsteftioniu ibeft teftifica=  ris z ita bifperfa e z vaga fjuius verbi fignif icatio/       lllllllll               cm 1 7     H     10     11     12     13     14 15 _Ciiibe perinbe cu afcg vel ac poftpofita*  Pennbe omatiffime poftuiat poit fe ac / vel atqj  ct totu fimul perinbeae vei atqp fyabet eabem vnn  quam vt tanquam, vt CamiJlus perinbeatcp oim  fapietiffimus.et cfjerea perinbeac foret eunuci^us  et be l?ac re fatis r;ec bicta fint fyactenusf   {7Ciiii.be Coco»  Coeo nonlolum abfofutum cft/ feb nonnuqj per=  uenufte cafu fyabet accufatiuu . Coeo focietate tecu  Et ijinc cft lilub» 7K* gelii in noc aube pitagora/  beqf cius conforte ♦ quobouifcg familie pecunieq?  Ijabebat / in mebium babant i et coibatur focietas  infepatabilts, Sebeobem cicero pacto aiiquanbo  eft eo verbo vfust —   CLCv^De Mille fyoim in finguiari numero  NiHe fyominum fingulari numcro fignificat mifc  le fyomines.mille militu interiit fyoc eft mille mi-  lites interierunt» mille militu vulneratum eft ib  cft millc vuinerati funt milites.ibcg ornatu/vfita=   tumqj eft}L_-_-   {JjCvi.be Primis»  Primas fignificat etia orbinem quob nome fcqui  tur fecubus et tcrcius.et beinceps alia eiufbem or  binis nomma.tame multociens fignificat pricipa  le . vt fyic eft noftre ciuitatis vnus omniu primus     li  \\\\\\\\\   cm     7     H  9  10 11 12 13 14 13 t  per fe fignif icat optimu.,feb ib poftrenjij in caro e  vfuora torum*   (Juvii*De interbico*  Interbico fibi I?ac re; et non fjanc rem»vt int«-bi=  co tibi aqua et igni*plinius fecunbus in epiftolis»  caret rcge iure'quibus aqua et igni iterbictu eft/   {1 GviihCXue noia ornate fincopantur*  Hunc vero ab reliqua neq; eni iuitus omiferim q  que nomina ab numeru fpectat in eoru plurahbs  genitiuis lincopa efficiunt«ibqj cum vfitatum eft/  tum ab exornabam pertinet oronem»vt mille nu^  mum potius <$ mille numoru*mille benariu mil-  le aureum*et totmilia argentu . et ita be reliquia  et in ijenitruis omnium nom mu fecunbe beclmatj  on>s frequenter eff iciunt*   IjGixyCitra cgtenariu ef poft vigemriugi  minor numerus maiorem eleganter  precebit/mebiante coniunctionef  Ssb prokm fcribentes /et foluta orone in nomini  fcus lolu numeru et mefura [ignificanhbus l atqj  in numeroru nominibus eam plerunq; feruarnus  cofuetubinem et citra cetenarrum numeru * ii qua  bo poft vigenariu buo numeri comemoranbi fut/  vt eoru minor precebat et maior fequatur ' vt i)ic  e vnu et virjinti annos natus»buos et tricjit^ anos  .     iz     viximus.tres et quabraginta anos nauigaui . qua  tuor et quiquagmta annoru confurrfi etatem, ieb  vltra ccntenariu/et citra vigenarium tritu ac vul  garem Jeruamus morem et fermonem . 4jGuob  aute ficut buo be viginti nonnuqj» bicimus/ et buo  be triginta.'ita et buobeuigefimo > et buobetrigefi=  n;o nunif citu eit, feb no quibem eft in frequenti  oratorum vlu/   4$Cx. Inbies et inoiem .  Quib inbiss i none pulcfyerrimus fermo eV ac fig  nificat per lingulos bies/et quotibie i feb cu quo=  bam incremento, vt tua inbies accrefcit virtus.in=  bies fyomines fapiunt.ftultorum fjominum mbies  accrelcit mfamiatfeb Qum bicitur inbiem eft termi  nus beputatus/   {Mpxi . Vt in ve* bis actione aut paff ione  Iignificatib^ vanetati ftubenbum.  In vet bis tam actior.em q> paffione figmficatibus  confiberare bcbemus varias vocum lnflectioncs /  atcjj exitus . et mcbo fyns mo illis vti pro auriu iu  bicio.vt fuere pro fuerut.amaruntproamauerut  vibere pro viberiit.norim pro nouenm.triupfya=  rantpro triupfyauerant.et be aliis quocj! eobemo,  3eb ne quib fiat cotra gramatice artis preceptioes  fyac via prpwbcnbum eit;   -■     «   '       ,Xxii.oe Cluin.   auin particula quomo increpet/ vel exortetur i  quom5 item confirmet et quomobo interroget iib  fatis exploratum eft . feb nos ea pulcfarrirne vti*  mur.'cum bi cimus.'nonpoffu quin gcftia.no pof  fum quin boleam.no poffum quin abmirer. figni  f icat enim f ere me non pofle continere* g> non &>  leam ,et ita be cetens confimiliter.   rftxiii.be Locus eft vel Multum  aut nicljil loci eft ljuic rei .  Quib inWnone preelarum eft vfu.locus eft l?uic  rei.multum loci eft gaubio. plurimu loci eft trifc  quillitati.et terencianus bauus.nicfyl loci e fegni  cie.'fignificant eni fyec omniai vel oportere nos le  tari/vel tranfqutflos effe* vel voluptatibus afficii  vel oo negligetes ac fegnes ee« et fic in i aliis fyu*  iulmobi<JOdiu.be Magnopere et fimmbus.  NonnucJ verobuo nominaCfiue prepofitione ab=  bita/fiue non>nius abuerbii vim retinet.vt mag  nopere pro valbe. maximopere pro plurimu.m*  iorem lmobupromaximcmiruinmobu promi  rabiliter.etjtem mirabu inmobum.   ^Jpxv .be In primis et fimilibus.  Seb ablatiui cafus / fme cum comercio prepofitio  nis fiue (tne eo vim Ijabent abuerbii ♦ vt in primis fignificat zm precipue ac prefertim.et ib^vi gr cci  bicut)ibuerbiu ipfum(fi lta appellabu eft) peror-  nate nomimbufiugitur.vf in primis fapiens.ipri  «ijs erubitus.Seb nc a propolito bifgrebiar^pau*  <is mterbu pro paucu/multis pro multumt Veru  J^ccaliojoco pportunius illo*  ijCxvLbe ©ent cu noie magiffratus fiuc iperii  Ilic etiam rnobus optimus eft+vt li quis bicturus  dt qucmpia homine aliqucm ^abcrc magiftratunj  vcJ i?qnore/feu ipcriu vt ex noie l;onoris eiufmoi  et gero geris verbo pulcljerrima coftituat ordne.  ^oc pactoi^ic eft rome cSfuLrome cofulem gerit.  ita cofimiliter imperatorem gerif . principem ge*  wt.pKetorem gerit et alia cofimiliter *ab ijofcc eni  viros remm cura et abminiftratio pertinet.  ([ Cxviitbz intcrlcg«nbumyet fimilibus.  Vfitata et perpulcijra eft fermois oratio/vt geru^  bioruaccufatiuis prcpofita lterfignificct tempus  imperfectuinbicatiui vcl fubiunctiui mobi vel al  terius ct bu par ticulam .vtinterabuianbu ^oftes  offenbi.'J?oc eltbum ambulaKcm*interlcgcnbum  vibebas t ibeft bu legeres . £t fic pro varictate per *  [onarum ita cxponenbum cft vti mobo explicaui^  mus.fcSicferuius in buc.vir.Interagenbum ib rft  bum agis.l;onefta locutip fi bicamus intercenabu        >-!>  G\     co  ■r*     KQ     ■m     ■^T     ■c*>     CJ     tfttM   llllillll  7     H 9 10 1112 13 14 11 T  •   \)oc fum locutus ib eft bum cenare Ijoc locutus fu.   4jCxviii.De in pro erga vef cotra.  In pro erga ct c5tra pulcfyerrima e accufatio pree  pofita. Vt meusinte animus.mea mte beniuol.n  tia.vbicj enim fignificat erga . luucnalis muefyt  in bomicianum .Ciccro ljabuit orationcm in Cati  linam.ibi eni contra fignificat.   |£Gxix.Deappnme.  ?7ypprime pro valbe recte apponitur noibus.que?  abmobum be imprimis fupenus bictum eft.vt  Virgi.apprime nobiha res.appnme vtilis.St ita   beaiusfimilibus.   4j_QiKf Vt res apte coi ungitur  abiectiuis polielliuis.  Rec nomen latum / bif i ufumc| eft. feb eo pulcijer  rimcvtimur cum abiectiuis poffefliuis nomini'  biis/ et prefertim J?uiufmobi. vt cu bicitur res bel  Iica, res bomeftica.refpublica. res familiaris. re«  nwlitaris.Et be fimilibus paritct .   4Kxxi.De preftolor.  Vt aliq veluti fignanba mftituam preftolor vei"  bum plerumcj poete accufatiuo iungunt . Gicero  connectit batiuo. Vt quem preftolariB.'* preftoior   iol?anni^___-   :ii . J^vffentior ,tio . Impartior .tio . 2V     Multa funt verba quibus per eaoem Cignif icantia  et pafliua vtimur voce et actiua,et(vt omittam p e  nc innumerabilia; ciceio frequeter m r;is buobus  mobo actiua mobo paffiua voccm vFurpat. s£,enti  or et affentioi vbicg eabem coftructicnis forma. et  impartior /et Ipartio.in ceteria autem ifc fii mult©  unus.   dCxxiii . . Vfu venif ♦  Vfu venit ornatiff ime pro contingit ponitur/   ([Cxxiui. V furpatio et vfurpare.  Vfurpatio et vturpare non lta intelligi bebentifis  cut mrifcofuJti vtunfur. fe6 vfurpationem orato?  rcs f requetem vfum nominat/ et vfurpare in fre-  quenti vfu fyabere/   {jGxxv.Deficit cum accufatiuo.  Hec res me befirit ib eft beeft micr;i Ijec res» vi bc=  f icit me bies. vita cpprimum mortales beficit ♦ f ep  beficio bac re magis poetarum eft.   {jHCxxvi Omnis pro omnes.  Nunc aute ne ea que perutilia funty i ornatiffima  omittamus. intellicjenbu eft q> que nominatertie  bcclinationiB ta nominatiuu q> genitiuu fingulare"  fyabet fimiies i prefertim Ji gewtiuus pluralis in  ium esiuerit ecru frequtter accufatiuus pluralis  in is terminari folet raro in es . vt grnnis pro oes mortalis promortaks.manispromancs, fimifc  terCvt ipe quog? teftatur priftianus Ji es et is ternu  nantiareperiuntur. vt f ortis et i ortes / partiset  partes/pontis et pontes . io rebquis rarius ib fit   que eft poetaru veniaf   {TCTxxvn.De pofrnbie.  CXucbam abucrbia funt que epiftolis maxime con  ctruut.ficut propebiem/ cjprimu/cito/cofeftim/  et poftribie. quob multi ignari htttram / et gra<  matice artis expartes exponut poft tres bies . ieb  tuCnc eobcm bucaris errore)crebe poftribie fignis  fkare poftero bie/eteopacto.M.C.accepitto alii   crubitiffimi virij   4$Cx xx viii . P rimu /beinbe / prctcr *a£   ab /1)oc /poftrcmum ♦  fttfi quis multa referre velit.'pro prima rt ponai  erimu vcl primowtiuuj eni in vfu eft, profecute  oeinbe/velfecunbo loco.protcrtia/ preterea. vel  pro tcrtio loco.pro quartoCquob perraro accibit)  ab hoc vr prcterea vcl quarto loco.in calceipoltre  mo/ vd poftrcmu/ vel bemum.at igitur l?uiurce=   mobi exemplu. tria fut que magna micin af i erut  voluctate.primuenicf optimuamicu nartuslu  beibe aute cj> finguiare tua crga mefepe tefohcans  beiuoletia poftremu vero /q> tc icolume mteliexir        {JCxxix .be orbine fyaru coniu n=  ctionumeni/autem/vero»  &ua in re ib quocg abuertenou eft/g> fres inueni=  nras coiuctiones recto atcp vfiiato orbine.que funt  eni/aute/et vero.feb tuipfe tyec oia ac multo plu=  ra raule cogncueris.^fi ciceronis Lriptai et in pri-  mis eius epiftolas lect»tabis/   (£Cxxx.Mcmorie pro s ifum eft.  Memone prohtu ficmat fcnptu eft. multa enita=  lia ornatiffime vfurpantur vanis cu fignificatus,  vt memorie trabere.mabare fcriptis.mabare litte*  raru monumetis.quoru fermc omniueabe vis eft  feb manbare memorie aliub fibi vibetur velle/   {JCxxxi.Falht me bcc rcs.  Fallo verbu tritu eft apub Cicerone. f aliit mc r;ec  rcs bicimus.fallit te fpes.quob e fruftratur et beci  p it ([ Cxxxi , Miflu f acerc .  Miffu facere ib e bimitterc venuftu et ornatu eft,  nam miffam Ijanc rem f acio fignif icat bimitto xl=  lam rem/   (jXxxxiiii.Hc quibem»  $bf;uc et in eabem oratione buc f;ee particule/ne  et quibem/pulcfyerrjme futifi quis f uerit ilhs rec  te vfus. nam cum ponuntur . ; femper aut aliquib  bictum cit( aut mentc ib concipitur ♦ vt ne aubmi     cT  quibem.fignificat euiraQ exempli caufa) non folu  non vibi feb neqj ctiam aubiui . Item aliub exem-  plum pfylofopijie ftubia bemocritus n5 mobo n5  intermittit ;Ieb ne remittit quibem.reaiittere na<|  pfyiam cft remiffius pfyilofopfyari?   i| Cxxxiiii.be orbine pluriu fine coiunctioc   Scb ea quoq? abljibeba biligetia elt q> li quabo plu   ra ponimus preferti finecopulatioeCqui articuius   eft et fi ibi vibeatur fignificare quob vefyemetius   fonat magis coilocetur i calce.vttua virtus lauba   ba probaba e.na probaba eft rnagis q> fit ai mbicio   Magitratus biligere/amare/colere oebemus.pro   bau3miosvirosomnesf;omines verentur./ ob*   fer uat / abmiratur . quc turpia / obfcena i tetra ; f cba   fut.'ea fugere et afpernari bebemua. virtutis offi=   cju fuma laus efr.na l?abet officiu accelfione actio   nis. (JSeb i l?iis quoq? orbo quibe fpectanbus eft   q> fi tria quoru buo parte aliqua ugnificenti tercis   um lit communius^ib prof ecto plcrumoj bebet in   f ine collocariinili fe fyabuerit qucbam generis mo   bo.tunc enim ecotra fit quob nunc liquibo ac pers   fpicuo patcf accre exemp{is«ac prioris quibe excm   plu cft.oms in abipifcenba virtute cura/opera/bi-   iigentiaiponenba e. eft eni cura confilium animi,'   opera corporis i bihgentia vtrumqjcomplectitur. ►     1 -*       cm l 3  9 10  11     12     13     14     15     T     IC     Item inrepublica plurimumi&uftrie/laboris/ te  poris ponen&u eft,#smicos confilio I viribus ©pe-  ra abiuuare bebemue. /Cylterius nof a exemplafut  l ion lunt per fc rcs comobe ex^eten&e bjuicie/tjo  norcs/voluptates . comobum eni generislocum  beiinct cuius fpecies funt multe.puta quas mobo  nuirerauimus./Atg item animalia queqjV fyoines  Ieones;equi/bcnu vibetur appetere . feb vUamc|  resfele fyabeat.Ii multa fint,' quobpluriseft/ bc=  bet poni m finc.iam ab alia prccebamus;   {[Cxxxv.be Qanfquis ,' vtvt i vbiubi,  Multocicns gcminatio in quibulbam tam verbis  infinitis q> abucrbiis tanti valet quati i& nome fel'  ct cuncg. vt quilquis pro quicuncg , quotquot prQ  quotcug. quatufquatus pro quantulcucj» qualif=  qualis pro quaiifcuqj. vtut pro vtcuqj, vbiubi pro  vbicunq? . ct ib abucrte biligenter/   (f Cxxx vi . ^vcccbit.  ^ccebit proabbitur/§ vfitatum cfttam pulcfyer=  rimum vibcri bcbet. vnbe et acceffio abbitioncm  fignat. vf ab meas miferias mictji acccbit bolor ib  eft abbitur/   {[Cxxx viii . Conf ibo ,   Cofibo non ficut quiba arbitraf ur( nefcio quo pac  to)ftruit J ,13 iugitur aiias catio ahas ablatio cafui   **n   '   .   et in fyiis potiffimu verfatur que ab animum fper=  tant. vt confibotua virtute/ tuafyumanuatef tuo  confilio.et lbem be aliis fyuiufmobi/   (TCxxxviii.Crebo pro cornitto.  Crebo quocg pro comirto ornatiffimum eft. vt crc  bo tibi confiLa mea. crebo tibi granbem pecumam   et fic be aliisr/   ^[Cxx.vix.C^rahbismaior vel minornaftu   0ranbe abiectiuu nomen pvoh vel etati conuemt/   vel pecunie. pecunie exepla fupra pofuimus . leb   l?ic grabior neftorc vibetur ib § vibetur qi ncltore   vincat etate et atecebat.r;ic tit graoisnatu/ajrabife   fimus natu.fignificat Iogeuu fjonine / atcj atmo--   bu fene.St quia be natu facta meeioi^ maior natu   otnatifiie ficmif lcat feniore.' ficut mior natu ib eft   ,be Parentfyefi. {J. iuniore/  Infuper^aubiHepiba fit interpofita nonnuncp in  oratione/atcpinteriecta parentljefis . vtbebifti ab  meCque mea eft fumma voluptas)fuam(fimas lits  teras.omnes amicos(nifi ialloOpJurimum abmi  ror.fcire velim exte(ea nacg eftamicorum cofue-  tubo)quib nuperin caufa.M.Tfaitoniiegeris ♦ et  iti bemum(repoftulante) noftraram Jjuiufmobi  oratione interpofitionibus alpergatrtus/  (TCxll.be Incrcbuit,     *  M II 1 1 1 M llll Illl cm l     6     8     9     10     11  12     13  14 15 T 1 l*- 1     Hecres apub me lerebuit/et fere %nif icat ab au  res perueit^et rei noficia fignat/   CljCxlii. Vt nos nefcire quib feicemus»  Nefcio t)ac re.ignoro/ preferif me ♦ f ugif me. la=  tet me.fyuius rei nefcius fum.ignarus fu.jpec res  fcietiam meam f ugitf   CjjCxiiii.Reliquu eft^pro reff at.  Hoc refiquu e i& eft reftaf /perpulcfyre / et magno  euornatu lbem fignificaf /exemplu eft.omnia tibi  ctnatura et fortuna tribuitreliquii eff t 'vt bene et  iaubabmter viu?S/   (tCxJiiii. VuJgo ib e vbiql   Rumor e vulgo/ibeft vbiql et comunifer&icifur  et ornatus fermo eftf   {J^Cxlv.^vccipere pro au&ire et cognofcere  ^ccipere pro au&ire et cognofcere peruenufte bi*   titur.vtacccpirumoribus/quoruelcertusauctor  acccpi ljolm fama/ que certoauctore cotietur.acce  pi nuciis it> e nuciatioibus.quos nutios z qui mit  ti affert.accepi litterisquas plerucj abaicis accipi  mus.et I aliis cofimilibus lodsf   (ffjxlvuHike Ijofce })*ke*  Prono% articularib| bemoftratis cofucuerut ora  tores abbere ce a&jectione i iis cafib^ qui i f.bcfiuut  tupljonie ca\vtl?iice fyofce tafce pro jjis fycs feas/   mn  V-'     CfCxlviibe tranftatione fyuius  pi-epofitiomscum*  cp* prepofttio que preponi fofet / poftponitur  ecum fi fi jnif icantia eabem manet . et in quibufc  bam juibem femper. que funt mecum tecu fecum  nobifcum vobilcum . in quibufbam qupqj non fe-  per, vt qui cum/quo cumV quibus cu/ te proptet  ac etiam propter te lbem fignificant. et fic quibus  cum « t cun quibus • et in iis potiffimum ea pre*  pofmonum tnnflatio fit que wb enumeramus,  ^XCxlviiuClam prepolitio  potius cp abuerbium»  Clam plerumq? prepofitio eft.et nonnuncj abuer-  bium* (eboratores prepofitionem potius accipi*  unt ;fiue iugatur ablatiuo vt prifcianusfetiti i;ue  accufatiuo/ quobopinatur bonatus* vtclamme  prcfectus eft ib dt me nelciente/   iJjCxlix.Cora et prepofitio et abuerbium»  Coram cum accetu in prima lillaba prepofttio eft  et quib fignif lcet nemo eft qui nclciat.cum accetu  vero in vltima fillaba abuerbium pulcfyerrimum  eft fignif icasCvt ita bicam)prefentialiter. quo fre-  quentiflimeviriboctivtuntur.vtapubM . Gces  ronem.cupio tecum coram iocari ib eit prefentiali  ter.etiam coram tecum loquor* * ! ■ * * I 2* ^     Cl.Deabuerbusin.I.et.V.befinetib^.   Multa abuerbia in.I.exiftetia etiam I ipfis epifto   lis pulefyerrima funt.feb i;ec imprimis ruri vefpe   ri/bomiybelli.Multaitem ino fero/Icrio/conlul   to/poftremo/falfo/merito.precario. Cetera vero   in eobem exitu beunentia ljaub in frequenti funt   vfu oratoru» i n v vero non multa funt biuicuius   fignihcatio manifefta eft.Ioterbiu/quob eft quafi   infra mebii bid temcus.£t noctu pto nocte.quob   magis nome e. Vnbe biu noctucg bicimus;   (jXluNullus pro nom   Hullus«li.um.n6nu§ pro non.prefertim fum /es   cft verbo abiuncto.vt nullus fum.ibefi interii.ref   pu.nulla eft ( quau non eft lbeft extmcta eft. Ibc|   ornatiffimu f uerit.   ^7CIu\Preftofum.ib e affum vel appareo.   Preftomm/fignincataffum. et f ere appareo . et   Dc ibem abuerbiuj eiufbem verbi moois omnibus   ac temponbus peruenufte conuectitur i m eabem   qua mobo pofuimus lignificatia . vt prefto micfyi   fuit feruus tuus vrbe ingrebienti / lb eft affuit.   ([Cliii.Licet micfyi bono vito   efleivel bonum viriun.   Licet micfyi bonu virum effe et licet micfy bono vi   ro elfe vtrumcj latine atcj vf ltate bicitur ♦ Seb 10   goftering magis oratoriu eft*   d^CuiiifPcirpetuu et Iperpetuu aouerbia?  Perpetuu et imperpetuum abuerbia pro eobe po s  niitur ♦' et eis f requeter vtimur*   CjClv.Deuindo proobligo»  Deuincio verbum cum pulcfyerrimum e.tum pre  cipue eplis congruit . fignif icat et beuincio oblis  go / et bevinctus obligatus / ficut et fepe obnos   xius ♦ quobnonloiumtritomorefigmficatquoo  notu eft.febetiam beuincturm   (fClvi • Collocare apub aliqui beneficiu.  Collocare apub alique benef irium eft alicui benefi  cium facere, vt apub gratos viros beneficium col  iocafti*   (IClvii.Gratificor»  <5ratif icor libi fyanc rem predare vfurpaf ur / prp  gratumfacjo»   ([Clviii.De "inbulgeo et ignofco.  Jnbulgeo fane verbum eft aptiffimum et fplenbis  bi ornatus. quob et batiuo iungitur t et f erme \i-  gnificat bo operam, at(j ita reponitur ♦ vt fyie nis  mio fomno inbulget. ib eft nimis bormit mmio d  bo inbulget / lb eft nimis comeoit . be aliis con*  fimili pacto. H Inbulgere quafi concebere eff  verbum luxurielam quanbam Mignans clemetia 1111(11111111 llll  cra 1 6  8 9 10 11 12 13 14 15 13     tt in&uicjentem paretem appelfamus/ leniore er=  ga Iiberos mgenio.quare z ab ignofco piurimum  biffert.eft enim ignofco parco.ibeit bo venia.fme  excufatum fcbeo.ignofco tibiifiquibCexepu cauz  faJabmifens lceleris . inbulgeo vero i vt multa a=  cpre impune queas. quorum verbgrum bifcrime  i>il ^entifFime conliberabum eft/  i]CUx Tantus quantus,   ({Tantus.ta.tum.etquantuseobemobo fefyas  bent in 01 atione vt raro alterum abfgaltero pona  tur. vt cor.cio l?ec tanta eftiquata ante^ac vn§ fu  it.tnbuis micl?i tantu quantum necagnofco / nec  poftulo.tdntum in te eft bocfrine quantum 1 boc=  tilfimo fo 7 et effe viro;   iI_Clx T a»a qualis?  Taliff et qualis alterutru creberrime ponitur* ra  ro vtrucj. vt teie iolemus fentire bonu viru/et fub  Bitelligimuf quale biximus.z ecotra.orator eilfu  ftris qualis alter nuilus reperitur. veru l?ec be f)is  htiBt ^LClxi. Vel pro eciam,  tVel pro etiam particula I multis locis rectiffime  congruit.vtfyambal fuit imperator velomnium   primus.tua eximia virtua vt tearoem velmaxie   impeliit.   ([CytVfrforj  »     r  Verfor verbfi ifl f requetiffio e vTtt veteru ac oifer   toiu foofni . perbif f nlaqj e eius verbi fignif icatia ac   beno variis poteftrationib? expoi.vt ego verfori   Iraru ftubio ib l bo opera lraru ftubio. virt us circa   bifficile verfatur ib e virtus i bifficiii cofiftit. ver*.   famur in tenebris ib eft f ere fumus ac viuimus et   quafi ftamus in tcnebris.etCquob eft exemplis fu   perioribus beciaratum) buos fibi plerumq? ac fre*   qnetius cafus poltulat. nam aut acculatiuo uingi*   tur/precoata circai aut ablatiuo in precebete . na   cu acanatiuo* vt ante f unbu verlari.ab porta ver=   fabatur pcrraro bicta funt. fcb queabmobu cetens   rebus oibus { ita buie f uma abfybenba e biiigetia,*   ^QQUiii . 8niuer o Sinaute ♦  HonnuS oue particule ornatiOime coiunguntur,  quarum eabem fit vtriul* f ignificatio. vt enmero  nam pro explenba fententia altera bumtaxat Juffi  cere poterat ♦ etfimiliter finautem cauia conplen*  be fentencie. eo in loco aute patticula nullam om*  nino vim l?abet. 1m eni per le iignif icat feb h/   trClxiiii.&ttoab. •   auoabypro quoufq;/et pro quabo/no minus or*  nate ponnur^ latine.vt volo in vrbe effe/ quoab  tu rebeasa . ita in plenfc* locis conlimihter accipi  poteft. \     \  1111(11111111 llll  cm     <;■     8  9 10 11 12 13 14 15 • < I  Clxv.Sufci pere.   Sufcipere no folum(quob tritug vulgatufcg vfus  fyabeOfignificat quob eft fuper fe accipere et quo=  bamobo abbucere aliquibi feb etiam perornate po=  fitum in epiftolis cemmenbatum Ipabere. vt fu£ci=  pit cicercnem cefar in fuis rebus abuerfis . que  vticj poftremaugnificatio/r/aub^quaqKfi quisin=  fpiciat accuratius)a priore illa afiena eft/   dQxvi.PoIitiuo abiucta negatio  cotrarii politiui pleruqj vim tenet.  Optima quocj ratio eft vt pofitio cuipiam abiun =  cta negatio cotrarii poifiui virn ac fignificationem  twneat. feb non ita plene / tamen et accurate lilam  expleat.cuius rei exempla fubiciamus . r;ic vir eft  J;aut improbus . fignif lcat enim i ere fyuc lpomine  prolum potius q> imprcbum effe jfyabenbum . et  pr;us ^aub igncbilis.r;iftrio non illepibus.miles  co inftrenuus.ciuis fjaub malus.Nam in iis/eo=  rumc| fimilibus rectius atcjj vlitatius bicitur qua  bo vis laubis cuiufbam eit. feb quafi biminute/ et  quafi btf raubate laubis/   {j[_Clx vii . Peto r;anc rem a te .  CLuob gramatici bicunt peto te r; ac rem /ornatius  nec minus latir. e bici queat * peto banc rem a te et  ibplutimum ciceip m epiftoJis cofueuit. 10 6     •o  10 11 12 13 14 15   \     ^CkviiuConHdoY pro pereo.  Conficior paffiua voce crebro vfitatu e pro eo f e=  re quoo e pereo.vt confectus fu ibeft columtus vt  vir lops ac mifer .'fame/fricjore/bolore coficitor.  fic anis etate et ftubio conficitur ,ac merore Jbbo?  re/fenio cofectus.et be aliis fic per mulf is?  ^JOxix ftblatmi tu participioru tfl  alioru peruenuftam rebbut orationS  ftblatiui cafus no participioru folu/veruecia om  niu alioru in orone percodne ponutur.prcfet tjm  fi qua f uerit fignificatio teporis » et be participiis  quibe mariif eftu eft, vtregnante octauiano cefaref  parta eft vniuerfo orbi pax * quafi qua tempeftate  regnabat octauianus cefar ♦ et aliub bioniiio firas  cufis tyranum gerente/grauifuma inficilia bella  fut gefta.ibeft jn quotepore fyracufanoru bionifc?  us tyranus erat* ([Beb eobe quocj rao alia que  bam fe babet nomitaa .maxime fi bignitatu ct 1)0*  noru extiterit. vtcornelio et galba cbilibus curili*  bp acte fut in tfyeatro f abule . Quiba abbut partid  pium exiftenubus.IeO nos profybemus l quob ab  vcnuftate oratiois n5 pertiet abbi oportere . et iU  fcipionc conlule peni beuicti funt. Icipione impe-  ratore euerfa eft numantia . jpt reliqua eiufmobi   panter.     <     r  MIMIM!  cm     V     8     9     10     11     1  13     14  15 3i     (JCIxx.be geitiuis cu pofieffiuis pronoibus  Licetetia ta Ljramatice q> oratorie genitiuos quo  rumcuqt cafualm cu pcffeffiuis quocuq; cafu proJa  tis coiugere. qucb ct priftianus trabit . vf mea ca  venit/rt celeroru amicorum.meuagrum et mar  ci anfonii populati funt.tuo amico ac fratris gra=  •iificare.tuu.r; imperatorem fectare et coriolanum  p ncfter ac frains amice. fua ille confibit et ciuiu  pruoentia./C tqj lta figuratur conftrucfio in omni*  bus pdifeff:ui3.pinc terentianum illub meo prefi  bjoatq^ofp.ti^   (jCixx! . ^e nominatiuo poffeffiuo * '  •cu gemtiuo poffefibris. •  Ibq? penitus mfpidenbu fit/quaboqj etiam bifcre=.  tioms leu abubancie cuiufbam caufa folet abbicu  genitiao poffefforis et nominatiuus pofieffiuus  vt fuus eft.C.cefaris mcs ib tlt eius et no alterius  fuus ticiifilius fjeres teftamento conftitutus eft.  fuus( vt ipfe quocj pnftianus exponit>b bifcrctio  ne eius pertinet qui fecubum leges fuus non ciU  ib eft fub poteftate patris legittimi non eft . fuus  autem pro vnius cuiufq? proprie accipitur, quob  ipfum apub viros eloquentiffimos freques eft/   daxxii.Quibbiftatbie   quartoetbie.quatfa.   ;.   f   Qit quartaC vt nonius marcellus eciam teftis eft)  et bie quarto non ibem fignificant . feb mafculino  genere preter itu tempus befignatur f eminino f u*  tutum . quob vef uftiffimi tamen aliter protuleriit  vt fic bit quarto pro eo e quob aliter nubiufqrtus  bicifur .'nubiuftertius.^et ltibe be aliis/  <JC1 xxi ii. Qm ib infere inter tua ca et tui ca feci»  Tua caufa fcci/et tui caufa feci ( ne pretei veteru  et boctorem cofuetubinem aliquib ef f iciamus ine  ter fefe fyaub mebiociiter bifcernutur . nam tui ca  bicimus/fiquib eiabquem fermonem vertimus  preftiterimus. vt tui caufa a& antonii caftra prof e  ctus quob eft tuenbi tui gratia. kb tua caufai cum  tuaQ vt ita bixerim) contemplatione aliquib alteri  preftiterimus vt tua ca»fratris tui caufa egi/  ^JXHxxiiii ,be bif f erentia intcr gcnis  tiuos primitiui et pofieffiui .  £t quia aliquib be lis que ab poffeffionem fpectant  locuti lumus i fyaub ab re f uer it bif f erentia illam  ptof erre in mebium .' que intcr genmuos priuKi=  ui eft ct poffelliui. vt mei tui fui noltri et veftri.  qua tibem pulcfyerrime pnfcianus exponit . vox  na<$ eft eabem .at vis ipfa longe biuerfa.cu genitP  uus pnmitiui fimplicem fignificat poffeifionem.  potfeffiui vero bupliccm» vt mci amicus ibe meu3     '   r  a  31 amicus . feb mei filii amicus bupjicem poifefiione  continet alteram meam in f ilio • alteram filii i ami  co. quo cc fubiecimus/ne cum ornafum requiri=  mus4 verboru vim icjncremus ipfam/atq? in erro  rem quepiam iguorater incibamus.feb nunc infti  tutumprofequamur/   ^[C|xi.v.inmentem venit.  Hcc res mic*?i in mttem venitbicitur. et cum ge=  nitiuo l;uius rei mid?i m mttem venit. nec micfyi  curc eft an j:ro nommatiuo geriitiuus pofitus eft,  vt uq; veto ncn iolum poete feb etiam.M. ricero  vfurpauit;   fJClxxvi.be teporu c6mufatione t  Oratcr;s(f:cut et poete^perfepe prefentibus tepo  ribus vtuntur pro pretetitis . nonnucj et pro f u=  turis. veru lb quioe muitorarius . feD cotra fyaub  crebro fit.nifi forte incp verbum/ quob fufuri te-  poris eft / preteriti foco vel prefentis accipiamus.  Seb muita que fuper fyiis bici polfut/in aliub quo  9 tempus ieruamus;   4j0xxvii.>3imilis genitiuo et  plenus batiuo.  Similis et plenus nomina Cquorum prius batiuo  iugitur4poftrerius etia ablatiuo)oratores vt pluri  mu/ac fere femper genitiuo iugunt. vtfimilis'es  !"■          uoru maioru.bignitatis et of ficii es plenus» no»  nuq» vero(feb perraro)pr«feruntur cu fuperiori=   bus cafibusj. ,   {JGxxviii. Vt fubiuctiuis impe=   rdtiua verba iunguntur.  Sepenumero ctia maioris fignif icantie caufa vel  ornatiffime imperatiuis fubiuctiua verba iugutur  quob Cicero fepe ef ficere folebat. quale e iliuO cu =  va vt vir fis. et aliojoco fcrxbens ab f ilium eff ict  etiaboravtexcellas/   ^jGxxix.CurriWcenatuWprabetur.   Decurritur fpaciu/cenatur rijombus l pranbetu*  tultuWcoftmiljaq? pulcf;errime bicuntur/   <£ixxx. Vt trafitiua verba  abfokte prof cruntur»  fltqf vt abfoluta iterbu vcrba obliquis cafibus iun  gutuWita trafitiua quocp iicet nonunqua non folu  pro gramaticoru more/feb etia pro oratoru cofue  tubie abfolute prof eratur .preferti vcro ili qua fu*  palfio cu actione ipfa figmf lcatur. qualia illa fat.  lugeoinbeo/metuo.que cum trafitiua funtinunc  abfoluteproferutur;   CClxxxi.Dc terminatis m bunbus.  due I bubus excut noia ; no ta fimilitubine figni*  ficatCquob pleng arbitratur) § abubatia quabam *3     potius ac vefyemetius.vt gliabubus no ta cjioriati  fimilisiq» abunbe feie vefjementerqi ef feres.Qua  opinione eloquetiu ateji qSerubitifumoru fcominu  vbicg teftimoniis coprobata/tu quoqj firmiter ara  pfectere.na(vtalios omitta)7?vulus gelius auctor  probatiffimuf ex fnla quotj boctiffimi appoftinaris  letabu5us bicitur^qui logo atcg sbubati errore efu  et tu quocj eiftem vtere nominibus/ 1   (^Clxsxn.De Fretus»  Fretus.ta.ui.icerte originis ablatlo iuctu pultfyer  nmu eft.'et ugmficat fere confilu atej munitu. vt  vra fyuanitate f rcius . vra fapieuU J i:on mea vir tute  fretus/ ^Cl*xxiij»Certicrefacere*  Certiore facere vfitate atcj frequenter in epiftolis  vfurpatur.na facio te be i$ac re certioremUb e tibi  figmfico l;ac re.et fepilfime velim me be tua vali*  tubine facias certiorem;   ([CLxxxiiii.be Habeo.  Habeo varia coftructione f iguratu plurimu orna  tus Ipet.vt bene fyec res fc l)et.'qucb e fere vt ita bi  ca\'ftat bene fyec res.et ita bene fyeo me . et cu par=  ticipiis bene me fyabes rebeo rure . et cotrariu ab*  uerbiu fjmiliter ei verbo iugitur ♦ quob eft maie;   /plxxxv.be participiis f uturi teporis ♦  Participia fepenumetQ i uturi temppris ornatiffi     -  me vfurpantur . vt fcripturus fum ab fcipione lit=  teraa. quoo eft fere bebeo fcribere . etaliub.' tu ab  ebes cras iturus eslquafi ire bebes.cicero e atfyeas  profecturus ib e bebet atfyenas proficifci. plautua  in ciprum traiecturus eft ( fere eftnauigarebcbet  in cipru.quob ibcirco ita expofuimus quoniam is  pi-opne nauigare / is tranfmittere t is folucre ei»  locum fignificat vnbe prof icifcimur is bemu tra=  iicere biciturl g> eubem befignat qui rate vebitur.  vt cicero foluit atfjemsiet in afiam traiccitt(f/e=  ru ab propofitu rebeubum eft . illa igitur particis  pia quc a verbis manant palliuis et naffiue quoqj  cxponi bebent. vt cuius infons animus e/mulctaa  bus non cft ib e mulctari et puniri non bebct . fon  tes accufanbi funt ib e accufari bebent.vir flagicio  fusefttrubebusincarccremibe coiicienbus jn vi  cula . 8t alia reliqua exponatur / vt fupra biximus*  {JjMec tame negauerim qui eorunbem participi  oru alia quoqj ratio fit ♦ feb ea nos mobo profequi  mur iprefetiaru/que venuftius eloquiu rebbant/   ^fClxxx vi . be Repeto ♦  Qoiib repeto ^none perpulcfyre ponitur.fi quib ei  accefferikneq; batiuus foluscafus/feb etiam abla=  tinus.vt jepeto fjanc rem memoria/ quobnon te  neo memoria figaifieat. vt permulti extimat ♦ feb  *<     H  •     podus meoria voluto^t rcmifcor /et quafi oblmi  oni trabitu rurlu lueftigo meoria»l;oc nos vii vei  bo ornatiffie poterimusiquonia ecbe z veteres eic  quetiffimi f requeter vfi iut* l;k illub be oratore ci-  ceronis libro. cogitanti mkl)i /ac memoria repete  ti* et africanus a neuio accufatus / tnbuno plebis  <% ab antfyioctjo pccunia accepilfet / comcbiffimc  to verbo vfus* rnemoria (mquit) quintes repeto  ^unc bie fyobiernu effe*'quo Ijanibale penu iimitif  tmu fyuic imperio vici in africa l et perpetua pace  vobis/ac victoriam peperi infeparabile» veiu cap=  tus ingenti voluptate longius in af rica verbis re*  f erebis progrelfus furcuquaobrem «b veltru initi-  tutura ref erat k oratiof  ^JXkxxvii*Promori;bieobireymorte oppe  tereet fimilia,' pro viaere aute vita agere/ be  gere ctatetn / etfimilia ornatebicimus/  Optimu factii fuerit l ne eifbe aut mobis oratio^  sis/aut verbis vtamur* eKquob inicio bicimus)  varia plurimu probat oratio* et ti veluti quibufba  fiofculis afpergitur ♦ vt pro morivbie obire /mor-  t«m oppcterc/anima expirare / vitabecebere]* ani  ma efflare/ vita befugi^ rebus fyumaqis excebere  ex vita migrare/res beferere fyuanas i exii e be vi-  talnwtc? pbireiextremum claubere bie; interire     i  i   occibere cdfimiliacg* et iteru pro viuere vitam age   re begereetatem/   _ iii.Vtlu&oluou.Ticet   viuo vita &icimus et coniimilia»   St(ne figillatim cucta coplectar)illu& fcoc loco ani   mabuertenbum iitiq ficut fepe bicimus lubo lubu   pugno pugnaiferuio feraitutemiboleoy&olore^et   fimilia.' ita et inter&u viuo vitamVviuo miferam   feu felixe vitam, vt fi quis bixerit qui expe&ita fu«=   erint virtuteconfecuti, / ii viuentbeatam/ etimor=   talem vitam.et qui predaru certamen certaucrit/   a mphffimis bonabitur muueribus . £t quob &e va   riis bicimus orationis mobis l i& ipfu be fingulis   partibus intelligebu lit , vt pro oro rogo/ precor   obfecro/ pro quafi pene ferme.reliqua tuipe coiec   U} <JClxxxix,Ib genus,   Ib genus pro eius generis C quo& fere fimile no-  men expnmiOpulcfyre et vfitate bicitur vt multa  funt ib genus monftra. be multis ib genus rebus  locutus eft.'quob e fimilibus.et ita in alns^   {JClxc , Sx fcntencia ,  8x fentencia quafi fecunbum votuntaf em et prof=  perc • vt gefta rcs eft cx fcntentia . quob eft prout  optabamus.et tibi i& vecit « fententiat et muftis  iuiocisconfirniliter;  h   4jCxci.Inferre.  Inferre iiurii quali iniuria facere . manus iferre  alicui eft alique pulfare, impetu j quepia facere iit  quepia cu ipctu et quafi vi aboriniet jrruere}   {[ Cxcii.Dare veniam*   Dareveniam pulcfyerrimu efticrnofcerectlicetia  coneebere;   3°vt> 'nicio ctatis Ijabui te amicu.amicicia micr;i tc  cum eft a teneris annis/a paruulote primis ctatis  temporibue* a tenerisCvt greci bicut) vnguiculis  abincunabilisipfis.etijuiutmobi. {jQtuuei  etaspuicfyerrime abolefccnciam fignificat;   {f Cxciii . F«.rire f ebus .  Fcrire f ebus opfame atcp optimis caufis ex feriali  um cofuetubine fignificat f ebus coponere vt per=   fepe ictum fcu pcrcuffufcbus/eft conftitutum/ ct  compo fitum/   CjCxdiii . Hft micbi nomc fcipioni .  £ft miclji nomefcipioni.fcipioni cognome africa=  no f uit.cui paojo troiano nome c ct lic be reliquig  batio cafu perulitate ac puldjerrime bicitur . que  eabe z aliis quoij mois bicutur.£ frequetius m6s  fueeriores apub eloquetiffimos et boctiffimos vi=  rosioucnies/   {TCxcy «^iunt t f ertur bicitur. i»  Cum tritum vcrbu volumus ©ftenbere Aet quob  in ore populo e.' vtimur vel iperfonali fertur / vel  perfonali verbo aiunt Jet nonuncj biritur . et eis fi  gulis/ vt preponimus.' etraro ita.' feb interoii. q>  exempla fcuiufmobi lut . nam firenesCvt aiui)fur  bi bwbemus aure tranf ire. et item na ita f ertur vt  nulcfc tuta ut fibes. item fyaub turpe e( vt biutur)  tum ultuanbi be grabu beiici,*   4jjCx cv i«Mebiam fuper noctem,  _ onuq> ita bicimus nocte luper mebiam vigilaui*  rous quob e vltra mebia nocte vigilauinius.ibcj z  f taias ipfeteftatuWetquorubam vetcrumpro=  fcut auctoritis; <LGxcvii.Tenbo.  Contra fermone tuu tebo lb e reiponbeo tibi. y licut  et tenbo cotra iter iib e tibi occurro feb fyc fyaub i  frequenti vfu oratorum inuenies;   dCxcviii.ftAacte.  Macte /magis aucte .' et eft glorie et laubis fermo,'  et plerucj ablatio iiigitur.vt macte virtute elto.ib  9 et poete vfurpat/et fcriptores fyiftoriara* etbe=  mu oratores ipfi. qui lermo C vt multi erubitilu=  rai trabunt)a facris bebuctus elt;   (TCxcix. 7Kb expiicanbu locum tue genus  gentile ac patnum effingimus.  duoties alicuius explicaturi fuaius/iiue genus/      i»  !>     *     '     ^_, -a-^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^m^^^^^^^m^     cm  6     a     9     10     li     i     n     13     14     15     »     <     I fiue locu/getuWc patriu nome effingimue. qucb  quifecuBeffccerit/fortaffelatine locutus fit;febil  lepibe penitus/atc| Ibecore. vt qui fuent a firacu=  fis oriubus/no be ciracufis bicebul J? firacufanus  no be atl;els<f? atfjemefis.et fic be aliis. atcj i gc=  nerifc^ /ac familiis nos no be cu abltio vtimur(vt  muiti l feb ibc nome effidmus ♦ vt no bc ftauris f$  luurus . r 6 ite be grecis fcb grccus non bc catufis  feb catulus.non be batis feb batus . Qua qmbe a  reib mento afferebu fitl quob pliniusipfeaiebat/  q> beriuationes no fyabet firmas regulas . fcb exe=  unt/tcrminaturc| vti ipfis autonbus placet ♦ fic a  tfyaurotfyauru/tfyaureu^ttfyaurinu bjcimus» et  quoe nos romanos bicimus^ bicut greci romeos»  guos nos cartfyaginefes ^iUi cartfyiboneos vocantt  &qb in enfis/ valatq as / fi ab loca pertinent fre=  quetiores termina'.iones funt. vt albanenfis/ vero  nenfis dufiuua .' taretinus /lacebcmonus .'eiracutas  nus^arpinas.iftlii quoc| funt eorube nominu exi  tus.feb 11 frequetiori vfu celebratur.quob ibe ct in  quibufba aliis fit«que mq a generis noibj fluxc-  re neqj loci vllius.vt tcrecianus cremes/platoicuB  gigesifocraticus gorgias.queoia a propriis pro=  fecta lunt/atcj origine traxerc. feb que alia fyac bc  re^ici pQiTuUtuipe coQitatione coplectere/   (TCC.Conoi\  Conorrjanc rcm optimc ac peruenufte oirimuB,  prefertim fi bifficilior fit.'et arbua. quo pacto cice  ro fepe vtebatur. vt oe pcrfecto oratorci maguum  opus ct arbuum brute ccnamurf   {[ CCi«{3tubco»  Et ftubeo fi quib ftubiofius effecturi fumus coiam  accufatiuopulc^crrimc iuncjitur;   (JCCii. Defibero*  Dcfibero vcrbu pulcfyerrime pofitfi e . na cu befis  beriu fit abfetiu reru perfepc bicimuf befibcro amo  re tuu quafi tu no mc amas.bcfibcro tua prubetis  anWquafifis iiipies.et ltem bc alns;   ijCCiii . complector ♦  C5plcctor perbiff ufu e/atcj ornatu verbu.prefer=  ti vcro aiiquibus abiecus/ Jjac roe.vt te amore/at  q beiuof ecia coplector /pro te amo» cogitatione co  plecfcr .'qucb e cogito.z lb e aiificut facultatecofe  quor/eft rei ipfius;   {JCCiiii Degerubjuiflf  Illub ignoranbu non tltiq gcrubiuuar mobus ab  omni verbo fimili procratur / fi quanbo nobis fo  ret eo opus . vt cantanbo rumpitur anguia ib eft  bum cantatur l vt ait feruius * et alio in loco acti^  uc bictum eft* cantanbo tu illum it> cit bum canis.     /   I  *  5V     ib efficere atqj vfurpare oratores queunt/   (] CCv^be quarto p retoriet quartu pretor  Putat nonulli nicfjil itereifeiu quis bixent quar -  to pretor / ct quartum prefor / et (ic be aliis. feb  magna e certe bra/vt.M.varro teltis e.na quarto  pretor locu figmficat/et tres anteactos. quartum  vero befignat tpus .Caue igitur biligenter ne per=  pera fjifce vtaris ronibj.ne ofuib eotra veteru/ at  cp eloquetiu roore/cofuetubinecj faciamus. quare   terciu coful/ac tertio cdlulno ibefignificatt  {JCCvi.Kuri effe»   £eb ne plura iH f equar(na infinita pene «iu fmob   precipi poflut)ib tene memoria q? no irure effe/feb   ruri ee bicimus.quob cu f eftus popeius affirmat   tum terecius cdprobat.aif ei ruri fe cotinebat/   Quaobrem u qua reliqua fut.'paucis ex^ e^.amus   Nam cu pro coficiebis epiJfoIis I)ee potiffimu at-   ligerimus fi falutatioms formuia/ ac regula ibu   um nonaruqj obferuatione patef eceri .' iure l;uic   p aruo inftituto fine ac mobum ftatuerini/   4/C Cvii.Vale Salue»   Vale igitur ac falue verba pro marci varronis /et   omnium boctiifimorum virorum (entencia ibem   fignif icare vibentur, Quibus nos alias in faluta=   60 aiias in execranbo vtimur * ex quo terenciann      <   iliuc» 2. valeant qui inter nos bifdbiu volut /ac cu=  piunt mortuis quoqj et qui mortaliu vita beccffes  runt^ quibus nullam fyuiufce Iucis optare lalu.e  polfumus ,'nonuncj vale bicimus. CE?t veterea  quobam eifoe ibem verbu pro mori bicebat^quafi  nicfyil araplius viuentibus fibi cu mortuis futuru  elfet t et imperpetuu iam ab eoru afpectu bifcebes  rent.Nam neg? valet llli nec| falui effe polfunt ob  eabem rem abbut nonulii bene f eliciteng abuerbta  aut fi qua alia funt euumobi fiemihcatie. Veruta=  meninepiftolisipfisvaiein finebicere cofueuis  mus ab^ vlla abuerbii acceflione^ perinbe ac ami*  cis vite falute ac f eligitate exoptemuf .Quib igitur  vale fibi querat.' quo ve illo pacto vtebu fit nofcef  Ct GGviii.bico tibi lalute iubeo te faluere,  Pro falute aute piemc| nos bicimus falutem bico  et fi quefalutare cupimus 4 batiuo cafu aptifume  appofucnmus» vt vaie et cefari bic falutem . T^lia  quo(j erit faiutanbi ratio.vt iube fcipioncm falue*  re quob eft fcipionem faiuta . iSiam ille mobus vi  quabam befiberii cotinet . ct pro antiquoru more  et confaetubine inf initiuus mobus in alium tranf  mutatur ♦ vt iubeo te faluerc ib eft lalue . iubeo te  gaubere_pro gaube;   ^JCCw.Meo noie vel meis vcrbis,  ■ t     {Tp ro mea ex paif e.  Quob vero alii ex mea parte bicuntl mulfo quibe  ornatius bicitur vel meo noie vel meis verbis/   (JCCx*Dc calebis/nonis/et ibibus»  Quota aute cuiuicuqj mefis biem velimus mtellr  gereicalebis/nonis/ibibus ve notamus.necj quib  illi fibi velitinuc expiicare cofiliii eft.feb quo pac-  to bicamus figulorum mefium bies.' et quomofco  ab eis nominatione fufcipiat . cpobrem intelligebu  elti primis/ primu cuiufqi mt fis biem/ calenbaru  appellatione vocari . fecunbu quas nonarum bies  coftituitur . ef in aliis quibe mefibus feptima luce  Marcio/Maio lulio/Octobri.in aliis autem qui»  ta/Ianuario/Februario/yvpnli lunio / 7\ugus  fto/Septembri/nouebri/Decembri. J^tc| omne«  ii bies qui cdlenbas et nonas intercefferint*' nona-  rum cognominatione cefentur . vbi et numerum  meminenmus /ac nonas ipfas.et ille ablatiuo con  ftruuntur.' fjee accufatiuo . Seb internumeranbu  etprepoftero vtemur orbine^et nonarum biem co  numerabimus .' atnonisexactis/ proximosocio  bies . ib quocjt in quolibet menfe ibuum umiitter  cognominatione fignincabimus* fcb pari rone tu  orbis/tu anumerationis.reliquos veroeius mefi»  (quotquot fuperf ueriObies calebaru appeliatione     H  *  4,  >  notabimus.que hxturiJacpYcximi fut mefisi neeg  orbinis/necp numeratiois roeimutate. 7>vt ib om  nc exeplo iiluftrabu iSitqf martius nobis exeplo.  cuius curriculu vno ac trigefimo bit coficitur .pri  tna ltaqj bies halenbe erut mahi.fecunba fexto no  nas marcii.tercia quito nonas. quarta qnartono*  nas . quita ttrcio nonas . fe.\ta no bicitur fecunba  nonasifeb pribie nonas.et lta be lbibus at^ fcalcn  lsfeptima bieg none erunt marcii . octaua octa-  uo ibus marcii .nona feptio ibus mattii becima fex  to ibus marcii.vnbecima quito lbus . ouobeum*  quarto ibus. tribecima terno ibus . quartabeciina  pribie ibus quitabecima ibus erunt marcii.febecia  bccimo leptimo halenbas aprihs. quoniam is me  fis proximum fequitar.beamafepnma beamofrx  to halenbas april.g. becima octaua bccimcquinto  halerbas/becima nona becimo quarto halebas. vi  ccfuna becimotertio kalcbas. vicefimapt ia buobe*  cimo calenbas. vicefimaiecunba vnbecimo calebas  viceiimatertia becimo calenbas , vicefima quarta  nono calenbas vicefima quinta / octauo calenbas.  Viceuma fexta feptimo caienbas . Vicefima fepn=  ma lexto cahnbas . Viceiima octaua quinto ca«  lenbas . Vicelima nona quarto calenbas . Trice  frnia tertio calebas. Tricefima prima et nouifiim/i   i     / K  /* * «  J  pribie fcalebas aprilis.In ceteris omibus eabefer 3  uaoa eit ratio bieru, Dieru autem numerus f;aub  fe lateatgui in propmtu eft cmnibus/  4jCCsi ♦ P^ibie kaienbas ,'pribie,  nonas,'pribie ibus.  Pribie aute fcalenbas/pnbie nonas/pribie ibus et  «t fignificat quob vetuftiffimi bicebant biepriftini  pro abuei bio quob fignif icat bk priftino . et iic per  vetuitomore biecraf tini / et biequitiet biequinto  umiliter pto abuerbio , Veru nos prifcam nimis  et Ipombiore vetuftate vbicf f ugere ac vifere bebt  mus, #vc bene et preclare cefar preciperc Folebat/  ta§ fcopulu fic f ugienbu ee iaubitu /atq ifoles ver  fcum; <L Pro genitis aate ihenfiu rectius pof=  felfiua nomina finxerimus. vt pto ijalebis marcii  fic uenuftxus bixerimus halebas martiaf z ita apri  les/maias / lunias /iulias /ac quitiles auguffas feu  fextiks/ieptembrias, et itaianuarias/ fcbruarias  g> autem m haknbis/nonis ibibuiq abiatiuo cafu  iugimus.' jbcm poifimus in accufatiuu tranfferre  et ab preponer e feb ib iignificst tempus fere biu=  turnu, vt ab bccimu kalenbas februarii bebiiti ab  me litteras . ego vero ab ocfauu ibus lanuarias ao  te fcripferam^abet enim vim tejs»f»e*4^vel:;emen  twem fyocpofterjus; fc>  J  4 1 Operis peroratio.  Me «Sor pl«» fcribamdpc micfy Etic imprefen*  tiarum obtulerut ! quc anotatu bigniora vila funt{  nuc« tibi multo plus ferfafe conbucent ; cj eoru  preceptioncs i quieafbemetepiftohsetoratiQm;  bus tribuunt partes.quorum penitus enpient.ua  eb error .afa* ita fentienbui vti littens ipbs ab te  concinnc bilucibc^ perfcribamus .'ac noitram len»  tcntia afc» mente ^comobiffime apenamus . cj? cu  bec bili S cnter tenueiis < ck in£inito pene fcrum r«  La numcro;alia qucbam no mmus taaife vtt<  ha,'feb multa grauiora (ubnectam.auaobremCvt  facis ) cupibiwme ftubia htteraru complectere at  L ea queinbiesaffequerisabcxeraUttommawo   moba? IVale?   f/fluguftini bati fenenfis oratoris  primaru liajjocjicus libellua -   octttioniB precepta finitf  4"     oc Kt e^a     rAficm      ^•S. "atriftcr mM^urinxx^j^iit^Scnom^m  ttyAnne* ie fUmati* ^d{'   Llmulas kriwor frpi » 1> *f 1 5t cm 1 8  10 11 12 13 14 1:* cm 1 7 8 9 10 11 12 13 14 15 ■^2 B 10 11 12 13 14 1: s J cm 1 6 8 9 10 11 12 13 14 15 /cm 1 6 7 8 9 10 11 12 13 14 _3 *Y     cm 1     V     8 9 10 11 12 13 14 15 Grice: “Dati is into ‘elegance’ but he is also into ‘regulae’, which are a bit like my maxims – my maxims can be exploited for ‘effect’ – and those are the types of rules that Dati is interested. Sadly, his philosophy has been interpreted as that of a mere linguist or grammarian prescribing on how to write letters! But he surely was a pre-Griceian who is looking for ‘rational’ pragmatic reasons to the effect of a most effective, yet ‘elegant,’ communication. Many examples can be philosophical: ‘women are women’, ‘war is war’. ‘Women are women’ is not meant as a substitutation for Parmenides’s law, x = x. Such an utterance would be, “Every thing is identical with itself.” “War is war” is different in that ‘war’ is uncountable, and we can keep the singular ‘is’ of Parmenides’s law, x = x. But why do we consider ‘War is war’ a tautology? Because it is the exemplification of ‘x = x” – Now, some philosophers claim that ‘war is war’ – or Parmenides law, for that matter, isn’t not a ‘patent tautology’, since it needs to be formalized in the predicate calculus, and the predicate calculus is not decidable, i.e. there is no algorithm for its interpretations which render its formulae tautologous. Augustinus Datus. Augustinus Dathus. Agostino Dati. Keywords: ELEGANTIOLÆ, retorica, grammatica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Dati” – The Swimming Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51766418442/in/dateposted-public/

 

Grice e Delfino – la musica delle sfere -- l’ottava sfera – filosofia italiana – Luigi Speranza (Padova). Filosofo. Grice: “Delfino is what we at Oxford would call a ‘philosophical mathematician,’ and in Italy, an astrologer – his specialty was the ‘motum’ of the ‘ocatva sphaera’!” “But he also wrote on algorithms!” Ensegna a Padova. Erudito dalle multiformi attività, fu attivo a Padova nel filone dell'aristotelismo padovano rinascimentale: sicuramente studioso di logica e matematica, ebbe chiara fama di matematico e di astronomo. Altre opere: “De fluxu et refluxu aquae maris” (Venezia); “De holometri fabrica et usu in instrumento geometrico, olim ab Abele Fullonio invento: Acc.); “Disputatio de aestu maris et motu octava sphaera, Johann Niklaus Stupanus, Abel Foullon, Padova, In Accademia Veneta Paulus Manutius.  Dizionario biografico degli italiani. Musica delle sfere Lingua Segui Modifica La musica o armonia delle sfere, detta anche musica universale, è un antico concetto filosoficoche considerava l'universo come un enorme sistema di proporzioni numeriche. I movimenti dei corpi celesti(Sole, Luna e pianeti), ritenuti collocati su sfere ruotanti, avrebbero prodotto una sorta di musica, udibile solo dall'orecchio dei veggenti,[1] e consistente in formule armonico-matematiche.   Incisione di Franchino Gaffurio (Practica musice, 1496) che raffigura Apollo, le Muse, le sfere planetarie e i rapporti musicali. La teoria della musica delle sfere ebbe origine nell'antichità e continuò a essere seguita almeno fino al XVII secolo, suscitando l'interesse di filosofi, musicologi e musicisti.  StoriaModifica La musica delle sfere incorpora il principio metafisicosecondo il quale le relazioni matematiche esprimono non solo rapporti quantitativi, ma anche qualità che si manifestano in numeri, forme e suoni, tutto connesso in un enorme modello di proporzioni.  AntichitàModifica Pitagora, per primo, capì che l'altezza di una nota è proporzionale alla lunghezza della corda che la produce, e che gli intervalli fra le frequenze sonore sono semplici rapporti numerici.[2]  Secondo Pitagora, il Sole, la Luna e i pianeti del sistema solare, per effetto dei loro movimenti di rotazione e rivoluzione,[3] produrrebbero un suono continuo, impercettibile dall'orecchio umano, formando tutti insieme un'armonia. Di conseguenza, la qualità della vita sulla Terra sarebbe influenzata da questi suoni celesti.[4]  Nel mondo greco il cosmo era paragonato a una scala musicale, nella quale i suoni più acuti erano assegnati a Saturno e alle stelle fisse. Il Sole era indispensabile per la realizzazione dell'armonia in quanto, secondo i greci, corrispondeva alla nota centrale che congiunge due tetracordi.[5] Per Filolao, matematico e astronomo pitagorico, il mondo è armonia e numero, e tutto è ordinato secondo proporzioni che corrispondono ai tre intervalli fondamentali della musica: 2:1 (ottava), 3:2 (quinta) e 4:3 (quarta).[6]  In seguito, Platone descrisse l'astronomia e la musicacome studi gemellati per le percezioni sensoriali: astronomia per gli occhi, musica per le orecchie, ma entrambe riguardanti proporzioni numeriche. Egli, inoltre, appoggiò l'idea di una musica delle sfere nel dialogo La Repubblica, nel quale descriveva un sistema di otto cerchi, ovvero orbite, per i corpi celesti: stelle fisse, Saturno, Giove, Marte, Mercurio, Venere, Sole e Luna, che si distinguono in base alle loro distanze, al colore, e alle velocità di rivoluzione.[7]  La visione di un universo strutturato in cerchi concentrici, aventi come centro la Terra, era del resto comune a tutta l'antichità: si trattava di sfere intese come ambiti di pertinenza, ognuna delle quali contenente un pianeta che esse trascinavano con sé, muovendosi in maniera circolare. Era questo loro movimento a generare il suono, come affermava anche Cicerone:  «Movimenti così grandiosi non potrebbero svolgersi in silenzio, e la natura richiede che le due estremità risuonino, di toni gravi l'una, acuti l'altra. Ecco perché l'orbita stellare suprema, la cui rotazione è la più rapida, si muove con suono più acuto e concitato, mentre questa sfera lunare, la più bassa, emette un suono estremamente grave; la Terra infatti, nona, poiché resta immobile, rimane sempre fissa in un'unica sede, racchiudendo in sé il centro dell'universo. Le otto orbite, poi, all'interno delle quali due hanno la stessa velocità, producono sette suoni distinti da intervalli, il cui numero è, possiamo dire, il nodo di tutte le cose; imitandolo, gli uomini esperti di strumenti a corde e di canto si sono aperti la via per ritornare qui, come gli altri che grazie all'eccellenza dei loro ingegni, durante la loro esistenza terrena, hanno coltivato gli studi divini. Le orecchie degli uomini, riempite di questo suono, diventarono sorde, né infatti vi è in voi un altro senso più debole.»  (Cicerone, Somnium Scipionis, libro VI del De re publica, cap. 18) Più tardi i filosofi, fra i quali Tolomeo, mantennero la stretta correlazione fra astronomia, ottica, musica e astrologia.[8] Nel IX secolo, l'astronomo arabo al-Kindisviluppò le idee di Tolomeo nel suo De Aspectibus, che associa anch'esso astronomia e musica.  MedioevoModifica  Angelo musicante, affresco di Melozzo da Forlì (1480), Musei Vaticani.[9] L'antica concezione cosmologica della musica delle sfere passò nel Cristianesimo, dal quale venne ulteriormente meditata e approfondita, costituendo la base di numerose raffigurazioni di angeli musicanti, suddivisi in cori angelici gerarchicamente ordinati, identificati con le orbite celesti di astri e pianeti:[10]nella musica delle sfere si udiva cantare cioè il corodegli angeli, che accompagnava gli eventi principali che avvenivano in Cielo, quali la Trinità, l'Ascensione, l'Incoronazione di Maria.[10]  Già Agostino d'Ippona, nel De Musica e nelle Confessioni, vedeva nei suoni il riflesso di un'armonia primordiale dell'anima.[11] Furono poi soprattutto Macrobio e Boezio a fare da tramite fra il pensiero pitagorico, basato sul simbolismo dei numeri, e la nuova teologia cristiana. La Via Lattea, intersecando lo Zodiaco, forniva per Macrobio il «latte», ossia il nutrimento alle anime dimoranti nei cieli, in attesa di incarnarsi. Tutto l'universo è per lui fondato su rapporti numerici, nei quali si riflette il progetto creativo di Dio, esprimibili secondo accordi musicali basati sulla tetraktys pitagorica.[12]  Boezio, ponendo le basi del quadrivium scolastico, ossia il complesso delle materie scientifiche che verranno insegnate nelle scholae medievali (aritmetica, musica, geometria e astrologia), spiegava l'ordine del cosmo secondo la rinuncia da parte dei quattro elementi agli aspetti discordanti.[12] Egli introdusse inoltre nel De Institutione musicae una distinzione fondamentale, destinata ad avere grande fortuna nel Medioevo, tra musica mundana, propria delle sfere celesti, musica humana, quale si riflette nell'interiorità umana, e musica instrumentalis, fatta dagli uomini a imitazione di quelle.[11]  Dante allude in più occasioni all'armonia delle sfere, in particolare nel primo canto del Paradiso della Divina Commedia,[13] quando si rivolge all'Amore che governa le Sfere dei Cieli, il cui movimento rotatorio, reso eterno dal desiderio che esso accende in loro, desta la sua attenzione («mi fece atteso»):  «Quando la rota, che Tu sempiterni desiderato, a sé mi fece atteso, con l'armonia che temperi e discerni, parvemi tanto, allor, del cielo acceso de la fiamma del sol, che pioggia o fiume lago non fece mai tanto disteso.»  (Dante, Paradiso, I, 76-81) Dal Rinascimento all'età modernaModifica  L'armonica nascita del mondo rappresentata da un organocosmico, in Musurgia Universalis di Athanasius Kircher (1650). Nel Rinascimento, a fianco della teoria pitagorica si sviluppò la visione magico-ermetica dell'armonia, espressa dalla concezione del monocordo di Robert Fludd, nel quale le sfere dei quattro elementi, dei pianeti e degli angeli sono disposte verticalmente sul monocordo, accordato dalla mano divina. Dio, dunque, è architetto e musicista supremo del creato.[5] Un modello analogo era stato delineato da Franchino Gaffurio, il quale aveva collocato i pianeti attorno a un'ideale corda musicale, secondo una scala eseguita dalle nove Muse, accompagnata dalle tre Grazie e diretta da Apollo.[5]  Giovanni Keplero, nel XVII secolo, influenzato dagli argomenti di Tolomeo, scrisse il libro Harmonices Mundi, nel quale vengono descritte le consonanze fra percezioni ottiche, forme geometriche, musica e armonie planetarie. Secondo Keplero, il punto d'incontro fra geometria, cosmologia, astrologia e musica è rappresentato dalla musica delle sfere.[14]Keplero, però, superò il modello statico delle sfere di concezione copernicana in favore di un modello dinamico, trasformando le orbite da circolari a ellittiche, che i pianeti percorrono a velocità variabili (seconda legge di Keplero). Inoltre, Keplero attribuì a ogni pianeta non un singolo suono, ma un intervallo di suoni, in cui la nota più grave corrispondeva alla velocità minima che il pianeta teneva durante la rivoluzione (in corrispondenza dell'afelio), e quella più acuta alla velocità massima, raggiunta nel perielio.[5]  Baruch Spinoza, nella sua Etica dimostrata secondo il metodo geometrico, criticò con fermezza tale concetto filosofico, indicandolo come idea priva di fondamento scientifico, frutto dell'immaginazione umana: «[...] la follia degli umani è arrivata al punto di credere che dell'armonia si diletti anche Dio; e nemmeno mancano filosofi profondamente convinti che i movimenti dei corpi celesti producano un'armonia».[15]   Il Sole e i corpi celesti. L'immagine ritorna in Goethe, che nel Faust apre il Prologo in Cielo con le parole dell'arcangelo Raffaele, intento a contemplare la «melodica» armonia vigente tra il Sole e i corpi celesti:  (Tedesco)  «Die Sonne tönt nach alter Weise in Brudersphären Wettgesang, und ihre vorgeschriebne Reise vollendet sie mit Donnergang.»  (IT)  «Intonando l'antica melodia, a gara con gli astri fratelli, percorre il corso prescritto il Sole con passo di tuono.»  (Goethe, Faust, primi quattro versi del Prologo in Cielo[16]) Nel primo Novecento, nell'ambito delle concezioni esoteriche elaborate dalla scuola antroposofica, l'esoterista Rudolf Steiner sosteneva l'esigenza di recuperare la capacità sovrasensibile, propria dei pitagorici e di epoche ancora più remote dell'umanità, di percepire la musica delle sfere. Solo inconsciamente, durante il sonno, l'uomo riuscirebbe ad attingere dal mondo astrale e spirituale quell'armonia che gli consente di fornire un sostegno alla sua anima razionale, e ricomporne gli aspetti dissonanti.[17] Tale armonia celeste secondo Steiner, diffusa attraverso gli spazi cosmici per mezzo del cosiddetto «etere-chimico», ha effetto principalmente sul ritmo della respirazione.[18]  «Il musicista compositore trasforma incoscientemente in suoni fisici, il ritmo, le armonie e le melodie che, durante la notte, egli ha percepito nel devachan, le quali sono rimaste impresse nel suo corpo eterico. Questo è il misterioso rapporto tra la musica che risuona nel fisico e l'ascolto della musica spirituale durante la notte. La musica fisica non è che la copia della realtà spirituale. Come l'ombra sbiadita sta in confronto all'uomo vivo, così la musica-ombra fisica sta alla vera musica-luce spirituale.»  (Rudolf Steiner, L'essenza della musica, conferenza di Colonia del 3 dicembre 1906) Steiner si propose di ricreare nel microcosmo umano l'armonia stellare attraverso l'arte da lui stesso fondata, denominata euritmia, dell'equilibrio tra parole, gesti e movimenti.[19]  NoteModifica ^ Hazrat Inayat Khan, Il misticismo del suono( PDF ), traduzione di Hasan Signora, 1931, p. 93. ^ Weiss, p. 3. ^ Plinio il Vecchio, pp. 277-278. ^ Houlding, p. 28. ^ a b c d a cura di Natacha Fabbri, L'armonia delle sfere, su brunelleschi.imss.fi.it, Museo Galileo. URL consultato il 29 febbraio 2012. ^ Kahn, p. 26. ^ Davis, p. 252. ^ Smith, p. 2. ^ Affresco appartenente a un gruppo di altri angeli musicanti dipinti a Roma da Melozzo nel 1480 nell'abside della chiesa dei Santi Apostoli, successivamente trasferiti in forma di frammenti nella Pinacoteca Vaticana nel 1711. ^ a b Atti. Classe di scienze morali, lettere ed arti, volumi 147-148, pp. 316-318, Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, 1989. ^ a b Mario Pasi, Storia della musica, volume 1, pag. 380, Jaca Book, 1995. ^ a b Christiane L. Joost-Gaugier, Pitagora e il suo influsso sul pensiero e sull'arte, pag. 140, Arkeios, 2008. ^ Dante e la musica delle sfere. ^ Kepler & the Music of the Spheres, su skyscript.co.uk. URL consultato il 29 febbraio 2012 (archiviato dall' url originale  il 12 maggio 2012). ^ Baruch Spinoza, Ethica ordine geometrico demonstrata, 1677. ^ Trad. it. a cura di Patrizio Sanasi. ^ Tiziano Bellucci, L'armonia delle sfere planetarie, lo zodiaco musicale e i colori, su coscienzeinrete.net. ^ Stefano Centonze, Manuale di Arti Terapie, pag. 234, ed. C. Virtuoso, 2011. ^ Articolo su Rudolf Steiner e l'euritmia, su italiadonna.it. BibliografiaModifica Piero Weiss e Richard Taruskin, Music in the Western World: a history in documents, Cengage Learning, 2008, ISBN 978-0-534-58599-0. Plinio il Vecchio, Storia Naturale, 77 a.C. (tradotto da Harris Rackham, Harvard University Press, 1938, ISBN 06-7499-364-0) Deborah Houlding, The Traditional Astrologer, Ascella, 2000, ISSN 1369-4826 (WC · ACNP). Henry Davis, The Republic, The Statesman of Plato, Nabu Press, 2010, ISBN 978-1-146-97972-6. Marc Smith, Ptolemy's theory of visual perception: an English translation of the Optics, American Philosophical Society, 2006, ISBN 978-0-87169-862-9. Charles Kahn, Pythagoras and the Pythagoreans, Hackett Publishing Company, 2001, ISBN 978-0-87220-575-8. Voci correlateModifica Armonia Harmonices Mundi De Institutione musica Gerarchia degli angeli Sfere celesti Temperamento (musica) Altri progettiModifica Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Musica delle sfere Collegamenti esterniModifica Filmato audio  L'Armonia delle Sfere - i45002, 14 aprile 2010. URL consultato il 30 agosto 2017.   Portale Astrologia   Portale Filosofia   Portale Matematica   Portale Musica Ultima modifica 3 mesi fa di Paroll PAGINE CORRELATE Harmonices Mundi Sfere celesti Hans Kayser musicologo tedesco  Wikipedia Il contenuto Federicus Dolphinus. Federicus Delphinus. Federico Dolfin. Federico Delfino. Delfino. Keywords: l’ottava sfera, first sphere, second sphere, third sphere, fourth sphere, fifth sphere, sixth sphere, seventh sphere, eighth sphere – prima sphaera, seconda sphaera, tertia sphaera, quarta sphaera, quinta sphaera, sexta sphaera, septima sphaera, octava sphaera, holometria, fabrica holometri, aristotelismo padovano vs. platonismo fiorentino – aristotele – platone – padova naturalism – Firenze idealism – filosofia della percezione – prospettiva -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Delfino” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51768078450/in/dateposted-public/

 

Delia

 

Deliminio

 

Grice e Delogu – semiotica romana – implicatura sarda -- filosofia italiana – filosofia sarda -- Luigi Speranza (Nuoro). Filosofo. Grice: “We can call Delogu a Griceian; at least he has written a little tract that he entitled ‘questioni di senso’ – which is all that my philosophy is about!”  Si laurea a Sassari  e, come vincitore di una borsa di studio regionale di perfezionamento in Dottrina dello Stato, ha collaborato all’attività didattica e di ricerca con Pigliaru.  È stato redattore del periodico del seminario di Dottrina dello Stato Il Trasimaco, fondato e diretto da Pigliaru.  Come vincitore di concorso ha insegnato Filosofia e Storia nei licei. Ha preso servizio a Sassari in qualità di ricercatore.  Come vincitore di concorso ordinario, è prof. associato e  prof. ordinario di Filosofia morale presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Sassari. Cofonda i Quaderni sardi di filosofia e scienze umane. Fonda e diretto i Quaderni sardi di filosofia letteratura e scienze umane.  Fa parte del comitato scientifico della rivista “Segni e comprensione” -- dell’Lecce.  È stato direttore del Centro studi fenomenologici a Sassari, fonda e diretto la sezione sassarese della Società Filosofica Italiana.  È stato direttore della Scuola di specializzazione per la formazione degli insegnanti a Sassari. Gli è stato conferito il Premio Sardegna-Cultura e il Premio Giuseppe Capograssi, dalla giuria presieduta da Giovanni Conso, presidente dell’Accademia dei Lincei. Organizza numerosi convegni, tenutisi in Sardegna, generalmente a Sassari. Tra questi: Realtà impegno progetto in Pigliaru, Libertà e liberazione; Etica e politica in Capograssi; Tuveri filosofo, Dettori filosofo, Esperienza religiosa e cultura contemporanea, Le nuove frontiere della medicina tra etica e scienza, Vasa filosofo, Nella scrittura di Satta,; Filosofia e letteratura in Karol Wojtyla; Attualità di Noce; Scrittura e memoria della Grande Guerra. Ha partecipato in qualità di relatore ai convegni su Merleau-Ponty (Lecce), Mounier (centro E. Mounier Reggio Emilia), Sartre (Bari, Università Roma TRE, La Sorbona di Parigi), Gramsci (Cagliari), Intellettuali e società in Sardegna nell’Ottocento (Cagliari), Capograssi (Roma),  Noce (Roma); Tuveri (Cagliari), SSatta, (Trieste); su Corpo e psiche: l’invecchiamento (Chiavari), su I vissuti: tempo e spazio (Chiavari); è stato relatore al Corso di formazione su Fenomenologia e psico-patologia promosso dal Dipartimento di salute mentale di Massa Carrara.  Ha tenuto lezioni seminariali sul pensiero fenomenologico di Wojtyla a Lublino; Capograssi, sul Diritto penale internazionale a Ginevra, sul pensiero filosofico politico nella Sardegna dell’Ottocento a Zurigo.  È stato responsabile del gruppo di ricerca dell’Ateneo sassarese su L’etica nella filosofia italiana e francese contemporanea, PRIN. Collabora alle riviste Annuario filosofico, Rivista internazionale di Filosofia del diritto, Nouvelle Revue théologique; al Dizionario storico del movimento cattolico in Italia, alla Enciclopedia Filosofica edita da Bompiani. Ha diretto il Master Mundis per la Dirigenza Scolastica promosso da Sassari in collaborazione con la conferenza nazionale dei Rettori.  Premio "Sardegna-Cultura" Premio "Giuseppe Capograssi”. Altre opere: “Insegnamento e implicamento empiegamento della filosofia nella scuola secondaria, Tipografia editoriale moderna, Sassari); “La critica di Merleau-Ponty alla concezione tomista dell’uomo e della libertà in S. Tommaso nella storia del pensiero,  Teoria e prassi in A. Pigliaru, Quaderni sardi di filosofia e scienze umane, La Filosofia Cattolica in Italia, Quaderni Sardi di filosofia e scienze Umane); “Pluralismo culturale ed educazione in Colloquio interideologico,“ Orientamenti Pedagogici", La Filosofia dell’educazione in A. Pigliaru; in Quaderni Sardi di filosofia e scienze umane, Se la corrente calda… Un itinerario filosofico: Péguy, Sorel, Mounier, Sartre, Quaderni Sardi di filosofia e scienze umane, M. Ponty, Esistenzialismo, Marxismo, Cristianesimo,, Editrice La Scuola, Brescia); Né rivolta né rassegnazione: saggio Su Merleau-Ponty, Ets, Pisa); “Le corpori nell’esperienza morale” Quaderni Sardi di filosofia e scienze umane, Non vi è terza (né altra via) nell’ “Esprit” di Mounier, Quaderno Filosofico, “Temporalità e prassi” in S. Weil, Progetto, Temporalità e prassi in  Sartre in Sartre, teoria scrittura impegno, V. Carofiglio e G. Semerari, Ed. Dedalo, Bari, Una filosofia disarmata Merleau- Ponty in Esistenza impegno progetto in Merleau-Ponty, G. Invitto, Guida, Napoli); “Storia e prassi” in La ragione della democrazia, Ed. Dell'oleandro, Roma, Giuseppe Capograssi e la cultura filosofico-giuridica in Sardegna, Quaderni sardi di filosofia e scienze umane, Note per una fenomenologia della esperienza religiosa; in Chi è Dio. Università Lateranense, Herder, Roma, Storia della cultura filosofico-giuridica, Enciclopedia della Sardegna, La Filosofia etico-politica di Dettori e la cultura sardo-piemontese tra Settecento e Ottocento, Quaderni Sardi di Filosofia e Scienze Umane, Il nucleo di vita e di luce del Rousseau capograssiano in Due convegni su Capograssi, F. Mercadante, Giuffè, Milano, Filosofia e società in Sardegna tra Settecento e Ottocento in “La Sardegna e la rivoluzione francese” M. Pinna, Editore, La Filosofia giuridica e etico-politica negli intellettuali sardi della prima metà dell’Ottocento: Azuni, D. FoisTola, G. Manno in Intellettuali e società in Sardegna tra Restaurazione e Unità d’Italia, Editore, Le Radici fenomenologico-capograssiane di S. Satta giurista-scrittore; in Salvatore Satta giurista-scrittore, U. Collu, Edizioni, Nuoro); “Soggetto debole, etica forte: da S. Weil a E. Levinas; in Le Rivoluzioni di S. Weil, G. Invitto, Capone Editore, Lecce, Pigliaru e Gramsci in Socialismo e democrazia, Archivio sardo del movimento operaio contadino e autonomistico, Tracce del postmoderno in Weil, in Moderno e postmoderno nella filosofia italiana oggi, U. Collu, Consorzio per la pubblica lettura S. Satta, Nuoro, Società e filosofia in Sardegna Tuveri, FrancoAngeli, Milano, Cultura barbaricina e banditismo in Pigliaru e M.Pira in L’Europa delle diversità, FrancoAngeli, Milano, Prospettive fenomenologiche nella cultura contemporanea; in Quaderni sardi di filosofia letteratura e scienze umane, Asproni e i filosofi sardi contemporanei in Giorgio Asproni e il suo ‘Diario Politico’, Cuec, Cagliari, Domenico  Azuni, Elogio della pace, a cura di, Assessorato Regionale alla Pubblica Istruzione, Cagliari, Multi-dimensionalità della esistenza, in Quaderni sardi di filosofia, letteratura e scienze umane, D.A. Azuni filosofo della pace, in Francia e Italia negli anni della rivoluzione, Laterza, Bari); “La Preghiera in J.Sartre in Esperienza religiosa e cultura contemporanea, a cura di, Diabasis, Reggio Emilia); Note su “Etica comunitaria” e etica planetaria, in Quaderni sardi di filosofia, letteratura e scienze umane, Temporalità esistenza sofferenza, in Esistenza e i vissuti Tempo» e Spazio, A. Dentone, Bastogi, Foggia); Le Relazioni Intermediterranee e il pensiero di D.A. Azuni, in Il regionalismo internazionale mediterraneo nel 50º Anniversario delle Nazioni Unite, Consiglio Regionale della Sardegna, Cagliari, La Festa e la via: una lettura fenomenologica, in Quaderni sardi di filosofia, letteratura e scienze umane, Corpo e psiche: l’invecchiamento in Minkoswski, in Corpo e psiche, A. Dentone, L’invecchiamento, Bastogi, Foggia, Cosmopolitismo e federalismo nel pensiero politico sardo dell’Ottocento, in Il federalismo tra filosofia e politica. Edizioni, Questioni Morali); La prospettiva fenomenologica, Istituto Italiano Di Bio-etica, Macroedizioni, Cesena, L’etica della mediazione, in Il problema della pena minorile, FrancoAngeli, Milano, La filosofia in Sardegna, Etica Diritto Politica, Condaghes, Cagliari, Antonio Pigliaru, La lezione di Capograssi, a cura di, Edizioni Spes, Roma); Note su Del Noce e il nichilismo; in Quaderni sardi di filosofia, letteratura e scienze umane, Repubblica e civiche virtù, in Lezioni per la repubblica. La festa è tornata in città, Diabasis, Reggio Emilia, K. Wojtyla, L’uomo nel campo della responsabilità, a cura di, Bompiani, Milano, Federalismo e progettualità politico-sociale in Carlo Cattaneo e Giovanni Battista Tuveri, in Quaderni sardi di filosofia, letteratura e scienze umane); Cattaneo e Tuveri in Carlo Cattaneo temi e interpretazioni, M. Corrias Corona, Centro Editoriale Toscano, Firenze, Al confine ed oltre. La sofferenza tra normalità e patologia, Edizioni Universitarie, Roma);  J. Sartre, Barionà o il figlio del tuono, a cura di, Marinotti, Milano, Due Filosofi militanti: Carlo Cattaneo e Giovanni Battista Tuveri in Cattaneo e Garibaldi. Federalismo e Mezzogiorno, A. Trova, G. Zichi, Carocci, Roma, Esperienza e pena in Satta in Nella scrittura di Salvatore Satta, Magnum, Sassari, Note Introduttive alla filosofia di Wojtyla, Orientamenti Sociali Sardi); Note sul cristianesimo di Pigliaru, Orientamenti Sociali Sardi, Nov-Dic., Etica e santità in Simone Weil; in Etica contemporanea e santità, Edizioni Rosminiane, Stresa); Legge morale e legge civile in Natura umana, evoluzione ed etica. Annuario di Filosofia, Guerini e Associati, Milano, V. Jankélévitch, Corso di filosofia morale, a cura di, Raffaello Cortina, Milano); Filosofia e letteratura in Karol Wojtyla, Urbaniana University Press, Roma, La phénoménologie de l’agir moral selon Karol Wojtyla, in Nouvelle Revue Theologique,  Prefazione all’analisi dell’esperienza comune in Giuseppe Capograssi, in La vita etica, F. Mercadante, Bompiani Milano, La noia in Jankélévich, in In Dialogo con Vladimir Jankélévich., Lisciani Petrini, Mimesis, Milano); La filosofia di Capograssi in Esperienza e verità-  Capograssi filosofo oltre il nostro tempo, Il Mulino, Bologna, L’eredità di Capograssi nel pensiero di Pigliaru, in Antonio Pigliaru. Saggi Capograssiani, a cura di, Edizioni Spes, Roma,  Ragione e mistero, in Orientamenti Sociali Sardi, XV,. Il pensiero di Noce sul Magistero della Chiesa, in Attualità del pensiero di Augusto Del Noce,, Cantagalli, Siena, Contro lo scientismo. Una esperienza di vita, in Gesù Di Nazareth all’UniversitàAzzaro, Libreria Editrice Vaticana, Roma,. Libertà di coscienza e religione, in Martha C. Nussbaum, in Nel mondo della coscienza: verità, libertà, santità, Centro Internazionale di Studi Rosminiani, Stresa, Individuo Stato e comunità in Pigliaru, in Le radici del pensiero sociologico-giuridico, A. Febbrajo, Giuffré, Milano,. La pace e la guerra nel pensiero di Cimbali e Vecchio docenti nell’Sassari in Scrittura e memoria della Grande Guerra, A. Delogu e A.M. Morace, Pisa, ETS,  Questioni di senso- Breviario filosofico, Donzelli, Roma,. La vita e il diritto nell’opera di Satta, Nuoro, Lezione di commiato di Antonio Delogu, La Nuova Sardegna, 02 marzo, su lanuovasardegna.gelocal. Remo BodeiAntonio Delogu, su youtube.com. Festival di filosofia.  Wikipedia Ricerca Sardegna e Corsica provincia romana Lingua Segui Modifica Sardegna e Corsica Sardegna e Corsica  Un pavimento a mosaico proveniente da Nora (in alto a destra), le rovine romane di Aleria (in basso a destra), le terme romane di Fordongianus (in basso a sinistra), e le rovine dell'anfiteatro romano di Cagliari (in alto a sinistra). Informazioni generali Nome ufficialeSardinia et Corsica CapoluogoCaralis Dipendente daRepubblica romana, Impero romano Amministrazione Forma amministrativa                                           Provinciaromana GovernatoriGovernatori romani di Sardegna e Corsica Evoluzione storica Inizio237 a.C. CausaPrima guerra punica Fine456 CausaInvasione dei Vandali Preceduto daSucceduto da Domini cartaginesiRegno dei Vandali Cartografia Corsica et Sardinia SPQR.png La provincia nell'anno 120 La Sardegna e Corsica (in latino: Sardinia et Corsica) fu una provincia romana di età repubblicana e imperiale. La Sardegna entrò nella sfera d'influenza romana dal 238 a.C. La Corsica due anni più tardi ed entrambe vi rimasero fino all'invasione dei Vandali del 456. Roma occupò la Sardegna nell'intervallo fra la prima e la seconda guerra punica. Già nei primi anni del grande conflitto, precisamente nel 259 a.C., il suo esercito aveva tentato la conquista dell'isola, giungendovi dalla Corsica, ma il console Lucio Cornelio Scipione, dopo essersi impadronito di Olbia, aveva dovuto ritirarsi.  StatutoModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Province romane e Lista dei pretori di Sardegna e Corsica. La Sardegna (in greco Σαρδώ, Sardò) e la Corsica(Κύρνος, Kýrnos),[1] furono annesse rispettivamente nel 238 e nel 237, sottraendole alla dominazione punica. I buoni rapporti che intercorrevano tra le popolazioni locali e i Cartaginesi, contrapposti ad un regime di conquista introdotto dai Romani, determinarono una serie di rivolte (in Sardegna negli anni 236-231 a.C., 216 a.C., 187-177 a.C., 126 a.C. e 122 a.C.; in Corsica negli anni 234-231 a.C., 201 a.C., 172 a.C., 163 a.C., 111 a.C.) e un'incompleta pacificazione in particolare delle tribù dell'interno, con continue azioni, considerate brigantaggio dai Romani.  L'intera provincia era governata da un pretore(attestato a partire dal 227 a.C.), con capoluogo a Carales (Cagliari), in Sardegna.  Probabilmente l'intero territorio della Sardegna fu considerato ager publicus populi Romani e sottoposto all'esazione di una decima, a cui potevano aggiungersi altre requisizioni e si ritiene che ad un regime simile sia stata sottoposta anche la Corsica. Di una certa importanza era la produzione di grano della Sardegna mentre altre esportazioni erano costituite dal sugheroe da prodotti della pastorizia e dalle saline. La proprietà terriera mantenne in Sardegna il carattere di latifondo, già impostato sotto la dominazione punica.  La situazione della provincia rimase marginale con una scarsa romanizzazione, soprattutto dovuta alla presenza dei reparti militari, e con una forte permanenza della cultura locale. Una prima consistente immigrazione si ebbe nel I secolo a.C. in seguito alle proscrizioni delle guerre civili. Durante il periodo della guerra civile tra Mario e Silla vi vennero dedotte in Corsica le colonie di Mariana (presso Biguglia) e di Aleria. Dopo la morte di Silla, vi riparò Marco Emilio Lepido, che in seguito, sconfitto dal governatore Gaio Valerio Triario, si spostò in Spagna con alcuni seguaci. Durante la guerra civile tra Cesare e Pompeo la provincia fu abbandonata dai pompeiani, ma le diverse città accolsero diversamente le truppe cesariane e furono di conseguenza punite o ricompensate. Cesare fondò la colonia di Turris Libisonis (Porto Torres, sulla costa settentrionale) e attribuì a Carales lo stato di municipio. Parallelamente, in funzione del loro appoggio, a diversi influenti personaggi locali era stata concessa la cittadinanza romana. La romanizzazione non si estese tuttavia mai del tutto nell'interno delle due isole.  Con la riforma augustea nel 27 a.C. la provincia divenne senatoria, ma nel 6 d.C., la necessità di mantenervi un presidio armato contro il persistere del brigantaggio indusse lo stesso Augusto a passarla a provincia imperiale. Fu amministrata sempre da un praefectus Sardiniae a partire da Tiberio, e da Claudio al titolo principale di praefectus Sardiniae fu aggiunto l'attributo procurator Augusti.[2][3][4] Passò a varie riprese da senatoria, governata da un propretore, a imperiale, a seconda delle necessità contingenti. La provincia fu occupata da alcuni latifondi di proprietà imperiale e interessata dallo sfruttamento delle minieree fu spesso utilizzata come luogo di confino (per esempio per Seneca).  Storia delle due isole romane   Modifica  Il Mediterraneo occidentale nel 348 a.C. al tempo del secondo trattato tra Roma e Cartagine. Frattanto gli Etruschi subiscono l'attacco dei Galli e di Roma Magnifying glass icon mgx2.svg                                         Lo stesso argomento in dettaglio: Storia della Sardegna, Storia della Corsica e Trattati Roma-Cartagine. Sembra che il primo serio interessamento di Roma alla Corsica si ricavi da un testo di argomento insospettabile: è infatti in Teofrasto, il botanico greco, che si legge di una spedizione romana in Corsica finalizzata alla fondazione di una città. Le 25 navi della spedizione incorsero però in un inatteso inconveniente, rovinandosi le vele con la selvaggia e gigantesca vegetazione, i cui rami crescevano e si sporgevano dai golfi e dalle insenature dell'isola sino a lacerarle irrimediabilmente; e, per completare il disastro, la zattera che caricava 50 vele di ricambio affondò con tutto il carico[5]. La spedizione sarebbe avvenuta intorno al IV secolo a.C., a questo periodo infatti diversi studiosi, fra i quali il Pais[6], riferiscono il brano del botanico.  Fallita la prima spedizione, non era cessata l'attenzione dell'Urbe per il mare e le due isole. Per questo interesse giunse anche, all'incirca nel 348 a.C.[7], a stipulare due trattati con Cartagine, entrambi riguardanti Sardegna e Corsica; ma se rispetto alla prima isola i passaggi dei trattati sono ben chiari[8], i patti sulla seconda sono tutt'altro che nitidi, al punto che Servio osserva che in foederibus cautum est ut Corsica esset medio inter Romanos et Carthaginienses[9]. Anche Polibio, narrando dei trattati[10], non menziona la Corsica e da questo silenzio, insieme al fatto che l'isola non figurava nemmeno nelle descrizioni dei territori a controllo cartaginese, il Pais ed altri dedussero che la facoltà di controllarla che tempo prima Cartagine aveva pattuito con gli Etruschi, si fosse da questi trasmessa a Roma[6]. Tuttavia lo stesso Pais ricorda, per converso, che Cartagine non aveva mai rinunziato a mire sull'intero Mediterraneo, e che riponeva nella Corsica un interesse specifico, giacché a partire dal 480 a.C.ne assoldava periodicamente fidati mercenari; questa circostanza, unita ad una facile riflessione sull'importanza strategica di un'isola a vista, anzi dirimpettaia delle rive liguri, toscane e laziali, punto quindi di osservazione e di attacco, parrebbe smentire l'ipotesi di un disinteressamento di Cartagine come causa del silenzio dei trattati[6].  L'occupazioneModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Prima guerra punica. Dopo lo scoppio della prima guerra punica nel 264 a.C., il console romano Lucio Cornelio Scipione nel 259 sbarcò in Corsica presso lo stagno di Diana[11], a circa 3 km da Aleria, e assediò la città; sebbene l'invasore contasse sull'effetto sorpresa, Aleriaresistette a lungo e dopo la capitolazione Scipione la fece saccheggiare con ferocia, ciò che secondo Floroavrebbe diffuso lo sgomento fra le popolazioni corse[12]. Prima di aver consolidato l'occupazione della Corsica, Scipione passò in Sardegna dove secondo Giovanni Zonara i locali erano in rivolta contro Roma in quanto sobillati dal generale cartaginese Annone[13]. Sulla rivolta non vi sono dubbi, ma sono state espresse perplessità a proposito dell'asserita fomentazione cartaginese, ad esempio il Dyson definì l'asserzione di Zonara a cryptic passage.[14]. A ogni buon conto, Scipione uccise Annone[15] e ne organizzò il funerale[16]. Al suo rientro a Roma, il console celebrò il trionfo[17] per la vittoria su Cartaginesi, Sardi e Corsi.   Le Bocche di Bonifacio che separano le due isole L'anno successivo, nel 258 a.C., Gaio Sulpicio Patercolo sbarcò nella zona di Sulci in Sardegna, ma nei venti anni che seguirono non sono riportate attività dell'esercito Romano in Sardegna. La pace del 241 a.C.lasciò così l'isola sotto l'egemonia di Cartagine, anche perché la suddivisione del Mediterraneo in sfere d'influenza aveva portato i Cartaginesi, una volta persa la Sicilia, a spostare la propria attenzione verso altre zone al di fuori della sfera d'influenza Romana. Ma in quello stesso anno, seguendo l'esempio dei commilitoni d'Africa, i mercenari stanziati da Cartagine in Sardegna si ribellarono e s'impadronirono del potere nell'isola, compiendovi ogni sorta di efferatezze finché i Sardi, esasperati, insorsero e li cacciarono dalla loro terra. L'orda dei sanguinari invasori si rifugiò allora in Italia dove invitò i Romani a prendere possesso della Sardegna, momentaneamente indifesa. L'invito fu accolto: Roma, cogliendo l'occasione dei preparativi punici per la rioccupazione dell'isola, accusò Cartagine di preparare l'invasione del Lazio e, nel 238 a.C., inviò le sue legioni in Sardegna. Cartagine, che non era allora in condizioni di intraprendere una nuova guerra contro Roma, subì il sopruso.  Nel 236 a.C., il senato romano dichiarò guerra ai Corsi[18] ed inviò una spedizione di conquista guidata da Licinio Varo, non coerente con l'avvenuta occupazione dell'isola attestata in alcuni storici romani[19]. Il comandante Varo, comunque, conscio dell'esiguità della flotta assegnatagli, fece precedere l'attacco principale da un'operazione decentrata meno impegnativa, onde fiaccare le difese corse, facendo sbarcare sull'isola un corpo separato di spedizione al comando dell'ex console Marco Claudio Clinea. Prima di questa operazione, Clinea aveva già compromesso la sua reputazione presso i Romani, avendo osato andare in battaglia contro l'avviso degli àuguri[20] e avendo pure commesso un sacrilegio consistente nell'avere (o aver fatto) strangolare dei galli sacri; ansioso di riguadagnare prestigio, egli mosse da solo contro il nemico e ne fu sconfitto.[21] I Focei lo obbligarono a siglare un umiliante trattato presto sconfessato da Varo, che lo ignorò o lo infranse, a seconda dei punti di osservazione, e attaccò quando gli avversari, i quali dopo la firma del trattato non si attendevano un attacco e avevano quindi smobilitato.[21]. Varo li vinse facilmente e conquistò territori nella parte meridionale dell'isola; poi tornò a Roma dove chiese la celebrazione del trionfo, che gli fu però negato. Quanto allo strangolatore di galli, Clinea, Roma decise di lasciarlo in mano ai Corsi presumendo che lo avrebbero ucciso per esser in qualche modo venuto meno (con l'attacco guidato da Varo) al trattato sottoscritto, ma questi lo liberarono ed anzi lo rinviarono a Roma indenne; il Senato tuttavia non cambiò idea e, dopo averlo riportato in città, lo condannò a morte, inducendo Valerio Massimo a chiosare che hic quidem Senatus animadversionem meruerat[21].   Le tribù Nuragiche (XVII-II secolo a.C.). Le prime rivolteModifica Così come i Corsi, anche le popolazioni sarde che se in precedenza avevano finito con l'accettare la presenza dei Cartaginesi collaborando parzialmente con loro, ora non erano affatto disposte a subire il dominio di questa nuova gente, anch'essa venuta d'oltremare con le armi in pugno, ed intrapresero subito un'accanita resistenza all'invasore nei modi di una ostinata e persistente guerriglia. Essi infatti erano armati alla leggera: utilizzavano le pelli di muflonecome corazze naturali, oltre ad un piccolo scudo ed una piccola spada.[1]  Già nel 236 infatti, due anni dopo la conquista da parte romana del centro sardo-punico della Sardegna, i Romani condussero varie operazioni militari contro i Sardi che rifiutavano di sottomettersi. Nel 235, sobillati dai Cartaginesi che "agivano segretamente", i Sardi si ribellarono, ma la rivolta fu soffocata nel sangue da Manlio Torquato, che avrebbe celebrato il trionfo sui Sardi il 10 marzo del 234.  Nel 233 altre rivolte furono sanguinosamente represse dal Console Carvilio Massimo, il cui trionfo sarebbe stato celebrato il 1º aprile dello stesso anno. Nel 232fu il console Manio Pomponio a sconfiggere i Sardi ed a ricevere gli onori del trionfo il 15 marzo. La resistenza, però, era ben lungi dall'essere stata sedata ed anzi il clima si fece rovente. Sempre nel 233 a.C. i consoli Marco Emilio Lepido e Publicio Malleolo, di ritorno da una spedizione in Sardegna in cui avevano razziato dei villaggi, furono costretti da una tempesta a prendere terra in Corsica; gli abitanti li assalirono, massacrarono i soldati e li depredarono del bottino sardo[13]. Il Senato di Roma inviò allora nell'isola il console Caio Papirio Maso, il quale dopo una serie di buoni successi nelle zone costiere, si diede ad inseguire i corsi (per Roma "i ribelli") sulle montagne. Qui i padroni di casa ebbero facilmente la meglio, dovendo il romano fare i conti anche con la scarsità di rifornimenti e perdendo uomini, oltre che per le azioni militari, anche per la denutrizione delle sue truppe[22]. Papirio fu costretto ad una resa e sottoscrisse un altro trattato i cui dettagli non sono noti, ma che assicurò un buon periodo di pace.[13][23] In seguito Roma completò l'occupazione della Corsica durante la prima guerra punica, dando l'avvio ad una fase di dominazione che durò ininterrotta per circa sette secoli.  Nel 231, data la grave situazione di pericolo, furono inviati addirittura due eserciti consolari: uno contro i Corsi, comandato da Papirio Masone, e uno, guidato da Marco Pomponio Matone, contro i Sardi. I consoli non ottennero il trionfo, dati i risultati fallimentari conseguiti. E a poco valse a Papirio Masone celebrare di sua iniziativa il trionfo, negatogli dal senato, sul monte Albano anziché sul Campidoglio e con una corona di mirto anziché di alloro.  La provincia di Sardegna e CorsicaModifica Magnifying glass icon mgx2.svg               Lo stesso argomento in dettaglio: Lista dei pretori di Sardegna e Corsica. Nel 226 e 225 si verificò una recrudescenza dei moti, ma ormai Roma era fortemente intenzionata ad assicurarsi il dominio del Mar Mediterraneo, e dunque il possesso della Sardegna e della Corsica, che continuavano ad essere di decisiva importanza; così, già dal 227, le due isole (perlomeno le parti controllate da Roma) ottennero la forma giuridica ed il rango di Provincia - la seconda dopo la Sicilia - e vi fu inviato il pretore Marco Valerio Levino (?) per governarla[24]. Per domare gli ultimi focolai, stavolta fu inviato l'esperto Console Gaio Atilio Regolo, con 2 legioni, ai primi di maggio del 225 a.C.  La rivolta sarda di Ampsicora e gli anni della guerra AnnibalicaModifica Magnifying glass icon mgx2.svg                                  Lo stesso argomento in dettaglio: Seconda guerra punica.  Mappa della rivolta di Ampsicora in Sardegna (215 a.C.) Verso la fine del 216 a.C. giunse a Roma una lettera del propretore Aulo Cornelio Mammula, il quale si lamentava del fatto che non erano stati corrisposti gli stipendia ai suoi soldati di stanza nell'isola, e che vi erano gravi carenze di approvvigionamenti di grano. Allo stesso fu risposto di dover provvedere con i propri mezzi, poiché al momento non vi era alcuna possibilità di soddisfare tali richieste.[25]  In assoluto, la più importante rivolta dei Sardi fu quella del 215 a.C., scoppiata all'indomani delle grandi vittorie di Annibale in Italia. Livio sostiene che:  «[...] l'animo dei Sardi era stanco della lunga durata del dominio romano, spietato ed avido [...]; erano stati oppressi da pesanti tributi e con ingiuste imposizioni di rifornimenti di frumento.»  (Livio, XXIII, 32.9.) Il nuovo pretore inviato nell'isola, Quinto Mucio Scevola, si ammalò probabilmente di malaria dalla descrizione che ne fece Tito Livio.[26] E quando si venne a sapere della sua malattia a Roma, gli vennero inviati dei rinforzi (pari a 5.000 fanti e 400 cavalieri), posti sotto il comando di Tito Manlio Torquato.[27]  Un autorevole esponente dell'aristocrazia terriera sardo-punica, quell'Amsicora (o Ampsicora) che Tito Livio definì: «qui tum auctoritate atque opibus longe primis erat» (colui il quale in quel tempo era largamente primo per autorità e per ricchezze), era infatti riuscito non solo a mettere in campo un esercito sardo abbastanza consistente, ma anche ad ottenere rinforzi militari da Cartagine, inviandovi ambasciatori in segreto. Secondo alcune fonti insieme ad Amsicora a condurre la rivolta si trovava pure Annone, un ricco cittadino punico di Tharros[28]. Cartagine sostenne la rivolta inviando una flotta forte di 15.000 armati, sotto il comando di Asdrubale il Calvo.[28][29] Il piano di Amsicora era quello di dare battaglia solo quando tutte le forze disponibili si fossero riunite. Per continuare il reclutamento tra i sardi dell'interno, lasciò il comando al figlio Iosto a Cornus con una parte dell'esercito. I rinforzi di Cartagine però non arrivarono in tempo per colpa di una tempesta che dirottò le navi sulle isole Baleari dove rimase per molto tempo per essere riparata;[30] e i Sardi dell'interno indugiarono troppo prima di unirsi al suo gruppo. Iosto accettò imprudentemente la battaglia offerta dal comandante Manlio Torquato. L'esercito sardo fu sconfitto subendo la perdita di 3.000 soldati, 800 furono fatti prigionieri[28].  Asdrubale il Calvo intanto raggiunse la Sardegna, sbarcò a Tharros e respinse i Romani verso Caralis[31]. A loro si unì Amsicora con il resto dell'esercito sardo. Lo scontro con i Romani avvenne nella piana del Campidano meridionale, tra Decimomannu e Sestu[28]. Dopo una cruenta battaglia la coalizione sardo-punica fu duramente sconfitta, morirono 12.000 tra Sardi e Cartaginesi e 3.700 furono fatti prigionieri fra i quali Asdrubale il Calvo ed Annone[28]. Iosto morì in battaglia. Amsicora affranto dal dolore per la morte del figlio, non volendo finire nelle mani dei Romani si uccise[28].  Alla fine dell'estate del 210 a.C., una flotta cartaginesedi 40 navi, comandata da Amilcare apparve davanti alla città di Olbia, situata nella costa nordest della Sardegna e la devastò;[32] poi quando apparve il pretore Manlio Vulsone con l'esercito, il comandante cartaginese si affrettò ad allontanarsi fino a raggiungere Caralis (Cagliari), che saccheggiò e da lì fece ritorno in Africa con un ingente bottino.[33]  Le rivolte del II secoloModifica  Romania e Barbaria Il II secolo a.C. fu, specialmente nella sua prima parte, un periodo di importanti fermenti insurrezionali. Nel 181 a.C. ci fu una rivolta dei Corsi, sedata nel sangue dal pretore Marco Pinario Posca, che ne uccise circa 2.000 e fece un certo numero di schiavi[34]. Nel 173 a.C. una nuova rivolta fece intervenire Attilio Servato, pretore in Sardegna, che fu battuto e costretto a ripararsi sull'altra isola[35]; Attilio chiese rinforzi a Roma, questa inviò Caio Cicerio che, dopo aver fatto voto a Giunone Moneta di erigerle un tempio in caso di successo, ottenne un nuovo sanguinoso successo, con 7.000 corsi uccisi e 1.700 fatti schiavi[36]. Nel 163 a.C. a domare una nuova rivolta fu invece Marcus Juventhius Thalna, delle cui gesta non è stato tramandato. Oltre al silenzio letterario sulla spedizione, colpiscono due aspetti anche più singolari del poco che ne è stato tramandato: il primo è che dopo aver avuto notizia del successo il senato romano indisse delle preghiere pubbliche, il secondo è che saputo a sua volta di quanto importante fosse stato considerato il suo successo, Thalna ne trasse tanta emozione da addirittura morirne[37]. Morto Thalna, la ribellione dovette riprendere immediatamente, sostiene il Colonna[21], poiché Valerio Massimo, pur senza parlare di altre rivolte, segnala che dalla Sardegna dovette allungarsi sull'isola corsa anche Scipione Nasica a completare la pacificazione; circa la complessiva azione romana di repressione delle insurrezioni, lo stesso Colonna suggerisce inoltre che in nessun caso debba essersi trattato di successi pieni poiché, oltre che al primo, a nessun altro condottiero fu poi più concesso il trionfo[21].  La resistenza dei Sardi si protrasse ancora nel II secolo a.C. Per sedare la ribellione dei Balari e degli Iliesi del 177/176 a.C., il Senato inviò il console Tiberio Sempronio Gracco al comando di due legioni di 5.200 fanti ciascuna, più 300 cavalieri, cui si associarono altri 1.200 fanti e 600 cavalieri fra alleati e Latini. In questa rivolta persero la vita 27.000 sardi (12.000 nel 177 e 15.000 nel 176); in seguito alla sconfitta, a queste comunità fu raddoppiato il gravame delle tasse, mentre Gracco ottenne il trionfo. Tito Livio documenta l'iscrizione nel tempio della dea Mater Matuta, a Roma, dove i vincitori esposero una lapide celebrativa che diceva:« Sotto il comando e gli auspici del console Tiberio Sempronio Gracco, la legione e l'esercito del popolo romano sottomisero la Sardegna. In questa provincia furono uccisi o catturati più di 80.000 nemici. Condotte le cose nel modo più felice per lo Stato romano, liberati gli amici, restaurate le rendite, egli riportò indietro l'esercito sano e salvo e ricco di bottino; per la seconda volta entrò a Roma trionfando. In ricordo di questi avvenimenti ha dedicato questa tavola a Giove.» La Sardegna in epoca romana aveva appena 1/5 dei suoi abitanti attuali (300.000 contro 1.600.000 attuali) e la Barbagia (più o meno la provincia di Nuoro) poteva avere allora appena 55 000 abitanti (1/5 dei suoi attuali 280.000). Se l'epigrafe raccontava il vero, i Romani avevano ucciso la metà degli abitanti, per di più tutti maschi e adulti[31].  Le rivolte dei Sardi non si erano concluse, ma bisognò attendere gli anni 163 e 162 a.C. per vederne di nuove (13-14 anni dopo lo sterminio compiuto da Sempronio Gracco)[28]. Non si sa molto su queste rivolte poiché andarono perduti i testi di Tito Livio successivi al 167. Si sa però da altre fonti che le sollevazioni causate dall'eccessiva pressione fiscale dei pretori romani continuarono e gli eserciti e i generali romani che si susseguirono nel compito di domare questa terra utilizzarono sempre la stessa strategia: eliminare il maggior numero di Sardi possibile.  Tra le ultime rivolte di una qualche importanza vanno citate quelle del 126 e del 122: quest'ultima permise a Lucio Aurelio di celebrare l'8 dicembre il penultimo trionfo romano sui Sardi. L'onore però dell'ultimo fu dato dal Senato al console Marco Cecilio Metello che nel 111 a.C., dopo 127 anni di lotta, sconfisse l'ultima resistenza dei Sardi uniti (quelli delle coste e dell'interno)[38]. Da questo momento, i Sardi delle zone costiere e delle pianure dell'Isola smisero di ribellarsi e col passare del tempo si romanizzarono. Continuarono invece le ribellioni delle seguenti tribù dell'interno che costrinsero le guarnigioni romane a estenuanti campagne militari.  Ilienses (siti tra il Marghine ed il Goceano) Balari (abitanti il Monteacuto e parte della Gallurameridionale) Corsi (ubicati nella estremità settentrionale della Sardegna) Olea - "Sardi Pelliti" o Aichilensens (così definiti dall'erudito geografo Tolomeo, dal greco aix, aigòsovvero vestiti di pelli di capra), abitanti la regione del Montiferru: arroccati nelle fortezze di sa Pattada Cunzada (959 m) - Scano di Montiferro -, Badde Urbara (900 m) - Santu Lussurgiu -, nei nuraghi di Leari (850 m), su Crastu de sa Chessa (745 m), Funtana de Giannas (690 m) - Scano di Montiferro - , Silbanis e Monte Urtigu (1050 m) - Santu Lussurgiu Celsitani, Nurritani, Cunusitani, Galillensi (odierna Barbagia), Parati, Sossinati e Acconiti (nel Monte Albo e nei Monti Remule) costituenti la cosiddette Civitates Barbariae, dimoranti nell'area chiamata Barbària e probabilmente facenti parte dell'etnia degli Ilienses[39]. In queste epoche, un gran numero di Sardi che erano stati fatti prigionieri furono venduti come schiavi nei mercati di Roma, al punto che divenne proverbiale la frase di Livio: "sardi venales" (sardi a basso costo).  Mario fondò in Corsica la città di Mariana (Colonia Mariana a Caio Mario deducta), sita presso l'attuale comune di Lucciana verso la foce del Golo, nel 105 a.C. Da questo momento iniziò la colonizzazione vera e propria e sull'isola fiorirono ville rustiche e suburbane, villaggi e insediamenti di ogni tipo, incluse le terme di Orezza e Guagno.  Le Guerre Sociali                   Modifica Durante le guerre civili romane la Sardegna fu dapprima spinta verso la fazione mariana dal suo governatore Quinto Antonio e poco dopo indotta a schierarsi nel campo opposto dal sopraggiungere del rappresentante di Silla. Nell'81 a.C. furono i legionari di Silla a trovare in Corsica il luogo di pensionamento, stavolta presso Aleria.  Morto Silla, il pretore Caio Valerio Triario mantenne la Sardegna fedele al partito senatorio capeggiato da Pompeo (l'isola pagò a quest'ultimo un enorme tributo in acciaio per le armi del suo esercito nel 47 a.C.), finché Carales (Cagliari) non si schierò con Cesare, imitata poco dopo da tutto il resto dell'isola. Fu scacciato il luogotenente di Pompeo, Marco Cotta, e fu accolto favorevolmente quello di Cesare, Quinto Valerio Orca. I pompeiani non si diedero per vinti e iniziarono una serie di azioni guerresche intese alla riconquista delle città costiere. Sulci si arrese mentre Carales resistette: per questo motivo, Cesare punì la prima e premiò la seconda[40]. La situazione si capovolse di nuovo nel 44 a.C., quando la Sardegna, assegnata ad Ottaviano, fu invece occupata da Sesto Pompeo che la tenne come preziosa base per la sua lotta contro i cesariani fino al 38 a.C., quando, tradito dal suo luogotenente, fu definitivamente soppiantato da Ottaviano nel possesso dell'isola.  Con quella data finalmente ebbe termine per la Sardegna il periodo delle lotte violente e dei bruschi sovvertimenti politici, con le loro funeste conseguenze economiche, durato esattamente duecento anni.  Nel 44 a.C. Diodoro Siculo visitò la Corsica e notò che i còrsi osservavano tra loro regole di giustizia e di umanità che valutò più evolute di quelle di altri popoli barbari; ne stimò il numero in circa 30.000 e riferì che essi erano dediti alla pastorizia e che marchiavano le greggi lasciate libere al pascolo. La tradizione della proprietà comune delle terre comunali non fu eradicata del tutto se non nella seconda metà del XIX secolo.  I primi due secoli dell'ImperoModifica  Busto di Augusto, museo archeologico nazionale di Cagliari Il 13 gennaio del 27 a.C. le province dell'Impero romano furono ripartite tra le province affidate all'Imperatore Augusto, governate da legati di rango senatorio, e province affidate al senato, tra cui la Sardegna e Corsica[41], governate da proconsoli (proconsules) di rango senatorio . Anche nelle province senatorie l'Imperatore aveva suoi rappresentanti di rango equestre detti procuratori (procuratores)  Presso Aleria e Mariana si approntarono basi secondarie della flotta imperiale di Miseno. I marinai còrsi arruolati presso i porti dell'isola furono tra i primi a ottenere la cittadinanza romana (sotto Vespasiano, nel 75). Analogamente a quanto avveniva in altre province, i Romani si guadagnarono il rispetto e la collaborazione dei capi locali (a cominciare dai Venacini, tribù del Capo Corso), riconoscendo loro funzioni di governo locale ed apportando ricchezza con la messa a profitto delle terre sfruttabili in collina e lungo le coste.  Nel 6 d.C. i Sardi si ribellarono, non solo all'interno ma anche nelle pianure, e manifestarono il loro malcontento unendosi ai pirati del Tirreno[41]. La violenza di questa rivolta costrinse Augusto a rimuovere i senatori dal comando della Sardegna ed a prenderne lui stesso il controllo diretto[41]. Fu inviato un distaccamento di legionari, comandati da un prolegato (al posto del legato) di rango equestre[41] o da un prefetto, a rinforzare la presenza militare sull'isola che prima era affidata solo ad alcune coorti ausiliarie. La rivolta fu così violenta che alcuni storici hanno ipotizzato che la Sardegna e la Corsica fossero state divise e affidate a 2 governatori di pari grado indipendenti l'uno dall'altro; è infatti attestata l'esistenza di un praefectus corsicae. Più accreditata è però l'ipotesi che vuole che questo prefetto di Corsica fosse un subordinato del governatore della Sardegna.  Svetonio ci dice che Augusto visitò tutte le province tranne la Sardegna e l'Africa poiché le condizioni del mare non glielo permisero, mentre quando il mare non glielo impediva non c'era bisogno che partisse: questo fa capire che la rivolta pur essendo violenta non durò molto. Infatti nel 19 Tiberio sostituì il distaccamento di legionari con 4000 liberti (o figli di liberti) ebrei. La situazione ritornò tranquilla e Claudio ridette il comando al senato.  Nerone mandò in esilio in Sardegna Aniceto, ex precettore dell'imperatore ed ex prefetto della flotta di Miseno. Aniceto, su istigazione di Nerone ne aveva ucciso la madre, Agrippina e qualche anno dopo, per spianare la strada a Poppea "confessò" una relazione con Claudia Ottavia moglie legittima di Nerone e fanciulla di specchiata virtù[41].    La Tavola di Esterzili risalente al 69, durante regno di Otone, e riportante un decreto del Proconsole della Sardegna Lucio Elvio Agrippa atto a dirimere una controversia tra i Gallilensi e i coloni Patulcenses Campani Probabilmente per evitare fughe di notizie o ricatti Aniceto fu spedito in Sardegna dove visse fra gli agi al sicuro anche da eventuali sicari dell'imperatore.[42]Seneca, il tutore di Nerone, passò dieci anni in esilio in Corsica a partire dal 41[41].  Nel 73 Vespasiano, tolse al senato il controllo della Sardegna - forse di nuovo in fermento - e la affidò a un procuratore[43]. L'imperatore Traiano tra il 115 e il 117ristrutturò e potenziò il centro di Aquae Hypsitanaeche assunse in suo onore il nome di Forum Traiani[43].  Il II secolo fu un momento di sviluppo e di prosperità anche per la Sardegna: tutti gli abitanti, anche i barbaricini, si mostravano contenti della politica romana (almeno secondo la storiografia ufficiale) e ben presto tutta l'isola avrebbe parlato latino (la lingua dei Cartaginesi è attestata fino al principato di Marco Aurelio). In questo periodo non ci furono rivolte ed i Romani ebbero la possibilità di ricostruire e migliorare la rete stradale punica spingendola anche all'interno, costruirono terme, anfiteatri, ponti, acquedotti, colonie e monumenti.  La ricchezza della Sardegna era dovuta ad uno sfruttamento agricolo e minerario senza precedenti: l'isola infatti esportava piombo, ferro, acciaio e argento grazie alle sue miniere, e grano per 250.000 persone. Ma nonostante tutto la Sardegna venne sempre considerata, e non solo sotto i Romani, come una terra lontana e utile solo per isolare prigionieri e nemici dell'impero. Tra le varie persone che giunsero in Sardegna dal mare vi erano numerosi criminali, rivoluzionari ma anche tantissimi cristiani tra cui anche i papi Callisto (174) e papa Ponziano (235) e il famoso prete Ippolito[44].  I governatori, in questa fase, sembravano di fatto dei coordinatori manageriali, con esperienza nel rifornimento e nel trasporto del grano, più che uomini d'arme. Sappiamo ora con certezza che, nel 170, la Sardegna era sotto il controllo senatoriale. Se Ippolito è preciso nella sua terminologia, il governatore della provincia era chiamato procurator. Questi governatori (procuratori) gestirono il territorio in modo pacifico fino al 211, ma dopo, come del resto in tutto l'impero, riprese il malcontento della popolazione, che costrinse i governatori a reprimere le rivolte con l'uso della forza, nei casi più gravi.  Gli ultimi tre secoli dell'Impero                                  Modifica Nel 226 la situazione era cambiata rispetto a quella del secolo precedente; i governatori erano quasi tutti militari ed alcuni, come Tizio Licinio Hierocle e Publio Sallustio Sempronio, erano anche uomini con esperienze di guerra. Il malcontento andò aumentando poiché le tasse erano alte, il latifondo si diffondeva e gli agricoltori erano sempre più legati alla terra. Il fatto che nel 212 grazie a Caracalla i Sardi e i Corsi, come tutti gli abitanti dell'Impero, avessero ottenuto la cittadinanza romana[44], passò in secondo piano poiché questo onore era in concreto legato a tasse aggiuntive.  Tra il 245 e il 248, durante il regno di Filippo l'Arabo, fu intrapresa la ristrutturazione e risistemazione dell'impianto viario della provincia che cominciò con Publio Elio Valente e continuò anche durante il breve regno di Emiliano[45].  Ricordiamo, inoltre, di numerosi martiri del periodo. San Simplicio, San Gavino, San Saturnino, San Lussorio e Sant'Efisio in Sardegna[46] mentre Santa Devota (martire attorno al 202, persecuzione di Settimio Severo, o al 304, persecuzione di Diocleziano) è, assieme a santa Giulia, una delle prime sante còrse di cui si sia avuta notizia. Secondo la leggenda, la nave che ne trasportava il feretro verso l'Africa fu gettata da una tempesta sul litorale monegasco. Per questo sarebbe divenuta la patrona del Principato di Monaco e della famiglia Grimaldi. Santa Giulia (martire durante la persecuzione di Deciodel 250, o quella di Diocleziano), è la patrona di Corsica e di Brescia, città dove riposano le sue reliquie dopo che vi fu fatta trasportare da Ansa, moglie del re longobardo Desiderio nel 762. Santa Giulia è patrona anche di Livorno, dove le spoglie della santa avrebbero fatto tappa provenendo dalla Corsica. A queste martiri se ne aggiunge un'intera schiera, tra i quali san Parteo, che fu forse il primo vescovo di Corsica. Il primo vescovo còrso di cui si abbia notizia certa è Catonus Corsicanus, che partecipò, così come il vescovo di Caralis Quintinasio[45], al Concilio di Arlesindetto da Costantino I nel 314.   I domini dei Vandali attorno al 456, dopo la conquista di Sardegna e Corsica. Nel 286 Diocleziano unì la provincia alla Dioecesis Italiciana[47]. Dopo la divisione della diocesi attuata da Costantino, venne compresa nell'Italia Suburbicaria.  Sardegna e Corsica rimasero sotto Roma per tutto il convulso IV secolo e i primi decenni del V (nell'impero romano d'Occidente), fino a quando nel 456 i Vandali, di ritorno dalla penisola, dove avevano saccheggiato Roma, en passant le conquistarono e le annessero al loro regno. Ma vinsero solo sulle coste, poiché i Sardi dell'interno, ormai pratici, immediatamente si ribellarono ai Vandali impedendo loro di entrare nella loro zona. Aleria, in Corsica, fu saccheggiata e, abbandonata, finì in rovina, lo stesso destino toccò ad Olbia.  La parte romanizzata della Sardegna, grazie ad un certo Goda, che era un governatore vandalo dell'isola di origine gotica, dopo essersi ribellato al potere centrale nel 533 resistette per un certo periodo ai Vandali assumendo il titolo di "Rex"[48].  Difesa ed esercitoModifica I Sardi entrarono anche a far parte dell'esercito romano dando il loro modesto contributo ovunque vi fossero truppe; infatti, per quanto riguarda i legionari, non essendo un'isola molto popolata, e dato che i cittadini non avevano avuto la cittadinanza (ottenuta dopo la riforma di Caracalla), il numero fu sempre bassissimo ed entra nelle statistiche solo nell'epoca successiva ad Adriano.  Per quanto riguarda gli ausiliari, i Sardi fornirono (come isola Sardegna) 3 coorti, mentre come provincia (Sardegna e Corsica) 6 coorti, 3 per ciascuna isola con un numero maggiore dei Sardi sui Corsi.  La "Cohors I Sardorum" era probabilmente stanziata a Cagliari nei primi tre secoli d.C., mentre la "Cohors II Sardorum" fondata al tempo di Adriano, era stanziata a Sur Djuab, a circa 100 km a sud di Algeri.  Il riscatto della Sardegna avvenne con la flotta; infatti i Sardi erano la prima fonte di reclutamento occidentale della flotta di Miseno. Considerando invece tutto l'impero, l'isola diventa la quarta fonte di reclutamento della stessa flotta, battuta soltanto dalle province d'Egitto, d'Asia e della Tracia che avevano una popolazione molto più grande.  Geografia politica ed economicaModifica Corsica Strabone, che scrisse durante il principato di Augustoe Tiberio, descriveva la Corsica come un'isola scarsamente abitata, con un territorio sassoso e per lo più impraticabile.[1] I suoi abitanti risultavano ancora dei selvaggi che vivevano di rapine.[1]  «Quando i generali romani vi fanno incursioni e [...] prendono una gran parte della popolazione, rendendola schiava, che poi la si trova a Roma, fa meraviglia per quanto in loro vi sia di bestiale e selvaggio. E questi o non riescono a sopravvivere, o se rimangono in vita, logorano talmente i loro proprietari per la loro apatia, che questi si pentono [di averli acquistati], anche se li hanno pagati poco.»  (Strabone, Geografia, V, 2, 7.) Sardegna Strabone descrive la Sardegna come un territorio roccioso e non ancora del tutto pacificato. Essa possiede un territorio interno molto fertile di ogni prodotto, in particolare di grano.[1] Purtuttavia, così come nei confronti delle popolazioni corse, anche di quelle sarde le fonti romane (a differenza dei miti greci[49]) non riportano generalmente una buona opinione.  (LA)  «A Poenis admixto Afrorum genere Sardi non deducti in Sardiniam atque ibi constituti, sed amandati et repudiati coloni.»  (IT)  «Dai Punici, mescolati con la stirpe africana, sorsero i Sardi che non furono dei coloni liberamente recatisi e stabilitisi in Sardegna, ma solo il rifiuto di cui ci si sbarazza[50][51].»  (Cicerone, Pro M. Scauro, 42) Il passaggio dei Romani lasciò numerose tracce nella geografia della Sardegna per l'importante opera di mappatura del territorio, del quale si ebbero le prime serie catalogazioni, ed ovviamente nella toponomastica, di cui parte non è stata ancora soppiantata nonostante il tempo trascorso. Le Bocche di Bonifacio, che separano la Sardegna dalla Corsica, erano un tratto di mare molto temuto dai romani per via delle correnti che potevano far affondare le loro navi ed erano dette Fretum Gallicum. L'isola dell'Asinara, famosa per il carcere chiuso solo pochi anni fa, era detta Herculis mentre le isole di San Pietroe di Sant'Antioco erano dette rispettivamente Accipitrum la prima e Plumbaria la seconda; Capo Teulada, la punta meridionale dell'isola era chiamata Chersonesum Promontorium mentre Punta Falcone, l'opposto settentrionale di Capo Teulada, era detta Gorditanum Promontorium; l'attuale fiume Tirso era chiamato Thyrsus.   Le antiche tribù còrse e le principali città e strade in epoca Romana. Maggiori centri provinciali e tribù autoctoneModifica Corsica Prima Strabone[1] e poi, intorno al 150, il geografoClaudio Tolomeo, nella sua opera cartografica, offrì una descrizione piuttosto accurata della Corsica preromana, elencando:  8 fiumi principali, tra i quali il Govola-Golo e il Rhotamus-Tavignano; 32 centri abitati e porti, tra i quali Blesino,[1]Centurinon (Centuri), Charax,[1] Canelate (Punta di Cannelle), Clunion (Meria), Enicomiae,[1] Marianon(Bonifacio), Portus Syracusanus (Porto Vecchio), Alista (Santa Lucia di Porto Vecchio), Philonios(Favone), Mariana, Vapanes[1] e Aleria; 12 tribù autoctone (in greco, latino e loro localizzazione): Kerouinoi (Cervini, Balagna); Tarabenoi (Tarabeni, Cinarca); Titianoi (Titiani, Valinco); Belatonoi (Belatoni, Sartenese); Ouanakinoi (Venacini, Capo Corso); Kilebensioi (Cilebensi, Nebbio); Likninoi (Licinini, Niolo); Opinoi (Opini, Castagniccia, Bozio); Simbroi (Sumbri, Venaco); Koumanesoi (Cumanesi, Fiumorbo); Soubasanoi (Subasani, Carbini e Levie); Makrinoi (Macrini, Casinca). Sardegna Plinio ci informa che "In essa (la Sardegna), i più celebri (sono): tra i popoli, gli Iliei, i Balari e i Corsi"[52]; vengono inoltre menzionati più volte altri popoli minori come i Parati, i Sossinati e gli Aconiti, che secondo gli storici romani abitavano nelle caverne e depredavano i prodotti degli altri Sardi che lavoravano la terra e che con le loro navi si spingevano fino alle coste dell'Etruria per depredarla.[1]  Tuttavia bisogna tener presente che i luoghi abitati da questi popoli minori videro molti secoli prima dell'arrivo dei Romani il fiorire della civiltà Nuragica, come in tutto il resto della Sardegna, l'apparente arretratezza di tali popoli fu probabilmente dovuta alle grosse perdite subite contro Cartaginesi e soprattutto contro i Romani, che portarono alla relegazione di alcune popolazioni ribelli nei monti interni, creando una divisione tra i Sardi abitatori di città e di villaggi nelle pianure e nelle coste e i Sardi montanari che in gran parte si "imbarbarirono" e si diedero al banditismo.  Sempre i Romani, nei secoli in cui dominarono la Sardegna, fondarono alcune nuove città come Turris Libisonis (oggi Porto Torres) e fecero sviluppare molti centri abitati soprattutto nelle coste, come Carales,[1]Olbia, Fanum Carisii (oggi Orosei), Nora e Tharros, ma anche nell'interno, come Forum Traiani (oggi Fordongianus), Forum Augusti (oggi Austis), Valentia (oggi Nuragus),Colonia Julia Uselis (oggi Usellus), ed infine elevarono diverse città al rango di municipio.  BithiaModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Bithia (sito archeologico). BonorvaModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Bonorva. Il generale sabaudo Alberto La Marmora, in esplorazione presso San Simeone di Bonorva, aveva identificato un forte romano che era stato dimenticato per tutto questo tempo. Il Tetti indica in realtà che si trattava di una fortificazione punica, che era stata occupata dai romani. Nulla però dimostra una presenza militare in questo luogo per i primi secoli dell'Impero romano.  BosaModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Bosa.  L'anfiteatro romano di Cagliari.  Colonna nella Villa di Tigellio. CagliariModifica Magnifying glass icon mgx2.svg         Lo stesso argomento in dettaglio: Storia di Cagliari. Cagliari (Carales o Karalis[1]) era la città più importante della Sardegna. Il fatto che da qui partissero ben quattro strade che attraversavano l'intera isola dal sud al nord, la circostanza che il suo porto fosse un centro strategico importante per le rotte commerciali del Mediterraneo occidentale (che oltretutto ospitava un distaccamento della flotta di Miseno ed era il porto dal quale partiva il grano per l'approvvigionamento di Roma) e che la sua popolazione fosse all'incirca di 20.000 abitanti, rendeva Carales una tra le più importanti città marittime della zona occidentale dell'Impero romano.  La zona abitata si sviluppava sulla costa per circa 300 ettari, il centro di questa città era il foro, dove sorgevano numerosi edifici come la curia municipale, l'archivio provinciale, la sede del governatore, la basilica, il tempio di Giove Capitolino. La città fu interessata da una serie di interventi edilizi di pubblica utilità come la realizzazione di una complessa rete fognaria e la pavimentazione di strade e piazze, la costruzione di un acquedotto (nel 140 d.C.) che molto probabilmente prendeva l'acqua dalla sorgente di Villamassargia e, attraverso Siliqua, Decimo, Assemini, Elmas, arrivava in città passando per il quartiere di Stampace.  Nel I secolo d.C. la città fu dotata di eleganti passeggiate coperte da portici mentre nel II secolod.C. fu costruito l'anfiteatro, ancora utilizzato per gli spettacoli al giorno d'oggi, semi-scavato nella roccia, che poteva ospitare fino a 10.000 persone. Il titolo di municipium fu ottenuto solo sul finire del I secolo a.C.; era un titolo importante perché le consentiva di essere una città autonoma con cittadinanza romana.  Per quanto riguarda le differenze tra i vari quartieri, quelli signorili sorgevano nel territorio a nord di Sant'Avendrace e nell'area di San Lucifero; al loro interno sorgevano le terme, i templi, alcuni teatri e numerose ricche abitazioni; i quartieri mercantili si trovavano nella zona della Marina e i quartieri popolari vicino al porto, fra l'odierna via Roma e il Corso Vittorio Emanuele.  Claudio Claudiano, nel IV secolo, descrisse così la città di Caralis:  «Caralis, si distende in lunghezza ed insinua fra le onde un piccolo colle che frange i venti opposti. Nel mezzo del mare si forma un porto ed in un ampio riparo , protetto da tutti i venti , si placano le acque lagunari»  (Claudio Claudiano, I,520) CalangianusModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Calangiani. Nell'attuale Calangianus è identificato l'oppidum di Calangiani o Calonianus, citato nella Geographia del Fara. Oltre alle diverse tracce di strada romana per Olbia e Tibula, sono state ritrovate rovine dell'oppidum nei pressi di Monti Biancu e della località Santa Margherita, un busto di Demetra a Monti di Deu ed un'anfora all'interno del nuraghe Agnu. Inoltre, il toponimo deriverebbe dalla divinità Giano, il cui culto era molto diffuso in Sardegna.  CornusModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Cornus (Sardegna). FordongianusModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Fordongianus. Fordongianus, Forum Traiani, si trova oggi in provincia di Oristano ed è particolarmente importante per la sua posizione geografica che lo vede incuneato tra i monti della Valle del Tirso, naturale via di penetrazione dalla pianura all'entroterra e punto di contatto tra i due diversi mondi. Fin dalla sua fondazione fu un centro rinomato per le sue terme, che sfruttavano una fonte naturale di acqua calda e curativa.  Qui si trova un'iscrizione che testimonia come l'attività delle genti della Barbaria fosse ancora viva nel I secolod.C. poiché furono queste a dedicare un'iscrizione ad un imperatore, probabilmente Tiberio, rinvenuta nel Forum Traiani.   Terme del Forum Traiani Come già accennato in precedenza, tra le motivazioni originarie dell'insediamento, si pone la presenza di una fonte d'acqua naturalmente calda e curativa. Sfruttando la fonte sorse, proprio presso il fiume, un vasto edificio termale (che costituisce oggi il nucleo dell'attuale area archeologica) caratterizzato da una grande piscina, in origine coperta, in cui giungono le acque calde temperate con un'aggiunta di acqua fredda. L'aspetto curativo delle terme è sottolineato dal rinvenimento di due statue del dio Bes, divinità legata ai culti salutiferi, e la loro importanza è messa in evidenza dalla recente scoperta di un piccolo spazio sacro dedicato alle ninfe, divinità delle acque.  In un'area vicina all'attuale centro abitato è stato rinvenuto l'anfiteatro, vicino alla necropoli tardo-antica sulla quale fu edificata nell'XI secolo la chiesa di San Lussorio.  Mamoiada                                             Modifica Magnifying glass icon mgx2.svg                            Lo stesso argomento in dettaglio: Mamoiada. Mamoiada (o Mamujada) era probabilmente uno stanziamento militare romano nell'isola, infatti diversi studiosi moderni sono propensi a far derivare il suo nome da mansio manubiata (stazione vigilata, sorvegliata). Altra prova a favore di questa ipotesi è il nome del quartiere più antico della città "su Qastru" (dal lat. castrum, campo fortificato, accampamento militare).  Mamoiada in effetti si trova in una zona centrale e quindi strategica della Barbagia, e precisamente al centro della cerchia dei seguenti villaggi: Orgosolo, Fonni, Gavoi, Lodine, Ollolai, Olzai, Sarule ed Orani, e dunque questa sua posizione strategica non poteva non essere sfruttata dalle truppe romane nelle loro azioni di sorveglianza e di repressione.  MacomerModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Macomer. Fondata tra il VI e il V secolo a.C. dai Punici Macopsissa costituiva un importante centro per il controllo del territorio. La sua importanza aumentò durante il periodo romano, divenendo un importante snodo fra Calares e Turris Libisonis. Macomer era un importante nodo della rete viaria creata dai Romani sull'Isola.  Meana SardoModifica Anche Meana Sardo, villaggio della Barbagia, era probabilmente un presidio romano poiché il suo nome potrebbe derivare da mansio mediana (stazione mediana o intermedia) di una tra le più importanti arterie stradali romani nell'isola quella che da Carales porta a Olbia.  Meana si trova esattamente a metà strada di quel lungo tracciato ed anche a metà strada tra la costa orientale e quella occidentale della Sardegna.  MetallaModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Metalla. NeapolisModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Neapolis (Sardegna). NoraModifica  Rovine di Nora Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Nora (Italia). Il preesistente abitato punico non ha condizionato in maniera particolare l'assetto urbano di epoca romana. I Romani hanno effettuato infatti pesanti interventi per la costruzione di strade, edifici e aree pubbliche come il teatro e il foro, demolendo i precedenti edifici, in un piano di forte rinnovamento urbanistico. I Romani modificarono a tal punto la città probabilmente perché Nora fu la prima sede del governatore della provincia.  Numerose erano le ville e le case dei nobili e della plebe; degli edifici non rimane molto poiché erano costruiti con zoccolo in pietra e l'elevato in mattoni crudi. A differenza delle case e delle ville le strutture pubbliche erano costruite col cemento e rivestite di laterizi o grossi blocchi di pietra. Le più importanti opere della città erano: il teatro, costruito in età augustea, e le terme a mare, edificate tra la fine del II e gli inizi del III secolo d.C.  NuoroModifica Sono scarne le notizie sulla città di Nuoro in epoca romana. Secondo alcuni proprio all'inizio della dominazione romana la città fu fondata con l'unione di vari gruppi nuragici, inizialmente legati contro il nemico comunque, successivamente spinti all'unione dalla possibilità di arricchirsi col commercio dei prodotti locali.  Furono due i primi nuclei cittadini, infatti i primi due gruppi si insediarono in parti diverse: un gruppo si stanziò nel monte Ortobene, l'altro nel quartiere di Seuna, l'altro nel quartiere di San Pietro. In seguito i due gruppi si riunirono dando origine alla vera e propria città. Importante è anche il fatto che a Nuoro nella zona più ricca dal punto di vista agricolo, oltre Badu e'Carros, ci fosse un presidio militare. Questa zona infatti si chiama "Corte", e ricorda molto la Coorte, che nel periodo romano era un gruppo di soldati.  La città ha avuto una grande importanza strategica poiché è situata proprio al centro della Barbagia, i cui abitanti per secoli si ribellarono ai Romani prima di essere romanizzati parzialmente. Nuoro sorge infatti lungo l'antico percorso principale (asse nord-sud) della a Olbia-Karales per Mediterranea, nello snodo con la via Transversae (la trasversale mediana) che attraversava la Sardegna lungo un asse est-ovest (con quattro stazioni nodali negli incroci con le 4 principales: Cornus - Macopsissa - Nuoro - Dorgali/Orosei). La Trasversale mediana era utilizzata anche per il trasporto del grano della valle del Tirso verso la costa di Dorgali e Orosei, per l'imbarco del prodotto destinato al porto di Ostia. Sempre a Nuoro terminava anche una strada vicinale per l'odierna Benetutti.  NureModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Nure (città). OlbiaModifica  Busto di Nerone del 54/55-59 d.C. da Olbia, (museo archeologico nazionale di Cagliari). Olbia occupò in età romana gli stessi spazi della città punica fino alle soglie dell'età imperiale. Infatti non pare che durante la repubblica si siano verificati sostanziali mutamenti nell'assetto urbanistico che continuò a mantenere, intatto, il primitivo impianto ortogonale dei fondatori cartaginesi. Successivamente la città si arricchì di opere pubbliche: vennero lastricate le strade, si edificarono due impianti termali e un acquedotto, i cui resti sono tuttora visibili a nord della città, e si rinnovarono alcune strutture templari.  Una concubina di Nerone di nome Atte fece erigere ad Olbia un tempio a Cerere, e grazie all'imperatore ebbe latifondi nell'agro e fu anche proprietaria di un'officina che fabbricava laterizi.   Busto di Traiano da Olbia, (museo archeologico nazionale di Cagliari) Il porto, in contatto con i principali scali del Mediterraneo, fu di primaria importanza nell'ambito della Sardegna settentrionale poiché da qui partivano per Roma buona parte dei prodotti, soprattutto cerealicoli, del nord dell'isola che confluivano nella città grazie a tre grandi strade. Per questo motivo nel 56 a.C., soggiornò nella città Quinto, fratello di Marco Tullio Cicerone, che controllava i commerci per ordine di Pompeo.  La necropoli, che si estese uniformemente oltre la cinta urbana a occidente della città, restituì ricchi corredi funerari. In particolare, nell'area della collina oggi occupata dalla chiesa di San Simplicio (santo qui martirizzato, secondo la tradizione locale, durante le persecuzioni di Diocleziano), l'utilizzo per le sepolture avvenne fino a età medioevale e vi si rinvennero preziose oreficerie, sarcofagi istoriati e iscrizioni.  Intorno alla metà del V secolo Olbia fu saccheggiata dai Vandali come dimostrano gli straordinari ritrovamenti avvenuti nel 1999 nell'area del porto vecchio. Furono infatti ritrovati 24 relitti di navi romane e medievali e da questo scavo è stato possibile accertare l'attacco dei Vandali e il crollo della città anche se l'abitato non fu abbandonato e rifiorì in età medievale.  OschiriModifica Una mattonella o un mattone trovata a Oschiri porta l'iscrizione COHR P S per "coh(o)r(tis) p(rimae)" o "p(raetoriae) S(ardorum)", ma non è impossibile che provenga da Nostra Signora di Castro poiché non è conosciuto bene il modo in cui è stato scoperto questo mattone. Per il resto il luogo non ha nulla che faccia pensare ad una presenza militare romana.  OthocaModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Santa Giusta (Italia). Porto TorresModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Colonia Iulia Turris Libisonis.  Mosaico dell'Orfeo Presumibilmente il sostantivo con cui veniva identificata la città, in epoca romana, era Turris Libysonis. Questo lo si deduce grazie a Plinio il Vecchio, il quale, nella sua Naturalis Historia(nel I secolo d.C.) cita "Colonia autem una que vocatur ad turrem libisonis", letteralmente; "mentre v'è (in Sardegna) una sola colonia romana, presso la torre di libiso". Tale scrittura fa pensare ad un riferimento artificiale, probabilmente una torre nuragica (Nuraghe). È invece grazie all'anonimo Ravennate che si evince lo status dell'insediamento, il quale sostiene; "Turris Librisonis colonia Iulia", da che si nota l'aggettivo Iulia, dovuto verosimilmente a Giulio Cesare, probabile fondatore della colonia, durante il viaggio di ritorno dall'Africa o ad Ottaviano delegatore di un tale, Marco Lurio, che potrebbe aver fondato la colonia intorno al 42\40 a.C.   Statua romana da Porto Torres Oltre a ciò l'importanza del centro, nell'isola, era notevole, paragonabile solo a quella di Carales. L'importanza politica è deducibile dalla "Passio Sanctorum Martyrum Gavini Proti et Jianuarii", nel quale si esterna la presenza di una residenza del governatore della provincia romana, tale Barbaro.  L'importanza economica invece è palese dalle rovine restanti, terme imponenti è una impressionante maglia urbana, il centro per altro era in comunicazione diretta con Roma, tant'è vero che nella Ostia antica, si trova un mosaico che riporta "Naviculari Turritani", riconducibile ai commercianti di Turris. Infatti le esportazioni di cereali erano notevoli, grazie alla grande pianura della Nurra, in diretta comunicazione con la colonia mediante il "ponte romano" (costruzione più imponente del suo genere nell'intera provincia), sovrastante il fiume Riu Mannu, che tra le altre cose era utilizzato come via alternativa per i traffici con l'interno dell'isola, si ipotizza la presenza di un porto fluviale, oltre a quello marittimo. Ma oltre alle esportazioni cerealicole, erano massicce anche quelle minerali, e salini, provenienti dai vicini siti. cosa particolare era la presenza del culto di Iside.  Altre prove storiche sono dovute a Cicerone in una sua lettera la chiama "Collina" ma, visti i ritrovamenti archeologici trovati, possiamo affermare con sicurezza che Turris Libisonis non fu per Roma solo una collina. Non è un caso che la città continuò ad esistere nei secoli successivi tenendo inalterata la sua importanza strategica al centro del mediterraneo. Di importante interesse non architettonico non fu solo il ponte romano e le terme fortemente mosaicate ma anche le strade: in alcuni tratti l'attuale Strada statale 131 Carlo Felice risulta affiancata dalla vecchia strada romana, che seguiva il medesimo percorso fra i due poli dell'isola.  Quartu Sant'ElenaModifica Il termine Quarto, ai tempi dei romani, stava a indicare la distanza in miglia che separava l'antico insediamento quartese da Cagliari. Infatti distava 4 miglia romane da Carales. È stata da sempre una meta ambita, viste le possibilità che offriva, grazie ad un'economia agricola stabile e fruttuosa integrata alla pesca e alla caccia.  SarcaposModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Sarcapos. Sassari                        Modifica Nonostante la città di Sassari sia stata fondata in periodo Medioevale, il suo territorio conserva ricche testimonianze d'epoca romana, a partire da opere infrastrutturali di rilievo come i resti della strada che collegava Cagliari a Porto Torres e le rovine dell'acquedotto romano che serviva la colonia romana di Turris.  L'area ricca di vegetazione e sorgenti, era un luogo amato dalle famiglie patrizie della vicina colonia di Porto Torres, per cui oggi sono presenti nel territorio le rovine di alcune residenze d'epoca romana, la più famosa delle quali situata nei sotterranei della cattedrale di San Nicola, molti edifici medioevali sono stati costruiti riutilizzando materiali provenienti da abitazioni romane, le colonne presenti nel piazzale del santuario di San Pietro di Silki, provengono da un tempio romano smantellato che sorgeva nella zona.  Sulci (Sant'Antioco)Modifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Sulki.  Statua di Druso minore da Sulci del I secolo d.C.  Tharros In epoca romana Sulci continuò a fiorire sino a diventare, a detta del geografo greco Strabone, la città più florida della Sardegna romana insieme a Caralis[1]. Lo sfruttamento dei bacini minerari dell'Iglesiente, dove pare sorgesse l'insediamento di Metalla[53], non era infatti cessato, e con esso l'intenso traffico nel porto sulcitano: di qui l'appellativo dell'antica Sulci "Insula plumbea". La città dovette disporre di ingenti risorse finanziarie se all'epoca della guerra civile tra Cesare e Pompeo (I sec. a.C.) poté pagare una multa di circa 10 milioni di sesterzi inflittale da parte di Cesare, giunto nel frattempo nell'antipompeiana Caralis.  Sulci si riprese ben presto dallo smacco subito, forte anche della floridezza del suo porto e dunque della sua economia, sino quando, intorno al I sec. d.C., sotto Claudio, fu riabilitata sul piano politico e elevata al rango di Municipium[54].  Secondo il Bellieni, la città tra tarda Repubblica e prima fase imperiale doveva essere popolata da circa 10.000 persone, cifra effettivamente plausibile se si tiene conto della popolazione media nei centri italiani di età augustea calcolata dal Beloch[55].  L'antico centro romano sorgeva, come si può desumere facilmente ancora oggi prestando attenzione alla disposizione degli assi viari maggiori e minori, nell'area comprendente le attuali vie Garibaldi, XX Settembre, Mazzini, Eleonora d'Arborea, Cavour, in località detta "Su Narboni". Qui, e precisamente all'incrocio tra le attuali via XX Settembre e Eleonora d'Arborea (presumibilmente nell'area dove sorgeva il foro, non ancora localizzato), si trova un mausoleo noto come Sa Presonedda o Sa Tribuna databile al I sec. a.C., grosso modo coevo al ponte romano, situato in corrispondenza dell'istmo, e al tempio d'Iside e Serapide le cui rovine non sono oggi più apprezzabili.  TharrosModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Tharros. TibulaModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Tibula. UsellusModifica Usellus godette di grande splendore soprattutto nel periodo romano. Fu nel II secolo a.C. che venne fondata l'antica "Colonia Julia Uselis" il cui centro si trovava molto probabilmente sopra al colle di Donigala (Santa Reparata) non lontano da quello attuale.  Venne fondata soprattutto come baluardo militare per contrastare le continue incursioni dei mai domi barbaricini dell'interno dell'isola. Poté usufruire dello splendore di Roma che la innalzò dapprima a municipium e poi la elesse Colonia Julia Augusta sotto l'Imperatore Cesare Augusto, in onore della propria figlia Giulia ed eleggendo nel contempo i propri abitanti a "cives".  Quinto Cicerone, fratello di Marco Tullio, vi fu Pretore. Quest'ultimo stato giuridico è accertato nella Geografia di Tolomeo ed in una preziosissima tavola di bronzo dell'anno 158 d.C., come si desume dal nome dei consoli, contenente un decreto d'ospitalità e clientela, riguardante l'antica Usellus.  La città doveva estendersi per circa sette ettari ed i suoi fertili terreni vennero assegnati ai veterani delle guerre. In questo periodo Uselis sfruttando la sua favorevole posizione geografica subì un'importante evoluzione economica e militare divenendo centro nevralgico di un'intensa attività economica e crocevia dell'importante rete viaria che la metteva in comunicazione a sud con Aquae Neapolitanae (terme di Sardara), a nord con Forum Traiani e una terza via la univa a Neapolis, vicino alla costa occidentale.  Nel suo territorio sono ancora presenti due ponti romani, ci cui uno in ottimo stato di conservazione, lunghi tratti dell'importante via di comunicazione e resti delle imponenti mura che la cingevano.  Risorse economiche provincialiModifica   Mosaici concernenti i "Navicularii et negotiantes Karalitani" e i "Navicularii Turritani" dal piazzale delle corporazioni di Ostia antica. Il commercioModifica La Sardegna si integrò nel sistema economico e commerciale dell'Impero soprattutto per quanto riguarda il commercio del grano, del sale, del legname e dei metalli grazie ad ottimi porti quali Olbia, Tibula, Turris Libisonis (Porto Torres), Cornus, Tharros, Sulci (Sant'Antioco) e Carales.  L'importanza di questi porti è testimoniata da due mosaici trovati ad Ostia con la menzione dei "navicularii Turritani e Calaritani", mercanti marittimi di Porto Torres e Cagliari. Soprattutto in età imperiale la Sardegna divenne una tappa obbligatoria per i viaggi dalla penisola all'Africa e alle Mauretanie.  L'agricoltura                      Modifica L'agricoltura era diffusa nell'isola soprattutto nelle aree pianeggianti e in particolar modo nella pianura del Campidano nella parte meridionale della Sardegna. Il grano era prodotto in quantità tali che solo quello che si esportava bastava a sfamare 250.000 persone. Per questo motivo la Sardegna, durante la repubblica, assunse il titolo di "granaio di Roma".  Si dice che la quantità di grano preso dai Romani dalla Sardegna non solo bastò per riempire tutti i granai dell'Urbe, ma per contenerlo tutto se ne dovettero costruire di nuovi. La coltivazione di cereali era sviluppata in particolar modo nella parte settentrionale, mentre quella dell'ulivo e della vite era diffusa in tutta l'isola.  L'allevamentoModifica L'allevamento per esportazioni era un'attività economica diffusa in tutta la Sardegna. Tra suini, bovini e ovini (in particolare i mufloni[1]) solo i primi erano venduti in buone quantità al resto dell'impero. Gli ovini erano importanti per la lana e i latticini che i sardi pelliti dell'interno vendevano a Roma; infatti la pastorizia era una pratica molto diffusa nella parte centrale della Sardegna. Sappiamo con certezza che i popoli dell'interno, grazie a questa pratica, furono in grado di arricchirsi trasformando la pastorizia da attività di sussistenza ad attività d'esportazione.  L'estrazione mineraria                                             Modifica (LA)  «India ebore, argento Sardinia, Attica melle»  (IT)  «L'India è famosa per l'avorio, la Sardegna per l'argento, l'Attica per il miele.»  (Archita) Importante era anche l'estrazione mineraria, diffusa in tutta la Sardegna. Argento e piombo erano estratti nelle miniere dell'Iglesiente in quantità tali da far scendere il costo di questi metalli in tutto l'impero; veniva cavato anche il ferro e il rame, quest'ultimo dai giacimenti nei pressi di Gadoni[53]. Per l'estrazione non erano usati solo schiavi di guerra ma anche personaggi scomodi nel campo della politica o per la religione da essi professata.  La pietra e il granito erano invece estratti nell'interno e lungo le coste. La pietra che gli isolani avevano sempre utilizzato per la costruzione dei nuraghi e dei loro templi megalitici era ora destinata ad arricchire gli edifici dei ricchi Romani. Ancora oggi, sulle isole della Marmorata e lungo le spiagge di Santa Teresa di Gallura, nella parte nord-orientale dell'isola, non è difficile imbattersi in blocchi "tagliati" con regolarità oppure in frammenti di colonne, sfuggiti ai numerosi carichi fatti dai Romani durante tutto il periodo della loro dominazione, durato quasi settecento anni. Non era facile infatti imbarcare sulle navi da carico i blocchi di pietra nei tratti di mare antistanti i promontori rocciosi. Le correnti e le condizioni atmosferiche provocavano spesso dei naufragi o costringevano i marinai a liberarsi dei pesanti carichi per evitare che le imbarcazioni affondassero.  Principali vie di comunicazione                     Modifica Le principali città e strade della Sardegna in epoca Romana. Quando i Romani iniziarono la conquista della Sardegna vi trovarono già una rete stradale punica; questa però collegava tra loro solo alcuni centri costieri, tralasciando completamente la parte interna; d'inverno era impraticabile a causa delle piogge e i Romani furono quindi costretti a costruirne una nuova che si sovrapponeva a quella precedente solo parzialmente.   Antica strada romana Nora-Bithiae I Romani costruirono 4 grandi arterie stradali: 2 lungo le coste e 2 interne. Le viae principales erano le cosiddette strade antoniniane, tutte con direzione nord-sud. Ricordandole in ordine da est a ovest: la litoranea occidentale (a Tibulas-Karales), da Carales(Cagliari) a Turris Libisonis (Porto Torres); la interna occidentale (a Turre-Karales); la interna orientale (a Olbia-Karales per Mediterranea); la litoranea orientale (a Tibulas-Karales), da Carales a Olbia.[56]  A questa ossatura longitudinale si congiungevano sia le "Viae Transversae" come la Cornus-Macopsissa-Nuoro-Orosei e molte altre strade più modeste (vicinali) che collegavano i piccoli centri dell'interno tra loro e con le più grandi città costiere. Questo sistema di comunicazione era molto efficiente e creò le condizioni favorevoli alla penetrazione culturale romana presso le popolazioni locali.  La rete stradale, inizialmente costruita per motivi militari, fu poi mantenuta e continuamente restaurata per motivi economici; grazie a questa, infatti, i Sardi dell'interno vendevano i loro prodotti ai commercianti romani che provvedevano poi a spedirli nei più grandi porti del mediterraneo occidentale. La rete stradale romana è stata talmente efficace e costruita in zone strategiche che alcune strade sono utilizzate ancora oggi; ne è un esempio la statale Carlo Felice.  In epoca Antonina si perfezionarono le vie di comunicazione interne della Corsica (strada Aleria-Aiacium e, sulla costa Est, Aleria-Mantinum - poi Bastia - a Nord e Aleria-Marianum - poi Bonifacio - a Sud): l'isola era pressoché completamente latinizzata, salvo qualche enclave montana.  Arte e architettura provincialeModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Arte provinciale romana. La religioneModifica  Il tempio di Antas, nei pressi di Fluminimaggiore I Romani, come è noto, permettevano una certa libertà di culto[57]; questo consentì alle popolazioni interne di continuare a praticare le loro religioni preistoriche di ispirazione naturalistica, ed a quelle delle coste la religione punica con tutti i suoi dei (Tanit, Demetra e Sid, ribattezzato Sardus Pater dai Romani, venerato nel Tempio di Antas); ma col passare del tempo trovarono spazio anche i culti di Giove e Giunone poi soppiantati dal Cristianesimo.  Sappiamo che alcune divinità, come un demone brutto ma benefico rappresentato come il Dio Bes (divinità egiziana assimilata nel pantheon cartaginese), vennero associate ad alcuni Dei Romani (in questo caso ad Esculapio, divinità salutare romana).  In età romana era diffuso a Carales, Sulci e Turris Libisonis il Culto di Iside, costantemente associato ad una cospicua presenza mercantile.  Lingua e romanizzazioneModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Lingua paleosarda, Lingua sarda, Lingua paleocorsa, Lingua corsa e Romanizzazione (storia). La Sardegna, fortemente punicizzata, fu interessata da un processo di latinizzazione, ma le zone interne restarono a lungo ostili ai nuovi dominatori, come d'altronde lo furono in passato nei confronti dei cartaginesi. L'opera di romanizzazione, affidata al latino, fu completata con l'introduzione delle divinità, dei sacerdozi, e dei culti tipicamente romani. Le aree più intensamente romanizzate furono quelle costiere dedite alla coltura dei cereali (Romània), mentre nell'interno montuoso rimase fortemente radicata la cultura indigena (Barbària). La lingua delle genti sarde, così, subì profonde trasformazioni con l'introduzione del latino che, soprattutto nelle zone interne, penetrò lentamente ma, alla fine, si radicò a tal punto che il sardo è quella cui più aderisce; in particolare, si ritiene che nella zona centro-settentrionale la variante parlatasia quella maggiormente affine per la pronuncia. Nonostante questo, c'è da dire che il latino non si diffuse subito: è ancora presente un'iscrizione risalente al regno di Marco Aurelio (fine II secolo) in punico e, se questa era la situazione quando si scriveva, è possibile che nell'ambito familiare la lingua dei Cartaginesi fosse ancora abbastanza diffusa. Interessante è il fatto che, a volte, si trovino delle ceramiche riportanti il nome del proprietario in latino scritto con caratteri punici.  Sembra accertato che la Corsica fu anch'essa romanizzata e colonizzata dai Romani soprattutto per mezzo delle distribuzioni di terre a veterani provenienti dall'Italia meridionale - o dai soldati provenienti dagli stessi strati sociali ed etnici cui furono similmente assegnate terre soprattutto in Sicilia - il che aiuterebbe a spiegare alcune affinità linguistiche riscontrabili ancor oggi tra còrso meridionale e dialetti siculo-calabri. Secondo altre ipotesi, più recenti, gli influssi linguistici potrebbero essere dovuti a migrazioni più tarde, risalenti all'arrivo di profughi dall'Africa tra il VII e l'VIII secolo. La stessa ondata migratoria sarebbe approdata anche in Sicilia e in Calabria.  NoteModifica ^ a b c d e f g h i j k l m n o Strabone, Geografia, V, 2,7. ^ AE 1971, 123; AE 1973, 276 dell'epoca di Massimino Trace. ^ AE 1992, 891 di epoca Traianea o Adrianea; AE 1991, 908 forse di epoca Antonina; AE 2001, 1112 sotto gli Imperatori Caracalla e Geta; AE2002, 637 al tempo di Filippo l'Arabo. ^ AE 1971, 122. ^ Teofrasto, Hist. plant., V 8, 2. ^ a b c Ettore Pais, Storia della Sardegna e della Corsica durante il dominio romano, Nardecchia editore, 1923 ^ Datazione approssimata secondo le cronologie di Tito Livio e Diodoro Siculo ^ Ad esempio sull'espresso divieto imposto ai Romani di fondare città in Sardegna ed in Africa ^ Servio, Ad Aen., IV 628 ^ Polibio, I 24, 7 ^ questo era l'antico porto della cittadina, citato da Tolomeo ^ Florus, Epist. Liv., 89 ^ a b c Giovanni Zonara, Epitome, libro VIII ^ S.L. Dyson, Comparative Studies in the Archaeology of Colonialism, 1985; anche, dello stesso autore, The Creation of the Roman Frontier, 1985 ^ Oros. IV 1: hostibus se immiscuit ibique interfectus est. ^ Valerio Massimo, V 1, 2 - Sil. Ital., VI 669 ^ 11 marzo 259 - Scipione eresse inoltre un tempio di ringraziamento alla dea Tempestas, che Ovidio (Fasti, VI 193) celebra così: Te quoque, Tempestas merita delubra fatemur / Cum paene est Corsis obruta classis aquis ^ Fra le numerose fonti, Valerio Massimo, Tito Livio, Ammiano Marcellino e poi Zonara. ^ Nei Fasti trionfali si registra il trionfo di Scipione come L. CORNELIVS L.F. CN.N. SCIPIO COS. DE POENEIS ET SARDIN[IA], CORSICA V ID. MART. AN. CDXCIV ^ Il risultato della battaglia non è noto ^ a b c d e Pierre Paul Raoul Colonna de Cesari-Rocca, Histoire de la Corse, Boyle, 1890 ^ Valerio Massimo, III, 65 ^ Anche in Plinio, Nat.Hist., libro XIV ^ Ettore Pais, p.70. ^ Livio, XXIII, 21.4-5. ^ Livio, XXIII, 34.11. ^ Livio, XXIII, 34.12-15. ^ a b c d e f g Francesco Cesare Casùla, p.104. ^ Livio, XXIII, 32.7-12. ^ Livio, XXIII, 34.17. ^ a b Francesco Cesare Casùla, p.107. ^ Livio, XXVII, 6.13. ^ Livio, XXVII, 6.14. ^ Tito Livio, XL 43 ^ Tito Livio, XLI 21 ^ Tito Livio, XLII 7 ^ Vaerio Massimo, IX 12 - Plinio, Nat.Hist., libro VII ^ Ettore Pais, p.73. ^ Raimondo Zucca, Le Civitates Barbariae e l'occupazione militare della Sardegna: aspetti e confronti con l'Africa ^ Francesco Cesare Casùla, p.108. ^ a b c d e f Ettore Pais, pp. 76-77. ^ cfr.Tacito, Annali, XIII, BUR, Milano, 1994. trad.: B. Ceva. ^ a b Francesco Cesare Casula, p.116. ^ a b Ettore Pais, p.81. ^ a b Attilio Mastino, Cronologia della Sardegna Romana ^ Francesco Cesare Casula, p.119. ^ Ettore Pais, p.82. ^ Ettore Pais, p.86. ^ Mastino, Attilio (2005). Storia della Sardegna antica, Il Maestrale, pp.15-16. ^ Mastino, Attilio (2005). Storia della Sardegna antica, Il Maestrale, pp.82. ^ Attilio Mastino, Natione Sardus: una mens, unus color, una vox, una natio ( PDF ), su eprints.uniss.it, Rivista Internazionale di Scienze Giuridiche e Tradizioni Romane. ^ Plinio, Naturalis Historia, III, 7, 85. ^ a b Francesco Cesare Casùla, p.111. ^ cfr. per es. F.Cenerini, Sulci romana, in: Sant'Antioco, annali 2008. ^ M.Zaccagnini, L'isola di Sant'Antioco: ricerche di geografia umana, Fossataro, Cagliari 1972 (integraz. M.T.) ^ Iscrizione M Sardegna 8; MELONI P., La Sardegna romana, Chiarella, Sassari, 1987, pp. 339-374. ^ Francesco Cesare Casùla, p.114. BibliografiaModifica Fonti primarie ( GRC ) Appiano di Alessandria, Historia Romana (Ῥωμαϊκά). (traduzione inglese). ( LA ) Eutropio, Breviarium ab Urbe condita, vol. III.(testo latino Wikisource-logo.svg e traduzione inglese Wikisource-logo.svg). ( LA ) Livio, Ab Urbe condita libri. (testo latino Wikisource-logo.svg e versione inglese Wikisource-logo.svg). ( GRC ) Polibio, Storie (Ἰστορίαι). (traduzione in inglese qui e qui). ( GRC ) Strabone, Geografia. (traduzione inglese). Fonti storiografiche moderne Francesco Cesare Casula La storia di SardegnaDelfino Editore, Sassari, 1994. ISBN 88-7138-063-0 AA.VV., Storia dei Sardi e della Sardegna, IV Vol., Milano, 1987-89. AA.VV., La Sardegna romana e altomedievale. Storia e materiali. Sassari, Carlo Delfino Editore, 2017. AA.VV., Il tempo dei Romani. La Sardegna dal III secolo a.C. al V secolo d.C., Nuoro, Ilisso Edizioni, 2021. Giovanni Lilliu, La civiltà dei Sardi, Torino, Edizioni ERI, 1967. Ettore Pais, Storia della Sardegna e della Corsica durante il periodo romano Edizioni Ilisso, Nuoro. Raimondo Carta Raspi, Storia della Sardegna, 1971-77, Milano. Attilio Mastino, Storia della Sardegna antica, Il Maestrale, 2007. ISBN 8886109989. Piero Meloni, La Sardegna romana, Ed Chiarella, 1990. Antonio Taramelli, La Sardegna romana, Istituto di studi romani, 1939.   Portale Antica Roma   Portale Corsica   Portale Sardegna Ultima modifica 5 giorni fa di 82.52.152.204 PAGINE CORRELATE Battaglia di Sulci battaglia della prima guerra punica  Espansione cartaginese in Italia tentativi espansionistici di Cartagine nelle isole mediterranee di Sicilia e Sardegna  Battaglia di Decimomannu Wikipedia Il contenuto Antonio Delogu. Delogu. Grice: “I wouldn’t consider Sardegna part of Italy, as Sicily isn’t – they are part of the Italian republic – the ‘stato’ – but geographically, they are not part of the peninsula – the Greeks are especially precise about that: “Graecia magna” EXCLUDED Sicily!” The logo of his review, “Segni e comprensione” is a rebus, in that a few letters are missing. The idea is that the thing STILL SEGNA the proposition that this is about signs and comprehension. Keywords: semiotica romana, “segno e comprensione” s_gn_ e c_mp-rension-“ “segni e comprensioni” le corpori nella perizia morale, etica comunitaria, etica universale, universalita, universabilisabile  -- -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Delogu” – The Swimming-Pool Library.  https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51767166606/in/dateposted-public/

 

Grice e Demaria – organismi – implicatura dinantorganica -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Vezza d’Alba). Filosofo. Grice: “Demaria is what we at Oxford would call a philosophical theologian! And a dynamically realist at that!” Famoso per numerosi studi sulla tomistica.  Frequenta il seminario di Alba, entrò come aspirante presso i salesiani di Penango Monferrato (Asti). Continua gli studi nel liceo di Valsalice (Torino). Studia a Roma. Insegna a Torino e a Roma. Nel corso della sua carriera fu docente di: Storia delle religioni, Missionologia, Filosofia dell’educazione, Teologia Fondamentale, Teologia Dogmatica, Dottrina sociale della Chiesa, Sociologia dell’Educazione.  Negli anni cinquanta avviò una feconda condivisione spirituale, teologica e filosofica con don Paolo Arnaboldi, fondatore del Fraterno Aiuto Cristiano FAC con l'attivo incoraggiamento di San Giovanni Calabria. Frequentò assiduamente le sedi del FAC sia a Vezza D'Alba sia a Roma. Strutturò la sua metafisica realistico organico dinamica.  Negli anni sessanta fondò con Giacomino Costa il Movimento Ideoprassico Dinontorganico M.I.D., oggi divenuto l'associazione Nuova Costruttività. Insieme con Paolo Arnaboldi fecero opera di formazione e divulgazione del realismo organico dinamico presso ambienti imprenditoriali collegati all'U.C.I.D.. Giacomino Costa strutturò volutamente la grande e innovativa impresa dell'Interporto di Rivalta Scrivia (il così detto "porto secco" di Genova) come applicazione dell'"organico dinamico" differenziandola dalle imprese tipicamente liberiste.  Negli anni settanta fu il referente culturale delle "Libere Acli" movimento dei lavoratori cattolici fuoriusciti dalle Acli a seguito della "ipotesi socialista" che portò alla "sconfessione di Paolo VI" e alla frattura del movimento. Continuò nell'ambiente dei lavoratori cattolici con la formazione e la diffusione della "ideoprassi" (modello di sviluppo) "organico dinamica", una vera ideologia cristiana alternativa a quella liberal capitalista e a quella marxista comunista.   Tommaso Demaria tiene un seminario sul realismo Dinamico a Verona presso il Centro Toniolo nel 1980. Negli anni ottanta fu intensamente attivo nella formazione alla nuova cultura cristiana organico dinamica a Torino, Verona, Vicenza, Roma con corsi, seminari e numerose pubblicazioni. Tra tutti i corsi tenuti merita una specifica menzione per la testimonianza documentale completa tramite registrazione video, presso il Centro Toniolo di Verona su invito di don Gino Oliosi. Proseguì il lavoro di san Tommaso d'Aquino e affermava l'incompletezza del tomismo, incapace di cogliere l'organismo come categoria ontologica a sé stante. L'integrazione della metafisica realista con l'organismo alla metafisica realistica integrale, strumento di straordinaria importanza per la vita quotidiana. Lo studio dell'organismo in quanto tale, in particolare nella sua dimensione di "struttura organica funzionale", si rivelerà infatti importantissimo per lo studio e lo sviluppo della società in generale ma in particolare per quella prassi economica nota col nome di "Sistemi di Qualità" che fa appunto dell'organicità il proprio fondamento. La possibilità di percepire l'organismo in quanto tale entità diversa dall'organismo fisico, specifica Demaria, passa attraverso la percezione dell'ente dinamico. Grande importanza assume l'organicità nella gestione del sociale perché esso consente di definire con precisione il bisogno di razionalità dell'umanità che supera le possibilità dell'essenza della persona. Questa necessaria unità dell'agire della persona nell'umanità che ne perpetua la presenza, in campo politico/ideoprassico egli stesso la definisce come comunitarismo all'interno del suo testo "La società alternativa".  L'indagine sui dinamismi profondi della società industriale e l'osservazione con metodo realistico oggettivo della realtà storica globale nella sua consistenza ontologica portano Demaria a sviluppare una metafisica per molti aspetti nuova ed originale.  Aderisce al tomismo e conferma la validità del realismo di Aquino per tutto ciò che è in “rerum naturae” quindi per gli enti che esistono già in natura. Coglie la necessità di innestare sul realismo tomista nuovi strumenti metafisici per comprendere la realtà degli enti che non esistono in natura perché costruiti o generati dall'uomo, le trasformazioni dell’essenza della persona operata dalla liberà delle sue scelte, la natura profonda degli enti interumani (famiglia, azienda, stato, …), l'interpretazione della realtà storica e il suo indirizzamento.  Il cambio d’epoca Individua un cambiamento d’epoca con valore ontologico (che cambia l’essere, la forma della società) nella rivoluzione industriale che con l’apporto della energia meccanica a integrazione e sostituzione del lavoro umano dinamizza la società oltre una soglia mai varcata prima nella storia. La società dinamizzata dalla rivoluzione industriale giunge a una radicale trasformazione da “statico sacrale” a “dinamico secolare”. Si tratta di una trasformazione qualitativa e non solo quantitativa dei cambiamenti sociali che coinvolge l’”essere” della società. La differenza fondamentale sta in questo: la società preindustriale (statico sacrale) era dominata dalla natura e in questo modo ripeteva sempre sé stessa nonostante i cambiamenti fenomenici (la vita di un romano non era così diversa da quella di un medievale), la società industriale invece si è in larga parte sganciata dal condizionamento della natura ed è obbligata a progettare e costruire continuamente il proprio futuro…. Ma con quali criteri? È a questo livello che interviene l’indagine metafisica della realtà storica il cui scopo è proprio scoprire l’essenza profonda della realtà storica appunto.  Il realismo dinamico ontologico Riconosce nel tomismo e nella metafisica di San Tommaso la validità nel contesto “statico sacrale” ma limiti nella interpretazione della nuova realtà storica “dinamico secolare”. Osserva che l’interpretazione data alla storia da Hegel prima e da Marx dopo, sono entrambe errate e ne critica il fondamento soggettivista e la natura ateo materialista.  Integra quindi il tomismo tradizionale inaugurando la nuova metafisica dinamica ontologica organica fondata sulla scoperta dell’ente dinamico o anche ente di secondo grado.  Dalla osservazione di ciò che nasce di una relazione umana (entre uomo 1 e uomo 2) scopre che oltre agli “enti di primo grado”,  gli enti la cui essenza già è (tutti quelli che già sono in natura – uomo 1 e uomo 2), esistono altri “enti di secondo grado”, gli enti la cui essenza non è, ma si fa attivisticamente nello spazio e nel tempo, e la cui nascita, vita e morte sono costituite dalla esistenza di una relazione tra le persone (ad esempio il concetto colletivo di ‘diada’ conversazionale, la famiglia, l’azienda sono enti inter-umani. Una diada e un “ente dinamico” il cui comportamento è simile a quello della monada – l’uomo, il soggeto,  un organism – ma la diada non e un ente fisico, ma costituito dall’insieme di cose e di persone. Una diada e ugualmente animato da un principio vitale, in cui le due parti (soggeto S1 e soggeto S2) e il tutto (la diada) sono in reciproco equilibrio che ne genera e ne conserva la vitalità. Quando viene meno questo reciproco equilibrio tra l’organismo di secondo grado (la diada) tutto e le sue parti (le membra, gli organi, le cellule – uomo 1 e uomo 2 – le monade) l’organismo perde la sua vitalità, si ammala e può arrivare alla morte (e così avviene per la diada, la famiglia, l’azienda, la comunità).  Indaga osservando la realtà con metodo metafisico, realistico, oggettivo sulle “regole”, sulla “razionalità”, o il razzionale, che sottende la vita e la vitalità di un “ente dinamico” individuando cinque “trascendentali dinamici” che sono le caratteristiche necessarie e sufficienti in un “ente dinamico” per restare vivo e vitalmente operante.  Sul fronte della interpretazione della “storia” osserva che la sua complessità non può essere indagata con un metodi analitico partendo dalla suddivisione del tutto della diada nelle sue monade. Serve il metodo della “sintesi” e quindi dalla sommatoria, aggregazione, integrazione dei singoli “enti dinamici” in realtà e altri organismi via via più complessi e ampi, giunge al tutto che definisce come “un ente universale dinamico concreto” senza il quale il singolo ente dinamico non avrebbe né senso né valore metafisico. Del resto è abbastanza intuitivo comprendere che nessun ente storico può esistere fuori dal contesto che l’ha generato. Per esempio una semplice azienda di scarpe non può esistere nel deserto separata da tutte le vie di comunicazione, dagli operai, dai clienti, dalle fonti di energia eccetera. Raccoglie e coordina le sue scoperte nella nuova metafisica realistico-dinamica che aggregata alla metafisica eealistico-statica di Aquinocostituisce nell’insieme delle due componenti, la statica e la dinamica, la metafisica realistico-integrale.  Con il nuovo strumento della metafisica realistico-integrale individua la giusta forma della società che definisce organico dinamica – o “dinontorganica” -- come vera alternativa alle due forme di società “false”, la capitalista e la marxista di cui stende una dettagliata critica. Comprende che la nuova società dinamica secolare avviatasi per l’effetto della rivoluzione industriale, è costruita in vero dalla ideo-prassi, ossia dalla ideologia come prassi razionalizzata. Una definizione corrente che sia avvicina al concetto di ideo-prassi è modello di sviluppo, intendendo con questo la necessità di un cambio di paradigma strutturale nella costruzione della società. Precisa meglio questa terminologia chiarendo che il tipo di sviluppo riguarda il cambiamento di essenza profonda di una società mentre invece il modello riguarda le innumerevoli e forse infinite varianti all’interno del medesimo tipo che si devono calare nei concreti ambiti temporali e geografici.  Le “ideoprassi”, cioè i tipi di società, riconosciute da Tommaso Demaria sono tre (3): capitalista, marxista, “dinontorganica” e queste sono costruite secondo i rispettivi modelli. Perciò all’interno della società di tipo capitalista avremo molteplici modelli anche molto diversi tra loro dal punto di vista fenomenico ma identici dal punto di vista dell’assoluto di riferimento (cioè del tipo), in questo caso il denaro con la relativa competitività necessaria per conquistarlo. Analogamente avviene per le altre due ideoprassi: la ideoprassi o società di tipo marxista, con l’assoluto della dialettica oppresso/oppressore (la vecchia lotta di classe) e la ideoprassi o società di tipo dinontorganico con il proprio assoluto costruttivo radicato nella dialettica della sintesi in funzione della vita.  Nella società dinamica secolare, che è laica e profana, la religione non è più accettata come fondamento. Così anche la persona libera e sovrana che ha il suo posto nella società statico sacrale non può esistere in quanto nella società dinamica secolare fin dalla nascita la persona umana viene continuamente ri-manipolata dalla ideo-prassi corrente (capitalista o marxista). La persona umana trova la sua giusta collocazione nella società se riconosce la sua nuova natura di persona cellula, componente libera in un organismo sociale più grande. Come persona cellula rimane sempre persona umana libera ma al contempo svincolata dalle logiche servo/padrone, oppresso/oppressore del marxismo.  L’Economia e un tema ampiamente trattato dal Demaria che individua tre tipi di economia: la capitalista, la marxista/comunista, la economia dinontorganica. Dopo aver profondamente analizzato e criticato le prime descrive in dettaglio i fondamenti della economia dinontorganica. Per brevità riportiamo qui la differenza del concetto di impresa capitalista ed impresa dinontorganica. L’impresa capitalista è un'attività economica professionalmente organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o servizi. Si avvale di un complesso di beni strumentali, il mezzo concreto (l’azienda): immobili, sedi, attrezzature, impianti, personale, metodi, procedure, risorse. Si tratta di “cose” e tra queste anche il personale/forza lavoro. Anima suprema dell’impresa capitalista è il profitto e secondariamente la creatività imprenditoriale a servizio del profitto. La socialità dell’impresa diviene un fatto ambientale ed incidentale innegabile ma secondario. Quindi l’impresa (con la relativa azienda) capitalista sè una “cosa” ridotta a capitale e lavoro.  L’impresa dinontorganica, la vera natura profonda dell’impresa, è organismo dinamico economico di base dell’attuale società industriale o postindustriale. E’un vero organismo dinamico, una realtà complessa, non fisica ma prodotta dall'uomo, costituita dalla sintesi di cose e di persone autonome e cellule dell’organismo impresa, animata da un proprio principio vitale e perciò capace di vivere ed agire a titolo proprio. E’quindi impresa umanissima, affrancata dal materialismo capitalista. Anima dell’impresa è la costruttività nel suo triplice aspetto economico, sociale e “ideo-prassico”, che eleva la creatività al di sopra del solo profitto e che soddisfa ad un tempo la le esigenze della società globale e della impresa, quali il profitto, comunque necessario ma non sufficiente. In ambito ecclesiologico le scoperte come da sua frequente dichiarazione, si collocano nel solco del Magistero della Chiesa Romana Cattolica. Cinque delle sue saggi, che contengono nell’insieme il corpo della sua opera, portano impresso l’imprimatur che attesta l’assenza di errori in ambito di fede e morale cattolica.  La scoperta dell’“ente di secondo grado” (ente generati dalle relazioni tra le persone) e della persona “cellula” (individuo libero che riconosce di essere parte di un organismo più grande) sono in analogia scaturite dalla riflessione sull’essere della Chiesa (l’insieme dei cristiani) in comunione con il corpo mistico di Cristo. Il cristiano con il battesimo cambia il suo essere e diviene uomo nuovo. Quindi la persona umana (in questo caso il cristiano) è contemporaneamente “ente di primo grado (“in rerum naturae”) che ente di secondo grado (ente dinamico) come membro della Chiesa che costituisce il corpo mistico di Cristo. La Chiesa così concepita è il primo ente dinamico sacro della storia. Mentre il primo ente dinamico laico e profano dell’epoca dinamico secolare post rivoluzione industriale è l’azienda industriale.  Pur accogliendo nella sua “metafisica realistica integrale” (la metafisica realistica “statica” più la “dinamica”) il tomismo in toto, il suo pensiero genera dispute con i tomisti classici del tempo che non riconoscono alla Chiesa (e nemmeno alla azienda industriale ) la natura di “ente di secondo grado” ma unicamente la caratteristica di “ente di relazione” che per Demaria è insufficiente per interpretare la complessità della realtà storica industriale e la relativa mobilitazione.  La Dottrina Sociale della Chiesa e L’Ideoprassi Dinontorganica Alla Dottrina Sociale Della Chiesa riconosce ogni validità. Ne segnala tuttavia la incompletezza in quanto costituita da norme etiche e morali rivolte principalmente alla persona libera e sovrana ed atte ad incidere sul suo comportamento come singolo per migliorare in senso cristiano la società. Rileva che la società non è più solo costruita dalle norme morali di persone libere e sovrane ma anche e soprattutto dalla “ideoprassi” (ideologia come prassi razionalizzata sintesi di persone e strutture) corrente, dal suo dinamismo e dalle sue razionalità interne autocostruttive proprie della società “dinamica secolare”. Pertanto per incidere sulla società contemporanea che è “dinamica secolare”, laica e profana, serve una vera e propria nuova e completa “ideoprassi”, certamente laica e profana ma compatibile con i valori cristiani cardinali. All'interno di questa nuova “ideoprassi” Demaria vede inseriti tutti gli insegnamenti della Dottrina Sociale Cristiana. Da soli e senza una propria “ideoprassi” tali insegnamenti tendono a generare delle “para-ideologie” che hanno effetti locali e temporanei. Per ottenere effetti di trasformazione duraturi ed è necessario avviare azioni che contengano la giusta razionalità e caratteristiche (i 5 trascendentali dinamici) capaci di innescare cicli autocostruttivi.  Altre opere: “Catechismo missionario” (Torino, SEI, La Religione, Colle Don Bosco, Elledici); “Il fiume senza ritorno. Dramma missionario, Colle Don Bosco, Elledici, La pedagogia come scienza dell'azione, Salesianum, Sintesi sociale cristiana. Metafisica della realtà sociale (presentazione di Aldo Ellena), Torino, Pontificio Ateneo Salesiano, Senso cristiano della rivoluzione industriale, Torino, CESPCentro Studi don Minzoni, ca. Strumento ideologico e rapporto fede-politica nella civiltà industriale, Torino, CESPCentro Studi don Minzoni, ca. Presupposti dottrinali per la pastorale e l'apostolato, Velate di Varese, Edizioni Villa Sorriso di Maria, Cristianesimo e realtà sociale, Velate di Varese, Edizioni Villa Sorriso di Maria, Realismo dinamico, Torino, Istituto Internazionale Superiore di Pedagogia e Scienze Religiose, Il Decreto sull'apostolato dei laici: genesi storico-dottrinale, testo latino e traduzione italiana, esposizione e commento, Torino, Leumann Elle Di Ci, Catechismo del cristiano apostolo: la Salvezza cristiana, Torino, Istituto Internazionale Superiore di Pedagogia e Scienze Religiose, Punti orientativi ideologico-sociali (a cura del Movimento Ideologico Cristiano Lavoratori), Bologna, Luigi Parma, Pensare e agire organico-dinamico, Milano, Centro Studi Sociali); “Ontologia realistico-dinamica” (Bologna, Costruire); “Metafisica della realtà storica. La realtà storica come ente dinamico” Bologna, Costruire, La realtà storica come superorganismo dinamico: dinontorganismo e dinontorganicismo, Bologna, Costruire, L'edizione Realismo dinamico, Bologna, Costruire,  L'ideologia cristiana, Bologna, Costruire, Sintesi sociale cristiana. Riflessioni sulla realtà sociale, Bologna, Costruire); “La questione democristiana, Bologna, Costruire, Il Marxismo, Verona, Nuova Presenza cristiana, Ideologia come prassi razionalizzata, Arbizzano, Il Segno, Per una nuova cultura, Verona, Nuova Presenza cristiana, La società alternativa, Verona, Nuova Presenza cristiana, Verso il duemila: per una mobilitazione giovanile religiosa e ideologica, Verona, Nuova Presenza cristiana, Un tema complesso sullo sfondo dell'ideologia come strumento ideologico, Verona, Nuova Presenza cristiana, Confronto sinottico delle tre ideologie. Quarta serie, Roma, Centro Nazareth, Scritti teologici inediti. Roma, Editrice LAS. Letteratura su Tommaso Demaria Ugo Sciascia, Per una società nuova:inizio di una ricerca partecipata., Bologna, L. Parma, Ugo Sciascia, Crescere insieme oltre capitalismi e socialismi: rifondazione culturale dall'Italia, per l'Europa, al mondo. Napoli, Edizioni Dehoniane, Mario Occhiena, Riscoperta della realtà: un itinerario filosofico esistenziale,Torino, Gribaudi, Pizzetti Luigi, Culture a confronto. Sussidio per l’educazione religiosa e civica nelle scuole medie superiori, La voce del popolo edizioni, Brescia, Fontana, Stefano, Apertura a “tutto” l’essere, in Nuove Prospettive, Palmisano, Nicola, Quanto resta della notte?: analisi e sintesi del medioevo novecentesco all'alba del Duemila, Roma, LAS, Giuseppe Tacconi, La persona e oltre: soggettività personale e soggettività ecclesiale nel contesto del pensiero di Tommaso Demaria, Roma, Libreria Ateneo Salesiano, Gruppo studio scienza cristiano-dinontorganica di Vicenza, Realismo dinamico: il problema metafisico della realtà storica come superorganismo dinamico cristiano / riduzione dell'opera di Tommaso Demaria, Altavilla (Vicenza), Publigrafica, Gruppo studio scienza cristiano-dinontorganica di Vicenza,L'ideo-prassi dinontorganica: la costruzione dinamica realistico-oggettiva della nuova realtà storica: revisione del saggio L'ideologia Cristiana, Altavilla (Vicenza), Publigrafica, Mauro Mantovani, Sulle vie del tempo. Un confronto filosofico sulla storia e sulla libertà, Roma, Libreria Ateneo Salesiano, Lorenzo Cretti, La quarta navigazione: realtà storica e metafisica organico-dinamica, Associazione Nuova Costruttività -Tipografia Novastampa, Verona, Donato Bagnardi, Costruttori di una Umanità Nuova. Globalizzazione e metafisica, Bari, Edizioni Levante, Oliviero Riggi, L'ideoprassi cristiana per una società alternativa; implicanze filosofiche, Roma, Università Pontificia Salesiana, Giulio Pirovano, Roberto Roggero, Uniti nella diversità, UK, Lulu Enterprise, Mauro Mantovani, Alberto Pessa e Oliviero Riggi, Oltre la crisi; prospettive per un nuovo modello di sviluppo. Il contributo del pensiero realistico dinamico (atti dell'omonimo convegno tenuto a Roma), Roma, Libreria Ateneo Salesiano, Stefano Fontana, Filosofia per tutti: una breve storia del pensiero da Socrate a Ratzingher, Verona, Fede & Cultura. Nuova Costruttività, La Vita, su dinontorganico.  Scritti teologici inediti, Roma, Editrice LAS, Mario Gadili, San Giovanni Calabria: biografia ufficiale, Cinisello Balsamo, San Paolo, Per la ri-educazione all'amore cristiano nel campo economico-sociale: per una valida teoria della pratica e una adeguata pratica della teoria; Genova: Crovetto, Atti del convegno: Per la ri-educaziaone all'amore cristiano tra le aziende, tenustosi a Rapallo e atti del convegno: Programmazione economico-sociale e amore cristiano, tenutosi a Rapallo, Massaro, I problemi dell'economia ligure: un'unica iniziativa ma buona. A Rivalta Scrivia la succursale del pletorico porto di Genova., in LA STAMPA, C.G.N., Il ministro Andreotti inaugura il nuovo complesso della Rivalta, in Sette Giorni a Tortona, LIBERE A. C.L.I., Sette domande sulle A.C.L.I. e la svolta di Vallombrosa e sette risposte delle Libere A.C.L.I., Milano, Centro Studi, Acli "federacliste", Per un impegno ideologico Cristiano, Torino, ALC-FEDERACL, Tacconi, La persona e oltre: soggettività personale e soggettività ecclesiale, LAS, Realismo dinamico, Bologna, Costruire, Il Marxismo, Verona, Nuova Presenza cristiana, Confronto sinottico delle tre ideologie. Roma, Centro Nazareth, La società alternativa, Verona, Nuova Presenza Cristiana, Sintesi sociale cristiana. Metafisica della realtà sociale (presentazione di Ellena), Torino, Pontificio Ateneo Salesiano, Presupposti dottrinali per la pastorale e l'apostolato., Velate di Varese, Edizioni Villa Sorriso di Maria, Cristianesimo e realtà sociale., Velate di Varese, Edizioni Villa Sorriso di Maria, Paolo Arnaboldi, Demaria e Morini, I consigli pastorali, diocesani e parrocchiali alla luce di una pastorale organico-dinamica, Velate di Varese, FAC-Villa Sorriso di Maria, Luigi Bogliolo e Stefano Fontana, Prospettive del Realismo Integrale. Pensare il trascentente. La questione metafisica dell'ente dinamico. Dialogo con Bogliolo. Apertura a tutto l’essere in Nuove Prospettive,  Realismo dinamico Giacomino Costa Realismo Tomismo Neotomismo Comunitarismo, Vita, opere e  ragionata a cura dell'Associazione Nuova Costruttività., su dinont-organico.  Opere di Tommaso Demaria L’opera fondamentale di T. Demaria è la Trilogia del Realismo Dinamico  , si tratta di tre volumi in cui l’autore spiega in modo completo e preciso la metafisica realistico dinamica.  Se vuoi farti un’idea di quello che ha scritto T. Demaria, di seguito trovi  tutta la sua bibliografia, per scaricare invece alcuni dei suoi testi devi andare sul nostro blog   Trilogia del Realismo Dinamico:  Volume 1: Ontologia realistico-dinamica = Collana Spid – Realismo dinamico vol.I, Ed. “Costruire”, Bologna 1975, 278 pp. (di questo testo è stata redatta anche la traduzione in lingua spagnola, vedi sezione 2.1 di questa bibliografia.) Volume 2: Metafisica della realtà storica. La realtà storica come ente dinamico = Collana Spid – Realismo dinamico vol.II, Ed. “Costruire”, Bologna 1975, 262 pp. Volume 3: La realtà storica come Superorganismo Dinamico. Dinontorganismo e Dinontorganicismo = Collana Spid – Realismo dinamico vol.III, Ed. “Costruire”, Bologna 1975, 374 pp. Altri due volumi integrano la Collana Spid.  L’ideologia cristiana, Collana Spid – Ed. “Costruire”, Bologna 1975, 413 pp. Sintesi sociale cristiana. Riflessioni sulla realtà sociale, Collana Spid – Ed. “Costruire”, Bologna 1975, 447 pp. Gli altri scritti di T. Demaria non aggiungono nulla di fondamentale rispetto ai volumi principali ma sono importanti perchè ne esplicitano alcuni aspetti. La sequenza dei testi è in ordine temporale.  Sintesi sociale cristiana. Metafisica della realtà sociale, «Quaderni di Cultura e Formazione Sociale», a cura dell’Istituto di Scienze Sociali del Pontificio Ateneo Salesiano, Torino 1958, 323 pp. Cristianesimo e realtà sociale, Edizioni FAC – Villa Sorriso di Maria, Velate di Varese 1959, 170 pp. I Consigli Pastorali Diocesani e Parrocchiali alla luce di una Pastorale organico-dinamica Arnaboldi, Paolo Maria – Demaria, Tommaso – Morini, Bruno, edizioni FAC – Villa Sorriso di Maria, Velate di Varese 1970. “L’impegno morale del cristiano” documento pastorale dell’episcopato italiano. Premessa illustrativa dedicata agli operatori cristiani in campo sociale = Centro Fanin – Collana La fonte, Vicenza 1973, 32 pp. Pensare e agire “organico-dinamico”, Varese s.d, 79 pp. Punti orientativi ideologico-sociali = a cura del MICL, Ed. Luigi Parma, Bologna 1974, 206 pp. La “questione democristiana”, Ed. “Costruire”, Bologna 1975, 61 pp. Ideologia come prassi razionalizzata, Il Segno Ed. = NPC, Verona 1980, 118 pp. Per una nuova cultura, NPC Ed.,Verona 1982, 140 pp. (di questo testo è stata redatta anche la traduzione in lingua inglese, vedi sezione 2.1 di questa bibliografia.) La società alternativa, NPC Ed., Verona 1982, 245 pp. Verso il Duemila. Per una mobilitazione giovanile religiosa e ideologica, NPC Ed., Verona 1982, 106 pp. Un tema complesso sullo sfondo dell’ideologia come strumento ideologico, NPC Ed., Verona 1984, 75 pp. Strumento ideologico e rapporto fede-politica nella civiltà industriale = Minidossier culturali per una nuova presenza cristiana I, Vicenza s.d., 24 pp. Rivoluzione Industriale e Cristianesimo = Minidossier culturali per una nuova presenza cristiana II, Vicenza s.d., 24 pp. Riflessioni spirituali. Tipografia Unione, Vicenza 2008. (pubblicazione postume che raccoglie alcune riflessioni spirituali di don Tommaso Demaria, ricavate da lettere inviate a suor G.A. di cui era direttore spirituale.) Scritti Teologici Inediti a cura di M. Mantovani e  R. Roggero. Las – Roma 2017 Atti Convegni di Rapallo 1964, Per la rieducazione all’amore cristiano tra le aziende. Ed. FAC Villa Sorriso, Velate di Varese 1964. Atti Convegni di Rapallo 1966/67, Visioni chiave di questo nostro mondo dinamico. Ed. FAC Villa Sorriso, Velate di Varese 1967.  Atti Convegni di Rapallo 1968/69, Il mondo di oggi come questione sociale.  Ed. FAC Villa Sorriso, Velate di Varese 1970. Atti Convegni di Rapallo 1970/71, Democrazia nuova per una nuova società.Ed. FAC Villa Sorriso, Velate di Varese 1972. Riportiamo anche i titoli di una serie di articoli sulla rivista quadrimestrale veronese «Nuove Prospettive» (in ordine cronologico: 1988-1991)  La metafisica aristotelico-tomista come sistema metafisico realistico oggettivo; sua crisi e suo rifiuto, in NP I (1988) 1, 2-10. Metafisica e metodo, in NP I (1988) 2, 18-27. Metafisica realistica integrale, in NP I (1988) 3, 41-51. Valore della dottrina sociale cristiana nell’attuale contesto storico dinamico secolare, in NP II (1989) 1, 2-3. Integrazione della dottrina sociale cristiana con l’ideoprassi organico-dinamica. Dottrina sociale cristiana e progetto organico-dinamico di società, in NP II (1989) 1, 4-9. Sapienzialità, in NP II (1989) 3, 67-78. La “nuova creatura”: un problema teologico-ecclesiologico risolto solo a metà, in NP II (1989) 3, 90-92. I trascendentali, in NP III (1990) 2, 36-42. Metafisica dell’azienda industriale, in NP III (1990) 3, 69-77. Dinontorganicità, in NP IV (1991) 1-2-3, 3-12. La famiglia oggi in una visione organico-dinamica, in NP IV (1991) 1-2-3, 13-17. Articoli su altre riviste o su miscellanee (in ordine cronologico)  La pedagogia come scienza dell’azione. Appunti per una epistemologia pedagogica, in Salesianum XI (1949) 2, pp. 206-230. Sociologia positiva o positivo-razionale? A proposito di una introduzione alla sociologia, in Salesianum XVII (1955) 3-4, pp. 522-529. Per una Ecclesiologia organica, in AA.VV., De Ecclesia, PAS, Torino 1962, pp. 335-378. Concezione religiosa dell’educazione, in Rivista di Pedagogia e Scienze Religiose, I (1963) 1, pp. 17-37.  Dio e la Religione, in AA.VV. De Deo, PAS, Torino 1965, pp. 355-419. Il posto e il compito dei laici nella Chiesa, in AA.VV. Per la rieducazione all’amore cristiano nel campo economico-sociale. Per una valida teoria della pratica e una adeguata pratica della teoria = Raccolta degli Atti dei Convegni di Rapallo per Industriali e Dirigenti del 27 Febbraio – 1 Marzo 1964 e del 18-21 Febbraio 1965, Velate di Varese 1965, Prima parte 29-40. Dalla Sociologia cristiana normativa alla Sociologia cristiana costruttiva, ibid., Parte seconda 23-38. Aspetti sociologici, religiosi e morali della programmazione economico-sociale, ibid., 39-57. La formazione all’apostolato, in AA.VV., Il Decreto sull’Apostolato dei Laici (Apostolicam actuositatem). Genesi storico-dottrinale. Testo latino e traduzione italiana. Esposizione e commento = Collana Magistero Conciliare LDC 4, Torino 1966, pp. 331-390. Le leve segrete che dominano il mondo. I – Leve dinamiche per un mondo dinamico, in AA.VV., Visioni chiave di questo nostro mondo dinamico. Per una valida teoria della pratica e una adeguata pratica della teoria = Raccolta degli Atti dei Convegni di Rapallo per Imprenditori e Dirigenti del 3-6 Marzo 1966 e del 2-5 Marzo 1967, Velate di Varese 1967, Parte prima 27-44. Le leve – non più segrete – che dominano il mondo. II – Leve cristiane per un mondo cristiano, ibid., 65-81. Vengono trattati, nelle relazioni 10 e 11, i trascendentali dinamici (vedi punto B, 8) della religiosità, socialità, moralità, educatività e missionarietà.  Società e persona umana in un mondo dinamico. I - Mondo dinamico e società, ibid., Parte seconda 33-50. Società e persona umana in un mondo dinamico. II – Mondo dinamico e persona umana, ibid. 69-87. Fede e vita spirituale, in Giornate di studio per predicatori di Esercizi Spirituali. Approfondimenti teologico-pastorali, Roma – S.Cuore, 1-4 maggio 1968, fascicolo 8. Società in trasformazione e trasformazione dell’uomo I. Società nuova in un mondo nuovo, in AAVV, Il mondo di oggi come questione sociale. Per una valida teoria della pratica e una adeguata pratica della teoria = Raccolta degli Atti dei Convegni di Rapallo per Imprenditori e Dirigenti del 7-10 Marzo 1968 e del 6-9 Marzo 1969, Velate di Varese 1970, Parte prima, 27-41. Società in trasformazione e trasformazione dell’uomo II. Uomo nuovo in una società nuova, ibid., 57-73. Mondo dinamico e questione sociale I. La questione sociale e le sue vicende, ibid., Parte seconda, 33-50. Mondo dinamico e questione sociale II. La questione sociale e la sua soluzione, ibid., 71-90. Democrazia e mondo dinamico, in Democrazia nuova per una nuova società = Raccolta degli Atti dei Convegni di Rapallo per Imprenditori e Dirigenti del 5-8 Marzo 1970 e del 4-7 Marzo 1971, Velate di Varese 1970, Parte prima, 57-90. Impresa e società, ibid., Parte seconda, 53-86. Studio sul piano teologico essenziale, in Arnaboldi Paolo Maria – Demaria Tommaso – Morini Bruno, I Consigli Pastorali Diocesani e Parrocchiali alla luce di una Pastorale organico-dinamica, Edizioni FAC – Villa Sorriso di Maria, Velate di Varese 1970, 9-75. Testi ciclostilati  a)   Relazioni ai Corsi Mid di sviluppo  Per una autentica società giusta: una concreta nuova presenza cristiana = Atti del corso di studio Mid di Roma – Centro Nazareth, 26-30 dicembre 1977, Roma 1977 (testi dattiloscritti). -          La famiglia oggi in una visione organico-dinamica  -          La scuola oggi in una visione organico-dinamica della società  -          L’impresa organico-dinamica  -          Sindacato organico-dinamico  -          Stato e società  -          Ideologia organico-dinamica ed Unione Europea  Le tre ideologie. Confronto sinottico = Atti del corso di studio Mid di Roma – Centro Nazareth, 26-30 dicembre 1980, Roma 1980 (testi dattiloscritti), 73 pp. -          L’Assoluto ideologico primario  -          L’Assoluto ideologico derivato  -          La religione  -          Uomo e società  -          L’economia  -          La politica  -          Etica a matrice ideologica  Le tre ideologie. Confronto sinottico. Seconda serie = Atti del corso di studio Mid di Roma – Centro Nazareth, 26-30 dicembre 1981 Roma 1981 (testi dattiloscritti), 46 pp. -          Stato e società  -          La democrazia  -          La libertà  -          La socialità  -          La cultura  -          I valori  -          Scienza e tecnica  Confronto sinottico delle tre ideologie. Terza serie = Atti del Corso di studio Mid di Roma – Centro Nazareth, 26-30 dicembre 1984, Roma 1984 (Quaderno poligrafato), 152 pp. -          Richiamo orientativo. La sapienza umano storica ideoprassica  -          La scelta energetica  -          Lo sviluppo  -          Il futuro del pianeta  Confronto sinottico delle tre ideologie. Quarta serie = Atti del Corso di studio Mid di Roma – Centro Nazareth, 26-30 dicembre 1985, Roma 1985 (Quaderno poligrafato), 136 pp. -          Guerra e pace  -          Cultura come civiltà  -          La civiltà dell’amore  Confronto sinottico delle tre ideologie. I trascendentali dinamici = Atti del Corso di studio Mid di Roma – Centro Nazareth, 26-30 dicembre 1986, Roma 1986 (Quaderno poligrafato) 42 pp. AA.VV., EDUCazione e formazione oggi = Atti del Corso di studio Mid di Roma – Centro Nazareth, 2-6 gennaio 1990, Roma 1990, 123 pp. b)  Relazioni a Corsi di esercizi o di studio promossi dal FAC  La parrocchia (Corso Fac, 1970). “Su questa pietra…” – Il nostro sacerdozio: donde veniamo? Chi siamo? Dove andiamo? (Corso Fac – esercizi spirituali per sacerdoti, 1971). Chiesa e mondo (Corso Fac, 1971). Fede – Speranza – Carità (Corso Fac, 1971) Rimessa a punto teorico-pratica dei Consigli pastorali(Corso Fac 1972). La Chiesa locale (Corso Fac 1972). I Consigli pastorali in se stessi e nella loro articolazione e rapporti (Corso Fac 1972). La fede cristiana (Corso Fac 1973). Il problema ecclesiologico e le anime (Corso Fac 1975). La Chiesa e la persona-cellula (Corso Fac 1975). Costruire la Chiesa (Corso Fac 1975). La parrocchia nella Chiesa universale (Corso Fac 1975). La Chiesa come anima del mondo (Corso Fac 1975). Parrocchia in trasformazione I. Dalla parrocchia statico-sacrale alla parrocchia dinontorganica religiosa(Corso Fac 1978). Parrocchia in trasformazione II. La parrocchia dinontorganica religiosa (Corso Fac 1978). Conoscere la Chiesa = Corso Fac di Esercizi-Studio di tipo C, Roma – Centro Nazareth, 27 agosto – 4 Settembre 1979. Come programmare la costruzione di una parrocchia “Famiglia di Dio” oggi, in una visione ecclesiale profonda = Corso Fac di Esercizi-Studio di tipo C, Roma – Centro Nazareth, 22-30 agosto 1980. c)   Altri testi ciclostilati  Realismo dinamico, Istituto Superiore di Scienze Religiose, Torino 1963 (Dispense), 75 pp. La Chiesa cattolica in stato di missione (ciclostilato), 20 pp. Le tesi delle Libere ACLI = a cura delle L.A.C.L.I. Italia Settentrionale, Milano 1971 (ciclostilato) Per una nuova cultura religiosa e sociale = a cura di Nuova Presenza Cristiana – Centro culturale “G. Toniolo”, Verona 1978, 64 pp. Il Marxismo = Quaderni di Nuova Presenza Cristiana – Centro culturale “G. Toniolo”, Verona 1979, 24 pp. Tommaso Demaria. Demaria. Keywords: organismo, organismi, super-organismo, Tuomela, we-thinking, cooperation and authority -- Luigi Cipriani, communicazione e cultura, dynontorganico – o dinontorganico -- dinamico ontico organico -- l’implicanza di Speranza, implicanza, implicatura, implicazione. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Demaria” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51765923282/in/dateposted-public/

 

Grice e Demetrio – il culto di marte, la mascolinita, ed il sentimento taciuto – filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano). Filosofo. Grice: “Demetrio and the semiotic tacit’ – “Grice: “Demetrio philosophises, in a Grecian, way, on the ‘tacit’ – literally, the unuttered --.” Grice: “While ‘tacit’ may implicate that the vehicle is phonic, it need not be – any non-expression is a tacit act --.” “And like me, Demetrio holds that there is a whole communication involving the un-expressed, or tacit – or ‘suprressed’ as the scholastics preferred. Grice: “I like Demetrio. You see, Demetrio is sa good one. – and he enriches the Griceian vocabulary. I use ‘imply’ for implicatum and implicitum; but Demetrio, due to the richness of the Italian language, can play with the ‘tac’ root. I often refer to the implicit as the tacit – and the tacit is nothing but the ‘silent’ –Demetrio has this brilliant essay on the ‘sentiments’ wich are ‘taciuti’. A ‘sentimento’ is taciuto’ when it is tacit, implicit, not explicit – his favourite scenario is a loving couple – the silence of love – he has also played with the ‘senses’ of ‘silent,’ but it is the ‘tacit’ root that he explores most and relates to my explicit/implicit, tacit/non-tacit distinction!” – Le sue ricerche promuovono la scrittura di se stessi, sia per lo sviluppo del pensiero interiore e auto-analitico, sia come pratica filosofica. Insegna a Milano, è ora direttore scientifico del Centro Nazionale Ricerche e studi autobiografici della Libera università dell'Autobiografia di Anghiari e dei “Silenziosi”. Altre opere: “Educatori di professione. Pedagogia e didattiche del cambiamento nei servizi extra-scolastici” (Scandicci, La Nuova Italia, Tornare a crescere); “L'età adulta tra persistenze e cambiamenti” (Milano, Guerini, La ricerca qualitativa in educazione” (Scandicci, La Nuova Italia); Apprendere nelle organizzazioni. Proposte per la crescita cognitiva in età adulta, Roma, NIS); “Immigrazione e pedagogia interculturale. Bambini, adulti, comunità nel percorso di integrazione, Firenze, La Nuova Italia); “L'educazione nella vita adulta. Per una teoria fenomenologica dei vissuti e delle origini, Roma, NIS, Raccontarsi); “L'autobiografia come cura di sé, Milano, Cortina, Educazione degli adulti: gli eventi e i simboli, Milano, C.U.E.M., Viaggio e racconti di viaggio. Nell'esperienza di giovani e adulti, Milano, C.U.E.M.); “Bambini stranieri a scuola. Accoglienza e didattica interculturale nella scuola dell'infanzia e nella scuola elementare, Scandicci, La Nuova Italia, Agenda interculturale. Quotidianità e immigrazione a scuola. Idee per chi inizia, Roma, Meltemi,  Il gioco della vita. Kit autobiografico. Trenta proposte per il piacere di raccontarsi, Milano, Guerini); Pedagogia della memoria. Per se stessi, con gli altri, Roma, Meltemi); “Elogio dell'immaturità. Poetica dell'età irraggiungibile, Milano, Cortina, Una nuova identità docente. Come eravamo, come siamo, Milano, Mursia); “L'educazione interiore. Introduzione alla pedagogia introspettiva, Scandicci, La Nuova Italia, Di che giardino sei? Conoscersi attraverso un simbolo” (Roma, Meltemi); “Preparare e scrivere la tesi in Scienze dell'Educazione, Milano, Sansoni); “Istituzioni di educazione degli adulti. Il metodo autobiografico” (Milano, Guerini); “Istituzioni di educazione degli adulti” (Milano, Guerini); Album di famiglia. Scrivere i ricordi di casa, Roma, Meltemi, Scritture erranti. L'autobiografia come viaggio del se nel mondo, Roma, EDUP, Ricordare a scuola. Fare memoria e didattica autobiografica, Roma, Laterza, Manuale di educazione degli adulti, Roma, Laterza, Filosofia dell'educazione ed età adulta. Simbologie, miti e immagini di sé, Torino, POMBA Liberia, L'età adulta. Teorie dell'identità e pedagogie dello sviluppo, Roma, Carocci, Autoanalisi per non pazienti. Inquietudine e scrittura di sé, Milano, Cortina); “Istituzioni di educazione degli adulti.  Saperi, competenze e apprendimento permanente, Milano, Guerini, Didattica interculturale. Nuovi sguardi, competenze, percorsi, Milano, Angeli, In età adulta. Le mutevoli fisionomie, Milano, Guerini, Filosofia del camminare. Esercizi di meditazione mediterranea, Milano, Cortina, La vita schiva. Il sentimento e le virtù della timidezza” (Milano, Cortina, La scrittura clinica. Consulenza autobiografica e fragilità esistenziali, Milano, Cortina, L'educazione non è finita. Idee per difenderla, Milano, Cortina); “Ascetismo metropolitano. L'inquieta religiosità dei non credenti, Milano, Ponte alle Grazie); “L'interiorità maschile. Le solitudini degli uomini” (Milano, Cortina, La religiosità degli increduli. Per incontrare i «gentili», Padova, Messaggero,  Perché amiamo scrivere. Filosofia e miti di una passione, Milano, Cortina, Senza figli. Una condizione umana, Milano, Cortina,,Educare è narrare. Le teorie, le pratiche, la cura, Milano, Mimesis); “Beati i misericordiosi. Perché troveranno misericordia, Torino, Lindau); “I sensi del silenzio. Quando la scrittura si fa dimora, Milano, Mimesis, La religiosità della terra. Una fede civile per la cura del mondo, Milano, Cortina, Silenzio, Padova, Messaggero, Green autobiography. La natura è un racconto interiore, Anghiari, Booksalad, Ingratitudine. La memoria breve della riconoscenza, Milano, Cortina, Scrivi, frate Francesco. Una guida per narrare di sè, Padova, Messaggero, La vita si cerca dentro di sé. Lessico autobiografico, Milano, Mimesis, Terra, Milano, Dialogos, Foliage. Vagabondare in autunno, Milano, Cortina.  Wikipedia Ricerca Marte (divinità) dio romano della guerra e dei duelli Lingua Segui Modifica Marte (in latino: Mars[1]) è, nella religione romana e italica[2], il dio della guerra e dei duelli e, secondo la mitologia più arcaica, anche del tuono, della pioggia e della fertilità[3]. Simile alla divinità greca Ares, col tempo ne ha assorbito tutti gli attributi, fino a venire completamente identificato con esso.   Statua colossale di Marte: "Pirro" nei Musei capitolini a Roma. Fine del I secolo d.C. CultoModifica  Venere e Marte, affresco romano da Pompei, 1 secolo d. C. È una divinità sia etrusca[4] che italica (Mamers nei dialetti sabellici[5]); nella religione romana (dove era considerato padre del primo re Romolo) era il dio guerriero per eccellenza, in parte associato a fenomeni atmosferici come la tempesta e il fulmine. Assieme a Quirino e Giove, faceva parte della cosiddetta "Triade arcaica", che in seguito, su influsso della cultura etrusca, sarà invece costituita da Giove, Giunone e Minerva. Più tardi, identificandolo con il greco Ares, venne detto figlio di Giunone e Giove e inserito in un contesto mitologico ellenizzato.  Alcuni studiosi del passato (Wilhelm Roscher, Hermann Usner, e soprattutto Alfred von Domaszewski) hanno parlato di Marte anche nei termini di divinità "agraria", legata all'agricoltura, soprattutto sulla scorta del testo di una preghiera rimastaci nel De agri cultura di Catone, che lo invoca per proteggere i campi da ogni tipo di sciagura e malattia. Secondo Georges Dumézil tuttavia il collegamento fra Marte e l'ambito campestre non farebbe di lui una divinità legata alla terra, in quanto il suo ruolo sarebbe esclusivamente di difensore armato dei campi da mali umani e soprannaturali, senza diversificazione dalla sua natura intrinsecamente guerresca.  Il dio, inoltre, rappresentava la virtù e la forza della natura e della gioventù, che nei tempi antichi era dedita alla pratica militare. In questo senso era posto in relazione con l'antica pratica italica del uer sacrum, la Primavera Sacra: in una situazione difficile, i cittadini prendevano la decisione sacra di allontanare dal territorio la nuova generazione, non appena fosse divenuta adulta. Giunto il momento, Marte prendeva sotto la sua tutela i giovani espulsi, che formavano solo una banda, e li proteggeva finché non avessero fondato una nuova comunità sedentaria espellendo o sottomettendo altri occupanti; accadeva talvolta che gli animali consacrati a Marte guidassero i sacrani e divenissero loro eponimi: un lupo (hirpus) aveva guidato gli Irpini, un picchio (picus) i Piceni, mentre i Mamertini derivavano il loro nome direttamente da quello del dio. Sempre a Marte era dedicata la legio sacrata, cioè la legione Sannita, detta anche linteata, poiché era bianca.[senza fonte]  Marte, nella società romana, assunse un ruolo molto più importante della sua controparte greca (Ares), probabilmente perché considerato il padre del popolo romano e di tutti gli Italici in generale: Marte, accoppiatosi con la vestale Rea Silvia generò Romolo e Remo, che fondarono Roma.[6] Di conseguenza Marte era considerato il padre del popolo romano e i romani si chiamavano tra loro Figli di Marte. I suoi più importanti discendenti, oltre a Romolo e Remo, furono Pico e Fauno.  Marte comparve spesso sulla monetazione romana, sia repubblicana che imperiale, con vari titoli: Marti conservatori (protettore), Marti patri (padre), Mars ultor (vendicatore), Marti pacifero (portatore di pace), Marti propugnatori (difensore), Mars victor (vincitore).  Il mese di marzo, il giorno di martedì, i nomi Marco, Marcello, Martino, il pianeta Marte, il popolo dei Marsie il loro territorio Martia Antica (la contemporanea Marsica) devono a lui il loro nome.  Leggenda sulla nascita di MarteModifica Secondo il mito, Giunone era invidiosa del fatto che Giove avesse concepito da solo Minerva senza la sua partecipazione. Chiese quindi aiuto a Flora che le indicò un fiore che cresceva nelle campagne in Etoliache permetteva di concepire al solo contatto. Così diventò madre di Marte, che fece allevare da Priapo, il quale gli insegnò l'arte della guerra. La leggenda è di tradizione tarda come dimostra la discendenza di Minerva da Giove, che ricalca il mito greco. Flora, al contrario, testimonia una tradizione più antica: l'equivalente norreno Thor nasce dalla terra, Jǫrð e così le molte divinità elleniche.  NomiModifica  Statua di Marte nudo in un affrescodi Pompei. Marte era venerato con numerosi nomi dagli stessi latini, dagli Etruschi e da altri popoli italici:  Maris, nome Etrusco da cui deriva il nome del Dio Romano;[4] Mars, nome Romano; Marmar; Marmor; Mamers, nome con cui era venerato dai popoli italicidi stirpe osca[7]; Marpiter; Marspiter; Mavors. EpitetiModifica Diuum deus: 'dio degli dei', nome con cui viene designato nel Carmen Saliare. Gradivus: 'colui che va', con valore spesso di 'colui che va in battaglia', ma può essere collegato anche al ver sacrum, quindi 'colui che guida, che va'. Leucesios: epiteto del Carmen Saliare che significa 'lucente', 'dio della luce', questo epiteto può essere anche legato alla sua caratteristica di dio del tuono e del lampo. Silvanus: in Catone, nel libro De agri cultura, 83 Marte viene soprannominato Silvanus in riferimento ai suoi aspetti legati alla natura e collegandolo con Fauno. Ultor: epiteto tardo, dato da Augusto in onore della vendetta per i cesaricidi (da ultor, -oris: vendicatore). RappresentazioniModifica Gli antichi monumenti rappresentano il dio Marte in maniera piuttosto uniforme; quasi sempre Marte è raffigurato con indosso l'elmo, la lancia o la spada e lo scudo, raramente con uno scettro talvolta è ritratto nudo, altre volte con l'armatura e spesso ha un mantello sulle spalle. A volte è rappresentato con la barba ma, nella maggior parte dei casi, è sbarbato. È raffigurato a piedi o su un carro trainato da due cavalli imbizzarriti, ma ha sempre un aspetto combattivo.  Gli antichi Sabini lo adoravano sotto l'effigie di una lancia chiamata "Quiris" da cui si racconta derivi il nome del dio Quirino, spesso identificato con Romolo. Bisogna dire che il nome Quirinus, come il nome Quirites, deriva da *co-uiria, cioè assemblea del popolo e indicava il popolo in quanto corpus di cittadini, da distinguere con Populus (dal verbo populari = devastare), che indica il popolo in armi.  Il ruolo di Marte a RomaModifica  Venere e Marte, affresco romano da Pompei, 1 secolo d. C. A Roma Marte era onorato in modo particolare. A partire dal regno di Numa Pompilio, venne istituito un consiglio di sacerdoti, scelti tra i patrizi, chiamati Salii, chiamati a vigilare su dodici scudi sacri, gli Ancilia, di cui si dice che uno sia caduto dal cielo. Questi sacerdoti erano riconoscibili dal resto del popolo per la loro tunica purpurea. I sacerdoti Salii, in realtà erano un'istituzione ben più antica di Numa Pompilio, risalivano addirittura al re-dio Fauno, che li creò in onore di Marte, costituendo così i primi culti iniziatici latini.  Nella capitale dell'impero, vi era anche una fontana consacrata al dio Marte e venerata dai cittadini. L'imperatore Nerone, una volta, si bagnò in quella fontana, gesto che fu interpretato dal popolo come un sacrilegio e che gli alienò la simpatia popolare. A partire da quel giorno, l'imperatore iniziò ad avere problemi di salute, secondo la gente dovuta alla vendetta del dio.  Festività Modifica Era venerato fastosamente in marzo, il primo mese dell'anno nel calendario romano, che segnava la ripresa delle attività militari dopo l'inverno e che portava il suo nome, con le feriae Martis, Equirria, agonium martiale, Quinquatrus e tubilustrum. Altre cerimonie importanti avvenivano in febbraio e in ottobre.  Gli Equirria si tenevano il 27 febbraio e il 14 marzo. Erano giorni sacri con significato religioso e militare; i romani vi mettevano molta enfasi per sostenere l'esercito e rafforzare la morale pubblica. I sacerdoti tenevano riti di purificazione dell'esercito. Si tenevano corse di cavalli nel Campo Marzio.  Le feriae Martis si tenevano dal 1º marzo al 24 marzo. Durante le feriae Martis i dodici Salii Palatinipercorrevano la città in processione, portando ciascuno un Ancile, uno dei dodici scudi sacri, e fermandosi ogni notte ad una stazione diversa (mansio). Nel percorso i Salii eseguivano una danza con un ritmo di tre tempi (tripudium) e cantavano l'antico e misterioso Carmen Saliare. Il 19 marzo si teneva il Quinquatrus, durante il quale gli scudi venivano ripuliti. Il 23 marzo si teneva il Tubilustrium, dedicato alla purificazione delle trombe usate dai Saliie alla preparazione delle armi dopo la pausa invernale. Il 24 marzo gli ancilia venivano riposti nel sacrario della Regia.  L'October Equus si teneva alle idi di ottobre (15 ottobre). Si svolgeva una corsa di bighe e veniva sacrificato a Marte il cavallo di destra del trio vincente tramite un colpo di lancia del Flamine marziale. La coda veniva tagliata e il suo sangue sparso nel cortile della Regia. C'era una battaglia tradizionale tra gli abitanti della Suburra che volevano la coda per portarla alla Turris Mamilia e quelli della Via Sacra che la volevano per la Regia.  Il 19 ottobre si teneva l'Armilustrium, dedicato alla purificazione delle armi e alla loro conservazione per l'inverno.  Ogni cinque anni si tenevano in Campo Marzio le Suovetaurilia, dove davanti all'altare di Marte (Ara Martis) il censo veniva accompagnato da un rito di purificazione tramite il sacrificio di un bue, un maiale e una pecora.  Luoghi di cultoModifica  Marte e Venere, copia settecentesca da I Modi di Marcantonio Raimondi Tra le popolazioni italiche, si sa di un antico tempio dedicato al dio Marte a Suna,[8] antica città degli Aborigeni, e di un oracolo del dio, nella città aborigena di Tiora.[9]  Animali e oggetti sacriModifica Lupo: si ricorda il nipote Fauno, il lupo per eccellenza è la lupa che ha allattato Romolo e Remo[6] Picchio: il picchio è l'uccello del tuono e della pioggia oracolare, ha nutrito Romolo e Remo insieme alla lupa Cavallo: simbolo della guerra (si ricorda Nettuno e gli Equirria) Toro: altro animale molto importante per il ver sacrum e per tutti i popoli italici Hastae Martiae: sono le lance di Marte che si scuotevano in caso di gravi pericoli, tenute nel sacrario della Regia Lapis manalis: la pietra della pioggia, in quanto dio della pioggia OfferteModifica A Marte si offrivano come vittime sacrificali vari tipi di animali: dei tori, dei maiali, delle pecore e, più raramente, cavalli, galli, lupi e picchi verdi, molti dei quali gli erano consacrati. Le matrone romane gli sacrificavano un gallo il primo giorno del mese a lui dedicato che, fino al tempo di Gaio Giulio Cesare, era anche il primo dell'anno.  Identificazioni con dei celticiModifica Mars Alator: Fusione con il dio celtico Alator Mars Albiorix, Mars Caturix o Mars Teutates: Fusione con il dio celtico Toutatis Mars Barrex: Fusione con il dio celtico Barrex, di cui si ha notizia solo da un'iscrizione a Carlisle Mars Belatucadrus: Fusione con il dio celtico Belatu-Cadros. Questo epiteto è stato trovato in cinque iscrizioni nell'area del Vallo di Adriano Mars Braciaca: Fusione con il dio celtico Braciaca, trovato in un'iscrizione a Bakewell Mars Camulos: Fusione con il dio della guerra celtico Camulo Mars Capriociegus: Fusione con il dio celtico gallaico Capriociegus, trovato in due iscrizioni a Pontevedra Mars Cocidius: Fusione con il dio celtico Cocidio Mars Condatis: Fusione con il dio celtico Condatis Mars Lenus: Fusione con il dio celtico Leno Mars Loucetius: Fusione con il dio celtico Leucezio Mars Mullo: Fusione con il dio celtico Mullo Mars Nodens: Fusione con il dio celtico Nodens Mars Ocelus: Fusione con il dio celtico Ocelus Mars Olloudius: Fusione con il dio celtico Olloudio Mars Segomo: Fusione con il dio celtico Segomo Mars Visucius: Fusione con il dio celtico Visucio Marte nell'arteModifica PitturaModifica Marte, di Diego Velázquez (1640) Marte che spoglia Venere con amorino e cane, di Paolo Veronese Marte e Venere sorpresi da Vulcano, di François Boucher (1754) Minerva protegge la Pace da Marte, di Pieter Paul Rubens (1629-1630) Venere e Marte, di Sandro Botticelli NoteModifica ^ MARTE su Treccani, enciclopedia ^ MARTE su Treccani, enciclopedia ^ MARTE su Treccani, enciclopedia ^ a b Pallotino, pp. 29, 30; Hendrik Wagenvoort, "The Origin of the Ludi Saeculares," in Studies in Roman Literature, Culture and Religion (Brill, 1956), p. 219 et passim; John F. Hall III, "The Saeculum Novum of Augustus and its Etruscan Antecedents," Aufstieg und Niedergang der römischen Welt II.16.3 (1986), p. 2574. ^ MARTE su Treccani, enciclopedia ^ a b Strabone, Geografia, V 3.2. ^ Nota sul dio Mamerte (o Mamers), in Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. ^ Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, I 14.3. ^ Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, I 14.5. BibliografiaModifica Andrea Carandini, La nascita di Roma, Torino, Einaudi, 1997, ISBN 88-06-14494-4. (L'archeologo Andrea Carandini dà la definitiva rivalutazione del dio Marte). Renato Del Ponte, Dei e miti italici, Genova, ECIG, 1985, ISBN 88-7545-805-7. Georges Dumézil, La religione romana arcaica, Milano, Rizzoli, 1977, ISBN 88-17-86637-7. (Libro del grande storico delle religioni, che per primo rivalutò Marte da feroce dio emulo di Ares a divinità più originale e importante). James Hillman, Un terribile amore per la guerra, Milano, Adelphi, 2005, ISBN 978-88-459-1954-1.(Un libro che dimostra come questo dio sia presente nelle guerre contemporanee). Jacqueline Champeux, La religione dei romani, Bologna, Il Mulino, 2002, ISBN 978-88-15-08464-4. Voci correlateModifica Ares Divinità della guerra Flamine marziale Fauno Marte (astronomia) Mamerte Pico (mitologia) Hachiman Altri progettiModifica Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Marte Collegamenti esterniModifica Fano di Marmar [collegamento interrotto], su latinae.altervista.org. Controllo di autoritàVIAF ( EN ) 101084029 · CERL cnp00586722 ·LCCN ( EN ) no2017035806 · GND( DE ) 118731181 · J9U( EN ,  HE ) 987007404451505171 (topic) ·WorldCat Identities ( EN ) lccn-no2017035806   Portale Antica Roma   Portale Mitologia Ultima modifica 2 mesi fa di 79.30.61.157 PAGINE CORRELATE Salii collegio sacerdotale romano per il culto di Marte  Mamuralia festività  Triade arcaica Wikipedia Il contenuto Duccio Demetrio. Demetrio. Keywords:il sentimento taciuto, maschile, omossesuale, perseo, medusa, solitudine, filosofia del maschile, il maschile, homo-socialite, lo sguardo maschile, virilita, virus, virtu, il concetto del maschile nella roma antica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Demetrio” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51702036438/in/photolist-2mRKZNn-2mPTNKh-2mPAuFE-2mPr8cN-2mLJsam-2mLCVzx-2mKMsLp-2mGnP2f-jkWwCU-jkTG2r

 

Grice e Desideri – consenzienti – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo. Grice: “I like Desideri; he would be what we at Oxford call a ‘philosopher of perception,’ and therefore his keywords have been aisthetsis, sensation, and the rest – he has also played with some Latinate, like ‘imaggine dell’imagine’ and with ‘empathy.’ He endorses a Griceian sort of empathetic theory, as evidenced in the idea of ‘comprehension,’ a latinate term for English ‘understanding.’ “He has beautiful handwriting,’ while there is a hygienic interval between I and thou, thou getest what I mean! That he is HOPELESS at philosophy.” Insegna a Firenze. Cura Nietzsche, Kant, Benjamin, Kafka. Altre opere: “Il tempo e la forma” (Roma, Editori riuniti); “Il fine del tempo” (Genova, Marietti); “La scala della giustizia” (Bologna, Pendragon); “Il velo di Iside: coscienza, messianismo e natura nel pensiero romantico” (Bologna, Pendragon); “L'ascolto della coscienza” (Milano, Feltrinelli); “Aporia del sensibile” (Genova, Il melangolo); “Il passaggio estetico” (Genova, Il melangolo); “Forme dell'estetica: dall'esperienza del bello al problema dell'arte” – “L’esperienza del  bello” (Roma-Bari, Laterza); “L’ esperienza e la percezione riflessa: estetica e filosofia psicologia (Milano, Raffaello Cortina); “La misura del sentire: per una ri-configurazione dell'estetica” (Milano-Udine, Mimesis); “Origine dell'estetico: dall’emozione al giudizio” (Roma, Carocci);  “Percezione ed estetica” (Brescia, Morcelliana).  A Francesco e Nicola    GABRIELE TURI    Il fascismo e il consenso  degli intellettuali    IL MULINO    Copyright © 1980 by Società editrice il Mulino, Bologna.    ©0680    Introduzione    Quando, circa dieci anni fa, ho iniziato le ricerche con-  densate in questi saggi, testimonianze e giudizi storiogra-  fici erano unanimi nel riflettere la nota negazione crociana  dell’esistenza di una cultura fascista: un giudizio che, come  ho indicato nel testo, trova ancora oggi il suo principale e:  più autorevole sostenitore in Norberto Bobbio, ma che  ritorna anche in protagonisti della lotta antifascista e in  studiosi di altre « aree » politiche e culturali, come Giorgio  Amendola e Alberto Asor Rosa. I motivi del persistere di  questa negazione, in chi pur si è dedicato da tempo a inda-  gare con severo impegno civile sulla « funzione politica  della cultura », richiederebbero una ricerca apposita, che  metterebbe probabilmente in luce, accanto alla fortuna del  crocianesimo e alla diffidenza verso l’intellettuale-funzio-  nario di supposta matrice fascista, o all’originaria riduttiva  lettura di Gramsci ', una decisa sottovalutazione, su un  piano pit generale, del peso del « fenomeno » fascista nella  storia italiana. È forse quest’ultimo l’elemento che continua  a opporre maggiore resistenza alla corretta impostazione di  un’indagine su una stagione culturale che non si esauri  nel ventennio, ma proiettò le sue ombre anche sul periodo  postfascista: con un bilancio, si badi bene, che non può  ridursi a distinguere « vera » e « falsa » cultura, o a chie-  dersi quali prodotti di « vera » cultura promosse il fasci-  smo. « Per affermare che il fascismo non aveva legami con  la “cultura” è necessario adoperare il termine in modo pu-  ramente valutativo, escludendo dal suo ambito tutto ciò  che viene giudicato dannoso, oppure minimizzare sistema:    1 Su alcuni di questi temi un primo spunto di ricerca è stato fornito  da ‘E. Galli della Loggia, Ideologie, classi e costume, in AA.VV., L'Italia  contemporanea 1945-1975, a cura di V. Castronovo, Torino, ‘Einaudi;  1976, pp. 379-434.    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    ticamente il numero di punti di contatto esistenti tra il  regime ed i mondi dell’arte e della letteratura, della filosofia  e della storiografia », ha opportunamente osservato Adrian  Lyttelton ?; e la notazione potrebbe essere estesa ad altre  discipline, come quelle giuridiche ed economiche, per con-  siderare, accanto a ciò che di non caduco fu prodotto nel  campo dell’alta cultura — oltre che nel terreno inesplorato  della mentalità dei diversi strati sociali —, anche i « pen-  sieri che non furono pit pensati » *. Ma a una valutazione  complessiva di questa tematica è di ostacolo un giudizio  simmetrico a quello crociano, teso a mettere in dubbio  l’esistenza di ur fascismo italiano: in questo senso Renzo  De Felice ha fatto veramente scuola presso quanti hanno  avallato la tesi propria del fascismo, di possedere una ideo-  logia non reazionaria, o hanno tratto spunto dalle doti intel-  lettuali di Bottai per presentarlo come « un fascista cri-  tico » ‘.   Solo pochi studiosi hanno cominciato, in questi ultimi  anni, a presentare un diverso approccio al problema, te-  nendo presenti i nessi tra la cultura, l’ideologia e gli obiet-  tivi politici del fascismo °, e sfuggendo quindi al rischio di  esaminare le idee dei singoli intellettuali in modo separato  dal contesto in cui operarono °: rischio di un genere bio-    2 A. Lyttelton, La conquista del potere. Il fascismo dal 1919 al 1929,  Bari, Laterza, 1974, p. 609.   3 A. Momigliano, Gli studi italiani di storia greca e romana dal 1895  al 1939, in AA.VV., Cinquant'anni di vita intellettuale italiana 1896-  1946, scritti in onore di Benedetto Croce per il suo ottantesimo com-  pleanno, a cura di C. Antoni e R. Mattioli, Napoli, Edizioni scientifiche  italiane, 1950, vol. I, p. 106.   4 Cfr. E. Gentile, Le origini dell’ideologia fascista (1918-1925), Bari,  Laterza, 1975, e G.B. Guerri, Giuseppe Bottai, un fascista critico, pre  fazione di U. Alfassio Grimaldi, Milano, Feltrinelli, 1976.   5 Cosî L. Mangoni, L’interventismo della cultura. Intellettuali e  riviste del fascismo, Bari, Laterza, 1974; A. Montenegro, Politica estera  e organizzazione del consenso. Note sull’Istituto per gli studi di politica  internazionale 1933-1943, in «Studi storici», XIX (1978), pp. 777-817;  M. Isnenghi, Intellettuali militanti e intellettuali funzionari. Appunti  sulla cultura fascista, Torino, Einaudi, 1979.   6 Né più produttiva appare una lettura solo apparentemente rove-  sciata, come quella di un Cantimori tutto politico che niente ci dice  sul suo « mestiere » di storico: cfr. M. Ciliberto, Intellettuali e fascismo.  Saggio su Delio Cantimori, Bari, De Donato, 1977, e le puntuali osser-    6    Introduzione    grafico che — pur sempre utile e auspicabile — anche nei  suoi esempi migliori tende a « eroicizzare » alcune perso-  nalità anticipando spesso nel tempo gli esiti della loro ri-  cerca culturale e politica. Abbiamo quindi ritenuto neces-  sario — ai fini di una lettura « politica », per quanto pos-  sibile, della cultura e degli orientamenti dei suoi produttori  nel ventennio — porre al centro dell’indagine le istituzioni  culturali del regime, di cui l’Enciclopedia italiana è, per  l’alta cultura, l’espressione pit significativa, in quanto  momenti di aggregazione degli intellettuali di cui il fasci-  smo voleva acquisire il consenso. Istituzioni culturali che  non si limitano a una « gestione » puramente esterna della  cultura preesistente ”, ma producono anche contenuti nuovi,  mettendo in circolazione modi di pensare o temi di studio  funzionali all’ideologia dominante. Con ciò non vogliamo  negare che il fascismo recuperi motivi già presenti nell’Ita-  lia liberale — come il nazionalismo o le tendenze corpo-  rative —, secondo l’« ideologia eclettica » del Pnf, prima  « organizzazione politica unificata » della borghesia ita-  liana, pronta a raccogliere ogni « prestito » capace di raf-  forzarla *: motivi che tuttavia la borghesia prefascista —  a meno di non darle credito di una coerenza e di una  « preveggenza » che non ci pare abbia av uto nel suo com-  plesso ® — non era riuscita a connettere saldamente insieme  in quella sorta di koiné che nel periodo fascista, se pur  si avvale di apporti diversi, non è meno omogenea per gli  obiettivi che si pone e per la continua interscambiabilità tra  cultura e ideologia. Un «linguaggio » alla cui formula-    vazioni di G. Santomassimo in « Italia contemporanea », XXX (1978), n.  131, pp. 89-91.   ? In questo senso si esprime, oltre ad Asor Rosa (citato nel testo),  A.L. de Castris, Gramsci e il problema dell’egemonia negli anni trenta,  in « Lavoro critico », XIX (1980), in particolare p. 61 (il numero è  dedicato a « Le culture del fascismo »).   8 P. Togliatti, Lezioni sul fascismo, prefazione di E. Ragionieri, Roma,  Editori Riuniti, 1970, pp. 14-15, 19-58.   9 Su questo collegamento tra Italia liberale e fascismo insiste S. La-  naro, Nazione e lavoro. Saggio sulla cultura borghese in Italia 1870-1925,  Padova, Marsilio, 1979 (su cui cfr. gli interventi di R. Romanelli, M.L.  o Toniolo in «Quaderni storici », XV (1980), n. 43, pp.   30-254).    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    zione contribuiscono, in misura e con capacità di manovra  insusitate, i cattolici. È appunto considerandone la parte-  cipazione massiccia alle istituzioni del regime — dove i col-  laboratori si confondono, soprattutto dopo il 1929, con i  critici dell’idealismo e, qualche volta, del fascismo stes-  80 —, che è possibile cogliere un aspetto non secondario  della « trasformazione della presenza cattolica in Italia, non  più caratterizzata, come nel prefascismo, da un rapporto  preminente col mondo contadino, ma profondamente inse-  rita a tutti i livelli nella moderna società industriale » !°  con un insieme di « scambi » culturali che, anche in una  prospettiva di lungo periodo, ha un peso ben maggiore della  riflessione più propriamente religiosa di quei gruppi élitari  nei quali si è voluto cogliere il nucleo della classe dirigente  democristiana "   Un'indagine approfondita sulla politica culturale del  regime ci pare preliminare anche per valutare quelli che  .abbiamo chiamato i « limiti del consenso ». Solo partendo  dalla considerazione dell’esistenza di una vasta rete di isti-  tuzioni fasciste che producono e trasmettono cultura —  contro la quale si infrangono i sogni di una cultura « al di  sopra della mischia » propri di un Formiggini — è possi-  bile impostare un discorso sulla cultura « sommersa » du-  rante il ventennio e sui suoi sbocchi nel 1945 — e anche  in questo caso, più che affidarci ai « lunghi viaggi » dei  «singoli, che rischiano di ridursi a personali esami di co-  scienza senza grande risonanza, abbiamo rivolto l’atten-  zione ad altri centri di aggregazione degli intellettuali e di  diffusione della cultura, le case editrici, pur senza essere  stati in grado di fornite quei preziosi dati « materiali »    10 M.G. Rossi, La Chiesa e le organizzazioni religiose, in AA.VV.,  La Toscana nel regime fascista (1922-1939), Firenze, Olschki, 1971, vol. I,  p. 363.   1! Come ha fatto, analizzando la Fuci e il Movimento laureati cat-  tolici, R. Moro, La formazione della classe dirigente cattolica (1929-  1937), Bologna, il Mulino, 1979; contro una prima formulazione di  questa tesi ha polemizzato Pietro Scoppola che però, per esaltare l’im-  pronta di rinnovamento impressa da De Gasperi alla DC, ha ribaltato la  sua tesi originaria sostenendo il « sostanziale consenso al regime », senza  incrinature, dei cattolici (Le proposta politica di De Gasperi, Bologna,  il Mulino, 1977, p. 27).    8    Introduzione:    dell’azienda editoriale che sono stati pionieristicamente fatti  oggetto di studio, per un altro periodo, da Marino Beren-  go !. Il mancato riferimento alla forza condizionante delle  istituzioni del regime è infatti all'origine sia di facili asso-  luzioni di una cultura che sarebbe passata indenne « attra»  verso $ il fascismo, sia di altrettanto gratuite reprimende  contro l’incapacità di rinnovamento delle forze di sinistra  dopo il 1945. Fra l’accusa al PCI di essersi fatto carico del-  l’« ideologia della ricostruzione » — per cui si sopravva-'  luta il significato dell’« inquietudine politica » de « Il Poli-  tecnico » —, e la riproposizione crociana di una cultura  che, sotto il fascismo, « si era chiusa su se stessa, rivendi-  cando la propria “autonomia”: e da una tacita contratta:  zione col potere aveva ottenuto il permesso di vivere e di  svilupparsi nella sua (pseudo) separatezza » , vi è infatti  uno iato profondo che non permette di spiegare storica-  mente gli indubitabili ritardi registrabili dopo il 1945 nel  rinnovamento culturale.   Il processo di affrancamento degli intellettuali dalla  cultura del regime fu in realtà assai complesso, anche quan-  do passò attraverso la difesa dell'autonomia della cultura.  Vi può essere stata, da un lato, l’« indifferenza di fronte  alla politica » di molti intellettuali che è all’origine sia di  un loro acritico allineamento al fascismo *, sia di un arroc-  camento attorno alla tradizione accademica, che nelle Uni-  versità trovò alcuni spazi per mantenersi separata dalla  militanza politica richiesta dal fascismo, anche se col rischio  di un progressivo inaridimento 5. D'altro canto, in un    12 M. Berengo, Intellettuali e librai nella Milano della Restaurazione,  Torino, Einaudi, 1980.   13 Cosî R. Luperini, Gli intellettuali di sinistra e l'ideologia della rico-  struzione nel dopoguerra, Roma, edizioni di « Ideologie », 1971, in parti-  colare pp. 34-35 e 56.   14 Ne ha parlato N. Tranfaglia, Intellettuali e fascismo. Appunti per  una storia da scrivere (1971), ora in Id., Dallo stato liberale al regime  fascista. Problemi e ricerche, Milano, Feltrinelli, 1973, p. 123.   15 Cfr. G. Turi, Le istituzioni culturali del regime fascista durante la  seconda guerra mondiale, in « Italia contemporanea », XXXII (1980), n.  138, pp. 16-23, e, con ottica diversa, B. Bongiovanni - F. Levi, L’univer-  sità di Torino durante il fascismo. Le Facoltà umanistiche e il Politecnico,  Torino, Giappichelli, 1976.    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    periodo in cui, dopo il 3 gennaio 1925 e la soppressione  completa della dialettica politica, il terreno culturale di-  venne nel paese un importante termine di confronto per  verificare anche l’esistenza di schieramenti tendenzialmente  politici, la rivendicazione dell’autonomia della cultura co-  stituî negli intellettuali più consapevoli uno strumento per  segnare una rottura nei confronti del regime, in vista della  ricostituzione di un rapporto nuovo fra politica e cultura:  fu questo il senso della battaglia di Croce, di alcuni dei  principali collaboratori di Giulio Einaudi — in un primo  luogo Leone Ginzburg —, e di alcuni settori di ascendenza  democratica, socialista e positivista — per altro ancora da  indagare in tutte le loro ramificazioni —, che abbiamo esem-  plificato nel gruppo raccolto attorno alla casa editrice For-  miggini.   Non bisogna tuttavia dimenticare che la cultura elabo-  rata dagli intellettuali del fascismo impose un arretramento  del punto di partenza di una battaglia culturale — e poli-  tica — che nel campo degli « avversari » fu necessaria-  mente sfumata, ma anche non priva di oscillazioni, con-  traddizioni e riflussi — tanto che poté apparire anticon-  formista la ripresa di motivi sostanzialmente non antite-  tici al fascismo, come nel caso del liberismo di Luigi Einau-  di —, e che perciò non può essere immediatamente classi-  ficata nella categoria dell’antifascismo. Se è quindi possi-  bile constatare « come tanta parte della “intelligenza” ita-  liana sboccasse [...] nell’Italia postfascista senza che le tra-  sformazioni di superficie corrispondessero a reali rinnova-  menti di fondo » ', ciò è addebitabile, più che a uno zdano-  vismo che in realtà non conculcò alcuna esistente « cultura  rivoluzionaria » !”, al ben più drastico condizionamento    16 E. Garin, Intellettuali italiani del XX secolo, Roma, Editori Riu-  niti, 1974, p. XVI.   17 Elementi contraddittori si mescolano a interessanti suggerimenti  di ricerca nella testimonianza di Franco Fortini: « Quando si farà la storia  dello stalinismo italiano e si documenterà la repressione avvenuta fra  1944 e 1948 ai danni di una cultura rivoluzionaria non conformista che,  incerta e confusa, pur si veniva formando; e quando si chiarirà fino a  qual punto la debolezza intellettuale degli usciti dal fascismo, cioè di noi  stessi, abbia cospirato obiettivamente con talune debolezze morali e con    10    Introduzione    operato da tempo dal fascismo: con il risultato che il pro-  cesso di rinnovamento degli intellettuali italiani si presen-  terà assai più lento delle trasformazioni politiche del paese.  Non ci sentiamo tuttavia in grado di dare giudizi definitivi  sulla controversa questione, anche in questo campo, rela-  tiva alle continuità o alle rotture nella storia d’Italia. Ci  preme aver indicato un approccio di ricerca che ci sembra  fruttuoso, e auspicare che i risultati raggiunti stimolino  ulteriori indagini e riflessioni.    Primo a seguire e incoraggiare questa ricerca è stato  Ernesto Ragionieri, il cui ricordo è difficilmente cancella-  bile in chi ne ha conosciute e apprezzate le doti umane,  intellettuali, politiche: a lui va il mio principale debito di  riconoscenza, nella speranza di essere rimasto fedele, al-  meno in parte, alla sua eccezionale lezione di rigore scien-  tifico.   Fra quanti hanno letto interamente o in parte il datti-  loscritto, ‘aiutandomi con correzioni e suggerimenti, ringra-  zio in particolare Eugenio Garin, Giorgio Mori, Marco  Palla, Michele Ranchetti, Simonetta Soldani e Maurizio  Torrini; e, con loro, i numerosi studenti e amici che hanno  discusso la tematica di questa ricerca nei seminari tenuti  presso l’Istituto di storia della Facoltà di Lettere e Filo-  sofia di Firenze. Né posso dimenticare chi, regalandomi una  stagione felice, ha reso più leggera la mia fatica.   Il lavoro non sarebbe stato possibile senza la preziosa  collaborazione del personale della Biblioteca nazionale di  Firenze e di quanti mi hanno facilitato la consultazione di  fondi archivistici: il prof. Vincenzo Cappelletti per l’Ar-  chivio dell’Istituto dell’Enciclopedia italiana; il dott. Er-  nesto Milano e il signor Nunzio Selmi per l'Archivio edito-  riale Formiggini presso la Biblioteca estense di Modena;    la politica culturale stalinista, polemizzando contro quest’ultima da destra  e cioè da posizioni radical-liberali invece che da posizioni marziste, allora  sarà possibile farsi un’idea meno mitica di certi tentativi, come quelli  del neorealismo cinematografico, del “Politecnico”, ecc.» (Verifica dei  poteri. Scritti di critica e di istituzioni letterarie, Milano, Garzanti, 1974?,  pp. 144-145).    11    .Il fascismo e il consenso degli intellettuali    il personale della Fondazione Luigi Einaudi; Giulio Einau-  di, Corrado Vivanti e l’archivista Giovanni Gava per. i  documenti della casa editrice Einaudi; la signora Lola  Balbo che mi ha concesso la visione delle carte di Felice  Balbo da lei tanto amorevolmente custodite, e il prof. Nor-  berto Bobbio che ha messo a mia disposizione il suo archi-  vio personale.   Non è stata invece possibile la consultazione dell’Ar-  chivio Giovanni Gentile, ancora in attesa di una sistema-  zione che permetta l’accesso agli studiosi.    In questo volume si riproducono, con alcune modi-  fiche, i seguenti saggi: Il progetto dell’Enciclopedia ita-  liana: l’organizzazione del consenso fra gli intellettuali,  in « Studi storici », XIII (1972), pp. 93-152 (si limita a  riprodurre la tematica di questo articolo, senza nulla aggiun-  gere, la maggior parte — 6 capitoli su 7 — del volumetto  di G. Lazzari, L’Enciclopedia Treccani. Intellettuali e po-  tere durante il fascismo, Napoli, Liguori, 1977, tributario  del mio saggio anche per le fonti); Ideologia e cultura del  fascismo nello specchio dell’Enciclopedia italiana, in « Stu-  di storici », XX (1979), pp. 157-211; l'introduzione alla  ristampa non integrale di A.F. Formiggini, Trent'anni  dopo. Storia della mia casa editrice, Modena, Ricardo Fran-  co Levi editore, 1977, pp. V-XLIV. Il saggio I limiti del  consenso: le origini della casa editrice Einaudi è inedi-  to: per questo ho potuto utilizzare il contributo CNR n.  78.02685.09.    12    Ideologia e cultura del fascismo:  l’« Enciclopedia italiana »    1. Il 3 gennaio 1925 e la ricerca del consenso    « Opere come l’Ernciclopedia, cui [Gentile] dette co-  si valido impulso, hanno nella vita di un tempo un peso  singolare. E innanzi ad esse, e alla loro penetrazione pro-  fonda, conviene chiedersi se, per avventura, taluni giudizi  correnti non debbano essere rivisti e corretti » !. L’osser-  vazione di Eugenio Garin, fatta per inciso in una ricostru-  zione generale della filosofia italiana del 900, comportava  una verifica dell'equazione crociana fascismo-anticultura e  cultura-antifascismo, e quindi quel più attento riesame delle  vicende culturali fra le due guerre, in stretto rapporto con  l’obiettivo del regime di organizzare il consenso degli intel-  lettuali, che attende ancora di essere compiuto sistematica-  mente. Cosf non solo l’Enciclopedia italiana — utilizzata da  studiosi stranieri come fonte sulla « dottrina filosofica del  fascismo » ? o come espressione dell’orientamento preva-  lente nella cultura italiana del ventennio? —, ma anche  l’opera di Gentile teorico del « periodo di consolidamento »  del fascismo — come lo ha definito Lukàcs ‘ con espressione  ben pir corretta della generica formula di « filosofo del  fascismo » —, sono rimaste avvolte in un silenzio che è  già per se stesso elemento di riflessione sui profondi condi-  zionamenti subiti a lungo dalla cultura italiana del secondo    1 E. Garin, Cronache di filosofia italiana 1900-1943. Quindici anni  dopo 1945-1960, Bari, Laterza, 19663, p. 408.   2 S.A. Efirov, La filosofia borghese italiana del XX secolo, Firenze,  Sansoni, 1970, pp. 38-39.   3 E.J. Hobsbawm, I/ contributo di Marx alla storiografia, in AA.VV,  Marx vivo. La presenza di Karl Marx nel pensiero contemporaneo, Mi-  lano, Mondadori, 1969, vol. I, pp. 376-377.   4 G. Lukàcs, La distruzione della ragione, Tortino, Einaudi, 1959, p.  19.    13    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    dopoguerra, che negli anni venti e nel fascismo, e nel giu-  dizio che ne aveva dato Croce, hanno la loro origine 5.   Il discorso sul pensiero e l’opera di Gentile nel ven-  tennio, condotto in prevalenza da suoi allievi nel « Gior-  nale critico della filosofia italiana » — con particolare luci-  dità da Ugo Spirito,che ha ricostruito le tappe del suo di-  stacco dal maestro come sviluppo degli stessi principi attua-  listi* —, è rimasto limitato a un recupero agiografico o a  un anacronistico rilancio, privo di prospettive storiografiche  perché astratto dall’analisi del fascismo, in cui Spirito ha  voluto individuare, con un giudizio che richiede di essere  specificato — pensiamo in particolare al peso che ebbe  anche sul piano culturale il connubio chiesa-regime —, « la  ragione effettiva della crisi del neoidealismo italiano » ?:  tale, quindi, da non consentire quell’esame della « perso-  nalità di Gentile come promotore e organizzatore di alta  cultura sul piano nazionale » cui pur aveva richiamato il  gentiliano Bellezza ®. Le stesse Cronache di Garin, mosse  dall’intento di considerare « uomini e dottrine [...] come  espressioni di un tempo e, insieme, come forze che in un  tempo agirono » ‘, e attente a non cadere nella troppo sche-    5 Il primo studio moderno con intenti di completezza è quello del-  l'americano H. S. Harris, La filosofia sociale di Giovanni Gentile, Roma,  Armando, 1973 (ediz. originale 1960), condotto però nella costante preoc-  cupazione — come affermava l’autore nella prefazione all’edizione origi-  nale — di vedere «how far his “actual idealism” can be disentangled  from its Fascist connections », da cui discende il giudizio sull’« oggetti-  vità » dell’Enciclopedia italiana (p. 266); per una confutazione della  « critica a Gentile sulla linea liberale » condotta da Harris cfr. U. Cerroni,  La filosofia politica di Giovanni Gentile, in « Società », XVII (1961), pp.  302-19. Per una ricostruzione storica della figura di Gentile nel dopo-  guerra e nel periodo fascista sono di grande utilità gli accenni, non tanto  incidentali, di R. Colapietra, Beredetto Croce e la politica italiana, Bari-  Santo Spirito, Edizioni del centro librario, 1969-70, 2 voll., le osserva-  zioni di A. Lo Schiavo, La filosofia politica di Giovanni Gentile, Roma,  Armando, 1971, cap. 8, e, pur con alcuni accenti apologetici, M. di Lalla,  Vita di Giovanni Gentile, Firenze, Sansoni, 1975.   6 U. Spirito, Giovanni Gentile, Firenze, Sansoni, 1969, in particolare  l'articolo qui raccolto su Gentile nella prospettiva storica di oggi (1968).  Di Spirito cfr. anche Memorie di un incosciente, Milano, Rusconi, 1977.   7 U. Spirito, Giovanni Gentile, cit., p. 251.   8 V. A. Bellezza, Rassegna degli studi gentiliani più recenti, in « Gior-  nale di metafisica », X (1955), pp. 123-124.   9 E. Garin, Cronache, cit., p. XI.    14    L’Enciclopedia italiana    matida antitesi Gentile-fascismo e Croce-antifascismo, non  colgono compiutamente la funzione « mediatrice » degli  intellettuali — lasciando spesso indeterminato il « tempo »  nel quale operarono, come ha notato Cantimori auspican-  doneluna specificazione: « la società, le classi, le università,  le istituzioni in generale, i partiti, le tradizioni culturali  locali oltre che quelle nazionali, ecc. » !" —, cosî che, anche  nel periodo da noi considerato, in cui quella funzione fu  particolarmente valorizzata dal fascismo, lasciano impreci-  sati i condizionamenti del potere politico e gli stessi « de-  biti » culturali di alcuni intellettuali.   Per chiarire non solo l’utilizzazione ideologica di di-  verse correnti culturali da parte del regime in vista della  creazione de l consenso, ma anche in che misura e perché  mutarono nel ventennio i contenuti culturali di varie disci-  pline, accolti o tenuti ai margini o respinti dal fascismo —  anche in questo campo l’Italia del 1945 non si troverà nelle  stesse condizioni del periodo liberale —, lo studio del-  l’Enciclopedia italiana può essere particolarmente fruttuo-  so: per il momento in cui fu ideata e preparata (1925-29)  e realizzata (1929-37) — quello dello Stato totalitario —,  l’autorità dei suoi promotori — basti pensare a Gentile o a  Volpe —, l’ampio ventaglio di collaboratori qualificati e il  carattere ufficiale che le fu impresso fin dall’inizio, e in  modo definitivo nel 1933, essa rappresenta lo strumento  forse più importante, accanto alla scuola, della politica cul-  turale del fascismo, e quindi un test assai significativo per  valutarne gli effetti di lungo periodo, non riducibili all’ideo-  logia o alla propaganda del regime, anche se con queste con-  nessi. Ma solo tenendo presenti gli obiettivi politici del go-  verno mussoliniano dopo il 3 gennaio 1925 e la decisa  sconfitta, anche sul piano culturale, degli avversari liberali  e socialisti, è possibile spiegare come a Gentile fu possibile  dare avvio alla colossale impresa enciclopedica, e l'ampiezza  delle adesioni da lui raccolte anche da parte di intellettuali  non fascisti. Se ancora nel 1923, nell’articolo Forza e con-  senso, Mussolini poteva porre l'accento unicamente sul pri-    10 D. Cantimori, Studi di storia, Torino, Einaudi, 1959, p. 760.    15    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    dopoguerra, che negli anni venti e nel fascismo, e nel giu-  dizio che ne aveva dato Croce, hanno la loro origine *.   Il discorso sul pensiero e l’opera di Gentile nel ven-  tennio, condotto in prevalenza da suoi allievi nel « Gior-  nale critico della filosofia italiana » — con particolare luci-  dità da Ugo Spirito, che ha ricostruito le tappe del suo di-  stacco dal maestro come sviluppo degli stessi principi attua-  listif —, è rimasto limitato a un recupero agiografico o a  un anacronistico rilancio, privo di prospettive storiografiche  perché astratto dall’analisi del fascismo, in cui Spirito ha  voluto individuare, con un giudizio che richiede di essere  specificato — pensiamo in particolare al peso che ebbe  anche sul piano culturale il connubio chiesa-regime —, « la  ragione effettiva della crisi del neoidealismo italiano » ”:  tale, quindi, da non consentire quell’esame della « perso-  nalità di Gentile come promotore e organizzatore di alta  cultura sul piano nazionale » cui pur aveva richiamato il  gentiliano Bellezza ®. Le stesse Cronache di Garin, mosse  dall’intento di considerare « uomini e dottrine [...] come  espressioni di un tempo e, insieme, come forze che in un  tempo agirono » ”, e attente a non cadere nella troppo sche-    5 Il primo studio moderno con intenti di completezza è quello del-  l’americano H. S. Harris, La filosofia sociale di Giovanni Gentile, Roma,  Armando, 1973 (ediz. originale 1960), condotto però nella costante preoc-  cupazione — come affermava l’autore nella prefazione all’edizione origi-  nale — di vedere «how far his “actual idealism” can be disentangled  from its Fascist connections », da cui discende il giudizio sull’« oggetti-  vità » dell’Exciclopedia italiana (p. 266); per una confutazione della  « critica a Gentile sulla linea liberale » condotta da Harris cfr. U. Cerroni,  La filosofia politica di Giovanni Gentile, in « Società », XVII (1961), pp.  302-19. Per una ricostruzione storica della figura di Gentile nel dopo-  guerra e nel periodo fascista sono di grande utilità gli accenni, non tanto  incidentali, di R. Colapietra, Beredetto Croce e la politica italiana, Bari-  Santo Spirito, Edizioni del centro librario, 1969-70, 2 voll., le osserva-  zioni di A. Lo Schiavo, La filosofia politica di Giovanni Gentile, Roma,  Armando, 1971, cap. 8, e, pur con alcuni accenti apologetici, M. di Lalla,  Vita di Giovanni Gentile, Firenze, Sansoni, 1975.   6 U. Spirito, Giovanni Gentile, Firenze, Sansoni, 1969, in particolare  Particolo qui raccolto su Gentile nella prospettiva storica di oggi (1968).  Di Spirito cfr. anche Memorie di un incosciente, Milano, Rusconi, 1977.   7 U. Spirito, Giovanni Gentile, cit., p. 251.   8 V.A. Bellezza, Rassegna degli studi gentiliani più recenti, in « Gior-  nale di metafisica », X (1955), pp. 123-124.   9 E. Garin, Cronache, cit., p. XI.    14    L’Enciclopedia italiana    matida antitesi Gentile-fascismo e Croce-antifascismo, non  colgono compiutamente la funzione « mediatrice » degli  intellettuali — lasciando spesso indeterminato il « tempo »  nel quale operarono, come ha notato Cantimori auspican-  done! una specificazione: « la società, le classi, le università,  le istituzioni in generale, i partiti, le tradizioni culturali  locali oltre che quelle nazionali, ecc. » !° —, cosî che, anche  nel periodo da noi considerato, in cui quella funzione fu  particolarmente valorizzata dal fascismo, lasciano impreci-  sati i condizionamenti del potere politico e gli stessi « de-  biti » culturali di alcuni intellettuali.   Per chiarire non solo l’utilizzazione ideologica di di-  verse correnti culturali da parte del regime in vista della  creazione del consenso, ma anche in che misura e perché  mutarono nel ventennio i contenuti culturali di varie disci-  pline, accolti o tenuti ai margini o respinti dal fascismo —  anche in questo campo l’Italia del 1945 non si troverà nelle  stesse condizioni del periodo liberale —, lo studio del-  l’Enciclopedia italiana può essere particolarmente fruttuo-  so: per il momento in cui fu ideata e preparata (1925-29)  e realizzata (1929-37) — quello dello Stato totalitario —,  l’autorità dei suoi promotori — basti pensare a Gentile o a  Volpe —, l’ampio ventaglio di collaboratori qualificati e il  carattere ufficiale che le fu impresso fin dall’inizio, e in  modo definitivo nel 1933, essa rappresenta lo strumento  forse più importante, accanto alla scuola, della politica cul-  turale del fascismo, e quindi un test assai significativo per  valutarne gli effetti di lungo periodo, non riducibili all’ideo-  logia o alla propaganda del regime, anche se con queste con-  nessi. Ma solo tenendo presenti gli obiettivi politici del go-  verno mussoliniano dopo il 3 gennaio 1925 e la decisa  sconfitta, anche sul piano culturale, degli avversari liberali  e socialisti, è possibile spiegare come a Gentile fu possibile  dare avvio alla colossale impresa enciclopedica, e l'ampiezza  delle adesioni da lui raccolte anche da parte di intellettuali  non fascisti. Se ancora nel 1923, nell’articolo Forza e con-  senso, Mussolini poteva porre l'accento unicamente sul pri-    10 D. Cantimori, Studi di storia, Torino, Einaudi, 1959, p. 760.    15    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    mo termine — poiché « il consenso è mutevole core le  formazioni della sabbia in riva al mare. Non ci può essere  sempre. Né mai può essere totale » ! —, dopo il 3 gennaio  si fece strada una linea politica più articolata e di più lunga  durata che, se affidava a Farinacci l’esecuzione del momento  della forza e della coercizione — mantenendolo come neces-  sario presupposto del consenso —, puntava, dopo la scon-  fitta delle forze politiche avversarie, ad acquisire l'adesione,  non solo passiva, di quegli intellettuali ormai senza partito,  o incerti, la cultura dei quali avrebbe potuto costituire, in  assenza di alternative politiche, un fronte di resistenza al  regime. Non è un caso che all’inizio del 1925 uno degli  esponenti del fascismo che più si impegneranno nel tenta-  tivo di formare una nuova classe dirigente, Giuseppe Bot-  tai, dichiarasse su « Critica fascista » che il Pnf doveva  « rivedere la sua azione per conquistare il consenso » "; e,  se pure la crisi conseguente al delitto Matteotti aveva visto  le prime incrinature fra quegli intellettuali che non avevano  ancora preso le distanze dal fascismo in quanto vedevano  nella collaborazione di Gentile una garanzia non solo per le  sorti della riforma della scuola, ma anche per quelle del  paese — basti pensare al « pessimismo » che si fa strada in  Omodeo ", o a quello che è stato chiamato l’« Aventino  pedagogico » di Giuseppe Lombardo Radice ! —, la situa-  zione si presentava favorevole al fascismo per il disorienta-  mento ideologico che permeava le file degli intellettuali libe-  rali e socialisti. Nel 1923, quando si apri fra questi intellet-  tuali un vasto dibattito sulla sconfitta dello Stato liberale e  del movimento operaio, mentre Gramsci accusava il sociali-  smo di « non avere avuto una ideologia, non averla diffusa    i ll In B. Mussolini, Scritti e discorsi, Milano, Hoepli, 1934, vol. III, p.  78.   12 G. Bottai, Arzo nuovo. Il partito e la sua funzione, in « Critica  fascista », III (1925), n. 1, p.1.   1 Cfr. ad esempio la lettera di Omodeo a Gentile del 5 agosto 1924,  in (5. Gentile - A. Omodeo, Carteggio, a cura di S. Giannantoni, Firenze,  Sansoni, 1974, p. 316.   4 Cfr. U. Margiotta, Giuseppe Lombardo Radice. Tra attualità peda-  sa ed irrisoluzione storica, Reggio Calabria, Edizioni parallelo, 1975,  p. 323.    10    L'Enciclopedia italiana    tra le masse » , quasi con le stesse parole Gobetti affermava  che «i partiti d’opposizione non hanno alimentato alcuna  grande ideologia, il socialismo non ha trapiantato Marx in  Italia », per cui « il trionfo fascista si connette a queste con-  dizioni di impreparazione » !, e Ugo Guido Mondolfo so-  steneva che « da una ripresa di idealismo il nostro movi-  mento non può che trarre nuova forza e nuovo impulso »,  o cercava di dimostrare che poteva « essere morale e van-  taggiosa [...] quella che si chiama la collaborazione di  classe » !”; più in generale, la discussione sul marxismo che  si svolse nel 1923-26 su « Critica sociale », « Rivoluzione  liberale » e « Quarto stato », rimase « condizionata più  che mai dall’idealismo dominante, e non poco ancora, da  quello più accentratamente soggettivistico, l’attualismo gen-  tiliano » !*.   Cosi, se ancora nel marzo del 1925 « Il Mondo », dopo  aver negato l’esistenza di un « nesso tra le riforme genti-  liane e le ideologie fasciste », poteva registrare il falli-  mento del fascismo nel tentativo « di attrarre nella sua  orbita uomini di studio e di dottrina, di circondarsi della  cosî detta classe intellettuale » !', nell’ottobre dello stesso  anno — dopo il Manifesto degli intellettuali fascisti del 21  aprile — Croce, pur osservando che il fascismo « non solo  è indifferente alla letteratura e alla cultura, ma intimamente  ostile, sentendo che dalla cultura e dal pensiero sono venuti  i pericoli [...] all'ordine sociale », era costretto a notare  gli afaccendamenti inutili e mal graditi di « un certo nu-  mero » di intellettuali — e fra questi « parecchi nostri ex-  compagni di studi ed ex-amici » — che si erano messi al  servizio del fascismo in una situazione di « assoggettamento    15 A. Gramsci, Che fare? (1923), in Per la verità, Scritti 1913-1926, a  cura di R. Martinelli, Roma, Editori Riuniti, 1974, p. 269.   16 P. Gobetti, La mostra cultura politica (1923), in Scritti politici a  cura di P. Spriano, Torino, Einaudi, 1969, pp. 457, 459.   1? U. G. Mondolfo, Una battaglia per il socialismo, a cura di E. Bassi,  Bologna, Tamari, 1971, pp. 177, 185.   1 C. Luporini, I/ meerxismo e la cultura italiana del Novecento, in  Storia d’Italia, vol. V, I documenti, t. 2, Torino, Einaudi, 1973, p. 1604.   19 Il fascismo e la cultura, in « Il Mondo », 6 marzo 1925 (anonimo).    17    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    a ferrea disciplina » ?. A Croce sfuggiva tuttavia l'ampiezza  e la qualità del fenomeno, in quanto era e rimarrà con-  vinto che tra fascismo e cultura ci fosse un’opposizione in  termini.    Come partito medio, come idealità che richiede esperienze  e meditazione, senso storico e senso delle cose complesse e com-  plicate, e insomma finezza mentale e morale, il liberalismo, è il  partito della cultura; e liberale fu il nostro Risorgimento, ne!  quale cultura e amor di patria confluirono. Socialismo e autorita-  rismo, invece, in quanto partiti estremi, ritengono non poco di  astratto e di semplicistico, e perciò, come sono facilmente ricevuti  dagli animi e dalle menti giovanili, cosi presentano i segni caratte-  ristici della scarsa o unilaterale cultura 2!,    aveva osservato Croce in un articolo del 12 marzo 1925  che gli era valso da parte di Gentile, teso a presentare il  fascismo come « vero » liberalismo, l’appellativo di « schiet-  to fascista senza camicia nera » 2. Si era alla vigilia della  rottura politica tra Croce e Gentile, e il « partito della  cultura » del primo era destinato a rimanere un program-  ma per il futuro: « le sue preoccupazioni sono tutte volte  al futuro », osservò Gobetti esaltandone l’antifascismo iden-  tificato con « la ribellione dell’europeo e dell’uomo di cul-  tura », e sottolineando « la differenza tra Gentile dogma-  tico, autoritario, dittatore di provinciale infallibilità e Croce  politico, capace di riflessione e di dubbio », detentore di  « una chiara idea dello Stato, che è forza soltanto in quanto  è consenso » *. Ma, se giustamente veniva colta in Croce la  « separazione impossibile » tra politica e cultura *, due ele-  menti sfuggivano agli osservatori contemporanei: la capacità  dimostrata dal fascismo, e in particolare da Gentile, proprio    Di B. Croce, Pagine sparse, Bari, Laterza, 19602, vol. II, pp. 498, 500-   #" R. Croce, Liberalismo, in Cultura e vita morale. Intermezzi pole-  mici, Wari, Laterza, 19553, pp. 285-286.   22 (:. Gentile, Il liberalismo di B. Croce (21 marzo 1925), in Che cosa  è il fuvcismo, Discorsi e polemiche, Firenze, Vallecchi, 1925, p. 154.   ' |. Gobetti, Croce oppositore (6 settembre 1925), in Scritti politici,  cli RUN 876, 878, 880-881.   (tr. È. Garin, Benedetto Croce o della « separazione impossibile »   fra politica © cultura, in Intellettuali italiani del XX secolo, Roma, Edi-  toni uniti, 1974, pp. 47-67.    IK    L'Enciclopedia italiana    a partire dal 1925, di combinare forza e consenso nel dar  vita a istituzioni tendenti a centralizzare e organizzare le  più diverse energie culturali, e la tendenza di molti intellet-  tuali — che facilitò l’opera di Gentile — a separare (a dif-  ferenza di Croce) cultura e politica, nell’illusione di poter  continuare a coltivare la prima, anche all’interno delle isti-  tuzioni del regime, senza « contaminarla » politicamente.   Esemplare in questo senso appare la vicenda dell’Enci-  clopedia italiana: opera di intellettuali non alla opposi-  zione, come gli enciclopedisti francesi, ma ceto dirigente  al governo, nata subito sulla base di uno stretto rapporto  di compenetrazione fra intellettuali e potere politico, pur  senza rompere immediatamente, secondo l’impostazione  gentiliana, con alcuni esponenti dello Stato liberale, la suzm-  ma culturale del fascismo riusci a convogliare verso un unico  fine — con la parziale eccezione dei cattolici, al tempo  stesso collaboratori e critici — anche intellettuali che non  si riconoscevano nel fascismo. Per questo è possibile indi-  viduare nell’Enciclopedia, oltre che nella riforma della  scuola, un eccezionale strumento di diffusione della « rico-  struzione gentiliana della tradizione intellettuale italiana »,  di « una storia della cultura italiana che è stata capace di  penetrare dovunque, che è presente nei luoghi più impen-  sati, presso gli avversari più acerbi, raggiungendo sottil-  mente una egemonia non esaurita » ®, capace di soprav-  vivere al fascismo.    2. Il progetto di Martini e Formiggini  La prima idea concreta * di una grande enciclopedia    2 Cosî Garin nell’introduzione a G. Gentile, Storia della filosofia  italiana, Firenze, Sansoni, 1969, vol. I, p. LI.   2% «L'idea era in tantissimi e si agitava da un trentennio negli am-  bienti editoriali italiani », ricorderà Formiggini nell’ottobre 1925 rispon-  dendo all’ex ministro della P.I. Anile che gli aveva attribuito la pater-  nità del progetto (« L’Italia che scrive », VIII (1925), n. 10, p. 198).  Un accenno a un non lontano tentativo di Emilio Treves, Domenico  Demarsico e Pietto Barbèra, in A. F. Formiggini, La ficozza filosofica del  fascismo e la marcia sulla Leonardo. Libro edificante e sollazzevole, Roma,  Formiggini, 1923, p. 182.    19    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    nazionale italiana fu concepita nell'immediato dopoguerra,  in ambienti di interventisti culturalmente estranei all’idea-  lismo imperante: cominciò a prospettarla nel 1919 ” Ferdi-  nando Martini, coadiuvato dallo storico Mario Menghini,  l’appassionato curatore dell’edizione nazionale degli Scritti  mazziniani; ad essi si associerà alla fine del 1922, in un  estremo tentativo di attuare il progetto, l’editore Formig-  gini, dal 1918 attivissimo nell’organizzazione e nella pro-  paganda della cultura italiana.   Il progetto, riconosciuto pi tardi « punto di partenza »  per l’enciclopedia gentiliana, non fu « cosa modesta come  tutto ciò che si poteva concepire in quel tempo di smar-  rimento politico », come cercherà di far credere Giovanni  Treccani alludendo alla crisi della democrazia liberale pre-  cedente la marcia su Roma e all’incertezza dei primi tempi  del fascismo *: il momento in cui nacque e la personalità  del promotore ne testimoniano l’ampiezza delle prospettive,  anche se falli per essere rimasto su un piano puramente  editoriale, privo di un generale criterio informatore — dal  punto di vista culturale — ed esposto a quelle difficoltà  finanziarie e politiche che Treccani e il fascismo faranno  superare a Gentile.   « Si tratta di dare all’Italia, che non l’ha, una Enciclo-  pedia nazionale come l’hanno la Francia, l'Inghilterra, la  Germania e persino la Spagna », scriveva Martini al fedele  Alessandro Donati il 16 giugno 1920, appena insediato il  ministero di Giolitti, suo principale obiettivo polemico  assieme a Nitti e ai socialisti; « facciamo, per consolarci,  qualcosa che vada al di là dei giorni che viviamo — tristis-  simi giorni » ?. Dalla constatazione della inferiorità italiana    2? Cfr. Biblioteca nazionale centrale di Firenze (d’ora in avanti BNF),  Fondo Martini, lettere di Menghini, e G. Treccani, Enciclopedia italiana  Treccani. Idea esecuzione compimento, Milano, Bestetti, 1939, p. 11.   28 Discorso in occasione della presentazione al duce dell’ultimo volume  dell’Enciclopedia italiana (d’ora in avanti E.I.), 26 ottobre 1937, in G.  Treccani, Enciclopedia italiana Treccani. Idea esecuzione compimento,  cit., p. 91.   2 F. Martini, Lettere (1860-1928), Milano, Mondadori, 1934, p. 560.  Su Martini cfr., per un parziale tentativo d’interpretazione, la prefazione  di G. De Rosa a F. Martini, Digrio 1914-1918, Milano, Mondadori, 1966.    20    L’Enciclopedia italiana    nel campo dell’organizzazione della cultura rispetto ai mag-  giori paesi europei, scaturisce la necessità, e la possibilità,  di ovviarvi dopo la guerra vittoriosa. Necessità che non è  solo espressione dell’orgoglio per la forza politica recente-  mente acquistata dal paese, da tradursi nell’affermazione  della cultura italiana davanti al mondo; essa indica anche  un’opera preliminare ancora da compiere, indispensabile  alla conservazione di quella forza: combattere i contrasti  interni costruendo, come strumento unificante di egemonia,  una cultura razionale. La fierezza per l’unità, indipendenza  e sicurezza finalmente conseguite, e la coscienza che l’Ita-  lia era arrivata, dopo secoli di asservimento, ad eguagliare  le grandi potenze europee, si unî nel dopoguerra al tenta-  tivo della disgregata classe dirigente liberale — timorosa  di perdere le sue conquiste con l'avanzata delle masse po-  polari organizzate e d’ispirazione neutralista, socialiste e  cattoliche — di rafforzarsi egemonicamente; di qui l’impor-  tanza che la battaglia culturale, prescelta anche dalle nuove  forze antagoniste, rappresentò per la borghesia: l’insistenza  sul significato nazionale o italiano della cultura « tradi-  zionale » — esaltato dalla guerra — mirò a unificare e  controllare, a difesa dell’ordine costituito, gli intellettuali  in gran parte già individualmente politicizzati, spesso in  senso conservatore, dal clima bellico ®. Il programma di  « rivolgimento spirituale » sotto il segno dell’ordine e  della disciplina gerarchica, su cui insistette il Gentile di  Guerra e fede, di Dopo la vittoria e dei Discorsi di religione,  e sostenuto da pi voci nelle pagine di « Politica » —  programma critico del giolittismo come « malattia » ita-  liana —, fu in questo senso solo la espressione pit artico-  lata e coerente della borghesia reazionaria che si ricono-  scerà nel fascismo, definito « sforzo rivoluzionario » da  Gioacchino Volpe che lo contrapportà polemicamente a  un'immagine di comodo del socialismo: « muoveva dalla    % Ci limitiamo a segnalare E. Garin, Cronache, cit., cap. VIII, e, pet  un quadro europeo, H. Stuart Hughes, Coscienza e società. Storia delle  idee in Europa dal 1890 al 1930, Torino, Einaudi, 1967, capp. IX-X. Per  un settore particolare cfr. M. Simonetti, Storici italiani e rivoluzionari in  Russia, in « Il movimento di liberazione in Italia », XX (1968), pp. 35-82.    21    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    accettazione della guerra, anzi dall’esaltazione di quella  guerra, e si alimentò di quelle energie morali, di quel  senso di disciplina, di quella capacità di iniziativa, di quel  coraggio e spirito combattivo che la guerra aveva educato  nella gioventii italiana, nella borghesia italiana. Accettava  o accettò ben presto i valori tradizionali della nazione  italiana, cioè si nutri di sostanza italiana: condizione neces-  saria per poter far presa su di essa, per poter avere la colla-  borazione o anche solo la benevola neutralità delle forze  migliori del paese » *.   L’idea di una grande Enciclopedia nazionale, non sem-  plice opera compilativa e divulgativa come le enciclopedie  « popolari » prebelliche *, rientra in questo programma di  rafforzamento della borghesia italiana, in linea con la ten:  denza degli Stati moderni a darsi, dopo crisi di crescita e  di ricostruzione, una rinnovata organizzazione culturale (si  pensi, per fare un esempio contemporaneo anche se rife-  rito ad un’esperienza opposta a quella italiana, alla Grande  enciclopedia sovietica iniziata a Mosca nel 1926, l’anno  stesso in cui il dibattito sui caratteri della cultura socialista  vide prevalere i sostenitori della tesi della « cultura prole-  taria » *). La disponibilità di Martini a questo programma    31 G. Volpe, Storia del movimento fascista, Milano, Ispi, 1939, p. 210.   3 Come l’Enciclopedia popolare illustrata (1896-99, 4 voll.) e la  Grande enciclopedia popolare (1913-29, 22 voll.), entrambe di Sonzogno.  Se la Britannica fu l’enciclopedia da emulare, modello du seguire per  un’opera « nazionale » fu piuttosto il Touring Club Italiano fondato nel  1894, giudicato dall’E. I. « nettamente nazionale per la sua vasta pene-  trazione in tutte le classi sociali » (44 vocerm): il suo Atlante Internazio-  nale, iniziato nel 1927, fu utilizzato dall’E. I. in seguito ad apposito ac-  cordo editoriale (cfr. anche R. Almagià, Una grande opera italiana di  cultura, in « Educazione fascista », XI (1933), pp. 613-618). AIUT.C.I, si  richiamarono Formiggini e Martini come modello per la Fondazione Leo-  nardo (cfr. « L’Italia che scrive », III (1920), p. 33, e A.I°. Formiggini,  op. cit., p. 120). Al carattere «essenzialmente nazionale », del ‘T.C.I.  accenna Gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica dell'Istituto  Gramsci a cura di V. Gerratana, Torino, Einaudi, 1975, vol. II, p. 1055.   33 Sui caratteri generali del dibattito sulla cultura svoltosi in U.R.S.S.  prima del 1934 cfr. l’introduzione di V. Strada a Rivoluzione e lettera  tura. Il dibattito al 1° Congresso degli scrittori sovietici, Bari, Iuterza,  1967, in particolare p. XLI. « La storia dimostra che ogni classe ha creato  la sua enciclopedia », aveva affermato Bogdanov nel 1918 proclamando  la necessità: di preparare una Enciclopedia operaia (cfr. S. Fitzpatrick,  Rivoluzione e cultura in Russia. Lunabarskij e il Commissariato del popolo    22    L’Enciclopedia italiana    sarà testimoniata nel 1925 dalla sua presenza nel consiglio  direttivo dell’Istituto Treccani che ne riprenderà l’idea,  ma è rintracciabile anche in tutta la sua attività di uomo  politico e di cultura: auspice della impresa libica cui attri-  buiva « questo inapprezzabile rinnovamento nostro, questa  concordia di popolo di cui l’Italia non ha esempio nella  sua storia » *, nel 1914-15 la sua azione per l’intervento  era stata determinante * tanto da guadagnargli l'appellativo  di « grande apostolo di italianità », come lo chiamò Trec-  cani in occasione della fondazione del suo Istituto *. Nel  corso della guerra aveva però saputo cogliere la profonda  spaccatura tra la classe dirigente liberale e le masse popolati  affette dalla « tabe del materialismo » — « il popolo minuto  non ha capito il perché della guerra: della patria sente più  poco, tormentato com’è dalle aspirazioni a migliori condi-  zioni sociali », annotava nel Diario il 7 ottobre 1918” —,  che, a suo giudizio, nel 1919-20 Nitti e Giolitti non erano  riusciti a colmare per debolezza verso gli « elementi tor-  bidi » socialisti *. Nel dopoguerra si ripresentava il peri-  colo che nel 1894, di fronte ai primi passi del movimento  operaio organizzato, aveva spinto l’ex ministro della Pub-  blica Istruzione a manifestare a Carducci i suoi dubbi sugli  effetti del laicismo liberale:    per l’istruzione 1917-1921, Roma, Editori Riuniti, 1976, pp. 121-122).  L’E. I. giudica la Grande enciclopedia sovietica condotta secondo un cri-  terio « rigorosamente bolscevico », e particolarmente curata nella. parte  scientifica e tecnologica (alla voce Enciclopedia). Nel 1929, nella prefa-  zione al vol. I dell’E. I., Gentile sottolineerà il « pregio delle vaste opere  collettive, che danno disciplina agl'ingegni e forma concreta e definita  al pensiero di un popolo » (p. XII).   fr. il brano del discorso da 28 dicembre 1911 citato in B. Croce,  dhe d’Italia dal 1871 al 1915, Bari, Laterza, 1956!!, p. 357.   35 Cfr. F. Martini, Diario 1914-1918, cit., e G. B. Gifuni, Lettere ine-  dite di Martini a Salandra, in «L'’osservatore politico letterario », XIII  (1967), n. 12, pp. 7-33.   G. Treccani, op. cit.,   37 Cfr. anche pp. XLVILI. Kirk del Diario, cit. Giustamente Isnenghi  giudica Martini, fra i protagonisti politici, «uno dei più franchi o meno  reticenti nel collezionare gli indizi di insubordinazione nel paese e di  messa in crisi del rapporto tradizionale d’autorità » (Il mito della grande  guerra da Marinetti a Malaparte, Bari, Laterza, 1970, p. 348).   38 Cfr. F. Martini, Lettere, cit., p. 569 (15 novembre 1920).    23    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    di ciò che il Quinet dice con grande efficacia di parole e dimostra  con grande autorità di esempi, che cioè le rivoluzioni politiche, le  quali non accompagnino un rinnovamento religioso, perdono di  vista l’origine loro e i primi intenti e finiscono a scatenare ogni  cattivo istinto delle plebi; di ciò io sono convinto da un pezzo.  Ma dopo il male che woî, tutti noi, caro Giosuè, abbiamo fatto,  siamo in grado di provvedere a’ rimedi? A chi predichiamo? Noi,  borghesia volteriana, siam noi che abbiam fatto i miscredenti,  intanto che il Papa custodiva i male credenti; ora alle plebi che  chiedono la poule au pot, perché non credono più al di lè, ritor-  neremo fuori a parlare di Dio, che ieri abbiamo negato? Non ci  prestano fede... abbiam voluto distruggere e non abbiamo saputo  nulla edificare. La scuola doveva, nelle chiacchiere de’ pedagoghi,  sostituire la chiesa. Una bella sostituzione! ”    La sua estromissione dal parlamento dopo quaranta-  cinque anni — in seguito alle elezioni del 16 novembre  1919 —, e le agitazioni sociali culminate nell’occupazione  delle fabbriche, convinsero Martini dell’impotenza del me-    39 Citato da F. Chabod, Storia della politica estera italiana dal 1870  al 1896, Bari, Laterza, 19653, pp. 286-287, da integrare però col discorso  di Martini alla Camera del 18 febbraio 1908, contro l’introduzione del-  l'insegnamento religioso nelle scuole elementari (« opporre una religione  di classe alla lotta di classe», come vorrebbe «una borghesia sgomen-  tata dalle minacce del proletariato », sarebbe come «trattenere coi fu-  scelli la corsa delle locomotive »: citato da S. Cilibrizzi, Storia parla  mentare politica e diplomatica d’Italia da Novara a Vittorio Veneto, vol.  III, Milano-Genova-Roma-Napoli, Società editrice Dante Alighieri, 1929,  p. 344). Ma sarebbe da studiare tutta la sua posizione sulla scuola, da  prima del 1892-93 quando fu ministro della P.I. nel primo gabinetto  Giolitti (su cui cfr. D. Bertoni Jovine, La scuola italiana dal 1870 ai  giorni nostri, Roma, Editori Riuniti, 19672, pp. 76-78), a quando nel  1920 dichiarò a Filippo Crispolti di essere favorevole all'esame di stato  per le scuole medie (Lettere, cit., p. 558). Né è da trascurare, nello scrit-  tore, l’aristocratica « toscanità » della prosa, guidata da un provinciale  buon senso, che si attirò i giudizi negativi di Croce (ora in La letteratura  della nuova Italia. Saggi critici, Bari, Laterza, 1929, vol. III, pp. 317-334)  e di Gobetti (ora in Scritti storici, letterari e filosofici, a cura di P. Spriano,  Torino, Einaudi, 1969, pp. 534-535), da approfondire nel senso indicato  da Asor Rosa (Scrittori e popolo. Il populismo nella letteratura contem-  poranea, Roma, Samonà e Savelli, 19714, p. 62) che ha incluso Martini  fra i rappresentanti di una fase «regionale », ma non per questo meno  nazionale, del populismo; tenendo tuttavia presente la vicinanza di Mar-  tini ad Ojetti, il cui libro Mio figlio ferroviere (Milano, Treves, 1922) fu  giudicato dall’amico «la vera storia d’Italia, dalle ultime fucilate dei  combattenti alle prime bastonate dei fascisti » (Lettere, cit., p. 582), e da  Prezzolini « uno dei segni precursori della reazione al disordine e alla  debolezza dei governi italiani parlamentari del dopoguerra » (La cultura  italiana, Milano, Corbaccio, 19302, p. 298).    24    L’Enciclopedia italiana    todo liberale a risolvere i problemi che il paese aveva ere-  ditato dalla guerra, e lo spinsero a seguire Salandra nel  cammino che lo portò nel ’24 ad aderire al fascismo “.   Lo spirito di riscossa nazionale da cui si senti animata  la borghesia liberale interventista nell’immediato dopo-  guerra e, insieme, i pericoli oggettivi per i suoi propositi e  la sua stessa posizione, condizionarono anche l’Ewciclopedia  nazionale, nelle aspirazioni come nel fallimento. Per il suo  progetto in 24 volumi — quello di Treccani ne prevederà  all’inizio 32, diventati poi 36 — Martini ottenne il patro-  cinio della Società italiana per il progresso delle scienze  (S.I.P.S.), la maggiore organizzazione scientifica del paese  che fino dal 1907 univa alla diffidenza per il neoidealismo  una decisa impronta « nazionale » ‘; ma per quattro anni  cercò invano di assicurargli un’adeguata copertura finan-  ziaria. Menghini — interventista e antigiolittiano *, non  nuovo ad imprese enciclopediche * —, che a Roma tenne i  contatti con Volterra, Bonfante e Almagià — membri del  consiglio direttivo della S.I.P.S. —, nel 1920 iniziò trat-  tative con Bonaldo Stringher, direttore della Banca d’Italia  e amministratore della S.I.P.S. fin dalla fondazione *. Nel    % Cfr. F. Martini, Lettere, cit., per il 1919-24 (a p. 554 per le elezioni  del 1919). Per la sua concordanza con Salandra nel giudizio sul fascismo  cfr. anche R. De Felice, Mussolini il fascista, I. La conquista del potere  La, Torino, Einaudi, 1966, p. 286, e G.B. Gifuni, art. cit., pp.   -29.  ._ % Cfr. F. Martini, Leztere, cit., p. 560. Sulla S.I.P.S. cfr. R. Almagià,  La società italiana per il progetto delle scienze, in « L’Italia che scrive »,  IV (1921), pp. 239-240, e il breve cenno di L. Bulferetti, Gli studi di  storia della scienza e della tecnica in Italia, in Nuove questioni di storia  contemporanea, Milano, Matzorati, 1968, vol. I, p. 652.   4 Il 23 ottobre 1919 scriveva a Martini: «Il popolo, pur troppo,  agisce male: ma come agir bene con l’esempio che ha di tanti malgo-  verni? Cosa debbono pensare le madri dei cinquecentomila figli morti,  quando sentono che la guerra si doveva evitare? »; cfr. anche, contro  Giolitti, la lettera del 23 settembre 1920. Sulle stesse posizioni era Ales-  sandro Donati, ad es. nelle lettere a Martini del 30 novembre 1919 e 12  giugno 1920 (BNF, Fondo Martini).   43 Aveva diretto l’Enciclopedia contemporanea illustrata edita da Val-  lardi, Milano, 1911-17, 4 voll. (fra i collaboratori, Emilio Bodrero e Ro-  «berto Paribeni).   . % Per l’elenco delle cariche sociali della S.I.P.S. dal 1907 cfr. ad es.  Atti della Società italiana per il progresso delle scienze. Undicesima riu-  nione - Trieste - settembre 1921, Roma, Società italiana per il progresso    25    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    ’21, attenuatesi le difficoltà economiche dell’anno prece-  dente, Stringher — che aveva cointeressato anche Pogliani  della Banca Italiana di Sconto, Fenoglio della Commer-  ciale e il finanziere Della Torre che controllava un’im-  ponente catena editoriale — promise il suo appoggio *; fu  incaricato della realizzazione l’editore Bemporad, mentre  Menghini cominciò ad interpellare gli eventuali direttori  dell'impresa fra cui, sembra, Gentile 4. Ma nell’autunno  del ’22 le incertezze delle banche non erano ancora vinte —  anche dopo la presentazione da parte di Bemporad di un  progetto molto ridotto rispetto a quello originario —, per  cui Martini accettò il consiglio di Stringher di affidare la  realizzazione dell’enciclopedia a un gruppo editoriale da  promuoversi attorno a un editore « di prima grandezza ».  La scelta cadde su Angelo Fortunato Formiggini e sulla Fon-  dazione Leonardo da lui creata: fu questa la via per la quale  l’idea passerà a Gentile.   I propositi culturali nazionali della Leonardo, analoghi  a quelli di Martini che ne fu il primo presidente, si  affiancavano a quelli dei numerosi istituti di propaganda  culturale nati o nuovamente sviluppati nel dopoguerra, ma  con un'impronta originaria — prima dei condizionamenti  governativi e dell’intervento di Gentile — nettamente  diversa dal deciso accento politico e nazionalistico che fin  dall’inizio aveva avuto, ad esempio, la Dante Alighieri ‘    delle scienze, 1922. Nel 1920 si profilò il pericolo di una concorrenza  al progetto di Martini, da parte di un editore di Bergamo, che sembra  si fosse assicurata la collaborazione di Gentile, Chiovenda, Paribeni  (BNF, Fondo Martini, lettere di Menghini, 25 giugno e 7 luglio 1920, e  di Donati, 25 luglio 1920).   4 Per tutto l'andamento delle trattative cfr. le lettere di Menghini a  Martini (loc. cit.). Sulle compartecipazioni editoriali di Pogliani, Fenoglio  e Della Torre, utili notizie in V. Castronovo, La stampa italiana dall'Unità  al fascismo, Bari, Laterza, 1970, ad indicem.   4 Menghini a Martini, 18 maggio 1921: «Passando per Firenze non  potrebbe interrogare il Cadorna? Io potrei incaricarmi del Gentile: Mar-  tini, Stringher, Volterra son già de’ nostri. Come fare per Marconi, Luz-  zatti, Ciamician e Murri? » (BNF, Fondo Martini). Su Bemporad editore  negli anni venti di « Critica sociale », cfr. A. Gramsci, Quaderni del car-  cere, cit., vol. I, p. 321, e l'intervento di Piero Treves in La Toscana nel  regime fascista (1922-1939), Firenze, Olschki, 1971, vol. II, pp. 423-424.   4 Sulla funzione di « grande milizia civile » svolta dalla Dante Ali-  ghieri, fondata nel 1889 da Ruggero Bonghi, cfr. P. Barbèra, La « Dante    26    L’Enciclopedia italiana    l'opera di Formiggini si rivolgeva soprattutto all’interno,  in un tentativo di unificazione culturale che, iniziato nel  1918, con la rivista bibliografica « L’Italia che scrive »,  trovava in tutta la sua attività prebellica i motivi della sua  estraneità all’idealismo e, dal 1923, dell’avversione per la  « setta filosofica » gentiliana giudicata « tirannide dottri-  nale » contraria alla manifestazione delle diverse correnti  culturali *   L’intento di sviluppare all’estero la conoscenza della  cultura italiana aveva portato. Formiggini ad un incontro  con le prospettive nazionalistiche degli organi statali pre-  posti alla stampa e alla propaganda * e, su queste basi, alla  creazione dell’Istituto per la propaganda della cultura ita-  liana che, dopo aver ottenuto un sostegno anche da parte  degli industriali, fu inaugurato ufficialmente a Roma nel  marzo 1921 ed eretto in ente morale, col nome di Fon-  dazione Leonardo, nel novembre dello stesso anno, con    Alighieri », relazione storica al XXV Congresso (Trieste-Trento, 1919),  Roma, Società nazionale Dante Alighieri, 1919, e Id., Quaderni di me-  morie stampati ad usum delphini, Firenze, Barbèra, 1921, pp. 208 e  461-487, dove è anche una professione di fede di Barbèra, nel 1919 segre-  tario del Consiglio centrale della Dante (« non son socialista, perché credo  la essenza di tal dottrina contraria a natura e giustizia, e poiché essendo  essa necessariamente internazionale è contraria al principio di nazionalità  che è anch'esso legge di natura »: p. 220), conforme ai fini della Dante,  nata a rinnovare il « pensiero della Patria » negli emigrati e nel proleta-  riato che, « ansioso di migliorare le sue penose condizioni, sentî il bisogno  di organizzarsi per le rivendicazioni dei suoi diritti e di allearsi al prole-  tariato degli altri paesi con vincoli internazionali » (P. Barbèra, La « Dante  Alighieri », cit., p. 3). Nel 1890 e 1910 fu consigliere della Società anche  Martini (ibidem, p. 179).   4 A.F. Formiggini, La ficozza filosofica del fascismo, cit., p. 40. Sulla  figura e l’opera di Formiggini cfr. in questo volume, pp. 151-192.   4 Nel 1918 Formiggini ottenne per le Guide bibliografiche il patro-  cinio della Commissione per la propaganda del libro italiano all’estero,  presieduta dal nazionalista Gallenga Stuart («L'Italia che scrive», I  (1918), pp. 103-104), suscitando i dubbi di Gobetti sull’efficacia e l’impar-  zialità culturale dell’iniziativa (ora in Scritti politici, cit., pp. 21-23); cfr.  anche L. Tosi, Romeo A. Gallenga Stuart e la propaganda di guerra  all’estero (1917-1918), in « Storia contemporanea », II (1971), pp. 519-542.  Già nell’ottobre 1919 fu annunciata la costituzione dell’Istituto per la  propaganda della cultura italiana — poi inaugurato nel ’21 — sotto la  presidenza di Martini e Comandini (commissario per la propaganda all’In-  terno) e, fra i consiglieri, il direttore del «Giornale d’Italia » Berga-  “mini, Buonaiuti, Formiggini, Croce, Einaudi, Prezzolini (« L’Italia che  ‘scrive », II (1919), p. 126; cfr. anche il frontespizio del n. 12).    27    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    Martini presidente, Orso M. Corbino vice-presidente, Gen-  tile e Amedeo Giannini delegati rispettivamente del mini-  stro della Pubblica istruzione e di quello degli Esteri, Ro-  berto .Almagià e Giuseppe Chiovenda consiglieri, Formig-  gini consigliere delegato alle pubblicazioni. I nuovi accordi  e le nuove compagnie si dimostrarono subito pericolosi e  condizionanti, tali da non permettere che l’ente svolgesse  quel compito di « equilibrata armonizzazione di correnti  opposte » che Formiggini sperava ereditasse dalla sua ri-  vista. Il suo ideale di imparzialità si rivelò un’arma a doppio  taglio, permettendo in questa fase che altri utilizzasse l’ini-  ziativa per i propri fini. Già nel luglio 1921 il consiglio  direttivo della Leonardo, dicendosi convinto che « la forza  di espansione necessaria alla cultura italiana [...] non possa  derivare da artificiali argomenti di propaganda [...], ma  soltanto dal valore stesso della nostra cultura », affermava  con linguaggio trasparentemente gentiliano che « creare  la cultura è la prima condizione della sua propaganda; ma  la cultura non esiste se non nello spirito che l’alimenta  accogliendola e sentendola »; considerava quindi necessa-  rio « organizzare un lavoro di propaganda interna diretto  a ravvivare negli animi il concetto di quanto nella cultura  italiana fu veramente originale e arrecò un contributo  incontestabile al patrimonio spirituale dell'umanità », e  affidava questo compito a una serie di conferenze tenute  da Gentile, Croce, Vittorio Scialoia, Arturo Farinelli, Vitto-  rio Rossi, Corrado Ricci. Era un chiaro rifiuto del pro-  gramma culturale di Formiggini e della sua casa editrice.  L’iniziativa di quest’ultimo divenne « impersonale », cioè  « nazionale », come egli stesso dichiarò, e la Fondazione  si propose, secondo le dichiarazioni di Martini, di « propa-  gare il pensiero nazionale fra i popoli civili e ciò non con  intenti imperialistici, ma unicamente col proposito di far  sapere chi siamo e che cosa facciamo ». Ma in breve tempo  Gentile, forte dell’appoggio governativo, riusci ad assu-  mere il controllo della Fondazione — dal giugno ’22 pre-  sieduta da Ivanoe Bonomi —, separandola progressiva-  mente da « L'Italia che scrive », sull’esempio della quale —  e utilizzando molti dei suoi collaboratori — modellerà    28    L’Enciclopedia italiana    più tardi il « Leonardo » affidato nel ’25 a Prezzolini e poi  a Russo. Il 21 febbraio 1923 l'assemblea sociale della Fon-  dazione, manipolata da Gentile promotore della « marcia  sulla Leonardo » — stando alle accuse di Formiggini® —,  rovesciò il consiglio direttivo, che fu ristrutturato sotto la  presidenza del nuovo ministro della Pubblica istruzione  del primo gabinetto Mussolini 5. L’ente e il suo patrimonio  saranno assorbiti nel ’25 dall’Istituto nazionale fascista  di cultura”, mentre Formiggini continuerà ne « L'Italia  che scrive » a inseguire ingenuamente il suo sogno di rispec-  chiare, in una Italia in cui molte voci andavano ormai spen-  gendosi, tutte le correnti della cultura nazionale *, senza  comprendere come fosse ben diversa dall’opera di armoniz-  zazione da lui auspicata la « volontà esplicita del Governo  di assumere la diretta gestione di tutti gli organismi di  propaganda nazionale » *.   La parabola della Leonardo segnò il destino dell’Enci-  clopedia nazionale progettata da Martini: proprio nella  seduta del 21 ottobre 1922 che sanzionò — ad opera di  Gentile — il definitivo distacco dell’Istituto da « L’Italia  che scrive », Formiggini comunicò al consiglio direttivo  della Leonardo di essere stato incaricato da « un gruppo  di amici che facevano capo a Ferdinando Martini », rima-  sto presidente onorario della Fondazione, di realizzare una  Grande Enciclopedia Italica per « sodisfare la lunga attesa  della Nazione e dar vita ad un’opera che, mercé una larga  diffusione in Italia e nei centri culturali stranieri, giovi  gagliardamente al progresso intellettuale del nostro Paese    5 Cfr. «L'Italia che scrive », I (1918), pp. 103-104; II (1919), p.  126; IV (1921), pp. 80-84, e n. 7, p. 148; V (1922), p. 15, p. 136 e p.  231; A.F. Formiggini, op. cit., pp. 103-123, 139-165, 225-237.   51 Con Gentile presidente e A. Giannini vice-presidente, erano con-  siglieri R. Bottacchiari, G. Calabi, E. Codignola, E. Quirino Giglioli, F.  I Massuero, G. Lombardo Radice, V. Rossi (« Leonardo », I (1925),  n. l).   5 Cosî affermerà Formiggini, ancora in epoca fascista (Venticinque  anni dopo, Roma, Formiggini, 19332, p. 32; cfr. anche Trent'anni dopo.  Storia di una casa editrice, Amatrice, Formiggini, 1951, p. 88).   53 Ancora nel 1931, come attesta G. Salvemini, Scritti sul fascismo,  Milano, Feltrinelli, 1966, vol. II, p. 580.   % A.F. Formiggini, La ficozza filosofica del fascismo, cit., p. 267.    29    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    e al buon nome dell’Italia nel mondo ». Ritenendo impos-  sibile ricalcare le orme della Britannica, Formiggini ridusse,  come già aveva fatto Bemporad, il progetto originario di  Martini — 18 invece di 24 volumi —, e ne affidò la rea-  lizzazione a un costituendo consorzio editoriale librario  (con la partecipazione anche dei maggiori periodici italiani),  sempre sotto il patrocinio della Società italiana per il pro-  gresso delle scienze. I redattori sarebbero stati scelti fra i  membri di quest’ultima, dell’Accademia dei Lincei e della  Leonardo, che avrebbero lavorato sotto la direzione non di  un filosofo o di uno scienziato, ma di un tecnico, un « bi-  bliografo e bibliotecario », per rendere la Grande Enciclo-  pedia Italica, come voleva Formiggini, « specchio completo  e obiettivo dello stato presente della nostra cultura »,  « opera espositiva e di coordinamento delle varie dot-  trine »: era respinto il consiglio di Croce — di non fare  opera eclettica, perché « una Enciclopedia deve avere un’a-  nima sua, una sua coerenza » 5 —, condiviso anche da  Gentile *   Ma la « marcia sulla Leonardo » travolse Formiggini,  che fu abbandonato da Martini”; questi continuerà a col.  tivare la speranza di attuare l’enciclopedia, finché non con-  fluî nell’iniziativa gentiliana *, mentre Formiggini, abban-  donato il vecchio progetto ”, riuscirà a dare inizio a una  nuova Enciclopedia delle Enciclopedie divisa per sog-    55 Ibidem, pp. 161, 179-212.   56 Nel 1925, all'annuncio dell’E.I., Formiggini scriverà che «il Gen-  tile di oggi (l’ho detto) non è più quello di ieri. Egli allora era in piena  armonia con Croce, il quale avrebbe voluto una enciclopedia, tutte le  ‘pagine della quale concorressero ad uno stesso fine concettuale » (« L'Italia  che scrive », VIII (1925), p. 66).   ST Il 26 febbraio 1923 Menghini scriveva a Martini che «il trionfo  «della tesi del Formiggini fu quello di Bemporad, e che non si tratta pit  di una enciclopedia scientifica, ma di una a base Larousse », e conclu-  deva: « appena potrò, vedrò il Gentile, a cui narrerò tutto: e spero inte-  ressare il Governo alla impresa » (BNF, Fondo Martini).   58 F. Martini, Lettere, cit., pp. 599-600 (a Formiggini, 13 novembre  1923).  59 Cfr. A.F. Formiggini, Programma editoriale della collezione e  L'Enciclopedia Italica, in «L'Italia che scrive», VII (1924), p. 82, e  VIII (1925), p. 12.    30    L’Enciclopedia italiana    getti ®: ma quando ormai l’idea della Enciclopedia italiana,  ereditata da Gentile assieme alla Leonardo, era stata rilan-  ciata dall’Istituto Treccani.    3. L'intervento di Treccani e Gentile    Il progetto di Martini fu realizzato fuori del ristretto  ambito editoriale in cui era stato confinato da Formiggini  e con la forte impronta culturale di Gentile; ma il rapido  successo dell’iniziativa « privata » di Treccani e Gentile fu  reso possibile soprattutto dalla nuova realtà creata dal fa-  scismo, che favori una stretta compenetrazione tra interessi  politici industriali culturali, e fece sentire l’opera utile,  anzi necessaria © alla cultura e alla forza dello Stato nel  quadro di una più generale riorganizzazione del potere: il  carattere « nazionale » dell’enciclopedia non si presentò  più solo come aspirazione da raggiungere — espressione  di italianità frutto di tutte le forze intellettuali del paese  —, ma anche come conseguenza del « nuovo ordine » che  si autodefiniva « nazionale ». Fu alla fine del 1924 che  Gentile, presidente della Leonardo e, fino al giugno di  quell’anno, ministro della Pubblica istruzione, riprese e  sviluppò il progetto di Martini, trovando un pronto aiuto  economico nel senatore Giovanni Treccani , la cui figura    % Cosî annunciata nel novembre ’25 ne «L'Italia che scrive» (p.  206): «È noto che avevo studiato il piano di una Grande Enciclopedia  Italica e che altri sta realizzando con grande abbondanza di mezzi quello  che era stato il mio proposito. Mi si rimproverava allora di voler dare uno  specchio fedele di tutte le correnti del pensiero degne di considerazione  senza asservire l’opera ad una particolare tendenza: oggi ho la giusta  soddisfazione di vedere che quel mio concetto è stato pienamente accolto.   Le mutate condizioni della vita culturale italiana mi fanno però rime-  ditare su quanto Benedetto Croce ebbe a dirmi in proposito: egli affer-  mava che una Enciclopedia deve assolutamente avere un’anima sua pro-  pria, ed io allora non vedevo quale delle tendenze spirituali avrebbe  potuto imporsi come perno di tutto lo scibile: oggi mi apparisce ben  chiaro e non dubbio quale debba essere il nucleo ideale di una simile  impresa ».   6l L’E.I. è qualificata «necessaria » in tutti i discorsi di Treccani  (Enciclopedia Italiana Treccani. Idea esecuzione compimento, cit.).   6 « Entrato io in Senato nel 1924, il sen. Gentile (al quale mi lega-  vano rapporti di cordialità per la parte da lui avuta come Ministro della    31    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    di industriale-mecenate rappresenta il più ampio — e poli-  ticamente nuovo — intervento dei grandi gruppi economici  nell’attività editoriale.   Nel 1898, alla morte di Alessandro Rossi — il prote-  zionista considerato precursore dell’ideologia corporativa,  cui Treccani dedicherà un significativo ritratto nell’Enciclo-  pedia® —, era entrato nel Lanificio Rossi di cui divenne  presidente, e nel 1911 operò come amministratore delegato  il salvataggio del Cotonificio Valle Ticino, « intorno al quale  sorsero altre aziende tessili, tutte basate sui principi, cari  al Treccani, della divisione del lavoro e dell’indipendenza  della funzione industriale, a tutti gli effetti giuridici ed  economici, da quella commerciale, anche allo scopo di  mettere le maestranze al riparo dai disastri eventuali della  speculazione » “, ma soprattutto — come Treccani dichiarò  nel settembre 1920 di fronte allo « spettro della rivoluzione  leninista » apparso con l'occupazione delle fabbriche —  allo scopo di raggiungere la « conciliazione sociale » spo-  liticizzando gli operai, cooptati nella direzione di aziende  « puramente industriali » — di tipo corporativistico —,  private dei più vasti poteri decisionali delle aziende « pura-  mente commerciali » ©. Presidente di numerose società tes-    Pubblica Istruzione, — allora si diceva cost — al recupero della Bibbia  di Borso d’Este) mi segnalò quel naufragato progetto, affinché io vedessi  se avevo la possibilità di attuarlo », ricorderà nel 1938 Treccani (ibidem,  p. 11). Il progetto prevedeva 32 volumi — diventati poi 36 — e un Dizio-  nario biografico degli Italiani (ibidem, p. 22); furono spesi circa 15 mi-  lioni per i soli collaboratori (ibidem, p. 92), e 100 per tutta l’opera di  25.000 copie (ibidem, p. 78).   63 Cfr. S. Lanaro, Nazionalismo e ideologia del blocco corporativo-pro-  tezionista in Italia, in «Ideologie», I (1967), n. 2, pp. 36-93, e Id.,,  Nazione e lavoro. Saggio sulla cultura borghese in Italia 1870-1925,  Padova, Marsilio, 1979, 44 indicem. Di Rossi Treccani scriverà nell’E.I.  che « considerava primo elemento di potenza e di ricchezza nazionale il  capitale uomo, preparato con sentimenti cristiani alla collaborazione fra  le classi sociali. Ebbe vivissima la coscienza dei doveri degl’imprenditori  verso i dipendenti e considerò l’interesse dei proprietarî non disgiunto da  quello degli operai e da quello della nazione » (ad voce): dove, pur  fatte le dovute concessioni alla data di stesura della voce (1936), sono  accennate le origini nazionaliste e cattoliche del corporativismo.   % Cfr. l’anonima voce Treccani in E.I., e P. Rossi, Dall’Olona ai  Ticino. Centocinquant’anni di vita cotoniera, Varese, La tipografica Va-  rese, 1954, p. 122.   6 In modo che «l’operaio industrializzato perderebbe l’abito di far    32    L’Enciclopedia italiana    sili, chimico-meccaniche, agricole — dal 1919 membro  fondatore della società agricola italo-somala — ed editoriali,  dopo il 1920 Treccani si prodigò in quell’opera di mece-  natismo che, soprattutto con l’acquisto e il dono allo Stato,  nel ’23, della Bibbia di Borso d’Este, gli valse nel ’24 la  nomina a senatore *. Il mecenatismo di Treccani, e di altri  industriali o finanzieri quali Riccardo Gualino, non era,  come osservava Gramsci ”, disinteressato: le loro iniziative  culturali erano illuminate autoprotezioni che, dichiarando  paternalisticamente di favorire l’interesse generale na-  zionale, aiutavano di fatto quello delle classi dirigenti e  l'ordine sociale costituito. A Enciclopedia compiuta Trec-  cani affermerà che    si può contribuire al progresso delle lettere, delle scienze e delle arti,  anche senza essere letterati, scienziati o artisti, proteggendo quelle  e aiutando questi; e spetta specialmente a coloro che, in un deter-  minato momento, detengono la ricchezza promuovere atti di gene  rosità e di rischio, perché solo facendo compiere al capitale un'alta    del lavoro una funzione politica, e questa eserciterebbe soltanto come  cittadino e cioè all'infuori e al di sopra di quella che sarebbe la lotta  economica. Tanto all’infuori e al di sopra, che un qualunque movente  politico, in una eventuale lotta, non sarebbe possibile concepire se non  attraverso a un tentativo criminale di sovvertimento sociale, o meglio a  una aberrazione della coscienza operaia, la quale vorrebbe allora precipi-  tare nel baratro di una eclissi storica la nazione e la società » (G. Trec-  cani, Capitale e lavoro, in « Risorgimento », I (1920), n. 26, pp. 9-11;  cfr. anche Id., Il diritto nuovo, in ibidem, n. 28, pp. 11-12). La rivista  « Risorgimento », fondata nel ’20 da Treccani e diretta da G.G. Arriva-  bene, e su cui scrisse anche Corradini, è definita dall'E.I. «di spiriti  nettamente nazionali » (alla voce Treccani).   6 Per tutta la sua «attività culturale e benefica » cfr. G. Treccani,  Enciclopedia Italiana Treccani. Come e da chi è stata fatta, Milano, Be-  stetti, 1948, pp. 13-18 (tutto il volume è concepito come difesa dalle  accuse di fascismo rivolte all’E.I. dopo la Liberazione). La nomina di  Treccani a senatore, avvenuta nella « infornata » del 18 settembre 1924  (cfr. E. Rossi, Padroni del vapore e fascismo, Bari, Laterza, 1966, pp.  253, 264), era stata raccomandata da Gentile a Mussolini appena il 15  settembre (Archivio centrale dello Stato, Roma (d’ora in avanti ACS),  Segreteria particolare del Duce, Carteggio riservato, b. 1, sottofasc. 2).   6 Quaderni del carcere, cit., vol. II, p. 1333. Accenni a Gualino —  il fondatore della Snia-Viscosa e vice-presidente della Fiat che finanziò nel  ’27-°28 le ricerche di Egidi e Chabod a Simancas — in AA.VV., lrn  memoria di Pietro Egidi, Pinerolo, Unitipografica pinerolese, 1931, pp.  15, 36, G. Volpe, Storici e maestri, Firenze, Sansoni, 1967, p. 458, V.  Castronovo, op. cit., passim.    33    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    funzione sociale, esso può essere benedetto anziché odiato.   Gli industriali poi devono riconoscere che l’industria è debitrice  di tutto alla scienza: del suo fondamento, del suo progresso, del  suo divenire; e che la scienza, alimentando le applicazioni pratiche  — cioè in definitiva l’industria e l’agricoltura — è largitrice di  beni morali ed economici, che elevano la dignità del popolo e il  suo tenore di vita ®.    Frutto del rafforzamento e della concentrazione dell’in-  dustria accelerati dalla guerra e dal fascismo ”, l’impresa  della Enciclopedia testimonia la stretta compenetrazione  dei gruppi di pressione economici — Treccani vi interessò  anche il segretario dell’Associazione cotoniera Giuseppe  Riva, e per la realizzazione dell’opera diverrà socio di  Rizzoli, quindi di Tumminelli e Treves”? — con interessi  politici e culturali, affermatasi su larga scala in Italia per  la prima volta dopo la grande guerra, condizionando in  modo mediato l’editoria — divenuta, come la definî Val-  lecchi, « industria delle industrie »”" —, e immediato la  stampa quotidiana ”. La libera iniziativa di Treccani poté  cosî realizzare ciò che non era riuscito alla Banca d’Italia  di Stringher.   Altrettanto decisiva per la ripresa e l'ampliamento del  vecchio progetto di Martini fu la coerente opera di otga-  nizzazione culturale promossa da Gentile, che dopo l’espe-  rienza bellica era venuto accentuando il valore politico della    6 Enciclopedia Italiana Treccani. Idea esecuzione compimento, cit.,  p. 12.   9 Cfr. G. Mori, Per una storia dell’industria italiana durante il fasci-  smo (1971), ora in Il capitalismo industriale in Italia. Processo d'indu-  strializzazione e storia d’Italia, Roma, Editori Riuniti, 1977, pp. 219-249.  L’E.I. fu realizzata « con grande fede nella disciplina e produttività delle  forze intellettuali italiane nonché nella resistenza dell'economia nazio-  nale », affermò anche dopo la grande crisi Gentile (Tribolazioni di un  enciclopedista. Come si distribuisce l'immortalità, in «Il Corriere della  sera », 4 febbraio 1931, p. 3).   ® Cfr. Enciclopedia Italiana Treccani. Idea esecuzione compimento,  cit., pp. 15, 17, e U. Ojetti, I taccuini. 1914-1943, Firenze, Sansoni, 1954,  pp. 165 e 178-180, che alla data 4 settembre ’25 parla anche di «trat-  tative tra Fracchia e Treccani su un nuovo giornale letterario », proba-  bilmente « La fiera letterapp. 13-18 (tutto il volume è concepito come difesa dalle  accuse di fascismo rivolte all’E.I. dopo la Liberazione). La nomina di  Treccani a senatore, avvenuta nella « infornata » del 18 settembre 1924  (cfr. E. Rossi, Padroni del vapore e fascismo, Bari, Laterza, 1966, pp.  253, 264), era stata raccomandata da Gentile a Mussolini appena il 15  settembre (Archivio centrale dello Stato, Roma (d’ora in avanti ACS),  Segreteria particolare del Duce, Carteggio riservato, b. 1, sottofasc. 2).   6 Quaderni del carcere, cit., vol. II, p. 1333. Accenni a Gualino —  il fondatore della Snia-Viscosa e vice-presidente della Fiat che finanziò nel  ’27-°28 le ricerche di Egidi e Chabod a Simancas — in AA.VV., lrn  memoria di Pietro Egidi, Pinerolo, Unitipografica pinerolese, 1931, pp.  15, 36, G. Volpe, Storici e maestri, Firenze, Sansoni, 1967, p. 458, V.  Castronovo, op. cit., passim.    33    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    funzione sociale, esso può essere benedetto anziché odiato.   Gli industriali poi devono riconoscere che l’industria è debitrice  di tutto alla scienza: del suo fondamento, del suo progresso, del  suo divenire; e che la scienza, alimentando le applicazioni pratiche  — cioè in definitiva l’industria e l’agricoltura — è largitrice di  beni morali ed economici, che elevano la dignità del popolo e il  suo tenore di vita ®.    Frutto del rafforzamento e della concentrazione dell’in-  dustria accelerati dalla guerra e dal fascismo ”, l’impresa  della Enciclopedia testimonia la stretta compenetrazione  dei gruppi di pressione economici — Treccani vi interessò  anche il segretario dell’Associazione cotoniera Giuseppe  Riva, e per la realizzazione dell’opera diverrà socio di  Rizzoli, quindi di Tumminelli e Treves”? — con interessi  politici e culturali, affermatasi su larga scala in Italia per  la prima volta dopo la grande guerra, condizionando in  modo mediato l’editoria — divenuta, come la definî Val-  lecchi, « industria delle industrie »”" —, e immediato la  stampa quotidiana ”. La libera iniziativa di Treccani poté  cosî realizzare ciò che non era riuscito alla Banca d’Italia  di Stringher.   Altrettanto decisiva per la ripresa e l'ampliamento del  vecchio progetto di Martini fu la coerente opera di otga-  nizzazione culturale promossa da Gentile, che dopo l’espe-  rienza bellica era venuto accentuando il valore politico della    6 Enciclopedia Italiana Treccani. Idea esecuzione compimento, cit.,  p. 12.   9 Cfr. G. Mori, Per una storia dell’industria italiana durante il fasci-  smo (1971), ora in Il capitalismo industriale in Italia. Processo d'indu-  strializzazione e storia d’Italia, Roma, Editori Riuniti, 1977, pp. 219-249.  L’E.I. fu realizzata « con grande fede nella disciplina e produttività delle  forze intellettuali italiane nonché nella resistenza dell'economia nazio-  nale », affermò anche dopo la grande crisi Gentile (Tribolazioni di un  enciclopedista. Come si distribuisce l'immortalità, in «Il Corriere della  sera », 4 febbraio 1931, p. 3).   ® Cfr. Enciclopedia Italiana Treccani. Idea esecuzione compimento,  cit., pp. 15, 17, e U. Ojetti, I taccuini. 1914-1943, Firenze, Sansoni, 1954,  pp. 165 e 178-180, che alla data 4 settembre ’25 parla anche di «trat-  tative tra Fracchia e Treccani su un nuovo giornale letterario », proba-  bilmente « La fiera letteraria » che cominciò a uscire nel dicembre ’25.   7 A. Vallecchi, Ricordi e idee di un editore vivente, Firenze, Val  lecchi, 1934, p. 184. i   © Cfr. V. Castronovo, op. cit.    34    L’Enciclopedia italiana    cultura, la critica alla scienza « spettatrice della vita » e  all’arcadia, in vista della formazione di una nuova classe  dirigente ”. La direzione gentiliana di Accademie e Istituti,  di riviste e collane editoriali, il controllo di case editrici,  affermatisi nel periodo fascista *, ebbero nel campo dell’alta  cultura un’incidenza pari se non superiore, perché stabili  per un quindicennio, alla stessa riforma della scuola nel  settore educativo. Quando questa, nel 1925, cominciò ad  essere svuotata dei suoi caratteri originari, Gentile iniziò  proprio con l’Exciclopedia — e per mezzo del vasto potere  di controllo su un gran numero di intellettuali da essa con-  feritogli — ad esercitare una vasta egemonia culturale che  induce a riconsiderare, nel quadro di tutta la cultura italiana  del ventennio e del secondo dopoguerra, l’opera svolta da  Croce attraverso « La Critica » e la Casa Laterza, opera su  cui finora si è insistito in modo esclusivo e spesso pregiu-  diziale, identificando polemicamente la cultura con l’anti-  fascismo ”. Se la semplice somma numerica delle organiz-  zazioni e degli intellettuali controllati materialmente da  Gentile non è sufficiente, allo stato attuale degli studi, a    73 Fra gli innumerevoli esempi possibili, basti ricordare La moralità  della scienza (del 1923), in Scritti pedagogici, III. La riforma della scuola  in Italia, Milano-Roma, Treves-Treccani-Tumminelli, 19322, pp. 61-79;  Che cosa è il fascismo, cit.; Fascismo e cultura, Milano, Treves, 1928;  Origini e dottrina del fascismo, Roma, Istituto nazionale fascista di cul-  tura, 19343, cap. X. Quello del « contatto organico tra l’“intelligenza” e le  classi dirigenti » era allora il « problema sostanziale della cultura italiana »  posto fin dall’inizio della rinascita idealistica, ma rimasto insoluto per la  vittoria della «vecchia Italia », osservava Togliatti a proposito de  coltura italiana di Prezzolini (Opere, a cura di E. Ragionieri, I, 1917-1926,  Roma, Editori Riuniti, 1967, pp. 489-493).   7 Ricordiamo solo la Commissione Vinciana (dal 1924), la Leonardo  e dal ’25 l’Istituto nazionale fascista di cultura, la Scuola Normale Supe-  riore di Pisa (dal 1920), l’Istituto italiano di studi germanici (dal 1932),  l'Istituto italiano per il medio ed estremo Oriente (dal 1933), la casa  editrice Sansoni, le collane di Le Monnier, il « Giornale critico della filo-  sofia italiana », « Educazione fascista » (cfr. ACS, Segreteria particolare  del Duce, Carteggio riservato, b. 1, sottofasc. 2; V.A. Bellezza, Biblio-  grafia degli scritti di G. Gentile, in Giovanni Gentile. La vita e il pen-  siero, Firenze, Sansoni, 1950, vol. III, pp. 28-29 e M. di Lalla, Vita di  Giovanni Gentile, Firenze, Sansoni, 1975).   75 Cosî E. Garin, La Casa Editrice Laterza e mezzo secolo di cultura  italiana, ora in La cultura italiana tra '800 e ’900, Bari, Laterza, 1963,  pp. 155-173, che pur avverte sempre la larga interdipendenza del pensiero  crociano e gentiliano.    35    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    spodestare Croce dal suo trono di « papa laico » — ciò  implicherebbe negare la persistenza dell’influenza crociana  dopo il 1945 —, è da tener presente almeno l’importanza  pratica delle iniziative gentiliane: prima e dopo il 1929 esse  mirarono a coagulare attorno a un nucleo di tradizione na-  zionale e fascista — e quindi contribuirono a far sopravvive-  re nel quadro dell’ideologia eclettica del regime — vecchie e  giovani forze intellettuali di varia origine operanti in campi  diversi, filosofico, scientifico, economico ecc. È significativo  che ancora nel 1935, quando le revisioni interne e gli attac-  chi contro l’attualismo si erano in gran parte già consumati,  un rapporto anonimo inviato a Mussolini presentasse Gen-  tile come pericoloso inquisitore nel campo dell’organizza-  zione culturale:    Si va determinando nel campo dell’Editotia Italiana, special-  mente attraverso le sovvenzioni dell’I.R.I., un accaparramento  sempre più sensibile di case editrici da parte del Senatore Giovanni  Gentile.   Egli già dirige direttamente o indirettamente [...] le Case Edi-  trici Lemonnier e Sansoni: le quali, a loro volta, dispongono delle  case dell'Arte della Stampa e di Ariani in Firenze. Dirige l’Enci-  clopedia Italiana e controlla, perciò, un esercito di collaboratori che  debbono per forza di cose obbedirgli. Sono note le vicende delle  case Treves e Tumminelli in cui Gentile era grande parte. Sano  noti i rapporti con le altre case attraverso i contatti con allievi o  amici, quali Carlini e Codignola.   Può dirsi quindi che oggi è molto difficile fare uscire un libro  di cultura politica e filosofica in Italia senza il visto di questo  nuovo Sant’Ufficio di nuovo tipo.   Si dice, inoltre, che presto la casa Bemporad sarà diretta dal  Gentile, venendo cosî ad aumentare il numero delle case affiancate  o asservite.   Occorrerebbe vedere, con opportuni e delicati approcci, se non  fosse il caso di studiare il modo di immettere nella vita della cul-  tura fascista la Casa Laterza di Bari che per la sua reputazione  potrebbe, una volta immessa nella vita del Regime, rappresentate  un certo contrappeso all’attuale disquilibrdio di forze editoriali 74.    76 Rapporto anonimo pervenuto a Mussolini il 3 aprile 1935, in  ACS, Segreteria particolare del Duce, Carteggio riservato, b. 1, sottofasc.  2; per l’accusa a Gentile di « estendere la sua egemonia culturale » attra-  verso l’E.I. cfr. anche ibidem, b. 49, sottofasc. 1, rapporto del 9 dicem-  bre 1932. « Gentile ha formato, più del Croce, una scuola; ed ha disce-  poli entusiastici e fedeli, forse anche troppo; ed appare un animatore e    36    L'Enciclopedia italiana    Documento di parte, certo, ma che — accanto ai limiti  della opposizione crociana e alla spregiudicatezza ideologica  del regime pronto a strumentalizzarla — indica solo per  difetto i canali differenziati di diffusione culturale di Gentile  e dei gentiliani.   Nei primi anni del fascismo l’opera di Gentile fu fun-  zionale alla necessità politica del regime di unificare e orga-  nizzare le disperse forze della borghesia liberale. Soprat-  tutto dopo l’unificazione col nazionalismo — pit attento ai  problemi di politica culturale proprio perché da una tradi-  zione culturale nazionale voleva trarre i motivi della sua  collocazione nella storia italiana —, il fascismo accompagnò  l’azione repressiva dello squadrismo con quell’opera di  graduale allargamento del consenso — fatta di concessioni  ai gruppi capitalistici e alle forze culturalmente egemoni —  che gli permetterà di schiacciare le opposizioni; valido stru-  mento fu dapprima la gentiliana riforma della scuola —  con Fedele resa pDIS conforme alle istanze della borghesia  e dei cattolici” —, poi, superata la crisi Matteotti e instau-  rata la dittatura, l’opera di appropriazione di correnti cultu-  rali diverse assegnata a Gentile, parallela a quella svolta  contemporaneamente sul piano politico verso i fiancheg-  giatori, e solo dopo il 1929 sostituita dalla ricerca dell’ap-  poggio dei cattolici.   Non è un caso che l’Istituto Giovanni Treccani per la  pubblicazione dell’Enciclopedia Italiana fosse costituito il  18 febbraio 1925; all’indomani del 3 gennaio che, salutato  con entusiasmo da Gentile ”, aveva segnato la fine dei go-  verni di coalizione; appena il 12 febbraio Farinacci era  diventato segretario del Pnf, carica che terrà fino al marzo    direttore spirituale. Sostiene le sorti della sua scuola e dei suoi scolari con  la fede di un uomo di parte », ricordava ancora nel 1930 Prezzolini (La  cultura italiana, cit., p. 122).   © Cfr. D. Bertoni Jovine, op. cit., p. 297, e T. Tomasi, Ideglismo e.  fascismo nella scuola italiana, Firenze, È Nuova Italia, 1969, p. 87.   78 Gentile a Mussolini, 4 gennaio 1925: « Eccellente il discorso di  ieri. Il paese tutto si sveglia e torna a Lei... La prego poi di ricordarsi che  in questi giorni bisognerebbe dar forza ai Quindici, emanando il Decreto  Reale » (copia in ACS, Segreteria particolare del Duce, Carteggio riser-  vato, b. 1, sottofasc. 2).    37    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    1926. Sebbene l’opera si assicurasse l’alto patronato del  re” e fino al ’29 le dichiarazioni ufficiali di Treccani e Gen-  tile non facessero quasi parola del fascismo, la sua data di  nascita indica il peso determinante che nella sua realizza-  zione ebbe l’avvento della dittatura. La segreteria Farinacci  sembrerebbe contrastare con lo spirito informatore dell’  impresa; in realtà la linea estremista del fascismo, pur pole-  mizzando — come vedremo — con l’iniziativa gentiliana,  non riusci a condizionarla: anche in campo culturale le  « due anime » del fascismo — « tradizionale » e « rivolu-  zionaria » — trovarono ciascuna un proprio spazio e una  propria funzione. Che la nascita dell’Enciclopedia e l’indi-  rizzo da essa rappresentato non fossero casuali, frutto  esclusivo di un’iniziativa individuale, ma rientrassero in  un più vasto programma di politica culturale del regime,  è dimostrato anche dal sorgere accanto ad essa — proprio  nel 1925-26 — di numerosi altri istituti di alta cultura,  quali, nel ’25, l’Istituto di studi romani di Galassi Paluzzi,  l’Istituto nazionale fascista di cultura « erede » material-  mente della Leonardo di Formiggini o delle varie Università  popolari e affidato a Gentile, la Scuola di storia moderna e  contemporanea di Volpe e, nel ’26, l'Accademia d’Italia ®°;  tutte istituzioni rivolte, con programmi e su piani diversi, a  promuovere studi e ricerche ispirati sempre al primato della  civiltà romana e italiana nel mondo, con una funzione inter-  na analoga a quella svolta, all’estero, da appositi organismi  culturali che, in modo graduale e illuminato, miravano a    orientare favorevolmente verso il fascismo l’opinione pub-  blica ®,    79 Come appare dal Manifesto al pubblico del giugno ’25 (in G. Trec-  cani, Enciclopedia Italiana Treccani. Idea esecuzione compimento, cit., p.  39).   80 Cfr. Ministero dell'Educazione Nazionale, Accademie e Istituti di  cultura. Cenni storici, Roma, Palombi, 1938. Una prima ricerca è quella  sul CNR di R. Maiocchi, Scienza, industria e fascismo (1923-1939), in  « Società e storia », I (1978), pp. 281-315. Sulla figura di Volpe cfr. I.  Cervelli, Gioacchino Volpe, Napoli, Guida, 1977, e, per qualche cenno  sulla sua vasta opera di organizzazione degli studi storici nel periodo  fascista, ancora da studiare, G. Turi, Il problema Voipe, in « Studi sto-  rici », XIX (1978), pp. 183-186.   B1 Cfr. D. Frezza Bicocchi, Propaganda fascista e comunità italiane in    38    L’Enciclopedia italiana    4. Lo « specchio fedele e completo della cultura scientifica  italiana »    Il governo facilitò economicamente la realizzazione  della Enciclopedia, intervenendo nel 1928 — su sollecita-  zione di Gentile — per l’accordo editoriale fra l’Istituto  Treccani e il Touring Club Italiano che avrebbe dovuto  fornire il corredo cartografico dell’opera, e costituendo nel  1933, come vedremo, l’ente nazionale Istituto dell’Enci-  clopedia Italiana; e sempre il regime condizionò diretta-  mente l’impresa, garantendone nel ’25 il controllo ecclesia-  stico, e utilizzandola poi come canale di diffusione della  sua ideologia, come nella voce Fascismzo del *32. Ma nel  1925-26 l’Enciclopedia si presentò come opera « nazio-  nale », testimonianza di un primato italiano da rivendicare  di fronte agli altri paesi, nel senso già indicato da Martini;  solo nel ’29, con l’uscita del primo volume e in una diversa  ‘situazione politica, il suo carattere « nazionale » sarà pre-  cisato con l’istituzione del rapporto di continuità risorgi-  mento-grande guerra-fascismo *.    U.S.A.: la Casa Italiana della Columbia University, in « Studi storici »,  XI (1970), pp. 661-697.   82 Nel 1929 la prefazione al vol. I dell’E.I. ricorderà come « il mag-  gior tentativo di una enciclopedia italiana fosse stato fatto in Italia negli  anni forieri del Quarantotto, nel più vivo fermento della ridesta coscienza  nazionale del popolo italiano », come «il disegno e il proposito della  presente Enciclopedia siano maturati dopo la grande guerra in cui gli  Italiani, per la prima volta dacché raccolti in unità nazionale, fecero espe-  rimento di tutte le loro forze materiali e morali, e superarono la prova  con una grande vittoria », e che « il clima che ha reso possibile un'opera  come questa [...] è il nuovo spirito esploso con l'avvento del Fascismo »  (E.I., vol. I, p. XII). E Treccani nel 1931: « Ad ogni movimento nazio-  nale concluso, si è sempre sentito il bisogno di questo esame delle proprie  possibilità culturali; anche Emanuele Filiberto, restaurato lo Stato, ideò  un’Enciclopedia col nome di Teatro Universale, rimasta però allo stato  di progetto; ed altrettanto fecero gli uomini del nostro Risorgimento, che  ci diedero l’Enciclopedia Popolare Pomba, chiamata l’Enciclopedia del Ri-  sorgimento, opera lodevole. Il grandioso movimento spirituale prodotto  dalla guerra vittoriosa e dal Fascismo, non poteva rimanere sterile in  questo campo » (G. Treccani, op. cit., p. 63). Negli stessi termini U.  Bosco, Enciclopedia Italiana, in Panorami di realizzazioni del fascismo,  VIII. Gli Istituti del Regime, Roma, Panorami di realizzazioni del fasci  smo, 1941, p. 319. Già il Marifesto del giugno ’25 ricordava, oltre al  clima della vittoria, il tentativo « fatto in Torino negli anni più maturi    39    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    L’insistenza sul significato « nazionale »  dell’impresa  — di cui solo pochi colsero gli equivoci, e il pericolo di una  riduzione nazionalistica della cultura * — doveva dissolvere  presso gli incerti o gli oppositori del fascismo o di Gentile  il dubbio che l’opera fosse politicamente e culturalmente  di parte: tutte le dichiarazioni di Treccani e Gentile —  rispettivamente presidente dell’Istituto e direttore scien-  tifico dell’Enciclopedia — sono ispirate a questa preoccu-  pazione. L’atto costitutivo dell’Istituto auspicava che l’o-  pera fosse « scritta con la collaborazione di quanti sono in  Italia competenti in ogni ordine di scienze, lettere ed arti »,  .e « governata da un alto concetto di quello che è stato ed  è il carattere ed il valore della civiltà italiana nel mondo,  nonché dal desiderio e proposito che tutte le forze intel-  lettuali della Nazione siano, per questo lavoro che interessa  tutta la Nazione, messe a profitto », in modo che riuscisse  « opera, cosî dal rispetto scientifico, come da quello nazio-  nale, degna delle più nobili tradizioni del Popolo Italiano ».  L’art. 4 si preoccupava di specificare che « l’Istituto s’in-  spira bensi alla coscienza del glorioso passato del Popolo  Italiano e degli alti destini a cui esso può e deve aspirare;  ma è apolitico nel senso assoluto della parola » *. Anche il    del Risorgimento nazionale, quando tutto lo spirito italiano senti pi  urgente il bisogno del suo rinnovamento e di una vita più intensa » (in  G. Treccani, Enciclopedia Italiana Treccani. Idea esecuzione compimento,  «cit., p. 39). Sulla Nuova enciclopedia popolare del Pomba cfr. E. Bottasso,  Le edizioni Pomba 1792-1849, Torino, Biblioteca civica, 1969, pp. 242-252.   83 Cosf l’articolo Nel mondo della coltura borghese. Una Enciclopedia,  in « L'Unità », 20 maggio 1925 (lo pseudonimo dell’autore non è comple-  tamente leggibile): «Gli uomini della dominante borghesia italiana...  vorrebbero adesso nazionalizzare la internazionale della cultura », facendo  «un grande monumento di dottrina indigena », mentre «una enciclo-«pedia, per servire degnamente alla scienza, deve essere opera vastissima  «di cultura internazionale, enorme massa di parole e di voci che vanno  distribuite fra quanti uomini dotti, nel mondo, possono più sicuramente  «parlare su ciascuna di esse ». « Se si farà, sarà — pur troppo — un docu-  mento di fragorose chiacchiere e di malfatte compilazioni », concludeva  l’articolista esprimendo il dubbio sulla capacità del fascismo di realiz-  zare «un’opera di tanta mole e di cosî universale sapete ».   84 In G. Treccani, Exciclopedia Italiana Treccani. Idea esecuzione  compimento, cit., pp. 21-22. Sempre il 18 febbraio 1925 Treccani dichiarò:  « La politica qui non c'entra, né deve entrarci: è il caso anzi di dire che   . se la politica può dividere gli uomini, la scienza li deve tutti unire »  (ibidem, p. 30): parole che ricordano quelle di Gentile nell’articolo Contro    40    L’Enciclopedia italiana’    Manifesto al pubblico del 26 giugno ’25 dichiarava l’im-  parzialità scientifica e politica dell’Enciclopedia, quasi con'  gli stessi termini già usati da Formiggini:    A questa ENCICLOPEDIA che dovrà essere specchio fedele e  completo della cultura scientifica italiana, saranno chiamati a  collaborare tutti gli studiosi d’Italia; e dove sia opportuno non  si tralascerà di invitare a fraterna collaborazione gli scrittori d’altri  paesi più particolarmente versati, com’è naturale, nelle materie ri-  guardanti le rispettive loro nazioni. Ma di quanti sono in Italia che  abbiano in una disciplina e in uno speciale argomento una loro  competenza, l’Istituto confida che nessuno vorrà negare il proprio  contributo e il proprio nome a questo lavoro, che vuol essere opera  nazionale superiore a tutti i partiti politici come a tutte le scuole,  e potrà riuscire, per la sua complessità, la maggior prova intellettuale  dell’Italia nuova 8.    Le dichiarazioni di imparzialità convinsero Formiggini  — che giudicava l’attualismo ormai privo di aggressività  per aver esaurito la sua funzione * —, non chi vedeva,    l’agnosticismo della scuola, del 10 maggio 1925: «la politica divide, e  la scuola deve unire » (in Che cosa è il fascismo, cit., p. 164).   85 In G. Treccani, Enciclopedia Italiana Treccani. Idea esecuzione  compimento, cit., p. 40. Cosî Volpe cercherà nel 1937 di sostenere l’obiet-  tività dell’E.I.: «Se per Enciclopedia fascista si intende un’opera in cui  ogni articolo, pagina, rigo sia coordinato e subordinato ad una determinata  veduta filosofica e politica, questa nostra non è l’Enciclopedia del Fa-  scismo: non è, come la Enciclopedia francese, la Enciclopedia dell’illu-  minismo. La Enciclopedia italiana neppure se lo è proposto. Né, fra gli  anni 1927-37, era forse possibile proporselo. Ma l’Enciclopedia presenta  un quadro relativamente perfetto della vita del mondo, della scienza, della  politica, dell’arte. E questo ha il suo valore per il Fascismo. L’Erciclo-  pedia italiana, per quel tanto che può avere una veduta storico-filosofica,  storico-politica, ha una veduta che perfettamente ingrana col Fascismo: la  storia come movimento e divenire, la vita come lotta e, insieme, solida  rietà di forze... L’Enciclopedia è un monumento all’Italia, in piena rispon-  denza al pensiero e all'anima del Fascismo » (L’« Enciclopedia italiana »  è compiuta, in « Nuova Antologia », 1 novembre 1937, p. 17: articolo  rifuso, accentuando l’apoliticità dell’E.I., col titolo Giovanni Gentile e  l’« Enciclopedia Italiana », in Giovanni Gentile. La vita e il pensiero,  Firenze, Sansoni, 1948, vol. I, pp. 335-362).   8 « Ciò che il senatore Treccani e il senatore Gentile hanno detto  circa gli spiriti che dovranno animare la grande impresa, pienamente mi  soddisfa: i nomi dei collaboratori scelti sono gli stessi che io avrei scelto...  Il Gentile d’oggi ha fatta sua ... la concezione formigginiana che una enci-  clopedia nazionale deve essere il quadro completo dello spirito della  nazione (cosî come dovrebbe essere la scuola) e non la espressione di una  particolare tendenza » (« L'Italia che scrive », VIII (1925), p. 66).    41    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    al contrario, aumentare il pericolo di un’egemonia genti-  liana. Adriano Tilgher, che sulle pagine de « Il Mondo »  svolgeva in quei mesi una serrata polemica antiattualista,  mise in guardia — senza tuttavia tener conto del com-  plesso gioco politico e culturale condotto dal fascismo —  contro l’« imperialismo intellettuale » di Gentile: « spi-  rito chiuso, violento e settario, p ontificale e teologale »,  tabula rasa all’infuori di argomenti rinascimentali e risor-  gimentali, cui avrebbe preferito, alla direzione dell’opera,  Croce, o Chiappelli, Farinelli, Ojetti.    L’Enciclopedia che uscirà dalle mani del senatore Gentile non  sarà una Enciclopedia, ma un Index librorum et virorum ad majorem  Actus Puri gloriam... Il senatore Gentile specula un po’ troppo  sulla vigliaccheria intellettuale del nostro bel paese se crede che  gli si lascerà compiere tranquillamente una simile impresa di annes-  sione intellettuale... Se no, se [l'Enciclopedia] dovesse rimanere  affidata al Gentile, credo che non troverà collaboratori disposti ad  aiutarlo nella sua opera d’imperialismo intellettuale. E già so che  più d’uno, richiesto, ha rifiutato di collaborare ®?.    Le previsioni di Tilgher — di un’energica reazione con-  tro l'impresa gentiliana da parte di « tutte le correnti  intellettuali, gli indirizzi, i movimenti, le scuole, gli scrit-  tori massacrati dalla ignoranza e dalla faziosità settaria  del Gentile » — non si realizzarono. A critiche del genere  — limitate a una polemica culturale scadente spesso sul  piano personale — Treccani poté facilmente opporre la  diversità di indirizzi rappresentata dai direttori di sezione  dell’Enciclopedia; in occasione della loro prima riunione,  il 4 aprile ’25, il presidente dell’Istituto si preoccupò di  confutare attacchi esterni e diffidenze interne sull’opera  ritenuta « dogmatica, settaria, faziosa », asserendo che  Gentile    è uomo di partito e di idee sf, ma è uomo leale e di fede. Tra  lui e l’Istituto sono poi stati stabiliti patti ben chiari ed egli ha già  dato prova, nella indicazione degli uomini, di aver tenuto fede a  tali patti: basta uno sguardo alle persone qui presenti per convin-  cersi dell’infondatezza di ogni accusa.    8 A. Tilgher, Giovanni Gentile e l'enciclopedia italiana, in «Il  Mondo », 25 marzo 1925.    42    L’Enciclopedia italiana    Del resto, Vi assicuro che io, che ho dato il mio nome a quest’  impresa, non permetterei mai ad alcuno di venir meno al concetto  fondamentale, che molto chiaramente è espresso nell’atto costitutivo.  Ma io ho fede nel Sen. Gentile: lo stesso suo carattere energico è  garanzia di successo; la campagna ingiusta, iniziata contro di lui  a proposito dell’Enciclopedia, cadrà non appena pubblicheremo i  nomi dei collaboratori, i quali, italiani di sicura fede, rappresentano  tutte le idee, tutte le scuole, tutte le tendenze [...] Tutti gli inter-  pellati finora hanno aderito con parole confortanti e lusinghiere; se  qualcuno fosse tentennante, bisogna illuminarlo, persuaderlo dell’  obiettività del lavoro e convincerlo a dare il suo nome, sia pure  per una sola voce.   Nessun nome di insigne studioso italiano deve mancare nell’En-  ciclopedia, anche perché, dato il duplice scopo che io miro a rag-  giungere — Enciclopedia come opera di valorizzazione della cultura  nazionale e Fondazione per l'incremento degli studi con gli even-  tuali profitti — non sarebbe simpatica la voluta assenza da parte di  qualcuno *,    A Bologna si era appena chiuso, il 30 marzo, il con-  vegno sulle istituzioni fasciste di cultura in cui Gentile  aveva presentato il fascismo come erede di tutta la storia  italiana, rivolgendo un appello all’unità e alla conciliazione  che avrebbe dovuto rafforzare, sul piano del consenso, la  drastica conclusione della crisi Matteotti. Anche l’Enciclo-  pedia viene indicata con insistenza come opera « nazio-  nale », in cui ogni « italiano di sicura fede » avrebbe potuto  conservare le sue opinioni culturali e politiche. Alcuni  degli avversari del regime riconobbero in quei mesi il suo  sforzo, ma anche la difficoltà, di acquisire l’appoggio degli  intellettuali: cosî l’« Avanti! », per il quale, anche se « il  mondo accademico italiano si è fascistizzato molto presto »,  « antifascista è la cultura, la vera cultura, quella disinte-  ressata, quella cioè che ha sempre odiato le accademie, le  chiacchiere, la rettorica, gli alalà » ®. « L'Unità » invece,  ritenendo che anche ideologicamente « gli intendimenti fa-    8 G. Treccani, Enciclopedia Italiana Treccani. Idea esecuzione com-  pimento, cit., p. 36.   Da Ireneo ad Arpinati..., in « Avanti! », 2 aprile 1925, a proposito  del discorso bolognese di Gentile del 30 marzo; cfr. anche Gl’intellettuali  e Farinacci, in « Avanti! », 23 aprile 1925: «Fra il manifesto degli  intellettuali del fascismo — leggi Gentile — e i discorsi di Farinacci,  bisogna confessare che c’è pi intelligenza nei discorsi di Farinacci ».    43    «Il fascismo e il consenso degli intellettuali    scisti di fascistizzare gli altri partiti socialdemocratici pos-  ‘sono col tempo realizzarsi » — come affermava esaminando  il Manifesto degli intellettuali del fascismo” —, coglieva  proprio nell’Enciclopedia la capacità del regime di ottenere  consensi fra gli intellettuali: « conosciamo bene quel che  sia la spregiudicatezza scientifica dei sapienti del fascismo  e quel che sia l’antifascismo della gente accademica [...]  In tempi calamitosi per le pubbliche libertà uomini di  scienza hanno talora opposto le loro proteste, gravi e sen-  sibili, se anche rare o taciturne. Oggi non abbiamo di questi  esempi in Italia, fra tanti uomini di dottrina che pure fanno  professione di indipendenza o di avversione ai poteri domi-  nanti » ”"; dove però, più che l'individuazione della forza  del fascismo — che stava proprio allora organizzandosi co-  me regime reazionario di massa —, vi è quella polemica  contro gli aventiniani, che porterà ancora a negare ogni  differenza fra le varie componenti della borghesia ”.  L’imparzialità che l’Enciclopedia tendeva ad accreditare  sotto l’etichetta « nazionale » era comunque strettamente  condizionata dalla situazione reale del paese, e si traduceva  in una « passività » di stampo prezzoliniano *: nello    % Sintomi di decadenza. Un manifesto degli intellettuali fascisti, in  « L'Unità », 21 aprile 1925.   . 91 Nel mondo della coltura borghese. Una Enciclopedia, in « L'Unità »,  20 maggio 1925.   Divagazioni sull'ideologia del fascismo, in « L'Unità », 29 aprile  1926, a proposito della polemica Gentile-Interlandi sull’E.I., che esami-  neremo: «Evidentemente differenze fra i gruppi borghesi non esistono  nelle idee fondamentali, ma nel modo di fare. Il fascismo ha in tutti i  modi l’energia di attrarre l’attuale borghesia: ecco i confini “tecnici” fra  “pensiero” ed “azione” ».   93 Nell’organo della gentiliana Fondazione Leonardo, Prezzolini an-  nunciò l’E.I. come «l’esame di stato della coltura italiana » e «lo sforzo  dell’Italia nuova, in paragone degli altri paesi. Il programma è ottimo.  Lo sforzo è il più nazionale che si sia tentato dopo l'unità italiana, ma  l’Enciclopedia non sarà nazionalistica »; si sarebbero superate le enciclo-  pedie straniere «se la scelta dei collaboratori, com'è stata quella dei  direttori delle singole sezioni, sarà severa e non dipendente da criteri  politici o di meno che serena volontà scientifica. Sarà un altro dei meriti  di Giovanni Gentile verso la cultura italiana » (« Leonardo », I (1925),  p. 88, redazionale); e, pubblicando le Avvertenze ai collaboratori dell’E.I.:  « meglio di ogni altro documento, varranno a fare scompatire nel pub-  blico ogni ombra di dubbio sul valore scientifico che l’Enciclopedia avrà,  e a dissipare le voci malevoli che pretendevano l’Enciclopedia fosse    44    L’Enciclopedia italiana    « specchio fedele e completo della cultura scientifica italia-  na » poteva riflettersi solo, nel '25 ma ancor più dopo il  ’26, la cultura e l'ideologia del blocco borghese chiamato a  collaborare col regime nel momento in cui questo schiac-  ciava le opposizioni. Era significativa, del resto, la presen-  tazione « ufficiale » che dell’Enciclopedia dava nel marzo  1925 la rivista di Mussolini, « Gerarchia »: dopo aver af-  fermato la necessità di « un’affermazione di intellettualità  collettiva che rivelasse al mondo ciò che l’Italia era nel  dominio del sapere universale », e che « in Italia non pos-  sediamo ancora la nozione di quel sapere nazionale che in-  vece posseggono e da secoli altre nazioni », l’autore dell’ar-  ticolo auspicava che l’Enciclopedia, « libro di un popolo »,  fosse « libro politico, ma soprattutto libro di conquista »,  espressione dell’« intelligenza dominante » della collettività;  essendo « giunta l’ora che il mondo la pensi anche all’ita-  liana », compito dell’opera avrebbe dovuto essere quello di  « chiamare a raccolta tutto quanto l’anima italiana ha in  questo momento di lume e di ardimento e farlo collabo-  rare a questa grande azione che se ben mossa può segnare  il primo passo verso quel dominio intellettuale del mondo  che noi da tanti secoli abbiamo perduto e può segnare,  prima ancora, il definitivo sfrancamento italiano dalla col-  tura straniera » *.    5. La « politica di conciliazione » di Gentile    La componente tradizionalista del fascismo, rappre-  sentata in primo luogo dai nazionalisti, cercò — come  ricorderà Bottai che della necessità di conferire al regime  una sua dignità culturale fu il principale sostenitore dalle  pagine di « Critica fascista » e poi di « Primato » — di    opera di parte, concepita con angusti criteri di scuola » (ibidem, pp. 161-  162). Nella seconda ediz. de La cultura italiana si limiterà a dire che  V’E.I. « dovrà rappresentare la capacità della coltura italiana del dopo-  guerra » (p. 210).   % L. Venturini, La nuova e mirabile fatica italiana. L'Enciclopedia  Nazionale, in « Gerarchia », IV (1925), pp. 172-174, 177.    45    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    costruirsi una sua Weltanschauung che fosse, da un lato,  frutto della mediazione e del superamento delle diverse  correnti di pensiero dalle quali o contro le quali il movi-  mento fascista era sorto — «non rollandianamente 4%  dessus de la mélée, ma con un suo impegno autonomo  d’arbitro tra due mondi in lotta » —, dall’altro, valorizza-  zione del primato storico-culturale italiano ®. Per questo  era necessario, inizialmente, fare appello a tutti quanti  erano disposti a collaborare con un regime che cercava di  mostrarsi erede di una tradizione « nazionale »: si pensi  alla presentazione di Croce « precursore del fascismo », o  ai tentativi, non ultimo quello dell’Enciclopedia, di acca-  parrarsene l'appoggio *. In quest'opera di assorbimento  di intellettuali incerti, fiancheggiatori od oppositori, ana-  loga a quella attuata in campo politico dagli ex nazionalisti  Rocco e Federzoni, artefici della simbiosi organica del Pnf  col vecchio Stato monarchico, il regime « si rivesti piuttosto  dei panni del moderatore che dell’eversore » — per usare  le parole di Bottai riferite a Mussolini —, « evitando i  vuoti paurosi » ”, e nel 1923-26 poté quindi trovare uno  strumento adatto in Gentile, la cui concezione dello Stato  e della storia italiani ne sottolineavano — con motivazioni  antitetiche a quelle che egli riteneva il naturalismo determi-  nistico, conservatore e illiberale dei nazionalisti * — alcuni  presunti elementi di continuità e sviluppo che facevano  del fascismo il « vero liberalismo ».    95 G. Bottai, Vent'anni e un giorno (24 luglio 1943), Milano, Gar-  zanti, 1949, p. 80. Di Bottai è da vedere tutta l’antologia di Scritti, Bo-  logna, Cappelli, 1965 (dove è riportata, ad es., la conferenza del 27 marzo  1924 nella quale notò come «attraverso il Nazionalismo si avviasse il  Fascismo a compiere il primo passo della sua rivoluzione intellettuale,  inserendosi in una tradizione politica, che potrà essere discussa, ma non  negata »: p. 55). Di uno «sforzo intellettualistico di tipo e di gusto  crociano » da parte del gruppo di Bottai parla R. Colapietra, Benedetto  Croce e la politica italiana, Bari-Santo Spirito, Edizioni del Centro librario,  1970, vol. II, p. 548. Sul « revisionismo » di Bottai, ma con una inaccet-  tabile sopravvalutazione del suo ruolo «critico » all’interno del regime,  cfr. G.B. Guerri, Giuseppe Bottai un fascista critico, Milano, Feltrinelli,  1976, e A.J. De Grand, Bottai e la cultura fascista, Bari, Laterza, 1978.   % Cfr. R. Colapietra, op. cit., passim.    G. Bottai, Vent'anni, cit., pp. 20-21.   8 G. Gentile, Origini e dottrina del fascismo, cit., pp. 44-47.    46    L’Enciclopedia italiana    Nei numerosi interventi compiuti da Gentile nella prima  metà del 1925 sui rapporti tra fascismo e cultura non vi  sono né le contraddizioni che vi ravvisò Formiggini”, né  la difesa dell’autonomia della cultura vista da Harris nella  gentiliana « politica di conciliazione » !: comune a tutti è  la necessità — già sostenuta a proposito del problema  scolastico !" — di organizzare e legare al « nuovo ordine »,  indirizzandole se possibile verso esiti attualisti, tutte le  forze culturali del paese, con la consapevolezza che ciò  è possibile solo con la forza politica del fascismo. A Firenze,  di fronte a un uditorio politicamente composito, Gentile  sostenne l’8 marzo la possibilità che ognuno intendesse  il fascismo a suo modo: « L’unità risulta da questa molte-  plicità, da questa infinità di temperamenti e psicologie e  sistemi di cultura e concezioni della vita. La forza del  fascismo deriva da questa ricchissima inesauribile fonte  d’ispirazioni e connessi bisogni ed energie spirituali. Ed  esso si essiccherebbe e inaridirebbe nella monotonia mec-  canica delle formule vuote se potesse definirsi e restrin-  gersi negli articoli di un credo determinato » !”. Il giorno  dopo, parlando all’Università fascista di Bologna di pros-  sima inaugurazione, ribadî il suo concetto di libertà che si  attua nello Stato come negazione dell’individualismo egoi-  stico, e di fascismo come « ultima e più matura forma del  nuovo concetto della libertà, figlia del secolo XIX » !©. Un  appello ai liberali e uno ai fascisti, per far tutti partecipi di  un unico processo storico sfociante nello Stato etico, rite-  nuto « la forma suprema e la unità cosciente e possente  di tutte le forze nazionali nel loro maggiore sviluppo suc-  cessivo », che « deve rampollare dalla stessa realtà e perciò    99 « Gentile ha contraddetto a Roma ciò che aveva detto a Bologna,  perché, affrontando qui un grande problema culturale, quello della ÉEnci-  clopedia, ha dichiarato che intende di affratellare, formigginianamente,  nella grande impresa tutti i competenti senza distinzione di scuole e di  partiti » (« L'Italia che scrive », VIII (1925), p. 106).   100 ‘H. S. Harris, op. cit., p. 265.   101 Cfr. ad es. G. Gentile, Scritti pedagogici, III. La riforma della  scuola in Italia, cit.   102 Che cosa è il fascismo, in Che cosa è il fascismo, cit., p. 10.   103 Libertà e liberalismo, cit., p. 91.    47    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    aderirvi; e da questa aderenza derivare la sua forza e la sua  potenza » !*: sebbene criticato da Treccani per le pubbliche  dichiarazioni di fascismo che avrebbero potuto pregiu-  dicare l’impresa cui si erano accinti !5, Gentile svolgeva  — anche se in maniera più scoperta riguardo al fine —  le stesse idee poste a base dell’Enciclopedia.   Cosî il 30 marzo, nel discorso di chiusura del conve-  gno per le istituzioni fasciste di cultura — col quale Croce  motivò il suo rifiuto di collaborare all’Enciclopedia —  Gentile obiettò a Panunzio che « il Partito fascista ha un  suo vasto contenuto ideale, senza bisogno di definire la sua  dottrina e di fissare il suo sillabo », e sostenne la necessità  di immettere il fascismo (critico degli intellettuali che  stanno « alla finestra ») nella cultura, senza bisogno di  promuovere una « cultura del fascismo », poiché « il no-    x    stro partito non è setta, né chiesuola. Il nostro partito  vuol essere ... il popolo italiano »; nell’attesa, tanta parte  del passato doveva essere rispettata e utilizzata:    oggi nelle università dello Stato insegnano tanti vecchi uomini, a cui  molto la nazione deve: tanti, che formarono la loro mente e l’animo  loro quando nel cuore degl’italiani, degl’italiani giovani e della  guerra, non s'era accesa la scintilla della nuova fede; e non c’inten-  dono, e noi guardiamo ad essi con sospetto, ed essi verso di noi con  un sorriso sulle labbra, con l’anima chiusa. Ebbene, questa è l’uni-  versità italiana in gran parte: questa è la vecchia Italia, che noi  non possiamo cancellare; che anzi dobbiamo pur rispettare 1°.    104 Che cosa è il fascismo, cit., p. 37.   05 Treccani a Tumminelli, 10 marzo 1925: «Non condivido il Suo  ottimismo. La macchina v4 scossa affinché funzioni rapidamente. Vengo a  sapere che non una delle lettere ai collaboratori è partita. Ma vi è di più:  Ojetti ha scritto più volte a Gentile chiedendo schiarimenti e non ha mai  avuto nemmeno un rigo di risposta. Ma che razza di modo di fare è  questo? ... Le devo dire il vero che a me spiacciono le conferenze che  Gentile va a tenere sul fascismo nelle varie città: l'enciclopedia non è, e  non deve essere, di marca fascista... Mi sbaglierò, ma con Gentile non  incominciamo bene: egli non si rende conto dell’enorme sacrificio e rischio  mio e prende la cosa alla leggera. Dovrebbe aver capito, indipendente-  mente dal contratto che ho firmato, che io non mi sono cacciato nell’im-  presa per il gusto di buttar via quattrini » (ACS, Segreteria particolare  del Duce, Carteggio riservato, b. 49, sottofasc. 1).   106 Il fascismo nella cultura, in Che cosa è il fascismo, cit., pp. 95, 99,  102, 104.    48    L’Enciclopedia italiana    Nessuna concessione alla « barbarie » dell’estremismo  fascista. Anche il Manifesto degli intellettuali del fasci-  smo, frutto di quel convegno e pubblicato il 21 aprile, ebbe  valore di documento politico anche perché fu, da parte di  Gentile, « un ennesimo tentativo di aggancio all’idealismo,  a tutto l’idealismo », compreso quello crociano, come ha  osservato Colapietra !”, e presentò il fascismo come « ricon-  sacrazione delle tradizioni e degli istituti che sono la co-  stanza della civiltà, nel flusso e nella perennità delle tra-  dizioni » !*.   Anche in seguito Gentile riaffermerà la sua concezione  dei rapporti fascismo-cultura. Nel discorso tenuto in Cam-  pidoglio il 19 dicembre 1925 per l’inaugurazione dell’Isti-  tuto nazionale fascista di cultura, in cui ricordò ai liberali  la ben più drastica opera riformatrice attuata dal liberale  De Sanctis nell’Università di Napoli (che due anni dopo  sarà documentata da Luigi Russo), riprese e sviluppò motivi  già affermati il 30 marzo ’25 '”, invitando a non discono-  scere « una certa cultura strumentale, a norma della quale  due più due farà sempre quattro, sia che si sommino ca-  rezze sia che si sommino bastonate. E di questa cultura stru-  mentale, che è mero sapere, organizzazione di cognizioni  bene accertate, critica, erudizione, dottrina, non può essere  il fascista a volersi disfare » !, Concetti ripetuti il 16 marzo    10 R. Colapietra; op. cif., vol. II, p. 557.   108 In E.R. Papa, Storia di due manifesti. Il fascismo e la cultura  italiana, Milano, Feltrinelli, 1958, p. 64.   109 « Possiamo spogliarci di certe passioni della prima ora, e ricono-  scere pertanto il valore nazionale cosi di certe forme di cultura, che a  noi riescono false in quanto insufficienti, come di tanti uomini che non  ebbero occhi né cuore per vedere in alto il segno a cui avrebbero dovuto  guardare e trarre la gioventiî italiana, ma lavorarono pur seriamente, one-  stamente, a recare in campo quelle pietre, con cui la giovane Italia ha  cominciato a costruire il suo grande edifizio. Noi a quelle pietre — i  non dirlo? — non possiamo, non vogliamo rinunziare »; ma il senso di  questa apertura che Gentile raccomandava era chiarito più avanti: « Tran-  sigenza che diverrà ogni giorno più facile, via via che, adempiuto il  secondo termine, apparirà sempre più opportuno e più giusto il primo  termine del grande monito romano: parcere subiectis et debellare superbos.  Poiché non è lontano, se io non m’inganno, il giorno, in cui tutta l’Italia  sarà fascista...» (Discorso inaugurale dell'Istituto Nazionale Fascista di  cultura, in Fascismo e cultura, cit., pp. 60-62).   10 Ibidem, p. 60.    49    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    1926 al Senato a proposito dell’Accademia d’Italia nata a  « promuovere e coordinare il movimento intellettuale ita-  liano » (« nessuna dittatura », assicurò !', come farà Mus-  solini tre anni dopo, quando l'Accademia iniziò i suoi  lavori !); ad essi Gentile rimarrà sempre fedele, indicando  come forza del fascismo fosse la sua capacità di assorbire  e superare la tradizione !5: lo stesso criterio seguito dalla  Commissione dei Diciotto per lo studio delle riforme costi-  tuzionali, da lui presieduta !‘.   « Rispettare », utilizzare e organizzare intellettuali di  vario orientamento politico e culturale era più difficile che  inquadrare nell’apparato amministrativo dello Stato fascista  la burocrazia di estrazione liberale; ma nel 1925 era opera    11 Ibidem, p. 130.   112 Nel discorso del 28 ottobre 1929 Per l'Accademia d'Italia Musso-  lini indicava fra gli accademici « uomini di origini, di temperamenti, di  scuole diverse; uomini rappresentativi di un dato momento sono al lato  di uomini rappresentativi di un momento successivo, o attuale, o futuro.  L’Accademia è necessariamente eclettica, perché non può essere mono-  corde... Nell’Accademia è l’Italia con tutte le tradizioni del suo passato,  le certezze del suo presente, le anticipazioni del suo avvenire » (in B.  Mussolini, Scritti e discorsi dal 1929 al 1931, Milano, Hoepli, 1934, p.    113 Nel febbraio 1931 scriveva che « il Regime si viene pacificamente  guadagnando gli animi nelle scuole, nelle università, nelle accademie, e in  ogni libero campo di attività letteraria od artistica. Cresce insieme spon-  taneamente l’interesse di esso per ogni forma di cultura nazionale, e si  fa sempre più profonda la sua consapevolezza, che la sua forza, che è la  forza e la potenza del popolo italiano, non si può consolidare senza l’ade-  sione e la libera collaborazione delle più rappresentative intelligenze e di  tutte le forze morali del Paese » (I/ fascismo e gli intellettuali, ora in  Origini e dottrina del fascismo, cit., p. 71). Sempre nel 1931 affermava  che il fascismo «è progresso in quanto è restaurazione: consolidamento  delle basi per edificarvi su un solido edifizio, alto, nella luce. Ogni origi-  nalità senza tradizione, come ogni spontaneità senza disciplina, è velleità  sterile, non volontà virile » (Risorgimento e fascismo, ora in Memorie  To e problemi della filosofia e della vita, Firenze, Sansoni, 1936, p.  120).   114 Nella relazione presentata il 5 luglio 1925 da Gentile a Mussolini,  si affermava che la commissione « non ha pensato un solo momento che  fosse... da sovvertire lo Stato italiano sorto dalla rivoluzione del Risor-  gimento. E cosî ha creduto di rendersi fedele interprete dello spirito del  fascismo, nato a costruire, non a distruggere » (Relazioni e proposte della  Commissione per lo studio delle riforme costituzionali, Firenze, Le Mon-  nier, 1932, pp. XVII-XVIII). Sul significato non eversore delle proposte  della Commissione dei Diciotto, cfr. A. Aquarone, L'organizzazione dello  Stato totalitario, Torino, Einaudi, 1965, pp. 55-56.    50    L’Enciclopedia italiana    necessaria, non esistendo una « cultura del fascismo » !5.  Né Volpe alla Scuola di storia moderna e contemporanea,  né Gentile all’Enciclopedia, quindi, chiesero tessere di par-  tito. Nel marzo 1929, quattro anni dopo la costituzione  dell’Istituto Treccani, la prefazione al primo volume dell’  Enciclopedia — in cui è evidente la mano di Gentile —  poteva già vantare i risultati raggiunti, smentendo le pre-  visioni degli oppositori:    Il clima che ha reso possibile un’opera come questa, alla quale  non parve in passato possibile in Italia pensare, è il nuovo spirito  esploso con l'avvento del Fascismo, che scosse idee e sentimenti e  accese una passione inestinguibile di rinnovamento e di afferma-  zione della potenza dell’Italia nel mondo... Il primo segno di questa  crisi gagliarda di rinnovamento fu la radicale riforma della scuola  compiuta nel 1923; alla quale seguirono molte altre riforme orga-  niche, onde si venne trasformando la struttura dello Stato e si get-  tarono le basi di una nuova vita nazionale demografica, economica,  morale e religiosa [...] Mai, per nessuna opera, in Italia si unirono  come per l’Enciclopedia Italiana migliaia di scrittori a collaborare  con un disegno prestabilito, sotto una costante disciplina [...] E  il fatto che tanti e si può quasi dire tutti gli studiosi d’ogni scuola  e indirizzo, letterati, scienziati ed artisti, si siano per la prima volta  accordati non in un’idea da vagheggiare, ma in un lavoro da ese-  guire, e che a tutti chiedeva disinteresse e sacrificio, per lo meno  d’altri lavori di maggior soddisfazione personale, questa grande  morale concordia degli scrittori italiani è il primo e il non meno  importante frutto che in vantaggio dell’alta educazione nazionale  l’Enciclopedia potesse produrre [...] Affinché fosse possibile tale  concordia [...] fin da principio la Direzione dell’Enciclopedia rico-  nobbe l’opportunità di un ragionevole eclettismo e di una scrupolosa  imparzialità.    Un’opera non di rapida consultazione e volgarizzamento,  come il Larousse, ma a carattere monografico come la Bri-  tannica, non avrebbe potuto avere carattere impersonale,  come voleva Treccani: l’ampiezza di una voce monografica    115 Nel settembre 1925 Formiggini osservava che l’E.I. «riuscirà la  più antifascista delle enciclopedie fasciste, e ciò non per mancanza di  buona volontà di render servizio al partito che gli ha dato ricchezze ed  onori, ma perché [Gentile] si è accorto che se avesse voluto fare una  Enciclopedia fascista avrebbe trovato come unico collaboratore volontario  (e lo ammettiamo per pura e generosa ipotesi) l’on. Farinacci » (« L'Italia  che scrive », VIII (1925), p. 184).    51    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    implicava una presa di posizione scientifica da parte di ogni  autore. Ma la molteplicità e diversità di giudizi che ne  derivava avrebbe dovuto essere ridotta a unità:    l’unità che è il principio vitale di ogni libro vivo, pare esclusa per  definizione da un'enciclopedia, che, per essere cosa seria, è di  necessità opera a molte mani, e ognuno vi mette il suo pensiero, il  suo stile, la sua anima. Ed è bene che cosî sia; e noi, per parte  nostra, ci siamo studiati di fare che ognuno, entro certi limiti,  restasse, come scrittore dell’Enciclopedia, lo scrittore che egli era.  Il che per altro non abbiamo creduto che fosse per produrre l’effetto  d’un coro selvaggio di voci stonate e discordi. Non c’è solamente  l’anima del singolo. Nello stesso individuo c’è anche l’anima  della sua famiglia, del suo popolo, del suo tempo; c’è il punto  di vista e l'interesse spirituale che è suo come dei connazio-  nali e dei coetanei che vivono la stessa vita e si sono formati  nello stesso mondo spirituale. Da quest’anima più vasta, non meno  reale dell’altra che varia da individuo a individuo, scaturisce l’u-  nità di una scuola ben organizzata e diretta, e scaturisce l’unità di  un’enciclopedia ben disegnata e condotta.   Un’enciclopedia è infatti l’espressione del pensiero di un popolo  e di un’epoca; e propriamente degli elementi positivi, vitali ed attivi  di questo pensiero. Il quale evidentemente non consta della somma  di tutte le idee di tutti gl’individui, dotti e indotti, consapevoli e  ignari degl’ideali della nazione a cui appartengono e a cui sono  indissolubilmente congiunti; ma si raccoglie in sistema dalle menti  che dirigono e perciò rappresentano tutti... E il loro pensiero, presso  ogni popolo, sbocca e si fonde nella coscienza nazionale, e in ogni  periodo storico ha una forma e certi caratteri, ha un’individualità,  in cui mille e mille voci si adunano in un grande concento. Con-  cordia discors 16,    Concordia non facilmente raggiungibile anche nel nuovo  clima del fascismo, come ricorderà Gentile in termini meno  idillici !”. Mezzo per attuarla, per ridurre a unità argomenti    116 E.I., I (1929), pp. XII-XIV.   117 Ricorderà « prime difficoltà e diffidenze, ostilità coperte e palesi »  (Tribolazioni di un enciclopedista, cit.), e « battaglie » concluse « con la  vittoria sempre della Direzione, ossia dell’Enciclopedia, e cioè di tutti.  Ma, evidentemente, vittoria difficile» (Ancora delle tribolazioni di un  enciclopedista. Come si taglia e si cuce il libro per tutti, «Il Corriere  della sera », 11 febbraio 1931). Pincherle osservò nel vol. I « differenze di  opinioni e di scuola, che spesso esplodono in battute polemiche, ora più  ora meno abilmente dissimulate » (L’Enciclopedia italiana, in « La Cul-  tura», I (1929), p. 287); e Bosco, redattore capo dell’E.I. dal 1933,  ricorderà nel ’41: « Il primo compito fu quello della raccolta delle voci:    52    L'Enciclopedia italiana    diversi e autori di vario orientamento, fu il criterio storico:    affinché tale discorde concordia si stabilisca e conservi, occorre una  regola che tutti gli scrittori capaci di contribuirvi mantenga nei limiti  ciascuno del proprio carattere, non pure per la materia che coltivano,  ma anche per l’indirizzo mentale con cui la coltivano, in guisa che  tutti gli aspetti della cultura vengano a comporsi armonicamente  in un quadro coerente, com'è nelle sue note principali il pensiero  di un popolo e di un’epoca... Nessuna intolleranza, nessuna ombrost  angustia di mente. A ogni avvenimento, a ogni dottrina, a ogni  persona il suo merito e il posto in cui ciascuno per sua virtà s'è  collocato. Perciò non dottrine esclusive, come sono per lo pi tutte  le dottrine nelle menti di singoli; ma l’ordine piuttosto in cui le  varie dottrine sono possibili, malgrado le loro divergenze, ciascuna  con i suoi motivi, La stessa grande imparzialità della storia, in cui  non c'è nulla che non abbia la sua ragion d’essere.   La storia, in verità, suggerisce il metodo della trattazione che si  conviene a una enciclopedia: la storia con la sua sovrana potenza  conciliatrice delle più contrastanti esigenze dello spirito e degli  aspetti più diversi del vero. Ogni concetto o istituto, ogni religione  o dottrina, ogni mito o teoria, ogni popolo o schiatta esiste e vive  nella sua storia, con la sua origine e col suo sviluppo. E nella storia  si spezza ogni dommatismo [...]   II metodo pertanto dell’Enciclopedia Italiana è il più largo me-  todo storico, cosi in ogni singolo articolo come nel sistema generale.  Grazie a questo metodo, la Direzione ha ambito di raccogliere in-  torno a sé, assegnando a ciascuno la parte sua, gli scrittori della  più varia mentalità... 118,    compito dei più delicati, perché era in questa fase che si potevano concre-  tare le fondamenta dell’edificio, e che si doveva decidere il carattere  dell’Enciclopedia: dizionario di cose, o raccolta di monografie, o qualche  cosa di mezzo? Non sono infatti mancate le divergenze: chi consultasse  oggi i primi elenchi delle voci proposte da ognuno dei direttori di sezione  e, poi stampati in forma di bozze, diffusi tra gli studiosi per raccogliere  suggerimenti, troverebbe che molto è stato cambiato » (art. cif., p. 321).   118 E.I., I (1929), pp. XIV-XV. Già nelle Avvertenze ai collaboratori,  pronte nel giugno 1925 (cfr. G. Treccani, Enciclopedia Italiana Treccani.  Idea esecuzione compimento, cit., p. 37), si diceva: «I - Nella compila-  zione degli articoli, anche se teorici e dottrinali, si avrà cura di attenersi  a un’esposizione storica di quello che è stato pensato o si pensa dagli  scrittori della materia meritevoli di considerazione; evitando al possibile  ogni forma subbiettiva che dia rilievo alla persona di chi scrive e adope-  rando uno stile semplice e sobrio. II - Sono dall’Enciclopedia bandite le  polemiche. Ogni discussione vi dev'essere mantenuta nei termini di un  dibattito di valori puramente ideali, con la cura più scrupolosa di mettere  in luce anche le ragioni delle dottrine, che lo scrittore stimi più deboli »  (ibidem, p. 42). « Il metodo seguito nella trattazione dell’Enciclopedia è  quello storico, cosî in ogni singolo articolo come nel sistema generale »,    53    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    I collaboratori, aggiungeva Gentile, « operando anch’  essi nella cultura dell’epoca, hanno nella loro stessa forma-  zione spirituale la misura del giudizio »; ma avrebbero  dovuto elaborare gli elementi « vivi e vitali » della cultura  propria della « classe elevata e dirigente, la quale s'incontra  e s’intende, in un dato tempo, sullo stesso terreno, in una  comune vita intellettuale e morale » !’. Enciclopedia,  quindi, figlia del proprio tempo !?, che come tale — av-  vertirà Gentile nel °38 — avrebbe rispecchiato i progressi  della scienza e i cambiamenti storici avvenuti nel corso  della sua realizzazione !!.   Nel ’25 l’asserita imparzialità dell’opera — corrispon-  dente ad uno stretto legame con « un dato tempo » —  comportava, accanto al « clima » del fascismo, il ricorso  all’opera di intellettuali di varia estrazione culturale e,  anche, di diverso orientamento politico: una sapiente azione  di assorbimento, testimoniata dall’ampia scelta dei direttori  di sezione e dei collaboratori, che spingerà Salvemini —  incapace di comprendere i motivi se non addirittura le mani-  festazioni della politica articolata del regime — a giudicare  l’Enciclopedia « quasi esclusivamente opera di uomini ap-  partenenti alla generazione maturata prima che il fascismo  giungesse al potere », di cui Mussolini — aggiungeva  semplicisticamente — si era « attribuita la maggior parte  dei meriti » !2.    avverte l'opuscolo di propaganda Enciclopedia Italiana pubblicata sotto  l’alto patronato di S.M. il Re d’Italia Imperatore d'Etiopia, Roma, 1937,  p. 6. Già nel vol. I Guido Calogero osservò il « carattere essenzialmente  storicistico » delle voci giuridiche, economiche e politiche (« Nuovi studi  di diritto, economia e politica », vol. II (1929), p. 154).   119 E.I.,I{1929), p. XV.   12 «L’Enciclopedia sarà il monumento della cultura dell’Italia di  Vittorio Emanuele III e di Benito Mussolini », affermò Treccani il 10  gennaio 1931 (Enciclopedia Italiana Treccani. Idea esecuzione compi-  mento, cit., p. 63); e l'opuscolo di propaganda sopra citato, p. 36: « L’En-  ciclopedia è al tempo stesso documento fedele del periodo storico in cui è  nata e contributo certo non ultimo alla formazione di quella cultura  intensa, vitale, capace di espandersi e d’imporsi che dovrà essere la cul-  tura italiana di domani».   121 E.I., Appendice I, pp. IX-X (ma già apparsa nel 1934: cfr. V.A.  Bellezza, Bibliografia, cit., n. 1118).   12 «L’Enciclopedia Italiana, che è senza dubbio superiore a tutte le    54    L’Enciclopedia italiana    6. I collaboratori e le proteste del fascismo estremista    Il consiglio direttivo dell’Enciclopedia costituiva, nel  1925-26, una specie di fronte nazionale, unendo — sotto  la giunta di direzione composta da Treccani, Gentile e  Tumminelli — il primo ideatore dell’opera, Martini;  glorie (diversamente fortunate) della grande guerra come  Cadorna e Thaon di Revel — quest’ultimo fino all’aprile  ’25 ministro della Marina —, e De Stefani, fino al luglio  ’25 ministro della Finanze; rappresentanti della tradizione  liberale lontani dal fascismo quali Luigi Einaudi e Fran-  cesco Ruffini — che dopo il ’26 non parteciparono più  all'opera —, o cattolici come Gaetano De Sanctis; e, an-  cora, Pietro Bonfante, Ugo Ojetti e Francesco Salata, ac-  canto a Vittorio Grassi, Silvio Longhi, Ettore Marchia-  fava !*. Nel comitato tecnico — composto dai direttori  delle 48 sezioni e già formato all’inizio del ?25 — vi erano  i maggiori rappresentanti della cultura italiana, da De San-  ctis (Antichità classiche) a Raffaele Pettazzoni (Storia delle    enciclopedie pubblicate dall’inizio di questo secolo, è opera di studiosi  italiani la cui formazione aveva avuto luogo già prima dell’avvento di  Mussolini. Poiché essa cominciò ad essere pubblicata nel 1929, Musso-  lini se ne è attribuita la maggior parte dei meriti. In realtà, essa fu pro-  gettata nel 1920-1921, quando, secondo la leggenda fascista, l’Italia era  “alle prese col bolscevismo”. È il più gran monumento che si sia potuto  erigere durante il regime fascista alle due generazioni di uomini che rico-  struirono la cultura italiana durante il regime prefascista » (G. Salvemini,  Il futuro degli intellettuali in Italia, art. del 1937, ora in Scritti sul fasci-  smo, Milano, Feltrinelli, 1966, vol. II, p. 580).   183 Cfr. G. Treccani, Enciclopedia Italiana Treccani. Idea esecuzione  compimento, cit., pp. 29, 37, 40. Einaudi (che nel ’19 era stato consigliere  dell’Istituto di Formiggini) appare nel Manifesto e nel Primo elenco di  collaboratori; Ruffini solo in quest’ultimo, anche come direttore, con  Santi Romano, della sezione « Diritto pubblico ». Sulla partecipazione  puramente decorativa di Martini cfr. le lettere di Gentile a lui, 27 gen-  naio, 20 aprile, 1 maggio 1925 (BNF, Fondo Martini); per la diffidenza  sua e dei suoi amici verso l’opera — nella cui preparazione non furono  ascoltati —, la lettera di Menghini del 23 aprile ’25, e tutte quelle del  '25 di Donati, che giudicava Gentile spirito « dogmatico » e « profonda-  mente «ztiscientifico », dubitando che «la scienza italiana possa subor-  dinarsi a quel vaniloquio sciagurato ch’egli chiama la sua filosofia » (ibi  dem, 3 marzo ’25), ma riconoscendo che « l’idealismo è tanto “attualista”  da trovar milioni che i positivisti non sapevano mettere assieme » (ibidem,  9 marzo ’23).    55    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    religioni), da Federico Enriques (Matematica) a Nicola  Pende (Medicina), da Carlo Nallino (Letterature e civiltà  orientali) a Santi Romano (Diritto pubblico) a Gioacchino  Volpe (Storia medioevale e moderna). Ad essi era deman-  data la scelta dei collaboratori e delle voci !*   La consultazione dei collaboratori previsti iniziò subito  dopo la costituzione dell’Istituto; nonostante la sua am-  piezza, il 26 giugno ’25 Treccani poteva già annunciare che  « gli uomini migliori che l’Italia vanta in tutti i campi  del sapere hanno aderito con entusiasmo; i collaboratori  sono già circa 1200 » !. In realtà, i rifiuti che possiamo  documentare — ma significativi per le motivazioni poli-  tiche — sono solo quelli di Croce e Silva. Il primo, inter-  pellato, tramite Alessandro Casati, da Volpe — la cui fun-  zione all’interno dell’Erciclopedia fu all’inizio probabil-  mente più vasta di quella di direttore di una sezione storica,  in linea con la funzione di primo piano da lui svolta, ac-  canto a Gentile, nell’organizzazione della cultura durante  il fascismo —, nella risposta preannunciò quel distacco da  Gentile e dal regime che un mese dopo sarà reso definitivo  dalla protesta contro il manifesto degli intellettuali fascisti:  «come volete — scrisse a Volpe il 7 aprile — che io  collabori a una Enciclopedia diretta da chi ha pur testé,  a Bologna, osato proclamare che la cultura deve essere  fascista? » !*. Motivi politici furone alla base anche del    14 Cfr. G. Treccani, Enciclopedia Italiana Treccani. Idea esecuzione  compimento, cit., p. 35, e Primo elenco, cit., pp. 21-33. Tutto il lavoro  di preparazione (scelta dei collaboratori e formazione dello schedario)  terminò nel 1928 (G. Treccani, Racelonone Italiana Treccani. Come e  da chi è stata fatta, cit., p. 24). Su una riunione di alcuni direttori di  sezione per impostare il lavoro, cfr. la testimonianza di Ojetti del 27  settembre ’25 (I taccuini, cit., p. 183: « Gentile non conclude mai, chiede  che i direttori si accordino »). Per i successivi rapporti di Ojetti con la  Società Treves-Treccani-Tumminelli, editrice di « Pègaso » e « Dedalo »,  cfr. ACS, Segreteria particolare del Duce, Carteggio riservato, b. 8,  sottofasc. 1.   15 G. Treccani, Enciclopedia Italiana Treccani. Idea esecuzione com-  Dincato: cit., p. 37.   B. Croce, Epistolario, Napoli, Istituto italiano per gli studi storici,  a vol. I, p. 108. E a Casati, il 2 aprile 1925: « Dopo il discorso di  G.[entile] a Bologna, credo che mi avrai dato ragione nel rifiuto che  opposi a partecipare all’Enciclopedia. Come sarei potuto stare alla dipen-    56    L’Enciclopedia italiana    rifiuto di Pietro Silva che, dopo aver inizialmente accettato  di collaborare, l’11 giugno ’25 — cinque giorni dopo l’ar-  resto del maestro Salvemini — scrisse a Gentile una lettera  che rappresenta, come per l’autore che solo un anno dopo  accetterà la redazione di voci importanti dell’Enciclopedia,  le illusioni, le incertezze, le conversioni di tanti.    Voglia consentirmi di ritirarmi dal gruppo dei collaboratori dell’  Enciclopedia. Nell’appello che Ella rivolse agli studiosi, quando la  grande impresa fu decisa, suonava alta e nobile la parola della  conciliazione degli spiriti nel campo degli studi e della scienza. E  tale parola, che acquistava anche maggior valore perché pronun-  ciata da Lei, mi persuase.   Ma ora, purtroppo, la mia fiducia nella possibilità di tutte le  forze in una impresa di scienza, è molto scossa per i fatti che stanno  accadendo. Vedo arrestato Salvemini, il che significa l’inizio di  persecuzioni agli intellettuali non fascisti. Vedo presentata una legge  per la dispensa dei funzionari, che mira, come hanno rilevato l’on.  Salandra e l’on. Volpe, a colpire la libertà di pensiero e l’integrità  delle coscienze, anche in quel campo che Ella, nel Suo memorabile  discorso inaugurale del 1921, voleva rimanesse libero a tutte le opi-  nioni: il campo dell’insegnamento superiore.   In tali condizioni, noi che da quella legge verremo colpiti,  come possiamo rimanere a collaborare a un’opera di scienza, come  possiamo continuare a credere che in tale opera le divergenze di  pensiero e di partito verranno superate? Ecco perché le chiedo di  rinunziare alla mia modesta opera.   Son certo che Ella apprezzerà al giusto valore questo mio atto...1?    Gentile dovette apprezzare piuttosto le pronte e nu-  merose adesioni che assicurarono all'impresa l’appoggio  dei principali rappresentanti della cultura italiana. Il Prizzo  elenco di collaboratori dell’Enciclopedia Italiana, pubbli-  cato nella primavera del 1926, ne annoverava 1.410, quasi  la metà dei 3.266 che daranno il loro contributo a tutta  l’opera fino al 1937 !*. Non appaiono ancora alcuni dei    denza di un direttore, che ha quelle idee sulla cultura? » (Epistolario,  Napoli, Istituto italiano per gli studi storici, 1969, vol. II, p. 89).   12? Archivio dell'Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma [d'ora in  avanti AEI], Lettere, Silva. Su Silva storico e sui suoi rapporti col fasci-  smo cfr. il ritratto che ne ha fatto nel 1954 Volpe (Storici e maestri,  Firenze, Sansoni, 1967, pp. 97-101).   128 La data di pubblicazione del Prizzo elenco (non. indicata) si deduce  dalle polemiche giornalistiche che suscitò, dell’aprile 1926.    57    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    futuri « pilastri » dell’Erciclopedia, come Alberto Pin-  cherle, Antonino Pagliaro, Federico Enriques. Si leggono  già, invece, i nomi di Antonio Aliotta e Armando Carlini,  Giovanni Calò ed Ernesto Codignola, o di Romolo Cag-  gese !?, Raffaele Ciasca, Federico Chabod, Antonio Banfi,  Piero Calamandrei, Rodolfo Mondolfo, Vito Fazio Al-  lmayer, Augusto Guzzo, e ancora tanti, da Arturo C.  Jemolo a Luigi Russo, da Nino Cortese a Michelangelo  Schipa, oltre ad alti esponenti del mondo cattolico, come  i gesuiti Pietro Tacchi Venturi ed Enrico Rosa, e il fran-  cescano Agostino Gemelli.   Il Primo elenco registra anche il nome di quanti, dopo  essere stati invitati e aver accettato, non collaboreranno  all'opera. La maggioranza di essi è costituita da persone cul-  turalmente poco rappresentative: accanto a professori di  scuola media superiore o scarsamente noti professori uni-  versitari, troviamo militari, professionisti, o non qualifi-  cati cultori della materia. La loro cospicua scomparsa (487  sui 1.410 annunciati) dall’elenco finale degli effettivi colla-  boratori, per essere sostituiti da studiosi pit qualificati,  potrebbe indicare, da un lato, un aumento reale dei settori  accademico e di ricerca, dall’altro, una maggiore progres-  siva adesione da parte degli esponenti dell’alta cultura,  dapprima diffidenti verso l’iniziativa gentiliana.   Vi sono tuttavia, fra i collaboratori previsti dal Primzo  elenco che poi non parteciperanno all’opera, anche perso-  naggi la cui iniziale accettazione val la pena di essere sotto-    129 Il 12 giugno 1925 Caggese scriveva a Volpe, che lo aveva invitato  a collaborare: « Niente pregiudiziali politiche, anche perché io sono com-  pletamente fuori di ogni attività politica, ben sicuro come sono che è  nostro primo dovere d’italiani non complicare in alcun modo una situa-  zione non lieta. Vivo nella solitudine pivi assoluta, lavoro molto e, in  confidenza, non potrei in alcun modo partecipare alle vicende politiche  perché sono troppo indulgente e, ahimè!, ancor troppo sentimentale e  bonario. Passare con i forti non posso perché non è lecito a noi, uomini  di studio, dare lo spettacolo di voler “profittare” comunque; esaltare i  cosi detti deboli non posso, perché moralmente sono proprio essi quelli  che nell’immediato dopo-guerra hanno scatenata la guerra civile. Non mi  resta che fare il buon cittadino che rispetta tutte le leggi del suo paese,  e augurare che presto ritornino i saturnia regna!, e che i deputati si somi-  glino [...]. Dunque, collaborerò volentieri, anche perché non vorrei dire  di no proprio a te » (AEI, Lettere, Caggese).    58    L'Enciclopedia italiana    lineata: non tanto le personalità politiche chiamate a dar  lustro all’impresa, la cui adesione è una riprova — assieme  alla presenza di uomini poco rappresentativi nel campo  scientifico — del significato non strettamente culturale che  l’Enciclopedia voleva avere !*, quanto liberali come Ales-  sandro Casati e Olindo Malagodi, o uomini come Adelchi  Baratono, Bernard Berenson, Santino Caramella, Ludovico  Limentani.   Pochissimi fin d’ora gli stranieri, conforme al criterio  ispiratore dell’opera.   La pubblicazione del Primzo elenco di collaboratori  provocò le proteste del fascismo estremista. Su « Il Te-  vere » da lui diretto il 25 aprile Telesio Interlandi, dopo  aver approvato le dichiarazioni di imparzialità e apoliticità  dell’Enciclopedia, affermava:    Prima che l'Istituto Treccani, superiore a tutti i partiti politici  s'è dichiarato il Fascismo, che è superiore allo stesso partito che  fascista si intitola; appunto perché il partito fascista ha una fun-  zione tattica contingente e mutevole, laddove il Fascismo è quella  tale coscienza nazionale di cui più su si parlava. Cosî stando le cose,  l'onorevole Consiglio direttivo dell’Istituto ha fatto bene ad espellere  i partiti politici dall’Enciclopedia, ma benissimo avrebbe fatto ad  accogliervi il Fascismo. È stato accolto il Fascismo, in un’opera che  vuole essere il monumento culturale dell’età nostra e. alla quale  attingeranno per i loro bisogni spirituali molte e molte genera-  zioni di italiani e di stranieri?;    vi erano ugualmente rappresentati, continuava Interlandi,  fascismo e antifascismo, impersonato quest’ultimo da alme-  no 90 firmatari del Manifesto degli intellettuali antifascisti,  come Luigi Einaudi, o Santino Caramella in procinto di  essere allontanato dalla scuola « per le sue prodezze al  congresso dei filosofi »: era necessario fare a meno di  simili collaboratori, per evitare un’enciclopedia « impar-  ziale [...] in cui avrà posto l’esaltazione delle categorie    democratiche e di quelle fasciste » !.    13 Giuseppe Belluzzo, Paolo Boselli, Ettore Ciccotti, Balbino Giu-  liano, Giovanni Giuriati, Achille Loria, Gaetano Mosca, Antonio Salan-  dra, Bonaldo Stringher, ecc.   131 Considerazioni sopra un elenco di enciclopedici, in «Il Tevere »,  24-25 aprile 1926 (editoriale).    59    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    L’articolo di Interlandi, parzialmente ripreso da « La  Tribuna » — che da poco si era fusa con « L’Idea Nazio-  nale » ed era passata sotto la direzione del nazionalista  Forges Davanzati '* —, dette modo a Gentile di precisare  le sue idee sul rapporto cultura-fascismo: in una lettera  aperta inviata il 28 aprile al direttore de « La Tribuna »  affermò che, su questo problema, il Pnf aveva « ormai  direttive precise », come dimostrava l’approvazione, da  parte del duce e de «L’Idea Nazionale », del discorso  gentiliano tenuto il 19 dicembre 1925 per l’inaugurazione  dell’Istituto nazionale fascista di cultura. Il fascismo, obiet-  tava a Interlandi,    non è venuto a distruggere, ma a edificare [...] Intende bensî ani-  mare tutta la vita nazionale di un’ardente passione politica, che  è passione morale e religiosa di creazione di superiori valori; ma  non tollera, non può tollerare che questa passione abbia a disperdersi  e inaridire in vuote formule superstiziose, e in gare ein cacce di  persone od esibizioni di tessere tante volte, ahimé, turpemente abu-  sate e sfruttate! Quasi che l’Italia fascista da noi vagheggiata potesse  essere quella che si avrebbe il giorno in cui i famosi quaranta milioni  d’ogni sesso od età fossero iscritti tutti nel Partito.    « Gli uomini da adoperare », quindi, dovevano essere  « quelli che per attitudini e preparazione potranno più  utilmente aiutarci nella realizzazione della nostra idea.  Cosî ha fatto sempre Benito Mussolini con la sua sicura  volontà realizzatrice. E chi fa della politica dove c’è da  risolvere un problema tecnico, non fa politica, ma spro-  positi »;    io — continuava Gentile facendosi forte della sua posizione politica  — mi riterrei indegno della tessera che il Partito Fascista mi offri    13 Polemizzando con Forges Davanzati critico del « culturalismo »  (cfr. il suo Fascismo e cultura, Firenze, Bemporad, 1926), « Vita nova » —  la rivista di Arpinati molto vicina a Gentile — affermava le carenze del  nazionalismo in campo culturale, mentre « per fare della cultura bisogna  sul serio mettersi al lavoro, e quindi in vece di parlare di essa da un  punto di vista strettamente politico, cosa più saggia sarebbe indicare i  mezzi valevoli per promuovere efficacemente un vero rinnovamento cul-  turale », perché la cultura « deve essere la più grande forza del nostro  regime » (Rusticus [Giuseppe Saitta], Politica e cultura, in « Vita nova »,  II (1926), p. 61). i    60    L’Enciclopedia italiana    nel maggio del ’23, quando ravvisò in me uno dei precursori e un  fascista che faceva sempre sul serio, se scoprissi in me una mentalità  cosi gretta da non distinguere la politica dalla tecnica in un’opera che  riuscirà un grande esame sostenuto dal pensiero e dal carattere degl’  Italiani innanzi a tutte le nazioni civili, la maggior parte delle quali  ci precedette in questo arringo: se per gusto inopportuno di chiuder-  mi nella rocca forte dei miei camerati, trascurassi di adoperare tutti  gli elementi e tutte le forze che l’Italia può fornirmi alla costruzione  di questo gran monumento nazionale [...] Questo, per me, è fasci-  smo. È quel fascismo che può affermare con giusto orgoglio: ic  non sono partito, ma sono l’Italia, È il fascismo che può e deve  chiamare a raccolta per ogni impresa nazionale tutti gl’Italiani:  anche quelli dell’anzizzazifesto. I quali, se risponderanno all’appello,  non verranno (stia pur tranquillo Interlandi) per fare dell’antifa-  scismo: verranno, almeno nell’Enciclopedia, a portare il contributo  della loro competenza: a far della matematica o della chimica o  della fisica, e insomma della scienza 193.    La distinzione gentiliana di scienza e politica non con-  vinse Croce !*, né, per ragioni opposte, Interlandi, il quale  replicando a Gentile affermò che «in nome della com-  petenza [...] oggi si affida a molti, a troppi competenti  antifascisti, la compilazione d’un’opera che a parer nostro  non dovrà essere solamente un monumento di tecnica, ma    133 L’Enciclopedia italiana e il fascismo, ora in Fascismo e cultura, cit.,  pp. 111-115.   13 Già il 27 aprile Croce scrisse a Casati: « Hai visto come [Gentile]  tratta i collaboratori non fascisti? Hai visto che li considera apportatori di  pietre al monumento culturale del fascismo? [...] io previdi chiaramente  quello che sarebbe avvenuto, quando rifiutai l’adesione, che tu mi chie-  devi, all’Enciclopedia » (Epistolario, cit., vol. II, p. 96). E nel maggio, in  una recensione critica di un articolo di V. Arangio Ruiz su L'individuo e  lo Stato, osservò come, « anche chi, in questi tempi, è andato incauta-  mente predicando che scienza e politica sono tutt'uno e che la cultura  dev'essere asservita a un partito o a una frazione, debba in fretta e furia,  per salvare le proprie intraprese, tentar di ristabilire la differenza, come  si è visto nei giorni scorsi, nelle discussioni levatesi a proposito di una  certa “Enciclopedia” » (« La Critica », XXIV (1926), p. 183). In risposta  a Croce, « Vita nova » difese tutta la concezione di Gentile sui rapporti  scienza-politica, concludendo con l’identificazione gentiliana e fascista del  partito con lo Stato: «Si dirà che l’intento [dell’E.I.] è politico perché  la scienza, lî, vuol riuscire a un monumento nazionale, e il nazionalismo  del Gentile è il fascismo? Ebbene il Croce, lui, ch’è cosî fino nelle distin-  zioni quando gli fanno buon giuoco, sa benissimo che questo fascismo  non è più un partito o una fazione. Egli sa benissimo, dunque, che è del  tutto erroneo affermare che il Gentile sia andato predicando che la cul-  tura debba essere asservita al fascismo inteso in quel senso » (Urbanus,  Piccolezze di un grand’uomo, in « Vita nova », II (1926), n. 6, p. 57).    61    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    un monumento del nostro tempo che, se non erriamo, è  tempo fascista [...] Se l’“Enciclopedia” i fascisti non la  sanno fare, perché non sono “competenti”, ebbene, non  la facciano; ne faremo a meno. Non perirà per questo  né il Fascismo, né l’Italia » !9. Affermazione decisamente  contestata da « La fiera letteraria » che il 2 maggio — pur  ‘assicurando sulla scarsa libertà di movimento dei 90 fir-  matari dell’antimanifesto, sottoposti come tutti i collabo-  ratori al controllo dei direttori di sezione, e quindi dei « loro  capi gerarchici » Treccani e Gentile, che « rispondono del  loro operato dinanzi alla Nazione e al mondo » — difese  la posizione gentiliana e la necessità di una vasta politica  culturale da parte del fascismo:    nessun Governo come l’attuale ha fatto dei problemi della cultura  nazionale oggetto di tanti progetti e di cosî evidenti preoccupazioni.  Una cosa è dunque polemizzare e altra cosa è agire. Cosi una cosa  è criticare l’operato degli Enciclopedisti, e altra cosa è fare una  Enciclopedia. Da questa specie di dilemma non si esce se non  dichiarando, come qualcuno ha fatto, che qualora l’Enciclopediu  Italiana non possa farsi senza il concorso dei novanta reprobi, è  meglio che non si faccia. Ma non può sussistere una politica intel-  lettuale o culturale di un grande partito fondata sopra simili para-  dossi 1%,    La polemica tra Interlandi e Gentile, tra il fascismo  « rivoluzionario » e quello « tradizionalista », si concluse  a favore di quest’ultimo. La lettera — provocata proba-  bilmente dal primo articolo de « Il Tevere » — inviata il  7 maggio dal segretario particolare del duce, Chiavolini,  al segretario del Pnf Turati, con « un elenco dei collabo-    135 I} senso del Fascismo e l’Enciclopedia, in « Il Tevere », 28-29 aprile  1926 (editoriale).   1% Gli attacchi contro l'Enciclopedia. Politica e Cultura, in « La fiera  letteraria », 2 maggio 1926 (editoriale). Gli attacchi dovettero continuare,  se il 18 settembre 1927 Ernesto Codignola avvertiva Gentile che i suoi  avversari, ostili alla sua permanenza nel Consiglio superiore della Pub-  blica istruzione, « potrebbero forse chiedere e ottenere anche il tuo  ‘allontanamento dall’Istituto di Cultura e dall’Enciclopedia. Tutto questo  sarebbe molto grave per te e per le nostre idealità comuni, ma sarebbe  ‘ancora più grave per le ripercussioni che avrebbe nel paese, già troppo  po Vem e perplesso in questo momento » (Archivio Ernesto Codignola,   irenze).    62    L’Enciclopedia italiana    ratori dell’Enciclopedia Treccani già firmatari del noto  manifesto degli intellettuali aventiniani », non ebbe grande  effetto, anche se ad essa — e non a un ripensamento dei  collaboratori previsti — fosse da attribuire l’abbandono  dell’Enciclopedia da parte di 23 (fra cui Einaudi e Ruf-  fini) degli 85 intellettuali nominati '”. I principali colla-  boratori « non fascisti » annunciati — cui altri se ne ag-  giunsero —, firmatari o meno del contromanifesto crociano,  parteciperanno all’opera, e tre firmatari, Carrara, De San-  ctis e Levi della Vida, vi rimarranno anche dopo il rifiuto  del giuramento fascista richiesto nel ’31 ai professori uni-  versitari !*,   Le polemiche del fascismo estremista contro l’Enci-  clopedia cessarono nel 1926, quando proteste come quelle  del contromanifesto o del VI Congresso nazionale di filo-  sofia non ebbero più possibilità di sbocchi politici; « non  c'è più un’opposizione antifascista; e tutti son pronti a  servire il Regime, che è lo Stato », affermerà Gentile nel  °29 invitando gli iscritti al Pnf ad « accettare la collabo-  razione degli italiani capaci ed onesti, anche non fascisti »:  « dal 1925 al 1929 anche l’Italia intellettuale ha fatto molto  cammino, e l’antifascismo va buttato, finalmente, in soffit-  ta » !*. Tuttavia, se l’opposizione politica era schiacciata, la  stessa opera gentiliana di « conciliazione » stava diven-  tando meno necessaria fin dal ’26, con l’inizio della costru-  zione dello Stato totalitario. Ma l’Enciclopedia era ormai  avviata, e poté continuare con la collaborazione di quanti  — seppure in alcuni casi critici verso il suo direttore o  verso il regime — avevano aderito all’impostazione « na-  zionale » che Gentile aveva dato all'opera nel ’25!.    137 ACS, Segreteria particolare del Duce, Carteggio riservato, b. 49,  sottofasc. 1.   138 Per i rapporti di De Sanctis e Levi Della Vida con Gentile e  YE.I. cfr. G. De Sanctis, Ricordi della mia vita, Firenze, Le Monnier,  1970, e G. Levi Della Vida, Fantasmi ritrovati, Venezia, Neri Pozza, 1966.   139 G. Gentile, Fascismo e Università, in « Educazione fascista », VII  (1929), pp.-613-614.   140 Volpe nega l’esistenza di contrasti politici fra i collaboratori, che  erano «di ogni colore politico» (Giovanni Gentile, cit., p. 359); cosî  Fortunato Pintor (che fu direttore della sezione « Biblioteche »), per il  quale Gentile « raccolse intorno a sé e indirizzò ad un concorde e disci-    63    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    Discussioni o contrasti si trasferirono per il momento  all’interno dell’Enciclopedia, nell’ambito delle scelte cultu-  rali: il punto di maggior frizione — su cui ci soffermiamo  perché essenziale alla comprensione dei condizionamenti  esterni dell’opera — fu il settore religioso, dove Gentile  dovette fronteggiare fin dal ’25 la pressione del mondo  cattolico, che per acquistare un ruolo egemonico nella  cultura italiana fu pronto a sfruttare la politica di riavvi-  cinamento alla Chiesa promossa da Mussolini.    7. L’ipoteca cattolica    Le dichiarazioni di imparzialità di Treccani e Gentile  avevano trovato subito un esplicito correttivo nell’accet-  tazione del controllo ecclesiastico. Nella prima riunione  del consiglio direttivo dell’Istituto, il 26 giugno 1925, Trec-  cani — dopo aver ricordato le incomprensioni e le critiche  con cui l’iniziativa era stata accolta — aveva precisato:    L’Enciclopedia nostra deve corrispondere ai sentimenti tradi-  zionali degli Italiani e perciò, deve essere non solo patriottica, ma  anche bene accetta alla Chiesa. Per raggiungere questo scopo, un ac-  cordo è già intervenuto; Padre Pietro Tacchi Venturi, della Compa-  gnia di Gesù, dirigerà la sezione per le materie ecclesiastiche e sotto  la sua guida collaboreranno altri ecclesiastici, tra i quali Mons.  Gramatica e Padre Rosa !4%.    plinato lavoro migliaia di studiosi italiani e stranieri, di ogni credenza e  di ogni scuola: accolti con uguale fiducia i dissenzienti dalla sua filosofia,  gli avversari delle sue idee politiche » (Giovanni Gentile negli studi storici  e letterari, in Giovanni Gentile. La vita e il pensiero, Firenze, Sansoni,  1950, vol. II, pp. 147-148). Più sfumata la testimonianza di Arnaldo  Momigliano: se Giglioli, Fedele, Volpe e Gentile « non chiedevano, e  nemmeno desideravano, che si diventasse fascisti [...] per lo stesso fatto  di entrare nelle Università, nelle Scuole storiche e nella Enciclopedia,  ci si inseriva in organismi fascisti, dove l'imbarazzo era costante e la  cautela diventava abito. Il motto che Croce ci dava il pane spirituale e  Gentile ci dava il pane materiale ricorse allora più di una volta in con-  versazione. Una solidarietà implicita si stabiliva tra coloro che erano di  sentimenti antifascisti alla Università o alla Enciclopedia » (Appunti su  F. Chabod storico, in «Rivista storica italiana », LXXII (1960), pp.  643-644).   141 G. Treccani, Enciclopedia Italiana Treccani. Idea esecuzione com-  pimento, cit., p. 38. Le Avvertenze ai collaboratori assegnavano agli argo-    64    L'Enciclopedia italiana    La presenza stessa di ecclesiastici de « La Civiltà cat-  tolica », in posizione privilegiata e non in nome del tanto  invocato criterio della competenza, indica — prima ancora  di poter esprimere un giudizio sulla sua efficacia — una  forte incrinatura nell’impostazione gentiliana dell’opera.  L’accordo di Treccani corrispondeva al processo di avvici-  namento in atto fra Stato e Chiesa — il gesuita Tacchi  Venturi fu in quel periodo trait-d’urzion fra Mussolini e  il Vaticano !'* —, ma contrastava con la concezione « agoni-  stica » dei rapporti fra i due poteri propria di Gentile,  fedele alla formula cavouriana e contrario alla conciliazione  di diritto '*. L’ingerenza della Chiesa, che proprio negli  anni ’20 scagliò la sua offensiva in campo culturale contro  l’idealismo come principale obiettivo da colpire, fu con-  trastata ma, soprattutto dopo il ’29, sempre più subîta da  Gentile. L'impostazione iniziale data all’Enciclopedia, per  cui avrebbe dovuto registrare tutti gli indirizzi culturali e  affidarsi ai competenti di ogni materia, fu — unita all’ac-  cordo di Treccani — un’arma a doppio taglio di fronte alla  organizzazione vasta e articolata della cultura cattolica  che sotto la protezione « politica » dei gesuiti poteva ora  utilizzare la capacità di penetrazione della neoscolastica,  dal 1924 istituzionalmente rafforzata col riconoscimento  statale della Cattolica di padre Gemelli '!#. Ma è anche    menti religiosi il primo posto nel punto III: « Delle materie religiose  e filosofiche, morali e politiche gli scrittori dell’Enciclopedia avran cura  di parlare con rispetto assoluto dell’altrui pensiero e coscienza, in modo  da consentire che all’Enciclopedia insieme collaborino uomini di ogni  fede e di ogni dottrina che abbia un suo valore. A tutti i collaboratori  dev’esser possibile incontrarsi sopra un medesimo terreno, dove ognuno,  pur mantenendo, com'è necessario, i propri convincimenti, usi tuttavia un  linguaggio che gli altri possano ascoltare. Tutti i collaboratori sentiranno  che soltanto cosî l’Enciclopedia Italiana potrà riuscire, com'è suo propo-  sito, un lavoro a cui partecipano tutte le forze vive della scienza e  dell’ingegno italiano » (ibidem, p. 42).   14 Cfr. F. Margiotta Broglio, Italia e Santa Sede dalla grande guerra  alla Conciliazione, Bari, Laterza, 1966, passim, e M. Scaduto S.]., Il P.  Pietro Tacchi Venturi. 1861-1956, «La Civiltà cattolica », 107 (1956),  vol. II, pp. 45-47.   143 Cfr. R. De Felice, Mussolini il fascista, II. L'organizzazione dello  Stato fascista 1925-1929, Torino, Einaudi, 1968, pp. 405-407.   14 Cfr. C. Vasoli, I neoscolastici e la cultura italiana, ora in Tra cul-  tura e ideologia, Milano, Lerici, 1961, pp. 419-457, e P. Rossi, La filosofia    65    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    vero che, nonostante le polemiche molto accese proprio con  i neoscolastici, il « laicismo » gentiliano conteneva molte  falle: l’importanza crescente assunta nella filosofia di Gen-  tile da una religione ambiguamente intesa, dai Discorsi del  1920 su su fino alla voce enciclopedica del 1936 e alla con-  ferenza del 1943 su La mia religione; la coscienza, matu-  rata dopo la guerra, del « problema politico » della religione  necessaria al rinnovamento della cultura da parte di uno  Stato non più agnostico che, « senza combattere in nessun  modo nessuna particolare forma religiosa, riconosca ed  affermi il valore della religione com’essa vive attraverso  tutte le forme » !9; il generico spirito « religioso » attri-  buito ai « profeti » del Risorgimento (non solo Mazzini e  Gioberti), sottolineando però — come per Capponi —  « l'impossibilità di astrarre una indeterminata e vaga reli-  giosità mistica dal complesso concreto della vita storica ita-  liana, intimamente cattolica » !f: tutto ciò favoriva la  trattazione di temi religiosi — in un’opera rivolta a valoriz-  zare la civiltà romana e italiana —, e costituiva almeno la  premessa per uno scontro duro e incerto nei risultati, fra  l’attualismo che si considerava « vera religione », e le forze  cattoliche chiamate a dare il loro contributo. Ma l’accordo  citato da Treccani era destinato a far pendere la bilancia  a favore di queste ultime, per cui è probabile che l’Enci-  clopedia abbia assolto, nel campo dell’alta cultura, la stessa  funzione favoreggiatrice del pensiero confessionale svolta  dalla riforma scolastica nel settore dell’educazione elemen-  tare (e poi media)”.    neoscolastica e i suoi orientamenti storiografici, ora in Storia e filosofia.  Saggi sulla storiografia filosofica, Torino, Einaudi, 1969, pp. 70-91.   145 Discorsi di religione, ora in La religione, Firenze, Sansoni, 1965, pp.  312-313.   16 Ibidem, p. 290.   147 Si pensi agli interventi di Gentile a difesa della riforma scolastica  (Scritti pedagogici, III. La riforma della scuola in Italia, cit.), nei quali  prevale, sull’idea del confronto fra pensiero laico e cattolico, il concetto  dello Stato non agnostico ma educatore, per concludere che «in Italia,  se lo Stato è coscienza attiva nazionale, coscienza dell’avvenire in fun-  zione del passato, coscienza storica, esso è coscienza religiosa cattolica »  (ibidem, pp. 198-199). Sul « laicismo » e la concezione gentiliana del catto-  licesimo come elemento essenziale della tradizione nazionale italiana, cfr.    66    L'Enciclopedia italiana    Gentile cercò di contrastare l’offensiva cattolica, come  dimostrano l’organizzazione iniziale delle sezioni di argo-  mento religioso e i loro successivi cambiamenti. La sezione  « Materie ecclesiastiche » affidata a Tacchi Venturi, di cui  aveva parlato Treccani il 26 giugno ’25, non compare nel  Primo elenco di collaboratori dell'inizio del 26, quando  le trattative col Vaticano segnavano il passo; appaiono  invece quella di « Filosofia, Educazione e Religione » sotto  la direzione di Gentile, conforme alla concezione per cui  « la religione [...] solo idealmente è distinta dalla filosofia,  laddove in realtà ogni religione è sempre una filosofia, e ogni  filosofia, se degna del suo nome, è una religione » !*, la  sezione « Geografia sacra » sotto la guida di mons. Luigi  Gramatica, e quella di « Storia delle Religioni » con Raf-  faele Pettazzoni, che fra i primi aveva introdotto stabil-  mente in Italia la corrispondente disciplina, cui Gentile  riconosceva, sia pur con alcune cautele, validità scientifica !9.  Nel primo volume dell’Enciclopedia invece, uscito nel  marzo 1929 subito dopo i Patti Lateranensi, la generica  sezione « Materie ecclesiastiche » diretta da Tacchi Ven-  turi (probabilmente non limitata all’agiografia sacra o alla  liturgia) si affiancò a quelle già citate di Gramatica e Pet-  tazzoni, alla sezione diretta da Gentile che assunse il titolo  « Storia della Filosofia e Storia del Cristianesimo » dove,  accanto alla significativa scomparsa della « Pedagogia » e  della « Religione » (non sappiamo se come la prima assort-  bita dalla « Filosofia » o dalle « Materie ecclesiastiche »), si  registra il tentativo gentiliano di controllare — tramite  Omodeo, come vedremo — la « Storia del Cristianesimo ».  All’inizio del 1930 (vol. V) «Filosofia e pedagogia » e  « Storia del cristianesimo » risultano distinte, entrambe  sempre dirette da Gentile; ma poco dopo, nei primi mesi  del 1931 (vol. XI), « Storia del cristianesimo » è scom-    le osservazioni di A. Lo Schiavo, La religione nel pensiero di Giovanni  Gentile, in « La Cultura », n.s., VI (1968), pp. 354-357.   18 Il carattere religioso dell’idealismo italiano, ora in La religione,  cit., p. 439.   19 Cfr. ibidem, pp. 449454, la recensione del 1922 alla Storia delle  religioni di G. Foot Moore.    67    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    parsa: assieme al ritiro di Omodeo, ciò può essere inter-  pretato come un indebolimento della posizione gentiliana  in questo settore, e un rafforzamento delle « Materie eccle-  siastiche » di Tacchi Venturi.   L'offensiva ecclesiastica è evidente anche nel campo dei  collaboratori: mentre nel Prizzo elenco gli ecclesiastici so-  no 34 (pari al 2,4% del totale dei collaboratori), di cui  solo 5 gesuiti (di fronte a 13 francescani), nel I volume  (1929) sono già nella percentuale in cui parteciperanno a  tutta l’opera — oltre il 4%, di cui il 27% è formato  di gesuiti che costituiscono il gruppo più numeroso; ap-  paiono fin da ora i più eminenti: oltre a Tacchi Venturi,  Carlo Bricarelli, Enrico Rosa e Alberto Vaccari — e, se  si eccettuano Omodeo e Pincherle (storia del cristianesimo),  egemonizzano gli argomenti religiosi (agiografia e storia  della chiesa in particolare); accanto agli ecclesiastici, nel  I volume appaiono anche professori di Istituti cattolici  romani e della Cattolica — questi ultimi in numero di 6 —  che, osservava « La Civiltà cattolica » del 21 dicembre  1929, « per sincerità di fede affidano chi consulti quest’o-  pera » 1°,   L'assalto cattolico all’Enciclopedia era cominciato meno  di un mese dopo la costituzione dell’Istituto Treccani e  prima ancora che fosse annunciato l’accordo intervenuto  con le autorità ecclesiastiche: il 26 marzo ’25 padre Ago-  stino Gemelli — fondatore della Cattolica e paladino della  neoscolastica, e uno dei maggiori critici dell’attualismo —  aveva offerto il contributo suo (gratuito) e dei suoi « amici »  — proponedo per sé temi di psicologia !, di cui si occu-  perà nell’Exciclopedia assieme all’altro argomento in cui era  « competente », la Neoscolastica,' voce tutta impostata in  senso anti-idealistico —, confutando coi fatti il giudizio  negativo espresso politicamente su di lui e su tutta la cul-  tura cattolica dal gentiliano Giuseppe Saitta!”.    150 [G. Busnelli], L’« Enciclopedia Italiana », in «La Civiltà catto-  lica », 80 (1929), vol. IV, p. 538.   151 AEI, Lettere, Gemelli.   152 Rusticus [Giuseppe Saitta], L’Enciclopedia cattolica, in «Vita  nova », II (1926), n. 4, p. 62: « L’infaticabile Padre Gemelli ha lanciato    68    L’Enciclopedia italiana:    Gentile accettò la collaborazione di Gemelli e del  gruppo neoscolastico, seguendo il criterio per cui l’opera  doveva essere specchio fedele di tutte le correnti intellet-  tuali del paese. A questo criterio si ispirò anche Adolfo  Omodeo, cui Gentile affidò fin dall’inizio l’organizzazione  del settore religioso da lui diretto. Lo storico del cristia-  nesimo, le cui lettere e la cui nota vicenda personale sono  guida illuminante per seguire il peso crescente assunto all’  interno dell’Enciclopedia da Tacchi Venturi e dagli ecclesia  stici (soprattutto gesuiti), preparò elenchi di voci sull’e-  sempio della Britazzica — cercando di impedire, con una  trattazione storica degli argomenti, gli interventi dogmatici  dei collaboratori cattolici * —, e assicurò il contributo  di esponenti dei diversi indirizzi religiosi: gli allievi di  Buoniaiuti con in testa Alberto Pincherle !*, e il gruppo    l’idea di contrapporre alla enciclopedia “Treccani” diretta dal Gentile una  enciclopedia cattolica. L’idea è buona, anzi ottima, e noi l’approviamo,  perché cosi l’illustre frate che ha il merito di aver fondato un Istituto  Universitario del Sacro Cuore, di cui ancora ignoriamo i risultati, dimo-  strerà per l'ennesima volta che il pensiero cattolico nulla ha da dire di  veramente nuovo nel dominio scientifico. Si fa presto a trovare i milioni,  ma ciò che è difficile, difficile assai, è trovare le teste, e di teste colte,  sapienti, con tutta la buona volontà, non ne scopriamo molte nel campo  cattolico ».   153 Il 28 dicembre 1926 scriveva a Gentile: « Non sono riuscito a  intendere bene il criterio secondo cui è stabilito lo sviluppo da dare alle  singole voci. Noto che anche gli argomenti cattolici sono contenuti entro  limiti molto pi ristretti che nell’E.B. [Enciclopedia Britannica]. Ciò  non può dipendere dal fatto che sono aumentate le voci. Le voci aggiunte  non mi pare che superino i nomi di teologi e pastori protestanti da me  depennati l’anno scorso dagli elenchi dell’E.B. Può darsi che questo sia  un criterio già fissato (di restringere gli argomenti di storia cristiana ed  ecclesiastica). Badi però che c’è un pericolo, specialmente con la collabo-  razione dei cattolici: di rendere questa parte dell’Enciclopedia completa-  mente insignificante come i trattati e i manuali correnti nei seminari, che  nessuno consulta. Massima obbiettività e pura esposizione dei problemi:  sta bene. Ma quella gente non si contenta di questo. Vuole che i problemi  siano ignorati, il che significa tradire lo scopo principale dell’Enciclopedia.  È di ieri la condanna d’un manuale ortodossissimo di storia ecclesiastica  corrente nei seminari, pel solo fatto che onestamente informava dei punti  + Ag dei non ortodossi » (G. Gentile-A. Omodeo, Carteggio, cit., p.  369).   154 A Gentile, s.d. (ma 1925): « Ognuno del loro gruppo sceglierà le  voci che meglio rispondono alla loro preparazione e le tratterà. Ciò non  vincola menomamente l’atteggiamento che noi o essi crederemo o crede  ranno di prendere in altre opere, negli apprezzamenti reciproci. L’Enci-    69    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    di « Bilychnis » per la storia del protestantesimo ‘5. Ma,  fin dal 1926, le sue lettere a Gentile rivelano le pressioni  e poi il deciso intervento censorio degli ecclesiastici, che  alla fine del ’29, forti degli accordi dell’11 febbraio, co-  stringeranno Omodeo ad abbandonare il lavoro all’Enciclo-  pedia, dove sarà sostituito da Pincherle '*,   Da questo momento i gesuiti predomineranno nel set-  tore, e « La Civiltà cattolica », stendendo un bilancio dei  primi tre volumi dell’opera, poteva profondersi in lodi, pur  lamentando che parecchie voci fossero state affidate «a  laici non solo, ma di sensi non cattolici, quali il Pincherle e    l’Omodeo »:    Una particolare menzione [...] merita il saggio consiglio preso  dall’Istituto Treccani di affidare in avvenire la direzione della Sezione  Materie ecclesiastiche e la compilazione degli articoli nei quali più  facilmente possono trascorrere abbagli ed errori, ad ecclesiastici  dell’uno e dell’altro clero, italiani e stranieri, uomini tutti di sicura  dottrina nel campo della sacra letteratura.   C'è dunque ragione di stare a buona speranza che per quel che  riguarda direttamente la Chiesa, il dogma, la storia ecclesiastica, la  liturgia e le altre parti della dottrina e della scienza cattolica, non  s'incontreranno quei difetti, talora gravissimi, che scemano il valore  e la stima di altre enciclopedie, compilate con troppa assoluta indi-  pendenza, ignoranza o anche disprezzo del pensiero cristiano e  cattolico.   Oltracciò convien notare come i Direttori dell’Enciclopedia, sen.  G. Gentile e dott. C. Tumminelli, insieme col Consiglio direttivo  dell’Istituto Treccani, mentre lasciano agli scrittori la piena libertà  d’esprimere il concetto cristiano e cattolico e il giudizio dei fatti  secondo il criterio della soda indagine ecclesiastica, promettono di  invigilare che anche in altri articoli indirettamente attinentisi alla  religione cattolica e alle materie ecclesiastiche non vengano soste-  nute o insinuate sentenze o critiche contrarie o malfondate !9?.    Il giudizio dell’autorevole rivista suonava monito per il  futuro, non solo per le voci di argomento religioso. L’effi-    clopedia rifletterà obiettivamente la situazione presente della cultura ita-  liana » (ibidem, p. 356).   155 A Gentile, 5 novembre 1925 (ibiderz, p. 345).   156 Cfr. ibidem, e A. Omodeo, Lettere 1910-1946, Torino, Einaudi,  1963, in particolare la lettera a Gentile del 4 dicembre 1929.   157 [G. Busnelli], art. cit., pp. 535-536.    70    L’Enciclopedia italiana    cacia del controllo ecclesiastico, su cui esistono testimo-  nianze di contemporanei '* e che sarà verificata più avanti,  poggiava ormai sulla nuova situazione politica e culturale  creata dalla Conciliazione.   Con l’11 febbraio 1929 il contrasto fra cattolici e idea-  listi si trasformò in aperta frattura, registrata immediata-  mente dal VII Congresso di filosofia che vide lo scontro  fra Gentile e Gemelli. Il pericolo dell’ingerenza cattolica  fu avvertito subito da Gentile, che cercò di reagire attac-  cando il dogmatismo neotomistico '? e sottolineando il  carattere « religioso » dell’attualismo !9, La funzione da  lui svolta nel ’23-’26 era tuttavia destinata a indebolirsi  con la nuova alleanza stabilita dal regime, e l’Enciclopedia  diverrà luogo di uno scontro sempre più duro con i catto-  lici, nel '34 apertamente incoraggiati dalla messa all’indice  delle opere di Croce e Gentile.   Il quadro storico generale in cui nacque e fu realizzata  l’idea dell’Enciclopedia — fin qui tracciato — ha contribui-  to a spiegare le sue origini nel clima di riscossa nazionale  del dopoguerra, e la funzione di assorbimento di intellet-  tuali di diversa formazione da essa svolta nel 1925-26, e  in vista della creazione dello Stato totalitario; cercheremo  ora, attraverso la lettura interna dell’opera, di chiarire  le scelte culturali operate, che non possono essere dedotte    158 Minimizzato da Volpe (arz. cit., pp. 344 e 360), il controllo eccle-  siastico è invece ritenuto esteso a tutti gli argomenti da G. Calogero,  Mussolini, la Conciliazione e il congresso filosofico del 1929, in « La Cul-  tura », IV (1966), pp. 434-435, e testimoniato da G. Levi Della Vida,  op. cit., pp. 234-238.   19 Cfr. ad es. le dichiarazioni di Gentile riportate in « Educazione  fascista », VII (1929), p. 437.   16 Alla lettera del settembre ’28 con cui Giulio Salvadori rifiutò  l’invito gentiliano di collaborare all’E.I., «opera dove la filosofia domi-  nante nega Dio vivo e vero per adorare la divinità dell'uomo » (pubblicata  postuma da A. Frateili, Vita e poesia di Giulio Salvadori, in « Pègaso »,  I (1929), p. 107; ora in Lettere di Giulio Salvadori scelte e ordinate da  P.P. Trompeo e N. Vian, Firenze, Le Monnier, 1945, pp. 353-354),  Gentile rispose qualificando « giudizi temerari: 1) che nella detta Enciclc-  pedia domini una filosofia (che non è vero); 2) che la mia filosofia neghi  Dio vivo e vero (che è falso); 3) che adori la divinità dell’uomo (che è  un equivoco molto grosso)» (« Giornale critico della filosofia italiana »,  X (1929), p. 79).    71    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    meccanicamente dal rapporto col clima politico in cui ven-  nero attuate, anche se di questo dovremo tenere conto.  Centro di raccolta dei maggiori studiosi italiani, rappre-  sentanti non solo nel ’25 — quando li uni la politica  di « conciliazione » di Gentile — differenti indirizzi di  pensiero !, l’Enciclopedia fu considerata allora come uno  strumento capace di promuovere studi e ricerche in campi  fin allora inesplorati dalla scienza italiana ‘*. Nell’impossi-  bilità di controllare questa affermazione, ci limiteremo a  verificare il giudizio di quanti vi hanno visto l’espressione  di una cultura accademica impermeabile al fascismo, « po-  sitiva », costituita di « fatti » e di informazioni, contro la  quale polemizzeranno, in un ambiente sempre più chiuso    alle moderne esperienze contemporanee, i nuovi mistici    della fede cattolica o della « dottrina fascista » !9.    161 Sarebbe tuttavia da verificare l’accenno di Volpe (art. cit., p. 346)  alla diminuzione del numero dei collaboratori per volume, che potrebbe  indicare una maggiore progressiva uniformità di voci.   162 Cfr. ad es. Pincherle, per il quale l’E.I. « riproduce in sostanza lo  stato odierno della cultura italiana, con i suoi pregi e anche, è naturale,  con le sue deficienze: a riparare alle quali la preparazione di un'Enciclo-  pedia è appunto stimolo efficace più di tanti discorsi » (art. cif., p. 287),  e Gentile: «è già interessante vedere come quest’alta cultura italiana  abbia avuto dall’Enciclopedia uno sprone e uno stimolo a misurarsi in  campi finora trascurati [...]. L’Enciclopedia ha fatto sî che, p. es., ci  siano ora degli storici italiani (e questo è un fatto nuovo) che si occupano  di proposito di storia delle altre nazioni, dall'Europa all’Estremo Oriente.  Non uno o due specialisti, ma parecchi, e, quel che più importa, giovani »  (L’Enciclopedia Italiana, in « Rassegna italiana politica e letteraria », XIII  (1930), p. 324). Tanto che Volpe potrà dire che l’E.I. «fu, per dieci  anni, un gran porto di mare; fu la vera Universitas studiorum non di  Roma o d'altra città ma di tutta Italia e, un poco, di tutta Europa. E un  uomo di nome europeo, e pit che europeo, Gentile, ne era il Rector  Magnificus, sempre presente, anche se non ingombrantemente presente »  (art. cit., p. 359).   ‘018 Di voci «partigiane ma dignitose » ha parlato G. Devoto (Ur  ricordo, in « Il Corriere della sera », 4 gennaio 1972). Significativi il giu-  dizio di Ireneo Speranza [don Giuseppe De Luca, uno dei principali  collaboratori ecclesiastici dell’E.I.], Temzpo d'Enciclopedia?, in « Il Fron-  tespizio », XI (1937), pp. 93-95 (« Chi domanda all’Enciclopedia il corso  dei propri giorni e la regola della vita terrestre ed eterna? [...] L’Enci-  clopedia è ormai cosa da positivisti »), e il modo in cui venne annunciato  dalla stessa « Critica fascista » (XVI (1937-38), pp. 174-176) il Dizionario  di politica del Pnf che sarà pubblicato nel 1940: « prezioso repertorio  dottrinale, a base del quale non sarà tanto l'informazione quanto la valu-  tazione di idee e fatti “dal punto di vista fascista”: opera, cioè, come ben    72    L’Enciclopedia italiana    8. Il controllo del regime    A molti degli studiosi che hanno valutato complessi-.  vamente i contenuti dell’Enciclopedia, emblematica delle  vicende culturali del periodo fascista, è parso che in essa  permanessero i valori di una cultura impermeabile al fa-  scismo, sia per la presenza di eminenti personalità antifa-  sciste, come Solari e Mondolfo, sia per l’ampiezza di settori  ritenuti difficilmente influenzabili dall’ideologia del fasci-  smo, e dal carattere puramente espositivo, come quelli geo-  grafico e artistico. È il caso di Bobbio, per il quale l’opera è  « indiscutibilmente la più grande rassegna che sia mai stata  tentata sino ad oggi della cultura accademica del nostro pae-  se », e « non è, se non in qualche frangia marginale, che ap-  pare una stonatura, un’opera fascista », in quanto « tutto ciò.  che vi fu di fascistico, anzi di “squisitamente” fascistico, nei  trentasei volumi, fu concentrato nella voce Fascisnzo » !*:  un’interpretazione che, mentre coglie nell’impresa la pre-  senza di « tutto o quasi tutto lo stato maggiore della cultura.  accademica post-fascista », tende a negare qualsiasi influenza  dell’ideologia del fascismo sulla cultura, secondo la nota  tesi crociana.   Né si discosta molto dalla sostanza di questa interpreta-  zione, pur con giudizio di valore rovesciato, Asor Rosa, che,  attento a sottolineare la continuità del carattere di classe  della cultura borghese prima e durante il fascismo, si li-  mita — con Momigliano — a rimproverare agli intellettuali  che parteciparono all’impresa che, « collaborando, si colla-  borava inequivocabilmente ad un’opera del regime », osser-  vando tuttavia che in questo caso « la fascistizzazione della  cultura non comportò neanche un’“appropriazione” ideo-  logica, come quella verificatasi nel campo della scuola, ma  soltanto la gestione istituzionale di ampi settori d’intellet-    sanno i collaboratori che vi attendono fervidamente, “di impostazione e  di finalità politiche, e non di una pura e semplice enciclopedia cultu»  rale” » (R. De Mattei, Cultura fascista e cultura dei fascisti).   14 N. Bobbio, La cultura e il fascismo, in AA.VV., Fascismo e società  italiana, a cura di G. Quazza, Torino, Einaudi, 1973, pp. 215-16.    73    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    tuali di tendenze e opinioni diverse » !9. Solo Badaloni,  cogliendo la novità rappresentata dal fascismo anche in cam-  po culturale, ha avanzato l’ipotesi di un legame fra l’ideo-  logia del regime reazionario di massa e la cultura di cui  l’opera fu espressione, pur affermando che l’Enciclopedia  « si caratterizza certamente per l’aspetto della continuità »  rispetto alla tradizione precedente, assicurata dal ruolo  svolto da Gentile !9,   Un esame ravvicinato dell’opera permette in realtà di  individuare, accanto ai forti condizionamenti politici del  regime — divenuti espliciti nel 1933 con il riconoscimento  ufficiale dell’iniziativa di Treccani — e alla elaborazione di  una cultura propria del fascismo '”, l'impossibilità dei non  molti intellettuali non allineati al regime di mantenersi  autonomi all’interno di una istituzione fascista; e, infine,  il carattere non univocamente gentiliano dell’opera, non  tanto perché, come ha affermato Momigliano, Gentile si  limitava in alcuni casi a dare ai collaboratori il pane mate-  riale mentre Croce forniva quello spirituale, quanto perché,  più in generale, l'impresa enciclopedica si pose come coro-  namento di quel processo di selezione di una cultura di  destra — su cui ha insistito Amendola !* — che si era  venuta rafforzando a partire dall’età giolittiana, e, se vi fu  un elemento non completamente omogeneo a questa cul-  tura, esso non fu rappresentato dal liberalismo di Croce,  bensî dalla componente cattolica che, potenziata nel 1929,    16 A. Asor Rosa, La cultura, in Storia d'Italia, IV, Dall'Unità a oggi,  2, Torino, Einaudi, 1975, p. 1483.   16 N, Badaloni-C. Muscetta, Labriola, Croce, Gentile, Bari, Laterza,  1977, pp. 59-61.   167 Sulla « cultura del fascismo » cfr. l’introduzione di E. Garin a Intel-  lettuali italiani del XX secolo, Roma, Editori Riuniti, 1974, e la recen-  sione di G. Amendola al volume di Garin (ora in Fascisazo e movimento  operaio, Roma, Editori Riuniti, 1975, pp. 41-54).   168 G. Amendola, op. cit., pp. 41-54, che ha tuttavia negato l’esistenza  di una cultura fascista: « Non c’è stata una cultura fascista. C'è stata una  adesione politica degli intellettuali al fascismo, una accettazione del regime  sulla base di posizioni culturali molto diverse [...]. Al fascismo aderi-  scono positivisti e idealisti. Uomini di varie e contrastanti correnti arti-  stiche mantengono, nel quadro politico fornito dal regime, le proprie  posizioni culturali, e il regime lasciava correre » (Id., Intervista sull’anti-  fascismo, a cura di P. Melograni, Bari, Laterza, 1976, pp. 148-149).    74    L’Enciclopedia italiana    mirò a sostituirsi all’attualismo e al debole « laicismo » di  Gentile. Definire idealistica l’Enciclopedia, come da più  parti è stato fatto !’, è insufficiente a comprenderne la com-  plessità e, probabilmente, la stessa capacità di durata nella  cultura italiana. Per far ciò è necessario ricordare che  l’opera di organizzazione del consenso intrapresa da Gen-  tile nel 1925-26 fu integrata, non senza forti contrasti,  dall'intervento cattolico: la constatazione acquista tutto il  suo valore, ove si pensi che all’impresa furono interessati  3.266 collaboratori — « quel piccolo e rissoso e indisci-  plinato mondo degli “intellettuali” — il più riottoso, indi-  vidualista, disgregato — ha dato e dà da anni un esempio  di adattamento al lavoro collettivo », ricorderà nel 1941 il  revisore-capo Umberto Bosco !° —, e che, ad avvalorare  (in positivo e in negativo) il giudizio di alcuni studiosi sulla  continuità tra fascismo e postfascismo, l’Enciclopedia ha  attraversato impunemente la caduta del regime per presen-  tarsi ancora oggi, immutata nei contenuti dopo cinquanta  anni dalla sua apparizione, come strumento di lavoro di  studiosi e di studenti. Le Appendici che sono cominciate  a uscire nel 1949 non hanno potuto modificare i contenuti  generali dell’opera che, ristampata fotoliticamente nel 1949  mentre presidente dell’Istituto era diventato il cattolico  Gaetano De Sanctis, non ha sentito il bisogno, a differenza  dell’Enciclopedia britannica, di rinnovarsi col mutare della  società, degli orientamenti politici e delle prospettive cul-  ‘turali, attuando cosî, molto al di là delle sorti del regime al  quale è legata la sua nascita, l’auspicio, formulato nel 1938    da Gentile, di veder    prolungare la nostra vita in un’opera che continuerà ad essere ricer-    cata e apprezzata dagl’Italiani per cui essa è stata specialmente  pensata e compilata e per gli stranieri che noi ci lusinghiamo di    16 Essa fu qualificata un «enorme e informe cibreo idealistico-fa-  scista » da Togliatti, Antonio Gramsci e don Benedetto (1947), ora in I  corsivi di Roderigo, Bari, De Donato, 1976, p. 145. Di enciclopedia del-  l’idealismo parlano P. Piovani, Il pensiero idealistico, in Storia d’Italia,  V.I documenti, 2, Torino, Einaudi, 1973, p. 1580, e U. Spirito, Memzorie  di un incosciente, Milano, Rusconi, 1977, pp. 52-56 (dove l’opera è consi-  derata « una prosecuzione del fascismo »), e 126-134.   170 U. Bosco, Enciclopedia Italiana, cit., p. 321.    75    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    aver legati all'Italia con nuovi vincoli di simpatia e di stima, mentre  l’Italia per l’azione potente d’un grande Uomo e d’una grande Idea  risorgeva per la terza volta a imperiale potenza e riaffermava nel  mondo la sua missione !7!,    Il regime non si era limitato a condizionare dall’esterno  l’opera, ma ne aveva facilitato la realizzazione facendo pro-  pria l’iniziativa di Treccani. Le difficoltà economiche del-  l’Istituto originario insorte già nel 1928 e aggravatesi con la  grande crisi portarono nel 1931 ad una sua fusione nell’ente  editoriale Treves-Treccani-Tumminelli, e infine all’inter-  vento in prima persona del governo che, riconoscendo  l’opera di interesse nazionale, con d.l. 24 giugno 1933 co-  stituî, con il finanziamento di banche parastatali, l’Istituto  della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani,  sotto la presidenza di Guglielmo Marconi ‘2.   A queste vicende editoriali si accompagnò un pit stretto  controllo da parte del regime e l’abbandono della « poli-  tica di conciliazione » perseguita da Gentile nel 1925-26;  cosî, se ancora nel 1929 Gentile poteva riconoscere, nella  prefazione al primo volume dell’opera, « l'opportunità di  un ragionevole eclettismo e di una scrupolosa imparzia-  lità », nel 1931, spentesi le « battaglie » che si erano svolte  nella fase preparatoria — e di cui la vicenda di Omodeo è  l'esempio più significativo —, il direttore dell’Enciclopedia  notava che, « perduta per via qualche forza anche ingente,  non fatta per questa disciplina indispensabile a un lavoro  di questo genere, e formata ormai la famiglia, quale io la  sento intorno a me, dei direttori e redattori, si tratta piut-  tosto di scaramucce e di semplici avvisaglie » !?. Due anni  dopo, intervistato all’indomani del d.l. 24 giugno 1933,  Gentile marcava la differenza fra la situazione attuale e  quella di otto anni prima, ricordando che nel 1925    WI E.I., Appendice I, 1938, p. XII.   172 Cfr. ACS, Presidenza del Consiglio dei Ministri, (1937-39), n.  1942, fasc. 3, 2-6; Ministero della cultura popolare, b. 158, fasc. 3, e  G. Treccani, Enciclopedia Italiana Treccani. Come e da chi è stata fatta,  cit., pp. 27-28.   13 G. Gentile, Ancora delle tribolazioni di un enciclopedista. Come  d Dee e si cuce îl libro per tutti, in « Il Corriere della sera », 11 febbraio    76    L’Enciclopedia italiana    la collaborazione alla Enciclopedia venne aperta a quanti avevano  una fama sicura ed una competenza accertata nei vari rami delle  lettere, delle arti e delle scienze. Forse fu un errore. Ma allora,  mentre vivevano ancora i vecchi partiti, si pensava che la nostra  Enciclopedia potesse fare opera di concordia, accogliendo uomini  che, benché non fascisti, avevano accettato il programma dell’Isti-  tuto che si inspirava alla coscienza del glorioso passato del popolo  italiano e a quegli alti destini cui esso può e deve aspirare;    « seguiremo fedelmente le direttive che il Duce ci ha impar-  tito », concludeva rispondendo a una domanda sui propo-  siti per l’avvenire !*. È naturale che « Il Tevere » non  riprendesse le polemiche del 1926, ma si limitasse a notare  come l’opera « per l'ampiezza del testo e per la profonda  dottrina della compilazione » avesse assunto « il carattere  di grande Enciclopedia nazionale » !*. Tanto pi che, a con-  validarne l’aderenza al regime agli occhi di quanti vi ave-  vano criticato uno spirito quanto meno afascista, meno di  un anno prima della costituzione del nuovo Istituto sul-  l’Enciclopedia era stata pubblicata la voce Fascismo firmata  da Mussolini, subito presentata come la massima espres-  sione della dottrina del fascismo.   Non mancarono tuttavia, anche in questa fase, feroci  attacchi all'opera da parte de « La Vita italiana » del raz-  zista Giovanni Preziosi ‘ e de « Il Secolo fascista » di G.  A. Fanelli ‘”, l’antigentiliano ben visto negli ambienti cat-  tolici ‘* e autore nel 1933 del pamphlet Contra Gentiles  nel quale sosteneva che nell’Exciclopedia «i gentiliani    174 Origini e finalità della monumentale opera, in «La Stampa», 1  luglio 1933.   175 Il nuovo atto costitutivo dell'Istituto dell’Enciclopedia italiana  firmato alla presenza del Duce, in « Il Tevere », 3 luglio 1933. All’appa-  rizione del vol. I il giornale aveva commentato: «quanto ai gesuiti, si  può star tranquilli: giacché a curare, dell’Enciclopedia, la parte di cultura  religiosa è stato propriamente padre Tacchi-Venturi » (Nel cantiere dell’En-  ciclopedia, in « Il Tevere », 16-17 marzo 1929).   176 «La Vita italiana », maggio 1932, pp. 616-617; febbraio 1938,  pp. 216-218; settembre 1938, p. 377; novembre 1938, p. 660.   IT? Cfr. «Il Secolo fascista» del 1933 (1 maggio, pp. 139-40; 1-15  luglio, p. 245; 1-15 settembre, pp. 320-22) e del 1934 (1 aprile, pp.  132-133; 15 maggio, p. 177; 1 ottobre, pp. 334-335).   178 Cfr. ad es. la recensione di A. Bobbio a Contra Gentiles di Fanelli  (« Studium », XXIX (1933), pp. 533-534).    77    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    hanno organizzato con una perfidia senza precedenti, la con-  trorivoluzione, demolendo sistematicamente tutti i valori  esaltati dal fascismo, mistificando e stravolgendo il signifi-  cato delle sue istituzioni » !?. Ma furono voci minoritarie,  espressione di divergenze ideologiche e culturali, non poli-  tiche come nel 1926. Dubbi di natura politica, probabil-  mente collegati a lotte di potere scatenatesi nel 1933 per  il controllo dell’Istituto, furono avanzate solo in un rap-  porto anonimo a Mussolini del 1 luglio 1933, secondo il  quale fra i collaboratori dell’opera vi erano « parecchi anti-  fascisti », e veniva lasciata « troppo mano libera ai compi-  latori di cui son note le idee antifasciste »; ma Gentile poté  replicare di essere stato « autorizzato esplicitamente » da  Mussolini a mantenere le collaborazioni di Gaetano De  Sanctis e di Giorgio Levi Della Vida, che avevano rifiutato  il giuramento imposto ai professori universitari, e di eser-  citare un ferreo controllo sulla redazione e sull’esecuzione  di tutta l’opera: « Nella scelta dei collaboratori esterni  posso assicurare che si tiene il massimo conto delle tendenze  politiche degli scrittori scartando tutti gli antifascisti. Come  posso altresi assicurare che nessun collaboratore, in nessuna  materia, ha mano libera; e tutti gli articoli sono soggetti a  rigorosa revisione » !. Nelle sue memorie, del resto, De  Sanctis non si mostra cosciente del significato politico del-  l’Enciclopedia e quindi della sua partecipazione !, mentre  Levi Della Vida ricorderà di essere stato convinto a colla-  borare — dopo un primo rifiuto — dalla promessa di non  politicità dell’opera fatta da Gentile, pur riconoscendo che  « senza dubbio non può non avvertirsi in alquante voci del-       179 G. A. Fanelli, Contra Gentiles. Mistificazioni dell’idealismo attuale  nella rivoluzione fascista, Roma, Biblioteca del Secolo fascista, 1933, p.  96. Cfr. anche, per l’accusa mossa nel 1933 all’E.I. di aver « massacrato »  la storia di Roma, L. Bortone, Mito e storia di Roma durante il fascismo,  in « Palatino », XI (1967), pp. 407-408.   180 Cit. da R. De Felice, Mussolini il duce, I, Gli anni del consenso  1929-1936, Torino, Einaudi, 1974, pp. 107-108.   181 G. De Sanctis, Ricordi della mia vita, cit., p. 149. Scrivendo il 10  gennaio 1948 a Giuseppe Ricciotti, in qualità di presidente dell’Istituto,  De Sanctis dirà di voler continuare l’Ernciclopedia «evitando peraltro,  grazie al nuovo clima di libertà, quelle sia pur lievi concessioni che la  prima edizione ha dovuto fare ai tempi » (AEI, Lettere, Ricciotti).    78    L'Enciclopedia italiana    l’Enciclopedia il clima peculiare all’Italia di quel tempo, ma  direi che ciò è fatto con una tal discrezione, colla preoccu-  pazione, si direbbe, di non dar troppo nell’occhio: a ogni  modo confesso che mi sentirei forse più in pace colla mia  coscienza se avessi persistito nel rifiuto » !*.   Ciò che emerge con chiarezza dalla vicenda dell’Enciclo-  pedia è lo sforzo del regime, che appare in larga parte riu-  scito, di organizzare il consenso degli intellettuali. Questa  novità del fascismo era colta con difficoltà, all’inizio degli  anni ’30, dagli antifascisti; più attenti ai problemi della  cultura e degli intellettuali furono gli esponenti di Giustizia  e Libertà, fra i quali Lionello Venturi, che nel 1934 affer-  mava:    Sono abbastanza noti i provvedimenti presi dal fascismo per orga-  nizzare i corpi armati contro gli italiani oltre che contro gli stranieri,  e gl’istituti finanziari ed economici a favore di pochi arrivati al po-  tere. Ma non è ancora stato analizzato il successo del fascismo nel  promuovere la cultura in Italia. Mussolini ha compreso l’importanza  di una cultura foggiata a sostegno del regime, e, privo di ogni ideale  da offrire come meta all’intelligenza, convinto che solo il denaro  può interessare gli uomini, ha largheggiato di mezzi verso gl’intel-  lettuali in un modo inconsueto in Italia !8,    Ma anche gli esponenti di Giustizia e Libertà non  coglievano il contenuto di classe di questa « nuova » cul-  tura, e la capacità del regime — e poi dei cattolici — di  improntarla delle proprie ideologie. Può quindi essere utile  un sondaggio che, pur limitandosi a tre settori di voci del-  l’Enciclopedia — politiche, storiche, religiose —, cerchi di  valutare i contenuti culturali dell’opera nel più generale  contesto politico in cui fu realizzata: non tanto per rila-  sciare patenti di fascismo e di antifascismo a singoli colla-  boratori, quanto per vedere se nei loro contributi emerges-  sero o meno elementi funzionali all’ideologia che il fascismo  veniva elaborando. Con ciò non si potrà ritenere esaurito,  del resto, l’esame dell’opera, in cui ampio è l’apparato di  voci illustrative (tecniche, geografiche e artistiche); anche    182 G. Levi Della Vida, Fantasmi ritrovati, cit., pp. 229-230.  183 N. Travi (L. Venturi), La cultura italiana sotto il fascismo, in  « Quaderni di Giustizia e Libertà », giugno 1934, p. 47.    79    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    se un ulteriore approfondimento dovrà valutare fino a qual  punto queste ultime possano essere considerate esposizioni  asettiche, dal momento che, ad esempio, un geografo come  Roberto Almagià, ben inserito nelle istituzioni culturali e  negli organismi politici del regime — e direttore, con Re-  nato Biasutti, della sezione « Geografia » dell’Enciclope-  dia —, poteva affermare nel 1930 che le trenta pagine dedi-  cate alla geografia dell'Albania costituivano uno « spazio  non certo soverchio, relativamente alla importanza che  questo paese ha oggi per l’Italia » !#. Resteranno fuori dalla  nostra analisi, fra gli altri, due settori molto importanti,  quello filosofico e quello scientifico. Il primo, com'è natu-  rale, fu più direttamente controllato da Gentile, la cui in-  fluenza è facilmente avvertibile; ma può essere interessante  notare come in esso non manchino anche riferimenti all’at-  tualità politica: la trattazione dell’Idealismzo (1933) offre  ad esempio a Guido Calogero l’occasione per osservare che  « dalla sinistra hegeliana muovevano quei pensatori che,  come Marx, Engels e Lassalle, tradussero il dialettismo  genetico dell’idealismo in un evoluzionismo naturalistico,  condannando ogni spiegazione delle cose che non si rife-  risse nudamente alle ferree leggi della natura e traman-  dando tale fiero odio per ogni “ideologia” e “idealismo”  fino ai giorni nostri, in quei paesi, come la Russia, che da  essi hanno mutuato la concezione politica ». D'altro lato,  Ugo Spirito considera come filosofia del fascismo, sia pur  allusivamente, l’Attuzliszzo (1930), che « ha condotto alla  definitiva negazione della filosofia come metafisica e alla  sua identificazione con la storia e con la vita. Questo spiega  come l’attualismo non sia rimasto un puro sistema filosofico,  ma sia penetrato in tutti i campi della cultura e della vita  politica, e abbia condotto a un profondo rinnovamento della  coscienza nazionale ».    184 R. Almagià, La geografia nella Enciclopedia Italiana, in « Bollet-  tino della R. Società geografica italiana », s. VI, VII (1930), p. 306. Cfr.  già R. Biasutti-R. Almagià, Le geografia nella nuova Enciclopedia italiana,  in Atti del X congresso geografico italiano, Milano, Capriolo e Massimino,  1927, vol. II, p. 679: «Particolari cure sono rivolte all’Italia, alle sue  colonie, ed ai paesi che sono in più stretti rapporti col nostro ».    80    L’Enciclopedia italiana    Nel settore scientifico, in particolare per quanto ri-  guarda la storia della scienza — dove fu dato largo spazio  al « genio » italiano —, si assiste invece a una « divisione  del lavoro » tra studiosi non attualisti e gentiliani. Ugo  Spirito aveva sostenuto, al Congresso filosofico del 1929,  l’identificazione di filosofia e scienza, spingendo Gentile a  riconoscere nel 1930 l’importanza della storia della scienza  per la stessa ricerca scientifica ‘5; ed è proprio Spirito  l’autore della voce Scienza (1936) nella quale, dopo aver  tratteggiato storicamente il problema dell’unità o della di-  stinzione tra scienza e filosofia, oppone a Croce, teorico del  dualismo, il Gentile negatore di ogni distinzione tra concetti  puri e concetti empirici, e rivendica a se stesso e ad Ar-  naldo Volpicelli il merito di aver tentato di « dimostrare  che la distinzione dialettica dei momenti, essendo impli-  cita in ogni procedimento logico non può caratterizzare in  concreto la differenza di determinate scienze empiriche e  filosofiche, e che la distinzione di diversi gradi filosofici  (naturalistico e idealistico) deve essere superata anche nel  campo delle scienze particolari ». Il dualismo fu allora su-  perato solo apparentemente, nonostante la volontà degli  attualisti di impadronirsi della tematica scientifica da un  punto di vista filosofico. Nel 1935 Federico Enriques, lo  storico della scienza che dirigeva la sezione « Matematica »,  concludeva significativamente cosî una lettera a Gentile in  cui illustrava le proprie idee sulla redazione della voce  Scienza: « niente impedisce — se l’articolo Le apparirà  manchevole — che sia integrato da un successivo articolo  filosofico, nel senso che la parola ha per Lei, diverso dal  mio » !*. Fu questo il criterio che, se non fu adottato per  questa voce, guidò la redazione di molte altre di carattere  storico-scientifico, che vennero suddivise in due parti: una    185 G. Gentile, Introduzione alla filosofia, Milano-Roma, Treves-Trec-  cani-Tumminelli, 1933, pp. 197 e 202-204. A1 fatto che Gentile dette  «una certa estensione » alle voci di storia della scienza nell’Enciclopedia  accenna L. Bulferetti, Gli studi di storia della scienza e della tecnica in  Italia, in Nuove questioni di storia contemporanea, Milano, Marzorati,  1968, "vol. I, p. 655.   186 AEI, Lettere, Enriques.    81    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    più propriamente scientifica, riservata a studiosi di forma-  zione positivistica, e una filosofica, affidata ad attualisti,  come nel caso di Galileo, scritta da Roberto Marcolongo e  Vito Fazio Allmayer, o di Leonardo, dove accanto ai vari  specialisti della multiforme attività dello scienziato volle  apporre la sua firma lo stesso Gentile.    9. Le voci politiche e l’ideologia del fascismo    L’esame delle principali voci di carattere politico con-  ferma pienamente l’esistenza non solo di una ideologia,  ma anche di una cultura fascista, attraverso la quale il re-  gime cercò di costruirsi una legittimazione storica. Resta  ancora da compiere una ricognizione degli studi di scienze  politiche che si vennero elaborando in Italia tra le due  guerre mondiali e che, non limitandosi a ricostruire le di-  scussioni metodologiche sulla storia delle dottrine politi-  che !”, sia attenta al legame con la tradizione inaugurata da  Mosca, Pareto e Michels, e a quello tra elaborazione teo-  rica e ricostruzione storica, al rapporto con la politica svi-  luppata dallo Stato fascista e alle istituzioni in cui questi  studi si concretizzarono, in un momento in cui, proprio a  partire dal 1924, furono create le prime Facoltà di scienze  politiche dalle quasi ci si attendeva la formazione di una  nuova classe dirigente !'*. Le voci enciclopediche sono solo  una spia della estrema ideologizzazione cui era soggetta  questa tematica, e della fortuna della concezione gentiliana  dello Stato, che più di quella di Croce cercò di affrontare  il problema dell’emergere delle masse sulla scena politica  nazionale !9,   Non ci sembra di poter condividere l’opinione di Bob-    187 Cfr. ad es. S. Testoni, La storia delle dottrine politiche in un dibat-  tito ancora attuale, in «Il Pensiero politico », IV (1971), pp. 306-380.   188 Un interessante tema di ricerca suggerisce in questo senso A. Mon-  tenegro, Politica estera e organizzazione del consenso. Note sull’Istituto  per gli studi di politica internazionale. 1933-1943, in « Studi Storici »,  XIX (1978), p. 781.   189 Cfr. le osservazioni di R. Racinaro, Intellettuali e fascismo, in  « Critica marxista », XIII (1975), pp. 189-196.    82    L’Enciclopedia italiana    bio che la presenza dell’ideologia fascista nell’Enciclopedia  sia avvertibile solo nella voce Fascismo. Anche se già nel  1930 Treccani aveva potuto affermare, ringraziando Mus-  solini per la promessa fatta a Gentile di collaborare per  questa voce, che « l’Enciclopedia non poteva ottenere pit  importante e significativo suggello del carattere suo, di  opera italiana del regime » !”, la voce, scritta frettolosa-  mente nei primi mesi del 1932 da Gentile per la prima  parte (« Idee fondamentali ») e da Mussolini per la seconda  (« Dottrina politica e sociale ») !", non è, all’interno del-  l’opera, l’unica né, forse, la più articolata espressione del-  l'ideologia e della cultura politica del regime. Uscita nello  stesso anno in cui Croce pubblicava il manifesto del libera-  lismo, la Storia d’Europa, quella che i contemporanei con-  siderarono la summa dottrinale del fascismo colpisce infatti  per la sua genericità, dovuta probabilmente anche alla vo-  lontà di non dare appigli a quanti, all’interno del regime,  cercavano di appropriarsene la dottrina. Se la « mano » di  Gentile è indubitabile, come rilevarono subito i commenti  degli antifascisti — « La Libertà » sottolineò nella voce la  concezione dello Stato propria del « filosofo della Enciclo-  pedia Treccani », mentre « Lo Stato operaio » colse nella  prima parte dello scritto « la marca di fabbrica della ditta  intitolata a Giovanni Gentile » !” —, non è meno signifi-  cativo il fatto che i commentatori di parte fascista non des-  sero un particolare rilievo alla influenza attualista, e ciò non  solo per piaggeria verso Mussolini, che aveva firmato tutta  la voce. Un accenno, sia pure sfumato, vi è solo in Bottai —  più vicino al filosofo siciliano — il quale osservò che con  la Dottrina del fascismo la cultura moderna era giunta « a    190 Treccani a Mussolini, 23 giugno 1930 (ACS, Segreteria particolare  del Duce, Carteggio riservato, b. 49, sottofasc. 1).   191 Cfr. ibidem, sottofasc. 2, Segreteria particolare del Duce, Carteggio  ordinario, n. 545-709, e la testimonianza di A. Iraci, Arpinati l'opposi-  tore di Mussolini, Roma, Bulzoni, 1970, pp. 177-180. A parte questo  caso, l’attribuzione di alcune voci non firmate si basa sulle lettere e sullo  schedario per autori conservati presso l'Archivio dell’Enciclopedia italiana.   192 Il duce-filosofo e lo Stato fascista, in «La Libertà», 11 agosto  1932; A.D. (Ambrogio Donini), Il fascismo secondo Mussolini, in «Lo  Stato operaio », VI (1932), p. 571.    83    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    quella critica del socialismo e del liberalismo, a quel senso  realistico della storia e a quel pensiero idealistico, che sono  stati, prima oscuramente ora chiaramente, i caposaldi del  pensiero mussoliniano » !'*. Gli anti-gentiliani furono in-  vece assai espliciti nel distinguere la dottrina del fascismo  dall’attualismo: non solo, naturalmente, Fanelli '*, ma  anche Carlo Costamagna, autore di parte della voce Corpo-  razione: dopo aver affermato che « il fascismo, pur posse-  dendo una dottrina, non può e non deve possedere una  filosofia », perché « non esistono verità assolute, eterne e  universali, fuori del dogma religioso per il credente », no-  tava che « l’attivismo fascista è lo sforzo ad impadronirsi  della realtà e a dominarla, e nulla ha di comune con quel-  l’attualismo neo-hegeliano che, nell’illusione di assorbire e  superare il razionalismo e il materialismo, coi soliti espe-  dienti dell’astrazione, non ha saputo apprestare se non  “una esercitazione di parole”, buona a giustificare qual-  siasi comportamento pratico, ricadendo negli eccessi dialet-  tici propri ad ogni filosofia delle epoche di decadenza » !*  E particolare significato assume il commento della rivista  ufficiale di Mussolini, « Gerarchia », che nell’ottobre 1932  sembra attaccare, oltre a Gentile, gli esiti « di sinistra » del  gentiliano Ugo Spirito quali si erano manifestati, nel maggio    19 II secolo di Mussolini, in « Critica fascista », 15 agosto 1932, p  302. Bottai insisteva su una presentazione « di sinistra » della dottrina del  fascismo: « nega l’ideologia marxista, ma accoglie il movimento operaio,  dandogli un posto giuridico-politico nello Stato; nega l'ideologia demo-  cratica, ma non intende restituire gli individui alla condizione di bruti  privi di dignità spirituale, come sarebbe in uno Stato di polizia »; « La  dottrina del fascismo, che non ignora né l’esperienza democratica né quella  socialista, concepisce lo Stato come il sistema dei diritti-doveri degli indi-  vidui organizzati per raggiungere i più alti fini etici della personalità  umana (nella sua concretezza nazionale), e non può fare a meno di  tendere verso una giustizia sociale che, in regime liberale, non poteva  non essere calpestata. In questo senso se il nostro secolo, come dice  Mussolini, sarà un secolo di destra, esso, proprio perché è il secolo dello  Stato (se lo Stato non è, e non dev'essere, strumento della prepotenza dei  pi forti), sarà un secolo di sinistra [...]. E l’organizzazione corporativa  italiana ne è una prova ». Bottai sarà autore della voce Corporativismo  nell’Appendice del 1938.   4 G.A. Fanelli, Contra Gentiles, cit., pp. 166, 170, 180 ss.   1 G: Costamagna, Pensiero ed azione, in «Lo Stato», III (1932),   pp. 670-671.    84    L’Enciclopedia italiana    precedente, al II Convegno di studi corporativi di Ferrara:  la parola di Mussolini poneva fine, secondo la rivista, al  tentativo delle varie correnti culturali italiane di mono-  polizzare la dottrina del fascismo, la quale    fu identificata anche con il benedetto, onnipresente liberalismo:  sia con quello vero, che, partendo dal mito delle intangibili libertà  individuali, si fermava allo stato come complesso di servizi utili e  giungeva, al massimo, ad accettare un forte stato di polizia, guar-  diano notturno dell’ordine pubblico; sia col liberalismo ancora  pié vero, che dalla base della fantastica acrobazia dialettica della  identità assoluta fra stato e individuo, finiva, logicamente, con l’iden-  tificare la dottrina fascista con l’utopia comunista !%.    Colpisce infatti, soprattutto nella parte sulla « Dottrina  politica e sociale », che alle « istituzioni corporative » sia  fatto solo un cenno assai rapido, nonostante che a partire  dal 1929 l’elaborazione della dottrina corporativa fosse an-  data molto avanti”, e nella voce si insista sul fatto che  proprio dopo la crisi del 1929 « chi può risolvere le dram-  matiche contraddizioni del capitalismo è lo Stato ». Il mo-  tivo, suggerito da « Gerarchia », è reso esplicito da « Vita  nova », la rivista del gentiliano Giuseppe Saitta, per il  quale « dopo il mirabile articolo del Duce sulla dottrina  del fascismo, pubblicato nell’Enciclopedia Treccani, discu-  tere sulla struttura filosofica e politica della relazione Spi-  rito al Convegno di studi corporativi, è non solo vano ma  temerario », in quanto la corporazione proprietaria « ci  riporterebbe pari pari all'esperienza bolscevica » !*.   Nonostante queste prese di distanza — ma è da ricor-  dare che anche Gentile precisò il suo pensiero rispetto a  quello di Spirito —, risulta evidente la « marca di fab-  brica » gentiliana della voce, anche se alcuni passi possono  ricordare formulazioni di Rocco !: cosî nella dichiara-    1% F. Caparelli, La dottrina fascista nel decennale, in « Gerarchia »,  XII (1932), pp. 881-882.   197 Cfr. A. Aquarone, L'organizzazione dello Stato totalitario, cit., pp.  188 ss.   18 Noi, La corporazione proprietaria, in « Vita nova », VIII (1932), p.    2.  19 Cfr. ad es. il discorso del 30 agosto 1925 di A. Rocco, La dottrina    85    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    zione del carattere « assoluto » dello Stato e nell’afferma-  zione della preminenza dello Stato sulla nazione — fatta in  implicita polemica con i nazionalisti ®” —, che sarà ripe-  tuta da Felice Battaglia in Nazione, e non sarà negata nella  voce Nazionalismo di D'Andrea e Federzoni, preoccupati  solo di dimostrare le origini antidemocratiche del naziona-  lismo europeo, e contestare la primogenitura francese sul  nazionalismo italiano di Corradini; o nel paragrafo sulla  religione cattolica, in cui si dice che « il fascismo rispetta il  Dio degli asceti, dei santi, degli eroi e anche il Dio cosi  com'è visto e pregato dal cuore ingenuo e primitivo del  popolo ». Pi accentuata che non in Gentile è invece la  negazione dell’800 come «secolo » del liberalismo, che  vide, al contrario, la vittoria di Napoleone III e di Bismarck  « il quale non seppe mai dove stesse di casa la religione  della libertà e di quali profeti si servisse », e, nel Risor-  gimento italiano, l’apporto decisivo di Mazzini e Garibaldi,  « che liberali non furono ».   Ciò che comunque interessa rilevare, al di là della  ricerca delle sue fonti teoriche, è il fatto che la voce, pur  nella sua genericità, condensa quei capisaldi dell’ideologia  del fascismo che circolarono ampiamente, negli anni ’30,  negli scritti di studiosi di scienze politiche, di giuristi, sto-  rici, economisti; né sarà da dimenticare che, oltre a essere  diffusa e commentata in numerosissime edizioni, essa nella  sua parte propriamente mussoliniana (« Dottrina politica  e sociale »), fu premessa allo statuto del Pnf del 1938. Non  vanno quindi considerate semplici enunciazioni propagan-  distiche la.negazione del materialismo storico e della lotta  di classe — con espressioni in cui Gramsci coglieva l’in-  flusso di Loria ?! —, o quella del pacifismo — ribadita in  Pacifismo di Giorgio del Vecchio —, l’affermazione della  vocazione impetrialistica dell’Italia fascista, e la pretesa del  fascismo di presentarsi come il superatore, e l’inveratore,    politica del fascismo, in Scritti e discorsi politici, III, La formazione  dello Stato fascista (1925-1934), Milano, Giuffrè, 1938, pp. 1093-1115.  20 Per una polemica esplicita cfr. G. Gentile, Origini e dottrina del  fascismo, cit., pp. 44-45.  21: A. Gramsci, Quaderni del carcere, cit., p. 1145.    86    L’Enciclopedia italiana    del liberalismo classico e del socialismo: un punto, que-  st’ultimo, sul quale insisterà anche Volpe nella parte della  voce dedicata alla storia del movimento fascista, in cui  cercherà di dimostrare che, nell’età della « politica delle  masse », il fascismo era l’erede genuino del socialismo:    come il socialismo di Mussolini — che era specialmente una posi-  zione di lotta — si aprî all’accettazione piena dei valori nazionali,  cosf questi valori non misero troppo nell’ombra quel socialismo: il  quale, respinto energicamente come partito, respinto anche come  dottrina e come filosofia a fondo materialistico, rimase come senti-  mento, rimase come simpatia per il mondo del lavoro, come aspi-  razione a liberare le masse dal giogo del partito e dalla corruzione  della politica, allo scopo di promuoverne l’autoeducazione, farne  l'artefice diretto della propria fortuna, come del resto era nella con-  cezione dei sindacalisti.    Con questa mistificazione si completava cosî quella  « soprastruttura ideologica » della borghesia italiana che,  osservò « Lo Stato operaio », usava ora « nuovi e pit raf-  finati mezzi di oppressione e di sfruttamento per consoli-  dare il proprio dominio e prolungare la propria esisten-  za» 2,   Alle formulazioni di Fascismo si fa un rinvio non solo  formale nelle principali voci politiche e politico-economi-  che affidate a esponenti dell’attualismo come Felice Bat-  taglia e Ugo Spirito. Battaglia, che negli anni ’30 fu uno  degli animatori del dibattito sulla storia delle dottrine poli-  tiche sviluppando la distinzione crociana fra teoria e prassi  politica ?*, tanto da ritenere che « la storia delle dottrine  politiche [non] debba direttamente servire alle nostre  attuali finalità » ?*, dimostra in realtà, in voci come Demo-  crazia, Partito, Stato, una stretta dipendenza dall’elabora-  zione gentiliana e una precisa strumentalizzazione di questi  concetti in funzione dell’ideologia fascista. Occupandosi  della Demzocrazia (1931) nel periodo medievale e moderno,  dopo aver sostenuto, sulla traccia degli studi di Ercole sui    2 Art. cit., p. 572.   25 S. Testoni, erf. cit., pp. 336-344.   2 F. Battaglia, Oggetto e metodo della storia delle dottrine politiche,  in «Rivista storica italiana », s. V (1938), fasc. III, p. 30.    87    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    comuni e sulle signorie venete — che, come osserverà  Chabod, anch'egli debitore di Ercole, influirono largamente  sul pensiero storiografico fra le due guerre, con il loro  « assillo di cercare, ad ogni costo, lo stato moderno già nel  passato italiano » ?° —, che la signoria non è « negazione  sic et simpliciter del principato popolare, ché anzi le sue  origini in Italia derivano proprio dal popolo, di cui il  tiranno si atteggia difensore contro le classi privilegiate »,  e dopo ‘aver osservato che « l'ideale di piena democrazia  vagheggiato dal Rousseau era inattuabile, un regime di dei  più che di uomini », Battaglia nota che anche nelle società  moderne « la democrazia ha bisogno di alcuni presupposti  senza i quali non solo non fiorisce, bensî decade e conrrompe  i popoli ». Facendo sue le tesi espresse dal liberale inglese  James Bryce in Democrazie moderne — un’opera tradotta  in italiano proprio nel 1930-31 a cura del cattolico Luigi  Degli Occhi, e che è nella sostanza una critica dei principi  dell’89 * —, secondo le quali « la democrazia si sviluppa  su un sostrato di diffuso benessere collettivo » e « fiorisce  solo nei paesi abituati al governo locale », pur essendo in  crisi anche in paesi evoluti come la Francia e gli Stati Uniti,  Battaglia conclude che    in Italia la democrazia intesa come pratica di autogoverno non ha  avuto una tradizione e una linea. Lo stesso processo unitario ci  spiega ciò. L’unificazione amministrativa imposta da Torino dopo  il 1861 tolse in fondo la possibilità di quell’autogoverno locale che  costituisce il fondamento della vera democrazia    e inutile fu anche l’allargamento del suffragio, perché    25 F. Chabod, Gli studi di storia del Rinascimento, in AA.VV., Cin-  uant'anni di vita intellettuale italiana 1896-1946. Scritti in onore di  enedetto Croce per il suo ottantesimo anniversario, a cura di C. Antoni   e R. Mattioli, Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 1950, vol. I, p. 178.  Per l’influenza di Ercole su Chabod, all’inizio della sua attività, cfr. S.  Pizzetti, Federico Chabod storico delle Signorie, in « Nuova rivista sto-  rica», Lu (1977), p. 564 e n.   Sebbene la democrazia si sia diffusa, e quantunque nessun paese,  che ha provata, dia dei segni di abbandonarla, noi non siamo autoriz-  zati a ritenere, cogli uomini del 1789, che essa sia la forma di governo  naturale, e, perciò, a lungo andare inevitabile » (J. Bryce, Democrazie mo-  derne, Milano, Hoepli, 1931, vol. II, pp. 25-26). L'opera sarà ristampata  da Mondadori, sempre a cura di L. Degli Occhi, nel 1949-1953.    88    L’Enciclopedia italiana    c’è rappresentanza vera solo dove c’è coscienza, ciò che in Italia  mancava [...; cosi] la democrazia italiana continuò la sua vita  stentata e in fondo illiberale nel trasformismo, che palliava conati  di dittature singole, finché si dimostrò impotente ad arginare  un moto come il fascismo, in parte espresso da quelle stesse forze  sindacalistiche che essa aveva ignorato.    Parallela a questa svalutazione della democrazia con-  dotta sul piano storico, è la negazione dell’esistenza di una  vera e propria tirannia nelle moderne società di massa (Ti  rannia e tirannicidio; da notare che nell’Exciclopedia manca  la voce Dittatura: c’è solo Dittatore per l’età romana):  infatti, spiega Battaglia,    a parte che la pratica possibilità della tirannia è ognora più ridotta,  oggi il sistema dei controlli giuridici e politici e la pressione dell’o-  pinione pubblica sono tali che la figura del despota exercitio appare  affatto letteraria, Le moderne dittature facendo appello al popolo,  non solo per costituirsi attraverso i plebisciti i titoli giuridici del  potere o per sanarli se difettosi, bensi anche per suffnagare del  consenso nazionale ogni loro attività, appaiono poggiare sulle masse  più che le stesse democrazie. Insomma i fenomeni e le teorie ac-  cennate a proposito della tirannia hanno significato con riferimento a  piccole società politiche e non agli enormi aggregati statali moderni.    Mentre Alberto Maria Ghisalberti svaluta la funzione  svolta dal Parlamento (1935) nella storia dell’Italia libe-  rale — col fascismo invece « il parlamento, che si avvia a  un'ulteriore riforma in senso corporativo, superiore alle pic-  cole lotte d’un tempo, restituito alla sua naturale funzione,  ha svolto attiva, proficua opera legislativa » —, e Arnaldo  Volpicelli sviluppa una dura « critica del concetto di rap-  presentanza » (Rappresentanza politica, 1936)”, che nella  esposizione della storia del principio maggioritario Edoardo  Ruffini non è in grado di controbilanciare ?*, Battaglia    207 Lo Stato in quanto « organizzazione totalitaria del corpo sociale »,  « non può né deve agire iure repraesentationis, ma iure proprio »; solo lo  Stato corporativo fascista «si afferma e si attua sempre più come uno  stato coincidente con la stessa e intera collettività nazionale corporati-  vamente organizzata », « perciò appunto sarà davvero libero e generale ».  Anche la prima parte della voce, scritta da Luigi Rossi, critica i vari  sistemi di rappresentanza politica.  Nella voce Maggioranza (1934) Edoardo Ruffini, autore nel 1927    89    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    svolge (Partito, 1935) la concezione del partito unico, che    sembra legarsi in parte alla tendenza oligarchica rilevata dalla scienza  come necessaria nel partito. Non rinnegando l’ampio fondamento  democratico, esalta l’aristocrazia militante dei primi confessori dell’  idea e sublima religiosamente il capo (Duce, Fiihrer). Il partito  divien stato; acquista rilievo giuridico, assurge personalità morale;    è cosî composto, gentilianamente, il contrasto individuo-  Stato: l’esperienza del fascismo e del nazismo    non elimina la dialettica delle tendenze, sempre operosa nel gruppo  nazionale unitariamente inteso. Appunto perché il partito unico  s'identifica con lo stato, la dialettica non è fuori dallo stato e questo  sopra di essa, indifferente, ma nello stato in quanto formazione etica,  quindi nel partito in quanto, spiritualmente viva, si svolga, si tra-  sformi arricchendo i suoi strumenti, i suoi organi, le sue funzioni.  Elidere ogni varietà di motivi in un’instaurazione dogmatica di prin-  cipi rigidi è vano sogno, ché oltre gli schemi irrompe la vita e il  contrasto. Ciò non esclude che questa debba ricondursi nell’ambito  totalitario dello stato, nell’unicità etica che questo rappresenta 29,    Dove più esplicito e dispiegato è il debito di Battaglia  verso Gentile, è nella voce Stato del 1936, riprodotta nel  1939 negli Scritti di teoria dello Stato, a testimonianza che  l’influenza gentiliana non fu limitata entro i confini del-  l’Enciclopedia”°. La storia dell'idea di Stato è ricostruita    de Il principio maggioritario, si limita ad affermare che «il principio  maggioritario ha avuto contro di sé nel secolo scorso tutti gli avversari  delle istituzioni democratiche, i quali spesso commisero l'errore di col-  pire il concetto tecnico giuridico di maggioranza quando volevano colpire  quello generico politico di moltitudine, di massa, dal punto di vista  aristocratico ». Questa voce ci sembra sopravvalutata in senso antifascista  da S. Caprioli nella riproposizione di E. Ruffini, Il principio maggiori-  tario, Milano, Adelphi, 1976, p. 129.   Nei termini della concezione dello Stato assoluto è condotta anche  la voce Reazione politica (1935), in cui Battaglia afferma che sia la rivo-  luzione sia la reazione hanno «un motivo di verità. I! loro contrasto è  la vita dello stato, che ha sempre in sé rivoluzione e reazione come libertà  e autorità, diritto ideale e diritto positivo da riaffermare ». Sempre di  Battaglia, ma più espositiva e con una nota polemica contro « gli assurdi  del superuomo » e il razzismo affermatisi nella Germania nazista, è  Politica (1935), rifusa in F. Battaglia, Lineamenti di storia delle dottrine  politiche, Roma, Foro italiano, 1936, dove però la nota polemica ora  accennata viene attenuata (p. 57).   210 In una lettera a Bosco del 19 novembre 1936 Battaglia dichiarava    90    L’Enciclopedia italiana    in funzione della concezione attualista, difesa da Gentile  nel 1931, contro le critiche dei cattolici, come una delle  poche dottrine o « miti » elaborati dal fascismo ?. Cosi,  all'affermazione che « senza l’inversione di valori operata  inizialmente dal cristianesimo, non si sarebbe mai potuto  addivenire all’idea di uno stato interiore ai soggetti, quale  l’età moderna esige e svolge » ?, segue la critica del giusna-  turalismo, che    conosce l’individuo, astrazion fatta dai gruppi nei quali pur vive.  La società nelle sue forme molteplici gli è estranea. Si spiega quindi  come esso, liberale e indifferente, ritenendo nella tutela giuridica  esaurito il suo compito, finisca per rivelarsi impotente a disciplinare  la vita delle classi inferiori, allorquando queste nel sec. XIX comin-  ciarono ad acquistare il senso della propria importanza. Donde ciò  che si è detto «crisi dello stato », come l’esigenza di un'ulteriore  integrazione, che, se nell’ordine pratico ha trovato la sua realtà  solo di recente con il fascismo (v.), nell’ordine teorico già era  stata proclamata necessaria da più di un autore    come Fichte e Hegel (« avere riconosciuto la spiritualità  dello stato è il suo grande merito. I suoi problemi ripren-  derà al principio del secolo presente il neoidealismo italiano,  rivivendoli in una esperienza affatto nuova »). Assai estesa  è l’esposizione della concezione gentiliana dello Stato etico,  tanto che Armando Carlini accuserà Battaglia di aver voluto  accreditare la filosofia di Gentile come filosofia del Pnf,  rivendicando invece l’originalità della dottrina fascista, non  solo « integrazione » pratica di quella gentiliana 25;    di avervi « messo le mani due volte come la Direzione desiderava » (AEI,  Lettere, Battaglia).   2 G. Gentile, Ideologie correnti e critiche facili, in « Politica sociale »,  III (1931), p. 169: «Ci dicono statolatri. Dacché è venuta la moda del  fascismo cattolico, frazione più o meno peticolosa ed eretica in seno  al fascismo, taluno ci parla con grande compunzione della necessità di  non lasciarsi attrarre dalla diabolica filosofia dello Stato etico ».   212 Uno spunto in questo senso era stato fornito nel 1916 da Gen-  tile, I fondamenti della filosofia del diritto, Firenze, Sansoni, 1961, p. 15.  Cfr. anche F. Battaglia, I/ corporativismo come essenza assoluta dello  Stato, in « Archivio di studi corporativi », VI (1935), pp. 314-15 (che  rinvia al capitolo sulla concezione cristiana dello Stato di G. Solari,  Ts etica e filosofica dello Stato moderno, Torino, « L'Erma »,   213 A. Carlini - F. Battaglia, Orientamenti, in « Critica fascista », XV  (1937), pp. 237-240.    91    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    mai come ora, specialmente in Italia, lo stato è reale nell’intendi-  mento speculativo. La filosofia non solo ne ha approfondito l’essenza  ideale ma ha contribuito a potenziarlo nella sua funzione storica,  promuovendone il sentimento nel popolo [...; e] l’uomo sociale,  che la sua socialità dispiega nello stato, è vicino a Dio, certo di  Dio ha l’animo preso e i divini comandamenti fa suoi per celebrarli  ogni giorno;    e Battaglia conclude la voce con l’esposizione della dottrina  fascista — continui sono i rinvii a Fasciszzo —, nell’intento  di dimostrare che lo Stato fascista non è teocratico o asso-  lutista, che, « opponendosi a due posizioni tradizionali del  pensiero politico, il giusnaturalismo liberale e il socialismo,  da questi rileva i motivi non perituri e li trasvaluta », e  che la « corporatività » è « la nota dominante dello stato  fascista », nel quale «cittadino lavoratore e soldato si  convertono assolutamente ».   Nella delineazione di aspetti essenziali dell’ideologia e  della cultura del fascismo spiccano, per alcuni accenti per-  sonali, le voci di Ugo Spirito Economia politica (1932) e  Liberalismo (1934), scritte nel periodo in cui più intensa  fu la sua partecipazione al dibattito sul corporativismo,  che fino al 1935 si collegò strettamente con la direzione,  assieme ad Arnaldo Volpicelli, dei « Nuovi studi di diritto,  economia e politica ».   L’importanza di queste voci è evidenziata anche dal  ruolo centrale avuto da Spirito nell’Enciclopedia, nella  quale fu redattore per ben otto materie (filosofia, economia,  statistica, finanza, diritto, storia del diritto, materie eccle-  siastiche e, fino al 1931, storia del cristianesimo) ‘“, finché  nel 1934 divenne segretario generale dell’opera, sempre in  un rapporto strettissimo con Gentile ?*, ciò che dovette  costituire un motivo di preoccupazione per quanti teme-  vano che la sua concezione del corporativismo, quale si  era espressa nel 1932 al convegno di Ferrara, influenzasse    214 Sulla collaborazione di Spirito all’Enciclopedia cfr. G. Santomas-  simo, Ugo Spirito e il corporativismo, in «Studi storici », XIV (1973),    p. 109 n.  215 Cfr. U. Spirito, Memorie, cit., p. 56.    92    L’Enciclopedia italiana    gran parte dell’opera ?*. Echi della sua posizione si avver-  tono in effetti in queste due voci, in cui Spirito, pur senza  riprendere la proposta della « corporazione proprietaria »,  rivendica il « carattere pubblicistico della proprietà pri-  vata » 2”.   Nella parte storica delle voci l’autore svolge, più che  una descrizione delle concezioni precedenti quella fascista,  una serrata discussione con queste, diretta a condannare  l’individualismo delle teorie fisiocratiche, liberali e socia-  liste. Come quella fisiocratica — si dice in Economia poli-  tica —, la scuola classica rimase « tutta informata dal prin-  cipio individualistico e liberistico proprio dell’illumini-  smo », e anche quando « l’economia nazionale o il socia-  lismo affermavano la superiorità dell’ente nazione o classe  o società su quello d’individuo, muovevano tuttavia dal  presupposto illuministico e liberale che l’individuo parti-  colare in qualche modo esistesse e avesse una realtà pro-  pria diversa da quella dell’organismo di cui faceva parte,  affermavano cioè una superiorità della nazione o della so-  cietà sull’individuo o una subordinazione di questo a quelle,  ma non giungevano a riconoscerne l’essenziale identità dia-  lettica ». Solo in Italia il rinnovamento dell’economia poli-  tica « ha raggiunto politicamente e scientificamente uno  sviluppo d’importanza fondamentale. Proprio in Italia, in-  fatti, la critica del pensiero illuministico era stata più peren-  toriamente condotta e i suoi risultati erano stati più deci-  sivi ”!8, Né le nuove affermazioni idealistiche erano state  al margine della vita politica, ché anzi questa ne ha risen-  tito fortemente l’influsso, giungendo ad affermazioni pra-    216 Cosf G. Preziosi, Ugo Spirito, in « La Vita italiana », maggio 1932,  pp. 616-617.   217 È da ricordare che nel corso dei lavori preparatori del Codice  civile del 1942 vastissimo fu il dibattito sulla « funzione sociale » della  proprietà: uno dei suoi partecipanti più insigni fu Salvatore Pugliatti,  di cui cfr. ad es. la raccolta di saggi La proprietà nel nuovo diritto,  Milano, Giuffrè, 1964.   218 Gli economisti italiani del ’700 come Galiani, aveva notato Spi-  rito, « anche quando più si discostano dalle teorie mercantilistiche e più  decisamente concordano con i fisiocrati, non accettano senza riserva il  dogmatismo individualistico e liberistico di questi ultimi e spesso fanno  posto a considerazioni di carattere che potremmo già definire storicistico ».    93    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    tiche addirittura rivoluzionarie »: con la Carta del lavoro,  ad esempio, « si dava il colpo di grazia al tradizionale libe-  rismo individualistico. Affermato il carattere pubblicistico  della proprietà privata, cadeva il fondamento dell’economia  liberale (l’homo oeconomicus guidato dall’ofelimità), e ra-  gione della vita economica diventava l’identità del fine sta-  tale e del fine individuale ». In questa ultima formulazione  si riflette il ripiegamento di Spirito rispetto alla sua primi-  tiva proposta, che era decisamente accantonata, anche se  in Mussolini continuò a manifestarsi « una comprensione  dei vantaggi che il regime poteva trarre dal vigilato dispie-  garsi di tendenze come quella impersonata da Ugo Spi-  rito » ?*: nel 1934, presentando la terza edizione di Capita-  lismo e corporativismo, Spirito affermava che « nessuno  più ardisce di scandalizzarsi se si parla di crisi del capita-  lismo e di trasformazione in senso pubblicistico della pro-  prietà. Quell’economia programmatica, che allora non si  sapeva scindere dal sistema bolscevico, è ormai accettata  come propria dal corporativismo ». La fondazione dell’Iri  dimostrava che « l'iniziativa privata non è più l’idolo in-  tangibile »; « rimarrebbe la terribile formula della corpo-  razione proprietaria, quella che ha generato tanto putiferio.  Ebbene, lasciamola pure da parte e non ci pensiamo pit.  Io per conto mio ci ho pensato su fino ad oggi e mi son  convinto che, se si accetta tutto il resto, la corporazione  proprietaria può addirittura sembrare sorpassata » ?®. Ana-  loga a quella della voce del 1932, e tutta interna alla tema-  tica gentiliana di individuo e Stato, è la conclusione di Libe-  ralismo, di cui è posto fin dall’inizio il problema del suo  sbocco nel corporativismo ?!.   La concezione che colloca l’individuo al centro dell’uni-  verso è seguita attraverso il Rinascimento e la Riforma, il  razionalismo cartesiano che « è già il principio della demo-    219 G. Santomassimo, art. cit., p. 109.   22 U. Spirito, Capitalismo e corporativismo, terza edizione riveduta  ed ampliata, Firenze, Sansoni, 1934, pp. XI-XIII.   21 La voce era già stata pubblicata in «Nuovi studi di diritto, eco-  nomia e politica», VI (1933), pp. 285-299. Nella nota bibliografica  Spirito giudica libri « sbagliati » la Storia del liberalismo europeo di De  Ruggiero e la Storie d’Europa di Croce.    94    L’Enciclopedia italiana    crazia del pensiero », la Dichiarazione dei diritti dell’uomo  e del cittadino dove (art. 4) « è il nucleo dell’individua-  lismo liberale e insieme il limite che il liberalismo non  riuscirà mai a superare davvero », con l’affermazione del-  l’antistatalismo e della proprietà privata. Conseguenza del  liberalismo sono considerati il dualismo tra governanti e  governati, che si manifesta attraverso l’istituto della rap-  presentanza, « trionfo materialistico del numero », e la  democrazia, che in Rousseau « mostra i suoi aspetti dete-  riori, convertendosi nel suo contrario e generando, nella  sete della libertà, la peggiore schiavità ». Le contraddizioni  del liberalismo, sorte col riconoscimento della necessità di  uno Stato e di un suo intervento soprattutto nel campo  economico, impongono secondo Spirito « una revisione  radicale del problema », e questa è individuata nella tradi-  zione italiana di pensiero, ricostruita secondo l’ottica gen-  tiliana, e nel corporativismo:    I precedenti di tale revisione vanno ricercati nel pensiero ideali-  stico, che fin dagli ultimi decenni del sec. XVIII comincia a contrap-  porsi all’affermazione del pensiero illuministico, razionalistico ed em-   iristico. Il pensiero del Rinascimento italiano, di un individualismo  n più profondo e spirituale, per cui l’individuo stesso coincide con  l’universale e l’universale in esso s’incentra, comincia a dare i suoi  frutti migliori, in contrasto con l’astrattismo del pensiero franco-in-  glese. Nei pubblicisti della nostra tradizione vichiana, nei filosofi  dell’idealismo tedesco, negli spiritualisti italiani della prima metà  dell'Ottocento, comincia a farsi strada un concetto di libertà politica,  in cui il dualismo di libertà e autorità, e quindi di individuo e stato,  è riconosciuto come il fondamento necessario della superiore sintesi  in cui consiste la vera libertà.    In particolare,    da Spaventa a Gentile, la tradizione del pensiero italiano ed europeo  viene determinata nelle sue linee essenziali, e in essa si ritrovano gli  elementi della nuova e più profonda fede nella libertà, che avrà poi  il suo sbocco nella rivoluzione fascista.    Con il « corporativismo integrale » il fascismo si avvia  infatti a risolvere, afferma Spirito, le antinomie del libe-  ralismo: l’individuo « deve realizzare la sua libertà e la sua    95    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    iniziativa nella collaborazione, e riconoscere il carattere  pubblicistico della proprietà », mentre « si svuotano cosî  di contenuto tutti i concetti tradizionali del liberalismo  individualistico e della democrazia », da quello di rappre-  sentanza a quello di maggioranza, da quello di eguaglianza  a quello di elettoralismo; « iniziativa privata e intervento  statale, e in conseguenza il problema dei rispettivi limiti,  diventano termini e problema senza significato ».   Il corporativismo di Spirito sposta cosî l’accento sulla  costruzione gerarchica dello Stato, e negli anni seguenti,  dopo la chiusura dei « Nuovi studi » (1935), si ridurrà, in  campo economico, alla difesa della « economia program-  matica », in cui l'affermazione del « carattere pubblicistico  della proprietà » — che come la proposta della « corpora-  zione proprietaria » mostra di non collocarsi al di fuori  della logica capitalistica — si precisa nella richiesta dell’in-  tervento statale reso necessario dalla crisi del 1929 2, A  scanso di equivoci, comunque, nel 1936 Fulvio Maroi ri-  cordò nella voce Proprietà che « alcuni scrittori (U. Spirito,  A. Volpicelli) hanno sostenuto che in regime fascista il  lavoro non può produrre una proprietà privata perché l’in-  dividuo, come tale, in regime corporativo non esiste, e che  il sistema corporativo sboccherà nella corporazione pro-  prietaria: questa concezione è però autorevolmente com-  battuta », concludeva, rinviando alla nota su Individuo e  Stato del 1932 nella quale Gentile — allora impegnato a  redigere le « Idee fondamentali » della voce Fascismo —,  a commento della posizione assunta da Spirito a Ferrara  precisava che    la socializzazione e statizzazione corporativa importa sempre un mar-  gine individualistico, in cui il processo corporativo deve operare. In    22 Cfr., nell’Appendice del 1938, Autarchia, Capitalismo (tutta la voce  è dedicata alla «crisi del capitalismo »), Economia programmatica. «I  precedenti delle nuove teorie — scrive Spirito in quest’ultima voce —  vanno ritrovati per una parte nei postulati del socialismo e per l’altra  nelle indagini circa l’organizzazione scientifica del lavoro ». Sul « fordi-  smo » di Spirito cfr. S. Lanaro, Appunti sul fascismo «di sinistra ». La  ASA, corporativa di Ugo Spirito, in « Belfagor », XXVI (1971), pp.  576-599.    96    L'Enciclopedia italiana    questo margine, ineliminabile, il rispetto dell’individuo è lo stesso  rispetto della corporazione: l’autolimitazione conseguente dello Stato  è la sua effettiva autorealizzazione. Lo Stato che inghiottisse davvero  l'individuo, riuscirebbe un pallone destinato subito a sgonfiarsi. Il  corporativismo, sente, sia pure confusamente, questo pericolo, anzi  questo destino del comunismo; e se ne vuol distinguere non annul-    lando quella sorgente di vita economica e morale che è nell’indi-  viduo 28.    Il timore che la posizione « di sinistra » di Spirito in-  fluenzasse la trattazione delle materie economiche dell’Ew-  ciclopedia, non aveva quindi ragion d’essere, come dimo-  strano del resto le voci di Augusto Graziani — fra cui  Bisogni, Capitale, Lavoro, Salario —, il quale nel 1930  aveva sostenuto che il Capitalismo    e nel rispetto della produzione e in quello della distribuzione, mani-  festa superiorità spiccata sugli altri sistemi che lo precedettero, e su  tutti i sistemi imperniantisi sulla collettivizzazione dei mezzi produt-  tivi, nei quali si urterebbe contro la fondamentale difficoltà dell’asse-  gnazione rispettiva dei compiti e si dovrebbe ad ogni modo attuare  una distribuzione che toglierebbe i maggiori impulsi all’operosità e  all’accumulazione; se si aggiunge la forte coercizione, intollerabile in  paesi avanzati di civiltà, si scorge come essi necessariamente addur-  rebbero a decremento enorme di produzione e ad arresto di pro-  gresso economico e sociale.    Può essere infine interessante notare come, almeno nel-  l’Enciclopedia, vi fosse negli anni 30 un’intensa corrispon-  denza fra le formulazioni di questi studiosi di scienze poli-  tiche e storico-economiche, e quelle di alcuni storici. Men-  tre ad esempio Spirito svolgeva una critica a fondo del libe-  ralismo, nella voce Borghesia (1930) Chabod avvalorava  la pretesa del fascismo di presentarsi antiborghese, negando  l’esistenza, nell’età contemporanea, di quella classe che del  liberalismo aveva fatto la propria bandiera politica. Come  il primo utilizza Gentile, il secondo riprende, con alcune  correzioni, le osservazioni di Croce intese a distinguere « la  borghesia in significato spirituale, la borghesia che è detta  cosîf per metafora (e per non felice metafora) dalla bor-    23 G. Gentile, Individuo e Stato, in « Giornale critico della filosofia  italiana », XIII (1932), pp. 314-315.    97    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    ghesia in senso economico, con la quale la prima si suole  scambiare, e, peggio ancora, deplorevolmente contaminare,  con danno non solo della storiografia ma del sano giudizio  morale e politico » 24. Mentre Croce respinge i termini  « borghese » e « borghesia » per indicare « una persona-  lità spirituale intera, e, correlativamente, un’epoca storica,  in cui tale formazione spirituale domini o predomini » ?°,  Chabod — che in quegli anni fa sua la negazione ottoka-  riana del criterio di classe nella storiografia ?*, e partecipa  del largo interesse che circondò nell’Italia fra le due guerre,  non solo fra gli studiosi cattolici, l’opera di sociologi come  Weber e Sombart che in opposizione al marxismo avevano  dato la « dimostrazione “scientifica” della priorità dello  “spirituale” sul “materiale”, della religione sulla econo-  mia » ?” — ritiene che « storia dello spirito borghese non  è altro se non storia dello spirito moderno, che ha certo  permeato di sé dapprima un certo ceto sociale, gli bomzines  novi, contrapposti alla feudalità e ai chierici, e con ciò alle  concezioni medievali; ma non è più oggi identificabile, sic  et simpliciter, con un solo, determinato gruppo sociale. E  se oggi ancora certi atteggiamenti spirituali e morali fonda-  mentali paiono più strettamente connessi con “la bor-  ghesia”, classe sociale; in effetto sfuggono al dominio di  un’etichetta sociologica, e sono atteggiamenti anche di  molti di coloro che combattono la borghesia in quanto ceto  sociale ». A differenza di Croce, e pur distinguendo fra  borghesia e capitalismo — nel primo ’800 « rimaneva, mal-    24 B. Croce, Di un equivoco concetto storico. La « borghesia » (1927),  ora in Etica e politica, Bari, Laterza, 19673, p. 283. Cfr. A. Garosci, Sul  concetto di «borghesia». Verifica storica di un saggio crociano, in  Miscellanea Walter Maturi, Torino, Giappichelli, 1966, pp. 439-475.   225 B. Croce, op. cit., p. 269.   26 Cfr. S. Pizzetti, Federico Chabod storico delle Signorie, cit., pp.  577, 580-81.   ZI È un'osservazione riferita a Weber da D. Cantimori nel 1948 (ora  in Storici e storia, Torino, Einaudi, 1971, p. 51). L'etica protestante e lo  spirito del capitalismo di Weber fu presentata nel 1932-33 nei « Nuovi  studi » di Spirito e Volpicelli da E. Sestan, che vi notava una reazione  al marxismo (cfr. l’introduzione di Sestan alla nuova edizione, Firenze,  Sansoni, 1965, p. 43). Chabod recensi Der Bowrgeois di Sombart in  « Rivista storica italiana », XLV (1928), pp. 51-52.    98    L’Enciclopedia italiana    grado tutto, l’ideale della vita ordinata e scevra di troppo  gravi turbamenti: onde i borghesi si trovarono fuori del  trionfo pieno di quella stessa mentalità capitalistica, di cui  pure avevano nei secoli precedenti costituito il prodro-  mo » —, Chabod ammette quindi per l’età moderna l’esi-  stenza di una « mentalità borghese », proiezione spirituale  della borghesia come classe (idee di tolleranza religiosa e  di libertà civile, ma anche, nel periodo della rivoluzione  francese, idee « astratte, antistoriche — talora anche pue-  rili »), ma ribadisce che di essa non è più possibile parlare  nell’età contemporanea, nella quale    siffatta mentalità non è più esclusiva della borghesia, come ceto  sociale. Ché, anzi, proprio per l’influsso della borghesia — cioè del  ceto socialmente, politicamente, culturalmente dominante nell’Euro-  pa del sec. XIX — tale mentalità ha permeato largamente di sé parte  della vecchia nobiltà, e specialmente gran parte degli strati inferiori  della popolazione. Il lavoratore si è contrapposto al borghese,  nell’Europa del sec. XIX: ma quanti punti di contatto tra la men-  talità dell’uno e quella dell’altro: quale influsso del secondo sul  primo! I miti di progresso e d’umanità, di fratellanza e d’uguaglianza,  che ai borghesi del sec. XVIII avevano servito di arma contro le  vecchie classi privilegiate, sono ritorti dagli agitatori socialisti del  sec. XIX contro la borghesia stessa e divengono ancora arma di lotta,  con altro bersaglio. Ma per ciò appunto quanta affinità tra gli uni e  gli altri! La forma mentis del borghese ha permeato di sé assai pit  ampio strato sociale; si è imposta, anche quando pareva combattuta;  e, se prima aveva potuto costituire veramente la forma mentis carat-  teristica d’un determinato ceto sociale, ora si dissolve come tale,  perde le sue peculiarità « classiste ».    Dove si evidenzia l’affinità con la conclusione della voce  Borghesia scritta nel 1940 per il Dizionario di politica del  Pnf da Salvatore Valitutti: « La società fascista che nello  Stato totalitario ha la sua espressione ignora l’esistenza di  ceti o classi a sé stanti e pertanto la parola “borghesia” è  destituita di ogni significato attuale ».   La voce di Chabod dimostra quindi come « la mistifi-  cazione arrivasse, per forza di cose, fino alle sfere più rare-  fatte di quella cultura che pure, soggettivamente, si rite-  neva del tutto indipendente dai volgari messaggi rivolti    99    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    alla massa », secondo quanto ha osservato Badaloni ”*, e  indica come molteplici fossero — in questo caso Weber  e Sombart, e la stessa riflessione crociana — i contributi  utilizzati per definire un’ideologia e una cultura del fasci-  smo.    10. L’assimilazione dei « competenti »: Gioele Solari e  Rodolfo Mondolfo    Sempre nell’ambito delle voci politiche incontriamo  due casi particolari, quelli degli antifascisti Gioele Solari e  Rodolfo Mondolfo, utilizzati per le loro « competenze »  specifiche — argomenti di filosofia del diritto, connessi con  la tematica della libertà, il primo; storia del socialismo e  del movimento operaio, il secondo —, e la cui presenza  potrebbe confermare il giudizio di quanti hanno negato la  connessione fra la « vera » cultura e il fascismo, ricavan-  done, in particolare, una valutazione « assolutoria » nei  confronti dell’Enciclopedia. Ci sembra tuttavia azzardato  dedurre dalla presenza di antifascisti in un’opera collettiva  il carattere oggettivamente antifascista della loro collabo-  razione scritta, senza cercare di cogliere lo spazio dei loro  contributi rispetto ad altri, e di approfondire gli eventuali  punti di convergenza — o di non contraddizione — fra la  loro produzione scientifica e quanto probabilmente lo stesso  Gentile, in assenza di una specifica sezione dedicata alla  « Politica », chiedeva loro.   La partecipazione di Solari, il quale nel 1925 aveva  accettato con entusiasmo di collaborare all’Enciclopedia,  « che vuol essere espressione del pensiero italiano nei suoi  più alti esponenti e nelle sue più alte manifestazioni » ??,  pone forse più problemi di quella di Mondolfo. Solari è  infatti impegnato, in quegli stessi anni, in un’importante ed  equilibrata opera di delucidazione della concezione liberale  dello Stato e dei concetti di liberalismo, costituzionalismo,    28 N. Badaloni - C. Muscetta, Labriola, Croce, Gentile, cit., p. 61.  29 Solari a Gentile, 2maggio 1925 (AEI, Leztere, Solari).    100    L’Enciclopedia italiana    democrazia nelle dottrine politiche del secolo XVIII, che  contrasta col metodo inquisitorio con cui questi erano esa-  minati ad esempio da Spirito nell’Enciclopedia — « non  è giusto fare il Rousseau responsabile della degenerazione  in senso realistico e materialistico dell'ideale democratico »,  sembra rispondergli Solari ?° —; egli oppone nel 1931, alla  valorizzazione de I/ concetto dello Stato in Hegel fatta da  Gentile, la scoperta hegeliana della società civile — «la  scoperta della società civile come concetto autonomo fu il  grande merito di Hegel, maggiore di quello che solitamente  gli si attribuisce di aver rinnovato il sentimento e la dignità  dello Stato » ?! —, e confutando la concezione dello Stato  corporativo espressa da Arnaldo Volpicelli osserva che il  neoidealismo ha    deviato dalla tradizione hegeliana (almeno quale io la intendo) circa  la natura e i fini dello Stato. Il neo-hegelismo tende, a mio credete,  verso un individualismo idealistico quando concepisce lo Stato non  in sé e per sé, ma nelle forme e nei limiti dell’individuo concreto,  singolo o associato che sia. Lo Stato è etico non perché vive in inte-  riore homine, ma perché è esso stesso realtà e sostanza etica che non  si concreta solo negli individui, ma progressivamente nella famiglia,  nelle associazioni, nella nazione, nell’umanità 22.    E tuttavia sarebbe necessario valutare come poté inse-    20 G. Solari, La formazione storica e filosofica dello Stato moderno,  Torino, Giappichelli, 19622, p. 131.   DI G. Solari, Il concetto di società civile in Hegel, in «Rivista di  filosofia », XXII (1931), ora in La filosofia politica, a cura di L. Firpo,  Bari, Laterza, 1974, vol. II, p. 254. Cfr. anche G. Solari, Lo Stato conse  libertà, in « Rivista di filosofia », XXII (1931), p. 114: «come organo  di valori universali e non solo di interessi nazionali o corporativi, lo  Stato può dirsi anche storicamente etico, purché sia ben fermo che esso  non è valore supremo e neppure esclusivo, che la sua eticità è misurata dal  grado con cui realizza esteriormente, cioè coi mezzi imperfetti e limitati  dal diritto, la socialità che è la forma concreta nella quale individui e  popoli affermano la loro libertà ». Per una riflessione sulla società civile  parallela a quella di Solari cfr. G. Zaccaria, L'itinerario politico di Giu-  seppe Capograssi. Il problema del rapporto tra la società e lo Stato, in  « da Pensinto politico », X (1977), pp. 390-418.   2 G. Solari, Stato corporativo e Stato etico (Lettera aperta al prof.  A. Volpicelti in «Nuovi studi di diritto, economia e politica », III  (1930), p. 119; cfr. anche la Risposta dl prof. Solari di A. Volpicelli,  ibidem, pp. 121-125.    101    H fascismo e il consenso degli intellettuali    rirsi nell'impresa diretta da Gentile la sua ricerca di una filo-  sofia sociale del diritto, « fermissima sempre nel respin-  gere l'egoismo implicito nelle varie dottrine individuali  stiche, germogliate dal giusnaturalismo e dall’utilitarismo,  ma impenetrabile altresi al materialismo dialettico mar-  xiano » ?*, e vedere se ciò fu possibile solo per l’esistenza  di comuni negazioni — l’individualismo e il marxismo —,  o anche perché la sua riflessione, dopo aver abbandonato,  all’inizio del secolo, i suoi presupposti positivistici (e ten-  denzialmente filosocialisti), sviluppandosi come « idealismo  sociale » trovò più che un semplice correttivo ** nel neo-  idealismo italiano. In questa sede si può solo propendere  per la prima ipotesi, constatando come nella maggior parte  delle voci di Solari vi siano — con la messa in sordina del  tema della società civile — forti scarti rispetto a quanto  scriveva contemporaneamente fuori dell’Ewciclopedia, per  cui esse non turbano l’immagine generale dello Stato for-  nita dall'opera, anche se esprimono in maniera più equili-  brata e problematica di quanto non facciano gli attualisti  il problema dei rapporti fra diritti individuali, società e  Stato.   Una esplicita distinzione fra il proprio « idealismo so-  ciale » e quello di Croce e di Gentile si ha solo in una delle  prime voci, Filosofia del diritto, sottovoce di Diritto  (1931):    L’idealismo del Croce e del Gentile, fondandosi su una dialettica  dello spirito individuale, portava logicamente a risolvere il diritto  nell’attività utilitaria o in quella etica dello spirito. Legittima per-  tanto deve apparire l’esigenza di cercare al diritto un fondamento suo  proprio, d’intendere l’attività giuridica come attività autonoma dello  spirito. Come espressione di questa esigenza fu in ogni tempo il  diritto inteso come attività dell'uomo storico e sociale, come rela-    233 Cosî Firpo nella Introduzione a G. Solari, La filosofia politica, cit.,  p. XIII.   24 Bobbio non vede nel passaggio di Solari all’idealismo «un rivol-  gimento dei suoi principi » (L'insegnamento di Gioele Solari (1949), ora  in Italia civile, Manduria-Bari-Perugia, Lacaita, 1964, p. 179). Per una  valutazione complessiva dell’opera di Solari cfr. anche AA.VV., Gioele  Solari 1872-1952. Testimonianze e bibliografia nel centenario della nascita,  Torino, Memorie dell’Accademia delle scienze, 1972, in particolare il  saggio di Bobbio su Lo studio di Hegel.    102    L'Enciclopedia italiana    zione, come proporzione personale e reale, come manifestazione della  coscienza collettiva. In Italia la scuola giobertiana, rivissuta dal Carle  nelle sue applicazioni al diritto, sostiene che in tal senso si affermò  la costante tradizione del pensiero italiano. Il dogma della naziona-  lità e socialità del diritto è incompatibile con l’idealismo economico  e morale, l’uno e l’altro fondati sul presupposto che il diritto è atti-  vità dello spirito individuale. Ma a liberare l’idealismo nazionale e  sociale dagli elementi empirici e contingenti con i quali va congiunto,  è necessario elaborare una dialettica dello spirito collettivo e ripren-  dere la tradizione storico-romantica del periodo post-kantiano, la  quale pose le condizioni di una concezione idealistica del diritto  come espressione dell’Io sociale.    Ma la posizione di Solari non ebbe poi modo di dispie-  garsi. In alcune voci l’accento cade, come in quelle di Bat-  taglia e di Spirito, sulla condanna delle teorie individua-  listiche cui viene opposto il valore supremo dello Stato:  mentre il Contrattualismo « tende logicamente a una teo-  rica individualista dello stato », in modo da « giustificare  cost l’estremo assolutismo, come l’estremo liberalismo », in  Giustizia ci si sofferma sulla concezione di Hegel, per dire  che in lui « la giustizia è libertà ma questa non esclude,  anzi postula la necessità e la naturalità; essa si attua astrat-  tamente nell’individuo e nei rapporti interindividuali, ma  solo nello stato si afferma in forma concreta e universale »;  in modo altrettanto conciso si sostiene che « eticità per  Hegel è sinonimo di socialità, e questa è il risultato di un  processo dialettico che culmina nello stato » (Naturale,  diritto). Ma anche per Diritti di libertà, citata da Bobbio  come esempio di antifascismo ‘°, è da notare che è solo  una sottovoce di Libertà (1934) — affidata nei suoi termini  generali, ed esclusivamente filosofici (per la bibliografia si  rinvia a Etica), ad Augusto Guzzo, un attualista mosso da  una forte esigenza religiosa, per il quale « la libertà è oggi  considerata come la spiritualità stessa » —, e che in essa  Solari non esprime un’opinione personale: pur partendo  dall’affermazione che « condizione di sviluppo della perso-  nalità è la libertà », vi espone infatti la teorica dei diritti  di libertà elaborata da Locke e da Kant, e quindi la reazione    235 N. Bobbio, Le cultura e il fascismo, cit., p. 215.    103    .Hl fascismo e il consenso degli intellettuali    da essa suscitata, prima con Hobbes, Spinoza e Rousseau,  poi nel periodo postkantiano, fra gli altri da Hegel, che  « poneva in rilievo il processo dialettico per cui la libertà  astratta dell’individuo diventa reale nello stato ».   Un discorso per certi versi analogo a quello di Solari  può essere fatto per la collaborazione di Rodolfo Mondolfo,  autore delle voci principali relative alla storia del socialismo  e del movimento operaio. La scelta di quello che era stato  l’animatore del dibattito sul marxismo riapertosi in Italia  nel 1923-26, dopo la sconfitta del movimento operaio ad  opera del fascismo “9, corrisponde anche in questo caso al  criterio della « competenza », ma non appare in contraddi-  zione con i motivi ispiratori dell’Enciclopedia: era lo stesso  criterio che aveva suggerito a Bevione e a Salata di affidare  a Bonomi la biografia di Bissolati, poi redatta nel 1930  dall’ex bissolatiano Angelo Cabrini, che aveva messo in  risalto l'orientamento nazionale pit che quello socialista del  biografato ?”.   . Le voci di Mondolfo, che non sembra abbiano subîto  censure *, sono lontane dal taglio anonimo, anche se cor-    2% Cfr. C. Luporini, Il marxismo e la cultura italiana del Novecento,  in Storia d’Italia, V,I documenti, 2, Torino, Einaudi, 1973, pp. 1605-1606.   237 Bevione scriveva il 13 marzo 1928 a Salata, che dirigeva allora la  sezione « Storia contemporanea »: «penso che qualcuno può scrivere  l’articolo con ben maggiore ricchezza di dati e intima conoscenza del tema:  ed è Bonomi [...] né obbiezioni potranno venire alla Direzione del-  l’E.[nciclopedia] da alcuno per questo incarico, data la purezza e la sere-  nità di Bonomi, da tutti riconosciuta ». « A Bonomi avevo pensato an-  ch'io, fin da principio — scriveva Salata a Menghini il 14 marzo —. Ma  allora mi era parso di dover evitare la scelta di un uomo cosî in vista  nelle vicende politiche post-belliche. Ora il giudizio su Bonomi è —  credo anche nelle altissime gerarchie del partito fascista — più calmo »  (AFI, Lettere, Salata). Cabrini era stato cancellato nel 1929 dall’elenco  dei « sovversivi » (cfr. la voce di A. Rosada in F. Andreucci - T. Detti,  Il movimento operaio italiano. Dizionario biografico 1853-1943, I, Roma,  Editori Riuniti, 1975).  ‘ ‘238 Il 3 luglio 1973 Mondolfo, da me interpellato sulla sua parteci-  pazione all’Enciclopedia, rispondeva: « Per la mia collaborazione ho avuto  solo rapporti diretti con Gentile, che era mio amico personale (come antico  condiscepolo a Firenze) e che sempre rimase tale benché io polemizzassi  con lui sin dal 1909 (a proposito di Feuerbach e Marx) e dal 1911 (a  proposito di Giordano Bruno e Felice Tocco) [...]. Ciò non impedî che  nel 1930 egli m'’invitasse a collaborare alla Enciclopedia proprio su un  tema (Giordano Bruno) che era stato oggetto di una nostra polemica [...].    104    L’Enciclopedia italiana    retto, di voci come Exgels scritta da Manfredi Gravina, alto  commissario per la Società delle Nazioni a Danzica, o da  quello polemico del Marx di Augusto Graziani, che mette  in rilievo le « censure gravi » cui andrebbe incontro ad  esempio la teoria marxiana del valore; esse invece, mentre  ambiscono ad avere un andamento espositivo ed obiettivo,  riflettono al tempo stesso la concezione dell’autore de I/  materialismo storico in Federico Engels e di Sulle orme di  Marx, per cui evidenziano, al di là della « competenza », la  profonda consonanza di Mondolfo con l’impostazione idea-  listica e gentiliana. Anche se queste voci rappresentano  negli anni ’30, dopo la biografia di Labriola di Dal Pane e  l'edizione Croce del 1938 de La concezione materialistica  della storia di Labriola, l’esposizione più ampia della teoria  e della prassi del socialismo e del comunismo, è quindi dif-  ficile convenire con l’opinione di chi ha affermato che esse  erano « le fonti più accessibili, senza suscitare sospetti, alle  quali i giovani, che studiavano sul serio, potevano attingere  per cercare una spiegazione e una giustificazione alle con-  tinue denigrazioni che il fascismo faceva di quelle idee e  dei loro movimenti » ?°. Per chi studiava sul serio dovette.  avere maggiore efficacia la diretta riproposizione crociana  di Labriola, che non la valutazione mondolfiana della con-  cezione marxista e socialista, profondamente influenzata  dalla lettura di Gentile, e scissa da una positiva considera-  zione dei movimenti reali. Parlando dell’influenza di La-  briola su Mondolfo, Garin ha osservato che in quest’ultimo.  « l’equilibrio della filosofia della prassi è tanto insidiato in    E debbo dire che né per questa né per le altre [voci] si limitò affatto la  mia assoluta libertà di trattazione (unico limite fu quello dello spazio dispo-  nibile), di giudizio e di espressione; né mai mi chiese o propose il minimo  cambiamento, neppure di una virgola [...]. Credo pertanto di dover rico-  noscere che Gentile si mantenne con me al di sopra dei dissensi politici e  filosofici che ci dividevano, e credo che ispirò a criteri ed esigenze di  carattere scientifico i rappotti con i collaboratori, nella sua direzione  dell’impresa dell’Enciclopedia »   239 E. Bassi, Rodolfo Mondolfo nella vita e nel pensiero socialista,  Bologna, Tamari, 1968, p. 50. Suggerimenti per una corretta lettura delle  voci di Mondolfo ha fornito E. Garin, Mondolfo e la cultura italiana, in  AA.VV,., Filosofia e marxismo nell'opera di Rodolfo Mondolfo, Firenze,  La Nuova Italia, 1979, pp. 33-34.    105    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    direzione idealistica, da suscitare in lui una sintomatica in-  terpretazione in senso deterministico della concezione del-  l’autocritica delle cose, che, a parte l’espressione verbale,  aveva ben altro valore » **. E non a caso nel 1931, ripro-  ponendo sulle pagine della « Rivista di filosofia » la lettura  mondolfiana del materialismo storico, Alessandro Levi os-  servava che la « gnoseologia del calunniato materialismo  storico coincide in alcuni punti fondamentali con quella  di una delle più celebrate correnti dell’idealismo storico,  cioè con la gnoseologia di Giambattista Vico », e, infine,  che « il concetto marxistico della umwélzende Praxis sem-  bra convenire con quella, che io chiamerei l’orientazione  storicistica del liberalismo » ?. « Come non si conosce e  non s’intende se non facendo (ripete Marx con Vico), cosi  non si mutano le condizioni esteriori se non mutando se  stessi, e reciprocamente non si muta se stessi se non mutan-  do le condizioni del proprio vivere », afferma Mondolfo trat-  tando del Muaterialismo storico — sottovoce di Materiali  smo (1934) di Vito Fazio-Allmayer —, ribattezzato « con-  cezione critico-pratica della storia » °°. Dopo aver opposto  alle interpretazioni economicistiche quella di De Man, Mon-  dolfo sottolinea infatti il carattere soggettivistico, e quasi  vitalistico, ma non per questo meno deterministico, del  materialismo storico: « Vita che è lotta, in cui né le forme e  condizioni esistenti possono arrestare le forze vive che si  volgono contro di esse, né le forze innovatrici possono  operare se non tenendo conto delle forme e condizioni esi-  stenti, sia pure per rovesciarle e superarle ». Ne risulta un’  accentuazione gradualistica del processo storico, che si rias-  sume nella definizione di Sorel del materialismo storico  come « consiglio di prudenza ai rivoluzionari ».  Manifestazione della continuità della storia, che non    20 A, Labriola, La concezione materialistica della storia, a cura e con  un'introduzione di E. Garin, Bari, Laterza, 1965, p. LXII. Nella voce  Labriola (1933) Mondolfo scriveva: «C'è una dialettica della storia e  autocritica delle cose; ma le cose sono la praxis stessa umana ».   MI A. Levi, Um'interpretazione del materialismo storico, in «Rivista  di filosofia », XXIII, 1931, pp. 118 e 131.   22 Anche Levi aveva considerato «sbagliato » il termine « materia-  lismo storico » (arf. cif., p. 118).    106    L’Enciclopedia italiana    conosce fratture rivoluzionarie — « nel progresso, che è  incremento, non è il caso di andar cercando assoluti cangia-  menti qualitativi ossia creazioni di novità assolute e senza  precedenti », aveva affermato Mondolfo sulla base del pen-  siero di Giordano Bruno, in discussione con Barbagallo ”*  —, è la stessa storia del comunismo e del socialismo: i due  termini sono dilatati cronologicamente fino a comprendere  l’antichità. Ciò vale in primo luogo per il comunismo, che    non è soltanto programma di rivendicazione e d’azione di una classe  proletaria, ma si presenta nella storia anche come stato di fatto,  dovuto sia alla primordialità indifferenziata della società umana, sia  a necessità belliche (Lipari), sia ad ascetismo religioso che svaluta i  beni terreni e reprime il desiderio del possesso individuale (es.,  comunità monastiche), e può anche essere un ideale etico-politico di  società, che voglia eliminati gli interessi particolari fonte di conflitti,  per la solidale ricerca del bene comune (come in utopie antiche e  moderne) (Socialismo, 1936).    Il comunismo, mentre « è in certe forme storiche estra-  neo alle esigenze socialistiche di elevazione ed emancipa-  zione di classi », nella società contemporanea « rappresenta  la forma estrema del socialismo, che alle altre si oppone per  il radicalismo dogmatico del suo programma, per la fede  nell’efficacia risolutiva della violenza, per la decisione rivo-  luzionaria della sua azione », e trova espressione nella  « dottrina — più mista di bakuninismo, blanquismo e sin-  dacalismo, che aderente al marxismo — professata dai socia-  listi maggioritari » (Comunismo, 1931) 24. Ma anche per    2 R. Mondolfo, Razionalità e irrazionalità della storia. Per una visione  realistica del problema del progresso, in «Nuova rivista storica », XIV  (1930), p. 4. A proposito di Bruro (1930) Mondolfo scriveva a Gentile  il 30 giugno 1929: «Vedrai dal manoscritto che le mie opinioni sulla  distinzione delle fasi del pensiero bruniano, fatta dal Tocco, si sono modi-  ficate per cedere il posto allo sforzo di coglierne l’unità e continuità, pur  fra le contraddizioni ed oscillazioni » (AEI, Lettere, Mondolfo).   2% «La concezione critico-pratica del marxismo — concludeva la  voce —, che per ogni esperimento storico domanda la maturità delle con-  dizioni oggettive e soggettive, non risulta per ora smentita dall’esperienza,  in favore della concezione blanquistica, che tutto riduceva alla conquista  del potere. E le difficoltà, che rendono tempestoso il cammino della rivo-  luzione bolscevica, non lasciano prevedere ancora a quale porto essa sia  destinata ad approdare ». Per i giudizi di Mondolfo sulla Rivoluzione  d’ottobre cfr. Studi sulla rivoluzione russa, Napoli, Morano, 1968.    107    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    il socialismo è necessario risalire all’antichità classica e al  cristianesimo, « contro l'opinione dei non pochi studiosi  che dichiarano il socialismo sviluppo esclusivamente mo-  derno, prodotto della doppia rivoluzione — politica e in-  dustriale — con cui nel sec. XVIII si passa dalla società  feudale alla capitalistica » (Socialismo). Già prima della du-  plice rivoluzione una tappa decisiva per lo sviluppo del  socialismo e del comunismo moderni è costituita dal pen-  siero degli illuministi, Montesquieu e Turgot in primo  luogo ?°. E come nel 1926 l’elemento costitutivo del socia-  lismo era individuato da Mondolfo nella buzzanitas, cioè  nella « affermazione storica più vasta e universale di quella  coscienza e dignità della persona umana in quanto tale, che  è l’essenziale concetto di Rousseau, inspiratore degli im-  mortali principi della rivoluzione francese » 2%, ora la sua  essenza è vista in quella « esigenza morale di libertà, di  affermazione e sviluppo della personalità umana nel lavo-  ratore, che costituisce la forza viva e il valore etico del  socialismo moderno, con le sue rivendicazioni di autonomia  dei lavoratori e di eliminazione delle differenze di classe »  (Socialismo).   Scissa da una precisa identificazione con un movimento  reale, la concezione socialista consiste in ultima analisi in  una generica aspirazione alla giustizia che percorre, in forme  diverse, tutta la storia dell'umanità: era una presentazione  che, indipendentemente dalle intenzioni dell’autore, poteva  trovare punti di convergenza, 0 quanto meno di confusione,  con quella fatta dalla voce Fasciszzo, secondo la quale, col-  pito il socialismo nei suoi due capisaldi del materialismo  storico e della lotta di classe, « di esso non resta allora che    25 Sul rapporto di continuità-rottura fra illuminismo e storicismo cfr.  quanto Mondolfo scrive nella voce Helvétius: « Osserverà Marx contro  Owen, discepolo di Helvétius: “l’educatore stesso deve venire educato...  Il coincidere del variare dell'ambiente e dell’attività umana può essere  inteso razionalmente solo come praxis che si rovescia”, ossia come con-  creto processo dialettico della storia, in cui di continuo l’effetto si con-  verte in causa e l’uomo non è prodotto passivo, ma antitesi operosa alle  condizioni esistenti. La contraddizione in cui Helvétius resta impigliato  si risolve nello storicismo del secolo XIX ».   26 R. Mondolfo, Umanismo di Marx. Studi filosofici 1908-1966, intro-  duzione di N. Bobbio, Torino, Einaudi, 1968, p. 272.    108    L’Enciclopedia italiana    l'aspirazione sentimentale — antica come l’umanità — a  una convivenza sociale nella quale siano alleviate le soffe-  renze e i dolori della più umile gente ». Il socialismo come  umanesimo universalistico, già affermato nel 1924 in pole-  mica con Carlo Rosselli, fino ad accettare la trasformazione  della lotta di classe in collaborazione di classe ?”, trova nel-  l’Enciclopedia una delineazione concreta nella trattazione  del movimento operaio italiano: « Lo smarrimento e la con-  fusione sorgono [...] più gravi nell'immediato dopoguerra,  per l’irruzione improvvisa di masse caotiche nelle organiz-  zazioni a portarvi l’ondata dei malcontenti incomposti e la  suggestione del mito russo: il rivoluzionarismo delle nuove  reclute sopraffà d’un tratto i vecchi cauti condottieri. Ma  questo sindacalismo rivoluzionario è presto sgominato dal-  l'insorgente sindacalismo fascista; la nuova legislazione si  avvia grado a grado a convertire il sindacalismo in corpo-  rativismo, che al principio della lotta di classe sostituisce  quello della solidarietà nazionale. Con la Carta del lavoro il  corporativismo fascista afferma recisamente la dignità e la  nobiltà del lavoro e l’importanza e i diritti della classe ope-  raia ». I fini universali del movimento operaio si realizzano  nel potenziamento della nazione:    La stessa lotta contro il capitalismo avido di profitti è afferma-  zione di un più alto concetto della ricchezza: non privilegio e domi-  nio, rientrante nella sfera dell’arbitrio individuale, ma bene sociale  che deve essere usato e volto a fini di utilità nazionale. E nell’atto  stesso che le rivendicazioni operaie hanno portato a una limitazione  dei profitti capitalistici, hanno anche impresso all’industria e all’agri-  coltura un fecondo impulso di rinnovamento, che ha significato un  accrescimento della produzione e, quindi, un elevamento generale    27 Cfr. R. Mondolfo, Ursanismo di Marx, cit., pp. 239-240. Sulla base  di un ampio esame degli scritti di Mondolfo, G. Marramao ha affermato  che « saranno proprio le categorie di “coscienza di classe” e di “rovescia-  mento della prassi” i cardini teoretici della difesa ad oltranza della “colla-  borazione” », e che «è sintomatico come il nostro autore trascorra dal  concetto di “totalità della classe” [...] a quello di “collaborazione”, logica  conseguenza politica dell’universalismo che si realizza progressivamente  nella “coscienza di classe” » (Marxismo e revisionismo in Italia, dalla  « Critica sociale » al dibattito sul leninismo, Bari, De Donato, 1971, pp.  279, 303).    109    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    delle possibilità e dei tenori di vita nazionali (Operaio movimento,  1935) 8,    In questo modo le contraddizioni sociali si annullano,  e ai fini della produzione e della distribuzione della ric-  chezza nazionale il movimento operaio viene a svolgere una  funzione analoga a quella delineata da Roberto Michels per  Li LI (1933), di equilibrato rafforzamento di tutte  e classi:    È evidente, in realtà, che dall’impetialismo economico possono  nascere, per le classi inferiori, vantaggi effettivi anche dal lato del  consumo, qualora esso abbia per effetto l’incremento dell’importa-  zione di materie di prima necessità [...] il cui buon mercato faccia  calare i prezzi locali aumentando correlativamente la capacità d’ac-  quisto dei salari e dei piccoli redditi.    11. Gentile, Volpe e il nazionalismo storiografico    Se operiamo un’altra verifica nel settore storico, con  particolare riguardo alla storia italiana moderna e con-  temporanea, troviamo confermata l’impressione che il rap-  porto fra gli intellettuali e le scelte politiche o politico-cul-  turali del periodo fascista sia stato assai stretto e passasse  attraverso mediazioni culturali che sono precedenti al fa-  scismo ma che col fascismo si chiariscono, come nel caso di  Volpe; e ciò vale anche per quegli intellettuali che, per  abito scientifico o per temi studiati, sono stati considerati  più lontani da una compromissione con l’ideologia del fa-  scismo. Lo stesso Arnaldo Momigliano, che alle voci sto-    28 In Sindacalismo (1936) Mondolfo afferma: «Del sindacalismo  rivoluzionario parve per un momento allo stesso Sorel figlia la rivoluzione  dei Sovieti, coi consigli degli operai e contadini; ma ben presto è apparso  evidente che tutto quanto il sistema sindacale è posto in essa sotto la  ferrea direzione e dominazione dello stato. E nell’affermazione del valore  supremo dello stato è agli antipodi del sindacalismo rivoluzionario anche  il sindacalismo fascista, imitato poi dal socialnazionalismo tedesco. Nel  concetto fascista rivive l’esigenza dei valori eroici, rivive il concetto di  una società di produttori, in cui l’uomo è cittadino in quanto produttore;  ma è respinta la lotta di classe: i sindacati di datori e prestatori di lavoro  sono unificati nella corporazione, tutte le corporazioni nella nazione, la  cui personalità morale si riassume nello stato ».    110    L’Enciclopedia italiana    riche dell’Exciclopedia dette un larghissimo contributo e fu  in stretto contatto con gli storici che vi lavoravano, ha  parlato di un bilancio « in perdita » per tutto quel gruppo  di storici, fatta eccezione per Cantimori e Chabod ?’: osser-  vazione probabilmente troppo drastica, ma che invita ad un  approccio alla storiografia del periodo fascista non solo in  termini di pura storia delle idee; anche attenendosi a questo  solo piano, comunque, da un esame di alcune voci vedremo  che molteplici sono le influenze che agiscono su storici come  Chabod e Maturi, per i quali le testimonianze e gli studi  hanno finora valorizzato esclusivamente l’insegnamento di  Croce.   Non è infatti possibile non tener conto del quadro com-  plessivo di cui fa parte lo stesso settore storico dell’Erciclo-  pedia, cioè di quella vasta opera di organizzazione della  cultura storica che si ebbe durante il fascismo e che attende  ancora di essere studiata. Protagonista ne fu, per la storia  moderna e contemporanea, Gioacchino Volpe, che riuscî a  coinvolgere pienamente nei suoi programmi di lavoro anche  storici che, come Carlo Morandi, all’inizio degli anni ’30  avevano già manifestato un diverso e autonomo orienta-  mento culturale, e che sotto la sua guida, o negli istituti,  nelle riviste e nelle collane da lui diretti, si dedicarono a  una intensa attività di ricerca in campi diversi — per poi  concentrarsi attorno alla storia della politica estera italiana,  in un momento in cui l’imperialismo fascista esaltava la  politica di potenza dello stato ?° —, risentendo in varia  misura dell’« eclettismo » storiografico e di singoli giudizi  di Volpe. Nel 1930, negando contro l’opinione di Maturi  l’esistenza di una svolta nella storiografia italiana, Nicola  Ottokar lamentava la persistenza dei « vecchi preconcetti  della scuola giuridico-economica » (« È illusione credere  che la formula del materialismo storico sia superata nella  produzione storiografica odierna »), e indicava a modello  Volpe, fin dall’inizio del secolo « sostanzialmente immune    29 A. Momigliano, Appunti su F. Chabod storico, cit., p. 645.  250 Cfr. le osservazioni di E. Ragionieri, Carlo Morandi, in « Belfagor »,  XXX (1975), pp. 684-691.    li    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    da questi semplicismi materialistici », perché « sembra che  nel marxismo egli abbia soprattutto sentito la parte più  profonda e pit feconda, vale a dire l’idea dell’unità e dell’in-  terdipendenza, e non l’esagerazione delle antitesi e dei con-  trasti che porta ad una visione isolatrice e materializza-  trice » #!, Comunque si voglia giudicare la storiografia di  Volpe, nel segno della continuità o del cambiamento ”*, nel  periodo fascista essa si propose effettivamente come mo-  dello di una storiografia « politica » di impronta nazionali-  stica ed esaltatrice dello Stato-potenza, pur mantenendo  alcuni « residui » del precedente interesse per la storia  sociale. Essa ebbe modo di imporsi attraverso gli istituti  storici di cui magna pars fu Volpe, impegnato fra l’altro a  dissolvere anche istituzionalmente la storia del Risorgi-  mento nella storia secolare della « nazione italiana » sorta  col Medioevo, pur se a questo programma fece resistenza  la Società nazionale per la storia del Risorgimento: la  Scuola di storia moderna e contemporanea, collegata fin  dalle origini, nel 1925, con il Comitato nazionale per la  storia del Risorgimento, si propose infatti la pubblicazione  delle fonti di storia italiana dal secolo XVI alla grande  guerra, programma che fu fatto proprio dal Comitato sotto  la direzione di Gentile nel 1932-34, per poi passare nel  1934 all’Istituto storico italiano per l’età moderna e con-  temporanea che assorbi il Comitato *.    Oggi infatti — scriveva Gentile nel 1933 riecheggiando Volpe —  il quadro della storia del Risorgimento italiano, malgrado la super-  stite specializzazione di alcuni suoi cultori, si slarga; e comprende  non solo gli immediati antecedenti del secolo delle riforme, ma tutta  la storia moderna d’Italia dal declinare di quella frammentaria vita  comunale, che è il primo erompere della vita nazionale ancora in-    21 N. Ottokar, Osservazioni sulle condizioni presenti della storio-  grafia in Italia, in « Civiltà moderna », II (1930), pp. 930, 933, 935. Inte-  ressanti notazioni sul rapporto Volpe-materialismo storico anche in L.  Volpicelli, Gioacchino Volpe, in « La Fiera letteraria », 17 marzo 1929.   82 Cfr. I. Cervelli, Gioacchino Volpe, cit., e le mie osservazioni in  Il problema Volpe, cit.   23 Una prima riflessione su questa complessa rete organizzativa è  stata fornita da S. Soldani, Risorgimento, ne Il mondo contemporaneo,  I. Storia d’Italia, 3, Firenze, La Nuova Italia, 1978, pp. 1144-1146.    112    L’Enciclopedia italiana    conscia e incurante della propria unità e ignara di ogni esigenza di  organizzazione, fino alla formazione del regno d’Italia e alla prima    grande prova della sua volontà e della sua potenza nella guerra mon-  diale 2.    Le sezioni enciclopediche su alcune delle cui voci ci sof-  fermeremo, quella di « Storia medievale e moderna » di-  retta da Volpe, e quella di « Storia del Risorgimento »  diretta da Menghini — legato a Gentile anche per altre  iniziative editoriali, come la collana « Studi e documenti di  storia del Risorgimento » di Le Monnier —, si presentano  come uno dei frutti di questa vasta opera di organizzazione  culturale, e videro impegnati quasi tutti gli storici che  prestavano la loro opera negli istituti di ricerca del regime.  Con ciò non si vuol dire che questi intellettuali si ridussero  a « funzionari » del regime”, ma solo indicare la loro  relativa omogeneità raggiunta negli anni ’30 e la permea-  bilità di molti di loro all’ideologia nazionalistica propagan-  data dal fascismo — e che nell’Enciclopedia si manifestò  nel larghissimo spazio concesso alla storia di Roma e a  quella d’Italia —, pur nella varietà delle influenze sul  piano del metodo e dei giudizi: per cui la presenza della  lezione crociana non è di per sé un segno, in molti casi, di  differenziazione ideologica dall’orientamento nazionalistico.  Sul piano metodologico nell’Enciclopedia, come in quasi  tutta la storiografia italiana del periodo, trionfa quella con-  cezione idealistica, sia etico-politica alla Croce sia « reali-  stica » alla Volpe, che negli anni ’20-'30 aveva trovato un  elemento unificatore nel concetto di «classe politica ».  « Sul concetto di classe politica — osservava Maturi nel  1930 —, inteso eticamente o realisticamente, sono tutti  d’accordo: Croce e Gentile, Salvemini e Ottokar. Ad esso  si riduce in fondo anche il concetto di nazione nel Volpe,    24 Prefazione di Gentile all’Annuario del Comitato nazionale per la  storia del Risorgimento, Bologna, Zanichelli, 1933, pp. 67. Cfr. anche  G. Gentile, Dal Comitato nazionale per la storia del Risorgimento dl R.  Istituto storico italiano per l’età moderna e contemporanea. Relazione a  S.E. il Ministro della Educazione nazionale, Sancasciano Val di Pesa,  Stianti, 1937, p. 6.   25 Secondo quanto afferma invece M. Ciliberto, Intellettuali e fasci-  smo. Saggio su Delio Cantimori, Bari, De Donato, 1977, ad es. a p. 15.    113    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    come si vede dal suo libro L'Italia in cammino, ove, al cen-  tro della narrazione, è l’analisi dei ceti dirigenti del Risorgi-  mento e della nuova Italia » #9. Non a caso alcuni anni  dopo nella voce Storia (1936) Carlo Antoni annoverava fra  i rinnovatori della storiografia italiana, accanto a Croce e  Gentile, Mosca e Volpe. È indubitabile dunque che, al di là  di scuole o di parti politiche, agli storici dell’Erciclopedia  fosse ben presente anche la lezione di Croce, come testi-  monia il fatto che nel 1928 Fausto Nicolini, incaricato di  predisporre un piano di voci di storia della storiografia, si  sentisse autorizzato a chiedere consiglio a Croce, « che nel-  l’argomento è forse lo studioso più competente di Europa »,  e a proporre per sé una sottosezione di storia della storio-  grafia, in modo che le voci « passerebbero sotto gli occhi di  Benedetto » ?”. Ma non permette di cogliere la complessità  delle influenze che si esercitarono sui maggiori storici ope-  ranti fra le due guerre, ridurre tutto il problema alla que-  stione del metodo e privilegiare quindi l’insegnamento di  Croce, per affermare che l’attualismo gentiliano « nel campo  degli studi storici non esercitava che un’influenza limitata,  e in nessun modo tale da far sf che esso fosse accolto in  prima persona dagli storici migliori della nuova generazione  idealistica » #*. Se spesso, come nel caso di Maturi cui in  particolare si ‘riferisce questa osservazione, il metodo è  quello di Croce, scelte tematiche e singoli giudizi nad  fonti diverse e talvolta contrastanti, e rinviano in molti  casi, come vedremo, a Volpe e a Gentile.   Volpe aveva del resto cercato di orientare il lavoro dei  collaboratori della sua sezione suggerendo delle « Norme e  criteri per la redazione degli articoli di storia medioevale e  moderna », in cui invitava alla valorizzazione della storia  italiana , ma richiamava anche la necessità — come già    26 W. Maturi, La crisi della storiografia politica italiana, in « Rivista  storica italiana », XLVII (1930), p. 12.   21 AEI, Lettere, Nicolini (6 gennaio 1928).   28 Cosî M.L. Salvadori, Walter Maturi, in «Nuova rivista storica »,  LI (1967), p. 416. Per alcune considerazioni sugli interventi storiografici  di Gentile cfr. A. Negri, L’interpretazione del Risorgimento di G. Gentile,  in « Critica storica », n.s., X (1973), pp. 449-500.   259 «Non apologie, né propaganda, né polemiche. Tuttavia, poiché    114    L’Enciclopedia italiana    aveva fatto nel Programma del 1922 per una storia d’Ita-  lia — di combinare storia politica e storia sociale, atten-  zione per lo Stato e per la vita economica ”*, e avvertiva di  tener conto delle implicazioni politiche ed economiche della  storia della Chiesa ?, Sembra che a queste indicazioni, in  cui si intrecciavano le varie componenti della storiografia  volpiana — se pur spicca l’accento posto sulla ricerca dello  Stato anche nell’età comunale —, ci si sia attenuti in molti  casi, ad esempio in alcune voci giudicate esemplari da Cha-  bod nei primi volumi *°, come Amburgo di Gino Luzzatto,  attento alla vita economica della città, o la Storia dell’Ame-  rica latina di Gino Doria, dove l’autore si sofferma sulle  caratteristiche della colonizzazione e sulla riduzione in schia-  viti degli indios, senza nascondersi gli interessi economici  dei missionari, che in taluni casi furono « pid spietati dei  conquistatori ». Pi in generale, nelle voci dedicate agli  Stati non italiani — che costituirono un banco di prova    si tratta di una Enciclopedia Italiana, ai collaboratori incaricati di trattare  la storia degli altri paesi si chiede che si compiacciano di dar rilievo a  quella che può essere stata la ripercussione di avvenimenti e personaggi  italiani su la vita dei paesi stessi ». Le « Norme » sono riprodotte in Le  predisposizione del lavoro in una grande impresa scientifico-editoriale.  L'Enciclopedia italiana dell'Istituto Giovanni Treccani, in « L'organizza-  zione scientifica del lavoro », III (1928), p. 450.   20 «Gli articoli sugli Stati, piccoli o grandi, medioevali e moderni,  non siano il quadro delle vicende dinastiche (apposite voci sono dedicate  alle dinastie e famiglie regnanti), né il mero racconto degli avvenimenti  politico-militari, ma presentino la storia politica, largamente intesa, di  una nazione o popolo, ne mettano in luce la struttura economica e  sociale e le vicende demografiche [...]. Un posto maggiore che non le  altre opere simili l’Enciclopedia Italiana darà alla storia delle città, e in  particolare di quelle italiane, specialmente nell’epoca in cui le città furono  centri autonomi di energica vita, piccoli Stati di fatto, se anche giuridica-  mente limitati. Quindi si devono presentare queste città nel loro nascere o  rinascere medioevale e anche moderno, le forze sociali che in esse si  raccolgono, la loro vita economica, le loro istituzioni, i personaggi più  notevoli ».   261 «Negli articoli di Storia della Chiesa, che è quasi sempre anche  storia civile e politica, sarà da tener conto dell’uno e dell’altro elemento,  salvo i casi speciali in cui sarà espressamente avvertito che dell’elemento  religioso debba trattare a parte un altro scrittore. Discorrendo di missio-  nari, non si trascurino le finalità, i moventi e i riflessi culturali, econo-  mici, spesso politici e nazionali della loro azione. Degli ordini monastici  si metta in luce l’importanza civile ed economica... ».   262 « Archivio storico italiano », LKXXVII (1929), p. 323.    115    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    completamente nuovo per gli storici dell’Enciclopedia ? —  si può osservare un’attenzione per i molteplici aspetti della  loro storia e un notevole equilibrio di giudizio — come in  Stati Uniti di Sestan e in URSS (anonima) —, anche se,  quando ci si avvicina alle vicende contemporanee (e quindi  soprattutto nell’Apperndice del 1938), si avverte l'influenza  della propaganda politica del fascismo: ad esempio occu-  pandosi della Francia del 1936 Carlo Morandi — che faceva  cosî la sua prima esperienza di commentatore politico, nelle  cui vesti sarà particolarmente attivo nel 1945 sulle pagine  de « Il Mondo » — minimizzerà il significato dell’espe-  rienza del Fronte popolare. Quando invece si tratta di valu-  tare i momenti rivoluzionari o i punti cruciali del dibattito  storiografico, si tende a tacere — è il caso della Comune di  Parigi, cui è dedicato appena un accenno da Georges Bour-  gin (« governo municipale di radicali e socialisti ») sotto la  voce Parigi, storia”* —, o a evidenziare i motivi ideolo-  gici nella ricostruzione storica, come nelle voci dedicate alla  Rivoluzione francese e alla storia italiana.   Appare naturale che il significato della Rivoluzione  francese sia sottoposto a severa critica nell’Enciclopedia,  data la diffusa polemica, da Croce al fascismo, contro i prin-  cipi dell’89. Né stupisce, pur apparendo in un’opera scien-  tifica, la rozzezza con la quale Francesco Ercole tratteggia  la figura di Danton (« La sua crescente influenza sugli ele-  menti più torbidi e inquieti del popolo parigino [...] era  dovuta, non meno alle sue qualità fisiche, alla massiccia  vigoria della persona, alla bruttezza suggestiva del volto  butterato dal vaiolo, alla voce stentorea, che alla sugge-  stione morale esercitata dalla sua consueta audacia di parole  e di gesti »). Ciò che interessa notare è invece, da un lato,    23 Chabod giudicò l’Enciclopedia « mezzo e incentivo ad arricchire  gli interessi della nostra cultura, ad ampliare lo sguardo dei nostri stu-  diosi a determinare — sia pure in pochi uomini — volontà e proposito  di affrontare, finalmente, problemi che non siano quelli soliti, cari alla  nostra storiografia » (ibidem, p. 320). Cfr. anche Gentile, L'Enciclopedia  Italiana, cit., p. 324.   24 Eppure Bourgin era autore di vari studi sulla Comune, dall’Histoire  de la Commune del 1907 a Les premières journées de la Commune del  1928.    116    L'Enciclopedia italiana    l'ampiezza dei giudizi negativi su di essa che sono fatti  propri anche da Chabod — « Ma le idee, una volta messe in  circolazione, sfuggono al controllo di chi le crea: e cosî fu  che all’illuminismo, alienissimo dalle violente e aperte rivo-  luzioni politiche e sociali, s’appellassero quelli che, poco  più tardi, dovevano far sorgere il novus ordo: alquanto  diverso, in verità, da quello auspicato dai filosofi, e gron-  dante di sangue » (Illuminismo) —; e, dall’altro, la stretta  interscambiabilità fra posizioni scientifiche e ideologiche,  per cui tornano alla mente i contenuti di alcune voci poli-  tiche. L'importanza della Rivoluzione francese nella storia  europea non è certo disconosciuta da Alberto Maria Ghi-  salberti che, dopo aver analizzato le differenti posizioni  delle varie classi sociali nell’89, afferma che essa « recò a  termine con la sua violenza l’opera condotta nei secoli dalla  monarchia dell’antico regime e abbatté le sopravvivenze  feudali e le disparità sociali, consacrò l’importanza e la forza  della borghesia, accentuò e unificò il governo e l’ammini-  strazione, accelerò il già iniziato trapasso della proprietà,  rese uguali gli uomini davanti alla legge » (Frarcese, rivolu-  zione, 1932). Anche nella voce Rivoluzione Emilio Crosa  cita del resto la Rivoluzione francese accanto alla « rivolu-  zione » fascista come « rinnovamento essenziale d’idee e di  principi per cui, o direttamente o indirettamente, si pro-  dussero trasformazioni politiche di suprema importanza ».  Ma, come in Fascismo si era detto che « il fascismo è contro  tutte le astrazioni individualistiche, a base materialistica,  tipo sec. XVIII; ed è contro tutte le utopie e le innova-  zioni giacobine », cosf Ghisalberti precisa subito la sua valu-  tazione della Rivoluzione francese affermando che « mezzo  secolo di dogmatismo ideologico prepara il dogmatismo  democratico dei giacobini »; e, mentre alle critiche all’ordi-  namento sociale fondato sulla proprietà mosse da Morelly  o Brissot contrappone, come « più rivoluzionarie », le pro-  poste dei fisiocratici, coglie il « difetto » della Dichiara-  zione dei diritti nel fatto che « l’umanità è anteposta alla  Francia, l’individuo alla società »: un giudizio che ricorda  quello espresso da Spirito in Liberaliszzo, e che Ghisalberti  ribadisce quando afferma che con la costituzione dell’anno    117    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    III, « figlia della paura », «la rivoluzione ha trovato la  sua soluzione borghese e alla disuguaglianza del privilegio  ha sostituito quella del censo, gettando cosi i germi di futuri  conflitti sociali » S,   Il giudizio limitativo dei principi dell’89 coinvolge na-  turalmente l’illuminismo e i suoi esponenti, affacciandosi  anche in Illuminismo (1933) di Chabod, che pur ne rico-  nosce tutta l’importanza per la storia del progresso umano:  « quello che non andò perduto — cosî conclude la voce —  fu il nocciolo stesso dell’illuminismo e cioè l’aver fissato  su basi puramente umane e razionali la vita dell’uomo e del-  l’umanità. In questa concezione d’insieme — che corona e  completa e sistema definitivamente le prime conquiste del  Rinascimento italiano — è il valore ideale dell’illumini-  smo ». Eppure Chabod insiste anche in altri passi sul col-  legamento col Rinascimento italiano e, mentre sulla trac-  cia di Philosophie der Aufklirung (1932) di Cassirer tra-  scura l’opera dei pensatori sensisti, non nasconde la sua  diffidenza per l’elemento che distinguerebbe l’illuminismo  dal Rinascimento, cioè l’interesse dei philosophes per la dif-  fusione universale della cultura, anche presso quella molti-  tudine che    doveva sentirsi facilmente e pienamente appagata dalla chiarezza e  linearità delle idee che le venivano poste innanzi, da una filosofia che  s’appellava alle leggi di una ragione molte volte identificabile col  buon senso comune, e quindi di facilissima recezione, e che in nome  di questa ragione-buon senso bandiva le sue crociate contro certa  storia, vicina o remota: proprio come piace alle moltitudini, per le  quali il senso storico rappresenta il più difficile e complicato del  misteri, e proprio com’era necessario allora, dato il clima storico di  quell’età 24,    Ancora più evidente è il carattere ideologico della rico-  struzione storiografica — per cui quest’ultima si trasforma  nell’« apologia » che Volpe aveva invitato ad evitare —    *5 Per trovare una valutazione complessiva della politica di Robe  spierre bisogna ricorrere non alla voce dedicatagli da Francesco Lemmi,   e ne fa il responsabile del « carnaio » del 1794, ma a Terrore di Maturi.   26 Anche l’opera di Federico II di Prussia è opposta da Chabod al  « dottrinarismo astratto di un Giuseppe II ».    118    L’Enciclopedia italiana    nella voce Italia (1933), scritta proprio da Volpe (dalla  caduta dell'impero romano al 1713), da Rodolico (1713-  1861) e Ghisalberti (dall’Unità al fascismo). La voce non  affronta esplicitamente, come è stato osservato ”, il pro-  blema dell’unità della storia d’Italia, ma riproduce tuttavia  la periodizzazione posta a base del Programma del 1922,  che vedeva profilarsi la « nazione italiana » fin dall’alto  Medioevo. In essa assai più marcato è però il motivo della  continuità con la storia romana — alla quale, con la prei-  storia, è dedicata la prima parte della voce —, in modo da  far risaltare come l’Italia, culla della civiltà latina e sede  della Chiesa cattolica, abbia avuto fin dall’antichità il privi-  legio di essere il centro del mondo: è lo stesso Arnaldo  Momigliano ad affermare che con la dissoluzione dell’im-  pero romano    l’Italia si avviò a una nuova sua storia. La quale continua bensi e  non dimentica quella di Roma e del suo impero, anzi, con la Chiesa,  che continua l’universalità dell'impero, mantiene la sua funzione di  primato spirituale; ma solo dalla caduta dell'impero la storia italiana  si svolge autonoma e con propri destini: la faticosa conquista d’una  forma politica per l’unità nazionale del popolo italiano.    L’anticipazione dell’esistenza di una coscienza nazionale  e di una tradizione politica unitaria è in Volpe assai netta,  anche rispetto a suoi giudizi precedenti: mentre nel 1922,  nella prefazione al Medioevo italiano, egli coglieva nell’età  comunale « uno dei momenti di più energica fecondità della  storia d’Italia, anzi come l’inizio ricco e promettente di  questa storia, segnato appunto dal sorgere dello Stato (Stato  di città nel Nord e nel centro d’Italia, Stato monarchico e  territoriale nel sud) e della borghesia italiana, e dal deli-  neatsi di un popolo italiano che è creatura nuova e pur  sente lo stimolo a crearsi una tradizione e trovarla in  Roma » **, nella voce enciclopedica, dopo aver affermato  che già « con Odoacre, si ha il restringersi alla sola penisola  del senso politico della parola Italia », Volpe insiste — più    267 E. Sestan, Per la storia di un'idea storiografica: l'idea di una unità  della storia italiana, in « Rivista storica italiana », LXII (1950), p. 195.  28 Ora in G. Volpe, Storici e maestri, cit., p. 224.    119    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    di quanto non avesse fatto Arrigo Solmi nel 1926? —  sull’importanza del dominio longobardo che « fondò in  Italia una tradizione politica di unità ». Tutta la storia  successiva gli appare un progressivo disvelamento della  coscienza nazionale, soprattutto a partire dal secolo XI c  dalla nascita dei Comuni, e quindi con Dante e Cola di  Rienzo, con la « crescente unificazione dello spirito ita-  liano » promossa dall’Umanesimo, su su fino al ’600 visto  come un momento del Risorgimento, « che è cosa del secolo  XIX ed è cosa presente e immanente a tutta la storia ita-  liana, dalla caduta di Roma e dalle invasioni in poi » —  afferma Volpe che tendeva appunto a una d ilatazione e  dissoluzione del concetto di Risorgimento —, finché all’ini-  zio del ’700 a Vittorio Amedeo II appare chiaro « il fine  ultimo della politica sabauda: che era quello di chiudere le  porte d’Italia a francesi e tedeschi e rendersi signori col  tempo di gran parte della penisola ». Accanto alla precoce  affermazione di una coscienza nazionale, Volpe individua  nel Comune e nel podestà « il delinearsi più netto di un  ente, lo stato che nasce », e sottolinea in più punti, come  aveva avvertito nel Programma per una storia d’Italia, la  « funzione italiana e quasi nazionale che assolve il papa-  to »: questa comincia ad apparire già al tempo di Carlo  Magno, ritorna all’epoca di Federico II, per poi affermarsi  con la Controriforma quando « il pontificato romano, nella  lotta al protestantesimo, si mosse nella direzione segnata  dallo spirito del popolo italiano », e l’Italia, « politicamente  divisa, ma unita nella cultura, priva ancora come è di più  intimi e propri centri, si appoggia, nel lento maturare della  sua coscienza nazionale, al papato. Come aveva tratto nel  suo cerchio ideale Roma antica, cosi ora Roma papale, nella  quale vedeva, accanto a una funzione cattolica, anche una  funzione nazionale e italiana ».   Molti altri aspetti potrebbero essere sottolineati nella  ricostruzione volpiana — come l’ampio rilievo dato alla  rivolta antispagnola del 1647 —, mentre non mette conto    29 Cfr. A. Solmi, Discorsi sulla storia d’Italia, Firenze, La Nuova  Italia, 19413, pp. 14-15.    120    L’Enciclopedia italiana    soffermarsi sulle parti della voce redatte da Rodolico e  Ghisalberti — improntate a una storiografia puramente  événémentielle e aproblematica, in cui le preoccupazioni  ideologiche si fanno via via prevalenti —, se non per rile-  vare, nel primo, l’esaltazione del sanfedismo (« pagine di  fierezza di popolo ») e della missione nazionale assolta da  Carlo Alberto ancor prima del 1848, e, nel secondo, la  caricatura del peggior Volpe de L'Italia in cammino che si  conclude con una apologia del fascismo. Due contributi,  questi, che non reggono il confronto con la narrazione vol-  piana, capace in alcuni momenti di presentare la comples-  sità del processo storico e di aprirsi alla considerazione di  aspetti economici e sociali: con più forza nella connota-  zione delle origini del Comune — già Ottokar aveva rile-  vato come esso fosse « composto di elementi economica-  mente e socialmente assai eterogenei » (Comzuze, 1931) —,  ma anche nella valutazione delle basi sociali della Signoria,  per cui Volpe accetta nelle linee generali la tesi di Ercole  della sua origine « popolare » anche se poi opera delle dif-  ferenziazioni fra Venezia e Firenze e tra le vatie fasi della  storia fiorentina; ma sempre con un certo interesse per la  correlazione tra storia politica e storia sociale, che manca  invece in Giorgio Falco, il quale nella Signoria — un tema  su cui si concentrò l’attenzione di gran parte della storio-  grafia italiana tra le due guerre, in cerca dell’origine dello  Stato moderno e di una nuova classe dirigente ”° — sotto-  linea « la tendenza all’affermazione di potenti individua-  lità » e la prefigurazione della futura storia d’Italia: il  Principe di Machiavelli, infatti, « con la sua esaltazione  della sovrana virt4 fondatrice di stato, liberatrice d’Italia,  riassume i due motivi dell’età delle signorie: ciò che essa  aveva prodotto, lo stato creazione dell’uomo; ciò che essa  aveva invocato, la nazione, ed era il compito dell’avve-  nire » 7,    20 Cfr. S. Pizzetti, Federico Chabod storico delle Signorie, cit., pp.  584-589.   2î1 « Se alla radice delle signorie sta, non di rado — afferma Falco —,  un conflitto di natura sociale ed economica e se, com'è ovvio, gl’interessi  economici hanno parte in maniera generica nell’origine e nello svolgi-    121    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    Se infine, in questo assai rapido e incompleto esame del  settore di storia moderna e contemporanea, prendiamo in  considerazione alcuni contributi di storia italiana di due  intellettuali, come Chabod e Maturi, per i quali più spesso  si è sottolineata l’ascendenza crociana, possiamo notare che  nei loro giudizi essi sono largamente debitori di Volpe e  di Gentile e quindi, almeno indirettamente, dell’impronta  nazionalistica di questi ultimi; con ciò non si vuole espri-  mere, com’è naturale, un giudizio generale sull’opera di  Chabod e di Maturi nel periodo fascista — che dovrebbe  tener conto ad esempio, per il primo, e per limitarsi all’Ex-  ciclopedia, anche del contributo su Machiavelli, che nel  suo rigore scientifico si contrappone alla presentazione deci-  samente nazionalistica che ne aveva fatto Francesco Er-  cole ?? —, ma solo contribuire a chiarire le caratteristiche  complessive dell’Enciclopedia come manifestazione cultu-  rale del fascismo.   Accenti nazionalistici sono presenti, infatti, in Rimasci-  mento (1936) di Chabod, che pur qui (come nella comuni-  cazione del 1933 su Il Rinascimento nelle recenti interpre-  tazioni)? si preoccupa di negare — in un periodo in cui  assai accese, e non immuni da preconcetti ideologici, erano  le controversie sulla periodizzazione — la continuità col  Medioevo, contestando la tesi di quanti, come Thode e  Burdach, hanno messo in luce « gli elementi storico-ideo-  logici che ricollegano il trionfante movimento dei secoli  XIV e XV ad aspirazioni, credenze, idee dell’età prece-  dente », e di quanti, come Volpe, hanno operato un analogo  allargamento del quadro cronologico mettendo in rilievo    mento della nuova istituzione, caratteristica di essa, quando riesce a  mettere radice, è essenzialmente l’affermazione e il trionfo di una volontà  politica, una dissociazione dell’esercizio del potere dalle attività della  produzione e dello scambio, dalle organizzazioni di arte e di classe, una  soggezione lenta e progressiva di queste e di quelle agli scopi dell’uomo di  governo, infine, dello stato » (Signorie e Principati, 1936).   272? Per alcune indicazioni sul dibattito su Machiavelli nel periodo  fascista cfr. M. Ciliberto, Appunti per una storia della fortuna di Macbhia-  velli in Italia: F. Ercole e L. Russo, in «Studi storici », X (1968), pp.  799-832.   273 Ora in F. Chabod, Scritti sul Rinascimento, Torino, Einaudi, 1967,  pp. 5-23.    122    L'Enciclopedia italiana    « gli elementi storico-pratici che collegano età dei comuni  e Rinascimento tradizionale, [e] hanno prospettato il Rina-  scimento come il moto stesso di ascesa del popolo italiano,  nella sua coscienza di nazione, nella sua attività politica ed  economica oltre che culturale e artistica, e hanno pertanto  fatto tutt'uno fra Rinascimento e storia del popolo italiano  a partire dal sec. XI ». In realtà il distacco da Volpe si  manifesta soprattutto nella sostanziale esclusione degli  aspetti politici ed economici rilevati da Volpe già in Bizan-  tinismo e Rinascenza del 1905, e ancora nella voce Italia ”*,  e nella caratterizzazione kulturgeschichtlich del periodo, per  cui « se il Rinascimento è divenuto una categoria storica,  lo è — al pari degli altri e simili concetti di Illuminismo e  Romanticismo — nell’unico significato possibile, e cioè di  un momento storico della vita spirituale europea, di un  periodo filosofico, letterario, artistico, che si origina certo  da una determinata realtà politica e sociale nuova, ma che,  ad un certo momento, si dispiega per cosî dire in modo  autonomo e, tratto da quella realtà il succo vivo di cui ali-  mentarsi, lo elabora poi concettualmente e immaginativa-  mente, ne fa un mondo a sé, mondo di idee di dottrine di  creazioni artistiche che si dispiega sino ad esaurimento  della sua interiore virtà ». Ma nella voce enciclopedica, a  differenza della comunicazione del 1933, la distinzione  iniziale tra il Rinascimento e il periodo precedente, affer-  mata nell’analisi delle interpretazioni, è contraddetta quan-  do Chabod passa a enucleare gli elementi costitutivi dell’  epoca. Mentre nega la tesi di un « rinnovamento spirituale  europeo » che si sarebbe verificato in Francia e nei Paesi  Bassi nei secoli XI-XIV, riprende il motivo della continuità  e insiste sul carattere esclusivamente italiano e perfino  nazionale del Rinascimento, preparato lentamente fin dal  XII secolo, che vide in Italia lo sviluppo dei Comuni e  della borghesia:    274 Nel Rinascimento, afferma Volpe, «è come se la società italiana,  la borghesia italiana nata dalle città, celebri se stessa riuscita a essere,  da nulla che era, tutto o quasi tutto; come se celebri la signoria e il  signore, che era pur egli, a modo suo, creatura di quella borghesia e, a  modo suo, attuava quell’ideale dell’uomo che si fa da sé » (Italia).    123    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    Fu la graduale conquista di un proprio mondo spirituale da parte  di chi aveva, già prima, dato nuove basi alla propria attività pratica  e alla propria vita quotidiana. Era infatti una società nuova, quella  ch’era venuta affermandosi tra il secolo XII e il XIII nell’Italia, e  specialmente nell’Italia settentrionale e centrale [...]. Come ceio  sociale, era già ben robusto e capace quello che, con termine mo-  derno, chiameremmo borghesia, ormai differenziato nettamente dai  chierici e dai feudatari [...]. Questo gagliardo e irrompente fiotto di  vita nuova trovava presso che subito una sua prima, grande espres-  sione morale e spirituale, ma non sul terreno della cultura cosiddetta  laica, bensf su terreno prettamente religioso [...] ora, all’inizio del  secolo XIII, era la società italiana tutta quanta che appalesava le sue  rinnovate esigenze di vita morale nel movimento francescano. Che  era il grande apporto della nuova nazione italiana alla storia della    religiosità europea...    In questo recupero dell’interpretazione volpiana —  anche Cantimori nel 1940, sul Dizionario di politica, aveva  individuato nel Rinascimento la presenza di un « senti-  mento nazionale unitario italiano » — il « trasferimento  nell’ambito prettamente umano di idee che prima avevano  trovato la loro ragion d’essere nella fede in Dio » è seguito  nel suo lento cammino, che dal francescanesimo porta a  Dante, a Cola di Rienzo ”°, a Petrarca e infine a Machia-  velli, cioè attraverso « l’erompere delle nuove, giovani forze  che danno vita alla nazione italiana », con una genealogia  che richiama quella proposta da Gentile nella sua ricerca  della « nazionalità » della filosofia ?*. Per converso, il tra-  monto del Rinascimento si ha, afferma Chabod in un passo  finale della voce in cui già Cantimori ha colto il ripiegare  sul piano della storia nazionale dell’interesse precipuo dello  storico valdostano per il fenomeno europeo e cosmopolitico  del Rinascimento ””,    25 Cola di Rienzo fu oggetto di grande attenzione nel periodo fascista  in quanto espressione — come afferma Falco nella voce a lui dedicata —   lella « coscienza italiana ».   216 Cfr. le osservazioni di E. Garin in G. Gentile, Storia della filosofia  italiana, Firenze, Sansoni, 1969, in particolare vol. I, p. 3.   2 D. Cantimori, Chabod storico della vita religiosa italiana del Cin-  quecento (1960), ora in Storici e storia, cit., p. 327. Analizza la voce,  come « caratterizzazione “spirituale” del Rinascimento », E. Sestan, Rina-  scimento e crisi italiana del Cinquecento nel pensiero di Federico Chabod,  in « Rivista storica italiana », LXXII (1960), pp. 676-679.    124    L’Enciclopedia italiana    in stretta connessione con l’infiacchimento della vita italiana, con la  iniziantesi decadenza politica ed economica, con il venir meno delle  grandi speranze e della volontà d’azione, in una parola con il tra-  monto delle forze creatrici che avevano dato alimento ed essere alla  muova civiltà e ne avevano fatto l’espressione piena del vigoroso  sorgere della nazione italiana.    Pit precisa ancora è l’influenza di Volpe e di Gentile  che — accanto a una forte sensibilità per il conflitto tra  ethos e kratos su cui aveva attirato l’attenzione Meine-  cke ?* —, si può riscontrare in alcune voci risorgimentali di  Maturi, che pur Volpe giudicherà « liberale, liberalissimo,  come in politica, cosi in storiografia, assai aperto alle in-  fluenze di Benedetto Croce », e tra i suoi allievi « forse il  più distaccato, nell’intimo, dal mondo del fascismo » ”°  Tornando nel 1950 a valutare la sua celebre voce Risorgi-  mento del 1936, Maturi la presentò come una decisa ri-  sposta alla tesi nazionalistica ?; tuttavia, se è vero che in  essa l’autore si opponeva alla dissoluzione del Risorgimento  nella secolare storia italiana, non è sufficiente limitarsi a  definirla una interpretazione « rigorosamente etico-politi-  ca » senza precisarne le fonti ?. Assai netta appare infatti  la sottolineatura delle origini autoctone del Risorgimento,    218 L’idea della ragion di Stato di Meinecke era stata fatta conoscere  da Chabod in un articolo del 1927 (ora in Lezioni di metodo storico, a  cura di L. Firpo, Bari, Laterza, 1969, pp. 257-78), mentre Cosmopolitismo  e Stato nazionale era stato tradotto da La Nuova Italia nel 1930: sono  testi probabilmente presenti a Maturi, che anche nelle voci enciclopediche  avverte il contrasto tra politica e morale, tra Stato e idea di nazionalità,  soprattutto nella Restaurazione, nella quale «si elaborano da un lato i  concetti di stato forte e di potenza, dall'altro quelli di libertà e di civiltà »  (Restaurazione, 1936). « L’opera degli Svizzeri e dei Tedeschi fu immensa  per la formazione delle coscienze nazionali europee, ma fu opera essen-  zialmente culturale: per fare trionfare in pratica il principio ci volevano  diplomatici e rivoluzionari. Lo zar Alessandro fu il primo ad agitare  l’idea della nazionalità » (Storia del principio di nazionalità, sottovoce di  Nazione di Battaglia, 1934).   29 G. Volpe, Storici e maestri, cit., p. 489.   20 W. Maturi, Gli studi di storia moderna e contemporanea, in  AA.VV., Cinquanta anni di vita intellettuale italiana, cit., vol. I, pp. 244-  45. La sua interpretazione è stata fatta propria da E. Sestan, Walter Matu-  ri, in « Rivista storica italiana », LKXIII (1961), pp. 227-28 (l’articolo esa-  mina anche le altre voci di Maturi), e da M.L. Salvadori, Walter Maturi,  cit., pp. 441-443.   21 M.L. Salvadori, Walter Maturi, cit., p. 442.    125    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    sganciato da ogni rapporto con la Rivoluzione francese.  « Ma, allora, avrebbero ragione gli storici francesi, che  fanno ancora risalire alla rivoluzione francese il nostro  Risorgimento? », si chiede Maturi una volta confutate le  tesi sabaudista e diplomatica delle origini del Risorgimento:    Ciò che distingue la nostra tesi da quella francese, rappresentata  ancora dal Bourgin, è il valore che noi diamo all’epoca del dispotismo  illuminato e al principio della lotta delle nazioni. Senza le riforme del  Settecento, senza l’insoddisfazione dei nostri elementi regionali pit  intelligenti verso lo stato regionale, senza lo stacco che l’opera rifor-  matrice aveva posto in Italia tra minoranze sovvettitrici di vecchi  ordini statali e masse meccanicamente attaccate a quegli istituti, la  rivoluzione francese non si sarebbe potuta inserire tra le lotte poli-  tiche e sociali italiane e non avrebbe trovato il germe fertile, il  terreno fecondo. D'altro canto le grandi lotte settecentesche tra  Francia e Inghilterra avevano insegnato agl’Italiani la fecondità delle  lotte nazionali.    Diversamente da quanto dirà nel saggio del 1942 su  Partiti politici e correnti di pensiero nel Risorgimento ©,  Maturi considera quindi il Risorgimento un movimento che  affonda le sue radici nell’età delle riforme *. Anche Volpe,  proprio nel 1936, aveva sottolineato i Principi di Risorgi-  mento nel ’700 italiano ”*; ma il richiamo a Volpe si fa  ancora più preciso quando Maturi coglie l'elemento propul-  sore del Risorgimento in « un piemontese non conformi-  sta », Alfieri — col quale « si afferma il primo presupposto  d’una nazionalità: la volontà di essere uno stato-nazione »    282 In Problemi storici e orientamenti storiografici, raccolta di studi  ‘a cura di E. Rota, Como, Cavalleri, 1942, pp. 837-876.   283 R. Romeo ha invece scritto: « Fermissimo, anzitutto, nel Maturi,  il rifiuto delle posizioni nazionalistiche e, dunque, di ogni tesi sul carat-  tere pre-risorgimentale del Settecento o peggio, sulla funzione “risorgi-  mentale” dei Savoia fin dal 1748 o magari dal 1706; e nessuna adesione,  «di conseguenza, al tentativo di negare il nesso Rivoluzione francese-Risor-  gimento » (Walter Maturi storico della storiografia (1961) ora in L'Italia  unita e la prima guerra mondiale, Bari, Laterza, 1978, p. 193). Il pen-  siero riformatore fu giudicato astratto da Ettore Rota, fuorché in Italia,  dove avrebbe avuto carattere «autonomo e nazionale » (Riforme, età  delle, 1936).   24 « Rivista storica italiana », s. V, I (1936), pp. 1-34 (il tema del-  l'articolo era stato anticipato da Volpe al Congresso per la storia del  Risorgimento del 1935).    126    L’Enciclopedia italiana    —, sulla base del celebre passo di Del principe e delle let-  tere in cui si auspica che l’Italia, « inerme, divisa, avvilita,  non libera, impotente », possa risorgere « virtuosa, magna-  nima, libera e una »: lo stesso passo parafrasato da Volpe  per dimostre che con Alfieri « il lento processo storico che  da secoli veniva costruendo l’Italia diventa veramente  coscienza e volontà » ?®. È questo un tema, del resto, che  nell’Enciclopedia circola ampiamente, da Rodolico, che  vede in Alfieri « i primi albori del Risorgimento nazionale »  (Italia), a Manfredi Porena, per il quale il letterato piemon-  tese « ebbe con maggior chiarezza di ogni altro suo precur-  sore il concetto dell’unità politica d’Italia fondata sull’indi-  pendenza e sulla libertà, e con maggior ardore e fiducia la  profetò » (Alfieri, 1929). Ma le date e il linguaggio di  queste voci ci suggeriscono che all’origine dell’interpreta-  zione di Maturi non c’è soltanto Volpe; e se pensiamo alle:  altre tappe della creazione del mito risorgimentale, tutte  segnate da letterati, da Foscolo a Cuoco, ci accorgiamo che  la matrice è il Gentile de L'eredità di Vittorio Alfieri, I  profeti del Risorgimento italiano, Vincenzo Cuoco.    Il Cuoco — scrive Maturi riprendendo la genealogia gentiliana  della « nuova Italia » — accolse tutto l'insegnamento che si poteva  cogliere dalla rivolta delle plebi italiane e predicò come dovere mo-  rale l’opera di colmare l’abisso tra popolo e minoranze intellettuali.  E un altro grande contributo portò il Cuoco al concetto di Risorgi-  mento: il culto del Vico. Se Alfieri insegnò agl’Italiani ad agire in  grande, Vico insegnò loro a pensare in grande; se con l’Alfieri l’Italia  s’individuò come volontà di essere stato tra gli stati europei, col  Vico acquistò coscienza di avere una propria personalità nella cultura  europea. Dalla fusione delle dottrine di questi due grandi nacque la  nuova Italia, pensante e operante con una sua particolare fisionomia.  nel seno dell'Europa 26,    285 Ibidem, p. 32. Può essere curioso notare che, pur polemizzando  con l’interpretazione autoctona di Gentile, anche Gobetti aveva visto in  Alferi l’iniziatore di «un Risorgimento e un liberalismo che ben si può  dire originale, e in cui si trovano le premesse della nuova cultura poli-  tica italiana » (La filosofia politica di Vittorio Alfieri, tesi di laurea in  filosofia del diritto discussa nel 1922 con Solari, ora in P. Gobetti, Scritti  storici, letterari e filosofici, a cura di P. Spriano, con due note di F. Ven-  turi e V. Strada, Torino, Einaudi, 1969, pp. 87 ss.).   286 Anche per Battaglia Cuoco aveva avuto il merito di mettere in  circolazione Vico, in particolare «quella posizione storicistica, che in    127    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    Se quindi Maturi rifiuta la tesi sabaudistica e quella  diplomatica delle origini del Risorgimento, è per costruirne  un’immagine etico-politica che rinvia a Gentile, ma anche  a Volpe. Non è del resto possibile dimenticare che non di  vero e proprio antisabaudismo si tratta nel caso di Maturi,  uno dei « patiti » del Piemonte ?”. Nell’ampia voce Savoia,  sempre del 1936, il giudizio positivo sull’opera di riorga-  nizzazione dello Stato di Emanuele Filiberto e di Carlo  Emanuele I diventa entusiastico per il ’700 (« Da molte-  plici punti di vista lo stato sabaudo nel Settecento appa-  riva uno stato perfetto »), mentre Carlo Alberto è definito  « un principe paterno modello » e la sua opera prima del  1848 è qualificata come nazionale; per cui sembra corretta  la critica che di lf a poco, nel 1942, Cortese muoverà a  Risorgimento di Maturi (« non crediamo che ci siano ele-  menti che ci autorizzino a fare della classe politica piemon-  tese della fine del Settecento la creatrice del mito del Risor-  gimento nazionale ») 8.   Un altro motivo che torna anche in alcune voci enciclo-  pediche di Maturi, laureatosi in filosofia con Gentile con  una tesi su De Maistre, è quello della religione e dei suoi  rapporti col potere politico. Proprio nell’opera di De Mui-  stre egli coglie « i primi germi di alcune eresie: del moder-  nismo con i suoi accenni all’evoluzione dei dogmi e delle  credenze religiose; del nazionalismo francese di Ch. Maur-  ras con la sua eccessiva Politisierung della Chiesa nel Du  a », e, più in generale, in Restaurazione (1936) nota  che    per rendere più docili le nuove generazioni e amalgamarle con le  vecchie non si seppe pensare ad altro mezzo che all’educazione eccle-  siastica e si commise l’errore di abbassare la Chiesa a instrumzentum  regni in un’età di delicatissima sensibilità etico-religiosa, con l’unico    parte si fonde con la filosofia antilluministica », e aggiungeva che « l’opera  sua resta nei limiti della tradizione nazionale, che egli riconquistò alla filo-  sofia ed elaborò con alta coscienza, tanto che al suo insegnamento si ricolle-  garono gli uomini del Risorgimento: Mazzini e Gioberti stesso ».   27 D. Cantimori, Studi di storia, Torino, Einaudi, 1959, p. 835.   28 N. Cortese, Orientamenti storiografici intorno alle origini del Risor-  gimento, in Problemi storici e orientamenti storiografici, cit., p. 759.    128    L’Enciclopedia italiana    frutto di provocare per reazione la genesi del cattolicesimo liberale e  d’insinuare con esso il nemico nella cittadella religiosa del passato.    Queste affermazioni non sono tuttavia univoche, come  dimostra — oltre alla valutazione positiva dei Patti late-    ranensi (Romana questione) — il giudizio sul Neoguelfismo  (1934), che    trasformò in sentimento politico nazionale il sentimento politico  locale, facendo confluire nella cultura nazionale le culture regionali,  e quindi compî, sotto certi aspetti, un’opera d’educazione nazionale  maggiore di quella di Mazzini, perché operava dal seno stesso delle  vecchie formazioni statali italiane e ne produceva la crisi morale. Del  neoguelfismo, restò, trasformandosi ed evolvendosi, il liberalismo  nazionale o partito moderato col nuovo ideale d’Italia e casa Savoia,  elaborato dalla storiografia piemontese; restò il cattolicesimo nazic-  nale, che abbandonò le idee di riforma cattolica, si restrinse ad aspi-  rare alla conciliazione tra il papato e la patria italiana e ha visto  realizzato il suo sogno dalla nuova politica ecclesiastica di B. Musso-  lini; restò l’ideale del primato, che è stato ripreso dal fascismo ?P.    Dove in quel « si restrinse » traspare comunque una  posizione laica, alla quale fa riscontro per alcuni aspetti il  giudizio su Gioberti (1933) di Giuseppe Saitta, il direttore  di « Vita nova » che ospitò, come vedremo, alcune critiche  alle voci religiose dell’Enciclopedia: un Gioberti a propo-  sito del quale, in linea con l’interpretazione gentiliana ?°,  non si cita mai la funzione da lui assegnata al pontefice, ma  è visto come l’esponente di una « visione laica e democra-  tica » e « il maggior teorico del liberalismo, che è in anti-  tesi col mazzinianesimo antimonarchico e col guelfismo dei  conservatori che consigliavano il re ad una politica di mode-    29 Di De Sanctis (1931) Maturi evidenziò gentilianamente il fatto che,  « vichiano, senti il valore della religione per il popolo, ma criticò fino in  fondo il principio della libertà ecclesiastica e molto si adoperò, di con-  serva col Mancini, per far mantenere nel sistema separatista italiano  alcune cautele giurisdizionaliste. Comprese, invece, la funzione dialettica,  altamente educativa per ambo le parti, d'un insegnamento religioso coesi-  stente con quello laico ».   290 Gentile parla di «un incessante svolgimento del programma gio-  bertiano verso quella concezione nettamente laica e democtatica, o in una  parola, liberale dello Stato, innanzi alla quale i neoguelfi ricalcitrano »  (I profeti del Risorgimento italiano, Firenze, Vallecchi, 1928?, p. 128).    129    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    razione e di prudenza, la quale si risolveva nella diserzione  dalla causa nazionale », ed è esaltato per il suo « tentativo  di conciliare la spiritualità dello stato con la spiritualità  della chiesa ».    12. Le voci religiose: presenza e conflittualità dei cattolici    Nel 1929 Giovanni Busnelli, un critico severo dell’  attualismo che troviamo fra i collaboratori dell’Enciclo-  pedia, recensendo su « La Civiltà cattolica » i primi volumi  dell’opera notava con compiacimento, come abbiamo visto,  che i suoi direttori, « mentre lasciano agli scrittori la piena  libertà d’esprimere il concetto cristiano e cattolico e il giu-  dizio dei fatti secondo il criterio della soda indagine ecclesia-  stica, promettono di invigilare che anche in altri articoli in-  direttamente attinentisi alla religione cattolica e alle materie  ecclesiastiche non vengano sostenute o insinuate sentenze o  critiche contrarie o malfondate » ?*. Il giudizio rispecchiava  il posto privilegiato riservato nell’Enciclopedia ai cattolici,  l’unica voce organizzata non completamente omogenea con  la cultura del fascismo quale era auspicata da Gentile, ma  tale, per ampiezza e incisività, da caratterizzare nettamente  l’opera nel suo complesso, che non può perciò essere quali-  ficata solo come idealista o attualista. Questo aspetto non  è stato messo nel dovuto rilievo dai testimoni di allora,  nemmeno da quanti hanno ammesso la presenza della  censura ecclesiastica ??; del resto nelle stesse ricostruzioni  generali della cultura nel periodo fascista solo di recente —  se prescindiamo dalle Cronache di Garin — è stato messo  l'accento sull’intervento dei cattolici come componente es-    2) [G. Busnelli], L’« Enciclopedia Italiana », in «La Civiltà catto-  lica », 80 (1929), vol. IV, p. 536. Busnelli aveva pubblicato nel 1926 I  fondamenti dell’idealismo attuale esaminati.   29 Cosî G. Levi Della Vida, Fantasmi ritrovati, cit., pp. 234-38, e G.  Calogero, Mussolini, la Conciliazione e il congresso filosofico del 1929,  in «La Cultura », IV (1966), pp. 434-435. Sulla tematica affrontata in  per pagine cfr. M. De Cristofaro, Le voci di argomento religioso nel-  °Enciclopedia italiana, tesi di laurea presso la Facoltà di Lettere e Filo  sofia di Firenze, anno acc. 1971-72.    130    L’Enciclopedia italiana    senziale del regime, anche se in concorrenza con l’attuali-  smo, soprattutto dopo il 1929 ??. Ma l’esistenza di una loro  vasta organizzazione intellettuale e il loro incontro con  altri settori conservatori della cultura laica sono forse rav-  visabili già prima del Concordato. Proprio le vicende del-  l’Enciclopedia fin dal 1925 suggeriscono infatti una prospet-  tiva di più lungo periodo, capace di individuare le tappe  decisive della « riconquista » cattolica anche in campo cul-  turale — in un confronto continuo con la cultura laica con-  temporanea — nell’iniziativa neoscolastica all’indomani  della sconfitta del modernismo, nella prima guerra mondiale  che offri ai cattolici numerosi spazi di intervento in tutti i  settori della società, e nella soluzione della crisi Matteotti,  in cui anche Pietro Scoppola ha visto l’origine di un regime  clerico-fascista 4.   Le osservazioni sul Concordato e sui neoscolastici svolte  da Gramsci nel breve periodo che intercorre fra il 1929 e  la messa all'indice delle opere di Croce e di Gentile nel  1934 ”*, possono probabilmente essere anticipate di alcuni  anni, al momento in cui, nell'immediato dopoguerra, il  celebre appello di Gemelli al « medioevalismo » — « Noi  siamo medioevalisti; lo siamo perché riconosciamo che la  cosî detta cultura moderna è il nemico pit fiero del Cristia-  nesimo e perché riconosciamo che è vano parlare di adatta-  menti, di penetrazione » ?° — diventa prospettiva concreta  di attacco in tanti interventi di cattolici, fra cui spicca per    293 Cfr. L. Mangoni, Aspetti della cultura cattolica sotto il fascismo:  la rivista « Il Frontespizio », in AA.VV., Modernismo, fascismo, comu-  nismo, a cura di G. Rossini, Bologna, Il Mulino, 1972, pp. 363-417, Id.,  L’interventismo della cultura. Intellettuali e riviste del fascismo, Bari,  Laterza, 1974, e P. Ranfagni, I clerico fascisti. Le riviste dell'Università  Cattolica negli anni del regime, Firenze, Cooperativa editrice universitaria,  1975. Su un altro aspetto, non meno importante, cfr. S. Pivato, L’orga-  nizzazione cattolica della cultura di massa durante il fascismo », in « Italia  contemporanea », XXX (1978), pp. 3-5.   24 P. Scoppola, Sviluppi e differenti modalità della presenza cultu-  rale e politica dei cattolici nelle vicende italiane dal 1870 ad oggi, in  «Quaderni di azione sociale » (1976), p. 279.   295 A. Gramsci, Quaderni del carcere, cit., in particolare pp. 1114,  1218, 1250-1251, 2243.   2% L'articolo del 1914 è riprodotto in A. Gemelli, Idee e battaglie per  la cultura cattolica, Milano, Vita e pensiero, 1940, pp. 1-32.    131    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    chiarezza l’invito rivolto da don Giuseppe De Luca allo  stesso Gemelli il 2 dicembre 1919:    Nelle nostre file s'è troppo indugiato sulla difesa. Che fanno oggi  i cattolici studiosi se non difendere dagli attacchi dei nostri nemici?  Perché non occupare noi primi le scienze, le lettere? Perché non  dar neppure il motivo agli avversari? Pigliamo la cultura, e studia-  mola e facciamola nostra: quali timori? [...]. Una università catto-  lica, non una chiesuola; o meglio ancora dare degli elementi vigorosi  e inserirli negli istituti laici 27.    Negli anni ’20 si assiste infatti a uno sforzo cospicuo  dei cattolici di organizzare una propria cultura per il clero  e per il laicato: dal rilancio del tomismo prospettato dal-  l’enciclica Studiorum ducem del 1923 — che troverà una  espressione organizzativa nella costituzione Deus scientia-  rum dominus del 1931 —, alle tante iniziative che — come  l’Università cattolica o la fondazione nel 1925 della casa  editrice Morcelliana — si ispirano al suggerimento di Ge-  melli, secondo il quale « perché i cattolici italiani abbiano  da esercitare una influenza culturale, quale la tradizione  cattolica in Italia rende possibile, è necessario innanzitutto  che i cattolici non siano reclutati solo nelle classi popolari,  ma anche nelle classi elevate » ?*   Già nel 1925 Gentile aveva cominciato ad avvertire il  pericolo della concorrenza cattolica’, che diventerà sua  preoccupazione costante dopo il 1929. Eppure proprio nel-  l’Enciclopedia da lui diretta egli aveva dovuto accettare  fin dall’inizio la presenza condizionante dei cattolici, fino a  perdere ogni controllo sulle sezioni « Religione » e « Storia  del cristianesimo », e a conferire uno spazio larghissimo a  « Materie ecclesiastiche » di Tacchi Venturi e a « Geografia  sacra » di Luigi Gramatica **. La vicenda di Omodeo, cui    21 Don Giuseppe De Luca et l’abbé dr Bremond (1929-1933),  Roma, Edizioni di storia e letteratura, 1965, p   28 A, Gemelli, I/ compito colturale dei SE (1930), in Idee e bat-  taglie, cit., p. 372. Ù   29 «Le università cattoliche dovrebbero, secondo loro, col tempo e  col favore di Dio, sostituirsi interamente alle università laiche dello  Stato » (discorso al Congresso di cultura fascista di Bologna, 30 marzo  1925, in G. Gentile, Che cosa è il fascismo, cit., p. 103).   300 Il 27 maggio 1925 mons. Luigi Gramatica, direttore della « Rivi-    132    L’Enciclopedia italiana    inizialmente era stata affidata la « Storia del cristianesimo »,  è indicativa del tentativo di Gentile — affiancato da altri  direttori di sezione — di contrastare l’offensiva ecclesia-  stica, ma anche della sua sconfitta.   La scelta di Omodeo da parte di Gentile era coerente  all'impostazione critico-storica che la direzione avrebbe  voluto dare alla trattazione di tutte le voci; ben note erano  del resto le aspre critiche che da parte cattolica avevano  accompagnato gli studi di Omodeo sul cristianesimo antico,  come il Paolo di Tarso del 1922, giudicato dalla « Civiltà.  cattolica » opera di un « compilatore di seconda o terza  mano » *. La sua « rivendicazione della storia del cristia-  nesimo e in genere della vita religiosa come storia etico-  civile, come storia della società umana, da studiare, ricer-  care e ricostruire prescindendo da preoccupazioni confes-  sionali di ogni genere » *%, non era infatti tale da accatti-  vargli le simpatie degli studiosi cattolici; la sua imposta-  zione idealistica e storicistica era avversata anche da Buo-  naiuti che, pur giudicando la Mistica giovannea del 1930  « un sensibile progresso sulla precedente produzione del-  l’Omodeo », la considerava tuttavia «una mal digesta    sta illustrata della esposizione missionaria vaticana », aveva chiesto a  Gentile di affidargli la «Geografia sacra »: «Per Geografia Santa o  Sacra io non intendo solo la Geografia Biblica o la descrizione dei paesi  che immediatamente o mediatamente prepararono la diffusione del Cristia-  nesimo; ma intendo parlare altresi di tutte le regioni o località del mondo  in rapporto al governo della Chiesa e in quanto sono assegnate alla  cosiddetta geografia sacra » (AEI, Lettere, Gramatica). Il 18 luglio 1926  Gaetano De Sanctis scrivendo ad Antonino Pagliaro, redattore della  sezione « Antichità classiche », si dichiarava deluso dell’elenco di voci di  « Geografia sacra »: « mi pare che non si tratti se non di geografia eccle-  siastica, cioè l’indicare Stato per Stato le circoscrizioni ecclesiastiche, il  numero dei preti e dei fedeli ecc. Invece sarebbe stato bene che la  geografia sacra registrasse i centri importanti di culto, i luoghi di pelle  grinaggio, i luoghi famosi nella storia evangelica o nella storia della  Chiesa » (AEI, Lettere, De Sanctis).   301 Intorno a un libro su S. Paolo del prof. A. Omodeo, in «La  Civiltà. cattolica », 75 (1924), vol. III, pp. 405-415, e vol. IV, pp. 30-41.  Di «retorica romanzesca » era tacciato anche il volume di Omodeo su  L’età moderna e contemporanea (Storicismo socialista e fantasie retoriche  e modernistiche, in « La Civiltà cattolica », 82 (1931), vol. IV, p. 535).   302 D. Cantimori, Commemorazione di Adolfo Omodeo (1947), ora in  Storici e storia, cit., p. 28.    133    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    accozzaglia di elementi eterogenei ed avventizi » ®*. Le  preoccupazioni cattoliche erano giustificate anche dall’orien-  tamento che Omodeo avrebbe voluto dare alla sezione enci-  clopedica, puntando essenzialmente su collaboratori laici in  modo da salvaguardare un approccio critico-storico ai pro-  blemi. Il 5 novembre 1925 egli scriveva a Gentile che  « molte voci, anche quelle di sapore strettamente ecclesia-  stico non si possono neanche affidare a preti, senza il peri-  colo di perdere l’informazione sugli studi critici e prote-  stanti, e per converso non si possono affidare neppure a  protestanti sia italiani che stranieri », pur aggiungendo che  si sarebbe rivolto al gruppo di « Bilychnis » per la storia  protestante e a Loisy per la storia della critica e la storia  del canone ®*.   Gentile approvava, ma lo avvertiva che, mentre la trat-  tazione dei papi sarebbe spettata alla sezione diretta da  Volpe, « dei Sanzi, salvo contrario avviso, penserei dare la  cura ad ecclesiastici, con cui sono in trattative » *”. Largo  restava comunque l’intervento dei laci nelle voci di storia  religiosa ®*; le stesse voci riguardanti dottrine teologiche,  riti e culti, aggiungeva Omodeo il 23 novembre 1925,  « avrebbero bisogno d’una trattazione “laica” anche quando  pare si riferiscano a concetti teologali o liturgici, pur, ben  inteso, rispettando quelle norme di prudenza ed obiettività  di cui abbiamo parlato » *”. Il piano delle voci e dei colla-  boratori era completato nel dicembre 1925, e all’inizio del  1926 Omodeo poteva già presentare un abbozzo della voce  Apostoli, che poi corresse seguendo il consiglio di Gentile    393 « Ricerche religiose », VI (1930), pp. 458-459.   3% G. Gentile-A. Omodeo, Carteggio, cit., pp. 345-46.   305 Ibidem, pp. 346-47 (9 novembre 1925); il 18 luglio 1926 Gentile  scriveva che « l’altera pars [gli ecclesiastici] mi consegna in questi giorni  tutte le sue proposte sulle materie ecclesiastiche » (ibidezz, p. 364).   306 L’11 novembre 1925 Omodeo prevedeva ad es. la partecipazione  di Marchesi per la patristica latina, di Pasquali per quella greca, di Co-  gnasso per la storia religiosa bizantina, L. F. Benedetto per il gianseni-  smo francese, Rota e Rodolico per quello italiano, Macchioro per Lutero  e la Riforma, Spampanato e Capasso per la Controriforma, e inoltre la  partecipazione dei collaboratori di « Bilychnis », di S. Caramella e S.  Minocchi (ibidem, pp. 348-351).   37 Ibidem, p. 352.    134    L’Enciclopedia italiana    di « lasciare aperte alcune questioni; quantunque sia già  molta la prudenza da te adoperata » **: cautele che non im-  pediranno, una volta pubblicata, le critiche de « La Civiltà  cattolica » ?°.   Ma nell’aprile 1926, in coincidenza con la pubblica-  zione del Primo elenco di collaboratori, a Omodeo era    giunta voce di un veto del Vaticano alla sua partecipazione,    tanto da suggerirgli il proposito di « tirarsi da parte » *°.    Gentile continuò tuttavia a ricercare la collaborazione di  Omodeo, finché il 14 febbraio 1929, solo tre giorni dopo  il Concordato, intervenne per criticare varie voci, fra cui  Apocalisse e Apocalittica, letteratura, perché « alcune frasi  [...] danno come risolte definitivamente in senso che i cat-  tolici non approvano, alcune questioni critiche, a proposito  delle quali occorrerebbero almeno delle delucidazioni »  La risposta di Omodeo, del 16 febbraio, è articolata nella  difesa delle sue ragioni scientifiche, ma intransigente:    L’obiettività d’un’enciclopedia, è una forma di buona creanza,  ma non può offendere l’intima sostanza della scienza. Metter d’ac-  cordo indirizzo critico e tesi cattolica è impresa disperata, come con-  ciliare sistema tolemaico e sistema copernicano. La scienza ha il suo  cursus, e un’enciclopedia deve riconoscerlo ed affermarlo. Io per  conto mio nella scienza sono intransigente e non mi sento l’animo  per concordati e compromessi [...]. Mi creda, professore, a dar retta  ai preti si finisce a impazzire. Nella scienza erano sono e saranno  capita mortua 32,    308 Ibidem, pp. 356-57, 368, 372. Per la «Storia delle religioni »  Gentile aveva fatto preparare da Pincherle «le proposte dei collabora-  tori da incaricare per le voci, che non conviene affidare alla redazione  degli ecclesiastici. Escluso solo Buonaiuti » (ibidem, p. 377).   39 [G. Busnelli], art. cit., p. 536.   310 G. Gentile-A. Omodeo, Carteggio, cit., p. 365. Nel giugno 1927  anche Pincherle minacciò di abbandonare l’impresa facendo cosî, osser-  vava Omodeo, «con un’impulsiva rinuncia, il gioco dei gesuiti che lui  mostra di temere » (ibidem, pp. 376-378).   311 Ibidem, p. 419. Apocalittica letteratura di Omodeo non fu pub-  blicata, e apparve a firma di padre Giuseppe Ricciotti, redattore di « Ma-  terie ecclesiastiche ». Omodeo pubblicherà due voci su «Civiltà  mo-  derna » (II (1930), pp. 224-248, 992-1000: Le lettere dell’Apostolo Paolo  alla Chiesa di Corinto e La lettera dell’Apostolo Paolo ai Colossesi). Sulla  « mutilazione » di cui furono oggetto altre voci cfr. A. Omodeo, Lettere  1910-1946, cit., p. 455.   312 G. Gentile-A. Omodeo, Carzeggio, cit., pp. 420-423.    135    -Il fascismo e il consenso degli intellettuali    Gentile cercò di dirottarlo su argomenti di storia civile,  ma il 4 dicembre 1929 Omodeo dichiarava che non avrebbe  continuato la collaborazione: « Son sicuro che anche nella  storia civile non avrei maggior libertà che in quella reli-  giosa, una volta ammesso il principio del controllo di una  parte sul lavoro dell’altra »; se fosse stato possibile accor-  darsi su « un principio di completa libertà », « io avrei  lasciato liberi i preti di gabellare, come han fatto, Abramo  quale personaggio storico, o di far l’apologia, se crede-  ranno, del miracolo di S. Gennaro: a condizione che essi  non avessero inquisito nei miei lavori. L’enciclopedia  avrebbe fotografato la cultura italiana, in cui c'è P. Vac-  cari, e c'è A. Omodeo » ?!.   Cosî le voci di Omodeo restano una delle poche testi-  monianze di trattazione critica dei problemi religiosi nel-  l’Enciclopedia, in genere appiattiti dall’impostazione ‘dog-  matica e apologetica degli autori cattolici. Ammiratore  della scuola storica di Tubinga fondata da Ferdinand Chri-  stian Baur — la cui opera era definita « uno dei maggiori  monumenti dello storicismo hegeliano » —, Omodeo cercò  di attenersi ad una esposizione obiettiva dei fatti e delle  diverse interpretazioni, ma senza riuscire a nascondere la  sua preferenza per i risultati dell’indagine critica rispetto  alle affermazioni aproblematiche degli studiosi cattolici: in  Apocalisse, ad esempio, dopo aver esposto l’opinione di  quanti negavano l’apostolicità dello scritto concludeva che  « in opposizione a questi indirizzi critici, il cattolicesimo si  mantiene saldo nell’affermare l’apostolicità dell’opera —  ormai abbandonata quasi da tutti nell’altro campo [...] —  e nel ribadirne l’ispirazione divina, e l’esegesi spiritualiz-  zante ». Rispetto a un giudizio del genere, si può notare  un vero e proprio capovolgimento di segno nella voce,  esecrata da Omodeo, in cui padre Eerembeemt aveva soste-  nuto la storicità della figura di Abrarzo (1929) affermando  la « insussistenza » delle teorie di chi la negava *“, o in    313 Ibidem, pp. 434-435.   314 « Abramo è un personaggio storico? Pei credenti, si; e sotto Abra-  mo trovi un paragrafo dove sono oggettivamente esposti gli argomenti  per la storicità di Abramo », osservò Ugo Ojetti, I primzi ser volumi del-    136    L’Enciclopedia italiana    Deuteronomio (1931) — voce prima affidata a Omodeo e  poi respinta dalla direzione dell’Enciclopedia —, in cui il.  gesuita Tramontano avvalorava le tesi degli studiosi catto-  lici che attribuivano l’ultimo libro del Pentateuco a Mosè,  confutando recisamente quelle dei critici « acattolici » !5.  Omodeo avrebbe dovuto trattare anche la storia della  Chiesa dalle origini al concilio di Nicea, ma il 29 giugno  1929 egli aveva avanzato delle riserve per    i limiti, molto ristretti, di libertà di parola che consente l’enciclo-  pedia, Se per le voci bibliche io arrivo spesso a cavarmi d’impaccio  esponendone il contenuto e narrando la storia della critica, per  [questa] voce non è cosî. Non posso narrar la storia della chiesa,  senza prender posizione, altrimenti la narrazione non procede. Nelle  questioni spinose dell’origine dell’episcopato, del primato romano,  della struttura dogmatico-disciplinare della chiesa, della prassi peni-  tenziale, dei sacramenti ecc. non potrei non dare scandalo ai preti,  divenuti cosî intolleranti 36,    Subito dopo Gentile lo cavava d’« impaccio » affidan-  done la stesura a don Giuseppe De Luca, che senza troppe  preoccupazioni spiegava la rapida diffusione del cristiane-  simo con i caratteri della dottrina stessa (« per tutti che  sentissero lo stimolo di una vita non solamente animale,  [la dottrina cristiana significava] la formula risolutiva della  propria umanità in ciò che ha di buono e di cattivo, con la  tecnica della propria cultura interiore »), giustificava l’im-  piantarsi della gerarchia e del primato romano, e spiegava  come « da contaminazioni e compromissioni della dottrina  cristiana, consumate per opera di menti ansiose e irrequiete,  nacquero le prime eresie ».   Alla luce della vicenda di Omodeo è facile presumere  che l’ingerenza degli ecclesiastici si sia estesa ben presto a    l’Enciclopedia italiana, in « Il Corriere della sera », 5 agosto 1930.   315 In Pentateuco (1935) il gesuita Alberto Vaccari espose i motivi  per cui «la scienza [può] trovare nel Pentateuco un buon nucleo auten-  ticamente mosaico frammezzo ad accrescimenti d’età posteriore. Né pi  sembra domandare la fede cattolica, quando vuol salva la sostanziale  autenticità e integrità del Pentateuco, e lascia passare aggiunte, purché  ispirate, e mutazioni accidentali posteriori a Mosé (v. il decr. della Com-  missione biblica 27 giugno 1906) ».   316 G. Gentile-A. Omodeo, Carteggio, cit., pp. 426-427.    137    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    tutti i settori in cui erano presenti voci o riferimenti reli-  giosi, vanificando l’impronta laicista che non solo Gentile  e Volpe, ma anche, con particolare forza, Francesco Salata  avrebbe voluto dare alla sezione « Storia contemporanea »,  di cui perderà la direzione nel corso della preparazione del-  l’opera: « senza invadere il campo riservato alle sezioni  “Filosofia, educazione, religione” e “Storia delle religio-  ni” », scriveva Salata in un promemoria del 9 maggio 1926,    ritengo che la parte prevalentemente politica della storia contempo-  ranea delle religioni e specialmente della Chiesa cattolica, e quindi,  ad esempio le voci personali dei papi, dei cardinali segretari di Stato,  dei nunzi, quelle dei concili, di alcune istituzioni amministrative  della Chiesa, di alcune dottrine politico-religiose ecc. trovino posto  più proprio nella mia sezione. Per alcune voci relative alla Chiesa  cattolica ciò non può mettersi in dubbio per il periodo precedente  al 1870, ma anche per il periodo successivo è troppo chiara l’impor-  tanza politica del papato non solo per l’Italia ma anche in tutta la  politica internazionale, perché tali voci siano sottratte alla sezione  che ha cura e responsabilità della storia politica di questo periodo 317,    Ma, quando Salata avanzava queste pretese, la presenza  dei cattolici tendeva già a dilatarsi all’interno dell’Enciclo-  pedia, favorita dalla singolare concezione dell’obiettività  propria di Gentile, consistente nel rivolgersi ai « compe-  tenti », ma in ultima istanza ai diretti interessati *, Cosi  le voci sui gesuiti furono attribuite prevalentemente a espo-  nenti dell’ordine — con un cospicuo intervento di Tacchi  Venturi —, Rosmini al rosminiano Caviglione, con l’inter-  pretazione del quale Gentile aveva polemizzato nel 1906 *,  Scolastica e S. Tommaso ai neoscolastici Francesco Pelster  e Martin Grabmann, Neoscolastica a Gemelli, e a Niccoli,  allievo di Buonaiuti, voci come Gioacchino da Fiore e Mo-  dernismo. Il fatto che queste voci di storia religiosa fos-  sero affidate a rappresentanti di vari indirizzi di pensiero    317 AFI, Lettere, Salata.   318 «Da Barnabiti particolarmente desidererei gli articoli relativi ai  Barnabiti », aveva scritto il 18 aprile 1925 Gentile a padre Semeria (AEI,  Lettere, Semeria).   39 G. Gentile, Storia della filosofia italiana, cit., vol. I, pp. 879-880.  La voce fu riprodotta, assieme a quella Rosminiani, congregazione dei di  Bozzetti, in « Rivista rosminiana », XXX (1936), pp. 163-170.    138    L’Enciclopedia italiana    comportò l’esistenza di inflessioni diverse nel giudizio e nel  taglio metodologico: ad esempio, presentando la figura di  Gioacchino da Fiore (1933) Niccoli non solo riprese l’in-  terpretazione che ne dava Buonaiuti in quegli stessi anni °°  — « una delle figure più notevoli della spiritualità cristiana  durante il Medioevo », la cui opera ha un « contenuto inti-  mamente sovversivo nei riguardi della Chiesa ufficiale » —,  ma si differenziò anche da altri autori spiegando in termini  economici e politici la genesi della sua profezia sull’avvento  della Chiesa della realtà spirituale sostituita a quella della  gerarchia e dei simboli *?, Tuttavia, al di là di queste distin-  zioni interne, l'intervento dei cattolici comportò, da un lato,  la dilatazione dello spazio concesso alle voci religiose —  come dimostra anche un rapido confronto tra l’Enciclopedia  britannica e l’opera diretta da Gentile, in cui voci specifiche  sono attribuite, ad esempio, a Concezione immacolata o a  Comunione dei santi —; e, dall’altro, l’apologia del cattoli-  cesimo più tradizionale, che non investe solo la storia della  Chiesa medievale sulla quale la cultura cattolica vantava  anche allora una ricca tradizione di studi — « il fascismo  inquinò anche la storiografia medievalistica con un clerica-  lismo nauseante nell’esaltazione in blocco di tutta la storia  della Chiesa medievale (tutti i papi medievali vengono  esaltati nell’Enciclopedia italiana) », ha osservato Gabriele  Pepe ** —, ma riguarda tutti i periodi storici. Basti pensare  alla voce su S. Gerzaro in cui il gesuita Romano Fausti  sostiene la veridicità del miracolo, secondo quanto aveva    320 La voce ha molte assonanze, ad es., con E. Buonaiuti, Gioacchino  da Fiore, in « Rivista storica italiana », XLVIII (1931), pp. 305-323.   321 « Gioacchino, con tutta probabilità servo della gleba per nascita,  è giunto al suo riscatto e alla formulazione del suo messaggio attraverso  l'iniziazione in una riforma monastica, quella cisterciense, di origine e  caratteristiche squisitamente latine, la cui importanza sul terreno sociale  come fattore di disgregazione dei superstiti istituti feudali — anche  nell'Italia Meridionale — si palesa oggi sempre più evidente. Sarà infine  necessario tener presente che il ciclo fattivo della vita di Gioacchino  coincide con quello della maggior fortuna del regno normanno in Italia:  tendenze, aspirazioni e crisi del quale, studi recenti hanno mostrato  riflettentisi sulla complessa esperienza di Gioacchino ».   32 G. Pepe, Gli studi di storia medioevale, in AA.VV., Cinquant'anni  di vita intellettuale italiana, cit., vol. I, p. 113.    139    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    previsto Omodeo, o allo sconcertante giudizio con cui Ro-  berto Palmarocchi minimizza il ruolo di un personaggio  « scomodo » come Savonarola, spiegandone la condanna:    secondo alcuni essa ricade sui fiorentini, secondo altri sulla corte di  Roma. È certo che il Savonarola stesso diede ai suoi nemici l’occa-  sione di abbatterlo, immischiandosi e invischiandosi nelia politica e  avallando con la sua autorità morale i fatti e i misfatti di una fazione.  Ma la causa più profonda della sua caduta fu la sua illusione di arre-  stare il cammino dei tempi, il suo sforzo d’impotre agl’italiani del  quattrocento una concezione di vita ormai superata.    In questo quadro non mancano tuttavia delle eccezioni,  costituite non solo dagli interventi di Chabod e di Canti-  mori su figure di protestanti e di eretici, ma anche da alcune  voci di Pincherle e di Jemolo che affrontano tematiche più  ampie di storia della Chiesa, con un’attenzione particolare  ai collegamenti fra storia religiosa e storia politica. Questi  evitano infatti di pronunciarsi sulle questioni propriamente  teologiche seguendo la via proposta da Gentile quando,  inviando a Jemolo delle istruzioni per la compilazione di  voci di storia della Chiesa, osservava che « anche delle sin-  gole controversie teologiche [...] sarà da rilevare il signi-  ficato intimo, le azioni e reazioni sulla politica anche degli  Stati, sull’organizzazione gerarchica, sulla pietà e le mani-  festazioni del sentimento religioso, pit che non l’aspetto  tecnicamente teologico e le singole fasi della disputa » ?.  A un ambito di intervento laico sono infatti riconducibili  le voci di Jemolo che, pur esprimendo un giudizio severo  sul carattere « malevolo o petsecutore » del liberalismo  ottocentesco che « non tollera i conventi, vuol spogliare la  Chiesa dei suoi beni e sottometterne tutta la vita a un re-  gime di polizia » (Chiesa), forni un’interpretazione del Ga/-    licanismo (1932) che lo espose a interventi censori *, e    33 Gentile a Jemolo, 3 agosto 1928 (AEI, Lettere, Jemolo).   34 Lamentandosi con la direzione per le varianti apportate alla sua  voce, il 22 giugno 1932 Jemolo osservava che « a mio avviso non risponde  al vero nascondere la decadenza del gallicanismo nel settecento, e dargli  parte prevalente in quel complesso fatto europeo che fu la soppressione  della Compagnia di Gesti » (ibidem). E la decadenza del gallicanismo è  riaffermata nella voce.    140    L’Enciclopedia italiana    cercò di distinguere aspetti religiosi e aspetti politico-cultu-  rali nella valutazione della Controriforma:    Chi da un punto di vista strettamente religioso instauri raffronti  tra lo spirito dei primi secoli del cristianesimo, quello della cristia-  nità medievale, e quello della controriforma, potrà pur non prefe-  rire quest’ultima età alle due precedenti. Ma è certo che la contro-  riforma ebbe, accanto alle sue pagine sanguinose, pagine bellissime  segnate dal rapido miglioramento del costume cattolico; fu una  ricca sorgente d’iniziative religiose, di opere di carità e d’intraprese  culturali, che a quasi quattro secoli di distanza sono ancora lungi  dall’esaurirsi; soprattutto diede alla Chiesa un’intima struttura che,  da quasi quattrocento anni, si palesa sempre meglio adatta a difen-  derla contro ogni tentativo, esterno e interno, di disgregazione, con-  tro ogni influenza perturbatrice che miri a deviarla dal suo cam-  mino.    Complesso e articolato appare anche il giudizio di Pin-  cherle sulla Riforzz4, che su un piano religioso è « in asso-  luta antitesi » con la teologia umanistica — « nulla più  della libera critica è alieno dallo spirito di un Lutero »;  Lutero è « un uomo nettamente di tipo medievale » —,  mentre sul piano della storia politica e culturale essa  « preannuncia veramente il mondo moderno » perché raf-  forza l’assolutismo dei principi e costituisce, con il calvi-  nismo, « il mondo ideale entro cui nacque e si sviluppò lo  spirito capitalistico e, pertanto, il capitalismo moderno ».  E assai distante da toni apologetici e dogmatici si dimostra  Pincherle — accomunato da « Civiltà cattolica » a Omodeo  come ugualmente « di sensi non cattolici » * — nella voce  Cristianesimo (1929), in cui giudica con simpatia l’opera  dello storicismo che aveva considerato il cristianesimo come  fatto storico, osservando che « la mentalità storicistica ha  nello stesso tempo distolto lo scienziato dall’identificare  senz'altro il cosiddetto “cristianesimo di Ges” con quello  praticato nel seno della sua particolare confessione e dal  giudicare e condannare dogmaticamente; in questo stesso    35 [G. Busnelli], art. cit., p. 536. Mussolini si lamentò che alla voce  Cristianesimo fossero dedicate solo 3 pagine, contro le 66 di Cotone  (appunto ms., s.d., in ACS, Segreteria particolare del Duce, Carteggio  riservato, b. 49, sottofasc. 1).    141    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    senso agiva il nuovo clima culturale, con la larga diffusione  delle idee di tolleranza e di libertà religiosa ».   Accanto a questi interventi, il tentativo di Gentile di  salvaguardare la pretesa di obiettività dell’Enciclopedia è  ravvisabile anche nella suddivisione di alcune delle voci  maggiori tra autori cattolici da un lato, laici o attualisti dal-  l’altro: è il caso ad esempio di Dio (1931), dove la dottrina  cattolica è esposta dal gesuita Giuseppe Filograssi mentre  « Dio nelle varie concezioni filosofiche » è opera di Antonio  Banfi — per il quale « la pit totalitaria trasposizione in  senso razionale dell’idea di Dio è quella compiuta da Hegel,  per cui Dio è il processo eterno in cui l’idea — come prin-  cipio razionale del mondo — giunge a coscienza della sua  assoluta universalità e autonomia » —; e di Religione  (1936) in cui il gesuita Enrico Rosa analizza il « concetto  cattolico » che « raccoglie in sintesi, integra e chiarisce gli  elementi di verità che si possono trovare sparsamente con-  fusi anche nei concetti pagani o eterodossi », e Gentile in  persona ne esamina l’aspetto filosofico per affermare la  « universalità e indefettibilità della religione » — « la ne-  cessità e l'universalità della religione sono la più efficace  convalidazione del suo valore, e cioè della sua verità » —  e per ribadire, contro materialisti e mistici, che « l’uomo  che non si può concepire senza concepire Dio [è] l’uomo  che attua l’esperienza della sua umanità, realizzando nella  vita spirituale quella coscienza di sé ond’egli in fatti si  distingue dalle cose ». Significativa è, già nel primo volume,  anche la voce Agostino (1929) — il santo al quale nel  1930, nel 1500° della morte, saranno dedicati vari studi —  riservata all’agostiniano Antonio Casamassa per la vita e le  opere (e « La Civiltà cattolica » si esprimeva positivamente  per questa parte), ad Augusto Guzzo per lo « sviluppo del  pensiero » e ad Alberto Pincherle per la critica e le edi-  zioni. Su di essa si soffermava nel 1931 la « Rivista di filo-  sofia », che coglieva la « notevole sproporzione tra la parte  che riguarda la vita e le opere (esattissima di certo, ma utile  solo allo specialista) estesissima, e quella che riguarda il  pensiero e le controversie critiche sui testi agostiniani, di  interesse più universale, ma molto più breve, e soprattutto    142    L'Enciclopedia italiana    alquanto disordinata e incompleta ». Dopo aver notato che  la voce iniziava con la « strana dizione » « Agostino Aure-  lio, santo », l’autore dell’articolo sosteneva che « manca  del tutto la filosofia di Agostino, come manca la considera-  zione filosofica della teologia agostiniana », e accusava di  illecita lettura attualistica un passo in cui Guzzo affermava  che nel De vera religione « si legge quel celebre appello:  Noli foras ire; in te redi, in interiore bomine habitat veritas  (De vera religione, 72), che non sarà più dimenticato né  dalla mistica medievale e moderna, né da quante filosofie,  nell’età moderna e contemporanea, riterranno di dover ri-  chiamare l’uomo dalla dispersione del mondo esterno al rac-  coglimento dell’analisi interiore ». Accusa non immotivata,  se pensiamo che anche in Pedagogia Ernesto Codignola,  trattando di Agostino, riprenderà lo stesso concetto, che  Gentile stesso aveva contribuito a diffondere:    L’intuizione religiosa della filiazione divina, approfondendosi e  interiorizzandosi, diventa in Agostino un concetto speculativo, la  prima affermazione filosofico-teologica della soggettività e immanenza  del vero, con cui il cristianesimo tentava di svincolarsi, anche nel-  l'ambito della speculazione, dall’antinomia che aveva alimentato lo  scetticismo del tardo pensiero classico: ineliminabile individualità di  ogni atto di conoscenza, ultra-individuale oggettività del vero. Noli  foras ire, in te ipsum redi, in interiore bomine habitat veritas.    Un’interpretazione alla quale la « Rivista di filosofia »  poteva opporre che « per Agostino la veritas presente all’io  è Dio stesso, oggetto rel soggetto, mentre ciò è alieno essen-  zialmente dalla dottrina idealistica » °%.   Tuttavia, nonostante questi accorgimenti, Gentile non  poté impedire che nell’Enciclopedia fosse assai marcata  l'impronta del cattolicesimo ortodosso e che, addirittura, in  alcune voci i cattolici operassero un forte ridimensiona-  mento, o una critica aperta, del neoidealismo italiano. Pa-  dre Gemelli, dopo aver definito la Neoscolastica (1934) « la  restaurazione del pensiero medievale nell’ambito della ci-  viltà moderna, considerando il pensiero medievale non    3% G. Firenzi, Note sulla storia della filosofia medioevale, in « Rivista  di filosofia », XXII (1931), p. 60.    143    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    come espressione transitoria di una civiltà, ma, quanto alla  sostanza, come definitiva conquista della ragione umana nel  campo della metafisica », ne accentuava il carattere antiidea-  listico: « La restaurazione scolastica doveva in Italia affer-  marsi non tanto in relazione al positivismo, quanto in rela-  zione all’idealismo, che in Italia maturava con B. Croce e  con G. Gentile. Ne sarà criticata la metafisica (immanenti-  stica) e accettata invece quella valorizzazione della storia,  che è caratteristica dell’idealismo stesso: non però come  filosofia, sibbene come storia ». Sempre nel 1934 Niccoli  difendeva il Modernismo contro i suoi critici, in primo  luogo i rappresentanti di quella « filosofia che, negando  possa conoscersi un reale fuori dell’uomo e del pensiero,  non solo si è iscritta in falso contro quelli che erano stati  in passato i cardini di ogni metafisica, ma ha scrollato le  basi stesse della fede religiosa »; e l’allievo di Buonaiuti  cercava di rafforzare la sua difesa opponendo il movimento  modernista al socialismo e all’idealismo:    Chi avesse accettato come dati di fatto incontrovertibili i risul-  tati negativi ai quali la critica storica, filosofica e sociale affermava di  essere giunta, non poteva avere che due alternative: o ripudiare net-  tamente tutto il patrimonio religioso cattolico e cristiano, sia affer-  mando di contro ai valori cristiani i nuovi valori sociali, sia conside  rando il cristianesimo e il fatto religioso in genere come un momento  ormai superato della vita dello spirito (fu questo in sostanza il punto  di vista difeso dall’idealismo italiano); o affermare che il cattolice-  simo si raccomanda a valori più alti, non toccati dai colpi portati  dalla critica moderna all’interpretazione scolastica del cattolicesimo e  quindi costruire su di essi una nuova apologetica, che mantenesse al  cattolicesimo la sua efficacia fra gli uomini. E fu questo l’atteggia-  mento assunto dal movimento modernista.    Nel complesso, e tenuto conto di alcune assenze signi-  ficative — come Clericalismo, che Carlo Morandi non ac-  cettò ‘”, o Laicismo, voce che è invece presente, a firma di  Walter Maturi, nel Dizionario di politica —, si comprende  quindi la soddisfazione dimostrata per il settore religioso    327 Cfr. la lettera di Morandi del 19 settembre 1930 (AEI, Lettere,  Morandi).    144    L'Enciclopedia italiana    da « Civiltà cattolica » già nel 1929 **, quando pit forte  era l’influenza di Gentile e di Omodeo, e, per converso, la  preoccupazione di « Vita nova » del gentiliano Giuseppe  Saitta che, prendendo spunto dalla critica della voce Adazzo  di Giuseppe Ricciotti, allargava il discorso per lamentare  « la intrusione nell’Enciclopedia di questa pseudo-scienza  teologica »:    I gesuiti sanno troppo bene a che cosa mirano, e qual forma ed  estensione assumerà, nel loro campo, la sezione di materie ecclesia-  stiche. La Bibbia intera e specialmente il Nuovo Testamento, le ori-  gini del cristianesimo, la storia dei dogmi e della Chiesa, anzi dell:  Chiese, tutto vi dovrà essere mostrato e rappresentato dal punto di  vista cosiddetto cattolico, cioè teologico, in contrasto e negazione  con la vera scienza storica del cristianesimo, quale si insegna nelle  nostre scuole universitarie. È la teologia esclusa dalle università  definitivamente con la legge del Concordato, che rientra, come unica  scienza della religione, nella nostra coltura nazionale [...]. L’Enciclo-  pedia avrebbe tutelato meglio i diritti della scienza e quelli della  nazione, rimanendo italiana, come è il titolo semplicemente, senza   resumer di voler anch’essere cattolica nel senso della Civiltà catto-  ica. Le voci di carattere propriamente religioso, oggi svolte con dif-  fusione anche eccessiva, potevano ridursi al puro necessario; ed entra  quei limiti, avrebbero dovuto essere redatte da un punto di vista.  EE scientifico, evitando di accettare i presupposti della teo-  logia 39.    Non solo i timori di « Vita nova » non erano infondati,.  come abbiamo visto, ma possiamo supporre che molte  altre sezioni, oltre quelle direttamente interessate alle que-  stioni religiose, furono oggetto del controllo ecclesiastico.  « Per la Questione Romana informati — scriveva Maturi  a Morghen —, perché la mia polizia segreta mi ha avvertito:  che essa con tutto il gruppo di voci romane è stata sottratta.  alla giurisdizione della sezione storica » ®°, E il 2 aprile  1931 Fausto Nicolini scriveva a Gentile, a proposito della  voce Giannone (1932), che si sarebbe posto da    328 Anche Gemelli notava nel 1930 che Gentile « ha chiamato a colla-  borare all’Enciclopedia studiosi cattolici ed ha affidato loro la trattazione  di delicati problemi religiosi » (L'Università cattolica e l’idealismo, in  Idee e battaglie, cit., p. 391).   . Rensis, Ancora dell’Enciclopedia Italiana, in «Vita nova»,  VI (1930), pp. 152-153.  3%0 AEI, Lettere, Maturi.    145    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    un punto di vista che non potrà piacere al certo a chi, nell’Enciclo-  pedia, soprintende alle materie ecclesiastiche. Se dunque mi si pro-  mette formalmente piena libertà di parola, e sopra tutto che la mia  prosa, quale che essa sia, non sarà riveduta, corretta o attenuata in  senso clericale, sono prontissimo a fare l’articolo [...]. Ma se codesta  promessa formale non mi può essere fatta e mantenuta, anziché sotto-  pormi all’alea di trovare (come accadde a Omodeo) stravolto e muti-  lato il mio pensiero, preferisco rinunziare a scrivere l’articolo. Tu,  che mi conosci, sai bene che non sono uomo da porti nell’imba-  razzo facendo dell’anticlericalismo intempestivo. Ma, alla fin dei  conti, debbo pur dire pane al pane e vino al vino, e presentare il  Giannone quale egli fu, cioè quale un martire dell’anticurialismo.  Non posso elogiare l'agguato di Vesnà come un’azione pulita o l’im-  posta abiura e la dodicenne prigionia come atti di carità cristiana 33,    Questi propositi non sembrano tuttavia essersi tradotti  in pratica nella stesura della voce, dove le ultime vicissitu-  dini di Giannone sono presentate in maniera anodina e, pur  riconoscendo che l’Istoria civile del Regno di Napoli è stata  per decenni la « bibbia dell’anticurialismo » — « un anti-  curialismo lontano, nella lettera, dall’eterodossia, ma già  volterriano nello spirito » —, si coglie in essa una « astratta  e fantastica configurazione dello stato come bene assoluto,  progresso, civiltà, forza generosa, e della chiesa come male,  regresso, oscurantismo, malizia frodolenta ». Analogamente  nella voce Romana questione (1936) Maturi, pur valutando  assai positivamente la Legge delle guarentigie, concludeva  l’esame dei rapporti tra Stato italiano e Chiesa elogiando i  patti del 1929:    Mussolini coronava con un concordato la sua nuova politica eccle-  siastica, con l’ininzio della quale aveva scompigliato le file del partito  popolare e assorbito nel fascismo il cattolicesimo nazionale; d’altra  parte, nella politica estera egli tolse all’Italia una passività diplo-  matica. Da parte della Chiesa il riconoscimento dello stato nazionale  italiano s’inquadra nel riconoscimento di molti stati nazionali europei  avvenuto coi concordati postbellici.    Dove sono ripresi alcuni dei giudizi più favorevoli di    parte fascista — anche per Volpe i patti erano tesi, per il  fascismo, a « togliere una non piccola causa di nostra debo-    331 AEI, Lettere, Nicolini.    146    L’Enciclopedia italiana    lezza internazionale » ®* —, senza tuttavia i timori, pur  assai diffusi, che lo Stato potesse abdicare al suo spirito  laico.   I patti lateranensi dovettero del resto riflettersi pesan-  temente sull’Enciclopedia, rafforzando il controllo ecclesia-  stico e arrivando fino a minacciare l’esistenza di singole  voci: Angelo Sraffa, che curava con Mariano D’Amelio la  sottosezione « Diritto privato », giunse infatti a proporre  la soppressione della voce Divorzio (1932), già in bozze,  perché era «cosa estremamente delicata trattarla oggi a  parte, date le interferenze con l'annullamento del matrimo-  nio, che è diventato di fondamentale importanza di fronte  al trattato del Laterano, ed alla estensione che dinanzi ai  Tribunali ecclesiastici l'annullamento sta prendendo » **.  La sua proposta non fu accolta e la voce rimase, a soste-  nere però la particolarità dell’ordinamento italiano e a rico-  noscere che « gli stessi contrattualisti a oltranza », cioè  quanti erano favorevoli al divorzio, « compresi della serietà  delle contrarie obiezioni, sono d’accordo nel ridurre a un  piccolo numero di casi la facoltà di ricorrere al divorzio ».   Dove non arrivò il diretto intervento ecclesiastico —  padre Gemelli non scrisse la voce Psicanalisi, che nel 1932  si era offerto di fare e che a sua firma apparirà invece nel  Dizionario di politica (« Distruttiva della religione, della  quale nega ogni valore, nel dominio politico la psicoanalisi  orienta le sue speranze verso il comunismo ») —, giunsero  puntuali le critiche dell’organo dei gesuiti. Carlo Brica-  relli, collaboratore della sezione artistica dell’Enciclopedia,  intervenne sull’esposizione dell’arte medievale e moderna  fatta in Arte (1929) da Julius von Schlosser, al quale Gen-  tile aveva suggerito di « parlare dell’arte come conseguenza  di bisogni materiali e spirituali delle varie fasi di civiltà, e  quindi dei compiti e delle forme dell’arte in relazione alle  mutate condizioni sociali, similmente, in un certo senso,  a quanto ha fatto il Dvorak nel suo saggio sull’idealismo e    332 G. Volpe, Il patto di S. Giovanni în Laterano, in « Gerarchia »,  (1929), ora in Pagine risorgimentali, Roma, Volpe, 1967, vol. II, p. 284.  333 Sraffa a Spirito, 8 maggio 1931 (AEFI, Lettere, Sraffa).    147    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    naturalismo nell’arte gotica » **. « La tendenza di tutto  ridurre all’umano, e nell’opera della Chiesa interpretare  ogni cosa a uso d’intenti terreni propri, oppure a lei impo-  sti per forza, è un altro preconcetto che turba anzi scon-  volge addirittura il giudizio storico », osservava Bricarelli  appuntando la sua critica, fra l’altro, su di un passo in cui  Schlosser affermava che    la crisi di questo cristianesimo primitivo cominciò nel secolo IV col  suo riconoscimento ufficiale come religione di stato, sotto la forma  universale del « cattolicismo ». L’al di qua reclamava oramai i suoi  diritti. Il vecchio Impero, divenuto cristiano, rivestito di tutta la  pompa della sua missione divina e di tutto il suo fasto, nella sua  qualità di potenza protettrice della Chiesa, determinò anche il con-  tenuto iconografico dell’arte che si rivela nei fastosi musaici parietali  delle grandi basiliche post-costantiniane 85.    Cosî Giovanni Busnelli criticava il giudizio su Leonardo  (1933) dello storico della medicina Giuseppe Favaro —  secondo il quale « di fronte alla rigida concezione teologica  dell’origine del mondo, [Leonardo] non si peritava di con-  futare il racconto biblico della genesi, la storia della terra  creata da seimila anni e la leggenda del diluvio universa-  le » —, sostenendo invece che « la fede e dottrina cattolica  di Leonardo è fuori d’ogni dubbio e accusa, chi voglia scan-  dagliarne senza preconcetti le espressioni »; e, passando a  esaminare la parte della voce su Leonardo ‘filosofo — che  Gentile considerava figlio dell’umanesimo e negava fosse  un antesignano della filosofia sperimentale, perché in lui  « il pensiero comincia dall’esperienza, ma per affrancarsene  e tornare alla ragione » —, Busnelli affermava che in Leo-  nardo l’appello all’esperienza sensibile era il frutto dell’in-  segnamento dei peripatetici e degli scolastici, e che «la  ragione che infusamente vive nella natura, come attuante  la sua efficacia, non è, conforme alla dottrina dell’Aquinate,    3% Gentile a Schlosser, 11 ottobre 1928 (AEI, Lettere, Schlosser). La  voce era introdotta da una parte redatta da Gentile (su cui cfr. le osser-  vazioni di Croce in «La Critica », XXVIII (1930), pp. 365-367).   335 C. Bricarelli, L'arte nell’Enciclopedia Treccani, in «La Civiltà  cattolica », 81 (1930), vol. II, p. 130.    148    L’Enciclopedia italiana    la ragione umana, ma la divina » °*, Nel 1935 infine « La  Civiltà cattolica », affermando recisamente che « ogni altra  pedagogia, fuori della cattolica, è ampiamente divergente e  dispersiva nei sistemi fino alla confusione babelica, e nei  metodi è angusta, ristretta ed unilaterale », criticava che  nella voce Pedagogia Codignola avesse interpretato ideali-  sticamente, come evolutiva, la pedagogia cristiana, e all’uni-  tarietà di questa opponeva la « babilonia di antitesi e con-  trasti, di ideali e sistemi », imperante nel campo idealistico  esaltato da Codignola, per il quale le opere di Gentile sul-  l'educazione, « accanto a quelle del Croce sui problemi del-  l'estetica e della storiografia, segnano il culmine cui si è sol-  levata la speculazione contemporanea » *”. La durezza del-  l’attacco, e l’ampiezza della difesa di Codignola compren-  dente Croce, non necessaria per l'argomento trattato, pos-  sono forse spiegarsi con la condanna da parte del S. Uf-  ficio, avvenuta l’anno precedente, delle opere di Croce e di  Gentile. Un documento anonimo del 2 luglio 1934 osserva-  va come, secondo gli ambienti ecclesiastici, obiettivo princi-  pale da colpire fosse Gentile:    Si nota che la condanna in ordine cronologico è stata fatta prima  per la opera del noto antifascista Croce, per poter poi giustificare  anche la condanna delle opere del Gentile. Si aggiunge che oramai  era inutile la condanna del Croce [...], cui la gioventii italiana è ben  lungi dal ricorrere come un tempo, come ad un oracolo indiscutibile.  Oggi la gioventù italiana ha altro da fare e, c’è da scommettere, che  moltissimi giovani, delle classi più acerbe ignorano l’uomo, o, se  non l’uomo, almeno la quasi totalità delle sue opere. Anche questa  volta la Chiesa, volendo colpire uno — cioè il Gentile — è andata  alla ricerca di un cadavere per poter avere un alibi, nel quale nessuno  crede. Pi grave è la condanna di Giovanni Gentile, che in qualche  centro è giudicata come una mossa contro le teoriche accettate dallo  Stato fascista. Si indica come il principale postilatore di questa con-  danna padre Gemelli 3*.    3% G. Busnelli, Leonardo da Vinci nel vol. XX dell’« Enciclopedia  italiana », in « La Civiltà cattolica », 85 (1934), vol. II, pp. 66-70.   357 [M. Barbera], Intorso dl concetto della pedagogia cattolica, in  « La Civiltà cattolica », 86 (1935), vol. III, pp. 247-250.   338 ACS, Segreteria particolare del Duce, Carteggio riservato, b. 1,  sottofasc. 2. Anche «Giustizia e Libertà », dopo aver individuato in  padre Gemelli l’ispiratore della condanna di Gentile, aggiungeva: « biso-    149    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    Molte osservazioni potrebbero farsi a questi giudizi,  riprendendo le notazioni di Gramsci sulla diversa « popo-  larità » delle filosofie di Croce e di Gentile. Appare proba-  bile comunque che la condanna del 1934 colpisse più dura-  mente Gentile, che in qualche caso aveva cercato un ac-  cordo con i cattolici, coronando l’indebolimento della sua  posizione interna al fascismo iniziato nel 1929. Consape-  vole di questo fatto — di cui gli scontri avvenuti nell’Enci-  clopedia erano stati una riprova —, nel 1936 Gentile con-  cludeva un articolo su L’ideale della cultura e l’Italia pre-  sente mettendo in guardia contro il « pericolo [...] che può  derivare dalla restaurazione religiosa desiderata e promossa  dal fascismo come corroboratrice della coscienza civile e  delle morali istituzioni. Restaurazione, che in massima parte  non poteva essere che un ritorno alle tradizioni cattoliche  del popolo italiano, col rischio di riassoggettare la cultura  nazionale a forme praticistiche e meccaniche d’una religio-  sità esteriore, e a conseguenti limitazioni dell’interna libertà  spirituale, dalle quali gl’italiani avevan durato secoli a ri-  scattarsi » ?”,    gna vendicarsi e fingere l’equità: sono messi all’Indice i libri non di  Gentile soltanto ma anche di Croce. Croce sorride e Gentile si spaventa »  (Preti e fascisti, 27 luglio 1934).   39 G. Gentile, Mezzorie italiane e problemi della filosofia e della  vita, cit., p. 385.    150    A. F. Formiggini:  un editore tra socialismo e fascismo    1. La parola, veicolo di « fraternità universale »    « Né ferro, né piombo, né fuoco / posson salvare la Li-  bertà, / ma la parola soltanto. / Questa il tiranno spegne  per prima, / ma il silenzio dei morti / rimbomba nel cuore  dei vivi »!. Cosî scriveva nel luglio del 1938, fra tante  altre « epigrafi » messe a suggello della propria vita e a  testimonianza degli ideali che l’avevano ispirata, Angelo  Fortunato Formiggini, lucidamente deciso a chiudere con  un sacrificio personale che servisse a « dimostrare l’assur-  dità malvagia dei provvedimenti razzisti » — come scriveva  alla moglie? — un’esistenza dedicata a perseguire, primo  fra tutti, l’ideale della fratellanza universale attraverso la  forza di convinzione della parola. Se la stampa del regime  mantenne il più rigoroso silenzio sul suicidio dell’editore  modenese, gettatosi dall’alto della Ghirlandina il 29 no-  vembre 1938, impedendo cosî che Formiggini potesse rag-  giungere lo scopo di richiamare l’attenzione dell’opinione  pubblica sulle leggi razziali, il suo gesto fu sottolineato  dagli ambienti dell’antifascismo, non solo ebraico, che ne  dettero l’annuncio: « Molti italiani d’Italia, costretti pur-  troppo a mantenere l’incognito, amici e ammiratori di A. F.  Formiggini Maestro Editore annunciano, straziati ma fieri,  il Suo sublime sacrificio. Questo annuncio non ha potuto  comparire sui giornali italiani, ove le leggi razziste impedi-  scono persino di dar notizia dei decessi degli ebrei ». E il  9 dicembre 1938 « Giustizia e Libertà » annunciava in una  corrispondenza dall’Italia l’atto di protesta di Formiggini,    1 A.F. Formiggini, Parole în libertà, Roma, Edizioni Roma, 1945, p.  106.  2 Ibidem, p. 116.    151    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    ricordando che egli « non era mai stato un conformista » e  che « ogni suo piano, tendente alla difesa e alla elevazione  della cultura italiana, aveva trovato nel fascismo una oppo-  sizione aperta o una resistenza insidiosa » *. E ai « poste-  ri », « perché gli orrori e le iniquità di oggi non abbiano a  rinnovarsi mai più nel più lontano avvenire », Formiggini  volle lasciare in eredità alcune sue Parole in libertà, testa-  menti spirituali indirizzati ai familiari, ai concittadini mo-  denesi, agli « ebrei d’Italia » e al tiranno in persona, tutti  ispirati, più che da una chiara presa di coscienza politica,  da una fede quasi religiosa nell’amore fra tutti gli uomini,  secondo quella visione del mondo che egli aveva conden-  sato nel motto arzor et labor vitast.   Fra i « testamenti » del 1938 possiamo annoverare an-  che il bilancio del suo lavoro editoriale, Trenta anni dopo,  che, seppur scritto pensando alla pubblicazione, è signifi-  cativamente considerato dall’autore il suo « canto del ci-  gno », steso « a giuoco finito », quando un motivo di spe-  ranza può essere visto solo « al di là della tormenta ». Ac-  canto alla testimonianza delle proprie idee non poteva man-  care quella della propria fatica, in un uomo in cui la scelta  dell’attività editoriale si era saldata fin dall’inizio con il per-  seguimento di obiettivi che non esiteremmo a definire etici  prima ancora che culturali o politici, ma tali da divenire  punto di riferimento di indirizzi di pensiero determinati ‘.   A scrivere il bilancio dei trenta anni della casa editri-  ce — e di sessanta anni della sua vita, compiuti proprio  nel 1938 — Formiggini aveva pensato da tempo, fornendo  via via parziali anticipazioni. Convinto che anche « lo scrit-    3 L'editore Formiggini si uccide a Modena per protestare contro il  razzismo, in « Giustizia e Libertà », 9 dicembre 1938, p. 1 (e, per l’an-  nuncio di morte, ibidermz, p. 2); cfr. anche R. De Felice, Storia degli ebrei  italiani sotto il fascismo, Torino, Einaudi, 1961, pp. 385-386, 491.   censura fascista colpirà con particolare accanimento la produ-  zione dell’editore modenese ed anche i libri della Biblioteca circolante  da lui fondata a Roma nel 1921, di cui qualche volume è escluso dalla  lettura per motivi politici — come il Capitale —; ma si atrivò perfino a  impedire la diffusione di molti testi dei « Classici del ridere », come il  Decamerone, o L'arte di amare di Ovidio (come si ricava dall’esemplare,  conservato in BNF, della terza edizione del Catalogo della biblioteca  circolante Formiggini, Roma, Formiggini, 1936).    152    A.F. Formiggini: un editore tra socialismo e fascismo    tore più mediocre e più oscuro farà sempre cosa interes-  sante scrivendo la propria autobiografia, specie se questa,  anziché circoscriversi a fatti puramente personali (che  avrebbero pur sempre un interesse umano e psicologico) si  innesterà nella storia viva del suo tempo », già nel 1923  era stato spinto dal contrasto con Gentile a scrivere « una  parte dell’opera » in un curioso volume che, oltre a pre-  sentarci alcune fra le più interessanti iniziative dell’editore  e il suo carattere caustico seppur non intransigente, costi-  tuisce un efficace documento della « marcia » del fascismo  alla conquista delle istituzioni culturali: « da quando ini-  ziai la mia attività editoriale — scriveva proprio allora  Formiggini — non ho mancato di raccogliere materiale per  una autobiografia che avrebbe dovuto riuscire qualche cosa  di mezzo fra le Memorie di un editore di Gaspero Barbèra  e il Catalogo ragionato delle edizioni Barbèra, fusi insie-  me » i.   Nel modello indicato — e al quale Formiggini cercherà  di mantenersi fedele in Trenta anni dopo come già in un pre-  cedente, più conciso bilancio della sua attività editoriale * —  non vi era certo la presunzione di avere svolto un’opera di  promozione della cultura nazionale paragonabile a quella  dei maggiori editori ottocenteschi, da Vieusseux a Pomba,  da Barbèra a Le Monnier, ma pur sempre la consapevolezza  di aver reso un « servizio » alla cultura del proprio paese,  e di essere fra i pochi editori del suo tempo che, come i  « grandi » dell’ottocento, riunissero nella propria persona le  qualità dell’imprenditore e del principale animatore delle  iniziative culturali della casa editrice. Quello che fu carat-  terizzato, poco dopo aver tratteggiato i primi venticinque  anni della sua attività, come « un editore che scrive » 7,  non avrebbe condiviso l’opinione di un Luigi Russo, che    5 A.F. Formiggini, La ficozza filosofica del fascismo e la marcia sulla  Leonardo. Libro edificante e sollazzevole, Roma, Formiggini, 1923, pp.  22, 28.   6 A.F. Formiggini, Venticinque anni dopo. 31 maggio 1908-31 maggio  1933, seconda edizione con prefazione di Giulio Bertoni, Roma, Formig-  gini, 1933.   ? D. Costantino, Smorfe e sorrisi. Scritti critici, Catania, Casa del  libro, 1934, vol. II, pp. 23-38.    153    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    di una casa editrice non si fa storia. Da uomo « positivo »  che vuole documentare il duro e contrastato lavoro da lui  compiuto, Formiggini ci ha lasciato con i Trenta anni dopo  una testimonianza d’eccezione, la cui lettura può risultare  utile non solo per precisare il giudizio sulla cultura italiana  del primo novecento — alla luce anche di vicende indivi-  duali minori —, ma anche per riproporre il problema della  storia delle case editrici, spesso disattesa perché considerata  una classificazione forzata di prodotti culturali il cui « mar-  chio di fabbrica » sarebbe dato solo dalla collocazione intel-  lettuale dei singoli autori, uniti o in maniera casuale o da  vincoli ideologici tanto stretti da vanificarne le differenze.  Ma, come è stato giustamente osservato, « proprio per-  ché luogo organizzato d’incontro di più generi di colla-  boratori, e di più fattori e interessi, una casa editrice  di tipo ancora “tradizionale” rispecchia orientamenti e  programmi di gruppi di intellettuali che verificano sul piano  dell’azione pubblica la loro consistenza, e dichiarano tutti  i loro sottintesi nel punto in cui, mettendo in circolazione  strumenti concreti come libri e riviste, si scontrano con  poteri reali, economici e politici, in situazioni di fatto, per  modificarle (o per accettarle e conservarle). Per questo la  responsabilità di una casa editrice di “cultura”, a qualsiasi  livello essa operi, è grandissima. Inserita in un tessuto so-  ciale ed economico definito, è legata ad ambienti e istituti  di istruzione, e di ricerca, per attingervi, ma anche per rea-  gire su di essi, in una trama di rapporti la cui dialettica è  necessario mettere in luce quando si voglia ricostruire il  corso degli eventi di un determinato periodo storico » 5. È  un campo, questo, per il quale assai scarse sono le nostre  conoscenze, e non solo per la difficoltà a scendere concreta-  mente su un terreno per tanti versi accidentato. In realtà,  se in linea di massima può essere accettato il giudizio di  Russo, che significato e valore di una casa editrice sono con-  segnati nei suoi cataloghi, e che in alcuni casi, come in    8 E. Garin, Un capitolo di rilievo singolare, in 50 anni di attività  editoriale (Venezia 1926-Firenze 1976): La Nuova Italia, Firenze, La  Nuova Italia, 1976, pp. V-VI.    154    A.F. Formiggini: un editore tra socialismo e fascismo    quello della Laterza, se ne può seguire la storia ripercor-  rendo l’opera di organizzazione della cultura sviluppata da  una personalità come Croce, è da respingere quel pregiu-  dizio idealistico che, considerando il processo storico come  germinazione di idee da idee o proclamando in astratto la  separazione tra cultura e politica — fino a vedere la « pro-  pria » produzione culturale come un sistema chiuso e per-  fetto, per cui la storia reale può confondersi con una « cri-  tica di se stessi », — esclude dall’oggetto privilegiato del  suo interesse le istituzioni culturali.   Non è un caso che proprio un’analisi che — come oggi  si comincia a fare — abbia al suo centro il tema dell’orga-  nizzazione della cultura e della sua diffusione, permette di  articolare meglio nei tempi e nei modi, per quanto riguarda  il novecento, il giudizio che il neoidealismo italiano dette  di sé, e che ritroviamo facilmente ripetuto come un canone  interpretativo indiscusso ’, sulla rottura netta da esso ope-  rata all’inizio del secolo nei confronti delle « vecchie » cor-  renti di pensiero, e sul suo deciso trionfo che non avrebbe  lasciato spazio ad alcuna « sacca di resistenza » che non si  ponesse in termini di « superamento » dell’idealismo stesso.  In realtà ci sembra estremamente valida, tanto più ove la  si riferisca non solo alla cultura di élite, ma anche al più  vasto e intricato substrato ideale che percorre nei primi  decenni di questo secolo tutti i settori della cultura ita-  liana — riflettendo la « disgregazione sociale » del paese  e, insieme, le contraddizioni o le resistenze che accompa-  gnano la « rifondazione » dell’egemonia borghese —, l’os-  servazione di Garin, per il quale    una delle deformazioni prospettiche più diffuse, e più dannose per  un’esatta comprensione delle vicende culturali italiane di questo  secolo, è quella che proietta alle origini il risultato di una batta-  glia — non solo « ideale » — che si concluse, almeno in una sua  fase, intorno agli anni venti, dopo la prima guerra mondiale, con  l’ascesa del fascismo. L’egemonia idealistica, piuttosto gentiliana che  crociana, non era affatto affermata, e tanto meno scontata, prima  della guerra libica [...]. Solo se ci si liberi fino in fondo dell’eredità    9 Cosî ancora A. Asor Rosa, La cultura, in Storia d’Italia, Torino,  Einaudi, 1975, vol. IV, in particolare p. 1142.    155    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    del provvidenzialismo idealistico, col suo trionfalismo storiografico,  sarà possibile evitare l’appiattimento uniforme di posizioni contra-  stanti, e insieme una polemica sterile, forse interessata soltanto a  simmetrici rovesciamenti !°,    Per il periodo che dalla « svolta » del nuovo secolo  arriva al fascismo le vicende delle case editrici, anche di  quelle minori o comunque non in grado di « rappresentare  un intero movimento d’idee » — come appariva a Gobetti  la Treves, « simbolo [...] di tutta la vuotezza italiana »  per il suo « eclettismo positivistico di cosî lunga e infausta  durata e memoria » !" —, possono costituire una guida assai  utile per disaggregare e ricomporre una trama culturale  complessa, per stabilire accostamenti o distinzioni ideali o  politiche altrimenti non sempre evidenti o per valutare la  capacità di penetrazione e di orientamento di correnti di  pensiero — non necessariamente lineari — in un pubblico  colto che proprio nell’« età giolittiana » cresce enorme-  mente e in parte si rinnova diversificandosi dal punto di  vista sociale, con l’apparizione sulla scena di una « opinione  pubblica » alla quale si richiede sempre più un consenso  agli obiettivi politici perseguiti dalla classe dirigente.  Aumentano per numero e tiratura i quotidiani, ci si rivolge  a un più vasto pubblico « popolare » attraverso la scuola,  i corsi organizzati dalle università popolari o le biblioteche  circolanti, ma si assiste anche all’espandersi di una « classe  media colta » che desidera legittimare sul piano culturale il  peso politico cui aspira, o al tentativo della borghesia di  affinare gli strumenti del suo dominio. Fra questi piani  diversi esistono connessioni e influenze, nel quadro di una  lotta per l’egemonia che vede un’ampia mobilitazione di  forze; ed è ora, dopo la « crisi » di fine secolo e la « svolta »  giolittiana, che alle case editrici accademiche e a quelle di  orientamento « popolare » o dichiaratamente socialista —  come Sonzogno e Nerbini !! — se ne affiancano nuove e pi    10 E. Garin, Intellettuali italiani del XX secolo, Roma, Editori Riu-  niti, 1974, p. 96.   ll P. Gobetti, La cultura e gli editori (1919), in Scritti storici, letterari  e filosofici, a cura di P. Spriano, Torino, Einaudi, 1969, pp. 458-466.   12 Cfr. G. Tortorelli, Una casa editrice socialista nell'età giolittiana:    156    A.F. Formiggini: un editore tra socialismo e fascismo    agguerrite, il cui interlocutore privilegiato è un pubblico  colto e medio-colto in grado di acquistare libri e riviste: da  Laterza (1901) a Ricciardi (1907) a Rizzoli (1909) a Mon-  dadori (1911) a Vallecchi editore di « Lacerba ».   In assenza di ricerche specifiche si comprende quindi  l’importanza di testimonianze come quella di Formiggini  che illustra, anche se solo parzialmente, le vicende di una  casa editrice fondata nel 1908, negli stessi anni in cui videro  la luce altre destinate ad acquistare un peso ben maggiore,  ma allora di dimensioni ancora ridotte. L’unico testo a cui  si possa in qualche modo avvicinare sono i Ricordi e idee  di un editore vivente scritti nel 1934 da Attilio Vallecchi,  che tuttavia, pur trovando concordanze significative nella  difesa di una « cultura italiana » intesa come strumento di  « rinnovamento nazionale », ripercorre lo stesso arco crono-  logico con l’ottica del protagonista precursore vittorioso  dell’ideologia fascista in cui l’editore fiorentino si vanta di  aver contribuito a convogliare nazionalisti, sindacalisti rivo-  luzionari, futuristi, vociani, cattolici.   Secondo il proposito dell’autore, i Trenta anni dopo si  presentano invece come una sorta di catalogo ragionato, in  cui la personalità dell’editore è ridotta al minimo, e, a dif-  ferenza del pamphlet del 1923, restano sullo sfondo anche  i « tempi » in cui ha operato: spentasi la carica polemica di  quindici anni prima suscitata dalle vicende della Leonardo  e che si era manifestata in feroci attacchi antiattualisti (con  alcuni spunti antifascisti), escluse espressamente le testimo-  nianze morali che nel '38 Formiggini veniva consegnando  ai suoi scritti privati, nel volume non appaiono nemmeno  —- se non incidentalmente — i nomi dei « numi tutelari »  della cultura italiana del primo novecento. Accanto alla  difficoltà, ma anche al rifiuto di prendere nettamente posi-  zione !, in questo silenzio si riflettono, più che i risultati di  una parabola politica, alcuni limiti di fondo di un editore    la Nerbini, in « Movimento operaio e socialista », n.s., III (1980), pp.  221-254.   13 Una testimonianza in questo senso in P. Trevisani, Le fucine dei  libri. Gli editori italiani, Bologna, Barulli, 1935, p. 197.    157    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    che i contemporanei — Prezzolini in testa! — giudica-  rono non tanto un uomo di cultura quanto un grande arti  giano e propagandista del libro, e che per primo amava  presentarsi come il sostenitore dei valori universali di una  « cultura » senza ulteriori determinazioni, quasi al di sopra  della mischia, ideale morale e religioso, più che politico.  « Riconosco di avere avuto certe qualità che sono essen-  ziali per rappresentare efficacemente un indirizzo, un pen-  siero, per portare nella fucina intellettuale del paese un  non inutile soffio di ossigeno », scrive Formiggini, ma sa-  rebbe vano cercare di identificare questo indirizzo nell’am-  bito della classificazione usuale delle correnti culturali ita-  liane all’inizio del secolo. Per comprendere cosa questo  fosse concretamente, o come fosse possibile che determi-  nati indirizzi di pensiero, spesso confusi e intersecantisi tra  loro, confluissero e si riconoscessero nella sua casa editrice,  bisogna risalire ancora una volta ai motivi ispiratori della  sua vita. « Il libro mi apparve allora, e mi è apparso poi  sempre — scrive ricordando gli inizi della sua attività —,  il vincolo delle intese, il vincolo del parallelo cammino  verso mete elevate e concordi. Questa mia fede di fraternità  universale, alla quale s’ispirò fin dagli inizi la mia attività  editoriale, era già trionfante nel mio animo fin dalla prima  giovinezza » 5, ed era una fede religiosamente sentita, se  nel ’38 teneva a riaffermare — ponendo a coronamento  della sua fatica la collana delle « Apologie delle religioni »  — che suo intento era stato « non di insidiare le fedi senti-  tamente professate, ma soltanto di divulgare l’intima essenza  delle varie religioni, per affrettare quel mutuo rispetto e  quella mutua comprensione fra gli uomini che condurranno  l’umanità a quell’affratellamento universale che fu il car-  dine massimo della dottrina del Cristo e che mi ostino a  credere che sia la più alta e la più benefica di tutte le aspi-    14 G. Prezzolini, La cultura italiana, Milano, Corbaccio, 1930?, p. 225:  Formiggini « ha particolarmente sviluppato, oltre le sue collezioni, il lato  direi tecnico della propaganda libraria ».   55 A.F. Formiggini, Trenta anni dopo. Storia di una casa editrice,  Amatrice, Formiggini, 1951, pp. 198 e 15.    158    A.F. Formiggini: un editore tra socialismo e fascismo    razioni umane » !. Ma questo ideale di fratellanza non  dovette essere poi tanto anonimo o neutrale, se nel periodo  che dall’affermarsi del neoidealismo e dalla nascita de « La  Voce » arriva fino al fascismo e alla « dittatura » gentiliana  la casa editrice Formiggini poté rappresentare — riunendo  soprattutto quanti nell’idealismo non si riconoscevano —  un capitolo significativo e abbastanza determinato, anche se  minore, della cultura italiana.   Nato il 21 giugno 1878 a Modena, dove contrasse  affetti e amicizie che — come quella con il futuro ministro  della giustizia di Mussolini, Arrigo Solmi — lo accompa-  gneranno nei successivi spostamenti della casa editrice, da  Bologna (1908) a Modena (1909), quindi a Genova (1911)  e infine a Roma (1916), Formiggini apparteneva a una  famiglia ebraica di cui molti rami erano cattolici da genera-  zioni remote; e in questa origine è forse da ricercarsi uno  dei motivi della sua insistenza sulla necessaria unità tra  ariani e semiti e sul tema della fratellanza universale. In  gioventi aveva compiuto indagini di storia delle religioni,  le quali — ricorderà con parole certo immodeste, ma che  testimoniano di un clima culturale intensamente vissuto —  « mi portarono ad affermare, su dati puramente giuridici  ed etici, quella identità di origine degli ariani e dei semiti  che l'Ascoli aveva già riconosciuto nello stretto campo della  filologia e che gli scritti del Delitzsch, in Germania, sei anni  dopo di me, con grande autorità confermarono » ”. Il suo  interesse per questo campo di studi è infatti attestato dalla  tesi di laurea in legge discussa a Modena nel 1901, dal  titolo programmatico (La donna nella Thorà in raffronto col  Mandva-Dbarma-Séstra. Contributo storico-giuridico ad un  riavvicinamento tra la razza ariana e la semita), e da un  intervento del 1902 nel quale Formiggini lamentava l’as-  senza nel nostro paese di un « insegnamento critico » delle  religioni nonostante gli sforzi di Gaetano Negri, David Ca-  stelli, Raffaele Mariano, Alessandro Chiappelli e, soprat-  tutto, di Baldassarre Labanca, pur avvertendo che il desi-    16 A.F. Formiggini, Parole in libertà, cit., pp. 137-138.  1 A.F. Formiggini, Parole in libertà, cit., p. 136.    159    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    derio di una ripresa degli studi storico-religiosi « non deve  essere interpretato come l’efflorescenza di un sentimento  nostalgico verso un passato mistico per me e per altri molti  ‘ormai superato » !. Richiamandosi cosî alla concretezza  degli ideali terreni — aliena, più che in uomini a lui vicini,  come Ernesto Buonaiuti o Guglielmo Quadrotta, da asce-  tismi medievali e da ogni forma di spiritualismo —, Formig-  gini seguîf con interesse quel parziale sviluppo di una  « scienza delle religioni » che si ebbe in Italia fra la fine  dell’ottocento e l’inizio del nuovo secolo, ad opera inizial-  mente di studiosi non cattolici e sulla base di quella « iden-  tificazione fra idee teologiche e religiose e pensiero » che  divenne « tradizionale negli studi storici italiani dai tempi  del Tocco e del Labanca in poi » !.   Frequentando i corsi di lettere e filosofia dell’università  di Roma nel 1902-1903 (conseguirà poi la seconda laurea  in filosofia morale a Bologna), Formiggini fu infatti attento  soprattutto alle lezioni di storia del cristianesimo di La-  banca, critico di ogni dogmatismo e — almeno nelle inten-  zioni — del misticismo, in nome di un Dio concepito come  ragione e coscienza ”.   Meno avvertibile risulta la traccia dell’insegnamento  romano di Antonio Labriola, anche se proprio alla trascri-  zione di Formiggini dobbiamo la conoscenza del suo corso  di filosofia della storia del 1902-1903 Sul materialismo sto-  rico, e se fu proprio il futuro editore a portare il saluto degli  universitari italiani alla salma del « buon Maestro » ?. I    18 La coltura religiosa in Italia, Modena, Forghieri e Pellequi, 1902.   19 D. Cantimori, Storici e storia, Torino, Einaudi, 1971, p. 320; un  ‘accenno ai legami di Formiggini con Labanca e Quadrotta in P. Scoppola,  Crisi modernista e rinnovamento cattolico in Italia, Bologna, il Mulino,  1961, in particolare pp. 35 e 317.   20 Cfr. le notazioni di G. Gentile, Storia della filosofia italiana, a cura  di E. Garin, Firenze, Sansoni, 1969, vol. II, p. 218.   21 «Tu, buon Maestro, ti servivi della mia voce per trasmettere il  tuo pensiero alla scuola » (« Corda Fratres », n.s., III (1904), n. 3, p.  113). Allieva di Labriola fu anche la moglie di Formiggini, Emilia Santa-  maria, la cui tesi di laurea su Le idee pedagogiche di Leone Tolstoi fu  pubblicata nel 1904 da Laterza con una breve prefazione di Labriola (ora  in A. Labriola, Scritti politici 1886-1904, a cura di V. Gerratana, Bari,  Laterza, 1970, pp. 508-509).    160    A.F. Formiggini: un editore tra socialismo e fascismo    suoi « maestri » dell’università di Roma dovettero comun-  que contribuire a rinsaldare quello spirito democratico —  di matrice, ripetiamo, pit etico-religiosa che politica — al  quale è improntata l’attività svolta da Formiggini, nel  1902-1904, come console e poi presidente della sezione ita-  liana dell’associazione internazionale studentesca Corda  Fratres, di stampo radical-massonico, che si proponeva di  raggiungere amore e fratellanza fra tutti i popoli e le classi  prescindendo dalla politica ”. All’interno dell’associazione  Formiggini si batté infatti contro le tendenze che ne inter-  pretavano le finalità in chiave nazionalistica, sviluppando  le sue convinzioni soprattutto a proposito del movimento  sionista: « secondo me, e vorrei che cosî fosse — scriveva  nel 1903 a commento del sesto congresso sionista di Basi-  lea —, molti di quelli che in Italia hanno aderito al sioni-  smo, non furono spinti dal sentimento di solidarietà di  razza, ma da quello molto più ampio e liberale di solidarietà  umana. Per costoro non dovrebbero aderire al sionismo gli  ebrei soltanto, ma anche tutti quelli che hanno il pensiero  sufficientemente evoluto per riconoscere che ad ogni uomo,  indipendentemente dalla razza cui appartenga e dalla fede  che professi, deve esser riconosciuto il diritto alla vita ed  alla dignità umana » ?. Concetti che saranno letteralmente  ripresi nel '38 per negare ogni fondamento all’antisemiti-  smo, che avrebbe potuto essere meglio combattuto e vinto  ove il sionismo fosse rimasto una corrente umanitaria, senza  trasformarsi in un movimento nazionalista inteso a « rico-  struire la potenza politica d’Israele » *.   Questo ideale etico-umanitario veniva ribadito da For-  miggini, assieme a preoccupazioni per l’insorgere delle cor-  renti irrazionalistiche e idealiste, in una recensione del 1907  a L’anarchia del modenese Ettore Zoccoli nella quale, dopo  aver condiviso il giudizio dell’autore sulle « teorie immo-  rali e antigiuridiche » degli anarchici, lo rimproverava di    22 Non era ancora un'associazione puramente « corpotativa », come  apparirà negli anni venti a Giorgio Amendola (Una scelta di vita, Milano,  Rizzoli, 1976, p. 94).   23. « Corda Fratres », n.s., II (1903), n. 1, p.9.   2% A.F. Formiggini, Parole in libertà, cit., pp. 50-52.    161    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    non aver mostrato « la efficacia, per quanto indiretta e non  voluta, che ha avuto l’anarchia per sospingere l’umanità  verso un’era di giustizia sociale, di libertà politica e reli-  giosa e di universale affratellamento », e aggiungeva:    Dobbiamo ad ogni modo auguratci che la crisi che sta attraver-  sando il pensiero filosofico contemporaneo, il quale, mosso appunto  dalla preoccupazione etica, si è già annunciato come una vivace rea-  zione contro la filosofia della seconda metà del secolo XIX, si possa  risolvere, non in un ritorno a forme mistiche, la cui inconsistenza è  già stata provata dall’esperienza storica, ma in una confortante e  serena consacrazione di una morale intesa come necessità imprescin-  dibile della vita: necessità non d’ordine logico né d’ordine fisico,  ma però tale da avere rispetto alla vita delle coscienze: quello stesso  imperio assoluto che hanno le necessità logiche per il pensiero e le  necessità fisiche per tutto l’ordine meraviglioso della natura 3.    Dove sono espressi sinteticamente non solo la conce-  zione ottimistica del progresso e l’ideale di conciliazione di  quei « positivisti in crisi » che graviteranno attorno alla  casa editrice di Formiggini, ma anche il senso di un assedio  che si andava stringendo da parte degli idealisti. Ben diver-  so, quasi contrapposto, era il giudizio sull'opera di Zoccoli  formulato nel 1908 da Benedetto Croce, che la considerava  moralistica (mentre « una teoria filosofica sarà esatta o sba-  gliata, ma non mai morale o immorale ») e, da osservatore  apparentemente distaccato, ne traeva spunto per notare  nell’affermarsi di tendenze sindacaliste rivoluzionarie contro  il riformismo socialista l’influenza dell’anarchismo, che  « forse [...], considerato nel suo insieme, giova a mante-  nere quel sentimento di scissione tra il proletariato e la  borghesia, che i teorici del sindacalismo stimano indispen-  sabile al progresso sociale » ; lo stesso Croce che proprio  nel 1908, in un momento decisivo dello scontro col positi-  vismo, bandiva dal vocabolario di « coloro i quali anelano  a un risveglio della filosofia e della cultura, salutare alla  patria italiana », i termini di « tolleranza » e « temperan-  za », sinonimo, quest’ultimo, di « debolezza, incapacità di    3 « Rivista italiana di sociologia », XI (1907), pp. 337-338.  % «La Critica », VI (1908), fasc. II, pp. 140-141.    162    A.F. Formiggini: un editore tra socialismo e fascismo    sintesi, tendenza alla combinazione e conciliazione estrin-  seca, che porta ad affermare cose tra loro ripugnanti, ha  paura delle opinioni della gente volgare, cerca di non sve-  gliare opposizioni, e rifugge dai partiti che richiedono riso-  lutezza e responsabilità » 7.    2. Positivisti, modernisti, socialisti    La fisionomia alla quale la casa editrice rimarrà sem-  pre fedele venne definendosi nel giro di pochi anni, tan-  to che già nel 1914 Serra, tracciando i caratteri distin-  tivi dei due editori-tipo italiani, Laterza e Treves, espres-  sione il primo del « libro di cultura » e, il secondo, di quello  « di bella letteratura », ma con la tendenza sempre più  marcata « a entrar nel campo della cultura », poteva anno-  verare in quest’ultima categoria le edizioni Formiggini, di  cui metteva in evidenza le « intenzioni brillanti » e « un  certo decoro » ”.   Notevole rilievo ebbero infatti anche le collane lette-  rarie, significative di una scelta e di un gusto: i « Poeti ita-  liani » si apre nel 1910 con le Odi di Massimo Bontempelli  — uno degli autori pi cari a Formiggini, fino alla rottura  scoppiata nel 1930? —, proprio in quell’anno schieratosi  nella « polemica carducciana » con Ettore Romagnoli con-  tro Croce e Prezzolini in difesa della critica di tipo lettera-  rio contro quella di impianto filosofico, e annovera altri  poeti che inseguono il modello del « grande artiere » di  Carducci con accenti tenui ed eleganti, come Francesco  Chiesa, Francesco Pastonchi e Severino Ferrari (ma c’è  anche Pirandello, che ritornerà con Liolà); e grandissima  fortuna ebbero i « Classici del ridere » — cui Formiggini af-  fiancò la raccolta « Casa del ridere » — ”, che raccogliendo    2 B. Croce, Il risveglio filosofico e la cultura italiana, in Cultura e  vita morale, Bari, Laterza, 19553, pp. 29-32.   2 _R. Serra, Le lettere, in Scritti letterari, morali e politici, a cura di  M. Isnenghi, Torino, Einaudi, 1974, pp. 369-370.   2 Cfr. Bontempelleide, con interventi di Formiggini e Fernando Pa.  lazzi, in «L’Italia che scrive », XIII (1930), p. 314.   3 Cfr. gli interventi di E. Manzini ed E. Milano in A. F. Formiggini    163    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    testi italiani e stranieri, riflettono l’utopistica speranza del-  l’editore che l’« universale fusione di spiriti che deve essere  la meta costante di ogni più alta manifestazione di civiltà,  sarà affrettata di altrettanto di quanto l’affrettarono la mac-  china a vapore e il telegrafo » ®. L’impronta culturale e ci-  vile della casa editrice è data tuttavia dal largo spazio accor-  dato ad argomenti filosofici, pedagogici e religiosi, con un  orientamento che, se difficilmente può essere definito in  positivo, può essere considerato schematicamente come  espressione di gruppi non-idealisti.   Positivisti e modernisti di varie venature, e spesso di  orientamento politico socialista e socialisteggiante, contrad-  distinsero le origini della casa editrice, che continuerà ad  annoverarli tra i suoi collaboratori anche quando le convin-  zioni di alcuni si vennero modificando sensibilmente (ma  altri si aggiunsero, come Giuseppe Rensi e Adriano Tilgher,  nel momento del loro distacco dall’idealismo). I nomi di  Achille Loria e Alessandro Levi, di Emilia Formiggini San-  tamaria e Giuseppe Tarozzi, di Ernesto Buonaiuti e Felice  Momigliano, ricorrono con frequenza, anche per l’intero  trentennio di vita delle edizioni Formiggini, a conferma di  una scelta e di una adesione non casuali.   Sui gruppi positivisti di questi anni, di filosofi e peda-  gogisti in particolare, come sui vari filoni modernisti e sui  loro esiti, sono state scritte pagine illuminanti che hanno  colto gli itinerari di ciascuno sotto l'impatto del neoidea-  lismo *. Restano tuttavia da verificare le convergenze e le  alleanze che, contro lo stesso nemico, si stabilirono tra cor-  renti e uomini per vari aspetti spesso culturalmente e politi-  camente diversi e distanti, e che videro seguaci di Ardigò,  neokantiani e fautori di un rinnovamento della chiesa —  laici e religiosi, mistici e razionalisti — confluire insieme a  combattere per la loro sopravvivenza, uniti solo, nel co-  mune disorientamento, da condanne idealiste o pontificie.    editore (1879-1938). Mostra documentaria, Modena, S.T.EM. Mucchi,  1980  5 A.F. Formiggini, Trenta anni dopo, cit.,  2 E. Garin, Cronache di filosofia Sialiona: ‘1900. 1943, Bari, Laterza,  1966, capp. LV.    164    A. F. Formiggini: un editore tra socialismo e fascismo    Di questi e altri accostamenti, come quello tra socialismo  e religione in cui si impegnarono ad esempio Alfredo Poggi  e Felice Momigliano, sono documento evidente proprio le  edizioni Formiggini. E forse a molti collaboratori della casa  editrice può essere esteso il giudizio che è stato espresso  per Momigliano: « Profetismo, Mazzini, socialismo rima-  sero per Felice tre nozioni difficilmente separabili. La puri-  ficazione dell’ebraismo, il rinnovamento spirituale d’Italia  e lo stabilimento della giustizia sociale in Europa erano  nella sua mente tre aspetti di un problema solo » ®. Un  vivo senso della nazionalità e un vago socialismo sconfi-  nante nel populismo borghese e inteso come prosecuzione  della democrazia risorgimentale sono infatti le caratteristi-.  che di uno dei più assidui collaboratori di Formiggini, Ales-  sandro Levi *, e si ritrovano in molte delle iniziative del-  l’editore modenese.   Nelle collane di saggistica si possono comunque indivi-  duare tre filoni principali di interesse: quello religioso, pre-  sente ovunque ma che per un certo periodo ebbe il suo  posto privilegiato nella « Biblioteca di varia coltura » dove  nel 1911 usci il Mosé e i libri mosaici dell’ex prete moderni-  sta Salvatori Minocchi — in questo momento convinto che  « il futuro cristianesimo ha da cercarsi nelle vie del sociali-  smo » * —; quello pedagogico, che vide l’intervento assi-  duo di Emilia Formiggini Santamaria con studi storici è  didattici ispirati alle teorie di Fròbel ed ebbe un punto di  riferimento costante — non solo nel 1910-1913 quando.  fu pubblicata dall’editore modenese — nella « Rivista pe-  dagogica », l’organo dell’Associazione nazionale per gli  studi pedagogici fondato nel 1908 da Luigi Credaro e che,    33 A. Momigliano, Felice Momigliano 1866-1924, ora in Terzo contri-  buto alla storia degli studi classici e del mondo antico, Roma, Edizioni di  storia e letteratura, 1966, p. 844. Di Poggi cfr. Socialismo e religione.  Modena, Formiggini, 1911, e, sull’autore, la voce di M. Torrini in F.  Andreucci - T. Detti, Il movimento operaio italiano. Dizionario biogra-  fico 1853-1943, vol. IV, Roma, Editori Riuniti, 1978.   % Cfr. le osservazioni di Piero Treves nel numero speciale di « Cri-  tica sociale » dedicato a Levi (gennaio 1974, pp. 41-45).   35 Cit. da A. Agnoletto, Salvatore Minocchi, vita e opera (1869-1943);  Brescia, Morcelliana, 1964, p. 191.    165    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    seppur influenzato dall’herbartismo del futuro ministro  della pubblica istruzione, fu aperto ai collaboratori delle più  varie tendenze (da Colozza a Calò, da Varisco alla Formig-  gini Santamaria) *. Il terzo filone, e forse il più significativo  perché comune denominatore anche degli altri, fu rappre-  sentato da un generico interesse per i temi filosofici, mu-  tuato dalla Società filosofica italiana e dalla « Rivista di  filosofia » attenta, del resto, anche alle problematiche reli-  giose e pedagogiche.   L’inizio dell’attività di Formiggini è infatti stretta-  mente connesso con la fase di riorganizzazione della Società  filosofica italiana, di orientamento prevalentemente (anche  se vagamente) positivista, apertasi nel settembre 1907 — in  concomitanza con l’intensificarsi del programma culturale  di Croce e di Gentile attorno alla casa editrice Laterza —  con il congresso di Parma della società. In questa sede fu  deliberata — in vista di « una degna affermazione dell’atti-  vità filosofica italiana » al terzo congresso internazionale di  filosofia di Heidelberg — la preparazione di quel Saggio di  una bibliografia filosofica italiana che, compilato da Ales-  sandro Levi con la collaborazione di Bernardino Varisco  e, per la parte pedagogica, di Emilia Formiggini Santamaria,  apparve nel 1908 per i tipi di Formiggini e fu giudicato da  Gentile la prima manifestazione di « qualche cosa di con-  creto e di utile agli studi di filosofia » da parte della Società  filosofica ’. Il Saggio inaugurò la « Biblioteca di filosofia e di  pedagogia » che accolse, oltre agli atti dei congressi della  società, scritti della Formiggini Santamaria, I/ materialismo  storico in Federico Engels di Rodolfo Mondolfo — di cui è  possibile cogliere l'origine tormentata nelle lettere dell’au-  tore all’editore * —, e altri testi in cui l'impronta antiidea-    3% Cfr. D. Bertoni Jovine, La scuola italiana dal 1870 ai giorni nostri,  Roma, Editori Riuniti, 19672, pp. 109-112.   37 « La Critica », VII (1909), fasc. I, p. 69.   38 « Attendo presentemente a un lavoro su La filosofia del comunismo  critico. Una parte di questo, I/ materialismo dialettico e il materialismo  storico di F. Engels spero averla pronta entro brevissimo tempo », scri-  veva Mondolfo il 18 aprile 1909 proponendone la pubblicazione. Ma  ancora il 28 febbraio 1911 confessava: « La parte che ancora rimane per  il termine del lavoro io l’avevo molto tempo addietro abbozzata e in    166    A.F. Formiggini: un editore tra socialismo e fascismo    lista è, almeno prima della guerra, ben documentabile. Se  meno precisamente definibile è la posizione di Ludovico  Limentani, assertore del metodo positivo ma aperto alle  istanze idealistiche, che pubblica due volumi (I presupposti  formali dell'indagine etica del 1913, e La morale della sim-  patia del 1914) in cui, come in tutta la sua opera, è filosofi-  camente argomentato e approfondito l’ideale stesso di For-  miggini, in quanto l’autore fa l’« esaltazione, sul piano poli-  tico-sociale, del diritto ad esistere di ogni spinta ideale, che  scenda a collaborare sul piano della concreta discussione  con le altre idealità » *; assai netta è, nel 1913, la posizione  di Erminio Troilo, seguace del pensiero ardigoiano e uno  dei più continui collaboratori della casa editrice, che pre-  sentando le Pagine scelte di Ardigò lancia un violento atto  d’accusa contro idealisti e pragmatisti, in una difesa patetica  di quella cultura positivista che stava scomparendo: « Sin-  ceramente, — scriveva — chi scorra senza spirito di parte  o di setta e senza quel vanissimo orgoglio di superfiloso-  fismo che è oggi venuto di moda, e che infuria, talora con  veri accessi di epilessia metafisica e pit spesso con inqua-  lificabile volgarità, specialmente, si capisce, contro il posi-  tivismo, le pagine che il Gentile e l’Orano, il Papini e,  ultimo venuto, il De Ruggiero hanno, bontà loro, dedicato  a Roberto Ardigò, dovrà convenire che non mai parzialità  e superficialità, trivialità e accanimento hanno intessuto una  trama di più fatue leggerezze e di più dolorose malizie,  intorno ad un uomo e ad un pensatore che ha pur il diritto  di vivere e di pensare; mentre quei critici stessi si svociano    parte stesa in una forma però che, essendo stato poi da me modificato  tutto il piano del lavoro, non può più affatto andare. È dunque da rifar  da capo [...] bisogna che torni a rivivere il mio tema ». Finalmente 1°11  ottobre dello stesso anno poteva annunciare: «Ho scritto l’ultima car-  tella »; ma i dubbi non erano finiti, se il 22 gennaio 1912, approfittando  della necessità di cambiare il frontespizio del volume per il trasferimento  dell'editore da Modena a Genova, Mondolfo suggeriva di togliere dal  titolo « Il materialismo dialettico » lasciando le parole « Il materialismo  storico », « che costituiscono la parte più importante e interessante del  titolo ». (Archivio editoriale Formiggini presso la Biblioteca Estense di  Modena [d”ora in avanti AF], Mondolfo).   39 E. Garin, I/ pensiero di Ludovico Limentani, in « Rivista di filo  sofia », XXXVIII (1947), p. 199.    In/    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    e si sbracciano ad osannare i pretenziosi ma altrettanto  inconcludenti fra professori e conferenzieri di marca tedesca  e anglo-americana, e francese, i cui nomi sono ormai sulle  bocche di tutti; o i più ciarlatani, tipo Sorel; o pit insulsi  tra gli affiliati nostrani della congrega hegelianoide » *  Fuori collana apparvero altri testi filosofici, di particolare  rilievo i primi due volumi degli Scritti di Carlo Michael-  stidter (1912-1913); non andò in porto, invece, la pro-  posta di Levi di pubblicare gli scritti di Vailati, avanzata  subito dopo la morte di questi, nel luglio 1909 *.   Questi contributi erano il frutto di un rapporto diretto  con la « Rivista di filosofia », l’organo della Società filo-  sofica italiana sorto nel 1909, sempre per i tipi di Formig-  gini, dalla fusione della « Rivista di filosofia e scienze  affini » di Giovanni Marchesini con la « Rivista filosofica »  fondata da Carlo Cantoni; e che non si trattasse di un rap-  porto puramente tecnico o commerciale, è dimostrato dalla  notevole consonanza di accenti tra la rivista e tutta l’atti-  vità della casa editrice.    Non costituiamo una scuola; siamo una collezione d’uomini, unit:  dal comune amore della verità, ma che non abbiamo tutti lo stesso  concetto di quello che la verità sia [...]. Ma tutti siamo persuasi che,  per arrivare a « conoscere la verità » e a « farla trionfare », la discus-  sione seria de’ problemi, sotto ciascuno de’ loro aspetti, sia l’unico  mezzo possibile: un mezzo che, prima o poi, ci farà conseguire il fine  desiderato £:    cosi dichiaravano nel 1909 i redattori della rivista criti-  cando il programma della « Rivista di filosofia neo-scola-  stica » che si diceva « espressione dei pensamenti di una  scuola determinata ». Questo vago « amore della verità »  era il segno, più che della « temperanza » combattuta da  Croce e dai neoscolastici, di uno sbandamento e di una de-  bolezza di fondo, appena mascherati da un ottimismo inge-  nuo e perdente, data l’indeterminatezza del « fine » da rag-    4 R. Ardigò, Pagine scelte, a cura di E. Troilo, Genova, Formiggini,  1913, pp. PED   4 AF,   4 « n di filosofia », I (1909), n. 2, p. 151.    168    A. F. Formiggini: un editore tra socialismo e fascismo    giungere: un « amore della verità » tale non solo da provo-  care il rapido manifestarsi di contrasti interni alla redazione  tra i due gruppi di Pavia e di Padova, ma anche da permet-  tere che già nel 1910 padre Gemelli venisse accolto fra i  membri della società. E tuttavia il programma dei fonda-  tori, inteso a dare all’Italia « una rivista autorevole aperta  ugualmente a tutte le opinioni e perciò adatta a chiarire le  profonde ragioni ideali, da cui le scuole filosofiche trag-  gono origine », introduceva subito sintomatiche puntualiz-  zazioni:    la patria nostra, risorta da cinquanta anni ad unità di nazione, vuole  rivendicare le alte tradizioni del suo pensiero che informa tutta la  cultura e la vita moderna.   Infatti, dobbiamo costantemente ricordare che naturalismo ed  umanismo, i due atteggiamenti fondamentali della speculazione euro-  pea, sorgono ugualmente col rinascere degli studii per opera del genio  italiano, universale e concreto; sicché tutta la filosofia posteriore  può rannodarsi ai nomi di Galileo e di Vico, che ne simboleggiano gli  spiriti.   Da questi eroi tragga incitamento ed auspicio la nuova filosofia  che deve ravvivare l’opera e la coscienza ideale degli italiani!    In realtà, nonostante l’auspicio che sulle sue pagine  « tutti gli indirizzi del pensiero filosofico trovassero libera  espressione » ‘, e i passi compiuti in questo senso verso i  circoli di filosofia di Roma e di Firenze di tendenze preva-  lentemente idealistiche *, la rivista diretta da Faggi, Juval-  ta, Levi, Marchesini, Vailati (sostituito dopo la morte da    Calderoni e Troilo), Valli e Varisco — ai quali si aggiun-  geranno in seguito Annibale Pastore (1917) e Buonaiuti    (1918) — risultò voce di « positivisti » il cui eclettismo  trovò un limite di fronte all’idealismo. Ci sembra assai  valido — ed estensibile alla casa editrice — il giudizio    di Santino Caramella, per il quale la rivista accoglieva    4 Ibidem, 1 (1909), n. 1, p.4.   4 I due circoli aderirono alla Società filosofica nel corso del 1909,  ma nel gennaio 1910 quello di Firenze ritirò la propria adesione tramite  il suo segretario Giovanni Amendola: fra il Circolo e la Società, dichia-  rava, « non esiste affinità alcuna, né di scopo, né di tendenze, né di me-  todi d’azione » (« Rivista di filosofia », II (1910), n. 1, p. 128).    169    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    tutti, « dal neopositivismo del Troilo all’hegelismo del  Losacco, dal misticismo del Rensi al fichtismo del Til  gher e del Ravà, dall’ardigioianesimo al neokantismo — e  chi più ne ha più ne metta, ogni indirizzo poté salire in tri-  buna. Ma non per questo cessava la intolleranza verso gli  intolleranti di questa amorfa tolleranza: il Croce, il Gen-  tile restarono sempre i maligni avversari che avevano gua-  stato l’Eden filosofico: e specialmente i positivisti ebbero  cura di non lasciar mai spegnere il fuoco della battaglia » *.  Possiamo aggiungere, a integrazione del quadro solo in  negativo fornito da Caramella, l’esplicita connessione di in-  teressi filosofici e religiosi — ne è testimonianza anche l’in-  gresso nella redazione di Buonaiuti, subito impegnato a  confutare sulle pagine della rivista la pretesa gentiliana di  individuare in Vico un precursore dell’attualismo 4 — e  l'insistenza sul « genio italiano » che, pur senza assumere  fin dall’inizio precisi connotati nazionalistici — come cer-  cherà invece di far intendere Troilo nel 1918 —, era  indice di una chiusura nei confronti del pensiero contem-  poraneo non italiano.   È un aspetto, questo, che risalta con forza ove si con-  frontino i « Classici della filosofia moderna » che Croce ini-  ziò nel 1907 per Laterza con l’Enciclopedia di Hegel, e  l’iniziativa formigginiana dei « Filosofi italiani », la colle-  zione promossa dalla Società filosofica italiana e diretta da  Felice Tocco. Le differenze, naturalmente, non sono segnate  solo da confini geografici, pur importanti. Il fatto è che,  come riconosceva e paventava la stessa « Rivista di filoso-  fia » *, il programma crociano si proponeva la valorizza-    45 S. Caramella, Le riviste filosofiche italiane nell'ultimo quarto di  secolo, « La Cultura », IIl (1924), p. 552.   # E. Buonaiuti, Il carattere storico della filosofia italiana, in « Rivista  di filosofia », X (1918), pp. 58-60.   47 In « L'Italia che scrive », I (1918), p. 6.   48 Recensendo positivamente — per l’accesso diretto alle fonti che  offrivano — i « Classici della filosofia moderna », Michele Losacco osser-  vava: « È ben difficile «creare un movimento speculativo che lasci tracce  profonde, se l’ambiente in cui si lavora non è sufficientemente preparato ad  intenderlo; ne fu prova non dubbia l'indirizzo idealistico, promosso a  Napoli da Bertrando Spaventa, e che non trovò il meritato seguito, perché  si concentrò in alcuni pochi spiriti, solitari e incompresi. Ora ogni nuovo    170    A. F. Formiggini: un editore tra socialismo e fascismo    zione di una linea di pensiero che assegnava all’Italia un  ruolo centrale con Spaventa, De Sanctis, Labriola e Croce,  ma era tanto pi forte in quanto riproposta attraverso una  determinata lettura di Vico, di Kant e di Hegel, mentre  Tocco si preoccupava di riportare alla luce soprattutto    la filosofia della Rinascita [che] è nella maggior parte italiana, come  italiano è quel movimento umanistico che la promosse. E questo  periodo cosi arruffato della speculazione, che in mezzo al rifiorire  della scienza e della medicina antica, in mezzo al ripullulare dell’an-  tica magia alchimia ed astrologia prepara l’avvento della nuova  scienza e della coscienza nuova, merita di essere studiato .    Ben diversa da quella di Croce e Gentile fu anche la  capacità di promozione della Società filosofica italiana:  bastò la morte di Tocco, nel 1911, a impedire che avesse  seguito, dopo i primi due volumi del De rerum natura di  Telesio curati da Vincenzo Spampanato la proposta avan-  zata in prima persona dall’editore modenese al terzo con-  gresso della società (Roma, ottobre 1909), e da questa  assunta in proprio con l’impegno del suo presidente di  « dare ogni aiuto possibile », di « raccogliere in una accu-  ratissima edizione i testi critici dei maggiori filosofi italiani,  per rendere accessibili a tutti le opere meno agevolmente  ostili e più importanti per la storia del pensiero nazio-  nale » ”,    e serio conato speculativo, come fu, per esempio, quello della Rinascenza,  presuppone sempre lo studio e il riconoscimento delle migliori tradizioni  filosofiche, e nazionali e straniere, da cui deve trarre la ragion d’essere e  l’ispirazione » (« Rivista di filosofia », I (1909), n. 3, pp. 102-104).   4 Prefazione di Tocco al vol. I del De rerum natura di Telesio (Mo-  dena, Formiggini, 1910).   5 Cfr. anche E. Garin, Per un'edizione dei filosofi italiani, in « Bol-  lettino della Società filosofica italiana », n.s., ottobre-dicembre 1971, n. 77,  p. 67. Perché la direzione dei « Filosofi italiani » fosse affidata a Tocco  intervenne Croce, come si ricava dalle sue lettere a Formiggini e dal suo  commento al congresso di Roma, in cui dichiarò « in piena liquidazione »  il positivismo (ora in Pagine sparse, Bari, Laterza, 19602, vol. I, p. 330).  Contro le « fauci ingorde » di Formiggini, che per l’edizione di Telesio  avrebbe cumulato i contributi finanziari del Comitato telesiano di Cosenza  e dello Stato, cfr. lo sfogo di Gentile nella lettera a Croce del 6 ottobre  1910 (G. Gentile, Lettere 4 Benedetto Croce, a cura di S. Giannantoni,  vol. IV, Firenze, Sansoni, 1980, p. 58); I'8 gennaio 1911 Gentile scriveva  a Croce degli « spropositi vergognosi » presenti nella prefazione di Spam-  panato (ibidem, p. 80).    171    1 fascismo e il consenso degli intellettuali    3. Intenti divulgativi    Accanto a una cultura in varia misura positivista che  si organizza sul piano accademico che è proprio della  « Rivista di filosofia » — e anche su questo terreno sarebbe  da valutare la « resistenza » opposta dai positivisti al neo-  idealismo, testimoniata dalle lagnanze ricorrenti nelle let-  tere di Croce, Gentile, Omodeo —, è da segnalare la  « vocazione » illuministica di questi gruppi a farsi educa-  tori di masse le più larghe possibili. Se l’idealismo incontrò  forti limiti ad una sua penetrazione o « traduzione » popo-  lare, ciò non si dovette solo a sue carenze originarie o éli-  tari rifiuti, ma anche all’esistenza di una cultura media  o « popolare » resa impermeabile alla sua influenza da prece-  denti incrostazioni di segno diverso o contrario, depositate  lentamente — attraverso periodici, università popolari o  certe collane, non solo di istruzione tecnica o di lettera-  tura d’appendice — ad opera dei positivisti che avverti-  vano « il dovere di divulgare tra il “popolo” quella scienza  che consideravano parte integrante della realtà », fiduciosi  « che individui appartenenti a ogni strato sociale potessero  rispondere al richiamo illuminante e liberatore della verità,  la stessa verità in cui essi credevano » "   Alla divulgazione erano appunto rivolti, come altre  iniziative contemporanee e sulle orme della « Biblioteca del  popolo » di Sonzogno, i « Profili » di Formiggini, nati nel  1909 con l’intento di soddisfare « il più nobilmente possi-  bile alla esigenza caratteristica del nostro tempo, di voler  molto apprendere col minimo sforzo » *. E non a caso « Cri-  tica sociale » la giudicava già nel 1910 una « utilissima colle-  zione » ®. Alla tendenza allora predominante di dare una  immagine del passato o del presente attraverso singole  figure di protagonisti — gli « eroi » di cui parlava la « Rivi-  sta di filosofia » nella sua pagina d’apertura, gli uomini sim-  boli di un’epoca su cui era costruita la prima storia del    51 M.G. Rosada, Le università popolari in Italia 1900-1918, Roma,  Editori Riuniti, 1975, p. 169.   2 A.F.F , Trenta anni dopo, cit.,   53 V. Osimo, ‘arlo Porta, in « Critica i ; XX (1910), p. 368.    172    A. F. Formiggini: un editore tra socialismo e fascismo    socialismo tentata da Angiolini e Ciacchi — si ispirarono  numerose collezioni, la più nota ed aulica di tutte, ma di  breve durata, quella dei « Contemporanei d’Italia » intra-  presa nel 1909 da Ricciardi sotto la direzione di Prezzolini;  ma fu soprattutto Formiggini a preoccuparsi di divulgare i  suoi « Profili » attraverso le biblioteche popolari, « queste  istituzioni — scriveva presentando la collana — che stanno  ora sorgendo e moltiplicandosi e che saranno i focolai donde  uscirà la dignità nuova e la nuova fortuna della patria »,  rivolgendosi in particolare al mondo della scuola*. E i  « Profili » raggiunsero un pubblico per quei tempi molto va-  sto: uno dei primi titoli, il Ges di Labanca, di cui nel 1918  fu stampata la terza edizione, solo nella prima (del 1910)  ebbe una tiratura di 2.500 copie 5. Nel 1914, nel capitolo  de Le lettere dedicato alla « critica letteraria », Serra faceva  un bilancio delle collane comprendenti « l’essaî dedicato  a una questione o a una figura », e annotava:    Ne abbiamo parecchie: i Profili, i Contemporanei, gli Uomini  d’Italia, i moderni, gli antichi e che so io. Ma o si sono arrestate, 0  han dato la solita roba; conferenze da una parte, e dall’altra tesi e  avanzi di corsi scolastici, che non riescono a fare il libro. L’unica  serie che va avanti bene è quella dei Profili; appunto perché il suo  modulo, anche materialmente, modesto e facile da riempire, si im-  pone alla personalità degli autori con una certa economia necessaria  di notizie e di disegno, che non lascia posto a digressioni o erudi-  zioni o analisi, come dicono, originali. Potrebbe parere un difetto;  ed è, tra noi, una fortuna. Senza dire che anche in quei limiti si pos-  sono ottenere cosette buone; per un esempio, l’Esiodo del Setti o il  Bodoni del Barbera *.    La mancanza di originalità di questa produzione non  impediva tuttavia che essa avesse un taglio preciso per gli  autori o i biografati prescelti. Anche se il criterio della    % Illustrando sulla « Rivista di filosofia » un suo progetto sull’istitu-  zione di biblioteche per gli studenti delle scuole medie, già accennato al  congresso per le biblioteche popolati di Roma nel dicembre 1908, Gio-  vanni Crocioni affermava: «Non vi mancheranno le opere d’arte, le vite  di uomini insigni, le edizioni popolari; vi troveranno, ad esempio, luogo  opportuno i Profili che il nostro coraggioso e geniale editore vien pub-  blicando con fine gusto di arte » (I (1909), n. 3, p. 88).   55 AF, Labanca.   5% Serra, op. cit., p. 459 n.    173    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    competenza suggeri in un primo tempo a Formiggini di  rivolgersi a Croce e poi a Gentile per il ritratto di Hegel, a  Papini per quello di Sarpi o a Prezzolini per Baretti —  contatti che non ebbero poi esito positivo —, gli autori dei  « Profili » furono e rimarranno in maggioranza esponenti di  ambienti positivisti o modernisti, e spesso « toccati » dal  materialismo storico. Per i personaggi-chiave, dove le « di-  gressioni » erano pit facili e significative, troviamo Achille  Loria autore del Malthus del 1909 — « uno dei più ricer-  cati della mia fortunata collezione », gli scriveva Formig-  gini nel 1914” — che raggiunse nel 1923 la quarta edi-  zione, dei ritratti di Marx (1916) e Ricardo (1926); Giu-  seppe Tarozzi con Rousseau (1914), Ardigò (1928) e So-  crate (1932) ed Erminio Troilo con Telesio (1910), Bruzo  (1918) e Kaxt (1924); Baldassarre Labanca con Ges# di  Nazareth (1910), Felice Momigliano con Tolstoi (1911) e  Buonaiuti con una lunga serie di ritratti, dal 1917 al 1926:  Sant'Agostino, San Girolamo, Sant'Ambrogio, San Tom-  maso, San Paolo, Gest il Cristo (che sostituî il profilo di  Labanca) e San Francesco; Corrado Barbagallo tracciò i  profili di Giuliano l’Apostata (1912) e Tiberio (1922),  mentre Concetto Marchesi delineò quelli di Marziale  (1914), Giovenale e Petronio (1921).   Alcune, poche « concessioni » del periodo fascista non  alterarono le caratteristiche originarie della collezione, che  accanto alle figure principali della letteratura italiana e stra-  niera dava largo spazio — più di quanto ne concedessero la  « Collana biografica universale » delle edizioni Quattrini di  Firenze o i « Pensatori celebri » e i « Pensatori d’oggi » del-  la milanese Athena — ad esponenti del pensiero filosofico-  scientifico (Telesio, Bruno, Galileo, Newton, Lavoisier,  Morgagni) e ai pensatori dell’ottocento cari alla genealogia  positivistica e socialista (Malthus, Darwin, Marx, Lombro-  so, Ardigò).   Mentre per meglio esaltare la dottrina di Darwin l’au-  tore del suo ritratto, il naturalista Alberto Alberti, rite-  neva necessario fissare fin dall’inizio le fattezze del biogra-    5? AF, Loria.    174    A.F. Formiggini: un editore tra socialismo e fascismo    fato (« cupola immensa il cranio. Dentro, un cervello che  come quello di Volta e forse come quello di Leonardo, non  pesava meno di due mila grammi »), convinto, in base a  un ingenuo positivismo, che i tratti fisici « giovano a far  intendere come per la larga, possente grandiosità del lavoro  intellettuale compiuto da Darwin ben occorresse anche una  struttura fisica non diversa ma più vigorosa di quella onde  è congegnata la moltitudine degli uomini » *; l’autorevo-  lezza delle biografie di Malthus e di Marx è affidata al loro  autore, quell’Achille Loria tanto disprezzato da Labriola e  da Gramsci, ma che rimane pur sempre, come è stato sotto-  lineato di recente, « una figura rappresentativa dell’età del  positivismo evoluzionistico e del nascente movimento socia-  lista » alla quale si deve « la diffusione in Italia della no-  zione di un’economia non immutabile, non governata da leg-  gi esterne, ma mossa dalla lotta delle classi sociali e perciò  suscettibile di evoluzione al di là dello stadio proprietario  e capitalistico » ”. I giudizi e gli accostamenti di Loria non  sono per questo meno disinvolti: la teoria della popola-  zione di Malthus, « sorta quale teoria di regresso », se « de-  bitamente svolta ed ampliata, si torce invece nella più radi-  cale fra le teorie sociali. Dacché essa insegna che il flutto  incessante della popolazione è il fermento irresistibile di  distruzione delle forme sociali successive » 9; invece Marx,  nonostante la « grandiosità michelangiolesca » del suo pen-  siero, sta « di molto al disotto dei grandi maestri della  scienza positiva »: « Se invero è mirabile e enorme que-  sttuomo — notava Loria —, il quale riesce a contenere  tutto un mondo fra le pieghe di un semplicissimo principio  iniziale, e la cui vita non è pi che lo sviluppo di una equa-  zione, che egli ha posta agli esordi — quanto più onesto,  più leale, più scientifico il procedere di Darwin, il quale  non pone principj aprioristici, ma accoglie senza preconcetti    5 A. Alberti, Carlo Darwin, Modena, Formiggini, 1909, pp. 7-8.   5? R. Faucci, Revisione del marxismo e teoria economica della pro-  prietà in Italia, 1880-1900: Achille Loria (e gli altri), in « Quaderni fio-  rentini », 5-6 (1976-1977), pp. 587-679.   ® A. Loria, Malthus, Roma, Formiggini, 19193, p. 35.    175    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    i fenomeni nell’ordine di complessità progressiva che la  vita stessa gli affaccia! » ©.   La storia italiana recente era illustrata con un forte  senso della nazionalità, accentuato dalla grande guerra, ma  con tonalità democratiche: al ritratto dei fratelli Bandiera  seguivano nel 1915-16 quello di Abba, e un Cavour di  Romolo Murri che — presentato da una Lettera ai com-  battenti del « capitano Formiggini » come « una potentis-  sima sintesi » non solo delle concezioni dello statista pie-  montese, « ma di tutte le correnti del pensiero collettivo  che portarono al trionfo della idea nazionale » — si preoc-  cupava di definire valore e limiti del realismo politico del  biografato per dare sbalzo alla fede mazziniana (« solleci-  tando, con il suo titanico ardimento, la storia ed i fatti,  [Cavour] disperse, in parte, quel tesoro di energie spiri-  tuali che Mazzini aveva preparato per pi lunga e pro-  fonda e dolorosa opera [...] Cavour ha avuto ragione per  il suo tempo, Mazzini torna ad aver ragione oggi ») ©.   Elemento caratteristico della collezione formigginiana  resta comunque l’ampio interesse per la storia religiosa,  toccata sia attraverso le figure di Ges, di Savonarola £ e  dei santi, sia per inciso nei profili degli imperatori romani  che videro l’affermarsi del cristianesimo o nel ritratto dedi-  cato a Tolstoj da Felice Momigliano. « Pi che l’editore, tu  sei il critico degli autori tuoi », scriveva nel 1917 Marchesi  a Formiggini *: e il rapporto dell’editore con gli autori di  profili religiosi si rivela particolarmente stretto e franco,  come nel caso di Labanca e di Buonaiuti; indice della sua  diretta partecipazione è ad esempio l’affettuoso rimpro-    61 A, Loria, Carlo Marx, Genova, Formiggini, 1916, p. 61.   i € R. Murri, Camillo di Cavour, Genova, Formiggini, 1915, pp. 6,  71, 73.   6 Rispetto al giudizio minimizzatore di cui sarà oggetto nell’Enciclo-  pedia italiana, come abbiamo visto, Savonarola era eroicizzato nel 1912 da  Alfredo Galletti come colui che «riconciliò la libertà colla religione,  ravvivò negli animi il sentimento cristiano offuscato o pervertito, ordinò  un governo libero e onesto sul fondamento della dignità morale », dimo-  strandosi, con tutto ciò, « veramente italiano » (Gerolamo Savonarola,  Roma, Formiggini, 1936, pp. 10-11).   4 AF, Marchesi.    176    A. F. Formiggini: un editore tra socialismo e fascismo    vero mosso a quest’ultimo, che aveva sottolineato la con-  tinuità tra ebraismo e cristianesimo:    Mi sono letto il profilo del Cristo — gli scriveva il 26 marzo  1926, contemporaneamente all’uscita di Gesz il Cristo di Buonaiuti,.  un titolo che Labanca aveva esplicitamente rifiutato per il suo Gesg  di Nazareth — e ti confesso che non mi è piaciuto e che non piacerà.  Non è il profilo del Cristo rispetto ai Farisei ma il profilo tuo ri-  spetto a padre Gemelli e hai fatto senza volere un’apologia del fari-  seismo che non la meritava e hai fatto del povero Cristo uno scoc-  ciatore e tale forse non fu.   Ho rimorso di aver fatto un corno al povero mio maestro Baldas-  sarre Labanca, tu sai scrivere in modo meraviglioso, egli non sapeva  scrivere ma nel suo ruvido libretto c’era pur qualche cosa che restava.  in tasca a chi lo leggeva.   Insomma se vieni ti parlerò di Dio, perché mi sento di poterti  dare qualche utile consiglio ©.    Per la loro destinazione e per lo stretto rapporto edi-  tore-autori che rivelano, i « Profili » risultano quindi una  guida utilissima per seguire le tematiche allora più largamen-  te diffuse e gli orientamenti politici e culturali della casa edi-  trice: dal giudizio formulato da Felice Momigliano su  Tolstoj subito dopo la sua morte, nel 1911, che corrisponde  a una diffusa « lettura » del romanziere e pensatore russo  (« un distruttore ben pit radicale di Marx » 4), a quello di  Francesco Losini del 1918, che al presunto carattere della  rivoluzione d’ottobre — « suppellettile d’importazione »  senza radici nella tradizione russa — oppone l’ammoni-  mento del suo biografato, Turgenev, « a non prescindere:  dalla nazionalità nella preparazione dell'avvenire della Rus-  sia » ‘, fino ai mutamenti significativi che, da un’edizione  all’altra, possono registrarsi nello stesso profilo. Come nel  Telesio di Troilo, che nella prima edizione del 1910 si  conclude con il rimprovero alla filosofia contemporanea di  dare espressione al suo antiintellettualismo ricorrendo al  pragmatismo — che è solo « un getto, un po’ morbido, del  saldo profondo tronco antico » del « radicale empirismo    65 AF, Buonaiuti.  6 F. Momigliano, Leone Tolstoi, Modena, Formiggini, 1911, p. 61.  7 F. Losini, Ivan Turghenieff, Roma, Formiggini, 1918, pp. 11-12.    177    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    presocratico » —, laddove nella seconda edizione del 1924  termina affermando che vedere nel pensiero del cosentino  l’avvio del processo che sfocierà nella dialettica trascenden-  tale kantiana è « più legittimo che non fare di Bernardino  Telesio qualché di simile ad un idealista assoluto » £.   Anche in periodo fascista la collana cercò di mantenersi  fedele all’ideale di « equilibrio » e di « conciliazione » di  Formiggini: e se non mancarono concessioni alla retorica  fascista, come nell’esaltazione del ricostruttore dello Stato  sabaudo, Emanuele Filiberto, fatta nel 1928 da Pietro Silva,  nel 1935 Alessandro Levi tracciava un profilo di Roma-  gnosi, il « severo giudice dell’assolutismo » il quale nella  Scienza delle costituzioni — ricordava Levi in pieno re-  gime — aveva affermato che « la luce del vero e del giusto  appartiene al genio onnipossente e beatificante della libertà,  le tenebre dell’ignoranza appartengono al dèmone della  tirannia, d’onde sorge la discordia e la distruzione degli  Stati » 9.    4. Una cultura « al di sopra della mischia »    Il breve e tormentato periodo del dopoguerra, fino al  pieno affermarsi del fascismo, vide il massimo sviluppo del-  l’iniziativa di Formiggini, e il suo tentativo di allargare  l’ambito di intervento dall’editoria a più ambiziosi pro-  grammi di organizzazione della cultura. Ma è proprio nel  clima teso di questi anni, fortemente condizionato dal nazio-  nalismo e poi dal fascismo, che egli subirà la più cocente  delle sconfitte, la sconfitta di una utopia, di un ideale non  ancorato a un preciso orientamento politico. Il « capitano »  Formiggini aveva partecipato con entusiasmo alla guerra,  «momento di doveroso lavoro per tutti », ricorderà la  moglie ”.    € E. Troilo, Bernardino Telesio, Modena, Formiggini, 1910, pp. 71-73;  seconda edizione, Roma, Formiggini, 1924, p. 71.   9 A. Levi, Romagnosi, Roma, Formiggini, 1935, p. 93.   4 E. Formiggini Santamaria, La mia guerra, Roma, Formiggini, 1919,  p. 26.    178    A. F. Formiggini: un editore tra socialismo e fascismo    E la guerra non fece che rafforzare l’ideale di For-  miggini di una « Europa nuova », « civile e fraterna »,  fondata sulla « comunione di cultura tra i popoli » ”, ma  come presupposto per la sua piena realizzazione si fece  sempre pit frequente in lui — come in tanti altri intellet-  tuali di fronte alla prima grande vittoria dello stato ita-  liano — la rivendicazione dei valori nazionali e patriottici  (simboleggiati dai fregi classicheggianti di Adolfo De Ka-  rolis, già illustratore di « Leonardo » ed « Hermes », con-  tro il quale si scaglieranno in nome dello « spirito popola-  resco » i giovani del « Selvaggio »). L’insistenza su questi  ultimi farà ben presto relegare in secondo piano l’ideale  originario, e si tradurrà in un servizio reso alle forze che  con maggiore coerenza puntavano ad una « riscossa nazio-  nale » della borghesia italiana. Un eclettismo culturale  fiduciosamente perseguito (ma di rado realizzato) e la man-  canza di un netto orientamento politico furono infatti i  motivi della sostanziale debolezza — nonostante i successi  iniziali — delle ambiziose iniziative concepite da Formig-  gini al termine della guerra. Il suo sarà un destino analogo  a quello della « Rivista di filosofia », che nel 1918 si apriva  con un Programma di lavoro in cui Bernardino Varisco rin-  correva l’ideale di una suprema « armonia » tra gli stati le  classi e le singole « culture », fino a incontrare, per la sua  genericità, il consenso di quel Gentile ? che poche pagine  dopo, sulla stessa rivista, era duramente attaccato da Buo-  naiuti.   Frutto del modo col quale Formiggini avverti le lace-  razioni prodotte dalla guerra in campo internazionale, e  della volontà di difendere e rafforzare anche sul piano spiri-  tuale l’unità nazionale pienamente conseguita sul terreno  politico, sono il progetto, poi non attuato, di una colle-  zione italiana di classici greci e latini — « i mostri classici »    7! A.F. Formiggini, Trenta anni dopo, cit., p. 49. Era una speranza  formulata confusamente nel 1918 anche da Erminio Troilo, che pur non  tralasciava l’occasione per lanciare una nuova accusa contro l’« idealismo  assoluto, una vera e propria Metafisica di guerra » (La conflagrazione.  E storia dello spirito contemporaneo, Roma, Formiggini,  1918, p. 6).   7 Cfr. G. Gentile, Guerra e fede, Napoli, Ricciardi, 1919, pp. 294-298.    179    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    per i quali doveva finire il « vassallaggio » nei confronti  della Germania” — e, soprattutto, il mensile « L’Italia  che scrive », forse la creatura più cara a Formiggini. Uscito  nell’aprile 1918, « agli albori di una età nuova », il perio-  dico nutriva, sotto le vesti di una semplice rivista biblio-  grafica, ambizioni culturali più ampie, riproponendosi di  « registrare nelle sue colonne un magnifico rifiorire degli  studi nel nostro paese e di farsene eco diligente e fedele, a  vantaggio di quanti, in Italia o fuori, apprezzano e vogliono  conoscere il lavoro intellettuale degli italiani » *. La strut-  tura agile e articolata che sarà presa a modello dal « Leo-  nardo » e da « La Nuova Italia » — editoriale, profilo di  un contemporaneo, inchieste su istituzioni culturali, recen-  sioni, confidenze degli autori, spoglio di libri e articoli per  argomento, « libri da fare », eccetera — fece ben presto  affermare il mensile (che nei primi anni ebbe una tiratura  non inferiore alle 10.000 copie, giungendo a toccare le  30.000 ”) come un esempio di quelle riviste-tipo che Gram-  sci catalogherà nel genere « critico-storico-bibliografico »:  legata all’attualità e a carattere divulgativo, rivolta a quel  « lettore comune » al quale non basta dare « concetti »  storici, ma occorre fornire « serie intiere di fatti specifici,  molto individualizzati » ?. E proprio « Il grido del popo-  lo » segnalò la « vivace, varia » rivista di Formiggini —  « uno dei più giovani ed intelligenti industriali italiani del  libro » — come quella che « prometteva di diventare un  ottimo ed utilissimo strumento di cultura, quale in Italia  non esisteva ancora, e la cui mancanza era uno dei segni  delle manchevolezze intellettuali del nostro paese, della    73 A.F. Formiggini, Trenta anni dopo, cit., p. 52. Sulla funzione attri-  buita ai classici di « mantenere vivo il senso di continuità col passato  e nello stesso tempo contribuire a un compito di rinnovamento nazio-  nale », richiama l’attenzione A. La Penna a proposito di una successiva  iniziativa sansoniana (La Sansoni e gli studi sulle letterature classiche in  Italia, in AA.VV., Testimonianze per un centenario. Contributi a una  storia della cultura italiana 1873- 1973, Firenze, Sansoni, 1974, p. 109).   7 A.F. Formiggini, Trenta anni dopo, cit., p. 61.   75 A.F. Formiggini, La ficozza filosofica del fascismo, cit., pp. 55, 98.   7 A. Gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica dell'Istituto  Gramsci a cura di V. Gerratana, Torino, Einaudi, 1975, vol. I, pp. 26-27.    180    A. F. Formiggini: un editore tra socialismo e fascismo    poca diffusione dei libri e quindi delle idee, della nostra  spaventosa impreparazione spirituale » ”.   Prefiggendosi il compito di « armonizzar le varie cor-  renti della cultura nazionale » perché potessero concor-  rere al fine comune della « valorizzazione nel mondo del-  l’attività intellettuale italiana », Formiggini sostenne anche  nel momento della sua sconfitta che « un giornale edito-  riale nazionale non può essere che un giornale eclettico »,  contro il consiglio di Ettore Romagnoli di « avere un par-  tito, essere con qualcuno o contro qualcuno » *. Ma, nono-  stante l’idealizzazione della capacità unificante di una « cul-  tura » al di sopra delle parti — nel marzo 1917 Formig-  gini aveva offerto la condirezione della rivista a Prezzolini  che stava per assumere un'iniziativa analoga, ma che rifiutò  l'invito perché, rispondeva il 20 aprile successivo, « le  nostre concezioni differiscono ancora troppo » ” —, le scelte  de « L’Italia che scrive » furono fin dall’inizio precise:  pedagogia con Emilia Formiggini Santamaria e filosofia con  Tarozzi e Troilo, il quale nel 1918 dedica un ritratto ad  Ardigò in cui riafferma la « funzione storica, tutt'altro che  esaurita, del positivismo » con maggior convinzione di  quanto non facesse nello stesso momento sulle pagine della  « Rivista di filosofia »; storia con Pietro Silva autore nel  1918 di un commosso ritratto di Salvemini — « mazziniano  per l’alto idealismo che informa la sua propaganda, e per  la sua fede nel progressivo cammino dell’umanità verso la  giustizia » ® —, con Barbagallo che traccia i profili di Gu-  glielmo Ferrero e di Ettore Ciccotti e nel 1923 informa  sulla « Nuova rivista storica » da lui diretta, Giorgio Falco  ed Ersilio Michel. Un largo spazio è accordato agli argo-  menti scientifici trattati da Aldo Mieli, Roberto Almagià,  Sebastiano Timpanaro, Giovanni Vacca, e soprattutto ai  problemi religiosi, ove l'intervento di Formiggini è spesso    « Il grido del popolo », 6 aprile 1918.  A.F. FOGnIEziol, La ficozza filosofica del fascismo, cit., p. 40.    36.    181    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    diretto ®, e di cui si occupano Nicola Turchi, Alberto Pin-  cherle e con particolare frequenza, fino al 1926, Ernesto  Buonaiuti, autore di rassegne su riviste di cultura religiosa  e di inchieste su istituzioni culturali, di articoli sul neoto-  mismo o sull’insegnamento della religione nella « nuova »  scuola (1924), e di recensioni tanto sferzanti da essere ri-  chiamato all'ordine dal direttore della rivista @. Ma è da  notare anche, nel settore politico-culturale, la presenza  dell’antigentiliano Adriano Tilgher, soprattutto dal 1926,  e di un altro collaboratore de « Il Mondo » oltre che de  « La Rivoluzione liberale », Mario Ferrara, autore dei ri-  tratti di Turati, Treves e Salandra, e dal 1919 al 1924  quella di Prezzolini, che si segnala per la tempestività dei  suoi interventi: nel maggio del 1920 illustra la grandezza  di Croce e nel dicembre del 1922 vede in Gentile il crea-  tore della « filosofia delle filosofie » e colui che « ha imme-  desimato lo sviluppo della coscienza nazionale con lo svi-  luppo della speculazione nazionale » *. Ma questa che For-  miggini defini « l’apologia di Gentile che ha avuto più  larga eco in tutto il mondo » *, non salverà l’editore mode-  nese dall’attacco del nuovo ministro della pubblica istru-  zione, verso il quale la rivista aveva mantenuto fino ad  allora un critico distacco.    81 Presentando sul primo numero della rivista le recensioni alle « di-  scipline critico religiose », affermava: « poiché la terribile prova spirituale  che stiamo traversando impotrà, dopo la bufera [della guerra], una revi-  sione immancabile dei valori su cui era poggiata la nostra vecchia vita  etica, noi possiamo essere sicuri che le indagini consacrate a rintracciare  il corso storico della vita cristiana nel mondo avranno una fioritura inspe-  rata e diverranno fattore notevolissimo di una coltura veramente nazio-  nale » (« L'Italia che scrive », I (1918), p. 10).   8 Il 17 ottobre 1921 Formiggini faceva rilevare a Buonaiuti che  alcune sue recensioni « non rispondevano né per misura né per intona-  zione a quell’ideale sereno a cui vorrei che si ispirasse “L’Italia che  scrive”. Dovresti perciò, per non mettermi in un imbroglio spirituale,  recensire quelle opere che si riferiscono alla storia del cristianesimo come  scienza e tralasciare quelle che possono darti adito a sfogare i tuoi senti-  menti politici o la tua passionalità religiosa » (AF, Buonaiuti).   83 « L'Italia che scrive », III (1920), pp. 69-70, e V (1922), p. 217.   8 A.F. Formiggini, La ficozza filosofica del fascismo, cit., p. 163.    182    A.F. Formiggini: un editore tra socialismo e fascismo    5. La sconfitta di un'illusione e una tenue « resistenza »    Il programma de « L’Italia che scrive » di essere « spec-  chio fedele della intellettualità italiana » si scontrò infatti  con l’« intolleranza » gentiliana quando Formiggini cercò  di fare della sua rivista il nucleo di un Istituto per la diffu-  sione della cultura italiana. Alla fine del 1918 i suoi propo-  siti si erano saldati con le prospettive nazionalistiche del  sottosegretariato per la propaganda all’estero e la stampa  presieduto da Romeo Gallenga Stuart: chiamato a far parte  della commissione per la proganda del libro italiano all’este-  ro — nell’ambito della quale propose la pubblicazione di  Guide bibliografiche per materie dove uscirono, fra l’altro,  la Geografia di Roberto Almagià e i Narratori di Luigi  Russo —, Formiggini stabili i contatti politici necessari a  lanciare un’impresa — l’Istituto per la propaganda della  cultura italiana, poi Fondazione Leonardo — che doveva  rappresentare « non l’ultimo atto dell’Italia in guerra, ma  il primo dell’Italia che dopo una lunga guerra combattuta  con onore vorrà, senza invidia delle altre nazioni, mettere  in valore equamente il contributo non trascurabile e finora  trascurato che essa ha portato, anche negli ultimi decenni,  al progresso del sapere » *,   Abbiamo visto come l’iniziativa passasse nelle mani di  Gentile. Invano Formiggini lodò Croce per aver « denun-  ciato la balordaggine di chi vorrebbe istituire una filosofia  di stato » * e denunciò la « marcia sulla Leonardo » di  Gentile, che assieme alla fondazione gli aveva sottratto  l’idea di una Grande enciclopedia italica — l'editore mode-  nese cercherà di realizzarla per suo conto con l’aiuto dei  suoi collaboratori abituali e, in particolare, di Ernesto  Buonaiuti . Mentre l’ente e il suo patrimonio erano desti-    85 A.F. Formiggini, Trenta anni dopo, cit., p. 91.   86 « L’Italia che scrive », VI (1923), p. 117.   87 Dalle lettere della seconda metà del ’25 Buonaiuti appare impe-  gnato a redigere il piano generale della formigginiana Enciclopedia delle  enciclopedie; ne usciranno soltanto i volumi I, Economia domestica;  turismo-sport-giuochi e passatempi, Modena, Formiggini, 1930, e II, Peda-  gogia, Modena, Formiggini, 1931, quest’ultimo coordinato da Emilia For-    183    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    nati ad essere assorbiti, nel ’25, nell’Istituto nazionale  fascista di cultura, « rassegna mensile della coltura italiana  pubblicata sotto gli auspici della Fondazione Leonardo »  diventava, nel gennaio ’25, il « Leonardo » diretto da Prez-  zolini — al quale l’anno successivo subentrerà Luigi Rus-  so — ed esemplato su « L’Italia che scrive » « con un con-  tornetto (si capisce) di 4ff0 puro, se no il cataclisma non  avrebbe avuto ragion d’essere », osservava Formiggini *  che ruppe con Prezzolini riaffermando in pubblico, e in    una lettera privata a lui del 15 ottobre 1925, i propri  ideali:    Voialtri attualisti avete innegabile dottrina, robusto ingegno, e  disponete della forza formidabile di quel partito che giudicaste cosî  aspramente prima che esso subisse in pieno la vostra influenza nefa-  sta. Voi godete ormai persino di una insperata agiatezza che non vi  invidio.   Io non ho né dottrina, né ingegno, né forza politica. Lavoro per  passione e per una esasperata volontà di bene e il lavoro mi costa  tutta la sostanza e mi costringe ad una vita sobria.   Ma ho qualche cosina che voi non avete: il cuore. La parola  « umanità » vi fa ridere, e sarà l’umanità a fregarvi®9.    Dove, accanto a una profonda amarezza, è espressa  tutta la carica etica di una battaglia culturale ma anche,  nella confusione del giudizio sul fascismo, i limiti di una  sua traduzione sul terreno politico. Nell’aprile 1925, trac-  ciando un doloroso bilancio della sua sconfitta, Formiggini  insisterà tuttavia in un invito alla conciliazione, con parole  che richiamano l’insegnamento morale di Limentani: « so-  prattutto di pace c’è bisogno oggi. Occorre che l’uomo  ritrovi nell’uomo il proprio simile e che ciascuno rispetti  nell’altrui dignità la propria » ®.   Quella di Formiggini può essere considerata una vi-  cenda esemplare, da un lato, dei modi e dei tempi con i  quali il fascismo procedette all’accaparramento delle istitu-    miggini Santamaria (fra i collaboratori, che gli conferirono un'impronta  antiattualista, Calò, Credaro, R. Mondolfo, Tarozzi, Vartisco).   8 « L’Italia che scrive », VIII (1925), p. 34.   8 AF, Prezzolini.   9 «L'Italia che scrive », VIII (1925), p. 68.    184    A.F. Formiggini: un editore tra socialismo e fascismo    zioni culturali esistenti per acquisire un consenso sempre  più vasto e, dall’altro, delle reazioni degli intellettuali di  fronte al tentativo fascista di utilizzarli. L’insidiosa « poli-  tica di conciliazione » affidata dal fascismo a Gentile nel  1923-26, e la stessa dichiarata assenza di una « cultura  fascista », aprirono facili varchi al consenso presso molti  intellettuali senza precisa collocazione politica o portati a  distinguere nettamente la politica dalla cultura e, spesso,  a privilegiare quest’ultima per le loro scelte.   Ma, proprio per questi stessi motivi, non sarebbe nem-  meno corretto considerare come incondizionato il consenso  cosî estorto, o vederlo come un blocco uniforme senza in-  crinature fin dall’inizio, al cui interno non permanessero  adesioni esteriori o ambigue capaci di ribaltarsi, attraverso  maturazioni personali, dove il comportamento politico im-  mediato era contraddetto dal legame con una cultura che  voleva mantenersi in qualche modo autonoma.   In questo quadro sono collocabili molti collaboratori  della casa editrice e lo stesso Formiggini, che in nome del  suo antico ideale di fratellanza pubblicò nel 1923 un pun-  gente pamphlet antigentiliano nel quale il giovane cattolico  Carlo Morandi riconosceva « il coraggio e la schiettezza di  una difesa »”. Giustificando il proprio intervento pole-  mico contro la « marcia sulla Leonardo », Formiggini scri-  veva ne La ficozza filosofica del fascismo di avere « rea-  gito per legittima ritorsione e per il pericolo d’ordine gene-  rale che ci sarebbe per la cultura italiana se l’assurdo di  una dittatura e di una tirannide dottrinale dovesse farsi  piede nel nostro paese ». Ma i limiti della sua impostazione  non si rivelano soltanto nella contrapposizione fra il ruolo  di « armonizzatore » di varie correnti culturali, da lui im-  personato, e quello di Gentile « capo partito » o nella ridu-  zione dell’attualismo a una semplice « moda filosofica » dai  larghi consensi e di Gentile a un « giocoliere di idee »,  bensi anche nel giudizio sulla filosofia gentiliana vista come  « una fortuita e non felice escrescenza [“ficozza” in roma-    9 « Studium », XX (1924), pp. 39-40.    185    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    nesco] del fascismo » ”. La distinzione operata da Formig-  gini è netta: da un lato gli attualisti, « sostanzialmente  estranei ed equidistanti sia dal fascismo che dal naziona-  lismo » che si sono assunti ix foto il « problema cultu-  rale » di un movimento puramente politico *, dall’altro il  fascismo che, come scriverà anche in seguito, « nelle sue  prime manifestazioni, non negò affatto i diritti dell’uomo.  Si annunciò come un ristabilimento energico dell’ordine  sociale che era stato scosso. Nulla di strano che dei citta-  dini liberi vedessero questo movimento con simpatia » *.  « Il mescolare il sapere con la politica è per noi cosa delit-  tuosa », affermò Formiggini motivando il suo rifiuto di sot-  toscrivere il manifesto Croce, pur firmato da molti colla-  boratori della casa editrice ”; l’unica condanna esplicita di  fascismo e attualismo, uniti sul piano morale, fu formulata  sulle pagine de « L’Italia che scrive » in occasione della  crisi Matteotti, in un articolo significativamente intitolato  La filosofia del manganello in cui, dopo aver ironizzato su  Mussolini — « egli sa di filosofia e di pedagogia qualche  cosa meno di una vacca spagnuola » — Formiggini affer-  mava che per il fascismo la « delusione più amara fu quella  di non aver potuto trovare una teoria morale che ne giu-  stificasse i metodi e si comprende quanta riconoscenza sen-  tisse per il moralista di professione che, applicando il suo  visto: si manganelli agli atti violenti del fascismo, dava a  questi una sanatoria di incalcolabile valore » *.   In realtà, una sia pur tenue difesa dalla scaltra « politica  di conciliazione » di Gentile e del fascismo verso gli intel-  lettuali poteva essere consentita da iniziative che si propo-    % A.F. Formiggini, La ficozza filosofica del fascismo, cit., pp. 40, 148,  168, 175, 177. Il libro del 1923 non ci sembra quindi, per la sua distinzio-  ne tra politica e cultura, « uno dei primi e più caustici pamphlets contro  il fascismo », come è apparso a R. De Felice (Storia degli ebrei italiani  sotto il fascismo, cit., p. 487).   93 « L’Italia che scrive », VII (1924), p. 76.   % A.F. Formiggini, Parole in libertà, cit., pp. 16-17. « Come è falso  che gli ebrei costituiscano una razza, è anche falso [...] che abbiano una  loro forma mentis che li renderebbe ostili congenitamente e irriducibil  mente alle forme politiche cosi dette totalitarie » (ibidem, p. 16).   95 « L'Italia che scrive », VIII (1925), p. 126.   9% « L’Italia che scrive », VII (1924), p. 142.    186    A.F. Formiggini: un editore tra socialismo e fascismo    nessero come apolitiche, ma fossero aperte a intellettuali  accomunati dall’opposizione alla « filosofia del manganel-  lo ». Fu questo il caso, denso di compromissioni e contrad-  dizioni profonde, di Formiggini, che dopo la polemica anti-  gentiliana sembra non desiderasse discostarsi dall’ideale di  equidistanza e di « armonia » perseguito in passato. Nel  1924 cominciano ad apparire le « Apologie » che al posto  delle religioni costituite intendevano valorizzare « il senti-  mento religioso in astratto, come quello che può fare l’uma-  nità migliore e più fraterna » ”, e che annoverarono, accanto  a quelle dell’ebraismo di Dante Lattes e del cattolicesimo di  Buonaiuti (provvista ancora dell’imprimatur ecclesiastico  nella seconda edizione del ’24, poco prima della scomunica  del marzo), quelle dell’ateismo di Giuseppe Rensi e del  positivismo di Tarozzi, il quale affermava che « la poste-  rità prossima e lontana non vedrà fra l’idealismo e il posi-  tivismo, specialmente italiani, quella divergenza assoluta e  totale che oggi apparisce per la violenza della polemica » *.   Nella collana delle « Medaglie », brevi profili di contem-  poranei, nel 1924, all’elogio di Mussolini (« una forza venu-  ta nel momento storico opportuno ») scritto da Prezzolini ”,  Alessandro Levi opponeva quello di Turati, esaltato —  nonostante l’autore dichiarasse all’editore di essere stato  « molto sobrio negli accenni all’ora presente » — per « la  probità della sua coerenza, la coerenza della sua probità  [...]. Con questa forza, che ignora, che sdegna i funambo-  lismi di tutte le demagogie, ma ha il coraggio e la pazienza  delle lunghe vigilie, non s’improvvisano più o meno effi-  mere fortune o dittature personali, ma si squadra almen  qualche pietra per costruzioni destinate alla storia » !°, Co-    9? A.F. Formiggini, Trenta anni dopo, cit., p. 124. Cfr. anche il giudizio  di G. Levi Della Vida, Apologie religiose, in « La Cultura », III (1924),  pp. 348-354.   ® G. Tarozzi, Apologia del positivismo, Roma, Formiggini, 1926, p. 24.   9 G. Prezzolini, Benito Mussolini, Roma, Formiggini, 1925 (II ediz.),  p. 33.  100 A. Levi, Turati, Roma, Formiggini, 1929, pp. 50-51. Levi si ado-  però anche per la diffusione del volumetto: « duecento ne hanno prese —  di “copie”, in attesa delle immancabili bastonature — gli eroici lavora-  tori di Molinella, che riscattano col loro contegno di fierezza la vile acquie-    187    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    si, accanto al D'Annunzio di Antonio Bruers e allo Sturzo  di Mario Ferrara, Prezzolini dedicava nel 1925 un ritratto  ad Amendola che, nonostante l’elogio del suo coraggio  « fino al rischio della vita » e le successive proteste di equa-  nimità dell’autore !”, si rivelava impietoso e cinico: « co-  stringendolo a tacere nel parlamento [...], restituendolo  al giornalismo militante e all’opposizione attiva [il fasci-  smo] gli ruppe quella specie di ingessamento parlamentare,  che pareva averlo stretto e immobilizzato entro le formule  e gli interessi di Montecitorio » !”. E nel 1927 la collana  « Polemiche » presentava insieme alle Battaglie giornalisti  che del « teorico del “governo dei migliori” », Mussolini, Je  Invettive di Marat, il « teorico del “governo dei molti” ».   Con questa sorta di do uf des si parlava comunque di  uomini politici e personaggi storici invisi al fascismo, pur  con quell’ambiguità che è la nota caratteristica anche di  molti giudizi apparsi ne « L’Italia che scrive » a partire dal  ’25. È sintomatico ad esempio che La libertà di Stuart Mill  pubblicata da Gobetti con la prefazione di Luigi Einaudi  sia segnalata nel luglio del 1925 come « opportuna non  solo per gli avversari della libertà, ma per moltissimi dei  suoi ditensori di oggi », o che, mentre nel settembre ’24  La rivoluzione liberale era giudicata « programma di ardi-  mento morale della borghesia », « come un violento spa-  lancar d’usci all’irrompere di una nuova coscienza prole-  taria » — e il ritratto di Matteotti « una vita esemplare  della Rivoluzione liberale » —, nell’annuncio della morte  di Gobetti il giudizio sul « suo anelito di ritrovare e d’im-  porre un fondamento etico al pensiero in tutte le sue espres-  sioni » sia limitato da quello sulla sua cultura, costruita  « su basi filosofiche e storicistiche un po’ astratte, per  quanto profonde, che lo allontanarono dal veder la vita    scenza del popolo italiano », scriveva a Formiggini il 16 febbraio 1925  (AF, Levi).   101 Prezzolini affermerà di aver scritto la biografia di Mussolini solo  «a patto che il Formiggini ne pubblicasse anche una dell’Amendola »  (G. Prezzolini, Amendola e « La Voce », Firenze, Sansoni, 1973, p. 296).   12 G. Prezzolini, Giovanni Amendola, Roma, Formiggini, 1925, pp.  39, 54.    188    A.F. Formiggini: un editore tra socialismo e fascismo    nella sua complessa realtà effettiva e gliela fecero giudicare  per schemi e teorie ». E in settori più strettamente cultu-  rali, mentre nel 1926 Paolo Vita Finzi — divenuto colla-  boratore assiduo del periodico — considerava interessante  l’interpretazione marxista del marinismo fornita da Zino  Zini in Poesia e verità, dal Mazzini e Bakunin di Nello  Rosselli — col quale « finalmente anche in Italia si comin-  cia a studiare seriamente il movimento operaio come fatto  storico, all’infuori di ogni preoccupazione di propaganda  politica » — si traeva motivo per mettere in luce « l’azione  insidiosa di Carlo Marx » che si sarebbe servito dell’anar-  chico russo per gettare « i primi germi malsani onde poi in  Italia, unica tra le grandi nazioni, il socialismo nasceva e  cresceva colorito di quell’antipatriottismo che doveva es-  sergli fatale durante e dopo la grande guerra » !°. Analoga  ambiguità è riscontrabile negli interventi — che richiede-  rebbero tuttavia un discorso a parte — di alcuni collabo-  ratori della rivista provenienti dalle file del socialismo.  « Bisognerebbe poter seguire tutte queste recensioni di  simili libri, specialmente se dovute a ex socialisti come  l’Andriulli », notava Gramsci '* a proposito della recen-  sione di quest’ultimo al volume di Bonomi su Bissolati,  uscito a Milano presso ere ma originariamente propo-  sto dall’autore a Formiggini !5    Ora la grande maggioranza dei giovani è sotto l’impressione re-  cente della disfatta prima morale che politica del socialismo italiano  — scriveva l’ex collaboratore de « La Difesa » Giuseppe Andriulli —,  e con semplicistica generalizzazione pensa ad esso come ad una delle  forme di maggiore aberrazione della vecchia Italia prebellica. Eppure,    103 «L'Italia che scrive », rispettivamente VIII (1925), p. 140; VII   (1924), p. 185, e IX (1926), p. 60; IX (1926), p. 145; X (1827), p. 223.  04 A. Gramsci, op. cit., vol. I, p. 253.   ts «Il libro è... purgatissimo — scriveva Bonomi il 2 settembre  1928 —. Il fascismo non esisteva ancora durante l’attività politica di  Bissolati, il quale gode — non so se goda veramente...! — le simpatie fer-  vidissime dei fascisti cremonesi e anche quelle del Duce che inaugurò con  un discorso nel 1923 una lapide in memoria di lui ». Ma Formiggini, che  già nel ’24 era stato l’editore di Ddl socialismo al fascismo di Bonomi,  non aveva potuto accettare l'offerta anche se — gli scriveva — «un  libro scritto da lei non può essere che interessantissimo e tale da non  procurare fastidi a chi lo pubblicasse » (AF, Bonomi).    189    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    solo che si pensi come il socialismo italiano è stato la grande matrice  di tutti i movimenti rinnovatori del tempo nostro — non esclusi né  il nazionalismo né il fascismo — si sarà tratti a sospettare che ben  altro fenomeno che non quello apparso nell’ultimo ventennio deve  essere stato il partito socialista italiano, e che soprattutto esso deve  essere stato una grande forza ideale se ebbe tanta virtà espansiva da  diffondersi rapidamente non solo nelle classi operaie ma in una gio-  ventù intellettuale generosa e disinteressata e da permeare di sé per  un quarto di secolo la vita italiana.    Dove l’antica milizia politica del recensore, approdato  ciecamente alla « rivoluzione » fascista, è rivelata dal ri-  chiamo alla « forza ideale » del partito — e non solo all’ef-  ficacia pratica del movimento socialista, come nell’interpre-  tazione di un Gioacchino Volpe — e dalla considerazione  finale sul fatto che avrebbero letto il libro « con un senso  di soddisfazione specialmente coloro che, avendo a quel  socialismo consacrato i primi entusiasmi giovanili, anche  dopo aver seguito opposte vie non sanno rinnegare la loro  disinteressata giovinezza » !*. Apparentemente pit distac-  cate, ma sempre puntuali e pronte a sottolineare il valore  della persona umana, sono le recensioni di argomento filo-  sofico e giuridico — con un interesse precipuo per i rap-  porti Stato:chiesa — di un altro socialista, Alfredo Poggi,  che da « Critica sociale » e dalla « Rivista di filosofia »  passa in questi anni al gruppo di « Pietre », per poi rispun-  tare come responsabile del partito socialista subito dopo  1°’8 settembre, e che collabora assiduamente a « L’Italia che  scrive » dal 1927 al 1933, anno in cui fu denunciato e  arrestato per antifascismo. E nel 1929, mentre Giuseppe  Rensi, al termine del viaggio dal « socialismo idealista »  allo scetticismo, insiste in un « profilo » di Spinoza sui  limiti dello stato di fronte alla libertà di pensiero dei cit-  tadini, sul suo « dovere di non comandare cose che urtino  le leggi della natura umana » — al « coordinamento per-  fetto di autorità e libertà, alla determinazione cioè della  misura di libertà che l’autorità deve concedere appunto  per poter essere e conservarsi autorità » quale indicata da  Spinoza, « anche oggi potrebbe forse essere rivolto util-    106 « L'Italia che scrive », XII (1929), p. 158.    190    A.F. Formiggini: un editore tra socialismo e fascismo    mente lo sguardo » !” —, sulla rivista faceva una fugace ma  incisiva apparizione Paolo Milano con una recensione, giu-  dicata « notevole e acuta » da Gramsci, che costitui una  delle poche stroncature del Superamento del marxismo di  De Man pubblicato da Laterza, di cui si metteva in luce  lo psicologismo incapace di contrastare realmente il mar-  xismo e di spiegare i fatti storici '!*.   Sono pochi esempi che sarebbe errato sopravvalutare,  considerata anche la sempre minore incisività della casa edi-  trice, che di lî a poco accuserà duramente i contraccolpi  della grande crisi. Essi indicano tuttavia, accanto a un’estre-  ma confusione, la esistenza di dubbi e di una prima presa  di distanza non solo culturale, nella quale certezze sempre  coltivate si incontrano con altre maturate di recente. At-  torno a Formiggini troviamo uomini emarginati dal fasci-  smo, come prima erano stati emarginati dall’idealismo:  anche attraverso questo canale passa quindi una cultura,  seppure minore, che non si riconosce in quella ufficiale del  regime. Le scelte di venti anni prima dimostrano una loro  « tenuta » anche dopo l’avvento del fascismo, pur dovendo  nascondersi tra le righe di una rivista bibliografica o sotto  il più antico degli espedienti mimetici. Al linguaggio degli  animali ricorre infatti un amico di vecchia data dell’editore  modenese, forse il più caro, Concetto Marchesi.   « Conosco le tue vicende: e perciò ti ho voluto bene »,  gli scrive Marchesi nel marzo del 1924. Le lettere dell’in-  tellettuale comunista all'editore che ha sempre aborrito la  politica gettano luce sull’antifascismo del primo e sull’iro-  nico distacco dalla realtà del secondo, non alieno tuttavia  dal gioco dell’allusione politica. Le Favole esopiche —  « il tuo più che mio, Esopo », scrive il curatore — escono  nel 1930 con una prefazione in cui Marchesi si « sbizzar-  risce a capriccio; e non ci sarà niente da ridire perché siamo  nel mondo fantastico delle bestie » !, inserendovi un ri-    107 G. Rensi, Spinoza, Roma, Formiggini, 1929, p. 99.   108 « L’Italia che scrive », XII (1929), pp. 269-270; Gramsci, op. cit.,  vol. I, p. 447.   10 AF, Marchesi (4 gennaio 1929 e 27 febbraio 1930). Per la figura  politica di Marchesi cfr. la mia voce in F. Andreucci - T. Detti, Il movi    191    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    cordo autobiografico sul periodo del primo arresto, nel  1894, giovane studente socialista:    ‘odiavo la macchina, l’ornamento civile del nostro tempo. La mac-  china era per me, allora, lo strumento maledetto onde la ricchezza  dei pochi si era impadronita di tutte le povere braccia della terra:  era il vortice metallico in cui la miseria del mondo precipitava per  farne uscire torrenti di oro e di sangue, a ristoro della superbia e  dell’avarizia.    Si chiariscono cosi in tutta la loro ironia, per acquistare  valore di impegno civile, le parole con le quali Formiggini  si rivolgeva al lettore nella nota che apre il volume: « se tu  leggerai questa versione del magnifico Marchesi col sospetto  che egli, nelle scabre sinuosità della sua prosa asciutta, vi    abbia nascosto dentro se stesso, ti parrà di aver fra le mani    un libro pericoloso e rivoluzionario » !°.    mento operaio italiano. Dizionario biografico 1853-1943, vol. III, Roma,  Editori Riuniti, 1977, ed E. Franceschini, Concetto Marchesi. Linee per  l’interpretazione di un uomo inquieto, Padova, Antenore, 1978.   110 In una lettera del 18 dicembre 1938 Ernesto Rossi commentava  dalla galera fascista la notizia del suicidio di Formiggini, con parole che  ci sembra possano riassumere tutta la sua esperienza: « Pare ci sia una  vera epidemia di suicidi. Quello che a me ha fatto più impressione è stato  il suicidio del vecchio Formiggini [...]. Aveva fatto per l’incremento  della cultura italiana più di quanto hanno fatto molti illustri personaggi,  che si danno l’aria di Padri Eterni. Lui non aveva mai posato a Padre  Eterno, ma le sue iniziative editoriali eran sempre intelligenti e di buon  gusto. La collezione dei “Classici del ridere” era la migliore espressione  della sua mentalità umanistica, europea, della sua serena saggezza sempre  spumante di fine umorismo. M'era spiaciuto molto che, anche lui, si fosse  adattato alle circostanze piiî di quanto gliel’avrebbero dovuto permettere  la sua dignità e la sua condizione di “chierico” della cultura. Ma, insomma,  non si può pretender troppo dagli uomini quando non trovan più in  alcun luogo un po’ di terreno saldo su cui poggiare i piedi. E lui era  vecchio [...] ed era sempre rimasto estraneo il più possibile alle lotte della  politica, vivendo solo fra i suoi libri e per i suoi libri » (E. Rossi, Elogio  Ft ia Lettere 1930-1943, a cura di M. Magini, Bari, Laterza, 1968,  p. 454). :    192    I limiti del consenso:  le origini della casa editrice Einaudi    « Il futuro verrà da un lungo dolore e un lungo  silenzio. Presuppone uno stato di tale ignoranza  e smarrimento che sia umiltà, la scoperta in-  somma di nuovi valori, un nuovo mondo » (Ce-  sare Pavese, Il mestiere di vivere, 1936)    1. Iniziative editoriali negli anni 30    Il problema della formazione della cultura post-fa-  scista, quale si venne elaborando non nell’antifascismo del-  l'emigrazione, ma nell’Italia degli anni ’30 e a cavallo della  seconda guerra mondiale, non è stato ancora affrontato  con puntualità nell’ambito storiografico: siamo infatti in  presenza di uno iato assai profondo fra le ricerche su intel-  lettuali o riviste del ventennio, che culminano nell’espe-  rienza di « Primato », e alcuni sondaggi sulla cosiddetta  « ideologia della ricostruzione » del dopoguerra. Il mancato  collegamento fra i due momenti si traduce, ovviamente, in  carenze interpretative, che si manifestano in tesi troppo  rigidamente contrapposte, sia che insistano — ma con sem-  pre minore frequenza — sugli elementi di « rottura »,  sia che sottolineino, in negativo o in positivo, quelli di  « continuità » tra fascismo e post-fascismo. La questione è  certo assai complessa, ma non può essere risolta dando  credito a improvvise « conversioni » di coscienze indivi.  duali, né applicando — ad esempio — a Cantimori il nico-  demismo da lui studiato negli eretici del ’500, né ricor-  rendo alle categorie del « trasformismo » o del « popu-  lismo » degli intellettuali, senza tener conto, in tutti questi  casi, del rapporto dialettico fra la posizione degli intellet-  tuali e le trasformazioni sociali e politiche del paese.   La complessità del problema storiografico, è necessario  riconoscerlo, corrisponde alla complessità del processo sto-  rico reale, a un aspro scontro politico e culturale insieme    193    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    che non solo oppose fascisti e antifascisti, ma divise anche  le varie correnti dell’antifascismo italiano, con quegli ele-  menti di incertezza e di contraddizione di fronte all’ideali-  smo che ricorderà anche Togliatti nel 1952 !. E, pur am-  mettendo l’esistenza di differenziazioni culturali che si van-  no manifestando nel corso degli anni ’30, in particolare con  l’inizio della guerra di Spagna, non possiamo prescindere dal  forte condizionamento, culturale e politico, esercitato dalle  istituzioni del regime, che raggiunsero il punto pit alto di  consenso, almeno formalmente, nei primi anni di guerra,  quando vediamo Salvatorelli e Omodeo collaborare all’ISPI,  o Cantimori al Dizionario di politica del Pnf ?. Se queste  collaborazioni non significavano automaticamente, da un  punto di vista soggettivo, adesione alla politica del regime,  non bisogna tuttavia dimenticare che — come aveva osser-  vato Volpe — il loro « colore » era dato, agli occhi dei let-  tori e indipendentemente dai riposti pensieri degli intellet-  tuali, non tanto dai contenuti, quanto dalla veste ufficiale in  cui questi apparivano *. Spesso, inoltre, collaborare alle ini-  ziative del regime poteva spiegarsi con l'illusione di una apo-  liticità della cultura, la cui difesa può aver costituito per  alcuni intellettuali una tappa importante per cominciare ad  allontanarsi dal fascismo, senza essere, per questo, indice di  un antifascismo già maturo politicamente. È infatti solo  sotto la veste culturale che è possibile rinvenire, nell’Italia  degli anni ’30, il tentativo di differenziarsi dall’ideologia del  regime, anche se con il rischio, come osservò Marchesi a pro-  posito dell’università, di chiudersi nella « indifferenza poli-    1 Cfr. il suo intervento alla commissione culturale nazionale del 3  aprile 1952, in P. Togliatti, Le politica culturale, a cura di L. Gruppi,  Roma, Editori Riuniti, 1974, pp. 195-196.   2 Cfr. G. Turi, Le istituzioni culturali del regime fascista durante la  seconda guerra mondiale, in « Italia contemporanea », XXXII (1980), n  138, pp. 3-23.   3 Nel 1933 Volpe rispose in fatti a Nello Rosselli, a proposito dei colla-  boratori della « Rivista di storia europea » vagheggiata da quest’ultimo,  che bisognava essere «ben certi che è la rivista a dar loro il colore  desiderato, e non viceversa » (cit. in Nello Rosselli. Uno storico sotto il  fascismo. Lettere e scritti vari (1929-1937), a cura di Z. Ciuffoletti, Fi-  renze, La Nuova Italia, 1975, p. 131).    194    Le origini della casa editrice Einaudi    tica e morale » ‘. Il significato politico di una scelta culturale  va quindi verificato caso per caso, guardandosi dal tradurre  immediatamente in consapevolezza politica una cultura che  non si riconosce in quella ufficiale del fascismo. Per questo  preferiamo parlare di « limiti del consenso » piuttosto che  di « antifascismo »: termine — e categotia — che non è  certo da escludere — e allora occorrerà precisarne meglio  le caratteristiche —, ma che per singoli intellettuali o per  imprese culturali collettive costrette a muoversi, come le  case editrici, con estrema cautela sotto il regime, può pre-  starsi a frettolose retrodatazioni di prese di coscienza che  acquistarono spesso peso politico solo con la guerra o dopo  il 25 luglio 1943, e che può comportare un giudizio altret-  tanto generico del termine avalutativo di « afascista »  troppo frequentemente usato per qualificare, come fosse  una razza privilegiata, alcuni nuclei di cattolici.   Queste cautele ci paiono necessarie anche nello studio  di una casa editrice come quella di Giulio Einaudi che,  centro di attrazione di aderenti a Giustizia e Libertà, di  azionisti e poi di comunisti, all’indomani della Liberazione  potrà vantare i maggiori meriti antifascisti, tanto da fian-  cheggiare la politica del PCI che le affiderà la pubblicazione  dei Quaderni gramsciani. È proprio per queste sue caratte-  ristiche « di punta », comunemente accettate — tanto da  farne ritenere meno interessante l’analisi, in quanto « anti-  conformista » e « antifascista » fin dalla nascita, per la pre-  senza di Cesare Pavese e di Leone Ginzburg® —, che la  scelta di studiare questa casa editrice negli anni 30 e ’40 ci  è parsa particolarmente significativa per verificare « al mas-  simo », nei punti più alti, i limiti del consenso al regime, e  gli elementi di continuità o di rottura tra fascismo e post-  fascismo. Un'indagine del genere dovrebbe tener conto,  oltre che dei condizionamenti oggettivi propri di un’azienda  economica e di un’iniziativa culturale rivolta al pubblico    4 C. Marchesi, Fascismo e università (1945), ora in Umanesimo e co-  munismo, a cura di M. Todaro-Faronda, Roma, Editori Riuniti, 1974, p.  326.   5 Cosî M. Isnenghi, Intellettuali militanti e intellettuali funzionari.  Appunti sulla cultura fascista, Torino, Einaudi, 1979, p. 75.    195    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    sotto il regime fascista, e ai reali obiettivi che la casa edi-  trice si riproponeva, anche del pubblico dei lettori, di cui  purtroppo conosciamo solo la ristretta élite dei recensori,  pur assai significativa, se pensiamo che fra i giudizi favore-  voli alla produzione storiografica meno conformista di  Einaudi spiccano quelli della « Nuova rivista storica » che  negli anni ’30, sotto la direzione di Gino Luzzatto, veniva  anch’essa configurandosi come centro di aggregazione di  intellettuali operanti ai margini del regime. Gli obiettivi  dell’editore torinese sono ricavabili, ma solo parzialmente,  dal carteggio con i collaboratori, a differenza di Formig-  gini, che fino al 1925 poteva esporre pubblicamente i suoi  programmi e le sue proteste; per le testimonianze esterne  le carenze sono invece comuni, anche se su Einaudi il ri-  cordo di Ambrogio Donini — la sua attività editoriale,  « appena agli inizi, si andava già orientando, tra difficoltà e  persecuzioni di ogni genere, verso temi nazionali e interna.  zionali atti a staccare l’Italia dal disastroso clima di provin-  cialismo in cui si esaurivano le energie dei suoi giovani  studiosi »” — concorda con il giudizio di Cantimori, che  in lui vedrà l’inventore dell’« editore moderno » come  « buon educatore » *.   In assenza di un « campione » di lettori, bisognerà  chiedersi, almeno fino alla caduta del fascismo, come un  eventuale lettore poteva accogliere i messaggi culturali for-  niti dalla casa editrice, e se questi erano traducibili politi.  camente; tenere presente, inoltre, il panorama pi generale  dell’editoria italiana, o almeno delle case editrici meno  aderenti alla cultura ufficiale del regime, ove ciò sia possi-  bile, data la mancanza quasi assoluta di studi, oltre che di  testimonianze. Pur nella loro parzialità, anche queste ultime  possono essere indicative di alcune linee di tendenza. Aldo  Capitini ricorderà come, contrario a stabilire un difficile e  pericoloso collegamento con gli antifascisti all’estero, egli    6 Sulla « Nuova rivista storica » cfr. A. Casali, Storici italiani tra le  due guerre. La « Nuova rivista storica » 1917-1943, Napoli, Guida, 1980.  1 Prefazione a P. Robotti, La prova, Bari, Leonardo da Vinci, 1965,  p. 9. ;  8 D. Cantimori, Conversando di storia, Bari, Laterza, 1967, p. 95.    196    Le origini della casa editrice Einaudi    avesse sostenuto la necessità di alimentare la formazione  ideologica dei giovani con i « libri disponibili » in Italia, e  indicherà le case editrici più utili a questo scopo in Laterza,  Einaudi e Guanda: e l’autore degli Elementi di un'espe-  rienza religiosa (editi nel 1937 da Laterza), che fu in con-.  tatto anche con Einaudi, citava fra i testi di Guanda — un  editore particolarmente attento alla tematica religiosa —  quelli di Martinetti, Tilgher e Rensi, espressione di un filone  spiritualista, critico dell’ottimismo storicistico, che si rita-  gliò un ampio spazio editoriale nella crisi di valori degli  anni ’30°.   Le iniziative a carattere religioso ebbero certo una mag-  giore libertà di azione, come testimonia la fondazione della  Morcelliana nel 1925 !°, ma probabilmente, a differenza della  politica di stretto controllo usata nei confronti della stampa  periodica, il fascismo lasciò un certo grado di autonomia a  tutto il settore editoriale — che si rivolgeva a un pubblico  più ristretto di quello dei lettori di quotidiani, e compor-  tava quindi minori pericoli —, anche se nel 1926 fu costi-.  tuita la Federazione nazionale fascista dell’industria edito-  riale, il cui presidente, Franco Ciarlantini, lamentando nel  1929 la crisi del libro, inviterà il governo a misure di con-  trollo sulle piccole iniziative private, e a un’opera di promo-  zione economica e « morale »; ma la censura dei libri non  fu condotta con criteri precisi, e rimase affidata alla discre-  zionalità dei prefetti anche quando essa passò, nel 1935,  dalla competenza del ministero dell’Interno a quella del  ministero per la Stampa e la propaganda, mentre la Com-.  missione per la bonifica libraria, istituita nel 1938, concen-  trò la sua attenzione sui testi di autori ebrei !!. Ed è forse  questa parziale autonomia che spiega come nel corso degli    9 A. Capitini, Antifascismo tra î giovani, Trapani, Célèbes, 1966, p.  100.   10 Cfr. AA.VV., Morcelliana 1925-1975. «Humanitas » 1946-1976,  Brescia, Morcelliana, 1976.   1! Cfr. G. BaroneA. Petrucci, Primo: non leggere. Biblioteche e pub-  blica lettura in Italia dal 1861 ai nostri giorni, Milano, Mazzotta, 1976,  pp. 77-105. F. Ciarlantini, Vicende di libri e di autori, Milano, Ceschina,  1931, pp. 39-69, e Ph. V. Cannistraro, Le fabbrica del consenso. Fascismo  e mass media, prefazione di R. De Felice, Bari, Laterza, 1975, pp. 116-119.    197    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    anni ’20 e ’30 tanti intellettuali tendano a divenire organiz-  zatori di cultura attraverso l’editoria: accanto alle edizioni  collegate a riviste, e agli effimeri tentativi di Domenico  Petrini con la Bibliotheca editrice di Rieti o di Carlo Pelle-  grini con la Taddei di Ferrara, vediamo che nel 1926 viene  fondata da Elda Bossi e Giuseppe Maranini La Nuova Ita-  lia, che nel 1930 passerà a Firenze sotto la direzione di  Codignola, nel 1927 la Slavia dell’ex sindacalista rivoluzio-  nario Alfredo Polledro, nel 1929 la casa editrice di Valen-  tino Bompiani, formatosi alla Mondadori; e nel 1932, men-  tre Gentile, già direttore di due collane, filosofica e storica,  presso Le Monnier, assume la direzione della Sansoni tra-  sformandone rapidamente il catalogo secondo il proprio  orientamento culturale e politico !?, due intellettuali antifa-  scisti di diversa matrice ideologica, Franco Antonicelli e  Rodolfo Morandi, trovano nell’editoria uno strumento per  tentare di allargare i sempre più stretti confini culturali del  paese: il primo si associa con il tipografo Carlo Frassinelli  per proporre testi della letteratura straniera contempora-  nea, il secondo con l’editore Corticelli per far conoscere  La rivoluzione francese di Mathiez o il Napoleone di Tarlè,  e far riflettere sulle esperienze di nuove realtà politiche,  come la Cina e l’Unione Sovietica . È in questo contesto  che si colloca, alla fine del 1933, la fondazione della Einau-  di da parte di un nucleo originariamente ben definito di  intellettuali, molti dei quali aderenti a Giustizia e Libertà,  la cui opera culturale ha quindi larvati risvolti politici, che  imporrebbero un confronto puntuale con alcune delle case  editrici che si sono presentate, all'indomani della Libera-  zione, con una patente antifascista.    1 Cfr. AA.VV., Testimonianze per un centenario. Contributi a una  storia della cultura italiana 1873-1973, Firenze, Sansoni, 1974.   13 Su Antonicelli editore — che nel 1942 fonderà la casa editrice De  Silva (cfr. la sua testimonianza in « Rinascita », 6 dicembre 1974) — cfr.  N. Bobbio, Trent'anni di storia della cultura a Torino (1920-1950), Torino,  Cassa di Risparmio, 1977, pp. 60-63, e M. Fubini, Il mestiere del lette-  rato, in AA.VV., Su Antonicelli, Torino, Centro Studi Piero Gobetti,  1975, pp. 26-28; un cenno all’attività editoriale di Rodolfo Morandi in  A. Agosti, Rodolfo Morandi. Il pensiero e l’azione politica, Bari, Laterza,  1971, pp. 211-212.    198    Le origini della casa editrice Einaudi    Le notizie di cui disponiamo sono però assai scarse e —  promosse da occasioni celebrative o fornite dai diretti inte-  ressati —, pur offrendo utili spunti interpretativi, avreb-  bero bisogno di ulteriori approfondimenti. È il caso, ad  esempio, di Laterza, de La Nuova Italia e di Bompiani.  ‘ Nella casa editrice barese, durante il periodo della « difesa  eroica » 1925-43, Croce — è stato scritto — « accolse  anche chi era da lui lontano, e contribuf a preparare non  pochi che, poi, scelsero posizioni a lui avverse. Sui libri  che fece leggere agli italiani, con la collaborazione di Gio-  vanni Laterza, si formarono cosi liberali come socialisti e  comunisti, cosî idealisti come materialisti »; e, riprendendo  il discorso, Garin ha individuato nelle opere uscite nel ven-  tennio nella « Biblioteca di cultura moderna »    l’accorta opera d’informazione unita alla difesa di una vocazione  umana anteriore a ogni lotta o differenza di parte. Nei libri, a volte  assai mediocri, di storici, filosofi, critici, economisti, offerti con una  apertura eccezionale [...], c'è sotteso l’invito a non dimenticare mai  quella dimensione umana che, pur nel divenire temporale e nelle  dislocazioni spaziali, è capace di comprendere anche l’avversario.  Che fu il valore di uno storicismo e di un umanismo tutt’affatto  particolari, di una difesa della razionalità e della libertà, che in  un’epoca intesa a celebrare l’hbomo bomini lupus ricordò costante-  mente il senso dell’homo homini deus !8.    Giudizio che andrebbe, a nostro parere, sfumato, in  quanto, se accanto a Omodeo, Russo o De Ruggiero, Croce  accolse un Rodolfo Morandi, la linea generale della casa  editrice fu orientata in un senso ben determinato che non si  apriva a tutti gli « avversari », come testimonia nel 1938  il commento crociano alla ristampa dei saggi di Labriola, 0,  nel 1929-31, l'edizione de Il superamento del marxismo  e La gioia del lavoro di De Man.   Un discorso analogo può essere fatto per La Nuova  Italia di Codignola: se è vero che fu centro di aggregazione  di esponenti di rilievo del Partito d'Azione e che, col suo    14 E. Garin, La Casa editrice Laterza e mezzo secolo di cultura italiana  (1961), ora in Id., La cultura italiana tra ‘800 e ’900. Studi e ricerche,  Bari, Laterza, 1963, p. 170, e Id., Il mestiere di editore, prefazione al  Catalogo generale delle edizioni Laterza 1978, p. XII.    199    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    « impegno, insieme, di socialismo, di liberalismo “rivolu-  zionario”, di laicismo intransigente », contributi « all’orga-  nizzazione del dissenso » !, è necessario tuttavia non anti-  cipare un orientamento politico che si venne delineando, e  manifestando, a fatica e non senza contraddizioni, se pen-  siamo al persistente legame, ancora negli anni ’30, di Co-  dignola con Vallecchi e con Gentile, o al settore pedagogico  configurato in senso attualista e comunque condizionato  dalla politica scolastica del regime '‘.   Cosi Valentino Bompiani, ripercorrendo la storia della  propria casa editrice, pur riconoscendo il suo iniziale « di-  simpegno ideologico », valorizza giustamente la scoperta,  alla fine degli anni ’30, della letteratura americana, con  Uomini e topi di Steinbeck e Piccolo campo di Caldwell,  tradotti rispettivamente da Pavese e Vittorini, due libri che  « parlavano dell’uomo, della sua condizione e miserià, con  diretto impegno sociale e politico » ”. Ma come non riflet-  tere di fronte al fatto che, mentre la censura interveniva  duramente e con particolare ottusità '" — come testimonia  l'editore —, lo stesso Bompiani proponeva nel 1940 al  Ministero della cultura popolare un accordo per lanciare  una « Biblioteca essenziale dell’italiano », incentrata sui  temi patria, religione, cultura, famiglia, fra i cui autori  dovevano comparire Bottai, Bargellini e De Luca, costituita    15 E. Garin, Un capitolo di rilievo singolare, in 50 anni di attività  editoriale (Venezia 1926-Firenze 1976): La Nuova Italia, Firenze, La  Nuova Italia, 1976, p. XII; cfr. anche, oltre al ritratto di Ernesto Codi-  gnola tracciato da Garin, Intellettuali italiani del XX. secolo, Roma, Edi-  tori Riuniti, 1974, pp. 137-169, gli interventi di E. Garin, N. Bobbio e  T. Codignola in occasione del cinquantenario della casa editrice, ne «Il  Ponte », XXXII (1976), pp. 1318-1334.   16 Questi elementi sono ben messi in luce da S. Giusti, La ‘casa  editrice La Nuova Italia 1926-1943, di prossima pubblicazione. .   17 V. Bompiani, Via privata, Milano, Mondadori, 1973, pp. 43, 143.   18 In un rapporto anonimo al duce del 26 giugno 1943 si diceva:  « Proprio nei giorni dei massacri di Grosseto, di Sardegna e Sicilia, l’edi-  tore Bompiani mette sfacciatamente fuori un “mattonissimo” intitolato  “Americana”, antologia di scarso valore con prefazione di un accademico e  traduzione di Vittorini; antologia condotta sui modelli dell’ebreo Lewis.  E lo stesso Bompiani continua nelle stampe e ristampe di Cronin, Stein-  ‘beck, ed altri, bolscevichi puri e in ogni caso perniciosissimi » (AGS,  Ministero della cultura popolare, b. 27, fasc. 403).    200    Le origini della casa editrice Einaudi    da « alcune centinaia di migliaia di volumetti » da diffon-  dere nei centri con popolazione minore a 10.000 abitanti,  distribuendoli ad esempio, « a partire dal Natale di Roma »,  « a tutti coloro che si sposano nel corso dell’anno, affer-  mando cost il principio che non si deve costituire una fami-  glia senza avere in casa quei pochi libri che diano a un cit-  tadino italiano la conoscenza e la coscienza della sua Pa-  tria »? !   Condizionamenti politici, autocensure, necessità econo-  miche proprie di ogni casa editrice in quanto azienda indu-  striale, costituiscono quindi il quadro entro il quale deve  essere valutata anche l’opera della Einaudi, verificando  puntualmente — senza stabilire schematiche equivalenze —  la traducibilità politica dei suoi messaggi culturali. Con ciò  non vogliamo disconoscere, in linea generale, quanto ha  ricordato Giulio Einaudi — « il primo modo di sfidare il  fascismo era quello di non parlarne mai, di fare come se  non esistesse» ? —, anche se in qualche caso il fascismo  si affaccia nella produzione della casa, né, quindi, negare la  prospettiva in cui si muoveva l’editore, che era, come ha  osservato Bobbio, « quella di offrire alla giovane cultura  torinese lo strumento più adatto e meno pericoloso dati i  tempi per esprimere la propria voce, e di non lasciare sva-  nire nel nulla la grande esperienza gobettiana » ?. Si tratta  piuttosto di misurare la possibilità o capacità di attuazione  di questi propositi, di vedere se sono univoci o differen-  ziati e contraddittori e, in questo caso, quali voci culturali  politicamente significative predominano, e in quale periodo;  verificare, infine, quali elementi di continuità o di rinno-  vamento si manifestano fra gli anni ’30 e il periodo post-  bellico.   La decisione di Giulio Einaudi di fondare la casa edi-  trice non è comprensibile se prescindiamo dall’ambiente  torinese, sia quello rappresentato dalla Slavia di Alfredo    19 Ibidem. Alcuni testi furono pubblicati, come, nel 1941, la Storia  della patria di Piero Operti.   2 Testimonianza scritta di Giulio Einaudi (Archivio della casa edi-  trice Einaudi (d’ora in avanti AE), G. Einaudi).   © N. Bobbio, Trent'anni di storia della cultura a Torino, cit., p. 66.    201    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    Polledro, che nella collana « Il genio russo » presentò per  la prima volta in Italia traduzioni integrali — alcune opera  di Leone Ginzburg — di Turgheniev, Gogol, Dostoevskij,  Tolstoj e Cechov, da cui attingerà in parte la collana einau-  diana dei « Narratori stranieri tradotti »; sia quello dei  gobettiani, con in primo piano l’opera di educatore di  Augusto Monti, ma anche con le iniziative culturali di Anto-  nicelli, Ginzburg e Pavese, o con la pubblicazione de « La  Cultura » passata sotto la direzione di Arrigo Cajumi. Un  modello che Einaudi terrà presente fu la « Biblioteca euro-  pea », diretta da Antonicelli, presso il tipografo Frassinelli,  dal 1932 al 1935 — quando fu arrestato —, dove uscirono  L’armata a cavallo di Babel, e, tradotti da Pavese, Moby  Dick di Melville, Riso mero di Anderson e Dedalus di  Joyce 2. Ispirandosi a Gobetti, « l’editore ideale » #, Anto-  nicelli raccolse per primo le forze intellettuali torinesi che  si erano formate sotto il magistero di Monti, ma in una pro-  spettiva ancora liberale: « Al di là di Croce non vedevo. I  marxisti non sapevo cosa fossero », ricorderà più tardi, rico-  noscendo che le proprie convinzioni politiche erano matu-  rate solo dopo la Liberazione *.   Da un innesto tra crociana « religione della libertà » e  tradizione gobettiana partiva anche Ginzburg, il quale ebbe  gran parte nella fondazione della casa editrice Einaudi *. Ai  numerosi interessi culturali — dalla letteratura russa alla  storia — egli univa, a differenza di Antonicelli, un saldo  impegno politico da quando aveva aderito, nel 1932, a  Giustizia e Libertà. « Noi non crediamo utile ai fini della  lotta antifascista che ci si debba sottoporre a una specie di  rinuncia intellettuale », scriveva sul periodico del movi-  mento clandestino, dove invitò ad approfondire « la pro-    2 Cfr. ibidem.   23 Cfr. P. Gobetti, L’editore ideale. Frammenti autobiografici con ico-  RO ehe; a cura e con prefazione di F. Antonicelli, Milano, Scheiwiller,   24 F. Antonicelli, Le pratica della libertà. Documenti, discorsi, scritti  politici 1929-1974. Con un ritratto critico di C. Stajano, Torino, Einaudi,  1976, pp. X-XI.   25 Cfr. l'importante introduzione di N. Bobbio a L. Ginzburg, Scritti,  Torino, Einaudi, 1964.    202    Le origini della casa editrice Einaudi    pria coscienza rivoluzionaria con la meditazione, lo studio,  l’attività clandestina », a riflettere sulla visione gobettiana  della rivoluzione russa e a studiare Cattaneo, scrisse assieme  a Croce il famoso articolo contro la centralizzazione delle  istituzioni culturali operata dal ministro dell’Educazione  nazionale Francesco Ercole, e rivendicò come « principale  ragion di vita » di Giustizia e Libertà « il lavoro, d’orga-  nizzazione e di pensiero, che si compie in Italia sotto i suoi  auspici » #. E della sua capacità di mobilitare altre intelli-  genze dette atto nel dicembre 1934, pochi giorni dopo il  suo arresto, « Giustizia e Libertà »: « È uno dei pochi,  anzi dei pochissimi, che in regime legale di fascismo rie-  scono ad avere un pensiero e un'influenza sul pensiero degli  altri » 7. Mentre già nel 1930 Cajumi aveva pensato a una  casa editrice espressione de « La Cultura » # — alla quale  Ginzburg collaborava dal 1929 —, nel 1933 Ginzburg  tenne contatti fra l’ambiente torinese ed esponenti dell’am-  biente fiorentino tra loro vicini, Nello Rosselli e il gruppo  di « Solaria ». Rosselli, che stava cercando di varare una  « Rivista di storia europea » di cui Ginzburg avrebbe do-  vuto essere gerente responsabile e coredattore, fu contat-  tato per preparare un volume su Mazzini per la progettata  « Biblioteca di cultura storica » ?; Alberto Carocci, il diret-  tore di « Solaria » che per le difficili condizioni finanziarie  della rivista stava già cercando l’appoggio di un editore per  questa e le sue edizioni, entrò in rapporto, tramite Ginz-  burg, con Giulio Einaudi che alla fine di novembre del  1933 — quando già, il 15 del mese, si era iscritto alla  Camera di commercio di Torino come editore —, pur rifiu-    26 Ibidem, in particolare pp. 5, 16, 29.   © Leone Ginzburg, « Giustizia e Libertà », 16 novembre 1934. ll  Tribunale speciale che il 6 novembre 1934 lo condannò a quattro anni di  reclusione, lo qualificò come « l’anima » di GL a Torino (ACS, Ministero  della giustizia e degli affari di culto. Direzione generale per gli istituti  di prevenzione e di pena, fasc. 46489).   2 «Ginzburg mi ha accennato a una Sua intenzione di formare una  casa editrice “la Cultura” », scriveva Pavese a Cajumi il 27 settembre  1930 (C. Pavese, Lettere 1924-1944, a cura di L. Mondo, Torino, Einaudi,  1966, p. 241).   2 Cfr. Nello Rosselli. Uno storico sotto il fascismo, cit., in partico  lare pp. 139 e 143-45, e AE, N. Rosselli.    203    TI fascismo e il consenso degli intellettuali    tando la proposta di Carocci di trasformare « Solaria » in  casa editrice, fece l’offerta, poi caduta, di rilevare la sola  rivista, osservando che « qualche volta sarebbe bene trat-  tare qualche argomento non puramente letterario, ma che  presenti interesse dal punto di vista sociale contempora-  neo » ”°: un’indicazione di lavoro che darà anche per « La  Cultura », e che testimonia quella volontà di impegno  civile che in quello stesso anno era avvertita anche da  Carocci.   La casa editrice Einaudi nasceva infatti proprio quando  un decreto prefettizio del 1934 metteva fine a « Solaria »,  accusata di contenuto contrario alla morale per un numero  che pubblicava una puntata de I garofano rosso di Vitto-  rini: la rivista che si era rifugiata nella « repubblica delle  lettere » accettando di convivere col fascismo, « nell’illu-  sione di conservare intatta l’autentica superiorità dell’intel-  ligenza borghese, l’eredità lasciata dall’attivismo barettiano  e dall’attendismo rondiano », terminava la sua vita proprio  quando cercava, nel 1933-34, di impegnarsi ideologica-  mente, trasformandosi, come era nelle intenzioni di Carocci,  in « rivista d’idee », e quindi di « discussione anche col  fascismo » *. Forse non fu solo una coincidenza, se si pensa  che gli intellettuali fiorentini si dimostrarono per il mo-  mento incapaci, come gruppo, di trasformare la letteratura  in impegno. Sarà quanto tenterà di fare quella che un rap-  porto della polizia del marzo 1934 definiva « una nuova  casa editrice torinese la quale avrà il compito di diffon-  dere pubblicazioni antifasciste abilmente compilate e attor-  no alle quali da ora in avanti si andranno raggruppando gli  elementi antifascisti del mondo intellettuale », fra i quali si  indicavano i senatori Francesco Ruffini e Luigi Della Torre,  Luigi Einaudi e Nello Rosselli » *. « Che fisionomia ha que-    30 Lettere a Solaria, a cura di Giuliano Manacorda, Roma, Editori  Riuniti, 1979, passizz, e, per la lettera di Einaudi a Carocci del 30 no-  vembre 1933, p. 461.   31 G. Luti, Cronache letterarie tra le due guerre 1920-1940, Bari,  TARA: 1966, in particolare pp. 96 e 127, e Lettere a Solaria, cit., p.    I  32 Cit. in R. De Felice, Mussolini il duce, I. Gli anni del consenso  1929-1936, Torino, Einaudi, 1974, p. 115 n. Bottai, che durante la guerra    204    Le origini della casa editrice Einaudi    sta Casa editrice? Quale programma si propone di svolgere?  Quali sono le sue basi finanziarie? E tu fino a che punto  ci sei interessato? », scriveva il 7 febbraio 1934 Rosselli a  Ginzburg *: ad alcune di queste domande non saremo in  grado di rispondere, in particolare a quella relativa al finan-  ziamento della casa editrice, che provenne probabilmente da  Luigi Einaudi, al quale è forse da attribuire anche una fun-  zione di copertura politica all’iniziativa del figlio, come si  può dedurre dalla marcata impronta conservatrice della  prima collana, « Problemi contemporanei ». Ci limitere-  mo perciò, anche in assenza, prima del 1945, di dati sulle  tirature e sulle vendite, a una storia prevalentemente inter-  na della casa editrice, dedicando tuttavia particolare atten-  zione alle collane, ai volumi e ai temi culturali nei quali sia  più facilmente ravvisabile un orientamento politico, nell’in-  tento, indicato all’inizio, di verificare, oltre ai « limiti del  consenso » al fascismo, se negli anni ’30 sono rinvenibili  alcune delle matrici della cultura del dopoguerra.    2. L'ideologia conservatrice di Luigi Einaudi    Le prime, cospicue forze della casa editrice furono  raccolte tramite le due riviste di grande prestigio rilevate da  Giulio Einaudi nel 1934, « La Riforma sociale » e « La  Cultura » — mentre resta eccentrica rispetto al nostro  discorso « La Rassegna musicale », che pur testimonia come  fin dall’inizio l’editore cercasse spazi culturali differen-  ziati. « La Cultura », da cui la nuova impresa editoriale  riprese come proprio segno distintivo il simbolo dello  struzzo, costitui — come vedremo —, nella sua pur breve  esistenza in veste einaudiana, il collegamento dei giovani    sarà in stretto contatto con l’ambiente della casa editrice, giudicando   antifascista la posizione espressa dal crociano Francesco Flora in Civiltà   del Novecento — pubblicato da Laterza nel 1933 —, osservava che   « Laterza è, insieme con Giulio Finaudi della Riforma sociale, uno degli   editori italiani, che ignora che siamo nell’anno XII dell’Era Fascista »   (G. Bottai, Appelli all'uomo, in « Critica fascista », XII (1934), n. 1, p. 4).  3 Nello Rosselli. Uno storico sotto il fascismo, cit., p. 150.    205    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    allievi di Monti — fra cui Giulio Einaudi — con la tradi-  zione gobettiana, ma solo in una più lunga prospettiva i  suoi collaboratori e le sue curiosità culturali diverranno  punto di riferimento per gli orientamenti della casa. In  questa maggiore peso « politico » ebbe all’inizio, con « La  Riforma sociale », il gruppo di liberisti che si raccoglievano  attorno a Luigi Einaudi, nel quale si può forse ravvisare,  se non l’ideatore, la forza decisiva per la nascita della casa  editrice. È questo un elemento di conoscenza che pare  confortato da alcuni documenti e anche da un semplice esa-  me del catalogo editoriale, e che, finora trascurato dalle  testimonianze, fornisce una caratterizzazione meno « prov-  videnzialistica », in senso progressivo, dei primi passi della  casa editrice.    La rivista « La Riforma sociale » — suona un avviso di Luigi  Einaudi databile al 1933 — allo scopo di contribuire alla illustra-  zione dei problemi sociali ed economici e specialmente di quelli  determinati dallo stato presente di crisi e dai piani di ricostruzione  e di regolazione sia nei rapporti nazionali che internazionali, pubbli-  cherà accanto ai fascicoli bimestrali, destinati ad ospitare studi di  mole relativamente tenue, volumi atti a trattazioni più larghe, di  circa 150 pagine e con una tiratura di 1.000 copie, dal carattere  rigorosamente scientifico [...], tuttavia accessibile al pubblico colto  in generale *.    « Votrei preparare un piano di collaborazioni », scri-  veva il 31 ottobre 1933, poco prima della fondazione della  casa editrice, Luigi Einaudi ad Attilio Cabiati, l’amico fidato  che inaugurerà nel 1934 la collana « Problemi contempo-  ranei » e che si dimostrerà particolarmente attivo nel sug-  gerire all'editore proposte di traduzioni *. « Problemi con-    3 L'avviso dattiloscritto si trova nell’Archivio della Fondazione Luigi  Einaudi di Torino, sezione 2 (d’ora in avanti AFE), nel fasc. Croce. L’in-  tervento di Luigi Einaudi nella casa editrice è testimoniato anche da una  lettera che il figlio gli scrisse il 17 novembre 1942, inviandogli il progetto  di un volume di Sismondi: « Per altri classici dell'economia, che pos-  sono avere un interesse vivo anche in avvenire, ti sarò grato se mi  vorrai favorire i testi originali con un breve giudizio » (AE, L. Einaudi).   35 AE, Cabiati. Sui suoi interessi, prevalentemente rivolti al mondo  anglosassone, cfr. A. Cajumi, Ricordo di Attilio Cabiati, in « L'Industria »,  n.s. (1951), pp. 406-417. « Allorché capitò la faccenda del giuramento,  si consultò con Francesco Ruffini e con Einaudi, e salvò il salvabile, ossia    206    Le origini della casa editrice Einaudi    temporanei » nasce infatti come « Biblioteca della rivista  “La Riforma sociale” », controllata e orientata personal  mente da Luigi Einaudi fino al 1944, come la « Collezione  di scritti inediti o rari di economisti » (1934), le « Opere  di Luigi Einaudi », la « Collezione di opere scientifiche di  economia e finanza » (1934) e la « Biblioteca di cultura eco-  nomica » (1939); e, nel magro bilancio dei volumi pubbli-  cati nei primi anni — solo con la guetra la casa editrice  assumerà proporzioni ragguardevoli —, tutti i 9 titoli del  1934, e 9 su 11 nel 1935, sono testi economici di queste  collezioni, che nel periodo 1934-44 rappresenteranno sem-  pre un quarto di tutte le pubblicazioni — 55 su 212 titoli  —, in cui spiccano, per il peso del loro messaggio cultu-  tale e politico, i 35 volumi di « Problemi contemporanei ».  La presenza di Luigi Einaudi aveva un altro punto di forza  nella direzione della « Rivista di storia economica », pub-  blicata per i tipi della casa editrice, cui fu permesso di con-  tinuare — sotto un titolo apparentemente accademico e  asettico — la battaglia liberista de « La Riforma sociale »,  soppressa nel 1935 perché coinvolta, solo editorialmente,  negli arresti di Giulio Einaudi e dei suoi amici e collabora-  tori appartenenti a GL, alcuni dei quali animatori de « La  Cultura », alla quale la censura fascista non concesse possi-  bilità di reincarnazione, sotto nessuna veste *.   Appare quindi necessario analizzare l’ideologia del grup-  po liberista quale si manifesta non solo nelle collane, ma  anche nelle riviste dirette da Luigi Einaudi — e, in parte,  ne « La Cultura » —, alla cui influenza è forse da attribuire  lo stesso orientamento anglofilo di altre collane storiche o  letterarie; non bisogna dimenticare, del resto, la profonda  conoscenza del mondo britannico di colui che durante il    difese in extremis le cattedre non ancora infestate dall’economia corpo  rativa » (ibidem, p. 407).   36 Secondo Francesco A. Repaci, stretto collaboratore di Einaudi, la  soppressione de «La Riforma sociale » sarebbe invece da addebitarsi  alla sua battaglia anticorporativista (Ricordo di Luigi Einaudi attraverso  alcune lettere, « Giornale degli economisti e annali di economia », n.s.,  XXXII (1973), p. 301); in realtà, come vedremo, la «Rivista di storia  economica » non farà che riprendere la linea de « La Riforma sociale »,  senza per questo essere soppressa.    207    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    ventennio fu collaboratore stabile dell’« Economist ». La  funzione culturale e politica svolta da Luigi Einaudi durante  il periodo fascista resta ancora da studiare, e il tema non è  di poco conto se si pensa che il « partito dei liberisti »,  « dopo aver conosciuto dalla fine dell’Ottocento una serie  di sconfitte micidiali da cui sembrava non potesse pit risol-  levarsi, riusci nel secondo dopoguerra a prendersi una cosî  piena rivincita », riuscendo « a influenzare in misura deter-  minante i programmi di ricostruzione e l’impostazione gene-  rale della politica economica italiana dei governi di coali-  zione successivi alla Liberazione » ’’. Funzione che Einaudi  si ascriverà a merito nei suoi risvolti anticorporativisti *,  ma che ebbe, più in generale, i suoi obiettivi polemici in  tutte le ipotesi programmatrici o keynesiane che presero  piede con la grande crisi — non è un caso che a tutto ciò  egli facesse riferimento prospettando la pubblicazione di  una biblioteca de « La Riforma sociale » —, e lo vide  chiuso in una difesa ostinata della sua « quasi religiosa »  fede nel liberismo, che gli impedî di individuare « la crisi  economica del ventennio tra le guerre come una prova delle  fallacie neoclassiche » ”, le quali saranno invece da lui ri-    37 Cosîf V. Castronovo nell'intervento in occasione della commemo-  razione di Luigi Einaudi in occasione del centenario della nascita, in  Annali della Fondazione Luigi Einaudi, vol. VIII, 1974, Torino, Fonda-  zione Luigi Einaudi, 1975, p. 168.   3 «La scienza economica italiana non ha da vergognarsi di quel che  fece durante il cinquantennio crociano. Carità di patria vuole si dimentichi  quel che fu scritto di falso e di consapevolmente falso intorno al cosidetto  corporativismo. Quegli errori sono riscattati dalla resistenza dei più »,  affermerà Einaudi ricordando « La Riforma sociale » e il « Giornale degli  economisti » (La scienza economica. Reminiscenze, in Cinquant'anni di  vita intellettuale italiana 1896-1946, cit., vol. II, p. 313). E ancora: la  « Rivista di storia economica » «forse parve ai governanti del tempo  meno fastidiosa a cagione della sua limitazione a cose passate. Ma già  il Sismondi, in una lettera del 1835 al Brofferio aveva avvertito i vantaggi  che la censura offre agli scrittori costringendoli ad essere avveduti nel  dichiarare la verità invisa ai tiranni [...]. 1 saggi datati dal 1936 al 1941  agevolmente persuadono che il forzato velo storico non vietò mai a chi  scrive di discutere problemi contemporanei » (L. Einaudi, Saggi biblio-  grafici e storici intorno alle dottrine economiche, Roma, Edizioni di  storia e letteratura, 1953, p. VII).   39 M. De Cecco, La politica economica durante la ricostruzione 1945-  1951, in Italia 1943-1950. La ricostruzione, a cura di Stuart J. Woolf,  Bari, Laterza, 1974, p. 291.    208    Le origini della casa editrice Einaudi    prese e attuate dopo il 1945, come governatore della Banca  d’Italia e come ministro del bilancio nel quarto e quinto  governo De Gasperi nel 1947-48.   Gli unici studi che hanno affrontato l’opera di Luigi  Einaudi anche nel periodo fascista, compiuti in occasione  del centenario della nascita, si sono preoccupati di ridurre  la sua iniziale adesione al fascismo, fino al 1925, ad un  « equivoco » destinato a dissiparsi quando la politica « li-  beristica » di De Stefani sfociò nel vincolismo e nel corpo-  rativismo ‘, o si sono limitati ad analizzarne le indicazioni  per lo studio delle dottrine e dei fatti economici, senza  cogliere i presupposti ideologici della sua posizione meto-  dologica, o arrivando ad espungere volutamente dall’analisi  le sue concezioni antisocialiste e antistataliste, in quanto:  non sarebbero mai state da lui proposte come formule ‘.  Per meglio comprendere la linea interpretativa della col-  lana « Problemi contemporanei » è invece opportuno sof-  fermarci su questi presupposti ideologici, per i quali l’atti-  vità di Einaudi durante il fascismo ha punti di contatto,  ma anche di differenziazione, con quella di Croce. Segui-  remo i motivi di questa riflessione sulla storia e la politica  economica fino al 1944, data l'omogeneità di questa tema-  tica, che corre parallela con gli altri filoni di pensiero della  casa editrice.   È da rilevare in primo luogo che le indicazioni di Luigi  Einaudi sul modo di fare storia economica sono esplicita-  mente basate sulla preoccupazione di non privilegiare il  fattore economico nella ricostruzione storica. Discutendo  il programma di lavoro della « Rivista di storia economica »  con Gino Luzzatto — il direttore della « Nuova rivista  storica » che ribadiva ancora in quegli anni la validità della  storiografia economico-giuridica —, egli sosteneva che allo    4 Cosî R. Romano nell’Introduzione a L. Einaudi, Scritti econormici,.  storici e civili, a cura di R. Romano, Milano, Mondadori, 1973, pp.  XXXILIOXVII.   4 Cfr., per il primo appunto, R. Romeo, Luigi Einaudi e la storia  delle dottrine e dei fatti economici, e M. Abrate, Luigi Einaudi rivisitato, e,  per il secondo, F. Caffè, Luigi Einaudi nel centenario della nascita, in  Annali della Fondazione Luigi Einaudi, cit., pp. 121-141, 151-163, 39-51  (in particolare, per l’affermazione di Caffè, p. 47).    209    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    storico era necessario solo il « punto di vista » economico:  « “Punto di vista” e non “prevalenza” né “specializzazio-   e”. Non si diventa storici dell'economia dando, come  fecero molti nel tempo verso il 1900, rilievo a certi fatti  detti economici e mettendoli a fondamento delle spiegazioni  da essi date di certe passate vicende umane. Cosi scrivendo,  si fa buona (esistono, nonostante la cosa tenga del miraco-  loso, persino buoni libri di storia informati al concetto  materialistico della storia!) o cattiva storia politica, non  storia economica » *. La storia economica non deve sup-  porte che il fattore economico sia più importante degli  altri, né accettare la tesi che le teorie economiche siano un  mutevole frutto dei tempi, affermava, concludendo che per  scrivere storia economica « fa d’uopo che lo scrittore abbia  l’occhio od il senso economico » ‘. Di qui l'apprezzamento  per la Storia economica e sociale dell'impero romano ©  Città carovaniere di Rostovzev — pubblicate rispettiva-  mente da La Nuova Italia e da Laterza —, in quanto l’au-  tore « ha visto che alla radice della storia non si trovano  l'economia, la macchina, lo strumento tecnico, la terra arida  o feconda, il denaro e simiglianti cose morte, si invece le    4 G. Luzzatto - L. Einaudi, Per un programma di lavoro, in « Rivista  di storia economica », I (1936), p. 201. Luzzatto, che in una lettera a  Einaudi del 5 novembre 1936 accettò in sostanza la sua opinione (AFE,  Luzzatto), salutò con entusiasmo la nascita della «Rivista di storia  economica », perché « può rappresentare per i giovani studiosi italiani  di storia economica una guida ed uno stimolo, di cui si sentiva estre-  mamente il bisogno, indirizzandoli nella scelta degli argomenti di ricerca,  raddrizzando idee tradizionali errate, chiarendo idee confuse, creando  soprattutto quel contatto fra scienza economica e ricerca storica, che fino-  ra è in gran parte mancato » (« Nuova rivista storica », XX (1936), p. 282).  A Luigi Dal Pane — dal quale non riuscirà tuttavia ad ottenere una  collaborazione — Luigi Einaudi spiegò il 4 luglio 1936 il tipo di articoli  desiderati: « 1) un problema teorico importante studiato da un econo-  mista passato; 2) un problema di fatto interessante in sé, interessante  per qualche attacco al presente, su cui l’esperienza di un tempo passato  dice qualcosa di rilevante » (L. Dal Pane, Il mio carteggio con Luigi  Einaudi, in Annali della Fondazione Einaudi, vol. VI, 1972, Torino,  Fondazione Luigi Finaudi, 1973, p. 194).   43 L. Einaudi, Lo strumento economico nella interpretazione della  storia, in « Rivista di storia economica », I (1936), pp. 155-156 (in discus-  sione con Lucien Febvre}. Nello stesso senso cfr. T. Codignola, Esiste  una «storia economica »?, in « Rivista di storia economica », II (1937),  pp. 179-182.    210    Le origini della. casa editrice Einaudî    idee che la classe politica si è fatta » #: dove è evidente  la polemica contro quella « vulgatio » del materialismo sto-  rico in cui Gramsci rinveniva uno specifico influsso loriano,  presente anche nel commento a Economic planning and  international order di Lionel Robbins, un autore quanto  mai caro a Einaudi e alla casa editrice, lodato per la tesi  che « la continuità della coesistenza di diverse nazioni del  mondo è incompatibile con qualunque piano diverso da  quello economico liberale », e che un piano è un fatto poli-  tico: « È un capovolgere la storia cercare nell’economia la  spiegazione degli avvenimenti politici, sociali, intellettuali.  Bisogna invece cercare nella politica la spiegazione degli  avvenimenti economici » 4. Gli esempi potrebbero moltipli-  carsi, a testimoniare come l’assai vaga asserzione che allo  storico economico necessiti, e sia sufficiente, « l’occhio od  il senso economico », si connetta con la fede nel carattere  assoluto ed eterno delle leggi economiche, con la polemica  nei confronti del materialismo storico e del socialismo, e  con la difesa del liberismo come vero liberalismo.  Rispondendo a quanti parlavano di superamento delle  teorie economiche, di quella ricardiana in particolare,  Einaudi affermava che « una ideale storia delle dottrine  economiche potrebbe semplicemente consistere nel ricordo  che si facesse, nel trattare sistematicamente la dottrina oggi  ricevuta, del debito da questa contratto verso le precedenti  meno perfette formulazioni che via via la precedettero. Il  legittimo uso della parola “superamento” implica l’accogli-  mento contemporaneo dell’idea che nulla è superato, nulla  è fuor del tempo presente ed ogni teoria che visse vive    4 L. Einaudi, Il valore economico del libro del Rostovzev, in «La  Riforma sociale », XLI (1934), p. 336. Sulla conoscenza « da orecchiante »  del materialismo storico da parte di Einaudi mediata da Croce e Loria,  cfr. A. Gramsci, Quaderni del carcere, cit., vol. II, pp. 1289-1290.   45 L. Einaudi, Delle origini economiche della grande guerra, della crisi  e delle diverse specie di piani, in «Rivista di storia economica», II  (1937), p. 278. Il 30 novembre 1946 Giulio Einaudi scriverà a Robbins:  «se durante la deprecabile ultima guerra Voi ricordavate con simpatia  l’ambiente che faceva capo a mio padre, noi altri giovani durante quegli  anni terribili non cessammo mai di guardare con venerazione e speranza  alla Vostra Patria e ai suoi uomini più rappresentativi » (AE, Robbins).    241    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    ancora perfezionata ed affinata nella teoria attuale » ‘. L’in-  sistente difesa di Ricardo, di Smith, di Francesco Ferrara o  della massima di D’Argenson — « pour mieux gouverner,  il faudrait gouverner moins »  —, si accompagna a uno  sprezzante giudizio su Keynes, nelle cui pagine si può tro-  vare « la esposizione pi ingegnosa e raffinata che imma-  ginar si possa di quella qualunque tesi egli, con pieno prov-  visorio convincimento, sostenga in un dato momento » “£  all’assunzione a modello dei discorsi di Cavour, in quanto  « mutano i problemi; ma l’arte dell’analizzarli criticamente  con spirito non preoccupato damiti e da formule verbali,  non muta » ‘; o, in polemica col corporativismo fascista —  non molto frequente, tuttavia, sulla « Rivista di storia eco-  nomica » —, all’esaltazione delle corporazioni medievali  mai configuratesi come « caste chiuse »: « La lotta, il tu-  multo, le inimicizie, le cacciate e l’esilio sono i segni distin-  tivi di quell’epoca che poi fu voluta idealizzare come tesa  verso la pace sociale. Ma, perché lottava, amava ed odiava,  quell’epoca partori credenti artisti e poeti grandi; ma perché  era un’epoca di rivolgimenti politici economici e sociali,  essa creò ricchezza potenza arte e poesia ». Una difesa della  necessità della lotta e del contrasto che non si traduce mai,  però, nella comprensione delle novità del processo storico,  cui l’ottuso conservatorismo di Einaudi oppone un’imma-  gine statica della vita sociale, assai distante dalla stessa  concezione crociana della storia etico-politica ”    * L. Einaudi, Superamento, in « La Riforma sociale», XLI (1934),  p. 315.   4 L. Einaudi, Una disputa a torto dimenticata fra autarcisti e liberisti,  in «Rivista di storia economica », III (1938), p. 149.   4 Si riferisce ai s aggi di Keynes La fine del laisser faire e L’autarchia  economica tradotti nella « Nuova collana di economisti stranieri ed ita-  liani » diretta da G. Bottai e C. Arena (« Rivista di storia economica »,  II (1937), p. 374). Per una critica agli Essays in Bibliography di Keynes  cfr. anche L. Einaudi, Della teoria dei lavori pubblici in Maltbus e del  tipo delle sue profezie, in « La Riforma sociale », XLI (1934), pp. 221-227.   4 L. Einaudi, Una nuova edizione dei discorsi del conte di Cavour,  in «La Riforma sociale », XLI (1934), p. 229 (a proposito dei Discorsi  parlamentari di Cavour curati da Omodeo e Russo per La Nuova Italia).   5 L. Einaudi, Alba e tramonto delle corporazioni d'arti e mestieri, in  « Rivista di storia economica », VI (1941), pp. 96-97. Einaudi « non riu-  sciva ad afferrare i motivi del movimento storico », ha affermato L. Dal    212    Le origini della casa editrice Einaudi    È del resto noto come, sul piano politico, il liberalismo  di Einaudi non sia assimilabile a quello di Croce, tanto da  spiegare — come vedremo dall’analisi di alcuni volumi  della collana « Problemi contemporanei » — un maggior  « possibilismo » del primo nei confronti del fascismo. E  ciò, nonostante il rapporto personale e gli elementi di con-  vergenza che legano i due intellettuali durante il regime.  Ne è testimonianza la segnalazione simpatetica che sulla  « Rivista di storia economica » Einaudi fa, in due occa-  sioni, delle edizioni Laterza: valorizza ad esempio l’opera  dei meridionalisti conservatori — Jacini, Turiello, Villari,  Franchetti, Sonnino e Fortunato — analizzati da Enzo Ta-  gliacozzo in Voci di realismo politico dopo il 1870; ap-  prezza incondizionatamente — a differenza di Ginzburg ”  — l’immagine fornita da Nicola Ottokar nella Breve storia  della Russia, un paese la cui « tragedia » sarebbe stata  quella di non aver mai avuto un ceto intermedio numeroso,  ma solo padroni e servi, dove i primi erano una volta i  nobili, ora la burocrazia sovietica ”. Sempre per « rendere  testimonianza di onore all’editore colto e tenace, il quale in  tempi volti ad altri problemi persegue un alto ideale di  cultura », Einaudi segnala La concezione romana dell’im-  pero di Ernest Barker, accogliendone la distinzione fra la  rivoluzione francese, da cui « discendono lo stato napoleo-  nico ed il comunismo economico », e la rivoluzione puri-  tana inglese, da cui derivano « la libertà di coscienza e di    Pane, Commemorazione di Luigi Einaudi, in Memorie dell’Accademia  delle scienze dell’Istituto di Bologna, classe di scienze morali, s. V, vol.  10, 1962, p. 314; e Franco Venturi ha osservato che « la storia economica,  quale egli fa concepî, non produsse in Italia quel rivolgimento, quella  trasformazione profonda che compirono in varie forme altrove il marxismo,  la scuola delle “Annales”, le moderne teorie dello sviluppo e la cliometria.  Personalmente sono convinto che l’elemento conservatore presente nel  pensiero di Einaudi agi da freno, da remora a questa rivoluzione storio-  grafica. Riproporre a modello Le Play nel secolo XX era un paradosso »  (in Annali della Fondazione Luigi Einaudi, vol. VIII, cit., p. 180).   51 Le osservazioni di Ottokar « sono giustapposte, e non concatenate,  sf che l'avvento del bolscevismo può configurarglisi come una specie di  cataclisma, che interrompa la continuità storica », notava ad esempio  Ginzburg (« Nuova rivista storica » (1937), ora in Scritti, cit., p. 111).   5 L.E., Edizioni Laterza, in « Rivista di storia economica », II (1937),  pp. 196-198.    213    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    pensiero, la società economica a tipo di concorrenza, l’unio-  nismo operaio, il regime di discussione »; ma la « lettura  più vantaggiosa » è per Einaudi la Storia d’Europa di  Fisher, nella quale egli vede la dimostrazione dell’assenza  di basi economiche nei diversi ordinamenti politici. Prende  invece nettamente le distanze da un libro laterziano allora  famoso in quanto espressione della crisi dei valori borghesi,  Democrazia in crisi del laburista Harold J. Laski — un au-  tore che la casa editrice accoglierà solo nel dopoguerra, men-  tre nel 1936 Mario Einaudi lo aveva accusato di marxismo  per l’opera The Rise of Liberalism —, in quanto « dalla pa-  rificazione laskiana di “democrazia” ad “uguaglianza” vien  fuori un’economia comunistica a tipo termitario » ”.   Il liberalismo di Einaudi aveva infatti un minor respiro  ideale di quello di Croce, come dimostra la discussione tra  loro intercorsa negli anni ’30 e ’40 sui rapporti tra libe-  rismo e liberalismo: mentre Croce, pur nella comune ri-  pulsa del comunismo, negava la necessaria identità dei due  termini, Einaudi sosteneva la loro inseparabilità, in quanto  « l’idea della libertà vive, si, indipendente da quella norma  pratica contingente che si chiamò liberismo economico; ma  non si attua, non informa di sé la vita dei molti e dei più se  non quando gli uomini, per la stessa ragione per cui vollero  essere moralmente liberi, siano riusciti a creare tipi di orga-  nizzazione economica adatti a quella vita libera » *. Data  questa rigida identificazione — per cui la presa di distanza  di Einaudi dal fascismo ha il suo motivo di fondo nella  politica protezionista e corporativa del regime —, si com-  prende come più numerosi e acri che ne « La Critica »  siano gli attacchi antisocialisti nella « Rivista di storia  economica », condotti in primo luogo dal suo direttore  con accenti che dimostrano la carica politica, prima ancora    53 L. Einaudi, Ancora a proposito di edizioni e di alcuni libri editi da  Giuseppe Laterza in Bari, in « Rivista di storia economica », III (1938),  pp. 349-354; M. Einaudi, Di una interpretazione puramente economica  del liberalismo, in « Rivista di storia economica », I (1936), p. 319.   5% L. Einaudi, Tema per gli storici dell'economia: dell’anacoretismo  economico, in « Rivista di storia economica », II (1937), p. 195. I testi  del dibattito sono raccolti in B. Croce, L. Einaudi, Liberismo e libera-  lismo, a cura di P. Solari, Milano-Napoli, Ricciardi, 1957.    214    Le origini della casa editrice Einaudî    che scientifica, dei suoi obiettivi. Ne è documento esem-  plare, nel 1934, la recensione a Socialism's New Start, tra-  duzione di un’opera di socialisti tedeschi nascosti dall’ano-  nimato, critici dei partiti tedeschi socialdemocratico e co-  munista accusati di aver consegnato le masse operaie al  nazismo; con le minacce di simili « untorelli », scrive  Einaudi, il regime hitleriano può dormire sonni tranquilli:    I socialisti del continente europeo, sia quelli dei paesi come  l’Italia, la Germania e l’Austria, nei quali essi sono stati spazzati via,  sia quelli dei paesi come la Francia, nei quali si danno un gran da  fare per farsi mandare a spasso, non hanno ancora capito che « il  capitalismo » è una irrealtà, uno schema partorito dalla loro scarsa  cultura storica e dalle loro rudimentali attitudini psicologiche; e  quindi, essendo un meccanismo tecnico, una costruzione meramente  amministrativa e contabile, può essere rivoluzionato o riplasmato pit  o meno in meglio od in peggio, senza grandissime difficoltà. La  società tollera chiacchiere socialistiche più o meno interessanti e  consente talvolta che in nome di ideali socialistici si compiano ai  margini sperimenti più o meno costosi intesi a tener quiete le molti-  tudini. Ma le chiacchiere e gli sperimenti non devono andare oltre  un certo segno; non devono toccare istituti che hanno nell’animo  umano radici ben più profonde del capitalismo: la proprietà della  terra, della casa, dell’opificio, il risparmio, la famiglia, la eredità,  la tradizione, la religione.    Responsabili della nascita dei regimi totalitari sareb-  bero stati i socialisti, in quanto Blum in Francia, Stafford  Cripps e Laski in Inghilterra appaiono a Einaudi « magni-  fici alleati e profeti e sostenitori di nuovi regimi che, sorti  in Italia si vanno estendendo, sotto forme variabilmente  adattate alle diverse contrade, un po’ dappertutto » 5.   Proprio riferendosi a questa recensione, e alla raccolta  dei Nuovi saggi di Einaudi pubblicata nel 1937 dal figlio,  « Giustizia e Libertà » — espressione del movimento nel  quale si riconoscevano vari collaboratori della casa edi-  trice — critica violentemente l’esponente liberista, nella  cui opera non ravvisa né antifascismo, né liberalismo, né  scienza, ma solo i frutti di un « liberale è /a page », lealista    55 L. Einaudi, Afforno ad una spiegazione della disfatta dei partiti  socialistici, in « La Riforma sociale », XLI (1934), pp. 713-714.    215    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    verso il regime, mosso da « una meschina preoccupazione  di antisocialismo, che non ha a che vedere con il bisogno  di libertà che ogni uomo prova, ma semplicemente con un  sentimento originario, più forte di qualunque ragionamento,  di disprezzo per il salariato e per il lavoratore manuale che  aspiri a dirigersi da solo ». Ispirato da un « velenoso » odio  di classe — continua articolista —, Einaudi « arriva a  sostenere la legittimità della reazione fascista, che non  sarebbe l’avventura di un gruppo di spostati né rea-  zione di privilegiati, ma la reazione legittima della so-  cietà contro quei faccendoni dei socialisti che le impedi-  vano di lavorare »; il suo «cieco conservatorismo » si  spiega con la sua « sfiducia totale in qualunque tentativo  di miglioramento, che tolga gli individui alla classe in cui  essi sono costretti a vivere » ”.   È del resto raro trovare nella seconda metà degli anni  ’30, nella « Rivista di storia economica » o nei volumi della  casa editrice ispirati da Luigi Einaudi, una coerente pole-  mica nei confronti della politica economica del regime o dei  testi economici proposti dal fascismo. La critica all’antiindi-  vidualismo della Breve storia delle teorie economiche di  Othmar Spann edita da Sansoni nel 1936 resta un caso  isolato ”, mentre già nel 1934 Einaudi trova modo di lodare  Bottai « promotore di iniziative feconde: come quella dei  buoni libri informativi editi dalla scuola corporativa di  Pisa », o la « Nuova collana di economisti » curata da  Bottai e Arena, in cui apprezza in particolare la pubblica-  zione dell’Economia del benessere di Arthur C. Pigou —  « non conosco lettura più adatta a moltiplicar dubbi su  qualsiasi provvedimento di politica sociale » — e gli scritti    $% Magrini [Aldo Garosci], Liberalismo?, in «Giustizia e Libertà »,  5 marzo 1937; per un altro attacco al « fascismo » di Luigi Einaudi cfr.  La concezione filosofica del mondo, in ibidem, 1 aprile 1938. « Di rado  compaiono operai — notava il corporativista Giuseppe Bruguier recen-  sendo i Nuovi saggi —. Gli è che l’Finaudi, man mano che gli anni  passano, mi pare si faccia sentimentalmente sempre più vicino, piuttosto  che ai lavoratori delle calate del porto di Genova o alle maestranze delle  officine di Torino, ai contadini delle sue belle terre piemontesi », osservati  con « senso patriarcale » (« Leonardo », VIII (1937), p. 70).   5? L. Einaudi, Una storia universalistica dell'economia, in « Rivista di  storia economica », I (1936), pp. 258-263.    216    Le origini della casa editrice Einaudi    sulla tassazione di Wicksell, col quale Einaudi dichiara di  trovarsi « in ottima compagnia nella tendenza a non pren-  dere sul serio certi cosiddetti principî di ripartizione delle  imposte chiamati dell’uguale, proporzionale o minimo sa-  crificio ovverosia della capacità contributiva e simiglianti  vacuità senza contenuto »: la « conquista definitiva teori-  ca » di Wicksell è infatti che « non esiste un principio di  giustizia tributaria » *. In una discussione in cui, accanto a  nette differenziazioni, c’era posto per posizioni intermedie  fra corporativismo e liberismo — tipica è la figura di  Marco Fanno, collaboratore al tempo stesso della « Nuova  collana di economisti » e della casa editrice Einaudi” —,  ma anche per significativi incontri su questioni economiche  di nodale importanza, Luigi Einaudi poteva tranquillamente  combattere la teoria dell’imposta progressiva: cosî nel 1934  con la pubblicazione — preceduta da una sua prefazione  ‘elogiativa dell’autore e dell’opera svolta dai liberisti italiani  nel 1880-90 — dei Principi di economia finanziaria di De  Viti De Marco, dalla quale Edoardo Giretti traeva spunto  per un giudizio politico il cui elemento di distinzione dal  fascismo era rappresentato da una /audatio temporis acti ©,    58 L. Einaudi, Del principio della ripartizione delle imposte (a pro-  posito di una nuova collana di economisti), in « La Riforma sociale »,  XLI (1934), pp. 429-431, 435.   59 Cfr. A. Macchioro, Studi di storia del pensiero economico e altri  saggi, Milano, Feltrinelli, 1970, pp. 644-45, e il carteggio Fanno-Finaudi  in AFE, Fanno. :   6 «Lo storico che potrà un giorno, all’infuori delle passioni e dei  rancori dell’età contemporanea, discutere ed esaminare a fondo oggetti-  vamente e serenamente le cause che determinarono la crisi del 1922 e  la caduta di un regime politico-parlamentare che del liberalismo cavour-  riano aveva conservato soltanto il nome, ma non l’idea e la sostanza,  dovrà riconoscere che l’unico tentativo serio e coerente, che si era fatto  in Italia, allo scopo di prevenire la catastrofe di quel regime, da gran  tempo preveduta, fu proprio quello del gruppo liberista, del quale il De  Viti fu il capo e l’ispiratore più autorevole e più tenace », colui che aveva  osservato che i liberisti, « avendo pur sempre di mira la difesa e il  consolidamento dello Stato liberale democratico, avevano esercitato una  critica intesa a creare nel paese una più elevata coscienza pubblica contro  tutte le forme degenerative delle libertà individuali e del sistema rap-  presentativo » (E. Giretti, Un uomo e un gruppo, in «La Cultura »,  XIII (1934), pp. 28-29). Con quest'opera De Viti De Marco « aveva  dimostrato la natura autofaga dell’imposta progressiva », dità Einaudi,  Miti e paradossi della giustizia tributaria, Torino, Einaudi, 1938, p. 197 n.    217    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    e, con particolare forza, nei Miti e paradossi della giustizia  tributaria, dove il richiamo agli economisti classici si accom-  pagna ad accenti moralistici che mal nascondono la sostanza  antidemocratica del discorso:    Giova — si chiedeva Einaudi — [...] togliere coll’imposta diffe-  renziata a questi pochi [monopolisti] il guadagno di eccezione che  essi temporaneamente lucrano? No; poiché è vero che quel lucro è  ottenuto col vendere a più basso non a più alto prezzo dei concor-  renti. Se si vuole accaparrare quel lucro a vantaggio della collettività  non bisogna adoperare l’imposta, strumento stupidamente repressivo,  ma l’emulazione gli onori la lode. Giova creare l'atmosfera nella  quale il ricco giudichi se stesso disonorato e sia dall'opinione pub-  blica considerato con spregio se non consacri in vita e in morte parte  rilevante dei suoi redditi a scopi di pubblica utilità: a fondare e  dotare scuole ospedali parchi stadi.    Come ammoniva Adam Smith, « un grado assai consi-  derevole di disuguaglianza sembra essere, ove si giudichi  secondo l’esperienza universale dei popoli, un danno di  pochissimo conto in paragone con un piccolissimo grado  di incertezza ». La preferenza accordata alla « certezza »  rispetto alla « giustizia » — per cui si richiamano anche  gli scritti economici di Cattaneo — trova infine il suo natu-  rale corrispettivo, sul piano politico, nella critica alla demo-  crazia: « Chi, salvo gli egualitari, intenti ad aprire la via  al governo dei plutocrati, mai seppe che lo stato ideale si  confondesse con il governo del demo? Anche il governo  di una minoranza può essere una approssimazione all’ideale,  se la minoranza ha lo sguardo volto verso l’alto » ©; dove  l’individualismo economico e l’antisocialismo ricordano gli  aspetti più propagandistici dell’opera di Pareto, il cui  Corso di economia politica apparirà nel 1943 nella « Col-  lezione di opere scientifiche di economia e finanza ».   Anche il richiamo a Cattaneo, sopra citato, si presenta  in Luigi Einaudi nella linea di un discorso conservatore,  difficilmente assimilabile all’interpretazione « illuministi  ca » di un Salvemini o di un Gobetti e ben distante dalla  caratterizzazione democratica che — come vedremo — ne    ®! L. Einaudi, Miti e paradossi, cit., pp. 95, 239, 255.    218    Le origini della casa editrice Einaudi    darà Spellanzon nel 1942. La raccolta dei Saggi di econo-  mia rurale curata nel 1939 da Luigi Einaudi per la « Biblio-  teca di cultura economica » ebbe tuttavia il merito di rinno-  vare l’interesse attorno a una figura di cui l’idealismo si era  sbarazzato rapidamente. « Corrente di vita giovanile », la  rivista di fronda di Ernesto Treccani che prima dell’entrata  in guerra dell’Italia pubblicherà il brano cattaneano Della  milizia antica e moderna in cui la guerra ingiusta era consi-  derata preludio di sconfitta, colse in Cattaneo un modello  di serietà e di impegno ©, mentre su « Primato » Giansiro  Ferrata, dopo aver ricordato che « la lotta politica fino al  ’24 ha insistito su questo nome in tutti i toni possibili,  cogliendone ogni impulso all’azione », oppose 1’« idealismo  operativo » di Cattaneo a quello « descrittivo » di Vico  privilegiato da Croce: « se in questi anni — concludeva  all’inizio del 1940 —, come sembra vero e necessario,  alcuni pregiudizi politici ed ideologici vanno scomparendo,  dovremmo acquistare alla coltura d’oggi questo nome » £.  La riproposizione che ne faceva Einaudi era però, anche se  più puntuale, pit restrittiva, tesa a raccogliere da Cattaneo  l'invito al sacrificio, alla « edificazione della terra colti-  vata », e soprattutto il richiamo alla « certezza che gli  uomini debbono possedere di godere essi i frutti del proprio  lavoro », attuabile attraverso i « mirabili effetti » del cata-  sto: « Mentre troppi dottrinari corrono dietro a false teo-  riche di cosidetta giustizia tributaria e vorrebbero distrug-  gere le più belle tradizioni finanziarie italiane, fa d’uopo    62 S. Pozzani, Quasi una introduzione, in «Corrente di vita giova-  nile », 31 ottobre 1939: «al fondo della sua concezione politica ed  economica stava il convincimento che solo a prezzo di fatiche e di  sacrifici l’uomo può giungere a risultati positivi e fecondi {...] dalle  pagine del Cattaneo emana l’incitamento a meditate preparazioni come  base necessaria per affrontare la paziente e scrupolosa disamina dei  problemi grossi e minuti della nostra vita nazionale ». Il passo di Cattaneo  riportato si concludeva cosî: «Ma la vittoria stessa, destando la mera-  viglia delle genti e l'imitazione, nel decorso eguaglia le sorti, e riduce il  popolo stesso che aveva trascese le condizioni dell’equilibrio » (ibidem,  31 maggio 1940). Sulla rivista cfr. l'introduzione di Alfredo Luzi a Cor-  rente di vita giovanile (1938-1940), Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1975.   63 G. Ferrata, Immagine di Cattaneo, in « Primato », I (1940), pp. 27,  29; cfr. anche Id., Caztareo, in « Oggi », 25 novembre 1939.    219    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    insistere energicamente sulla virti della imposta ripartita  su basi destinate a non mutare per lungo tratto di tem-  po » *   Il Cattaneo einaudiano diventa quindi un’altra arma  contro gli « egualitari » e i socialisti, contro i quali si schie-  rano anche altri collaboratori della « Rivista di storia eco-  nomica ». Si distingue fra questi il giovane allievo di Luigi  Einaudi e Gioele Solari, Aldo Mautino, che nello studio su  La formazione della filosofia politica di Benedetto Croce —  pubblicato postumo da Einaudi nel 1941 dopo una « accu-  rata revisione » dello stesso Croce — si farà partecipe espo-  sitore della critica crociana al materialismo storico di La-  briola e si schiererà con Luigi Einaudi nel sostenere l’iden-  tità fra liberismo e liberalismo 9. Commentando la mono-  grafia di Dal Pane su Labriola e i Saggi labrioliani ripro-  posti da Croce nel 1938, Mautino osservava che la gran-  dezza del cassinate « non si deve ricercare nel campo specu-  lativo, bensi piuttosto in quello politico », in quanto gli  sembrava che i Saggi tendessero «ad una svalutazione  progressiva di quella medesima dottrina di cui si presen-  tano come interpretazione e commento »: « una costante  linea spirituale di svolgimento conduce in effetti a risol-  vere l’opposizione persistente tra la necessità escatologica  del comunismo e la libera volontà rivoluzionaria e, lascian-  do da un canto la trascendenza economica, la dialettica  della storia e la conseguente apocalissi comunistica, a far  luogo all’azione, diretta ad instaurare per convincimento    4 C. Cattaneo, Saggi di economia rurale, a cura di L. Einaudi, Torino,  Einaudi, 1939, p. 31; cfr. anche L.E., La terra è un edificio ed un arti:  ficio, in « Rivista di storia economica », IV (1939), p. 246. Il richiamo  di Einaudi a Cattaneo appare invece «illuminista » a N. Bobbio, Una  flosofia militante. Studi su Carlo Cattaneo, Torino, Einaudi, 1971, PP.  200-201.   65 Cfr. le lettere di Giulio Einaudi a Croce del 16 e 23 dicembre 1940  (AF, Croce). « A suo agio il Mautino avrebbe potuto maggiormente far  risaltare gli elementi della dottrina creduta morta da Croce in se stesso  e rimasti al contrario vivi e fecondi. Se ciò non ha fatto gli è perché  non aveva del materialismo storico, nelle sue affermazioni originali, e  nei suoi più vitali ripensamenti, quella conoscenza che sarebbe stata  necessaria », osservò F. D'Antonio, A proposito della « filosofia politica »  crociana, in « Nuova rivista storica », XXV (1941), p. 333.    220    Le origini della casa editrice Einaudi    morale, fuori da ogni attesa fatalistica, una nuova forma  di vita più umana. Onde la conclusione ideale, a cui i Saggi  medesimi sembrano rivolgersi, finisce per rinnegare quelle  stesse strutture intellettuali di cui la passione politica  aveva tentato di rivestirsi ». Fatta propria la negazione  crociana del materialismo storico come filosofia, e affermato  che nel campo speculativo il marxismo era stato superato da  Croce e Sorel, Mautino notava tuttavia la « comprensione,  profonda nel Labriola, del valore nazionale rappresentato  dal movimento operaio. Questo rigido socialista sognava  un’Italia attraverso di quello rigenerata e fatta più civile  [...]. In questo augurio di una Italia nuova consiste una  delle ragioni, e sicuramente non la minore, della “ perpetua  giovinezza” che l’antico e recentissimo editore riconosce  nell’opera del Labriola » £. Se in quest’ultima affermazione  può apparire un’acquisizione di stampo nazionalistico del  pensiero di Labriola, analoga a quella compiuta da Volpe  nella prefazione alla monografia di Dal Pane, decisamente  liquidatorio era il giudizio sul socialismo espresso da Mau-  tino nella recensione delle memorie di organizzatori operai  pubblicate da Laterza (Zibordi, Rigola, Riguzzi) e dalla  collana dei « Problemi del lavoro » (Azimonti, Zanella,  Bettinotti, Anzi, Rigola): staccato dal marxismo scienti-  fico, « il socialismo fu soprattutto una convinzione mora-  le », ma anche cosî le memorie dei suoi militanti, annotava  Mautino,    lasciano trasparire del grigiore spirituale. Pare che dopo tanto tre-  pidar di speranze e divampare di passioni e avvicendarsi di illusioni  e delusioni e travagliarsi e lottare, l’animo tendesse a volgersi di  preferenza a faccende organizzative, e di miglioramenti economici, e  di compromessi politici [...]. Ormai il vecchio socialismo moriva  senza gloria; e anche questi suoi ultimi fedeli, guardando oggi al  futuro, non sanno più ritrovare nei miti troppo facili della loro gio-  venti motivi capaci di animarli e correggerli ancora ,    6 A. Mautino, Intorno a un teorico del materialismo storico, in « Rivi-  sta di storia economica », IIl (1938), pp. 332-334.   6 A. Mautino, Memorie di organizzatori operai italiani, in « Rivista  di storia economica », IV (1939), p. 76. Recensendo il Concezto cristiano  della proprietà di J. M. Palacio curato da Fanfani per le edizioni di  Vita e pensiero, Mautino trovava modo di condannare anche il cattoli-    221    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    A sottolineare le carenze del socialismo e il primato del  liberismo interveniva autorevolmente, nel 1940, Attilio  Cabiati: notando come « da parecchi anni a questa parte il  socialismo, che pareva “relegato in soffitta” », fosse venuto  attirando l’attenzione di studiosi tedeschi ed anglo-ameri-  cani, rivolti a vagliare « la possibilità teorica di un governo  economico collettivista », affermava che tutti arrivavano  alla conclusione che « qualunque sistema economico si  adotti, ove esso miri a procurare col minimo dispendio di  forze il massimo benessere della collettività, deve soddi-  sfare a quello stesso sistema di equazioni, che in libera  concorrenza garantiscono l’utilità massima ai singoli opera-  tori sul mercato »; perciò solo lottando contro l’interven-  tismo statale, concludeva Cabiati, « l'economia potrà rifio-  rire, dimostrando coi fatti che l’azione privata, malgrado i  propri difetti innegabili, supera senza paragone possibile  qualsiasi forma di costituzione socialistica della società, che  costituirebbe l’iperbole del burocratismo, coi suoi insosteni-  bili difetti e con la formazione della peggiore oligarchia arri-  vista » £.   La battaglia antiprotezionistica dei liberisti raccolti at-  torno a Luigi Einaudi, quale si rispecchia non solo nelle sue  riviste, ma anche nei volumi di economia della casa editrice  che ora esamineremo, aveva quindi un’impronta ideologica  conservatrice e antisocialista che, se rappresenta solo una  faccia dell’iniziativa culturale di Giulio Einaudi, è forse  quella che meglio spiega la capacità di quest’ultimo di  aprirsi degli spazi di manovra nelle maglie del regime.    cesimo sociale in quanto, «al pari del socialismo democratico, la poli-  tica cattolica si volge alla plebe con le lusinghe della benedizione  pubblica e la promessa d’un paradiso nel cielo », facendosi sostenitrice  dell’interventismo statale (Cattolicesimo e questione sociale, in « Rivista  di storia economica », III (1938), pp. 79-80).   6 A. Cabiati, Intorno ad alcune recenti indagini sulla teoria pura del  collettivismo, in « Rivista di storia economica », V (1940), pp. 73-74, 110  {prendeva in esame, fra gli altri, saggi di R. L. Hall e M. Dobb).    222    Le origini della casa editrice Einaud?    3. L’impronta liberista sulla casa editrice    Di notevole interesse per valutare, non solo sul piano  ideologico, il rapporto fra il gruppo di Luigi Einaudi e il  regime è la collana « Problemi contemporanei », che per  dieci anni — dalla fondazione della casa editrice al 1944 —  riflette l'opinione dei liberisti sulla politica economica ita-  liana e internazionale, con delle valutazioni che, passando  quasi sotto silenzio gli indirizzi corporativi del fascismo,  non sono tali da costituire, nella maggior parte dei casi, un  terreno di scontro con gli economisti del regime. Il tema  di maggior rilievo della collana è la crisi del 1929 e il  New Deal rooseveltiano: un punto sul quale l’attenzione  dedicata ai problemi monetari anche dai liberisti « per-  mette loro di trovare un terreno di incontro con i corpora-  tivisti, dati gli indirizzi della politica del regime in questo  settore » ©, anche se, ovviamente, da parte fascista si cerca  di assimilare l’esperimento di Roosevelt — in quanto inter-  ventista — al corporativismo e di ricavarne quindi un’ulte-  riore giustificazione di quest’ultimo come terza via tra capi-  talismo e socialismo; mentre l’entourage di Luigi Einaudi,  nonostante uno sforzo di documentazione, manifesta dure  critiche nei confronti delle analisi catastrofiche della crisi e  della politica del presidente americano. La posizione dei  liberisti — accanto al gruppo einaudiano è da annoverare  anche quello che si raccoglie attorno al « Giornale degli  economisti » — giustifica « un giudizio di incomprensione  e di mancanza di attrezzatura teorica idonea da parte di  questi economisti rispetto ai problemi posti dalla crisi ame-  ricana. È assente la coscienza del dramma di milioni di  disoccupati e non esiste quel travaglio sull’adeguatezza dei  propri strumenti teorici che caratterizza vari economisti  americani. Vi è, soprattutto, una difesa della “scienza eco-  nomica” e delle “leggi economiche” contro la politica eco-  nomica e la politica in generale » ”. Mentre il governo    ® M. Vaudagna, New Deal e corporativismo nelle riviste politiche   ed economiche italiane, in G. Spini, G. G. Migone, M. Teodori, Italia   e sno dalla grande guerra a oggi, Padova, Marsilio, 1976, p. 108.  idem.    223    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    fascista accentuava l’intervento dello Stato nell’economia,  i liberisti cercarono di ridimensionare la portata della crisi  e di attribuirne le cause, in ultima istanza, alla politica pro-  tezionistica promossa dai vari Stati dopo la prima guerra  mondiale e, quindi, a « errori di uomini » allontanatisi dalle  « leggi economiche ».   Già nel 1931 Luigi Einaudi, svolgendo su « La Riforma  sociale » delle « riflessioni in disordine » sulla crisi, aveva  individuato nel crack del 1929 la manifestazione di quei  « cicli brevi » che « sono dominati dagli errori degli uomi-  ni » e, in quanto tali, facilmente superabili. L’insorgere di  uno squilibrio fra domanda e offerta, una delle cause della  crisi, era imputato moralisticamente a una deviazione dai  modelli tradizionali di vita delle classi inferiori aspiranti  a salire nella scala sociale. Se in Russia, osservava, « non  è concepibile crisi » in quanto domanda e offerta coincide-  vano « forzatamente » per l’intervento dello Stato soffoca-  tore della libertà e delle aspirazioni individuali, il « mo-  dello » americano, che faceva tendere ad un alto tenore di  vita tutte le classi, era un elemento perturbatore dell’equi-  librio fra produzione e distribuzione del reddito: di qui la  convinzione che « la crisi via via si attenuerà a mano a  mano che i nuovi ceti diventeranno vecchi e che il mare  sociale in tempesta si acqueterà. Ogni classe ed ogni ceto  ritornerà a poco a poco a pregiar se stesso, a vivere secondo  i propri gusti fondamentali e tradizionali », in modo che  « l’industria potrà assai meglio prevedere la domanda di  beni da parte di una società » meno fluida, meno commossa  da mutazioni e commistioni di ceti inetti a comprendersi a  vicenda e furiosamente spinti ad imitare gli aspetti più ap-  pariscenti della vita di ognuno di essi ». E, mentre negava  la « novità» della crisi presente e confutava i suggerimenti  di Keynes cosî come l’utilità di ogni piano economico,  mosso dal terrore per il « gigantismo » industriale ribadiva  il suo arcaico ideale di un mondo economico dominato dai  piccoli produttori, che si illudeva di veder realizzato in  Italia, dove « probabilmente il peso relativo della piccola  impresa famigliare, pudicamente condotta fuori degli occhi  curiosi degli statistici, è grandissimo, superiore a quanto    224    Le origini della casa editrice Einaudî    si immagina dai più. Forse quel peso è crescente. Contro i  piani internazionali, contro i consigli dei periti, la sanità  fondamentale italiana ha reagito concentrandosi nella in-  frangibile unità famigliare »: un ideale, il suo, che poteva  incontrarsi con alcuni aspetti della dottrina sociale catto-  lica e della propaganda ruralistica del regime ”.   Analoga era la posizione di Attilio Cabiati, che in Crisi  del liberismo o errori di uomini? accompagnava l’analisi dei  fenomeni economici, sufficientemente articolata, con un fer-  reo dogmatismo, affermando che « l’abbandono dei prin-  cipi economici, messi in disparte in omaggio a vere o pre-  sunte necessità politico-sociali, ha sviluppato nel mondo  intero, come “naturale” conseguenza, una serie di disastri  economici »; l’economia, aggiungeva ricordando Pareto e  Barone, « è una scienza precisa la quale obbedisce a leggi  naturali. Per cui sia che l’organizzazione economica resti  abbandonata al self interest dei singoli, sia che venga data  nelle mani dello stato sotto una forma qualsiasi, una condi-  zione è necessaria: che i privati o il ministro della produ-  zione agiscano secondo le leggi nazurali della scienza eco-  nomica » ”. Si comprende quindi come la domanda formu-  lata nel titolo del volume fosse puramente retorica, e come  Cabiati considerasse la crisi, e i mezzi messi in atto da  Roosevelt per superarla, come « errori di uomini », frutto  cioè dell’indebita ingerenza della politica nell’economia. A  sostegno di questa tesi viene proposta l’opera di uno dei più  ‘autorevoli esponenti neo-classici della London School of  Economics, Lionel Robbins, che agli insegnamenti di Mar-    7 L. Einaudi, Saggi, Torino, La Riforma sociale, 1933, parte II,  pp. 228, 373, 377, 405-410, 515. Il 17 marzo 1939 Einaudi inviava a  Mussolini una lettera in cui considerava la proposta di introdurre nel  codice civile l’« indivisibilità dei fondi rustici» un freno alla piccola  proprietà e allo sviluppo demografico del paese (ACS, Segreteria parti-  colare del Duce, Carteggio ordinario, fasc. 528771, sottofasc. 2).   7 A. Cabiati, Crisi del liberismo o errori di uomini?, Torino, Einaudi,  1934, pp. 9-11. Contro «il ricorso all’immutabilità delle cosf dette leggi  economiche, ripiego in cui si annida il falso presupposto della naturale  armonia degli interessi », espresso in un altro volume di Cabiati (Il  finanziamento di una grande guerra, Torino, Einaudi, 1941), si schierava  A. Brucculeri, Ecomozzia bellica, in «La Civiltà cattolica », 92 (1941),  vol. IV, p.. 456.    225    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    shall — cui si rifacevano, a Cambridge, pur con posizioni  diverse, Pigou e Keynes — anteponeva quelli di Pareto,  von Mises e Wicksteed. In Di chi la colpa della grande  crisi? E la via di uscita Robbins, nei cui riguardi i liberisti  italiani dimostravano una speciale venerazione, affermava  che dopo la guerra « il raggruppamento delle imprese indu-  striali in consorzi, l’accresciuta forza dei sindacati operai,  il moltiplicarsi dei controlli governativi hanno creato una  struttura economica che, quale che possa essere la sua supe-  riorità etica od estetica, è certo assai meno capace di rapidi  riadattamenti di quanto lo fosse il vecchio sistema pit  aperto alla concorrenza ». E analizzando i provvedimenti  dei vari governi — moneta manovrata e protezionismo —  scorgeva il pericolo di uno scivolamento verso il socialismo,  in parte già in via di realizzazione:    Il carattere nettamente socialistico della politica economica in  Inghilterra, e in tutto il mondo moderno, non è determinato dagli  elementi obbiettivi della situazione, o dal fatto che le masse abbian  deciso di riorganizzare socialisticamente la produzione. Se la politica  economica ha questo carattere è perché uomini d’intelletto e di cul-  tura hanno creato la teoria socialistica e hanno gradualmente conver-  tito alle loro idee le masse ?3.    Le stesse preoccupazioni per il « socialismo di Stato »  paventato dai liberisti italiani ”* sono avvertibili nella rac-    7 L. Robbins, Di chi la colpa della grande crisi? E la via di uscita,  prefazione di L. Einaudi, traduzione di S. Fenoaltea, Torino, Einaudi,  1935 (ediz. originale 1934, col titolo The Great Depression), pp. 10, 80,  219. Fenoaltea scriveva all’editore di aver fatto rivedere la traduzione da  Luigi Einaudi, e di aver proposto l’opera « per il desiderio, e quasi per  il dovere morale, che sentivo di far conoscere agli italiani questo libro  cosi bello, cosî coraggioso, e così necessario » (AE, Fenoaltea). Su Robbins  cfr. in italiano C. Napoleoni, I/ pensiero economico del ’900, Torino,  Einaudi, 1976, pp. 35-43, e l’introduzione di V. Malagola Anziani a L.  Robbins, La base economica dei conflitti di classe, Firenze, La Nuova  Italia, 1980.   74 Il 13 aprile 1934 Vittorio Racca scriveva dagli Stati Uniti a Luigi  Einaudi che « nelle riforme rivoluzionarie presidenziali americane si fa  macchina indietro a tutto spiano; il paese, sia perchè vede che la  recovery sta venendo in modo indiscutibile, sia perchè, come conse-  guenza di ciò, si rifà coraggio, sia perchè si vede che quelle riforme  ritardano, invece di favorire il ritorno della vita normale, non ne vuole  più sapere di socialismo di Stato » (AFE, Racca). Già il discorso del 1°    226    Le origini della casa editrice Einaudi    colta di saggi degli economisti di Harvard su I/ piano Roo-  sevelt: gli autori, pur dichiarandosi « ben lungi dal credere  che l’individualismo del secolo decimonono rappresenti  l’apice della perfezione per tutti i tempi », si mostrano con-  trari all’ingerenza della politica nell'economia e favorevoli  a un laissez faire corretto in modo tale da impedire lo sfrut-  tamento dell’uomo sull’uomo senza cadere nella soluzione  socialista. Mentre per Joseph A. Schumpeter « l’unico carat-  tere distintivo della presente crisi mondiale [...] è il fatto  che i motivi extra-economici recitano la parte principale del  dramma », Overton H. Taylor, trattando esplicitamente del  « conflitto fra economia e politica », sostiene che « l’inte-  resse economico effettivo di ogni gruppo o frazione di po-  polo dev'essere riposto in una generale rinunzia o severissi-  ma limitazione della “legislazione di classe” e della lotta  per il potere e l’avvantaggiamento relativo, che vi sta alla  base, salvo che qualche gruppo o classe possa realmente  sperare di condurre a compimento una soluzione sociale  secondo il modello marzistico »; tutto il suo ragionamento  è cosi indirizzato a chiedere il ristabilimento dell’economia  di mercato e a confutare i « nuovi radicali », privi di quel  « realismo economico » il quale « deve riconoscere che,  nella nostra presente situazione, l’interesse comune a una  generale ripresa degli affari onesti, dell’agricoltura e del-  l’occupazione operaia è massimamente minacciato dalla stra-  tegia del potere e delle illusioni economiche delle classi mal-  contente » *   Il giudizio sul New Deal non è sostanzialmente modifi-  cato da alcune note informative sulle riviste einaudiane o  dal reportage giornalistico di Amerigo Ruggiero *, né dalla    novembre 1934 in cui il segretario di Stato Cordell Hull si dichiarava  disposto ad abbassare i dazi doganali, era salutato come L'atto di contri-  zione degli Stati Uniti (« La Riforma sociale », XLI (1934), pp. 691-696).   7 J.A. Schumpeter, E. Chamberin, E. S. Mason, D. V. Brown, S.E.  Harris, W.W. Leontiefi, O.H. Taylor, Il piano Roosevelt, traduzione  di Mario De Bernardi, Torino, Einaudi, 1935 (ediz. originale 1934),  pp. 12, 27, 144, 150, 153.   76 Cfr. M. Einaudi, Dopo un anno di governo di Roosevelt, «La  Cultura », XIII (1934), pp. 66-67; V. Racca, Il «New Deal» roosevel-  tiano: in che consiste, e Il «New Dedl» rooseveltiano: gli effetti,  in «La Riforma sociale », XLI (1934), pp. 402-418, 555-573; A. Rug-    227    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    stessa pubblicazione di due opere di Henry A. Wallace,  ministro dell’agricoltura dell’amministrazione Roosevelt,  che pur dimostrano un intento informativo da parte della  casa editrice. Presentando Che cosa vuole l'America? —  libro nel quale Mussolini vide la conferma che anche gli  Stati Uniti andavano « verso l’economia corporativa » —,  Luigi Einaudi riconosceva per la prima volta che « il New  Deal in fondo è un nobile tentativo di far qualcosa, non  perché si sappia che quel qualcosa sarà fecondo di risultati  vantaggiosi, ma perché urge il dovere di lottare contro la  disperazione, di infondere coraggio, di impedire che milioni  di uomini si rivoltino contro la società e distruggano, nel-  l’impeto dell’ira, il risultato di tre secoli di sforzo labo-  rioso »; ma si premurava al tempo stesso di mettere in evi-  denza la « grande illusione » di Wallace 7, un « liberista »  costretto dalla realtà della crisi ad ammettere il controllo  statale sull'economia, nella speranza che la nuova epoca si  persuadesse che « l’umanità possiede oggi tanta potenza  mentale e spirituale e tanto dominio sulla natura da togliere  per sempre ogni valore alla teoria della lotta per la vita e  sostituirla con la legge più alta della cooperazione ». Wal.  lace appariva infatti combattuto fra le necessità del mo-  mento e le prospettive di più lungo periodo, prestandosi  quindi anche a una lettura non distante dalla posizione dei  liberisti italiani, preoccupati pur sempre delle tendenze  monopolistiche del capitalismo contemporaneo: poiché l’an-  tico sistema, affermava Wallace, « era il prodotto di un’avi-  dità e di un opportunismo sfrenati »,    siamo stati costretti per forza a pensare in termini non di produ-  zione e di commercio liberi, ma di produzione e di commercio pro-  grammati dentro e tra le nazioni. Il rifiuto di Adam Smith a trac-  ciare meschine piccole linee locali di confine attorno ai concetti di    giero, L’America al bivio, Torino, Einaudi, 1934. Ruggiero pubblicherà  nel 1937 presso Treves un volume sugli Italiani in America, lodato  da «Gerarchia » perchè metteva in risalto «la grandiosa opera di va-  lorizzazione dell’Italia intrapresa dal Fascismo » (XVII (1937), p. 222).  TT H.A. Wallace, Che cosa vuole l’America?, introduzione di L.  Einaudi, Torino, Einaudi, 1934 (ediz. originale 1934), p. 25 (Einaudi  dichiara di averlo tradotto lui stesso: p. 12); L. Einaudi, La grande  illusione di Wallace, in «La Cultura », XIII (1934), pp. 96-98.    228    Le origini della casa editrice Einaudi    commercio e di civiltà può tuttavia ancora adesso giustamente inco-  raggiare le menti ed i cuori a compiere sforzi più grandi. Un popolo  libero sente vivacemente il dolore del nazionalismo,    cioè del protezionismo e dell’isolamento economico *. An-  che in Nuovi orizzonti, in cui pur si vide la proposizione di  un programma « sostanzialmente identico al sistema corpo-  rativo italiano » ?, Wallace osservava la necessità di « con-  troliare quella parte del nostro individualismo che produce  l’anarchia e la miseria diffusa », assicurando che « affidarsi  a simili espedienti di redistribuzione del reddito e delle  possibilità, non ci fa cadere nel socialismo e nel comunismo.  E nemmeno costituisce il metodo dei pirati capitalistici  della scuola economica neomanchesteriana »; ma affermava  anche la temporaneità dei centrolli statali sull'economia,  per concludere con una proposta conforme agli ideali del  New Deal, ma difficilmente assimilabile a quelli del corpo-  rativismo:    La democrazia economica dovrebbe forse create i freni e i mezzi  d’equilibrio che caratterizzano la democrazia politica, ma essa deve  anche porre l’accento su un pronto ed attivo apprezzamento delle  relazioni economiche mutevoli. La democrazia economica deve tro-  varsi in posizione tale da resistere a sconsiderate pressioni politiche.  Al tempo stesso, essa deve effettivamente rispondere ed essere pron-  tamente ben disposta verso le necessità urgenti del popolo da cui  sgorga il potere.    La proposta da parte di Luigi Einaudi — che pur si  preoccupava di premettervi sue « avvertenze » — di testi  che non riflettevano soltanto le opinioni di liberisti, ma  erano passibili anche di una lettura in senso corporativista,    78 H.A. Wallace, Che cosa vuole l’America?, cit., pp. 75, 100. F.  Gazzetti osservava che «il lettore fascista avrà modo leggendo il libro  di vedere che le più indovinate istituzioni americane sono state imitate  da analoghe iniziative del Regime, persino le migrazioni interne!»  {« Bibliografia fascista », X (1935), p. 495).   79 Cfr. la recensione di E. Corbino in «Nuova rivista storica »,  XIX (1935), p. 292.   80 H.A. Wallace, Nuovi orizzonti, traduzione di M. De Bernardi,  Torino, Einaudi, 1935 (ediz. originale 1934, col titolo New Frontiers)  pp. 25, 30, 244-245.    229    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    è indice della consapevolezza che il dibattito mondiale sulla  crisi stava assumendo negli anni ’30 tendenze sempre pit  decisamente anticapitalistiche, che in Italia avevano un  qualche riscontro nelle tesi del « corporativismo di sini-  stra » e dell’« economia programmatica », che ai suoi occhi  apparivano, in quanto statalistiche, pericolosamente otien-  tate verso il socialismo *. Di qui la presentazione, accanto  a Wallace, di un autore « moderato » come Arthur C.  Pigou, che quanto meno salvasse l’essenza del capitalismo  e desse garanzie in senso antisocialista. In Capitalismo e  socialismo il successore di Marshall nella cattedra di Cam-  bridge, al termine dell’analisi di pregi e difetti dei due  sistemi economici, proponeva di mantenere « la struttura  generale del capitalismo » modificandola però gradualmente  con interventi statali al fine di « ridurre le diseguaglianze  più gravi nelle fortune e nelle occasioni di avanzamento che  offendono la nostra presente civiltà » : la proposta non era  certo tale da riscuotere pienamente le simpatie di Einaudi,  per il quale Pigou « oggi sarebbe un “New Dealer” roose-  veltiano negli Stati Uniti o un corporativista in Italia », e  appariva ingenuo nell’assumere « come verità sacrosante le  favole raccontate e rammostrate dai comunisti russi, consu-  matissimi mistificatori, ai coniugi Webb, che sono forse  stati nel campo scientifico la conquista più preziosa dei  bolscevichi » — l’allusione era alla celebre opera sull’URSS  che nel 1938 la casa editrice si rifiutò di tradurre —; ma  l'intervento dell’economista inglese si giustificava come  solido argine nei confronti dei detrattori del capitalismo:  « gli studenti di Cambridge — affermava infatti Einaudi  —-, sceltissimo fiore del paese reputato il più aristocratico  del mondo, affettano oggi quasi tutti di essere comunisti. Il  libretto di Pigou è una doccia fredda per codesti puri con-  sequenziarii » ®.    81 Cfr. L. Dal Pane, Commemorazione di Luigi Finaudi, cit., p. 312.   82 A.C. Pigou, Capitalismo e socialismo. Critica dei due sistemi, tra-  duzione di G. Borsa, Torino, Einaudi, 1939 (ediz. originale 1937), pp.  137-138.   83 Ibidem, pp. 2-4 (Avvertenza di L. Einaudi). La traduzione dell’  opera dei Webb, lodata da Umberto Calosso su « Giustizia e Libertà »    230    Le origini della casa editrice Einaudi    Destinata a una maggiore risonanza e a ricevere il plauso  dei recensori fascisti era la critica severa della società sovie-  tica svolta da William H. Chamberlin in L'età del ferro  della Russia, dove il titolo stava a indicare il periodo del  primo piano quinquennale ma anche i metodi ferrei con cui  era stato condotto. « Il libro è stato scritto prima delle  recenti manifestazioni di terrorismo all’interno e di aiuto  dato all’estero ai movimenti sovvertitori dell’ordine so-  ciale — avvertiva nel 1937, nel corso della guerra di Spa-  gna, l'editore italiano — [...]. Ma la potente analisi, tanto  più spietata quanto più obbiettivamente contenuta, dell’ab-  brutimento spirituale della Russia comunista, giustifica la  resistenza che l'Europa oppone vittoriosamente alla propa-  gazione del bolscevismo ». Con uno stile vivacissimo e con  frequenti — ma scontati e logori — raffronti fra Stalin e  Pietro il Grande, l’autore non si limitava a illustrare il pro-  cesso di industrializzazione dell'URSS, ma dedicava ampio  spazio al soffocamento delle libertà personali, civili e reli-  giose, da parte dell’« autocrate della repubblica rossa »,  un paese in cui si poteva notare « il realizzarsi di una teoria  fanatica che arreca grandi mutamenti di vita e di pensiero  ed al tempo stesso condanna alla distruzione milioni di  avversari », 0 « il risorgere in nuove forme, e sotto la ma-  schera di frasi nuove, di tipiche antiche concezioni russe  come il diritto assoluto dello stato a servirsi degli individui  e distruggerli, se cosî vuole, per il raggiungimento dei suoi  scopi ». E ciò senza che si fossero raggiunti apprezzabili  risultati dal punto di vista economico, perché, « se con il  grano, il caffè e il cotone distrutti si potrebbe idealmente  formare una montagna come monumento alle follie e alle  debolezze del capitalismo, una montagna non meno grande  si potrebbe innalzare nell’URSS con tutte le merci che sono  state sprecate e distrutte non volontariamente, ma per  effetto di incuria e di inefficienza proprio quando la man-  canza di viveri si faceva più acutamente sentire ». Di qui    (7 febbraio 1936), era stata consigliata da Alessandro Schiavi a Giulio  Finaudi, che il 18 febbraio 1938 gli rispondeva: « Ma non Le pare che  gli Autori prendano troppo sul serio l’economia programmatica dei  Sovieti? » (AE, Schiavi).    231    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    l'insegnamento di carattere generale che da questo, come  da altri volumi della collana, poteva trarre il lettore:  « L’esperimento russo ha dimostrato all’evidenza che l’eco-  nomia programmatica non è una panacea, che nel funziona-  mento di un sistema economico strettamente centralizzato  e controllato dallo stato possono verificarsi errori non meno  disastrosi delle deficienze e degli attriti di un sistema che  funzioni senza il beneficio di un piano » *. Un giudizio che,  se non poteva incontrare la piena approvazione dei liberisti,  poneva sul tappeto un quesito al quale i corporativisti af-  fermavano di aver già risposto, ma che al tempo stesso era  riformulato come ancora irrisolto dalla rivista di Codignola  « Civiltà moderna », secondo la quale « resta uno dei pro-  blemi fondamentali del regime sovietico quello di trovare  quanto individualismo sia necessario pel funzionamento  d’un sistema collettivista, cosî come in altri paesi il pro-  blema è quello di trovare quanto controllo collettivo debba  istituirsi per far bene funzionare un sistema individuali-  sta! » ®. i   Il quesito verrà riproposto, addirittura con alcuni arre-  tramenti teorici in senso liberista, nei volumi di economia  pubblicati dalla casa editrice nel 1945-46. Non è quindi da  stupirsi che nel 1944, dopo la caduta di Mussolini, appa-  risse come ultimo titolo dei « Problemi contemporanei »  curati da Luigi Einaudi un altro volume di Robbins, Le  cause economiche della guerra, dove, più che la critica    3 W.H. Chamberlin, L'età del ferro in Russia, traduzione di S.  Fenoaltea, Torino, Einaudi, 1937 (ediz. originale 1934), pp. 11-12, 21,  74, 76. « L'entusiasmo è un po’ gonfiato a causa delle circostanze, ma  in fondo il libro si meritava una buona accoglienza », scriveva l’editore  a Fenoaltea il 16 febbraio 1937 (AE, Fenoaltea). Chamberlin pubblicò  anche, nel 1937, Collectivism, a False Utopia.   85 Recensione di A. Rapisardi Mirabelli, in «Civiltà moderna »,  IX (1937), p. 444. Per Felice Battaglia il libro mostrava « l’organiz-  zazione concreta, in atto, del regime, la vita dolorosa di un popolo,  che ignora ogni attributo della persona e si consuma in un tono assai  basso di esistenza economica e morale, senza neppure supporre che  altri possa realizzare forme più soddisfacenti » (« Rivista storica italiana »,  s. V, I (1936), p. 103); «libro di informazione onesta, spassionata »,  retto dall'idea che « alla dinastia degli zar sia subentrata una dinastia  di fanatici sacerdoti marxisti», appariva al «Meridiano di Roma»  (II, 24 gennaio 1937). .    232    Le origini della casa editrice Einaudi    svolta dall’autore nei confronti della teoria leninista dell’im-  perialismo e la sua proposta degli Stati Uniti d'Europa in  quanto « non il capitalismo, ma l’organizzazione politica  anarchica del mondo è il male principale della nostra civil-  tà », interessa l’avvertenza dell’editore, che in Robbins  vedeva l’esponente di quelle forze politiche e culturali  « che intendono superare gli inconvenienti e le deficienze  della moderna civiltà capitalistica senza apportare nessuna  vera trasformazione strutturale, nessuna modificazione pro-  fonda e rivoluzionaria all’attuale organizzazione sociale »;  e, nella preoccupazione per il futuro, il lettore era invitato  a « giudicare ogni forma di riformismo e la validità degli  apporti, che possono ancora offrire le forze conservatrici  nel nuovo mondo che si prepara » *.   Mentre, nonostante questi limiti, nei testi dedicati agli  aspetti internazionali della crisi poteva passare una polemica  indiretta nei confronti della politica economica del regime,  nei volumi della collana che affrontano i problemi econo-  mici italiani è avvertibile, nel migliore dei casi, una cautela  dettata dal timore della censura fascista. Già il 28 marzo  1931, scrivendo a Luigi Einaudi a proposito dei tagli rite-  nuti necessari per un suo articolo, Edoardo Giretti affer-  mava che « è molto mortificante di non sapere più quello  che si può dire e quello che invece bisogna tacere; ma d’al-  tra parte è anche giustissima la preoccupazione di conser-  varci il mezzo di poter dire alcune delle cose che si pen-  sano e che, forse, è ancora utile di far conoscere intorno a  noi ». Sempre Giretti, parlando del volume scritto in colla-  borazione col nipote Luciano su Il protezionismo e la crisi,  che esprimeva giudizi sulla politica economica del regime,  scriveva di aver « già fatto il possibile per non dire niente  di più di quello che oggi si può dire, ma vi è sempre il peri-    86 L. Robbins, Le cause economiche della guerra, traduzione di E.  Rossi, Torino, Einaudi, 1944 (ediz. originale 1939), p. 95. Il libro era  stato proposto all’editore da Ernesto Rossi il 1° luglio 1942 (AE, Rossi).  «È meraviglioso vedere come le menti degli economisti liberali inglesi  siano aperte alle idee fondamentali del fascismo », come il corporativismo  e il concetto dell’« ordine nuovo europeo antisovietico », affermerà f. p.  [Felice Platone] recensendo il libro su « Rinascita » (II (1945), p. 191).    233    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    colo di non dimostrarsi abbastanza... reticenti » ”. Tutta-  via, proprio questo volume è fra i più coraggiosi nella pole-  mica: svolgeva, con frequenti citazioni da La condotta e gli  effetti sociali della guerra italiana di Luigi Einaudi, una  dura critica dei provvedimenti protezionistici, lodando le  « coraggiose riforme » in senso liberista di De Stefani, il cui  abbandono veniva giustificato con le « difficoltà inerenti al  generale disordine delle relazioni internazionali, ed ai con-  trasti tosto abilmente suscitati dai gruppi organizzati per  la difesa dei loro particolari interessi minacciati ». Ma os-  servava che l’isolamento economico, se poteva non danneg-  giare paesi con ampio mercato interno, era un « assurdo »  per l’Italia; in particolare Luciano Giretti, dopo aver affer-  mato che « il raggiungimento dell’autarchia, portando natu-  ralmente con sé la riduzione a zero delle esportazioni, fa-  rebbe incontrare enormi perdite agli interessi produttivi  dipendenti dai mercati mondiali », sosteneva la necessità di  tornare al liberismo, pur con tutti i suoi limiti *. Polemico  era anche il volume di De Viti De Marco che sosteneva  l’erroneità della teoria secondo la quale la banca crea cre-  dito, lodato da Einaudi che notava come « su questa teo-  ria, se ben si rifletta, riposano quasi tutte le modernissime  proposte le quali vorrebbero che la banca fosse la suprema  regolatrice del credito e della attività industriale, la leva  necessaria per risanare le crisi e far uscire il mondo dalla  depressione » ®   In altri volumi, invece, il giudizio sulla politica econo-    87 AFE, E. Giretti (lettere del 28 marzo 1931 e del 14 ottobre 1934).   88 E. e L. Giretti, Il protezionismo e la crisi, Torino, Einaudi, 1935,  pp. 54-55, 77, 143; era necessario, si afferma, « tornare a quel libero scam-  bio che, se non rende possibile un alto tenor di vita in un paese, dove  le risorse naturali sono misere, il lavoro poco produttivo e gli impren-  ditori poco geniali; se non impedisce il triste fenomeno della disoccu-  pazione dovuta alle oscillazioni del ciclo economico; se non porta  infine alla prosperità un popolo che per varie ragioni non può ottenerla,  va almeno esente da tutti i mali che della protezione sono caratteristici,  ed ha tuttavia influsso benefico nel far sf che ognuno sfrutti nel migliore  dei modi il proprio lavoro, ottenendo la massima quantità di beni in  cambio di quelli che egli stesso ha prodotto» (pp. 163-164).   8 A. De Viti De Marco, La funzione della banca. Introduzione allo  studio dei problemi monetari e bancari contemporanei, Torino, Einaudi,  1934; recensione di L. Einaudi ne «La Cultura », XIII (1934), p. 136.    234    Le origini della casa editrice Einaudî    mica del regime risulta più favorevole di quanto ci si sa-  rebbe immaginato sulla base dell’impostazione liberista  della collana. Alcuni si presentano come contributi alla solu-  zione di problemi economici concreti, come La questione  petrolifera italiana (1937) di Cesare Alimenti, che pur so-  stiene l’insufficienza dell’autarchia basata sull’uso dei suc-  cedanei del petrolio, o L'agricoltura italiana e l’autarchia  (1938) il cui autore, il senatore Arturo Marescalchi, già  sottosegretario all’agricoltura dal 1929 al 1935, espone  una serie di consigli pratici per obbedire all’invito all’autar-  chia alimentare rivolto da Mussolini nel discorso alle Cor-  porazioni del 15 maggio 1937 ”. Meritevole di un premio  dell’Accademia d’Italia è il volume sulle Sanzioni di Luigi  Federici, teso a dimostrare che « la unità di spirito di idee  di volontà che oggi noi possiamo vantare è — assieme al-  l’ordinamento corporativo — la migliore forza posta al ser-  vizio del paese per realizzare l’unità di azione necessaria  per resistere e per spezzare il blocco » ”. Comprensivo verso  i provvedimenti governativi culminati nella istituzione del-  l’IRI si dimostra lo stesso Cabiati, osservando che « quando  le classi industriali agricole e finanziarie di un paese recla-  mano ad ogni difficoltà l’aiuto dello stato, è logico che que-  sto, per ben amministrare il danaro pubblico, imponga loro  la sua tutela e la sua sorveglianza » ”. E fino ad un’esalta-    % Il 10 febbraio 1938 l’editore, annunciando a Marescalchi che il suo  volume era pronto, scriveva: « Ho pensato che il volume potrebbe essere  distribuito, a cura del Ministero dell’Agricoltura, alle Cattedre Ambu-  lanti, Scuole agricole, biblioteche provinciali, ecc.» (AE, Marescalchi).   91 L. Federici, Sanzioni, Torino, Einaudi, 1935 (II ediz. 1936),  p. 12; il 19 ottobre 1935 l’autore scriveva a Luigi Einaudi che avrebbe  redatto il volumetto «secondo lo schema da Lei suggeritomi» (AFE,  Federici). Federici, già allievo di Einaudi, era responsabile della pagina  finanziaria de « L’Ambrosiano ».   9 A. Cabiati, Crisi del liberismo o errori di uomini?, cit., p. 173;  dando notizia di un altro lavoro di Cabiati (Il finanziamento di una  grande guerra, cit.), Luigi Einaudi affermava che l’autore «ammira la  teoria germanica odierna, per cui la finanza è subordinata alla guerra ed  il ministro delle finanze non fa neppure più parte del Comitato della  politica economica; ma pone le condizioni ed i limiti dello sforzo che il  paese può sostenere per la condotta della guerra. La teoria cosî continua-  mente si rinnova, ma non rinnega, pure perfezionandole e adattandole  alle nuove esperienze, le verità antiche » (« Rivista di storia economica »,  VI (1941), p. 146).    235    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    zione retorica della politica economica del regime si spin-  geva Franco Ballarini, che non si limitava a lodare il di-  scorso di Pesaro e tutta la politica monetaria del governo o  l’istituzione dell’IRI, ma arrivava ad affermare che « in un  mondo brancolante fra puro comunismo alla russa, super-  capitalismo dei trusts o cartelli privati e capitalismo di  Stato, la luce venne dall’Italia. Si chiamò corporativi-  smo »”. Ancora più concretamente Francesco Repaci, uno  dei più fedeli collaboratori di Luigi Einaudi, lodava il rior-  dinamento della finanza locale attuato con il testo unico del  1931 e con la legge comunale e provinciale del 3 marzo  1934, specificando che la riduzione del 12% sulle retribu-  zioni del personale era stato « elemento idoneo a miglio-  rare la situazione finanziaria degli enti locali » *.   La collana non si limitò quindi a una funzione di  orientamento teorico generale, ma svolse anche una serie di  interventi su temi concreti, negando quello che era stato  un presupposto originario del suo ispiratore. Nel 1942,  presentando l’Introduzione alla politica economica di Co-  stantino Bresciani Turroni — che dopo la Liberazione  avrà anch’egli un ruolo rilevante, come presidente del  Banco di Roma —, Luigi Einaudi riconoscerà infatti che,    dopo avere lungamente creduto anch’io che ufficio dell’economista  non fosse di porre i fini al legislatore, bensi quello di ricordare,  come lo schiavo assiso sul carro del trionfatore, che la Rupe Tarpea  è vicina al Campidoglio, che cioè, qualunque sia il fine perseguito  dal politico, i mezzi adoperati debbono essere sufficienti e congrui;  oggi dubito e forse finirò col concludere che l'economista non possa  distinguere il suo ufficio di critico dei mezzi da quello di dichiara-    9 F. Ballarini, Dal liberalismo al corporativismo, Torino, Einaudi,  1935, p. 131. A Marco Fanno, giudicato da Giuseppe Bruguier molto  vicino all’ideologia corporativa (I/ corporativismo e gli economisti italiani,  Firenze, Sansoni, 1936, pp. 57-59), e autore de I trasferimenti anormali  dei capitali e le crisi (Torino, Einaudi, 1935), Luigi Einaudi chiese di  scrivere «un volumetto di Economia Corporativa » (AFE, Fanno, 30  luglio 1934).   % F.A. Repaci, Le finanze dei comuni, delle provincie e degli enti  corporativi, Torino, Einaudi, 1936, p. 61. Come giustificazione dell’in-  tervento italiano in guerra fu apprezzato dalla stampa fascista B. Minoletti,  la marina mercantile e la seconda guerra mondiale, Torino, Einaudi,  (na i Venta fascista », XIX (1940), p. 14, e «Leonardo», XII   1941), p. 62).    236    Le origini della casa editrice Einaudi    tore di fini; che lo studio dei fini faccia parte della scienza allo   stesso titolo dello studio dei mezzi, al quale gli economisti si restrin-  5   gono 9.    La collana da lui diretta fino al 1944, se non giunse a  « porte i fini al legislatore », in alcuni casi si fece portavoce  di quest’ultimo. Ma la situazione cambierà drasticamente  un anno dopo. Nell’ottobre del 1945, dal suo posto di  governatore della Banca d’Italia, Luigi Einaudi proporrà al  figlio di pubblicare una serie di volumi sui « Problemi ita-  liani » scritti « nel modo pi oggettivo possibile » — con  l’aiuto, per la raccolta dei dati, dell'Ufficio Studi della  Banca — da autori di orientamento liberista, sotto la super-  visione di Bresciani Turroni. Ma il nuovo indirizzo della  casa editrice, che pur dimostrerà una certa fatica a supe-  rare l'impostazione originaria sui problemi economici, non  poteva più accettare le proposte di Luigi Einaudi: trince-  randosi dietro il rifiuto dell’« obiettività » — che i liberisti  non avevano certo rispettato — il consiglio editoriale gli  rispose che intendeva « presentare al pubblico italiano non  soltanto un materiale di studio e di lavoro, ma anche un’opi-  nione ben definita, un orientamento costruttivo. Vogliamo  quindi che l’aspetto strettamente economico di un proble-  ma non sia scisso dal suo aspetto politico: perciò, se chie-  diamo all’autore serietà e obiettività di documentazione,  gli chiediamo anche di indicare la sua soluzione politica,  che sarà proposta alla libera discussione del pubblico » *.  E nella collana « Problemi italiani » appariranno i volumi  di Dorso, Grifone, Sereni e Grieco.    # C. Bresciani-Turroni, Introduzione alla politica economica, prefa-  zione di L. Einaudi, Torino, Einaudi, 1942, pp. 15-16. A difesa del  liberismo di Bresciani Turroni, e in polemica con un articolo di Guido  Carli su «Civiltà fascista », cfr. anche L. Einaudi, Economia di mercato  e capitalista servo sciocco, in «Rivista di storia economica», VIII  (1943), pp. 38-46. Su Bresciani Turroni cfr. la voce di Amedeo Gambino  in Dizionario biografico degli italiani, vol. XIV, Roma, Istituto della  Enciclopedia Italiana, 1972.   9% Lettera di Luigi Einaudi a Giulio del 31 ottobre 1945, e risposta  a Luigi Einaudi del 7 novembre 1945 (AE, L. Einaudi).    237    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    4. « La Cultura » e la tradizione gobettiana    Le firme dei liberisti — da Luigi a Mario Einaudi,  a Cabiati, Giretti e De Bernardi — compaiono anche su  « La Cultura », a segnalare i volumi della collana « Pro-  blemi contemporanei », ma non sono tali da caratterizzare  la rivista, centro di esperienze culturali più avanzate, che  ritroveremo in altre collane della casa editrice. Quando  appare nel 1934 per i tipi di Giulio Einaudi, « La Cultura »  si presenta completamente rinnovata rispetto alla serie di  Cesare De Lollis e a quella che le era succeduta dal 1929  al 1933, con Ferdinando Neri e Arrigo Cajumi: nuova nella  veste tipografica, vede alternarsi nel suo comitato direttivo,  accanto a Cajumi e Pavese, Sergio Solmi, Franco Antoni-  celli, Bruno Migliorini, Pietro Paolo Trompeo, Vittorio  Santoli e Norberto Bobbio, a dimostrazione di un legame  anche fisico con la precedente tradizione della rivista ma,  al tempo stesso, della volontà di un cambiamento non solo  generazionale. Mentre scompaiono molti collaboratori di  De Lollis, assorbiti dalle iniziative culturali del regime —  pensiamo ad esempio ad Alberto Pincherle, Giorgio Levi  Della Vida, Guido Calogero, Umberto Bosco o Felice Bat-  taglia, impegnati da Gentile nell’Enciclopedia italiana —,  fra i nuovi appaiono vari allievi, al liceo D'Azeglio, di  Augusto Monti, Zino Zini e Umberto Cosmo, che si rial-  lacciano per questa via alla tradizione gobettiana, rivissuta  politicamente, da alcuni, nella militanza tra le file di Giu-  stizia e Libertà”.   Novità si registrano anche nei contenuti — non più    % Il 27 luglio 1935, riferendo al Ministero dell’interno sugli arresti  del gruppo einaudiano come aderente a Giustizia e Libertà, il prefetto  di Torino scriveva: «Detta setta si serviva a Torino dell’attività della  “Casa Editrice Einaudi” la quale segnatamente con la pubblicazione della  rivista pseudo letteraria “La Cultura” era riuscita a riunire una cerchia  di intellettuali e di antifascisti ed a servirsi di redattori e collabotatori  in maggior parte ostili al Regime Fascista e noti per aver svolto in pas-  sato attiva propaganda contro il Fascismo »; e aggiungeva che Giulio  Einaudi, « all’atto del suo arresto, non esitò a riconoscere la polarizza-  zione intorno alla rivista ‘La Cultura’ di tutto il cosidetto ambiente  antifascista torinese» (ACS, Casellario politico centrale, b. 1877, fasc.  52997).    238    Le origini della casa editrice Einaudi    dibattiti sulla scuola o sulla religione, meno filosofia e più  storia, interesse per i problemi contemporanei * —, pur  nella continuità col passato, quale si manifesta nell’apertura  europea — con una particolare attenzione per la cultura  francese — e in una certa oscillazione fra crocianesimo e  anticrocianesimo, anche se quest’ultimo fu presente in mi-  sura maggiore. L’idealismo dei collaboratori della rivista  einaudiana, infatti, « conobbe sfumature molto particolari,  si atteggiò in forme proprie, cercò sempre, pit o meno luci-  damente, il contatto con esperienze diverse » ”. Pi accen-  tuata che nella critica estetica di De Lollis è, ad esempio,  l’attenzione per il metodo filologico e per la collocazione  del letterato nel suo tempo, come risulta dalle recensioni di  Cajumi, di Santoli o di Piero Treves !®. E decisamente  anticrociano è il direttore effettivo della rivista, Cajumi, che  nel 1934 si scaglia con virulenza contro la critica idealistica  rappresentata dai volumi laterziani di Luigi Russo, Elogio  della polemica e Giovanni Verga, richiamandosi alla batta-  glia contro la « critica filosofica » già condotta nel 1910 da  erra:    Fierissimi avversari del cattolicesimo temporale e delle sue pre-  tese (tanto da assumere lo stesso tono stizzoso dei contradditori), ma  conservatori con un soupgon di nazionalismo; riformatori per inse  diar la loro filosofia nella scuola, ma poi estraniati dalla rivoluzione    98 Mario Praz, fedele agli interessi prevalentemente letterari della  vecchia serie della rivista, il 1° febbraio 1934 annunciava le sue dimissioni  da condirettore a Cajumi, che gli aveva indicato le novità della serie  einaudiana: «Rivista mensile su due colonne, tipo Economist, articoli  brevi ed attuali » (AE, Praz). Il 23 gennaio 1935 l’editore scriveva a  Cabiati: «mi permetto di ricordarLe l’articolo sul piano Roosevelt. E  cosi ci tireremmo un po’ fuori ogni tanto dalla solita zuppa di critica  rita ed estetica di cui il pubblico non vuol più saperne » (AE,   abiati).   9 G. Sasso, La « Cultura » nella storia della cultura italiana, in «La  Cultura », XIV (1976) (numero speciale « Per i 70 anni di Guido Calo-  gero »), p. 82. Un accenno a Cajumi e ai collaboratori de « La Cultura »  come «un gruppo di intellettuali ben definito nella vita culturale ita-  liana », in A. Gramsci, Quaderni del carcere, cit., vol. II, pp. 1332-33.   100 Recensendo Saffo e Pindaro di Gennaro Perrotta pubblicato da  Laterza, Piero Treves riteneva necessario inquadrare i poeti nel loro  tempo: «Qualcosa, dunque, vi è, in un poeta, oltre la sua poesia, che  vale e che dura quanto e come la sua poesia » (Storia e poesia nella  Grecia arcaica, in «La Cultura », XIV (1935), pp. 46-47).    239    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    in cammino; nemici tanto del letterato puro quanto di quello politi-  cante, i seguaci dell’indirizzo propugnato dal Russo appaiono a un  osservatore imparziale un curioso impasto di contraddizioni 10,    Sul piano filosofico comincia a muoversi contro l’idea-  lismo Eugenio Colorni, pur allievo del « mistico » Marti-  netti e collaboratore della « Rivista di filosofia », già orien-  tato politicamente verso il socialismo di Lelio Basso e di  Rodolfo Morandi; la sua ricerca, incentrata intorno all’ana-  lisi del pensiero leibniziano, ha modo di esprimersi sulla  rivista in discussione con La spiritualità dell’essere e  Leibniz del cattolico Giovanni Emanuele Bariè il quale,  notava Colorni, si serviva di Leibniz « a scopi postkantiani  e idealistici », accentuando « la concezione dell’essere come  spiritualità »: era invece «una violenza che il pensiero  postkantiano fa sul nostro potere d’interpretazione e di  sviluppo, di considerare tutto ciò che non è materiale nel  senso comune della parola, come necessariamente svolgen-  tesi in forma di soggettività e di pensiero. Ora, proprio la  novità di Leibniz consiste nell’escludere questa costrizione  e nell’additare altre direzioni, diverse da quella gnoseo-  logica » !2, Si manifestava cosi in Colorni, come è stato  osservato, un « consapevole atto di rottura [....] nei riguardi  di una tradizione spiritualistica di cui l’idealismo fu l’ul-  tima incarnazione » !°,   Non mancano, talvolta, anche dirette confutazioni della    101 A. Cajumi, La colpa è della critica?, in « La Cultura », XIII (1934),  pp. 45-47; di questo articolo, dove vedeva «la condanna sommaria  di tutto quello che si è fatto negli ultimi trent'anni », si lamentava  Russo con Finaudi il 31 maggio 1934 (AE, Russo). Sull’insufficienza  del « fiuto filosofico per separare la poesia dalla non poesia » cfr., dello  stesso Cajumi, Gustave Lanson, in «La Cultura », XIV (1935), p. 19;  contrario alla « sostituzione della critica filosofica alla storica » si dimo-  stra anche Enrico Carrara recensendo Il! Quattrocento di Vittorio Rossi  (« La Cultura », XIII (1934), p. 13).   102 E. Colorni, Leibniz e una sua recente interpretazione, in «La  Cultura », XIV (1935), pp. 9-11.   108 Cosî N. Bobbio nell’Introduzione a E. Colorni, Scritti, Firenze, La  Nuova Italia, 1975, p. VI. Per l’attività politica di Colorni cfr. la voce  di E. Gencarelli in F. Andreucci - T. Detti, Il movimento operaio italiano.  Dizionario biografico 1853-1943, vol. II, Roma, Editori Riuniti, 1976, e  il profilo, non privo di accenti agiografici, che gli ha dedicato Leo Solari,  Eugenio Colorni. Ieri e oggi, Padova, Marsilio. 1980.    240    Le origini della casa editrice Einaud?    cultura ufficiale, come quando, di fronte al metodo attualiz-  zante proposto da Gentile ne La profezia di Dante, Um-  berto Cosmo — il docente torinese che nel 1926 era stato  costretto a dimettersi dall’insegnamento per l’« incompati-  bilità » fra il suo pensiero e la politica del regime — osser-  vava che « chi voglia comprendere Dante nella sua inte-  rezza discorderà probabilmente da cotesti criteri », perché  « l’infinità dello Stato, la potenza sua illimitata mi paiono  concetti moderni che il teologo Dante non poteva formulare  a se stesso » !*. Ma la più evidente linea distintiva della  rivista dalla cultura del regime, cosi come da Croce, è ravvi-  sabile nel netto richiamo ai valori dell’illuminismo negati  dal pensiero idealistico, e rimasti ai margini anche dell’inte-  resse de « La Cultura » di De Lollis. Se ne fanno interpreti  soprattutto, oltre al Antonello Gerbi !5, Cajumi e Salvato-  relli, anche se con accenti molto diversi. Per Cajumi la  rivalutazione del ’700 doveva essere fatta a spese dell’hege-  lismo e dei suoi seguaci, e ricollegando l’illuminismo all’in-  dividualismo del Rinascimento — secondo la linea interpre-  tativa esposta da Chabod nella voce IMuminismo dell’Enci-  clopedia italiana —, attraverso il tramite del libertinismo:    La nuova filosofia, sorta con facilità a cavalcioni di un positi-  vismo sfiatato e vaniloquente, giudicava e mandava dall’alto del suo  tedescheggiante idealismo, ed estranea alla cultura francese ed in-  glese, contribuiva al vituperio. Marxisteggiando, i nostri filosofi pren-  devano sotto le ali il Sorel, e covavano Bergson e Blondel. Per quei  poveri sensisti ed illuministi, che disprezzo! [...]. Il male è che un  ritorno al Settecento non può farsi senza rimandar prima in soffitta  Marx, Hegel e compagnia, castigare la democrazia, dissipar l’equi-  voco di certo neoliberalismo, non aver paura di passare per dei con-  servatori e miscredenti vecchio stampo.    14 u.c. [U. Cosmo], Le profezia di Dante, in «La Cultura», XIV  (1935), p. 16. Sulla sua figura cfr. la testimonianza di F. Antonicelli,  Un professore antifascista: Umberto Cosmo, in AA.VV., Trent'anni di  storia italiana (1915-1945). Lezioni con testimonianze presentate da F.  Antonicelli, Torino, Einaudi, 1975?, pp. 87-90.   105 « L'entusiasmo, la buona fede, lo zelo gioioso di quel tempo calun-  niato ci investono e sollevano », osservava Gerbi recensendo Les origines:  intellectuelles de la Révolution Frangaise di Daniel Mornet (Idee del Set-  tecento, in « La Cultura », XIII (1934), p. 41).    241    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    Ma i suoi accenti élitari si riscattavano in un sentito  laicismo: per salvare l'Europa « malata, non solo politica-  mente ed economicamente, ma, ciò ch'è più grave, nella  sua cultura », era necessario identificare le origini della  sua civiltà, che erano colte, alla luce de La crise de la con-  science européenne di Paul Hazard — il volume sarà tra-  dotto dalla casa editrice nel 1946 —, nell’Umanesimo e —  aggiungeva Cajumi riecheggiando forse Gobetti — nella  Riforma, dalla quale erano sorte « la libertà di coscienza, la  discussione del cristianesimo, delle affermazioni ateistiche.  Il peccato originale, l’origine unica delle razze sono battuti  in breccia; s’affaccia l’idea di progresso. La politica si lai-  cizza, e si democratizza, l’idea di Stato si disgiunge da quella  feudalisticamente monarchica. Nasce una nuova economia,  mercantile, capitalista » !”.   Pi esplicita e avanzata che in Cajumi risulta, a propo-  sito dell'Illuminismo, la coniugazione di giudizio storico e  impegno civile in Salvatorelli: recensendo nel 1934 La  polemica sul Medio Evo di Giorgio Falco — ma richia-  mando anche la Philosophie der Aufklirung di Cassirer —,  egli osservava che la valorizzazione del ’700 operata da  Falco si inseriva « in un processo di pensiero in pieno corso  e di importanza capitale, da cui usciranno ben altro che  semplici revisioni storiografiche e storico-filosofiche, come  ben altro che queste revisioni è uscito dalla svalutazione  del ’700 proseguita dal Romanticismo in poi ». E, dopo  aver ridimensionato la funzione del Papato e dell’Impero  nella storia della società medievale, con accenti antinazi-  sti — «ci si aggiungono, adesso, le strimpellature misti-  cheggianti del Sacrum Imperium (vedano, gli strimpellatori  teutonici, di accordarsi ora con l’altro misticismo razzista,  quello che fa capo a Vitichindo e a Wotan) » —, Salvato-    106 A. Cajumi, La nascita della civiltà europea e I libertini del Seicento,  in «La Cultura», XIV (1935), pp. 41-43 e 63-67. Negli stessi anni  l’opera di Hazard era accostata da E. Cione alla Storia dell'età barocca  di Croce, anche per il suo taglio etico-politico (« La Nuova Italia »,  VIII (1937), pp. 121-123). Sul significato dell’opera di Hazard, che insiste  sul tema della «crisi» anche per il momento in cui fu scritta, cfr. G.  Ricuperati, Paul Hazard, in « Belfagor », XXIII (1968), pp. 585-591,    242    Le origini della casa editrice Einaudi    relli indicava lucidamente quello che poteva essere l’inse-  gnamento dell’illuminismo:    chi volesse con un solo termine riassumere le caratteristiche del per  siero settecentesco, non potrebbe trovarne altro più adatto che quello  di « umanità ». Ed ecco perché, nella necessità di un nuovo umane-  simo per risolvere la crisi in cui il mondo civile si dibatte, il pen-  siero del Settecento ritorna oggi a splendere più vivo che mai. Per  fare, e non subire, la storia futura occorre giudicare quella passata  e non stenderci sopra il polverino 19.    Non meno significativo è in Salvatorelli il legame isti-  tuito fra Risorgimento e Rivoluzione francese — analogo  all’interpretazione espressa negli stessi anni da Aldo Fer-  rari o da Baldo Peroni sulla « Nuova rivista storica » —,  e la demistificazione della « leggenda » di Carlo Alberto !*:  temi e giudizi che ritroveremo in alcune opere dello stesso  Salvatorelli e di altri collaboratori di Giulio Einaudi.   Attraverso il discorso culturale filtrava spesso anche un  messaggio politico, che si fa talvolta esplicito sulle pagine  della rivista, ma i cui toni pi avanzati sono di stampo  liberale. Bobbio ha dato rilievo a due articoli « feroce-  mente antisoreliani » di Salvatorelli, ricordando come Sorel  fosse « uno dei numi tutelari del fascismo » !’; ma, mentre  in uno l’autore rimane sul terreno puramente culturale della  difesa dell’Illuminismo !*, solo nell’altro Salvatorelli espri-    107 L. Salvatorelli, Storiografia del Settecento, in «La Cultura », XIII  (1934), pp. 3-5.   108 Cfr. L. Salvatorelli, Napoleone, in « La Cultura », XIII (1934), pp.  95-96, e la sua recensione a G. F.H. Berkeley, Italy in the making 1815-  1846, in cui Salvatorelli nega l’esistenza di una politica antiaustriaca  di Carlo Alberto prima del 1845 (« La Cultura », XIII (1934), p. 131).  Contrario alla tesi autoctona delle origini del Risorgimento, ma anche  a quella che ne legava la nascita alla Rivoluzione francese, si dimostra  invece Cajumi nella recensione a H. Bédarida - P. Hazard, L’influence  francaise en Italie au dix-buitième siècle («La Cultura», XIII (1934),  pp. 154-155),   10 N. Bobbio, Trent'anni di storia della cultura a Torino, cit., p. 69.   110 « Sorel è lo Spengler dell’anteguerra, e Spengler il Sorel del dopo-  guerra [...]. L'opposizione di Spengler al secolo XVIII, reo di aver  iniziato l’epoca del razionalismo, è tale e quale quella del Sorel, per cui  la dottrina del progresso, fondamentale nell’epoca dell’enciclopedismo c  dell’Aufklirung, non era se non la giustificazione ideale di una socictà  datasi tutta alla gioia di vivere, e Diderot, Voltaire e simili non erano    244    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    me un giudizio politico attaccando Sorel in nome di quel  mondo prefascista verso il quale abbiamo visto volgersi il  rimpianto dei liberisti: Sorel infatti « non si rese mai conto  delle realtà di primaria importanza su cui giocava, degli  interessi sociali che rischiava di danneggiare, dei valori  umani fondamentali che vilipendeva. Tutto questo, in un  periodo storico che richiedeva la massima cautela per non  contribuire, sia pure involontariamente, a scuotere le fon-  damenta di una civiltà grandiosa, ma tutt’altro che conso-  lidata » !!!. Un atteggiamento più arretrato, decisamente  aristocratico, manifesta Cajumi che nel 1934, in polemica  con un uomo politico non certo progressista come André  Tardieu, notava in Francia «la progressiva e trionfante  sostituzione della massa all’individuo, mediante la realizza-  zione di democrazie nazionaliste, che tendono a mettersi  ognora più nelle mani dello stato, contro la garanzia di  un’assistenza economica e sociale sempre maggiore » !.  Una posizione, questa, in linea con quella già esaminata dei  liberisti; anche su « La Cultura », del resto, recensendo  gli Orientamenti di Croce del 1934 Luigi Einaudi ne acco-  glieva pienamente la « stroncatura da filosofi veri » nei con-  fronti di Spengler e della teoria marxiana della base econo-  mica della società !5; e lo stesso ex ordinovista Zino Zini,  discutendo La crise européenne et la grande guerre di  Pierre Renouvin, osservava che « nell’esame delle cause è  messa abilmente in luce la sopravalutazione — diventata  ormai quasi un luogo comune — che si ha l’abitudine di  fare di quelle economiche » !. Né era segno di distinzione  dal fascismo, nel 1934, la critica dell’ideologia nazionalso-  cialista, assai diffusa nelle riviste del regime, e che ne « La  Cultura » si manifesta nella stroncatura del Mein Karzpf    stati che dei buffoni della aristocrazia » (L. Salvatorelli, Spengler e Sorel,  in «La Cultura », XIV (1935), pp. 21-23, a proposito di Anzi decisivi  di Spengler pubblicato da Bompiani).  Ul L. Salvatorelli, I/ mito Sorel, in « La Cultura », XIII (1934), p. 63.  112 A. Cajumi, In punta di penna, in « La Cultura », XIII (1934), p. 30.  113 « La Cultura », XIII (1934), pp. 68-69.  114 Z. Zini, In margine a una storia della grande guerra, in «La  Cultura », XIV (1935), pp. 26-29. Su di lui cfr., fra i vari interventi di  G. Bergami, il suo ritratto in « Belfagor», XXVII (1972), pp. 678-703.    244    Le origini della casa editrice Einaudi    di Hitler tradotto da Bompiani — libro pieno di contrad-  dizioni e caratterizzato da una « spiccata innocenza intel-  lettuale », scriveva Salvatorelli 5 —, o nella recensione  di Luigi Emery a Friedrich der Grosse und die geistige  Welt Frankreichs di Werner Langer, in cui si metteva in  evidenza come l’autore dimostrasse l’influenza francese su  Federico II di Prussia « contro l’aureola di santone del  germanesimo della quale tardi agiografi vogliono citcon-  dare lo spregiudicato Gran Re di Prussia. Dalla sua tomba  nella Garnisonkirche di Potsdam “trasse gli auspici” con  rito solenne il regime che presiede oggi alla vita della Ger-  mania » 1°,   Non sarebbe comunque produttivo ricercare in riviste  o volumi pubblicati sotto il fascismo « segni » politici  troppo discordanti dagli indirizzi del regime. L’analisi deve  rimanere aderente ai temi culturali, per cogliere la manife-  stazione di eventuali dissonanze o contraddizioni, aperture  ideali o non meno significativi silenzi. Per questo ci sembra  necessario soffermarci, sia pur brevemente, sul « letterato »  Pavese, che con Ginzburg fu il principale collaboratore di  Giulio Einaudi nei primi anni della sua attività editoriale  e il legame pit consistente fra « La Cultura » e le iniziative  della casa editrice. Nota è, come abbiamo visto, la mili-  tanza politica di Ginzburg, che gli costò dapprima il car-  cere — dal marzo 1934 al marzo 1936 — e, dall’11 giugno  1940 al 25 luglio 1943, il confino a Pizzoli presso L'Aquila;  nonostante ciò, egli poté dedicare le sue cure, assieme a  Pavese, alla « Biblioteca di cultura storica », ai « Narra-  tori stranieri tradotti » e alla « Nuova raccolta di classici    115 «La Cultura », XIII (1934), p. 105.   116 L. Emety, Gallicanismo di Federico il Grande, in «La Cultura »,  XIII (1934), pp. 58-59; la tesi di Langer era del resto condivisa anche  da Luigi Negri sulla « Rivista storica italiana », LII (1935), pp. 238-240.  Recensendo Le civiltà d’Italia di Giovanni Vidari, Enrico De Michelis  vi notava «un eccesso di sentimento nazionalistico », pur aggiungendo  che l’opera era « ben lontana [...] da quelle fantasie di metafisica antro-  po-etnica che, dopo un periodo di stasi apparente, son tornate oggi a  predominare nella Germania di Hitler e che purtroppo costituiscono un  pericolo non lieve per la pace e per la civiltà dell’Europa e del mondo »  (« La Cultura », XIV (1936), p. 14).    245    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    italiani annotati » !”. Non ci restano tuttavia, al di là delle  testimonianze, tracce consistenti della sua attività edito-  riale, che invece è maggiormente documentabile — e fu  probabilmente pi continua — per Pavese, confinato per  più breve tempo, circa un anno, a Brancaleone Calabro.  Parlare di Pavese, all’inizio degli anni ’30, significa  soprattutto affrontare il suo interesse per la letteratura  americana contemporanea, individuabile nelle traduzioni  per Frassinelli e negli articoli su « La Cultura » — soprat-  tutto prima del 1934 —, e destinato a esprimersi in nuove  proposte di traduzione per la Einaudi. Il tema è stato af-  frontato più volte, ma spesso con forzature ideologiche o  con una insufficiente storicizzazione, tali da fornire un’im-  magine deformata, e in genere riduttiva, della figura di  Pavese !*. La differenza tra lui e Ginzburg, sul piano poli-  tico, è marcata, e lo stesso Pavese ne era cosciente quando,  coinvolto negli arresti del 1935, preparò il suo memoriale  difensivo o scrisse dal confino ad Alberto Carocci — « Uni-  co mio disinteresse — 4 aeterno e parlo colla mano sul  cuore — la letteratura politica » !. Questa affermazione,  tuttavia, non può essere assolutizzata, anche se trova con-  ferma nelle più segrete pagine del diario, in cui la politica  o è assente o è rifiutata. Infatti, pur non essendo « uomo  d’azione » ‘°, già nei primi anni ’30 il suo impegno lette-  rario, di traduttore commentatore poeta, ha una trasparente  carica civile, se non propriamente politica. La scoperta  della politica avverrà in lui, come in Giaime Pintor, solo  con la Resistenza, ma l’attenzione per la narrativa americana  indica da tempo il suo tentativo di uscire dagli angusti    117 Pavese appare «revisore» dei «Narratori stranieri tradotti » e  dei «libri di carattere storico-letterario », nella lettera di Giulio Einaudi  a lui del 27 aprile 1938 (C. Pavese, Lettere 1924-1944, a cura di L. Mondo,  Torino, Einaudi, 1966, p. 537).   118 Tali caratteristiche hanno, rispettivamente, i lavoti di N. Catducci,  Gli intellettuali e l'ideologia americana nell’Italia letteraria degli anni  trenta, Manduria, Lacaita, 1973, e di A. Guiducci, I{ mito Pavese,  Firenze, Vallecchi, 1967.   119 Lettera del 24 ottobre 1935; cfr. anche la lettera alla sorella del  26 luglio 1935 (C. Pavese, Lettere 1924-1944, cit., pp. 412, 454).   120 Cfr, D. Lajolo, Il « vizio assurdo ». Storia di Cesare Pavese, Milano,  Mondadori, 1978, p. 133.    246    Le origini della casa editrice Einaudi    limiti di una cultura nazionale provinciale e soffocante,  spinto da un’« ansia di oggettività » che è stata messa giu-  stamente in evidenza, e che lo allontana dall’ermetismo per  sostanziare le poesie di Lavorare stanca della realtà popolare  e contadina delle sue valli piemontesi !!,   Come ricorderà dopo la Liberazione,    la cultura americana divenne per noi qualcosa di molto serio e  prezioso, divenne una sorta di grande laboratorio dove con altra  libertà e altri mezzi si perseguiva lo stesso compito di creare un  gusto uno stile un mondo moderni che, forse con minore immedia-  tezza ma con altrettanta caparbia volontà, i migliori tra noi perse-  guivano [...]. Ci si accorse, durante quegli anni di studio, che l’Ame-  rica non era un altro paese, un z%ovo inizio della storia, ma soltanto  il gigantesco teatro dove con maggiore franchezza che altrove veniva  recitato il dramma di tutti !2.    Nel modo in cui, già nel 1930, Pavese parlava degli  scrittori americani in una lettera all'amico Chiuminatto,  vi era una sorta di rovesciamento dell’ottica nazionalistica  con la quale Prezzolini spiegava Come gli americani scopr:-  rono l’Italia, e l'individuazione degli elementi del « dram-  ma » comune ', In Sherwood Anderson Pavese coglieva  quella realtà industriale che intimoriva Luigi Einaudi, «i  centri fumosi e fragorosi, fattivi e ottimisti che il mondo  conosce: Cleveland, Springfield, Detroit, Akron, Pittsburg,  e, su tutti, gigantesca, la metropoli, Chicago. Le fabbriche  inghiottono tutto ». Dos Passos presenta le contraddizioni  e gli aspetti di « quotidiana tragedia » di questa società,    121 Cfr. E. Catalano, Cesare Pavese fra politica e ideologia, Bari, De  Donato, 1976, passirmz.   122 C. Pavese, Ieri e oggi (1947), ora in La letteratura americana e  altri saggi, Milano, Il Saggiatore, 1971, pp. 188-189. Sugli aspetti sociali  del romanzo americano cui si rivolgeva l’attenzione di Pavese cfr. S.  Perosa, Vie della narrativa americana. La «tradizione del nuovo » dal-  l’Ottocento a oggi, Torino, Einaudi, 1980, in particolare cap. VIII.   123 Cfr. la recensione di Pavese a Prezzolini ne « La Cultura », XIII  (1934), p. 14 e la lettera di Pavese ad Antonio Chiuminatto del 5 aprile  1930: «un buon libro europeo d’oggi è, in genere, interessante e vitale  solo per la nazione che l’ha prodotto, laddove un buon libro americano  parla a una folla più vasta, scaturendo, come scaturisce, da necessità più  profonde e dicendo cose veramente nuove e non soltanto originali, come  quelle che nel migliore dei casi produciamo noi» (C. Pavese, Lettere  1924-1944, cit., p. 190).    247    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    la « lotta ch’egli vede combattersi con coscienza di classe,  nel nostro secolo, tra lavoro e capitale ». Attraverso Walt  Whitman, « un gigante dalla camicia d’operaio aperta al  collo e dalla barba dura », un poeta che tanta fortuna aveva  avuto nei circoli socialisti, Pavese scopre che    mentre un artista europeo, un antico, sosterrà che il segreto dell’arte  è di costruire un mondo più o meno fantastico, di negare la realtà  per sostituirla con un’altra magari più significativa, un americano  delle generazioni recenti vi dirà che la sua aspirazione è tutta d'  giungere alla natura vera delle cose, di vedere le cose con occhi ver-  gini, di arrivare a quell’ultimzate grip of reality che solo è degno di  esser conosciuto !%,    Cost, attraverso l'America, è possibile la riscoperta  della realtà della propria terra, espressa nel 1936 nelle  poesie di Lavorare stanca. Dove era contenuto un messag-  gio di speranza immediatamente colto da una comunista  torinese, con due figli comunisti operanti nella clandestinità,  Elvira Pajetta:    Credevo che la poesia fosse morta — scriveva nel 1936 al mae-  stro severo di Pavese, Augusto Monti, allora in galera —. Cosî siamo  noi vecchi: quando non sappiamo più godere pensiamo volentieri che  la gioia di vivere se ne sia partita dal mondo e quando la prosa  quotidiana ha avuto ragione di noi giuriamo tranquillamente che la  poesia è defunta. Ma se il Signor Pavese scrive dei versi, se li crede  pi belli del mondo, se li stampa e li fa leggere — è certo che ho  avuto torto e son felice di ricredermi 15.    5. Storiografia e impegno civile    Giulio Einaudi seppe riprendersi abbastanza rapida-  mente, non solo attraverso le iniziative del padre, dai duri  colpi inferti dal regime, nei primi due anni di attività  della casa editrice, ai suoi collaboratori e alle sue riviste.  Prima della guerra, anche se i titoli pubblicati furono    124 Cfr. C. Pavese, La letteratura americana, cit., pp. 36, 119, 121,  138, 143.   125 ACS, Casellario politico centrale, b. 3790, fasc. 121672 (Cesare  Pavese).    248    Le origini della casa editrice Einaudi    pochi — ancora 8 nel 1937, arriveranno a 16 nel 1938 e a  24 nel 1939 —, egli riusci infatti a impostare quasi tutte  le collane più importanti, che caratterizzeranno le sue edi-  zioni fin dopo la Liberazione: la « Biblioteca di cultura  storica » (1935), i « Saggi » (1937), i « Narratori stranieri  tradotti » e la « Biblioteca di cultura scientifica » (1938),  i « Poeti » e la « Nuova raccolta di classici italiani anno-  tati » (1939). Nel 1941 la rivista « La Nuova Italia »,  espressione della casa editrice di Ernesto Codignola che  stava prendendo sempre più le distanze dal fascismo, poteva  lodare la consorella torinese che    nel giro di pochi anni [...] ha messo fronde e radici, e saldamente  stabilita nel mercato e nel pubblico, vanta ora una varietà e una ric-  chezza di iniziative (opere di scienza, classici della nostra letteratura,  una collezione storica, una di romanzi stranieri ecc.) che tutte concor-  rono ad attuare il proposito orgoglioso di riuscire centro animatore  di raccolta della più viva giovane e consapevole cultura italiana 12%.    Già prima del 1940, infatti, le pubblicazioni dell’editore  torinese sono tali da richiamare l’attenzione di intellettuali  di rilievo, e da provocare in questi significative divisioni  nei giudizi, nei quali è possibile intravedere schieramenti  contrapposti non solo sul piano culturale; ed è per questo  che ci sembra opportuno dedicare largo spazio alle nume-  rose recensioni ai volumi della casa editrice. Nonostante  la varietà dei temi affrontati dimostri una ricerca di sempre  nuovi spazi culturali che può apparire talvolta confusa e  tale da rischiare il pericolo dell’eclettismo, attraverso le  collane in cui è pi facilmente ravvisabile un impegno  civile — quella storica e i « Saggi » — è possibile seguire  gli elementi di differenziazione dall’ideologia dei liberisti  e il lento, faticoso distacco dalla cultura del regime.   La « Biblioteca di cultura storica » è la collana i cui  orientamenti appaiono pit definiti fin dall’inizio, nella ri-  cerca di una valutazione della storia italiana che si diffe-  renziasse da quella nazionalistica di Volpe e della sua scuola  o dagli accenti sabaudistici presenti negli « Studi e docu-    126 «La Nuova Italia », XII (1941), p. 157.    249    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    menti di storia del Risorgimento » curati da Gentile e  Menghini per Le Monnier, e nel tentativo, in un secondo  tempo, di aprirsi alla storiografia straniera, in particolare  quella anglosassone. Né è ravvisabile in questi anni, nel  quadro della cultura storiografica che non si richiama diret-  tamente o esclusivamente alle impostazioni di Volpe e di  Gentile, un’altra collana storica che abbia la stessa consi-  stenza e un uguale prestigio di quella einaudiana: questa  ha alcuni punti di contatto con la « Biblioteca di cultura  moderna » di Laterza e con i « Documenti di storia ita-  liana » de La Nuova Italia — dove apparvero i Discorsi  parlamentari di Cavour a cura di Adolfo Omodeo e Luigi  Russo —, ma una ben maggiore capacità di svolgere una  funzione civile, in quanto si indirizzava a un pubblico più  ampio di quello degli specialisti, tenendo « la via di mezzo  tra la dissertazione storica meramente accademica ed eru-  dita e la storia romanzata », ciò che costituiva una novità  per l’Italia !”. Dell’impostazione della « Biblioteca di cul-  tura storica » si era occupato, prima dell’arresto, Ginzburg,  che, come abbiamo visto, era in contatto con Nello Ros-  selli; a questo si rivolgeva il 4 gennaio 1934 l'editore,  chiedendogli un volume su Mazzini per la collana, « dedi-  cata per ora ad illustrare uomini ed avvenimenti di storia  italiana moderna », e che avrebbe dovuto essere inaugurata  da uno studio su Cavour di Salvatorelli. In un primo tempo  Rosselli accettò — «mi sorride che un mio libro esca  sotto l’insegna di un nome che tengo in cosî alta stima »,  scriveva a Giulio Einaudi nel febbraio 1934 —, lasciando  poi cadere la proposta, cosî come quella, avanzata dall’edi-  tore nel 1935, di riprendere — sia pur ridimensionan-  dolo — il suo progetto di una rivista storica, che Rosselli  giudicò impraticabile per la difficoltà dei tempi": il    127 Cosi Enzo Tagliacozzo nella recensione al Mazzizi di Bonomi, in  « Nuova rivista storica », XX (1936), p. 430.   128 Il 16 aprile 1935 Rosselli scriveva all’editore che « molte delle  ragioni che m’indussero a rinunziare al progetto in grande della rivista  sussistono anche per questo progetto minore [...]; metto in primo piano  la mia personale situazione e la fifa generale. Anche metto in linea di  conto la tendenza che oggi prevale, in alto, di dichiarare guerra a coltello  alle riviste indipendenti (almeno a quelle storiche), per concentrare mezzi    250    Le origini della casa editrice Einaudi    regime aveva infatti provveduto da poco a un rigido con-  trollo degli istituti storici, mentre si annunciava, anche in  questo campo, la « bonifica della cultura » di De Vecchi.  La collana si inaugurò quindi con un’opera dell’« auto-  re » per eccellenza di Einaudi in campo storico, Luigi Sal-  vatorelli ‘’. Ne Il pensiero politico italiano dal 1700 al  1870 — che ebbe molta fortuna, testimoniata dalle nume-  rose edizioni — Salvatorelli riprendeva una tematica già  affrontata su « La Cultura », per dimostrare come il pen-  siero politico italiano fosse nato nel 700, con quello « spi-  rito di umanità » già presente in Muratori, nel quale « tro-  viamo la nuova tavola di valori settecenteschi, tavola che  ignora la grandezza e la trascendenza dello stato dominanti  nella trattatistica anteriore, e destinata a risorgere con  l’idealismo hegeliano »; sulla stessa linea si muove Beccaria,  che « nega ogni concetto di un interesse, di un valore  statale distinto e superiore all'interesse e al valore degli    e appoggi su poche rivistone ufficiali. Sa che in questi giorni anche la  torinese Rivista storica ha subito una radicale trasformazione (imposta)  ed è passata al Volpe? Rebus sic stantibus, ho paura che la nostra rivista  raccoglierebbe tutti nomi ingrati, e ben presto puzzerebbe. Inoltre per  fare una rivista occorre un gruppo omogeneo di collaboratori abituali, 1)  meglio di redattori. Intorno a me questo gruppo, ora come ora, non c'è; né  io mi sentirei di far tutto da me. Le assicuro che questa mia riluttanza a  imbarcarmi nell’i impresa deriva non già da scarso entusiasmo: l’entusiasmo  in questo caso non mi difetterebbe davvero. Ma proprio perché sogno, un  giorno, di dar vita a una bella e viva rivista di studi storici, esito a realiz-  zare questo sogno in un momento cosî poco favorevole. Del resto, dovrò  recarmi a Roma, fra poco; e lf tasterò di nuovo il terreno coi miei amici.  Senza illusioni, però. Debbo proprio dirle che questa rinuncia tanto più mi  costa da quando ho capito di poter contare su di Lei come editore? ». Il 3  aprile 1935 gli aveva scritto di aver parlato della rivista con Salvatorelli,  che « vede molto di buon occhio il progetto ». Ancora nel 1937 Rosselli  proporrà a Einaudi un volume su Montanelli (AE, Rosselli). Il 4 gennaio  1934 l’editore aveva scritto anche a Luigi Russo proponendogli, per la col-  lana storica, « un volume di carattere sintetico sulle origini storiche e psi-  cologiche della nostra guerra » (AE, Russo).   29 In contatto con Giustizia e Libertà, il 16 giugno 1937 Salvatorelli  scrisse ad Amelia Rosselli che i suoi figli « vissero nobilmente dediti ad  alti ideali, e sono caduti combattendo come il fratello che li precedette.  La loro memoria rimarrà viva e alta in molti cuori» (ACS, Casellario  politico centrale, b. 4549, fasc. 89789).   Nel 1938-39 l’editore fu in contatto con un altro storico di formazione  liberale, Nino Valeri, e ancora nell’agosto 1945 si dimostrerà interessato  alla sua proposta di un volume su Filippo Maria Visconti (AE, Valeri).    251    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    individui componenti l’aggregato sociale », o Pietro Verri,  per il quale « stati forti sono quelli in cui vi è libertà indi-  viduale, stati deboli quelli dispotici ». E, mentre si accenna  all'influenza della Rivoluzione francese sull’Italia — anche  se l’unico « giacobino » preso in considerazione è Mel-  chiorre Gioia —, la genealogia gentiliana dei « profeti del  Risorgimento » è fortemente ridimensionata e corretta nei  giudizi: in Alfieri si coglie, accanto all’anelito alla libertà  politica, un chiaro « individualismo idealistico », e in Maz-  zini l’importanza del problema sociale; si mette in risalto,  prima del ’48, la superiorità politica di moderati come  Balbo rispetto a Gioberti, e, in Cavour, il suo debito verso  la Rivoluzione francese che ha fondato le libertà costitu-  zionali e la teorizzazione della separazione Stato-Chiesa  che lo statista piemontese profetizzava si sarebbe sempre  più radicata — mentre « l’era del dopoguerra ha segnato  finora una smentita alla profezia cavouriana ». Infine, dopo  aver rilevato come le antinomie di Giuseppe Ferrari fra  libertà e autorità e il suo abbozzo socialisteggiante di società  futura fossero « miscele confuse ed informi », ma rispon-  dessero a bisogni reali — « e conservano quindi ancora oggi  il loro valore » —, il lavoro di Salvatorelli terminava coe-  rentemente con l’inizio, con la figura di un autore caro  agli einaudiani, Cattaneo, che « concludeva il ciclo del pen-  siero politico italiano del Risorgimento. Lo concludeva  ricongiungendosi alle idealità che avevano ispirato la co-  scienza storica del Muratori, il riformismo giuridico del Bec-  caria e del Filangieri, la critica economico-politica del  Verri; lo concludeva riaffermando con meditata coscienza i  valori di umanità e di progresso esaltati dal pensiero del    Settecento, italiano ed europeo » !*.    130 L. Salvatorelli, I/ pensiero politico italiano dal 1700 al 1870,  Torino, Einaudi, 1935, pp. 6, 11, 40, 67, 88, 130, 200, 217, 265, 303,  320, 350, 354. Giustamente Alessandro Galante Garrone ha osservato  che, « nella complessiva valutazione salvatorelliana del Risorgimento, è  data una preponderanza forse eccessiva agli aspetti dottrinali del pen-  siero politico » (Risorgimento e Antirisorgimento negli scritti di Luigi  Salvatorelli, in «Rivista storica italiana », LXXVIII (1966), p. 534).  Sulla riscoperta dell’illuminismo italiano ne I/ pensiero politico concor-  dano comunque Walter Maturi (Interpretazioni del Risorgimento. Lezioni    252    Le origini della casa editrice Einaudî    Ingiusto appare quindi il commento di chi valutò cro-  cianamente l’opera come « un tipico esempio di storio-  grafia senza problema storico » ‘". Indicativi dell’esistenza  di una precisa tesi interpretativa nel lavoro di Salvatorelli  sono infatti, da un lato, i silenzi della « Rivista storica ita-  liana » di Volpe e della « Rassegna storica del Risorgi-  mento » di De Vecchi, cosi come la distorsione del ragio-  namento dell’autore che appare sulla gentiliana « Leo-  nardo » !“, e, dall’altro, il tono dei commenti suscitati nelle  riviste meno conformiste. Sulla « Nuova rivista storica » si  nota che Salvatorelli contrappone alla storia della ragion  di Stato la storia dell’individualismo, e che « notevole è la  ricostruzione del pensiero politico del Cavour, cosa che  raramente suole esser fatta; preziose le notizie sull’illumi-  nismo giovanile del Mazzini; il Cuoco ne guadagna e di-  venta più modesto per la interpretazione riformistico-illu-  ministica che di lui si fa (disincagliarsi dalle esumazioni  idealistico-gentiliane è già un bel vantaggio!) » !*. Più cauti,  ma improntati a simpatia per le idee dell’autore, sono i  giudizi che compaiono sulle riviste di Codignola: Enzo  Tagliacozzo si chiedeva, rilevando un limite messo in luce    di storia della storiografia, prefazione di E. Sestan, Torino, Einaudi, 1962,  p. 554) e Leo Valiani (Salvatorelli storico dell'Unità d’Italia e del fasci-  smo, in « Rivista storica italiana », LXXXVI (1974), p. 726). Lionello  Venturi scriveva invece a Salvatorelli il 26 aprile 1935: «I capitoli sul  tardo Gioberti e su Cavour naturalmente mi hanno preso di pit, come  quelli dove il pensiero ha più rapporti con la politica concreta [...].  Ma anche per Alfieri, il suo atteggiamento verso la rivoluzione, è cosf  chiaro e mi era affatto sconosciuto [...]. Noto la tua convinzione sulla  inferiorità del pensiero settecentesco. Hai ragione? Questo non so. Io  sento diversamente » (ACS, Casellario politico centrale, b. 4549, fasc.  89789). Su Salvatorelli « educatore antifascista » nella Torino degli anni  ?30 cfr. la testimonianza di Norberto Bobbio in G. Spadolini, Il mondo  di Luigi Salvatorelli, con un’antologia di scritti di Salvatorelli e testimo-  nianze di N. Bobbio, L. Valiani, A. Galante Garrone, L. Compagna, Fi-  renze, Le Monnier, 1980, pp. 65-72.   131 Cosf Ezio Chichiarelli nella recensione alla seconda edizione (« La  Nuova Italia », XIII (1942), p. 67).   13 « Troviamo i segni del nostro moderno concetto totalitario di poli-  tica proprio in quel di solito disprezzato settecento », scriveva Raffaello  Ramat (« Leonardo », VII (1936), p. 99).   133 Paolo Polese in « Nuova rivista storica », XX (1936), p. 449. Cri.  tica è invece la recensione alla seconda edizione dell’opera di Enrico  Guglielmino, sempre in « Nuova rivista storica », XXV (1941), pp. 571-575.    253    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    anche dalla storiografia, « se sia veramente possibile cogliere  il senso delle dottrine politiche isolandole dal clima sto-  rico che determina il loro sorgere », ma approvava le nota-  zioni di Salvatorelli sul « fondo reazionario dell’ottimismo  storicistico » e sulla « necessità di rivedere alcuni giudizi  idealistici passati in giudicato e non più rimessi in discus-  sione » ‘4; Paolo Treves invece, dopo aver notato che « è  un certo vezzo attuale tentar di sminuire l’importanza del  contributo francese pre e post-rivoluzionario alla specula-  zione filosofico-politica italiana », affermava che il saggio  dimostrava « quanto sia inutile la disputa recente sull’indi-  pendenza o meno del pensiero italiano in quest'epoca, per-  ché non si tratta di stabilire primati, che non esistono nella  storia delle ideologie, ma di dimostrare invece come le idee  prime tolte dal lavoro degli illuministi oltremontani fossero  rivissute e concretate con la positiva esigenza della vita  italiana, in una pit solida e netta visione storicistica » !°.   L’impegno civile dimostrato da Salvatorelli ne Il pen-  siero politico italiano — e riaffermato nella seconda edi-  zione del 1941, in cui l’inclusione degli esponenti del pen-  siero cattolico non modifica la « mentalità liberale » del-  l’autore, come notava « La Civiltà cattolica » evidenziando  il giudizio troppo severo su Monaldo Leopardi, Solaro della  Margherita, il principe di Canosa e Spedalieri '* —, sembra  attenuarsi nel Sommario della storia d’Italia. In esso Sal-  vatorelli sviluppa quella personale interpretazione dell’unità  della storia italiana che aveva espresso sinteticamente nel  1934, criticando la concezione politico-statuale di Croce e  quella di Volpe che indicava nell’alto Medioevo il sorgere  della nazione italiana — proprio « al momento in cui l’Ita-  lia si risolve in una molteplicità di organismi autonomi »,  notava Salvatorelli —, per avvicinarsi alla tesi di Arrigo  Solmi nell’individuazione di una « linea italica » presente  nella penisola già prima della conquista romana, pur ve-  dendo, a differenza di Solmi, delle soluzioni di continuità  nell’affermarsi di quel « piano statale tendenzialmente uni-   134 « La Nuova Italia », VII (1936), p. 181.   135 « Civiltà moderna », VIII (1936), pp. 87-88.   1% «La Civiltà cattolica », 93 (1942), vol. II, p. 52.    254    Le origini della casa editrice Einaudi    tario » che, interrotto dalle dominazioni longobarda e bizan-  tina, riprende slancio fra il IX e l'XI secolo !*”. La sua atten-  zione più « allo scomporsi e ricomporsi di un’unità politico-  amministrativa che a una storia del popolo italiano », come  notava Gabriele Pepe !*, si riflette anche nel Somzzario, nel  quale comunque è difficile cogliere, dietro la fitta cronistoria  dei fatti, dei giudizi caratterizzanti; questi si limitano ad  alcune notazioni sulla diffusione popolare delle idee della  Riforma o sull’influenza dell’Illuminismo francese, cui non  segue però un collegamento tra la rivoluzione dell’89 e il  Risorgimento; alla valutazione positiva sulla « epidemia di  scioperi » del primo ’900, che « fu nell’insieme un fatto  fisiologico e benefico, poiché una elevazione del tenor di  vita delle classi operaie era urgente, e perfettamente possi-  bile dato il grande incremento delle condizioni economi-  che »; per terminare con una visione sorprendentemente  limitativa dell’età giolittiana — «l’indirizzo di governo  giolittiano fu, pur con empirismo opportunistico, sostan-  zialmente liberale; ma non promosse una formazione orga-  nica di partito, e venne a favorire in una certa misura la  svalutazione del parlamento e l’autoritarismo personale »  —, e con una forzata sospensione di giudizio sul fascismo !.  Eppure il Sormzzzario, forse proprio per il suo taglio manua-  listico e asettico, poteva presentarsi assai distante dalle  retoriche deformazioni storiografiche del fascismo, e spin-  gere Mario Vinciguerra — un intellettuale liberale già  vicino a Gobetti e quindi a Luigi Einaudi — a vedere in  Salvatorelli « l’uomo che potrebbe benissimo disegnare, se  volesse, anche un programma politico » come Cesare Balbo  nel suo Sormzzzario, ma che, « vivendo in un’epoca non di    137 L. Salvatorelli, L’unità della storia italiana, in « Pan », I-II (1933-  34), vol. I, pp. 357-372.   138 «La Nuova Italia », XII (1941), p. 17. Di importanza data da  Salvatorelli al « popolo » parla invece A. Galante Garrone, Risorgimento  e Antirisorgimento negli scritti di Luigi Salvatorelli, cit., p. 529.   139 L. Salvatorelli, Sommario della storia d'Italia dai tempi preistorici  ai nostri giorni, Torino, Einaudi, 1938, pp. 635, 641. Nel 1940 il Som-  mario fu tradotto in inglese, e nel 1941 in tedesco dalla casa editrice  Junker di Berlino (ACS, Segreteria particolare del Duce, Carteggio ordi-  nario, n. 527470).    255    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    aspettative, ma di travaglio mondiale, porta necessaria-  mente nella storia uno spirito di revisione e di nuova siste-  mazione » !9.   Accoglienze analoghe non mancheranno nel 1942, come  vedremo, a un’opera dalle caratteristiche simili a quelle del  Sommario, il Profilo della storia d'Europa. Frattanto l’atti-  vissimo Salvatorelli, che nel 1937 aveva pubblicato per  l’ISPI La politica della Santa Sede dopo la guerra — lodata  da « Gerarchia » per la « larga e seria preparazione » del-  l’autore !! —, alla morte di Pio XI fa seguire immediata-  mente, nel 1939, un primo bilancio del suo pontificato,  ricco di penetranti osservazioni personali e ciò nonostante  giudicato da « La Civiltà cattolica », pur con alcune riserve,  fra tutti i libri su Pio XI « uno dei pit seri per copia di  informazioni e per sufficiente oggettività di presentazio-  ne » !£. In esso Salvatorelli, attento, come Omodeo, alle  connessioni fra storia religiosa e storia politica, notava che  nel dopoguerra erano stati «i turbamenti sociali, con il  “pericolo bolscevico”, a rimettere in valore presso larghi  ceti europei la Chiesa cattolica quale fattore di ordine e di  conservazione sociale », con la conseguente tendenza degli  Stati a cercare l'appoggio della Chiesa. È in questo clima  che si sviluppa l’azione politica, non solo concordataria, di  Pio XI, « Segretario di Stato di sé medesimo », che « ebbe  come criterio direttivo di mettere al primo posto il raf-  forzamento dell’influenza ecclesiastico-religiosa sulla socie-  tà » facendo addirittura, come Bonifacio VIII, « della rega-  lità di Cristo il titolo giuridico per il governo della Chiesa  sul mondo » — e qui « La Civiltà cattolica » replicava    140 « Nuova rivista storica », XXIV (1940), p. 419 (cfr. anche E.  Camurani, La Repubblica pene nelle lettere di Einaudi e Vinci-  guerra (Contributo alla bibliografia di Vinciguerra), in Annali della Fon-  dazione Luigi Einaudi, vol. XII, 1978, Torino, Fondazione Luigi Einaudi,  1979, pp. 519-520). Invece per Bruno Brunello, mentre il Sommario di  Balbo «era tutto animato da una fede nei destini della patria », quello  di Salvatorelli appariva « più un’esercitazione letteraria che il risultato di  un’indagine appassionata » (« Rassegna storica del Risorgimento », XXVI  (1939), p. 874). Il lavoro di Salvatorelli sarà considerato su « Primato »  « molto preciso e concettoso » (I (1940), p. 15).   141 « Gerarchia », XVII (1937), p. 371.   142 « La Civiltà cattolica », 92 (1941), vol. IV, p. 217.    256    Le origini della casa editrice Einaudi    che, al contrario, la politica concordataria aveva visto il  pontefice « pronto a cessioni e a sacrifici, pur di tener gli  Stati almeno in qualche modo uniti alla Chiesa » !* —; e,  molto nettamente, Salvatorelli metteva in luce l’antisocia-  lismo, il legame col fascismo, la lotta contro il Fronte popo-  lare francese, l'appoggio alla guerra etiopica e a Franco,  il possibilismo nei confronti della Germania nazista, come  elementi caratterizzanti l’attività del papa, per concludere  con l’appello a un « nuovo umanesimo » cristiano cui avreb-  bero dovuto ispirarsi anche i laici !4.   Il nome di Salvatorelli tornerà ancora nelle edizioni  Einaudi, sempre con grande risonanza, durante la guerra.  Prima di allora, un altro autore della casa che suscitò vasta  eco fu Ivanoe Bonomi, che abbiamo già trovato, nel 1924,  nel catalogo di Formiggini. Il suo Mazzini triumviro della  Repubblica romana, pubblicato nel 1936 e ristampato nel  1940, incontrò, per la sua esaltazione di un personaggio  storico eroicizzato dal fascismo, una favorevole accoglienza  nelle riviste « ortodosse » !, ma poté prestarsi anche ad  una lettura diversa, come era nelle intenzioni dell’autore:  cosî Tagliacozzo mise in risalto, nell’opera, il fatto che « le  preoccupazioni di politica estera e di carattere militare  non impedirono al Triumvirato di dimostrare il suo inte-  ressamento per i problemi sociali » !#; Aldo Ferrari, lo-  dando il lavoro, ricordava che la qualità di uomo politico  dell’autore, il « teorico pit chiaro equilibrato e sistematico  della corrente riformista », era « non un ostacolo bensî un    14 Ibidem.   14 L. Salvatorelli, Pio XI e la sua eredità pontificale, Torino, Einaudi,  330° in particolare pp. 19, 57, 67, 86, 129, 157, 182, 185-86, 194, 209,   145 Cfr. ad esempio «Rassegna storica del Risorgimento », XXIV  (1937), pp. 845-846; «Leonardo», VIII (1937), pp. 28-29; «Rivista  storica italiana », s. V, I (1936), fasc. IV, pp. 101-103; « Meridiano di  Roma », 3 gennaio e 31 gennaio 1937.   14 « Nuova rivista storica », XX (1936), p. 429; contemporaneamente  ‘Tagliacozzo, recensendo il Labriola di Dal Pane, richiamava l’insegnamento  di Labriola come « salutare » in un momento in cui si tendeva a « soprav-  valutare quello che vien comunemente detto il “fattore morale” » (« La  Nuova Italia », VII (1936), p. 261; cfr. anche E. Tagliacozzo, In memoria  di Antonio Labriola nel trentennio della morte, in «La Nuova Italia »,  V (1934), pp. 402-406, e VI (1935), pp. 16-20).    257    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    aiuto » alla ricerca storica !'”; mentre il crociano Edmondo  Cione opponeva l’esaltazione degli « autentici valori morali  del Risorgimento » operata da Bonomi alla tendenza, imper-  sonata da Luzio, ad « una strana “riabilitazione” dei varii  personaggi del mondo reazionario e clericale e talora per-  sino di quello poliziesco e brigantesco », e notava che « il  dramma religioso dello spirito moderno rende di perenne  attualità il pensiero del Mazzini », nel quale sono conte-  nuti « i fondamentali principi della religiosità laica del pre-  sente e dell’avvenire: la fede nel progresso storico, il valore  educativo della libertà, l'esaltazione del senso del dovere  e dello spirito di sacrificio, il senso della missione e della  dignità personali » ‘4: un giudizio che assumeva tutto il suo  significato se confrontato con quello de « La Civiltà catto-  lica », che coglieva nell’opera un « profondo anticristiane-  simo » spiegabile con la « mentalità di antico socialista »  dell’autore !9,   I contatti dell’editore con l’ex esponente del Partito  Socialista Riformista continuarono, ma gli umori della cen-  sura fascista, come quelli dei recensori, si dimostrarono  mutevoli. « L’idea di avere un altro libro Suo, sulla storia  politica del cinquantennio che precede la guerra mondiale,  mi ha entusiasmato », scriveva Einaudi a Bonomi nel no-  vembre 1938; il volume era pronto nel dicembre 1940 e,  affermava l’autore, « esso non tocca periodi... pericolosi,  ma certo illustra l’età liberale di cui ricorda le benemerenze  ed i pregi ». Tuttavia, sebbene giudicata dall’editore opera  « tutta permeata di patriottismo e basata su dati inoppu-  gnabili », La politica italiana da Porta Pia a Vittorio Veneto  non ottenne nel 1941 il visto della censura, e potrà essere  pubblicata nella collana solo nel 1944, quando l’autore  sarà presidente del consiglio. Sempre a Bonomi si rivolgeva  Einaudi nel dicembre 1937, affermando che « alcune circo-  stanze recenti mi pare abbiano reso nuovamente di attualità  il Diario di guerra di Bissolati » !. Il volume, pubblicato    147 « La Nuova Italia », VIII (1937), p. 80.   14 « La Nuova Italia », X (1939), pp. 220, 222.   14 « La Civiltà cattolica », 89 (1930), vol. I, p. 269.   150 AE, Bonomi. Da notare che, dopo una seconda edizione nel 1940,    258    Le origini della casa editrice Einaudi    nel 1935 in una collana subito abortita, « Ricordi e docu-  menti di guerra », era stato in un primo tempo seque-  strato !, ma non incontrò nemmeno le simpatie che « La  Nuova Italia » aveva riservato a Bonomi: il recensore della  rivista presentava infatti Bissolati come «uno spirito  rivolto al passato, anziché un veggente delle mete future »,  preso da una « visione umanitaristica della guerra » che ren-  deva il Diario « animato dall’innegabile patriottismo del-  l’autore, ma anche da idee che compromisero la condotta.  della guerra nei momenti decisivi » !*.   Il tono della collana conobbe del resto anche aspre  cadute, veri e propri compromessi col fascismo, come ne  I rovesci più caratteristici degli eserciti nella guerra mon-  diale 1914-18 — teso ad esaltare la capacità di ripresa delle  forze militari italiane — del generale Ambrogio Bollati,  direttore della « Rivista coloniale », autore anche, per la casa  editrice, della Enciclopedia dei nostri combattimenti colo-  niali, e, assieme al generale Giulio Del Bono, della Guerra  di Spagna sino alla liberazione di Gijon, i cui toni antico-  munisti furono apprezzati, fra gli altri, da Eugenio Passa-  monti '*. Di impronta nettamente antidemocratica è anche  il Massimo D'Azeglio politico e moralista di Paolo Ettore  Santangelo, autore di altri mediocri studi risorgimentali: un  volume che, accompagnato da un giudizio favorevole del-  l’Accademia d’Italia, presenta fin dall’inizio le sue creden-    Bonomi chiederà a Einaudi, nell'ottobre 1945, una terza edizione del  Mazzini, perché « il libro usci in periodo fascista quando la sua diffusione  trovava ostacoli d’ogni genere. Io poi terrei molto a diffondere quel mio  libro che, in questa ora, avrebbe un significato di attualità » (ibidem).   151 Il Diario fu sequestrato nel giugno 1934 per le sue critiche all’ope-  rato dei comandi militari (ACS, Segreteria particolare del Duce, Carteggio  ordinario n. 528771, sottofasc. 1). Il 2 luglio 1934 Luigi Einaudi, dopo  aver detto di essere stato lui a consegnare il manoscritto del Diario al  figlio, chiese udienza a Mussolini (ACS, Segreteria particolare del Duce,  Carteggio riservato, b. 70).   152 Carmelo Sgroi ne « La Nuova Italia », IX (1938), pp. 300-301.   153 « Rassegna storica del Risorgimento », XXVI (1939), pp. 258-260;  cfr. anche « Leonardo », IX (1938), pp. 66-68. Il 25 gennaio 1938 l’editore  scriveva a Del Bono di essere lieto che il volume sarebbe stato tradotto  in tedesco (AE, Del Bono). Bollati e Del Bono saranno autori de La  campagna germanica în Polonia, Roma, Unione editoriale d’Italia, 1940,  e Bollati de L'Europa contro il bolscevismo, Roma, La Verità, 1942.    259    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    ziali metodologiche con la difesa della teoria élitaria —  « sono le aristocrazie che dappertutto nella storia hanno  fondato l’ordine nuovo, lo stato saldamente costruito » —  e con la negazione di qualsiasi influenza del fattore econo-  mico nel processo storico, sostenendo che l’idea di nazione  « nasce molte volte come creatura puramente spirituale,  non solo indipendentemente, ma anche in contrasto con  precisi interessi materiali ». E mentre cerca di giustificare  l’« intermittenza di temperamento » di Carlo Alberto, alla  politica mazziniana « astratta » l’autore contrappone quella  di D'Azeglio, del cui carattere « democratico » presenta  un’immagine quanto mai singolare:    L’Azeglio dunque respinge l’idea democratica, non solo nei casi  di urgenza [...], ma anche come dottrina assoluta, che sarebbe as-  surda in teoria e inattuabile in pratica. Egli è democratico in un  senso superiore e più generale, in quanto non crede a privilegi di  nascita e dà per compito allo stato di venir incontro ai bisogni del  popolo, trattando tutti i cittadini su un piede di uguaglianza; è  dunque democratico nel senso costituzionale, più nello spirito che  nella lettera: la prassi democratica, essendo una specie di materia-  lismo e prestandosi facilmente alle mistificazioni, gli è in genere  sospetta 1%,    Tuttavia, con l’apertura a tematiche non italiane —  affrontate sempre con quel taglio narrativo che poteva ren-  derne agevole la lettura anche ai non specialisti —, già  prima della guerra la collana acquista un maggior peso cul-  turale e civile. Se solo con l’opera di Louis Villat su La  Rivoluzione francese e l’Impero napoleonico (1940) si  raggiunge un solido impianto storiografico che sostanzia la  narrazione dei fatti e in cui hanno largo posto, soprattutto  nelle appendici sullo « stato attuale delle questioni », temi    15 P.E. Santangelo, Massimo D'Azeglio politico e moralista, Torino,  Einaudi, 1937, pp. 16-17, 78, 99, 286. II 6 agosto 1937 Santangelo chie-  deva all'editore di poter apportare alcune correzioni al lavoro, « dietro  amichevole suggerimento di un alto personaggio dell’Accademia d’Italia »  (AE, Santangelo). Luigi Bulferetti criticò la distinzione operata dall’autore  nel Risorgimento, tra «idea astratta » di Mazzini e «azione politica »  dei moderati (« Rivista storica italiana », s. V, III (1938), fasc. II, pp.  n e « Rassegna storica del Risorgimento », XXV (1938), pp. 1584-    260    Le origini della casa editrice Einaudi    economico-sociali — tanto che Carlo Morandi vi vede domi-  nare, «e talvolta in modo troppo esclusivo », le tesi di  Albert Mathiez '* —, si fa ricorso anche a storici non pro-  fessionali, in grado tuttavia di esprimere un orientamentò  politico. È il caso del Talleyrand di Alfred Duff Cooper, già  ministro della guerra del gabinetto britannico, e quindi  Primo Lord dell’Ammiragliato dal maggio 1937 all’ottobre  1938, quando, dopo Monaco, presentò le dimissioni per là  sua politica contraria all’appeasemzent, ed esponente del  gruppo dei « giovani conservatori » nella cui mentalità —  avvertiva l’editore italiano — « si bilanciano una certa spre:  giudicatezza d’idee e una tendenza al positivo e al concreto  nell’applicazione alla vita vissuta ». Egli svolge, sotto le  vesti di una biografia romanzata — in cui peraltro si preoc-  cupa di affermare la necessità che «i cambiamenti nel  metodo di governo siano graduali », e di notare che « gli  uomini di estrema, a qualsiasi partito appartengano, diven-  gono sempre germi di dissoluzione in un organismo poli-  tico » —, un elogio della coerenza di Talleyrand nel porre  « la nazione francese al di sopra degl’interessi particolari  dei regimi che in un certo momento la governano », e pre-  senta il diplomatico francese assertore di una politica di  alleanze fra le potenze capace di portare all’unificazione  europea: lo considera infatti, per usare le parole dell’editore  che fa propria la tesi di Cooper, « come un uomo moderno,  fors’anche come un nostro contemporaneo », poiché le sue  idee « si riportano al problema della pacifica organizzazione  dell’Europa che attende ancora una vera e sicura solu-  zione » !*. Vinciguerra — che pur aveva curato l’opera —  poteva affermare, da un punto di vista strettamente storio-  grafico, che « non si può accettare neanche con riserve » la  tesi « della modernità democratica e pacifista nella politica  estera » di Talleyrand '”, ma dimostrava di non cogliere il    155 « Primato », I (1940), n. 5, p. 24 (siglato CM.).   15% A.D. Cooper, Talleyrand, a cura di M. Vinciguerra, Torino, Einau-  di, 1937 (ediz. originale 1932), pp. VIII, X, 294. Cooper fu autore di  Ceux qui osent répondre è Hitler, après Munich, Paris, Édinions Nantal,  1938.   157 « Nuova rivista storica », XXIV (1940), p. 99.    261    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    significato politico di un’opera apparsa in italiano in un  anno cruciale per le sorti dell'Europa: messaggio che era  assai esplicito, se da un’altra ottica ideologica il commen-  tatore di « Leonardo » osservava che « la vita del grande  diplomatico è pretesto a ribadire la concezione diremo cosi  ufficiale della politica britannica improntata ad un conser-  vatorismo pacifista di cui sarebbe garanzia imprescindibile  una stretta intesa anglo-francese » !*.   E ancora nel corso della guerra poteva essere accolto  il messaggio di pace affidato al romanzo sul conflitto russo-  giapponese di Frank Thiess, Tsushimza, tradotto nel 1938  sotto gli auspici dell'Ufficio storico della Marina e giunto  nel 1945 all’ottava edizione, che prima dell’attacco all’  URSS suscitò accenti di umana comprensione anche sulle  pagine di « Critica fascista »: 7    . Fra quel popolo russo di martiri grigi, nel cui seno covava la  rivoluzione, e questo popolo giapponese di tenaci e sorridenti lavo-  ratori, la simpatia umana del lettore, e fors’anche dell’autore, finisce  col bilanciarsi: e non è forse senza un presago significato che il libro  si chiuda con la visione luminosa del porto di Jokohama, in cui  centinaia di piccoli russi e di bimbi giapponesi giocosamente s’incon-  trano e si sorridono pur senza capirsi ancora!,    6. « Cultura della crisi » e spiritualismo    Nella seconda metà degli anni ’30 uno dei messaggi  più consistenti di cui comincia a farsi portatrice la casa  editrice è tuttavia di altro tipo, e tale da prestarsi a letture  diverse sul piano ideologico e politico. Si tratta di quel filo-  ne spiritualista che si riallaccia alla « cultura della crisi » svi-  luppatasi in Europa dopo il 1929 con svariate manifesta-  zioni, da quelle politiche dei « non conformisti » francesi  che potevano giocare « un ruolo oggettivamente pro fa-    158 Sergio Martinelli in « Leonardo », VIII (1937), p. 406; come  « biografia romanzesca » l’opera era liquidata da Luigi Bulferetti (« Ras-  segna storica del Risorgimento », XXV (1938), p. 1437).  " ; G.A. Longo in « Critica fascista », XIX (1941), p. 119 (15 feb-  raio).    262    Le origini della casa editrice Einaudi    scista » ‘9, a quelle del mondo cattolico, assai più ambigue  perché difficilmente si concretizzavano sul terreno politico,  ma comunque decisamente anticomuniste e antidemocra-  tiche — più ancora che antinaziste —, come nel caso dei  cattolici italiani che individuavano nella Chiesa l’ultimo  baluardo della civiltà, pur senza mettere in discussione il  fascismo !. Anche in Italia questa ondata irrazionalistica,  tesa a mettere in discussione i valori « materiali » della  civiltà contemporanea, fu alimentata in particolare dagli  ambienti cattolici, ma investî anche quelli laici, a indicare  la presenza di un profondo disorientamento e la ricerca di  nuove o antiche certezze: e l’insofferenza per l'ordine costi-  tuito poteva seminare dubbi in un mondo politico, come  quello italiano, in cui il fascismo sbandierava le sue inoppu-  gnabili verità. Il pericolo era avvertito dal regime, se nel  suo ambito si poteva parlare, a proposito della Kulturkrisis,  di manifestazioni « patologiche » della cultura contempo-  ranea, augurandosi che « allo storico futuro non abbiano a  sfuggire le varie e numerose manifestazioni del genere:  perderebbe con esse una delle più eloquenti testimonianze  di quel singolare squilibrio logico e morale che imperversò  in questi anni »!. Motivi spiritualeggianti, talvolta a  sfondo religioso, sono presenti anche nelle edizioni di  Giulio Einaudi, che fra gli scopi della sua iniziativa nel  periodo fascista annovererà anche quello di « contrapporre  all’ottimismo ufficiale un senso profondo e inquieto dei  problemi del momento » !*; ed è significativo che negli  stessi anni Guanda inaugurasse una collana di « Testi per  una religione universale », e che perfino Laterza ne dedi-  casse una agli « Studi religiosi, iniziatici ed esoterici », dove    10 Cfr. R. De Felice, Mussolini il duce, I. Gli anni del consenso  1929-1936, Torino, Einaudi, 1974, pp. 545-549.   161 Cfr. R. Moro, La formazione della classe dirigente cattolica (1929-  1937), Bologna, il Mulino, 1979, cap. IX.   1@ Cosi il « Meridiano di Roma » del 10 gennaio 1937, nella recen-  sione a René Guénon, La crisi del mondo moderno, Milano, Hoepli, 1937  (con prefazione di J. Evola). Sui precedenti italiani di questa tematica cfr.  E. Garin, Gli italiani e la crisi europea, in « Terzo programma » (1962),  n. 3, pp. 168-176.   163 AE, G. Einaudi.    263    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    circolò il pensiero antroposofico di Rudolf Steiner che tanto  colpi il giovane Eugenio Curiel '#, « Che il mondo attraver-  si al presente un periodo di grave scompiglio, foriero di più  fosche vicende per l’avvenire, non c’è alcun dubbio fra  quanti hanno un uso passibilmente normale delle proprie  ‘facoltà intellettuali », osservava nel 1938 padre Brucculeri  su « La Civiltà cattolica » passando in rassegna alcuni libri  .sulla «crisi odierna » !9: fra questi, La crisi della civiltà  di: Johan Huizinga tradotto da Einaudi nel 1937, che ebbe  una seconda edizione già l’anno successivo.   4. Il pampblet dello storico olandese, dal titolo originario  Nelle ombre del domani, faceva esplicito riferimento alla  crisi del ’29 cui era attribuita « la sensazione della minaccia  di. un tramonto e del progressivo dissolversi della civiltà »  icome mai si era avuta nel recente passato, se non all’inizio  del secolo con « il pericolo di una rivoluzione sociale che  il marxismo faceva balenare di tanto in tanto ». « Vedia-  mo distintamente come quasi tutte le cose, che altra volta  ci apparivano salde e sacre, si siano messe a vacillare: verità  e. umanità, ragione e diritto », affermava accoratamente  Huizinga, la cui analisi della crisi, cosî come le soluzioni  «indicate, presentano elementi di ambiguità che danno ra-  :gione delle letture diverse cui dette luogo. Da un lato si  :scaglia contro il razzismo, contro Sorel « padre spirituale  degli odierni regimi totalitari », contro le filosofie vitali-  «stiche, la dottrina della « autonomia morale dello stato » e  «quella dello « stato-potenza privo d’ogni freno »; dall’altro  la sua critica non è meno dura nei confronti del marxismo,  in quanto osserva che « né il secolo XVI né il principio  dell'Ottocento vide mai minare con sistematica coerenza  l’ordine e l’unità sociale mediante una dottrina quale quella  dell’odio di classe e della lotta di classe », e a questa acco-  muna « la dottrina della relatività della morale, insegnata    ._. +16 Cfr. ora N. Briamonte, La vita e il pensiero di Eugenio Curiel,  Milano, Feltrinelli, 1979, pp. 20-24.   IS A, Brucculeri, La crisi odierna, in «La Civiltà cattolica », 89  (1938) vol. I, p. 326: accanto a Guénon e Huizinga esaminava Quel che  o e quel che nasce del cattolico Daniel Rops (Brescia, Morcelliana,    ‘264    Le origini della casa editrice Einaudi    sia dal sistema scientifico del materialismo storico, come:  dai sistemi psicologici che derivano da Freud »; accuse  altrettanto dure sono lanciate contro il « superficiale razio:'  nalismo del secolo XVIII », il cui « disastroso effetto » fu  di « sradicare il concetto del servire dalla coscienza popo-  lare », e contro il progresso in generale, aristocraticamente  giudicato una «ingenua » illusione dell’800. Da questa  analisi scaturiva la proposta di un « nuovo ascetismo » —  di cui forse era un’eco parziale il « nuovo umanesimo »  auspicato da Salvatorelli —, che « non sarà un ascetismo:  della negazione del mondo per amore della salvezza celeste,  ma del dominio di sé e di un’attenuata stima del potere e  del godimento » !*: un invito che non poteva trovare d’ac-  cordo « La Civiltà cattolica » che, pur approvando nelle  linee generali la parte analitica del lavoro di Huizinga,  obiettava come la ricerca di « certe verità eterne » non  potesse fare a meno di chi ne era il depositario naturale;  il papato, che con Pio XI si era dedicato « alla difesa della.  nostra civiltà; quindi le sue proteste contro il bolscevismo,  contro il nazismo, contro il governo tirannico del Messico,  contro le nefandezze dei rossi nella Spagna » !”.   Critiche globali al volumetto dello storico olandese  provennero da ambienti culturali diversi: recensendone su:  « Leonardo » l’edizione tedesca, Cantimori, forse già « se-  mi-marxista » — come si dichiarerà più tardi —, ma co-  munque attivamente impegnato nella difesa degli orien-  tamenti politici del regime, lo considerò « lo sfogo di uno:  spirito d’artista individualistico, liberaleggiante, contro  questo mondo moderno, che non gli va », aggiungendo —:    16 J. Huizinga, La crisi della civiltà, Torino, Einaudi, 1937 (ediz.  originale 1935), in particolare (citiamo dall’edizione einaudiana del 1962).  pp. 4, 15, 25, 31, 40, 51-53, 63, 85, 97, 141, 153-154. Il 13 novembre  1937 Gherardo Casini, direttore generale per la stampa italiana, assicurava  Luigi Einaudi di aver già provveduto ad assicurare la diffusione del saggio  di Huizinga (AFE, Casini). Enzo Paci ha osservato che «l’ideale di  salvezza che Huizinga propone alla civiltà contemporanea è un ideale  etico-razionale nel quale rinascono in una specie di neogiusnaturalismo  le vecchie idee di Grozio. Quest’ideale finisce per fondersi con una conce-  zione cristiana del fine della vita » (Johan Huizinga, in « Terzo program-  ma », (1962), n. 3, p. 167).   167 A. Brucculeri, La crisi odierna, cit., p. 330.    265    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    ma il passo sarà espunto dalla riproduzione di questo giu-  dizio nell’introduzione che Cantimori farà alla nuova edi-  zione einaudiana del 1962 — che « questa patetica laudatio  temporis acti potrebbe anche interessarci, potrebbe essere  utile a chi volesse rendersi conto dello stato d’animo di  tanta parte della odierna cultura europea di fronte alla rivo-  luzione sociale che in Europa si va compiendo, se non si  mischiasse di politica, e a questo modo non irritasse il  lettore di un paese cosî impegnato nella lotta politica e  sociale di oggi come questa nostra Italia » '#. Analogo il  giudizio espresso sulla « Nuova rivista storica » da Mario  M. Rossi, che lo defini « lo sfogo pit o meno poetico di un  laudator temporis acti, come in mille epoche già ne abbiamo  uditi », e lo avvicinò a Dawson, ad Huxley e alle ultime  teorie sulla morale di Bergson !. Anche i giovani di « Cor-  rente » dichiararono di non consentire con la « speranza che  la scienza possa divenire saggezza », in quanto « non dal  sapere, ma dal concreto tumulto della vita nascono i pro-  blemi e le soluzioni » ‘*, e quelli de « La Ruota », pur  vedendo nel libro il « prodotto spontaneo di un cuore sin-  cero », vi colsero « opinioni superate e irrigidimenti dottri-  nari tutt'altro che accettabili » !, D'altro lato è interessante  notare come, nell’ambito di un giudizio sostanzialmente  positivo, in ambienti culturali opposti si cogliesse l’occa-  sione per polemizzare con l’idealismo e lo storicismo cro-  ciano: « La Civiltà cattolica » criticò infatti il « plauso  della filosofia tedesca » fatto da Huizinga, che invece  « avrebbe potuto rintracciare nelle costruzioni filosofiche  alemanne, nel kantismo particolarmente e nell’hegeliani-  smo, le scaturigini principali e remote della decadenza del  pensiero, dello scetticismo morale, della autonomia della  politica e della statolatria e di altrettali degenerazioni,  contro le quali egli scrive delle pagine brillanti e quanto    168 « Leonardo », VII (1936), p. 383.   16 « Nuova rivista storica », XXIII (1939), p. 145.   170 G.M. Bertin, La crisi della cultura e il problema della scienza, in  « Corrente di vita giovanile », 15 febbraio 1940.   I7l M. Cesarini ne « La Ruota », II (1938), n. 1, p. 100 (era esami-  nato anche H. Keyserling, La rivoluzione mondiale e la responsabilità  dello spirito, Milano, Hoepli, 1935).    266    Le origini della casa editrice Einaudi    mai proficue » !; e su « La Nuova Italia » Alfredo Parente,  dopo aver giudicato il libro « altamente pregevole come  sincera espressione di un vivo travaglio e di preoccupazioni  e turbamenti che sono preoccupazioni e turbamenti dell’in-  tera umanità presente », ne traeva spunto per affermare che  « la ormai diffusa concezione idealistica, che il male e l’er-  rore giustifica e redime nell’ordine della vita spirituale, e  il congiunto ottimismo, che non indulge alla disperazione e  ispira la più estrema fiducia nella vittoria definitiva del  bene, possono essere un pretesto di fatalistica inoperosità  nella coscienza degl’imbecilli e dei neghittosi, e un istru-  mento di malizia nelle mani dei disonesti che da quella  concezione filosofica credono di poter trarre la giustifica-  zione e l’approvazione del loro qualsiasi operare »; e,  dichiarandosi d’accordo con Huizinga nel veder conculcati  i valori morali, si spingeva in un invito all’azione assai  distante dalla proposta di un « nuovo ascetismo »:    sappiamo che gli animi dotati della sensibilità morale dello scrittore  olandese, silenziosi custodi pure in tempo di burrasca e di travolgi-  menti dei valori dello spirito, son molti, nonostante le loro voci  siano sommerse da un assai crudo e talora bestiale clamore dei  popoli. Soltanto non bisogna adagiarsi e cullarsi in quella certezza,  col rischio che il ritorno della serenità e della luce sia ritardato dal-  l’opera di coloro, cui quella speranza non lusinga e altri meno eletti  ideali stimolano o imbestialiscono !?3,    « Ma l’autore non è né uno storico, né un politico, né  filosofo: è, mi pare, un buon cattolico » che sorvola sui  problemi della politica e dello Stato, scriveva a Giulio  Finaudi, dopo aver letto Huizinga, il meridionalista di tra-  dizione salveminiana Tommaso Fiore, invitando l’editore  a «pubblicare storia in concreto » !*. Accenti spirituali-    172 A. Brucculeri, La crisi odierna, cit., p. 330.   173 « La Nuova Italia », IX (1938), pp. 324, 326.   174 AE, Fiore, 6 gennaio 1938; come esempio di « storia in concreto »  il 26 dicembre 1937 Fiore aveva proposto la traduzione di Richard  Freund, Watch Czechoslovakia! (1937): «Non è un libro antifascista e  non si ‘può dire una difesa della democrazia (molto meno della Cecoslo-  vacchia), ma si capisce che la difesa della democrazia è un sottinteso e le  simpatie per la borghesia ceca e pel “Socrate di Praga” sono naturali e  profonde ». Fiore, nel ’38, auspicava anche « manuali di geografia politica,  fatti senza aridezza, in cui il senso politico sia profondo » (ibidem).    267    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    stici, di chiaro stampo cattolico, riappaiono invece ne La  formazione dell’unità europea di Christopher Dawson. L’au-  tore di Progress and Religion (1929), di cui « La Civiltà  cattolica » aveva fatta propria « l'impressione di vedere già  sorgere una nuova società, che disconoscerà ogni gerarchia  di valori, ogni disciplina intellettuale, ogni tradizione sociale  e religiosa, ma che vivrà per l’attimo presente in un caos  fatto unicamente di sensazioni » !*, era stato già indicato da  Mario M. Rossi, sulle pagine della « Nuova rivista storica »,  come uno degli artefici di quelle « sintesi storiche », « fon-  date su una determinata dottrina filosofica o religiosa »,  che, sempre più frequenti « a mano a mano che l’Europa  va dissolvendosi nel caos », « sono un prodotto di crisi e  non dell’esame di una situazione solida e delineata » !*.  Oppositore del progresso scientifico che gli appariva una  religione laica « che ha voluto sostituire la vera unità cul-  turale europea — il Cristianesimo », anche nel volume  einaudiano Dawson considera la Chiesa elemento unificante  della storia europea fra V e XI secolo, in linea con tutta la  componente cattolica della « cultura della crisi », intenta a  costruire « una filosofia della storia che tendeva a gettare  ponti tra i secoli, ridotti ad attimi di un fluire storico di  smisurato respiro attorno alla vita della Chiesa » !7.   Dopo aver dichiarato, con toni spengleriani, che « Azio,  come Maratona e Salamina, fu uno scontro dell’Oriente e  dell’Occidente, una finale vittoria degli ideali europei di  ordine e di libertà sopra il despotismo orientale » — un’af-  fermazione che ritroveremo nelle pagine iniziali del Profilo  della storia d’Europa di Salvatorelli e, ancora più puntual-  mente, nel corso sulla Storia dell’idea di Europa tenuto nel  1943-44 da Chabod —, Dawson faceva una professione di  fede storiografica e ideologica insieme, sostenendo che  « l'influsso del cristianesimo sulla formazione dell’unità  europea è un notevole esempio del modo come il corso dello  sviluppo storico viene modificato e determinato dall’inter-    175 A. Brucculeri, La civiltà e le sue moderne involuzioni, in «La  Civiltà cattolica », 90 (1939), vol. III, p. 120.   176 « Nuova rivista storica », XXI (1937), p. 449.   177 R. Moro, La formazione della classe dirigente cattolica, cit., p. 449.    268    Le origini della casa editrice Einaudi    vento di nuovi influssi spirituali », in quanto esiste sempre  nella storia « un elemento misterioso e inspiegabile, dovuto  non solo all’influsso del caso o all’iniziativa del genio indi-  viduale, ma anche alla potenza creatrice delle forze spiri-  tuali ». Su questa base l’autore sviluppa il suo ragiona-  mento, teso a dimostrare che la Chiesa non fu coinvolta  nella caduta dell'impero di Occidente perché « era diven-  tata una istituzione autonoma che possedeva il suo prin-  cipio d’unità e i suoi propri organi d’autorità sociale. Essa  era in grado di diventare contemporaneamente l’erede e  rappresentante dell’antica cultura romana, e la maestra e la  guida dei nuovi popoli barbarici »; cosi all’inizio del secolo  VIII, quando l’invasione musulmana aprî un’« epoca di  universale rovina e distruzione », « vennero gettate le fon-  damenta della nuova Europa, da uomini come San Gregorio,  che non avevano idea di edificare un nuovo ordine sociale,  ma siccome il tempo stringeva, si travagliavano per la sal-  vezza degli uomini in un mondo moribondo. E fu proprio  quest’indifferenza per i risultati temporali che diede al  papato l’energia di diventare, nella decadenza generale  della civiltà europea, un centro di riorganizzazione delle  forze della vita ». Al termine di questo processo, il secolo  XI vide « l’incorporazione di tutta l’Europa occidentale  nella cristianità », e l’inizio di « un moto di progresso che  dura poi quasi senza interruzione fino ai tempi moderni »;  la logica conclusione del volume era perciò un invito a  proiettare nel futuro la tradizione culturale ricostruita in  sede storica:    Ai nostri giorni l'Europa è minacciata del crollo della cultura  aristocratica e laica su cui era fondata la seconda fase della sua unità.  Sentiamo di nuovo il bisogno di un'unità spirituale o almeno mo-  rale [...]. Ma è bene ricordare che l’unità della nostra civiltà non  poggia soltanto sulla cultura laica e sul progresso materiale degli  ultimi quattro secoli. Ci sono in Europa tradizioni più profonde di  queste, e dobbiamo risalire oltre l’umanesimo e oltre i trionfi super-  ficiali della civiltà moderna, se vogliamo scoprire le fondamentali  forze sociali e spirituali che hanno lavorato alla formazione del  l’Europa 18,    178 Ch. Dawson, La formazione dell’unità europea dal secolo V all'XI,    2064)    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    « Non ci manca che la preghiera a Notre-Dame de  Lourdes, perché il Dawson ci appaia come un maresciallo  Pétain della cultura », osservava sarcasticamente, nel 1940,  il «libertino» Arrigo Cajumi, ormai distaccato dall’am-  biente della casa editrice ‘, Ma sempre nel 1940, quando  anche l’Italia era entrata in guerra, Mario Delle Piane  riconosceva a Dawson il merito di aver fatto rivivere  « un’epoca lontana ed oscura e, pur tuttavia, attualissima,  oggi che si assiste, pare, alla lotta di due civiltà ed alla fine  di una di esse», anche se aggiungeva, idealisticamente,  che « la civiltà è una e imperitura, non essendo altro che  il concretarsi dello sviluppo del libero spirito umano: cioè  storia » !®. Più nettamente si esprimeva, pur mantenendosi  sul piano della discussione storiografica, Gino Luzzatto,  che alla storia delle idee di Dawson contrapponeva il Mao-  metto e Carlomagno di Henry Pirenne — uscito da La-  terza nel 1939 —, mosso « dall’osservazione di un fatto  economico », e, giudicando « alquanto azzardato » il ragio-  namento dello storico inglese, si chiedeva « se la mirabile  fioritura della vita cittadina fra il XII ed il XV secolo  non abbia avuto per la formazione della moderna civiltà  europea un’importanza assai maggiore dei rapporti fra  Chiesa ed Impero » 15.   Il tema del contrasto fra civiltà materiale e aspirazioni  spirituali, presente in Huizinga e Dawson, circola proble-  maticamente anche nei romanzi dei « Narratori stranieri  tradotti », in particolare in quelli di autori inglesi dell’età    traduzione di C. Pavese, Torino, Einaudi, 1939 (ediz. originale 1932), in  particolare pp. 8, 45, 188, 276-277, 282-283. Anche per Chabod ad  opera del pensiero greco si era formata « una Europa che rappresenta lo  spirito di “libertà”, contro il “dispotismo” asiatico » (Storia dell’idea  d'Europa, a cura di E. Sestan ed A. Saitta, Bari, Laterza, 1961, p. 16).   17? A. Cajumi, Pensieri di un libertino, presentazione di V. Santoli,  Torino, Einaudi, 1970, p. 183.   180 « Rivista storica italiana », s. V, V (1940), p. 425. Secondo Ga-  briele Pepe, per Dawson il mondo europeo « sente più vivo il bisogno di  un ordine culturale nuovo, fondato su un pivi intimo contatto con le  civiltà dei popoli dell’Oriente e di tutto il restante mondo, che non rien-  trano nei quadri della nostra tradizione culturale » (La nascita dell'Europa,  in « Oggi », 24 febbraio 1940).   181 « Nuova rivista storica », XXIV (1940), pp. 262-264 (siglato G.).    270    Le origini della casa editrice Einaudi    vittoriana la cui funzione, in questi anni di crisi di valori,  può apparire analoga a quella svolta a cavallo del secolo  dal Tolstoj fustigatore del « progresso meccanico » !. Di  Walter Pater, fin allora conosciuto in Italia solo come « ca-  poscuola di un estetismo immoralistico » che sarebbe  emerso dai suoi studi sul Rinascimento, Einaudi presenta  il romanzo del 1885 Mario l’epicureo, in cui l’autore in-  tende « to show the necessity of religion », in un senso  assai diverso dalla difesa della « religione laica » fatta nel  1882 dal Marc Aurèle di Renan. Il protagonista, la cui vi-  cenda è ambientata ai tempi di Marco Aurelio — espres-  sione di una civiltà « arida » paragonata da Pater a quella  materialistica dell’800 —, abbraccia dapprima « un epicu-  reismo elevato a disciplina morale, che ha per suo fine non  il godimento, sia pure raffinato, ma la perfezione dell’es-  sere intimo, “culto reso alla luce dell’intelletto” », per  approdare infine al cristianesimo, come scrive la curatrice  del volume: « Il cristianesimo fervido e sereno di quei  primi tempi eroici, scevri di fanatismo, l’esultanza invulne-  rabile dei credenti, la loro speranza serena, gli mostrano il  sorgere di un’umanità dotata di quelle qualità morali di cui  il mondo pagano è privo, ma che pure non rinnega l’amore  alla vita e alla bellezza » !*. « Romanzo filosofico », lo  qualificherà Beniamino Dal Fabbro recensendolo positi-  vamente su « Primato », in cui tuttavia «il significato  dottrinario sembra soverchiato da un senso religioso in-  teso liricamente ». Lo stesso Dal Fabbro citava le edizioni  einaudiane, entrambe del 1939, de La storia di Henry  Esmond di Thackeray e del David Copperfield di Dickens  tradotto da Pavese, per coglierne « la contemporaneità in  ciò che fu chiamato il “compromesso vittoriano”, saggia  mistura di borghesia e di cristianesimo, di calcolate ribel-  lioni e di più comode acquiescenze » !*.   Materia e spirito si oppongono e si confondono anche    182 Cfr. G. Turi, Aspetti dell’ideologia del Psi (1890-1910), in « Studi  storici », XXI (1980), p. 85 n. 102.   183 W. Pater, Mario l’epicureo, traduzione di L. Storoni Mazzolani,  Torino, Einaudi, 1939, pp. 9, 13-14.   184 « Primato », I (1940), n. 1, p. 14, e «Oggi», 4 novembre 1939.    271    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    in Cosi muore la carne di Samuel Butler, un romanzo in  gran parte autobiografico ambientato nell’età vittoriana, in  cui il curatore notava « la ricerca continua e affannosa di  una fede, in grado di sostituire la religione tradizionale »,  e « l’ingenua fiducia accordata a ogni nuova teoria, la quale  non tardava ad abbandonare i precisi limiti scientifici per  confondersi in un alone religioso », la ribellione di Butler  al positivismo e il suo invito agli uomini di liberarsi dal  peccato e dal dolore amando « il vero dio » !*. Dal romanzo  traeva spunto il liberalsocialista Vittorio Gabrieli per pre-  sentare la figura dell’autore su « Civiltà moderna », e met-  tere in luce che nell’età vittoriana, in un momento in cui  « si accentua e si propaga il dissidio tra sentimento religioso  e spirito scientifico, misticismo e razionalismo », nasceva  in Butler, cosî come nel protagonista del romanzo, la satira  della società, della scuola, della famiglia, della religione  tradizionale, e il suo tentativo di conciliare la scienza con  la religione: di qui, in lui, una «curiosa mescolanza di  immanenza razionalistica e di spiritualità profonda e fan-  tasia suggestiva », e, in contrasto con la visione materia-  listica dell’universo fornita da Darwin, « l’affermazione  dell’attività dello spirito sulla materia, della libertà umana,  del progressivo scoprirsi d’un ordine nell’universo, un prin-  cipio vitalistico ed una forza creativa, sostituendo cosî al  meccanismo della selezione naturale una finalità, un dive-  nire teleologico, che effettivamente collima con una conce-  zione religiosa » !,   In questo contesto si spiega come nel 1938 Aldo Capi-  tini, esponente di un liberalsocialismo dalle forti venature  religiose, si rivolgesse a Einaudi per proporgli la pubblica-  zione dell’epistolario di Michelstaedter, un autore che  Capitini « scopri » negli anni ’30 e che tanta influenza  ebbe sui suoi Elementi di esperienza religiosa, cosi come    185 S. Butler, Cost more la carne, prefazione e traduzione di E. Gia-  Dio, Torino, Einaudi, 1939, pp. VII, IX (citiamo dalla seconda edizione  el 1943).  186 V. Gabrieli, Presentazione italiana di S. Butler, in « Civiltà moder-  na », XII (1940), pp. 132, 134-135. Tommaso Landolfi coglieva invece nel  romanzo « un'impressione di triste aridità » (« Oggi », 13 gennaio 1940).    272    Le origini della casa editrice Einaudî    su altri intellettuali che negli anni fra le due guerre ne.  ripresero la riflessione sulla « situazione » umana, sui  valori della morale e della fratellanza; di lui, ricorderà  Capitini, lo aveva colpito « l’antiretorica, quel tipo di esi-  stenzialismo, che poteva divenire supremo impegno pratico,  come poi mi è stato confermato dall’esame dell’epistolario  manoscritto, dall’interesse che egli ebbe negli ultimi suoi  anni per i Vangeli; insomma mi pareva esatto considerarlo.    come la premessa di una tensione pratica etico-religiosa » !”.    Carlo Michelstaedter — scriveva infatti a Einaudi — ha portato.  nella cultura italiana un rigore insolito nell’esigenza dell’assoluto.  Egli spicca in confronto di molti suoi coetanei della « Voce » che  furono morbidi e, prima o poi, arrendevoli. L'elemento intransigente  e tragico difetta troppo nella nostra spiritualità perché non ne sia  desiderabile l’innesto. Le riserve sul pensiero e sulla decisione del  Michelstaedter [morto suicida nel 1910] non spengono l’importanza  che egli ha per quelli che oggi ascoltano voci perentorie e disperate  per vincere la faciloneria. Cresce l’interesse per lui; sta diventando  un punto di riferimento, anche per chi comprende che si deve andare  oltre e ricostruire ma su serie rovine !88,    Dubbi o disorientamenti, tendenze spiritualistiche ed  esperienze religiose, anche se non univocamente contraddi-  stinte, o recepite, sul piano civile, venivano cosî confe-  rendo alla casa editrice la funzione di stimolo alla rifles-  sione, a non affidarsi alle « certezze » del regime proprio  nel momento in cui ci si avvicinava alla guerra.    7. Una cultura eclettica: i « Saggi »    Dubbi e inviti alla riflessione si accompagnano tut-  tavia, ancora in questi anni, alla difficoltà di attestarsi su  una linea culturale ben definita, che si manifesta in una    187 A. Capitini, Antifascismo tra i giovani, cit., p. 53. Sulla fortuna di  Michelstaedter tra le due guerre cfr. E. Garin, Intellettuali italiani del  XX secolo, cit., pp. 102-103.   18 AE, Capitini (17 agosto 1938). L'editore propose invece a Capitini  di scrivere un libro su Michelstaedter; nel 1938 Capitini propose anche  Ends and means di Aldous Huxley (1937).    273    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    inquieta ricerca di « novità »: ne è testimonianza precipua  la collana dei « Saggi », quella di maggiore diffusione, che  affronta temi disparati secondo ottiche diverse, dimostrando  talvolta l’insofferenza verso i canoni della cultura fascista  ma, al tempo stesso, il persistere di un eclettismo che  smorza i tentativi innovatori della casa editrice.   I « Saggi » erano stati inaugurati nel 1937 da Voltaire  politico dell’illuminismo di Raimondo Craveri, severamente  giudicato da « Giustizia e Libertà » !° incapace di cogliere  gli elementi caratteristici di un’opera che, in linea con  l’interesse per il pensiero settecentesco de « La Cultura »  e di Salvatorelli, si richiamava agli studi più recenti, in  particolare a quelli di Dilthey e di Cassirer negatori della  taccia di antistoricismo mossa al secolo XVIII, per svol-  gere una critica trasparente dell’idealismo e della con-  cezione attualista dello Stato:    Le idées claires che l’illuminismo ha amato — osservava infatti  l’autore —, giovano forse a riportatci in più spirabil aere di quello  saturo di aberrazioni mentali mascherate di hegelismo ed ammantate  di dialettica d’oggigiorno [...]. Il teorico del dispotismo illuminato  diverrebbe ora il nemico d’ogni statolatria e d’ogni anarchia ed, in  quanto fautore della tolleranza, l’avversario principe dello Stato  provvidenzialmente onnipresente ed onniagente. Sul terreno teorico  Voltaire scende in campo contro gli epigoni dell’hegelianismo !%.    L’anno successivo appariva il Profilo di Augusto di  Ettore Ciccotti, dove il rifiuto di ogni glorificazione e attua-  lizzazione del personaggio biografato, proprio quando la  sua figura era ufficialmente celebrata dal fascismo — alla  ricerca di legittimazioni imperiali — in occasione del bimil-  lenario della nascita dell’imperatore romano, appariva  evidente fin dalle dichiarazioni metodologiche iniziali in    189 « Libro di eccellenti intenzioni, ma di esito abbastanza infelice [....]  l’abuso di filosofia del Craveri lo porta a dedicare l’intero suo libro al  sistema filosofico di Voltaire, che era cosa da trattare in quattro pagine  [...]. Le sole cose sensate ci paiono essere le riflessioni sul despotismo  illuminato, e il suo carattere apolitico, la indifferenza di Voltaire per lo  Stato e il suo ottimismo per la libera attività nella società esistente »  (« Giustizia e Libertà », 23 aprile 1937).   190 R. Craveri, Voltaire politico dell'illuminismo, Torino, Einaudi,  1937, pp. 13-14, 19.    274    Le origini della casa editrice Einaudî    cui l’autore, riecheggiando, anche se in forma più blanda,  gli interessi economico-sociali che ne avevano caratterizzato  la produzione a cavallo del secolo, affermava che gli uomini  dovevano essere collocati « in relazione all'ambiente e al  tempo », « onde non si tratta di apoteosi o condanne, di  glorificazioni od esecrazioni; e piuttosto, o meglio, di  cercare di comprendere come e per quali vie e tra quale  varia cooperazione e con quali effetti sociali gli eventi si  svolsero e si conclusero, e con quali prospettive e signifi-  cato »; ma si limitava in realtà ad una narrazione puramente  cronachistica, in cui spicca un solo giudizio dal trasparente  significato politico, che, ancora una volta, la « Nuova  rivista storica » non mancava di rilevare: « Gli autocrati,  d’ordinario, dovendo farsi perdonare la confiscata libertà  e il potere assoluto, ricorrono a miraggi di conquiste, onde  lampeggiano a’ soggetti beneficii spesso sognati od effimeri  e al dominatore ancor più effimero prestigio: quindi la  guerra » !. Distante dalla cultura idealistica era anche l’in-  terpretazione psicanalitica proposta dallo psichiatra spa-  gnolo Gregorio Marafion, che intendeva mettere in luce  le qualità umane dello scrittore ginevrino Henry Amiel  sulla base di una concezione relativistica della morale,  secondo la quale « le cose non sono quasi mai assoluta-  mente buone o cattive, e l’efficacia loro, positiva o negativa,  dipende pi dall’orecchio di chi le ascolta che dal labbro  di chi le pronuncia » !,   Una linea diversa prevale invece nei saggi dedicati  alla letteratura italiana, nonostante la presentazione della  figura inquieta e non conformista di Tommaseo, di cui  Raffaele Ciampini mette in luce, nel Diario intimo, il lace-    191 E, Ciccotti, Profilo di Augusto, Torino, Einaudi, 1938, pp. 13-14,  61-62; cfr. la recensione di Giovanni Costa in « Nuova rivista storica »,  XXII (1938), pp. 406-407. Cfr. anche M. Cagnetta, Antichisti e impero  fascista, Bari, Dedalo, 1979, p. 133. Nel giugno 1938 Ciccotti propose  all’editore la ristampa de La guerra e la pace nel mondo antico del 1901,  ma Einaudi gli contropropose un saggio sui Gracchi (AE, Ciccotti).   192. G. Marafion, Arziel, o della timidezza, traduzione di M. F. Canella,  Torino, Einaudi, 1938, (ediz. originale 1932), p. XV; Giansiro Ferrata  osservò che il libro « manca, del tutto, di sensibilità poetica e psicolo-  gica » (« Oggi », 7 ottobre 1939).    275    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    rante contrasto fra il richiamo dei sensi e quello della reli-  gione, mentre, presentando la Cronichetta del Sessantasei  dello scrittore dalmata, ne sottolinea, accanto all’attacca-  mento alla Chiesa, la convinzione federalista, all’origine  di quella «critica troppo spesso genialmente e perfida  mente malevola » che investe in primo luogo i protagonisti  « piemontesi » del processo di unificazione, Cavour e Vit-  torio Emanuele ‘*, suscitando ovviamente lo sdegno della  « Rassegna storica del Risorgimento » — «che giova il  conoscere tanta ombra, quando alla storia si deve piuttosto  chiedere tanta luce? » !*. Preoccupazione precipua dell’e-  ditore appare comunque la difesa del crocianesimo, testi-  moniata anche dal suo fitto carteggio con quel Luigi Russo  che su « La Cultura » Cajumi aveva duramente stroncato !*  Nella raccolta di saggi su Carducci di Tommaso Parodi,  Antonicelli mette in evidenza la vicinanza dei giudizi espres-  si dall’autore e da Croce, entrambi mossi dalla preoccu-  pazione di distinguere l’uomo dall’artista, che in Parodi si  esprime nella sufficienza con cui tratta l’interesse del poeta  per la tecnica filologica, cosî come la sua fase « socialista »  e anticlericale, per concludere che Carducci è « poco fe-  lice [...] quando cerca argomento nella storia più recente,  ove facilmente soverchiano in lui le passioni pratiche, e  allora gli s’intorbida la serenità lirica, mancandogli lo  sfondo epico della lontananza » !*. Il timore di non con-    19 N. Tommaseo, Diario intimo, a cura di R. Ciampini, Torino,  Einaudi, 1938, e Id., Cronichetta del Sessantasei, a cura di R. Ciampini,  Torino, Einaudi, 1939, pp. 49-50, 78: Tommaseo, osservava Ciampini,  « vedeva e concepiva l’unità come una oppressione dal forte esercitata sul  debole, come un soffocamento dei vari germi locali. Il Piemonte vincitore  in Italia, gli appariva un arrogante dominatore: per lui, il Piemonte non  vuole fare l’Italia, ma vuole conquistare a proprio profitto l’Italia ».   19 Piero Zama, in «Rassegna storica del Risorgimento », XXVII  (1940), p. 1052.   195 Il 12 febbraio 1934 Russo proponeva una serie di volumi miscel-  lanei sugli studi italiani del ’900: due sulla storia e la filologia (curati da  lui), due sugli studi filosofici, giuridici ed economici (curati da De Rug-  giero e Luigi Einaudi), uno sulle scienze naturali e matematiche (curato  da Enriques); nel giugno 1937 accettava di scrivere un volume sul Per-  siero politico di Vittorio Alfieri (AE, Russo).   1% T. Parodi, Giosue Carducci e la letteratura della nuova Italia,  saggi raccolti da F. Antonicelli, Torino, Einaudi, 1939, pp. XI-XII, XVII  XVIII, 8, 12, 81; recensendo il volume Enrico Falqui osservava che « un    276    Le origini della casa editrice Einaudi    traddire Croce è ancora pit esplicito nella vicenda della  pubblicazione dei saggi sugli Scrittori francesi dell’Otto-  cento di De Lollis, un debito dovuto alla tradizione sulla  quale si era formato il primo nucleo della casa editrice:  Giulio Einaudi ne aveva inizialmente affidata la cura a  Cajumi, raccomandandogli di evitare toni anticrociani tali  da provocare una stroncatura da parte della « Critica »;  ma l’ex direttore de « La Cultura » aveva dichiarato di  non poter accettare la « censura crociana », aggiungendo  che «le colpe e le ipocrisie crociane verso De Lollis (e  non è solo parer mio, ma anche dei vecchi delollisiani come  Trompeo) devono a/fine venire documentatamente in luce ».  Dopo aver inutilmente proposto dei tagli alla prefazione  di Cajumi per togliere gli « accenni più violenti all’idea-  lismo e alla filosofia in genere », l’editore ne affidò quindi  la cura al pi fidato Vittorio Santoli '”, che nell’introdu-  zione dichiarava « decisivo » l’incontro di De Lollis con  Croce, mettendo in luce, nel primo, il riconoscimento  dell’insufficienza dell’indagine filologica secondo la quale  « ogni poeta è l’età sua più qualche cosa che è tutto suo »;  ‘e concludeva estendendo i legami fra Croce e De Lollis alle  riviste da loro dirette: « della Cultura si può tranquilla-  mente dire ch’essa, insieme alla Critica, è stata la rivista  che più ha contribuito ad avviare la mentalità universitaria  italiana dal tecnicismo all’umanesimo, da certe angustie pae-  sane ad una universalità di sguardo nella quale era però sem-  pre riconoscibile il tranquillo orgoglio d’essere “ah si! di  gran signori” » !*. Ma, a testimoniare l’intersecarsi di linee  diverse, nel 1939 la « Nuova raccolta di classici italiani an-  notati » diretta da Santorre Debenedetti — costretto dalle  leggi razziali ad abbandonare l’insegnamento universitario    po’ pit di peso dato alla filologia nel giudizio sur un’opera letteraria e  poetica conferirebbe alla critica idealistica quella aderenza al fatto arti-  stico la quale, da ultimo, si risolve in una maggior comprensione dell’opera  stessa » («Oggi », 17 giugno 1939). Nel ’39 Antonicelli accettava din  Einaudi l’incarico di curare un'antologia della letteratura italiana in otto  volumi (AE, Antonicelli).   197 AE, Cajumi (29 e 30 marzo, 9, 10 e 15 aprile 1938).   1% C. De Lollis, Scrittori francesi dell'Ottocento, con un saggio biogra  fico di V. Santoli, Torino, Einaudi, 1938, pp. XVII, XXI, XXIII, XXX.    211    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    — si inaugurava con le Rizze di Dante commentate, in  senso non certo crociano, da Gianfranco Contini, e che  pur Luigi Russo giudicò « opera fondamentale » che « se-  gna una data nella storia degli studi e delle interpretazioni  dantesche » !°.   Al tempo stesso, l’opera di sprovincializzazione della  cultura italiana cui abbiamo già accennato a proposito della  « Biblioteca di cultura storica », iniziava nel 1938 anche  nei « Saggi »: l’Autobiografia di Alice Toklas di Gertrude  Stein — un vivace affresco della cultura d’avanguardia  europea dell’inizio del secolo, da Picasso a Matisse, da  Henry James a Hemingway —, permetteva al traduttore,  Pavese, di cogliere i debiti dell’autrice verso Walt Whitman  nella « contemplazione ironica e insieme intenerita di un  mondo reale, fuori d’ogni troppo compiaciuto interesse per  i procedimenti dell’arte » e in « quel conturbante realismo  della vita subconscia che resta a tutt’oggi il pit vitale  contributo dell'America alla cultura » ?°, motivi non estra-  nei alla ricerca stilistica dello scrittore piemontese. Nello  stesso anno era inaugurata la collana « Narratori stranieri  tradotti » in cui, scriveva l’editore, « dovrebbero entrare,  oltre ai classici, solo scrittori universalmente riconosciuti  come eccellenti » ?". Nata per impulso di Ginzburg —  che con estremo puntiglio filologico ne seguirà le edizioni  anche dal confino di Pizzoli — e con l’apporto di Pavese,  la celebre collana dalla copertina azzurra offrî, sulle tracce  della Slavia — da cui riprese alcuni titoli russi —”,  traduzioni integrali di testi molti dei quali mai fin allora  conosciuti in Italia nella loro completezza, ad opera di  traduttori d’eccezione: accanto a Ginzburg e a Pavese,  Ettore Lo Gatto, Alberto Spaini, Pietro Paolo Trompeo,  Piero Jahier, Massimo Mila, Camillo Sbarbaro, per arri-  vare, nel 1946, alla prima traduzione di Proust a cura di    19 Russo a Einaudi, 11 dicembre 1939 (AE, Russo). Sul direttore della  collana cfr. ora L. De Vendittis, Santorre Debenedetti tra positivismo e  idealismo, in « Studi piemontesi », VIII (1979), pp. 3-25.   20 Ora in C. Pavese, La /etteratura americana, cit., pp. 166-167.   201 Einaudi a Umberto Morra, 8 maggio 1939 (AE, Morra).   2 Cfr. AE, Polledro.    278    Le origini della casa editrice Einaudi    Natalia Ginzburg. Il lettore italiano venne cosî a contatto  soprattutto con i capolavori del romanzo psicologico otto-  centesco, stimolo a riflessioni su vicende e passioni al di  sopra delle contingenze storiche, non senza talvolta, attra-  verso la guida delle introduzioni, riferimenti indiretti  all'attualità.   Gli interessi e i suggerimenti dei curatori sono ovvia-  mente diversi: mentre Lo Gatto antepone nell’Oblòmov  di Gonciaròv il valore artistico rispetto a quello sociale ?%,  Pavese coglie in Tre esistenze della Stein « un primo esem-  pio perfetto di quella che sarà ricerca costante della nar-  rativa americana del nuovo secolo: un mondo fantastico  che sia la realtà stessa, colta nel suo farsi espressivo », un  giudizio non solo estetico che Mario Alicata puntualizzerà  evidenziando la descrizione della provincia americana « nel-  la sua grama miseria, nella sua disperata solitudine », per  cui « il realismo metafisico della Stein sempre volutamente  si nega ad ogni illuso sentimentalismo » ?*. Nei romanzi  di Dostojevskij pubblicati durante la guerra Ginzburg  mette invece in evidenza, pur accanto alle contraddizioni  della « filosofia » dell’autore, il messaggio umano del prin-  cipe Myskin, « assolutamente buono » e non per questo  vinto, la cui figura anima « un libro consolante e vivifica-  tore come pochi altri libri venuti dopo il Vangelo », e, nei  Demoni, la critica di Dostoevskij — che restò tuttavia  « lontano da ogni apologia dell’ordine esistente » — verso  i risultati, e non verso le « ragioni » dei rivoluzionari contro  la società, e, come tema dominante, l’inquieta ricerca della  fede ?*. E, mentre nel 1942 è presentato come «la tra-  gedia d’un Amleto americano » e una sofferta « polemica  contro l'umanità » il Pierre o delle ambiguità di Melville,  che Pratolini considera precursore di Meredith, James e  Conrad, « una filza di nomi che potrebbe continuare, prove  alla mano, fino a comprendere autori che respirano l’aria    23 I. Gonciaròv, Oblòmov, prefazione e traduzione di E. Lo Gatto,  Torino, Einaudi, 1938 (II ediz. 1941), p. VII.   2% C. Pavese, La letteratura americana, cit., p. 169; recensione di  Mario Alicata in « Leonardo », XI (1940), p. 174.   25 Ora in L. Ginzburg, Scritti, cit., pp. 240-241, 243, 248, 252, 255.    279    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    di questa lunga giornata di guerra, da una parte e dall’altra  delle trincee » ?*, la difesa dei valori dell’uomo che trascen-  dono sistemi politici o contingenze belliche, e la speranza  di una fratellanza universale, traspaiono, sempre nel 1942,  da Guerra e pace, dove « guerra è il mondo storico, pace il  mondo umano », osserva Ginzburg, quel mondo umano  che « interessa ed attrae particolarmente Tolstoj soprat-  tutto perché egli è convinto che ogni uomo — di ieri, di  oggi, di domani — valga un altro uomo », e che trova la  sua esaltazione nel finale intimistico e famigliare del ro-  manzo, dove è descritta « quella felicità che può far disto-  gliere lo sguardo di un giusto da un uomo ucciso ingiu-  stamente » 2”. « L’amore per la natura, i diritti del cuore,  la gloria del sentimento », contrapposti alla « falsità della  vita sociale », erano stati messi in luce nel primo volume  della collana, I dolori del giovane Werther ®*; da Goethe  si passa, con la caduta del fascismo, a Diderot, a Jacques  il fatalista in cui Glauco Natoli identifica nel protagonista  e nel padrone dei « personaggi reali, nei quali s’incarna  la mortale polemica fra due classi destinate ad affrontarsi,  nel fatale declino l’una, nell’irresistibile ascesa l’altra, che  s’affrancherà sempre più d’ogni servile retaggio per recla-  mare e raggiungere quella dignità umana, che troverà fra  non molto la sua piena espressione nella dichiarazione dei  diritti dell’uomo » °°. Il commento si farà infine ancora più  esplicito nel 1945, sempre attraverso Diderot, di cui  Fernanda Pivano sottolineerà « la passione politica dell’uo-  mo che si pone di fronte a leggi costituite da un’autorità  non riconosciuta e a norme imposte da una tradizione iste-  rilita per abbatterle ed eliminare gli ostacoli al libero pen-    26 H. Melville, Pierre o delle ambiguità, prefazione e traduzione di  L. Berti, Torino, Einaudi, 1941, pp. VII, IX; la recensione di Pratolini  in « Primato », III (1942), pp. 287-288.   20 L. Ginzburg, Scritti, cit., pp. 285, 287.   28 W. Goethe, I dolori del giovane Werther, prefazione e traduzione  di A. Spaini, Torino, Einaudi, 1938, p. VIII   20 D. Diderot, Jacques il fatalista e îl suo padrone, traduzione di G.  Natoli, Torino, Einaudi, 1944, p. XV.    280    Le origini della casa editrice Einaudi    siero, alla libera parola, alla libera morale, alla libera  scienza » 7°,   Attraverso i classici della letteratura universale pote-  vano cosi passare messaggi emotivi capaci di « distrarre »  il lettore dalla realtà della vita quotidiana, e sollecitarne la  fantasia, la riflessione, la critica. Un raggio d’influenza più  limitato ebbe ovviamente un’altra iniziativa della casa edi-  trice, la « Biblioteca di cultura scientifica » avviata nel  1938, che trovò probabilmente un terreno di coltura già  preparato nella Torino di Giuseppe Peano, e un animatore  in Ludovico Geymonat: una collana che con i testi di De  Broglie, Pavlov o Planck, riuscf a presentare, non senza  contrasti ?!, una tematica che era rimasta estranea alla  cultura idealistica, ma che ciò nonostante gli epigoni del  positivismo avevano tenuto in vita; ad essa si affiancò, a  partire dal 1940, la rivista « Il Saggiatore », dedicata alla  divulgazione dell’attualità scientifica nei campi della ma-  tematica, della biologia, della fisica — fino ai problemi  dello sfruttamento dell’energia nucleare — e delle loro  applicazioni tecniche, ma che solo in casi isolati si occupò  dell’utilizzazione delle scoperte scientifiche a fini bellici,  dimostrandosi severa custode dell’autonomia della scienza,  fino a definire « ridicola » la condanna papale di Galileo 2.    210 D. Diderot, La religiosa, prefazione di F. Pivano, Torino, Einaudi,  1945, pp. VIII-IX.   211 Ad esempio il 14 novembre 1942 Geymonat inviò a Francesco  Severi e Armando Carlini un memoriale per protestare contro il parere  negativo dell’Accademia d’Italia alla traduzione di Die Grundlagen der  Arithmetik di Gottlob Frege (AE, Geymonat). Dedica un breve cenno  all'ambiente torinese di Peano C. Pogliano, Mondo accademico, intellet-  tuali, professione sociale dall'Unità alla guerra mondiale, in AA.VV.,  Storia del movimento operaio, del socialismo e delle lotte sociali in Pie  monte, diretta da A. Agosti e G.M. Bravo, vol. I. Dall'età preindustriale  alla fine dell'Ottocento, Bari, De Donato, 1979, pp. 534-535.   212 M.G. Fracastoro, Nel 3° centenario della morte di Galileo Galilei,  in « Il Saggiatore », II (1941), p. 313. La rivista era diretta da C. Fru-  goni, F. P. Mazza, A. M. Olivo, F. Tricomi, G.C. Wick.    281    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    8. La « svolta » della guerra e i collaboratori « romani »    La seconda guerra mondiale rappresenta, per l’itine-  rario culturale e politico di molti giovani intellettuali forma-  tisi negli anni ’30, quella « svolta » in senso antifascista che  spinse Bottai a tentare con « Primato » di recuperarne il  consenso attorno alla guerra «italiana ». Il 1940 è una  data periodizzante anche per la casa editrice, i cui inter-  venti — se prescindiamo dalla continuazione della battaglia  conservatrice dei liberisti — si modificano sensibilmente:  si accentuano i contatti con la cultura europea e si rac-  coglie attorno alla casa un numero crescente di intellettuali  progressisti, cos che negli anni intercorrenti tra l’entrata in  guerra dell’Italia e il 25 luglio 1943 si pongono concreta-  mente, nelle realizzazioni o anche solo nei progetti — alcuni  dei quali molto coraggiosi per allora — le premesse di  gran parte delle iniziative editoriali del periodo postbellico.   Uno dei punti nodali che è necessario mettere in luce,  in questi anni, è il rapporto della casa editrice con Bottai  e con l’operazione che questi si proponeva di svolgere attra-  verso « Primato ». Giulio Einaudi ha ricordato che    il nostro gruppo non solo non agî all’interno dello schieramento  fascista, ma tentò di fare in proprio — e spesso con successo —  quella stessa politica che il fascismo intendeva attuare con strumenti  come « Primato ». Forme indirette di opposizione sf, com’era inevi-  tabile a chi, producendo libri, doveva agire alla luce del giorno, e  assumere di volta in volta una maschera, che fosse la più trasparente  possibile; concessioni ideologiche al fascismo, o discussioni alla pari,  mai 215,    Queste parole rivelano una sopravvalutazione del ruolo  di « opposizione » che sarebbe stato svolto da Bottai, e di  conseguenza potrebbero essere assunte come prova di un  pieno coinvolgimento della linea editoriale einaudiana nella  fagocitante, proprio perché spregiudicata, prospettiva politi-  ca del ministro fascista, diretta in realtà a imbrigliare ogni  opposizione. Infatti, se « Primato » non può essere tutto    213 AE, G. Einaudi.    282    Le origini della casa editrice Einaudi    risolto nella categoria « fascismo » ?!, e se è necessaria una  sua lettura non univoca, che ne colga gli sviluppi nel corso  della guerra #5, la rivista non poteva essere considerata,  né dal fondatore né dai collaboratori, solo come il luogo  della « difesa della cultura », essendo ben marcato il suo  carattere militante e ben netto l’obiettivo di Bottai — come  risulta anche dai suoi ricordi e dalle sue note di diario —  di far sopravvivere il fascismo al « mussolinismo ».   Non è quindi privo di ambiguità il fatto che, dopo  essere entrato in contatto con Bottai proprio nel 1940,  ancora nel 1942 Einaudi si rivolgesse a lui per proporgli  di pubblicare presso la casa editrice una raccolta dei suoi  interventi sull’arte e la cultura — « non può mancare tra  i miei Saggi una presa di posizione nella polemica che ferve  per l’intelligente modernità dell’arte italiana; e chi meglio  di Voi può difendere questo partito in un libro? » —, e  che nello stesso anno fosse in contatto con il redattore capo  della rivista Giorgio Cabella, di cui pubblica il racconto  Alloggio sul golfo (1942), oltre ad affidare la cura delle  Memorie di Metternich al bottaiano Gherardo Casini,  direttore generale per la stampa italiana ?!9. Tuttavia, nono-  stante la presenza di elementi contraddittori, proprio nel  rapporto con la casa editrice è possibile misurare lo scarto  fra le intenzioni di Bottai e i risultati della sua politica,  in quanto, soprattutto a partire dal 1941, alcuni dei nuovi  collaboratori « romani » di Einaudi che scrivono su « Pri-  mato » hanno già compiuto la scelta antifascista, e solle-  citano l’editore a iniziative più avanzate che reclamizzano    214 E. Garin, Cronache di filosofia italiana, cit., p. 527.   %5 Cfr. le osservazioni di Luisa Mangoni premesse all’antologia « Pri-  mato » 1940-1943, Bari, De Donato, 1977.   216 AE, Bottai (13 gennaio 1942). Il 24 febbraio 1942 Alicata scriveva  all'editore: « Vedrò domani Bottai per Primato, e gli chiederò ancora il  suo volume di scritti culturali » (AE, Alicata). Già il 6 ottobre 1940  l'editore aveva chiesto a Bottai di segnalare « Il Saggiatore » « all’appo-  sita commissione ministeriale affinché vengano sottoscritti alcuni abbona-  menti per le Biblioteche degli Istituti di Istruzione tecnica »; 1°11 giugno  1942 ringraziava il ministro « per l’interessamento dimostrato a mio favore  in merito alla carta ». Cfr. anche le lettere dell’editore a Cabella del 5  si 1942, e di Casini all’editore dell’8 giugno 1942 (AE, Cabella,   asini).    283    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    sulla rivista, usata come strumento di discussione e di aper-  tura culturale, consentendo cosî alla casa editrice di atte-  starsi su posizioni che superano i confini del progetto bot-  taiano.   A dare nuova linfa vitale alla casa editrice contribuî  infatti nel 1941, con l’apertura della sede romana, l’in-  contro dell’originario nucleo torinese con quello romano  di Mario Alicata, Giaime Pintor e Carlo Muscetta, tre gio-  vani intellettuali che, pur con diversi orientamenti, avevano  già tradotto politicamente, in senso antifascista, la loro  rapida maturazione culturale; con i loro contatti, inoltre,  essi allargarono il numero dei collaboratori di Einaudi, fra  i quali comparvero, i che rima-  sero ancora i più numerosi —, intellettuali già aderenti al  partito comunista o che si venivano orientando verso di  esso, ma tutti uniti nella comune lotta al fascismo, senza  che si manifestassero fra di loro, almeno fino al 25 luglio  1943, contrasti di rilievo. Nell’aprile 1940 Alicata e Mu-  scetta avevano contribuito a inaugurare la nuova serie de  « La Ruota » — cui collaboravano anche Pintor e Pavese  —, la rivista diretta da Mario Alberto Meschini che, sosti-  tuendo il sottotitolo « mensile di politica e letteratura »  con quello apparentemente più disimpegnato di « rivista  mensile di letteratura e arte », assumeva in realtà la pro-  spettiva di un’azione politica a più largo respiro ?”, nella  convinzione, comune a tanti giovani intellettuali che davano  vita o partecipavano a iniziative di fronda, di potersi sal-  vare — ricorderà Pavese — con «un tuffo nella folla,  un febbrone improvviso d’esperienze e d’interessi proletari  e contadini, per cui la speciale e raffinata malattia che il  fascismo c’iniettava, si risolvesse finalmente nell’umile e  pratica salute di tutti » ?!". Mentre Muscetta era attestato  su posizioni liberalsocialiste, già nel 1940 Alicata aveva  superato l’originaria formazione crociana per abbracciare       2 Cfr. la testimonianza di Antonello Trombadori in M. Alicata,  Lettere e taccuini di Regina Coeli, prefazione di G. Amendola, introdu-  zione di A. Vittoria, Torino, Einaudi, 1977, p. XXXV.   218 C. Pavese, IÙ fascismo e la cultura 1945), ora in La letteratura  americana, cit., p. 220.    284    Le origini della casa editrice Einaudî    uno storicismo pit concreto maturato sulla conoscenza di  De Sanctis e di Fortunato e sulle prime letture marziste,  e aveva aderito al partito comunista segnalandosi subito  per quell’intensa attività politica — tesa ad allacciare rap-  porti con i liberalsocialisti e i cattolici comunisti — che  ne provocò l’arresto alla fine del 1942 ?”. Ancora tutto  « letterato » alto-borghese era invece Pintor, che tuttavia  viene in contatto, nell'ambiente einaudiano, con il catto-  lico Felice Balbo — « il cui influsso sul mio modo di pen-  sare è stato decisivo », annoterà —, e viene maturando  politicamente di fronte alla drammatica realtà della guerra:    senza la guerra — ricorderà nell’ultima lettera al fratello — io sarei  rimasto un intellettuale con interessi prevalentemente letterari [... .J:  c’era in me un fondo troppo forte di gusti individuali, d’indifferenza  e di spirito critico per sacrificare tutto questo a una fede collettiva.  Soltanto la guerra ha risolto la situazione, travolgendo certi ostacoli,  sgombrando il terreno da molti comodi ripari e mettendomi brutal-  mente a contatto con un mondo inconciliabile 2°    Pur avendo interessi ancora prevalentemente letterari,  i tre « romani » parteciparono alla diverse iniziative di Ei-  naudi: mentre alla fine del 1941 Pintor diviene « agente  volante » della casa editrice, con « il compito di leggere  libri, dare consigli, e girare in Italia £ soprattutto all’estero  come rappresentante dell’editore » ?!, Alicata tiene i con-  tatti col Ministero della cultura popolare per ottenere le  autorizzazioni della censura, e arriva ad occuparsi di un  problema che acquista importanza decisiva nel corso della  guerra, quello dell’acquisto della carta. Inoltre, Alicata e    219 Cfr. l'introduzione di R. Martinelli a M. Alicata, Intellettuali e  azione politica, a cura di R. Martinelli e R. Maini, Roma, Editori Riuniti,  1976, pp. XX-XXI, e C. Salinari-A. Reichlin-A. Tortorella-G. Amendola,  Mario Alicata intellettuale e dirigente politico, Roma, Editori Riuniti,  1978.   290 Cfr. G. Pintor, Doppio diario 1936-1943, a cura di M. Serri, Torino,  Einaudi, 1978, p. 111, e Id., Il sangue d'Europa (1939-1943), a cura di  V. Gerratana, Torino, Einaudi, 1965, p. 186. Di « ambiguità » di Pintor  ha parlato F. ‘Fortini, "Vicini e distanti. A proposito del « Doppio diario »  È Cine Pintor, in «Quaderni piacentini », XVIII (1979), n. 70-71, pp.   221 G. Pintor, Doppio diario, cit., p. 161.    285    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    Muscetta aiutano anche dall’esterno l’attività di Einaudi  collaborando a « Primato », su cui entrambi, con lo pseu-  donimo rispettivamente di Don Ferrante e di Don Santi-  gliano, segnalano con continuità le iniziative della casa  editrice, coinvolgendo in questa opera di « propaganda »  altri intellettuali, come Beniamino Dal Fabbro. Cosi nel  1941 Alicata, mentre si impegna con Einaudi per un saggio  sulla letteratura contemporanea, assicura l’editore che ne  segnalerà i volumi — « tutti, via via, più o meno larga-  mente, nel mio Cotriere delle Lettere su Primato, dove  cercherò di far fare puntualmente anche le recensioni » —,  e nello stesso anno elogia sulla rivista di Bottai la « ricer-  cata collana di narratori stranieri che Einaudi viene con  grande accortezza riunendo. Poche opere, ma tutte ecce-  zionali, tutte illuminatrici d’una personalità o d’un co-  stume » “2. Analogamente Muscetta, rispondendo all’invito  di Einaudi di fare pubblicità ai suoi volumi su « La Ruota »  — cosa che farà regolarmente su « Primato » —, affer-  mava di « aver seguito la sua attività editoriale con inte-  resse affettuoso, e ogni libro [...] pubblicato mi ha recato  un nuovo conforto a credere nei valori della cultura che  non sono da difendere soltanto nel chiuso del nostro pen-  satoio » 2, Con la collaborazione di questi tre intellettuali  le tappe di sviluppo della casa editrice si accelerano, nelle  vecchie e nelle nuove collane o nei progetti che non tro-  vano attuazione immediata.   Assieme a Pavese Alicata fu incaricato di curare la « Bi-  blioteca dello Struzzo », la collana di narratori contempo-  ranei che puntava soprattutto alla scoperta dei giovani:    Dopo molte riflessioni — scriveva Einaudi ad Alicata all’inizio  del 1941 — si è deliberato — e si attende la tua approvazione —    22 AE, Alicata (23 febbraio, 17 aprile e 1 giugno 1941); il 22 ottobre  1941 Alicata diviene collaboratore fisso, a 1.000 lire mensili; il 21 feb-  braio 1942 informa l’editore di aver acquistato 248 risme di carta. Cfr.  inoltre « Primato », II (1941), n. 8, p. 14.   23 AE, Muscetta (s.d.); io e Alicata — scriveva Muscetta all’editore il  20 febbraio 1941 — «ci auguriamo di poter collaborare attivamente  ‘all’ardita opera di cultura che la tua casa svolge con spirito giovanile e  con tenacia ».    286    Le origini della casa editrice Einaudî    che la collezione debba accogliere romanzi brevi italiani e stranieri,  di scrittori contemporanei e in genere « scoperti » da noi, dove, in  via d’eccezione, e per alimentare la scarsa produzione italiana con-  temporanea, si accoglierebbero libri dimenticati o rari, di indiscusso  valore artistico, tipo Mio Carso di Slataper. Quanto agli stranieri...  questo è il problema, ché escludendo gli americani e gli inglesi dob-  biamo per ora limitare praticamente la scelta ai russi e ai tedeschi 24.    In realtà fino al 1945, venuta meno con l’attacco  all’URSS anche la possibilità di presentare la narrativa russa  contemporanea, la collana si limitò a pubblicare testi italiani  tesi tuttavia a quell’originale ricerca della realtà, sia pur  non veristica, che contrassegna il primo volume apparso nel  1941, Paesi tuoi di Pavese. Pavese sollecitava infatti Ali-  cata a « predicare l’arte narrativa, e soprattutto quella  narrativa “come vita morale” che a voialtri ruotai deve  essere in votis » 5: un invito cui Alicata, per i gusti già  dimostrati nella sua intensa attività di recensore lettera-  rio ?*, era particolarmente sensibile, e che, preoccupato di  tenersi lontano « dalle piccole chiesuole di marca fioren-  tina », raccolse assicurando alla casa editrice Le trincee  di Quarantotti Gambini, Le donne fantastiche di Arrigo  Benedetti e proponendo, fra gli altri titoli, Una città dî  pianura di Giorgio Bassani, da lui già recensito su « La  Ruota » quando era uscito in edizione privata di pochi  esemplari sotto lo pseudonimo di Giacomo Marchi, e che  era « passato per molte ragioni quasi sotto silenzio dalla  critica », scriveva Alicata alludendo alle leggi razziali ??.    24 AE, Alicata (26 aprile 1941).   225 C. Pavese, Lettere 1924-1944, cit., p. 588 (28 aprile 1941).   226 Cfr. G. Tortorelli, Le formazione politica di un intellettuale comu-  nista: Mario Alicata 1937-1945, tesi di laurea discussa presso la Facoltà  di Lettere e Filosofia di Firenze nell’anno accademico 1976-77, e Id.,  Contributi alla formazione culturale e politica di Mario Alicata, in « Italia  contemporanea », XXX (1978), n. 132, pp. 93-98.   21 In C. Pavese, Lettere 1924-1944, cit., p. 589 (9 maggio 1941); il  21 novembre 1941 Alicata suggeriva a Einaudi la possibilità di rilevare  alcuni volumi della casa editrice Ribet Buratti di Torino (Comisso, Arturo  Loria, Stuparich, Sbarbaro, Slataper), e l'11 novembre 1942 la necessità  di ristampare l’Ibsex di Slataper, «che non solo è interessante per la  personalità tutta dell’autore, del cui acuto problema morale risente, ma  rimane per se stesso un documento critico prezioso sull'opera ibseniana »  (AE, Alicata).    287    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    I toni fortemente elogiativi — anche se attenuati in  una lettera a Einaudi ?* — della recensione che di Paesi  tuoi fece Alicata su « Oggi » ”’, la vivace rivista di Arrigo  Benedetti e Mario Panunzio, furono ripresi da Eugenio  Galvano su « Primato » — «ogni lettore può ritrovarvi  gli accenti di una sua esperienza passata e perduta, e il  senso di un paese ritrovato » °° —; e intensi furono i le-  gami fra l’ambiente della rivista di Bottai, cui collaborava  anche Pavese, e la casa editrice, esemplificati dalla pub-  blicazione in volume, presso Einaudi, de L’isola di Stupa-  rich (1942), già apparsa su « Primato ». Rimase un caso  isolato il giudizio negativo riservato da Alfonso Gatto a  La strada che va in città di Alessandra Tornimparte #! —  pseudonimo di Natalia Ginzburg —, e non tale comunque  da essere paragonato alle forti riserve di carattere morale  avanzate da « La Civiltà cattolica » nei confronti di Pavese  e della Ginzburg, i cui racconti, osservava Einaudi, riscos-  sero «i più vivi consensi e dissensi » proprio per la no-  vità di stile e di contenuto ?*: mentre in Paesi tuoi l’or-  gano dei gesuiti vedeva ritratta una « gente di campagna »    28 «Ho apprezzato molto il libro di Pavese, che mi sembra soprat-  tutto un racconto e per questo merita grandi lodi. Quantunque risenta,  è chiaro, l’influenza a volte eccessiva di certi americani e nel gusto d’usare  la lingua e la sintassi, e nel sapore e tono che attribuisce agli uomini e  ai loro gesti » (AE, Alicata, 1 giugno 1941).   29 Ora in M. Alicata, Scritti letterari, introduzione di N. Sapegno,  Milano, Il Saggiatore, 1968, pp. 84-88. Cfr. anche la notizia che Alicata  ne dava su «Primato», affermando che Pavese «rompe un silenzio  lungo e fruttuoso durante il quale egli sembra essere scampato alla reto-  rica, agli schemi che affliggono certa narrativa italiana contemporanea:  come prima sensazione d’una lettura che almeno prende e allaccia in un  suo tempo libero e prepotente » (II (1941), n. 11, p. 16, nel « Corriere  delle lettere » di Don Ferrante).   230 « Primato », II (1941), n. 14, p. 15; pur osservando che «le rea-  zioni psicologiche del personaggio narratore rimangono moralmente fiac-  che », Luigi Vigliani trovava «felicissima» l’utilizzazione del dialetto  piemontese (« Leonardo », XII (1941), p. 218).   231 Nel volume «la realtà osservata è ferma alla crisi di una società  ‘confusa [...]. Forse questo racconto piacerà, disposti come sono oggi  molti letterati, giunti in ritardo al ripensamento di un proprio compito  umano, a vedersi duri e manuali. Il racconto della Tornimparte è fradicio  di quest’enfasi moderna, semplicistico e blando altresi nella sua stessa  ‘acrisia », osservava Gatto (« Primato », III (1942), p. 107).   232 Einaudi a Ginzburg, 2 aprile 1942 (AE, Ginzburg).    288    Le origini della casa editrice Einaudi    che « non è quella che noi generalmente conosciamo. Qui  sembra piuttosto gente di malavita, dove predominano  tendenze istintive e animalesche », nella « dura » prosa  della Ginzburg coglieva « un indice di ciò che si è comin-  ciato a raccogliere anche in Italia dall’abbondante semina-  gione d’una sfrontata romanzeria straniera, e specialmente  americana » ”*. Alla ricerca di valori umani, laici e reli-  giosi, si muovevano anche i nuovi titoli della collana dei  « Poeti », già avviata nel 1939 con la riedizione degli Ossi  di seppia e la nuova raccolta de Le occasioni di Montale **:  accanto a una nuova edizione di Lavorare stanca di Pavese  apparvero infatti Con me e con gli alpini di Jahier la cui  fortuna fra i soldati era testimoniata dai reduci dalla  Russia — « l'hanno aperto per caso e non se ne staccano  più. “Fare il bene con disperazione” è diventato il loro  motto » 5 —, e le Poesie di Rilke nella traduzione di  Pintor, in cui Giansiro Ferrata, occupandosene su « Pri-  mato », vedeva l’opera di un poeta « da difendere contro  la sua stessa generosità di vita e contro un frequente  estetismo per seguirne la grande voce umana, semplice  infine come un grido ma dal fondo d’una religiosità vissuta  nei suoi slanci e nelle sue ferite » ?*.   In questi stessi anni gli aspetti « emotivi » presenti  nella produzione letteraria trovano modo, come vedremo,  di tradursi in un più marcato impegno civile nei volumi  della « Biblioteca di cultura storica » e in quelli della nuova  collana « Universale ». Persistono tuttavia, almeno fino al  1942, e in particolare nei « Saggi » — dove pur appaiono  le Memorie di madame de Rémusat, la cui critica a Napo-  leone era leggibile in senso antitirannico —, molti dei mo-  tivi spiritualistici d’anteguerra non disgiunti da elementi  contraddittori, che trovarono forse nel cattolico Felice  Balbo un sostenitore: « Balbo — è stato ricordato —  non aveva difese contro le proposte e le idee. Tutte le    233 «La Civiltà cattolica », 93 (1942), vol. III, pp. 56 e 371.   24 Per le vicende di queste edizioni cfr. E. Ferrero, Come nacquero  « Le occasioni », in « Libri nuovi Einaudi », IX (1977), n. 1.   235 AE, dalla redazione romana a Jahier (9 luglio 1943).   236 « Primato », III (1942), p. 232.    289    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    proposte e tutte le idee gli piacevano, lo sollecitavano, lo  mettevano in fermento » ?”. Se non ha luogo la proposta  di Balbo di tradurre The mystical elements of religion di  von Hiigel, il modernista « lodato da Loisy pur essendo  rimasto cattolico », e Bobbio non accetta La preghiera  dell’uomo di Alfredo Poggi per il suo insufficiente appro-  fondimento teorico, pur considerando che il saggio « sia  ispirato ad un alto senso religioso e morale, e sviluppi una  concezione razionale della vita religiosa, rifuggendo dal  dilagante irrazionalismo »; o mentre resta inedito, per le  vicende legate alla caduta del fascismo, L'infinito e il divino  terminato da Giuseppe Tarozzi nell’aprile 1943 ?*, Einaudi  pubblica nel 1942 Le origini del cristianesimo di Loisy —  che giungerà alla terza edizione l’anno successivo — e, su  suggerimento di Gioele Solari, Ragione e fede di Piero  Martinetti: con ciò la casa editrice si faceva banditrice di  una « religione della libertà » che, se potè essere accostata  a quella crociana, se ne differenziava nettamente per l’im-  portanza che l’animatore della « Rivista di filosofia » attri-  buiva all'elemento religioso, cui Martinetti aggiungeva  negli ultimi anni di vita, di fronte allo spettacolo della  guerra e della « barbarie », la riflessione sul pessimismo  di Schopenhauer tesa ad accettare « la realtà del male come  principio radicale, autonomo, forse non riducibile ad al-  tri » 2°. Accanto a Martinetti, nel 1941 Einaudi ripropone  Huizinga con la monografia del 1924 su Erasmo che aveva  già provocato forti riserve, non solo storiografiche, da parte  di Cantimori, per la « troppo evidente tendenza a mostrare  in Erasmo il tipo classico del dotto-gentiluomo, moralista  e umorista, lontano dagli interessi politici e religiosi che  possono scuotere e commuovere » °°; ma forse proprio  per questo, per la presentazione dell’umanesimo erasmiano    23 N. Ginzburg, Lessico famigliare, Milano, Mondadori, 1972, p. 143.   28 Cfr. Balbo a Bobbio, 1 aprile 1943, e Bobbio a Finaudi, s.d. (AE,  Bobbio), e il carteggio Tarozzi-Einaudi del 1942-43 (AE, Tarozzi).   239 Cfr. Bobbio a Finaudi, 21 maggio 1943 (AE, Bobbio}; E. Garin,  Cronache di filosofia italiana, cit., pp. 387-391; e la testimonianza di G.  Mita, dee prefazione di L. Salvatorelli, Vicenza, Neri Pozza, 1968,  pp. 75-76.   20 « Rivista storica italiana », s. V, I (1936), fasc. IV, p. 91.    290    Le origini della casa editrice Einaudî    « come un raffinato giuoco intellettuale entro le mura di un  nobile castello oltre le tempeste del mondo e le vicende  del tempo » ?, « Civiltà moderna » poteva accogliere nel  lavoro l’indicazione della « originalità umanistica » rispetto  al Medioevo, ma con l’accordo « fra l'esigenza del risorto  classicismo e quella del rigenerato cristianesimo »; men-  tre il recensore della « Rivista storica italiana », oppo-  nendo all’umanesimo « negativo » di Erasmo quello « co-  struttivo » del Rinascimento italiano impersonato da Gior-  dano Bruno, prendeva le distanze dall’autore per « quella  tipica mentalità pacifista che, per contingenze storiche fa-  cilmente individuabili, tende a fare dell’equilibrio e della  moderazione la massima espressione della civiltà uma-  na » dii x   Alle immagini catastrofiche de La crisi della civiltà  sembra invece richiamarsi, pur senza citare Huizinga,  Uomo e valore di Luigi Bandini — un allievo di Limentani  che aveva pubblicato presso Laterza un saggio su Shaftes-  bury —, che sviluppa il tema del contrasto fra progresso  economico e libertà individuale con accenti indubbiamente  retrivi. Il volume — che sarà ristampato nel 1949 con  una introduzione in cui l’autore manifesterà un atteggia-  mento paternalistico verso le masse popolari — è un atto  di accusa nei confronti del liberismo e del liberalismo  dell’800 che avrebbero portato « ad uno stato di cose  risolventesi proprio in un massimo di serviti per una gran  quantità di soggetti umani: il caso, precisamente, dell’indu-  strialismo moderno », per cui si era avuto il « rovescia-  mento del rapporto fra uomo e cosa », con l’« innalzamento  ad ideale supremo della realtà economica ». Ma la con-  danna del progresso si traduce nella istituzione di un preciso  rapporto tra la « morte » del cristianesimo, « la religione    2 Cfr. l'introduzione di E. Garin a J. Huizinga, L'autunno del Medio  evo, Firenze, Sansoni, 1961, p. XIII.   2 A. Corsano in «Civiltà moderna », XIII (1941), pp. 355-356, ed  E. Guglielmino in « Rivista storica italiana », LIX (1942), pp. 286-287.  Mario M. Rossi coglieva invece in Huizinga la « disapprovazione per  Erasmo », e giudicava l’Encbiridion militis christiani « opera d’un banale  bigotto » (« Nuova rivista storica », XXV (1941), pp. 304, 308).    291    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    della esaltazione dell’individuo », « la enorme avidità di  possesso e di successo che caratterizza l'umanità moderna »  e, soprattutto, lo sviluppo del marxismo:    una tale dottrina della necessità radicale ed ineliminabile dell’odio  di classe si sostituisce bruscamente e senza passaggi intermedi  proprio alla concezione cristiana nell'animo degli appartenenti ai  ceti sociali più umili, trovando d’altronde nelle effettive condizioni  della società moderna, nel suo sempre più esasperato affarismo, gli  elementi suggestivi più adatti a conferire ad essa la massima efficacia  di persuasione 28,    Si comprende quindi come il ragionamento di Bandini  incontrasse le simpatie de « La Civiltà cattolica » 24, mentre  offriva a Luigi Einaudi l’occasione per attribuire al capita-  lismo « storico » dell’800 la responsabilità della tendenza  verso i monopoli, « verso ciò che incatena ed asserve gli  uomini e di cui l’ultima e più perfetta e diabolica espres-  sione è il comunismo russo », ma anche per dissociarsi  dalla tesi « che la tendenza verso il colossale, distruttivo  dell’uomo, come persona autonoma, sia propria dell’eco-  nomia contemporanea, capitalistica o trafficante », poiché  la liberazione dell’uomo dalle cose era frutto precipuo  dell'economia di concorrenza’. Tesa a dimostrare la  necessità della religione contro il materialismo contem-  poraneo è anche un’opera di Bernhard Bavink che racco-  glieva alcune conferenze tenute in Germania prima della  « rivoluzione » del 1933, la cui traduzione, uscita nel    i 23 L. Bandini, Uomo e valore, Torino, Einaudi, 1942, pp. 25, 35, 161,  71, 179.   24 « La Civiltà cattolica », 93 (1942), vol. IV, p. 251.   5 L. Einaudi, Dell’uomo, fine o mezzo, e dei beni d’ozio, in « Rivista  di storia economica », VII (1942), pp. 121, 125. Pur riconoscendo la  tendenza monopolistica rilevata da Bandini, Mario Dal Pra osservava:  « Ciò non toglie tuttavia che i diritti e le pi profonde esigenze dell’indi-  vidualità non possano essere salvaguardate, ad esempio, mediante l’attua-  zione di quella terza via che lo stesso Luigi Einaudi propone, fra l’indi-  vidualismo da una parte e il collettivismo dall’altra » (« La Nuova Italia »,  XIV (1943), p. 39). Nel 1946 Antonio Giolitti — allora collaboratore  della casa editrice — criticherà Bandini per non aver saputo vedere che  il problema dell’individuo è problema politico e sociale, risolvibile sul  piano di quella lotta di classe che l’autore negava recisamente (« Studi  filosofici », VII (1946), pp. 81-84).    292    Le origini della casa editrice Einaudi    1944, era già stata messa in cantiere nel 1942. In essa  l’autore sosteneva che da scienziati « assai religiosi » come  Galileo, Keplero e Newton, si era sviluppata una tendenza  culturale approdata « ad un materialismo e ad un ateismo  completo ed aperto, quale è attualmente la concezione uffi-  ciale del mondo nella Russia bolscevica » — alla quale  era contrapposto l’esempio positivo della concezione so-  ciale e statale fascista e nazista —; la fisica moderna, con  Bohr e Planck, aveva invece « definitivamente distrutto  certe troppo frettolose obbiezioni contro la fede », abo-  lendo «il concetto classico di sostanza », e quindi ogni  meccanicismo, per cui si poteva concludere che ormai « fare  della fisica non significa, in fondo, far altro che ricapitolare  gli atti elementari compiuti da Dio » ?4   Un richiamo ai valori dello spirito poteva comunque  passare anche da altre vie meno sospette, dai grandi ro-  manzieri ottocenteschi o da I/ problema dell’inconscio di  Jung, tradotto nel 1942: l’opera infatti trova favorevole  accoglienza su « Primato », dove Muscetta considera « me-  rito fondamentale » di Jung aver ricordato    che la psicologia è scienza dell’anima e che nessuna indagine fisio-  patologica potrà mai risolvere lo spirito nella materia, la sua miste-  riosa e libera spontaneità, nell’evidente e misurabile rigore delle  leggi fisiche [...]. Pagine di vent’anni fa, che per vie assai lontane  dalla nostra cultura ci portano affascinanti conferme a quella fede  nei valori spirituali da cui non potremo mai aberrare senza recidere  le radici dell’essere nostro 29.    2% B. Bavink, La scienza naturale sulla via della religione, Torino,  Einaudi, 1944 (ediz. originale 1933), pp. 3, 50, 104; contro il bolscevismo,  « questa terribile filosofia sociale e storica, che distrugge ogni esistenza  degna dell’uomo, il “fascismo” yitaliano e tedesco propugna una conce-  zione sociale e statale " organica” per la quale lo Stato non è una costru-  zione artificiale, razionale, ma anzi la forma matura di una vera vita, della  vita del proprio popolo » (p. 24). Il 30 marzo 1942 Einaudi aveva chiesto  ad Alicata di sottoporre il volume di Bavink all’approvazione del Mini-  stero della cultura popolare (AE, Alicata).   21 « Primato », III (1942), p. 381; «la psicologia è una scienza cre-  tina », osservava invece Pintor dopo aver letto Jung nell’ottobre 1941  (Doppio diario, cit., p. 152). Il 22 maggio 1942 Alicata aveva fatto pre-  sente all’editore l’esistenza di difficoltà per l’autorizzazione della stampa  di Jung, per « certe idee morali e sociali dello Jung non completamente  conformiste » (AE, Alicata).    293    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    Lo stesso Ernesto De Martino vedeva nello teoria jun-  giana — che riteneva « suscettibile di una traduzione in  termini storicistici » — « una tipica espressione del tra-  vaglio spirituale, dei bisogni e delle aspirazioni della  nostra epoca. Noi siamo giunti a un punto in cui sentiamo  viva la necessità di riprendere possesso della nostra anima,  e di esplorarne le sue profondità sconosciute » **. Diver-  so, sia pure ambiguo, era il messaggio che si poteva rica-  vare dal pensiero degli eretici e degli utopisti, attorno al  quale si assiste, durante la guerra, a un risveglio d’interesse  in vari settori dell’intellettualità italiana, di cui sono testi-  monianza esemplare gli studi di Cantimori e la « Collana  degli utopisti » dell’editore Colombo. Nel 1941 esce, come  secondo volume della « Nuova raccolta di classici ita-  liani annotati », La città del sole di Campanella, un’edi-  zione critica condotta sul testo italiano del 1602, quella più  decisa in senso ereticale, da Norberto Bobbio: respinte  come fittizie le visioni di un Campanella precursore del  socialismo o dello Stato totalitario, in discussione con i  recenti tentativi di rivalutazione cattolica Bobbio ricorre  all’« idea della simulazione » per spiegare la conversione  del frate all’ortodossia, provocando le riserve de « La  Civiltà cattolica », che si appuntano anche sulle frasi di  Bobbio « che accennano con un velo di simpatia “ alle menti  stanche ma non asservite, agli animi sfiduciati ma non  vinti degli eretici isolati” » *°. A queste si potrebbe aggiun-  gere un accenno contro « la morale della potenza »; ma  il discorso di Bobbio si mantiene volutamente generico,  nel sottolineare il « fondamentale antistoricismo » del  pensiero di Campanella, per cui « c'è in quell’utopia qual-  cosa di selvaggiamente primitivo, che richiama alla mente  le comunità degli indigeni delle Nuove Indie; e c’è nello  stesso tempo qualcosa di lucidamente attuale, che fa pen-  sare ad una città operaia dell'America moderna » ?°. E    28 « Primato », IV (1943), p. 11.   24 « La Civiltà cattolica », 93 (1942), vol. IV, p. 50.   250 T. Campanella, La città del sole, testo italiano e testo latino a cura  di N. Bobbio, Torino, Einaudi, 1941, pp. 45, 50. Il 4 aprile 1941 Ginzburg  avvertiva Einaudi che Tommaso Fiore stava curando l’edizione de L'utopia    294    Le origini della casa editrice Einaudi    Luigi Einaudi poteva trarne spunto per sostenere che una  storia delle utopie non doveva analizzare i « tipi di società  comunistiche immaginati dagli utopisti » sulla base di una  problematica economica, ma «rigettare nel limbo delle  cose che non furono mai scritte le esercitazioni frigide di  letterati in cerca d’argomento in apparenza nuovo e met-  tere in luce le poche le quali risposero veramente ad un’e-  sigenza dello spirito » ?!: un modo, ancora una volta, per  esorcizzare il pericolo di un richiamo eterodosso, sia pur  « utopistico », ai problemi concreti della società contem-  poranea.    9. L’anticonformismo storiografico e l’« Universale »    Il settore che, ancora una volta, dimostra meglio di  altri e sempre più l’anticonformismo della casa editrice,  è quello storico, dove troviamo ora impegnati anche due  « laici », in diversa maniera crociani, come Giorgio Falco  e Adolfo Omodeo. Il primo — che, costretto dalle leggi  razziali a nascondersi dietro pseudonimo, era venuto affian-  cando agli originari interessi medievalistici o a quelli  per l’illuminismo, dopo la definitiva sconfitta dello Stato  liberale, un’attenzione a figure significative del Risorgi-  mento, come Pisacane — si occupò in particolare fin  dal 1941, assieme ad Alicata, Morra, Ginzburg, Giolitti,  Benedetti e Venturi, di quel progetto della collana « Scrit-  tori di storia » che avrà attuazione solo negli anni ’50,  anche per le difficoltà allora opposte dalla censura — la  Histoire de la conquéte d’Angleterre di Thierry, ad esem-  pio, fu bocciata come « inopportuna » nel 1942 ?*. Omo-    di Moro che uscirà nel 1942 presso Laterza (AE, Ginzburg).   21 L. Einaudi, Delle utopie: a proposito della Città del sole, in «R+  vista di storia economica », VI (1941), pp. 126-127. Luigi Bulferetti invi-  tava invece a collocare l’opera di Campanella nella realtà culturale e poli-  tica del Mezzogiorno («Rivista storica italiana », LVIII (1941), pp.  400-401).   252 Su Falco cfr. le osservazioni di A. Garosci, Una cosa non ancora  del tutto chiara..., in « Rivista storica italiana », LXXIX (1967), pp. 7-27.   253 Lettera di Alicata all’editore, 24 giugno 1942 (AE, Alicata).    295    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    deo, contattato nel 1939 da Ginzburg, fu prodigo di sug-  gerimenti — da testi di antichistica o di religione a I/  medioevo barbarico di Gabriele Pepe o il Murat di Angela  Valente —, e si era assunto anche l’impegno, come ricor-  derà ad Einaudi, di trovare per la casa editrice « colla-  boratori italiani, per equilibrare le traduzioni da lingue  estere: dovevo formare un complesso di collaboratori  giovani, perché nella situazione presente, con i “valvas-  sori” avviliti e rimbecilliti dalla speranza della feluca  accademica, non c’è nulla da fare » 4. Un contrasto con  Falco lo spinse tuttavia a passare nel 1941, con i suoi  progetti di lavoro, all’ISPI”5; ma aveva frattanto assi-  curato alla casa editrice due suoi lavori caratterizzati da  una dura polemica, da un punto di vista liberale, nei  confronti della corrente storiografia fascista sul Risor-  gimento.   La leggenda di Carlo Alberto, che raccoglieva saggi  già apparsi sulla « Critica », viene ad affiancare la revisione  della figura del sovrano piemontese condotta « con spie-  tato rigore » da Guido Porzio sulla « Nuova rivista sto-  rica », ed è una requisitoria feroce contro la storiografia  sabaudista espressa da Alessandro Luzio, di cui è messo  in luce « il semplicismo del giudizio moralistico e. l’indi-  stinzione dei valori storici », per investire anche Rodolico,  rappresentante di « una nuova sofistica che vuol confon-  dere il moralismo casistico con l’intellezione etico-politica  del processo umano ». Tributato un caldo riconoscimento  alla Storia del Risorgimento e dell'Unità d’Italia intrapresa    254 Cfr. le lettere a Einaudi del 25 agosto 1939, 28 ottobre e 24  novembre 1940, 3 gennaio, 13 febbraio, 8 marzo, 22° maggio, 2 e 17  giugno, 2 luglio 1941 (A. Omodeo, Lettere 1910-1946, Torino, Einaudi,  1963, pp. 612, 629-631, 635-636, 638-641, 644-651).   255 Cfr. la lettera a Einaudi del 9 settembre 1941 (ibidem, pp. 655-  656) e varie lettere in AE, Falco, Pepe: il contrasto riguardava rà ntrodu-  zione agli studi storici medievali di Pepe proposto da Omodeo; Muscetta  a Einaudi, 29 dicembre 1941 (AE, Muscetta); Ginzburg a Finaudi, 21  novembre 1941: « Ho visto il programma della nuova “Biblioteca storica”  dell’ISPI, che non solo nel nome, ma anche nelle opere mi sembra derivi  dalla Vostra, dato che i volumi annunciati sono tutte opere rifiutate da  Voi, se ben ricordo » (AE, Ginzburg); Carteggio Croce-Omodeo, a cura  di M. Gigante, Napoli, Istituto italiano per gli studi storici, 1978, passize.    296    Le origini della casa editrice Einaudi    da Cesare Spellanzon — « opera che da sola riabilita i  recenti studi risorgimentali, che in genere non brillano  per doti superiori » —, Omodeo nega recisamente, contro  gli apologeti di Carlo Alberto, l’esistenza di una profonda  opera riformatrice nel primo decennio di regno e di un  preciso e segreto disegno politico nazionale prima del  1848, e fa del sovrano « il discepolo ideale di Giuseppe de  Maistre », un convinto « cattolico-legittimista », accusando  lo stravolgimento dei veri valori del Risorgimento operato  da quegli storici che non condannavano le repressioni del  1833, pur cogliendo l’occasione, da buon liberale, per una  non necessaria puntata antisovietica *. La forza delle argo-  mentazioni critiche di Omodeo è tale da ottenere un ricono-  scimento anche sulla codina « Rassegna storica del Risor-  gimento », ma il significato civile e politico del suo lavoro  provoca subito sulla stessa rivista un duro intervento di De  Vecchi ?”. Tuttavia l’invito rivolto a Luigi Russo da Omo-  deo — ferito da questa e da altre critiche —, che «si    25% A. Omodeo, La leggenda di Carlo Alberto nella recente storio-  grafia, Torino, Einaudi, 1940, pp. 10, 13, 15 n., 27, 45, 47, 49, 111, 120;  e a p. 16, criticando lo scarso peso dato dagli storici di tendenza naziona-  lista ai processi del 1833: «È vero che gli odierni processi di polizia di  cui è maestra la Russia di oggi hanno ottuso la nostra sensibilità morale,  e che al confronto i processi del ’33 possono apparire cosa mitissima... ».  Dell’importanza di questo volume, come del Gioberti, non tiene conto  A. Garosci, Adolfo Omodeo. III. Guida morale e guida politica, in « Ri-  vista storica italiana », LXXVIII (1966), pp. 140-183.   25 Cfr. la recensione di Paolo Romano (Paolo Alatri) in « Rassegna  storica del Risorgimento », XXVIII (1941), pp. 555-557; ma C.M. De  Vecchi di Val Cismon, Ancora di Carlo Alberto: «Questo cercare di  attaccarsi a forme razionalistiche della storia affermando o demolendo  uomini la cui azione può avere riflessi sulla vita presente, è da una parte  errore di storico ma è, peggio, mancanza al dovere di uno storico in  quanto cittadino [...] rilevando le cattive intenzioni politiche di codesti  ingiusti giustizieri [di Carlo Alberto] e non rinunziando a definirli  secondo i loro meriti, vogliamo astenerci dal scendere nel campo della  politica cui pure saremmo chiamati dal contegno loro » (« Rassegna sto-  rica del Risorgimento », XXVIII (1941), pp. 608, 613). Negativo il  giudizio di G. Ferretti (La leggenda di Carlo Alberto, in « Primato »,  I (1940), n. 14, pp. 15-17), mentre Luigi Bulferetti, pur prendendo le  distanze da alcune affermazioni di Omodeo, riteneva, a proposito dello  Statuto, che «si avvicinasse molto più alle dottrine di Carlo Alberto  (e fosse quindi più nel vero) l’interpretazione datane nel decennio dai  reazionari, che non quella dei liberali di sinistra » (« Rivista storica ita-  liana », s. V, V (1940), p. 463).    297    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    prendesse da parte di persone di buona volontà posizione  nelle riviste di Codignola e in qualche altra che ci fosse  aperta » 2*, fu subito raccolto, a testimonianza dell’eco  non solo storiografica suscitata dall'opera: cosi non solo  « La Nuova Italia » con Vinciguerra o « Civiltà moderna »  con Pieri, ma anche altre riviste ormai di fronda come  « Oggi », con Umberto Morra — tutti intellettuali legat.  in vario modo alla casa editrice —, si lanciano in lodi  incondizionate al volume, fino ad arrivare a una vera e  propria difesa politica dell’autore sulla « Nuova rivista  storica », sempre ad opera di Pieri: dopo aver affermato —  riecheggiando la recensione di Edmondo Cione al Mazzini  di Bonomi — che «certa storiografia del Risorgimento  pare tenda a risolversi in un capovolgimento di valori, nel-  l’apologia di reazionari, di capibanda, di aguzzini, e nella  diffamazione dei nostri cospiratori e dei nostri martiri »,  Pieri ricordava come Omodeo,    che ha vissuto sul Carso e sul Piave, prima che negli archivi e nelle  biblioteche, la passione del Risorgimento italiano, e che fin da allora  rinunziò agli agi e alle prebende delle retrovie, può a buon diritto  assumersi il nuovo onere e il nuovo onore. Quanto grande del resto  sia oggi l’influenza dell’Omodeo, negli studi del nostro Risorgimento,  presso ogni categoria di studiosi, non esclusi i suoi più illustri avver-  sari, è ormai a tutti manifesto. Questo è il premio maggiore, per il  chiaro studioso, e la migliore prova del generale consenso che le sue  vedute vanno acquistando, nonché del posto preminente che oggi a  lui compete nel campo della nostra cultura storica 299.    Analoga risonanza ha, nelle riviste di fronda, il volu-  metto su Gioberti, che sfata l’immagine gentiliana del  « profeta » del Risorgimento dal « pensiero in sommo  grado speculativo insieme e realistico », per mettere in  rilievo, accanto alle continue oscillazioni politiche, le ca-  renze filosofiche e il sacrificio giobertiano « dell’idea libe-  rale al cattolicismo », contrapponendogli il « liberalismo  laico » di Cavour che, « ben lungi dall’essere agnostico,    258 Lettera del 7 ottobre 1940 (A. Omodeo, Lettere, cit., p. 628).   259 « La Nuova Italia », XIII (1942), pp. 64-66; « Civiltà moderna »,  XIII (1941), pp. 91-94; «Oggi», 16 novembre 1940; «Nuova rivista  storica », XXV (1941), pp. 126-131.    298    Le origini della casa editrice Finaudi    garantiva lo svolgimento autonomo delle fedi intrinseche  alla cultura ». E mentre Gentile vedeva nell’azione « popo-  lare » di Gioberti « uno degli ammonimenti tuttora più vivi  della sua politica nazionale », « Omodeo dichiarava la neces-  sità di insistere sui suoi « difetti » ed « errori » « per ricor-  dare a certo neoguelfismo di cattiva lega, che va risorgendo,  a certo neogiobertismo che ammicca vantandosi furbo, che  l’esperienza giobertiana è irriproducibile, non ha possibilità  di sviluppi in linea retta; il suo retaggio attivo fu assor-  bito nella sana politica del Cavour » 2°. Un’interpretazione  laica, questa, che proveniva dall'ambiente crociano, il cui  legame con la casa editrice è attestato anche dall’attenzione  che alla produzione storiografica di Einaudi riserva « La  Critica ». Spicca in particolare la recensione al Medioevo  barbarico d’Italia di Gabriele Pepe (1941) — che era  stato stroncato dai giudici dell’Accademia d’Italia! —,  ritenuto invece da Croce « una delle opere più pregevoli »  della « nuova storiografia » cresciuta in Italia negli ultimi  quindici anni, non cronachistica o filologica, materialistica,  economica, nazionalista ed etnologica, « ma semplicemente  e puramente umana, cioè etica (il che non vuol dire mora-  listica) », trovando in ciò concorde il giudizio di Luigi Ei-  naudi; e, con evidente allusione all’alleanza del fascismo  con la Chiesa e col nazismo, Croce faceva sue le tesi prin-  cipali del volume — giudicate con perplessità o come  troppo tendenziose da altri recensori —, secondo le quali  i Longobardi « furono sostanzialmente un elemento nega-  tivo » nella storia d’Italia, cosî come il potere temporale  della Chiesa « non solo fu dannoso alla moralità e alla  civiltà, sî anche dannoso alla stessa azione, quale che sia,    260 A. Omodeo, Vincenzo Gioberti e la sua evoluzione politica, Torino,  Einaudi, 1941, pp. 25, 38, 56, 62; per i giudizi di Gentile, quali si  erano venuti configurando fin dal 1919, cfr. ora G. Gentile, I profeti del  Risorgimento italiano, terza edizione accresciuta, Firenze, Sansoni, 1944,  pp. 69, 125. L’anonimo recensore della « Nuova rivista storica » notava  che il carattere di Gioberti « fu piuttosto di teorico e di sognatore, an-  ziché di politico mirante alla realtà dei fenomeni politici e nazionali »  (XXVI (1942), p. 112); analogo il giudizio di U. Morra, Gioberti e  Garibaldi, « Oggi », 25 ottobre 1941.   261 Cfr. G. Turi, Le istituzioni culturali del regime fascista durante  la seconda guerra mondiale, cit., p. 11.    299    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    della Chiesa in quanto istituto religioso [...] perché il  potere temporale non le dava ma le toglieva forza, non le  accresceva o garantiva libertà, ma la legava. Né è detto che  anche ai nostri giorni essa non abbia sollecitato e accettato  un dono, un piccolo dono, di Danai » ?°.   Sulla linea di una continuità di intervento liberale  compare ancora una volta Salvatorelli col Profilo della  storia d'Europa, in cui è sempre presente l’interpretazione  multisecolare dell’unità della storia italiana, e torna un  motivo che abbiamo già trovato in Dawson, quello di una  « civiltà unitaria europea » la cui otigine è retrodatata  rispetto all'opera dello storico inglese, con forti — e attua-  lizzati — elementi di differenziazione dall’Oriente, in  quanto la civiltà europea sarebbe stata « preparata dai  caratteri comuni che i popoli europei già all’inizio dell’età  storica presentavano rispetto all’Oriente [...]. Fin da  adesso, insomma, l'Europa di fronte all’Asia rappresenta  l’individualità di fronte al collettivismo, la libertà di fronte  al dispotismo, il progresso di fronte all’immobilità » 2°.  Espressione, come il Sommario della storia d’Italia, di quel  « nervoso e moderno enciclopedismo » di cui ha parlato  Sasso °*, il Profilo non esprime particolari valutazioni sulle  vicende della storia europea, se non nell’unificazione, tipi-  camente liberale, dell’esperienza della Russia bolscevica  e dei regimi fascista e nazista sotto la stessa etichetta di  « Europa autoritaria », e ciò nonostante nel volume ap-  paiano, come novità nella storiografia di Salvatorelli, fre-  quenti accenni alla storia economico-sociale, anche se in  prevalenza relativi alla storia antica, e non senza impto-  prie attualizzazioni °°. Ma, forse proprio per avere le stesse    22 «La Critica », XXXIX (1941), pp. 372-374; L. Einaudi, Sui fattori  (economici morali ecc.) delle variazioni storiche, in «Rivista di storia  economica », VI (1941), pp. 184-189. Una certa « tendenziosità » di Pepe  era colta da E. Chichiarelli (« Nuova rivista storica », XXVI (1942), pp.  301-302) ed E. Farneti (« Oggi », 22 novembre 1941).   23 L. Salvatorelli, Profilo della storia d'Europa, Torino, Einaudi,  1942, pp. 24-25.   Ri Sasso, La «Cultura» nella storia della cultura italiana, cit.,  p. A    %5 Ad esempio, a proposito di Atene nel VI secolo a.C.: «È da    300    Le origini della casa editrice Einaudi    caratteristiche del Somzzario, la fortuna dell’opera fu note-  vole, secondo la profezia di Ginzburg — per il quale il  Profilo, scriveva dal confino il 5 marzo 1942, « di sicuro  aumenterà considerevolmente la diffusione della vostra col-  lezione storica » #4 —, e non certo indifferenziata, se nel  concedere il nulla osta ai volumi della casa editrice da  introdurre in Germania il Ministero della cultura popolare  suggeri di «levar via il Salvatorelli » ”, Infatti, pur  lasciando scontenti i cattolici e i crociani — lamentandosi,  i primi, delle « due pagine striminzite dedicate all’avvento  del cristianesimo », e, i secondi, della mancanza di una  « superiore giustificazione ideale delle notizie raccolte »  a differenza della Storia d'Europa di Croce ?* —, il volume  riscuoterà nel 1943 l’elogio appassionato di Giovanni Mira,  ospitato anch'egli, già aderente al Partito d'Azione, sulle  pagine della « Nuova rivista storica »:    Nella nostra età tempestosa — egli scriveva —, lontani come  siamo dal dogmatismo della storiografia cattolica, dall’orgoglio razio-  nale della volteriana, dall’ottimismo progressista della ottocentesca,  questo sforzo compiuto dal Salvatorelli per stringere in breve la  storia del nostro continente, per far capire anche agli ignari come i  fatti si sono svolti, con una narrazione cosi lucida da non aver  bisogno di commento, con una parola cosî piana da essere intesa da  tutti, col solo interesse di stimolare in sé e negli altri il riesame del  passato, con la sola morale di ritrovare nei fatti umani il lume del-  l’umanità: quest’opera è forse il più sano cominciamento che si possa  dare alla storiografia di domani ?9.    notare come tra i grandi proprietari ed i piccoli agricoltori si fosse for-  mato un partito medio, che potremmo chiamare della borghesia » (Profilo  della storia d'Europa, cit., p. 39).   #6 AE, Ginzburg.   26 Alicata a Einaudi, 30 maggio 1942 (AE, Alicata).   268 Cfr. «La Civiltà cattolica », 94 (1943), vol. II, p. 52, e la recen-  sione di E. Chichiarelli ne «La Nuova Italia », XIV (1943), p. 37.   26 « Nuova rivista storica », XXVII (1943), p. 123. L'opera di Salva-  torelli era presentata da Pietro Amendola al fratello Antonio, in una  lettera del 28 aprile 1941, come una « cronaca », « tranne che per quanto  concerne le questioni religiose o dei rapporti tra gli Stati e la Chiesa,  che è come sai il cavallo di battaglia del Salvatorelli: allora abbiamo  della storia vera e propria » (in Lettere di antifascisti dal carcere e dal  SEO, peo di Giancarlo Pajetta, Roma, Editori Riuniti, 1962, vol.   , P. 349).    301    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    Il volume di Salvatorelli testimonia la necessità, av-  vertita dalla casa editrice nel corso della guerra, di confron-  tarsi con le vicende degli altri paesi e di ripensare grandi  momenti o figure del passato, in saggi che, se si eccettua la  cattiva cronaca del Cavour e Napoleone III di Giulio Del  Bono (1941) ”°, accoppiano sempre alla dignità scientifica  una notevole capacità narrativa, e quasi sempre si fanno  portatori di un messaggio politico. Nel 1941 appaiono due  studi di George Macaulay Trevelyan: la Storia dell’In-  ghilterra nel secolo XIX, tradotta da Umberto Morra,  riscosse il plauso di intellettuali di diverso orientamento,  come Eugenio Curiel, che la giudicò « uno dei pit bei libri  di storia usciti in questi ultimi tempi » per l’« acutissima  indagine sociale », ed Ernesto Rossi, che la riteneva « frut-  tuosa, per la formazione della educazione politica. Contro  l’irrazionalismo, oggi tanto diffuso, mostrare gli sforzi coro-  nati dal successo di tanti uomini egregi del secolo scorso, che  si proposero di modificare l'ordinamento esistente per  renderlo più adeguato ad un ideale di superiore civiltà  [...] significa fare una iniezione di ottimismo, e stimolare  all’azione consapevolmente diretta al pubblico bene » ?!.  La rivoluzione inglese del 1688-89 era presentata da Ginz-  burg come quella che aveva «improntato del proprio  formalismo e conservatorismo tutta la vita pubblica nazio-  nale » fino ad allora, tramandando tuttavia anche il prin-  cipio della tolleranza politica e religiosa — e Ginzburg  invitava il lettore italiano a leggere le conclusioni di Tre-  velyan, che vedeva nella rivoluzione « una vittoria della  moderazione », e valorizzava il sistema parlamentare in-    290 Giudicato dall’editore libro « magistralmente condotto» (lettera  del 21 ottobre 1941, in AE, Del Bono), il lavoro era negativamente recen-  sito sulla « Rassegna storica del Risorgimento » (XXX (1943), pp. 511-512)  da Paolo Romano (Alatri), che gli contrapponeva l’interpretazione omo-  deiana di Cavour.   21 Cfr. E. Curiel, Scritti 1935-1945, a cura di F. Frassati, Roma,  Editori Riuniti, 1973, p. 229 (segnalazione apparsa nel « Bollettino del  Fronte della gioventii » del febbraio 1944), e la lettera di Ernesto Rossi a  Luigi Einaudi del 18 novembre 1941 (AFE, Rossi). Salvatorelli apprezzò  l’opera in quanto correggeva l’immagine stereotipa della vita politica  inglese come semplice contrapposizione di due partiti (« Nuova rivista  storica », XXVI (1942), pp. 81-86).    302    Le origini della casa editrice Einaudi    glese nei confronti di « poteri accentrati di un nuovo tipo  e ben più formidabile che non quelli dell'Europa dell’  ancien régime », quali quelli instauratisi in Europa nel  dopoguerra 7°. Il significato politico dell’opera è confer-  mato dai giudizi negativi di Carlo Morandi, per il quale,  di fronte alle novità del secolo XX, l'Inghilterra non era  stata in grado di rivedere le sue posizioni, « preferendo  rinchiudersi nella difesa del passato » — « Ora, veramente,  i motivi fecondi della rivoluzione liberale del 1688 possono  dirsi esauriti » ?? —, e di Cantimori, pur già in contatto  con la casa editrice, che la giudicava « un saggio di apolo-  getica costituzionale » dalla visione conservatrice, dato  l’« insistente paragone, a tutto detrimento di quest’ultima,  con la Rivoluzione francese », e un documento « della men-  talità degli ambienti universitari più vicini alla classe  politica attualmente dominante in Inghilterra » ?*.   Sempre nel 1941 appare — non sappiamo se prima  della guerra all’URSS — la Storia della rivoluzione russa  di William H. Chamberlin, un’opera che l’editore aveva  in preparazione fin dal 1938 — opponendola, come « obiet-  tiva », a quella degli Webb proposta da Schiavi ?° —, e  tradotta da Mario Vinciguerra: un lavoro in cui l’autore  dell’Età del ferro, pur attenuando gli accenti apocalittici  della prima opera per tentare una esposizione « narrativa »  degli avvenimenti russi dal 1917 al 1921, si presta a una  lettura fortemente antisovietica da parte di Omodeo, il  quale osservava che, « per quanto in vari punti l’autore  indulga a correnti punti di vista materialistico-storici e a  connessi schemi classistici », sfuggiva in realtà « agli schemi  generici e vuoti del marxismo », per presentare come deus  ex machina della rivoluzione « la non amabile persona di  Vladimir Ulianov detto Lenin », uomo spregiudicato, con    I G.M. Trevelyan, La rivoluzione inglese del 1688-89, traduzione  di C. Pavese, Torino, Einaudi, 1941 (ediz. originale 1938), pp. IX-XI  Pia di L. Ginzburg), 168, 171 (citiamo dalla seconda edizione del  1945).   2733 « Primato », I (1940), n. 15, p. 20 (siglato CM.).   274 «Leonardo », XI (1940), pp. 321-322; analogo il giudizio di  Tullio Vecchietti {« Rivista storica italiana », LVIII (1941) pp. 106-113).   215 Finaudi a Schiavi, 18 febbraio 1938 (AE, Schiavi).    UA)    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    « un legame scarsissimo col mondo circostante », caratteriz-  zato dal « doppio aspetto del fanatismo implacabile e della  scaltrezza opportunistica », forgiatore di un partito che  « ricorda insieme il primitivo Islìm e la Compagnia di  Gesù » e « concepisce la dittatura sugli schemi del regime  zaristico: dispotismo di polizia » ?°.   Analoghi motivi di discussione politica sono suscitati  anche dalla presentazione di grandi individualità storiche  di un più lontano passato, e provocano ora incrinature all’  interno della casa editrice, e fra questa e l’ambiente di  « Primato » o de « La Critica ». Il Richelieu di Carl J.  Burckhardt è visto dal curatore dell’opera Bruno Revel,  sulla traccia dell’interpretazione di Belloc — contestata  da Salvatorelli —, come fondatore dell'Europa moderna  e del nazionalismo,    artefice di quell’ordine, che proprio ora ci sta crollando davanti  cosi spettacolosamente, fino a incidere anche nell’ambito della sfera  privata. Tanto più se una quasi ironica coincidenza di suoni con-  fonda due nomi cosî ambigui come Versaglia e Vesfaglia; sf che nou  sai se la travolgente e frastuonante insurrezione contro alla pace di  Versaglia non travalichi ora tali limiti, e non si spinga per avventura  più addietro nei secoli, scalzando dalle basi precisamente l’intero  ordinamento europeo, quale era stato introdotto e legalizzato nella  storia dalla pace di Vesfaglia 27.    E contrastanti sono, nel 1942, due opere che presentano  la differente concezione dello Stato di rilevanti persona-  lità della Grecia antica: da un lato l’ Alessandro il grande  di Georges Radet, che percorre le vicende del biografato alla    2î6 La recensione, apparsa su «La Critica» del 1943, è ora in A.  Omodeo, I/ senso della storia, a cura di L. Russo, Torino, Einaudi, 1970,  pp. 362-365.   297 C.J. Burckhardt, Richelieu, traduzione di B. Revel, Torino, Einau-  di, 1941 (ediz. originale 1900), p. 9. Oltre a contestare la tesi di Belloc,  Salvatorelli sosteneva anche l’esistenza di contrasti fra poteri temporale  e spirituale nel Medioevo: «Fa della mitologia, o della fantasia, il  Revel quando ci parla nella sua prefazione di “quella felice coincidenza  di una cattedra sovrumana e di un ordinamento terreno” che sarebbe  esistita prima dell’età moderna » (Assolutismo del Richelieu, in «Pri-  mato », II (1941), n. 20, pp. 15-16). Notava l’analogia con la tesi di   oc anche Mario M. Rossi nella recensione all’edizione tedesca del  1937 («Nuova rivista storica », XXIII (1939), pp. 266-267).    304    Le origini della casa editrice Einaudî    luce della sua ispirazione religiosa — suscitando la critica  di Omodeo che invitava a una più concreta analisi storico-  politica —, fa dire al curatore che nell’opera di Radet  si vede «sorgere e progressivamente attuarsi il gene-  roso ideale dell’eguaglianza di tutte le genti in un mon-  do pacificato e concorde » ?*; dall’altro Werner Jaeger  — contro gli storici tedeschi dell’800 che, come Droysen,  avevano esaltato l’opera di unificazione « nazionale » di  Filippo il Macedone e di Alessandro, visti come precut-  sori di Guglielmo I — difende il « martire della libertà  greca », Demostene: ed è significativo che mentre su « Pri-  mato » Gennaro Perrotta valorizza la politica egemonica  di Filippo e di Alessandro contro l’« angusta » difesa della  libertà di Atene fatta da Demostene — « ch'era libertà  comunale, municipale » —, più tardi, sulla « Nuova rivista  storica », Giovanni Costa sosterrà la tesi di Jaeger facen-  done proprie le parole — «la lotta di Demostene è im-  mortale, per mortale che sia stata la nazione per cui com-  batté ». Una tesi che già dieci anni prima la stessa rivista  aveva fatto propria, prendendo spunto dal Demostene e  la libertà greca pubblicato nel 1933 da Piero Treves presso  Laterza ?°.   Non mancano quindi elementi di contraddizione all’in-  terno della casa editrice, al di là dei limiti posti dalla  censura che non permettevano di superare la linea liberale  di Omodeo o quella moderata di Trevelyan. Sembra tuttavia  di avvertire, al tempo stesso, una maggiore cautela verso  la casa editrice da parte dell'ambiente crociano — come nel  caso di Chamberlin — e di « Primato » che, con l’inasprirsi    8 G. Radet, Alessandro il Grande, traduzione di M. Mazziotti, To-  rino, Einaudi, 1942 (ediz. originale 1931), p. XII. La recensione di Omo-  deo, apparsa su «La Critica » del 1943, è ora in A. Omodeo, Il senso  della storia, cit., pp. 48-52. Secondo Giovanni Costa Radet operava una  « esagerazione magnificatrice » dell’opera di Alessandro, nel quale invece  « si sente l’autocrate, pi che l’uomo di genio » (« Nuova rivista storica »,  XXVIII-XXIX (1944-45), pp. 338-339).   29 W. Jaeger, Demostene, traduzione di A. D'Andrea, Torino, Fina  di, 1942 (ediz. originale 1938); G. Perrotta, Demostene, gli antichi © i  moderni, in «Primato », III (1942), pp. 417-418; G. Costa in « Nuova  rivista storica», XXVIII-XXIX (1944-45), pp. 335-337; E. Cione in  « Nuova rivista storica », XVII (1933), pp. 557-559.    10)    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    della guerra, si arrocca in una posizione di minore « aper-  tura » culturale, accompagnata, alla fine del ’42, dalla ces-  sazione della collaborazione di Alicata e dal diradarsi di  quella di Muscetta. Uno sguardo ai progetti della casa  editrice in questo periodo, che riguardano in particolare  il settore storico, può aiutarci a spiegare questa iniziale  presa di distanza. Alcune proposte, in questo campo,  tendono infatti a ricostruire una tradizione democratica  nel pensiero politico italiano a partire dalla Rivoluzione  francese, e non perdono il loro significato per il fatto di  cadere nel nulla — anche per le traversie della casa editrice  dopo il 25 luglio —, o di essere realizzate, in gran parte,  dopo la Liberazione.   Si comprende come, in questo quadro, non abbiano  esito le proposte avanzate da Maturi nel 1942 ?”, scarsa-  mente innovative nella tematica e, forse, ritenute poco  attraenti pet i legami di Maturi con Volpe, o quella di  Vittorio Gorresio, che nel 1941 aveva terminato un saggio  sulla « storia del bolscevismo in Italia dal 1917 al 1921 »  in cui sottolineava « l’isolamento del partito comunista dal  grande tronco del socialismo », ma che fu sottoposto al  giudizio di Pavese che lo ritenne « superficiale » ?!. Nel  1941 Piero Pieri, che nella « Nuova rivista storica » aveva  segnalato con simpatia alcuni dei titoli più innovativi di  Einaudi, propose una raccolta di saggi di storia militare che  « non furono terminati per il Volpe, perché io non volli  più sottostare alle osservazioni e mutilazioni di due militari  di professione messi alle costole all’Accademico », tanto  da dover subire le « sue basse vendette » 2; e mentre  Cantimori, fra gli altri progetti, avanza quello di una rie-  dizione de La repubblica romana del 1849 del mazziniano  ministro degli esteri della repubblica Carlo Rusconi ?*    280 Maturi propose volumi su Lord Bentinck e i Borboni di Sicilia,  Nigra, e Le interpretazioni del Risorgimento, frutto del corso pisano del  1942-43 (AE, Maturi).   281 Gorresio a Einaudi, 20 novembre 1941 (AE, Gorresio}; Einaudi ad  Alicata, 13 gennaio 1942 (AE, Alicata).   282 Pieri a Einaudi, 6 luglio 1941 (AE, Pieri).   283 Nel 1941-42 l’editore si dimostrava interessato a questa e ad altre    306    Le origini della casa editrice Einaudi    Falco propone, pur con riserve legate alla tendenza « mate-  rialistica » dell’autore, il volume di Domenico Dematco su  Il tramonto dello Stato pontificio — che sarà pubblicato  nel 1949 —, e una scelta di scritti di Giuseppe Montanelli  in cui, osservava, « andrebbe conservato quanto riguarda  la coltura del tempo, problemi vivi anche ai nostri giorni,  come la democrazia, il socialismo, la personalità del Mon-  tanelli, soprattutto in relazione coi pensatori e politici  contemporanei » ‘4. Alessandro Schiavi, che aveva già pro-  mosso presso Laterza la pubblicazione di alcune memorie  di esponenti socialisti, con la speranza di poter continuare  una battaglia politica ”, propone nel 1941 — senza suc-  cesso per il timore dell’editore di incorrere nella censura  — un saggio di Zibordi sulla Storia del partito socialista  italiano nei suoi congressi, e nel 1942 un proprio volume  su I contadini e i socialisti italiani che si sarebbe giovato  di note stese da Nullo Baldini. Il 1° settembre 1942, infine,  Schiavi inviava a Einaudi tre cartelle di un suo Proezzio  al carteggio Turati-Kuliscioff, suscitando l’interesse dell’  editore, che cercherà di avviare la pubblicazione nell'agosto  1943 perché « il libro — scriveva — potrà riuscire som-  mamente opportuno e formativo, nelle prossime lotte  sociali »; gli scopi politici dell’edizione erano ben chiari  anche a Schiavi, per il quale la giovane generazione,    che non ha avuto modo di conoscere i pionieri e gli artieri del  movimento sociale in Italia trascinati via dalla morte e dall’esilio,  inibita di leggerne la vita e l’opera nei libri perché arsi e sequestrati  come apportatori di veleni, ignara del senso di libertà che tien deste  e aperte le menti alle varie correnti del pensiero e dell’opinione e  della critica che le scerne e le affina, e che non è quindi in grado  di giudicare di quel movimento che fece di una plebe un popolo,    proposte di Cantimori, come la traduzione di Politik als Beruf e Wissen-  schaft als Beruf di Max Weber (AE, Cantimori).   284 AE, Falco.   285 Significativa la lettera inviata il 24 gennaio 1932 da Schiavi a  Felice Anzi per incoraggiarlo a scrivere le sue memorie: «Non tutto  sparisce colla inerzia imposta, oltreché dalle circostanze, dagli anni, e  un po’ della semente gettata germoglierà, e il nostro spirito rinascerà in  quelle particelle che andranno a formare la società quale noi l’abbiamo  sognata. Ed in tal senso il nostro io non morirà » (ACS, Casellario politico  centrale, b. 4689, fasc. 6133).    307    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    attraverso lotte, errori, cadute, e sforzi innumerevoli, se non nelle  leggende sconce e vituperose di avversari senza fede in un ideale,  senza rispetti umani, e sol gonfi di sé medesimi, potrà imparare da  queste lettere di che ‘lagrime e di che sangue l’ascensione delle classi  lavoratrici italiane voluta, preparata ed avviata da un pugno di  uomini colla sola forza della persuasione e della comprensione, della  solidarietà e della educazione [sic] 286.    Sempre nel 1942 Alicata, mentre rifiutava la proposta  di tradurre Qu'est-ce que la proprieté? di Proudhon, perché  « a parte il coraggio di certe formule diventate famose, è  un po’ fiacco nell’analisi dialettica », si faceva portatore  della proposta di Gastone Manacorda — il quale nell’ot-  tobre dichiarava di averne già terminato la traduzione —  di pubblicare la Storia della congiura degli uguali di Filippo  Buonarroti — indicato nel 1937 da Franco Venturi, su  « Giustizia e Libertà », come il « primo egualitario ita-  liano » ” —, e del Sistemza politico degli uguali di Babeuf.  Il primo testo — che sarà pubblicato nel 1946 — incontrò  l’approvazione di Einaudi ?*, che nello stesso anno pubblicò  il Saggio su la Rivoluzione di Pisacane. Dai progetti si era  ormai passati alle prime realizzazioni; e la storia di questa  edizione non è meno significativa delle pagine di prefa-  zione scritte da Pintor e dell’eco che essa suscitò. Nell’e-  state del 1941 Aldo Romano, che nel corso degli anni ’30  si era già occupato della figura di Pisacane, aveva proposto  a Einaudi una scelta di suoi scritti, che in un primo tempo  avrebbe dovuto curare per la collana « Studi e documenti  di storia del Risorgimento » diretta da Gentile e Menghini  presso Le Monnier, e che non prevedeva il saggio sulla    286 Schiavi a Einaudi, 29 agosto 1941 e 1 settembre 1942, ed Einaudi  a Schiavi, 3 agosto 1943 (AE, Schiavi).   281 Gianfranchi [F. Venturi], F. Buonarroti, primo egualitario italiano  1837-1937, in « Giustizia e Libertà », 13 agosto 1937.   288 Per Proudhon cfr. Alicata a Einaudi, 18 giugno 1942 (AE, Alicata);  per Babeuf e Buonarroti, Alicata a Einaudi, 11 maggio 1942 (AE, Alicata);  il 18 luglio 1942 Fabrizio Onofri scriveva all'editore di avere esaminato  assieme ad Alicata una scelta di scritti di Babeuf (AE, Onofri); nel  marzo 1943 Alessandro Galante Garrone inviava lo schema di un suo  volume su Mazzini e Buonarroti, mentre l’editore lo avvertiva che dal  giugno 1942 Gastone Manacorda era stato incaricato di tradurre la Conspi-  ration pour l’égalité di Buonarroti (AE, Galante Garrone).    308    Le origini della casa editrice Einaudi    Rivoluzione. Alle obiezioni dell'editore, che chiedeva solo  quest’ultimo, Romano rispondeva che il terzo saggio era  « solo una parte dell’opera di Pisacane, ma non certo la  più importante. Staccata dalle altre rappresenta un fram-  mento che ora non vale la pena di pubblicare [...]. Il  terzo saggio contiene, nelle sue pagine migliori, il pensiero  sulla quistione sociale, ma non certo tutto il pensiero poli-  tico del Pisacane: le pagine migliori si trovano nel IV  saggio che, collegate a quelle poche del secondo, rappre-  sentano il pensiero del Pisacane sulla guerra, la sua filosofia  della guerra come creatrice di eventi »; ma il 2 settembre  1942 Einaudi gli rispondeva di aver affidato la Rivoluzione  a un suo collaboratore’. Non è probabilmente senza  motivo — o motivi — che il nome del democratico meri-  dionale, annoverato alla fine dell’800 fra i precursori del  socialismo, ma di cui nel 1932 Nello Rosselli aveva messo  in luce le contraddizioni del pensiero sociale per ricavarne  l’ammonimento che « il riscatto di un popolo dalla tirannia,  dalla serviti, dalla cronica fiacchezza politica, è anzitutto  problema morale » — e Ferruccio Parri non mancò di  rilevare la riduttività del giudizio di Rosselli ?° —, tornasse  a circolare con lo scoppio della guerra: con patticolare  riferimento alla Guerra combattuta ne parlarono Giansiro  Ferrata su « Primato » e, su « Argomenti », Raffaello Ra-  mat, che pose però l’accento anche sul pensiero politico  e sociale di Pisacane ?!. In questo contesto, la scelta einau-  diana trovava già predisposto uno spazio di intervento, ma  assumeva anche particolare rilievo, come ha ricordato  Gerratana affermando che essa « fu in quel periodo uno    289 AE, Romano.   29 Cfr. N. Rosselli, Carlo Pisacane nel Risorgimento italiano, con  un saggio di W. Maturi, Torino, Einaudi, 1977, p. IX, e la recensione  di Parri (siglata F. Pr.) al volume di Rosselli, che notava in Pisacane  delle « rigide postulazioni di comunismo autoritario e spregiudicato, le  quali sono — sembra a me in qualche dissenso da Rosselli — più che  fredde e formali e provvisorie acquisizioni ideologiche », e suggeriva di  dare maggiore spazio all’influenza di Marx su Pisacane {« Nuova rivista  storica », XVII (1933), pp. 157, 161).   DI G. Ferrata, Strategia di Pisacane, « Primato », I (1940), n. 17, pp.  13-14; R.R. [R. Ramat], Per un'antologia di scritti del Pisacane, in  « Argomenti », I (1941), pp. 101-104.    309    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    dei più importanti contributi alla cultura antifascista della  nostra generazione » ??, Infatti nella presentazione del  Saggio Pintor operava una netta rottura con l’interpreta-  zione di Rosselli: pur mettendo in luce i limiti teorici e  politici di Pisacane, coglieva in lui l’intreccio di motivi maz-  ziniani e marxiani e, soprattutto, lo indicava come « l’unico  socialista intransigente dell’Italia pre-unitaria, e un socia-  lista per temperamento e per metodi assai più vicino ai  moderni teorici che ai vecchi dottrinari di un’utopia collet-  tivista », in quanto « l’affermazione cosi frequente in Pisa-  cane che le idee derivano dai fatti, e non questi da quelle,  corrisponde nella sua sommaria enunciazione al cosiddetto  “rovesciamento della dialettica hegeliana” operato da  Marx » ?3, Era un’affermazione che, al di là della sua cor-  rettezza interpretativa, ebbe un’eco significativa: alcuni la  passarono sotto silenzio, come il recensore di « Critica  fascista » che si limitò a sottolineare l’autonomia di pen-  siero e l'imperativo morale del patriota, o la contestarono,  come Gabriele Pepe, che dopo aver messo in luce l’astrat-  tezza di pensiero e la lontananza dal marxismo di Pisacane,  assegnò al Saggio un significato « esclusivamente patriot-  tico »; ma subito, nel 1942, Muscetta salutò su « Primato »  la ristampa di « un classico della pix schietta tradizione  rivoluzionaria italiana », mentre sulla « Rivista storica ita-  liana » Armando Saitta difese il valore teorico del suo  pensiero, in particolare l’intuizione, a suo parere marxista  e sociologica insieme, del popolo come « classe politica »,  e più tardi, nell’inverno 1943, Paolo Alatri potrà affermare  che « alla base di tutto il Saggio è una convinzione che diffi-  cilmente anche oggi, a circa un secolo di distanza nel tempo  da quando esso fu scritto, ci si sentirebbe di rifiutare: che  cioè una rivoluzione, per mutare veramente un mondo, deve    22. Introduzione a G. Pintor, I/ sangue d'Europa, cit., p. XL..   293 Cfr. la prefazione al Saggio, del 1942, ora in G. Pintor, I/ sangue  d'Europa, cit., pp. 113-117. Nonostante la conclusione della vicenda  editoriale, il 16 febbraio 1943 Pintor ammoniva Einaudi: «ti ricordo  l'opportunità di non buttare a mare completamente i collaboratori che  ti sono antipatici: i calci in faccia dati a Romano e la distruzione del suo  volume risultano ora piuttosto dannosi giacché una scelta degli scritti  di Pisacane non si improvvisa e il volume è rarissimo » (AE, Pintor).    310    Le origini della casa editrice Einaudi    essere sovvertimento di un ordine costituito non soltanto  politico ma anche e soprattutto sociale » ?*.   Resta l’interrogativo di come, nello stesso tempo, Pintor  potesse consigliare a Einaudi la pubblicazione, avvenuta  nel 1943, de I proscritti di Ernst von Salomon, uno degli  assassini di Rathenau, un volume che l’editore propagandò  perché vi era rievocata la guerriglia « per strappare le re-  gioni baltiche alla minaccia bolscevica », e al quale già nel  41 aveva dichiarato di tenere molto, assieme a Volk obne    Raum del pangermanista Hans Grimm, « per il loro tono    documentario nazionalsocialista » ?5; una proposta che Pin-    tor cercherà di « riscattare » nella recensione al volume —  pubblicata postuma —, tesa ad analizzare, con moduli can-  timoriani, anche se concettualmente assai più fragili, la vi-  cenda dei « reazionari di sinistra » tedeschi del primo dopo-  guerra, vista come testimonianza del « destino di un'epoca  in cui la tolleranza doveva diventare una colpa e la morte    fisica scendere con inaudita violenza su intere generazio-    ni» 2,    L’interrogativo posto per Pintor ci sembra valido anche  per l’editore, che nel 1939 aveva consigliato cautela a    24 P. Succi in «Critica fascista », XX (1942), p. 234; G. Pepe ne  « La Nuova Italia », XIV (1943), pp. 37-38; Don Santigliano [Muscetta]  in « Primato », III (1942), p. 159; A. Saitta in « Rivista storica italiana »,  LIX (1942), pp. 279-282; P. Romano [Alatri], in « Leonardo», XIV  (1943), p. 247.   295 Cfr. Attività Einaudi anno XXI (ACS, Segreteria particolare del  duce, Carteggio ordinario, n. 528771, sottofasc. 1); Einaudi ad Alicata, 24  novembre 1941 (AE, Alicata); G. Pintor, Doppio diario, cit., p. 203 n.  10.   2% G. Pintor, Il sangue d’Europa, cit., pp. 162, 164. Recensendo più  tardi il volume Croce, dopo aver ricordato la nobile figura di Rathenau  e la «radicale negazione della moralità » dei « mistici » tedeschi, in  questo simili ai fascisti italiani, concludeva con velata ironia: «La tra-  duzione italiana del libro del Salomon, è stata pubblicata nel marzo 1943,  nel tempo dell’ancora imperante fascismo, e dovette perciò avere il lascia-  passare di quel regime: al quale è da credere che tale libro sembrasse  edificante, confortante, educativo, persuasivo per gli italiani, perché  dettato nello stesso spirito di talune delle nobili sentenze che allora  si facevano imprimere dappertutto sui muri delle case urbane e rurali.  Ma l’accorto editore, provvedendo a quella traduzione, avrà avuto di  mira, crediamo, l’intento opposto» (Misticismo politico tedesco («La  Critica », 1944), ora in B. Croce, Pagine politiche (luglio-dicembre 1944),  Bari, Laterza, 1945, pp. 9-16).    3il    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    Spellanzon nella cura delle Considerazioni sulle cose d’Italia  nel 1848 di Cattaneo: poiché « la materia è, a novant'anni  di distanza, ancora cosi incandescente », scriveva Einaudi,  era « indispensabile far precedere il testo di Cattaneo da  un’introduzione, che serva un po’ da antidoto, un’intro-  duzione che non sia naturalmente di piaggeria carlalbertina,  ma renda equilibratamente ragione dell’occasione e dell’in-  tonazione dell'Archivio triennale e di questi scritti che ne  formano l’ossatura ». Ma all’editore di Omodeo, spietato  critico della « leggenda » di Carlo Alberto, Spellanzon  aveva risposto di non essere sicuro di poter scrivere una  introduzione-« antidoto », perché si sentiva « meno caldo  di furore di quell’uomo inesorabile e severo, vero Farinata  del secolo decimonono. Ma {...] all’infuori del toro, e  all’infuori di qualche sua deduzione troppo consequenziaria,  io condivido molta parte dei giudizi del fiero lombardo! » ?”.  Infatti nella presentazione dell’opera pubblicata nel 1942  — che nella ristampa del 1949 sarà dedicata a Salvemini  —, Spellanzon faceva sue le critiche del democratico mila-  nese alla politica di Carlo Alberto, e coglieva negli scritti  dell’« Archivio triennale » «un acerbo disdegno per i  subdoli maneggi di servi cortigiani e gesuitanti, un caldo  amore di libertà inseparabile da ogni impresa di civile  progresso. Anche in queste pagine, il Cattaneo ci appare  quel che fu durante l’epico momento delle Cinque Gior-  nate: il Farinata della rivoluzione nazionale italiana » ?*.  Scontate appaiono quindi, da un lato, le critiche de « La  Civiltà cattolica » e, dall’altro, la favorevole accoglienza  di Pieri, per il quale con questo volume « la tanto auspicata  ricostruzione della storia del nostro Risorgimento è final-  mente in atto, nelle sue correnti ideali, nel suo travaglio  politico, nello sforzo d’elevazione morale di tutta la vita  italiana »; ma anche Carlo Morandi, su « Primato », invi-  tava ad una lettura del Cattaneo democratico ben diversa  da quella proposta nel ’39 da Luigi Einaudi: « Nella storia,    297 Einaudi a Spellanzon, 24 giugno 1939, e Spellanzon a Einaudi,  7 luglio 1939 (AE, Spellanzon).   28 C. Cattaneo, Considerazioni sulle cose d’Italia nel 1848, a cura  di C. Spellanzon, Torino, Einaudi, 1942, p. XCII.    312    Le origini della casa editrice Einaudi    se l’obbiettività è un’utopia, la probità è un dovere. Sa-  rebbe eccessivo affermare che la probità del Cattaneo, anche  in queste pagine, non è inferiore a quella degli scrittori suoi  contemporanei di parte avversa? Crediamo di no » ?”   Ma poco prima del 25 luglio, alla vigilia di una nuova  fase nella vita della casa editrice, Einaudi cercava un punto  di equilibrio affidando ancora una volta a Salvatorelli il  compito di riassumere in rapida sintesi una riflessione del  Risorgimento che unificasse la concezione liberal-moderata  di Omodeo e quella democratica di Spellanzon, pur in una  visione sempre etico-politica della storia. In Pensiero e  azione del Risorgimento, individuata nella circolazione delle  idee del '700 europeo la matrice del processo risorgimen-  tale, Salvatorelli superava sue precedenti incertezze inter-  pretative ripercorrendone le tappe attorno al nesso di  « pensiero e azione », che vedeva per la prima volta in-  carnato dai giacobini italiani, per passare poi nell’inse-  gnamento di Mazzini e spiegare la « funzione capitale »  svolta dal Partito d’Azione. Pur contestando la sottovalu-  tazione di Cavour e l’unico punto — relativo alla rivolu-  zione del 1848 — in cui l’autore accennava al problema  sociale — e il recensore sottolineava la « difettosa impo-  stazione etico-giutidica di tutti i moti socialistici » —,  Omodeo poteva salutare, su « La Critica » del 20 luglio  1943, « un’opera meritoria » nella dura polemica contro  « certi indirizzi semi-camorristici che con la prepotenza han  preteso imporre risultati prestabiliti alla ricerca storica »;  e Curiel inviterà a leggere il volume, perché metteva in  luce « le forze progressive della democrazia, indicandone le  insufficienze per cui il moto rivoluzionario per l’unità  d’Italia sboccò nel compromesso monarchico e nel pseudo-  liberalismo antidemocratico » *”. Infatti dalla ricostruzione    ._ 29 «La Civiltà cattolica», 93 (1942), vol. IV, p. 252; Pieri in  « Nuova rivista storica », XXVII (1943), p. 143; Morandi in « Primato »,  III (1942), p. 179. Cfr. anche, più tardi, la recensione di Bianca Ceva  ne « «La Nuova Italia », XIV (1943), n. 7-12, pp. 88-90.   «La Critica », XLI (1943), pp. 219-221; E. Curiel, Scritti 1935-  1945, cit., vol. II, p. 229 (segnalazione sul « Bollettino del Fronte della  gioventd » del febbraio 1944). Anche Carlo Morandi, pur non condivi-  dendo alcune osservazioni particolari di Salvatorelli, ne sposava comple-    :313    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    storiografica — che arrivava ad accennare alla crisi del  dopoguerra, pur senza nominare il fascismo — Salvatorelli  faceva scaturire nella pagina conclusiva un chiaro messag-  gio politico, invitando a « non subire le deformazioni e  i traviamenti delle visuali nazionalistiche »; ma a « preser-  vare la libertà di pensiero e d’azione, guardare dall’alto e  lontano, ascoltare e riflettere, preparare e costruire, se-  condo le direttive di principio espresse dalla coscienza  storico-morale dell’umanità, in cammino verso la sua meta  divina: la pienezza di vita dello spirito nella fraternità  universale » *!   A valori umani e civili non confinabili in un ambito  nazionalistico intendeva ispirarsi anche la nuova collana  « Universale » che cominciò a uscire nel 1942 sotto la  direzione di Muscetta, invitato dall’editore ad accelerarne  i tempi di pubblicazione « di fronte alle minacce di con-  correnza che si annunziano da varie parti » ®*”, Il 15 giugno  1942, infatti, « Primato » presentava con soddisfazione  l'uscita di due collane « universali » ritenute necessarie,  in quanto « fra le caratteristiche di questa guerra, gli sto-  rici ricorderanno anche la fede nei valori della cultura,  l'ardente bisogno di dissetarsi alle sorgenti di vita eter-  na » ®*: la « Corona » di Bompiani e la collana einau-  diana, cui avrebbe fatto seguito, nel 1943, la « Meridiana »  di Sansoni, con volumi il cui piccolo formato era imposto    tamente la tesi generale sulle origini non autoctone del Risorgimento,  legate alla Rivoluzione francese (La polemica sul Risorgimento, in « Pri-  mato », IV (1943), 1-15 agosto, pp. 267-268).   %! L. Salvatorelli, Pensiero e azione del Risorgimento, Torino, Einaudi,  1943 (finito di stampare il 18 marzo), p. 222.   302 Einaudi a Muscetta, 23 marzo 1942 (AE, Muscetta). La discus-  sione sulle caratteristiche della nuova collana fu assai vivace nell’autunno  del 1941, quando l’editore pensava di suddividerla in due sezioni, una  « Biblioteca classica universale », dove avrebbe potuto apparire l'Aesthetica  in nuce di Croce, e una « Biblioteca moderna universale »: cfr. G. Pintor,  Doppio diario, cit., pp. 157, 163; Muscetta a Einaudi, 29 ottobre 1941  (AE, Muscetta); Einaudi ad” Alicata, 27 ottobre 1941 (AE, Alicata).   303 Vice, Il problema delle « Universali », in « Primato », III (1942),  p. 233. A proposito della nuova collana, il redattore capo della rivista,  Giorgio Cabella, il 20 maggio 1942 scriveva a Einaudi: « Non mancherò  di farne parlare su “Primato” con quella cura e attenzione che abbiamo  sempre usato per le Vostre pubblicazioni e che questa collezione merita »  (AE, Cabella).    314    Le origini della casa editrice Einaudi    anche da un dato oggettivo, la carenza di carta. Da parte  fascista si cercò di cogliere in queste iniziative la prova di  un sostegno della cultura alla « guerra italiana », « come  se lo spirito — affermava Lorenzo Gigli in un articolo  della « Gazzetta del popolo » fatto proprio da « Primato »  — voglia in pieno conflitto proclamare e dimostrare il rag-  giunto grado della sua emancipazione e sottintendere fin  d’ora un impegno fondamentale nel processo ricostruttivo di  tutti i valori morali e materiali che seguirà alla conqui-  stata indipendenza politica ed economica della Nazione  come frutto della guerra vinta » ®*. La nuova collana di  Einaudi si presentò tuttavia, fin dall’inizio, come espres-  sione di un rinnovamento culturale della casa editrice, che  intendeva ora allargare il suo pubblico con volumi agili e  a basso prezzo — non è un caso che dai 29 volumi del 1941  si balzasse ai 53 del 1942, per attestarsi sui 41 nel 1943.  Anche se l’annuncio editoriale era necessariamente ambi-  guo — la collana « non vuole assecondare diffuse abitu-  dini culturali, ma orientare il pubblico secondo un gusto  italiano, aperto alle esperienze moderne, ma sempre viva-  mente sensibile alla nostra secolare tradizione umanisti-  ca » ® —, il giudizio espresso nel dopoguerra, nella fase  di preparazione di « Politecnico biblioteca », da Vitto-  rini, al quale la vecchia « Universale » appariva « com-  promessa dalle inclusioni di opere esplicitamente reazio-  narie » **, non solo prescinde dalla necessaria collocazione  storica dell’iniziativa, ma risulta anche inesatto, e oppor-  tunamente contraddetto da Concetto Marchesi che, all’u-    30 Vice, Calendario, in « Primato », III (1942), p. 292.   305 Cit. da C. Cordiè in « Leonardo », XIII (1942), p. 135.   36 Vittorini a Einaudi, 3 luglio 1945, in E. Vittorini, Gli anni del  « Politecnico ». Lettere 1945-1951, a cura di C. Minoia, Torino, Einaudi,  1977, p. 8. Nella comunicazione a Einaudi di un colloquio avvenuto il  4 luglio 1945 tra Vittorini e Pavese a proposito dell’« Universale », si  dirà che Vittorini «intende aprire la collezione a moderna letteratura  progressiva — sia creativa sia polemica — la quale escluderebbe natural-  mente molti titoli che in passato entrarono nella collezione. Treifschke e  Novalis non possono sopravvivere quando entri, cosî per dite, il teatro  di Saroyan, la poesia di Toller, la polemica di un oratore sovietico. A  Pavese pare che possano » (AE, Corrispondenza editoriale Torino-Roma  1945).    315    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    scita dei primi volumi della collana, lodava Einaudi per  aver « fatto entrare la sua attività editoriale nella storia  della nostra cultura italiana che tanti maltrattamenti e  oscuramenti ha dovuto sopportare » *”   Ciò non significa che non siano numerosi titoli pura-  mente letterari non inquadrabili nelle finalità di un orien-  tamento politico, prima e dopo il 25 luglio, o che non  fossero scartate proposte di testi più incisivi da questo  punto di vista **. Ma è bene ricordare che alcune esclusioni  sono da attribuirsi alla necessità di un compromesso con  la censura: « Bottai potrebbe dire una parola a Pavolini  — scriveva l’editore a Muscetta l’8 aprile 1942, rivelando  un rapporto privilegiato con il ministro dell’Educazione  nazionale — [...]. Noi faremo molti italiani e quindi anche  qualche straniero [...]. Accetteremo nello svolgimento del  piano i loro consigli, e sospenderemo nel caso qualche vo-  lume che può essere inopportuno. Ma occorre che anche  loro collaborino con noi » *°. E tuttavia Einaudi poteva a  buon diritto scrivere ad Arrigo Benedetti che con l’« Uni-  versale » gli pareva di venire incontro « a un vero bisogno  della nostra cultura nazionale. Tengo molto a che questa  collezione non passi per un tentativo di volgarizzamento  di cui non si sentiva affatto la necessità, ma per un con-  tributo fattivo a un riesame serio e consapevole del patri-  monio culturale universale. In quest'ultimo senso vorrei  appunto che fosse inteso l’attributo della mia collezio-    30? Marchesi a Einaudi, 23 maggio 1942 (AE, Marchesi).   308 Per i vari progetti di pubblicazione cfr. AE, Muscetta. Fra i testi  non realizzati figurano: La rivoluzione e i rivoluzionari in Italia di Ferrari,  affidato nel giugno 1942 a Mario Ceva e poi, nell’ottobre, a Cantimori  AE, M. Ceva, Cantimori); i Pensieri politici di Vincenzo Russo scartati  dall’editore che, d'accordo con Alicata, accantonò anche il progetto di  pubblicazione del saggio sulla libertà di Labriola — non sappiamo se  quello Della libertà morale del 1873 o quello Del concetto della libertà  del 1878 —, in quanto «le osservazioni interessanti per lo sviluppo futuro  del suo pensiero sono appena marginali; siamo ancora in piena disqui-  sizione psicologistica herbartiana, priva di interesse per noi» (lettere a  Muscetta del 24 agosto 1942 e ad Alicata del 26 agosto 1942, in AE,  Muscetta, Alicata). Il 25 giugno 1943 Ginzburg inviava il sommario di  un’antologia di scritti di Cattaneo (AE, Ginzburg).   39 AE, Muscetta.    316    Le origini della casa editrice Einaudi    ne » *°. In effetti, le finalità di apertura cosmopolitica della  collana vennero rispettate, se dal 1942 al 1946 i titoli ita-  liani risultano solo 17 su un totale di 69, di cui 5 su 10  nel 1942 e 7 su 19 nel 1943; e le prefazioni, stringate ma  spesso assai incisive, furono affidate in molti casi a intel-  lettuali antifascisti, anche se non tutti quelli contattati,  come Marchesi, poterono rispondere all’appello.   Cosi, mentre i Canti del popolo greco di Tommaseo  assumono oggettivamente, all’inizio del 1943, un signifi-  cato politico, l’Antologia di Spoon River di Edgar Lee  Masters, da tempo segnalata da Pavese che vi vedeva « un  meraviglioso mondo che ci parve qualcosa di più che una  cultura: una promessa di vita, un richiamo del destino »,  suggerisce alla curatrice, Fernanda Pivano, l’osservazione  che « solo le anime semplici riescono a trionfare nella  vita » *!, E Ginzburg, se ne La sonata a Kreutzer di Tol-  stoj indicava i motivi artistici come prevalenti su quelli  sociali, terminava la prefazione a La figlia del capitano  ricordando l’epigrafe di Puskin — « tieni da conto l’onore  fin da giovane » ?* —, mentre presentando Cristianità 0  Europa di Novalis Mario Manacorda metteva in luce la  « statolatria reazionaria » dell’autore, che    trasferisce allo stato « etico », nazionale e monarchico, quei compiti  ideali di civiltà che l’illuminismo assegnava allo stato razionale e  cosmopolitico, e, confondendo evidentemente stato e società, dà una  cattiva versione romantica dell’esser cive quando afferma che « il più  umano dei bisogni è quello di uno stato » e predica la necessità che  lo stato sia dovunque visibile anche nei distintivi e nelle uniformi 313.    310 Einaudi a Benedetti, 16 maggio 1942 (AE, Benedetti). La scelta  delle novelle di Maupassant fatta da Benedetti non ottenne il nulla osta  della censura per l’inclusione di quelle riguardanti la guerra del 1870  (Alicata all'editore, 30 marzo e 24 giugno 1942, in AE, Alicata); il 30  luglio 1943 l’editore scriveva a Benedetti: «Facciamo subito il Mau-  passant. Dovresti tradurre le novelle di guerra escluse in un primo  tempo » (AE, Benedetti).   311 E. Lee Masters, Antologia di Spoon River, a cura di F. Pivano,  Torino, Einaudi, 1943, p. XII; C. Pavese, La letteratura americana, cit.,  p. 64.   32 Ora in L. Ginzburg, Scritti, cit., pp. 153, 289.   313 Novalis, Cristianità o Europa, a cura di M. Manacorda, Torino,  Einaudi, 1942, pp. XII-XIII.    317    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    Accenti antigentiliani, non privi talvolta di risvolti  politici, sono avvertibili anche nella presentazione di molti  letterati e uomini politici italiani dell’800: accanto alla  valorizzazione del cristianesimo di Capponi, ritenuto da  Umberto Morra « più vivo » di quello manzoniano *!, o  all’inclusione di esponenti moderati del Risorgimento cari  alla concezione liberale di un Luigi Einaudi o di un Omo-  deo, come Cavour — di cui Cantimori cura una scelta  dei Discorsi parlamentari sottolineandone il realismo poli-  tico *° —, appaiono autori propri della genealogia risorgi-  mentale di Gentile — Cuoco, Foscolo o Alfieri —, ma  profondamente rivisitati. Significativo non solo in questo  senso, ma anche come una sorta di manifesto di tutta la  collana, è il primo titolo pubblicato, le Ultizze lettere di  Jacopo Ortis, che offriva a Muscetta l’opportunità di far  proprie le affermazioni pacifiste di un commentatore di  Foscolo — « Un popolo non deve snudare la spada se  non per difendere o conquistare la propria indipendenza.  Se attacca i vicini per aggiogarli, si disonora; se invade il  loro territorio col pretesto di fondarvi la libertà, o è  ingannato o s’inganna » —, e di riproporre la concezione  democratica e antitirannica espressa in « pagine dimen-  ticatissime » da Cattaneo, per il quale Foscolo fu    il primo a gettare in Italia quella vanissima sentenza, che il « rimedio  vero sta nel riunire in una sola opinione tutte le sètte ». È idea  chinese, idea bizantina; e per essa la Grecia, sf feconda quand'era  piena di sètte, giacque per mille anni nel letargo della sepolcrale  ortodossia bizantina. Ogni setta che invoca questo sofisma intende  solo imporre silenzio alle altre tutte, fuorché a se stessa, e regnare  unica e sola3!.    314 G. Capponi, Ricordi e pensieri, a cura di U. Morra, Torino, Einau-  di, 1942, p.X.   315 C. Benso di Cavour, Discorsi parlamentari, a cura di D. Cantimoti,  Torino, Einaudi, 1942, p. XII. Scrivendo a Finaudi il 28 aprile 1943,  Ragghianti giudicava alcune note di Cantimori « tendenziose, con un profu-  mino di “marxismo” aggiornato, che dà noia » (AE, Ragghianti).   316 U. Foscolo, Ultime lettere di Jacopo Ortis, a cura di C. Muscetta,  Torino, Einaudi, 1942, pp. XIV-XV. «La Civiltà cattolica » noterà che  l’opera di Foscolo era posta all'Indice (a. 94, 1943, vol. II, p. 388). Nel  1943 Manlio Mazziotti presentava Il Congresso di Vienna (1814-1815)  di Heinrich von Treitschke affermando che per l’autore lo Stato era forza,    318    Le origini della casa editrice Einaudî    10. I quarantacinque giorni, la Liberazione e il Fronte  della cultura    Entusiasmo e frenesia di iniziative contraddistinguo-  no il periodo immediatamente successivo alla caduta di  Mussolini, quando ai tentativi di acquisire il controllo  su un giornale — già il 26 luglio, quando « Roma vive  il primo giorno di libertà », Muscetta invitava Einaudi a  « metter le mani » su « Primato » *” — si aggiungono a  ritmo serrato, fino all’8 settembre, proposte di nuovi vo-  lumi e collane, destinate per la maggior parte ad essere  definitivamente accantonate o sospese fino alla Liberazione,  non solo per l’incertezza della situazione politica generale.  Inizia infatti un processo di riassestamento della casa edi-  trice di non facile soluzione — tanto che si ripresenterà,  aggravato, dopo il 25 aprile 1945 —, dove ai problemi    ma che «una forza che calpesta ogni diritto deve finalmente andare in  rovina, perché nel mondo morale nulla si regge che non abbia virtî di  resistere » (p. IX).   7 AE, Muscetta. Intense furono le trattative per l'acquisto di altri  Genta Si pensò, da parte di Muscetta e Ginzburg, a « La Ruota » da  trasformare in settimanale sotto la direzione di Mario Vinciguerra (AE,  Vinciguerra, 30 agosto 1943; Muscetta, 11 agosto 1943), anche se Pintor  affermava: « Resta da decidere se l’acquisto di una rivista in questo mo-  mento e con le prospettive oscure che ci attendono sia un gesto oppor-  tuno e resta da fissare l’indirizzo politico della rivista. Un uomo come  Vinciguerra, degnissimo ma ufficialmente legato a un partito, non mi  pare il più adatto per la direzione » (AE, Pintor, 9 agosto 1943). Vi  furono trattative anche per « Il Lavoro italiano », per cui Pintor entrò in  contatto con Piccardi che non voleva — scriveva Pintor a Einaudi — « affi-  darlo a elementi troppo di destra, dato che si tratta del Quotidiano dei  Lavoratori. Temeva che tu avessi le idee di tuo padre» (AE, Pintor,  30 luglio 1943; Muscetta, 18 agosto 1943). Per la « Gazzetta del popolo »,  che Einaudi avrebbe voluto affidare alla direzione di Felice Balbo, si  chiese l'appoggio di Bonomi presso l’IRI, ma Pintor non riuscî a convin-  cere Menichella che — comunicava all’editore — « vede nerissimo, pre-  vede il regno dei grossi capitalisti e un attacco in grande stile contro  l’IRI. La “Gazzetta del popolo” come la faremmo noi costituirebbe una  provocazione contro i pescicani e affretterebbe la catastrofe » (AE, Pintor,  3 e 31 agosto 1943; Bonomi, 31 luglio 1943). Il 18 agosto 1943 Einaudi  scriveva ad Alicata: «Il periodico di educazione popolare che saluterei  con simpatia, sarebbe quello che votrei faceste tu e Vittorini [...] questo  dovrebbe essere il giornale spregiudicato e vivo, dei tempi nuovi [...]  qui tutte le manifestazioni della vita, politiche ma sovratutto di costume  dovrebbero essere rappresentate » (AE, Alicata).    319    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    organizzativi si intrecciano le divergenze fra i collabo-  ratori, che acquistano ora rilevanza politica. Il 21 luglio  1943 Einaudi riteneva « necessario l’accentramento in  Piemonte dei servizi relativi al funzionamento worzzale  della casa editrice », mentre nell’agosto incaricava Ginz-  burg, liberato dal confino, di dirigere la sede romana *:  ed è da questa, dove nell’agosto è presente anche Franco  Venturi, che scaturisce una forte pressione degli azionisti  — nelle loro diverse componenti, dai liberalsocialisti ai  « crociani » — che cercano di condizionare a loro favore le  scelte editoriali.    Il senato romano (presenti Ginzburg, Muscetta, Pintor, Giolitti,  Venturi) — scriveva Muscetta a Einaudi il 7 agosto 1943 — ha  discusso e progettato, ad unanimità, una collezione di attualità poli-  tica, a cui si darebbe il nome di « Orientamenti ». Suggerisce di  pubblicare, preferibilmente a Roma, per ovvi motivi, una serie di  volumetti formato « universale » [...]. Come è chiaro dalla parola  « Orientamento » la collana dovrebbe accogliere scritti delle pi  serie tendenze odierne per illuminare il pubblico sulle condizioni  reali dell’Italia e dell'Europa, per disegnare delle prospettive di  concreta ricostruzione politica, per offrire dei contributi al chiari-  mento dei più urgenti problemi, non esclusi quelli ideologici 39,    Ma le proposte concrete privilegiavano un indirizzo  azionista della collana, prevedendo i saggi di Guido Calo-  gero su Giustizia e Libertà — dall’ambizioso sottotitolo  « breviario di politica » —, di Altiero Spinelli sull’unità  europea, di Manlio Rossi Doria sul problema agrario in  Italia, quello sul Risorgimento che Ginzburg stava prepa-  rando dalla primavera del 1943, e una storia del socialismo  di Franco Venturi. Queste proposte — di cui si fece porta-  tore, pur con riserve su Calogero, anche Pintor? —    LI    318 Disposizioni di Finaudi per la sede romana del 21 luglio e del-  l’agosto 1943 (AE, Corrispondenza editoriale Roma-Torino 1941-1944).   319 AE, Muscetta.   320 AE, Pintor (7 agosto 1943). Fra le altre proposte « romane », Dal  socialismo al fascismo di Bonomi (già edito da Formiggini), Synthèse de  l'Europe di Sforza, La terreur fasciste di Salvemini, il Pisacane di Ros-  selli e la traduzione — da affidare a Franco Rodano — de Les sources  et le sens du communisme russe del pensatore religioso, ex-marxista e  ora antisovietico, Nikolaj A. Berdjaev (AE, Corrispondenza editoriale  Roma-Torino 1941-1944, 30 luglio e 30 agosto 1943), un’opera che sarà    320    Le origini della casa editrice Einaudi    furono respinte dal gruppo torinese, che invece approvò  la ristampa di Nazionalfascismo di Salvatorelli, un’antolo-  gia di scritti di Gobetti che avrebbe dovuto curare Carlo  Levi, un volume di Mario Vinciguerra — Storia di cento  anni (1848-1948) —, e la richiesta a Guido Dorso di pre-  parare una biografia di Mussolini *. Un netto e signifi-  cativo rifiuto riceve invece, a Torino, la proposta di racco-  gliere gli scritti politici di De Sanctis — il suggerimento,  tramite Muscetta, era arrivato da Croce # —, mentre viene  lasciata aperta la possibilità di pubblicare Guerra e dopo-  guerra di Giacomo Perticone, una storia della « crisi della  coscienza politica italiana tra il 1914 e il 1922 » ritenuta  interessante da Antonio Giolitti, che suggeriva    l’eventuale opportunità di una collezione specifica che potrebbe pre-  sentarsi come « Contributi alla storia del fascismo », intendendo  naturalmente il fascismo in senso lato, come crisi, per dir cosî, della  democrazia nazionale italiana; e allora rientrerebbero in quei contri-  buti anche le indagini sulla storia dell’Italia dopo il 1870 le quali  sappiano vedere il fascismo già latente in certi aspetti della vita  politica dello Stato italiano, e non lo considerino soltanto come un  mostro emerso improvvisamente da chissà quali profondità, o come  la criminosa avventura di un gruppetto di sopraffattori:    un’indicazione di ricerca che superava la visione crociana  della « parentesi », ma che sarebbe stata raccolta molto  tardi dalla cultura storiografica italiana, anche se Einaudi  si dimostrò interessato alla proposta, cui cercherà di dar  seguito dopo il 1945 ®.   Di fronte alle posizioni del « senato romano » — di-    tradotta nel 1944 da Giacomo Perticone (Roma, Edizioni Roma); di  Berdjaev Laterza aveva tradotto nel 1936 Il cristianesimo e la vita sociale,  mentre Finaudi pubblicherà nel 1945 La concezione di Dostojevskij.   321 Cfr. C. Pavese, Lettere 1924-1944, cit., p. 721 (13 agosto 1943);  AE, Pavese (11 agosto 1943), Vinciguerra (7 agosto 1943).   322 Muscetta a Pavese, 19 agosto 1943 (AE, Pavese); «Qui ognuno  di noi si infischia sia del Perticone, sia degli scritti politici di De Sanctis »,  si rispose da Torino il 21 agosto 1943 (AE, Muscetta).   323 Giolitti a Einaudi, 24 agosto 1943 (AE, Giolitti); «si potrà  discutere la proposta di Giolitti in merito a una collezione critica sul  fascismo », scriveva Einaudi a Pintor il 25 agosto 1943 (AE, Pintor); e  Pintor era favorevole: cfr. la lettera del 24 agosto a Pavese (in C. Pavese,  Lettere 1924-1944, cit., p. 730).    321    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    viso al suo interno tra azionisti da un lato, Pintor e Giolitti  dall’altro — e di un Pavese, « nauseato dall’indaffaramento  politico della casa editrice » ’*, Pintor si dimostrava preoc-  cupato dell’unità dell’indirizzo editoriale: il 7 agosto 1943  scriveva a Einaudi che « le possibilità di “rottura” si ac-  centuano e che la crisi può intervenire da un momento  all’altro », occasionata originariamente dal « breviario poli-  tico » di Calogero; « le varie discussioni — aggiungeva il  9 agosto — hanno messo in evidenza un problema che  doveva inevitabilmente maturare. Non si tratta pit cioè di  dissensi personali che hanno sempre alimentato l’attività  della casa, ma di un contrasto di posizioni, che secondo  me non è insanabile, ma che deve essere chiarito se non  vogliamo che diventi un elemento pericoloso di erosio-  ne » ?5, Da queste preoccupazioni scaturisce il deciso inter-  vento di Einaudi che provoca il naufragio della collana  « Orientamenti » considerata la « provvisorietà dell’inizia-  tiva » **, e punta su Ginzburg — liberato il 26 luglio dal  confino — e Alicata — uscito dal carcere il 7 agosto —  come elementi moderatori delle diverse posizioni:    tu avrai di fronte — scriveva ad Alicata il 18 agosto 1943 — [...]  una persona che ha dato prova di grande serietà morale, e di w245-  sima comprensione per tutte le idealità politiche degne di questo  nome. Ritengo che tu possa lavorare con Ginzburg amichevolmente    324 Pavese a Pintor, 23 agosto 1943 (C. Pavese, Lettere 1924-1944, cit.,  p. 728).   325 « In particolare — aggiungeva Pintor il 9 agosto —, per “Orien-  tamenti”, nonostante l’unanimità proclamata da Muscetta, io avrei diverse  riserve: vorrei che si tenesse conto del programma originario di Balbo e  vorrei che fosse consultato Vittorini »; e il 16 agosto scriveva a Einaudi:  « Il mio atteggiamento personale è molto conciliante: il clima di lotta  parlamentare che si è creato a Roma mi dà parecchio fastidio e non vorrei  assolutamente che si riproducesse nel lavoro della casa » (AE, Pintor).   32% Einaudi ad Alicata, 18 agosto 1943 (AE, Alicata). La decisione di  Einaudi parve «discutibile » a Pintor: «In questo modo si sfugge al  primo problema posto dal coesistere delle diverse tendenze: l’accordo  deve essere ottenuto attraverso una rigorosa selezione delle proposte [...],  ma è indispensabile che la casa editrice segni il passaggio a una nuova  fase uscendo dagli schemi delle vecchie collezioni e affrontando coraggio-  samente l’attualità. A questo non bastano i progetti di giornali e riviste  che cominciano a diventare invadenti ma occorre che si faccia qualcosa  di nuovo anche nel campo editoriale » (a Einaudi, 19 agosto 1943, in  AE, Pintor).    322    Le origini della casa editrice Einaudi    e con rapidità di decisione [...]. Comunque la funzione di Ginzburg,  in quanto collaboratore della casa, più che di difensore di principi  diversi è quella di moderatore, anche nei riguardi della corrente che  a lui può sembrare faccia capo. Tu usa con lui, collaborando alla  casa, altrettanta moderazione, sia pure con intransigenza, in modo  da arrivare nel nostro Senato anziché alla disgregazione temuta da  Pintor, alla collaborazione spontanea ?7,    In questa situazione, fatta di contrasti e di incertezze,  cui si aggiungerà dopo 1’8 settembre la dispersione dei col-  laboratori e la sostituzione di Giulio Einaudi — che si  rifugerà in Svizzera — con il direttore dell’ISPI Pierfranco  Gaslini e il commissario prefettizio Paolo Zappa, con i  quali resta in contatto Muscetta, l’attività della casa edi-  trice conosce, nel 1943-44, una stasi, anche se viene dato  esito ad alcuni progetti precedenti. Non vengono pub-  blicati, ovviamente, i testi più politicizzati suggeriti dalla  sede romana e accettati a Torino, cosi come resta ine-  dito E il gallo cantò di Augusto Monti che, scriveva l’au-  tore, « pur trattando di casi relativamente remoti, è del-  la più viva attualità, tanto che potrebbe avere per sotto-  titolo: origini del fascismo e dell’antifascismo » ®*. Nella  « Biblioteca di cultura storica » esce solo, nel 1944, La  politica italiana da Porta Pia a Vittorio Veneto di Bono-  mi *’, mentre nei « Saggi » alle Riflessioni di Montesquieu  curate da Leone e Natalia Ginzburg per venire incontro a  « un rinnovato interessamento per certi valori umani, pro-  clamati dagli uomini del Settecento, e poi a lungo negletti    3 AE, Alicata. Ma era necessario tener conto, scriveva Pintor a  Einaudi il 31 agosto 1943, che Alicata «è preso da un'attività quanto  mai turbinosa e che negli ultimi giorni si è occupato quasi esclusivamente  di fare arrestare fascisti sediziosi » (AE, Pintor); perciò l’editore scriveva  a Ginzburg il 4 settembre: «La sua richiesta di sostituire Giolitti ad  Alicata nel Comitato Politico mi pare utile. Giolitti dovrebbe essere  una specie di supplente al quale Alicata delega, quando è impossibilitato  a partecipare alle riunioni, il mandato di voto » (AE, Ginzburg).   328 Monti a Einaudi, 15 agosto 1943 (AE, Monti).   329 Di Bonomi non fu invece pubblicato Dd/ socialismo al fascismo,  cui si dichiararono contrari Pavese, Balbo, Venturi e Ginzburg, favorevoli  Pintor e Giolitti: cfr. Pavese a Muscetta, 13 agosto 1943 (C. Pavese,  Lettere 1924-1944, cit., p. 721), e Muscetta a Pavese, 11 agosto 1943  (AE, Pavese).    323    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    da un troppo unilaterale storicismo » *°, fa da contrap-  punto, nel 1943, la pubblicazione delle Memorie di Met-  ternich in cui Gherardo Casini sottolinea l’« orrore » del  cancelliere austriaco per la Rivoluzione francese e la sua  testimonianza « sul sangue che è corso per le piazze di  Francia, sulle violenze che hanno reso esecrabile questo  evento, sulla brutalità con cui sono stati incrinati e calpe-  stati i fondamenti dell’ordine » *!, Nell’unica collana che  conserva una certa vitalità, anche per il minor costo che  richiedeva, 1’« Universale », accanto a numerosi testi più  propriamente letterari ne appaiono altri segnati da un  chiaro, anche se non univoco, impegno civile: alla presen-  tazione simpatetica del « buon senso » che traspare dagli  Opuscoli politici di D’Azeglio fatta da Vittorio Gorresio **,  si accompagna il Manoscritto di un prigioniero del mazzi-  niano Carlo Bini, di cui Goffredo Bellonci illustra la conce-  zione del Risorgimento come rivoluzione sociale capace di  eliminare « le ineguaglianze materiali » **; nel Della tiran-  nide di Alfieri Massimo Rago coglie « uno spirito veramente  rivoluzionario » che cerca di « dar risalto alle forze che  ostacolano l'affermazione della libertà, e questo chiarimento  suona come un invito ad una più accurata osservazione delle  esperienze sociali » *4; mentre presentando Conquista e  usurpazione di Benjamin Constant Franco Venturi osserva  come soltanto Jaurès e Mathiez avessero insegnato a vedere  nella Rivoluzione francese « il nostro moderno problema di  una rivoluzione sociale alle sue origini », come tale non  compreso da Constant, di cui per altro è esaltato il libera-  lismo che si manifesta nel « chiudere [...] la rivoluzione,  ma non per negarla: per salvarne i principi rinati dall’espe-    330 Ch. De Montesquieu, Riflessioni e pensieri inediti 1716-1755, a  cura di Leone e Natalia Ginzburg, Torino, Einaudi, 1943, p. XIV.   331 C. von Metternich, Merzorie, a cura di G. Casini, Torino, Einaudi,  1943, pp. XII-XIII.   332 M. D'Azeglio, Opuscoli politici, a cura di V. Gortresio, Torino,  Einaudi, 1943, p. XVI.   333 C. Bini, Manoscritto di un prigioniero, prefazione di G. Bellonci,  Torino, Einaudi, 1944, p. XIII.   334 V. Alfieri, Della tirannide, a cura di M. Rago, Torino, Einaudi,  1943, pp. IX, XVI. r    324    Le origini della casa editrice Einaudi    rienza delle assemblee e del terrore » *   L’unico elemento di novità, n@ il 25 luglio, è. È  « Collana di cultura giuridica » ‘diretta da Norberto Bob-  bio — uno dei primi collaboratori di Einaudi, la cui firma  era apparsa anche ne « La Cultura » —, che già nel giugno  1943 era venuta configurandosi come distinta dal progetto  di una collana filosofica formulato, come vedremo, nel  1941. Pavese gli comunicò la proposta di Manlio Maz-.  ziotti di una « collezione di classici del diritto, la quale  servirebbe a svegliare il sonno dogmatico dei giuristi ita-  liani, i quali credono che la loro scienza consista nell’inter-  pretazione e non nella creazione della legge », e Bobbio  rispose di essere anch’egli convinto che « nel campo de-  gli studi giuridici ci sia molto da fare per la diffusione  di. una cultura seria e creatrice: dalla scuola del diritto  naturale ai grandi giuristi tedeschi del secolo scorso; dalla  moderna sociologia giuridica alla dottrina pura del Kelsen.  Che io sappia non è stata mai tentata in Italia un ‘impresa  del genere, che raccolga con un certo ordine e con inten-  dimenti culturali, e non tecnici, opere d’argomento giuri-  dico », a parte i « Classici del diritto » di Formiggini, fer-  matisi tuttavia nel 1933 al primo volume, I difetti della  giurisprudenza di Muratori **   Coadiuvato da Antonio Giolitti, Bobbio cercò di dar  vita alla collana con due opere già da lui preparate nel  1942 per la « Biblioteca di cultura filosofica » *#’: nel 1943  appare il Giovazni Althusius di Otto von Gierke, il conti-  nuatore della scuola storica di Savigny che considerava il    335 B. Constant, Conquista e usurpazione, prefazione di F. Venturi,  Torino, Einaudi, 1944, pp. 9-10. Già proiettato esplicitamente nel futuro  è il commento a E. Quinet, La repubblica, a cura di E. Lussu, Torino,  Einaudi, 1944, dove si afferma che gli italiani sono «arretrati d’un  secolo, ché tutti i fondamentali problemi di democrazia che il Risorgi-  mento poneva sono rimasti insoluti », e che «in Italia, dopo la disfatta  del 1920-22, che ha in comune con quella francese del 1848 solo l’imma-  turità politica e non l’epopea, la classe operaia va lentamente ricompo-  nendo le sue forze e maturando l’esperienza del passato, conscia del  compito ch’essa è chiamata ad assolvere » (pp. VII, X).   36 Pavese a Bobbio, 23 giugno 1943, e Bobbio a Einaudi, 29 giugno  1943 (AE, Bobbio). .  ? Bobbio a Einaudi, 15 novembre 1942 (AE, Bobbio).    325    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    diritto come « espressione della coscienza del popolo », e  con lo studio del giurista Althusius aveva seguito « la via  attraverso cui il pensiero moderno è passato per elaborare  quei concetti da cui è uscita la concezione dello Stato di  diritto, tanto più oggi preziosa — scriveva Bobbio —,  quanto più minacciata, e tanto più viva quanto più con-  dannata dagl’impazienti, dai fanatici, dagli indotti di tutte  le fazioni » **. Nel 1945 seguirà La fondazione della filo-  sofia del diritto di Julius Binder, « il più intransigente e for-  tunato assertore della rinascita hegeliana in Germania », la  cui opera, osservava Bobbio, serviva a scagionare la filo-  sofia italiana recente dall’accusa di provincialismo, « qua-  lunque sia poi il giudizio che si voglia formulare sul neo-  hegelismo italiano, al quale peraltro non si potrà discono-  scere il merito di aver tenuto il pensiero italiano lontano da  quegli stessi estremi dell’intellettualismo e dell’intuizio-  nismo » contro cui combatté Binder *’, Ma dopo questi due  titoli — che venivano ad allargare ulteriormente i già nu-  metosi interessi della casa editrice — la collana perderà i  suoi connotati per trasformarsi nel 1950 in « Biblioteca di  cultura politica e giuridica », nonostante gli sforzi di Bobbio  di mantenerle l’identità originaria, convinto, come scriveva  nel 1945, che « in un momento in cui è diventato argo-  mento di pubbliche e private discussioni il rinnovamento  delle istituzioni giuridiche tradizionali, dalla proprietà allo  stato, dall’eredità al sistema penale, si ridesta l’interesse  per i problemi del diritto e nello stesso tempo si rivela la  ignoranza degli stessi da parte dei più », per cui la collana  poteva giovare « anche agli specialisti, i quali, abituati a  ripetere le solite formule senza ripensarle, ignari per lo più    338 O. von Gierke, Giovanni Altbusius e lo sviluppo storico delle  teorie politiche giusnaturalistiche. Contributo alla storia della sistematica  del diritto, a cura di A. Giolitti, Torino, Einaudi, 1943, pp. VIII, X.   339 J. Binder, La fondazione della filosofia del diritto, traduzione di A.  Giolitti, Torino, Einaudi, 1945, pp. VII, IX-X. In «Società» si nota  comunque che Binder finisce, come Hegel, col fondare « una metafisica  dello Stato e della storia », e si ricorda che in altre sue opere « lo Stato  nazionalsocialista viene presentato come la pit rilevante incarnazione del-  TOR a etico» (V. Palazzolo, in «Società», III (1946), pp.  235-238).    326    Le origini della casa editrice Einaudi    dei grandi movimenti giuridici stranieri, sono incapaci di  cogliere il significato universale di una tecnica, di vedere  in una formula il risultato di un determinato orientamento  del pensiero » *°   La breve, intensa ma caotica esperienza dei quaranta-  cinque giorni non aveva comunque permesso di definire  con precisione quella « nuova » collocazione culturale e  politica della casa editrice sulla quale gli azionisti avevano  cercato di mettere un’ipoteca. Il problema si ripresenta  quindi all'indomani della Liberazione, con una intensità  acuita dalla necessità di individuare una prospettiva di pit  lungo periodo, non più resa precaria dalle contingenze bel-  liche #. Il dibattito politico interno acquista ora rile-  vanza maggiore in quanto si intreccia con il confronto  aperto e aspro fra i partiti ai quali aderiscono vari collabo-  ratori di primo piano della casa editrice, e risente delle  spinte diverse provenienti dai vari centri culturali, la cui  collocazione geografica rispecchia la variegata situazione  politica creata nel paese dalla lotta di Resistenza *°. A quelle  di Torino e di Roma si aggiunge nel 1945 la nuova sede  di Milano con Elio Vittorini, l’intellettuale che aderisce al  partito comunista assieme a Pavese, col quale aveva condi-  viso negli anni ’30 l’interesse per la letteratura americana  contemporanea, cogliendovi tuttavia — a differenza di  Pavese — soprattutto quegli elementi positivi di un popolo  « nuovo » e quella conferma della superiorità della cultura  sulla politica che trasferirà ne « Il Politecnico » e in alcune  iniziative della casa editrice ®.    Grava sulla civiltà americana la stupidità di una frase: civiltà    30 Appunto sulla « Collana di cultura giuridica », cui seguono, nume-  rose proposte di pubblicazione (AE, Bobbio).   31 Questa necessità era ben chiara, oltre che a Balbo — come ve-  dremo —, a Bobbio, che 1’8 luglio 1945 ammoniva Einaudi: « Mi pare  che ci stiamo lasciando tutti quanti tentare dalla seduzione dell’attualità.  Ti ripeto una frase memorabile: le case editrici si misurano a decenni,  non a mesi » (Archivio privato Bobbio).   #2 Cfr. le osservazioni di E. Garin, Cronache di filosofia italiana, cit.,  pp. 501-502.   33 Cfr. E. Catalano, La forma della coscienza. L'ideologia letteraria  del primo Vittorini, Bari, Dedalo, 1977, in particolare pp. 225, 243.    327    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    materialistica. Civiltà di produttori: questo è l’orgoglio di una razza  che non ha sacrificato le proprie forze a velleità ideologiche e non è  caduta nel facile trabocchetto dei « valori spirituali » [...]. Questa  America non ha bisogno di Colombo, essa è scoperta dentro di noi,  è la terra a cui si tende con la stessa speranza e la stessa fiducia dei  primi emigranti e di chiunque sia deciso a difendere a prezzo di  fatiche e di errori la dignità della condizione umana,    aveva scritto Pintor cogliendo il messaggio di Americana  di Vittorini **. Caduti nella lotta di Resistenza Pintor e  Ginzburg, mentre Alicata si trova assorbito dall’attività  politica, accanto a Vittorini e Pavese emergono fra i colla-  boratori della casa editrice altri intellettuali comunisti,  come Antonio Giolitti e Delio Cantimori, o l’esponente del  movimento cattolico-comunista Felice Balbo. Nonostante  la matrice comunista di questi intellettuali sia tutt'altro che  omogenea, tale da non impedire l’insorgere di contrasti, i  rapporti di forza interni tendono a spostarsi verso il PCI  che, privo all’inizio di propri centri editoriali, individua in  Einaudi un interlocutore privilegiato: ed è attorno al tema  dell’orientamento politico della casa editrice che nelle  pagine seguenti concentreremo l’attenzione, per cercare di  coglierne alcune linee di tendenza nell’immediato dopo-  guerra, utili, nell’ambito di una ricerca che ha il suo centro  nel periodo fascista, a verificarne ulteriormente caratteri-  stiche originarie e capacità di rinnovamento.   Il 10 maggio 1945 Felice Balbo, da Torino, scriveva  preoccupato a Einaudi che « anche per la Casa vale quello  che vale per i partiti politici: qui la situazione è attualmente  molto spostata a sinistra e molto fluida specie negli ambienti  intellettuali per gran parte disorientati ed in attesa di poli-  tica concreta, di costume, di tecnica. Non dobbiamo lasciarci  sfuggire l’occasione favorevole perché poi le posizioni rea-  zionarie potrebbero fissarsi nuovamente » #5. Ma proposte  concrete arrivavano contemporaneamente da Milano:    Il nostro programma editoriale milanese — si scriveva sempre  il 10 maggio a Einaudi — risponde ai criteri da te stabiliti: iniziare    34 G. Pintor, I/ sangue d’Europa, cit., pp. 155, 159.  35 AE, Corrispondenza editoriale Torino-Roma 1945.    328    Le origini della casa editrice Einaudi    la pubblicazione di una rivista di punta che dovrebbe essere quella  dal titolo « Il nuovo politecnico », organo centrale del Fronte della  Cultura, iniziativa di carattere nazionale sorta da Curiel, Banfi, Vit-  torini che ne costituiscono il comitato d’iniziativa nazionale, il quale  a sua volta si appoggerà ai vari comitati regionali che saranno creati  successivamente. Questo Fronte della Cultura è destinato a interes-  sarsi a tutti i problemi di cultura, artistici e scientifici, per una loro  rivalutazione, o superamento, da elementi appartenenti a qualsiasi  ideologia o partito ma sinceramente orientati su un piano progressi-  sta: è un fronte quindi aperto a tutto il popolo italiano.    Ma subito dopo si precisava che il bollettino del Fronte  si sarebbe occupato dello « studio alla luce del marxismo di  tutti i fenomeni e le situazioni politico-culturali », avvalen-  dosi delle collaborazioni di Vittorini, Banfi, Remo Cantoni,  Giansiro Ferrata, Pietro Zveteremich, e si accennava all’ini-  ziativa di una « collana marxista » **. L’estrazione politica  dei membri del Comitato nazionale del Fronte della Cultura  ne esprimeva del resto chiaramente l’orientamento: due  esponenti del partito comunista (Banfi e Vittorini), due  rispettivamente di quello socialista e del partito d’azione,  uno (Mario Motta) per i Lavoratori cattolici *’. Einaudi,  pur convinto che « a Milano si giuoca una grande partita  per noi » **, si preoccupava tuttavia dell’insorgere di attriti  fra i responsabili delle varie sedi, e suggeriva una diversi-  ficazione di funzioni fra di esse. Perciò, mentre raccoman-  dava la necessità di una « fraterna intesa fra Torino, Mi-  lano e Roma, in modo da costituire un unico fronte pro-  gressivo di cultura senza settarismi, aperto alla collabora-  zione di ogni sincero democratico », nell’impostare il pro-  gramma delle riviste del Fronte proponeva, per Roma,  « Risorgimento » e « Cultura sovietica » — dal carattere,  soprattutto la prima, pit « aperto » —, una rivista di studi  meridionali per Napoli, un settimanale politico-culturale  per Milano — « Il Politecnico » — e, per Torino, un perio-  dico economico, « sui problemi della ricostruzione »: « in    36 Renata Aldrovandi a Einaudi (AE, Corrispondenza editoriale To-  rino-Roma 1945).   3? Ibidem.   38 Einaudi a Renata Aldrovandi, 26 maggio 1945 (ibidem).    329    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    tal modo — osservava — alle diverse sedi si darebbe un  significato concreto di legame tra gli intellettuali e i pro-  blemi che più interessano le masse immediatamente circo-  stanti, dando un pieno significato nazionale ai problemi che  più sono sentiti nelle diverse regioni » *.   Al tempo stesso, tuttavia, il contatto con l’ambiente  politico romano gli suggeriva di correggere l'orientamento  che si intendeva dare a Milano al Fronte della Cultura:  « su un piano più generale politico di lavoro — scriveva a  Vittorini il 9 luglio 1945 — tra gli intellettuali la linea  attuale come si va definendo a Roma è quella di fronte  contro i residui del fascismo, fronte nel quale si possono  accogliere elementi di partiti cosiddetti conservatori, che  siano però sinceramente antifascisti e quindi sostanzial-  mente progressivi. Questa linea è meno settaria di quella  definita nell’ultima nota riunione di Milano, dove si pen-  sava in sostanza di fare un fronte delle sinistre » ®*, Era la  linea cui si ispirava il PCI, e che sarà espressa — pochi  giorni dopo la costituzione del primo governo De Gasperi  — al suo V congresso (29 dicembre 1945 - 6 gennaio  1946), dove Togliatti rivolse un appello all’unità di tutte  le forze democratiche aprendo le porte del partito a quanti  ne condividessero la linea politica, « indipendentemente  dalla convinzione religiosa e filosofica », anche se Alicata si  premurava di precisare che compito degli intellettuali  doveva essere la battaglia contro l’idealismo, espressione  della « cristallizzazione del provincialismo della cultura ita-  liana » !,   L'indirizzo sostenuto da Einaudi è rispecchiato fedel-  mente dalle riviste edite a Roma, in patticolare da « Risor-  gimento », ma anche da « La cultura sovietica ». Questa  ultima, rivista trimestrale dell’Associazione italiana per i  rapporti culturali con l'Unione Sovietica, diretta nel 1945-    39 Einaudi a Renata Aldrovandi (e, per conoscenza, a Balbo e Vitto-  rini), 16 maggio 1945 (ibidem).   350 AE, Corrispondenza editoriale Torino-Roma 1945.   31 Cfr. P. Togliatti, Opere scelte, a cura di G. Santomassimo, Roma,  Editori Riuniti, 1974, p. 452; N. Ajello, Intellettuali e Pci 1944-1958,  Bari, Laterza, 1979, pp. 62-66.    330    Le origini della casa editrice Einaudi    46 da Gastone Manacorda, si proponeva di mettere in cir-  colazione quegli elementi di conoscenza della realtà sovie-  tica che erano stati impediti dal fascismo, il quale — si  ricordava nella Presentazione, alludendo anche all’« oppo-  sizione » liberale durante il regime — « andò oltre la gros-  solana propaganda calunniatrice e, studiandosi di fuorviare  gli intelletti dalla conoscenza del vero con tutti i mezzi pit  subdoli, diede diritto di cittadinanza, con benevola tolle-  ranza, a tutto ciò che fosse antisovietico anche se fuori del-  l’ortodossia reazionaria » *7. E, pur svolgendo un’opera di  acritica esaltazione delle realizzazioni sovietiche — pubbli-  cando ad esempio alcune pagine de I/ sistema finanziario  dell’URSS di Michail Bogolepov che apparirà nel 1947 nelle  edizioni Einaudi —, o di passiva presentazione di opere  come la Storia del partito comunista (bolscevico) dell'URSS,  della quale Manacorda faceva proprio anche il giudizio sui  « germi controrivoluzionari » presenti in Trotzki anche  quando egli era « apparentemente rivoluzionario » ®*, « La  cultura sovietica » si preoccupò soprattutto di mettere in  circolazione, tramite Ettore Lo Gatto e Angelo Maria Ripel-  lino, la letteratura russa contemporanea. Né è senza signi-  ficato che l’articolo di apertura della rivista fosse affidato  a un intellettuale azionista, la cui recente polemica con lo  storicismo crociano non era priva di elementi retorici, come  Guido De Ruggiero, teso a dimostrare la necessità di « ele-  vare la politica alla cultura » per superare ogni chiusura  nazionalistica, e pronto a riconoscere che nell’Unione Sovie-  tica « s'è compiuta nell’ultimo trentennio la più profonda  trasformazione che la storia ricordi, e dal cui contatto con    352 Ma, si continuava, il tentativo non riusci: « ognuno ricorda quale  interesse quel mondo abbia sempre suscitato da noi; come avidamente  si leggesse fra le righe di testimonianze settarie e antisovietiche, le sole  cui fosse concesso il privilegio della pubblicazione o della traduzione;  come rapidamente si esaurissero quelle poche opere, generalmente tradotte  dalla produzione di altri paesi, ispirate ad obiettività d’informazione e a  serenità di giudizio, che qualche editore coraggioso riusciva di tanto in  so) a mettere in circolazione » (« La Cultura sovietica », I (1945), pp.  5-6).  353 « La Cultura sovietica », I (1945), pp. 196-197.    331    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    la civiltà occidentale potranno scaturire altri mutamenti  non meno profondi » **   Sempre con l’intento di combattere la pretesa « neutra-  lità » della cultura, in quanto tale ritenuta anch’essa respon-  sabile della nascita e dello sviluppo del fascismo, usciva il  15 aprile 1945, sotto la direzione di Carlo Salinari, « Risor-  gimento »: decisa a operare « dentro la mischia », la rivista  voleva essere organo non di un gruppo, ma di una tendenza,  « organo di cultura di una società aperta e progressiva »,  unificante intellettuali di fedi diverse che si erano trovati  uniti nella lotta antifascista °°. « Risorgimento », scriveva  Salinari a Vittorini il 25 maggio, « vuol essere una rivista  d’incontro delle correnti progressive della cultura italiana:  ma, sorta fra un cumulo di diffidenze ed energicamente  sabotata dal PdA, deve naturalmente nei primi numeri  avere un carattere un po’ vago, se vuol mantenere la sua  linea e non diventare una rivista di partito. Noi qui a Roma  ci troviamo di fronte a difficoltà che voi forse neppure  concepite! »; e, nonostante Vittorini fosse invitato a « iniet-  tare nella [...] rivista del buon sangue del Nord » **, que-    35 G. De Ruggiero, Cultura e politica, in «La Cultura sovietica », I  (1945), pp. 9-10. Su De Ruggiero, « fra le pit caratteristiche espressioni  delle ambiguità e delle incertezze degli “intellettuali” italiani della prima  metà del secolo », cfr. E. Garin, Intellettuali italiani del XX secolo, cit.,  in particolare pp. 105-106.   « È un fatto — si aggiungeva — che non s'è avuta in Italia una  cultura dichiaratamente fascista e c'è chi si vanta di questa impermeabilità  come di un’anticipata condanna del fascismo. Ma la verità è che di fronte  al fascismo non bastava assumere un atteggiamento di distacco fra sde-  gnoso e prudente ma bisognava lottare apertamente in difesa di una col-  lettività spinta sempre più verso la schiaviti e la rovina » (Presentazione,  in « Risorgimento », I (1945), pp. 3-4).   35 AE, Vittorini: «Non appena potrà prendere la sua reale figura »,  continuava Salinari, la rivista avrebbe dovuto, fra l’altro, sostenere la  -«« democrazia progressiva » e l’« antinazionalismo », e « promuovere, per  quanto è possibile, una letteratura maggiormente legata alle aspirazioni  delle masse popolari». Il 9 luglio 1945 Salinari scriveva a Vittorini  di essere stato incaricato da Einaudi di «raccogliere il materiale per il  Politecnico » utilizzando l’organizzazione di « Risorgimento », e faceva  proposte di collaboratori anche se, aggiungeva, « dubito che vi sia oggi  in Italia un numero d'’intellettuali tanto progressivi da poter alimentare  una rivista del genere. Per lo meno nell’Italia centro-meridionale » (ibi-  dem). In un verbale del 6 giugno 1945 relativo ad una riunione per  « Risorgimento », si dice: « Onofri vorrebbe che la rivista si decidesse ad    n    332    Le origini della casa editrice Einaudi    sta mantenne il suo carattere « vago » ed eclettico che la  espose alle critiche di « Società » *”: condizionata dalla  realtà della lotta politica, che rendeva sempre meno efficaci  gli appelli all’unità della Resistenza, la rivista finî col quinto  numero del 1945, senza poter realizzare il programma pre-  visto per il momento in cui essa avrebbe potuto « prendere  la sua reale figura ». Cosi, all’articolo di apertura su L'Italia  e la democrazia di Sturzo, per il quale « chi potrà operare  la rinascita e la redenzione del proprio paese non sarà né  un uomo né una classe, ma tutto il popolo animato dal sof-  fio di un ideale e dalla forza di una volontà » **, seguiva  l’Esperienza di Spagna di Togliatti; assieme alle testimo-  nianze sul fascismo e sulla Resistenza, apparvero articoli di  Salvatorelli sui rapporti Italia-Jugoslavia o su Weimar,  come di Grifone sul problema bancario. Tuttavia nelle note  e nelle recensioni — di Salinari, Cantimori o Giolitti — le  prese di posizione erano più omogenee: a proposito del  dibattito sui rapporti fra liberismo e liberalismo veniva  negata l’identificazione operata da Luigi Einaudi, per affer-  mare che « la libertà politica può essere garantita anche da  una economia pianificata e collettivistica » *°, mentre nella  polemica fra De Ruggiero e Croce sullo storicismo si inter-    assumere un tono più polemico nei confronti delle altre tendenze e  delle altre riviste » (AE, Corrispondenza editoriale Torino-Roma 1945).   357 « Risorgimento » ha un carattere antologico, affermavano G. Pie-  raccini e R. Bilenchi: «manca appunto quello sforzo collettivo uni-  tario che forma lo spirito di una rivista. Anche il carattere progressista di  questo periodico non riesce ad affermarsi con un serio contributo » (« So-  cietà », I (1945), p. 305). Nell’Archivio privato di Felice Balbo si trovano  degli « Appunti per “Risorgimento” », senza data e non firmati, ma dove  è rilevabile la mano dell’esponente cattolico-comunista: « Concetto infor-  matore: dopo l'oppressione della tirannia fascista il Risorgimento riprende  il suo cammino nazionale nelle nuove condizioni obiettive sociali, cioè  avendo come spina dorsale, la classe operaia nella sua storica funzione  di classe di governo e classe nazionale; il Risorgimento continua vera-  mente solo su questa strada. Funzione della nuova classe dirigente  rispetto agli intellettuali ed ai tecnici. Funzione degli intellettuali con la  nuova classe dirigente nella costruzione della democrazia progressiva  post-fascista. In una frase il concetto è: pianificare e articolare la rivo-  luzione come è pianificata e articolata la reazione ». Segue una esempli-  ficazione assai puntuale del contenuto « ideale » della rivista.   358 « Risorgimento », I (1945), p. 8.   359 C.S. [Carlo Salinari], Libertà politica e liberismo economico, in  « Risorgimento », I (1945), p. 95.    333    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    veniva per sostenere la necessità che la filosofia crociana  fosse « superata da uno storicismo che affondi le radici più  profondamente nel movimento dialettico della storia degli  uomini, da uno storicismo che non sia appannaggio del  conservatorismo, ma potente leva di una società nuova.  Ma che sia sempre storicismo, immanentismo assoluto » *°   E sulle pagine di « Risorgimento », nel fascicolo del 25  luglio, con la Lettera a un intellettuale del Nord Fabrizio  Onofri preannunciava i termini del dibattito sulla « nuova  cultura » che si aprirà su « Il Politecnico » il 29 settembre,  rivolgendosi a Vittorini per affermare la necessità    che un intellettuale veramente progressivo, e perciò in primo luogo  antifascista, oggi come ieri debba necessariamente militare, se non  in questo o in quel partito, certo al fianco di quelle forze sociali  organizzate che più e meglio garantiscono l’abolizione dalla vita  nazionale di tutte le forme di oppressione fascista; debba cioè neces-  sariamente « occuparsi di politica », che è ora il modo migliore di  occuparsi della propria sorte di intellettuale, ossia badare a che non  si ricreino sulla sua terra le condizioni di schiavità in tutti i campi  che contrassegnavano il fascismo, e che si creino invece le condizioni  politiche e sociali di quella libertà di cui egli ha bisogno anche e  proprio come intellettuale ?9,    Ci è parso opportuno accennare alle riviste meno cono-  sciute del Fronte della cultura, per rilevare l’ampiezza delle  iniziative della casa editrice tese, in accordo col PCI, a  mantenere aperto, nel primo biennio post-bellico, un dia-  logo con tutte le forze democratiche, anche a prezzo di dis-  sonanze e di polemiche interne; ciò vale — pur con una  sfasatura cronologica — anche per le più note e discusse ri-  viste edite in quel periodo da Einaudi: « Società », nata con  una propria fisionomia autonoma e critica — tanto che  l’intransigenza di Luporini o di Cantimori verso il crocia-  nesimo creò motivi di frizione con « Rinascita » —, e solo  alla fine del 1946 sottoposta a un pi rigido controllo del  partito *; e « Il Politecnico » che, invece, solo con la nuova    36 C. S. [Carlo Salinari], Lo storicismo, in ibidem, p. 96.   361 F. Onofri, Lettera a un intellettuale del Nord, in ibidem, p. 327.   362 Cfr. ora, pur senza i necessari approfondimenti, G. Di Domenico,  Saggio su « Società ». Marxismo e politica culturale nel dopoguerra e negli    334    Le origini della casa editrice Einaudi    serie mensile inaugurata il 1° maggio 1946 passerà dall’in-  genuo dogmatismo del direttore a quella rivendicazione di  indipendenza e « apertura » che fu criticata da Togliatti  come « ricerca astratta del nuovo, del diverso, del sorpren-  dente » *#. Ma al nostro discorso interessa soprattutto  notare che motivi di polemica antivittoriniana erano pre-  senti all’interno della stessa casa editrice, tali da investirne  l'orientamento complessivo nei suoi rapporti col partito  comunista. Il 21 maggio 1945 Pavese scriveva a Einaudi,  anche a nome di Balbo, che Vittorini e Giansiro Ferrata  avevano    radici troppo fonde in Milano per poterli einaudizzare, cioè piemon-  tesizzare. Vittorini sarà l’uomo del Nuovo Politecnico, edizione  Einaudi, organo del Fronte della Cultura, e del relativo bollettino,  stampati entrambi a Milano; Ferrata darà consigli specialmente sui  libri marxisti in cui è ferratissimo [...]. Io invece, sino a nuovo  ordine, approvo l’eclettismo politico che la Casa conserva. Se mai,  sulla purezza d'orientamento giudichi uno solo (per esempio Balbo,  incorruttibile) non tutti i cani e porci che, muniti di tessera, salte-  ranno fuori,    anni cinquanta, Napoli, Liguori, 1979. Nello stesso senso la testimonianza  di Cesare Luporini riportata da N. Ajello, Intellettuali e Pci, cit., p. 71.  A Einaudi, che il 3 maggio ’45 si era offerto di diffondere «Società » a  Roma e nell’Italia centro-settentrionale, il 22 maggio Luporini rispon-  deva accettando, e affermava che la rivista aveva «carattere di alta cul-  tura, anche se non strettamente tecnico, organica e decisa nella tendenza,  ma del tutto aperta quanto ai problemi e agli argomenti presi in consi-  derazione » (AE, Luporini). Nelle «condizioni » poste da Einaudi, si  diceva al punto 3: «La Casa propone di stabilire un collegamento reda-  zionale tra “Società” e gli altri periodici della Casa, attraverso Carlo  Salinari, responsabile editoriale delle riviste della Casa» (l'editore a  Bianchi Bandinelli, 7 luglio 1945, in AE, Bianchi Bandinelli).   363 Ora in P. Togliatti, La politica culturale, cit., p. 80. Su « Il Poli-  tecnico » come rivista del Fronte della cultura cfr. M. Zancan, « Il Poli-  tecnico » e il Pci tra Resistenza e dopoguerra, in «Il Ponte», XXIX  (1973), pp. 994-1010. All’inizio Vittorini si era preoccupato di far appa-  rire la rivista legata al PCI: «Bisogna che la Casa Einaudi si faccia  conoscere come casa legata al P.C., che “Il Politecnico” sia riconosciuto  come settimanale di cultura legato al P.C.», scriveva a Einaudi il 6  luglio 1945 (E. Vittorini, Gli cuni del «Politecnico », cit., p. 11); si  comprende come una collaboratrice di Einaudi, Bianca Garufi, cercando  di diffondere le riviste della casa editrice, e in particolare «Il Poli-  tecnico », in ambiente azionista, si fosse sentita rispondere che «è  assurdo pensare ad un interessamento anche minimo del Partito d’Azione  per un giornale cosî evidentemente comunista » (a Einaudi, 16 novem-  bre 1945, in AE, Corrispondenza editoriale Milano-Roma 1945).    335    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    concludeva duramente Pavese dopo aver riferito il malcon-  tento dei milanesi per la pubblicazione di Ore decisive, le  memorie dell’ex sottosegretario di Stato di Roosevelt Sum-  ner Welles che nel marzo 1940 aveva cercato un accordo  con Mussolini. Einaudi, pur prendendo le difese di Vitto-  rini e Ferrata — « È appunto perché essi hanno radici fonde  a Milano che a noi interessano » —, ribadiva la sua conce-  zione non partitica del fronte culturale:    La Casa ormai si è acquistata la fiducia più assoluta negli am-  bienti che ci interessano, la nostra linea di attività è stata ampia-  mente discussa e trovata la migliore, ed è cosa voluta l’assenza di  ogni settarismo, per concorrere col nostro lavoro all’affermazione di  quel fronte progressivo aperto, di quella unità, che è indispensabile  raggiungere per ragioni politiche, morali e culturali. Questo fronte,  ditelo anche a Milano, ove forse c’è ancora un po’ di settarismo,  comporta l’iriclusione, sul piano internazionale, anche dei Sumner  Welles quando tutti non sono dei Wallace ##,    affermava evocando il nome di quello che si stava dimo-  strando uno dei più aperti esponenti democratici statu-  nitensi.   Ma a mettere in crisi il « settarismo » dei milanesi con-  tribu probabilmente un intervento di Felice Balbo *,  in questo momento forse il più lucido consigliere di Einau-  di, interlocutore autorevole sia di Pavese che di Vittorini,  e l’unico — a quanto risulta — capace di formulare una  visione e un programma complessivi della casa editrice,  non senza, tuttavia, elementi di utopia e di contradditto-  rietà. Riferendosi in particolare all’articolo di Remo Can-  toni su Che cosa è il materialismo storico, apparso sui nu-    364 AE, Corrispondenza editoriale Torino-Roma 1945; Einaudi a Balbo,  26 maggio 1945 (ibidem). Il 18 maggio Balbo aveva scritto a Finaudi:  « attento a prendere delle decisioni per il Nord senza esservi presente  [...]. A Milano bisogna andare con piedi veloci ma di piombo [...]. Vit-  torini è tutt'altro che acquisito » (ibidem).  Su di lui cfr. il saggio, assai « interno » e discutibile, di G. Invitto,  Le idee di Felice Balbo. Una filosofia pragmatica dello sviluppo, Bologna,  il Mulino, 1979; sul movimento cattolico-comunista, cui parteciparono  alcuni collaboratori della casa editrice come Mario Motta e Franco Rodano,  cfr. C.F. Casula, Cattolici-comunisti e sinistra cristiana (1938-1945), Bo-  logna, il Mulino, 1976.    336    Le origini della casa editrice Einaudi    meri 2 e 3 de « Il Politecnico », il 20 ottobre 1945 Balbo  scriveva a Einaudi che    il tutto rappresenta un tentativo un poco mistico, un tentativo di  sostituire un mito vecchio con un mito nuovo e quindi è in fondo.  antieducativo. Si dovrebbe, mi pare, tendere a formare in tutti i  lettori quella mentalità nuova che è scientifica, critica, sperimentale  e aperta mentre Politecnico presenta il materialismo storico troppo  come una pietra filosofale. Se si deve fare un giornale di cultura e  non di propaganda, come credo debba essere anche se prima d’ora  lo era solo in parte, è necessario, proprio sui piani di cultura in senso  stretto (e in questo caso del materialismo storico), affrontare le  critiche, non eluderle dogmaticamente attraverso impostazioni che  ripetano le formule in cui il materialismo storico è sorto. Un mate-  rialismo storico cosî « affettivo » soffoca ed elude lo stesso sforzo di  apertura di Cantoni.    A conferma dell’autorevolezza del suo intervento, que-  ste critiche saranno fatte proprie dall’editoriale che conclu-  deva, il 6 aprile 1946, « Il Politecnico » settimanale:    Noi non abbiamo avuto, col settimanale, una funzione propria-  mente creativa, o, comunque, formativa. L'altra funzione, la divul-  gativa, ci ha preso, a poco a poco, e sempre di più, la mano. Ci  siamo lasciati andare ad essa. Abbiamo compilato, abbiamo tradotto,  abbiamo esposto, abbiamo informato, abbiamo anche polemizzato,  ma abbiamo detto ben poco di nuovo. In quasi tutte le posizioni  che abbiamo prese, pur senza mai sbagliare indirizzo, ci siamo limi-  tati a gridare mentre avremmo dovuto dimostrare. E troppo spesso  abbiamo dato sotto forma di manifesto quello che avremmo dovuto  dare sotto forma di studio [...]. Ci siamo trovati cosî a divulgare  delle verità già conquistate mentre avremmo dovuto cooperare alla  ricerca della verità.    Nella stessa lettera del 20 ottobre Balbo allargava il  discorso all’attività complessiva della casa editrice, indivi-  duandone la carenza di fondo nella mancanza di una precisa  strategia di politica culturale:    L’ottimismo non è sufficiente alla lotta. Ci vuole positività e    36 AE, Corrispondenza editoriale Milano-Roma 1945. Remo Cantoni  propose un Dizionario marxista per aggiornare il lettore « su quel sapere:  che è stato oggetto di ricerca e di analisi specifica da parte dei marxisti »  (AE, Cantoni).    337    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    quindi contatto continuo con i dati veri della totale situazione ita-  liana. Tra l’altro, Milano, ricordiamolo, è di natura troppo euforica:  a Milano, come osservava Gobetti, è possibile ogni avventura, da  quella di Marinetti a quella del Popolo d’Italia [...]. Il punto di  vista è, malgrado tutto, Roma [...]. In noi c'è ancora troppa men-  talità insurrezionalistica e cioè: a) precipitazione; b) estremismo  anzi piuttosto « avanzatismo »; c) visione asfittica o almeno sempli-  cistica di tutti i problemi sia culturali che politici; d) mancato appro-  fondimento del « a che punto siamo » sia politicamente sia, per noi,  soprattutto culturalmente [...]. Come conseguenza di una matura-  zione mancata o non avvenuta, si scivola, sembra impossibile ma è  cosf, su modi e impostazioni ancora fascisti o almeno vecchi. In-  somma Einaudi 1945 è in fondo, capiscimi, pit fascista di Einaudi  1940. Proporzionalmente siamo calati di tono invece di crescere;    e concludeva individuando un arretramento di posizioni ri-  spetto agli avversari e l’incapacità di sfruttare appieno « le  grandissime possibilità che abbiamo, in uomini e in possi-  bile chiarezza di idee ».   Le critiche — e l’apparente paradosso — di Balbo ave-  vano la loro ragion d’essere non solo in rapporto al suo idea-  le di cultura e al suo modello di una casa editrice « critica-  mente » progressista, ma anche, come vedremo, rispetto alle  concrete iniziative di Einaudi, che riflettono, in molti casi,  un'eredità difficile da superare. Ma in queste ebbe probabil-  mente un'influenza lo stesso Balbo, che cercava di coniugare  un’analisi ispirata al marxismo con soluzioni di stampo cat-  tolico. Il suo concetto dinamico di cultura, che ne vedeva il  mutamento col mutare dei rapporti di produzione, e coglieva  gramscianamente la lentezza del processo di adeguamento  degli intellettuali ai nuovi stadi via via raggiunti dalla socie-  tà, invitava — senza i toni ingenui di un Vittorini — a quel-  l’avvicinamento fra cultura e realtà che tuttavia — contrad-  dittoriamente — il cattolico Balbo riteneva raggiunto in mo-  do esemplare nel medioevo, perché « nella sua produzione,  sia agricola che artigiana, architettonica o scientifica, nelle  ideologie politiche come in quelle religiose, si rivela una sin-  golare unità, superiore ai contrasti, che è quella del concetto  feudale della proprietà o del nascente diritto comunale ».  Al contrario, la cultura contemporanea, gelosa della pro-  pria indipendenza e « irresponsabilità » di fronte alla classe    338    Le origini della casa editrice Einaudi    dominante e ai processi produttivi dell’epoca industriale,  aveva dato luogo, tra le due guerre, a quell’irrazionalismo  « che rese possibili tutte le mitologie disumane che hanno  vagato e forse vagano ancora, paurose, sui continenti »,  mettendosi di fatto al servizio dei « privilegiati », per cui  « la cultura del capitalismo è scritta sulle facciate delle  metropoli moderne, è la grande officina, la produzione cro-  nometrata, l’esercito motorizzato, la grande stampa, il cine-  ma ». Con un rigore e una violenza intellettuali ben mag-  giori dell’editoriale con cui Vittorini apri « Il Politecni-  co » — e per il quale questo scritto avrebbe forse dovuto  servire da traccia —, l’esponente cattolico-comunista con-  tinuava:    Rimproveriamo dunque all’idealismo di Croce, all’umanesimo di  Thomas Mann e allo spirito « non prevenuto » di Gide, o meglio agli  idealismi, umanesimi, cristianesimi, spiritualismi, esistenzialismi ecc.  che da quelli provengono (e per quella parte almeno d’essi e dei loro  discepoli che vorrebbe farci credere d’aver trionfato con la Carta  Atlantica e la bomba atomica) d’essere insufficientemente critica con  se stessa e perciò sterile, imbalsamata, defunta — regressiva [....].  Lottare per una nuova cultura intellettuale [...] equivale a lottare  per una nuova società    e ad affermare — concludeva in conformità con la propria  concezione filosofico-religiosa — « il concetto di persona  umana o di uomo obbiettivo e origine d’ogni cultura, inteso  come l'individuo nella coscienza della propria correlazione  col prossimo e delle proprie determinazioni storiche » *?.  Nel quadro di questo discorso, nel quale appare decisa-  mente superato ogni residuo crociano della sua formazione  originaria **, Balbo presentava un « abbozzo di teoria gene-  rale di una casa editrice culturale in senso stretto », in cui  il notevole sforzo di chiarificazione teorica era finalizzato a    367 F. Balbo, Una nuova cultura, dattiloscritto senza data ma con  l'indicazione «per servire alla elaborazione dell’editoriale. Si chiede  da 3 lo stile con baffi e favoriti, da falso-Cattaneo » (Archivio privato   0).   38 Diversamente da quanto sostiene G. Invitto, Le idee di Felice  Balbo, cit., in particolare p. 29.    339    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    trovare i mezzi necessari alla promozione degli « essenziali  valori dell’uomo » *.    11. La ricerca di un nuovo orientamento e l’eredità del  passato    Le critiche e le proposte di Balbo — che ritornerà  su questi temi insistentemente, fino al suo distacco dal  marxismo e dalla casa editrice — miravano ad un fronte  « critico » della cultura che lasciava tuttavia ampi spazi per  ritorni mistici o più propriamente tomistici, come avvertirà  più tardi Bobbio. Ma, nonostante alcuni testi pubblicati  portino il segno — esplicito o implicito — della sua pre-  senza, fra il suo modello di casa editrice di cultura e gli  indirizzi editoriali effettivamente attuati esiste un notevole  scarto, non attribuibile soltanto ad una « sordità » dei suoi  interlocutori o ad un loro consapevole rifiuto delle sue  proposte, ma, soprattutto, alla situazione oggettiva. Il suo  progetto editoriale si affidava infatti ai tempi lunghi e non  teneva sufficientemente conto — come riconoscerà alcuni  anni dopo lo stesso Balbo — dei contrasti ideologici e poli-  tici all’interno della casa editrice, del peso della tradizione  che questa si era formata nel decennio precedente — di cui  Balbo contribui a tenere in vita alcuni aspetti —, e dei  reali rapporti di forza esistenti nella vita politica italiana,  o del loro rapido mutamento, che portò nel giro di due anni    369 I compiti della casa editrice erano individuati nel « puntare alla  egemonia editoriale nel suo genere », e nello scegliere «quelle opere che  in se stesse ed in riferimento alla situazione storica che si svolge, siano  realmente necessarie o utili a far maturare e sviluppare il potenziale  culturale dell’intero pubblico colto »; la « capacità di scelta » della casa  editrice si doveva misurare sul piano filosofico e su quello scientifico:  « La capacità filosofica significa essere in grado di giudicare i valori cul-  turali in sé, secondo la nozione di valore e disvalore, e quindi il saper  riconoscere tutti gli essenziali valori dell’uomo, ossia l’essenziale di ciò  che è indispensabile alla sua pienezza. La capacità scientifica significa  essere in grado di giudicare i valori culturali per riferimento al movimento  storico în cui ci si trova, significa quindi comprendere le necessità della  rivoluzione » (Appunti sulla casa editrice, dattiloscritto senza data in  Archivio privato Balbo).    340    Le origini della casa editrice Einaudi    alla rottura dell’unità antifascista e alla guerra fredda, con  pesanti riflessi — non certo favorevoli a visioni critiche o  problematiche — anche negli schieramenti culturali. Oltre  al difficile equilibrio politico fra le varie sedi e fra i diret-  tori delle collane *°, all’organico orientamento della casa  editrice richiesto da Balbo si opponeva la sua stessa multi-  forme attività rilevata da Pavese e da Giolitti, per i quali  essa manteneva la caratteristica originaria di « eclettica  officina di cultura » — « non c'è altro editore in Italia che  copra un campo cosi vasto » ”! —, moltiplicando contrasti  e contraddizioni: ad esempio, mentre la redazione romana  « si oppone energicamente » e con successo alla pubblica-  zione dei Cinquant'anni di vita intellettuale italiana in  onore di Croce proposta da Carlo Antoni, l'edizione delle  Lezioni di filosofia di Guido Calogero vede la netta opposi-  zione di Pavese, Balbo e Giolitti, ma l'approvazione — vin-  cente — di Bobbio”. Nei volumi pubblicati nell’imme-  diato dopoguerra possiamo del resto constatare, accanto ad  una notevole opera di sprovincializzazione della cultura ita-    30 Il 6 agosto 1945 Einaudi inviava a Pavese un « Pro-memoria della  Direzione » inteso a riorganizzare il lavoro editoriale: Pavese e Vittorini  consulenti, Natalia Ginzburg vice-consulente per « Poeti», « Narratori  contemporanei », « Giganti », « Narratori stranieri tradotti »; Pavese e  Vittorini consulenti, Balbo vice-consulente per la progettata collana « Cor-  rente »; Mila consulente, Pavese e Balbo vice-consulenti per i « Saggi »;  Chabod consulente esterno, Manacorda e Giolitti vice-consulenti per « Bi-  blioteca di cultura storica » e « Scrittori di storia »; Bobbio consulente  esterno, Balbo vice-consulente per « Biblioteca di cultura filosofica »; Ceria-  ni consulente esterno, Giolitti vice-consulente per « Biblioteca di cultura e-  conomica » e « Problemi contemporanei »; Cantimori consulente esterno,  Manacorda vice-consulente per « Biblioteca marxista »; Balbo e Rodano  consulenti, Giolitti vice-consulente per « Problemi italiani »; Giolitti e Vit-  torini consulenti, Salinari vice-consulente per «Testimonianze »; Vit-  torini consulente, Pavese e Balbo vice-consulenti per la « Vittoriniana » che  avrebbe dovuto sostituire l’« Universale »; Aloisi consulente esterno, Mana-  corda relatore al consiglio per « Biblioteca di cultura scientifica »; Rag-  ghianti direttore della « Biblioteca d’arte »; Debenedetti direttore della  « Nuova raccolta di classici italiani annotati » (AE, Pavese: dove ci sono  altre proposte di Einaudi e la risposta di Pavese del 7 settembre, con  alcune osservazioni critiche).   371 Pavese e Giolitti alla Direzione di sede di Roma, 25 ottobre 1945  (AE, Corrispondenza editoriale Milano-Roma 1945).   37 « Pro-memoria per la Direzione Generale » della redazione romana,  sulla proposta di Antoni del 22 ottobre 1945, e sulla proposta di Calo-  gero del 20 ottobre 1945 (ibidem).    341    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    liana, motivi di disorientamento, schematiche attualizza-  zioni politiche di problemi storiografici, assieme ad ecces-  sive cautele e perfino a tendenze conservatrici — se misu-  rate sul metro dei propositi enunciati da Einaudi nel  1945 — che i giudizi delle stesse riviste einaudiane, cosi  come di « Rinascita », non mancano di mettere in evidenza.   Senza ripetere, come in precedenza, quell’analisi a tap-  peto dei volumi, e delle relative recensioni, che era indi-  spensabile per la produzione del periodo fascista, quando  era importante sottolineare anche singole affermazioni sfug-  gite alle maglie della censura, ci soffermeremo soltanto sui  testi di alcune collane — i « Saggi », la « Biblioteca di cul-  tura economica », la nuova serie dei « Problemi contem-  poranei », i « Problemi italiani » e la « Biblioteca di cultura  filosofica » — che permettono di individuare l’orientamento  generale, culturale e politico, della casa editrice all’indo-  mani del 1945. Ciò non ci esime, tuttavia, dall’accennare  al significato di alcuni titoli delle collane letterarie o stori-  che: nei « Narratori stranieri tradotti » apparvero, accanto  ai classici, Kafka e Proust, mentre i « Narratori contempo-  ranei » si aprirono alla produzione straniera con I/ muro di  Sartre — non senza contrasti ” — e con Fiesta e Avere e  non avere di Hemingway, il cui carattere « rivoluzionario »,  rivendicato da Vittorini, era sprezzantemente negato e ri-  dotto ad una somma di sensazioni « elementari » ed « egoi-  stiche » da Alicata, che giudicò « superficiale » anche i  Dieci giorni che sconvolsero il mondo di Reed con cui si    393 «Il libro è indubbiamente molto bello e anche l’ultimo racconto,  però può capitare che un pubblico non molto preparato caschi facilmente  in equivoco. Forse libro e autore andrebbero presentati. Resta da vedere  cosa ha fatto Sartre durante l'occupazione nazista — pare che due o tre  suoi libri siano stati pubblicati dalla N.R.F. in questo periodo », si  scriveva da Roma all’editore il 4 giugno 1945 (AE, Corrispondenza edito-  riale Torino-Roma 1945). Il libro era già stato suggerito da Pintor in  una lettera a Pavese del 21 aprile 1943 (in C. Pavese, Lettere 1924-1944,  cit. p. 694). Il muro fu denunciato per oltraggio al pudore; il 4 aprile  1947 Pavese ne dava notizia a Corrado Alvaro il quale, in veste di presi-  dente del sindacato nazionale scrittori, con lettera a Pavese del 25  aprile si metteva a disposizione della casa editrice: «se non ci difen-  diamo, si preparano per noi giorni assai peggiori di quelli sotto il paterno  Ministero della cultura popolare » (AE, Alvaro).    342    Le origini della casa editrice Einaudi    inaugurò nel 1946 la vittoriniana « Politecnico bibliote-    ca » 3.    La « Biblioteca di cultura storica », posta sotto la dire-  zione di Federico Chabod — e con l’attenta consulenza di  Franco Venturi, sensibile in particolare alla produzione  storiografica francese e russa ** —, riprese le pubblicazioni  con i Saggi sul Risorgimento di Nello Rosselli — con la pre-  fazione di Salvemini — per continuare, a testimonianza di  un interesse più generale della casa editrice per la « demo-  crazia » americana, con America. La storia di un popolo  libero di Allan Nevins e Henry S. Commager, e aprirsi  quindi alle opere di Mathiez e Lefebvre sulla Rivoluzione  francese o, più tardi, alla scuola delle « Annales » con  Bloch e Braudel, nonostante l’opposizione di Cantimori 7%,  Non possono tuttavia essere sottaciute alcune iniziali cadute  di tono della collana, rappresentate dalla ripresa dell’oria-    374 La corrente « Politecnico » (1946), ora in M. Alicata, Intellettuali  e azione politica, cit., p. 63. Sempre con Hemingway si apri nel 1947 la  collana «I Millenni », dove nel 1948 apparirà Le mille e una notte a  cura di Francesco Gabrieli, di cui si suggeriva, per la pubblicità, di  mettere in luce il «carattere sociale »: «il libro è sempre stato frain-  teso come mondo delle fate e delle meraviglie, mentre, adesso che lo  facciamo noi, è ora di vederlo nel suo vero carattere di straordinario  documento su una medioevale società agreste, con naturale democrazia  tra gli umili (fornai, mendicanti, pellegrini, mercanti, schiavi, donne  conculcate ecc.) » (da Roma a Renata Aldrovandi, 14 novembre 1945,  in AE, Corrispondenza editoriale Milano-Roma 1945).   375 Numerose sono le proposte in AE, Chabod, Venturi. Il 29 novem-  bre 1945 Chabod scriveva a Einaudi di assumersi la direzione della  « Biblioteca di cultura storica» e degli «Scrittori di storia », annun-  ciando, per le traduzioni, « un piano di lavoro che contemperi opportu-  namente biografie e studi monografici, lavori di grossa mole e studi assai  più smilzi », in modo da « toccare un po’ tutti i principali problemi della  storia europea e nord-americana » (AE, Corrispondenza editoriale Torino-  Roma 1945).   376 Parte del giudizio di Cantimori su La Méditerranée di Braudel  è riportato da G. Miccoli, Delio Cantimori. La ricerca di una nuova  critica storiografica, Torino, Einaudi, 1970, p. 257, che nel cap. XVIII  ricostruisce puntualmente la collaborazione dello storico con la casa  editrice; nello stesso giudizio, del 1949, Cantimori investiva tutta la  scuola delle « Annales »: « non ritengo utile, anzi dannoso, diffondere,  per mezzo della traduzione di un’opera cosi ben scritta — brillante,  affascinante anche per la sua facilità ed evasività e superficialità di rifles-  sione e di concetti — il metodo, o il sistema, o il regime o l’arte o la  retorica, chiamateli come credete, del gruppo di L. Febvre, Morazé,  Braudel » (AE, Cantimori).    343    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    nesimo nell’Axzistoria d’Italia di Fabio Cusin ?” e da Robe-  spierre e il quarto stato di Ralph Korngold dove, come in  altre opere dedicate al giacobinismo, l’intento di rivalutare  un movimento politico dimenticato o disprezzato dall’idea-  lismo e dal fascismo si accompagna a schematiche e ambigue  attualizzazioni — «Si può dire che tanto la dittatura  fascista quanto quella comunista si siano servite di un me-  todo giacobino perfezionato », affermava Korngold ?*,   La concezione della storia come elemento costitutivo  dell’educazione civile continuerà tuttavia a caratterizzare la  collana: assai significativa in questo senso — e degna di  essere citata per esteso — è l'offerta a Cantimori di scrivere  una storia d’Italia dal punto di vista marxista. E altrettanto  significativo è che portatore — e ispiratore, assieme ad  Einaudi — della proposta fosse proprio quel Balbo che  abbiamo visto tanto cauto rispetto a pericolose fughe in  avanti:    L'Italia manca fino ad oggi di un’opera storica marxista nel senso  più profondo ed esatto che dia la reale fisionomia della sua storia  dall’indipendenza ai giorni nostri — scriveva Balbo a Cantimori il  27 giugno 1947 —. Questa mancanza si fa duramente sentire oggi  non solo nel campo degli studiosi ma soprattutto nella scuola e addi-  rittura nella vita politica. Non è esagerato affermare infatti che  questa mancanza è in qualche modo determinante dello stesso svi-  luppo democratico del nostro paese. L'azione concretamente ideo-  logica da parte delle forze progressive sta diventando sempre più  necessaria: il proletariato non ha di fronte a sé soltanto, ad esem-  pio, il problema meridionale, ma anche il problema cattolico e il  problema crociano che sono poi aspetti dello stesso problema meri-  dionale [...]. La proposta è questa: non sarebbe possibile rispon-  dere ai bisogni rivoluzionari in questo campo? non sarebbe possi.  bile cominciare con una Storia dell’Italia moderna o anche solo  contemporanea? Potrebbe essere un nutrito Somzzario che desse  l’avvio a tutti gli studi particolari e per intanto rappresentasse il    377 Cfr. la recensione di R. Zangheri in « Società », IV (1948), pp.  280-285. Perplessità sulla pubblicazione del volume avanzarono sia Chabod  (lettera a Giolitti del 20 dicembre 1945, in AE, Corrispondenza edito-  riale Torino-Roma 1945), sia Salinari (a Giolitti, s.d., in AE, Cusin).   318 R. Korngold, Robespierre e il quarto stato, traduzione di F. Papa,  Torino, Einaudi, 1947 (ediz. originale 1941), p. 87. Una volta stampato  il libro, ci si rese conto dell’« incongruenza storica e critica » di questa  e di altre affermazioni (Balbo a Giolitti, 22 aprile 1947, in AE, Giolitti).    344    Le origini della casa editrice Einaudi    canovaccio, la direttiva generale per un rinnovamento dei manuali  scolastici. Potrebbe essere invece una grande Storia, a largo respiro,  da concretarsi attraverso un lavoro collettivo [...]. Se pensi cosa ha  rappresentato il Sommario di storia della filosofia del De Ruggiero  nel senso della egemonizzazione borghese della cultura italiana, puoi  pensare cosa rappresenterebbe un Sommario storico fatto da te! Ma  anche qui non credo che proprio io debba sottolineare a te l’im-  portanza di questo lavoro. Voglio solo confermarti che c’è in tutti i  compagni, anzi in tutta la cultura italiana, una profonda aspettativa  in tal senso?”?,    Nell'ambito della casa editrice il marxista Cantimori  avrebbe dovuto sostituire il liberale Salvatorelli, ma lo scru-  polo scientifico del primo impedî quello che ancora nel  1956 — ricordando un’analoga proposta di Alicata, consi-  derata un preannuncio di « Zdanovismo » — Cantimori  titerrà un rovesciamento solo ideologico dell’interpretazione  crociana, in assenza di studi preparatori **.   A un intento educativo immediato risponde invece  prima delle altre, anche per la sua maggiore flessibilità, la  collana-cardine di Einaudi, i « Saggi », che — assieme alla  nuova collana « Testimonianze » — affronta temi di attua-  lità politica, da Marcia su Roma e dintorni di Emilio Lussu  a Leningrado di Alexander Werth a Fascismo e anticomu-  nismo di Lucio Lombardo Radice, che inizia la riflessione  su una tematica ripresa dal Lurgo viaggio di Ruggero Zan-  grandi *', e presenta uno dei best sellers del tempo, Cristo    379 AE, Cantimori (Balbo parlava anche a nome di Einaudi); sempre  il 27 giugno 1947 Einaudi scriveva a Giolitti di « una Storia d'Italia degli  ultimi cento anni che noi vorremmo far fare a Cantimori inchiodandolo  per uno, due, tre, dieci anni a tavolino per costruire il monumento più  importante che in questo momento gli studiosi devono impostare: quello  IR ST della storia d’Italia, soprattutto di quella ultima » (AE,   jolitti).   380 Pro e contra, in « Movimento operaio », VII (1956), p. 330.   381 In questo quadro Balbo propose — trovando favorevoli Giolitti,  Salinari, Manacorda e Pavese — un’opera collettanea su La guerra di  liberazione in Italia, con documenti, testimonianze, biografie ecc., che  sarebbe servita « alla nazione italiana per una migliore conoscenza del  pi grande moto popolare che la sua storia ha fino ad oggi avuto; e  per una esatta valutazione di quelle che sono state le vere forze della  liberazione popolare e che sono le vere forze del suo avvenire (si vedranno  finalmente quelli che hanno lottato e quelli che sono compatsi solo a  oa alla consulta) » (AE, Corrispondenza editoriale Milano-Roma  1945).    345    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    si è fermato a Eboli di Carlo Levi, denuncia efficace — no-  nostante le riserve di « Società » °° — di quella realtà che  contemporaneamente, nei « Problemi italiani », era argo-  mento della Rivoluzione meridionale di Guido Dorso, già  apparsa nel 1925 nelle edizioni Gobetti. E mentre un volu-  me molto caro a Cajumi, La crisi della coscienza europea  di Hazard, rientra nell’interesse per l’illuminismo manife-  stato dalla casa editrice fin dai suoi esordi, il nuovo clima  di libertà permette la realizzazione di progetti già in can-  tiere negli anni del fascismo, come la Congiura per l’egua-  glianza o di Babeuf di Filippo Buonarroti, il primo, secondo  Gastone Manacorda, a fornire una « interpretazione clas-  sista della grande Rivoluzione », nonostante la persistenza  di quegli elementi utopistici ** che non erano invece tenuti  presenti da Giuseppe Berti nella presentazione del Filippo  Buonarroti di Samuel Bernstein: tesi entrambi, autore e  prefatore, ad attualizzare oltre il lecito il significato del  giacobinismo — « Buonarroti fu, con Babeuf, uno dei  grandi precursori di Marx e di Engels » **.   Ma un motivo che ci preme segnalare — a testimonianza  di un’altra e più profonda continuità col decennio prece-    382 Gianfranco Piazzesi, pur affermando che era «uno dei pochi  libri dove abbiamo potuto apprendere qualcosa sulla “questione meri-  dionale” », notava che Levi « resta sempre spettatore, intelligente quanto  volete, ma di un’altra classe, rispetto a questi contadini, e non sa mai  trovare il modo di farli parlare sinceramente, come si parla da pati  a pari, perché manifestino le loro riposte esigenze» (« Società, II  (1946), p. 260).   38 F. Buonarroti, Congiura per l'eguaglianza o di Babeuf, introdu-  zione e traduzione di G. Manacorda, Torino, Einaudi, 1946, pp. XVII,  XX. La proposta di pubblicare Buonarroti e Babeuf era stata rilanciata  anche da Vittorini nella prospettiva di un rinnovamento dell’« Univer-  sale » dove — scriveva a Einaudi il 3 luglio 1945 — « potremmo inclu-  dere anche autori antichi ma che segnino un punto nella evoluzione del  pensiero progressista » (E. Vittorini, Gli anni del «Politecnico », cit.,   . 8).   È 34 S. Bernstein, Filippo Buonarroti, traduzione e prefazione di G.  Berti, Torino, Einaudi, 1946, pp. 61-62; il saggio era apparso nel 1942  ne « Lo Stato operaio ». Cfr. le critiche di Sergio Romagnoli in « Annali  della Scuola Normale Superiore di Pisa», lettere, storia e filosofia, s.  II, vol. XVI, 1947, fasc. I-II, p. 103. Ancora nel 1948 Bernstein pub-  blicò su «Società » un articolo su Buonarroti storico e teorico comu-  nista, affermando che il giacobino italiano «si avvicina di molto al socia-  lismo scientifico » («Società », IV (1948), p. 383).    346    Le origini della casa editrice Einaudi    dente — è la permanenza dell’interesse per la tematica  religiosa, sostenuto ora da nuovi collaboratori cattolici della  casa editrice che affiancano Balbo, come Franco Rodano e  Mario Motta. Questo interesse ha varie manifestazioni:  supera ogni misticismo nella riflessione di Balbo — L’uomo  senza miti e Il laboratorio dell’uomo —, teso a indicare, in  un altro momento di profonda crisi di valori, il fallimento  della filosofia tradizionale e la necessità di nuove « formule  di liberazione » dell’uomo, che non lo isolino dal contesto  storico-sociale *°; ha un’intonazione nettamente spiritualista  in Che cos'è il personalismo? di Emmanuel Mounier; si pre-  senta a sostegno di un vasto e generico affresco « alla Hui-  zinga », in cui la realtà storica è piegata alla dimostrazione  di una tesi — secondo la quale, nella deprecata età del pro-  gresso tecnico, « il cammino della secolarizzazione della cul-  tura non può essere percorso sino all’estremo » — nel  Profilo d’un umanesimo cristiano di H. W. Riissel, che in-  vitava a ricucire la frattura fra umanesimo e cristianesimo  operata dalla Riforma, facendo propria quella che gli pareva  « la grande verità della teologia umanistica », la non anti-  teticità della filosofia greca e del cristianesimo: tesi non con-  divisa nella prefazione postuma di un intellettuale dalla  tormentata vicenda culturale e politica come Giuseppe  Rensi — che pur aveva proposto e curato il volume nel  1940 —, mentre Bobbio riconosceva «la necessità e la  perennità di un umanesimo cristiano » per combattere la  « filosofia della crisi » originata da Kirkegaard ®*.    385 Pur riconoscendo ne L’uomzo senza miti il tentativo di liberarsi  dalla spiritualità dello storicismo immanentistico di Croce, Ludovico  Geymonat riteneva dogmatico il metodo di ricerca di Balbo (« Rivista  di filosofia », terza serie, I (1946), pp. 86-88); cfr. anche le critiche di  Croce, ora in Nuove pagine sparse, serie seconda, Napoli, Ricciardi, 1959,  pp. 157-160.   38 H. W. Riissel, Profilo d’un umanesimo cristiano, traduzione di G.  Rensi, Torino, Einaudi, 1945 (ediz. originale 1940), pp. IX, 2. Nel 1940  la pubblicazione del volume era stata impedita dalla censura; Rensi pro-  pose anche la traduzione di Platonismus und Christentum di C. Ritter  (AE, Rensi). La recensione di Bobbio è in « Rivista di filosofia », n.s.,  IV (1945), pp. 101-103. Nel 1949 Cantimoti, in un parere editoriale su  Erasmo e il Rinascimento di Siro A. Nulli — che sarà pubblicato da  Einaudi nel 1955 —, dichiarerà di condividerne le idee, « tanto per quel  che riguarda le interpretazioni del pensiero e della attività di Erasmo,    347    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    Alla tematica religiosa si volge anche l’interesse dei  « laici »: è del 1949 la proposta di Remo Cantoni — accet-  tata da Balbo ma poi non realizzata — del volume Critiche  allo spiritualismo *"; del 1950 Nuova socialità e riforma  religiosa di Capitini — il cui liberalsocialismo era presen-  tato come una concezione sociale e religiosa « postcomu-  nista » —, proposto da Cantimori come « opera importante  per la storia religiosa-politica e culturale del periodo 1926-  1944 e oltre: come cronaca, documentazione, e storia del-  l’unico movimento antifascista e anticlericale autoctono e-  spontaneo nel terreno italiano dopo il fascismo, consape-  volmente diverso dal comunismo, ma mai anticomuni-  sta » **. Antonio Banfi, formatosi alla scuola di Martinetti,  presentò inoltre il progetto di una « Collana di studi reli-  giosi », che si sarebbe proposta    di far conoscere in Italia a un pubblico più vasto dei consueti centri  di cultura religiosa, sia cattolici che di altre confessioni, quelle opere,  per lo pi recenti, che testimonino di una problematica viva e nuova  nel campo del pensiero religioso; opere che si propongono tutte un  mutamento sensibile nella considerazione del rapporto fra singolo e  collettività appunto in relazione con una differente valutazione dei  principi della confessione di fede; opere che propongono infine,    quanto per quel che riguarda la severa critica allo Huizinga, al Toffanin,  al Riissel, e compagnia. Si tratta di un energico richiamo alla realtà storica  di quel che furono, in quanto affermazione di idee nuove e critica di una  Fiserggi storica culturale, l’'Umanesimo e il Rinascimento » (AE, Can-  timori).   387 Cantoni a Balbo, 13 aprile e 24 giugno 1949: «La critica allo  spiritualismo teologico e metafisico è il grande tema culturale degli ultimi  cento anni. Vorrei presentare criticamente tutte le variazioni storiche sul  tema, da Feuerbach a Marx, da Kirkegaard a Stirner, arrivando fino alla  filosofia contemporanea. E si tratta di ricostruire le ragioni sociali per  le quali muta la sensibilità metafisica » (AE, Cantoni).   388 A. Capitini, Nuova socialità e riforma religiosa, Torino, Einaudi,  1950, pp. 26-27; Cantimori a Einaudi, 12 gennaio 1949 (AE, Cantimori).  Nel 1946 Capitini aveva proposto «un volume quasi pronto » su Anti-  fascismo della non violenza e della non menzogna a Pisa nel ’32 ed uno,  già terminato, dal titolo Saggio sul soggetto della storia — anche questo  non accettato, ma preso in visione per consiglio di Cantimori —, in  cui conduceva «un'indagine oltre lo storicismo crociano per accertare  l’autentico soggetto, collettivo e corale, della storia, per fondare quella  che io chiamo la compresenza di tutti alla produzione del valore; pro-  blema nel quale rientra quello sociale e quello religioso » (Capitini a  Giolitti, 13. gennaio 1946, e a Einaudi, 14 luglio 1946, in AE, Capitini).    348    Le origini della casa editrice Einaudi    tutte, una precisa presa di posizione per il credente, in ordine alla  vita politica:    opere ispirate allo storicismo — e si facevano i nomi di  Newman, Blondel, Barth, Jiger, Troeltsch, Weber — e che,  si specificava,    prevedono una rottura con le forme tradizionali di direzione politica  definite dalla autorità della Chiesa come le sole possibili e conse-  guenti ed anzi prevedono un mutamento radicale di prospettiva in  tal senso consentendo al credente la più ampia libertà di ricerca  della propria prospettiva politica e la possibilità di affiancare la pro-  pria azione a quella di forze politiche progressive di ideologia dif-  ferente 599,    La presenza di queste riflessioni e di queste proposte  relative a tematiche religiose, se da un lato si collegano a  un filone già presente nella casa editrice, dall’altro testimo-  niano l’attenzione che in questo periodo i comunisti dedi-  cano al problema cattolico. Non bisogna tuttavia dimenti-  care che, contemporaneamente, una visione tradizionale del  cristianesimo è il punto di riferimento obbligato di quegli  intellettuali che — sulla falsariga di Huizinga — lamen-  tano le degenerazioni della politica e del progresso contem-  poranei per riproporre un assetto conservatore della società.  È il caso de Le democrazie alla prova di Julien Benda —  un libro la cui edizione francese era positivamente recensita  su « Società », con qualche appunto sul tono aristocratico  e moralistico dell’esponente della « letteratura della cri-  si » °® —: se nel momento in cui fu scritto (1941) si giusti-  ficava nel suo assunto principale, sostenendo che le demo-  crazie, più deboli in guerra dei totalitarismi, debbono difen-  dersi anche a costo di limitare le libertà — « un popolo  veramente libero è tanto più grande quanto più sa ridurre  le sue libertà » —, si faceva poi forte delle argomentazioni  di Constant, Kant e Spencer contro quelle di Bonald, De  Maistre, Hegel, Nietzsche e Marx — tutti accomunati come    %° A Banfi, che accettò, Balbo chiese nel 1947 di fare la prefazione  agli Scritti teologici giovanili di Hegel previsti per la collana filosofica  (AE, Banfi).   39 Recensione di Vezio Crisafulli, in « Società », I (1945), pp. 267-269.    349    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    antidemocratici — per affermare che « i principi democra-  tici sono dei comandamenti della coscienza, e non già degli  insegnamenti dell’esperienza e del costume »; di origine  socratico-cristiana, la democrazia era realizzata solo in Sviz-  zera e negli Stati Uniti, e non sopportava « abusi » del prin-  cipio egualitario come il suffragio universale, osservava  Benda, per concludere che « lo sviluppo di qualsiasi orga-  nizzazione terrena importa sempre qualche violenza contro  i comandamenti divini di giustizia e di libertà »: « il filo-  sofo non può riporre le sue speranze se non in quei sistemi,  come il cristianesimo, omogeneo in questo alla democrazia,  i quali dell’uomo non glorificano altro che la sua natura  divina » ?!,   A fini decisamente reazionari il cristianesimo era utiliz-  zato ne La crisi sociale del nostro tempo di Wilhelm Ropke,  l'economista teorico della « terza via », « in tante cose  affine al Croce e dal Croce assai pregiato » per il rifiuto  del concetto e del termine « capitalismo », come osservava  Cantimori *. Nel volume, uscito originariamente nel 1941  e già in traduzione presso Einaudi prima del 25 luglio ’”,  l’autore criticava « le incomparabili conquiste meccanico-  quantitative della civiltà tecnica » per lamentare, in una  società caratterizzata dalla grande industria e dalla concen-  trazione delle proprietà, la decadenza del cristianesimo —  « una delle più formidabili forze costruttrici della nostra  civiltà, da essa inseparabile » — e della famiglia, oppure  « la diserzione delle comunità rurali e la decadenza del vil.  laggio a favore della città e dell’urbanizzazione e commer-  cializzazione della campagna stessa ». Una critica che ricorda  il leit motiv di Luigi Einaudi — difesa della piccola pro-    39 J. Benda, Le democrazie alla prova. Saggio sui principi demo-  cratici, traduzione di G. Crescenzi, Torino, Einaudi, 1945, in particolare  pp. 6, 25, 40, 51, 58, 87, 96-97, 157.   392 D. Cantimori, Studi sulle origini e lo spirito del capitalismo, pub-  blicato su « Società » nel 1946, ora in Studi di storia, Torino, Einaudi,  1959, p. 130.   393 In una lettera del 2 luglio 1943 alla sede romana, l’editore scri-  veva di iniziare la traduzione del volume di Répke, affidandola a Ernesto  Rossi (AE, Corrispondenza editoriale Torino-Roma 1941-1944); scrivendo  a Pavese il 9 agosto 1943, Pintor giudicava il volume «di grande attua-  lità » (AE, Pintor).    350    Le origini della casa editrice Einaudî    prietà contadina e condanna del « gigantismo » economi-  co —, e da cui Ropke partiva per indicare una « terza via »  o « umanesimo economico » — il modello era individuato  nella Svizzera —, che si risolveva in pratica nella ripro-  posta del liberismo classico in opposizione al socialismo °*:  era quanto notava Cantimori, ricordando che le lodi rivolte  all'autore nel 1942-43 da Luigi Einaudi e da Croce « furono  uno degli ultimi episodi più notevoli, data la personalità  degli autori, della lotta intellettuale condotta sotto il do-  minio del fascismo dal gruppo “crociano” e diretta da una  parte contro il fascismo e dall’altra contro il comuni-  smo » °?. Un liberalismo, quello del futuro collaboratore  de « Il Mondo », che sarà messo in dubbio da Togliatti,  per il quale era solo una mascheratura dello « sconcio  ghigno hitleriano » **.   Del resto, se consideriamo i volumi pubblicati fino al  1946 nella nuova serie dei « Problemi contemporanei » —  nella quale non aveva più diretta influenza Luigi Einaudi —  e nella « Biblioteca di cultura economica » — che secondo  Balbo e Giolitti avrebbe dovuto avere un carattere « non  istituzionale e teorico, ma storico-informativo » #” —, pos-    34 W. Ropke, La crisi sociale del nostro tempo, traduzione di E.  Bassan, Roma, Einaudi, 1946, pp. 7, 12-13, 22-23, 32, 34-35.   395 Nella recensione a Civitas Humana di Répke, pubblicata su « So-  cietà » nel 1946, ora in Studi di storia, cit., p. 715. Luigi Einaudi aveva  visto rispecchiate le proprie idee di politica economica nel volume di  Ropke, mosso dall’intento di « salvare la civiltà occidentale dall’avvento  di una democrazia livellatrice e collettivistica » (Economia di concorrenza  e capitalismo storico. La terza via fra i secoli XVIII e XIX, in « Rivista.  di storia economica », VII (1942), n. 2, pp. 49-72).   3% Il giudizio di Togliatti, del 1952, è citato da N. Ajello, Intellettuali  e Pci, cit., p. 259; già nel 1947, in una recensione di Bilancio europeo  del collettivismo pubblicato nei Quaderni di «Rinascita liberale », si  osservava su «Rinascita »: «se i liberali tedeschi non sono mai stati  altro che questo, si capisce benissimo come la Germania sia sempre  stato un paese reazionario e con tanta facilità abbia potuto Hitler pren-  dervi e tenere il potere » (« Rinascita », IV (1947), p. 271). Dell’« assidua  collaborazione » di Ròpke a « Il Mondo », che nei suoi primi anni si ispi-  rava al liberismo di Luigi Einaudi, parla P. Bonetti, « I{ Mondo » 1949-66.  Ragione È illusione borghese, prefazione di V. Gorresio, Bari, Laterza,  1975, p. 16.   39 Balbo (anche a nome di Giolitti) alla sede di Milano, 10 ottobre  1945 (AE, Corrispondenza editoriale Milano-Roma 1945). È da rilevare,  tuttavia, che il 5 febbraio 1946 la casa editrice assicurava Luigi Einaudi    351    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    siamo notare che Ropke è soltanto la punta estrema di un  ‘orientamento che non si oppone drasticamente alla linea  liberista: la casa editrice non fa altro che rispecchiare l’arre-  tratezza della sinistra nel campo della cultura economica, e  la sua rinuncia, in questo momento, a porre in discussione  il ruolo dell’iniziativa privata nella ricostruzione ®**. È in-  fatti significativo, da un lato, che nel primo biennio post-  bellico l’unica voce favorevole alla pianificazione sia quella  di Pasquale Saraceno *”, e, dall’altro, che gli studiosi ai quali  si guarda con maggiore attenzione siano statunitensi, cosî  che il liberatorio « mito » americano di Pavese e di Vitto-  rini — temperato negli anni ’30 dalla critica dei liberisti al  New Deal rooseveltiano — trova ora una sua realistica  traduzione nell’immagine che gli economisti e gli uomini  politici americani danno del loro paese, impegnato a supe-  rare con la somma delle sue energie individuali la nuova  « frontiera » posta dall’eredità della guerra.   Cosî, mentre l’opera collettanea di Friedrich von Hayek,  N.G. Pierson, Ludwig von Mises e Georg Halm, Pianifi-  cazione economica collettivistica (1946), è, come annuncia  il sottotitolo — « Studi critici sulle possibilità del socia-  lismo » — e il nome del prefatore, Bresciani-Turroni, una  decisa esaltazione del liberismo ‘*, a incarnare il nuovo mito  riappare Henry A. Wallace, l’esponente democratico che  alla fine del 1946 aveva rotto con Truman a proposito della    della prossima pubblicazione — poi non avvenuta — di The Road to  Serfdom di Hayek: «La nostra Casa, come Lei sa, non persegue un indi-  rizzo politico di partito, ma pubblica opere di varie tendenze — da  Togliatti a Lippmann a Répke a Schumpeter — secondo la linea già corag-  giosamente seguita, nei limiti del possibile, sotto il fascismo » (AE, L.  Einaudi).   398 È quanto osserva, anche in riferimento alle edizioni Einaudi,  G. Santomassimo, Il dibattito economico, in «Italia contemporanea »,  XXVI (1974), n. 116, p. 45.   39 Cfr. la prefazione di Saraceno a G. Bienstock, S.M. Schwarz,  A. Yugow, La direzione delle aziende industriali e agricole nell'Unione  Sovietica, traduzione di P. Saraceno, Torino, Einaudi, 1946 (ediz. origi-  nale 1944).   40 Von Mises — tanto lodato, assieme a Robbins e Hayek, da Ernesto  Rossi nelle sue lettere del periodo bellico a Einaudi (AE, Rossi) —  sarà giudicato da Piero Sraffa « un reazionario antidiluviano » (a Balbo,  23 gennaio 1950, in AE, Sraffa).    352    Le origini della casa editrice Einaudi    politica del governo americano verso l’URSS ‘!: in un’ope-  retta dall’accattivante titolo Lavoro per tutti dichiarava  che gli USA non avevano nulla da temere dal comunismo  « se il nostro sistema di libera iniziativa si dimostrerà all’al-  tezza delle sue possibilità », e di fronte all’aprirsi di nuovi  mercati per l'economia statunitense si mostrava fiducioso  che « la guida economica americana potrà recare alla regione  del Pacifico un grande vantaggio materiale ed una grande  benedizione al mondo » ‘°; e l’esperimento di colonizza-  zione interna nella valle del Tennessee che Wallace propo-  neva a modello per il mondo intero, era puntualmente esa-  minato da David E. Lilienthal in Democrazia in cammino  (1946). Un energico richiamo al liberismo, contro i pianifi-  catori di qualsiasi colore, fossero fascisti, comunisti, o i  sostenitori del « collettivismo graduale » degli Stati demo-  cratici, veniva da un altro esponente democratico ameri-  cano, Walter Lippmann: ne La giusta società — la cui edi-  zione originale era del 1936 — egli si dichiarava debitore  della « critica a una economia razionalizzata » svolta da  von Mises e von Hayek, ma anche da Keynes — « la cui  opera è tutta volta a dimostrare che l’economia moderna  può essere regolata senza ricorrere alle dittature ed è com-  patibile con istituzioni libere » —, e cercava di dimostrare  che la libertà dell'individuo era assicurata dai principi origi-  nari del liberismo depurato di quelle degenerazioni che ave-  vano portato a processi di concentrazione produttiva — « il  principio basilare del liberalismo è [...] che il mercato  deve essere lasciato libero di funzionare, ed anzi perfezio-  nato, come regolatore principe e primo della divisione del  lavoro » —, non senza usare toni apocalittici di sapore puri-  tano che ritroviamo in altri esponenti del mondo anglosas-  sone: « Gli uomini vivono in un mondo torbido, dove non  si guarda più con fiducia alla Provvidenza divina, quale  ente regolatore delle cose umane, dove il costume eredi-  tato ha cessato d’essere di guida e la tradizione non pi    41 Cfr., per l’attenzione di cui era oggetto da parte comunista, Inter-  vista con Wallace, in «l’Unità », 17 aprile 1947.   42 H.A. Wallace, Lavoro per tutti, traduzione di G. Olivetti,  Torino, Einaudi, 1946 (ediz. originale 1945), pp. 17, 147.    353    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    santifica le vie fino adesso battute » ‘*. È lo stesso Lipp-  mann che ne La politica estera degli Stati Uniti e ne Gli  scopi di guerra degli Stati Uniti (1946) manifesta la sua  tendenza democratica sostenendo la necessità di un accordo  USA-URSS per il mantenimento della pace mondiale, ma al  tempo stesso giustifica l’espansionismo americano e coglie  l’occasione per ammonire l’URSS che « per quanto corrette  possano essere le nostre relazioni diplomatiche, esse non  saranno quelle relazioni veramente buone quali dovrebbero  essere, finché nell'Unione Sovietica non saranno state in-  staurate le fondamentali libertà politiche e umane » ‘*.    12. La rottura dell’unità antifascista e il rapporto col PCI    La spaccatura politica che si ha nel paese nel mag-  gio 1947 ha profonde ripercussioni sulla casa editrice, i cui  legami col PCI si stringono ulteriormente provocando un  sensibile mutamento negli indirizzi culturali. Anche dopo  la fine dei governi di unità antifascista, all’interno del PCI  non scomparve completamente la prospettiva di una al-  leanza con gli intellettuali democratici: se al VI congresso  del gennaio 1948 Togliatti invitava a serrare le fila — « La  nostra attività ideale non può non avere, come l’attività  pratica, l'impronta di partito » ‘ —, nel dicembre dello  stesso anno Alicata, pur notando che «la borghesia del  nostro paese sta compiendo un tentativo estremo per rior-  ganizzare in senso reazionario la cultura italiana, per tra-  sformarla ancora una volta in una efficiente barriera ideo-  logica contro il marxismo », con la collusione di cattolici e  liberali in un « blocco antirazionalista », invitava a « conti-  nuare a lavorare per costituire un fronte della cultura il    #3 W. Lippmann, La giusta società, a cura di G. Cosmelli, Roma,  Einaudi, 1945, pp. 6, 9, 41, 221. Lippmann era autore anche di A  Preface to Moradls (1929).   44 W. Lippmann, Gli scopi di guerra degli Stati Uniti, Torino,  Einaudi, 1946 (ediz. originale 1944), p. 136.   45 Rapporto al VI congresso del PCI del 5-10 gennaio 1948, in P.  Togliatti, La politica culturale, cit., p. 90.    354    Le origini della casa editrice Einaudi    più possibile ampio » ‘*. La situazione oggettiva non ren-  deva tuttavia immediatamente praticabile, come nel 1945-  46, questa indicazione, e il rapporto privilegiato che si  venne istituendo fra PCI ed Einaudi provocò profonde lace-  razioni — di cui è esempio la vicenda de « Il Politecnico »  — e contrasti interni fra i collaboratori. La casa editrice  riuscf comunque a mantenere una sua sfera di autonomia —  basti pensare ai settori letterario, storico e filosofico — che  le permise di non essere isolata e, al tempo stesso, di non  istituzionalizzare il suo legame col partito.   Proprio il carattere non ufficiale del suo rapporto col  PCI aveva permesso che questo individuasse in Einaudi il  canale più adatto, anche se non unico, per diffondere la  conoscenza del marxismo nella cultura italiana. La deci-  sione di affidare a Einaudi, piuttosto che all’editoria di par-  tito, gli scritti di Gramsci, si situa appunto in un quadro  che vedeva la pubblicazione, da parte della casa editrice,  di testi di Monti, Sforza, Sturzo, Nenni, Togliatti, Grifone  e Sereni, e la proposta di edizione delle opere di Salve-  mini o, su suggerimento anche di Togliatti, di quelle di  Dorso e dei Discorsi di Giovanni Giolitti *”. L’uscita, nel  1947, delle Lettere di Gramsci — che, come osservava    46 M. Alicata, Una linea per l’unità degli intellettuali progressivi,  ora in Inzellettuali e azione politica, cit., pp. 81, 84.   40 In una lettera all’editore del 23 gennaio 1947 Muscetta avver-  tiva, a proposito di Dorso di cui curerà le opere: « Bada che il Partito  Comunista, appena Togliatti avrà visto i manoscritti inediti, desidera  farsi promotore dell’edizione »; il 20 settembre scriveva che Togliatti  desiderava che fosse Einaudi a stampare Dorso (cfr. anche l'esplicita  richiesta di Togliatti a Einaudi del 24 settembre 1947, in AE, Togliatti),  e il 1° dicembre si scusava per non aver inviato i manoscritti di Dorso:  « Ma non era mica io a tenermeli. Era Togliatti, e ce n'è voluto per  riaverli »; il 4 marzo 1949 Giolitti avvertiva l’editore che Togliatti aveva  approvato la prefazione alle opere di Dorso (AE, Muscetta, Giolitti).  Il contributo di Dorso — morto all’inizio del 1947 — « dal marxismo  può essere accettato per essere sisterzato », affermò Franco Rodano  (Guido Dorso, in «Rinascita », IV (1947), p. 11). Il 31 ottobre 1946  Muscetta proponeva a Pavese i Discorsi di Giolitti con prefazione di  Salvatorelli, e il 16 marzo 1947 gli scriveva: « Giolitti è stato già da  tempo gradito dal Togliatti » (AE, Muscetta). Inoltre, il 2 dicembre  1947, Bobbio interpellava Dal Pane per una raccolta di scritti rari o  inediti di Labriola, « magari come inizio di una più ampia raccolta  dell’opera filosofica e storica del Labriola » (Archivio privato Bobbio).    355    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    Felice Platone, « sono in buona parte come una introdu-  zione generale agli scritti che verranno dopo e ambiente-  ranno il lettore meglio di qualsiasi prefazione » —, costituî  un inusitato successo editoriale, se nel giugno 1949 la tira-  tura era arrivata a 43.526 copie, di cui 37.254 vendute ‘*.  Nel 1948 cominciò la pubblicazione dei Quaderni del car-  cere, che fu accompagnata tuttavia, da parte della casa  editrice, da impazienze e dubbi sulle reali intenzioni del    partito, se il 15 maggio 1947 Cantimori poteva scrivere a  Einaudi che    con quelli della edizione di Gramsci bisognerebbe usare mezzi feroci.  Mi han fatto vedere il volume sulla storia degli intellettuali, o  com'è il titolo preciso, quello insomma dove si parla di Croce, e dei  problemi filosofici: è pronto (a meno di una revisione del dattilo-  scritto pessimo), e chi sa perché non lo fanno uscire [...]. Sembra  che qualcuno abbia scrupoli per le critiche al Croce che ci sono in  quel volume [...]. Ho protestato contro questi scrupoli, con chi  voleva sentire e con chi non voleva, Ma che cosa aspettano, che  Croce sia morto, per poi farsi dire da qualche stupido che non si è  avuto coraggio di pubblicare le critiche Croce vivo? E lo stupido  sembrerebbe aver ragione! Appena tornerò a Roma mi butterò alla  carica 49.    E il 15 ottobre 1948 gli faceva eco Einaudi che, prote-  stando con Togliatti per il ritardo del « si stampi » per i  quaderni su Gli intellettuali e l’organizzazione della cul-  tura, invitava il dirigente comunista a evitare « una tempo-  ranea battuta di arresto », essendo    48 AE, Platone. Già il 7 giugno 1945 Togliatti aveva scritto a Einaudi:  « siamo perfettamente d’accordo sulle sue proposte riguardanti l’edizione  completa delle opere di Gramsci. Vogliamo solo porre due condizioni:  1) Eventuali prefazioni e note di singoli volumi che Ella vorrà pubbli-  care in collane particolari, debbono avere la nostra approvazione. 2) La  Direzione del P.C.I., pur concedendo a Lei tutti i diritti per questa edi-  zione e le successive ristampe, si riserva la proprietà letteraria dell’opera »  (AE, Corrispondenza editoriale Torino-Roma 1945).   49 Cantimori a Einaudi, 15 maggio 1947; lo stesso giorno Cantimori  scriveva a Balbo: «La Direzione del Partito farebbe meglio a spicciarsi  a consegnarvi le opere di Gramsci invece di farle conoscere a spizzico [...],  o di avere scrupoli perché si critica Croce »; il 30 settembre 1947 Balbo  — su suggerimento di Einaudi — inviava a Cantimori le bozze de //  materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce «in via privatissima  affinché tu potessi, dando una scorsa veloce, segnalarci eventuali notevoli  lacune » (AE, Cantimori).    356    Le origini della casa editrice Einaudi    ormai chiaro a tutti che Gramsci serve ai nostri compagni per raf-  forzarsi ideologicamente, per imparare a ragionare e a porsi dei  problemi, che Gramsci serve agli intellettuali non comunisti per far  loro misurare nella sua pienezza la nostra forza ideologica. Non  solo, ma è dimostrato che attraverso Gramsci molti intellettuali si  avvicinano al nostro partito e, sovratutto, si creano delle alleanze 41°.    L’operazione che riusci con Gramsci non ebbe suc-  cesso — anche per la difficoltà di trovare i testi originali e  traduttori preparati — per il progetto di una « Collana  marxista » di cui Einaudi aveva parlato a Lucio Lombardo  Radice già il 5 gennaio 1945 ‘, e che nella fase di prepa-  razione occupò, fra gli altri, Manacorda, Cantimori, Emma  Cantimori Mezzomonti, Luporini, Massolo, Bobbio, Balbo e  Giolitti. Su questo terreno si era già impegnata, subito  dopo la liberazione di Roma, l’editrice comunista Nuova  Biblioteca diretta da Carlo Bernari e per la quale Cantimori  era stato incaricato di dirigere la collana « Pensiero sociale  moderno » ‘“; l’iniziativa non ebbe tuttavia seguito e, prima  che fosse ripresa dalle edizioni Rinascita, alcuni dei cura-  tori previsti confluirono nel progetto einaudiano. Ma già  nel luglio 1945 la collana veniva definita « minor » ‘, e    40 AE, Togliatti.   41 « Nell’intendimento di soddisfare un’esigenza oggi largamente dif-  fusa, la mia casa ha deciso la pubblicazione di una “Collana Marxista” »;  a Lombardo Radice Finaudi offriva la cura dell’Indirizzo inaugurale di  Marx del 1864 (AE, L. Lombardo Radice).   412 Cfr. G. Manacorda, Lo storico e la politica. Delio Cantimori e il  partito comunista, in Storia e storiografia. Studi su Delio Cantimori.  Atti del convegno tenuto a Russi (Ravenna) il 7-8 ottobre 1978, a cura  di B. V. Bandini, Roma, Editori Riuniti, 1979, pp. 67-70.   413 .Manacorda a Bobbio, 18 luglio 1945; i testi già « in lavorazione »,  non esistendo più il pericolo di interferire con la Nuova Biblioteca, che  «non fa praticamente nulla », erano: Manifesto e scritti preparatori  (Emma Cantimori), Guerra civile in Francia (Enzo Lapiccirella), Lotte  di classe in Francia (Mario Manacorda), Ideologia tedesca (Arturo Mas-  solo e Cesare Luporini), l’Imzperiglismo di Lenin (Bianca Maria Luporini)  (Archivio privato Bobbio). Il 10 maggio 1945 Renata Aldrovandi  scriveva da Milano a Einaudi che «con Misha {Michele Kamenetzki,  che assumerà in seguito lo pseudonimo di Ugo Stille] è stata discussa  una collezione di civiltà marxista — raccolta di autori meno classici  di quelli del tuo programma ma imperniata sui problemi pit partico-  lari e attuali (es. il libro di Sereni sull’agricoltura in Italia, ecc.): questa  collana sarebbe costituita in parte con libri che ha Vittorini, e in parte  con la critica di libri italiani visti alla luce marxista » (AE, Corrispon-  denza editoriale Torino-Roma 1945).    357    I fascismo e il consenso degli intellettuali    una circolare editoriale annunciava testi brevi di Marx;  Engels, Lenin e Stalin, col sussidio di un commento espli-  cativo, per « orientare il lettore verso certi punti fermi del  marxismo, e di introdurre allo studio del marxismo, evi-  tando quegli accostamenti attraverso materiale di seconda  mano finora tanto frequenti e tanto nocivi » ‘*. Il progetto  naufragò definitivamente nel dicembre 1946, quando Balbo  propose a Giolitti di inserire i vari testi marxisti nelle col-  lane esistenti e di farne una scelta accurata in modo da  « mantenere le nostre caratteristiche di Casa editrice rivolta  a un pubblico abbastanza colto o addirittura di studiosi » ‘.  Non mancarono le proteste del PCI per il fallimento della  collana, finché nel 1948, in coincidenza con la pubblica-  zione del primo testo, Le lotte di classe in Francia di Marx  — nell’« Universale » #9 —, Togliatti scrisse a Einaudi  che « per i classici io non sarei favorevole a passare a te  l'iniziativa editoriale » ‘”. Si registrava cosî un pesante ri-  tardo nella diffusione del marxismo, reso evidente, ad  esempio, dal fatto che ancora nel 1947 « Rinascita » pub-  blicava elenchi di testi di Marx ed Engels, in varie lingue e    414 Circolare s.d. (ibidem).   . 45. Balbo a Giolitti, 10 dicembre ’46; nella risposta del 24 dicembre,  Giolitti si dichiarava d’accordo (AE, Giolitti). Assai riduttiva era invece  la proposta di Muscetta, che per il Manifesto suggeriva «la classica  traduzione di Pompeo Bettini e una prefazione di un tipo come Um-  berto Morra: proprio adatta al gran pubblico dei non marxisti» (all’e-  ditore, 21 giugno 1947, in AE, Muscetta).   . #16 Il 5 settembre 1947 Einaudi scriveva a Cantimori che, «in se-  guito allo smistamento della ex-collana marxista », aveva proposto a  Chabod di includere il volume negli «Scrittori di storia »; Cantimori  rispondeva di non essere d'accordo perché le Lotte di classe costituivano  «un grande esempio di analisi critica politico-sociale, economico-politica,  ma non un libro di storia come invece può essere considerato il 18  Brumaio che tratta lo stesso argomento ma a svolgimento storico con-  chiuso »; il 13 settembre Chabod dichiarava a Einaudi di condividere  le ‘osservazioni di Cantimori, in quanto l’opera di Marx era « un'analisi  politico-sociale, che è al tempo stesso un programma d'azione. Sul  genere, insomma, dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio del  Machiavelli » (AE, Cantimori, Chabod).   . 4? AE, Togliatti. Le proteste del PCI per il fallimento della « Col-  lana marxista » sono registrate, ad esempio, da una lettera di Gio-  litti all'editore del 16 aprile 1947: «Togliatti, impazientito per i  ritardi di queste pubblicazioni, ha esortato le edizioni del Partito a  pubblicare senza indugi» (AE, Giolitti).    358    Le origini della casa editrice Einaudi    in vecchie edizioni, presenti nelle biblioteche italiane.   È in questo quadro, di disinformazione e disorienta-  mento, che si colloca il « caso » di Gustavo Wetter,. il  gesuita austriaco professore al Pontificio Istituto Orien-  tale in Roma, autore de I/ materialismo dialettico sovietico.  Il libro era stato presentato da Balbo come opera « seria  ed onesta, di carattere informativo, filologicamente cor-  retta e documentata, compiuta tutta su testi originali non  accessibili agli studiosi italiani per molto tempo. Le poche  osservazioni critiche, naturalmente condotte con metodo  scolastico, sono però sempre intelligenti e non settarie ».  Bobbio ne prendeva atto, pur con qualche dubbio, e un  anno dopo Cantimori — particolarmente incline a presen-  tare come opere « documentarie » i testi di autori spiritua-  leggianti, come Capitini o Toynbee — esprimeva il suo  parere positivo: « è chiaro che è il libro d’un gesuita e non  di un comunista; è un libro utile, per le discussioni e retti-  ficazioni che provocherà » ‘. Ma, se Miccoli nota opportu-  namente che il libro fu pubblicato un anno dopo questo  parere, « in un momento infelicissimo per le “discussioni e  rettificazioni”, evidentemente pacate, alle quali pensava  Cantimori » ‘, è difficile non cogliere l’atteggiamento patti-  giano dell’autore, che nel 1953 dedicherà su « La Civiltà  cattolica » un ritratto a Giuseppe Stalin demone dell’antire-  ligione. Nonostante l'avvertenza editoriale — che presen-  tava l’opera come « informatissima e aggiornata » dichia-  rando al tempo stesso un « fondamentale dissenso dalle  premesse e dalle conclusioni dell'Autore » —, Wetter  affermava infatti che per i sovietici la filosofia era ancella  della politica, coglieva una presunta « affinità tra la filo-  sofia di Lenin e la filosofia religiosa russa » — « nell’intui-  zione d’un nesso e d’un’unità reali in cui fra loro si uni-    418 Balbo a Bobbio, 17 ottobre 1945 (Archivio privato Bobbio);  Bobbio a Balbo, 20 ottobre 1945 (Archivio privato Balbo). Il 10 dicembre  46 Balbo scriveva a Giolitti che il testo era stato revisionato da Can-  timori, mentre il 19 giugno 1947 Giolitti, in una lettera a Serini, diceva  di aver preparato l’avvertenza al volume (AE, Giolitti).   419 G, Miccoli, Delio Cantimori, cit., p. 253 (anche per il siind  a Toynbee}. Su tutta la vicenda cfr. anche G. Manacorda, Lo storico -e  la politica. Delio Cantimori e il partito comunista, cit., pp. 78-81.    359    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    scono tutte le cose del mondo » —, e concludeva che «i  materialisti dialettici sovietici, per non esser costretti ad  assoggettarsi a Dio, si gettano nelle braccia d’un idolo. È  forse altro, invero, quella materia a cui, negato Iddio, ven-  gono trasferite tutte le prerogative divine? » ‘’. Erano  quindi giustificate le lodi de « La Civiltà cattolica » *" e la  violenta stroncatura del volume da parte di Giuseppe Berti,  che ne sottolineava gli errori, la tendenziosità antisovietica,  il privilegiamento di sconosciuti intellettuali sovietici, e  accusava di « incredibile leggerezza » quei marxisti che ‘ave-  vano consigliato la sua pubblicazione ** — che fu un « er-  rore », come riconoscerà più tardi lo stesso Cantimori ‘*  Una riflessione sul marxismo priva di preconcetti rimase  quindi limitata, in questi anni, a Ordine e vita del biologo  inglese Joseph Needham (1946), un volume già proposto  da Alicata nel 1941 .che concludeva la sua analisi scienti-  fica con l’accettazione del materialismo dialettico ‘4; mentre  una conoscenza dell’Unione Sovietica più equilibrata di quel.  la fornita dagli studiosi statunitensi fu avviata — prima che  nel 1950 fosse tradotta l’opera dei coniugi Webb respinta  da Giulio Einaudi nel 1938 ‘5 — con la traduzione di saggi  di altri autori inglesi, significativamente caratterizzati da un  acritico confronto con l’esperienza del cristianesimo primi-  tivo. In Un sesto del mondo è socialista l’alto prelato angli-    40 G.A. Wetter S.J., Il materialismo dialettico sovietico, Torino,  Einaudi, 1948, pp. XI, 393, 397, 399.   A. Brucculeri, Scientismo marxista, in « La Civiltà cattolica », 99  (1948), vol. I, pp. 508-512; cfr. anche, contro la critica di ‘« Voprosy  filosofii » all’edizione tedesca del volume, U.A. Floridi, Materialismo  dialettico e critica sovietica, in «La Civiltà cattolica», 104 (1953),  vol. Rio pp. 302-308. °   « Società », III (1947), pp. 705-716.   n G. Miccoli, Delio Cantimori, cit., p. 253 n   44 Cfr. Alicata a Einaudi, 27 novembre 1941 (AE, Alicata), e la  favorevole recensione di Lucio Lombardo Radice in « Rinascita », III  (1946), pp. 134-135.   45 Il 3 dicembre 1948 Mario Motta scriveva a Einaudi: «I sondaggi  sul Webb sono stati eseguiti. Tutto bene. Il libro non è mai stato  attaccato nell'Unione. Tanto Togliatti che Sereni sono d'accordo sulla  sua diffusione anche all’interno del Partito. Togliatti però pensa ‘che  forse sarebbe bene alleggerire l’opera di tutte quelle parti documentarie  che non hanno più un interesse attuale (per es. la costituzione sovietica  ecc.) » (AE. Motta).    360    Le origini della casa editrice Einaudi    cano Hewlett Johnson partiva infatti dalla constatazione  dell’assenza di una base morale nel « sistema » occidentale  per cogliere nell’organizzazione della società sovietica la  possibilità di sviluppo di quei valori umani che « sono per  chi scrive indissolubilmente legati con la religione e la  tradizione cristiana » ‘9; un analogo afflato religioso per-  corre Fede, ragione e civiltà del laburista Harold J. Laski,  per il quale    è difficile vedere su quali basi possa essere ricostruita la tradizione  della civiltà; all’infuori di quelle su cui si fonda l’idea della rivolu-  zione russa. Essa corrisponde, prescindendo dagli elementi sopranna-  turali, con esattezza considerevole al clima spirituale nel quale il  cristianesimo divenne la religione ufficiale dell'Occidente [...]. Ovun-  que si è affermata, l’idea della rivoluzione russa ha suscitato nei suoi  esponenti un’aspirazione ardente alla salvezza spirituale 47    I più stretti rapporti instaurati nel 1947 col PCI tro-  vano comunque espressione soprattutto nella pubblicazione  di testi di politica e di economia. Esce nel 1948 Il Mezzo-  giorno all’opposizione (Dal taccuino di un ministro în con-  gedo) di Emilio Sereni che, sollecitato nel febbraio dello  stesso anno da Balbo a fornire un parere sulla traduzione  di The great conspiracy in cui Michael Sayers e Albert E.  Kahn analizzavano la « cospirazione antisovietica » dalla  Rivoluzione d’ottobre al secondo dopoguerra — un libro,  affermava Balbo, « estremamente utile in se stesso, e oggi,  per la campagna elettorale » —, chiedeva, anche a nome  di Togliatti, di accelerarne la pubblicazione perché il vo-  lume — tradotto nel 1948 in « Politecnico biblioteca » —  era « ancor nuovo e di grande interesse per il pubblico  italiano e può avere ora una grande efficacia propagandi-    46 H. Johnson, Un sesto del mondo è socialista, a cura di A. Taglia-  cozzo, Torino, Einaudi, 1946 (ediz. originale 1944), pp. 7, 9; cfr. la  recensione di Mario Montagnana i in « Rinascita », III (1946), pp. "333 -334.   42 H.J. Laski, Fede, ragione e civiltà. Saggio di analisi storica, tradu-  zione di È. Bedetti Aloisi Torino, Einaudi, 1947 (ediz. originale 1944),  p. 60. Del leader laburista fu pubblicato su «l'Unità » del 12 settem-  DE sai l’articolo «Ux popolo veramente libero » crea la nuova Ceco-  slovacchia.    361    H fascismo e il consenso degli intellettuali    stica » ‘**, Alla fine del 1949, in un momento in cui il pro-  blema della terra si era riacutizzato con le lotte contadine  nel Mezzogiorno, Balbo si rivolgeva ancora a Sereni per  invitarlo a scrivere quella storia dell’agricoltura italiana di  cui si avvertiva il bisogno in un paese « che nella risolu-  zione del problema agricolo ha uno degli aspetti più deli-  cati dell’intero problema politico del suo sviluppo » *  legata all’attualità politica era anche l’Introduzione alla  riforma agraria pubblicata nel 1949 da Ruggero Grieco, che  nello stesso anno, di fronte a « una palese offensiva contro  la costituzione delle Regioni » da parte della DC propo-  neva una raccolta di suoi scritti su Unità statale e decentra-  mento regionale in Italia*®, E una più stretta collabora-  zione fra la casa editrice e il partito veniva chiesta da Einau-  di a Togliatti nel 1948 per promuovere in Italia una mag-  giore conoscenza della cultura sovietica, che avrebbe dovuto  essere rappresentata non solo da I/ marxismo e la questione  nazionale e coloniale di Stalin (1948), ma anche da « un’am-  pia scelta di scritti di Zdanov » curata personalmente da  Togliatti ‘!.   È inoltre in questo periodo che si intensifica il ruolo di  Antonio Giolitti nell'esame e nella proposta di testi di eco-  nomia, con la consulenza, da Londra, di Piero Sraffa. Ebbe    48 Balbo a Sereni, 3 febbraio 1948, e Sereni a Einaudi, 12 febbraio  1948 8 (AE, Sereni).   429 Balbo a Sereni 27 dicembre 1949, e Sereni — che accettava —  a Balbo, 19 gennaio 1950; nel 1947 Sereni propose anche un'antologia  intitolata Bertoldo, i canti dell’oppressione, del lavoro, della lotta (AE,  Sereni).   4 «La nostra posizione sull’ordinamento regionale e, quindi, a  sostegno della creazione delle Regioni, parte da due considerazioni  fondamentali: dal fatto che noi siamo sinceri fautori del decentramento  amministrativo regionale (l’ordinamento regionale cosi com’è stato  sancito dalla Costituzione non è dovuto al nostro concorso, se non in  parte) e dal fatto che la Costituzione deve essere applicata: se si  comincia con il rivedere questo o quel punto della Costituzione, si finirà  col far crollare la Repubblica », scriveva Grieco a Einaudi il 30 maggio  1949 (AE, Grieco).   41 Einaudi a Togliatti, 15 ottobre 1948; il 19 ottobre Togliatti  rispondeva di essere d’accordo anche per la scelta di scritti di Zdanov:  «Quella che fa il partito non uscirà dalla cerchia del partito. L'hanno  cacciata in una collezione che si intitola: “Educazione comunista”. E chi  votrà farsi educare da noi? » (AE, Togliatti).    362    Le origini della casa editrice Einaudi    peso il suo giudizio negativo sull’opportunità di tradurre  il saggio di Sidney Hook sul marxismo — accusato di  « trotskismo » da Togliatti 4 —, cosî come la presenta-  zione di Political economy and capitalism di Maurice Dobb,  che sarà tradotto nel 1950: in un parere editoriale dell’ot-  tobre 1947, che mette in evidenza il distacco dalla prece-  dente produzione della casa editrice in campo economico,  Giolitti attribuiva a Dobb il merito di cogliere    il nesso tra Marx e l’economia classica, di cui sono dimostrati ‘il  vigore scientifico e il carattere progressivo, mentre le successive  teorie « soggettive » del valore (scuola austriaca, « utilità margi-  nale », ecc.) manifestano — a un’indagine critica che sappia situarle  storicamente — il loro significato ideologico conservatore. La teoria  marxista del valore è convalidata sul terreno sperimentale, nella sua  capacità di interpretazione e di previsione di fronte ai fenomeni più  moderni dell’economia capitalistica (crisi, monopoli, ecc.). Un bel-  lissimo capitolo sull’imperialismo analizza le origini economiche del  fascismo. L’ultimo capitolo — sulla validità delle leggi economiche  nell’economia socialista — risponde efficacemente alle obiezioni  mosse da Hayek, von Mises e C. alla pianificazione economica col-  lettivistica: e dimostra la perfetta coerenza dell’economia pianificata  con le posizioni veramente valide e feconde dell’economia classica  {la scoperta di questo nesso costituisce forse l’elemento più interes-  sante di tutto il libro, che proprio per questo segna una data nella  scienza economica) 43,    Si profila cosi un orientamento che, sia pure con ritardo,  pone fine all’ideologia liberista che aveva fin allora carat-  terizzato la casa editrice. Mentre Cesare Dami, collabora-  tore di « Società » per i problemi economici, mette a con-  fronto in due testi del 1947 e del 1950 l’economia liberale  con quella pianificata, con una chiara preferenza per que-  st’ultima *, la Relazione su l’impiego integrale del lavoro    43 Cfr. G. Manacorda, Lo storico e la politica. Delio Cantimori e  il partito comunista, cit., p. 70. Anche Giolitti, scrivendo a Einaudi il  29 agosto 1946, giudicava trotzkista l’autore: «Ora tu sai che la tua  casa è stata accusata di zoppicare un po’ da questa gamba (Reed,  Franklin, Hemingway); perciò reputerei politicamente inopportuna la  pubblicazione, da parte tua, di un libro di S. Hook » (AE, Giolitti). Si  trattava, probabilmente, di From Hegel to Marx: studies in the develop-  ment of Karl Marx (1936).   43 AE, Giolitti.   44 C. Dami, Economia collettivista ed economia individualista (1947),  ed Esperienze di economia pianificata (1950).    363    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    in una società libera di William Beveridge (1948) e Gli  insegnamenti economici del decennio 1930-1940 di H. W.  Arndt (1949) suggeriscono l’intervento regolatore dello  Stato nell'economia, venendo incontro all’esigenza, espressa  da Giulio Einaudi, di « fare libri che tengano conto del-  l'economia dei paesi occidentali e ne facciano una critica.  Non trascurare certi filoni del laburismo inglese i quali ten-  gono conto dell’economia classica e la criticano continua-  mente al vaglio delle riforme richieste dalla crisi dell’impe-  rialismo » *,   La realizzazione di questo nuovo indirizzo apparve tut-  tavia insoddisfacente a chi, come Balbo, pur consigliando  testi come quello di Wetter, concepiva il lavoro editoriale  come continuo suggerimento di problemi, senza la pretesa  di orientare dall’alto, didatticamente, il lettore. Prendendo  spunto dalla pubblicazione de La teoria del diritto nel-  l'Unione sovietica di Rudolf Schlesinger (1952), Balbo si  rivolgerà a Einaudi, in uno dei suoi ultimi interventi prima  del distacco dalla casa editrice, per affermare che libri  « sulla linea di Schlesinger, Cole, Webb, Hook prima ma-  niera, Wallace ecc., insomma libri anglosassoni progressivi  e corretti verso URSS e comunismo sono libri utili, se vuoi,  ad una provvisoria propaganda ma non sono libri di vera  cultura. Paiono vicinissimi a capire; in realtà milioni di  anni luce li separano da una vera comprensione. Nel loro  fondo, che non tutti avvertono esplicitamente ma che tutti  sentono subcoscientemente, quei libri sono oppio sottile:  fanno in maniera più inavvertibile e quindi anche meno  significativa culturalmente e più pericolosa, ciò che fece  Croce in modo scoperto, chiaro e cosciente » ‘#. Nel gen-  naio 1949, intervenendo a una riunione editoriale sulla  « Biblioteca di cultura economica », egli aveva affermato  che il PCI « non deve prendere posizione, avallando la  collana; ma di volta in volta può consigliare o meno i vo-  lumi. La Casa deve svolgere la funzione di Casa editrice e    435 AE, Verbali delle riunioni editoriali 1949-1950 (riunione del 12-13  gennaio 1949).  4% Pro-memoria per il dott. Einaudi (AE, Balbo).    364    Le origini della casa editrice Einaudi    non può fare biblioteche di partito » ‘”. Era una critica im-  pietosa — nel paragone con Croce — e forse « anacroni-  stica », in quanto non teneva conto dei condizionamenti  imposti dall’imperante clima di guerra fredda: una critica  alla propaganda e al monolitismo culturale che veniva in  parte a contraddire il positivo accoglimento, da parte di  Balbo, del nuovo orientamento assunto dalla casa editrice  nel 1947. La fine dell’eclettismo e delle incertezze proprie  della produzione editoriale del 1945-46 era stata anzi auspi-  cata da Balbo, che aveva accolto la « svolta » del 1947 non  come indice di una subordinazione al PCI, ma come l’inizio  di una politica d’intervento più organica e avanzata. Già  nel dicembre 1946, informando Franco Rodano di un suo  ooqui con l’editore, affermava che Einaudi aveva deciso   i    mettersi a fare l’editore sul serio, cioè di affidare la fabbricazione  dei libri specialmente di tema politico-economico e strutturale (mi  capisci!) ecc. alle forze migliori che oggi sono inserite nel processo  democratico del paese. A farla breve si tratta di creare tutta una rosa  di libri seri, impegnativi e urgenti sui problemi che possono concre-  tare sul serio il nuovo corso: capitalismo di stato in concreto, per-  manenza amministrativa del fascismo, situazione culturale generale  da un punto di vista direi di geografia culturale, problema igienico  nazionale, problema agrario ecc. Si tratta naturalmente anche di dare  inizio finalmente a certi temi di marxismo teorico consoni alle esi-  genze attuali 48,    concludeva proprio nello stesso momento in cui — anche  col suo avallo — naufragava il progetto di una « Collana  marxista ».   Il « nuovo corso » della casa editrice suggerî a Balbo  una serie di scritti programmatici che si collocano nel pe-  riodo immediatamente successivo alla crisi del maggio  1947, e che hanno il loro principale obiettivo polemico  nell’idealismo crociano. Il 21 giugno di quell’anno egli  inviava a Einaudi una serie di proposte, accomunate dal  titolo significativo « L’Anticroce », che Giolitti farà pro-    437 AE, Verbali delle riunioni editoriali 1949-1950 (riunione del 12-13  gennaio 1949).  438 AE, Rodano.    365    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    prie, relative al rinnovamento delle varie collane — preve-  dendone una nuova di « cultura sociale-politica » —, par-  tendo dalla considerazione che la cultura idealistica, « inva-  lidando per principio le possibilità stesse degli studi socio-  logici e in genere degli studi umanistici condotti con metodi  scientifici o fenomenologici », aveva soffocato una nascita  autonoma di questi studi in Italia **. Poco dopo, in un  articolo di risposta alla recensione fatta da Croce, nel luglio  1947, alle Lettere di Gramsci, prendeva spunto da una  frase di Croce — « gli odierni intellettuali comunisti ita-  liani troppo si discostano dall’esempio del Gramsci, dalla  sua apertura verso la verità da qualsiasi parte gli giun-  gesse » — per affermare:    Riconosciamo che in ciò vi è del vero, che molti di noi si manten-  gono al di sotto di quel livello sia nelle intenzioni, sia nelle realiz-  zazioni. Ma dobbiamo anche ricordare a Croce che molti intellettuali  comunisti cercano sul serio di migliorarsi e di imparare e che co-  munque il livello degli altri intellettuali italiani è forse ancora più  basso del nostro, se non si vuole continuare a scambiare per cultura  l’arcadia, la raffinatezza fine a se stessa, l’educazione ipocrita. Soprat-  tutto dobbiamo ricordare a Croce la realtà che egli più ha dimen-  ticato nel suo pensiero e che ne è certo stata la ragione più grave  di debolezza: questa realtà è il popolo, il popolo oppresso, spesso  ignorante e violento, quel « volgo » che egli disprezza e che è pur  formato di uomini come noi e come lui [...]. Forse allora compren-  derebbe che Gramsci non può essere diviso dal suo partito, che  Gramsci appartiene a tutta la cultura italiana, ma che il partito  comunista italiano è parte integrante della cultura e del pensiero di  Gramsci, è parte integrante della cultura italiana #0,    Può quindi apparire tUn’ironia della storia che l’inter-  vento più organico del Balbo « militante », sulla Cultura  antifascista, fosse nato come promemoria per Einaudi e che,  al tempo stesso, venisse pubblicato con alcune modifiche,  nel dicembre 1947, nel numero col quale « Il Politecnico »,  dopo le critiche di parte comunista, fu costretto a termi-  nare le pubblicazioni.    E di AE, Balbo; cfr. anche Giolitti a Einaudi, 4 luglio 1947 (AE,  iolitti).   40 AE, Balbo (articolo per «l'Unità »); la recensione di Croce è ora  in Due anni di vita politica italiana (1946-1947), Bari, Laterza, 1948,  pp. 146-149.    366    Le origini della casa editrice Einaudi    Oggi l’Italia è tutta piena di Benedetto Croce (e, nota, del Croce  deteriore) e ancora è tutta piena, contrariamente alle apparenze, di  Gentile — scriveva Balbo — [...]. La mentalità papiniana, giuliot-  tesca, prezzoliniana è rimasta come un substrato generalizzato e dif-  fuso nel retroterra culturale di ognuno. Le categorie di giudizio, sia  culturale, sia politico, si muovono ancora completamente su di un  terreno che va da quello di Mussolini stesso in persona a quello della  Civiltà Cattolica, a quello del più stracco spiritualismo cattolico di  importazione francese e di un esistenzialismo universitario ed estrin-  seco. Insomma in Italia si è rimasti senza Gramsci, senza Dorso e  senza Gobetti.    E, rivolgendosi in particolare a Einaudi, affermava che  la casa editrice    per la sua struttura, per il suo passato, per i suoi quadri interni ed  esterni, attuali e possibili, può svolgere un compito fondamentale nel  movimento per l’abbattimento della vecchia egemonia culturale bor-  ghese e per la creazione metodica e sensibile della nuova egemonia  culturale proletaria e finalmente moderna [...]. Strumento e base  per la ricerca qualificata e per la socializzazione è oggi non tanto  l’università o la scuola quanto l’editoria;    e, in armonia con una tradizione culturale cara all’editore  torinese, concludeva insistendo per la pubblicazione delle  opere di Gobetti, che avrebbero costituito « uno specchio  nel quale la borghesia più intelligente potrebbe scorgere  la “sua vera faccia” e, per rivalsa, la “falsa faccia” di una  borghesia che vuole a tutti i costi illudersi di saper soprav-  vivere al fascismo » ‘'. Cosî, proprio quando lo scontro nel  paese si faceva più duro, a Balbo sembrò giunto il momento  opportuno per realizzare il suo « modello » di casa editrice:  sotto la spinta dell’ottimismo maturarono nella sua fervida  mente nuovi progetti, da quello di una « rivista di ricerche  e sviluppo storico-ideologico » per la quale alla fine del  1947 aveva già impostato il lavoro assieme a Rodano,  Motta, Giolitti e Gerratana, a quello del 1948 — sostitu-  tivo della rivista — di una collana « Il nuovo politecnico »  assieme a Vittorini, fino alla proposta, realizzata nel 1950,  di trasformare la « Collana di cultura giuridica » in « Bi-    41 AE, Balbo.    367    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    blioteca di cultura politica e giuridica » *. Ma il terreno sul  quale Balbo concentrò i suoi sforzi per realizzare una cul-  tura « critica », tale tuttavia da scontrarsi duramente col  laicismo di Bobbio, fu quello filosofico.   Il primo progetto di una « Biblioteca di cultura filoso-  fica » era stato formulato nel 1941 da Bobbio, che aveva  preso contatti con Abbagnano, dal quale vennero le propo-  ste di tradurre la Metapbysik di Jaspers e, sempre sull’esi-  stenzialismo, L'illusione della filosofia della Hersch, pub-  blicato nel 1942 nei « Saggi ». Nel marzo del 1943, dopo  ulteriori contatti con Della Volpe, Banfi, Levi e Garin,  Bobbio ritenne giunto il momento di annunciare l’uscita  della collana filosofica che,    al di sopra di ogni pregiudizio d’indirizzi e al di là di una visione  tecnicamente angusta della filosofia, raccoglierà opere antiche e mo-  derne, tanto più accette quanto più trascurate dagli storici della filo-  sofia, e considererà come suo principale fine e suo rigoroso dovere  tener conto della infinita problematicità del pensiero filosofico attra-  verso le sue inesauribili incarnazioni nei diversi tempi e nei diversi  campi del sapere.    La collana, che avrebbe dovuto configurarsi come una  via mediana tra i « Classici » Laterza e la « Cultura del-  l’anima » Carabba, prevedeva opere di Butler e di Hume  per l’illuminismo, per 1’800 tedesco Avenarius e i Principi  di una filosofia dell'avvenire di Feuerbach, Kirkegaard e  Jaspers per l’esistenzialismo, Juvalta e Martinetti come  rappresentanti della filosofia italiana contemporanea **. Nel  1943 l’inizio della « Collana di cultura giuridica », con l’in-  clusione delle opere di Binder e Gierke originariamente  previste per la collana filosofica, fece fallire per il momento  l’iniziativa, senza che per questo si fermasse l’attività di  Bobbio, che in una lettera a Banfi presentava la collana  progettata come una raccolta di « libri rappresentativi di  quella filosofia costruttiva (contrapposta alla filosofia spe-    42 Cfr. in particolare, per questi e altri progetti, i documenti dell’Ar-  chivio privato Balbo.   43 Cfr. in particolare le lettere di Bobbio a Einaudi del 3 agosto  1941, 26 aprile 1942, 8 marzo e 29 aprile 1943 (AE, Bobbio).    368    Le origini della casa editrice Einaud?    culativa) che la filosofia italiana ufficiale, e la stessa storia.  della filosofia scritta dagli scrittori ufficiali ha quasi sempre:  ignorato, e che è poi l’unica filosofia veramente “peren-  ne” »; e citava, fra gli altri, scritti di Cattaneo e di Frege,.  per rafforzare la caratterizzazione neo-positivista della col-  lana da lui voluta contro la presenza, che pur non riuscirà  a evitare, di un filone esistenzialista. Erano affermazioni  coraggiose nel clima culturale dell’epoca, rese più esplicite  nel luglio 1945 quando Bobbio, nell’atto di dare finalmente:  avvio alla collana, parlò di « libri rappresentativi di tutte:  quelle correnti filosofiche che nel mondo filosofico-accade-  mico italiano — diviso tra idealisti e neo-tomisti in lotta.  fra loro — erano respinte con maggior o minor impeto come:  filosofia non ufficiale » ‘*.   La collana diretta da Bobbio e Balbo iniziò in tono:  minore, nel 1945, con I limiti del razionalismo etico di  Erminio Juvalta, di cui tuttavia Geymonat — che lo aveva  proposto — metteva in luce il rifiuto per le « soluzioni  puramente verbali », « il valore impegnativo e profondo di  tutta l’attività politica, sociale ed economica », e la nega-  zione del carattere anti-individualistico del socialismo **  Continuò con le Lezioni di filosofia di Calogero, caldeggiate  da Bobbio ‘, e La mia filosofia di Jaspers, un testo dal quale:  Bobbio prendeva le distanze, ma che, affermava, « potrà  servire ad eliminare diffidenze preconcette e altrettanto in-  consulti entusiasmi », e venire incontro « ad un’aspetta-  tiva talora eccessiva che è in molti » *”. Senza pretendere:    #4 AF, Banfi; Archivio privato Bobbio (Bobbio alla sede romana,  13 luglio °’45). Il 20 ottobre ’45 Bobbio si dichiarava d’accordo con  Balbo per presentare « le opere rappresentative dei principali indirizzi di  pensiero moderno, da Hegel in poi, senza correr dietro alla moda»  (Archivio privato Balbo).   45 E. Juvalta, I limziti del razionalismo etico, a cura di L. Geymonat,  Torino, Einaudi, 1945, pp. VIII, X-XII. Cfr. anche le lettere dell’editore  alla figlia di Juvalta, 1 agosto 1942 (AE, Juvalta), e di Geymonat a  Pavese, 19 febbraio 1943 (AE, Geymonat).   #6 Cfr. « Pro-memoria per la Direzione Generale » della redazione  romana, in AE, Corrispondenza editoriale Milano-Roma 1945. Sul  « moralismo » dell’opera di Calogero cfr. le osservazioni di Nicola Ba-  daloni in « Società », III (1947), pp. 140-141.   47 K. Jaspers, La mia filosofia, traduzione di R. De Rosa, Torino,.  Einaudi, 1946, pp. VII-XI (avvertenza di N. B.).    369    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    di dare un giudizio complessivo sulla collana, ci sembra  sufficiente accennare al suo carattere articolato, non uni-  tario, che riflette le diverse « preferenze » dei suoi ispira-  tori. Sono ad esempio significativi i giudizi espressi da  Bobbio e da Balbo sui Principi della filosofia dell’avvenire  di Feuerbach: presentando la prima edizione dell’opera,  nel 1946, Bobbio osservava che la filosofia di Feuerbach si  collocava « tra la crisi del romanticismo e la nascita del posi-  tivismo », e che dal secondo accoglieva « una netta aspira-  zione antispeculativa, un’accettazione supina ed ingenua  della realtà dei sensi; ma accoglie pure, dal primo, un’invin-  cibile ripugnanza a toccare veramente il fondo del problema  concreto, la tendenza ad un sentimentalismo un po’ faci-  le » #*. In occasione della ristampa del 1948, invece, Balbo  notava l’affinità    tra il nostro mondo attuale in particolare italiano, e quello in cui si  formò il pensiero di Feuerbach e in cui ebbe origine il grande movi-  mento marxista. La crisi culturale apertasi con la dissoluzione della  filosofia di Hegel è tutt’altro che chiusa, Ancora permangono sia  pure in una diversa fase di sviluppo i motivi sociali ed economici  che l'hanno determinata. E, in Italia, specialmente per via della  filosofia di Croce e di Gentile e del fascismo, c’è stato un ritardo  ideologico nel prendere piena coscienza della crisi. Croce e Gentile  in questo senso sono stati veramente epigoni hegeliani perché hanno  mantenuto vivo di Hegel proprio ciò che di pit «teologico » in  senso feuerbacchiano c’era nella filosofia di Hegel;    e osservava che    la passione, il violento bisogno di aria e di luce reale, « sensibile »,  con cui Feuerbach rompe il sistema della « Teologia razionale » di  Hegel, l’entusiasmo di Marx e di Engels nel leggerlo, sono ancora  cose nostre, sono esperienze di molti e molti giovani studiosi e  uomini di cultura, in Italia che ancora oggi cercano di rompere l’idea-  lismo e ritrovare il mondo, la realtà ‘9.    Un giudizio, questo, da cui è ricavabile non solo la di-  vergenza con Bobbio — che sarà esplicita nel 1950 nel    #8 L. Feuerbach, Principi della filosofia dell'avvenire, a cura di N.  Bobbio, Torino, Einaudi, 1946, p. IX.  «9 Significato di una ristampa, in Archivio privato Balbo.    370    Le origini della casa editrice Einaudî    dibattito fra i due sulla « Rivista di filosofia » ‘*, e indica  una spaccatura all’interno della casa editrice —, ma anche,  nello stesso Balbo, la tensione fra la necessità di proposte  positive — in questo caso, Feuerbach in funzione antiidea-  lista — e l’asserita problematicità del lavoro editoriale.  Mentre dimostrava con questo giudizio il suo « settari-  smo » — per usare in senso non dispregiativo un termine  che egli respingeva —, in alcuni « Appunti per l’imposta-  zione delle pubblicazioni filosofiche Einaudi » Balbo lamen-  tava il rinchiudersi del mondo accademico italiano in scuole  e sette, osservava che    il giudizio sulle collane filosofiche dipende in primo luogo dal deci-  dere se si tratta di accettare, « riflettere » e conservare la situazione  storico-sociale presente, o se si tratta di « conoscerla », criticarla e  mutarla [...] — e, al tempo stesso, che — una casa editrice di « op-  posizione culturale » come la Einaudi manca al suo carattere se in un  momento storico in cui messuno ha la soluzione dei gravissimi pro-  blemi dell’ora si schiera da una parte o partito o setta sia pure la pit  « intelligente » 0 « colta » o « ben educata » o « progressiva ». Una  casa editrice di opposizione culturale è una casa editrice che chiede,  in tutti i modi che le sono propri, la soluzione ai problemi dell'ora  attraverso alle manifestazioni di bisogni, problemi aperti, prospettive  nuove, fornitura di servizi per la ricerca teoretica, sensibilità alle  voci degli oppressi, degli esclusi, dei dimenticati ecc.    E aggiungeva, lasciando aperta la possibilità di un recu-  pero di forme differenziate di speculazione filosofica: « Se  la situazione culturale è di crisi radicale significa che nulla  più della passata filosofia ci serve per lo meno cosi come    storicamente si è data. Ma quando w%/la più serve o c’è la    fine assoluta o tutto serve » *!.    40 Ora in F. Balbo, Opere 1945-1964, con introduzione di M. Ran-  chetti, Torino, Boringhieri, 1966.   4531 Archivio privato Balbo. Riflettendo ancora su «Senso e funzione  delle pubblicazioni filosofiche Einaudi », Balbo affermava che una collana  filosofica andava concepita «come un servizio da rendersi alla società  italiana », alle « minoranze rivoluzionarie (che innanzi tutto si formano  con la filosofia)», ma che «l’idea di servizio implica la concezione dei  fruitori come totalità, ed esclude quindi a priori una qualsivoglia ten-  denza a identificarsi con i blocchi dominanti »: «la collana deve mirare  a completare, ad allargare e a tenere aperto, cioè a far progredire  7 va l’orizzonte problematico della situazione filosofica italiana »  ibidem).    371    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    Quando si passò alle scelte concrete, il dissidio tra  Bobbio e Balbo — che intendeva riservare un settore della  collana al tomismo — non poté essere che profondo.    Il punto su cui siamo d'accordo è questo: massima apertura —  gli scriveva Bobbio il 6 aprile 1952 — [...]. Il guaio è che la tua  parte di chiusura (le correnti empiristiche) coincide perfettamente  con la mia apertura, e la mia parte di chiusura (il misticismo medio-  evale e medioevalizzante) coincide altrettanto decisamente con la tua  apertura. Ti dico francamente che la presenza di testi come lo  Pseudo-Dionigi e Bòhme, in una collana filosofica di una casa editrice  che si presenta come una casa di avanguardia culturale, mi ha fatto  rabbrividire [....]. Doveva essere ben decaduta la filosofia nel medio-  evo se lo Pseudo-Dionigi era destinato a diventare, come tu giusta-  mente riconosci, un fatto decisivo per il pensiero medioevale [....].  La verità è che tutta la tua impostazione, nonostante la pretesa di  essere della massima apertura, è guidata da una polemica molto  chiara: la polemica contro il pensiero moderno.    La cultura universitaria, aggiungeva Bobbio,    soffre di grande nostalgia per il pensiero teologico, perché sembra  che le idee (e anche le cattedre) siano meglio garantite dalla credenza  nei cori angelici di Pseudo-Dionigi che dal dubbio cartesiano [...].  Credi, se oggi in Italia c’è un lavoro culturale da fare, è per fermare  lo zelo antilluministico, non già per aiutare i zelatori della Contro-  riforma a chiuderci la bocca. Bada che a giudicare come vorresti tu  « massimamente insufficienti » le « posizioni più avanzate », si rischia  di fare cosa non tanto nuova né tanto peregrina in Italia, dove se  c'è una vecchia e persistente e sempre contagiosa passione è la pas-  sione per le posizioni più reazionarie non per quelle più avanzate,  e dove le posizioni più avanzate hanno fatto di solito la nota e tragica  fine che sappiamo #2.    Le parole di Bobbio erano indice della difficoltà estrema  in cui veniva a trovarsi la cultura progressista ancora nel  1952, l’anno della morte di Croce, quando anche Togliatti    452 Archivio privato Balbo. Il 15 febbraio 1952 Bobbio gli aveva  scritto che «in un ambiente filosofico come il nostro saturo di spiri-  tualismo sedicente cristiano (che è la filosofia della pigrizia mentale) un  po’ di cultura empiristica che abitui alla analisi rigorosa e paziente fa-  rebbe molto bene [...] Ma già tu hai scritto contro l’empirismo e hai  portato tanta acqua al mulino di tutti i reazionari della filosofia, di  tutti gli spiritualisti... » (ibidem). Sul tomismo di Balbo cfr. G. Invitto,  Le idee di Felice Balbo, cit., pp. 104 ss.    372    Le origini della casa editrice Einaudi    — come abbiamo visto — riconosceva nella politica cultu-  rale del PCI « discontinuità, asprezze, capitolazioni non  necessarie, oscillazioni tra la pura propaganda e l’azione  culturale di più ampia portata, e anche contraddizioni » ‘*.    La Casa sta attraversando una crisi grossa, la più grossa dopo  quella del 1935 quando restai letteralmente solo — scriveva Einaudi  a Balbo il 10 dicembre 1951 — [...] al fronte antifascista chiaro e  compatto del periodo fascista, che era tenuto da tutti gli strati sani  della nazione, si è sostituito un fronte anticomunista che è tenuto da  strati sani ed insani della borghesia, e da irrequiete e intelligenti  forze intellettuali.    Ma il suo appello all’unità contro il fronte anticomu-  nista non poteva essere più raccolto da Balbo, divenuto  critico implacabile del « settarismo » del PCI.    Se tu davvero presentassi la linea della Casa come lotta contro  la cultura ufficiale insipida e decadente avresti presto o tardi attorno  a te le forze sane della cultura — rispondeva Balbo all'editore il  12 dicembre 1951 —. Ma come fai a presentarti così se accetti di  fatto direttamente o meno, la direzione culturale comunista? Oggi  non esiste cultura più ufficiale e insipida di quella comunista: questo  è un fatto ‘%.    E le riflessioni amare stese da Balbo sulla casa edi-  trice — una specie di sua « storia » —, che gli servirono  per chiarire a se stesso il proprio distacco da Einaudi, cer-  cavano di spiegarne la crisi alla luce di quelle che gli sem-  bravano le sue caratteristiche originarie:    La casa editrice Einaudi è nata da profonde esigenze di rinnova-  mento che si manifestarono in Italia dopo l'affermarsi stabile del  fascismo che rivelava il problema del male della civiltà moderna.  Non è stata perciò mai definita unicamente dall’antifascismo {...] ha  sempre teso al postfascismo, alla vittoria costruttiva sul fascismo. A  questo si lega anche la sua adesione al comunismo: in quanto il  comunismo in Italia per opera di Gramsci-Togliatti si presentò come  la più forte garanzia e promessa di un effettivo rinnovamento, di  una costruttiva vittoria sul fascismo. In tal senso era più forte del-  l’arbitrio dei singoli il suo tendere a congiungersi al comunismo. E    43 Togliatti, La politica culturale, cit., p. 196.  44 Archivio privato Balbo.    373    Il fascismo e il consenso degli intellettuali    va anche da sé che cosi si spiega come tale adesione non sia mai  stata di « soggezione » né di « mitigazione » del comunismo ma da  potenza a potenza ossia da realtà a realtà. Veramente era falso dire  che la casa editrice Einaudi fosse una casa editrice comunista ed  era pure falso dire che fosse paracomunista.    Anzi, aggiungeva, l’elemento che aveva accomunato  Ginzburg, Pavese, Venturi, Muscetta, Pintor, Balbo, Gio-  litti, Bobbio, Alicata e Vittorini, « non era il laicismo, non  era il razionalismo, non era il comunismo core tale nean-  che per i comunisti. Era la causa del rinnovamento, la  causa rivoluzionaria »; ma l’incontro di questi intellettuali  era soggetto « a fatale decomposizione su due fondamentali  sollecitazioni: quella interna della crescita organizzativa e  quella esterna della situazione storica generale [...]. Con la  morte di Pavese venne a mancare l’ultimo residuo puntello  dell’autonomia della casa editrice », la quale si era quindi  trasformata in « terza forza paracomunista » incapace di  costituire un « servizio » per la cultura italiana nel suo  complesso ‘°.   Il giudizio di Balbo — sulla cui posizione ci siamo sof-  fermati perché emblematica dei problemi e dei difficili equi-  libri nei quali doveva muoversi la casa editrice — conte-  neva alcuni elementi di verità, ma anche profonde contrad-  dizioni, nell’individuare in un primo tempo, ad esempio, il  « rinnovamento » col comunismo, per poi mettere in netta  contrapposizione i due termini. Esso peccava inoltre, come  quello di Giulio Einaudi, di una visione idillica delle ten-  denze originarie della casa editrice, fosse il « fronte antifa-  scista chiaro e compatto » o la « vittoria costruttiva sul  fascismo ». Senza voler nulla togliere al peso delle « inten-  zioni », le concrete vicende della casa editrice non indicano  infatti una univoca e lineare direttiva culturale e politica.  Alla cultura del regime essa non rispose soltanto col silenzio  nei riguardi del fascismo, ma in modi differenziati, che ac-  canto a coraggiose prese di posizione de « La Cultura »    455 Dattiloscritto s.d.; ma nella lettera del 12 dicembre 1951 a  Finaudi Balbo diceva di aver «preparato una specie di storia della  casa editrice » (Archivio privato Balbo).    374    Le origini della casa editrice Einaudi    vide a lungo la battaglia liberista di Luigi Einaudi, assai  più conservatrice di quella crociana, tanto da trovare punti  di convergenza con le scelte culturali e politiche dominanti,  anche al di là del comune antisocialismo; una forte presenza  di intellettuali aderenti a Giustizia e Libertà, al liberalsocia-  lismo e quindi al Partito d’Azione, il cui scontro con i  comunisti — non uniti al loro interno — sarà assai duro  nell'immediato dopoguerra, proprio attorno al modo con-  creto di intendere il « rinnovamento »; e infine — ma è un  dato rilevante fino alla decisa riaffermazione del laicismo da  parte di Bobbio — un filone spiritualista o religioso e catto-  lico che, se poté avere una funzione di stimolo alla rifles-  sione e al dubbio di fronte alle certezze del regime, conte-  neva in nuce notevoli elementi di ambiguità in quanto con-  notato, in molti casi, da un potenziale ideologico reazio-  nario, o, nelle voci più aperte, da una tendenziale fuga dalla  realtà: una tematica religiosa che confluirà nel 1948, con  ben altro respiro, nella « Collezione di studi religiosi, etno-  logici e psicologici » voluta da Pavese e da Ernesto De Mar-  tino. Può forse sorprendere che questi motivi perman-  gano a caratterizzare la casa editrice fino, almeno, al 1947,  che costituisce la vera data periodizzante della sua storia,  tale da concluderne, a nostro avviso, il capitolo delle origini.  La « battuta » di Balbo, secondo la quale l’Einaudi del  1945 era « più fascista di Einaudi 1940 », indicava infatti  la persistenza di un passato dal quale era difficile sbaraz-  zarsi rapidamente: una « tradizione » di cui abbiamo cer-  cato di mettere in luce la complessità, e che la semplice  categoria di « antifascismo » è insufficiente a « contenere »  e a spiegare in tutte le sue articolazioni.    375    INDICI    Indice dei nomi    Abba, G. C., 176.  Abbagnano, N, 368.  Abramo, 136.   Abrate, M, 209.  Agnoletto, A. 165.   Agosti, A., 198, 281.  Agostino, 143.   Ajello, N., 330, 335, 351.  Alatri, P. 7 297, 302, 310, 311.  Alberti, À, 174, 175.    Aldrovandi, R., ‘329, 330, 343, 357.    Alessandro I, zar di Russia, 125.  Alessandro Magno, 305.  Alfassio Grimaldi, U., 6.    Alfieri, V., 126, 127, 252, 253, 318,    324..   Alicata, M., 279, 283,  286, 287, 288, 293,  306, 308, 311, 314,  319, 322, 323, 328,  343, 345, 354, 355,   Alighieri, D.,   Alimenti, C., 235.   Aliotta, A., 58.    Almagia, R., 22, 25, 28, 80, 181,    183.   Aloisi, M., 341.   Althusius, G., 326.   Alvaro, C., 342.   Amendola, A., 301.   Amendola, Giorgio, 5, 74, 161,  284, 285.   Amendola, Giovanni, 169, 188.   Amendola, P., 301.   Amiel, H., 275.   Anderson, S., 202, 247.    Andreucci, F., 104, 165, 191, 240.    Andriulli, G., 189.  Angiolini, A., 173.   Anile, A., 19.   Antoni, C., 6, 88, 114, 341.    Antonicelli, F., 198, 202, 238, 241,    276, 277.  Anzi, F., 221, 307.    284, 285,  295, 301,  316, 317,  330, 342,  360, 374.  120, 124, 241, 278.    Aquatrone, A., 50, 85.  Arangio Ruiz, V., 61.  ARGS: R., "164, 167, 168, 174,    A 212, 216.   Armndt, H. W., "364.   Argenson, R-L. W. d’, 212.   Arpinati, L., 60.   Arrivabene, G. G., 33.   Ascoli, G. I., 159.   Asor Rosa, A., 5, 7, 24, 73, 74,  155.   Avenarius, R., 368.   Azimonti, C. F., 221.    Babel, I. E., 202.   Babeuf, F. N., 308, 346.   Badaloni, N., 74, 100, 369.   Balbo, C., 252, 255, 256.   Balbo, F., 12, 285, 289, 290, 319,    Baldini, N., 307.   Ballarini, F., 236.   Bandini, B. V., 357.   Bandini, L., 291, 292.   Banfi, A., 58, 142, 329, 348, 349,  368, 369.   Baratono, A., 59.   Barbagallo, C., 107, 174, 181.   Barbera, G., 153.   Barbera, M., 149.   Barbera, P., 19, 26, 27, 173.   Baretti, G., 174.   Bargellini, P., 200.   Barié, G. E., 240.   Barker, E., 213.   Barone, G., 197, 225.    379    Indice dei nomi    Barth, K., 349.  Bassan, E., 351.  Bassani, G., 287.  Bassi, E., 17, 105.  Basso, L., 240.    Battaglia, F., 86, 87, 88, 89, 90,  91, 92, 103, 125, 127, 232, 238.    Baur, F. C., 136.  Bavink, B., 292, 293.  Beccaria, C., 251, 252.  Bedarida, H., 243.  Bellezza, V. A., 14, 35, 54.  Belloc, H., 304.  Bellonci, G., 324.  Belluzzo, G., 59.  Bemporad, E., 26, 30.  Benda, J., 349, 350.  Benedetti, A.,  317.  Benedetti Aloisi, E., 361.  Benedetto, L. F., 134.  Berdjaev, N. A., 320, 321.    , 241, 266.  Ber Jey, G.F. 'H, 243.  Bernari, C., 357.  Bernstein, $, 346.  Berti, G., 346, 360.  Berti, L., 280.  Bertin, G. M., 266.  Bertoni, G., 153.   i Jovine, D., 24, 37, 166.  Bettini, P., 358.  Bettinotti, "M, 221.  Bevione, Gi 104.  Beveridge, W., 364.  Bianchi Bandinelli, R., 335.  Biasutti, R., 80.  Bienstock, G., 352.  Bilenchi, R., 333.  Binder, bi. vi 368.  Bini, C.,  Ra a di, 86  Bissolati, L, 104, 189, 258, 259.  Bloch, M, 343.  Blondel, M, 241, 349.  Blum, L., 215.  Bobbio, A., 77.    Bobbio, N., 5, 12, 73, 82, 102, 103,  108, 198, 200, 201, 202, 220,    380    287, 288, 295, 316,    238, 240, 243, 253, 290, 294,  325, 326, 327, 340, 341, 347,  355, 357, 359, 368, 369, 370,  372, 374, 375.    Bohr, NH. D., 293.   Bollati, A. 259.   Bompiani, Vv, 198, 200, 245.   Bonald, L. G., 349.   Bonaparte, N., 289.   Bonetti, P., 351.   Bonfante, P., 25, 55.   Bonghi, R., 26.   Bongiovanni, B., 9.   Bonifacio VIII, 256.   Bonomi, I., 28, 104, 189, 250,  257, 258, 259, 298, 319, 320,  323.   Bontempelli, M., 163.   Borsa, G., 230.   Borso d’Este, 32, 33,   Bortone, L., 78.   Bosco, U., 39, 52, 75, 90, 238.   Boselli, P., 59.   Bossi, E., 198.   Bottacchiari, R., 29.   Bottai, G., 6, 16, 45, 46, 83, 84,  200, 204, 205, 212, 216, 282,  283, 286, 288, 316.   Bottasso, E., 40.   Bourgin, G., 116, 126.   ti, G., 138.   Braudel. F., "343.   Bravo, G M, 281.   Bresciani-Turroni, C., 236, 237, 352.   Briamonte, N., 264.   Bricarelli, C., 68, 147, 148.   Brissot, J. P., 117.   Brofferio, A., 208.   Broglie C.-J-V. A. de, 281.   Brown, D. V., 227.   Brucculeri, A., 225, 264, 265, 267,  268, 360.   Bruers, A., 188.   Bruguier, G., 216, 236.   Brunello, B., 256.   Bruno, G., 104, 107, 174, 291.   Bryce, J., 88.   Bulferetti, L., 25, 81, 260, 262,  295, 297.    Buonaiuti, E., 27, 69, 133, 135,  138, 139, 144, 160, 164, 169,  170, 174, 176, 177, 179, 182,    183, 187.  Buonarroti, F., 308, 346.  Burckhardt, C. J., 304.  Burdach, K., 122.    Busnelli, G., 68, 70, 130, 135, 141,    148, 149.  Butler, S., 272, 368.    Cabella, G., 283, 314.  Cabiati, A., 206,  238, 239.  Cabrini, A., 104.  Cadorna, L., 26, 55.  Caffè, F., 209.  Caggese, R., 58.  Cagnetta, M., 275.    Cajumi, A., 202, 203, 206, 238,  239, 240, 241, 242, 243, 244,    270, 276, 277, 346.  Calabi, G., 29.  Calamandrei, P., 58.  Calderoni, M., 169.  Caldwell, E. P., 200.  Calò, G., 58, 166, 184.    Calogero, G., 54, 71, 80, 130, 238,    239, 320, 322, 341, 369.  Calosso, U., 230.  Campanella, T., 294, 295.  Camurani, È ,256.   Canella, M. È, 275.  Cannistraro, P. V., 197.  Cantimori,   128, 133, 140,   196, 265, 266,   306, 307, 316,   334, 341, 343, 344,   348, 350, 351, 356,   359, 360.  Cantimori Mezzomonti, E., 357.  Cantoni, C., 168.   Cantoni, R., 329, 336, 337, 348.  Caparelli, F., 85.  Capasso, C., 134,    Capitini, A., 196, 197, 272, 273,    348, 359    , S., 59, 134, 169, 170.  Carducci, G., 23, 24, 163, 276.    222, 225, 235,    D., 6, 15, 98, ill, 124,   160, 193, 194,  290, 294, 303,  318, 328, 333,  345, 347,  357, 358,    Indice dei nomi    Carducci, N., 246.   Carli, G., 237.   Carlini, A., 36, 58, 91, 281.   Carlo Alberto, 121, 128, 243, 260,  297, 312.   Carlo Emanuele I, 128.   Carlo Magno, 120.   Carocci, A., 203, 204, 246.   Carrara, E., 63, 240.   Casamassa, A., 142.   Casali, A., 196.   Casati, A., 56, 59, 61.   Casini, G., 265, 283, 324.   Cassirer, E., 118, 242, 274.   Castelli, D., 159.   Castris, A. L. de, 7.   Castronovo, V., 5, 26, 33, 34, 208..   Casula, C. F., 336.   Catalano, E., 247, 327.   Cattaneo, C., 203, 218, 219, 220,  252, 312, 313, 316, 318, 339,  369.   Caviglione, C., 138.   Cavuor, C. Benso, conte di, 176,  212, 250, 252, 253, 276, 298,  299, 302, 313, 318.   Cechov, A., 202.    er I; "38, ‘112   Cesarini, M, 266.   Ceva, B. 313.   Ceva, M., 316.   Chabod, F., 24, 33, 58, 88, 97,  98, 99, 111, 115, 116, 117, 118,  122, 123, 124, 125, 140, 241,  268, 270, 341, 343, 344, 358.   Chamberlin, E, 3a   Chamberlin, w H., 231, 232, 303,.  305.   Chiappelli, A., 42, 159.   Chiavolini, A, 62.   Chichiarelli, E., 253, 300, 301.   Chiesa, F., 163.   Chiovenda, G., 26, 28.   Chiuminatto, A., 247.   Ciacchi, E., 173.   Ciamician, G., 26.   Ciampini, R., 275, 276.   Ciarlantini, F., 197.   Ciasca, R., 58.   Ciccotti, E., 59, 181, 274, 275.   Ciliberto, M., 6, 113, 122.    381    Indice dei nomi    Cilibrizzi, S., 24.   Cione, E., 242, 258, 298, 305.   Ciuffoletti, Z., 194.   Codignola, E., 29, 36, 58, 62, 143,  149, 198, 199, 200, 232, 249,  253, 298.   Codignola, T., 200, 210.   Cognasso, F., 134.   Cola di Rienzo, 120, 124.   Colapietra, R., 14, 46, 49.   Cole, G. D. H., 364.   Colombo, C., 328.   Colorni, E., 240.   Colozza, G. A., 166.   Comandini, U., 27.   Comisso, G., 287.    Conrad, J., 279.   Constant, B., 324, 325, 349.   Contini, G., 278.   Cooper, A. D., 261.   Corbino, E., 229.   Corbino, O. M., 28,   Cordié, C., 315.   Corradini, E., 33, 86.   Corsano, A., 291.   Cortese, N., 58, 128.   Corticelli, A., 198.   Cosmelli, G., 354.   Cosmo, U., 238, 241.   Costa, G., 275, 305.   Costamagna, C., 84.   Costantino, D., 153.   Craveri, R., 274.   Credaro, L., 165, 184.   Crescenzi, G., 350.   Cripps, S., 215.   Crisafulli, V., 349.   Crispolti, F., 24.   Croce, B., 6, 10, 14, 15, 17, 18,  19, 23, 24, 27, 28, 30, 31, 335,  36, 42, 46, 48, 56, 61, 64, 71,  74, 81, 82, 83, 94, 97, 98, 102,  111, 113, 114, 116, 125,   148, 149, 155,   166, 168, 171,   182, 183, 202,   211, 213, 219,   241, 242, 254,   299, 301, 314,   339, 341, 350,    356, 364, 365, 366, 367, 370,  372    Crocioni, G., 173.   Cronin, A. J., 200.   Crosa, E., 117.   Cuoco, V., 127, 253, 318.  Curiel, E, 264, 302, 313, 329.  Cusin, F., 344.    Dal Fabbro, B., 271, 286.   Dal Pane, L., 105, 210, 212, 220,  221, 230, 257, 355.   Dal Pra, M., 292.   D'Amelio, M., 147.   Dami, C., 363.   D'Andrea, A., 86, 305.   D'Antonio, F., 220.   Darwin, C., 174, 175, 272.   D'Azeglio, M., 260, 324.   Dawson, C., 266, 268, 269, 270,    300.   Debenedetti, $S., 277, 341.   De Bernardi, M., 227, 229, 238.   De Cecco, M., 208.   De Cristofaro, M., 130.   De Felice, R., 6, 25, 65, 78, 152,  186, 197, 204, 263.   De Gasperi, A., 8.   Degli Occhi, L., 88.   De Grand, A. J., 46.   De Karolis, A., 179.   Del Bono, G., 259, 302.   Delitzsch, F., 159.   Della Torre, L., 26, 204.   Della Volpe, G., 368.   Delle Piane, M., 270.   De Lollis, C., 238, 239, 241, 277.   De Luca, G., 72, 132, 137, 200.   De Man, H., 106, 191, 199.   Demarco, D., 307.   Demarsico, D., 19.   De Martino, E., 294, 375.   De Mattei, R., 73.   De Michelis, E., 245,   Demostene, 305.   De Rosa, G., 20.   De Rosa, R., 369.   De Ruggiero, G., 94, 167, 199,  276, 331, 332, 333, 345.   De Sanctis, F., 49, 171, 285, 321.   De Sanctis, G., 55, 63, 75, 78, 133.   De Stefani, A., 55, 209, 234.   Detti, T., 104, 165, 191, 240.    De Vecchi, C. M., 251, 253, 297.  De Vendittis, L., 278.   De Viti De Marco, A., 217, 234.  Devoto, G., 72.   Dickens, C., 271.   Diderot, D., 243, 280, 281.   Di Domenico, G., 334.   Dilthey, W., 274.   Dobb, M., 222, 363.    Dos Passos, J. R., 247.  Dostojevskij, F., 202, 279.  Droysen, J. G., 305.  Dvotak, M., 147.    EFerembeemt, L. van den, 136.  Efirov, S. A., 13.  Egidi, P., 33.  Einaudi, G., 10,  197, 201, 202,  206, 207, 211,  238, 243,  258,  272,  283,  290,  303,  311,  317,  323,  332,  342,  352,  362, 365,  368, 375.  10, 27, 55, 59, 63,  205, 206, 207, 208,  211, 212, 213,  217, 218, 219, 220,  225, 226, 228,  233, 234, 235,  240, 244, 247,  276, 292, 295,  312, 318, 333,  351, 352, 375.  Einaudi, M., 214, 227, 238.  Emanuele Filiberto, 39, 128, 178.  Emery, L., 245.  Engels, F., 80, 346, 358, 370.    12, 195, 196,  205,    Indice dei nomi    Enriques, F., 56, 58, 81, 276.   Erasmo, 290, 291, 347.   Ercole, F., 87, 88, 116, 121, 122,  203.   Evola, J., 263.    Faggi, A., 169.   Falco, G., 121, 124, 181, 242, 295,  296, 307.   Falqui, E., 276.   Fanelli, G. A., 77, 78, 84.   Fanfani, A., 221.   Fanno, M., 217, 236.   Farinacci, R., 16, 37, 43, 51.   Farinata degli Uberti, 312.   Farinelli, A., 28, 42.   Farneti, E., 300.   Faucci, R., 175.   Fausti, R., 139.   Favaro, G., 148.   Fazio-Allmayer, V., 58, 82, 106.   Febvre, L., 210, 343.   Fedele, P., 37, 64.   Federici, L., 235.   Federico II d’Hohenstaufen, 120.   Federico II di Prussia, 118, 245.   Federzoni, L., 46, 86.   Fenoaltea, S., 226, 232.   Fenoglio, P., 26.   Ferrante, Don, (cfr. Alicata M.)   Ferrara, F., 212.   Ferrara, M., 182, 188.   Ferrari, A., 243, 257, 316.   Ferrari, G., 252.   Ferrari, S., 163.   Ferrata, G., 219, 275, 289, 309,  329, 335, 336.   Ferrero, E., 289.   Ferrero, G., 181.   Ferretti, G., 297.   Feuerbach, L., 104, 348, 368, 370,  371.   Fichte, J. G., 91.   Filangieri, G., 252.   Filippo il Macedone, 305.   Filograssi, G., 142.   Fiore, G. da, 139.   Fiore, T., 267, 294.   Firenzi, G., 143.   Firpo, L., 101, 102, 125.   Fisher, H. A.L., 214.   Fitzpatrick, S., 22.   Flora, F., 205.    383    Indice dei nomi    Floridi, U. A., 360.   Foot Moore, G., 67.   Forges Davanzati, R., 60.   ‘Formiggini, A. È, 8, 12, 19, 20,  22, 26, 27, 28, 29, 30, 31, 38,  41° 4T, SÌ, 55, 151, 152, 153   157, 158, 159, 160,   , 163, 164, 165, 166,   171, 172, 173, 174,   179, 180, 181, 182,   185, 186, 187, 188,   192, 196, 257, 325.   Fortini, F., 10, 285.   Fortunato, G., 213, 285.   Foscolo, U., 127, 318.   Fracastoro, M. G., 281.   Fracchia, U., 34.   Franceschini, E., 192.   Franchetti, L., 213.   Franco, F., 257.   Franklin, F., 363.   Frassati, F., 302.   Frassinelli, C., 198, 202, 246.   Frateili, A., 71.   Frege, G., 281, 369.   Freud, S., 265.   Freund, R., 267.   Frezza Bicocchi, D., 38.   Frébel, F. W. A., 165.   Frugoni, C., 281.   Fubini, M., 198.    Gabrieli, F., 343.   Gabrieli, V., 272.   “Galante Garrone, A., 252, 253,  255, 308.   Galassi Paluzzi, C., 38.   ‘Galiani, F., 93.   Galilei, G., 169, 174, 281, 293.   Gallenga Stuart, R. À, 27, 183.   *Galletti, A., 176.   Galli della Loggia, E., 5.   ‘Galvano, E., 288.   Gambino, A., 237.   Garibaldi, G., 86.   Garin, E., 10, 11, 13, 14, 18, 19,  21, 35, 74, 105, 106, 124, 130,  154, 155, 156, 160, 164, 167,  171, 199) 200, 263, 273, 283,  290, 291, 327, 332, 368.   ‘Garosci, A., 98, 216, 295, 297.   Garufi, B., 335.   Gaslini, P., 323.    384    Gatto, A., 288.  Gava, G., 12.  Gazzetti, F., 229.  Gemelli, A., 58, 65, 68, 69, 71,  131, 132, 138, 143, 145, 147,  149, 169, 177.  Gencarelli, E., 240.  Gennaro, 136.  Gentile, E., 6.  Gentile, G., 13, 14, 15, 16, 18,  19, 20, 21, 23, 26, 28, 29,  31, 33, 34, 35, 36, 37, 38,  39, 40, 41, 42, 43, 44, 45, 46,  47, 48, 49, 50, 51, 52, 54, 55,  56, 57, 60, 61, 62, 63, 64, 65,  66, 67, 69, 70, 71 72, 74) 75,  76, 78, 807 81, 82” 83, 84, 85,  86, 90, 91, 92, 95, %, 97, 100,  102, 107,  113, 122,  130,  136,  143,  150,  171,  185,  , 250,    WI  2  da    308, 318, "367, 370.   Gerbi, A., DAL.   Gerratana, V., 22, 160, 180, 285,  309, 367.   Geymonat, L., 281, 347, 369.   Ghisalberti, A. M., 89, 117, 119,  121.   Giachino, É., 272.   Gianfranchi, (pseudonimo di Ven-  turi F.) 308.   Giannantoni, S., 16, 171.   Giannini, A., 28, 29.   Giannone, P., 146.   Gide, A., 339.   Gierke, O., von, 325, 326, 368.   Gifuni, G. B., 23, 25.   Gigante, M., 296.   Gigli, L., 315.   Giglioli, G.Q., 29, 64.   Ginzburg, L., 10, 195, 202,  205, 213, 245, 246, 250,  279, 280, 294, 295, 296, 301,  302, 303, 316, 317, 319, 320,  322, 323, 324, 328, 374.   Ginzburg, N., 279, 288, 290, 323,  324, 341.    203,  278,    Gioberti, V., 66,  253, 298, 299.   Gioia, M., 252.   Giolitti, A., 292,  322, 323, 325,  341, 344, 345, 348, 351,  357, 358, 359, 362, 363,  366, 367, 374.   Giolitti, G., 20, 23, 25, 355.   Giretti, E., 217, 233, 234, 238.   Giretti, L., 233, 234.   Giuliano, B., 59.   Giuriati, G., 59.   Giuseppe II, 118.   Giusti, S., 200.   Gobetti, P., 17, 18, 24, 27, 127,  156, 188, 202, 218, 242) 255,  321, 338, 367.   Goethe, J. W., 280.   Gogol, N. V., 202.   Gonciarov, I., 279.   Gorresio ,V., 306, 324, 351.   Grabmann, M., 138.   Gramatica, L., 64, 67, 132, 133.   Gramsci, A., 5, 16, 17, 22, 26,  33, 86, 131, 150, 175, 180, 189,  191, 211, 239, 355, 356, 357,  366, 367, 373.   Grassi, V., 55.   Gravina, M., 105.   Graziani, A., 97, 105.   Gregorio, 269.   Grieco, R., 237, 362.   Grifone, P., 237, 333, 355.   Grimm, H., 311.   Grozio, U., 265.   Gruppi, L., 194.   Gualino, R., 33.   Guanda, U., 263.   Guénon, R., 263, 264.   Guerri, G. B., 6, 46.   Guglielmino, E., 253, 291.   Guglielmo I, 305.   Guiducci, A., 246.   Guzzo, A., 58, 103, 142, 143.    128, 129, 252,    295,  326,    320,  328,    321,  333,  355,  365,    Hall, R. L., 222.   Halm, G., 352.   Harris, H. S., 14, 47.   Harris, S. E., 227.   Hayek, F. von, 352, 353, 363.  Hazard, P., 242, 243, 346.    Hegel, G.W.F, 91, 101, 103, 104,    Indice deî nomi    142, 170, 171, 174, 241, 326,  349, 369, 370.   Helvétius, G A., 108.   E, 278, 342, 343,    Hersch, J., 368.   Hitler, A., 245, 351.   Hobbes, T., 104.   Hobsbawm, E. J., 13.   Hook, S., 363, 364.   Hiigel, F. von, 290.   Huizinga, J., 264, 265, 266, 267,  270, 290, 291, 347, 348, 349.   Hull, C., 227.   Hume, D., 368.   Huxley, A., 266, 273.    Interlandi, T., 59, 60, 61, 62.  Invitto, G., 336, 339, 372.  Iraci, A., 83.   Isnenghi, M,, 6, 23, 163, 195.    Jacini, S., 213.   Jaeger, W., 305, 349.  Jahier, P., 278, 289.  James, H., 278, 279.  Jaspers, K., 368, 369.  Jaurés, J., 324.  Jemolo, A. C., 58, 140.  Johnson, H., 361.  Joyce, J., 202.   Jung, C. G., 293.  Juvalta, E., "169, 368, 369.    Kafka, F., 342.   Kahn, A. E., 361.  Kamenetzki, M., 357.   Kant, I., 103, 171, 349.  Kelsen, H., 325.   Keplero, J., 293.   Keynes, J. M., 212, 224, 226, 353.  Keyserling, H., 266.  Kirkegaard, S., 347, 348, 368.  Korngold, R., 344.  Kuliscioff, A., 307.    Labanca, B., 159, 160, 173, 174,  176, 177.   Labriola, A., 105, 106, 160, 171,  175, 199, 220, 221, 257, 316,  355.   Lajolo, D., 246.   Lalla, M. di, 14, 35.    385    Indice dei nomi    Lanaro, S., 7, 32, 96.  Landolfi, T., 272.   Langer, W., 245.   La Penna, A., 180.  Lapiccirella, E., 357.  Laski, H. J., 214, 215, 361.  Lassalle, F., 80.    Laterza, G., 199, 205, 250, 263,    321.  Lattes, D., 187.  Lavoisier, A. L., 174.  Lazzari, G., 12.  Lee Masters, E., 317.  Lefebvre, G., 343.  Leibniz, G. W., 240.  Lemmi, F., 118.  Le Monnier, F., 153.  Lenin, V.I., 303, 357, 358, 359.  Leonardo da Vinci, 148, 175.  Leontieff, W., 227.  Leopardi, M, 254.  Le cha ( P.G.F., 213.    Levi, A., 106, 164, 165, 166, 168,  169, 178, 187, 188.   Levi, (A 321, 346, 368.   Levi, F., 9.   Levi della Vida, G., 63, 71, 78,  79, 130, 187, 238.   Lewis, S., 200.    Lilienthal, D. E., 353.   Limentani, L., 59, 167, 184, 291.   Lippmann, e 352, 353, 354.   Locke, J., 103.   Lo Gatto, E., 278, 279, 331.   Loisy, À., 134, 290.   Lombardo Radice, G., 16, 29.   Lombardo Radice,  360.   Lombroso, C., 174.   Longhi, S., 55.   Longo, G. A., 262.    Loria, A., 59, 86, 164, 174, 175,    176, 211, 287.  Losacco, M., 170.  Lo Schiavo, A., 14, 67.  Losini, F., 177.  Lukécs, G., 13.  Luperini, R., 9.  Luporini, B. M., 357.    Luporini, C., 17, 104, 334, 335,    357.  Lussu, E., 325, 345.    386    L., 345, 357,    Lutero, M., 134, 141.   Luti, G., 204.   Luzi, A., 219.   Luzio, A., 258, 296.   Luzzatti, L., 26.   Luzzatto, G., 115, 196, 209, 210,  270.   Lyttelton, A., 6.    Macchioro, A., 134, 217.  Machiavelli, N., 121, 122,  358.  Magini, M., 192.  Magrini, Li 216 (pseudonimo di  ; A)    124,    Garosci  Maini, R., 285.  Maiocchi, R., 38.  Maistre, } de 128, 297, 349.  Malagodi, O  Malagola prc V., 226.  Malthus, T. R., 174, 175.  Manacorda, G. 204, 308, 331,  341, 345, 346, 357, 359, 363.  Manacorda, M., 317, 357.  Mancini, P, S., "129.  Mangoni, L., 6, 131, 283.  Mann, T,, 339.  Manzini, E., 163.  Matanini, G., 198.    Marchesi, C., 134, 174, 176, 191,  192, 194, 195, 315, 316, 317.   Marchesini, 6. 168, 169.   Marchi, G., 287.   Marchiafava, E., 55.   Marco Aurelio, 271.   Marcolongo, R., 82.   Marconi, G., 26, 76.   Marescalchi, A., 235.   Margherita, S. della, 254,   Margiotta, U., 16.   Margiotta Broglio, F., 65.   Mariano, R., 159.   Marinetti, F. T., 338.   Martoi, F., 96.   Marramao, G., 109.   Marshall, A., 225, 230.   Martinelli, R., 17, 285.   Martinelli, S., 262.   Martinetti, P., 197, 240, 290, 348,    368.  Martini, F., 19, 20, 22, 23, 24,    25, 26, 27, 28, 29, 30, 31, 34,  39, 55.   Marx, K., 17, 80, 104, 106, 108,  + 174, 175, 177, 189, 241, 309,  310, 346, 348, 349, 357, 358,  363, 370.   Mason, E. S., 227.   Massolo, A., 357.   Mathiez, A., 198, 261, 324, 343.   Matisse, H., 278.   Matteotti, So 188.   Mattioli, R, 6, 88.   Maturi, w., 111, 113, 114,  122, 125, 126, 127, 128,  144, 145) 146, 252, 306,   Maupassant, G. de, 317.   Maurras, C., 128.   Mautino, A., 220, 221.   Mazza, F. P., 281.   Mazzini, G., 66, 86, 128, 129, 165,  176, 203, 250, 252, 253, 258,  260, 313.   Mazziotti, M., 305, 318, 325.   Meinecke, F., 125.   Melograni, P., 74.   Melville, H., 202, 279, 280.   Menghini, M., 20, 25, 26, 30, 55,  104, 113, 250, 308.   Menichella, D., 319.   Meredith, G., 279.   Meschini, M. A., 284.   Metternich, C. von, 283, 324.   Miccoli, G., 343, 359, 360.   Michaelstadter, C., 168, 272, 273.   Michel, E., 181.   Michels, R., 82, 110.   Mieli, A., 181,   Migliorini, B., 238.   Migone, G. G., 223.   Mila, M., 278, 341.   Milano, E., 11, 163.   Milano, P., 191.   Mill, J.$., 188.   Minocchi, S., 134, 165.   Minoia, C., 315.   Minoletti; B., 236.   Mira, G., 290, 301.   Mises, L. von, 226, 352, 353, 363.   Momigliano, A., 6, 64, 73, 74,  110, 111, 119; 165.   Momigliano, F., 164, 165, 174,  176, 177.    Indice dei nomi    Mondo, L., 203, 246.   Mondolfo, R., 58, 73, 100, 104,  105, 106, 107, 108, 109, 110,  166, 167, 184.   Mondolfo, U. G., 17   Montagnana, M., 361.   Montale, E., 289.   Montanelli, G., 251, 307.    Montenegro, A., 6, 82.   Montesquieu, C. de, 108, 323,  324.   Monti, A., 202, 206, 238, 248, 323,  355.   Morandi, C., 111, 116, 144, 185,    261, 303, 312, 313.   Morandi, R, 198, 199, 240.   Morazé, C., 343.   Morelly, 117.   Morgagni, G., 174.   Morghen, R., 145.   Mori, G., 11, 34.   Mornet, D., 241.   Moro, R., 8, 263, 268, 295.   Morra, U., 278, 295, 298, 299,  302, 318, 358.   Mosca, G., 59, 82, 114.   Mosé, 137.   Motta, M., 329, 336, 347, 360,  367.   Mounier, E., 347.   Muratori, L. A., 251, 252, 325.   Murri, R., 26, 176.   Muscetta, C., 74, 100, 284, 286,  293, 296, 306, 310, 311, 314,  316, 318, 319) 320, 321) 322,  323, 355, 358, 374.   Mussolini, B., 15, 16, 33, 36, 37,  45, 46, 50, 54, 55, 60, 64, 65,  77, 78, 79, 83, 84, 85, 87, 94,  129, 141, 146, 159, 186, 187,  188, 225, 228, 232, 235, 259,  319, 321, 336, 367.    Nallino, C., 56.  Napoleone III, 86.  Napoleoni, C., 226.  Natoli, G., 280.  Needham, J., 360.  Negri, A., 114.  Negri, G., 159.  Negri, L., 245.  Nenni, P., 355.  Neri, F., 238.    387    Indice dei nomi    Nevins, A., 343.  Newman, J. H., 349.  Newton, I., 174, 293.  Niccoli, M., 138, 139, 144.  Nicolini, F., 114, 145, 146.  Nietzsche, F., 349.   Nitti, F. S., 20, 23.   Nobili Massuero, F., 29.  Novalis, 317.   Nulli, S. A., 347.    Odoacre, 119.  Ojetti, U., 24, 34, 42, 48, 55, 56,  136    Olivetti, G., 353.   Olivo, A. M., 281.   Omodeo, A., 16, 67, 68, 69, 70,  76, 132, 133, 134, 135, 136,  137, 140, 141, 145, 146, 172,    194, 199, 212, 250, 256, 295,  296, 297, 298, 299, 303, 304,  305, 312, 313, 318.   Onofri, F., 308, 332, 334.   Operti, P., 201.   Orano, P., 167.   Osimo, V., 172.   e N. 111, 112, 113, 121,   Ovidio, 152.   Owen, R., 108.   Paci, E., 265.    Pagliaro, A., 58, 133.  Pajetta, E., 248.  Pajetta, G., 301.  Palacio, J. M., 221.  Palazzi, F., 163.  Palazzolo, V., 326.  Palla, M., 11.  Palmarocchi, R., 140.  Pannunzio, M., 48, 288.  Papa, È. R., 49.  Papa, F., 344,  Papini, G., 167, 174.  Parente, A., 267.  Pareto, V., 82, 218, 225, 226.  Paribeni, R., 25, 26.  Parodi, T., 276.  Parri, F., 309.  Pasquali, G., 134.  Passamonti, E., 259.  Pastonchi, F., 163.  Pastore, A., 169.    388    Pater, W., 271.   Pavese, C., 193,  203, 238, 245,  270, 271, 278,  287, 288, 289,  317, 321, 322,  328, 335, 336,  350, 352, 395,   Pavlov, I. P., 281.   Pavolini, A., 316.   Peano, G., 281.   Pellegrini, C., 198.   Pelster, F., 138.   Pende, N., 56.   Pepe, G., 139, 255, 270,  299, 300, 310, 311.   Peroni, B., 243.   Perosa, S., 247.   Perrotta, G., 239, 305.   Perticone, G., 321.   Pesante, M. L., 7.   Pétain, H. P.H., 270.   Petrarca, F., 124.   Petrini, D., 198.   Petrucci, A., 197.   Pettazzoni, R., 59, 67.   Piazzesi, G., 346.   Picasso, P., 278.   Piccardi, L., 319.   Pieraccini, G., 333.   Pieri, P., 298, 306, 312, 313.   Pierson, N. Ga 352.   Pietro il Grande, 231.   Pigou, A.C., 216, 226, 230.   Pincherle, A, 52, 58, 68, 69, 70,  72, 135, 140, 141, 142, 182,  238.   Pintor, F., 63.   Pintor, G., 246, 284, 285, 289,  293, 308, 310, 311, 314, 319,  320, 321, 322, 323, 328, 342,  350, 374.   Pio XI, 256, 265.   Piovani, P., 75.   Pirandello, L., 163.   Pirenne, H., 270.   Pisacane, C., 295, 308, 309, 310.   Pivano, F., 280, 281, 317.   Pivato, S., 131.   Pizzetti, S., 88, 98, 121.   Planck, M., 281, 293.   Platone, F., 233, 356.   Poggi, À., 165, 190, 290.    369, 374,    296,    Pogliani, A., 26.  Pogliano, C., 281.  Polese, P., 253.  Polledro, A., 198, 201, 278.  Pomba, G., 40, 153.  Porena, M., 127.  Porzio, G., 296.  Pozzani, S., 219.  Pratolini, V., 279, 280.  Praz, M., 239.  Preziosi, G., 77, 93.    Prezzolini, G., 24, 27, 29, 35, 37,  44, 158, 163, 173, 174, 181,    182, 184, 187, 188, 247.  Proudhon, P. J., 308.  Proust, M., 278, 342.  Pseudo-Dionigi, 372.  Pugliatti, S., 93.   Puskin, A. S., 317.    Quadrotta, G., 160.   Querealpiti Candia, P. A., 287.  Quazza, G.,   Quinet, E., 2 ‘325.    Racca, V., 226, 227.   Racinaro, R., 82.   Radet, G., 304, 305.   Ragghianti, C. L, 318, 341.   Ragionieri, E., 7, ‘11, 35, 111.   Rago, M., 324.   Ramat, R., 253, 309.   Ranchetti, M., 11, 371.   Ranfagni, P., 131.   Rapisardi Mirabelli, A., 232.   Rathenau, W., 311.   Ravà, A., 170.   Reed, J., 342, 363.   Reichlin, A., 285.   Rémusat, C.-E. de, 289.   Renan, E., 271.   Renouvin, P., 244   Rensi,  191, 197, 347.   Rensis, C., 145.   Repaci, F. A., 207, 236.   Revel, B., 304   Ricardo, D., 212.   Ricci, C., 28.   Ricciardi, R., 173.   Ricciotti, G., 78, 135, 145.   Ricuperati, G., 242.   Rigola, R., 221.    G., 164, 170, 187, 190,    Indice dei nomi    Ripellino, A. M.,, 331.   Ritter, C., 347.   Riva, Gi, ds.   Rizzoli, A,   Robbins, sm TA 225, 226, 232,  233, 352)   Robespierre, M.F.I., 118.   Robotti, P., 196.   Rocco, A., 46, 85.   Rodano, F., 320, 336, 341, 347,  355, 365, 367.   Sola N., 119, 121, 127, 134,  296.    Romagnoli, E., 163, 181.   Romagnoli, S., 346.   Romagnosi, G. D., 178.   Romanelli, R., 7.   Romano, A., 308, 309, 310.   Romano, P., (cfr. Alatri P.)   Romano, R., 209.   Romano, S., 55, 56.   Romeo, R., 126, 209.   Roosevelt, F. D., 223, 225, 336.   Ropke, W., 350, 351, 352.   Rops, D., 264.   Rosa, E., 58, 64, 68, 142.   Rosada, A., 104.   Rosada, M. G., 172.   Rosselli, A., 251.   Rosselli, Ci 109.   Rosselli, N, 189,”194, 203, 204,  205, "250, 251, 309, 310, 320,  343.   Rossi, A., 32.   Rossi, E., 33, 192, 233, 302, 350,  352.   Rossi, L., 89.   Rossi, M G., 8.   Rossi, M. M., 266, 268, 291, 304.   Rossi, P., 32, ‘65.   Rossi, Vv. 28, 29, 240.   Rossi Doria, M., 320.   Rossini, G., 131.   Rostovzev, M. U., 210.   Rota, E., 126, 134.   Rousseau, J. J., 88, 95, 101, 104,  108.   Ruffini, E., 89, 90.   Ruffini, F., 59, 63, 204, 206.   Ruggiero, A., 227, 228.   Rusconi, C., 306.    389    Indice dei nomi    Riissel, H. W., 347, 348.   Russo, L., 29, 49, 58, 153, 154,  183, 184, 199, 212, 239, 240,  250, 251, 276, 278, 297, 304.   Russo, V., 316.    Saitta, A., 270, 310, 311.   Saitta, G., 60, 68, 85, 129, 145.   Salandra, A., 25, 57, 59, 182.   Salata, F., 55, 104, 138.   Salinari, C., 285, 332, 333, 334,  335, 341, 344, 345.   Salomon, E. von, 311.   Salvadori, G., 71.   Salvadori, M. L., 114, 125.   Salvatorelli, L., 194, 241,  243, 244, 245, 250, 251,  253, 254, 259, 257,  268, 274, 290, 300, 301,  304, 313, 314, 321, 333, 345,  355.   Salvemini, G., 29, 54, 55, 57, 113,  181, 218, 312, 320, 343, 355.   Santamaria, E., 160, 164, 165, 166,  178, 181, 183.   Santangelo, P. E., 259, 260.   FADUBIANO: Don, (cfr. Muscetta    .)   Santoli, V., 238, 239, 270, 277.  Santomassimo, G., 7, 92, 94, 330,   352.  Sapegno, N., 288.  Saraceno, P., 352.  Saroyan, W., 315.  Sarpi, P., 174.  Sartre, TL P., 342.  Sasso, G. , 239, 300.  Savonarola, Gi 140, 176.  Sayers, M, 361.  Sbarbaro, C., 278, 287.  Scaduto, M., 65.  Schiavi, A., 231, 303, 307, 308.  Schipa, M., 58.  Schlesinger, R., 364.  Schlosser, J. von, 147, 148.  Schopenhauer, A., 290.  Schumpeter, J. A., 227, 352.  Schwarz, S. M., 352.  Scialoia, V., 28.  Scoppola, P., 8, 131, 160.  Selmi, N., 11.  Semeria, G., 138.    242,  252,  265,  302,    390    Sereni, E., 237, 359, 357, 359,  360, 361, 362.   Serra, R., 163, 173, 239.   Serri, M., 285.   Sestan, E., 98, 116, 119, 124, 125,  253, 270.   Setti, G., 173.   Severi, F., 281.   Sforza, C., 320, 355.   Sgroi, C., 259.   Shaftesbury, A. A. C., 291.   Silva, P., 56, dr pe 181.   Simonetti, M,   Sismondi, I. C. T , 206, 208.   Slataper, Ss, 287.   Smith, A., 212, 218, 228.   Solari, G., 73, 91, 100, 101, 102,  103, 104, 127, 220, 290.   Solari, L., 240.   Solari, P., 214.   Soldani, S., 11, 112.   Solmi, A., 120, 159, 254.   Solmi, S., 238,   Sombart, W., 98, 100.   Sonnino, S., 213.   Sonzogno, E., 172.   Sorel, G., 106, 110, 168, 221, 241,  243, 244, 264.   Spadolini, G., 253.   Spaini, A., 278, 280.   Spampanato, V., 134, 171.   Spann, O., 216.   Spaventa, B., 95, 170, 171.   Spellanzon, C., 219, 297, 312, 313.   Spencer, H., 349.   Spengler, O., 243, 244.   Speranza, I., (cfr. De Luca G.)   Spinelli, A., 320.   Spini, G., 223.   Spinoza, B., 104, 190.   Spirito, U., 14, 75, 80, 81, 84,  85, 87, 92, 93, 94, 95, 96, 97,  98, 101, 103, 117, 147.   Spriano, P., 17, 24, 127, 156.   Sraffa, A., 147.   Sraffa, P., 352, 362.   Stalin, J., 231, 358, 362.   Stein, G., 278, 279.   Steinbeck, J., 200.   Steiner, R., 264.   Stille, U., (cfr. Kamenetzki, M.)   Stirner, M., 348.   Storoni Mazzolani, L., 271.    Strada, V., 22, 127.  Stringher, B., 25, 26, 34, 59.  Stuart Hughes, H., 21.  Stuparich, G., 287, 288.  Sturzo, L., 333, 355.   Succi, P., 311.    Tacchi Venturi, P., 58, 64, 65, 67,  68, 69, 77, 132, 138.   Tagliacozzo, A., 361.   Tagliacozzo, E., 213, 250, 253, 257.   Talleyrand, C. M., 261.   Tardieu, A., 244.   Tarnlé, E. V., 198.   Tarozzi, G., 164, 174, 181, 184,  187, 290.   Taylor, O. H., 227.   Telesio, B., 171, 174, 178.   Teodori, M., 223.   Testoni, S., 82, 87.   Thackeray, W. M., 271.   Thaon di Revel, P., 55.   Thierry, J. N. A., 295.   Thiess, F., 262.   Thode, H., 122.   Tilgher, A., 42, 164, 170, 182, 197.   Timpanaro, S., 181.   Tocco, F., 104, 107, 160, 170, 171.   Todaro-Faranda, M., 195.   Toffanin, G., 348.   Togliatti, P., 7, 35, 75, 194, 330,  333, 335, 351, 352, 354, 355,  356, 357, 358, 360, 361, 362,  363, 372, 373.   Toller, E., 315.   Tolstoj, L., 176, 177, 202, 271,  280, 317.   Tomasi, T., 37.   Tommaseo, N., 275, 276, 317.   Toniolo, G., 7.   Tornimparte, A. (pseudonimo di  Ginzburg, N.) 288.   Torrini, M., 11, 165.   Tortorella, A., 285.   Tortorelli, G., 156, 287.   Tosi, L., 27.   Toynbee, A. J., 359.   Tramontano, R., 137.   Tranfaglia, N., 9.   Travi, N. (pseudonimo di Ventu-  ri L.) 79.   Treccani, E., 219.   Treccani, G., 20, 23, 25, 31, 32,    Indice dei nomi    33, 34, 38, 39, 40, 41, 42, 43,  48, 51, 53, 54, 55, 56, 62, 64,  65, 66, 67, 74, 76, 83.   Treitschke, H. von, 318.   Trevelyan, G. M., 303, 305.   Treves, E., 19, 34.   Treves, Paolo, 254.   Treves, Piero, 26, 165, 182, 239,  305.   Trevisani, P., 157.   Tricomi, F., 281.   Troeltsch, E., 349.   Troilo, E., 167, 168, 169, 170,  174, 177, 178, 179, 181.   Trombadori, A., 284.   Trompeo, P. P., 71, 238, 277, 278.   Trotzki, L. D., 331.   Truman, H. S., 352.   Tumminelli, C., 34, 48, 55, 70.   Turati, F., 62, 182, 187, 307.   Turchi, N., 182.   Turgenev, I., 177, 202.   Tutgot, R. J., 108.   Turi, G., 9, 38, 194, 271, 299.   Turiello, P., 213.    Vacca, G., 181.   Vaccari, A., 68, 136, 137.   Vailati, G., 168, 169.   Valente, A., 296.   Valeri, N., 251.   Valiani, L., 253.   Valitutti, S., 99.   Vallecchi, A., 34, 157, 200.   Valli, L., 169.   Varisco, B., 166, 169, 179, 184.   Vasoli, C., 65.   Vaudagna, M., 223.   Vecchietti, T., 303.   Vecchio, G. del, 86.   Venturi, F., 127, 213, 308, 320,  323, 324, 325, 343, 374.   Venturi, L., 79, 253, 295.   Venturini, L., 45.   Verri, P., 252.   Vian, N., 71   Vico, G. B., 106, 127, 169, 170,  171, 219.   Vidari, G., 245.   Vieusseux, G. P., 153.   Vigliani, L., 288.   Villari, P., 213.   Villat, L., 260.    391    Indice dei nomi    Vinciguerra, M., 255, 261, 298, Wallace, H. A., 228, 229, 230,    303, 319, 321. 336, 352, 353, 364.  Visconti, F. M., 251. Weber, M., 98, 100, 307, 349.  Vita Finzi, P., 189. Welles, S., 336.   Vitichindo, 242. Werth, A., 345.  Vittoria, A., 284. Wetter, G. A., 359, 360, 364.    Vittorini, E., 200, 204, 315, 319, Whitman, W., 248, 278.  322, 327, 328, 329, 330, 332, Wick,G.C., 281.  334, 335, 336, 338, 339, 341, Wicksell, K.., 217.  342, 346, 352, 357, 367, 374. Wicksteed, P.H., 226.    Vittorio Amedeo II, 120. Woolf, S. J., 208.  Vittorio Emanuele III, 54, 276. Wotan, 242.  Vivanti, C., 12.    Volpe, G., 15, 21, 22, 33, 38, 41, Yugow,A., 352.  51, 56, 57, 58, 63, 64, 71, 72,  87, 110, 111, 112, 113, 114, 118, Zaccaria, G., 101.  119, 120, 121, 122, 123, 125, Zama,P. 276.  126, 127, 128, 134, 138, 146, Zancan, M., 335.  147, 190, 194, 221, 249, 250, Zanella, E., 221.    251, 253, 254, 306. Zangheri, R., 344.  Volpicelli, A., 81, 89, 92, 96, 98, Zangrandi, R., 345,   101. Zappa, P., 323.  Volpicelli, L., 112. Zdanov, A., 362.  Volta, A., 175. Zibordi, G., 221, 307.    Voltaire, F. M. Arouet de, 243, Zini, Z., 189, 238, 244.  274. Zoccoli, E., 161, 162.  Volterra, V., 25, 26. Zveteremich, P., 329.    392    Indice del volume    Introduzione    II.    III.    Ideologia e cultura del fascismo: l’« Enciclo-  pedia italiana »    1. Il 3 gennaio 1925 e la ricerca del consenso. -  2. Il progetto di Martini e Formiggini. - 3. L’in-  tervento di Treccani e Gentile. - 4. Lo « specchio  fedele e completo della cultura scientifica italiana ». -  5. La « politica di conciliazione » di Gentile. - 6. I  collaboratori e le proteste del fascismo estremista. -  7. L’ipoteca cattolica. - 8. Il controllo del regime. -  9. Le voci politiche e l’ideologia del fascismo. -  10. L’assimilazione dei « competenti »: Gioele So-  lari e Rodolfo Mondolfo. - 11. Gentile, Volpe e il  nazionalismo storiografico. - 12. Le voci religiose:  presenza e conflittualità dei cattolici.    A.F. Formiggini: un editore tra socialismo e  fascismo    1. La parola, veicolo di « fraternità universale ». -  2. Positivisti, modernisti, socialisti. - 3. Intenti di-  vulgativi. - 4. Una cultura « al di sopra della mi-  schia ». - 5. La sconfitta di un’illusione e una tenue  « resistenza ».    I limiti del consenso: le origini della casa edi-  trice Einaudi    1. Iniziative editoriali negli anni ’30. - 2. L'ideologia  conservatrice di Luigi Einaudi. - 3. L’impronta libe-  rista sulla casa editrice. - 4. «La Cultura » e la  tradizione gobettiana. - 5. Storiografia e impegno  civile. - 6. « Cultura della crisi » e spiritualismo. -    13    151    193    393    7.Una cultura eclettica: i « Saggi ». - 8. La « svolta »  della guerra e i collaboratori « romani ». - 9. L’anti-  conformismo storiografico e l’« Universale ». - 10. I  quarantacinque giorni, la Liberazione e il Fronte  della cultura. - 11. La ricerca di un nuovo orienta-  mento e l’eredità del passato. - 12. La rottura dell’u-  nità antifascista e il rapporto col PCI.    Indice dei nomi    394    p. 379    Finito di stampare nel novembre 1980  dalle Grafiche Galeati di Imola    ‘Gabriele Turi    IL FASCISMO  E.IL CONSENSO: DEGLI INTELLETTUALI    Questo; Volume offre‘ Un. contributo ui grende interesse alla storia  detla ‘cultura italiana del. ‘900, -ana:izzando aleini: momenti. di ”  gregazione culturale particolarmente. rilevanti, ta' iatnascitale la  caduta del fascismo. — la fondazione: (dell’è@Enciclopedia-italiana»,  Pattività\edi‘origle di A. Formiggini, la nascita della ‘casa’ edi  trice. Einaudi — chevpetmettonò i; collegare significativamante gli  Itinerar di’ singoli intellettuali con Je vicende politiche ‘delipaese  e di individuare, anche negli anni. del‘ regime, accanto «a condi:  zionamenti;»autocensure e compromessi, il. permanere oil inuscere  di. «schieramenti » i! cui significato «non ‘è' soltanto. culturale, ma  anche: politico. L'« Encicloped'a italiana»; fondata nel: 1925: sotto la  direzione.ci Giovanni Gentile e con la collaborazione dil'intetlettuali  anche_antirascisti, testimonia i esistenza di-una cultura fascista; sia  pur. eclettica e forlsmente condizionata dalla ‘presenza: cattolica MAt-  torno-alla casa. editrice. Formiggini si erano. raccolti, «fin. dal 1908,  intellettuali di formazione. positivistache cercheranno diresisiere  alia politica culturale del. regime appellandosi ad. una ormal’illù-  soriavautonsmia della cultura. Nella casa. editrice fondata da -Giu-  lio Einaudi, infine; ii liberalismo. conservatore*‘di . Luigi Einaudi  convive.negli ‘anni; ‘30. con l'orientamento di intellettuali. legati a  «{iustizis © libertà» e,vin seguito, con orientamenti: di matrice:  azionista e. comunista: che. prevartranno. nettamente nel'-1945—  con la-presenza delle forti personalità di Pavese; Vittorini, Canti-  moti, Balbo « Bobbio — cercando’ di dar vitava un ampios«fronte  de:'atcultura +» destinato (a. dissoiversi nel 1947 con la rottura dele  l'unità-antifascista,    Indice» dsl volume: Introduzione. -tIdeologia «e. cultura: del'fa-  scismo:nl-Enciclopedia. italiana #6 2, A. F. Formiggini» un. editore  trasocialismo e fascismo, - 3, I-limiti déell'consenso: le origini: della  casa editrice Einaudi.    Gabriele. Turi insegna a Firenze..Storia dell'Italia’ contemporanea  nella Facoltà: di ;Lettere e Filosofia. Ha studiato! periodo della  riforme ‘setteceritesche e. dell'occupazione francese in, Italia; «pub-  blicanido nel:1969 il volume « “Viva Maria”, La reazione alle riforme  leopoldine--(1790-1799)-».-Da ‘alcuni ‘annicsi occupa della*cultura ita-  liana del "90%, ema sul auzls ha prbblicato diversi Contributi. Gak  labora alle riviste Studi scoricì..; « Movimento onsraio e socia  lista» e « [talia contemtoranea a,    Prezzo:Î, 15.000 (i.i.) ©0GO  Fabrizio Desideri. Desideri. Keywords: consenzienti -- consentire, “i consenzienti del bello” – perizia del bello – imago imaginis – il bello -- costellazione griceiana, aporia, il riflessivo, l’esperienza del bello, il sentire, sensum, sentiens, sensus, sentire e esperienza, esperimentare, esperienzare, emozione, giudizio, giudicare, espressione dell’emozione, contenuto proposizionale, il volitum, il co-sentire del bello, Grice, Sibley, meta-property, second-order property, aesthetica, Sibley on Grice, Scruton on Sibley on Grice, aesthesis, sensus, senso, consensus ------ -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Desideri” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51765846162/in/dateposted-public/

 

Grice e Diacceto – il convito -- i tre libri d’amore – filosofia italiana – Luigi Speranza (Firenze). Filosofo. Grice: “I love Cattano – Amo Cattani – who philosophised so avidly on ‘amore’ – in fact, he philosophised in three different ‘symposia’: ‘primo simposio,’ ‘secondo simposio’ and ‘terzo simposio’ – and so outdoes Plato by far!” Figlio di Dionigi Cattani di Diacceto e Maria di Guglielmo Martini. Suo padre era uno dei tredici figli del filosofo Francesco Cattani da Diacceto, chiamato il Vecchio o il Pagonazzo per distinguerlo dal nipote.  Divenne un canonico della Cattedrale di Santa Maria del Fiore a Firenze. Protonotario apostolico. Nominato vescovo di Fiesole, dopo il ritiro dello zio Angelo Cattani da Diacceto. Durante la sua carica, termina la costruzione del monastero di Santa Maria della Neve a Pratovecchio, già iniziata da suo zio. Restaurò l'Oratorio di San Jacopo a Fiesole e la Chiesa di Santa Maria in Campo a Firenze, e supervisa i lavori di restauro del Duomo di Fiesole, progettando la forma dell'abside.  Studiò diritto continentale e frequentò l'accademia fiorentina. Filosofo prolifico. Pubblicò le opere, in latino e in italiano, di suo nonno e incarica Varchi di scrivere la sua biografia, che fu pubblicata assieme a Tre libri d’amore e un panegirico all’amore del vecchio Cattani a Venezia. Altre opere” Gli uffici di S. Ambruogio vescovo di Milano: in volgar fiorentino (Fiorenza: Lorenzo Torrentino); “Sopra la sequenza del corpo di Christo” (Fiorenza,: appresso L. Torrentino); “L'Essamerone di S. Ambruogio tradotto in volgar fiorentino” (Fiorenza: Lorenzo. Torrentino); “L’autorità del Papa sopra 'l Concilio” (Fiorenza: appresso i Giunti); “Instituzione spirituale utilissima a coloro che aspirano alla perfezzione della vita” (Fiorenza: Giunti); “L'Essamerone” (Fiorenza: appresso Lorenzo Torrentino); “La superstizzione dell'arte magica” (Fiorenza: appresso Valente Panizzi & Marco Peri). I tre libri d'Amore, filosofo et gentil'hvomo fiorentino, con un Panegerico all'Amore; et con la Vita del detto autore, fatta da M. Benedetto Varchi (In Vinegia: appresso Gabriel Giolito de' Ferrari). Ricerche su Diacceto: Cultura teologica e problemi formativi e pastorali. Firenze: Università degli Studi di Firenze, Facoltà di Lettere e Filosofia. Dizionario biografico degli italiani. FRANCISCI CATANEI DIACETII PATRICII FLORENTINI IN DIVINI PLA. tonis Sympoſium Enarratio ad Clementem VII.Pont.Max. Amoremdiftinguit atq, definit,antequam rei explicatio nem aggrediatur. رازدا (1 Ntequam Sympoſi enarrationem aggredia mur, operæprecium eſt uidere, quid perA morem ſitnobis intelligendum. Secus enim fieri nequit, ut diuinú Platonem de Amore diſſereniem intelligamus. Solec itaqduplici capite definiri. Autenim pingui Mineruade, finitur, aut exacta quadam ratione. Siqui dem pinguiMinerua,omnis appetentia, quæ cungilla ſit,Amorrectèdici poteſt. Sinautē exacta ratione, Amor eſt deſiderium perfruendæ &effingendæ pulchritudinis. Quapro pter quot ſunt appetitus, totidem elle amores neceſſe eſt. Atqui ue rum efficiens propter intimam fæcunditatem appetitextra fe effice re:appetit quoqz ſeruare quodeffecerit. Vnde & diuinus Iohannes Omnia,inquit,per ipſum facta ſunt, & feorfum ab ipſo nihil, quod factum eſt:ſignificans,non ſolùm ex Deo, ideft,ex uero efficiente res effe,uerumetiam eaſdem citra dei auſpicia nihilfieri. Dionyſius quo que Areopagita ſplendor Chriſtiane theologię, Amor, inquit,entiū auctor, cùm lupereminenterin bono antecederet,minimèpaſſuseſt ipſum in ſeipſo manere, quaſiſterile lit: ſed ipſum impulit ad opus ſe, cundùm exceſſum omnia efficientem. Seruat autem propterea om nium cauſa,beneficio fupereminentis amoris: quandoquidem non fimplici prouidentia extra ſe procedens ſingulis entium immiſcetur. Quapropter quidiuinorum peritiſunt, Želotem ipſum appellant, quaſi uehementem entium amatorem. Acuerò &res ipfæ femper in auctorem reſpiciunt&conuertuntur, proindeqz afiectantipſi adhæ rere: Adheſionem enim ultima conſummatio fequitur.Huncautem appetitum ſiquis furorem amatorium dicat, recte appellauerit. Non folùm uerò inferiora in auctorem femper propenſa ſunt, uerume tiam quæ funt eiuſdem ordinis ſeipfa mutua quadam charitate com plectuntur. Simile enim ſimili ſemper adhæret,utinuetere prouer bio eſt. Hoc autem propterea euenit, quoniam fimilitudo ſeruat ab foluités,diſsimilicudo uerò contrarium efficit, Quapropter diuinus N 146 FRANCISCI CATA NEI DIA ČETI Hierotheus in hymnis amatoris,Amorem,inquit,fiue diuinum, li ueangelicum,fiue intellectualem, ſiue animalem,ſiue naturalem dixe ris,unificam quandam conciliantem facultatem intelligimus, qua fuperiora ad inferiorum prouidentiam:quæ ueró funt eiuſdemordi nis, ad mutuam quandamcommunionem:inferiora uerò ad fuperio rumconuerſionemmouentur. Verùm huncappetitum, qui poftre mòrebus aduenit,aliuslongè antecedit, rebus adueniens inter exor dia.Principio quidem diuina ſtatim quàm ab auctoreſunt; in partes proprietates eſſentiales procedere concupiſcunt. Diuina enim a. &tusprimiſunt; horum uerò abſolutio ſua functio eſt.Conftantenim diuina exagente potentia, ac ſua functione, quafi ex calefaciendi fa cultate calefactionecipfumactu calefaciens. Atqz in huncſenſum lo cutus eſt Plato in 10.Libro Reip.dicens,diuina feipfa efficere.Signi ficat enim ex primo fecundoğactu diuina conftare. Quod etiam len fiſſe Ariſtotelem,ex his quędicuntur in undecimo Rerumdiuinarū, perſpicuum eſt.Intellectus,inquit,actus eſt. Actus autem per fe illius uita optima &fempiterna. Dicimus autem Deum eſſe animal ſem. piternum optimum. Quare uita &æuum continuum & æternum ineſtdeo. Ineft quod & materiæ primæ appetitus ad formam: qui quidem amordici poteft,quandoquidem merito formæ boniipfius particeps fit.Eft & alius appetitus, quo res compoſitæ ſibiipfæ cohæ reſcere amant, optimus eorum conciliator, quæ natura diſsident. Quemſagax naturæ interpres ſedulò obſeruans, non dubitat capta to cæli fauore poſſe rerum aſymmetriæ, quæfitex materia, mederi. Virenim naturæ ſtudioſus, quaſi Lunam è cælo in terram carmini: bus trahens,uim animæ facilè ductilis,utinquitPlotinus, per cælum generationi inſinuat. Quægeneratio ueluti excuſſo morboin fuam integritatem farciri poteft.Dehis latius in ſequentibus agendum no biseſt. In plenumappetitio omnis qua bonum ſibi res adeſſe cupi unt, amor dici poteſt,ſiueappetitus inanima, ſiuealibiſit, ſiue artis, ſiue uirtutis,ſiue ſapientiæ, ſiue cuiuſcunqz alterius. Hactenus de eo amore, quipinguiquadam Minerua nuncupatur. Amor autem qui exacta ratione dicitur,primò quidem diuinæ animæineft, fi Plotino credimus. Pulchritudo enim in intellectu primùm apparet. Siigi tur amoror pulchritudinem ſequitur,reſtat utanimæ primò inſit: quæ quidem intellectui deinceps eſt. Affectat autem anima diuinam pul. chritudinem uſqz adeo impotenter, ut aliquid pulchrum in fe effi. ciaț. Sed nos longè aliter diuinum Platonem interpretati, credimus primum amorem cum prima pulchritudine maximè natura con iunctum eſſe. Quapropter cùm primapulchritudo intellectui infit, eidem quoq ineſſe amorem; habere autem originem ex intelligen tia, IN SYMPOSIUM PLATONIS ENARRATIO, 147 tia,quandoquidem appetentia omnis fequitur cognitionem. Atue rò diuina anima gemino amore, nonaduentitio quidem& acciden tario, ſed euidenti &intimo prædita eſt. Nam&perfrui pulchritudi ne,eandemớper modumſeminis & naturæ in ſeipſa exprimerecon cupiſcit: & in materiamtransferre affectat idearum participationes. Sed de his in primo &fecundo libro de Amore ſatis abundèdiſſerui mus, &in ſequentibus uberrimèdiſleremus. Animaquoquenoſtra præter hos amores dupliciter in pulchrum aliquod uehementi deli derio inhæret,uelgratia pulchræ prolis procreandæ, quali pulchrū in pulchro procreari oporteat (atąhicamoranimam in generatio nem deorſumą trahit )uel gratia recuperandæ ueræ pulchritudinis, quamdeſcendens nimia generationis cupiditate amiſerat. Quicun que igitur ſpectaculo ſenſibilis pulchritudinis rectè utitur, is profe. étò facillimèrecuperat alas, quibus ad diuinam pulchritudinem at collitur. Rectèigiturimmortales,ut inquit Homerus, Amoremap pellarunt Alationem: quandoquidem amore in diuinum rapimur. Expoſitio primifermonis,qui Phadrieft: Actenus declaratūeſt quid ſit amor, pingui Minerua, quid fit exacta ratione nuncupatus. In præſentia uerò reftat uc Phædri ſermonem aggrediamur, in quo Phædrus non de eo qui proprièeſt Amor, ſed deeo potius appecitu, qui rebus adue nitinter exordia,principiò uerba facit. Cornumèrans uerò ea com moda, quibus amoris beneficio participamus, in eum tranſit amo rem, quiab umbratili, Auxaſ pulchritudine ad ueram pulchritudi nemnos reuocat.Sedagèdum uideamus,quid Chaos, quid Terra, quid Amorfit,tum in mundo intelligibili,tum in anima,tuminmun do ſenſibili,in quibus hæcinueniuntur. Verumàmundo intelligibi liexordiendum eft,modò priusconſter,Chaoseſſe ubiqellentiæru ditatem: Terramuerò effentiæ firmitatem: Amorem autem eſſe Ap petitum. Plato in Philebo dicit,primòelle perſeunum ſiue Deum, ab ii. lo fuere Terminum&Infinitum,quartum eſlemiſtumex his,quod dicitur per fe ens. Ego uerò Plotinum ſequutus, non puto Termi num & Infinitumelleduas ſoliditates ſuprà ens,quemadmodúcom miniſcitur Syrianus & Proclus:fed quod àperfe uno primo profuit; quà eſtactusprimus,& aliquid in fe,dici Terminuni, quoniam eſt quiddefinitum ac terminatum: quà uerò eſt actus primus, habens po teſtatem agendi,acper actionem perfici debet,dici Infinitum: quate nus utrung ſimul complectitur,diciEns. Quocirca rectè à Placone. er N 2 148 FRANCISCI CATANEI DIACETII miſtumappellatur, quoniamtermini &infiniti naturaper fe habet. Chaosigiturin mundointelligibili nihil eft aliud, quàm miſtumex termino ac infinito, id eft, ipſum per feens,quod ratione poteſtatis dicitur,perfectioniobnoxium. Poftchaos eſt Terra, quoniam ens ipfum, quodeftchaos,ſtatim fequitur ſtatus deſignatus per Terram. NamutPlato docet in Sophiſte,mundusintelligibilis conftat exel ſentia,ftatu,motu,eodem, diuerſo. Status autê nihil eft aliud, quàm firmitas, per quam fingula manent idipſum quod funt. Quamo brem autemfirmitas eſſentiædeſigneturperterram, paulo poſt de. clarabitur. Poft terrameft amor:nam ens ipſum cùm fit actus pri: mus, perficitur perintimam actionem,quieſt primus &intimus mo tus,habens originem ab infinito ipſius entis, ficuti ſtatus eſtà termi. no. Quapropterà Platone motus ponitur in Sophiſte tertium ele. mentum,utprius ſitens, deindeftatus, deinde motus, id eſt, interior actio ipſius entis,quæpropriè Vita dicitur. Vnde &Ariſtoteles in undecimo Rerumdiuinarum actü per feipfius intellectus aſſeruiteſ ſe uitam optimam &ſempiternam. Inter actionem ac potentiam a. gendi,medius eft agendiappetitus,principium actionis.Namagen ti prius ineſtagendi facultas,deinde agere affectat,deinde agit. Ecce igitur quomodo appetitus agendi mediumobtinet locum inter po tentiam &actionem,cuius eſt principium.Nam potentia omnis, quç cunc ſit,deſiderat appetitőz ſuum actum. Quod etiam euenitprimæ materiæ,ut Ariſtoteles ait. Sed de his paulopoft. Rectè igitur dicta eſt, poſt Terram eſſe Amorem, id eſt, poſt eſſentiæ firmitatem,qui propriè Status dicitur, efle principium intimæ actionis, quæ Vita appellatur,cùm ſitprimus motus, cuius beneficio ensin ideas diſtin Ctum eſt.Ex quo patet etiam quomodo amoranteceditdeos omnes, utinquit Parmenides. Parmenides enim infueuit ſub Deorum appel latione ideas intelligere. Nam ſiens diſtinguitur peruitam & motū intimum, Vitæ autem appetituseſt principium, necefle eft appeci tumhuiuſmodi ideis eſſe priorem. Recte igituramor,quieft appeti. tus,antecedit deos omnes, ideft,ideas. Sedut ad terram redeamus,a nimaduertendum eft fecundùm Pythagoricos,ab ideis fuere mathe mata, à mathematis uerò res naturalesnon: quod uelint res natura les ſecundùm materiam &formameſſe à mathematis (licenim ſunt abideis )ſed uoluntà mathematis eſſe figuras rerum naturalium, qui busconftituuntur. Proinde mathemata appellantur à Platone ob ſcura intelligibilia,quoniam pendent ab ideis, quæ funt clara intelli gibilia:ſicuti corporum imagines & umbræ,quæ funt obſcura ſenſi bilia,à corporibusnaturalibus pendent,quæſunt ſenſilia clara. Sed de his latius in fexto de Rep. Rectè igitur ex proprijs figuris rerum natu. 1 349 IN SYMPOSIVM PLATONIS ÉNARRATIO. FC naturalium Placo in Timæodeſignat earundemingenium. Propte: reaignem & terram ac cæteraid genusex triangulis componit.Ari ſtoteliquoqs placet,naturalianon ſine accidentibus quibuſdam de. finiri, quemadmodum patet in quinto Primæ philofophiæ, quem iuniores fextum exiſtimant. Idem quoque aſſerit Plotinus. Sed quorſum hæc:Nempeutintelligamus, per proprias rerum natura lium figuras delignari rerum ipfarum naturam. Atqui palàm eſt, teſ ſeramelle propriam terræ figuram, quæ ineptiſsimaeftad motum: quo fit,ut recta ratione terraſignificet firmitatem. Quodetiamex eo conijcere poſſumus, quoniam terrà tanquam immobilis eſt totius centrum. Vnde & Plato in Phædro, Sola, inquit,in deorum æde manet Veſta. Siigitur terræ ſuapte natura debeturteffera, terrauti que ſtabiliserit.Vnde &Plato in Timæo componit folam teſſeram ex triangulisduum æqualium laterum rectangulis, ut eius oftendat admotumineptitudinem. Verùm dehis fufius in Timæo. Terrai: gitur firmitatis prærogatiuamubiq præ ſe fert. Hec quidem de mun do intelligibili. Animauerò ab intellectu primo prodit, ſicuti intel: lectus ab ipſo perſeuno, fi Plotino crédimus,ńső,quiPlotinum ſe cuciſunt,Porphyrio &Amelio, quanquam Syrianus &Proclus alio ter fenciant. Dionyſius quoq & Origenes contendunt, ab ipfo per ſeuno eſſe cummentem,tum animam,tum materiam, Chriſtianum dogma potius quam Platonem ſequuti. Anima igitur cùm ſit ab in tellectu,ut inquit Plotinus,primofuzeproceſsionis momento inſig. nis prodit idearum notis. Prodit quo® intelligendi prædita facul tate Nam quemadmodum intellectus ab ipfo per feuno procedens inde fecum affert unitatis participationem(quod ſummum eſtipſius intellectus, & quo ipſum per ſe unum attingit) ſic & animam proce dens ab intellectu indeſecum affert facultatis intellectualis idearum que participationem.Ergo anima primo ſuæ proceſsionis momento habet idearum expreſsionem, habet & facultatem intelligendi, qua non folùm intimasnotiones,uerumetiam ideas intueatur. Sic enim intellectum auctorem exactè refert.Non continuò tamen perfecta a nimadici poteſt,quandoquidem debet habere aliquid proprium ac ſuum.Atqui intellectus etli primo ſuæproceſsionismomento per ſe unius participationeunum eft: per intimam tamen ac primam actio. nem, quædicitur per ſe uita,cuius ope ſeipſum in ideas diſtinguit, quaſi Geometria in ſua Theoremata,per ſe animal efficitur:per in telligentiam uerò uitæ ſummum,përſe intellectus, ac mundusintel ligibilis. Sic &in anima, quæ primo ſuæ proceſsionis momento fa cultate intelligendi ideiső participac, quaſi cæra imprimentis ligno, intimailla prima ac ſua actio, per quamfeipfam in rationes diſtin 3 1 N 3 150 FRANCISCI CATANEI DIACETII guit, ac per quam propriè animadicitur,uita eſt participarò, mo. tus autemper fe.Cuiusſummumeſt ſecunda participatione intelle, ctus, ratiocinatio autem perfe. Quo fit,ut inſtar intellectus ſit orbi cularis. Intellectus enim circulus eft. Dicitur autem propriè motus, quoniam fecum habet & tempus. Quemadmodum enim primus motus eft in anima, ſic & primum tempus. Nec quenquam pertur bet in eadem eſſentia animæ idearum participaciones, hoceſt, no tionesipfas,acrationes formisrationeqz diſtinctas eſſe. Namintelle. ctus & ratiocinatio in eadem anima, quorum alter in participacio. nesidearum,altera uerò in rationes dirigitur,formæ quoque ratio nisis diſcrimen inter fe habent. Differunt autem notiones à rationi. bus,quoniam notiones (ſicenim voipatæ præanguſtia linguæ appel. lamus: ſicuti aéyous rationes ) tanquam impartibiles acfimpliccs latent in penetralibus ipſius animæ, ſoliintellectui obuiæ. Rationes uerò multiplices explicatæớz ſuntſimiles ratiocinationi, cum qua habenc affinitatem. VtræQ tamen ſunt tum ſibiipfis,tum animæ ſubiecto i dem. Intellectum, quianimæ ſuus eſt, Ariſtoteles appellat intelle. & tum agentem,ratiocinationem uerò intellectum potentiæ,quidiui. duuseltacdiſcurſu agit.Omnes enim animæſuo quæqmodo intel lectu auctoreacprimo participant,qui omnibuscomuniseft,in quo tanğzin centro lineæ copulantur.Atqideft,quod rectè inquit The. miſtius,deſententia Ariſtotelis,unum eſſeagentem intellectum illu minantem,illuminatos autem ac ſubinde illuminantes complures. Vnum,inquam intellectum agentem,quoniam eſt unus,qui reuera acprimò eſt:complures autem, qui ſunt animarū, illuminati quidē, quoniãprimi intellectus particepes ſunt: illuminantes uerò, quoniã ex his principia hauriunt potentiæ intellectus. Verùm de his alibi exquiſitius.Ergo anima primo ſuæproceſsionis momento etli inſig. niseſt idearum participationibus,etliprædita eftintelligendifaculta te,quoniam tamen nondūin eam actionem prorupit,quain ſuas rati ones interius diſtinguitur,nondumin eam, quaeaſdem.proſequitur perpetiambitu, quibus propriè anima cognominatur,Chaos dici poteft.Eftenim Chaos,utdictum eſt,effentia rudis. HocautēChaos fequitur Terra.Nam animæ eſſentia etſimotuieſt obnoxia (perpe tuò enim tum generatur,tum interit,ut in Parmenide dictüeſt, quan doquidem motus repetita quadãuiciſsitudine conficitur) ſemper ta menmanet,necmotudiſperditur. Amorautem eſtappetitus prorū. pendi in motum: quo tum diſtinguitur in ſeipſa, tum etiam abſolui-. tur.AmoritaQ cùmprincipium ſit racionā,rationes autem ſintidea rum ſimilitudines,meritò dicitur deosantecedere.Hæc quidem dea. nima. In mundo autem ſenſibili Chaos materia eſt,quam Platoin Ti inro IN SYMPOSIUM PLATONIS ENARRATIO. 151 I. 11 mæo temere agitatam Auitantem appellat:materia,inquam,omni no expers formæ,ſuapte natura, acſpuria quadam ratione cognobi lis, ut in Timæo dictum eſt.Idautem nihil eft aliud, quàm cognobi lemeſſe per comparationem ad formam,ut Ariſtoteles inquit. Hæc materia abeſtab omniperfectione, omnino deo contraria, ut Plato ait, infimum ac fæx totius proceſsionis, infra quam duntaxat ipſum nihil inuenias,principium omnis aſymmetriæ. Vnde& Plotinusi, pſum per ſe malumappellauit. Huic nonnulli putant ineſſe poten tiam,perquam formæ ſubijciatur.Sed mea quidem ſententia mace ria eiuspotentiaomninoidem ſunt. Nam per defectum totius per fectionis eftunum: ſicuti deus perexceſſum eſtunum.Ad hæc, condi tionis formalis aliquo modo particeps foret. Cùm igitur ſit unum per defectum,eo quòd careat omni perfectione: erit etiam obnoxi generis, cùm citra auſpicia formæ uel extrinfecus aduenientismane renequeat. Profecto quaeſtunum per defectum, & cafus abente, di citurmateria: quàuero eſt obnoxii generis,dicitur ſubiectum, pro pterea quòd ſubeſſe debet. Vnde & Plato ueluti matrem appellauit in Timæo,eo quòdrecipiat. Ariſtoteles quoçidem cognomentum materiæ tribuit,quando ſubeſt. Sic fortèmelius, quàm utThemiſtio uiſumeft: cui placet,materiam eſſe earum rerum, quæ nondum faétæ aut ortæ ſunt:ſubiectum uerò earum, quæ iam ſunt actu:quo fieri,ut materia fit cum priuatione, ſubiectum cum priuatione non ſit. Sub iectum itaq dicit tum firmitatem, tum etiã potentiam priuationém que.Firmitatem quidemdicit, quoniam ſubiectum generationis ma nes,contraria uerò abeunt,ut Ariſtoteles inquit. Fitenimex aere ig. nis, non quà eſtaer, ſed quàaccidit ei ut ſit aer. Potentiã autemdicit, quoniam performã perfici poteſt: non enim fecus fit boni particeps: quo fit,ut formam uehementiſsimèappetat. Eſt enim forma diuinū &bonum &appetibile,ut Ariſtoteles inquit.Hisita perſpectis, pa. tet materiam,quà eſtunum,per defectūtotius perfectionis eſſe Cha. os.Eius autem firmitas deſeruiens generationi, Terraeſt. Appetitus autem formæ recta ratione amordici poteſt.Rectèigiturdictum eſt, in mundo ſenſibili uia generationis primoeſſe Chaos,deindeTerra, poſtea Amorem ſequi.Patetquocßex his ſententia Parmenidis. Nã uia generationis,priorineſtmateriæ appetitusformæ, quàm forma. Forma autem ideæ participatio eſt in materia.Quapropter ſiidea de usdicitur,fecundùm Parmenidem, idegutiớparticipatio,hoceft,for ma,dicetur diuinum. Amorigitur,hoceft formæ appetitus, Deosi plos,ideft,diuinas participacionesmeritò dicitur antecedere. Dictú Auñ eft hactenus, quid GitChaos,quid Terra,quomodo amorſitantiquiſ N 4 152 *** * 1s cÌ CATANE1 DIA CETII fimus; atqid tumin mundointelligibili,tumin anima, tum in mun do ſenſibili. Nunc uerò ea commoda uidenda ſunt, quæ ex amore nobis eueniunt. Animaduertendumtamen eſt,uirtutes eſſe animæ noftræ purificationes. Animaenim dumingenerationem delabitur,morta li hoc eđeno inficitur, neglectis plerunq; diuinis, quorum cognata eft:quodin decimode Rep. diuinus Plato indicat, dicens, animas quæueniuntin generationem, ſumpto potu ex Amelita flumine ad CampumLethæumdeſcendere. Significat enim ex materiæ com mércio animis alioqui diuinis ineſſe negligentiam obliuionemére. tum diuinarum. Reuocatur igitur anima tumin ſui ipſius curam, tumin memoriam diuinorum,miniſterio uirtutum,quarumbenefi. cio maculas abñcit, quibus ueluti inuſta erat propter materiæ for. des.Vnde &Ariſtotelesin ſeptimo libro de Naturali auditu dicit, perturbationes in nobis fedari quandoque natura, utpueris euenit, quando @ ex alñs,ſignificans uirtutes, quarum opè perturbationes excutiuntur.Ergo amorcauſanobiseft uirtutumomnium,quarum beneficio maxima bona conſequiinur, hoc eſt, ipſam ſapientiam. Namſapientia ex moribus ſuſcipit incrementum.Veritasenimpræ ſtò animæ fit per uirtutes expurgatæ, inftarauri quod igne defæca tur. Quod & Ariſtoteles quo & clara uoce afſeritin ſeptimo deNa turali auditu. Sedquamobrem amor uirtutum nobis cauſa eſt: An prior nobis ſénſiliū cognitio ineſt approbatiocs, perinde ac libona fint: quo euenit, ut fiant expetibilia: hanc fequitur appetitus(fierie nim nequit,appetitum nonexpetere idipfum, quod ueluti bonum à ſenſu comprobatur )hunc ſequitur proſequutio. Appetitus enim principiummotus eſt. Vnde&Ariſtoteles in tertio libro de Ani ma progreſsioneni animalium imaginationi appetituig acceptam refert. Voluptas autem profequutionis conſequutionisfruitioniſą eft finis. Illa igitur uirtus,quæanimæ cum appécitu conſentienti mo dum legemő indicit proſequendi expetibilis, Ciuilis appellatur. Quæuerò ita confirmat animam,Pombaiam profequutionem abomi. netur, Purgatio. Atquæita defæcat, ut ab expetibili uix commo ueatur, iure Sanctitas dicipoteſt. hæc nos deò nonhabenti uirtu tem, (ut inquit Plotinus, alioquiflagits eſſet obnoxius:quodeti. din fatetur Ariſtoteles, eiuső enarratorAlexander Aphrodiſiæus) hæc inquam, nos deo fimiles facit. Vnde & Plato in Theäteto, Fu. ga, inquit, hinc ad deum, iplius dei fimilitudo eft. Similitudi nem uerò iuſticia & ſanctitas cum prudentia præſtant. His ita perſpectis, uidere poſſumus; quomodo amor uirtutum cauſa. lit. Quod Phædrus adſtruere contendit. Pudor, inquit, reuo cans IN SYMPOSIVM PLATONIS ENARRATIO. 23 3 3 čansnosà turpibus, præter hæc æmulátio ad honeſta inultans,no-, bis fternit muniti uiam ad præclarè rectei uiuendum. Altera e nim dū in honeſtis ſuperari neſcit, alter ueròeuitando extrema, ſem per habet ob oculos mediocritatem.Quoeuenit, ut quicquid magni præclarię efficimus, horum ope efficiamus. Quid aucem amore promptius aut in nobispudorem excitat, aut ſuſcicatçmulacionem: Amorenimuel abiectiſsimum quemq,licgnauum reddit ad uirtu tem conſequendam,ut numine percitus uideatur. Amorquoq;fica mans amatúmque inſtruit,utnon æquè ſibi erubeſcendum ducant, quàmſialterum ab altero ſcelerisacfocordiæ iure coargui poſsit. Ha ctenus adſtructumeſt, Amoremuirtutes ciuiles efficere, atqz id fyl logiſmo &ratione. In præſentia uerò adſtruendum,ex eodem quo que eſſe cum purgatiorias,tum etiam purgati animi uirtutes: quarü beneficio ſapientiæ acfelicitatis participamus. Cuius quidem rei Al ceſtidis atop Achillis fabula admonemur. Operæprecium uerò eſt noſſe prius, animam trahi in generationem affectuuitæ ſenſibilis, cu ius lenocinis impura redditur:aſcendere uerò ad diuina affectu uitæ intelligibilis, quæ inprimisanimæpuritatê exigit. Vitæ quidem fen fibilis ſummumeſtopinabile,in quo nihilconitantiæ,nihil firmitatis inuenias. Atuita intelligibilis ubiqueritatem præſefert. Sed dehis latius agemus in fequentibus,ubi declarabimus, quid aſcenſus deſcen ſusţzanimæ ſit, quid ſibi Plato uoluerit in decimode Rep.dicens, a nimas in generationem deſcendere per Cancrum, per Capricornum uerò ad diuina aſcendere. In præſentia uerò fatis ſitgeminum huncaf fectum geminæquoquitæ nobis auctorem eſſe. Sed iam fabulæmy ſterium aggrediamur. Alceſtis, inquit, Peliæ filia amans Admetum uirum,pro eo mori uoluit. Dijuerò facinore delectati, eam ab infe ris in uicam reuocarunt. Alceſtidem puto eſſe animam, quęiaminue ritatem incumbat. Admetum uerò credo ipfas eſſe ſenſibilium notio nes, quibus anima ad uera intelligibilia excitatur: impuritate uerò ſenſibilis uitæ impedita,eis rectèuti nequit. Quapropter ſenſibilem uitam exuendam intelligit, quamfibi deſcendens in generationem induerat, alioqui nunquam uoricompos euaſura. Hinceſt,quòd mo ri Alceſtis dicitur.Dij uerò in uitā reuocarunt. Quandoquidem de. poſita ſenſibili uita, in ſuam puritatem reſtituta eſt.Qua igitur mori tur, hoc eſt,quà exuit ſenſibilem uitam, uirtutibus purgatorijsinniti tur.Namexuere uitam ſenſibilem,nihileft aliud, quàm animam ita defæcari,ut ne ipfam quidem admittat expetibilisproſequutionem. In quo uirtus purgatoria conſiſtit. Quà uerò in puritatem reſtitu. ta eſt,prædita eſt uirtutibus animi iampurgati. Virtus enimhuiu £ ک 294 FRANCISCI CATANEI DIACETII ! modinonin purificatione,fedpotius in ipfa puritate conſiſtit. Purifi 'catio enim motio quædameſt. Atpuritas motionis terminus. Con fummatio igituruirtutis potius in termino motionis, quàmin ipſa motionecõliſtere debet. Sititaqß puritas confummatio uirtutis, qua quidem diſcimus etiam abipfo ſenſibili uix commoueri. Præclarum utic eſt &longèmaximū,& quod longo uſuacdiuina quadam ſor teuix comparatur,neceſſariūtamen ad fapientiam felicitatem con fequendam,ita paratuminſtructumós eſſe,ut corporeas tantùm fen tias affectiones,cetera prorſusabiunctus.Longè uero errat,quicunos Orpheumimitatus, exiſtimat, dum ſenſuum lenocinis delinitur, fim bi in ueritatem patere aditum. Hicenim ſenſibilium notionibus,qua tenus ducuntadueritatem,uti nequit, ſed quà ſunt duntaxat ſenſibi. lium. Quo euenit,utumbras,hoceft,fimulachrū Eurydices captans, falſis opinionibus diſtrahatur.Iure igitur Orpheum fürentibusfae minis dilaniandū irati di propterſcelus expofuerunt. Verùmquid euenit animæin puritatem iamredactæ. An talem uiteſtatum ſapien tia ſequituradhæſioc in deum, quod ſuum cuiusqz bonumeſt: Ani maenim adminiculo utitur ſenſibilium ad ueritatem conſequendă. Namſenſibilia imagines ſunt rerum diuinarum. Vnde et Plato in Ti mæo idem fermètribuitanimædiuinæ ingeniū,quod priusin mun. di corporeexplorauerat, ut à Simulachro, tanſ ab inſtrumentoad exemplarrectè fiat aſcenſus. Ergo ueritatemintelligibilem plerungs accedimus adminiculo ſenſibilium:quorum notiones in ipſa intelli gibilia excitantanimam.Dimittimusautem ſenſibiliūnotiones,ubi primumintelligibilia conſecuti ſumus, ex quorum contactu fapien tiamreportamus. Sapientiã uerò felicitas bonumo conſequuntur. Dehis uberrimèin Socratis oratione agendum nobis eſt. Horumſa nè Achillis Patrocli (fabula nosadmonet. Achilles,inquit,mortuo Patroclo amante mori uoluit: diuerò admirati facinus, non ſolum in uitam reuocarunt,uerumetiam beatorum inſulas deſtinarunt illi habitandas.Patroclum puto animamipſamaſcendentem ad uera itt telligibilia adminiculo ſenſibilium. Achillem uerò ſenſibilium notio nes in anima. Mortuus eft Patroclusamans, id eft, eò ufog proceſsit anima,ut non amplius ſenſilium notionibus indigeat,quibus innita tür.Quo fit,ut ſenſilium notiones uſui deſinantelle animæad intelli gentiam comparandā.Hinceſt quòd mori Achilles dícitur. Dij uerò huncuolunt reuiuiſcere,quoniam animæ pro notionibus ſenſibiliú fiuntobuia ipſa intelligibilia:unde fapientia comparatur. Ex ſapien tia ueròfelicitas euenit & bonum,quod eſt beatorum inſulas Achilli habitãdas deſtinari. Sed quomodo dicitur amansamato pręſtantius eſſe: An ſi comparetur uisintelligendi ad id quod intelligitur, longè I melius IN 155 SYMPOSIVM PLATONIS ENARRATIO. meliuseſt id quodintelligitur. Intelligibile enim mouet nõ motū, ut Ariſtoteles inquit in undecimo Rerum diuinarum.Mouet enim tan quamamatū. At uerò intellectus ab ipſo intelligibili mouetur. Vis enim intelligendi producit actionem in ipſum intelligibile, quæ intel ligentia appellatur.Ex quo diuinus Plato in ſexto deRep.dicit,ueri tatem intelligibili,ſcientiam uerò intellectui ineſſe.Quodetiam uolu iſle Ariſtotelem alibi declarabimus. Licetin ſexto inſtitutionū Mo ralium aliter ſentire uideatur. Sin uerò ſenſibilium notiones, quibus anima in uera intelligibilia excitatur,comparentur ad eam facultatē, qua intelligimus,quisambigat longè minoris eſſe æſtimandas: Pen dencenim à ſenſibilibus,ſuntázanimæintelligenti aduentitiæ. Plato igitur quando dicitamatum eſſe deterius amante, non deipfo intel, ligibili intelligit(quodreuera amatumeſt: id enim longè pręſtat)ue rum de notionibus ſenſibilium inanima, quæ &ipfæ propterea ama tum dicuntur,quoniam uſui ſuntanimæ ad uerum intelligibile con ſequendum.Hæfanè intelligente animalongè ſunt deteriores. Cu ius rei indiciūeſt, quòd intelligens anima affinitate coniuncta eſt cũ ipſo intelligibili.Intellectusenim,ut rectè inquit Ariſtoteles, rerum intelligibiliumeft,eiuſdem @ eſtutrunca contemplari. Quandoqui demeadem contemplatio eſtomnium ita coniunctorum, ſicuti etiã ſenſus, &rei ſenſibilis. Quo euenit,ut deſiderio agatur ueritatis. Ato ideſtquod inquit Plato, Amans propterea amato præſtantius effe, quod diuino furore agitur. Verùm quid ſibiuult Plato dicens, longe magis dijs cordi eſſe,ubi amatum, in gratiam amantis moritur, quàm ubiamansin gratiam amatirAnmoriamansin gratiam amati, nihil eſt aliud, quàm animam incumbentemin ucritatem, abijcere uitam fenfibilem,ne ſenſilium notiones, quæ ſuntuſuiadueritatem compa randam,irritæ ſint: Amatumenim ſenſiliūnotionesſignificat. Quod exeo aſſeritur, quoddictum eſt,amatum amante eſſe deterius. Fiunt autem irritx, filieimpedimento ſenſibilis uita. Amatū uerò moriin gratiamamantis,ſignificat notiones ſenſibiles uſui non eſſe amplius, quòd intelligens animain ipſam ueritatem intueatur: quod re uera amatum eſt. Siigiturmulto plus eſt omnino negligere notiones ſen lilium, intuente animaueritaté, quàm deporre uitam ſenſibilem, ut notiones ſenſilium ad ueritatem uſui ſint:multo plus utiq; erit, a matū pro amante,hoceſt, Achillem in gratia Patrocli: quàm amans pro amato,hoceſtAlceſtidē in gratiam Admeti mori. Quapropter quid mirūgli Achilles ad maiorem honorē cuectus eſt: Anima enim exuero intelligibili non ſolum ſapientia,uerumetiam ipfam felicita temreportat. Quod quidem eſt,Achilliin uitam à dis reſtitu to beatorum inſulas habitandas deſtinari: cùm Alceſtidi in uitam reuocari ſatis fuerit. 257 2 156 IN SYMPOSII SECVNDVM SER: MONEM QVI PA VSAN IAE TRIB Vlo tur expoſitio. ) Voniamà Pauſania dictum eſt, totidemeſſe Amores, quot ſunt Veneres:oportetexplicare in primis Vene rem, quideaſit:alioquiphiloſophia amoris(quod qui dem in præfentia quærimus ) lateat nos neceſſe eſt. Plotinus igitur putat, Venereineffe ipfam animam, proindecaulamamoris efficientem. Sunt etiam & alij, qui aliter ſen. tiunt,magnialioqui uiri, ſed quos in præſentia dimittere conſilium eſt. Vir enim fapientiæ ſtudioſus,ut inquit Dionyſius, ſatis ſibi factu cenſere debet,ſinon alios laceſſendo,fed quàm ualidis poteſt rationi bus,quam putateſfeueritatem,audacter aſſerat. Ego uerò Hermiæ libenter aſſentior, qui credit per Venerem pulchritudinē ſignificari. Argumento, in Phædro dictum eſſe furorem amatorium, & optimū effe furorum omnium, & ex optimis.Exoptimis quidem, quoniam ſenſibilis pulchritudo,à qua amor excitatur, optima ac præſtantiſsi ma eſtomnium, quæcunq ſenſui offeruntur: nam & exquiſiciſsima diuinorum ſimilitudo eft, quæ optima ſunt, & ſenſui omnium perſpi caciſsimo ficobuiam.Viſusenim alios ſenſus longè ſuperat. Cùm e. nim cæteri ſenſus,uel fi nulliſint uſui,cognitionis gratia per fe expeti biles ſint,ut Ariſtoteles inquit:præ ceteris tamen uidendi facultatein optamus, quippe qua exquiſitius cognoſcimus. Quapropteruiden di facultatem ad intelligentiam traducere folemus,ut etiam intellige reuidere ſit. Quod &Ariſtoteles indicauit. Nam & in tertio uolumi ne eius libri,inquoadſtruendi deſtruendic locos docet, & in primo de Moribus adNicomachum, Sicut,inquit,pupillain oculo,licintel lectus eſt in anima.Patet igicuramorem ex optimis eſſe, cùm ex pul. chritudine ſenſibili excitetur,quę optimaeſtomnium quæcunq hic ſunt. Optimum autem eſſe facile dabit is, quem non latuerit intelligi bilem pulchritudinem, cuius eſt Amor,indagancibus bonum obuia fieri: quippe quæ boni penetralia ingredientibus in ueſtibulo occur rat.Siigiturfuroramatorius tumexoptimis eſt,quodexcitatur ſen fibili pulchritudine:tum etiam opcimus, quoniam in pulchritudi nem intelligibilem dirigitur, huius autem patrocinium Veneri cri butumeſt, utPlato inquit in Phædro:quoniam dij alij alñs furori bus præſunt, Mulæpoetico, Apollo uaticinio, Myſterijs autem Bac chus: ſicúz Amor, qui Veneremcomitatur,pulchrorum dux puero. rum, IN SYMPOSIVM PLATONIS ENARRATIO. 157. 5 rum, eorumſcilicet animorum, quos pulchriuehementer prouocat {pectaculü:quotuſquiſpambigat, perVenerempulchritudinem in. dicari: Nuncuerò quid ipſa ſit Pulchritudo uidendum eſt. Quod pulchritudo ſitex eorumnumero, quæmodum habēt qualitatis,uni cuiqué palàm eſſe poteft. Quòdautemmodum habeat eius qualita tis, quæ uidendifacultati obuia ſit,idquoqueperſpicuum puto.Nam &pulchritudo ſenſibilis ueræpulchritudinis fimulachrum ab una uidendi facultate percipitur. Ea uerò qualitasuiſibilis, quæ fecüdum ſuperficiemexcenta eſt,Colordici poteft. Quæuerò nullam patitur extenſionem, ſed temporis puncto ubiquediſcurrit, Lumen appella tur. Eft & alia qualitas uilibilis,quæ tanquam imago acflos ellenti alis perfectionis allicit rapítque in borum.Id igitur quodhabetmo dum eius qualitatis quæ uiſui obuia eſt, imago acfloseſſentialis per fectionis,alliciens rapiens in bonum,reuera eſtPulchritudo:quod que huius particeps fit,Pulchrum appellatur. Cæterum pulchritudi nieuenit,ut delicata,utiucunda,utamabilis ſit. Delicata,eo quodfe. quitur perfectionem eſſentialem.Iucunda,eo quòddelectat. Amabi. lis,eo quòd allicit rapita.Hincpatet,quàm hallucinationis coarguê dinon ſint, quiafferuntpulchrum à bono differre, tãquam extimum ab intimo.Eſto pulchrum omnebonum eſſe: neque tamen uiciſsim. Quid tum poftea.Num continuò ſequitur,bonum quidem genus ef ſe,pulchrūuerò ſpeciem? Alioqui& ſapiens,& iuftum, & perfecta &cetera generis eiuſdé,boniquo ipfius ſpecies eſset. Sapiensenim omnebonumeft,ficédecęteris: nõtamen uiceuerſa.Nūcuerò neck perfectum,negiuſtum, ne s fapiens boni ſpecies ſunt,alioquieſſent quoqſpecies unius. Simpliciſsimum enim optimúmg in idem cõſpi rant:non minúſą Vnius participãt omnia; quàmboni. Atquotuſ quisqaſſeruerit,unum eſſegenus,fiquidem genus totum eſt: totum uerò partibus obnoxium: Siigitur unum eft genus,non utiqueerit citra partes. Atuerò unumomnino &undequaque impartibile eſt, quemadmodum in Sophiſtedeclaratur.Sedagedum ſidetur bonum eſſegenus, quídnam id poterit:Nónneperfectio eſsentialisactuseſt: Quodexeo patere poteſt, quòdeſsentiæ beneficioomnia ſunt id ip ſumquod ſunt. Viuensuitæ beneficio uiuens eſt. Quo euenit,utuita uiuentis actus ſit. Animabeneficio motusanima eft: fed quocuſquif queambigat,motumeſse animæ actūł Ignis beneficio formæ ignis eſt. Tuncenim reuera eſtignis,cùm primūignis formamactu habet. Quis autem non uideat formam actum eſse ignis:Quoeuenit,utre Eta ratione dici poſsit, perfectionem eſsențialem actum eſse. Actum autem omnemeſse bonum,neminem inficias iturum puto, quando quidemi merito actus unicuiqz bonumineſt. Nónneignieſseignem; 158 FRANCISCI CATANEI DIACETII bonumeſt:Atquis ambigat per formam,quieſt actus, ignemeſſeig nēNónne quo anime eſſe animā,uiuęciéeſſe uiuens, bonüeſt:Ve rùmalterūbeneficio uitæ,altera beneficio motus, quorūutergeſta ctus,id euenire palàm eſt.Exñs patere puto, perfectionem eſſentialē bonüeſſe,uiciſsimo bonüaliquodeffentialem eſſe perfectionê.Quii gitur affirmat, pulchrumàbono differre, tanquam extimum ab inti mo,etſi nõibit inficias,fibonuminuniuerſum accipiatur, pofſe dari, gracia diſſertationis,idipſumgenus effe:contender tamen,fedebono uerba facere, non quatenus in uniuerſum ſimpliciter accipitur, fed quatenus particulare definituma eſt,ſuam præſe ferens duntaxateſ ſentialem rerum perfectionem. Atque id quidem affirmat recta ra. tione. Nampulchritudo ingenium modumýzhabens accidentis,re uera extimaelt,quodab ipfa rationeexploditur.Atperfectio eſfētia, lis, quam ſequitur pulchritudo, reuera intima:quod ex co aſseritur, quoniam unumquodąeſſentia conſtat. Hinc quidem uidere poſlu. mus,primā pulchritudinem neğz efle ideas,necin ideis. Ideas enim ab omniaccidentis ingenio procul eſſe perſpicuumeſt. Namipſum per ſeensin ideas diſtinctumeſt: quaſi Geometria in ſua Theorema ta. Quemautem lateat Theoremata non eſſe geometriæ accidentia: Sed ſubeft quærere,ubi nam&quo pacto lintideæ. Vtrumânt in eo,in quo ſunt,uel tanquam forma in materia, uel tanquamaccidés in ſubiecto, uel tanquam in caufa effectus, uel tanquam actus in eo quod perfici debet,uel-tãquam totum in toto,uel totum in partibus, uel pars in parte, uel parsiu toto.Fieri enim nequit,ut fecus in aliquo aliquid ſit. Namgenus &ſpecies totius partium (habent ingenium. An ex diuiniPlatonis fententia,ideas eſſe in ipfo perfe animalidicen dumeft:Namin Timäo aperta uoce aſserit,Opificem munditot for mas mundo exhibere,quot ſpeciesmensuideratin ipfo per ſeanima. li.ex quo patet, idearum diſcrimen in ipfo per ſeanimali primò eſse. Reliquumeſtutuideamus, quo pacto in ipſo per feanimali ſintidex. Anuelutiforma inmateria eſse nequeunt. Non enim per fe animal materia eſt, quando alterius beneficio noneſtactu. Sed neque tano accidens in ſubiecto. Quis enim contendat ideas eſse accidentia, quando idearum ſimulachra foliditateseſse perſpicuum eſt,utignis, & terra, & cætera generis eiuſdé:Non ſuntquoq tanquãin caufa effe. ctus, quandoquidemeſsentpoteſtate. Nücuerò ideæ acti funt. Quo modo autem eſse poſsunt tanquam actus in eo quod perfici debet? Namper feanimal uita ipfa,non ideis, tanquam actu animaleſt. At nequetanquam totum in toto, neque tanquam totum in partibuseſ ſe dicendum eſt. Non enim totum ſunt ideæ, quoniammultitudini ſunt obnoxiæ. Totumuerò unumeft. Nónneſi tanquam partemin parte IN SYMPOSIVM PLATONIS ENARRATIO. 159 1 parte eſſe conMilanius, oportet quoque nos concedere, tam per ſea nimal,quàm ideas,alicuius totius partes eſſe: Atcuiúſnam pars fu eritipſum per ſe animal:Reftatigitur, ideas eſſe in ipfo per fe animali tanquamin toto partes. At id eft, quodin Timæodiuinus Plato fi bi uoluit,dicens Opificēmundi tot formas mūdo èxhibere, quot fpe cies mènsuideratin ipſo per ſeanimali.Quemadmodum enim forme quas mundo exhibuit mundiOpifex, continentur in mundo, tano in toto partes:ficetiam ſpecies, quas mundi Opifex eſt imitatus,in ip ſo per le animalicontineri pareſt. Abipſo autem per ſèuno procedit primò ens: quodintima functioneabfolutum, quæ uita dicitur,fit per ſeanimal. Vitaenim uiuentiseſt actus. Ipſum autem per ſeanimalui tæ beneficio cùm totum ſit, in partes quoce diſtribuatur neceſſe eſt. Totumenim& partes ſimul ſunt. Quapropteripſum per ſe animal quemadmodum habet exuitauc totū ſit,ex eadem quoqhabet,ut ſe ipſum diſtinguat in partes: partes aüt huiuſmodi ideæ ſunt.Ex quoli cetadmirari nõnullos:quicõminiſcunturideas aduenire extrinfecus ei in quo funt,tãquam actü informi naturæ. Quo genere peccarenul lummaius poſſunt, qui amant uideri Platonisftudiofi.Hecdiximus, nõſtudio quempiã laceſſendi (quod à uiro philoſopho alienum ſem per duximus) fed quoniam ſunt nonnulli, qui dum alteros auidius quàm decetinfectantur,nõ cômittuntutipſiiurenõ poſsint coargui. Nãduxnoſter Marſilius, etſi alicubi dicitideas excrinſecus accedere, Chriſtianis fortè quibuſdam adftipulatus:ubi tamen exactèrem Pla tonicam tuetur,longè aliter ſentit. Exhis quædicta ſunt patere arbitror, primā pulchritudinem non efle ideas, quemadmodumnonnulli ineptèaſſerunt. Sed neçetiam effe primò in ideisin præſentia declarandumeſt. Plato in Timæo di cit mundum eſſe pulcherrimum omniumquæcunq genita ſunt: eſse autemalicuius ſimulachrum, quodratione ac fapientia ſola compre, hendi poteſt:adhæcmundumpulcherrimum natura opus optimum que eſſè:effe, inquam, animal animatum intelligens.Ex quo intelli, gere poſſumus, de Platonisfententia,id exemplar quodmundiOpi fex eſt imitatus, tūanimal eſſe, tum etiã pulcherrimum. Quapropter pulchritudinem primò eſſe ipſius per ſe animalis,non idearum: nam ipſum per fe animal ideas antecedit. Adhæc, ſi pulchritudo exuberan tia quædamexterioreſtintimæ perfectionis: intimauerò perfectio ne ipſum per ſe animal fit: quis non uidet,ipſius per fe animalis prima pulchritudinēeſſe: Quomodo igitur idearu: Dehis tum paulo poft diſſerendūnobiseſt, tūetiã in libro de amore ſatis abūdediſſeruimus: Hactenus oſtenſum eſt, quid Venus ſignificet, quid ſit pulchritu do ubiſit.In præſentia uidendum eſt, nunquid pulchritudo materia B 160 FRANCISCI CATANEI DIACETII ſitamoris,an potins finis.Nonnulli ſunt, quidicantde Platonis fen tentia,pulchritudinemeſſe materiam amoris. Nampulchritudo cau fa eſt amoris,non tanquam principium efficiens eius actus qui eſta mare, fed tanquam obiectum.AtueròſecundumPlatonicosactuum animæ animaipſa eſtefficiens:obiecta uerò ſuntmateria, circaquam actumillumproducit anima. Quaproptercum hacratione pulchri. tudo materia ſitamoris,propterea Venusdicitur amoris mater.Nam materiam eſſe tanquammatrem,efficiensuerò tanquam patrem,con tendunt Philoſophi. hæcilli ferèaduerbum. Sed non poſſum non uehementer admirari, quihæcproferunt in medium, uiri alioquigra ues &magni, &quos arbitror nihillatere potuiſſe, in his præſertim quæ pertinent adintegram caſtamos Platonis Ariſtotelisęzintelli. gentiam. Non ſolum enim quæ dicta ſunt,Platoni Ariſtotelicpug. nant, uerùm etiam pugnant &rationi, pugnant quoque&his quæ ab eiſdem alibidicta ſunt.Primò quidem Plato in ſextodeRep.libro dicit, fjs quæ intelliguntur inefleueritatem:intelligentiuerò ineſſeſci entiam,ueritatemcz intellectu percipi. Quo euenit,ut ueritasannexa ſit intelligibili:ſcientia uerò intellectui. Siigitur ita fehabet,quomo do ueritas ſcientiæ materia erit fecundùm Platonem:Veritas enim ſci entiæ longè præſtat:quod nulla ratione eueniret, fi materia eſſet. Ari ftoteles quomin undecimoRerum diuinarum, Expetibile, inquit, &intelligibile mouetnonmotum, quodalterumapparens, alterum reuerabonum eſt.Mouereautem nonmotūquotuſquiſque materię tribuerit:Etpaulo poft,Intellectus,inquit, abintelligibili mouetur. Intelligibile autemalter ordo fecüdum le. Addit&hoc:Mouet icaqz tanquamamatum. Ex quibusliquidò patere poteſt, expetibile intel. ligibilegs finis ipſius habere ingenium. Siitam expetibile &intelligi bile mouetut finis, pulchritudo autē expetibilis intelligibilisőseſt: quomodo materia eſſe poterit: Atprimapulchritudo ſoli intellectui eſtobuia,quemadmodum oſtēſum eſt,cùm fitiplius per ſe animalis: eftetiamexpetibilis, quandoquidébonum quoddam eſt,bonum au tem quà bonum ſemperexpetibile.Poſſent &alia multa afferri in me dium,quibus oftenderetur de Platonis Ariſtotelisés ſententia obie ctum nõ eſſe materiam actuum animæ. Quæ quidem propterea omi fimus, quandoquidemijs, qui uel breuem deambulatiunculam cum Platone Ariſtoteleđß fecerint,notiſsimaſunt.Atuerò &rationi recla mat,obiectum ueluti materiãeſſe. Materia enim folet eſſe id ex quo ali quid fit.Nó fiūtaūtex obiectis animæactus,ſed potius funt circa obie éta. Quo euenit,ut obiecta materia eſſe nequeat. Adhæc bonüexpeti bileeſt, quandoquid exeo appetimus quodbonãelt: nõuiciſsimeſt bonüpropterea quòdexpetimus.Expetibile autē obiectõeſt,quo fit, utbonum IN SYMPOSIVM PLATONIS ENARRATIO. 16i 2:13 I utbonum obiectum ſit:Gaddas,obiectüeſſemateriam,bonum quoqs materia fit neceſſe eſt. At quaratione aſserendum, bonumipſummā teriam eſſe: Pugnantquoque fibiipſis.contenduntenim pulchrum à bono ſeiungi, tanğſpeciem àgenere. Quo fit, ut pulchrum boni ſpecies fit:bonum ueròde pulchro tanquamde ſpecie dicatur. Siigi tur pulchrum eſt bonum,bonumuerò materiam eſſenequit,quo pa eto pulchrum materiam eſſe dicendum eſt: Quapropter meaquidem ſententia aſſerendum non eſt, pulchritudinem eſſe materiamamoris, fed potiusfinem.Cui quidem ſententiæ Plato Ariſtoteleső adſtipu lătur. Verumfi pulchritudo ingenium habet illius, cuius gratia: quo pacto Amorem exoriridicendum eſt: Anubi primumcognoſcendi facultas,pulchritudinem utdelicatam, ut iucundam,utamabilem co probat,ſtatim uisappetēdiexcitatur.Appetitus enim cognitionem fequaturneceſse eſt. Dumigitur appetens exoptat ſibi adeſse ac per frui delicato, iucundo,amabili,utinde plenitudinem hauriat uolupta tis,eữactú circa pulchritudinem producit, qui appetere dicitur.Qui quidemreuera Amoreſtappellandus,hoceft,appetitus &deſideriū perfruendæ pulchritudinis.Huius deſiderñ efficiens cauſa,uiseſtap. petendi:pulchritudo illud,cuiusgratia. Quænam uerò materia ſit, in Socratis oratione declarabimus,exponentes, quid nobis per Peniam fit intelligendum, quam eſſematrem amoris affirmat Plato. Quod quidem euidens argumentum uideri poteſt, pulchritudinem non ef ſemateriam amoris.Nunquam enim dicit Plato, Venerem (quæ pul chritudinem ſignificat ) matrem eſse amoris, ſed potius amorem co, mitari ſequio Venerem,quippe quiVenerisipſius eſt,in Venerēms dirigitur. Quæ quidem omnia finis ſuntipſius, non materiæ. Nonnulliſunt, quidicant,quiſquis deſiderat, quodammodo poſsi dere id quod ab eodeſideratur: idq eſse deſiderācis uirtutis propriū. Adſtruūt autē hocipſum dupliciratione, tumquoniam deſiderium omne antecedête cognitione lubnititur (cognitio autem, quædã pof ſeſsio eſt) tum quóniam inter deſideransacdeſideratum congruentia ſemper ſimilitudo@intercidit.Fieri autem nequit, utidquod deſide. ratur,à deſiderante quodammodonon participetur. Alioqui nulla eſſet inter utrung congruentia, nulla ſimilitudo. Sed mea quidē ſen tentia cómentitiử hoceſt.Nã deſideransomne,quà deſiderans, cogni tione priuatur. Cuius rei indiciū eſt, quod ex antecedête cognitione deſideratquiſquis deſiderat. Quo fit,ut recta ratione uis deſiderãdi di catur cęca eſse,quippe àqua cognitio ſeiūcta fit,quæuiſio appellatur. Atfieri nequit,ut quicquid cognitione priuatur,non priueturetiã ea poſſeſsione,quęmerito fitcognitonis. Sed fortè dicent,nõ ficfeadui uum reſecare, ut uelint,deſiderãs,quàdeſiderans, merito cognitionis cognit 1 3 162 FRANCISCI CATANEI DIACETII habere quodämodo poffefsionem illius,quod delideratur: fed eadū taxatratione habere,qua cognofcit.Nosaūtenitemuroſtenderenec etiã cognoſcésqua cognofcēs,habere ali zrei cognobilis poſſeſsionē dūcognoſcit.Vtrūuerò id affequemur,alñ iudicabūt.Nobisſatis erit afferre in mediū,nõ quæ adeo premất alios,eospræſertim,quosuelu tinaturæmiraculū ſoliti ſumusadmirari:fed quę caſtūueritatis fecta torējaſsertoreo decere arbitramur.Quod quidem ſignumoboculos ſibi ſemper proponere debet, quicũceſt fapientiæ ſtudioſus.Côten dimus igitur,cognitionēnullo pacto eſſerei cognobilis poffefsionē. Nãcognitionem eſſe per modumuiſionis, nemo eftomniū qui rectè poſsitambigere.Cognitio.n.inipſum cognobile à cognoſcētedirigi tur, quafi in ipſum uilibile uifio.At poſſeſsio nullā habet cumuiſione affinitatem. Non enimqui poſsidet quodãmodo intuetur, ſedquali manu tenet,accöplectitur id ipſum quod poſsidetur. Quoeuenit, ut poſſeſsio potius ingenium fapiat tactionis. Siigitur cognitio uifionis imitatur naturam,poffefsio uerò non imitatur, quo pacto dicendum eft,cognitionem eſſe poſſeſsionem. Adhæc,uerum & bonūnonidē funt.Quod ex eo patere poteft,quòdnoneadē facultate percipiütur: In uerum dirigitur cognofcendifacultas,in bonūuerò appetendi.Ex ueriperceptioneaſseueratio certitudoớa reportatur:exboni poſſeſsi onecóplexu (uoluptas. Si igitur cognofcens, quà cognoſsēs quodā modopoſsideret,uoluptatisquo particeps fieret. Voluptas enim boni poſseſsionêcomitatur.Atuoluptas facultaté cognoſcentem no perficit,fed appetētem.Quapropterdiuinus Plato bonü noftrumin miſto quodã ex lapiétia uoluptate coſtituit: quarüaltera, id eſt,ſapi entia intellectum:altera uerò,hoceſtuoluptas, uoluntatem perficit. Sed de his infequentibus comulatiſsime agemus. Hactenus often ſum eſt, quicūą deſiderat,huncipsūnon poſsidere,necquà deſiderat, nec quà cognoſcit.In preſentia uerò declarandûeft,neclimiltudinem quoos poſseſsionem aliquo modo auteſse autdici debere. Quodreli quüerat ut adſtrueretur.Quæcun $ igitur fimilia ſunt,aut propterea dicuntur ſimilia, quòdcerto quodã tertio participent (cuiuſmodico, plura alba aut calida ſunt )aut quoniã alterü alteriſimileeſt,non tamé uiciſsim:quemadmodūuiuenti Socrati pictus autæneus ſimilis eſt, quãdo uiuentem Socratem quodãmodo imitatur. Nemo tamen pro pterea fanę mentis contendet,uiuentē picto auteneo ſimilē eſse. Quo genere,homo per uirtutes deo ſimilis fit,ut rectè inquit Plotinus.Sen lilia quoqhocpacto intelligibilib. ſimilia ſunt, quæ nihil cum eisha bentcõmune,niſi nomen. Quodquidem clara uoce diuinusPlatoin Parmenide Timæocz teftatur. Ex quo Ariſtotelis ratio contra ideas de tertio hominefacilè diluitur. Quæcũçaūt ſuntidonea,utrecipiãt, cuiuſmodi informis materia eſt, & cætera generis eiuſdem, fimilia & ipſa dici poffunt, tū ijs quærecipiuntur,tumis quæ efficiunt.Horum eniin 11 IN SYMPOSIVM PLATONIS EN ÅRRATIO. 163 be Inic enim poteſtas quædam ſimilitudo uidetur eſſe. Dicitur quo &effi ciens finiſimile, quoniã efficiensomne à fine mouetur: illius enim gra tia omnia ſunt. Vnde &Ariſtoteles in undecimo Rerūdiuiuarū,Ěx petibile,inquit, & intelligibile mouētnon mota:quaſi efficiens motu moueat. Quod paulo poſtexpreſsit,dicés: Intellectus ab intelligibili mouetur. lis itaq expoſitis,uidendū eſt, quopacto deſiderãs, ei quod deſideratur fimile eſt, cuius ſimilitudinem meritò fibi deſiderati inſit poſſeſsio.Non eſtigiturdeſiderásſimile eiquod deſideratur, quoniã tertio quodamparticipent. Alioquiutrunqz alteri pari ratione ſimile eſſet. Quod quidem ñseuenit, quæhoc pacto ſimiliaſunt,quando in tertio cócurrunt. Atdeſideras &idquod deſideraturita fe habent, ut idquod deſideraturnomotūmoueat,deſiderãs uerò moueatur:Quo euenit,ut ſecus id, quod deſideratur, deſiderāti: ſecus autem deſiderás ei,quod deſideratur,ſimile ſit. Siigitur quæ cõcurruntin tertio, ſibi in uicem ſimilia ſunt:deſiderans uerò &id quoddefideratur non ſimili côditioneſimilia ſunt:quis ambigat,eadētertñ quoq nõ participare: Non ſunt quoqz ſimilia,eo quòd alterü alteri duntaxat ſimile ſit:alio, quiaut alterum alteriusſimulachrū imagóą eſſet,autfaltē imitaretur. Nuncuerò neutrūaut alterũimitatur,aut alterius imago exmplumue eft.Sed nec quoqeo pacto ſimilia ſunt, quo recipiensautei quodre cipitur,auteiunde eſt principiū motus ſimile dicitur. Neutrumenim recipientis habet ingeniū, quandoquidem alterum eſtran efficiens, alterútanſ illud cuiusgratia efficitur. Reſtat igitur, fi qua eft ſimilitu do,utdeſideras &id quod defideratur propterea fimilia ſint, quoniã id quod deſideratur tãğexperibile mouer:deſiderãs uerò eft efficiés. Quã quidē fimilitudinēnemoeſtomniã quidiſsimulet. Quis enim ambigat, inter finem atoßea quæ in finĉprogrediãtur, ſimilitudinem quandãaffinitatēc eſse:Quoenim pacto eo côtéderent, niſi aliquid inde reportarent, quod in uſumbonūĝz ſuum uerteretur. Sed hæc ſimilitudo cógruencia (znullădicit poſseſsionem. Nã propterea effici ens finiſimile eft, quod efficiésmoueri poteſt, finis aūtmouere.Poſse aūtmoueriadfinem,nulla finispoſseſsio eſt:finis enimpoſseſsio actu eft,poſse aūtmoueripotencia. Quomodo igitur huiuſmodi ſimilitu: do poſseſsionēdicit. Adhæc lidefideransratione ſimilitudinis ali quomodo poſsiderid quod deſideratur,id quidē actu eſse neceſse eſt. Quod aūtactu pofsidetbonū,habet quogiãactu &uoluptatē, quão doquidēactupfruitur. Quis aūt afseruerit,deſiderãs quà deſiderãs iã bono gfrui,diliniriq uoluptate:Nãdeſideriūmotio quædã uidetur, quãdo motionis pricipiūelt.Voluptasaŭt motionis terminus.Cõti getigitu ridē ſimulmoueri,acno moueri.Quod fieri nulla ratione po teft:Ěxhis perſpicuñeſse arbitror,deſiderãsminimèilliusparticipare ģddeſideratur.Verùmhæc paulo altiusrepetëda sūt. Omnia quæcũ queſunt, poft primūingenita cupiditate urūtur pociūdi illius: quip pe ex cuius poſseſsioneſuum cuique bonumineſt. Cupiunt autem 164 FRANCISCI CATANEI DIACETIÍ quam uehementiſsimeſingulaſibibonumadeſle. Quidenim eſlea maret,niſiid fibi proforet: Appetentiauerò omnis ex cognitioneſus mit exordia. Fieri enimnequit,ut alicuius cupiditas aliqua fit, cuius non fuerit &cognitio.Hæcquidem cognitio no intelligencia eſt,non ratiocinatio,non opinio, ſiue cogitatio,nõ ſenſus aliquis, ex his quos particulares uocamus,fed longèhæcomniaantecedit. Singula enim ftatimquàmfunt, intimoquodamnatiuoç ſenſu præſentiunt, in au Ctorem,unde uenerunt,libieſſeproperandum, indebonumuberri mèadfequutura.Hicquidem ſenſus, quem IntimūNaturęgsappella mus,principiūeſt, quo mūdusintelligibilis in uită intelligēciāõpro cedat.Nãuita intelligentiaõprogreſsioeftin bonū.Progreſsio aūtin appecētiã reducitur. Quofit,utappetētiauitæ intelligentiæis princi piūſit. At appetētia omnis cognitione fubnititur. Quapropter cùm nulla prior cognitio fuerit, quàmea, quamūdus intelligibilisſtatim, quàmeft,præféntit ex auctore ſibi bonūadfuturū (quem ſenſumInci mum uocamus)ſequens eft,ut inhunceundem uitaintelligentiáque reducatur.Pari pacto de animadicendum eſt. Namhic ſenſusperpe. tis illius motionis ratiocinationis & ipſiusauctor eſt. Vnde& Iambli chus,cætera quidēdiuinus, in hocaūtuerè diuiniſsimus.Effentie, in quit,animæ ipfiusingenitaquedamineft deorum cognitio,omniiu dicio melior,antecedens electionem,ratiocinationem, demonſtrati onem omnem: quæ quidem interexordia inhærens in propriam cau fam,coniúcta eſt cumeo animæappetitu,qui ſubſtantificus bonieft: Plotinus quo @ aſserit,omnia naturæ opera eſſe Theoremata,quip pe quæex intima quadã naturæ cognitione orta ſint.Hoc fenfu &ele menta in propria loca feruntur.Vnde &illi, meaquidem ſententia, audiendinonſunt, qui ñſdem tribuunt appetitum in ſua loca proce dendi,adimuntuerò cognitionem appetitus huiuſmodi principium, quaſi abextima intelligentia dirigantur.Namfieri nequit,utextima fit cognitio,appetitusuerò intimus. Appetitus enim cognitionem fequitur,eiuſdemqz rei eſt cognoſcere & appetere. Huncienſum ue. teres Magiobſeruauere, hincopera ſuæ arcis feliciſsimè auſpicantes. Hunceundem in hymno naturæ Orpheus quietum acline ſtrepitu appellauit. Quippe in quemnoncadaterror, quando nulla indiget ope externorum, fed totus in boni quaſi uiſionem incumbat. Qua propter mea quidemfententia, quemadmodum concupiſcendiira ſcendió cupiditas ſuã habet ſentiendi facultatē,electio uerò ratiocinā dig atintelligédi facultatē uolūtas, quibus nitătur (alioquin he quidé quod reuerabonüeſt,illęuerò qa bonūuidetur,nequico deſiderio cöplecterentur) fic & cómunisrerü omniūappetitus,quo in bonum dirigūrur, ſuāhaberecognitioné (quë nature ſensűrite nücupamus) ġd bonü præſentiatur,neceſſe eſt.Hecquidēcognitio quéadmodūnā 1 IN SYMPOSIVM PLATONIS ENARRATIO. 169 eſtbonipoſſeſsio (alioqui nunquam in bonum progreſsio fieret ) fed potius poſsidēdi principiū:pari ratione neccæteras cognitiones,pof ſeſsiones eſſe dicendüeſt, ſedprincipia uias@ potius in poſſeſsionem. Quo fit,utrecta rationedici nequeat,AmoremPulchripoſſeſsionem habere,quòdantecedête cognitioneſubnicatur, quaſicognitio ſitpof feſsio quædam. Quomodoautemnon folùm Amor, fed appetentia omnis,media ſitinter idquodbonum eſt,atquenonbonum: quidper Porum, quidper Peniam Amoris parentesdiuinus Plato ſibi uelit, in Socracis oratione uberrimèenitemur oſtendere. Hactenus declarauimus Pulchritudiném eſle Amoris finem, non materiam: declarauimus quoqs Amoremnullam habere pulchritu dinis poſſeſsionem, quemadmodumnõnulli comminiſcuntur. In præſentia declarandum eſt,quænam, qualésque pulchritudines ſint. Quoquidem declarato,uidebimusquinam,qualéſoamores ſint. Fi eri enim nequit,utcitra pulchritudinem ſit Amor. Vbiigitur fem per pulchritudinem fequitur, non ſolùm totidem eſſe amores, quot ſunt puichritudines, pareſt: uerùm etiam expulchritudinisingenio amoris eſſencia,uires, opera ſuntæſtimanda. Sediamrem ipfamag grediamur. Rerum genusunumintelligibileeſt, ſenſibile alterum. Rurſus intelligibile in partes duas diuiditur, in clarum ſcilicet &ob. {curum.Intelligibile clarum dici poteft, quod ſuapte natura obuiam fit intellectui,necalio adnititur; cuiuſmodi funt ideæ fiuemundus in telligibilis, ac liquid aliud tale eſt, quod non indiget adminiculout maneat. Obfcurumuerò intelligibile,quod nonnili in claro intelligi bili apparet: cuiuſmodi mathemata ſunt, quæ habent in ideis quic quid participant firmitatis.BrõrinusPythagoricus in eo libro, qui de Intellectu cogitationem inſcribitur,Cogitatio,inquit, intellectu ma ioreſt,ſicut & cogitabilemaius intelligibili. Intellectus enim ſimplex eft,citra compoſitionem,id quod primò intelligit:huiuſmodi autem ſpeciem dicimus:eftenim citra partes, citra compoſitionem aliorum primum. At cogitatio tummultiplex eſt, tum partibilis,id quod fe cũdo intelligit:ſcientia enim demonſtrationeớ nititur. Simili ratio ne ſe habentipſa cogitabilia. Hæcautē ſunt ſcibilia demonſtrabilia ipſac uniuerſalia, quę ab intelle &tu per rationem comprehenduntur. Ex quibuscolligere poſſumus, intelligibile clarum per illud ſignifi cari, quoddicitur, fine partibus,fine compoſitione aliorum primum. Obſcurūuerò per illud, quod dictur, Scibile,demoſtrabile, uniuer ſale. Nam cogitabilia omnia, cuiuſmodi ſunt obſcura intelligibilia, ipfacemathemata,non attinguntur quafi recto quodamintuitu, quê admodum euenit claro intelligibili:fed per rationem, & quandam,ut fic dixerim,ab ideis declinationem acdeſcenſum. Suntautē mathematare uerafluxus eorum generum,quæcuque 166 FRANCISCI CATANEI DIACETII rèentiintellectuíçinfunt, intelligibilium, idearum imagines, ex empla ſenſibilium,eandem habentia ad ideas comparationem,quam habétumbræ &imagines in ſpeculis aduera corpora,quę& àcorpo ribus profluunt, & in eiſdem,& beneficio eorundem, ſenſui fiuntob uiam.Sicutig &mathemata funt ab ideis, &in ideis apparent, & i, dearum beneficio habéntfirmitatem. Sicuti autemipſuminelligibile in clarumobſcurū < diuiditur: eodempacto &ſenſibile in clarum ob ſcurūgs diuidendum eſt.Senſibile clarūdicitur, quodprimò acrecto quodamtramite ſenſui fit obuiam, quodą ſuapte natura opinabile eſt, utcælum,ut elementa, & reliqua corpora naturalia. Obſcurum uerò, quod,etſi ſub ſenſum cadit,pendet tamen ex corporenaturali tū quatenus fit,tumetiamquatenusapparet. Hæcſunt corporum natu ralium imagines ac ſimulachra, quæ & à corporibus naturalibus pē dent, &citra eadem ſtatim dilabuntur,necſenſuifiuntobuiam. Hu iuſmodi autemſunt umbræ in aquis, in ſpeculis @ imagines. Addunt Syneſius &Proclus, eſſe quorundam corporum naturalium profu uia,ad certam intercapedinem integrum feruantia characterem.Quę nõambigunt mirisquibuſdã machinis à Magis impetiſolere, fiquã do quenquam perderein animo éſt.Hæc cùm & ipſa ſimulachraquæ damſint ſub obſcuro illo fenſili collocari poſſunt. Architas Tarenti nus in eo libro,cuide intellectu & ſenſu titulus eft,quæcunqdicütur eſſe, in pares ordines gradusi diſtinxit, afcenſum fieri uoluitàde, terioribus ad meliora, quippe in quibus deteriora comprehenderē tur.Diuinus quoạPlato in fexto de Rep. declarat,quatuoreſſererű gradus, qualeſas ſintä animænoftræ uel habitus uel facultates, qui. bus uniuerfam illam rerum diſtributionem cognoſcimus.Quæom nia non erubuit ab Archita ad uerbum ferè mutuari. Quodquidem ös,qui aliquando legerint Architæuerba, luce clarius patere poteſt. Sed magnacontrouerſia eſt,in quonam rerum ordineanimaipſa col locari debeat, quicß de ea contempletur. Nam ſi in mentemani mæ præſtantiſsimum intuemur,noneftcurhæſitemus intelligibilis generiseſſe ac diuini.Contrà uerò ſi cæteras facultates penlitemus, rė rum naturalium ordini adſcribemus. Sinuerò utrūos ſimul,necinter diuina cõnumerabimus (quodomnino à motu materiaớ abhorrēt ) necinter ea,quæ naturalia ſunt, quandoquidem ſupra fenfilia non af cendunt. Mensautem genus ſenlibile longè ſuperat. Themiſtius in ter Peripatecicos nõ poſtremæ auctoritatis dat manus extremeratio ni: proindecs contendit, animæ ipſius, quaſimedijgeneris ſit, media quoơſciệtiãeſſe,cuiuſmodi ſuncdiſciplinæ. Anobisuerò lögè abeſt, ut credamus, cã eſſe mentē Ariſtoteli, utnaturalis intellectü contēple tur. Quid enim eo illuſtrius eſſe poteſt,quodin ſecüdo de Animadir ctum 1 IN SYMPOSIVM PLATONIS ENARRATIO 167 1 &umeft:Intellectus fortè diuinum quiddameſt &impatibile. Quin etiam nihil prohihet,inquit,partem animæ aliquam ſeparari:liquidē nullius corporis actus eſt.Præterea & illud:deintellectu autemnon dumpalàmeſt,namuidetur aliud genusanimæ eſſe időzſeparari,tan quamæternumà caduco. In primoautem de partibus animaliumex erta uoce ait:Naturalemphiloſophum non de anima omnidiſſerere, quandoquidem non omnisanima natura eſt.Et in fecundo de Gene ratione animalium,folam mentemextrinfecus accedere,eamąfolam diuinam eſſe, cùm eiusactio no communicet cumactione corporali. Præterea in quinto Rerumdiuinarum (quêpleriq falsò fextum au tumant, fi credimus Alexandro Aphrodiſixo) Naturalis, inquit,ip. ſius eſtnon omnemanimam contemplari,ſed quandam,quæcunque non ſine materia fit.Etinundecimo eiuſdem operis, cum de Deolo queretur: Vita,inquit,poteſteſſe optimanobis,f ed breui. Sicenim femper illud:nobis autem fieri nequit. Ex quibus intelligi poteft,ex fententia Ariſtotelis contemplationem de intellectu ad facultatem naturalem non pertinere. Proinde aliam quandamſcientiam eſſe, quæanimæ ingenium contempletur. Diuinusquoque Plato anima ipſam, quando ſeparabilisæternacpeſt,ſub eflentia concludit.Proin de intelligibilis generiseſſedubitandum non eſt.Quòdfiquis obříci at Timæum Platonis,in quo multa de animeingenio differuntur,cui nihilominus de Natura tituluseſt:nosutią quemadmodum non dif fitemur elle princeps eius dialogi uotum, naturę opera contemplari: ficquoqzimusinficias, quçcungibicótinentur,naturam effe.Multa enim præ ſe fertilledialogus, quæ naturæ ingenium longè fuperant. Nectamen continuò commiſcerimateriasobrjciendum eſt. Fuite nimoperæprecium de iis etiam fieri meditationem, quorumopus, & organum natura eſt. Huncautem eſſe diuinū opificem,diuinamą. animam,Plato afferit.Ex his perſpicuum eſt,rationalem animam ge neris intelligibilis effe,non quidem obſcuri, quemadmodummathe. mata ſunt:fed talis potius,cuiuſmodimūduseſtintelligibilis.Nãani marationalis necalieno indiget adminiculo,utmaneat, & fuapte na tura intellectui fit obuiã. Eftenimuera & abſoluta participacione, quicquid per femūdusintelligibilis eſſe dicitur. Verūtamen animad uertendum eſt,animam propterea à mente declinare, quòduergitin corpus. Quo fit,ut tumſui ipſius,tumalterins dicatur eſſe,ut rectèin quitProclus. Siquidem ipſius, quòd eſſentia ſeparabilis æternáque eſt:alterius autem, quòdin corpus propenſa,eſſentiam uitāçcorpo ri impartitur. Hinceuenit,utalteram quãdam animã producat: cu ius ope molem agitetacregat. Hæcanima irrationalis appellatur, quæſoligenerationi deſeruit, plena ſeminum earum rerum, quæ cunque cum materia commnicandæ ſunt. Hæc in præſentia de 268 FRANCISCI CATANEI DIACETII animafatis ſint:Namin fequêtibus eius philoſophiam uberrimècon. templabimur.Ergo animam rationalemègenere intelligibili,irratio nalemuerò èſenſibilieſſe aſsèremus. Quod etiam Plato ſignificauit in Timxo, appellans animam irrationalem mortale animæ genus; mortale autem omneſenſui obnoxium eſt. In plenum colligere poſ ſumus,ſub claro intelligibili animamrationalem, ideasý, hoceſtin telligibilem mundum,quamprimam quoộmentem,primumens,ac perſe animalappellant:ſub obſcuro uerò Mathemataconcludi.Cla rumuerò ſenſibilecomplectiirrationalemanimam,complecti & om nia corpora naturalia, cælum,elementa, quæibexhis coaleſcunt,ani malia,plantas,& cætera generis eiufdem. Obſcurum uerò imagines in fpeculis,umbrásque in aquis, & fiqua ſunt alia id genus. Adhęc & ea profluuia corporum naturalium,de quibus paulo ante mencio nemfecimus. His ita perſpectis,dicendumefttotidem eſlepulchri tudines, quot rerum ordinės ſunt. Quapropter eſſe pulchritudinem intelligibilem,effe quoqj & ſenſibilem. Rurſusa intelligibilempul chritudinem tumdarameſſe, tumobſcuram. Claramquidem, tum quæmundiintelligibilis eſt,tum etiam quæeſtanimæiplius.Obſcu ram uerò eam effe, quam in mathematiscontemplari poſſumus. At ſenſibilem pulchritudinem cum animæ irrationalis fiue naturæ, tum etiam corporum naturalium eſſe dicimus: quamquidem claram ap. pellamus.Quęuerò imaginümumbrarumã eft, & fiquaſuntalia id genus obſcuram appellari par eſt. Ergo pulchritudo mundiintelli gibilis reuera cæleſtis acdiuiua eft appellanda, cuinihil non elegans admiſcetur, nonconcionum, undequaqcompofita, undequaqfibi ipficonfentiens. Animequoqrationalispulchritudo coeleſtis acdi. uinadici poteft:quæ tantum abeft,utmateriæ ſordibus immiſceatur, ut etiam cumprima pulchritudine ferè coniuncta ſit.Atueròpulchri tudo tumirrationalisanimæ, tumetiam corporum naturalium,non fine materia eſſe poteſt. Anima enim irrationalis ſuapte natura circa corpora diuiduaeft, ut Plato inquit: undeuulgarisacplebeia pulchritudo meritò appellatur, quòdhabet cum materiacommerci um. Siigitur duo pulchritudinisgenera funt,cæleſte ſcilicetacplebe ium:coeleſtisautem pulchritudo uniuerſum intelligibile complecti tur, ſiuemundi intelligibilis ſit, ſiue mathematum,ſiue animæratioria lis: plebeia uerò univerſum ſenſibile: totidem quoq eſse amorumge nera neceſse eſt. Quapropter amor,qui cæleſtis pulchritudinis eſt,& ipſequoc cæleſtis:qui uerò plebeiæ pulchritudinis,plebeius & ipfe nuncupabitur. Sed agedū, exquifitius uidédữelt,quomodo Àmorcircà pulchri tudinauerfetur.In ſuperioribus declaratum eſt, Amoremeſse appe. 1 titum. IN SYMPOSIVM PLATONIS ENARRATIO. 169 titum deſideriumộ pulchritudinis. Pulchritudo enim bonum quoddameſt:bonumautem omne expetibile. Quo fic,ut pulchritu, do uim moueat appetendi.Huius autemactus circa pulchritudinem amorappellatur.Primusigitur acperfectiſsimus amor,circa primam pulchritudinem uerſatur:quæ in ipfo per feanimali primùm appa ret,ut pauloante dictum eſt. Sedquomodo primus amor circa pri mampulchritudinem uerſatur:An non ſolumin primam pulchritu dinem incumbit,ut inde particulam hauriat uoluptatis (qua uis per ficitur appetendi)uerum etiam principium eſt, quo in eadem ellen tia mundi intelligibilis aliquid pulchrūconcipiatur: Hoc autem ni hileft aliud, quàm pulchritudinem mundiintelligibilis, quæ tano ſpectaculum intellectui fitobuiam, in eodem concipi permodum ſe minis acnacuræ. Huiuſmodi autem conceptus, eius facultatis uis eſt, per quammundusintelligibilis extra ſe pulchritudinem poteft effi cereEx. quo perſpicuum eſt,Amoremeffe principium producen di,quæcunq diuinam pulchritudinem imitantur. Nam fieri nequit, utpulchritudinis ſemina producant extrinſecus pulchritudinem,ni. fi & ea quoqproduxerit, in quibus apparet pulchritudo. Quapro pter integra abſolutacz amoris definitio eſt,ut defiderium ſit non ſo lùm perfruendæ,uerum etiam effingendæ pulchritudinis:ut in hoc quoqàquouisalio diſcrepet appetitu,quòd cæteriduntaxaruolup tate contenti ſint, quam hauriantex boni poſſeſsione, hic autem ada datetiam efficaciam.Pari ratione de anima dicendumeft, in qua cùm fituera participacio pulchritudinis,uera quocß Amoris parcicipatio fit neceſſe eſt. Amorigitur in anima, qua pulchritudine perfrui con cupiſcit,eandem affectateffingere permodum ſeminis ac naturæ,cu, ius eſt imago. Natura ueró animæ rationalis inſtrumentum (quam ſecundam animam appellant)habetab anima ſuperiore pulchritudi nem:fed &ipſa per modum feminis. Quandoquidemper hanc ani marationalis componit uerſatớp materiam, in qua pulchritudo per modum ſpectaculi apparet.Meritò igitur in anima gemini ſuntamo res:alter, qui eius pulchritudinis eft, quam anima à mundo intelligi bili mutuatur:alter uerò qui in eam pulchritudinem dirigitur, quæ per modum ſeminis in natura fecundamanima effulget. Hicquidem amoraffectans ſeminariam pulchritudinem, transfert in materiam pulchritudinis illius participationem,quandopulchritudinis ſpecta culum in ea anima effingerenequit. Exquo amorhuiuſmodi totius generationis re uera principium eſt. In omniautem anima rationali geminus uiget amor. Namubi ſecundùm eſſentiam æterna eſt, cor pus habet & ipſaſempiternum, quod uita donec: in quo explicet fuæ pulchritudinis imaginem. Anima enimquàanima,uicam alicui exhi р 170 FRANCISCI CATANEI DIACETIT bere debet:quo fit, cùmfemper animafit,uitam quoc alicui ſemper exhibeat. Idautem eſſe corpusneceſſeeſt.Cuienim alteri,nificorpo ri,uitamexhiberepoteſt:Acid corpus,cui uita ſemper exhibetur, ce leſti conditione participare dicendum eſt. Quapropter anima om nis rationalis,habet corpus æternum, quod Vehiculum appellant, cuiſemper uitam imparciatur.HæcquidēProcliſententia eſt. Quan quamPlotinus &lamblichus credantpoſſefieri, utanima noftrae. tiam quandoơ ſine corpore fit. Sed dehis alibi latius. Ariſtoteles quo in fecundo libro deGeneratione animalium, Omnis, inquit, animæ ſiueuirtus,ſiuepotentia,corpus aliquod participare uidetur, idő magis diuinum,quàmea quæ elementa appellantur. Ex quibus uerbis colligere poſſumus,Ariſtotelem cenſuille, cum animaradio nalialiquod effe corpus,quod cæloproportionereſpondeat. Quod etiam Themiſtius in ea paraphraſi, quam in primum librumde A nimaedidit, de mente Ariſtotelis affirmat. Quapropter in omni ani. marationali geminus eft amor. Quorum alter pulchritudinemin telligibilem,alter ueròſeminalem explicare in corpore materias af fectat. Quo euenit,utinanima omnirationali,cæleftis ſit amor,lice tiam & plebeius. Habet & alia ratione utrun amorem animano ſtra.Nam liquando ſenſibilis pulchri ſpecie excitata præcipitatina moremexplicandorum feminum,proindeq pulchro illo potiri im potenter affectat,ut pulchram ſobolem in eo progeneret,plebeio a moreoccuparidicendumeft. Rapit enim deorſum implicatớ ani mamgenerationi huiuſmodiamor. Quod quidemanimæ maximu malumeſt. Atuerò fieodem pulchro nonadgenerationem, ſed ad contemplationem utatur,quaſihuius beneficiodiuinæ pulchritudi nisreminiſcatur, quis ambigat,amore diuino incendir Quandoqui dem in diuinam pulchritudinem reuocatur, unde facilis in bonum eítaſcenſus. Quo fit, ut hic amor ſummopere laudandus extollen á dusclit: ille uerò ſummopere uituperandus. Declaratumeft, quid Venusſignificet: declaratum quoque quid fit pulchritudo, ubi fitprimò, ubi deinceps: quòdpulchritu do noneſtamorismateria,fed finis: quòd nonelt idex, necin ideis: quòd amor nullam habet pulchri poſſeſsionem, ſed potius mer dium tenet locum inter pulchrum atque non pulchrum: quod to. tidem ſunt amorum genera, quot pulchritudinum: quòd pul chritudo omnis ad cæleſtem plebeiámque reducitur, quo fit ut amor partim plebeius, partim cæleſtis ſit: quòd in omni ani. ma rationali utrunque amorem ſit inuenire, in noftra autem duplici ratione. In præſentia uerò reſtat, ut diuiniPlatonis fer e uc uc moncm IN SYMPOSIUM ENARRATIO. 170 PLATONIS moneminterpretemur.Pauſanias apud Platonem laudaturus Amo rem,improbatPhædrum, quodliclaudarit,quali unus ſimplex (pa mor,atą is rectus honeſtusõpeſſet. Quoniam uerò non unus ſim plexoelt,oportet,inquit, declarare nos prius, quot ſunt Amores, quis laude dignus, quis minimé.Eftautem laudedignus,qui bonus & àbono,& in bonum. Qui uerò necbonuseſt, neqz à bono, neq; in bonum:tantum abeſtutlaudari debeat,ut etiam uituperatione ſit di gnus. Qui uerò cauſa eſt maximorum bonorum,hunc ipſum bonū effe,nemoeſtomnium qui ambigat. Contrà uerò, quimaximorum malorum cauſaeſt, nónne &ipfemalus eſt putandus. Quapropter illé reuera laudanduseſt,quibonorumnobis auctor eſt. Contrà ue rò ille uituperandus,à quo nobismala eueniunt. Videndum igitur primò,quot ſunt amores. Amor,inquit, femper Venerem comita tur. Quapropterfi una eſfet Venus,unus &Amor utique eſſet. At quoniam duo ſunt Veneres, altera cælo nata, fine matre quę cæleſtis Venusdicitur: altera uerò,quæ Plebeia nuncupatur, ex loueac Dio ne progenita: propterea duos eſfe Amores neceſſe eſt. Quorū alter.cæleftis eft, illeſcilicet, qui cæleſtem Venerem: alter uero plebeius, qui plebeiam comitatur.Dux,inquit,Veneres ſunt,hoceft,duo pul chritudinis genera:ut Plotinum,alios omittamus. NamPlotinus putat, Venerem eſleipſam animam. Nosautem oſtendimus interex ordia ſermonis huius,ex his quæ à Platone dicuntur in Phædro, Ve nerem nihil aliud, præter pulchritudinem, ſignificare. Cui quidem ſententiæ Hermias Ammonius adftipulatur.Namin Phędro,ubiex ponit illud Platonis,Furorisamatorñpatrociniū tributum eſſe Ve. neri,apertè dicit,Venerem ſignificare pulchritudinem. Sed Hermiæ auctoritas contra Plotinum afferendanoneſt. Satis autem mihi ſit, poſſe ex Platonis ſententia probabiliratione defendere,Venerem ef ſe pulchritudinem. Quod quidem etiam obnixè contenderem, ni magnus Plotinusmeremoraretur.Tantum enimei uiro tribuendű cenfeo,utexiſtimem, huncipſum primo longè eſſe propiorë quàm tertio, fiue is ſitNumenius Pythagoræus,fiue lamblichus Chalcidæ us (quem inter homines deum facit Iulianus Imperator) ſiueſitmag. nus Syrianus,quem Proclus non ſecus acnumen colic. Ergo dug Ve neres, hoceſt, duo pulchritudinis genera ſint: quarum alteramdi cit Cælo natam finematre:alteram louis Dionesof ſtirpem. Vetus eſt dogma(cui Plotinus, quiğz Plotinum ſequuti ſunt,Porphyrius, Amelius Longinusadftipulantur)tria effe rerü omnium principia, Perſeunum,Mentem, Animam.Aperſeuno eſſe Mentem, quam uocant Mundumintelligibilem, à Menteeſſe Animam, ab Anima uerò uniuerſum ſenſibilem mundumprocedere. Per ſe unum rebus P 2 172 FRANCISCI CATANEI DIACETIL elargiri unitatem:Mentemſiue mundumintelligibilem elargiricon ftantiam:Animamueròmotum. Rurfus,per ſeunum quandoque Cælumappellari,Mentemuerò Satúrnum, Animam louem. His itaqz conſtitutis,poſſumus dicere,E Cælo,hoceft, ex primo rerum omnium principio, quodper ſe unumdicitur,natameffe Venerem, ideſt,primam pulchritudinem,quæprimò in ipſo perſe animali ef fulget. Natam,inquam,exipſo per reuno, quoniam intellectus fiue ipfum perfe animal, in quoeſt prima pulchritudo,ex ipſo perfe uno prodïjt.Natam porrò ſinematre,quoniam proceſsio huiuſmodi nul Ioantecedente indiget fubiecto, quemadmodum rebus naturalibus euenit. Prodit enim ſecundum à primo, per fimplicem quandam proceſsionem (ſicuti lumen à Sole prodit ) eius potentia totaeft. in producentis uirtute. Quo pacto dicimus &animam ab intelle ctu, & materiam ab anima prouenire. In toto hocproceſſu concin git, ſex rerumordines obſeruare. Ipfum per fe unum, Mundumin telligibilemn,Animam ipſam,Naturam animæ inſtrumentum, Cor pusMateriam,. Infra autem noneſt deſcenſus. Vnde & Orpheus, In ſexta,inquit,progeniecantilenæ ornatum finite. Quod ctiamin Philebo uſurpat diuinus Plato.Poteft &alia ratione, acnondeteri ore fortaſſe, Veneremdici Cælifiliam eſſe. Namin Cratylo dictum eſt,Cælum efle aſpectum in fuperiora intuentem: Saturnum purita tem intellectus: Iouem uerò uiuentem, & perquemuita, ita ſcilicet, atis aſpectus, quo mundusintelligibilis per fe unum intuetur, Cæ. lumappelletur: is uerò, quo ſeipſum uidet, Saturnus, quali lit pura intelligentia, in ueritatem incumbens: Iupiter uerò ſit Mundusin telligibilis,quatenus uidet feextra feipſum participabilem eſſe.Qui quidem dicitur mundi opifex, quandoquidem mundi principium eſt.Quo euenit, ut recta ratione tum uiuens dicatur, tum etiam per quemuita. Viuens quidem, quoniamprincipium eſtefficiendi. Ac uero per quem uita, quoniam fingula ſuum hinc habent efficiendi modum. Is igituraſpectus, qui in ſuperiora intuetur, merito in eum ſenſum reduci poteft, quem naturæ paulo ante appellauimus.Qui propterea Cælum recta ratione dicitur, quandoquidem principi umeſt, quo per fe bonum ſingula præfentiant. Huius quidem Cæ li Venusfilia dici poteſt: quoniam pulchritudo intelligibilis, quæ cæleſtis Venus eſt, hinc habet originem. Nam hicſenſus princi piumeftuitæ. Quo fit, ut etiam ſit principium pulchritudinis. Pul chritudo ením uitam fequitur,ut dictumeft. Eft autem fine matre: quoniamnondummateria erat, quæmaterappellatur: quando pri mapulchritudo longè materiani antecedit. Plotinus uidetur àdi uino Platonediſſentire,qui dicit, Veneremcæleftem Saturni ſtir pem IN SYMPOSIVM PLATONIS ENARRATIO, fo pemeſſe.Putat enim Veneremeſſe animam,quæ àprimo intellectu procedit.Sed hęchactenus de cæleſti Venere.Nuncuerò de plebeia agendűeft.Plato dicit,plebeia Venerem louis acDiones ſtirpē eſſe, afferens habere matré,quãCæleſtis Venusnon habebat. Iupiter ſig nificatMundianimā, quemadmodūpatet ex his,quædicútur in Phę dro.Magnus uciądux in Celo lupiter,citans alatū currum,primus incedit,exornans cuncta,prouide diſponens. Huncſequitur deo. rumdæmonumą exercitus,per undecim partes ordinatus. Solà autem in deorumædemanec Veſta.Ex quibus uerbis palàm effe po teft, louemeſſemundi animam. In Philæbo quoque dicit Plato, In magno loue eſſe regium intellectum, eſſe & regiam animam: lig. nificans,mundi animam tumuninerſaliintelligentia,tumetiam uni uerſaliuita præditameſſe. Ergo Iupiter mundi anima eſt; ſecun, dùm Platonem. Dione autem Materia dici poteſt. Anima enim quælupiter appellatur,mundumproducere debet. Mundusautem materia indiget. Quo fit, ut mundo neceſſaria ſit, non quidem ſim pliciter,fed ex ſuppoſitione.Námſidomus fieri debet, talis aut talis materia fit neceffe eft. Vnde &Ariſtoteles materiam appellauit ner ceſsitatem ex ſuppoſitione. Plato quoqiri Timæo dicit; mundum ex mente &neceſsitate,id eft, ex materia eſſe conſtituium: quaſi ma teria neceſſaria fit. Si igituranima mundum producere debet, mà. teriam quo producat neceſſeeſt. Quo euenit, ut Dionérectara tiónė diči poſsit:quandoquidemand trüdros,hoceſt,à loue trahit ori ginem.Eft itaque plebeia Venus,louis Dioneső filia:quoniam ſe minaria naturæ pulchritudo tum pendet à mundi anima, cuius eſt inſtrumentum ad generationem, tum etiam materiam mundo ne. ceſſariam reſpicit: quæ propterea amat eſſe mater, quòd ſuopte in. genio gremium eſt formarum omnium. Dicitur autem plebeia; quandoquidemi cūſenſu materias commercium habet. Quod enim àmateria ſeiungiturubi, ueritatis participat, cæleftem diuinámque conditionem præ fe ferre credendum eft. Ergo cùm duæ fint pul chritudines,diuina fcilicet,ac plebeia, duo quoque Amores ſint ñes ceſſeeſt. Amor enim femper pulchritudinem ſequitur. Diuinæ pul chritudinis Amor diuinuseſt: qui non folùm diuina pulchritudi: ne perfrui affectat, uerùm etiam hanc candem exprimere per mo dum feminis. Plebeiæ pulchritudinis amor&ipfe plebeius. Hic autem principium eſt generationis, quando pulchritudinem ini materiaper modum ſpectaculi exprimere nequit, citra formarum omniumexplicationem: Sed ambigi poteſt,quo pacto dictum ſic, quot ſunt pulchritu dines, totidem efle Amores, Nónne pulchritudo finis Amoris eft: is 31 p3 174 ERIKOISCI CATANEI DIACETIT At vero quid prohibet, fi finiseſtunus,ea quæ ſuntgratia illius,mul taelle: Sicut etiam nihil prohibet, exemplar unum eſſe, multa ue. rò quæreferuntexemplar. Vnus enimHercules eſt: Herculisautem imagines complures. Vnde&illud Platonis in Timæo in contro uerliam trahitur,propterea, inquit,munduseft unus, quoniamex emplar unumimitatur. Nam ſiunius exempli multæ imagines eſſe poflunt,quomododictum eſt mundum propterea unum eſſe,quo. niam exemplar unum imitetur: Ariſtotelescùm uellet oftendere, Mundum eſſeunium,ex tota ſua materia conſtitutum effedixit. Edli enimaliudmundus eft,aliud ſua mundo eſſentia: non tamen conti nuo euenit,ut uel plures fintmundi,uel plures contingat fore: qua. ſi ſpecies, quæ fit in materia, femper amet eſſe uniuerfale. Suntau tem plura ſub eadem fpecie, quæcunque ſibi ſuæ materiæ aſſumunt particulam:ut equus,utleo, & fi quaſuntalia generis eiuſdem. At ueròquæcunqextota materiafua conſtant, hæc quidem ſingulain ſingulis funt.Exhisautem mundus eſt. Dehisabundèin primo li brodeCælo agitAriſtoteles. Vnde colligere poſsumus,materia copiam,multitudinemindicare ſingularium.Quod etiam in undeci. moRerumdiuinarumclara uoce dictum eſt. Verumenimuero de claremus primò diuinum Platonem rectè dixiſse, qui aſseruit in Ti. mæo,mundumpropterea unumeſse, quòd exemplar unum imita. tur.Deinde declarandum nobis eſt, totidem efse Amores, quotſune pulchritudines.Tametfi pulchritudo finis eſt Amoris. Plato igitur oftenſurus,muudum eſse unum,non ex eo oftendit, quòdmateria eſtuna (quemadmodum Ariſtoteles fecit ) nec.exco, quòdmundi eſsentia in corpus unum occurrat,ficut Stoicicomminiſcuntur. Aut enim ſolus,aut maximèuſus eſt præcognofcente cauſa,quemadmo. dum inquit Theophraſtus.Nam mundum eſse unum, acceptumre. fert exemplaricaufæ. Sienim exemplar unum, opifex unus,neceſse eft & mundum eſseunum. Nam opifexunus dum perfectiſsimèexo primit exemplar unum, omnes exprimendi numeros impleat ne ceſse eſt. Alioquinon perfectiſsimèexprimeret. Huiuſmodi autem expreſsio nonniſi in uno perfectiſsima eſt. Si enim multa eſsent, quæ perfectiſsimè exprimuntur, quid prohiberet, in infinituma bire: At aſserere, ab uno opifice infinitos eſse mundos, ſtupidi omnino mancipñ eſt. Non eft igitur dicendum, multa eſse quæ perfectiſsimè exprimuntur. Sed neque etiam aliud alio eſse perfe ctius, quandoquidem perfectiſsimum obuiam fieret. At fi uel plu. ra, uel exquiſitius in perfectiſsimo continentur, nónne cætera fu perfluent:Quaproptermeaquidem ſententia, rectè adſtructum eft, Si 1 IN SYMPOSIVM PLATONIS ENARRATIO. 13. Si exemplareſt unum, opifex unus, neceſse eſt &mundum eſseu num.Acexemplareſſeunum,opificem unum, facilè oftendi poteſta Sienim multa exemplaria eſſent,autæquè perfecta dixeris,autaliud alio ex his præſtantius. Fieri autem nequit, ut æquè perfecta fint, quandoquidem ſingula ualerent idem. Quo euenit, ut unum fatis ſit. Sin autem aliud alio perfectiuseft,nónne in id,quod eſt præſtan tius,ſemper opifex intuebitur unde & cætera nulli uſui fuerint. Si. mili ratione de opifice adftruendum. Quapropter recte dictumeſt à diuino Platone, Mundum propterea unum eſſe, quòd exemplar unumimitetur. Quo fit,ut facillimè ea ratio refutari poſsit, quæ co nabatur oſtendere,non continuòmundumeſfeunum, quòd exem plar unumimitaretur:quando uidemus,exemplaris unius multa ſi mulachra eſſe. Namomnino fierinequit, utmulta ſimulachra exem plarisſint unius, ſi ſit opifex unus, ifíp perfectiſsimus: cuiuſmodi mundi opifex eſt.Nam multitudo fimulachrorum,autex opificis de bilitate: autex multitudine uarietateof fic. Quòdfiobijcitur, ani marum ideameſleunam, opificem unum, huncés perfectiſsimum: complures tamenanimaseſſe. Adhæc,leonis autequi, & fiqua ſunt generis eiufdem, ideam eſſe unam, complura tamen quæ ideam i plamimitentur. Nos ad hæcreſpondeamus,non eſſe animarum om nium ideam unam, proinde nec exemplarunum. Sed fingulas ani mas, ſingulas habere ideas. Vnde & animæ omnesrationales, de Pla tonis fententia,fpecie differunt. Quodetiamſenliſſe Ariſtotelem non ambigimus. In his,inquit,quæ ſunt ſeorſumà materia, idem res ipfaeft,& fuum rei eſſe. At intellectum ſiue rationalem animam ſe orſum eſſe,ſecundùm Ariſtotelem facilè dabuntij, qui multis in lo cis Ariſtocelis uerba attentè legerint. Themiſtius in tertio libro de Anima dicit de mente Ariſtotelis, intellectum illuminantem eſseu num, illuminatosuerò aclubinde illuminantes complures. Quoe. uenit,uttum multi ſint,tum etiam ſpecie differences. Quapropter & animarum diſcurſiones, & uitæ, ſpecie differunt: ſicut etiam &cor pora. Sedde his alibi latius agendum eſt. Satis eſt auteminpræſen tia declaraſſe,animarum omniumnon eſſeideam unam. Soluitur & alia ratio.Nam propterealeoniseftidea una, exemplar unum, par ticipatus uerò mulci:quoniam idquodexprimit in materia, non eſt unum ac perfectum,ficutimundiopifex unus perfectusoz eſt. Con currunt enim dij mundani, & cælum ac cauſæ particulares, ad i pfam rerum generationem. Quod etiam Ariſtoteles clara vocete ſtatur,dicens,ab homine & ſole hominem generari, Hactenusdeclaratum eft,liexemplareſtunū, quo pacto id, quod exemplarimitatur,unumeft, quo pacto contingitmultitudinem in cidere.Nuncuerò reſtat,ut eirationi reſiſtamus, qua adftruitur, non elle totidem Amores, quotpulchritudines, propterea quòd concin git finemeſſeunum:complura uerò, quæ illius gratia ſunt. Nampul chritudò finiseft amoris.Dicimusigitur,id quod habetrationemfi nis,expetibile effe:atqzidquod reueraomnium finiseſt, reuera quo que acmaximèexpetibile.Quapropterquoniamper ſeunum &per febonnmomnium eſt finis,reuera & primòab omnibus effe expe tibile. Vndeapud Ariſtotelem legas,bonumid efTe, quodomnia ap petunt. Significatur enim idquodab omnibus, fed pro ſua cuiuſque facultate,expetitur,eſleid,quodreueraac primò bonumeſt. Cum itaqs expetibile moueat appetitum, ubi plura expetibilia ſunt, toti demeſſe appetitus generaneceſſe eſt. Appetitus enim ſemper expeci bile ſequitur,eiuſdem eftutrunqß contemplari; quaſi natura con iuncta lint.Vbiuerò unumexpetibile,appetendigenusunumquo. queſitoportet. Quo fit,cùm unum idem's omnibus commune bo, numſit,unumquoqlıtomnibuscommuneappetendi genus.Om nia enim ſibi bonumadeffe cupiunt:cuius gratia agunt, quicquida gunt. Atqz ita in cunctis unum eſt. Præter autem id bonum,quod cùmprimòbonumſit,omnibusadeſt,ſuntalia & bonorum genera, quorumſuus cuiuſeftappetitus: cuiuſmodi pulchrumeft, cuiuſ modiiuſtī, & fi qua ſuntgeneris eiuſdem. Rectè igiturà diuino Pla tone dičtum eſt,totidem effèAmores,quot ſunt Veneres. Venus énimpulchritudo eſt:amor autem pulchritudinis deſiderium. Cum igiturduæ ſint pulchritudines,altera diuina accæleſtis,altera plebe. ia ac ſenſui obnoxia: ſintóshæc genera duo expetibilium:neceffe eft, totidem quoq; effe appetendigenera,qui duo ſuntAmores. Atque ſicmea quidem fententia fortèmelius, quàm quibus uiſumeft, pul chritudinem Amoris eſſe materiam. Ex his ratio illa facilè diffolui tur.Adftruitenim polito appetibili uno, contingere, ut complures illius fint appetitus. Cui quidem manus dandæ ſunt, non tamen continuo pluraelle appetendi genera: quod quidem adſtruendum érat. Nam pulchritudo fi unafit, etſi nihil prohibet inultos illius Amores efle, unum tamen fuerit amandi genus. Quoniam uero duæ pulchritudines ſunt, duoquoq amandi genera ſint neceffe eſt. Acą hanc ego exiſtimo ueriſsimam diuini Platonis ſententiam èffe: arguimerito, quòd Amorum alterum cæleftem, alterum ple bcium appellauit:quoniami altera pulchritudo diuina ſeparabiliság dicitur,altera plebeia,accumimateria communićañs: quali ex inge nio appetibilis appetitus ipſe ſitæſtimandus. Hactenus IN SYMPOSIVM PLATONIS ENARRATIO, 177 Hactenus de his amoribus tranſegimus, quiomnibus animis inſunt, ſiue hæ deorum ſint, fiue dæmonum, ſiue illius generis, quodcorpus caducum ſibi induit, cuiuſmodi hominum animę funt. Nunc uerò ñ amores ſunt expediendi, qui propriè hominum dici poſſunt,ſiuenos rapiant in generationem, ſiue in diuinam pulchri tudinem reuocent. Atqui ſenſibilis mundi huius pulchritudo, intel ligibilis exemplarisógillius eſt imago. Huius quàm ſimillima eſtcu iufuis hominis pulchritudo. Anima enim omnis rationalis totius inanimati curam habet: ut in Phædro dictum eſt. Quofit,utquaf: cung ſpecies ſortiatur, ſiue deorum uitam uiuens, ſiue cæleſtem ac dæmonicam,fiuecorpus terrenum, elementarech nacta, totius ſem per ingenium præ ſe ferant. Quapropter compacta mortali corpori, etſi uideturanguſti carceris miniſterio detineri, omnem tamen in eo explicat uniuerſi facultatem, quaſi ubicunqz ſit uniuerſum produs ctura. Ex quo ueteres Theologi hominem paruum mundumap pellarunt. Fieri enim nequit,quando anima omnis eft uniuerſum,. quin profuo efficiatingenio,ubicunq efficit. Hinc legas apud Pla tonemin primo libro de Legibus, hominem eſſe miraculum quod. dam diuinum,in animantium genere, fiue ludo ſeu ſtudio quodam à ſuperis conſtitutum. In ſeptimo quoc eiuſdem operis, Deus, in quit, omni beato ſtudiodignus eſt:homo uerò deiludo eſt fietus.Ex quibus uerbis colligi poteſt, hominem habereomnia in numerato, quæcunqmundus ipfe habet. Nampropterea dicitur dei ludo con ftitutus,quoniam ueluti Simia deum ipſum imitatus, fuo quodam modo fit uniuerſum. Siigitur hæcitafe habent, quis ambigat,homi-. nis pulchritudinem ipſius mundi pulchritudinis quàm ſimillimarn effe: Quicuno itaq; huiuſmodiſpectaculo delectatus, in Amorem declinat generationis, hic plebeio amore detineri iure dicitur. None nim obaliud quæritaffectató pulchrum,niſi quoniam credit ſepol fe in co generationem conſummare. Amator autem talisaggreditur, quodcunqobtigit,ſiue mas ſit, ſeu fæmina. Fæminãquidem, quoni amhocinſtrumentū neceſſariū eſt ad generationē.Fieri enim nequit, utcitra fæminam generatio abſoluatur. Fæmina enim ſi credimus Ariſtoteli,materiçuicem gerit:Eſtenim fæmina mas lęſus, utillein quit. Marē uerò,quoniã quandoquſą adeo inſanit, uſą adeo impo tenti uoluptate delinitur,ut credat ſeibi generationé conficere pofle, unde ſummum hauriat uoluptatis. Quofit,ut cecus omnino in pudo. rem temere graſſecur. Amatautēcorpus magis quàm animữ. Quan. doquidéanimus diuina res eſt,diuino amoreprofequenda. Ille uerò iã totusà diuino abhorret. Quo fit,ut corpus magis probet uolupta tū miniſteria exhibitură. Amatquo & potius ſinementehomines, 178 FRANCISCI CATANEI DIACETI prudentes.Quoniam non facile eft prudentes decipere, qui mente ualentacnitunturratione.Noneftautem conſilium, ea incommoda in præſentia recenſere, quçtalesamatores ſuis amatis adeffe cupiunt. Quidenimaliuddiu noctub cogitant,niſiquo pacto ualeant uolup tatem explere: Vndeſiamatipauperes fuerint, ſine neceſſarös, ſine clientelis,lineamicis,adheline omnianimi cultu, cuiuſmodi ſuntdi ſciplinæbonarumartium, ſinequibus nemo uirmagnus eſle poteft, denią fine diuina philoſophia, quæ homines facit prudentiſsimos, miruminmodum gaudent,quafiex calamitatibuseorum ſuam felici tatem auſpicaturi.Quapropterimprobandi,reiciendi,inſectandig ſunt,tanquam maximèpernicioſiac noxij, quippequigenus huma nummaximis detrimentis,bonisuerò nullis afficiant. Quid igitur mirumfi legibus cautum eſt,nullo pacto uulgares amatores audien dos eſſe, quaſi impudentiſsimiiniuſtiſsimiĝzlint: Huiuſmodi igitur ac fimilium affectuũauctoreſtilla ſenſibilis pulchritudo, quam Ve neremplebeiam appellat Plato. Trahitenim, utdictum eſt, rapitớs animamadcorpora (quodanimæmaximummalumeſt ) niſi optimi morešdiuiniacobftet philoſophia,cuius beneficio ueritatis partici pamus. Atuerò ſipulchritudo ſenſibilis ſit inſtrumentum addiuină pulchritudinem, Venuscæleſtis rectè dicitur:affectusõz ille,qui cir ca hancuerſatur, Amorquoq cæleſtis iure appellatur. Prouocatau tem ad diuinam pulchritudinem,non fæminæ pulchritudo,ſed ma ris. Amatorenim diuinus,cùm probè nofcat fæminamgenerationi deſeruire, in mareuero generationem expediri non poſle, abhorreat autem penitusà generatione (quandoquidem totus in diuinum in hæret)fit utiqz maſculæ pulchritudinis & fectator adeò &admira tor: quippe qui pulchro uti amet,non tanquam in quo explicet ſemi nalem pulchritudinem (quemadmodum euenit plebeio amatori) fed tanquam inſtrumento, quo in domeſticam pulchritudinem, ac tumdeinde in diuinamattollatur. Probat autemnon pueros adhuc mentis expertes,fed adoleſcentes, quimente ualere iam cceperint. In certum eſtenim,an pueri uirtute præditi futuri ſint. Ille autem in pri mis uirtutem, optimum (Banimi habitum admiratur. Ergo adole ſcens ubi furentem amicumcontemplatur, quàm omni uirtutum ge nere abundet,non minus obferuareac colere debet, in omne oble quium paratiſsimus,quàmdeorum immortalium ſtatuas colendas cenfet. Scit enim cumeo diuinum ad omnetempus habitare: proin de nihil aliud fibicogitandum efle,niſiquo pactoualeatomneuirtu tumgenus explicare,utdiuino amatore dignus amatus & uideatur & fit.Hactenus Pauſaniæ ſermonem explicaſſe ſatis erit. Nam quæ dicunturde Ariſtogitonis &Harmodñjamicitia,quæíz deuarijsa mandi legibus, tum apud Græcos,tumetiam apud Barbaros, expli canda alijs relinquimus. Nobis enim ea duntaxat proſequi conſi liumeft,quæuideanturadPhiloſophiam pertinere.  Eros [...] non è nato né immortale né morta-  le, ma nello stesso giorno, ora fiorisce e vive,  se vi riesce, ora muore, per poi risuscitar, di  nuovo.   (Diotima a Socrate)   Sigmund Freud, nella creazione della psicoanalisi, dette un rilievo assolutamen-  te centrale alla sessualità; per essere più esatti le pulsioni sessuali, o libido, poi  eros, rappresentarono uno dei cardini portanti sui quali ruotò la metapsicologia  freudiana, nonché la ricostruzione delle dinamiche intrapsichiche e relazionali  nelle loro manifestazioni patologiche e non. Tutto questo è risaputo. È anche  noto che al riguardo Freud si richiamò ripetutamente all'eros di Platone.  L'obbiettivo di questo contributo è di sondare brevemente in quali forme e con  quali significati egli si riallacciò alla concezione del filosofo greco, se i richiami  risultano giustificati sul piano storico e filologico, e infine se fu la lettura dei te-  sti platonici a suggerire a Freud determinate valenze dell'eros; dunque se vi sia  una "paternità" platonica della rinomata concezione della sessualità freudiana.  Vi sono due indirizzi principali rispetto ai quali Freud si appoggiò a Platone,  che segnano al contempo due delle più importanti vie della concettualizzazione  della sessualità: l'una concerne la sua estensione sul piano delle dinamiche psi-  chiche; l'altra la sua trasposizione sul piano biologico, a sua volta articolata in  due filoni. Seguiamo la partizione freudiana.   I. Lo scudo del "divino Platone"   In Massenpsychologie und Ich-Analyse, scritto e pubblicato nel 1921, il concet-  to di libido, e con esso l'estensione della sessualità in esso presupposta, è diret-  tamente ricondotto a tutto ciò che rientra nell'universo semantico della parola  Liebe\ ove Liebe va dal «Geschlechts-liebe mit dem Ziel der geschlechtlichen  Vereinigung» fino all'amore per le «abstrakte Ideen» 2 .     ' S. Freud, Massenpsychologie und Ich-Analyse, in Gesammelte Werke, voi. XIII, pp. 98 sg.:  «Libido ist ein Ausdruck aus der Affektivitatslehre. Wir heifien so die als quantitative Gròfie  betrachtete - wenn auch derzeit nicht meBbare - Energie solcher Triebe, welche mit ali dem  zu tun haben, was man als Liebe zusammenfassen kann. [ . . . ] Wir meinen also, dass die Spra-  che mit dem Wort "Liebe" in seinen vielfàltigen Anwendungen eine durchaus berechtigte  Zusammenfassung geschaffen hat, und dass wir nichts Besseres tun konnen, als dieselbe auch     MARCO SOLINAS     Difendendo tale operazione dallo «Sturm von EntrUstung» che sollevò, Freud si  riallaccia direttamente a Platone:   Und doch hat die Psychoanalyse mit dieser "erweiterten" Auffassung der Liebe nichts  Originelles geschaffen. Der "Eros" des Philosophen Plato zeigt in seiner Herkunft,  Leistung und Beziehung zur Geschlechtsliebe eine vollkommene Deckung mit der Lie-  beskraft, der Libido der Psychoanalyse, wie Nachmansohn und Pfister im Einzelnen  dargelegt haben [...] Diese Liebestriebe werden nun in der Psychoanalyse a potiori und  von ihrer Herkunft her Sexualtriebe geheifien [. . .] 3 .   Il tono essenzialmente difensivo del richiamo a Platone emerge in modo ancor  più esplicito nell'immediato prosieguo:   Wer die Sexualitat fllr etwas die menschliche Natur Beschàmendes und Erniedrigendes  halt, dem steht es ja frei, sich der vornehmeren Ausdrucke Eros und Erotik zu bedienen.  [...] Ich kann nicht finden, daB irgend ein Verdienst daran ist, sich der Sexualitat zu  schamen; das grìechische Wort Eros, das den Schimpf lindem soli, ist doch schliefllich  nichts anderes als die Obersetzung unseres deutschen Wortes Liebe 4 .   Considerazioni analoghe, e con la stessa identica intenzione difensiva, aveva  svolto del resto Freud l'anno prima, nella nuova prefazione ai tanto celebri  quanto discussi Drei Abhandlugen zur Sexualtheorie, quando ricordava a tutti  coloro che lo accusavano, indignati, di "Pansexualismus": «wie nane die erwei-  terte Sexualitat der Psychoanalyse mit dem Eros des gSttlichen Platon zusam-  mentrifft» 5 .   Per individuare i dialoghi platonici cui si riferisce qua Freud vi sono due  elementi principali: i suoi precedenti richiami al Simposio e il rimando ai saggi  di Nachmansohn e Pfister. Quest'ultimo, nel suo brevissimo Plato als Vorlàufer  der Psychoanalyse, pubblicato nel 1921, presentava una panoramica complessi-  va dell'eros nel Simposio delineandone la convergenza con la libido e la subli-  mazione freudiane 6 . Nachmansohn nel suo Freuds Libidotheorie verglichen mit  der Eroslehre Platos, pubblicato fin dal 1915, aveva del resto già mostrato che   unseren wissenschaftliche Erorterungen und Darstellungen zugrunde zu legen». Tutte le ope-  re di Freud sono citate dai Gesammelte Werke (d'ora in poi GW), Chronologisch geordnet,  Frankfurt am Main 1 968- 1 999.   2 Ivi, p. 98.   3 Ivi, p. 99 sg., corsivi nostri; P.L. Assoun, Freud, la filosofia e i filosofi, Roma 1990, p. 177  [ed. or. Freud la Philosophie et les Philosophes, Paris 1976] commenta: «L'Eros platonico è  la forma originaria di quella sintesi che la stessa psicoanalisi promuove attraverso il suo con-  cetto di libido ».   4 Ìbidem.   5 S. Freud, Vorwort zur vierten Auflage, Drei Abhandlugen zur Sexualtheorie, GW, voi. V, p.  32, rimandando anche qui a Nachmansohn.   6 Cfr. O. Pfister, Plato als Vorlàufer der Psychoanlyse, «Internationale Zeitschrift Air Psy-  choanalyse» VII/3, 1921, pp. 264-9, qui p. 267 sg.: nell'ascesa erotica descrìtta da Diotima si  ritrova «ciò che Freud chiama sublimazione».     LA PATERNITÀ DELL 'EROS. IL «SIMPOSIO» E FREUD     nel Simposio, ma anche nel Fedro e nella Repubblica, era contenuta una conce-  zione dell'eros equivalente a quella psicoanalitica, sia quanto all'estensione se-  mantica sia quanto al concetto di sublimazione 7 . Le coordinate testuali entro le  quali si inscrivono i richiami freudiani sono dunque rappresentate da questi tre  dialoghi. Quanto al Fedro, Freud stesso avrebbe di lì a poco adottato -  tacitamente - la metafora del cavaliere quale emblema dell'utilizzo da parte  dell'Io dell'energia erotica dell'Es 8 , rielaborando così l'immagine della biga  alata richiamata da Nachmansohn 9 . Quanto alla Repubblica, citata da Freud già  nel 1914 e nel 1916 in riferimento al sogno 10 , è stato scritto molto rispetto alle  affinità con la concezione psicoanalitica (in parte intuite da Nachmansohn) 1 a  cominciare dalla idraulica dell' epithymia, alle modalità di gestione repressive e  sublimanti del desiderio, all'analisi dell'emersione onirica 12 ; tale questione ci  allontanerebbe però dal nostro tema perché più che di paternità sembrerebbe qui  trattarsi di anticipazioni; veniamo dunque al Simposio e cerchiamo di capire se  l'estensione freudiana vi trovi effettiva corrispondenza.   Nel discorso di Socrate-Diotima - ove è contenuta la concezione che può  esser considerata rappresentare quella di Platone -, l'eros si configura anzitutto  quale forza sessuale in senso stretto, riproduttiva: è in virtù di eros che uomini e   7 Cfr. M. Nachmansohn, Freuds Libidotheorie verglichen mit der Eroslehre Platos, «Interna-  tionale Zeitschrift filr Àrztliche Psychoanalyse» III, 1915, pp. 65-83, soprattutto p. 74 sgg.:  Platone «anticipa» la concezione della libido e la «concezione della sublimazione di Freud»:  l'eros copre infatti tutte quelle manifestazioni che vanno dall' «istinto di conservazione»  alI'«amore per la scienza».   8 Cfr. S. Freud, Das Ich und das Es, GW, voi. XIII, p. 253; Id., Nette Folge der Vorlesungen  zur Einflihrung in die Psychoanalyse, GW, voi. XV, p. 83. Sulla paternità platonica dell'im-  magine cfr. tra gli altri A. Kenny, Meritai Health in Plato 's Republic, in Id., The Anatomy of  the Soul, Bristol and Oxford 1973, pp. 1-27, in particolare p. 12; W. Price, Mental Conflict,  London and New York 1995, p. 188.   9 M. Nachmansohn, op. cit., p. 77 sg., si richiama alla «Vernunft» quale «Lenker der Seele»  rimandando direttamente a Fedro 254 a e 247 d, ovvero ai passi del mito della biga.   10 Sui richiami a Repubblica, cfr. S. Freud, Die Traumdeutung, GW, voi. II/III, p. 70 e p.  625, entrambi aggiunti nel 1914, e Id., Vorlesungen zur Einfuhrung in die Psychoanalyse,  GW, voi. XI, p. 147.   1 1 Cfr. M. Nachmanoshn, op. cit., p. 82: «Die Sublimierungstheorie Freuds fìndet sich schon  ausfuhrlicher bei Plato und "der Staat" bringt noch eine noch auszubeutende padagogische  Lehre, um die Sublimierung des Eros in die Wege zu leiten».   12 Cfr. ad esempio W. Jaeger, Paideia, voi. Ili, Berlin 1947, pp. 74-8; K..R. Popper, The  Open Society and its Enemies, London 1 966*, voi. I, p. 313; C.H. Kahn, Plato's Theory of  Desire, «Review of Metaphysics» XLI, 1987, pp. 77-103, soprattutto p. 83 sg.; A. Kenny, op.  cit., p. 1 1 sgg.; A.W. Price, Plato and Freud, in C. Gill (ed. by), The Person and the Human  Mind, Oxford 1990, pp. 247-270, soprattutto pp. 261-3; J. Lear, Open Minded, Cambridge  1998, p. 10 sg. e p. 108; M. Stella, Freud e la "Repubblica": l'anima, la società, la gerar-  chia, in M. Vegetti (a cura di), Platone, La Repubblica, Napoli 1998, voi. HI, pp. 287-336.  Ho cercato di affrontare alcune di tali questioni in M. Solinas, Unterdriickung, Traum und  Unbewusstes in Platons «Politeia» und bei Freud, «Philosophisches Jahrbuch» 111, 2004,  pp. 90-112.     MARCO SOLINAS     animali «sentono il desiderio di generare (yevvav è7tt0i)u/n,o-Tj)» (207 a). Il con-  cetto viene quindi "esteso", sì da risultare il fondamento di ogni tipo di amore,  come emerge nella celebre ascesa erotica: se il giovane all'inzio «deve amare  (èpfiv) un determinato corpo», poi «bisogna far sì che divenga l'amante  (èpaornv) di tutti i corpi belli, e che allenti la veemente passione per uno solo»,  in modo da poter amare «la bellezza ch'è nelle psychai», esser «indotto a con-  templare il bello che è nelle istituzioni e nelle leggi», nelle scienze, fino alla  contemplazione della bellezza in sé (210 a-c) 13 . Così, il giovane che «è stato  educato nell'eros (npòq xà èpamKà naiSaycoYtiGfì) fino a questo punto» (210  e) giungerà alla conoscenza; è perciò grazie alla forza dell'eros che si può giun-  gere alla philo-sophia (210 d). Platone si riallaccia così alla precedente defini-  zione della philosophia quale desiderio (epithymia) erotico per la sapienza di  cui si è privi (200 a-e).   In sintesi, l'eros, volto originariamente alla procreazione sessuale, grazie  alle corrette modalità pedagogiche adottate a livello extrapsichico, mostra di po-  ter essere modellato, plasmato intrapsichicamente, "sublimato" utilizzando il  linguaggio freudiano, sì da trasformarsi da forza sessuale in forza amorosa, in  eros-philia o Liebestrieb come potremmo dire 14 . Da questo punto di vista la  vollkommene Deckung quanto a Herkunft, Leistung und Beziehung zur Geschle-  chtsliebe tra eros e libido individuata da Freud (come da Nachmansohn, Pfister  e più tardi da molti altri commentatori) 15 si rivela sostanzialmente corretta;  sebbene la convergenza - sul piano ontologico e filosofico-antropologico - non  debba essere spinta oltre i confini posti dallo statuto di Eros quale «demone me-     13 Seguo la traduzione di G. Calogero, Platone, Il Simposio, Roma/Bari 1946.  '4 Freud attribuirà paritariamente a Goethe e Platone una concezione aitine a quella della su-  blimazione in S. Freud, Goethe-Preis 1930, GW, voi. XIV, p. 549: «Den Eros hat Goethe  immer hochgehalten, seine Macht nie zu verkleinern versucht, ist seinen primitiven oder  selbst mutwilligen Àufierungen nicht minder achtungsvoll gefolgt wie seinen hochsublimier-  ten und hat, wie mir scheint, seine Wesenseinheit durch alle seine Erscheinungsformen nicht  weniger entschieden vertreten als vor Zeiten Plato». Già A.E. Taylor, Platone. L 'uomo e  l'opera (1926), trad. it., Firenze 1987-1990, p. 327 sg. e pp. 349-59, pur accostando l'eros  all'amore cristiano ne ribadiva l'originaria forma «sessuale» ed «istintiva» di «desiderio  bramoso».   15 Tra i tanti crìtici si veda ad esempio E. R. Dodds I Greci e l'Irrazionale, Firenze 1997, p.  264 sg. [ed. or. The Greeks And The Irrational, Berkeley/Los Angeles/London 1951] che  commentando il Simposio scrive: «Platone qui si avvicina molto al concetto freudiano di libi-  do e sublimazione». Nello stesso senso va G. Tourney, Freud and the Greeks, «History of the  Behavioral Sciences» 1/1, 1965, pp. 67-85 e p. 80 sg.; H. Marcuse, Eros e civiltà, Torino  1964-1967, pp. 226-7 [ed. or. Eros and CMlisation. A Philosophical Inquiry into Freud, Bo-  ston 1955-1966], scrive che l'ascesa rappresenta una «sublimazione non repressiva»; M. Ve-  getti, L'etica degli antichi, Roma/Bari 1994, p. 137 sg., senza rimandare a Freud, scrive che  nel Simposio si tratta di «eros sublimato».     LA PATERNITÀ DELL 'EROS. IL «SIMPOSIO» E FREUD     235     diatore» (cfr. 202 c sgg.), e dal legame, invero assai significativo, tra desiderio  erotico e bellezza, originario in Platone, derivato in Freud 16 .   In conclusione, la paternità storica della concezione freudiana della libido  quale estensione o ampliamento della sessualità spetta di diritto a Platone. Con  paternità però in questo caso non si deve pensare ad una influenza diretta del  pensiero platonico su Freud; la teorìa della libido infatti, sia quanto all'adozione  del termine (latino), che rìsale ai primissimi testi di Freud 17 , sia quanto al mo-  dello di funzionamento che ne permette la sublimazione, anch'esso di antica da-  ta 18 , non sembra infatti esser stata suggerita dalla lettura dei testi platonici. Re-  sta invece il fatto che Freud poteva legittimamente farsi scudo dell'autorità del  "divino Platone", e questa era in verità la sua primaria intenzione, di fronte  all'indignazione ed alle proteste sollevatesi da più parti contro la sua teoria che  attribuiva all'eros si grande rilievo pressoché a tutti i livelli della vita psichica,  rinvenendo nell'antico filosofo greco un precursore. Platone levava ancora una  volta alta la sua voce, questa volta a difender però la potenza 'positiva' di  un'energia psichica, l'eros, per tanti secoli temuta quanto bistrattata, anche in  suo nome.   Il discorso sulla "paternità" dell'eros assume invece un'altra direzione ove si  prenda in considerazione l'estensione della libido o dell'eros al piano biologico;  con ciò veniamo al secondo significato attribuito all'eros.     II. 1 due suggerimenti del «Simposio»   Jenseits des Lustprinzips, scritto e pubblicato nel 1920, segna una tappa fonda-  mentale per la psicoanalisi perché in esso Freud inaugura la nuova concezione  dualistica delle pulsioni di vita e di morte (che qui tralasciamo), attribuisce ad  entrambe carattere "regressivo" (1), e adotta una concezione per cui la pulsione  sessuale, o libido, o meglio Eros, riportato sul piano cellulare, viene identificato  quale forza che «alles Lebende erhalt», garantendone la potenziale immortalità  (2).   1. Quanto al carattere regressivo o funzione di riprìstino attribuito (anche) alle  pulsioni sessuali, Freud richiama esplicitamente «die Theorie, die Plato im  Symposion durch Aristophanes entwickeln làBt»: l'ipotesi esposta nel mito,  scrive, «leitet nàmlich einen Trieb ab von dem Bedùrjhis nach Wiederherstel-     16 Cfr. ad esempio Freud, Dos Unbehagen in der Kultur, GW, voi. XTV, p. 441 sg.: «Einzig  die Ableitung aus dem Gebiet des Sexualempfìndens scheint gesichert; es wàre ein vorbildli-  ches Beispiel einer zielgehemmten Regung. Die "Schoneit" und der "Reiz" sind ursprttnglich  Eingeschaften des Sexualobjekts».   17 Cfr. J. Laplanche e J.B. Pontalis, Enciclopedia della Psicoanalisi (1967), trad. it., Ro-  ma/Bari 1997 , voi. I, p. 320 sg. [ed. or. Vocabulaire de la psychanalyse, Paris 1967], per cui  il termine «lo si incontra a più riprese nelle lettere e nelle minute indirizzate a Fliess e per la  prima volta nella Minuta E (data probabile: giugno 1894)».   18 Cfr. ivi, voi. II, pp. 618-21.     236     MARCO SOLINAS     lung eines fruheren Zustandes»^ 9 . Egli sintetizza il mito ricordando che antica-  mente v'erano i tre generi del maschio, della femmina e dell'androgino, in cui  tutto era doppio finché Zeus non si decise a tagliarli in due, per citare infine:   Weil min das ganze Wesen entzweigeschnitten war, trieb die Sehnsucht die beiden  Halften zusammen: sie umschlangen sich mit den Handen, verflochten sich ineinander  im Verlangen, zusammenzuwachsen [...] 20 .   Freud rinviene dunque nel mito arìstofaneo, legittimamente, un modello che  soddisfa proprio quella condizione che egli cerca di soddisfare, ovvero la fun-  zione della pulsione sessuale di ripristinare uno stato precedente, di raggiungere  una meta antica 21 . Con ciò abbiamo una dichiarata ammissione di paternità sto-  rica dell'eros quanto al suo carattere regressivo.   2. Quanto all'eros "che conserva", Freud, sempre discutendo il Simposio, non si  richiama più direttamente ad Aristofane bensì al Dichterphilosoph 22 ; questo  sembra un indizio della sua consapevolezza perlomeno del fatto che nel mito a-  ristofaneo il discorso sulla separazione originaria concerne esclusivamente la  natura umana (cfr. 189 d; 193 c), l'eros non ha la valenza biologico-universale  attribuitagli da Freud (che ora vedremo), concezione che si ritrova invece pie-  namente nel discorso di Socrate-Diotima. Egli sembrerebbe dunque coniugare  parallelamente le sue due nuove concezioni attribuite all'eros e i due discorsi  del Simposio: il ripristino grazie al mito di Aristofane, la funzione universale  grazie al discorso socratico; operazione che, sebbene contravvenga in parte al  dettato platonico, mostra che Freud sembra volersi riferire ad entrambi i discor-  si, ed è ciò che qua conta 23 .     19 S. Freud, Jenseìts des Lustprinzips, GW, voi. XIII, p. 62, corsivo di Freud.  2 ^ Ibidem. Cfr. Platone, Simposio 191a-b, traduz. di U. von Wilamowitz-Moellendorf, corsi-  vo di Freud.   2 1 Ibidem. Freud scrive che non citerebbe l'ipotesi contenuta nel mito «wenn sie nicht gerade  die eine Bedingung errullen wUrde, nach deren Erfullung wir streben». Anche T. Gould, Pla-  tonic Love, London 1963, p. 3 1 sg., riporta l'interpretazione freudiana del mito esclusivamen-  te alla questione del «carattere regressivo»; cfr. anche P.L. Assoun, op. cit., pp. 167-172.   22 Finita la citazione prosegue Freud, Jenseits des Lustprinzips, cit., p. 63: «Sollen wir, dem  Wink des Dichterphilosophen folgend, die Annahme wagen, dass die lebende Substanz bei  ihrer Belebung in Ideine Partikel zeirissen wurde, die seither durch die Sexualtrìebe ihre  Wiedervereinigung anstreben?».   23 Ove la liceità agli occhi di Freud di una coniugazione dei due discorsi verrebbe conferma-  ta dall'osservazione per cui rispetto al mito, Platone «sich nicht zu eigen gemacht, geschwei-  ge denn ihr eine so bedeutsame Stellung angewiesen natte, hStte sie ihm nicht selbst als wa-  hrheitshaltig eingeleuchtet», ivi, p. 63, nota 2 aggiunta nel 1921; interpretazione che come  sappiamo si scontra irrimediabilmente con la negazione da parte di Socrate della concezione  del «ripristino» dell'unità originaria di Aristofane, cfr. Simposio 200 e, 20S d-e.     LA PA TERNITÀ DELL 'EROS. IL «SIMPOSIO» E FREUD 237   L'idea guida dell'eros quale forza che «alles Lebende erhàlt», assicurata  dall'estensione delle pulsioni sessuali alle singole cellule, è garantire una «po-  tentielle Unsterblichkeit» alla materia vivente (se si vuole: mortale) 24 :   das Wesentliche an den vom Sexualtrieb intendierten Vorgangen ist doch die Ver-  schmelzung zweier Zelleiber. Erst durch diese wird bei den hoheren Lebewesen die Un-  sterblichkeit der lebenden Substanz gesichert 25 .   Così, con tale «Ausdehnung des Libidobegriffes auf die einzelne Zelle wandelte  sich uns der Sexualtrieb zum Eros, der die Teile der lebenden Substanz zuein-  anderzudràngen und zusammenzuhalten sucht» 2 ^; la sessualità converge quindi  con «den alles erhaltenden Eros» 27 , «mit dem Eros der Dichter und Philoso-  phen» 28 . Nel corso degli anni tale concezione verrà conservata e ribadita per  sempre da Freud, di contro a quella del riprìstino più tardi abbandonata 29 , e ri-  condotta anche in seguito esplicitamente al Simposio: nel 1924 ad esempio scri-  verà che «was die Psychoanalyse Sexualitat nannte, [deckt sich . . .] mit dem al-  lumfassenden und alles erhaltenden Eros des Symposions P/atos» 30 , nel 1932  che le pulsioni sessuali vengono chiamate «erotische, ganz im Sinne des Eros  im Symposion Piatosi 1 .     24 Ivi, p. 42.   2 ^ Ivi, p. 60, corsivo nostro.   2 *> Ivi, p. 66 nota 1, corsivo nostro.   27 Ivi, p. 56.   2 " Ivi, p. 54: «So wilrde also die Libido unserer Sexualtriebe mit dem Eros der Dichter und  Philosophen zusammenfallen, der alles Lebende zusammenhalt».   29 Tale concezione era esplicitamente compresa anche in Freud, Massenpsychologie und Ich-  Analyse (1921), cit, p. 100, ove Eros «alles in der Welt zusammenhalt»; si veda anche Freud,  Das Ich und das Es (1923), GW, voi. XIII, p. 268; Id., Hemmung, Symptom und Angst  (1926), GW, voi. XIV, p. 152; Id., Das Unbehagen in der Kultur (1929), GW, voi. XIV, pp.  596, e p. 604 sg.; Id., Die endliche und die unendlìche Analyse (1937), GW, voi. XVI, p. 91  sg. (ove è ripreso Empedocle); infine nel 1938, Id., Abrifi der Psychoanalyse, GW, voi. XVII,  p. 70 sg., Freud ribadisce: meta dell'Eros è «immer grofierere Einheiten herzustellen und so  zu erhalten, also Bindung» (Empedocle è ivi ripreso nella nota 2); egli abbandona invece  esplicitamene il carattere regressivo delle pulsioni erotiche: quanto alla formula «dass ein  Trieb die Rttckker zu einem fruheren Zustand anstrebt», «Fttr den Eros (oder Liebestrìeb)  kònnen wir eine solche Ànwendung nicht durchfuhren». In nota chiarisce: «Dichter haben  Àhnliches phantasiert, aus der Geschichte der lebende Substanz ist uns nichts Entsprechendes  bekannt»; è scontato il rimando al mito aristofaneo.   30 S. Freud, Die Widerstande gegen die Psychoanalyse, GW, voi. XIV, p. 105: «was die  Psychoanalyse Sexualitat nannte, [deckt sich] keineswegs mit dem Drang nach Vereinigung  der geschiedenen Geschlechter oder nach Erzeugung von Lustempfindung an den Genitalien,  sondern weit eher mit dem allumfassenden und alles erhaltenden Eros des Symposions Pia-  tosi.   3 1 S. Freud, Warum Krieg?, GW, XVI, p. 20: «Wir nehmen an, dass die Triebe des Men-  schen nur von zweierlei Art sind, entweder solche, die erhalten und vereinigen wollen, - wir     23S     MARCO SOLINAS     Ora, l'attribuzione di Freud trova effettivamente riscontro nel discorso di Socra-  te-Diotima. Ad un primo livello eros si configura quale causa ultima che spinge  gli uomini e «tutti gli animali della terra e del cielo [...] dapprima ad unirsi  l'uno con l'altro (av\i\iiyr\\ai àXXi\\ov;) e poi a curarsi dell'allevamento della  prole» 32 . Platone amplia quindi ancor più il discorso: «la natura mortale cerca,  per quanto può, di divenire eterna ed athanatos. E può riuscirvi solo per questa  via, la via della generazione (xfj yevéoei), perché essa lascia sempre dietro di sé  un altro essere nuovo in luogo del vecchio» 33 ; ove «ogni singola creatura viven-  te [...] non conserva mai in sé le medesime cose, ma si rigenera di continuo,  deperendo in altra parte, nei capelli, nella carne, nelle ossa, nel sangue e in tutto  quanto il corpo» 34 . Conclude Platone: in virtù di tale incessante generazione «si  conserva (oró^exai) tutto ciò che è mortale, non col restare sempre assoluta-  mente identico, come il divino, ma in quanto ciò che invecchiando viene meno  lascia al suo posto qualcosa di nuovo e simile a sé 35 . Con questo espediente, o  Socrate, il mortale, sia corpo sia ogni altra cosa (icori a&\ia icori zàXXa  nàvxa), partecipa dell'im-mortalità» 36 .   Eros viene dunque esteso a forza biologica universale che "unisce" e "conserva"  «ogni cosa» mortale (se si vuole: vivente) garantendone la relativa e potenziale  immortalità grazie ad una sorta di macro-duplicazione, la generazione della pro-  le, e ad una micro-duplicazione, concernente ogni singolo elemento dell'or-  ganismo; Platone dischiude così la via che nel XX secolo sarebbe stata battuta  dall'estensione biologico-cellulare freudiana dell'eros (che si appoggiava anche  sui risultati della giovane microbiologia ottocentesca- di Weismann, Woodruff  etc, dunque sui processi di «duplicazione» cellulare) 37 .     heiflen sie erotische, ganz im Sinne des Eros im Symposion Platos, oder sexuelle mit bewuB-  ter Oberdehnung des populàren Begriffs von Sexualitat, - und andere, die zerstoren und tdten  wollen».   32 207 a-b; esordisce qui Diotima: «Quale credi, o Socrate, che sia la causa di questo amore e  di questo desiderio (ocinov et vai xornot) xoO epco-Eoi; Kai tt^ èjtiG'uu.iaq)?», per prosegui-  re: «Non ti accorgi del tremendo stato di tutti gli animali, della terra e del cielo, ogni volta  che sentono il desiderio di generare, ammalandosi tutti e assecondando l'impulso erotico  (èpatiKcòc, Siaxi8é|XEva), che li spinge dapprima ad unirsi l'uno con l'altro e poi a curarsi  dell'allevamento della prole?».   33 207 d 1-3: «fi 8vnxT| <pv>oic, £nxeì icona tò 8waxòv àtei xe etvai icaì àOavaxoC;. Stiva-  Tal 8è xavun uóvov, xfj •yevéaei, òxi òeì KaxaXeinei èxepov véov àvxi xoù naXaiov».   34 207 d 7 - e 1 : «àXkò. véoc, àeì yiyvónevoc,, xà 8è ànoKKòq, Kai Kaxà xàc, xpixac, sai  oàpKa Kai òaxà Kai atna Kai aonjiav xò oiòua», sull'apparente manchevolezza del testo  cfr. P. Pucci, Platone, Opere complete, Roma/Bari 1993 8 , voi. Ili, p. 187.   3 5 208 b 1-2: «àXXà x$ xò àitiòv Kai 7taAxtiov)ievov exepov véov è^KaTaXelneiv otov  ainò fjv».   3 *> 208 a-b. Sulla natura «inconscia» del desiderio cfr. F. Comford, The Division of the Soul,  «The Hibbert Journal», XXVIII, 1929-30, pp. 206-219, soprattutto p. 217; A.W. Price, Plato  and Freud, cit., p. 252 sg.; t. Gould, op. cit., p. 49.  37 Cfr. S. Freud, Jenseits des Lustprinzips, cit., pp. 46-61 .     LA PATERNITÀ DELL 'EROS. IL «SIMPOSIO» E FREUD     239     Riepilogando, si deve attribuire al dialogo platonico, sia quanto al ripristi-  no arìstofaneo sia quanto all'eros che unisce e conserva, la paternità della con-  cezione adottata da Freud. In questi due casi però, rispetto alla prima estensione  del concetto di sessualità, si tratta di una paternità in senso stretto, nel senso che  Freud sembra aver ripreso direttamente da Platone le due idee. Ad avvalorare  tale ipotesi vi sono i seguenti elementi. Rispetto al mito di Aristofane, va rico-  nosciuto che esso, citato già nel 1833 in una lettera all'allora fidanzata Martha  Bernays 38 , è attestato nel corpus fin dal lontano 1905, quando Freud vi accen-  nava nei Drei Abhandlugen zur Sexualtheorié 39 ; si tratta dunque di una presen-  za (scientifica) di antica data che dopo circa quindici anni si sarebbe andata co-  me a solidificare in una delle teorie biologico-filosofiche più ardite dell'intero  edificio psicoanalitico.   Quanto all'eros quale forza che conserva è degno di nota sottolineare che fin dal  1910, nel suo Leonardo, Freud aveva assunto quasi tacitamente una tale conce-  zione ove scriveva di sfuggita che Eros «alles Lebende erhalt» 40 . Ora, fa pensa-  re il fatto che circa tre mesi prima dall'inzio del Leonardo, iniziato all'incirca  nell'ottobre del 1909 e finito nell'aprile del 1910, Freud citasse il Simposio nel  saggio Sull 'uomo dei topi (finito per l'appunto il 1 7 luglio del 1 909); discutendo  del rapporto tra il fattore negativo dell'amore e la componente sadica, in modo a  dire il vero sorprendente Freud citava in nota le parole pronunciate da Alcibiade  nel dialogo platonico: «"ja oft habe ich den Wunsch, ihn nicht mehr unter den  Lebenden zu sehen. Und doch wenn das je eintrafe, ich weiB, ich wtìrde noch  viel unglucklicher sein, so wehrlos, so ganz wehrlos bin ich gegen ihn," sagt Al-  kibiades iiber den Sokrates im Symposion» 41 . Se da questa citazione, per  l'appunto inaspettata ed estemporanea, è lecito presumere che Freud avesse ri-  letto o perlomeno ripreso in mano il Simposio, è altrettanto lecito inferire che  l'idea di Eros quale forza che «alles Lebende erhalt» espressa appena tre mesi     38 Cfr. S Freud, Lettere alla fidanzata e ad altri corrispondenti 1873-1939, Torino 1960-  1990, p. 41, lettera a Martha Bemays, Vienna, 28 agosto 1883: «Ormai non riesco più a sop-  portare la compagnia, tanto meno quella della famiglia, sono soltanto un mezzo uomo come  dice l'antica favola platonica che tu certo conosci, e la mia sezione soffre non appena sto  senza far niente».   39 S . Freud, Drei Abhandlugen zur Sexualtheorie, GW, voi. V, p. 34: «Der populàren Theo-  rie des Geschlechtstriebes entspricht am schònsten die poetisene Fabel von der Teilung des  Menschen in zwei Halften - Mann und Weib -, die sich in der Liebe wieder zu vereinigen  streben».   40 S. Freud, Etne Kindheitserinnerung des Leonardo da Vinci, GW, voi. Vili, p. 136, discu-  tendo della "castità" degli scritti postumi di Leonardo scrive che tali scritti «weichen allem  Sexuellen so entschieden aus, als w8re allein der Eros, der alles Lebende erhalt, kein wtlrdi-  ger Stoff Air den Wissendrang des Forschers». Il termine Eros era stato utilizzato da Breuer  fin dal 1895: cfr. Breuer e Freud, Studi sull'isteria, in Opere Complete, Torino 1967-1989,  voi. 1, p. 389 (la parte di Breuer è assente nell'edizione degli Studien iiber Hysterie edita nel-  le Gesammelte Werke).   41 S. Freud, Bemerkungen iiber einen Fall von Zwangsneurose, GW, voi. VII, p. 456, n. 1;  cfr. Simposio 216 c.     240     MARCO SOLINAS     dopo gli venne suggerita proprio dalla recente rilettura del dialogo platonico. In  questo caso si tratterebbe dunque di ben più di una solo eventuale "Kryptomne-  sie" dovuta all'ampiezza delle sue lontane letture giovanili, come quella tirata in  gioco laddove Freud - rinunciando garbatamente e felicemente all'originalità -  riconosceva ad Empedocle la paternità storica della sua teoria dualistica 42 .  Sembra dunque che il Simposio, dalle sue timide comparse del 1905, del 1909 e  presumibilmente del 1910, abbia poi più o meno silenziosamente, più o meno  inconsciamente continuato a lavorare nella mente di Freud per riemergere infine  con l'ampia revisione della concezione della sessualità di Jenseits des Lustprin-  zips del 1920. In questo caso però, sia quanto al carattere regressivo sia quanto  alla funzione biologica, la "paternità dell'eros" non sarebbe più solo storica, né  si tratterebbe più dell'utilizzo dell'autorità del "divino Platone" quale scudo  contro le proteste sollevate dal risalto dato alla sessualità: sembrerebbe invece  trattarsi di una paternità in senso stretto, di un'influenza diretta esercitata dal  Simposio, sviluppatasi e sedimentatasi col lento trascorrere degli anni. Possiamo  allora concludere affermando che da una o verosimilmente più riletture del dia-  logo di Platone sia scaturita una decisiva rielaborazione di una delle concezioni  della sessualità, dell'eros, se non forse tra le più originali in assoluto, di certo tra     42 In Die endliche und die unendliche Analyse (1937), GW, voi. XVI, pp. 90-2, Freud scrive  della sua teoria pulsionale dualistica, che incontrava ancora resistenze: «Umsomehr musste es  mieti erfreuen, als ich unlàngst unsere Theorie bei einem der groflen Denker der griechischen  Frtthzeit wiederfand. Ich opfere dieser Bestàtigung gern das Prestige der Originalitat, zumai  da ich bei dem Umfang meiner Lektiire in fruheren Jahren doch nie sicher werden kann, ob  meine angebliche Neuschòpfung nicht eine Leistung der Kryptomnesie war». Freud procede  quindi nell'accostamento: «Die beiden Grundprinzipien des EmpedoMes - cpiAla und veìkck;  - sind dem Namen wie der Funktion nach das Gleiche wie unsere beiden Urtriebe Eros und  Destruktion", ove philia ed Eros (come rispetto all'eros del Simposio) hanno in comune la  tendenza «das Vorhandene zu immer grOfieren Einheiten zusammenzuffassen». Empedocle è  ripreso anche in Abrifi der Psychoanalyse, GW, voi. XVII, p. 70. Sull'accostamento cfr. per  esempio G. Tourney, Empedocles and Freud, Heraclitus and Jung, «Boullettin of the History  of Medicine» XXX, 1956, pp. 109-123, specialmente pp. 109-116, e Id., Freud and the  Greeks, cit., pp. 81-85.     LA PATERNITÀ DELL 'EROS. IL «SIMPOSIO» E FREUD     241     le più discusse e significative del XX secolo. Si rivela così, ancora una volta, la  forza e la fecondità di un passato antico, che, anche perché tanto amato, sembra  morire solo per poi rinascere, di nuovo.   ■4    ss    <* t "      ■fi      ir.            — * ìfm    ri   kl     DI M. FRANCESCO   cattami da   DIACCETO,   FILOSOFO ET GEWJ" 1 V HVO MO  Fiorentino > con un Tanegerico all’ more ;    t     ET CON LA VITA DEL DETTO     Autore,fatta da M. Benedetto Varchi    07 ^ V H.I V I L E G    IH VINEGIA AP PRESSO G A fi A 1 1 R  GIOLITO DE* FERRARI.    fa      IL PRIMO LIBRO   D’ A M O R E,   DI M. FRANCESCO CATTA NI  DA DIACCETO FILOSOFO.ET  GENTI L*HVOMO FIORENTINO.       mSm    O NON DVBITO  douer’ eflere molti ,  e quali dannino me  hauerein lingua uol  I gare trattato de pro-  fondi rmlteni deH’amore , oppo-  nendo il decreto de gli antichi Pira*»   v- * A ii      gorici V fecondo il qua*. dè-   cito comunicare al uulgo , come all-  etto , Je cole diuine , non ientendo  d’effe rettamente ; ilquale per non  hauere feruato Hippafo Pitagorico,  fu morto . Noi rifpondiamo cffer di  due nature nomi : altri formati nel-  l’animo da effe cofe, & interiori : al-  tri fabricati dall’artifìcio humano ,  &efteriori . Quelli effere a placi-  to , & p*erò diuerfi , appreffc diuer-  fè'nàtioni . Quelli per natura, & ap-  preffo ciafcuno e medefimi . De no-  mi interiori comporli lo eloquio in-  teriore v Delli efteriori formarli lo  efteriore . Et quella crediamo effe-  re la fententia del diuin Platone con-  lèntientifsima ad Arillotele , come  ajtroue dichiararemo . Sendo adun-  que ilfermone/fteriore imagine , &    « r    s   nota del fermone interiore : nòti  tjeggo , perche cagione fi debba (bt T  t’entrare a maggiore calunnia ^par-  lando, & fcriuendo delle cofe diuine  in lingua Tofcana , che in qualun-  que altra lingua. Crediamo piu.tp-  fto , che fia da riguardare al modo  del trattare. E però li Egitii fotto for  me di diuerfi animali nelle colonne  di Mercurio , da chi & Pittagora , de  Platone imparorno la Filofofia , &  Pitagorici fotto uelami Matemati-  ci , & li antichi Theologi fotto mo-  ftruofi figmenti occultorono le co-  fe diuine , & la natura . Noi , ben-  ché habbiamo trattato delle mede-  fimecofe fuori di uelami , & di fig-  menti, non di manco ci confidiamo  non douere efleregiuftamente dan-  nati del peccato della profanatone .  -*■ _ A nj      * ' . ti   Tu adunque leggerai quanto c'èoc-  corfo al prefente dire de mifterii del  lo amore : & penferai le cofe diuine  tanto fuperarele menti noftre , che  fpeffo ci fia neceffario altrimenti par  lare d’effe, altrimenti intendere *   lì 1 fi i'f' 1 ì * , i' J y *•*' l.f -4 ’AtrX •* ‘ ^ - f \ * f   . y \ * .? * . s .**   téli r x^rri èli bly      : ‘ • '    iiH ìpltl : ìi^ ; ;   ■v -* •   ;>a,   Hi €; - ••'■V:    •v : ? r ;    ly? >i7i    ri: t V rS r* T"?-    ’ ì * i *"»   ' » Uii    ' _svj ■. 1’ ' .-•* >, i.. -        >   Vfcr ' ;?4#?     IL PRIMO LIBRO    D A M O R E,   DI M. FRANCESCO CATTÀNT    DA DIACCETO FILOSOFO,ET   GENTI L’HVOMO FIORENTINO.     CAPITOLO P^IMO     I T"' C A NATYRA cor-   | por ale. nulla contenere   1 m fi dt aero, ma al tut-   % toeJJìreimagmaria,Q   urna , chiaramente di-  ira la perpetua uarietà s fp) m u t at io-  lacuale in ejfa appare . Imperoche U     V 8 L I *B Ti 0  uerita delle cofe fi dttermina una fermtZc  za, ffi) una permanenza . Per laquale efi  fa fimpre flando ferma in uno ejfire quel-  te medefime nel medefimo modo in nat-  ta uariate s'offerifiono,a chi le contempla ,  la natura corporale per un filo momen  tò di tempo non conferita l'ejfer filo facen -  dofi in ejja continua generatione , ff) cor -  ruttione. llche Her adito non filo attri-  huìfie a tutti i corpi , che fino fitto la Lu-  na , ma ancora al Cielo , ft) alle [Ielle : le  quali fino tanto piu perfette , che gli al-  tri corpi y quanto piu fi apropinquono alla  natura dell'anima . Onde come uicini alla .  rdiumitdyhanno meritato d’efier chiamati  corpi diurni . Et pero riguardando alcuni  fittilmente affermorono tale openione ef  fire approuata dal diurno c Platone nelTi -  meo . Quafi ejfo uoglia non fi potere at-  tribuire al corpo l'effere , ma piutofto il   M° fife    VT“1 ■    T K I M:0. p   flujjo , {fi la gener attorie . La cagione di  tal fluffi , e la mattria t della quale fino  compofti tutti e corpi co fi celefh come ter *  reni . Laquale qualche uolta ci s'apprefin *  partecipe dello flato , per *   manentia : Inquanto dalla forma , che fi  riceue m effd in un certo modo e contenti *  ta qualche uolta come del moto : inquanto  per fua natura fugge l'ejfere, {fi la cogni * /   tione, hauendo firn prefica la contrarietà $   V infi abilità , la uarietà * Il che forfè fi gnu  ficorno li antichi Theologt per la fauola di  *7 roteo : qua fi come Proteo fi mutaua in  diuerfi forme , bora in fiamma , bora in  acqua , bora in leone , bora in forma di  qualche altro animale : cefi la materia fia  atta, {fi pronta al rteeuert tutte le forme f  non fi partendo pero mai dalla fua natu*  ra . Et perogli antichi Pitagorici,confide*  rato tal propor tione. hauer la materia 4    io L 1 2J ^ 0  corpi; quale ha la dualità a numeri non  duhitorono chiamare la materia dualità .  Laquale fendo la prima diuifeone , ft)  principio d'ejja, ancora chiamorono l[ide ,  ffe Diana . 'Ter che come Diana , è fle-  rile y fecondo dice ‘Tlatone nel Thettheto ,  co(i ancora la prima dualità , fendo prin-  cipio della diuerfetà , della inequalitàydel-  la dtfsimilitudine , è priuata d'otri* anio-  ne; oue confifie la fecondità di tutte le co-  fe . Se adunque la natura corporale e par-  tecipe di tanta imperfettione y chi non ue-  de effeer neceffario [opra ejja ejfere un'altro  principio y ilquale la regga , ffe la conten-  ga: pendendo fempre l'imperfetto da quel-  lo y che e perfetto ? Et però Democrito , ffe)  glabri y che l'hanno feguitato y cioè Leu-  cippo y ffe) l Epicuro y fecondo il mio pare-  re y meritano non ejjèr uditi . E quali po-  nendo principucorporab tndiuifìbili , ma   didiuerfe >       P £ 1 AÌ 0 * 7 /   di dtuerfe figure chiamati da loro Storni,  vogliono tutte le cofe efftr compofte d'unó  fortuito concorfo d'e/si. "Dicono adunque  di quegli , che hanno figura circutare , e fi  fer compofta l'anima : de gl' altri Trian -  gulariy Quadrangulari , ft) fimilt efjtre  compofta la uarietd delle altre cofe : nfer~  uando ciaftuna cofa la Natura la po*  tentia fimile a quegli atomi , di che effe  fufsi compofta . Dicono ancora le cofe per  tanto ffatio di tempo conftruarfì in effe-  re,per quanto m luogo di quelli atomi , che  continuamente fi partono y fàcce dono altri  della medefima Telatura . ISoi al prefen-  te pretermetteremo dichiarare efftr' impo fi  ftbile il Cielo y gl' Elementi y gl' animali , le  piante , ffij tutta la ‘Natura, o uuoi fecon-  do l'effere , o uuoi fecondo la confiruationc  pendere da alcuno fortuito concorfo ; firn-  pre apparendo mamfeft amente per tutto    12 L IV Ito-  or dine y ffi ragione . Solo diremo noi uede-  re di tanto maggiore potentia, ffi) di tanto  maggiore efficacia ejfir le co fi, quanto fino  piu umte\ffi quelle effitre di mafsima poten  tia,{fi di mafiima efficacia y cbe fino mafsi  inamente unite : onde per quefto ejjd uni-  tà bauere infinita potentia y infinita ef-   ficacia: come autore , ft) principio dogni  unione . Sendo adunque la moltitudine in-  finita al tutto oppofìtaalla fimplicifiima  unità , ft) però pnuata dogni modo dat -  itone come potrà dire rettamente TDemo-  crito l'infinita moltitudine delli atomi e fi  fir principio delle co fi: determinandofi in-  finita debilità : della quale nulla y e piu  oppofito alla ISlaturXdd principio t    CAPITOLO    *    p'TOi M à. 93    ai    CAPITOLO SECONDO.   » * N \ M ' ' ' k* * * > < '      ■rama E l numero de corpi alca*  1 1 m fi muouono f er ‘Vfytura}   I j$J|^ Ì come il fuoco , Varia , taci  qua , ft) là terra ft) quegli,  che fin compofh d'efit , de quali il fuoco ,  ft) l'aria , come leggieri, fi muouono in sùi  dfioftandofi fimpre dal centro \V acquei ,■  {fi la terra fi muouono in giu cercando  fimpre il centro . ^Alcuni altri non filo fi  muouono come quelli > ma ancora utuono ;  ft) quefto per uirtù di un principio , ilqua-  le efii hanno dentro chiamato meritamene  te anima . Fra t corpi , che hanno Inulta,  alcuni fin contenti della uirtù nutritiua ,  come fino le piante, le quali non hanno bi-  fogno della potentia del fintire , come ne -  cefiaria alla loro filiate, ma fitte in terra  colle radici , quali hanno in luogo di bocca      / * L 1 *B A 0   tirano il fro nutrimento ; alcuni fino do -  * tati della potentta del fintire , per la qua-  le conofcono quello , che a fi e dilettabile ,  o tnfitfico \ (fi della facultà , perche efii  da un luogo a un'altro fi tramutano . Im-  per oche hauendo a cercare l'alimento , è  neceffario efii hauere unauirtù : per la-  quale pofimo y o fuggire , o fi giure quello ,  thè giudicono ejfire m fuo danno o falute .  Sono ancora altri poflt in mezo delle pian-  te ; (fidi quelli y che hanno il /enfi , (fi la  facultà del tramutar fi come ricchi , (fi fi-  mili chiamati Zoofiti y quafi fieno parte-  cipi della natura de gli animali , (fi delle  piantf : tquali contenti filo del [enfi del  tatto ; fendo loro fimmintflrato compe-  tente nutrimento , Hanno fempre , come  immobili y in un mede fimo luogo . Oltre a  tutti quefti e thuomo grandifiimo mira-  tolo , come dice ^Mercurio 9 animale at-  ramente    P 5 ? 1 M O . *s   r amente degno d'efèr Inonorato , ft) ado-  rato ; tlquale aogmgne alle predette potenz-  ile la fi acuità dell' intendere : per lacuale  ripieno di dtumità JpeJJò diuenta filmile 4  gli T>ij : ma , Jenoi confedereremo retta-  mente , diremo wfeeme col diuin r Platone  il Cielo , ft) le fttUe ejfeer donate della aita,  fife dell'intelletto . Quefto dtmoflra un per-  petuo tenore di fare fimpre le medefeme  cofe, ft) nelmedefemo modo , già incomin-  ciato per gr andi fimo fpatio di tempo  per durare per l'auenir e fenza errore, fen-  za impedimento , quale e nel Cielo, nelle   flette; le quali col fio diurno moto, quafe un  batto magnificentifi. di tutti e batti , a tut-  ti gli altri ammali donano la generatone,  l'ejfeentia>{t) la aita. Oltre a qucfio ancora 1  lo dimoftra la marauighofa bellezza , ft)  per fettone, laquale in efii ueggiamo affer-  mare l'huomo, ilquale ha il corpo caduco ,    J - - /   t6 L 1 ® x 0  (p) fittopofto a infinite off e fé-, batter la uU  ta y ft) lo intelletto ; e'I [telo , le (Ielle ,   onde pendono gltaltri corpi effirne pri»  uo ; e d'huomo al tutto ftohdo , mfin-  fato. Ma chi confiderà la grandezza loro ,  chiaramente cono fie e fiere impofitbile efii  potere effère mofii pertanto tempo o dal  cafi o da impeto alcuno corporale o da ca-  gione eftrmfica ft) uiolenta : anzi mouen .  do fi tanto efi/ufit amente , è necefidrto tal  moto procedere dall'anima diurni fitma .  Onde ficur amente fi può affermare il Qe-  lo , q) le [ielle efier compofie di corpo , ft)  d'anima ; ve da altri , che dall'anima il  corpo loro efier prodotto , ft) gouernatp.St  però giudicheremo efii douerfi chiamare  non filo cofe diurne 9 ma ancora T)ij.Ma  fi noi pigliamo filamente il corpo loro y fi*  parandolo dall'anima , affermeremo effe-  re statue degli Dij , fabricate da loro   di materia   **. ri, * r Jf“ "* i > . , «J. -1 .- ^ jf- * ’ ' . r* - 1 . |J ,'w . .   -, ; ..    PRIMO. n  di materia prtfìantifeima , ffe con mar a*  uigliofe artificio , legnali per effer polle in  luoghi nobilifeimi fendo bellifeime , ri-  piene di uita .debbono effere in maggiore ue  ner adone, che qualunque altra featua co-  me efquifite imagini della diuimtà. Se adun  eque il corpo animato è piu perfetto , che  quello y che non ha l'anima : perche que-  feo non urne , quello uiue , ffe) fra Riani-  mali qUello y che ha facultà di intendere è  piu preflante , che gli altri ; ffe quello, che  intende mafeimamente è prefìantisfimo :  Viuendo , ffe intendendo il Cielo , le felle,  l'huomo , faremo coferetti confejfare  efei efeer piu prefi anti , che chi non uiue ,  ftf intende . Onde fe l'umuerfe è priua -  to della uita,{t) dello intelletto ,gh ammali  uerranno ad effer piu nobili, che l'umuer-  fe ; di che nulla può effere piu aJfordoSPer  Lqual cofa come l'uniuerfe e prefìantifei-  ; 2    ‘>*8 L I S X o   mo di tutti i corpi non lafciando fuori di fi  corpo alcuno . Ma come fuoi membri con -  tenendoli tutti . Cofi è nectjjario effo haue -  re nobilifiima anima > capo , ft) guida di  tutte le anime : per beneficio dettatale fta  partecipe di prefantifima uita , q) di  prefiantisfima intelligentta . St pero li an-  tichi Teologi di Fenicia (come dice Iam-  bkco , fp) Iultano Imperadore ) afferma-  rono efjtr infufa per tutto una ‘Natura lu  cida y pura , calda % uehiculo dell'anima  diuintj?ima : per laquale dall'anima fta  concejjo allo umuerfo il pretiofo dono della  aita y onde efjo meritamente fìa appellato  uno animale^ laqual co fa ( benché o/cura-  mente ) fgnifìca Timeo Tittagorico , ft)  ' r Fiatone nelTtmeo, ft) nel decimo della  *Rtpubhca . alMa di cjuefto nella concordia  fra Platone , ftf zArifotile diffufifiima.  mente par laremoy ouc dimoieremo ch’ut -  v rumente    ^ 1 M 0. zip  rumente fecondo la mente d'oArifìotile il  primo motore non effer e Dio, ma l'anima  diutmfeima dalla quale penda il Cielo , {0  tutta la natura. ^Adunque infeeme col  diuin alatone diremo ejjere il corpo , e [fere  ancora , {0 l'anima certamente molto dif-  ferenti fra loro . L'anima hauer l'intellet-  to , il corpo nodo hauer e . L'anima , come  madonna , hauer e imperio fepra il corpo ;  quefìo , come feruo , effer fuddtto >{0 ret-  to . L'anima effer fontana della ulta, {0  del fenfey {0 di tutte l' altre affettiom ,  quali noi ueggiamo nel corpo : quefto per  flanatura effer atto a riceuere , {0 pati-  re , di che pofeiamo conchiudere l anima ,  come di gran lunga piu perfetta , hauere  grado migliore nell' uniuerfo.    • 20 L I 2 7^ o r   CAPITOLO TE\ZO.   E l’anima non fila-  mente dona la una , ma an-  cora contiene , ft) regge la  natura corporale ( come di-  fipra è dimofìrato ) e necejjario ejja batte-  re una affinità naturale col corpo , per la-  cuale naturalmente l'anima pofja dare la  uita : e'I corpo la pofja riceuere . L'anima  pofia reggere , ft) contenere . Que fi a non  . e altro 3 che una naturale ine linat ione per  lacuale noi pofitamo dire l'anima ejjirt  anima 3 ft) uer amente diftintada qua-  lunque altra cofa : Di che appare marii-  fe fi amente nell'anima eJJir due proprietà  per TJatura ; una , per laquale ejjà incli-  ni a produrre , ft) reggere i corpi ( altri-  menti non farebbe chiamata meritamente  , anima ) l'altra , per laquale effa non filo       rp % 'iM o . it   comprenda la ‘Natura , che detta effer  retta , ma ancora fi medcfima , ft) le co-  fi frperiori:quale poco auàti fuchiamata  Intelhgentia. Qutfìa intelligentia fe noi ret-  tamente confider eremo , uedremo effer nel-  l'anima non per fra natura , ft) inquan-  to anima ; ma piu tofto per benefìcio d'al-  tri. Imperoche fi l'anima, inquanto ani-  ma, ft) fecondo la natura fra haueffi l'in -  telhgentia , ogni anima intenderebbe: co-  me ogni fuoco fimpre e caldo : fendo la ca-  hdità nel fuoco per fra naturai ffjnot  ueggiamo manififìamente non ogni ani—  ma hauere facultà d'intendere . lmpe-  roche chi direbbe gl' animali bruti haue-  re intelletto , equali non per altro fono  chiamati bruti : fi non per effer priuatì  della intelligentia? molto meno e da dire  delle piante , lequali fono animate d'ani-  ma molto più im perfet ta ; che i bruti ;   ■ iti    22 L 1 2 7^0 '  ff) però come il lume è molto piu, per *  fettamente nel fole che nelle felle , fen-  do nel fòle per fua natura , nelle fi elle per  dono y ffe beneficio del Sole : co fi noi dicia-  mo la inteUigenda effer molto piu perfetta-  mente y in cui effa fio per propria natu-  ra y che nella anima , oue è per pardeipa -  tione ; di che noi concludiamo ancora quel-  la fu(l arnia effer piu prefi ante , che Pani-  ma ; fendo in e (fa la fontana dello intende-  re y principio y ft) Idea d'ogni cornicione ,  imperoche la nobilifeima oper adone proce-  de danobilifeima fubflanda , la inteL  hgentia fupera tanto Poltre oper adoni: al-  ' manco quanto il lume Poltre qualità fen-\  Jibili . Quefla fuflantidnon è altro, che la  datura Angelica , laquale meritamente  e denominata Intelletto , hauendo per pro-  pria oper adone P intendere . Et per queflo  noi concludiamo P anima effer e ordinata ,   fri retta    % / ; M 0 . 2 >   natura ^Angelica , cowie il  corpo e ordinato , rmo dall'anima .  Onde appartjce l'angelo tanto piu effer  preftante dell'anima , quanto l'anima è  piu nobile , /] corpo : ft) però l'anima   non tenere il primo grado nell'uniuerfi •  adunque diremo ejjere due nature neL  l'anima : una per laquale rappreftnta la  datura angelica > l'altra , perla quale  inclina al corpo. Onde e detta dal diuin  Alatone nel Timeo ,fu[ìantiamez&, co-  me quella , che pofta in mezo fra l'ange-  lo, ft) il còrpo partecipa dell' una, {^ del-  l'altra natura . Quefta anima merttamen  te chtamorona i ^Magi in parte lucida, in  parte oftura , come pofta in mezo di quel-  lo che è al tutto lucido , e di quello che e al  tutto ofeuro . L'Angelo è al tutto lucido ,  perche fendo la prima ejjèntia; {R iapri- ,  ma effèntta fendo ejfa firmità ,ftmpre fi-   * Hij    24 L 1 $ 7^0   mile a fi medefima e accompagnata da e fi  fa uentà , laquale e efifia luce intelligibile  fi) pero l'angela è tutto lucido . Il corpo fin -  do oppofito ficondo la fua natura allo an-  gelo , è tutto ofiuro y l'anima pofta m mez-  zo fiala natura corporale, ffil' angelo,  inquanto partecipa dello ^Angelo e uera-  mente lucida , inquanto inclina al corpo ,  fi P uo dire ofiura . Chi adunque dubite-  rà fipr a l'anima non effier l'angelo: fin-  tana di ogni luce intelligibile?   CAPITOLO QVAUTO.   Aliti allo fpìendore del-  la uerità intelligibile , quale  noi chiamiamo al prefinte  c, Angelo , for fi potremo cre^  dere hauer trouatoil padre dell untuerfi .  lmperoche quiui ogni coja è uera ; efinzet ,     • fi    P % I M 0. 2 s   ogni co fa e ulta , ogni cofa e intelletto , uerì*  ta , ft) fiientia : fendo principio dell'efjere ,  ft) della mta a qualunque altro fi dice ef  fere,ft) utuere per quefto nella natura con -  tiene l'uniuerfità di tutte le cofe fendo il lo-  ro effir e per fitti fimo * Imperoche, benché  le cofì in effa fieno di flint e , ft) non con fu*  fi , come dtmoflrala intelligentia opera *  tion fua principale , laqualt definitamen-  te comprende tutte le cofi , nondimeno han  no e fiere unitifiimo . Imperoche nulla può  effir e piu unito } che quello , in chi ciaf u-  na parte m un certo modo fia quel mede-  fimo , cheti tutto, come e nelttAngelo\do-  ue la uita , benché inquanto uita è dtfffinu  ta , nondimeno per partecipatone è tutto  lodimelo . L'intelletto ha il fuo proprio  modo d' effir e : perche è detto intelletto. Ld  uent à il fuo modo d' effir e particolare : per  lo qual# è effa uentà : parimente adirne*    26 L /2 0   ne in qualunque altra parte . FJondiman*  co quefto non fa che lo intelletto , la uerità  per fa , non Jia tutto t Angelo per par -  tecipatione : in modo che nell' Angelo non  fi può trouar parte , laquale non conferui  in fi la natura del tutto . Quejìo credo ha-  uereintefa Parmenide ; ft) Melijfo anti-  chi^ittagorici, quando ajfermorono tue -  • te le cofe effere un 'Ente : cioè , ejfere una co*  fa, una fufiantia , quale notai pr e fante  chiamiamo Angeloinella quale tutte le co*  fi habbino il fùo primo ejfere , cioè pcrfet*  tifaimo ejfere. Come adunque nelle cofe ar*  tifictate fono due ejfaeri , l'uno nella men-  te dell'artefice , manzi , chehabbia pro-  dotto fuori la cofa artificiata , l'altro in  effa cofa artificiata ? Verbigratia la /ta-  tua di ifMinerua ha il primo ejfere nella  mente di Fidia , l'altro m effe marmo : de  quali quello che è nettamente dello artefi-  ce, è ^    RIMO. 27   ce , e primo cffere\{t) p ero molto piu no*  bile ; che quello, che è nel marmo : co fi tut*  te le cofe hanno duoi ejjen : ; uno nella effen -  tta dell’angelo , ilquale , è primo , ft)  perfettifimo effere ; l’altro in effe cofe ; il-  quale , è participatione del uero ejfere . TDu  co adunque fecondo tl loro efftr primo per -  fettifimo,nonfolo confhtuire una Jufìan *  tia ; ma ancora ciafcuno d’effe efer tutta  quella umuerfità ; ft) pero meritamente fi  può dire una fu fsifl ernia ; fff) quefia e la  fintentia di Parmenide , ft) di Mehffe  della umtà dell’Ente , come io fimo . Qtie  fio Ente , o uuoi Angelo e chiamato da  Hi* lottilo mondo intelligibile : mondo , per-  che è pieno di elcgantia , hauendo tutte  le cofe in effe il feto e (fere uero ; lmperoche  mondo fi gm fica ornamento ; intelligibi-  le , perche è comprefe felamente dal-  l’intelletto , tlquale riguarda effa ucri •    28 L 1 ® ^ 0 *  tà . 7 ?^/ diuin Telatone e chiamato nel  fi fio dilla fypublica figliuolo di Dio. Ma  di quello piu diffufamente in quello , che  figue y parleremo : 6 . Nondtmanco fi noi con -  ftdereremo , che il primo principio è firn -  pltctfiimo , ft) potentifiimo : altrimenti  non farebbe /opra ogni altra cofa : chia-  ramente conofieremo quefìo mondo intel-  ligibile y o uuoi (^Angelo non potere effir pri-  mo . lmperoche nell'Angelo fendo moltitu-  dine, ancora u'e compofitione ; ffi) per que-  flo imper fedone, imperoche ogni cofa com-  pofla ha in fi una parte, comcpotentia ,  ma parte , come atto : la potentia ha fi-  co imper fettone ; Patto la per fedone . Et  peroogmcofacompofìaha mefiolatoin fi  l'imperfetto col per fitto . La potentia non  e altro , che quello , pel quale la cofa può  effir e, non fendo ancora . L'atto aggtugne  l effir al potere ; fg) pero la potentia è im-  perfetta ,    P % 1 M O. z 9  perfetta , lacuale gli antichi 'Pitagorici  chiamarono infinita , come per fìta natura  indeterminata . Inquanto adunque l'An-  gelo ha compofitione non è fimplicifitmo :  inquanto ha tmper fetione , non è potenti fi  fimo . Imperoche qualunque imperfetto  uiene alla per fetione coll'aiuto et altri :  però quello è piu potente , per beneficio di {  chi confeguita la fua per fettone . Ter la-  qual coja fèndo l'cAngelo ne (empiici fimo,  ne poterà fimo , non può efièr ancora pri-  mo >ft) pero Tarmenide Pittagorico afi  fermo il primo Ente , qual noi al prefinte *  chiamiamo Angelo , efièr filmile a una sfe- '   ra » lì) P er o hauer parte , hauendo  la sfera mezo , g) eftremi. T>i che ne fi -  gutta ejfo non patere efièr la femphci (lima  Vmtà, come diurnamente dice tMeliffò ;  laquale al tutto efclude ogni parte, (fi ogni  moltitudine,^) ogni imperfettione ;{t) però    30 LIBRO  come ueramente capo di tutte le coffe au-  tore della per fettone dell' angelo; tignale me  rit amente e chiamato uniuerfi intelligibile.    CAPITOLO QFWTO,    S s o Iddio findo principio  ff) autore d' ogni per fettione  nelle cof , che fino , non è  capace d'imper fettone alcu-  na y di (jualuncjue natura ejfa fa . Et pe-  rò noi pofitamo dire fimile proportene ba-  ttere alle cofe create ; eguale ha la fimplicif  fima unità a numeri Tutti t numeri han-  no moltitudmeybanno ancora unità . Mol-  titudine fecondo che noi diciamo il nume-  ro ternano hauere tre unità ; il quaterna-  rio hauer quattro unità , {fi eofi gli altri  numeri nel medefimo modo. Unità, per-  che il numero Ternario , è uno Ternario ,   q) una     P 1 A4 0 .   ft) una Trinità . Il quaternario è uno  quaternario , ft) una quatrinità : adun-  que tutti i numeri hanno moltitudine ,han  no ancora Vmtà . La moltitudine dice  imperfetto ne , ft) diuiftone . L'unità dice  coniandone ft) per fettone . Et pero tutti i  numeri participano della per fettone , f0  della imper fettone , Della per fettone > in-  quanto ogni numero e un numero . Del  l imperfettione y inquanto ogni numero  ha moltitudine . L'unità ancora de nu-  meri non e acutamente perfetta , cioè  quella lenita , per laquale il numero Ter-  nario è un Ternario i ft) il numero Qua-  ternario è un Quaternario . Imprima ,  perche tale unità ha conuenientia , ft) af-  finità colla fua moltitudine ; come l'unità  del Ternario ha affinità con le partidel  Ternario . altrimenti di efifa uita 3 ft)  dcde parti fik non fi farebbe un tutto ; ft)    >    3 2 L 1 *B %. 0  quefta è una frette et imper fettone . Dipoi  perche l’unità d'ogni numero è diffimta  m modo , che l’unità del numero Ternario  è dtuerfa de It unità del Quaternario, ft)  ciascuna di loro ha la fra potentia deter-  minata ; per laquale tfro produce U fro  numero . Quefta non e propriamente im-  per fedone , Jènon perche l'unità del Ter-  nano benché fecondo che e unita del Ter-  nario , fra perfetta , nondtmanco non con-  tiene la per fettone , ft) utrtù in fi delt al-  tre unita : carne la perfetti firn a lujlitia ,  benché inquanto Iujhtia non ha difetto al -  e uno ; nondimeno non contiene infila per fi  t ione della fapientia>{f) cofì la per fettone Ut  terminata ha fico in un certo modo la im -  per fettone* Adunq; lafimpliciftma unita  \n prima non ha moltitudine alcuna findo  al tutto indtuiftbile . Oltre a quefio non ha  afflìtta con alcuna moltitudine numerale  * non    P ^ / M O. ss   non potendo hauer fuo coniugio . 7/on e  ancora dif finita, ftfi particolare unità ,ma  fimphcifiima unità , eminente unità ; ft)  pero Pitt agora affermò effa contenere in fi  la potentia, (tfi i fimi di tutti i numeri.  ‘Riduciamo tl numero al proceffo delle co/i  dal primo principio , fecondo il coftume t  ‘Ptttagorico . Nelle cofi create fi truoua  potentia ; trouafi ancora atto . La poten -  tia , inquanto potentia, eimperfetta,l'au  to , inquanto atto , e per fettone , adunque  Imprima imper fettone delle cofi,nafiedaU  la potentia , della quale fono partecipila -  fee ancora imper fettone in effe per cagione  dell'atto . Imper oche l'atto fi chiama atto ,  inquanto è per fettone di potentia , ff) in  queflo modo uiene a par deipare della im-  perfetto ne congiungendofi fico . La forma  è atto della materia , però facendofi  della forma , della materia un compo -   C    34 L I 2 0   fio : la forma partecipa delle condizioni  della materia .. Uoperat tont i atto della  potentia attiua , come la cale fattone è atto  ft) per fettone della potentia calefatttua :  nondimanco ha conformità colla potentia  dipendendo da effa . Oltre a cjuefìo , fatto  dice per fedone definita, ft) terminata. La  forma del fuoco dice una per fettone termi-  nata : cioè effa natura dclfuoco^La terra  dice per fettone definita , cioè , effa natura  della terra, fp) cofìe proprio d' ogni altro  atto. Et pero t uno atto non include la per -  fittone dell'altro, adunque e [eludendo e fi  fi Iddio ogni imper fittone, efiludt f imper-  fetione , che fi troua per cagione della po-  tentia . Imper oche Iddio non ha potentia  alcuna , fendo fimplicifiimo : Efclude an-  cora f imper fettone , che e per cagion del-  l'atto . r Ver che Iddio non ha conformità ,  ft) proporftone con alcuna potentia: non   fendo    1 M 0 . 3 s   fendo per fettone di potentia attuta > nefe  potendo d'effe , ff) della, potentia confettai -  % re un compoflo . 'ISfon è ancora di per fedo-  ne definita , ffej particolare , come ctafetì -  no atto , procedendo da lui ogni atto , ff)  ogni potentia . c Adunque in ‘ Dio , e ogni  per fedone sjclufa ogni imper fettone^ pe-  ro in lui ogni cofa , è per mododtVnità  fìmplicifeima . e in lui diftinta la fa-  pientia dalla Inflitta , non è in lui diflmt a  la bontà dall'efeèntia , fjfe dalla aita. Ma  è unicamente l' e fènda , la aita, la fapien -  da : Et pero il dtuin Platone dtfee nel Par-  menide y non efeer di Dio nome , non diffi-  nidone y non fcienda , non fenfe , non opi-  nione : come quelli , che dicendo per fedone  determinata , attribuir ebbono a TDio im-  per fettone , dalla quale al tutto abborifee .  Et pero *P lodino yft)gl altri c Platonici nie-  gono Iddio ejjer ejfentia , o intelletto : ma  . ì . x v fj    t    L I B 7^0   tome molto piu prefilante , efifir contentò  delle fue ricchezze ; ricco della /ita fimplt-  ttfiima lenità . Solamente noto a fe mede -,  fimo ,filo amtratore , {fi cultore dellabtfi  fi della fiua diumitd. Quefla è quella diut -  na caligine , laquale tanto celebraDioni*  fio zAreopagtta fplendore della Cbrifha-  fia Theo logia ,alla quale non dggiugne utr -  tu alcuna rat tonale, o intellettuale . Impe-  rochcy come il rationabile non può efjer pe-  netrato dal finfi : ne lo intelligibile dalla  potentia rattonale : ne le cofe incorporee , {fi  femplict da t corpi , {fi dalle cofe compo[ìe m y  cofi quello y che eccede ogni modo d y e fiere ,  t (elude al tutto la intelligentia , o qualun-  que altra cognittone, qua fi un Profano  delle cofi fiacre . ^Ma è nelle cofi create un  Carattere , {fi una (ìmtlttudme di Dio,  fiore , {fi capo d'effe: per benefitto della -  yuale fi congtungono a Dio , quafi non fila   lecito    i    rp XI M o. r?   lecito aggiugnere al fuo creatore con parte  alcuna di fe>mapm tofto con tutto fi . On+  dell Profeta ratto daldiuin furore efe la-  ma y o Signore la tua laude , è tl felentiofi-  gmfeando ognipotentiayO uuoi r attornierò  uuoi intellettuale , douer ceffare dalla fila  operat ione,quado fi fa l'ultima unione del  le cofe create con effe Dio . Adunque molto  piu appropinqueremo a T)io procedendo  per le negazioni ; che per l'affermationiipur  chefempre mediamo effer meglio ^che quel  by che noi neghiamo di lui . Nondimanco  pofeiamo ufare ancora l'ajfcrmatioMynon  derogando alla fita diuinitàpur che intera  diamo effe hauere nfpetto , ft) compara-  tane alle cofe create . Come quando noi di-  ttamo T>io effer principio , mezo , fp) fi-  ne . Imper oche per il principio intendiamo  le Cofe da lui procedere ; per il mezo a lui  conuertirfi : per il fine effer da lui donato   C iij    38 L I 3 7^0   della ultima fùa per fettone; lacuale con-  file nella uer a unione fico. Quefto fgntf-  corono gli antichi ‘Tittagorici quando difi  fonoyla Trinità ejfer mifura di tutte le co -  fi. Quefìo panifico ancora Orfeo quando  dijfi Gioue ejfer Principio , mezj), fine,  ft) pero ( come dice Diontfio Ariopagita )  in quefto modo Iddio e fplendore a gli il-  luminati , per fedone a perfetti ; a Tteifi-  cati diumità , a /empiici fimplicità ; leni-  tà a quelli y che partecipano dell'uno ; uita  de uiuenti \ejfentia di quelle cofi y che Jd-  no'ydi tutta l'effintiaydi tutta la uita prin-  cipio y ftj caujà . Et pero . ogni copi creata,   < o uuoi eterna , o uuoi mortale , o uuoi ra r  Rionale, o uuoi Angelica, può efilamare in :  peme col \Profeta,Signore lo fjlendore del  la faccia tua , e fignato fipra noi.    \ 1 M 0. 39   CAPITOLO SESTO.   L i antichi Pitagorici chia  morono e/fo Iddio per fe uno ,  ffi) per fi bene > come auto-  re della /Implicita alle co/e  create , quanto di e/fa po/fono ejfer capa -  et : aggiungono Siriano y ft) Troclo per  quefto nome efier fignificato y non efio Id- *  dio ; ma quanto noi di Dio participia -  mo 3 quaf mi crediamo hauere efprejfi ef  fi Dio , quando noi efprimiamo Caratte-  re della diurni à y col quale noi fiamo fi-  gnati . Ter fi bene , perche non filo e (fi  non niega a ciafiuno il fio grado di per fe-  ttone ; ma ancora y perche , co.me fine , e  de fiderato da tutte le cofi: ilquale poi che  hanno configmtoficondo il modo della /ùa  natura , fi quietano . c Adunque ctoche  procede da lui fi fa partecipe della fua firn   ' C ni/     yo L 1 2 7^0  p lìcita , ft) della /ita per fettone . Ma per-  che qualunque cofa procede da altri, per  necefiità degenera dalla per fettone di co-  lui , da chi procede ; altrimenti l'effetto  non farebbe di minore per fettone , chela  cagione ; fendo effo(come dicono e Pitago-  rici, ft) Plotino) uer amente uno: quello  che procede da lui, è non uno, ft) pero ha  fico moltitudine . Onde habbiamo adire  hauere ancora imper fettone . Quella tm-  per fedone e per la dtgrefitone , ft) partita  da tffo TDio, meontrandofì fimpre nell'im-  perfetto quello , che parte , ft) fi allonta-  na dal perfetto : nondimanco ritornando  a quello , donde procedeua -, acqui fi a la  per fedone . Per laqual cofa rettamente fi  dice , ogni cofa compofia ejfir compofta di  imperfetto , ft) di perfetto » Quefto inten-  dono e Pitagorici, quado dtffono per il prò  ceffo dall'uno produrfiildua ; ilquale ri-  tornando    P 1 Ad 0\ 4.1   tornando a l’uno, donde s’era partito, con-  Jìituifee il tre prima figura : l’effentia di  cui contempliamo nel triangolo, come dice  Teone . Imperoche quello , che procede da  'Dio, partendo/! dalla infinita fua perfe -  tiene, cade nello imperfetto, quale è la na -  tura del dua; ritornando a T>io per la fua  interiore anione participa del perfetto ,  quale é la natura del tre . Imperoche come  il tre è compofìo della progreditone dell’uno 9  ft) della rtgreftone a l’uno, cofi quello 9  che procede da Dio, è compofio dell’ imper-  fetto , inquanto da lui procede, ffe del per-  fetto inquanto a lui ritorna. In fomma da  Dio procede l’Angelo : ilquale nella prima  mifura di fuo proceffo e imperfetto. ^Ma  come imperfetto ? certamente imperfetto ,  perche , fendo l’angelo il primo uiuente,  ft) il primo intelligente ; ffe ogni uiuente ,  intelligente effendo compofìo della pò-    4 2 L 1 <B T^O  tentia aitale , ft) della fùa operatone, cioè  del uiuere ; ft) della potentia intellettuale,  ft) della fua operatane, cioè dello intendere  la potentia come antecedente- alla opera -  none fu prima prodotta , la quale ha im  per fettone, fecondo che noi intendiamo efjd  ancora non operare . L'angelo adunque  nella prima mifura del fuo ejfere , fendo  una efentia con facultà di uiuere , ft) dt  intendere ; ft) non umendo , ft) non inten-  dendo , ancora fi può dire imperfetto . £t  perche la potentia attiua riguarda La fa  operattone ; altrimenti farebbe uana , fi  non operaffiy ft) operando confeguita il fuo  fine , ft) la fùa per fettone , laquale per  natura intenfamente de fiderà : è necejja-  rio nello Angelo effer naturalmente un'in-  tentifiimo defìderio di uiuere , ft) d'inten-  dere. Que fio defiderio nondimanco ante-  cede una certa fermezza , ft) una certa   conftantia    X / M 0. 4/   confi arnia , per uirtu della quale mai Van-  gelo parte dafe dalla fua natura y ma  fempre fi a quel me de fimo. Quella ferme* z  za dal dium ‘'Piatone nel Soffia e chia-  mata fiato. L'operattone y che feguita quel  defederiofe chiamata moto, di qui polia-  mo uedere quello y chefegmfec a il dium Pla-  tone nel Simpofeo y nell'oratione di Fedro ,  quando dice l y amore cjjcr del numero degli  Iddi/ antichifeimi ; affermando fecondo  V opinione de Ih antichi Teologi dopo il Cha-  os effer la terra , ft) l'amore , im per oc he il  Chaos non e altro y che la effentia dell'an-  gelo fecondo , che e confederata nella prima  mifetra del feto effer e y come imperfetta,^  come potentia y moltitudine y ft) infinito à  chi meritamente fi conuiene queflo nome  Chaos y fignificando indige filone , ff) con-  fatone . L'amore non e altro , che quella  ingenito defìderio y principio del u\uace y fp)    44 L 1 V Ilo   dello intendere . La terra fignifica la fer-  mezza 3 ft) l* fi abilità , per uirtu della  quale l'angelo non mai parte dalla fìta na-  tura . Tuttamente adunque e detto l'amo-  re ejfere antichifetmo , imperoche ejfo ante-  cede ogni operatone fendo principio d'ef-  fe s per uirtù delle quali , le cofe diurne me-  ritano d'ejfere chiamate lddij .   • ' * • '•[ V * \ V ;   CAPITOLO SETTIMO.   £/ni appetito , ft) ogni de-  fiderio fi può chiamare amo  re in un certo modo benché pi  ghandopropriamentei l'amo  re fìa felamente defiderio di bellezza > co-  me dichiareremo tn quello , che fegue. On-  de non mmeritamente ildefìderio , tlqua-  le muoue tutte le cofe al fuo fine y ff) al fuo  bene , e detto amorei ft) c Platone nel firn-        PRIMO. 4 y  pofio nell'orattone di Fedro per l'amore  non intende altro , che l'appetito , che e  nell'angelo ; per ilquale fi muoue a con -  fegtiire la fua per fettone . Si che pigliando  in quefto modo amore , diciamo ejjere in  ogni co/a creata infino ad' ultima materia,  nedaquale è ancora l'appetito alla forma  laquale è co fa diurna , fgf buona , ft) ap-  petibile , come dichiara ^rifiot eie. Adun-  que l'amore e cagione , che l'angelo 3 ilqua -  le e prodotto imperfetto , confeguiti la /ùa  perfetione ma come diciamo l'amore effir  cagione di tale per fedone ? certamente per-  che quedo ingenito appetito , quale al pre-  finte chiamiamo amore , quafi uno filmo -  lo , fpinge l'angelo a l' operatone . Impero -  che qualunque co fa fubtto , che ha l' effir e  e inclinata adoperare , ft) quanto ha piu  perfetto ejfire , tanto ha maggiore inclina -  tione ad' operare , onde perche i' angelo ha    4 6 L I <B X 0  perfettifeimo ejfere , anzi è effe ejferefendo  lo ejfere la prima cofa creata ; per quefio  ha grandtfiima incltnatione adoperare ,  quefia oper adone fi chiama tuta: fendo  la uita il primo moto interiore , ft) primo  atto , ft) per fedone dell' effe nda , come di-  ce Plotino , ft) q u ^i che l'hanno feguita-  to, cioè r Porfirio , ft) Amelio : benché Si *  riano , Proclo crediino altrimenti', tetta-   li al ùrefente dimetteremo. Sendoadun ~  que la uita la prima operatone dell'ange-  lo , è manifefto efeere il primo feto atto , ff)  la prima per fettone . L'angelo adunque  nella prima mifura delfuo procefeo e detto  tjfentia ; laquale è non uno procedendo da  Dio , che è perfatifeimamente uno :  pero ha moltitudine, anzi in ejfa ( come di  ce il dium c Platone nel r Parmenidefe efpli  tata tutta la natura de numeri, mediante  iqualt procedendo nella ulta difttngue fe   medefima -    P 1 Ai 0 . 47   ntedefima ne modi particolari ffe dell' effe  re ffe) come in piu efeentie , dando fecondo  il feto numero a ciafeuna effentia le fete prò  prietà , come y fe tu pcnfafii la Geometria  per una atione interiore dtftinguere fe me -  defema ne Tbeoremt particolari : lacuale e  una in tutti e teoremi ; perche ciafeuno è  Cjeometria:nondtmanco è ancora moltitu-  dine , fendo l'uno Theorema difemto dal  l'altro, (fe però ‘Plotino dimoftr a diurna-  mente dopo l'uno, cioè Dio,efJere l'efeentia ;  dopo l'efeentia 1 numeri , dopo i numeri , e  modi particolari dt II' efeer e, cioè le efetntie.  In fiomma l'angelo mediante il numero  come efattifeima regola per benefit io della  feuaatione interiore, quale fi chiama pri-  mo moto , (fe prima uita , diflingue, (fe  diffimjce fe me defimo in tutti 1 modi par-  ticolari dell'efeere , onde l'efeentia de II' am  gelo è come un tutto. L'efeentie particolari    4* LIV^O   fino le parti , non come il capo , o la mano  è parte di Socrate : ma come il Leone, o il  cauallo è parte dell' animale . di quefio piu  diffujamente habbiamo detto nel libro del  *T utero : ft) diremo nella concordia fra  Platone, ft) zArifiotile . Di qui chiaro ap-  parifie quello , che uuolc il diuin Platone ,  quando dice le cofe diurne produrre fi me -  defime . Imptroche non figni fica altro, che  le cofe diurne efier compofte dell'atto primo  ft) del ficondo , cioè della potentia attiua,  ft) della fila operationeilaquale pende dal «  la potentia attiua , come l'angelo , ilquale  e compofìo della potentia uttale , ft) della  fua operatone , ft) della potentia intellet-  tuale , ft) della fua operatane ; per benefi-  co dellaquale l'angelo è attualmente ui-  uente , ft) intelligente . Onde è chiamato il  primo animale , ft) il primo intelletto ; ft)  chi intende altro atto , ft) altra potentia   nelle      P X / M 0. 4$   nelle cofi diurne , non intende la fintentia  di f Piatone , ne forfè la natura di effe nel  modo del procefo loro dal primo principio .  Quelle e fentie , ffè quelli modi particolari  dell' ef tre di finiti nell'angelo dalla ulta  fino chiamati /fette, (g) Idee,lequali fino  in tanto intelligibili , in quanto hanno lo  efèere uiuo, (t) la ulta . Onde ildiuin Pla-  tone dice nelTimeo,che topefice del mondo  fece tante forme nel mondo , quante tua *  telletto uide neluiuente,fègnificando l' Idee  efèer nel primo animale . Et pero io mi  marauiglio afai , come qualcuno habbia  detto , che la forma , che effo Dio da alla  materia angelica , fino efe Idee , come fi  l'angelo , inquanto procede da Dio , fufii  potentia pafiiua , laquale diuenti ricetta-  colo delle Idee . forfè maggiore errore  fi può commettere nelle cofi diurne, che pen  fare in efe eferpotentia pafiua fìmile al -    io L 1 5 X 0 ;  la materia de corpi finfibtlt : perche cioche  procede da e fio Dìo immediate , procede  piu fimtle a lui, fg) p M perfetto, che è paf  fibtle. Onde fendo molto piu perfetta la  potentia attiua , che la paffuta , ì con-  veniente immediate procedere da lui la po  tentia attiua, ft) non pafiiua . c Adunque  noi diremo da 'Dio procedere immediate  un'atto primo : ilquale fi può chiamare  efientia prima , fendo la prima cofa , che  ha l'efiere; lacuale inquanto efientia e per  fettifiima : ma bene nelfuo primo procefio  ha fico congiunta potentia d'operare, non  operando ancora : q) fecondo, che ancora  non opera , ha fico Imperfetto : Et que-  llo e quello , che dice il diuin Platone nel  Filebo , da ‘Dioeffirt dua elementi, cioè  l'infinito , ft) il Termino della mtflione',de  quali fi confi ituifia unaTerza natura ,  cioè l'effintia .Imperoche quello , che prò-    t.      *p \ i m o. //   cede , inquanto e atto , {fi diffinito fi può  dire hauer termino : inquanto ha fico con-  giunta la potentia, {fi l'tmper fettone fi  può dire infinito : e l'uno {fi l'altro infieme  fino la Telatura della prima ejjentia ; la  per fettone y {fi atto, dellaqualee la fua  operatane interiore , {fi non Idee . Come  dal termino proceda lo Ciato , {fi la iden-  tità : da l'infinito , il moto , {fi la diuerfi-  td ; Et come tutte le cofi fitto il primo fie-  no compofie d'ejfintia,diftato,di moto. di  Identità , di dtuerlìtà altroue h abbiamo  detto , {fi diremo diffufamente nella con-  cordia fra Platone , {fi Artftotile ; oue di-  mena l'opinione di Siriano , {fi di e Proclo  dichiareremo , come ciafiuno d'efii e ele-  mento , {fi come e genere dell'Ente . zAl  prefinte fi conuiene piu tofto accennare ,  che efplicare fimilt materie .    \ .     T>    t       sz L 13 Ito  ' C APITOLO OTTAVO .   A# a d i particolari del-  l'tjjìre nell'zAngelo di [Unti  per beneficio della ulta al  yprefinte chiameremo ldee\  benché fecondo diuerfi confi derat iohi fi  pofiino chiamare per diuerfi nomi , come è  dichiarato breuemente nel primo libro del  nofiro Palerò, ffi) altrotte piu dijfufamen .  te fi dichiarerà . Onde fi foluono facilmen-  te tutte le obietioni contro a l'Jdee fatte da  ss4riflotile in diuerfi luoghi: ma principal-  mente nel primo libro dell'Etica , ft) nel  fifto delle co fi diurne , Uguale comunemen-  te fi reputa il fittimo . Quefla difìnbut io-  ne fèndo con ordine , mi fura, proporzione ,  fi già quello , che da l'ordine all' altre cofi  non è d'effe priuato , come le cofi diuine ,  le quali producono , ft) reggono , le infe-  ■ ^ . riori ,     rp X i m o„ j ì   riori, e per necefittà accompagnate da una  cenar gratta-*; da un ceno splendore ;da  un florido colore , tlquale fi può chiamare  rettamente efia bellezza* lmperoche ( co-  me diurnamente dice Plotino ) benché la  prima bellezza non fia un'altra cofa dada  ferie d'ejfi Idee , come aduentitia , q) efira*  nea ; nondimanco quella gratta , quello  fplendore , quel fine ,• che in fu la prima  giunta apparifie ad'afpettto di coloro, che  raguar ciano tutta la ferie dell'ldee , quafi  come il colore neda fuperficie , è chiamata  efia bellezza ; laquale non feguita la natu-  ra di parte alcuna 9 ma piu toflo del tutto .  Onde è manifeflo la prima bedezza prò*  cedere dada per fedone interiore dell'Ange-  lo > quale duerno efjere fioatto . Et pero  chi dice che' l bedo e diflinto dal bene come  l'eflrtnfeco dali'mtrinfico , fecondo il mio  parere dice rettamente, ft) chi lo riprende  r ^ -> D iij    34 l n x o   fer quefto, merita ejfo piu tojlo effir riprn  fi , perche fi noi compariamo il hello al be-  ne , affolutamtnte confejjiremo il bello  tjfire come fpetie ; il bene , come genere. 0  nero firfi piu rettamente , il bene ejfirt  per fi, mparticipato,e'l bello cffere una   certa partictpatione del bene, ma fi noi  non compariamo il belìo al bene affò luta -, 1   mente, ma quello, che è proprio bene a eia -  feuno , diciamo effer il bello differente dal  bene , come l'eftrinfico dall'intrinfico.Im -  per oche la Juftantia , diffinitione , è, il   proprio , primo bene di ciafiuno ; ft)  neffuno dubita la Juftantia ejfire mtrin -  fica . Il bello , findo per modo d'acciden-  te , come esirinfico feguita la fuftantia ,  e la diffinitione . Tuttamente adunque e A  dettoci bene effir fi parato dal bello , come  I mtrin fico dall'eftrinftco . Ma ( per tor-  nare onde noi partimmo ) findo la prima   bellezza   i ^ i    / M 0 : yr   bellezza una gratta , uno fplendore , uh  fiore della per fettone interiore ,lac/uale me-  ritamente chiamiamo bontà ; che mura T  digita e fe nella potentta mtelletuak del »  l'Angelo eccita un'intenfi appetito , g / 1 dd  Jìdertonon filo di fruirla , d'ejfrimer -   la, per modo di fimi , di Telatura? On*   de l'Angelo fi fa tutto bello. Que fio è l'amo  te, ff) la Venere celtfìe, celebrata nel  fimpofio, neìloratione di Paufitnia . c Per -  c/0 /0 «0» poffo non mi marauigltare di cer  ti per altro h uomini , Sgrani ft) grandi  iquali dicono , che l'amore e cagione della  per fettone della bellezza . Imperoche , fi  l'amore e appetito , fjfi defiderio ; la bellez?  za, e appetita , ft) defiderata,e necejfirio,  che la bellezza anteceda all'amore , ante -  tecedendo l'appetibile all'appetito ■. (orno  adunque dona l'amore la per fettone alla,  bellezza dicono ancora co fioro , che la bef  * ' 2 ? tiij    6 L 1 *B X. 0  lez&a e cagione materiale dell'amore y la-  qualcofa e piu marauighofaimperocbe la  bellezza muoue , come cofa amata , ff) de*  fiderata, come ancora muoue l'appetibile ,  ft) l'intelligibile , ft) fino cagione come fi  ne, non come materia . llche apertamente  afferma zAnfiotile nel undecimo libro del  le co fi diurne , ft) il diuin Platone nelfiflo  della %epublica . Tsle però fi può dire an-  cora interamente perfetto l'angelo . Im - ,  Per oche l'ultima per fedone di ciafiuno è  la pofi fione di effo Dio , fecondo che a fi  e pofiibile : Uguale da neffuno e poffeduto  con parte di fi-, ma con tutto fi . Onde Id-  dio non può effer compre fi ne per l'intellet-  to, ne per la uolontà, fendo l' tino, come l'al-  tra, par te deli' Angelo, {fi non tutto l'Ange  lo . adunque l'ultima fùa per fettone, e la  coniuntione di tutto fi con effo Dio , alla-  gale procede per necefsità uno intentai -  -u - mo    P M 0. si  mo appetito . Quefìo è l'amore tanto e fai-  tato nel Stmpo fio, nell' or aitane di Agatone;  llquale è beat if imo, fendo la cagione della  felicità ,e ottimo , congiugnedo la creatura  con Dio , che è ejfa bontà ,e gtouanijsimo di  tutti gli altri Dtj ; perche è t ultima co fi ,  che riafca nebtzAngelo . 'Ter la qual cofa  ‘Dionifio Areopagita dice , che l'amore è  un circolo fempiterno dal bene nel bene al  bene, fìgnificando tre fpetie d'appetiti, nel-  l'angelo da noi dichiarati di fopra : uno  fùbito , che l'efentia dell' (^Angelo procede  da Dio , pel quale l'Angelo produce la pri-  ma operat ione, cioè, la ulta; tintali ro, che fi  gue nell'Angelo fubtto , che è difhnto nelle  Idee,oue rifflende la prima bellezz&*£t que  fio e proprio Amore,cioè dtftdeno della bel  lezx&.Wl terzo è quello appetito , che con •  duce l'zAngclo alla comunione d'effo Dto>  della cui pofftpone acquifìa la fua felicità.     IL SECONDO LIBRO   D’ A M O R E,   DI M. FRANCESCO CATTANI  DA DIACCETO FILOSOFO,ET  CENTI L'HVOMO FIORENTINO.    O me l'Angelo proee*  de da effo Dio, co/i l'ani   feguito principalmente , cioè *7 orfino ft)  zAmeho.Qutfìa incomincia a riceuer mol  mudine y tmper oche fèndo principio del mo-  to come pruoua tldiuin Alatone nel deci-  mo libro delle leggi , fg) il moto feguitando    SS , ' . ' ' «v     LI% SECONDO. S9  l infinito , è neceffario in efjd comma a re-  gnare l'tn finito . A cjuejìo fieguita la molti*  tudme 9 come per fiua natura inde termi*  nata . Et però la prima molttplicatione di  fiuHantta , quafi fitto un medefimo pene*  re 9 incomincia a effer nell'anima. Sono  adunque le anime , che procedono dallan *  gelo molte . Conctofia che l'Angelo non fia  finon uno 9 nondimeno fino tutte compre fi  fiotto quella commune anima , le qua li fi -  no differenti luna dall'altra , fecondo ,che  piu fi appropinquano , o piu fono lontane  da quello , da chi procedono : il capo 9  guida di tutte è l'anima mondana t da chi  procede tutto quefto corpo utfìbile , che noi  chiamiamo mondo , o uuoi ùniuerfò . Sot -  to la prima anima fono dodici anime prtn  cip ah, lequah finoprepofìe a dodici parti  principali dell'uniuerfe cioè , a otto sfere ce -  kfli 9 quattro elementi 9 ft) perche eia .    60 L 1 B 7^0  y cuna anima ha due parti , come dimoflra  Platone nel Timeo ; una , per lacuale è fi-  mtle all'angelo , da chi procede ; l'altra  perche e fimile al corpo , tlquale produce ;  per queflo ha finito due nomi , per l y uno  de quali e figmfìcat a la inclmatione al pro-  durre , (fi reggere d corpo ; per l'altro , la  tnchnatione alle cofi diurne . Orfeo adun-  que (fi i fuoi figuaci chiamano l'anima  della terra, Plutone, (fi r Profirpina:l'ani  ma dell'acqua , Oceano , ffi Theti : del-  l'aria , Cjioue fulminatore , ffi Giunone:  del fuoco, Faneta, ffi Aurora : della sfe-  ra Lunare ‘Bacco Lichinto , ffi Thalia ;  del file, Bacco Sileno ffi Euterpe ; di Mer-  curio, Bacco Lifio , ffi Prato : di Venere,  Bacco Trietarico, ffi Melpomeneidi Mar  te , Bacco Bajjareo , ffi Cito : di Gtoue ,  Bacco Sabafio , ffi Tberfìcore : di Satur-  no Bacco Anfiareo , ffi Polinnia : de l'ul-  tima    SECONDO. 6i  tima sfera Bacco Pcriciomo , g) Franta:  Bacco cnbromio g) Calliope di tutto l'uni  uerfo . One , e da notare , che a ciafiuna  Mufa , è propoflo un Bacco per figmfica-  re , che la parte dell' anima, che melma al  corpo, è retta da quella, che partecipa del-  la mtelligentia , inquanto per tale partici -  pationee fatta ehria del diurno detta-  re . zAlle noue<iZMufi li antiqui Theologi  prepofono un'Apollo, lignificando le otto  anime , d'otto sfere celcfii,g) l'anima del-  lumuerfo, chiamata Calliope , ejjer mini-  fi r a della diurna mtelligentia , laquale  efii chiamorono apollo ; noi al preferite  chiamiamo Angelo . ^Non farà forfè fluo-  ri di propofito riferire una maramghofit  opinione circa il numero , g) l'ordtne del-  l anime intellettuali , la quale fi può attri-  buire a gli antichi Theologi . ( I^ot ueggia-  mo il numero duodenario batter grande    62 L r <B HO   automa nell'uniuerfb , di che facciamo  coniettura per ejjtre dodici parti principa-  li in ejfo , cioè dodici sfere . Oltre a quefto 1  ueggiamo Uno bili filma sfera effir dtfìin - j   ta m dodici figni , onde ragionevolmente  habbtamo a concludere ogni altra sfera ef  fer ordinata , ft) diftrtbuta nel mede fimo  modo, mafiime e (fendo in ogni sfera U na*  tura del tutto , come accenna Platone nel  Timeo : ma di quefto altroue piu dijf ufi-  mente parleremo , oue dimoieremo , che  tffendo l'uniucrfì compoflo , ft) retto dal-  la ragione Harmonica , e neceffirio , che  fa ordinato fecondo il numero duodenario,  radice dell'armonia di diapafon, fappiamo  ancora , che'l numero fobico dice plenitu-  dine , ff) firmità ; ft) pero quando il m-  • mero procede nel fio Cubo,eJphca tutta la   ua per fettone • Il cubo , e quando un nu-  mero multiphcato m fe medefimo di nuouo   fi multi *     % 1 M 0. 63   fimultiplica per fi . V irbigratia noi chia-  miamo il dua numero lineare , perche ha  fimilitudme con la linea . Se tu multiplichi  tl dua in fi mede fimo ,fi fa il quattro , ti  (juale ha fìmilit udine con la fuperficie . Se  tu di nuouo moltiplichi il quattro per dua  fifa otto tlquale ha fimilitudme col corpo,  piu la non ua la multtp Ite ut ione, come con-  tenta di tre termini longitudine , latitudt-  ne * {0 altitudine , ftf per ejuefio il cubo è  ultimo proce fio y per fettone de Inume-   rò. Quefi a procefiione e Pitagorici diurna-  mente accommodano alle fufiantie cofifi -  par ate y ff) eterne , come corporali , ff) ca-  duche y come altrouemofir eremo , Adun-  que il duodenario , tlquale e il primo nume  ro fecondo , compofìo di dua finarij fiqua-  le e tl primo numero perfetto 9 procedendo  nella fuperficie y ft) nel fuo cubo fa il nu-  mero osìd. T>CC. XXVlll ilqual nume    64 1 *B KO *   ro contiene tutta la plenitudine , fp firmi-  la , c/tf procede dal duodenario . Qualcu-  no adunque fondato in fu quefto> forfi po-  trà credere ejfiere dodici anime nell'umuer-  fo, quafi dodici principi) , come è detto •  Sotto ciaf una ejfir e dodici altre anime,  delle quali ciaf una habbia /otto fi dodici  legioni d'anime piu particolari . In modo  che il numero crefie fino alla fimma di  A4. D C C. XXV III. legioni , in ciafiuna  delle quali fia tanto numero d'anime ,  quante [Ielle fino nell' ultima sfera. 4 A£e  debba parere frano tanto numero d'ani-  me y quando ff) T)aniel profeta dice mi-  gliaia delle migliaia erano fìioi mini fri.  fommunque e fia , tutta la moltitudine  delle anime ha per guida , ff) capo la ani-  ma del mondo prefantifiima , diuimf   fima di tutte le altre .   ...   CAPITOLO    SECONDO. 6s   CAPITOLO SECONDO.   ’ c^nima degenerando  dall' Angelo , da chi proce-  de, inclina alla natura del  corpo y qual produce ; nondt-  manco non degenera dall'angelo tanto 9  che ejpt non rifirui delle condittoni diuine ;  ne inclina tanto al corpo , che effa al tutto  partecipi delle [òr de matertaliSPer laqual  co/a pofta in mezzo dell' una, fp) dell altra  natura y ncn dimette la cura , ffi) il minifte-  rio del corpo : q) gode le delilie del mondo  intelligibile, Onde meritamente è detta no-  do dell'uniuerfi. Et per quefto ilduttn Pia  tone nel Timeo compofi l'anima di fitte nu  meri, in modo che pofta l'unità da ciafiu-  no de iati , ne fegutti tre numeri ; cioè dal-  l'uno de lati il proce fio infino al primo cubo  de numeri pari . T> alt altro ilprocefti in -  — 4 E     Vi    *6 .OLQ/^3! X 0 5L  4/ primo cubo de numeri impari . Si  4/4 cg«/ /dta fino termini quattro , {fi  tre inter uaìli , per (lenificare nella natura  dell'anima ejjer dua propietà : l' una, per-  che effa fi congiugne fempre all'angelo,  -{fi quefìa è denotata per gli numeri im-  pari : l'altra , perche ejfa produce il corpo,  denotata per li numeri pari, {fi tana, {fi  l'altra è dif finita pel quattro. Et però noi  pofiiamo dire la quatrmità efjir uer amen-  te l'Idea della perfetione ; non filo perche  marauigliofàmente contiene il dieci; ilqua-  le fendo tutto tl numerose Ptttagorici chia-  morno Cielo , {fi umuerfi . Ilche ancora  fignificorono li antichi Theologi ofiuramen  te,quando a noue mufe prepofino un' Apoi  -lo . *ZMa ancora perche quando fi procede  nel cubo fignificato pel quattro , fi mene  ^all'ultimo termino della proctfiione;ne fi  può procedere piu oltre . Onde in ogni natu -    SECO ‘KfD'O.  rapel Cubo efignificata l'ultima perfetto-  ne di ciafi uno .‘Non e adunq; marauiglia ,  fi e Pittagor tci(come dice Teone)giuraua-  no per colute he dona all'anima noflra la  Quatrinità y fontana della natura , che e  tmperpetuo flufjo ; Imperoche quefto non è  altroché giurare y per colui, cioè per Pitta  gora ; ilquale h abbia trouata L'anima e fe-  re diffimta per la quatrinità,cioe dalla po  tenda dell' intendere, dalla ragionerai fin  fi , dalla ueget attua . Dalle quali potentie  l'anima, che fi muouefimpre : fifa perfet-  ta. L'anima adunque produce il corpo ;ma  pel mezo d'uno in frumento proprio y ilqual  chiama grande fiminario y o uuoi natura * .  o uuoi anima feconda ; laquale dall'ani-  ma prima , è fatta grauida de fimi di tut-  te le cofi y che hanno a effire prodotte nella  materia. Da quefto grande fiminario pen  de tffa materia : laquale è imperfettifiima   . , ~ È ij    6S L I 2 TfO  di tutte le cofe fendo mafimamente diflan  te da effo Dio autore d'ogm per fettone ; la-  quale , "Plotino chiama principio di tutti  i mali , co[t nell'umuerfi, come nell'anima  noflra . "Pendono ancora dal medefimo fe-  minario procefiiom de femt qua fi razzi dal  lume Squali non mai fino fèp arate dal-  la materia , anzi fino fimpre congiunte fi-  co . "Noi le chiameremo e femi delle cofe . La  prefintia de ' quali nella materia affilue  la generatone : quando accompagnati da  lo affetto dell'anima feconda , moffo dalla  prima anima h fanno termine nel compofìo  \ naturale . Imperoche il compofìo non e al-  tro , che il fime , che pende dall'anima fe-  conda f q) la materia , in modo intra fi  uniti , che defii fi faccia uno . Quefto for-  fè e à Chaos dzAnaffdgora , di finto dal-  l'affetto dell'anima feconda , ilquale pende  dalt anima prima , rat tonale f uer a pa-   drona    SECONDO. 69  drona della gener attorie. Di qui fi può  uedere il fondamento di coloro , che affer - ,  mano tutte le cofe qualche uolta tornare  quelle mede (irne. Laquale opinione benché  paia molto aliena da zA riftottle : mafiime  nel fine delfecodo libro della Generazione 9  ft) corruzione ; nondimanco noi Jperiamo  dimoftrare ejfirhconfenttentifiima. Ma  per tornare alla co fa noftrafendo nell' ani-  ma fecondo efemi delle cofe , uere cjprefìont  delle Idee, ft) per que fio fendo accompa-  gnati da una bellezza, che ìtale a fimi ,  quale e la prima bellezza alle Idee , e necef  fario s'accenda in effa uno appetito ,ff) uno  defideriodi quella bellezza ; ilquale inco-  minciando dalla cognitione, ft) non poten-  do fare la fimilitudme di que da bellezza»  di dentro a fejransferifee nella materia la  par ticipat ione delle Idee , alle quali feguita  quefea gratta , que fi a elegantia, quale noi   E lij    io Litico V.  Aleggiamo nel corpo mondano uer amento  •figliuola dell' timore . Et pero Plotino di -  ce, che tutte le co/e fino teoremi >quafì pro-  tedino dalla contemplatine, hauendo prin  tipio dalla cognttione di quella anima .  Quella bellezza, che e nell'anima feconda , *  et quello appetito , che fi accende in e/fa e lo  Amore la Zienere uulgare nel fimpofio  riferita da Paufama, laquale è detta figli-  uola di (fioue, {fi di Dione; perche pende  dall' anima prima,ffi rationale, laquale è  detta Gioue, dalla feconda , ratina-   le , laquale ha commertio con la materia i   ' C AP ITOLO TERZO.   L Cielo, o uuoi tuni-  uerfi è uno , procedendo da  una anima, ft) fendo fatto  a fimilitudme di un mondi)  intelligibile -, ilquale noi dtfipra habbiamo   chiamato     S E V P 2 \£ 27 0.   chiamato Angelo ; ffi) pero Democrito *  ft) Leuctppo non meritano d'effere uditi ,  ujuali pofono mondi infiniti . o^irtfiotik  pruoua che'l mondo è uno: perche egli è fot  to di tutta la fua materia : ffi) Alatone  proua , che'l mondo è uno fendo fatto a  fimtlitudine d'uno efemplare . W<?i hab±  btamo nella r Parafrafì noftra /opra il cie-  lo hreuemtnte dichiarato , ffi) altroue dif-  fufamente dichiareremo in che modo della  unità del mondo fia la medefìma opinione  dell'uno , ft) dell'altro filo fio fo , e il mondo  non filo uno, ma ancora ingenito , ft) incor  r unibile, fe noi crediamo ad Ariftotile . Al  diuin Platone piace il mondo fempr e effe-  re fiato, et fempre douere effiere : nondime-  no hauere cagione da cui penda , cioè dal-  l'anima diuimfitma, principio della natu-  ra corporale . Et pero habbiamo da dire  effer tre principali fu ftantie, lecitali uera-   E mj    72 L 1 <B 7^ 0 ?   mente hanno natura di principio : cioè Id-  èo, l'Angelo, l'anima diuinifiima . Iddio è  autore dell'unità in tutte le cofi , l'Angelo  della permanenza , l'anima del moto: ft)  quefia è la fintentia di Plotino, ft) di Por  fino; benché Siriano, ffi Proclo altrtmen  ti procedmo . Sono fiati ale unicorne ^lu-  tar co, ft) Seuero, iquah hanno affermato,  fecondo Platone il mondo effere incomincia  to qualche uolta , ft) qualche uolta douere  finire; ft) per quefto hanno detto filo effèr  dua prmcipij di tutte le cofi, cioè la mate -  ria , ft) Dio , non pendendo la materia da  *Dio , ne Dio dalla materia . In modo che  Iddio fia al tutto finza materia , ft) fim-  plice;la materia fia al tutto eterna, ft) fin  zci participatione di Dio , ma quefta oppi-  none (come è conueniente ) non è ammejja  dalli altri Platonici . Le parti principali  del mondo fino otto sfere celefii, ft) quat-   . tro eie-    SECO 5 SI DO. 7 ^  tro elementi . T>e!le quali le sfere celefli fi-  no nobihfiime. llche dmoflra la magnitu-  dine loro e'I / ito , l'ordine , e'I moto , il lu-  me. Plotino uuole che il Cielo Jia fuoco, ffi)  c . "Piatone nel Timeo uuole ,che il mondo Jia  compofto di quattro corpi , Fuoco , Terra t  Aere , ff) oAcqua , in modo , che da que :  fio nome fuoco fino comprefi i corpi celeftu  os4riftottle s'ingegna dimofirare , che il  Cielo non e fuoco . lmperoche il fuoco , co-  me ejjo dice , p muoue naturalmente in -  uerfi la cir cunferentia,p artendofi dal cen-  tro. &l corpo celeftenon fi muoue di moto  retto partendofi dal centro, ma di moto  anulare , ilquale moto [i fa intorno al  Centro , pero il Cielo non è fuoco, altri-   menti bifignerebbe dire y che il Cielo barn fi  fi dua moti naturali ; uno per ilquale fi  muoue intorno al centro , che e ilctr calare:  l'altro , per ilquale fi parte dal centro , ff)    74 L IV Z 0 - "  ua alla circunferentia , che è moto retto ,*  Lacuale co fa pare habbia per imponibi-  le- Quefla ragione facilmente foluono Pio-  tino , ‘Proclo . Ilche breuemente nella  no fra c Parafaf f opra il Qelo habbiamó  tocco y fé) altroue piu diffuf amente dichia-  reremo y mofìrando , che altro è muouerfi  nel proprio luogo , ft) fecondo la fua natu-  ra : altro e , fndo fuori del proprio luogo ,  ritornare ad cjfo > ff) nella fua naturaro-  no alcuni , che dubitano y fe le felle hanno  moto proprio . Platone dice nello Spinomi-  de y che le lidie fono animali ignei ; ft) nel  Timeo y che le lidie fi muouono intorno al  proprto centro . È piu de Peripatetici op-  pongono zAriflotile cjuafì uogliayche le jlel  le fieno continue col Cielo ; ma piu denje ;  ff) però non hauere altro moto , che quel-  lo della fua sfera . ^oi diciamo z^riflott-  le non hauer mai quefo affermato . ^a    S E C 0 *1 D 'O. '7f  quando duce le fteUee/Jere della medefima  ] fuftantia , di che è il Cielo ; intendere effe  effire della medefima natura , cioè ignee ;  fffi quando dice le sielle effire mfijfie nella  sfera ; non fignificare pero efftr continue ,  ma che non mutano luogo fecondo il tutto ;  ft) pero apparire effire tnfiffi ; perche fi  muouono circa il proprio centro . In fom-  ma le sfere celefh , ft) le Belle effire di na-  tura ignea , hauere proprij moti , è ma -   mfeflifiimo appreffio Platone . ‘Nelle sfere  celefh fin due moti , uno da Oriente 3 m oc-  cidente, tlquale ‘Platone chiama moto del  la fapientia , q) della identità . L'altro  da Occidente in Oriente chiamato moto  della diuerfità . Quefio , è delle sfere erra-  tiche : quello del fermamento ; ilquale in-  ulta la intclligentia dell'anima diuintfii-  ma , di chi è tmagtne . Quello, è chiama-  to deBro , e quello fimfiro. L'uno,    7 fi L I % 7^0 |   .l'altro fanno la generatone, la cor r-  ruttone;Quello del fermamente fa che firn  pre fia ejja generattone , ff) corrutione ,  come dichiara o Ariflotik . Et pero t Pitta -  gorici affermarono ff) ildeflro , ft) il fini •  fìro efier nel numero de' principi] pendere «  do dal moto del fermamente, ffi) delle sfe - ']   re erratiche tutta la generatone .   " CAPITOLO QVAtjO.   L Moto da Occiden-  te in Oriente , chiamato da  ‘ Platone moto di diuerfità  proprio delle sfere erratiche  autore della generatone , come è detto , è  diuifiin fitte, Imper oche ogni sfera ha il  fuo moto . di tutti è uelocifiimo il mote della  sfera di Saturno di tutti è tardifiimo il mo  to della Luna . Sono alcuni , uguali affer -  mono Arifiotile fintire il contrario, quale      SECONDO. 77  uogha il moto di Saturno e [fere tardiamo  determinando fi longhfimo tempo perla  fiia fpeditione . ‘Ter contrario il moto del-  la Luna effer uelocftmo deter minandofi  breuftmo tempo. Tsfoi crediamo e far fen-  tentia d'o^lr ifìotile le sfere fàpertorimo-  uerji piu uelocemente,che le inferiori . Im-  peroche la magnitudine , che debba effer  trapaffata dalla sfera di Saturno s fuper a  molto piu la magnitudine , che debba effe-  re trapaffata dalla sfera della Luna , che  il tempo , che fi dttermina Saturno per il  fuo moto , non fitpera quello , che fi deter-  mina la luna . Quello è uno de gli errori ,  che Platone imputa a greci (come è detto )  nel fettimo delle leggi , cioè credere il moto  di Saturno effer tar difimo fra i pianeti ,  fendo ueloc fimo, può fi ancora r acorre de  comentarij di ‘Porfirio J opra il Timeo e  Pittagorici affermare il moto di Saturno    7S .L IV 7^0 \   effer ueloci filmo, ff) riflotile ancora dice   nelle quefiioni meteorologiche il moto della  Luna non fare accenfìone nell'aere fendo  tardo , ft) pigro : ilche fa il moto del file  per la uelocità , ff) uicimtà . Credono i Pi-  tagorici , ff) Platone il Cielo fendo imagi*  ne dell'anima efjir e dige fio fecondo la ra-  gione armonica ; L'anima, fecondo che pia  ce a Timeo Pitagorico, pigliando le duple,  ff) le triple con le fifquialtere, g) fiper ter  ite , fuper ottaue , ff) fimitomi è digefla in  trcntafei termini. Il primo di tutti è il nu-  mero trecento ottantaquattro . La fomma  di tutto il numero , e cento quattordici mi-  gliaia , ff) fecento nouanta cinque unità.  'JSfelquat numero è contenuta tutta la ra-  gione Armonica . Sendo adunque le sfere  celefh in modo coerenti fa fesche facilmen  te paiono piu tofio continue , che contigue  tanto fono pulite , ftfi coequate ; ft) mo?   uendofi    SECO D O. 79  uendofi uelocifiimamente non dubitano af  fermare ; da loro mandarfì fiora un fuo-  no di tanta gratta , quale fta conueniente  a fi nobtl corpo y come e il Cielo , Imperoche  il fuono fi genera del moto di dua corpi,,  che uelocemente mouendofi f tocchino . Il  moto piu ueloce genera il Juono piu acuto ;  e*l moto piu tardo genera il fuono piu  grane \ ff) pero il moto del fermamepto  generati fuono acutifeimoye'lmoto della  Luna grauifeimo , ff} perche i moti delle  6 fere fino digeftt, fecondo la medefìma ra-  gione harmonica , come fino ancora i loro  interualli ; fecondo laqualcfe digefla l'ani-  ma : e neceffario , che tali fuoni proc eden?  do da moti armonici in modo confinano  fa fi , che di tutti fi confi itmfea una ar r  montagna melodia di gran lunga piu fua  ue , che quella , che noi pofeiamo compren?  dere con le orechie elementari > Et perotl    80 L 1 <B 7{0  dtuin Platone nel decimo libro della 7{epti  blica dice , che ctafc una sftra celefte ha fi-  co congiunta la fua Sirena , laquale canta  il fio tuono . Dequah fi fa una armonia .  e Pittatomi affermorno il Cielo eff re la li  ra di T>io: a quali acconfentifcono Aleffan   dro eJ "Milefìo , ft) Eratoflene .   . .   ' CAPITOLO QVIWTO. •.   * #vi v , , • • . ,r*   /r a bi l e bellezza nafcc   nel corpo modano dalla unto   ne, per laquale cofe tanto   diuer(i,ff) fi contrarie, co-   me fono nel mondo , fatte fra (e amiche,   con ftitui fono un grande animale . £ fegliè   lecito comparare le cofe grandi alle piccole,   il mondo è ftmile a l'huomo ; Il fuoco , la   terr a, l'aria , l'acqua hanno fmilitudme   con la collera y con la malinconia , col fin -   *   gue,con     SECONDO, sz  gue , conia flemma ; della retta mifttone,  de quali fi fati temperamento radice della  finità y cofi a l'huomo , come al mondo . Il  fermamento fi può chiamare il capo di que  fio grande animale , alquale un numero  * quafi innumer abile di fielle come occhi fui  genttfiimi fino grandifitmo ornamento .  £ ‘Tittagorici affermano le fielle penetra-  re col fio lume nel centro del mondo : dout  pel concorfi di tanta moltitudine di raggi  uoghono accender fi unfuoco eterno quafi  cele filale . c Al firmamento , come capo ,  obbedtfiono i pianeti : in fi a quali il Sole  ha fimilitudine del cuore , e fontana della  uita . ^Marauighofamente eccede il Sole  tutte l' altre fielle , non filo di magnitudi-  ne y ma ancora di potentia , ff) di uirtu ;  la qual cofi dtmoftra la copta del lume .  (fili antichi Theologi affcrmomo , laGiu-  fiuta , laquaky come Regina, ordmaydriz-     -82 JSlpXQ V   qi , regge l'umuerjo, per tutto procederi  dal mezo del trono del Sole. zs4riftotile at-  trtbuifie tutta la generatone al Sole , ft)  atta Luna ; lacuale , come dice Hipparco  è neramente uno Jpecchio del Sole rifletten  do a noi il lume , Uguale ejja da lui pren - •  de. (fiiambhco , {$) Giuliano Imperatore  confhtuifiano nel Sole tutti lifDij de (gen-  tili . Et ^Plotino affermagli antichi haue-  re adorato il Sole > come Iddio. Confideri  la muc chi dubita il Sole effer preftantif  fimo di tutte l 1 altre flette ; oue ancora ciò  che e di lume , e per beneficio del Sole . Gio-  ueconla fita beneficentia , peonia fua  equità raprefinta il fegato, dal quale il nu  trimenioìfommmt firato a tutto il corpo ;  onde da gliaftrologi , è chiamato la prin-  cipale dette grafie celefti ; da «J /Marte , qua-  fi amaritudine del fiele , e ridotta al tem-  peramento la dulcedtne di (filone . V mere.    'I T    SECO X D 0 . 83  ft) la Luna , fendo miniflre della genera -  tione per cagione della uirtu humida , che  regna in effe , hanno proportene col feme,  ft) con i membri genitali : chi confiderà la  deferita , ft) prontitudme di J Mercurio  forfè non dubiterà a/fomigliarlo alla lin-  gua : per tu fido dellaquale noi facciamo  note le intime noflre cogit adoni . èt pero li  antichi meritamente attribuirono a t jue -  fio Dio il patrocinio dettelo (juentta. lAt*  tribuifcono ancora a Saturno il dono del  lintelhgentia , ft) però chi ajfermaffe Sa-  turno effer e in luogo di reni, forfè non fa-  rebbe lontano daluero . lmperoche cjuefìi  fendo aridiflimi , efpurgano lo spirito di  ogni cahgmofo uapore . Onde effo , e fatto  atttfimo mflrumento della inteUtgentta :  non è dubbio ancora effere un tenuifimo ,  ft) luddismo Vehtcolo della uita , fg) del  fenfi corre /fondente alt elemento delle fiel  v . . o . f jj    u L IB \0   le : per Uguale , come per competente me-  zo y l'anima consunta al corpo elementa-  re y lo fa partecipe de doni della aita . zA  queflo è Jtmile quel fuoco dimmfitmo , il  quale e fimpre per tutto diffufi ; ripieno  della uirtìi dell'anima regia, fecondo affer-  ma Cjiambhco , ff) (giuliano Imperatore ,  ilquale da ziatone nel Fedro e chiamato  il carro alato del gran Cjioue . Aderita-  mente adunque fendo l'huomo belhfitmo  di tutte le cofe , che fino in terra : ff) effen-  do fintile al mondo y tn modo che e fio e chia  mato piccolo mondoy h abbiamo affermare  il mondo , quafi un grande huomo , effr  belhfitmo di tutte le cofi fenfibtlu *Noi hab •  biamo dichiarato fino a qui la bellezza efi  fere una gratta , un fiore , uno splendore  della bontà ; ft) l'amore non ejjere altroy  che uno intenfi de fiderio di fruire , ft) di  •fingere la bellezza . Riabbiamo ancora di-  chiarato    SECO 5S l D 0. m   chiarato eftere àua bellezze : una prima ,  ft) diurna , laquale, feguita all' Idee chia-  mata Venere celefte ; d'altra feconda , ft)  naturale , laquale e nell'anima feconda,  o uuoi grande femmario detta Venere uol-  gare , fé) commune , ft) pero eftere duoi  amori . Vno circa la bellezza celefte , ft)  diurna : detto diurno e celefte : l'altro circa  la bellezza feconda , ft) naturale , detto  amore commune yfft) uolgare.Sendo adun-  que l'amore diurno circa la diurna btttezz  za ; ft) effìngendo efta , è necejjario ejjere  in mezzo di due bellezze > una prima , ft)  impar.ticipata , laquale fendo appetibile ,  antecede all'appetito amat or io)' altra non  prima , ft) partictpata , cioè quella prole  . bella y laquale l'amore diurno effìngeneL  l'angelo per modo feminale , ft) di natu-  ra a ftmilittidine della prima bellezza s ft)  imparticipata , ft) quefta non antecede,   : ^ > f $    SS L IH 2 io  ma fegmta all'amore . L'una, {0 l'altra  chiameremo Venere celefle. Medeftma-  mente quella bellezza, che è nel gran (emi-  nario antecede all'amore uulgare . La beL  lezz& .* che e nel corpo mondano figuita ad  tfio y in modo che ancora lo amore uolga -  re yl collocato nel mezzo di dua bellezze ,  dellequaltl'unae fine dell'amore uolgare,  l'altra e prole ; {0 però ancora ciafiuna  di quelle può efier chiamata Venere uoL  gare . Oue è da notare la prima bellezza ,  che antecede all'amore ejfiere nell Angelo  per modo fpett abile ; la feconda cioè quel-  la y che è prole dell'amore efier per modo (e-  minale . TSJel grande fiminario per con-  trario , perche la bellezza 9 che antecede  all'amore uolgarey e meffo per modo di fi- .  mt:queUa y the figuita, cioè la bellezza che è  nel corpo mondano prole dell'amore , e per  modoffett abile. Onde la prima, {0 ultima   bellezza    SECONDO, st  bellezza fino in quefto fimilt,che l'una,q}  l'altra, è obietto della potentia utftuaique-  fi a della corporale ; quella incorporale , ft)  intellettuale , ft) pero non è mar auiglia, fi  dalla bellezza finfibile fiamo eccitati alla  bellezza intelligibile. E ancora da inten-  dere non filo la bellezza dell'angelo , ma  quella dell anima diuina efier lignificata  per quefio nome Venere cele fi e: parimente  l'amore ; che nafie di tale fpett acolo, nel*  1 anima diurna effer figmficato per lo amo-  re celefie . lmperocbe , fèndo nell anima la  uera participatione delle Idee , e neceffario  ancora in ejfa fia la uera participatione  della bellezza, ft) dell amor e, come ancora  in ejfa è la uera participatione della uita ,  ftj dello intelletto . adunque nell'anima  diuina fino dua amori, fjfidua bellezza*  Vna uera participatione della bellezze*  Ideale detta V mere celefie . L'altra detta    a*v*V>    ss : L 17t Jt o • V   Venere uolgare > hauendo commertio con  la materia, zsélla bellezza uolgare e inten-  to l'amore uolgare . Alia bellezza celejle ,  è intento l'amore celcfìe , ffi) fermezza  deffa alla prima , ft) uera bellezza.!} aL  la cui contemplatone s'afiende al capo,{t)  principio di tutto l'uniuerfo , la cut bellezj  za y filo per uaticinto fi può comprendere ,  trapalando tutta la f acuità del conofcere  d infinito inter uaRo.   ^Qr. ài- * . <• + . *. ' ‘ V‘ > •* » .’* i- >   C CAPÌTOLO SESTO. .   • . • V «- , . . i tftf \* % f   L D l v in ‘"Piatone dice  nel Timeo t anima noflra  effere Hata creata nel mede  fimo cratere, quale fu crea-  ta l'anima mondana delle reliquie de me -  defimi generi; uokndofigmficare l'anima  nojlra hauere proprietà , ft) potente fi-   mili     SECO 2\£ ZX 0. ^  mili alt anima mondana >{t) alt altre anu  me diurne } ma in un certo modo piu impera  fetto. Quefto uuolefegntficare che t anima  nojlra , benché habbta le medefeme uirtà;  nondimanconon opera nel medefimo mo-  do: perche intenta alla gener adone , ff)  cura del corpo caduco , dimette la contem-  platane della uera bellezza. Per contrario  intenta alla uerità intelligibile dimette la  cura della gener adone ; fp) cjueflo aduiene  ragioneuolmente . Imperoche non potendo  adempire infieme tuno , ff) l'altro uficio ,  enecefeario la efeedidone dell'uno fìaac-  • compagnata dalla dtmefeione dell'altro ,  quando e intenta alla gener adone , fi dice  difeendere , quando e intenta alla contem-  platane yfi dice afeendere ; non perche l'ani-  ma afeenda, o difeenda fecondo il cojìume  de corpi . Imperoche fendo ejfentia fepara -  bile y ft) non pardeipando dicondidone aU    ?o L I *B ^ 0   cuna corporale , fecondo che piace a tr Pla-  tone , ffe) adzAnflotiU, ma di fuori ft an-  dò , è al tutto afioluta dalla natura del  luogo , alcjuale filo è obligato il corpo ; di  cui è proprio il fetlire ff) lo feendere ; ma  diciamo afcendere > ft) difendere m que-  llo modo . Le cofe diurne y feno prefenti fe-  condo y cheefee oprano . lmperoche noi di-  ciamo la dimnità ejfere in cielo , o in terra  fecondo che efea opera in Cielo , o in terra .  £t altrimenti non puòefeere determinata^  mente in luogo alcuno . Della operatone ,  e principio l'affetto , corne e manifefeo\chi  è quello 9 che operafei in alcun modo , fe  prima non fujfe moffo da uno a : ffetto an-  tecedente? que fio affetto non e altro che un  defederio d'operare , tlquale pendendo dal’  la fognatone e principio dell'operatione.Pri  ma concepe Ftdia la forma della fica ^Mi-  nerua , dipoi defederà di produrla , o nel   marmo    S E C 0 TSfD 0. pi   marmo , o mi ramo , dipoi la produce . Se  non haueffe defiderio di produrla y non mai  la produrrebbe , ff) fi prima non conce -  pejfi la fua forma , non mai dtftdereb-  be di produrla . ^Adunque la cognttione è  principio dell'affetto , ffi) l'affetto dell* ope-  ratane ; fff pero alatone dice nel Timeo ,  che l'opefice del mondo fece tante forme  nel mondo , quante hauca uedute la men-  te nel trnente , per lignificare la produzio-  ne del mondo pendere dalla cogmtione , in  fra lequali , come fra due efiremi y e mezz  ZP tl defiderio di produrre . Sendo adun-  que l'anima no fra nel numero delle cofi  diurne , diremo effer e prefinte oue effa ope-  ra ; ft) operare , oue effa e tratta dallo af-  fetto , g •) defiderio d'operare . llquale af-  fetto pende dalla cognitione . Imperoche  glie impofiibile noi hauere defiderio d'ope-  rare quello , che al tutto c'è nafioflo . ‘Ter    92 LIBICO  lagnai co fa , quando l'anima nojlra con - *  cepe la uita ftnfibde ; ft) la gener adone 5  ft) hauendo affetto a effa la produce , ft)  efphca ; noi diciamo l'anima dcfccndere . ,  Jmperochela natura mortale oue effa ope-  ra, e V infimo dell' uniuerfò: Ada quando <•  effa concepe la tuta de gli T>ij, ft) la ulta  intelligibile lontana da ogni moleflia , ft)  ùgnytriflitia , ft) con l'affetto l'efplica, dir  ciamo afendere , fèndo gli c Dij. il fupremo  \detl' unmtrfo . ‘Rettamente adunque dice  ^Porfirio nel primo libro. DeU'aftinentia  de gl' ammali , f noi defi deri amo ritorna  rea quello , che è proprio nofìro , f) alla  ulta degli T>ij , effer di bifigno , noi al tut-  to diporre qualunque cofà habbiamo pre/o  dalla ^Natura mortale infieme con t affet-  to decimante ad effa , quafi non per altro  defeenda , 0 afenda l'anima no fra, che  per Iq affetto. ^Tiace al dtuin r 'Platone ,ft)   Plotino     SECO 2 \J D O. 93   Plotino l'anima noftra , quando uiue con  la uita intelligibile, ffe) degli Dij : conferi-  re tanto grado di degnitd , che fatta colle-  ga dell'anima mondana infieme fico reg-  ga tutto il fato , ffe) la generatone . Viue  aUhora con la uita de gli Dij , quando ri-  dotta ne peniitfeimi tefeori della feua effen-  tia , ft) di quindi nell amemfeimo Tarato  della uerità intelligibile , contempla effa lu-  Jìitia , efea bellezza , effa bontà ; Oue in-  tendendo tutta la TSjatura di quello , che  è uer amente , fp) non folo intende tutte le  cofe , che di quindi procedono , ffe) tutti e  gradi della procefeione mfeno all'ultima  materia ; ma ancora confeguentemente ope  ra fecondohe effa intende . Onde merita *  mente è detta collega dell'anima monda-  na , laquale hauendo mteUigentia^ffe) prò -  uidentta uniuerfale , e principio del Cielo ;  ffe) di tutta la generatione . Onde Telato-    . 94 L I V 7^0   rie nel Filebo dice in Cjioue cffere intelletto  ft) regia anima, fignifìcando come nettuni  ma mondana è intedigentia, ft) prouiden-  tia mtuerfale ; cofi ancora effer ulta ft)  principio uniuerfale di produrr e, ma quan-  do effa declina adageneratione, ft) al cor-  po mortale, dimettendo la intedigentia uni  verfitle , ft) però fendo oppreffa dall' obli-  vione delle cofe diurne, attende alla fabrica  di quello , che offerendo fi adì occhi noflri)  chiamato da gli ignoranti huomo , fèndo  piu tofto imagine, ft) ombra d*huomo;che  vero huomo . Queda dimeffione, ft) queda  oblivione) lignificata dal dtuin ‘Telatone,  nel decimo libro deda 'Rgpub. quando dice 9  che l' anime, che difiendono nella genera-  tone beono dell'acqua del fiume Amelita  ft) pervengono nel campo leteo. lmperoche  Amelita fignifica negligenza , ft) leteo li-  gnifica oblivione. T^ondimeno non gli è ne-     SECO ^ D 0. ti  gato la uta di patere tornare alla ulta in-  telligibile ,/e feparandoftdal {enfi eccita il  lume della ragione ,per laquale finalmente  tifando per inflr amento la bellezza corpo-  rale , e reuocata in ejja uerità . In fomma  l'anima quando muendo con la aita intel-  ligibile contempla la uerità atramente fi  può dire integra . Imperoche fatta collega  dell'anima mondana regge ilfato f {t) tut-  ta la natura corporale noftra , quando in-  tenta alla generatone s'ingegna effinge-  re nel caduco corpo la natura del mondo o  dimettendo al tutto la fpeculatione della  uerità , gt) obltgandofi afenfì , uer amente  fi può dire dimidtata . Laquale e ri/litui -  ta nella fua integrità , quando s'accende  in ejfa uno intentiamo amore , ilquale in-  cominciando dalla corporale , finalmente  la reuoca nel marauigltofo fplendorc della  bellezza intelligibile. Di qui apparifce quel r    V’1£> v   . òè    9 * L 1 X 0   lo y che e ìnclufi nel portentofifìgmentodi  Ariftofane nelSimpofio . lmperoche k da  principio ejjire thuomo di figura circola-  re , ffi) co ’ membri addoppiati ejjer fato  partito in dua >per reprenfitone del filo fa-  fio , tentando di combattere con gli T>ij ,  poiché gli e cofìdiuifi cercare della fila me -  tàydefiderando intenfàmente ritornare nel  primo flato ; Incontratolo , quafi infuria-  to , non concedere per un breue momento  di tempo mancare d'ejfio ; onde ejjer nato  l'zAmore conciliatore dell'antica forma ,  medico , ft) curatore della generatione hu-  mana ; non mole altro fignificar e , che da  principio l'anima no fir a uiuere con la ul-  ta intelligibile , la cui contemplatone ha  fico congiunta la cura della natura corpo -  tqle , ft) meritamente è detta circolare ,  fendo la contemplatone un circolo: Ran-  della generatone  dedita    do crefiendo lo ftimolo    I    5 E C.O 2\( D 0. 97   dedita al proprio opificio crede fi e fière ha*   \ fi ante , a fimilitudme dell'anima celtfle ,   effingert il mondo in e fio, perde la contem-  ) piattone , {f) fiero uer amente come inalza « -  ta dalfiafto , è diuifa . Cerca della fina me-  tà perche ejja ottimamente conojce quello,  che ha per fi per la inclinatione , affet-  to al corpo mort alerone non trotta niente di   t   verità', neiquale incontrando fi, cioè in qual  che imagine della divina bellezza, fubito co  me da un profondo (inno /vegliata, fi rtcor  da della divina bellezza ; per l'amore della  quale e (purgata dalle (ordì materiali final  mente recupera la perduta metà . Merita .  mente adunque (amore è detto medico, et  curatore dell'humanageneratione reftitu -  tndo l'anima alla vita diurna, laquale è la  fua integrità, QuefUfino forfè i uefìtgij per  che uno filerte inuefiigatore della uerità  configura il fegreto (enfi d'iAriftofane.   g    99 L 1 55 R^O  * Non hauédo in animo al prefinte inter pre-,  tare minutamente il dium Platone, a noi fa  ra a bajìanza qua/ì col dito hauere accen  nato il camino in fi profonda mtelligentia .   IL TERZO LIBRO   D’ A M O R E,   DI M. FRANCESCO CATT ANI  DA DIACCETO FILOSOFO,ET  GENTI L'HVOMO FIORENTINO.     CAPITOLO PRIMO. *   'A n i m a noftr azoi-  che e difiefia nel corpo  mortale fe ufia per iftru  mento la bellezza corpo  rale alla diurna belltZz  Z&, guidata dall' amor celefle , recupera le  perdute delizi della aita intelligibile . Ma   fi fatta      TERZO: 99   fi fatta ebbra, quafi da focali di Qrce ,  precipita nella generai ione, ingannata dal-  l'amore uolgare , diuenta ferua di tutte  quelle calamità , che ha feco congiuntela  datura corporale . Ma innanzi , che noi  dichiariamo come nafte, {fi quello , che  opera l'uno , {fi l'altro c Amore ,  fuori di propofìto dichiarare piu parti-  colarmente la fua diffinitione\ come quelli  che di qui potremo piu facilmente conofie-  re gli accidenti , di chef amo partecipe. E  adunque L’amore desiderio   DI FR V I R E, ET GENERARE LA  BELLEZZA NEL BELLO, fecondo  che il diutn Platone difnifte nel Simpofio .  ‘Ter laquale diffinitione balliamo a in-  tendere l' Amore effere l'appetito , {fi non,  filo appetito , ma di bellezza , {fi di gene-  rarla nel bello . Onde per quejìa ultima  parte , come per propria cùfferentia t l'amo-   G ij    • *    loo L l B 7^ 0  re, e difìinto da ghaltri appetiti, iejuali  non fono di bellezza . Chi adunque /apra  che cofa è appetito , ft) che cofa è bellezza ;  faprà a fufficentia , che cofa e tumore.  L'appetito q) la cogmtione non effer quel  mede fimo dimofira quello , circa ilquale è  tana , ff) l'altra potentia . La potentia  del cono fiere è circa il nero . La potentia  dell' appetire è circa il bene . Sendo adun-  que diftmto il aero dal bene , e ancora di-  fintala potentia del conofiere , dalla po-  tentia dell'appetire . Il uero e quello , che è  adequato a. fuoi principij. Come il uero  oro e quello , che per tutto corri fponde a  principij, ft) alla effèntia dell'oro, non am  mettendo in fi alcuna cofa tftranea , ft)  auentitia . PI bene e quello , che per fua  natura fa quiete, fp) uoluttà. Sendo adun-  que il uero , fecondo la fua diffinitione,di -  finto dal bene , è necejfario , che U corni-  none   •* < y . f    T E X Z 0 . ioj   tione fiadifttnta , fecondo la fua dtffini-  tione , dall' appetito. Ter laejualcofa la '  facoltà del conofiere e una potentia in ap r  prendere il aero . Lo appetito è una poten-  te in fruire il bene. Della apprenfìone del  nero, fi fra nella corninone certit odine. ^Rel  fruire del bene t fi fra nell'appetito uoluttà*  sAriflotile nel fi fio libro dell'Etica dice, il  uero , ft) il falfò ejfir nell'intelletto ; tlbe-  ne; fp) il male nelle cofi, lS[oi 3 che diciamo  la corninone effer circa il uero > affermia-  mo il uero y ft) il falfi effer nelle cofi fecon-  do notatone 9 . Uguale nel fi fio libro della  Republica dice nell intelligibile effer e la uer  rità , nell intelletto la fiientia * llcbe non  repugna ad zAriftotile , come nella noflra  concordia dichiareremo. Al uero, ft) al  falfò féguita il benc,fj} il male : imperoche  nulla può efier uero che non partecipi del bt  ne ; nulla può effer falfò , che non partecipa   q tij    ìo2 L 1 % 0   del male , ft) però alla cogmtione,che e cir-  ca il aero yfeguita i appetito , che è circa il  bene . Prima conofiiamo , di poi appetia-  mo ; ft) appetiamo quello, che noi appetia-  mo y perche crediamo ejfer buono , ft) uti-  le per noi. ^Adunque l'appetito appetifie  quello , che la potentia del cono/cere giudi-  ca ejjer buono * onde è manifefto l'appetito  figmtare la cogmtione . Sono diuerfi gradì  di uero nelle cofe : Sono ancora diuerfi gra-  di di bene , ft) pero fono diuerfi cognitiont ,  ft) diuerfi appetiti ; onde et diuerfi certitu-  dini , ft) diuerfi uoluttà . £'l primo grado  di uero è nella natura Angelica , oue tutte  le co fi fino adequate a fuot principìj y ft)  però fino partecipi uer amente della bontà.  Circa ad effe è la prima potentia di cono-  fiere 3 laquale e chiamata intelletto ; ft) il  primo appetito , ilquale è chiamato uolon -  td nell' intelletto )e la pritna cer tit udine ,ft)     TE \Z 0 . 103   nella uolontà , la prima uoluttà . Il fecon-  do grado del nero , ft) del bene e nell'ani-  ma : om il aero , benché non fia affoluta*  mente aero , come quello della natura An-  gelica ; ilqualee per fia natura uero , e  nondimeno aero , ft) bene r adottabile , cir-  ca ilquale è la feconda potentia del cogno -  fiere , qual' e chiamata ragione ,{t) il fe-  condo appetito chiamato elettione , nella  quale e la fia uoluttà , come nella ragio-  ne , e la fua certitudme y laquale e detta  propriamente fcientia i fendo la certitudme  intellettuale detta fàpienza . & l terzo gra-  do di uero , ft) di bene , è nel gran fimma -  rio y circa ilquale è la fua cogmtione , qua-  le noi chiamiamo finfò intimo , ft) à fio  appetito principio della bellezza corporale ;  la certitudme di quella cognitione ft può  dir fede , ft) quella uoluttà fi può dire  tmaginaria . Il quarto grado è nella na-   . <3 «<j    104 L 1 3 ? \ O  tura corporale , oue le cofi astutamente  fono ombra di utro,q) ombra di beneinon  dimeno fino uero>ft) bene fin fibile. Et pe-  ro la corninone, che è arca tal ucro s e una  ombra di cogmtione; noi la chiamiamo fin  fi particolare , nelquale è neceffaria certi  t udrne y ma piutofto afimilitudtne 9 come ,  dice il dtum ^Piatone nel fi fio libro della  2{epublica ft) lo appetito 9 che è circa tal  bene e un'ombra del uero appetito , nel-  quale è uolutta al tutto ombratile : difcor -1  rendo adunque per tutti i gradi dell'ap-  petito y fimpre l'appetito è circa il bene ffi)  confeguente alla cogmtione . Et però io mi  marauigho d'alcum che diuidendo l'ap-  petito dicono lo appetito diuiderfi in natu-  rale , cogmttuo , (fuafì pojfi efiere ap-   petito finza cogmtione 9 ile he al mio pare-  re e afjordo : Imperoche mjfuno può appe-  tire , quello che è al tutto incognito 9 fi   noi    TERZO. tot  noi diciamo negli elementi efftr appetito  del proprio luogo s e neceffario concedere in  tfii e (fere una cogmtione antecedente allo  appetito , lacuale è principio et appetire 4  tutte le cofe , che appetifiono .   CAPITOLO SECONDO.     Est a c va dichiarar che  cofa e bellez&a , potre-  mo intendere chiaramente ,   che cofa e amore . La belle z?   za, come e detto difoprafe una gratia y uno  fplendore della bontà , che in fu la prima  giunta apparifce all'affetto , qua fi il colo-  re nella fuper fiele* Oue è da notare due co -  fe . ‘Trimala bellezza efftr obietto della  jotentia uifuale: dtpoi ejìtre per modo d'oc  adente , ft) eftrtnfeca. Le bellezze fon  molte ; perche altra ila bellezza dell'An -    ioó L 1 S* ^ 0   gelo, quale chiamiamo bellezza intelligibi-  le , ftj diurna : altra la bellezza dell' ani.   , ma rat tonale , quale al prefènte chiamia-  mo animale ; altra la bellezza del gran-  de femmario , quale e detta feminarta;  altra la bellezza del corpo , quale è det-  ta corporale : a tutte nondimànco è com -  mune ejfer un fiore della bontà , ejjer obiet-  to della potentia uijuale , efier per modo  d'accidente * Et per piu piena wtelligen -  aia e da intendere ejjer piu potentie uifùa -  li, fecondo che fino piu obietti uijibili. La  prima è efio intelletto , ilquale ragguarda  nella uerità intelligibile , ilquale è uera-  mente un'occhio eterno, che uede ogni cojà  Signore del mondo , temperatore delle co fi  celejli, ft) terrene. La feconda potentia  uifuale , è nell'anima, effa ancorale-,  culatrice della uentà : Ma multipbce,ffi  uaria, detta potentia rationale . La terzi*   j ènei    TERZO, r io7  è nel grande fiminario intenta alla uarie -  ta de fuoi fimi. Onde nafte l'affetto ,  principio della bellezza corporale . V ulti-  ma è ia potentta , dallaqual fin uedute le  corporali , preftanttfiima di tutte le poten -  tte finfualt particolari , come dice tAru  fiorile, aera imagtne dell'intelletto . Ha -  uendo dichiarato che cofa è appetito , ff)  che cofa, ecognitione, fffi che fino tanti  modi di cognitione , ff) d'appetiti , quan-  ti fino e modi del uero , ff) del bene : ba-  ttendo ancora dichiarato , che cofa è bel-  lezza , ft) e modi di effa , ft) che cofa è  potentia ut fiale , ft) i modi di effa piena-  mente pofiamo intenderebbe cofa fia amo  re , ft) la natura d'effo . É adunque  l’amore desiderio di fr vi   RE, ET D’EFFINGERE LA BEL-   l e 2 7 / a nel bello . Sendo l'amo-  re , defiderio , ft) appetito pof tamo inten-    108 L 1 ® 2^0   dere effir circa il bene . Sendo di bellezza ,  poliamo intendere effir circa quella partir  apatione di bene , che e detta bellezza ; la-  quale è efìrinfica , ftfi per modo dacci -  dente obligata alla potentia uifuale, St pe-  ro h abbiamo ad intendere l'amore effire  m'appetito , che figuita la cognitione ui-  fuale.Onde Plotino dice rettamente l'amo  re hauere acquifìato il nome dalla uifìone .  E detto appetito non folodi fruire la bel-  lezza ma d' e f fingerla per lignificare l amo  re effir efficace . Imperoche non glie a ba-  llante fruire la bellezza, fi ancora affet*  tuofifiimamente concependola non la effri  me ; ft) in chi ? nel bello ; cioè in chi fia di -  fpofto> ft) preparato a riceuerfì tale effir e fi  fione . Laqualcofia dichiara il diuin r Pla-  tone nel Simpofìo : quando dice l'amore e fi  fiere del parto della generatone nel bello .  £ modi dell'amore fon tanti , quanti fono   e modi      1    T E % Z 0 . 109   e modi della bellezza , ùjuah fi riducono a  dua , cioè alla bellezza diurna , detta Ve-  nere celefte , ft) alla bellezza finfibile 9 det -  ta Venere uulgare , ft) commune : ft) fe-  ro diremo e modi dell'amore effir duot cele  fte,{t) uulgare. L'amore celefte è appetito  intellettuale circa la bellezza intelligibile .  L'amore uulgare e appetito ftnjuale, circa  alla bellezza finibile . L'uno , %t) l altro  fa la fua efprefiione nel bellori celefte nella  natura diurna per modo di fimi , ffi) di na-  tura , come è detto ; il uulgare nella mate-  ria per modo uifibtle, fgl d'imagine ; la-  quale per tjuefto fi dice bella , perche e pa-  ratifiima a riceuere la ejprefitone della bel  lezza fimmana , di qui fi può intendere  la fententia di Alatone, quando dice Po-  ro figliuolo di Metide ebbro di Tettare,  ft) Pema hauer generato l'amore , ne na-  tali di V mere . ^Noi perche di quefta ma-      n o L I *B 7{0   teria h abbiamo breuemtnte trattato nel  primo libro del fulcro , (g) h abbiamo in  animo trattarne altrove pia diffufamen -  te , al prefente dimetteremo piu particola-  re efpofitione contenti filo in queflo luogo  hauere aperta la uia a quelli ,c he fino fìu-  dtofi d'intendere i profondi , fg) fegrett mi -  * fterij di Platone *   > f • - * , « v* f '   CAPITOLO TE^ZO. '   /chiarata ladiffini-  tione dell'amore , fg) come  gl' amori fin dua,cwè celeftc  ft) uulgare , refterebbe a di-  chiarare m che modo nafia , fg) quello ,c he  operi in noi l'uno , fg) l'altro amore , ma  perche dell'amore cele [le a bastanza e det-  to fi nel terzo libro del *7* utero , fi ancora  nel panegirico nofiro all'amore ; per quefio  diremo filo ft) breuemente dell'amore mi   gare .     T E % Z 0. ///   gare. Al pr e finte fuporremo in effir noi uno  cor puf colo diffufi per tutto , quafì unum-  colo infra l'anima ,(g) il corpo elementari,  detto spirito y mediante tlquale dall'anima  nel corpo piu terrefìre fia trans fufa la ul-  ta. Quefio fendo generato d 1 una fot tilifi  fima efialatione di fangue , ha origine dal  cuore principio , g) fontana del fangue  piu puro, fi) al cuore prende la utrtu,per  beneficio dellaquale noi fiamo partecipi  della uita, detta uirtù uitale . Dalcerebro  procede la uirtù,mediante laquale noi fin-  tiamo , g) et mouiamo , detta uirtù unir  male , dal fegato la uirtù , per laquale fi  fa il nutrimento . £t la generatone , g)  altre operai ioni f nuli detta uirtù natura-  le . Di tutte quefle operationi e mflrumen-  to lo fpirito , ilquale ( come e detto ) ha ori  gine dal cuore . Laqual co fa confidtrando  zArifiotile, fecondo la mia opinione, diffi    ÌÌ2 L / 2 % 0  il cuore eficr principio del uiuere , del fin -  W , ft) del mouerfi } fé) pero tenere infra  gl' altri membri il principato > Come que-  fio non re pugni a Platone , ilquale affer-  ma il capo effer prtnctpalfiimo di tutti e  membri , ajjoluendofi per e fio l'intelligen -  ita, laquale, è nobil filma di tutte le nofire  operationi, altroue a bafìanza dichiare-  remo, Stndo aduncjue lo fpirito mHrumen  to del finfo , mafiime della fantafia , che  marauigliaè fi con tanta affinità natu-  rale infra loro fi congiungono , che una po-  tente alter atione dell'uno fa tran/ito nel-  l'altro ? ‘Per lacjual co fa lo fpirito poten-  temente alterato , e baflante a muouere la  fantafia a produrre l'immaginatione fil-  mile a quella alteratane . llche apparifie  in quelli , che fino ueffati da ueemente fi-  bre , oue tal moto dello fpirito fa tranfito  nella fantafia. Mede fimamtnt e fe la fan-  tafia    T E Z O. 113   tafia interi famente opera in qualche peti-  fiero: nello /finto fi fa una imprefiiom  naturale , firmle a quella operatone . La-  qual co fa dimofirano le fife tmagwationi  delle donne grauide , in cui ueggtamo non  filo dalla fantafia far fi tmpref ione nello  fpirito y ma ancora mediante lo /pirico tra  pa/farene teneri cor pi del fio tenero por +  tato . E n?ittagorici fferauano medicare  le malattie con certi modi d'armonie . Im-  peroche l'anima dell'armonia e fi erme re -  uocata nella interiore , ff) naturale per  grande predominio , che ha / opra il corpo ,  produce fimtle armonia in e/fo , in età ftà  la fita finita . Ecco adunque , che dado  [pirito nella imagmatione fi fa tranfito ,  cogitando la fantafia fecondo che efio è  affetto dall' imaginat ione . niello fptrito  parimente fi fa tranfito , fendo l'ima -  gtne , come Juperiore , Ufi ante a muoue-   a    ìi 4 Lf I *B 0   re la uirtù naturale . Oltre a quefto hab -  btamo a intendere da ogni corpo generabi-  le > ft) cor rutilale far fi una continua refi +  lattone , ft) un continuo fiuffo, come after*  mano Sinefio , ffi ‘Troclo; rituale pir cer*  to /patio di tempo , ft) a certa dt/lantia fi  conferua integro , hauendo continuatane  con quel corpo , da cui procede . E magi fi -  gliono ofteruare cjuefto fìmulacro , per.   e/Jo offendere lo fpirito , quando hanno in  animo perdere alcuno • ^Mafiimamentc  fi fatalflu/Jb per gl' occhi .quafi per piu  aperte fineftre dell'anima , ft) dello spiri-  to : ilche afferma o^riftotile, quando dice  l affetto ciana donna, che patifta il men-  firuo fpeffe uolte machiare uno Jpechio .  È ancora da Jupporre nella generazione  delle cofi ejfir neceffaria una cagione , che  produca detta cagione efficiente , ft) una,  in chi , ft) di chi fi produca detta cagione  ... necejjaria ,    TET^ZO. ns   necejfaria , ft) materia. Et pero Telato-  ne nel Timeo dice , che'l mondo e fatto di  niente y ft) di necefiità , cioè dt materia ,  ft) Arift otite chiama la materia necefiità  nonjempltce , ma per fuppofitione . Impe.  roche come (e fi dee far ma cafa , ft) una  fatua y è necejfaria tale , o tal materia y  coffe fi dee fare que fio ornamento , qua-  le noi chiamiamo mondo , è necejfaria ta -  le y ft) tale materia , di che effo fìa confiti  tato; ft) però la materia per fitppofitione f  è necejfaria * . Oltre a (juefte due è ancora  necejfaria una cagione infìrumentariayme  diante lacuale fia preparata , ft) diffofta  la materia a riceuere attamente il dono  della cagione efficiente . TSjoi pretermette-  remo come a quattro cagioni della genera-  ■tione indotta da zArifìottle , cioè efficien-  te y fine y materia , ft) forma fieno da Pla-  tonici aggiunte le cagioni eftmpìari , fg)   ^ H ij    !    n6 L I 3 ^ 0   l'organica . lmperocbe alerone s' appartie-  ne determinare di queft a materia.. Oue di  chiararemo ti nero efficiente dilla genera-  tione ejjer la parte naturale dell'anima  mondana ,chiamatada noi di {opra gran-  de Seminario. Il fole, ff le fuflantie indiai -  due effer cagioni inftrumentarie : questi co  me inftrumentt particolari,quello come in -  flrumeto uniuerfale. Al prefente ci bafli la  generatione hauerc dibifogno della cagione  efficiente, della infìrumentaria,e della ma  tena.Pofìi qucfli tre fondamenti facilmen  te pof iamo intender come nafea in noi que  fla affett ’ionc , quale e nominata amore .  Ada f imamente fe non et fiamo dimentica-  ti eh quello, che è detto poco innanzi, l'amo  ' re hauer confeguito tl nome dall'affetto .  Quando adunque per lo affetto ci s'appre-  fenta nella fantafia qualche ff et t acolo, il  quale noi appromamo , come bello ff) pieno  ,p ^ ' dtgratia    TERZO.' V/7-  di gratta; [àbito t anima eccitata nella col  gmtione della /ita bellezza interiore v defe-  derà non filo fruirla, ma e f finger la . Et .  perche tale efirefiione ha dtbifigno della  materia , ft) del fubietto, atto a quell&rk  cetttone ; per quefto de fiderà ejpt merla in  quello , che efid ha prouato , ft) da cui è  fiata eccitata a tale ejprefiione , come piu  atto a riceuere la participatione della bel-  lezza, ft) perche quella ejprefiione non fi  può far nel bello , quantunque di fra no* ’  tura atto , fi prima non e frffiaentemen*  te preparato : per quefto mtenfamente de-  fidera congiugner fi col bello ; Come quello j  che altrimenti non può efficr preparato ;  che dalla uirtìt del fime , ilquale è tnftru*  mento naturale ad efpr'tmer la bellezza fi  minarla dall'anima . *Di qui fi può uede ;  re apertamente con l*amor uulgare 3 effèr  fimpre congiunto il defiderio dell'atto Zie-   H. iij    -ni LI 3 710  nereo , fecondo Platone, Imperoche fendo  l'amore defedeno defungere la bellezza  nel bello , fj) non fi potendo effìngere , non  fendo preparato ; ne prepar andofi fe non  per quell' tnftr amento , quale ha deputato  lunatura , cioè il feme y oue fiala uirtù  gener attua, Imperoche la generatione y o  non fi ejpcdifie fenza il feme , o per il feme  piu commodamentefe necejjario fìa accom  pugnato naturalmente da quel defìdeno y  • qual noi chiamiamo Venereo , Et quefea  c una commune difpofìtione dell 1 amor mi  gare circa ogni bello. Imperoche l'anima re  focata nella bellezza interiore , giudica  ogni bello , degno ; in cui s'effinga il fimu -  lucro della bellezza . Ma quando noi ap .  prouiamo piu un bello y che un'a\tro y come  piu grato apprefjo noi , penfando del conti-  nuo adejfe affettuofamente ; fi fa nello (f i-  rito ma certa difpofìtione confeguentea    TE 2? Z 0. 4 W   quella cogitai ione . lmperoche y còme edit-  to , dall' anima fi fa tranfito nello fpiritq  come tn proprio y $) naturale infìrumen -  to. Incontrati adunque m quello , circa cui  Jiamo affetti , ff) a una certa diftantia  appropmquati riceuiamo nello fpirito per  tutto il corpo quello efirementofilquale na u  turalmente fi rifolue dal corpo dello ap-  prouato fpettacolo ; Mafiimamente fi fa  tale recettione , quando noi dtr itti gli oc*  chi nel uoltOyft) ne gli occhi dtUa co/a,  che tanto ci piace , per la marauighadi-  uentiamo fimili a gli ftupidi • Imperoche  come per gli occhi , quafi per piu paten-  ti finefire , fi fa maggiore refolutione del-  lo fpirito y coli ancora per efii è parata  piu la uia negl'intimi penetrali dello (pirt-  to . Marauigliofamente opera l' efficiente È  quantunque debile , nella ma teria ben pre-  parata fupplendo alla debilità della cagto-   H tiij    12 0 L 1 S 2^0  ne, la dtfpòjitiòne della materia, della qual  co fa e mani fefto inditio in gran copta di  materta da una pìccola fcintilla fiufiitarfi  grandi fimo incendio . Lo Jptrito dallo af-  fetto continuo della fifa cogttatione , quafi  formentato , come prima è tocco da quello  efiremento ,/uhito alterato -, quafi fimu -  tavella natura di quello : Intanto che ar -  riuando l'tnfettione al cuore, fontana del-  lo jpirito, fa che, ft) effi ancora parimen-  te patifia . Onde ft) il /angue ,che in lui  fi genera , ft) lo /finto , che è infi aurato  dalla continua efalatione del /angue, riten  gono quella medefima infettione . Di qui  'auiene , che quelli, che fino infermi dalla  graue malattia dell'amore, (intono dolore  principalmente nel cuor e. lmperoche la co-  fà amata fa uiolentta nello Jpirito', ft)  per lo //ir ito nel cuore, onde ha origine'.  Meramente alla maggior parte de malt(cò   me dice       r £ x z o. ni   me dice tldium Alatone) un certo demone  ha mefcolàta la uoluttà dolcifrima e/ca ,  l'anima inferma fi diletta dei diuin afpet - .  to del fuo bello ffett acolo ; ffr) in prima del  lume de' rifflcndenti occhi ; Màinganria-  ta dalia uoluttà 3 non finte il mortifero uè -  ne no penetrare , per li occht entro alle uu  [cere ; dalquate il grauiftmo morbo pren-  dendo nutrimento , d'hora in bora mera-  uigliofametiie crefce . c Adunque lo ffniito  tutto infetto , mouendo uiolentemente la  fdntafraja coftrmge non mai ad altro pen  fare ch'ai fuo bello spettacolo ; rituale ap-  prouando l'anima , come foto derno in cui  effa poffa ottimamente cfprimere una bel-  la prole y a fmtlitudtne della bellezza in-  teriore y eccita uno intenttfrimo dtfrder io  di fruirlo . Quefìa e la generatione dell a -  mor uulgarc per quanto i circa alla hd-  lez&aparticolare d'uno , o d'm'altro . Cjli    T22 L I 2 7{0  accidenti , che l' accompagno™ , in par-  te faranno dichiarati brevemente da noi  in quello che fiegue .   f& ' ■ al   CAPITOLO OVATTO,^    Omi l' anima èia aita del  corpo, co fi la cogitatone è la  ulta dell' anima. £1 corpo fi  dice ejftre allbora infirmo ,  quando l'anima /eco non confinte . Ondo  l'arte della medicina non è circa altro , che  in conciliare l'anima al corpo-, in che sla  la finità dell'animale . L'anima e infir -  ma , quando non confinte con la fua cogi-  tatane , ma difìratta dimenticataf , ff)   « di quello, che efia è, ffi) delfuo ufficio ; non  cura , come è conueniente , fi medefima.  L'infermità principali dell'anima fon  dua:l' una è detta ignorantia-,1' altra e det-  ta infanta     i    T E 2 0 > 123   ta infima ; le quali fin unto piu gratti *  che le malattie del corpo , quanto i anima  e piu eccellente , ft) piu nobile , Ma a che  fine tjuefto ? Certamente perche la cogita *  tione dell'amante non mai fi parte per un  filo momento di tempo dall'amato . Et pero  dimettendo il fuo uffitio naturale , non  confinte con l'anima di cui è ulta . Vani -  ma inferma , ft) affetta accompagna la  fua cogitatone : lmperoche nulla può uiuer  lontano dalla ulta . TDi cjui aduiene , che  l'amante e detto uiuer finzlamma, unteti*  do nell'amato . Queflo fa, che'l corpo non  riceue il defiato dono dell'anima : onde, f)  ejjo cerca dell' amato, q) trouatolo alcjuan  to fi quieta 9 (juafi habbta trouato ìani-  ma , ma perche ne all'anima e concejfit  la cogitatone , ne al corpo l'anima, cioè ne  all'uno , ne all'altro la fua ulta , è necefi  fàrio, che ciafiuno incorra in grauifiime    iriJf L I 2? TfO  malattie ; l'anima nell'ignorantia 3 fjf) nel-  l'infima : il corpo nella difcordia di tutte  le fie parti fra fimedefime che è il mafi  J Imo di tutti i mali . Di qui fi può uedert  quello 3 che uolfi tl dtuin Telatone nel Sim*  pofìo 3 quando diffi , l'amore ejjèr arido  efier macilento 3 effer e /quando co piedi nu-  di uolare per terra 3 finza cafi 3 finza  letto , finza coperta alcuna dormire nella  ma prejjò alle porte ; ffi) quefìo per effir  figliuolo della pouertà « Imperoche l'aridi-  tà 3 la macilenta , lo fquallore che 3 e ne  corpi degli amanti , feguita la difcordia  delle parti del corpo fi a fi) lequah non  pomo adempiere il fio officio naturale 3  non fèndo l'anima intenta aidehito reggi-  mento deleorpo . L'anima difir atta dalla  potente cogitatane 3 opera de talmente nel  corpo : onde conuertita la maggior parte  del cibo in fiper fluita 3 fi genera poco fin-   gue 9    TERZO. i2$  gue, ft) quello per la mede/ima cagione fin  do mdigefìoy e grofjo, ft) negro . El difetto  del [angue , di che fi fai alimento genera  efiiccattone , ffi) configuentemente eftenua  tione mi corpo . La grofiez&a,{tf ba negrez -  za genera affcrità , mifihiata col pallore .  È adunque lamore arido , perche e cagio-  ne y che e corpi delti amanti manchino del-  la conuemente quantità del [àngue , diche  fi nutrifiono . E macilento perche il difet-  to del nutrimento genera in efit efienuatio -  ne di tutti e membri. E [quaUido perche fi  nutrifiono di [àngue groffiy ntro y ilqua -   le genera [quallore . Tutto quefto non uuole  altro (tonificare , finon che e corpi degli  amanti principalmente fono obligati a ma  li malinconici . Et quefto inquanto a mali  del corpo . 5 S[oi h abbiamo detto quando la  cogitatone y non confinte con l'animaygene-  rarfi in ejfà Tignorantia , t infanta ;    12 6 L I *B T{ 0   ' «   onde hanno origine tutti glialtri fitoi ma-;  li . Volendo adunque ed diuin ^Platone fi*  gmficare la ulta degli amanti e fiere affati  caia dall'ignorantia , dall' infama, ff)   configuentemente da glialtri mali , che le  figuitano : diffi l'amore effer co' piedi nu-  di, per che non curando l'anima fi medefi-  vna rettamente, come aduiene adamante,  non conofie quello , che effa è, anziché e di  gran lunga peggio ) crede fi effer altrimen-  ti che effa fia . ~Di qui aduiene , che effa è  priuata della cognitione della uerttà . Et  pero in ogni fua anione procede finza ra-  gione alcuna , e uer amente co' piedi nudi .  Diffi uolare per terra , perche l'amante fi  fa firuo della bellezza corporale . Laqual  cofa nafie daefìrema tgnorantia , da  cfìrema infama , fèndo l'anima noftra nel  numero delle cofe diurne , lequah hanno a  dominare alle cofi corporee , ffi) non fimi-   re . Di    TERZO. ixà   re. TDi qui naf ce , che l'amante e fòt topo-  fio a infinite offe fi , ne mai uer amente fi.  quieta in cofa alcuna , ne ancora nella co*  fa. amata , fendo fempre agitato da uant  speranze , da uani timori , i quali fi-  no m modo potenti , che effo non ha fatui-  tà di poterli in alcun modo celare ,quafi  un fìupido , obhgato fempre alla bellezza  corporale , ma alla bellezza diurna, ap-  poggiato a [enfi , iquali fino parte dell' anu  ma noflra ; mentre e congiunta col cor -,  po mortale . 'Rittamente dunque l'amore  fi può dire finza cafa , finza letto , fin-  tai coperta , dormire all'aere nella uia ap-  presole porte. Sendo adunque l'amante  fottopoflo a tanti mali per cagione del-  l'amato , qual pena fi potrà trouare con -  ueniente , fi efio non riama ? Certamente  chi priua il corpo della ulta e h omicida :  chi rapifie le cofi diurne èfacrilego.L'ama    ì2S L 1 3 % 0  to e fi ordendo la cogitattone all'aman .  te rapifce l'anima sofà neramente diurna .  ‘Priua ancora tl corpo della aita , uiuendo  effo per la pre/entia dell'anima : Onde co-  me homictda , ft) Jacrilegofe degno di cru -  delifiima morte . <^Ma riamando l'amato  marauighofamente reHituifce l'anima al-  l'amante . Imperoche , chi riama dona la  fua cogitatone , ffi) la fu a anima, nella  quale urne l'anima dell'amante . £t pero  donando fe , refhtuifce all'amante la per-  duta anima ; ne per quefto pero abbando-  na fi mede fimo , battendo fmpre fico con-  giunta l'anima dell'amante . Oitefh ffij fi  mili fono gbaccidenti , che feguitano al-  l'amore per hauere origine dalla pouertà ,  come madre . Chi uuol conofiere efijufita-  tnente ancora quelli , che configuitano al-  l'amore pereffer figlio di Poro , cioè della  ma alla copiai legga icomcntarij foprail   Simpofio    T E X Z Ó. 129   Smfojto del Duca noftro ^Marfiho ; otte  la natura dell'amore fecondo la intenda-  ne di ‘Platone è diurnamente ejplicata .   CAPITOLO giFIT^TO.   ... \ .   Otrebbe alcuno dubi -  tare > perche cagione non fìa  mo parimente affetti circa  ogni hello. <JMa fi ne trotta  qualcuno , tlquale , henche giudichiamo  efeer hello, nondimanco non eccita in noi  quello intenfò affetto , quale chiamiamo  amore. Qualcuno altro potentfiimamen-  te ci commuoue ; anzi {che e di gran lun-  ga piu forte ) fpejfi fìamo affetti a quel-  lo, che ancora noi medefimi giudichiamo  effèr men hello in fa molti . Quella qui -  fi ione fecondo la mia fintentia , fendo difi  folle , ftj) anfia y fff) ha fi ante ad affati -      n o L I S 7{ O   care ogni buono ingegno habbtamo dedica-  ta al fine di quefta opera , della quale al  preferite breuemente tratteremo . Qualcu-  no forfè giudicherà la femilitudme , g)  la congruente , perche noi fìamo piu. af-  fetti ad un bello , che ad un'altro : hauere  origine dal padre , g) dalla madre , quafi  fia neceffariOy hauendonot di quindi l' effe-  re, hauere ancora da mede f mi tutu l' al-  tre ajfettioni ; Qualcuno altro crederà  douerfi ridurre alla natura > g) al Cielo  come autori di tutte le cofe inferiori . Tfoi  che fèguitiamo il dium Alatone, affer y  miamo la datura , g) il Cielo efeere in-  dumenti della diurna inteUigentia , g)  per queflo operare nelle cofi inferion y quaii  eoi loro ordinato di fòpra . ‘ Diremo dun-  que le cofe diurne ejjereinfra fi di flint e ,  fecondo che s'appropinquano , o fino lon-  tane da quel principio % onde procedono ,    i T B '%'Z 0. ni   fa per quefio fèndo /’ anime rattonah nelnu-   W mero delle co/e diurne, e neceffario altre efi  fa fere ne primi gradi della perfettione , al-  $ tre ne fecondi , altre ne tertij . Quefla di -  { ftributione ha origine dal primo mtellet T  tri to , ilquaìe difipra habbiamo apellato ,  tjl fff Angelo , ft) mondo intelligibile , oue  l tutte le cofè hanno il loro efiere perfiettifi  /- fimo . Sendo adunque l anime rattonali  ì difìribuite in tanti ordini , quanto è il nu-  , mero delle stelle, come dice ildiutnTla-  i tone nel Timeo , benché naturalmente  tutte fieno in fra fi confintientt , nondi-  meno infra quelle è maggior confinfi , in  chi è piu congruentta , ft) piu fìmihtudi-  ne : Onde l 1 anime di ciafiuno ordine piu  cónfintono fico medefìme , che con quelle ,  che fino di dtuerfi ordini , hauendo infra  fi maggior fimilitudme , ft) maggior a fi  finità: fór bigratta, t anime fitto l'ad-   l \ V t,;-    Vs»    i3z LIVIDO  tniniftr attorie di Gioue piu conuengono in  fra loro ; che con quelle , che fino ordinate  fitto l'amminifìr adone di «J "Marte , o di  Saturno : fendo piu fìmili , ffi piu affini.  & anime , che dt/cendono nella genera-  tione tratte dall'amore delle cofe terrene  formandofi i corpi , iquali reggono : in efii  efprimono la natura fua per qudto la ma  teria ne può effir capace . lmperochejl cor-  po none altro y che una imagine dell ani -  ma , ft) quanto i corpi fino piu perfetti *  tanto meglio rapprefintono l'anima . On-  de il corpo celefle perfettifiimo di tuttii  corpi , fèndo tanto uicmo all'anima , che  tffi quafì fianon corpo , ottimamente la  reprefenta : HPer laqual cofà t anime , che  difiendono nella generatone sformandoli  da principio un corpo di \ Natura fimileal  corpo celefle ( ilche hauere affermato Ari-  fiotde ancora confinte Temifiio ) prima in   V • * *Jfi    MI»   mi    ni  j I   tu-   w    w-    h   ri-   tti   it   li   fi   i   9   fi-   in    TER Z 0 \ 133   ejji fanno la fùa participatione sfatta-  mente , dipoi negl altri o meglio , o peggio,  fecondo che per la loro perfettione , o tm-  per fattone , fi prefi ano piu , o meno obe-  dienti . Tutti nondimanco ritengono il Ca-  rattere dell'anima Jua r fendo adunque la  bellezza corporale rnagine della bellezza  dell anima, {fi per queflo riducendofia  medefìmi ordini , quel bello filo è ajfet-  tuofamente offeruato da noi ., ilquale fi ri-  duce al nojìro ordine , {fi quello è innanzi  a tutti offeruato, {fi adorato , che proce-  de da anima nel medefimo ordine di firn-  ma preftantia , {fi di fimma degnità,{fi  per queflo fi V anima noftrà e intenta alla  generatione , fubito, che ci incontriamo  in efja , quafì attoniti giudichiamo altro -  ue piu attamente non potere ef fingere la  diurna bellezza . * Onde a nullo altro pen-  iamo, m nulla altro tt udiamo >che adem-   I *   /    tu LIBICO TERZO.   fiere l'ardente defìderio nojìro . Quefta  forfè effir la cagione, come io fimo' affer -  merebbe uno ftudiofodeldiuin ‘Tlatone ,  per laquale fiamo affetti pm ad uno , che  ad un'altro bello . Queflo fìa tifine, o buo-  no Amore del nojìro cercare , della tua di-  urna origine . Dio uolefii, che a me fufii  tanto facile trouare le parole , quanto co-  fi grandi , ft) marauighofi di te concepia-  mo . Imperoche e mi farebbe un pic-  colo inditio , che la mia te -  nebricofa mente pof  fa effire Ulu-   firata " ;   i . dalla chiarezza della tua di ; •  £v; umifitma luce .   iL FIl^E DE I T^E LI.     A'* l ' -^V    DI M. FR ANCESCO C ATT ANI   DA DIACCETO, FILOSOF OjE T  6 E NTIL’HVOMO FIORENTINO. *    % • \ t   • • • \   j. Giof'^t'HX 1 conisi, e .   PALLA B. V G E L L A I<   ’ ' • V ?• fN *> 1 . f\ I .   • . • • » >.» . % v ; j . « +4   R AVE PECCATO  è non fentire rettamen-  te de gli D.ìj , molto piu  grane detrarre alla lo-  ro maie(ìà,ft) pero ca±  r fórni amici, non uituper atelo amore,  cojà certamente diurna, acctoche nonni  auenga come a Steficoro Poeta, ilquale ef       136 PATSfEG ITTICO   fendo accecato per hauer ne' fiuoi uerft pec  tato contro a Helena,non mai recupero la  perduta uifia fi prima fatti e uerfi incon-  trario fenfe non placò la offefa deità . Ho-  mero ancora perche non uolfe confejfare  hauer peccato yUtffe cieco infin nell'ultima  vecchiezza. V n adunque non filo ui after  rete da tale uituperatione , ma celebrando  ilfacratifiimo nome dello amore,lefue mi-  rabili uirtuti infieme meco predicante y fe  non come e conuemente a tanta maieftà ,  almeno fecondo le forzz del uofiro ingegno ,  di che nulla piu uttle a uoi , nulla piu ac-  cetto a gli Uij fare pofiiamo .   6 Neffuna cofa e tanto grata quanto la  bellezza, neffuna tanto mole fi a quanto la  deformità . La bellezza rapifie e diletta  l'anima no lira, per contrario la deformi-  tà l' affligge e la difeaccia. La cagione  credo fia , che la bellezza offendo fuori alle   co fi    ' ALL 9 AMORE. 137  cofi create mofira la perfettione di drento %  onde uiene , perche la perfettione dt qua*  lunque cofa e accompagnata da una certa  gratta ejìeriore , laquale dimoftra quella  cofa non hauere di drento alcuno difetto , c  pero non e merautglta fi l'anima noftra e  prouocata e rapita dalla bellezza; impeto -  che effa naturalmente indoutna per la bel*  lezza douerfili aprire la uiaatla infinita  perfettione della diurna bontà , per laqual  cofa li antichi Theologi affermano la bel-  lezza effiere portinaia alla habitatione fi*  crettfitma della diurna bontà , quafi fia  neceffarioa qualunque cerchi ladtuinità  prima incontrar fi nella beUezza.£per que -  fio la bellezza non è altro , che uno fiore ,  una gratta , uno splendore della diurna  bontà, laquale prouoca e rapifie tutte le co-  fi che hanno facultà di cono fiere, accioche  per fuo beneficio fi faccino dteffa parte*    13 * PA^EGltTCO  dpi y ou'èla aera q) ultima perfittione di  c taf imo . Onde fi cofi che hanno potentia  di cono/cere , fino piu perfette > che quel-  le che ne fino prrnate , ffi fra quelle che  condfiono ■> chi ha miglior grado di cogni-  tione ha maggior grado ancora di per fet-  tione , la ragione è, che chi ha miglior gra *  do di cogmttone , cono fendo piu perfetta-  mente la bellezza , e intromeffo a maggior  grado della participatione della diuimtà ,  doue conftfle la perfettione . Onde la firn-  ma cognìtione fi fa participe di fimma  perfettione , conofcendo ptrfettifiimamen-  te la bellezza , Ma chi è al tutto priuato  della cognìtione yfendoli nafìofio lo fplendo  re della bellezza y è priuato ancora della ue  ra participatione della diuinitdye pero me-  ritamente fi reputa imperfettifimo fra le  cofi create . Chi negherà le cofe inanimate  effire piu imperfette che quelle ylequali han   no anima t    1    { A L V A MOltJZ . 139  no anima t ft) fa quelle , che hanno ani-  ma molto piu imperfette e (fere le piante , e  gli altri animali che Ihuomo? Le cofe ina-  nimate no battendo cogmtione alcuna nten  te guftano della bellezza , ft) pero hanno  poca per fattone , perche per ft non pojjo -  no aggiungere alla diurna bontà. Le pian-  te ( come dicono e c ~Ptttagorici ) hanno co -  gnitione, ma Hupida , ft) quaft di huomo y  ilquale fubito fùeghato finte e non difier-  ne . Gli animali irrationah fentono , e di-  feernono , e nondimeno perche lo fplendo -  re della uera bellezza troppo fupera la loro  f acuità del conofiere 9 e fi ancora hanno de  bile perfettione . Solo l'huomo fa quelli  che habitano in terra e capace della bellezz  za , efiendo in lui ampli fimo grado di co-  gnittone 9 onde efio arnua a non piccolo gr a  do di perfettione . Ma nella natura ange-  lica ft contiene el fommo grado di perfet -    OteVV ài    0    'i 40 PAVfEGlTUCO   itone , offendo da Dio principio , (fogni  lume , in e (fa fitto infufo uno lume> Ugua-  le congiunge la cognittone uerifiima con la  uerifiima bellezza , e dalìacjuale la cogni -  itone è dertuata nell* alt re creature , come  dal Sole fontana d'ogni lume uifibilefe de-  riuato ogni altro lume nelle cofi corporali .  Chi dubita la bellezza fola rapprefentare  la diurna bontà t confideri il Sole effere bel-  hftmOydi tutte le cofe che fi tncontrono alti  occhi nofìri, uer amente occhio eterno del  mondo , come dice Orfeo , ih/uale gli anti-  chi Theo logi chiamorono figliuolo utfibile  di Dio 9 anzi diciamo effo effere nel mondo  come in facratifiimo Tempio merauiglto -  fifiima ftatua di Dio . Onde apprefio gli  Sggitij ne i Tempij di Minerua fi legge ua  fermo in lettere d'oro .Io sonocio  CHE £ , C I O CHE È STATO, C/0  che faràyil uelo mio non difìoptrfi alcuno ,   il fole    ALL'AMORE. 74 1  il file futi frutto ch’io partorì di che ap-  pare il Sole bell forno , fi a le co fi uifibili  uer amente rapprefintare la diurna bontà,  come imagme di effa nel mondo.. Sfondo  adunque la bellezza qual di /opra e dime •  firato ,non è merauiglia effa prouocare im-  mo rapire a fi le nature conofienti , mafii-  mamente quelle che hanno amplfomogra  do di cognizione , c Anzi piu tofto diremo  ejjè hauere in fi mio ardentifiimo defide-  rio , per beneficio delquale non già rapite ,  ma fpontaneamente cercono e configmfio-  no la bellezza, cagione della loro per fetto-  ne. Quello defiderio non pofjede al tutto la  bellezza allaquale fi muoue , ne al tutto ne  è priuato , perche fi fufii al tutto pnua -  to della bellezza, non harebbe di effa alcu-  na cognttione , onde ne la potrebbe defide-  rare . 2 Spi figliamo defiderar do che noi  defideriamo come cofa buona f utile per    i 4 z P AT^EGl^lCO  noi , altrimenti mai defidereremmo mila .  Chi è colui che defiden il (ito male ( fi  già al tutto non è infinfitto ) , fi adunque x  noi fiamo priuatt della notiti a di co fa al-  cuna , non ci ejfindo noto , fi tal cofite t  come la pofiiamo defiderare come cofa buo  na ft) utile P er not • mn 6 dunque da du-  re che'l de fiderio della bellezza , al tutto dt  e JJa fia priuato . 7S[e ancora è da dire ta-  le defiderio pojfidere la plenitudine della  , bellezza , perche chi poffide non fi muo-  ue alla cofa quale lui pojfide , ma piu to-  fiola fruifce. Chi non conofce che la po-  tenzia delmuouerfi e data alle cofe create  per arriuare e configuire quel termino y che  tjfi non p affiggono 1 ilquale come hanno  pojfiduto fiibito ce ([ano dal mouerfu Onde  elmoto e connumerato da Filofifitra le co  fi imperfette . Ma colui che de fiderà fi  muoue in un certo modo a quello che efio   defidera ,    i    ALL* AAf07{£. i#j\   de fiderà , e pero non lo pofiiede y percbe fi.   10 poffidefii , farebbe uano ildefiderarlo 9i  godendolo finza interna filone 9 per laqual  cofa il defìderio della bellezza > è poflo in  mezo della pnmtione , e della pofiefiiont  di e[fa\ participando tutti dua lieflremi .  Quefto defiderto fi noi chiameremo amo-,  re > non faremo da h h uomini ne etiam da   11 dij meritamente riprefi , perche in ogni,  natura creata , o uuoi angelica , o uuoi ra-  tinale l'amore non e altro che uno arden- .   • » • 4 *   tifiimo defiderio di poffedere e di fruire la  bellezza > quanto a fi e pofiibde. Perla -  qual cofa, li antichi Theologi non collocaro-  no lo amore nel numero delle cofè diurne  come quelle che in fi hanno la plenitudine  della bellezza , ne ancora nel numero delle  co fi mortali , come quelle che in ueritàne  fono [fogliate , ma nel numero di quelle  che, delle mortali e delle diurne fono parti-    1    i44 ALL'AMORE.   dpi , parimente , come e la natura demo-  nica . Onde efit chiamorono lo amore non  Iddio , non mortale , ma grande demone ,  perche la natura demonica, pofta m mezg  fra gli huomini e li TDij quafì interprete ,  conduce a li Dij li prieghi e fàcrificij degli  huomtni,alh huominila uolontà e coman-  damenti de Ili Dij . Qie per altro mezo li  huomini,o melanti o dormienti fino m-  fpirati dalla diurna bontà , che per la na-  tura demonica . ‘"Parimente lo amore po-  fto in mezo della cognttione , e plenitudine  della bellezza , non filo prepara , e difio-  ne ottimamente alloinflufio della bellezc  , le cofi che ne fino priuate , atte a par-  ticiparla , ma ancora traduce della bellezr  za un lume, per ilquale effe fatte belle ,  configuirono la loro felicità , Quefìofigni-  ficorono li antichi Theologi quando difièno  lo amore efiere figliuolo di c Toro , e di Pe-  nìa gene-    ÀLVAMOXB. t+t  nia generato ne natali di Venere , e pero e fi  fere fittatore e cultore di ejfi . lmperochc  Venere figmfica la bellezza , Poro [tonifi-  ca, meato e uia , Penta lignifica indigene ta ,  e pouertà , E adunque generato lo amore  della indtgentia,come madre laquale è nel  la natura ,che ancora non ha participa-  tione di belle zia, ma ha bene una certa po-  tentia e prontitudtne adhauerla, £del  meato e uia alla bellezza, come padre, cioè  c imo influjfi ouuoirazp, ilquale proce-  de dalla bellezza , e conduce ad e (fi la na-  tura indigente . Onde l'amore uiene a par -  ticipare della tndtgentia,inquanto fi muo-  ue alla bellezza , e dello influjfi o uuoi ra -  zp , inquanto al tutto non e priuato della  cognittone di efia . Meritamente adunque  lo amore è detto fittatore , e cultore di V ?-  nere; imperoche lo amore fimpre figutta la  bellezza,* lei bellezza fimpre eccita la amo •     j ó P. A TfE G l'FJCO',  ye . Sarebbe lungo a dichiarare quello che  intendono li antichi Theologi quando du  cono effer due V mere t una figliuola del eie -  lo finzetmadre^ e però effer detta cclefte,.  laquale nacque de genitali del cielo cafra %  lo da Saturno fuo figliuolo /àbito che fu  nato. E da la fpuma del mare , oue efit  genitali caddero. L'altra figliuola di Cjio*  ue e di Dione , detta uulgaree comune. Et.  pero al pre/ente ba fiera dire fidamente co*,  me fino due Venerefiioè due bellezze* Mia  celefìe , l'altra uolgare , cofi effer dui amo -,  riyUno cele fi e fi altro uolgare. Lo amor ce  le fi e feguitare la bellezza celefte e diurna ,  e'iuolgar , la uolgare e comune . <£\da for-  fè non farà fuori di propofito , incomin-  ciando fi da uno altro principio dichiarare  m che modo fono diuerfe bellezza > e diuer-  fi amori , effendo fempre feguitata come è  detto ciafcuna bellezza, del Juo ; amore .  f ^l'ordine    rALL'AMO'RE.'H*   \ : '7S(e l' ordine delle cofi il primo e capotti  tutte e effi Dio infinita bontà, infinita firn  piletta y principio y mez.o , e fine d'ogni co-  fa y bene de bem y lume de lumi . TDopo Dio  ~ è lu natura angelica , laquale fi come è  la prima creatura che procede daTDiò ,  iCofi tiene il primo grado diperfettione tra  le cofi create . TDòpo l 'Angelo e la natura  rationale , laquale ancora è detta anima,  tanto meno perfetta dello angelo , quanto  è piu lontana dal prtmo/lSfondimanco ha  in fi tanto grado di perfezione , che ejja  pon filo intende la natura angelica , ma  ancora a fende al profondo abifio de la di  uina luce . Quefla produce e regge tutte le  cofi corporali , e con la fua prefentia dona  loro la ulta , ft) il moto . lmperocbe qua T  lunque uiue,in tanto urne, quanto dal' ani  ma riceue il pretiofi dono della ulta , dalla  quale effa e origine e fontana . Il quarto   " * " K ¥ : m    w %• J    i*8 P ATSJ E GVBJ CO   luogo tiene la natura corporale , lacuale al  tutto digenera dalle cofi diurne , perche in  ejfa nulla è di uero , nulla di certo , ma  ogni co/a imagmaria e uana fimile a l'om-  bra de cor picche apari/ce nel continuo fluf  fi dell acquaylaquale continuamente fi ge-  nera e fi corromperne mai (la ferma in  uno ejfire . L'ultima ne l'uniuerfi, è la ma  teria y nella natura della quale non e ordi-  ne o perfettione alcuna , molto piu uicina  al non ejfire y che a l'efier e. Adunque fi può  dire ejfire ne l'uniuerfi cinque gradi di co*  fiyCioe T)to y l' Angeloyl' animaci corpo , la  materia ydequah dua ettremi fino in mo-  do contrarijyche l’uno, cioè Dio è auttore,  e cagione di tutti t beni.L'altro y ctoè la ma  teria è cagione e auttore di tutti e mali . Id-  dio tanto eccede le cofi create , che e fio non  può ejfire pienaméte intefi da alcuna crea  tura . La materia ha in fi tanto difetto ,   che    ALL* AMORFE i\ i+p   che per fua natura, fi come fogge lo e (fere,  cofi ancora fogge la cognitione. Et per que-  fio ne la materia no è bellezza alcuna, an*  zi piu toflo u'e fimma deformità , perche  la bellez&a(come e detto)accompagna firn  pre la bontà, ne fi può trouar bellezza do* '*  ue non fiabontà',e noi hauiamo dichiara-  to nella materia non ejfire alcuno grado  di bene,efiendo la materia ejfo male, e prin  cipio d' ogni male . 5SS? ancora in Dio e bel-  lezza alcuna, imperoche Dio e fimma firn  plicità ,ela fimma (implicita non e capa-  ce di bellezza , ma caufit di ejfa, e fendo la  bellezza nelle cofi create . Onde in Dio e tan  ta perfettione ,che quando noi diciamo,  Dio è fapiente , Dio è uiuo , D io è gtufto  e bello , noi habbiamo a intendere in ‘Dio  non ejfire, o uita , o fapientia, ogiuflitia,  o bellezza, nel modo che uedtamo nelle co-  fi create, ma Dio ejfire cauja nelle crea-  . . > K tij    nò PAtyEGIKIdO-   ture , della fipientta , della uita,dtllagiu-  ftu ia, della bellezza, e però Dionifìo Ario-  pagitafikndore della Theo logia Ghriftta -  «rty dice nel libro de nomi diuim , tutti e  Homi che fino attribuiti a T)io , fgmfìca^  re dóni da lui nella natura angelica concefi •  fi. #(efla adunque la bellezza e fière nello  àngelo,nella anima j nella natura cor porti    k. JMa come efiafia in quefle tre nature ■-  per le fiquente fimilttudme fi potrà factU  mente ( come io 'Spero ) comprendere .   Fingi liner ua dtfiendere di Cielo in,  terra tra mortali, fingi una statua di ?ne*>  rauigliofi artifitio fatta a fimilit udtne co->  me quella di Ftdta, laquale facci la imagw  ite fid iti uno Specchio', chi uedefit quella  imagine nello Jpeccbio,non uedendo la fi a-'  tua -, di cui è effavnagme , fi merauiglia  rebbe affai della fia bellezza- Molto piu fi 1  merauigliarebbtfi ue defila Statua, ondc\.   quella      ' A LVAMOXBr ni  quella imagme d erma sterno fcmdo in efia  la merauighofa mduftrta dello artefice\  <£Ma fi uedefit gli occhi , jf) il uo!to,e l y al  tro basito del corpo di Minerua uiua.qua  fi attonito tonfeffarebbe la fìat ua e la ima  gine nello fpecchio non e fiere degna di fti\  ma alcuna , la cui bellezza , haueua poco  manzi tanto commendato . ^Nondiman -  co direbbe e (fere tanto meglio la fatua ,  che la imagine nello fpecchio y quanto e  meno lontano da Alinerua uera » 'Sfa  milmentela prima , e uera bellezza è nel-  lo angelo , laquale è mi fura ffi) origine db  tutte l' altre bellezze 'L'anima ancora pofi  fiede la bellezza , non già per (ita natura,  ma per dono dello ^Angelo , come la cera*  ha lempronte dal figlilo , ffi) pero fi può-  dir piu tofìo e (fere uera fimilit udtne di bel-  lezza , che uera bellezza , efiendo ne l'an fa  ma, non per fua natura , ma per beneficio «   K ut)    isi PA^EGITUCO  d'altri II terze grado di bellezza * ttel cor*  po , neramente non fimtktudine , ma om-  bra dt bellezza , molto piu lontana dalla  bellezza dell 9 anima, che non e l'anima dal   laidi ft abile , nulla di certo ,ma ogni cofi e  ' fluffa e mutabile, e pero la bellezza cor por a  le, figurando la natura del corpo , è Jempre  di necefità me/colata con la deformità, fio  contrario, continuamente variando fi .   Fra tutti e corpi , il mondo partteipa  amplifimo grado di bellezz&,percbe tl tut-  to è fimpre piu per fetto che le parti. Im-  peroebe il tutto contiene e non è contenuto , .  Le parti fino contenute fjft non contengo-  no , f0 nejfuno può dubitare ogni altro cor-  po ejfire parte dello untuerfi/Dopo rimon-  do fino e corpi cele ft i , da quali fi può ha -  uer mam fe fio te f limonio della bellezza de   lecofi   Ti * •    lo z, Angelo . Imperoche nella natura del cor  po ( come rettamente dece Her adito ) nuL    f ALL' AMORE, iss  le cofi dittine , Olirà quefio grande nume -  ro de corpi , e quali alprefente faranno da  noi pretermefii . Solo diremo dello , buomo  ilquale contiene tanta perfezione e tanta  bellezza > che h antichi Fdofofi non hanno  dubitato chiamarlo mondo piccolo , come  quello che in fi piccolo loco come e il corpo  humano , ha congregate tutte le utrtu del  i mondo . èjfindo adunque la bellezza nello  angelo , nell'anima , nella natura corpo*  tale , noi chiameremo la bellezza dell'an-  gelo e dell’anima, Venere celefie e diurna .  Perche non può ejfire ueduta da altro oc -  chio che dello intelletto , cofa neramente  diurna . La bellezza del corpo chiamere-  mo Venere uolgare . Efiendo conofituta  per mezo de lo occhio corporale, per laqual  cofa ,fe ogni bellezza è accompagnata dal  fuo amore , e lo amore non e altro che uno  ardente defiderto di bellezza fjnrituakdi -    )    t    m .'&rA2$E-G Wmo   remo efifireamore cele fi e e diurno , g ; )ìl  dejìdeno della bellezza corporale efiere  amore uolgare e comune» Chi adunque non  conofce quanto fi ingannano quegli il cui  amore fi dirizzi alla bellezza corporale? fi  già non lufino per inftrumento per /altre  alla diurna bellezza, mi al prefinte dimet -  teremo le incommodità di che fono parteci-  pi gli huomini , per figuire l'amore uolga-  re, come co fa molto aliena dal propofito no u  firo. Solamente dimoftr eremo il maggior  dono che fia dato a gli huomini da Uio ,  cffere quello amore che li conduce a contem  piare la diurna bellezze , ft) pero tal ama-  tore e/fire eccellentifiimo, e qua fi un mira-  colo infi a gli altrt huomini . U anima no :  ilra benché fia piena di diumità , anzi ne-  ramente figliuola di T>io , nondimanco m >  tanto è occupata dal corpo, alla cura e reg-  gimento del quale naturalmente ì propo - .   • fia , che    r AL V~AMÒ\E. V/V   fia y che rifiu • delle uoltediuenta piu fi*  imitai tenebroso carcere dout e ■ indù fa ,  che allo amore d'onde procede. Et pero  ' U antichi Theologi chiamorono il corpo fi*  fulcro de làmina y che quafi l'anima fia  piu fimile alle cofi morte che alle itine, meli  tre che fta mi corpo ,per laquàl cofi dimen  ttcata della natura fua^è della bellezza di -  urna e delufi da grande , e uano numero  di falfi fogni y' per tutto quello Jpatló di  tempo che'l cieco ft) ignorante uolgo chia >  ma uita. E' Incordar fi della diurna bel*  léz^a poiché fi amo congiunti al corpo mor-  tale , non è facile a ogniuno y ma fino po*  chifitmi in chifia rima fio qualche fintilla  di diurno Jplendore y per laquale po fimo ef  fere eccitati à fi felice ricorranone . Que~  fli quando s'incontrono in qualche tmagU  ne della diurna bellezza > laquale piu ma -  nife fi amente che in altro loco 3 appare neh    r    «. \    is6 PAT^EGIXICO  corpo inumano , e maxime nel uo Ito, quan-  do e partecipe di prettanttjsima forma  in prima fono occupati da in [olita me -  r aut glia, me folata injìeme con horror e, di  poi alquanto afiicurati , la giudicono cofa  neramente diurna e degna , a cui fi conuen -  ga fare li facnfìcij e uoti , non altrimenti  che fi foglia fare alle ftatue de li Dei im-  mortali . Ma quando piu attentamen-  te riguardando in ejfa , riceuono per li  occhi lo influfio della bellezza , [abito per  tutto alterati, fidano parimente ft) ardo-  no. lmperoche in loro fi accende uno affet-  to , ilquale mirabilmente gli eccita, e lifol-  leua . Dipoi aggrauati dal pefo della in-  fettione corporale in baffi ro umano , non  altrimenti che fuole auenire a quegli ucce-  \ $ » ec j ua k P er troppo defiderio di uolare ,   \ hanno ardire di commettere inanzi al tem  [o alle giouani ale il pefo del corpo loro ,   ma non    ALL'AMORE. in   ma non effendo le penne ancora ha fi unti  a notare fono con ftr etti precipitare in ter-  ra y perlaqualcofain un mede fimo tem-  po agitati da dua contrarijfintonograuifi  fima moleftia , lacuale fubito fi corner te  inletitiache fiecchiatt di mono nel bellifii  mo mito , riceuono drento a l'anima , il  tanto defiderato fplendore . ^Ma quando  fiparati dal diurno Jpettaculo , mancono  della loro confueta e fi a , afflitti e dolenti  fi riuolgono continuamente nella memo-  ria , la imagine dello Jplendidifitmo uolto ,  onde sforzati dallo ardentifiimo de fiderio,  fimili alti infuriati non potendo ne la not-  te dormire , ne' l giorno in alcun luoco quie-  tar fi y per tutto difiorrono cercando di uede  re quello fpettaculofinza la cut ufi a con-  fumati dal dolore perirebbono, ilquale poi  che hanno ueduto e rtprefi il defiderato nu  tnmentojibtrati dalli acuti [ìimuli egra-    ( <    rff$ j?A^sai%ico   \ue ànguHte y fi fentono m tanto filettare  ~fipra le forzé loro confate , che dimenti-  . candofì de padri , de fratelli, de patrij  honori -dequali fi filettano. gloriare Amen-  tic andò fi ancora di fi mede fimi , fem-  ore penfam in che modo pofimo fruire il  \dmmfattaculo , come quegli che reputar  (fio ogni lor ualore , m quefia uita ffi} in  •quell 'altra hauere origine , ff) incremento  da lui , come ottimo medico delie humane  infirmiti . In prima dalla- bellezza d'un  corpo non filo particulare , ma ancora ca-  duco, falgono alla bellezza de corpi celefii,  e di tutto lumuerfo , Oue oltre alla luce di  che efii fino urna fontana utile cofi finfir  bili y contemplano una.fuauifitma harmo-  via caufaa da lordine e proporzione de  tnouimenti loro , per la qualcofiiyapcrta (  Mete conofiono il cielo, ejfire la hr a di Dio ,  come dicono . gli ant ichi ^Pit t hagorici , al   fano    T:    I    ì    .XLVA'MOXE- tw   fuono ddlctcj naie tutte le cofe contenute da  lui mtr abilmente bullono , Uopo la bellez-  za de lo umuerfo truouono la bellezza rid-  i' anima . Imperoche ejjendo il corpo una.  fimilit udine de l'anima, ne ffuna partecipa  itone della diurna bontà può ejjcre in efjo +  lacuale non fia molto prima ft) in molto*  miglior modo nell'anima, ejjendo origine e  principio della natura corporale, anzi non  per altro la partictpattone della diurna bel  lezza e nel corpo , che per ilgrande domi  hio ft) imperio quale ha l'anima in affo .  Onde e Filofofi affermono quafì come coft  imponibile non ejjere eccellentijsime dote m  quegli, iquali fino dotati di piu egregia for-  ma che gli altri , come qua fi l'anima di co-  loro fia piu predante e piu diurna , la cui  forma del corpo uera fimiltt udine de l'ani  ina è piu bella , cofi di grado in grado prò •  cadendo , fubitofi difcuopre loro il prò fon»    160 ALL'AMORE.   do pelago della diurna bellezza nello fflen-  dor dellaquale nella prima giunta abagha  ti , pojjhno fico medefimi in quefta manie-  ra ragionare . Infino a qui balliamo piu  tofto una ombra ouero fimihtudine di bel-  lezza che nera bellezza - *?Maal pr e finte  o dolcifiimo amore , ilquale rtfialdi le co-  fi fredde jilluftr ile ofiure , dai uita alle  morte groppo hai filleuate l'ale delle menti  nofire , lequalt infiammafli alla chiar fil-  ma luce della diurna bellezza , e le penne  già rottegli fuptrchio amore delle cofi  mortali , non per fua natura , ma per tuo  beneficio nnnouate,hai e fp beatole noi Mo-  lando (òpra il cielo, guidati dal diurno furo  re fiamo ripieni di quelle merautghe,lequa  li mai ne occhio uide,ne orecchio udirne di -  fiefeno in cognitione di cuore alcuno. Onde  neramente pofiiamo efilamare , quefto e il  di che ha fatto il Signore , rallegriamoci   ffje/ul-    ALL* AMORE. i*r  ft) ejukiamo in effo. Quefta ì la uia retta ;  per laquale debba procedere il legittimo  amatore , ilquale quando comincia a con*  templare la diurna bellezza , fi può dire e fi  firc uicino alfine , oue ciaf una co fa creata  quietandoci acqui fi a la uera felicità, * pe-  rò qualunque riguarda la uera bellezza  con t occhio della mente , col quale filo può  ejftre ueduta,non producendo imagtne e fi  milit udine di uirtù , ma uere uirtù , fatto  a Dio amicOydimoftra chiaramente ihuo  mo efifere per beneficio dello amore ree etto-  culo della diuinnà , per laqual co fa qua-  lunque non ùede il uero amatore douere e fi  firetnfia glihuomint in grandifitmo pre-  gio , e mafitme appreffo della cofà amata %  non intende quanto le cofe diurne fino piu  eccellenti \e degne di piu ueneraimt che l y al  tre , ne alcuno impetra maggior gratti , e  riporta maggior doni da U T)ei , che la co*      U2 P/A^EGJ^taV .  fa amata, quando ardentif imamente ria*  mando èparata afitt omettere ogni per icn  lo in gratta del fuo amatore . Imperoche,  con lo amatore habitano gli T>ij, pero non  meno accettono l'offcruanttae lattenera-  ttone della cofa amata in uerfo l'amatore,  che e uotie fàcrifìcij fatti a fi. Onde in  quefta uita,{t) in quell' olir a, la ricompen -  fano di grandmimi premij . Ma quando,  la cofa amata ha in odio il fuo amatore f ;  cimenta ricetto di tanta mifiria e di tanta  infelicità ; che molto meglio li farebbe effe-,  re, o bruto animale, o tnfenfto faffi*    anzi piu tofto al tutto non efjere nata.nefi  fina cofa arreca maggiori incommodi a  gli h uomini che l'odio delle cofe diurne, dal-  le quali pende ogni bene , ogni mifura nello  untuerfo , perche efendo fondato in fu la  difimUitudme di effe , è nectffario che fa  accompagnato da tutti e mali : chi adun *   queha    XLVAMOKZ. m  que ha in odio lo amatore^ ejjendo. alieno t  rebelle dalla diurna bontà ft) amico delle  cofi contrarie , m prima fi fa firuo di  quelle per tur bacioni y lequalt arreca Jtco  l'imperio de jen fi , quando la ragione e  adormcntata , come fi a gufa delle pian-  te tenga il capo in terra , bauendo uolto e  ' piedi uerfio il cielo . Z }opo ne uiene un'alt r o  male y perche non conofiendo alcuna cofa  rettamente , pieno di falfi opinioni diuen -,  ta folto e bugiardo , non altrimenti che  auenga a quelli squali da continui fogni  beffati in mezp al fonno finfiono la lor ui-  ta.'Da quefie furie y mentre che e uiuo dor-  mendo , o ueghiando y fi gite da dire effo  mai ueghiare y rimordendolo la confeientia  imperturbato . Ma dopo la morte JubitQ  da minifiri'della diurna giuftifia menato  manzi al grande giudice ode l borendo gtUr  ditto, fi ejfire dato in potè fi à dicrudehfitmi   - * ^ ~ \    1    i*4 PANEGIRICO  demoni , dequali una parte lo affligge còl  rappreftntarli nella fantafìa ogni horribtle  fpecie dt paura . Vh' altra parte con intoL  ler abili pene corporali lo tormenta . Ma  J opra tutti e mali , dua fino grandmimi .  V uno e una certa mole fi ia interiore laqua  le procede dalla difeordia dell'anima in  fi medefima , (ìmile a quel dolore che ènei  corpo y quando per ladifiordta di tutti gli  humort pefiim amente è dftofto. L'altro  di gran lungha piu graue y effiaè diuinità  penetrante in ogni luoco , la prefintia della  quale per cagione della interiore diffenfìo-  neaneffunmodo può j apportare . Impe-  r oche yCome gli occhi cifpi perla prefintia  del lume fintono gran dolore i fimi fi   co fortano y cofi L'anima gtufta finte gaudio  e dolcezjtt,La ingiufia finte una moleftia  che ninte ogni moleftia , perla prefintia  della diuinità . Da quefti mah ancora    ALL'AMO'KE. ics  molto maggiori per uolontà diurna e afflit-  to chi ha in odio il (ito amatore , ilquale di-  uenta partecipe di altrettanti beni , fedi*  meffa ogni altra cura, filo penfi notte e  giorno efircitarfi in ogni ffecie di uirtu,ac-  cioche fatto fimile a lui, fia degno ricetto  di tanto lume. Quefte e fimih fino le laudi  o dtuinifitmo amore,che noi inuolti nelle te  nebre del cieco mondo di tepenfare e ragio •  nave pofiiamo . Alla cuigràdezga chi non  rende il debito honore,no conofie tutte le co  fi cofi diurne e celefii,come terrene, per tuo  benefìcio non filo effere create \ ma  ancora unir fi al fio creatore  in lui finalmente quie-   tarfi , piene v:.   ciafi li-  na fecondo la fia natura della gratia divina «    VITA  DI M. F R ANO E S CO   C ATT ANI DA DIACCETO. >    iS -     JLL MOLTO MUG%ìtìCO E S^O   OS SERVANO ISSIMO     BENEDETTO     uandifsimoM. Bac~  do mio ,che a colo-  ro , i quali di quella    prelente uita partati fono, fi porta fa-  re beneficio maggiore , che tenere  ùiua ? e frefca la loro memoria ; Per-       ii<*8   ciò che il cóli fare è fecóndo il pare-  re d alcuni poco meno., che rifufci-  targli , e fecondo alcuni altri di piu  perfetto giudicio , molto piu, dan-  doli loro non una uita fola , e quella  caduca , c mancheuole, ma molte, e  fempiterne,come altra uolta piu lun  gamente dichiareremo . Onde fra  tutti gli Scrittori antichi meritò per .  giudicio noftro grandilsima lode  Plutarco . E quanti crediamo noi ,  che fuflero in tutti i fecoli, e per tut-  ti i paeli huomini eccellenti fsi mi co-  li ne’ gouerni politici , come ne ma-  neggi dell’arme , e ne gli ftudii del-  le lettere , de’ quali permancamen- ■  to di Scrittori non li fi pure ,che  eglino non che altro, nafeeflerogia-  mai ?. La onde io ho A    fempre giu-  dicato gratiofo , e lodeuole uncio   P cr    i6 9   ì ..per coloro adoperarli , che le uite  fd icriuono di quegli huomini , iquali  pio o collazioni , o colle fcritture , o a  to. le lor Patrie , o all’altre Genti furo-  Hi no , o d’honore , o d utilità cagione,  ■ e accio , che gli Altri huomini in efsi  m rifguardando, e i loro o fatti , o detti  à imitando, pollano o la felicità huma   r na con Marta, o la beatitudine diui-  • na con Maria , o l’una e l’altra infie-  memente confeguire. A quello fine  piu, che peraltro rifpettomi poli  ( con animo di douere fe conceduto  mi fuffe comporne dell’altre ) a feri-  uere il meglio , e con piu chiarezza  c breuità , che io fapefsi , e potefsi ,  i • la uita di Mifer Francefco Cattani da  Diacceto , parendomi , che egli fof-  fe quali come uno fpecchio non lb-  lamente della uitaciuile, ma etian-    *70 - . *   dio , amzi molto piu della fpecofa^-  tiua , del quale io , fé bene il uidi nc  miei gioueriili anni piuuolte, non  Riebbi però, non che familiarità,© do  meftichezza, conofcenza nefluna ,  ima tutto quello, che io ho di lui fcrit  to,l’ho fcritto parte per relatione di  iiuomini graui, e degni di fede,iqua  4i domefticamente ^ e lungo tempo  con lui praticarono, non eiTendo,da  che egli di quefto Mondo parti , piu  che trentafette annipaffati;e parte  •mediante gli fcritti fuói , de quali  -me flato hberalifsimo M. Francefco  fuo nipote, giouane(còmefapete)  ,detà, ma di grauità,e di prudenza^  maturo, e di quella bontà, e dottri-  na , che piu opere da lui Chriftiana-  mente, come da huotno facro, eca-  nonico compofte , e di già mandate   in luce    I 7*   iti luce & aIfEccell.de! IlIuftrils.Sig*  Duca Padron noftro indritte, dimo  Arare podono^Laqual uita (qualun-  che li lia ) ho uoluto donare a Voi,£  che nel nome uoftro apparifca, non  tanto per lo eder Voi della nobilif-  Ama famiglia de Valori, iquali funu  no amati grandifsimamente, e ho-  norati daM. MarfilioFicini., econ*-  leguentemente dal Diacceto ; quan-  to perche Voi fete degno della No- '  biltà, e ne ritornate in luce il Valore  de uoftri Maggiori , daquali anco-  ra edere uerifsimo conofcereli può  quello, che da me fu detto di fopra,  pofcia, che Niccolo Auolo Voftro  huomo di tanta prudenza , e di coli  grande ftimafcride non menoco-  piofamente , che con ueritàla uita  del Magn. Lorenzo Vecchio de Me-    w 2   dici, e anco per non negare il uero ,  tenendomi io buono della fcambie-  uolebeniuolenza,euerilsima ami-  ftà noftra , m’è paruto di douerne  dare , come un teftimonio , affine ,  che li fappia,che li come Voi per uo  lira cortelia amate, e honorate me ,  coli io altreli per giufto debito amo,  & ofleruo Voi .     t     K>   lf.   IO,       ./ 72     DI M. FRANCESCO    DA DIACCETO,FIJLOSOFO,ET   CENTIL'HVOMO FIOR.ENTI.NOj - '     COMTOST^f D^£ M. BENEDETTO   VARCHI, B MANDATA A    ‘BACCIO VALORI.      fn. VITA DEL   primo , che ( disfatte per le parti guelfe,  e ghibelline ) Diacceto , hebbe in Firenze  i primi , e fòprani honor ideila Città , fi  chiamo Becco di Torre di (juidalotto , tl  quale fidette de' Tenori delt zArti , che  cofi s'appdlauano in quel tempo i Signori ,  tre uolte . La primardi mille dugento no -  nauta quattro , diece anni, dopo che cota-  le Jopremo <JMagi(ìrato per abbattere la  troppa potenza , e tener e. in fieno la infip-  portabile fuperbia de' grandi fu ordina-  to ; la feconda , nel mille dugento nou anta  otto ; la terza nel mille trecento cinque . Di  'Becco nacquero Porcello , e ^Mugnaio , o  neramente ^tignato , che cofi fatti nomi  fi poneuano anticamente nella Città di  Firenze ; tqualtamenduni furono non fi-  lo de ' Priori piu uolte , ma etiandio gon-  falonieri di giufiitta , ilquale era il piu al-  to grado, e piu {limato di quella Bfpublt-   ca y e    f     I-    )    CATTAT^IU. ita   ca , e T* or cello oltraglt altri uffici], e ma - \  giftrati , riccuette nel mille trecento tren »  ta noue per lo comune di Firenze la terra ,  defila, e ne fu primo comme [fario  c/wwé fi legge ancora nell' zArme , che egli  fecondo ilcoftume dicotalt Fattori ui la -  yc/à . JD/ indignalo nacque il primo ‘Ta*  golo. T)el primo bagolo il primo Zanó-  i?u T)el primo Zanobi il fecondo ‘Tagolo.  f>i coftui, ilquale fu per la grandezza  delle qualità fue fatto con molti priuilegij  Conte da oAlfonfb 7{e di ‘Napoli, firife la  uita latinamente Ai. ‘Bartolomeo Font io,  huomo di ottimi coflumi , e nella fita età  letterato , ffi eloquente molto . Di Pagolo  nacque il fecondo Zanobi , ilquale fu pa-  dre di Francefeo.La cui Vita intendiamo  al prefente di douere feriuere Noi, fi per al  tre cagioni honeflifiime, e fi perche fi cono-  fea ancora a beneficio comune , che la uu    n 6 VITA DEL   la contemplatiti a può in uno huomo filo  (il che non credono ) coll' attuta unitamen-  te congiugner fi, e lodeuolmente efercitarfi %  e di uero come egli non fi può negare s che  la contemplattua non fia la piu gioconda ,  e la piu degna di tutte l altre mte,cofi con -  fejjare fi dee y cbe lattina e alle città e alle  Comunanza de * popoli, come piu necefjaria  co fi etiandto piu utile . Dico dunque che di  JZanobijdi TP ugola Cattani da : Diacceto ,  e di mona Lionarda di Fracefio di Iacopo  Venturi , nacque in Firenze tra la piazzi  del grano, e* l canto agli cAlberti non lun -  ge dalla chic fa di San ‘Romeo, tanno della  (hrifhàna falute mille quattrocento fi fi  finta fii,il fedicefimo giorno di^ouem-  ' bre un figliuolo mafchio , alqualt , o per  rifare il fratello di Pagolo fio zArcauolo  paterno, ilquale s\ra morto ] enzA figliuo-  li > o per.rinouare il nome del fuo Aiuolo   materno %    C ATT A ^10,. m  materno , o piu prefto per l'una cagione, e  per l'altra uoìlero,che fi ponejfi nome Fra-  cefio.E perche egliinfino da (uoi piate*  neri anni daua prefagio di (ingoiare tnge*  gno , e di (pirito molto eleuato, uolle il pa-  dre ancora , che per fina Idiota fojje , che  egli fi dejfi non alla mercatura , cornei  pm fanno de' giouani Fiorentini , ma alle  lettere , dellccjuali tanto fidilettaua , e co-  tale profitto dentro ui faceua(che non uob  le,tjfindo rimafi ancora fanciullo finzjt  padre , e non molto agiato delle co fi c'ha-  uendo il padre gran parte difiipato delle  fue facultd) per coja , che gli fi diceffi con-  sentire mai d' abbandonarle. oyinzfi hauen  do egli,per ubbidire alla madre , deliaejua-  le fu fimpre offiruantifiimo , e Soddisfare  a parenti , non armando ancora aldicid  nouefimo anno.prefi per donna laLucre -  Ha di Cappone di "Bartolomeo Capponi , la   M      .n* VITA DEL    meno con efio fico a^Pifà, e quiui tanto  la tenne , che forniti i fuoi fludtj , e battu-  to di lei figliuoli , fi ne torno a Firenze, do -  ue in quel tempo fionua la fihcifiima Aca*  demta di Lorenzo uecchio de Atedici,nel-  la quale tnfieme con molti altri huommi  (Fogni lingua , e in tutte le faculta dottifi  fimi, fi ntruouaua ^Marfilio Ficim,   Canonico Fiorentino , tlquale oltra la fin-  ceritd de co fiumi , fu d'eccellenza d'inge-  gno , e di profondità di dottrine co fi gran-  de , che io per me non credo , che Firenze  habbia mai , e parmi dir poco, hauuto al-  cuno , defilale fi gh pofj'a non che preporre ,  agguagliare . Coflui effendo ( come ho det -  to ) Qmonico di J anta ^Maria del Fiore ,  haueua con incredibile s ìndio, e immorta-  le beneficio la Filofifia Platonica per mol  te centinaia d'anni piu lofio perduta , che  finarrita , come piu conforme alla religton  ;; _ • ; • Chrifiiana ,    C ATT A    TV IO.     Chrtfhana , che l'zArifiotelica non fola-  mente ritrovata , e rimeffa per la buona  ma , cofd uer amente piu tofìo diurna , che  humana , ma datole ancora credito , e ri-  putatone non pkciola. La onde Ad. Fran  cefo, tratto dada fama di quell'huomo fn  golarifimo(Jè pur huomo chiamare fi deb  be co fi alto , e nobile Spirito) e guidato dal-  la ‘Telatura , lacuale perche egli cjuedo fa-  cejfi, che egli fece, prodotto l'haueuajac-  coflo incontanente al Ficino , tlaualt ( co-  me gratifiimo del dono da Dio conceduto-  gli , e delle Jue proprie fatiche ) come nero  Filofofoyliberahfiimoyinfignaua , epubhca  mente , e privatamente a tutti coloro , che  d'apparare difiderauano ; e l'udì con tan-  ta ingordigia , che egli in non molto tempo  non pure Platonico , ma eccedentifiimo  T latonico divenne . Onde egli 3 fi bene m  uarij tempi, e luogi 3 diuerfi Dottori udito     iso VITA DEL  hàuea , confiejfia nondimeno tutto quello ,'  che fàpeua , hauerlo da <&iarfilto.  filo imparato , fi in molti altri luoghi , e fi  particolarmente nel proemio del libro, che  egli fece , e intitolo del H utero , cioè del  3ello, doue f duellando di lui dice quefie  parole proprie .   Dicam firn , nec unquam me pcenite^  bit , quoniam boni airi ejse duco , cui ma-  gna beneficia debeas ,eidem ipfaaccepta  referre, nosidipjum , quodfiumus,fìquid  Jumus ilio efie . Qoè in fintene . lo ne-   ramente il diro , ne mai farà , che io me  ne penta, ptrcioche iopenfo ejfiere cofa da  huomo da bene ilconfejjare da colui haue  re i benefici] grandi riceuuto , a cui tu ne  fii debitore ; *Noi tutto quello , che fiamo,  Je fiamo cofa alcuna , ejfiere da M* Mar -  fillio Ficini . / ; v   v £ dall'altro lato conofeendo M. Mar   fillio la    'M    s ■   - 1 :      V    ì    C ATT ATS[1 0. Jto  J ilio la grandezza dell ingegno y t /’ inchina-  ime dell'animo di lui alle co fi di Platone *  e ueggendo il profitto , che egli u'haucu*  dentro in picciol tempo fatto grandifiimo,  l'amaua affettuofifiimamente y e lodando v  lo eccefiiuamente y lo chtamaua non filo du  fiepolo y ma compagno , come fi può m  malti luoghi ueder e delle opere fue , doue  egli fa di lui mentione honoratifiima y e Jpe  t talmente nel Parmenide al capitolo ottan  taquattroefimo y neiquale fi leggono que-  fie parole formali .   Sed dum pulchritudinem hic diuinam  commemoro y commemorare fas eft Fransi  fium Dtacetum y dtle£itfiimum Compiuto -  ntcum noftrum y de hac ipfa pulchrit udine  quotidte multaipulcherrimaq^firibentem,  quem Jane utrum ad c Platontcam fapien -  ttam natura y geniusc £ formauijfi uidetur y  leq uali fuonano co(ì .   < c M iij    I    i82 fV ITA' DEL  4 eZMentre cheto fornendone qui della  bellezza diurna , , giufta e pia coja e , <che  io faccia mentione di Francefilo da  Diacceto no/lro diletti /?imo compagnone  gli ftudij Platonici , tlquale di qucfla ftefi  fa bellezza firiue ogni giorno molte , e bel-  Ufiime cofi,enel aero egli pare, cheda ‘Fu-  tura , e il gemo fuo formato l'hauejfono ,  pèrche egli la fàpitnzp, di Platone in-  tendejfe,e imitaffe . \   ‘ Dellcquah còfe fi pub ageuolrnente ca-  ttare , prima quanto pojfaejfere dipana-  mento a una città , anz} a tutto 9 1 mondo    un huomo filo colla prudenza , e libera-  lità Jua ; poi quanto fia necefiarioa un  buono ingegno abbatter fi ad hauere , o fa-  perfi elegger e un buono precettore ; concio -  fia co/a , che fiCofimo de <JMediculuec-  chio , e di mano in mano i /uoi /ucce/fin, e  mafiimamente Lorenzo , non hauefiono   fauorito      C A TTA ^IO. i83   fauorito le lettere , e coloro, aiutati, icjualt  d'ejjire litterati defederanno, *fMar  fello non farebbe flato Ai. Aiarfiho ,e per  confeguenza il Diacceto , per tacere di tan  ti altri , non farebbe flato il Gbiacceto , e  confeguentemente Firenze , anzi tutto il  fiondo farebbe di (i chiaro lume conno -  fero, e fuo gran danno per fempre man-  cato . c tfefi merauigà alcuno , che io feri -  ua bora Diacceto colD.fenz# f a ff tratto-  ne, e bora Cjhiacceto col G. colta forato-  ne y concio (ia che io cofi nella lingua latina  de ^Moderni, come nel uolgare Fiorentina  truoui feritto bora nell'un modo , e bora  nell'altro .feleua ancora Marfìho É  mentre y che egli ytrouandofi hoggimat oL  tra coltetà , leggeua a fuoi dfetpoh , dire 5  io me ne uo , ma fi bene mi parto , io ut  lafeio lo fiambio, intendendo di A4. Fran-  cefeo , Uguale fi chiamaua per fepr anoma   tiij      *** V IT A (D E L  il r Pagonazgo : perche , mentre era gioita-  ne , fi tùie t (atta molto , e ufaua utfiire di  quel colore, ilqual cognome gli duro firn-  prò , mentre che uifje , a differenza diun  filo cugino carnale, ilquale haueua nome  'anch'egli francefco: era del mede (imo Gu-  fato ,e di una medefìma età , e faceua la  medefìma prò festone di Filofifo , e perche  nefhua di nero , fi gli diceua per difttn -  guerlo dal ‘Tagonazgp , JUd. Francefco  ‘Nero , raro dono de Cieli , che tnunmc-  defimo tempo , in una medefìma città , e  dima medefìma famiglia fiorirono due  cofi gran Filofofi , benché il Pagonazzp ,>  come auuiene ancora ne colori, molto fojfi  di maggior pregio, ertputatione , che Ane-  to non era . Ne fu ingannato ^Mar-   filio , ne inganno egli altrui , quando difi  fi, che lafeiaualo fiambio fuo , conciofia  cofit , che ilDiacceto dopo la morte di lui  ■ o figuendo    C A TT A TSi PO. 1*S'  feguendo l'effempio , e calcando l'ormedi  cofi grande , e cortefe matjìro , e compa-  gno, oltra il fare di fi amoreuohfitma t.  mente a chtunche nel ricercala gratiofifiu  m amente copta , lefie molti anni , e molti  pubicamente nello fludw Fiorentino , con  trecento fiorini d'oro di prouifione per età-  fiuno anno , egli tiro fimpre mentre uijjè ,  non ottante , che egli negli ultimi tre anni  della Jua ulta per le cagioni , che poco ap-  pre/fi fediranno non uolejfi piu leggere. E  benché i Signori Tmetiant mofii dal grido  della fua fama lo fàcejfiro piu uolte in*  fi antemente ricercare per mezzo di À4on-  fignore l'f\Arciuefiouo di Cor fu , e del fy*  uerendifiimo Cardinale fprnaro,de' qua*  li egli era amictfiimo , che uolejfi andare 4  leggere nello ttudio di Tadoua , con gran*  difiimo /alano, egli nondimeno, che fi con •  tentaua delle Juef acuita, ancoraché mol*    J86 VITA DEL   te non fuffono,ed era lontano da ogni am-  binone, e grande amatore della quiete, non  uolle accettare mai partito nejjuno , per  . grande , e bonoreuole , che egli fojfe , e fi  < refio a uiuere tranquillamente nella fio  patria y e arrecare giouamento a Juot cit-  tadini. Quegh,cbe frequentauano la {cuo-  iame la cafi (uà , o come dtfiepoh , o come  amici , o come l'uno, e l'altro mfìeme, era-  no et ogni tempo molti y de quali non mi par.  rà fatica , ne fuori di propofito raccontar -  . ne alcuni de piu fìgnalati , iquah furono  quefti : P ter o Martelli: Giouanni forfii  fiAdouardo ( ^tacchinotti : ‘Piero Bernar *  di: riAndrca Rmuccim: Benedetto d'zAn-  . tonto (Quaker otti: Ftcino Ficini nipote di  ^Marfibo, Luca della Robbia: Ale fi  fandro.de Paz&fT ter firance fio ‘Por tino-  ri : ‘Palla Rufeellai , e Giouanni fio   fratello , che fu poi Caflellano di Caftel   fin? Agnolo    !    1    ft C ATT AT^ro. ài   m fini* Agnolo, e Cofimo lor nipote, nelquale   m ( ejfendofì egli morto ne /noi piu uer d'anni)   fc fecero la Città di Firenze , t le Mufi To-  ri ' y cane danno , e perdita me filmabile :Ftlip «   fu po Strozzi » e Lorenzo fio j rateilo : Luigi  or. ^Alamanni : Zanobi c Buondelmonte , la - ,  v. copo da Diaccetto, chiamato tl DiaccetU  m no gioitane letterati fimo , e d'alto cuore :   u c , /intorno trucioli: ^Maeflro zAleffandro   ir da “Ripa : Filippo Carenti : M. Donato  Giannotti, e M 'Fiero Vettori, iqnah ho   0 poflo nell'ultimo, non perche eglino non fof   1 /èro de' primi , e de' piu dotti , ma perche  ancora uiuono amendue . c Ne uoglio tace *  re , che egli , tutto , che fofie fi grande Fu   i lofi fo, non filo zAcademico ma ettandio   ; J ^Peripatetico , oltra l'inteDigenza della lin-   gua co fi Cjreca,come Latina, non uolle mai  conuentarfì, giudicando , per quanto io  fimo, che tl Dottorarle fpettalmente      I    '« VITA DEL   in Filofifia a coloro , iquah la loro fetenza  0 uendere,o farne la moftra non uogliono ,  fia co fa finon ridicola , almeno foperchta .  E di ttero cotali ttficij , e preminenze, come  rifpofi già Traiano Imper udore a uno,  che gli dimandaua il prtutlegio di potere  come giureconfulto auuocare , e fare de  Configli , fi debbono piu tofio dare da chi  fi finte da ciò , che riceuere . Afa quello ,  che a me pare 9 e che douerrà,s'io non m'in  ganno , parere ancora a de gli altri piu  marauigliofo , e di maggior loda degno è ,  come egli, effendo tutto occupato non fila-,  mente nel leggere , e intertenere tanti cofi  amici, come dtfiepoli : ma ancora nelle  moke, e importanti faccende, cofi pubìi-  ce , come priuate , potefie tante opere com-  porre , e cofi perfette, quanto egli fice, del-  le quali to racconterò cofi alla rwfufa tut-  te quelle, che io ho parte ueduto,e parte da   coloro    i    V    CA'TT ATSJ ro. U9  coloro fintilo dire , che uedute l'hanno , le-  ' quali fino quefte tutte latinamente firme.  Vna'Parafrafì [opra tutti e quattro  i litri del Cielo d'zArifiotilejndritta aPa  pa Lione. ’ *   Tre litri intitolati de Pulchro a Palla,  e M. Cjiouanm T^ufiellai .   • Tre labri dimore a Pindaccio da 2 li*  cafili . . ' • v v ■ A : H   : ‘Panegirico d'AmoreaCjìouami Cot  fi y ea Palla ‘Rpfiellai . , -..*•••   'Una Parafiafi fipra i quattro libri  delle eJ Meteore d'zAriflotile y ma i tre ulth  mi non fi ritruouano .   Vna Parafrafi [opra gii otto libri del-  la Fifica d'oAri/lotile , laquale o non è in  pie y o chi l'ha la tiene guardata per fi.   Vna ‘Parafrafi fipra la Politica di  ‘ Platone , ma tanto breue y che fipuo chia-  mare piu tono prefatione % thè altro • ,    jpo VITA DEL   Vna r Parafiafi f opra il Dialogo di  Alatone chiamato ilTeage , onero della  Jàptenza .   Vna Parafiafi ne gli Amatori di Pia  ione y onero della filofifia . .   Vn coment o fipra il libro di ‘Plotino  dell' efiinz& dell'anima.   Vna dichiaratone fipra quei uerfidx  Boetio ytqnali cominciano.   Tu trtplicis medium natura cuntka  mouentem , a "Bernardo 'Rufiellai ..   o Alcune prefazioni [opra diuerfi ma-  terie.   ^Alcune epijlole a dluerfi amici molto  dotte y ne Ile quali fi dichiarano afidi dubbi  di Filofifia .   L'ultima fina compofitione fu un co*  mento yilquale egli a petttume di Monfigno  re M. Giulio de medici > che fu poi Papa  Clemente, fece [opra il conuiuio di Platone ;   w    C ATT A'KflO. ipi  quali componimenti olir a latta*  rietà , e la profondità della dottrina , e  mafeimamente Platonica , e Tlotimana  pare a me , che due co fi fi pofjano , anzi fi  debbiano confederare , mofirantt ambedue  l'eccellenza , e perfettione dell'ingegno , e  gtuditio feto . La prima è, che egli usò nel  fuo comporre uno Hile,fe non Ciceroniano  del tutto , graue nondimeno , e filofoficb  molto , e tutto lontano da quelle laidezza >  e barbarie , collequali Jcrtueuano in quel  tempo y e feriuono ancora hoggidi per lo  piuì Filofofi latiniyfenza leggiadria >e gra-  tta neffema . 6 tanto è da marauigltarfi  piu y quanto ancora coloro , iquali fatua-  no profe filone di bene , ff) eloquentemen-  te fer luer e y dietro un co fi fatto mifitfo non  imitauano ( gran fatto ) nelle loro fcrit tu-  re la diuina candidezza , e purità di Cice-  rone y mao TlintOy o Valerio A4 afeimo } o    VITA DEL  altri tali non buoni c Autori della latinità ,  o almeno della uera , e finterà eloquenza  Fumana, lacuale manzi che Afonfignore  dietro 'Bembo , buomo piu toflo di -  nino , che bumano la dimofirajfi ,fi già*  ceua o fiono fciuta del tutto , o dijpregiata  in grandifiima parte p percioche colui, il-  quale piu Stortamente , e piu [curamene  te firiue cua , era e da fi Sieff , e dagli al-  tri piu facondo tenuto, e maggiormente  ammirato , come fi la principale uirtà co fi  dello firiuere,come delfauedare confi ftefie  inalerò, che nella chiarezza, o fifauel-  laffi, e finuefie da gii buomini ad altro  fine, che perejfire intefi. La ficondaè,  chi doue quafi tutti gli altri fi faceuano  beffe, o haueuano compafiione di chiunque  uolgarmente fcriueua , e haueano la lin-  gua Fiorentina per niente , egli quafi pre-  cedendo quello , che di lei mediante lime*   de fimo    I    J    C ATT ATSflO. IJ>3  defimo 'Bembo auuenire doueua , tradufje,  alcune delle fue opere y e piu fi dee credere 9  che egli tradotte n'harebbe fe piu lunga -  mente uiuuto foffe . Lequali fue opere fi  flampatcfi foffono y non ha dubbio , che la  fua fama fi farebbe y e allungatale allar-  gata molto piu , che ella forfè fatto non ha*  £d egli per configuenz et s' bar ebbe maggior  gloria , e piu chiaro grido , e in fimma piu  lunga anzi immortale uita y acquifiato.Le  quali pero fino di manierale elleno lun-  gamente Ilare nafiofi non poffono y e  Fr ance fio fuo Nipote , ilqualenon ha fi-  lamento il nome di lui , m'ha piu uolte co-  llantemente affermato y finonhauer cofa y  che piu lo prema ; e laquale egli , per fiod-  disfare alla pietà y e debito fuo , maggior-  mente difìderi y che di rinuemre fènon tut-  te y la maggior parte delle fritture dell duo  lo fuo per publicark * B allhora fi potrà    is> 4 VITA DEL   meglio cono far e dagli intendenti chente, t  quale fojjl d'ingegno, e la dottrina di cota-  U ,e cotanto lo uomo ; e Ji marauigheranno  infieme con effio meco della capacità del  fuo intelletto , e come un buomo filo potè (fi  cjfieretanto uniuerfikle , che m tutte le cofi,  nellcquah egli fi metteua , nufiijfie non di-  co raro y ma qua fi filo. Ecco : egli come che  fojfie amanttfiimo della quiete , e lungi da  ogni ambinone , e auaritia fatico nondi-  meno oltr a ogni credere non fidamente ne  gli ftudij delle buone lettere , e della fan -  tifiuna Filofifìa , come s'è ueduto,ma an-  cora nell anioni humane, e nelle bifigne fo-  colari ( come fi uedrày di maniera, che  fi può ficuramente credere , e con ue-  tita dire , che egli di rado col corpo fi ripo'*-  fiafie y ma colla mente non mai y e fi bene  egli e da naturayefua uoluntà era più mi-  to a gli fiudij , e al contemplare, che alle   faccende , '    C ATT A m o. I9S  faccende ,■ e al negotiare, tutt amagli bifi-  gnaua fare ( come fi dice ) della necefrità  uirtù yper laqupl co/a e neceffario di [ape-  re , che quando 'Pago lo fuozAuolo uenne  amorte , egli come co Iucche era flato firn*  prèy amictfrimo , e fautore della famiglia  de ^Medici , e conofceua la prudente la  potenza di Co fimo , e forfè la fortuna di  quella cafd , fece (come racconta il Fon *  no nella uita di luì)una bella diceria, nella  quale fra l' altre cofe auuertii figliuoli , e  comando loro , che amafrino fempre y eof  firuafrmo Cofrmo,e tutti i fuoi 'Difenden-  ti quanto fapeffiro , e poteffono il piu, e dal *  l'altro lato pregò fìrettifrimamente Cofi-  moycbe glidouefie piacere cfhauere loro ,  t tutti i fuoi Po fieri, per raccomandati , e  fi coment affi di pigliare la protezione lo T  ro . E di qui nacque ( penfò io ) oltra le fut  fingolarifiime qualità 9 che non filamenti ?   . X ; jf    i9(f VITA DEL  r Papa Lione, Uguale fu Jòpra tutti gli  huomini grattfiimo , e libtrahfìimo , gli  porto fempre affettione ftraordmaria,e gli  fece molti fauori,e prefìnti di mn piccio-  lo, Piima , e ualuta, ma ancora tutti gt al-  tri di quella famiglia ,e in ijfetialità tifar  dinaie, che fu poi c Tapa Clemente, colqua  le ( mentre , che egli reggeua Firenzi) pra-  ticano molto familiarmente, e conmeraui  gltofa dimefiichez&a . Quelle furono le ca-  gioni , che egli , ancora, che Fdofifo,e del-  la fitta di Platone prima entro, epoi non  fi ritiro dalle faccende ciuili, per non dir  nulla , che hauendo egli molti figliuoìi(cò-  me diremo ) e non molte / acuità , non po-  teua,ne doutua fare altramente, e di quin  ci ancora auuenne, che nel dodici per la  guerra , e ficco di Prato , quando i Me-  dici ritornarono in Firenze, egli con alcuni  altri Cittadini , de' quali come amici delle   W Palle    CATTAUI 0 > ; / 9 7  Palle s'baueua fefpetto,fu in Palazzp(do  ue era 'Piero Soderini gonfaloniere a ul-  ta ) fiftenuto . Ma non prima furono i  Siedici rimefii in Firenze, che douendofi  per co/e importantifiime creare uno c Am-  bafciadore per la Città a Mafmiano Im  peradore , fu tra tutti gli altri eletto  Francefco , benché poi per lo ejferjì affetta-  te , e accomodate le cofi i n quel modo, che  uoleuano quei , che poteuano, non facendo  piu luogo d' ambafciadore, non ui fu man-  dato ne egli, ne altri * 6 nell amo mille ctn •  queceto diciannoue, e [fendo morto a quat-  , tro di faggio Lorenzo de Medici Duca  d ye Urbmo,e douendofigh fare filenni fiime,  e magnifiche eJfiquie,ancora,che non man  co chi bucherajfi dibattere l or adone , d  Cardinale firijje a Francefco, ilquale   fi ritrouaua in uilla, che fi trasfenjfi frit-  tamente a Firenze , e cofi la fece , e recito   iij    ip t - T I T A DSL f  egliil fittimogiorno , nelqualeficelebra-  nano nella Qoiefa di S. Lorenzp con pom-  pale honoranza incredibile , e fu tenuto  tojà rara , e degna d' ammiratone, che in  meno di tre giorni fujfi fatta da lui latina  mente e recitata alla prefenz, a d'infinita  moltitudine cotale oratone. *Nel medefi-  mo anno, hauendo prima hauuto i primi  honori,e magiflrati delta città, ejfindo fta  to e di Collegio, e de Signori Otto, e de Qt- j  pitam diparte (guelfa, fu fatto (gonfalo-  niere digiufì ma per lo filo Quartiere di  Santa Croce nelmefi di gennaio , e di feb-  braio, e doue negli altri uficij s' era fatto co  no/cere per huomo non men giuflo, che pie - »  tofi , in cjuefto fi dtmoftro non men beni-  gno, chegraue,mguifa,che come l'uniuer -  fiale [e ne lodaua , cofii particolari ne dice-  uano bene , e quanto i parenti fi ne gloria*  nano, tanto gli amtct,e dtfiepoh Juoine  \ ^ prendeuano    s   *JfH  Ut*  ck I  Ì0   (mà   m   4   m   \(   1   ir   ì   è    C A T T'AÌSg 7 0 . IM   prendeuano piacere, e contento marauiglio  fi . Onde auueniua,che coloro Squali 0 per  l'inuidia , che haueuano alla fitagrandezs  za, 0 per Iodio, che portavano alle fue uir -,  tà,harebbono uoluto morder lo, nonofaua*  no di farlo , temendo di non efjere creduti  "Dopo cotale degnità trouandofieglt hoggU  mai attempato, e [oprafatto dalle cure fa-  miliari, e forfè per potere 0 comporre mo-  ne opere, 0 riuedere le già compofte,nongU  parue di douer piu leggere in publico ; ma  non per quefto manco mai i alcuna ma-  niera di cortefia a niuno di colora , iquali  gli andauano tutto il giorno a cafa, 0 per  uicitarlo come amici,o per dimandarlo co  me fcolari,anzi fi tenne, che quefìa fujfe in  gran parte la cagione della fua ^ Morte :  lmperocht,non fi fintando egli bene, e non  uolendo mancare ne a parenti ne agli ami  ci, ne a Difiepoli, cadde in una infermità,   •K %      200 V IT A D EL   per la uiolenza dellaquale in poco piu et un  me fi, ancora , ckefuffi fiato finiamo e  molto regolato nelfuo uiuere,e con tutti gli  ordinamenti , e fagr amenti della (bufa  coftantemente, e Chrifiianamente moriva  gli diece d'aprile delmille cinquecento uen-  tidue , e fu alla Q loie fa di Santa (foce nel-  la fipoltura de fuoi maggiori femplicemen-  te, e finta alcuna popa fìraor dinar ta por -  tato, Jotterrato . La firn morte difpiacque  molto fi generalmente a tutto Firenze, e fi  in ifpetie a coloro, iquali o baueuano lette-  re, o defiderauano d'bauerne, e mafiima -  mente di Filofòfia . Fu di fiatar a piu che  mezzana , non di molta carne , ma offuto  ■ forte , e nerboruto, eh pelo bruno, e Somma-  mente pelofi ; hauca la pelli biancha,e fre-  fia molto . Cjli occhi neri non troppo gran-  di, le ciglia nere,e folte. La qual co fa lodi -  mofirauaa riguardanti anzi brufeo e bùr   bero ,    «   i   *   v   t   l   l    l    C ATT AT^IO. zor  hero y che non. E niente dimeno egli fi bene •  era grane , e fiueroy batte a pero con quella  feueritàyt granita una dolce e cortefi piace  uolez&a me/colato ylaqnale lo rendena gra -  tiofiy e amabile. £ auuenga, cheegh,come  tutti gli altri huomini in qualunque o arte  o fetenza eccellentifiimiyfujje di natura ma  ninconico , e filetario 3 tutta uia, quando  coll' altre perfine fi rttrouaua, motteggia-  ua uolentieri non fittamente coglihuomtni  di lettere , ma ettandio co gli Idioti, e colle  donne medefime y tanto che non pareua piu  quel deffiy prendendofi fefla , e filazzp per  fi y e dandone altrui . Spiacemi , che ejfin-  do egli flato yper quanto ho udito dire y trat  tofiy e arguto molto, io non habbta potuto  nefiuno rmuergare de firn mottiyper farne  parte a coloro , cheque fi a ulta per alcuno  tempo leggeranno ffi mai nejjuno la legge-  rà. Era e come T* latonico , e come allieuo    *02 VITA DEL, " 5   del Fictno grandtfiimo, ma Jantifiimo ama >  dorè, e nell' opere, che egli firifie de amore , •  le quali furono molte , e molte dotte , Si ut-  de lui ejfere flato feruenttfiimo , anzi tutto  fuoco ; da queflo per auuentura piu , che v  , da altro fi può prendere nero figno,e certifi  fimo argomento della nobiltà ,e unicttà(fia >  mi lecito in una per fona nuoua e unica) for  mare un uocabolo unico , e nuouo, dell' ani- ’  mo,e intelletto J uo,conciofia,che quanto al  cuna cofa è piu degnale piu perfetta , tanto  fenza dubitatione alcuna , e s'innamora  piu tofto , ft) arde uta maggiormente . Fu  catto beo, e religiofi in tutto il tempo , che  uijfe,e da cotali huomini douerebbono im-  par are, e prendere ejfempio coloro, iquabfi  fanno a crederei di non cffère,o di non do  uere e fiere tenuti filofofifi non di (pregiano  il culto diurno, e fi beffano di chi L'ojfirua,  quafi ghaltri uer amente non conofcano    i    C ATTA^IO. 203  quello, che uogliono moflrare falfamente  difapere efii, ocome fecofa alcuna piu a  filofefo conuemjfe,che conofcere , e contem-  plare , e configuentemente ammirare, e ri -  k uerire in quel modo, che fi può la Maeftà  di Dio , e l'eternità di tutte le cofi celefti .  tìebbe M.Francefio della moglie, laquale  non fenz& fua noia , e danno fi morì l'an-  no Mille cinque cento diciotto, efiendofi prt  ma morta la madre nel mille cinquecento  quattro , tredici figliuoà , fette mafihij , e  fet femine. La prima dellequah maritò a  Daniello di farlo Canigiani , laquale do-  po molti anni nmafit uedoua rimarito a  Ruberto di Donato Acctaiuoli, huomo no -  bilifiimo , e d'ine fi imabile prudenza . La  feconda a Carlo di Meglio Pandolfini, tre  di loro fi uoltcro far ^tonache, delle qua-  li ne uiue ancora una molto uener abile ,  degna di tanto Padre ì laquale è [fino già    tot VITA DEL  molti anni ) Hadefid del ^Munifiero del  Paradtfò. L'ultima maritarono poi gli  heredi Juoi a c Pierfrantefio di Ruberto de  7{tcci. I figliuoli furono Pandolfo', Agno-  lo : Dionigi : Theodoro : Stmone : Carlo : e  Cofimo . *Pandolfo fimorìhuomo fatto  eJJèndo duimuto dietro le uefttgia pater-  ne Filo fi fio eccellentifiimo . e . Agnolo uiuen-  te il padre , tlquale come amoreuole , efa-  uio non uolle contrapporfi, ne alla uolunta  del figliuolo , ne alla fpiratione dtuina,fi  rende Frate nella Religione di San Dome  nico , nel tomento di San sbarco, ihjuale  fiate Agnolo urne ancora , prouinciale nel  medefìmo ordine de Predicatori, ‘Rekgiofi  di buona ulta , e d'ottima fama . Stmone  Carlo , e Cofimo fi morirono tutti e tre gio-  uanetti, tra gli fedici,e i diciott 9 anni,ciafiu  no, e tutti profitteuolmente , e con grande  Jperanz& fludiauano > La cofioro morte   dolfi 9   a’    C ATT ATsflO. 20 j  dolfi , come fi dee credere , ai&ii. trance-  fio lor padre, come a buomo, infinitamen-  te, e tanto piu, che effindo egli amoreuolifi  fimo uerfi gli Urani, potemo pen/àre quel-  lo . che egli fujje uerfi i figliuoli, e cotali fi-  gliuoli, ma come a Ftlofifo ,fetppiendo,che  efiendo mortale , egli hauea coja mortale  generato , tomamente ut pofi fu piede, e co-  me Cbrifiiano,non dubitandole ne una  foglia ancora fi muoua finza la uoluntà  di Dio, rtprefi ogni cofit per lo miglior e. On  de fi agli Hiftorici fuffe quello conceduto,  che a i Poeti, e a gli oratori non e difdetto,  anzi mafiimamente richiefto , largbifiimo  campo harei qui diffamarmi lungbifiimo  tempo per le file lodi . Theodor o non men  bello d'affetto , che digrandifiima affet-  tatone , morì anch'egli dopo la morte del  padre , in Francia , tale, che di fette hoggi  non è uiuo al fico lo fenon TDionigi, ilquale    206 VITA DEL  datofì dalla faagtouent udine, alla mere a -  tura y hoggi e per la fa f faenza y e lealtà faa  in quel credito y e riputatane tra i più borre  uoh, e riputati mercatanti ì che fu il padre  tra i più chiari letterati \e tra i piu perfetti  filofififioftui di Madonna Maria figlino  la di Martino di CjugUelmo Mar tini faa  dilettifiima moglie, ha undici figliuoli cin-  que fimine di due delle quali ha nipoti e fai  mafchiyiquali fono il 'Bruendo M.France  fio Qanomco di [anta Ltperata e Protono  tarioAppofìohco, della cui qualità hauemo  fauellato di jopra.Pandolfo ilquale di tuo  no Jpirito y e fludtofi delle lettere no filo Cjre  che y eLatme y ma ancora Tofane fi truoua  hoggi in Rpma. Agnolo : Cjwuàbatifla, Bu-  ierto e Carlo Squali fino no pur uiui y e fini  tutti 3 ma in buono y e profpero fiato Jequah  cofi ho uoluto non fi fi troppo largamente ,  otrvppo fiarfamente raccontare, perche le    CATTALO. 207  felicità di queflo modo di qua, qualunque  cs4riflotile nell' Scica pare , che ne dubiti ,  pojfono nondimeno fecondo t Theologi chri  fiumi a co loro, che fino nell'altra uita,gio-  uare.Onde fecondo i Flofififì può , eficodo  i Theologi fi dee credere che M. Francefio  di Zanobi Qattani da Ghiacceto cittadi-  no fiorentino, ueggendo infìno dal piu alto  cielo tanta# cofi chiara fuccefiione,figoda  infiemec olle figliuole# co figliuòli morti qui  e lafiù uiuijiwio quella feltafiima,{t) eter-  na beatitudine , che deono quegli huomini  dopo la morte goder e, tquah mentre che uif  fero cofi lodtuoh per la uita attiua come ho  nor àbili per la conteplatiua, furono non me   no ottimi chriftianiyche dotti fimi Filofofì.   IL F ì %E.   HE C 1 S, T H 0.   Jl l BCDEFGHIKLM'Hj   i   Tutti fono Quaderni •      l'jf    \     A/  Grice: “If these Italians, pretentious as some are, want to use more than one surname – their loss!” – Grice: “It was an excellent idea of  Diacceto to translate is grandfather’s Latin works (‘enarratio’) of Plato’s little dialogue on the unspeakable vice of the Greeks into ‘vulgar Florentine!” -- Franciscus Cathaneus. Franciscus Cataneus, Diacetius. Francesco de Cattani da Diacceto. M. Francesco Cattani da Diacceto. Francesco Cattani di Diacceto. Diacceto. Keywords: i tre libri d’amore, diacetius, amore, “la sequenza del corpo” “l’autorita del papa” -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Diacceto” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51766795558/in/dateposted-public/

 

Grice e Diano – errante dalla ragione – emendato – filosofia italiana – Luigi Speranza (Vibo Valentia). Filosofo. Grice: “I love Diano, but Italians usually take him to be a bit too Hellenic; recall that a true Roman considers himself a Troian, i. e. an enemy of a Greek! But as a scholarship Midlands boy from Clifton to Corpus, I’m a Dianian!” Compie gli studi classici al Liceo Filangeri di Vibo Valentia, allora Monteleone Calabro. Rimane orfano di padre all'età di 8 anni e questo fu un evento che segnò la sua vita e molte delle sue scelte giovanili.  Nel 1919 si trasferisce a Roma, dove si iscrive alla Facoltà di Lettere della Sapienza ove segue le lezioni di Nicola Festa e Vittorio Rossi. Il suo progetto è di laurearsi con una tesi in Letteratura greca, ma la necessità di iniziare a lavorare lo spinge a scegliere una via più breve e nel novembre del 1923 si laurea con 110 e lode con una tesi su Giacomo Leopardi, un poeta che amò subito e che lo accompagnò nel corso di tutta la sua vita.  Immediatamente inizia a insegnare letteratura latina e greca, dapprima come supplente e poi, dall'ottobre del 1924, di ruolo come vincitore di concorso a cattedra. La sua prima nomina è a Vibo Valentia, cui segue un periodo di alcuni anni a Viterbo e una breve parentesi al Liceo Vittorio Emanuele II di Napoli. Nella città partenopea frequenta la casa di Benedetto Croce, ma in seguito il giovane Carlo Diano si allontanerà decisamente dal gruppo dei crociani. Dal novembre del 1931 è trasferito a Roma, dove insegna prima al Liceo Torquato Tasso e in seguito al Liceo Terenzio Mamiani. Sempre a Roma, nel 1935, consegue la libera docenza in lingua e letteratura greca. È fatto oggetto di inchieste ministeriali e pressioni per il suo rifiuto di iscriversi al Partito fascista, come chiedeva il suo ruolo di dipendente pubblico. Né mai si iscrisse.  Nel settembre del 1933, su incarico del Ministero degli Esteri, è lettore di lingua italiana presso le Lund, Copenaghen e Göteborg, incarichi che ricoprì fino al 1940. Gli anni in Svezia e Danimarca non furono solo utili per apprendere alla perfezione lo svedese e il danese, ma segnarono un profondo cambiamento. Il contatto con l'ambiente scandinavo gli spalancò la visione della grande cultura liberale nord europea e l'amicizia di poeti, letterati e studiosi scandinavi, tra cui lo storico delle religioni Martin Persson Nilsson e lo scrittore ed esploratore Sven Hedin, dei quali traduce anche alcune opere.  Al suo ritorno in Italia ricopre un incarico presso la Soprintendenza bibliografica di Roma e dal gennaio del 1944 all'aprile del 1945 è a Padova in qualità di Ispettore dell'istruzione classica presso il Ministero dell'Educazione Nazionale della Repubblica Sociale Italiana. Grazie a questo ruolo e obbedendo alla propria coscienza, all'insaputa di tutti, aiuta molte persone a mettersi in salvo dalla persecuzione fascista e nazista.  Dal dicembre del 1946 ricopre gli incarichi di Papirologia, Grammatica greca e latina, Storia della filosofia antica, Letteratura greca e Storia antica presso la Facoltà di Lettere dell'Bari. Nel 1950 vince il concorso alla cattedra di Letteratura greca ed è chiamato a Padova a ricoprire, presso la Facoltà di Lettere dell'Università, la cattedra che era stata di Manara Valgimigli. A Padova rimarrà ininterrottamente fino alla sua morte. Più volte Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia, fondò e diresse il Centro per la tradizione aristotelica nel Veneto.  Molte delle sue traduzioni dei tragici greci sono state messe in scena dalla Fondazione del Dramma Antico a Siracusa, al Teatro Olimpico di Vicenza, a Padova, portate in giro nei teatri italiani, interpretate da noti attori quali Elena Zareschi, Arnaldo Ninchi, Ugo Pagliai. Grandi le sue traduzioni, per la ricerca filologica, la lettura rivoluzionaria e la bellezza dello stile in versi, fra le altre, dell'Alcesti, dell'Ippolito, dell'Elena, dei Sette a Tebe, dell'Edipo Re, del Dyskolos di Menandro.  Cura, fra le altre cose, l'edizione di tutto il teatro greco per Sansoni e la traduzione dei Frammenti di Eraclito, volume della Fondazione Lorenzo Valla.  Insignito di numerose onorificenze (Valentia Aurea, Premio Nazionale dei Lincei, Medaglia d'oro della Città di Padova ecc.) e membro di numerosissime accademie in Italia, in Europa e in USA, ebbe profonde e durature amicizie tra gli altri con Salvatore Quasimodo, Sergio Bettini, Mircea Eliade, Walter F. Otto, Ugo Spirito, Giulio Carlo Argan, Bernard Berenson, Rocco Montano, Santo Mazzarino, Carlo Bo, Károly Kerényi, Martin Persson Nilsson, Renato Caccioppoli e molti altri fra i maggiori protagonisti della vita culturale e artistica del 900.  Tra i suoi allievi più noti troviamo il filosofo ed ex sindaco di Venezia Massimo Cacciari.  Per i suoi amplissimi studi e i suoi contributi originali su Epicuro è da tempo riconosciuto a livello internazionale come uno dei maggiori e più autorevoli studiosi del filosofo di Samo.  Nei suoi scritti teorici, principalmente in Forma ed Evento e in Linee per una fenomenologia dell'arte, fonda un vero e proprio sistema filosofico in cui filologia, studi storici, filosofici, sociali, storia dell'arte e la storia delle religioni si integrano a creare un nuovo metodo di indagine. Fondamentale, a tale scopo, è la creazione delle due categorie fenomenologiche di "forma" ed "evento", che gli permettono non solo di esplorare l'intera civiltà greca, ma possono divenire strumento di analisi generale di una cultura.  Altre opere: “Commento a Leopardi”; “Commemorazione virgiliana. Dall'Idillio all'Epos” (Boll. Municip. Viterbo); “ Il titolo De Finibus Bonorum et Malorum” (FBO). “L'acqua del tempo” (Roma, Dante Alighieri); “Note epicuree, SIFC); “Questioni epicuree, RAL); “La psicologia di Epicuro, GFI); “Epicuri Ethica (edidit adnotationibus instr. C.D. Florentiae, in aedibus Sansonianis, “Lettere di Epicuro e dei suoi nuovamente o per la prima volta edite da C.D., Firenze, Sansoni); “Aristotele Metafisica, Libro XII. Bari); “La psicologia d'Epicuro e la teoria delle passioni, Firenze, Sansoni); “Lettere di Epicuro agli amici di Lampsaco, a Pitocle e a Mitre, SIFC); Voce Aristotele in Enciclopedia Cattolica); “Edipo figlio della Tyche. Commento ai vv.1075-1085 dell'Edipo Re di Sofocle, Dioniso); “Forma ed evento: principi per un'interpretazione del mondo greco” (Venezia, Neri Pozza); “Il mito dell'eterno ritorno, L'Approdo); “Il concetto della storia nella filosofia dei greci, in: Grande antologia filosofica, Milano, Marzorati); “La data della Syngraphé di Anassagora. Scritti in onore di Carlo Anti, Firenze); “Linee per una fenomenologia dell'arte” (Venezia, Neri Pozza); “La poetica dei Feaci. Memorie dell'Accademia Patavina); “Pagine dell'Iliade, Delta); “Note in margine al Dyskolos di Menandro” (Padova, Antenore); “Menandro, Dyskolos ovvero Il Selvatico, testo e traduzione, Padova, Antenore); “Martin P.Nilsson, Religiosità greca, (traduzione) Firenze, Sansoni); “Saggezza e poetica degli antichi”; “Orazio e l'epicureismo” (Atti Istituto Veneto); “La poetica di Epicuro, Rivista di Estetica); “La filosofia del piacere e la società degli amici, Boll. del Lions Club di Padova); “D'Annunzio e l'Ellade, in L'arte di Gabriele D'Annunzio, Atti del Convegno Int. di Studio); “L'uomo e l'evento nella tragedia attica, Siracusa, Dioniso); “Il contributo siceliota alla storia del pensiero greco, Palermo, Kokalos); “Euripide, Ippolito (traduzione e cura). Firenze, Sansoni); “Eschilo, I Sette a Tebe, Firenze, Sansoni); “Menandro, Dyskolos ovvero il Selvatico, Sansoni); “Meleagro, Epigrammi traduzione di C.D. (con una tavola di Tono Zancanaro) Vicenza, Neri Pozza); “Epikur und die Dichter: ein Dialog zur Poetik Epikurs, Bonn, Bouvier); “Saggezza e poetiche degli antichi, Venezia, Neri Pozza); “Gotthold Ephraim Lessing, Emilia Galotti, (traduzione) Milano, Scheiwiller); “Euripide, Alcesti (traduzione e cura) Milano, Neri Pozza); “Euripide, Elettra, (traduzione e cura), Urbino, Argalia Editore); “Voci Eoicurus e Epicureanism per Enciclopedia Britannica); “Il teatro greco. Tutte le tragedie, C.D. Firenze, Sansoni); (di C.D. Saggio introduttivo. Traduzioni: Eschilo, I Sette a Tebe; Euripide, Alcesti, Ippolito, Eracle, Elettra, Elena, Le Fenicie, Oreste, Le Baccanti). Epicuro, Scritti morali, Trad. C. Diano, Padova, CLEUP); “Euripide, Medea, (traduzione e nota di C.D.) Padova, Liviana); “Aristofane, Lisistrata (traduzione e cura) Padova, Liviana); “Anassagora padre dell'umanesimo e la melete thanatou in L'Umanesimo e il problema della morte, Simposio Padova Bressanone); “Studi e saggi di filosofia antica, Padova, Antenore); “Scritti epicurei, Firenze, Leo Olschki); “La tragedia greca oggi, Nuova Antologia); “Limite azzurro, Milano, Scheiwiller); “Eraclito, Frammenti e testimonianze, (traduzione e cura) Milano, Fondazione Lorenzo Valla); “Epicuro, Scritti morali, Milano, BUR);  Platone, Il Simposio (traduzione e cura), Venezia, Marsilio); Il pensiero greco da Anassimandro agli stoici, Torino, Bollati Boringhieri, Introduzione di Massimo Cacciari.  e Lia Turtas. Introduzione Jacques Lezra. Curatele Platone, Ione, Roma, Dante Alighieri, M.T.Cicerone, De finibus bonorum et malorum, GFI, Omero, Iliade. Libro I, Firenze Bemporad, Platone, Dialoghi Convito, Fedro, Alcibiade I e II, Ipparco, Amanti, Teage, Carmide, Lachete, Liside, Bari, Laterza, 1934 (II ed. 1945); Il teatro greco: tutte le tragedie, Firenze, Sansoni); “Eraclito, I frammenti e le testimonianze, Milano, Fondazione Lorenzo Valla, Arnoldo Mondadori Editore); “Epicuro Giovanni Gentile Tragedia greca. TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Carlo Diano, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Opere di Carlo Diano,.  Carlo Diano Forma y evento, Madrid, Circulos Bellas Artes (estratto traduz. spagnola)Brian Duignan, Carlo Diano, Epicureanism, in Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Carlo Diano, nel sito "Il Ramo di Corallo", di Francesca Diano.  IL CONVITO.   ATOLLODOllO E UN AMICO.   I. - Apollpdóro. Credo di nonSmotto, P- 172  ispondere alla vostra no ues^ < . Galero, uno dei   Srm^STiTp.lWo.0 (1), o M -   Èd io mi fermai e aspettai. „i ie poc’anzi   ti di 'raccontarmi la    « “ - - ™  pensiero filosofico greco, fu tntt ^ ” C ; u raorto ad maestro, o, stando a  più fieli o devoti seguaci (l a Kliano, no ricopri o voleva   un aneddoto riferitoci da t>10tcl “ teUo - Quanto allo scherzo, dm   ricoprirne il cadavere col ' >r0I ’ ? “ t f, ò moUo discusso in ohe consista.   Apollodoro rileva nelle pardo doli arpico, . cominciato dal ehm-   Forse, oltreché nel tono nome Matteo o ohe tosso   marie Falere». < So un amico nostre. clm gr _ ^ ^ Vcllotrl \ anziché   nato a Vellotri noi comin^assimo col olila ar^ lnl uno scherzo, sol-rat -  ‘ Matteo ’, por farlo voltale, P ■ ..... allusione a uualcunu delle suo uua-  tutto se col chiamarlo cosi si taccs ““ u 0 i luogo . Noi nou sappiamo.  Uhi. «he si solesse attribuire «gla al«tan rlpuUv ,iono o di elio genere:   se 1 Falerosl avessero unniche loi partlooi^ > ^ , (Bonghl) . E none,   a ogni modo anche sonza^uesto loA^y^ mM , naro „ i marinai   mi paro, Impossibile olio, cssoni t . e u uca t 1L , la ciunlitìl di Valoroso   rìi^ol qu alcuno, formano un   emlecflfilllitbo.          — 16 —    conversazione tra Agatone (1) e Socrate e Alcibiade (2)  e gb Xi, che allora presero parte al banchetto c che  discorsi intorno all’amore ri si fossero temiti. Me ne  accennò un tale che ne aveva udito da_Fenice di Filippo (3)  è aggiunse che anche tu ne eri informato; ma non seppe  dirmi nulla di preciso. Raccontamela tu dunque. Nes-  M mo più di te è tenuto a riferire i discorsi del tuo amico.  E prima di tutto, mi chiese, dimmi: a quella conversa¬  zione eri tu presente o no!   Ed io: Si vede bene che quel tale che te la raccontò  non ti deve aver raccontato nulla di preciso, se credi che  quella conversazione, di cui mi chiedi, abbia avuto luogo  così di recente, che anch’io avessi potuto assistervi.   Ed egli: Difatti lo credevo, rispose.   E come, dissi, Glaucone? (4). Non sai che da molti  anni Agatone non è più venuto tra noi; e che da quando  frequento assiduamente Socrate e mi studio di seguire  giorno per giorno ciò che egli dice o fa, non sono ancora  tre anni? Prima andavo errando a caso di qua e di là,  e pure illudendomi di fare qualcosa, ero il più infelice  degli uomini, non meno che non sia ora tu, perchè pen¬  savo che bisognasse occuparsi di qualunque altra cosa  piuttosto che di filosofìa.   Ed egli: Smetti di canzonare e dimmi quando ebbe  luogo quella conversazione.   Quando — e noi eravamo ancora dei ragazzi —  Agatone vinse il premio per la sua prima tragedia, nel    li) Agatone, Ilglio di TisAmeno, ora nativo di Atene, clic tra il -10!)  c il 1117 a. C. egli lasciò i»cr andare a vivere nella corte di Archelao di Mace¬  donia. il cui splendore lo attirava. Bollo, elegante e ricco, fu scolaro di  I ròdico e di Gorgia, dai riunii apprese Io siile protonaionoso e retorico ed  ebbe imimi"^^ di celebri»* per il successo del suo drama. intitolato  . , S ,, m0 : nel n " al ° ,,sclva dagli argomenti tradizionali e dalla via  c lr U tavn imEfa,l 1>r ? <l0OeSSOrl - ““ ** 11 “>P«tto Umusi muliebre   .oZir» a 7ì:^T a V" m V0,t0 bCT8UC "° al mm>i ™»'e.   contempi,rana. Nel Ilo aveva forse poco pii, di tronfanni.   ed u n, o d stilò lm ‘ tUB dW ° ! " Kli ò ta-PP- noto come generalo   Òvevu ,”t,!,.n„?ò ° ? n " e0 aVYennt0 11 Mochetti. («0 a. C.), egli   $ «n ^ potonzft pouuoa -   Altro ignoto, da non confondere con Glaucone, fratello di Platone.       , omo seguente a quello in cui egli coi suoi coreuti celebrò  fsacrifico ^^"nolti anni or sono, a quanto pare.  Ma^te’chi té la che ne parlò   ; &r-ra   tota», ote ri» “XeK «il» ™» « * *»   alla, conveisazioue, 1»« “ Tutta™, interroga,   amanti di feociatc a q 1 udifce da Aristodemo,   anche Socrate su qualcuna delle aveva riferito,   eda lui ebbi la conferma d#ò che 1 a L a   Perchè dunque non t afte apposta   via, che s’ha a percorrere lino alla citta,   per discorrere e per udire. di que i discorsi,   Così cammin facendo, rapo « impreparato;   sicché, come ho detto a prmcn|, nO|Soim V   c se volete che io li ripeta anche a voi, ecconn^   ricchi e dediti ai guadagni, , ' d : j ar   "Scesa e i^’f^nS'prSSmente anche voi   dai canto vostro penserete di me che sono' u ?.^Ton lò  e credo che voi crediate il vero; io pero di voi non   Sei sempre lo stesso, Apoilodoro: non fai che  dir male di te c degli altri, e ai tuoi «echi siamo, mi  pare, tutti degl’infelici, all’mhion di So f so¬   dando da te. Perchè ti chiamino tenero (3), non so,    (1) Da questa indicazione si desume elio il banchetto avrebbe avuto  ,U0 %“ e ÌH—. anch’egli uno scolare di Scorato.   Cidatonoo, si faoova, sembra, notare per la sua smania c m   anche in corte abitudini di vita, come, per esempio, in quella d andar sempi   et) Tutti i testi, a cominciare dai piìi antichi, danno qui |j.a).axo;   • mollo • tenero ', lezione respinta dalla maggior l'arto degli editori, elle  hanno accolta invece la correzione |iavixó? ‘ pazzo \ ‘ turioso ’, occorrente    2 Piatone — Convito.         ir» eai soniDre cosi! «xccrbo ■ con tc  ma corto ncll ° ,[ U ' fuo rchè con Socrate,   stesso e con gli alt , dunqu e indiscutibile che,   se j^nso così^'di^mè e di^voi, io debba essere un pazzo   e un insensato? nena 0 ra di leticare   ,, r 1,™5» A Fa° SS» 4«* « “ “ “ bbl " , °   Hsrtósfssis-rr » £t   meglio che io mi pori « M .1 »■*»*« .1,.  capo, come a me lo fece Aristodemo.   ,1 - Egli dunque mi disse (1) di avere incontrato  Socrate cbe usciva dal bagno e calzava delle pantofole  cosa che suol fare (2) di rado, e dovergli chiesto, dove   s'incamminasse cosi rimbellito. .   E l'altro: A cena da Agatone. Ieri mi sottrassi al  banchetto della vittoria, per paura della folla. Ma pro¬  misi che oggi non sarei mancato. E mi Ron fatto bello  appunto per presentarmi bello ad un bello. Ma tu, gli  dimandò, come ti senti disposto a venire a un banchetto  non invitato?    in parecchi cod«l. La lezione più antica, ripristinata dal Burnet, nonché  dallo Schoenc nella sua revisione dell’edizione dell’Hug, era già stata  difesa dal Ilfìckert, e con buone ragioni. Ciò che sappiamo dal ‘ Fe¬  done’, in cui Apollodoro c’ò dipinto come un carattere impressiona¬  bilissimo, clic passava facilmente dal riso al pianto c viceversa, e che  negli ultimi istanti di Socrate si abbandonò a così incompostc manife¬  stazioni di doloro da provocare un richiamo del maestro, accenna, mi  pare, piuttosto a un uomo d’indole molle, che ad un furioso o pazzo. Nò  la risposta d*Apollodoro, nella quale h’ò voluto veder la conferma della  lezione |iotyiy.Ó£, ò una prova addirittura decisiva, giacché, osserva il  RUekert, non dici haec, ut éxplanelur caussa cognominis, sed indignantis  verbo, esse, conccdcntls, ni fit per indignalionem, atquc in maim augentis id  quod arnione diadi. Qui quii in rcprchciuliseet nimiam aeveritatem, hoc ipsum,  niininm ceso, arripicna, acerbe rcapondel: concedo, manifestimi est , me qui  uliter sentilim atquc vos, debcrc insanire atquc delirare.   (1) Da questo * disse ’ (IcpY)) dipendo nel testo tutta la narrazióne  d*Apollodoro, che nel greco ha la forma d’uria oratio obliqua.   (2) Qui nel testo c’è sTtoóei ‘ faceva ’ in conformità dell’uso greco»  che adopera l’imperfetto per significare uno stato clic dura tuttora nel   -presente, àia poiché il racconto si suppone fatto, mentre Socrate è ancora  in vita, ho sostituito il presente all’imperfetto.        Per me, rispose Aristodemo, sono ai tuoi ordini.   Ebbene, riprese, seguimi, affinchè, mutati 1 termini,  la si faccia finita col vecchio proverbio, mostrando cn  anche dei buoni ai conviti vanno non invita  i buoni. Omero però, se non mi sbaglio, non si conten  di farla finita con esso, ma volle anche fargli oltraggio,  perchè dopo d'averci rappresentato Agamennone come  singolarmente prode in guerra, e Menelao come un f ia ( * °  guerriero, al sacrifizio ed al banchetto, offerto < a  Agamennone, fa che intervenga non invitato Menelao,  un dammeno alla mensa d’un uomo che valeva di piu U fi   E l'altro nell’udir ciò: Ho paura anch’io, Socrate, di  non essere quel che tu dici, ma piuttosto, secondo Omero,  quel dappoco che va, non invitato, al banchetto d un  sapiente. Del resto, dacché vuoi condurmici, preparati a  giustificare la mia presenza, perchè io per me non diro  d’esserci andato senza invito, ma in vitato da te.   In due andando per' via (2), riprese, « consi¬  glieremo su quel che ci converrà di dire. Per ora  andiamo.   E scambiate queste parole, s’avviarono. Socrate cam¬  minava immerso in qualche pensiero, e rimaneva indietro;  e poiché egli si fermava ad attenderlo, gli disse d andai  pure innanzi. Giunto a casa d'Agatone trovò la poi tu,  spalancata, e lì, disse, gli capitò una cosa da ridere.    (1) C’ù nella risposta, ili Socrate un ginoco «li parole che non e ^pos¬  sibile rendere in italiano. 11 proverbio era. pare. BsAfflv sin Batta; taotv  aOxóuatot avallo! . dogi-inferiori ai conviti vanno non invitati i buoni-  O anello meglio . dei vili (o dei deboli) ai conviti vanno non invitati i torti ..  Sdorato, gtuòcando sulla somiglianza elle, a parto l’aceento, e'e tra aYaddW  •del Paoni ’ o ’A T <*W•AY'M-nm ‘ad Agatone' ri f.1 il proverbio in  modo che esso si presti a (Uro tanto . dei Inumi ai conviti vanno i buoni  non invitati -, quanto • da Agatone ai corniti vanno i buoni non invitati ».  E si noti elio anche II nomo ’Ay ec&MV corrispondo suppergiù a ‘ Oinobono '.  Quanto ad Omero poi Socrate, celiando, immagina cito il poeta nel tìngere*  (/(. Il 108) clic Menelao 4 flocco guerriero ’ vada non invitato alla mensa  d’un prode conto Agamennone, abbia voluto addirittura fare oltraggio (ti  proverbio, che egli, invertendone gli estremi, avrebbe implicitamente  (giacché al proverbio In Omero non s’accenna né punto né poco) rifuggiate  io quest "altra forma àralfiSv Èro Baita; taoiv aùti|iatoi Bs’Aoi • dei forti  ai conviti vanno non invitati i vili   (2) Allusione a un luogo omerico: cf. II. X ’224.         — 20 —    - Giacché gli si lece subì*. 'J ?^stateti a mema>ano  ione-e lo condusse dove g< 1 ’ Come Agatone lo   quasi sul punto di niet ^“ in buon punto   ^e: Oh! Aristodemo f *£’ y g£i per altro, rimet-  pcr cenare con noi. il -■■■ rcai per invitarti senza   ZSJtì Sin Ma e»m} * »»» « hri biotto   Socrate? mi volsi indietro, ma non   •r in nessun luooo che Socrate mi seguisse, e dissi:   “ “S ,2 *•»*. a. lai q«i >11»»-   Ed hai fatto benone. Ma dov’è Socrate?   Un momento fa mi seguiva; ma ora dov è. Sono io   mire sorpreso di non vederlo.   Va subito a cercarlo, ragazzo, disse Agatone, e in¬  troducilo qui. E tu, Aristodemo, prendi posto a lato ad  Erissimaco (1).    IH. — E mentre un servo gli lavava i piedi, perchè  potesse sdraiarsi, un altro entrò dicendo: Questo Socrate  s’è ritratto nel vestibolo d una casa qui accanto, e sta  li fermo. Io l’ho chiamato, ma non ha intenzione d’entrare.   Strano!, disse Agatone; corri dunque a chiamarlo, e  non smettere, finché non si muova.   No, no. diceva d’aver soggiunto Aristodemo. Lascia¬  telo stare. Egli l’ha quest’abitudine. Certe volte si tira  da parte e riman fermo dove gli capita. Verrà ben presto,  ritengo. Voti lo disturbate; lasciatelo stare.   Facciamo pure cosi, se codesto è il tuo avviso, disse  Agatone. E voi, ragazzi, dateci da mangiare a noi altri,  e imbanditeci tutto quel elio vi pare. Non c’è nessuno  che vi sorvegli: è una bega che non mi son mai presa.  Fate conto che ci abbiate voi invitati a cena, me e questi  altri, e trattateci in modo da meritare i nostri elogi.   Dopo ciò,'diceva, si misero a desinare, ma Socrate  non compariva. Agatone aveva ordinato più volte che    fi) lirlssùuaco, figlio d'Aedmeno, ora, conio il padre, un modico litui  noto in Alene.    — 21    s’andasse a rilevarlo, ma egli non l’aveva permesso.  Finalmente, men tardi però che non fosse nelle sue. altitu¬  dini. ma tuttavia quando la cena era già a mezzo,  Socrate entrò. E Agatone, che occupava 1 ultimo posto,  per caso da solo: Vien qua, Socrate, disse; sdraiati  accanto a me, affinchè al tuo contatto m’avvantaggi  anch’io di quel pensiero sapiente di cui ti sei arricchito  nel vestibolo. Perchè gli è certo che 1 hai trovato e lo J  possiedi: chè- prima non ti saresti mosso.   Socrate si mise a sedere e rispose: Sarebbe, Agatone,  una gran bella cosa, se la sapienza fosse cosiffatt a, che  potesse scorrere dal più ripieno nel più vuoto di noi.  al solo toccarci a vicenda, come l’acqua nei bicehien,  che a traverso un fìl di lana scorre da uno più colmo in  un altro più vuoto! Se lo stesso avviene anche della  sapienza, son io che devo far gran conto d essere accanto  a te, giacché penso che, mercè tua, mi riempirò di molta .  e squisita sapienza. La mia non può essere che povera  cosa o anche di dubbio valore, come un sogno;, ma la  tua è luminosa e destinata ad un grande avvenire, dal  momento che da te, giovane ancora, ha sfolgorato poco  fa di così viva e chiara luce davanti agli occhi di piu  che trentamila Elleni.   Sei un gran canzonatore, Socrate, disse Agatone. Ma  di questa faccenda della sapienza discuteremo fra poco  tu ed io, e, ne prenderemo a giudice Dióniso (1), Per ora  pensa a mangiare.   IY. — Dopo di ciò, raccontava Aristodemo, Socrate 176  si sdraiò, e finito che ebbero di cenare, lui e gli altri,  fecero lo libazioni, cantarono un inno in onore del dio,  adempirono tutte le pratiche di rito (2), e quindi si vol¬    ai Dióniso, il dio della poesia di'amatloa, por un poeta tragico era il  miglior giudico al quale potesse appellarsi.   (2) Questo cori inolilo orano: 1° i convitati bevono un sorso di vino  puro In onoro del ‘ dèmone buono * [del buon genio]; 2° i servi sparecchiano;  3° o portano acqua ^crollò i convitati si lavino le inani una seconda volta  (la prima volta l’han fatto prima di mettersi a cona); 4° distribuiscono  ancora corone ed unguenti; 5° poi si fanno lo libazioni di vino temperato»  pi prima a Zeus Olimpio (o alla Sanità), la seconda agli Eroi, la terza a      • n \ oli ora fu il primo a prender la  s ero al bere. iei< c he regola terremo nel   parola e: Orsù, disse amie . , pel , me V1 c011 .   bere per aggravarci > « g ^h P rabtiso di ieri,  fesso che mi sente■ e CO sì forse la più parte   e h0 bisogno d un po^ Y P edete dunque come si possa   bere°con^la'maggior discrezione ^ossibUe^   «*>. 'U“, «   Acumeno. Ed ora non ho bisogno, che d udire come si  1 in f orz e per bere un. altro solo di voi, Agatone.   no davvero, non me la sento neppnr io, rispose   CO "¥a'nto meglio per noi, mi pare, disse Erisstamco per  me . per Aristodemo; per Fedro e per questi altri, se ma  cedete il campo voi che siete dei bevitori a tutta prova,  giacché noi siamo sempre debolissimi. Quanto a Sociat %  egli fa eccezione: si trova a posto in un caso e nell altro,  e gli sarà indifferente comunque si beva. Bacche, dunque,  nessuno dei presenti è disposto a bere rii molto, non vi  rincrescerà, spero, ch’io vi dica la verità a proposito  dell’ubriacarsi. Dalla pratica della medicina ho cavato  questa convinzione: che per gli uomini è dannoso 1 abuso  del vino: e di mia volontà non eccederei mai nel bere,  nè lo consiglierei ad un altro, soprattutto se si risente  ancora della sbornia del giorno prima.   Per me non c'è caso, prese a dire Fedro da Mirri¬  li unte (3); io lui l’abitudine di seguire i tuoi consigli,  specie quando parli di medicina; ina ora, se hanno giu¬  dizio, faranno così anche gli altri.    Zeus salvatore. I/ultiina tazza cho ai beveva a questo si diceva la ‘ por-  lotta *.; 0 spesso alle libazioni seguiva una musica di Munti c un brucia¬   mento d’incensi; 7° con la prima libazione s’accompagnava il canto di un  inno religioso. (Dal Bonghi).   (1) Doveva esscro un ammiratore di rotori e sofisti, ma è noto soprat¬  tutto come amante d’Agatonc*.   (2) Aristofane, è superfluo dirlo, è il famoso comediografo.   (3) Su Fodro v. la nota alla mia versione del Fedro.     jp£ijÌMpM      h'.    — 23 —   Udito ciò, tutti convennero che non si dovesse far  del bere il passatempo di quella riunione, ma che ognuno  bevesse quanto e come gli accomodava.   y. _ Poiché è stata accolta la mia proposta, che   ognuno beva quanto gli accomoda, disse Erissimaco, c  che non ci sia nessun obbligo, ne faccio ancora un al in¬  aurila di mandar via la suonatrice di flauto entrata dianzi,  perchè suoni per conto suo o, se vuole, per le donne cu  casa, e che noi oggi si passi il tempo a conversare fra no.   E voglio anche, se me lo permettete, proporvi U tema   discorsi. ìtì   Tutti consentirono e lo esortarono a farne fa. 1  posta. E comincerò, riprese Erissimaco, come la ^ e '  lanippe ’ di Euripide (1): Miei non son questi detti  che m’accingo a pronunziare, ma di Fedro qui pi  sente. Non passa occasione infatti eh egli non mi up •  indignato: «Ma Erissimaco, non è enorme, che mentre  poeti han cantato inni e peani in onore degli alto d ,  di Eros, un così antico e possente iddio, neppui u _  tanti poeti, che ci sono stati, abbia mai composto un  eloo-io’f E se poi vuoi guardare ai buoni sofisti, essi ha  Sto in prosa le lodi di Éracles e di altri, come quel  valentuomo di Predico (2)... E questo «ite, esorpren¬  dente; ma c’è di peggio. A me proprio una ^oha accadde  dibattermi in un libro d’un sapiente, m cui si facevano  sperticate lodi del sale pei vantaggi che reca, E puoi  vedere parecchie altre cose simili celebrate con lode...  Spender tanta cura intorno a siffatti argomenti, e pii  Eros non esserci nessuno fin oggi, che abbia osato lai ne  un degno elogio: a tal punto è trascurato un cosi grande  Iddio- ) - E in ciò’, secondo me, Fedro ha ben ragione.   10 dunque, oltre che desidero .li pagare il mio contributo  a costui e fargli cosa grata, ritengo che questo sia per  noi qui radunati proprio il momento .li adornai e di lodi   11 dio. E se così pare anche a voi, ecco trovato torse un    (1) Cf. N.vuoic, Trita- Or. Fratjmm.' tramili. 181, 1>. a l.   (2) è „ueUo elio si trova riferito In sunto da Senofontei nei Momo-  rubili ’ 11 21, 1 sgg., o elio fu tradotto dal Loop®!! col tlt. ' I*.reale .        buon argomento di conversazione. In sostanza io pro-  onlo che ciascuno ili noi. per turno a destra, dica le   Foladi Eros, come può meglio, e sia il primo ladro,  non Tolo perchè egli occupa il primo posto, ma anche  uerchè egli è il padre del discorso.   ^Nessuno, Erissimaco, disse Socrate, voterà contro la  proposta, Nè potrei certo oppormi» io, che di¬  chiaro di non esser competente in altro che m cose  d’amore: nè vi si opporranno Agatone e Pausatila e  tanto meno Aristofane, la cui vita è tutta cosi pro¬  fondamente devota a Dioniso ed Afrodite, o qualche  altro di quelli che vedo qui presenti. Senza dubbio,  la partita non è uguale per noi che siamo negli ultimi  posti: ma se quelli che ci precedono parleranno esau¬  rientemente e bene, noi saremo sodisfatti. Dunque, con  buona fortuna, inauguri Fedro la serie dei discorsi e  pronunzi l'elogio di Eros.   A queste parole anche gli altri fecero eco e npetet-  178 tero l'invito di Socrate. Ma di tutto ciò che ognuno disse,  nè Aristodemo si rammentava con precisione, nè io, dal  canto mio, di tutto quello che egli mi riferì. Vi dirò per  altro le cose più degne di ricordo e i discorsi, che mi  parvero tali, di ciascuno.    VI. — Come dunque dicevo, stando al racconto  d’Aristodemo, Ferirò fu il primo a parlare e cominciò sup¬  pergiù a questo modo: Eros è un grande iddio e ammi¬  rabile tra gli uomini e tra gli dei, oltreché per tante altre  ragioni, soprattutto per la sua origine. Perchè l’essere  tra gli antichi iddìi antichissimo è cagion d’onore, di¬  ceva, e ne abbiamo la prova. Difatti genitori di Eros nè  vi sono, nè si rammentano da verun prosatore o poeta ;  anzi Esiodo dice (1) che dapprima fu il caos,    ma dopo   Oea dall’ampio seno, saldissima, eterna di tutto  sede ed Eros ;    (1) Cf. Theog. 116 agg.    — 25    e con Esiodo s’accorda Acusilao (1) noU'afferniaro che  dopo il Caos si generassero questi due, Gea ed Eros.  E Parmenide dice della generazione che    infra gl’iddìi tutti Eros concepì per il primo (2).    E così da molte parti si consente che Eros fu tra gli  antichi antichissimo. E perchè antichissimo, è cagione a  noi dei più grandi beni. Io infatti non so dire qual maggior  bene possa esservi per chi entri appena nell’età dell'ado¬  lescenza d’un amante buono, e per l’amante d’nn fan¬  ciullo amato. Giacche ciò che agli uomini deve servir di  guida per tutta la vita, se vogliono nobilmente vivere,  questo non valgono ad ispirarlo altrettanto bene nè la  comunanza di sangue, nè gli onori, nè la ricchezza, ne  alcun’altra cosa, quanto l’amore. E che è mai questo .  La vergogna per ciò che è brutto, l’ambizione per ciò  che ò bello, senza le quali nè ad uno Stato, nè ad un  privato è possibile operare grandi c nobili opere. Ebbene  io affermo che un uomo che ami, se fosse sorpreso in  atto di commettere qualcosa di brutto o di soffrirla da  un altro senza reagire per vigliaccheria, non s affligge¬  rebbe tanto ad esser visto nè da suo padre, nè dai com¬  pagni, nè da nessun altro, quanto dal suo diletto fanciullo.  Così del pari vediamo che anche 1 amato si vergogna  soprattutto degli amanti, ove sia sorpreso a commettere  qualcosa di brutto. Se dunque ci fosso modo d avere uno  Stato o un esercito composto damanti e damati, non  potrebbe esserci per la loro città miglior governo ì  costoro, perciocché «'asterrebbero da ogni cosa turpe e  gareggiherò di virtù fra loro (3); e combattendo gb    171»    (1) Acusilao d’Argo ora uu logografo contemporaneo delle guerre  persiane, autore di ' Genealogie \   (2) Questo Torso faceva parto del poema llspì cpoactofi Sulla  natura > del grande Hlosofo di Elea, fiorito tra la fino del vi e il principio  del v s. a. 0. Cf. Dirla, Forsokr. P P- 1U2. 13.   (3) Lottoralmento: So dunque si trovasse modo ohe oi fosso uno stato  O un esercito d’amnuti o d’amati, non potrebbero governar meglio la  propria citta, elio astenendosi da tutto lo cose brutte e gareggiando fra  loro eoe.     _ 26 —   £ sLo non possa animare d’un divino coraggio cosi  da renderlo pari all'uomo più di sua natura vaio .roso>. E  QU el che Omero dice (1): avere un dio ispnato  l'ardire in taluni eroi, questo appunto per virtù propiia  Eros l’effettua negli amanti.    YII. _ Ed .infatti solo quelli che amano son pront i   a morire in cambio d’un altro; nè soltanto gli uomini,  ma anche le donne. E di questo ci offre, a noi Elioni,  una testimonianza bastevole la figliuola di Pelia, Alcé-  stide (2). che fu sola a voler dare la propria ruta in  cambio di quella del marito,, sebbene questi avesse e  padre e madre tuttora viventi. Ma costoro per virtù  d’amore ella li sopravanzo tanto nell affetto, da farli  apparire degli estranei al figliuolo e legati a lui unicamente  di nome. E per aver fatto ciò parve non solo agli uomini,  ina anche agli dei che avesse fatto cosa tanto bella, che  quantunque molti avesser compiuto molte belle azioni,  a ben pochi gli dei concessero questo premio, di richia¬  marne l'anima dall’Ade; ma quella di lei la richiamarono,  ammirati di ciò ch’ella aveva fatto; tanto altamente ono¬  rano anco gl’iddii un amore profondo e virtuoso! Invece  rimandarmi via dall’Ade a mani vuote Orfeo d’Eagro,  dopo (riavergli mostrato il fantasima della moglie, pei' la  quale egli 'era sceso laggiù, senza per altro dargli la donna,  perchè parve loro circi mancasse di coraggio, da quel  citaredo ch’egli era, e non gli bastasse l’animo d’affron¬  tare per amore la morte, come Alcéstide, ma s’ingegnasse  da vivo di penetrare nell’Ade. E però lo punirono, fa -    (1) h un modo <11 dire elio ricorro più volto nei poemi muorici.   (2) l.u devozione di questo, eroina verso 11 marito forma il soggetto  (Cuna tragedia d’Euripidc, intitolata appunto ‘ Alcéstide      dolo morire per mano di donne. Al contrario, onora¬  rono Achille, il tiglio di Tétide, e gli assegnarono un posto  nell’isole dei beati, perchè, sebbene avvertito dalla madre  ohe sarebbe morto come .avesse ucciso Ettore, laddove.   ciò non avesse fatto, ritornato a casa, vi sarebbe  finito di vecchiezza; egli, bramoso di correre alla riscossa  dell’amante Patroclo e vendicarlo, osò non solo di morire  ner lui ma di soprammorire a lui estinto. Ond anche, gli >  dei compresi di viva ammirazione, gli concessero un  onore addirittura segnalato, (lacchè aveva mostrato di  tenere in così alto pregio l’amante. Ed Esclnlo vaneggia,  oliando afferma che Achille era l'amante di Patroclo (1).  Achille era più bello non solo di Patroclo, ma (li tutti  quanti gli altri eroi, ed era ancora imberbe, e per giunta  più movane di molto, come dice Omero. Gli e che in  realtà, se gli dei onorano singolarmente questa virtù  dell’amare, essi tuttavia ammirano e pregiano e ricom¬  pensano più largamente la devozione dell amato pei  l'amante, che non quella dell’amante per ornato  L’amante infatti è qualcosa di più divino dell amato,  perchè posseduto dal dio. E perciò appunto gli dei ono¬  rarono Achille a preferenza d’Aleéstide, assegnandoci  un posto nell’isole dei beati. .   Per conto mio, adunque, concludo che Eios e t a  gli dei il più antico, il più augusto, il piu capace di  rendere virtuosi e felici gli uomini, così in vita come m  morte.   Vili. — Questo a un dipresso, disse Aristodemo, il  discorso di Fedro. Altri ne seguirono (lei quali non si  rammentava bene e che omise, e passo al discorso di  Pansaaia, che parlò così: A me pare che non ci si sta pn>-  pitocon chiarezza il tema del discorso, quando se detto,  così senz’altro, di pronunziare 1 elogio di Eros. s.e Eios  non fosse che un solo, via, la cosa potrebbe andare, ( ìa  ecco, esso, non è un solo, e non essendo un solo, e più    (1) Accenno iul una traspaia perduta-, intitolata ‘I Mirmldom ,  nella quale talune espressioni allettilo» d'Achille erano da alcun, mterpro-  tate conio qui si complaco d‘interpretarle I«edro.       — 28 —    criusfo che si fissi in precedenza quale sabbia a lodare,  fo dmu e mi proverò a rimetter le cose a> posto, a due  aual è l’Eros che merita lode, c poi a   pronunziarne 'ì’elogio in maniera degna del mime. Tutti   infatti sappiamo che Afrodite non è senza Eros. Se Afro¬  dite fosse una sola, non ci sarebbe che un solo Eros;  rail poiché di Afroditi ce n’è due, due devono essere di  necessità anche gli Erotes. E come non sono due le dee.  L’ima è più antica, non ha madre, e figliuola d Ulano,  e però è detta Urania [o celeste]; l’altra è più giovane,  figliuola di Zeus e di Dione e la chiamiamo Pan demos   10 volgare]. Ne consegue perciò clic l'Eros, collabora-  lore di questa, si chiami a buon diritto Pandemos [o  volgare] e l'altro Uranio [o celeste]. E se giusto è elle  tutti gli dei si lodino, è pur necessario provarsi a dire  le qualità toccate in aorte a ciascuno dei due. Perché  d'ogni nostro atto può affermarsi questo: che esso di   181 per sé non è nè hello uè brutto. Per esempio, ciò che ora  Tioi facciamo: bere, cantare, discorrere, nessuna di queste  cose è di per sè bella, ma nel fatto divien tale, secondo   11 modo come si fa. Fatta bene e rettamente diventa  bella; non rettamente, brutta. E così anche l’amare ed  Eros non è tutto bello e degno d’esser lodato, ma solo  quello clic nobilmente spinge ad amare.    IX. — L’Eros quindi, collaboratore delTAfrodite vol¬  gare, è veramente volgare, ed opera come gli vien fatto; e  questo è l’Eros che amano gli uomini di animo basso,  fòsforo innanzi l utto amano non meno le donno che i fan¬  ciulli, e poi, pur di quelli che amano, i corpi a preferenza  delle anime, e poi ancora i meno intelligenti che possano,  giacché essi non mirano ad altro, che a sodisfarsi, non  importa se bellamente o no. Onde accade loro ili fare  come capita, nello stesso modo il bene e nello stesso  modo il contrario. Perocché quest/Eros trae anche ori¬  gine dalla dea elio è ben più giovane dell’altra e che  dal modo, onde fu generata, partecipa di femmina e di  maschio. L’altro invece é dell’Afrodite celeste, la quale  1,1 P r 'mo luogo non partecipa di femmina, ma solo di  maschio — ed è questo l’amore dei giovanetti _ e poi      — 29 —    intica pura (fogni lascivia.. Onde al maschio  * pl '‘;! 8Ì volgono gl’ispirati da questo amore, perchè  ;UJP u io-ono quél che è per natura più forte e piu Intel-  f 11 :: ; -Ed anche nello stesso amor pei fanciulli è pos-   u • ■ discernere quei che sono sinceramente mossi da  ' S nesto amore. Giacché essi non amano i fanciulli, se non  ? andò questi comincino a dar segni d’intelligenza, cioè  òn lo simulare sul volto della prima lanugine. Coloro  infatti 'che cominciano ad amare da quel momento, si  mostrali disposti, secondo me, a legarsi per tutta la vita  "Giovanotto amato e a viver con esso m comune, non  oi-r dopoché l'abbian tratto in inganno per averlo .sor¬  preso nella sua inesperienza giovanile, a ridersi di lui e  orrore ad altri amori. Converrebbe anzi che una le^ge  vietasse l’amare i fanciulli, affinchè un grande studio non  si spendesse in cosa d’esito incerto, perchè incerta e la  riuscita dei fanciulli, dove vada a riuscire, quanto a vizio  e virtù d’animo e di corpo. Questa legge, è vero, 1 buoni  se la impongono spontaneamente a sè medesimi; nondi¬  meno sarebbe necessario che a ciò codesti amanti vo ¬  gali fossero anche costretti, come, per quanto è possi¬  bile, li costringiamo ad astenersi daU'amare le donne di  libera condizione. Poiché sono essi appunto che hanno  anche disonorato l’amore, tanto che alcuni osali di dire  che è brutta cosa compiacere agli amanti. E dicon cosi,  perchè hanno dinanzi agli occhi costoro, e vedon di  questi il procedere intempestivo ed ingiusto, laddov e non  c’è cosa che, fatta con decoro e in conformità del co¬  stume. possa giustamente meritar biasimo.   E certo qual sia nelle altre città la norma (1) enea  l’amore, è facile intendere, chò il concetto ne è semplice.  Ma da noi e a Lacedemone essa è varia. Così nell'Elide,  tra’Beoti e dove non son punto esperti nel dire, e senz altio  ammesso come bello il compiacere agli amanti; e nes-    182    (1) Il testo lui fini la pacala vó|io? ‘ leggoelio compiendo cosi In  legge Boritta, la leggo in senso ristretto, corno l’oplnlou pubblica, la con¬  suetudine, lu nonna, il costumo. Io l’ho tradotta di solito così, ma anello in  qualche caso, nel quale in questo disoorso di Pausania mi son valso della  parola ‘ legge * s’intende olio a questa parola va dato il significato più.  largo cho ha nel greco.       — 30 —    im0 sia giovane o vecchio, oserebbe tacciarlo di  turpe affinché, credo, non incontrino difficoltà nel per¬  suadentigiovani per via di ragionamenti metta come  sono al parlare. Per contro m molti luoghi della Ionia e  in altri paesi, soggetti ai barbari, la cosa e ritenuta  senz'altro quale una bruttura. Pei barbari, infatti, a  camion delle tirannidi, è brutto questo, non meli che lo  studio della sapienza e della ginnastica, perocché, credo,  non conviene ai governanti che allignino alti sensi nei  (invernati e si stringano indissolubili amicizie e intimità,  che, tra tanti altri, è il più meraviglioso effetto, che si  compiace di produrre l'amore. E ciò anche i nostri tiranni  sperimentaron col fatto, cliè l’amore di Aristogitone e  l'amicizia d'Annodio (1), divenuta salda, abbatterono la    loro signoria. E, così, dov’è considerata brutta cosa com¬  piacere agli amanti, ciò si deve alla malizia dei legis¬  latori, alla prepotenza dei dominanti e alla viltà dei sog¬  getti; e dove invece fu senz'alcuna eccezione considerata  come cosa bella, alla pigrizia d’animo di chi fece la legge.   Da noi al contrario la consuetudine è assai più bella,  sebbene, come ho detto, non sia, agevole penetrarne lo  spirito. — X. — Chi consideri infatti come sia opinion co¬  mune che allumare di soppiatto sia preferibile l’amare  palesemente e soprattutto i più generosi e i migliori, per  quanto mori leggiadri d’aspetto, e come per converso  l’amante abbia da tutti mirabile incoraggiamento ad  amare, non come chi faccia qualcosa di brutto, e sia  tenuto in gran conto chi conquista e deriso chi si lascia  sfuggire la preda, e come nel tentar di siffatte conquiste  i nostri costumi abbian concesso all’amante d’aver lode,  anche se l'accia cose sbalorditive e tali, che se uno osasse  farlo per correr dietro a qualunque altro oggetto e per  183 conseguire qualunque altro scopo, aH’infuori di questo,  ne raccoglierebbe i maggiori biasimi... (2) se, ad esempio,  per ottener danari da qualcuno o un pubblico ufficio o    (1) Ad Armodlo c Artotogitone, 1 famosi tirannicidi, l’opinione colmino  degli Ateniesi attribuiva la cacciata dei Plsistratldi.   Cd) Qui il lesto ha <ptXoooiplas ’ da parto della lllosolln ’. clic la maggior  l'arto dogli editori, compreso il Burnct, s’accordami u considerare corno  un aggiuuta arbitraria o orrore dei copiati.         . 31 —   disiasi altro potere uno s ^J^ e Uc e   con gli amati gli amputi, ^ ^ menti e dormono  ° e <rano e supplicano eg ;. rosi delle servitù quali   Suanzi alle porte e serron ™ dal fare BÌ ffatte cose   nessun servo; ei saiebbe nnp^^ ^ ^ rin{accer eb-    ei    ' iurp n u Mi uni "li rinfaccereb-  e da amici e ila uenuci, cu fiU'^. )f) ammonirebbero e  bere adulazioni e aU ' a .nmnte che faccia tutte   arrossirebbero di ess - 11 fe permesso dal costume   queste cose s’accresce grazia, de> £attì oltre¬   di farle senza biasimo, ‘ ^ che almeno a quanto  modo belli. E quel eh è pmj gU dei perdonano   si dice, se anche „i eHt o amoroso, sosten-   di spergiurare perche ‘ e gU nomini han   "ono, non esiste (1). corae la legge di qui   fatto lecita ogni lieenz^ c * credere che nella   dice. Da questo lato, dunque, t (> l’amare e il   città nostra si stmii una P b . padrii preponendo  compiacere agli amanti. <1 p lascian discorrere con  dei pedagoghi agli amai , nedagogo, e eoe-   tanei e compagm h vitupera ,^ì vituperano n on son   qualcosa di simile, * ne upur biasimati dai pai  d'altronde nè trattenuti 11 "insto... chi badi per   anziani, come que che non <■ “ be la s i ritenga qui   l'opposto a tutto ciò, p fecondo me, invece, la   la più brutta cosa del mondo. comc s ’è   cosa sta a questo nioi o. ^ J bella nè brutta;   detto in principio, noi 1 ge bruttamente.   I mpure stabile, come colui clic - co», «mw  stabile. Giacché insieme con lo sfiorire < ^   corpo , che egli amava, v asse no via a volo (2), eliso    (!) È un modo proverbiale olio negli scrittori greci ricorro sotto varie  formo.   (2) Reminiscenza omerica; cf. 71. n Tl«         — 32 —    norando tanti discorsi e promesse. Ma chi ama l’indole  buona riman costante per la vita, come colui che s’è  isi attaccato a cosa stabile. E costoro appunto il nostro  costume vuol mettere a prova bene e bellamente, e che  agli uni si compiaccia, dagli altri si frigga. E però appunto  gli im i esorta a dar la caccia, gli altri a fuggire, istituendo  una gara e mettendo a prova di qual mai sorta sia  l’amante e di quale l’amato. E così, per questo motivo,  in primo luogo il lasciarsi accalappiare subito è ritenuto  brutto, affinchè ci sia di mezzo del tempo, il quale può,  sembra, metter bellamente a prova la maggior parte  delle cose; e poi l'essere accalappiato dal danaro e dalla  potenza politica è brutto, sia elle uno, maltrattato, si  avvilisca e non resista, sia che, beneficato di danari o  agevolato nelle faccende pubbliche, non disprezzi. Che  nessuna di tali cose par che sia nè ferma nè stabile; senza  due che non può neppur nascere da esse una generosa  amicizia. Sicché, secondo il nostro costume, una sola  via rimane, se all’amante deve bellamente compiacere  l’amato. È infatti legge per noi che, siccome per gli  amanti il servii’ volentieri qualunque servitù agli amati  non è, come s’è visto, nè adulazione nè vergogna, così  appunto anche un’altra servitù sola volontaria rimane  non vergognosa, e questa è quella che ha per oggetto la  virtù. — XI. — Perocché presso di noi è ammesso che,  ove qualcuno voglia servire un altro, stimando di poter  divenire per via di quello migliore o in sapienza o in  qualsiasi altra parte di virtù, questa servitù volontaria  non è dal canto suo brutta, e non è nemmeno adulazione,  (inde conviene che queste due leggi convergano insieme  al medesimo segno, e quella che ha per oggetto l’amor  dei fanciulli e quella che ha per oggetto l’amore della  sapienza e d’ogni altra virtù, se dovrà riuscire a bene il  compiacere dell’amato all’amante. Perchè, quando s'in¬  contrino l’amante e l’amato, ciascuno recando la propria  ( gge, 1 uno che nel prestare qualsiasi servigio al giova-  nelio che gli ha compiaciuto, glielo presti secondo giu-  , K lzia ’ * altro che nel concedere qualsiasi favore a chi  o li nde sapiente e buono, glielo conceda secondo giu-  ■ s izia, e 1 uno, potente di senno e d’ogni altra virtù,        — 33 —    ,. n . i-altro bisognoso di educazione e d’ogni altra  1U ‘ ne acquisti; allora, queste leggi convergendo   S Tmedésimo segno, in questo caso soltanto accade che  nel So òhe l’amato compiaccia, all’amante-, m ogni  sia n0 B in questo caso anche il trovarsi ingannato  In è punto brutto; in tutti gli altri, si sia o no ingan-  i norta vergogna. B cosi, se qualcuno a un amante,  nat P r l ricco in vista della ricchezza avesse com-  st S e si trovasse poi ingannato e non ne cavasse  danari perchè l’amante s’è scoperto povero, non sarebbe  d '' ( ,ùesto men brutto, dappoiché un amato siffatto  P per quel ch’è in lui, che in vista del danaro   ri kz ‘ srjtfsc   ramante, divenir migliore, si '"ciò   nonostante^l’inganno^bello, perchèa^e qj^per ciò   SSfJS ^ H   fÌT5| l r^tSenté bello' compiacere per   "Sefò l’amore S&i   di gran pregio e l’amato a porre ogni   sono    TLSJL * «»•   ■*£#   m’insegnano a lare di si , ‘ Vvist0 [. ine . Senoncliè   vuto. diceva Azistodemo pa aie ^stob m()tiv0 ,   costui, o per aver mangiato tiojjo P ^ [Uscor .   era stato coltoinetto a destra di lui. c’era il medico   iSSSXmA Eri»»», «.co» » «c « «*>—   (1) Vaio a lUro l sofisti c i rotori.   :i Platone — Convito.           subito di questo singhiozzo, o di parlare invece mia,  finche non mi sia cessato.   Ed Erissimaco: Ma farò runa cosa e l’altra, rispose.  Io parlerò ora per te. e quando ti sarà cessato il sin¬  ghiozzo, parlerai tu invece mia. E mentre io patio, se,  trattenendo a lungo il respiro, il singhiozzo vorrà andar¬  sene. < tanto di guadagnato >; se no, fa dei gargarismi  con l’acqua. Che se poi fosse addirittura ostinato, prendi  qualche cosa da solleticarti le narici e cerca di starnutire.  Basta che faccia così una o due volte, e cesserà per osti¬    nato che sia. .   Affrettati dunque a parlare, disse Aristofane; io se¬  guirò i tuoi suggerimenti.    XII. — Ed Erissinmco disse: Orbene, dal momento  che Pausante,, dopo d aver preso bene le mosse per il  ,K6 suo discorso, non l'ha compiuto a dovere, credo che a  me convenga di provarmi a completare il suo discorso.  Che Eros sia doppio, pare a me che egli abbia fatto benis¬  simo a distinguere; però che esso non sia soltanto negli  animi umani rispetto alle belle persone, ma che abbia  molti altri obietti e sia' in altri, nei corpi di tutti gli  animali e nelle piante della terra e, per dirlo in una  parola, in lutti gli esseri, credo d'averlo imparato (bilia  medicina, dalla nostra arte, com’egli sia un dio grande  e meraviglioso, ed estenda il suo potere su tutte le cose  umane e divine. E eomincerò, partendo, dalla medicina,  anche per rendere omaggio all’arte. Infatti te natura dei  corpi ha questo doppio Eros, giacché la sanità del corpo  e la malattia sono, per consenso unanime, cosa diversa  e dissimile; e il dissimile desidera ed ama cose dissimili.  Altro, dunque, è l’amore che risiede nel sano, altro quello  che risiede nel malato. Ed appunto, come Pausante di¬  ceva or ora, clic è bello compiacere ai buoni tra gii uomini,  ma brutto ai dissoluti, così anche negli stessi corpi è  bello e, conviene compiacere a ciò che v'è di buono e di  sano in ciascun corpo — ed è ciò a cui si dà nome di  medicina — ma' brutto compiacere a ciò che v’è di  cattivo e di morbóso, e si deve negare a questo ogni  favore, se si vuol essere un medico esperto. Perchè la        — :sr>     medicina, in sostanza, è la scienza delle tendenze amo¬  rose del corpo a riempirsi e a vuotarsi; e ohi sa distin¬  guere in esse l’amor bello dal brutto, costui sarà il pili  acuto medico; e chi ù capace di produrre tal mutamento,  che i corpi acquistino l'mi amore in cambio dell'altro, e  in quelli, nei quali non sia amore e dovrebbe esserci,  sappia farlo nascere e da quelli nei quali sia e non  dovrebbe >, espellerlo, questi potrà esser davvero un  medico abile. Occorre infatti che egli possegga la capa  cita, di metter d’accordo gli elementi più avversi, esi¬  stenti nel corpo, e procurare che si amino l'un l'altro.   K avversissimi sono gli elementi affatto contrari, il freddo  e il caldo, l'amaro e il dolce, il secco e l’umido, <■ via  dicendo. TC perchè seppe.ispirare in essi amore e con¬  cordia, Àsclépio (1), il nostro capostipite, come affermano   i nostri poeti, ed io credo, fondò la nostra scienza, ha  medicina, dunque, dicevo, è governata tutta intera da  questo dio; e al pari di essa anche la ginnastica e l’agricol¬  tura. Quanto alla musica poi è chiarissimo a chiunque W  voglia appena riflettervi, che il caso è affatto identico,  c quest o forse volle dire anche Eraclito, sebbene egli non  lo esprima in forma perspicua. L'uno, egli dico, discor¬  dando con sè medesimo si accorda, come ar¬  monia d’arco c di lira (2). È difatti un vero assurdo  affermare clic l’armonia discordi o risulti da cose tuttora  discordi. Ma forse egli voleva appunto dir questo: che  essa nasce da cose per l’innanzi discordi, l’acuto e il  grave; ma che in seguito si sono accordate per opera del-  l’arte musicale, giacche non è in alcun modo possibile, clic  dall’acuto e dal grave, tuttora discordi, nasca armonia.    (1) Asciò pio o Esoulapìo ora un eroe-modico divenuto piti tardi un  ilio-modico. 1 suoi discendenti, gli Asolcpiadl. tra cui Krlssimaco pone se  medesimo, dovevano essere in origino limi gente congiunta da legami di  sangue, in cui era tradizionale la cognizione e la pratica della medicina.  1 j0 famiglie di Asclepindi più celebri orano Quelle di Cos, a cui apparteneva,  il grande lppoerate, e di ('nido. Ma in tempi più recenti tutti i medici,  compiacendosi di far risalire al <Uo la propria genealogia, presero indistin¬  tamente il nomo d’Asolopiadì.   (•>) (’f. DllCl-s, Vorqokr. V p. S7, .*>1.       — 36 —    „ ; n certo ino rio con¬  che è consonanza, e consonanz^ da cose discordanti,  senso, e U consenso non può ^ ^ discorda e non   tinche discordino; e d altra P Così, per esempio,   consente nOn può coautore ai ■ ^ da cose clic   anche il ritmo nas f ^^ consentirono poi. E in tutte  discordavano prima, ma ci dalla me dicma, qui e   queste cose il consenso, come 0 concor dia vicen-   ! osto dalla musica, che v ispm ‘ la scienza delle   devote. E però la — Soffia e’di ritmo. Nella *  tendenze amorose m tatto e dell armonia   composizione, considerata discernere le tendenze   e del ritmo non e punto dime oliando occorra   amorose, nè ,ulvi c'6 Mggg't’SflB. con gli  servirsi del ritmo e dell. c h e chiamiamo   uomini, o clic si compong cbe s’adoperino   ‘ melopea ’ [creazione musicale] - ° ™ t _ ed è ciò  acconciamente melodie • e metri gn ■ ® usioa i e ] — qui.  ohe vien detto ‘ slbi ie artefice. E qui   te¬  mati, e affinchè diventino pm costumati q^rni _   lo sono ancora, Insogna compuie p^ros celeste,   volgare - e questo, a coloro, a cui si somministri, s ha da  sonnninistr .re con molta Cautela, affinché se ne colga il  piacere) 18 ma non ingeneri alcuna intemperata mm  nell’arte nostra vai molto sapersi giovale dei desideri  eccitati da una buona cucina in modo che, senza pro¬  curarsi una malattia, se ne goda il piacere. Cosi, dunque,  e nella musica e nella medicina e in tutte le altre cose,  umane e divine, si deve, per quanto si può, aver riguardo  a ciascuno di questi due Erotes, perche ci sono.    188 XIII. — Poiché anche la costituzione delle stagioni del¬  l’anno è piena di tutti e due questi amori; e quando gli  elementi, dei quali dianzi parlavo, il caldo e il freddo, il  secco e Tumido, si trovino in una scambievole e ben rego¬  lata relazione d’amore e s’accordino e si temperino saggia¬  mente, essi vengono apportatori d’nna buona annata e    — 37 —    di buona salute, cosi agli uomini, corno agli altri ammali  e alle piante, e non soglion produrre alcun danno. .Ma  quando invece, l’Eros compagno dell’intemperanza pre¬  valga nelle stagioni dell’anno, egli suol corrompere '•  danneggiare molte cose. E da tali cause derivano di  solito e pestilenze e tante altre malattie diverse e negli  animali e nelle piante. Infatti e le brinate e la grandine  e la ruggine dei cereali sono il frutto della sopercliieria  e della sregolatezza vicendevole di cosiffatte tendenze  erotiche, la cui scienza rispetto al moto degli astri e  alle stagioni dell’anno prende nome di astronomia. Inolt re  tutti i sacrifizi e quei riti a cui presiede l'arte divina¬  toria — ossia la scambievole comunione tra gli dei e gl'  uomini — non vertono intorno ad altro, se non intorno  alla preservazione ed alla cura di Eros. Giacche ogni  forma d’empietà suol nascere, ove non si compiaccia al¬  l’Eros ordinato e non gli si renda onore e venerazione  in ogni cosa, ma si tenga in pregio quell altro, cosi nei  rapporti coi genitori, vivi e morti, come nei rapporti  con oli dei. Ed appunto osservare siffatti amon (1)  curarli è il compito della divinazione, e la divinazione  è a sua volta, operatrice d’amicizia tra gh elei e gu  uomini, perchè sa discernere, tra le inchnaziom ainc^se  deo-li uomini, quante tendano alla giustizia e alla pietà,  "l'osi ogni Eros ha un potere esteso e grande, anzi,  iu una parola, universale, ma quello che, e Pi'esso 'li noi  e presso gli dei, trova il proprio compimento nel buie  con temperanza e giustizia, questo ha il maggmr potere  e ci assicura ogni felicità, sicché si possa viveic in pace  fra noi ed essere anche amici di quelli che son ungimii   di noi, degli dei. . , ,   Porse, in questo elogio di Eros, anche io ho trala¬  sciato molte cose, ma non l’ho fatto apposta. Se per  altro c’è qualcosa ch’io abbia omesso, tocca a te, A  stofane, di supplirvi. Ma se invece ti frulla per il capo  di elogiare altrimenti il dio, fa pure a tuo modo, che  anche il tuo singhiozzo è cessato.    (1) Leggo qui Iponas-     — 3S —    :3 P=   ^V5=Hf Bsfc = - s   S 8 Sf 3£ iV'l".-» •■" t“ d '""   « caso che ti sfugga qualche cosa da lai   -f sawst.*#>r n ;" ’yffes   conto ch'io non abbia detto ciò che ho detto. E non  stare a farmi la guardia, perchè temo di tee> non g.  cose da far ridere — questa sarebbe una fortuna,  SpSaSl fleto mm H«». - ma Ufc te *•   1 " d Bravo. Aristofane! hai tirato il sasso e nascondi  la mano (1). Ma bada a’ casi tuoi e parla come chi lui da  render conto delle proprie parole. Quanto a me, se mi  pare, ti lascerò in pace.    Xiv._Comunque, caro Erissimaco, disse Aristofane.   io mi propongo di parlare in modo diverso da te e da  Pausania. Io penso che gii uomini non abbiali sentito  nè punto nè poco la potenza di Eros, perche, se la sen¬  tissero. gli dedicherebbero i maggiori tempi ed altari e  gli offrirebbero i maggiori sacrifizi, cosa che ora non  fanno per nulla, mentre è ciò clic si dovrebbe fare a  preferenza di tutto. Eros è infatti tra gli dei il più amico  degli uomini, perchè è il loro protettore e il medico di quei  mali, la cui guarigione sarebbe per il genere umano la  maggiore delle felicità, lo dunque mi studierò d’esporvi  la. potenza di lui, e voi ne sarete maestri agli altri. Ma,  innanzi tutto, occorre che impariate quale sia la natura  umana e le sue vicende non liete. Giacché la nostra na¬    ni Il tosto ilice: hai tirato il colpo e ora ricusi di svignartela, modo  proverbialo anch’esso.       \ — 39 —   tura non era un tempo la stessa (li oggi, ina tuli altra.   In origine c’eran tre sessi umani, non due, maschio <•  femmina soltanto, come ora, ma ce n era un terzo, clic  mrtecipava dell’uno e dell’altro e che, scomparso oggidì,  sopravvive appena nel nome. C’era allora un terzo sesso.,  l’andrògino, che di fatto e di nome aveva del maschio  e della femmina, e questo non esiste piu. fuorché nel  nome che suona un oltraggio. Inoltre ogni uomo aveva  una figura rotonda, dorso e fianchi tutt'intorno, quattro  braccia, gambe di numero pari alle braccia, su un collo  cilindrico due visi, perfettamente simili tra loro, un unica I-  testa su questi due rósi, posti l’uno in s|so con ramo  all’altro, quattro orecchie, doppie F (ta e ut l  resto come si può supporre da ciò che s e detto, i ari  minava anche ritto come ora, in qualunque direzion _  volesse- e quando si mettevano a correre, quei uost  progenitori, come i giocolieri che a gambe per aria an  delle capriole a ruota, essi, appoggiandosi sui loro otto  arti si muovevano rapidamente, tacendo la.ruota. I ^  poi eran tre e cosiffatti per questa ragione: «esso   maschile traeva origine dal sole il J!; rt eripà   e lrindrórino dalla luna, perche anche questa paitccipa  del itle e della terra. La loro figura dunque era rotonda  e cofano^ il modo di muoversi, appunto^perchi- «m,l  ai loro genitori. Avevano vigore e gagl ardia tel i 1   c„,o -o». a;   numi.   XV - A mesto p*H> « s» «#rt «#?  consiglio ,,, ciò che ^ « «" "Jggg;   Non sapevan risolversi ad uccido c * N i  la razza) fulminandoli, come i giganti, perche cosi saie -    ( 1 ) Oto «1 Eflolto orano i duo glovonissluil “^“^lonutoto'ùcr  llKliuoU di Aloco, olio dopo dover nca . (H ul)onl t,„ por opera di Erniosi  tredici mesi in uu gran vaso ali von i o. . all * 0sBa tentarono di dare la   . . .. “   essi Omero accenna in 11. V sgg.» Or. -      — 40 —    „ero venuti a privarsi degli onori e dei sacriti/., umani;  ^potevano tollerare che ne facessero d og... sorta, B  analmente Zeus, dopo matura riflessione, disse: « C redo di  e -ovato la via. affinchè gli uomini continuino  "a esistere, ma, divenuti più deboli, smettano la loro  tracotanza. Segherò ». disse, « ciascun di loro m due, e  S mentre saranno pii. deboli, ci saranno ad un tempo  S utili, perchè diverranno più numerosi. E cammine¬  ranno ritti su due gambe. Chè, ove poi seguitino a inso¬  lentire e non vogliano starsene in pace, li segherò », disse,   , ili nuovo in due, cosicché cammineranno su una gamba  sola, a saltelloni (1). » Dette queste parole, venne segando  eli uomini in due, come quelli che tagliali le sorbe per  metterle in conserva, o quelli elio dividon le uova coi  capelli. E a misura clic ne segava uno, ordinava ad  Apollo di girargli la faccia e la metà del collo dalla parte  del taglio, acciocché l'uomo,' avendo sotto gli occhi il  proprio taglio, fosse più modesto; e medicargli le altre  ferite. B Apollo girava a ciascuno la faccia in senso  opposto, e tirando d’ogni parte la pelle verso quello ohe  ora chiamiamo ventre, come le borse a- nodo scorsoio,  lasciandovi appena una boccuccia, la legava nel mezzo  del ventre, in (pie! punto preciso che chiamano ombelico.   Itti Spianava poi tutte le altre grinze, che orati molte, e  rassettava le costole, servendosi d’uno strumento sup¬  pergiù simile a quello che adoperano i calzolai per spia¬  nare sulla forma le rughe del cuoio; ma ne lasciò poche  nel ventre e intorno all’ombelico, ricordo dell’antica pena.  Orbene, poiché la creatura umana fu divisa, in due, cia¬  scuna metà presa dal desiderio dell’altra, le andava in¬  contro, e gittandole le braccia intorno e avviticchiandosi  scambievolmente, nella brama di rinsaldarsi in un unico  corpo, tnorivan di fame e d’inerzia, perchè l’una non  voleva far nulla senza dell’altra. B quando l’una delle    (I) Il greco ha àoxop.ià£<ms<; cho vuol dire propriamente ' saltumlo  sminuire' (àox4f). • I.'espressione 6 tolta ila un giuoco contadinesco del¬  l'Attica. 1 contadini dulia pollo dui hocco saorllloato a indulso facevano  un otre olio riempivano di vino o ungevano d’olio. Su di usso saltavano con  una sola gamba altornaUvamcnlo, o vinceva old sapova roggorvlsl. * (Unir).       — 41 —    nielli moriva e l’altra sopravviveva, quella che soprav¬  viveva andava in cerca d'un'altra metà e le si avvin¬  ghiava, sia clic s’imbattesse nella metà d’una donna in-  IL quella appunto elle ora chiamiamo donna —  sia che nella metà d’un uomo; e così morivano. Mosso  pertanto a compassiono. Zeus no escogita un'altra: tra¬  sporta le loro pudende nella parte anteriore — lino a  quel momento anche queste le avevano avute al difuori,  c generavano e partorivano non tra loro, ma in terra,  come le cicale... gliele trasportò dunque così, sul davanti,  e per tal mezzo rese possibile la generazione fra loro, per  mezzo ilei maschio nella femmina, con questo line, che  nell’amplesso, ove un maschio s’incontrasse in una fem¬  mina, generassero e si perpetuasse la specie; ma. ove  invece un maschio s’imbattesse in un maschio, provas¬  sero sazietà dello stare insieme e smettessero e si vol¬  gessero ad operare e attendessero agli altri doveri della  vita. Cosicché fin da quel momento l’amore vicendevole  è innato negli nomini: esso ci riconduce al nostro essere  primitivo, si sforza di fare di due creature una sola e di  risanare così la natura umana.    XVI _O'imn di noi, in conclusione, è una con tre¬   mala d'uomo, in quanto che è tagliato come le sogliole,  è due di uno; c però cerca sempre la propria contromarca.  Quanti sono una fotta di quel sesso comune, che « loia  si diceva andrògino, annui le donne, e la maggmi p.  dogli adulteri soli nati da esso; e cosi pure le donne.  sU truggon per gli uomini, e le adultere provengo., da   , u eS e m.aL4 T»l* <!»* 1 ‘“'i   una fetta di donna, non corron dietro agli o, un uà  sono piuttosto inclinate alle donne; e ^ questo  appartengono le tribadi. Ma quanti sono una fe la li  maschio, danno la caccia al maschio; e 1 ! ut ' u ' ’ S01 " \ r)j  coni, fanciulli, conio parte d’un uiasciuo jpu o gli  uomini e godono a giacere e a starsene abbracciata con  gli uomini; e questi sono tra i fanciulli e tra po'anett  i migliori, perchè i piè v ' r '*' di hno na u . •  mancali di quelli clic li chiamano inipudent. ina uien  liscino. Perchè essi non lo fanno per impudenza, ma pei    192     — 42 —    baldanza. per coraggio, per virilità d animo, giacché .si  attaccano a ciò che è simile a sé. Ed ecco vene ima prova  decisiva: costoro, a tempo debito, sono 1 soli che ne¬  gano uomini davvero, adatti alla vita politica. E per¬  venuti all'età virile, mettono amore al fanciulli; e al  matrimonio e alla procreazione dei figliuoli non si vol¬  gono per inclinazione naturale, ma costretti dalla legge,  chi* anzi per conto loro soli ben contenti di viver sempre  gli uni con gli altri, da scapoli. Per ciò chi è così fatto,  diventa un amante di fanciulli o un amato, perche desi¬  dera sempre ciò che gli è congenere. E quando poi 1 amante  dei fanciulli e chiunque altro s’incontra in quella sua  propria metà d'un tempo, allora son presi d’un amicizia,  d'un intimità, d'un amore meraviglioso, senza volersi se¬  parare gli uni dagli altri, per così dire, nemmeno un  istante. E quelli che vivono insieme tutta la vita son  questi, che non saprebbero neppur dire che cosa vogliono  che avvenga loro all’uno per opera dell’altro, giacché  nessuno può credere che ciò che desiderano sia l'uso dei  piaceri amorosi, quasi che in questo debba cercarsi la  ragione per cui provano un così vivo diletto a stare in¬  sieme; ma è evidente che c’è qualche altra cosa che  l'anima di ciascun di loro desidera, qualche altra  cosa che non sa esprimere, ma che sente vagamente e a  cui accenna per vie coperte. E se ad essi nel momento,  in cui giacciono insieme, si presentasse Efesto coi suoi  strumenti alla mano e chiedesse loro: « Che volete, o  uomini, che avvenga di voi. alFuno per opera dell’altro 1 ? »  e mentre e’ sono tuttora indecisi, soggiungesse: « Desi¬  derale voi, non è vero? soprattutto essere nello stessis¬  simo luogo l’uno con l’altro in modo da non separarvi  mai né notte nè giorno? Ebbene, se è questo elio desi¬  derate, io voglio rifondervi e riplasmarvi in un’unica  natura, sicché di due diventiate uno, e finché vivrete,  viviate tutti e due in comune, come un essere solo, e  anche da morti, laggiù nell’Ade, non siate, invece di due,  elle un morto solo... Guardate se è questo che amate e se  vi basta di conseguir questo... » a udir ciò sappiamo bene  che nessuno, proprio nessuno, risponderebbe di no, nò  mostrerebbe d'aver mai desiderato altro, ma crederebbe      _ 43 —    103    nllit0 precisamente quello che egli desiderava da  tlavei i sentirsi unito e fuso con l’amato, e dive-   tanto ten i solo> e la ragione è appunto questa:   “ ot0 , eri in origine la nostra natura, e che eravamo  Cb teii 'Ebbene, al desiderio e alla caccia dell’intero si da   n ° U p,-ima "dunque, come dico, eravamo uno; ma ora per  , ..... nequizia siamo stati separati di casa dalla mano   ’ìV’rno còme gli Arcadi da quella dei Lacedemoni (1).   .... ’ ltra che a non essere ossequenti verso gli dei. .   h . 'incontro a venir segati daccapo, e a dover an-  d.,re intorno come le figure scolpite a bassorilievo sulle  Se spaccati per il mezzo dei nasi, divenuti come dei  dirti’tagliati in due (2). Ma perciò conviene che ognuno  esorti ogni altro alla pietà verso gli dei, affinché si evitino  : m; di e si conseguano i beni, tenendo presente che Eros  è nostra guida e nostro duce. A lui nessuno vada conilo  __ c o-n va contro chiunque venga m uggia agli dei _  nerchè divenuti amici del dio e vivendo in buoni termini  con lui. troveremo e incontreremo ì nostri propri amati, il  ora capita a pochi. E non sospetti Erissimaco, mettendo  L caiSonatura ì mio discorso, che io alluda a Pausami,  cd Agatone — oliò forse anche essi sono di quelli, e tutti  c due maschi per natura - ma dico avendo di mira  tutti e uomini e donne, che m questo modo il genere  nostro troverebbe la sua felicità, se  all’amore, e ciascun di noi, ritornato nell antica natii a,  s’imbattesse nel proprio amato. E se poi qne  meglio, ne segue di necessità che di quanto oiaè  nostro potere, il meglio sia ciò che piu vi si avvmuia,  e ciò è rincontrarsi in un amato fatto secondo d piopno   “7" Aristofane accenna, secondo roplnUm.Mplfc £   del 3S5 a. C. Gli Spartani, vinta Mautinea in Alca , silaggi,   della città o la sciolsero, com’era precedutomene, ci sarebbe   Tenuto conto elio il banchetto avrebbe avuto’ “ wlt0j è n " u è impos-   qui un anacronismo. Ma rnUnsiouo non 6 do . .inlln storia   sibilo cho si accenni a qualche altro avvenimento ante,toro della   arcadica. * . „ uim mota, conservata   (2) l dadi talvolta si tagliavano in due, c ua.ci tessera, di rico¬   da duo persone legate da vincoli di ospitalità, seivna  noscimeuto por loro o per lo loro famìglio.       — 44 —     che nel presente ^maggiori affidamenti   nel proprio; e per 1 prota jftà verso gli -lei,   ^ -i. ei render,   feUei e beati. v è p lu io discorso intorno   altri due, Agatone e Socrate.   XVII - Farò a modo tuo, disse Erissimaco. perchè  il tuo discorso l'ho ascoltato con piacere. E se non sapessi  che Socrate e Agatone sono addirittura dei maestri m  cose d’amore, avrei gran paura clie non doves ®.® 10 ,  vaisi a corto d’argomenti, tante cose si son dette e cosi  svariate. Tuttavia ho fiducia in loro.   1 E Socrate: Ah, sì, Erissimaco, perche tu te la sei  cavata egregiamente. Ma se fossi dove ora son io, o  meglio, dove sarò, quando Agatone avrà parlato da par  suo, temeresti anche di più. e saresti su tutte le spine,   còme son ora io. ,   Ammaliarmi (1) vuoi,- Socrate, disse Agatone, affinché  io mi turbi, immaginandomi che il teatro deva essere in  grande aspettazione, ch'io parli bene.   Mio caro, dovrei esser proprio uno smemorato, rispose  Socrate, se dopo di aver visto con quanto coraggio e con  quanta sufficenza salisti sul palco insieme con gli attori  e guardasti in faccia un teatro così affollato, in pro¬  cinto di dare alla scena i tuoi componimenti (2),.senza    (1) * Vantarsi muove l’Invidia degli uomini; ma l’invidia ha il mal¬  occhio e può ammaliare e turbare senz’altro la persona Invidiata. Sonouohò  anche la lodo esagerata d’un altro (Socrato aveva lodato Agatone) può  suscitare contro costui l’invidia con tutto lo suo tristi conseguenze. • (Hug).   (2) Da questo pasqo si concludo clic il poeta insieme col suol attori  prima della recita si presentava in forma solenne al pubblico. E sembra  del pari elio egli presentasse anche il Coro col suo corego. Questa ceri¬  monia, detta Ttpoaywv ‘ preludio ’ o ' preparazione al certame ’ drainatico.     —- 45    .«s ’rr^zk »s«   f ”' iS *S Vuko <l<™« to P“™ '’“ ,,,   »»»>“ * ™“ £Z?X~*. **? *T;   Sarei, Agatone, «pnrtese So bene elio a   se io pensassi di te sag gi, saresti più in   imbatterti m atan- la folla . Ma, bada, probabil-   pensiero per loio e 1 1 buon conto, lì anche   ne elici 1 ?   fi* So »»« avresti vergogno, ove « ,.eresse .11   fare qualcosa di male? Affatone, disse,   Ma Fedro, interrompendo: .Mio de i   se gli rispondi, Socrate noi > ^ < basta d’aver   resto, qualunque cosa *qui avven & * ^ )( q dovane.   :tis: «i? Jgs» -~f *n s* ss   avrà saldato il suo conto col dio, alloia   ''""“'"of'VSto; rispose «M e so,, qui pronto  . „’Z, "ó,, 5 monebe.it ,»i Mft. » >»,.vem,»e  spesso con Socrate.   XV1II _ Or dunque io vo’ in prima dire come io  deva dire, e poscia dire. Che tutti quelli, i quali han pal¬  late precedentemente, non hanno, parmi, encomiato  dio, bensì la felicità degli uomini Ivan messa m nlu  pei beni, de’ quali il dio 6 ad essi cagione. Ma qual sia    avveniva ncU’Odeon. teatro fatto costruirò da Pericle, e doveva, com’ò  ^supporre. attirare la curiositi! del gran pubblico, ohe «-interessava  così vivamente agli spettacoli teatrali.     — 46 —     egli è il più giovane (legl’iddii. E una gran prova con  porge <*' medesimo fuggendo di fuga la vecchiezza. che  pure è così veloce: la ci raggiunge più presto che non  dovria! E questa Eros per natura la detesta e non le  si accosta nemmen da lungi. Egli sta e resta sempre coi  giovani, poiché ben dice l'antico adagio che sciupio  simile con simile s’accompagna (1). Ed io, pur  consentendo con Fedro in molte altre cose, in questo non  consento: che Eros sia più vecchio di Crono e di Già-  peto (2); affermo anzi ch'egli è tra’ numi il più giovane,  e sempre giovane; e le vecchie storie che Esiodo e Par¬  menide (3) ci ricantano dcgl’iddii, a’ tempi d Ananke,  [della Necessità] e non di Eros, risalgono, posto pure che  quelli ei contino il vero. Imperocché non ci sarieno state  né evirazioni, né ceppi, né tante altre violenze reciproche,  se Eros fosse stato tra loro; ma amicizia e paco, come ora,  dacché Eros regna sugli iddìi. Egli è dunque giovane, e  perdippiù delicato. E ci vorria un poeta quale Omero per  mettere in luce la delicatezza del dio. Omero infatti dice  che Ale è dea e delicata — e delicati almeno dovevano  essere i suoi piedi — dicendo egli di lei:   son delicati i piedi, oliò sovra il suolo non mai   muovesi, ma sul capo ella degli uomini incedo (4).     MlK modo proverbialo e allusione ,i nn verso omorlco; cf. Od. XVII ì IS.  ( ") Ulro modo proverbiale per impennare alla nifi renn.l.i ....Hoi.n;.    Minare alla più remota antichità.  Mille abbia ipii in melile Agatone,     inc sembra che della delicatezza di lei una bella  ,-ovu sia che ella non cammina sul duro, ma sul tenero,  r -incile noi (li questa medesima prova ci varremo per  dimostrare di Eros circuii è delicato, dappoiché e' non  cammina sulla terra, nè sui cxanii, che non sono davvero  tèneri, ma in quel che vita di più tenero al mondo e  cammina e s’annida. Egli infatti e nei costumi e negli  ■mimi degl’iddìi e degli uomini pone sua stanza, e non  mica in tutti gli animi, ma ove mai s’imbatta iti qual-  cuno d'indole dura, se ne diparte; ma se tenero è, vi si  •umida. Or poiché adunque egli e co’ piedi e con ogni  parte del corpo tocca sempre quel che ve di più tenero  Jra le tenere cose, è giuocoforza che sia il piu delicato l. >  fri (d’iddii. Égli è così il più giovane e il più delicato-,  niu 1- per dippiù flessuoso di forma, che non gli sana  possibile insinuarsi dappertutto, nè penetrar tutta 1 anima,  entrandovi la prima volta senza lasciarsi sorprendalo t  uscendone, se duro e’ fosse. Del suo aspetto proporzio¬  nato e flessuoso, argomento grande è 1 avvenenza che  Eros per confession di tutti in grado eccelso possiedi.  chè tra disavvenenza ed Eros è guerra sempre, ha leg¬  giadria del colorito, il suo viver tra hon la sigillili.,  poiché in quel che fiorente non sia o sui n ’   o anima o qualsivoglia altra cosa, non risi, de L o . . a  ovunque sia un luogo e ben fiorito e fragranti, (pi 1  e risiede e rimane.   XIX _ Della beltà, adunque, del dio e questo o  bastante e ancora molto sopmvanzat .na; seguiia^m  ■lei]., v i r tù di Eros mi eonvien dopo no dm. lai <   ■ ' i . h ini che nè fa nò soffre ingiustizia, ni da   sano vanto (Il Pii CHI violenza.   Pio nè -1 dio nò da uomo nè ad uomo. Nè già p i ' «'li nzu   e so fre se qualcosa so.Vre - chè violenza noi tango, u   si concede a volente, le leggi, «fello Stato u D).   h-n elle è ('insto. E oltreché della giustizia c partecipa  della maggior temperanza. S’ammette infatti che lem-    in . Molatori» georgiana. evidóulomoilto una eluizioni'.    (Unir).     — 4S —    paranza sia il signoreggiar piaceri e desideri, e clic di  Eros verun piacere sia più potente. Or se meno potenti,  è ovvio che sien vinti da Eros, ed egli vinca; e vincendo  piaceri e desideri, Eros in sommo grado temperante esser  deve. E per fermo, quanto a coraggio, ad Eros neppur  Ares contrasta (1). poiché non Ares possiede Eros,  ma Eros Ares — amor d’Afrodite, come è fama — e  ehi possiede è più possente di chi è posseduto, e chi vince  l'iddio più valoroso di tutti gli altri, e’ dev’essere il più  valoroso di tutti.   Ho detto della giustizia, della temperanza, del co¬  raggio del dio; a dir mi rimane della sapienza, e per  quanto è possibile, m’ingegnerò di non fallire alla prova.  E in primo luogo, perchè dal canto mio anch’io renda  alla nostra arte omaggio, come alla sua Erissimaco, poeta  è l'iddio, sapiente così, da render anco gli altri poeti.  Ohè ognuno poeta diventa, quand’anche prima di  ogni Musa schivo (2), cui Eros tocchi. Della qual  virtù convienci usare a documento che Eros, a dir breve,  è poeta valente in qualsivoglia genere di creazione che  attenga alle Muse, dappoiché quel che non si ha o non  si sa. nemmeno ad altri non si può dare o insegnare.  E invero la creazion degli animali tutti chi niegherà che  sia sapienza di Eros, mercè la quale tutti gli animali e  nascono e si generano! E quanto alla pratica delle arti,  non sappiam noi forse che colui, al quale questo iddio  sia divenuto maestro, famoso diviene ed illustre; e chi  per converso da Eros non sia stato mai tocco, rimansi  oscuro! L’arti del saettare, del curare e del divinare  ritrovò Apollo, scorto dal desiderio e dall’amore, sicché  anch’egli dir si può scolare d’Eros. E alle Muse fu maestro  dell’arte musicale, ad Efesto di quella dei metalli, ad  Atena del tessere, a Zeus di governar numi e mor¬  tali (3). Laonde anche nelle faccende degl’iddii si mise  ordine, poiché vi si fu generato Eros, amore evidente-    (1) Da uu verso del ‘Tlesto ’ di Sofocle; cf. Nauck, Tran. Or.  Fraomm.* framin. 235 p. 180.   (2) Da un verso della ‘Stonoboa’ d’Eurlpido; cf. Naucic, Tran.  Or. Fraumm.* framm. 063 p. 569.   (3) Verso giambico probabilmente d’un tragico.        — 49 —   meniti; di bellezza — che del brutto non è amore —  laddove per l’innanzi, come da principio ho detto, molte  e terribili cose, a quanto si narra, fra' numi awemano,  pr x c i ie vi regnava Ananlce. Ma dappoiché questo iddio  ebbe nascimento, dall’amore per le cose belle ogni bene  nrovenne e agli iddìi e agli uomini.   1 E così panni, Fedro, che Eros, essendo egli per il  minio bellissimo e ottimo, sia dipoi agli altri cagione di  Stri cosiffatti doni. Ed ei mi salta in mente di aggiunger  qualcosa in versi, dicendo che questi è colia il quale   ivice tra gli uomini reca, nell' ampio mare bonaccia  calma, riposo ai venti; nel duolo conforto di sonno.   Questi (Fogni sentimento ci vuota che ci strania, d ogai  sentimento ci empie che ci affratella; tali e tonti convegni  lri istituito per ravvicinarci, nelle solennità, ne con. n  sacìihzi facendosi nostra guida; di mitezza ispiratore di  rustichezza espulsore; prodigo di benevolenza, avaro  malevolenza; propizio, buono; spettabile ai sapienti, vene¬  rabile agl’iddii; segno d’invidia per chi noi possiede, cu*  Sosa di chi il possiede; di voluttà, di mollezza di del -  catezza, di grazie, di desio, di brama padre; cmant^dc  buoni non curante dei tristi; nei travagli, mu pin^n  nelle brame, nei discorsi timoniere, soldato, commilitone ( )   « xr„“fr!ito-VSlso * ...io .<*>   L, i» A « •>»«”. *" ir*-. — u "   si poteva, di misurata serietà temperato.   XX. - Quando Agatone ebbe fluito, diceva.Ariate-  demo, lutti i presenti proruppero ni applausi, lasciai   ,n Vò * snidato' nò 'marinalo - equivalgono a iitlPiWQS d» 1 tosto,  a llanco il’un altro ’.    198    •1 Platone — Convito.        — 50 —    intendere che il giovane aveva discorso in maniera, degna-  di sé e del dio. Al che Socrate, volgendosi ad Erisslmaco:  O figliuolo d’Actìmeno, disse, ti pare che poco fa io te¬  messi d'un timore da non temere, o non fossi piuttosto  profeta, quando dicevo quel che dicevo poc’anzi: che  Agatone avrebbe parlato mirabilmente, ed io mi sarei  trovato in impaccio?   Per un verso, sì, rispose Erissimaco, lo riconosco, sei  stato profeta, che Agatone avrebbe parlato bene; ma  quanto a-1 tuo impaccio, via, non ci credo.   E come mai, beato uomo, riprese Socrate, non dovrei  trovarmi ìd impaccio io e chiunque altro sul punto di  parlare dopo la recita d’un discorso così bello e così varia  mente adorno? Certo non tutti i punti sono stati egual¬  mente stupendi; ma, nella chiusa chi di noi non è rimasto  addirittura intontito dalla bellezza delle parole e delle  frasi? Per me, considerato che non potrò dir nulla che s’av¬  vicini appena per bellezza a ciò che egli ha detto, quasi  quasi per vergogna me ne sarei scappato, se avessi potuto.  Il suo discorso infatti mi ha richiamato alla mente Gorgia,  tanto che m’è occorso quel che dice Omero: ho temuto,  cioè, che alla fine Agatone nel discorrere non scaraven¬  tasse contro il mio discorso la testa di Gorgia (1), par¬  latore da far paura, e mi pietrificasse, ammutolendomi.  E mi sono accorto allora quanto ero stato ridicolo,  allorché avevo preso con voi l’impegno di fare a mia  volta l’elogio di Eros e dichiarato d’esser competente in  cose d’amore io, e lo vedo, che non so nemmeno come  s’ha da fare l’elogio d’una cosa qualunque. Giacché  io, nella mia dappocaggine, ritenevo che nell’elogio di  qualsiasi cosa non si dovesse dire che il vero e che  questo dovesse essere il fondo del discorso, salvo a sce¬  gliere Ira- le cose vere le più belle e metterle in mostra  nel miglior modo possibile. E presumevo assai di me  nella fiducia di parlar bene, convinto di saper la verità  sul modo di lodare qualsiasi cosa. Ma ora credo d’accor-    (1) Allusione a mi luogo dell” O di seca ’ (XI 032 sg.). Ulisse, sceso  nell’Ade, temo per un momento che Persofono non mandi contro di lui  la testa della Gòrgóne o Gorgo. Scherzo sulla somiglianza di nome tra Gorgo  e Gorgia, il famoso sofista.         — 51 —    germi che noti è questo il modo di lodar bene una cosa,  bensì l’attribuirle i maggiori e i più bei pregi possibili,  li abbia o no; se poi sono falsi, che importai Dev’essersi  infatti proposto, se non erro, che ciascun di noi finga di  pronunziare l’elogio d’Eros, non che lo pronunzi davvero.   E perciò appunto, credo, razzolando da ogni parte, avete  attribuito ogni pregio ad Eros e detto ch’egli è così e  così, e autore di tali e tanti beni, affinché appaia bellis- 199  simo ed ottimo, evidentemente a chi non sa — non  certo a chi sa — e cosi l’elogio assume un aspetto bello  e venerabile. Io, senza dubbio, ignoravo il modo di tesser  l'elogio, e, ignorandolo, presi impegno con voi che a mia  volta avrei anch’io lodato Eros. Ma la lingua promise,  la mente no (1). Dunque, addio elogio! Io non vi seguirò  su questa via — perchè non potrei — quésto è sicuro;  ma, comunque, la verità, se volete, ve la dirò, a modo  mio. senza gareggiare coi vostri discorsi, per non far  ridere a mie spese. Vedi, dunque, Ecdro, se mai anche  questa forma di discorso ti accomodi: sentir dire, la  verità intorno ad Eros con quelle parole e con quella  disposizione di frasi che mi verranno per le prime sulle  labbra.   Fedro e gli altri, raccontava Aristodemo, approvarono  che dicesse pure come gli pareva di dover dire, Ubera¬  mente. . . ,.   E allora, Socrate aggiunse, Fedro mio, permettimi di  rivolgere qualche interrogazioncella ad Agatone, affinchè,  ottenuto il suo assenso, io cominci a parlare.   Ma sì, rispose Fedro, te lo permetto; interroga pure.   E dopo ciò, continuava Aristodemo. Socrate cominciò  suppergiù a questo modo:   XXI. — Senza dubbio, mio caro Agatone, tu ti sei  aperta bene, secondo me, la via nel tuo discorso, dicendo  che ti conveniva prima mostrare quale è mai Eros, e  dopo lo opere di lui. E questo principio nr è piaciuto assai.  Orbene, via, poiché d’Eros, per tutto il resto, hai esposto  in forma bella e magnifica quale egli è, dimmi ancora    (1) Allusione ad un verso (612) famoso dell’ 4 Ippolito* di Euripide.        — 52 —    200    ,mosto- se eoli è tale che sia amor di qualcuno, di;qualche  v r»,7u«i F bada* non domando se è di madre o   £ Bros è eros di madre o di padre D - ma fa conto,  come Te a-proposito d’un padre io ti chiedessi proprio  questoT s’egli è padre di qualcuno o no. A volemu  risponder bene, mi diresti certo, che d padre è padre  d'nn figlio o dima figlia. O no 1   Ma certo, disse Agatone.   E non diresti altrettanto della madre?   E Alatone consentì egualmente.   Ancora, soggiunse Socrate, qualche altra risposta,  affinchè tu veda meglio ciò che desidero. Se ti chiedessi,  per esempio: E dimmi: un fratello, ili quanto fratello,  è fratello di qualcuno, o no?   Ma sì, rispose. ,, „ „   È fratello, non è vero, d’un fratello o d una sorella.   Appunto, disse.   Via, provati a dirmi anche dell’amore: Eros e amore  di qualche cosa o di nulla?   Di qualche cosa, senza dubbio.   Ebbene, questo ili che cosa tientelo dentro di te, ma  rammentatene, riprese Socrate. J?er ora dimmi soltanto,  se Eros, quello di cui è amore, lo desideri o no?    Ma si, rispose.   E ciò che egli desidera ed ama, lo desidera perche  lo ha o perchè non lo ha?   Perchè non lo ha, è naturale.   Rifletti, disse Socrate, se, più che naturale, non sia  addirittura necessario clic il desiderare sia un desiderare  ciò di cui si manca, o non desiderare, ove non si manchi.    (1) Poiché in epe)£ UVÓ£ ‘amor (li qualcuno’ o ‘di qualcosa’ il  •uve*? può aver valore tanto soggettivo, quanto oggottlvo Socrate chiarirà  con esempi che egli ha inteso darò a xtvó; il valore di genitivo oggettivo.  Ma siccome d’altro lato w Epitì£ xivòg potrebbe anche ossoro scambiato con  un genitivo d’origine (‘ Eros tìglio di qualcuno ’), Socrate vuole olirainaro  anche quest’altro equivoco. In sostanza egli, paro, vuol dir questo: Io ti do¬  mando, non già se Eros ò amato da qualcuno o ò figlio ili qualcuno, ma se  egli ama qualcuno o qualche cosa. Ma il luogo, non Tacilo, ò stato varia¬  mente discusso, e si può prestare audio a qualche altra Interpretazione.       — 53 —    Io almeno, Agatone mio, credo fermamente che, .sia addi¬  rittura necessario. E tal   Anch'io, disse.   Va bene. E per conseguenza può mai esserci qualcuno  che voglia essere grande, mentre è grande, c forte,  mentre è forte 1 ?   Non è possibile, dopo le nostre premesse.   Non può infatti essere manchevole di queste doti chi    già le possiede.   È vero.   Perchè, se chi è forte volesse esser forte, seguito So¬  crate e veloce chi è veloce, e sano chi è sano... poiché  forse qualcuno potrebbe credere che queste qualità e tutte  le altre simili coloro che son tali e le hanno, desiderino  ancora quello stesse cose che già hanno, insisto su questo  punto, affinchè non si sia tratti in inganno... si u  rifletti, caro Agatone, costoro devono per necessita avere  in quel momento ciascuna delle qualità che hanno. 1  vogliano o no; e queste olii mai potrebbe desiderarle?  Ma allorché qualcuno dice: « Io. essendo sano, Aesid  di esser sano, ed essendo ricco, desidero d esser ricco; e  desidero appunto queste cose che ho->, noi gh possiamo  rispondere: « Tu, amico, possedendo ricchezze, salute c  forza desideri di possedere queste cose anche m a" 1 ®-  perchè in questo momento, che tu lo voglia o no tu le  hai. Guarda dunque, se, quando tu dici: Desidero le cose  presenti, tu non voglia dire altro che questo: D^deio  che le cose che ora ho mi sieno conservate anche  tempo avvenire. » E potrebbe egli negarlo?   Al che Agatone rispose assentendo. •   Orbene, seguitò Socrate, e questo non e appunto annue  quel che non ancora si ha sotto mano, nè si possiede:  il voler conservare e possedere anche nell avvenne  medesime cose?   Certamente, disse. . .   E quindi costui ed ogni altro che desideri, di suit i.   ciò che non ha sotto mano e non possiede m quel mo¬  mento; e ciò che non ha, o che egli stesso non e e che gli  manca, questo è precisamente quello di cui è il desiderici  e l’amore?       — 54 —•    201    Niun dubbio, rispose. .   Suvvia dunque, disse Socrate, riassumiamo le nostre  conclusioni. Prima di tutto Eros è forse altro che amore  di certe cose, e poi amore di quelle cose, delle quali   soffra difetto?   Non è altro, rispose.   Di più ricordati di che cosa nel tuo discorso hai detto  che Eros fosse amore. Se vuoi, te lo rammenterò io.  Credo che tu abbia detto suppergiù cosi: che nelle fac¬  cende degli dei fu messo ordine mediante 1 amore del  bello, chè non può esserci amore del brutto. Non hai  detto suppergiù così?   Infatti, rispose Agatone, così ho detto.   E sta bene, amico mio, riprese Socrate. Ma se e cosi.  Eros non sarà altro che aurore di bellezza, non mai di  bruttezza?   Agatone rispose di sì.   O non s’è convenuto che quello di cui uno è manche¬  vole e che non ha, questo egli ama?   Certo, disse.   Dunque Eros è manchevole di bellezza e non l’ha?    Necessariamente, rispose.   Ma dunque? Ciò che è manchevole di bellezza e non  possiede punto bellezza, dirai che è bello?   Ah, no!   E se è così, continuerai a sostenere che Eros è bello?   E Agatone: Temo, Socrate, di non aver inteso nulla  di ciò che ho detto poc’anzi.   Eppure hai parlato splendidamente, Agatone mio.  Ma dimmi un’altra cosuccia: ciò che è buono, non  pare a te anche bello?   A me, sì.   Se per conseguenza Eros è manchevole di bel¬  lezza, e se bontà è bellezza, sarà anche manchevole  di bontà.   Per me, Socrate, non posso contradirti: sia puro come  tu dici.   Mio diletto Agatone, è la verità quella a cui non  puoi contradire, chè contradire a Socrate non è punto  diffìcile.        — 55 —    vxil — Ed ora lascerò in pace te, e vi riferirò su  VrnH li discorso che un giorno udii da una donna di Man-  tiuea Diotima (1), che in questo era sapiente, come in  tante' altre cose, e agli Ateniesi prima della peste suggerì  saer iflzi che ritardarono di dieci anni il male, e fu  "iella appunto che ammaestrò me pure in cose d’amore...  nuel discorso, dico, che ella mi tenne, procurerò di espor¬  celo movendo dai punti concordati tra me ed Aga¬  tone per conto mio, come posso. E bisogna natural¬  mente, Agatone, come tu hai aperto la via, chiarire per  mima cosa chi sia Eros e quale, e poi le opere di lui.   B mi pare che il modo più spiccio sia chiarirlo come  quella forestiera fece, interrogandomi. Suppergiù anche  io dicevo a lei delle cose simili a quelle che Agatone di¬  ceva a me poc’anzi: che Eros fosse un gran dio e fosse  amor di bellezza. Ma ella mi convinse del contrario con  quelle stesse ragioni con cui io ho convinto costui, dimo¬  strandomi che secondo il mio discorso Eros non e nè   bello nè buono. , „   Ed io: Come dici, Diotima? Eros e dunque brutto e   ^ Ed ella: Parla, ti prego, con reverenza, disse. O credi  che quello che non è bello, debba necessariamente esser   brutto?   Senza dubbio. . . on2   E allora anche quello che non è sapiente sarà gn  Tante? E non t’avvedi che c’è qualcosa di mezzo tra  sapienza e ignoranza?   E che cosa? , .   L’opinar rettamente, anche senza poterne rende < -  gione, non sai, disse, che non è nè sapore — perchè ciò    (1) È un personaggio; storino o addirittura fittalo» Il non esserci di  lei alcun ricordo o. per tacer d’altro, il nomo stesso, che vaio - onorata da  Zeus corno la patria Mantinoa, che paro alluda alla montica, a ”to divi¬  natoria escluderebbero la prima ipotesi. Ma, fu osservato, non potrebbe  esser IpTtóa in Atene alcuni anni prima della guerra del Peloponneso e  della pestilenza che afflisse la città, una sacerdotessa straulera <U molta  reputazione (comunque chiamata), che avesse suggerito agli Ateniesi del  sacrifizi o Intorno al oul nomo si fosse formata poi la leggenda, a cui accenna  Platone?        — 56 —-    israr»jsìs.' - * <- *. >'*»*”<» ■»   S£ opMm« ; un cbe .li mezzo t» «**»»» e . 6 „or,,»n.   Non Attingere dunque ciò die uon è bello ad esser  brutto nè ciò che non è buono ad esser cattivo. E cosi  aule Eros, poiché tu stesso convieni che non è ne buono  nè bello, non per questo devi credere che egli sia di neces-   shà brutto e cattivo, ma qualcosa di ^   Eppure, osservai, si conviene da tutti che egli   ^Da^tutti, vuoi dire, quelli che non sanno, o anche  quelli che sanno’?   Da tutti, senza eccezione, si capisce.   Ed ella, ridendo: E come mai, disse, Socrate, si po¬  trebbe convenire che egli sia un gran dio da quelli che  negan perfino che egli sia dio ?   E chi sono costoro? chiesi.   Uno sei .tu, rispose, ed una io.   Ed io: Ma come puoi affermar codesto?   Ed ella: Facilmente, rispose. Dimmi: non dici tu che  tutti gli dei sono beati e belli? O oseresti dire che qual¬  cuno degli dei non è nè bello nè beato?   Per Zeus, io no davvero, risposi.   E non chiami tu beati quelli che posseggono bontà  e bellezza?   Certamente.   E non hai ammesso che Eros, perchè manca di bontà  e di bellezza, desidera queste qualità, delle quali è man¬  chevole?   L’ho ammesso, è vero.   E come potrebbe essere un dio chi è privo di bellezza  e di bontà?   In nessun modo, mi pare.   Vedi dunque che tu pure ritieni che Eros non è un dio.    XXIII. — E cosi, dissi, che. cosa mai sarebbe Eros?  Un mortale?   Nemmen per idea.     un    che di mezzo tra il    2C    Ma allora, che cosa f  ( ’oine nel caso precedente,  t „le e rimmortale.   peroni tatto rii, * »   qmloooo « «-» « 11 *> » “W*-   I F chiesi, qual è il suo poterei . .   l’essere interprete e messaggero dagli uomnu agli  , ó ? daS dei agh nomini, degli uni recando le preginole   II nvifizi degli altri gli ordini e le ricompense dei *a-   e Stando nel mezzo degli uni e degli altri, lo riempie  eri iz , • , | trovi collegato in sè medesimo. Atti a-   “i’o/lÌ 3 S l’arte «Mi .   7T?.r.Sfy.nir oi tacrifltì, alle WriHtah   Sol ™tl g e egei rapporto eri ogni colavo   e a E Cl chS 0 8U0 padre, chiesi, e cln sua mato ^   La storia è un po’ lunga, a   rartela. Quando nacque .Afrodite, * di Metia [Sa-   banchetto, e tra gli altri anche ì ^l ^ occo   gacia], Poh» [ Ac ^® to ^'°“ mend icare, come avviene   sr-V? èrt»*   buttato a dormire. Allena Pema, n . ge a gìacere   povertà d’avere un hglmo ° < • h,’ Q E p PV questo   accanto a lui e divenne n t tl S cV Afrodite, perchè   appunto egli è anche seguace e >n perc hè da natura   «ito e bello, come generalmente si crede, e an     V     — 58 —   ilzo, senzatetto, uso a dormire sulla nuda  coperte, dinanzi alle porte, a cielo aperto,   * .. -, _l.vll.i no ri «11 n ini covi Q    tendere insidie ai belli e ai buoni, coraggioso, temerario,  impetuoso, cacciatore terribile, sempre occupato a pre¬  parar lacciuoli, avido d’intendere, ricco d espedienti, de¬  dito a filosofare per tutta la vita, ciurmadore, mago e  solista insuperabile. E di sua natura non è nè immortalo  nè mortale, ma a volte, nello stesso giorno, germoglia  e vive, quando tutto gli va a vele gonfie; a volte muoie  e poi, data la natura del padre, rivive daccapo, e spreca  sempre tutto quel che guadagna, sicché non è mai ne  povero nè ricco, e d'altro lato tiene il mezzo tra la sa¬  pienza e l'ignoranza. E s’intende: degli dei nessuno lilo-  204 soleggia o desidera di divenir sapiente —- perchè è già  tale — e se e'è altri sapiente,. non filosofeggia nem¬  meno. Ma, d’altronde, neppur gl’ignoranti filosofeg¬  giano o desiderano di diventar sapienti. Giacché proprio  questo è il guaio dell’ignoranza: che chi non è nè  ammodo nè saggio s'illude d’essere un uomo che basti  a sè medesimo. E chi non crede d’esser manchevole  non desidera nemmen per sogno quello di cui non crede  di mancare.   E chi. Diotima, diss’io, son quelli che si volgono alla  filosofia, se non sono nè i sapienti nè gl’ignoranti?   Codesto, rispose, dovrebbe esser manifesto perfino ad  un ragazzo: son quelli che tengono il mezzo tra gli uni  e gli altri; e tra questi è anche Eros. Perchè la sapienza  è tra Io cose più belle, ed Eros è amore del bello, sicché  necessariamente Eros deve aspirare alla sapienza, deve  esser filosofo, e come filosofo tenere il mezzo tra sapiente  e ignorante. E anche questo gli vien dalla nascita, giacché  egli è di padre sapiente e ricco, ma di madre nò sapiente  nè ricca. Questa, mio caro Socrate, è la natura del d謠 mone. Che tu poi fi fossi immaginato Eros come te lo  eri immaginato, nessuna meraviglia: tu avevi creduto,  se non m'inganno, a giudicarne da quel che dici, che  Eros fosse l’amato, non l’amante, e però penso che Eros  fi paresse bellissimo, perchè difatti ciò che è degno di      — 59 —    è il realmente bello, delicato, perfetto e tale da  aU '° rsi beato Ma l’amante ba tutt’altro aspetto, e pre¬  cisamente quello che t’ho ritratto.   _ Ed io dissi: Sia pure, ospite; che infin dei   conti'' tu ragioni bene. Ma se Eros è tale, che utile reca   agU CodTsto, ? disse, Socrate, mi proverò d’insegnartelo fra  lin00 intanto Eros è tale e nato a questo modo, ed e  di bellezza, come tu dici. Ora se qualcuno ci do¬  mandasse: « Che cosa vuol dire, Socrate e Diotima, Eros  di bellezza? » O più chiaramente: Chi ama ama il bello,   e che ama?   Ed io: Possederlo, risposi.   Ma, soggiunse, la tua risposta chiama quest altra do¬  manda: Che' ci guadagna chi possiede il bello !   Io dissi di non saper veramente che cosa nspondcie,   così, su due piedi, a questa domanda.   Ma riprese, fa conto che qualcuno, mutando 1 ter  mini, sostituisse bene a bello, e ti chiedesse: «Orsù, bo¬  ccate, chi ama ama il bene; e che ama? »   Possederlo, risposi. . , . ,   E che ci guadagna chi possiede il bene!   Ecco M’d»™Tn,l« Pi« «-*.**. « »   finisce qui, mi pare.   E onesto 1 desiderio e questo amore credi tu che sia  comune a tutti gli uomini e che tutti vogliano possec ei  sempre il bene? O come dici?   Così è, risposi: comune a. tiitti tti diciam o   E perché mai dunque, Sociale, non ,i   che amano, se poi tutti amali lo stesso ■  taluni diciamo che amano e d’altri no!   Me ne meraviglio anch’io, dissi. ,   No. non meravigliartene, soggiunse, pe ’ a   di aver preso a parte una delle specie d amore, diamo a       rme-sta il nome dell'intero, e la chiamiamo amore,  mentre per le altre ci serviamo di altri nomi.   Come sarebbe a dire? chiesi. ...... ,   Ecco per esempio: sai bene che pohsis, [ Iattura ,   ■ poesia ’] implica molti significati, giacché ogni opera¬  zione, la quale faccia che una cosa dal non essere  passi all’essere è poièsis, sicché le produzioni, attinenti  a tutte le arti, sono aneh esse poièseis , e i loro produttori  tutti poiètai.   È vero. . ,   E tuttavia, disse, sai pure che non si chiamano poteteli,  ‘poeti '. ma hanno altri nomi; e una particella sola, di¬  staccata da tutta la poièsis , quella che ha per oggetto  la musica e le composizioni metriche, è chiamata col  nome delimiterò. Soltanto questa infatti prende nome  di poesia, e poeti quelli che posseggono questa par¬  ticella della poièsis.   È vero, dissi.   E così, dunque, anche dell amore. La _ somma n è  ogni desiderio del bene e delTesser felice, il massimo  e ingannevole amore (1) d'ognuno. Ma di quelli che  vi si volgono per un’altra delle molte vie, o del guadagno  o della ginnastica o della filosofia, non si dice che amino,  nè son chiamati amanti, laddove coloro che tendono  a questa sola specie, e si consacrano ad essa, prendono  il nome del tutto, amoree amare e amanti.   Mi pare ohe tu dica il vero, risposi.   Eppure, seguitò, corre per le bocche un certo discorso:  che quelli i quali vanno in cerca della propria metà,  questi amano. Il mio discorso invece dice che 1 amore  non è nè della metà nè dell’intero, ove, amico mio, non  si creda di scorgere un bene, poiché gli uomini si lasciali  volentieri amputare e piedi e mani, sempre che paia ad  essi che le loro proprie membra non sieno più buone.  Giacché, secondo ine, non è il proprio quello che cia¬  scuno ha caro, se pure non si chiami proprio il bene    (1) Pare una citazione; ma la frano destò dot sospetti in parccclii in¬  terpreti, e fu addirittura considerata come un glossema dall’Hug o dal   Bonghi.      - 61 —    n male. Perchè io non vedo altra cosa che gli 206  uomini amino, all'infuori del bene. E tu?  r>,>v Zeus, e nemmeno io.   O dunque, possiamo affermare, così senz’altro, che  g li uomini amano il bene?   hTche?' r'iprès™non si deve anche soggiungere che essi  amano d’averlo con sè, il bene l   Tpcr dippiù, disse, non solo d’averlo, ma anche  d’averlo sempre?   Ssom Eque, concluse, l’amore è amore di aver   sempre il bene con sè.   Tu hai pienamente ragione, dissi.   XXV - Poiché l'amore è questo sempre   per imparare appunto codeste . partorire nel   * - 4et*?-sstiS?*.   gli uomini, Socrate, concipn etòi i a . nostra   secondo l’anima; e, S 1 ' 11 ' < partorire nel brutto   natura desidera di paidon ; m. nU) infn fti del¬  udi può; nel hello, Mi 1 fj?,p°ff rtl „. E questa è cosa  l'uomo c della donna \ mor talo, questo è immortale:  divina, e nel vivente, ^ ora è impossibile che   il concepimento c' a h* ‘ disarmonico è il brutto   ciò avvenga nel disaiic m . q iuvooc n bello. Sicché  rispetto a tutto i cl ’ dea de ua nascita e della morte]  Bellezza è Mona 1 » ’ . t0 ed a Ua generazione].   b srasr? &«*» *'      — 62 —    diventa gaia, e nella sua letizia s’effonde e partorisce e  genera. Ma quando al contrario s’appressa al brutto, si  abbuia, e nella sua tristezza si contrae, si volge indietro,  si raggomitola e non genera; ma, trattenendo in sè il  feto, si sente male. Donde appunto nella creatura, gra¬  vida e già smaniante di desiderio, l’ansia grande per ciò  che è bello, giacché esso libera ehi lo possiede dalle gravi  doghe del parto. Perchè, Socrate, l’amore non è amore  del bello, come tu pensi.   Ma e di che allora?   Di generare e partorire nel bello.   E sia, dissi.   Mon c’è dubbio, riprese. Ma perchè poi della genera¬  zione? Perchè la generazione è un sempregenerato e  immortale nel mortale. Sicché da ciò che s’è convenuto  segue necessariamente che l’amore è desiderio d’im-  207 mortalità nel bene, se è amore d’aver sempre il bene  con sè. E un’altra conseguenza necessaria di questo  ragionamento è che l’amore è anche amore dell’im¬  mortalità.   XXVI. -— Tutte queste cose ella m’insegnava ogni  volta che si ragionava d’amore. E un giorno mi chiese:  Che cosa mai, Socrate, credi tu che sia causa di codesto  amore e di codesto desiderio? O non senti che tenibile crisi  attraversino tutti gli animali, e terrestri e volatili, quando  senton desiderio di generare, ammalandosi tutti e strug¬  gendosi d’amore, prima, di mescolarsi insieme; poi, di  allevare la prole; e come sieno pronti per essa a combat¬  tere, i più deboli coi più forti, e a spender la propria vita  in difesa di quella e a soffrire essi la fame, pur di nutrire  i loro nati, e a fare qualunque altra cosa? Degli uomini,  tanto, si può credere che lo facciano per effetto d’un  ragionamento; ma e gli animali, che cosa può indurli a  questo prodigio d’amore? Sai dirmelo?   Ed io a risponder daccapo di non saperlo.   Ella ripigliò: E pensi, dunque, di poter divenire  esporto in cose d’amore, se non intendi questo?   Ma per questo appunto, Diotima, come dianzi di¬  cevo, vengo da te, perchè so d’aver bisogno di maestri.      — 63 —    Ala tu dimmene la cagione, e di queste e delle altre cose  relative all’amore.   Ebbene, se ritieni per fermo che 1 amore sia pei  tura amóre di quello di cui s’è convenuto più volte,  nn te ne meravigliare: Giacché qui si torna allo stesso  bscorso- la natura mortale cerca, per quanto può, di  essere sempre e immortale. E può esserlo soltanto per  està via per la generazione, cliè così lascia sempre  dono di sé qualcos’altro di nuovo in cambio del vecchio.  Poiché anche in quello spazio di tempo durante il quale  di ciascun animale si dice che è vivo e che e lo stesso...   „or esempio, d’un uomo, da bambino fino a che non  diventi vecchio, si dice che è il medesimo; eppure costui,  quantunque non conservi mai in sé stesso le stesse cose  tuttavia passa per essere il medesimo, pur rifacendosi  in parte incessantemente giovane, e m parte deperendo  e nei capelli e nelle carni e nelle ossa e nel sangue e  in tutto il corpo. E nonché per il corpo, ma anche per  l’anima, i modi, i costumi, le opinioni, i desideri, i pia¬  ceri i dolori, le paure, ciascuna di queste vane cose no  rimati punto la stessa in. ciascuno, ma talune nascono,   ■dire periscono. E, quel che è ben piu sorprendente, non  si le cognizioni, altre nascono, altre periscono m noi 208  e noi non siamo, nemmen rispetto alle cognizioni, semp  ghS, ma anche per ciascuna =   s’avvera lo stesso. Giacche ciò che si ^e meditare^  dice appunto della cognizione m quanto ^ ' ' 1 '   ticanza infatti è uscita di cognizione etemeMaage,   non con l’essere in tutto sempre lo stesso, come il <hvi ,  nuT col' 1 lasciare dopo di sé, in cambio di ciò che va via   , . nn ni cos’altro di nuovo che gli somiglia pei   e invecchia, qualcos altro | ocrat0) diss’ella,   ifmortaio partecipa dell’immortalità, sia corpo, sia checché  si voglia Ma l’immortale procede per altra via. Non  meravigliare dunque, se ogni essere per natura oncia i  proprio germoglio, giacché per desiderio d immortalità  siffatta cura ed amore s’ingenera in ogni creatura.        — 64 —    XXVII _ All’udire questo ragionamento ne rimasi   sorpreso, è dissi: Sia pure, sapientissima Diotima; ma è  tìoì realmente così?   Ed ella, come i perfetti sofisti (1): Abbilo per fermis-.  simo Socrate, rispose. Oliò, se vuoi guardare anche  all’amore degli uomini per la gloria, ove tu non tenga  presente ciò che ho detto, avresti motivo di meravigliarti  della loro stoltezza, riflettendo da quale ardore sien pos¬  seduti di divenir celebri e gloria procacciarsi ne’  secoli tutti immortale (2), e come perciò sieno  pronti a sfidare qualsiasi pericolo, anche più che per i  figli, e consumar sostanze e soffrire qualsiasi sofferenza  e far getto della propria vita. Poiché credi tu, disse, che  Alcéstide sarebbe morta in cambio di Admeto o Achille  soprammorto a Pàtroclo o Codro- vostro (3) premorto  per assicurare il regno ai figliuoli, se non avesser creduto  di lasciare quel ricordo di sé, che ora noi serbiamo di  loro'? Pi vuole ben altro! disse. Ma per conseguire virtù  immortale e siffatta fama gloriosa, tutti, a parer mio,  son pronti a qualsiasi cosa, e quanto migliori, tanto più,  perché amano l’immortale. Quelli dunque che son gra¬  vidi. disse, nel corpo, si volgono di preferenza alle donne,  e per questa via sono amorosi, procurandosi per mezzo  della generazione dei figliuoli, come pensano, immorta¬  lità, ricordo e beatitudine per tutto il tempo avvenire.   209 Coloro invece che son gravidi nell’anima... perchè, di¬  ceva, c’è pure di quelli che son gravidi nell’anima, ancor  più che nei corpi, di ciò che all’anima s’addice e di con¬  cepire e di partorire; e che cosa le s’addice? la saggezza  c le altre virtù; e di queste sono generatori i poeti tutti,  e degli artisti quanti son detti inventori. E tra le forme  di saggezza, disse, la più alta di gran lunga e la più bella    (1) L’osservazione di Socrate ai riferisco al tono di sicurezza, por- dir  cosi, cattedratico e dogmatico clic assumo Diotima, la quale di qui in poi  abbandona la conversazione familiare per pronunziare un discorso lungo  c filato.   (2) Dev’essere una citazione poetica. L’Hng osserva elio in questa  parte Diotima si compiace di versi o di forme poetiche.   (3) Codro ò il leggendario re clic andò volontariamente incontro alla  morte per salvare l’Attica dalla invasione dorica.       — 65 —   che s’occupa degli ordinamenti politici e donic-  Ò - q !, cui si dà nome di prudenza e di giustizia. E allor-  S Ì 1C1 ™>i uualcuno di costoro per esser divino (1) sia da  1 1 gravido nell’anima, e giunta l’età desideri oramai   vtnrire e generare, anche costui, credo, ricerca pre¬  murósamente quel bello nel quale possa generare, giacche  'e 1 brutto non vorrà generar mai. E quindi egli gravido  r 4 si compiace dei bei corpi piu che dei bratti, e  °e s’incontri in un’anima bella e generosa c d indole  mona si compiace vivamente d’un tale insieme e con  e òo egli è subito largo di discorsi intorno alla virtù e su  miei che dev’essere l’uomo dabbene e sul tenore di vita  che questi deve proporsi; e si dà a educarlo Perche, ,  credo a contatto della bella persona e nei colloqui con  essa egli partorisce e genera quello di cui da gran tempo  e ra 'gravido, ricordandosi di lei, presente o lontano, e  la prole egli alleva in comune con quella, cosicché uonnn  siffatti mantengon tra loro una comunanza assa P  intima che non quella che avrebbero per mento dei  figliuoli, e un’amicizia assai più salda, dacché ^  in comune dei figli più belli e piu mimo potinoli   •per sè preferirèbbe d’aver piuttosto di sillatti h ^ .   che quelli umani, guardando a Omero a Esu^ c  agli altri poeti insigni, invidioso dei nati ■_ l  lasciali di sè e che assicurano loro gioire ; uoi   immortale, perchè sono essi stessi inumatali, . •   disse, dei figliuoli come quelli che tediò Um 0  demone, salvatori di Lacedemone e,spù.c(  i-Eliade E da voi è anche onorato Soloiu pu lì   SmS«So o"«iÒff». ta’«ove..por  gli umani fin qui a nessuno.   XXVIII. - Sino a questo grado nei  Socrate forse avresti potuto iniziarti da b • Ma min  dottrinò perfette e contemplative, alle quali, ove si pio¬  li) Mantengo qui la lozione ilei oodd. 9-stos lov.    5 Platone — Convito.        — 6 fi —    ceda rettamente, quelle finora esposte servono di pre¬  parazione, non so se ne saresti capace, le le esporrò  dunque io, disse, e non trala scerò di metterci tutta la  mia buona volontà. E tu cerca di seguirmi, se ti riesce.  Perchè chi vuol incamminarsi per la via diritta a questa  impresa, deve da giovane andare verso i bei corpi, e  dapprima, se chi lo guida lo guida' dirittamente, amare  un sol colpo c generare in esso discorsi belli; e poi inten¬  dere che la bellezza in un qualunque corpo è sorella della  bellezza dim altro corpo; e se convien perseguire ciò ohe  è belio d'aspetto, sarebbe una grande stoltezza non sti¬  mare che una sola e identica sia la bellezza in tutti i  corpi. E inteso che abbia questo, divenire amante di  tutti i boi corpi, e calmare quei suoi ardori per uno solo,  spregiandoli o tenendoli a vile. E in seguito reputare clic,  la bellezza delle anime sia di maggior pregio clic la bel¬  lezza del corpo, sicché, ove uno sia bello dell’animo,  quand’anche poco leggiadro, se ne contenti e Io ami e  ne prenda curii e partorisca e cerchi ragionamenti sif¬  fatti, che valgano a render migliori i giovani, affinchè  sia dipoi costretto a considerare il bello clic è nelle, isti¬  tuzioni e nelle leggi, e riconoscere che esfjo è tutto con¬  genere a sè, e si persuada così che il hello corporeo non  è che piccola cosa. E dopo le istituzioni < In sua guida >  lo conduca più in alto, alle scienze, perché veda alla loro  volta la bellezza»delle scienze, e mirando all'ampia di¬  stesa del bello, non più, estasiandosi come uno schiavo,  davanti alla bellezza d'una singola cosa, d’un giovanetto  o (L’un uomo o d’una istituzione sola, e servendo sia una  abietta o meschina persona; ma volto al gran mare  della bellezza, e contemplandolo, partorisca molti e belli  e magnifici ragionamenti e pensieri in un amore sconfi¬  nalo di sapienza, fino a che, in questo rinvigorito e cre¬  sciuto, non s’elevi alla visione di queU’unica scienza, che  è scienza di cosiffatta bellezza.   E ora, continuava, la di aguzzare rocchio della mente  quanto più puoi. — XXIX.—Giacché colui che sia stalo  educato fin qui alle cose amorose, contemplando a grado  a grado e rettamente il bello, pervenuto al termine della  via d’amore scorgerà d’improvviso una bellezza di sua     mumluìi        — 07    natura stupenda, e precisamente quella, Socrate, per la  quale si eran durati tutti i travagli precedenti, quella che  innanzi tutto è eterna, che non diviene e non perisce, non zi 1  cresce e non scema; e poi, che non è bella per un verso e  brutta per un altro, nè a volte si a volte no, nè bella  rispetto a una cosa e brutta rispetto ad un’altra, nè qui  bella e lì brutta, o bella per alcuni e brutta per altri. Ne,  per dìppiù, la bellezza prenderà ai suoi occhi la forma  come (li volto o di mano o d’alcunchè di corporeo, nè d’un  discorso o d’una scienza o di qualcosa che sia in un altro, in  un animale, poniamo, o in terra o in cielo o dove che sia;  ma gli apparirà qual è in sè, uniforme sempre a sè  medesima, e tutte le altre cose belle, partecipi (Vessa in  tal modo, che, mentre queste altre e divengono e peri¬  scono, essa non divien punto nè maggioro nè minore, e  non soffre nulla. E quando alcuno per aver rettamente  amato i fanciulli, sollevandosi dalle cose di quaggiù,  prenda a contemplare quella bellezza, allora può dirsi  che abbia quasi toccato la meta. Perchè questo appunto  è sulla via d’amore procedere o esser guidato diritta-  mente da un altro: muovendo dalle belle persone di quaggiù  ascendere via via sempre più in alto, attratto dalla bel¬  lezza di lassù, quasi montandovi per una scala, da un  bel corpo a- due, e da due a- tutti i bei corpi, e da bei  corpi alle belle istituzioni e dalle istituzioni allo belle  scienze per finire dalle scienze a quella scienza che non  è scienza d’altro se non di quella bellezza appunto; e  pervenuto al termine, conosca quel che è il bello in se.   Questo, mio caro Socrate, se altro mai, diceva 1 ospite  di Mantinea, è il momento della vita degno per un uomo  d’esser vissuto, allorché egli può contemplare la bel¬  lezza in sè. Ed essa-, ove mai tu la veda., non ti parrà  comparabile nè con oro nè con vesti nè con quei bei  fanciulli e giovanetti, al cospetto dei quali rimani ora  sgomento e sei pronto, e tu e molti altri, guardando co¬  desti vostri amati c standovi con loro, se fosse possibile,  sempre, a non mangiare nè bere, ma soltanto a eontem-  plarveli e starci insieme. E che sarebbe, diceva, se a  qualcuno riuscisse di vedere il bello in sè,' sclùetto, puro,  sincero, non infarcito di carni umane e di colori e di    ->* Platone — Convito.       tante altre vanità mortali, ma potesse scorgere la divina  bellezza in sè medesima, uniforme? Creiti tu che sia  2I2 una vita da tenere a vile quella di chi possa guar¬  dare colà e contemplare con 1 intelletto (1) quella bel¬  lezza e starsi con essa? O non pensi, disse, che quivi  soltanto, a lui che vede la bellezza con quello per cui  essa è visibile, verrà fatto di partorire, non immagini  di virtù, perchè non è in contatto con immagini, ma  virtù vera, perchè in contatto col vero; e che, avendo  generato e nutrito virtù vera, a lui solo è concesso di  divenir caro agli dei, ed anche, se altri mai iu tale al    mondo, immortale?   Eccovi, Fedro e voi altri, quel che diceva Diotima, e  io ne fui persuaso; e, persuaso, mi adopero a persuadere  anche gli altri che per procacciare alla natura umana  un tanto acquisto non si può facilmente trovare un  collaboratore più valido d’Eros. E perciò appunto af¬  fermo che ogni uomo ha l’obbligo di rendere onore  ad Eros, e io stesso onoro e coltivo in modo speciale  le discipline amorose e vi esorto gli altri; ed ora e  sempre, per quanto è in me, encomio la possanza e la    fortezza di Eros.   Questo discorso, Fedro, ritienilo detto come un elogio  d’Eros, se credi; se no, chiamalo pure come ti piacerà  di chiamarlo.    XXX. — Poiché Socrate ebbe finito, tutti, raccontava  Aristodemo, gli rivolsero delle lodi, eccetto Aristofane,  che s’accingeva a dire nòti so che cosa, perchè Socrate,  nel parlare aveva alluso al discorso di lui, quando, a un  tratto, s’ode picchiare violentemente alla porta di strada  e insieme un gran chiasso, come d'i gente avvinazzata,  che usciva da un banchetto, e la voce d’una suonatrice  di flauto. Al che Agatone: Ragazzi, disse, andate a ve¬  dere; e se è qualcuno dei nostri, fatelo entrare; se no,  dite che s’è smesso di bere e stiamo già riposando. Ed,  ecco, un momento dopo, si sente noi vestibolo la voce    (1) Alla lettera: con quello con cui si convieno (contemplarlo), cioè  v(p * con la monte \      69     d’Alcibiade, ubriaco fradicio, che strepitava: Pov’ò Aga¬  tone? Menatemi da Agatone! Entrò, sorretto dalla suo-  natrice e da alcuni dei suoi compagni, e si fermò sulla  soglia dell’uscio. Aveva il capo ricinto d'una folta corona  di edera e di viole (1) e adorno d’una infinità di nastri.   E disse: Salute, amici! Vorrete compiacervi di dare un  posto per bere con voi a un ubriaco fradicio, o dob¬  biamo andar via subito dopo di aver incoronato Aga¬  tone, che è lo scopo per cui siamo qui? Ieri non mi riuscì  di venire, ma ora eccomi qui, col capo coperto di nastri,  per rieingerne dal mio il capo del più sapiente, del più  bello, lasciatemelo dire, tra gli uomini. Iriderete voi forse,  perchè sono ubriaco? Ebbene, ridete pure; ma io so di B3  dire la verità. Intanto ditemi senz’altro, se posso o no  entrare a queste condizioni. Siete pronti a bere con me,    o no?    Tutti in coro con alte grida gli risposero che entrasse    e si mettesse a giacere, e Agatone ve lo invitò. Egli venne    avanti condotto dai compagni, e poiché si veniva levando  que’ nastri per incoronarne l’ospite, non s’accorse di So¬  crate, che pure gli stava dinanzi agli occhi, ma si mise  a sedere accanto ad Agatone, tra questo e Socrate, il  quale, come l’aveva visto (2), s’ora tratto da parte. Sedu¬  tosi. abbracciò Agatone e gli cinse il capo.   È Agatone disse: Ragazzi, slacciate i sandali ad Alci-  biade, perchè possa sdraiarsi terzo fra noi.   Benissimo, disse Alcibiade; ma chi è questo nostro  terzo compagno? E ad un tempo, volgendo gli occhi, vide  Socrate, e vistolo diè un balzo, esclamando: Per Éraeles.  che roba è questa? Socrate qui? Àncora un agguato!  E hai preso questo posto per apparirmi, al solito, dinanzi,  dove meno me l’aspettavo? E ora, perchè sei qui? E  perchè poi ti sei messo a giacere proprio in questo posto?  Perchè non accanto ad Aristofane o a qualche altro, che  sia o voglia parere un burlone, ma tanto ti sei destreg-    (1) i Alclbiado voniva coronato, pcrchò usciva da uu altro banchetto.  Le corono, elio solovano essero di foglio di mirto, di pioppo bianco o di  odora intrecciato con roso o In Atene a proferonza con violo, si distribui¬  vano dal servi, quando, finita la cena, si passava a boro. * (Hug).   (2) Leggo (1)£ éxetvov xctxstfiev secondo il pap. d’Osslrinco.        ■ : i.i.-' ;        g iato da venirti a sdraiare accanto al più bèllo di quanti   SOn °B q Soc" Agatone, disse, guarda un po’ di difen¬  dermi. perchè l'amore per me di costui non un dà poco  a fare Dacché presi ad amarlo, non son pm padrone di  guardare o discorrere con nessun altra bella persona  senza che costui, roso dalla gelosia o daU invicha, non  faccia cose dell’altro mondo, e mi copra d insulti, e per  poco non mi metta le mani addosso. Guarda che anche  ora non ne faccia qualcuna delle sue. Metti pace tra noi,  o, se cerca d’aecopparmi, aiutami, perche io ho una  paura matta dei suoi furori e delle sue smanie amorose.   Pace tra me e te? ribattè Alcibiade; non è possibile.  Ma di questo ti castigherò in qualche altra occasione.  Per ora, Agatone, rendimi un po’ di codesti nastri, perche   10 ne ricinga il meraviglioso capo di costui qui, e non mi  accusi d’aver coronato te, e lui poi, che vince nei discorsi  tutti, e non solo ier l’altro, come te, ma sempre, non 1 ho  coronato. E così dicendo, prese alcuni nastri, ne cinse   11 capo di Socrate e si mise a giacere.    XXXI. — Dopo che si fu sdraiato, riprese: E che  amici? non siete in vena di bere? Io non posso permet¬  terlo; bisogna bere: è stato il nostro patto. Io scelgo a  re del bere, finché non avrete bevuto abbastanza, me  stesso. E Agatone faccia portare, se c’è, una gran tazza.  No, no, non occorre. Ragazzo, a me quel bigonciolò —  all s’eraaccorto che conteneva più di otto colili (1) —lo riempì  e bevve per il primo; poi ordinò clic si mescesse per So¬  crate, aggiungendo: Del resto, amici, con Socrate la mia  astuzia non attacca: si può farlo bere quanto si vuole,  non c’è caso che s’ubriachi.   Socrate, quando il ragazzo gli ebbe mesciuto, bevve.   Ma Erisslmaco disse: Che facciamo, Alcibiade? Tra¬  canneremo così un bicchiere sull’altro senza intramezzarvi  nè un discorso nè un canto, proprio come degli assetati?   Tì Alcibiade: Erissimaco, eccellente figlio d’eccellente  e sennatissimo padre, salute!    (1) La eotile equivaleva a circa un quarto eli litro.     E salute a te pure! rispose Erissimaco. Ma che dob¬  biamo fare!   Quel che tu ordini: a te bisogna obbedire,   Che certo un medico solo vai quanto molti uomini insieme.   Ordina dunque a tuo modo.   Ebbene, da’ retta, riprese Erissimaco. Prima della  tua venuta s’era fissato che ciascun di noi per turno a  destra pronunziasse un discorso, il meglio che si poteva,  su Eros, in elogio di questo dio. Tutti noialtri abbiamo  parlato. Tu che non hai parlato, ma hai bevuto, è giusto  che ne faccia imo tu pure. Dopo, imponi a Socrate quel  che ti piace, ed egli farà altrettanto per turno a destra  con gli altri.   Belle parole, Erissimaco! rispose Alcibiade. Ma non  ti pare che a mettere un ubriaco in gara di discorsi con  gente che ha la testa a posto, la partita non sia pari !   E dimmi pure, beato amico: ci credi tu a quel che Socrate  ha detto or ora di me? Non sai che è proprio il rovescio  di ciò che egli diceva? Giacche costui, se in presenza sua  mi permetterò di lodare un altro, dio o uomo che non  sia lui, non terrà a posto le mani.   Parla con più rispetto, disse Socrate.   Per Poseidone, riprese Alcibiade; non contradirmi.   Sai bene che in presenza tua non potrei lodare nessun  altro.   E tu fa' come vuoi, ripigliò Erissimaco: loda So'crate.   Come dici! Ti pare, Erissimaco, che convenga? Posso  dare addosso a quest’uomo e vendicarmi di lui sotto i  vostri occhi?   Ohe, giovanotto, che ti salta in niente? Con la scusa  di lodarmi vuoi mettermi alla berlina? O che vuoi fare?   Dirò la verità. Guarda però di lasciarmela dire.   Ma, certo, la verità te la laseerò dire, anzi voglio che  tu la dica.   Son pronto, riprese Alcibiade. E tu fa’ così: se non  dico la verità, interrompimi e dammi una smentita, che  di proposito non dirò nessuna bugia. Ma se salterò di 21  palo in frasca, come la memoria mi suggerisce, non te        72 —    ue sorprendere, giacché non è facile per chi è neUgnie  condizioni enumerare per filo e per seguo tutti 1 tiatti  della tua originalità (1).   XXXII. — Socrate, amici, comiucerò a lodarlo così,  per via di paragoni. Costui crederà forse ch’io voglia  farvi ridere alle sue spade; eppure il paragone mira a  rappresentarvelo qual è realmente, non a metterlo in  burla. Dico dunque ch’egli è similissimo a quei Sileni  esposti nelle botteghe degli scultori, che gli artisti raf¬  figurano con zampogne o flauti in mano e che, aperti  in (lue, mostrano nell’interno immagini di dei (2). Ili dico  per dippiù che somiglia al satiro Marsia (3). li/ che tu  sia nell’aspetto simile a quelli, neanche tu, boera te,  oseresti metterlo in dubbio. Che poi somigli anche nel  resto, stanimi ora a sentire. Sei un gran canzonatore;  o no ? Se lo neghi, , presenterò dei testimoni. E un flau¬  tista, no? Anzi più meraviglioso di Marsia. Questi, è  vero?, molceva gli uòmini per via di strumenti con la  potenza della sua bocca, e anche oggi chi suona le com¬  posizioni di lui — perchè già quelle che Olimpo suonava  appartengono senz’altro a Marsia, che gliele aveva inse¬  gnate... e a buon conto le sonato di lui, o che le esegua  un abile flautista o una flautista dappoco, per essere  opera divina, valgono da sole a soggiogarci e farci sen¬  tire (fili prega gli dei e chi aspira ad essere iniziato. Ma    (1) Il discorso, ohe Plutone la pronunziare ad Aloibiado, oltre ad essere  l’upplioozione pratica della toorlca bandita da Socrato, ohe ci ò cosi rap¬  presentato domo l’amanto perfetto o il tipo vivente del filosofo, è assiri  probabilmente anche nn'ahilo o splendida difesa di costili contro lo maligno  insinuazioni d'nn sofista. Pollerato, cho in un ili,olio contro Socrate doveva  aver presentato sotto una luco tutt’altro olio favorevole lo relazioni d’ami¬  cizia elio lutoroedovuno tra 11 maestro od Alclbiado.   (2) Questi Sileni orano, paro, una spedo d'armadi, riproducesti lo  fattozzo dei popolarissimi compagni di Dlóniso. e dovovano esseri, d’uno  certa capacita, so nell’intorno potevano contenoro parecchio statuette o  simulacri di numi. E 11 modo corno v'oeconna Aloibiado fa Intenderò ohe  dovessero essere assai noti o comuni !u Atene.   (3) Il satiro Murala, in origino un dio fluviale dell’Asia Minoro, inven¬  tore del flauto, flautista cccoUonte o maestro di Olimpo, a cui Alcibiade  accennerà fra poco, addò ad una gara musicalo Apollo olio suonava la cetra,  e, vinto dal dio, fu tratto fuori , della vagina dolio membra sue •.      — 73 —    tu tu sei (li tanto superiore a lui, che senza bisogno di  strumenti con semplici parole ottieni questo medesimo  effetto. Difatti noi, quando udiamo qualche altro ora¬  tore sia pure eccellente, pronunziare degli altri discorsi,  non'ce ne interessiamo, per così dire, nè punto nè poco.   Ma ove qualcuno oda te o qualche altro, e sia pure il  più inetto parlatore, che riferisca le tue parole, o che le  oda una donna o un uomo o un giovanetto, no siamo  rapiti ed esaltati. Ed io, amici, se non temessi di pas¬  sare per ubriaco sino alle midolla, vi direi, e giurerei,  che sorta d’effetti ho risentito dallo parole di costui e  ne, risento tuttora. Giacche a me, quando le odo, ben  più che agl’invasati d’un fluoro coribantico (1), il cuore  ini balza nel petto e mi sgorgali le lagrime ai discorsi  di costui; e anche a moltissimi altri vedo che capita lo  stesso. A udir Pericle e altri oratori di grido dicevo tra  me e me: parlano benissimo; ma non risentivo nulla di  simile, nè la mia anima era messa a soqquadro, nè mi  attristavo di menare una vita da schiavo. Ma sotto i  discorsi di questo Marsia ch’è qui, ho provato spesso  l’impressione che non valesse la pena di vivere, vivendo 216  come vivo. E questo, Socrate, non dirai che non sia  vero. E anche ora, non lo nego, ho coscienza che, a vo¬  lergli prestare orecchio, non potrei resistere, ma risentirei  gli°stessi effetti. Giacché egli mi obbliga a confessare che,  con tante delìcenze che ho, trascuro ancora me stesso  per occuparmi delle faccende degli Ateniesi. E por a  viva forza, come dallo Sirene-, tappandomi gli orecchi,  mi sottraggo, fuggendo, per non invecchiare seduto  accanto a costui. E soto davanti a quest uomo ho pro¬  vato quel sentimento, che nessuno sospetterebbe m me,  il sentimento della vergogna. Io, sì, ini vergogno soltanto  di costui. Perchè sento dentro di me di non potergli  contradiro, che non si debba fare quello a cui egli mi  esorta; ma poi, non appena m’allontano daini, ecco che  mi lascio vincere dalle lusinghe del favor popolare.    (1) I Gorlbntltl orano 1 sacerdoti della doa asiatica l’ibelu, elio o^si  'veneravano con nn colto orgiastico, nelle ani cerimonie erau presi da un  furore divino.        — 74 —    Sicché lo evito e lo fuggo; e ogni volta che lo vedo, mi  vergogno d’aver# dato ragione. E spesso vedrei volen¬  tieri ch’egli non è più tra gli uomini; eppure, se ciò avve¬  rse, son certo che me ne dorrei assai dippiù, sicché di  quest’uomo non so addirittura che farmi.   XXXIII._Dunque, dalle sonate di costui, di questo   satiro qui, e io e molti altri abbiamo provato questi  effetti. Ora statemi a sentire com’egli e simile, anche pei  altri versi, a quelli a cui lo paragonavo, e come e mera¬  viglioso il potere che possiede. Perche, siatene certi,  nessuno di voi lo conosce. Ma ve lo scoprirò io, dacché  mi ci son messo. Voi vedete che Socrate si strugge di  amore per i bei giovani, ed è sempre a loro dintorno,  e se ne mostra fuori di sé, e del resto ignora tutto e non  sa nulla. E non è da Sileno codesto? E come! Ma questa,  è l'apparenza, sotto cui s’è nascosto, come il Sileno scol¬  pito. Ma di dentro, aperto, indovinate voi, compagni  bevitori, di quanta temperanza è pieno? Sappiate che se  uno è bello, a lui non gliene importa nulla, ma lo disprezza,  quanto nessuno lo crederebbe; nè se è ricco, nè so ha  qualcuna di quelle dignità che costituiscono per la folla  il colmo della beatitudine. A tutti questi beni egli non  dà nessun valore, e nessuno a noi — ve lo dico io ■— e  passa tutta la vita a far dell’ironia e a scherzare alle  spalle degli altri. Ma quando fa sul serio ed è aperto,  non so se qualcuno ha visto i simulacri di dentro; ma io  li ho "visti una volta, e mi parvero così divini e aurei e  21? bellissimi e mirabili da dover fare senz’altro quel che  Socrate comanda. Infatti, credendolo preso davvero della  mia bellezza, stimai un guadagno e una fortuna mera¬  vigliosi che mi si offrisse il destro di far cosa grata a  Socrate e udire così tutto quello che egli sapeva, perchè  ero orgoglioso della mia bellezza, e in che modo! Con  questo in mente, mentre prima non ero solito di trovarmi  da solo a solo con lui, senza qualcuno che m’accompa¬  gnasse, d’allora in poi mandavo via il mio accompagna¬  tore e rimanevo solo con lui... giacché a voi devo dire  tutta la verità; ma voi state attenti, e se mentisco, tu,  Socrate, sbugiardami. — Dunque, amici, rimanevo con      —- 75 —    1ni solo a solo, e m’aspettavo eli egli mi tenesse subito  uel discorsi che un amante suol tenere con un amato  , rmattr’oeehi, e ne godevo. Eppure non avveniva nulla  m mesto: com’era solito, discorreva con me, e, trascorsa  tutta la giornata insieme, andava via. In seguito lo  invitai ad esercitarsi con me nella ginnastica e mi eserci¬  tavo con lui, illudendomi che così avrei raggiunto il mio  ‘ooo E infatti egli si esercitava e lottava con me, spesso  senz’alcun testimone. Ma che! non si faceva un passo.  Poiché nemmeno questa via spuntava, mi parve che con  nuest'uomo si dovesse venire ai ferri corti e non dargli  tregua dal momento che mi ci ero messo, ma vederci  chiaro in questa faccenda. Lo invitai così a cena con me,  tendendogli un tranello, proprio come un amante a un  amato. E sulle prime non volle neppure accettare; tut¬  tavia, in capo a qualche tempo, s’arrese. Quando venne  la prima volta, finita la cena, volle andarsene, e pei  allora, vergognandomi, lo lasciai Ubero. Ma un alti a y >  fatto il mio 'piano, poiché si finì di cenare, Scorsi con  lui sino' a notte inoltrata; e quando egli voleva andai  via, col pretesto che- fosse tardi, lo costrinsi a rimanere  Egli riposava nel letto dove aveva cenato, accanto a  mio, e nella stanza non dormiva nessun altro ah infuori  di noi. Ein qui il racconto è tale, che si può faie in p  senza d’ognuno-, ma di qui in avanti non im sentireste  parlare, se in primo luogo, come dice il proverbio il i ino  e senza fanciulli e con fanciulli, non fossi veri¬  tiero (1), e poi nascondervi un tratto cosi superbo di   Socrate, ora 'che son qui per farine  un’ingiustizia. Ma c’è'di più: io sento ancora 1 effetto eli  prova chi è morso da una vipera. Porche, dicono,  ì’ha sofferto non vuol parlare del proprioa  ai morsicati, come i soli che sappiano « smn chsposri a  compatire tutto quello che egli e giunto a fare e dire  sotto la, sferza del dolore. Sicché io, morso da tintura  più dolorosa e nel punto più doloroso ni cui si possa   (!) Da du^o luogo il provo.-t.io apparisco corno presente alla mente  il ’Aicibia.lo sotto lo ano formo, tra lo parecchie che so ne .-.coniano. .1.  oho £ ’ vi- e vorilA-, c olvo; xat *«ì8s C ™o   o fanciulli < sono > voritlorl ’.    218       esser morsi... ferito e morso nel cuore, e nell’anima, o  com’altro si voglia chiamare, dai discorsi filosofici che  son più cattivi d’una vipera, quando s’attaccano al¬  l’anima non ignobile d’un giovane, e gli fan dire e  fare qualsiasi cosa... E, del resto, in presenza d un Fedro,  d’un Agatone, d’un Erissimaco, d’un Pausania, d un  Aristodemo e d’un Aristofane... Socrate stesso a che- no¬  minarlo?... e txitti voi altri"? chè tutti siete posseduti dal  delirio e dal furore filosofico... e però tutti udrete, perchè  siete tutti in grado di compatire ciò ch’io feci allora e  vi dirò ora. Quanto a voi, servi, è se c’è altri pro¬  fano e rozzo, tiratevi delle porte ben grandi sui vostri  orecchi (1).   XXXIV. — Poiché, dunque, amici, fu spenta la lucerna  e i servi andarono a dormire, mi parve che non fosse il  caso di ricorrere a raggiri con lui, ma di spiattellargli  francamente quel che sentivo. E, scotendolo, gli chiesi:  Socrate, dormi?   No, non dormo, rispose.   Ebbene, sai che cosa ho risoluto?   E che cosa? mi chiese.   Tu sei, ritengo, il solo degno d’esser mio amante,  e vedo che esiti a farmene parola. Ora io la penso cosi:  credo che sia una grande stoltezza da parte mia non  compiacerti e in questo e in altro, se hai bisogno delle  mie sostanze o dei miei amici. Per me, quello che soprat¬  tutto mi preme è di divenire quanto migliore io possa;  e in ciò, credo, non potrei trovare un collaboratore più  valente di te. Sicché a non compiacere ad un nomo  come te mi vergognerei ben più agli occhi delle persone  di senno, che non a compiacerlo, agli occhi dei molti  e sciocchi. Egli mi stette a sentire, e poi con quella  sottile ironia, che gli è propria od abituale, mi rispose:  Parto Alcibiade, tu risichi realmente di non essere un  dappoco, se mai è vero ciò che dici di me, e se c’è in  me un potere, per il quale tu possa divenir migliore.  Tu avresti così scorto in me una bellezza irresistibile e    (1) La locuzione 6 tolta dal linguaggio del misteri.     — 77 —    ma molto superiore alla tua leggiadria. Cosicché,  11101 ’ scorgendola, tenti d’accomunarti con me e barat-  Mre beSa per bellezza, ti proponi di fare a mie spese  fca in (la ano tutt’altro che insignificante, anzi in lao„o   a-.o.!».™ 1. veri.» del teli» e  luisidi scambiare veramente ferro con oro (1). Ma, ~  beato- amico, rifletti meglio, se non t’inganni a partito  m conto mio. Bada: gli occhi della mente vanno di¬  ventando più acuti a misura che quelli del corpo per¬  dono del loro vigore, e tu sei ancora lontano da questo   momento. c iò, dissi: La mia idea è questa, e non   ho detto niente di diverso da quel che penso. Quanto  a te. considera quel che ti sembra il meglio nel tuo e nel   mio interesse. , ._   Ma sì, ben detto! rispose. Difatti non mancherà tempo  per ripensarci e fare quel che ci parrà meglio nell inte¬  resse di tutt’e due, così in questa, come in ogm altra   faC Orario, dopo d’aver detto e udito queste parole e  avergli tirato quelle frecciate, lo credetti ferito. E leva¬  tomi dal mio posto e senza più dargli tempo di dir nulla,  gli gettai addosso il mio mantello, proprio questo qui  — era anche allora d’inverno — e nn rannicchiai sotto  la mantellina logora di costui, e gettate le braccia al  collo di quest’uomo veramente divino e meraviglioso, me  ne stetti a giacere accanto a lui l’intera notte. E nem¬  meno in questo, Socrate, dirai che mentisco. Ebbene  nonostante che io avessi fatto tutto questo, egli si mos r  di tanto superiore e tenne così a vile e sprezzò tanto la  mia bellezza e la vilipese a tal punto — eppure io cre¬  devo che qualcosa valesse, o giudici, perche voi ora siete  mudici della superbia di Socrate... ebbene ve lo giuro  per tutti gli dei e per tutte le dee, dopo d’aver dormito  accanto a Socrate l’intera notte, mi levai, nò piu uè meno,  che come se avessi dormito con mio padre o con un mio  fratello maggiore.    (1) Allusione al cambio dello anni tra Glauoo e Diomede: et. II. VI  •231 sgR.       — 78 —    XXXV. — E dopo ciò, quale credete che fosse il mio  animo? Da un canto mi vedevo disprezzato, e dall'altro  ammiravo l'indole, la temperanza e la fortezza di costui,   10 che m’ero imbattuto iu un uomo tale, come non cre¬  devo mai di poter incontrare il simile per senno e per  forza d’animo. Cosicché non riuscivo nè ad adirarmi con  lui e rinunziare alla sua compagnia, nè a trovar la via  per attirarmelo. Ben.sapevo che al danaro egli era. da  ogni parte assai più invulnerabile che Aiace al ferro, e   11 solo mezzo, per cui credevo di poterlo prendere, m’era  sfuggito di mano. E così, a corto d’espedienti e asservito  da quest’uomo, come nessuno da nessun altro al mondo,  io gli giravo sempre dattorno.   Questi casi m'erano già seguiti, quando più tardi  facemmo insieme la campagna di Potidéa (1) ed eravamo  compagni di mensa. Ebbene, innanzi tutto, nelle fatiche  egli vinceva non solo me, ma anche tutti gli altri. Allorché,  220 in qualche luogo, come spesso capita in guerra, eravamo  costretti a patir la fame, gli altri, nel resistervi, appetto  a lui non valevano uno zero, mentre imi nei momenti  di scialo, era il solo che sapesse goderne, e senza esser  proclive al bere, quando v'era costretto, superava tutti,  e, cosa anche più sorprendente, non c’è nessuno che  abbia mai visto Socrate ubriaco. E di ciò penso che ne  avrete ben presto la prova. Quanto poi a sopportare il  freddo — e lassù i freddi sono terribili — faceva cose  inverosimili, e perfino a volte, mentre c’eran delle ge¬  late da non si dire, e tutti o non mettevano il naso  fuori o si coprivano fino alla cima dei capelli e calza¬  vano scarpe e «'avvolgevano le gambe in feltri e pel¬  licce, costui, con un tempaccio di quella sorta, se n'u¬  sciva coperto della sua, mantellina abituale, e scalzo  camminava sul ghiaccio meglio degli altri calzati, e i  soldati lo guardava]) di traverso, perchè pensavano che  egli li disprezzasse.    U) Politica, colonia di'Corinto nella penisola ili Pallone, erti, albata  tlegli Ateniesi. Ma noi 431 a. C., con l'aiuto dei Corinti o di Perdlccn re ili  Macedonia, si ribellò, e non fu ridotta all'obbedienza, se non dopo una cam-  . rogna o un assedio durati lino al 129 a. C.     - 79    XXXVI. _ E questi, non c’è che flire,    fatti.    Ma    quello -che poi fece e sostenne il fortissimo uomo (1)    ima volta, durante quella spedizione, mette conto  li-essere udito. Assorto in qualche pensiero stette in piedi  odo stesso posto a meditare sin dalle prime ore del  mattino, e poiché non ne veniva a capo, non si moveva,  ma rimaneva li fermo a meditare. Era già mezzodì, la  o-ente lo notava e diceva: rSocrate e li inchiodato a  Lunare da stamani per tempo. » Finalmente alcuni Ioni,  sopravvenuta la sera, dopo d'aver cenato — era d estate  — portaron fuori i loro pagliericci; e mentre si mette¬  vano a dormire al fresco, seguitavano a tenerlo d occino  per vedere, se ci fosse rimasto anche la notte. Ed egli  ci rimase fermo sino all’alba e allo spuntare del sole  poi fece la sua preghiera al sole e andò via.   Ora, se volete, nelle battaglie — perchè è giusto ren¬  dergli questo merito... quando avvenne quella battaglia,  in cui 1 generali dettero a me anche il premio del valore,  nessun altro mi trasse in salvo se non costui, clic non volle  abbandonarmi ferito, e salvò insieme e le mie armi e me  stesso. Ed io anche allora, Socrate, insistetti presso ì  generali, perchè il premio fosse attribuito a te, e in questo  non mi moverai rimprovero, nè dirai che mentisco, .a  poiché quelli, per riguardo alla mia condizione sociale,  volevano dare a me il premio, tu eri anche piu insistenti  dei generali, perchè l’avessi piuttosto io che tu. E ancora,  amici, degno di ammirazione fu il contegno di Socrate,  quando l’esercito si ritirò in fuga da Delio (2). Io cero  tra’ cavalieri, lui tra gli opliti. Nello scompiglio generale  egli S i ritirava insieme con Lachete (3). Io sopraggiungo,  e come li vedo, li esorto a farsi animo, e di coloro che non    il) È un verso omerico leggermente modificato; cf. Od. IV 212.   (2) La battaglia <11 Dello in Beozia, dove gli Ateniesi lurono sconfitti  dai Tolmuì, accadde noi 121 a. C.   (3) Era un bravo gonorate ateniese, di poco più vaccino di Scorato.  olio mori In battaglia nel US a. C. Da lui prose nomo uno doi dialoghi pia-  tonici.      — So¬    li abbandonerò. E qui ammirai Socrate anche più che  a Potidea — giacché io stesso avevo meno paura, perchè  stavo a cavallo — in prima, di quanto egli fosse supe--  riore a Lachete per la padronanza di sè, e poi mi pareva  — mi servo delle tue parole, Aristofane — che egli cam¬  minasse lì come qui, con aria spavalda, gittando  gli occhi a destra e a sinistra (1), squadrando  calmo amici e nemici e mostrando chiaro a tutti, anche  di lontano, che se qualcuno lo avesse toccato, egli si  sarebbe difeso con la maggiore bravura. E così se n’an¬  dava via con gran sicurezza, egli e l’amico. Perchè quelli  che in guerra mostran questo contegno, quasi quasi non  li toccano neppure, ma danno addosso a chi scappa a  gambe levate.   ('erto, di Socrate ci sarebbero da lodare molti altri  lati, e non meno ammirevoli. Però d’altre qualità si può  forse dir lo stesso anche per altri, ma quel non essere  simile a nessun altro uomo, così tra gli antichi come tra’  presenti, questo è soprattutto ammirevole. Ad Achille,  per esempio, possiamo paragonar Bràsida (2) e qualche  altro, e Pericle a Nestore e ad Antenore (3) — e ce n’ò  parecchi — e così potremmo trovare dei confronti per  altri. Ma un uomo che sia stato per originalità come  costui, e lui e i suoi discorsi, nessuno non lo troverebbe  nemmeno a un dipresso, per quanto cercasse, nè tra i  presenti, nè tra gli antichi, a meno che non lo paragoni  a quelli che dicevo, a nessun uomo, ma ai Sileni e ai  Satiri, lui e i suoi discorsi.   XXXVII. — Giacché, a proposito, anche questo ho  dimenticato di dirvi da principio, che anche i suoi discorsi  sono in tutto simili ai Sileni che s’aprono. Infatti, se uno  volesse prestare orecchio ai discorsi di Socrate, gli par-    (1) Allusione al v. 362 delle ‘Nuvole’.   (2) Brasida, morto giovanissimo nel 422 a. C. in una famosa bat¬  taglia, nella quale inflisse uno terribile rotta affli Ateniesi presso Anflpoli,  colonia attica sullo Strimone in Tracia da lui tolta ai suoi fondatori, fu  uno dei più eroici e maffnanimi generali spartani.   (3) Antenore, eroe troiano, che ai distingueva per la sua prudenza,  come per prudenza c valore si distingueva Nestore tra’ Greci.     — 81 —    rebbero addirittura ridicoli a prima giunta; tali sono le  parole e le frasi di cui si rivestono, pelle di satiro burlone:  non discorre che d’asini da soma e di fabbri e di calzolai  e di conciapelli, e par che dica sempre le st-esse cose con  le stesse parole, sicché qualunque persona ignorante e  sciocca può ridere dei discorsi di lui. Ma chi per caso li 222  veda aperti e vi s’addentri, prima di tutto li troverà i soli  discorsi che entro di sé abbiano una mente, e poi divi¬  nissimi e pieni d’innumerevoli simulacri di virtù, ten¬  denti ad altissimi fini, o, per dir meglio, tendenti a tutto  quello a cui deve mirare chiunque voglia essere un uomo  veramente ammodo.   Questo, amici, è il mio elogio di Socrate. E d’altronde,  mescolandovi anche le accuse, v’ho detto in che egli mi  offese. Del resto egli non s’è condotto a questo modo  soltanto con me, ma e con Càrmide di Glaucone (1) e  con Eutidemo di Diocle (2) e con moltissimi altri, dei  quali si fingeva l’amante, e ne divenne piuttosto 1 amato.   E perciò appunto avverto anche te, Agatone, di noli  lasciarti abbindolare da. costui, ma, ammaestrato dai  nostri casi, sta’ in guardia e non imparare, secondo il  proverbio, come uno sciocco, a proprie spese (3).   XXXVIII. — Quando Alcibiade finì di discorrere  tutti, al dire d’Aristodemo, scoppiarono in una grande  risata per la franchezza di lui, chè si mostrava tuttora  innamorato di Socrate. E Socrate osservò: Alcibiade, tu  non sei, mi pare, niente affatto ubriaco, altrimenti non  avresti potuto, rigirando con tanta abilità il tuo discorso,  nasconder lo scopo di tutto quello che hai detto, e che  hai poi accennato di straforo -in fine di esso, quasi che  non avessi parlato unicamente per questo: pei metter    (1) Càrmide ora zio di Platone dal lato materno. Nel dialogo intito¬  lato da lui cl 6 dipinto corno bello dolio persona e d’animo aperto agli studi  filosofici. Aristocratico o partigiano doll’orìstocrazia, cadde nel. combat-  tlmonto ia seguito al quale fu rovesciato il governo del Trenta tiranni.   (2) Eutidemo di Diodo ora un giovano ammiratore di Socrato da non  confonderò col solista omonimo da cui s’intitola un dialogo platonico.   (3) Aeoonno ad un proverbio olio troviamo gu\ sotto varie forme in  Omero e in Esiodo.       — S2 —    male tra ine e Agatone, perchè ti sei fitto in mente che  io devo amare te e nessun altro, e Agatone dev essere  amato da te e da nessun altro. Ma ti sei tradito, e tutti  hanno visto a che mira codesto tuo (trama satiresco e  silenico. Senonchè, caro Agatone, procuriamo che egli  non se ue giovi punto, ma fa’ in modo che nessuno metta  male tra me e te.   E Agatone: Socrate, in fede mia, hai ben ragione, mi  pare. E lo argomento dal fatto ch’egli s’è venuto a sdraiare  in mezzo tra me e te per tenerci separati. Ma non ne  caverà nulla, anzi io verrò a sdraiarmi accanto a te.   Benissimo, rispose Socrate, vieni qui, alla mia destra.   O Zeus, disse Alcibiade, che mi tocca di soffrire da  quest’uomo! Vuol sempre e ad ogni costo sopraffarmi,  ila, se non altro, mirabile uomo, lascia che Agatone resti  almeno fra noi due.   Impossibile, riprese Socrate. Tu hai lodato me, io,  a mia volta, devo lodare chi mi sta a destra. Se Agatone  si sdraierà dopo di te, non dovrà egli lodare nuovamente  me piuttosto che esser lodato da me? Ma via, non insi-  223 stero, divino amico, e non invidiare a questo giovane  le lodi che voglio farne, perchè sono impaziente di tes¬  serne l’elogio.   Ahi! Ahi! Alcibiade, disse Agatone. Non c’è verso  che io resti qui; cambierò posto ad ogni modo per avere  le lodi di Socrate.   Ed eccoci alle solite! Dov’è Socrate, è impossibile  che un altro goda delle belle persone. Vedete ora che  pretesto opportuno e plausibile ha saputo trovare, perchè  Agatone vada a mettersi accanto a lui!   XXXIX. — A questo punto, dunque, Agatone si  levò per andare a sdraiarsi a lato a Socrate. Ma, ad un  tratto, ima numerosa brigata di nottambuli avvinazzati  giunse davanti alla porta-, e trovatala aperta, perchè  qualcuno era uscito, si cacciò nella sala e prese posto  a tavola. Allora il chiasso divenne incredibile, e tutti,  senz’alcuna regola, furon costretti a bere disperatamente.  Erissimaco, Fedro e qualche altro, diceva Aristodemo,  andarmi via; egli fu preso dal sonno, e rimase un gran     perché le notti eran lunghe, ne S1  tratto a do ’ . « oa nto dei galli. E destatosi,   *-*• " TJu .o „ se no er.no andnft  «de elio h U ‘ ^tofane e Socrate rimanevano au-  soltanto Agatone, AJq ^ ^ verg0 destra, da   coni desti , So ’ ora te discorreva con loro. Di che   una gran donassero, Aristofane non ricordava —   Costi > c qonneòchiare, e prima cadde addormen  cominciarci <■■ ,, minutar del °iorno, Agatone.   iiiiSBESii   naia e «Topo, siiinmbrunire, tornò a casa a riposare.   uno dei   " aeiia oitu ° 8oelto   più tardi da Aristotele a sede della sua scuola.          rz„thvohro. Apologià, Crito, Phneilo (K. Bonghi) . . .1,. 2 50  l Mn t O i »e- 0 ; 0 I ? n ^ P 0 hnni sulla vita d, Platone . . . . . . . > 0 I»   '£..fed5sicr-.tè » n   " il Fellone • • • ent ,; r ii, curante H. Ottino ......... 1 20   ® e “*^®ffTni CÌr ° ‘ An “ b “ i ‘ “ •" K,l ”. SI; . . > 2 40   Libri IV, V, ' 1 .> 0 75   Li ber > Al Jri rimedia), curante H. Ottino.> H —   _ Institut.o Cyrt^C P c 1 q uìi i h (prossima pubblio a zwnt).   - 11 Gerone, e cor» Colon0i ourlHÌt e E. De March. . ®   Sofocle* “Tt? ì>e Marchi).   1 S°Cchtnie?curante S. ..    Traduzioni di Autori Latini.   „ V Enitalamio per le nozze ili 'fetide c l'eleo. Carme 1.X1V.   Catullo 0. v Ri ‘moento e traduzione poetica di 1. Gironi ... L. 1 20   'lesto latino, c.i J _ p 008ie scc lte voltate in prosa italiana, cor-   Catullo, libali»^ Vtoerzo i Se00 „da edizione. . . .. > . o0   redato di noto da/-.. „ uorro gallica e civile volg.,nauti da   CM ‘ te c-Ugoni SS bmg;.aifchc e sferiche per cura di G. Pinzi   _ commentari sulla guerra gallica ... ■.>   _ Commentari “ u R“XTett£e piti 'comunemente studiate negli istituti __  “""“•Soi."Traduzione di VzfcUhcorredata   - '■ ^TnSi’eJ'rivcdut’a'mi cmeUita suil’ediz. Tei.tiiicriuna da T. Gironi ( _   Dei Doveri (gli Uiìzi) .*.> ‘2 —   La Vecchiezza e l’Amicizia .• • • • * * a- x g Pollini . • • > 1 “  Scinione. Testo eversione pe cu » . . . . > l 20    8 -  5 50  5 —    - Il «agito cU^o^iono T^to e g-   - L’orazione a difesa di T. A., a Capitani ; traduz. e noto di Z. Canni >   Cornelio N. - De vite degli eqooULnn C 1 t ^ ^ note storiche, lllolo-   Fedri). — Favole voltate in lingua la"™! .1 . s , edizione . . . • >   gicl.e, geografiche e mitologici e da Atm rm^ Q ^ . . . >   - Le favole nuovo recate in v( ;^ 1 (la o. L. Mabil:   Livio T. — La Storia romana, tradotta na .>   l,ibri I-H riveduti da T. Gironi. .>   Libri XXl-XXIl id. . - • ’    l 20  1 —    da !.. Andreozzi. {In ristampa)- fji r0 „i. con note. >   1 Fasti; volgarizzamento poetico d. i. . .   Libri 1. II, Ut    £ UMli; . « , . • • >   Libri iv^V 1 ^ 1 vi • • • .• • ‘ tro ; nionotu. 'lesto latino e traduzione   to^A.-Trin»mmu8V\T* , ; • ‘.V sia,«nini *. >    4 -  4 50  4 50  l 80    2 20  2 20     "«uiBnao scoile; ioni»» w   Tibullo. Catullo e Properaio. a 0 . /   Vrtw.5-C? , S? , !h SSutS"., 1 . K«1J«   * «* Le imprese di AU-h-u» 1 poetico d. f. Girci,. e >   viratila p m 1,11 Buoolieu ; '•o'K,n,fAf“"' i r s ., lix | 0 n>- * .   .1 ; fllnlnma 0 dhltterpi ih    rtó di' opere e ani   Lm-iiif. (tradotta da Caro) coti not' • n ftr bone  gariz/iuneuti di Virgilio, u cura «li * .    voi-    l 20  6                       G. B PARAVIA & C.     Traduzioni di Autori Greci    Aaaertonle ed Anacreontiche. — Traduzione letterale con riguardo alla co-*   struzione-o brevi note per 01. Aurenghi: Edizióne espurgata . . L. 0.80  Demostene — Le tro Orazioni contro Filippo; traduzione letterale con ri- J._  guardo alla costruzione o note per Ol. Aurenghi . . . . . . > l 50   — Lo Olinticho; traduzione letterale italiana con riguardo alla costruzione   o note per 01. Auronghi.. . > 1 50   Kschllo. — Le Eumenidi, dramma. Traduzione letterale con riguardo   alla costruzione 0 uote di 01. Aurenghi.> 1 60   Esiodo. — Le opere e i giorni. Traduzione di C. Mazzoni ( jìroasima pub¬  blicazione).   filala. — Eo Orazioni contro Eratostene c contro Agorato; traduzione lct-   teralo con riguardo alla costruzione e note poi 01. Aurenghi . . > 1 50   _ j j0 Orazioni (XXIV e XXV): per un cittadino uccusuto di moueoligar-   chiche — Fer un invalido; traduzione letterale, coti riguardo alla co¬  struzione, e note di Ul. Aurenghi.0 90   Omero. — Canto VI dellTliado; colloquio di Ettore e di Andromaca. Tradu¬  zione letterale e noto per 01. Aurenghi.> 0 60   Iliade; canto I, La peste - L’ira. Trad. letterale e noto per 01. Auronghi > 0 60   — Odissea ; canto I, Concilio degli Dei - Esortazione di Atena a Telemaco.   Traduzione letterale e note per Ol. Auronghi . . 0 60   — L’Odissea tradotta da Pimientonte, con note di X. Festa.> 8 —   Platone». — I dialoghi. Nuovo volgarizz. di GL Me ini, con argoiuonti e note:    Il Olitone, ossia dello azioni l in ristampo,).   L’Eutitxom*, ossia del Santo.> 0 75   Apologia di Socrate.> 1 50   Il Fedone, OEsìa della immortalità dell’amiPft.> 3 50    Il r elione. Ubala uuiiu mimui imiia ucii ... . «   — Il Critone; traduzione letterale italiana con riguurdo alla costruzione    o noto per DI. Auronghi.> 0 75   — Apologia di Socrate; traduzione letterale, italiana con riguardo alla co¬   struzione e noto per 01. Aurenghi.v ...... » S —   r~ Il Fedro, Traduzione di E. Martini..> 5 50   — Il Convito. Traduzione di B. Martini .> b 50   Senofonte. — Anabasi 0 spedizione di Ciro, traduzione di F. Aaibrosoli > 3 —   ^ a    > 3 25   > 1 —  > l 60     Mollnori Mi —; Brani scelti di poemi omerici è dólPErieide nelle migliori   iitO/lllTt/ln! I Kt I ■ r. i\ 1-1 »    biuuufiiuin immilli! .. 1 Oi*j   “* Crestomazia degli autori grooi e latini nelle migliori traduz. italiane . > lo —;   Botiertl'G, —■ La eloquenza greca. Voi. I.>4 60   Vita ili Pericle — Epitomo, nigonmuto © noto Vita di Usila — Apologia  prr l uccisione di Eratostonn, argomento e noto — Orazione contro Erntostono,  argomento © noto *— Orazioni» contro AvÀrnth nmninanfi. 1» nnit> — vii» ft’Tsn,     ■AUMENTO    Prezzo L. 5,50  Carlo Alberto Diano. Carlo Diano. Diano. Keywords: errante dalla ragione, emendato, il segno della forma, il simposio ovvero dell’amore, Mario l’epicureo – homosocialite – forma, segno, convite, Orazio, Virgilio, filosofia roma antica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Diano” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51690429192/in/photolist-2mS1rKF-2mQi1gy-2mPXDFp-2mPNfYo-2mPKHfm-2mNsjFh-2mLJPUG-2mLMaMX-2mPxhsE-2mKGXJq-AKm2wa-BxbiQ5-iaPo9Z-BfCsgw-iaPpsv-iaP9LN

 

Grice e Dionigi – intorno al Cratilo – filosofia italiana – Luigi Speranza (Barletta). Filosofo. Grice: “I like Dionigi; for one, he wrote on Cratylo, which I love!” – Grice: “In Plato’s Cratylo there’s possibly all the vocabulary you need to understand Peirce! As if Plato foreshadows C. W. Morris!” -- “Postmodern Italians like Donigi, and they created a cocktail in his honour! His philosophising on Socrates philosophising with Cratilo on semeiosis proves Whiteheads’s dictum that all pragmatics is footnotes to Grice, and all Grice is footnotes to Plato!” Si laurea a Barletta. Il suo primo saggio, sotto Althuser, Bachelard. La "filosofia" come ostacolo epistemologico. Insegna Bologna. Centrale, nella sua riflessione, e Nietzsche (Il doppio cervello di Nietzsche), analizzato sia in chiave ermeneutica che logico-filosofica. Anche Bataille e un lucido bilancio di Marx ("L'uomo e l'architetto”). Il processo di ripensamento della sinistra italiana lo vide di nuovo impegnarsi in prima persona. Si accostò poi alla filosofia analitica e alla svolta "linguistica", vista come approfondimento della critica della metafisica. Le saggi si concentrano sull'ermeneutica ("Nichilismo ermeneutico”), sulla semiotica, segnatura, semantica antica (Nomi Forme Cose. Intorno il “Cratilo” di Platone) e soprattutto sul pensiero di Wittgenstein (Definite descriptions – descrivere -- La fatica di descrivere. Itinerario di Wittgenstein nel linguaggio della filosofia), del quale condivideva pienamente l'esigenza di ripensare il linguaggio (segnatura) come la "cosa stessa" della filosofia.  “Cocktail Dionigi” e un documentario contenente testimonianze di alcuni dei maggiori pensatori italiani su Dionigi, tra i quali Berardi, Bonaga, Picardi, Eco, Cacciari, Marramao.  Altre opere: Bachelard. La "filosofia" come ostacolo epistemologico, Il doppio cervello di Nietzsche, Bologna, Cappelli Editore, Nomi Forme Cose. Intorno al Cratilo di Platone, La fatica di descrivere. Itinerario di Wittgenstein nel linguaggio della filosofia: “Un filosofo tra Platone e il bar” – cf. Speranza, “Grice: un filosofo tra Aristotele e il pub”.  su ricerca.repubblica, Cocktail Dionigi.  The development of Plato’s “Cratilo”. Commentaries on the Cratilo nella filosofia romana antica. Cicerone e il Cratilo. Κρατύλος -- Sulla correttezza -- dei nomi. Personaggi: Socrate, Cratilo, Ermogene. Il Cratilo è un dialogo di Platone. In esso è trattato il problema del linguaggio, o meglio, della “correttezza” -- dei nomi o espressioni. Protagonisti del dialogo sono Socrate, Ermogene e Cratilo.  La maggior parte dei filosofi concorda sul fatto che venne scritto principalmente durante il cosiddetto periodo di mezzo di Platone. Incontro tra Socrate, Ermogene e Cratilo. Formulazione del problema e delle due tesi sulla ‘correttezza’ – corretto – lo corretto – di una espressione o nome. Socrate incontra Ermogene e Cratilo, che stanno discutendo attorno al problema del ‘corretto’di una espressione e viene messo a parte da Ermogene delle teorie di cui sono sostenitori. Cratilo afferma infatti che una espressione e “per natura” – physei -- ossia rispecchia realmente il reale; Ermogene crede invece che l’espressione e non naturale, ma arbitrario (lo naturale, physikos; l’arbitrario – thetikos --. deciso dall’uso e dalla convenzione.  Confutazione della tesi di Ermogene: Una espressione racchiude in sé qualcosa della cosa (il reale) a cui si riferisce. Socrate comincia a confutare la tesi di Ermogene, mostrando che una espressione non e solo convenzioni, ma anzi rappresentano un qualcosa della cosa o del reale a cui si riferiscono; contiene cioè una qualche caratteristica che la rende perfetta nell'adattarsi alla cosa descritta. Lo dimostra il fatto che esistono un discorso vero e un discorso falso. Poiché l’espressione (A, B) è parte del discorso (A e B, S e P), è evidente che l’espressione utilizzata nel discorso vero deve essere ‘corretta’. Quella usata nel discorso falso non lo e. Colui che ha deciso l’espressione, il legislatore, uomo sapiente (the master) ha infatti rivolto la sua attenzione all' ‘idea’ o concetto (implicatum) dell’espressione, adattandolo poi a questa o quella necessità descrittiva, adoperando sillabe e lettere differenti. Il legislatore crea una espressione solo corretta, basandosi proprio sulla natura della cosa, del reale.  Ha qui inizio una sezione etimologica. Vengono presi in considerazione l’espressione di dèi come “Tantalo” e “Giove” e viene parallelamente sviluppato un eguale ragionamento sull’espressione delle qualità dell'uomo, come l' “anima” o il “corpo”. In seguito si passa ad analizzare il ‘corretto” dell’espresione degli astri, dei fenomeni naturali. Il ragionamento si dilunga sulle qualità morali dell'uomo. Il corretto di una espressione si misura in base al corretto degli elementi che lo compongono, le fonemi Dopo questa disquisizione Socrate spiega ad Ermogene che l’espressione fino ad adesso analizzato e una espressione composta (complexus). Questa  caratteristica di essere un compost (complexus) la rende suscettibili di un'ulteriore indagine: quella degli elementi che lo compongono, come le fonemi. Le fonemi, o, più in generale, l’elemento morfo-sintattico che forma l’espressione (“Fido is hairy-coated”, Fido was hairy coated, Fido and Rex ARE hairy coated – l’espressione, deve infatti riprodurre l'essenza della cosa, del reale, giacché è al reale che si riferisce. Inizia qui l'analisi di alcune fonemi come rho e lambda. Cratilo si oppone a questa tesi di Socrate. Sostiene che una espressione è sempre giusta, corretta, propria, vera, perché è della stessa natura delle cose che descrive. Una sbagliatura non è una espressione. Socrate comincia a confutare la tesi di Cratilo. Non è possibile infatti dire che l’espressione e il reale a cui si riferisce siano la stessa cosa. L’espressione “Fido is hairy coated” e il fatto che Fido is hairy coated e proprio hanno qualcosa in comune, così come un ritratto di Alcebiade racchiude qualcosa d’Alcebiade che reproduce. Tuttavia non sono due cose uguali. Se si ammette questo fatto (e Cratilo, seppur poco convinto, lo fa) bisogna allora ammettere anche che esistono sbagliatura e l’espressione corretta, vera, giusta. Del resto un ritrattista può nelle intenzioni riprodurre Alcebiade e poi essere dissimile. Cratilo contesta ancora a Socrate il problema della conoscenza tramite il linguaggio. Se l’uomo conosce e apprende il reale attraverso l’espressione, è evidente che non potrebbe esistere nessuna conoscenza se l’espressione non fosse corretta, vera, giusta, propira, cioè se l’espressione non fossero della stessa natura delle cose. Socrate sostiene allora che un legislatore, all’adopere una espressione, non è detto che avesse un'opinione giusta corretta vera del reale. Il legislatore infatti non poté apprendere attraverso l’espressione, perché ancora non era stata inventata (cf. muon). È possibile allora che abbia fatto dell’errore e ciò è dimostrato dal fatto che una espressione puo non essere corretta, giusta, vera – atomo, anima, ecc. Esiste un modo migliore per conoscere: non attraverso l’espressione, ma attraverso il reale; solo il reale puo non essere contraddetto, mentre l’espressione si presta a molteplici interpretazioni. La possibilità di una conoscenza (opinione vera e giustificata) e del corretto dell’espressione risiede nella stabilità del reale. Poiché la natura è stabile, e rimane sempre uguale, allora è possibile denominarla con precisione. Cratilo si mostra poco convinto e alla fine si allontana da Socrate insieme ad Ermogene. Ermogene simboleggia la concezione sofistica del linguaggio. Per il sofista, a partire dal italico Protagora, se “l'uomo è misura di tutte le cose”, ogni tipo di espressione si adatta a seconda delle condizioni poste dall'uso. L’espressione “Fido is hairy-coated” è puramente arbitraria – convenzionale. E possibile che non c'è nulla in comune tra una espressione ed il reale (traspassa la fase iconica). Tuttavia l'uso comune fra il mittente e il recettore ha permesso quest'accettazione (arbitraria da parte del mittente) e si reputa ‘corretto’ spiegare che Fido è ‘hairy-coated (shaggy)’. Tuttavia ugualmente bene andrebbe l’espressione "scoiattolo" o "cicala" giacché non sussiste nessuna somiglianza tra l’espressione (“shaggy”) e il reale (hairy-coatedness).  Cratilo simboleggia invece la concezione naturale (pre-iconica) della communicazione. Esiste un'assoluta identità tra espressione e espressum, explicatura ed explicatum, implicatura ed implicatum, profferenza e profferito. L’espressione è vera sempre, perché racchiude in sé la stessa natura che pervade il reale segnato per il segno che e primariamente iconico. Ogni espressione è un “indizio” (index, traccia, segnale) di conoscenza, di una conoscenza meravigliosa, divina, quasi sacrale. Il segno è giusto perché il primo legislatore a segnare il segnato fu come un dèo che, essendo perfetto, assegna un segno (fa un segno – significa) perfetti al segnato. Una sbagliatura non e un segno; Non tutto e un segno --.  Platone fonda la sua concezione della communicazione sull'ontologia. Per Platone è immediatamente evidente che esista un segnato al di fuori del segno; è il segnato stesso a cui il segno si riferisce. Bisogna infatti che esista un segnato perché esista una segnabilita. Senza questo segnato, senza quest'essenza, rimarrebbe inutile segnare, giacché non si dovrebbe indicare “nulla” con il segno, perché non ci sarebbe nulla da indicare. Platone allora comincia dal Cratilo ad elaborare una teoria dell’idea immutabile: di un'essenza stabile nella natura, che rimanga uguale ed inalterata nel tempo e che renda valida la segnabilità. Più volte Platone fa riferimento alla figura del legislatore e a quella del dialettico. La figura del legislatore è la figura di colui che adopera il segno per riferirsi al segnato. Si utilizza il termine legislatore in senso molto ampio, intendendolo sia come uomo sia come divinità, secondo la concezione naturalistica di Cratilo. Tuttavia si è visto come Socrate alla fine dubiti della infallibilità del legislatore, poiché egli ha assegnato anche un segno errato. La figura del dialettico rappresenta invece la nuova concezione del linguaggio elaborata da Socrate. Secondo Cratilo non esiste altra conoscenza al di fuori del segno. Platone invece è convinto che la vera conoscenza sia al di là del segno, nell'essenza stessa del segnato. Se il legislatore è colui che crea il segno sulla sua opinione riferendosi alla natura del segnato, il dialettico conosce il segnato e in maniera approfondita e, di conseguenza, sa quale segno attribuire al segnato (H2O). Tale segno (H20) sarà per forza corretto. Genette, nell'opera Mimologie. Viaggio in Cratilia, parte dal discorso di Platone per argomentare l'idea di arbitrarietà del segno. Secondo questa tesi, sostenuta da Grice con il suo “Deutero-Esperanto” e il nuovo “High-Way Code”, il collegamento tra il segno e il segnato non ha necessita di essere naturale (“A segna che p” no implica “p”). Le idee sviluppate nel Cratilo, benché datate, storicamente sono state un importante punto di riferimento nello sviluppo della prammatica. Sulla base del Cratilo Licata ha ricostruito, nel saggio Teoria platonica del linguaggio. Prospettive sul concetto di verità (Il Melangolo), la concezione platonica della semantica, in base alla quale il segno avrebbero un legame naturale, una fondatezza essenziale, col loro segnatum.  Sedley, Plato's Cratylus, Cambridge. Bibliografia ̈ Ademollo, ‘The Cratylus of Plato. A Commentary’, Cambridge.. Gaetano Licata, Teoria platonica del linguaggio. Prospettive sul concetto di verità, Genova: Il Melangolo, Luigi Speranza, “Platone e il problema del linguaggio” seminario. Lettura e commentario di testi di filosofia antica. testo completo in italiano e lingua greco antico. Traduzione integrale del Cratilo su filosofico.net, su intratext.com. Il testo greco presso il Perseus Project, su perseus.tufts.edu. Sedley, Plato's Cratylus, in Zalta (a cura di), Stanford Encyclopedia of Philosophy, Center for the Study of Language and Information (CSLI), Università di Stanford. Bibliografia su Cratilo. Dialoghi di Platone I tetralogia Eutifrone Apologia di Socrate · Critone · FedonePlato-raphael.jpg II tetralogiaCratilo · Teeteto · Sofista · Politico III tetralogia Parmenide Filebo Simposio (o Convivio) Fedro IV tetralogia Alcibiade primo · Alcibiade secondo Ipparco Amanti V tetralogiaTeage · Carmide · Lachete · Liside VI tetralogia Eutidemo Protagora Gorgia Menone VII tetralogia Ippia maggiore Ippia minore Ione Menesseno VIII tetralogia Clitofonte La Repubblica Timeo Crizia IX tetralogia Minosse · Leggi · Epinomide · Lettere Opere spurie Definizioni Sulla giustizia Sulla virtù Demodoco Sisifo Erissia Assioco AlcioneEpigrammi. Linguistica Categorie: Opere letterarie in greco antico Dialoghi platonici Opere letterarie del IV secolo a.C.  CRÀTYLVS PLATONIS, VEL DE RECTA NOMINVM RATIONE: TRANSLATVS Ficino Florentino, ad Petrum Medicem uirum clariſſimum. A MARSILIO ec HERMOGENES. CRATYLVS, SOCRATES. Is igitur sermonem nostrū et cum hoc Socrate conferamus: CRAT. Vo: Io equidem, si tibi uidetur. HER. Cratylus hic ô Socrates, rebus singulis ait natura inesse rectam nominis rationem, neqid esse nomen, quod quidã ex constitutione vocant, dum vocis suæ particulam quandā pronunciat, sed rectam rationem aliquam nominū & græcis et barbaris eandé omnibus innatam. Percontor itags ipsum, num revera Cratylus sit eius nomen. Ipfe fatetur. Socrati vero quod nomen, inquam:Socratesait.Nónne cæteris omnibus,inquã,id eft nomen quo quenquocamus.Illenõ tibi tamen ait Hermogenes nomen eſt,nec etiã ſi omnes homines teita uocarint. Dumýobfecro ut ſciſcitanti mihi quidnamdicat aperiat, nihil prorſus declarat, sed me ludens, simulatſeſe aliquid uerſareanimo,quali nõnihil hac de re intelligat,quod li uellet exprimere,cogeret meidipfumfateri,eadēý dicere quæ ipſe dicit. Quamobrem libenter ex te audirem, siqua ratione Cratyli uaticiniâ potes conījce se.libentius tamen fencentiam tuam denominum rectitudine,fiquidem tibiplacet,audi rem.soc.Hipponici fili Hermogenes,ueteriprouerbio fertur. Pulchra eſſe cognitü Prouerbia e difficilia.Atquiilla nominū notitia haud parua res eft.Equidem ſi ex Prodico illa quin quaginta drachmarum demonſtrationě iam olim audiffem, in cuius traditione etiã hæc inerant,ut ipſeteſtatur, nihil prohiberet quin tu ſtatim nominū rectitudiné intelligeres. cam porrò nun audiui, fed illamdrachmæunius duntaxat. Quare quid in his uerû ſit, neſcio,inueftigare autem tecum ſimul &cum Cratylo paratus ſum.Quodautem dicit ti bi noneſſe reuera nomen Hermogenes,quod à lucro dicitur, mordetteputo quaſi pecu niarum auidus ſis, & impos uoti. Verum,ut modo dicebam, diſficilia hæc cognicu ſunt. Oportet autem rationes utring in medium adducendo perquirere,utrum ita sit ut dicis ipse, an potius ut Cratylus ait. HER.Enimuero ô Socrates,licet frequenter cum hoc cær terisc permultis iam diſputauerim,nondum tamen perſuaderimihi poteft aliã eſſe no minisrectitudinem, conuentionemipfam conſenlionemě.Mihi quidē uidetur quod cungnomen quis cuig imponit,id eſſerectů.Acſi rurſus comutat,aliudó imponit, ni hilominus o primum, quod illi ſuccedit nomen rectấexiſtere, quemadmodüſeruis no mina cómutare solemus: nulli quippe rei natura nomē ineſſe,fed lege &uſu illorum qui fic uocare conſueuerunt.Quod quidem ſi aliter ſe habet,paratus ſum non à Cratylo tan tum,uerumetiã àquouis alio diſcere ac audire.soc.Forte'aliquid dicis Hermogenes: Conſideremusitap.quodcũq imponit quis cuinomen uocato, id illi nomen effe af feris:HER.Mihi ſane'ita uidetur. Soc.Et ſiue priuatus uocet, ſiue civitas. HER. Affero. soc. Quid vero si ipſerem aliqua vocem, veluti fi quem nunc hominem vocamus, ego “equum” nominē, quem'ue equum, hominē: publice quidem erit eidē homo nomen, pricatim “equus”, &priuatim rurſus homo, publice “equus”. Ita loqueris: HER.Ita uider.soc. Diciterum num aliquid nuncupes vera loqui, aliquid loquifalſa.HER. Equidem. Soc. Nónne illa quidem uera erit orario,hæcaūtoratio falſa: HER.Ita prorſus. So c.Illa uero Quæ oratio oratio quæ existentia dicit ut exiſtűt, vera est,quæ ut no exiſtűt, falsa: HER.Certe. soc. uera, quæ Est autem hoc,oratione,ea quæ ſunt, & quæ non ſunt,dicere?HER.Idipfum.soc. Ora- falfa cio quæ uera eſt,utrum tota quidem eft uera,partes non uerærher.Imò&partes ueræ. soc. Vtrữ partes magnæ ueræ,exiguæ uero particulæ fallæ,an ueræ ſunt omnes. HER. Omnes arbitror.soc.Habes orationispartem aliquã minorēnominer HER.Nequaç, Orationis hęceſ pars minima.so c.Etnomen quidē hoc pars orationis ueræ.H ER.Proculdubio. pars minio soc.Pars utiq uera,utais ipſe.HER.Vera.soc.Pars autem falfa.HER.Aio. soc. Licet ma eſt nos ergonomen uerű, & nomen falſum dicere, fiquidē & orationem.HER. Quid prohibet, men soc. Quod quis cuiq nomen esse ait,id & cuiq; nomen eft? HER. Idipſum. soc. An etiam quotcungquis nomina cuique tribuit,totidem erunt:ac etiam quandocuno tri buit HERM. Haud equidem habeo Socrates, aliquam præter hanc nominis rectitudinem am rerum ipſas effe dinens,utuidelicetliceatmihi quidē alio rem uocare quodipfe impoſuinomine,tibiay tem alio quod tuimpoſuifti. Ita equidem in ciuitatibus uideo eorundem ppria quædam haberinomina, & Græcis ad alios Græcos,& Græcis ad Barbaros. soc. Animaduerta. musHermogenes,utrum resipilaita se habere tibiuideantur, utpropria rerum apudu Sententia numquenq effentia fit, quemadmodum Protagoras tradidit: rerum omnium dicens ho Protagoræ minem effemenſuram, ita ut qualiamihiquæq uidentur,talia & mihiſint: item qualiad circa eflenti big& tibi talia. An potius quædam eſſe putes, quæ effentiæ ſuæ quandã habeant firmita rém.HER.QuandogóSocrates,dubitansad hæc deductusfum, quæ tradit Protagoras. Ita tamen effe haud fatis mihi perſuadeo.soc. Nunquid & ad hoc aliquando es dedu ctus, ut tibinequaquam uideretur aliquem eſſe hominem omnino malum: her. Non per louem.imò fæpenumero ita fum affectus,utexiſtimarem hominesnonnullosomni nomalos effe, & quidem plurimos.soc. Prorſus autem boninulliadhuc cibi ufi funt HER. Admodum pauci. soc. Viſi ergo ſunt aliqui.HER. Aliqui.soc. Quaratione hociudicaschac ne omnino quidem bonos eſſe,omnino prudêtes: prorſus vero prauos imprudentes omnino: HER.Mihi fane'ita uidetur.soc. Si Protagoras uera dixit, eſto hæcipfa ueritas,ut qualia quæą cuiq uidentur,talia ſint fieri'ne poteft,ut alij hominum prudentes ſint,imprudentes alí:HER.Nequaquam.soc.Atqui hæc, ut arbitror,tibi omnino uidentur,cum uidelicet prudentia quædam & imprudentia fic,Protagorā baud omnino uera loquipoffe.Neqenim alter altero reuera prudētiorerit,fi quæcuiquiden Sententia tur,cui uera erunt.HER.Ita eft.Atneqz Euthydemoaffentiris, utarbitror,dicenti om Euthydemi, nia omnibus eſſe ſimiliter ac ſemper.Nec enim ali boni,alí mali effent,fiſemper & æ nibuselle û que omnibus & uirtus ineffet & prauitas. HER. Vera loqueris. soc. Ergo fineqom. militer, ac nia omnibus inſunt ſemper ato ſimiliter,ne cuiq proprium unumquodq, cõſtat res femper quæ effentiam quandam firmam in fe habent,ne® quo ad nosneæ ànobis per imaginationem ſurſum deorfumą diſtractæ, fed fecundum feipras quoad ipfarum elfen tiam utnatura inftitutæ ſunt permanentes.HER. Idem mihi quoq uidetur Ô Socrates. soc.Vtrum res ipfæ ita natura conſiſtunt,actiones autem illarum non ita,ſed aliter: an & actiones ipfæ fimiliter quædam rerum fpecies ſunt:HER.Et ipfæ omnino. soc. Er go actiones ipfæ fecundum naturam ſuam,non ſecundum opinionem noftram fiunt. Quemadmodum finosrem quampiam diuidere ftatuamus,utrum ſic diuidēdares quæ que eft,utnos uolumus, & quo uolumus: an potius ſi unumquodqs diuidamus ſecun dum naturam qua diuidere & diuidioportet, item eo quo ſecundum naturam diuiſio fieri debet,diuidemus utiqrecte, & aliquid proficiemus,ac recte iftud agemus: Sinau tem præternaturam,aberrabimus,nihilg proficiemus? HER. Mihi quidem ita uidetur. soc.Atqueetiam ſicomburere aliquid aggrediamur,non fecundum omnem opinio nem comburereoporter,fed fecundum opinionem rectam. hæc autem eſt qua ratione naturaliter quode comburi debet atæ comburere,& quo debet. HER. Vera hæcfunt. soc.Nónne eadem decæteris ratio: HER. Eadem.Soc. Annon & dicere una quæ dam operationữeſt: HER.Eft plane.soc.Vtrum rectedicet, qui ut ſibi dicendum ui detur, ita dicitran potius qui ita dicit,utipſa rerum natura dicere diciç requiritiet fi quo natura exigit,eo & dicat,aliquid dicendo proficiet:ſin aliter,aberrabic:nihilós efficier. HER.Ita equidem utais,exiſtimo.soc.An non dicendipars quædam est nominare: & quinominant, loquuntur quodamodo? HER.Omnino.soc. Etnominareactio quæ dam eft: quandoquidem & dicereactio quædam circa res eft. HER. Prorſus. soc.A. Ationes autem nobis apparuerunthaud ad nos reſpicere,fed propriam quandam ſui ha bere naturam. Her. Est ita.so c.Nominandű itaq; ea ratione qua rerum ipſarum natu. ra nominareacnominaripoftulat,& quopoftulat,nõ autem pro noftræ uoluntatis arbi trio,liftandum eſt in his quæ dicta ſunt. HER. Sic eſt.s o c.Ato ita aliquid peragemus, nominabimusý,aliter uero nequaquam. HER. Apparet. soc. Quod incidendum eſt, aliquo incidendű.HER. Aliquo.soc. Etquod texendữ, aliquo certe texendű, quodue perforandum,aliquo perforandū.HER.Plane.so c.ltem quod nominandũ,aliquono minandum.HER.Sic oportet.soc. Quid illud,quo aliquid perforareoportet? HER. Terebrum.soc.Quid quo texere: HER. Radius pecteng. soc. Quid quo nomina. Reč HER.Nomen.soc.Beneloqueris,ideog inſtrumentum aliquod nomen eft.HERErt Eft.soc.Siquærerē quod inſtrumentū eſt radiuspectený,reſponderes quo teximus: HER.Non aliud.soc.Texentes uero quid facimus, an non fubtegmen & ſtamina con fuſa,radio diſcernimus. HER.Iſtuc ipſum.so c.Idem de terebro ac cęteris reſpondebis: HER. Idem.soc.Potes & circa nomen ſimiliter declarare, quid facimusdum nomine Nomen, res ipfo quod inſtrumentū eſt,aliquid nominamus. HER.Nequeo.so c.Nűquid docemus tias docen's inuicem aliquid,acres ut ſunt diſcernimus. HER.Nempe. soc. Nomen itaqrerű ſub di diſcernen Itantiasdocendidiſcernendig inſtrumentū eſt,ficutpecten & radius ipſe telę.HER.Sic diğinftru eft dicendű.soc.Radiusporrò textorių eſt inſtrumentū.HER. Quid nir'sOCR.Texcor mentum icaç radio ac pectinerecte uterur,recte,inquā,ſecundű texendirationē.Ille uero quido cet,nomine Pombaur, & recte,recte uidelicet ſecundű docendipropriâ rationē: HER. Cer te.soc. Cuius artificisoperebene Pombaurtextor,quando radio pectineś Pombaur: HER. Fabrilignari. soc.Quiſque'nelignarius faber,an potius quiartē habet? HER.Quiha. betartē.soc.Cuius item opere recte perforator Pombaur? HER.Aerarijfabri.soc. Num quiſqz eſt faberærariusè an potius quihabet artem: HER.Quiartē. soc. Ageergo,dic cuius opere ipſe doctorutatur,quotiesnomine uticur.HER.Neſcio.soc. Allignare & hocneſcis: quis nobis traditnomina quibus utimur.Her.Ignoro & hoc.soc. Nónne lex tibiuidet nobis nominaſtatuiſſe HER. Videtur. soc. Ergo legislatoris Pomba opere doctor,quádo nomineipfoPombaur.HER.Opinor.soc. Códitor legis quilibettibiæque uidetur,an quiarte eſtpræditus.HER.Arte præditus.soc. Quarenö cuiuſcunq uiri eſt Hermogenesnomen imponere,uerũ cuiuſdam nominữautoris. hic autem etiam, ut ui detur,nominữ inſtitutor, quirarioromniartifice interhominesreperit.HER.Apparet. Soc. Animaduerte obſecro, quô reſpiciens nominü inſtitutor,nomina rebus imponit: imòſuperiorű exempla dýjudica,quò reſpiciens faber radium pecteng cõficit.nonnead tale aliquid quodad texendum natura fit aptum: HER.Prorſus. soc. Siin ipſo operera dius hic frangatur, utrum alium iterű fabricabit ad fracti iſtius imaginēžan potius ad ſpe ciem ipfam reſpiciet, ad cuius exemplar radium qui fractus eſt,fecerat: HER. Adipſam ut arbitror, speciem.soc. Nónneſpeciem ipfam merito ipſius radij rationé,ipſum pra dium maximenominabimus: HER.Opinor.soc. Siquãdo oportet cõficiendæ ueſtite nuiuelcraſſiori lineęſiue laneę,ſiue cuiuis alteriradiữ apparare, radios singulosoportet ſpeciem radīj ipſius habere:qualis uero cuiqznaturaliter eſt accómodatiſſimus,talem ad opus peragendű,ut natura poftulat,adhibere.HER.Oportet ſané.soc.Eadem de cætè ris inſtrumétis eftratio.Nam quod natura cui & congruit; instrumentũadinueniendum eſt,atq id illiattribuendű,ex quo efficitno qualecunq uult quifabricat, ſed quale natu ra ipſa exigit. Terebrum nam cuiæ accommodatum ſcire oportetin ferro perficere. HER. Patet. soc. Radium quinetiam singulis competentem in ligno. Her. Vera hæc ſunt.soc.Quippeipfa rationenature alius radius telæ alteri competit, & in alijs eodem modo.HER. Sane. soc. Oportet quoguir optime, ucillenominum inftitutor nomen Quomố no natura rebus ſingulis aptű in uocibus & fyllabis exprimat, ad idý reſpiciés quod ipſum minabit qui nomen eſt, ſingula nomina fingat,atque attribuat, li reuera nominum autor eſt futurus. recte nomi Quod ſinonñſdem ſyllabis quiſq nominum conditornomen exprimit,animaduerten dum eſt, quod neq fabriomnesærarñ eodem in ferro id faciunt, quoties eiuſdem gratia idem fabricant inftrumentum. Verum quatenus eandem ideam attribuunt, licet in alio, & alio ferro,eatenus recte ſe habet inſtrumentum,ſiuehic,fiue apud Barbaros fabricēt. Nónne; HER.Maxime. soc.Nónne & eodem modo cenſebis,donec inſtitutor no minum quiapud nos eſt, & qui apud Barbaros, nominis speciem cuim cõpetentem tria buunt,in quibuslibet fyllabis nihilo deteriorem efle unű altero in nominibus imponena dis: HER. Equidem. SOCR. Quis cogniturus eſt utrum conueniens radij species cui cunqueligno fitimpreſſar num faber qui efficit: an textor uſurus. HER. Probabile eft ô Socrates,magis eữ quieſt uſurus, cognoſcere.soc. Quis lyræ fabricatoris opereuti tur:nonne ille qui fabricantem inſtruere poteft, & opus recte'ne an cótra factâ fit,iudia care: HER. Omnino.soc.Quis ergo: HER.Cithariſta.soc.Quis autem opere ſtructo. ris nauiữ. HER.Gubernator.soc.Quis item nominữ conditoris operioptime præſides, bit, & expletû dijudicabit & apud Græcos & apud Barbaros: Nónne & quiuteſ: HER. Is certe.so c.Annõ is eſt qui interrogare ſçitç HER. Iſte. $ 0 c.Idem quog reſpondere, HER nabic zi HER. Nempe. $ o c. Eum uero qui interrogare ſcit ato reſpondere,aliumuocas i diale Dialecticus nouit recte cticum: HER.Dialecticum profecto.socr. Fabri ita opuseſt temonem facere guber impofita no natore præcipiente,li bonus futuruseſt temo. HER. Apparet. soc. Nominum quoq au minarebus torisnomen, monentedialectico uiro, ſi modo recte ponenda ſunt nomina. HER. Vera ſint, necne hæc funt. Soc. Apparet ergo Hermogenes haud leue quiddam,utipfecenſes,nominis impoſitionem eſſe,neæ id effe imperitorum &quorumuis hominum opus.NempeCra tylus uėra loquitur,cum nomina dicit natura rebus competere,neg unum quemuis eſſa nominum autorem, sed illum duntaxat quiad nomen reſpicit, quod natura cuiq conue. nit, pofteag ſpeciem eâ literis ſyllabisq inſerere. Her. Neſcio Socrates qua ratione his quæ dixiſti,lit repugnandã:forte'uero non facile eſt ſubito fic perſuaderi. Videor autem mihi hâc in modumtibi potius aſſenſurus,fi oftenderis quam dicaseſſe natura rectano. minis rationem. soc. Equidem ô beate Hermogenes,adhucnullam dico, ferme'nama è memoria excidic quod dixerā suprà, meuidelicet hocignorare,uerum una tecum per quirere. Nunc aucem mihi &tibi limul inueftigantibus hoc duntaxat præter ſuperiora compertõeſt, rectitudinem aliquã natura nomen habere, nec quemlibetpoffenomen rebus accommodare.Nónne: her.Valde.soc.Conſiderandum reſtat, ſi noſſe deſide. ras, quænã ipſius ſit nominis rectitudo,id eftratio recta. Her. Deſidero equidem.soc. Animaduerte igitur. HER. Quauia inueſtigandâmones. soc. Rectissima estô amice, consideratio,ab his qui ſciūt hæc perquirere,oblatis pecunis, & gratöjs inſuper actis:hi uero ſophiſtæ ſunt, quibus frater tuus Callias multis erogatis pecunijs, ſapiês euafiffe ui detur.Poftquam uero in res paternas iusnon habes,reliquũ eſt fratrem ſupplex ores, ut te doceatnominârectitudinem quam à Protagora didicit. HER.Quàm abſurda hæcel Veritas no, ſet petitio Socrates, fi cum illam Protagoræ ueritatem nullomodo recipiã,ea quæ ex uc men ſcripci,ritate illa dicuntur,alicuius precí æſtimarē.soc.Acuero ſi tibi hæc non placent,ab Ho aut ironicũ mero cæterisý poetis est diſcendum. HER. Quid de nominibus, & ubi Homerus ô Socrates,tradic:so c.Paſimmulta, maximauero & pulcherrimaſuntilla,in quibus diftin guitcirca eadem quæ nomina homines, &quæ dö ipfi inducunt. Annoncenfes ipſum in his magnificum alíquid & mirandumde recta ratione nominữ tradere: Constat enim deos nominibus illis ad rectitudinem ipfam uti, quæ natura conſiſtunt. Annon putas: HER. Certe equidem fcio,fiqua dij uocant,recte eos admodum nominare. Verum quæ nam ista: Soc. An ignoras quod de Troiano flumine, quod ſingulari certamine ca Vul cano pugnauit, inquit: quod Xanthứdijuocant, uiriScamandrum.HER.Scio. SOCR. Annoncenſes magnificum quiddam cognitu eſſehoc,qua ratione rectius fit flumen il lud Xanthű, quam Scamandrâ nominare. Item fi uis, animaduerte &iftud, quod auem eandem dicit Chalcidem quidêa dřs, Cymindin uero ab hominibus nominari. Leuem cognitionem hanc putas,ut fciat quanto rectius fit eandem auem Chalcidem quam Cy mindin nuncupare, uel Batieam aros Myrinen, alias permulta &apud huncpoetam &apud alios talia: Verum iſtarữrerum inuentio acutius ingenium quam noſtrũ exigit. Scamandrius autē &Altyanax quid ſignificent,humano ingenio, utmihiuidetur, com prehendi,facile & percipi poteſt,quam rectitudinem eſſeHomerusuelit in his nomini bus quibus Hectoris filium nuncupat. Scis ea carmina quibusinfunt,quæ dico: HER. Omnino.soc. Vcrum iſtorum nominâ putasHomerum exiſtimaſſe conuenire magis puero, Aſtyanacta'ne,an Scamandriã: HER. Ignoro. soc. Sicautem conſidera:liquis te interrogaret, utrữ putes fapientiores rectius nomina rebus imponere, an minus ſapien. tes,reſponderes ucią ſapientiores.HER. Sic certe.soc.Vtrũmulieresin urbibus sapientiores eſſe tibi uidenč, an uiri: quantı ad genus attinet. HER. Viri.so c.Neſcisquod in quit Homerus, Hectoris filium a Troianis Altyanacta,a mulieribus Scamandriū nuncu patum: quandoquidem uiri illum Aſtynacta uocare conſueuerűt. Her. Videtur, soc. Nónne Homerus Troianos uiros fapientiores, quam mulieres eorũ exiſtimauit: HER. Arbitror equidem. SOCR. Aſtyanacta igiturrectius quàm Scamandrium nominatum - esse cenſuit, HER.Apparet.SOCR. Animaduertamusquam ipſe denominationishuius cauſam affert, Solus enim, inquit, ciuitatem ipſis cutatus eſt amplas mænia. Quapro prer decet, ut uidetur,protectoris filium nominare &svavaxta, id est regem urbis, urbis, inč,eius, quam pater ipſiusſeruauit;ut inquit Homerus. HER. Idem mihi quocuider: Soc.Quod aức hoc maxime;porrò &ipfe nondum fatisintelligo, ô Hermogenes. Tu vero percipis: HER. Nõ perlouem.soc.Arqui & Hectori ó boneuir,nomen ipfeHo meras impoſuit. HER. Quamobrem: soc.Quoniã mihi uidet id nomen Hector Aſtya sactieſſequamproximum: ferme'enim idemſignificant, putanta Græciutraq hæcno mina regiaeffe. Cuiuſcunæ enim quis avaş, id eſt rex extitit,eiufdem eft & fxTue,id eſt poſtelfor.Conftat enim dominari illi,pofliderecſ, & habere.An forte'nihil tibidicere ui deor meg fallit opinio, quaHomeriſcientiam circa nominum rectitudinem, ceu per ue ftigia quædam attingere cöfidebam: HER.Nullo modo, ut arbitror. forte enim nonni hil actingis. SocR.Decet,utmihiuidetur, leonis filiū leonem ſimiliter nominare, equi filium equum haud certe dico, liquid tanquammonſtrum exequo nafcatur aliud quid dam quám equus:fed cuius generis ſecundum naturam eſt quod naſcitur, hoc dico.Sies nim bouis fecundum naturam filius equũ gignit,non uitulus qui naſcit, ſed pullus equi nus eſt nuncupándus.Et fi equus præter naturam gignit úitulum,non pullus equinus di cendus eſt hic,fed uitulus. Neqetiam ſi ex homine alia proles quam humana producit, quodnaſciturhomo uocari debet.Idemg eſt dearboribus,dešcæteris omnib. iudican dum.Probas hæc: HER.Probo equidem.soc.Obſerua me nequid defraudem. Eadem quippe ratione,fiquis exrege naſcitur, rex eſt nominandus: in alíis uero & alíjs ſyllabis idemlignificari,nihil intereſt, neck referc ſiue addatur litera aliqua,ſiue etiã ſubtrahatur, donec eſſentia reiſignificatæ in ipſo nomine dominacur.HER. Qui iſtucais:'soc. Nihil mirum nouum'ue dico, uerű ita ut in elementis fieri cernis, ſcis enim quod elementora nomina dicimus,ipfa uero elementa nequaç, quacuor duntaxat exceptis.dicimus enim &utonów, o fixpou & whéya. Cæteris autem tam uocalibus quam non uocalibus alias addentes liceras,ut Båtte 4.7.c. nomina conſtituimus,atq;ita proferimus. Verum quo uſg elementi ipſius uim declarată inſerimus, conuenit nomen illud uocare ipſum quod nobis fignificet elementum, ut in Bizu apparet, ubi additis 8. 7.éc, nihil obftitit quin in tegro nomine natura elementiilliusoſtenderetur, cuiusnominum autor uoluit:uſquea deo ſcite literisnominadedit. Her. Vera mihi loqui uideris.soc.Nónne eadē derege ratio erit: Erit ex regerex, ex bonobonus, ex pulchro pulcher, &in cæteris omnibus fimiliter ex quolibet genere alterữ quiddam tale,niſi monſtrữ fiat, eademq dicendano: mina.Variare autem licet per fyllabas,ut uideantur homini rudi,quæ ſunteadem,eſſe di Gería. quemadmodữ pharmaca medicorũ coloribus &odoribusuariata ſæpe cã eadem fint,nobis diuerſa uidentur: Medico aūt uim pharmacorũ conſideranti eadem iudican tur,neß eum additamēta perturbant. Similiter forte qui eſt in nominibus eruditus, uim illorum conſiderat,neq; eius turbaſiudicium, liqua litera addita eſt, uel tranſmutata,uel dempta, uelin alijs literisac multis eadē uis nominisreperitur.Vteanomina quæ fuprà diximus, Altyanax &Hector, liceras omnino diuerſas,præter folum habent, idem ta menſignificant. Item quod &exémolis, id eſt,princeps ciuitatis dicitur, quam literarum communionẽ cum duobus ſuperioribushabet: Idem nihilominus infert. Multaq; ſunt alia, quæ nihil aliud quam regem ſignificant. Multa præterea ſunt, quæ exercitus du cem ſignificant,ut čys, worém cedoOMG,.Alia item quæ medicinæ profefforem declarant,ut ictportas, a xecik @ poro. Aliaó permulta reperiri poflunt,fyllabis & literis diſcordantia, ui autem fignificationis penitus conſonantia. Sic ne & ipſe putas, an alia ter: HER. Sic certe.SOCR. His profecto quæ fecundum naturam fiunt, eadem tribu enda ſuntnomina.HER. Omnino. SOCR. Quoties uero præter naturam hominesali quifiunt in quadam fpecie monftri, uelut quum ex bono pioq uiroimpius generatur, quigenitus eft,non genitoris nomen ſortiri debet, ſed eius in quo ipfe eft generis:quem admodum ſuprà diximus,ſi equusbouisprolem generet,non equum eiusfilium,fedbo uem denominandum.HER. Siceſt. Socr. Homini igitur impio ex pio genito, non pa rentis, sed generis nomen attribuendum. HER. Vera hæc ſunt.soc.Neque igitur6tocosia Agy, id eft Deiamicum, nex uygoitzoy, id eſt Dei memorem, uel talem aliquem huiuſmo diuocarefilium talem decet, Ted cótraria ſignificantibus nominibus appellare, ſi modo recte nomina inſtituta effe debent.HER. Sic prorſusagendum ô Socrates. soc. Profe dio Oreſtinomen recte,o Hermogenes,uidetur impoſitum, fiue aliqua ſors illi nomen dedit, liue poeta quidā, ferinam cius naturã agreſtē &moncanã nomine eo ſignificās. HER.Sic apparet,Socrates.soc. Viderur &patri eius ſecundum naturam nomen esse. HER. Apparet.soc. Apparet utiq talis efTe Agamemnon,utſibi laborandũcenſeat,to lerandumý, &in ijs quædecreuit,per uirtutem perfeuerandã.Argumentũuerotoleran tiæ ſuæ apud Troiam tanto cum exercitu perduratio prębuit. Quod igitur mirabilisper feuerantia uir hic fuerit, nomen ſignificai Agamemnon, quali ayasos 967 oli ümrovlu. Fortè uero & Atreusrecte eft nominatus.Nexenim Chryfippi, & crudelitas aduerſus Thyeſten,noxiữ perniciofumo illum demonſtrant.Vnde cognominatio parumperde clinat, & clam innuit,ut non quibuslibet naturam huius uiri declarent:his autem qui no minum periti ſunt, ſatis Atrei ſignificatio pater. Dicitur enim ſecundum erogès, afeger's atypów, quaſiindomitus, inexorabilis, noxius contumeliofusq fuerit. Videtur & Pelopi nomen haudab re tributum. Hominem quippe quæ prope ſunt uidentem,nomen iſtud congrue significat. HER. Cur illi id conuenit: socR. Quoniam in Myrtilicæde, utfer tur, prouiderenihil potuit, nec eminus pſpicere quãta toti generi ex hoc calamitas im mineret. Quæ enim antepedeserant, &ad præsentia tantum respiciebat, hoc autem eſt prope aſpicere: quod & fecit, cum Hippodamiæ coniugium omniconatu inire conten dit. Vnde Pelopinomenawines, id eft,prope,& ontos, quodad uiſionem pertinet. Tan talo quinetiam nomen natura ipſa uidetur impofitum, ſi uera ſunt quæ circunferuntur. HER. Quænam iſta: soc. Quoduiuentiadhuc illi aduería plurima &grauia contige runt,tandemý patria eius omnis fubuerſa eſt. Defuncto præterea faxum in caput immi. net, ſors certe duriffima. hæcprorſuscum nomine congruar, perinde ac fi quis nomina re THION to you,id eft, inteliciſſimű uoluiffet, fed paulo locutus obſcurius, pro Talancato Tantalum poſuifler. Taleutiæ nomen fortuna eius aduerſa ipſorumore gentium præ buiſſe uidetur. Quinetiam patri eius loui recte nomen eſt indicum,nec tamen facileco. gnitu.Eftenim uelut oratio quædam louis nomen, quod quidcm bifaijā partientes,par tim una,partim altera parte utimur. Quidamfive, quidamdia, uocani. Quæpartes in unumcópofitæ, naturam dei ipſius oftendűt, quodmaxiinedebernomen efhcere por ſe. Nulla enim nobis cæterisomnibus uiuendimagis cauſa eſt, quam princeps, rexo omniữ. Quapropter decens nomen eſt hic Deus fortitus, per quem uita íemper uiuent bus omnibus ineſt.Sectum autem in duo eft unum, ut diccbam,nomen,in diæ uidelicet ata awa. Hinc Saturnifilium cum quis audiat, forte inſolentem contumelioſumópu tarit. Verű probabile eft,magnæ cuiuſdam intelligentię piolem louem elle. Quod enin Hóp - dicitur,non puerum ſignificat,ſed puritatem mentisipfius, & fynceram integria tem. Est aurem is opavo, id eft, cæli filius,ut fertur. Quippeafpectus ad ſupera merijo z pane uocatur, quafi opacz zecvw. Vnde affirmant,o Hermogenes, 17 qui derebusiutli mibusagunt,puram mentem adeffe, & recevo, iure nomen impofitum.Siautem genealo giam deorum ab Hefiodo traditam mente tenerem, & quos horum progenitores indu. cic,recordarer,haudquaq ceſſarem oftendere tibérecte illis nomina infcripta fuiffe,quo ad huius fapicntie periculü facerem,liquid ipſa proficiat peragator, & an deficiatnecne, quæ mihi tam ſubito ignoro equidem unde nuper illuxit. HER. Profecto mitttiden som Ô Socrates iliareorum quinumine capitatur, protinus oracula fundere. soc. Reor equidem,ô Hermogenes,hanc in me ſapientiam ab Euclıyphrone Pantij filio emanalie. Illi fiquidem aſtiti a matutino affiduus,auresó porrexi. Patet igitur eum deo plenú non modo aures meas beata ſapientia impleuiſle, uerumetiam animum occupalle. Sic utico agendum arbitror, ut hodie quidem utamur ipfa, & reliqua quæ ad nomina pertinet, ini dagemus. Cras uero,fiin hoc conſenſerimus,excutiamuscam, expiemusý,aliquem par ſcrutati,ſiuefacerdotem, feu ſophiſtam qui purgare hæc ualeat. HER. Probo hæc maxi. me Socrates. libentiſſime nang quæ de nominibus reſtant, audirem. soc. Ira prorſus agendum. Vnde igitur potiffimum exordiendű iudicas,poftquam formulam quandam præfcripfimus,ut pernoſcamusſi etiã nomina nobis ipía teſtantur non caſu quodama. » ata fuiſſe,uerum rectitudinem aliquam continere:Nomina quidem heroum atq;homi / num nos forte deciperent. horum nang multa ſecundum cognomenta maiorum pofita) ſunt, & fæpe nequağ conueniüt, quemadmodã in principio diximus.Multa uero ex uo ') to homines nomina tribuunt,ut UtuXidmW, owciQ, Itópinoy, alia “ permulta.Talia itaq ) prætermittenda cenſeo.decens eñconſentaneumg maxime reperire nos quæ in rebus ſempio Lempiternis &naturæ ordine cõſtitutis recte ſunt poſita. Nam circa iſta in condendis no minibus ftuduiffe maxime decet.Forte'uero ipſorūnonnulla diuiniore quadam poten tač humanaſunt inſtituta. HER. Præclare mihi loqui uideris,ô Socrates. soc.Nonne pareſtabipfisdíjs incipere,rationemý inueſtigare qua bcos uocati ſunt: Her.Nempe, soc.Equidem ita conício.Videnturutiq mihi Græcorű priſci deos ſolos putaffe eos, quos etiam his temporibus Barbarorű plurimiarbitrantur, solem, luna, terrram, stellas, calum. Cum ergo hæc omnia perpetuo in cursu esse coſpicerent,ab hac natura moldatu få nominalle uidentur,deinde &alios animaduertêtes omneseodem nominenuncu pale.Habeoquod dico uerifimile aliquid, nec'ne HER. Habetcerte. soc. Quid poft hac inucftigandum: Conſtat de dæmonibus heroibusø &hominibus quærendum eſſe, HER. Dedæmonibusprimum. soc. Proculdubio Hermogenes.quidlibi uultdæmo. nun nomen animaduertenum aliquid dicam.HER.Dicmodo.soc.Scis'nequos Hes Liolus claipovas effe inquit, HER.Non.soc.Nec etiam, quod aureum genus hominum zitin principio extitiſſe? HER.Hoc equidem noui. Soc. Ait enim ex hocgenerepoſt przſentis uitæ fara fieri dæmones ſanctos,terreſtres,optimos,malorũ expullores,& cu licdes liominum.HCR. Quid cum: soc.Nempe arbitror uocare illum aureum genus; no ex auro conſtitutū, ſed bonum atos præclarum.quod inde conſcio, genus noftrum fereum eſſe dicit. HER. Vera narras. Soc. Annon putas ſiquis nunc ex noſtris bonus fc,aureihunc generis ab Heliodo æftimari? HER. Conſentaneum eſt.soc. Boni autem anj sprudentes: HER. Prudentes. $ o c.Idcirco,ut arbitror,eosdæmones præcipuenup cupat,quia fapiêtes d'ahuontsó erant.Et ex noſtraiſtud priſca lingua nomen exiſtit. Qua obrem &is, & cæteripoetæ permultipræclare loquuntur,quicunq aiunt uidelicet,poft quambonusaliquis uita functus eſt, maximam dignitatem præmiumý ſortitur,fic & dæ monſecundum ſapientiæ cognomentūIca & ipfe affero dæmuova, id eſt ſapientemom- nem efle hominem, quicung ſitbonus,eumódæmonicum effe,id eſt felicem,uiuenten » acc defunctũ, recteý dæmonem nũcupari.HER Videor. mihi ô Socrates, in hoctecum s maxime conſentire. soc. newsautem quid lignificar: Id nequaſ inuentu difficile.paur lo enim heroumnomen ab originediſtac,indicans generationem illorum čre WTO manaſſe. HER.Qua rationeid ais: s o c.Anignoras ſemideos heroas effe: HER. Quid tum: soc.Omnesutiq heroes uel ex amore deorũ erga mulieres humanas, uel amore uirorum erga deas ſuntgeniti.Prætereaſi hocfecundã priſcam Acticorum linguam con fideraueris,magis intelliges.reperies enim quòd pauliſper mutatū eſt nominis gratia ex UTO,undeſunt heroes geniti:quod'ueaut hincheroum nomen eſt ducium,aut ex eo quòd fapientes,rhetores fuerunc.facundi uidelicet, & ad interrogandữ diſſerendűó promptiflimi,ziedy Aang dicere eft:Quare,ut mododicebamus,Attica uoce heroes the tores quidam,& diſputatores&amatori uidentur. Vnderbetorum ſophiſtarum gee nusheroica prolesexiſtit. Verum nõ iſtud quidem difficile cognitu,imò illud obfcurű, quamob cauſam homines ävbewmoinominantur.habesipfe quid afferas: HER.Vndeid habeābone uir: Quin ſi reperire quoquo modo poffim,nil cotendo, ex eo quòdtemo lius facilius“ quammereperturum ípero.so c.In Euthyphronis inſpiratione confider se mihiuideris.HER.Abſc dubio.soc.Ec merito quidem confidis.Nam belle nimium mihi nunc uideor cogitafle,ac periculü eſt niſi caueam,nehodie ſapiêtior quam deceat, uidear euafiffe. Attende ad ea quædicã. Hoc in primis circa nomina animaduertere de serves cet, quòd ſępe literas addimus,lepe ctiam demimus pro arbitrio,dum nominamus, & a cuta ſæpenumero tranſmutamus,utcum dicimus dicíres: hoc ut pro uerbo nomen nor bis foret,alterum, inde excerpfimus, & pro acuta fyllaba media, grauem pronūciamus. Jn alijs quibuſdam literasinterſerimus,alia uero grauiora proferimus. HER. Vera refers. soc.Hoc & in ävegen O côtingit,utmihi quidem uidetur.Nam ex uerbo nomen con ftitutum eſt,uno a excepto,grauiorig fine effecto.HER.Quomodo iſtud ais 's o c. Itak" hominis nomen illud ſignificat, quod cætera quidem animalia quę uident,non confide rant,neq; animaduertunt,nec contemplantur: homoautem & uidet ſimul &contemu platur,animaduertito quod uider.Hincmerito solus ex omnibus animátibus homočvrse @puro eſt nuncupatus, qualiaabeau contemplans,quæ ön WT5, id est, uidit. Quid poft ce haqquæram:Anuidelicet quodlibenter perciperem HER: Maxime.SOC. Succede D teftas reſtatim ſuperioribusmihi uideturdeanima & corpore cõſideratio.Nam anima& cor pusaliquid hominis funt.HER.Sine cótrouerſia.soc.Conemurhæcquemadmodū ſu: periora diſtinguere. Quærendum primodeanima putas, utrecte Luxá nominata fuerit deindede corpore: HER:Equidem.soc.Vtigitur ſubito exprimarn quod primumm. hinunc ſe offert,arbitror illos qui ſicanimāuocitarunt,hocpocillimum cogitaffe, quod » hæc quoties adest corpori, caula est illi uiuendi, reſpirandi,& refrigerandi uim exhibês: 9 & cum primūdelierit quodrefrigerat,diffoluitur corpus,& interit.Vnde fuxlu noni 21 naffeuidentur,quaſi awatúzov, reſpirando refrigerans.Atuero, si placet, fifte parumper. Videor mihi aliquid inspicere probabilius apud eos quiEuthyphronem ſequütur,nım iftud quidem aſpernarenf,ut arbitror, & durû quiddã eſſe cenferent. ſed uidean hoc ibi sit placiturű.HER. Dicmodo.soc. Quid aliud animatibiuidetur corpus continae, uehere, & utuiuat & gradiatur efficerer HER. Nil aliud.soc. Annon Anaxagoræ ce dis,rerum naturam omniẩmente quadam & anima exornari ſimul & contineri: HIR. Credo equidem.soc.Pareſt igitur eam potentia nominare quelw.quæ quan,naturan, oxa & xe, id eft uehit & continet.politius autem fuxó proferſ.HER. Siceſtomninoji detur & mihiiſtud artificiofius effe.soc. Eft profecto.Ridiculum aữc quia apparere, si ita ut pofitüfuit, nominaret. Quod uero pofthoc ſequiſ corpusnonne owua nücupis: HER.Certe.soc. Atquiuidełmihiin hocnominepauliſper ab origine declinari. nen. pe corpushoc animæ omua, sepulchrâ quidam eſſe tradunt:qualiipfa præſenti in tempo se ſic ſepulta:ac etiam quia animaper corpus omualvd,ſignificat quæcung ohelwa lign ficare poteſt.idcirco & rivec iure uocari. VidenturmihiprætereaOrpheiſectatores no mēhocobid potiſſimữpoſuiffe,q anima in corpore hoc delictorũ det pænas, & hocci: cũſepto uallo claudatur,uelut in carcere quodā,utolor ferueſ. Effeitac uolunthoc ita utnominat,animęoãu ce ſeruandigratia clauſtrữ, quoad debita quæQ expendar,neq literam aliquã adăciendam putant. HER.Dehis fatis dictum ô Socrates,arbitror. Veri denominibusaliquorû deorum poſſemus ne ita utdeloueactum eſt,conſiderare,fecun dum quam rectitudinēnomina lint impoſica: soc. Per Iouem nos quidē ſimentem ha beremus Hermogenes,precipuũrectitudinismodấarbitraremur,faceri nihil nos de dijs cognofcere,ne deipſis inquam, neq deipſorīnominibus quibus iplifeuocant. Con ſtar enim illos quidem ueris ſenominibusnuncupare.Secundâ uero recte denominatio nis modum exiſtimo, utquemadmodülex in uotis ftatuit precarideos, quomodocung nominarihis placet,ita & nos ipfos uocemus,tanğ nihil aliud cognoſcētes.Recte não, utmihiuidetur,eft decretū.Quare, li uis,ad hanc inueſtigationēpergamus,primo quidē díjs præfati,nosnihilde iplis conſideraturos: neq; enim poſſe confidimus:fed de homini bus potius, qua potiſfim opinionecirca deosaffectinomina ipfis inſtituerunt. Hoceñ à diuina indignatione procul.HER.Modeſte loquiuideris ô Socrates, atqita prorfusa gendum.soc. Nónneà Vesta fecundum legem incipiendű. HER. Sicutim decet. soc. Quaratione éstav hanc nominatam dicemus HER. Per Iouem haud facile iftud inuen 9) tu.soc.VidenturprobeHermogenes priminomināautores non hebetes quidā fuisse, verum acuti fublimium rerum inueſtigatores HER. Quamobrem: soc. Talium quo rundam hominum inuentione nomina apparent impofita.ac ſi quisperegrinaconlide. retnomina,nihilominus quod ſibiuult,unumquodq;reperiret.quemadmodőhocquod  nos días, eſſentiam nominamus, quidam golov nuncupant,alij wvia.Primo quidem ſecundum alterum nomen iſtorum,haud procula rationeuidetur rerum effentiam ésiav uocari. & quia nos quod efteffentiæ particeps ésiav uocamus,ex hocrecte éstæ poffet denominari.Superioresnoftriquondam šriav,tola uocabant.Quinetiã ſi quis facrorí ritusanimaduerterit,exiſtimabit ſic eosputaſſe quihæc poſuerűt.Etenim ante deosom nes Veltæ facra faceredecet eos, qui effentiam omnium Veſtam cognominarunt. Qui item wola nominarunt,hifermeſecundâ Heraclitum cenfuerüc fluere omnia femper, nihilo conſiſtere.Cauſam igitur & ipſorum originem ducem ipſum wow, quod impel lit.quaproptermerito ipſum wola impellentēcauſam nominari.Dehis hactenusitalic dictų,uelut ab ijs quinihil intelligunt.Poft Veftam aất, deRheaato Saturno conſidera reconuenit,quanğ de Saturninomine in ſuperioribus diximus.Forte'uero nihildico. HER.Curnam ô Socrates: soc. O boneuir,ſapientiæ quoddam examen animaduer ti. HER. Quale iſtud: soc. Ridiculum dictu.habet tamen nonnihilprobabile.HER: Quid ais: & quo pacto probabile.so c.Infpicere mihiHeraclitum uideor,iã pridem ſa pienter nonnulla de Saturno Rhea tradentem, quæ & Homerus dixerat. HER. Quid iftud ais:'s o c.Ait enim Heraclitus fluere omnia,nihilo manere,rerum ipſarum pro - ce greflum amnis fluxuicomparás,haud fieri poffe inquit,utbis eandem in aquam temerou gas.HER.Vera hæcſunt.soc.An uidetur tibi ille ab Heraclito diſſentire, qui aliorum a deorum progenitoribus inſeruitRheam atą Saturnữ:Nunquid putas temere illum no mina iſtis impoſuiſſe.Quin & HomerusOceanum deorum originem inſtituit, & The tyn genitricem.Idemouoluit,utarbitror, & Heſiodus.Aitpræterea Orpheus, Oceanű primum pulchrifluum cõiugium inchoaſſe, quicum Tethy germana ſeſua commiſcuit. Vide ő maximehæc inuicem cõfonant,omniağ in opinionēHeracliti redeunt. HER. Viderismihialiquid dicere Socrates. Tethyosautem nomēhaud fatis quid ſibiuelit, in telligo.soc.Hocutißidem fermeſignificar:quoniam fontis nomēeſt reconditů.Nam doctons & xlsus,id eſt ſcaturiens & tranſiliens,fontis imaginem præ ſe ferunt, ex utrif queuero hiſce nominibusnomen tudúceſt compoſitum. HER.Hoc quidem belliſi mum eſt ô Socrates.soc..Quid ni? Verum quid deinceps:Deloue profecto diximus. HER. Siceſt.soc.Fratres autem eius dicamusNeptunum atq Plutonē,nomeno aliud quo ipfum uocant.HER.Prorſus.soc. VideturNeptunusab eo qui primum nomina uit,idcirco mooddãy uocatusfuiſſe, quia euntem ipſum marisnatura detinuit,nec pro, grediultra permitit,ſed qualiuincula pedibus ipfius iniecit.Maris ita principem rood @ væ uocauit, quaſi qosideouov, id eſt pedum uinculũ.& uero decoris gratia forte adie ctum fuit. Forſitan nő hoc fibiuult,fed pro ar, a primo fuit pofitum, quafi dicat mom sidós, id eftmultanofcens Deus,Fortaſſis ab eo quod dicitur códy, id eft quatere,okwu ideft quatiens eſtnominatus, cuiw & d fuitadiectū. Plutonem autem quali zašto, id eſt diuitiarī datorem dicimus, quoniam diuitiæ ex terræ uiſceribus eruuntur:& dxs uero multitudo interpretatur, quali addis, triſte tenebroſum'ue. Atæ hocnomen horrentes Plutonem uocitant.HER.Tuuerò quid fentis Socrates. soc. Videnturmihi homines circa potētiam Deiiftiusmultifariam errauiſſe,eumg exhorruiſſeſemper,cum minime deceat.Porrò quiſ ex hocpertimeſcit,quòd nemo poftquam defunctus eſt,hucredit, quod'ueanimanudata corpore,illucabit.Cæterum hęcomnia & regnum & nomen hư ius dei,eodem tenderemihiuidentur.HER.Quo pacto:soc.Dicam quod fentio. Dic age. Vtrữ horũualidiusuinculâ eft ad quoduis animal alicubidetinendű, neceſſitas'ne, an cupiditas? HER.Longeô Socrates,præſtat cupiditas.soc.Annõ plurimi,&dw quo tidie ſubterfugerent,niſi fortiſſimo uinculo eos quiillucdeſcendunt,uinciret: HER. Vi delicet. Soc. Quare cupiditate quadam eos,utuidetur,potius ő neceffitate deuincit, fi modouinculo nectitfortiſſimo.Her.Apparet.soc.Nónne rurſus multæ cupiditates funt HER.Multę.so c.Ergo uehemētiſlimaoñiữ cupiditate nectit eos, fimododebet inſolubilinodo conectere.HER. Certe.soc.Eft'neuehemētiorulla cupiditas, ş ea qua quiſcrafficitur,dum alicuius conſuetudinemeliorem feuirūſperat euadere: HER.Nul..“ lamehercle Socrates.so C.Hacdecaufa dicendűHermogenes,neminem hucillincuel lereuerti,nec etiã Syrenesipfas, imò & eas & cæterosomnes ſuauiſſimis Plutonis ora tionibusdemulceri.Éſtý,utratio hæcteſtat,deus is ſophiſta proculdubio diſertiſſimus & ingentia confert his quipenes ipſum habitãtbeneficia, qui uſ adeo diuitñs affatim abundat,uttantanobis bona ſuppeditet,unde & Pluto eſt nuncupatus. Annõ philoſo. phitibiuidet officium, q nolithominibus corpora habentibus adhærere, sed tūc demữ admittateos, cũanimus illorum eft corporeis omnibusmalis cupidinibus* purgatus: Excogitauitnempehic deus hacratione fe animosmaxime detenturũ,ſi uirtutis eos aui ditate uinciret. Eosautem quiftupore & infania corporis ſuntinfecti,nepater quidem Plutonis Saturnus ipfe,fuis illis uinculis coercere ualeret,fecumý tenere.HER.Nonni hil loquiuiderisÔ Socrates.soc.Longeabeft Hermogenes utnomē& dos, quali cudes id eft trifte tenebroſum'uefit dictâ,imoab eò trahiturquod eft sid qvac, id eſt noſle omia pulchra.Ex hoc itaq deus ifteà nominữ conditore &dys eſt nấcupatus.HER.Quid præ terea dicimusde Cereris nomine, Iunonis“, Apollinis & Minervæ,Vulcanig & Martis,cæterorumýdeorum: soc. Ceres quidem dwuktor nuncupatur ab ipſa alimentorī largitione, quaſi didolæ pektyg,hoc est exhibensmáter. Kex uero,id eſt Iuno, quali fatá, id eft amabilis,propter amorem quo Iupiter in eam afficit.Forte'etiam ſublimeſpectans quihoc nomen inſtituit,aeram,spav denominauit, & obſcurelocutus est, ponensin fine principiữ quod quidem patebittibi,finomen illud frequenter pronüciaueris. DefélQKT say,id eſt Proſerpinam,& denómwnominare nõnulliuerent,propterea quòdillis ignota eſt nominum rectitudo. Enimuero permutantes degregóvlw ipsam considerant,graue id illis apparet. hocautēdeæ ipsius sapientia indicat. Sapientia utic eft quæ resfluentes attingit,& aſſequi poteft.Quamobrem gegéraqemerito dea hæcnominaretur,propter fapientiam, & Encolu, id eſt contacta, qepomlis, id elt eius quod fertur, ueltale aliquid, Quocirca adhæret illi ſapiens ipſe édes, quia ipſa talis eſt.Nunc autem nomen hocde. clinant,pluris facientes prolationis gratiam ueritatem, utqepiqastav nominēt. Idem quoq circa Apollinis nomen accidir. nam pleriq id nomen exhorrent, quasiterribile ali quid preſeferat.Annõ noſti:HER.Vera penitus loqueris.soc.Hocaūt,utarbitror,hu ius dei potentięmaxime cõuenit.HER. Quarationeso c.Conabor sententia meam ex primere.Nullű profecto nomen aliud unum quatuorhuiusdei potentijs reperiri conue nientius potuiſſet, quod & cöprehenderet omnes, & iplius quodammodo declaret musicam, uaticinium, medicinam, & sagittandiperitiam. HER. Aperias iam.Mirum quiddã nomen effe id ais.soc.Congrue quidem compoſitõeſt, conſonatý,utpote quod ad de um pertinet muſicum. Principio purgatio purificationesø & ſecundum medicinam,& ſecundum uaticinium,item quæ medicorum pharmacis peraguntur, ac uatum incanta tiones expiationes, lauacra, & afperſiones, unum hocintendunt, purum hominem & corpore & anima reddere. HER. Sic omnino. soc. Nónnedeus qui purgat, ipse erit aro aówn & Ösp núwy,id eft abluensa malis, solvens,q Apollo ipfe ſignificat? HER. Abſque Tubio.soc. Quatenusitap diluitata soluit, uttaliū medicus, åpnvwy merito nuncupa tur. Secunda vero divinationem uerumg &moww, id est simplex, quod idem eft, recte more Theſſalicorűnominarehuncpoſſumus.hinempe omnes deum hunc ámró uocãt. Quatenusaấtási Boda wy, id eft ſemper iaculando arcu uehemens eft,ás Badawy dicipo teſt,hoc eſt,perpetuus iaculator.Secundữueromuſicam, dehoc eſt cogitandū quemad modum de eo quod dicit & nórolo & « xomis,id eftpediſſequus,comes, & uxor, in qui. bus& ur & in alijsmultis, idem quod ſimul ſignificat.Hic quoq && zónas ſignificant uerfionem quæ ſimul & unaperagitur, quam cöuerfionem dicamus.Ea in cælis eft,quæ per eos fit quos sónos uocamus:in cantu uero & quovia, quam dicimus ovuqwricw. Quia in his, uttraduntmuſicæ & aſtronomiæ periti,harmonia quadā ſimulomnia cõuertunt. Hicaấtdeusharmoniæ præfidet omonwy,id eft fimuluertenshæc omnia,& apuddeos & apud homines.Quemadmodum igitoorkeudoy & Oxóxosniv, id eft ſimuleuntem & ſimul iacentē,uocauimus anonovlov & KOITIY, o in « permutantes, ita Apollinem nomi navimuseum qui erat &Mortondy, altero a interiecto, quia æquiuocũfuiſſetduro cum no mine.quod & his temporib. ſuſpicati pleriq, ex eo q non recteuim nominishuius ani maduertűt, perindehocmetuunt, ac si perniciem quandã fignificaret.Sed reueranomen hocomneshuiusdei uires cõplectitur, quemadmodūſupra diximus. Significat eſlim plicem,perpetuũiaculatorem, expiatorē & conuertentem.Muſarā uero & muſicæno men,ab eo quod dicitpães, id eft inquirere,indagatione & ftudio ſapientiæ tractõelt. agtá,id eſtLatona,à manſuetudine dicit,quia fic edereuwy, id eſt prompta & expofita & Tibens ad id quodpetit quiſqs exhibendű. Forte'uero ut peregriniuocãt:multinamga, tú nomināt, quod nomen tribuiſſe uident,quia non rigida illi mens,ſed mitis,ideo agli, quali neopress,id eftmos lenis & mitis ab illo cognominat. opruis, id est Diana, ex eo quòd aprejés, quali integra modeſtaciz sit propter uirginitatis electionē. Forſitā etiã qua fiageplisoge,id eft uirtutis conſciã,uocauit nominis inftitutor.Fortaffis etiã dicta eft'Ar temis,quafi apo u des Chocous,id eft quafiilla cõgreſſum oderit uiricum muliere.Vel enim propterhorâ aliquid,uel propteromnia huiuſmodinomen eſt inſtitutű.HER: Quidue ro dióvvoos & espositor's O.Magna petis Hipponici fili.Atqui eſtnominâ ratio his díjs inpoſitorâ gemina,ſeria uidelicet & iocoſa.Seriã quippe ab alñs quære,iocofam aứcni hil prohibetrecenſere. locoſi fanè & difunt: Dionyſuso eft didòs i ciroy id eſt uinida tor, qual tor, quafi nobivuosioco quodã cognominatus. Vinum autem merito uocari potest oto 18s quod efficiatut bibentes pleriq mentealienati,oisdocevouü exay, ideftmentem habe rele putent.DeVenere Hefiodorepugnarenon decet,ſed concedere propter ipfam ex dogo, hoc eſt ex ſpuma, generationē đopoditlw uocari.HER.Acuero Minerua, ô Socra tes,Vulcanūča & Martem,cum fis Atheniēlis,ſilentio nõ præteribis.soc.Haudquais decet.HER.Non certe.soc.Alterâ quidem eius nomen quamobrē ſit impofitũ, haud difficile dictu.HER.Quod: soc. Palladē eam uocamus.HER. Planè.soc.Nomen hoc cenſendum eſt à faltatione in bello ductum fuiſſe.porro uelfefe,uel aliud à terra attolles re ſeu manibusaliquid efferre,dicimus cámay, & wameat,id eſt uibrare,agitare & agitari,& ſaltare, & ſaltationem perpeti.HER.Ablo controuerſia,Palladem hac ratione uocamus,acmerito.Her.Alterű eiusnomē quo pacto interpretaris: so c. állwaữ quæris: HER. Id ipsum.soc. Grauiushocamice: vident prisci å blwaw exiſtimare,quemad, modum hiquihis temporibusin Homeri interpretationibus ſunteruditi.Nam iftorum plurimiHomerữexponuntåbwaw tano mentem cogitationemg finiſſe. Et qui nomi na inuenit,tale aliquid de illa fenfiffe uidetur,imò etiam altius eam extollēs,utDeimen tem induxit, perinde ac fi diceret sleovõu, hoc eftutens æ pro y externo quodam ritu, s uero & o detrahens,fortè'uero non ita, ſed IGavónas, id eft,utpote quæ diuina cogno ſcat,præ cæterisomnibus deoroli, id eſt diuina cognoſcentē, uocauit.Neqab re erit,li di xerimus uoluiſſe illũappellareeam klovólw, qualiipſa in more intelligentia fit. Ipſe poſt modữ,uel eciam pofteriores in pulchrius,ut uidebat,aliquid producendo,Athenean de nominarunt.HER.Quid de Vulcano quem aquusov nominãt: so'c. Quidais:Num ge neroſum ipſum páso- isogæ,id eſt luminispræfidem quæris? HER.Hâc quæliffe uideor. soc.Hic utcuiq patere poteft, quiso eft,& x ſibiuendicat.Vnde igas id est,lu minis preſes eſtdictus.HER. Apparet: niſitibiquoq modo adhucaliter uideaf.s o c.An neuideatur aliter de Marte,interroga.HER.Interrogo.soc.Siplacet,õpys, id eft Mars, dicitur fecundâ ãgger,id eſt maſculã, & av dogov,id eſt forte. Quinetiã fi uolueris ob na turam quandãaſperam,duram atq inuictã,immutabilemý, quod totumägøæby appella tur,ogy uocatum fuiffe,hoc quo & Deo penitusbellicoſo cõueniet.HER. Prorſus.Soči Deosiam mittamus per deos obsecro.Nãdehis diſſerere uereor.Adalia uero quecung uis,meprouoca,ut qualesEuthyphronisequiſunt,noueris.HER.Faciam utpetis,ſi unű deme quæfiuero.meliquidē CratylusHermogenē eſſe negat. Inueſtigemus ita quid épus,id eft Mercurii nomen fignificet,ut fiquid ueri hicloquit,uideamus.soc. équis, id eſtMercurius,adſermonēpertinere uidetur, quatenus égjelw rús eft,hoc eſt interpres & nuncius, furtiuús inloquendo ſeductor,ac uehemens concionator. Totum id circa fer monem uerfatur.profecto quemadmodum in fuperioribus diximus, kedy ſermonis eſt uſus.Sæpeuero dehocHomerusait £ukcal, id eft machinatuseſt. Ex utriſq igitur no. men huius dei componit,tum ex eo quod loquieſt,tum ex eo quodmachinari & exco gitare dicenda, perindeac ſi nominis autornobis præciperet: Pareſt, ô viri, ut deum illa quiaipfufukcal, id eſtloquimachinatus eſt, sipíulw uoceris. Nos aấtarbitratiſice legan tius eloqui, éguli uocamus. Quinetiam ies, ab eo quod apdu, id eſt loqui, nomen habet, propterea quod nuncia eſt. HER.Probemediusfidius Hermogenē elleme Cratylus ne gauilfe uidetur. Adorationis enim inventionem hebes ſum.Soc. Conſentaneâ quoc amice, wową biformem filium efle Mercurî.HER.Qua rationer'soc. Scis quòd fermo # aw,id eftomne ſignificat,circuitý & uoluit ſemper,eſtó geminus uerusuidelicetac fal ſus: HER.Equidem. soc. Annon id quod eſt in ſermoneuerum,leue eftatæ diuinâ, ſu praç in dñshabitans.Contrà quod falſum,infrà in hominữmultis,afperű ato tragicũ: Hincenim fabularum comenta & falfa & plurimacirca tragicam uitam reperiunt.HER. Sic eft omnino.soc.Merito igitur quiefttaw, id eft totâ nuncians, & æs monasy, id eſt femper uolutans,7 dezóros biformisMercurij filiusdiceret, ex ſuperioribus partibus lenis ac delicatus, ex inferioribus aſper atok hircinus.Eftg Panuelipſe ſermo,uel ſermo nis frater,fiquidem eſt Mercurij filius.Fratrem uero fratri limilem effe quid mirum:Ce terüiã o beate, ut & paulo ante rogabā, ſermonem dedñshunc abrumpamus.HER.Ta. les quidem deos,li uis,mittamuso Socrates,huiuſmodiuero quædam percurrere quid prohibet.Solem,lunam, ftellas,terram,ætherem,aerem,ignem, aquam, ver & annum: D soc. Multa funt acmagna quæ poftulas. Sicamen gratum tibi futurum eſt,obfequar. HER.Pergratum plane.soc. Quid primum poſcis: an utipſenarrabas in primis stov, id eft folem; HER.Profecto.soc.Manifeſtius id fore uidetur,li Dorico nomine quis uta tur.Dorici enim asoy uocant,ato ita uocatur ſecundữ &nizdv, id eſt ex eo quodcongre gat in unum homines,cum exoritur. Item ex eo quod circa terram &scina, id eſt ſemper reuoluitur.Præterea quia uariat circuitu ſuo quæ terra naſcuntur. Variareautem & duo. agy idem eft. HER. Quid uero de anlws, id eft luna,dicendum: soc.Nomen hocui detur Anaxagoram premere. HER.Cur.soc. Quoniam præ se aliquid fert antiquius, quod ille nuperdixit, quodlunaà fole lumen haurit.HER.Quo pactors o coenas idem eſt quod lumen; HER. Idem. SocR.Lumen hocperpetuo circa lumen voy & güvoy eſt id eſt nouum ac uetus,limodo Anaxagoriciuera loquuntur:nam circûluſtranseam con tinue renouatur, Vetusautem eſtmenſis præteritilumen.HER.Vtig.soc.Lunam qui dem odavalav mulcinominant. HER.Certe. soc. Quoniam uero lumen nouum acue tus ſemperhabet,merito uocarideberetadægurteoddam Nunc autem conciſo uocabulo ahavice uocatur. HER. Dithyrambicum nomen hoc eſt, ô Socrates. Verum uave, id eftmenſem:& äspe quomodo interpretaris. soc. Menſis quidem várs recteab vas. atroce, id eſtàminuendo, iure nuncuparetur. Astra uero & sectic, id eſt coruſcationis co gnomentum habent. « Soekautem quia au o ads avasosqe, ideft uiſum ad fe conuer. tit, ánæspon á dici deberet, nunc cõcinnioriuocabuloaspauinominal. Her.Vnde no men trahil mie& idap, id eft ignis & aqua:'Soc. Ambigo equidē,uideturg autMuſa meEuthyphronisdeſeruiſſe, authocarduum quiddam effe. Aduerte obſecro quò confu giam in omnibus quæcunq dubito. HER. Quonam: soc. Dicam tibi.ſcis ipſe qua ratio ne wüe nominat: HER.Non hercle.soc. Vide quid dehoc ſuſpicer.Reor equidêmul ta nomina Graecos a Barbaris, eos preſertim quiſub Barbaris ſunt, habuiſſe. HER. Quor ſum hæc.soc.Siquis rectam iſtorũ impoſitionem fecundum græcã uocem quærat,non ſecundum eam qua eſt nomen inuentũ nimirum ambiget.HER. Verifimile id quidem. soc. Vide itaç nenomen hoc quebarbaricum ſit.neo enim facile eft iſtud græcæ lin guæ accomodare, conſtataita hocPhrygios nominare parum quid declinantes, & ý. dwg & xuías,id eft canes,alia permulta. HER. Vera hæc sunt. soc. Ergo distrahereiſta nihil oportet, quandoquidem deipſis nihil dicere quiſquã poteſt.Quapropter nomina illa ignis & aquæ huncinmodum reñcio kázautēſic eft dictus Hermogenes, quia quæ circa terram ſunt, deed,id eſteleuat.uel quia aega, hoc eft ſemperfluit,uel quia eiusflu xu ſpiritusconcitatur.Poetæ quippe flamina aktasnuncupant.Forte igitur aer dicitur quali avocTócow, agzóſſow id eſt ſpiritus fluens, uel fluens flamen, dedica præterea fic exponendum arbitror, quoniã đa dicirca ãégæ pêwy, id eft ſemper currit circa aerem fluens, quocirca čeddeks dicipoteft.gæ autē, id eſt terra,planius fenſum exprimit,ſigara dicatur.yaa enim recte görkodea, id eltgenitrix dicipoteft,utait Homerus.Nãquod gazdan dicit, genitum in re,inquit.Quid reftat deinceps. HER. Ver & annus, ô Socra tes. soc. Spore quidē, id eftueris temporapriſca & Attica uoce dicendaſunt,ſi uis quod conuenienseſt,cognoſcere. Horæ nanquocant, quia ief80, id eſt terminant hyemem atçæftatem uentosca & fructus ex terra nafcentes. giveau tos aất & čnos, id eft annus,idem effe uidet.Quod eñ in lumen uiciſlim educit,quęcung naſcunifiunto exterra,ipſum in ſeipſo examinat & diſcernit,annus eft: & ut ſupra louis nomen diximus in duo ſectű, ab aliquibus Pavæ,ab alijs diæ uocari,ita & annữ quidam giardy yocant,quia in ſeipſo, quidā quia examinat.Integra uero ratio eft ipfum q in ſeipſo examinat.Vndeexo ratiõeunanominaduo ſelecta funt.quòd eñ limuldicit,co giairū étolov,id eft in ſeipſo examinās, diſtinctum dicitur griaunos, & £70s, id est annus. HER. Atuero Ô Socrates,iam longe pgrederis.soc.Longiusequidēin philoſophia uideor euagari. HER. Quinimò. soc.Forte'magis cöcedes.Her.Verum pofthancfpeciē libentiſlime contêplarer,qua rationerectenomina iſta præclara uirtutūſint impofira,ut ogórkas,id eft prudentia,cuir as, intelligentia, xacoou's,iuftitia, ac reliqua huius generisomnia.so c.Haud conte. mnendum genus nominū ſuſcitas,ô amice. Veruntamen poſto leoninā pellem ſum in dutus,haud deterreridecet,imò præclara ipfa,utais,nomina prudentiæ,intelligentię,co gitationis ſciêtiæ cæterorūphuiuſmodicõliderare.HER.Quin profecto prius deſiſtere nullo mododebemus.Soc. Ædepolnõmalemihide eo conijcere uideor, quod modo conſiderabam,antiquiflimos uidelicet illos nominữ autores, ut & fapientiâ noftrorum plurimis accidit,ob frequentem ipfam in rebus perueftigandis reuolutionem, præter ceteros in cerebri vertiginem incidiſſe:quo factum puto utres ipsæ proferri & vacillareil lis apparerēt.opinionis autem huius caufam.haud interiorem uertiginem,ſed exterior? cc ipfarum rerű circuitum arbitrātur:quas ita natura habere ſe putāt, ut nihil in eis firmum. ZE & ftabile fic,fed fluantomnesferanturo,& omnifariam agitentur, ſemperø gignantur.PC & defluant. Quod quidem in his nominibus, quæ nuncrelata ſunt, conſpicio. HERM.CC Quo pacto Socrates.soc. Haudaduertiſti superior nomina rebus qualidelatis, fluentibus, & iugigenerationetranslatis impofita fuiſſe: HERM.Nă ſatis percepi.soc.Prins cipio quod primûretulimus,ad aliquid huius generis attinet.HERM. Qualeiſtud: soc. apórnois,id eſt prudétia eft,qopás a govórous, id eſt lacionis & fluxus animaduerſio. Signi ficare quog poteſt,recipere övnou dopás,id eſt lationisutilitatê.Tádem circa ipfam agita tionem uerſatur. Quinetia liuis yvaus id eft cogitatio fignificat govis várnoip,id eft gene rationis cõliderationem.you cû quippecõſiderare eſt. voxois autem, id eft intellectio, eſt réov čois,id eft nouideſideriũ.nouas uero res eſſe,ſignificat eas fieri ſemper.atqß hoc deſi derare & aggredi animum indicat qui nomēillud inuenitvsotow.principio nang vósois, nõdicebatur,fed pro,duo se proferēda erant,ut rebois, quafivéov, id eſt noui toisappe. titio & aggreſſio.ow poowy,id eſttemperātia illius quodmodo diximus Opornotus, id eſt prudêtiæ,falus & conſeruatio eft. udtskun,id eſt ſcientia,ab eo quod inftar & fequit tra &tum eſt,quafi res fluentesſolas animusperſequatur,inſtetø & comitetur:at negexmo tra poſterior,neæ præcurſioneſicprior.Quare& interiecto shylew uocare decet ouisas tanquam fyllogiſmus,id eft ratiocinatio quædam eſſe uidetur.Cum autem owibrac dici tur,idem intelligiturac fi diceretur etiska. Nam oftendit cum rebusanimum congre dirogix, id eft fapiêtia,agitationis eft tactus.Obſcurius autem, & alieniushoc à nobis. Verum animaduertendữeſt in poetis, quotiesuoluntaduentantem aliquem & irruen tem exprimere,ovulo.id eſt erupit,profiljjt,dicere.Quin & illuftricuidam apud Lacedæ. moniosuiro nomen erat oös,id eſt præpes.Sic enim Lacedæmones cõcitationis impe tum indicant. Qualiitaqomnia perferantur,huiusipſiusagitationis, quę eo quod oos di citur,ſignificatur,iniqw,id eft tactum perceptionem aſophia demonſtrat..yglóxid eſt bonum cuiufqsnaturæ « y« sóy,id eft mirabile,amabile,delectabile ſignificat.Enimuero poſtos fluuntomnia,partim celeritas, partim tarditas ineſt.Eft igiturnon omneuelox, fed ipſius aliquid « y « soy.Quod quidēayasov ipfius& yali nomine declaratur.ductoo uby, ideft iuſtitia,quod xaiov oubsou ideſt iuſti intelligentiam importet, facile conijcere pol fumus. Quid autem ipſum singu op fibi uelit, difficile cognitu.Videtur autem huculoa multis quod dictum eſt cocellum,reliquum uero dubium.Etenim quicung totum mobile arbitrantur, plurimum agitari ipſum exiſtimāt,per omnealiquid permanare quo fingula fiant, quod'ue tenuiſlimum fit & uelociſſimum.Nec enim per omniadiſcurrere polle,nifiadeo tenuelit ut nihil possit obliſterepenetráci,& adeo uelox, ut cæteris quafi ſtancibus utatur.Quoniam uero gubernatomnia, dlačov, id eſt diſcurrens & permanans, merito dinglov eft appellatū, x uno politioris prolationis gratia interiecto. Hactenus quod modo diximus, inter plurimosconftat hoceffe iuftum.Ego autem Hermogenes urpo te diſcēdideſiderio flagranshæc omnia perfcrutatus ſum,& in arcanis percepiquod hoc ipſum iuftum ſit, & cauſa.quo enim res ipfæ fiunt,hoc eſt caufa:proprieś ita uocariiſtud debere quiſpiam tradidit.Cum uero ab his iam auditis iftis nihilominus diligenter ex., quiro quid ipfum iuftum ſit, quando quidem ita fehabet, uideor iam ulterius quam decet exigere, & caueam,utdicitur,uallūý ſupergredi.Satis enim femperrogaſſeme & audiſ- Prouerbia fereſpondent,meg uolentes explere alius aliud afferre conantur,neo ultra coſentiunt. Quidam ait iuſtű hoc, folem effe.Solâ quippe folem diſcurrendo calefaciendog omnia gubernare. Cum uero hoc alacer cuiquam qualipræclarum audierim, refero, ftatim ille meridet, quærito nunquid exiftimem post solis occaſum iuftűnihil hominibus superef le: Percontanti itaq mihiquid ille fentiret,ipfum ait ignem iuftâ exiſtere.neqid cogni tu facile,quarealius,inquit,nõignem ipſum ſed ipſum potius innatum ignicalorē.Alius hæc omnia pro nihilo habet.eſſe enim iuſtā mētem illâ quâ induxit Anaxagoras. Dominam certe illam fuapte natura,necalicuimixtam exornare omnia inquit, per omnia pe netrantem.Hic quidem ô amice in maiorēambiguitaté fum prolapſus, quàm antea dum nihil deiuſtitia ſclſcicabar.Cæterű utredeamus ad id cuiusgratia diſputaus,nomēillicale propter hæc, quale diximus,eft tribucũ.her. Videris Ô Socrates, ex aliquo audiſſe hæc, nec ex tua officinaruditer deprompſiffe. soc. Quid alia: HERM. Non ita.s o c.Atten de igitur; forte'nançsin reliquis te deciperem, quali quæ afferam non audierim.Poſtiu ftitiam quid reſtare avdgíay,id eft fortitudinēnondum peregimus.iniuſtitia faneobſtacu lum eiuseſt quoddilcurrit per omnia, dvd piæ in pugnauerfatur.pugna in rebus fi quidē fluunt nihilaliud fluxusipfe contrarius. Quapropter fi quis d ſubtraxerit ex nomine hocadipiæ,nomen quod reftat aveia, opusipſum declarat. constat planè quòd non flu xus cuiuſqz contrarius gom id eſt fluxus,fortitudo eft,fed oppoficus illi quipræter iuſtum ficfluxui.Neqzenim aliterfortitudo eſſet laudabilis.žeệw autem,ideft mas, & civip,uir à ſimili quodã ducâtoriginē,ſcilicet ab ävw gom,id eſt ſurſum fluxu.pusuero,id eſtmulier, quafi jová, id eſt fæcunda & generatrix,bãiv,id eft fæmina.cn? Begrãs,id eſt papilla dici tur,oxå saấcuideturHermogenes dici,quia retraçúc, ideft germinare pullulareg facit,ut irrigans ea quæ irrigantur.HERM.Sicapparet,ô Socrates.SOCR.Idride,id eſt uireſcere, adoleſcere, floreſcere,augmentum'iuuenum repræſentat, quaſi uelox quiddam & fu bicum, quod innuitille quinomen conflauit ex leiv, id eſt currere, & &Ma, id eft faltare. Animaduertismeuelui extra curſum delatâ,poftquãplana ac peruia nactus ſum: Mul ta quoqz ſuperſunt quæ ad ſeria pertinere uident.HERM.Veraloqueris.soc. Quorữu num eft utuideamus quid de xuwid eſt ars importet. HERM. Prorſus.SOCR.Nonnehoc şuu vä, id eſt habitum mentis oſtendit, ſi z demitur,interſerifautêomediữ inter x & v,& interv & nézován: HERM. Aridenimiū Socrates & inculte.soc.Anignorasbeateuir no mina uetera diſtracta iam effe,atq cõfuſa à ſermonis tragiciſtudioſis,elegantiæ gratia ad« dentibus & fubtrahentibus literas,ac partim tēporis diuturnitate, partim exornationis& ftudio undiq peruertēcibus ucecce in na rów,id eft fpeculo, abſurdű eft ipliusaddi “ tamentū: Talia certe,ut arbitror,faciâtquioris illecebras pluris æſtimantő ueritatem. Quamobré cũ multanominibus ipſis adiecerint,tãdem effecerűt, utnemoiam nominūdu fenfum animaduertat.Quemadmodãdum o qizæ,id eſtmõſtrum quoddã proferunt,cūcl oqiya pronunciare deberēt,ac cæteramulta. Profecto fidareturcuiş arbitratu ſuo & de mere& addere,magna utic eſſet licentia, & quodlibetnomē cuiæ rei unuſquiſq tribueu ret:HERM.Veranarras, so CR.Vera plane, ſed enim mediocritatem quandam aros decorum ſeruare te decet præsidem sapiętem.HERM.Outinam.soc.Atqui& ipſe,o Her mogenes, opto uerum ne exacta nimium diſcuſſione, uir felix, exquiras, neuim meam prorſus exhaurias.Afcendam quippead ſupradictorum apicen: posto post artem cõli. derauerimus Myjavlw,id eftmachinationéexcogitationemg ſolertem. Videtautem li gnificare idem quodmultum pertingere & aſcēdere.Componitur ergo ex his duobus, púxos, id eſtlonge & multum, & dvey,id eft aſcendere,penetrare,pertingere. Sedutmo. do dicebam, adſummam dictorum perueniendum eft, quærendum quid nomina iſta significant, opeta, id est uirtus, & xcxiæ,id eft prauitas.Alterum quidem nondum reperio, alterum patere uidetur.Nam ſuperioribusomnibus conſonar,nempetanquam eancom nia:Kards sok,id eſt male uadens:xariæ,id eft,prauitas erit. quarecum animamale adres ipfas accedet,communiter praua dicetur. proprie uero acmaximeprocedendihæcfa. culcas inoshiq,id eſt timiditate patet, quam nondum declarauimus. prætermiſimuse nim.Oportebatautem continuopoft fortitudinem ipfam inferre.Multa inſuper alia prę teriſſeuidemur.ddníc ſignificat durum animæ uinculum.domés enim uinculum eſt.nian uero forte quiddam durumg ſignificat.quare timiditasuehemensacmaximum eſt ani mæ uinculum: quemadmodum & exeíc,id eſt defectus inopia, dubium,malum quiddã eſt,ac fummatim quodcuną progreſſus ipfius impedimentum,idé male progredi uide tur oſtendere,in ipſa uidelicetmotione impediri atą detineri. Quod cum animaſubit, prauitate plena dicit.Quod ſi illud prauitatis nomen talibus quibuſdam cõpecit,contra rium osti,id eſt uirtus ſignificabit.In primis quidē facilē agilemą progreffum, deinde folutum & expeditū animæ bonæ impetum effe oportet. Quamobréabloaz impedimēto obſtaculog és béov,id eſt ſemperfluens iure cognominari poffet adgfútn.fortè uero & αριτίω degerli uocatquis,quia litaliftas aép&TUTTys,id eftmaxime eligendæ. Verum colliſo uocabulo obetxdenominatur.Forſitan mefingere dices:ego autem aſſero, ſimodo no men illud prauitatis quod retuli,recte eſt inductum,recte quoc & iſtud uirtutis nomen induci.HERM.Arranów,id eftmalum,per quod in ſuperioribusmulta dixiſti, quid ſibi uult: so c.Extraneum quiddam per louem,ac inuétu difficile. Icaq ad hoc etiam machi namentum illud fuperiusafferam.HERM. Quid iſtud: SOCR. Barbaricum quiddam & hoc esse dicam.HERM.Probeloquiuideris.soc.Cæterum hæciam fi placet mittamus, nominauero iſta menon & degeóv, id eſt pulchrum & turpe, conſideremus. Quid degepon innuat, fatis mihipatere uidetur.Nempecum ſuperioribus conuenit. uidetur quinomi na ſtatuit,paſſim agitationis impedimentum uituperare.utecce,és igorri zion pouw, id eft femper impedientifluxum nomen dedit aegóggow. Nuncuero collidentes degsów appellant.HERM. Quid nonoy, id eſt pulchrum: soc.Hoc cognitu difficilius, quanquam ip ſum ita deducitur,utharmoniæ duntaxat & longitudinis gratia ipſum æ ſit productum. HERM.Quo pacto: soc. Nomen hoc cogitationis cognomentum quoddam esse videtur. HERM.Quiiſtud ais:'soc. Quam tu cauſam appellationis rei cuiuſ cenſes: an nó quod nominatribuit: Herm.Omnino.so c.Nónne causa hæc cogitatio est veldeorũ, vel hominum,uel amborum: HERM. Nempe.soc.Ergo xaréoa,ideft quoduocatres, & kxaóv,idem accogitatio ſunt.HERM.Apparet.soc. Quæcunq mens & cogitatio a gunt,laudanda ſunt:quæ non,uituperanda.HERM.Prorſus.soc. Quod medicinæ par. ticeps,medicinæ opera efficit:quod fabrilis artis,fabrilia.Tu vero quid fentis? HERM. Idem.soc.Pulchrum ita pulchra.HERM.Decet.so c.Eft autem hoc,ut diximus,cogi tatio. HERM.Maxime.soc.Nomen ita @ hoc naróv, id eſt pulchrum,merito erit pru dentiæ cognomentum,talia quædam agencis, qualia affirmantes pulchra eſſe,diligimus. HERM. Sicapparet.SOCR. Quid ultra generis huius reftat inveſtigandum: HER M. Quæ ad bonum & pulchrum ſpectant,conferentia uidelicet, utilia, conducibilia, emo lumenta,horum contraria. soc. Quid our popov,id eſt conferens ſit,ex ſuperioribus ip ſeinuenies. Nam nominis illius quodad ſcientiam attinet, germanum quiddam appa ret.Nihil enim præ ſe ferc aliud quam qopav,id eſt lationem animæ ſimul cum rebus, quæ ue hinc proueniunt,uocari orredoporre & ovu qopa, id eſt conferentia,ex eo quod fimul circumferuntur.Herm. Videtur.soc.Losdantov autem,id eft emolumentum: 7 koše dos,id eſt lucro.xopdos uero,li quisv prod nominihuic inferat, quod uult exprimit. Ná bonum alio quodam modo nominai. Quod enim omnibus xopavuutui, id eſt miſcetur diffuſum per omnia,hanc ipfam eiusuim fignificansnomen illud excogitauit pro vap ponens,ac Kopdo pronunciauit. HERM. Quid autem vorzask,id eft utile soc.Vides tur Ô Hermogenes,non ſicut cauponeshoc utuntur, idcirco Avantasy uocari, quia avesa a whece despaúx, id eſt ſumptusuitat & minuit:uerum quia cum velocissimum sit, res ftareno finit,neq permittit lationem réao-,id eft finem progreſſionis accipere atæ ceffare: ſed ſoluitfemper ab illa fugató,fi quis terminusfuperueniat, ipfamós indeſinentem immor talemg præbet.hac rationebonum avame18yuocatū arbitror.ipſum enim motionis aú ou do río, id eft foluens terminum,avandou uocari uidetur.coénomoy uero, id eſt con ducibileperegrinum nomēeſt, quo ſæpenumero Homerus eſt uſus. Eftauté hocaugen difaciendio cognomētum.Her.Quid de horâ contrarijs eſt dicendûrsoc. Quæ per ne gationem iſtorum dicuntur,tractarenequaquam oportet.HER.Quænã iſtar'sOc.co.uk gogov,kiw deres davandés,axopdes.HERM.Vera loqueris.s o c.Sed Brabopov & yusão s, id eft noxium & damnofum. HERM. Certe.soc.Braboooy quidembacitou tou how effe dicit,id eſt quod uult& nav, id eſtimpedire & coercere:pšu id eft fluxum:hocautem passim uituperat:quodő uultanlay góp pouw, recte bonomopou appellaret.uerum ornatus gratia Brabopón arbitrornominatū. HERM.Varia tibifuboriâtur,ô Socrates,nomina.at quimihi uideris in pralentia, quali Palladiæ legispraeludiữ quoddã præcinuiſſe,dum no men Bracoitopöy pronunciares. so.Nõego in cauſa ſum Hermogenes,fed quinomēip ſum inſtituerunt.HERM. Vera loqueris. Verum Cauãdoquid: soc. Quid effe debeat {#ubades dicam Hermogenes: & uide uere loquar,quoties dico quod addētes ac de mētes literas lõge nominū ſenſum uariant,adeo ut ſæpe exiguâ quidmutantes, cótraria ſignificationéinducãt.quod apparethoc in nomine dear,id eſt opportunữ. uenithocnu permihiin mētem deeo quod di& urus ſum cogitanti.Recēs eſt profecto uoxnobispul chra illa,coegitý côtrarium ſonare nobis d'top & {mps&d ov,fenſum ipſum cõfundens.Ve tus autem quid nomen utrung uulc, explicat. HERM. Qui iftucais: soc.Dicam equi. dem.haud præteritmaiores noſtrosfrequentero & d utiſolitos,necrariusmulieres,quæ maximepriſcam uocem feruant.Nunc autem pro uelipfum & uelx adhibent, produe. ro (quali hæcmagnificentius quiddam ſonent.HERM.Quo pactorsoc. Vtecceuetu ftiſſimiuiriin op'a diem uocabant,pofteriores autem partim čuopov,partim su'épow,co cant.HERM.Vera hæc funt. soc.Scis igitur uetufto illo nomine tantum mentem eius quinomen impoſuit declarari.Nam ex eo quod imeipzory, id eſt deſiderantibus homini bus gratulantibus etenebris lumen emicuit,diem inopor cognominarunt. HERM.Ap paret.so c.Nunc autem illa tragicisdecantata quid ſibiuelit suopa,nequaquam intelli. gas.quanquam arbitrantur nõnullispopov dici,quod kuopa,id eftmāſueta quæg efficiat. HERM.Itamihi uidetur.soc.Neq te fugitueteres Puyóv,id eft iugum, dvozov uocauiſ fe.HERM.Planè.soc.Enimuero luzów nihil aperit.at d'voyou,divoiy dywylw,id eſt duori conductionem ligandi ſimul gratia,monftrat.Idemø eftdemultis alijs iudicandű.HER. Patet.soc.Eadem rationediopita pronunciatum cótrarium nominum omniâ quæ ad bonum ſpectant oſtendit.porro boniſpecies exiſtens,déondeouós,id eft uinculum quod dam & impedimētum proceſſionis effe uidet,tanquam Bag Bopo,id eftnoxij affine quid dam.HERM.Icamaximeapparet,ô Socrates.Soc.Verum nõſicin nomineueteri, quod ueriſimilius eſtrecte inſtitutum fuiffe, quàm noftrum. Nempe cum ſuperioribus bonis conſenties,fi pro 4,1 uetus reſtituas.Nec enim deby;ſed toy bonum illud ſignificat,quod ſemper nominūlaudat inuentor:Atą ita fecũipſenõdiſſidet, imòad idem ſpectat,d'ion, quali δίομ, ώφέλιμομ, λυσιτελών, κάρδιαλέον, αγαθόν, συμφόβου, εύπορου, ideft facile ad pro, greffum.uniuerſü hocdiuerlisnominib.innuit aliquid per omnia penetrās, omniaq pe rornans,idő ubiq laudatü: qd uero obftat & detinet, improbata. Quinetiã nominehoc {Butãds,liyeterű mored profpoſueris,apparebit tibinomen iſtud disutisè boy, id eft li ganti fiftentiç quod pergit,impofitum.unde & Musãdes cognominandum eſt.Herm. Quid ádura,númy, uslupia,uoluptas ſcilicet,dolor, cupiditas, Socrates, & huius generis reliqua: soc.Haudnimis obſcura mihi uidentur Hermogenes, šidbvi,id eſt uoluptas lir quidem actionis illiusnomen eſt, quæ adóvgay, id eſt utilitatem emolumentumo tendit duero adiectum facit,ut pro eo quod eſt sova,údova proferatur.Ajax, id eftdolor,à Stanús Gews,id eſtdiſſolutione corporis trahi uidetur.Nam in huiuſmodi paflione corpus diffol uitur.xvíc, id eſt triſtitia, quod impeditigio,id eft ire,demonftrat.& aguda, id eft crucia tus,peregrinum nomen uidetur,ab ängdvö dictum.éduig,id eft dolor & afflictio,ab güdlü Oews,id eft ingreſſionedoloris denominatur. HERM. Videtur.so Cårigoló,id eftmoe ror languor,lationis grauedinem tarditatemg ſignificat. ãxto enim onuselt.ioy uero pergens.xapod uero,id eſt lætitia gaudium,à diazúrews,id eft profuſione, & progias,id eft facilitate,poas, id eſtmotionis animæ,dicitur. Tosalesid eſt delectatio,ab toptivs,id eft oblectamento ducitur.Topavoy autem à trom,id eft inſpiratione delectationis in animā Quaremerito uocaretur égaršv,id eſt inſpirans. Temporis autem interuallo ad Top Arvo deuentum eſt.cuqpoouis,id eſthilaritas & alacritas, quam ob cauſam dicatur,aſſignareni hil opus.Nam cuicp patet hocnomen trahiab eo quod dicitur eü, id eſt bene. oum @ opeally id eft unaſequi qualidicat animabeneres affequi.Vnde cu poporubs uocarideberet:ta men Bagooutlw appellamus.Sed neg difficile est assignare quid üsgutta, id eſtcupidi. tas ſibiuelit.Nomen quippehocuim tendentem in Ovuoy, id eft animam & iram & fu rorem oftendit. Ovuós autem à lúoews& toews,id eft flagrantia, feruore,& impetu animę. proindeiupo,id eft fuauis & blandaperfuſio,dicitur,jm,id eſt fluxu animam uehemen ter alliciente.ex eo enim quodiulio ga,ideft incitatusrerumgappetens fluit,animam uehementerattrahitpropter impetum ſiue incitamērum fluxus.ab hac tota uiHimeros eſt nuncupatus.Præterea Pothos uocatur,id eſt deſiderium, quod fane'præfentem fuaui tatem nõ reſpicit, quemadmodū iuepo,fed abfentem ardet. Vnde wale_diciturqualiá wóvrG,id eft abſentis cócupiſcentia.Idem ipſe in id quod gratñeſt animinixus,præ ſente co quod cupitur iuopo,abſente wólo denominatur.iews autem, id eſt amor,quia doga,id eft influit extrinſecus,neg propria eſt habēti gas,id eſt fluxio ilta,fed infuſa per oculos. Quapropterabcogar,id eſt influere,čopo, id eft influctio,amor ab antiquis no ftris appellabat,nam opro wutebantur.nuncautem épwsdicitur,wproo interpoſito. Ve. rum quid deinceps conſiderandum præcipis?HERM. dlófæ, id eft opinio,& talia quædã, undenomen habentisoc.déke,uel à diwa,id eſtperſecutione dicit, qua pergit & pro ſequituranima,conditionem rerum inueftigans:uelà tófo Borm,id eft arcus iactu. uides turautem hinc potiusdependere.oinois, id eft exiſtimatio,huic confonat. oftendit quip pecioiy,id eſt ingreſſum animæin unumquodß conſiderandum,oioy,id eſt quale fic:quê admodum & bons,id eft uoluntas a Borá,id eſt iactu dicitur: & Bóns, id eſt uelle, pro pter ipſum attingendinixum ſignificat etiamélis,id eſt cupere:& Bonbuch, id eſt cõſu lere.Omniahæcopinionem fequentia,Boras ipfius, id eſt iactus & nixus imagines eſſe uidentur.quemadmodum contrarium, & boniæ,id eſt priuatio uoluntatis,defectusquidã conſequendiimpos apparet, quali non contendat, neq etiam quod intendit,uult, cupit, inueftigat,adipiſcatur.HERM.Frequentiora hæc congerere uideris, ô Socrates. Quare finis iam fic fauence deo. Volo tamen adhuc,ávéyxlu & Exšonoy,id eſt neceſſarium & uo luntarium declarari.Nempe ſuperioribusilta ſuccedunt.socRéxóozoy equidem eft si noy,id eſtcedensneg renitens,hocfiquidem nomine declaratur zinoy lestorti, id eſt ces denseunti, quod'ue ex uoluntate perficitur. avayeccoy uero, id eſt neceſſarium & obfi ſtens,cum præter uoluntatem ſit,circa errorem infcitiam uerſabitur.deſcribiturautem ex proceſſu ſecundum neceſſitatem, quoniam in uia aſpera denſa inceffum prohibent. Vndeavaysazov dictum eſt,quali per & yroscop,id eſt per uallē uadēs.Quouſ uero uiget robur,ne deſeramus. Quamobré interrogaamabo, ne deſiſtas. HERM. Ecce rogo quæ maxima ſunt& pulcherrima:« aksaa,id eft ueritatem, & fordo,id eftmendacium, & öy,id eft ens, & quareid quodehicagimus,övoua,id eft nomen,dicitur.SOCR. Quid vo casmaksa: HERM.Voco equidem inquirere.so c.Videtur nomen hoc ex sermone illo conflatum, quo dicicuröv, id eſt ens esse,cuiusnomen inquiſitio eſt. Quod clarius certe comprehendes in eo quod dicimus óvojasóy, id eſt nominandum. hic enim exprimitur nomen quid ſit, entisuidelicet inquiſitio. &ikbļa uero ficut & alia componiuider.Nam diuina entislatio,nominehocincluditur,ankódæ, quaſi exiſtensOscarx,id eft diuina que dam uagatio.Foido- autem contrarium motionis.Rurſushic uſurpatur agitationis obs ftaculum, quod'ue ſiſtere cogit.Nam à reboudw, id eſt dormio dicitur. 4 uero adiectum ſenſum nominis occulicouuero & Xoia, id estens et essentia,cum & rx66ą, id eſtueritate, congruunt: fic apponatur.namrov,id elt uadens ſignificat.Atdrøv id eſt non ens,quidam nominant xxcov, id eſt non uadens. HERM. Hæcmihiuideris, 6 Socrares, fortiter admo dum discussisse. Verum si quiste perconteturquæ fitrecta iſtorum interpretatio, quæ di cuntur čov, id eſt uadens:géov,id eft fluens,doww,id eſt ligansac detinens, quid illi potiſſi. mum reſpondebimus: habes'ne: Socr. Habeo equidem.profecto nuper ſuccurrit no bis aliquid, cuiusreſponſione quicquam uideamur afferre. HERM. Quale iſtud: soc. Viquodminimecognoſcimus,barbaricum eſſe dicamus. fortè enim partim reuera talia ſunt: forte'uero partim, ac præſertim nomina prima,temporum confuſione infcru. “ tabilia.Etenim cum paflim uocabula diſtrahantur,nihilmirum eſſet ſi priſcalingua cum Ç noſtra collatanihilo à barbarica uoce differret. HERM.haud alienum eſtà ratione quod a dicis. Socr. Conſentanea quidem affero, non tamen idcirco certamen excuſationem uideturadmittere.Sed conemur hæc diſquirere, ato ita conſideremus: fiquis femper uerbailla per quænomen dicitur,quæreret,rurſus illa per quæ dicuntur uerba, ſciſci taretur, pergeretob ita perquirere,non'ne qui refpondet, defatigari tandem & renuere cogeretur: HERM.Mihiſane'uidetur. S O CR. Quando ita quireſponſum denegar, merito ceſſabit: An non poftquam ad nominailla peruenerit, quæ cæterorum ſunt& ſermonum & nominum elementarHæcutio fi elementa funt,ex alñsnominibus com pofita uiderinon debent.quemadmodum ſupra & yalóy,id eſt bonâ diximus, ex « y så, id eſtiucundo amabilio, & 805,id eftueloci compofitum.gooy rurſus ex alijs conftare di cemus,illağ ex alijs.ſed poftquam ad id peruenerimus quod ultra ex alíisnominibusno coſtituitur,merito nosad elementű perueniſfe dicemus,nec ulteriusbocin alia nomina, referendum. HERM.Scite mihiloquiuideris.soc. Annon ea de quibuspaulo ante in terrogabasnomina eleméta funt oportet rectam illorõrationem aliter quam reliquorum inueftigare. HER. Probabile id quidem.soc.Probabile certeHermogenes. Supe riora itaq omnia in hæcredacta uidentur:ac ſi ita ſe res habet,utmihiuidetur, rurſusage hic unamecum conſidera, neforte delirem dum rectam primorum nominum rationem exponeretento. HERM. Dicmodo. ego nang pro viribus meditabor. soc. Arbitror equidem in hoc tecõſentire,unam efferectam & primi& ultiminominisrationem, nul lumğ illorum eo quod nomen est, ab alio diſcrepare.HERM.Maxime.so c.Etenim om 2 nium quæ ſuprà retulimusnominum recta ratio in hoc cõſticit, ut qualis quæ res litin 7) dicaretur.HERM. Proculdubio. soc. Hocutio non minus prioribus quam pofteriori. bus competere debet sinomina fucura sunt.HERM. Prorſus.so-c.Atquipoſteriora no. minaper priora hocefficere poterant.HERM. Apparet. soc. Primauero quibus alia nõ præcedunt, quo pacto quam maximeres ipsas nobisoftendēt, ſi nomina effe debet: Adhoc mihireſponde. ſiuoce & lingua caruillemus,uoluiffemusgres inuicem declara re,nonneperindeac nuncmuti,manibus capite & cæterismembris ſignificare tenta uiſſemus? HERM. Haud aliter Socrates, soc. Ergo supernữ quippiam ac leue demon. ftraturi,cælum uerſusmanum extuliffemus, ipſam rei naturam imitantes: inferiora uero & grauia deiectione quadã humiinnuillemus. quinetiã currentem equũuelaliud quic quam animalium indicaturi,corporum noftrorum geftus figuras ad illorum ſimilitudi nem quamproximequiſo finxiſſet.Herm.Neceſlariû quod ais eſſemihiuidetur.soc. Huncinmodűutarbitror his corporis partibus ostensum eſſet, corpore videlicet quod quifq monstrare voluerat imitante. Herm. Ita certe.soc. Postquá uero uoce, lingua, & ore declarare uoluimus, nónne ita demum per hæcoſtenſio fiet,li per ea circa quodli bet,facta fuerit imitatio: HERM.Neceſſarium puto. soc.Nomen itaq eſt, urapparet, imitatio uocis, qua quiſquis aliquid imitatur,per uocem imitat & nominat. HER.Idem mihi quoq uidetur.soc. Nondum tamen recte dictum existimo. HERM.Quamobrē: Soc. Quoniam hos ouiū & gallorum cæterorum animalium imitatores fateri cogere. murnominare eadem quæ imitantur.HERM.Vera loqueris. SOCR.Decereid cenſes: HERM. Nequaquam sed quænam ô Socrates imitatio nomen erit: s o c.Non talisimi. tatio qualis quæ permuſicam fit,quamuis uoce fiat,nec etiã eorundem quorum & mu. fica imitatio eſt,nec enim permuſicam imitationem nominareuidemur. Dico autê ſic: Adeſtrebusuox & figura colorø plurimus. HERM.Omnino.soc.Videturmihiſiquis hæcimitetur,neq circa imitationes iftas nominandifacultas cõfiftere.hæfiquidem ſunt partim muſica, partim uero pictura.jnonne.HERM. Plane. soc. Quid ad hoc: nonne essentia eſſe cuiq putas, quemadmodú colori & cæteris quæ ſuprà diximus: an nõ ineſt coloriacuocieſſentia quædam,& alijs omnibus quæcunc essendi appellationefundi. gna: HERM. Mihi quidem uidetur. soc. Siquis cuiuſą eſſentiam imitari literisfylla. biscß ualeret,nonne quid unumquodo fit declararet: HERM. Maximequidem. Soci Quem hunc eſſe dices: ſuperiores quidem partim muſicum,partim pictorem cognomi nabas,hũcuero quomodouocabis? HERM. Videturhicmihiô Socrates quem iamdiu quærimus nominandiautor. soc. Siuerum hoc eſt,conſiderandum iam denominibus illis quæ tu exigebas, pess, ideſt fluxu,igra,id eſt ire, géoews, id eſt detentione,utrumli teris ſyllabisą luis reuera effentiam imitantur,nec'ne.Herm.Prorſus. soc. Ageuidea musnunquid hæcſola primanominaſint,an fint & alia præterhæc. HER.Alia equidem arbitror. Soc. Consentaneum est cæterum quis diſtinguendimodusunde imitari incir pitimitator:Nónne quãdoquidem literis ac ſyllabis eſſentiæ fitimitatio, præſtatprimu elementa diſtinguere: quemadmodum qui rhytmis dant operam, elementorum primo uiresdiſtinguunt,deinde fyllabarum tanium,rhythmoscandem iprosaggrediuntur,pri usnequaquam. HERM. Vtiq.soc.Annon ita & nosprimooportetliteras uocales die ſtinguere,poftea reliquas ſecundum ſpecies,mutas & femiuocales: Ita enim in his erudi ti uiri loquuntur.acrurſus uocales quidem,non tamen ſemiuocales, & ipſarű uocalium ſpecies inuicem differentes.Etpoftquam bæcbene omnia diſcreuerimus,rurſus induce, renomina,conſiderareg ſi ſuntin quæ omnia referuntur,quemadmodum elementa,ex quibuscognoſcere licet& ipfa, & fi in ipſis ſpecies continentureodem modo ficutiner lementis.His omnibusdiligenter cogitatis,Icire oportet afferre secüdum fimilitudinem unumquodą,ſiueunum uniſit admouendum, ſeu mulcą inuicem commiſcenda:ceuph Storesctores similitudinem volentes exprimere, interdum purpureum duntaxat coloré adhi bent,interdum quemuis alium colorem, quandoq multoscômiſcent,ueluti cum imagi nem uiri quam ſimilimam effingere uolunt,uel aliud quiddãhuiuſmodi, quatenus ima goqueo certis coloribusindiget. haud ſecus & noselementa rebusaccomodabimus,& unum uni, quocunq egere maxime uideatur:oumbona “, id eſt coniecta conficiemus, quas ſyllabasuocant. Quas ubiiunxerimus, ex eisö nominauerba constituerimus, rur fusex nominibusac uerbismagnum iam quiddam & pulchrum & integrum conſtrue mus:& quemadmodum totum ipſum compoſitum pictura animal uocat, ita noscontes xtum huncintegrű; orationem uel nominandi peritia,uel rhetorica fábricatam,uel alia quauis quæ id efficiatarte.Imòno nos iſtudagemus.modūnamą loquendo tranſgref fus fum, quippe ueteres ita conflarunt,fi ita eſt conſtitutum.Nosautem oportet,fimodo artificiofe conſideraturiſumus,ipſa omnia fic diſtinguentes, fiue ut conuenit primano mina & pofteriora ſint poſita,ſiue non,ita excogitare.Aliter autem cõnectere uidendű eft ôamice Hermogenes,ne forte ſit error.Her. Forte per louem ô Socrates. soc.Nun quid ipfe cöfidis ita te posse diſtinguere:Ego enim mepoſſe diffido. HEŘ.Multo igitur magis ipſe diffido.soc.Dimittemus igitur?an uis utcun @ ualemus experiamur,et ſi pa rum quid horum noſſe poffumus,aggrediamur,ita tamen utfuprà,dis præfati:ucq illis ediximus,nihil nosueriintelligentes opiniones hominūdeillis conñcere:ita & nấcper gamusnobiſipſi ſimiliter prædicentes, quod fi quam optime diſtinguenda hæc fuiffent, uel ab alio quopiam,uela nobis,ſic certe diſtinguereoportuiſſet: nuncautem,ut fertur, puiribus ifta nostractare decebit.Admittishęc'uel quid ais.HER. Sic prorſusopinor. soc.Ridiculum uiſum iri ô Hermogenes,arbitror, quod res ipfæ imitatione per literas fyllabas a factamanifeſta fiát.Neceſſarium tamen:nec enim meliushochabemus quic quam,ad quod reſpicientes deueritate primorum nominū iudicemus:niſi forte quemad modum Tragiciquoties ambigunt, cõmentiris quibuſdam machinamentis ad deosco fugiunt,ita & nos ocyusrem expediamus,dicentes deos primanominapoſuiſſe, & idcir corecte inſtituta fuiſſe.nunquid potiſſimusnobis hic fermoran ille,quod ipſa a barbaris quibuſdam accepimus:Nobis quippe antiquiores ſuntbarbari,uelquòd ob uetuftatem ita ea diſcerninequeuntut & barbara: Tergiuerſationeshæ ſunt, & belliſſimæ quidem, illorum quicunq nolint derecta impoſitione primorum nominû reddere rationem. Ete nim quiſquis rectam primorā nominum rationem ignorat, ſequentium cognoſcerene quit.hæcporrò ex illis declaranda ſunt,illa autē is ignorat. quin potius neceffe eft fequê tium peritiam profitentem,multo prius & abfolutius antecedentia comprehendiffe,por feq oſtendere,aliter autem ſciredebet fe in fequentibus deliraturũ.an aliter ipſe confess HER.Haud aliter Socrates.soc.Quæ ego ſenſideprimis nominibus, inſolentia ridicu lag admodum eſſe mihiuidentur,eaç tecû, ſi uelis, comunicabo. Siquid uero tumelius inueneris,mecum & ipſe comunica. HER. Efficiam.fed diciam forti animo. soc.Princi pio ipſum g uelut inftrumentum omnismotuseſſe uidetur.Curautem motuslivrosap pelletur,non diximus.patet tamen quoditors,id eftitio eſſe uult.Non enim » quondam, fedeutebamur.principiữautē ab liay, id eſtire, quodperegrinum nomen eft,& igra,id eſtire ſignificat.Quare fi priſcum eiusnomen reperiatur in uocem noftram translatum, recte i'eois appellabitur.Núc autem ab kiau nomineperegrino, & ipfiusy conmutatione, & vipſius interpofitionelivyoisnuncupatur.Oportebat autem sidingoy uel any dicere. súčas,id eft ftatio,negatio ipfius iga, id eft ire eſle uult, ſed ornatuscaufa séas denomi natur.Elementū itaq ipſum qopportunűmotusinſtrumentum,utmodo dicebā,uiſum eſt nominum autori ad ipfam lationis fimilitudiné exprimendā: paflim itaggad motus expreſſionē utitur.In primo quidem ipſo jau & goñ, id eſtfluere, fluxuğ per literampla tioně imitatur,deinde in touw,id eft tremore,& baya aſpero.item in uerbis huiufmodi, kódy percutere,&gaver uulnerare, oʻúrdy trahere, @ gúndu frangere eneruareg, kopuerto siddy incidere,pêué du uacillare, irritare, & circumuerſare. Hæcomnia ut plurimâperpad fimilitudinémotionis effingit.Mitto enim quod lingua in hac litera pronunciadamini meimmoratur, quin potius cocitatur. Quocirca ad iſtorũ expreſſione iplo s potiſſimữ uſus fuiffe uider. Vfus eft &, scilicetiota, ad tenuia quæ per omniamaximepenetran tia.idcirco igra & icadou, id eft ireprogredió per o imitatur. Quéadmodū per 4.0, quæ E literæ uehementioris fpiritus ſunt,talia quædam nominum autor exprimit, fuzeów frigt dum, (soy feruens, osoatare concuti, & communiter aconoy, concuſſionē quaffationem: quoties uehemens quippiam &fpiritu plenum imitari uult nominum inftitutor, tales utplurimum literas adhibet.Quinetiam ipſiusd cõpreſſionem aco,linguæ & uelut ha. rentis retractionem,peropportunã exiſtimaſſe uideturaduinculi&ftationis potentiâ exprimendam.Etquia in a proferendo maximelingua prolabitur, idcirco per hoc uelur ex fimilitudine quadam nominauit nga, id eſt lenia & órcdaerah labi, & noMūdeslie quidum,Ascrapov pingue, cætera huiuſmodi.Quiauero labentem linguam y remoratur eo interiecto formauityhioggoy lubricum, gauxudulce, yrādes uiſcoſum, luculentum. Animaduertens quo&ipfius v ſonum imoin gutture detineri, eo nominauit so výdby & te gutos, id eſtąd intus eſt,& quæ intrinfecusſunt, utres per literas repræſentarer.Ipſum uero w,meyer@,id eſt magno tribuit &ipſum % ukus,id eſt longitudini, quoniamma. gnäliteræ ſunt.in nomineautem spozzinoy, id eft rotundum,ipfo o indigens, o ut pluri mummiſcuit. Eadem ratione cętera ſecundum literas ac ſyllabas rebus ſingulis accom modare uidetur nominum autor,ſignữnomenoconſtitués,ex his deinde ſpecies iamre liquas per ſimilitudinem conſtituere.Hæc mihi Hermogenes recta uidetur effe nomina ratio, niſi quid aliud Cratylus hic afferat. H ER.Etenim ở Socrates,fæpemeturbat Craty lus hic, uc à principio dixi,dum eſſe quandã afferit rectam nominû rationem, quæ uero sit, non explicat, utdiſcernere nequeam utrum de induſtria, nec'ne adeòfit obſcurus. In præſentia igitur Ô Cratyle,coram Socrate dicas, utrum placeant ea tibi quæ Socrates de nominibuspredicat,an preclarius aliquid afferre poffis:quodfi potes,adducas in me dium, ut uel a Socrate diſcas,uel nos ambos erudias. CRAT. Videtur'netibi Hermoge nes facile eſſe tam breui percipere quoduis atque docere,nedum rem tantam, quæ maxi mum quid demaximis æstimatur. HER. Non mihi per louem, quinimò ſcite loquutum Heliodum arbitror, quod operęprecium ſit paruum paruo addere.Quare fi quicquamli cet exiguum perficere uales,ne graueris, fed & Socratem istum iuua,& me insuper.de. bes enim.soc. Equidem ô Cratyle,nihil eorum quæ ſupra comemoraui;aſſererē.Nem peutcunq; uiſumeſt, cum Hermogenehocindagaui. quocirca aude fi quid melius ha bes, exprimere,tanquã ſim libenter,quod dixeris,ſuſcepturus.Neqz enimmirarer liquid tu hiſcehaberespræclarius. Videris porrò &ipfe talia quædã conſideraffe, &ab alijs di diciſſe. Siquid ergo præstantius dixeris, me interdiscipulos tuos circa rectam nominā rationem unum connumerato. CRAT. Certe mihi ô Socrates,utais, curæ hæc fuerunt,ac forte diſcipulum te efficerem.Vereortamen ne contrà omnino ſe res habeat.Conuenic mihi nuncidem erga te dicere, quodaduerſus Aiacem in ſacris Achilles inquit.Genero. Iliadosi fe,ait,Aiax Telamonie populorũ princeps, omnia mea ex ſententia protulifti.Ita cu quo queô Socrates, nostra exmente uaticinari uideris, fiue ab Euthyphrone fueris inſpira tus,ſiue Muſa quædam tibipridem inhærens nuncte protinus concitauerit. soc. O uir bone Cratyle, ego quoß fapientiam meam iampridem admiror,neq nimis confido.qua re examinãdum quid dicam,exiftimo.Namaſeipſo decipi grauiſſimum eſt.nimis enim 2 periculoſa res eft, quum ſeductorabeſt nunquam ſemperdeceptum proximecomita,  tur.Oportetitao superiora frequêter animaduertere, & utpoeta ille ait, ante illa retros conſpicere.Atqui &in præsenti videamus quid à nobis sit dictum. Rectam diximus no minis rationem, quæqualisquæqres fit, oftendit.Nunquid ſufficienter eſſe dictâ afferi mus: CRAT. Ego quidem aſſero.soc. Docendi igitur gratia nomina ipfa dicuntur: CRAT. Prorſus.soc. Annon & artem eſſe hancdicimus, & ipfius artifices: CRAT. Maxime. soc.Quos.CRAT.Quos à principio tu legum &nominum conditores co gnominabas.soc.Vtrum hanc artem ſimiliter atą alias ineſſe hominibus, an aliter arhi tramur:Idautem eft quoduolo.pictores quidam deteriores ſunt,quidam pręſtantiores? CRAT.Sunt.soc. Nónne præſtantiores opera ſua pulchriora faciunt, figuras uidelicet animalium: cætericontra: Aedificatoresquoq ſimiliter partim pulchriores, partim tur piores domos efficiūt: CRAT.Sic eſt.soc. Nónne et legum ipsarī autores partim opera suapulchriora, partim turpiora efficiunt: CRAT.Haud ampliusiftud admitto.soc. Non ergo leges aliæmeliores,deteriores aliæ tibiuidentur.CRAT.Non.soc.Nec etiã nomen utapparet, aliud melius,aliud deteriusimpoſitum arbitraris. CRAT. Negiſtud. soc.Ergo omnia nomina recte poſita ſunt. CRAT. Quecunqueuidelicet nominaſunr. soc.Quid de huius Hermogenisquod ſupra dictum eſt,nomine:Vtrum dicendű non effeilli iftud impoſitum,niſiquod équo geridews,id eft Mercurijgenerationis illicompe car:Animpoficum quidem,non tamen recte:CRAT.Nec impofitum eſſe ô Socrates, arbitror,fed uideri.eſſe autem alterius cuiusdā nomen, cui natura inest quæ nomine con cinetur.soc.Vtrum nequementicur quisquis Hermogenem eſſe eum dicit:Nec enim hoc eft dubitandum, quin eum dicatHermogenem eſſe,cum non fit.CRAT. Quaratig ne id ais: so c. Nunquid ex eo quod non datur dicere falſa,ſermo tuus conftat, & circa id uerſacur.permulci nempeô amice Cratyle, & nunc prædicant, & quondam aſſerue runt.CRAT.Quo pacto ó Socrates,dum dicit quis quod dicit quod non eſt dixerit; An non hoc eſt falla dicere,quæ nõ ſunt dicere: soc.Præclarior hic fermoamice,quam con dicio mea & ætas exigat.Attamen mihi dicas,utrum loqui falſa non poſſe aliquis tibi ui detur,fariautē pofle? CRAT.Neq fari.soc.Acetiam nec dicere,nec apppellare, falu tare:Quemadmodum liquis tibi obuiushoſpitalitatis iure manu te prehendens dicat Salue hoſpes Athenienſis, Šmicrionisfili Hermogenes.illeloqueretiſta,uel fari dicere tur,uel diceret,uel falutaret,appellaretę ita, non te quidem,ſed hunc Hermogenem,aut nullum: CRAT.Videtur mihi ô Socrates,incaſſum hæc iſte uociferare.so c.Šat habeo. utrū uera uociferat,qui ita clamat, an falſa: Anpartim uera, partim falſa: Namhoc quo queſufficiet.CRAT. Sonare huncego dicam feipfum fruſtra mouentem, ceu fiquis æra pulſer.soc.Animaduerte Cratyle,utrum quoquo modo conueniamus.Nõne aliud no men, aliud cuius nomen eſt,effe dicis: CRAT. Equidem. soc. Etnomen rei ipsius imita tionem quandam effe: CRAT.Maxime omniū. So c.Etpicturas alio quodam modo re rumquarundam imitationes: CRAT. Certe.so c. Ageuero,force'ego quid dicas, non fa tis intelligo,tu autem forſitã recte loqueris.poffumus has imitationes utraſą &picturas & nomina rebus his quarű imitaciones ſunt,attribuere,nec'ne: CRAT.Poſſumus. SOC. Adverte hocin primis,nunquid poffit aliquisuiri imaginē uiro, &mulieri mulieris tri buere, & in alijs eodem pacto: CRAT.Sic certe.soc.Num &contra,uiri imaginem mu lieri,& mulieris uiro: CRAT. Ethoc. soc.An utræquediſtributioneshuiuſmodirectæ sunt: uelpotiusaltera,quæ cuiæ proprium fimileg attribuit: CRAT.Mihi quidem uide tur.SOC.Ne igitur ego actu cum ſimusamici,in uerbis pugnemus, aduerte quod dico. Talemego diſtributionem in imitationibus utriſqz tam nominibuső picturis rectã uo co. & in nominibus nõrectam modo,fedueram. Alteramuero diſsimilisipſius tributio nem illationem non rectam,& in nominibus præterea falſam. CRAT. Atuide ô Socra tes,nefortè in picturis duntaxat id contingere poſſit,ut quis male diſpertiat, in nomini bus autem minime,fed neceſſariū ſit recte femper adſcribere.soc.Quid ais: quo ab illo hoc differt: Nonefieri poteſt ut cuipiam uiro quis obuius dicat,hæctua figuraeſt, oſten datók illi forte'uiri illius figuram, forte'etiã mulieris: Oftendere,inquam,ſenſibus oculo rum offerre.CRAT.Certe.soc.Nónneiterum ut eidem factus obuiam dicat, nomen id tuum est. Imitatio quippe aliqua nomen est,quemadmodũ & figura. Dico autéita.Nón ne licebit illi dicere,nomen hoctuum eft: deinde in aurē idem infundere,fortè'eius imi tationem dicendo quod uir eſt,forte' uero fæminæ cuiuſdã generis humani imitationē, dicendo quod mulier: Non uidetur tibihoc aliquãdo fieripoffe: CRAT.Concedere ti bi uolo, o Socrates,licefto.soc.Recte facis amice.acſi id ita fe habet, controuerſia iam tolletur. Porrò si in his huius modi quædã partitio fit, alterâ uereloqui,alterữloqui falſa uocamus.Si hocaccidit, & poſſumus non recte nomina diſtribuere, & quænon propria funt cuic reddere,fimiliter in uerbis aberrare licebit.Sinautem uerba nominağ ita con gerere datur, necesse est et orationes similiter. Oratio quippe,utarbitror, eſt uerborum &nominum cõpoſitio. Quid ad iſta Cratyle: CRAT. Quod & tu.probe namg loqui ui deris.soc. Quinetiã si prima nomina ad literas ipſas quadã imitatione referimus,cótin. gere poteſt in his quemadmodã in picturis,in quibusaccidit ut congruas omnes figuras coloresg; adhibeamus.Item (ut non omnes,fed partim ſuperaddamus,partim ſubtraha mus,plura & pauciora exhibeamus. Nõne fieri hoc potest? CRAT. Proculdubio.so.. Quicóuenientia oſia tribuit,pulchras literas & imagines reddit.Quiuero addit,uel au fert,liceras quidem ac imagines &ipſe facit, fedmalas,CRAT. Nempe. soc. Qui autem per literas ac syllabas rerum eſſentiam imitatur,nónne eadem ratione fi comperētia om nia tribuit,pulchram imaginem efficit: Idautem nomen exiſtic.finautem in paucás defi, ciatuelexcedat,imago quidem efficietur, sed non pulchra:Quamobrem nomina quæ. dam beneinſtituta erunt, quædam contra.CRAT. Forte. soc.Forſican ergo nominum hicbonus erit artifex,illemalus.CRAT.Profecto.soc.Nónne huic nomen erat nomi numcõditor: CRAT.Plane.so c.Erititag in hocquemadmodū in cæteris artibus con. ditor nominum bonus unus,alius uero non bonus,limodo fuperiora illa inter noscon ftant. CRAT. Vera hæc funt. Verum cernis ô Socrates, quotiens has literas « & B & quoduis elementorű nominibus per artē grammaticamattribuimus, ſiquid auferimus, ueladdimus, uel etiam permutamus, quod nomen quidem ſcribimus;non tamen recte, imò uero id nullo modo fcribimus,quin potius ſtatim aliud quiddã eſt,cũ primum horű aliquid patitur.soc.Videndű Cratyle,ne force'minusrecte hoc pacto conſideremus. CRAT. Quo pacto:so c. Fortaſſis quæcune aliquo ex numero conſtare uel non cõsta reneceſſe eſt,idquod ais perpetiuntur, quemadmodūdecem,autquiuis alius numerus. Nam quilibet numerus quocûç additouel ablato,alius ſtatim efficitur. Fortè uero qua litatis cuiuslibet & imaginis haud eadēratio eſt, ſed diuerſa. Neg enim omnia imago ba bere debet quæcũą illud cuius imago eſt, li modoeſt imago futura. Animaduerte num aliquid dicam.Anduoquædam hęcerunt,Cratylus uidelicet, & ipfius imago, ſiquis deo rum nõmodo colorem tuum figuramß expreſſerit,ut pictores ſolent,ſed interiora quò que omnia fimilia tuis effecerit,mollitiem eandem,caloremý,motum,animā, fapientiā; &ut breui complectar,talia prorſus effinxerit omnia,qualia tibiinſunt: Varum, inquá, alterum iſtorum Cratylus erit,alterum Cratyli ipsius imago:AnCratyli potius gemini: CRAT.Cratyli ô Socrates, ut arbitror, duo.soc.Cernis amicealiam imaginis rationem eſſe quærendam, quàmillorum quæ paulo ante diximus.'ne cogendum effe liquiduel additum,uelablatum fuerit,ut non ampliusſit imago Annonſentis quantã deeſt ima ginibus,ut eadem habeantquæ & illa quorû imagines sunt: CRAT. Equidem.soc.Ri. diculum aliquid Cratyle exnominibus contingeret his quorum nomina ſunt, fi prorfus illis fimilia redderentur.Gemina quippe omniafierent, neutrumą illorūutrum effetpo tius dici poffet,res'ne ipſa annomen. CRAT. Vera loqueris. soc. Ingenueitaqz fatearis o uirgeneroſe,nominum aliud bene,aliud contra pofitum effe:nec cogas omnes literas continere,adeò ut penitus tale fit, quale & id cuius eft nomen:ſed mitte literá quoq mi nus congruam afferri quãdoq:ſi literam, &nomen ſimiliter in ſermone: ſi in fermoneno men,ſermonem inſuper nequaq connenientem rebus tribui, et rem ipsam nihilominus nominari diciç,quoad rei ipſiuscuius fermo eft figura,inſit: quemadmodü in elemento rum nominibus quæ nuper ego &Hermogenes comemorauimus,lirecordaris. CRAT. Recordor equidem,soc. Benehercle igitur quandocung hocinerit, quamvis non om nia conuenientia prorſus adſint, dicetur.bene quidem, cum omnia:male uero, cum pau ca.Diciitap ô beate,mittamus,nequemadmodû qui in Aegina noctu circumuagãtur, fero iter peragūt, ita &nos hoc pacto ad res ipfas reuera ſerius quàm deceat, perueniſſe uideamur,uelfalutem aliam quandã exquiras rectam nominis rationem,nec confitea. ris declarationem rei literis ac fyllabis facta,nomen effe.Porrò ſi ambo hæc dixeris, tibi ipfe conſtare &conſentire non poteris. CRAT. Viderismihi probeloqui ô Socrates.at que ita pono.soc.Poſtquam de his conſentimus, quod reſtat diſcutiamus.Si bene no men poſitum eſſe debet,oportere diximus literas fibi cõuenientes ineſſe. CRAT. Plane. soc.Conuenit autem ut literæ rerum fimiles inſint. CRAT. Omnino. soc. Quæigi tur recte ſunt poſica ita pofita ſunt.Siquid autem non recte poſitum eſt ut plurimum qui demex conuenientibus ſimilibusý literis conſtat, fi quidem imago eſt.habet auté & ali quidnon conueniens,propterquod non rectâ eſt,nerecte nomen eſt inſtitutű,Sic'ne an aliter dicimus:"CRAT.Nihileft ô Socrates,utarbitror,contendendã:neq enim mihi placet,utņomen quidem eſſe dicatur,non tamērecte poſitű. soc.Vtrum hoc tibi non placet,quodnoměreiipfiusdeclaratio lit:CRAT. Placet.soc.At vero nomina partim ex primis constituta esse, partim esse primanon probedictâ putas:CRAT.Probe.soo Enimuero prima ſi quorundā declaraciones effe debent, habes'ne modû commodiore quo id fiat, qa li talia fiát,qualia illa funt quæ declarari volumus:Anmodus iſte pocius ei bipla. i  biplacet,qué Hermogenesalijý plurimi tradunt,quòd uidelicet nomina conuentiones quædam lint ijs qui ita coſtituerunt,acresipfa præcognouere,aliquid referentes:rectas nominis ratio in cõuentioneconſiſtat,nec interſit utrum quis ita utnunc ftatutű eſt de cernat, an contra:ut uideliceto, quod nunc o paruũuocatur, o magnum cognominetur, wuero quodmodow magnum, w paruum dicatur: Vter iftorum magis tibimodus pla cer: CRAT. Pręſtatomninoô Socrates,fimilitudine referre quod quis oftendere uult, quouis alio. soc. Scice loqueris.Nõnelinomen rei ſimile eſt,neceſſe eſt elemēra ex qui bus prima nomina cõponuntur,natura ipſa rebus eſſe fimilia: Sic autem dico: an aliquis quandox picturā iz ſupra diximus,rei cuiuſquã ſimilem effinxiſſet,niſi colores ipfi qui bus cõſtatimago,efTentnatura reiillius ſimiles quam pictoris ſtudium mitatur: Anno impoſſibile: CRAT.Impoſſibile plane.soc.Eadem rationenomina ipſanun alicuius fimilia fierent,niſi illa quibus nomina cõponuntur, limilitudinem aliquam haberent ea rum rerű, quarum nomina imitationes ſunt. Ea vero quibus conſtant nomina, elemen ta funt.CRAT. Sane. soc. lam tu ſermonis eiuseſto particeps,cuiusnuperHermoge nes.An rectediceretibi uili ſumus, quod ipſum plationi,motui,aſperitati congruit? CRAT.Rectemihi quidem.soc.Ipfum aūta leni & molli, accæteris quæ narrauimus: CRAT. Profecto.so c.Scis'ne quod idem,id eſt aſperitasipſa nobis quidē oxigpótys uo icatur, Eretrienſibus uero oxi spóryg: CRAT.Vting.soc. Vtrữambo hæclp& o, eidem fimilia uidentur,idemg oſtendűc tam illis per ipliuse determinacionē,quam nobis pero nouiſſimű,uel alteris noſtrum nihil referunt: CRAT. Vtriſą plane demonſtrant. soc. Vtrum quatenus fimilia ſuntp & o,uel quatenus diſſimilia: CRAT. Quatenus fimilia. soc. Nunquid penitus ſimilia ſunt,ad lacionē æque ſignificandā: quin & ipſum a inie ctum,cur non contrariū aſperitatis ipſius ſignificat: CRAT. Forte'non recte iniectữeſt ô Socrates, quamadmodūea quæ tu in ſuperioribus cum Hermogenehoc tractabas,dum &auferebas &inferebas literas ubimaximeoportebat. Acrecte mihi facere uidebaris. &nunc forte pro 1, s apponendű eſt.so.Probeloqueris. Quid uero nuncuc loqui nihil percipimus inuicé, quando quis orangón pronunciat: nec tu quidnuncego dicã, intelligis: CRAT.Intelligo equidem propter conſuetudiné.soc.Ouir lepidiſſime,cum confuetudinem dicis, quid aliud præter conuentionem dicere putas. An aliud conſuetu dinem uocas, quàm quodego cum id pronuncio,illud cogito,eu quoc quod ipſe cogítē percipis:Nonhocdicis: CRAT. Hoc ipsum.soc.S;id mepronunciante cognoscis, per mne tibi fit declaratio,ex diſſimili uidelicet eius quod ipſe cogitans profero: quãdoquide ipſum, diſſimile eft eius quo tu ordygótym, id eſt aſperitatem úocas. Si hoc ita ſe habet, profecto ipfe ad id teipfum aſſuefacis, & ex hac conuentione rectam tibi nominis ratio nem proponis,poſtộ tibi idem tã diſſimiles of ſimiles literæ repræſentãt propter ipfum conſuetudinis & conuentionis acceſſum.Sinautem conſuetudo conuentio minime fit; haudadhuc recte dici poterit ſimilitudinē eſſe declarationem, imò cõſuetudinem dicere oportebar. Siquidē ex ſimilitudine&diſſimilitudine conſuetudo declarat, Hisaricco ceffis,ô Cratyle nempe ſilentiñ tuum pro cõceſſioneponam) neceſſe eſt conſuetudině cca aliquid conuentionēģconcere,conferreġ ad eorû quæ ſentimus& loquimur expreſſio nem.Nam ſi uelis,optime uir,ad numerorũ conſiderationem defcendere, quo pactoſpe ras, adeò propria reperturű te nomina ut ſingulis numeris ſimile nomen attribuas, ſi no permiſeris cõcefſionem tuam, conuentionemý autoritatê aliquam circa nominū ratio nem habere: Mihi quidē et illud placet,ur nomina quoad fieri poteſt, rebus fimilia ſinta Coc Vereor tamen neforte,utdicebatHermogenes, tenuis quodãmodoſic iſtius ſimilitudi nis uſurpatio, cogamurg & oneroſa hacre,cõuentioneuidelicet uti, ad recta nominum rationem:quoniã tunc forte pro uiribus optime diceretur,cum uel omnino,uel maxima ex parte ſimilibus,id eſt cõuenientibus diceremus,turpiſſime uero cữ contrà. Hocautē poft hæc inſuper mihi dicas: quã nobis uim habētnomina, quid'ue pulchrâ perhec effi. cinobis afferimus:'CRAT.Doceremihi quidē nomina uident,ô Socrates,idý fimplicia ter aſſerendű, quòd quiſquis nomina ſcit, & res itidē ſciat.so. Forte ô Cratyle,tale quid cuc dam dicis, q cũnoueritaliquisquale ſitnomē,eſt aūt tale qualis &res exiſtit, rem quoq ipſam agnoſcet, quandoquidē nominis eft res ſimilis. Arsaūtuna eadem eſt omniüin cor ter ſe ſimiliū.Hac ratione inductusdixiſſe uideris; quod quiſquis nomina cognoſcit, res ecc quoghi quoq ipfas agnoſcet.cRAT.Veraloqueris.soc.Age,uideamus quismodus docenda rum rerum iſte ſit,quem ipſenuncdicis, & utrum alius prætereaſit,hic tamen potior ha beatur,uel alius præcerhuncnullus. utrum iſtorum pocius arbitraris: CRAT. Hoccerte, quòd nullusuidelicet alius ſit,fed hic folus & optimus.soc.Vtrum uero & resipſas ita reperiri cēſes,ut quicung nomina reperit,ea quoq quorum nomina ſunt,inueniat: An quærendum potiusalium modum quendā,hunco diſcendű.CRAT.Maximeomniale cundum iſtahuncipfum & quærendű & inueniendum. soc.Age,ita conſideremus,ô Cratyle: ſiquis dum res inueſtigat,nominaipſa ſequitur,rimatur; quale unãquodą uule elle,uides maximum decepcionis pericula ſubit:CRAT. Quo pacto: soc.Quoniam qui principio nominapoſuit, quales effe resopinatus est, talia quoq nomina,ut diceba mus,effinxit.Nonne itar CRAT.Ita prorſus. Soc.Siergo illenõrecteſenlit, & ut ſenlie inſtituit,nõne & nos fequentes eius ueftigia deceptos iri exiſtimasť CRAT.Haud ita elt imòneceffe ſciencem fuiffe illum quinomina poſuit.Aliter autem,ut iamdudâdicebam, nomina nequaſ effent.Euidentiſlimoautem argumento id eſſe tibipoteſt, haudà ueri tate aberrauiffe nominum autorē,quòd ſimale ſenſiſſet,nequaq libiita omnia conſona. rent.An non aduertiſti & ipfe, cum diceresomnia in idem tendere 'soc.Nihil ifta obo. neCratyle,ualet defenſio.Quid enim mirum eft, li primodeceptus nominâ institutor, se quentia rurſusad primum ui quadã traxit,& ipfi conſonare coegit:Quemadmodücirca figuras interdűexiguo quodam primo ignoto falſof exiſtente, reliqua deinceps multa Circa prin, inuicem conſonant. Debetenim quiſo circa rei cuiuſ principium ſtatuendű differere » cipium ſta, multa,diligentiſſime conliderare,utrum recte decernat,nec ne. quo quidem fufficiens tuendă diſ ter examinato,cætera iam principium fequidebent, Miror tamen,fi nomina libímet con i ſereremulta gruunt. Conſideremus iterum quæ ſupra retulimus. diximus profecto ita nomina effen. oportet tiam ſignificare qualiomnia currat,ferant & defluant. Ita'nelignificare cenſes? CRAT. Ita certe. & recte quidē.soc.Videamusitaqs ex illis aliqua repetentes. Principio nom hocwrshug,id eſt ſcientia ambiguum eſt,magis a ſignificare uidetur, quod istory,ideft fiftit in rebus animam, ĝ quod cum rebus pariter circumfertur:rectiusos eſſe uidetur, ut principium eiusutnuncüdishulu dicamus, per e ipſius eiectionem, & pro 4, 5 potius adijciamus. Deinde Bébajok, id eſt firmum dicitur, quoniam badoows & scotas, ideft firmamenti, et status potius quam lationis est imitation. Præterea igoelæ ad forte ſignifi cat quod isgor t powi, id eft ſiſtit fluxum, & ipſum nisov,id eſt credendum, isaw, id eſtfira mare omnino ſignificat.Quinetiã uykusid eſtmemoria,oftendit prorſus quod in anima nõagitatio eft,fedpovni,id eft quies,ſtabilise permanſio. Atquifiquis nomina ipſaobler ueta écueapariæ & ovuqoça,id eft error & cótingentia caſus,idem uidebuntinferre,quod owens & ufiskur, id est intelligentia at scientia, & cætera nomina quæ præclarisſunt rebus impoſita.ltem cualíc & cronacíc, id eſt inſcitia & intêperantia,proxima hisui dentur.icuclic quidē importareuidetur,&cket demi loves aegear, id est simul cum deo eun tis progreſſum. cronæriæ uero omnino quandam ipfarum rerum arodubiav,id eft perſe. cutionem atq cogreffum.At ita quæ rerum turpiſſimarű nominaeffe putamus,nomi num illorû quę circa pulcherrimaſunt, ſimillimauidebuntur.Arbitror & aliamultare periri poffe,fiquis ad hæc incumbat, ex quibus iterum iudicabit nominữautorêno cur rentes delataso res,imò ftabiles indicare. CRAT.Verūtamen multa o Socrates ſecundi agitationis ſignificationē uides illum conſtituiffe.soc. Quid agemusô Cratyle: Nun quid fuffragiorû calculorum inſtarnomina ipſa dinumerabimus: at ad hancnormă derecta ratione nominū iudicabimus,ut ea tandem uera ſint,quibus significationes plu rium nominum fuffragantur: CRAT.Haud decet. soc. Non certe amice. Sed his iam omiſſis,redeamus illuc unde digreffifumus. Dixiſtinuper,firecordaris,neceffariñelle, illűquinomina ſtatuit,prænouille ea quibus nomina tribuebat:perſtasadhuc in ſenten tia,nec'ne'CRAT. Adhuc.so c.Nunquid & illum quiprimanominapoſuit,nouiſicais dum poneret: CRAT. Nouiſſe.soc.Quibusex nominibus resueldidicerat,uel invene rat, quando necdâ primanomina fuerāt inftitutar cum dicta ſit impossibile esse resuelig vuenire, uel diſcere,niſi qualia nominaſint,didicerimus,uelipfinosinuenerimus. CRAT: Videris mihinonnihil ô Socrates, dicere. soc.Quo igitur pacto dicemus eos ſcientes, nomina poſgillexuellegum & nominü conditores ante poſitionem cuiuslibet nominis extitille extitiffe, eosý res antea cognouiffe,fiquidem nõ aliter quam ex nominibus diſcires por finer"CRAT. Reor equidem Socratesueriſsimum eum effe fermonem quo diciturex.co cellentiorem quandam potentiam quam humanam primarebus nomina præbuiffe, quo neceffarium lit ut recte fuerint diſtributa. soc. Nunquid putas cótraria libijpfipofuif-cc ſe nominum autorē li dæmõ aliquis ueldeusextitit: an nihiltibi fupra dixiffe uidemur: CRAT.Forte'nondum alterum iftorum nomina erant. soc. Vtraigitur erantuir opti me; num quæ ad ftatum uerguntian quæ ad motum potius Neq enim, utmodo dixi mus,multitudineiudicabitur. CRAT.Sic decet Socrates.soc.Cum itaque diſſentiant contendanto de ueritate inuicem nomina, & tam hæcquàm illa uero propinquiora effe feafferant,cuiusadnormam dijudicabimus.Quò nos uertemus: Nec enimad alia no mina confugiemus, quia præterhæcnulla. Verum alia quædam præter nomina quæren da funt,quæ nobis oftendantabſque nominibus,utra iſtorum uera ſint, rerum uidelicet monſtrantia ueritatem. CRAT.Itamihiuidetur.soc.Si hæc uera ſunt Cratyle, pof ſunt,utuidetur, res line nominibus percipi. CROT. Apparet. soc. Per quid potiſsi mum aliud fperas res ipfas percipere:Nónne per quod conſentaneum ac decenseft: pet mutuam illarum communionem, fcilicet fiquomodo inuicem cognatæ sunt, & perse ipsas maxime. Quod enim aliud eft ab illis, aliud quiddam non illas significat. CRAT. Vera loquiuideris.soc.Dicobſecro nonne iam fæpe conceſsimus,nomina quæ recte pofita funt,fimilia illorum eſſe quorum ſuntnomina,rerão imagineseffe: CRAT. Con ceſsimus planè.soc.Si ergo licetrespernominadiſcere, acetiam per ſeipfas, quæ præ ftantior erit lucidiorý perceptio:Num si ex imagine cogitetur et imago ipſa utrum re cteexpreſſa fit, & ueritas cuiushæc eftimago: Anpotiusfi ex ueritate tam ueritas ipſa. quàmipſius imago,nunquid decenter imago ad eam fueritinſtitucar CRAT. Siexueri tate.soc. Qua ratione res vel per doctrinam vel per inventione comprehendendęſint; iudicare, maioris quàm meum ac tuūſit, ingenñ opus esse uidetur. Sufficiat autem nunc internos conftitiffe quod non ex nominibus,immoex ſe ipſis potiusdifcendæ quæren dæg ſunt.ERAT. Sicapparet ô Socrates.soc.Animaduertamus & hocpræterea,në mulra hæcnomina in idem tendentia nosdecipiant, cũ quiilla impofuerunt, currere om nia semper flueresputauerint,ato ea cõſideratione poluerint:uidenturnempemihiita exiftimaffe:quorû camēopinio fi talis extitit,falſahabêda eſt.profecto illiuelut in quan dam delapfi uertiginem, & ipfi uacillant iactanturcs, & nosin eadem rapientes immer gunt. Cõlidera uir mirifice Cratyle quod ego sæpenumero fomnio, utrum dicendû est: esse aliquid ipſum pulchrum ac bonum,& unum quodas exiſtentium ita,nec ne.CRAT. Mihiquidem ô Socrates eſſe uidetur.so c.Illud igitur ipſum cõſideremus, non ſi uul cus quidam aut aliquid taliú pulchrum eſt, quippe hæc omnia fluunt:ſed ipſum pulchrữ dicimus,nonneſemper tale quale eſt perfeuerat: CRAT. Neceſſe eſt.soc. Nunquid possibile eft ipſum recte denominare si ſemper fubterfugit, acprimo quid illud fic dein de quale ſit dicereruelneceſſariû eſt,dum loquimur aliudipſum ftatim fieri,iugitero dif fugere,nec tale amplius eſſe: CRAT. Neceflarium.soc. Quo pacto aliquid illud erit, quod nunquam eodem modo ſe habet: Sienim quandoq eodem modo fe habet, eo in tempore minimepermutatur:fin autem ſemper eodémodo ſe habet;idemg exiſtit, quo modo tranfituelmouetur, cum ideam ſuam non deferat: CRAT. Nullo pacto: so ca Præterea ànullo cognosceretur. dum enim cognitura uis ipsum aggrederetur, aliud alie numosfieret.quare quid ſit aut quale cognoſcinõpoffet.nam cognitionulla ita réper cipit, utnullo modo fe habentem percipiat. CRAT. Eft ut ais.soc. Sed ne cognitio nem ipfam effe affirmandẫeſt ô Cratyle ſi deciduntomnia,nihilg permanet.Sienim co gnitio ex eo quod cognitio eſtnon decidit, permanebit semper, ac ſemper eritcognitio irautem cognitionis ſpeciesipſa diſcedit,ſimul & in aliam cognitionis fpeciem delabe tur,neæ cognitio erit.Quod fi perpetuomigrat, ſempernon erit cognitio. Aro hacra. tionenew quod.cogniturum eſt,nec quod cognoſcen lum,ſemper erit. Sinautem fem per eſt quod cognoſcit,eft quod cognoſcitur,eft pulchrű,eft & bonum, eſtý deniq exi. Itențium unűquod & quæ in præſentia dicimus,fluxus lationis ſimilia non uidentur.Vtrum uero hæcita ſint,an ut dicebantHeraclitiſectatores, alijg permulti,haud facile di ſcerni poteſt.Nec hominis ſanæmentis eft feipfum animumg luū nominibuscredere; & autorem nominum sapientem asseverare, atqz ita de ſeipſo rebus omnibus maleſen 9 ) tire,ut pPomba nihil integrum firmumą exiftere,ied omnia uelutfictilia fluere atg conci. v dere, &quemadmodum homines deſtillationibus capitisęgrotantes,fimiliter quoqres w ipsas affici iudicet, adeo ut deſtillatione et fluxu omnia comprehendantur. Forteộ Cratyle ita eſt,forteetiã aliter:forti animo &diligenti ſtudio inueftiganda res eſt.neqením fácile aſſentiendum.Iuuenis adhuces, arque tibi fufficitætas. Et liquid inveneris inda gando, mihi quog impartiri debes. CRAT. Nauabo operam Socrates. Ac certe {cito meetiam in præfentia non torpere,immocogitāti mihi et multa animo reuoluenti mul tomagis ita ut dicebas ipse, quam ut Heraclitus,res ſeſe habere uidentur.soc.Dein ceps amice poftquam redieris me docero. Nuncautemut conſtituiſti in agrum perge. Atqui & Hermogenes hicte comitabitur. CRAT. Fietutmones Socrates.Verum tu quoque iam de his cogita.  IL CRATILO    /    DELLA. RETTA INVENZIONE/'     DE' NO MI f , ...   (/ /M    ERMOGENE CRATILO z SOCRATE    a vuoi tu ancora, che noi communichiamo il parlar  nostro con Socrate? c*. — Se il pare a te. ehm. —  O Socrate, Cratilo dice, che ai ritrova in qualunque  degli enti per natura la retta invenzione del nome, nè  aia nome quello, onde convenendo alcuni il chia-  mavano, mentre proferiscono certa particella della sua  Toce: ma sia naturalmente certa retta invenzione di  nomi la medesima in tutti e Greci e Barbari. Sicché io  Io addimando se daddovero sia Cratilo il nome di lui,  o nò: ma egli confessa esser questo il suo nome. Or So-  crate dissi io, qual nome tiene egli? di Socrate disse:  non hanno tutti quel nome, col quale chiunque il  chiama da noi: nondimeno disse egli uon è il tuo no-  me Ermogene, nè se ancora tutti gli uomini ti chia-  massero cosi. E mentre io lo addimando, e desidero  sapere, che cosa dica, non mi dichiara affatto niente:   ma beffandomi, simula di aver nell’ animo alcuna cosa,   1    \     l   I     r    Digitized by Google™    )•*«{(   come egli intenda non so che d’intorno a questo, i!  che se volesse esprimer niartifVstnmfcnte, farebbe che  io confessassi, e dicessi lo stesse, che egli si dice. La-  onde udirci da te volentieri, se in qualche maniera tu  potessi congetturare il vaticìnio di Cratilo. Anzi udirei  molto volentieri la tua opiuione intorno alla retta in-  venzione de* nomi, se ti fosse in grado, soc. — 0 Ermo-  gene, figliuol di Jponico, è proverbio vecchio, che sia  malagevole da conoscer in qual guisa se ne stiano le  cose belle. Or la notizia de’ nomi non è picciola di-  sciplina. In vero se io avessi udito già molto tempo  da Prodico quella ostentazione di cinquanta dramme,  nella cui dottrina ancora era questo, come egli ne  rende testimonianza; niuno impedimento sarebbe, che  tu non conoscessi incontinente la verità intorno alla  retta invenzione de’ nomi.' Ma ora io non I’ . ho udita  ma si ben quella d’ una. dramma. Per la quale cosa;  non sò quello che d’ intorno a queslavi sia di vero: ma  sono prrsio ad investigar, inlteoie. con essd.tecoj.èfcon  Cratilo. In quanto poi dice, else tu non abbia' versi  mente nome ErmOgene, io sospetto, che egli motteg»  gì; perchè egli forse pensa, che tu sia -desideroso del-  lo acquisto de’ danari, e impoleule.seinjpre ad otieuer-  li: ma come ho detto poco, f», egli è difficile, «Ite ciò  si conosca. Or fa misticri, da tutte due le porli spoe-  tando iu meszo le ragioni, che si investighi se sia cosi,  come tu di o piuttosto come dice Cratilo. e»m.— E pur  o Socrate, tuttoché spesso io abbia disputato già con    /    Digitized by Google    tostai, « con altri molti* tuttavia non ancora mi pos-  so persuaderò, che altra ai.» la rotta invenzione del no-  me, phe lo assenso, e il consentimento; perciocché  a me pare, clic quel sia nome retto, il quale impone  chiunque a ciascheduno, e se di nuovo il mutasse, e  altro ne ponesse, non meno del primiero quello, che  Si trasportasse sarebbe nome retto, come siamo noi  soliti di cambiare i nomi a servi, non vi essendo per  jialura a ninna cosa il nome! ma per legge, e secon-  do la usanza di coloro, che furono soliti cosi chia-  marli. Il che se sia. altrimenti, io sono apparecchiate  .ad impararlo, o adirlo non solamente da Cratilo; ma  da qualunque altro, soc.—. O Ermogene peravvepto-  ra tu dì alcuna cosa: ma consideriamola. Quello che  porrà alcuno, con cui chiama qualunque cosa, sarà  egli, il nome di ciascuna cosa? ehm. — A me pare,   soc. — O se il privato, o la città il dicesse? uh. —  Lo assentisco. soc. — Ma che, se io chiamassi qua-  lunque degli enti, come per esempio, se quello, che  al presente chiamiamo uomo, chiamassi cavallo, e uo-  mo quel, che cavallo: pubicamente sarà egli il nome  all' uomo, privatamente cavallo; e di nuovo privata-  mente uomo, cavai lo puiilicnmenle Parli così tu? erm.  — Tosi mi pare. soc. — Or mi dì questo. Chiami tu  alcuna cosa il dir il vero, e il Tabu? erm.— In vero  sì. soc. — Non lia quella vera orazione: ma quest*  orazione falsa? erm. — Così affatto, soc.— Quei par-  lar poi, che die* le cose, che sono quali son esse ai    »    ìli   h rero: ma falso quello, che non come sono? n»,   — Cosi è. soc. — Adiviene egli questo, che col par-  lare si dicano le cose, che sono, e che non so-  no? ehm. — Si. soc. — Il parlar che è vero mi di,  se è vero tutto, non vere le parti? ehm.— Nò: ma le  parti ancora, soc. -- Dimmi, le parti grandi saranno  vere: ma le picciole nò, oppur tutte? exm. — Io mi  stimo tutte, soc* Puoi tu dire altra parte piu pic-  ciola del sermone, che il nome? erm In modo nin-   no, essendo questa la minima parte, soc.— .Ed an-  cora si dice egli peravventura il nome parte della ve-  ra orazione? erm. - Senza dubbio, soc.— Veramente  parte vera, come è, tu di. erm.— Veramente, soc.—   E la parte del falso, non è ella falsa? erm. — Lo di-  co si. soc- — Dunque è lecito dir nome vero, e no-  me falso, se si dice ancora la orazione. erm. — In  che modo nò? soc. — Dunque quel nome, che chiun-  que dirà, che in alcun si ritrovi, sarà egli il nome  di ciascheduno? erm — Si. soc.— Peravventura quanti  nomi dice alcun, che abbia chiunque, tanti saranno  essi? e allora, quando egli li dice? erm, —Per certo,   o Sncrate: io non ho alcuna retta invenzione di no-   / t   me, fuor che questa, in modo, che non sia lecito a «  me con altro nome chiamar la cosa, che con quello,  che io ho imposto, nè a te con altro, che con quello,  elle le imponesti. Cosi per certo io veggo nella città, *  che si hanno alcuni propri nomi delle medesime co-  se, e fra Greci in verso ad altri Greci, « in verso a   i   \    • Qigitized by Google     ) 5 <   Barbari, «oc. — Or rediamo o Ermogene, se pare a  te, che gli enti se ne stiano in questo modo; che ognun  di loro tenga la propria essenza, come diceva Prota-  gora, dicendo egli esser 1’ uomo misura di tutte le co-  se in modo, che quali qualunque cose mi paiono, tali  io le abbia; similmente quali tu, e tali le ti abbi; o  pensi piuttosto che siano alcune cose, le quali tenga-  no alcuna fermezza della sua essenza, eem. — Alcuna  volta, o Socrate, dubitando sono condotto a quello,  che dice Protagora: per tanto non mi persuado a ba-  stanza, che se ne stia egli cosi. soc. — Ma che? set  tu ancora alcuna volta condotto a questo, che non li  paia in modo niuno, che alcun nomo sia cattivo? erm.  — Per Giove nò; anzi spesse volte cosi sono disposto,  che io stimo, che alcuni uomini siano al tutto catti-  vi, e molti, soc. —Ma che? non ti è parso ancora,  che siano molti uomini buoni? erm. — Molto pochi,  soc. — Nondimeno pare a te vero? erm. — A me si.  soc. — In che modo poni tu questo? forse cosi, che i  molto buoni siano molto prudenti, e i rei al lutto  molto imprudenti? ebm. — In vero a me pare cosi,  soc. — Se Protagora diceva il vero, e se ò questa la  ventò, che quali qualunque cose pareranno a ciasche-  duno, tali siano; è egli possibile, che altri di noi sia-  no prudenti, altri imprudenti? ebm. —Per certo nò.  soc. — E come io penso ti pare ad ogni modo che  Protagora non possa al tutto parlar il vero, essendovi  «erta prudenza, e imprudenza, perciocché non sareb-    Digitized by Google    be veramente l’uno dell’ altro piò prudente, se le   cose, che paiono a chiunque, le tenesse ciascheduno  per vere. IBM -Cosi è. Ma nè ed Eutidemo ' assenti-  sci, come io penso, che dice, che tutti abbiamo tutte le  cose similmente, e sempre, perchè cosi' non smeldio.  no altri buoni, nitri cattivi, se sempre, e pariménte  si ritrovasse in tulli e la virtù, e la malvagità! ehm;  —Tu palli il vero, soc.— Dunque se nè tutte le rose  si ritrovano sempre in tutti, e simiglmutcìiiente; uè  qualunque cosa è propria di ciascheduno, manifesto  è, rise siano le cose quelle, che tengono in su stesse  certa essenza ferma, uè sono in quanto a noi tirate  in diverse parli, nò da noi con la imaginazione e in  suso, o in giuso: ma stabili secondo se stesse in quan-  to alla loro essenza, come sono 'ordin. ite dalla natu-  ra. uu. — Cosi ini è avviso, elio se ue stia questo.   *oc Dunque mi di, se le còse se ne stanno si per u«-.   torà, ma non nella stessa guisa lu loro azioni o eziandio  esse azioni sono una certa specie degli enti? esm. Ani  cora esse ad ogni modo. soc.— Dunque le azioni sa   tonno secondo la natura loro, non secondo la nostra  opinione, come per esempio, se noi si mettessimo a  divider alcuno degli enti, forse sarebbe qualunque co-  sa d» dividersi ila noi come vorremmo, e coti che ci a„  gradissi.? o più tosto, se volessimo partire quafuo/pio  cosa secondo la natura, con cui fa mislieri che S‘ I 1 al f  lisca, e sia partita; parimente con cui secondo l«  tura ti dee fare il partiraento; invero la dividerei»»**   •   *    Digitized by Google    ) 7 <   *io« bene, e si farebbe «la noi alcun profitto, e questo  si operetébbe bene; ma se cóntro la natura travieremmo   nè si farebbe niente «la noi? erm Così mi pare. soc.   — E se ci mettessimo ancora àd ffhbrugiiir alcuna cosa:  non fa nilstieri, chieda sì ‘ablmigi secóndo Ogni opi-  nione: ma sibbene secondo la reità opinione/ Qué-  sta è poi quella, onde qualunque cosa naturdlòientc  è atta ad abbrugiarsi,' é di abbruciare, e con cui nai  turalmente ne era atta, erm — Queste cose son vere,  soc. — Non si ritrova la stessa maniera d’intorno al-  le altre cosi? ehm La medesima sì. soc— Anco-   ra il dire non è egli forse una certa delle azioni, ehm.  -r Certo si. soc. — Or dirà bene chi così dice, co-  irne li par di dire . 5 o piuttosto dii in colai guisa di-  ce, come ricerca la natura del dire, e che si dica?  e- se eziandio dicesse con cui ricerca la natura, in  dicendo farebbe alcun profitto, altrimenti 1 . travierebbe  egli, nè farebbe nulla? ehm. —In vero io stimo co-  sì, cometa di. soc.- Dunque il nominar "è particella di  dire; perciocché nominando si fanno i‘ ragionamenti;  erm Ad ogni modo. soc. — Dunque e il nomina-   re è 'certa azione, se ancora il dire era certa azione;  d' intorno alle cose? erm.-Così è. soc.— Or le azio-  ni ci par vero di non risguardar a noi: ma di tene.-  ré certa propria lor natura. ehm. - Così è. soc —  Sicché è da nominarsi in quella guisa, onde la natu-  ra delle cose ricerca di nominate, e che si nomini,  • con cui, ma uon secondo lo arbitrio deWolcr no-     ’ ì   ) « (   atro, se ti ba a dire alcuna cosa concorde alle cosa  dette. Ed in colai guisa facessimo noi alcun guada»  gno, e nominaressimo: ma altrimenti nò? krm.— Co-  sì mi pare. soc. — Or dimmi ciò, cbe era da ta-  gliarti, diciamo noi cbe era da tagliarsi con alcuna  cosa? erm.— Con alcuna si. soc. —E ciò, cbe si  doveva tesser da tessersi con alcuna cosa? e ciò, che  era da forarsi, con alcuna cosa si dovea egli forare?  erm. — Al tutto. soc.—Sim il niente ciò, che nominar  si dovea, era da nominarsi con alcuna cosa? ibi*.—  Si- soc. —Ma che era quello, con cui f«cea mistieri,  che alcuna cosa si forasse? erm. — La trivella? soc.  — Che è quello, con cui fa mistieri, che si tessa?  erm. — La navicella, soc. — E che con cui si nomi-  ni? erm. —Il nome, soc.— Tu parli bene. Dunque  e il nome è certo stromento. ss**. — E’ si. soc. —  Dunque se io cercassi quale stromento è la navicella  • o non sarebbe d' esso quello, con cui si tesse? erm.  Così è. soc. — Or tessendo, che facciam noi? o non  separiamo la trama, e gli stami confasi? ehm.— Que-  sto stesso, soc. — Or potrai tu dir così della trivel-  la, e delle altre cose? erm. —Lo stesso, soc. —Puoi  • tu ancora dir similmente d* intorno al nome ciò, che   facciamo mentre col nome, che è stromento, nominia-  mo alcuna cosa? erm.— Nò il posso nò. soc.— For  se di compagnia insegniamo noi mente, c dividiamo  le cose, come sono? erm.— Per certo, soc. — Sicchò  il nome è certo stromento di insegnare, • divide» 1*   (   ì,    Digitized by Google    )9<t   sostanza, come !a navicella della testura erm. — 1 lassi  a dire in colai guisa, soc — La navicella è ella stru-  mento acconcio al tesserei 1 ehm, — • In che modo nò.  soc. — Per la qual cosa il tessitore si vaierà bene  della navicella, dice bene, secondo la maniera del  tessere: ma chi insegna, egli si vaierà del nome, e  bene, dico bene secondo la maniera propria dello  insegnare, ehm.— Per certo, soc.— Dell’ opra di quale  artefice si vaierà bene il tessitore, quando si vaierà  della navicella? erm.— Di quella del legnaiuolo, soc.  — E egli chiunque legnaiuolo, o piuttosto chi tiene P  arte? erm. —Chi tiene l’arte, soc. — Similmente del-  l’ opera di cui il foratore si vaierebbe bene, quando  si valesse della trivella? erm.— Del maestro del me-  tallo. soc. — E forse chiunque maestro di metallo?  o chi tiene l’arte? erm. — Chi tiene l’arte, soc. — '  Stiano le cose cosi. Dell’opera di cui il dottor si vaie-  rebbe, qualora si servisse del nome? erm.— Nè ciò pos-  so dire io. soc. —Ancora non puoi tu dir questo.  Chi ci dà i nomi, dei quali ci serviamo? erm. — Per  certo nò, i soc. - Non pare a tè peravventura, che la  legge sia quella, che ci dà i nomi? erm. — Appari-  sce. soc.— Dunque il ■> dottore si vaierà dell’ opra del  legislatore, quando del nome si vaierà, erm. - Io  penso si. soc.— Pare a te, che ognuno egualmente  sia facilor di leggi, o chi è dotato di arte, erm.—   Il dotalo delP arte. soc. — Si che o Erinngene non  è. ufficio di qualunque uomo lo imporre i nomi; ma   1 Cr.    Digitized by Google     ) *° (   di certo autor di nomi e costui è come apparisce ii  legislatore, il quale fra gli artefici si fa raro appresso  agli uomini, ehm. » Apparisce, soc.— Deh conside-  ra, ove riguardando il legislatore impone i nomi, e  * considera dalle cose antedette ove riguardando il le-  gnaiuolo fa la navicella? non ad una cosa tale, che  da natura sia al tesser acconcia? ehm. — Al tutto,  soc.— Ma che? se nell’ opera si rompesse la navicella,  mi di se fabbricherà egli un’ altra di nuovo alla somi-  glianza della rotta, o piuttosto alla specie risguarde*  rà, secondo il cui esempio avrà fatto la navicella,'  che si ruppe? erm. — Alla specie, come io stimo,  soc. — Dunque chiameressimo noi meritamente la spe-  cie la navicella? erm. — Io penso si. soc. — Se fa  mestieri alcuna volta, che si apparecchi la navicella  per fornir la veste, o qualunque altra cosa di filo,  e di lana sottile, o grossa, bisogno è, che tutte le  navicelle tengano la specie della navicella; e quale  naturalmente è a ciascheduna cosa accommodatissima,  tale si usi al fornir l’opera, come il ricerca la na-  tura, erm. — Iti vero fa mislieri. soc. — La medesi-  ma ragione è d’ intorno agli altri stromenti concios-  siachè è da ritrovarsi quale stromento si confaccia  per natura a qualunque cosa, ed è da darsi a lei,  con clii si fa ella, uon quale vuole chi fabbricai ma  quale è ella per natura. Perchè fa mistieri, come ap-  pare, che si sappia accommodar a qualunque cosa ciò,  die naturalmente acconcia al ferro, erm. — Cosi si.    Digitized by Google     «    > »• (   soc. — ‘Più- oltre nel legno la navicella confacevole  a ciascheduna. e*m. — Egli è vero. soe. — Percioc-  ché. secondo la ragione della natura altra navicella  si confà ad altra tela, e nell’ altre nella medesima  guisa, ehm* — Veramente, soc. —Fa mistieri ancora  -ottimo uomo, che il posìlor dei nomi proferisca un  nome per natura acconcio nelle voci, e nelle silla-  be a tutte le cose, e riguardando a quello stesso di  cui è nome, formi qualunque nome, e gli attribui-  sca, se daddovero dee esser positor proprio di nomi.  Che se non con le medesime sillabe qualunque po-  citor di nomi esprime il nome, fa mistieri, che noi  sappiamo, che nè tutti i fabri ciò fanno nel ferro per  la stessa ragione; qualora fabricauo il medesimo stro-  xnento: ma nondimeno in quanto gli attribuiscono la  stessa idea, in tanto se ne sta egli bene, tutto che  in altro e iu altro ferro; o qui si fabrichi egli, o fra  barbari non è egli cosi? ehm. -a. Si. soc. — Dunque  islimerai tu ancora nel medesimo modo finché il po-  sitor dei nomi, ebe è fra noi, e fra barbari concede  una specie di nome convenevole a qualunque cosa  in qualunque sillaba, che 1’ uno dell’ altro non sia  punto peggiore nell’ imporrei nomi. ehm.— In vero   si. sqc. — Chi è per conoscer se sia impresso in qua-  lunque legno una specie convenevole di navicella?  fpr&e il, legnaiuolo, che la fai o il tessitore, che se  ne dee servire? ehm. — O Socrate, gli è verisimile,  die la conosca molto piu, chi se ne dee valere, soc.     — Dunque chi si servili dell’opera del Tacitar dell*  lira? non colui Torse, che benissimo saprà esser so*  prastante alla cosa Tatta, e conoscerà Tatta che sia, se  sia Tatta bene o no? ehm. — Al tutto, soc. — Chif  hm. «■ Il citarista, soc. — Chi poi dell'Opera di co-  loro, che Tanno le navi? erm.— Il governatore, soc.   — Chi eziandio benissimo sarà soprastante all’opra  del Tacitar delle leggi, e Tornita la giudicherà e qui,  e Tra barbari? non chi se ne dee servire? ehm.—  Cosi è, soc, *- O non è egli d* esso chi sa interro*  gare? ehm. — Costui si. soc, — Il medesimo che sa-  prà risponder ancora? ehm. — Si certo, soc. — Or  chiami tu altro che dialettico chi sa interrogar, e  rispondere? ehm. Non altro; ma lui. soc. —Siche  è Tattura di lignaiuolo il Tabbricar il timone esscn*  do soprastante il governatore, se è egli per dover  esser buono, ehm,— Apparisce, soc.— Ancora come  è avviso, è opra di positor di nomi il nome, cui è  soprastante 1’ uomo dialettico, se sono per doversi  por bene i nomi. ERM.-*Que$te cose son vere. soc.   — Dunque, a Erraogene, corre rischio, che non Ha  cosa lieve, come tu stimi, il por dei nomi, nè Tat-  tura d’ uomini bassi, e vulgari. Per certo Cratilo par-  la il vero, dicendo, che i nomi per natura siano nel-  le cose; nè sia chiunque autore di nomi: ma colui  solamente che risguarda al nome, che è in ognuno  per natura, e sia possente di por la specie di lui  nelle lettere, e nelle sillabe, ehm. — O Socrate, io    I      I    Digrtized by Googlp    >« 3 (   non so in che modo sia da opporsi alle cose che  tu di: ma peravventura non è cosa agevole il per*  «cadérsi cosi allo improviso: ma mi è avviso, che io  ti sarei piuttosto per ubidire in questo modo, se di-  mostrassi quale da te si dica, esser la retta natura  del nome. soc. —In vero, o beato Ermogene, non di-  co alcuna: ma tu ti sei scordato di ciò, che io di-  ceva poco inuanzi, cioè, che io non la conosceva!  ma, che io la considererei insieme con esso teca.  Al presente poi questo solamente si è fatto chiaro  oltre alle antedette a me, e a te di compagnia in-  vestigando, che Certa retta invenzione per natura  tenga nome, nè chiunque sappia adattar bene esso  nome a qualunque cosa, non è egli così? rum. — ■   Grandemente, soc— Dunque rimane da Considerarsi  se tu desideri di conoscer quale sia la retta inven-  zione del nome, ehm. — In vero la desidero sapere,  soc. r- Dunque cobsidcra. erM.— In che modo adun-  que fa inistierì, che si consideri? soc.^O umico rot-  tissima. è la considerasione; ricercandosi questo da  coloro, che sanno con 1' offerir danari, e col il ren-  der loro grazie’ oppresso. Or d’essi sono i sofisti,  coi quali Calia tuo fratello pare, che sia riuscito sag-  gio, pagati molti danari, ma poiché non hai, che fare  nella robba patema, rimane, che tu supplichevole  preghi il fratello, che ti insegni la retta invenzione  di questétàll cose, che Protagora egli imparò, erm.  — O Socrate, quanta sconvenevole sarebbe questa    Digitized by Google     ) *4 t   dimanda, se non prestando aiuto alla verità di Pro*  tagora amassi le cose, che si dicono con tal verità,  quasi degne di alcuna considerazione, toc. — Ma se  a te non piacciono elle, si dee imparar da Omero,  e dagli altri poeti. erm. — O Socrate, e che è in  che luogo ne dice Omero dei nomi? soc. — Per tut-  to molte cose: ma grandissime e bellissime son quel-  le, onde distingue d’intorno a quei nomi, che in-  troducono gli uomini, e i Dei, o non istimi tu, che  egli d’ intorno a questi dica alcuna cosa magnifica,  e maravigliosa della retta maniera dei nomi? essen-  do manifesto, che i Dei chiamano rettamente quei,  che son nomi naturalmente, o no il pensi tu? ikm.  — In vero io so certo, se i Dei ne dicono alcuni,  che essi lr~cbiamano bene; ma quali di tu questi?  soc. — O non sai tu ciò, che si dice del fiume tro-  iano, che con vulcano combatte a singoiar battaglia,  il quale i Dei chiamano santo, gli uomini Scaman-  dro. ehm. — Il so. soc. — Che dunque? non istimi tu  certa cosa grave il conoscer in che modo sia meglio,  che si chiami quei fiume santo piuttosto, che Scarnan-  do? ma se vuoi considera questo, che il medesimo  dice dell’ uccello, che i Dei chiamano Calcidei ma  gli uomini Cimindi. Tu stimi vii disciplina il sapere  quanto sia meglio, che si chiami il medesimo uccello  Calcide, che Cimindi, o Bracia, e Mirine, e molti al-  tri tali, detti da questo poeta, e da altrui? ma le.  invenzioni di queste cose peravvenlura superano le      Digitized by Google    ) «5 (   forze nostre. Cii cbe poi signifìchioo Scamandrio, e  Astiane si può comprender, come mi pare da inge-  gno amano, e apprendersi agevolmente qual retta in-  venzione vuole Omero, che sia in questi nomi, co*  quali chiama il figliuolo di Ettore: perciocché tu cer-  tamente sai, ove si ritrovano questi versi, che io di- v   co. a**. — Ad ogni modo, soc, — Dimmi, pensi tu,  che di questi nomi stimi Omero che peravventura  pili convenisse Astianate al fanciullo, che Scamandrio?  vrm. — Io no il posso dire. soc. — Or in colai mo-  do considera, se alcuno ti addimantlasse, se tu pen-  sassi che i piò saggi ponessero i nomi meglio alle  cose, o i manco saggi, erm. —Chiaro è, che io ri-  sponderei i piò prudenti, soc.— Dimmi, se le don-  ne nelle città pare a te, che siano piò prudenti, o  gli uomini? per dir tutto il genere? erm.— Gli uo-  mini. soc. — Dunque tu sai, che dice Omero, che il  figliuolo di Ettore era chiamato da’ Troiani Astiaua.  te, dalle donne Scamandro, poiché gli uomini lo chia-  mavano Astianate. erm.— Apparisce, soc.- Dunque  eziandio stimava Omero, che gli uomini Troiani fos-  sero piò saggi, che le lor donne, erm. — Io lo sti-  mo. soc. - Dunque stimò, che egli si chiamasse, me-  glio Astianate, che Scamaudrio. ehm. - Apparisce,  soc Consideriamo qual cagione egli apporti di que-   sta denominazione, perchè dice egli, che solo difese  loro la città, e le ampie muraglie. Per la qual co-  sa, (come pare) conviene# che si chiami il figliuolo    Digitized by Google    1 » 6 (   del Salvatore, cioè di colai, che il padre di lai sai*  va va, come disse Omero, erm. ■— A me pars soc.  — Per qual cagione? perciocché o Ermogene, nè io  lo intendo ancora bene: ma lo intendi tu? erm. —  Per Giove nò. soc.— O uomo da bene ancora Ome-  ro pose ad Ettore il nome. erm. — Perchè? soc. — •  Perchè mi è avviso, che questo nome si assomigli ad  Astianate; e essi nomi si assomiglino a Greci: dimo-  strando quasi il medesimo, cioè che ambidue que-  sti nomi siano regali; perciocché di cui sarà al-  cuno re, dello stesso sia ancora possessore; essen-  do manifesto, che egli lo signoreggi, e possegga,  e abbia. O peravventura non pare a te, che io dica  niente? e m' inganna la opinione, onde mi confida-  va, come per certi vestigi, di toccare la opinione  di Omero d’ intorno la retta invenzione dei nomi?  erm. -* In modo niuno, come io penso: perchè^forse  tu tocchi alcuna cosa. soc. — Egli conviene, come  a me pare, che si chiami similmente leone il figliuol  del leone, il figliuol del cavallo cavallo; non dico, se  alcun’ altra cosa fuor che il cavallo (come mostro)  nasoesse dal cavallo: ma quel mi dico, del cui genere  secondo la natura è ciò, che nasce, se il cavallo na-  turale partorisse il figliuolo del bue vitello contro  natura, non sarebbe da chiamarsi poliedro: ma vitello,  nè eziaodio se dall'uomo altra prole si producesse,  che umana, ciò che nascesse si dovrebbe chiamar no*  aio. 11 medesimo è da giudicarsi degli alberi, e delle    1    Digitized by Google     ,) x 7<   altre cole tutte, o non pare ancora a te? erm. — A  me par si. soc. — Tu dì bene-, perciocché guardati,  che io non ti inganni in alcun modo; conciosia, che  secondo la stessa , ragione eziandio se alcuna cosa na-  scesse da re, sarebbe da chiamarsi re, non importan-  do che si significhi lo stesso in queste, e in quelle  sillabe, o se vi si aggiugni alcuna lettera, o se an-  che la vi si levi; mentre la essenza della cosa dichia-  rata nel nome signoreggi./, erm — Come dì tu cote-  sto? soc. — Io non dico oiuna cosa meravigliosa, o  nuova: ma siccome tu sai, che diciamo i nomi degli  elementi: ma non essi elementi, eccettuatine sola-  mente quattro, cioè b N E fi ma «1 rimanente, co-  sì vocali, come mutoli, tu sai che aggiugnendovi al-  tre lettere, li proferiamo formando i nomi: ma iinchè  inferiamo la forza dichiarata dell’ elemento conviene,  che quel nome si chiami ciò, che egli si dichiara, nor-  me per esempio il B, vedi i che il T aggiunte non  impedì che con lo intero nome non si dimostrasse la  natura di quello elemento, di cui volle il positor del  nome, siffattamente non li è prestato fede di aver po-  sto bene i nomi alle lettere, erm.— Tu mi pari di  parlar il vero, soc.— Dunque fla la stessa ragion ancora  d’intorno al re. Perciocché sarò alcuna volta il re dal  re, il buono dal buono, dal bello il bello, e le altre cose  tutte similmente da qualunque genere certa altra pro-  genie, e sarebbono da dirsi gli stessi nomi, se non  ci facesse mostro. Egli è lecito, che in modo si va-     I    ) 1 ® (   riino per sillabe, che sia avviso all’ nomo rosse, che  le cose, che sono le stesse siano diverse tra loro, co-  sì come le medicine dei medici variate con colori,  •ed odori spesse volte essendo le medesime, pare a  noi, che siano diverse: ma dal medico considerata la  virtii loro, sono giudicate le stesse; nè il perturbano  le cose aggiunte. Similmente peravventura chi è eru-  dito d’intorno a nomi considera la virtii loro nè si  perturba il giudició di lui, se vi è aggiunta alcuna  lettera o trasmutata o levata, o se in altre, e motte  lettere si ritrova la stessa virtii del nome. Come quei  nomi, i quali di sopra abbiamo detto Astianate, e  Ettore hanno le lettere ad ogni modo diverse, fuorché  il sol T, non pertanto significano il medesimo... Mei  medesimo modo ciò che si dice prencipe di città,  qual communicanza di lettere tiene egli con li due  antedetti? nulladimeno significa il medesimo, e molti  altri vi sono, i quali nient’ altro significano, che il  re. Oltre ciò molti sono, che significano il capitano  dell’esercito, come altri ancora, che dichiarano il  professor dell^medecina. E si possono ritrovar mol-  ti altri discordanti nelle sillabe, e nellj lettere: ma  accordatisi al tutto nella virtù, del significare, par  egli che così sia, o pur nò? zrm.— Così certo, soc.  — Or a queste cose, che si fauno secondo la natura  sono da darsi gli stessi nomi, ehm. — Adognimodo,  soc. — Ma qualora alcuni uomini si fanno contro  la natura in certa specie mostri, come quando sì    Digitized by Google    ' ) *9 <   genera l’empio dall’ uomo buono, k pio; ohi è gene*  rato non dee sortire il nome del genitore- ma di quel  genere, nel quale ei si ritrova, come diami di cent-  rilo; se il cavallo generasse la prole del bue, non sa»  rebbe da chiamarsi il figliuolo di lui cavallo: ma bue*  mm.— C osi è. soc. -Dunque all’uomo empio generato dal  pio, bassi a dare il nome del genere. ehm.— Queste cose  sono vere, soc.— Dunque non conviene, che si chiami  un figbuol tale, amico di Dio nè ricordevole di Dio, nè  alcuna cosa siffatta: ina con ' nomi il contrario signi-  ficanti se pur i nomi deono conseguire la retta in-  venzione. sbm. — Cosi al tutto o Socrate è da farsi*  soc.— Come ancora Oreste, o Ermogene, corre rischio»  che sia ben messo, o se alcuna sorte H pose il no-  me, o alcun poeta; con quel nome significando la dì  lui natura ferina, selvaggia, e montana, erm. — Cosi  apparisce, o Socrate, soc. — Àncora è avviso, che il  parere di lui tenga il nome secondo la natura, erm.  — Apparisce, soc.— la vero tale appar egli, che sin   Agamennone, quale pare che si affatica, e sopporta»  imponendo fine alle cose, le quali parvero da termi-  narsi per la virtù. Argomento poi della sua toleranza  ne diede il durar sotto Troia con tanto esercito. Dun-  que che questo uomo sia stato buono nella perseve-  ranza, il nome di Agamennone lo significa. 1$ perav-  ventura eziandio Atreo se ne sta bene, conciosia, che  la uccisione di Crisipo, e la crudeltà intoruo a Tie-  sse sono tutte le cose daouosc, e perniciose in verso'    ) 00 {   alla virtù, onde la denominazione del nome declina  un tantino, ed è gelata in modo, che non dichiari  .^chiunque la natura di questo nomo: ma cui som»  periti di nomi si mauifesta bastevolmente la signi-  ficazione di Atreo; perchè esso nome è posto bene  in- ogni luogo secondo 1* intrepido. Ancora pare che  il nome di Felope non sia dato a lui fuor di propo-  sito, significando questo nome, che sia degno di que-  sta denominazione chi vede le cose dappresso, zbm.— •  In che modo? soc. — Come si dice nella morte di  Mirtillo contra di lui, che egli non abbia possuto pro-  veder niente, nè da lunge vedere di quanta calamità  fosse ripieno il genere tutto, riguardando alle cose,  che gli erano innanzi a piedi, e solamente alle pre-  senti. Ciò poi è il veder dappresso, il che ei fece  avendosi aiTaticato con ogni sforzo di accompagnarsi  in matrimonio con Ipodamia. Appresso penserebbe  ognuno, che il nome Tantalo li sia stato posto bene,  e secondo la natura, se sono vere le cose, che si rac-  contano di lui. erm. — Quali sono coteste? soc. —  Che a lui ancora vivente moltissime cose avverse, e  gravi avvennero, il fio delle quali si era, che tutta  la patria di lui si vogliesse sossopra. Più oltre, lui mor-  to gli sta sopra la testa un sasso, per certo, durissima  sorte. Tutte queste cose adognimodo si confauno col  nome, non altrimenti, che se alcun l’avesse volato  nominar pazientissimo: ma avendo parlato alquanto  oscuramente, abbia posto Tantalo per Talantato- In    Digitized by GoogLe     ) c   vero pare, che un tal nome la fortuna di lui avversa  lì abbia dato col rumor della gente. Anzi che bene  si applicò ancora il nome a Giove padre; nondime»  no egli non è agevole da conoscersi» essendo «1 no» 1  me di Giove qual certa orazione, il quale in due par-  ti partendo, in parte si vagliamo d’nna, in parte del»  l’altra parte, chiamandola. alcuni altri, le quali per»  ti in uno poste, dimostrano la natura di Pio, il che  dee poter fare il nome massimamente; non avendo  noi, nè tutti gli altri niuna maggior cagione di viver,  che il prencipe, e re di tutti- Dunque avviene, che si  nomini bene in cotal guisa, essendo ‘Dio, per cui ca»  gioite il viver si ritrovi sempre in tutti i viventi. Es-  sendo poi uno il nome, è in dtfe parti partito, come  io dico. Questo poi essendo fìgliuol di Saturno clù  all’ improviso l'udisse penserebbe cosa insolente. M*  è ragionevole, ehesia prole Giove di certa grande in»  telligenza; perchè quello, che si dice non significa  fanciullo; ma purità, e incorruttibilità deliamente di  lui. Egli è poi, come si dice, figliuolo del cielo; con-  ciossiachè lo aspetto alle cose di sopra meritamente  sidee chiamare con questo nome, come all' alto ris-  guardi onde, o Ermogene, affermano coloro, che trat-  tano delle cose sublimi, cheavvegna una pura mente,  e a lui si ponga bene il nome del cielo. Or se io tenessi  a memoria la geneologia scritta da Esiodo: e mi ricor-  dassi quali egli introducesse i progenitori loro, in  niuu modo non cesserei di dimostrarti, che fossero     ) » (   «scritti loro i nomi bene, finché facessi la provi» di  questa sapienza, se ella faccia alcun profitto, e alcu-  na cosa fornisca e se si dubiti, o nò, la quale io  non se certo, onde poco fa mi sia venuta cosi allo  ìmproviso. za»*— In vero, o Socrate, pare a me, che  t« alia similitudine di coloro, che sono da divinità  rapiti, mandi fuori oracoli. soc.— O Ermogene, io  stimo, che. questa sapienza si cagionasse in me da Eu-  tifrone figliuolo di Panzio; poiché assiduo gli era in-  stami dal matutino, e li porgeva gli orecchi. Sicché  é manifesto, che egli pieno di Dio, non solamente  abbia ripieni di sapienza beota gli orecchi miei? ma  occupato t'animo ancora: io stimo veramente, che si  abbia a fare in cotal guisa. Che si vagliamo -oggi di  lei, e si investighi da noi il rimanente, che pertiene  a nomi: diman poi, se in ciò converremo, la man-  deremo fuori, e la mondaremo con diligenza, ricer-  cando alcun o sacerdote, ovver sofista, che sia buono  a purgar queste cose, bum.— O Socrate, io approvo  questo si, perchè molto volentieri udirei ciò, che ri-  mana d'iutorno a nomi. soc.— Al tutto si dee fare   cosi. Dunque ove giudichi tu principalmente, clic si  abbia ad incominciare; poiché abbiamo prescritta  Certa legge per conoscere, se eziandio gli stessi nomi  ci attestino, che non siano stati fatti a «uso: ma con-  tengano alcuna invenzione? i nomi dunque degli  croi* C degli uomini peravventura ci inganaereb-  bono, essendo molti di questi posti secondo le do    Digitized by Google     I    nominazioni de’ maggiori, e spesse volte non conven-  gono in modo niuno, come abbiamo detto nel prin-  cipio. Molti nomi poi pongono gli uomini quasi pel*  voto, come e altri molti Per la qual cosa io stimo,  che siffatti siano da tralasciarsi: ma è cosa verisimì-  le si, che noi ritroviamo i nomi posti bene, e natu-  rali intorno «Ile cose, che son sempre, convenendosi  mollo, che qui si abbia a cercare diligentemente la  maniera del por i nomi: ma peravventura alcuni dì  loro sono stati posti ancora da certa potenza più di-  vina, che umana. ehm.— 0 S ocrate, tn mi pari dì  parlar eccellentemente. soc.« Non è egli cosa con-  venevole lo iucominciar da Dei, considerando in qual  guisa sono stali chiamati i Dei bene con questo stes-  so nome? erm.-E verisimile. soc.-In vero cosi io so-  spetto; mi par certo, che i primi de’ Greci abbiano  pensato quei soli Dei, i quali eziandio sono stimati  in questi tempi da molti ,!«' barbari il sole, la luna,  la terra, le stelle, il cielo. Dunque quasi, che essi ve-  dessero tutte queste cose essere in un perpetuo corso,  da questa natura è avviso, che ic si abbiano nominate,*  poscia osservandone altri; le abbiano chiamate tutto  con lo stesso nome. Ciò, che io mi dico tiene egli al-  ®uua verisomigliauza, oppur nò? ««.-Appar molto,  soc — che si ha poscia ad investigare? ehm E ma-   nifesto, che si dee cercare de’ demoni, e degli eroi,»  degli uomini. $oc.- De’ demoni? o Ermogene, conside-  ra veramente se ti è avviso, che io ti dica alcuna co-'    Digitized by Google    (   sa intorno a ciò. che si vuole inferire il nome de*  demoni, ehm.— DI pure. soc. — Sai tu dunque quali  si dica Esiodo, che siano i demoni? * km— Non inten-  do. soc.— Nè eziandio, che egli dica essere stato de-  gli uomini primieramente il genere dell' oro? erm.   — Solio sì. soc.— Or dice d’intorno a lui, poiché la  sorte coprì questo genere, che altri si chiamano de-  moni puri, terrestri, ottimi fuggatori di mali, e guar-  diani di uomini mortali, erm.— Che poi? soc. — Per  certo io stimo, che egli chiami genere d’ oro, non  fatto d’ oro: ma buono ed eccellente, e di ciò ne fo  la congettura, dicendo egli, che il genere nostro sia  del ferro, ehm.— Tu narri il vero, soc.— O non pensi  tu, se al presente alcun de’ nostri fosse buono, «he  egli si stimerebbe da Esiodo del genere dell'oro? erm.   — E cosa verisimile, soc- — Or sono alcun' altra cosa i   buoni, che prudenti? erm— Prudenti. soc Sì che   come io penso chiama quelli demoni principalmen-  te; perchè erano prudenti ed intelligenti, e pervenne  questo nome dalla nostra lingua antica. Perlaqualco-  sa ed egli, e qualunque altri poeti molti parlano be-  ne, che dicono, che poiché alcun buono si parte di  vita, prende in sorte grandissima dignità e premio, e  si fa demone secondo la denominazione della pru-  denza. Così mi affermò ancora, che sia ogni uomo pru-  dente, il qual è buono, e sia egli demonio, e viven-  do, e morendo, e si chiami demone bene. erm.—  Mi pare o Socrate, che io consento d’intorno a que-    Digitized by Googl    ) *5 '   sto con esso loco, soc.— Poi, significa egli? ciò non  è molto malagevole da considerarsi, essendo poco di*  stante il nome degli eroi, dimostrando che la gene-  razione loro sia derivata dall’ amore. erm. — In che  modo dì tu questo? soc.— O non sai tu, che sono se-,  midei gli eroi? erm.— Che dunque? soc. — In vero  tutti sono generali, avendo o Dei portato amore a  donna mortale, o mortali a Dea, oltre ciò se consi-  dererai queste secondo la vecchia lingua degli Ate-  niesi il saprai maggiormente; perciocché ti dichiare-  rà che si è mutato nn tantino per causa del nome,  onde so«o fatti gli eroi, o che egli significa gli eroi,  o perchè furono savi, e retori, e facondi, e al dispu-  tare acconci, essendo bastevoli allo interrogare. Sicché  quello, che poco fa noi dicevamo, dicendosi gli eroi  nella vece attica pare, che gli eroi siano atctmr relo-  ri, e che interrogano e amano; onde il genere degli  eroi si fa genere di retori e de' sofisti: ciò poi non è  malagevole da intendersi: ma più oscuro quello, per  qual cagione Si chiamino gli uomini gf$pcTrol’ P uo *  tu dire il perchè? ersi. —Uomo dabbene dove avrei  io questo? anzi se io potessi ritrovare alcuna cosa,  uon 1’ affermerei, pensando, che tu meglio di me sa-  resti per ritrovarla, soc. — Egli mi è avviso, che tu ti  confidi nella ispirazione di Eutifrone. erm. — Senza  dubbio, soc.— E meritamente tu ti confidi; percioc-  ché troppo bellamente ini pare ora di aver pensato,  ed è pericolo (se io non mi guardassi) che no» pares-   3 Cr.    Digitized by Google     - ) 98 (   ® e °gg>> c h® io fossi divenuto piti saggio, che non  si converrebbe. Or non considera ciò, che io dico;  perciocché conviene primieramente, che si consideri  questo intorno a nomi, che spesse volte aggiugniamo  lettere, e ne leviamo, nominandole fuori della nostra  inleuziope, e mutiamo le acutezze, come quando dicia-  roo Alì <p'lAo$. Da questo nome, affine egli ci servi  per lo verbo, caviamo poscia fuori l’uno I, e per la  sillaba del mezzo acuta pronunciamo la grave, in al-  cuni altri framettendo le lettere, e altre più gravi pro-  ferendone. erm — Tu riferisci il vero. soc. -.Questo   come a me pare adivietie ancora al nome degli uo-  mini; essendosi il nome formalo dal verbo, fuori,  che uno A, e fatto grave nel fine. srm. — Come di  tu questo? soc. — Cosi. Egli significa questo nome  o’ ivoSt cioè di nomo; perchè le'altre fiere non con-  siderano, nè osservano, nè contemplano alcuna delle  cose, che veggono: ma l’uomo incontinente, che vede  (e questo significa 1’ oTTùiTTs) e vede, e contempla, e  considera ciò, che ha veduto. Quindi meritamente l’  uomo solo di tutti gli animali è chiamato, consideran-  do ciò che vide. Che da te poscia addimanderò io?  quello peravyeutura, che io udirei volentieri? erm.   — Si. soc. — Dunque mi è avviso, che incontinente   succeda alle cose antedette la considerazione dell’ a-  nirua e il corpo alcuna cosa dell’ uomo. erm. —In   che modo nò? soc. — Ora sforziamoci di distinguere  ancora questo come le antedette, pensi tu, che iunan-    Digitized by Google     ) *7 i   zi si. ql>bia a cercare dell’ Miima, come sia ella chia-  mala bene? poscia del corpo? erm.— In vero si. soci  —Dunque acciò io subitamente esprima quello,' che  ora mi si offerisce primieramente, io : stimo che Colo-i  ro, che' cosi chiamarono l’anima abbiano ciò pensato  principalmente, che questa quante Tolte è col corpo  si è-, cagione, che egli viva, dandoli la virtù del ri-  spirare, e rifrigerandolo; e come prima lo abhando-t  nera quello, che il refrigera, eglisi scioglie, e Sene  muore, onde pare, che 1’ abbiamo chiamata, quasi ri-  frigerante: rt»à se, ti aggrada fermati alquanto. Mi par  divedere alcuna cosa più di questa probabile presso  coloro, : i quali seguitano Eotifrooe; perciocché sprez-  zerebbono essi questa, come io penso, e la dimostrereb-  bono certa cosa molesta: ma vedi, se ciò ti sia per  dover piacere, erm. —Dì pure, soc.— Qual* alt+a cosa  pare a te, che contegno il corpo, e il guidi, e faccia,  che egli v;va, e vadi intorno* che 1? anima? eatu.ij-'  JNient’ altro? soc. — Ma che? non credi tu ad A nassa-'  gpra, che la natura di tutte le cose sia lo inieMetto,-  e l’anima che l’adorna e contiene?. > erm. — Così si.'  soc. — Dunque ben fia, che a quella potenza si applichi  questo nome (pvvgyjnj, cioè contenente la naturai ma  si può chiamare ancora ornatamente. ' erm. — Così è  ad ogni modo, e mi pare, che questo . sia di» quello'  più artificioso- soc.— E verameute, anzi par. certo co-  sa ridicolosa, se si nominasse, come le fan posto.: brw”  —Or, che dobbiamo dir api ciò, che segue? soc.— .   3 *    Dlgitized by Google    >18 (   Tu dì del corpo? brm.-Sì. soc. — Questo a me pa-  re in molti modi, se alcun declinasse un tantino.  Perciò, che alcuni dicono, che egli sia all’anima se-  polcro, quasi ella sia sepellita in questo tempo pre*  sente, e anco perchè 1’ anima col messo del corpo  significa qualunque cose può significare per questa ca«  gione è chiamato ancora bene. Nondimeno mi Rav-  viso, che gli settatori di Orfeo abbiano posto questo  nome principalmente a questo fine; perchè l'anima iti  questo corpo dia la pena de’ delitti, e sia chiusa iti  questa siepe, e trincea affine servi imagine di prigio«  ne. Per la qual cosa vogliono, che sia questo cosi;  come è chiamato un chiostro per custodir l’ anima  fin, che purghi qualunque debiti; nè pensano, che vi  si abbia a tralasciar pure alcuna lettera, ehm — Or, O  Socrate, mi pare, che d’j intorno a questo si sia detto  bjBstevolmetite: ma de’ nomi de* Dei potressimo forse  noi considerare, come si è fatto di Giove, secondo  qual retta invenzione fossero posti i nomi loro? soc.   Per Giove sì, o Ermogónè; se noi avessimo intellet-  to sarebbe una maniera buonissima il confessare, che  iton conosciamo niuna cosa d’ intorno a' Dei, dico  nè d’ intorno ad essi, nè a’ nomi loro, co’ quali si  chiamano; manifesto essendo, che essi si chiamino coi  veri nomi: ma la seconda maniera della retta inten-  zione si è, che così come ordina la legge, che si pre-i  ghino i Dei ne’ voli comunque aggrada loro di esser  chiamati; così ancora noi li chiamiamo, quasi da noi   ’ c    Digitized by Google     )>*9 (   non si conosca niun' altra cosa. Perchè si è deterrai.   ■nato bène, come mi pare. Per la qual cosa, se ti pia-  ce, consideriamo quasi avendo detto innanzi a Dei,  che da' noi non sia per conoscersi niuna cosa d’ in-  torno a loro? ‘non confidandosi noi di esser possenti:  ma piò tosto- d' intorno agli uomini oon che opiniti-  ne principalmente intorno a Dei disposti posero lóro   i nomi; essendo .ciò lunge da riprensione. fi erm. O '   Socrate; egli è avviso, che tu parli modestamente, c  facciasi da noi in cotal guisa. .Dunque incominciamo  .alcuqg ,co$a da Veste. secondo le legge.- bum. —Cosi  veramente conviene, spc.a-t, Q ual cosa porrebbe dir  alcuno, che considerasse chi la si chiamò Veste? erm.   -Io pon penso per Giove, «bis ciò siaagevole do ri-  provarsi. som— O firnwgene buono. In vero par bene,  che i. prinp autori , de’, nomi non siano «tati certi grò*,  solqni; ma investigatori sottili di cose Sublimi. 11»   — Perchè? sac— Perchè , mi pare cheil por de' sto-  mi sia stato di . certi uomini siffatti, *' se d leu n consi-  derasse i nomi forestieri^; non tnanbo ritroverebbe  ciò, che qualunque significasse, come eziandio in qae-  sto, il qual noi chiamiamo essenza, alcuni sono,.' che  il chiamano altri di nuovo. Primieramente secondo   l’uno di questi nomi,, ,non ^ ovviso^ che si fofamrai   forte lontano dalia ragione la essenza deilè Icosè, e  perchè noi chiamiamo ciò, che è partecipe dS essenza;  per questo si potrebbe nominar Itene; perchè parte,  che ancora noi anticamente,, chiamavamo già      Digitized by Google    ))3o(<   >?rÌ* o6(rf«fc- Appreso »e «leu* considerali* isàcrifieà,  stimerebbe, che; c^»l cqn|i derisero doloro, ( «bfc .li, &  posero;, perciocché è vcrisùniU iunanM-4-iWtt». • i-, I>«i^   che facessero i sacrifici a Veste chi denominarono la  essenza di tutte le cose.- ma quanti di;, nuovo ,la.fthia-  marono ùaiOCV, stimarono quasi di mlovo secondo E-  ratlito, che sempre scorressero tutte le cose, e Piente  •Don si fermasse. Danqoe la cagione, 'e la origine lo-  ro fosse, chi le spingesse. Sicché meritamente si chia-  mi la cagione, che spinge. D’ intorno 1 0 questi fin qui  siane detto in .colai guisa, come da coloro, Che' 'non  intendono piente. Dopo Veste con-vien, Che si Iconst-  deri di Rea e di Saturno,* tuttoché de! nome di Sa-  turno abbiamo detto di sopras-hiB forse, chef io noti  died nulla. EHM.-Perchè, o Socraté? soc.— O uomo  dabbene, ho considerato certo esime di' sapienzd.  ■erm.— -Q uale é eglit socv-Cosd'dS dirsi ridfirolosa niol-  -U>, fiondimene '«Urn®, che tenga ‘àfeuno probabil cosà.  k*m.>— Q uale n’-è dessa? soc.— Mi pàrvedere; che E-  • radilo già. molto nani chiaramente aldune cose sag-  gio, che si fecero nel tempo di Saturno e dì Rea, fe  quali eziandio si raccontavano da Omero, ehm.— ‘■Co-  me- di tu cotestoì soc. — Eradito dice, che scorrano  tuttéalacose, e, non si fermi nulla; e assomigliandogli  -.enti al flusso d’ un- fiume, dice non esser possibile,  che nei medesimo, fiume tu possa entrar due volte.  ehm.— Q uesto A vero. soc. J— O ti par egli, che colui  da praclito dissentisca, il quale pose Rea e Saturno    \    Digitized by Google    ) Si <   IVa progenitori degli altri Dei? dimmi, pensi tn, che  egli abbia posto temerariamente i nomi ad ambi lorò  delle flussioni; come ancora Omero dice, che l’Oceano  sia la generaeione de' Dei, e la madre Tele; e il me-  desimo, come pare, volle ancora Esiodo. Oltre ciò db  ce Orfeo, che l’Oceano primo abbia dato incominciai  mento alle nozzi; che corrono bene, avendosi accom-  pagnato con Tele sua sorella. Dunque considera come  si confacciano insieme queste cose, e tendano tulli al-  la opinione di Eraclito, erm — O Socrate* pare a me  che tu dica alcuna cosai ma non intendo bastevolmente  ciò, che inferir si voglia il nomedi Tele, soc.— E non-  dimeno significa quasi questo stesso, che sia un nome  ricondito di fonte; perciocché quello, che corre, e sì  spinge è un simulacro di fonte, e d’ arnbidue questi  nomi è composto il nome erm.— O Socrate,   questo è bellissimo, soc.— In che modo nò? ina che   poscia? di Giove abbiamo detto veramente, ehm.   Così è. soc.— Or diciamo de’ fratelli di lui Nettuno,  e di Plutone e dell'altro nome, col quale è chiamato'  da loro. erm. — Al tutto, soc. — Egli è avviso, che Net-  tuno da chi primieramente il nominò, sia perciò sta.  to chiamato* Troa-g/ofiàlt, perchè mentre egli cambiava,   «1 ritenne la natura del mare, uè permise, che se ue  andasse più oltre: ma se li fe quasi legame a piedi.  Sicché chiamò Dio 7T0<retc/là>lùX, il prencipe di questa   virtù, come TTOff/c/lefffiolf OVTK, cioè legame di piedi:   ma l’E vi fu trasmesso forse per ornamento, ftla per-   I    Digitized by Google    9 »M   avventura non si vuote egli inferir quatto.- ma in vé-  ce di E si diceva primieramente «on due LL come se   dicesse fa ttoAAc bÌ</IÓto<tTov$*ov, ci °è* che qua»  si sia Dio coguitore di molte cose. Peravveotnra dal  ctteu, cioè dal movere fu nominato èa-g/ar, cioè mo.  venie, cui si aggiunse poi il P e il OeilD. Or il no»  me di Plutone fu nominato secondo il compartimento  delle ricchezze, cavandosi etle dalle viscere delta ter-  ra. Il nome poi ac/|»J, pare, chela moltitudine gliele  abbia dato quasi t ò AeuAtSt c ' 0 ^ cosa invisibile, e  di questo nome avendo onore il chiami Plutone. , eia.  — Or in che modo pare a te, o Socrate? soc. — A me  pare, che gli uomini in molti modi abbiano errato  intorno alla potenza di questo Dio, e lo abbiano avu-  to sempre in orrore, non convenendosi punto, teraen •  dolo chiunque; perchè morto una fiata sta sempre qui-  vi; e ancora, perchè l'anima del corpo spogliata cola  se ne vi ella. Alla perfine tutte queste cose, e il re-  gno, e il nome di questo Dio mi pare, ebe tendano  al medesimo, enti. — In che modo? soc.— Ti dirò ciò,  che mi pare. Perchè dimmi, qual di questi due è le-  game pili forte al tenere in qualsivoglia luogo qua-  lunque animale, la necessiti forse, o il desiderio?  erm. — Di gran lunga, o Socrate, avanza il desiderio,  soc. — Pensi tu dunque, che molti non fuggirebbono  lo inferno; se egli non legasse coloro, che quivi di-  scendono con un fortissimo legame? srm.— C hiaro è.  soc.— Sì che li lega, come pare, con certo desiderio,    \    Digitized by Google    ; ) 33 (   -« non con neoesiità, se pure li annoda co* legsmh  fortissimo, erm.— Apparisce, soc.— Sicché di: n«o?0  sono molli i desideri? «a*i.— -Molti si. • soó. -Dunque   li annoda colla grandissima cupidità, se pur li dee  contenere col grandissimo legame. <rm.— Per certo,  soc.— Or vi è «gl* alcuna cupidità maggiore* che quan-  do alcun con altrui accompagnatosi, pensi di dovere  esser uomo migliore per causo di l’uJP «aat. — O So-  crate, iti ninn modo per Giove, soc. — Forte per  questa cagione hassi a dire, o Ermogene, che nien di  colà se ne voglia' ritornar qni, nè iè stesse sirene,  anzi e esse, e gli altri tutti siano addolciti; cosi  belle parole sa formar lo inferno, eéttrt apparisce, ed  è questo Dio, come testifica questo parlare Sodala per-  fetto; e a colóro apporta gran benefidi, che abitano  presso lui, e dà loro cotanti beni; siffattamente i egli  di ricchezze abbondante in qael luogo, onde ancora  di quà ebbe il nome di Piatone, o non ti pere officio  di filosofo il non volersi accostare agli nomini, che  hanno i corpii ma il riceverli allora finalmente, quan-  do l’animo loro é purgato da tutti i mali, e da de-  sideri, che sono d’ intorno al corpo? per certo pensò  questo Dio di dover tener in questa maniera gli ani-  mi, se li legasse col desiderio della virtìit ma chi so-  no infetti da stupore e da pazzia di corpo, nè il pa-  dre Saturno sarebbe possente di raffrenarli con quei  suoi legami, e di tenerli seco. efcM.-O Socrate, pa-  re, che tu parli alcuna cosa. soc. — O Ermogene, è     ' >34 (   forte lontano, che il nome sia quali imminato invisi-  bile, ansi ai cava dal conoscer tutte le cose belle.  Per la qual cosa -da ciò è questo Dio chiamato  idei facitore de’ nomi. erm. — Stiano lé cose cosi. Che  diciamo noi pili oltre del nome di Cerere, di Giuno-  ne, di ’ Apolline, e di Minerva, ’e di Vulcano, e di  Marte, e del rimanente de’ Dei? soc.— Cerere si chiama  Jt«T« -rnvc/lótr/l! rriff èj\a>if(is dal dopare gli alimenti,  crtte/loti<r<X d$ (isp, c '°* quella, che dà quasi, madrq:  ma Spx, Cioè Giunone, come gp«r*TlC>. c ‘°,è certa  amata, così come si racconta, che Giove amata l’ebbe.  Ancora risguardqqdo all’alto peravveulura chi ordini)  questo nome, denomino l’aere e parlò oscurar   mente, ponendo ci principio nel fine, il che ti si farà  manifesto, se spesso pronuncierai quel nome di Pro-  serpina, ed enroAAtav temono alcuni 'per quello di no-  minare, che è ignota: loro la retta invenzione de’ np;  mi: perciocché mutando considerano la <pgp(j-£<pótfW,  e ciò loro par cosa grave. Ciò poi dimostrai c h®  Dea sia sapienza. In vero la sapienza fìa quella, che  tocca, e palpa le cose, che scorrono, e lepuòcopse;  guire. Per la qual cosa Qepé'lTCUpX, questa Dea meri-  tamente si chiamerebbe per la sapienza, toccamente  di quello, che scorre, o alcuna tal cosa. E però lo  inferno, essendo sapiente è congiunto con lei per es-  ser. ella siffatta. Ma ora schivano questo nome, stiman-  do più la grazia del proferimento, chq la verità: in  modo, che la nominino (pepp&QXTyxi- M medesime    Digitized by Google    >3U   ancora adìviene intorno al nome dì A polline, avendo  molti in orrore questo nome, come porti seco alcuna  terrihil cosa, o no il conosci tu? ehm.— Il Conosco   *ai, e tu di il vero. soc. -Ma ciò, come mi è avviso,  è posto benissimo rispetto alla potenea di Dio. erm.   In che modo? soc. — Sforzerommi di esprimere il   mio parere, in vero non si avrebbe possuto ritrovare  un’ altro nome solo più convenevole -alle quattro po-  tenze, di Dio, di maniera, che le tenesse tutte, e in  un certo modo dichiarasse la musica, il vaticinio, la   1 I T u ' ' ,   medicina, e 1’ arte del saettare. Or di, per-   chè mi è avviso, chp,tu dica un nome strano,, soc. —  Anzi egli è conveuevolmente addattato; essendo Dio  musico; perciocché la purgagioue primieramente, e  le mondazioni, che si fanno colla medicina, e col  vaticinio; ancora le cose, che si torniscono col-  le medicine ’ de’ medici, e gli incauti degli indovi-  ni, C le purificazioni, i lavacri, egli spargimenti pos-  sono questo solo, cioè di. rendere 1’ uomo puro, e  del corpo e deU’aniina; non è egli cosi? erm. — Cosi  ad ogni modo, soc.— Dunque sarà colui il Dio, il qual  purga e lava chi libera da mali siffatti, ehm.— Senza  dubbio, soc — Per la qual cosa in quanto lava, e li-  bera come medico di tali inali; è meritamente chiama-  to liberatore. Ma secondo la indovinazione, e il vero, e  il semplice, essendo una stessa cosa il possiamo anco-  ra nominar bene secondo il costume de’ Tessali. Per   l *   certo tutti costoro chiamauo questo Dio , semplice: ma    Digitized by Google    I    ) 35 r    perehè sempre imbroca il sogno con l'arte del saettare,  sempre percuote-, si può dire perpetuo percotente. Se-  condo la musica poi, si ha a pensar di costui come  di chi si dice, che segue alcuno; e della moglie, per-  chè 1 ’ A dimostra, come in altri molti luoghi il con-  giuogimento, e qui ancora significa 1 * accompagnamen-  to delle conversazione, e intorno o cieli, i quali chia-  miamo «7 TÓAovff, « significa eziandio 1 * armonia, che  è nel canto, la qual ai chiama concordanza. Perchè  d’intorno a queste cose, come dicono i periti di mn-  •sica e di astronomia, si rivoglie egli con Certa armonia.    •Questo Dio poi è soprastante all’armonia volgendo insie-  me tutte queste cose, e appresso agli uomini, e~a'ppresso  V Dei. Dunque così come T J y o^oa/Afii/Sor, Kffì opó-  JtO<T«V, 0, °® va insieme, e chi giace nello stesso let-  to abbiamo chiamato «kuAovSov, X ai SttOITtY, ca-  blando l’ O nell’ A, così quello abbiamo chiamato  ■Apollo, il quale era o’fXOTTCÀàv, frammesso l’altro L:    perchè sarebbe stato equivoco col duro nome. Il che  ancora a questi tempi avendo sospettato alcuni • per  quello che non considerano bene la virtù del nome,  così il temono, come significasse certa corruzione. Ma  daddovero questo nome abbraccia- tutte le virtù di  questo Dio, come di sopra detto abbiamo; conciossia,  che il significa semplice, perpetuo, ‘ percotente, lava-  tore, e insieme conversante. Il nome poi delle mu-  se • della musica i cavato da quello ebe si dice .    «    Digitized by Google     ) h (   c '°® cercare i come è avviso, e co* la inve-  stigazione, e con lo studio della sapienza. Latona si  dice dall* mansnetndine dèlia Dea, perchè sia pronta;  ed esposta, e presta al dar ciò, che chiunque ricerca.  Ma peravventura, come chiamano i peregrini perchè  molti nominano il qual nome pare che lì sia   stato dato, perchè non abbia ella la mente rigida: ma,  mite, perciò si denomini qiwaì Aitò» ì$6$,   cioè costume piacevole e mite $prt[ìl(, cioè Diana  per quello che s ‘ a quasi integra, e modesta   per lo desiderio della virginità, ancora lo institutore  del nome la chiamò peravventura quasi òlfSTÌi iffTO p«tj  cioè chi conosce virtù eziandio è detta forse SpTeyttS,  quasi £; TÓV «fyoTOV TOt OtVcApài «’»7V-   I ctiKi, cioè che ella abbia avuto' quasi in odio il con-  giungimento dell’uomo colla donna essendosi ordina-  to il nome,'o per alcuna di queste 1 cose, 0 per tutte  di siffatta sorte, erm.— Ma che Airfrtfd'O? g'(pp o</IÌTt   cioè di Dioniso e Venerei soc. — O figlinolo di Iponi-  co, tu addimandi gran cose. Or è doppia la maniera  de* nomi imposti a questi Dei, 1* una seria, 1* altra  giocosa. Dunque da certi nitri ricerca fa seria: ma la  giocosa niuna cosa vieta, che non si racconti: percioc-  ché sono ancora i Dei de’ giuochi amatori, e sarò uno  Al'orvtrog i J\l<Aoùs to'» ODO», cioè Dioniso mini-  atratore divino, quasi cognominato' JU<A\jtvv<roS, nel    Digitized by Google    J38 (   giuoco. Ma ti può meritamente chiamar vino; perché  faccia, che molti, i quali beono essendo alienati di  mente, pensino di avere intelletto qh al&S^xl VOÙV   »v«<» tò» TTt*óv3fi>v roti : ttoAAoÙs,   d’onde meritamente si può chiamar obi pensa avere  intelletto. D’ intorno a Venere non è cosa degna, che  si contradica ad Esiodo: ma si conceda, che si chiami  &QfO<AiTH TSt T«V «iJ>poù 7 évetrw, ci°é per la  generazione della spama. MM.-Or, o Socrate, non  trapasserai sotto silenzio Minerva, e Vulcano, e Marte  essendo ateniese, soc.— Non conviene itKolcun mo-  do. ehm.— Per certo nò. soc. — Egli non è malagevo-  le da dirsi, perché sia posto l’uno de’ nomi di lei.  Kit».— Quale? soc.— Per certo noi là chiamiamo Palla-  de. ehm.— Si certo. sac^-Or istimando noi, che 1»  sia posto questo nome dal saltar fra le arme, lo sti-  meremo bene, come io penso, perciocché lo inalzar  se stesso, o altra cosa in alto, o da terra, o colle ma-  ni il diciamo TróAAetif, e thxAAe adii, Xfid àpX B ^*   t • • - * <. vi v   XK< c ‘°® cr °ll are » e crollarsi, e saltare, e   patire il salto, ehm.-— Così è. soc — 'Dunque in colai  guisa la chiamano Pallade. ehm.— E meritamente; ma  1’ altro suo nome, in, che modo lo di tu. soc.— Cer-  chi tu tÒ . À9NV&? ( ehm.— Questo stesso, soc.— Que-  sto è piu difficile, o amico, pare che gli antichi sti-  mino £$ come costoro, che a questi tempi sona   dotti d’intorno ad Omero. Perciocché di costoro mal-    Digitized by Google     ) 39 <    ti interpretando il poeta dicono, che òt$tlVoiV «-  TOV yovv, Kx\ JÌIXVOIXV TTSTTOIHkÌvÓCI, abbia fatto  la stessa mente e il discorso, e chi fece i nomi pare,  che abbia considerato alcuna cosa tale d* intorno a  lei: anzi ancora dall’ alto innalzandola, la introduce  come intelligenza di Dio, qnasi dica, che questa sìa  5eovÓo, cioè quella, che intende Dio, valendosi dell*  X in luogo del y secondo certo rito forestiero; levan-  done appresso lo j e il ma peravventura nè a que-    sto modo: ma come, che ella diversamente dagli altri  intenda le cose divine la chiamò ^eoto'nif, cioè inten-  dente le cose diyine. Uè fìa fuori di proposito se di.  remo, che egli 1’ abbia voluta chiamare rf$oVÓtf  quasi essa sia intelligeuza d’ intorno a costumi. Egli  dopo, o coloro ancora, che vennero poscia come era  avviso tirandola nel meglio, come credettero la de-  nominarono Atene, ehm.— Che di Yulcauo, il quale è  nominato ÌQxHnotf in che modo dì tu? soc.— Ocer-  ehi tu il generoso intelligente di lume? ehm. — Cosi  mi e avviso, soc.— Costui come può esser manifesto   a ciascuno è tpoÙffT Off, e si attribuisse lo onde è   * . t . v i   detto £ Qxi$TQS- ehm.— Apparisce se eziandio non   ti paresse pra altrimenti, soc.y- Ma acciò non mi paia  cosi addimanda di Marte. ERM.-Addimand,o. soq,  —Se li piace KfltTOt TP Xf>ps, y, cioè Alarle, si dice se-  coudo il maschio è «MpetOtfjiCioè forte. Più «lire sft    Digitized by Google     ) 4 » (   la vorrai, che egli aia stato chiamato per certa aspra  natura, dura, e invita, e immutabile, la qual si chiama  ttppXTOI, questo ad ogni modo convenirli al Dio guer-  riero. xrm. — A d ogni modo. soc. — Deh per li Dei  lasciamo oggimai i Dei, temendo io di disputar di lo-  ro: ma proponimi qualunque altre cose tu vuoi, af-  fine tu conosca quali siano i cavalli di Eutifrone.  un. — Farollo addiinandandoti ancora una cosa di  Mercurio poiché Cratilo nega, che io sia Ermogene,  sicché tentiamo di considerar ciò che significhi éppw$,  cioè il nome di Mercurio: affine conosciamo, se egli  dica alcuna cosa. soc. — E nondimeno g’pgyg, cioè Mer-  curio pare che sia intorno al sermone in quanto è  i/tfmete, Iteti sryeAof, noi) tò nhu'juKÓne, k«ì  to xTxrnXoi s’r ih * <?» x*ì tò ciipopxaTinòv,   cioè interprete e nuncio, e ha nel parlare lo ingannar  furtivamente, e versa nella piazza. Tutto questo tratta-  to versa intorno alla virth del parlare. Per certo come  abbiamo detto dianzi yò etpeil, ® usanza di parlare.*  ma spesse volte dice Omero di costui e’p scorro ,  cioè machinò egli. Dunque d’ ambidue si compone il  nome di questo Dio, si di quello, che è parlare, sì di  ciò cbe è il ntachinare e 1’ investigar le cose da do-  versi dire, così come 1’ autor del nome ci ordinasse.  O nomini, è cosa decente, che voi chiamiate quel Dio,  il quale ha machinalo il parlare: ma noi al presente  it chiamiamo gpjiìy, pensando di abbellire il nome: an-    »    Digitized by Googl     ) 4« f   zi, e ipi$ pare che sia chiamata da sip$u per quello,  che era messaggera, erm.— Per Giove pare, che Cra-  tilo abbia negato bene, che io non sia Ermogene, es-  sendo io grossolano alla invenzione del parlare, soc.  t- 0 amico, egli è ancora verisimile, che ir fax figliuol  di Mercurio. sia di due forme, erm. - In che modo?  soc.— Tu sai, che il sermone significa il tutto, e at-  tornia, e versa sempre, ed è doppio, cioè, vero e fal-  so. erm.— In vero sì. soc. — Dunque la verità di lui  è cosa piana e divina: e di sopra abita fra Dei: ma la  falsità al basso fra la turba degli uomini, ed è aspra  e tragica: perciocché qui si ritrovano molte favole e  falsità intorno la vita tragica, erm. — Così è ad ogni  modo, soc.— Meritamente adunque egli, che significa  il tutto, e sempre versa, sarà di due forme figliuolo  di Mercurio nelle parti di sopra molle, e delicato, nel-  le inferiori aspro, e caprino, ed è pane, o il Sermo-  ne, fratello di sermone, poi che è figliuolo di Mercu*  /rio. Non è poi maraviglia che il fratello sia al fratello  somigliante. Alla perfine, o beato, dipartiamoci da’ Dei,  il che io poco fa diceva, erm — -O Socrate da questi  tali sì, se il piace a te: ma quale impedimento ti tie-  ne, che non racconti di questi altri? cioè del sole,  della luna, delle stelle, della terra, del cielo, dell'ae-  re, del fuoco, dell’acqua, della stagione, e dell’anno?  soc. — Sono molte, e grandi le cose, che tu mi coman-  di; non per lauto dovendoti esser ciò grato, ti ubidirò.    ) 4 * (   ikm — Per cerio tu mi Tarai cola graia. »oc. — Che  chiedi tu prima? o vuoi tu forse, come hai detto, che  discorriamo dei soie. erm. — Invero si, soc.— Questo  è avviso, che potrebbe esser più chiaro, se alcun si  valesse del nome Dorico, chiamandolo i Dorici et\Ì0i  ed in cotal guisa è chiamato secondo xktÌ TO à\i-  £s/V e li TOCvyópoòs XìlSp ÓttoIs, C1 °è per quello, che  riduce gli uomini insieme quando nasce : ancora  Kfltl "TÙ TTepì tW «et EtAitv, per quello ched’  intorno alla terra si rivoglie sempre. Piu oltre perchè  varia col suo giro le cose, che nascono nella terra, il  variar poi, è lo stesso, erm. — Ma che si dee dire  d» <reÀÌvt)J, della luna? soc. — Pare, che questo  nome premi Anassagora, erm.— Perchè? soc.— Perchè  dimostro alcuna cosa vecchia, il che egli poco fa di»  ceva traendo la luna il lume dal sole, erm.— In che  modo? soc.— Il c-e’A CCS, P er cer to, e la luce è lo stesso*  erri.— E’ si. soc.— Questo lume perpetuamente è d’ in-  torno alla luna y£ov, hx'i BVVOf, cioè nuovo e vecchio,  se pure gli settatori di Anassagora parlano il vero,  conciossia che attorniandola di continuo la rinova: ma  vecchio è egli il lume del mese passalo? brm.— Vera-  mente. soc.— Molti chiamano la luna o-sAxtCclxt,   erm.— Per certo sì. soc Ma perchè tiene sempre il   lume nuovo, e il vecchio, meritamente si dovrebbe  chiamare <rgAA*eyveo«6t«. Ora poi spezzato il voca-    Digitized by Google     > 43 (   bolo si chiama <rgA<m tot. tMt.—O Socrate, questo  nome è ditirambico: ma come interpreti tu T< j r  Cioè il mese, e T * forpx, cioè le stetle? soc.-ll  mese si chiamerebbe bene yg/j, T0 ^ ynuoìfBxu  cioè dal sminuirsi: ma pare, che le stelle abbiano la  denominazione di òffTfflnr?S , cioè del folgore :  «TTfMnri poi, perchè a se rivoglie gli occhi si do-  vrebbe dire aTpoì’Jtì: ma ora con vocabolo più ao-  concio si chiama ònTTpentì. erm.— Onde ne cava.il  nome "jrSp, nxì TÒ ic/l&p, cioè il fuoco e l’acqua?  •oc.— Dubito veramente del fuoco, e corre rischio, o  che la musa di Eutifrone mi abbia abbandonato, ossia  questo cosa difficilissima. Dunque considera qual «na-  chinazione io introduca, d' intorno a tutte siffatte co-  se, nelle quali io dubito, erm.— Quale? soc.— Dirpl?  loti. Perchè rispondimi, potresti tu dirmi, perchè si  chiami fuoco, erm.— Per Giove nò. soc.— Considera  ciò, che io sospetti d'intorno a questo: in vero io sti-  mo, che molti Greci abbiano avuto molti nomi da'  Barbari, massimamente coloro, che sono a* Barbari  •oggetti, erm.— A che queste cose? soc. — Se alcun  cercasse secondo la voce greca la retta imposizione  di questi, non secondo quella, dalla quale ha origine  il nome, sai tu com’ egli dubiterebbe? erm.— Verisi-  1 mente si. soc — Sicché vedi che questo nome * 7 ^,   non sia alcun nome barbaro, non essendo agevole lo   4 *    ) 44 <   accommodarlo alla lingua greca, e manifesto è, che   declinando alquanto, i Frigi lo nominino incoiai guisa,   TÒ vJìtof K«ì T«£ KÓKX? KtÒ »   cioè l’acqua, ei cani, e altri molti nomi. ehm. —  Questo sì è vero, soc.- Dunque non fa raistieri, che  si usi violenza a quelle cose, poiché d’ intorno ad  esse non potrebbe alcuno dirne niente. Sicché in que-  sto modo io rifiuto quei nomi di fuoco, e d’acqua: ma  lo c('ip, cioè 1* oere è cosl dell °» 0 Errao B ene » l ,erchè   crfpsi T« «TTÒ T*S ci0è S0lleva Ci6 ’ Cbe è d ’ ia *  torno alla terra, o perché scorre sempre, o perché si  genera lo spirito col flusso di lui, conciossiachè chia-  mano » poeti tHrxs, gli «Pi» - '!'- Dunque si dice aere  peravventura, quasi *7TI(ev(iflCTÓppoi/V , «STOppov» ,  cioè corso di spirito. Ma del cci$epeC >° sospetto in  questa tal guisa, perchè sfóttei, cioè sempre scorre,  scorrendo intorno all* aria, perciò meritamente si può  chiamar fatfripo 7* <Aa cioè la terra maggiormen-  te significarebbe ciò che si vuole se alcun la nominasse  7«?«V, perchè •ysvl/VITeipflC S1 P u ° cbiamar bene »  cioè genitrice, come dice Omero. Conciossiachè ciò  che si dice yeyiwi, diss’egli 7S76V?<r3*i, c,oè l ’  esser fatto, ehm. — Si stiano le cose cosl. soc. — Che  ci rimane dopo questo? erm. — Le stagioni, e l’anno,  o Socrate, soc.— upxi, cioè le stagioni, sono da dirsi    Digitized by Google    > 45 (   colla voce vecchia, e Ateniese, se tu vuoi conoscer  quello, che è convenevole, essendo elle ore .upctt, c '°è  perchè determinano il verno, e là state, e i venti, e  i tempi, per li fruiti, che nascono dalla terra, e de-  terminando esse, meritamente ore si chiameranno.  ilici t/TOff po«* e sTO?> cioè l’anno pare che sia lo  atesso; perciocché quel che a vicenda manda in luce  qualunque cose nascono e si fanno, e le essamina ia  se stesso, e discerne è l’anno, e come di sopra di-  cemmo, che ’l nome di Giove era segato in due, e si  chiamava d’alcuni « d’altri a/# cosi ancora chia-  mano qui l’anno altri evi flfUTÒy, perchè in se stesso,   . ^ ■ f ^   altri ajoS, perchè essaraina. Ma ia ragione intera è,  che chi .esamina se stesso, si chiami ia due maniere  essendo uno dj modo che da un parlar solo si fac-  ciano dpepomi,eVl «t/TÒ», e bT-OSì cioè anno, ehm —  O Socrate, tu te ne vai luoge oggimai. soc.-In vero mi  è avviso di far progresso nella sapienza, ebm.— Ansi  si. soc. — Per avventura il concederai maggiormente,  xaw.— Hor dopo questa specie Volentieri contemplerei,  in che rpodo questi nomi eccellenti di virili siano po-  sti bene, come (ppóvn<ris, cioè la prudenza anwdcns,  la intelligenza, JitKCltOffvvì 1* giusti®!», e il rimanente  di queste sorte, soc.— O amico, tu susciti una sorte  di nomi da non dispreizarsi; tua nondimeno, poiché  mi sono vestito della pelle del Icope, noa conviene,    M<5 ( .   che io mi spaventi, anzi consideri, come è avviso, i no*  mi della prudenza, della intelligenza, della opinione,   della scienza, e delle altre cose siffatte. EnM.— -Non   dobbiamo veramente cessar innanzi in modo veruno,  soc.— Nondimeno per cane non mi è avviso di far mala  congettura d’intorno a quello, che al presente io ho  considerato, cioè che questi antichi autori di nomi,  come adivien ancora a molti de’ nostri savi, siano ca-  duti fra gli altri nella vertigine dell’intelletto per la  frequente rivoluzione nell’iuvestigar, come se ne stiano  gli enti, e poscia pari loro, che le cose vadino intorno,  c si portino da ogni modo. La cagiou poi di questa  opinione stiman essi non la passione interna, che è  presso loro: ma, che esse se ne stiano così per na*  tura, e in loro non vi sia niente di fermo, e istabi-  le; ma scorrino tutte, e siano portate, essendo ripiene  sempre d’ogni portamento, e generazione, e ciò mi  dico considerando tutti i nomi, che ora si son detti,  kbm — I n che modo di tu, o Socrate? non hai consi*  derato per avventura essersi posti i nomi pòco fa dct*  ti alle cose, che quasi si portano, e fluiscano, e si  facciano, erm. — Non li appresi bastevolmente.' soc —  Primierameute ciò che abbiamo riferito dinanzi ap-  partiene ad alcuna cosa di questa sorte, ehm. — Quale  è cotesto? soc.— E £ <ppóvw<r/J, c *°è prudenza, es-  sendo ella (popi? xotf poi? vÓltO'lt?, c *°è intelligenza di  portamento, e di flusso. Ancora si potrebbe imagina-    Digitized by Google    ) 47 <   re, che significasse o»»<m <P0fXÌ, c ‘ oè nlI1 ‘ tà d: P or '‘  lamento; nondimeno versa ella intorno alla agitazione.   Anzi se vuoi *7»a(X» cioè la opinione significa al   tutto 701»? (TX6 i4»IF KOCÌ l/àima'ir, cioè considerazio-  ne di genitura; essendo lo stesso il i/apit e <rK 0 Trei»,  cioè il considerare: ma se vuoi lo stesso g’ V0»<rU,  cioè la intelligenza è tov 160 U Ciri?, cioè de** 4 ! 0 '  rio di cosa nuova; che poi siano gli enti nuovi, si-  gnifica, che essi ai faccian sempre, e dimostra, che  ciò desideri, e prenda a far l’animo, chi pose quel no-  me f 0 Hri$ : perchè da principio non si diceva vonaif:  ma erano da proferirsi due in vece di g come quasi  Veoe <r IH, cioè appetito di cosa’ nuova: tracppotri/VU, cioè  la temperanza è salute, e conservazione di quello, che  ora abbiamo considerato, tppovtreaf, cioè della pru-  denza: gTriffTItfi», cioè 1® scienza è tratta da ciò, che  insta e segue, quasi segditi, e insti, e accompagni I'  animo le cose sole, che scorrono, nè per dimora sia  ultimo, nè primo col corpo correr innanzi. Sicché fa mi-  stieri fraroettendo 1 ’ g, si nomini eTr/ffTHfiEVDV, cioè  prudenza: (ri/VKa’/f d* nuovo cosi parerebbe esser sil-  logismo, ciò certo discorso. Ma conciossia, che si dica  < rvtìevxt si intende lo stesso: come se si dicesse  8 Tr/ffT«ff 3 (XI, perchè il dice che concorra   l’animo colle cose, aotpl'a, cioè ,a sapienza significa <    Digitized by Google    > 48 <   < popvf e<pct i rye<r9c(l, ctoi i* toccar il portatnento.  Ciò poi è egli pih oscuro e istrano: ma da’ detti de*  poeti ci abbiamo ad arricordare qualora vogliono e-  sprimere alcuno, che si avvicini, o se ne venga coti  empito, dicono ga-t/,9», cioè usci con empito, anzi fra  Lacedemoni ancora sol/?, cioè veloce era il nome di  certo uomo illustre, significando in colai guisa i La*  cedemoni 1’ empito veloce. Dunque la sapienza significa  TKUTHS T*9 cpopocs e’TTOCtpUf, cioè tatto di questo  portamento ; quasi siano portati gli enti : e pure  TO «7«3oV, cioè il bene di tutta la natura significa  Tffl ccyxtncò, c *°è *1 mirabile, perciocché scorrendo  li enti vi si ritrova in loro la prestezza e la dimo-  ra. Dunque non è ogni cosa veloce: ma di lei alcuna  cosa xyocaTOVt *1 4 ua * ^ ene s * dichiara col nome dell’   «7«<ttov, «/IntaioffW*, eTr», c '°è * a S ,ustiz * a possia-  mo fare agevolmente congettura, che sia tosto questo  nome 7-5 tou c/ltK0t'/o!/ffl/V6ff8l,.cioè nella intelligen-  za del giusto: ma è malagevole da conoscersi quel  che è giusto-, parendo fine a certo termine, che sia  ciò conceduto da molti: ma si dubiti poscia. Perchè  chiunque stima, che sia in moto il tutto sospetta, che  la maggior parte di lui sia certa cosa tale, la qual  non sia altro, che capire; e per tutto questo sia alcu-  na cosa, che scorra, con cui si facciano tutte le cose  che si fanno, e sia ella velocissima e tenuissima, per-    Digitized by Google    ) 4M   eh è non potrebbe altrimenti discorrer per tatto L’en-  te, se tenuissima non fosse, in guisa, che niente in  penetrando le possa far resistenza, e velocissima in  modo, che se ne serva delle altre cose quasi stabili.  Dunque perchè ella governa c/luoi/, cioè discorrendo  per tutte le altre cose, meritamente è addimandata  c/I/kociov framesso uno y per causa di più leggiadro  proferimento. Fin qui ciò, che dicevamo poco fa, si  confessa da molti, che sia il giusto. Or io, o Errao-  gene, ardendo di desiderio d’ imparare, ho tutte que-  ste cose investigato sccretamentc, quasi questo sia il  giusto e la cagione; essendo quella la causa, per la  quale si fa alcuna cosa, e si disse da alcuno, che in  colai guisa si debba chiamarla. Ma tutto che io abbia  udito questo, tuttavia ritorno ad addimandare. Dun-  que, o ottimo, che è il giusto, poiché se ne sta egli  cosi? a me par già di ricercar piu oltre di quello,  che si conviene, e salir fuori della fossa; perciocché  dicono che io a sufficienza ho addimandato e udito:  e in volendomi empire sì sforzano di dir chi una, e  chi un’ altra cosa, nè convengono più oltre. Altri  dice, che questo giusto si è il sole, poi che egli di-  scorrendo sopra la terra, e riscaldandola governa il  tutto. Ma quando io riferisco questo ad alcuno, quasi  io mi abbia udito cosa eccellente, incontinente egli  mi ride, e ricerca se io stimi dopo il tramontar del   sole avauzar agli uomini niente di giusto. Sicché pre-   , *    Digitized by Google    )5o(   gradolo, che di nuovo dica ciò, che sia il giusto, di*   ce, che è il fuoco: nè questo è agevole da conoscer-  si: altri poi dice non il fuoco: ma pii» tosto il calo-  re innato nel fuoco: altri di queste tutte se ne ride:  ma dice, che il giusto sia quella mente, la quale A*  nossagora introduce. Per certo, dice egli, che ella sia  imperatrice, c adorni tutte le cose; penetrando ella  per tutte, nè mescolandosi con alcuna cosa. Qui, o  amico, sono sdrucciolato in ambiguità maggiore, che  prima, mentre io procurava di saper qual fosse il  giusto. Dunque alla fine pare, che questo nome sia po-  sto per queste cagioni a quello, d’ intorno al quale  noi consideravamo. erm.-0 Socrate egli è avviso che  tu abbia udito questo da qualcheduno, nè cavatolo  rozzamente dalla tua officina, soc. — Ma che dell al-  tre? ERM.-Non molto, nò. soc. - Dunque attendi:  perchè forse io ti ingannerei d’ intorno alle altre co-  se, quasi io le riferisca, non avendole udite. Che ri-  mane dopo la giustizia? non ancora come stimo ab-  biamo raccontato eivJìplxV, c *°è f° rlezza » p erc ‘ oc *  chè la ingiustizia è lo impedimento di ciò, che dis-  corre: ma 1’ et\iJ\pix dimostra quasi, che si nomini nel  combattimento. Ma che il combattimento sia nell’ente  s’ egli scorre, non è altro, che il contrario flusso.  Per la qual cosa se alcun leverà via il J\ da questo   nome av «/lp/<«, » nome che rimane * V P lX dÌChlara  1* opera stessa. Dunque è manifesto, che non a qualun-      /    Digitized by Google    );5« c   que io», cioè flusso, il- contrario flusso èforhaxa: ma  'quel flusso Che corre oltre il dovere; perchè bon al-  trimenti sarebbe lodévole la fortezza. Or pò affli*   cioè il maschio, e S XV» f, ci ° ò l ’ uom ? lrae l ’ 0ti ‘  gine da certa cosa somigliante p j iva pó», c,oe  dal flusso di sopra. Ma <p UV », cioè la donna, mi par  che voglia esser *yoV») cioè genitura: po yxf  poi cioè Temine pare, che sia stato detto da $»AÌ£,  cioè dalla mammella. B egli poi avviso, o Ermogene,  che $n\n «« dica, perchè fa pgS«A6tr<XI, c,oè B ene ‘  rare e pullulare come quelle coie che si irrigano?  xkm.— Còsi apparisce, o Socrate, soc. — E pure p o 5otA—  Xciv cioè il germogliare mi par, che rassomigli it   * ' ; ‘ .J '   crescer de’ giovani, facendosi esso veloce, e alt im-  proviso; il che accennò colui, che formò il nome   cavò T0\i reìv, cioè di < Sorrere e «AAso-3«i, c ‘ oè  di saltare, consideri tu, che io sono portato come  fuori del corso, poiché ho ritrovato piana e agevole  la via? eziandio rimangono molle cose, le quali paio-  no pertenere al serio? ehm.— Tu di il vero. soc.   1 .....  Di cui una, si è, che vediamo ciò, che si voglia si-  gnificare cioè l’arte, erm .— Ad ogni modo.   soc. — Non si dimostra egli é^tVfOV, . l’ abito della men-  te quasi ej^ovo», cioè avente mente, se si levi il p,  e si fraraetti 1’ o fra il e il y, e f ra '* » e il *?    >**\L   ■è**»— Troppo aridamente, o Oberate, ed incivilmente. 1  •oc t-r-Q non sai tn, uomo beato, che i nomi, i quali  prim|erjqjentf furono posti, siano stati celati, da cip  tragicamente li vogliono narrare; aggiugnendo essi per  eleganza, e levandone via lettere, e parte per lun-  ghezza tempo, ® parte per desiderio di ’ ornamento  'rivoltandoli" ■ da tutte le parti , come per esempio  tV TcS Hpctfaipa, c,oi nello specchio, non parola  te disconvenevole che si siaframesso il pa? per certo  tali cose fanno, come io stimo, chi prezzano, pih *  vezzi della bocèa, che la verità, per la qual cosa fra*  mettendo molte cose a’ primi nomi, alla fine fanno,  che niun uomo intenda ciò, che si voglia il nome,   come mentre proferiscono T»y aai'y’yce, cioè certo   li i ; .-i • » f'iitij n sì . T ' *17   mostro, dovendosi pronunciare <r<t>/'yot, e "tolte altre   ' ! " V », i !.• T I, .   sose. ZBM,— ciò, o Socrate se ne sta veramente cosi,  soc.— Ma se si concedesse di nuovo ad ognuno secon-  do il suo volere di aggingnere e levare a’ borni, gran-  de in vero sarebbe la licenza: e chiunque darebbe  qualunque nome a ciascheduna cosa, za»*.— Tu narri  il vero; ma si conviene, come io penso, che da tè  presidente savio, si servi certa mediocrità e decoro.  irm.— I o il vorrei si. soc.— E ancora io, o Ermo’gene,  il desidero con esso téco: ma no il nctìncarè, ò Uòmo  félice, coi» troppo eSsata investigazione, affine non  annichili al tutto k virtù mia: perciocché io me ne  vengo alla cimjt delle cose antedette, poiché dopo 1    Digitized by Google     J-*! •-    )53X   arte avremo considerato |iSJ<^«rÌT, cioè la machinazio-<  ne, perchè P 8re ■ me. Che Sia segno f oj)   ecw7l, cioè delio aseender rooho*, perfchè' significo  flttOf, cioè lunghezza, vrpo? T<#TroXv, Cioè appresso  al molto. Dunque il nome ^l|^flCy»,.conje egli si com ; -  pone da questi due k«Ì TOÙ àtUÌI, :cìoè di   lunghezza, e ascesa. Ma come ora diceva, 4 da perve-  nirsi alla cima della cose dette, e da ceròarai ciò, che  significhino questi nomi «psT*, cioè virtù,- e netti Oli  cioè vizio: .ora V uno nou il ritrovo ancorai l’altro  par manifesto, confacendosi eoa tutte le cose ante*  dette, perciocché quasi scorrano le cose ciò che fìa  KftK£>£ iti, cioè è scorre malamente > sari nati i/ct,  cioè vizio. Ed il proceder malamente che si fa nell’  anima inverso alle cose, ritiene massimamente la de-  nominazione del vizio; ma il hxkù)$ (Si'XI, cioè il prò*  cèdere malamente ciò, che egli si sia, pare a me che  si dichiari ancora nel nome t/fgiA/oe, cioè nella timi-  dità, la qual non ancora abbiamo dichiarato; aveodo*  la noi tralasciata; facendo mistieri che la si conside-  rasse dopo la fortezza. Appresso ci è avviso di aver  tralasciato molte altre cose. Dunque it«/ls l A/«x signi-  fica il forte legame dell* animai perciocché 7 -$ Aistf  è certa forza. Si che J\ei\ix, cioè la timidità è il gran-  dissimo legame dell'anima, così come ancora j xitopix.    Digitized by Google     )>S4C   cioè il dubbio è male,, e , sommariamente qualunque  impedimento del. progresso. Questo dunque pare, che  dimostri x,Ò K*k5s ì«»*», cioè l’ andar male senza mo-  versi, e con impedimento; la proprietà quando l*. ani-  ma tiene si riempie di vizio, che $e quel nome di mal-  vagità compatisse ad alcune cose siffatte, il contrario  significherà virtlt. Primieramente significando abbon-  danza, e poscia che il flusso dell' anima buona sia  sempre sciolto. Perlaqualcosa quello- che è senza re-  tto tiono e impedimento xò CÌ<r%B T6>£ Itati ÌKfl»Aw-  /eoa, cioè che sempre scorre ha avuto, come è  avviso, questa denomufazióne. Si che stà bene, che al-  cun lo chiami À&ippé frtf, 4°*** 8em lj re fluente. Ma  peravvèntura lo può chiamar alcuno oupgx&y, quasi,  che qtiesto abito sia da elèggersi massimamente. Ora  Spezzalo il vocabolo si chiama «psT». D *rai lu forse,  che io finga: ma io mi affermo, che se pur quel nome  dì viziò, che io ho riferito è introdotto bene, che an-  cor bene si introduca questo nome di virtù, erm —   Ma che si vuole T Ó KfltRf, cioè >* raa,e i P er *° quandi  sopra hai detto molte cosef soc. — Certa cosa strana  per Giove, e malagevole da ritrovarsi. Si che ancora a  questo io apporterò quella machinazione. ehm. — Qual   macbina'zionef soc Il dire, che questo ancora sia   certa cosa barbara. ERM.-EgH è avviso, che tn parli  bene. soc. -Alla fine lasciamo oggimai questi da par-    Digitized by Google     1 55 '   te, se il ti piace: ma tentiamo d* sedere In die modo  se ne stiano bene ragionevolmente questi nomi TÒ   K*A<fr, >t«ì TO edxpoi, cioè di bello e di turpé. Or  ciò, che significa oiìc^pat m > par manifesto, per  certo egli conviene con gli antedetti: perciocché mi  è avviso, che chi ha posto i nomi biadimi ciò, che iro-  pedhce e ritiene dal corso gli enti* e ora pose il nome  ocel TW povv a ciò, che sempre impedis*.   se il flusso ocsiaryoppovt. Ma ora «pezzato il nome,  lo chiamano cthry^p 0». Che si vuole il’ kccAov,   cioè’ il bello?* soc. — Ciò è via pih malagevole da co-  noscersi, dicendosi che questo solamente per causa di  armonia, e di lunghezza sia derivato, donde sì trasse.  érm. — In che modo? soc. — Questo nome pare, che sia   certa denominazione di discorso. ' erm. Come di tu   questo? soc. — Qual cosa stirai tu, che sia stata causa  della denominazione di qualnuqne degli enti? o non   ciò, che diede i nomi? erm.— Ad ogni modo, soc   Dunque questo sarò discorso o dei Dei, o degli uomi-  ni, o di ambidue. erm.— Per certo si. soc. — Dunque  70 KKÀOV» ret Trp«7(jiflCTflf, cioè quello, che chiama  le cose, e xò k«AÒ? sono lo stesso, che discorso.  erm.— Apparisce, soc. — Dunque qualunque cose fa di  nuovo la meote, e il discorso sono degne di. lodi.- ma  quelle, che no, sono da biasimarsi. erm.— Ad ogni   modo. soc. -Dunque ciò, che è alto al medicare fa    > 56 (   le opre della medicina, ciò che è atto all’ arte del  legnaiuolo quelle, che sono proprie di lei: ma tu co-  me >1 potresti dire? ehm.— Cosi. soc. — Si, che ezian-  dìo il bello, le cose belle? ehm.— Fa certo mistieri.   soc Poscia è questo egli il discorso, come diciamo   noi? erm. — Si certo, soc. — Si che questo nome di  bello, meritamente fa la denominazione della pruden-  za operante certe cose siffatte, le quali abbracciamo,  dicendole belle, erm.— Cosi apparisce. soCi-Quale   altra cosa ..oltre al genere di lei rimane da investi-  garsi? e*m. — Quelle che riguardano al buono e al  bello, cioè quelle, che conferiscono, e sono utili e ci  giovano, e ci sono di guadagno, e le contrarie a que-  ste. soc.-Ciò, che sia quello che conferisce, tu il ri-  troverai considerandolo dalle cose antedette, parcndj»  certo germano di quel nome, che peritene alla scien-  za , non dimostrando egli niun’ altra cosa , che  7HV Ò(piX(pQp XV TUS flBfCt T6IV '7rpOC'yjiffTOV,   cioè il portamento dell' anima insieme colle cose,  e quelle che quinci provengono sono chiamale  < pjpoVTK K«( ffl jpupopX, cioè giovevoli per quello,  che sono insieme portate intorno. e»m— Apparisce.   soc.-Il K <xp</l*XeoV poi. ci° è *l ueUo che dà * l gUad8 '  gno *jrà toDksHovS, cioòdal guadagno: ma M pJ\oS  esprime ciò, che vuole, se inserisse alcuno in questo  nome il V per lo J\ nominando il buono in certo altro   modo: perchè K gppftlWT«l, cioè si mescola scorreudo    \    Digitized by Google    .) 5 7 (   in. tutte le cose li pose il nome, significando questa  sua virtù; fraroeltendo il J[ per lo y t il proferì xèpcAo£.  jsBM.-Che poi il Av<tìàeAov», cioè l’utile? soc.—  Pare, o Ermogene, che non si ragliano di questo, co.  me i mercatanti, perciò sia chiamato e «¥ X'JTCùAÌm,  - perchè schivi, e isminuisca tÓ XVxAu^X, cioè le  spese: ma perchè essendo velocissimo non lassa, che  Je cose si fermino, nè permette che il portamento ri-  cevi TSÀOJ, c '°è il fine del progresso, nè si fermi e  cessi.* ma se alcun ternane si imponesse, Io svorreb-  be sempre da lui, e il. renderebbe incessabile e im-  mortale, in colai guisa io stimo, che il buono sia   chiamato Al/fflTeAotio», perchè ha chiamato -j-q 7*15   !.. .* Il ,* - ' . ''VI < .   (popis Avo» TO T6À0S, cioè quello, che scioglie il   fine del portamento, à^eAipo» P°'i cioè *1 giovevole  è nome forestiero, di cui Omero spesse fiate si serve.  Ma questa denominazione è dello accrescere, e del fa-  re. erm. — Che si ha a dire de’ conlrarii loro? soc. — -  non fa in verun modo mistieri, che di quelli si trai-  ti che si dicono per la negazione di questi. erm   Quali sono d’essi, soc.- A<ri[Upopov *i*ì XV 6 )<p sAÓj,  ucci ÌAvafreAs$. srm— T u parli il vero. soc. —   'AAAx fiAxjÌBpoi kxi ^Kp/atc/llS, cioè >1 nocivo, e  il dannoso . erm, — Per certo . ■ soc. — Ed il  fiAxfiepov, dice sia t 0 fhAxvyov TO» poD, cioè    ) 58 (   quello che nuoce si corso, t* J\g jSAatT'yOI, TO  jSot/ÀOfievoV cnrrei», cioè quello, che vuole impedire.  e cnTTBIV Reti c/leTlf, c '°è impedire, e il legare  di nuovo significa lo stesso, e questo biasima per tutto.  Dunque ciò, che vuole ecmeil K«ì cAell’ T 0 £>6v  Aofteroi I ttntTBlV po0\ l si chiamerebbe bene fiovXonr-  TepOV, nia P er ornamento io stimo, che sia stato no-  minato /JActjSspoV. — O Socrate, vari nomi se ti   vanno nascendo di sotto via, e mi pare al presente,  che tu abbia cantato innanzi certa quasi ricercata del-  la legge di Pallade, mentre proferivi il nome jJot )-   .1   AaTTTepoJ/V. soc.-,0 Ermogene, io non sono cagio-  ne. - ma chi posero il nome, ehm,— Tu di il vero: ma  che sarà poi il £uji/£c/|ef, c '°è dannoso? soc. —  Vedi, o Ermogeue, ciò, che debba essere  e vedi quahto daddovero io parli, qualora io dico,  che aggiugnendo essi, o ^minuendo le lettere, alterano  dì gran lungo il senso de’ nomi» in modo, che cam-  biando certa picciol cosa facciano alcuna volta, che  significhino cose contrarie, il che. apparisce in questo  nome Jisovjl, cioè opportuno. Ciò poco fa in pen-  sando quello, che io sono per dire, mi e venuto in  mente. In vero noi abbiamo nuova quella voce bella,  e ci sforzò a suonare il contrario TO c/l/o» K*ì TÒ  confondendo il senso ma certo nome vecchio    Digitized by Google    f    i s 9 (   dichiara quello, che ai voglia, e i‘« no e allro  me. eem. — Come di t„ cotesto? soc—Dirolloli, tu sai  che , magg.on nostri erano aoliti di vaierai molto del  I e del A, e maggiormente le donne, le qu.fi mmn . t   tengono si la voce vecchia, ma ora in vece del , vii  aggiungono ovver I* g o 1* ma in luogo del J il o  come queste suonino alcuna cosa più magnificamente.   che modof soc.— Come per esempio gli uo -  rntm antichissimi eh, amavano T| ; y .   cioè il giorno: ma altri poscia il chiamano é^ p J t  e » presenti ^ epxr , erm.— E gli è vero. soc.-Dun-’  qne tu sai, che con quel vecchio nome si dichiara so.  la mente la mente di colui, che pose il nome; percioc-  ché eh, amarono il giorno S(lepxv> perchè da|Ic ^   bre s, faceva il lume agli «omini «*/   povìjlt , Che ,1 desideravano , e si allegravano .   IZ “, AP / arÌSCe * S0C ' ~ Ma ° ra in ”0* ninno  non intenderesti , q ue , , cbe voglia   «..tato nelle tragedie, benché stimano alcuni, che si  d,c * Wépct, perchè faccia egli qualunque cose ,u{ po(  cioè mansuete, ehm. - Così mi pare. soc. - Nè ti  * occulto, che abbiano chiamato i vecchi ^ 1070 *  cioè ,1 giogo t,yQ Vt ' erm — Per cert0( soo _ Ma ye   raraeme T0 ' tyyfo aoa dimostra niente: ma j 0V70t     ) fio (   dimostra s'neK# T»? J\oaeu$ 65 *m «7^7*»,*'   cioè il conducimento di due per causa di legare, e lo  stesso si dee giudicar di molti altri, erm. — E mani-  festo. soc. —Nel medesimo modo il to J\&ov cosi pro-  ferito dimostra il contrario di tulli i domi; che ris-   guardano si bene; perchè certo essendo il idea.   • *   del bene, pare che sia c/ÌSO'piOf, cioè legame e impe-  dimento del progresso » come certa cosa germana  TO jSÀKjSspOÙ, cioè al nocivo. erw: — Ó Socrate,  cqs'i appar si. soc. — Ma non già incoiai guisa nel no-  me vecchio, il quale è yerisinaile, che meglio sia; sta-,  to ordinato del nostro, per certo tu coovenirai coj  beni antedetti, se per lo g renderai lo / t come anti-r   ' 4   camente si diceva; non significando c/|èov : ma J\lói  quel bene, il quale è sempre lodato; dall/ inventore  dei nomi; e in siffatta maniera non discorda egli eoa  seco, anzi pare che sia lo stesso t/Isoy, KCtì (à   ftov, kx'i A.t/<r/ TeAow, it«ì nepo'ltfAsuv, K«ì uyx-  0OV, K*ì <rviUpspov, K x) BV-KOpor Tutto questo uni-  verso significa con diversi nomi alcuna cosa, che ador-  na, e penetra per tutto, e questo è lodato: ma biasi-  malo ciò, clic ritiene e lega. Anzi se in questo nome  porrai secondo la usanza dei vecchi il J\   per lo £ ti parerà egli posto giti JlovVTl TO ÌOV,  cioè a chi lega, e ferma ciò, che cantina, onde auco-    Digitized by Google    ) 6 . (   ra è do 1 nominar»! J \iynSJ\s(. «tto.-Che, o Socrate  «dèi \wnn,£'jn8vyilXI, cioè del piacere, del do-  lore, e della cupidità, e del rimanente di cotal sorte?  'soc. — O Ermogene, non mi paiono troppo oscuri; per-  ciocché a’c/lov», cioè il piacere ha questo nome, dimo-  strando quella azione, la quale tende alla ov*cr/V,  Cioè «dia 'utilità: ma il J\ aggiunto fa, che in vece di  tjuello, che è|,op» si proferisca Dc/bA.», ryv7r#, cioè il  dolort pare che si nomini da^^At/ireaff to? <r&'ft«T0W  cioè dallo scioglimento del corpo; dissòlvendosi egfi   con cosi fatta passione, e xVÌX cioè * a tristezza è quella,   ■ , , ■ /   che impedisce 7o teVXl, cioè l’andare A^ye e/l£i>v, cioè  il cruciato par nome forestièro detto da oc^yeiVOV' oJlvì/n  poi, cioè il dolore, e FaSlitione si denomina da e Vc/lu—  &BCo$ THS Al/TT»?, c! °è dall’ entrar del dolore, erm.  —Apparisce, soc.— a ‘yJtiJlÒV, cioè il dispiacere chiaro  è ad ognuno che e assomigliato il nome alla gra-  vezza del portamento, ma ^ctpx cioè l’allegrezza, e la  letizia par, che sia chiamata da J\ loc^vireus, c '°è dall*  facilità evTTOpixs cioè del movimento dell’anima. Si  cava T } p'M St cioè il diletto da Tg/>4.t?, cioè dal di-  lettevole; maT-gp^j^ydaTÒ rspJWoy da JìtXTÌS  £pr\-e&)$, cioè dalla inspirazione del diletto  aell’auinia. Sicché meritamente si chiamerebbe tpTrrovi,     ' ) (   cioè inspirante; ma dal progresso del tempo il è di-  venuto a t«/>TTV 0». Per q ual cagione si dica  cioè l’allegrezza e vigoria non è bisogno renderne con-  to, essendo manifesto a chiunque trarsi questo nome  da efò, che si dice èv TOÌS TrpxypLXXI TtV  ffvp Hpepsa<pXI, cioè perchè l’anima si porti bene con  le cose, onde si dovrebbe chiamare et/tpEfOtrufl, nom-  dimeno l’appelliamo tvtppotTOVIV. Egli non- ,è poscia • •  difficile d’assegnar ciò che si voglia i'juSvpHX, cioè  il desiderio, conciossiache questo nome dimostri la for-  za tendènte Bnr ) T jy et/fxòv, cioè all’ira; ma $^9' cnrò  TI? Bvaeus, *xì leaeas, cioè dal furore, e dall’  ardore dell’anima, ipepoS e/)è poi cioè il desiderio fu  chiamato rÒ [ia\t<rTX sAkovtj t*V oj-t/jc.»» pò, cioè  dal flusso, che tira l’anima massimamente, perchè da  quello che ìepieVOS pel, cioè incitato' corre, e desi-  dera le cose e tira in colai guisa grandemente l’anima,  J\lX TtV etri r TtS pois, P er lo empito, ovver incita-  mento del corso. Da tutta questa forza è chiamato "ipLBpoS,  Oltre ciò è chiamato -j^oBos, cioè desiderio; perchè ve.  raraenle non risguarda la soavità presente come fytg/JOl/,  ma di quella vede che altrove si trova, ed è assente,  pnjle si dice ttoSos, '* quale quando è presente ciò  che si desidera si chiama 'ipitpos, «sente votQS, sptaS,    Digitized by Google     )63 (   poi cioè l’amore: perchè eitrp$i 6%a$6V, c '°è influisce  dal di fuori nè è proprio questo pon f cioè corso di chi  il tiene: ma per gli occhi infuso. Sicché si chiamava  l’amore dagli ontichi nostri da gg-pg??, cioè dall’in-   fluire tapo$, Cl0 ^ in rt uen * a » valendosi doì dell’ o per  Ma ora si dice gpaj per lo cambiamento del o nel &  Or che ordini tu, che si consideri di poi? erm.—  J\o%X, c ' 0 ^ * a °P* n ' one > e certe altre si fatte cose,   onde hanno esse i nomi? soc.*-Si dice J\o£oc, o da  cioè dall’investigazione, con la qual ca-  mbia, e segue l’anima investigando la coudizion delle  cose, o da -j-jy TO^OU JèohìSt cioè da ^° scoccar del-  l’arco: ma quinci pare più tosto, che dipenda, | omeri J,  cioè la stimazione a ciò consona, assomigliandosi all*  entrar dell’anima in qualunque cosa, il qual dichiara  ciò che sia qualunque degli enti, cosi come e jgot/A*,  cioè lo volontà si dice da »l*Ho scoccare,   • TO £0VÀE<r8*<, cioè a volere P er ,0 sr °"° del   toccamento, significa ancora $<f>lecr$ttl, c,oè ll desi '   derare, e j?ovAst/«<rS«l, cioè 11 con8Ì 8 1,,re ’ Tulte t l ue *  «te cose seguenti la opinione pare che siano simula-  ci T«J jgoÀ»5 del ,iro ’ come '* conlrario » «jSowAi*,  cioè il scoccar a falli apparisce certo, difetto impo-  tente *1 percuoter, come non abbia tocco il segno, nè  conseguito ciò che voleva, e di cui si consigliavo, e    Dìgitized by Google     mr   desiderava. zrm;-P6fc, chè tto metti- insieme questi  nomi più frequenti, si che ornai facciasi fine favoren-  doci Dio. Oltre di questo desidero, che mi sia dichia-  rato ciò che sia oCVXV.il, e 6X0U<r(0V cioè la necessità^  e il volontario? soc. — Or to' gKOi/fftOV, cioè il vo-  lontario TO 61 K 0 V, K«ì ft« ocrf ITl/TTOt/V, Cl °è chi ced^  nè contrasta, ma ubidisce a chi camma sarà dichia-  rato con questo nome, che si fa secondo il volere. Ma  TO av«7K«tOV cioè il necessario, e il rimanente essendo  fuori della volontà verserà intorno allo errore, e alla  ignoranza, è assomigliato t5 K 0 !T ÒtTot Sc'/VH TCopstOC,  cioè al camino, che è nelle valli, perchè essendo esse  malagevoli, e aspere a passarsi, e dense (V^stTOt/ JeVflft,  ritengono dal caulinare. Quindi dunque fu peravventurà  chiamato avcc'yxcclov cioè necessario assomigliato al cam-  mino che si fa per valle. Ma fin che abbiamo possanza  non ci manchiamo sicché ne ancora tu non voler cessare:  ma interrogami. ebm. — Ora io addimando quelli, che   son grandissimi, e bellissimi tdv T6 Oi\^^BlXV, c ‘° &   >- • • > l   la verità e t 0 cioè la bugia, e to oy, c,oe   l’ente, e 0V0fi« cioè il nome di cui ora trattiamo, per-  chè tenga questo nome. soc. — Chiamami tu pcc! ecrBxt,  alcuna cosa? ebm.— In vero chiamo lo investigar^,- soc.  — Egli è avviso, che questo nome sia generato da quel  sermone, onde si dice esser oy, cioè l’ente, di cui il    Digitized by Google     ) $5 *    nome è investigaiipnfc, il che, pii»,, chìqramat^ con^-  prend erai. Per cert,o In quello che, noi; t}icjwò TOtì voj Utr    O-TOl/, cioè nominato esprimendosi qui ciò, che sia no*  •® es ‘ <x\nBelX pòi cioè la verità pare che sì eorapongi   ancora come gli altri, perciocché il 'portaménto ‘cfivi-   . a-ji' •»!*.?    no   «n,    > dell’ente par che si dica con questo nome QÒpx,   w«>; i.i ri ■ ’ r i otatf ;oq[ no«' r ft. r ql«   essendo quasi flst« Oliffflt «A», c,oe certa > div,na    in' ,n t>. et «MI    scorreria: ma il >J,sV(/|o5, c ‘°è bugia, £  al portamento. Perciooehèdi nnovo si disprèggi* quello,  che vien’ ritenuto, e costretto; a star quieto* ed è asso»    migliàio T<) f ? K*9*v^óy<rl, cioè ai * hi dòrmonoi uid  lo 4, aggiuntò occhila il senso del nome, ov pòi e 0 t/tì" ioti   cioè l’ente, e la essenza si confanno con «Aot/^st, c '°^   ó! .. ,1. 1 1 tip II .10105 5 ; ‘"Iti»   eoi vero, gettando via il / perchè significa iptfp ( C'oè   lo andante, e di nuovo' tq 6K0V il wn C*U e » come il    nominato alcuni oi/Ktov> cioè che 'non va. sart.— Q  Socrate, mi è avviso, che rimilo fortemente' tu abbi»  ventilato questi nomi: 'ma se alesili) li addiniandassè  di questi t# tOV, TO p’eOV,KO U Tft (Httl/V tosse U   retta loro interpretazione, che principalipenle 1» ris*  ponti eremo noi ? i 1 tieni tu forse? soc. — Teugolo certo.  In vero poco fa .tei sovvenire un non. so che, coir la  cui risposta pare a noi di risponder alcuna cosa, san»  — Qualej è cotesto? soc.— Che diciamo, chesia Barbarei  ciò, che non conoSeijdno,- perchè forse sono daddovc-     >«(   re io parte tali, e malagevoli da ritrovarsi i nomi pfi-  mieri per. l’antichità; perciocché «torcendosi i nomi  per tatto, non sarebbe maraviglia niuna, «e la voce an-  tica colla nostra pareggiata non fosse niente differen-  te dalla voce Barbara, erm. — Non e fuor di proposito  ciò, che tu db soc.— Dunque io apporto cose veri-  simili, non per tanto perciò pare, che la contesa am-  metta la scasa: ma sforziamoci di investigarli, e con-  sideriamo in colai guisa, se alcun sempre cercasse quei  verbi, per li quali si dice il nomò, e di nuovo pro-  curasse di saper quelli, per li quali si dicono i ver-  bi, nè ciò facendo cessasse, forse non sarebbe egli ne-,  eessario, che alla fine si stancasse il. rispondente? brm.  — À me par si. soc.— Dunque quando cesserà merita-  mente colui, il qual nega la risposta? o non quando  a quei nomi pervenirà, i quali sono quasi elementi del  rimanente, cioè de’ sermoni e de’ nomi? in vero se in  colai guisa ne stan' essi, non dee parer piò, che d’al-  tri nomi siano composti, come per esempio abbiamo  detto poco fa che to otyxS OV, cioè d bene fosse com-  posto da ecyxtTTOv, cioè del mirabile, e $ov, tì °à  del veloce 3eOV P°* cioè il veloce, diremo noi che co-  sti d’altri, e essi da altri: ma se alcuna volta a quello  perveniremo, che più oltra non si forma d’altri nomi,  meritamente diremo noi di esser pervenuti allo elemen-  to, nè piò oltre faccia mistieri, che’l riferiamo ad al-  tri nomi, bum.—' T u mi parj di parlar bene, soc.— O    Digitized by Google     )}&] {   • non sono quei nomi elementi» i quali tu ora addì-  mandi? e fa egli bisogno che altrimenti si consideri la  retta interpretazione? sbm.— Ciò è verisimile, soc. — Ve-  risimile certo, o Ermogene. Per la qual cosa tutti gli  antedetti pare, che siano a questi ascesi, e se ciò se  ne sta cosi come mi pare, or di nuovo considera con  esso meco afline per avventura non impazzisca, men-  tre tento di dichiarare la retta inlenzion dei primi no-  mi. zbm. — Di pure, perciocché io vi penserò secondo  il potere, soc.— Io stimo veramente, che in questo tu  assentisca, che una sia la retta invenzione di qualun-  que nome, e del primo, e dell’ultimo e niun di loro  in quanto nome discordi dall’altro, ehm.— Si. soc. — E  nondimeno la retta invenzione de’ nomi, i quali poco  fa riferito abbiamo, voleva esser certa tale, che dichia-  rasse, quale si fosse qualunque degli enti, ehm.— Senza  dubbio, soc.— Questo veramente non dee convenir  manco o primieri, che agli ultimi, se sono per dover  esser nomi, ebm.— Al tutto, soc. — Ma gli ultimi no-  mi, come è avviso, potevano fornir questo per li pri-  mieri. ebm. — Apparisce, soc. — Stiano le cose jcosì.  Or i primi, a quali altri ancora sottoposti non sono,  in che modo secondo ’I possibile, ci dichiareranno gli  enti, se deono esser nomi? rispondimi a questo. Se non  avessimo voce, nè lingua, e avessimo voluto dichiarar  Vicendevolmente le cose, non avremmo tentato noi co-  si, come i muli al presente, di significarle colle mani,  coll* tetta, e col rimanente del corpo? ibm.- Non al-   i ;> i iiit k ' ci : •»    Digitized by Google    !    !>«M   Ili menti, o Socrate, soc. — Ma, come io penso, se voles-  si ni o dimostrar il supremo, e il lieve inalzeremo le  •mani in. verso al cielo, la stessa natura delle cose imi-  tando: ma se le inferiori, c gravi le rivoglieremo alla  terra; pia oltre dovendo dimostrare un cavai corrente;  o alcun altro animale, tu sai, che da noi si sarebbe fin-  to i gesti de’ corpi nostri, e le figure quanto più presso  alla loro somiglianza. erm.— Ciò, che tu dì mi pare  necessario, soc. — la questo modo, com’io penso, con  lo imitar il corpo, si sarebbe con queste parti di cor-  po dimostrato quello, che chiunque avesse voluto di-  mostrare. erm. —Così certo, soc. — Ma poiché voglia-  mo dimostrar colla lingua, e colla bocca, nou si fa cosj  finalmente la dimostrazione da queste se per esse d’in-  torno a qualunque cosa si fa la imitazione? erm. — Io  penso necessario, soc. — Sicché, come apparisce, è il  nome imitazione di voce di quella cosa, la qual imi-  ta, e nomina chi imita con la voce, erm — Il mede-  simo mi pare ancora si sia detto bene, erm — Perchè?  soc.— Perchè saremmo costretti a confessare, ohe ques-  ti imitatori di pecore, e di galli, e d’altri animali no-  minassero le stesse cose, de’quali si imitano. *hm.-—  Tu pnrli il vero, soc.— Non pare a te, che stia ben  questo? erm. — A menò: ma o Socrate; qual’ imitazione  sia il nome? soc.— Non tal imitazione, qual è quella che  si fa per la masica tutto che si faccia colla voce: nè  delle stesse ancora delle quali la musica eziandio è  imitazione; non dicendo noi, conio è avviso, la imi ta-  llone per la musica. Ma così mi dico, li trova egli    Digitized by Google    iti quaizfnqtre cosavoce, *v figura, e in motte color an-  cora? twm^kd wgnf modo.'- SOC. — Dunque se alcuno  queste imitasse, intorno a queste imitazioni non si ri  Irorarebhe io facoltÒdel nominare, essendo altre d’esse  la musica, 1 altre lo dipintura; non è egftì 1 cosi? va*».  — Veramtfhte. soc, — Che a questo? non pensi ta, che  qualunque coso tenga còsi la essenza, come if Colore,  e le altre cose, che abbiamo detto dianri? o hon si  ritrova egli* ntìl colore, e nello vóce certa essenza e in  qualunque altre cose, che so n degne della denominazio-  né dell’essere? ehm.— A me parsi, soc. — Che duh"  que è se alcun fosse possente di imitar con lettere, e  con sillabe la essenza di qualonqdé còsa; non dichia*  rerebbe egli ciò, che fosse qualunque 'Cosa, o pur nò.   soc.— Qual diresti tu, che potesse far questo?  tu gii antedetti' parte chiamavi' mùsici, parte dipintori:'  ma costui, come il Chiamerai tu? "e»w\— Mi par, o So-  crate, che egli sia l’autore del nominare 1 , ’ ! il quale già  molto cerchiamo, soc. — Se questo ò vero, ò-òggimni  da cònbiderarsi d’intorno à quei nomi, che 1 ; tu ricer-  cavi pouj, c ioò del flusso, levai dell’andare, a-^e<reo£  della retenzionc, se daddovero imitino la essenza, ovver  nò colle lellere, e colle sillabe loro, ras:.— Al tutto,  sóc. — Or vediamo se questi soli sono i nomi primie-  ri, o ne siano ancora altri molti, In vero io sti-   mo degli altri, soc.— E cosa verosimile. Allo perfine,  qual maniera sia della divisione, onde incomincia ad    I    i    Digitized by Google     ) 7° C(   imitare, chi imita, non giova egli primieramente, eh*  » distinguano gli dementi; poiché si fa la imitazione  dell’essenza con lettere, e con sillabe? come chi si  maneggiano d’intorno a ritmi, distinguono primiera-  mente la virtù degli elementi, poscia le sillabe e in  colai guisa, se ne vengon essi alla considerazione de'  ritmi, e non prima, ehm. — Così è. soc. — Onon fa pri-  mieramente mistieri, che ancora noi distinguiamo le let-  tere vocali, dopo il rimanente secondo le specie, cioè  le mutole, e quelle, che non rendon suono? parlando-  ne iu colai guisa gli uomini eruditi, e di nuòvo le  non vocali: nondimeno non al tutto senza suono? e le  specie vicendevolmente differenti delle vocali: e poi-  ché avremo ben diviso tutti questi enti: di nuovo fa mi-  stieri ebe popiamo i nomi, « consideriamo se sono quelli,  ne’ quali si riferiscono tutte le cose come elementi, da'  quali eziandio lecito è, che essi si veggano e se si;  contengano in loro nel medesimo modo le specie, co-  me negli elementi. Considerale bene queste cose tutte,'  fa mestieri, che si sappia apportare qualunque di loro,  secondo la somiglianza; n se una aduna sia daappor-.  tarsi, o molte da mescolarsi, come i dipintori in va-  lendo assomigliare alcuna volta applicano il color pur-  pureo solamente, altra volta qualunque-altro. colore, al-  tra volta ne raescolauo molti, conta quando vogliono  figurare la imagine somigliantissima all’uomo, o al-  tra siffatta cosa in quanto ciascuna imagine ha bisogno  di ogni colore, non altrimenti ancora uoi accommo-    Digitized by Google     > V •(   deremo gli elementi alle cose, e l’uno all’uno, ove ps-  rosse, che facesse bisogno, fornendo Ta cioè   i segni, i quali son detti sillabe. Le quali poiché avre-  mo congiunte di compagnia, e di loro formati i nomi,  e i verbi, di nuovo fabricberemo de’ nomi e verbi cer-  ta gran cosa, e bella, e intiera. E così come si ft li  con la dipintura l'animale, così qui chiameremo orazione  fabricata, o colla perizia del nominare, o colla retlorica,  o con qualunque arte, che ciò si faccia, anzi non faremo  questo avendo noi in parlando trasgredito la misura pet*  ciocché i vecchi cosi composero, come si è ordinato.'  Ma fa a noi mistieri, che investighiamo tutti questi in  cotal gnisa, se pur siamo per considerarli artificiosaroeo-  l«, distinguendoli così, o se siano posti i primi nomi  come conviene, e gli ultimi, ovver nò: ma lo annodarli  al rimanente è da vedersi o Ermogene amico, che per  avventura, non sia errore, nè secondo il dovere, zaii -  Peravveutnra si per Giove, o Socrate, soc.- Che don-  que ti confidi tu di te stesso di poterli distinguer in  questa maniera? perchè io mi diffido potere, ehm— lo  mi diffido molto piò. soc.-— Dunque li dobbiamo lasciar  noi? o vuoi tu, che comunque siamo possenti faccia-  mo esperienza, e incominciamo se si possa da noi co-  noscer certo poco di queste cose, dicendo davanti a*  Dei così, come poco fa abbia lor detto, che noi non  conoscendo nulla di vero, congetturiamo le opinioni  degl, uomini d’intoriv, ad essi: cosi al presente anco-  ra seguitiamo, predicendo parimente a noi stessi, che     ) r*'C   •« fosse atil cosa chfe si distinguessero o d’alcun altro*  * 4 * noi, cosi sarebbe mistieri, che si dividessero: ma  .ya» come si dice, converrà, che noi trattiamo que*  sto, secondo il potere, ti par egli posi, o come di tu?  erm.— C osi forte mi pare, soc.— O Ermogene, io sti-  mo, che sarebbe per parer cosa ridicolosa, che le cose  •i facessero manifeste con la imitazione fatta per le let-  tere, e per le sillabe; nondimeno necessario è, non a-  vendo noi niente di questo miglioro, al qual riferen-  do giudicassimo d’intorno alla verità d e> noroj primieri,  se peravventura, come i tragici, qualora dubitano ri-  corrono alle machinazioni innalzando i Dei, cosi an-  cora noi non, ci . espedissinv* tosto questo dicendo; che  da’ Dei siano posti * primi nomi, perciò siano stati or-  dinati be«e. Duuqne questo parlare sarà egli ottimo  presso noi, Oiquello che gli abbiamo ricevuti da alcuni  barbari, essendo i barbari di noi .più antichi, o per  la vecchiezza non li possiamo discernere cosi come i  nomi barbari ancora. Questi sono schermi, o leggiadri  al di chiunque non vogliono render la diffinizione della  imppaiaiono retta de’ primi nomi: perciocché chiunque  non tiene la retta diffinizione de'prirui nomi, non può  conoscer i seguenti. Questi per certo sono da dichia-  rarsi da quelli,, de’ quali non è alcuno, che ne sappia  nulla. Anzi chiaro è, che chi fa professione della pe-  rizia de* seguenti, abbia compreso gli antecedenti inolio  prima, e perfeltissimamente li possa dimostrare, ma  altrimenti dee sapere, che egli sia per prender errore    Dìgitized by Google     ) 7* (    ne’ seguenti; c siimi tu in ultra guisa? ehm.— N on al-  trimenti, o Socrate, soc.— Le cose dunque, che io sento  d’intorno a' primi nomi mi è avviso, che sinno cose  ingiuriose, e ridicplose, e se vorrqi con esso teco le  conferirò: ma se tu ritroverai cosa migliore, eziaudio  tu Con esso meco la' comruunicherai. erm.— Farollo;  ma dì oggimai con fidanza; soc.— Dunque, primiera-  mente jl p pare a me, che sia come stromento del  movimento tutto: ma perchè tenga questo nome non  l’abbiamo detto: ma .phiaro è, che vuol esser (eirtS",    cioè andata; perchè non si valevamo noi, per lo- adie-  tro del jj- ma dell' 8) egli significa il principio {la it/str.    cioè t'andare, il qual è nóme forestièro; è egli' lo f e yJj :   ‘il j r r j ■ . v ' . r   cioè lo atiflarè.- Sicchè^sè 41 prifnt? nóme* di luì si ri-  trovasse iraspaptalb nella voce nostra, bene Ye-rtC si    chiamerebbe.' Ora poi chi' K/6/V nome fòre-   stiero, e dal riiutaniento del « e' dal frammettersi il   * , , ‘   y si chiama Ma faceva bi so gii oidio qi dices-   , • !•' • ' ir. t>-| ii -, j —   se k ieiveei?, ovver eitr/j, * c/|s <xrxais, c,oè *° stare   h ;•«..» . ;, v "T A'vumsori'.moi . !   vuol esser negativa di temi, cioè dell’audare: ma per   'fiiijs qfeoa •••unric yi. H   causa di oruainento si , chiama Di >080^0 il p   elémento, parve come ora diceva* opportuno stromento  del moto all'autore de’ nomi per esprimer la somiglian-  za del, portamento perla qual.cqsa'uso il p pec tutto    alia espressione del movimento.- Primieramente T £   6 Cr.      Digitized by Google     I    ) 74 (   p e 6 1 V K«ì poti, cioè ne Ho scorrere, e nel flusso imita  il portamento per la lettera p poscia nella voce •jrpoy.n  cioè tremore, e nel Ypxyjs.1, cioè nell’aspero, ancora  nelle parole di colai sorte ^poveiV >1 percuoter, Spxvsiy  il romper fpln$iy il tirare SpvTTT&lV rompere, xeji«T t?   tagliare in pezzi pspjSeiy, vacillare, tutti questi  per lo pili figura per lo p conciOssiache, io la lingua  nel proferir questa lettera non ritarda niente, anzi pili  tosto si commove. Sicché egli è avviso, che si abbia  servito del p principalmente alla espressione di que-  ste cose. Eziandio in tutte le cose tenui penetranti  massimamente per tutto si ba servito del t; laonde  imita per lo / jofapjCI, KCc'l 70 UcBx, cio « l’andare, e  il far progresso, come ancora per lo q e ^ e e £  le quali lettere sono di spirito pili veemente. Cose si  fatte ci esprime l’ autor del nome, come per esem-  pi 0 TO 1° C08a fredda yo ( 90V , la bogliente,   70 <rele<r9xi, i 1 commoversi, e al tutto <rej<r{iov, cioè  la commozione; e qualora l’ordinatore de’ nomi vuol  imitare alcuna cosa spiritosa per lo pili impone let-  tere si fatte. Oltre ciò la strettezza del </| del y, e  il tirar in dietro della lingua come attaccata, pare che  sia estimata molto opportuna alio esprimer la potenza  del legame, e dello stare, e perchè nel proferir il ^o-  KiaBxmt y.x\ia'7ct ÌVKÙ77X, sdrucciola la lingua  •1 ^ •    \    Digitized by Googl    ) 75 ( •   massimamente, perciò con questo come da certa somi-  glianza nominò TfltTfiAfi tot * e cose piacevoli, e «TOUTO  «A/<r0#/veiV lo sdrucciolare, e T0 \nrxpov «1 grasso  H«< TO KoAAà^le?, cioè quello che ha virtù di con-  glutinare, e le altre cose di sì fatta sorte. Ma perchè  il «y ritarda la lingua, che se ne scorre, imitò to   V A/o-J^.o» >1 lubrico, T0 «yA^KU *' doIce tt*ì J^Aottà-   cAbs, e il viscoso. Di nuovo avvedendosi dell’interno   *   suono del p con lui nominò to 6»dlov, K«tì TO 6VT0J,  cioè le cose interne, qnasi assomigliando le opre alle  lettere- poi diede ja fts'yotAw, cioè al grande e  t£ p*K6l, c *°è “Ha lunghezza perchè sono lettere gran-  di: ma ffTpq'y'yuA^ c *°ù rotondo, avendo egli biso-  gno dell’ o, per lo più nel nome lo mesoolò. E nella  stessa guisa 1’ autor del nome pare, che si sforzi di ac-  commodar a qualunque ente segno, e pome secondo  le lettere, e le sillabe, e da questi poscia comporre il '  rimanente delle specie secondo la somiglianza. O Er-  mogene, mi pare che questa sia la retta interpretazio-  ne de’ nomi, se non apportasse Cratilo alcun’altra co-  sa. ehm. — E pure, o Socrate, spesse volte mi trava-  glia Cratilo, come ho detto da principio, mentre af-  ferma, che vi sia alcuna retta interpretazione di no-  mi: ma nondimeno quale ella si sia non la dice chia-  ramente in guisa, che io non possa conoscere se egli  volontariamente lo faccia, o pur nò; cosi ne parla sem-   6 *     ) 7 6 (   prc d'intorno ad essi. Dunque, o Cratilo, dimmi ora  alla presenza di Socrate, se ti piace il modo, con cui  egli ne parla d’intorno a’ nomi,' o Se tu puoi dire io  altra miglior guisa, il che se puoi il dirai a line, che  o da Socrate tu impari, o ammaestri nmhidue noi. ca.  — Ma che, o Ermogeuc? ti par egli ogevol cosa rap-  prender in cosi poco tempo, c lo insegnare qualun-  que cosa noti che una cotanta; la qual d’intorno alle  grandissime è stimata certa grandissima cosa?’ ersi.—  Per Giove nò, anzi io stimo, che Esiodo abbia par-  lato bene, che utile sia l’aggiuguer il poco al poco.  Sicché se tu sei possente al fornire alcuna cosa se ben  picciola, no il ricusare: ma giova a Socrate, ed a me  appresso, dovendolo tu fare, soc.— In vero, o Crati-  lo, nè io stesso affermerei niuna di quelle cose, le  quali dianzi ho raccontato. Ma iu quel modo, che mi  parve ho ciò considerato con Ermogene. Laonde pren-  di ardir in esprimere, se hai alcuna cosa migliore, co-  me io sia per ricever volentieri ciò, che dirai: non-  dimeno nè mi meraviglierei se tu potessi dire alcuna  cosa di queste migliore, parendo a me, che tu abbia  considerato siffatte cose, e imparatele da altrui. Duo-  , que se da te si dirà alcnna cosa eccellente; mi an-  novererai fra tuoi scolari intorno alla retta investi-  gazione de' nomi, cr.— Per certo, o Socrate, questo  tu di, mi fu a cuore, e ptravvenlura ti farei scolare,  nondimeno dubito, che la cosa se ne stia incontrario  ad ogni modo, perchè mi sovvieue di dir in certa ma-    Digitized by Go     5 > 77 (   niera lo stesso in verso a te che disse Achille ne’ sa-  crifici in verso od Aiace. O Aiace, nato di Giove, fi-  gliuolo di Telamone, re di popoli, tu hai proferito  tutte le cose secondo il mio parere. Ancora tu, o So-  crate, pare che indovini secondo la mente nostra, o  essendo tu inspirato da Eulifrone, o ritrovandosi in  te alcun’ altra musa, il che ti era ceialo innanzi, soc.  — O Grati lo, uomo dabbene, ancora io ammiro già  molto la mia sapienza, nè mi confidi troppo. Sicché  . io stimo che sia da considerarsi da nuovo ciò clic  io mi dica, essendo gravissima cosa lo ingannarsi da  se stesso; perchè come non fia cosa grave, quando  non è poco lontano: ma sempre presente chi è per  ^ingannare? sicché fa mislieri, come è avviso, voglicr-  si spesso alle .cose antedette, e come dice il poeta,  tentar di guardar innanzi, e indietro parimente. Or  al presente vediamo ancora ciò che si è detto. Ab-  biamo detto retta int» rpetrazione di nome ciò, che  dimostra quale sia la cosa. Mi dì, dobbiamo dir noi,  che qitesto si sia detto bastevolmente? in vero io l 'af-  fermo. soc — Dunque si dicono i nomi percausa d’inse-  gnare? eh.— Al lutto. , soc.— Dunque dobbiamo dir noi,  che questa ancora sia arte, e mietici di le.? er.^Sì.  soc. Quali? cn— Quelli che da principio tu chiamavi  facitori di nomi. soc. — Mi di, possiamo dir noi, che  questa arte sia negli uomini parimente come le al-  tre, o altrimenti? questo è poi quello, che io voglio     I    dire. Sono egli alcuni dipintori peggiori, altri piti  eccellenti? ce. — Sono il. soc. — Non fanno gli ec-  cellenti 1’ opere loro più belle, cioè gli animali? in-  contrario gli altri? ancora i muratori fan essi pari-  mente le case parte più belle, parte più turpi? ca.  — Cosi è. soc.— Gli autori eziandio delle leggi non  fanno essi l’ opere loro parte più belle, parte più  turpi? ce. — Questo non mi par no. soc.— Dunque  non pare a te, che altre leggi siano migliori, altre  peggiori? ca. — Per certo nò. soc. — Nè anco come  apparisce stimi, che altro nome sia posto migliore,  altro peggiore, cr.— Nè questo, soc.— Dunque tutti  i nomi sono posti bene. cr. — Quanti sono nomi,  soe. — Che del nome di Ermogene che si è detto di  sopra? come dobbiamo dir noi, che a lui non sia po-  sto nome, se non, cheli compatisca spfiov'yGVEO'EflJ,  cioè, che sia della generazione di Mercurio? o che  sia posto: ma non bene? cr. — O Socrate, non mi è  avviso, che ancora gli sia stato posto: ma paia si:  ma che sia d’altrui questo nome, dì cui è la natu-  ra ancora, che significa il nome. soc.-Dimmi, non  mentisce chiunque dice, che egli non si diea Ermo-  gene non essendo da dubitarsi, che egli non si dica Er-  mogene non essendo, cr— In che modo di tu questo?  soc. — Forse perchè non è lecito al tutto il dir il  falso? e si suol significar poi questo il tuo sermone?      (    Digitized by GoOgle    > 79 (   perciocché, o amico Cratilo, sono alcnni ancora, che  il dicono al presente, e il dicevano già. ca.— Per-  ché, in che modo, o Socrate, mentre dice alcuno  ciò, che dice, dirà egli quello, che non è? o non è  egli il dire il falso,, dicendo le cose, che non sono?  ,soc.-0 amico,questo parlar è più eccellente di qnelche  ricerca la condizione, e età mia; nondimeno dimmi  se paia a te; che alena non possa parlar il falso: ma  il possa dir sì. ca. — Nè dire, soc— ■ Nè ancora dir-  lo, nè chiamarlo? come se alcuno fattosi incontro  prendendoti per la mano iosegoo di ospitalità dices-  se, Dio ti salvi, o Ospite Ateniese Ermogeoe figliuol  di Smicrione; parlerebbe egli questo, o si direbbe che  parlasse; a direbbe questo, o saluterebbe in colai gui-  sa non te:, ma Erraogene, o ninno? ca*— O Socrate,  mi pare che costui gridi, ciò in vano, soc. — Que-  sto mi basta, dimmi grida il vero chi cosi grida, o  il falso? o parte il vero, parte il falso? perciocché  basterà eziandio questo. ca. — Io direi, che questo   tale strepitasse, indarno movendo se stesso, come se  alcun battesse i rami. soc. — Considera, o Cratilo, se  in alcun modo conveniamo, non diresti tu forse; che  sia altra cosa il nome, altra quello, di cui è il no-  me? cr.— Veramente. soc. — Dunque confessi tu, che  ’1 nome sia certa imitazione della cosa? ca. — Sopra il  tutto, toc —Dunque e le dipinture in certo altro modo  dì tu, che siano imitazioni di alcune cose? ca.— Per  certo sì. soc.— Or dimmi, perciocché forse i» non    ) 80 ( .. ..   intendo, quel, che tu di.- ma tu peravventura parli  bene; polressiroo noi dispartire,, e portare ambedue  queste imitazioni, e dipinture, e quei nomi alle co-  se, di cui sono imitazioni, o nò? cr.~ Possiamo si . 1  soc.— Or. questo considera primieramente, se potesse'  alcuno attribuire la imngi.ne dell'uomo all'uomo, e alla  donna quella della donna, e le altre nel medesimo  modo? cr. —Così certo, soc. — Dunque iu contra-  rio ancora la imagine dell’uomo alla donna, e della  donna all’uomo? cu. L- E questo, soc. — Or ambe-  due questi compartimenti son forse elli, retti? ovver^  l’un di essi? cn. — L'uno dì. soc. — Quello pen-  so io, il qual dà il proprio, C simile a ciascheduno.  cb, — A me par sì. soc. — Dunque acciò tu e io es-  sendo amici, non contendiamo nelle parole, conside-  ra ciò, che io djco. Io chiamo retto ( compartimento  una cosa siffatta in ambedue le imitazioni e negli ani-  mali, e nei nomi: ma ne* marni non solo, retto: ma  vero. Ma l’altro conducimento, e portamento dal dis-  simile non retto, e appresso falso ne’ nomi. cr.—O So-  crate redi che ciò peravventura possa solamente ca-  der nelle dipinture, che alcuno compartisca male:  ma non nei nomi: ma sia necessario che sia sempre  bene. soc. — In che modo di tu? d’intorno a che è  questo da quelle differente? non è egli forse possibi-  le, che nd alcun uomo fallósi alcun incontro dica, *  questa è tua figura, e peravventura a lui dimostri la  figura di lui peravventura anche di donna. Dico es*    Digitized by Googlè    ) «» ( .   sfcr il dimostrare 1* offerire a sensi degli òcchi.' c».’  <*- Per certo. : soc. Ma che? di nuoto’ fattosi all»  stesso incontra dica, questo è il tuo nóme, essendo  il nome certa imitazione, cosi come la Figura; ma  dico in colai guisa. Forse non fia lecito a Ini di di-  re questo è il tuo nome? poscia infondergli il mede-  simo nelle orecchie, peravventura dicendo la imita-  zione di lui, che egli è uomo, e forse la imitazione  di- alcun genere umano dicendo, che è donna? non  pare a te: che ciò sia possibile, e si possa fare al-  cuna tolta? cr. — Te il voglio conceder, o Socrate,’  e così sia. soc. — O amico, tu fai bene, se ciò se  ne sta in cotal guisa, perciocché al presente non fa’  mistieri, che d’ intorno a questo si contrasti. Dunque  sequivi,si ritrova on certo tal compartimento; l’ uno  chiamiamo parlar il'vero, l’altro parlar il falso, e se  questo così se rie slà egli, ed è lecito, che non si  conipartnno i nomi bene, nè si rendano a qualunque  i propri: ma alcuna fiata quelli sì, che non sono  propri; sia lecito parimente, che si l'accia questo neU  le parole. Ma se possiamo poner i verbi e i no-  mi in cotal guisa, necessario è, che similmente si  póbgano ancora le orazioni, essendo esse, come io  penso componimento di .questi, o come di tu, o Cra-  tilo? cr. — Così parendomi, che tu dica bene. soc.  — Dunque se assomigliamo i primi nomi alle lettere  con certa imitazione, pnò avvenire d’ intorno a que-  sti come nelle dipinture, che si diano confacevolt    Digitized by Google     >8 M   tatti ì colori, e le figure: e medesimamente non li  aggiungiamo tutti; ma parte, e parte ne leviamo, a  Li dimostriamo, e più , e manco, non è egli possibil  questo? cr. — Possibile sì. soc. — Dunque chi tutte  le cose rende concordanti, rende le lettere belle, e  le imagini: ma chi ne leva,, o ne aggiugne fa egli  lettere ancora, e imagini: ma cattive, cr. — Per cer-  to. soc. — Ma che? chi imita poi la essenza delle  cose per lettere, e per sillabe, non fa egli forse la  imagine bella secondo la stessa ragione, se convene-  voli rende tutte le cose? questo poi è il nome: ma  se mancasse poco, o vi aggiugnesse alcuna volta, si  farebbe egli la imagine: ma nou bella? sicché alcu-  ni nomi saranno ordinati bene, altri in contrario? cr.  «. Peravventura. soc. -—Dunque fia questi peravven-  tura buon artefice de’ nomi, quegli cattivo? cr. — Ve-  ramente. soc. —Orerà costui facitor de’ nomi. cr.  — Veramente, soc. — Dunque per Giove, fia forse  in questo come nelle altre arti, che sia un buon fa-  citor di nomi, l’altro cattivo, se pur fra noi conve-  niamo nelle cose antedette, ca. — Questo è vero: ma  vedi tu, o Socrate, qualora diamo queste lettere 1’ x  o il fi, e qualunque elemento a’ nomi con l’arte della  grammatica, se li leviamo alcuna cosa, o li aggiu-  gniamo, o eziandio mutiamo, che da noi si scrive il  nome, nondimeno non bene: anzi egli non si scrive  affatto.- ma incontinente è cosa diversa, se li adiviene    Digitized by Google     ) 83 (   alcuna di queste cose. soc. * E da vederti, o Cratilo»  che peravventura non consideriamo bene, in cotal gai*  sa considerandolo, cn.— Iti che modo? soe.— PeraV-  ventura quantunque cose, le quali necessario è, Che  siano, o non siano da alcun numero ciò patirebbo-  no, che tu di come il dieci, o qualunque altro nu-  mero, che tu vuoit che se tu ne levassi alcuna cosa,  o la aggiugnessi, incontinente si farebbe diversa: ma  non è questa peravventura la retta maniera di alcuna  qualità, nè di tutta la imagine insieme: ma il con*  trario; nè al tutto bisogna, che la imagine tenga itt  se qaalunqne cose lien quello, di cui è imagine, sé  pure è per dover esser imagine, e considera se io di-  co alcuna cosa. Saranno forse queste due cose, cioè  Cratilo, e la imagine di lui, se alcun de’ Dei non sola*  mente esprimerà il tuo colore, e la figura, come so-  gliono i dipintori: ma farà eziandio tutti gli interiori  somiglianti a’ tuoi: la stessa tenerezza, é il calore, il  moto, 1* anima, la prudenza, e per abbracciar in po-  che parole, tali affatto farà tutte le cose, quali in tè  sodo? dimmi questa tal cosa forse sarà ella Cratilo»  è la imagine di Cratilo? o due Cratili? CB.—Due Cra-  tili, o Socrate, come io penso. soc. — Vedi tu, o  amico, che è da cercarsi altra retta maniera di ima*  gine, che di quelle cose, che abbiamo poco fa det-  te? nè si abbia a sforzare-, se alcuna cosa si aggiu-  guesse, òri levasse, che prh imagine non siti? 0 boa  ti avvedi tu quanto manchi aHe imaginì, che ‘tenga-    ) m   do te stesse cose, che ha quello, di cui sono imft*  gini? ,ca. — Veramente, soc. — O Cratilo, nvvenireb-  be da’, nomi alcuna cosa ridicolosa d’intorno a que-  ste cose, di cui sono nomi; se si rendessero loro  somiglianti al tutto, perciocché si fnrebbono doppie  tutte le cose, nè si potrebbe dir qual fosse l'una,  o l’ altra di toro, forse la cosa, o il nome* cr. —  Tu parli il vero. soc. — Dunque, o uomo generoso,  con fidanza permetti, che altro de’ nomi sia posto be-  ne, altro nò; nè voler far forza, che egli abbia tutte  le lettere,, acciò sia tale, quale è quello ancora di cui  è nome: ma permetti, che porti una lettera manco  confacevole, e se lettera, parimente è uomo nell’ora-  zione, e se nome, che si porti eziandio appresso nel  parlar sermone non confacevole alle cose, e niente  manco si nomini la cosa, e si dica finché si ritrovi  la figura di ciò, di cui è il sermone, come ne’ nomi  degli elementi, se tu li ricordi, quello che poco fa  io, e Ermogene dicevamo, ca. — la vero mi lo ri-  cordo. soc Dunque bene; perciocché quando vi   farà questo, benché non si ritrovino tutte le cose  coufacevoli; nondimeno si dirà ben la cusa quando  saranno tutte: ina inale quando poche. Sicché per?  mettiamo, o beato, che si dica, acciò come coloro,  che iu Egina vanno vagando di notte forniscono tar-  di il viaggio,, così paia, che iu questo modo noi per-  veniamo alle cose piò lardi da buon senuo del do-  vere; o ricerca alcun altra retta maniera d’ intorno    /    Digitized by Google     ) 85 (   al nome; nè confessar tu, che sia nome la dichiara-  tone della cosa fatta con lettere, c con sìllabe: per-  chè, se queste due cose dirai, tu non potrai accorda-  re, e convenir con te stessei. ex. — O Socrate, tu  pari di parlar bene, é cosi io assentisco, soc. - Poi-  ché d’intorno a questo Convenimmo si ventiti da noi  il rimanente. Se dee esser il nome posto bene, di-  ciamo far mistieri, che si ritrovino lettere a lui de-  centi. ce — Per certo, soc. — Convien poi, che let-  tere siano simili alle cose, cm —"Sì. sOc. — Dunque  quelli nomi, che sono posti bene, cosi son posti:  ina se alcuno non « posto bene, perawentura per lo  piu sarà di lettere convenienti, e somiglianti, se do-  veri esser iniagine; terrà poi ancora alcuna cosa noci  convenevole, per la quale non sarà buona, nè fatte  bene: diciamo noi in cotal guisa, ovver altrimenti!  ***■ ” ® Socrate, io penso; che non faccia mistieri,  che contendiamo, non mi piacendo, -che si dica esser  nome, nondimeno non posto beile.- soc.J- Forse non-'  piace a te, che il nome aia -dichiarazione di 'cosa!  CJt — Mi pisce sì.' suo. —Ma' pensi tu', che non W sia  detto bene. Che parte siano i nomi de’ primi compo-  sti, e parte siano i primi?' cu. — A me sì. - soc—Or  se deooo esser i primi significazioni di alcune cose,  hai tu forse più commoda maniera, onde si 'faccia  questo, che se si facessero tali, quali son quelle, coi  se, le quali vogliamo, che si dichiarino? o piultosttf  ti piace, questa maniera, la quale è detta da Erbo*     1    ) 86 (   gene, e da altri molti, cioè, che i nomi siano certi  componimenti, e dichiarino a chi composero le cose,  e le conobbero innanzi, e ne sia questa la retta ma-  niera del nome, cioè il componimento, nè imporli,  se componga alcuno cosi, come si è oro composto,   0 incontrario? cioè come l ’ o picciolo, il quale ora o  picciolo si addimanda, si nominasse o grande: ma l’& f  che al presente si dice o grande, si dicesse o pie •  ciolo? qual di queste due maniere piace a tef ca.—  Adognimodo, o Socrate, importo, che alcun dichiari  con somiglianza ciè, che vuole dimostrare: ma non  con qualsivoglia cosa, soc, — Tu parli bene. Dun-  que non è egli necessario, essendo il nome simile al-  la cosa, che gli elementi, dei quali si compongono   1 primi nomi, per lor natura siano alle cose somi-  glianti? ma così dico, o si sarebbe fatto da altri la  dipintura alcuna volta, la quale dianzi abbiamo det-  to simile ad alcuno degli enti: se i colori, di cui si  fa la iraagine non fossero per natura somiglianti a  quella cosa , la quale è imitata dallo studio del di»  pintore? « è egli impossibile? ca — Impossibile certo,  soc. ~ Nel medesimo modo non si farebbouo i nomi  somiglianti mai ad alcuna cosa, se quello, di cui  si compone i nomi non tenesse alcuna somigliànzà di  quelle cose, di cni sono i nomi imitazioni. Quello  poi, 'di cui si compongono i nomi, sono gli elemen-  ti. cr.-* Veramente, soc.— Oggimai fatti partecipe di  quei sermone, del quale ne è partecipe Ermogene pò-    Digitized by Google    >* 7 <   co fa. Or dimmi, ti è egli avviso, che noi diciamó  bene. Che il p coovehisse al portamento, al moto e  alla asprezza, o non bene? CR.-Bene sii soc. — Ma  A piano, e a! molle, e alle altre cose da noi nar-  rate? cr — V eramente. soc — Sai tu dunque che Io   P : chiama da noi   ffKÀ*pOTl£;   ma da Eretriesi <rKAty>0T«£?. CR--Corto si. *oc.—  Dimmi , se questi due p e+ paiono somiglianti allo  stesso, e dimostrano il medesimo cosi loro per la de-  terminazione del p f come a noi per lo ultimo   o non significa niente agli noi di noi? cr -Anzi il  significa agli uni e agli altri, boc — Forse in quonto  sono somiglianti il p e il o in quanto dissomigliane  ti? ca— In quanto somiglianti, soc.— Dunque ìn quan-  to sono simili in ogni luogo? CR.-Peravventura al si-  gnificare almeno il portamento, soc. 0 il \ frames-   so ancora dimostra egli il contrario dell' asperità?  CR—Peravventura, o Socrate, non è framesso bene, co-  me quelle cose, le quali tu trattavi dianzi con Ermo-  gene, mentre e levavi via, e ponevi le lettere ove  massimamente facea mislieri. E tu mi parevi dì far be-  ne, e ora hassi a por forse il p per lo soc. — Tu   parli bene: ma che? al presente quando alcuno prò-  nuncia <rKÀ»/>oif, come dicevamo, non ci intendiamo  tranci? nè sai tu ciò, che io al presente mi dica?  cr,- 0 amicissimo, per usanza lo so veramente, soc.    ) 88 (   Quando tu dì usanza, pensi tu dir cosa diversa dal  componimento? chiami tu altro usanza, che quando   10 pronunciando questo, e considerando quello, tu co-  nosci, che io considero; non dì tu questo? cr. — Que-  sto stesso, 'soc. — Dunque se tu conoscessi questo pro-  nunciandolo io, li si fa per me la dichiarazione, cr.   —Così è. soc. — Cioè dal dissimile ili quello, che io  pensando proferisco, poi che è dissimile il \ a quel-  lo, che tu chiami <rn?iHp OTUTflC, cioè asprezza, e se  ciò se ne sta così, che altro ha egli se non, che tu I   con te stesso sii convenuto? e ti si fa egli la retta  tnaniera del componimento? poiché cosile simili, co-  me le dissimili lettere li dimostrano lo stesso , con-  seguendo lat usanza , e il componimento ma se  la usanza nou fosse componimento, nou si potrebbe   , dir bene ancora, che la somiglianza fosse dichiarazio  ne: ma usanza; poiché, come pare, la dichiara colla si-  militudine, e con la dissomiglianza. Ma, o Cratilo poi-  ché noi concediamo questo ( couciossiachè, io pongo   11 tuo silenzio per concessione) è necessario, che la  usanza, e il componimento appartenga alla dichiara-  zione di quello, che considerando diciamo, percioc-  ché, se tu ottimo uomo volessi discender alla cousi-  derazione de 1 ' numeri; donde penseresti tu di poter ap-  portare nomi somiglianti a qualunque numero, se non  permettessi, che la concessione c componimento tuo  tenesse alcuna autorità intorno alla retta maniera do'    X    Digitized by Google     ) »9 <   nomi? eziandio mi piace, che i nomi in quanto è pos-  sibile, siano simigliatiti alle cose; dubito nondimeno,  che peravventura, come diceva Ermogene, sia in c^rto  snodo lubrica la usurpazione di questa somiglianza, e  siamo sforzati a valersi ancora di questa cosa trava  gliosa, cioè del componimento d’intorno alta retta ma-  niera de’norai: percbè secondo il potere peravventura  si direbbe allora bene, quando si dicesse o con tutti,  o similmente con la maggior parte, cioè con conve-  nevoli: ma sozzamente quando in contrario. Or ciò ap-  presso a questo dimmi, qual forza tengano appressa  noi i nomi o qual cosa beilo affermiamo, che si fac-  cia da noi col mezzo loro? cb.—O Socrate, pare a me,  che insegnino i nomi, e ciò sia molto semplice, cioè  che chiunque sa i nomi, eziandio sappia le cose. soc.  — O Cratilo, tu peravventura dì alcuna cosa siffatta,  che quando conoscerò alcuno quale sia il nome (essen-  do egli tale, quale ancora si ritrova la cosa ) eziandio  conoscerò la cosa, poiché è la cosa somigliante al  nome; essendo un’arte, e la stessa di tutte le cose tra  loro somiglianti* Da questa ragione indotto pare, che  tu abbia detto, che chiunque conosce i nomi, ancora  conoscerò le cose stesse, cr. — Tu parli il vero, soc.—  Or vediamo qual sia questa maniera della dottrina de-  gli enti, la quale ora tu dì, e se piu oltre ve ne sia  d’altra, nondimeno sia questa tenuta migliore; o fuor  di lei, non ve ne sia niun’altra, in qual di questi due  snodi pensi tu? ex.— Cosi io stimo, che nou ve oc   6 Cr.    Digitized by Google    ) 9 ° (   sia d’altra; ma questa sola, e ottima- soc. -Ma dimmi  se questa stessa sia la invenzione degli enti, che chi  ba ritrovato i itomi, abbia ritrovato ancora le cose, «li   cui sono i nomi? o faccia ni isti eri, che .altra maniera   ' •„ r .1! i - . • • c   si cerchi, e si ritrovi; e questa si impari?, ca. — Sopra  tutte le cose è da cercarsi questa maniera, e ritrovarsi,  soc. — Or, o Cratilo consideriamo si, se a!cun mentre  investiga la cose segue i nomi, considerando quale  dee esser ciascheduno. Consideri tu forse, che non  sia piccini il pericolo di non restar ingannato? cu. —  in che mi'do? soc.— Perché chi da principio pose i  nomi quali stimò egli, che fossero le cose, eziandio  tali nomi pose, come diciamo, non è egli cosi? ca.  — Cosi affatto, soc. — Dunque se egli non pensò bene:  ma li pose quali lisi stimò, che pensi Ju, che sia per  avvenir a noi, che lo seguitiamo? altro forse, che di re-  star ingannali? cn.— O Socrate, chi sà, che questo non  se ne stia cosi: ma sia necessario, che' quegli. sia Stato  scientifico, che pose i nomi, altrimenti come un pez-  zo fa diceva, non sarchbono nomi. Questo poi ti può  esser di evidentissimo argomento, che non traviò dalla  verità l’au(o e del nome? che se avesse avuto rea opi-  nione, in moilo niuno tutte le co e non si accorderei)-  bono in colai guisa appresso di lui o non considera-  vi ancora tu quando dicevi; che tolti i oomi tendes-  sero nello stesso? soc.— O buon Cratilo, non vai niente  questa difesa, perchè non è cosa sconvenevole, se da  .principio ingannalo ['ordinatore de* naini, tirò di uuq-    \    Digitizecf by Google     ’) s« f   ^0 » seguenti nbini con ceria fona si primo, e I*  sforzò ad accordarsi seco, come intorno alle figure, ri-  trovandosi alcuna volta la prima figura ignota e falsa,   I* • . .'X.TTi « • : . . 1 : •   le rimanenti poscia essendo molte conviene, che inste-   me Si accordino; conciossiachè ciascheduno dèe dispu-  tar molte cose' intorno al determinare il principio  di (]ualunque!tCOsa, e considerar diligenlissimainente se  il principio è supposto bene o nò, il che bastevo) men-  te esaminato, le altre cose ornai lo deono seguire. Non-  dimeno mi maraviglio, se i nomi couvegnano con loro  stessi. Perciocché considereremo da capo le cose di-  nanzi da noi narrate, come, che i pomi ci significhino  la essenza, quàsi che l'universo vada, si porli e scorra.  Stimi tu fórse, che èssi significhino in cotal guisa, o  altrimenti.!^ cr.-— Cosi sì, e il significan bene. soc. —  Sicché consideriamo se assumendo alcuna cosa da loro.  Primieramente questo nome CTIffTtlftdt, c ‘°*“ di scien-  za, come é egli ambiguo, e pare, che più tosto signi-  fichi, 0T / larniTìv etri tùìs Trptryftoctri rnv   cioè che ferma l'animo nostro nelle cose, che  sia egli portato intorno con esse, ed è meglio, che di-  ciamo il principio di lui, come ora, che gettando l’g   dir TriffTtljiltV, ma frammettiamo in vece del g il /. Pos-  cia il jSsjSa/GV, cioè il fermo; perchè è imitazione fix-  o-eas Ttvog, hoc) (TTCUreas, c»°è di certo stabilimen  to, e state, che del portamento. Più oltre g’ tO’TOpt*    Digitized by Google     ) 9» I   Significa per certo questo, che ciò, che  poti» le 1 ™* ‘l corso e TOTTWTO», c*òè quello che sf  ha a credere, significa ad ogni modo tffTXV, c *°è «l  fermare. Poscia) j xytiym, cioè la memoria dimostra certo  ad ognuno, che è nell'anima poM, c '°è fermezza: me  non agitazione: come per esempio, se alcuno rolesse  seguire i nomi 0 apiXpTix, ttfltt « ffV[I(pOpX, c * oè 1 ®  errore, e la calamiti; parerebbe di inferire lo stesso,  che si riferisce -jr» e-vvsirej sa) 6Trt<rT»ft», cioè *“  intelligenza, e la scienza, e gli altri nomi, che posti  sono alle cose serie. Ancora £ ec^x 3 ix, xaì rf XKOfiKfflX,  cioè la ignoranza, e la intemperanza paiono simili a  questi; perciocché £ xpixBtX pare, che sia 7-01/ x^ixBsu  tOVTOS TTOpelx, cioè il progresso di chi se ne va in-  sieme con Dio: ma cctLOXxrix P are •* tulto certa «KOÀov-  glg' cioè conseguenza alle cose. Ed in colai guisa  quei, che noi pensiamo nomi t^i sozzissime cose pa-  reranno somigliantissimi a quelli nomi, che sono in-  torno alle cose bellissime, eziandio stimo, che si po-  trebhono ritrovare d’altri molti, se a ciò alcun atten-  desse; onde penserebbe di nuovo, che l’autor de’ no-  mi significasse non cose correnti, e portate: ma per-  manenti. cb. — Nondimeno o Socrate tu vedi, che la  maggior parte de* nomi significavano in quel modo,  «oc.— Che è dunque questo 0 Cratilo: annovereremo    \    Digitized by Google     f    ) 93 {   forse ì nomi qual suffragi, e sassettif e consisterli ?»  questo la retta maniera, cioè quat di queste due gui-  se de' nomi paia di significar pili, e questa sia la vera*   Non convien nò. soc. — O amico in modo miuno.   ÌOr qui' lasciamoli:' ma consideriamo, se in cotal guisa  ci assentissi, •ovver nò. Dimmi non confessavamo noi  poco la, die -coloro, che ponevano i nomi nel Te città  GrCche, e Barbane fossero ■positori de* 1 nomi, é Ifarte,  che ciò poteva ftossC de' nomi postricé? cr — Al tutto  slr «oc.— Or dimmi tu, chi pose i primi nomi, "cono*  scevan essi Ié còse, 1 cui ponevano i nómi, o non le co-  noscevaSo? 10 c*>. — Io penso, '0 Socrate, che Ie^etìno 1 -  scesseroi s oc;— Per certo, o amidó Crétìlo, non essèit*  do essi ignorami; cir.— Non rtìi 2 5 sdt.-iR'itòd   niamo di nuoi-o colà, Ondò si '^ipàrtimriro. Perciò po-  sto fa dicesti-, se tu li raccordi'; èli® era tìeeessario,' che  «hi poneva' i’WóWii conOSctìsè'Ié^'cbse/'cui 'tl penevai  dimmi pare à- tu ancóra' ; cosV; hòP 'cit.4-Eziatf*   diO si; "stìd.'— ‘PeTavventura dllu'J'che chi pose i 'priì  ini nómi, cbuoscendòH 'H ponessé. '■ cA.- Conoseèndòlk  soci— .Da’ quàlì homi ' avrebbe egli'imparato, o ritrova-  to le cose,- ! sé Otti a fossero ancora 'pósti i primi no-  mi! e di nhdVo'tfibiamD nóij èhè sià’ Còsa impossibi-  le di ritrovar lé' èòSéj o impararle altrimenti, che im-  parando i nhiéi/’ ò per noi quàlì siWo 1 ritrovandola  CR.— O SOcràte,’fnf è avviso, che lÓ~dìcà alcuna cosa,  toc-— Duriqóe io che ‘modo ‘dirémo''%iòi che essi sa-  pendo abbiano posto ? ‘nomi! ossiatro dati facitari dd’     )&<   Domi insanii che si ponesse qualunque nome, e abbia!  solessi conosciate, le cote innaoti, nou potendosi) «Ile  «llmnenli imparare, che co’ oprm? c«.— In vero: io pen-  so, Soc Fate, che questa sia_ verissime ragiono, d’iniorjse  questo, che certa .potenza maggior dell utnaud sia stata  qneHa, che pn»e,^pri#»i homi ;fl!e cote, 4t maniera die  aia necessario, chiosai tfi pestiano bm»f.3,»«c.-4.Posc»a  penti tu, che Fautpr de’ nptni li* abbia ppsli contras  ri a se stesso, o se fu egli alcun dtnipoe p Dio? o  pare fi r te, che di sopra da noi nop ,^;jgi»(deUo,aicn>  te? ca. — Ma chi sa, che gli altri j nqmj; non fossero  di questi, soc. — Quali d* questi due p , ottimo uomo  e^ano. es s > forse di quelli* che, si rifulgono olio sta?  Io? o di quelli pi u,. tosto, che al mpviinputfe? [ilrciocchè  nou ancora si giudicheranno colla moltitudine seaon r  do , quello chq poco^a abbianao ^ttos ; ,^tf^CÌ0si con»-  yjenfj p ^oprate. i u ^o«i e:dV   cendo parje di essi .e^er siglili ajlfl. 1 .flfr   fermando di so sa il^ medepi 6 &P ' ’.'U ‘ <d i r   torniremo noi?, ©, a chop^vfln^d^ -pgvfthè fcerlp #4  allri nomi, da .qufstft <K»n;flSftr^rqgjq^»jjii^#r   jepdpup. d’oltrg ma ( c^iarp g 8 »,qfe4 'WW   HO fi. Cerca rp, perle, altpp c«tSf,^C.,^i 0 9hiM r W n 9 TO%-  nifeste ^enaft^qiRijop. ci ^mustrer^ngp ^^Ojit*;, de-  gli epti^cjoè qapLdt questi due, , <y*.,-n-Coj.  si . mi .parer, Mfij-gp C‘V- 0 -i9f* l lKj c .3Bfia«lé ^.coy  tf( guisa.pqssiappo,, comp pa^iip^arj^ gli enti _5.eBXf  «pmL. «h-rApjptfjjcp. sof.T^P^r- mezzo di qual t)r    Digitized by Google     /    ) 95 (   tra cola pensi tu principalihénte, che ih possami * tip*  prender cose, è forse per mezzo di alcun’ altra, che  per quella, che è convenevole, e giustissima per U  Vicendevole tomunicanza loro, Cioè se in qualche mo-  do sono insieme in parentela congiunte, e per toro  stesse msssimàtneute? perciocché quello, che è diver*  ib da lord divèrsa cosa significa ‘ non quelle. cu.*- A -  me pare, che tu dVil vero. ioc.-'-Deh d\, non abbia^  tìio noi conceduto già molte volte, che siano : i nohàiy  i quali Spn posti bene ‘similissimi a quelle‘‘Cose, d'i cup  Son nomi*, e imagini loèo? ’ Cr. -< Per certo l'abbiamo  conceduto, soc.— Dunque se lecito; è di imparar le'  Cose per li nomi,i e' per loro-stésse ancora, qual sa-'  rebbe apprensione ‘più eccellente, e più chiara: Corse'  se dell’imiigine si imparasse, esprimendone ella 'beilo'  la verità di oui è ella imagine, o più. 'tosto dalla ve^  rilà còsi ella, eome la imagine di 1 lei, se essa fosse  fatta Convenevolmente? ‘ Cri— Mi par ' necessario dalla  verità- 1 Sòc.— Egli Rppar fattura d’ingegno maggiore'  del mio e del tuo, il giudicare in che modo siano da •  comprendersi le cose, o per dottrina, o per invenaio-  ne. Basterà poi al presente, che siamo fra noi- conve».  nuti, che elle non siano da impararsi,’ ie da cercarsi/ i  da' nomi: ma per loro stesse più tosilo.;' er.-i*Cos«i «p*v  perisce, o Socrate, sóc.— Appressò- considenaino/anco- ■«  ri' questo, acciochè questi molti nomi nello stesso/ tercw!  denti ‘boa ci ingannino, avendo pensato, ehi fi posero,/  •he Mute le cose corressero scazp(é, e . socrressi.ro, ci    Digitized by Google     I    Ì9 «f   «on quella considerazione «tendali polli, parendo •   me, che essi abbiano pensato in colai guisa. Ma se a  caso, non se ne starebbe egli eoa). In vero essi quasi  sdrucciolati in certa vertigine vacillano, e ai travaglia,  no, e nello .stesso tirando noi, ci alludano. Perchè con-  sidera, o Cratilo, uomo maraviglioso, che io spesse voi*  te sogno, se è da dirsi, clic sia alcuna cosa il bello, e  il buono, e Cosi qualunque degli enti, oppur uò? ca.  — O Socrate a me par si. aoc.— Dunque consideriamo  questo, se alcun viso, o alcuna delle cose silTalte sia  bella, parendo, che scorrino tutte: ina quello, ebe di-,  ciomo bello non persevera sempre tale, qu.de è egli?,  c*.— Necessario è. soc. — Dunque è possibil forse, cha,  egli si denomini bene, se (ugge sempre, e primieramen-  te si dica ciò, che egli sia, poscia quale sia? o neces-  sario è mentre parliamo, che egli si faccia altro incon-  tinente, e si fugga, nè più sia tale? cr.— Egli è neces-  sario. soc,— In che modo sia quello alcuna cosa, ;  che non se ne sta mai nella stessa maniera? percioc-,.  cbè se alcuna volta se ne sta nello stesso mod'>, chia-  ro è, che non si muta niente in qui 1 tempo, «die «c  do sta cosi: ma se slà sempre uella stessa guisa, ed è  il medesimo, in che maniera si potrebbe mutare, o mo-  ver non diseostaudosi punto dalla sua idea? cr.— tu  modo ninno, soc.— Più oltre uè alcuno si conoscereb-  be facendosi altro e diverso incontinente, che se no ;  vico quello, che l’ idee conoscere. Sicché non si po-  trebbe conoscer più, che, < quale si sia, o come si ri-    J    Digitized by Google     trovai*®, ♦ per certo niiina c<jgoÌRÙ)taat$anosce 1* co*  sa, la quii conosce, non stendo ella;inalcuo modo»  cu.— figli è coese tei dii i socy7rMe,nè.onAOW* 0 CraltlPià  verisimiln che sùdice c©gi»iaioDe,,8e si nantanp tulle le  cose, -e «ente^sù-ffetow-iChèise la cognizione ppo ca«  desse da quello, onde è cognizione, si f cr m erebbe SCO* 1 *  pre,* e sarebbe sempre qognixione. Ma;se essa Specie anr  Cora di cognizione 'Si' dipartisse, in altea^pecie passe*  rebbe -insieme ilicognitionenè cogniaìone starebbe» che  sta' pdrileteamewtfe si 1 mutai non sia sempre cognizione»  d di ^aéSta' ragiorte,; no® 'sarài eli# nè ciò», che» & per  cò'dtfscel^i ttè fciè, éh« è r -per" dovérsi poposoere: ma se  ditèmprè'queito che conosce, >ed è qoelio ohe si co*  no sa e, «d è il bello, ed anche il buono, ed èoquàl*iB4  qnc degli enti, non mi pare che ciò che diciamo al  presente sia simile al flusso ed al portamento. Or se  questo se ne slà egli cosi, o come dicevano i settatori  di Eraclito, e altri molti non si può discerner agevol*  mente, non è ol^jtrid’qaaqèirfbf, jhp intelletto fidar  se stesso, e l’animo suo a’ nomi e raffermar sapiente  l’ootore del nome; e in colai guisa dispreggiar se stes-  so e gli enti, quasi, che niuna cosa sia vera: ma scor-  rano, e cadano tutte, conHMewfcne; e qual gli uomi-  ni malati delle distillazioni della testa giudichi, che  iimilmeule si dispongano le cose stesse in modo, che  si tengano tutte dallo scorrimento, o dal flusso. Perav-  veutura o Cratilo egli è cosi peravventura è altrimenti  ancora. Dunque egli si dee investigar questo con aui-    Mo fòrte, e heriefaron dovendoti ammetter ^erolmen-  te: perciocché ancora tu sei giovane, e ti à beetetole  la età, e se ritroverai alcuna cosa iti investigante), ezian-  dio la dei Compartire con esso meco. ca.— O Socra-  te, io vi attenderò e saprai certo, che ancor io al pre-  sente non sto senza considerazione; anzi in pensando,,  e in rivolgendomi molte cose per l’animo, pere a me,  che se ne stieno elle maggiormente in quel modo, che.  come Eraclito' diceva, soc.— Da qui innanzi o amico  poiché sarai ritornato, mi insegnerai: ma qra come sei.  apparecchiato vattene al campo; perchè ancora Ermo*  gene ti accompagnerà, ci.— -Si farà, o Socrate, come,  tu ammonisci.' ma d’intorno a quello aforzati ancora  tu di considerare. Roberto Dionigi. Dionigi. Keywords: in torno al cratilo, ermeneutica, svolta linguistica, cratilo, linguaggio, la forma del linguaggio, forma logica. Nietzsche. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Dionigi” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51766594608/in/dateposted-public/

 

 

Grice e Disertori – la tensione dell’arco e il volo della freccia – filosofia italiana – Luigi Speranza (Trento). Filosofo. Grice: “I like Disertori; especially his ‘studi platonici’ on the archer, and, ‘under the sky (or is it heaven – ‘cielo’ is a trick) of Saturn!” Frequenta il Ginnasio liceo Prati. Si iscrive poi a Firenze e quindi si trasferisce a Genova, dove si laurea con “Fisio-patologia del sistema nervoso centrale”. Si trasferisce a Milano e si specializza in neurologia e psichiatria con Besta. Torna a Trento, dove esercita la libera professione: la carriera pubblica e ospedaliera gli era preclusa in quanto privo della tessera del Partito Nazionale Fascista.  Antifascista da sempre, negli anni quaranta partecipa attivamente alla Resistenza, incontrando fra gli altri Reale, Pacciardi, Battisti, Bacchi, e Manci. -- è costretto a riparare in Svizzera. Finita la guerra ritorna in Italia e, a Trento, diventa primario nel reparto di neurologia dell'ospedale Santa Chiara e docente sia di neurologia e psichiatria a Padova, sia di socio-psichiatria e criminologia a Trento.  Pubblica più di 300 saggi di filosofia.  Per tutto il secondo dopoguerra si occupa attivamente di politica, ricoprendo la carica di presidente regionale del Partito Repubblicano. Diventa inoltre presidente della Croce Rossa.Altre opere: “Il libro della vita”; “Trattato delle nevrosi”; “De anima”; “Trattato di psichiatria e socio-psichiatria”; “Sfida al secolo, 1975. La collezione si trova già chiaramente ordinata e organizzata dal Disertori stesso, con un ricco carteggio con scienziati, personalità politiche e del mondo della cultura, documenti sull'attività scientifica e pubblicazioni; cronache e materiali raccolti durante i viaggi; recensioni alle sue opere e materiali di ricerche scientifiche.  Coppola, Passerini, Zandonati.  SIUSA.  G. Coppola, A. Passerini e G. Zandonati, Un secolo di vita degli Agiati. “Sotto il segno dell'uomo” Beppino Disertori. Atti del convegno di studio, Trento, Palazzo Geremia, Pensiero e opera letteraria di Beppino Disertori, Manfrini, Calliano (TN), L. Menapace et al., Note biografiche, R. Bacchi et al., Biografia, Accademia del Buonconsiglio, Trento,  Raccolta di scritti di Disertori.  1923 - 1927 (con documentazione fino al 1981) Fascicolo, carte 108  2 Studi scientifici del periodo svizzero  1943 - 1945 Fascicolo, carte 131, opuscoli 10  3 Raccolta di articoli e scritti di Disertori rilegati in volume denominata "Zibaldino"  1944 - 1961 Fascicolo, carte 103  4 "Saggi nel cassetto"  1945 - 1985 Fotocopie rilegate in 3 volumi di scritti inediti di Disertori volumi 3  5 "Il libro della vita"  1952 - 1957 Traduzione in inglese di alcuni capitoli de "Il libro della vita" ad opera di Nicola Lubimov. Contiene anche: alcune lettere a Disertori di Lubimov relative al lavoro di traduzione Fascicolo, carte 360  32    6 Scritti di Beppino Disertori rilegati in volumi  1954 - 1984 Minute dattiloscritte rilegate in volume. - "Scritti vari vol. II", 1954 - 1963 - "Scritti vari vol. IV", 1964 - 1972 - "Scritti vari vol. VI, 1972 - 1978" - "Scritti vari vol. VII" 1978 - 1980; contiene anche carte sciolte del vol. VIII (1980 - 1984) Volumi 4  7 "Trattato di psichiatria"  [1965 - 1980] Minuta dattiloscritta e a stampa con ampie correzioni e integrazioni del "Trattato di psichiatria e socio-psichiatria", scritto con Marcella Piazza e pubblicato a Padova: Liviana, 1970. Bozze a stampa con correzioni dell'edizione in spagnolo, Buenos Aires: Libreria El Ateneo Editorial, 1974 Fascicolo, carte 681  8 Raccolta di scritti, discorsi, relazioni ed appunti di Disertori riguardanti argomenti vari  1979 - 1988 Fascicolo, carte 559  33    serie 7  Recensioni e documentazione relativa agli scritti di Beppino Disertori, 1930 - 1985  Unità archivistiche 30 Contenuto Raccolta di recensioni a opere di Disertori  1 "Gandhi"  1930 Recensioni relative all'opera "Gandhi: pensiero ed azione" (Trento: Disertori, 1930) Fascicolo, carte 5  2 "Saggio di fisiologia del liquido cerebro-spinale"  1935 - 1936 Estratti e recensioni relativi al "Saggio di fisiologia del liquido cerebro-spinale" (Roma: Pozzi, 1935) Fascicolo, carte 23  3 "Encefalite"  1936 - 1940 Recensioni e articoli di giornale relativi ad alcune pubblicazioni di Disertori sull'encefalite Fascicolo, carte 41  4 "Liquor"  1937 - 1942 Recensioni relative a "Saggio di fisiologia del liquido cerebro-spinale" (Roma: Pozzi, 1935) Fascicolo, carte 43  34    5 "Sulla biologia dell'isterismo"  1939 - 1970 Estratti, recensioni e articoli di giornale relativi a "Sulla biologia dell'isterismo" (Reggio Emilia: Poligrafica reggiana, 1939) Fascicolo, carte 91  6 "Il libro della vita"  1947 - 1975 Estratti, recensioni e articoli di giornale relativi a "Il libro della vita" (Verona: Mondadori, 1947) Fascicolo, carte 45  7 "Trattato delle nevrosi"  1950 - 1975 Estratti, recensioni e articoli di giornale relativi al "Trattato delle nevrosi" (Torino: Edizioni scientifiche Einaudi, 1956) Fascicolo, carte 335  8 "Itinerari pitagorici"  1954 - 1973 Recensioni e documentazione varia relativa all'opera "Itinerari pitagorici" (Trento: TEMI, 1954) Fascicolo, carte 109  9 "Parapscicologia e ipnosi"  1956 - 1978 Estratti di riviste e articoli di giornale riguardanti la parapsicologia e l'ipnosi Fascicolo, carte 60  10 "De anima"  1960 - 1962 Recensioni e ritagli di giornale relativi al "De anima: saggio sulla psicologia teoretica" (Milano: Edizioni di Comunità, 1959) Fascicolo, carte 85  35    11 "Mazzini filosofo"  1961 - 1974 Recensioni e ritagli di giornale relativi a "Mazzini filosofo: nel centenario dell'Unità" (Trento: TEMI, 1961) Fascicolo, carte 61  12 "Trattato di psichiatria"  1962 - 1977 Estratti, recensioni e articoli di giornale relativi al "Trattato di psichiatria e socio-psichiatria" (Padova: Liviana, 1970) di Disertori e Marcella Piazza Fascicolo, carte 231  13 "Pellegrinaggio in Egitto"  1963 - 1968 Recensioni e documentazione varia relativa all'opera "Pellegrinaggio in Egitto" (Venezia: Pozza, 1965) Fascicolo, carte 50  14 "Timeo"  1965 - 1968 Recensioni dell'opera "Il messaggio del Timeo" (Padova: CEDAM, 1965) Fascicolo, carte 77  15 "Esperienza dell'India"  1966 - 1973 Recensioni relative a "Esperienza dell'India" (Vicenza: Pozza, 1966) Fascicolo, carte 38  36    16 "Personalità caratteropatiche"  1966 - 1982 Estratti di riviste e recensioni relative alla pubblicazione di "Le personalità caratteropatiche submorbose e tetratologiche"; con Marcella Piazza (Padova: Liviana, 1967) Fascicolo, carte 121  17 "Cronaca di un safari"  1968 - 1970 Recensioni relative a "Cronaca di un safari" (Venezia: Pozza, 1967) Fascicolo, carte 65  18 "La montagna di Vishnu"  1968 - 1974 Estratti, recensioni e articoli relativi a "La montagna di Vishnu: taccuini di viaggio nel sud-est asiatico e nell'Uganda" (Vicenza: Pozza, 1971) Fascicolo, carte 28  19 "La sfinge olmeca"  1968 - 1972 Recensioni relative a "La sfinge olmeca: note di viaggio in Messico e Guatemala" (Vicenza: Pozza, 1968) Fascicolo, carte 75  20 "Trattato di psichiatria e socio-psichiatria"  1970 - 1973 Estratti di riviste, recensioni e documentazione varia relativa a "Trattato di psichiatria e socio-psichiatria", scritto con Marcella Piazza (Padova: Liviana, 1970) Contiene anche: dispense del Convegno nazionale di psichiatria sociale (Bologna, 1964) Fascicolo, carte 322  37    21 "Parkinson"  1972 - 1978 Recensioni relative a "Fisiopatologia e terapia del morbo di Parkinson e dei parkinsonismi: contributo teorico ed esperinza con l- dopa" (Padova: Liviana, 1972) Fascicolo, carte13  22 "La via delle perle"  1973 - 1975 Documentazione varia, tra cui alcune lettere, relativa a "La via delle perle: note di viaggio in Birmania, Borneo, Giappone, Cina esterna, golfo del Siam" (Vicenza: Pozza, 1973) Fascicolo, carte 37  23 "Sfida al secolo"  1975 - 1982 Recensioni e articoli di giornale relativi a "Sfida al secolo: la natura, l'uomo, il tessitore" (Padova: Liviana; Trento: TEMI, 1975) Fascicolo, carte 80  24 "La stagione dell'infanzia"  1977 - 1981 Estratti, recensioni e articoli di giornale relativi al contributo "La stagione dell'infanzia" (Forlì: Cooperativa industrie grafiche, 1963) Periodici 10, carte 41  25 "Luci d'autunno"  1979 Recensioni relative a "Luci d'autunno: diari, taccuini di viaggio, saggi, poesie" (Trento: TEMI, 1978). Contiene anche: 3 lettere di Flaminio Piccoli e Silvano Demarchi Fascicolo, carte 48  38    26 "Il monolito dei fulmini"  1981 - 1982 Recensioni relative all'opera "Il monolito dei fulmini: (note di viaggio in Sud America)" (Vicenza: Pozza, 1981) Contiene anche: 3 lettere di Diego Prò e Beniamino Condini Fascicolo, carte 23  27 "La tensione dell'arco"  1983 - 1985 Recensioni relative all'opera "La tensione dell'arco e il volo delle frecce" (Abano Terme: Piovan, 1982). Contiene anche: lettera con recensione di Aldo Capasso Fascicolo, carte 53  28 "Poesie"  1985 Recensioni di poesie di Disertori Fascicolo, carte 3  29 "L'ombra eleusina"  1985 Recensioni relative all'opera "L'ombra eleusina: studi su l'arte e la cosmovisione di Gabriele d'Annunzio" (Abano Terme: Piovan, 1984) Contiene anche: 2 lettere a Disertori di Lidia Ratti e della Fondazione Il Vittoriale degli Italiani Fascicolo, carte 9  30 "Sotto il cielo di Saturno"  1985 Recensioni relative a "Sotto il cielo di Saturno" (Trento: TEMI, 1984). Contiene anche: 1 lettera a Disertori di Giovanni Graffer Fascicolo, carte 5  39    serie 8  Documentazione raccolta a fini di studio e relativa all'attività accademica , 1936 - 1990 (con documentazione dal 1904)  Unità archivistiche 13 Contenuto Dispense relative a studi, scritti e ritagli di giornale  1 Documentazione varia relativa al Movimento Federalista Europeo  1944 - 1946 Fascicolo, carte 337  2 "Cronaca su conferenze"  1948 - 1990 Appunti di Disertori per conferenze e articoli su argomenti vari Fascicolo, carte 130  3 "Psichiatria sociale"  [1960 - 1965] Dispense di psichiatria sociale relative a problematiche socio-economiche Fascicolo, volume 1, carte 61  4 "Criminalità"  [1960 - 1965] Dispense relative a criminalità, obiezione di coscienza, diserzione Fascicolo, carte 86  40    5 "Riabilitazione"  [1960 - 1965] Dispense riguardanti terapie di riabilitazione Fascicolo, carte 67  6 "Stupefacenti, leggi"  [1960 - 1970] Testi di leggi riguardanti gli stupefacenti Fascicolo, carte 68  7 Dispense e documentazione varia relative all'attività accademica  1967 - 1975 La documentazione è relativa ad esami e tesi di laurea. Contiene anche: alcune lettere di studenti a Disertori riguardanti le tesi di laurea. Fascicolo, carte 234  8 Relazione di Disertori e Marcella Piazza  1979 circa Copie della relazione presentata al seminario di neuropsichiatria, psicologia e filosofia a San Miguel de Tucuman (Argentina) nell'ottobre 1979 Fascicolo, carte 368  9 "Attività in Sudamerica"  1977 - 1979 Fascicolo, carte 103  10 Raccolta di scritti di Mario Pincherle  [1980 - 1989] Fascicolo, carte 362  41    11 "Lavori neurologici"  1981 - 1984 Estratti di riviste e dispense relativi a studi di neurologia Italiano Fascicolo, 17 opuscoli  12 Relazioni e dispense  [1930 - 1970] Contributi vari relativi a terapie farmacologiche e note informative di case farmaceutiche Fascicolo, carte 215  13 Miscellanea  1952 - 1981 (con documentazione dal 1904) Contiene anche: 2 autografi di Gabriele D'Annunzio inviati a Gerolamo Rovetta; scritti di Marcello Disertori e ritagli stampa con anche articoli sulla scomparsa del padre Marcello; manoscritto "Elementi di fisica per le classi inferiori delle scuole medie", compilato dai professori Vittorio Magnago e Arcadio Emmert Fascicolo, carte 150, volume 1 Beppino Disertori. Giuseppe Disertori. Disertori. Keywords: la tensione dell’arco e il volo della freccia, libro della vita (why do we live?), il messagio di Timeo, itinerari pitagorici, pitagora e aligheri – tensione dell’arco, volo – eraclito – platone – politeia di Platone – Grice on Plato’s Republic – plato carmide e la medicina – dell’anima – psicologia teoretica -- sul segno dell’uomo, de anima. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Disertori” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51717066030/in/photolist-2mN4tWf-2mN1mod/

 

Grice e Dòdaro – il convito, ossia, tracce di un discorso amoroso – filosofia italiana – Luigi Speranza (Bari). Filosofo. Grice: “Dòdaro is an interesting one – totally cryptic of course! It is as if he were Nowell-Smith, Austin, and Donne, combined into one! Recall Nowell-Smith’s challenge to Austin: “Donne is incomprehensible,” “He surely ain’t!”  Costretto a riparare a Turi per sfuggire ai bombardamenti. A Bari si legò a Maglione, Castellano, Piccinni e, assieme allo zio Silvio, prendeva parte agli incontri artistici e letterari del caffè-pasticceria Il Sottano (in quegli anni frequentato da Moro, Albertazzi, Scotellaro, Bodini, Calò ecc.), fondato da Scaturchio, e agli incontri di Laterza e del circolo La Scaletta di Matera. Nello stesso periodo conobbe Nazariantz, il quale rappresentò per Dòdaro una sorta di guida, fu lui, infatti, a introdurlo per la prima volta agli incontri del Sottano dove ebbe modo di stringere amicizia con Bodini, Calò, Scotellaro. Abbandonò presto Bari, tentando una prima fuga a Parigi, città in cui sarebbe tornato a vivere altre volte, prima di tornare a Bari per poi trasferirsi a Lecce. Altre tappe, prima del trasferimento a Lecce, furono Milano e Bologna. Divenne allievo di Morandi, presso l'accademia, infatti, prime espressioni della sua attività artistica furono la pittura, praticata per una manciata di anni, e il teatro, poi diluito nelle successive esperienze poetiche e narrative. Come pittore produsse alcuni quadri in cui all'informale materico univa le combustioni, applicate, di fatto: Verri riporta in suo intervento: arriva con la novità dei colori "bruciati". Di questo ciclo di opere faceva parte "Svergognato incantesimo di barca", che gli valse, successivamente, la segnalazione presso il premio "Il maggio di Bari". Prima del trasferimento a Lecce, lavora presso l'ufficio stampa della Fiera del Levante, a stretto contatto con Fiore, figlio di Tommaso, venendo influenzato dal meridionalismo. Sempre nel clima della Fiera del levante, strinse un ottimo legame con Tot. Al suo arrivo a Lecce riallacciò i rapporti con Bodini e Calò, oltre che con Suppressa, conosciuto in occasione del premio Il Maggio di Bari, entrò, inoltre, in contatto con quelli che sarebbero stati poi suoi amici e compagni artistici: Durante, Massari, Candia, Pagano. Ebbe frequentazioni con Bene e strinse importanti sodalizi amicali e letterari con Verri, Gelli, Caruso, il quale, in corrispondenze private, ebbe modo di rinominare la loro amicizia e collaborazione come il "sodalizio Caruso-Dòdaro". A Leccesi rese protagonista, con Candia, di un grande falò in cui i due bruciarono tutti i quadri realizzati fino a quel momento. Per quanto riguarda l'opera pittorica  "Svergognato incantesimo di barca", insieme a pochi altri, si salvò dal falò perché all'epoca custodito presso la casa dello zio Silvio. Dopo questo iniziale periodo di ricerca e sperimentazione, abbandona la scena artistica per circa vent'anni, anni in cui si dedicò allo studio intenso nel tentativo di scoprire il perché del linguaggio, rompendo il silenzio con la fondazione del Movimento di Arte Genetica con sede a Lecce, Genova e Toronto. Con tale movimento, rintracci l’origine dell’italiano o romano nel battito materno ascoltato in età fetale, teorizzando il romano o italiano come una congiunzione volta a rifondare la dualità dell’essere umano non un regressus ad uterum, bensì la coppia, la dualità, ovvero la dimensione originaria della comunione con l’altro e come lutto, annodandolo alla mancanza di Lacan. Il movimento si doterà di due riviste: “Ghen”, giornale modulare ideato da Dòdaro con sede a Lecce, e “Ghen Res Extensa Ligu” con sede a Genova e diretta da Mignani. L’idea del modulo come unità di misura sarà alla base della struttura modulare di “Ghen” oltre che della concezione dello spazio, mutuata sempre dagli studi sulla dimensione pre-natale, fino a sfociare nel manifesto "Incliniamo l’orizzonte”. L’italiano o il romano diventa una congiunzione, una dichiarazione onomatopeica in cui si alimentava il trionfo del lutto e la mancanza. L’orizzonte diventa orizzonte mediale: poesie per i treni, per gli altoparlanti e più in là romanzi in tre cartelle, romanzi su cartolina, collane spaginate, poesie e poesie visive da proiettare per le strade, poesie per internet, net.poetry, narrazioni su leaflet, romanzi da muro-narrativa concreta, romanzi di cento parole da pubblicare in store, nelle vetrine dei negozi. Al Movimento di Arte Genetica aderirono, o ruotarono attorno alle sue riviste e attività, un numero considerevole di autori provenienti dalle sperimentazioni poetiche e poetico-visive, performative, sonore, plastiche: Miccini, Marras, Mignani, Fontana, Munari, Fiore, Dramis, Perfetti, Pagano, Gelli, Noci, Greco, Lorenzo, Marocco, Massari, Miglietta, Center of Art and Communication (Toronto), Giorgio Barberi Squarotti, Toshiaki Minemura, Xerra, Sicoli, Souza, Alternativa Zero, Experimental Art Foundation (South Australia), Block Cor (Amsterdam), Genetet-Morel, Lepage, Martini, Valentini, Restany, Etlinger, Caruso, Verri, Miglietta, Nigro ecc.  Con la nascita del movimento di Arte Genetica, avvia una personale riflessione sull'oggetto-libro e le sue modalità fruitive, avviava il progetto "Archivio degli operatori pugliesi", per una catalogazione degli operatori estetici e culturali. Crea e anima «il centro di ricerca 1.4.7.8. (strutturato, nel nome, sulle coordinate della Classificazione Decimale Dewey, ad indicare i percorsi di ricerca: filosofia, linguistica, arte, letteratura), ospitato dalla Libreria Adriatica di Lecce, e con il quale coinvolge numerosi operatori del territorio (docenti universitari, il gruppo Gramma, il Centro ricerche estetiche fondato a Novoli da Greco e Lorenzo, il gruppo Oistros di Durante e Santoro, gli autori del gruppo di Arte Genetica da lui fondato ecc). Ha diretto la casa editrice Conte di Lecce, ha fondato a Lecce, il movimento letterario New PageNarrativa in store. La sua attività letteraria ed editoriale è  stata caratterizzata da uno spiccato senso per la formazione di gruppi e la ricerca di autori da lanciare, rappresentando sul territorio pugliese un autentico volano per operazioni di ampio respiro che andavano spesso a coinvolgere autori del panorama letterario internazionale. Idea e dirige una mole notevole di collane editoriali volte al rinnovamento dell’oggetto-libro, fra queste: «Scritture» (Parabita, Il Laboratorio), «Spagine. Scritture infinite» (Caprarica di Lecce, Pensionante de' Saraceni) scritture di ricerca formato poster, spaginate, «Compact Type. Nuova narrativa» (Caprarica di Lecce, Pensionante de' Saraceni) ovvero romanzi in tre cartelle, «Diapoesitive. Scritture per gli schermi» (Caprarica di Lecce, Pensionante de' Saraceni) scritture di ricerca da proiettare, «Mail Fiction» (Caprarica di Lecce, Pensionante de' Saraceni) romanzi su cartolina, «Wall Word» (Lecce, Conte Editore,)tradotta in giapponese ed esposta all’Hokkaido Museum of Literature di Sappororomanzi da muro, ovvero collana di narrativa concreta, «International Mail Stories» (Lecce, Conte Editore), «Internet Poetry» (Lecce, Conte Editore) una delle primissime esperienze italiane di net poetry, «Walkman Fiction. Romanzi da ascoltare» (Lecce, Argo), «E 800 European Literature», in 5 lingue (Lecce, Conte Editore), «Pieghe narrative» (Lecce, Conte Editore), «Pieghe poetiche» (Lecce, Conte Editore), «Pieghe della memoria» (Lecce, Conte Editore), «Foglie nude» (Doria di Cassano Jonio), «Locandine letterarie» (Lecce, Il Raggio Verde), «Romanzi nudi» (Lecce) in unico esemplare, «Carte letterarie» (Lecce, Astragali), «792 Mail Theatre» (Lecce, Astragali), «New Page. Narrativa in store», (Lecce) narrativa breve, poi anche poesia e teatro, in cento parole, collana che guarda alla comunicazione pubblicitaria con i testi applicati su crowner, pannelli cartonati in uso nella comunicazione pubblicitaria, ed esposti in store, nelle vetrine dei negozi.  Nell'ambito della poesia verbo-visiva e del libro-oggetto, è presente in numerose manifestazioni di «Nuova scrittura»: Ma il vero scandalo è la poesia. Un salto di codice, Ferrara, Ipermedia; Attorno a noi poeti in gruppo, Strudà (Lecce), Ospedale psichiatrico; Dentro fuori luogo, Casarano, Palazzo D'Elia; Centro internazionale Brera, Documenti di gestione alternativa. Appunti sulla Puglia, Milano, Chiesa San Corpoforo; Artigianare '81, Lecce,1981; Cercare Bodini, Bari / Lecce, Ab origine, Martina Franca; Parola fra spazio e suono. Situazione italiana, Viareggio; Le brache di Gutenberg, Caruso, Visco, Livorno; Far libro. Libri e pagine d' artsta in Italia, Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, Il segno della parola e la parola del segno, Milano, Mercato del sale, Breton et le poeme-objet, Ugo Carrega, Milano, Mercato del sale, Le porte di Sibari, Sibari, Visibile Language. Numero speciale sulla poesia visuale. Sezione Italia, E. Minarelli, USA; Cartoline d'artista, Livorno, Belforte, Terra del fuoco. Intersezioni per Adriano Spatola, QuartoNapoli, La parola dipinta. Rassegna di poesia visuale, Belluno, Comune di Gallarate Civica galleria d'arte moderna. Casa d'EuropaSede di Gallarate, Pagine e dintorni, Libri d' artis ta, Gallarate,L. Pignotti, “La poesia visiva”, L'immaginazione (Lecce), S-covando l'uovo, Firenze, Terra del fuoco, QuartoNapoli, Musei Civici di Mantova, Poesia totale. Dal colpo di dadi alla Poesia visuale. Mantova, Sarenco, Palazzo della Ragione, Archivio libri d' artista. Laboratorio 66, G. Gini e F. Fedi, Milano, È presente in Musei, Biblioteche, Archivi. Tra i più importanti: Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze“Libri e pagine d'artis ta”con l’opera Mar/e amniotico, 1983; Galleria d’arte moderna di Gallarate, con le opere Mourning Processes. The word, 1991 e Processi di lutto. Notizen: dis, 1991; Museo S. Castromediano di Lecce, con l'opera Matram psicofisica, Archivio Sackner, Miami Beach, e Archivio Della Grazia di nuova scrittura, Milano, con varie opere; Hokkaido Museum of Literature, con la collane “Wall Word”, nteramente tradotta in giapponese; Imago mundi-Visual poetry in Europe (Fondazione Benetton, ) ecc.  Altre opere: Dichiarazione onomatopeica (Lecce); Progetto negativo (Lecce,); Disianza Congiuntiva (Livorno); Disperate Professore (Parabita); dis/adriatico (Caprarica di Lecce); Tracce di un discorso amoroso (Caprarica di Lecce); Compact Type. Nuova narrative Con A. Verri, (Caprarica di Lecc); Sconcetti di luna (Caprarica di Lecce); Mail Fiction. Free Lances Con A. Verri(Caprarica di Lecce); Navigli (Caprarica di Lecce); Void Fiction (Sibari,); Street Stories (Lecce)tradotto in giapponese(SapporoJapan); Parole morte. Dead Words (Lecce); L’addio alle scene (Lecce); Antonio Verri. Schegge del contestocon M. Nocera (Lecce); 18 i titoli pubblicati su leaflets (Lecce), 16 «Pieghe narrative» e 2 «Pieghe poetiche»: “Pieghe narrative”: Vento, vento, I colombi della clausura, Il figlio dell'anima, La Balilla, Graziato, Il monumento, Dove volano i gabbiani, La mimosa, Ricordanze zigane, Franco, Joe Cocker, All'ombra del grande vecchio, Reparto «P», Il tradimento, 27 marzo, L'esame. “Pieghe poetiche”: Rosa virginale, Il solista; Dichiarazione d'innocenza (Lecce); 7 i «Romanzi nudi», titoli in unico esemplare (Lecce, Dis, Era d’autunno, Il falò, L’Objet trouvé, Silenzi, Why, Ballata migrante, Uscita in marasma (Lecce); Di viole. D’incanti. Astragali teatro (Lecce ); New Page: In un bosco di frammenti (Lecce), La parola tramava (Lecce); Le prime notti stellate (Lecce) interrogatorio violento (Lecce, ) I suoi ramaggi (Lecce, ). Grigiori dell’anima (lecce, ), Di un solstizio d’amore (Lecce, ), Maria la magliaia (Lecce, ), Teresa. L’Altrove, (Lecce, ), La mer. Ma mère (Lecce, ), Una notte senza stelle (Lecce). Le distese di grano, (Lecce), Gastronomia da asporto (Lecce), Una sua lettera (Lecce), Trincee matricali (Lecce), Compagno d’accademia (Lecce). Tra i gabbiani (Lecce), Cioccolatini di Chicago (Lecce), Cantata duale (Lecce). La tromba dell’altrove (Lecce), Il nipote violoncellista (Lecce); ‘Operatori culturali contemporanei in Puglia. Archivio storico divulgativo, Lecce); “Ambivalenze genetiche”, Ghen (Lecce) ora in “Genetic Ambivalencie”, Art Communication Edition, Toronto-Canada) “Links”, Ghen (Lecce), “Il complesso di Edipo e quello di Caino”, Quotidiano (Lecce); “I processi di lutto. La Weltanschauung ghenica” in, La parola tra spazio e suono. Situazione italiana, Viareggio, “Codice yem: le origini del linguaggio, ovvero la rifondazione della coppia”, Ghen (Lecce) (ora in Regione Puglia, Creatività e linguaggio. Atti del Convegno, Maglie); “Dis-astro”, in A. Massari, Dis-astro. Loos, Lecce, “L’area inter-media”, in F. Gelli, Transitional Objects. Mutter Fixerung, Lecce; “Ipotesi interpretativa del fenomeno droga, formulata da una coscienza che opera nella poetica. Della scissione. Della prevenzione” in Tossico-dipendenza: progetto di lotta per gli anni ’80Centro studi giuridici M. Di Pietro. Convegno. Lecce; “Mater externata”, in L. Caruso, Mater: poesia. Madre e signora dell’acqua, Lecce; “Lontananze genetiche. Ad cantus enclitico”, in Manifesto mostra gruppo Ghen, Milano; Progetto negativo, Galatina (ora in Ab origine. Presenze pugliesi nell’arte contemporanea, Roma-Bari); “La letterarietà di Caruso”, in E. Giannì, Poiesis: Ricerca poetica in Italia, Arezzo; “La poesia totale di Spatola. Il convegno di Celle Ligure”, On Board, Lecce; “Wall Word: parole da muro, romanzo da muro”, in F.S. Dòdaro, Street stories, Lecce; “Dodici haiku. Dodici punti di rilevamento”, in E. Coriano, A tre deserti dall’ultimo sorriso meccanico. Three deserts from the shadow of the last mechanical smile, Lecce; “Una pagina diversa, up to date”, in Pieghe narrative, Lecce; Schede d'arte contemporanea. Implicatura e Mappatura schedografica degli Autori contemporanei, Lecce; “L’ampliamento della flessione”, in Archivio libri d’artista. Laboratorio 66, Milano; “Le anime narranti di Alberto Tallone”, in Alberto Tallone. Manuale tipografico, Alpigiano (Torino), New Page (Lecce); L'ortografia è morta. L'apparato pausativo, in New Page (Lecce). Francesco Aprile, Già così tenera di folla, in Intrecci, Napoli, Oèdipus,  Edoardo, un cavaliere senza terra, su bit. Antonio Verri, Edoardo, Un cavaliere senza terra, su bit.  Francesco Aprile, Poesia qualepoesia/06: Un’altra pagina. Le ricerche intermediali a Lecce, su Puglia libre, Testi di teoria letteraria/editoriale, su utsanga.  Archivio di nuova scrittura, su verbo visual virtuale.org.  Cantata duale, Imago mundi-Visual poetry in Europe, su imagomundiart.com.  Antonio Verri, Una stupenda generazione, SudPuglia, Antonio Verri, Edoardo, un cavaliere senza terra, SudPuglia, Francesco Aprile, Già così tenera di folla, Napoli, Oèdipus,  Francesco Aprile, La parola intermediale: lineamenti di un itinerario pugliese, in Aprile F.-Caggiula C., La parola inter-mediale: un itinerario pugliese, Cavallino, Biblioteca Gino Rizzo,  Aprile, Fra parola e new media, in Aprile F.-Caggiula C., La parola intermediale: un itinerario pugliese (atti del convegno), Cavallino, Biblioteca Gino Rizzo,  Cristo Caggiula, Intersezioni asemiche nel movimento di Arte Genetica, in Aprile F.-Caggiula C., La parola intermediale: un itinerario pugliese, Cavallino, Biblioteca Gino Rizzo,  Visual poetry: A short anthology, in utsanga, L'ortografia è morta. L'apparato pausativo, in utsanga, Testi di teoria letteraria/editoriale,  Codice Yem, le origini del linguaggio: ovvero la rifondazione della coppia, in utsanga, Letterarietà di Caruso, in utsanga, La poesia totale di Spatola/Il convegno di Celle Ligure, in utsanga Francesco Aprile, Il rapporto Dòdaro-Verri attraverso la critica, in utsanga Francesco Aprile, Dal modulo all'internet poetry, in utsanga, Aprile, L’Arte Genetica, in utsanga, Aprile, New Page: Narrativa, Poesia, Teatro, Scavi in store, in utsanga, Aprile, New Page: la poiesi come approccio etnografico, Cavallino, Biblioteca Gino Rizzo, Aprile, New Page, collana di critica letteraria, Sondrio, Edizioni CFR,  Intervista a Vincenzo Lagalla, Francesco Aprile, in utsanga Lamberto Pignotti, Introduzione, L'addio alle scene, Lecce, Argo,ora in utsanga Lamberto Pignotti, Rebus, iper-rebus. Parole da vedere, immagini da leggere, in utsanga, Caruso, Frammento, in utsanga Julien Blaine, Omaggio alla "O" in Francesco Saverio Dòdaro, in utsanga Ruggero Maggi, Dedica, utsanga Alessandro Laporta, cercarlo dove non appare, in utsanga, Mignani, Ghen against again. Risarcimento dei supporti o della signatura dei segni, in utsanga Egidio Marullo, F. S. Dòdaro. L'ultimo mentore, in utsanga  Omaggio, in utsanga  Cantata plurale, materiali 01, Caprarica di Lecce, Utsanga.  AP01-L0T30R0   g lift rhe mi domandate, U-»   [U quello che « svista, mi   Inon son pre molto ch’io mi   trovavo a risali   Filerò, in città-, ed ecco, . j.^^-jania da   staimi riaonosctoo J d.=«o ^ ^ H,,e-   ’ 1 fu/rirt™ 't-irràT ,t   punto poco fa, che ^ guita tra Agatone   contarmi la conversazione seg  e Socrate e Alcibiade ® ‘j discorsi, sai, di  allora parte al convito ^S)> ^ perché me gli  Amore; o che vi si disse C ^ ggntiti da Fe-  rapportati un altro che g detto che   nice, figliuol di Filippo (7)>    B       28    Convito    li conoscevi anche tu. Ora, egli non nii  dir nulla di chiaro. Sicché ridimmeli tu  tu sei proprio quello a cui si conviene rifèr’'''^  discorsi deir amico tuo. E per prima cosa, '  mi — domandò — a quella conversazione t-r;  _   Ed io gli risposi : — Si vede davvero, che di¬  te ne ha fatto il racconto, non t’ha rapporta/'  nulla di chiaro, se tu credi che la conversazióne  della quale mi chiedi, sia succeduta da poco  tanto che io ci avessi potuto essere. ’   Ma si.   0 come mai, Glaucone, — dissi io ; — o non  lo sai, che sono anni parecchi che Agatone non è  più tornato qui? Mentre da quando io ho dimesti¬  chezza con Socrate,' e ho fatto mia cura di sapere  giorno per giorno ciò ch’egli fa o dice, non  sono ancora passati tre anni: Prima giravo a  caso di qua e di là, e immaginandomi di far  qualcosa, ero l’uomo più misero del mondo,  non meno di te ora che credi di dover fare qua¬  lunque altra cosa piuttosto che filosofare.   E lui — Non celiare, — disse: ma dimmi:  quando ebbe luogo quella conversazione?   Ed io Mentre eravamo ancora ragazzi —■  risposi quando Agatone vinse per la prima  solta nella gara della tragedia, il giorno dopo  e ie egli e i coristi celebrarono il sacrifizio di  ringraziamento (8).   Un gran pezzo, dunque, si vede. Ma chi  'Socrate stesso?   B niVff-' ^ ~> ■“ 1“cl medesimo che a Fe-  un certo Aristodemo, Cidateneo, un omet-    73    29   !h“”"   ^ adatta a a‘s _   in t^'^'' ’ „ ai auei discorsi, C   ““'?'cosi »»'!»”■“> ''"'“rircipio, "O" P"?.   f. com« 'i'“''° "' ’^" t nUssario che io h   siccità’ Se duirque ta ^, >50 quanto   alla sprovvista. Cli 'O. ^   ! fuor di misura; ment q gente   1 discorsi, e in ispecie a e, me. e   ; acca e d’affari, e 1. ne ru ,   1 sento compassione ,,uUa. E forse,   pare di far qualcosa 1 gtimate me uno sfor-   c>»-.-"*jtrc-cdi«e il vero-, ,e  lunato; e credo, c ^-«do ma lo so.   non die io di voi non lo credo, ni   amico dici   Sei sempre lo stesso, Apollodor ^   sempre male e di te nic esimo ^^iseri, da  par propriamente, die tu £ di dove   :ratciii fuori, conlinciando * • io   ti sia venuto il soptamm ^osi   dnvvero ; ma cer       50    Convito    ne’ discorsi; aspro con te e coa-1! .   .... fu-    con Socrate. " ‘“'o fuorci,(, ^   APOLLODORO   E Già s’intende, carissimo; perchè ia  e di me e di voi, sono furioso e deUro^*”  AMICO   Non mette conto, Apollodoro, qugsj-  ora di ciò; però, quello di cui t’abbjan°”'"-‘^  chiesto, fòlio e non altrimenti, ma raccontac'i T  discorsi si fecero.     II    APOLLODORO   Furon su per giù di questo tenore. Ma piut¬  tosto (9) mi proverò a raccontarvi ogni cosa dal  principio, come quello fece a me.   Egli, dunque, mi raccontò, d’essersi incontrato  con Socrate, lavato (io), e anche calzato, cosa  che a Socrate non succedeva spesso (ii); e  d avergli domandato dove s’avviasse così rim¬  bellito; e quello gli rispondesse: A cena da Aga-  Olle. oiche ieri a’ sacrifizi del ringraziamento  0 scansai, per paura della gente; ma gli pro-   son ^   d» un bello Ma'em'   è il tur, r- disse, —che sentimento   tato? (12) mudare a una cena non invi-   ^d m — disse ..* .   vuoi. ■'•sposi: Quello che tu   perchè noi’si mm? fiFtese — anche   proverbio, sicché dica che      buono P^r guerriero, C   ”? aue«o '»■=“" ,otetò il ré*'»'"'’”   ^ ^he io, Socrate, cor presentarmi,   f»"''“£i,.» “"’= “Tcinvuó di un ,a-   ‘r;.«ona di P““.““°,ó- Guarda tu d,e m. D  uomo, non mvi^ ^hì;, quanto a  *0^,6 rveici non inviuro, bensì   italo da te. __ ^^nsuUerem V »»   ,::t:;tdi'ci6 “he .«=0,0 , dire, su, an-    III   Scambiate che si furono queste  narono. ' Ora, Socrate ^soenava,   siero, fermandosi per istrada, ^ ® che   gli ordinava di andar pure innanzi. trovò   quando fu giunto alla casa di Aga o ,   aperta la porta, e gli venne”incontro   caso ridicolo (i6). Perchè gh ^   Un ragazzo e lo condusse dove e »     32 . Convito i   giacere, e ii colse, che stavano per nf-  cenare (17). E appena Agatone T j   disse : O Aristodemo, tu arrivi in punt°°^ '"'sto  nare, s’intende, insieme con noi.  venuto per qualche altra cosa, rimettila  Anche ieri t’ho cercato per invitarti ^  m’ò riuscito di vederti in nessun luogo (ìst  come mai non ci conduci Socrate? '   Ed io — disse — mi voltai addietro e non • •  in nessun luogo Socrate che mi seguisse; Si  risposi che io ero venuto appunto con Socrate  invitato qui a cena da lui. ’   Hai fatto bene — ripigliò Agatone, ~  lui dov’ è ?   Dianzi, egli era per entrare dietro a me - 0  dov’è? Son tutto stupito.   Ragazzo, o non t’affretti a guardare,—riprese  Agatone — e non ci meni qui Socrate? e tu, Ari¬  stodemo, dice, sdraiati accanto a Erissimaco,   IV <    E, mentre il ragazzo gli lavava i piedi (19),  perchè si mettesse a giacere, un altro dei ragazzi,  raccontava, tornò annunziando, che questo So¬  crate, ritiratosi nel vestibolo della casia accanto,  se ne stava li fermo, e per quanto lui lo chia¬  masse, non era voluto entrare (20).   0 che strana cosa tu dicil — disse Aga¬  tone. 0, dunque, non lo chiami da capo (21)  e non seguiti?      Ma nientaffatto  lasciatelo stare.    — riferiva d’aver detto; —anzi  Perchè lui ha quest’usanza-;             33    D    dovunque si trovi,   ..•'‘“‘ira («"’"■ Ja las»»“'° ripresa   1» "’fs"-» » 1 dStènoùUsi. iP»:   ■“ M» "'’ÈbbePe.«Sf he vói volete, gi»e*“   tg»'°"'=7urittura ?rleervi-, il dte io «on   siedili fate COMO   ìSSU’’^’ . epoi mai • invitati da voi,   'C’ppe»” *'T *S°ve 11- eSble»" a l°to'-   ìttateci iti ssi principiarono a   c, raccontava, ess p ^„atone pm   ^ m Socrate "°^X'"socrate, ma Aristo-   è '■r^ór óhft.ie.ilopo «hmd»S‘“   .oaonlope™'* ,„a ,emte; s era   tanto lungo, con ^ Aratone- si.   che a mezzo della . Qua, So¬  piva solo a giacere ti ^   e _ disse idea sapiente, che   vXlo; giacchi. ^   ?::róhtóvó.a,euti-ip™'"'““"”   " mosso. ^ S.,rebbe pur bene, — dis-  • Socrate sede, e — Sa V  -Agatone , se la saptcì .   rete dal più P''™ t ,ei Wechtol l’«‘l“i'r  tdo ci tocchiamo; come p,u   „„ filo di latta, scotte ^ P'“ ^ j rosi, io  0 (,4). Chi, se 1'“'’= “*: forchi di molta  ;o molto lo starti a ’ ^jj,|,j,pito da te.  Ila sapienza io sarò, pcn sarebbe   tti, la mia, quando j. siccome un so-   -hina c disputabile, g'^c rigoglio la   mentre ò splcmhda e pien, ^   1., ITONE, Voi. /-Vt    Convito   tua, che da te ancor giovine ha sf„i  COSI gran Juce ed ha brillato diana^'® co  pm d. trentantila Elleni per testiSo?'*   Tu sei un impertinente, Socrat ^’ 5 ). ‘  Agatone; —se non che questa dell^. f'^Ose .  quistione che decideremo anch’essr  qui a poco (26), prendendo Dioniso^”  ce (27); ora, per prima cosa, mettif^'^'^   “ a cena.    176     _ Dopo ciò, raccontava, Socrate si mettessi-  giacere ; e quando lui e gli altri ebber finito a -  cenare, facessero le libarioui, e cantato l’innò  all Iddio, e compita ogni altra cerimonia ('28') si  voltassero al bere; ma qui Pausania principisi  a parlare in questo tenore:   Bene sta, amici — disse — come faremo a  bere fi p,u a comodo? Io vi so dire in ve-  ità che mi sento molto aggravato dal bere di   cri.*' "POSO, e cosi,   vate ’ ’ g'^^chò jeri ci era-   bere •! in che modo potremmo   bere fi pm a comodo.   bene rispose : — Di ciò tu dici certo   nel bere"“''"'^. ‘comodità   •li jeri ' vocile io sono degli annaffiati   ■^euiiieno ^^“tito Erissimaco figliuolo di   uùa cfsf ~ bene davvero;   si sente in fnr,,'”* ‘f°gna sapere da voi, come  per bere Agatone?     c    35   _ neanclie io   ^rispos^^' ^   f““^oC.„.„--rep«‘'>®Sre’p«   (tra» per me e po ne   una . ^„3tra, P .entissrmt ne   rci''’^ • se v°' ’ ' } • ntianto a nor > „   ci alto. perche, q^t^n ^i m   t strac"'''Socrate e aU’altra,   :>:rradatto ^'7:,n."to, delP-i,  si chiamerà dunque,   li arante^ o 1 altra. • g-i senta vogha   ? a eh nessuno tie’fcse^   Olfo vi.», ? r*= sia vai.™- ^   * ° aire la medicina La ta«o   %5lS'3sri-"   giorno innanzi. j^pse Fedro   acanto a me, " di obbedirti,   prendendola parola   massime, in . ;';^bediranno anche gh altri,   medicina; ma ora ti odo  se si consigliano bene. unti di non   Sentite queste della lor rm-   fare dell’ubriacarsi il ^ piacere ( 29 )’   nionc, ma di bere cos   VI   ^ poiché s’e   Or bene, - ripigliai ^'"'^^'"Jo^.pole, e non a  deciso che ciascuno beva q _ pp’ altri   sia nulla di forzato, fo dopo    E        77    5 6 Convito   proposta; cd è che si congedi la son •  trata or ora; lei suoni per conto suo"^''®  piace, alle donne di dentro, e noi si n’ °  il nostro tempo a conversare. E su qn^p  getti, se siete contenti, ve lo proporrei•’   AI che tutti diceva acconsentissero c 1°'  tasserò a fare la sua proposta; sicché Eriss'  riprendesse: — II principio del mio disco^r!  conforme alla Menalippe di Euripide (30) • h >  non è mia, bensì di questo Fedro qui, la /  che son per dire. Fedro, di fatti, se'ne lag  sempre meco. Non è intollerabile, dice, 0 Eris''  siraaco, che ad altri Dii si sian composti da’ poeti  inni e peani (31), e all’Amore, che è cosi antico  e cotanto Iddio, nessun poeta mai, di tanti che  B ce n’è stati, abbia composto un elogio; aiui  se vuoi guardie a quei bravi sofisti, scrivano’  si, gli elogi di Ercole e di altri eroi in prosa  per esempio l’eccellentissimo Prodico (32); è  questa è anche meno da stupire, ma io stesso mi  sono g.à imbattuto in un libro d’un sapien-  l’mTfA’ lodato soprammodo per   c drpcV simili cose tu ne ve-   conto 'Tiolte.(33). Fare un cosi gran   al mond ^ l’Amore, nessun uomo   <i“esto inneggiarlo fino a   così! (ir') n ' Uu tanto Iddio trascurato   «n ragione ’ Fhk^   ^'PPosgio (36) e\l'l"’-'°   „ P‘*'’e, che nelli „ ^ ^ ‘ e insieme mi   ''°1 che siamo occasione s’addica, a   . se pare eli l’ecidio. Sic-   =>nchca voi, c’intratterremo        37   Erissi"'^‘'°;rLrto l^on ti direi di  ó»®.ri»' Ù™^™ì di niente   sostengo di «ot j, Agatone c   ® ,U amore U?-» .-^„fone.    t,e sostengo u. . . ^gaiuL^v- -   ^ '°’ fi di cose di Vende, Aristofane,   ! e neanche, /,8), nè alcun altro E   Mutto Dioniso e A to 1 ^^unque la par¬  afa io vedo qui. f Jo l'ultimo   CsiaP-VP-ritrimi avranno detto    ,.tiPlU Clic . Ug auDiuiiw   ;’n.« rie peri P« iranno detto   nsto- se non che, _ , Su via, con   bbastanz» oa (S)’   ,uona fortuna C39;> P   'Amore. . assentirono tutti, e fe-   A ciò anche gh Però, di tutte   cero lo stesso invito di Aristodemo si ri-   le cose che omscun > „,ia, di   cordava appuntino, t° P_^ P^^   tutte quelle che npet* _ ' ehe a me parve   di memoria e i discorsi d quelli c  fossero tali, un per uno (.qOA    178    VII   discorso di FEDRO   , a-,co raccontava che   E per il primo, come dm ,   Fedro cominciasse a un n maravighoso tra   grande Iddio fosse l’Amore, e mar        3 ® • r*   Convito   gli uomini e tra d;:   7 '“   B 1 essere tra i più antichi T la- g’^   Amore ni vi sono, ni si citano j, ''S'"itotì di  nè prosatore nè poeta; Està  prima fosse il Caos, dice,    nni I ^ terra   Dal largo petto, d'ogni cosa sede'  In eterno sicura e Amor ( 42 ).    Afferma, che dopo il Caos queste dn.  nascessero, Terra e Amore. Pannenide  che la Generazione (43)   Pnraissimo l’Amor di tuttiquanti  Iddìi pensò.   ^ con Esiodo s’accorda Acusileo ; da tante   i'chiss°“''''"'- antichissimo.   Antichissimo, poi, com’egli è. ci è causa dei   nulfa^dr ’Op eli certo, non so   di un appena giovine giovi più   diunorr”!-^^' ^ all’amante   viro di tri ^^PPoichè ciò che deve ser-   '’ene Qiip f * intera vita a chi sia per viverla  la ricchezza” Parentela, nè gli onori, nè   benencll’nn* ^ "'ont altro può insinuarlo cosi  tiuesto? La'”° come l’Amore. Ora, che è egli  'azione nei brutti, l’emu-   * nè privato qualità nè    C‘tlà nè privato • ' v—*.. «u,. ijuam.i *■>   c belle Opere pui S^ado di compiere grandi  i o ' ac è tróv affermo che un uomo   ^ *°"crarla da ^ qualche brutta cosa  ti senza difendersi per vi    1/9    39   Convito   hcri«.''° ^ dagU amici nc n^c-   che egli soprattutto da E   li^ ,/da ^i-U’amato, che ^ Q^to   vediamo neh , d esser   feria' Pantano, n.i Sechi:, se aie«   > ‘" vi »'*   '(•«f ts. P"*» Ji »■"»>•;.   iiez^a esercito si c P modo di reg   T^’non ci i-orc di quello di co-   n uS»‘■“‘‘"tre I Sauendo gli   11 ” ' i;c=r;bbcro, s.o pe, dire,   li accanto a„ ^mjni tutti quanti ( 44 )-  Idre in ponW S'' esser sdsro disertsre   i,è un nonio che * ■’/.e'» lo ammetterebbe   Vsr» » * he eWrrrrriue nitro i   1.,,. persoir» "direbbe morire più volre^   ; prima che questo, ^ in un pencolo   I serro, «bbnmlo"«r^„"„” „ ehe   aon dargli ajuto, no .^g^be d’un divino   l’Amore di per se P di pm va-   spirito di virtù da che Omero B   lorosa indole (46). E, coraggio m   dice (47), nvere un Idd P^ ^p,,ato   taluni croi, questo 1 An  da lui negli amanti.   Vili   fi sono disposti a  E si, che soli . 8 " “"Xe uomini, r"»”*'’  morire per sli-^i"?''^'’testimonianza, quanto  le donne. E di ciò ( 4 ^) ‘ ,-,inla di Pelio, che  basta, agli Elleui Alceste Sglmola      40 Convilo   C sola consenti a morire per il marito s  pure aveva padre e madre; i quali essa, pe°f  d’amore, tanto superò nell’affetto da farl-°*^^‘^  rere estranei al figliuolo, e non appartenen  lui che per il nome. E per aver compiuto a ^  st’atto, parve n’avesse compiuto un cosi bei['  agli uomini e agli Dei, che, avendo pur niohi  compiuto molti e belli atti, ad assai ben pochi det  tero gli Dei quest’onore, di ricondurne quassù  l’aninia daH’Inferno, ma la sua la ricondussero  D compiaciuti dell’atto suo. Tanto anche gli Dg;  pregiano sopra ogni altra l’osservanza e la virtù  di Amore (49). Invece, Orfeo, figliuolo di lagro,  lo rimandarono via dall’inferno a mani vuote  mostrandogli un fantasma della donna per la  quale era disceso, anziché dargli questa stessa,  poiché, come un citaredo che era, s’era chiarito  di animo molle, e gli era mancato l’ardire di  morire di amore come Alceste, anzi s’era inge¬  gnato d’entrare vivo nell’inferno. Sicché per  questo gl’inflissero una pena, e lo fecero mo-  E rirc per mano di donne (50); in quella vece  Achille, figliuolo di Tetide, onorarono e man¬  darono alle isole de’ beati (51) ; perché egli, sa¬  puto dalla madre, che, se avesse ucciso Ettore,  sarebbe morto, dove, non uccidendolo, avrebbe,  tornato a casa, finito vecchio i suoi giorni (52),  80 osò prescegliere, andando in ajuto a Patroclo  amante suo e traendone vendetta, non solo mo¬  rire per lui, ma soprammorire(53) ^ lui già uscito   * causa gli Dei, soprammodo   anci essi compiaciuti di lui, l’onorarono partico-  rmente, perchè egli aveva tenuto in cosi gran           41   Conv‘‘<’ racconta fia-   Bd Escbf "^\„,ante di   i o^di Patrono era  te?'®? col d>*’‘=’ non solo -j^n.   :!^àoi^^\fdcgy^ ^ZXo^to, come dice   %eUe> giovi»® ^Lhe‘-llE>cio»o’'^”°   :> “ amare; per6   0""°‘n arato >1“““ „uage dell’amante, an   :.3"‘ ''“mv *0 a f   r»“''”ri 17) E P« “? Setok de’beati.   - » S^te^idS   ret ato e in morte W).    IX    Di questo tenore /“ùssero termi altri ehe  „. , dopo im ei li saltando recr-   ,sìrieordav.gran ta m. ’.j^„,l, dicesse,  a il discorso di t'ausa    oisoonsQ m    DlSCUi<e2>v   \ e ci si sin   lon bene, o Eetoo- ^ P-'J,èssere  ,osto il soggetto f ^ i,re Amore. Foi  plicemcnte invitati ad elog^^^^^e bene , ma  %e l’Amore fosse uno^^^ ,gU uno,   0, e’ non è uno. or ,       n    lSi    Convito   coiivieii meglio dire prima qual^ i •  amndi io „,i sforzerà a corregge^  cloanrc quale Aurore bisogna lodare P-i»;  ,n erodo degno dell'Iddio. Perche ,m’,f‘“"•d.  che Afrodite non è senza Amore PP'=''^o  fosse una, uno sarebbe Amore-  due C6o), anche due è necessità che ^  siano ( 60 . E come non son due le De ?  più antica e senza madre, figliuola di Ciel„  appunto nominiamo celeste - l’altra  da Giove e Dione, che appuntò chiamTainr^l  gare (62). Quindi, è necessario, l’Amore J  deU’una, chiamarlo a buona ragione volcrare ^1°  leste l’altro. ^   Ora, gli Dei si devono bensì lodare tutti (6A-  pure, ci si deve provare a dire le qualità sortite  da ciascuno dei due. Imperocché (64) ogni  azione ha questa natura; di per sè nè buona è  ne cattiva. Ciò per esempio che noi facciamo  o il bere 0 il cantare o il discorrere, son cose  di cui buona non è per sè stessa nessuna; ma  ne -tra, per il modo com’è fatta, riesce tale;  perche fatta bene e rettamente diventa buona,   così appunto l’amare  im ^ buono c degno d’elogio;   quello che bene incita ad amare (65).    L’Amore,  veracemente   •icello con cui    ^ veracenii  quello CC   IL    X   adunque dell’Afrodite volgare è  vo gare, e opera a caso; ed esso è  amano gli uomini abbietti. Amano      cUc i S'O'.   iricoo 1*^ ^ piuttosto I   costo^°''%i che più stoUa-   c P‘='^ ^àrdavtdo che a sod-  o non ng^'^^'^Xintenù. Onde   Dtr' i,e P°^^°\orc, se V occasione,   sen'-"'’"'^ ,cUo di cn' ' il contra-   fa"”®’ //>! ^Perocché es ^p\\’altra, e   p.<-   oca ( 67 ) „„iH nascita sua celeste da   contro >’A'".“'%Tfe«,mto, .00   ■"“t'p * "“"tési" 0 poi   cruna e „,aschio (68) > P appunto si rivol   5°"'"'° li lascivia ( 69 ) •• prediligendo   "““dtscl.io 8Vispi.“^Tme8'lo «lofo   , fc per natura pw forte  iigenaa. ^ ^l'^^^^rnte riconoscere jelh   ‘T afooo® i,c“oaiotcn- 1>   t®""' “Scindono gii “'"“?„'lata.'>r>-   “ Sfitto,SO«g.-J»;jSrrro««»   pcchò q»o»i. frisoUtto 0 ot»«   ad amare, sono P““""„„„,e l’intera '.to.  col tancinllo e vvere n co orto   e non gii,dopo «'f»;»;” “óra di senno ,0.  come giovine, co P uotsi di corsa  prendersi beffe di 1». = 'ol ,,,o, fan   altro. Vi dovrebbe ““'' "on fosse i" «“ *   cMli non si amino r afffncbl n^^,,^ ^ a   cosa spesa di mo ta cuta^ P .poanto a ' "0   fine dei tandnlli dove 6»“ ’ ora. >   e virtù d’animo e d. corpo         Convito   mettono essi questa legge a sè  proprio volere; se non che bi‘sogneS‘ lor  cotesti amanti volgari, come appunta  ,82 il pm che per noi si possa, a non .  libere (73). Chò essi son quelli  volto l’amore in vituperio, tanto che tal  dire che turpe cosa sia il gratificare T  ti C74). E dicon così, avendo l’occhio V  di cui vedono l’intempestività (75) ed  poiché, di certo, nessun atto compiuto ordin  mente e conforme alla legge potrebbe co.rrT  gione arrecare biasimo.   E appunto (76) la legge (77), che governa  1 amore nelle altre città, è Exdle ad intendersi    poiché nei! concetto uno solo ; ma qui (78)  varia. Dappoiché nell’Elide e nella Beozia e    dove non sanno ragionare, unica legge è questa  che é bene gratificare gli amanti, e nessuno^  nè giovine nè vecchio, direbbe che sia male ; af¬  finchè, credo, non abbiano a durar fatica a per¬  suadere i giovani con ragioni, inabili come'sono  ^ ragionare (79) ; invece, in molti luoghi di Ionia,  c m molti altri è riputata cosa turpe, tra quelli  lutti che son soggetti a’ barbari (80). Di fatti,  Ira 1 arbari, per ragione delle tirannidi, si reputa  ^ turpe questo, e così ancora ogni studio di sa¬  pienza e di ginnastica (81). Poiché quivi, m’im-  giova a chi governa, che si gene-  o alterigie grandi nè amicizie   d’offnt g^giiarde, quello che, non meno  prattuttn l’Amore so-   ’^sperienzrfirr^^^' ii^parato per   ini anche di qui; chò l’amore di       45   ^ -.rnona- Cosi dove   disciolse la lor sig ^^^^fjcare gli  salda, di cosa sia il g ^,.^,,c7.^a   r SSo delUsoverchlena   jiriaa^'’ ' l’hanno effemminatezza dei   dei quella vece, dov^_ a   sia in ^n«n V.cposto hanno (84)-   "fo di quelli che cosi dispo^ p.,   bella, e com   XI   I,uperocchè (85) chi   nJii bello r amare aper ottimi,   :s„!esop„«»«o>£frs C 80 -. e   ancorché sieno pm cabile incoraggia-   "altra parte, chi -a nqualcosa   mento da tutti, (87) un innamo-   dibrutto; c che il co brutto, e la   rato par bello, non cO q lode,   legge ha dato licenza a chi j quah,   ;?ndo sia per conquistar^ ;«^\,„que altra   chi osasse fare per correr raccoglierebbe   ca da '“'dfppoUtó, s= P“ ''^   i maggiori biasimi,-•• , q q averne u   di cavar denaro a qualc^'^J^ ^solvesse   fido (90) o un altro g^Jo I 9 amati, 1   a fare quello che g > un  quali nelle lor richieste ‘ dormite sulle   implorazioni e giuramenti C 9 i)       B    D    46   (94), e servono "" '   servo tollererebbe serv,v   ^ dagli ann-ci e’daC,'''  sua adulazione e abL ‘^“elli vJ  monendolo e arr^ ^“'^'ezione fq.x '“Petatid!   f-- «li cosrreT"'' “«*= ■.?«>-   «li i- P=rn.«„ Sr,^   «me a q„dIo che effetti L '   ^«to. E il pii, tecribile“"r'"“ '■'"“S  a meno dice )a geme, s„,o J,,? “■”' 'l«, co».   gli_ Dei perdonano, se trasgredisci  poiché giuramento Afrodisio i   f^( 96 ). CosihannoefhDefri,°"""°"«‘-   licenza accordato a chi ama ogni   legge di qui. Da questo lato   terrebbe, che nella citf\ nn«t* ’• ' ““*1“®’ “«o n-   e l’amore7- ‘'"''«simo   e amore e il mostrarsi amici agli amanti. Ma   Jlh VV’ P^dri, preponendo peda-   S g I C97) 3 gh amati, non permettono che di¬  scorrano cogli amanti (98), e i coetanei e gli  amici (99) \ itnperano quando vedano succedere  qualcosa di simile, e i vecchi, d’altronde, non  inter icono cotesti censori, nè Ji biasimano, come  se non dicessero giusto, uno, che per opposto  ^ardi^ a tutto ciò, stimerebbe che qui una simile  cosa si reputi bruttissima. Ebbene, la cosa, credo  IO, sta così ; non è a mi solo modo ; eh’ è ciò  e ie s è appunto detto in principio, eh’essa non  sia bella nè brutta; ma fatta bellamente bella,  ruttaniente brutta (100). Ora, bruttamente è,  belT^ ° gratifichi un malvagio e in malo modo;  niodo^'^'^p'^* quando un uomo probo e in probo  malvagio è quell’amante volgare, che    47    Convi‘0 „on   L» i « r<‘>'"^^' „;, la »ìia. P»''"'^ * '   1*** • /Ilfscors* f fprmo Ip IpfTffC    l>    ' nresto, perchè s'   L' r esser preso p crrutinitore, *   truuo 1 esse p scruti   tempo — Aprp da denari e ua- P   l ' òl il lasciarsi prendere da s, sgo-   ;;Ucii è brutto, sia eh (loa) non   menti e non resista, s^ e par   disprezzi. senza dire che da   cJ sia nè ferma nè stabile, s .^^Ha   i «sauna nobile “rbellan.entc deve   leiTge nostra una sola y Dappoiché a noi   Saio gratificale "n.i (io,) d   questa è la legge; ^'f°"^^Vrervitù verso l’amato   servire spontanei qualunq ^^ulazione, cosi   s’è concluso, che non ,està non vitupe-   un’ altra servitù sola spon * oggetto-   rcvole, quella che ha la v'rtn p        48    Convito   XII    Chò appunto ò ammesso n  quando uno si risolva a niH ^ ‘ii noi ,  perchè egli creda di diventa^r^m" ài',''-   di lui o in sapienza o in qualun ^   virtù (104), questa servitù spontanea no"   pur essa brutta, nè sia piaggeria ?• ?" "«P-   queste due leggi, - quelf ch^ regf/?   « dei fanciulli e quella che regge Pai  sapienza e di ogni altra virtù (foj) IT4  correre al medesimo, chi voglia che to™^?'  Il compiacere l’amato all’amante. Chè qual?  insieme s’incontrino l’amante e l’amato, ree nt  ciascuno la sua legge - quello che qualunque  servizio egli renda agli amati che lolompTc!  ciono, giustamente lo renda, questo, che a chi  sapiente lo faccia e buono, qualunque ufficio egli  presti, giustamente lo presti (106), e l’uno, po¬  tente d’intelligenza e d’ogni altra virtù, ne dia,  a tro manchevole in coltura e in ogni altra sa¬  pienza, ne acquisti (107), — allora si, queste due  concorrendo in uno, egli accade, e sol-  tamo cosi, che bello sia il compiacere l’amato  all amante, ma in altro caso no (108). In que¬  sto, persino il trovarsi ingannato non è punto  85 • ùi ogni altro, o che tu sia ingannato 0   ^,0. ti porta bruttura. Perchè, se uno che a\-  ricco avesse per ragion di ricchezza  perto*i?'"'^°’ ^™vasse deluso per essersi sco-  n^en brutto^-^'^^ Povero, non perciò gli sarebbe  ’ perchè un siffatto uomo dà a di-    B    49   I anin .0 suo. a>ep«   perché buono c P .j„y;ore egU stesso,   diluì diventare   Lll’»'"'^ ' poi deluso, P bello l’ÌBga’^’^°’   anche questi da a divede^_^^^ ^   I,£t«0 V P™"“ “ ^T'r^   ''^.1 diventare mighore 5 ^-^.^ontro, e la   ‘ • ter chicchessia; e quest . bello per   *'. ?ella cosa di tutte. Cosi,   £ di virtù comptacere ^ Celeste,   I '"Questi ù r Autore della D   1 di gran pregio alla \ amante   ' ài .Uri»"-»"   sopra dì st q“»"“ ' volgare. E qaesK   sono dell’ultra Deu.d ^ all’improvviso   sono, 0 Fedro, le ’ ^ er la mia parte.   intorno all’a\more IO t arreco p   „ aiacchè i sapienti   Fatto pausa assonanze - avrebbe   m’insegnano a fare di q a. ^ere Aristofane;   dovuto, disse Aristodemo discorre ^  se non che gli era o per _ p ^  altra causa venuto il • ^aco il medico: --   di parlare, sicché disse ^ ^^i — O EriS’si-   questi giaceva nel letto op cessare (m)   maco, il dover tuo e ^naié   il singhiozzo, o di P^^' Erissimaco rispose;  non mi sia cessato „..rché parlerò m   E io farò tutteddue le cose, l ^   Platone, Voi. ì X-     so    Convito      n'» ™cc, c  sato, in vece mia, p „pi , SP'onao li .  guarda se il f P» che ì« jg r«.   nendo ,1 fiato per „„ peaaetto .t”S'   E gargarismi coll’acqua. Se "o. fa'^   lascia vincere, e   letichi il naso e starnutisci ; e quando ®ol-   qiiesto una volta o due, ti cesserà   molto forte. _ O parla d„„,re   Stofane — io farò così. ^n-    XIII   Discorso di Erissimaco   Ed Erissimaco principiò a dire : — Dunque,  siccome Pausania, prese bene le mosse del di-  i86 scorso suo, non l’ba compiuto a dovere, mi par  necessario che io mi deva provare a metter la  fine al discorso. Di fatti, che l’Amore sia duplice,  pare a me si sia distinto bene; però, eh’esso  non risieda soltanto negli animi umani nè abbia  soltanto i belli per oggetto, ma molti altri siano  gli oggetti suoi, e risieda anche altrove, nei corpi,  cioè, di tutti quanti gli animali, e nelle piante  della terra, e per dir cosi, in ogni cosa che  viva, a me pare averlo appreso dalla medicina,  1 arte nostra, come grande e maraviglioso Iddio  egli sia, c a tutto si distenda e per le umane e  le divine cose(ii2). E comincierò a dire dalla  medicina, anche per fare onore all’arte. La  natura dei corpi ha il duplice amore aneli’essa,  cd è questo: il sano nel corpo e l’ammalato       Convito 5 *   .-no per consenso di tutti, cosa diversa e dissi-  rnile- e il dissimile desidera ed ama cose dissi¬  di i • sicché altro è l’amore che ha sede nel sano.   -Itrò t quello che nell’ammalato. Siccome,  dunque, secondo ha detto or ora Pausama e  bene gratificare i buoni tra gli uomini, male i  Snaiosi; e cosi anche ne’corpi é bene grati¬  ficare quanto v’é di buono e di sano in ciascun  Spo e si deve, - e questo fe ciò che si chiama  arte medica - e invece male il gratificare quanto  v’é di cattivo e di morboso, e gli si ^^«ve far   brS 0 amore, questi è l’uomo sopra tutu inten¬  derne d medicina. E chi sa farli mutare, in modo  dm in ricambio di un amore si acquisti J  • Mi; ;n cui l’amore non sia, ma bi-  tro, e in farcelo nascere, o, quando   sogni generarlo. , -uesti sarebbe davvero   un valente artenc • i,- ip rose che vi sono   di "f7^°^n-unaanù l’altra (lU)-   nemicissime, e la -nnnste il freddo   0 „ «U»™»»'» 'X(UI),   = 'vi» vi. «-sr aX «   tra tali „„asti(ii7) PO^ti ed   pio(n6), secondo la   L credo, dico io, è   T ,.a\rco.«» r=   gìnnaSca O'ii e l’agricoltura. La musica poi.      Convito'   per poco che ci si badi, si vede chi.  stesso tenore, come forse anche p ’deiu  .87 dire;chè, quanto alle parole, egh^n ”  me bene. Giacché dice che l’uno  si accorda con sé, come armonia  lira (119). Ora, é grande assurdità 17 ° «i'  un’armonia discordi n rieri,,: j. “"’c, che    B    discordanti.    tuttora    derivi da cose tu  Se non che forse voleva dir  sto, eh’essa nasca dall’ acuto e grave discordi;  priiTiii e dopo consenzienti per opera dell* *  musicale; ché, certo, armonia non nascerebb"^  dall’acuto e grave discordanti tuttora; ché ar¬  monia é consonanza, e consonanza é un con¬  senso; ora, consenso è impossibile che provenga  da cose discordanti, finché discordano; e quello  d’altra parte, che discorda e non consente, è  impossibile che armonizzi : appunto come il ritmo  nasce dal veloce e dal lento, discordanti da prima  e poi consenzienti. In tutte queste cose é la mu¬  sica quella che mette il consenso, come in quelle  altre la medicina, generandovi un amore e con¬  cordia vicendevole. Sicché la musica, alla sua  volta, é scienza dell’amoroso nell’armonia enei  ritmo (120). E nella composizione stessa dell’ar¬  monia e del ritmo non è punto difficile discernere  l’amoroso, né costì v’è il duplice amore (121):  ma quando bisogni usare del ritmo e dell’armonia  cogli uomini (122), sia componendo, — che e  quello che chiamano niclopea — sia usando ret¬  tamente di melodie e metri (123) composti (124)  ciò che s’é detto educniione (^12^) — qui  c é la difficoltà e c’ é bisogno di buono artefice.  Poiché torna da capo lo stesso discorso, che gl>      Convito   fine che diventino più  uomini J non son tali in tutto (126),   perbene quelli che « tenerlo caro, e   bisogna_ gffceleste, l’amore della ce- E   invece quello di Polimnia(i 28 )   leste Musa Ci 7 j> jj deve amministrar con   t il volgare, n qnm ci col<»a bensì   cautela a chi 3’, ?n-eneti punu incon-   11 nostrale gran cosa l’usar   tinenza, i-ome nei -scinte dall’arte della   rettamente nè colga il piacere   .cucina, per modo e nella musica   : dJsrdS’1=“-™-'^ ■“   X.IV   ^'^enl^l^X'ddu^qtes\e indura-^  JlTrquando le co^   caldo e il freddo, coll’altra, e for-   in un «''^“^■‘'^“.''““' ontempéranza sapiente.  nVmo un’armonia e una coma ^   vengono apporta ne ^ pinate, e   agli uoniiiu c ‘ «nrln in quella vece   non fanno punto diventa il più fo«e   rumore infetto di molte cose c fa   nelle stagioni dell ann ^ jogUono esser generate  danno. Di lam» P malattie diverse   d. ..di cagiom. d.■"<>, “ le piade; c 1»  tanto negli aiiiniali c _gù« miscono dal   brinato = 1= '';„"„*Labpr0PP“^^^^   V accesso e disordine risp      54    Convito   amorose, la cui scienza de'  jielle stagioni degli anni si' c1h;‘ as^i ^   Di pu. ancora, ci sacrili.! tutti e  presiede I arte divinatoria, p ■ ® a cui  vicendevole comunione degli dei'èoar'a  non hanno altro oggetto, se non Pose.  risanamento (i 30) di Amore. Chè “ >'   suol generarsi, quando uno non grati£  ordinato, e onora e venera in ogni suo  questo, ma l’altro (131), si rispetto  o VIVI 0 morti, si rispetto agli Dei; dove aT  punto è commesso all’arte divinatoria di vigilare  gli amori (132) e sanare; sicché, da capo, 1>arie  divinatoria è operatrice di amicizia tra gli Dj!  c gli uomini mediante la scienza di quali tra le  propensioni amorose di questi tendono al le¬  cito (155) e quali all’empietà (i 34).   Cosi molteplice e grande, anzi, in breve, una  universale potenza ha ogni Amore; però la mag¬  gior potenza la possiede, si presso noi e si presso  gli Dei, quello la cui sodisfazione è nel bene ac¬  compagnato di sapienza e giustizia (135) ; esso  appresta ogni felicità, e ci mette in grado di  convivere gli uni cogli altri e diventare anche  amici agli Dei, migliori di noi. Ora, ancor  io (136) forse nel lodare Amore tralascio molte  cose, non però di proposito. Ma se ho trala¬  sciato qualcosa, spetta a te, Aristofane, di sup¬  plire; o se tu hai in mente d’elogiare l’Iddio in  qualche altro modo, e tu 1’ elogia ; ché ti é anche  cessato il singhiozzo.   Q.UÌ, Aristofane, presa la parola, cominciò)  raccontava, a dire: Si, è appunto cessato, non       Convito '   • file io ali abbia applicato lo star-   ■: richiedi iili roihoti e ptent, quii l   tr ;Ó Lrnu.0 (.,7). Pd"» ‘ ’W'”   ho dppliccto lo su,™».   “ «c nW - g«»“p » 1“"“ d"'   ';“';'i "™“rl sV 'per cominci»™ » P»*'" >“ '   Tu burli, man ^ ^j^ella al discorso tuo,   ’^ioTcX Vdire' qualcosa di ridicolo, mentre ^   avresti potuto parlare bene,   E Aristofane, ridendo, "P istare   Erissimaco, e sia per non   a farmi che me n esca   SI stanno per . che sarebbe un gua-   rg“o to’S;.™ »>i» «'“»   _ e or» cedi di f“p 'dj ('»>  r:.:o„rpdrrr.rm-.p».Mn.»»d  stare.   XV   Discorso di Aristofake   cominciò a dire  E in vero, ménte di discorrere in   Aristofane — lO q^jella che tu e   una maniera diversa ^ pare che gh   Pansini» «die fitto. pottor»   uomini non abbiano pu      Convito   di Amore, chè. se l’avessero con,„  mnakato in onorsuo i maggiori '""fcbbcf,  e celebrato i maggiori sacd£i, noS  che di tutto questo non gli si fa  SI dovrebbe fare più che altra cosa /   D Perchè è, tra gli Dei, il più amico dcel  essendo soccorritore loro, e medico di ^  dalla cui guarigione deriverebbe la felicur  giore al genere umano. Io, adunque, mi sCf^ .  a dimostrarvi la potenza di lui, e voi ne sarct  maestri agli altri. Ma vi bisogna per prima cosi  intendere la natura umana, e i casi di essa. Ab  antico, di fatti, la natura nostra non era quella  medesima d’ora, bensì diversa. Chè da prima  E erano tre i sessi umani, non due, come ora, ma¬  schio e femmina; ma vi se ne aggiungeva un  terzo, partecipante di tutteddue questi, del quale  resta oggi il nome, ma esso stesso è scomparso.  Allora, di fatti, v’era e la specie e il nome  uomo-donna che partecipava di tutteddue, ma¬  schio e femmina ; ora non ne resta che il nome  a vituperio (141). Di poi, l’intera figura (142)  di ciascuna persona era rotonda, colle spalle e  i fianchi tutt’intorno, e di mani n’aveva quat¬  tro, c gambe quante le mani, e sul collo tondo  due visi, simili da ogni parte ; su ciascuno poi  de’ due visi posti 1’ uno di rincontro all’ altro una  ‘90 sola testa (143), e quattro orecchi, e due mem¬  bri, e il rimanente, quale da ciò si può con¬  getturare. Camminava poi si ritto, come ora,  per il verso che voleva, e si quando si metteva  a correre, reggendosi sulle sue otto membra  andava via lesto facendo la rota, a modo di    57   Convito   quelli che, \MssT,'’poi.«=^"° ^   s"’ "Xchè il Maschio fu in origine pro-   tre e siffatti, p , della terra, e il terzo   genie del sole, ^ ^^eddue, della luna, giac¬  che partecipava “ d’i quello e di que-   sta (145)- "^^gVianza co’loro progenitori,   cammino, per ® ® terribili per forza e per   Sicché in principio grandi e assalirono   gli Dei.    XVI   r .litri Dei si consultarono  Sicché Giove e g i ^ stavano   che cosa occorresse loro^dj   in dubbio ; che nc a fulminarla   nt di farne J“"P^""^^^bhero scomparsi insieme  come t celebrati dagli uomim; e   gli onori, e 1 ‘ imoerversare. Infine,   „ea„d,= volevano If “f 'X" ,4 _ E' mi pa-  Giove si formò a fané. uomini esi-   re — disse — avere un LholffU?). cessino  stano e insieme, P"ra - disse - H spar-   dalla petulanza. Giacdr   tirò ciascuno m dtie, ^ noi per-   ranno pib deboli, e mstenmj^^^^.^^^^^^^ diritti  ché cresciuti di nunier^ , . ^j^e conti-   sopra due gambe. Ght P    Convito    58   luiino a imperversare, e non vogliano stare  quilli, e io, — disse, — li segherò da capo**'''  due, sicché cammineranno sopra una gamba s 7  saltellando (148). E detto questo, tagliò gli ° ®  mini per il mezzo, come quelli che tagliano ]  sorbe per salarle 0 quelli che tagliati le povj  E col capello (149): e a quelli che tagliava, co¬  mandava ad Apollo (150) di girargli il viso, c  metà del collo dalla parte del taglio, peròhù  r uomo, guardando il taglio fatto di lui, si con¬  ducesse con pili misura; il resto lo medicasse.   E Apollo girò il viso, c col tirare da ogni parte  la pelle verso il ventre, come si chiama ora, vi  fece, a modo delle borse a nodo scorsoio, una  sola bocca, c la legò nel mezzo del ventre,  tgi quello che si dice ora l’ombelico. E le altre  grinze — ve n’ era rimaste tante — le spianò, e  rassettò le costole, servendosi di un istrumento,  su per giù come quello dei calzolai nello spianare  sulla forma le grinze delle pelli, e ne lasciò al¬  cune poche, nel ventre e nell’ombelico, per ri¬  cordo dell’antica jattura. Or bene, quando la  creatura umana fu tagliata per il mezzo, ciascuna  metà desiderando l’altra le si faceva incon-  gittandole attorno le braccia, e av¬  viticchiandosi runa all’altra, poiché si strugge-  H vano di risaldarsi, morivano di fame e d’ogni  altra sorta d’ozio per non voler fare nulla l’unO  senza dell’altro. E ogni volta che una delle  metà morisse, e l’altra sopravvivesse, la soprav¬  vissuta ne ricercava un’altra c le si avviticchiava)  0 che s’imbattesse in una metà d’una intera  onna, — quella ^i^g chiamiamo donna      59   „ Mio,. Giove,   „„ «omo; 0 “   ° I o '' ^ «li* • oerchc sino   avendo»® oonip pudende, pej   "°rfn terra, come le che me-   Sin^e, così sul negli nlm,   diante quelle la femmina (i 5 S)   niediame .tll’abbraccio. se un uomo   con questo fine, eh onerasse, e la specie   s> imbatteva J^ttesse maschio con   esistesse, e se im ^^are insieme,   maschio, venisse 1°’'° ^ a operare.epren-   e smettessero, e si rnolg dulia vita.    D    XVll   1 \\ Tini è un contrasse"   Ciascuno, dunque, come le   gno (156) d’un uomo, ulte eia-   sogliole (157); uno due. S inten   scuno cerca il contrassegno insieme   uomini che sono come un taglio di qu  che allora si chiamava i(omo-ioM«a, son ‘  di donne e i piti degli adulteri da questo sess   son proveiiun; e così q^- "sesso    , Convito   6o   sono taglio di donna, le non badano di molto  a^Ii uomini queste, ma hanno piuttosto il cuore  alle donne ed il sesso loro è quello da cui prò.  vengono le tribadi, aitanti poi sono taglio di  maschio, vanno dietro al masclùo ; e sinché sono  ftnciulli, come particelle che sono di maschio,  amano gli uomini e si compiacciono di giacere  - con questi e tenerli abbracciati, e son costoro  ’ i migliori fanciulli e giovinetti, chè non v’è  nature più virili di loro. E v’é chi afferma,  che questi sieno degli svergognati! bugiardi;  non è già per svergognatezza che cosi fanno,  ma per ispirito di ,baldanza e virilità e ma-  sciiiezza, appetendo il simile a sé. Una gran prova  n’è questa; soltanto costoro fatti giovani rie¬  scono uomini (159) da attendere agli affari pub¬  blici E diventati maturi, mettono amore ai fan-  li ciulli, c di nozze o di far figliuoli non si danno  pensiero di per loro, ma la legge ve li costrin¬  ge (160); quanto ad essi, son contenti di vivere  gli uni cogli altri senza ammogliarsi. Sicché un  siffatto uomo diventa addirittura amante (i i)  di fanciulli od amato, appetendo sempre nei due  casi quello che gli è congenere. Ora, poi, quando   C un amante di fanciulli, o chiunque altro s ini   colla sua propria metà di prima, allora è una  maraviglia come si struggano di amicizia e m  trinsichezza ed amore, tanto da non volere, per  cosi dire, separarsi gli uni dagli altri neancie  per un minuto. E questi son coloro, che riman  gono insieme l’intera vita, e non saprebbero  neppur dire, che cosa mai vogliono che per opera  dell’uno succeda all’altro. Giacché non pn'"'        6i    T)    t Siòn” r-   insien''® . .v, ciascuno dei esprimere,   Lm"^ralcos’ altro, cbe tjo ^ ^-ee   ‘^’ 'Tl nrc%ti"‘="^°/' eoel’instr'if^''""   „ia ha £ se Elesto, cogl   in cnimm sopra di > {. rnai,   niano, si domandasse ^ ’ onera del-   I.icceda all’altro? ^ ^ ^^^^^dasse da   incerti della risposta, ^.^^nrel’uno   nello stessissimo luogo n nt notte -   potervi lasciare l’un liqnefarvi e eoa-   chè se desiderate ° nhe siete, diven-   ^ilarvi insieme, ,n   tiate uno, e sinché > morti,   comune come uno " \i,m invece di due   anche laggiù nei reg ^^^^^date. se è questo   morti uno solo (i6 ^^ddisfatti, quando lo   che ’ inmo bene, che, sentito ciò,   nessuno, proprio nessun darebbe di avere   strerebbe di volere altro, . ^ desiderava pure  propriamente sentito qu ,j, ^to diventare   da un penzo, unito e fuso coll ^to   di due uno. E la causa nò questa, cne   , nostra natura era si   desiderio, adunque, e all.   d;\ nome amore. eravamo uno;   E prima d’ora, come dico,   i ora, poi, per la malizia nostra, sia      52 Convito   paniti di casa dalla mano di Dio, come i-  Arcadi da quella dei Lacedemoni (163). Sicchfc^ '  cogli Dii non ci si conduce come si conviene*^  v’è da temere, che si possa essere segati da capo’  e si vada attorno, come le figure delineate dj  rilievo sulle tombe (164), tagliate per il me^o  dei nasi, diventati a modo di dadi cotisunti. Anzi  per questa cagione bisogna che ogni uomo esorti  B ogni altro a condursi piamente verso gli Dei,  perchè alcune si sfuggano, altre si conseguano  delle cose, a cui Amore è guida e capitano. A  cui nessuno faccia nulla in contrario ; — e fa in  contrario chi s’inimica gli Dei ( 165 ) — giacché  diventati amici dell’Iddio e rimpaciati con lui,  ci succederà di ritrovare- e incontrare i propri  amati nostri, il che ora accade a pochi. Ed  Erissimaco non mi s’immagini, per canzonare  il mio discorso, che io parlo di Pausania e di  C Agatone; forse, anche loro sono di quelli, e  tutteddue maschi da natura ; se non che io parlo  di tutti, e uomini e donne; chè così la stirpe  nostra diventerebbe felice, se dessimo perfezione  all’amore, e ciascuno s’incontrasse nel proprio  suo amato, tornando nell’antica natura. E se  l’ottimo 6 questo, è necessario, che di quanto  è oggi in poter nostro, ottimo sia quello che  più vi si avvicina. E ciò è il ritrovare un amato,  fatto secondo il proprio cuore.   ^ Del che, se s’inneggia autore un Iddio, Amo¬  re è quello a cui a ragione spetterebbe l’inno.  Amore che ci è di moltissimo giovamento nel  presente, poiché ci riconduce nel proprio, e ci dà le  maggiori speranze per l’avvenire, — se però noi        65   ,i .-.età v=W sii   a»   Só-'r-'   xvin   j» il mio discorso   • tr.rno ad Amore, di'crs ^ ^ canzonatura, t   ‘„%c p-»g*;». "r, ‘=’’' ■''“ir-   .„d,c a pari»"" ° P'""-""   quelli che rimangono P ^ Socrate,   rimangono, di fatti, § , _ raccontava che   Ma io taro a tuo n»do^ j,, ,1 „o   rispondesse Enssimaco ^P ^^p^ss,   discorso sono valenti in cose   che Socrate e A^a dovessero es-   d’amore, temerei g'"^" ^-ose oramai si   sere impacciati a ’ ‘ ^ro fiducia,   son dette e cosi perchè   E Socrate rispose; dóve sono «94   tu te la sei quando avrà discorso   ,ira..uraro(.66), perché io mi turbi, °   che il teatro (167) sia in grande aspettazion  me, che io debba discorrer bene. ^ _   Sarei d^avvero uno smemorato, Agatone,  soggiunse Socrate, — se, avendo visto 1  raggio e Palterczza con cui tu sali su pa^ co  insieme cogli attori, e guardi in accia ^  gran teatro, quando tu devi rappresentare 1    64 Convito   componimenti, e non ti mostri sgomento  un poco, ora credessi, che tu ti debba  a cagione di questi pochi che siamo   Ma che ! — riprese Agatone — non mi cred  Socrate, cosi pieno del teatro, da ignorare ne  che a un uomo di mente fanno più paura n  persone di senno che molte senza (169).   Certo, Agatone, non farei bene, — ripigliù So  crate, — se pensassi di te nulla men che gentile  Anzi io so bene, che se tu t’imbattessi in-persone  che tu reputassi sapienti, ne saresti in maggior  pensiero che della folla. Ma, bada, che noi non  si sia già di quelle; perchè noi ed eravamo in  teatro e facevamo parte della folla. Però, se tu  t’imbattessi in altri sapienti davvero, ne sentiresti  tu rossore, quando tu credessi di fare qualcosa  di brutto? (170) o come l’intendi?   Dici il vero — rispose l’altro.   E della folla tu non ti vergogneresti, se tu  credessi di fare qualcosa di brutto?   Dove Fedro, raccontava, interloquendo— Caro  Agatone mio, — dicesse — quando tu risponda  a Socrate, non gl’importerà più nulla di nulla,  di quello che qui succeda comunque succeda,  purché abbia soltanto con chi conversare lui, spe¬  cie con un bell’ omo. Ora, Socrate io lo sento  conversare volentieri ; ma a me è necessario aver  cura dell’elogio di Amore (171), e riscuotere da  ciascun di voi il suo discorso. Dopo sodisfatto  ddio ciascuno conversi poi quanto vuole.   Ma tu parli bene, Fedro, — disse Agatone —  c niente m impedisce di parlare ; non mancherà  poi occasione di conversare con Socrate.              •s   7    64   ‘.v«mponÌ!n,tntt,    Convito    > c non li mostri   ‘T pocoi ohi credessi, chr f.® r®"*®     ,, ^<^“^chc:t;Td:vTiÉ^   cagione di questi pochi che l- ^ ^WÈÉ  iS^. . •MucheJ—rbrese Agatont’'    Socrate, cOS\ rneno del teatro, da'i'!" '  f^. -cheuun nòmo di munte.(anno p®, '   itrn> ''.ihr rt» \ ^ P'I Jf      m Futdjo che: molte-   -ci Jo. A.-atc-uc, nonfiiiti htne, - nv'l ,>   -.MJ.S - se p*s«*«I di :c nalla uicn chè£ - t  so bc«^ , cho se tu l’imbattessi-   • fe?:tB r.epntf. -i rapanti, ne Sare.sti inV,.’-1  r^’ero che deiia folla. M.s, bada- die  .UU fiJ, d! c, parchi noi cl  tuati-0 e fflceaamo parte della folla. Petò,fc.,r» ^  •t’iaib.ittcssì M :iln-it;.»p{cnti davvero-, nc scw.h»-  tu t-o$.sore, quando in crcdtssi di -fare quaì.   -li brullo? (170) o come rintendi?   rtk'ci 11 Tcro — rispose Taltro. . il   - • j- . .in f>>}lii tu non ti vergognerusti, t* •* ti  i di f.)ro qualcosa d! brutta? »   4 -’’ l odro, raccontava, inierioquetido->~‘  <S^’j^'t‘UO, -- dicesse — quando tu ris;-  V v^:Tàfé. jpon priuaporteri più nulla^ji '   • f iUo che ani succeda coinunqyu .^ucc '•M  ,-i.!: «hb abbia s-^tanto con.chi convcrj.at5glui5^sj^^'   • ::;con un bairomo. Ora, Sgcirate/lo  converj^ret'oitn litri ; ma a me è jiccessarww^^  «tra ik'ir elogia di'Amore (tyt) ^ erlscuoicr  -ciascun di voi il suo disco^-'; .C>opc?»C^*^  l'Iddio clascuuci conversi poi qyaj 4 l?   J Ma in p,i. li bene,.Fedro,   c niente m’impedìsfc di parlarci nph-manv: ,  poi occasione di cons*etsare cori .Socrate. ’          Convito    65    95    „ ni AGVrONE   Discorso   o’ priwa ha? discorso   T’c'ct 72 > ■P^'^°""^’%arabbiano l’ldd\o   poi dire Cn ^ non ,. .. ^o dei beni,   pvand gli uomini nup\e essendo i   --“"'Chiusi l’Iddio; r/ntsuno l’ba   di n tutti cotesti beni   ^%*ure, d’ogGi lode go quale di   quali cose E cosi è g^Jf egli   u discorso sia 075; ^ • stesso quale eg   bello, egli ^^/osiff^to. D P^ ge d   più giovine degli Dei, g foggu di   'quesm suo tratto eg smsso, P ,e,oce b   fuga la vecchiaia, P dovere ci arrii   almeno assai pih pres p aver a   a’ fianchi. Ora, P neanche di lontano,   iu odio e non le si acco , ^ ^ ^^^6) ; -b   E sempre co’ giovani usa e « sempre   bene sta 1’ antica "oute»- . consen   col simile s’accompagna ( questa non   ziente con phio in   conscio, che lui g-   c di lapeto O?»)- 5   Platone, Voi. hX. ► *       66    Convito    C vanissimo tra gl’ Iddii c gio\  gli antichi fatti intorno agh  Parmenide dicono (179), esse     di Necessità, e non di Amore, se pur  sero il vero; chò non si sarebbero viste ‘  tazioni e legamenti vicendevoli ed altri  violenti atti, se Amore fosse stato tra lor^b^’ ®  amicizia e pace, come ora, dal di che  sopra i Numi regna. Dunque giovine eguT  P e oltreché giovine, delicato (180): solo un poetà  gli fa difetto quale Omero, che mostri la deli¬  catezza di lui. Ché Omero afferma, che Dea  Ate sia e delicata, almeno delicati sieno i piedi  di lei, poetando (181) :   I piè di lei son delicati; e il suolo  Non tocca; dei mortali ella sui capi  Cammina.   Ora, è buono argomento a mostrare la deli¬  catezza sua, ch’ella non sul duro cammini, ma  E sul tenero (182). E lo stesso useremo noi argo¬  mento a provare di Amore che delicato egli è.  Che nè cammina sul suolo, nè sui crani i quali  punto teneri non sono, ma nelle più tenere cose  e cammina e dimora. Perocché nelle indoli e ne¬  gli animi degli Dei e degli uomini la dimora pone,  e nè in tutti gli animi del pari, ma dove in uno  s’imbatta d’indole dura, va via; dove di tenera,  vi s’accasa. Poiché egli, dunque, e co’piedi e  con ogni sua parte è a contatto delle più tenere  g(5 tra le tenere cose, è necessario che delicatis¬  simo sia. Sicché giovanissimo è e delicatissimo,  e di giunta fluido di forma. Ché non sarebbe     6 ?    B    Co’ivilo ^ neU’en-   U»»' (■«!?'. C»«o *« s»p» o^.   iorf“"”“ , M«, ‘l“‘''?Si AmP« pos*'"''’   ,jvveoen='^ „nso di ^ guerra sempre.   .!•"■ °«P»“ “ T Wer. d=irM» "*   chè f del colore, “ ad anima e   ctó.a So.e o cta   ' K' I soggetto la Amore; e dove   f ner£, non s’accoppa A ,   Todoroso loco sia, 1» P   fiorito c ou  perniane-   j iiMddio e basta sin   Orbene, della 0'“““‘‘Jella vlrtì d’A»ore   qui e molto resta a g U principalts-   conviensi dopo quella P ^ offesa nt   sinio è. cito Amore ^ ^,84>   di Dio o a Dto nc * -tUre eo'U stesso, s  Perché nfc per violenza non tocca ^   qualcosa patisce; - eh ^ volontario   i; in tutti il servigio ' ^ jj^ reme (t 5) >   assente a volente, h legSh , giustizia,   affermano che giusto sm- ^ ^i^sinaa. Peroc;  è provvisto di temperanza ora^^^^. ^ ^esidern  chè si consente che vince P^^^^ non   sia temperanza, e che p gè sono da me ,   v’abbia piacere «essuno- O < ^ questi   è forza che sien soverchiati    68    Convito    soverchi : ma se piaceri e desidp ••    D    197    t.(iò6). E quanto a coraggio adr^°P^^tut   pure Are contrasta » (187). Chi « n«(,  Amore, ma Amore Are possied^'^am^  Afrodite, secondo è fama (188) • or ’l • di  tiene in poter suo il posseduto é  più coraggioso d’ogni altro, debbe esli  certo il più coraggioso di tutti (189)^'?®5'  della giustizia e temperanza e coraggio dS'r?  d.o s’è toto; resta ddk sapiens,; ;   SI può, bisogna provarsi a non ometterla (looT  E da prima, perchè io per la mia parte lodi l’LÌ  nostra, come Erissimaco la sua, poeta è l’Iddio  sapiente per modo che rende tale altrui; al¬  meno diventa poeta, « ancorché pria fosse di Mm  privo » (191), quello cui tocchi Amore. Il qual  suo tratto ci si addice usare a testimonianza che  Amore, in somma, è artista buono in ogni crea¬  zione che attiene alle Muse (192); dappoiché le  cose, che uno o non ha o non sa, non mai le da¬  rebbe ad altri, nè le insegnerebbe ad alcuno.  Oltreché la creazione degli animali tutti, chi vorrà  contradire, che non sia sapienza d’Amore, quella  per cui opera gli animali tutti e nascono e cresco¬  no? Ma nel magistero delle arti, non sappiamo,  che quello di cui questo Iddio si sia fatto maestro,  rinomato è riescito ed illustre; quello, cui Amore  toccato non abbia, oscuro è rimasto? L’arti del  saettare e del sanare e del divinare Apollo (193)  trovò, guidato da desiderio e da amore (194) >  sicché anche questi discepolo saria d’Amore, c  le Muse ne appresero musica, ed Efesto l’arte        69    « Zi‘^^ ’ le cose dCo' amore, s m   c ' • onpoirto 1 _ • ft-i genererò, vive   d'.C ''chfe^rn brutte..^   ’‘jf di bellez5-a. priircipro ^ o-   ;ndc> ■,„„onzi, _An SI narra (,19    ai bellez^-'*'’ — , principro u- --   »"«• ■' inna®'. si ^ ;   terribili eventi, -t^ecessità % «   i“nsi s» ^   ;«/»« ts -s"'   Vantare Amore, es-   o Fedro, a \ ^ e ottimo, dipoi   1 sr:   Ji*"'" ,. ., mar cairn»,‘‘='"'““   „ ai,caco, . »s> D   attesti <i’0B”i „■ empie che cl at-   vttOta, e d'ogni mgunate degli tttt.   tmelia, egli. ’S"ttnSsero, aeUe «e   cogli altri instttttl che s, «o ,gli m. ezaa   „ei coti, nel saenfien g, benevolenza   • inspira, selvatichezza sband .^^^i^ordioso ai   largo, di “lenabile,   buoni (zoo), a sapm ^ custodito d   bile-, invidiato da chi n F . ^ ^ dilettosa,   na’rlcco, di re»').'’»'*''';,"'?»   grazie, di brama, i ^ ; m trav g >   tore dei beni, timoniere,   ' paure, in pencoli, m ^°^tore ottmm, di   I marinaro, commilitone     7 ° Convito   quanti gli Dii c uomini adorm  bellissimo e ottimo, che ad ogni'?,?"'’  seguire innepiando e prendendo pa??  canzone, eh egli, molcendo ]’intellel  gli Dn e degli uomini, canta (203) ‘«'ti   auesto discorso, dice, o Fedrh sia  parte offerto in voto all’Iddio, dove di s^T  dove di misurata seriet.^, in quanto ir,  perato (204). ’    .XXI   198 duando ebbe finito Agatone, tutti, disse Ari¬  stodemo gli astanti esclamassero, che il giovi-  netto avesse discorso in maniera degna e di sé  e dell’Iddio. Sicché Socrate, volto ad Erissi-  maco, dicesse : O figliuol d’Acumeno, ti par egli  che un timore da non intimorire m’intimorisse  poco fa (205) e non fossi invece profeta nel dire  quello che io ho detto dianzi, che Agatone avrebbe  parlato mirabilmente ed io mi sarei trovato nel¬  l’imbarazzo ?   DeU’una cosa — rispondesse Erissimaco — mi  pare che tu l’abbia indovinata, che Agatone par-  B lerebbe bene; ma che tu ti troveresti imbaraz¬  zato, non lo credo.   E come, beat’uomo — ripigliasse Socrate —  non mi troverei imbarazzato cosi io come chiun¬  que altro, che dovesse prendere la parola dopo la  recita di un cosi bello e svariato discorso ? E il  rimanente non ò stato altrettanto maraviglioso;  tua sulla fine, quella tanta leggiadria di vocaboli       ' ® __ me.    di clràdo di dir nulla,   scndr'^- non sarò “ ^^^i^zza, per poco   - s> ^-’Cia ^lla vergogna, se C   sono t'^g? Vaiscorso m’ha rrchu-  100’’'*= \ia. Giacchi-_ occorso   1 caso d’ Omero (ao/b (;ìo8)   Agatone lanciasse^ e nu fa-   Gorgia, E ho capito   >»''X s.»->^r:“'?dS”.■<■■•’"^ ■ “    1 stato davvero ndmo , q p^^te   rSHiSSi    che    D    Sa";=S==S   lualunQue cosa. biso'^ni dire il '   ì, _ m’immaginavo, che o   "ila cosa, quale si s-^nto; pd, scelto del   ; che questo fosse 11 ^ia acconcio   vero il meglio, «pot ° ^ ,He avrei di   E presumevo gran c del ino   scorso bene, ^^^ 200 ). Invece, si vede d  di lodare ogni cosa ( 9) ^ era gì-   cose V’ha “1 VVt 'nenzognere, età cosa^^a    mila. Giaccnc s - f. , ‘ v Amore, o  dascuno di noi paia di lo razzolando a   che lo lodi, n »1'P““° X cono ed A« ° ■• .  ogni patte, e tale, e aotote i   c affermate eh egli      72    B    Convito   :rj.r   ^"T™' “"n b=|,.S”i-l.£-    M» io noncoò»c;:o'rn,“H''“* '   chè non lo conoscevo, mi so°no"i!°''"'®’P !"   r°I ?ì»*» “"''io all, M “,S” V   3 (zio),   questo modo; non nma    chè la lingua ha promeslò” la  Adunque, addio elogio; che ì„  odare a questo modo ; non potrei. plT"""  lete, il vero, si, non ricuso di dirlo di nr^®'  e non rispetto ai discorsi vostri perché  S. rida dietro. Ora, tu, o Fedr^'^guarj™f  discorso COSI ti fa prò ; sentir dire il vero di Amore  c n quei vocaboli e quella giacitura di senteme  che mi verrà per prima alla bocca.   E a questo, raccontava, Fedro e gli altri Pili-  virassero a parlar pure nel modo, che a lui pa¬  resse di dover fare.    Ebbene, Fedro — Socrate riprendesse — per¬  mettimi anche, che io faccia qualche piccola inter¬  rogazione ad Agatone, affinchè prima io mi abbia  C alcune concessioni da lui, e poi, così, discorra.   Ma si, lo permetto; — rispondesse Fedro —  interroga pure. Dopo di che oramai Socrate  avesse cominciato, su per giù, di qui.    XXII   Di certo, Agatone caro, tu ti sei introdotto  bene, m’è parso, nel tuo discorso col dire che  prima bisogni mostrare quale egli è, l’Amore, poi     E    7 ^   . . „vi va a gen'O  . Q^^^sto in ogni altra   ,re Ji . via, esposto qnaW   HS»- °'S’e.WB"’'^“Teg'''“^''’'‘"'r? D  up questo ■• t- ^8 ^ nulla ^ D   f»'*. L>»' di q0»'*“ “ *d,c o di »«   ma ad’a^f jj padre e cgir P. ondere a dolere.   fp^rfi' °   5““ t ma'drd del pat>’   • ^ . p anche a questo. ^ jjspondinti   ■ Assentiss ^ . y^^sse gallo ciò   I Or bene, -- tu intenda me„   poche altre cose^ P ^^^.«dassi : O   'r;srid^c;.-o.t-e,,o,.tr   'qualcuno o no? ^   Rispondesse, c   D’un fratello o _   Dicesse di si. __ domandasse   dis^SSSaSrsulVatttore.^^^^^^^^ *   Di^qualcosI ciottissimo- .^„gesse So-   tanto questo. 1  lo desidera o “O ^   Di certo — r'sp'^        74    Convito   Ora, desidera egli e ai  sesso della cosa che desidera"^ j.  sedendola? ^ nr,-,-.    ama;,    'aoti    Pos.    B V    D    Non possedendola, par naturale  Guarda-riprendesse Socrate  natura e, non sia necessario, che  dera desideri ciò di cui è manchevoI ^  desidena dirittura, quando non ne l "“''■o   role. Tu non puoi, Agatone, immagi„are“’'‘'’^*’'-  5 aia necessario a mw • ^ Quanto    grande,    es-    paia necessario a me; o a te pare?   E anche a me — dicesse.   Dici bene : vorrebbe forse chi è  ser grande, o forte chi è forte?   Impossibile, dietro l’intesa.   Perchè, appunto, non sarebbe-manchevole di  tali qualità chi le ha.   Dici il vero.   Percliè, se uno che è già forte, volesse esser  forte — ripigliasse Socrate, — e veloce uno eh’è  veloce, e sano uno eh’è sano... giacché qual¬  cuno potrebbe credere, che queste e simili qua¬  lità, quelli che son tali e le hanno, desiderano  quelle stesse che hanno; sicché questo io lo dico,  peichè non ci lasci trarre in inganno — or bene,  costoro, Agatone, se tu la intendi, devono pure  avere nel presente ciascuna delle qualità che  hanno, o le vogliano, o no, e queste, oh citi mai  le desidererebbe? (212). Però, quando uno di¬  cesse : Io che son sano, voglio anche esser  sano; ed io che son ricco, voglio anche esser  ricco, c desidero appunto queste cose che ho, —  noi gli risponderemmo — Tu, amico, che possiedi  ricchezza e sanità e forza, vuoi possederle anche        7 >   o »   tu le l’^'- .,,,o qtiello eh e   ^JpSesse ' V untare   ^ ^ O non t in proi^“’ Z   che non si ^ ancora t P^ aò   l^!^ il inantenerntt pe r  ksic^®’ j presente?   '‘*■‘0° «no -- *'’°“‘'Tchi«nque altro il 1 “»'' ^  E questi, Lello che non tiene   desUeri tuttavia, desi ■ J „on ha e   t mano e al cui h manchevole.   ”.e egli d i desiderio e Vamotc-   ‘n”Sr- -tSse. ^ ,„cr.te-ri.ssu-   ^LLvia.-coimlnd-Socm^^  mianio quello d. OT poi, di co   in primo luogo, e u  di cui patisca difetto   Si - affermasse. ^ ^^ente, Jt che   Ora, per ^etto che l’Amore sia.   tu nel tuo discorso hai „,ente im   Anzi, se vuoi, te giù questo; che   Tu hai detto, credo ,assetto per via d   agli Dei le cose ^ ^i bruttezza non   amore di bellezza-, g‘a detto su p   potrebb’ essere amore.   giù cosi? rispondesse Agatone-   Si che l’ho detto - risp    201      76    Convito   ^ par]: da galantuomo .  e, — ora, se è rnci ,>^ 4 )    Socrate; — ora e» "““*0 (^214)   Acconsentisse. “   ' «on s’è rimasti d’arr« a   CIÒ di cui è in difetto, e che “«0 am   Si - dicesse. >ia?   É in difetto, dunque, di bellezza a  non l’ha? ^aiore, ^   Necessariamente — affermasse  Che dunque? quello che è in difetto di 1,,  lezza, e non possiede bellezza per ness^ì^"'  oh lo dici tu bello? ^ ^sunmodo^   No davvero.   Ebbene convieni tu ancora, che Amore sia  bello, s’egh è cosi?   E Agatone — Risico, — dicesse - 0 Socrate,  di non avere inteso nulla di ciò che ho dettò  dianzi.    Eppure hai squisitamente parlato, Agatone -  C Socrate ripigliasse. — Ma dimmi ancora una pic¬  cola cosa: il bono a te non pare anche bello?   A me si.   Se, adunque, Amore difetta di bellezza e se  bontà è bellezza, anche di bontà, dunque, esso  difetterebbe?   Io — rispondesse — non saprei come con¬  tradirti; sicché sia pure come tu dici.   Alla verità, amato Agatone — concludesse —  ^ tu non puoi contradire; chè a Socrate non i  punto difficile.     77    Convito      e U discorso in- ^   « io giorno d» Dio-   £ ora „ r-he sentii nn ^ ^    ,rno iteXe cose, e una   ^ " Tdeila peste, fece, col  àP“^''\gli Ateniesi, pt'ttj ^tardasse loro di  olia agli _ .ricrifizio. cbe la_n^e m    quella appunto cit ^ g, eh’essa  jgcianni,qu ^ ^ discorso, outi fra   ose d’antore, punti cou   tenne, lo, roverò a ripetervel ,   p Agatone, nu P c g’intende, Ag   ■"' e il «#■> *' “impano la via. teogo»   “ .1 modo che tu hai ape   VTcorrere chi l’Amore J facile £   fcriiua discor ^ che P .   ?! lco.,amo si. quello,^»   ■-t°iroono,e,io-og»^'^=„,es.^  Tma Agaldno a me, *'^"“"Èlei,   cose che ora Ag bellezza. _   f'"'do me'còlle stesse ragioni con cui^t^^^^   sSo cosmi, «., ne   n°d^o. come l'inmo^“;r=   tinta; ò brutto, adunque, ^.^p^tto? ”   D lei-'' o°-“/;Sp ciré non s.a belio,   rese — o credi, clte 4 brutto?   Icbba necessariamente esser   Certissimo.    203       O anche quello che  rante? o non senti, che  tra sapienza e ignoranza    Coni     E che mai?   L’opinar rettamente e senz’essere •  di dar ragione, non sai — dice — V"  sapere; poiché come sarebbe mai coV^-"°'‘  naie la scienza? E neanche é ignoranz'"''"®'  che apporsi al vero, come mai sarebbe  ranza? L’opinione retta è appunto cosi'®,?'  cosa di mezzo tra intendere e ignorare ’   Dici il vero — risposi io.   B Non forzare, dunque, ciò che non è bello a  esser brutto, o ciò che non è buono, cattivo. E !  così anche l’Amore, poiché tu stesso convieni  che non é buono né bello, non credere per ciò  che deva essere brutto e cattivo, ma una cosa  di mezzo — dice — tra questi.   Eppure, — diss’io — si conviene da tutti, che  é un grande Iddio.   Da tutti quelli, intendi tu, che non sanno o  da quelli che sanno?   Da tutti quanti a dirittura.   E lei ridendo — O come, Socrate, — disse —  converrebbero che è un Iddio grande coloro, i  0 quali dicono ch’egli non è neanche un Iddio?   Chi costoro? — dissi io.   Uno tu — rispose — e uno io.   E io domandai : Come mai dici tu questo ?   E lei — Facilmente — rispose : perchè, dimmi ;  tutti gli Dei non dici tu die sono felici (216)?   O che ardiresti tu dire, che alcuno degli Dei non  sia felice?      79    Coiiviio ^ _   ^ io no " possiedono   'A'„ oo»v.n»to, *= »   Di non to’ desidera, appunto,   «a'^" ,4 e boto"''   eoo ■« "““t in dite»»’   0 come   ‘Tni^ r^nt:” oto aneto » A»-   To'^aedi un Dio?    . dissi■    .sarebbe maiVa^more?    Che, dunque,  tortale?   r*f;“'''ltpto''e-un eto di metto  Come prima V   "" rti!«to,Dio.i’’»>^ inno B   il demoniaco e un   il mortale. - diss’^-   E quale possanza ^gU ^ei   D’intetpmte '.«““f oni, degU um,"  nomini, agli uomn ^ n^^jjjjii, deg’^  smettendo preghi ^^rrifizh . . pgr   mandi e rieambii de. a fb ,,„i, nenipm pe   t nel meato tra gl’ n    20 *^    Convito   modo che il tutto resti colleentr.  simo. Attraverso di lui pasfa “'r? I   na tutta quanta e quella de’ sacS" '   saenfizu c le iniziazioni. Dio non si ^ ì ■  uomo; però ogni conversazione e coll  Dei cogli uomini, sia desti, sia addormì°  per mezzo del demoniaco che la si fa p‘> ^ i   che è sapiente in simili cose, è uomo d ^ ^   chi è sapiente in ogni altra cosa o dUrr'^'°'  mestiere, ò un manuale. ^    urte 0 (li   0^a,di questi demoni   , 1 Amore è un    , 1 ~ ^ CS^i   ò suo padre - dissi io - e chi suà    ve ne son molti e diversi :   E chi  madre ?   É lunghetta — risposi — a narrare; pure te   10 dirò. Quando nacque Afrodite, gli Dei cele¬  brarono un banchetto, e v’era cogli altri Poro   11 figliuolo di Meti (218). Quando ebber cenato,  ecco che arriva Penia per accattare, perchè era  luogo di scialo; e girava attorno alle porte. Ora,  Poro briaco di nettare, — chè il vino non c’era    peranche, — era entrato nell’orto di Giove, e vi  s’era, sopraffatto dal sonno,-addormentato; sic-  C chè Penia, macchinando per la miseria sua di  avere un figliuolo da Poro, gli si mette a giacere  accanto e concepisce Amore. Ed è per questo che  l’Amore diventò seguace e ministro di Afrodite,  perchè fu concepito nel giorno natalizio di lei,  e insieme è di sua natura amante del bello, poi¬  ché anche Afrodite è bella. Perciò come fi¬  gliuolo di Poro c di Penia, l’Amore s’ebbe  questa sorte ; prima eh’ egli è sempre povero, c  tutt altro che delicato c belio, come i più cre¬  dono, anzi duro, e squallido e scalzo, e senza     8i    D    10 +    . dormendo avanù   |°«* r nò oi   i-sofist* ’ ^ e\io stesso g' mudre e p   Inta ^ada bene (3^9)del padre,   '“T rVa" »-   Ìe<l»»"“ ?‘Sero Aii«>'''"‘"“ Chi h t*'"’   « ''‘®"°”ret=“° e -- “.“ ^TXìSn:   ““Se.' tr“fi-   "S>s;=.»“»sri'S-“‘‘°   Sf'“ :.,.eh..o.e.-   0„ _ disse - ^ V»e -li ‘ ole-   „„ raBSs». q»e ^ apP»'» ^jd't»"»'!”’   um e altri, e d q cose pmbell ^rio   clic Amore sla filosofo, P 6   Platone, Voi- l-^-    B        82 Convito   egli sia un che di mezzo tra sapiente e •  rante. E di ciò gli ò causa anche la  sua; perchè lui viene, si, da padre sapiente'*^'’!?  molti ripieghi, ma da madre non sapiente e se  ripieghi. Questa, dunque, è, amico SocrateT  natura del demone; e l’aver tu ritenuto  Amore fosse quello che tu hai detto, è stata una  C svista da non doverne fare le maraviglie.  credevi, come a me pare congetturando dalle  tue parole, che Amore fosse l’amato, non gii  l’amante. Perciò, credo io, l’Amore ti appariva  bellissimo. Chè di fatti l’oggetto dell’ amore è  il veramente bello e il delicato e il perfetto e  il beato ; invece, quello che ama, presenta un’ altra  idea, quale l’ho discorsa.    XXIV   Ed io ripigliai — Sia pur così, forestiera: chè  tu parli bene. Ma se è tale l’Amore, di che  uso è agli uomini?   D Q.uesto, Socrate — rispose — mi sforzerò d’in¬  segnartelo ora. Dunque è tale l’Amore, e nato  a questo modo, ed è, come tu dici, amore di  bellezza. Ora, se uno ci domandasse — O So¬  crate e Diotima, che è egli mai l’Amore di bel¬  lezza? Ma lo dirò più chiaro cosi: — Chi ama  la bellezza, che ama egli mai?   Ed io risposi — Che la diventi sua.   La risposta — dice — desidera quest’ altra in¬  terrogazione : Qjuello, a cui la bellezza diventa  sua, che n’avrà egli?      io   A rispondo'' 1' uundo, si sei- ^   i. 8'*'“ f p sé '«■'*! S bello e li down-   '.rd;iééoo>d,'“rs«"^“'’*'““   . Socrate, su.   diventi suo ^ Snti suo, che n’avrà   ,.,,nriparpihage- aos   3 sarà felice. ^ ^ possesso del bene   ' Di fatti. -- dtsse domandare   son feli<^'‘ ' vuole esser felice; an«   Trite ^bbia qui termine.   "^'’dIcì la rquesto amore, credi   Ora, questa vo uomini, e eh   ? -noTav t "empfe il bene? o come  tutti desiderino di avi.   dici tu? _ _ , rnmune a tutti.   Cosi - dissi to __ ^-jsse lei — non dt-   0 perchè mai, Socrate lo   clamo che tutti diciamo che amano   stesso e sempre, ma di alcuni   e di altri no? ._anche io.   Me ne maraviglio -- dissi ^ noi.   Ma non te ne maravig i i^ chiamiamo   sceverando una specie e .^ig q nome t   col nome del tutto, ass g nomi.   amore; e per le altre usiamo al   Come che? - poUsis (aai) ^   Come questo. Tu sa atto eh   cosa di molto comples    B           c    D    E    84    Convito     causa che una cosa qualunque passi dal n  sere all’essere, è poiesis; sicché le operazic^"^  pendenti da qualsiasi arte sono poieseis  operatori poieiai tutti. ’   Dici il vero.    Eppure, tu lo sai — dissé, — non si chiamano  tutti poietai, ma hanno nomi diversi; e una par  tirella della poiesis sceverata da tutte le altre  quella che ha per oggetto la musica e i metri’  si domanda sola col nome dell’intero: giacchi  questa sola .si cloiama poiesis, e poieiai quelli che  possiedono questa particella.   Dici il vero — diss’ io.   Ora è appunto cosi dell’ amore ; la somma n’ è  ogni desiderio del bene e dell’esser felice (224);  ma quelli che vi si avviano per un’altra delle  molte vie, del guadagnare, poniamo, o dell’eser¬  citarsi in ginnastica o del filosofare, non si dice  che amino nè che sieno amanti; invece, quelli  che mirano a una sua specie, e a questa pongono  il cuore, prendono il nome dell’intero, amóre e  amare e amanti.   Risichi — diss’io — di dire il vero.   E v’é — disse — un certo discorso, che quelli  amino i quali cercano la metà di sé stessi (225) ;  ma il discorso mio dice, che l’amore non sia nè  della metà nè dell’intero, quando, amico mio,  non si trovi essere un bene; dappoiché gli uomim  si tagliano volentieri e mani e piedi, quando le  membra lor proprie le credano malandate. Giac¬  ché non è il proprio, credo io, quello che ciascun  uomo ha caro, se già uno non chiami pròprio  il bene, altrui il male ; comecché non sia altro      iciò no-'nspos“°-   te P»'    20&    <”'r'di iri - S*pu6 di» s'”'P'‘'   dtól- j„e aggl»«8«« -   ‘'sTiv. aSS'ffSdd - di   £ non . sempre ^   Verissimo —   x:^v   I Ora, poiché l’amore^ ^fo^zo^^dT^chi'vi corre  I riprese lei —. la cura chiame-   • dietro, in che modo e m q ^o sai   rcbbe amore? che opera e mai q   tu dire? . ^isgi — taato, o Diotima,   Non t’ammirerei- di« ^.   per la tua sapienza, m- « q  parare appunto questo. ^ . l’opera é par-   Ma te lo dirò io -- tisp j-ome   torire nel bello, nei rispetti   deir anima. l’indovino; che mai   Ci vuole — diss io   vuoi tu dire? hlon ‘^°™P^^“-egherò pih chiaro.   Ma io-disse lei -telo spiega        D    207    86 ^   Convito   Oh uomini — disse — tutf  corpo e nell’anima, e  la natura nostra ha desiderio di" """ '''*   partorire nel brutto non può 0   E cosa divina è questa - e^in’ siO   tale, questo è inmtomi;, il co»"”* .'2;  rare Ora. l’uno e l’al„„ j  succedano nel disarmonico. E il *'*’'•« cht  monico da tutto quanto il divino  bello. Sicché Bellezza é Moira ed’Flir°"Ì.^'‘^  alla generazione. Perciò, quando la?  pregna s’ accosta al bello, diventa ilare  gioia sdilinquisce e partorisce e genera i qu? !  invece al brutto, si rannuvola e per il dolore •  raggomitola (229), e si raggrinza e non genera'  ma, poiché vieta al feto d’uscire, se ne sente  male e qui appunto è la causa che la creatura  pregna e già smaniante è presa da ansietà molta  alla vista del bello, perchè questo libera da gran  doglia chi lo possiede. Giacché Socrate, — dis¬  se l’amore non è del bello, come tu credi.   Ma e che?   Della generazione e del parto nel bello.   Sia pure — diss’io.   Certissimo — rispose lei — ; ma 0 perchè della  generazione ? Perchè la generazione è un gene’  rato sempiterno, e, per mortale, immortale (230,  Però, dietro quello che s’ è convenuto, è neceS’  sario che dell’immortalità l’amore senta si desi  derio, ma accompagnato dal bene, s’esso èamotf  dell’ aver seco il bene sempre. Sicché, conformi  a questo discorso, è necessario, che l’amore anchi  dell immortalità sia amore.     87    Convito   ,pnti dunque, mi dava  . nesti insegnami’’ ’ J A,more;  nfS S,i. o Socrate.   '8”' "ia mi ‘>»®”taesto .mote e iel deM-  : sia causa di 0 ° violenta disposi-   it'*, O non „• jllorchè deside-   *'"1 enttano gU ““.t “'ti q».»» i «olaf''. ^   S8rlS’m«reomotosamenm^“;'   ifcoSattere i per proprio   . . p si a venir meno aeiw qualun-   quealtro atto? ^ facciano per virtù di   “';'“''’-o' S # animali, qoale d c   raziocinio, o g rnsi? Lo sai tu dire ^  struggersi d’amor saprei.   Ed io da capo diss ^ ^ai di-   in cose dimore, se non mteod,   J'^'^^Ma^ppunto per J^j 2 so''chrho bisogno  ■or ora, io vengo da te, peretóso ^   di maestri. Ma dimmela m  e di tutt’ altro nelle cos amor   Ebbene, se tu credi eh P ^ pib vohe»   sia di quello che abbiamo c ^^.^a il »   non te ne ^ale cerca essere, P   L discorso, la natura m ‘gitale (231)-  quanto può, sempre       o8    88 Convito   può solo per questa via, per la via dell    razione (232), perchè lascia sempre un n'^”'^'  invece del vecchio ; giacché anche nel tratt'o°'^°  tempo che ciascun animale si dice vivere e  rare il medesimo, come, per esempio uno T  fanciullo insino a che sia diventato vecchio t  detto il medesimo ; però è cliiamato il  desimo, quantunque non conservi mai b st ig  stesse cose, ma parte si rifaccia sempre giovine    parte alcune cose le perda e nei capelli c nella,  carne e nelle ossa e nel sangue e in tutto quanto  il corpo. E non solo nel corpo ; ma anche nel-  l’anima il tratto, i costumi, opinioni, desiderii,  piaceri, dolori, paure, tutte le disposizioni siffatte  non sono mai presenti le stesse in ciascuno, ma  quale nasce e quale muore. E, cosa più bizzarra  ancora, le cognizioni non solo alcune nascono  c altre muoiono, e non siamo mai neppur rispetto  alle cognizioni i medesimi, ma anche ogni sin¬  gola cognizione è soggetta allo stesso. Giacché  quello che si dice meditare, ha luogo perchè la  cognizione va via; dimenticanza, di fatti, è di¬  partita della cognizione : meditazione, invece,  ingenerando una cognizione nuova in luogo di  quella che se n’è ita (233), salva la cognizione  tanto da parere la stessa. Chè a questo modo  tutto il mortale si salva, non col restare sempre  in tutto e per tutto lo stesso, come il divino,  ma col lasciare quello che se ne va e invecchia,  qualcos’ altro nuovo, quale esso era. Con que¬  sto mezzo o Socrate — dice — il mortale par¬  tecipa della immortalità, così il corpo come ogni  altra cosa: impossibile (234) in altro modo.,     89   . „»r n.»'* 08 “  r,o • siacchè per   .8» xxvn   me nc   . ««ito q»““ *!“I!°;dio-s»pi“-   dubi»^*^’ . j^.dare all’ amor stupore,   “ •'?irfagio'^‘'''°^^”'''^°-h aie io ho  uoiuim» . ^ niente ci i>j.jnore del di-  o come si struggono d amor  concependo ccn^^ e di  ventare rin ‘ ^ eterno,   lasciar di se g ^gnl pericolo   e son pronti per e consumar le so-   norto a Patroclo « ^f^no, se non avessero  figliuoli per salvar loro il reg  creduto, die _   una immorta ppuiito conser-   • a; loro, come apF _anzi>   rimasta memoria ^j^vvero — ’   viamo noi oraf i  io credo.    >>   per imniortal virtù         Convito   e per siffatta «gloriosa fama,, ,   cosa, tanto più, quanto mieiin   sono dell’immortale innamorar pS   Ora quelli — disse —, che so ^   poralmente, si voltano piuttosto" allff^  diventano amorosi a questo modo e   diante la generazione dei figliuoli, ’ ^   « Immortai vita, insin che il tem,^ ^   « Procurando », ^urì,    secondo credono,    209    B    e felice e ricordata;   i pregni invece nell’anima... giacché vi sonopu,  quelli — dice — , che concepiscono nelle anime  anche più che nei corpi, le cose che all’anima  s addice e concepire e partorire. E oh! che le  SI addice? La sapienza e ogni altra virtù, cose  appunto di cui sono generatori i poeti tutti, e  quanti v ha artisti che si dicono inventivi: però  d ogni intendere — dice — il maggiore e il più  bello è quello il cui oggetto sono gli ordini delle  città e delle case, a cui si dà nome di temperanza  e di giustizia (236). E quando poi uno, essendo  divino, sia da giovine pregno di tali cose nel-  1 anima, e, giunta l’età, desideri oramai di par¬  torire e di generare, cerca, credo io, anche lui,  girando attorno, il bello in cui generare ; giacché  uel brutto non genererà mai. Sicché, come pre¬  gno eh’ egli è, si compiace de’ corpi belli piut¬  tosto che de’ brutti ; e quando s’incontri in una  Della anima e generosa e di buona natura, si  compiace, e di molto, dell’insieme, e subito con     9 ^   Convito ^   , honda in „ ^he studii prò- ^   ersona poomo buon venuto   ^ette a educarlo.^ ^„„,ersando con   della beila ^15 di cui era   ^ntan° credo, e gener   {Ìa.pa^^;\cnin> " ^'^to insieme con quella,   %< e alleva il ^ggior comunanza   jU^^^’:,rcbe una molto gVi um   "’f figlinoi' (ai?)- ! poicbt in pm   cbe e amicir-ia prn accomunati.   '‘ immortali ftgbn®^’ " ^ lui nascessero   nTe avrebbe caro .^ando e a D   ■ chet:   0 se ti piace, ".f " ^.^eutone, salvatori d ^   I lasciò Licurgo m L 1 EUade. ^   I tcedemone, 0, per Solone per la g^n   ! E presso di voi °"°;Xi valenti uomini in altri  ' aione delle leggi, ed altr ^ . ^^^.bari,   luoghi parecchi, e tra g^^f/^.ueratori di virtù  autori di molte e belle «per , ^ furono   si.   eretti per via di tali 5  umani sinora a nessuno.   XXVllI   E ,ta qui, qu““ A”"' cui   i.. coi torso, So««“.’!''y„ìtivo (oi® “  k; ma in quello P"''“     210         D    92 Convito   queste, quando uno procede bene  IO non so se tu saresti capace. Te  dunque, io — dice, — e ci metterò tuttrirb*®"*’  voglia ; e tu provati a tenermi dietro, se ti •  Giacché — dice — chi vuol mettersi per la  via a simile impresa, deve cominciare da gì  ad andare incontro ai bei corpi; e da  quando chi lo guida, lo guidi rettamente, ama'r*'*’  uno di quelli (2J9), e quivi generare bei pensieri^  e di poi intendere, che il bello di qualunque  corpo è fratello con quello di un altro corpo-  e se bisogna andare in cerca di ciò eh’è bello  in genere (240), sarebbe una stolteaza grande  non riputare una e medesima la bellezza su tutti i  corpi; e quando abbia inteso questo, renderlo  amatore di tutti i corpi belli, e rallentargli quello  struggersi violento per uno solo, facendoglielo  sprezzare e tenere a vile; e di poi reputare la  bellezza nelle anime più preziosa di quella nei  corpi, di maniera che, se anche uno, ben fatto di  animo, abbia del rimanente poca venustà (241),  egli se ne contenti e lo arai e n’abbia cura e  partorisca pensieri e ne cerchi di tali, che fac¬  ciano migliori i giovani; affinchè da capo e’sia  costretto a contemplare il bello negrinstituti e  nelle leggi, e vedere com’esso è tutto connatu¬  rato con se medesimo (242) ; c dopo gli instituti  lo meni alle scienze perchè di novo veda la bel¬  lezza delle scienze ; e guardando ormai a un bello  già copioso, non sia, servendo al bello in una  singola cosa come domestico, un’abbietta e me¬  schina persona, che s’attacca alla bellezza d’un  fanciulletto 0 d’un uomo o d’un instituto unico.     9 ?   dclbcUoccontcm-   . - discorsi e ma   rivo''° “'torist^^ filosofia infinita, smo   k>' CV' >VTeS»cWto,n<.n;.s»’-ga  fcf.a J- *e SU sc.c« *   r^‘'’';Su -'SS. E gù, E   •. ctato educsito sin qui   alle cose Qgpetti, pressoch   srs* “"ss “qSii» “pp””®’. °   • rrp<;ce nfe scema, e a y e ora no,   tncii cresce u^i-»i-tn ne or*^ j.   verso e per e brutto in un JJ   nt bello in un ”spu«o g neanche il bello   qua bello e qua brutto come un   si presenterà alla sua . p ^tecipa il corpo,   visS 0 mani o nient’ altro cm par   neppure come un discorso ^ ^.^,erso, m u^ ^   c eppure come m qual ^ ,ieio o m   animale, per esempio, uniforme s   altro, ma esso stesso di P belle tutte   stesso in sempiterno, e che   partecipanti di esso pe periscono, ess   queste altre si generano uà patisce   diventa punto maggior    211    1           94    Convito    C    D    E    2    nulla. Sicché, quando uno, per aver am  fanciulli nel buon modo, risalendo dallp .. *   quaggiù cominci a vedere cotesto bello all  si può dire che tocchi la meta. Giacchi  sto è nelle cose di amore procedere o essT^'  condotto bene da altri ; movendo da’belli sensu^  di quaggiù salire sempre sempre attratto dal bello  di lassù, montando come per gradini, da uno a  due e da due a tutti i bei corpi e dai bei corpi  ai begl’ instituti e dai begl’ instituti alle belle di¬  scipline, e dalle discipline terminare in quella    disciplina, che di altro non è disciplina se non  appunto di quel bello ; e conosca terminando ciò  che ò per sè bello (244). Questo, se altro mai, —  disse l’ospite di Mantinea, — è il punto della  vita, degno che l’uomo ci viva, contemplando  il bello in sè; il quale, quando tu una volta lo  veda, non ti parrà da metterlo nè con oro, nè  con veste, nè con bei fanciulli e con giovanetti,  che vedendo tu ora sei tutto sgomento, e sei  pronto, e tu ed altri molti, se possibile fosse,  guardandoli, questi amati vostri, e vivendo sem¬  pre con loro, a non mangiare nè bere, ma solo  contemplarli e stare insieme. O che cosa —  dice — pensiamo, che debba essere, se uno abbia  la sorte di vedere il bello per sè, sincero, puro,  inmisto, e non già ripieno di carne umana e di  colori e d’altra molta inezia mortale, ma possa  riguardare esso il divino bello di per sè uni¬  forme? (245) O credi tu, — dice — che sia spre¬  gevole la vita dell’uomo che guardi colà, e quello  contempli sempre e stia insieme con esso? O  non intendi — dice —, che quivi soltanto, ri-       9>   con coi C   il W'“> "" „“n immagini di »■«<■,  li non vp.ra.    , Kiio con * a .W,   ..aa'»'" ' li parto*" ” " ma vitti vera,  tocc^^ una virtù vera e   ncca il ^di diventare amico di   ““ ^   ^'riisse aVf anche gli ^1“*»   r 70 di persuader *_ potrebbe da nessuno  siffatto non si p   ""TC aiuto all’ umana u«umj^.   Moro. '■"'"‘‘'•«“'“J’l'onoro io atasso (a4«).   uomo onori Auu°" esercito soprattutto e   c nelle cose di am^ ^ ^^.omio la   v’esorto gh ^e a tutto mio pot«e.   potenza (H?) discorso tu ritienilo C   Or bene, o ,d Amore’, se no.   detto, se ti piace, m ^^^ba.   e tu dagli quel nome, che   XXX   Finito ch’ebbe   raccontava, lodassero , parlando aveva   a dire qualcosa, perch jq ecco all'im-   alluso al discorso di lui- q sentire   provviso la porta del au yseiù da^ un   un gran rumore come i ^ una flautista,  banchetto, e si ode ^ '^^ „g 22 Ì, non andate  Sicché Agatone dicesse. o entrare se   a vedere? e se è uno di casa       213    9 ^ Convito   no, dite, che nbbiamo finito di ber  • E di li a poco si udì nellS,,,! ci   :0 frarlirìn    urlando    SI riposa   di Alcibiade briaco fradicio, che  domandava dove è Agatone, e ordinav^'j  tasserò da Agatone. Sicché la flautista  reggeva e alcuni altri della compagnia^ j  tarono da loro ; e, coronato di una coróna f  di edera e viole e tutto coperto il capo dì  infinità di nastri (248), lo fermarono sulla po''*'*  ed egli disse: Amici, vi saluto; un uomo, bria*’  proprio fradicio, lo pigliereste con voi a bere 0  ce ne dobbiamo andar via, dopo avere soltanto  coronato Agatone, eh’ è quello per cui siamo ve¬  nuti ? Giacché -io — dice — jeri non ci potetti  essere, ma vengo oggi, coi nastri in capo, perché  dal mio capo quello del più sapiente e deh più  bello io ne recinga (249). Forse, riderete di me  perché son briaco? Ombè, io, quand’anche voi  ridiate, pure so bene che dico il vero. Ma dite  su, a questi patti entro o no? Beverete 0 no  con me? E qui tutti strepitarono e gridarono  che entrasse e si sdrajasse, e Agatone ve lo in¬  vitò: ed egli, condotto dalla sua gente, venne;  e, poiché a un tempo si levava di capo i nastri  come per incoronarne altri, non s’accorse di So¬  crate, che pure gli stava davanti agli occhi, ma  si messe a sedere accanto ad Agatone in mezzo  tra Socrate e questo ; — giacché Socrate s’era  tirato da parte per fargli posto (250): — c cosi  sedutoglisi accanto fece riverenza ad Agatone  e lo coronò. E Agatone qui disse : Ragazzi, le¬  vate le scarpe ad Alcibiade, perchè si metta a  giacere in terzo con noi. Sicuro — rispose Alci-     compagno no jo’   .uj è questo te Socrate, e al   •e- - voltato»' f ^   &"<r6 "" Dunque, da capo   L«'°. ii! 5°““'“ Tkf”' '» P““’ “”"l   Pi qui sdtaU'^®.^,improvviso dove meno   '"'ffpoi ti sei messo a g^ace^   ^P''lcaJto ad Ma tanto hai   a«o o qua dentro. _ uarda   luauti sono q Agatone — disse, ^&   E Socrate, cerchi: l’amore che to P   . nii vieni in aiuto ; P un affar   fili è diventato per m , m-   :;rDifatti, dal tempo <^e m   *or..o '»i. “"„rp«-a D   ”' dTco”o«“re Ln o-,»no V sto  nessuna, ne di c invidioso fa cos   qui ingelosito di ^ "“"J.peri, e poco manca  strabiliare e mi copr Addosso. Guarda,   che non mi metta le m^n  dunque, che non faccia un d  ,na metti pace tra ° ^el furore di costui   lenza, difendimi tu, perd è addirittura   e del suo innamoram -pigliò Alcibiade:   Pace fra te e me ^ jto io ti g^»«'  no davvero. Se non ehejer p,,te   girerò poi; ora, Agatone questa testa qui   L nnstri, P»cM .0 «e J   maravìglìosa di ’ oronaw 'e. nien«*=   pioverà, che io 1'“ “f ji,cofii, noi sol¬  ete viiiee tuni gli 7   Platone, Vo/-    9 ^ Convito   tanto dianzi, come tu, ma sempre   renato. ’ ho   E qui, prese i nastri, ne cinse So  mise a giacere.   XXXI   E quando si fu sdraiato: Su via, amici  disse — a noi ; mi sembrate gente che non T  ancora bevuto; questo non va, bisogna bere; cllè  cosi è l’accordo nostro. Or bene, io scelgo a  re del bere, insino a che voi abbiate bevuto ab¬  bastanza, me stesso (251). Agatone porti, se  v’è, un gran tazzone. O piuttosto non occorre-  porta qua, ragazzo, quel bigonciolo (252) J  vedendo che conteneva più di otto cetili. E  riempitolo, tirò giù tutto prima lui; poi, ordinò,  che si mescesse a Socrate, e insieme disse: Con  Socrate, amici, l’invenzione non mi giova a nulla;  questi può bere quanto uno vuole, e non v’è  caso che si ubriachi mai. E Socrate, quando il  ragazzo gli ebbe mesciuto, bevve. Qui Erissima-  co, — Che modo è questo — disse —, Alcibiade ?  cosi nè discorriamo di nulla sul bicchiere, nè  c’intoniamo un canto; oh! berremo proprio come  assetati ? E Alcibiade di rimando : O Erissi-  maco, ottimo figliuolo di ottimo e sapientissimo  padre, salute. E anche io a te — rispose Eris-  simaco; — ma che s’ha egli a fare? Il piacer  tuo ; giacché ti si deve obbedire.   Un medico vai solo uomini molti ( 253 );   1   sicché comanda ciò che tu vuoi.     t)    99   Convito „ • a   tS»aS» 'TSsfAS:: °»   ‘T .Coe ’l‘»”‘> Ti Tjo che «»»   fu W» So»»"-»""”*'   parli bene; però bad , non hanno   di fronte a discorsi ^ aguale. E insieme,  bevuto, può non esser p S gocrate ha   b-ruomo. appunto «>«   addosso. , __ disse Socrate?   Ti vuoi chetare Alcibiade -, non   Affé di Posidone - "P‘P^ f non v’ è   ci metter bocca; che io in faccia a te, no   nessuno al mondo che o crei.   Ebbene, tu fa’ cosi, — riprese i.   se tu vuoi, loda de_? S’ha a fare.   Come dici -ripetè Alcibiade ^   Erissimaco ? Che io dia *   lo gastighi davanti a ^ che hai tu   O tu — interruppe Socrate • ^   per il capo? Mi loderai per canzo  farai?    r\ir<S W vprn.               Convito   An^i, il vero Io permetto, e t!  dirlo. *1 comando d-   Son pronto — disse Alcibiade - • ’   Se io dico qualcosa di non vero ^osl   a mezzo, se vuoi, e di che quella 6  giacché di proposito bugie non ne .“Sia;   = '5 però le cose io le dico, secondo mi c. .  in mente l’una dall’altra, non ti stup°*’’’'““°  non è punto facile, a un uomo in quesm  lo spiegare alla lesta e per ordine roriginar°à    XXXII    B    c    Socrate, amici, io mi proverò a lodarlo cosi  per via d’immagini. E forse questi crederà, che  io lo canzoni; ma l’immagine in verità avrà per  suo motivo il vero, non lo scherzo. Io dico  dunque ch’egli è somigliantissimo a cotesti (254)  Sileni esposti negli studii degli scultori, che gli  artisti fanno con zampogna o flauti in mano;i  quali aperti in due mostrano aver dentro imma¬  gini di Dii. E dico per giunta, ch’egli s’assomigli  a Marsia il Satiro. E, che tu sia di aspetto simile  a questi (255), neanche tu, Socrate, ne faresti  questione (256) ; ma come tu somigli anche nel  resto, sentilo ora. Sei tu petulante o no? Ché,  quando tu non lo confessi, presenterò testimoni.  Ma non flautista forse? Anzi molto più niira-  bile (257); l’altro, di fatti, attraeva gli uòmini  colla potenza, sì, della sua bocca, ma attraverso  istrumenti, e anche ora, chi suona le cose di  ui, giacché quelle che Olimpo sonava, io le      D    lOI   Convito   . o di Marsia, .f^eseguisca un buon   , cenate di quello, o fi ^ causa,   Si ““   uno si »»'* l’S ’ta'bisogno degli Di'   ;^ono, f\u gli vai tanto innanzi,   d’iniziazioni. ^«ieni quel medesimo   che senza istrumen . c y Almeno, noi,   S.0 =0» f““ “« uii™- Ti   quando si ode discorrer^ ^i   dicitore anche nulla, vi so dire, a   un altro, non ne impor te, o un altro   nessuno; • gè anche chi li reciu   che reciti i discorsi tuo , ^na   sia proprio un uomo a P^ ^ restiamo sba-  d„„L d ua uomo o se non   lorditi 0 '"“““V,, per briaco, vi rac-   velessi passare addinttur p   cornerei con giumme»»; fpoSsento tuttora,  risentito dai suoi   Che, quando ><= '’SÌ'"'“ ^   XìltnSmi àendo Pericle e altri buoni   parlatori, io ero anima mi   ma non provavo nulla di sim ,   “siTer^nrTa’i “r^esto Marsia gui  mMtanno pib volte fatto tale   renili, non sacrate, tu non dirai ai6   nel mio stato. E ciò, o S , , mscienza   che non sia vero. E   che, se volessi prestare sforza   ma mi seguirebbe il medesimo.    I        102    Convito    a convenire, che, con tanti mancamenti ,  trascuro me, e attendo agli aflfari  Sicché io, turandomi le orecchie si  Sirene, mi fo forza (261) e fuggo vir°'”^  invecchiare seduto accanto a costui  quest’uomo m’ò seguito quello che nessuno    ere-    derebbe di me, vergognarsi di uno. Io di  solo mi vergogno. Giacché sento dentro    di non poter contradire, che non bisogni far  quello a che lui mi esorta; ma poi, appena io mi  son staccato da lui, ecco, la voga dell’aura po  polare mi vince. Sicché io lo scanso e lo fuggo-  e quando lo vedo, mi vergogno di ciò che si t  caduto d’accordo. E tante volte io vedrei vo¬  lentieri che non fosse più tra gli uomini; ma  d’altra parte, se ciò accadesse, so bene che me  ne rincrescerebbe assai più, per modo che di que¬  st’uomo io non so che mi fare.    XXXIII   Dunque, dalle sonate tanto io che molti altri  abbiamo provato tali effetti, da questo satiro. Il  resto, sentite da me, com’egli è simile a quelli  a cui l’ho raffigurato, e la potenza ch’egli ha,  come sia maravigliosa. Perché siate ben persuasi  che nessun di voi lo conosce ; ma ve lo scoprirò  D io, giacché ho cominciato. Voi vedete che So¬  crate ha tenerezza pei belli, c gira loro sempre  d intorno e n’ è tutto fuori di sé come mostra  la sua figura (262); e non è da Sileno cotesto?  Eccome 1 Giacché e’se l’é avvolta per di fuori’     "“'"ù Sto» scolpi»; »»   B 8 “'» ''°' o>‘‘“s"r-   . %A rhe son levai'- «ì^rp e noi altri   Ma quapi»   canzonare la ^ ^ erto, io non so se   si mette sul seno ed t • p jo gl*   qualcuno ha visto t s'rnulaar^^^„ ^   ho visti una volta, doversi far m   aurei e bellissimi e m ^;,enendo   tutto 50 della mia bellezza,   che sul seno si fo^s^ ^ inaspettato c una mia  lo giudicai un guada S P . modo,   ,„„„„a "«"tS,.; d' «pptendera .«.o ci 6  : compiacendo Socrate ore   i che costui sapeva, già ^ Sicché, con   ! ne tenevo non vi so <\ solito di   ' CS4) " ursenza uno accompagna-   d- allora io P». ^,o^.a B   toro e me no “i™,“ ' ° bone attenti, e se   dire tutta f sbàttimi. Adunque, io   mentisco, tu, bocrate, ^   me ne stavo, amici, ^ meco nei di¬  devo eh’ egli sarebbe su i o * amato   scorsi che un innamorato questo non   a quattr’occhi, e ne 8° 5^0^52 meco come   ne fu nulla, proprio nu s , . _   era solito, e dopo, passata cou me tutta .    103      D    2l8    Convito   nata, se n’andò. Di poi lo .  ginnastica (265); troverò quivi il bL" ^   ' ;->g-avo. Ebbene fece ginnasdcrt ’'"’■«’-  lottò spesse volte, senza che ci fo«  nessuno. E che s’ha a dire? No  un passo avanti. Poiché non venivo"  nessuna di queste vie, mi parve cheV*^^^'^'^  dovesse assalirlo alla gagliarda, e una voir°u‘  nn ci ero messo, non smettere, ma  oramai che affare é questo. Sicché lo inlv  a cenare meco, tendendogli un agguato propri!  come un innamorato all’ amato. E neanche 0 •  diede retta subito; pure col tempo s’arrese. Ora  la prima volta eh’e’ci venne, volle, finito dì  cenare, andar via. E per quella volta io ebbi  vergogna e lo lasciai andare; ma la seconda,  fatto il mio piano, dopo che ebbe cenato, con¬  versai con lui molto avanti nella notte, e sic¬  come voleva andar via, col pretesto che fosse  tardi, lo forzai a rimanere. Ora egli si mise a  riposare sul letto vicino al mio, su cui aveva ce¬  nato, e nella stanza non v’ erano altri a dormire,  fuori di noi. E, sin qui, è un discorso da potersi  fare a chiunque (266) ; ma di qui avanti non mi  sentireste parlare, se, prima, dice il proverbio,  il vino non fosse veritiero coi fanciulli e senza  1 fanciulli (267) : e poi mi pare ingiusto, una  volta che mi son messo a far l’elogio di So¬  crate, di nascondere un suo superbissimo atto.  E per di più l’effetto del morso della vipera ha  luogo anche in me. Giacché raccontano, che la  persona che l’ha provato, non vuol dire com’ egh‘  k stato, se non a’morsicati, poiché questi soli    Convito _ j   -inno e compatiranno, 'siccht i   -r. £ o-» ->    105  do-   ite"‘^^^‘‘”s°to'’fare e dire doloroso   (jorso fl P potesse essere   fTX ‘'“°"®.°e'-e'morso da discorsi  ‘ me gli s‘ ^ ' no neggio d’una vipera,   ffamio operare Agatoni, Ens-   ,rte vedendomt davmi Aristofam-   simachi, Pausami, ^nsto ^^^jj^inarlo, _e   Socrate stesso, che ^ e dal delirio   tanti altri? (268) Che sen.   della filosofia siete m voi    B    xxxiv   Poiché, dunque, amici, p^^ve^ che io   ; i ragazzi furono usciti, a P  lon dovessi pigliarla larga con ^jgsi;   libera quello ^^tto - quello rispo-   Socrate, dormi? ^ Che cosa?-   se - Sai tu che cosa ho ^ciso   disse. A me — diss to » „ g ti vedo esitare  innamorato «ùo degno ' questa di-   a farmene parola. tJr , grande il   sposizione-, io ritengo . g y’è altro che   non compiacerti anche melò e se           D    319    Convito   ti faccia bisogno della sostane-, „  amici miei. A me nulla è di . ° deei:   quanto diventare il migliore che iT'' ''‘"4  CIÒ io credo, che nessuno mi sìa aium à   di te. Ora, a non compiacere un  tua fatta io mi vergognerei assai più dav °  persone di senno, che non davanti alla ge  stolidi a compiacerlo (270). — E lui^ .  ebbe ascoltato, con aperta ironia, e proL°io'’"  è solito, rispose: — O caro Alcibiade rTw  m realtà di essere un uomo non dappoco  : cade che sieno vere le cose che tu dici di’  v’è in me una potenza per cui tu potresti diven¬  tare migliore ; una infinita bellezza tu avresti  scorto in me, e superiore di molto alla venustà  eh’ è attorno a te. Sicché se tu, avendola vista,  tenti di accomunarti con me e barattare bellezza  con bellezza, non è piccolo il vantaggio che tu  pensi di prendere sopra di me, anzi in cambio  dell apparenza tu cerchi di acquistare la realtà  del bello, e pensi di barattare davvero « oro con  ferro » (271). Ma, beat’uomo, guarda meglio;  che io non sia nulla e tu t’inganni. Appunto, la  vista della mente comincia a vedere acuto, quanto  quella degli occhi prende a scemare del vigor  suo; ora tu sei ancora lontano da questo. — E  io, sentito ciò — Quanto a me — ripigliai —, le  mie disposizioni son quelle, nè se n’ è detto nulla  diversamente di come penso : decidi poi tu come  tu credi meglio per te e per me. — Ma di ciò —  riprese tu dici bene ; sicché a suo tempo ci  consiglieremo insieme e faremo quello che ci  parrà il meglio cosi in questa, come in ogni    107   Convito cpntite e   „ _ Ora io. P'' “'lomTsaW'.'’*®   loi”' “reaovo aver lanca» ni la-   fi'"' /'“Vr“iu. 5o réti C   Latori' P‘“jJ era <1 ly™ le mairi   alvino   (attorno a q ^ cosi l’m^era no • £b-   ffrtrbtare aire,   ::tiot-r:it:'t'rpt   venustà mia e la P __ ^ giudici ( 273 )  che valesse qualcosa fJ / x\o di Socrate —  chè voi siete affidigli Dn. affé delle   giacché sappiate, che 1 , dormito con   Dee, mi levai da ^ avessi dormito   Socrate, “ to maggiore.   I con mio padre 0 coi   xxxv   Ora i^oPO f ■ *'par;»   ; rr lataft e la -e^po-a ' U co^»   di lai, io che m'ero “"rX;°,„ai, goanto  come non credevo ?orcr }^conn^. l^^^niera che   a saviezza e fortezza d’animo? Dima   10 non sapevo, come ad » neanche vedevo   I rinunziare alla sua compag ’ . ^ conoscevo ^   11 modo di conciliarmelo. invulnerabile   bene, che al denaro egli mezzo   da ogni parte che Aiace al ferro (274), e    1          io8   'invito   con cui solo credevo che si  ni era sfuggito di mano. SiLSf P^end  zato, e fatto schiavo da quest’uo'° ’‘nbaf“‘  mai nessuno da nessun altrui- <:ome   casi m-aran ,„.i seguì»   cenimo tuttedduela compagna f'   quivi fummo compagni di mensa   cominciare, non solo nel durar ‘le  mi vinceva, ma in ogni altra cosa  ogni volta che - son casi che succedonot'’^““-  ra - intercettati in alcun posto, eravamo os^oT-  a rimanere senza cibo, gli altri, quanto Tre?  stervi, non valevano un ette. E d’altra narto •  banehetti , non c’ era chi sapesse goderne Se ®  lui, cosi 111 tutto il resto, come anche nel bere-  e non ci ha gusto —, s’ei v’era costretto, vinceva  tutti (276); e quello che è più maravighoso,  Socrate briaco non c’ è uomo al mondo che l’ab¬  bia visto mai. E del resto mi pare che di ciò  s avrà la prova subito. Q.uanto poi a resistere  al freddo e là gl’inverni sono terribili (277) —  fece cose mirabili in tanti altri casi, e una volta,  essendo gelato come peggio non si può, e tutti  o non uscendo fuori, o, se pure, coperti tanto  da fare stupire, e calzati e coi piedi rinvoltati in  feltri e pelli di pecora, ecco lui, con un tempo  di quella sorta, se n’esce con un mantello come  quello che soleva portare anche prima, e scalzo  camminava per il ghiaccio meglio che gli altt*  calzati. I soldati lo sogguardavano come uno  che li sprezzasse.    CoiifVÌ‘°    109    D    " 'tee e tollerò l’uom forte   or che merita di sentirlo. Ve-   „ giorno all’esercrto^ m un   r un pensiero stett   r! iJettendo,epof ;;teri E   Csniesse. nta ^ /nomini se n’accor-   g;; maravigliati ^l^'^^tuminando qualcosa.   ente dall’t^lba J r^g), - poicltè era se-   finirla' alcuni Joni (,27 J __ era   » io--'   a’estate — 1 \nsieroe per spiare, se lui sa   all'aria fresca, e si, in ^ ghette   •ebbe stato ritto ^ non si fu levato   ritto, sino a che non ^ ^ j^ra al sole (279)»   il sole; di poi, fatta la preg. baua-   se n’andò via. E ’ - giusto che gh si   glie-giacche questo men^^ ,   renda -, quando accadd ^ „es-   generali dettero la_ palma PP^^^ nou   sun altro uomo '"i salvò ^   volle abbandonarmi ferito. '50 Socrate,  c le armi c me. E j». S»»"“ ’ si desse la  sin d’allora dichiarai a g rimp^vero   palma a te, e di ciò tu n avendo i gene-   e non dirai che io «tentisco- e co¬  vali riguardo al mio gta facesti premura   lendo dare la palma a endessi io e non   anche piò dei generali che i* F          no    Convito    221 tu. Ancora, amici, valse  templar Socrate, quando ]  in fuga da Delio (281); g  sente a cavallo, lui da f  sbaragliati già tutti, egl     Lachete, e io m’imbatto per li à   esorto subito a star di buon animo  loro di non abbandonarli. Or hf’no  crate mi dette più bello spettacolo che in p ■  dea — giacché quanto a me stavo meno in pa?'  per essere a cavallo — prima, in ciò ch’egb  perava di molto Lachete, quanto all’essere p«-  B sente a sè; poi a me pareva, o Aristofane,-  sai, la tua frase — che anche li egli camminasse  come qui, « in sussiego e guardando di scan-  cio » (282), sbirciando tranquillo, e lasciando  scorgere a tutti, persin da molto lontano, che,  se uno lo toccherà, e’ farà difesa ben gagliarda  quest’ uomo. Perciò se ne andava via sicuro e  lui e l’altro; giacche quelli che in guerra mo¬  strano questa disposizione, non li toccano, sto  per dire, neppure; invece quelli che fuggono  C alla dirotta, questi sì, gl’inseguono.   Ora, di molte altre cose e mirabili uno po¬  trebbe lodare Socrate, però in altre parti si po¬  trebbe forse dire lo stesso anche di altri, ma quel  non essere simile a nessuno nò tra gli antichi  nò tra i presenti, questo a me par degno di ogni  maraviglia. Giacché Brasida (283) e altri uno se  li potrebbe figurare come fu Achille; e come  D d’altronde fu Pericle, così Nestore e Anteno¬  re (284) ; t ve ne sono diversi ; e gli altri uno se  li potrebbe figurare del pari (285) ; ma uno fatto    in    originalità, e lui e i suoi    f ;tono. P“/““ ‘S ù.   r‘*'^"‘Jbe’ neppn^® a meno che non si as-   ^ -^non a nessun uomo, ma    ;22    . vho tralasciato sinora-, che   Glacchèquesto to somigliantissitni a. E   nche i discorsi di 1 volesse   Sileni che s’aprono. prima gli pat'   jS.«p ‘ ■‘r'” tts^òl p»°'p ' >'   rebbero da ridere, tal propriamente di   I So»i 1“„S i “t   Satiro petulante, p sempre   e calzolai e ’ ^^lodo, sicché ogni per-   stesse cose nello smss ^^.^aerebbe   sona inesperw e priva 3,   beffa dei suoi discon . rima   le vede aperti (286) e p j^^nno   lì „ov«à i soli .<!■?'“' in sè «pia   poi dmn®n» ' „.i,o an«   di simulacri di Virtù, conviene meditare   con mira a tutto per bene,   a chi voglia essere una p lodo   Queste, o amici, son . quelle di   Socrate; e in <^he egli m’ha   cui lo biasimo, v ho questo sol- B   offeso. E, in fede nnn.non ^^^^.^ne   tanto a me, ma anche ^ ^ tantissimi   e ad Eutidemo di Diocle (28?^          112 Convito   altri, ai quali lui dando ad intendere di v 1  essere ramante, se n’è fatto l’amato in camk-'^  d’amante. È appunto quello che dico anche*°  te, Agatone; non ti lasciare ingannare da lup  ma ammaestrato da’ casi nostri, tienti in guardia*  e non imparare, secondo il proverbio, come un  ragazzo (288), a tue spese.    XXXVIII   C Quando Alcibiade ebbe finito di parlare, si  fece, raccontava, un gran ridere della franchezza  con cui egli si dava a divedere tuttora inna¬  morato di Socrate. E Socrate — O Alcibiade —  disse—,tu non sei per niente briaco, mi pare;  altrimenti non ti saresti provato, rigirando il di¬  scorso con tanta finezza (289), ad occultare la  causa per cui hai detto tutte queste cose ; e l’hai  messo poi come di passaggio, in fine, quasi non  D avessi detto ogni cosa per metter male fra me e  Agatone, giacché, a parer tuo, io devo amar te  e nessun altro, e Agatone deve esser amato da  te, e da nessun altro al mondo. Ma ti sei fatto  capire; chè cotesto tuo dramma satirico e Sile-  nico s’è scoperto. Ma, caro Agatone, ch’egli  non ne profitti punto; anzi, fa proposito, che  te e me non ci separi nessuno. E Agatone ri¬  spose: Certo, o Socrate, tu risichi di dire il  E vero: e lo argomento anche da questo ch’egli  s’è messo a giacere fra te e me, appunto per  separarci. Or bene, egli non ne profitterà niente  affatto; anzi, ecco, mi levo e mi metto a giacere    Hi   Convito __   — disse Alcibiade , q proposto   Jm’ba a dare lascia,   to"'" Iffarnii in wtto. Ma se ^   d' lomo che Agatone si lodato   niirabd u^'!: Socrate ^   ■u capo nie, in uomo, lascia   ria me? (^9°^ ^ ’ onesto giovinetto che sia   re e non invidiare ^ f^pto desiderio di   lodato da me; chè . y, -soggiunse Aga-   tone -, no^ mai. di mutar posto,   risoluto, ora P" siamo alle sohte   esser lodato da g^^ate, b mtpos-   rispose Alcibiade , P belle per   sibila a chiunque altro di g persuasivo   sene. E »«' «»« p^cUi «stm »   ha trovato e con clie u  giaccia vicino a lui   xxxi^   1 Agatone, dunque   dar a sdraiarsi accanto S ^ue   .ir improvviso s i, uscita di uno, si   [ porte; e trovatele aper P ^ ^ g,^eerc,   l fecero avanti m ver . ^i a bere vino   I c tutto andò sossopra e SI tu o ^   B Platone, Voi. IX.      quello che dicessero, Aristodemo dichiarasse?  non ricordarsene nel resto; poiché non v’aveS    D assistito da principio, e sonnecchiava ; ma la som?  ma, diceva, era, che Socrate li costringeva a  convenire, che appartenga allo stesso uomo il  saper fare tragedia e commedia, e chi per virtù  d’arte (291) sia autor tragico, sia anche comico;  del che costretti a consentire, senza seguire gran  fatto, prendessero sonno, e prima si fosse ad¬  dormentato Aristofane, poi, a giorno fatto, Aga¬  tone. Quanto a Socrate, dopo averli messi a  dormire, si levasse e se ne andasse via,— e  lui, com’era solito, lo seguisse —; e andato al  Liceo (292), lavatosi, vi si trattenesse come al¬  tre volte, il rimanente della giornata, e trat¬  tenutosi cosi, andasse poi la sera a riposare  a casa. Francesco Saverio Dòdaro. Dodaro. Keywords: tracce di un discorso amoroso, mappatura, signature, segnatura, cantata duale, cantata plurale, cantata duale, origine del romano, edipo, caino, mancanza di Lanca, communicazione inter-mediale, communicazione inter-mediale e luto, immagine e segno, senso, sensibilia, visibilia, Freud, Jakobson, Levi-Strauss, Magritte, “silenzo silenzo silenzo silenzo” Catullo poema rima ritmo batto cuore figlio madre padre orale genitale ma-ma etymology of ‘altro’ – Hegel on conscience of ego and conscience of alter, Sartre on ‘nous’ and love affair – infinito – lingua a codice – codice come ripetizione – ripetizione dei suoni del cuore – ontogenesi ripete filogenesi – commune, vacuum del ventre della madre, etimologia di termine chiave, fonema, unita etica, unita emica, Speranza, Schultz, unita emica come classe di unita etica – criterio: un accordo o codice di relevanza – l’intenzione del mittente. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Dòdaro” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51766439354/in/dateposted-public/

 

Grice e Donà – sessualità – filosofia italiana – Luigi Speranza (Venezia). Filosofo. Grice: “Well, Donà has philosophised on almost anything – I drank wine; he philosophises on it – ‘bacchiana,’ he calls it – he has also philosophised on ‘eros’ for which he uses the very Italian idea of ‘sesso.’ – And he has also punned with ‘di-segnare’ – ‘di-segno’ – In sum, a genius!” Si laurea a Venezia sotto Severino, presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Venezia, iniziai a pubblicare diversi saggi per riviste e volumi collettanei, partecipando, lungo il corso degli anni ottanta, a diversi convegni e seminari in varie città italiane. A partire dalla fine degli anni ottanta, collabora con Massimo Cacciari presso la cattedra di Estetica a Venezia e coordina per alcuni anni i seminari dell'Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Venezia. Sempre a partire dalla fine degli anni ottanta, inizia la sua collaborazione con la rivista di architettura Anfione-Zeto, della quale dirige ancora oggi la rubrica Theorein. In quegli stessi anni, fonda, con Massimo Cacciari e Romano Gasparotti, la rivista Paradosso. Negli anni novanta, invece, ha insegnato Estetica presso l'Accademia di Belle Arti di Venezia. Attualmente insegna Metafisica e Ontologia dell'arte presso la Facoltà di Filosofia dell'Università Vita-Salute San Raffaele di Milano. È inoltre curatore, sempre con Romano Gasparotti e Massimo Cacciari, dell'opera postuma del filosofo Andrea Emo. Dirige per la casa editrice AlboVersorio le collane "Libri da Ascoltare" e "Anime in dettaglio" ed è membro del comitato scientifico del festival La Festa della Filosofia. Ha scritto diversi saggi e articoli per riviste, settimanali e quotidiani di vario genere. Collabora con il settimanale "L'Espresso".  Attività musicale In qualità di musicista, dopo aver esordito, ancor giovane, con Giorgio Gaslini e con Enrico Rava, forma un suo gruppo: i Jazz Forms, di cui è leader. In seguito sviluppa il suo linguaggio trasformando l'idioma ancora bop dei primi anni in una scrittura più articolata in cui entrano in gioco elementi tratti dalla musica rock e da molte esperienze etniche maturate nel frattempo con diversi gruppi musicali. Si esibisce in diverse città italiane con un sestetto, in cui ad accompagnarlo sono una chitarra, una batteria, un basso, delle percussioni e una tastiera. Nasce così il Massimo Donà Sextet. Suona con musicisti che sarebbero diventati protagonisti della scena musicale italiana. Suona in jam session anche con alcuni padri storici del jazz, come Dizzy Gillespie, Marion Brown, Dexter Gordon e Kenny Drew. Riprende a suonare professionalmente e forma un nuovo gruppo: il Massimo Donà Quintet, con il quale si esibisce in Italia e all'estero. Il quintetto diventa quindi un quartetto; che è la formazione con cui Donà suona da almeno tre anni. A tutt'oggi il nostro ha all'attivo ben sette CD incisi con suoi gruppi. La sua etichetta di riferimento è sempre la "Caligola Records", il cui responsabile artistico è Claudio Donà, fratello di Massimo e importante critico musicale jazz.  Altre opere: “Il 'bello, o di un accadimento. Il destino dell'opera d'arte” (Helvetia, Venezia); “Le forme del fare” (Liguori, Napoli); “Sull'assoluto (Per una reinterpretazione dell'idealismo Hegeliano” (Einaudi, Torino); “Aporia del fondamento” (La Città del Sole, Napoli); “Fenomenologia del negative” (Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli); “Arte, tragedia, tecnica” (Raffaello Cortina Editore, Milano); “L' Uno, i molti: Rosmini-Hegel un dialogo filosofico” (Città Nuova, Roma); “Aporie platoniche. Saggio sul ‘Parmenide’” (Città Nuova, Roma); “Filosofia del vino” (Bompiani, Milano); Magia e filosofia (Bompiani, Milano); Joseph Beuys. La vera mimesi, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo (Milano); Sulla negazione, Bompiani, Milano); Serenità: una passione che libera, Bompiani, Milano); La libertà oltre il male” (Città Nuova, Roma); Il volto di Dio, la carne dell'uomo, con Piero Coda, AlboVerosio, Milano); Dell'arte in una certa direzione” (Supernova, Venezia); “Filosofia della musica, Bompiani); Il mistero dell'esistere: arte, verità e insignificanza nella riflessione teorica di Magritte” (Mimesis, Milano); L'essere di Dio. Trascendenza e temporalità” (AlboVersorio, Milano); Dio-Trinità. Tra filosofi e teologi” (Bompiani, Milano); Arte e filosofia” (Bompiani, Milano); “L'anima del vino. Ahmbè, Bompiani, Milano); “Non uccidere” (AlboVersorio, Milano); L'aporia del fondamento, Mimesis, Milano), “I ritmi della creazione” (Bompiani, Milano); La "Resurrezione" di Piero della Francesca, Mimesis, Milano); Il tempo della verità, Mimesis, Milano; Non avrai altro Dio al di fuori di me” (AlboVersorio, Milano); “Il conciliabile e L'inconciliabile. Restauro Casa D'Arte Futurista Depero” (Mimesis, Milano-Udine  PANTA decalogo” (Bompiani, Milano); Filosofia. Un'avventura senza fine, Bompiani, Milano); Comandamenti. Santificare la festa” (il Mulino, Bologna  Abitare la soglia. Cinema e filosofia, Mimesis, Milano-Udine); “Eros e tragedia, AlboVersorio, Milano); “Il vino e il mondo intorno. Dialoghi all'ombra della vite” (Aliberti Editore, Reggio Emilia  Figure d'Occidente. Platone, Nietzsche e Heidegger” (AlboVersorio, Milano); “Le verità della natura, AlboVersorio, Milano”; “Filosofia dell'errore” – errore vero, la verita come errore relative – “Le forme dell'inciampo, Bompiani, Milano); “Parmenide. Dell'essere e del nulla” (AlboVersorio, Milano); “Eroticamente: per una filosofia della sessualità” (il prato, Saonara (Padova)  Misterio grande. Filosofia di Giacomo Leopardi, Bompiani, Milano); “Pensare la Trinità. Filosofia europea e orizzonte trinitario” (Città Nuova, Roma  Erranze (Alfredo Gatto), AlboVersorio, Milano); L'angelo musicante. Caravaggio e la musica” (Mimesis Edizioni, Milano-Udine); “Parole sonanti. Filosofia e forme dell'immaginazione” (Moretti & Vitali, Bergamo  J. Wolfgang Goethe, Urpflanze. La pianta originaria; Albo Versorio, Milano); La terra e il sacro. Il tempo della verità, Luca Taddio, Mimesis, Milano); Teomorfica. Sistema di estetica” (Bompiani, Milano); “Sovranità del bene. Dalla fiducia alla fede, tra misura e dismisura, Orthotes, Salerno); “Senso e origine della domanda filosofica, Mimesis, Milano-Udine); “La filosofia di Miles Davis. Inno all'irrisolutezza” (Mimesis, Milano-Udine); “Dire l'anima. Sulla natura della conoscenza” (Rosenberg & Sellier, Torino); “Tutto per nulla. La filosofia di William Shakespeare” (Bompiani, Milano); “Pensieri bacchici. Vino tra filosofia, letteratura, arte e politica” (Edizioni Saletta dell'Uva, Caserta); “In Principio. Philosophia sive Theologia. Meditazioni teologiche e trinitarie, Mimesis, Milano-Udine); “Di un'ingannevole bellezza. Le "cose" dell'arte” (Bompiani-Giunti, Milano); “La filosofia dei Beatles” (Mimesis, Milano-Udine); “Un pensiero sublime: saggi su Gentile” (Inschibboleth, Roma); “Dell'acqua” (La nave di Teseo, Milano); “Essere e divenire: riflessioni sull'incontraddittorietà a partire da Fichte” (Mimesis, Milano-Udine); “Di qua, di là. Ariosto e la filosofia dell'Orlando Furioso” (La nave di Teseo, Milano); “Miracolo naturale. Leonardo e la Vergine delle rocce” (Mimesis, Milano); "Arte e Accademia", in Agalma; New Rhapsody in blue, Caligola Records; For miles and miles, Caligola Records; Spritz, Caligola Records; “Cose dell'altro mondo. Bi Sol Mi Fa Re, Caligola Records); Ahmbè, Caligola Records; Big Bum, Caligola Records; Il santo che vola. San Giuseppe da Copertino come un aerostato nelle mani di Dio, Caligola Records  Iperboliche distanze. Le parole di Andrea Emo, Caligola Records. Il mistero della bellezza svelato da Massimo Donà. Intervista Alberto Nutricati, in L'Anima Fa Arte Blog e Rivista di Psicologia Video-intervista sul mistero dell'esistenza, su asia. "Arte e Accademia", in Agalma, Wikipedia Ricerca Mascolinità assieme di qualità, caratteristiche o ruoli associati a ragazzi o uomini Lingua Segui Modifica La mascolinità (o il genere maschile) è un insieme di attributi, comportamenti e ruoli generalmente associati agli uomini. La mascolinità è costruita socialmente e culturalmente,[1] anche se alcuni comportamenti considerati maschili, come indica la ricerca, sono biologicamente influenzati.[1][2][3][4] Fino a che punto la mascolinità sia influenzata biologicamente o socialmente è oggetto di dibattito.[2][3][4] Il genere maschile è distinto dalla definizione del sesso biologico maschile,[5][6] poiché sia i maschi che le femmine possono esibire caratteristiche maschili.   Nella mitologia greca Eracle è uno dei massimi simboli di mascolinità. Gli standard di mascolinità variano a seconda delle diverse culture e periodi storici.[7] Le caratteristiche tradizionalmente, culturalmente e socialmente considerate maschili nella società occidentaleincludono virilità, forza, coraggio, indipendenza, leadership e assertività.[8][9][10][11]  Il machismo è una forma di mascolinità che enfatizza il potere ed è spesso associata a un disprezzo per le conseguenze e la responsabilità.[12]  Il suo opposto può esser espresso dal termine effeminatezza.[13] Uno dei sinonimi maggiormente usati per indicare la mascolinità è virilità, dal latino virche significa uomo.  Contesti storici e culturali                            Modifica L'interpretazione ed il riconoscimento della mascolinità variano all'interno dei diversi contesti storici e culturali. Nell'antichità era prevalente prendere a modello l'uomo d'arme[14]; la figura del dandy, tanto per fare solo un esempio, è stato considerato un ideale di mascolinità nel XIX secolo, mentre è considerato al limite dell'effeminato per gli standard moderni[15].  Le norme tradizionali maschili, così come vengono descritte nel libro del Dr. Ronald F. Levant intitolato "Mascolinità ricostruita" sono: evitare ogni accenno di femminilità, non mostrare le proprie emozioni, tenere ben separato il sesso dall'amore, perseguire il successo e raggiungere uno status sociale più elevato, l'autonomia (il non aver mai bisogno dell'aiuto di nessuno), la forza fisica e l'aggressività, infine l'omofobia (disprezzo per il frocio, il finto maschio)[16]. Queste norme servono a riprodurre simbolicamente il ruolo di genere associando gli attributi e le caratteristiche specifiche creduti appartenere di diritto al genere maschile[17].  Lo studio accademico della mascolinità ha subito una massiccia espansione d'interesse tra la fine degli anni '80 e i primi anni '90, con corsi universitari che si occupano della mascolinità passati da poco più di 30 ad oltre 300 negli Stati Uniti[18]. Questo ha portato anche a ricerche riguardanti la correlazione tra concetto di mascolinità e le varie forme possibili di discriminazione sociale, ma anche per l'uso che del concetto se ne fa in altri campi, come nel modello femminista di costruzione sociale del genere[19].  Natura ed educazioneModifica  Competizione sportiva, scontro fisico e militarismo sono caratteristiche della mascolinità che appaiono in forme analoghe in quasi tutte le culture del mondo. La misura in cui l'espressione della propria mascolinità possa esser un fatto di natura o il risultato di un'educazione (e quindi appartenente all'ampio spettro del condizionamento sociale) è stato oggetto di molte discussioni.  La ricerca sul genoma umano ha dato importanti informazioni circa lo sviluppo delle caratteristiche maschili ed il processo di differenziazione sessuale specifico per il sistema riproduttivo degli esseri umani: il TDF sul cromosoma Y, che è fondamentale per lo sviluppo sessuale maschile, attiva la proteina chiamata "Fattore di trascrizione SOX9"[20] la quale aumenta l'ormone antimulleriano che reprime lo sviluppo femminile nell'embrione.  Vi è ampio dibattito poi su come i bambini sviluppino a partire dalla realtà corporea una propria identità di genere; chi la considera un fatto di natura sostiene che la mascolinità è inestricabilmente collegata al corpo umano maschile, ed in tale visione diventa qualcosa che è legato al sesso maschile biologico, cioè all'apparato genitale maschile il quale diviene così l'aspetto fondamentale della mascolinità[21].  Altri invece suggeriscono che, mentre la mascolinità può essere influenzata da fattori biologici, è anche però ampiamente costruita culturalmente; la mascolinità non avrebbe quindi una sola fonte d'origine o creazione, ma sarebbe anche associata a certi condizionamenti sociali. Un esempio di mascolinità socializzata è quella rappresentata dallo spuntare della barba, cioè dall'avere peli sul viso: l'adolescente che viene considerato e trattato da uomo a partire dal momento in cui comincia a radersi[22].  Mascolinità egemonicaModifica Magnifying glass icon mgx2.svg            Lo stesso argomento in dettaglio: Maschilismo.  Esempio di maschio poco più che adolescente con corpo muscoloso. Nelle culture tradizionali la maniera principale per gli uomini di acquistare onore e rispetto era quello di arrivare a mantenere economicamente la propria famiglia assumendone al contempo anche il comando e la leadership[23]. Raewyn Connell ha etichettato i tradizionali ruoli e privilegi maschili col termine di mascolinità egemonica, cioè la norma maschile, qualcosa a cui tutti gli uomini dovrebbero aspirare e che le donne invece sono scoraggiate dall'adottare: "Configurazione del genere come prassi che incarna la risposta accettata al problema della legittimità patriarcale... che garantisce la posizione dominante degli uomini e la subordinazione delle donne"[24].  Il Dr. Joseph Pleck sostiene che una gerarchia di mascolinità tra gli uomini esiste in gran parte nella dicotomia riferita all'orientamento sessuale tra maschio eterosessuale e non-maschio omosessuale e spiega che "la nostra società utilizza la dicotomia etero-omo come simbolo centrale per tutte le sue classifiche di mascolinità, distinguendo i veri uomini dotati di virilità da quelli che invece lo sono solo per finta"[25]. Kimmel[26] promuove questo concetto, aggiungendo però anche che il tropo "sei gay" indica che uno è innanzitutto privo di mascolinità, prima ancora d'indicare un maschio attratto da persone del proprio stesso sesso. Pleck conclude sostenendo che per evitare la continuazione dell'oppressione maschile sopra le donne, sopra gli altri uomini, ma anche sopra se stessi, debbono essere eliminate una volta per tutte le strutture ed istituzioni patriarcali dall'auto-consapevolezza maschile.  CriticheModifica Si tratta di un argomento dibattuto la questione se i concetti di mascolinità seguiti storicamente debbano ancora continuare ad essere applicati. I ricercatori hanno rilevato un corrente di critica alla mascolinità, dovuta al rimodellamento dei valori contemporanei, ai gruppi femministi più attivi che hanno assunto per sé certi ruoli tradizionali appartenenti alla mascolinità, all'ostilità culturale che la società d'oggi ha in certi casi posto sui cosiddetti valori maschili, ed infine anche alla promozione della mascolinità nella donna abbinata ad un pressione rivolta agli uomini per femminilizzarsi.  Le immagini di ragazzi e giovani uomini presentati nei mass media possono portare alla persistenza di concetti nocivi alla mascolinità; gli attivisti per i diritti degli uomini sostengono che i media non prestano una seria attenzione alle questioni relative ai diritti maschili e che gli uomini vengono spesso dipinti in una luce negativa, soprattutto nella pubblicità[27].  Scholar Peter Jackson scrive che le forme dominanti di mascolinità possono essere di sfruttamento economico e di oppressione sociale. Egli afferma che "la forma di oppressione varia dai controlli patriarcali sui corpi delle donne e dei diritti riproduttivi, attraverso le ideologie di domesticità, femminilità ed eterosessualità obbligatoria, alle definizioni sociali del valore del lavoro, le presunte maggiori abilità naturali del maschio e la remunerazione differenziale del lavoro produttivo e riproduttivo "[28].   Il lavoro meccanico in fabbrica è associato con la mascolinità tradizionale. Nozione di mascolinità in crisiModifica Un discorso sulla crisi della mascolinità è emerso negli ultimi decenni, sostenendo l'ipotesi che il concetto di mascolinità si trovi oggi nella civiltà occidentale in uno stato di più o meno profonda crisi[29][30].  La crisi è anche stata spesso attribuita alle politiche conseguenti al femminismo in risposta sia al presunto dominio degli uomini sulle donne, sia ai diritti attribuiti socialmente sulla base del proprio sesso d'appartenenza[31].  Altri vedono il mercato del lavoro in costante evoluzione come fonte della crisi della mascolinità, la deindustrializzazione e la sostituzione delle vecchie fabbriche con nuove tecnologie ha permesso ad un numero sempre maggiore di donne di entrare in questo mercato competendo alla pari con gli uomini, riducendo al contempo la necessità e domanda di forza fisica[32].  Tendenze contemporaneeModifica  L'operaio edile, esempio moderno di mascolinità. Anche se gli stereotipi effettivi siano rimasti relativamente costanti, il valore collegato alla concetto di mascolinità maschile è in parte cambiato nel corso degli ultimi decenni, ed è stato sostenuto che la mascolinità è pertanto un fenomeno instabile e mai raggiunto in modo definitivo.  Secondo un documento presentato all'American Psychological Association: "Invece di vedere una diminuzione dell'oggettivazione delle donne nella società, si è recentemente verificato un aumento nell'oggettivazione di entrambi i sessi... Uomini e donne possono limitare la loro assunzione di cibo nello sforzo di ottenere quello che considerano un corpo attraente sottile, in casi estremi portando anche a gravi disturbi alimentari"[33].  Sia gli uomini che le donne più giovani che leggono riviste di fitness e di moda potrebbero essere psicologicamente danneggiati dalle immagini perfette di fisico femminile e maschile che vedono: alcune giovani donne e uomini si esercitano eccessivamente nel tentativo di raggiungere ciò che essi considerano una forma corporea più attraente, che in casi estremi può portare a disordine dismorfico del corpo (dismorfofobia) o dismorfismo muscolare (anoressia riversa)[34][35][36].  TerminologiaModifica I concetti di mascolinità sono variati a seconda del tempo e del luogo e sono soggetti a costanti cambiamenti, quindi è più appropriato parlare di mascolinità al plurale che di una singola tipologia di mascolinità[37]. Note Constance L. Shehan, Gale Researcher Guide for: The Continuing Significance of Gender, Gale, Cengage Learning, 2018, pp. 1-5, ISBN 9781535861175. ^ a bhttps://books.google.com/books/about/ Masculinity_and_Femininity_in_the_MMPI_2.html?id=5KLPlmr9T7MC&q=%22what+masculinity+and+femininity+are%22 ^ a bhttps://books.google.com/books/about/ Gender_Nature_and_Nurture.html?id=R6OPAgAAQBAJ&q=%22biology+contributes%22+%22masculinity+and+femininity%22 ^ a bhttps://books. google.com/books/ about/The_Sociology_of_Gender.html?id=SOTqzUeqmNMC&q=%22+ biological+or+genetic+contributions%22 ^ Joan Ferrante, Sociology: A Global Perspective, 7th, Belmont, CA, Thomson Wadsworth, gennaio 2010, pp. 269-272, ISBN 978-0-8400-3204-1. ^ What do we mean by 'sex' and 'gender'?, su who.int, World Health Organization (archiviato dall' url originale  l'8 settembre 2014). ^ https://books.google.com/books?id=jWj5OBvTh1IC&q=%22meanings+of+manhood+vary%22 ^ http://sk.sagepub.com/books/theorizing-masculinities/n7.xml ^https://archive.org/details/femininitymascul0000unse/page/6 ^ https://books.google.com/books?id= 7SXhBdqejgYC&pg=PA157 ^ https://books.google.co.uk/books?id=-RxIUDYIuiIC&pg=PT248 ^http://www.britannica.com/EBchecked/topic/1381820/machismo ^ Roget’s II: The New Thesaurus, 3rd. ed., Houghton Mifflin, 1995. ^ Paul Treherne, The Warrior's Beauty: The Masculine Body and Self-Identity in Bronze-Age Europe, Journal of European Archaeology Vol. 3, Iss. 1, 1995. ^ Todd Reeser, Masculinities in Theory: An Introduction, John Wiley and Sons, 2010, pp. 1-3, ISBN 1-4443-5853-7. ^ Ronald F. Levant e Gini Kopecky, Masculinity Reconstructed: Changing the Rules of Manhood—At Work, in Relationships, and in Family Life, New York, Dutton, 1995, ISBN 978-0-452-27541-6. ^ Jennifer Dornan, Blood from the Moon: Gender Ideology and the Rise of Ancient Maya Social Complexity, 2004, ISSN 0953-5233 (WC · ACNP). ^ Rolla M. Bradley, Masculinity and Self Perception of Men Identified as Informal Leaders, ProQuest, 2008, p. 9, ISBN 0-549-47399-8. ^ Michael Flood, International Encyclopaedia of Menand Masculinities, Routledge, 2007, pp. Viii, ISBN 0-415-33343-1. ^ Brigitte Moniot, Faustine Declosmenil, Francisco Barrionuevo, Gerd Scherer, Kosuke Aritake, Safia Malki, Laetitia Marzi, Ann Cohen-Solal, Ina Georg, Jürgen Klattig, Christoph Englert, Yuna Kim, Blanche Capel, Naomi Eguchi, Yoshihiro Urade, Brigitte Boizet-Bonhoure e Francis Poulat, The PGD2 pathway, independently of FGF9, amplifies SOX9 activity in Sertoli cells during male sexual differentiation, in Development, vol. 136, n. 11, The Company of Biologists Ltd., 2009, pp. 1813-1821, DOI:10.1242/dev.032631, PMID 19429785. ^ Todd Reeser, Masculinities in Theory: An Introduction, John Wiley and Sons, 2010, p. 3, ISBN 1-4443-5853-7. ^ Todd Reeser, Masculinities in Theory: An Introduction, John Wiley and Sons, 2010, pp. 30-31, ISBN 1-4443-5853-7. ^ George, A., "Reinventing honorable masculinity" Men and Masculinities ^ R.W. Connell, Masculinities, Berkeley, University of California Press, 1995, 2005, pp. 77. ^ Understanding Patriarchy and Men's Power | NOMAS Archiviato il 1º marzo 2010 in Internet Archive. ^ Kimmel, Michael S., and Summer Lewis. Mars and Venus, Or, Planet Earth?: Women and Men in a New Millenium [sic]. Kansas State University, 2004. ^ Farrell, W. & Sterba, J. P. (2008) Does Feminism Discriminate Against Men: A Debate (Point and Counterpoint), New York: Oxford University Press. ^ Peter Jackson, The Cultural Politics of Masculinity: Towards a Social Geography, in Transactions of the Institute of British Geographers, vol. 16, n. 2, 1991, pp. 199-213, DOI:10.2307/622614. URL consultato il 26 aprile 2013. ^ Rooger Horrocks, Masculinities in Crisis: Myths, Fantasies, and Realities, St. Martin's Press, 1994, ISBN 0-333-59322-7. ^ Sally Robinson, Marked Men: White Masculinity in Crisis, New York, Columbia University Press, 2000, p. 5, ISBN 978-0-231-50036-4. ^ John Beynon, Chapter 4: Masculinities and the notion of 'crisis', in Masculinities and culture, Filadelfia, Open University Press, 2002, pp. 83–86, ISBN 978-0-335-19988-4. ^ John Beynon, Chapter 4: Masculinities and the notion of 'crisis', in Masculinities and culture, Filadelfia, Open University Press, 2002, pp. 86–89, ISBN 978-0-335-19988-4. ^ Pressure To Be More Muscular May Lead Men To Unhealthy Behaviors Archiviato il 18 giugno 2008 in Internet Archive. ^ Magazines 'harm male body image', in BBC News, 28 marzo 2008. URL consultato il 12 maggio 2010. ^ Muscle dysmorphia – AskMen.com ^ Men Muscle in on Body Image Problems | LiveScience ^ R. W. Connell, Masculinities, Polity, 2005, p. 185, ISBN 0-7456-3427-3. BibliografiaModifica Generale John Beynon, Chapter 4: Masculinities and the notion of 'crisis', in Masculinities and culture, Filadelfia, Open University Press, 2002, pp. 75–97, ISBN 978-0-335-19988-4. Todd W. Reeser, Masculinities in theory: an introduction, Malden, MA, Wiley-Blackwell, 2010, ISBN 978-1-4051-6859-5. R.W. Connell, 3, in The Social Organization of Masculinity, Berkeley (California)-Los Angeles, Polity, 2001, ISBN 978-0-520-24698-0. Levine, Martin P. (1998). Gay Macho. New York: New York University Press. ISBN 0-8147-4694-2. Stibbe, Arran. (2004). "Health and the Social Construction of Masculinity in Men's Health Magazine." Men and Masculinities; 7 (1) July, pp. 31–51. Strate, Lance "Beer Commercials: A Manual on Masculinity" Men's Lives Kimmel, Michael S. and Messner, Michael A. ed. Allyn and Bacon. Boston, London: 2001 Situazione attuale Arrindell, Willem A., Ph.D. (1 October 2005) "Masculine Gender Role Stress" Psychiatric Times Pg. 31 Ashe, Fidelma (2007) The New Politics of Masculinity, London and New York: Routledge. bell hooks, We Real Cool: Black Men and Masculinity, Taylor & Francis 2004, ISBN 0-415-96927-1 Broom A. and Tovey P. (Eds) Men's Health: Body, Identity and Social Context London; John Wiley and Sons Inc. Burstin, Fay "What's Killing Men". Herald Sun (Melbourne, Australia). October 15, 2005. Canada, Geoffrey "Learning to Fight" Men's Lives Kimmel, Michael S. and Messner, Michael A. ed. Allyn and Bacon. Boston, London: 2001 R.W. Connell, Masculinities, Cambridge, Polity Press, 2005, ISBN 0-7456-3427-3. Courtenay, Will "Constructions of masculinity and their influence on men's well-being: a theory of gender and health" Social Science and Medicine, yr: 2000 vol: 50 iss: 10 pg: 1385–1401 Jack Donovan, The way of men, Milwaukie, Oregon, Dissonant Hum, 2012, ISBN 978-0-9854523-0-8. Meenakshi G. Durham e Thomas P. Oates, The mismeasure of masculinity: the male body, 'race' and power in the enumerative discourses of the NFL Draft, in Patterns of Prejudice, vol. 38, n. 3, Taylor & Francis Online, 2004, pp. 301-320, DOI:10.1080/0031322042000250475. Galdas P.M. and Cheater F.M. (2010) Indian and Pakistani men's accounts of seeking medical help for angina and myocardial infarction in the UK: Constructions of marginalised masculinity or another version of hegemonic masculinity? Qualitative Research in Psychology Juergensmeyer, Mark (2005): Why guys throw bombs. About terror and masculinity (pdf) Kaufman, Michael "The Construction of Masculinity and the Triad of Men's Violence". Men's Lives Kimmel, Michael S. and Messner, Michael A. ed. Allyn and Bacon. Boston, London: 2001 Levant & Pollack (1995) A New Psychology of Men, New York: BasicBooks Mansfield, Harvey. Manliness. New Haven: Yale University Press, 2006. ISBN 0-300-10664-5 Reeser, T. Masculinities in Theory, Malden: Wiley-Blackwell, 2010. Robinson, L. (October 21, 2005). Not just boys being boys: Brutal hazings are a product of a culture of masculinity defined by violence, aggression and domination. Ottawa Citizen (Ottawa, Ontario). Stephenson, June (1995). Men are Not Cost Effective: Male Crime in America. ISBN 0-06-095098-6 ( EN ) Mark Simpson, Male impersonators: men performing masculinity, Londra, Cassell, 1994, ISBN 9780304328062. Walsh, Fintan. Male Trouble: Masculinity and the Performance of Crisis. Basingstoke and New York: Palgrave Macmillan, 2010. Williamson P. "Their own worst enemy" Nursing Times: 91 (48) 29 November 95 p 24–7 Wray Herbert "Survival Skills" U.S. News & World Report Vol. 139, No. 11; Pg. 63 September 26, 2005 Masculinity for Boys ( PDF ), su unesdoc.unesco.org, pubblicato dall'UNESCO, Nuova Delhi, 2006. ( EN ) Bonnie G. Smith e Beth Hutchison, Gendering disability, Londra, Rutgers University Press, 2004, ISBN 9780813533735. ( EN ) Stephany Rose, Abolishing White masculinity from Mark Twain to hiphop: crises in whiteness, Lanham, Lexington Books, 2014, ISBN 9781498522847. Nella storia Michael Kimmel, Manhood in America, New York [etc.]: The Free Press 1996 A Question of Manhood: A Reader in U.S. Black Mens History and Masculinity, edited by Earnestine Jenkins and Darlene Clark Hine, Indiana University press vol1: 1999, vol. 2: 2001 Gary Taylor, Castration: An Abbreviated History of Western Manhood, Routledge 2002 Klaus Theweleit, Male fantasies, Minneapolis : University of Minnesota Press, 1987 and Polity Press, 1987 Peter N. Stearns, Be a Man!: Males in Modern Society, Holmes & Meier Publishers, 1990 Shuttleworth, Russell. "Disabled Masculinity." Gendering Disability. Ed. Bonnie G. Smith and Beth Hutchison. Rutgers University Press, New Brunswick, New Jersey, 2004. 166–178. Voci correlate                       Modifica Androgino Bromance Bushidō Castro clone Comunità ursina Femminilità Indice di mascolinità Leather Patriarcato (antropologia) Sessismo Twink (linguaggio gay) Collegamenti esterni                                          Modifica The Men's Bibliography, bibliografia completa sulla mascolinità. Boyhood Studies, bibliografia sulla mascolinità giovanile. Practical Manliness, sugli ideali storici della mascolinità applicati agli uomini moderni. The ManKind Project of Chicago, supporting men in leading meaningful lives of integrity, accountability, responsibility, and emotional intelligence NIMH web pages on men and depression, sulla depressione maschile. Article entitled "Wounded Masculinity: Parsifal and The Fisher King Wound" Il simbolismo storico che si riferisce alla mascolinità, di Richard Sanderson M.Ed., B.A. BULL, sulla narrativa maschile. Art of Manliness, sull'arte mascolina. The Masculinity Conspiracy, critica mascolina online. Future Masculinity, corso di critica sulla mascolinità. Controllo di autoritàThesaurus BNCF 48856 · LCCN( EN ) sh85081797 · GND ( DE ) 4123701-8 ·BNE ( ES ) XX546447 (data) · BNF( FR ) cb119462329 (data) · J9U( EN ,  HE ) 987007555599305171 (topic)   Portale Antropologia: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di antropologia Ultima modifica 1 mese fa di Aslog Murivel PAGINE CORRELATE Effeminatezza termine  Michael Messner (sociologo) sociologo statunitense  Privilegio maschile privilegio sociale degli individui maschi derivante solamente dal loro sesso  Wikipedia Il contenutoMassimo Donà. Dona. Keywords: sessualità, eroticamente, per una filosofia della sessualità. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Donà” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51764600477/in/dateposted-public/

 

Grice e Donatelli – esperienza – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo. Grice: “I like Donatelli – his titles can be too expansive, like the one about ‘philosophy and common experience,’ as a subtitle, which incorporates the all too controversial notion of experience simpliciter!” L’etica, la sua storia e le problematiche contemporanee sono al centro dei suoi interessi. Studia a Roma, dove ha conseguito la laurea e il dottorato. Insegna alla Luiss Guido Carli. Insegna a Roma. La sua ricerca spazia dalla ricognizione dei classici dell’etica alla filosofia morale contemporanea. Si occupa della riflessione sulla vita umana, in bioetica e nel pensiero teoretico e politico, e del pensiero ambientale. Nel dibattito bio-etico ha difeso una concezione laica delle istituzioni. La sua proposta si situa nella filosofia di ispirazione wittgensteiniana (Cavell, Diamond, Murdoch) che fa incontrare con i temi del pensiero democratico e perfezionista nella scia della filosofia di Mill. Dirige la rivista Iride. Filosofia e discussione pubblica (il Mulino). È membro di numerosi comitati, tra cui del comitato scientifico di Bioetica. Rivista Interdiscliplinare ed Etica & Politica. Altre opere: “Filosofia morale. Fondamenti, metodi, sfide pratiche” (Milano, Le Monnier,  Il lato ordinario della vita. Filosofia ed esperienza comune” (Bologna, il Mulino,  Etica. I classici, le teorie e le linee evolutive, Torino, Einaudi); “Quando giudichiamo morale un’azione?” (Roma-Bari, Laterza); Decidere della propria vita, Roma-Bari, Laterza); “La vita umana in prima persona duale” (Roma-Bari, Laterza); “Manuale di etica ambientale” (Firenze, Le Lettere); “James Conant e Cora Diamond, Rileggere Wittgenstein, Roma, Carocci); “Mill, Roma-Bari, Laterza); “Virtù” (Roma, Carocci); Immaginazione e la vita morale, Roma, Carocci); La filosofia morale, Roma-Bari, Laterza); Wittgenstein e l’etica, Roma-Bari, Laterza);Etica analitica. Analisi, teorie, applicazioni” Milano, LED,I destini dell'etica  Bioetica e progresso morale dell'Italia, su ilrasoiodioccam-micromega.blogautore.espresso.repubblica.  Bioetica Consulta di bioetica   The Italic branch consists of Latin on the one  hand and of the Urabrian-Samnitic dialects, on the other.   Latin, with which the little known dialect Sf Falerivwas  closely related, is known to us from about 300 B. C. onwards.  So long as the language was confined to Latium, there existed  no dialectical differences of any importance. The contrast bet-  ween the popular and the literary language, which had already  arisen at the beginning of the archaic period of literature (from  Li vius Andronicus to Cicero), became still sharper in the classical  period, and the further development of the former is almost  entirely lost to our observation until the Middle Ages, when  the popular Latin of the various provinces of the Roman  empire meets us in a form more or less changed and with a  rich development of dialects (Romance languages: Portuguese,  Spanish, Catalanian, Provencal, French, Italian, Raetoromanic  and Roumanian)*).   We shall only consider the development of the Latin of,  antiquity.   Cp. Corssen Uber Aussprache, Vocalismus und Betonung  der lateinischen Sprache, 2 vols., Leipzig 1858. 1859, edit. 2.,  1868. 1870. R. Kuhner Ausfiihrliche Grammatik der lateinischen  Sprache, 2 vols., Hannover 1877. 1879. F. Stolz and J. G.  Schmalz Lateinische Grammatik, in Iw. Muller’s Handbuch  der klass. Altertumsw. II (1885) p. 127 — 364.   The Umbrian-Samnitic dialects are known to a certain  extent through inscriptions, which for the most part belong to  the last centuries before our era , and through words quoted  by Roman writers. We are best acquainted with Umbrian  (Breal Les tables Eugubines, Paris 1875, Biichelor Umbrica,  Bonn 1883) andOscan (Zvotaieff Sylloge inscriptionumOscarum,  PeterSburg-Leipzig 1878). Of the Volscian, Picentine* Sabine,   1) Cp.* Budinszky Die Ausbreitung der lat. Sprache uber Italicn  und die Provinzen des rSmisohen Reiches, Berlin 1881, Cirober in the  Archiv fur lat. Lexikographie I 35 ff., 204 ff.     g KeUio;^ 9   Aequiculau , Yestinian, Marsian, Pelignian and Marrucinian  dialects we have only very scanty remains (Zvetaieff In-  scriptiones Italiae Mediae dialecticae, Leipzig 1884). All *tliese  dialects were ^forced •into the background at an early period by  the ifitrusion of Latin. The Sabines, who received citizenship  in 267 B. C., seem to have been the first to become romaniscd.  The s^west to give way was Oscan, which in the mountains  did not perhaps become fully extinct for centuries after the  Christian era.   Cp. further Bruppacher Osk. Lautlehre, Zurich 1869,  Endoris Yersuch einer Formenlehro der osk. Sprache, Zurich  187L Piergiorgio Donatelli. Donatelli. Keywords: esperienza, let’s cooperate (cooperiamo), let’s make the strongest utterance; let’s trust each other; let’s be relevant (siamo relevanti), let’s be perspicuous (siamo perspicui), prima persona, prima persona duale – noi – nostro – numero nel verbo greco: singolare, duale, plurale, Mill,  virtu, Conant, ambi, both – the dual – Both conversationalists must cooperate towards a mutual goal. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Donatelli” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51765277371/in/dateposted-public/

 

Grice e Donati – il fra – filosofia italiana – Luigi Speranza (Budrio). Filosofo. Grice: “I like Donati; most of what he says is very basic, and he says it from what he thinks is a scientific perspective – but then he writes about morality and you start to wonder – anyhow, his central concept is that of reflexitvity, which he multiplies into goal-centred, rule-centred, means-centred, and value-centred – Since my oeuvre dwells on rellexivity I feel a lot of affection for Donati and his approach!” Nella sua filosofia occupano una posizione centrale la tematica epistemologica inerente alla ri-fondazione della ‘sociologia filosofica’, re-interpretata alla luce della "svolta relazionale”. Su tali basi, vengono svolte l'analisi del concetto di ‘cittadinanza’, del fenomeno associativo della società civile e della politiche di welfare state nelle società altamente differenziate; l'analisi del ruolo dell’istituzione sociale che emergono dai processi di morfo-genesi sociale, in particolare nelle sfere di terzo settore; l'apertura di una nuova prospettiva negli studi sul capitale sociale e sui processi di “riflessività” in rapporto alla legittimazione di nuove forme di democrazia deliberativa. L'elaborazione di una ‘sociologia filosofica relazionale' è andata di pari passo con la fondazione filosofica di un nuovo e più generale ‘paradigma relazionale' che si pone come superamento della contrapposizione fra realismo e costruttivismo, fra l’individualismo o intersoggetivismo metodologico e olismo o collettivismo metodologico. Questa prospettiva porta alla elaborazione di nuovi concetti come quelli di “critica della ragione relazionale” e bene relazionali, come soluzioni rispettivamente dei problemi inerenti a idiosincrasie culturale e alla mercificazione del welfare nelle società.  L'etichetta "sociologia filosofia relazionale" viene usata, oltre che da Donati, da vari filosofi. Emirbayer ha scritto un ‘Manifesto di sociologia relazionale' elaborato in maniera del tutto indipendente rispetto a Donati. Crossley usa la medesima etichetta. Alcuni studiosi assimilano la sociologia relazionale alla network analysis (Crossley, Mische ), altri tracciano delle differenze fra questi due modi di intendere l'analisi della società (Donati, Terenzi, Tronca). Indipendentemente dalla filosofia di Donati, esistono gruppi e reti di sociologia relazionale in vari paesi, tra cui il Canada (si veda il sito della Canadian Sociological Association,, l'Australia (si veda il sito della Australian Sociological Association,). In Italia, gli filosofi vicini a Donati si riconoscono nel network Relational Studies in Sociology,). Donati ha prodotto numerosi saggi di carattere teorico ed empirico. Propone una teoria generale per l'analisi della società: la “sociologia filosofica relazionale”. Insegna a Bologna, direttore del Centro Studi di Politica Sociale e Sociologia Sanitaria). Presidente dell'Associazione Italiana di Sociologia. Direttore dell'Osservatorio Nazionale sulla Famiglia. Ha fatto parte del comitato scientifico di Biennale Democrazia. Fondatore e Direttore della Rivista “Sociologia e politiche sociali”, editore FrancoAngeli. Membro del Comitato Scientifico della Rivista "Sociologia", Istituto Luigi Sturzo, Roma. Ha ricevuto il riconoscimento dell'ONU come membro esperto distinto nel corso dell'Anno Internazionale della Famiglia. Premio Capri San Michele per  "Pensiero sociale cristiano e società post-moderna" (Ave, Roma). Premio San Benedetto per la promozione della Vita e della Famiglia in Europa. Attraverso la sua filosofia, Donati mostra con specifiche indagini empiriche in che modo la società possa essere conosciuta e interpretata come una semplice “relazione sociale” diadica -- e non come un prodotto culturale. La sociologia relazionale (o teoria relazionale della società) viene per la prima volta esplicitata con “Introduzione alla sociologia relazionale”. Questa “Introduzione” è nata come una sorta di “Manifesto della sociologia relazionale”, anche se da allora pochi se ne sono accorti. I punti essenziali di quel Manifesto sono varie. La sociologia relazionale consiste nell'osservare che una società, ovvero qualsiasi fenomeno o formazione sociale (la famiglia, una impresa o società commerciale, una associazione, una società nazionale), la società globale, non è né una idea (o una rappresentazione o una realtà mentale soggetiva) né una cosa materiale (o biologica o fisica in senso lato), ma è una relazione sociale – una intersoggetivita. L’intersoggetivo è né un “sistema”, più o meno pre-ordinato o sovrastante i singoli fatti o fenomeni, né un prodotto di una azione soggetiva, ma un altro ordine di realtà. L’intersoggetivo è relazione. L’interosggetivo è fatto di una relazioni fra un soggetto S1 e un soggetto S2, che distinguono la forma e i contenuti di ogni concreta e specifica “diada. L’intersoggetivo – la relazione intersoggetiva -- deve essere concepito non come una realtà accidentale, secondaria o derivata dall’altre entità: il soggetto S1 e il soggetto S2), bensì come un levello ontologico differente sui generis, appunto, ‘l’intersoggetivo’. Affermare che “la società è relazione” può sembrare quasi ovvio, ma non lo è affatto ove l'affermazione sia intesa come presupposizione epistemologica generale e quindi si abbia coscienza delle enormi implicazioni che da essa derivano. Ogni filosofo parlano dell’intersoggetivo della relazione di una diada fra soggeto S1 e soggetto S2 (Aristotele: ogni uomo e politico, Marx, Durkheim, Weber, Simmel, Parsons, Luhman, Grice), ma quasi nessuno ha compiuto l'operazione che viene proposta dalla sociologia relazionale: partire dal presupposto che “all'inizio c'è la relazione”, ossia che ogni realtà sociale emerge da un contesto di relazioni e genera un contesto di relazioni essendo essa stessa ‘relazione sociale'. Ciò non significa in alcun modo aderire ad un punto di vista di relativismo. Si tratta esattamente del contrario: la sociologia relazionale si fonda su una ontologia dell’intersoggetivo relazionale, e dunque su una ontologia dell’intersoggetivo della relazione che vede nella relazioni il costitutivo di ogni realtà sociale seconda la loro propria natura. La sociologia relazionale e una forma del relazionismo filosofico. Per l’intersoggetivo (la relazione) intende l’intersoggetivo nel spazio-tempo, dell'inter-umano, ossia ciò che sta fra un soggetto agente S1 e un soggetto agente S2 chi collaborano, o cooperano. e checome tale costituisce il loro orientarsi e agire reciproco (o riflessivo, al modo di Grice), per distinzione da ciò che sta nel singolo attore individualo o collettivo considerati come poli o termini della relazione. Questa «realtà dell’intersoggetivo – che Donati chiama ‘il fra’ -- fatta insieme di due soggetti che collaboron, è la sfera in cui vengono definite sia la distanza sia l'integrazione dei due soggetti che stanno in società: dipende da questo ‘fra’ – fra tu e me -- (la relazione sociale in cui le due soggetti si trovano) se, in che forma, misura e qualità le due soggetti può distaccarsi o coinvolgersi rispetto agli altri soggetti più o meno prossimi, alle istituzioni e in generale rispetto alle dinamiche della vita sociale. La teoria relazionale della società ha elaborato nuovi concetti che sono stati utilizzati non solo da filosofi, ma anche in altri campi, come il diritto, la legislazione sociale, l'economia. I concetti originali elaborati da Donati sono varie. Il concetto di ‘privato sociale’ e applicato in molte leggi dello Stato italiano. Il concetto di ‘cittadinanza societaria è stato utilizzato dal Consiglio di Stato (Sezione consultiva per gli atti normativi, Adunanza, N. della Sezione: in importanti deliberazioni. Il concetto di ‘beni relazionali’ è stato ripreso in campo economico da filosofi come Zamagni e Bruni. Il concetto di un ‘servizio relazionale’ è stato ripreso nella legislazione regionale e nazionale in Italia, anche in relazione alla buona pratica nelle politiche familiari analizzate con le ricerche svolte per l'Osservatorio nazionale sulla famiglia. Il concetto di ‘lavoro relazionale’ e il concetto di ‘contratto relazionale’ sono importanti. Il concetto di ‘welfare relazionale’ e usanto in buona pratica nei servizi alle famiglie (utilizzato dal Centro studi Erickson). Il concetto di ‘differenziazione relazionale’ si applica in particolare alla problematica della conciliazione fra lavoro e famiglia. Il concetto di una critica della ‘ragione relazionale’ e dato come una possibile soluzione ai problemi dei conflitto. Il concetto di capitale sociale come relazione sociale con una ridefinizione degli studi sociologici si applica nel capitale sociale. Il concetto di "riflessività relazionale" si applica per superare il concetto puramente soggettivo di riflessività come mera riflessione interiore. Il concetto di "genoma sociale della famiglia" s’applica nella evoluzione. Ha affrontato una serie di tematiche di ricerca il cui sviluppo è ancora in corso. La prima e più estesa riguarda la tematica della sociologia della famiglia. Si vedano I saggi di Donati, Lineamenti di sociologia della famiglia. Un approccio relazionale all'indagine sociologica, Carocci, Roma, Donati, Manuale di sociologia della famiglia, Laterza, Roma-Bari). Si vedano anche i Rapporti Cisf sulla famiglia in Italia, per gli aspetti applicativi: Sociologia delle politiche familiari, Carocci, Roma, è il più recenteDonati "La famiglia. Il genoma che fa vivere la società", Soveria Mannelli, Rubbettino. Un'altra tematica è quella della salute: si veda Donati  Manuale di sociologia sanitaria” (La Nuova Italia Scientifica, Roma); Sui giovani e le generazioni nella società dell'indifferenza etica: “Giovani e generazioni. Quando si cresce in una società eticamente neutral” (il Mulino, Bologna); Sul cittadinanza e welfare: La cittadinanza societaria, Laterza, Roma- Bari); Sul welfare state e le politiche sociali, “Risposte alla crisi dello Stato sociale” (Franco Angeli, Milano); “Lo Stato sociale in Italia: bilanci e prospettive” (Mondadori, Milano); “Sul privato sociale o terzo settore e la società civile: Sociologia del terzo settore” (Carocci, Roma); sulla società civile: “La società civile in Italia, Mondadori, Milano; Generare “il civile”: nuove esperienze nella società italiana, il Mulino, Bologna); Il privato sociale che emerge: realtà e dilemmi, il Mulino, Bologna, Sul lavoro: Il lavoro che emerge, Bollati Boringhieri, Torino); I rapporti fra sociologia relazionale e pensiero sociale cristiano: Pensiero sociale cristiano e società post-moderna, Editrice Ave, Roma, La matrice teologica della società, Rubbettino, Soveria Mannelli. Sul capitale sociale: Donati, Terzo settore e valorizzazione del capitale sociale in Italia: luoghi e attori, FrancoAngeli, Milano, Donati, I. Colozzi, Capitale sociale delle famiglie e processi di socializzazione. Un confronto fra scuole statali e di privato sociale (FrancoAngeli, Milano). Attraverso queste saggi, la sociologia relazionale ha sviluppato un nuovo quadro teorico e ne ha dimostrato la validità sia sul piano della ricerca empirica, sia sul piano delle applicazioni concrete (in termini di legislazione e di programmi di intervento sociale). La conoscenza sociologica che la sociologia relazionale intende perseguire non rifiuta a priori nessuna teoria, né vuole “unificare” tutte le teorie sotto un'unica bandiera, ma tutte le prende in considerazione e le valuta per mettere in evidenza quelle verità, anche parziali, che ciascuna di esse contiene. Tuttavia, perché di solito una teoria offre una visione limitata, se non riduttiva della realtà, la sociologia relazionale è in grado di inserire ogni teoria in un quadro concettuale più ampio, nel quale ritrovare le verità parziali ad un livello più elevato, coerente e consistente di conoscenza della realtà sociale. Terenzi, Percorsi di sociologia relazionale, FrancoAngeli, Milano,.  Luigi Tronca, Sociologia relazionale e social networks analysis. Analisi delle strutture sociali, FrancoAngeli, Milano.Enzo Paci, Dall'esistenzialismo al relazionismo, D'Anna, Messina-Firenze. Per un nuovo welfare locale “family friendly”: la sfida delle politiche relazionali, in Osservatorio nazionale sulla famiglia, Famiglie e politiche di welfare in Italia: interventi e pratiche.  I, il Mulino, Bologna, Politiche sociali e servizi sociali di fronte al modello sociale europeo: lo scenario del “welfare relazionale”, in C. Corposanto, L. Fazzi, Il servizio sociale in un'epoca di cambiamento: scenari, nodi e prospettive, Edizioni Eiss, Roma, Quale conciliazione tra famiglia e lavoro? La prospettiva relazionale, in Donati, Famiglia e lavoro: dal conflitto a nuove sinergie, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, La valorizzazione del capitale sociale in Italia: luoghi e attori Donati, I. Colozzi, FrancoAngeli, Milano, Altre opere: “L'enigma della relazione” Mimesis, Milano); “La famiglia. Il genoma che fa vivere la società” (Rubbettino, Soveria Mannelli); “Sociologia della riflessività. Come si entra nel dopo-moderno, il Mulino, Bologna); “I beni relazionali. Che cosa sono e quali effetti producono (Bollati Boringhieri, Torino); “La matrice teologica della società, Rubbettino, Soveria Mannelli); “Teoria relazionale della società: i concetti di base, FrancoAngeli, Milano); “La società dell'umano, Marietti, Genova-Milano); “Il capitale sociale degli italiani. Le radici familiari, comunitarie e associative del civismo” (FrancoAngeli, Milano); “Oltre il multiculturalismo. La ragione relazionale per un mondo comune, Laterza, Roma-Bari); “Manuale di sociologia della famiglia, Laterza, Roma-Bari); “Sociologia delle politiche familiari, Carocci, Roma); “Il lavoro che emerge. Prospettive del lavoro come relazione sociale in una economia dopo-moderna, Bollati Boringhieri, Torino); “La cittadinanza societaria” (Laterza, Roma-Bari); Teoria relazionale della società, FrancoAngeli, Milano, 1991 La famiglia come relazione sociale, FrancoAngeli, Milano, La famiglia nella società relazionale. Nuove reti e nuove regole, FrancoAngeli, Milano); “Introduzione alla sociologia relazionale, FrancoAngeli, Milano); “Risposte alla crisi dello Stato sociale. Le nuove politiche sociali in prospettiva sociologica, FrancoAngeli, Milano); “Famiglia e politiche sociali. La morfogenesi familiare in prospettiva sociologica, Angeli, Milano); “Pubblico e privato: fine di una alternativa?” (Cappelli, Bologna).  Der Dual ist ein Numerus, der sich in indogermanischen wie nicht-indogermanischen Sprachen findet. Die indogermanistisch zentralen Sprachen Altgriechisch und Altindisch haben diesen Numerus in allen flektierenden Wortarten; andere Sprachen haben ihn nur in einer Wortart. Die Minderheitensprachen Ober- und Niedersorbisch pflegen den Dual bis heute. Auch im Bairischen gibt es noch formale Dualrelikte.  Das Buch bietet eine Darstellung der einzelsprachlichen Dualsysteme in der Indogermania und Rekonstruktionen der Dualsysteme der Zwischengrundsprachen und des Ur-Indogermanischen. Neben dem genealogischen Vergleich wird auch der typologische Vergleich mit Dualsystemen anderer Sprachgruppen wie etwa Finno-Ugrisch, Semitisch und Bantu angestellt. Der Leser gewinnt so einen Überblick über die Entwicklung einer typologisch markierten grammatischen Kategorie und einen Einblick in die kognitiven Prozesse, die zum Werden und Schwinden des Duals im Wandel der Sprachen führen.  Rezensionen "" Salvatore Scarlata in: Kratylos, 60. Jg. (2015), 66ff  "" Georges-Jean Pinault in: Bulletin de la Société de Linguistique de Paris, 108/2 (2013), 141ff  "" Marc Pierce in: Journal of Historical Linguistics, 4.1 (2014), 133ff  "" Bohumil Vykypel in: Linguistica Brunensia, 60 (2012), 289-290, URL: http://hdl.handle.net/11222.digilib/118249  "" Remo Bracchi in: Salesianum, 74 (2012),2, 408f  "" Rosemarie Lühr in: Germanistik, Bd. 52 (2011), Heft 1-2, 53f [314]Duale (linguistica) numero grammaticale Lingua Segui Modifica Ulteriori informazioni Questa voce sull'argomento grammatica è solo un abbozzo. Contribuisci a migliorarla secondo le convenzioni di Wikipedia. Il duale in linguistica è una delle possibili realizzazioni della categoria morfologica del numero grammaticaleche può essere espressa tanto nel nome (sostantivo e aggettivo) quanto nel pronome e nel verbo. Benché sia meno diffuso di singolare e plurale, il duale è presente in molte lingue del mondo.  Esso è presente nelle più antiche lingue indoeuropee, come il sanscrito o il greco antico, nel lituano, nello sloveno moderno, nel friulano e anche nelle lingue semitiche, come l'arabo - che ne fa tuttora uso nelle sue varietà moderne, sia pure limitatamente al nome - l'ebraico e nell'egizio.  Il duale è frequente per indicare parti doppie del corpo, per esempio le mani, le narici, le gambe, ma nelle lingue che lo possiedono non è raro il suo uso anche per indicare oggetti a coppie o semplicemente coppie di oggetti o persone casuali: due persone, due anni, ecc. ("duale occasionale").  Mentre in francese, in tedesco, in italiano o in spagnolo, tutte lingue che non presentano la forma duale se non per tracce come per esempio in italiano ambo, si è soliti anteporre al sostantivo plurale l'aggettivo numerale che ne indica la quantità esatta (due uova, due amici, ecc.), nelle lingue che posseggono il duale questo può bastare per indicare una quantità pari a due. Per esempio in arabo sanah "(un) anno", sanatayn "(due) anni".  La mu'allaqa di Imru l-Qays, una delle più famose poesie arabe, esordisce con un imperativo duale: Qifâ, nabki... "fermatevi (voi due) e piangiamo...", riferimento al fatto che il poeta si rivolgeva a due suoi compagni.  Bibliografia                                         Modifica Albert Cuny, Le nombre duel en grec, Paris, Librairie C. Klincksieck, 1906 Charles Fontinoy, Le duel dans les langues sémitiques, Paris, Les Belles Lettres, 1969. Marco Molinelli, Il numero duale nel greco antico, Roma, 2009. Matthias Fritz, Der Dual im Indogermanischen, Heidelberg, Carl Winter, 2011. Voci correlateModifica Grammatica Morfologia (linguistica)   Portale Linguistica: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di linguistica Ultima modifica 5 mesi fa di Salvatore Talia PAGINE CORRELATE Numero (linguistica) categoria grammaticale  Grammatica lituana regole della lingua lituana  Articoli del greco antico Wikipedia Il contenuto. Grice: “In my seminars I explained explicitly that we would be dealing only with conversational DYADS!” Grice: “This was my nod to the Old Latin dual!” – Grice: “Austin used to say that no distinction is too fine, or too nice. The origin of the Latin fifth declension out of the dual number – We can provide an EXPLANATION of the appearance of the Latin fifth declension (e stems) as a result of the LOSS of an earlier dual inflection, whose main feature is the suffix jk (full grade ej) . The dual character of the Latin -ies (series) forms can be demonstrated on the basis of their ‘semantic’ development. The dual number in the Indo-European languages. The most ancient Indo-European languages had three number categories: the singular, the dual, and the plural. In the Indo-European languages, the dual number was typically used for NATURAL PAIRS (‘oculi’, the ‘same’, two hands), sometimes also for an accidental or artificially arranged pair (‘two men’ (andre), two horses pulling one carriage, two oxen in one yoke), and possibly for two objects of the SAME kind (two fires, two lime trees). Elliptical usage of the dual is also attested, ‘two fathers’, as when Homer refers to ‘Ayax and his brother’ or Latin ‘octo, ‘eight’, originally, or literally, two sets of four finger-tipes Wackernagel, Campanile, Malzahn, Clackson). The degree of preservation and PRODUCTIVITY of the dual in the Indo-European languages differ considerably. Traces of the dual in Latin. The dual number as a separate CATEGORY was presumably lost by Latin and the other Italic languages already in the pre-historic period (Buck). Lat. ‘duo,’ ‘two’ < IE duwo < PIE duwo-hj (Tagliavini). Lat. ‘okto’ ‘eight’ < IE okto, ‘8’ < PIE hkekto-h0. Lat. viginti, ‘twenty’ (< IE wiknti < PIE dwi-dknt-ih), literally, ‘two tens.’ A few Latin forms – ambo, duo -- have a specific inflexion which may be the result of the transformation of the dual form within a declension. Thus we have masc. nom. ‘ambo’ , duo; gen. ‘amborum’, duorum; dative-ablative ‘ambobus’, duobus; and acc. ambos/ambo, duos/duo. Lat. masc. ‘ambo’. The inflection of ‘ambo’ and ‘duo’ keeps the original dual ending in the nominative. It does not show the dual ending in the other four cases – where it adops the regular PLURAL ending. Here we have a case of an ADAPTATION (SUBSTITUTION_of the dual inflection by the plural inflection. Traces of the dual number in Latin are restricted to ‘ambo’ , ‘both’, and the numerals (‘duo, octo, viginti) – while some have traced other dual forms in declesions – Danielsson). The question of a dual form, e. g. ‘Pomplio,’ (Lat. Pompilio, nom. du. ‘two of the Pompilius family’), attested in epigraph CIL I 30: M. C. POMPLIO NO. F. DEDRON HERCOLE = ‘Marcus and Gaius Pompilius, the sons of Novious, gave (this) to Hercules.’ The interpretation of the form POMPLIO as dual may be implicatural rather than semantic. The form POMPLIO need not be a dual form  -- it may be just the nominative singular with the final s by custom omitted when there is a formal agreement with the second prae-nomen, though belonging to both. Dual endings in the Indo-European languages. In proto-Indo-European hl forms the basic dual ending, which may have a strong form (ehl or hle) in animate nouns. It is assumed that the numeral ‘two’ has the form ‘duwo-ehl’ (literally, ‘two persons, or animals’), which later develops into the masculine form. IE ‘duwo, m. Latin for some time kept the dual ending -e (PIE ejl). The loss of the dual causes the proto-Latin forms ending in -e (once dual forms) to generate a separate group: a fifth declension. From a variant dual ending -e, the -e- would have to have formed in the oblique cases. The genitive dual ending in Indo-European is -es (PIE ejls gen. du). Both a dual inflection with -e (gen. du. -es) and -e (gen. du. -es) would have ensured the stabilization of the feature -e- after the loss of the dual number in the Italic languages. The cause of the loss of the dual number in Latin. Most probably, the loss of the dual as a separate CATEGORY takes place within the a- stem and the -o- stem declensions. In the nominal paradigm, a specifically Latin innovation causes a change in the infection system. This innovation is the loss of the old plural ending -os, which are well attested in the other Italic languages, along with the adaptation of the enings of the PRO-nominal system -oi -- whence Latin ‘-i.’ – cf. nom. sg. m. -os > -us. Nom. du. M. -o (ambo, octo, duo). The PLURALISATION of the dual in the -o- stem declension  happens largely without a problem – providing you keep a Griceian ‘eye’ – Cf. ‘pater,’ father. nom. sg. m. pater; nom. du. m. ‘patere’. nom. pl. m. ‘pateres’. As Austin pointed out to me, the loss of the dual in the Indo-European languages suchas Latin did not happen solely via the good old pluralisattion of the dual form, but also by way of a ‘singularisation’: i. e. the dual inflection is re-fomed into the SINGULAR inflection. This way of the elimination of the dual number is very much attested in Latin, in all the forms ending in -ies, for example. Then we have the dual forms of the Lat. viginti type. The Latin cardinal number ‘viginti,’ ‘twenty,’ is a remnant of the dual number. ‘Viginti’ represents the IE archetype wiknti nom. acc. du. ‘twenty’, from PIE dwihl-dknt-ihl, literally, ‘two tens’. Since, unlike ‘duo,’ it represents a numeral higher than 4 – and all Latin numerals from ‘quattuor’ up to ‘mille’ did not decline --, ‘viginti’ simply keeps the shape of the nominative dual. Some dual forms with no singular form underwent a singularization (or sometimes a collectivization). As a result of such an adaptation, the dual is re-constructed morphologically, and re-interpreted pragmatically via implicature. This singularization (but sometimes collectivization) of a dual form creates the need to establish a declension. The literally DUAL character of some Latin expressions ending in -ies may be explained through a detailed pragmatic calculation. Pierpaolo Donati. Donati. Keywords: il fra, relazionalismo, internal conversation, l’intersoggetivo, realta fra, il fra, fra tu e io, intersoggetivismo metodologico, communicazione come realta fra, implicatura, reflessivita, reciprocita. Ambidue. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Donati” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51764407872/in/dateposted-public/

 

Grice e Dondi – l’astrarium – iter Romanorum – Colonna giulia – la Colonna del circo neroniano di Buschetto -- petrarca – filosofia veneta -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Chioggia). Filosofo. Grice:  “I like Dondi and I like a watch chain!” Figlio di Jacopo, studia filosofia a Padova. Insegna a Padova. Si trasferì a Pavia. Dopo un periodo a Firenze, vi ritorna come filosofo di corte dei Visconti. Insegna a Pavia.  Scrittore di rime, amico e corrispondente di Petrarca, fu anche tra i pionieri dell'archeologia. In occasione di un viaggio a Roma, descrisse e misura monumenti classici, copiò iscrizioni e trascrisse i dati rilevati nel suo ‘'Iter Romanorum'’.  La sua fama è legata soprattutto all'astrario da lui progettato a Padova e costruito a Pavia, dove, era conservato, nel castello di Pavia, presso la biblioteca Visconteo-Sforzesca.  L'astrario è un orologio astronomico che mostra l'ora, il calendario annuale, il movimento dei pianeti, del Sole e della Luna. Per ogni giorno sono indicati l'ora dell'alba e del tramonto alla latitudine di Padova, la "lettera domenicale" che determina la successione dei giorni della settimana e il nome dei santi e la data delle feste fisse della Chiesa. L'orologio astronomico (o astrario) di Dondi è andato distrutto, ma è ben conosciuto perché il suo ideatore ne dette una particolareggiata descrizione nel saggio “Astrarium”, trasmesso da due manoscritti. Si tratta di un congegno mosso da pesi, di piccole dimensioni (alto circa 85 cm, largo circa 70), racchiuso in un involucro a base eptagonale. Grazie ad una serie di ingranaggi l'astrario riproduce i moti del Sole, della Luna e dei cinque pianeti. Esso indicava anche la durata delle ore di luce alla latitudine di Padova. Come misuratore del tempo esso, oltre all'ora, indicava (forse per la prima volta tra gli orologi meccanici) anche i minuti, a gruppi di dieci. La presenza di trattati di astrologia nella biblioteca di Dondi fa sospettare che la progettazione sia stata influenzata da astrologi antichi. L'orologio astronomico che si può tuttora ammirare sulla Torre dell'Orologio, Padova, in Piazza dei Signori, è una copia non dell'astrario di Dondi, ma dell'orologio costruito dal padre Jacopo. Secondo la tradizione sarebbe stato Dondi ad introdurre a Padovala gallina col ciuffo, oggi nota come gallina padovana. In realtà, il giornalista padovano Franco Holzer in una sua ricerca ha potuto stabilire che non vi è documentazione alcuna che attesti che Dondi abbia mai avuto contatti con la Polonia o che l'abbia mai visitata. A lui è dedicata una delle statue che adornano il Prato della Valle, a Padova. Il Circolo Numismatico Patavino gli ha dedicato una medaglia commemorativa opera dello scultore bellunese Massimo Facchin. A Giovanni De'Dondi è dedicata la ballata iniziale di Mausoleum. Siebenunddreißig Balladen aus der Geschichte des Fortschritts del poeta tedesco Hans Magnus Enzensberger. Altre opere: Rime, Antonio Daniele, Neri Pozza, Vicenza); “Astrarium, E. Poulle, CISST);  Opera omnia Jacobi et Johannis de Dondis, corpus pubblicato sotto la direzione di Emmanuel Poulle. Padova. Andrea Albini, Op. La Biblioteca Visconteo Sforzesca, su collezioni. Musei civici.pavia. Andrea Albini, L'astrario di Giovanni Dondi, su Museoscienza. Ricerche d'Archivio riguardanti la famiglia Dondi dall'Orologio. Di Franco Holzer.  Andrea Albini, Machina Mundi. L'orologio astronomico di Giovanni Dondi, Create Space, Astrario, Gabriele Dondi dall'Orologio Università degli studi di Padova. Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Replica in scala 1/2 dell'Astrario, su clock maker. Replica in scala ¼, su pendoleria. com.  VII.     (D i Cjiovauui Odo ndi òalf'Otcfcgto, TTtedico eli ^Padova,  e Dei uiouumeutv antichi da fui «animati a ctonia,   e di afcuui »ceitti inediti def medesimo.   rt     A FILIPPO SCHIASSI   CAHOMCO MILLA CHIESA MAGGIORE DI BOLOCRA,   E PROFESSORE DI archeologia bella criverbitì.     JL u non ignori certamente , o amatissimo Schiassi,  cum io faccia di le gran cubitale per la somma erudi-  zione archeologica che possedi , e per la forbitezza dello  scrivere latino , nella quale con pochi vai distinto ; e co-  me poi io non sia ad alcuno secondo nell'osservanza ed  amore verso di te per le doti singolari dell'animo tuo.  In verità io ho sempre desiderato mi fosse pòrta occa-  sione di farti noto pubicamente questo mio volere ; ma  quella mi fallì maisempre, o, a meglio dire, non ebbi  mai ardimento di abbracciarla, parendomi da non do-  versi indirizzare a te cose che non fossero parlo d'in-  gegni maturi, fra' quali per fermo non è da riporsi il  mio. Tuttavolta altre ragioni m'inducono ora a prendere  contrario divisamento . Il perchè, in arra di rispetto e di     Digìtized by Google     — G     benivoglienza, ho deliberalo di spedirti questa Lettera in-  torno a Giovanni Dondi , e publicarla intitolata al tuo  nome ; indotto anche da ciò , che in essa circa V obelisco  vaticano , della cui traslazione tu di fresco con scienza  e perizia ne hai scritto . ho io allegate alcune cose , dalle  quali appare essere ora per la prima volta manifesto  come il medesimo nel medio -evo sia stato atterrato , e  non guari appresso di bel nuovo ristabilito, non altri-  menti come sono di comune consentimento i più accre-  ditati scrittori delle cose passale: de’ quali in ispezialità  qual sia il giudizio da tenersi tu puoi decidere. Io in-  tanto a te sottometto di tallo cuore e senza cerimonie  la mia opinione , qualunque ella siasi: ritieni poi , che  con animo a tc per intiero affezionatissimo mi dispongo  a ciò fare.   V enezia 5 Dicembre 1818.     Digitized by Google        ms     v>die Francesco Petrarca abbia scritto di Giovanni  Dondi suo amico non meno con verità die con ma-  gnificenza, essere egli stalo d'ingegno sì sublime e po-  tente, che ito sarebbe alle stelle, se rattenulo non lo aves-  se lo studio della Medicina 0),Jo capiranno coloro spe-  cialmente, i quali siano a giorno come il medesimo  siasi reso distintamente celebre nelle scienze medi-  che, filosofiche ed astronomiche ; c, di più, conosca-  no come in altre discipline, a dir vero non comuni,  fosse egli oltre l’ usato erudito. Fu peritissimo ancora  in scienza morale, nella cognizione dei monumenti  antichi, e nel linguaggio delle Muse italiane : le quali  cose, come disse Celso in altra occasione, quantunque  non costituiscano il Medico, tuttavolta lo rendono più  atto alla Medicina (Lib. I.), e fanno sì che abbia a  primeggiare fra i dotti del suo tempo.   Ed in vero, che non si possa lare un pieno uso  della Medicina nella maggior parte delle malatie del  corpo, se quelle dell’animo del pari non si curino, è  chiaro di già abbastanza per concorde dottrina degli  antichi e recenti filosofi, suffragata dalla sperienza.  Intorno a ciò sono manifesti i sentimenti di Aristote-  le, d’ Ippocrate, di Galeno, e di altri ; come pur anco     (1) Lib. XVI. Lettera III. a Francesco Sancse.data in  luce a Venezia nel 1501.     Digitized by Google     — 8 —   ne fanno chiara prova quelle cose che sopra lo slesso  argomento ci hanno lasciato in appresso uomini sa-  pientissimi.   Che poi da un’accurata osservazione degli anti-  chi monumenti, e dalla lettura delle iscrizioni ne ven-  gano singolari ajuti onde conoscere più diffusamente  l’ arte medica, ce lo dimostrano le Opere dei valenti  in quella, cioè di Girolamo Mercuriale intorno alla  ginnastica, il quale trattò anche del sito più salubre  alla costruzione delle fabbriche e circa gli strumenti  chirurgici ; di Giannantonio Sicco e di Andrea Baccio  intorno ai bagni termali ; di Tomaso e Gasparo Bar-  tolini sopra l’ antico puerperio : ai quali libri se ne  potrebbero facilmente aggiungere altri di tal fetta,  cioè di Pietro Bellonio, di Lorenzo Gioberti, di Mar-  siglio Cagnato, di Tomaso Reinesio, di Giovanni Ro-  dio, di Carlo Patino, di Carlo Sponio, di Daniele Gu-  glielmo Trillerò, di Carlo Federico Ilundertmarki,  di Antonio Cocchi, e di altri ; cosicché niuno deve  maravigliarsi del progetto di Tomaso Bartolini nel  comporre l’ Opera intitolata Antichità necessarie ad un  Medico, del cui apparecchio, in appresso incenerito  dalle fiamme , lo stesso autore ne diede breve com-  pendio in una Dissertazione stampata in Hafnia l’ an-  no 1670 sopra l’incendio della biblioteca.   Le moltissime sue lodi, scritte in prosa ed in ver-  so, ci fanno ampia testimonianza che lo studio della  poesia giova a meraviglia per fecondare e ricreare  l’ ingegno, per aggiungere fregio alla lingua ed allo  stile, e per fare acquisto di altre doti richieste ad un  uomo di lettere ; nè vi sarà al certo chi ignori che i     Digitized by Google      — 9 —   Medici versati nella medesima n’ andrebbero stimati  da più che gli altri, e si leggerebbero con più di di-  letto le Opere loro. Noi conosciamo ancora che gli  stessi scrittori dell’arte medica, distinti fra gli anti-  chi, Ippocrate ed Areteo, succhiarono da Omero il  loro bello ; il primo de’ quali fu detto da Eroziano  uomo omerico quanto allo stile ( Glossar . Hippocr. Praef.  pag. 7, edit. Lips. 1780); e Trillerò fa vedere che al  secondo giovò d’ assai la lettura dello stesso autore  ( Opuscula medico - philologica, Tom. 1. pag. xxi): il che  chiaro apparisce parimente di Galeno e di altri. Ec-  cellente si è la cura posta da Tomaso Bartolini nel  trattare che fece di questo argomento nella Disserta-  zione intorno ai Medici - poeti, publicata in Hafnia  l’anno 1669; ed ora se ne potrebbe formare un sog-  getto con assai più di splendore. Sono poi da tenersi  in gran conto quelle cose che furono scritte da Giro-  lamo Fracastoro, uomo grande nell’ una e nell’ altra  facoltà, a Girolamo Amalteo, medico non meno che  poeta celebre del suo tempo; cioè andare di gran  lunga errati coloro i quali avessero per niente la  poesia, e la stimassero cosa incompatibile colla Me-  dicina: che anzi dichiara apertamente con Andrea  Navagerio, essere inetti a toccare il fondo di ogni  scienza, o a gustare appieno le bellezze di qualsiasi  arte meccanica, coloro i quali andassero privi e man-  canti di vena poetica (Fracast. Opera edita Corniti, an-  no 1739, Tom. II. pag. 105-106). Dondi per colti-  vare l’ animo in questi studj, indotto dall’ esempio ed  intrinsichezza del Petrarca, il quale nei medesimi  avea tocco l’ apogèo della gloria, consegnò allo scritto     Digitized by Google      4 «     — 10 —   monumenti non dubj di questo studio, commettendoli  ai posteri ; ma quelli inediti, ed appena conosciuti in  un codice cartaceo di quella età, posseduto un tempo  dallo stesso autore, toccò per avventura a me solo di  vederli presso Roberto Papafava, figlio d’Albertino,  fregiato della primaria nobiltà fra i Padovani e Patri-  zio Veneto, il quale mi onorava di singolare cortesia;  nel qual codice io stesso ho letti gli scritti inediti del  Dondi senz’ altro giudizio od altro ordine, da quello  in fuori con cui qui li riporto.   Vi sono nel codice ‘28 Lettere intorno a diversi  argomenti, scritte dal Dondi a varie persone ; cioè :   1. Al Petrarca. Si protesta tornargli a grande  vantaggio 1’ amicizia di lui, per arricchirsi a perfe-  zione della morale filosofia ; il che osserva essere as-  sai conforme all’ insegnamento di Seneca nella Let-  tera <08 a Lucilio intorno al conversare co’ filosofi.  Nel dipartirmi da te (scrive egli) ne riporto ogni giorno  frutti novelli , e alla tua presenza mi si ricrea V animo  d' insolita gioja.   2. A Giovanni dall’Aquila fisico (Padova il di 1 9  Luglio 1374). Annunzia e mostra allo cordoglio per  la morte del Petrarca, d’ improviso avvenuta la notte  antecedente.   « E morto un personaggio unico, a dir vero, ed  » ammirabile tra i pochi di ogni età; ma a’ nostri  » giorni il solo, a mio giudizio, che v’abbia su tutta  » la terra, e da non potersi trovare in qualsivoglia  » parte di essa: uomo da essere ricordalo e tenuto a  » venerazione da tutti i secoli. Fatale disgrazia e la-  » grimevolc a tutto il genere umano, ma assai più     Digitized by Google     — Il —   » amara a buon diritto all’ Italia , della quale non  » senza gran merito egli n’ era amante perduto, e in  » ogni circostanza partigiano caldissimo ; sopra tulli  » per altro a me e a te, ai quali era legato con nodo  » strettissimo d’ amore e di singolare benevolenza.  » Mancò un uomo senza dubio grande, ottimo, soavis-  » simo, amantissimo di noi ; ma non per altro cessò  » del tutto, poiché anzi diede principio a vita miglio-  » re, richiamato dall’ esiglio alla patria : se vero è  » che gli offici di questa vita mortale, la Religione di  » continuo venerata e studiosamente coltivata, l’opera  » assidua agli sludj unicamente onesti e lodati, dieno  « fidanza di alcun premio nella vita a venire. »   3. Ad Antonio Leniaco, uomo di singolare  ingegno.   4. Ad Argentino (Arsendino) da Forlì, e a Pa-  ganino da Sala padovano, Dottori in legge.   5. A Guglielmo Ravenna, fisico.   fi. 7. A Geminiano, fisico del Marchese Cesa.   f*. A Gasparo (Broaspina) di Verona....  c Hai pòrto materia, nella quale mi ricordo di  » essere stato titubante aneli’ io, mentre scorreva la  »> Lettera a Lucilio di quell’ eccellente e tutto nerbo  » Anneo, maestro mio e tuo, e di tutti i buoni amici  » in generale. » A Gasparo, che lo dimandava di quelle  cose che Seneca scrisse nella settima Lettera a Luci-  lio sopra gli spettacoli dei Romani, gli dà spiegazio-  ne abbastanza chiara, come portavano quei tempi  sì riguardo alla materia, come pur anco alle parole;  vi adoperò eziandio dell’arte critica a motivo delle  scorrezioni del testo, per colpa in gran parte della     Digìtized by Google     'z     — 12 —   ignoranza degli amanuensi, e dell*' audacia di coloro  che vi posero mano alla emendazione.   9. A Bartolomeo Mazio di Verona, fisico egregio.   10. A Francesco Petrarca (Padova il dì 14 Ot-  tobre 1370. Una lunga Lettera circa il metodo di vita  da seguirsi dal Petrarca, la quale i precettori del Se-  minario di Padova avendo ricevuta da me, che la  trascrissi dal codice soprallegato, non dal Marciano,  come porta l’edizione, aggiuntane un’altra del Pe-  trarca al Dondi, fu da loro data alle stampe nel 1 808.   1 1 . A Lombardo Serico, cittadino padovano.   1 2. Al frate Guglielmo da Cremona, teologo. Fa  vedere gl’ ingegni degli antichi di gran lunga supe-  riori ai moderni sì in fatto di lettere, come ne fa  chiara testimonianza il Petrarca, non meno che ri-  guardo alle opere famose delle arti più belle, col-  l’esempio alle mani di un insigne scultore soprafatto  di ammirazione alla vista di monumenti antichi.   1 3. Ad Antonio Leniaco, cittadino veronese.   14. A Giovanni Cremona, maestro nelle arti li-  berali.   15. Ad un suo intimo amico, uomo singolare ed  egregio.   16. A Bernardo Caselle, cittadino padovano.   1 7. A Guglielmo Aromatario.   18. 1 9. A Paganino da Sala, Dottore in legge e  uomo di milizia. Con queste si congratula della di-  gnità di Cavallicre conferita di fresco a Paganino;  così per altro, che ne fa di molto più stima dell’onore  ottenuto dall’ alloro in Diritto civile, dal quale egli  traeva di già vantaggio e lode.     Digitized by Google      — 13 —   *20. A Nicolò Alessi, Protonotario e Vice-Can-  celliere del Signore di Padova.   21. 22. Ad Andreolo Arisio Cremonese. Biasima  e si fa beffe della scarsezza che v’ è nelle biblioteche  di Francia dei libri specialmente di Filosofìa morale,  di cui era tenuto a giorno per lettere di Arisio cola  dimorante.   23. Al frate Guglielmo, Vescovo di Pavia.   24. Ad Albertino Salso, precettore di Fisica.   25. A Giacobino Angarano di Vicenza. Data in  luce in uno all’ Opera del Pondi intorno alle Fonti  calde nel Territorio padovano, al Maestro Giacomo  Vicentino, fra i Trattati di vari autori circa i Bagni,  stampati a Venezia Panno 1553, pag. 94.   2C. Ai Professori direttori di Medicina e delle  Arti nello Studio di Padova. Fa loro avere un libro  da lui composto, del quale dà contezza con queste  parole: » Ricevete un Trattatello che vi darà per  » ispiegato P ordine oscuro di Galeno nella distinzione  » delle disposizioni dei corpi umani, il quale ei ri*  » strinse con brevità nel libro di Microtegno, asse-  n gnandovene le reali differenze fra quelle, tranne  » poche che vollero accennare sin qua di volo altri  » espositori, ma in molte colle relative differenze. »   27. Al maestro Guidoni (di Bagnolo) in Venezia,  nomo egregio, fornito di molto sapere e virtù. Pado»  va, 20 Dicembre 1360.   28. A Pasquino Cappelli, cittadino cremonese.   Intorno a Pasquino, Cancelliere di Giovanni Ga-  leazzo Visconti Principe di Milano, ne fece parola  Pietro Lazerio nelle Miscellanee cavate dai libri ma-     Digitized by Google     — li —   noscrilti nel Collegio Romano dei Gesuiti, Tom. I. pa-  gina 1 03. Pasquino avea fatto richiesta delle Lettere  scritte dal Dondi a diversi ; e Dondi si argomenta a  tutt’ uomo per dissuaderlo che quelle Lettere non  erano tali che meritassero a pezza le sue dimande.  Poscia scrive molle cose circa i rotti costumi degli  uomini del suo tempo, degne alla scorza di un va-  lente filosofo.   Queste Lettere sono piene a ribocco di sentenze  morali, siccome quelle che furono composte da un au-  tore che metteva ogni cura nel leggere le Opere di  Seneca, e ne avea anche dilucidate le di lui Lettere a  Lucilio, con annotazioni allegate circa alle medesime  da Gasparino Barzizio nel suo Commentario, da me  veduto scritto a mano.   Di qual desiderio ardesse il Dondi di vedere mo-  numenti antichi, ne fa aperta testimonianza il viaggio  di lui a Roma, ad unico oggetto di venire in pieno  conoscimento dell’antico e nuovo stato della città. Del  qual viaggio non rimane alcuna traccia dalla publica  autorità confermata ; tuttavolta ho letto io stesso nel  codice manoscritto, di cui feci menzione di sopra, le  annotazioni dello stesso Dondi intorno ai principali  monumenti dell’ antichità nel viaggio e nella dimora  che fece a Roma circa l’anno 1375, esaminati, credo  io, da lui appassionatamente ; delle quali annotazioni  ei fa fede così dal principio : « Ilo riportato queste  » cose scritte in lettere quando fui reduce da Roma. «   Non è prezzo dell’opera il rescrivere qui le anno-  tazioni del Dondi, nelle quali v’hanno anche difetti  di scritturazione, potendosi avere alla mano scrittori     Digitized by Googte     — 15 —   famosi per molto sapere, i quali ci hanno chiarito dei  medesimi monumenti con mollo più «li accuratezza e  dovizia. Ci piace di riportare qui sotto la prima sol-  tanto, la quale versa circa l’ obelisco valicano, poi-  ché mollo è stimala per singolare novità, facendoci  vedere un distico da nessuno, per quanto io sappia,  riportato, c del quale importa se ne faccia ricerca.  Quella poi suona così :   In Roma   La colonna Giulia a quattro lati, che si eleva di  costa a S. Pietro, ha di grossezza presso l’ estremità  di mezzo, lunghesso ciascun lato, otto piedi all’ in-  circa ; di altezza poi, secondo un buon calcolo, ascen-  de a 00 piedi, ossia a dieci pertiche. Ma un prete ac-  casalo lì vicino affermò che un tale l’aveva misurata  con uno strumento ad ombra , e la trovò di brac-  cia 45. Martino (0 nella Cronaca dice che la sua lun-  ghezza va a un dipresso a 120 piedi; ed Eutropio  afferma la stessa cosa. Svetonio poi dice eh’ è di pie-  tra di Numidia. E vi sono poi ne’ suoi due lati lettere  incise di tal maniera:   Divo Cnesari Divi Julii F Augusto  Ti Cacsari Divi Augusti F Augusto  Sacrimi.     (1) Intorno alle antichità romane sogliono premettere  alcune cose più memorabili di Martino Polacco, Cronicista  dei Pontefici e degl’imperatori, specialmente nei codici ma-  noscritti. Quelle poi che trovansi aggiunte come tratte da  Eutropio e da Svetonio, falsamente vengono loro attribuite.     Digìtized by Google     — ir» —   Al di sopra della mela di questa colonna Giulia  vi sono scolpili questi due versi:   Ingenio Buzeta tuo bis quinque puellae  Appositi s manibus itane erexere columnam.   Plinio {Hi storia Nat. Lib. XVI. Cap. XL., e Li-  bro XXXVI. Cap. IX.), e Svetonio (nella Vita di  Claudio, Cap. XX.) dimostrano apertamente che l’in-  signe obelisco sia stalo trasportato dall’Egitto a Ro-  ma per comando di Cajo Caligola ; e in séguito, mes-  sa a fondo da Claudio nella costruzione del porto di  Ostia la nave su cui era stato trasportato, la più me-  ravigliosa di quante mai si fossero vedute solcar ma-  ri, il medesimo sia stato collocalo nel circo di Ne-  rone ; ned è da entrare in forse che il medesimo, fre-  giato di quella cospicua iscrizione ne’ due lati, non  sia quello stesso che sempre fu tenuto per l’obelisco  vaticano. Di questo attestano tutti gli scrittori più  accreditati, che non sia mai stato mosso da dove per  la prima volta fu inalzato, nè in alcun tempo atter-  rato, fino a tanto che, volendolo Sisto V. Pont. Massi-  mo, l’anno 1586 fu trasportato dal luogo, dove pri-  ma era posto, mediante un congegno di macchine ma-  ravigliose di Domenico Fontana del contado di Campo  Novocomese, nella piazza di S. Pietro, dove al giorno  d’oggi si trova. Di tanto unanimemente ne stanno  mallevadori in particolar modo Angelo Decembrio,  Poggio Fiorentino, Mafeo Vegio, Francesco Alberiino,  Pietro Angelio Bargeo, Onofrio Panvinio, Bartolomeo  Marliano, Filippo Pigafelta , Andrea Palladio, Ber-  nardo Gamuccio, Michele Mercato, Famiano Nardi-   I     Digìtized by Google      — 17 —   nio, Kirhero, Domenico Fontana , Giampietro Bello-  rio, Carlo Fontana, Filippo Bonanno, Angelo Maria  Bandinio, Francesco Milizia, Cancellieri©, Winckel-  manno, Fea, Giorgio Zoega; l’ultimo dei quali, che  ci diede un’ Opera perfettissima sopra gli obelischi,  impressa a Roma l’anno 1797, come a nome di tutti  gli altri scrisse di quello con facondia (pag. 612):  « Questo dei romani obelischi il solo superstite alle  » rovine della città, si tenne in piedi nel Circo vati-  » cano fino a tanto che l’architetto Domenico Fonta-  » na, per comando di Sisto V. Pontefice Massimo, lo  » trasferì nella piazza di S. Pietro. » Quindi non è da  prestarsi credenza a Ciampinio, a Molineto, a Vitlo-  rellio, a Ficoronio, a Marangonio, a Guattanio, e a  pochi altri, i quali affermarono che il medesimo era  di già abbattuto e steso al suolo allorché si fece la  sua traslocazione sotto il Pontefice Sisto V. nel 1 586.   Tuttavia, giudice e testimonio il Dondi, ora ci si  para innanzi all’ impensata il distico da tempo scol-  pito sopra l’ obelisco, dal quale non fuori di propo-  sito n’ è lecito far congettura eh’ esso avesse incon-  trata cogli altri la stessa sorte, e poscia nel medesi-  mo sito, dove dapprima era posto, sia stato di bel  nuovo inalzato ; ovvero, se non fu ritrovato intiera-  mente abbattuto e steso a terra, fosse almeno così  piegato, che il suo inalzamcnto si avesse a tenere in  conto non altrimenti che di fatto assai meraviglioso,  e da tramandarsi con lode alla memoria dei posteri  per mezzo d’ un monumento cospicuo cesellalo a Ro-  ma ; al quale in séguito, come sarà a vedersi dalle  cose che qui sotto si diranno, se ne aggiunse un altro     Digitized by Google      — 18 —   di simile a Pisa. Per verità, tostochè lesesi questo  distico, ci ricorre alla memoria quel tetrastico sopra  quella grandissima mole di marmo, tradotta per mare  ed inalzata il secolo XI. dalle mani di dieci fanciulle,  per il sommo ingegno del chiarissimo architetto Bu-  scheto; il quale tetrastico si vede scolpito nel medesi-  mo tempo sopra il di lui sepolcro, che fronteggia il  tempio maggiore di Pisa, e parla così :   Quod vix mille boum possent juga junctn movere ,  Et < fuod, vix poluil per mare ferve ralis,   Busketi iiisu, quod crat mirabile vini ,   Dena puellarum turba levabai onus.   Del qual tetrastico, siccome è noto, furono fatte  tante e così scipite interpretazioni, che il fatto delle  dieci fanciulle si spacciò per una favola ; quasi che  quelle parole non si potessero applicare all’ inalza-  mene della gran mole, portato a termine per opera  di Buscheto con tale perfezione, che dieci donzelle  colle sole loro mani sarebbero state da tanto a quel-  l’ impresa, e che a loro in certa guisa sembrasse do-  versi attribuire la grande erezione. Pare che P opi-  nione popolare abbia condotto in errore tutti coloro  che di questo fatto hanno discorso per iscritto ; cioè  che il contenuto in quei quattro versi accennasse alle  macchine costrutte da Buscheto nella fabbrica del  tempio pisano ; perchè il medesimo, ma in altri versi,  vi si leggeva in lode di Buscheto sulla facciata di  quel tempio, cominciato l’ anno 1 063, e condotto a  fine nel volgere dello stesso secolo. Per quanto poi si  sa, nessuno avrebbe sospettato se sia da intendersi lo  stesso intorno al lavoro eseguito in Roma.     Digitized by Google     — 19 —   Se non che quelli che giudicano imparzialmente  de’ fatti, e sono di parere che P obelisco nel medio-  evo sia stato atterralo, e poco dopo novamente inal-  zato da Buschelo, sembra ciò possano fare senza tac-  cia di errore, se specialmente considerino che tutti  quegli aggiunti, rappresentati ab antico colle stesse  parole intorno al trasporto dell’ obelisco sopra una  nave d’ una meravigliosa grandezza, e la maniera  stessa adoperata nel suo secondo inalzamento, acqui-  stano insieme chiarezza e fede ; altrimenti non veggo  quello che se ne possa dire di vex*o e di ragionevole  su questo fatto. Che P obelisco sia stato fermo in pie-  di almeno sino all’anno -1053 presso la Cappella della  Basilica Vaticana, nel qual luogo sino dal principio  era stato posto , è chiaro dalla Bolla di papa Leo-  ne IX., per Li quale viene confermato il fondo ai Ca-  nonici della Basilica medesima, nel cui terzo lato (dis-  se) corre un'altra via dall'aguglia che si nomina Sepol-  cro di Giulio Cesare ; colla qual denominazione sol-  tanto apparisce sia stato in uso nel medio-evo d’ indi-  carsi questo monumento ( Collezione delle Bolle della  Basilica Vaticana di Roma, i 747, Tomo I. pag. 25).  Dagli anni succedenti a quel medesimo secolo fino al  1084 tennero dietro quei lagrimevoli tempi, ne’ quali  per la discordia di Enrico IV. e Gregorio VII., che  tra loro si combattevano, toccò a Roma di patire  moltissime calamità, nonché assedj, incendj, smantel-  lamenti e distruzioni di fabbriche anche in quella  parte che si chiamava Città Leonina, in cui stava  l’obelisco: le quali cose tulle noi leggiamo testimo-  niate publicanienle da scrittori di quell’età, c di già     Digitized by Google      — 20 —   scritte da storici accurati d’ Italia di tempo posterio-  re nei loro divulgati lavori, senza che mai ne accada  per avventura di vedere da essi fatta alcuna menzione  dell’ obelisco ; onde sorge qualche probabilità, che  ad esso pure sia toccata in quel tempo la medesima  disgrazia d’essere rovesciato. Questo certamente cade  ora in taglio di osservare, che niuno di quelli de’quali  abbiamo gli scritti circa le antichità di Roma, o di  quelli de’ quali abbiamo le collezioni da gran tempo  date in luce delle antiche iscrizioni, ha fatto mai cen-  no del distico intorno a Buscheto; non pure eccet-  tuato lo stesso Petrarca, che sappiamo aver egli stu-  diosamente esaminato gli antichi monumenti, e del-  l’ obelisco aver fatto parola soltanto secondo la voce  del popolo ( Epislolae familiares , Lib. VI. Ep. XI. pa-  gina 199, edit. Genev. 1601). Noi pertanto andiamo  debitori al Dondi, siccome a quello che forse primo  di tutti ci diede una giusta conoscenza del tetrastico  pisano, e la notizia della mole insigne ultimamente  alzata in Roma, la quale è di moltissimo vantaggio  per far conoscere la storia delle arti meccaniche del  medio- evo in Italia : soggetto di un voluminoso ed  utilissimo scritto.   Un silenzio così durevole ed universale non può  essere di certo a molti senza ammirazione ; ma ove  essi considerino che l’ obelisco di bel nuovo inalzato  era stato a cielo scoperto bersaglio delle ingiurie dei  tempi per il giro di quasi tre secoli avanti il Dondi, e  che mostrava quel distico a lettere sfuggevoli, seb-  bene ab antico scolpite, difficili alla lettura per la  sconvenienza del sito, talché siasi preso Buzeta per     Digitized by Googl      — 21 —   Buscheto ; e che finalmente nel secolo XV. le medesi-  me erano del tutto scomparse, non avranno più luogo  sì fatte meraviglie. Senza dubio Angelo Decembri o  11011’ Opera ripiena di scelta erudizione e poco cono-  sciuta, scritta circa la metà di quel tempo, intitolata  hibri selle di polizia letteraria , c data ai tipi in Augu-  sta l’anno 1540 (pag. cui.) in foglio, ce lo rappre-  senta tanto ridotto a mal termine, che non dee fare  stupore sia esso sfuggito a’ curiosi indagatori degli an-  tichi monumenti, ed abbia indotto Guarino Veronese  a parlare in tal foggia: « Quel lato eh’ è posto a Mez-  » zogiorno viene corroso ogni dì più dai continui va-  » pori dell’ Austro e dalle procelle ; e i geometri e gM  » architetti tutti del nostro tempo ne trovarono tanto  » di logoro, che ritengono sia scemato da imo a som-  » mo quasi duecento libre. » E il Cardinale Pietro  Bembo nel Dialogo ad Ercole Strozio intorno la zan-  zara di Virgilio e le favole di Terenzio, impresso la  prima volta a Venezia l’ anno 1 530 con altre sue Ope-  rette, mette in bocca a Barbaro Ermolao questi delti :  « Appena si può descrivere a parole la grave colpa  » che hanno i Romani per quell’ obelisco vaticano,  » i quali, quasi invidiando che sopravivesse una qual-  » che opera alla nostra età, cui lunghezza di anni o  » durata di tempo non valesse a distruggere, adope-  » rarono sì che fosse quasi tolto alla publica vista per  » mezzo di ammonticchiati rottami e murate easu-  » pole. »   Ma che il Dondi si abbia procurato colle osserva-  zioni sulle romane antichità cognizioni per dare a  buon diritto lodi secondo le azioni, n’ è prova la Let-     Digitized by Google      — 22 —   lera diciottesima a Paganino Sala, decoralo poco in-  nanzi della dignità di Cavalliere : nella quale difende  che la scienza delle leggi è da tenersi in maggiore  estimazione che l’arte militare, scrivendo: « Che il  » Senato e il popolo romano avessero operato secondo  » questo parere di Cicerone, lo attestano alcune fac-  » ciate, le quali sino al giorno d’ oggi si conservano  » nella città scolpite in marmo, alcune delle quali,  *) nè m’ inganna la mia memoria, ho lette io stesso,  » dove vengono anteposti in ordine di scrittura gli  » uomini famosi in pace per consiglio a quelli che  » travagliarono nella guerra. A’ piedi della rupcTar-  » péa si conserva uno splendido arco trionfale di  » marmo, che tiene inscritti due grandi uomini, vale  » a dire Lucio Settimio e Marco Aurelio, sopra cui  « dopo una lunga serie si offrono a lettera alcune  » cose in proposito, le quali, tienle a mente, sono  » queste: Ob rem publicam restitulam itnperiuinque  » populi romani propagatimi insignibus virlutibus eorum  » domi forisque. Ecco preferirsi il publico interesse  » consolidato per senno alla conquista dell’imperio,  » e i grandi in pace a’ grandi in guerra, quantunque  » senza dubio l’ una e l’ altra sia cosa gloriosa. Così  » il titolo di Dottore avuto per scienza in Diritto ci-  » vile, colla quale si amministrano bene in pace i  » publici affari, si giudica doversi anteporre al titolo  » di Condoiliere d'eserciti , colle armi de' quali si gover-  ni nano le cose al di fuori. » Posciachè il Dondi ebbe  osservate le rovine della romana antichità, nella Let-  tera duodecima al frate Guglielmo da Cremona ne  scriveva in tal modo : « Quantunque poche ne sieno     Digitized by Google     — 23 —   » rimaste delle opere degli antichi ingegni, pure se  » alcune qua e là se ne conservano, vengono ricerca-  » te, esaminate, e tenute in gran pregio dagli appas-  » sionati in tal genere; e se vorrai mettere a para-  » gone queste dei giorni nostri con quelle, ti sarà  » chiaro come gli autori di quelle sieno stati più av-  » vantaggiati dalla natura e dall’ ingegno, e più dotti  » nel magistero dell’arte. Parlo di edifizj antichi, di  » statue, di sculture, e d’altre cose di simil fatta,  » alcune delle quali, con diligenza osservate dagli ar-  » telici di questa età, li fanno dare nelle meraviglie.»  Nella qual Lettera stessa, dopo di avere trattato dif-  fusamente sulla eccellenza degli antichi, aggiunse an-  che le seguenti cose, spettanti allo studio degli anti-  clii monumenti : « Io avrei credulo che tu ti avessi  » occupato con piacere a leggere di quando in quan-  » do scritti di tale specie, o almeno alcuni dei prin-  » cipali tra essi, ed in quelli ne avessi considerato in  >■ molte parti, non senza stupore, i costumi e le azio-  » ni dei tempi andati : perchè se vorrai con giustizia  » raffrontare quelli con questi che di presente cono-  » sciamo, sarai costretto a confessare che la giustizia,  » il valore, la temperanza e la prudenza hanno avuto  » certamente un seggio luminoso nei loro animi, e  » dall’ impulso di quelle virtù si hanno procacciato  » alcun che di magnifico a gran lunga superiore alle  » più larghe mercedi. Del resto, prova di ciò sono  » quelle cose che, ordinate una volta per onorare  » gloriose intraprese, durano ancora nella città di  » Roma. Conciossiachè sebbene molle e delle più pre-  » ziose ne abbia mandalo a male il tempo, e di alcune     Digitized by Google      — 24 —   » sieno mostrate soltanto le rovine, che ci presen-  ti tano alcune tracce di ciò che per lo innanzi erano;  » tuttavia quelle poche e a meraviglia stupende che  » ne restano, sono più che bastanti onde fare testi-  » monianza che coloro i quali le decretarono, non  » poteano essere che dotati di somma virtù, e che co-  « loro a’ quali venivano dedicate ad eterna ed onore-  » vole ricordanza doveano avere operato gesta ma-  » gnanime e strepitose. Voglio dire statue che, fuse  » in bronzo o scolpite in marmo, durarono fino al  » giorno d’ oggi ; e mollissimi pezzi sflagellati a tor-  li ra, ed archi trionfali di pietra di gran lavoro, e co-  li lonne storiate di memorabili imprese, ed altre cose  » moltissime di tal genere, messe alla vista di tutti  » onde onorare personaggi illustri o per avere sta-  li bilita la pace, o scampata la patria da sovrastante  » pericolo, o disteso il dominio sulle vinte nazioni.  » E siccome mi sovviene eli’ io vi leggeva con molto  » mio compiacimento, così voglio sperare che tu pu-  lì re, passandovi sopra qualche fiala, le avrai con-  » siderale, e fatto sovr’ esse alcun segno di meravi-  » glia, ed avrai detto per avventura teco stesso : Que-  ll ste per fermo sono prova d’ uomini grandi. »   Resta che a fornire l’ elogio del Dondi io lo di-  mostri anche amante dello studio poetico, onde sia  manifesto com’ egli abbia occupato un luogo cospicuo  fra i Medici del suo tempo. Anche i meno esperti di  tali cose sapranno che delle sue composizioni italiane  una sola ne fu data alle stampe, indirizzata al Pe-  trarca, la quale con altre dello stesso autore suolsi  vedere congiunta, e ne fu fatta memoria nel Diziona-     Digitized by Google     — 25 —   rio degli Academici Fiorentini della Crusca. Ma nel  codice manoscritto, di cui sul principio ho fatta men-  zione, se ne leggono quaranta del genere di quelle  che con vulgare vocabolo è invalso chiamare Sonet-  ti. Queste trattano di varj argomenti, e specialmen-  te dell’ amore alla virtù, della malvagità dei costumi  del suo tempo , della lode e del biasimo di alcuni  Principi allora regnanti, di città vedute nel suo viag-  gio per Roma, di risposte ad amici; e di amorose as-  sai poche, ben diversamente da quello che portava il  suo secolo.   Le poesie volgari del Dondi furono scritte a mes-  ser Francesco Petrarca, e a quelli amatori delle Mu-  se che a lui erano legati in istrelta amicizia ; cioè a  Gasparo Broaspitia veronese, a Francesco Vanozzi,  a Melchiore e Benedetto parimente veronesi, a Bar-  tolomeo Pace padovano, al frate Guglielmo da Cre-  mona, a Giovanni di Venezia suo condiscepolo, a  Bartolomeo Campo, e a Giacomo Castellione Aretino.  Il Dondi visitando la tomba del Petrarca in Arquà  scrisse forse il primo di tutti su tale argomento una  composizione, imitato poscia da uomini dotti d’ogni  nazione e d° ogni tempo ; cosicché coll’ andare degli  anni io ho raccolto versi in gran copia sopra questo  soggetto, i quali potrebbero uscire in luce con gene-  rale approvazione.   La poesia usata dal Dondi non è sempre sciolta e  facile; tuttavia è fornita di gravità e di eleganza: gli  piaque di framischiare sovente versi latini ai volgari,  come sappiamo su IP esempio degli antichi poeti es-  sersi usalo fare da alcuni moderai con vano sforzo.     Digitized by Google     — 26 —   Nella sua giovinezza atlendeva con piacere a verseg-  giare, come scrive a Guglielmo da Cremona:   Già nella vaga elade de’ prim’anni   Mi piaque udir e dir talvolta in rima,   Benché con grosso stile e rude lima :   Poi che l’alma vestir di miglior panni   Mi piaque più, perch’io conobbi i danni  Dei persi di, lasciai la via di prima.   Prendendo quel che piu prezzo si stima  Con maggior cura e studiosi affanni.   I codici scritti a penna assai di rado ci offrono  versi del Dondi, ed io ne ho veduti se non pochissimi  in due soltanto: uno de’ quali trovasi nella Biblioteca  del Seminario di Padova, un tempo posseduto dal  Facciolati ; l’ altro squarcialo, e mal difeso dalle in-  giurie dei tempi, fu da me rinvenuto poco fa nell’ul-  tima stanza della Basilica di S. Marco in Venezia, e  portato nella Biblioteca regia : il perchè non dee pa-  rere fuori di ragione eli’ io ponga qui appiedi di que-  sta Lettera, come per saggio, sei componimenti volgari  di esso Dondi.   Da tutto il fin qui detto risulta, che presso i giu-  sti estimatori degl’ingegni il Dondi andò fornito di  tanta e sì svariata dottrina, che v’ ha onde tenerlo del  tutto eccellente fra i pochi periti in Medicina del suo  secolo, e che perciò non ho gettato inutilmente il tem-  po e la fatica nel farlo riconoscere per tale.   Venezia, il ‘20 Novembre 1818.     Digitized by Google     SONETTI INEDITI     DI   MESSEK GIOVANNI DONDI     I.   Se’l veder torto del vostro Giovanni  Mira la region terrestre ed ima.   La gente ricercando in ogni clima,   Ebrei, Latini, Greci ed Alemanni,   Regni comuni, e sudditi a’ tiranni ;   Al mal son pronti, e per quel si sublima,  Spenta è virtù, e la fortuna opima  Col vizio sta su gloriosi scanni.   Ito è il tempo che fu col buon Augusto,  Rari son quei che per virtù guadagna;  Astuzia e frodo regna con bugia.   A cui dunque direm del calle angusto,   Per qual si va con la virtù compagna?  Degno è del mal così lagnarsi pria.     Digitized by Google      ' >     — 28 —     II.     Oli puzza abbominabil di costumi!   Oli maledetti dì di nostra etade!   Oli gente umana senza umanitade!   Più che senza splendor oscuri fumi!   Convien che ’l mondo in breve si consumi.  Poiché giustizia ed innocenza cade;   E sol quell’arte e studio par che aggrade.  Per qual l’un l’altro offenda, inganni e schiumi.   Qual’ cieli infortunati, qual’ figure.   Qual’ mimiche stelle o gravi segni  In ogni nostro ben or s’è disperso?   Quanto beate fur più le nature   Nell’imperio d’ Augusto, quando ingegni,  Virtute e pace ebbe l’Universo!     III.     Cantra insolenliam Fenetorum inferentium  guarani Amino Paduae.     Se la gran Babilonia fu superba,   Troja, Cartago, e la mirabil Roma,   Che ancor si vede, e quell’ altre si noma.  Ma dove sletler pria stan selve ed erba;     Digitized by Google     — 29 —   E se altra possa fu mai tanto acerba  A metter sopra altrui gravosa soma.  Tutte san già quant’ogni orgoglio doma  Al fin colei clic a sè vendetta serba.   Però qualunque è maggior signoria  Dovrebbe rifrenar con più misura  Fraterna di giustizia sua potenza;   Di aver con suoi minor consorte pia.   Non arrogante, ingiuriosa e dura,   E temer sopra sè dal Ciel sentenza.     IV.     Cum visitasset sejiulchrum Domini Fraudici PelrarcUae  in A rquada.     Ilei sommo cielo con eterna vita  Gode P alma felice tua, Petrarca ;  Quindi di sodo sasso in nobil’ arca  La terrena caduca parte uscita.   La fama del tuo nome già gradita  Sonando va con gloriosa barca,   Di vera lode e d’ogni pregio carca,  Per l’Universo in ogni canto udita.   Nelle scritte sentenze tue si vede  La gentilezza dell’ingegno divo,   E qual sii stato in cattolica fede.     Digitized by Google      — 30 —     Forò chi anco t’ama non è privo  Ancor di te; c chi morto li crede  Erra, ch’or vivi e sempre sarai vivo.     Y.   Joannes ile Domiti socio et eoiuliscipulo tuo Joanni de  Fenetiis studenti in Medicina, qui tcripseral eidem  quondam tmlgares rhythmos.     Le tue parole mi par belle tanto,   E sì bene ordinate tutte quante.   Qual se dette le avesse o Guido o Dante,  Ovvero esaminate in ogni canto.   Però quando fra me mi penso alquanto,  Parmi che tu non sei molto distante  Da color che tu imiti, buon rimante,   E che han vestito di quell’arte il manto.   Ond’io ti prego che scrivi talvolta,   Sì che svegli il mio piccol ingegno,   Per te sottratto dalla turba stolta.   Onor ti renderò, che sei ben degno.   Più che’l fanciul al maestro ch’ascolta.  Guardando a te col balestriere <0 al segno.   (t) Così il codice.     Digitized by Google      — 31 —     ' • +     VI.   Dica contra chi vuol: il saper vale   Più che il folle ardimento, cd ogni schiera  Produrrà a torto quantunque sua fiera:  Per ragion giusta, dee terminar male.   E chi per van conforto d’altrui sale  Oltra quel che convien a sua maniera.  Degno è che non governi ben bandiera,  Nè ben cavalchi alcun sotto sue ale.   Adunque imprenda pria quei che non sanno,  E non ardisca saltar di leggieri ;   Contra s’alza a baldezza di vesciche.   Chè chi è corrente ha più volle le fiche,  E scaccomato in mezzo il tavolieri,   Sì ch’ei riporta la vergogna e ’l danno.     ^ . .tK*rCP     Dìgitized by Google      odiatene     di »oti 3oo esemplati.     • .. i ->     Digitized by Google BUSCHETO di Isa Belli Barsali - Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 15 (1972) Condividi     Pubblicità BUSCHETO (Busketus, Buschetto, Boschetto). - Si ignorano l'origine e gli estremi biografici di questo architetto attivo a Pisa tra il terzo venticinquennio del sec. XI e i primi del XII. Compare in due soli documenti certi, del 2 dic. 1104e del 2apr. 1110 (pubblicati dal Pecchiai), e come operarius di S. Maria. Fu l'ideatore del progetto della cattedrale pisana e come tale infatti è ricordato ed esaltato, nel paragone con Ulisse e con Dedalo, nell'iscrizione che si legge sulla sua tomba collocata nella prima arcata a sinistra della attuale facciata (trasferitavi da quella primitiva): "Non habet exemplum niveo de marmore templum. / Quod fit Busketi prorsus ab ingenio". Una più tarda iscrizione elogiativa aggiunta sul sarcofago in occasione del trasferimento della tomba dalla vecchia alla nuova facciata (al tempo cioè dell'architetto di quest'ultima, Rainaldo) esalta del B. soprattutto le capacità tecniche: "Quod vix mille boum possent iuga iuncta movere / Et quod vix potuit per mare ferre ratis / Busketi nisu quod erat mirabile visu / Dena puellarum turba levabat onus". Accenti assai simili aveva un'epigrafe romana, ora scomparsa, trascritta da G. Dondi (1375), che celebrava un "Buzeta" per aver nuovamente eretto l'obelisco nel circo neroniano: "Ingenio Buzeta tuo bis quinque puellae / appositis manibus hanc erexere columnam". Questa somiglianza di tono nelle due epigrafi, pisana e romana, indusse il Morelli a proporre l'identificazione di "Buzeta" con Buscheto.  Non risulta certo che sia da identificare con il B. che compare nel 1076 e 1078 in due atti della canonica del duomo di Pistoia (L. Chiappelli, Storia di Pistoia..., Pistoia 1932, p. 159). Per altre ipotesi (B. del fu Giovanni giudice dei signori di Ripafratta, Monini, pp. 10-14), basate su documenti presunti (10 febbr. 1100 e 1105) o per documenti (Pecchiai, p. 20) poinon rintracciati (13febbr. 1104 e 18 luglio 1105), si veda Scalia (pp. 514 s.).  ADVERTISING I lavori della cattedrale pisana, iniziati nel 1063 al tempo del vescovo Guido da Pavia, proseguirono, sostenuti da donazioni, tra cui quelle di Enrico IV e della contessa Matilde, per tutto il secolo XI e i primi decenni del secolo seguente. Papa Gelasio II nel 1118 consacrava la cattedrale, forse non ancora del tutto compiuta. Dopo questa data, l'edificio venne ampliato con il prolungamento a ovest del corpo longitudinale della chiesa, di circa quindici metri, che portò di conseguenza alla costruzione dell'attuale facciata (per il Sanpaolesi nel secondo quarto del sec. XII. Per le fondazioni della prima facciata si veda Bacci, 1917).  L'individuazione, ovviamente fondamentale, dell'attività di B. nella parte più antica del duomo, ha avuto un lungo iter critico. Alla luce degli studi recenti è da credere che il B. progettasse e iniziasse la costruzione in età ancor giovane, proseguendone poi la fabbrica fino al primo decennio del sec. XII.  Molte ipotesi sono state avanzate sui tempi e i modi della fabbrica del duomo durante la direzione di Buscheto (Dehio-von Bezold; Salmi, 1938;Sanpaolesi). Una documentazione indiretta aiuta solo parzialmente. Accettando l'ipotesi del Burger (1953), che l'epigrafe con data 1085 murata sulla porta della pieve nuova di S. Maria del Giudice (Lucca) vada riferita al completamento dell'abside di questa chiesa - anteriore stilisticamente alla sua facciata - il1085verrebbe ad essere anno ante quem per il completamento di una parte dei lavori al duomo pisano attribuibili a B., dato il rapporto esistente tra il duomo di Pisa e l'abside della pieve nuova di S. Maria del Giudice: la chiesa del contado lucchese sarebbe anche il più antico edificio derivato dalla cattedrale pisana.  I forti pilastri interni all'incrocio del transetto delineano le dimensioni della cupola e autorizzano a ritenere che B. progettasse anche questa parte (Sanpaolesi), anche se poi è possibile che i lavori si protraessero. La cupola originaria - poggiante su un tamburo con monofore ad archetto e su trombe coniche venute in luce durante i restauri del secondo dopoguerra - indica rapporti con l'architettura del Mediterraneo orientale e della Sicilia.  Un problema aperto è quello della forma della facciata di B., forse già compiuta nel 1118 quando fu consacrata la chiesa, certo già esistente quando nella chiesa fu tenuto un concilio nel 1136, e disfatta probabilmente dopo la costruzione della nuova. Ipotesi ricostruttive possono trovare appoggio nell'esame analitico e comparativo di alcune facciate di chiese pisane (S. Frediano di Pisa, la pieve di Calci già aperta al culto nel 1111, la pieve di Vicopisano) e lucchesi (le due pievi di S. Maria del Giudice), tutte in contatto con la cattedrale pisana. Queste facciate mostrano una ricorrente tipologia ad archi ciechi su due ordini, che si presenta in logico e armonioso rapporto con quella soluzione ad archi ciechi che compare nei fianchi del duomo di Pisa.  Il linguaggio di B. non è certo riconducibile ad una tradizione locale, ed è estremamente colto. Accettando l'ipotesi di identificazione con il "Buzeta" dell'iscrizione romana, il soggiorno a Roma illuminerebbe sul sottofondo classico della sua cultura: l'impianto dell'edificio e i grandi colonnati basilicali, i capitelli foggiati ad imitazione dell'antico, la quasi completa assenza di decorazioni figurate rivelano infatti la conoscenza e lo studio delle opere romane; è significativo che anche il neoclassico Milizia ne notasse "le proporzioni del tutto non... spregevoli" e la "sodezza". Nello stesso tempo B. è a conoscenza dell'architettura lombarda e dell'architettura orientale, dalla bizantina all'araba. Contatti e rapporti culturali sono d'altronde superati in una unitaria visione di grande respiro, che fa di B. uno dei massimi architetti dei secoli XI e XII.  La cattedrale pisana è capostipite del romanico pisano. All'opera di B. e del suo continuatore Rainaldo si rifece non solo la generazione a loro più vicina, ma una folta scuola, estesasi nella Lucchesia, nel territorio fiorentino, e nelle zone politicamente o commercialmente in rapporto con Pisa (in Sardegna e in Puglia), scuola che ne mantenne alcuni tratti essenziali, pur modificandosi nel tempo e nei diversi centri.  Fonti e Bibl.: B. Maragone, Annales pisani, in Rerum Italic. Script., 2 ediz., VI, 2, a cura di M. Lupo Gentile, pp. 1 ss.; R. Sardo, Cronaca pisana, a cura di O. Banti, Roma 1963, pp. 7 ss.; G. Dondi, Iter romanum (1375), in Codice topografico della città di Roma, a cura di R. Valentini-G. Zucchetti, IV, Roma 1953, p. 68; F. Milizia, Mem. degli architetti antichi e moderni, Parma 1781, p. 112; A. Da Morrona, Pisa illustrata, Pisa 1812, pp. 119, 147, 148, 175, 362; I. Morelli, Operette, II, Venezia 1820, pp. 285 ss.; R. Grassi, Descriz. Stor.-artistica di Pisa, Pisa 1836, Parte storica, p. 124; Parte artistica, pp. 22 ss.; G. Rohault de Fleury, Les monuments de Pise au Moyen Age, Paris 1866, pp. 48 ss.; G. B. De Rossi, Inscriptiones christianae Urbis Romae, I, Romae 1880, p. 330; G. Dehio-G. von Bezold, Die kirchliche Baukunst des Abendlandes, I, Stuttgart 1884, pp. 230 ss.; S. Monini, B. pisano, Pisa 1890; P. Schubring, Pisa, Leipzig 1902, pp. 17, 34, 44, 74; A. Venturi, Storia dell'arte italiana, III, Milano 1903, pp. 835 ss.; J. B. Supino, Arte pisana, Firenze 1904, pp. 4, 20-22, 32, 37, 44; P. Pecchiai, L'opera della Primaziale pisana, Pisa 1906, pp. 20 ss.; R. Papini, Pisa, I, Roma 1912, p. 4; Id., La costr. del duomo di Pisa, in L'Arte,XV (1912), pp. 344 ss.; P. Bacci, Le fondaz. della facciata del sec. XI nel duomo di Pisa, in Il Marzocco, XXII (1917), n. 35; P. Tronci, Il duomo di Pisa, a cura di P. Bacci, Pisa 1922; M. Hauttmann, Die Kunst des frühen Mittelalters,Berlin 1924, pp. 83, 84, 714; M. Salmi, L'architettura romanica in Toscana, Milano-Roma s.d. (ma 1927), pp. 11, 12, 14, 15, 16, 17, 24, 40 n. 26; P. Toesca, Il Medioevo, I, Torino 1927, pp. 467, 548 ss., 660 n. 39, 1127; S. Guyer, Der Dom zu Pisa und das Rätsel seiner Entstehung, in Münchner Jahrbuch der bildenden Kunst, IX (1932), pp. 351 ss.; M. Salmi, La genesi del duomo di Pisa, in Boll. d'arte, s. 3, XXXII (1938), pp. 150 ss.; H. Thümmler, Die Baukunst des XI. Jh.s in Italien, in Römisches Jahrbuch für Kunstgeschichte, III (1939), pp. 183-188; C. L. Ragghianti, Architettura lucchese e architettura pisana, in Critica d'arte, s. 3, VIII (1949), n. 2, pp. 168 ss.; S. Burger, L'architettura romanica in Lucchesia e i suoi rapporti con Pisa, in Atti del Seminario di storia dell'arte, Pisa-Viareggio 1953, pp. 126 ss.; P. Sanpaolesi, La facciata della cattedrale di Pisa, in Riv. dell'Ist. d'archeol. e storia dell'arte, V-VI(1956-57), pp. 254 ss. e passim;Id., Ilrestauro delle strutture della cupola della cattedrale di Pisa,in Boll. d'arte, s. 4, XLIV 1959), pp. 100-230; S. Burger, Osservazioni sulla storia della costruzione del duomo di Pisa, in Critica d'arte,VIII (1961), pp. 28 ss.; R. Barsotti, B. e Rainaldo, in Cattedrale di Pisa. 1063-1963 (catal. della mostra), Pisa 1963, pp. 12-14; R. Delogu, Pistoia e la Sardegna nell'architettura romanica, in I Convegnointernaz. di storia e arte,Pistoia 1964, pp. 86 ss.; G. Scalia, Ancora intorno all'epigrafe sulla fondazione del duomo pisano, in A G. Ermini, Spoleto 1970, pp. 483 ss.; U. Thieme-F. Becker, Künstlerlexikon, V, p. 289, s.v. Busketus. Wikipedia Ricerca Circo di Nerone Circo scomparso della Roma antica Lingua Segui Modifica Ulteriori informazioni Questa voce o sezione sull'argomento siti archeologici d'Italia non cita le fonti necessarie o quelle presenti sono insufficienti. Circo di Nerone (o Vaticano) Sito archeologico Roma Nero Circus.jpg Ricostruzione del Circo di Nerone in un disegno di Pietro Santi Bartoli Civiltà                    Civiltà romana Utilizzo                                         Circo Localizzazione Stato                                       Città del Vaticano Mappa di localizzazione  Wikimedia | © OpenStreetMap Il circo di Nerone era un impianto per spettacoli dell'antica Roma lungo 540 metri e largo circa 100, che sorgeva nel luogo dove oggi si trova la basilica di San Pietro in Vaticano, in una valle che correva da dove si trova la parte sinistra della basilica fino quasi ad arrivare al Tevere. L'area dei Carceres, da dove partivano le bighe, era situata nel punto dal quale la Via del Sant'Uffizio lascia piazza Pio XI, mentre quella del lato curvo va rintracciata qualche decina di metri dopo l'abside della basilica di San Pietro.  Storia                                         Modifica L'opera, iniziata da Caligola e completata da Nerone, era stata costruita all'interno della villa di Agrippina Maggiore, villa che alla morte della madre di Caligola passò in eredità a Nerone.  Nel circo privato dell'imperatore si tenevano corse di cavalli, bighe e quadrighe, molto popolari a Roma, tanto che in alcune occasioni l'imperatore, che normalmente vi assisteva solo con la sua corte, fece aprire le porte del circo al popolo romano. È probabile che l'impianto non dovesse contenere più di 20.000 spettatori.  Qui ebbero luogo, forse per la vicinanza all'adiacente necropoli, alcune esecuzioni dei cristiani giudicati colpevoli di aver causato il grande incendio di Roma. Nerone, secondo Tacito, aggiunse lo scherno al supplizio. Come avvolgere gli uomini con pelli di animali perché fossero dilaniate dai cani, o inchiodarli alle croci, o destinarli al rogo come fiaccole, che illuminassero l'oscurità al termine del giorno. Nerone aveva offerto i suoi giardini per lo spettacolo, e vi aveva organizzato giochi circensi, mescolandosi alla folla in abito d'auriga o guidando un carro da corsa. In tal modo si aveva pietà di quei condannati, benché colpevoli e meritevoli del supplizio, perché venivano sacrificati non per l'utilità pubblica ma per la crudeltà di uno solo.[1]  Il circo fu abbandonato già verso la metà del II secolo d.C. e l'area fu suddivisa e assegnata in concessione ai privati per la costruzione di tombe appartenenti alla necropoli. Tuttavia pare che fino al 1450 ne sopravvivessero ancora molti resti, distrutti con la costruzione della nuova basilica vaticana.  L'obelisco, che era posto al centro della spina del circo, era stato per volere di Caligola trasportato fin qui da Eliopoli, dove si trovava nel Forum Iulii. Qui rimase fino a che nel 1586 papa Sisto V lo fece spostare al centro di Piazza San Pietro.   L'area dove sorgeva anticamente il Circo di Nerone.  Note                                                   Modifica ^ Publio Cornelio Tacito, ''Annales, XV, 44. Voci correlate          Modifica Basilica di San Pietro in Vaticano Via Cornelia Altri progetti         Modifica Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su circo di Nerone Controllo di autorità                        VIAF ( EN ) 312597053   Portale Antica Roma   Portale Architettura   Portale Roma Ultima modifica 3 mesi fa di 5.11.116.158 PAGINE CORRELATE Necropoli vaticana Ager Vaticanus Via Cornelia Strada romana antica  Wikipedia Il contenutoGrice: “I thought it was a good idea of the Anglo-Normans to retain the Anglo-Saxon idea of ‘time’ (as stretch – a rather English root – cf. German ‘zeit,’ our ‘tide’ --, and borrow from Latin, ‘tempus’, which gives us ‘temporary’, as I use in my ‘Personal Identity,’but also ‘tense’ – This tense is better than by vice/vyse, since vice and vyse are both cognate with violence. But tense and tense are not. One is cognate with Latin tension. The other is just a mispronounciation of Fremch ‘temps,’ Latin/Roman ‘tempus’ – So as Cicero would have it, it’s ‘tempus’ we should care about!” -- Giovanni Dondi dall’Orologio. Giovanni De Dondi. Dondi. Keywords: l’astrarium, Leibniz’s Law, time-relative identity, total temporary state (Grice: “I’m thinking of Hitler”); Wiggins, Myro, The Grice-Myro Theory of Identity, sameness and substance, Mellor, filosofia del tempo, Prior, Creswell, Mellor – logica cronologica, ‘tense logic’ ‘tense implicature’ -- “iter romanorum”. Refs: Luigi Speranza, “Grice e Dondi” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51691596318/in/photolist-2mQzBiv-2mKAsyK-2mKNWFh

 

Grice e Dorfles – implicatura del kitsch – filosofia Italian – Luigi Speranza (Trieste). Filosofo. Grice: “Must say my favourite Dorfles is his ‘artificio e natura,’ on the doryphoros!”. Nato a Trieste nell'allora Austria-Ungheria da padre goriziano di origine ebraica e madre genovese, si laurea a Trieste. Si dedica allo studio della pittura, dell'estetica e in generale delle arti. La conoscenza dell'antroposofia di Steiner, acquisita grazie alla partecipazione a un ciclo di conferenze a Dornach, orienta la sua arte pittorica verso il misticismo, denotando una vicinanza più ai temi dominanti dell'area mitteleuropea che a quelli propri della pittura italiana coeva. Isegna a Milano, Cagliari e Trieste. Fonda il Movimento per l’Arte Concreta (vs. arte astratta). del quale contribuì a precisare le posizioni attraverso una prolifica produzione di articoli, saggi e manifesti artistici. Prende parte a numerose mostre in Italia e all'estero: espone i suoi dipinti alla Libreria Salto di Milano e in numerose collettive, tra le quali la mostra alla Galleria Bompiani di Milano, l'esposizione itinerante, e la grande mostra "Esperimenti di sintesi delle arti", svoltasi nella Galleria del Fiore di Milano. Risulta componente di una sezione italiana del gruppo ESPACE. Diede il suo contributo alla realizzazione dell'Associazione per il Disegno Industriale. Si dedica quindi in maniera pressoché esclusiva all'attività critica. Con la personale presso lo Studio Marconi di Milano, torna a rendere pubblica la propria produzione pittorica. L'arte non prescinde dal tempo per esprimere semplicemente lo spirito della Storia universale, bensì è connessa al ruolo delle mode e a tutti gli ambiti del gusto. Considerevole è stato il suo contributo allo sviluppo dell'estetica italiana, a partire dal Discorso tecnico delle arti, cui hanno fatto seguito tra gli altri Il divenire delle arti e Nuovi riti, nuovi miti. Nelle sue indagini critiche sull'arte contemporanea si è sovente soffermato ad analizzare l'aspetto socio-antropologico del fenomeno estetico e culturale, facendo ricorso anche agli strumenti della linguistica. È autore di numerose monografie su artisti di varie epoche (Bosch, Dürer, Feininger, Wols, Scialoja). Pubblicato due volumi dedicati all'architettura (Barocco nell'architettura moderna, L'architettura moderna) e un famoso saggio sul disegno industriale (Il disegno industriale e la sua estetica). è il primo a vedere tendenze barocche nell'arte moderna (il concetto di neobarocco sarà poi concettualizzato da Calabrese) riferendole all'architettura moderna in: Barocco nell'architettura moderna. Contribuisce al Manifesto dell'antilibro, presentato ad Acquasanta, in cui esprime la valenza artistica e comunicativa dell'editoria di qualità e il ruolo del lettore come artista. A Genova si occupa anche del lavoro di Costa. Partecipa alla presentazione del libro Materia Immateriale, biografia di Costa, Miriam Cristaldi, di cui Dorfles ha scritto la prefazione. L'editore Castelvecchi ha pubblicato Horror Pleni. La (in)civiltà del rumore, in cui analizza come la scoria massmediatica ha soppiantato le attività culturali; Conformisti e Fatti e Fattoidi. Pubblica un inedito d'eccezione, “Arte e comunicazione”, in cui mette la teoria alla prova con alcune applicazioni concrete particolarmente rilevanti e problematiche come il cinema, la fotografia, l'architettura.  è uscito Irritazioni: un'analisi del costume contemporaneo, uscito nella collana Le navi dell'editore Castelvecchi. Con la sua ironia ha raccolto le prove della sua inconciliabilità con i tempi che corrono. Nel saggio c'è una critica sarcastica e corrosiva all'attuale iperconsumismo. NComunicarte Edizioni, pubblica 99+1 risposte di Dorfles nella collana Carte Comuni. Un'intervista "lunga un secolo" con la quale il critico ripercorre la sua vita e alcuni incontri d'eccezione: da ISvevo a Warhol, da Castelli a Fini. La Triennale di Milano ospita la mostra "Vitriol, disegni" Aldo Colonetti e Luigi Sansone; V. I. T. R. I. O. L.  è un simbolo alchemico, acronimo del motto rosa-crociano “Visita Interiora Terrae Rectificando Invenies Occultum Lapidem”. Assieme ad artisti e autori come Anceschi, Enrico Baj, Marchesi, Mulas e Niccolai, partecipa al numero quattordici di BAU..  Muor e a Milano, nella sua casa di piazzale Lavater. Zio di Piero Dorfles, critico letterario della trasmissione televisiva Per un pugno di libri (il padre di Piero, Giorgio, era fratello di Gillo).  Tra i riconoscimenti ricevuti: Compasso d'oro dell'Associazione per il Design Industriale, Medaglia d'oro della Triennale, Premio della critica internazionale di Girona, Franklin J. Matchette Prize for Aesthetics. È stato insignito dell'Ambrogino d'oro dalla città di Milano, del Grifo d'Oro di Genova e del San Giusto d'Oro di Trieste.  È stato Accademico onorario di Brera e Albertina di Torino, membro dell'Accademia del Disegno di Città del Messico, Fellow della World Academy of Art and Science, dottore honoris causa del Politecnico di Milano e dell'Università Autonoma di Città del Messico. Palermo gli conferì la laurea honoris causa in Architettura. Ricevette dall'Cagliari la laurea honoris causa in Lingue moderne.  Onorificenze Cavaliere di gran croce dell'Ordine al merito della Repubblica italiana nastrino per uniforme ordinariaCavaliere di gran croce dell'Ordine al merito della Repubblica italiana, Di iniziativa del Presidente della Repubblica» Medaglia d'oro ai benemeriti della cultura e dell'arte nastrino per uniforme ordinaria Medaglia d'oro ai benemeriti della cultura e dell'arte. Altre opere: “Barocco nell'architettura moderna” (Studi monografici d'architettura, Libreria Editrice Politecnica Tamburini, illustrazioni); “Discorso tecnico delle arti, Collana Saggi di varia umanità, Pisa, Nistri-Lischi,Il pensiero dell'arte, Milano, Marinotti); “L'architettura moderna, Collana serie sapere tutto, Milano, Garzanti); “Le oscillazioni del gusto e l'arte moderna” (Forma e vita, Milano, Lerici); “Il divenire delle arti, Collana Saggi, Torino, Einaudi, ed. accresciuta, Torino, Einaudi; Collana Reprints Einaudi, Bompiani); “Ultime tendenze nell'arte”, Collana UEF, Milano, Feltrinelli); XXVII ed., UEF, Milano, Feltrinelli); “Simbolo, comunicazione, consume” (Torino, Einaudi, Il disegno industriale e la sua estetica, Bologna, Cappelli, Kitsch e cultura, in Aut Aut, Nuovi riti, nuovi miti” (Torino, Einaudi, Milano, Skira, L'estetica del mito (da Vico a Wittgenstein), Milano, Mursia, Kitsch: antologia del cattivo gusto, Milano, Gabriele Mazzotta Editore); “Artificio e natura” (Torino, Einaudi); Milano, Skira, Le oscillazioni del gusto. L'arte d'oggi tra tecnocrazia e consumismo, Torino, Einaudi, Milano, Skira, “Senso e insensatezza nell'arte d'oggi, ellegi edizioni, L'architettura moderna. Le origini dell'architettura contemporanea; I quattro grandi: Wright, Le Corbusier, Gropius, Mies van der Rohe); Dall'espressionismo all'organicismo razionalizzato, dall'ornamented modern al brutalismo, ai più avveniristici tentativi attuali, I Garzanti, Milano, Garzanti, Dal significato alle scelte, Torino, Einaudi, Massimo Carboni, Collana I Timoni, Roma, Castelvecchi, Il divenire della critica, Collana Saggi, Torino, Einaudi); “Le buone maniere, Milano, Mondadori, Mode & Modi, Collana Antologie e saggi, Milano, Mazzotta, II ed. riveduta, Mazzotta, Introduzione al disegno industriale. Linguaggio e storia della produzione di serie” (Torino, Einaudi, L'intervallo perduto, Collana Saggi, Torino, Einaudi, Milano, Skira, I fatti loro. Dal costume alle arti e viceversa, Milano, Feltrinelli, Architettura ambigue. Dal Neobarocco al Postmoderno, Bari, Dedalo, La moda della moda, Collana I turbamenti dell'arte, Genova, Edizioni Costa & Nolan, La (nuova) moda della moda), Costa & Nolan, Elogio della disarmonia: arte e vita tra logico e mitico” (Milano, Garzanti, Milano, Skira, Itinerario estetico, Milano, Studio Tesi, Itinerario estetico. Simbolo mito metafora, Luca Cesari, Bologna, Editrice Compositori); “Il feticcio quotidiano” (Milano, Feltrinelli, Massimo Carboni, Collana I Timoni, Roma, Castelvecchi, Intervista come auto-presentazione, con VII tavole di Giulio Paolini, Collana Scritti dall'arte, Tema Celeste Edizioni, Preferenze critiche. Uno sguardo sull'arte visiva contemporanea, Bari, Dedalo, Design: percorsi e trascorsi” (Design e comunicazione, Bologna, Lupetti, Fulvio Carmagnola, Lupetti, Conformisti, Roma, Donzelli, Fatti e fattoidi. Gli pseudo-eventi nell'arte e nella società, Vicenza, Neri Pozza, Massimo Carboni, Roma, Castelvecchi, Irritazioni. Un'analisi del costume contemporaneo, Collana Attraverso lo specchio, Luni, Massimo Carboni, Roma, Castelvecchi, Scritti di Architettura, L. Tedeschi, Milano, Mendrisio Academy Press, Flavia Puppo, Dorfles e dintorni, Milano, Archinto, Lacerti della memoria. Taccuini intermittenti, Bologna, Editrice Compositori, L'artista e il fotografo, Verso l'Arte, Conformisti. La morte dell'autenticità, Massimo Carboni, Roma, Castelvecchi, Horror Pleni. La (in)civiltà del rumore, Collana I Timoni, Roma, Castelvecchi); “Arte e comunicazione: comunicazione e struttura nell'analisi di alcuni linguaggi artistici” (Milano, Mondadori Education, Inviato alla Biennale, A. De Simone, Milano, Scheiwiller, 99+1 risposte, Lorenzo Michelli, Trieste, Comunicarte Edizioni, Movimento Arte Concreta, Luigi Sansone e N. Ossanna Cavadini, Milano, Mazzotta, Poesie, Campanotto Editore, L'ascensore senza specchio, Quaderni di prosa e di invenzione, Milano, Edizioni Henry Beyle, Kitsch: oggi il kitsch, Aldo Colonetti et al., Bologna, Editrice Compositori, Arte con sentimento. Conversazione, Marco Meneguzzo, Collana Polaroid, Milano, Medusa Edizioni, Essere nel tempo, Achille Bonito Oliva, Milano, Skira, Gli artisti che ho incontrato, Luigi Sansone, Milano, Skira, La logica dell'approssimazione, nell'arte e nella vita, Aldo Colonnetti, Silvana, Estetica senza dialettica. Scritti, al, Luca Cesari,Milano, Bompiani, Paesaggi e personaggi, Enrico Rotelli, Milano, Bompiani, La mia America, Luigi Sansone, Milano, Skira; "Interviene Gillo Dorfles", in alterlinus "Calligaro: parole e immagini", in Preferenze critiche, Dedalo, "Né moduli, né rimedi", in Agalma,  "Disarmonia, asimmetria, wabi, sabi", in Agalma,  "Feticcio", in Agalma,  "Barozzi", in Da Duchamp agli Happening. Il Mondo di Pannunzio e altri scritti, Campanotto Editore, Traduzioni Rudolf Arnheim, “Arte e percezione visive” (Milano, Feltrinelli, Rudolf Arnheim, Guernica. Genesi di un dipinto, Milano, Feltrinelli); Addio a Gillo Dorfles: «La mia vita infinita da Francesco Giuseppe agli smartphone», su corriere. Aldo Cazzullo: la mia vita infinita da Francesco Giuseppe agli smartphone, Corriere della sera, 1 il Redazione, Novità formali e riesumazioni di precedenti esempi, il contemporaneo è un linguaggio nuovo di un sapere condiviso, QM, su quid magazine, biografia sul sito delle Edizioni Il Bulino, Galliano Mazzon, Mostra antologia: Civico Padiglione d'Arte Moderna, MMilano, Civico Padiglione d'Arte Moderna, Mostra antologia di Galliano Mazzon: Civico Padiglione d'Arte Moderna, Milano, Luciano Caramel, Arte in Italia, su Dioguardi Gianfranco, Processo edilizio e progetto: vecchi attori alla ricerca di nuovi ruoli, Milano: Franco Angeli, Studi organizzativi. Fascicolo, Corriere della Sera, Cfr. la raccolta degli scritti raccolti in Architetture Ambigue: Dal Neobarocco al Postmoderno, Dedalo, Bari Di Giovanni Marilisa, Il corpo, nuova forma: la “body art”; Cheiron: materiali e strumenti di aggiornamento storiografico. Lecta web, arte e comunicazione. Vitriol Triennale, Sussidiaria: GPS/GaPSle Forbici di Manitù (BAU14). Celeste Prize BAU 14 Antonio Gnoli, Gillo Dorfles, il rivoluzionario critico d'arte, La Repubblica,  Bucci, Morto, critico poliedrico. Corriere della Sera, Addio ad Alma Dorfles, signora di cultura, Il Piccolo, Sito web del Quirinale: dettaglio decorato., su Quirinale, dettaglio decorato., su Quirinale, Intervista su conoscenza.rai. Sergio Mandelli, Capire l'arte contemporanea su youtube.com Gillo Dorfles,«Mi sveglio, lavoro. Amo il vino», in Corriere della Sera, Aldo Cazzullo,  la mia vita infinita da Francesco Giuseppe agli smartphone, in Corriere della Sera.   Wikipedia Ricerca Natura insieme degli esseri viventi e inanimati considerato nella sua forma complessiva Lingua Segui Modifica Ulteriori informazioni Questa voce sull'argomento scienza è solo un abbozzo. Contribuisci a migliorarla secondo le convenzioni di Wikipedia. Segui i suggerimenti del progetto di riferimento. Per natura si intende l'universo considerato nella totalità dei fenomeni e delle forze che in esso si manifestano, da quelli del mondo fisico a quelli della vita in generale.   Paesaggio naturale Storia del concetto                                                        Modifica Magnifying glass icon mgx2.svg                           Lo stesso argomento in dettaglio: Natura (filosofia). Il termine deriva dal latino Natura e letteralmente significa "ciò che sta per nascere": a sua volta deriva dalla traduzione latina della parola greca physis  Il concetto di natura come una totalità che va a comprendere anche l'universo fisico è una delle molte estensioni del concetto originale; sin dalle prime applicazioni di base della parola φύσις da parte dei filosofi presocratici, esso è entrato sempre più nell'uso corrente[1].  Questa concezione è stata riaffermata con l'avvento del moderno metodo scientifico negli ultimi secoli.  Natura e ambiente                                         Modifica Magnifying glass icon mgx2.svg                            Lo stesso argomento in dettaglio: Ambiente (biologia).  I boschi fanno parte del gruppo della Natura. La "natura" può riferirsi alla sfera generale delle piantee degli animali, ai processi associati ad oggetti inanimati,[2] al modo in cui determinati tipi di forme esistono ed ai cambiamenti spontanei come i fenomeni meteorologici o geologici della Terra, la materia e l'energia di cui tutte queste realtà sono composte. Viene inteso come ambiente naturale il deserto, la fauna selvatica, le rocce, i boschi, le spiagge, i mari e gli oceani, e in generale quelle cose che non sono state sostanzialmente modificate dall'intervento umano, o che persistono nonostante l'intervento dello stesso. Ad esempio, i manufatti e le trasformazioni umane in genere non sono considerati parte della natura, venendo preferibilmente qualificati come una natura più complessa.  Più in generale, la natura comprende i seguenti contesti e dimensioni della realtà:  Terra                                                     Modifica Magnifying glass icon mgx2.svg                            Lo stesso argomento in dettaglio: Terra. Ulteriori informazioni Questa voce sull'argomento ecologia è solo un abbozzo. Contribuisci a migliorarla secondo le convenzioni di Wikipedia. Segui i suggerimenti del progetto di riferimento. La Terra è il luogo primigenio degli esseri umani, che ospita la vita come da noi concepita e conosciuta. Sulla sua superficie si trova acqua in tutti e tre gli stati (solido, liquido e gassoso) e un'atmosfera composta in prevalenza da azoto e ossigeno che, insieme al campo magnetico che avvolge il pianeta, protegge la Terra dai raggi cosmici e dalle radiazioni solari.  La sua formazione è datata a circa 4,54 miliardi di annifa.[3]  Vita Modifica Magnifying glass icon mgx2.svg                            Lo stesso argomento in dettaglio: Vita. Piante                          Modifica Magnifying glass icon mgx2.svg                            Lo stesso argomento in dettaglio: Piante. Le piante (Plantae Haeckel, 1866) sono organismi unio pluricellulari, che comprendono tutti i vegetali, soggetti a nascita, crescita, riproduzione e decesso.[4]  Animali                                    Modifica Magnifying glass icon mgx2.svg                            Lo stesso argomento in dettaglio: Animali. Ulteriori informazioni Questa voce sull'argomento ecologia è solo un abbozzo. Contribuisci a migliorarla secondo le convenzioni di Wikipedia. Segui i suggerimenti del progetto di riferimento. Gli animali comprendono in totale più di 1.800.000 specie di organismi classificati, presenti sulla Terra dal periodo ediacarano. Il numero di specie via via scoperte è in costante crescita, e alcune stime portano fino a 40 volte di più la numerosità accertata[5]. Delle 1,5 milioni di specie animali attuali, 900 000 sono appartenenti solo alla classe degli Insetti.[6]  Ecosistemi                                  Modifica Magnifying glass icon mgx2.svg                            Lo stesso argomento in dettaglio: Ecosistemi.  Una tempesta. Gli ecosistemi sono costituiti da una o più comunità di organismi viventi (animali e vegetali), e da elementi non viventi (abiotici), che interagiscono tra loro; una comunità è a sua volta l'insieme di più popolazioni, costituite ognuna da organismi della stessa specie. L'insieme delle popolazioni, cioè la comunità, interagisce dunque con la componente abiotica formando l'ecosistema, nel quale si vengono a creare delle interazioni reciproche in un equilibrio dinamicocontrollato da uno o più meccanismi fisico-chimici di retroazione (detti anche "feedback").  Carl Troll, nel 1939, dall'esame di alcune serie storiche di foro aeree, notò che gli ecosistemi mostravano una tendenza ad aggregarsi in configurazioni unitarie (denominate principalmente Macchie, Isole e Corridoi). Ricordando la dizione di Alexander von Humboldt, Troll chiamò tali formazioni "paesaggi".  Ipotesi Gaia                                                   Modifica Magnifying glass icon mgx2.svg                            Lo stesso argomento in dettaglio: Ipotesi Gaia. L'ipotesi Gaia è la teoria, inizialmente avanzata da James Lovelock nel 1969, ma già anticipata da Giovanni Keplero nel diciassettesimo secolo, secondo la quale tutti gli esseri viventi sulla Terra contribuirebbero a comporre un vasto ed unico organismo (chiamato Gaia, dal nome della dea greca), capace di autoregolarsi nei suoi vari elementi per favorire a sua volta le condizioni generali della vita.  Naturale e artificiale                                                            Modifica Magnifying glass icon mgx2.svg                            Lo stesso argomento in dettaglio: Natura e artificio. Il concetto più tradizionale della natura, che può essere usato ancora oggi, implica una distinzione tra naturale ed artificiale: con "artificiale" si intende cioè che è stato creato dall'opera o da una mente umana. A seconda del contesto, il termine "naturale" potrebbe anche essere distinto dall'innaturale, dal soprannaturale e dall'artefatto.[7]   Bottega dello scultore, miniatura del XV secolo che raffigura l'opera umana di modifica degli elementi e degli arredi naturali Le difficoltà nella definizione stessa della naturacomportano un'ambiguità nel rapporto tra uomo e natura.[8] Alle volte il concetto è usato in senso derivato per riferirsi a quelle zone create dall'uomo, ma dove grande spazio è riservato alle popolazioni vegetali e animali. Si può parlare ad esempio della natura di una foresta, anche se coltivata e sfruttata da secoli. In tal caso ci si riferisce a una modalità di gestire l'ambiente da parte degli umani, piuttosto che all'assenza di intervento umano.  L'idea di natura è stata rielaborata dalla cultura urbanache ha formulato la mitica nozione di barbarie per definire tutto quanto si pone al di fuori della civiltà. Il fatto che il termine «selvaggio» venga usato da un lato come sinonimo di «naturale», dall'altro per denotare certi atti come particolarmente violenti o efferati, mette in evidenzia una certa tendenza ideologica, piuttosto inconsapevole, a considerare parte della natura come estranea alla culturadominante, come qualcosa di primitivo se non di malevolo.[9] Paradossalmente accade anche che, in altri contesti, la parola «naturale» possa venire usata nel linguaggio corrente come sinonimo di «normale», «legittimo» o «logico», come la fonte cioè dei principi più retti dell'uomo civilizzato.[10]  Lo sviluppo della scienza e della tecnologia negli ultimi due secoli è stato a sua volta in gran parte accompagnato da una certa contrapposizione ideologica tra uomo e natura; la conoscenza viene generalmente considerata uno strumento di dominio della natura piuttosto che un mezzo per vivere in armonia con essa. L'epoca moderna ha visto d'altra parte lo sviluppo della teoria della legge naturale, che pone in risalto i diritti dell'uomo, il quale sarebbe stato dotato dalla natura di prerogative inalienabili; in tale contesto si fa riferimento ad una natura umana senza implicare necessariamente l'appartenenza ad una natura ancestrale.[11]  Tutela della natura                                       Modifica  Lo sfruttamento del suolo e il problema dello smaltimento dei rifiuti procede di pari passo con la crescente urbanizzazione. La crescente industrializzazione ed urbanizzazione del pianeta ha posto il problema della conservazione della natura in forme nuove e sempre più urgenti. Agli ambienti naturali si sono andati via via sostituendo paesaggi artificiali, che oltre a distruggerne l'amenità, ne hanno alterato la loro peculiare storia ecologica.[2]  Sin dalla preistoria l'uomo è intervenuto a modificare il paesaggio naturale, attraverso disboscamenti e l'introduzione di colture e animali di importazione, con grave danno per la flora e la fauna locali, oltre che di quelle non addomesticabili. Ma è stato soprattutto a partire dalla rivoluzione industriale che l'umanità si è dotata di mezzi molto più invasivi, che deturpano gli ambienti fino a provocarne spesso la desertificazione.[2]  Fra le principali cause della distruzione della natura vi sono:  inquinamento, ed emissioni di gas serra; sfruttamento delle risorse naturali, deforestazione, agricoltura intensiva con uso di pesticidi, pescamassiccia; estinzione di numerose specie viventi; ignoranza dell'ambiente biofisico, mancanza di cultura ecologica. Alle alterazioni della natura ha contribuito inoltre la crescita esponenziale della popolazione umana, soprattutto nei paesi del Terzo Mondo.[2]  Con la ricerca scientifica si riesce soltanto a rimediare per lo più parzialmente ai danni, cercando di razionalizzare lo sfruttamento del suolo, arginare la diffusione dei parassiti e limitare l'inquinamento. Per il resto, la lenta crescita di consapevolezza dell'importanza di tutelare la natura nei paesi industrializzati ha portato a provvedimenti come l'istituzione dei parchi naturali, sin dal XIX secolo.[2]  Dopo la seconda guerra mondiale sono sorte alcune organizzazioni internazionali per la difesa della natura come l'IUCN, il WWF, l'UNESCO, l'UNEP. Dagli anni ottanta le varie nazioni del pianeta hanno iniziato a partecipare a delle conferenze su scala globale per trattare soprattutto dei problemi del clima, con risultati di scarsa efficacia.[2]  Note                      Modifica ^ Frédéric Ducarme e Denis Couvet, What does 'nature' mean?, in Palgrave Communications, vol. 6, n. 14, Springer Nature, 2020, DOI:10.1057/s41599-020-0390-y. URL consultato il 7 febbraio 2020 (archiviato il 7 febbraio 2020). ^ a b c d e f Natura, su treccani.it. URL consultato il 24 dicembre 2018 (archiviato il 27 dicembre 2018). ^ ( EN ) William L. Newman, Age of the Earth, in U.S. Geological Survey's Geologic Time, 9 ottobre 1997. URL consultato il 7 marzo 2012(archiviato il 23 dicembre 2005). ^ Pianta, su treccani.it. URL consultato il 27 dicembre 2018 (archiviato il 28 dicembre 2018). ^ Baccetti B. et al, Trattato Italiano di Zoologia 2º vol, pp. 9-10, 1995 ISBN 978-88-08-09366-0 | ISBN 978-88-08-09314-1 ^ ( EN ) Insect Species, su infoplease.com. URL consultato il 27 dicembre 2018 (archiviato il 3 ottobre 2012). ^ John Rawls, Lezioni di storia della filosofia morale, cap. 3, Feltrinelli, 2004. ^ Guido Viale, Un mondo usa e getta. La civiltà dei rifiuti e i rifiuti della civiltà, Feltrinelli, 2000, p. 169 e segg. ^ Franco Brevini, L'invenzione della natura selvaggia. Storia di un'idea dal XVIII secolo a oggi, Bollati Boringhieri, 2013. ^ Simone Pollo, La morale della natura, cap. 4, Laterza, 2008 ^ Sergio Belardinelli, La normalità e l'eccezione: il ritorno della natura nella cultura contemporanea, Rubbettino, 2002. Voci correlate                                           Modifica Ambiente naturale Ecologia Filosofia della natura Ipotesi Gaia Natura (filosofia) Naturalismo Scienze naturali Altri progetti                          Modifica Collabora a Wikiquote Wikiquote contiene citazioni sulla natura Collabora a Wikibooks Wikibooks contiene testi o manuali su natura Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file sulla natura Collegamenti esterni Modifica natura, su Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su Wikidata natura, in Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2009. Modifica su Wikidata ( EN ) Natura, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su Wikidata ( EN ) Opere riguardanti Natura, su Open Library, Internet Archive. Modifica su Wikidata ( EN ) Natura, in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton Company. Modifica su Wikidata Frédéric Ducarme e Denis Couvet, What does 'nature' mean?, in Palgrave Communications, vol. 6, n. 14, Springer Nature, 2020, DOI:10.1057/s41599-020-0390-y. Controllo di autorità                                                     Thesaurus BNCF 6277 · LCCN( EN ) sh85090277 · GND ( DE ) 4041358-5 ·BNF ( FR ) cb11933874z (data) · J9U( EN ,  HE ) 987007560766805171 (topic) · NDL( EN ,  JA ) 00571314   Portale Ecologia e ambiente   Portale Scienza e tecnica Ultima modifica 3 mesi fa di Egidio24 PAGINE CORRELATE Ecosistema porzione di biosfera delimitata naturalmente  Ecologia branca della biologia che studia le interazioni tra gli organismi e il loro ambiente  Ecosistema terrestre Wikipedia Il contenuto Wikipedia Ricerca Madre Natura personificazione della natura Lingua Segui Modifica Ulteriori informazioni Questa voce o sezione sull'argomento mitologia non cita le fonti necessarie o quelle presenti sono insufficienti. Ulteriori informazioni Questa voce sugli argomenti personaggi immaginari e mitologia è solo un abbozzo. Contribuisci a migliorarla secondo le convenzioni di Wikipedia. Segui i suggerimenti del progetto di riferimento. Madre Natura è la personificazione della natura.   Joseph Werner,  Diana di Efeso come allegoria della Natura, 1680 circa Caratteristiche                  Modifica  Madre Natura, figura dal trattato Atalanta Fugiens (XVII secolo) Essa (a volte conosciuta come Madre Terra) è la comune personificazione della natura focalizzata intorno agli aspetti di donatrice di vita e di nutrimento, incarnandoli nella figura materna. Immagini di donnerappresentanti madre natura, o la madre terra, sono senza tempo.   In età preistorica le dee erano venerate per la loro associazione con la fertilità, la fecondità e l'abbondanza agricola. Le sacerdotesse mantenevano il dominio di vari aspetti religiosi delle civiltà Inca, Algonchina, Assira, Babilonese, Slava, Germanica, Romana, Greca, Indiana e Irochese per millenni prima dell'inizio delle religioni patriarcali.  Talvolta viene indicata come la sposa di Padre Tempo.  Voci correlate                                                   Modifica Grande Madre Gea Tellus Mati Zemlya Pachamama Altri progetti      Modifica Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Madre Natura Ultima modifica 7 mesi fa di 5.90.13.8 PAGINE CORRELATE Teteoinnan dea azteca della guarigione, e dei bagni di vapore.  Madre Russia personificazione nazionale della Russia  Padre Tempo personificazione del tempo  Wikipedia Il contenutoGillo Dorfles. Angelo Eugenio Dorfles. Dorfles. Keywords: filosofia del kitsch, “Artificio e Natura, natura, artificio, communicazione, mito, simbolo, segno, linguaggio, interpretazione, semiotica, disarmonia, Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Dorfles” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51714639082/in/photolist-2mMR3uj-2mLJvTo-2mLH4oV-2mLJwvR-2mLMBfw-2mLD1cJ-2mLH3QA-2mLJBQd-2mLCZMW

 

Grice e Doria – filosofia italiana – Luigi Speranza (Genova). Filosofo. Grice: “I love Doria: a nobleman who should be sailing off Portofino, is writing a ‘progetto di metafisica’ after discussing the ‘filosofia degl’antichi’ – you HAVE to love him! Plus, he philosophised WHILE sailing!” Figlio di Giacomo e Maria Cecilia Spinola, appartenente alla nobile casata dei Doria Lamba dalla quale provennero ben quattro dogi della repubblica di Genova, ha un'infanzia travagliata segnata a cinque anni dalla morte del padre. L'uscita dalla famiglia delle tre sorelle lo fa rimanere solo con la madre che influenza negativamente il suo carattere melanconico ma vivace, il suo desiderio di virtù e Gloria. La madre, che egli accusa esser stata de' miei errori la prima e principal cagione, si era disinteressata del figlio limitandosi ad affidarne l'educazione a filosofi bigotti che lo fano crescere con la paura delle malattie e della morte, che gli viene indicata dai suoi educatori gesuiti come un positivo castigo all’uomino re. Divenne quindi vivace e grazioso nelle conversazioni affabile con tutti, facile e condiscendente con gli amici e allo stesso tempo pieno di sé e fatuo divenendo un Petit Maitre disinvolo e alla moda, e prende per idea di virtù vera ed esistenta ogni vanità e molte volte prende con l’idea di virtù il vizio ancora! Pieno di sé e fatuo. Compì con la madre il “grand tour” – Firenze, Capri, Girgentu -- dei ‘viri’ ben nato dal quale ne usce libero dall’inibizione religiosa, ma con un nuovo abito di un anima viziosa, la quale lo fa mirare come idea di virtù la rilassatezza nel senso, la prepotenza con i deboli e la vendetta. Tornato a Genova, la trovò bombardata dal mare dalle navi di Luigi XIV. In quell'occasione conosce il conte di Melgar che l’avvia nell’arte militare e lo introduce nel giro del patriziato mondano. Innamoratosi fortemente di una meritevole donna che muore poco tempo dopo, cadde in depressione e per distrarsi dal dolore riprese i suoi dispendiosi viaggi. Ridotto in ristrettezze economiche si reca a Napoli per recuperare certi suoi crediti ma dove lottare per districarsi dalla palude di leggi e cavillose procedure al punto che si mise a studiare filosofia con un certo profitto per ottenere dal tribunale quanto gli spetta.  La sua fama di spadaccino gli fa guadagnare la simpatia del patriziato napoletano che ritiene massime di cavagliero che fusse atto di disonore e di vergogna il non punire un uomo a sé inferiore quando si ha da quello qualche offesa ricevuto, e che il perdonare generosamente fusse vergogna. Ma poscia era massima d'estrema vergogna il non chiamare a duello un nobile a sé uguale quando da quello si era qualche offesa ricevuta. Si diede quindi a duellare per qualsiasi puntiglio cavalleresco tanto da essere messo in prigione aumentando così la sua fama di duellista e vendicativo presso la nobiltà locale. Comincia a disgustarsi di questa sua vita fatua e falsa trasformandosi in filosofo metafisico ed entrando nella cerchia degli intellettuali cartesiani e gassendisti che caddero sotto l'attacco della Chiesa preoccupata che il loro sensismo approdasse a un conclamato materialismo. La posizione della Chiesa fu esplicitata dal grande processo contro gl’ateisti, quegli intellettuali che si erano illusi di poter modernizzare la dottrina cattolica.  Si schierò con questi frequentando il salotto filosofico Caravita che si era già battuto contro l'Inquisizione e che era divenuto il centro di diffusione della filosofia cartesiana. Qui il Doria ebbe modo di conoscere il protetto di Caravita, quel Giambattista Vico che scriverà del genovese che «fu il primo con cui poté cominciare a ragionar di metafisica» nella quale si intravedevano «lumi sfolgoranti di platonica divinità. Per organizzarsi contro le polemiche dei tradizionalisti, sostenuti dalla Chiesa cattolica, il Caravita pensò di fondare un'associazione di intellettuali modernisti che, dopo diverse difficoltà, finalmente vide la luce col nome di Accademia Palatina e che annoverava fra i 18 soci fondatori anche Doria che pronunzia in quella sede lezioni concernenti la teoria politica (Sopra la vita di Claudio imperadore) dove sostene la superiorità della nobiltà per virtù e non per nascita, e dove contestava la base valoriale dell'aristocrazia fondata sull'uso delle armi (Dell'arte militare, Del conduttor degl'eserciti, Del governatore di piazza, Della scherma). La guerra, scriveva Doria, non e un privilegio della nobiltà di spada ma un'attività che richiede l'applicazione di una tecnica e il comando affidato a ufficiali competenti nel dirigere l'animo umano (Il capitano filosofo, Napoli)  Pubblica la Vita civile e l'educazione del principe, criticata da alcuni per alcuni fraintendimenti sul pensiero di Cartesio. Non ha inteso il Cartesio, o  ad arte ne tronca o perverte il senso. Critica la politica di Tacito e Machiavelli sostenendo che questa va basata non sopra l'idea degli uomini quali sono ma sulla virtù, il giusto e l'onesto». Lo Stato anda guidato, come dettava l'insegnamento platonico, dal filosofo facendosi così sostenitore, secondo le nuove idee riformatrici che cominciavano a circolare in Europa, di un assolutismo moderato nel Regno di Napoli. Doria cominciò ad interessarsi a temi scientifici mandando alle stampe le sue Considerazioni sopra il moto e la meccanica de' corpi sensibili e de' corpi insensibili (Augusta) e una Giunta d iM. Doria al suo libro del Moto e della Meccanica. Opere queste, dove si critica il metodo di Galilei e si mette in discussione la distinzione cartesiana fra res extensa e res cogitans in nome del principio neo-platonico dell'Uno immateriale, che non ebbero il successo sperato e vennero anzi aspramente criticate da più parti. Divenne un personaggio ambito da nobili e femmes savantes che lo invitavano nei loro circoli culturali dove riceve numerosi attestati di stima. Per ricambiare le nobili dame, sue discepole, pubblica i Ragionamenti ne' quali si dimostra la donna, in quasi tutte le virtù più grandi, non essere all'uomo inferior. La donna ha gli stessi diritti naturali dell’uomo e puo governare e fondare grandi imperi ma non e adatte fisiologicamente a formulare leggi per le quali occorre una sapienza storica e filosofica. Cartesio infatti aveva errato nel credere che Dio avesse dato a tutti eguale abilità per intender le scienze, mentre iddio non ha ugualmente a tutti gli uomini distribuito e perciò vediamo che molti non son capaci nelle scienze. Quindi la donna che egli ammirava moltissimo e che lo ricambiavano con tante lodi, deve tuttavia accontentarsi di poter dirigere lo stato ma non puo essere legislatrice. Un rapporto questo con l'altro sesso che rimase problematico per Doria che non volle mai sposarsi ritenendo il matrimonio una legge dura che non trova precisa corrispondenza nella teologia. Si considera ormai un filosofo metafisico e mattematico che adottando il platonismo ha pressoché distrutto li saggi di filosofia del signor Giovanni Locke ed in parte ancora la filosofia di Renato Des-Cartes. Compiva un capovolgimento delle sue convinzioni moderniste passando nel campo degli antichi quando il suo Nuovo metodo geometrico (Augusta) e i Dialoghi ne' quali s'insegna l'arte di esaminare una dimostrazione geometrica, e di dedurre dalla geometria sintetica la conoscenza del vero e del falso (Amsterdam), furono aspramente criticati da parte della rivista Acta eruditorum. Ancora più aspre le contestazioni ricevute a Napoli che gli costarono un sonetto denigratorio che così recitava. Di rispondere a te nessun si sogna /de' nostri, e strano è assai che Lipsia mandi/ risposta a un uom che 'l matto ognun lo noma.  Illustrazione alla recensione pubblicata sugli Acta Eruditorum al Capitano filosofo. Gl’Oziosi, dove profuse tutte le sue energie nel criticare i moderni, seguaci del pensiero filosofico di Locke, dell'Accademia delle scienze di Celestino Galiani che aveva detto di lui «il Doria ha ristampato tutte in un corpo le sue coglionerie. Con l'avvento del re riformista Carlo III di Borbone nel Regno di Napoli, si trova completamente isolato col suo platonismo pratticabil che continua a difendere scrivendo “Il Politico alla moda”. Si rendeva ormai conto di come fosse irrealizzabile il suo ideale di un governo ad opera del concetto di “sovrano virtuoso” e di “filosofe legislatore.” Il magistrato, il capitano, il sacerdote e tutti gli ordini che governano hanno diviso la filosofia dalla politica per unire alla politica la sola prattica; ormai i principi scriveva vogliono governare lo stato colla politica del mercadante, e non con la politica del filosofo. Constatava come vi fosse ormai una generale crisi dei valori perché in questo nostro tempo si corre dietro solamente alla perniciosa filosofia di Locke e di Newton e si pratica solamente la politica mercantile. Completamente ignorato dall'ambiente intellettuale, Doria malato e in difficoltà economiche muore indicando nel suo testamento la volontà che fosse pubblicata a spese di un suo cugino, a saldo di un debito da questi contratto, l'opera “Idea di una perfetta repubblica”. Quando il saggio e infine edito fu condannato dai revisori ad essere bruciato per il suo contenuto contro Dio, la religione e la monarchia. In realtà contesta il celibato ecclesiastico, l'indissolubilità del matrimonio, la castita, l'eternità delle pene inflitte ai dannati e l'ideologia etico-politica dei gesuiti.  Il governo perfetto doveva essere a imitazione di quello della Roma repubblicana, perché posto il governo in mano agli uomini, è forza che sia moderato da un magistrato ordinato alla difesa del popolo contro la tirannia. Gli unici a esecrare il rogo del saggio furono proprio i giuristi napoletani difendendo i libri di quel savio e cordato vecchio di Doria, di cui s'infama la venerata memoria. E al centro del saggio “La distruzione della fiducia e le sue conseguenze economiche a Napoli”. Si argumenta che il governo nell'azione di depredazione del Regno di Napoli ha spogliato i loro sudditi della virtù e della ricchezza, introducendo al posto loro ignoranza, infamia, divisione e infelicità. Altra azione, che si rivelerà in seguito disastrosa per la società napoletana e in genere per il Mezzogiorno, fu lo smantellamento dei rapporti inter-personali di fiducia tra le diverse classi, necessari per lo sviluppo dei commerci e dell'iniziativa privata e l'introduzione di una cultura dell'onore attraverso l'infoltimento dei ranghi nobiliari, il rafforzamento dell'Inquisizione, l'inasprimento della segretezza dell'attività di governo, l'incremento delle cerimonie religiose e di devozione ritualizzata, l'aumento della diseguaglianza davanti alla legge e infine l'indebolimento apertamente perseguito del rapporto armonioso che si era creato in passato tra i diversi ordini del Regno: tutto ciò al fine di scoraggiare, minando la fede pubblica, l'ascesa di una classe imprenditoriale-commerciale che avanzasse i propri diritti e rompesse l'equilibrio dei poteri tra la corte e il patriziato locale che gli spagnoli intendevano mantenere. Tutti questi fattori, lesivi di quel rapporto di fiducia tra le classi necessario per l'avvio e il consolidamento dell'attività di co-operazione e di intrapresa economica, non tarderanno a produrre effetti duraturi sulla società meridionale, non solo a livello mentale-culturale, e di converso a livello economico, costituendo uno dei fattori prodromici dell'arretratezza socio-economico-culturale del Mezzogiorno d'Italia.  Altre opere: “Considerazioni sopra il moto e la meccanica de' corpi sensibili, e de' corpi insensibili, In Augusta [i.e. Napoli?, Daniello Hopper); “Considerazioni sopra il moto e la meccanica de' corpi sensibili, e de' corpi insensibili. Giunta, In Augusta [i.e. Napoli?, Daniello Hopper; Dialoghi, Amsterdam, Esercitazioni geometriche, In Pariggi, Duplicationis cubi demonstration” (Venezia); “Discorso apologetico” (Venezia); “Soluzione del problema della trisezione dell'angolo” (Venezia); “Vita civile” (Napoli, Angelo Vocola. Pierluigi Rovito, Dizionario Biografico degli Italiani.  “L’arte di conoscer se stesso, in De Fabrizio, Manoscritti napoletani. Autobiografia, in Cristofolini, Opere filosofiche, R. Ajello, Diritto ed economia, Vita civile, ed. Augusta, S. Rotta in Politici ed economisti del primo Settecento. Dal Muratori al Cesarotti, V, Milano-Napoli, L'arte di conoscere se stesso. Eugenio Di Rienzo, GALIANI, Celestino in Dizionario Biografico degli Italiani, V. Ferrone, Scienza natura religione. Mondo newtoniano e cultura italiana nel primo Settecento, Napoli, Manoscritti, La Politica mercantile, Manoscritti, Idea di una perfetta repubblica  "accorato"  Ajello. Segnatamente: Del commercio del Regno di Napoli, in E. Vidal, Il pensiero civile di Paolo Mattia Doria negli scritti inediti, Istituto di Filosofia del diritto dell'Roma; Della vita civile, Torino; Massime del governo spagnolo di Napoli, V. Conti, Guida, Napoli Contenuto nel volume miscellaneo Diego Gambetta, Le strategie della fiducia, Einaudi, Torino, D. Gambetta, Pierluigi Rovito, «DORIA, Paolo Mattia», in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Roberto Scazzieri, Il Contributo italiano alla storia del Pensiero Economia, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,. Giulia Belgioioso, Il Contributo italiano alla storia del PensieroFilosofia, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,. E. Vidal, Il pensiero civile di Paolo Mattia Doria negli scritti inediti, Istituto di Filosofia del diritto dell'Roma.  fondatore di Roma e primo  » re de' romani.    Romolo fu il primo re de' romani ,  e padre della romana republica; uo-  mo primieramente d' ardentissimo a-  nimo e per le armi grande : e così fatto  certamente l' aveva disposto la for-  tuna a quello che dovea seguire. Per  la cui opera, in tra tante minaccie di  vicini , di spinose montagnie surgesse  il fondamento dello 'mperio che do-  vea crescere infino al cielo. Perchè  non si potea porre sicuramente tanta  grandezza in debole fondamento, sì  gran cosa richiedea terra salda e duca  d' alto animo. E così fu : che dove  prima a pena fu assai erba per lo   armento d' Ercole , e dove prima a  pena solea essere assai fronde per le  capre di Faustulo, in quello luogo  puose la fortezza di tutte le terre e  la somma signoria delli uomini. Dun-  que costui con Remo suo fratello ( e  insieme con Rea Silvia, la quale fu  chiamata Ilia , madre senza dubio )  creduto o fitto figliuolo di Marte, in-  contanente com' elio nacque provò la  crudeltà di Amulio re delli albani , e  non solamente contro alla madre, ma  eziandio contro a sé e contro al suo  fratello. Dal quale Amulio fu coman-  dato eh' ellino fossero gittati in Te-  vere: e a caso elli furono liberati, o  che fosse per divina provedenzia, la  qual cosa è lecito di credere dello  imperio che dovea essere sì grande,  quella provedenzia apparecchiante non  sperato cominciamenlo alle grandis-  sime cose. Soperchiando il fiume a  caso le ripe e non potendosi andare  a quello , furono gittati quelli fanciulli  presso alla ripa ; e, partendosi li fami-   gliari del re, i quali li avevano git-  tati, rimasono salvi. A questo luogo,  tratta dal pianto di questi fanciulli,  venne una lupa ( o eh' ella fosse vera  o ch'ella fosse cosa finta, dell'una  e dell' altra è nominanza ), e , com'  ella avesse compassione, venne a que-  sto luogo: del cui latte elli furono  nutricati , traendo con li labri il latte  delle tette della detta fiera, infino  che furono trovati da Faustulo pas-  tore del re, il quale di sopra ave-  mo nominato, e la lupa similmente,  essendo discresciuto il fiume; e in  fino agli anni della pubertà coli' amore  del padre furono nutricati. Ma allora  più di dì in dì il suo vigore si mo-  strava e per effetto diventava famoso ;  già erano cari da ogni parte e am-  piamente erano terribili , ogni cosa ar-  divano; già il suo notricatore, per le  opere informato, cominciava a fer-  marsi in quella openione ch'egli aveva  pensalo, cioè quelli essere figliuoli  del re. Questo celato per alcuno tem-    pò, finalmente apparve: preso Remo  da' famigli del re e datogli pena, per  consolare la ingiuria fu dato a Numi-  tore suo avolo per parte di madre ,  nel cui terreno tramendue i frategli  avevano fatte correrie. Il quale vedu-  to, non mosso ad ira, com'è usan-  za, per l' ingiuria ricevuta, ma mosso  verso di quello con una nascosa dol-  ciezza, e udito ch'elli erano due, consi-  derato da l'una parte l'etade di quelli,  da l' altra l' aspetto nobile e non di  pastori, vennegli a memoria i suoi  nipoti ; e , dimandando pianamente  delle,, circostanzie, avea trovato poco  meno che costui era l' uno de' suoi  nipoti , e di questo non dubitava : però  elio il teneva in più libertà, e non  come preso ma come suo , come ve-  ramente elio era. E questa era più  diritta via a distruzione del re, per-  chè manifestato a Romolo non sola-  mente la condizione del presente stato  del fratello, ma la nazione di tramen-  due nascosta infino a quello tempo;     ammonendoli colui, ch'era tenuto pa-  dre, ch'elli non erano suoi figliuoli  ma erano di schiatta reale ; e, spostali  per ordine l' ingiuria di quegli e con  questa l'ingiuria di suo avolo e di  sua madre, fatto Romolo più animo-  so , conosciuto il fatto , dispuosesi non  solamente a liberare il fratello, ma  vendicare sé e '1 fratello e l'avolo e  la madre, non manifestamente perchè  era dispari in possanza , ma piana-  mente mandati alcuni giovani di qua  e di là, i quali si trovassono a una  ora nella casa del re. Così disposti gli  agguati, e a tempo accorrendo Remo,  corsono contra Amulio, il quale non  si guardava e non pensava sì fatto  pericolo. Morto Amulio, Numitore fra-  tello di quello, e innanzi cacciato da  lui, fu ristituito nel regno, essendo  allegro, non meno per la condizione  de'trovati nipoti, che per avere acqui-  stato il nonne sperato regnio. Da poi,  perchè elli erano di grande animo, e '1  regno di suo avolo gli pareva piccio-   lo, lassarono Alba all'avolo; e, aman-  do il luogo della sua puerizia ovvero  del suo pericolo , procurarono di fon-  dare nuova terra in quello luogo. E  così, per buono agurio, edificarono  aspera e, acciò ch'io dica più pro-  priamente, pastorale casa in sul monte  Palatino; e fu posto alla terra il no-  me di Romolo solamente, essendo  vinto il fratello nello agurio: il quale  nome fu temuto poi al mondo da li  popoli e dai re. Poi , o che tra quelli  fosse nata discordia, o che fosse per-  chè egli avesse dispregiato il coman-  damento del fratello, Remo, avendo  passato il nuovo muro, fu morto; o  che fosse per cupidità della signoria,  o per rigore di giustizia , la credenza  è varia nelle cose antiche. Romolo,  avendo presa la signoria, ordinò sa-  crifici della patria e forestieri, e prese  abito di re e ornamenti, e ordinò  dodici littori, e compuose nuove leggi.  Solo a fermezza del popolo e fonda-  mento di pace e di concordia tre cose     sommamente li pareva di provedere :  il consiglio , e io accrescere della co-  minciata città, e la durabilità; per-  chè era in picciola terra pochi abi-  tatori , e per questo gli era speranza  di brevissimo tempo , mancando la  cagione del generare de' figliuoli. Dun-  que primieramente furono eletti cento  antichi al Senato (chiamando questo  ordine dalla etade, perchè il nome  de' padri fu detto dallo amore e da la  cura della republica); secondo, intra  due boschi fu posto uno tempio chia-  mano asilo ( i greci il chiamano San-  to), il quale stando aperto, grande  turba incontanente venne di vicini  paesi; la terza cosa parea che si do-  vesse fare con matrimoni ( perchè soli  i maschi non poteano durare se non  una etade); la qual cosa , perchè era  negata da' vicini superbamente e vi-  tuperosamente, fecesi per forza e per  ingegnio. Perchè in questo mezzo,  non mostrando l'ira e il dolore d'es-  sere rifiutato, il re apparecchiò di fare solenni giuochi a Nettunno , e coman-  dò di fare dinunziare il dì per li po-  poli vicini. II quale poi che sopra-  venne, molti maschi e femmine delle  terre vicine a Roma vennero per ve-  dere i giuochi, e non meno per cu-  pidità di vedere quella nuova terra  quasi nata di subito. Nel mezzo de'  giuochi, essendo ogni uomo attento  con gli occhi e con l'animo, dilibera-  tamente furono prese tutte le fanciulle,  non a fine di sua vergognia, ma di  tenerle per mogliere e per avere fi-  gliuoli. Dunque confortate con buone  parole, tra lo isdegno e le lacrime, pel-  le lusinghe di quegli li quali l'aveano  prese, prima Romolo, e poi gli al-  tri , una per uno ne tolseno per mo-  glie: e questo fu cagione e comin-  ciamento di molte battaglie. I padri e  i parenti di queste fanciulle, lamen-  tatisi della forza e della malvagità de'  suoi osti, dai quali ellino, invitati a  giuochi , erano stati offesi per gravis-  sima ingiuria, incontanente uscirono   fuori della terra e tornarono a casa;  e, moltiplicando le lamentanze, aggra-  varono l'offesa, e pigliarono l'arme  e apparecchiaronsi di fare la vendetta.  E di lutti i popoli si fece una rau-  nanza a Tito Tazio re de' sabini, per-  chè questi avevano più possanza e  aveano ricevuto più ingiuria. Ma per-  chè la presuntuosa ira non può indu-  giare né ricevere consiglio , e perchè  l'apparecchiamento alla guerra parea  pigro per rispetto dello ardore dell'ani-  mo, ciascheduno, non aspettando l'uno  l'altro, andarono alla battaglia. E in-  nanzi a tutti i ceninesi con l' oste cor-  sero nel terreno de' romani : contro  ai quali venendo Romolo, mise in  rotta i nimici, e uccise Acrone, re  di quelli , venuto alle mani con lui in  singolare battaglia; e, con lieve as-  salto, prese la terra di quelli , la quale  era impaurita per la morte del re e  per la fuga del popolo. E, tornando  a Roma vincitore, portò in Campido-  glio l'armi del re. e edificò lo primo   tempio in Roma e sacrificollo sotto  il nome di Giove Feretrio ( dove  i capitani de' romani non portavano,  quando erano vincitori, se non la  preda de' capitani vinti in singolare  battaglia, la quale elli chiamavano  « grassa robarìa» ) ; dunque in quello  luogo egli appiccò l'armi del morto  re, per esempio del tempo da venire,  rado ma grande dono di quelli che  venieno dietro. I secondi che corsono  nel terreno de'romani furono gli aten-  nati; e questi furono vinti e perde-  rono la terra: ma per prieghi.di Er-  silia, moglie di Romolo, la quale era  una di quelle sforzate che portava a  gli orecchi del re i prieghi e i desi-  deri dell'altre, ricevuti a misericor-  dia, vennero ad abitare a Roma. Da  poi i crustumini , movendo elli la  guerra , furono vinti leggiermente ,  crescendo ogni dì la virtù di Romo-  lo; e, venuti a Roma quelli ch'erano  vinti, crescendo Roma per li danni  de'nimici. Fu più a fare colli sabini,   i quali quanto più tardi tanto più  maturamente si moveano: presa la  rocca di Campidoglio, per tradimento  d'una donzella figliuola di Spurio Tar-  peo ( il quale era castellano della delta  rocca, dal quale ancora è nominato  quel monte in mezzo di Roma), fu  dubiosa battaglia, combattendo quelli  dal luogo di sopra. Nella quale bat-  taglia mancando Osto Ostilio , il quale  fue arditamente per la parte de' ro-  mani infino ch'elio potè, la gente de'  romani tutta si cessò in dietro, cac-  ciando indietro eziandio Romolo il  quale li contrastava. E elli, non speran-  do già più della forza umana, dirizzan-  do al cielo le armate mani, chiamando  Giove com' elio fosse presente, pre-  gando o che gli togliesse la vergo -  gaia del fuggire vilmente, o eh' elli  fortificasse gli abbattuti animi de' suoi  con celestiale aiutorio, fece voto di  fare in Roma uno secondo tempio a  Giove Statore , secondo che piace agli  scrittori; e, quasi ricevuta la promis-  sione dal cielo, fatto più ardito ri-  storoe con sollecita mano la battaglia  già caduta, dicendo a'suoi chiaramente  che Giove comandava così. Per questo  la sua gente, seguendo lo esempio  del suo re e il comandamento di Gio-  ve, tornò contro a'nimici, da' quali  non speravasi ch'egli tornassino; e  combattendo innanzi a gli altri aspra-  mente Romolo , essendo già mutata la  condizione della battaglia, quelli che  incalzavano cominciarono a fuggire.  Intra i quali Mezio Curzio (secondo  dopo il re de' sabini , uomo famosis-  simo e in quello di 'nanzi a tutti gli  altri in fatti e in virtù molto ardito)  non sostenne il furore. Una palude,  ch'era presso, fu pericolo e salute a  lui, nella quale spaurito il suo ca-  vallo furiosamente saltò con grande  paura de' suoi, ma confortandolo elli  e mostrandogli la via, uscì fuori: e  di questo nacque il nome di quella  palude, cioè «lago Curzio». Uscitone  fuori costui, gli animi crebbono a'   suoi, e ancora, bene che con varia  fortuna contro a' sabini, corsono in-  sieme. E, sendo in questo stato, la  pietà trovò via di non sperata pace.  Combattendo dall'una parte i mariti,  da l'altra parte i padri, vennero tra  questi quelle eh' erano state sforzate;  e , non considerando sé essere femmi-  ne , non temendo il pericolo, con prie-  ghi pieni di lagrime e misero abito,  pregarono che fosse posto fine alla  guerra ; e se voleano pure andare  dietro , volgessono le spade più tosto  contro a quelle, le quali erano ca-  gione della guerra , che, uccidendosi  insieme , bruttassono se di presente  e per lo tempo a venire bruttassero  li figliuoli di quelle (dall'una parte  essendo i figliuoli, dall'altra essendo  i nipoti) e dessono eterna infamia a  quelli che ancora non poteano pecca-  re. Dall' una parte e dall' altra si pie-  garono gli animi e l'ira s'abbattè e,  che maraviglia è a dire, subitamente  nell'una oste e nell'altra fu arrestato   il romore dell'armi e il gridare de'  combattitori, sì umile ammirazione  era intrata per quelle rabbiose menti!  E non potè lungamente stare nasco-  sta: le affezioni mutate incontanente  uscirono fuori , e lo riposo seguì  a la pietà , e la pace seguì al si-  lenzio; la concordia fu fatta toccan-  dosi i re le mani, e Roma maravi-  gliosamente crescette per lo venire  de' sabini. E non meno crebbe Y amo-  re dell'una parte e dell'altra verso di  quelle valenti donne, e innanzi a gli  altri di Romolo, il quale rendè loro  grandi e debiti Onori. Ancora restano  due guerre. L' una colli fìdenati li  quali, temendo la potenzia della si-  gnoria di Roma , la quale cresceva ,  e avendola sospetta , per sé fecero la  pruova che gli altri aveano fatta. En-  trando elli nel terreno de'romani come  nimici , Romolo li andò incontro , e  puose il campo non lungi dalla terra  de' nimici ; e , mostrando maliziosa-  mente temere , condusse i nimici nelli   agguati : e di questo fu una non pro-  veduta paura e uno subito fuggire,  in tanto che , mischiati insieme i vinti  e i vincitori, le guardie delle porte  appena discerneano i suoi cittadini da'  nimici; e, entrati dentro , fu presa la  terra. L'altra guerra fu con quelli da  Veio, li quali si mossono per amore  de'fìdenati e per odio de' romani, e  questi, vinti in campo, e guasto il  paese, dimandando pace, fecero trie-  gua per cento anni, perdendo parte  del suo terreno. Questi furono i co-  minciamenti di Romolo , questo fu il  corso di sua vita e l' ordine de' suoi  fatti ; per li quali, appresso quella sal-  varla generazione d' uomini e non  ancora assai ammaestrati animi del  vulgo, egli meritò essere creduto ave-  re alcuna divinità per lo padre e per  se. Uomo al quale non mancò animo  né ingegnio-, in battaglia glorioso, in  casa savio: ordinò centurie del po-  polo e di cavaglieri, acciò che in ogni  tempo di pace e di guerra elio fosse   niuno nega ch'elio non fosse inolio  amato. Le opinioni di questa cosa sono  varie. Alcuni dicono ch'elio fu por-  tato in cielo e posto nel concilio delli  dei, ma questo è gran salto a uno  uomo armato e gravato di peccati,  bagniato di sangue e ignorante del  vero Iddio e della via del cielo; ma  lo ardente e non temperato amore sì  fa credere ogni cosa. Dunque, ache-  tata la tempesta, essendo risposto da'  senatori ( eh' erano stati d'intorno ) al  popolo ( disideroso di vedere il suo  re e a pruova cercandolo ) eh' elio  era andato in cielo, affermando uno  eh' e' lo aveva veduto, fu creduto. E  quello fu Giulio Proculo (uomo di  grande nominanza appresso a' suoi ,  secondo che si trova, e di grande san-  titade e, che manifesto è, di gran no-  bilitade, come colui che, nato di re  albani, venne a Roma con Romolo e  fue cominciamento della giente de'  Giuli); il quale, ardito di venire in  palese, diede parola d'allegrezza al    popolo eh' era in tristizia , dicendo che  in quello medesimo dì Romolo, di-  scéso da cielo in abito più che d'uo-  mo , era stato con lui, affermando eh'  3II0 aveva comandato a lui (con gran-  de tremore non ardito di guardare  la sua faccia ) questo , cioè eh' egli  dicesse a' suoi cittadini che onorassi-  no l'arti delle battaglie, essendo certi  che ogni potenzia umana è diseguale  alla sua in fatti d'arme; e che la sua  città, così piace alli dei, sarà capo  e donna di tutte le terre: e, dette  queste parole, levatosi da gli occhi  montò in cielo. E queste cose furono  credute a Giulio il quale le contava  e giurava, e lo dolore della morte  fue mitigato con lo consolamento della  divinità, e l'ira, la quale il popolo  aveva concetta per la morte di sì caro  re, fue umiliata: così ogni uomo cre-  de leggiermente quello ch'elli desi-  dera. Ma altri pensano che fosse morto  da' senatori , veduto il buon destro  per la tempesta del tempo, e ch'elli   il nascosono nel pantano della palude,  acciò che non apparisse alcuno segnio  della sua morte. Questa, chente dice  Livio , è oscura fama , ma , come  piace a chiarissimi scrittori, certamen-  te è vera; bene che, come dice quello  nel medesimo luogo , quell' altra fu  nobile per l'ammirazione dell'uomo  e per la presente paura. Puossi forse  credere ancora quello che alcuni hanno  pensato , eh' elio non fu portato per  divinità in cielo né in terra morto  come uomo, ma eh' elio fu morto per  la lempestade e per lo furore della  saetta (la cui forza è ineffabile, e  l' operazione è nascosa ) ; e questo es-  sere avvenuto a tutti quegli erano  con lui, i quali, quanto elli erano più  presso , tanto erano smarriti più e  impauriti. E la libertà è di molte ma-  ni nelle cose dubbiose , ma la verità  è una sola, e questa è profondamente  nascosta della morte di Romolo come  in molte altre cose. Paolo Mattia Doria. Doria. Keywords: co-operazione, duelo – duel, the duelists, cooperation – il sensismo, roma repubblicana, la aristocrazia romana, Romo, Romolo, aristocrazia.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Doria” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51691226301/in/photolist-2mRXUKj-2mRgKq7-2mPsU62-2mPtnaL-2mNaHiH-2mLLZRD-2mLQc9e-2mLGvyP-2mKM3FF-2mKN88B-2mJd7nN-CjPzzS-BUZFh1-nZbmsv-o9VHCk-oae7Tt-o87Jj5-o8SgHN-nRMzbN-nRKeFQ-o5N5fn

 

Grice e Dottarelli – l’implicatura di Musonio – filosofia italiana – Luigi Speranza (Bolsena). Filosofo. Grice: “I like Donatelli; he is an Etruscan, from Balsena, and it’s only natural that he is obsessed with the one and only Etruscan philosopher, Musonio!” Si è formato alla Facoltà di Filosofia dell'Perugia, dove ha studiato con Cornelio Fabro e si è laureato con una tesi sul dibattito epistemologico del Novecento (K. PopperFeyerabend, I. Lakatos, T. Kuhn) sotto la guida di Massimo Baldini. Si è poi specializzato in Filosofia all'Urbino, dove ha avuto come maestri Italo Mancini e Pasquale Salvucci, con cui ha discusso una tesi sulle implicazioni epistemologiche della filosofia di Immanuel Kant. Ha insegnato nei Licei ed è stato docente a contratto di Filosofia della scienza, Filosofia morale, Bioetica nelle Università della Tuscia, di Macerata e Firenze.  Ha sempre coniugato il lavoro didattico e di ricerca con l'impegno civile. Per 13 anni consecutivi è stato Sindaco della città di Bolsena (VT). Eletto la prima volta nel 1986, con una lista civica di sinistra, è stato successivamente confermato nel 1990 e nel 1995. Dal 2005 al  ha ricoperto il ruolo di Direttore generale della Provincia di Viterbo e in tale veste, oltre al coordinamento e alla sovrintendenza della gestione complessiva dell’Ente, ha avuto la responsabilità diretta della formazione e organizzazione delle risorse umane, del percorso di certificazione EMAS, del processo Agenda 21 locale e del progetto Arco Latino, strumento per la definizione di una strategia integrata di sviluppo dell’area del Mediterraneo. Con Pasquale Picone, filosofo e psicoanalista junghiano, nel 2004 è stato cofondatore della Società Filosofica Italianasezione di Viterbo, di cui è attualmente vicepresidente. Nel  ha costituito il Club per l’UNESCO Viterbo Tuscia, di cui è presidente.  I suoi interessi teorici si sono rivolti all'epistemologia, all'etica, alla filosofia politica e alla pratica filosofica. In Popper e il gioco della scienza ha svolto un'analisi critica dell'epistemologia falsificazionista, mostrando come l'ultimo Popper, pur rendendosi conto della coerenza dello sviluppo evoluzionistico della propria epistemologia, arretrasse e resistesse dal trarne le estreme conseguenze, restando fedele al paradigma del razionalismo critico, difendendolo sino in fondo, ma con ragioni sempre più deboli. Nei suoi lavori su Immanuel Kant (Kant e la metafisica come scienza, Abitare un mondo comune. Follia e metafisica nel pensiero di Kant) ha evidenziato sia il proposito kantiano di fondare come una scienza rigorosa la metaphysica generalis, prima parte della metafisica come era intesa nella tradizione razionalistica tedesca, sia il carattere che viene ad assumere la metaphysica specialis, dopo la critica: un pensare congetturale e analogico che è anche prassi, vita. In questa prospettiva la filosofia kantiana viene valorizzata per la sua peculiare dimensione "cosmica", come «scienza della relazione di ogni conoscenza e di ogni uso della ragione umana con lo scopo essenziale di essa», e viene ricollegata alla filosofia come era praticata soprattutto nell'antichità: arte di vivere, esercizio spirituale. Il filosofo pratico, il maestro di saggezza tramite l’insegnamento e l’esempio, è così «l’autentico filosofo», che, nel quadro della complessiva ed originale riorganizzazione kantiana dell’orizzonte utopico di derivazione platonica e rousseauiana, diventa esso stesso un ideale regolativo, al quale colui che più si è avvicinato è stato Socrate, per via della sua esemplare coerenza di vita. In Freud. Un filosofo dietro al divano, il lavoro del fondatore della psicoanalisi viene letto come un episodio della lunga tradizione che ha interpretato la filosofia come "medicina per l'anima". Il rapporto di Freud con la filosofia si nutre di una profonda ambivalenza: da un lato un'irresistibile attrazione; dall'altro quasi la necessità di rassicurare se stesso e gli altri su una propria «incapacità costituzionale» (Autobiografia, 1924) alla pura speculazione e sulla sua ferma volontà di sottrarsiproprio lui, formidabile affabulatoreal fascino delle narrazioni filosofiche. La riflessione di Freud non trascura nessuna delle dimensioni fondamentali della ricerca filosofica. Neanche quella teoretica, volta a costruire visioni complessive dell’uomo e del mondo; quella che gli appare la più rischiosa, perché la più astratta, la più esposta alla frequentazione della metafisica e della religione, sempre in procinto di cadere nella trappola della verità assoluta. Più a suo agio Freud si sente invece nel lavorare lungo un'altra linea d’impegno tradizionale della filosofia: la riflessione critica sui saperi e sulle pratiche umane. Nell'opera di smascheramento dei meccanismi con cui le ideologie e le prassi individuali e sociali ammantano la loro miseria “umana, troppo umana”, le potenzialità della psicoanalisi si esprimono al meglio. Masecondo l'interpretazione di Luciano Dottarellila fatica intellettuale di Freud trova la propria collocazione più appropriata nella dimensione della ricerca filosofica che interpreta se stessa come un’attività in cui l’uomo si dedica alla cura e alla fioritura di sé, alla coltivazione della propria umanità. Questa dimensione della filosofia come arte di vivere è stata approfondita da Luciano Dottarelli attraverso la ricostruzione della vita e del pensiero del filosofo stoico Musonio Rufo nella monografia su Musonio l'Etrusco. La filosofia come scienza di vita. Testimonianza della vitalità della tradizione culturale etrusca in epoca romana, la filosofia di Musonio è espressione significativa di quel crogiolo di idee ed esperienze di ricerca della felicità che è l'ellenismo della tarda antichità, in cui si rispecchierà poi la civiltà medievale e soprattutto quella umanistico-rinascimentale. Musonio ha dato il tono di fondo all'impegno prevalente nella tradizione filosofica della Tuscia: ricerca di una scienza di vita, studio di perfezione, imitazione di Dio, àskesis, esercizio per sviluppare la conoscenza e la coltivazione di sé, finalizzata alla fioritura dell’autentica esistenza umana. L’adesione del filosofo di Volsinii allo stoicismo è decisamente sotto il segno di Socrate: la filosofia può proporsi come arte regia in quanto, in primo luogo, è arte di governare se stessi. L’ideale dell’autosufficienza del saggio si traduce nella predilezione per l’agricoltura, come attività più appropriata per il filosofo. «La terra in effettiaffermava Musonioricambia con i frutti più belli e più giusti coloro che si prendono cura di essa, dando molte volte tanto quel che riceve ed offrendo grande abbondanza di tutto quanto è necessario per vivere a chi ha la volontà di faticare: e tutto questo con decenza, nulla di ciò con vergogna». Ad un analogo sentimento di appartenenza al cosmo e ad un profondo rispetto per gli altri esseri umani e per tutti i viventi, sono ispirate anche le sue riflessioni sui rapporti sociali, sulla schiavitù, sulle donne, sulla nonviolenza, sull'alimentazione, sul vestire e sull'abitare. Riflessioni che Musoniosecondo la concorde testimonianza dei contemporaneiseppe tradurre con coerenza esemplare in una efficace pratica di elevazione spirituale, diretta a coinvolgere, insieme, il corpo e l’anima. Sobrietà, rispetto, universalità e condivisione sono le parole di riferimento di una visione etica che anticipa in modo sorprendente istanze fondamentali della moderna sensibilità ecologista. La visione della filosofia come arte di maneggiare gli assoluti è approfondita nel libro Maneggiare assoluti. Immanuel Kant, Primo Levi e altri maestri. «La filosofiasostiene Luciano Dottarelli anche quella più incline a farsi coinvolgere nell'impresa di estinguere la sete dell’assoluto, contiene in sé, nella propria vocazione alla ricerca di una comune verità mediante il dialogo, un antidoto indispensabile al rischio distruttivo che può annidarsi in ogni tentativo umano, tanto umano di cogliere la totalità, l’infinito, Dio. Anche le grandi tradizioni religiose, quelle che da secoli sono impegnate a tracciare sentieri, trovare parole, celebrare liturgie per saziare la fame di assoluto che agita il cuore e la mente degli uomini non possono fare a meno di intessere un intenso dialogo con questa tradizione di ricerca, soprattutto nei momenti cruciali, quando diventa urgente addomesticare i dèmoni che una frequentazione inadeguata del sacro può evocare. Dèmoni che portano il nome di fanatismo, intolleranza, totalitarismo e di cui la storia degli uomini alla ricerca della verità assoluta, della totalità autentica ed incondizionata, dell’esperienza integrale è purtroppo costellata. La consapevolezza che anche la filosofia non possa dichiararsi storicamente innocente, non cancella ma spinge a ritrovare sempre di nuovo la vocazione più profonda di quest’originale forma di esercizio spirituale: una ricerca appassionata del bene e della verità, capace di resistere alla suggestione del possesso compiuto e di mantenersi in quella apertura alla possibilità dell’errore che è presidio di autentica libertà per sé e per gli altri».  Altre opere: “Il gioco della scienza” (Massari); “Metafisica non scienza” (Massari); “Abitare un mondo comune: follia e metafisica nel pensiero di Kant (Introduzione al Saggio sulle malattie dell’anima di I.Kant” (Massari); “Utopia e ragione come luoghi del incontro dell’ego ed il tu”, in  Le ragioni della speranza” (La Piccola Editrice); “L’assoluto e il relative” (Il Prato); “Musonio” (Annulli Editori); Freud. Un filosofo dietro al divano, Annulli Editori,  Riverberi Di Tuscia e d’altro, Annulli Editori); “La farfalla dell’anima e la libertà, Armando Editore.  ETRUSCO   MUSE® CHIUSINO    DAI SUOI POSSESSORI PUBBLICATO  CON AGGIUNTA DI ALCUNI RAGIONAMENTI  DEL PROF.   DOMENICO VALERIANI   E CON BREVI ESPOSIZIONI  DEL CAV.   ai© smagata   PARTE PRIMA.     POLIGRAFIA FIESOLANA A SUA ECCELLENZA IL SIG. MARCHESE   ANGELO CHIGI   LUOGOTENENTE GENERALE E GOVERNATORE  DELLA CITTA’ E STATO DI SIENA  CAVALIERE DELLA LEGION D’ ONORE DI FRANCIA  CONSIGLIERE INTIMO ATTUALE DI STATO, FINANZE E GUERRA  CIAMBELLANO DI S. A. IMP. E REALE   IL GRANDUCA DI TOSCANA   PRESIDENTE DELL’ ACCADEMIA DEI FISIOCRITICI  E DELLA DEPUTAZIONE DEL PIO DEPOSITO DI MENDICITÀ’  CHE LO SPLENDORE   DELLA FAMIGLIA NOBILISSIMA DA CUI DISCENDE  CON TANTE EGREGIE DOTI  SOSTIENE ED ACCRESCE  E DELLE ARTI LIBERALI  CULTORE E FAUTORE CALDISSIMO SI MOSTRA  QUESTA RACCOLTA  DI ETRUSCHI MONUMENTI CHIUSINI  CANDIDAMENTE E CON GIOIA  0. D. C.    GLI EDITORI  P. B. C.   C. F. S.   C. A. M.   P. F. D.    ri    si trova itna mirabile abbondanza di marmi finissimi con¬  sistenti in colonne antiche di granito nero e dell’ Elba e  d’Egitto, di granito rosso del più compatto, di cipollino  orientale, e d’altri marmi duri e fin anche di breccia d’ E-  gitto, di che va ricca ed ornata la cattedrale, ove son po¬  ste in uso con antichissimi capitelli di gusto squisito. Anche  sparsamente per la città s’incontrano in copia marmi duri  o eretti in usi decorativi o depositati a parte e non ancora  posti in opera. Non mancano monumenti di romana scultu¬  ra di raro pregio in basso e tondo rilievo, tra i quali splen¬  de un sarcofago colla caccia di Meleagro, ed una assai  bella testa di Augusto nel palazzo episcopale, e nelle case  P aolozzi. Le antiche iscrizioni lapidarie son pur frequenti  per la città sparsamente. E poi sorprendente il numero dei  sotterranei che s’incontrano sotto le fabbriche del paese, e  sono per ordinario eseguiti di ben connesse pietre quadra¬  te assai grandi. Rieca è pure la città di avanzi di fabbri¬  che antiche romane, parte delle quali si giudicano bagni. Ed  in vero non sembra che di tali pubblici comodi mancar do¬  vesse un paese, ove si trovano s or genti ab b ondantis s im e di  acqua potabile, e delle quali non ha guari e stata fatta bel¬  la scoperta dal nobile sig. Flavio Paolozzi, in alcuni spa¬  ziosissimi sotterranei, da luì aperti, ove non ancora si è  osato avanzarsi attesa la co nfu sione dei loro sentieri nu¬  merosi e feraci di sorgenti, che per via di canali antichi  di piombo somministravano per quanto apparisce, acque ab¬  bondanti e perenni all' antica città.   Ma ciò che maggiormente sprona la curiosità degli eru¬  diti è il visitare nel territorio di Chiusi gli etruschi se¬  polcreti, dove fu trovato quanto di più mirabile conserviamo  nei nostri musei, mentre non senza una qualche almen lon¬  tana emulazione col famigerato sepolcro di Porsenna eretto  un tempo in questa nostra patria, presero i suoi citladini  etruschi l'esempio di rendere le lor tombe in vario modo as-      PREFAZIONE    ?    J-Ja dovìzia dì antichi monumenti d’arte nell' etrusco cit¬  tà di Chiusi nostra patria, non ha guari trovati, e nei nostri  musei custoditi, ci ha fatto sospettare che saremmo giusta¬  mente ripresi, qualora tal dovizia si tenessè fra noi mede¬  simi inosservata ed inutile all’ incremento della scienza ar¬  cheologica. A ciò credemmo sufficiente riparo di offrir li¬  bero accesso a chi volesse que’ monumenti osservar con a-  gio nelle nostre private collezioni. Ma riflettendo poi che  la più gran parte degli eruditi, cui non è dato il potersi reca¬  re personalmente a Chiusi, restavan privi del bene di co¬  noscere questo ramo speciale di etruschi monumenti: cosi  a sodisfare anche questa numerosissima classe di eruditi,  non crediamo che trovar si potesse miglior divisamento di  quello da noi già compito, di far disegnare con fedeltà mas¬  sima i monumenti più ini ere s santi, che possediamo, e quin¬  di a nostre spese farli incidere in rame in dugento sedici  tavole distribuiti , raccomandandone l'edizione al cavalier  Francesco Inghirami. A tale nostro invito egli non solo ha  cortesemente aderito c oli’ ine arie ar s ene per nostro conto, ma  si è compiaciuto inoltre di venir più volte da Firenze a  Chiusi per confrontare i disegni coi monumenti originali ,•  e ci ha fatto inoltre il dono da noi gradito delle brevi in-  terpetrazioni che abbiamo apposte a ciascun monumento ,• al  che abbiamo aggiunto anche alcuni ragionamenti, donatici  dall’egregio sig. prof. Valeriani nostro concittadino.   Chi ha per le mani l’ opera che ora pubblichiamo, non  creda già di conoscere, p e' suoi rami, tutti i monumenti an¬  tichi di Chiusi, mentre n’ è assai più dovizioso il paese. Qui        ì    ti dì quei di Tarqui ni a, fo rse perchè ne fu inventore un di-'  verso architetto•   Nell’annoverar che facciamo de monumenti antichi più insi¬  gni di nostra patria, non è da pretermettersi che in vicinan¬  za della città rèsta sotto una collina di tufo breccioso  verso l Oriente un cimitero antico di cristiani, eh’è noto  sotto la denominazione di Catacombe di s. Mus tio la Vergi¬  ne e Martire, inclita patrona della città e della diocesi-  Questi sotterranei non solo servivano alla sepoltura de’ cri¬  stiani, e in specialità dei martiri, ma nel giorno di festa e  nel natalizio dei Santi vi si raccoglievano per celebrarvi i  divini misteri, ivi oravano, ivi stavano refugiati nel mag¬  gior impeto della persecuzione, a scansar la rabbia dei ti¬  ranni, come descrive un nostro concittadino che di tali sot¬  terranei h a ragiona to eruditissimamente, L'abbondanza delle  cristiane iscrizioni che spettano a questorispettabile sot¬  terraneo, notante dal prelodato relatore, lo rendono anche più  degno dell'attenzione d'ogni erudito. Il libretto che a  memoria di ciò egli ha scritto con somma eleganza e dot¬  trina, dove si trova incisa inclusive la piant a dell 1 2 ampio  sotterraneo, oltre le iscrizioni ivi adunate e illustrate ',e  l’altro libretto di non inferior merito, scritto da vari eru¬  diti, circa il già nominato monumento sepolcrale del Pog-  gio al-moro 1 , forma insieme colla presente opera l’ informa¬  zione di quanto crediamo ess er su ffidente ad erudire i cul¬  tori dell' archeologia circa le antichità osservabili di Chiu¬  si nostra patria.    1 Pastumi, Relazione di un antico cimitero di cristiani, in vicinanza della città di Chiusi con le iscri¬   zioni ivi trovate. Montepulciano 1 833 -   2 Sepolcro Etrusco Chiusino illustrato nelle sue epigrafi dal Prof. Gio. Batt. Vermigliolì, con l’aggiunta   di una memoria del sig. Giuseppe del Rosso sulla parte architettonica dello stesso monumento ed  una lettera del sig. Dolt. Francesco Orioli. Sta anche negli opuscoli del Vermigliolì ec. Voi. IV, Pe¬  rugia 182S, pag. 5 .         VII   sai magnifiche e ricche d' oggetti d'arte. Si è reso celebre  fra gli altri l ipogeo situato in un possesso della g ra ridu¬  cale fattoria di Dolciano, il quale conserva in se stesso un  antico modello rarissimo di fabbrica etrusco, perchè a dif¬  ferenza degli altri scavati nel tufo, questo vedesi edificato  di travertini tagliati regolarmente, e situati senza cemen¬  to m volta arcuata di tutto sesto, e da varie urne cinerarie  occupato, le quali hanno in fronte sculture vaghissime ed  epigrafi etru s che, dalle quali resulta essere stato questo se¬  polcro a più famiglie comune.   Altri non meno importanti ipogei scavati nel tufo si os¬  servano in varie pendici del monticello, sul quale era ed è  tuttora la nostra città. In alcuni di essi, con animo di so¬  disfare Valtrui erudita e commendevole curiosità, i proprie¬  tari lasciarono in parte i monumenti meri facilmente amovi¬  bili, acciò sia noto come e con quali riti vi fossero deposi¬  tati fin da quando ve li posero gli Etruschi.   Fra questi ipogei, mediante le nostre indagini fin ora sco¬  perti, due soli noi trovammo scavati regolarmente nel vivo  tufo m guisa di camere e dipinti : l’uno aperto nel maggio  del 1827 in un podere chiamato P o gg io-al-moro , l altro nel  maggio del 1 8 3 3 in alt ro podere detto il C olle , le cui pit¬  ture son riportate in quest’ opera. Pare che lo stesso pittore  li dipingesse ambedue, ma l’ ultimo aperto si conserva assai  meglio, forse perchè l’adiacente suolo è men’ umido . I sog¬  getti quivi dipinti son pure i me des imi in amb edue gl’ ip 0 gei ;  nòdi {feriscono granfatto, si nello stile, si. nel metodo del dipinto,  e sì nel s og g ett o iv i Ir att ato dalle pitture dellegrottecornetane,  che si altamente sono state encomiate . E probabile che in  questi due sotterranei dipinti vi fossero depositati oggetti  di prezzo ragguardevole, e perciò dagli stessi antichi deru¬  bati, perchè non vi è stato trovato quasi nulla, specialmente  in quél sepolcro che l’ultimo è stato scoperto. È poi sin¬  golare, come i soffitti intagliati nel tufo sieno più elegan-    lei il loro cognome anche gli altri re etruschi, cosi esprimendosi quel dotto  ed ingegnoso poeta .   Nomina videbis, modo namque Petulcius idem,   Et modo sacrifico Clusius ore vocor.   Questa già potentissima città, che fu detta Camars nella lingua dei nostri  padri, ( il qual vocabolo però significa lo stesso che il più moderno Clusium,  imperocché le dué voci ca, e mar, o mars, che lo compongono, vengono interpe-  trate, chiuso dalle paludi ); Che la nominarono pure Chiamarle, e Camarsoli ,  Tito Livio, Eutropio , ed Antonio Sabellico, diede luogo a molte dispute fra  gli eruditi per determinare se annoverar si dovesse fra le dodici antiche città  etruschs, capi di origine-, ma le ragioni addotte in contrario non montano a nul¬  la di fronte all’ unanime consentimento di tutti i più accreditati scrittori antichi,  e moderni, che lo affermano. Ed lo sorto persuaso che non manchino autorità  bastanti a provare, che non solo ella fu una delle dodici città capi d’ origine,  delle quali era composta la famosa, ed antichissima confederazione etnisca re¬  sidente a Fiesole, che risale per autorità di molti gravissimi scrittori, a 2o5o. an¬  ni circa prima dell era volgare, ma che avesse puranco l’ onore di tener lunga  stagione lo scettro sii tutta l’Etruria, come lo afferma il dottissimo Dempstero,  che sostiene avervelo ella tenuto per 5qo anni di seguito-   Di fatti anche Virgilio, parlando di Chiusi -, nomina un suo re chiamato Osi-  nio, la cui età è molto antica, essendo quello stesso che trovassi impegnalo nel¬  le guerre eli ebbe a sostenere il Frigio Enea in Italia, contro Turno, ed i Ru¬  llili , prima di stabilire i suoi penati in questa bella, e da tutte le straniere na¬  zioni ambita penisola. Ma anche molto avanti che quel Troiano quà navigasse,  aveva avuti Chiusi i suoi regnanti, poiché si annovera Osinio trentesimo sesto  * dei regi Etruschi. Ciò che basta a togliere l’onore della fondazione di tal città, a  Tirreno, a Telemaco, e a Clusio .   Che poi continuasse Chiusi a fiorire in potenza, ed in ricchezze, ed anzi  Salisse ognora a maggior altezza nell' una e nelle altre, dai tempi troiani fino  a quelli in cui fu scacciato dal trono Tarquinio Superbo, ne fanno chiara fede  gli storici, ed. i poèti. Imperocché Tito Livio nel secondo libro della prima deca,  narra che i Tarquinii espulsi da Roma, eransi rifugiati presso Larte Porsena re  di Chiusi. Ed aggiunge lo stesso storico, al luogo citato, che giudicando quel va¬  loroso monarca nobilissima impresa per lui l’ includere quella metropoli nei suoi  domimi, mosse a quella volta con poderoso esercito grandemente inanimito con¬  tro i Romani, ed avendo posto il campo sul Gianicolo, cinse la città et asse¬  dio, e tanta costernazione vi sparse, che mai prima d’ allora sì gran terrore  aveva invaso il senato, ed il popolo romano . Cotanto formidabili erano in quel  tempo le genti chiusine, e sì grande e temuto suonava per le terre italiche il  nome di Porsena .       DELL’ ANTICA CITTA DI CHIUSI    RAGIONAMENTO    DEL PROFESSORE    li impresa malagevole assai quella di rintracciare le origini delle antichissime  città italiche, i cui fondatori si perdono, per lo più, nel buio delle età favolose . E  quanto furono esse più cospicue, e più potenti, per valor d'armi, e per senno dei  loro abitanti, per sapienza, e per arti belle, tanto cresce la difficoltà di poterne  rinvenire con sicurezza , e fissare i cominciamenti • Avvegnaché i poeti singolar¬  mente, seguiti poi dagli storici ancora, assumendosi l' incarico di celebrarne i  pregi, e cantarne le lodi, pare che siansi fatto uno studio esclusivo di nasconderci  il vero. Questa sorte pertanto è comune con molte altre anche alla nostra famo¬  sa Chiusi.   Tuttavia, benché io non dissimuli a me stesso, che ben aspro e certamente  il cammino, in che sono entrato , e tale forse ancora da non trarmene fuori  senza pericolo di smarrirmi tra vìa -, pure non so astenermi, spintovi da quel  caldo amor patrio, che mai non tace negli animi bennati, dallo scrivere alcuna  cosa intorno alla città di Chiusi . E tanto più volentieri lo faccio, m quanto  che pubblicandosi un'Opera ove non sono raccolti che antichi monumenti chiusini ,  non giudico disdicevole che vi si legga, cosa fosse nei vetusti tempi quella si  splendida, e si rinomata città.   Lasciando pertanto da parte , come, e quando cominciasse ella ad esistere, se  Tirreno, o Telemaco ne ponesse le fondamenta, come pretesero alcuni scrittori,  o sivvero Classo re degli Etruschi, che si vuole da altri che fosse figlio di un  secondo Tirreno, e se ne riguarda come il fondatore esso pure, ( ed io lo  direi meglio arnpliatore, e ristauralore della medesima, benché s’ ignori in qual  secolo ciò avvenisse ) , egli è fuor d' ogni dubbio che questa città risale ad  una remotissima origine . Lochè peraltro discoprire volendo, e stabilir con cer¬  tezza, sarebbe lo stesso che mettersi a navigare in un mar senza sponde.   Per lo che, scenderò ad epoche meno lontane, e più certe, quando già la  città di Chiusi teneva ampio dominio sull' antica Etruria. Mentre pare da un  distico che si legge nel primo libro dei Fasti d Ovidio, che prendessero da  Elr. Mas. Chius. Toni . I. 5      4 —-   zo coll' uccisione del Console Lucio Cevìlio , e di 3 ooo soldati, furono dalla  valida l'esistenza dei Chiusini obbligati ad abbandonarne l'impresa, e spingersi a  sciogliere il freno ai loro furori contro Roma. Lo che narrasi da Lucio Floro  nel primo libro della storia romana , e possono consultarsi ancora su questo pro¬  posito, Diodoro Siculo, e Polibio. Ne fa pure un cenno Plutarco nella vita di  Numa Pompilio, e ne parla più a lungo in quella di Camillo .   Anche la risposta , che lo storico di Cheronea fa pronunziare con barbara  confidenza da Brenna condottiero dei Galli, agli ambasciatori romani, che s'erano  a lui recati per chiedergli ragione a nome del Senato, del suo procedere verso  i Chiusini, infestandone i possessi, disertando i campi, e minacciando la città,  ne fa viepiù chiara testimonianza intorno alla celebrità, ed opulenza della me¬  desima, essendosi cosi espresso quél fiero conquistatore. Ci fanno manifesta in¬  giuria i Chiusini, come coloro che ambiscono di possedere una estensione di  compagne, molto maggiore di quella che possono coltivare, e superbamente ri¬  cusano di concederne una porzione a noi forestieri , che siamo in gran nume¬  ro , e poveri.   Circa la fertilità poi dell’ agro chiusino, leggasi Plinio libro 18°. capo 7 °,  ove ne loda il frumento, cosi per la qualità sua, come per la quantità che ne  produceva. E Marziale erasi prima di lui nell ottavo epigramma del i 3 .° libro  espresso in tal guisa « Imbue plebejas clusinis pultibus ollas jj.   Moltissime altre autorità di antichi scrittori avrei potuto raccogliere , onde  mettere in più chiara luce, ed evidenza, la grandezza, e V opulenza della città  di Chiusi iti remotissimi tempi, la potenza dei suoi re, il valoroso coraggio,  e l'operosa industria dei Suoi abitanti, t libertà del suo territorio, e lo splen¬  dore che la rese tanto famosa per lunga serie di secoli ,• ma stimo che bastino  le già riferite, ed i pochi cenni che ne ho dati, per farne concepire, a, chi  vorrà leggere questo ragionamento, una giusta, e non umile idèa. Nè poteva  d’altronde dilungarmici gran fatto, attesa V indole di quest' Opera, e la bre¬  vità della periferia , cui ho dovuto perciò ristringermi nel comporlo.   Mi contenterò dunque di aggiungere, che venendo puranco ad epoche a noi  più vicine, dopo lo smembramento dell impero romano per opera dei Longobardi,  ebbe Chiusi, benché decaduta immensamente dall’ antico suo lustro, il titolo  di Ducalo; leggendosi presso Anastasio bibliotecario in s. Zaccaria, verso l’an¬  no 742 dell’ era cristiana, che Liutprando mandò ad ossequiarlo il suo nipote  Agiprando, 0 come leggesi in altro codice Adelprando, duca di Chiusi. Il qual  fatto viene riferito egualmente dall’ autore dell’ Etruria Regale.   Ed anche giunta la citta di Chiusi all estrema sua umiliazione, rimase ogno¬  ra città vescovile, come lo è tuttavia, e fregiata di assai privilegi . E si legge in  un manoscritto che tratta di cose etnische, e conservasi nella libreria Rondoni  JlcJlklh che circa l'anno 676 di nostra salute n' era vescovo un tal Teodosio.  Ricavasi pc-i dal decreto di Gregorio, cap. 9.° delle costituzioni, che l' anno         3   II qual fatto confermano, oltre Polibio, Dionisio d’ Allea mas so , ed altri  Storici, anche sant’ Agostino nella sua Città di Dio , Sidonio Apollinare, Chili-  diano, Orazio Fiacco, Marziale, Tzétze , e molti altri.   Nè parrà strana una si gran potenza dei chiusini, ed una tanta opulenza , a  chiunque facciasi a riflettere ai magnifici e sontuosi edifizi, dei quali Chiusi  adornavasi. E basterà riferire a questo proposito la descrizione del labennto  fattovi costruire dallo stesso Porsena, perchè gli servisse di sepolcro, e che si  legge in Plinio al capo decimo terzo del libro trentesimo sesto , ove riporta,  co/n’ ei dice, le parole stesse di Marco V àrrone .   Fu sepolto , scrive egli, questo monarca, sotto la città di Chiosi ove erasi  fatta inalzare una tomba di larghe pietre quadrate, e compresa da quattro lati,  o muri, ciascuno dei quali estendevasi per trecento piedi in lunghezza , aven¬  done cinquanta di altezza. Nell’ area interna di nove mila piedi, raggravasi  un inestricabile laberinlo, nel quale chi si fosse introdotto senza un gomitolo  di filo, non avrebbe potuto ritrovare la strada onde uscirne. Ergevansi poi  sopra il vasto quadrato cinque piramidi, quattro negli angoli , ed una nel mezzo,  larghe alla base, ciascuna setlantacinque piedi, ed alte centocinquanta. Slava  nella cima dì ognuna di esse un grosso globo di bronzo, sovrappostovi un petaso,  dal quale scendevano varie catene, cui vedevansi sospesi dei campanelli mobili,  e sonanti quand’ erano agitati dal vento, come raccontasi pure del tempio di Do-  dona. Sulla cima delle grandi piramidi ne sorgevano altre quattro alte cento  piedi', sopra le quali era praticato un piano, ed in esso pure si alzavano altre  cinque maggiori piramidi, che secondo gli annali degli Etruschi veduti da f ar¬  ro nc, erano tanto alte, quanto il rimanente dell’ edifizio .   Ora domando io : a qual potenza, ed a quanta ricchezza doveva esser sa¬  lita la città di Chiusi, onde concepir potesse un suore , e condurre ad effetto  la superba idea di fare erigere una fabbrica di questa sorte, per servirsene*  di sepoltura , quando ancora si voglia credere esagerato un tal racconto ! E  veramente, o esagerazione, o stranezza vi è certo, nella surriferita descrizione,  giacché è più agevole il disegnare quelle piramidi sulla carta, come saviamen¬  te riflette anche il Pignotti, che il trovar la maniera di farle stare in piedi.   Tuttavia però , benché debbasi ridurre la cosa a più ristretti, e più giu¬  sti limiti', conviene non pertanto ammettere, che la tomba di Porsena fosse una  fabbrica sorprendentissima, e tale da superare di gran lunga quanto di più  grandioso fece ammirare V umana vanità nei trascorsi tempi, o si ammira pu¬  re nei nostri, presso le altre nazioni, se non per altro per la singolarità della  sua costruzione, e per la gigantesca sua mole-, poiché tal cose possono ingran¬  dirsi bensì dai narratori di esse, ma inventarsi non mai.   Nè meno splendida è da credere che fosse la nostra città, nè inferiore la sua  potenza 284 anni più tardi, quando scesero in Italia i Galli Senoni■ Avvegna¬  ché avendola quei barbari cinta d’ assedio, dopo aver battuti i Romani ad Arez-             5   iig8, il pontefice Innocenzo III scrisse al vescovo di Chiusi, benché se ne  taccia il nome nel luogo donde ho tratta questa notizia.   E finalmente narrano, il Surio tomo l\ , e 1 ‘ Usuando nel Martirologio, che  il dì 3 di luglio, imperando Aureliano, vi conseguirono la palma del martirio i  santi Mustiola cugina dell' imperator Claudio ed Ireneo diacono, i cui corpi so¬  no esposti alla venerazione dei fedeli nella stessa città 1 .    i Non solamente gli antichi monarchi , ed i  grandi Chiusini avevano le loro tombe gen¬  tilizie ; ma le private famiglie eziandio , e  queste più c meno grandiose, a seconda del¬  la propria condizione e ricchezza, come ne  fan fede tutti quegl ’ ipogei, che sortosi in  buon numero dissepolti finora . E non di¬  spiacerà , cred ’ io , agli amatori delle cose  etrusche , il sapere in qual modo discopronsi  cotali sepolcreti .   Nei trascorsi tempi era stato il solo caso l'au¬  tore di simili ritrovamenti , poiché ì conta¬  dini arando la terra si abbattevano di tempo  in tempo in alcuno di essi, senza cercarne.  Ma da varii anni a questa parte , la cosa  ha cangiato d 3 aspetto e si è determinata  la maniera di rinvenirli a colpo sicuro , ed  eccone il metodo .   Avendo osservato alcuni signori Chiusini, co¬  me , e dove erano situati gl ipogei discoperti  dal caso, pensarono di fare dei tentativi, sag¬  giando il terreno , per discoprirne degli al¬  tri espressamente cercandoli , ove se ne ri¬  scontrasse del sovraimpostoj ed i primi saggi   \ per essi sperimentati, sortirono un felicissi¬  mo effetto .   Questi diedero loro animo a procedere ai secon¬  di , e quelli ai terzi , e così ad altri di ma¬  no in mano . Di modo che nel corso di pochi  anni se ne scoprirono in tal quantità , che  alcuni dei sullodati signori , come fra gli  altri, Casuccini, e Sozzi, arricchirono , o  formarono di pianta, ragguardevoli collez-  zioni , di urne funebri , vasi , specchi mistici,  idoli , sitale , scarabei, ed altre interessan¬  tissime anticaglie. Le quali collezioni si  vanno pure di giorno in giorno aumentan¬  do , mediante i nuovi scavi che si continua¬    no sempre a fare con caldissimo amore di  patria , e senza risparmio di spese. La qual  cosa, se e lodevole in un governo, lo è mol¬  to più nella condizione privata .   Che al nascimento del cristianesimo, ed al tem¬  po della propagazione di esso , fosse Chiu¬  si tuttavia una rispettabile città , e fra le  prime ad abbracciare la fede evangelica, si  deduca ancora da quanto sono per dire .   Nelle catacombe che si trovano situate alla  distanza di circa un mezzo miglio dalla cit¬  tà medesima , e delle quali fanno menzione,  V Ughelli , il Boldetti , ed altri, essendosi di  recente intraprese delle escavazioni , che si  vanno proseguendo con ardore, sono stale  riaperte molte strade, ove si è rinvenuto un  numero considerevolissimo di sepolcri murati  a più ordini , che saranno ben presto for¬  malmente aperti. Nei quali, se per mancan¬  za di autentiche non si potrà asserire con  sicurezza che vi siano siati sepolti corpi di  Santi Martiri , non può dubitarsi però che  abbiano servito di tomba ad individui della  primitiva cristianità .   In alcuni di essi trovati discoperti si è osser¬  vato essere state deposle in ciascuno le ossa  d{ due o tre individui : lo che mostra ad  evidenza che fosse grande in quei tempi il nu¬  mero dei cristiani in Chiusi , venendo ciò  infermato dall ’ essersi colà diretti dalla  stessa Roma, diversi seguaci della nuova re¬  ligione , fra i quali la surriferita Vergine  Mustiola, e dall 3 avervi spedito l* imperatol e  Aureliano un suo Prefetto per nome Par¬  do A promano, affine di perseguitarvi i Cri¬  stiani -, e non pochi di essi vi subirono il  martino , come t due santi nominati qui  sopra .     8   le anime goduto dopo ch’elleno son separate dal corpo. Furon varie presso gli antichi  le maniere di figurare un simile godimento, e noi vediamo frequentemente nelle  pitture dei vasi fittili, e ne’bassirilievi alcune imbandite mense, i cui commensali  starinosi lautamente bevendo a! suono di piacevoli strumenti, poiché prevaleva  presso di loro la massima che il premio concesso alle anime beatificate era il  godimento di una eterna ubriachezza. Al pari dissoluta sembra l’altra massima  degli Etruschi i quali fanno consistere tal beatitudine nel libero consorzio di  ogni senso, per cui si vedono replicatissime pitture nei vasi etruschi d’un satiro  ed una menade, ai qual soggetto si dà nome di baccanale. Men dissoluta è 1’ im¬  magine del Chiusino scultore antico di quest’ara, ove al suono di variati stru¬  menti ci rappresenta una mimica danza, replicato soggetto nelle sculture più an¬  tiche di Chiusi a . Il rilievo di questa è bassissimo, al pari dell’antecedente, e il  disegno è parimente un terzo del suo originale.   TAVOLA VI.   JSum. j. Tra le molte immaginette in bronzo che trovaronsi nelle terre degli  Etruschi rappresentative della Speranza se ne incontrano alcune alate come la pre¬  sente. Le ragioni che mossero questi popoli ad ammettere le ali alla Speranza,  son da me dichiarate nello spiegare i Monumenti etruschi, non meno che il si-'  gnificato della veste che tiene scostata dal fianco K Qui soltanto ripeterò breve¬  mente, che gli Etruschi hanno spesso confuso la Speranza colla Nemesi, dando  all’ una ed all’ altra le ali Ma la Speranza, a differenza di Nemesi, contrae la  veste per aver più spedito il passo, onde mostrare con quanta ansietà 1’ attende  chi spera 5 . La mano elevata suole averè altresì qualche simbolo o significato, ma  di questa nulla diremo per esser guasta; e solo avvertiremo esser questo disegno  uguale in grandezza al suo originale.   JSum. 2 . Lo scarabeo rappresentato in questo num. 2 , ha una figura scolpita  rozzamente al segno da mostrare una sola gamba, sebben sia nuda in tutto il  corpo. Il petto è delineato in guisa che addita esser donna,- e qualora interpetrar  si volesse quel che tiene in mano, direbbesi non impropriamente un pomo gra¬  nato, sicché il combinare con tutto ciò l’atto di stare assisa ci potrebbe far cre¬  der che fosse Euridice o Proserpina, entrambe dimoranti all’ inferno, dove figu¬  rasi assiso chi vi è destinato, per mostrar cred’ io la stanchezza di quella dimora.  Così Teseo condannato all’ inferno fu non solo così rappresentato dagli Etruschi 6 ,   1 Ivi, ser. i, 4i2. 5 Ivi, Ragionamento ìv , p. 17 5 , sq., e cap. u,   2 Micali, Monuments ant. pour l’ouvrage inlilulé p- 110. sq.   l'Italie av. la dommation des Romains, pi. xvih, 6 Lanzi, Saggio di lingua etrusca, tom 11, tav. Vili,   3 Monum. Etruschi; ser. nij p. 202, sq. n. 2, p. lai»   4 Ivi, p. ao 5 .                 ETRUSCO     2D2IL2.1 S&TftiL2    TAVOLA I.    Non vi è soggetto che abbia tanto occupato il genio degli artefici  scultori nei monumenti ferali, quanto i Dioscuri. Noi vediatno soventi volte nei  cassoni mortuali i simulacri di quei due giovani allegorici, posti simmetricamente  alle due estremità delle cotriposizioni , senza che abbiano colle composizioni  medesime nessuna connessione storica o favolosa ivi posti manifestamente  non solo per ornamento, ma per allusione speciale al passaggio dalla vita alla  morte, e nuovamente dalla morte alla vita’, come dicevasi dai Gentili che i Dio¬  scuri ebbero da Giove il vicendevole dono della immortalità 3 . Or poiché il pre¬  sente bassorilievo è in un’ara di quattro facce, ove da ognuna di esse ripetesi a  guisa d’ornato il soggetto medesimo di due giovani equestri, e poiché questo monu¬  mento è stato ritrovato in una tomba sepolcrale, così non credo erronea 1’ in-  terpetrazione ch'io dò a tal soggetto dei due Dioscuri, ripetuti simmetricamente  per ogni faccia dell’ara. Il rilievo della scultura è bassissimo, eseguito in pietra  tofacea, la quale si lavora con molta facilità per esser fragile. Il disegno è un  terzo dell’ originale.    TAVOLE li, III, IV, e V,    È frequentissimo al pari dell’antecedente soggetto quello che l’osservatore trova  in queste 4 Tavole distribuito, non altro ivi raffigurandosi che il gaudio mistico dal-    i B. rii. del Mus. Borgia riportato dal Millin ,  Galler. Mythologique Pian, lxxx, n. 53o. Co¬  ri , Inscript. Antiq. in Etruriae urbi bus ex-  iati., Pars ni, Tab. x. et xGxrti,    2 Inghirami, Monumenti Etruschi, Ser. n , p.   479» 62 7•   3 Ivi, ser. i, p. 55, ser. 11 , p. 627 , 477 •    r                     nuovo negli oggetti ferali l’augurio di prosperità che i vivi facevano ai morti,  nella fiducia che godessero una vita migliore *. L’ altezza di questo vaso è un  terzo dell’ originale.   tavola IX.   Ecco un saggio dei tanti vasi di bronzo che si trovano a Chiusi. La grandez¬  za del disegno è pari a quella del suo originale , ed ha ornamenti siffatti, che  non disdirebbero ad un’opera di fusoria dei migliori tempi dell arte; specialmente  se consideriamo quel manubrio a cui si leggiadramente vien data la forma d un  giovine in atto di riposo.   TAVOLA X.   Un altro genere d’ utensili tutto diverso dai fin qui esposti, occupa la Tav.  X, ove pure è diverso in tutto lo stile del disegno che ne traccia la rappresen¬  tanza; talché sarei per dire che altri fossero gli artefici e la scuola di scultura,  altra quella di plastica, altra quella di fusoria, altra quella gliptica, altra quella  di grafito in Chiusi, e che tutte separatamente si vedono in queste dieci tavo¬  le. Nel presente disco manubriato di bronzo rappresentansi fuoi d ogni ub io  i Dioscuri: soggetto ripetutissimo in simili oggetti, che perciò diconsi spec  chi mistici; e su questi e su quelli ho scritto abbastanza, ragionando dei Menu  menti etruschi *. Uno dei giovani colla mano portata in alto accenna il cielo,  l’altro l’inferno col braccio al basso: attitudine che a meraviglia esprime 1 al tei -  ila loro posizione, come dicemmo spiegando la tavola prima. Onde qui mi resta  da notar brevemente, che questi mistici utensili si trovano tra i cadaveri come  un amuleto relativo al transito delle anime da questa all’ altra vita.   TAVOLA XI.   Una gran parte di figure in bronzo quasi esattamente simili alla presente si  trova in vari musei d’ Etruria ; e poiché io ne vidi alcune che sostenevano un  gran disco con una incassatura al lembo di esso, così mi detti a credere che in an¬  tico siano stati specchi di toelette, il cui disco lucido era probabilmente incastra¬  to nella ghiera del disco di bronzo ade r ente alla anzidetta figura, che gli servi¬  va di manico 3 , e della grandezza di questo disegno, eh'è uguale al bronzo ar¬  chetipo. Non è dunque inverisimile che essendo questo un vero specchio da toe¬  lette, sia quel manico dal quale è retto, la figura di Veneie.   3 Ivi, tav. vii.      g   ma descritto in simile attitudine anche da Virgilio *. La stessa Euridice si vede rap¬  presentata all’inferno sedendo per terra, in atto d’esser liberata da Orfeo * 11  pomo granato nelle mani delle persone infernali è superstizione che usavasi anche  tra gli Etruschi, rappresentati nei coperchi delle loro urne cinerarie 3 . Ma in tanta  goffaggine chi decide?   Num. 3. Lo scarabeo di questo num. sarà spiegato con altro d'ugual soggetto.    TAVOLA VII.   ' ‘ mrriensa varietà di forme che s’incontra nei vasi sepolcrali, ve ne son  1 • j C | 6 ^ 6r °® n ' r ‘o uar do meritano d'esser fatte conoscere coi rami per la  H’ r t0 s ‘ n S°^ ar ‘ ta ; e per quanto non potremo in quest’opera dar  ■ 0 °. °o nuna di esse, pure non sapremmo astenerci dal farne conoscere le più  a™’- 3 ' H t0 r >r *. nc T a ^ menl:e riguardo alla utilità che queste nuove forme pos-  caie a e aiti meccaniche, ed al miglioramento degli utensili domestici.  t . . Pj ente ,n questa VII tavola figurato è di terra cotta di color rosso, si-   rorrisn 3 m6nte sn P ra a ^ tr ' quattro vasetti insieme uniti al disotto, ed ai quali  • . . n on° quattio fori nel recipiente maggiore praticati, onde potrebbero   ntrodurvs. quattro diversi liquidi, come si vede chiaramente nel disegno supe-   rate " 6 ^ ° recc liette c ^ e servono di manichi nel vaso di mezzo sono trafo-   che ' C ° me Se V1 fo8Se P assa t a una cordicella per appendere tutta la macchinetta,  per ques o aggiunto sembra essere stata di qualche uso.    tavola Vili.   annoverare preSeiUe è da re P u tarsi antichissimo, qualora non vogliasi   mento eli occh' imi ^ tlV0 delIe antiche opere plastiche. I profili con gran   ’ g a Ì a pert.ss,m. ne. volti che vi son modellati, e quei veli che hanno   nera anche^nfll* *' mm< \ tnche Sono caratteristiche di grande antichità. La terra  sa che tende al ern ° 6 tenuta P er mater ia di antica manifattura. La forma stes-   Quegli animali m ° St ™ Ua 8:11810 non raffil)at ° dal progresso dell’arte.   Ses^r r^ neOrHanOllC0r P°’ C0Ì1 ’ 6SSer S6nZa °^ tt0 "1*^ indicano  tav XII eiarrh' T ™ tUr ‘ A j ma del significato loro dò cenno spiegando la   mina in’ una « 6 ^ una leonessa o tigre che sia, con la coda che ter-   sta sull’ fi A r Pe ’ f ebbeS ‘ quest animale riguardar per un mostro. Il gallo che  , , ° e vaso e un au o ur ^° pel morto che fu cornane fra gli Etruschi e dei  ,»], ho trattato anche altrove i. Solo ,ui r.m.L.o "    i Virgil. Aeneid., lib. vi, y. 6iy.  l Monum. etruschi cit , «er. vi, l,v. C5, n. i.  Etr. Mas. Chiùs. Tom. I.    3 Ivi, ser. vi, lav. Ha, unni   4 Ivi, ser. i, p. 3 I0 .    P- I#?.    RAGIONAMENTO    II    SULLA LINGUA ETRUSCA    O e egli è vero, come nessuno può dubitarne, che le lingue sono molto più  antiche di tutti i monuménti delle nazioni, sarà vero del pari che lo studio delle  medesime, e particolarmente lo studio comparativo, possa contribuire più di ogni  altra cosa, a rintracciare con sicurezza le origini dei popoli, le loro affiliazioni, ed  i loro mescolamenti, non meno che le divisioni, e successive riunioni di essi, e le  varie peregrinazioni, cui sono i medesimi andati soggetti nel corso dei tempi. Ed  infatti, chi non vede a primo colpo d'occhio, per esempio, osservando la gran  somiglianza che passa fra i primitivi vocaboli della lingua samscritica, con altret¬  tanti dell antica persiana, della greca, della teutonica, della illìrica, e della la¬  tina, che tutte queste lingue, o debbono procedere in prima origine da un medesimo,  fonte od esservi stato in epoche da noi lontanissime un mescolamento, o per emigra¬  zioni o per cagion di commercio, di tutti quei popoli che le parlarono ?   Oltre di che, sarebbe veramente un voler andare a ritroso, pretendendo che  possa dipendere dalla semplice casualità un lavoro così metafisico, e così profonda¬  mente pensato, quale è quello dei significamenti dati ai vocaboli di antichissime  lìngue, e che furono parlate da popoli tanto lontani fra loro per geografica posi¬  zione e tanto differenti per indole, per costumi, e per usi religiosi, e civili, piuttosto  che attribuirlo , o ad una sorgente comune, o ai mescolamenti dei varii popoli in  remotissime età, per qualunque cagione, ed in qualsivoglia maniera siano questi  avvenuti. Ciò premesso, e venendo a parlare più di proposito dell’ etrusco, dirò  liberamente che non giungono a persuadérmi nè punto nè poco ì sistemi formati, e  adottati finora dagli archeologi, intorno a questo antichissimo, e presso che del  tutto perduto idioma, benché io professi una profondissima stima per ognuno di  essi. E vaglia il vero, benché il Cori, ilMajfei, il Guarnacci, il Dernpstero, gli  accademici di Cortona, ed il chiarissimo Abate Lanzi, abbiano fatto ogni loro  sforzo per diradare le tenebre nelle quali giaceva involta la nazione etrusca, e  piu ancora la sua lingua, e ci abbiano aperta colle opere loro una strada onde  poter fate nuovi passi, e nuove scoperte in questa interessantissima parte della  antiquaria, non possiamo tuttavia dissimulare, che le oscurità non siano peranche  grandissime, e singolarmente intorno alla lingua, primo fondamento di tali studii,  e unica face atta ad illuminare le nostre archeologiche indagini, sulla origine,  sulla remotissima antichità, sui monumenti, e su qualunque vogliasi oggetto,  nguar ante questa nazione perduta. E benché ancora, dopo quei celebri nomi-       TAVOLA XII.    1 1    Nell' esporre questo pregevole vasetto di terra nera a quattro anse con coper¬  chio, mi fo pregio di riportare la notizia che annettono al disegno gli zelantis¬  simi editori di quest’ opera del Museo etrusco chiusino. « Si crede, essi dicono,  che i vasi di questa terra non siali cotti, ma solamente disseccati al sole, poiché  infondendovi dell’acqua li compenetra, e si disfanno. Cotal genere di vasi non si  son trovati fin ora che a Chiusi e nei suoi contorni ». Questa è la loro avvertenza.   L’ animale che vi si vede espresso è chimerico a rammentare i mostri caotici  che precedettero l’ordine della natura. In dimostrar ciò non mi estendo, perchè  abbastanza scrissi altrove onde far conoscere la frequenza di simili soggetti cosmo¬  gonici >, espressi dagli antichi nei monumenti sepolcrali. Avverte chi ha fatto  eseguire’questa tavola, che sotto al vaso è copiato un ornato d’oro dalla  parte anteriore, il doppio dell’ originale, e sotto è disegnata la parte posteriore di  esso, della grandezza del monumento, ed aggiunge che le due sfingi rappresentatevi  sondi un lavoro mirabilmente finito e minuto.   ISCRIZIONI FUNEBRI ETRUSCHE   Quanto saviamente dichiarasi dal eh. pr. Valeriani nel secondo suo dotto ra¬  gionamento che segue, mi dispensa dall’onere di spiegare le iscrizioni fu¬  nebri che trovansi nei cinerari etruschi di Chiusi, perche scritti in una lingua  perduta. Tuttavia quel barlume che le moderne indagini dei dotti sopra di essa  ci fan vedere, sarà posto a profitto dall' eruditissimo sig. prof. Vermigiioli il più  meritamente accreditato in simile materia, onde in fine di quest’opera trovisi qual¬  che notizia di queste iscrizioni funebri chiusine, che ove lo concede lo spazio vi  si distribuiscono, senz’ altro dirne per ora.   \ V* : IHd-M 3 Pi -O J I-   :ian 0qm v : Pi +i fì® 11 •   A? 3 d-flq = i anq V >/ di.   yfìMRY/\ IV.   33 =3 Dliaq => --1 Mti™ V V -   , Mooum. Eu.. set. , p. 585 , 5 9 3 , set. m. P . 346, 36»       >4   dì^ìosamcnte remota , dice il Pejleuttier nella sua storia dei Celti, gli antichi popoli  di questo nome, o i Cello-Sciti, la cui lingua se non è primitiva in un senso assoluto,   10 è per lo meno relativamente a quasi tutte le lingue conosciute, sì furono sparsi  da una parte nell Asia occidentale, e dall altra nell Europa, si estesero in quest ul¬  tima regione, gli uni al Settentrione, e gli altri lungo il Danubio. La posterità di  questi poi rimontando quel fiume, pervenne in seguito alle sponde del Reno , le  quali oltrepassò, e riempi delle sue numerose popolazioni tutto l’ intervallo che   si estende dalle Alpi ai Pirenei, e ai due mari. Laonde ovunque la lingua dei Cel¬  ti mescolandosi agl’ idiomi indigeni, formò delle combinazioni, ov’ ella dominò sen¬  sibilmente . Ed anche in quei contorni che aveva trovati deserti, o dai quali aveva  fatto scomparire gli abitanti, il celtico si conservò nella sua purità originale. Alcu¬  ni secoli dopo la popolazione sempre crescente di questi Celti, o Galli, li costrinse a  passare i Pirenei, e le Alpi. In Italia, dopo avere occupato da prima tutto il  paese posto al piede delle montagne, eglino si estesero di mano in mano, nel-  l'Insubria, nell’Umbria, nel paese dei Sabini, in quello degli Etruschi, degli Osci,  dei Sanniti, ed in tutto il resto della penisola al dì qua del Garigliano ■ Nel medesi¬  mo tempo alcune colonie greche approdarono all’ estremità orientale d’Italia, e vi  formarono degli stabilimenti. Lasciami poi ben presto le sponde del mare , e  spingendosi sempre avanti, incontrarono finalmente i Celti, che continuavano pure  dal canto loro ad avanzarsi ancor essi • Dopo alcune guerre, poiché questo è sempre   11 primo caso dei due popoli che s incontrano j sì riunirono nell’ antico Lazio, e  non vi formarono più che una sola società, che prese il nome di popolo lati¬  no. Allora le lingue delle due nazioni si mescolarono insieme, e si combinarono  con quelle dei primitivi abitanti. Nè bisogna dimenticarsi di osservare che in  quest' amalgama aveva il celtico un gran vantaggio .   Il Greco, che non era allora, o a grandissima distanza, la lingua di Omero ,  di Platone, doveva dal canto suo il nascimento ad un miscuglio di mercatanti fenìci,  d’ avventurieri di Frigia , di Macedonia e d’ llliria, e dì quegli antichi Celto-Sciti,  che mentre i loro compatriotti si precipitarono in Europa, eransigettati sull' Asia  occidentale, donde erano discesi in seguilo fino al paese che fu poi la Grecia.  Eravi dunque del celtico alterato nel greco, che si combinava di nuovo col cel¬  tico. Dalla qual moltiplice combinazione nacque la lingua latina, che rozza nella  origin sua. ripulita poi, e perfezionata col tempo, divenne in fine la lìngua di Teren¬  zio, di Cicerone, di Orazio, e di Virgilio. Ed è questa medesima lingua latina, che  dopo un si bel regno terminato con un sì lungo e tristo tramonto, veniva ad amal¬  gamarsi ancora un’altra volta col celtico : sorgente comune dei barbari dialetti dei  Goti, dei Lombardi, dei Franchi, e dei Germani, per divenire poco tempo do¬  po la lingua di Dante, di Petrarca, e di Boccaccio. Per tali considerazioni, e per*  quelle già riferite in questo ragionamento, io credo che si debba battere un cammino  diverso da quello che si è battuto finora dagli archeologi, nell’ investigazioni in¬  torno gli antichi Etruschi , ed al loro linguaggio. E non già perdi’ io abbia la      i3   nati dì sopra, molta gratitudine dobbiamo avere ai Signori, Vermiglìolì, Zan-  noni, Mleali. Orioli, Ciampi, e più particolarmente all’ infaticabile cav• In-  giurami, per i tentativi che tutti questi hanno fatto, onde aggiungere dal canto loro  nuovi lumi, affine di condurci vie più addentro nei penetrali delle cose etrusche,  non ci siamo non pertanto finquì partiti, quanto alla lingua, dal punto dove era¬  vamo cinquanta, o sessanta anni, per non dire quasi un secolo addietro.   Nè qui sarebbe per avventura fuor di proposito lo stabilirese la nazione etru¬  sco debbasi avere assolutamente nel numero delle perdute, e nel caso affermativo  determinare il come, e il quando sia questo avvenuto, oppure considerare la dob¬  biamo come trasfusa nella romana , o combinata con tutte quelle che invasero a  piu riprese V Italia. Ma siccome cotali ricerche mi farebbero deviar troppo dallo  scopo che mi sono prefisso in questo discorso, e mi trarrebbero troppo in lungo,  cosi le serbo ad altro tempo, e ad altro lavoro. E per istringermipiù dappresso  al mio soggetto, dovremo noi riguardare la lingua etnisca, o come primigenia, e  indi genia dell antica Etruna,o come proveniente da altro più vetusto idioma italico-, o  sivvero come un composto di più dialetti stranieri, combinati coll’indigeno, quali sa¬  rebbero, il pelasgo, il lidio, il celtico, il greco antico, il traco-frigio, ed altri, qua por¬  tati a diverse epoche dalle varie colonie che si venneroa stabilire nelle nostre belle  contrade. Riflettendo che tutti gli archeologi, i quali procacciarono di rischiarare  questa materia oscurissima, hanno ben poco, o nulla concluso finora circa V i.n-  tell/genza dell antica favella dei nostri padri, e quelli che pretesero di trarla  dall’ Oriente senza alcun altro soccorso, e quelli che la vollero derivare dai Greci  e i fautori dell antico latino $ pare che ne inviti la sana critica, e ne sproni il  buon senso, a tentare un’ altra via, per vedere se si giungesse finalmente a scio¬  gliere questo famoso nodo gordiano. Ed io penso che giovandosi di quanto si può  raccogliere di antichissimo italico , donde procede in gran parte il vècchio latino,  non trascurando il greco , per le ragioni che svilupperò altrove, e ricorrendo pure  ai dialetti annoverati qui sopra , si possa con sicurezza avanzare qualche passo,  e forse ancora giungere a fissarne un compiuto alfabeto , e quindi a bén leggere,  ed intendere, tutto quello che ci rimane di etrusco. Imperocché, sia che abbia ve¬  ramente esistito una lingua primitiva, della quale tutte le altre non siano che deriva¬  zioni, e prodotti, o sia che le diverse popolazioni umane siensi fatta da principio,  ciascuna la sua lingua, e che per moltiplicate combinazioni, e dopo una lunga  serie di secoli, questi diversi idiomi particolari siano venuti, per cosi dire, a  fondersi in un idioma generale, che in seguito poi siasi diviso, e suddiviso di  nuovo, in lingue, e in dialetti diversi, vi sono pochi argomenti più degni dell’ at¬  tenzione del filologo, e del filosofo ad un tempo, di queste formazioni, di queste se¬  parazioni e di queste riunioni dì linguaggi, che indicano le principali epoche della  formazione, della separazione, e della riunione dei popoli.   L’ idioma Latino che disparve al nascere dell' Italiano, era stato in una molto  recondita antichità il prodotto di una simile rivoluzione. Quando ad un' epoca prò-     i6    TAVOLA XIII.   Porgiamo alla considerazione dello spettatore in questo disegno la più grande ur¬  na in marmo che siasi fin ora trovata nei moderni scavi di Chiusi, misurando in  lunghezza circa 4 braccia. Ha nel cornicione superiore una lunga iscrizione etni¬  sca, ma disgraziatamente dipinta, e non conservata come desiderar si potrebbe  per l'intelligenza compita, quantunque da quel che resta comprendesi essere  un aggregato di nomi famigliari e nient'altro. Vi corrisponde la rappresentanza  della scultura, ove si vede la moglie che dal marito congedasi, o questo da quella  per girsene all’altra vita. Una Furia come addetta al ministero delle anime ’, ab¬  bracciando la donna par che indichi esser lei la defonta, e non 1’ uomo che  il soggetto ivi appella. Infatti contiene il coperchio dell’urna una donna, come  vedremo. Termina la composizione con altre due Furie, una delle quali è pronta a  ricever l’anima alla porta infernale per dove passavasi quindi agli Elisi a ; e le altre  cinque figure intermedie non altro significano a mio credere che parenti,e forse an¬  che estinti antenati, de’quali siansi voluti rammentare i nomi nella iscrizione. Forma  questo bel monumento e rarissimo in Etruria uno dei principali ornamenti del Mu¬  seo Casuccini di Chiusi. *    TAVOLA XIV.   Ecco il coperchio in marmo dell’ urna già osservata nella Tavola antecedente.  Quivi e una donna mutilata in parte, come esser sogliono le sculture sepolcrali visi¬  tate dai primitivi cristiani, ed in quella occasione depredati quei loro sepolcri; ma  pure non sempre del tutto, e infatti si è trovato in Chiusi qualche ornamento d’oro  uguale alla collana che riccamente scende sul petto di questa defonta, la quale è  succinta , come esser sogliono le protome delle donne. Ha in mano un pomo gra¬  nato, conforme davansi a chi si portava all’ inferno. 3 .   T A V O L A XV.   Quando si volesse dare una interpetrazione a quest’oscuro soggetto in bassori¬  lievo, si potrebbe dire essere il giovane Astianatte genuflesso sul larario, in atto di  venire immolato al furore di Pirro. Il monumento è un’urna di terra cotta non  molto conservata.    1 Monum. Etr., ser. i, p. 191, 229.  a Ivi, p. 177, »46.    3 Ivi, ser. 11, p. 229, a 3 o.     i 5    stolta presunzione di credermi più perspicace, e più istrutto di quei dottissimi,  che si affaticarono in clamo su questo istesso argomento-, ma solamente perchè il  tentar nuove strade in materia cotanto astrusa, è permesso a chi che sia, partico¬  larmente quando tutte quelle tentate finora, non sono opportune a condurci a  buon porto . E perché è pur vero che non di rado toccò in sorte ad uomini di  mediocre ingegno e sapere, il discoprimento di ciò che rimase lungamente occul¬  to alle più profonde, e costanti ricerche di sapientissimi osservatori.   Protesto peraltro ampiamente d’esser pronto ad abbandonare la mia opinione su  questo proposito, quando i dotti me ne oppongano un’ altra più plausibile, e più  idonea allo scopo cui è diretta. Essendo io scevro affatto di ogni particolare affezione  per essa, ed alienissimo da qualunque spirito di sistema, nè altro cercando che la ve¬  rità . Avvegna che, una delle cause positive, anzi la principale, a mio credere, che  abbia così ritardalo, ed impedito la scoperta del vero in questa materia, è stato senza  dubbio lo spirito di sistema, portatovi da ciascuno di quegli archeologi, che vi eser¬  citarono con particolari indagini il proprio ingegno, ostinandosi, e forzandosi per  ogni maniera, a derivare da un solo fonte la Unga etnisca. Idifatti, niente è più fu¬  nesto ai veri progressi delle scienze, nè più contrario al discoprimento della verità,  di quello che lo sia uno spirito sistematico. Imperocché tutto allora si sconvolge, si  contorce, si altera, anche senza avvedersene, per trarlo comunque al proprio si¬  stema, adattarcelo, e farlo a diritto o a torto, convenire con quello . Ma chi adopra  in tal guisa, non và altrimenti in cerca del vero, e si affatica soltanto a rinvenire ciò  che egli si è preventivamente immaginato di dover trovare. Cosi, tutti coloro i quali  pretesero di far venire gli Etruschi da una colonia di Cananei, o di altri Orientali,  crederono di vedere perfino la forma delle lettere etnische, in quella delle ebraiche,  e più specialmente delle cosi dette sanimaritane, benché non ve ne fosse la minima  idea. E t.enevansi tanto più sicuri del fatto loro, in quanto che usarono i nostri an¬  tichi padri condurre la loro scrittura da destra a sinistra , come gli Ebrei, i Samma-  rilani,ed altri popoli dell’Oriente.ISè mancarono di viepiù confermarsi in tale opinio¬  ne, osservando alcune voci etrusche, simili, o provenienti dai dialetti semitici-, quasi  che fossero queste argomento bastante a costituire la identità di origine dell' etru¬  sco con quelli, e non sapessero tutti ifilologi, che s’incontrano delle voci simili di  suono, e di significato ancora, in quasi tutte le lingue conosciute, senza poter  giungere a provare per questa via, che l una derivi con sicurezza dall' altra, e tutte  da un fonte comune. Mentre sono tali somiglianze , ed analogìe, il prodotto di quei  mescolamenti, dei quali ho parlato in principio. E con tanta maggiore facilità  debbono essersi mischiate, e combinate non poche voci orientali all’ etrusche, per lo  commercio singolarmente dei Fenici coi nostri antenati, in epoche da noi remotissi¬  me, come altrove si è detto-, insegnandoci concordemente gli antichi scrittori  quanto in ciò valessero gli Etruschi, o Tirreni, e come signoreggiassero i due mavì  che circondano Italia, cui diedero perfino il nome.    i8   si vede nel manico è il sole, come io spiegherò meglio in seguito, e l'atto del¬  le mani e dei piedi che volgesi in alto, in basso e per ogni senso, è simbolo della ge¬  nerale influenza dei suoi raggi, cbe si spargono in giro   TAVOLA XX.   Gli ornamenti a bassorilievo che circondano questo vaso non hanno un signi¬  ficato diverso da quei che vedemmo alle Tavole Vili, XII, XIII, e XIX, ed è  perciò inutile ripetere ulteriormente il già detto.   TAVOLA XXI.   M’ immagino che la figura qui espressa, e ripetuta più volte in molti vasi  trovati nei sepolcri, possa esser Marte, il quale significar vi debba, che il tempo  in cui domina quel pianeta è l’autunno, come in altri monumenti se ne vede l'in¬  dizio i 2 , e questo tempo vi si rammentava per la ricorrenza del suffragio delle  anime 3 , al quale oggetto erano istituite feste ed offerte ; o forse rammentasi la  deità degl’itali primitivi.    TAVOLA XXII.   Sono assai numerosi gl’ idoli femminili in bronzo di piccola dimensione pari  al presente, eh’ io credo essere stati nominati comunemente dagli antichi gli Dei  Lari, o Penati, o Geni tutelari, e Giunoni 4 , quando, come questa statuetta, erano  femmine; e dice vasi che ogni donna aveva la sua Giunóne per protettrice 5 .   TAVOLA XXIII.   Il gusto dei Greci, come ricaviamo dalle opere loro trovate in Ercolano e  Pompei, era d’inventare ornamenti per le suppellettili anche non attinenti al fa¬  sto ed al lusso, dove introducevano con molto genio ed ingegno animali ed uma¬  ne figure : genio che si propagò per l’Italia, come vediamo nelle opere di Chiu¬  si ,• di che abbiamo un bell’ esempio nei due manichi di bronzo incisi in questa  XXHI Tavola, un de'quali ha un mascherone bizzarramente travisato con fo¬  gliami, fiori ed una barba assai schersosamente spartita. Bella è parimente l’im¬  magine dell’altro manubrio disegnato di faccia e di profilo, dove si vede un anima-   i Monumenti etr., ser. 11, Tay. xc, pag. 762. 4 Monumenti etr., ser. 1, p. 279.   % Ivi, ser. vi, tay. F2, num. 3 , p. 17 5 Yirgil. Aneid. 1 . ili, v. ifij , Ovid., fastor. xi   3 Ivi, ser. j, p. 1 47 » 5x2, 544 * y* 4 ^ 5 .    TAVOLA XVI.    17    > ^ notabile che i coperchi delle urne in terra cotta sieno di miglior modello  eh esser non sogliono quelli scolpiti in pietra N’ è chiaro esempio questa re-  combente figura che servì di coperchio all’ urna precedentemente esposta. Ognun  vede quanto il panneggiamento sia più ragionato nelle pieghe di quel che osser¬  vammo allaTav. XIV ove ne reputammo l’urna spettante a ricca matrona. Chi sa che  il lusso de marmi non prevalesse in tempo della maggior decadenza delle arti ?   TAVOLA XVII.   La muliebre figura qui esposta fu eseguita in fragile pietra tofacea e trovata  acefala in un sepolcro, colla particolarità che il collo è vuoto come anche il torso,  ed è servito per deposito d umane ceneri e d J ossa cremate, che vi si trovarono al-  1 aprir della tomba, ove la statua era sepolta. Il significato non è facile a penetrarsi,  ma dal pomo che ha in mano, e dall atto sedente, non sarebbe fuor di proposito il  congetturarne che fosse una Proserpina, la quale riceve unitamente col suo con¬  sorte Plutone le anime che scendono al Tartaro. Difatti anche al Museo Pio de¬  mentino vedonsi que’ due numi sedenti a .   TAVOLA XVIII.   La singolarità dell’ esposto monumento esige che se ne mostri anche la parte  avversa alla già veduta. Ivi più chiaramente si nota che a formarne il magnifico  sedile concorrono i simulacri di due sfingi, le quali assai frequentemente s’incon¬  trano in monumenti ferali; poiché la sfinge reputavasi animale chimerico infer¬  nale 3 , e perciò attamente posti ad ornar la sedia della divinità che attende alle  anime trapassate da questa all’ altra vita *.   TAVOLA XIX.   La frequenza dei volti velati che vedonsi ne’yasi di terra nera, come in questo,  non lasciano luogo a porre in dubbio se siano o nò rappresentanze di larve o  Lemuri, cioè delle anime 5 , ed il gallo che sovrasta al vaso, pare, come ho detto  altrove 6 , indubitato simbolo del buon augurio di felicità nella futura vita, che a  quelle anime predicevasi dai superstiti viventi. La figura con faccia larvata che   1 Monum, etr., ser. ni, p. 4 io, e ser. vi, Tav. 4 Ivi, ser. v, p. a;8.   X 3 , n. 3, p. 3 a. 5 Ivi, ser. i, pag. ai, 52 .   2 Visconti, Mus. P. Clem. Voi. li. Tav- 1, a. 6 Ved. p. 9.   3 Monum. etr. «er. i, p. 582.   Etr. Mas. Chius. Tom, I.    3      RAGIONAMENTO    III    SULL’ ALFABETO ETRUSCO    -Uopo che gli uomini ebbero trovato coll’ uso naturale degli organi della  parola, un mezzo facile di comunicare i loro pensieri ai presenti, cercarono, e  trovarono in seguito, quello di parlare agli assenti, e di rammentare a se stes¬  si, ed altrui, ciò che era stato pensato, e detto da loro, e da altri, e ciò an¬  cora di che erano convenuti insieme. La prima cosa pertanto che si presentasse  loro allo spirito in questa ricerca, furono le figure geroglifiche ; ma colai segni  non erano abbastanza chiari, e precisi, nè abbastanza univoci, per adempire lo  scopo che avevasi in mira, di fissare cioè la parola, e di farne un monumento  più espressivo del marmo, e del bronzo.   Il desiderio dunque, ed il bisogno di compiere questo disegno, fecero final¬  mente immaginare quei particolari segni, che noi chiamiamo lettere ognuna del¬  le quali fù destinata a notare uno dei suoni sémplici, che formano le parole',  la riunione dei quali segni, è ciò che dicesi alfabeto. Volendo però risalire fino  alla prima origine dì questo maraviglioso ritrovamento, rischieremo sempre di  smarrirsi senza riparo, in un mare di oscurità, e d’incertezze, e circa V epoca  in cui giunsero gli uomini ad un si nobile discoprimento, e circa la nazione  che prima di ogni altra vi pervenne.   Lasciando perciò da parte la ricerca di quello che io giudico moralmente  impossibile a rinvenirsi, volgerò le mie indagini a cosa più certa, od almeno  piu probabile, qual e la quistione, se gli Etruschi, od i Greci fossero i primi  a far uso di una cosi bella, ed utile invenzione. E qui pure siamo costretti a  navigare, presso che senza bussola, m un ampio pelago, sparso di profondis¬  simi vortici, d' orribili mostri, e di scogli assai pericolosi.   Imperocché, se molti dotti sostennero, e sostengono tuttavia che i Greci so¬  no anteriori agli Etruschi nell’ uso dell’ alfabeto, e vengono riguardati come i  maestri di essi, in qualsivoglia arte o scienza, non è per altra parte minore il  numero, nè di minor momento V autorità di quelli, che citar si possono per  sostenere il contrario. Perlochè io aderisco a questi ultimi, sembrandomi la loro  opinione più ragionevole , e più giusta, ed i sostenitori di essa persuadendomi  colle loro ragioni, ciò che non giungono a fare i propagatori del grecismo, ad  onta ancora di tutte le parole greche, o grecizzanti, che s’ incontrano ad ogni pas¬  so in quasi tutti i monumenti etruschi, discoperti finqui, avvegnaché intorno a       >9   le mostruoso, che per aver motivo d' essere attaccato al vaso figura di morderlo.  Sotto è un Ercoletto giovane, che tiene la mano alzata, vibrando la clava in segno  di recar danno e morte, ed ha cinti i lombi colla pelle di leone, simboleggiando  di non curarsi della generazione ’, come è proprio d’Èrcole quando figura il  sole iemale. Difatti rispetto ai viventi è il sole che loro apporta la vita coll’universale  tepore della natura in primavera, e porta danni o morte col raffreddamento del  tempo iemale. Qual simbolo può dunque esser più adattato a decorare un sepolcro,  che quello dove rammentasi la vicendevole transizione dalla vita alla morte ?   Lo scarabeo di cui si vede f impronta ha inciso un centauro con un fanciullo  sul dorso, forse Chirone col giovane Achille che dicesi da taluno essere stato affi¬  dato a quel mostro per riceverne la puerile educazione 3 .   TAVOLA XXIV.   La rappresentanza di questo specchio mistico sarebbe forse difficile ad inter-  petrarsi, qualora non fossene venuto a luce un altro di quasi ugual soggetto. In  quello vedesi Giunone sedente in atto di porgere ad Ercole la mammella, perchè  ne succhiasse il latte, il chè succede alla presenza di Mercurio 3 . Sappiamo infatti  che Giove bramava che Ercole per ottenere l’immortalità, benché nato da mortai  femmina, sorbisse almeno latte divino, onde per uno dei soliti inganni frequen¬  tissimi nella mitologia, Giunone gliel porse senza avvedersene 4 . Mercurio vi si  crede introdotto, per attestare ad Ercole d’aver egli pure profittato di tale argu¬  zia, per entrar fra gli Dei, benché nato da Maia donna mortale .   Qui non è espresso l’atto di Giunone per allattar Ercole, ma pur vi si vede  Mercurio che si fa noto col suo cappello, e par che accenni d’ aver profittato  egli stesso dell’espediente che suggerisce ad Ercole, il quale gli sta davanti. Ha la  clava , in mano ed un piede elevato, indicando che salir deve all’ immortalità 3  per opera di Giunone 6 eh’ è fra loro.    fli8v«q :ian8 j v :ioj vi.  j a 11 y fi j 1 :i n tnq r = o 4 vii.   1 f\ il 8 4 Y d : fi m 3 4 t :42 vili.   ■•-ifi n t v t :o 4 .• in i n q n o n lx -   -4/nm-rfl4 itntnqfl .-4sa x.    § Monumenti etr. ser. v, p. 3 a.   2 Galleria Omerica Tom. ii, Tav. cxxi, pag. 2,4.   3 Schiassi, De pateris ariliquor.ex schedis Blan¬  dirli Sermo ed epislolae tab. x.    4 Diodor., Sic. Bibliot. bist. lib. il, p. 198.   5 Mon. etr. ser.n, Tavv. lxxu, lxxìii, lxxiv, lxxv,   6 Zarinoni, Lettere di etrusca erudizione pubblicate  dall’ Inghirami, Tom. 1, p *6.    22    pure in ogni tempo di tracciare nello stesso modo le loro scritture. E tutti,  c/uesti ultimi specialmente, furono sempre uniformi in questo, ad eccezione degli  Etiopi soli, e degli Abissini, che sebbene parlino, e scrivano un dialetto semi¬  tico, scrivono tuttavia da sinistra a destra, come gl’ Indiani, ed i segni delia¬  co alfabeto hanno un valore sillabico, come gli alfabeti indiani, ed anche il ti¬  betano , ciascuno dei quali segni porta seco, in certo modo incorporata una vocale ,  e forma una sillaba. Ciò che non accade in nessuno degli alfabeti europei, e  neppure nel giorgiano, e nell 1 armeno, che vengono pure delineati da sinistra a  destra. Laonde non pare poi tanto strana V opinione di quelli, i quali pensarono,  che gli Etruschi propriamente detti, fossero discesi in prima orìgine da una  colonia, o emigrazione asiatica. Ma di ciò altrove.   E se i Persiani, ed i Turchi scrivono da destra a sinistra, benché la lin¬  gua dei primi venga dalle Indie, e quella dei secondi dalla Tartaria, ciò procede  dall’ aver tanto gli uni, che gli altri adottato i caratteri arabici, ed al tempo  stesso la religione del borano. Quindi tenendo in conto di cosa sacra i suddetti  caratteri, non è da maravigliarsi nè punto nè poco, se essi non abbiano ardito  dì alterarli, nè quanto alla primitiva lor forma, nè quanto alle maniere di rap¬  presentarli colla scrittura. Ché del resto ben diversi riscontratisi gli antichi carat¬  teri persiani chiamati zendici, e pelvici, come assai differenti ritrovatisi, e pel  modo di scrìverli, e perla loro forma, ofigura, quelli dei Tartari.   Ciò premesso o siano stati gli Etruschi i ritrovatori dell’alfabeto che porta il loro  nome, o l’abbiano composto di più antichi alfabeti italici, o V abbiano derivato da al¬  trove, come pare dai nomi stessi che portano le lettere del medesimo, benché sia diff쬠 cilissimo, e forse impossibile a provarsi, per mancanza di documenti sicuri, il come,  ed il quando abbiano ciò fatto-, è peraltro fuor d’ogni dubbio, che i Greci non lo comu¬  nicarono loro, e non furono per conseguenza i loro maestrì.Che anzi è da credere che  sia accaduto tutto al contrario, e che gli Etruschi, nazione mitissima, e poten¬  tissima in età molto remote, e quando la Grecia era tuttora barbara, e selvaggia,  1’ abbiano comunicato ai Fenici per via di commercio, e che da quelli passasse  ai Greci, se vogliamo ammettere ciò che sostengono quasi tutti gli antichi scrittori,  cioè, che Cadmo facesse loro il dono del primo alfabeto. Del qual Cadmo scrive  Plutarco nei Simposiaci iib. 9 quist. 5, che quel sapiente pose Z'aleph, o alpha  per prima lettera del suo alfabeto, perchè cosi chiamasi il bue nella lingua dei  Fenìci, il quale animale non è da stimarsi nè secondo nè terzo fra le cose neces¬  sarie all’ uomo ■ come pensò Esiodo.   Circa poi al grecismo, che s’incontra nell’ etrusco, e nell’Etruria, e circa le arti  greche, che vi si osservano, come ancora in altre parti dItalia, ne parlerò a lungo  in un discorso, che tutto si aggirerà intorno a questa materia, esclusivamente  da ogni altro oggetto. E proverò allora, che l’idioma degli antichi Etruschi è nel  suo fondo tutt' altra cosa che greco; dimostrando ad un tempo, in qual modo, e    21    questo grecismo sian da dirsi alcune cose eli io riserbo ad un altro ragionamento.   Ma ritornando al titolo del mio discorso, cosa è V alfabeto etrusco? É que¬  sto un prodotto indigeno dell’ antica Etruria, o sivvero vi fa trasportato da  altra parte del mondo? E se qua venne da estranei lidi, chi fu mai quel be¬  nefico straniero , che fece all ’ Etruria un dono cosi prezioso ? Ed in questa  supposizione, passò egli ai nostri antenati dall’ Oriente, oppure dall’ antica Gre¬  cia ? O si compose egli forse degli elementi di più antichi alfabeti italici, o  di questi, e del pelasgo fra loro mescolati, e confusi ? E se vi fossero ragioni  bastanti a dichiararlo prodotto indigeno, a quale epoca rimonterebbe l’ antichità  sua , ed a quale ammettendo che sia frutto straniero , e per qual mezzo per¬  venne ai padri nostri ?   A tutte queste quistiom, che possono opportunamente esser mosse intorno al  tema che ho tra mano, io mi studierò di rispondere, quanto meglio e più con¬  cisamente per me si potrà, e come sarà possibile rispondere, in qusto breve ra¬  gionamento, m una materia cosi oscura, e difficile • E circa alla prima quistio-  ne, l alfabeto etrusco, quale noi lo possediamo presentemente, non è certo una  cosa diversa dall antico alfabeto greco, ma sono anzi talmente somiglianti fra  loro, se tolgasi il rovesciamento delle lettere nell’ uno di essi, da doverli giudi¬  care al confronto, senza timore d’ ingannarsi, la stessa cosa-, sia diesi riguar¬  di la forma delle lettere, o si consideri l uso delle medesime, Nè giova opporre  a questa asserzione, la maniera di scrivere degli Etruschi da destra a sinistra,  avvegnaché usavano di fare lo stesso anche gli antichi Greci, prima dell’ età di  Pronapide, che si pretende essere stato il maestro di Omero. Che anzi esser  potrebbe credi io, una tale particolarità, un argomento favorevole agli Etruschi,  per crederli i ritrovatori del loro alfabeto• Al che si aggiungerebbe forza non  poca, considerando l antichità loro, più recondita assai di quella dei Greci.   E più ancora verrebbe avvalorato, e confermato un tale argomento, che gli  Etruschi, cioè, siano stati eglino stessi gli autori del loro alfabeto, riflettendo  che i medesimi continuarono in ogni tempo a scrivere, ed anche sotto la domi¬  nazione dei Romani, da destra a sinistra-, lo che non avvenne dei Greci, iquali  cangiarono metodo, e presero a condurre la loro scrittura da sinistra a destra.  Ora è più ragionevole il credere, che il rovesciamento degli elementi alfabetici,  e del modo di scrivere, siasi operato da chi l’apprese da altri, che da chi ne  fù l inventore. E questo rovesciamento di scrittura presso i Greci, vuoisi fis¬  sare, come di sopra accennava, ai tempi omerici, o di Pronapide.   A questo argomento però se ne potrebbe, per avventura, opporre un altro, di¬  cendo , ché giusto appunto perchè gli Etruschi scrissero sempre conducendo, e  tracciando i caratteri da destra a sinistra, non debbono riguardarsi come i ritro¬  vatori del loro alfabeto, ma convien credere che lo abbiano ricevuto da qualcuno  dei popoli asiatici, e particolarmente di quelli così detti semitici., ì quali usarono     T-;,-      I    Per la qual cosa , mi pare che dopo tutto quello che ho detto finqui ', si possa  rispondere alle questioni proposte in questo medesimo discorso, che V alfabeto  etrusco non è venuto dal greco, ma bensì questo da quello j che desso non è pri¬  mitivamente indigeno dell’ antica Etruria, quanto ai suoi elementi, i quali furono  quà portati da una emigrazione antica, in tempi tanto reconditi da non poterne  fissar V epoca precisa, e che s’ ignora chi ne fosse il primo inventore, e chi lo  portasse il primo fra noi. Sulla qual primitiva derivazione asiatica dell' alfa¬  beto etrusco, in età da noi remotissime , dettero un ragionamento a parte, che  verrà pubblicato in seguito in quest’ opera stessa. Ciò peraltro non vuol già dire,  che anche la lingua etnisca sia una lingua del tutto asiatica, come la giudicarono  troppo leggermente alcuni filologi, sebbene asiatici si riscontrino l’ antico culto,  e la maggior parte dei riti religiosi, e civili degli Etruschi.   Or qui farebbe di mestieri combattere, e confutare tutte le opinioni contrarie ;  nè io sarei alieno dal prendermi un tale assunto, se i limiti prescritti a questi ragio¬  namenti, nei quali non deve olt repassare , per l’indole dell' opera cui son destinati,  la periferia di poche pagine di stampa per ognuno di essi, me lo concedessero. Non  potendo ciò fare, nel modo che si converrebbe, mi ristringerò ad aggiungere quanto  segue, e mi terrò per ora contento di questo.   Il Cori, il Majfei, ed il Mazzocchi confrontando gli alfabeti punico, e celtibe-  ro, o cantabro coll’etrusco, dicono che vi trovarono minore analogia, quanto alla  forma dèlie lettere, che coll’ ebraico. Il Donati poi che fece la stessa cosa nei suoi  Dittici seguitando le osservazioni , che avevano già fatte prima di lui a questo  proposito, l’ Aquila , Teodozione e San Girolamo, scrive nell’ opera sua intorno  alle iscrizioni, che quelle così dette Cizzie, sono riguardo ai caratteri, mollo si¬  mili alle etnische j e lo stesso dice ancora del marmo Sanvicense conservato in  Osford, che vuoisi più antico della guerra troiana, e dei caratteri incisi sulla  lamina bustrofeda di bronzo, riportata dal prelodato Majfei nella sua Critica  Lapidaria, non meno che di quelli sulla colonnetta del Museo Nani di Venezia,  giudicata pelasga-tirrena , benché fosse ritrovata a Mitilene .   Questi monumenti, che si credono tutti scrìtti in greco antico, e per essere questo  mollo simile all’ etrusco, specialmente circa la forma delle lettere, sono stati quelli  che hanno fatto mettere in campo, o convalidare l' opinione di coloro, i quali  pensarono che il greco antico, é l'etrusco fossero la stessa cosa, e che per  giunta alla derrata, la lingua dei nostri antenati sia nata dal greco. Senza  avere peraltro mai pensato a provare, che i Greci, ed il loro alfabeto fossero più  antichi degli Etruschi.   Il Gori,fra gli altri, stabili come un assioma, che la lingua etrusco era greca in  non differiva da quella che nel dialetto, nella quale opinione fu  seguito dal Lanzi, e da altri. Ne si avvidero, nè lui stesso , nè i suoi seguaci,  che i Pelasghi, i lirrem, i Pladani, i Lidii, gli Arcadi, e gli Ausonìi, sono        £3   perchè s J introdussero nell' etrusco, e nèll' Etruria propriamente detta, quel gre¬  cismo, e quelle arti. Che in quanto alla somiglianza, ed anche identità dei ca¬  ratteri etruschi, e greci antichi, sii di che fondarono finora il loro più valido  argomento tutti gli archeologi fautori del grecismo, per asserire che l' etrusco ,  ed il greco antico sono in ultima analisi la medesima lingua, è il più frivolo,  ed anche il più ridicolo ragionamento, che immaginar mai si possa, Avvegnaché,  vale lo stesso che se io ragionassi cosi: gl’ Italiani, i Francesi, i Fiamminghi,  gli Spagnuoli, i Polacchi, i Portoghesi, ed altri popoli d' Europa, come gl'in¬  glesi, i Dalmati, e gli Olandesi, si servono dello stesso alfabeto per iscrivere  le loro lingue, dunque tutte quelle lingue sono la stessa cosa.   Ma quante furono in antico le lettere dell’ alfabeto etrusco, poiché essendone  stati pubblicati finora dagli antiquari fino a tredici, o quattordici, chi ne conta  un numero maggiore, e chi minore ; ed il laborioso, e dotto abbate Lanzi ne  ammette venti nel suo ? Si deve credere che fossero sempre in egual numero ,  oppure che venisse questo accresciuto a più riprese, e ad epoche diverse, come  si narra essere avvenuto dal greco, il quale fù condotto fino al numero di ven¬  tiquattro lettere, benché non ne avesse che sedici nel suo principio ? E non sa¬  rebbe questa una ragione di più, onde confermare ciò che accennava poc anzi,  che l’ alfabeto, cioè, facesse passaggio dagli Etruschi ai Fenici, e da questi  ai Greci, osservandosi ancora che nessuno degli antichi alfabeti italici oltre¬  passò mai il numero di sedici lettere? Difatti nei piu antichi monumenti, fra  i quali nessuno vorrà contradire che siano da riporsi gli atti dei fratelli Ar-  vali, non se ne contano che sedici sole.   Di più non trovandosi mai usato l o nelle epigrafi antiche veramente etni¬  sche , riscontrandosi questa lettera fra quelle degli altri monumenti italici pa¬  rimente antichi, come pure fra le prime sedici dell alfabeto greco, cosi detto  cadrneo, sì può dubitare se gli Etruschi ne avessero neppur tante in prin¬  cipio, e cresce sempre più la probabilità della mia asserzione.   Secondo t enciclopedico Plinio, le lettere dell alfabeto cadrneo furono le se¬  guenti . cioè: ab r a eikamnoiipstt. Alle quali poi ne aggiunse quattro  Palamede, che sono, e 3 $ x. E finalmente Simonide lo accrebbe di altre quattro,  cioè, zìi va. E pare anche ben naturale, come fù pure osservato dall’ erudito  filologo francese Sig. Letronne, che quei primi sedici caratteri siano stati  inventati avanti agli altri, perchè rappresentano i sedici tuoni elementari, o  semplici, ché formar si possono colla bocca umana, sia per intuonazione, o  per articolazione. Mentre gli altri caratteri aggiunti a questi, ed usati negli  alfabeti dei differenti popoli, esprimono, o delle gradazioni di quei suoni prin¬  cipali , o la riunione eli più articolazioni in una sola . Di maniera che ognuno  di essi può essere più, o meno esattamente decomposto nei primitivi suoni  eh’ egli contiene .       26   Che s’è regola di sana critica di non prestar fede agli antichi poeti, in tutto  ciò che narrano di sovrumano, e di misterioso, lo è del pari di rintracciare il  vero anche in mezzo alla favola, che viene giustamente definita dai sapienti, il  velo deila verità, e della storia. Ipoeti dell’ antichità, ché erano più istruiti di tutti  gli uomini dell’età loro non inventarono, come si crede male a proposito, le fa¬  vole, ma bensì adornarono con finzioni la storia . Rimossele quali finzioni, è co¬  sa ben facile di rinvenire la verità, nei più notabili avvenimenti per essi nar¬  rati, e abbelliti.   Cosi la pensava S. Agostino nel lib. della Città di Dio, al cap. i3. E ci av¬  verte il Vossio nell’ aureo suo trattato De fatione studiorum, che non si dicono  favolose le antiche età, perchè sia falso ciò che di essici vien riferito dagli scrit-,  tori, ma perchè la storia di quella ci è pervenuta insieme colle favole mista, e  confusa.    XI.   XII.   XIII.   XIV.   XV.   XVI.   XVII.  XVIII.   XJX.    /u M : oj : ntriq r : oqflj  v/r 3Hfl Jiiffl -1 = q/i  j/r n# j a ■■ san/urn/Mq/i  V/13 : q A : D l   = irnoai  4 /ini AD  Jfìlmq 3E : Am 34t : 44  -1V84flHMI3:3Hiq3®:q/1  4/mmq vo • IHltfl 4 14  : I ?434 : I \IA8  JAMAJll V A'!  vq 1 : U434 .- A» n 33    XX.    4fl mif A4 : Al 3 f       ■25    tutti popoli anteriori ai Greci, e che trovansi tutti amalgamati cogli Etruschi  nelle età più lontane. Perlochè convien dire che siano gli Etruschi stessi, i quali  portino diverse denominazioni, dalle diverse provincie dà loro abitate, nelle  quali era divisa l’antica Etruria. E come oggi i Fiorentini, i Senesi, i Pisani,  i Lucchesi, ì Magellani, i Casentinesi, e simili, sono tutti Toscani, cosi pure  nei più reconditi tempi gli Umbri, gli Enotrl, gli Aborigeni, e tutti gli altri anno¬  verati di sopra, erano Etruschi.   Silio Italico lib. a. 0 chiama Ausonia la Lombardia. Ed Eliano lib. 8.° del¬  la Varia istoria, crede che gli Ausoniifossero i primi abitatori di Italia-, men¬  tre Pirgilio nel io. 0 dell’ Eneide, li confonde con quelli che popolavano questa  bella penisola sotto il regno di Saturno . Servio poi commentando un tal passo,  dice che gli Ausonii furono sì dei primi popolatori cì Italia , ma non già i  primi di tutti, nei soli. Ed ecco perchè alcuni scrittori hanno compreso sotto il  nome di Ausonia tutta l’Italia.   Ora tutti i surriferiti popoli, non esclusi neppure i Latini, che molti autori vo¬  gliono che fossero diversi, e dagl Italici propriamente detti, e dagli Etruschi, ripeto¬  no la loro prima origine da una colonia, o emigrazione qua venuta dall’Asia, in tem¬  pi forse al di là di quelli che da noi son detti storici. Lo che fu negato acre¬  mente da altri per la sola ragione di potere stabilire, che i Greci furono i primi  coloni di Etruria, e che vi s’introdussero insieme con essi, le arti e le scienze,  e perfino la cognizione dei segni alfabetici. Ma non potendosi negare, senza offen¬  dere il senso comune, che queste regioni erano popolate molti secoli prima che  i Greci le conoscessero per via di commercio, e vi spedissero in seguito delle co¬  lonie, conviene di necessità ammettere, che i Greci non furono i primi abitatori  d’Italia, e per conseguenza neppure di Etruria, e molto meno insegnarono loro  a parlare. Quando peraltro non voglia credersi, ché i popoli italici, e gli Etru¬  schi, fossero tutti muti prima dell’ arrivo dei Greci fra loro. Laonde cade, e si an¬  nulla il sistema dei fautori del grecismo.   Macrobio infatti ammette un diluvio, non già ai tempi di Deucalione, e di Ogi-  ge, ma bensì a quello di Giano, ch’ei qualifica per primo re di tutta l'Italia. E  Dionisio d’Alicarnasso, che è sempre in contradizione con se stesso, dopo avere  scritto che i Pelasghi furono i primi popolatori d! Italia, che 5oo anni prima di  Giano ne scacciarono i Siculi, e che gli Enotri eransi prima dei Siculi stabiliti  nell’ Umbria, pretende poi di darci ad intendere, e farci credere, che Giano pre¬  cedesse la venuta di Enea in Italia di un solo secolo, e mezzo. Ma se il cosi  detto secolo d’ oro, ossia il secolo della pace, e della giustizia, fu secondo Vir¬  gilio, ed altri scrittori antichi, quello in cui regnarono Saturno, e Giano, que¬  sto non può essere stato posteriore all’ età di Noè, e de'suoi figli, che dietro gli  insegnamenti paterni, calcarono essi pure la via della giustizia, e coltivarono  tutte le virtù sociali.    Etr • Mas. Chius. Tom. I.    3    4     28   nemico se gli Dei, per suggerimento di Nettuno, non lo avessero voluto sal¬  vo 2 . Or non vedi qui pure Achille che tenendo lo scudo lungi da se, pone mano alla  spada ? Non vedi il Tanato che quasi obbrobriato volge il tergo alla pugna col  suo martello sugli omeri, per mostrare che morte non avea luogo in quel con¬  flitto, perchè ad ogni costo dovevasi Enea salvare alla gloria d’Italia? Questo dise¬  gno è una quarta parte del suo originale in marmo d’ alto rilievo.   TAVOLA XXVIII.    Qui si mostrano i due laterali scolpiti del cinerario che è nella Tavola antece¬  dente. Nell'uno e nell’altro sono rozzamente indicate due porte, che rappresen¬  tano, credo io, le infernali, alla custodia delle quali stan vigilanti due ministri del  Tartaro. La figura femminile al num. 2 è visibilmente una Furia, come dichiaralo  quella face che regge con ambe le mani; di che detti altri cenni 3 ; la virile col mar¬  tello sugli omeri è il Tanato, altrimenti detto Cliarun tra gli Etruschi \ e confuso col¬  l’Orco, ministro anch’egli di morte e d’inferno, che spesso incontrasi nei monumenti  antichi d’Etruria 5 , e non già tra quei de J Greci, nè de’Romani cosi rappresentato.   La testa eh e nel mezzo, serve per coperchio ad un vaso di terra cotta, di che  dovrò trattare altrove; ora avverto che questa è la terza parte del suo originale :   TAVOLA XXIX.    Affinchè I’ urna cineraria già esposta si mostri compita, fa d’ uopo di non  disgregarne il suo coperchio, dove si vede un seminudo recornbente con una pa¬  tera in mano, nell’attitudine stessa che vedonsi rappresentati gli Etruschi a men¬  sa. Nè la patera disdice a chi cena, mentre vedesi usata a convito dai commen¬  sali 6 . La veste che in parte copre il recornbente è detta sindone, pure usata ai  conviti 7. La nudità della persona indica 1’apoteosi, di che altrove dò conto 8 .   TAVOLA XXX.    Il frammento di scultura segnato in questa tavola, è un tufo tenero, e del  genere di quello notato nelle prime cinque tavole della presente collezione Chiu-  sina. Orchi mai crederebbe, che nella tomba dove fu ritrovato non vi fossero  gli altri frammenti, che ne componevano l’ara intiera? chi crederebbe che que¬  sta sorte di monumenti in tenera pietra arenaria si trovino quasi costante-    1 Id. v. a 85 ,   *8, Id. V. 2 ^ 3 , 294»   3 Ved. 1 * spiegazione della Tav. xm.   4 Monumenti elr. ser. i, p. a 34 -    5 Mono. etr. ser. i, p. 44 » 73 , 74, 264, 284.   6 Ivi, ser. vi, tav. F. num. 2 .   7 Ivi ser. i, p, 395.   8 Ivi ser. n,j>. 628.       TAVOLA XXV.    27   Nelle urne di Volterra parventi ripetuto questo soggetto medesimo, ed ivi spie¬  gandolo, avventurai l’interpetrazione di un fatto tebano, del quale io stesso poco  andai persuaso, nè ora saprei meglio dire. Vi suppongo Anfiarao nell’atto d’aver  tagliata la testa di Menalippo, che Tideo, sebben ferito, aveva già ucciso; e gliela  portò, per cui da Tideo medesimo fu commessa l’atrocità di aprir quel cranio, e  divorarne le cervella. In ogni restante ancora son simili queste due sculture,  sebbene men rozza l’urna di Chiusi ■. Questo disegno è una quarta parte del mo¬  numento originale di marmo in bassorilievo.   TAVOLA XXVI.   Quanto la frequenza delle rappresentanze di avvenimenti ferocie marziali, co¬  me quei della tavola antecedente, fan giudicare l’etrusca nazione d’umor malin¬  conico 3 , altrettanto voluttuosa e molle giudicar si dovrebbe dal presente grup¬  po che appartiene alla scultura antecedente, per esser quella un’urna cineraria,  questa la di lei copertura . Credo per altro che l’uno e l’altro soggetto non dal¬  l’indole degli Etruschi abbia origine, ma da loro massime di religione, dove dicevasi  che la vita era un irrequieto contrasto, e la morte conduceva ad un vero godimento,  il quale non sapevasi esprimere che mediante la soddisfazione dei sensi 3 .   TAVOLA XXVII.   Mentre il fasto orientale sfoggiava in lusso degli abiti, l’eroismo dei Greci ca-  ratterizzavasi col mostrarsi a nudo • Tra i guerrieri di questo bassorilievo ne vedi  uno vestito , e in questo caso potrebb' esser troiano, e tra i Troiani credilo Enea,  che soggiacque a mille peripezzie di grave cimento, senza però mai soccombe¬  re , perche gli Dei, per quel che ne dicono Omero \ e Virgilio 5 , avean desti¬  nato ch’egli regnar dovea sopra i superstiti Troiani, e sopra i figli dei figli, e sopra  quei che appresso erano per venire da loro. Difatti racconta specialmente Omero  che Achille, cosa strana ! si sgomentò nel combattere con Enea, e tenendo discosto  da se lo scudo, cercava di sottrarsi ai colpi vibrati da quell’eroe 6 ; ma poiché  questi a vicenda contrattosi colla persona, e copertosi collo scudo evitava l’assalto  dell avversario ', come nel bassorilievo mirasi espressa la figura che ne occu¬  pa la parte media, Achille allora pose mano alla spada, ed avrebbe trucidato <il   1 Monum. etruschi, Ser. 1, Tav. lxxxiii, p. 666. 5 Virgil, Aeneid. ]. ni, y . 97, 98.   2 Ivi, p- 667. 6 Homer. Iliad. 1 . xx, v, 261, 26a.   3 Ivi, ser. v, spieg. della Tav. xlv. 7 Ibìd. 278.   4 Homer. Iliad. lib. xx, v. 307, 3 o 8 .     5o   fu detta di lui consorte. Se consideriamo i due nomi spettanti ai due pianeti Ve¬  nere e Marte, potremo giudicare la figura terza per un Saturno, altro pianeta.  Nè da ciò si allontanano i di lui attributi, poiché ad esso rompetesi, non solo  quella barba prolissa che gli orna il mento, ma eziandio quelle fronde, e ger¬  mogli, o gemme di vegetabili che gli cuoprono il capo, attributi propri di sì an¬  tico nume, non meno che la spada falcata da lui sostenuta '. Queste tre deita  e pianeti possono appellare all j oroscopo di un’ anima che nella stagione di pri¬  mavera passa agli Elisi, di che altrove do più esteso conto a . 11 vaso contiene  altre tre figure che saranno spiegate nella Tavola seguente.   TAVOLA XXXIV.   Ecco le altre tre figure che vedonsi nel b. rii. del vaso esposto nella Tav.  antecedente. L’interpetrazione dottissima scrittami di esse dal eh. sig. dott. Maggi,  merita d’esser nota preferibilmente a qualunque mia congettura. Egli dichiara  in quel mostro una Gorgone, o un Tanato: in quell’ uomo con testa ferina un  Minotauro: nell’uomo alato che sta nel mezzo un Mercurio. La totalità della com¬  posizione credesi dal dotto interpetre allusiva al tempo nel quale facevansi le an¬  nuali commemorazioni delle anime. Quindi la figura larvata è da esso giudicata  il Male personificato in un mostro, come fecero gli Egiziani del loro Tifone;  mentre credevasi che prevalesse il male all’ entrare dell’ autunno . E questi nel  tempo stesso il Charun degli Etruschi che fingevano orridamente larvato, e di te¬  sta grossa. Indicano quelle mal collocate sue ali che la morte raggiunge l’uomo  ancorché fuggitivo da essa, di che l’interpetre dà ragioni che appagano. La se¬  conda figura è da esso dichiarata per quel Mercurio, che occupato nell’ uffizio di  accompagnar le anime, ha deposti gli emblemi che lo distinguono per ministro  dei numi. Giudica poi la terza mostruosa figura esser il Minotauro allusivo al  centauro o centauri celesti, piuttosto che al figlio di Pasifae; e qui pure dà ra¬  gione in qual modo leghi la dottrina delle anime colle favole dei centauri autun¬  nali. Nota egli che il fiore sia un anemone significativo del sole passato ai se¬  gni inferiori, per cui sopravviene l’inverno, vale a dire il male che da ciò risente la  natura, e quindi anche le anime come credevasi,- tantoché quel mostro con testa  gorgonica rappresenta parimente il sole iemale. Gli uccelli sono, a tenore del di  lui parere, siderei, anch’essi spettanti ai segni inferiori, e indicanti la via lattea che  percorrevano le anime nel passaggio loro alle sfere celesti. Da ciò conclude che  tutta la rappresentanza sia una spece di geroglifico significativo dell’autunno, cioè  del tempo in cui le anime dovevan esser suffragate. Egli palesa d’ aver tratta  questa interpetrazione dallq mie opere 3 .   i Bianchini, Stor. universale,cap. li, §x ,p. 84 * >, pag. i8t, lettera al dott. Maggi,   a Inghirami, Lettere di etnisca erudizione, Tom. 3 Lettere cit., p. 174, lettera del Dott. Maggi.       2 9   mente mutilati? Eppure è così; nè ciò farà tanta sorpresa, se consideriamo che  anche i vasi fittili sepolcrali si trovano spesso rotti dagli antichi. Sarebbe forse  ella mai una ferale cerimonia liturgica ?   Qui osserviamo ancora un vasetto in pietra arenaria, tre quarti men grande  del suo originale; ed è simile a quei che prima dicevansi lacrimatorii, e che ora si  dicono unguentari 3 , perchè si vedono in mano di chi versa unguenti sul rogo 3 ,  nè questo è dei comuni per la gran somiglianza coi vasi egiziani dell’uso stesso.   TAVOLA XXXI.   Notiamo questi recipienti con volgar nome di bracieri, mentre per tali si  tengono quei che sono atti a contener brace, ed insieme i vasi escari, e culi¬  nari. Ma l’originale qui copiato a metà di grandezza, non fu vero braciere, nè  veri escari quei recipienti che vi si contengono, mentre l’uno e gli altri sono di  fragile terra cruda, non atta a resistere l’effetto del fuoco . Io suppongo essere  stati adoprali nei riti funebri i veri bracieri di bronzo detti anche borni, usati  a bruciar vittime, e profumi. Quindi al termine della funebre cerimonia in luo¬  go di lasciar questi nel sepolcro, come lo esigeva il rigore del rito, altri bracieri  di semplice figura, e formalità, perchè di terra non cotta, sostituivansi a quelli.  Il pollo che vi si vede nel mezzo, è consueto simbolo di buon augurio, che  vedemmo altrove 4 . Le varie teste che ornano l’utensile han pur esse il si¬  gnificato medesimo relativo alle anime, come in altre occasioni ho notato*.   TAVOLA XXXII.   Serve la tavola presente a mostrare qual fosse la forma esteriore del bra¬  ciere o escaria, o estia che dir si voglia, la quale vedemmo nella parte ante¬  riore disegnata nella tavola antecedente. Le sfingi e larve che vi si vedono ap¬  poste, sono analoghe all'uso ferale di questi monumenti 6 .   TAVOLA XXXIII.   Questo vaso ch’è una quarta parte dell’ariginale, è della solita pasta nera con  ornati, e figure a bassorilievo i, le quali sono in questo disegno della loro naturai  grandezza, e ne occupano tutto il corpo. Ivi son ripetute tre volte. La prima di esse  figure indubitatamente è un Marte; e in conseguenza la donna che gli è dap¬  presso, quantunque priva di attributi, può credersi Venere, che nella mitologia   1 Museo Chiaramonii Tav. xxv. 5 Pollux. 1 . i, segm. 3 .   2 Paciaudi, Monuoi. peloponues. Voi. u, p. iSo 6 Motium. etr. ser. i, p. aao.   3 V e d. p. ij, 7 V’cd. la spiegazione della Tal. ini.   4 ivi.     RAGIONAMENTO IV.   SUL GRECISMO CHE S’INCONTRA NELL' ETRUSCO , SULLE ARTI GRECHE  OSSERVATE IN ETRURIA, E SULL’ ORIENTALISMO CHE RIDONDA  PER TUTTA ITALIA-    Era involta l’origine degli Etruschi in ima impenetrabile oscurila fino  dal tempo in cui scrivevano i più antichi storici che noi conosciamo. Lo che fa  certamente gran maraviglia, quando si riflette all’ esteso dominio di quel popo¬  lo, sì celebre, e sì potente, che aveva una Casta sacerdotale, e possedeva  tempo immemorabile un particolare alfabeto, ed era più avanzato nella civiltà  di tutte le altre nazioni di Europa. E ciò molto prima dei Greci,  pensino, e ne scrivano in contrario, i dotti compilatori della Rivis a  Lungo. Tutto quello poi, che noi sappiamo della sua susseguente istoria, e c e e  suìistituzioni, non ci è stato trasmesso che dalle nazioni contemporanee , giac¬  che gli scritti degli autori etruschi, sono periti da lunga età. E le loro iscriA  ni scolpite sul marmo, e sul bronzo, non sono finora più intelligibdi per noi, i   quello che lo siano i geroglifici egiziani.   Ma se dunque la lingua etrusco, non è in prima origne la stessa che a  greca antica, con piccola diversità di dialetto, come pretendevano, il Gori, e  i suoi fautori, e più modernamente l industriosissimo Abbate Lanzi, e tutta  la sua scuola. Se i Greci non furono i maestri degli Etruschi, in qual modo,  riprendono quelli di contraria opinione , s J incontra cosi frequente il grecismo  nell' etrusco, e si osservano cosi comunemente le arti greche in Etruria .  ben rispondere a queste domande, sono da premettersi alcune considerazioni,  che verrò qui brevemente esponendo.   Ridonda in primo luogo, nell’ etrusco , il grecismo, per una ragione oppo¬  sta diametralmente a quella predicata , e diffusa fin qui dagli archeologi, cioè,  perchè furono gli Etruschi ad un’ epoca assai recondita, i maestri dei Greci,  i quali riceverono da essi, e dagli Egiziì, le prime nozioni della scrittura, per  mezzo dei Fenici, come altrove accennammo. Questi elementi però non erano in  prima origine prodotto indigeno della Etruria, ma v’ erano stati trasportati da   una più antica emigrazione asiatica. _ .   Osservansi poi, in secondo luogo, in ogni parte di Etruria, ed anche nel  resto dell’ antica Italia, gli avanzi delle arti greche, perchè quella vivace, ed  ingegnosa nazione, che aveva il talento e V attitudine di perfezionare , non me-          3    TAVOLA XXXV.   Quando si trova nei monumenti Mercurio che ha sulle spalle un ariete, se gli  dà il nome di Crioforo, e cosi nominavasi la di lui statua venerata in Lesbo,  che avea scolpita Cakmide, a significare ch'era il dio dei pastori, come crede¬  va la plebe, mentre altri asserivano eh’ aveva liberato quei di Tanagra dalla  peste, girando tre volte in forma espiatoria intorno alla città, con un montone  sulle spalle. Ma il vero senso, benché mistico di quell’atto, è la congiunzione del  sole col segno dell’Ariete, per cooperare allo sviluppo della generazione, median¬  te la quale son rivestite le anime d’utnana spoglia, per cui cred’io che talvolta il  nume vien espresso con lubriche forme. Il religioso cerimoniale degl’idoli por¬  tava in fatti che l’ariete o lo stesso nume si rappresentasse nelle patere libato¬  rie per onorare i morti 1 . Questa pittura è nel mezzo d’ una tazza di ter¬  ra cotta, che ha di più il pregio d’essere scritta, ove peraltro non leggesi che  un saluto di buon augurio ad Erilo Eprìo; K«)oe.   tavola xxxvr.   Di questa muliebre figura non mi occorre dir molto, per esser già nota  mediante l'estese notizie e congetture che ne detti altrove ». Io la giudicai rap¬  presentativa della divinità presso gli Etruschi, giacché ne monumenti de'Greci  non si trova mai, e la dissi una Nemesi Dea ch’ebbe origine in Asia, e per¬  ciò munita di pileo frigio, e di doppie ali, onde mostrare la velocità del  suo corso, per cui le si vedono altresì le scarpe. Ha in mano un simbolo eh' io  giudicai allusivo alla natura prolificante w*, »««•//>, mentre gli Etruschi tennero  la narura e la divinità per una cosa medesima. La corona che l’attornia è di  frassine, vegetabile sacro a Nemesi. Tutto il monumento, eh’è uguale in  grandezza al suo originale, è un disco di bronzo assai frequente tra i monu¬  menti etruschi, lucido nella parte avversa, e manubriato in sembianza di specchio;  e poiché se ne son trovati alquanti nelle ciste mistiche, ove Clemente Alessan¬  drino dice esservi stati riposti gli specchi unitamente ad altri simboli mistici,  così li chiamai ordinariamente specchi mistici 3 .    i Monumenti etr. ser. ti, p. 1 56 .  a Ved. la ser. 11 , di quell’opera.    3 Ivi p. 109.      34   dispregiarsi l'etimologia , quanti 1 ella è sobria, e ragionata ,) comincerò da quelli  delle lettere dell’ alfabeto . 1 quali non avendo alcun significamento in greco , e  portandone uno analogo alla loro posizione,ofigura, o suono, negl’ idiomi asia¬  tici, è ben facile a comprendersi da chicchesia, che non dalla Grecia, ma dal-  l’ Asia derivar debbono la propria origine.   E vaglia il vero: Alpha , per esempio, significa principe, primo, principio, e  sìmili, in più dialetti asiatici, e precisamente in quelli cosi detti semitici, nei quali  si pronunzia aleph , o alepha, e per contrazione alpha, cui pare che fosse dato un  tal nome per essere la prima lettera dell’ alfabeto,   Beta, che viene da beth, betha, suono imitato dal belare delle pecore, e pe¬  rò sempre inalterabile nella sua naturale Semplicità, checche ne ciancino in con¬  trario i grammatici, i quali pretendono di farcelo pronunciare bita, ed anche più  barbaramente vita, vale una sorta di casa, per la somiglianza che ha questa lettera  colla casa stessa, nell’ Alfabeto semitico .   Gamma viene da ghirnel, gamia, gamal, che vuol dire carnelo, ed imita col¬  la sua forma la gobba, o le gobbe di quell’ animale. Cosi delta deriva da da-  leth, o deleth , deletha, e per sincope delta, e significa porta, cui somiglia pu¬  re nella figura. E cosi ancora epsilon fu presa dalla he semitica, e trae la sua  denominazione dal suono che si manda fuori nel pronunziarla.   La zeta, deriva dalla zain, quasi ziian, che vale un’ arme, perchè somiglia  nella sua forma ad un dardo. E cosi percorrendo l’ intiero alfabeto.   La quale opinione acquista una forza tanto maggiore, in quanto che si os¬  serva, che gl' ingegnosissimi Greci, non hanno neppure nella loro lingua, che  è si ricca, un vocabolo indigeno per nominare la più bella, e la più maravi-  gliosa di tutte le cose create, qual è il Sole. Imperocché la voce , elios, di  cui si servono per nominarlo, non è altro chela pura semitica, el, o eloab, inflessa  alla greca . E significando essa, fra le altre cose, anche Dio nel suo primitivo idio¬  ma, si vede il perchè si propagasse ancora in Grecia, come altrove il culto del Sole.   A maggior conferma poi del mio assunto, ecco una serie di nomi, presi qua, è là  senza scelta, ed appartenenti a cose assai diverse fra loro, come a dire, divinità ,  eroi, fiumi, monti, città, provincie, popoli, edifici!, e simili, i quali tutti sono evi¬  dentemente orientali, avendo nelle lingue asiatiche, un significato, mentre non ne  contengono alcuno nei linguaggi degli altri paesi. Lo che viene a provare ad un  tempo, che i Greci non sono i ritrovatori della loro mitologia, e che altro non hanno  fatto che foggiare un infinito numoro di ridicoli Dei, prendendo per cose reali ì sim¬  boli degli Orientali, e le loro allegorie, e parabole .   ti. facile infatti avvedersi, che Pale, la quale presiedeva alle feste rurali in Ita¬  lia, e Pallade, che mentre era la Dea della guerra, e delle arti, insegnava la conve¬  nevole cultura agli Ateniesi, non sono che un soggetto medesimo, sotto due nomi di¬  versi ; ì quali però vengono entrambi dalle voci semitiche, palai , e pillai, che signifi¬  cano, regolare i cittadini , e da pillali, che vuol dire ordine pubblico .       33   no che l'industria di farsi suoi gli altrui ritrovamenti, mandò a più riprese, come  tutti sanno, colonie in Italia, le quali vi fecero pure lunga dimora. Queste colonie  pertanto, riportarono nelle nostre contrade, più belle, e più gentili quelle arti mede¬  sime, che ne avevano prima trasportate, grossolane, e rozze alla terra natale, i  loro predecessori. Ora, siccome andrebbe grandemente errato il giudizio di colui,  che vedendo un italiano vestito alla parigina, o all’inglese, volesse inferirne, che  quella foggia di vestimento sia invenzione italiana, cosi è di quelli, che tutto voglio¬  no attribuire ai Greci, perchè i monumenti che ci rimangono dei nostri antenati, sen¬  tono più, o meno del greco stile , e della greca maniera.   Nè vale opporre, che mancandoci le autorità degli antichi scrittori, onde fian¬  cheggiarla, e provarla, fa d’uopo rigettare una tale opinione. Imperocché, ove sia¬  mo privi di monumenti scritti, che bastino a provare un assunto di questa specie, è  giuoco forza ricorrere al senso comune, e farsi scudo del raziocinio ; i quali valgono  m ultima conclusione più di qualunqué autorità degli scrittori, trattandosi dei non  contemporanei.   Ora questo senso comune, e questo raziocìnio, rafforzati da un gran nume¬  ro di nomi, ( oltre quelli dell alfabeto, e dei suoi elementi ), di fiumi, di montagne,  di città, di provincie , di divinità, di eroi e simili, ci attestano altamente, e chiara¬  mente ci dicono, che dessi non possono esser venuti che dall’ Asia, perchè sono  asiatici, e tutti ritrovano il loro significamento negli idiomi di quella parte di mondo.  Ed essendo questi medesimi nomi per la maggior parte assai più antichi di tutti i  monumenti, e di tutte le storie che finqui si conoscano , non si può negare di  ammettere, che se asiatici non furono i primissimi abitatori di Italia, e per con¬  seguenza di Etruria, tali però debbono essere stati assolutamente, quelli che  insegnarono agli Etruschi l’arte Ai scrivere, e ne volsero gl’intelletti alla cultura  delle arti necessarie alla vita, e delle utili, e dilettevoli discipline.   E perchè non paia ai nan dotti in tali materie, ed agli imperiti delle lingue  orientali, che io mi tragga dalla propria Minerva siffatte opinioni, così contrarie  alle già invalse, ed approvate dal maggior numero degli archeologi, che  scrissero sull’ Etruria, e sugli Etruschi, è necessario che io venga esponendo,  le opportune prove di quanto asserisco, ai miei lettori. Perlochè, senza veruna  pretensione all' infallibilità delle mie asserzioni, eccomi pronto alla dimostrazione  delle medesime. E tralasciando di riferire in questo ragionamento tutte le tra¬  dizioni, non mai interrotte dai tempii più reconditi fino all’ età nostra, le quali  dicono essere stati gli antichi Etruschi nazione cultissirna, e potentissima, mi  ristringerò a quella che c’istruisce aver eglino attinti i primi lumi della loro  civiltà, da una colonia, o emigrazione proveniente dalle parti orientali, che  furono la cuna del genere umano, e di ogni sapere •, e non già dai Greci, che  erano a quei tempi, se pure esìstevano , del tutto incolti, e selvaggi.   Venendo pertanto all’ etimologia dei suddetti nomi, ( che non è sempre da  Etr. Mus. Chius. Tom. 1. ^      libio, e Tolomeo, dalbascuenze pitsà, equivalente a schiuma, perchè situata, secondo  Rutilio, vicino al fiume Ausuro , e sull’ Arno,   Quam cingunt geminis, Arnus, et Ausur aquis.   Orvieto, chiamato Herbanum da Plinio, prende il nome dalle celtiche voci herd,  e baun che vagliano terra alta. E di là scendendo verso Roma , incontrasi non lon¬  tano dal Tevere il lago Vadimone, o all’etrusca Vadimune, oggi lago di Bassano,  alle cui acque attribuisce lo stesso Plinio, fra le altre qualità, vis qua fracta solidan*  tur; la qual salutifera proprietà è significata dalla prima parte del suo nome, chea  vateded equivale in celtico ad utile,proficuo,e simili. Angiunge poi lo scrittore medesi¬  mo che era quel lago riguardato come sacro, perchè sotto l immediata protezione di  non so qual deità ; lo che viene espresso dalla seconda parte del nome ch’ei porta,  cioè, mund, o più dolcemente mun che corrisponde difesa, protezione, e tutela.   Trovavasi poi al mezzodì di tal lago Fescennio, luogo celebre per le sue osceni¬  tà , e le quali sono indicate dal nome, essendo gitisi’ appunto licenza, sfrenatezza , il  significamento di quello ; e però ne cantarono, Orazio   Fescennina per hunc inventa licentia morena,  e Catullo, Ne diu taceat procax   Fescennina licentia;   Oltre di che, il celtico wels-hein, latinamente Fescennium, s’ interpetra bosco  di Venere.   Nomina Tito Livio, Fanum Voltumnae, oggi Viterbo , e credesi comunemente  che questa Voltumna fosse una divinità. Difatti il Dempstero la reputa la prima  fra tutte le etnische, e Banier V annovera frale campestri. Ma è da credere che  Voltumna, venga dalle due voci volt e tun, e per questo il Fano prendesse il nome  non già dalla divinità, ivi adorata, ma dal luogo ov’ era posto, poiché significa  colle percosso dal fulmine,o colle fulminato.   Cosi pure, Auno , famoso Ligure, ausiliare di Enea, quando venne a stabilirsi  in Italia, e che trovasi descritto nell'undecimo libro dell’ Eneide, come paurosissimo  nello scontro colla valorosa Camilla, significa precisamente pauroso, timido in lìn¬  gua armorìca, uno dei dialetti indo-scitici. E Cupavone, che andò pure col suo na¬  viglio in soccorso di Enea, si traduce capitano di mare, come Taro,,f ’interpetra gran  fracasso, o che fà gran fracasso, rovinìo, o danno, ed ognuno di leggeri comprende,  quanto ciò si convenga ad un tal fiume romorosissimo , e precipitoso .   Iasio viene da iasesc, che vuol dire, longevo, antico, e ben corrisponde all’idea,  che ce ne danno ipoeti, come Capi deriva da capasci, uomo libero, traendosi da ca-  pasc, libertà. Laberinto procede da labiranta, che vuol dire torre, palazzo; Tritto-  lemo da triptolem, che vale l’apertura dei solchi, Celeo da celi, vaso, ordigno, mas¬  serizia, e però disse Virgilio , Virgea preterea Celei, vilisque supellex .   Palilie, ossia la festa degl’istituti, e delle leggi, derivada palilià, c he significa l’or¬  dine pubblico, o da peli], che vale moderatore/Iella cosa pubblica, il primo in Isaia,          55   Penati, è voce che deriva da penisi!, luogo interno, o intimo , e la cui radice è  penàh, che vale penetrare; tutte le quali significazioni convengono benissimo a quel¬  le familiari divinità degli antichi Romani. E Levana deità latina essa pure, è la  medesima che Lucina , la quale sostenta i nati di fresco, e deriva da Jevanàh, che  vuol dir Luna.   La Parca, non è cosi detta a non parcendo, come pretendono i Grammatici, e  gli Etimologisti latini, ma bensì da parech, che vale rottura , perchè tronca essa il  filo della vita; come Cerere, da gheres, spiga matura, e Cibele, da chebel partorire.  Difatti quella prima è la dea delle messi, e viene riguardata la seconda come la  madre di tutti gli Dei .   Osservo il Passeri, che Venere, detta Venus dai Latini, era parola sconosciuta  ai Greci, i quali esprimono questa pagana divinità, colle voci Sfpofarv, topo,  Afroditi, o Afaodite, Kipris, Kitereia. E fu per lungo tempo ignota anche ai Romani,  come attesta Macrobio nel primo libro dei Saturnali. Afferma poi Earrone che il no¬  tile di questa Dea , non conoscevasi fra gli stessi Romani, nè greco nè latino, neppure  sotto ire. Ed aggiunge Pausatila nel suo primo libro, che era ignoto agli antichi Gre¬  ci, e che lo aveva trasportato fra loro Egeo dalla Fenicia, e dall’isola di Cipro. Gli  Etruschi però conoscevano benissimo una tal Dea , eia chiamavano Vendra, come  rilevasi da un antico specchio mistico . E la sua origine sente dì ebraico, avvegna¬  ché, ben-thara vuol dire figlia del mare perchè tbara significa umidità, dal qual  vocabolo fecero i Grecite**, tharas figlio di Nettuno. Quindi furono dette Tbarso  quasi tutte le città marittime, e tarsisc, il mare, il lido, un porto. Dalla stessa vo¬  ce ben, che si cangia spesso in ven, per le regioni a tutti note, furono composti mol¬  ti nomi di Dee, come quello della Bendit degli Sciti, di Bentasicima figlia di Net¬  tuno presso Filostrato, ed altri.   Nè vennero da una sola parte, e nomi, e riti, e costumanze asiatiche in Etruria,  ed in tutta Italia, ma per più e diverse vie: peri oche non da un solo linguaggio asiatico  trar si debbono le spiegazioni dì questi nomi, ma da più, e diverse lingue, e dialetti di  quella famosa contrada. Quindi tutti i celtici, e tutta la gran famiglia degl’ idio¬  mi così detti indo-scitici, possono esser messi utilmente a contribuzione, come altra  volta accennammo per la retta intelligenza dell’ etrusco, e per interpelrare gli anti¬  chi monumenti del nostro paese-.Dal che viene a dimostrarsi , che il dotto, ed acuto  padre Rardetti, non aveva poi tutti i torti, di che altri volle troppo leggermente ag¬  gravarlo . Ma riprendiamo la nostra disamina .   Liguria, nome di quel tratto di paese, detto la riviera di Genova, fu cosi  detta da Liguria voce bascuenze,che vuol dir soave. E si formarono probabilmente da  questa, il verbo latino, ligurire, che significa mangiare soavemente, o mangia¬  re cose soavi, e il nome greco liguros che vale anche soave.   Pisa, cosi chiamata , o per la figura dell’ antico suo porto, che si trarrebbe da pi*  se ,che vale in dialetto lidio porto lunato, o se fu detta Pissa, come la chiamano Po -         TAVOLA XXXVII.    II nudo idoletto in bronzo che in questa Tav. si espone davanti e da tergo,  nella grandezza medesima dell’originale, con altri similissimi a questo, sparsi pe'mu-  sei, forma soggetto di mature, ma non per anche fruttifere riflessioni degli archeo¬  logi , che se per un lato vi ravvisano una gran somiglianza coi monumenti egiziani  da far sospettare che sian idoli venuti d’Egitto in Etruria, atteso specialmente il  costume e f acconciatura anteriore e posteriore de’capelli; dall’altra non concepi¬  scono come gli Etruschi abbian potuto ridursi a mendicare manifatture d’Egitto,men¬  ti'’ erano essi medesimi famigerati artefici; nè la storia ci addita in conto veruno un  traffico simile tra le due sì disgregate contrade. È vero che Strabone veduti i lavori  d’ambedue le indicate nazioni, li giudicò di un medesimo stile, simile a quello dei  Greci antichi ma par ch’ei ciò riferisse allo stile dell’arte, e non al costume delle  figure . In qualunque modo peraltro si volesse risolvere l’obiezione, qui non sarebbe  luogo opportuno di estendervi.   L’altro bronzo che rappresenta una fiera testa di lupo, servì probabilmente per  ornato nel manubrio d’ un arme da taglio.   TAVOLA XXXVIII.   Ebbero gli antichi una singoiar cerimonia religiosa, alla quale davano il nome di  Jettisternio, consistente in un convito che si faceva nel tempio, o nel sacro recinto,  dove si apparecchiayano le mense ed i letti, perivi stendersi i devoti che lauta¬  mente mangiavano in onor degli Dei, ma vi si preparavano ancora altre mense ed  altri letti, dove si deponevano le statue dei medesimi numi, a’quali porgevan vivan¬  de, come se fossero stati realmente Ior commensali =. È dunque probabile che il pre¬  sente rudere antico facesse parte d’un di que’Ietti che preparavansi per le statue, i quali  si potevano usare a tal uopo di qualunque grandezza. L’ornato stesso di un seguito di  figure tutte ugualmente recombenti, con tazze in mano, come stavasi a mensa, fan so¬  spettare delbanalogìa di rappresentanza coll’uso accennato del rudere, ch’èdi pietra  arenaria, una terza parte maggiore del presente disegno. Lo stile a parer mio  si mostra imitativo piuttosto che ingenuo d’un’ antichità non poco lontana.   TAVOLA XXXIX.   É già noto all osservatore il nome e 1’ uso di questo mobile, per le ta¬  vole antecedenti, al cui proposito dissi che \non veri foculi, ma figure di   ì Monum. etr. ser. m, p. 4 oi.   a Liv. 1 . v, § 1 3 . Laurent, de prond.et coena vet, c. zi, conviv. vet. c. 4 *          37   cap. 28 , il secondo in Giobbe cap. 3i. E Pamilie, festa che veniva dopo la raccolta,  ed il cui significato e 1 uso moderato della lingua , da dove s introdusse presso i Gre¬  ci il costume di fare esclamare e rivolgere al popolo le parole «pi« yWoias tamnete  glossas. cioè , troncate le lingue, astenetevi dal parlare, derivansi da pa-mul, la bocca  circoncidere, o da pamylah, circoncisione della bocca. E siccome era questa una  ottima lezione morale per rendere gli uomini sociabili, e felici, così tutte le piccole  società dei congiunti, o d’altre persone che vivono insieme, furono dette fatniliae, e  da noi famiglie.   Camilla è voce pretta etrusca, dicono Servio, e Festo, e significa ministra degli  Dei . Sia pur vero, ma in idioma orientale significa un tal nome, ciò che dissero i  Latini serva a manu; o filia a rnanu , giacché cam vaia mano, ed bill figliolanza ,  come osservò Eccardo al titolo 23 della Legge Salica. E filia a manu, o serva a manu  e una espressione convenientissima alle giovinette , che metter dovevano le mani in  cento cose, essendo destinate a servire.   Tarconte , autore secondo le favole di Tarquinia, fratello di Tirreno, o disceso  da lui, che sopraintese a dodici città, il che non è bagattella ,fà secondo la verità  storica un valoroso soldato, che avendo difesa la sua gente, venne denominato lo scu¬  do 5 tale essendo ilsignificamenlo del gallico tarcon, o dell’armorico targad.   E finalmente, Tages , o Tagete , che narrano esser saltato fuori fanciullo, dalla  terra che sfavasi arando, che fu alla nazione etrusca il primo maestro delVaruspicio,  che il senatore Buonarroti lo ha creduto espresso nella tavola 45 fra le aggiunte al  Dempstero, non può venire che dalla voce asfcia, tag, la quale significa giorno. E pare  che gli Etruschi volessero fare intendere con questa figura, o parabola, che i giorni,  p come noi diremmo il tempo, aveva loro insegnato l aruspicina, o l'arte di antiveder  l avvenire. Avvegnaché di simile parlare figurato , sono ripiene le pagine degli  scrittori sacri, e profani. Dei quali basterà nominar qui, tralasciando gli altri, David,  Pindaro, Tullio, e Virgilio.   E siccome dice lo stesso Pindaro che le ore avevano insegnato agli uomini molte  delle antiche arti, così poteva secondo gli Etruschi, aver loro il giorno insegnato  l aruspicina-, Imperocché scrive il prelodato Tullio, che opinionutn commenta  del etdies, naturae iudicia confirmat; E Virgilio cantò,   Turne, quod optanti, divum permittere nemo  Auderet, rolvenda dies en attullit ultro.   Domanderò ora ai dotti, se dopo la spiegazione da me data a tanti nomi  dei quali potrebbe estendersene il numero per centinaia , e migliaia, sia possibile  che una fortuita combinazione, possa rendere così ragionevolmente corrispondenti i  loro significati, agli usi, ai tempi, ai luoghi, ed alle circostanze degli oggetti per  essi indicati.    4 °   va spossato di forze; e incontro a lui, come narra Omero i Troiani e gli Achei  si tagliano a vicenda gli scudi e le targhe i 2 ». Il berretto asiatico, del quale il  recombente è coperto in questa tavola, mostra più manifestamente che altrove la  sua qualità di Troiano, e perciò mi confermo nel crederlo Enea. Gli altri corpi  che vedonsi rovesciati a terra, fan fede che il fatto accade in un campo di batta¬  glia; e nel tempo stesso più che bellezza, dà merito al monumento quella ric¬  chezza di lavoro, che ne’tempi dell' arte in decadenza preferivasi al bello, che n’è il  vero pregio.   TAVOLA XLII.   La ricchezza colla quale vedemmo decorata di scultura l'urna cineraria in marmo,  il cui disegno è stato presentato nella tavola antecedente , tre volte più piccolo  della di lei grandezza, non potette appartenere che a persona qualificata e facoltosa.  Ciò si verifica nell'osservarne il coperchio in questa tavola disegnato, sul quale riposa  un giovine riccamente vestito, decorato di onorifiche insegne, quali sono principal¬  mente 1’ anello e la corona di alloro che ha in mano, il torque che gli orna il còllo ,  ed un ricco balteo che dall' omero sinistro gli scende al destro fianco. La corona che  ha in capo non è di semplice onore, ma gli spetta come recombente a convito: posi¬  zione che viene affermata dalla tazza che ha in mano, come usa chi sta a mensa.    TAVOLA XLIII.    É stato ragionato dagli antichi di una guerra delle Amazzoni, la quale ha non  poco del favoloso 3 , come lo prova inclusive la diversità colla quale è narrata, ma  nella varietà della favola v’è gran concordia tra i mitologi per introdurvi i cavalli 4 .  Or poiché veri combattimenti antichi a cavallo non si conoscono descritti dagli au¬  tori de’tempi omerici, o poco dopo, così non resta che quel delle Amazoni, o con  gli Argonauti 5 , o con gli Ateniesi 6 , che incontrisi nei monumenti, come approvato  tra le rappresentanze dell’antichità figurata. Dunque intendo di calcar le massime  consuete spiegando il presente bassorilievo per un Amazone equestre, la quale com¬  batte con un militare a piedi, sia pur costui un eroe degli Argonauti seguaci di Erco¬  le, o un Ateniese del seguito di Teseo. La Furia con face in mano è spesso introdotta  nei combattimenti anche dai tragici greci 7. L’urna cineraria in marmo originale  misura quattro volte questo disegno. La semplicità dello stile caratterizza questo bas-    i Iliad. cit., v, 45 1.   a Inghirami Galleria omerica, Iliade Tav. lxxiv,  Voi. i, p. 146   3 Monumenti etr. Ser. in, p. 23 1   4 Diodor. Sic. 1 . iv, cap. xvi.    5 Monum. etr. Ser. cit. p. 2 43 *   6 Ivi p. 234.   7 Ivi, Ser, 1. p. 269, 3 i 6 , 477 » 534 » 5 ^ 9 »  568 .       3 9   essi erano quei che si trovavano entro le tombe di Chiusi, perchè essendo  di terra non cotta, potevan soltanto servir per figura in qualche sacra cerimo¬  nia 1 2 . Ecco pertanto in questo disegno uno de’ veri foculi, o thimiateri  qualora questo braciere sia stato in uso per cuocer vittime, percb’è di bronzo, e  per ciò capace a resistere all' azione del fuoco, siccome anche i vasi e gli al¬  tri arnesi da cucina, che vi si trovarono dentro. Anche la sua grandezza eh’è  due terzi maggiore di questo disegno, attesta della capacità d’essere stato ado-  prato. L’indefessa gentilesca superstizione ci fa supporre, che non a caso fosse  un tale utensile ornato dal Capricorno, ripetuto nei quattro suoi angoli, mentre  ogniun sa che quel celeste segno fu oroscopo di fortuna, che tennero per loro im¬  presa Cesare Augusto, l’imperatore Carlo V, e Cosimo I Granduca di Toscana 3 4 .  Quell'animale vi sta dunque in luogo del gallo che vedemmo nell’altro foculo  già rammentato 3 .   TAVOLA 2L.   La forma di questo foculo di terra nera e non cotta permette che se ne osservino  distintamente i vasi da cucina e da tavola ivi contenuti. Le replicate teste d’ariete  ivi affisse, nonlascian dubbio che il vaso non sia fatto espressamente per uso sacro,  ed allusivo a Mercurio; il quale presedeva alle libazioni, come il mediatore delle preci  che gli uomini porgevano ai numi 4. Oltredichè ci è noto, che alle anime, come anche  ai numi infernali, facevasi olocauso d’un ariete di color nero 5 ; ed io vidi a questo  proposito vari bassi altari nel museo etrusco di Volterra, ornati di teste d’agnelli, co¬  me il foculo qui esaminato.   TAVOLA XLI.   In un bassorilievo trovato a Chiusi, ove sembrommi di vedere il medesimo sog¬  getto che nel presente, all'occasione d’averlo dovuto spiegare, scrissi quanto appres¬  so. « Quando Venere e Apollo ebber sottratto Enea dalle furibonde armi del prode  in guerra Diomede, allora Febo immaginò di lasciar combattere a sazietà i Troiani  coi Greci, sostituendo ad Enea l’idolo, 9 1’ ombra di lui 6 . Questa poetica immagine  del combattimento di due partiti per un fantasma, fu cara oltremodo agli Etruschi,  mentre ne vediamo la rappresentanza in diversi dei lor cinerari, dove si osserva  il simulacro d’Enea caduto a terra per la percossa del sasso gettatogli da Dio¬  mede, in atto di cercare una qualche difesa nella trista situazione in cui si tro-   1 Ved. Tav. xxxi, xxxn, p. 29. 5 Virg. Aeneid, 1 . vi. v- 2 4 L Varrò ap. Geli.   2 Inghirami, Im, e R. Palazzo Pitti, p. 88. !• iu, c. 11.   3 Ved. Tav. xxxi. 6 Ilomer Iliad. 1 . v, v. 449.   4 Monuin. etr: ser. n, p.     4 2   mostra in questa Tavola il disegno rappresentatovi, non potea meglio esprimere in  esso un tale avvenimento, poiché dipinse Peleo qual destro giovine preparato alle  nozze, in atto di tenere stretta la ritrosa Teti, che quasi è per coprirsi ’J volto col ve  lo per l’onta di quell'atto. Peleo eseguì ciò per consiglio di Chirone divenuto il di  lui suocero con quelle nozze. A lui davanti Peleo conduce la sposa, quasi che gli do¬  mandasse assenso della unione maritale, mentre il centauro coll’atto di stender la  mano dimostra l’annuenza paterna dell’imeneo. È superfluo il sospettar ch’altra favola  sia rappresentata in questa pittura fuor che quella di Peleo e Teti davanti a Chirone,  mentre lo attestano le iscrizioni che vi si leggono setie teaes kipos, e quindi un no¬  me proprio di Nicostrato coll’aggiunto consueto nikoztpatos kaaos. Le figure qui ri¬  portate son alte la metà di quelle che vedonsi nella pittura del vaso originale, che ha  fondo nero , con lettere dipinte in bianco appena visibili.   TAVOLA XLVII.   I vasi che han la forma come il presente sogliono avere altresì tre manichi, ed  una sola fronte ornata a figure; questo a differenza degli altri è dipinto da due parti,  una delle quali è descritta nella Tavola antecedente, f abra, che dir si potrebbe la  parte opposta del vaso, a causa della inferiorità della esecuzione del disegno, è la qui  delineata, ed il vaso tracciato sotto di essa è poco più della decima parte dell’origi¬  nale, in fondo nero con figure rosse. 11 vecchio calvo che sta nel mezzo a due donne  in atto di correre o di ballare, è tema comunissimo anche ad altri vasi. Ma in uno  di essi, per quanto appresi da S. E. il principe di Canino esimio possessore e cogni-  tore di tali pitture, uno di essi, io diceva, manifesta con epigrafe il nome del vecchio  Tindaro, dal che si dedurrebbe essere una delle donne la figlia Elena danzante con  una delle sue compagne nel tempio di Diana, dove fu rapita da Teseo, e portata in  Atene: tema che ora m’avvedo essere più chiaramente espresso nel vaso che io inserii  nell’opera dei Monumenti Etruschi *, e che dissi allusivo al corso degli astri a , e  che ora maggiormente confermo per la relazione di quel ballo e di quel ratto con la  guerra dei Dioscuri onde riprender Elena, con altri simili tratti di quella favola, i  quali non significano in sostanza che un continuo levare e tramontare degli astri 3 ,  e delle combinazioni loro con la luna: nome che in greco porta con poca varietà an¬  che Elena Selene da sto» la risplendente, e aiUn la luna *.   TAVOLA XLVIII.   La figura di questa Tavola è dipinta nella grandezza medesima in una tazza di  terra cotta con giallastro colore su fondo nero, il cui aspetto ha tutti i segni del sati—   1 Ser. v. Tav. ix. 3 Ivi, ser. n, p. 4 g 8 .   2 Ivi, ser v, p. 87, li 4 , 4 Ivi, p. 567.         sorilievo non distante dai buoni tempi dell’ arte; e se la figura equestre compa¬  risce alquanto piccola, fu condotto a sì ingrata licenza lo scultore nel volervi  introdurre delle figure a piedi e a cavallo protratte ad un'altezza medesima, e  che tutte empissero il fondo sul quale son collocate .   TAVOLA XLIV.   Prima di coricarsi a mensa usarono gl’italiani dei primi tempi di Roma di spo¬  gliarsi de'propri abiti, e prendere un manto che dissero veste cenatoria o sindone,  colla quale in parte avvolgevansi e in parte potean restare a nudo, per aver le brac¬  cia più libere all’azione di prendere il cibo,- e così coperti dieevansi dai latini semi-  amidi, ma quell’uso fu abbandonato e non tardi, ond’è che da Erodiano fu addotto  come affettata imitazione delle antiche statue Di tal costume par che serbi memo¬  ria la figura della Tavola presente che giace sul coperchio,spettante all’urna in mar¬  mo che antecedentemente abbiamo veduta.Dell'iscrizione sarà dato conto a suo luogo.   TAVOLA XLV.   Il vaso che qui si mostra un terzo più piccolo dell' originale, è di que’soliti di  terra nera che si trovano a Chiusi, nè potrassi mai supporre che siano d’altra  fàbbrica fuori della chiusina, poiché oltre la terra nera e non cotta che vi si adopra-  va più che in altre officine, hanno essi vasi certe forme, una delle quali è la pre¬  sente, che mostrano un carattere del tutto originale ed unico, sì nelle sagome, sì  negli ornati.    TAVOLA XLVI.   Accenna Omero essere stata volontà degli Dei,che Peleo togliesse Teti per moglie,  quantunque Dea; mentre quell’eroe non avrebbe volontariamente aspirato ad una  unione sì eminente 3 . Apollodoro ne spiega più minutamente il successo, e dalla di  lui narrazione par che abbia origine questa pittura. Era fama che Giove unitosi con  Teti, da cui restò incinta d'Achille, ne procurasse 1’ imeneo posteriore con Peleo,  quantunque mortale 3 . Quindi soggiunge Apollodoro, che il centauro Chirone con¬  sigliò Peleo ad impadronirsi della ninfa divina con sagace destrezza, nè lasciarla an¬  dare, per qualunque forma ch’ella avesse presa . La insidiò difatti Peleo, e quantun¬  que la Dea si trasformasse in acqua, in fuoco, ed in bestia feroce, egli ritennela  finché non ebbe ripresa la di lei primiera forma di ninfa. Il pittore del vaso di cui si    i Monum. Etr. ser, i, p. 3^6. 3 Scol. ap. Heine lliad. Iib. xm, v. 35o , Tom.   v H-imer. lliad. lib. xxiv, v. 538. vi, p. 635.   Elr. Mas . Chius. Torti. I .    G    ragionamento    y    SUGLI ETRUSCHI    Disputarono lungamente frà loro gli scrittoli, come abbiamo accennalo, in¬  torno all’ origine degli Etruschi, e fabbricarono su questo soggetto tre sistemi di¬  versi. Volevano, per esempio, alcuni che eglino fossero un popolo uscito dalla Gre¬  cia, ed una colonia di Pelasghi, mentre sostenevano altri che erano Lidii, e veni nano  dall’ Asia, ed altri finalmente affermavano essere i medesimi originarli di Italia.  La quale ultima opinione è ragionevolissima, e noi la crediamo la vera.   I moderni poi hanno superato gli antichi nel numero delle ipotesi, e dei sistemi-.  Imperocché il Maffei,col Mazzocchi, ed il Guarnacci, li fanno venire dalla Fenicia,  il Buonarroti dall' Egitto, il Pelloutier, il Bardetti, ed il Frerst, dai Celti. Li cre¬  de Guglielmo de Humboldt I anello di comunicazione frà i Latini, e gl’ Iben, lad¬  dove Niebuhr riguarda la Rezia come la primitiva lor sede. Ed in fine il Mailer suo  discepolo, adottando un termine medio, ammette un popolo primitivo di Etruria,  eh’ ei chiama Rase ni con Dionisio d Alicarnasso, e sulla cui origine lascia la qm-  stione indecisa, benché creda d’ altronde, che questi Raseni si mescolassero coi Pe¬  lasghi, qua venuti colle loro colonie di Lidia.   Ora questa moltitudine d’ipotesi antiche-, e moderne, da altra causa non possono  cèrtamente procedere, che, oda troppa leggerezza, e precipitazione nell’ esaminare i  monumenti dei nostri padri, o da impremeditato sistema in coloro, che ne presero a  scrivere, o dal più nocivo di tutti i sistemi, V amore di parte. Per poco infatti che vi  sifaccia attenzione, e si vogliano mettere alla prova, non è difficile a chicchesia di ac¬  corgersi, che q.essuna di quelle ipòtesi, e nessuno di quei sistemi, contiene elementi che  bastino a diradare il buio che involge le cose etnische, ed a spiegare, anche probabil¬  mente i monumenti che ci rimangono di quella illustre nazione.   Scegliendo peraltro da ciascuna di quelle ipotesi, e da ognuno di quei sistemi, ciò  che vè di più ragionevole, e di più giusto, e formandone un insieme, vi si troverà, se  il giudizio nostro non và errato, quanto fà di mestieri, per portar piena luce e spiegare  con ogni chiarezza, e senza replica, tutto quello checi rimane di etrusco.   Stabiliremo dunque frattanto, che furono gli Etruschi un popolo particolare d’Ita¬  lia, indigeno di questa bella penisola, che ebbe, com è naturale, una lingua sua pro¬  pria ; la quale non è la. Stessa che la greca antica,, come dimostrammo nel precedente  ragionamento, e che anzi ne differisce mollissimo, anche per sentimento del prelodato  Mailer. Col quale aggiungeremo, a conferma di quanta asseriamo, che inori>', dei loro         43   ro: orecchie ircine, barba prolissa,naso simo e coda di cavallo.L'otre vinaria ove stas¬  si assiso è pure suo speciale attributo. L’iscrizione letta come qui rappresentasi, poco  giova ad intenderne il significato panaitios iupos kacos . Non oso farvi emenda,  mentre non avendo io veduto il monumento, non posso nè asserire, nè porre in  dubbio se questa sia la vera lezione. Quando non vogliasi azzardare il supposto  che la terza lettera dell’ ultima voce sia nell’ originale un p, per cui avremmo  due volte ripetuta la voce bello, come in altri esempi si vede, potremmo  almeno pensare ad una omissione dell’asta che del c ne dovea formare unir, e  la voce significativa di pernicioso potrebbe alludere al vino, quando n’è fatto abuso.  Nè nieu dubbie si mostran le altre voci, a meno che vogliansi leggere ««<05  che sarebbe un saluto al dio Pan l’autore della universale natura. Ma tali  dubbie iscrizioni debbonsi a mio parere consegnar colle stampe alle indagini di  quelli ellenisti che in particolar modo si occupano dei vasi dipinti e scritti.    Epigrafi tratte dal museo Oasuccini, come le altre venti già stampate, scolpite in urne di travertino,  o segnate in urne di coccio.    XXI.   xxn.   xxin.   XXIV.   xxv.    VI :fì\u il AH : 43 :4flHfYf =   fln-iq/iDvnas : ma : qd   >-   tv   -7   bifidi) : dfiUfVf: V13M : lllfttqfi : 04   :4fi0qfl4 : dfidfVf : liHblqfi : 43   #filflfiOmfiq ; invddfi : O4   >    /in fio    XXVI.    Doppia epigrafe    4fi    Sopra il coperchio    filfin8dV3  Nell’ orlo del coperchio  Iffifliqa : ignqfiq : 04    XXVII.    Jfi 1 -r fi    sic om  131 : lantqfi : I O q fi 4    xxvin.    fiinvi-nai : firmo   filflfl031    6 *      46   il nome di quei nuovi coloni, e non quello dei primitivi alitanti. Imperocché , trovan¬  dosi, prosegue lo stesso Mailer, nella Tavole Euguhine, la parola Tursee, con  quelle di Tuscom , e di Tuscer, è impossibile di non conchiudere, che dalla radice  Tur si sono fot mali Tursicus, Turscus, e Tuscus, come dalla radice Qp, deriva-  ronsi Opscus, ed Oscus; Di maniera che Tuprìvoi o Tv eP moi e Tusci, non sono che le  forme asiatiche, ed italiche di un solo, e medesimo nome •   Che del resto, un argomento per noi fortissimo, atto a dimostrare oltremodo remo¬  ta la civiltà degli Italioti, e singolarmente degli Etruschi, ricavasi pure da tutti que¬  gli antichi scrittori, i quali parlano della cosi detta Confederazione etnisca residen¬  te a Fiesole, e da tutti quei Gronólogisti, che ne fissano lo stabilimento a lobo anni  prima dell’era volgare ; dei quali vedasi, fra gli altri, il Sìg. de Long-Champs,  nei suoi Fasti universali. Lo che ci fa credere che gli abitanti dì questa regione,  avessero già acquistale fino diallora, non ordinarie nozioni di politica teoria.   Ed infatti, benché la voracità dèi secoli, e più ancora la feroce ambizione , e  la crudele prepotenza romana , ci abbiano invidiate le storie etnische, ed anche la  maggior parte dei monumenti di quel popolo celebratissimo ■ Benché la vanità sen¬  za limiti dei Greci, sia venuta, per giunta alla derrata, ad involgerne di puerili, e  ridicole favole, perfino il nome, non che le azioni dei nostri antenati, per quella loro  presunzione stoltissima , di far credere che tutte le altre nazioni del mondo, non fu¬  rono nulla , in paragone di loro ; esistono pure tuttavia in Etruria delle costruzioni,  che gli eruditi chiamano Ciclopèe , perchè non hanno il carattere, nè fenicio, nè egi¬  zio, e che sono per conseguenza indìgene , le quali sfidano da quattro mila anni  a questa parte,gl’insulti degli uomini e gli urti del tempo, e stanno a conferma di  quanto asserimmo qui sopra, circa la suaccennata civiltà, e straordinaria potenza,  ed energia degli Etruschi . E tali sono, fra le altre, le mura di Volterra, e di più  altre città dell’ antica Etruria, le quali sono formate di enormi macigni, senza alcun  cemento, resi fermi soltanto dal proprio peso-   Mal epoca della colonizzazione, della quale parlammo di sopra, non si può fissa¬  re che per approssimazione. La quale peraltro credè il Mùller, già citato più volte,  che coincida colla emigrazione dei popoli, e che fosse cagionala, e prodotta da quella,  e se la ragiona cosi- Gli Umbri, dice egli, e lo ripetono pure i compilatori di  Edimburgo, erano potenti nella contrada, di cui presero possesso i nuovi coloni. I  quali ebbero a sostenere lunghe, e sanguinose guerre, prima di spossessarli delle  trecento città, che eglino occuparono, al dire di Plinio lib. terzo, cap. decimo nono,  nel paese che fu più tardi chiamato Etruria.   E poi fuori di ogni dubbio che gli Etruschi si estesero dalla parte del Mez¬  zogiorno, fino alle sponde del Tevere, ed anche al di là nel Lazio, come lo prova  il nome di Tusculo, o Tusculano. E dietro le tradizioni popolari, quello stesso  Tarconte, al quale si attribuisce la fondazione delle dodici città di Etruria, con¬  dusse anche dodici colonie al di la degli Appennini, e vi gitlò le fondamenta di      45   Dei, non sono quelli che s' incontrano presso gli Elleni, e che trovatisi nelle dottrine  dei Sacerdoti Etruschi, molti punti, affatto diversi dalla greca teologia. E ripeteremo  ciò che altrove dicemmo, che la sorte, cioè, di questa nazione, pare che fosse quella di  essere debitrice dei suoi primi progressi nella civiltà, non ad una tribù greca, o mezza  greca, siccome crede lo stesso Mailer, e con esso lui i dotti compilatori della Rivista  di Edimburgo ; ma bensì ad una emigrazione asiatica, più antica dei Greci medesimi  come abbiamo assento, ed in parte ancora provato nel precedente ragionamento.   Nè punto esiteremo d affirmar qui, che la lingua etnisca, o ella non fu mai  scritta nella sua purità primitiva, e scevra di ogni mescolamento di stranieri vocaboli,  o se pure lo fu in lontanissima età, non è fino a noi pervenuto alcun monumento scrit¬  to, il quale ce ne possa far fede. E ciò sosteniamo con tutta franchezza, perchè quelli  conosciutifinqui, sono tutti composti, senza veruna eccezione, di un rnescuglio di vo¬  ci, prese ad imprestito, per la maggior parte, da ognuno di quegli antichissimi lin¬  guaggi, e dialetti, che nominammo nei ragionamenti già pubblicati in quest' opera  stessa. Di che daremo una sicura prova in altro discorso a questo solo scopo diretto.   Sul proposito però dell' essere, o non essere gli Etruschi una tribù greca , o mez¬  za greca, è molto curiosa la novelletta che vanno ripetendo, il prelodato Mùller, e  con esso ancora i surriferiti Compilatori della Rivista edimburghese, ove dicono  che i Toscani attribuivano eglino stessi, nelle loro nazionali leggende, la propria  civiltà alla marittima città di Tarquinia, e nominatamente a Tarconle. I quali due  nomi altro non sono, secondo essi , che due variazioni di Tirreni . Ma questa è una  greca invenzione, ed anche di moderna data, in confronto della remota cultura degli  Etruschi, ed è similissima a tante altre dello stesso calibro , dai medesimi Greci ac¬  creditate, e spacciate per fatti, intorno all’origine di tutte le più celebri nazioni del-  l antichità . Ed aggiungono i medesimi autori, che sbarcarono precisamente a Tar¬  quinia , e colà stabilironsi da prima, quei terribili Pelasglii di Lidia, i quali porta¬  vano seco le arti, e le scienze, che avevano già apprese o nella patria loro , o nei loro  viaggi -, credendo di poter cosi conciliare maggior fede al loro racconto circa la  primitiva civiltà degli Etruschi.   Al venir dunque di si fatti coloni, secondo quell' eruditissimo prussiano, e quei  dotti inglesi, vide per la prima volta 'questo barbaro paése, degli uomini coperti di  bronzo, equipaggiarsi a suono di tromba per la battaglia. Udì allora per la prima  volta , l acuto squillo della tibia lido-frigia , accompagnare i sagrifizii, e fu testimo¬  ne della rapida corsa delle galere a cinquanta remi,   Siccome però la tradizione passando poi di bocca in bocca , non conosceva più  limiti, cosi tuttala gloria del nome toscano, anche quella che non apparteneva prò-  priameiife ai coloid, si attaccò a Tarconte discepolo di Tagete, o d e ! tempo, come  dicemmo nel precedente discorso, riguardandolo quale autore di urlerà novella, e  migliore, nella storia di Etruria. Ed i popoli vicini, vale a dire , gli Umbri, ed i  Latini ; diederq a questa nazione, che incominciò allora ad accrescersi, ed estèndersi     48   Nè credo che allia torlo il MiMer, attribuendo alla preminenza di questi  ultimi sul mare inferiore, la mancanza delle colonie greche, sulla costa setten¬  trionale della Sicilia, ove al tempo di Tucidide, non eravi che Lnera. Il timo¬  re degli Etruschi, chiuse per lungo tempo ai Greci, il passaggio dello stretto di  Reggio- E non avvenne che dopo V epoca in cui ebbero acquistata i Focesi una  potenza navale, che fu dato loro di esplorare entrambi i mari.   Ma la rivalità non tardò molto a manifestarsi frà i due popoli, i quali cércarono  d'impadronirsi dell’ isola di Corsica . E gli Etruschi uniti ai Cartaginesi, disfecero  i Focesi. Furono pero meno fortunati nelle loro guerre marittime coi Borii di Guido  e di Rodi che avevano formalo uno stabilimento a Lipari.   Finalmente 474 anni avanti Gesù Cristo, il popolo di Ciana in Campania, avendo  dichiarata la guerra ai Tirreni, chiamò in suo soccorso Gerone tiranno di Siracusa ,  che li disfece completamente, e liberò, dice Pindaro nella prima Ode pizia, la Grecia  dalia schiavitù. E difetti uno scudo di Bronzo trovato nelle rovine di Olimpia nel  1817 , porta questa iscrizione = Gerone, figlio di Dimmene, ed i Siracusani, hanno  consacrato a Giove queste spoglie dei Tirreni vinti a Clima = .   Ammesso pertanto che furono gli Etruschi un antichissimo popolo d’ Italia  originario dello stesso paese, conchiuderemo questo breve ragionamento, colle  riflessioni seguenti.   L° Che di necessità ebbero essi, linguaggio, usi, Leggi, costumanze, arti, scienze, e  religione loro particolari, e proprie, benché dovessero i primi progressi nella civil¬  tà ad una emigrazione asiatica, in un epoca quasi impossibile a stabilirsi con  precisione.   Il.° Che per conseguenza, fra le altre cose , che qui per brevità si tralasciano , i  vasi dipinti di terra cotta, come quelli neri, ed altri, di qualunqueforma, e grandezza,  siano essi aretini, o chiusini, o campani, sono genuinamenee etruschi, e non altro che  etruschi. Benché sia piaciuto agli Archeologi di chiamarli vasi greci, e più mo¬  dernamente ancora italo-greci. Le quali denominazioni hanno dato loro quei dotti ,  perchè vi si scorgono, come pure nelle urne cinerarie, e nei sarcof agi, disegnate e di¬  pinte, o scolpite, a basso , e a gran rilievo, rappresentanze, o storie e favole greche;  ovvero che tali divennero dopo essere state prima etnische, e perchè vi si leggono pa¬  role greche, o che alle greche somigliano. Come se non potessero essere nel mondo due  diversi idiomi i quali abbiamo alcuni vocaboli comuni ad entrambi. Conforme fu sa¬  gacemente osservato, dal dotto, e perspicace sig. principe di Canino apag .20 del suo  Museo Etrusco. Campani poi faron detti, eziandio tali vasi, perchè se ne fabbrica¬  vano . e se ne trovano nella Campania, che fu pure colonia etnisca, come si dicono  chiusini, ed aretini, da Chiusi, e da Arezzo, ove esisterono speciali fabbriche dei  medesimi ■   E sul proposito del sig. principe di Canino, sono assai dispiacente di non aver  letto prima d’ora quel suo dotto e giudizioso lavoro, perchè avendovi riscontrate al-      47   altre dodici città. Lo che serve a trovare che l Etruria della valle del Pò, fu  colonnizzata dall' Etruria del Mezzogiorno.   La. medesima tradizione di dodici colonie, viene ripetuta sul proposito dello  stabilimento degli Etruschi in Campania-, Ed il Miiller suppone che quelle co¬  lonie fossero realmente etnische, contro , l’opinione di Niebuhr suo maestro, il qua¬  le pensa che elleno fossero fondate dai Pelasghi Tirreni, confusi cogli Etruschi, a  cagione dell’identità del nome.   In ogni caso però, sembra allo stesso Miiller, che la popolazione etrusco della  Campania, non debba essere stata molto considerabile, perchè vi prevalse il dia¬  letto Osco, e perchè non si è mai trovata in tutto quel tratto di paese, una sola  iscrizione veramente etnisca . Laonde convien credere, prosegue egli, che quel  fertilissimo paese, immerso nel lusso, e nella mollezza , esercitasse la sua fatale in¬  fluenza sugli Etruschi, che vi si erano stabiliti, mentre furono obbligali ad abban¬  donare il possesso delle ricche pianure di Capua ai Sanniti, colà discesi dalle loro  montagne.   Io non saprei qui sottoscrivermi all’opinione del dotto archeologo prussiano,  sembrandomi troppo debole la ragione che egli adduce, per ìstabilire che fosse piccolo  il numero dei coloni Etruschi della Campania, quella cioè del dialetto Osco rima¬  stovi dominante, poiché potrebb’ essere ciò avvenuto anche dall' avervi quegli ospiti  soggiornato per breve tempo , oppure da un riguardo che poterono benissimo avere i  Vincitori verso i vinti. Di che abbiamo avuto un esempio noi stessi nelle nostre contra¬  de al tempo dell’ Impero francese. E certamente gli Etruschi, non erano cosi feroci,  come i Romani, i quali ebbero l’inumanissimo orgoglio di togliere perfino la lingua  ai popoli che avevano l’infortunio di cadere sotto il loro giogo di ferro : ( checché  ne cantino in contrario ifanatici loro lodatori .) E se è permesso di paragonare le  grandi cose alle piccole, quando sono dello stesso genere , dirò in appoggio della  mia supposizione, che anche i Chinesi soggiogati già da piti secoli dai Tatari Mant-  sciu, hanno conservato, e conservano tuttavia dominante il proprio idioma, benché  soggetti ad una dominazione straniera. Oltre di che, viene ad accrescersi la for¬  za del mio ragionamento , riflettendo che era ben facile, e naturale il conservare nel¬  la Campania il linguaggio del paese, altro non essendo il medesimo, che un dia¬  letto della lingua Etnisca.   Sembra poi cosa provata , e da non controvertersi, che i Tirreni dopo il loro sta¬  bilimento in Italia, esercitassero per lungo tempo la pirateria, e che si rendes¬  sero così famosi nelle pianure della Grecia, ma è peraltro assai difficile a deci¬  dersi, se una tale accusa debba applicarsi a Tirreni del mare Egeo, oppure ai  Tirreni Etruschi', I quali possedendo dei buoni porti sui due mari, conserva-  ronsi la dominazione dell’uno, e dell' altro, e si resero formidabili, non solamen¬  te alle navi mercantili, colle loro corsare, ma eziandio alle altre potenze, coi loro  navali armamenti.    5o    TAVOLA XL1X.    A molti sarà nuovo ed inatteso questo singoiar monumento,- ma non a chi ha  scorsa la mia Opera su i Monumenti Etruschi ove alla ser. VI, e precisamente alla  Tavola G5 ne ho dati a luce due inediti, nè finallora da nessun altro mostrati, In  seguito si videro esibiti ripetutamente nelle Opere del eh. dot. Dorow '. Io dissi di  quelli, come pur di questo ripeto, esser vasi di terra nera, al cui orifizio è soprap¬  posto per coperchio un capo umano, ed a suo luogo spiegai come que’recipienti do-  vean simboleggiare il mondo, ed il capo sovrimpostovi la divinità che Io governa  dall’ alto de’cieli \ Ma poiché questa specie di vasi trovasi nei sepolcri, cosi potremo  credere che i soprimposti capi rappresentino deità speciali, cosicché se avrà barba  un di essi, come quello che pubblicai altra volta 3, si potrà dire un Bacco infernale,  mentre nel presente monumento dov’ è un capo imberbe, ed alcune protuberanze  che dan segno di petto femminile ravviseremo una Proserpina. Se il vaso qui esposto  avea ceneri umane, di che non posso giudicare dal solo disegno ch'io vedo di questi  monumenti chiusini, in quel caso direbbesi che le braccia, avvingendone il recipiente,  indicano il patrocinio che la divinità dovea prendere di quel morto ritornato nel ca¬  os della materia mondiale. Dico tuttociò brevemente perchè in queste materie mi  sono esteso altrove abbastanza. Qui aggiungo l'osservazione che molti vasi uguali a  questi, ma in pietre di varia specie trovatisi nei sepolcri egiziani e in gran parte an¬  che dipinti nei papiri, nelle casse e nelle pareti delle tombe; e dai capi che hannovi  soprapposti di forme varie 4, si ravvisano per figure delle principali deità egiziane,  Questo vaso in terra nera è due terzi più piccolo dell’ originale .   TAVOLA L,    È tuttavìa non risoluta questione se figure simili alla presente, cioè che abbiano  lunga barba, corona in testa, abito lungo fino ai piedi un manto sugli omeri con vaso  in mano, ed attorniate da sermenti d’edera o di vite, è questionabile, io diceva, se dir  si debban figure di Bacco o d'un qualche di lui sacerdote.È altresì cosa degna d’osser¬  vazione che l’occhio qui eseguito, non come dalla natura umana si mostra, è poi di¬  segnato precisamente come si vede nelle figure de’ vasi di Grecia di Sicilia , e di  tutta 1* Italia meridionale, ove trattisi di pitture che affettino qualche arcaismo nel  loro stile, e specialmente ove le figure sono come qui di color nero sul fondo gialla-    1 Dorow , Voiage archeologique dans V a °cienne  xbtrurie avec xvi Planches. 1 Voi. io 4 -° P-  46, Paris. 1829. Notizie intorno ad alcuni  Vasi. Etruschi Pesaro 1828 in 8.°.   2 Monumenti Etruschi, ser. 11, p. 47 1 2 > ser. v f    p. 490» ser - Vi* Tav. G 5 , p. 4 ^.   3 Ivi, ser. vi, Tav. G 5 num. 1, 3 .   4 Ivi * ser. vi, tav. N4, num. 1 , e P4. numm.    1 , 2.          49   cune opinioni, che mi paiono le più giuste, e ragionevoli in questa materia, e le quali  si accordano con quelle da me emesse nei precedenti ragionamenti, mi sarei fatto un  dovere di render nolo al Pubblico molto prima, quanta sodisfazione io ni abbia di  trovarmi d'accordo con un uomo di tanto ingegno e di tanta dottrina .   III. 0 Che si avvicina al delirio l'ostinarsi ancora a voler credere opere greche i  suindicati vasi, perle sopra esposte ragioni, e perchè se ne rinvennero alcuni persi¬  no nell' Attica, ed in altre parli della Grecia, i quali sono peraltro in piccolissimo  numero, in confronto a quelli discoperti in Etruria , e nelle altre parti d'Italia. Ed  una tal foggia di ragionare, è simile a quella di chiunque osservando per T Italia, o  in Francia dei lavori di porcellana della China, e del Giappone, pretendesse di sta¬  bilire, che quei lavori sono italici, o francesi, solo perchè si trovano in Francia, ed  in Italia.   IV. ° Che non è meno strano, per non dire assurdo il pretendere di togliere agli  Etruschi l’ onore di tali manifatture, per farne dono ai Greci, perchè s‘ incontrano  molti dei suddétti vasi che hanno elegantissima forma, e sono disegnati pure, e di¬  pinti con un gusto squisito. Quasiché gli Etruschi non avessero fatto che comparire  sulla faccia del globo terrestre, e ne fossero subito scomparsi. Oppure, avendovi di¬  morato per lunga serie di secoli, lo che non hanno saputo negar loro neppure i più  furiosi partigiani dei Greci, fossero stati poi forniti di tale, e tanta stupidità, da  non saper migliorare, ed anche condurre a perfezione, le loro invenzioni, come fanno  tutti i popoli del mondo   V. ° Che non si vorrà sostenére finalménte, che le arti non pvesserò presso gli  Etruschi, come presso tutte le incivilite nazioni, che le coltivarono, diverse epoche, cioè  quella della primitiva rozzezza, qxiella del miglioramento, e quella della perfezione,  come quelle del decadimento, e della successiva barbarie. Nè saprei addurre, per ri¬  vendicare questa usurpazione fatta dagli archeologi ai nostri padri, più bella prova,  e più convinciente ragione dì quella prodotta dallo stesso signor Principe di Canino,  apag. ig dell’opera citata qui sopra. Cioè, che i vasi dipinti non sono sicuramente  greci perchè i Greci stessi non se ne sono vantati giammai. Ed è ben gloriosa per gli  Etruschi una tele invenzione, conforme riflette pure il prelodalo scrittore, perchè fu¬  rono essi i primi ad iscoprire colla meditazione, e colle più profonde indagini, che per  eternare le tradizioni dei popoli, più del marmo, e del bronzo, è valevole Iùmile  terra cotta, perchè ella sola passa a traverso alla fuga dei secoli senza altera¬  zione veruna .    XXIX. |   XXX. |    jflniiia : 3 n iq 3© ■ or  248v8    in gran travertino che serviva di porta ad un sepolcro   amq&o : ofl  janqoai    Etr. Mus. Chiut. Tom. I.    7    52   ha sulle spalle, e come questo riferir si debbe all’autunno l'accennai spiegando altri  vasi chiusini analoghi a questo   TA VOLE LUI, LIV, LV, LVI.    Le quattro tavv.LlII, LIV, LV, LVI sono impiegate a mostrare un bel monumen¬  to di pietra tofaceadella figura d’ut) cubo, della grandezza due volte maggiore del  disegno qui ripetuto, e che mostra quattro lati scolpiti con figure a rilievo as¬  sai basso, come sono gli altri monumenti di simil natura trovati a Chiusi. Io  non saprei dire se ara sia questa, oppure altare, o foculo, o base, o altr'oggetto  qualunque, perchè non vedendone io che i disegni non posso da essi giudicar¬  ne con fondamento. Esaminiamone le sculture che si vedono in quattro lati del  cubo. È fuori di dubbio che qui si tratta di riti funebri, e d'ultimi uffici di pie¬  tà resi ad un morto, che vedasi steso sul feretro alla Tavola LUI. Il fanciulletto  eh’ è in piedi presso a quel letto di morte ha un tale atteggiamento di dolore,  che non saprebbesi meglio immaginare dal più sagace dei nostri artisti, brattan¬  to c’insegna che tenevasi per atto di duolo il porre le mani al capo. Infatti nel  quadro medesimo compariscono due altri astanti colle mani portate al capo ugual¬  mente, ma ben si ravvisa che l'atto è suggerito più da formalità che da quel vi¬  vo dolore che esprime il giovanetto probabilmente figlio dell’estinto, di cui qui  si rappresentano l’esequie. Un simile atto, e da uomini similmente abbigliati, è  pure nella pietra di memoria perugina da me pubblicata *, ove rappresentasi ugual¬  mente la funebre cerimonia che praticasi all’ occasione di un morto. Espressiva  è parimente la prefica a capo al letto, in sembianza di strapparsi per dolore i  capelli, mentre ì’uonio che al cadavere è più vicino, alza le mani probabilmente  per espressione pure di dolore, mista però di sorpresa. Una figura eh’è ulti¬  ma nella composizione, suona le tibie con certa bocchetta che legavasi agli orec¬  chi o al capo in giro. Un tal suono in occasione di funebre cerimonia non cre¬  do che andasse esente da superstizione tuscanica, passata ai Romani ancora, men¬  tre credevasi di poter porre in fuga gli spettri coll'armonia della musica 1 2 3 , e  così allontanare quelle malie dalle quali avevano opinione che le anime restas¬  sero consacrate alle deità infernali 4 : superstizione peraltro che manca nel mo¬  numento perugino indicato.   Dietro al tibicine alla Tavola LIV vediamo quattro uomini armati di bastoni,  che in mano di Etruschi non è improbabile che siano augurali, ancorché non    1 Lettere di etnisca erudizione. Tomo i. p. 190.  e seguente Tav. xi.   2 Monumenti etruschi, ser. vi, tav. Za, e Lanzi   Della Scultura degli antichi e vari suoi stili   Tav. ìv.    3 Ved. Luciano pitato dal Ma ilei nella sua me¬  moria sulla religione dei Gentili nel morire ;  Osservazioni letter. Tom. 1, art. ìx.   4 Tacito, Annali 1 . 1. ap, il Mafie! cit. p. 287 .         5i   stro 1 2 . Una tale osservazione unitamente con altre può essere di non poco rilievo  per indagare l’origine primitiva dell’ uso di porre siffatte stoviglie dentro i sepolcri.   TAVOLA LI.   A chi ha buon gusto peri lavori di metallo sarà gradevole il conoscere la forma  singolare e del tutto nuova non men che bella di questo vasetto di bronzo, di¬  segnato nella grandezza medesima dell’originale. Apparentemente dovea contenere  de’ liquidi, e perciò l’intelligente artefice operò per modo che tutto vicorrispondesse  l’ornato. Ecco là un uccello aquatico sopra una pianta quadrifoglia palustre, il che  serve di pomo al coperchio: ecco là una conchiglia lacustre che serve di borchia a!  manico : ecco là infine i lunghi manichi formati in guisa di colli d’uccelli aquatici  come del becco loro nel quale han termine si rav visa.   TAVOLA Llf.   Il vaso di terra cotta di color rosso che vedesi rappresentato nella parte superiore  di questa LII Tavola, è già noto per la frequenza colla quale si trova nelle collezioni  di simili antichi oggetti. Par che i Gentili 1’ usassero per lucerna; ed alternativamente  colle lucerne trovasi difatti nei sepolcri, ma in esso valutavano anche la forma di  barca e di recipiente, alludendolo a certa favola d'Èrcole eli’ebbe in dono del sole un  vaso, col quale varcò l'Oceano. Come poi si applicasse al vaso qtìi esposto l’indicata  favola è cosa inutile ch’io lo ripeta, dopo averne sufficientemente parlato nell’ opera  de’Monumenti Etruschi % dove ne ho riportati alcuni di varie forme *. L’iscrizione  che è sul manico suole indicare il figulo, o la fabbrica figulinaria.   Il Vaso al disotto in questa medesima tavola è di que consueti chiusini di color  nero sì nella superficie che nell’interna sua pasta. Questa qualità di vasi aver suole  dei bassirilievi, che girano attorno ripetendosi ogni quattro o sei figure, perchè fatti  colle stampe. Bisogna convenire della gran somiglianza tra quella manifattura, e le  cose egiziane. Vedo nella prima figura femminile l’atto d’alzare un’uccello, così nelle  figure egiziane dei calendari vediamo elevare per la testa, o calare al basso tenuti per  la coda animali, che indicano il sorgere o calare abaco dei segni zodiacali. Dell’uomo  che segue con bastone in mano io non saprei dir cosa che avesse inoppugna¬  bile sostegno. Ben potrò dire che a lui segue la chimera colla doppia testa di leone  e di capra, ch’io mostrai altre volte 4 esser composto di segui celesti. E poi  chiaro il centauro qual cacciatore, che porta la preda appesa al suo frassine che    1 Moni;memi etr. Ser. v. Tav. lv, p. 5i   2 Ser. li, p. 359, 36 i , 3 62.    3 Ivi ser. vi, Tav. E 4 , F^.   4 Monurn. etr. ser. w, p. 38 a.      54    TAVOLA LtX.   Vogliamo credere che nella statuetta in bronzo qui rappresentata di naturai  grandezza sia da riconoscersi una Minerva per 1’ usbergo del quale vedesi arma¬  ta? Del piccol mostro pure uguale in grandezza all’originale in bronzo, non fo  parola, poiché probabilmente dagli editori di quest’opera ne saran pubblicati dei  simili, ch’io vidi vari anni indietro a Chiusi.   Il vaso è de’soliti che trovansi per tutta 1 Italia meridionale, con figure gial¬  lastre in campo nero, la cui gola soltanto a una pittura che vedremo nella ta¬  vola seguente, mentre è monocromo, ed ha tre manichi, d una forma essatta-  mente ripetuta molte volte coi medesimi accessori nei ricchi scavi di Canino, e  d’altre parti d’Italia.   TAVOLA LX.   Io non mi persuado come il mito delle Amazoni combattenti, sì ripetuto nei  vasi fittili di tutta l’Italia, come si vede in questo, non abbia una qualche allu-  sione religiosa, come ho supposto trattando altre volte questo medesimo soggetto.  Si vedono in fatti sempre come qui le Amazoni a cavallo , ed i loro avversari sem¬  pre a piedi, ed in positure di soccombenti al conflitto, colle ginocchia piegate >.  Eppure se alle favole che trattano delle Amazoni dovessimo ricorrere per Spie¬  garne il mito, noi le troveremmo sempre vinte o da Ercole, o da Teseo, o da  Achille . Io non vedo in quel mito che 1’ allegorìa del contrasto e del dominio  del tempo in cui si trattiene il sole nei segni inferiori del zodiaco, ma siccome  troppo lungo sarebbe il mostrar qui di tale allegorìa lo sviluppo, così rimando  chi legge ad altri miei scritti, ove trattai lungamente di questa materia a .   Questa è la pittura del vaso, la cui forma vedemmo nella Tavola antecedente,  e che vien riportata nella grandezza di due terzi del suo originale.   xxxi. /uif/mDajmjaa   xxxii. jfliDnaD : an/d-nit/ìi : Yfl   xxxm. i/ìvjad anfl-uitfl'i ; or   xxxiv. j/qnqai ; vJDfi : ofl   XXXV, V433 : J lf d      Galleria Omerica Tom ii,Tav cLxxxvni.p. 137.    : VJlDfl : 31 : Vfl   Veil. Mommi, etr. agli articoli A magoni.          53   abbiano la forma di lituo, come osservansi nel monumonto perugino. Infatti ad  essi spettava il presagire che l’anima del defonto fosse passata in luogo di riposo;  di che se non troviamo prove di antichi scrittori, certamente ne conosciamola  pratica presso gli Etruschi, per mezzo del più volte citato monumento perugino,  dove inclusive il vestiario di quegli auguri muniti di lituo è simile a quello di  costoro che qui hanno in mano le verghe, eh' io dissi augurali. Dopo gli augu¬  ri vengono immediatamente nella Tavola LV le prefiche, donne prezzolate che a  suono di tibia cantavano lamenti, e piangevano la perdita del morto ed in mo¬  do sconcio e forzato strappandosi le chiome e perquotendosi, mostravano cordo¬  glio di quella disgrazia. Quel che sia rappresentato nell’aggregato di figure della  Tavola LVI non mi è possibile il dichiararlo nè mi è concesso d’ azzardare quelle  congetture che può immaginare a suo grado ugualmente chi l'osserva.   tavola evie   Questo bronzo in tutto uguale al suo originale fu anticamente uno specchio  dall’opposta parte, come lo attesta lo specular pulimento che vi si trova. Qui  nel suo quasi insensibile concavo, invece di grafito ha soprapposta una lamina  cesellata a bassorilievo, e in fondo una cerneria, forse adattata all'adesione del  manico .   lo vi ravviso Bacco, il quale ha sulle spalle una face, che tale vedrehhesi qua¬  lora fosse intiero il monumento, poiché ve ne sono altri esempi 3 . Egli si appog¬  gia ad un altro nume significativo della forza creatrice dalla quale dipende Bacco  il demiurgo artefice del mondo, che il trae dal disordinato e tenebroso caos per  virtù concessagli dal creatore, e vi porta luce con la sua face, non men che or¬  dine armonico, indicato da quella ninfa che precede i suoi passi , arpeggiando  la lira: cosmogonica rappresentanza che in cento guise ripetesi nei monumenti an¬  tichi, e della quale ebbi luogo di trattare altrove 3 ,   TAVOLA LVIII.   Sebben questa bella tazza sia di bronzo, pure se ne usavano dagli antichi anche  di terra cotta d ugual forma e lavoro, come si vedono in Volterra nel museo del  pubblico, ed in quello del Sig. Cinci. Il disegno qui esposto è soltanto un terzo  minore del suo originale. Il pezzo aggiunto lateralmente fa vedere l’acconciatu¬  ra di testa ch’è dalla parte opposta del recipiente.    i Fest. in sua voc. Lecil. Sat. xxn.   » Monum. etr. ser. vi, Tav. Y, n. i.    3 Ivi, ser. ii, p. 563 , 564 , 6oo, 728, ser. v,  p. 3 a,, ser. vi, Tav. Y, n. 1 .     W'     Principe di Canino, ed altri già se ne conoscevano, dissotterrati a diverse epoche,   ed in luoghi diversi ■ . , ..   Diodora Siculo poi descrive nel libro quinto, dietro Possidonio le mense degli  Etruschi imbandite due volte al giorno, le loro drapperie ricamate , le loro coppe eli  oro , e d’argento, e le loro falangi di schiavi. Al cui quadro aggiunge Ateneo nuovi  tratti, e. mostrano chiaramente le figure giacenti nei sarcofagi, che gli aggiunti di pm-  gues, ed obesi, dati dai Romani per isclierno agli Etruschi, non erano suggeriti dal¬  la malizia nazionale soltanto. E Roma prese ad imprestito dall'Etruria i combatti¬  menti dei gladiatori, benché sembri che l’uso orribile d’introdurli nei conviti, e nei  banchetti, appartenga sopratutto agli Etruschi della Campania, e specialmente a   quelli di Capua. ......   Altrìbuisconsi però agli antichi Etruschi anche alcune invenzioni nella musica, e  singolarmente rapporto agli strumenti di essa, poiché non havvi autore, ch'io mi sap¬  pia, il quale pretenda che questa nazione abbia discoperto qualche modo particolare  di tale scienza, benché le venga accordata in essa qualche celebrità , egualmente che  nella plastica ; E non già come piace ai compilatori della rivista edimburghese , per¬  chè e Aino erano vicini ad un popolo, il quale essendo estraneo ai Greci, era costretto  ad imprestar loro tuttociò che riguardava il miglioramento, o l'abbellimento della vi¬  ta pubblica, e privata , mentre avvenne appunto il contrario.   Benché non si possa decidere dietro alcun monumento storico, se dovessero gli  Etruschi a se medesimi, oppure al commercio che ebbero coi Greci, dopo che già le  arti erano giunte ad un certo grado di perfezione fra loro, i successivi progressi, fatti  dai medesimi nella scultura, e nella statuaria, pur tuttavia ciò che dicemmo in altro  ragionamento intórno all’ anteriorità degli uni, o degli altri, rende quest'ultima sup¬  posizione molto probabile. Ma egli è però certo, che se questo rapporto esistè per  qualche tempo fra gli Etruschi, ed i Greci, non fu mai dì una grande intimità.   Lo stile toscano nelle arti presenta sempre qualche rassomiglianza con quello de¬  oli Egiziani-, E le opere più perfette di questa nazione , hanno tutta quella durez¬  za, e quella mancanza di vita, e di espressione, che qualificano la scultura greca, an¬  che prima che Fidia accendesse la sua immaginazione alle descrizioni omeriche di  Giove, e di Minerva, e che avesse Prassitei e espresso col marmo l'ideale ch’egli si  era fatto della bellezza. Lo che prova essere stati i Greci i perfezionatori, e non gl'in¬  ventori di quelle arti che si dicono belle ; E viepih si conferma che i medesimi furono  in antichissimi tempi i discepoli degli Etruschi. non già i maestri, come pretendono  i nostri grecomani.   Al contrario, in tutta quella parte dell arie ove il meccanismo senza vero gemo può  mungere alla perfezione, gli Etruschi non la cedono in verun modo ai Greci stessi,  biella maggior loro raffinatezza. Ed un poeta Ateniese riferito da Ateneo nel primo  libro dei Dipr.osqfisti, celebra le opere etnische in metallo, come le migliori m tal  genere ; Facendo egli probabilmente allusione alle coppe, alle lampade, ai candela-      RAGIONAMENTO VI.    QUALI FOSSERO LA VITA POLITICA, E DOMESTICA,   LA RELIGIONE ED IL GOVERNO DEGLI ETRUSCHI, E QUALI ARTI,  EGLINO COLTIVASSERO PRINCIPALMENTE   Ma chi pensasse il pone sieroso tema,   E 1 omero mortai che se ne cerca,   Noi hiasmerebbe, se sott’ esso trema.   Caute Par. c. 23 -   -— . ^-=-x jgj> — . ,—    1\ on è certamente agevole impresa quella di ritrarre i costumi domèstici di un po¬  polo, che non ha trasmesso alla posterità veruna immagine di se stesso nelle pro¬  duzioni letterarie. E tali appunto sono gli Etruschi, della cui prosperità nazionale  pare che sia stata la primaria base l'agricoltura, che veniva si ben favorita dal loro  suolo, e dal loro clima, e che sembra avere in ogni tempo fiorito in questo paese,  quando i benefizii della natura non sono stati distrutti da un cattivo governo,  o da una assurda Legislazione, Tuttavìa però , non ha mai goduto V Etruria  centrale, come la Campania, di una spontanea fertilità ■ Fu d'uopo ognora che  spiegassero i suoi abitanti la loro industria, e la loro destrezza, per adattare la  cultura alle diverse qualità del terreno, che s incontrano in questo paese, e per  arrestare le mondazioni del Pò nelle provinole che circondano l Adriatico, e che ne  furono parte nei tempi antichi.   I primitivi costumi degli Etruschi erano semplicissimi, se vogliamo credere al-  1‘ istoria, la quale ci dice che la conocchia di Tanaquilla fosse conservala lungo  tempo a Roma nel tempio di Sanco ; E pare che un passaggio di Giovenale nella sa¬  tina sesia, ci mostri la stretta rassomiglianza che passava fra le virtù domestiche  delle donne romane degli antichi tempi, e quelle delle donne etnische. Nè ciò desterà  maraviglia a chi sappia, che i primi abitatori dì Roma, non eccettuato il suo fondatore,  non furono altro che Etruschi, della cui energia, e del cui nazionale carattere, for¬  mano al parer mio una sufficiente prova, le grandi loro conquiste, la loro destrezza,  ed il loro coraggio nella navigazione.   Ma quando il commercio, e la conquista nelle parti meridionali d’Italia, ebbero  condotto la ricchezza fra loro, gli Etruschi se ne impossessarono coll’avidità di un  popolo mezzo barbaro ed il lusso invece d‘ introdurre fra essi il raffinamento, e l’ele¬  ganza delle maniere, non vi portò che un vano splendore, ed un gusto disordinato per  ì sensuali piaceri, come rilevasi anche dalle pitture di alcuni vasi, delti male a propo¬  sto italo-greci, dei quali ne ha discoperti un gran numero nei suoi scavi il signor        58   La forma del governo etrusco, ove riunivansi l’ aristocrazia , ed il sacerdozio, im¬  pedì efficacemente al genio di quella nazione , di prendere lutto il suo naturale svi¬  luppamelo. Imperocché ai Lucomoni, ossia alla nobiltà ereditaria, aveva rivelato  Tagete, ed il tempo, gli usi religiosi, che si dovevano osservare dal popolo, col potere  di Applicarli nella maniera che paresse loro la piti propria aperpetuare il loro mono¬  polio esclusivo, e tirannico-, E per rapporto poi al potere civile, formavano questi  medesimi Lucomoni il corpo governante di tutte le città di Elruria. Nei primi tempi  si parla di re, non già dell’ intiero paese, ma bensì di stati separati, ed il cui potere-  era senza dubbio limitatissimo da quello dell’ alta aristocrazia-, E questi re senza po¬  tere, spariscono ben presto intieramente, come più tardi nella stona greca, e romana-,  Mentre che in Etruria , non sorge alcun ordine corrispondente ai plebei, per rappre¬  sentare V elemento popolare della Costituzione.   E molto difficile di poter fissare con esattezza i privilegi del gran corpo della Casta  potente-, Ed il Miiller inclina per l'opinione, e mi pare eli abbia dato nel segno,che icol¬  tivatorifossero i servi dei proprietarii del suolo, come furono in tempi a noi piu vicini  i Penasti in Tessaglia, e gl Iloti a Sparta. É cosa certa difatti, che esistesse una classe  simile in Etruria, ma non è però probabile eli ella comprendesse una gran parte della  popolazione, non essendovi altro argomento, al quale appoggiare questa, ipotesi con¬  trastabilissima, se non quello che i clienti di Roma fossero servi dei Patrizn. Tuttavia  però è fuori di ogni dubbio che l aristocrazia etrusco teneva gli ordini inferiori in una  dipendenza politica, e che per questo non pervenne quella nazione, al grado di po¬  tenza, a cui avrebbe potuto giungere-, Ma la sua prosperità prova ad un tempo che  non era governata neppure affatto tirannicamente. Non sembra nemmeno che l’agitas¬  se lo spirito della democrazia, fino al punto di risvegliar dei timori, ed eccitare la se¬  verità della casta governante ■ Le insurrezioni di cui parlano gli storici, sono attri¬  buite espressamente agli schiavi.   Era l'antica Etruria fertile di grani, e particolarmente di quel farro che i Latini  chiamarono far, ed anche odor, la cui farina forniva il puls, che noi diremmo polenta,  o polenda e che era l’ordinario nutrimento degli abitanti di questa parte d’Italia. Il  ferro delle sue miniere, e specialmente quello dell Isola d'Elba era celebre per la sua  purità-, E forniva pure la stessa isola anche del rame per le monete, e perle opere di  bronzo, tanto comuni fra gli Etruschi. È poi molto probabile, anche secondo  il Miiller, che eglino facessero un commercio di ambra, che loro venisse dal  Settentrione.   Il precitato Miiller, che è come abbiamo detto uno degli Scolari di Niebuhr,  và discutendo con moli acutezza nell’ opera sua, la natura dei rapporti che esisterono  nei primi tempi di Roma, e fra i Romani, e gli Etruschi. E si accorda col suo maestro  a preferire alla tradizione che fa di Servio Tullio unfiglio di schiavo I origine etrusco  di quel principe , menzionato dalli Imperatore Claudio nel suo discorso sull’ammissio¬  ne dei provinciali nel Senato, il cui testo fu discoperto nel secolo decimo sesto in ta-            57   òn, ed ai tripodi, e simili, giacché discopronsigiornalménte alcune di tali opere  egregiamente eseguite.   Si spiega però facilmente la differenza che incontrasi fra le opere degli Etruschi,  e quella dei Greci col carattere della religione dei due popoli. Imperocché la religione  dei Greci conti Univa potentemente al perfezionamento delle arti plastiche, ove quella  degli Etruschi, in ciò che le appartiene in proprio, non ha niente che risvegli, e che  trasporti V immaginazione dell’ artista. Pare anzi che ella favorisse efficacemente una  opinione, che noi ritroviamo del pari nella teologia dei popoli settentrionali, ed in  quella degl’Indii, ed è questa: che gli Dei erano eglino stessi, come pure il sistema,  al quale presiedevano , gli effetti di un potere che non iscorgevasi che a lunghi inter¬  valli nella produzione degli esseri, e che assorbiva tutto ciò che aveva crealo, per  crearlo di nuovo. ’   1 simboli di questo potere erano gli Dii involuti della teologia etnisca, i cui nomi  rimanevano ignoti e non erano oggetto di un culto popolare, ma che Giove stesso con¬  sultava. Gli Du consenti poi, che erano dodici, sei di ogni sesso, presiedevano alt or¬  dine delle cose esistenti, e ricevevano degli omaggi, e dei sagrifizii. Manifestatasi la  loro intervenzione negli affari umani, più che in altra maniera con presagi di grandi  disgrazie, che dovevano essere allontanate con espiazioni sanguinose, e crudeli. Ma  se da un Iato potè la moralità guadagnare qualche cosa dalla religione etrusco, che  non corrispondeva in verun modo alla mitologia ridente, ma licenziosa dei Greci, la  poesia e le arti dell altro, vi dovettero indubitatamente scapitare non poco .   Lo stesso difetto d immaginazione viva e disinvolta caratterizzava la dottrina  etrusco dell immortalità dell’anima.■ Il loro mondo sotterraneo, non era altroché  un Tartaro senza Eliso . La superstizione non formò in nessuna parte del mondo, un  sistema più completo che in Etrucia, senza eccettuarne neppure le Indie, e t Egitto  Le regioni del cielo erano divise, e suddivise in modo che ogni prodigio poteva ave¬  re la sua spiegazione precìsa. Ifenomeni dell’atmosfera, il tuono soprattutto, ed i   lampi, erano osservati, e classati comma minutezza, che avrebbe potuto fornire oli  elementi, aduna vera scienza, se gli osservatorifossero stati veri filosofi, e non Sa¬  cerdoti. Ma nel fatto t osservazione di quei fenomeni, non servi ad altro che  ad accrescere la servitù della moltitudine, a quelli che reclamavano la co'nu-  zioné esclusiva dei mezzi coi quali potevano placarsi gli Dei sdegnati contro il  genere umano .   Non è necessario di avvertire, che la filosofia nel senso greco di questaparola, va¬  le a dire lo studio libero dell’uomo della natura, e della provvidenza, era ignota agli  Etruschi, benché non si possano negar loro le cognizioni pratiche, col mezzo delle  quali eseguivano le belle opere d'Architettura, e di Idraulica, che vengono ad essi  attribuite dagli antichi scrittori, i quali parlano delle cose etnische senza prevenzio¬  ne veruna , e senza spirito di parìe .   Elv. Mas. Chius. Tom I.    8    Go    tavola lxi.   Quanto sia malagevole scioglier l’enigma che nelle strane loro figure chiudono le  pietre incise in forma di scarabei, ben potrebbero dirlo e il Caylus, e il D’Han-  carville, ed altri chiarissimi ed eruditissimi ingegni che in vano vi si applicarono;  e quantunque in gran parte non mostrino significato nessuno che ragionevol¬  mente si presti alle indagini dell’erudito, pur taluni, ancorché pochi, han con¬  trassegni da non permettere che siano annoverati tra i soggetti capricciosi insi¬  gnificanti e per conseguenza inesplicabili.   Nello scarabeo di n. 1 ci guidano con qualche indizio 1 epigrafi, che sebbene sconce  come le figure alle quali si vedono applicate, pure danno adito a ragionarvi sopra  non senza qualche fondamento. Quantunque le lettere siano di forma etrusca, pure  nèson disposte all’uso inverso come scrivevano gli Etruschi, nè presentano voci che  dirsi possano etnische, ma ritengono un misto di paleografia, e glossologia, che par¬  tecipano dell'antico greco e dell’antico latino. Qualora non vi fosser lettere direbbesi  che vi si vede Vulcano assiso sulla sua pesante incudine in atto di ascoltar le preghie¬  re della consorte sua Venere a prò d'Enea, come ne dà sospetto lo specchio femmini¬  le che tiene in mano, la donna è la libera di lei nudità. Che le lettere esprimenti pa¬  role tronche vi si conformino lo congetturo dal potervi leggere fex, quasi ephestus  ch’era nome grecamente dato a Vulcano anche dagli antichi Latini. Segue 1 altro  bisillabo vev, che se crediamo sformata l'ultima per una v, potremmo leg¬  gervi la voce Venus con poca difficoltà. Ed in vero quella barba, che in un mo¬  do sì sconcio si volle accennare all’uomo sedente, dà qualche idea del rozzo co¬  stume praticato dal marito di Ciprigna, che qui si vede contro a lui con assai studia¬  ta, sebben antica maniera d’acconciarsi la testa per viepiù sedurre il manto a  compiacerla nell’ inchiesta delle armi pel figlio Enea : soggetto non raro nella  glittografia, dove l’artefice Vulcano è sempre assiso, e Venere che incontro a lui   si trattiene a pregarlo, sempre in piedi.   Quando si voglia credere che la composizione incisa in questo scarabeo num. 2  abbia un qualche significato allegorico, e non sia stato fatto a solo oggetto di  mostrare lo sgradevole assalto dato da un leone ad un cinghiale, potremo cre¬  dere che stiano i due animali a rammentare due precipue situazioni del sole  nel cielo, dalle quali ne avviene il calor benefico dell'estate, e 1 importuno freddo  nell’inverno. Infatti è il segno del Leone che domina in estate , e che abbatte colla  forza dei raggi solari quei mali che alla natura cagiona 1 ingrato e sterile, inverno  significato dal porco, di che ho^scrittu molto nel trattare dei Monumenti etruschi 1 .    1 Ved. ser. 111, p- 3 j 7 -            vote eh bronzo a Lione ; Il quale pretende che il vero suo nome fosse Mastarna, e che  foss e compagno di un capo dicosi detti Condottieri, o mercenarii toscani.   Il fatto si è che la voce etrusco Mastarna, vale imbrattato, ossia di sordida origi¬  ne,^ corrisponde cosi a quanta ne dice la tradizione. Ma mentre JMebuhr si allontana  intieramente dalla storia, supponendo che Tarquinio il vecchio fosse uno di quei Latini  pnschi da ha immaginati, pensa il Mailer eh’ei fosse veramente etrusco, e che traesse  il suo nome da Tarquinia, ( e lo pensiamo noi pure,) il cui dominio estendevasi allora  dalla parte del mezzogiorno, fino alla città di Roma, che erane anche dipendente  in quel tempo .   I compilatoli della Rivista edimburghese non credono che questa opinione sia ba¬  sata sù fondamenti abbastanza solidi, benché paia loro più probabile di quelle di  lebuhr, per sostituirla ai racconti della storia comune ; E non sanno comprendere  neppure, come dei fatti accompagnati da circostanze sì ben precisate, quali sono  quelle dell'esistenza di Servio Tullio, e deiTarquinii, del loro paese, e dello stato loro  possano cangiarsi tutto ad un tratto in un simbolo di etnisca supremazia. Lo che  peraltro non desterà nessuna maraviglia a chiunque sia meglio di loro istrutto delle  antichità etnische, e conosca più a fondo che essi non conoscono, l’universalità dello  spinto simbolico di quei remotissimi tempi. E comunque sia poi la cosa, checché si debba  pensare eh tali supposizioni, il fatto vero si è che Roma fu conquistata dagli Etruschi  sotto la condotta eli Porsetto re di Chiusi, come lo provò, sono già molti anni, Beau-  foit, disvelando gli artifizii , sotto i quali avevano procuralo i Romani scrittori di  nascondere questo colpo umiliante. Oltre di che, furono, come abbiamo già detto,  anche i fondatori, ed i primi abitatori di Roma, una truppa dibanditi toscani.   Ma circa ad un secolo dopo il regno di Porsena, vennero gli Etruschi umiliati  essi pure dai Celti, e da altre barbare genti, che si resero padrone di tutto ciò che  eglino possedevano sulla riva meridionale del Pò fino a Bologna, e che occuparono  anche. Roma, benché temporanamente. I Romani però, vincitori dei Galli, e cosi più  fonnidabih che mai, non tardarono molto a conquistare, e colonizzare quella parte  i ’truna, che si estendeva al mezzogiorno della selva Ciminia; Ed anche laCam-  pania eia caduta allora sotto il potere dei Sanniti, e tutte le provinole etnische al set¬  tentrione degli Apenninì, erano rimaste sotto la dominazione dei Galli.   Tentarono indarno gli Etruschi, dopo la gran disfatta, che ebbero presso il Lago  Va di mone, oggi di Bussano, di chiamare in loro soccorso i mercenarii Galli, poiché  furono battuti di nuovo, perchè le loro temporarie confederazioni, non poterono oppor¬  re una efficace resistenza, contro la disciplina, che la vittoria aveva già organizzata  nelle armate romane; Eia potenza di quel popolo celebre, e valoroso per sì lunga se¬  rie di secoli, rimase intieramente abbattuta,prima delle guerre di Pirro, e di Annibale.       *    62   del cielo, di che ho trattato in altre mie opere '. Le colonne ed i vasi che son  sepolcrali rammentano le ceneri degli avi, presso i quali fu ucciso l’infelice Lao-  medonte assalito da Ercole nplia sua patria presso le lor ceneri.   Questo disegno è una quinta parte della grandezza che ha 1’urna di marmo.   TAVOLA LXIV.   La rozzezza della scultura di quest’umetta in pietra tufacea che nel suo origi¬  nale è soltanto doppia di questo disegno, non permette ad ognuno di ravvisarvi  il soggetto che a me sembra esservi espresso. Imperocché io vi scorgo nella fi¬  gura equestre un’Amazone, di che ho non lieve indizio nel berretto che le co¬  pre la fronte, e quindi in ogni restante della composizione, che non differisce  dalle già esposte alle tavole XLIII, e LX.Qui v'èuna circostanza che ne scopre  sempre più l’allusione a soggetto ferale, ed è 1’ albero significativo d’ombra, e  privazione di luce : luogo insomma dove passano i mortali dopo il periodo vi¬  tale assegnato loro dalla natura in questa terra 3 .   TAVOLA LXV.   Un pregio singolare di questi bassirilievi di pietra tofacea è in qualche modo  Tesser tutti chiusini, e d’uno stile che può dirsi unico in questo genere di antichissimi  oggetti d'arte. Quel di Perugia ch’io riportai con esattezza alla Tav. Z 2 della  ser. VI de’ Monumenti etruschi, è inferiore nell’esecuzione forse per difetto della  cattiva scélta nella pietra eh'è molto più tenace di quella chiusina, e più assai  porosa, ed a luoghi affatto spugnosa. L’originale di questo che abbiamo sott’oc-  chio non è che per metà maggiore del suo disegno.   Si vede assai chiaramente esservi rappresentata una processione religiosa. La prima  figura che ha semplice manto, e non veste lunga è dunque un uomo che ha in mano  una gran foglia, dalla quale argomento esser questa una pompa sacra, mentre in tali  riti portavansi le foglie, e se ne danno persuadenti ragioni, ch’io esposi altrove 3 . Segue  la figura di una donna che per essere assai danneggiata non se ne sa il destino, Do¬  po è una figura con bastone in mano,molte delle quali vedemmo già nelle tavole scor¬  se 4 . Ma siccome tien dalla sinistra mano un uovo , così potremo in qualche modo  congetturare che la pompa della quale quel seguace fa parte sia espiatoria, e perciò  analoga al defonto, presso al quale quest’ ara è stata trovata. Poco sappiamo di  una tale superstizione, ma ci è noto che all'uovo, dedicandolo ad Ecate infernale,    1 Ingliirami, Monum. etr. ser. i, p. 5 g 5 , e Gal-  leria Omerica Tom. n, tav. cxciv, p. j 54 *   2 Monumenti etr. ser. v, p. 44 l 2 *    3 Ivi, p. 254 , sq.   4 Ved. le tavole 11, lii, iv, V , xxxvni, lui ,   LIV, LV, Lvi.            6i    TAVOLA LXII.   L’Amorino qui espresso è copia d’un bronzo grande quanto il suo originale,  eh’è d’una bellissima patina verde. Non saprei giudicare dal solo disegno, che  m’è sottocchio, qual ne sia l’azione, e quale il significato di essa, onde mi limito  ad osservare che l’acconciatura di testa, non meno che lo stile assai molle, e sì  vistosamente lontano da quel rigido, che vedemmo nei già esaminati bassirilievi  chiusini, mi fanno giudicare quest’idoletto per un opera eccellente degli Etruschi,  allorché sottoposti ai Romani praticaron le arti ne’tempi di Adriano.   TAVOLA LX11I.   Leggendo lo storico Diodoro ho incontrato un avvenimento d’Èrcole, che mi  sembra molto analogo a quanto si rappresenta in questo bassorilievo. Narra quello  scrittore che tornato Ercole insieme cogli Argonauti alle spiagge troiane, ove  avea lasciati in deposito a Laomedonte la vinta Esione ed i cavalli di Diomede,  invia suo fratello Ifito, e Telamone a riprendere il deposito affidato a quel re;  ma il perfido ne ricusa la restituzione, ed oltraggia i messaggi. Allora gli Argo¬  nauti muovono contro Laomedonte e contro i Troiani suoi sudditi, e dopo un vivo  combattimento trionfano. Ercole sopra d’ogni altro fa prodigi di valore, ed uccide  di sua propria mano il re Laomedonte ' . Tanto basti a ravvisar qui E avveni¬  mento or descritto .   Ercole ha in mano la spada per uccidere il perfido Laomedonte che h».  già ghermito pei capelli, nè può altrimenti evitare il colpo fatale di morte.  La pelle di leone che si annoda sul di lui torace lo manifestano per Ercole, seb¬  bene usi spada e non clava. Laomedonte altresì fassi noto al berretto asiatico  proprio dei Frigi e Troiani in modo speciale, come ripetuti esempi ne dò nella  Galleria omerica 3 . Il bastone pastorale gli è posto in mano dall’ artista ad oggetto  di aumentarne la distinzione, come spettante alla famiglia di Dardano, eh io dissi  altrove 3 essere stata distinta per la sua occupazione di guardare gli armenti de suoi  antenati, non meno che per la singolare bellezza della quale furono adorni i di lei  componenti. Difatti qui Laomedonte si mostra bellissimo e delicatissimo, in pa¬  ragone del robusto Ercole, e dell’altro eroe eh’è degli argonauti combattenti in  quella occasione con Ercole.   Le due Furie con face rovesciata, ripetutissime nelle urne etnische, non hanno  un positivo ed intrinseco rapporto col fatto. L'altare serve soltanto di espressio¬  ne per mostrare che il paziente altro scampo non ha che reclamare la protezione   1 Diod. Sic. Bibl. hist. c. l, p. 29J. 3 Galleria Omerica, Iliad-, Tom. 11, p. i 43 .   2 Voi, 1, Tav. xcv, p. 81.       t : 4   le arche racchiudevano oggetti sacri di mistica rappresentanza, non visibili ad ogni  profano. Il vaso dipinto con queste donne che staccano in giallastro su fondo ne¬  ro, fu, cred’io, venerando per gli oggetti contenuti nella cesta, piuttostochè per  le donne che la portano.   TAVOLA LXIX.   Nell’interna e concava parte duna tazza di terra cotta vedesi dipinto con fon¬  do nero un sacrifizio, che mostra, cred’io l’atto del camillo, o vittimario di cuo¬  cer le carni della vittima sul fuoco acceso nell’ara o foculo, mentre il sacerdote  che sembra di Bacco è pronto a farvi una libazione, versandovi parte della sacra  bevanda. Dalla bassezza di quell’altare, pare che l’atto religioso fosse diretto al  culto di Bacco stigio, che pregavasi perchè fosse favorevole ai morti; come difatti  la tazza dov’è questa pittura fu posta come le altre in un sepolcro.   TAVOLA LXX.   È invero assai singolare il bronzo num. 1 che qui presentiamo in disegno  nella dimensione del suo originale, come si può riscontrare nel privato e ricco  museo del sig. capitano Sozzi di di Chiusi dov’esiste. Non è del tutto nuovo per  altro; ed io vidi un idolo lungo due piedi e sottile nel museo di Volterra tutto  nudo, e colle braccia aderenti al corpo, senza nessun emblema. Il Gori che lo illu¬  strò, gli dette nome di Lare domestico ridotto più grande e piu maestoso della  specie umana, oppure un dei Lemuri che credevansi ministri del Genio malo,  ossivvero lo stesso Genio malo, che da Plutarco si dice esser comparso a Bruto  in aspetto più grande di quel ch’esser suole l’umana specie 4 . lo crederei che più  convenientemente confermar si potesse esser quest’idolo chiusino un Lare dome¬  stico, forse anche Lemure, pei lumi che ce ne dà Plutarco, giacché Tesser vestito  e l’aver patera in mano tanto converrebbe ad un Lare, quannto sconverrebbe ad  un semplice Genio. Lo stesso Gori ha posti nella sua collezione altr’idoletti che  hanno la qualità speciale d’esser più lunghi delle dimensioni spettanti all’umana  specie, ma che l’espositore per bizzaria dichiarò con nomi speciali = , senza dar¬  ne sodisfacente ragione.   I bronzi notati di numm. 2 e 3 sono le due estremità d’un manubrio di qual¬  che vaso usato probabilmente per sacri riti, come lo mostra la testa d’asino che  ne compone la superior parte, mentre si tien per ovvia la notizia che questo    1 Plutarc. de animi tranquillitate, ap. Gori, Mus.  Etrusc. Voi. i, Tab. cim, Voi. n, p. 23 i.    2 Gctì, Mus. etr. Tom, tab. v.             63   si attribuiva una virtù espiatoria 1 . La figura virile ultima non ha caratteristica  veruna che la distingua.   Da un lato, cred'io, di questo cippo o ara che sia, v’è un’auriga nell'atto  di guidare il suo carro alla corsa : istituzione antichissima rammentata inclusive  da Omero % fra gli onori compartiti da Achille all’ombra di Patroclo.   TAVOLA LXVI.   Sorprenderà gli archeologi la novità di questa lucerna fittile che porta effigia¬  to un centauro colle ali non più veduto, ch’io sappia. Ma cangerà la sorpresa  in persuasione, tostochè richiamerà alla memoria quanto dissi altrove rapporto al¬  la composizione siderea di untai mostro; di che ripeto qui soltanto qualche leg¬  gierissimo cenno. Dissi pertanto che stando alle dottrine d’Ipparco, il Centauro  si compone di un cacciatore, o per meglio dire della costellazione che in antico aveva  il semplice nome di un dardo, e dell’alato cavallo sidereo che dicesi Pegaso 3 . E  poiché questo rappresentasi per metà soltanto nel davanti, così inventarono di  aggregare il restante del cavallo, o sia la posterior parte al cacciatore arciere.  E siccome il Pegaso composto dal Centauro è figurato con ali, così non è fuor  di proposito il trovare in questo arciere colla caccia in mano la posterior parte del  cavallo Pegaso colle ali che formano il distintivo del destriere abitatore del Parnaso.   TAVOLA LXVII.   Il vaso rappresentato in questa Tavola due terzi più piccolo del suo origina¬  le è di terra cotta di naturai colore, a differenza d’altro simile qui pure esposto  alla Tav. XL1X, eh' è di terra nera. E poi singolare in questo il veder le braccia  staccate dal vaso e fermate con delle cuciture di fil di ferro agli orecchi o manichi  di esso vaso, e pare che abbiano tenuto qualche cosa nelle mani che soglion esser  traforate . Un indizio di barba rasata ce lo fanno credere un Bacco. Per ogni  restante si legga quanto dissi alla Tav. XL1X.   TAVOLA LXVIII.   Fu costume frequentissimo nei sacri riti del gentilesimo l’introdurvi le fem¬  mine canefore, o cistofore ma specialmente in Etruria, e i monumenti ci mo¬  strano come un tal uso invalse qua nei tempi antichissimi, come Io mostra il  famoso vaso d’argento di Chiusi da me riportato altrove 4 . Quelle ceste, o picco-    i Suid. in VOC. Excctjjv.  a Galleria Omerica Toni, n, lav. ccxvu #    3 Monumenti etr. ser. v^av. lyii, p* 561.   4 Ivi, ser. ih, Ragionamento vii.      RAGIONAMENTO    VII.    SULLA VERA SITUAZIONE TOPOGRAFICA DI V1TULON1A  ANTICHISSIMA SEDE DELL J IMPERO ETRUSCO.    AffdS'v’tffzoufft yap y,<x.i nohU «c rirep av^pwirdi, A. A. .    li ori aveva torto lo spiritoso, e bizzarro filosofo di Samosata, quando scriveva nel  suo dialogo intitolato Caronte, che le città muoiono come gli uomini. Imperocché nel¬  la stessa guisa che si perde la memoria di moltissimi di questi, così perisce la ricor¬  danza di non poche di quelle. Nel cui numero è da riporsi con tante altre, la famosa  Vitulonia , prima capitale dell’ Impero Etrusco, della quale sì scarsamente lasciaro¬  no scritto gli antichi, e sì vagamente , e con grande incertezza ne parlano i mo¬  derni. Trovasi infatti accennata dagli uni e dagli altri, quella già potentissi¬  ma, e ricca città, con molta dubbiezza, e circa la vera sua topografica situazione, e  circa l’estensione del suo circuito, e perfino riguardo al modo di scriverne il nome .  Avvegnaché Plinio, lib. 2 cap. io3, chiama Yvi ulonii, e Vetuloniensi i suoi abi¬  tanti, e Silio Italico nomina Vetulonia la città stessa , mentre avvi qualche altro au¬  tore, che la dice promiscuamente Vetulonio e Vetulonia.   Quanto poi alla sua topografica situazione, pare anche dal passo del precitato  Plinio, ch’ella fosse come era difatti, vicina al mare -, poiché sebbene al tempo di  quello scrittore già più non esistesse da lunga data, nondimeno la memoria della sua  situazione , e della sua grandezza sussisteva tuttavìa nella tradizione dei popoli etru¬  schi . Ed il Cluveno ,lib. ila colloca egli pure non lontano dal mare , e nelle vicinan¬  ze delle paludi caldane, confondendo però, per quanto mipare, le Caldane volterra¬  ne, o i Guadi volterrani, colle Caldane della Fiora, che sono tutt’altra cosa.   Che sorgesse però nei contorni di quel pareggio, non è da mettersi in dubbio,  giacché leggiamo in Dionisio di Alicarnasso, lib. 3, che al tempo di Tarquinio Pri¬  sco , quand’ egli guerreggiava contro i Latini, i Sabini, e gli Etruschi propriamente  delti, fecero legaper andare contro il medesimo, le cinque popolazioni seguenti, cioè,  i Chiusini, gli Aretini, i Volterrani, i Rosellani, ed i Vètuloniensi , che Plinio al già  citato libro terzo nomina con ordine inverso. Nè senza ragione è da credere, che quei  due gravissimi scrittori nominassero i popoli, piuttosto che le città dei medesimi,  perchè Vitulonia era stata distrutta molli secoli prima della fondazione di Roma,  come congettura il dottissimo Dempstero, il quale crede ancora giudiziosamente, che  perciò si di rado ne abbiano gli autori fatta menzione.             65   quadrupede spettò a Bacco 1 o a Vulcano a . Nell'uno e nell’altro supposto converreb¬  be 1’ unione loro aiCabiri, che furon detti e figli di Vulcano 3 ,ed apportatori del  culto di Bacco in Etruria E Una tale osservazione mi farebbe credere i Cabiri  o Dioscuri quei due giovanetti sedenti e con berretto in testa, che trovansi nel-  1’ estremità inferiore del manubrio medesimo . E tanto piu me ne persuado , in  quanto che molti bronzi ritrovati in Etruria hanno Bacco unito ai Cabiri 5 . Nè si  allontana da questa congettura lo stesso lor gesto che addita il cielo, mentre stan¬  no coricati per terra, giacché tale additamento del cielo e della terra è lor pro¬  prio in molti antichi monumenti dell’arte 6 .   TAVOLA LXXI.   Il bronzo di questa Tavola veduto da due parti mi vien descritto di un la¬  voro squisitamente condotto per la sua esecuzione, al che si può aggiungere il  pregio dell’arte che splende anche nella giusta, non men che bella proporzione  della figuretta che qui si vede per metà maggiore del vero. Io la credo una di  quelle Giunoni, o genii delle donne che tenevansi nei larari dal gentilesimo.   TAVOLA LXXII.   La pittura di questo vaso consiste in tre figure femminili, che avendo in ma¬  no delle aste armate di punte, corrono sfrontatamente luna presso l’altra. Così  narra Euripide che Penteo al di lui ritorno in patria udì che la madre di lui con  altre donne Tebane aveano abbandonato il proprio albergo, e n’eran gite sul mon¬  te Citerone a celebrar le feste di Bacco , piene di lascivo furore 7.    XXXVI.   ■ÌR<S>° 1 U : VI I q 3 : aìlflNS   XXXVII.   J/ìttq A J : ÌV1V : J33   XXXVIII.   tfntnqf\ ■■ jmn/qo   XXXIX.   jfjvm/dn •• ©nq/i   XL   R13D J/ilflllV   1 Monutn. etr., sei:, u, p. 56.   2 Milli» , Peintures de Vases ani. , Tom.  2 3 , not. (6).   3 Monum. etr., ser. n, p. i52.   4 Ivi, p. 693, 713.   Etr. Mus. Chius. Tarn. 1.   5 Ivi. Ved. la spiegazione delle Tavole txvvn   i, p. e ixxvui.   6 Ivi, tav. xlÌx, e sua spiegazione.   7 Euripide nelle Baccanti atto primo scena iv  in principio.   9    9    68    vono discorso anche intorno alle sue terme, ed al suo anfiteatro, celebrandone  le ime , e 1‘ altro.   Scrive La-Martiniere che le rovine dì questa città ritengono tuttavìa t antico no¬  me, e che si chiamano Vetulia,ree/ che concorda coll'Alberti-, e si legge in una nota del  precitato Cluverio, che Vitulonia era situata fra Populonia, e la torre dì San Vin¬  cenzo, presso alle paludi caldane, ed il fiume Linceo, detto oggi la Cornia. La quale  opinione pare appoggiata da quel passo del sullodato Plinio, lib. 3 . cap. 6; ove nomi¬  na insieme ì Tarquiniesi, i Tuscanesì, i Vetuloniensi, i Veientani, i Visentini, ed i  Volterrani, cognominati etruschi, com’egli si esprime.   Molte altre citazioni, ed altre notizie avrei potute raccogliere ed aggiunger qui,  riguardanti la nostra Vitulonia, ma le ho tralasciate per brevità, e penso che siano  anche troppe le già addotte, per dimostrare quanta confusione, e quanta incertezza  si riscontri negli autori, ogni volta che ne fanno parola.   Ad onta però di tanta confusione, e di tanta incertezza degli scrittori antichi, e  moderni intorno a Vitulonia, per cui è sembrato ad alcuni archeologi , non solamente  difficile ma eziandio impossibile di poterfissare, ove sorgesse un giorno quella primiti¬  va sede dell impero Etrusco, quandi esso estendevasi a tutta l Italia; io voglio non per-  tanto tentare in questo ragionamento di stabilirlo. E voglio in questo tentativo mettere  a profitto le belle, e ricche scoperte di vasi etruschi, e di altre anticaglie, fatte negli  anni 1828, e 1829 dall'egregio signor prìncipe di Canino nelle sue terre di questo  nome, e giovandomi ad un tempo dei lumi sparsi da quel chiarissimo scrittore, illu¬  strando gli uni , e le altre, e per cui viene ora meritamente lodato in questa materia,  come il più benemerito promotore della gloria dei nostri padri.   Tralasciando pertanto di rintracciare, lo che sarebbe ricerca inutile, e vana, se  Vitulonia/bwe edificata da Tarconte, come pretendono alcuni autori, o dal celeste  Ogige, il quale come vuole non so qual poeta,   Itali® Tuscas pelago descendit ad oras,   dove torreggiò Vitulonia, o finalmente lo fosse dagli Etruschi, regnando su di essi,  come piace ad altri quello stesso Giano Velo che istituì, per quanto si dice, il culto  di Vestà, e le Vestali nelle nostre contrade, diede il suo nome al Gianicolo, combattè  per tre anni coi Celtiberi, e finalmente li vinse, e li sottomise alla sua dominazione:  quello stesso infine, che consacrò , giusta le tradizioni, una gran selva a Crono nelle  vicinanze appunto di Vitulonia, il cui nome potrebbesi interpetrare stagno, od acqua  incostante, passerò in quella vece a determinarne subito la topografica situazione.   Circa la quale io credo che non possa rivocarsi in dubbio, quanto il sullodato si¬  gnor principe di Canino ne ha detto nel primo volume del suo Museo etrusco , par¬  lando inparticolar modo della sua Necropoli; E sono persuaso che ella sorgesse ve¬  ramente nel luogo da lui supposto, e descritto.   Bifalti la prodigiosa quantità di vasi etruschi di sommo pregio, e di somma bel¬  lezza, e nei quali sono rappresentate favole, o storie anteriori alla fondazione di Ro-            6 >   Crede Ermolao Barbaro, che Orbetello occupi ora il sito dov era una volta Vilu-  lonia, lo che non può essere. E VAlberti scrive che ai suoi tempi chiamavasi Veletta ,  o Vetulia, il luogo ove fu Vitulonia; laddove altri sostengono, che altro in oggi ella  non sia ché un luogo deserto, distante tre miglia dal mare, fra Populonia, e Pisa. E  nonmancano neppure di quelli che confondono Populonia stessa con Vitulonia, benché  fossero per località, per età e per potenza paranco , l’una ben distinta dall' altra.   Jf erudito Guarnacci poi, dice di non poter determinare neppur egli, ove giaces¬  se questa famosa, ed antichissima città, perché sì conosce, secondo lui, solamente  il nome della medesima, ignorandosi però del tutto, a qual distanza precisa fosse  ella situata da Volterra, e dal mare ■ Ma Annio da Viterbo nelle sue note agli Equi¬  voci, di Senofonte, afferma esservi un colle chiamato Vetuleto, e lo afferma con qual¬  che probabilità, per l’età sua, sul quale crede che fosse situata altre volte Vitulonia.  E pensa che dopo la rovina di questa, gli restasse un tal nome. Il medesimo poi ne  deriva Vetimologia del nome da due parole araniee , che verrebbero a significare, ca¬  po di molte città; ciò che non sarebbe disconvenevole a Vitulonia,- ed aggiungendo,  quello che in molti altri scrittori si legge paranco, che essa godeva il privilegio di  ammettere i forestieri alla cittadinanza volterrana , come ancora la privativa in età  più remota, di dare i fasci, e le insegne reali, la qual cosa indica essere stata la me¬  desima al disopra di Votterrà.   Non di meno il chiarissimo Passeri nel suo trattato della Numismatica etrusca ;  la crede colonia dei Voltérrani, benché ciò non possa essere accaduto, se pure voglia¬  mo ammettere che avvenisse in alcun tempo, se non dopo la sua decadenza, e totale ro¬  vina, e dopo il successivo ingrandimento dell'altra. Mentre quando eraVitulonia  nel suo pieno splendore, e capo di potente impero, è ben ragionevole il credere che  succedesse tutto il contrario .   Lo stesso Silio Italico, citato disopra, chiamò la nostra Vitulonia splendore della  Meonia gente, alludendo probabilmente a quei Lidii che si dicevano venuti a stabi¬  lirsi in Etruria, e principalmente in quella regione-, e la disse ad un tempo inventrice  dei Fasci, delle scuri, dei Littori, della Sedia Curale, e della pretesta, come pure  le attribuisce il merito di avere adattata l'enea tromba agli usi guerrieri-, cantando  nell’ ottavo libro delle guerre puniche.   Meoniosque decus Vetuionia gentis,   Bissenos hoec prima dedit precedere fasces,   Et junxit totidem tacito terrore secures:   Et princeps Tyrio vestem prsetexuit Ostro;   Hasc altas eboris decoravit honore curuies ,   Heec eadem pugnas accendere protulit sere.   Esistono infatti antiche medaglie, riferite dal prelodato Passeri, ed anche dal  Guarnacci, coll epigrafe Vetiunia , e coll’ emblema della scure, o bipenne, insegna  dei Magistrati etruschi, e precisamente di quella città. Ed alcuni gravi scrittori mo-      70   Messina, e fuori ancora dItalia per fiancheggiare le inaudite millanterie di quei me¬  desimi Greci, e loro forsennati seguaci, riprodurrò qui una opinione singolare, ma  vera, e che mi pare che siastata sostenuta anche dal Vico ; e dirò che le Muse ebbe¬  ro origine in Italia, nell’infanzia, per cosi dire, del mondo. Ed aggiungerò, che da  questa bella penisola emigrando, pèr quelle vicissitudini, che modificano , e fanno  cangiar di aspetto continuamente a tutte le cose umane, passarono in Arcadia,  colle prime colonie italiche di Pèlasghi Tirreni, che erano indigeni di questo de¬  lizioso paese, favorito in ogni tempo sopra di ogni altro dalla natura, per tutte le  arti dilettevoli, e per tutti gli ameni studi. Ed andarono ad invadere, é popola¬  re la Grecia, e la Tracia, selvagge allora ed incolte, dove ebbero poi nome,  e culto per opera di Anfilone , di Lino, d’Eumolpo, e d’ Orfeo, ma vi si erano  condotte da prima coi sunnominati Pelasglii-Tirreni , pastori ad un tempo , e  poeti. Da dove ritornarono più tardi in queste benedette contrade in compagnia  di Evandro, e non ne partirono mai più-, ad onta di tutte le devastazioni e di  tutti i flagelli, che vi portarono gli stranieri, i quali ne fecero in tutte le età il  primo oggetto delle loro ambiziose conquiste .   E persuaso come io sono , che Vitulonia dettasse in remotissime età le sue  leggi agli Italioti, potentissimi allora sovra ogni altra nazione, da quei luoghi  medesimi, nelle cui vicinanze riscontrasi la grande necropoli, discoperta \dal  signor principe di Canino, come Roma le dettò loro, e all’ universo, in altri  tempi, dall alto del Campidoglio, terminerò questo mio ragionamento, ripetendo  con Virgilio,   Purpureos spargain flores, animasque parentum   His saltelli accumulem donis.   Mà non voglio però dar fine al medesimo, senza rivolgere brevi parole al si¬  gnor compilatore dal Ballettino archeologico di Roma, per pregarlo col dovuto  rispetto, a volersi compiacere di farmi comprendere cosa mai ha preteso di di¬  re, quando ha scròto a pag. 226, N" 12, del medesimo, con franchezza più  che cattedratica ,■ « Contribuiscono ad illustrare qualunque parte delle antichità  dell' Etruria le utilissime lettere d’ etnisca erudizione che si pubblicano dal ca¬  valiere Inghirami; siccome allo stesso tendono nel modo loro particolare, le  ingegnose conghietture del signor Principe di Canino, é quelle di simil genere  del professor Euleriani, premesse ai fascicoli del Museo chiusino » perchè seb¬  bene io confessi ingenuamente : che mi rifugge t animo alt idea, che debba  venire un Oltramontano ad insegnare a noialtri Italiani, a conoscere le cose  nostre, e quelle dei nostri padri, mi sarà tuttavia gratissimo di potergli ren¬  dere pubblica testimonianza di avere imparato qualche cosa da lui, come non  poche me ne insegnarono altre volte, e di vario genere, ì Dempsteri, gli Acker-  blad, gli Zoega, che qui nomino a titolo cìi onore, ed altri ancora che per bre¬  vità si tralasciano.                e 9   ma, e vi si osservano costumi anti-romani ancor essi, dal medesimo dissotterrati nelle  sue campagne della Cucumella, e Cannellocchio , mostra ad evidenza, che tanta ric¬  chezza di vasi dipinti, non poteva appartenere che alla Necropoli di una città gran¬  dissima ed opulentissima, e capo di potentissimo impero. Nè i tre ponti dallo stesso  discoperti sulla Fiora cosi l uno all altro vicino, servir potevano ad altro che a mette¬  re in comunicazione fra loro le due parti di questa medesima città ; E questa non po¬  teva esser che V itulonia , se ben si voglia riflettere alla sua località, dietro quello che  si legge negli scrittori antichi, e moderni, benché alquanto oscuramente, intorno alla  situazione di quella metropoli.   Che se qualche ultra-greco si ostinasse ancora a sostenere il contrario, è pregato  a considerare un poco meglio i monumenti dei nostri antichi, e singolarmente quelli  dissepolti nelle terre di Canino, ed anche a porre maggiore attenzione quandi egli  legge le opere degli antichi, e son di parere , scorgerà facilmente timpossibilità di  provare il suo assunto.   In quanto poi al predicare la civiltà italica molto anteriore a quella della Gre¬  cia, noi non abbiamo fatto altro in ultima, analisi, che riprodurre quanto era sta¬  to opinato nello scorso secolo dai dottissimi archeologi, e filologi italiani, e stranieri,  assai giudiziosi e non greco-mani, Dempstero, Buonarroti, Maffei, Cori, Guarnac-  ci, Bocliart, Mazzocchi, Lami .Bourguet, ed altri ancora : E più modernamente dal¬  li eruditissimo poliglotta Acherblad, dall’illustre Gaetano Marini, e dal celebre  Ennio Quirino Visconti, prodigio d’ingegno, e di dottrina, anche a giudizio dei più  dotti Francesi.   La quale opinione, propagata da tutti i surriferiti grandi uomini, che trovasi  confermata nelle memorie dell'Accademia delle iscrizioni di Parigi, e che fu messa  in piena luce da quella mente straordinaria del Vico, è poi quella stessa riprodotta,  e commentata dal sullodato signor Principe di Canino, nei varii articoli del  precitato primo volume del suo Museo etrusco, dopo che la riscontrò comprovata dai  Monumenti da lui discoperti, negli scavi fatti eseguire nelle sue terre.   Nè di poco momento è per me, onde viepiù confermarmi in questa opinione che  mi è divenuta certezza, t autorii a del profondo archeologo romano Girolamo Amati ,  uomo di somma perspicacia, e dottrina, e nelle italiche antichità versatissimo, e che  la sostiene egli pure .   Che del resto la iattanza impudentissima dei Greci , è dei grecomani, circa la ci¬  viltà, e le arti italiche, non è nuova in queste contrade, sapendo ogni mediocre erudito,  che per rintuzzarne soltanto la vanagloriosa ciarlataneria, pose mano Catone a scri¬  vere i suoi libri dèlie origini, e si mostrò grandemente sdegnato, perche nessuno si  fosse alzatOkprima di lui a rigettar loro in faccia si nauseanti, e boriose pretensioni,  e si grandi sciocchezze.   Ora dunque, animato dal medesimo amor patrio, e stimolato da eguale sdegno,  per le tante inezie che sf vanno ripetendo ogni giorno a piena bocca, dalli Alpi a  Etr. Mus . Chius. Torri. /. 10        TAVOLA LXX 1 II.    Quando Venere e Apollo sottrassero Enea, come inventa Omero alle furi¬  bonde armi del prode in guerra Diomede, allora Febo immaginò di lasciar com¬  battere a sazietà i Troiani coi Greci, sostituendo ad Enea l’idolo, o popolarmente  parlando, l'ombra di lui. Questa poetica immagine del combattimento de’due par¬  titi per un vano fantasma fu cara oltremodo agli Etruschi, mentre ne vediamo  la rappresentanza in molti de’lor cinerari, un de’quali eh’è in marmo, fu da me  inserito nella serie che ho data de’monumenti omerici della Iliade 3 , similissimo  a questo ch'è di terra cotta due terzi soltanto maggiore del presente disegno, men¬  tre quel di marmo è due terzi maggiore di questo modellato in creta. Vi si ve¬  de pertanto il simulacro d’Enea caduto a terra per la percossa del sasso getta¬  togli da Diomede, in atto di cercare una qualche difesa nella trista situazione in  cui si trova, spossato di forze. Intorno a lui si tagliano a vicenda gli scudi e le  targhe Troiani ed Achei. L’originale in terracotta era dipinto a vari colori, ma  ora svaniti. L’ iscrizione è soltanto dipinta in color di porpora, e rammenta,  come sapremo a suo luogo, il nome del morto, le cui ceneri chiudeva l’urnetta.   TAVOLA LXXIV.   Un licenzioso stuolo di baccanti si offre allo sguardo dell’.osservatore della  tav. presente, e ci avverte esser questa la pittura d’un vasetto ch’è rappresentato  alla tav. LXX 1 X num. 1, e frattanto si verifica la massima comunemente inval¬  sa per esperienza, che tre quarti dei vasi fittili dipinti hanno soggetti bacchici.   Questo ha figure nere su fondo rosso ed è il vasetto originale tre volte mag¬  giore del disegno dato alla tav. suddetta.   TAVOLA LXXV.   La statuetta di Venere che orna quest' ago crinale grande al pari del pre¬  sente disegno è adattatissima a dar compimento ad un utensile di muliebre de¬  coro. È singolare il vedere nei Monumenti etruschi la Venere quasi sempre co¬  perta negligentemente in una sola gamba. Io vi ho spesso, ravvisato il velo del  quale son coperte agli occhi della nostra penetrazione moltissime delle operazio¬  ni della natura: osservazione che dovette esser propria specialmente degli Etru¬  schi, i quali si magnificano come studiosi della filosofia naturale. Proporrei ancora  il sospetto che l’ago crinale fosse un simbolo mistico, e per tal cagione posto nel    i Iliade lib. v, v. 449*4^ l -    2 Tom. ì, Tav. lxxiv .                      7 »   Non credasi però mai da alcuno , che io ni" altlia la stolta pretensione  di non essere criticato, ché anzi mi reputerò sempre ad onore ogni critica fatta  a dovere, Ma quando venga questa in mal tempo, e con peggior garbo, met¬  terò sotto gli occhi di chi vorrà leggermi, il seguente epigramma.   Censura sapiens, et doctus acutnine gaudet :   Stultus at insano carpere dente solet.   Ex tribus his titulis, quem vis, tibi delige lector:   Sic sapiens, doctus, stultus et esse potes.    XLI.   VIDflDMU 433433   XLII.   4/mvfl4i •• flnoai ; qn-i   XLEL   ••••• -.43 : F\\F{- 1/1-1 : 43   XL1Y.   4 /ÌOq/ : i4 : 4/RttYf : intblq/d : 41   XLV.   m3iifl4 ; ìi n/qi : 43H3vi : nnn o   XLY1.   •.•.•.lamvfliflm : finn o   XLVII.   ni asiaq'D : 4flim#ì4 : intn.q/a : 433   xLvm.   4/aifn/qi3i lantqfl = ioqfiN   XLIX.   ■ninni ■■ m Y 131 : 4An#isa : ianq3i : no   L.   1 nxnn\   M3f : laUfVf : flitifl©    ! Al disopra del copercìiio.  a Siccome finisce il lembo del coperchio pare    che abbiano continuata la parola al di sopra del  coperchio della stessa urna.    I    74   (lutto nell'arte, mentre qui la Furia infernale esce di sotto terra; come nel teatro. Se  quest’uso non è molto antico, non potremo reputare antichissime neppure queste  sculture ove tal uso è imitato. L’urna è due terzi più grande del presente disegno.   TAVOLA LXXVIII.   Il soggetto di questo rozzo vasetto non è che un baccanale. Il vecchio bar¬  bato e nudo rappresentar dovrebbe un satiro, mentre a centinaia s'incontrano  i satiri nei vasi che trovansi nei sepolcri, e le lor mosse costantemente bizzarre,  come acche la lor nudità costante, non permettono di separar questa virile figura  dal coro satiresco di Bacco. Ma la rozzezza del lavoro accompagnato da negli¬  genza; fece dimenticare al pittore di aggiungere alla sua figura la coda equina che  a’ satiri non manca mai. La donna eh’ è dalla faccia opposta del vasetto, non può  essere per conseguenza che una baccante . I circoli che in buon numero si vedono  attorno alle due figure sono un enigma finora inesplicato. La grandezza delle  figure è uguale a quella dell’uomo barbato. La pittura è giallastra in fondo nero.   TAVOLA LXXIX.   I tre recipienti che occupano questa tavola son vasi con pitture in parte ne¬  re e in parte giallastre, che si mostrano separatamente dai loro vasi, e che ve¬  dremo in seguito coi respettivi loro richiami. Ma il vaso segnato di numero 2 ha  soltanto una pittura a parte, l’altra di minor conto si vede qui in piccolo.Io vi ravviso  due degli Efebi davanti al ginnasiarca, il quale ha verga in mano insegno che istrui¬  sce e comanda. Tali erano gli esercizi del ginnasio, dove la gioventù s’istruiva negli  esercizi del corpo e dell’animo ; e gran parte delle pitture de’vasi han simil sog¬  getto nella parte opposta ad altra, che aver suole qualche rappresentanza mitolo¬  gica o simbolica, come in questo vaso, dove si vedrà Ercole accolto dal centauro  Eolo. Queste favole cred’io avevano un senso misterioso, e la gioventù s’istrui¬  va nell’iutelligenza di quel senso non a tutti palese, per cui ne’ vasi comparisce  nel tempo medesimo l’istruttore e 1 istruzione che rnostravansi con quelle pitture.   TAVOLA LXXX.   Questo, pare a me, eh’esser possa il momento in cui Ercole passando dal  monte Foloe per andare a cercar del cinghiale d’Eriinanto, trattenutosi dal cen¬  tauro Folo figlio di Sileno e della ninfa Mitra, fu ricevuto nel modo il più ospi¬  tale che potevasi. Ercole ebbe desiderio di bere del vino. Folo ne avea soltanto  in un vaso eh’era stato dato da Bacco ai centauri in comune, e perciò non ar¬  diva d’aprirlo. Ma Ercole incoraggillo a deporre ogni timore, ed apri egli stesso          7 ^   sepolcro dov' è stato trovato . Dissi altrove difatti, che si venerava in Roma l'ago  crinale della Madre Idea custoditovi fra le cose fatali, da cui facevasi dipendere  la stabile conservazione dell'impero ’.   Le oreficerie degli Etruschi, di che presentiamo qui un saggio, esser so¬  gliono di uno squisito lavoro. I due pezzi superiori pare che siano stati usati a  formare una collana, poiché di simili ornamenti vedonsi le belle collane scolpi¬  te al collo delle matrone che si trovano giacenti sopra i coperchi delle urne 3 .  Ciò sia detto per disinganno di coloro che trovando nella Grecia altri ornamenti  muliehri lavorati in oro con una perfezione e con un gusto simile a quei dei  nostri Etruschi, ne dedussero che di Grecia si facesse smercio in Italia di tali bi¬  gotterie; ma poiché la forma dei due pezzi superiori trovasi ripetuta soltanto  nelle sculture d'Elruria,e non in quelle di Grecia, così non abbiamo pruove che usas¬  sero tali ornamenti fuor dell’Etruria , nè che non si potessero quivi anche eseguire.   TAVOLA LXXVI.   Tra le infinite bizzarrie che vennero in testa ai figuli per variar le forme dei  vasi, che servirono per ornar le ceneri dei sepolti, questa che presentiamo qui non  è certamente delle men singolari. Il suo nome suol essere d' un ciato quando  ha forma d’un corno potorio; ma in figura di gamba non avendone io mai in¬  contrati , per quanto abbia veduti moltissimi vasi sepolcrali, non saprei certamente  quei che possa dirsene. La sua grandezza è due volte maggiore di questo dise¬  gno. È della solita terra nera di Chiusi, ed ha vernice nera assai lucida che lo  cuopre d'uu color solo. In generale questi eran vasi da bere usati col rito, che  dovevasi affatto votarne il recipiente, per cui non era necessario di tener questi  vasi in piedi, ma suolevano star discenti sulla mensa.   TAVOLA LXXVII.   La tragica morte di Eteocle e Polinice è soggetto che fu caro agli antichi  Toscani che lo elessero soventemente per ornarne i loro sepolcri. Qualche mossa,  qualche ornato,lo stile medesimo della scultura, fan vedere che vi fu comunicazione  tra la scuola di Volterra e quella di Chiusi. Il costume della Furia eh' è fra i due  moribondi più che altro manifesta la probabilità di questa mia opinione; come si ri¬  scontra dai paragoni che posson farsene 3 . Altrove notai parimente 1 ’ uso teatrale di  far comparire, non già dalle scene i soggetti infernali, ma dal palco medesi¬  mo, quasi che sorgessero di sotto terra ^. Un tal uso vedesi esattamente intro-   1 Monum. etr. , ser. li J p. 5o.   2 Ved. la Tavola xiv.    3 Monum. etr. ser. i, Tavv. lv , lxvii, lxxiv.   4 Ivi, p- 75, 355.     7 6    TAVOLA LXXXIII.    II vasetto che primo si presenta in questa tavola è di terra nera, uguale in  tutto al disegno. Le teste velate son così ripetute nei vasi sepolcrali chiusini, che  io non dubito di confermare il già detto, nel supposto che siano indicative di  larve Ci vien fatta peraltro notare 1 ’esattezza del lavoro, non meno che la per¬  fetta conservazione del monumento.   Ai numm. 2, e 3 si osserva un anello d’ oro eh’ è in proprietà del sig. capi¬  tano Sozzi. Il lavoro, per quanto mi si elicerà finissimo e di grandezza in tutto  eguale all’originale. È stato, per tanto riportato in doppia grandezza l'incavo che tien  luogo di pietra anulare, perchè meglio si osservi lo stile elevato di quel lavoro.  I due animali, il leone cioè e la sfinge potrebbero essere interpetrate pel pas¬  saggio del sole dal solstizio estivo all’autunno , mentre quel mostro con corpo  di leone e testa e petto di donna non altro pare che indichi, sennonché il sole  che uscito dal segno del Leone ardentissimo passa in quel della Vergine, ove co¬  mincia a perdere l’estiva sua forza, per cui si assomiglia a una femmina 1 2 3 .   TAVOLA LXXXIV.    La galante forma del vaso n. 1 non è comune fra quelle usate dai Greci .  L’impasto della terra è tutto nero, ed in luogo di figure dipinte ha dei bassiri-  lievi minutissimi, da’quali, come da una doppia fascia, è circondata la più larga  parte di esso . In una delle nominate fasce al n. 3 stanno assisi due uomini con  veste talare, in atto di voler dispensare delle corone, che ricevon coloro i quali  stanno in piedi. Sotto alla lorsedia è un uccello, che secondo le moderne interpe-  trazioni dei geroglifici egiziani, come dissi altrove ? , significa la casa dello spar¬  viere, eh’è pur simbolo della divinità; e in conseguenza la casa o regione del  cielo, sul quale stabilite si vedono le figure sedenti del nostro bassorilievo. Por¬  gono esse dunque delle corone ai guerrieri, in premio di aver combattuto.   Le sfingi nei sepolcri le ho sempre credute indizio del tempo nel quale passa  il sole dai segni dell’ emisfero superiore a quello inferiore 4 , che dicevasi regno  dei morti 5 , e per tal memoria credo esser poste le sfingi nella fascia num. 4 - Nel  bassorii. n. 2 v’è un uomo sedente che ha in mano Io scettro, e ad esso presentasi  un individuo munito di lancia che probabilmente significa un’anima che passando  ad altra vita domanda il premio delle eroiche sue virtù' 6 , accennando non altro  che il tempo di tal passaggio, come ho provato anche altrove? in quest’Opera.    1 Monum. etruschi, ser. i } p. 20.   2 Ivi , ser- i, Ved. la spiegai, della Tav. lxviii.   3 Lettere di etnisca erudizione Tom. 1 , p. 191 .   4 Monum etr. , ser. v, p. 590 :    5 Lettere cit. p. 189 .   6 Vedasi tutta la mia lettera scritta al dottor Mag¬  gi nel Tom. delle lettere, cit., p. 181 .   7 Ved. la pag. 5i , e 52 .              ;5   quel vaso dov’era, come appunto si vede in questa pittura. I centauri tratti colà  dall’odore del vino vennero in folla alla cantina del centauro Folo, armati di  grosse pietre, un de quali è qui rappresentato in dietro ad Ercole in atto di  scagliarliela ; e forse è Anchio , o Agrio che furono uccisi da Ercole, perchè i  primi ardirono d’entrare in quella caverna 1 . Questa pittura con figure giallastre è  inetà del suo originale.   TAVOLA LXXXI.   In questo bassorilievo ravviso Paride, il quale mentre viveva oscuro ed ignoto  sul monte Ida tra i pastori, scendeva talvolta alla città di Troia, ove segnalavasi in  tutti i giuochi e combattimenti che vi si facevano, ed in essi riportava la palma sopra  ogni altro concorrente, inclusive sopra Ettore e su gli altri suoi fratelli, che sde¬  gnando d' esser vinti da un ignoto pastore meditarono di assalirlo ed ucciderlo.  Ma Paride allora si dette a conoscere per loro fratello, e cosi fu salvo. Qui Pari¬  de è nudo come si compete ad un atleta, ed ha lunga palma sugli omeri, qual  vincitore in competenza coi fratelli che invidiosi lo guardano, e meditano la di lui  perdita, istigati a tanto misfattto dalle Furie infernali che loro si fanno dappresso.  11 ginocchio che Paride tiene sull’ara significala protezione divina eh’egl’ implora da  Venere, come ho detto altre volte a , e 1 ’ ottiene; mentre Priamo suo padre, a cui si  palesò, lo ristabilì nel suo rango 3 . Il disegno è una terza parte dell’originale.   TAVOLA LXXXII.   Chi mai trovar potrebbe in questo vaso un gusto greco? Anzi a rettamente  parlare diremo esservi un fare eh'è tutt'altro che greco. L’ornamento del piede  partecipa delle scannellature che sì frequenti ravvisiamo nelle opere dell'Egitto.  In ogni restante v'è una originalità singolare. I mostruosi animali a bassorilie*  vo che ne ornano il corpo son frequenti in questi vasi chiusini di terra nera,  ed io li tengo sempre per quelli animali caotici che ad oggetto di rammentare  la pili antica delle orientali cosmogonie ne ornarono i sepolcri, di che ragionai anche  altrove L La donna che serve d'apice a! coperchio del vaso, in quanto al disegno  non è molto dissimile da quelle dipinte in giro nel vaso della Tav. LXXII, come  ancora in riguardo al costume dell’abbigliamento. Questo è dunque l’antico etrusco  stile, o l imitazione di esso, come resulta dal paragone della indicata pittura pur tro¬  vata in Chiusi, ma di stile totalmente greco. Or s’io ripetessi qui pure, come ho detto  altrove 5 , che i Greci lavorarono vasi in Etruria, e quindi anche i nazionali ma  in uno stile del tutto differente, non ne avrei forse in simili esempi le prove?   1 Diodor. Sicul., iv, 12 . Nonn, Dionis. xiv, 379 . intit. l’Italia avanti il dominio de’Romani p.i 29 .   2 Monum elruschi, ser.[i,p. /{Q 3 i 4 ^ 5 , 1^628, 693. 4 Monum. etruschi ser. v, Tav. lx.   3 Ved.le mie Osser.sopra i raonum.ant.uniti all’op. 5 Ivi ser. v, Introduzione p. xxjx.         ;8   droni perfino del tuono, e del fulmine, i quali peri loro sorprendenti, e terribili ef¬  fetti , somministrarono in ogni tempo e in ogni dove abbondante materia alla super¬  stiziosa credulità dei popoli ■ Giammai però, nè presso alcun’altra nazione, ebbe la  scienza tonilruale, efulguraria tanti cultori, come presso gli antichi Etruschi, nè  mai se ne fece altrove uno studio così costante, come nell’ Etruria propriamente detta,  e con successo così, favorevole.   Ma i sacerdoti etruschi, dopo avere immaginata una scienza profonda, e difficile,  sui tuoni e sui fulmini, trovarono ancora il modo di renderla terribile e spaventevole  al volgo della loro nazione. Imperocché, stabilita la distinzione tra ifulmini di consi¬  glio quelli di autorità e di decreto, tra i postulatorii, i monitorii, i confermatorii', gli  ausiliarii, gli ospitalieri, ed i fallaci, i pestilenziali, i micidiali i minacciami, ed i rea¬  li, e simili, ne fabbricarono ancora una spece di Diario, ossia Rituale. Del quale, per  darne una idea ai nostri lettori, ne riporteremo qui uno squarcio, tradotto in italiano.   Questo Rituale adunque, o Diario tonitruale, e locale secondo la luna coni essi  lo chiamavano, fu tratto, per quanto ne dicono le tradizioni, parola per parola, da  Publio Nigidio Figlilo, dagli scritti sacri di Pagete ; Ed è riportato da Giovanni  Lidio nel suo libro dei prodigi al cap. xxvu, pag. 101, dell edizione fattane a Parigi  nel 182 5 ,per cura di Carlo Benedetto Tinse.   Ecco in qual maniera si esprime il sullodato autore, al luogo citato, su tal pro¬  posito . Se egli è manifesto che gli antichi sapienti etruschi prendessero in ogni di¬  sciplina augurale per guida la luna, poiché secondo il corso di quella espongonsi  qui appreso anche i segni tonitruali, e fulgorarli, rettamente farà chiunque si sce¬  glierà per duce in questa scienza le stazioni lunari, Laonde quinci dal cancro, e  quindi dal novilunio, istituiremo la diurna cognizione dei tuoni, secondo i mesi lunari.  Dalla quale passavano i Tusci, o sacerdoti etruschi ad insegnare le osservazioni locali,  anche intorno ai luoghi percossi dal fulmine. E pare che il principale di tut fi i col¬  legi di questi Tusci risiedesse a Fiesole, leggendosi in Silio Italico  Adfuit et sacris interpres fulminis alis,   Faesula .   Incominciando poi il Diario , o Rituale fulgurano, e tonitruale etrusco, dal pri¬  mo giorno lunare del mese di giugno, dice cosi. Se tuonerà nel'primo giorno della  luna di giugno , vi sarei abbondanza di biade, eccettuato l'orzo, ed i corpi umani sa¬  ranno attaccati da perniciosi morbi ; E se tuonerà nèl secondo, le donne partoriran¬  no piu facilmente, ma peri ranno le greggi, e vi sarà abbondanza di pesci. Tuon andò  poi nel terzo sara il caldo secchissimo per modo, che non solamente gli asciutti pro¬  dotti della terra, resteranno inariditi, ma si abbruceranno ancora gli umidi e i verdi.  Laddove se tuonerà nel quarto, l’aria sarà talmente coperta, di nubi, e sì piovosa,  che le biade periranno per la putrida umidità.   Se tuonerà nel quinto giorno, sarà dinfausto presagio alla campagna, e si turbe¬  ranno tutti quelli, che presiedono ai villaggi, ed ai piccoli castelli, e borghi ; Se nel    K               RAGIONAMENTO Vili, E IX    SULLA SCIENZA TONITRUJLE, E FVLGURARIA DEGLI ETRUSCHI   rpày.[x«Tcc re Fai $u<rto> oyìav è?s7rovv;'7av ( oi Svpfavot ) sm' Aererò» 9 stai ra 7repe t»jv xepavvosxomav sarà to*vt&>v  àv.S'peomav e^et^yacavro. Diod. Sic. lib. 5 , p. 3 l 6 .   B^ovrat xaS' v7rvous ayyèXwv èics Xòyot, Astrampsycb. de Sonili. interp.    F_Ja superstizione, il più funesto di tutti i flagelli che affliggessero mai, in qualun¬  que regione, ed in qualunque età, Ì umana specie, facendola gemere sotto il giogo  più duro, e più pesante di quanti ne seppero immaginare, e fabbricare, la tirannide  più scaltra, e il despotismo più sospettoso, mescolando ognora profanamente, per me¬  glio abbrutirla, ed opprimerla, il venerando nome di Dio, alle loro malvagità le più  enormi, fu sempre, e presso tutti i popoli della terra, il maraviglioso ordigno, e l’ef¬  ficace strumento, onde si valsero gli astuti, ed i tristi, a danno dei semplici, e dei  buoni, ed i potenti, é gl’ippocriti, per dominare i deboli, e farsi giuoco dei creduli-   Questa Furia pertanto, esecranda, e crudele, la peggiore di quante ne racchiude  nel suo seno lInferno, che ha percorso sotto varie vestimenta, e con diverso aspetto,  tutta la superficie della terra, è quella che fece risuonare di strani ululati , e di que¬  rule grida le selve di Marsiglia, pei riti sanguinari di Teuta, le foreste di Norim¬  berga, per quelli d'Irmensul le montagne della Scandinavia, per placare l ira di  Thor o la vendetta di Odino, e le pianure della Perside, onde rendersi propizio Ari-  mane ; ed è pure quella medesima, che tinse di umano sangue le rive di Aulide , e  della Tauride, fece scorrer vermigli itessalonìci torrenti, e quelli d Irlanda, acce¬  se gli orrendi roghi di Lisbona, e di Spagna, desolò le Americane contrade, e co¬  perse in una sola notte la Francia intiera, di spavento e dì lutto.   Questa Furia spaventevole che prende tutte le forme, e che le varia poi in mille  guise secondo i climi diversi, ed atteggiandosi ancora nel percorrere in ogni direzio¬  ne la terra, secondo le differenti passioni, e la varia indole dei popoli, ebbe anche  presso gli antichi Etruschi, influenza grandissima, e prepotente dominio. Nè avrebbe,  potuto accadere diversamente in una nazione, ove la casta sacerdotale, o i collegi  dei Tusci, facevansi , come in Egitto, e nelle Indie Orientali, una privativa dell istru¬  zione, e di tutte le cognizioni letterarie e scientifiche .   Ora questa medesima Erinni,invadendo l’antica Etruria, e facendone in cèrto modo  suo nido, signoreggiò in singoiar guisa gli spiriti dei nostri antenati, prevalendosi  anche presso di loro, di tutti gli strumenti opportuni al suo scopo. Laonde s impa-  Etr. Mus . Chius. Tom. 7 . 11    ri  0     8o   o/o dal fulmine aneli essi, come facevano i loro maestri. Quindi allorché esso partiva  dall' Oriente, ed avendo toccato leggermente alcuno , ritornava da quella parte, era  questo il segno di una perfetta felicità . Non traevasì peraltro nessun augurio del ful¬  mine, quandi esso altro non faceva che strepito. Quelli poi che sembravano promettere  lene , o male, erano presi per contrassegni della protezione, o della collera di Dio .  Laonde V erano fulmini di cattivo augurio , dei quali potevasi peraltro allontanare  il presagio, come dipendeva dalla volontà degli uomini il procurarsi quello dei ful¬  mini di augurio favorevole , per mezzo di cerimonie religiose, e di offerte. Ve n era¬  no poi altri, di cui non era dato ai mortali di rimovere la minaccia, per via di al-  cuna espiazione.   Brasi introdotto pure fra i Romani, come insegnavasi in Etruria , che romoreg-  giando il tuono dalla parte destra, annunziava sempre qualche cosa di felice, e che  era di funesto presagio allorchéfacevasi sentire dalla parte sinistra. I luoghi colpiti  dal fulmine divenivano sacri anche pei Romani, come tali divenivano per gli Etni¬  schi, e non era più permesso d!impiegarli ad usi profani. J i s inalzavano allora de¬  gli altari al dio Tonante, e gli Aruspici avevano cura di consacrarli col sagrifizio  di una pecora, dal cui nome venivano detti bidentali. Anche gli alberi fulminati do¬  vevano essere purificati, ed una certa classe di sacerdoti delti strufertarii facevano in  tale occorrenza un sacrifizio colla pasta cotta sotto la cenere.   Se dobbiamo prestar fede a P ausonia gli abitanti della città di Seleucia adorava¬  no il fulmine, che eglino riguardavano come la loro divinità suprema. Cantavano inni  in suo onore, ed il culto di esso era accompagnato da singolarissime cerimonie.  Ma è da credersi che il fulmine altro non fosse , se non se il simbolo di Giove, che  adoravano quegli idolatri come essendo il padrone degli Dei .   Nella Mitologia erano i Ciclopi che fabbricavano entro la fucina dell’Etna i ful¬  mini al padre degli Dei, e servivansi per comporli, e temprarli delle seguenti mate¬  rie. Mescolavano insieme i terribili lampi, lo strepito spaventevole, le striscianti  fiammé , lei collera di Giove s ed il terrore degli uomini.   Il fulmine però non era l’attributo esclusivo di Giove. Nell’opera di Ralle in¬  titolata Ricerche sul culto di Bacco, stampata a Parigi nel 1824, domo primo pag.  61, si legge che Proserpina ingenerò Zagreo, cioè Bacco, colla testa ornata di cor¬  na, il quale da se solo, e senza veruno esterno aiuto, s inalzò al trono di suo padre,  e trattò il fulmine colle mani ancora infantili. E nella descrizione delle pietre incise  del gabinetto Stoscliiano parla il IVinkelmann, a pag. 234 , di una corniola, rap  presentante Bacco con diversi attributi, ed un Satiro, ai piedi del quale vede si il ful¬  mine. Anche Luciano, e Nonno panopolita, come pure molti monumenti antichi an¬  no il fulmine per attributo a Bacco ,   Tutte le grandi divinità del paganesimo , avevano due caratteri distinti: Luna  generale •, ed era quello del primo principio, dotato della forza, e della potenza uni-  v ersale, e l’altro particolare, che ciascuna di quelle divinità riceveva dalle funzio-          , 79   sesto s ingenererà un insetto nocino nelle mature biade, e se nel settimo regneranno   dei morbi, senza però che ne molano molti, e le secche biade cresceranno, mentre s’ina -  ridiranno le umide , e verdi,   . Tuonarldo nel giorno ottavo sarà annunzio di grandi piogge, e della morte del  frumento, nel nono significherà che dovranno perire le greggi per l'incursione dei  lupi, e nel decimo che vi saranno frequenti morti, ma che tuttavia l'annata sarà fer¬  tile;Mentre se tuonerà nelVundecimo, annunzierà innocenti calori, e letizia alla re-  pubblica , e se nel duodecimo accadeva lo stesso   Quando tuona nel giorno decìmotèrzo, minaccia la rovina di un uomo prepotente,  nel decimoquarto, indica che l’aria sarà eccessivamente calda, e non dimeno sarà lie¬  to il provento delle biade, con gran comodità di pesci fluviali, ma i corpi cadranno in  languore; E se poi tuonerà nel decimoquinto i volatili saranno affetti da incomodi  nell estate, e periranno le bestie natanti.   Se nel decimo sesto giorno tuonerà, non solamente minaccia diminuzione dell'an¬  nona, ma anche guerra, e verrà tolto dimezzo un uomo floridissimo; Se tuonerà nel  dectmo settimo, vi saranno calori grandissimi, e mortalità di topi, di talpe e di locu¬  ste i E non pertanto l’anno apporterà abbondanza e stragi al popolo romano. Tuonan¬  do nel decimottavo , minaccia calamità ai frutti, nel decimonono moriranno gli ani¬  mali nocivi agli stessi frutti, e nel ventesimo minaccia dissezioni al popolo romano.   , Quando tuona nel ventunesimo giorno, indica penuria di vino, buon provento del¬  ie altre raccolte, e gran copia di pesci-, nel ventesimosecondo presagisce un calore  dannoso, e nel ventesimoterzo dichiara letizia, allontanamento di mali, e fine di  morti. E così nel ventesimoquarto annunzia abbondanza di tutte le cose, e nel vente¬  simo quinto significa che vi saranno guerre, e mali innumerevoli.   Finalmente se tuonerà nel giorno vigesimo sesto , il freddo nuocerà alle biade, nel  vigesimo settimo, i primati della repubblica avranno da temere di andare incontro a  perigli per parte dei soldati, nel vigesimottavo, sarcivvi libertà di biade, mentre  tuonando nel vigesimonono , le cose della città si troveranno in migliore stalo, e nel  trentesimo, vi saranno per breve spazio di tempo spesse morti. E così di tulli gli altri  mesi. Allafine poi dell’ultimo mese, a pag. i 55 viene osservato, che Nigidio oiu-  dico che questo Diario tonitruale, non fosse generale, ma per la sola città di Roma.  Nè ciò parra fuori di proposito , a chiunque facciasi a riflettere che i sacerdoti etru¬  schi, erano solili vendere a caro prezzo la loro scienza , a tutti quelli che ambivano  di farne acquisto, e singolarmente ai Romani, che ebbero cominciamento da u na  ciurma di banditi d Etruria, e ne divennero poi gli emuli, quindi i nemici, e final¬  mente i padroni, ed oppressori.   Impararono però ben presto anche i Romani a fare la distinzione fra i fulmini lan¬  ciati il giorno, e quelli che lo erano nella notte-, E credevano che partissero i primi  dalla mano di Giove, ed i secondi da quella di Summanno, la qual dottrina è tutta  etnisca. Dopo questa distinzione, non tardarono molto a trarre ogni sorta di presa-     m      82-   p. e. gl' Iotorti, i quali sono quelli che tracciano cadendo una linea tortuosa, nei  quali sono prima di tutto da ammirarsi,al dire di essi, la loro natura, e la difficol¬  tà di contemplarli ; Ed aggiungevasi dai medesimi libri, che non lutti producono i  medesimi effetti, neppure quelli che vengono formati, secondo loro, dall' aria, e dal  concorso delle nubi. E vi si trovano più altre osservazioni di questa, e di altra spe¬  cie, che sono pure riferite da Lidio a pag. 171, cap. 44 •   Afferma anche Arduino che i Tusci attribuivano a noveDei la facoltà di scaglia¬  re i fulmini, e che ne distinguevano undici specie diverse j E per viepiù persuadersi  che eglino riguardavano come cosa di grande importanza la scienza dei fulmini, leg¬  gasi anche Seneca, lib. 2.° cap. 32 , 33 , e seguenti, delle questioni naturali, ov’ egli  descrive prolissamente tutta la lor dottrina, e tutta la loro scienza sui fulmini, ed an¬  che intorno alla divinazione per mezzo dei medesimi-. Lo che tocca pure Cicerone nel  libro primo della divinazione. Censormo poi al capitolo xi, pag. 69 , De die natali,  loda esso pure i libri rituali degli Etruschi.   I medesimi Etruschi avevano eziandio alcune singolari opinioni per impedire che  i fulmini cadessero in certi luoghi, piuttosto che in altri. E cosi, leggiamo nei Geo-  ponìci, o scrittori delle cose rustiche, lib. 1 , cap. 16 , che sotterrando in un campo  la pelle di un ippopotamo, ivi non cadrà il fulmine-, E nel lib. 8.°, cap. xi, è soggiun¬  to , con una sentenza di Zoroastro « affinchè nè i tuoni nè i fulmini facciano svanire  i vini » dopo di che si prosegue cosi • Il ferro sovrapposto ai coperchi dei dogli , e  delle botti, allontana qualunque danno possano cagionare ai vini i fulmini, e i tuoni.  Osservazione la quale fa un poco ai calci colla buona fìsica, ma ciò non monta. Co¬  si la spacciavano i Tusci ! Certuni poi vi sovrapponevano alcuni rami di alloro , i  quali dicevano essere giovevoli in ciò, per contrarietà di natura, e qui avevano ra¬  gione . Nei suddetti libri sacri, e rituali dei Tusci, incontratisi ancora altri nomi da ti  ai fulmini, oltre quelli già riferiti in questo ragionamento. Imperocché altri ne chia¬  marono Fumidi, altri Candidi, altri Irruenti, ed altri Presteri,' E ciò dicevano essi  di aver istituito, perchè producono diversi effetti. Quindi soggiungevano che gli  Ardenti sono quelli che si dicono Presteri, e quelli senza fuoco son chiamati Tifoni,  laddove i più languidi son detti Enifie. Diconsi poi Egide quelli che noi diremmo  Prefratti, o rotti prima, i quali sono portati da un igneo globo • Donde avviene che  V etnisca tradizione, mette le Egide intorno a Giove, quasi insinuando che l’aria è  la causa cosi della procella, come del fulmine, e della concussione del tuono .   Quando il fulmine romoreggiava fra il giorno, e la notte, solevano chiamarlo i  Romani fulmen prevorsum , e dietro gl’insegnamenti degli Etruschi attribuivanlo a  Giove, ed a Summanno. Gli Scandinavi, ed i Celti, abitanti delle parli settentrionali  d’Europa',credevano che i rimbombi dei tuoni fossero cagionati dai colpi di clava, coi    1 È cosa degna di osservazione il vedere che  gli Scandinavi, ed altri popoli del Setten¬  trione facessero essi pure uno studio par ¬    ticolare sui fulmini , sui baleni, e sui tuoni ,  e che avessero formato di ciò una scienza  come gli antichi Etruschi, giacche rAnnua-             8i   ni, alle quali l'aveva ridotta il sistema del politeismo. Elleno avevano per attributo  il fulmine, sotto il primo rapporto, ed è ciò che si ritrova presso tutte le nazioni an¬  tiche. I libri degli Etruschi contenevano secondo Pliniolib. 2.° cap. 52 , nove Divi¬  nità che lanciavano i fulmini -,fEd attribuivano a Marte quelli che producevano de¬  gl' incendii.   Eravi a Milon in Egitto, un tempio dedicato a Nettuno fulminante, per testi¬  monianza di Ateneo, lib. 8.° E Sidonio Apollinare chiama lo stesso Nettuno Giove  Tridentifero, in questi versi,   Sacra Tridentiferi lovis hic armenta profundo  Pharnacis immergi! genitor,-   Mentre Stazio nel primo libro dell' Achilleide, lo chiama ii secondo Giove.   Apollo veniva spesso rappresentato, secondo il Golzio, colle ale ed il fulmine j.  E si vede su molte medaglie romane colla testa coronata di lauro, ed il fulmine in  mano. Sofocle nell’Edipo Tiranno, v. 47 J, e Plinio, lib. x, cap. 2. 0 , parlano pure di  Marte fulminante, come si vede su diversi monumenti antichi.   Vulcano lanciava aneli’esso il fulmine, secondo Virgilio, e Nonno nelle Dioni¬  siache, ed alcune medaglie dell isola di Samo, lo rappresentano cosi. Vedesi poi il  Dio Pane col fulmine, su due piccole figure romane in bronzo, e ne parla Ateneo  nell ’undecitno libro dei Dipnosofisti.   Cibele si vede spesso rappresentata col fulmine, e lo portavano pure Minerva, e  Giunone ,• E quest’ultima era collocata a Cartagine sopra un lione, tenendo il fulmi¬  ne sulla destra, e lo scettro sulla sinistra-, Mentre della prima dice Virgilio :   Ipsa lovis rapidum jaculata e nubibiis ignem.   Finalmente lanciava il fulmine lo stesso Amore -, E questo Amore Kspmvofofos, cioè  laudante il fulmine, era scolpito sullo scudo di Alcibiade, secondo l’Epigramma  228 dell’Antologia greca .   Molti poi sono i generi degli stessi fulmini. Insegnavano i Tusci, e lo riferisce  anche Plinio, che quelli i quali vengono asciutti, non ardono, ma disperdono, e che  gli umili non bruciano mainfoscano.Quindi ne annoveravano un terzo genere,chiama¬  to chiaro', i quali sono di una natura veramente mirabile, imperocché asciugano , p.  e. le botti, piene di vino o di altro liquido, lasciandole intatte , e non iscorgendovisi  alcun vestigio per ove le abbiano vuotate . Di più, l’oro, l'argento, ed il bronzo, ven¬  gono da tali fulmini liquefatti entro gli scrigni o nei sacchetti, ove suino riposti,  senza arderli in verun modo, e neppure abbronzargli, ed anche senza guastare il si¬  gillo di cera col quale siano stati chiusi. Si racconta che Marcia principessa roma¬  na fu colpita da uno di questi fulmini, essendo gravida, il quale uccise il feto che  ella portava, ed essa poi sopravvisse senza verun altro incommodo ; E narrasi anco¬  ra nel prodigi Catilinarii del Municipio Pompeiano,che Marco Erennio Decurione fu  percosso da un fulmine in giorno perfettamente sereno.   Oltre questi generi di fulmini, ì libri dei Tusci ne contenevano ancora altri, come,  Etr. Mai. Chius. Tom. I. 12      84   trar nel cielo: opinioni uscite tutte quante dalle dipinture allegoriche delle antiche  rivoluzioni del nostro globo.   I Brasiliani, ad ogni scoppio di tuono, riguardano tremando il cielo, e sospiran¬  do ; E credono che sia il loro Agnian, o lo spirito maligno, che minacci di percuoter¬  li. Almeno cosi ci assicura il viaggìator Cereal. In Circassia, i piartele tuona, escono  gli abitanti dai villaggi, e dalla città, e tutta la gioventù si mette, al dire di Taver-  nier nei suoi viaggi, a ballare, e cantare in presenza dei vecchi.   Le quali danze, e le quali cantilene, se non furono funebri, o guerriere nel loro  principio, bisogna dire che la gioia di quei popoli sia fondata sull' idea che il tuono  sia di un felice presagio. Idea conforme ancor questa a quella dei Persi, e di un gran  numero di popoli antichi, ì quali credevano che il fulmine rendesse sacro tuttocio che  toccava-, E ciò perchè presso i Magi era il fuoco temblèma della Divinità, conforme  si può vedere eruditamente provato dal Signor La [fide, nell opera da lui composta   sulla religione dei Persiani, cap. primo.   Presso i sunnominati Circassi, un uomo ucciso dal fulmine è giudicato avere ri¬  cevuto da Dio un gran favore : E se il fulmine stesso è semplicemente caduto sulla  sua casa, egli e tutta la sua famiglia sono nutriti per un anno a spese del pubblico .   Era opinione degli antichi idolatri, che Giove punisse, non già con volgari ga-  stighi, ma bensì fulminandoli, tutti gli spergiuri. E però si legge in Aristofane, nh.  w Si i z* tw-wtmSt ~ h cioè « Imperocché Giove scaglia questo fulmine vera¬  mente mirabile, contro gli spergiuri . Ad onta però di queste popolari credenze, non  mancavano tuttavìa di quelli, che le schernivano, e se ne ridevano di tutti i volgari ti¬  mori . Difatti Luciano, nel Timone, riprendendo timprudenza di alcuni uomini, che  spergiuravano in dispregio dei Numi, subindicò il timore del fulmine dìcen o che que  sta specie di mortali , temono più una lucerna spenta , che la caduta di uri fulmine , e   di esserne colpiti. s™» w » «cuy»:. ™ ™ ^ 5 T0=   «fawoo vale a dire: pertanto alcuni di quelli che spergiurano, temerebbe   piuttosto una lucerna spenta, che Infiamma di quel fulmine domatore di tutte le cose.   I Romani , che al dire di Cicerone, presero auspicia et sacra ab Ltruscis, e secon¬  do Valerio Massimo derivarono tutti i semi della religione dall Etruria, e noi ag¬  giungeremo francamente, anche ogni demento di civiltà , fecero passare un gran  numero di etruschi Numi a Roma . Quindi provano con buone ragioni, ed autorità .  il Dempstero, ed il Gori, che erano presso che infinite le divinità adorate dai nostri  maggiori, e che la più gran parte presero domicilio in Roma. Laonde chiameremo  temerarie, e stolte le critiche mosse da alcuni Archeologi più moderni, contro quei   te alla prima percossa che hanno dal fulmime, non dispiacerà ai nasini lettori il vedere mes¬  cle nessuno animale è arso , o acceso dal te qui a confronto le supersituom tomtrual,   r7 . > . ... P f u l vararle desìi Scandinavi, ed altri setten-   fulmine , se non e morto, e simili. ejiu 0 uiun 5   t ■ j ] , . t j’ /-.p trionali con Quelle desìi cinlichi Etruschi sui'   Lasciando ora da parte quanto siano tali os• inori un / &   servazioni consentanee alla buona fìsica , 1 ° stesso proposito»             83   quali il loro Dio Thor percuoteva ì Giganti. Il qual linguaggio è lo stesso che quel¬  lo dei moderni Persiani, i quali credono che le stelle cadenti siano colpi di fulmini,  che gli Angioli scagliano nelle altre regioni, contro i Demoni, che si forzano di rieri-    rio tonitruale di quelli , ha molta somiglian¬  za col Diario fulgorale, e tonitruale di questi.   Si legge infatti in Olao Magno, lib■ i, cap.  3i della sua storia delle genti, e della natura  delle cose settentriouali , cne i tuoni di gennaio  significano che i venti soffieranno con mag¬  gior gagliardia del solito, e che sorgeran¬  no le biade più dritte , e grandi. Quelli di  febbraio annunziano una grande mortalità  e singolarmente di quelli che vivono nella  delizia. E quelli di Marzo indicano gagliar¬  di venti , e che vi dev’essere gran fertilità  in quell anno , e straordinario strepito nei  giudizii .   Indicano i tuoni di aprile che cadrà una piog¬  gia conveniente elle biade 9 e che la campa¬  gna sara abbondante in tutto il corso del¬  l'anno, mentre quelli di maggio significano  tutto il contrario, cioè, penuria di biade,  ed una formidabile carestia di tutte le co¬  se. Presagiscono poi quelli di giugno una  piu abbondante fertilità, benché predi cono  al tempo stesso infermità spaventevoli.   1 tuoni di luglio annunziano abbondanza di  frumenti , ma distruzione di legumi 9 e di  frutti . Predicono quelli di agosto che gli  uomini converseranno pacificamente fra to¬  ro 9 ma vi saranno malattie pericolose 9 E  quelli di settembre denotano fertilità in quel-  Ialino , nel quale però sovrastano guerra,  sedizioni , e morti .   1 tuoni di ottobre sono qualificati coll’epiteto  di portentosi, perche indicano grandi tem  peste in mare , ed in terra ; quelli di novem¬  bre, benché raramente tuona in tal mese ,  promettono fertilità nell'anno seguente. E  quelli finalmente di dicembre significano ab¬  bondanza di tutte le cose , ed una giocon¬  da conversazione degli uomini fra loro .   Altre osservazioni dei settentrionali sui ful¬  mini , sui lampi, e sui tuoni portano quanto  segue. Quando nell’estate per esempio, tuona  più che non lampeggia, significa dover sof¬    fiar venti da quella parte, e per lo contra¬  rio se balena più che non tuona, deve cader  molta pioggia.   Quando lampeggia essendo il cielo sereno ,  vuol dire che vi saranno pioggie , e tuoni 9  e farà un tempo da inverno E tali co¬  se poi saranno gravissime, ed atrocissime  quando questi lampi , e questi tuoni verranno  da tutte le parti del cielo. Ma se balenerà  soltanto dalla parte ciV Aquilone indicherà  pioggia nel giorno seguente j E se i lampi  verranno dal punto preciso del Settentrio¬  ne 9 soffieranno venti. Lampeggiando dalla,  parte di Austro , di Coro 9 o f avonio , es¬  sendo serena la notte , significherà che de¬  vono venir pioggie, e venti da quelle mede¬  sime parti.   Dicevano ancora i settentrionali, che i tuoni che  scoppiano la mattina di buonora annunziano  venti e quelli che si sentono nel mezzogiorno  predicono una grossa pioggia . Aggiunge¬  vano poi essere imjjortantissimo il sapere da  qua! parte vengono i fulmini , e dove si  dirigono. Imperocché sono crudelissimi quel¬  li che partendosi dal settentrione vanno ver¬  so l Occaso , e sono di ottima natura quan¬  do ritornano finalmente a quelle parti dalle  quali sono venuti , perche quando vengono  da quella parte del cielo d’ond’ebbero ori¬  gine, e poi ritornano alla medesima, presa¬  giscono allora una somma felicità da quel¬  la parte di mondo 9 rimanendo però infelici  tutte le altre .   E finalmente altre curiose osservazioni aggiun¬  gevano intorno a quest’articolo , come, che la  notte piu che il giorno lampeggia senza tuo¬  ni , che la natura ha dato il privilegio al-  l’ uomo di essere rare volle ucciso dal ful¬  mine, e che se questo accade talvolta , è as¬  sai più conveniente, e pietoso ufficio il sot¬  terrare quel morto , che il bruciarlo . Che te  ferite dei fulmini sono più fredde che tutte  le altre, che le bestie moiono istantaneamen-           86   parla Cicerone nel primo della divinazione-, nè fa diuopo osservare il diverso inalzar¬  si della fiamma, o lo scrosciar della medesima, nè lo scoppiettar dell incenso, delle  quali cose scrisse, secondo Stazio, un tal Tiresia, famosissimo augure etrusco. J\è  occorre tampoco far menzione, per esaltare Tetnisca sapienza, di ciò che osserva fra  gli altri Seneca , Uh. n, cap. 4 1 delle quistioni naturali , circa l avere i medesimi  fatta anche la distinzione tra i fulmini prodotti nelle nubi, é nell'aria, d onde scende¬  vano in terra, e quelli che prodotti nella terra slanciavansi in alto, e verso le nubi  medesime, giacché queste, e molte altre simili cose trovansi narrate, e raccolte da  vari autori.   Ma non sono però da passarsi sotto silenzio alcune memorie di Plinio, Ub, n,  cap. 3 .°, ove narra distesamente in due capitoli, le opinioni degli Etruschi, appog¬  giate ad una ragionevole fiolosofia, circa lessenza, o la natura, e circa le diverse  specie di fulmini da essi distinte. Conferma ivi quel sapientissimo scrittore ciò che  abbiamo qui sopra accennato, che vengono cioè i fulmini, tanto dalle nubi, quanto  dalla terra, ed assicura aneli esso, che trovavansi negli scritti etruschi, nove, o più  probabilmente undici specie di fulmini, delle quali ì Romani loro figli, e discepoli,  non ne avevano osservate, e mantenute che due. Il che viene a confermare sempre piu  il detto di Cicerone, che quei superbi conquistatori, ed oppressori del mondo, ebbero  dagli Etruschi non solamente lorigine, ed i riti religiosi, tutti quanti ne usarono  mai, ma eziandio la civiltà.   Egli osserva pertanto particolarmente, la diversa natura, e diversi singolarissimi  effetti dei fulmini, che dal cielo provengono, e di quelli che dalla terra sono prodotti-,  ed avverte ad un tempo, che queste osservazioni furono trasportate, e trascritte negli  annali romani, aggiungendo inoltre che vi erano pure le maniere ed i riti per chiama¬  re i fulmini, ed impetrarli dal cielo, come fece forse Porsernia, che con un fulmine  così ottenuto , ed accompagnato da un mostro chiamato Volta, devastò, come dicono,  le campagne dei Volsinii. Ei dice di più, che in questa scienza era dottissimo Nu-  ma Pompilio, e che avendolo poco bene imitato Tulio Ostilio , fu arso da un fulmi¬  ne-, E che per questo fra i diversi nomi che per l'etnisca disciplina furono dati a Gio¬  ve, di Statore, di Tonante , Feretrio, e simili, s'incontra pure quello di Elido, o  Evocatore. E finalmente che si prevedono in tal guisa le cose future, benché sia te¬  merità il credere, che si possa comandare alla natura, o sforzarla .   Il medesimo autore osserva poi, come il baleno sia piu veloce del fulmine ,  e del tuono , e come perciò il fulmine stesso debbasi prima vedere, che udire.  Circa le qiiali osservazioni di Plinio intorno alla scienza tonitruale, e fuigurari a  degli Etruschi, vi sarebbero da fare molte fisiche riflessioni, se l indole dell opera  per la quale sono scritti questi ragionamenti, lo comportasse.   E sul proposito di questa scienza etrusca, nella quale dice il sullodato Plinio  essere stato peritissimo il re ISuma, ascoltisi anche Ino Livio, lib.t, il quale lo  chiama non solamente dotto nelle arti peregrine, ma eziandio nella tetrica , e trista               85   due dottissimi scrittori ; Colle quali critiche pretendono di negare, che per esem¬  pio , un tal Nume, non abbia potuto aver culto in Etruria, perchè si cede adorato net  Lazio, ed m Roma ,; Avvegnaché dovrebbe piuttosto aver luogo la congettura contra¬  ria, come saviamente rifletteva il sapientissimo Guarnacci .   Imperocché, dovrebbe dedursi che se una tale divinità si vede adorata in Roma  e nel Lazio, è ben ragionevole il credere, che abbia prima avuto culto in Etruria-  quando si voglia riflettere, che una colonia etrusca erano i Latini, e che lo stesso  fondatore dell Eterna Città, coi suoi primi abitanti, non furono altro come anche  altrove accennammo, che una banda di fuorusciti Etruschi.    c he se poi igrecomani, sottilizzando, ed ostinandosi ognora più a volere irrefra¬  gabili prove, e quasi ancora la fede di battesimo, come diceva il prelodato Guarnac-  ci, che un tale idolo, od un tal monumento qualunque, sia veramente etrusco , e non  greco, nè romano ; Oltre che si può risponder loro che queste prove intrinseche , non  le hanno d’ordinario neppure le cose veramente greche, e romane, e che l'anti¬  quaria iti genere si aggira sulle asserzioni degli antichi autori, i quali ci hanno la¬  sciato scritto, dove i vani Numi, e i diversi riti abbiano avuto l’originario loro culto-,  Si può ad essi aggiungere ancora che ve una probabilità, la quale confina colla cer¬  tezza, che dove un si gran numero d’idoli, di vasi ed altri monumenti di ogni manie¬  ra, sono stati trovati, siano stati pur lavorati. Ed essendo imedesimi stati dissotter¬  rati negli scavi etruschi, ed indicando una grandissima antichità, e mollo superiore  alla civiltà greca, e romana , è irragionevole , ed assurdo il credere, che i soli Gre¬  ci , e Romani li abbiano dappertutto disseminati.   Ed anche a ciò che dice il chiarissimo signor Vermigliali, il qlude pretende  ( . E roga ime di Admeto e di Alceste) che i monumenti italici più sono antichi, e più  grecizzino, ed al contrario latineggino maggiormente, quanto più si avvicinano  all epoca del dominio romano in Etruria, come pure che gl’itali antichi spesso aspi-  cassero, si può rispondere cosa che sarà di scandalo agli Archeologi pedanti i  quali non sanno, o non vogliono trarsi fuori della traccia segnata dai loro prede¬  cessori abbiano essi fatto bene , o male. Ed è questa : ,o,m , ere l e osservazioni  del sullodato filologo perugino, perchè la lingua greca è figlia della vetustissima  etnisca in quanto alle sue radicali, benché ne differisca grandemente nelle infles-  Stoni, édi Greci sono scolari degli antichi Etruschi, ossiano Pelasghi Tirreni, in¬  digeni d Italia, i quali andarono in remotissima età a colonizzare , e popolare la Tra¬  cia eia Grecia, come m altro ragionamento accennammo . In quanto poi alle aspira¬  zioni degl Itali antichi, procedono queste dall’orientalismo, che ridonda in ogni dove  in Italia, e che vi fu introdotto in tempi da noi oltremodo lontani da una colonia  orientale, coi primi elementi della civiltà, come pure asserimmo nel quarto di ave  Sti ragionamenti medesimi. " e ~   Ma torniamo ai fulmini ed ai tuoni. Non occorre citar qui i libri fatali degli  Etruschi , ricordati da Tito Livio, hi. V, nè i fulgorali, e gli aruspici, dei quali   j3    Etr. Mus . Chius. Tom. J,         88    TAVOLA LXXXV.   Chi mai oserebbe di qualificare l’avvenimento qui espresso, non vedendovisi  che due militari pronti alle difese e alle offese, senza ravvisarvi ne 1 inimico, ne ogget¬  to veruno che sia motivo di questa loro disposizione al combattimento? Ma siccome  questa pittura è nel mezzo d’una tazza, intorno alla quale sono altre figure giallastre,  come questa, in fondo nero, così tenteremo di trarre da quellequalche argomento  a cognizione di questa.   TAVOLA LXXXVI.   Un corpo esanime steso al suolo, presso cui stanno alcuni combattenti che ne  scacciano altri in costume diverso, mi richiama alla mente l’avvenimento del corpo di  Patroclo, contrastato fra i Greci e i Troiani,e finalmente ottenuto da quelli coll’espul¬  sione di questi '.Non vi sono caratteristiche assolutamente variate tra combattenti  e combattenti, a dichiarar Greci gli uni, e Troiani gli altri,ma pure la totale nudità dei  primi li fa credere eroi,che la Grecia rappresentar suole in tal guisa 2 ;mentre gli altri tre  hanno in testa un berretto: uso asiatico e particolarmente dei Frigi 3 .Hanno essi pure  nella clamide che indossano un segno d'abbigliamento, che raramente onon mai tra¬  scurasi nelle figure asiatiche, per quanto io abbia nei monumenti antichi osservato.  L'uomo steso al suolo qual corpo morto, è altresì nudo del tutto, e inconseguenza  spettante ai Greci, cqme difatti era Patroclo il caro amico di Achille, che fu ucciso in  guerra da Ettore, secondo Omero l . Probabilmente anche i due guerrieri dipinti nel  mezzo della patera, e che vedemmo nella tavola antecedente,son due Greci alla custo¬  dia e difesa del corpo di Patroclo, ch'è dipinto nel fregio della tazza medesima. Infatti  essi vedonsi armati,ma nudi,giusta il costume greco eroico,siccome dicemmo. Qui le  figure son ridotte un terzo più piccole di quelle che vedonsi nella tazza originale,ove  sono di color giallastro in fondo nero.   TAVOLA LXXXV 1 I.   Qualora mi si conceda esser probabile la interpetrazione dell’antecedente rappre¬  sentanza della morte di Patroclo, e del contrasto tra i Greci e i Troiani, per ottenerne  il cadavere, non mi sarà negata fiducia nella supposizione eh'io son per proporre,  che in questa pittura, la qual fa seguito all’antecedente, vi siano espressi gli o-  nori funebri che furon resi dall’amico Achille a quell’estinto eroe, e particolar-   i Galleria oraer. Iliade, Voi. 11 , Tavole cxcix , 3 loghirami, MoDum. etr. ser. 11 , p. 45°-   cc, cci, ccn. 4 Lib. xxn, v. 34 -   a Plot., Vii. Alexand.  I?    disciplina de vecchi Sabini ( che erano Etruschi ), di che non vi è stata mai veruna  cosa piu incorrotta, e veneranda. E dicendo che lo stesso Numa era dotto anche nei  liti peregrini, si deve intender qui di quelli di Samotracia, che erano i idrici , e tri-  sti dei Pelasghi, Tirreni, Etruschi ancor essi, come altrove dicemmo , e lo abbiamo  ripetuto pocanzi; E che i Romani riguardavano come peregrini, perchè tali erano  divenuti per loro, essendo in tempi da essi lontani, passati dagli Etruschi ai  Samotraci .   La scienza dei quali riti possedè Porsenna, e molto prima di lui anche Dardano,  il quale portossi in Samotracia pel solo oggetto di conferire con quei sacerdoti, e per  introdurre poi in Troia una religione del tutto ponforme a quella dei suoi antenati,  che era l Etnisca. E si noti, che il medesimo Tito Livio, e tutti gli antichi scrittori  ci fanno sapere che il più volte nominalo Numa Pompilio fu religiosissimo, e propa¬  gatore in Roma di ogni pia istituzione ; Ove non altro ei propagò certamente, che  riti etruschi.   Ed ecco una erudita chiacchierata sulla scienza tonitruale, e fulguraria degli  Etruschi. La quale potrebbesi ancora condurre più a lungo, ed arricchire di più al¬  tre peregrine notizie su questa recondita disciplina, se non fosse il già detto più che  abbastanza pel nostro scopo. Ma come e quando mai, e per quale sovrumana poten¬  za , andarono a mancare queste, e tante altre superstizioni, stabilite , ed inveterate  nel mondo, radicatissime nei cuori degli uomini, e venerate, e temute in tutte le re¬  gioni della terra aliar conosciute? In qual modo cessarono i terrori e la paura, onde  avevano saputo gli antichi sacerdoti, di concerto sempre cui Despoti, invadere gli  spiriti dei mortali, tenuti ognora da essi, a bello studio nella cecità, nel timore e nel¬  la più profonda ignoranza con mille misteriose ambagi, e con mille disperate minac¬  ce? Scomparvero tutte queste tenebre, e caddero tutti questi arcani e portentosi ordi¬  gni, al comparire della luce Evangelica. Al comparire di quella legge, t unica fra  quante ne vide l'universo, che introducesse la vera libertà, e la vera eguaglianza  fra gli uomini. Al comparire di quella legge in somma, che mette, davanti a Dio,  a livello del più temuto tiranno, e del più potente monarca, anche il più infimo  del popolo .    In urna di marmo    LI.    : flnoai ; qflj    LII.    • . • J3 : M : 43    un. fm \iflj : miai : janavi : armo    LIV.    . • : iaruv/Hflm ; f\nn o   Nell’orlo d’un vaso cinerario di terra cotta    LV,    mtvfl Jtiat v/rji  9°    TAVOLA XC.   È questo idoletto in piccolo, quello che dissi esser l'altro, rappresentato più  in grande, e con alquanta varietà nelle Tavole XLIX, e LXVII di questa raccol¬  ta, essendo il presente di grandezza simile al suo originale. Ma la di lui picco¬  lezza, e 1 non esser vuoto, non permette che si riconosca per un cinerario, sic¬  ché fu tenuto soltanto pel nume che riceve, abbraccia e protegge gli estinti, che  nati dalla materia terrestre tornano dopo la morte in seno alla terra, o per meglio  dire alla natura mondiale, della quale Bacco era il nume tutelare. E poiché mi  si dice che piu d uno di tali idoletti si trovarono in uno stesso sepolcro, da ciò  argomento che speciale fu nel sepolto la venerazione pel nume da questa im¬  magine rappresentato.   Al numero 2 si vede un fregio in bassorilievo che ricorre in giro in un va¬  so dei consueti chiusini di terra nera, e non v’è differenza in misura tra l’ori¬  ginale e la copia. Il significato mi sembra lo stesso dei precedenti lavori di si-  mil genere. Vedo ancor qui come altrove la Chimera, e credo che l’oggetto so¬  stenuto in mano dagli uomini sia, come nei calendari egiziani, lo Scorpione si¬  dereo. Aoterò di passaggio a tal proposito che il famoso torso egiziano in ba¬  salto, che un tempo fu del card. Borgia, pubblicato dal eh. Lenoir alla Tavola  VI del forno [, num. g si vede come qui una figura con Io Scorpione tenu¬  to per la coda, e dietro a se v’è parimente il leone con la coda che termina in  un serpe, e con la Capra sul dorso, nè spiegasi differentemente che pei segni  delle celesti costellazioni. Si vuol peraltro che nella Capra sopra del Leone  si ravvisi il trionfo del Capricorno sopra il Leone, e probabilmente i due serpen¬  ti che nel nostro bassorilievo si manifestano, saranno quei che dominano il cie¬  lo nel tempo dell'indicato trionfo. A tal proposito, gli astronomi osservano, che  mentre il Capricorno comparisce al nostro Zenith, la Vergine si mostra sotto il  segno dello Scorpione , o del domicilio di Marte 3 : e difatti sì nel monumento  chiusino, che nell'egiziano comparisce una figura che ha in mano uno scorpio¬  ne, se non che nell'egiziano si mostra femminile quella figura, che qui per la sua  nudità, par eh esser debba maschile, ma ciò non si manifesta con sufficiente chia¬  rezza. Che i cavalli abbian luogo in simile rappresentanza relativamente ai Ca¬  valli siderei, già me n espressi altrove abbastanza,, ove mostrai principalmente es¬  sere il cavallo sidereo un paranatellone del levare eliaco dello Scorpione J .    3 Lettere di etnisca erudizione . Tom. i, pag.  i85.    1 Lenoir, Nouvelle explic. des hieroglyphes  a ivi. Tom.i, p. io4-  %   mente il giuoco del pugilato col cesto, che Omero 1 * pone il secondo tra gli spettacoli  dati in onore di Patroclo nel di lui funerale 3 4 . Nei vasi, che negli annali dell’istituto di  corrispondenza archeologica si dicono panatenaici, vedonsi a lato dei combattenti,  col cesto come qui, degli uomini coperti d'un manto con braccio scoperto, e dall'in-  terpetre attamente chiamati rabdofori 3 , i quali assistendo a quel giuoco hanno  in mano una verga biforcata, similissima a questa dei presenti i . Le due ultime  nude figure una soccombente all’altra prevalente, ancorché senza cesti alle mani, mo¬  strano che i pittori aggiungevan talvolta delle figure e dei gruppi a capriccio, ad  oggetto d'empir lo spazio che doveasi dipingere. Se però consultiamo i più mo¬  derni sentimenti degli archeologi, troveremo-ammessa pure l’ipotesi, che una fi¬  gura umana stesa per terra presso alcuni combattenti, ascrivere si debba, unica¬  mente ad alcuno dei contrasti gimnici, senza ricorrere al particolare avvenimen¬  to di Patroclo per isvilupparne il significato 5 .   TAVOLA LXXXVIII.   Un sacerdote di Bacco ed una Menade con dei vasi libatori formano il sog¬  getto di questa pittura, e son frequentissimi quanto altri mai nei vasi fittili di¬  pinti , onde potremo giustamente ripetere col Lanzi che di cento vasi tornati a  luce, novanta contengono soggetti bacchici. È singolare il tirso eh’ entrambe le  figure sostengono, mentre ha un'armilla che nei tirsi non è comune, ma nem¬  meno del tutto insolita, senza che per altro s’intenda qual n'era l'oggetto.   TAVOLA LXXXIX.   Nell’oscurità di questo soggetto non altro saprei ravvisarvi che il celebre gre¬  co Capaneo estinto sotto le mura di Tebe. Altrove pure narrai come questi van-  tavasi che avrebbe presa Tebe, volesse Giove o non volesse, ma provocati gli Dei  con tali bestemmie, ne accadde che mentre il primo dava la scalata, Giove non  lasciò compier l’impresa, e con un fulmine Io precipitò dalla scala e lo uccise 6 .  Or io noto che qui si vede una scala squarciata dal fulmine, un uomo rovescia¬  to che dall’alto cade a terra, e dietro a lui le mura forse di Tebe, dove stanno  alla guardia militari tebani. Le altre figure si possono intendere pel restante del¬  l’esercito, eh’è spaventato, e stramazzato a terra per lo spavento del fulmine.  L'urna in marmo è cinque volte maggiore di questo disegno.    i Iliad. lib. xx.111,11. 65 a.   a Galleria omerica Iliade Tom. u, p. 18*.   3 Voi. n, p. 218.   4 Ivi, lav. xxi, io, 6. xxu, 8. 6.    5 Gerhard, Annali dell’istituto di corrispondenza  ardi. Tom. in. p. 54 Anno 18 3 i -   6 Monumenti etr. ser. i, Tav. tav. lxxxvil.    #     mv      XLIV, e altrove, mentre altri sono come il presente eseguiti in forma di vasi  con capricciosi ornamenti, rivestiti per lo piu da fogliami, e con iscrizioni latine,  come pur qui si legge, indicando il nome di Lucio Aulo Carino. Io stesso nel¬  la mia dimora in Chiusi vidi molti monumenti e rottami di essi, di stile greco  e romano e bellissimi.    TAVOLA XCV.   Nell’interno d’ una tazza di terra verniciata in nero, si vedono queste due  figure di color giallastro; e sono, per quanto mi sembra, d'uno .stile perfet¬  tamente simile a gran parte di quelle pitture monocromate dei vasi italo-greci.  Vi si rappresenta un suonatore con cetra e plettro , in atto di attendere dalla  Vittoria il premio del suo valore, e credo che ciò alluda ai pregi morali dell’ani-  ma, che negli estinti son premiati nella vita futura; e perciò soggetti simili ed  analoghi a questo si trovano frequentemente dipinti nei monumenti che pone-  vansi nei sepolcri, ma ora corrono altre opinioni.   TAVOLA XCVI.   Se aver vogliamo un esatto conto d’ogni figura eh’è in quest’ urna di mar¬  ino, il cui disegno qui è un ottava parte del suo originale, non saprei se potes¬  simo riescirvi con plausibile disimpegno. Ma se consideriamo che gli artisti ob¬  bligati a trattare nelle opere loro un qualche mitologico soggetto, eran poi costret¬  ti ad ornarne tutto lo spazio del marmo che formava il primario lato dell’urna  sepolcrale, ancorché il soggetto da loro scelto non richiedesse tante figure, quante  ne occorrevano ad ornare lo spazio determinato, noi troveremo irreprensibile lo  artista che abbonda in figure, ancorché non richieste dal soggetto che tratta, co¬  me ne somministra un esempio assai chiaro il bassorilievo di questa Tavola. Io  vi ravviso Ulisse in atto di adoprare il suo arco, il qual potea dalle sole sue ma¬  ni esser teso, ed uccide i proci di sua moglie Penelope, i quali dilapidavano le di  lui sostanze. Egli ha un berretto appuntato, eh’ è la consueta causia che lo di¬  stingue come famoso viaggiatore del mare ’. Sta con un ginocchio sull’ara, mostran¬  dosi protetto dai numi 3 nella difficile impresa d’esterminare egli solo coll'aiu¬  to del figlio Telemaco i tanti suoi nemici. La colonnetta sulla quale solevansi  tener degli idoli domestici, mostra ch’egli è già penetrato nell'interno della sua  casa, mentre le colonne doriche vedute nella parte opposta danno indizio che lo  avvenimento accade nella sua reggia. La forza ch’egli mostra di fare col braccio  destro per tendere un arco, fa ben ravvisare ch’ei solo poteva piegarlo a forza.    i Inghirami, Monum. etr. ser. 1Ì1, p. 19.    % Ved. p. 6i, e sq. e Monum. etr. ser. 1, p. 353 .  9 *    W'    TAVOLA XCI.   Qui si mostra nuovamente un ago, o spillo crinale in oro di un lavoro de¬  licatissimo, considerando che nel suo capo segnato num. 1, della misura stessa  di questo disegno, vi è il lavoro che portato in grande, si vede al min. 2 , il  cui ornato è di semplice bizzarrìa. Il monumento di numero 3 si rende assai  singolare, per essere una di quelle solite fermezze che in luogo d esser di bron¬  zo, come se ne trovano a centinaia, è doro, e rarissima. Si è creduto da taluno che  queste fermezze servissero a chiudere il cadavere nel lenzuolo d amianto dove  bruciavasi, ed in tal guisa è stata trovata ragionevole l'indifferenza che tali fer¬  mezze siano in maggiore o minor numero in un sepolcro; e se questo è, noi  reputeremo più che altri opulente il morto presso al quale è stata trovata questa fer¬  mezza d’oro. Il numero 4 è similmente d’oro, e credesi frammento d'una collana .   TAVOLA XCII.   II pregio di questo monumento consistendo principalmente nella iscrizione  dalla quale è circondato, così attenderemo di conoscerne 1 interpetrazione per ope¬  ra del cultissimo Vermiglioli che unitamente alle altre del Museo chiusino, ce le pie-  para per darcele tutte di seguito in quest’ opera stessa.   TAVOLA XCII 1 .   I Centauri, che nel calendario del gentilesimo, servirono a notare il tempo  d’autunno, in cui celebravasi coi misteri la commemorazione dei morti -, hanno  servito altresì d'ornamento adattato alle lor cassette cinerarie, come qui si ve¬  de, figurandovi uno di tali mostri che avendo rapita una delle donne invitate  alle nozze d’Ippodamia la difende dai Lapiti, che vogliono rivendicarla .   TAVOLA XCIV.   II disegno del vaso che qui presentasi la metà più piccolo del suo originale  in marmo statuario,ci fa sicuri che in Chiusi, dove stato trovato, fiorirono due  scuole assai diverse di scultura; funa etnisca, 1 altra romana, giacche si trovano  recipienti eseguiti per l’uso medesimo di riporre ceneri di umani cadaveri, gli uni  in forma quadrangolare a modo di cassetta, con bassirilievi di figure e con etiu-  sche iscrizioni, come ne abbiamo fatti vedere in quest opera alle Tavole XIII,   1 Inghiraroi, Mommi, etr aer. i, p. 1 47» ^44-       9    94    TAVOLA XCIX.   Sa mai v’ha luogo all’interpetrazione di queste due statuette di bronzo num,  i e 2, i cui disegni sono grandi quanto i loro originali, potrei avventurare che 1 una  di a. i fosse d’Apollo laureato in fronte e con tazza in mano, comesi vede altrove nei  vasi dipinti 'ri’altra n. 2. diMercurio conpetasoin testa,sostenendo con la sinistra ma¬  no una sacca o borsa ,ch’è propria di questo nume, come tutelare del commercio a .   La corniola che qui mostriamo al num. 3 , ci fa istruiti quanto dagli antichi  fosse apprezzato il gruppo delle tre Grazie, che vediamo ripetuto in un modo  medesimo in tanti luoghi e in tanti tempi diversi. La dimensione della pietra è  misurata dall'ellisse num. 4-   TAVOLA C.    Fu posto in ridicolo il Gori celebre antiquario di cose etrusche, perchè fat¬  ti disegnare una quantità d’idoletti in bronzo che si conservano nella R- Galle¬  ria di Firenze i * 3 , pretese dare a tutti loro un nome speciale , formandone una  serie di etrusche divinità senza rammentarsi che soggiogati gli Etruschi, signo¬  reggiarono i Romani in questo nostro paese, ove introdussero colle lor colonie  artisti e culti sacri tutti lor propri. Perch' io vada esente da simil taccia non  mi costringa l'osservatore a dare un nome all’idoletto di bronzo che i sig." edi¬  tori del Museo chiusino han posto al num. ì, 2 della Tavola C, che nel dise¬  gno trasmessomi per la incisione trovo notato esser della grandezza medesima  dell'originale come pure l’altro di num. 3 .   È grave danno per la scienza antiquaria che dai collettori di antichi monu¬  menti non facciasi caso nessuno della maniera come questi si trovano sotterrati, dal  che non pochi lumi trar si potrebbero per la storia dell’arte, non men che dei  riti sacri presso gli antichi. N’è prova la figura che trovo disegnata al num. 3  di questa Tav., mentre si scorge di un arcaico stile ben diverso da quello che spet¬  ta alla figura superiore . Or se questi idoletti furon sepolti promiscuamente fra  loro in un sepolcro medesimo, potremo frale supposizioni lecite ammettere che  la figura di num. 3 sia eseguita ad imitazione dell’ antico stile , e contempora¬  neamente all'altra modellata certamente quando nell'arte era noto uno stile assai  più perfetto . Dopo varie mie riflessioni sul significato di queste donne che in  piccol bronzo trovansi frequenti negli scavi d’Etruria, restai perplesso nelle due    i Tishbein, Pittare de’ Vasi antichi posseduti  dal cav. Hamilton. Tom. i, Tav. 8, 9 .   » Visconti, Museo Pio dementino Voi. 1, Tav. r.   3 Museum etr. exhiben» insigne veterum Etru-    scorum monumenta aereis tabulis cc, edita et  illustrata .   4 Maffei, Osservazioni letter Tom. ir , p. *61.               93   L uomo già rovesciato per terra, che vedasi nel sinistro Iato dell’urna rispetto  al riguardante, fa conoscere già incorniciata la carnificina dei proci. 11 giovine  che vibra la bipenne sopra un armato può significar Telemaco, il quale si presta in  aiuto del padre alla strage di quei malvagi. La Furia infernale tra le colonne  della reggia attamente manifesta il terrore di sì lugubre azione che scompiglia  la casa reale d’Ulisse.I due combattenti al sinistro fianco di quell’eroe son figu¬  re, a mio credere, arbitrariamente dall'artista introdotte ad empire un vuoto che  restava senz’esse nel suo bassorilievo, come ho detto poc’anzi, ed anche in occa¬  sione di spiegar la Tavola LXXXV1I.   TAVOLA XCVII.   Mi sia permesso di rimettere ad altro miglior Edipo, ch’io non sono, d’in-  terpetrare qual fosse l’intenzione degli antichi Gentili nel rappresentare questo ,  come pure mill’ altri idoletti di bronzo, che trovansi nello scoprire antichi se¬  polcri. Io posso dire soltanto essermi noto che innumerabili erano gl’idoli dagli  antichi tenuti nei larari come dissi poc’anzi 1 . Ma non so poi quel che signi¬  fichino gran parte di essi, come il presente, nè per quali superstizioni passasse¬  ro nei sepolcri, qualora non sieno stati considerati che per semplici bronzi at¬  ti a dissipare i maleficii 2 .    TAVOLA XCVIII.   L’Arpocrate fanciullo inetto e silente, perchè non compiutamente ben forma¬  to, significativo del sole ibernale, è il soggetto che in questa piccola statuetta  uguale al suo originale in bronzo si rappresenta. Fu antichissimo in Egitto, e ne  conserva nel fior di loto, che ha in capo, il segnale, ma introdotto a’tempi de’To-  lomei fra i Greci e fra i Romani formossene una divinità pantea 3 con forme non  altrimenti egiziane, fingendolo un Amore, perchè da questi nasce lo sviluppo  della natura produttrice , per cui gli posero in mano il corno dell’abbondanza  che attender dobbiamo dallo sviluppo del calor solare, passato il tempo d’inverno.   Il vasetto di terra cotta è parimente rappresentato di misura uguale al suo  originale, ed è dipinto a figure nericcie con fondo giallastro pendente al bian¬  co, o piuttosto d’un bianco abbagliato, ed è d’un genere che gli archeologi con¬  vengono di nominare maniera egiziana 4 , sì perchè vi si vedono strane figure  sul gusto di quella nazione, e sì ancora perchè in Egitto si trovan similissimi a questi.    i Ved. la Tavola uxi.   a Monum. etr., ser. i, p. 3 i 6 .   3 Iablonski Pantheon Aegyptior. lib. u, cap. vi,   Etr. Mus. Chius. Tom. 1.    § 7* s q-   4 Gerhard, Annali dell istituto di corrispondenza  archeologica voi. in, anno i 83 i, p. i4>   *4        orecchi, piedi e coda di cavallo, con busto virile: aggregato non comune in  Sìmili fantastiche figure, delle quali ebbi luogo di trattare estesamente altrove,  dandole per simboli autunnali II vaso che ha in mano quel mostro non è che  un emblema di più per indicare la stagione d’autunno, allorquando s’empiono tali  olle di vino. La donna che gli è dappresso è una Tiade seguace di Bacco. II perchè  poi la unione di queste due figure significasse il passaggio della razza umana dalla vi¬  ta rozza e disordinata, alla virtuosa e civile per opera di Bacco e dei suoi misteri, è  argomento sul quale scrissi altrove abbastanza per darne il conveniente sviluppo a .   Delle due figure , che qui sotto al num. 2 si vedono riportate nella misura  di un quarto più piccole dell'originale, dipinte nella parte opposta di questo  vaso, non saprei indovinarne il significato, tranne il supposto d'un’armatura da un  giovane ottenuta nel passaggio all’ età virile i . Il disegno del vaso è ridotto alla  grandezza di un quarto del suo originale .   TAVOLA CIV.   Questo mistico specchio non può spiegarsi che mediante l'osservazione di molti  altri, nequali per ordinario si trovano insieme dei numi o eroi di opposta na¬  tura o potenza. Spesso vi sono espressi Dioscuri, la cui consueta combinazione fu  da me assai esaminata in altre mie carte , ov’io li mostrava in sostanza 4 espres¬  sivi di due contrarie potenze, le quali concorrevano, secondo i Gentili alla for¬  mazione e conservazione del mondo 5 . Qui pure è Teti e Giunone perpetuamen¬  te nemiche fra loro, di che ho pure altrove ragionato 6 . Che la donna seduta sulla  pistrice sia Teti lo mostra chiaro un frammento d una tazza etrusca, dove la fi¬  gura medesima ivi dipinta ne porta il nome scritto. Che la donna opposta sia  Giunone lo prova Io scettro che impugna.   tavola cv.   Il manico doppio di bronzo qui espresso nella grandezza del suo originale num.  1 mostrasi attaccato da un lato ad una testa femminile di nessuna significazione,  e dall altra ad una maschera scenica virile, nel che manifestasi quanto fossero  vaghi gli Antichi di variare ornamenti, giacché non altro che il capriccio può  a\erli dettati, come qui li mostriamo, per ornarne un vaso di bronzo. Possiamo  frattanto tener per sicuro che gli artisti di Chiusi non furono di meno elevato genio  degli ercolauesi nell’eseguir le opere loro metalliche. Del bronzo in figura di masche¬  ra di cui vedu qui il disegno n. 2 , nulla so dire ad istruzione di chi l’osserva.   4 Monumenti etr., ser. 11.   5 Plutatc. de Iside et Osir. in prineip.   6 Galleria omer. voi. 1, tav. xxxix.  opinioni o di assegnar loro il nome di Speranza o quel di Giunone *, invocata  dal femminil sesso in loro tutela. Ma chi non sa che la Speranza, e la Fortuna, os¬  sia la fiducia di migliorar sorte nel mondo, era l’oggetto primario del culto gen¬  tilesco d’Italia? 5 TAVOLA CI.   Il bassorilievo della Tavola presente è un’urna di marmo due terzi maggio-  giore di questo disegno. Qui, a parer mio, si rappresentano i due strettissimi  amici Oreste e Pilade nel pericoloso momento d’essere a Diana immolati, per  l'uso barbaro ordinato da Toante in Tauri, che li stranieri a quel lido approdati  dovevano essere immolati a Diana tutelare del luogo <. Varie tragedie si scrisse-  sero dagli antichi su questo soggetto, taluna forse delle quali dichiarava Oreste  d’età più avanzata che Pilade, o l’età di questo più avanzata di quella dell’altro,  e perciò Pilade più prudente, per cui cred’io, qui è l’uno imberbe, l'altro,  barbato. Le donne che vi si vedono sono le sacerdotesse di Diana, che vicine  al di lei altare stanno con i coltelli pronte ad immolare li sconosciuti stranieri.  Le teste umane posate sull’ara medesima vi son per indizio della consuetudine di  quel barbaro sacrifizio. Per simil modo vedonsi tali teste pendenti ad un albero  presso l’altare di Diana, ove pure Oreste e Pilade son condotti al crudo supplizio  in un sarcofago del palazzo Accoramboni di Roma, e recato in luce dal Winkelmann .   TAVOLA CII.   Questa Pallade in bronzo della gradezza dell’originale è come ognun vede,  d’un gusto squisito. Nè vorremo negare, che sia di toscanica officina , giacché è tro¬  vata a Chiusi, quantunque lo stile dell’arte ivi usato direbbesi comunemente gre¬  co , o del buon tempo romano. Oltre di che possiamo additar quest’idolo col ge¬  nerico nome di Lare, vale a dire un di quei che i Gentili tenevan chiusi per  loro devozione in alcuni armadi delle lor case col nome di larari. E dicevansi  anche patellari, come Plauto li appella 6 , perchè avevano, come il presente, e co¬  me altri riportati in quest’Opera i, piccole patere in mano, in segno di doman¬  dare ai devoti le prescritte libazioni agli Dei.   TAVOLA CIII.   Riconosco per un satiro il mostro dipinto nel vaso num. i, perchè vi si vedono   1 Ved. p. 8. 5 Antichi momim. inedit. N°. 1 44 *   2 Ved. p. 18. 65 . 6 PJautoap. Inghirami Monum etr. ser. il. p. 3 2*   3 Plinio. Nat. Hist. lib. n, cap. vii, § v, p* 73- 7 Ved. Tavv. un, lxx.   4 Euripide, Ifigenia in Tauri nell’argoin. greco.       L opposto lato del vaso che porta l'antecedente pittura ha similmente dipin¬  te quattro figure ammantate, insegno, secondo alcuni 1 , di precettato silenzio, co¬  me sembra che non ricusi di ammettere modernamente uno de’ più attenti ed  eruditi interpetri di tali stoviglie, 3 o secondo altri della palestra e del bagno 3 ,  e gli ultimi che ne scrissero, notarono in tal circostanza, che riguardo ai bagni è  assai più comune il vedere i loro utensili posti per dare indizio della palestra, che  il trovar particolari espressioni della loro struttura. Quindi argomenta che i gio¬  vani avviluppati nel manto e forniti degli arnesi atti al bagno si mostrino di là  partirne onde recarsi alla palestra 4 . Io peraltro che soglio dare al significato di  tali pitture maggiore importanza, mentre le vedo sì ripetute da tutto il pagane¬  simo, dove fu in uso il seppellir vasi coi morti-senza neppure distruggere l'opi¬  nione modernamente invalsa, che significhino esse unicamente il passaggio dei  giovani dai bagno alla palestra, proporrei altresì l’opinione, a parer mio non re-  pugnante, che il vedersi in mano degli efebi gli strigili che usavansi a purgar  la cute da ogni sozzura dopo il bagno, denotasse l’uso delle virtù catartiche, me¬  diante le quali veniva un’ anima virtuosa a purgarsi d’ogni viziosa impurità, e far¬  si degna della celeste beatitudine. Erano infatti virtù somiglianti insinuate nei  ginnasi dai precettori, che in segno di loro autorità non meno che della disci¬  plina dottrinale che da lor comunicavasi agl’iniziati, e del silenzio che loro impo-  nevasi circa i precetti religiosi dati colla massima segretezza, tennero, come qui, un  bastone in mano 5 . Io dunque vedo nel vaso in complesso, l’immagine della bea¬  titudine in quel convito eh'è daH’anterior parte di esso già esposta antecedente-  mente, e la occulta e misteriosa via di conseguirla nel significato degli strigili  che hanno in mano i giovani qui espressi davanti ai loro precettori, e inistago-  ghi. Leggo nel disegno di questa incisione mandatami da Chiusi esser le figure,  rosse in fondo nero la metà dell’originale.   TAVOLA CVIII.   Ho il piacere di dar termine alla prima parte di quest’opera sul Museo chiu¬  sino, con un monumento de'più interessanti che vi siano stati esibiti, sì per la  perfezione del suo disegno, come anche per l’epigrafi, dalle quali vanno indicate  le figure di deità che vi si contengono. Quest’ultima qualità che rende il mo¬  numento assai pregevole alla considerazione degli eruditi, voglio dire 1’ essere   3 Ivi, e Gerhard Rapporto intorno ai Vasi Voi-  centi. Sta negli Annali dell’ istituto di corri»  spondenza archeologica , voi. m, anno i83i r  primo fascicolo, Monumenti, p.   4 Gerhard , 1. cit.   5 Monum. etr. ser. v, p. 3o. 97    TAVOLA CVI.    Fin ora sanasi detto esser qui rappresentata un agape o cena funebre, col¬  la quale si terminavano gli estremi onori che rendevansi agli estinti qualificati,  ed a così giudicare ne moveva per ordinario il trovar vasi con tali pitture vi¬  cini sempre ai cadaveri ‘.Per simile analogia solevasi dire ancora esser quel con¬  vito, accompagnato da piacevole melodia, una immagine del godimento riserba¬  to alle anime virtuose negli Elisi dopo la morte, come promettevasi agli iniziati  nei misteri del paganesimo a . Ma nel momento attuale corre opinione che non  altro in pitture tali debbasi ravvisare, se non che domestiche mense ed allegrez¬  za sociale, senza frammischiarne l'allusione a varun culto religioso 1 2 3 . Rifletto pe¬  raltro che sfio spiego nel metodo primitivo, cioè l'allegorico, la mensa priva di  commestibili, posso ripeter, come dissi altrove, non esser l’anima suscettibile di  pascolo materiale, essendo la sola mensa un sufficiente segnale del godimento 4 .  Se il pittore ebbe in animo di rappresentarci con questa pittura non altro che  una domestica cena, dirò che la composizione resta incompleta per mancanza dei  cibi, indispensabili ad effettuare l’azione del mangiare.   Spiegai altrove simbolicamente anche Patto, come è qui, ripetutissimo in al¬  tre pitture, di una tazza sostenuta da un commensale cori un sol dito 5 , ove  dissi che a tenore d’ una dottrina platonica le anime che debbono scendere in  questa terra si trovano in uno stato il più leggero possibile, e quindi situate nel¬  la più elevata parte del mondo; e conchiusi esserla tazza del recombente signi¬  ficativa del recipiente del nettare per uso de'numi alzata da lui per simbolo del-  Panima sì per la sua elevatezza, e sì ancora per la leggerezza che mostra uel-  l’esser sostenuta con un dito 6 . E qui mi giova il notare altresì che nessuno dei  tre recombenti mostra di bere alle tazze da loro sostenute, nè v’ è alcun va¬  so da cui rilevisi essere state empite onde bere . Non ostante anche le moder¬  ne opinioni hanno tal peso che meritano considerazione, ed io mi son fatto un  pregio di esporle qui non volendomi caricare del giudizio sulla preferenza delle  une sulle altre. Leggo nel disegno di questa incisione mandatomi da Chiusi es¬  sere la metà de! suo originale, e le figure di colordi rosa.    1 Vermiglio!!, Lezioni elementari di archeologia  Voi. i, lez. •vm, § 6, p. 126. Monum. etruschi  ser. v, p. 4y8 .   2 Monum etruschi, ser. v, p. 898. 4 ^°*   3 Annali dell istituto di corrispondenza archeol.   Voi. ili, anno i 83 i, Gerhard, Monumenti   Rapporto intorno i vasi volcenti, p. 5y. Raf¬    faello Politi, descrizione di due vasi fittili gre¬  co siculi agrigentini i 83 r. Ved, bullettaio del¬  l’istituto di corrispondenza archeol. num. xi, 6.  novembre 1 83 1.   4 Monumenti etruschi ser. v, p. .874.   ò Milli», Peintur. de \ases ant. tot». 11. PI. 58 .   6 Monumenti etr. ser. v, p. 376. W" .   ■ ;.;;Y ; ' Iv i;. 1 1-i. 1   . ■ i ■ >. ■ -li ■■ •    ir -':i [!T V   C R flS i K R 11 B   ■j, -*■ • ‘ * r ' :A   f ■ t : : -i : .!■ V fi . '   t. £ ; > C f- v •; r.   f- M 5 !,$   1   C V 5 V V* .   c se ? n 11 a .        Egè ri) ■' ' ’   ~ : Z > . ■ ■    . ■' ■   ■ : ì • ' ■ '    ■ - ; :r ' \ - . . . • '   i:- ai*                 99   scritto, mi costringe a tenermi in assai ristretti limiti nel ragionarne, poi¬  ché i nientissimi sigg. TÌ editori di quest'opera destinarono con savissima sceltala  illustrazione della parte epigrafica di tali monumenti al prof. Vermiglioli esper¬  tissimo quanto altri mai di sì difficile scienza.   A sodisfar dunque soltanto la sollecita curiosità di chi osserva il monumento  qui esposto mi permetto di accennar di volo, esser questo uno specchio misti¬  co di que’tanti che trovatisi storiati nei sepolcri d’Etruria, e solamente lisci in  quei della Magna-Greeia, ed in esso esservi quattro figure di deità cioè la Parca,  Apollo, Venereletea o libitina, e Giunone; e presso le indicate persone i nomi lo¬  ro scritti in etrusco. /3DIVM moiran nome della Parca ripetuto in altri di que¬  sti manubriati dischi 1 * . V4-1/3 Aplun nome chiarissimo d’Apollo, ed altresì ri¬  petuto io vari specchi etruschi 3 . HVT34 Letun Venere letea o libitinia , o  Proserpina, che il Gerhard ha così bene illustrata per una Dea infernale, non di¬  stinta però dalla luna 3 , per cui cred’io qui si vede connessa in amplesso con Apol¬  lo considerato come il sole. Ecco dunque per la prima volta incontrato negli  specchi mistici il nome di quella donna che sì ripetutamente vi si vede rappre¬  sentata, e che per Venere libitina azzardai nominarla tal volta anche prima del¬  la presente ed importante scoperta 4. In fine AH 4/3 0 Talna eh’è nome altresì  ripetuto nei mistici dischi, e che io sostenni con lungo ragionamento esser signi¬  ficativo di Giunone 5 quantunque disgiunta dai consueti simboli di questa Dea, men¬  tre qui ha lo scettro che la •fanno indubitatamente conoscere per la regina degli Dei  unitamente con Giove che n’era il supremo loro imperante. Ma una più sodisfacente  interpetrazione dell'etrusche parole qui riferite debbesi attendere dall’erudito Ver¬  miglio]/', al quale, come io dissi disopra, è destinata.    In urna figulina    LVI.    i flit a a = flnflo   ) f\XF\Y\M   LVH.   AlAtlqAD : 1SUfflM : lOqfld   In urna figulina   lviii.   CO   -A   <   l#q vn : im : fìURO   Idem   LIX.   |   M433 : VfflDt : 33   r Ì433 : VA   LX    V-ÌV# : VD   flitmao    i Monumenti etruschi ser. 11, p. 389.   a Ivi, p. a 84 -   3 Gerhard, Venere Proserpina illustrata, p. i 5 , e   76, ved. Nuora collezione d’opuscoli e notizie    di scenze, lettere ed arti, pubb. dal cav. Fr. In-  ghirami tom. iv, p. 536 ,   4 Monum. etr. ser. 11, p. 44 <a, 744, e ser. v,p. 193.  5 Ivi p. Sol.   FIXE DEL VOLUME PRIMO  >XIV  A'JfVlI JILìXX 11IXXX  làaBaHBBsasaasa  XXXZ'/Z/. «♦- A'/AZY.Y (IX XUI  m ;_i  lira vz.  7 ’ LII      fC)   i      Ouj/ IsUcAenni. eli/  T £,J\  T. L/A'     • ■* * :* :■ -            ■3TT J ^ JCZ/Z    z,Jirv:  -  T» z^rjrji-'.  IXX3TT 'X  tea   T^reiir.  ■'ir**:-Jàz-j:.     amiBft'igwpcj &r.  CJI.  v ~ Luciano Dottarelli. Dottarelli. Keywords: l’implicatura di Musonio, Musonio, Etruscan influence on Roman philosophy, Why Roman philosophy is not Greco-Roman – The Etrurian connection. Etrurian as ‘antique’ – Etrurian as exotic for Indo-European Aryan Latins (Romans). Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Dottarelli” – The Swimming-Pool Library.  https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51715431956/in/photolist-2mMV7by-2mLLuG7

 

Grice e Duni – della costume, o sia, sistema di dritto [sic] universal – il diritto romano universalisabile -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Matera). Filosofo. Grice: “I like Duni; but of course he errs, as Kant does – for how can a ‘sitte’ a mere costume, become ‘universal’ – yet that’s the oxymoronic title of his tract, ‘scienza dei costume, ovvero, diritto universale’. Figlio di Francesco, maestro di cappella della cattedrale di Matera, e fratello dei compositori Egidio Romualdo ed Antonio, nell'ambiente familiare impara la musica scrivendo anche alcune composizioni da gravicembalo, pur se non seguì le orme dei fratelli maggiori in campo musicale, e fu avviato agli studi religiosi nel Seminario della città di Matera. Si laurea in Napoli. Torna a Matera dove aveva già intrapreso la pratica di avvocato presso la Regia Udienza e dove, chiamato da Lanfranchi, fu insegnante presso il Seminario; lo stesso Palazzo del Seminario divenne in seguito sede del Liceo Classico di Matera, che fu a lui intitolato. Dopo la morte del padre, lascia Matera trasferendosi dapprima a Napoli e successivamente a Roma.  Presso l'Università degli Studi La Sapienza fu docente di diritto canonico e di diritto civile, e pubblica un Commentarius in cui esponeva la dottrina giuridica del codicillo, con una dedica a Benedetto XIV che in seguito lo sostenne nella sua nomina alla cattedra universitaria; a Roma entrò in contatto con le opere di Vico, del quale divenne un convinto sostenitore. Eleggendo Vico a suo maestro, si propose di realizzare un programma di diritto universale come fonte di tutte le leggi e costumi umani. Partendo dalla sua formazione cattolica, crede in Dio creatore del mondo e suo legislatore, e non distinse l'etica e la giurisprudenza considerandole integrative in quanto tendenti allo stesso fine, cioè a dare il senso della vita, e quindi facenti parte entrambe della filosofia. Nacque così il “Saggio sulla giurisprudenza universale”; sua opera fondamentale, dedicato al promotore della politica riformatrice del Regno meridionale, il ministro Tanucci. Il “Saggio” indica esclusivamente nel vero il principio unitario delle conoscenze umane, a cui ricondurre anche la fondazione delle scienze morali. Il bene o vero morale (Cicerone e buono), che differisce dal vero metafisico perché comporta anche l'elezione volontaria del vero conosciuto, si esprime come onestà e come giustizia. La morale propone l'honestum, cioè il bene secondo coscienza, e opera dall'interno, invece il diritto indica la via per andare al giusto, regolando i rapporti tra gli individui o soggetti e quindi la vita sociale. Successivamente al Saggio, scrisse un'opera sul rapporto tra filosofia e filologia nell'ambito della storia di Roma, ed in seguito una Risposta ai dubbi proposti da Finetti in cui polemizzava contro Finetti difendendo la memoria del Vico. Pubblica a Napoli la “Scienza del costume o Sia sistema del diritto universale”, dedicata a Antonelli, in cui prosegue l'opera iniziata con il Saggio. Opere: “De veteri ac novo iure codicillorum commentaries; “Saggio sulla giurisprudenza universale”; “Origine e progressi del cittadino e del governo civile di Roma”;  “Scienza del costume o sia sistema del diritto universale”.   LA A falſa comune opinione adotta ta co me un'affioma dai Politici, che le So cieti Civili naſcono colla forma di Governo Monarchico, diede occaſione non meno agli antichi, che moderni Scrittori della Storias Romana di formare di queſta Nazione tutt ' altra idea di quella, che fu realmente. I vo caboli di Re e di Regno appreſi nel ſenſo di quei tempi, in cui viſſero gli Storici, quando già fioriva in Roma la Monarchia, gli traſportarono a credere, che il Governo cominciaſſe fin dal tempo di Romolo colla, forma Monarchica. Taluni peraltro convinti da’ fatti contrari della Storia furono obbligati a confeflare che ne' primi tempi di Roma quantunque regnaffe la Monarchia, pure.que Ita non poteſſe dirá alſoluta ma che folle accom DI ROMA. 17 accompagnata, e mifta di Ariſtocrazia, ' é, Democrazia; ' e che in conſeguenza i Patrizi inſieme co ' Plebej rappreſentaſsero qualche dritto nel Governo, di cui peraltro la ſomma foſse preſso de' Re. L'Idea adunque che tam luni Scrittori fecero del Governo di Roma fin dal fuo nafcere, fu di conſiderare Romolo co'ſuoi Succeſsori o per veri Monarchi; o per Monarchi, che aveſsero comunicato parte dell'amminiſtrazione ai due Ceti di Patrizi, e Plebej, riputando i Patrizi e Senatori, come Ceto di Cittadini illuſtri ricchi e favj, im piegati dai Re nelle cariche più gelofe del lo Stato, ed i Plebej per Ceto anche di Cit tadini ma ignoranti e vili, che ſerviſsero per le faccende ruſtiche, e per la guerra; e che aveſsero qualche parte anche ne' pubblici affari. Venne, come diſi, tal falfa opinione fo ſtenuta da quel comune errore, che tutte le Società Civili non poſsano altrimenti comin ciare, fe non con la forma Monarchica, non fapendo eſli immaginare con qual altra for ma di Governo poſsa mai unirli, e comporli Tom. II. B un > 7 18 DEL GOVERNO CIVILE un Ceto di famiglie a convivere tra loro, ed a formare un corpo. Imperciocchè, dico no efli, non è poſſibile di concepire il prin cipio di tal unione, ſenzachè qualcuno di eſſi, o per violenza, o per fraudolente ambizione induca gli altri alla di lui foggezione e Si gnoria; tantoppiù che non ſi faprebbe in al tra maniera immaginare, come i Padri di fa miglia, i quali prima di entrare in Società Ci vile, facendo ſenza dubbio la figura di Mo narchi nella propria famiglia, pofsano ſenza il mezzo della violenza, o dell'inganno, ab bandonare la propria Signoria col foggettarfi al Governo Civile. Su queſta mal fondata, opinione incontrandoſi nel fatto della Nazio ne Romana, in cui intefero parlare di Re, e di Regno nel ſenſo appreſo di Monarca, e Monarchia non dubitarono punto di defi nire il Governo fotto Romolo, e Tuoi fuccef fori per Monarchico. Ma poichè i fatti ſteſſi della Storia realmente non s'uniformano all ' Idea di una perfetta Monarchia, furono co ftretti ad ainiettere una Mon: irchia mitta di Ariſtocrazia inſieme, e Democrazia. Tutte DI- ROMA. 19 Tutte le ragioni politiche, che ſogliono ads durſi dagli Scrittori nel pretendere, che le So cietà Civili non poſſano altrimenti nafcere che colla forma Monarchica, fono a mio giu dizio tanto lontane dal dimoſtrarla, che anzi provano tutto il contrario, cioè, che la unione de' Padri di famiglia, nel comporre la Società Civile, debba neceſsariamente pro durre forma di Governo Ariſtocratico, e non Monarchico; poichè fe effi non fanno im maginare, come tali particolari Monarchi di famiglia poſsano ſoggettarſi alla pubblica, Podeſtà ſenza frode o violenza di qualcuno di loro, io al contrario non ſo concepire,.come tal violenza o frode d' un ſolo por fa eſser valevole ad obbligare un Ceto in tiero di Padri di famiglia avvezzi a ſignoreg. giare in caſa propria per ſoggettarſi al Mo narca, Qualunque voglia figurarfi la frode o la violenza d'un folo, egli è chiaro che tali mezzi non faprebbero indurgli a foffrire di buon animo un totale cambiamento di con dizione, quanto, lo è il paſsare da quella, in cui trovavanli di Signori aſsoluti, a queſta di B 2 fud 20 DEL GOVERNO CIVIL E fudditi, trattandoſi di cambiare condizione in tieramente oppofta; ed ognun fa, quanto rin.: creſce al Signore il paſſare di fatto dallo ſta to di comandare a quello di ubbidire. Che ſe mi diceffero, che ciò nafce dalla violenza, cui non ſi può reſiſtere, io gli riſpondo, che nei naſcimenti delle Repubbliche la for za d'un ſolo non è, ne può eſſere parago nabile alle forze unite di tanti Padri di fa miglia, quanti converranno ä formare la So cietà. Sicchè tanto è fupporre, che la forza d'un folo baſti per opprimere gli altri, quan to è dire, che molti non fiano in grado di vincere la violenza d' un folo; ciò che o non è affatto poſſibile, o almeno lo potrà eſſere in qualche caſo troppo raro, e ſtravagante; ma la ſtravaganza e la rarità non può in durre un ſiſtema generale. Quindi il preten dere, che le Società Civili debbano necella riamente cominciare colla forma di Governo Monarchico, è lo ſteſso, che fupporre la violenza, o la frode d' un folo maiſempre ſuperiore alla forza, ed alla deſtrezza di mol ti; e ciò non baſta, perchè biſognerebbe an che > DI ROMA. 21 1 che ſupporre, che al numero di molti non fc gli preſenti mai occaſione favorevole per re fiftere, e liberarſi dall' uſurpato potere di un ſolo; cioche realmente s’oppone ad ogni no ftra immaginazione. Se poi vorranno fingere, che dopo la violenza, o frode uſata dal Mo narca per ſoggettare gli altri, poffa ſeguire il compiacimento degli ſteſſi ſoggetti, forſe perché il Monarca ſia dotato di virtù tali, che baſtino ad innamorargli, oltreché une tal ſupporto non ſi può ammettere general, mente, incontra il maſſimo oſtacolo di non poterſi concepire, come gli Uomini avvezzi a dominare poſſano cosi preſto invogliarſi della condizione oppofta di ubbidire per qualunque ammirazione di virtù nella perſona del Moia. narca. Ma poi non è poſſibile il concepire nel Monarca virtù degna di ammirazione preſo co loro, che naturalmente, non fanno ſpogliarli di fatto del proprio carattere di dominare, ſenzaché entrino almeno a parte della pub blica amminiſtrazione; fe pure non vogliamo fingerli per Uomini affatto ftolidi ed alieni dalla maſſima delle Umane paſſioni. B 3 Qui 22 DEL GOVERNO CIVILE Qui potrei co ' monumenti pervenutici de gli antichiſsimi Popoli dimoſtrare col fatto l? inſuffiſtenza di un tal ſentimento dei Politici col riconoſcere nelle origini delle Nazioni tutt altra forma di Governo, che la Monar chica; e che laddove eſli ſuppongono, che la Monarchia ſia ſtata la prima a forgere nel le Società Civili, fi troverà maiſempre l'ulti tima a venire dopo l' Ariſtocrazia, e Demo- ' crazia; perché la naturalezza delle Umane vicende è tale, che i Padri di Famiglia nel formare la Società Civile dovendo decadere da quella podeſtà afloluta, che eſercitavano in Caſa, cercheranno di cedere il meno che ſia poſſibile dell'antica Signoria; poichè l'Uo mo per natura non fa mutarſi di fatto da, uno ſtato ad un altro direttamente oppoſto al primo, e perciò quando trovali nella contin genza di dover paſſare da una condizione ſuperiore all' inferiore, procura ſempre di paſſarci per gradi, e non di ſalto. Quin di è, che fe vogliamo ragionare a ſeconda, dell'idee Umane, dobbiam dire, che tali Pa dri di famiglia qualora li vedranno obbligati dalla DI R O M A. 23 dalla neceſſitii di laſciare la Monarchia del ta loro famiglia, ſebbene converranno vo lentieri in Società Civile per trovare mag gior ſicurezza coll'erezione della poteſtà pub blica compoſta di forze unite, e per confi gliare ai vantaggi, e comodi della vita; pu Te non ſi diſporranno mai a cedere dell'anti ca poteſta, fe non quanto biſogna per reg gerſi il Corpo Civile, e quanto meno liane poflibile di quella dominazione, che lafciano. Or la forma di governo, che dovranno fce gliere, farà certamente l'Ariſtocratica, come quella, in cui fi cede il meno dell'anticas Signoria, formandoſi una Podeſtà pubblica che riſiede nondimeno preſſo gli iteſi mem bri, che la compongono, e nel tempo ſtello col Governo Ariſtocratico ſieguono a ſignorega giare ſul Volgo, e ſulla Plebe, che ſi ricovera ſotto la loro protezione. Che ſe poi vorremo fare un' efatto giudizio, come coll' andar del tempo dall'una forma di Governo ſi fuol para ſare all'altra, poſſiamo qul accennare breve. mente, che ſtabilitaſi la Societ: Civile nella ſua origine colla forma Ariſtocratica, che dee ellere 1 B 4 priva d'ogni dritto Civile i Indi l'oppreſſo 24 - DEL GOVERNO CIVILE eſsere la prima a naſcere, gli Ottimati na turalmente faranno traſportati dall’amor pro prio ad opprimere, e tirannizzare il Volgo, o ſia la Plebe, che ricoverandoſi ſotto la lo ro protezione, per ſoſtentare la vita, rimane Volgo creſciuto in numero, maſſime col mez zo della procreazione, pel deſiderio iſpiratoci dalla Natura di fottrarci dall' altrui tirannia, cogli ammutinamenti e ſedizioni cerca di li berarſene; e quindi avviene, che dall' Ari ftocrazia ſi paſſa alla Democrazia. Finalmente il Popolo tutto reſo partecipe del Governo, naturalmente ſi divide in fazioni, le quali agi tandoſi continuamente tra loro, non trovano altro ſcampo per ſalvarſi dalle guerre Civili, che di ricoverarſi ſotto la Monarchia. E que Ito ſembra il corſo ordinario e naturale delle Origini e de' progreſſi delle Nazioni tutte uniforme altresì alle memorie pervenuteci del le antichiſſime Nazioni. Ma per non partirci dal noſtro argomento, ci conviene di fermarci ſull' eſame del Go verno Civile di Roma. E ſulla prima fa duo po DI ROMA: 25 po di ſviluppare dalle tante incoerenze, che troviamo nella Storia, quella prima forma di Governo, che venne iſtituita ſotto Romolo nel naſcimento della Città Romána. Dicia ino adunque, che la prima forma diGover no iſtituita fin dal tempo di Romolo tanto è lungi, che fofle ftata Monarchica, o miſta di Monarchia, che anzi ſi riconoſce chiaramen te Ariſtocratica delle più feverè, che mai li poſſa immaginare, come realmente lo furono le Nazioni tutte nei loro forgimenti. E pri mieramente l'efferſi attribuita a Romolo, e ſuoi Re fucceffori la Monarchia, nacque fo vratutto, come diſli, dalla falſa intelligen-. za della voce Rex, col di cui nome vennero chianati tutti quei, che da Romolo fino al la creazione de' due Conſoli Annali ebbero la cura di preſedere, e far da Capi del Se nato regnante. La voce Rex nei tempi, in cui gli Storici, come Livio e Dioniſio 'com pilarono la Storia Romana, fu certamente appreſa in ſenſo di Monarca, come temps, in cui fioriva. la Monarchia e con un tal Suppoſto non ſapendo neppur eſi immagina. re 26 DEL GOVERNO CIVILE re altra forma di Governo nel naſcimento della Città Roinana, andarono a credere, che o in tutto, o in parte regnaſſe la Monarchia. Ma ſe vogliamo inveſtigare la vera originaria fignificazione della voce Rex, troveremo, ch'ella viene da reggere, e ſoſtenere, e che propriamente dinotava un Capo e Dace del la Repubblica, e non un Monarca di pode Atà aſſoluta. La ſtella eſpreſſione di Rex tro viamo uſurpata in tutte le altre Nazioni, di cui ci è pervenuta la Storia; ma il Governo del le niedeſime non ſi può attribuire a Monar chia ſenza ſmentire i fatti medefimi, dai quali ſcorgeſi, che tali Re altro realmente non era no, che Capi, e Duci delle Repubbliche: per che inſieme colla perſona del Re troviamo i Senati, da cui definivanfi gli affari pubblici dello Stato. Soleaſi per altro diſtinguere l' incombenza dei Re in pace ed in Città da quella, che rappreſentavaſi in guerra; poi che qualora erano in piegati a far da Capita ni Generali a comandare l'eſercito, ſpiega vano certamente una podeſtà affoluta, come quella, ch'è troppo necelaria nel Capitan Gen DI ROMA 27 Generale per lo buon regolamento delle fac cende militari. Trattaſi in guerra di porre in eſecuzione all'iſtante le opere militari, le qua li non ſoffrono dilazione, e richieggono la più rigoroſa ſegretezza per forprendere l'ini mico, ed in conſeguenza i Re in guerra per natura dell'impiego medeſimo ſpiegavano po teſtà aſſoluta, perchè non giova di eſercitarſi colla dipendenza dal volere degli altri, è maf fimamente de' Cittadini, come lontani e che non poſſono eſſer preſenti alle diſpoſizioni mi Jitari, e perciò non ci dee far maraviglia, fe per conſigliare al pubblico bene fafi co ſtumato di concedere al Re, quando coman da in guerra, una poteſtà indipendente e Monarchica. Ma di qualunque carattere ftata foſſe lae poteftà dei Re in guerra, non dobbiamo con fonderla colla podeſtà da effi loro praticata in pace e nel Governo Civile dello Stato. In fatti Tacito narrando i coſtumi degli antichi Germani ci fa ſapere che prello tali antis chi Popoli ſi diſtinguevano i Re propriamen te 1 28 DEL GOVERNO CIVILE te detti nel ſenſo di reggere la Repubblica dai Capitani Generali; poichè i primi fi eleg gevano dal Ceto degli Ottimati e. Signori, ed i ſecondi fi ſceglievano tra quei, che li erano reſi celebri pel valore, ' I Re, dices egli, ſi eleggono dal Ceto de' Mobili, e per Capitani Generali ſi ſcelgono i più celebri nel valore; Ma i Re non rappreſentano pode fà libera ed illimitata (a ); quanto a dire che la qualità di Re preflo gli antichiſſimi Germani non produceva poteſtà fuprema, e Monarchica, tuttoche Tacito gli aveſſe at tribuito il nome di Rex. Dioniſio parlando degli antichi Re della Grecia fcrive, che i Re delle antiche Greche Nazioni, preffo di cui il Principato era ereditario, o pure elettivo, governavano col conſiglio degli Ottimati, come lo atteſtano Omero, e gli antichiſſimi Poeti. Nè quei tali antichi Re eſercitavano il Prin cipato con poteſtà aſſoluta, come veggiamo a tempi (a ) Tacit. de moribus Germanorum 9. VII. Reges ex nobilitate, duces ex virtute fumunt. Nec Regi bus infinita, aut libera poteftas. DI ROMA. 29 tempi noftri (a ). La voce Rex adunque nell' originaria ſignificazione Latina dinotava une Capo di qualunque Ceto, o di Repubblica, e non un Monarca z e queſto Capo qualora veniva deſtinato a comandare in guerra; al lora fpiegava la poteſtà aſſoluta; Ma nei tem pi poſteriori, quando le Nazioni pervennero allo ſtato di Monarchia fi ritenne la ſteffa voce Rex, che paſsò a ſignificare il Monarca, quan to a dire, che il nome di Rex attribuito a Romolo, ed agli altri Re ſucceſſori, non può eſſere un argomento per definire il Governo Monarchico nel naſcimento della Città Ros mana. Parliamo ora ad eſaminare i fatti narratici dagli Storici, dai quali unicamente dipende lo ſchiarimento di queſto articolo. Dioniſio, il quale a differenza degli altri s'impegna a de (a ) Dioniſio Antiq. Rom. lib. 2. Graecanici Reges çerte, qui haereditarium Principatum fumerent, quolve Populus fibi ipfe praeficeret, confilium habebant ex Optimatibus, ut Homerus, & antiquitlimi quique Poetarum teftantur.. neque (ut fit in noſtro feculo ) veteres illi Reges ex ſui tantum animi fententia poo feſtatem exercebant. 30 DEL GOVERNO CIVILE deſcriverci minutamente l'origine del Govere no Civile ſotto Romolo, febbene non ſeppe, formare un' eſatto e coſtante giudizio della forma del Governo, pure ci ſomminiſtra ba. ftanti lumi, onde poſſiamno ſcovrire il vero. E ſulla prima introduce un allocuzione fatta da. Romolo ai ſuoi Compagni ſul propoſito di doverſi ſtabilire una forma di Governo che foſſe più utile, e più atta per tener lon tana la Città dalle fedizioni Civili, e per di fenderla dagl' inſulti dei Popoli eſteri. E qui ci rappreſenta Romolo per Uomo ben iltrutto ed erudito delle Nazioni Greche, e delle Barbare, delle forme del loro Governo della difficoltà nello ſcegliere la migliore; indi gli conſiglia a riflettere maturamente l' affare, affinchè poteſſero riſolvere, se piutto fto voleano ubbidire a un ſolo, o pure a pochi, moſtrandoſi pronto e pieno di moderazione a ſeguire il loro volere (a). Dopo una ſpe cio (a) Dioniſio antiq. Rom. lib. 2. Quum autem diffi çilis fit earum (vitae uempe rationum ) electio, juf lit DI ROMA. 31 ciofa allocuzione i compagni di Romolo te. nendo conſiglio tra loro, non dubitarono di preſcegliere la forma del Goveno Regio in perſona dello ſteſſo Romolo, non ſolamente perchè l' aveano ſperimentata la migliore per quanto l'aveano inteſo approvare dai loro Maggiori, ma perchè giudicavano, che con una tal forma di Governo ſi otteneffero i due maſimi vantaggi, cioè la libertà propria, e · l' impero preſſo degli altri (a). Da un tal racconto ognun vede, che Dio. nilio fit eos re per otium conſiderata dicere, NUM UNI RECTORI, AN PAUCIS PARERE MALINT. Etenim, inquit, quamcumque Reipublicae formain in ftitueritis, ad eam recipiendam paratus fum, nec principatu me indignum cxiſtimans, nec detrcaans imperata facere. (a) Dioniſio loc.cit.Illi, communicato inter fe con filio, reſponderunt in hunc moduin: nobis nova Reid publicae forma non eft opus; nec a majoribus proba tam, & per manus traditam mutabimus, fed & pri fcorum conlilium fequimur, quos non ſine inſigni prů. dentia illam Reipublicae formam inſtituiſſe credimus, & praefenti fortuna contenti ſumus; cur enim illam in. cuſemus, quum fub Regibus contingerint nobis bona, quae apud homines habentur praecipua, LIBERTAS ET IMPERIUM IN ALIOS Haec eft noftra de Republica fententia &c. 32 DEL GOVERNO CIVILE niſio compoſe tali narrazioni piuttoſto allas maniera, com'egli avrebbe penſato di fare, che con quella, che Romolo realmente ufaf ſe preſſo i lnoi compagni'. E tralaſciando di riflettere le tante improprietà di ſimile allo cuzione, in cui ci propone Romolo per Uo mo iſtrutto delle Barbare, e delle Greche Na zioni, anzi delle varie forme del loro Gover no; quando al contrario, come dimoſtraremo a fuo luogo, i Romani per molti ſecoli fu rono affatto ſconoſciuti ed ignoti, mallime alle Greche Nazioni, ci giova quì di notare quell'eſpreſſione, che il Governo Regio po tea loro conſervare il pregio della libertà, il quale certamente non ſi può ottenere colla Mo narchia preſa nel ſuo vero fenfo di podeſa d' un ſolo aſſoluta, ed arbitraria; poiché an che ſul ſuppoſto d'un Monarca dotato della più retta politica ę ſaviezza, e di coſtumi i più ſublimi ed innocenți, il Popolo non può godere altro pregio di libertà, ſe non quello, che deriva dalla rettitudine dell'animno dalla ſaviezza del Monarca medeſimo; mais non ſi può pretendere ſotto la Monarchia di 1 DI ROMA. 33 godere il dritto e la libertà di reſiſtere, ed oppora al di lui ſentimento e comando; poiché la forma Monarchica, come tale, racchiude la fuprema poteſtà preſſo di una folo; e tutto il reſto del popolo potrà fo lamente eſercitare quell'autorità, che pia ce rà al Monarca di comunicargli; ficchè ſi conſidera allora ' tale autorità come dipen dente e ſoggetta maiſempre al voler del Monarca e non libera del popolo, che l' eſercita per comando del Principe. Ed ecco cheDioniſio leffo finora ci propone il Gover no Regio non già in ſenſo di Monarchia, ma di Capo e Duce d ' un ceto d' Uomi ni, che intendono d'eſser membri del Go verno medeſimo, per eſſere anch'eſſi a par te della libertà di comandare. Siegue indi Dioniſio a narrare la diviſione del Popolo in Tribù, e Curie, inſieme colla egual partizione de' campi, e de' terreni tralle Curie; e poi paſſando alla diviſione de' Ceti fatta in Padri e Plebe, nel riferire il carat tere che i Patrizi doveano rappreſentare nella Repubblica, chiaramente ci atteſta, Tomo II. С che 34 DEL GOVERNO CIVILE che ai Patrizi apparteneva la cura dei Sacri, l'eſercizio de' Magiftrati, l'amministrazione della Giuſtizia, ed il Governo della Repubblica unitamente con Romolo (a ). Ę poco dopo narran do l'erezione del Senato dal Ceto de? Patrizj replica lo ſteſſo, cioè, che Romolo avendo ri dotto le coſe in buon ordine, immediatamen-: te creò dal Ceto de' Patrizj i Senatori, i quar. li doveſſero ſeco lui amminiſtrare la Repubbli 64 (b). E queſta ' erezione di Senato l'affomi glia alle Repubbliche delle antiche Nazioni Greche ſulla teſtimonianza di Omero, e di altri Poeti Greci, che fanno menzione di fimi li Senati regnanti, cui preſedeva il Re, il qua le per altro facea da Capo e Duce, in ma niera $ (a) Dionifo loc. cit. Romulus porro poftquam difcre vit potiores ab inferioribus, mox legibus latis praefcri plit, quid utriſque faciendum effet: ut Patricii facra curarent, Magiſtratus gererent, jus redderent,SECUM REMPUBLICAM ADMINISTRARENT. (b ) Dioniſio loc. cit. Ceterum Romulus poftquam haec in decentem ordinem redegit, confeftim decrevit Se fatores creare, ut ellent, QUIBUS CUM ADMINI STRARET REMPUBLICAM. DI ' ROMA. 35 niera però, che il Governo della Repubblica riſedelle prello il Senato compoſto degli Ot timati, come per l'appunto furono i Patrizi di Roma (a). Indi riferiſce le particolari in combenze attribuite a Romolo, come Capo del Senato, cioè, che prello di lui eſſer do veſſe la principal cura dei Sacrifizj e del le coſe Sacre: che doveſſe aver cura delle Leggi e de' Coſtumi Patri; che ſi riſerbaf ſe il giudizio per gli delitti più gravi, e de' minori ne giudicaſſero i Senatori; che foſſe di ſua incombenza di convocare il Senato ed il Popolo tutto, colla prerogativa di dover eſſere il primo a profferire il ſuo ſentimento, ma che le determinazioni del Senato dovef ſero dipendere dalla pluralità dei fuffragi; e finalmente, che poteſſe ſpiegare Poteſtà aſſo luta in guerra (b), Paſſando poi a ſpiegare, C 2 qua (a) Dioniſio 796x it. Graecanici Reges certe > qui hereditarium Principatum fumerent, quoſve populus fibi ipfe praeficeret, conlilium habebant ex Optimatibus, ut Homerus & antiquiſſimi quique Poetarum teſtantur &c. (b) Dioniſio loc.cit. His conſtitutis, honorcs, & potefta tes in fingulos Ordines diſtribuit. Regi quidem eximia mune 36 DEL GOVERNO CIVILE quale eller doveſſe l'autorità del Senato, fcri ve, che gli affari del Governo ſi doveſſero dal Re proporre al Senato, preſo di cui non di meno doveſſe riſedere la potefta fuprema di decidere col mezzo della pluralità dei ſuf fragj, ſoggiungnendo inoltre, che un tal fix ſtema di Governo folle ftato appreſo dalla Repubblica dei Lacedemoni, (fempre col falfo fuppofto, che Romolo in tali tempi aveſſe avuto cognizione de' Papoli della Gre cia ) in cui i Re non erano Monarchi, nè Die {potici del Governo, ma ſemplici Capi del Senato il quale fpiegava la fuprema pote ftate munera fuerunt haec: Primum, ut Sacrificiorum, & re liquorum Sacrorum penes eum eflet principatus, per quem çumque gereretur quidquid ad placandos Deos attinet; deinde uit legum ac conſuetudinum Patriarum haberet cuſtodiam, omniſque Juris, quod vel natura di&ar, vel pacta & tabula fanciunt curam ageret; utque de graviſſimis delictis ipſe decerneret, leviora permitteret Senatoribus, providendo interim, ne quid in judiciis pece caretur; utque Senatum cogeret, Populum in concio nem vocaret, primus fententiam diceret, quod pluçi bus placuiſſet, ratum haberet. Haec Regi attribuit mu nia, & practerea fummum in bello Imperium, DROMA. 37 (be neppur ftà nell'amminiſtrazione della Repubblica (a ). Da tutto queſto racconto di Dioniſio non v'è chi pofſa negare, che Romolo non eb l'ombra, della poteſtà Monarchica; poichè colla coſtituzione del Senato la poteità ſuprema riſedeva preſſo il Senato medeſimo, e preſſo gli Ottimati; e che tutto quello, che fu attribuito alla perſona del Re, conſiſte va nel fare da Capo del Senato Regnante col la ſemplice prerogativa di poter proporre gli affari, e di eſſere il primo tra i Senatori 2 profferire il ſuo fentimento; ma che la poteſtà di determinargli riſedeſſe preſſo il Ceto dei Senatori, in maniera che le determinazioni ſi coſtituivano colla pluralità de' Suffragj, a cui il Re medeſimo dovea foggiacere; ciocchè non ſolamente eſclude ogni idea di Monarchia, ma C3 ci (a ) Dioniſio loc. cit. Senatui vero dignitatem ac po teſtatem hanc addidit, ut is s de quibus à Rege ad ipſum referretur, de his decerneret, & ferret calculum, ita ut ſemper obtineret plurium ſententia. Id quoque a Laconica Republica defumtuin eſt; Lacedaemonio, rum cnim Reges non erant fui arbitrii, ut, quidquid vellent, facerent; fed penes Senatum erat tocà publi cæ adminiftrationis poteftas. 38 DEL GOVERNOICI V ILE ro ci manifeſta chiaramente una perfetta Ariſto crazia compoſta di Senatori, i quali furono eletti dal Ceto nobile de' Patrizj. Egli è ve che il Re di Roma ſpiegava la poteſtà aſſoluta ſoltanto in guerra; ma queſta, come dicemmo, non toglie, nè s’ oppone alla for ma del Governo mero Ariſtocratico, perchè in tutte le Ariſtocrazie troviamo tal poteſtà ſuprema nella perſona del Capitan Generale, per la ragione di non poterſi altrimenti eſer citare con felice effetto il comando del Du ce dell' Eſercito: E qui giova d' oſſervare, che ſebbene nelle Ariſtocrazie il Capitan Ge nerale faccia ufo di poteſtat aſſoluta in guer ra; pure la dichiarazione della guerra, e tut to ciò, che appartiene al ſiſtema generale di eſercitarla, dipende dal volere dello ſteſſo Se nato regnante, quatito a dire, che tutta live poteſtà ſuprema del Capitan Generale ſi ridu ce ad eſeguire gli ſteſſi ordini del Senato éd a riſolvere all'iſtante da ſe medeſimo ciò che non ſoffre dilazione, e l'attendere l'ora colo del Senato ſarebbe inutile e dannoſo Del rimanente la forma del Governo ſi diſtin gue ITDI ROMÀ. 9. 39 gue non già dall'uſo della poteſtă, che ſi eſercita in guerra, ma dalla ragione delle pubbliche determinazioni, le quali, qualora dipendono dall' arbitrio di quei pochi, che compongono il Senato, ci manifeſtano chiara mente l'Ariſtocrazia, e non la Monarchia, anzi neppure un miſto dell'una è dell'altra; perchè la coſtituzione d'un Capo del Senato, ſempreche tutte le pubbliche determinazioni ſono riſerbate alla pluralità de' Suffragj dei Senatori s non ſi può aſcrivere, che ad un più ordinato regolamento del Senato mede ſimo, come avviene in tutti i Ceti di per fone, in cui vi ſia un Capo, il quale ſembra effer neceſſario, affinchè ſia meglio regolato il Corpo intiero di quei, che lo compongo ño; ma non già che la coſtituzione del Capo vaglia à mutare o alterare in minima parte il fiftemå del Ceto medeſimo. So bene, che anche nelle Monarchie fogliono eſſervi i Se nati, maſlime de Grandi dello Stato ma cali Senati ſono di gran lunga diverſi da quello, che fu ſtabilito in Roma forto Romolo; poi chè il Monarca talvolta ſuole commettere a C4 quals 40. DEL GOVERNO CIVILE 0 qualche Geto di Perſoné la deliberazione de gli affari, o pubblici, o privati; ma tali de liberazioni non oltrepaſſano i confini d'un mero configlio, ſicchè rimane maiſempre al Monarca la facoltà di approvare, di repu diare la deliberazione; quanto a dire, che la determinazione dipende maiſempre dall' arbitrario fuo volere e non dai ſentimenti dei ſuoi Conſiglieri; ragion, per cui nelle Mo narchie ſi trovano talvolta ſtabiliti tali Ceti di perſone, che ſogliono aver nome di Con ſiglieri del Monarca. All'incontro il Senato di Roma era compoſto di perſone, di cui ognu na ſpiegava uguale autorità a quella di Ro molo per le pubbliche determinazioni, e queſta tal ſorta di Senato Regnante è quel la propriamente, che coſtituiſce la vera forma di Governo Ariſtocratico. Quindi pof ſiamo francamente affermare, che dove re gna la Poteſtà fuprema nel Senato, ivi non vi può eſſere neppur l'ombra della Monar chia, ed al contrario dove regna la Monar chia, ivi non può eſſervi Senato di poteftà ſuprema; perchè l'una e l'altra forma di Go verno DI ROMA. 4.1 3 come verno non ſi diſtinguono in altro, ſe non che nella Monarchia la poteſtà fuprema riſiede in un folo, e nell' Ariſtocrazia in molti. Ma per eſſer meglio convinti d'una tal ve rità, ci conviene di eſaminare con maggior diſtinzione quel Capo di Poteítà, che riguar da lo ſtabilimento delle Leggi, il quale più d'ogni altro fa diſtinguere la Monarchia dal? Ariſtocrazia, ſecondo che venga eſercitata da un ſolo, o da molti, è che ſecondo il ſenti mento di tutti i Politici ſi conſidera la maſſima nell' amminiſtrazione dello Stato. In fatti tra tutte le pubbliche deliberazioni la più ſpecioſa ed importante è certamen te quella, che diceſi poteſtà Legislativa; poi chè lo ſtabilimento delle Leggi, come quel lo, che più d'ogni altro riguarda l'intereſſe e la pubblica tranquillità, è il punto più ge lofo, che poſſa eſſervi nel regolamento del le Società Civili, e come tale ci manifeſta, e ci fa diſtinguere ad un tratto la Monarchia dall'Ariſtocrazia. La ragione ſi è, perchè pre ſcriver la Legge allo Stato altro non è, che obbligare e ſoggettare tutti i particolari mes 42 DEL GOVERNO CIVILË membri del Corpo Civile alla cieca obbedien za di ciò, che la Legge comanda; e perciò ñon li può riconoſcere poteſtà più ſublime di quella di poter comandare la Legge. Or fen za biſogno di ſoggettarci ſu tale articolo ai ſentimenti degli Storici; qualora ci riuſciſſe di dimoſtrare, che la Poteſtà Legislativa di fat. to riſedeva non nella perſona di Romolo, ma preſſo l'Ordine del Senato regnante, non ci rimarrà luogo da dubitare, che l'iſtituzio ne del Governo folle di forma mera Ariſto craticào É qul fa d’uopò di ricorrere alla narrazio ñê del Giureconfulto Pomponio nella Legge feconda de Origine juris į ove impreſe con particolari cura à trattare dell'origine delle Leggi Romane · Ci fa egli ſapere, che ſul principio il Popolo Romano ſi regolava ſenzos leggi certe e determinate; ma che tutto ſi go Bernava col mezzo della dutorità del Re (a). A tal (a ) L. 2. 9.1. de Orig. Juris: Et quidem initio Ci vitatis noftrae Populus fine lege cerca, fine jure certo pri DI R O M A. 43 A tal narrazione di Pomponio gl' Interpreti del Dritto Civile, valutando aſſai più la di lui Autorità, che quella di Dioniſio li dettero a credere che realmente il Governo iſtituito fotto Romolo folle itato Monarchico, poichè (dicono eſli ) ſe ne primi principi della fonda zione di Roma al dir di Pomponio non v'era no leggi ſtabilite, e determinate, ma tutto li regolava collº autorità del Re, ne liegues neceſſariamente, che la forma del Governo cominciare dalla Monarchia. Ma io non sò, come tali Interpreti poſſano formare da quelle parole di Pomponio un tal giudizio, quando dall' altre, che ſeguono, li dimoſtra il con trario. Indi (fiegue Pomponio ) eſſendoſi ing qualche maniera ingrandita la città, dicéſi, che lo ſtesſo Romolo aveſſe diviſo il Popolo in trenta parti, chiumate CURIE a motivo, che allo primum agere inſtituit, omniaque manu Regis guber nabantur. NellePandette Fiorentine leggefi MAŇU A REGIBUS GUBERNABANTUR ma de ciocchè fregue, e dall' eller direito il diſcorſo di Pomponio alla perfona di Romolo, dee fi piuttosto abbracciare la lezio ne volgata, omniaque manu Regis gubernabantur. 44 DEL GOVERNO CIVILE allora Spediva gli affari della Repubblica coi ſentimenti, e colle determinazioni delle medeſime Curie; ed in tal maniera promulgò egli alcune leggi dette CVRIATE, come fecero altresì i Re ſuoi ſucceſſori (a ). Or fe folle vero, che Romolo cominciaſſe a governare la Città colla fornia Monarchica, dovrebbe eſſer falſo, che lo ſteſso Romolo indi ſtabiliſſe la Repubbli ca degli Ottimati, con attribuire al Senato l' Autorità ſuprema di diſporre degli affari pub blici per mezzo della pluralità de' Suffragi. Nè vale il ſupporre, che Romolo regolaſſe, la Città coi ſentimenti delle CURIE di puro conſiglio, quafi che ſi riſerbaffe l'arbitra rio volere di ſeguire, o di ripudiare tali fen timenti. Imperciocchè lo ſtello Pomponio chia ramente s'eſprime, che gli affari ſi determi navano per Sententias partium earum, che in buon (a ) Poftea au&a ad aliquem modum Civitate ipfum Romulum traditur, Populum in triginta partes divififfe, quas partes Curias appellavit, propterea quod tunc Reipublicae curam per Sententias partium caruni expediebat; & ita leges quaſdam & ipfe Curiatas ad Populum tulit. Tulerunt & fequentes Reges. DI ROMA. 45 buon latino non poſſono ſignificar Configlio; ed oltracciò le Leggi ſi chiamarono Curiato non per altra ragione, fe non perchè le de terminazioni venivano preſcritte co' ſentimens ti delle ſteſse Curie, e non dall' arbitrario vo lere di Romolo. Egli è vero, che tali Leggi coll'andar del tempo furono anche dette Regie a cagion che ſi proponevano dai Re ne' Co mizj Curiaci; ma poichè tutti gli Storici con vengono nell'affermare, che gli affari li de terminavano dalSenato a relazione degli ftelli Re, come Capi di quella adunanza, non ci dee far maraviglia, ſe le Leggi ſi foſſero dette anche Regie; perchè venivano propoſte dal Capo del Senato, cui ſi dette il nome di Re. Dunque fe vogliamo credere più a Pompó nio, che a Dioniſio, pure ſiamo obbligati coll'autorità dello ſteſſo Pomponio di ammet tere ne' tempi di Romolo l ' Ariſtocrazia, u non la Monarchia; perché altrimenti non ſi potrebbero comporre le prime colle ſeguen ti parole del Giureconſulto. All'incontro egli farebbe coſa ridicola il ſupporre, che pri ma di ſtabilirſi le leggi certę, Romolo go f ver 46 DEL GOVERNO CIVILE vernaſse da Monarca, e che poi iſtituiſſe l' Ariſtocrazia; e quando anche potefle'aver luogo una tal fuppoſizione, non dobbiamo at tenerci a quel che foſſe ſeguito, prima che ſi dalle una certa forma al Goveșno, la quale non fi dee ripetere, fe non dal tempo, in cui la Città preſe i ſuoi certi regolamenti. Ма,per meglio chiarirci di tal verità, con „ viene di riflettere, che quella eſpreſione di Pomponio, cioè, che fu i principi della cit tà non v'erano leggi certe, ma che tutto ve niva regolato coll'autorità di Romola, non può ſignificare forma di Governo Monarchi co, come è itata appreſa dagl' Interpreti. E qut fa d 'uopó d'inveſtigare la vera ſignifi çazione di quelle parole, Omniaque manu Regis gubernabantur. La voce Manus, è vero, che per traslato • ſtata anche appreſa da' Latini in ſenſo di poteftà (a); pure non hanno 1 (a ) I Latini quandą apprefero la voce Manus in senſo di POTESTA', s' avvalſero di quelle locuzioni IN MANU ESSE, HABERE, IN MANUM CON VE DI ROMA, 47 hanno mai detto gubernare manu in ſenſo di governarc, colla poteſtà; nè mai trovaremg gubernare, o regere, o altre fimili parole in ſieme colla voce manu, per ſignificare poteſta nel governo, Molto meno può adattarſi alla voce manus la ſignificazione di arbitrio, o la diſpotiſmo, come piacque ad altri Inter preti; perché un tal difpotiſmo altro non è, che poteft fuprema, ed indipendente; ma comunque ſi apprenda tal poteſtà, ſiamo pur troppo ſicuri, che nel linguaggio latino quel gubernare many non ſi può apprendere in ſen ſo di poteft. In queſta eſpreſſione adunque di Pomponio la voce manus deeſi riferire a tutt'altra intelligenza, che a quella di po teſtà; e poichè tal voce è ſtata anche appre fa dai Latini in ſenſo di forza, e di valore di corpo, o d'animo, come la troviamo in tan te locuzioni (a), non poſſiamo fpiegare il detto VENIRE > DARE, MANU MITTERE fimili. (a) Nel fenſo di FORZA, VALORE, E CO RAGGIO i Latini han detto MANUS MILITARIS, MA 48 DEL GOVERNO CIVILE detto di Pomponio, ſe non nel ſenſo d ' ef ferli in quelle prime origini della Città re golati gli affari colla forza, col valore, e col la guida di Romolo, come quegli, che tra quelle poche perſone, che ſi unirono ſeco lui nella fondazione della Città, facea la fi gura di Capo e Duce. E queſta intelligen za ci fa intendere altresì tutto il compleſſo del racconto di Pomponio; poichè, dic'egli, che ne' principi il Popolo vilfe ſenza legge certa, fine lege serta, fine jure certo; perché prima di ſtabilirſi moltitudine cale di abitanti, che formafle un corpo abile a comporre una Società Civile, non v'era biſogno di formare leggi e regolamenti pubblici, ma tutto re golavaſi con quei medeſimi coſtumi, fecon do i quali erano ſtati educati quegli ſteſli, che unironſi con Romolo; e perciò dice Pomponio, che ſi vivea ſenza Leggi certe, perché MANUS ARMATA, MANUM CONSERERE, IN JICERE, INFERRE MANUM ALICUI REI IMPONERE, MANU DOCERE, e fimili. E noz Italiani abbiamo ritenuta l'eſpreſione di MANO RE GIA per hgnificare la forza legittima dello Stato di pronta, e spedita eſecuzione. D'L ROMA. 49 perchè allora la Legge era la voce mede ſima del Capo dell'unione, il quale poteva occorrere ad ogni diſordine. Ma quando poi crebbe la moltitudine degli Abitanti, allora biſognava di ſtabilire le Leggi, non poten doli regolare un Corpo Civile colla fola voce parlante del Duce. In fatti le Leggi certe e ſtabilite altro non ſono, che voci mute di chi governa; e ſiccome per regolare i pic coli Corpi può baltare la voce parlante di chi gli regge, cosi moltiplicataſi l'unione degli abitanti, e pervenuta al grado di formarli un Corpo conſiderabile richiede neceſariamente lo ſtabilimento di Leggi certe, le quali pre ſtino l'uffizio della voce medelima di quel Ceto, preſso di cui riſiede la pubblica pote ftà. Ciò ſuppoſto, fino a tanto che Roina ven ne abitata da piccol numero di perſone, la vo çe parlante di Romolo baſtava per regolare gli affari; ma moltiplicatoſi il numero, fi do vette venire alle determinazioni delle Leggi certe, non potendoſi altrimenti ſoſtenere un Corpo Civile. Ma prima di ſtabilirfi tali Leg gi non poſſiamo ſupporre, che Romolo co Tom. 11. D man 50 DEL GOVERNO CIVILE mandaffe coll'arbitrario fuo volere; perchè lo Steffo Po mponio ci aficura, che quando ci fu biſogno di stabilire le Leggi certe, furono queſte determinate colla pluralità de' fuffragi delle Curie, o ſia del Senato; e poichè non è poſſibile l'immaginare, che il Governo per coså breve tempo dipendeſse dal voler del Mo barca, e che immediatamente poi paffalle nella poteſtà Ariſtocratica, perciò dobbiams conchiudere coll' autorità dello ſteſſo Pompo nio, che fin dal principio la Città fu eretta colla forma del Governo Arittocratico. Ne G può conoſcere altra divertità tra quel tempo, in cui fi vivea ſenza Leggi certe, e quell' altro, che venne immediatamente, in cui furo no ftabilite le Leggi, fe non che in quello la poteſtà degli Ottimati ſpiegavafi colla voce parlante di Romolo, manu Regis, laddove in quefto il Senato fpiegava la ſua poteſtà colla voce muta delle ſtabilite Leggi; ma l' uno e l' altro tempo riconobbe la medeſima forma, Ariſtocratica; Quindi è ancora, che quelle locuzioni di Pomponio ſine Lege certa, fine's jure certo, non si poſſono apprendere, come fecea DIROMA. 51 fecero alcuni Interpreti, quaſiché il regola mento in quel tenipo folle vario ed inco ftante, perché non ſi può fingere ſocietà di Uomini, che vivano ſotto un yario fiftema di Regolamento, ma ſi debbono riferire a quella intelligenza, che meritano, cioè che tutto veniva preſcritto a voce ſecondo le opportu nità delle contingenze, che ſpiegavali col mezzo di Romolo loro Capo; perché non v ' era biſogno ancora di ſtabilirſi leggi certe, come figui poi colla moltiplicazione degli abitanti, Siegue Pomponio a narrare, che eſéndoli diviſo il Popolo in trenta Curie, coi di cui ſentimenti li determinavano gli affari, allo ra cominciaffero a ſtabilirli le. Leggi cere te, che furono perciò dette Curiate, come fecero altresi i Re fuoi fucceffori: Et ita le ges quafdam cuo ipſe Curiatas ad Populam tri lit, tulerunt eam fequcntes Reges: 1 qut gł Interpreţi del Dritto Romano per ſoſtenere la fognata Monarchia di Romolo caddero in tun'al tro equivoco nell'apprendere l'eſpreſſione di Pomponio di ferre legem ad populum in fente D2 d'ef 52 DEL GOVERNO CIVILE d'eſſerſi comandate le leggi da Romolo, e dai Re fuoi fucceffori. E febbene una tale interpretazione ſi oppone direttamente a cioc. chè lo ſteſſo Pomponio riferiſce nelle parole antecedenti, cioè che il governo della Re pubblica ſi amminiſtrava per mezzo de' fen timenti delle Curie: propterea quod tuma Reipublicæ curam per ſententias earum partium expediebat; pure abbagliati da quel guberna bantur manu Regis, ſi videro obbligati a rico noſcere nella perſona di Romolo e degli al tri Re la poteſtà fuprema di comandare le leggi. Siminaginarono dunque, che lo ſta bilimento delle Curie non toglieva al Re la poteſtà Monarchica, poichè febbene il Sena to interveniva nelle deliberazioni dello Stato, pure i ſentimenti delle Curie ſi debbono ri ferire piuttoſto a ragion di conſiglio, e che in conſeguenza la poteſtà di comandare le Leggi riſedeſſe preſſo di Romolo, e ſuoi Re ſucceſſori. Or (dicono eſli) ſe la poteſtà di co mandare le Leggi, al dir di Pomponio, fpie gavaſi dal Re, ne ſiegue, che la forma del Governo debbafi attribuire anzi a Monarchia, che, DI ROMA che ad Ariſtocrazia. Ma io non só intendere con qual fondamento poſſano afcrivere l'e ſpreſſione latina di ferre legem ad populum al fenſo di comandare, e preſcrivere la legge, quando al contrario egli è coſa notiſlima pref fo i Latini, che il ferre legem nella ſua vera intelligenza ſignifica ſemplicemente il propor re la legge per determinarji, o ripudiarſi, e non il preſcriverla, e comandarla; anzichè qualora dagli Scrittori Latini al ferre legem fi aggiligne ad populum, ad plebem, e ſimili, non v'è eſempio, che foſſe ſtata mai tal lo cuzione appreſa in ſenſo di comandare la leg ge al Popolo, alla Plebe, ma ſempre nel ſen ſo di proporla, per determinarſi dal Ceto del Popolo, o della Plebe (a ). E quando la lega ge propoſta veniva coi fuffragi ſtabilita v preſcritta, allora diceaſi lex juſſa, condita; ſic chè altro era il ferre, altro il jubere legem; il ferre fignificava proporre, ed il jubere pro D 3 pria (a ) Vedi Briſſonio de Formulis lib. 2. cap. 17. 2 109. il quale traſcrive i laoghi degli Scrittori Latini ſu sale articolo DEL GOVERNO CIVILE priamente dinotava la determinazione, o sia le juffione della legge. Tra gli altri Scrittori Latini ſono innumerabili i luoghi di Livio, in cui cgli îi avvale dell' eſpreſsione di ferre legem, o pure rogationem, nel ſuo vero ſenſo di propar re, e non già di comandare, e ſoprattutto quando riferiſce le pretenſioni de' Tribuni del la Plebe, in cui fa uſo della voce ferre ine fenſo ſempre di proporre o promuovere, e lis mili, e non mai di preſcrivere, o comandare, perchè i Tribuoi della Plebe non aveano altra facoltà, fe non quella di promuovere, e di eſporre le petizioni del Ceto plebeo, e non già di comandarle. Ma per eller convinti di queſto vero ſenſo ſecondo l'originaria fua fi gnificazione baſta un luogo folo di Livio, in eui eſpreſamente ſi addita la differenza tra "! ferre, e jubere legem. Racconta egli, che pell'anna 372. il Senato -ordinà, che ſi fosſe pro poſto al Ceto plebeo la deliberazione d' intimark la guerra a' Popoli di Veletri. I Patrizi co nofcendo d' eſſerſi laſciata più volte impunitra la ribellione de' cittadini di Veletri, decreta rono, che al più preſto che fosſe poſſibile, ſi pro poneffc DI ROMA SS ponefe,al Ceto plebeo l'affare d' intimarye loro la guerra, e che propoftafi una tal delibera zione tutte le Tribù conſentirono a coman dare', e determinare una tal guerra. E qui Livio eſpreſſamente fi avvale della voce fer re, quando parla di proporſi l'affare al Ceto plebeo, e della voce jubere, quando riferiſce la juffione della guerra ſeguita coi fuifragj di tutte le Tribù (a ). Egli è vero, che l' eſpreſ Gone di ferre legem é ſtata poi dai Latini tra ſportata anche a fignificare la promulgazione della legge in quelle locuzioni Lata lex eft, e limili; ma neppure "la trovaremo uſurpata in queſto ſenſo, quando ci ſi aggiugne ad Populum, ad plebem c. perchè allora ritie ne l' originaria ſignificazione di proporre, e non di promulgare (.b). Comunque però fi D4 ap (a ) Liviv lib. 6. Cap. 21. Id Patres rati contemptu accidere, quod Veliternis Civibus ſuis tamdiu impuni ' ta dete &tio effet, decreverunt, ut primo quoque rem pore ad populum FERRETUR de bello cis indicen do...... Tum, ut bellum JUBERENT, latum ad Populum eft; & nequidquam diffuadentibus Tribu nis Plebis, omnes Tribus bellum JUSSERUNT. (b) Tum ut bellum juberent, LATUM AD PO PULUM EST. Livio loc. cit. 56 DEL GOVERNO CIVILE apprenda, o in ſenſo di proporre, o di pro mulgare, egli è fuor di dubbio, che non mai può ſignificare juffione è determinazione della legge. Ciò ſuppoſto, per ritornare ora a Pomponio, ognun vede, che le di lui parole: Et ito leges quaſdam & ipfe Curiatas ad populum tue lit; tulerunt ex Sequentes Reges non pofſono apprenderli nel ſenſo, che Romolo, e gli altri Re aveſſero preſcritte le leggi Curiate ſe non vogliamo tacciare il Giureconſulto per ignorante del linguaggio latino, ma quel tu lit ad populum deeſi riferire a quella facoltis che riſedeva ſoltanto preſso la perſona del Re, di proporre gli affari pubblici in Senato, ed in conſeguenza le leggi, la di cui juffio ne nondimeno dipendeva dal fuffragio delle Curie medesime per fententias earum partium, e non dall'arbitrario volere del Re; e le leg gi fi diſſero Curiate non per altra ragione, ſe non perché vennero preſcritte, e comandate dalle Curie, e non dal volere del Re, quan tunque egli come. Capo del Senato, e come riconoſciuto per lo più abile e favio trai Senapa " DI ROM A 57 Senatori godeſſe la facoltà di proporre cioc chè gli ſembrava più eſpediente per l'ottimo regolamento dello Stato; ma' una tal prero gativa fu fpiegata' altresì dopo il diſcaccia-, mento de'Re dai Conſoli, dai Tribuni mili tari di poteſtà Confolare, dai Ditcatori, e da altre Magiſtrature di ſublime autorità, le quali tutte proponevano al Senato, alla Plebe, al Po polo tutto, le determinazioni degli affari pub blici, e maſſime delle leggi; niuno però fin è ſognato finora di aſcrivere la forma del Go verno ſotto i Conſoli a Monarchia, perchè la ragione di Capo d'un Popolo ſenza carat tere di poteſtà aſſoluta non può produrre Monarchia, fe non vogliamo confondere ! idea del Governo Monarchico coll' Ariſtocra tico e Democratico. winno Conchiudiamo adunque. Gli Scrittori chepiù degli altri ci narrano con qualche diſtinzione la forma del Governo tenuta ſotto Romolo, fo no Dioniſio, e Pomponio. Il primo ci de fcrive chiaramente la coſtituzione del Senato, dal di cui arbitrio dipendevano le determina zioni degli affari e l'intiero regolamento dello 58 DEL GOVERNO CIVILE dello Stato, ciocchè eſclude di fatto ogniom bra diMonarchia in perfona di Romolo. Il fecondo non ſolamente non fi oppone a quan to riferiſce Dioniſio, anziché ce lo conferma più chiaramente, prima col riferirci, che nel naſcimento della Città non v'erano leggi cer te e preſcritte, ma che tutto regolavaſi col conſiglio e guida di Romolo, ed indi cot narrarci, che creſciuta in qualche maniera la moltitudine degli abitanti, fu neceffario di venirli allo ſtabilimento delle leggi certe. Quali leggi inſieme col reſto de' pubblici af fari, eſſendoſi diviſo il Popolo in trenta Cu rie, furono preſcritte col fuffragio delle me defime; ragion, per cui fi diſsero leggi Cum riate; e che finalmente la prerogativa di Rom molo, come Capo del Senato, fi riduceaus alfa - facoltà di proporre predo il Ceto de Se natori ciocchè gli ſembrava opportuno per determinarli gli affari dal Senato medeſimo per ſententias carum partium. In fomma, che Je leggi col reſto delle pubbliche determinazia -ai fi ſtabilivano colla juſsione delle Curie, o fia del Senato, non si può negare per l'alt torita DI ROM A. 1 59 torità di Pomponio, di Dioniſio, di Livio, e di tutti gli Storici, i quali concordemente combinano ſu tale articolo. Il determinarli gli affari per ſententias delle ſteſſe. Curie e de Senatori, in buon latino non può fignifica re pareri confultivi, ma juſsione per mezzo della pluralità de* fuffragi. Quel tulit leges ad populum attribuito a Romolo, ed ai Re fuc celori, altro non contiene, che la facoltà del Re nel proporle, e non già nel comandarle, e prefcriverle. Dunque dai detti degli ſteffi Storici siamo convinţi, che la forma del Gom verno iſtituita fatto Romolo non ebbe nep pur l'ombra dellaMonarchia, perché doves vi è Senato, preffo di cui rilieda la poteftà. ſuprema di decidere gli affari dello Stato, ivi non vi può regnare il Monarca. E per ultimo troviamo nella Storia Civile di Romaun fatto incontraſtabile, che di ſya natura ci dimoſtra, quanto foffe lontano dalla Monarchia il Governo Civile iſtituito foto Romolo. Egli è troppo noto il dritto di Pa tria poteſtà, che eſercitavaſi in Caſa dal Citta dino Romano ſulla ſua famiglia ſenza limiti, @fen. 60 DEL GOVERNO CIVILE 3 e fenza la minima dipendenza dal Re, o dal Senato. Non intendā io qui di quella potefta patria praticataſi nei tempi poſteriori, e maf fime fotto gl’Imperatori, ma di quell'affolu to Impero Paterno eſercitato fin dalla fonda zione di Roma, e che dai Decemviri fu tra-. ſcritto nelle xir. Tavole, come riferiſce Dio-, niſio (a ). Era certamente la Patria poteſtà di quel tempo fornita d'un aſſoluta dominazio ne ſulla ſua famiglia, finanche verſo i pro prj. Figli, fovra di cui il ' Padre eſercitava dritti di vera Monarchia, com'era l'effer di ſpotico della vita, e della morte loro (b), eltre dell'arbitraria facoltà di poterli vende re, in manierachè dopo la terza vendita i Fi gli di liberavano dal diſpotiſmo Paterno (c). Or queſto dritto Patrio, che con vera efpref fione (a) Antiq. Rom. lib. 2. (b ) Sull' autorità di Dioniſio gl' Interpreti del dritco Romano compoſero quel capo di legge delle mit. Tavole con quelle parole: ENDO LIBERIS JUSTIS VITAE NECIS VENUM, DANDIQUE POTE STAS EI ESTO. (c ) SI PATER FILIUM TER VENUM DUIT, FILIUS A PATRE LIBER ESTO: altro capa delle? DI ROMA. 61 fione da Valerio Maſſimo (a) e da Quintilia no (b) venne detto Patria Majeſtas, fu eſerci tato dai Romani non ſolamente dal teropo della promulgazione delle XII. Tavole, ma fin da’ pri ra, delle xir. Tavole riferito da Ulpiano tit. 10.5. 1. E Dionifio loc. cit: Romanorum autem legislator (inc tende di Romolo ) omuem ur breviter dicam, pour teſtatem patri dedit in filium, idque toto vitae tem pore, five in carcerem eum detrudere; five fla gris caedere, five vinctum ablegare ad ruſtica ope five necare libeat, etiamli filius tractet Rempue. blicam, etiamfi Magiftratus gefferit maximos, etiamſi fudii erga Rempublicam laudem fit promeritus. Jux ta hanc certe legem illuſtres viri pro roftris favente plebe concionantes in Senatus invidiam, fruenteſque aura populari, detracti e ſuggeſto, abducti ſunt apa tribus, poenas daturi ex ipforum fententia; quos, duin per forum ducerentur, nemo adftantium eripere poterat, non Conſul, non Tribunus, non ipſa turba, cui tuin adulabantur, licet omnem poteſtatem ſua minorem exi ftimans. Taceo, quot viri fortes necati Gnt. a patri bus &c.... Nec contentus hanc poteſtatem parentibus dediffe Legislator Romanus, permifit etiam vendere fi lium.. Majorem largitus poteſtatem patri in filium, quam hero in mancipiuin; lervus eniin ſemel venditus, deinde libertatem adeptus, in poſterum fui juris eſt; fi lius vero a patre venditus, fi liber fieret, rurſum fub ра tris poteftatem redigebatur; iterum quoque venunda tus, & liberaçus, fervus patris crat tertiam demum yendiționem eximebatur e patris po teſtare & c. (a) Lib. 7. Cap. 7. (b ) Declamat. 378., ut ante? poſt 62 DEL GOVERNO CIVILE primi tempi di Roma, poichè Ulpiano (a ) afferma d'ellerli introdotto moribus, cioè, non per legge ſcritta, ma per antichillimo coftu me Patrio; Dioniſio (6) lo riferiſce ad una legge di Romolo; e Papiniano (c) l' attri buiſce ad una legge Regia. Ma Ulpiino a mio giudizio l'indovina meglio di tutti, coll' affermare d'eſerli tal dritto di Patrią poteſtå ricevuto per coſtume; e la ragione ſi è, perchè una tal poteſtà diſpotica del Padre di famiglia dobbiamo fupporla nata inſieme col la coſtituzione delle Famiglic medefime, e prima che quefte conveniſſero a formare So cietà Civile, ſicchè troyandofi tal coſtuine già introdotto nello Stato di famiglie, natu ralmente fu conſervato e ritenuto dalle Fa miglie, che convennero con Romolo nella fon dazione di Roma. In fatti tal coſtume trovali quaſi uniforme in tutte le Nazioni ne'loro for gimenti per le chiare teſtimonianze degli an tichi (a) L. 8. de his, qui ſunt fui, vel alieni juris. (b ) Loc. cit. (c ) Collar. leg. Mofaic. tit. 4. ). 8. DI KO MA. 63 3 tichi Scrittori (a ). E ſebbene Triboniano (b ) credette, che folle queſto dritto proprio de' Romani, pure s'inganno, forſe dall' avere of fervato, che ne’tempi, in cui i Romani eſer citarono queſto dritto con aſſoluta poteſtà, e. nel maſſimo ſuo rigore, l'altre Nazioni l'avea. no già raddolcito con ridurlo a limiti più be. nigni ed umani, come avvenne altresì pref fo gli itefli Romani, mallime fotto gl'Im peradori, nella di cui età la poteità Patria decadde in buona parte dall'antico fuo ri gore. Comunque sia, quanto al preſente ar gomento çi baſta di potere afficu are colla tea ftimonianza di tanti Scrittori, che il Diſpo tilmo Patrio fu eſercitato da'Romani fin dai primi tempi di Romolo. Qui cade in acconcio di riflettere ciocche gli Storici ci narrano dell'accuſa d'Orazio per aver ucciſa la Sorella in atto, che ritornava trion (a) Ariftotele Nicomache lib. 8. cap. 10. Cefare lib. 6. de bell. Gill. cap. 9. Plutarco in Lucullo · Giustiniane Novel la 1 34 • (b ) Inf. lib. 1. tit. 9. 1. 2. 64: DEL GOVERNO CIVILE trionfante per la vittoria contro i Curiazi. Dioniſio fembrami', che racconti il fatto al ſai meglio di Livio, allorchè cinarra l'accuſa, e'l giudizio d'Orazio, in cui non fa men zioné né del Giudizio de' Duum viri, nè dell' appellazione propoſta da Orazio al Popolo, che ſono le due circoſtanze che fi leggo no in Livio (a ); ma ſemplicemente ci rac conta, che füll'accuſa propoſta da taluni con tro Orazio al Re Tullo, il Padre di Orazio, oltre di aver dichiarato di non meritare fuo Figlio la minima pena, pretendeva, che un tal giudizio apparteneſſe privativamente alla di lui cognizione, tractandoſi d'un fatto acca duto tra i ſuoi figli, e che in confeguen za per dritto di poteſtà Patria dovea egli ef fere il giudice di queſta Cauſa (b). Ma il Re per una parte credeva anch'egli di doverli af fólann (a) Lib. 1. cap 26. (b) Dioniſ. Antiquit. Romanarum lib. 3. Pater contra patrocinabatur filio, acculans filiam, & negans eam dicendam cædem, fed poenam verius, poftulabatque fibi de fuis malis permitçi Judicium ut qui ambo rum effet Pater. 2 • Í Ř OM Å 68 folvere Orazio io benemerenza della vittoria ed in conſiderazione dell'inſulto di parole fat to dalla Sorella al Fratello in tempo, che aſpettava dà lei piùcche da ogni altro lode, ed applauſo per un'opera egregia preſtata alla Pa tria; è molto più à cagione, che il Padre preſſo di cui rifedevå fecondo i coſtumi di que' tempi l'indipendente poteſtà di giudica re ſulle perſone de propri Figli fi era dichia rato d'averlo già adoluto (a ).Dall'altra parte il Re temeva il tumulto Popolare eccitato dagli emuli, ed inimici d'Orazio. Tra tali dubbiezze pensò di prendere l'eſpediente di rimettere la cognizione della Caufa al Popo lo, il quale confermò il giudizio Paterno con affolvere l' accufato Orazio. Un tale rac conto è molto più verifimile di quel; che ci narra Livio fúl giudizio de ' Duumviri, e dell' appellazione propoſta da Orazio al Popolo; poichè in que' tempi l'Impero Paterno eras Tomo 11. E nel (a ) Dioniſ. loc. cit. Praeſertim patrc quoque ipſum abfolvente, quem potiſſimum Filiae ultorem jus * natura fecerar: 66 DEL GOVERNO CIVILE nel ſuo miglior vigore; nè il Re fenza of fendere le leggi del Patrio Impero potea to gliere il giudizio di queſta Cauſa dallauto gnizione del proprio Padre, e tasferirlo ai Duumviri, e molto meno in ſimili Cauſe era permello al Popolo di prenderne cognizio ne in pegiudizio del dritto Paterno; Ma la contingenza ſtraordinaria d ' eſſerſi mella, la Città in rivolta per queſto fatto, produſela neceflità di ſedarſi il tumulto coll’eſpedien te politico di rimettere l'affare al giudizio del Popolo, e l' Impero privato del Padre dovette cedere alla ragione della pubblica tranquillità... E quindi intendiamo ancora la ragione, per cui Dioniſio riferiſce, che que Ita fu la prima volta, in cui il Popolo preſe cognizione d ' un giudizio Capitale (a), non gia perchè prima di queſto tempo non aveſſe mai il Senato giudicato di delitti capitali, come (a) Pion. lor. cit. Populus autem Romanus tum pri mum Capitalis Judicii poteftatem nactus, compro bavit Patris fententiam Juvenemque abſolvit a cac dis crimine, DI ROMA.. 67 come ſe prima non foſſero mai accadute con tingenze fimili o fe al Senato, che gode vala ſuprema poteſtà del Governo folle mancata fino allora quella di poter giudica re di delitti Capitali; Ma l'eſſere ſtata que. fta la prima volta, in cui eſercitoſli dal Po polo il dritto di giudicare d ' un delitto Ca pitale, deeſi riferire al fatto particolare, di cui ſi trattava, cioè alla poteſtà di giudicare d'un Figlio di Famiglia contro il ricevuto ca ſtume dell'Impero Paterno, a cui privativa mente ne apparteneva la cognizione. Or per tornare al noſtro propoſito diciamo, che fe que? Scrittori, i quali s'immaginarono, che Romolo infieme coi Re ſucceſſori fpiegaro no carattere di Poteſtà Monarchica, aveſsero fat to oſſervazione ſull'Impero Patrio, e familia re praticato da ’ Romani fin dalla fondazione della Città, ſi ſarebbero accorti dell' impof ſibilità di poterſi unire inſieme Monarchia, Civile prello del Re, e Monarchia familiare preſſo i privati Cittadini; poichè chi dice Monarchia familiare prello de' privati Citta dini cfclude ogni ombra di Monarchia preſſo E 2 il 68 DEL GOVERNO CIVILE ma dello il Re; e la ragione ſi è, perchè fe i Padri di famiglia ſenza la minima dipendenza non folamente del Capo del Senato fteſſo Senato regnante erano gli aſſoluti Mo narchi dell'intiera loro famiglia, ſia de ' figli, fia dei fervi, e famoli, come mai poſſiamo figurarci, che tali Monarchi familiari foſſero nel tempo ſteſſo ſoggetti alla Monarchia Ci vile? Chiamaſi Monarchia Civile quello fta TO, in cui tutto l'intero Corpo Civile in tutte le ſue faccende pubbliche e private trovali ſoggetto all'autorità fuprema d'un folo che comanda. Or chi non vede la manifeſta diſſonanza e contradizione nel ſupporre il Ceto 'de' Cittadini fornito di po* teftà ſuprema, ed indipendente nella fua fa miglia, é foggetto nel tenipo Ateſo al Mo narca? E come mai poſſono fingerfi unite in ſieme poteſtà fuprema, e foggezzione? In tutte le Società Civili, ove regna la Monar chia, non trovaremo mai poteftà familiare in dipendente dal Monarca, perchè l'una eſclu de direttamente l'altra. In fatti tali poteft:s private in perſona de' Cittadini non pollonio altri 3 1 1 1 DI ROMA. 69 altrimenti eſercitarſi, fe non in quelle Socie tà Civili, che ſiano governate colla formas Ariſtocratica perchè tal forma di Gover no ſolamente può comportare diviſioni di po teſtà pubblica, e privata; pubblica preſso il Ceto degli Ottimati e privata preſo le perſone particolari degli ſteſſi rappreſentan ti della Repubblica, i quali ſpiegano la po teſtà pubblica, quando uniti inſieme com pongono l'autorità regnante, e la privata, quando ſeparatamente regolano gli affari para ticolari delle loro famiglie: Or quanto tal diviſione di poteftà pubblica, e privata è comportabile call' Ariſtocrazia, altrettanto fi oppone direttamente alla Monarchia veggiamo colla ſperienza, la quale coſtan temente ci atteſta, che la Monarchia non mai ammette un tale impero paterno nelle famiglie, come in fatti avvenne preſſo i Ro mani in tempo, che la Repubblica cadde nella poteſtà aſſoluta del Monarca. Ne poſliamo figurarci, che la poteſtà fa niliare de' Romani foſſe ſtata in qualche ma niera ſubordinata alla poteſtà pubblica; pero E 3 chè 9 come / 70 DEL GOVERNO CIVIL E ché ſono troppo chiare le teſtimonianze de gli Storici, come abbiam veduto, dalle quali Siamo a ſacurati, che l'Impero Paterno de' Romani in que' tempi avea carattere di po teſtà aſſoluta; ed indipendente; e quando al tro mancaffe il dritto vite e necis, e di vendere i propri figli ci dimoſtra chiaramen te, che non potea eſſere un dritto ſubordina to; poichè i dritti ſubordinati, e dipendenti riconoſcono neceffariamente certi confini, ol tre de' quali non lice di eſercitarli; ma qualo ra ſi tratta di dritto ſulla vita, ch' ċ l'ulti mo termine di ogni poteſtà aſſoluta ſi poſſa uſare ſulle perſone, ceſsa ogni ſoſpetto di ſubordinazione; ed oltracciò colle chiare teſtimonianze degli Storici ſiamo convinti, che l'impero paterno di fatto fu eſercitato da’ Romani ſenza la minima dipendenza del la poteſtà pubblica. Dunque non abbiam cam po da fuggire da quel dilemma, cioè, che o fi dee ammettere per punto di Storia certa, che quei Padri di famiglia eſercitavano poteſtà fuprema in caſa, e non poſſiamo fingere poteſtà Monarchica Civile; o fe vogliamo nega DI ROMA. 71 negare tal poteſtà familiare ai Padri di fami glia, allora ci ſi chiude affatto la ſtrada di fapere la Storia Civile di Roma; perchè fe voglianio mettere in dubbio i punti di Sto ria confermatici concordemente da tutti gli Scrittori, non ſiamo più in grado di dar fe de a tutto il reſto. Grice: “Unfortunately, Duni, being the elitist he is, spends more time on the monarchy than the republic, and focuses on the concept of ‘citizen.’  Wikipedia Ricerca Imperativo categorico concetto della filosofia kantiana Lingua Segui Modifica L'imperativo categorico è il principio centrale nella filosofia morale di Immanuel Kant, così come dell'etica deontologica moderna, altrimenti chiamata legge morale.   Immanuel Kant Introdotto nella Fondazione della metafisica dei costumi (1785), potrebbe essere definito come lo standard della razionalità da cui tutte le esigenze morali derivano.   DescrizioneModifica Secondo Kant, gli esseri umani occupano uno speciale posto nella creazione, nella quale la moralità può essere definita come somma ultima dei comandamenti della ragione, o imperativi, da cui ciascun uomo deriva tutte le altre obbligazioni e i doveri. Egli definì un imperativo come una proposizione che dichiara una certa azione (o anche un'omissione) essere necessaria. Mentre la massima è un principiosoggettivo, l'imperativo categorico è invece un principio oggettivo; l'intenzione è poi il fondamento intrinseco della massima. L'etica di Kant si riferisce a massime e ciò a cui attribuisce grande importanza è l'intenzione.  Un imperativo ipotetico costringe all'azione in determinate circostanze: se io desidero dissetarmi devo assolutamente bere qualcosa.  Un imperativo categorico, d'altro canto, denota un'assoluta e incondizionata richiesta: un "devi" incondizionato, che dichiara la sua autorità in qualsiasi circostanza, entrambi necessari e giustificati come un fine in sé stesso. È meglio nota nella sua prima formulazione:  "agisci soltanto secondo quella massima che, al tempo stesso, puoi volere che divenga una legge universale"[1] ma esistono altre due formulazioni dello stesso imperativo categorico:  "agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni altro, sempre anche come fine e mai semplicemente come mezzo."[2] e  "La volontà non è semplicemente sottoposta alla legge, ma lo è in modo da dover essere considerata auto-legislatrice e solo a questo patto sottostà alla legge."[3] Kant espresse estrema insoddisfazione per la cosiddetta filosofia popolare dei suoi tempi, credendo che non avesse potuto mai superare il livello degli imperativi ipotetici: una persona utilitarista direbbe che l'omicidio è sbagliato perché non massimizza il bene per il maggior numero di persone, ma questo è irrilevante per coloro i quali sono interessati solo nel massimizzare risultati positivi solo per sé stessi.  Conseguentemente Kant argomentò che i sistemi di morale ipotetici non possono convincere all'azione morale o essere visti come base per giudizi morali verso altri, perché gli imperativi sui quali si basano si rifanno troppo pesantemente a considerazioni soggettive. Egli presentò un sistema di morale deontologica basata sulle richieste degli imperativi categorici come alternativa.  Natura del concettoModifica Dal punto di vista di Kant un atto morale è un atto che sarebbe giusto per qualsiasi tipo di persona, in circostanze simili a quelle nelle quali un agente si trova nel momento di eseguirlo. La facoltà che ci permette di prendere decisioni morali è chiamata ragion pratica pura, che è in contrasto con la ragion pura (la capacità di conoscere) e la semplice ragion pratica (che ci permette di interagire con il mondo dell'esperienza).  La guida alle azioni determinate dall'imperativo ipotetico ha un uso strumentale: ci dice cosa sia meglio raggiungere per i nostri obiettivi. Non ci dice, in ogni caso, niente circa i fini che dovremmo scegliere. Kant, viceversa, considera il giusto essere antecedente al buono come importanza assoluta; infatti sostiene che il buono raggiunto ha una irrilevanza morale.  La giusta moralità non può essere determinata con riferimento a niente di empirico o sensuale; si può determinare solo a priori, con ragion pratica pura. La ragione, separata dall'esperienza empirica, può determinare il principio secondo il quale tutti gli obiettivi possono essere determinati come morali. È questo principio fondamentale della ragione morale che è conosciuto come imperativo categorico.  La ragion pratica pura, nel determinarlo, determina cosa sarebbe necessario intraprendere senza riferimenti ai fattori contingenti empirici. Questo è il senso in cui la meta etica di Kant è oggettivistapiuttosto che soggettivista. Le questioni morali sono determinate indipendentemente dal riferimento al particolare soggetto che viene loro posto.  È per il suo essere determinata dalla ragion pratica pura, piuttosto che dal particolare empirico o dai fattori sensoriali, che la moralità è universalmente valida. Questa morale universale è considerata come un aspetto distintivo della filosofia morale kantiana e ha avuto un grosso impatto sociale sui concetti politicie legali dei diritti umani e dell'uguaglianza sociale.  Libertà ed autonomiaModifica Kant vide l'individuo umano come un essere razionale autocosciente con una scelta di libertà "impura":  La facoltà di desiderare in base a concetti, nella misura in cui il motivo determinante della sua azione va individuato in lei stessa e non in un oggetto, si chiama facoltà di fare o di non fare a piacimento. In quanto legata alla coscienza della capacità della sua azione in vista della produzione dell'oggetto, essa si chiama arbitrio, mentre se è priva di questo legame, il suo atto si chiama aspirazione. La facoltà di desiderare, il cui motivo determinante interno, quindi anche il gradimento, è da cercare nella ragione del soggetto, si chiama volontà. La volontà è quindi la facoltà di desiderare considerata non tanto (come l'arbitrio) in rapporto all'azione, quanto piuttosto in rapporto al motivo determinante dell'arbitrio in vista dell'azione. Inoltre non ha di per sé in verità alcun motivo determinante, ma, in quanto può determinare l'arbitrio, la volontà è piuttosto la ragione pratica stessa. Nell'ambito della volontà può rientrare l'arbitrio, ma anche la semplice aspirazione, in quanto la ragione può determinare la facoltà di desiderare in generale. L'arbitrio che può essere determinato dalla ragione pura, si chiama libero arbitrio. Quello che si lascia determinare soltanto dall'inclinazione (impulso sensibile, stimulus), sarebbe arbitrio animale (arbitrium brutum). Al contrario l'arbitrio umano è tale da venire sì sollecitato dall'impulso, ma non determinato, e non è dunque puro di per sé (prima di acquisire la prerogativa della ragione), ma può essere determinato ad agire dalla volontà pura.  Immanuel Kant,  Die Metaphysik der Sitten, 213 (Metafisica dei costumi, tr.it. a cura di Giuseppe Landolfi Petrone, testo tedesco a fronte, Milano, Bompiani, 2006, pp. 25-27)   Per poter considerare una volontà "libera", dobbiamo intenderla capace di influenzare il potere causale senza essere essa stessa causata a fare ciò. Ma l'idea dell'essere di un libero arbitrio "senza legge", vale a dire un volere che agisce senza alcuna struttura causale, è incomprensibile. Dunque, un libero arbitrio dovrebbe agire sotto leggi che esso dà a sé stesso.  Sebbene Kant ammise che non vi potesse essere alcun esempio concepibile di esempio di libero arbitrio, perché un qualunque esempio ci mostrerebbe solo come una volontà come ci appare — come soggetto alle leggi naturali — in ogni caso argomentò contro il determinismo. Propose che il determinismo fosse inconsistente dal punto di vista logico: il determinista afferma che A ha causato B, e B ha causato C, che A è la vera causa di C.  Applicato al caso della volontà umana, un determinista potrebbe discettare sul fatto che la volontà non ha un potere causale perché qualcos'altro ha causato la volontà di agire come ha fatto. Ma tale argomentazione semplicemente assume cosa si era prefigurato di dimostrare; che la volontà umana non è parte della catena causale.  In secondo luogo Kant sottolinea che il libero arbitrio è intrinsecamente inconoscibile. Poiché dunque anche una persona libera non potrebbe avere la conoscenza della propria libertà, non possiamo usare le nostre sconfitte per trovare una prova del fatto che la libertà esiste o l'assenza di essa. Il mondo osservabile non potrebbe mai contenere un esempio di libertà perché non mostrerebbe mai una 'volontà' come appare a "se stessa", ma solo una 'volontà' che è soggetta alle leggi naturali imposte su di essa. Ma alla nostra coscienza appariamo come liberi: dunque trasse le conclusioni che per l'idea della libertà trascendentale questa sarebbe, libertà come presupposto della domanda "cosa sarebbe necessario che io faccia?".  Questo è ciò che ci dà base sufficiente per definire la responsabilità morale: il razionale e il potere dell'auto-realizzazione dell'individuo, che egli chiama "autonomia morale": «la proprietà che la volontà ha di essere una legge per essa stessa».  Buona volontà, dovere e l'imperativo categoricoModifica Dacché considerazioni dei dettagli fisici dell'azione sono necessariamente legati alle preferenze soggettive di una persona, e potrebbero essere attivate senza l'azione del volere razionale, Kant concluse che le conseguenze che ci si attendeva di un atto sono esse stesse neutrali moralmente, e quindi irrilevanti alle delibere morali. L'unica base oggettiva per un valore morale dovrebbe essere la razionalità della buona volontà, espressa in riconoscimento del dovere morale.  Il dovere è la necessità di agire in rispetto della legge dettata dall'imperativo categorico. Poiché il suo valore morale non scaturisce dalle conseguenze di un atto, la sorgente della sua moralità dovrebbe essere semmai la massima sotto la quale l'atto è eseguito, senza rispettare tutti gli aspetti o le facoltà del desiderio. Un atto può dunque avere un contenuto morale se, e solo se, è eseguito con riguardo verso il senso di dovere morale; non è sufficiente che l'atto sia consistente con il dovere, deve essere intrapreso in nome dell'adempimento del dovere.  NoteModifica ^ Immanuel Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, in Scritti morali, traduzione di Pietro Chiodi, Torino, UTET, 1995, p. 79 (BA 52), ISBN 88-02-01835-9. ^ Immanuel Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, in Scritti morali, traduzione di Pietro Chiodi, UTET, 1995, pp. 88 (BA 66-67), ISBN 88-02-01835-9. ^ Immanuel Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, in Scritti morali, traduzione di Pietro Chiodi, UTET, 1995, pp. 91 (BA 70), ISBN 88-02-01835-9. BibliografiaModifica Orlando L. Carpi, Il problema del rapporto fra virtù e felicità nella filosofia morale di Immanuel Kant, Bologna, Edizioni Studio Domenicano, 2004. Voci correlateModifica Etica Imperativo ipotetico Collegamenti esterni       Modifica ( EN ) Imperativo categorico, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su Wikidata ( EN ) Imperativo categorico, in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton Company. Modifica su Wikidata Controllo di autoritàThesaurus BNCF 18346 · GND ( DE ) 4208204-3 · BNF ( FR ) cb119489541 (data)   Portale Filosofia: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di Filosofia Ultima modifica 3 mesi fa di 93.38.67.55 PAGINE CORRELATE Critica della ragion pratica testo filosofico di Immanuel Kant  Imperativo ipotetico termine  Fondazione della metafisica dei costumi Wikipedia Il contenutoEmanuele Duni. Duni. Keywords: costume, o sia sistema di dritto [sic] universale,  diritto universale – diritto filosofico -- Vico, filologia, Roma, universalita – Cicerone e buono. Cicerone e onesto – Cicerone dice la verita, il diritto romano universalisabile --. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Duni” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51691454043/in/photolist-2mLMxLY-2mKC3nj-2mKNdog

 

Grice e Duso – Romolo e compagnia – filosofia italiana – Luigi Speranza (Treviso). Filosofo. Grice: “While Duso is right that Hegel makes constitution and freedom analytically connected, the Romans didn’t! -- Grice: “My favourite Duso is his study of Hegel on freedom and the constitution – but Duso, who could have drawn from ‘diritto romano’ doesn’t!” Studioso dei concetti della politica moderna e riconosciuto per i suoi interventi su Althusius e sul giusnaturalismo. Studia a Padova. Si laurea con “Hegel interprete di Platone” (cf. “L’influenza di Hegel su Platone”). Assistente di Storia della filosofia e Professore di Storia della logica. Insegna a Padova. Dirige un Gruppo di ricerca sui concetti politici. È stato membro della redazione delle riviste "Il Centauro" e Laboratorio politico. Membro della Direzione della rivista "Filosofia politica", membro fondatore dell'associazione "Centro di ricerca sul lessico politico europeo", insieme a Roberto Esposito, Alessandro Biral, Adone Brandalise, Nicola Matteucci e altri. Fonda con alcuni colleghi il Centro Inter-Universitario di Ricerca sul Lessico Politico e Giuridico Europeo (CIRLPGE), con sede presso l'Istituto suor Orsola Benincasa a Napoli, di cui è Direttore. Ha tenuto corsi di Storia della Filosofia politica, di Filosofia politica e di Analisi dei Linguaggi e dei Concetti Politici a Padova. In occasione della sua ultima lezione "ufficiale", gli allievi del gruppo di ricerca padovano sui concetti politici hanno edito in suo onore il volume "Concordia discors”.  Il 27 maggio  l'Universidad Nacional de San Martín gli conferisce la laurea honoris causa per il suo lavoro accademico in quanto "costituisce un fondamento teorico indispensabile per comprendere l'attualità" -- è tra i principali fautori italiani di una riflessione sui concetti del politico, che si inserisce nel solco della Begriffsgeschichte tedesca di Brunner, Conze, Koselleck. Nei confronti di quest'ultima il gruppo padovano coordinato da Duso ha elaborato una originale linea di ricerca caratterizzata in modo duplice dalla filosofia: in primo luogo in quanto i concetti che si affermano e si diffondono con la Rivoluzione francese sono esamila loro genesi, che avviene nell'ambito delle dottrine del ‘contratto’sociale e dei sistemi di ‘diritto’ naturale; ma soprattutto perché filosofico è il movimento di pensiero di chi pratica una storia concettuale consistente nell'interrogare e mettere in questione (nel senso dell'elenchos socratico) il concetto (‘diritto’, ‘ius’, ‘uguaglianza’, ‘libertà’ ‘potere’ ‘democrazia’) che sono in genere ritenuti ovvii sia nel dibattito intellettuale, sia nella lotta politica. La storia concettuale consiste in questo modo nel comprendere la genesi, la logica e le aporie dei fondamentali concetti politici. "Storia dei concetti" (Begriffsgeschichte) compare per la prima volta nelle “Vorlesungen über die Philosophie der Geschichte” diHegel. Stanti le caratteristiche di quel testo, non si sa se ‘Begriffsgeschichte’ sia di conio hegeliano, o non piuttosto frutto di interpolazione. Esso allude ad una delle tre modalità storiografiche discusse da Hegel, ed in particolare alla "storia interpretativa" (“reflektierte Geschichte”), che indirizza la storia generale o storia del mondo o storia universale (“Weltgeschichte”) alla filosofia, da un punto di vista universale. Quest'uso della “Begriffsgeschichte” resta senza seguito. La tradizione storico-concettuale evolve invece, tra il XVIII secolo ed il XIX, nell'alveo della lessicografia filosofica.   Nella riflessione di Duso, la filosofia politica da una parte coincide con il lavoro critico della storia concettuale, e dall'altra tende, sulla base delle aporie emerse, a trovare linee di orientamento per un nuovo pensiero della politica. In tal modo viene messa in questione la modalità generalmente accettata di pensare la politica, che ha la sua radice nello sviluppo teorico che va dalla nascita della sovranità sulla base del concetto di ‘libertà’ ai concetti fondamentali delle nostre costituzioni democratiche, in particolare ‘sovranità del popolo’ e ‘rappresentanza politica’. Il lavoro critico sul concetto ha perciò una sua ricaduta nella messa in questione del dispositivo formale sia della ‘democrazia rappresentativa’ che della ‘democrazia diretta’, e nel tentativo di pensare la politica mediante nuove categorie.  Altre opere: “Hegel e Platone, Padova; Contraddizione e dialettica nella formazione in Fichte, Argalìa, Urbino; Weber: razionalità e politica Arsenale, Venezia; La politica oltre lo Stato: Carl Schmitt Arsenale, Venezia; Il contratto nella politica (Il Mulino, Bologna); Filosofia politica e pratica del pensiero: Eric Voegelin, Leo Strauss e Hannah Arendt” (FrancoAngeli, Milano); “Il potere. Per la storia della filosofia politica modernaCarocci, Roma (disponibile su cirlpge); “La logica del potere. Storia concettuale come filosofia politica” (Laterza, Roma-Bari (Polimetrica, Monza  (disponibile su cirlpge); “La libertà nella filosofia classica tedesca. Politica e filosofia tra Kant, Fichte, Schelling e Hegel (ed. con G. Rametta), Milano, FrancoAngeli); “La rappresentanza politica: genesi e crisi del concetto, Franco Angeli Milano, cirlpge)(Duncker & Humblot, Berlin, 2006 (disponibile su cirlpge); “Oltre la democrazia. Un itinerario attraverso i classici” (Carocci, Roma); Sui concetti giuridici e politici della costituzione dell'Europa (ed. con S. Chignola), FrancoAngeli, Milano, Polimetrica, Monza;  Ripensare la costituzione. La questione della pluralità, (ed. con M. Bertolissi e Antonino Scalone), Polimetrica, Monza, (disponibile su cirlpge) Storia dei concetti e filosofia politica, (con Sandro Chignola), FrancoAngeli, Milano; Come pensare il federalismo? Nuove categorie e trasformazioni costituzionali (ed. con A. Scalone), Polimetrica, Monza  (disponibile su cirlpge). Santander, Il concetto di ‘libertà’ e costituzione repubblicana nella filosofia politica di Kant, Polimetrica, Monza,  (disponibile su cirlpge) Ripensare la rappresentanza alla luce della teologia politica, in «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», (centropgm.unifi) Libertà e costituzione in Hegel” (FrancoAngeli, Milano,  Parti o partiti? Sul partito politico nella democrazia rappresentativa, in «Filosofia politica» cirlpge); “Buon governo e agire politico dei governati: un nuovo modo di pensare la democrazia? (A proposito di Rosanvallon, Le bon gouvernement), in «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», centropgm.unifi.  libri scaricabili gratuitamente in formato dal sito del Centro Interuniversitario di Ricerca sul Lessico Politico e Giuridico Europeo. Nello stesso sito sono disponibili inoltre altri saggi dello stesso autore.  Carl Schmitt Georg Wilhelm Friedrich Hegel Johann Gottlieb Fichte Roberto Esposito Alessandro Biral Adone Brandalise Gianfranco Miglio. CIRLPGE: Sito Ufficiale.  Wikipedia Ricerca Romolo primo leggendario Re di Roma Lingua Segui Modifica Nota disambigua.svg Disambiguazione – Se stai cercando altri significati, vedi Romolo (disambigua). Romolo Brogi, Carlo (1850-1925) - n. 8226 - Certosa di Pavia - Medaglione sullo zoccolo della facciata.jpg Romolo e suo fratello Remo da un fregio del XV secolo, Certosa di Pavia. 1° Re di Roma In carica753 a.C.[1] - 717 a.C.[2] Predecessore carica creata  SuccessoreNuma Pompilio[3][4] NascitaAlba Longa, 24 marzo del 771 a.C.[1] MorteRoma, il 5[5] o il 7 luglio del 716 a.C.[2] Casa realedi Alba Longa DinastiaRe latino-sabini PadreMarte[1][6][7] MadreRea Silvia[1][7] ConsorteErsilia[8] FigliPrima e Avilio Romolo (in latino: Romulus, in greco antico: Ῥωμύλος, Rōmýlos; Alba Longa, 24 marzo 771 a.C.[1] – Roma, 5[5] o 7 luglio 716 a.C.[2]), gemello di Remo, è il nome della figura leggendaria a cui la tradizione annalisticaattribuiva la fondazione di Roma e delle sue principali istituzioni politiche, nonché il ruolo di primo re della città e l'origine del toponimo.[1][9] La sua storicità è oggetto di dibattito da parte degli studiosi dall'inizio del XIX secolo, così come l'inizio della tradizione letteraria sulla sua figura.  Di origini latine-Sabine, figlio - a seguito di un rapporto estorto con la forza - del dio Marte e di Rea Silvia,[7]figlia di Numitore, re di Alba Longa,[1] secondo la tradizione fondò Roma tracciandone il confine sacro,[7] il pomerio, il 21 aprile 753 a.C..[10] In tale occasione uccise il fratello gemello Remo, reo di aver varcato in armi il sacro confine [10]: tale fratricidio è stato sovente evocato come segno violento della necessaria unicità del potere regale. Una volta costruita la città sul colle Palatino, egli invitò criminali, schiavi fuggiti, esiliati e altri reietti a unirsi a lui con la promessa del diritto d'asilo. Così facendo Romolo popolò cinque dei sette colli di Roma, rapendo poi le donne ai vicini Sabini della città di Cures, così da dare delle mogli ai suoi uomini. Ciò provocò una guerra tra i due popoli, che alla fine si risolse con una pace con i Sabini che poterono insediarsi sul vicino colle del Quirinale con il loro re, Tito Tazio, che condivise con Romolo il potere per cinque anni.[11][12]  Romolo divise il popolo tra coloro che potevano combattere e coloro che non potevano farlo. Scelse 100 tra i più nobili cittadini per formare il Senato, tanto che i loro discendenti andranno a costituire l'élite nobiliare della Repubblica. Romolo istituì anche i comizi curiati, a cui spettava il compito di ratificare, tra le altre cose, le leggi. Romolo condusse, quindi, diverse guerre di conquista. A lui risale la divisione della popolazione patrizia nelle 3 tribù di Tities, Ramnes e Luceres - a loro volta suddivise in dieci curie ciascuna - le quali dovevano in caso di pericolo fornire all'esercito romano un contingente militare costituito da cento fanti e dieci cavalieri, per un totale complessivo di 3 000 fanti e 300 cavalieri.[13] Dopo aver regnato per poco più di 37 anni, Romolo, secondo la leggenda, fu rapito in cielo durante una tempesta. Secondo i suoi stessi desideri, una volta morto fu divinizzato nella figura di Quirino, dio sabino venerato sul Quirinale.[14][15].  LeggendaModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Romolo e Remo. Origini familiariModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Enea, Alba Longa, Rea Silvia e Marte (divinità). Secondo la leggenda Romolo e Remo erano figli di Marte e di Rea Silvia, sacerdotessa vestale figlia del re di Alba Longa, Numitore, diretto discendente di Enea.[4] Romolo era quindi per parte materna di stirpe reale albana. Plutarco racconta che un certo Lucio Taruzio, matematico, astrologo ed amico di Marco Terenzio Varrone (l'autore del De lingua Latina), aveva calcolato il giorno esatto in cui i due gemelli furono concepiti (24 giugno del 772 a.C.) e nacquero (24 marzo del 771 a.C.).[1][16]  Dopo la fuga da Troia, Enea giunge nel Lazio e viene accolto dal re Latino, che gli fa conoscere sua figlia Lavinia. Enea se ne innamora, ma la fanciulla era già promessa a Turno, re dei Rutuli.[4] Il padre di Lavinia ascolta le intenzioni di Enea ma temendo una vendetta da parte di Turno si oppone ai suoi desideri. La disputa per la mano della fanciulla diventa una guerra, a cui partecipano le varie popolazioni italiche, compresi Etruschi e Volsci; Enea si allea con le popolazioni di origine greca stanziate nella città di Pallante sul Palatino, regno dell'arcade Evandro e di suo figlio Pallante.[17] La guerra è molto sanguinosa (subito muore Pallante ucciso da Turno), e per evitare ulteriori vittime si decide che la sfida fra Enea e Turno dovrà risolversi in un combattimento tra i due "comandanti" e pretendenti. Enea ha il sopravvento, sposa Lavinia e fonda la città di Lavinium (l'odierna Pratica di Mare).[4]Ben diversa la versione di Livio nei capitoli 1 e 2 del I libro della sua "Ab Urbe Condita" (il titolo è traducibile dal latino con "dalla Fondazione di Roma"). I Troiani nel loro peregrinare arrivano nell'agro Laurente e dopo uno scontro Enea addiviene a un patto d'alleanza con il re Latino e ne sposa la figlia, Lavinia, e fonda la città di Lavinio dal nome della moglie. Dal loro matrimonio nasce Ascanio.[4] Turno, re dei Rutuli, a cui era stata promessa in sposa Lavinia, dichiara guerra ai Latini, come si chiamano le genti del luogo dopo il patto. I Latini hanno la meglio ma Enea muore combattendo.  Infanzia ed adolescenzaModifica  Romolo e Remo allattati dalla Lupa dipinto di Rubens, ca.1616, Roma, Musei capitolini  La lupa, Romolo e Remo, nella monetazione romana del II secolo a.C.. Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Lupercale. Dopo trent'anni, Ascanio (detto anche Iulo) fonda una nuova città, Alba Longa,[18] sulla quale regnano i suoi discendenti. Molto tempo dopo il figlio e legittimo erede del re Proca di Alba Longa, Numitore, viene spodestato dal fratello Amulio,[18] che ne costringe la figlia Rea Silvia a diventare vestale e a fare quindi voto di castità.[4][19] Tuttavia il dio Marte s'invaghisce della fanciulla e la rende madre di due gemelli, Romolo e Remo.[20] Il re Amulio ordina l'uccisione dei gemelli, ma il servo incaricato di eseguire l'assassinio non ne trova il coraggio e li abbandona alla corrente del fiume Tevere.[4][6][21] La cesta nella quale i gemelli sono stati adagiati si arena sulla riva, presso la palude del Velabro tra Palatino e Campidoglio in un luogo chiamato Cermalus,[22] dove si trovava il fico ruminale.[6] Qui i due vengono trovati e allevati da una lupa (probabilmente una prostituta, all'epoca chiamata anche lupa, di cui si ritrova oggi traccia nella parola lupanare) e da un picchio (animale sacro per i Latini) che li protegge, entrambi animali sacri ad Ares.[23] Li trova poi il pastore Faustolo (porcaro di Amulio) che insieme alla moglie Acca Larenzia li cresce come suoi figli.[4][21][24] Una volta divenuti adulti e conosciuta la propria origine, Romolo e Remo fanno ritorno ad Alba Longa, uccidono Amulio e rimettono sul trono il nonno Numitore.[4][25][26]  Fondazione di RomaModifica  Roma attorno all'anno della sua fondazione, nel 753 a.C. Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Fondazione di Roma, Roma quadrata, Roma antica e Septimontium. Romolo e Remo, non volendo abitare ad Alba Longa senza potervi regnare almeno fino a quando fosse stato in vita il nonno materno, ottengono il permesso di andare a fondare una nuova città, nel luogo dove erano cresciuti. Romolo vuole chiamarla Roma ed edificarla sul Palatino, mentre Remo la vuole battezzare Remoria e fondarla sull'Aventino. È lo stesso Livio che riferisce le due più accreditate versioni dei fatti:  «Siccome erano gemelli e il rispetto per la primogenitura non poteva funzionare come criterio elettivo, toccava agli dei che proteggevano quei luoghi indicare, attraverso gli auspici, chi avessero scelto per dare il nome alla nuova città e chi vi dovesse regnare dopo la fondazione. Così, per interpretare i segni augurali, Romolo scelse il Palatino e Remo l’Aventino.[27] Il primo presagio, sei avvoltoi, si dice toccò a Remo.[27] Dal momento che a Romolo ne erano apparsi il doppio quando ormai il presagio era stato annunciato,[28] i rispettivi gruppi avevano proclamato re l’uno e l’altro contemporaneamente. Gli uni sostenevano di aver diritto al potere in base alla priorità nel tempo, gli altri in base al numero degli uccelli visti. Ne nacque una discussione e dal rabbioso scontro a parole si passò al sangue: Remo, colpito nella mischia, cadde a terra. È più nota la versione secondo la quale Remo, per prendere in giro il fratello, avrebbe scavalcato le mura appena erette [più probabilmente il pomerium , il solco sacro] e quindi Romolo, al colmo dell’ira, l’avrebbe ammazzato aggiungendo queste parole di sfida: «Così, d’ora in poi, possa morire chiunque osi scavalcare le mie mura.» In questo modo Romolo s’impossessò da solo del potere e la città appena fondata prese il nome del suo fondatore.»  (Livio, cit., I, 7 , Garzanti 1990, trad. di G. Reverdito) Regno (753 - 716 a.C.)Modifica Magnifying glass icon mgx2.svg                                              Lo stesso argomento in dettaglio: Rex (Roma antica) e Lex regia. Plutarco narra che una volta seppellito il fratello Remo, morto nello scontro che precedette la fondazione della città, Romolo fece venire dall'Etruria esperti di leggi e testi sacri che gli spiegassero ogni aspetto del rituale da attuare. Fu scavata una fossa circolare attorno al Comizio e deposte offerte votive per ottenere il favore degli Dei. Romolo però aveva bisogno di più abitanti per popolare la nuova città, e così accolse pastori latini ed etruschi, alcuni anche d'oltre mare, Frigi affluiti sotto la guida del suo avo Enea, oltre ad Arcadi arrivati sotto quella di Evandro.[29]  «Dopo la fondazione Romolo riunì uomini errabondi, indicò loro come luogo di asilo il territorio compreso tra la sommità del Palatino e il Campidoglio e dichiarò cittadini tutti coloro dei vicini villaggi che si rifugiassero lì.»  (Strabone, Geografia, V, 3,2.) Ogni abitante portò una piccola zolla di terreno e la gettò, mischiata alle altre, nella fossa chiamata mundus, che costituiva proprio il centro della città. Fu poi tracciato il solco primigenius tutto intorno alla città, i cui confini ne rappresentavano il pomerium, racchiuso all'interno delle mura "sacre".[30]  Quindi Romolo chiese al popolo quale forma di governo volesse per la città appena fondata[31], e questo rispose che avrebbe accettato Romolo come proprio re.[32] Ma Romolo accettò la nomina solo dopo aver preso gli auspici favorevoli del volere degli dei, che si manifestò con un lampo che balenò da sinistra verso destra.[33]  Dal ratto delle Sabine alle guerre di conquista nel Latium vetus Modifica Magnifying glass icon mgx2.svg                           Lo stesso argomento in dettaglio: Storia delle campagne dell'esercito romano in età regia e Latium vetus. Romolo, divenuto unico re di Roma, decise per prima cosa di fortificare la nuova città, offrendo sacrifici agli dèi secondo il rito albano e dei Greci in onore di Ercole, così com'erano stati istituiti da Evandro.[34]; successivamente dotò la città del suo primo sistema di leggi e si circondò di 12 littori.[35]  Con il tempo Roma andò ingrandendosi, tanto da apparire secondo Livio "così potente da poter rivaleggiare militarmente con qualunque popolo dei dintorni". Erano le donne che scarseggiavano.[36]Questa grandezza era destinata a durare una sola generazione se i Romani non avessero trovato sufficienti mogli con cui procreare nuovi figli per la città,[37] nonostante Romolo avesse proibito di esporre tutti i figli maschi e la prima tra le figlie, tranne che fossero nati con delle malformazioni.[38]  «[...] Romolo su consiglio dei Senatori, inviò ambasciatori alle genti vicine per stipulare trattati di alleanza con questi popoli e favorire l'unione di nuovi matrimoni. [...] All'ambasceria non fu dato ascolto da parte di nessun popolo: da una parte provavano disprezzo, dall'altra temevano per loro stessi e per i loro successori, ché in mezzo a loro potesse crescere un simile potere.»  (Livio, Ab Urbe condita libri, I, 9.)  L'intercessione delle Sabine, olio su tela di Jacques-Louis David, 1795-1798, Parigi, Musée du Louvre. La gioventù romana non la prese di buon grado, tanto che la soluzione che andò prospettandosi fu quella di usare la forza. Romolo, infatti, decise di dissimulare il proprio risentimento e di allestire dei giochi solenni in onore di Nettuno equestre,[4] che chiamò Consualia(secondo Floro erano dei ludi equestri[36]) e che si celebravano ancora al tempo di Strabone.[4] Quindi ordinò ai suoi di invitare allo spettacolo i popoli vicini: dai Ceninensi, agli Antemnati, Crustumini e Sabini, questi ultimi stanziati sul vicino colle Quirinale. L'obiettivo era quello di compiere un gigantesco rapimento delle loro donne proprio nel mezzo dello spettacolo.[4] Arrivò moltissima gente, con figli e consorti, anche per il desiderio di vedere la città nuova.[36]  «Quando arrivò il momento stabilito dello spettacolo e tutti erano concentrati sui giochi, come stabilito, scoppiò un tumulto ed i giovani romani si misero a correre per rapire le ragazze. Molte cadevano nelle mani del primo che incontravano. Quelle più belle erano destinate ai senatori più importanti. [...]»  (Livio, Ab Urbe condita libri, I, 9.) Terminato lo spettacolo i genitori delle fanciulle scapparono, accusando i Romani di aver violato il patto di ospitalità.[2][39] Romolo riuscì a placare gli animi delle fanciulle e, con l'andare del tempo, sembra che l'ira delle ragazze andò affievolendosi grazie alle attenzioni ed alla passione con cui i Romani le trattarono nei giorni successivi. Anche Romolo trovò moglie tra queste fanciulle, il cui nome era Ersilia. Da lei il fondatore della città, ebbe una figlia, di nome Prima ed un figlio, di nome Avilio.[40]  Tutto ciò diede origine ad una serie di guerre successive.[36] Dei popoli che avevano subito l'affronto furono i soli Ceninensi ad invadere i territori romani, ma furono battuti dalle schiere ordinate dei Romani.[41] Il comandante nemico, un certo Acrone fu ucciso in duello dallo stesso Romolo, che ne spogliò il cadavere e offrì gli spolia opima a Giove Feretrio, fondando sul Campidoglio il primo tempio romano.[41]Eliminato il comandante nemico, Romolo si diresse contro la loro città che cadde al primo assalto,[2][42]trasferendone, poi, la cittadinanza a Roma e conferendole pari diritti a quelli dei Romani.[43] Gli stessi Fasti trionfali celebrano per l'anno 752/751 a.C.:[44]  «Romolo, figlio di Marte, re, trionfò sul popolo dei Ceninensi (Caeniensi), calende di marzo (1º marzo).»  (Fasti trionfali, 2 anni dalla fondazione di RomaFasti Triumphales : Roman Triumphs.) Tale evento era, invece, avvenuto secondo Plutarco, basandosi su quanto raccontato a sua volta da Fabio Pittore, solo tre mesi dopo la fondazione di Roma (nel luglio del 753 a.C.).[45]  Dopo la vittoria sui Ceninensi fu la volta degli Antemnati.[2][46] La loro città fu presa d'assalto ed occupata, portando Romolo a celebrare una seconda ovatio.[8] Ancora i Fasti trionfali ricordano sempre per l'anno 752/751 a.C.:[44]  «Romolo, figlio di Marte, re, trionfò per la seconda volta sugli abitanti di Antemnae(Antemnates).»  (Fasti trionfali, 2 anni dalla fondazione di RomaFasti Triumphales : Roman Triumphs.) Rimaneva solo la città dei Crustumini, la cui resistenza durò ancora meno dei loro alleati.[2] Portate a termine le operazioni militari, il nuovo re di Roma dispose che venissero inviati nei nuovi territori conquistati alcuni coloni, i quali andarono a popolare soprattutto la città di Crustumerium, che, rispetto alle altre, possedeva terreni più fertili. Contemporaneamente molte persone dei popoli sottomessi, in particolar modo i genitori ed i parenti delle donne rapite, vennero a stabilirsi a Roma.[8][46]   Il Latium vetus con le città elencate in questo capitolo di Caenina, Antemnae, Crustumerium, Medullia, Fidenae e Veio. L'ultimo attacco portato a Roma fu quello dei Sabini del Quirinale,[2][47] nel corso del quale si racconta della vergine vestale, Tarpeia, figlia del comandante della rocca Spurio Tarpeio, la quale fu corrotta con dell'oro (i bracciali che vedeva rilucere alle braccia dei Sabini[48]) da Tito Tazio e fece entrare nella cittadella fortificata sul Campidoglio un drappello di armati con l'inganno.[8][49][50] L'occupazione dei Sabini della rocca, portò i due eserciti a schierarsi ai piedi dei due colli (Palatino e Campidoglio), dove più tardi sarebbe sorto il Foro romano,[51][52] mentre i capi di entrambi gli schieramenti incitavano i propri soldati alla lotta: Mezio Curzio per i Sabini e Ostio Ostilio per i Romani. Quest'ultimo cadde nel corso della battaglia che poco dopo si scatenò,[53] costringendo le schiere romane a ripiegare presso la vecchia porta del Palatino. Romolo, invocando Giove e promettendo allo stesso in caso di vittoria un tempio a lui dedicato (nel Foro romano),[52]si lanciò nel mezzo della battaglia riuscendo a contrattaccare e ad avere la meglio sulle schiere nemiche.[54][55] Fu in questo momento che le donne sabine, che erano state rapite in precedenza dai Romani, si lanciarono in mezzo alla battaglia per dividere i contendenti e placarne la collera.[13][56][57]  «Da una parte supplicavano i mariti [i Romani] e dall'altra i padri [i Sabini]. Li pregavano di non commettere un crimine orribile, macchiandosi del sangue di un suocero o di un genero e di evitare di macchiarsi di parricidio verso i figli che avrebbero partorito, figli per gli uni e nipoti per altri.»  (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 13.) «Là mentre stavano per tornare a combattere nuovamente, furono fermati da uno spettacolo incredibile e difficile da raccontare a parole. Videro infatti le figlie dei Sabini, quelle rapite, gettarsi alcune da una parte, ed altre dall'altra, in mezzo alle armi ed ai morti, urlando e minacciando con richiami di guerra i mariti ed i padri, quasi fossero possedute da un Dio. Alcune avevano tra le braccia i loro piccoli... e si rivolgevano con dolci richiami sia ai Romani sia ai Sabini. I due schieramenti allora si scostarono, cedendo alla commozione, e lasciarono che le donne si ponessero nel mezzo.»  (Plutarco, Vita di Romolo, 19, 1-3.) Con questo gesto entrambi gli schieramenti si fermarono e decisero di collaborare, stipulando un trattato di pace, varando l'unione tra i due popoli con comunanza di potere e cittadinanza,[4] associando i due regni (quello di Romolo e Tito Tazio),[57] lasciando che la città dove ora era trasferito tutto il potere decisionale continuasse a chiamarsi Roma, anche se tutti i Romani furono chiamati Curiti (in ricordo della patria natia di Tito Tazio, che era Cures) per venire incontro ai Sabini.[13][58] Contemporaneamente il vicino lago nei pressi dell'attuale Foro romano, fu chiamato in ricordo di quella battaglia e del comandante sabino scampato alla morte (Mezio Curzio), Lacus Curtius,[13] mentre il luogo in cui si conclusero gli accordi tra le due popolazioni, fu chiamato Comitium, che deriva da comire per esprimere l'azione di incontrarsi.[59]  Qualche anno dopo Tito Tazio fu ucciso a Lavinium e Romolo, che non reagì al fatto con alcuna azione militare, rimase unico regnante della città.[4][60]Successivamente Romolo riuscì prima a conquistare Medullia, poi a battere Fidenae[2][60] installandovi 2.500 coloni,[61] a farsi amici ed alleati i prisci Latini,[62] a battere gli abitanti di Cameria (sedici anni dopo la fondazione[63][64]) ed infine sconfiggere la potente città etrusca di Veio,[2][41] sottraendole i territori dei Septem pagi (ad ovest dell'isola Tiberina) e delle Saline,[64] in cambio di una tregua della durata di cento anni.[65] Questa fu l'ultima guerra combattuta da Romolo.[66]  Istituzioni             Modifica  Romolo, uccisore di Acrone, porta le sue spoglie al tempio di Giove dipinto di Jean Auguste Dominique Ingres, 1812 Magnifying glass icon mgx2.svg        Lo stesso argomento in dettaglio: Lex regia, Senato romano, Gentes originarie, Tribù (storia romana) ed Esercito romano. Al regno di Romolo si attribuiscono i primi ordinamenti romani. Sembra, infatti, che per prima cosa organizzò l'esercito, sulla base della popolazione adatta alle armi.[67] Successivamente istituì un'assemblea, formata da 100 Patres, mentre i loro discendenti furono chiamati patrizi, a cui diede il nome nella sua globalità di Senato (Senatus da senex per la loro anzianità).[2][35][68][69]  A lui si attribuisce l'istituzione del diritto di asilo, a quanti erano stati banditi o fuggivano dalle città vicine; la circostanza si può ricollegare all'esigenza di popolare la città. Gli si attribuisce anche il fenomeno del patronato dei patrizi nei confronti dei plebei che gli facevano da garanti e protettori in cambio di favori conosciuto anche con il termine clientela.  Tito Livio racconta che in seguito alla pace stipulata con i Sabini di Tito Tazio (con il quale regnò in assoluta armonia, fino a quando quest'ultimo non fu assassinato a Lavinio[60] cinque anni dopo l'inizio del loro regno congiunto[11]), essendo raddoppiata la popolazione, non solo furono eletti altri 100 Patres tra i Sabini, e raddoppiati gli effettivi dell'esercito (ora composto da 6 000 fanti e 600 cavalieri),[70] ma divise anche l'intero popolo in tre tribù:[69] i Ramnes, i Titiesed i Luceres, a loro volta suddivisi in dieci curie ciascuna, attribuendo ad esse i nomi di trenta donne.[13] Plutarco racconta che i due re, Romolo e Tazio, non tennero un consiglio comune tra loro, ma ognuno deliberava prima separatamente con i propri 100 Patres, e poi si radunavano tutti insieme in uno stesso luogo per deliberare.[71]  Plutarco racconta che Romolo, inorgoglitosi dei successi conseguiti contro tutte le popolazioni limitrofe alla città di Roma, con grande arroganza abbandonò la precedente tendenza democratica, per sposare un modello di monarchia assoluta, opprimente ed intollerabile.[66] Egli indossava un mantello purpureo e una toga bordata di porpora, dava udienza su di un trono, attorniato da alcuni giovani, chiamati celeres (una forma di guardia del corpo reale da lui creata),[72][73] ed era preceduto da alcuni littori, che respingevano la folla con dei bastoni a difesa del rex.[35][74] In effetti si tratterebbe di un'istituzione già presente nelle città etrusche, dalla quali fu probabilmente ripresa ed introdotta in Roma in epoca storica.  Si racconta, inoltre, che, quando il nonno Numitore morì, a Romolo spettasse il governo della città di Alba Longa, ma egli preferì affidarne l'amministrazione al popolo, attraverso un suo magistrato che eleggeva annualmente,[75] e così insegnò anche ai cittadini più potenti di Roma a desiderare di vivere in una città senza un rex, autonoma.[75] Infatti a Roma, da quando Romolo aveva mutato il suo atteggiamento da democratico a dispotico, i cosiddetti patrizi, pur partecipando alla vita pubblica, portavano solo un "titolo" onorifico ed un prestigio apparente, riunendosi in Senato più per abitudine che per esprimere un parere. Di fatto tutti si limitavano ad obbedire agli ordini di Romolo, avendo un unico privilegio: quello di essere informati per primi sulle decisioni de re, rispetto alla moltitudine.[76] Plutarco aggiunge che Romolo coprì di ridicolo il Senato, distribuendo personalmente ai soldati la terra conquistata in guerra e restituendo gli ostaggi ai Veienti, senza aver preventivamente consultato ed ottenuto l'assenso da parte dei senatori.[77]  Prime forme di diritto privato romano Modifica Magnifying glass icon mgx2.svg                          Lo stesso argomento in dettaglio: Diritto romano. A Romolo si fa tradizionalmente risalire l'introduzione della proprietà terriera privata a Roma, con l'atto, legato alla fondazione della città, di attribuire ad ogni gens un heredium di terra, che sarebbe poi passato in proprietà agli eredi.[78]  Romolo stabilì anche una legge secondo la quale una moglie non potesse lasciare il marito. Al contrario la donna poteva essere ripudiata se tentava di avvelenare i figli, di sostituire le chiavi di casa o in caso di adulterio. Nel caso in cui fosse stata ripudiata per altri motivi, il marito era tenuto a versarle una quota del suo patrimonio e ad offrirne una seconda al tempio di Demetra. Chi ripudiava la propria moglie era, infine, tenuto a sacrificare agli dei Inferi.[79][80] Curioso che Romolo non stabilì alcuna pena contro i parricidi, ma definì parricidio tutte le forme di omicidio, come se il parricidio fosse un delitto impossibile da compiersi.[81]  Festività e riti sacri                                     Modifica Magnifying glass icon mgx2.svg                           Lo stesso argomento in dettaglio: Religione romana, Festività romane e Mitologia romana. Sabini e Romani, una volta uniti sotto Tito Tazio e Romolo, parteciparono alle rispettive feste e riti sacri, senza eliminare nessuno di quelli che ciascun popolo aveva fino a quel momento celebrato singolarmente. Al contrario ne istituirono di nuovi, come i Matronalia,[82] i Carmentalia[83] ed i Lupercali.[84]Romolo decise di accogliere i rituali dedicati ad Ercole, unico tra i riti non romani da lui accettati,[85] e sempre a lui (o al suo successore, Numa Pompilio)[3][4] è inoltre attribuita l'istituzione del culto del fuoco, con la creazione delle vergini sacre a sua custodia, chiamate Vestali.[86][87]  Calendario romuleo                         Modifica Magnifying glass icon mgx2.svg                          Lo stesso argomento in dettaglio: Calendario romano. La tradizione afferma che Romolo avrebbe istituito per primo il Calendario romano (un calendario lunare con inizio alla luna piena di marzo, costituito da 10 mesi - 6 mesi di 30 giorni e 4 mesi di 31 giorni, per un totale di 304 giorni; i restanti 61 giorni di inverno non venivano assegnati ad alcun mese). Va altresì segnalato che altri storici come Eutropio, sostengono possa essere stato il suo successore Numa Pompilio.[88] Questo fu un argomento molto dibattuto dagli storici del tempo (da Tito Livio a Dionigi d'Alicarnasso o Plutarco) poiché alcuni di loro affermavano trattarsi di un calendario piuttosto disordinato, dove i mesi variavano da 20 giorni a 35 giorni.  Morte, sepoltura e deificazione                                                       Modifica Dopo trentotto anni di regno,[89] secondo la tradizione (all'età di cinquantaquattro anni[89]), Romolo venne assunto in cielo[90] durante una tempesta[2] ed un'eclissi,[91] avvolto da una nube, mentre passava in rassegna l'esercito e parlava alle truppe vicino alla Palus Caprae in Campo Marzio.[92][93] L'improvvisa scomparsa del loro fondatore fece sì che i Romani lo proclamassero dio (con il nome di Quirino,[65][94][95] in onore del quale fu edificato un tempio sul colle, chiamato in seguito Quirinale[96]), figlio di un dio (Marte), re e pater (padre) di Roma.[97] Ancora ai tempi di Plutarco si celebravano molti riti nel giorno della sua scomparsa, avvenuta secondo tradizione il 5[5] o il 7 luglio del 716 a.C.[2]  Sembra anche che, per dare maggiore credibilità all'accaduto, la tradizione racconta che riapparve al suo vecchio compagno albano Proculo Giulio,[98] il più antico personaggio noto appartenente alla gens Iulia.   «Stamattina o Quiriti, verso l'alba, Romolo, padre di questa città, è improvvisamente sceso dal cielo e apparso davanti ai miei occhi. [...] Va e annuncia ai Romani che il volere degli Dei è che la mia Roma diventi la capitale del mondo. Che essi diventino pratici nell'arte militare e tramandino ai loro figli che nessuna potenza sulla Terra può resistere alle armi romane.»  (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 16.) L'evidente somiglianza delle tradizioni, ha indotto alcuni storici a ritenere che questo racconto abbia ispirato quello relativo alla risurrezione di Gesù.[99]Nella probabile realtà storica, invece, il primo re di Roma sarebbe morto assassinato dai Patres durante una seduta del consiglio regio al Volcanal (ovvero il tempio di Efesto nel Foro romano).[100][101] Si racconta infatti che, a causa delle continue limitazioni che aveva posto al Senato, organo divenuto più che altro di facciata ad una forma di monarchia sempre più "assoluta", soprattutto dopo la morte di Tito Tazio, caddero sui suoi membri sospetti e calunnie.[77] Il suo corpo sarebbe stato poi simbolicamente smembrato dai senatori, "a causa del suo carattere troppo duro"[91] e le sue parti (divise tra gli stessi membri del Senato[101]) sepolte nelle varie aree componenti il territorio della città.  Dietro la leggenda: la realtà storico-archeologica                               Modifica Magnifying glass icon mgx2.svg                            Lo stesso argomento in dettaglio: Populi albensese Gentes originarie. La reale esistenza di Romolo è stata lungamente discussa, ma secondo lo storico Theodor Mommsensarebbe comprovata dalla presenza tra le gentesoriginarie di Roma (di cui parla Tito Livio) della gens Romilia, nota da iscrizioni, che è stata identificata con il clan familiare dei discendenti di Romolo, e che diede anche il proprio nome ad una delle più antiche Tribù territoriali. Se ne ha conferma da una glossa di Festo(la 331 nell'epitome di Paolo Diacono, edita da Lindsay), che riporta appunto l'esistenza di una tribù Romulia.[102] Altri autori ritengono sia una creazione artificiale, fantasiosa quella di Romolo, pur riconoscendo nella stessa figura "leggendaria" la sintesi di elementi topografici, politici e religiosi realmente accaduti, a partire dalla tribù dei Romili oltre alla figura di Remo, identificabile con l'antico centro di Remuria nei pressi della Roma quadrata(sull'Aventino).[103][104]  Secondo il linguista Carlo de Simone,[105] i nomi di Roma e Romolo sarebbero collegati ed entrambi deriverebbero da un termine ricostruito in ruma, al quale la tradizione romana assegnava il significato di "mammella". Il termine sarebbe di origine etrusca, perché non ne è stato trovato l'etimo indoeuropeo (e l'unica lingua non-indoeuropea della zona era appunto l'etrusco). Il termine sarebbe entrato come prestito nel latino arcaico e avrebbe dato origine al toponimo Ruma (più tardi Roma) e ad un prenome Rume (in latino divenuto Romus), dal quale sarebbe derivato il gentilizio etrusco Rumel(e)na[106], divenuto in latino Romilius. Il Villar, invece, sostiene che il nome Romafosse, molto probabilmente, il nome preindoeuropeo del Tevere trasferito alla città che esso bagnava, come accadeva frequentemente a quel tempo.[107]  Secondo altre ipotesi (sempre più smentite dalle campagne archeologiche), i più antichi dei re di Roma sarebbero figure principalmente simboliche (in particolare sembrano complementari i primi due, Romolo e Numa Pompilio, che avrebbero introdotto le massime istituzioni politico-militari e religiose dello stato).  La reale esistenza della figura di Romolo come effettivo fondatore, primo legislatore e re-sacerdote, è stata rivalutata dall'archeologo Andrea Carandini, sulla base di moderni scavi condotti alle pendici del Palatino, che avrebbero portato al rinvenimento dell'area corrispondente alla vera Regia di Romolo, nonché dell'antico tracciato del pomerio. Ivi sono stati rinvenuti reperti fittili, resti di una palizzata e di un muro in tufo (derubricato come «muro di Romolo») databili con certezza al secolo VIII a.C., circostanza che darebbe conferma anche dell'esattezza cronologica delle fonti storiografiche latine sull'epoca della fondazione di Roma e della consistenza del suo rito di fondazione.[108][109]  Inoltre, sulla base di una fonte letteraria, la scoperta del sito del lapis niger nel 1899 fu associata all'ipotesi di un possibile sito della tomba di Romolo o di un arcaico luogo di culto a lui dedicato.[110]  A possibile conferma di quanto sopra, nel febbraio 2020 nella zona sottostante alla scalinata di accesso alla Curia è stato rinvenuto un cenotafio ipogeo databile al VI secolo a.c. dedicato al suo culto, contenente un sarcofago della lunghezza di circa m 1,50, che alcuni studiosi hanno ipotizzato possa essere stata la sua tomba [111], mentre altri hanno escluso tale possibilità. Va osservato tuttavia che la lunghezza del sarcofago, (corrispondente in modo abbastanza preciso alla statura media degli uomini di quell'epoca) farebbe pensare ad una funzione di inumazione di un corpo integro, non delle sue parti. [112]  Antenati                                                Modifica Genitori                                                                                                                                                                     Nonni                                                                                                                                                                               Bisnonni Dio Giove                                                                                                                                                                   Dio Saturno                                                     Dea Opi                                                    Dio Marte                                                                                                               Dea Giunone                                               Dio Saturno                                                     Dea Opi                                                    Romolo                                                                                                                          Numitore                                                  Proca                                                           …                                                        Rea Silvia                                                                                                               …                                                                                                                      …                                                          Note                                                  Modifica ^ a b c d e f g h Eutropio, Breviarium ab Urbe condita, I, 1. ^ a b c d e f g h i j k l m Eutropio, Breviarium ab Urbe condita, I, 2. ^ a b Floro, Epitoma de Tito Livio bellorum omnium annorum DCC, I, 2.1. ^ a b c d e f g h i j k l m n o Strabone, Geografia, V, 3,2. ^ a b c Plutarco, Vita di Romolo, 27, 4. ^ a b c Livio, Ab Urbe condita libri, I, 4. ^ a b c d Floro, Epitoma de Tito Livio bellorum omnium annorum DCC, I, 1.1. ^ a b c d Livio, Ab Urbe condita libri, I, 11. ^ Marcone, p. 19. ^ a b Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 7. ^ a b Plutarco, Vita di Romolo, 23, 1-3. ^ Strabone, Geografia, V, 3,7. ^ a b c d e Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 13. ^ Plutarco, Vita di Romolo, 27-29; Livio, Ab Urbe condita libri, I, 15. ^ Floro, Epitoma de Tito Livio bellorum omnium annorum DCC, I, 1.16-18. ^ Plutarco, Vita di Romolo, 12, 3-5. ^ Sia Livio (Ab Urbe condita libri, I, 7), sia Ovidio(I Fasti, I, 470 e sgg.) narrano di una migrazione dalla città greca di Argo, guidata da Evandro ^ a b Floro, Epitoma de Tito Livio bellorum omnium annorum DCC, I, 1.4. ^ Plutarco, Vita di Romolo, 3, 3. ^ Plutarco, Vita di Romolo, 3, 4. ^ a b Floro, Epitoma de Tito Livio bellorum omnium annorum DCC, I, 1.2-3. ^ Varrone, De lingua latina, V, 54. ^ Plutarco, Vita di Romolo, 4, 2-4. ^ Plutarco, Vita di Romolo, 3, 5-6. ^ Plutarco, Vita di Romolo, 7-8. ^ Floro, Epitoma de Tito Livio bellorum omnium annorum DCC, I, 1.5. ^ a b Floro, Epitoma de Tito Livio bellorum omnium annorum DCC, I, 1.6. ^ Floro, Epitoma de Tito Livio bellorum omnium annorum DCC, I, 1.8. ^ Floro, Epitoma de Tito Livio bellorum omnium annorum DCC, I, 1.9. ^ Plutarco, Vita di Romolo, 11, 1-4. ^ Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, II, 3, 1-8. ^ Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, II, 4, 1-2. ^ Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, II, 5, 1-2. ^ Livio, Ab Urbe condita libri, I, 7-8. ^ a b c Livio, Ab Urbe condita libri, I, 8. ^ a b c d Floro, Epitoma de Tito Livio bellorum omnium annorum DCC, I, 1.10. ^ Livio, Ab Urbe condita libri, I, 9. ^ Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, II, 15, 1-2. ^ Plutarco, Vita di Romolo, 14, 2-6. ^ Plutarco, Vita di Romolo, 14, 7-8. ^ a b c Floro, Epitoma de Tito Livio bellorum omnium annorum DCC, I, 1.11. ^ Livio, Ab Urbe condita libri, I, 10. ^ Plutarco, Vita di Romolo, 16, 2-6. ^ a b AE 1930, 60. ^ Plutarco, Vita di Romolo, 14, 1. ^ a b Plutarco, Vita di Romolo, 17, 1. ^ Plutarco, Vita di Romolo, 16, 1. ^ Plutarco, Vita di Romolo, 17, 2. ^ Dionigi di Alicarnasso, VII, 35, 4; VIII, 78, 5. ^ Floro, Epitoma de Tito Livio bellorum omnium annorum DCC, I, 1.12. ^ Plutarco, Vita di Romolo, 18, 4. ^ a b Floro, Epitoma de Tito Livio bellorum omnium annorum DCC, I, 1.13. ^ Plutarco, Vita di Romolo, 18, 6. ^ Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 12. ^ Plutarco, Vita di Romolo, 18, 7-9. ^ Plutarco, Vita di Romolo, 19. ^ a b Floro, Epitoma de Tito Livio bellorum omnium annorum DCC, I, 1.14. ^ Plutarco, Vita di Romolo, 19, 8-9. ^ Plutarco, Vita di Romolo, 19, 10. ^ a b c Livio, Ab Urbe condita libri, I, 14. ^ Plutarco, Vita di Romolo, 23, 7. ^ Plutarco, Vita di Romolo, 23, 6. ^ Plutarco, Vita di Romolo, 24, 3-5. ^ a b Carandini 2007, p. 99. ^ a b Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 15. ^ a b Plutarco, Vita di Romolo, 26, 1. ^ Plutarco, Vita di Romolo, 13, 1. ^ Plutarco, Vita di Romolo, 13, 2-3. ^ a b Floro, Epitoma de Tito Livio bellorum omnium annorum DCC, I, 1.15. ^ Plutarco, Vita di Romolo, 20, 1. ^ Plutarco, Vita di Romolo, 20, 5. ^ Plutarco, Vite parallele, Vita di Romolo, 26, 2. ^ Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, II, 13, 1-4. ^ Plutarco, Vite parallele, Vita di Romolo, 26, 3-4. ^ a b Plutarco, Vita di Romolo, 27, 1. ^ Plutarco, Vita di Romolo, 27, 2. ^ a b Plutarco, Vita di Romolo, 27, 3. ^ Marco Terenzio Varrone, De re rustica, 1.10.2  ^ Plutarco, Vita di Romolo, 22, 3. ^ Dionigi di Alicarnasso, II, 24-25. ^ Plutarco, Vita di Romolo, 22, 4. ^ Plutarco, Vita di Romolo, 21, 1. ^ Plutarco, Vita di Romolo, 21, 2-3. ^ Plutarco, Vita di Romolo, 21, 4-10. ^ Tito Livio, I, 7. ^ Plutarco, Vita di Romolo, 22, 1. ^ Dionigi di Alicarnasso, II, 64, 5; II, 66, 3. ^ Eutropio, Breviarium ab Urbe condita, I, 3. ^ a b Plutarco, Vita di Romolo, 29, 12. ^ O fu ucciso. Appiano di Alessandria, Storia romana (Appiano), Liber I, II ^ a b Floro, Epitoma de Tito Livio bellorum omnium annorum DCC, I, 1.17. ^ Plutarco, Vita di Romolo, 27, 6-9. ^ Floro, Epitoma de Tito Livio bellorum omnium annorum DCC, I, 1.16. ^ Plutarco, Vita di Romolo, 28, 1-2. ^ Floro, Epitoma de Tito Livio bellorum omnium annorum DCC, I, 1.18. ^ Plutarco, Vita di Romolo, 29, 2. ^ Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 16. ^ Plutarco, Vita di Romolo, 28, 3. ^ Giordano Bruno Guerri, Antistoria degli italiani, Milano, 1997. ^ Dionisio di Alicarnasso, Antichità romane, II, 56, 3-4. ^ a b Plutarco, Vita di Romolo, 27, 6. ^ Paul. Fest. 331 L.: Romulia tribus dicta, quod ex eo agro censebantur, quem Romulus ceperat ex Veientibus. ^ Plutarco, Vita di Romolo, 9, 4; 11, 1. ^ Piganiol, p. 77. ^ Carlo de Simone. "Considerazioni sul nome di Romolo". In Andrea Carandini, Paolo Carafa (a cura di), "Palatium e Sacra via" I. Bollettino di Archeologia, pp. 31-33, 1995 (2000). ^ Gentilizio Rumelna attestato dall'iscrizione sull'architrave della tomba 35 della Necropoli del Crocifisso del Tufo, a Orvieto. Iscrizione databile al VI secolo a.C.: Mi Velthurus Rumelnas. ^ Villar, p. 488. ^ Carandini 2007. ^ Marcone, pp. 22-23. ^ Marcone, p. 38. ^ Il "sepolcro di Romolo" scoperto nel Foro Romano, su storicang.it. URL consultato il 24 luglio 2020. ^ Foro romano, Russo: "L'ipogeo scoperto non è la tomba di Romolo", su rainews.it, 19 febbraio 2020. URL consultato il 20 febbraio 2020. Bibliografia             Modifica Fonti antiche Appiano, Historia Romana (Ῥωμαϊκά), libri III e IV (Versione in inglese disponibile qui). Diodoro Siculo, Bibliotheca historica, libri IX-XIII. Testo originale Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane. Eutropio, Breviarium historiae romanae (testo latino). Wikisource-logo.svg Fasti triumphales. (Testo in latino: AE 1930, 60. Versione in inglese disponibile qui). Floro, Epitoma de Tito Livio bellorum omnium annorum DCC (testo latino), Liber I. (Versione in inglese disponibile qui). Wikisource-logo.svg Livio, Ab Urbe condita libri (testo latino) Wikisource-logo.svg; Periochae (testo latino) Wikisource-logo.svg. Plinio il Vecchio, Naturalis Historia (testo latino). Wikisource-logo.svg Plutarco, Romolo. Wikisource-logo.svg Strabone, Geografia (testo greco) (Γεωγραφικά), V. Wikisource-logo.svg (Versione in inglese disponibile qui). Varrone, De lingua Latina. Fonti storiografiche moderne A.A. V.V., Storia Einaudi dei Greci e dei Romani, Roma in Italia, vol.13, Milano, Einaudi, 2008. Dominique Briquel, Romulus jumeau et roi. Realite d'une legende, Les Belles Lettres, Paris, 2018. Giovanni Brizzi, Storia di Roma. 1.Dalle origini ad Azio, Bologna, Pàtron, 1997. Andrea Carandini (cur.), La leggenda di Roma I Dalla nascita dei gemelli alla fondazione della città, Mondadori, Milano, 2006. Andrea Carandini (cur.), La leggenda di Roma II Dal ratto delle donne al regno di Romolo e Tito Tazio, Mondadori, Milano, 2010. Andrea Carandini, Roma il primo giorno, Roma-Bari, Laterza, 2007. ( EN ) Peter Connolly, Greece and Rome at War, Londra, Greenhill books, 1998, ISBN 1-85367-303-X. Augusto Fraschetti, Romolo, il fondatore, Roma-Bari, Laterza, 2002. Emilio Gabba, Dionigi e la storia di Roma arcaica, Bari, Edipuglia, 1996. ( EN ) Philip Matyszak, Chronicle of the roman republic: the rulers of ancient Rome from Romulus to Augustus, Londra & New York, Thames and Hudson, 2003, ISBN 0-500-05121-6. Arnaldo Marcone, I popoli dell'Italia antica e le origini di Roma, in G. Geraci e A. Marcone, Storia romana, Firenze, Mondadori Education, 2004. Theodor Mommsen, Storia di Roma antica, Firenze, Sansoni, 1972. Massimo Pallottino, Origini e storia primitiva di Roma, Milano, Rusconi, 1993, ISBN 88-18-88033-0. André Piganiol, Le conquiste dei Romani, Milano, Il Saggiatore, 1989, ISBN 88-04-32321-3. Howard H. Scullard, Storia del mondo romano, Milano, Rizzoli, 1992, ISBN 88-17-11903-2. Francisco Villar, Gli indoeuropei e le origini dell'Europa, Il Mulino, 1997   [1996] , ISBN 978-88-15-12706-8. Voci correlate                   Modifica Romolo e Remo Fondazione di Roma Gentes originarie Gens Romilia Rex (storia romana) Età regia di Roma lex regia Flamini Altri progetti               Modifica Collabora a Wikiquote Wikiquote contiene citazioni di o su Romolo Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Romolo Controllo di autorità                                           VIAF ( EN ) 231063554 · ISNI ( EN ) 0000 0000 7756 0146 · CERL cnp00587404 · LCCN( EN ) n83206699 · GND ( DE ) 118749617 ·J9U ( EN ,  HE ) 987007276258205171 (topic) ·WorldCat Identities ( EN ) lccn-n83206699   Portale Antica Roma   Portale Biografie   Portale Mitologia Wikimedaglia Questa è una voce di qualità. È stata riconosciuta come tale il giorno 23 novembre 2011 — vai alla segnalazione. Naturalmente sono ben accetti altri suggerimenti e modifiche che migliorino ulteriormente il lavoro svolto. Segnalazioni  ·  Criteri di ammissione  ·  Voci di qualità in altre lingue  Ultima modifica 13 giorni fa di WalrusMichele PAGINE CORRELATE Età regia di Roma periodo monarchico della città di Roma, compreso tra il 753 e il 509 a.C.  Battaglia del lago Curzio Storia delle campagne dell'esercito romano in età regia storia delle campagne dell'esercito romano dal 753 al 509 a.C.  Wikipedia Il contenutoGrice: “I consider myself, like Rawls, a contractualist – my steps towards a quasi-contractualism, are formulated elsewhere.” Grice: “I should not be confused with Grice – a FULL-BLOWN contractualist!” Grice: “’May’ only has one sense – it may rain, you may run. Credibility and desirability modalities are not Fregeian senses! ‘may’ is aequi-vocal. In Latin it is more obvious, since there is only ‘possum’ for ‘I may’. ‘Can’ is of course a solecism!” Giuseppe Duso. Bepi Duso. Keywords: Plato-Hegel, Aristotle-Kant – Plathegel, Ariskant – zoon politikon – contratto sociale – democrazia – repubblica – il primo contrattualista cita Aristotele – Contratto nel diritto romano – aporia della rappresentazione – concetto di politica, concetto di soveranita – concetto di potere – io posso – concetto di liberta – la filosofia politica italiana – l’influenza di Fichte nell’idealismo rivoluzionario del risorgimento --. Regime di governo – storia del concetto – aporia del concetto --  Welsh philosopher Geoffrey Russell Grice, modalita, verbo modale, verbo servile, verbo aussiliare, puo, posso, possiamo. Modalita aletica o doxastica (posso passarti la sale) e deontica (puoi ma non puoi – you can but you may not --. Contract, pact, compact. Foundations of morality – contract in ethics, meta-ethics, politics, meta-politics.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Duso: zoon politikon” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51763550735/in/dateposted-public/

 

Grice ed Eco – la rosa segnata -- il nome del nome – filosofia italiana – Luigi Speranza (Alessandria). Filosofo. Grice: “Eco thought that his “Guglielmo da Bascavilla” was a clever composite of Holmes, who deciphered the enigma of the Baskervilles, and William Occam – and has his tutee claim that he died of the black plague – but Gal has now discovered he did not!” -- Eco philosophised at the oldest varsity, BolognaGrice: “Of course, ‘varsity’ is over-rated, as I’m sure Cicero would agree!” -- Grice: “I would not call Eco a philosopher, since his dissertation is on aesthetics in Aquinas! Plus, he wrote a novel!” -- scuola bolognese-- possibly, after Speranza, one of the most Griceian of Italian philosophers (Only Speranza calls himself an Oxonian, rather!“Surely alma mater trumps all!”). Figlio di Giulio, un impiegato nelle Ferrovie, e Rita Bisio, conseguì la maturità al liceo classico Giovanni Plana di Alessandria, sua città natale. Tra i suoi compagni di classe, vi era il fisarmonicista Gianni Coscia, con il quale scrisse spettacoli di rivista. In gioventù fu impegnato nella GIAC (l'allora ramo giovanile dell'Azione Cattolica) e nei primi anni cinquanta fu chiamato tra i responsabili nazionali del movimento studentesco dell'AC (progenitore dell'attuale MSAC). Abbandonò l'incarico (così come avevano fatto Carlo Carretto e Mario Rossi) in polemica con Luigi Gedda. Durante i suoi studi universitari su Tommaso d'Aquino, smise di credere in Dio e lasciò definitivamente la Chiesa cattolica; in una nota ironica, in seguito commentò: «si può dire che lui Tommaso d'Aquino mi abbia miracolosamente curato dalla fede».  Laureatosi in filosofia a Torino (agli esami riportò sempre 30/30, anche con lode, tranne quattro casi: filosofia teoretica e letteratura latina, in cui ottenne 29/30, e storia della letteratura italiana e pedagogia, entrambi superati con 27/30)  con relatore Pareyson e tesi sull'estetica di San Tommaso d'Aquino (controrelatore Augusto Guzzo), cominciò a interessarsi di filosofia e cultura medievale, campo d'indagine mai più abbandonato (vedi il volume Dall'albero al labirinto), anche se successivamente si dedicò allo studio semiotico della cultura popolare contemporanea e all'indagine critica sullo sperimentalismo letterario e artistico. Pubblicò il suo primo libro, un'estensione della sua tesi di laurea dal titolo Il problema estetico in San Tommaso. Partecipò e vinse un concorso della Rai per l'assunzione di telecronisti e nuovi funzionari; con Eco vi entrarono anche Furio Colombo e Gianni Vattimo. Tutti e tre abbandonarono l'ente televisivo entro la fine degli anni cinquanta. Nel concorso successivo entrarono Emmanuele Milano, Fabiano Fabiani, Angelo Guglielmi, e molti altri. I vincitori dei primi concorsi furono in seguito etichettati come i "corsari" perché seguirono un corso di formazione diretto da Pier Emilio Gennarini e avrebbero dovuto, secondo le intenzioni del dirigente Filiberto Guala, "svecchiare" i programmi. Con altri ingressi successivi, come quelli di Gianni Serra, Emilio Garroni e Luigi Silori, questi giovani intellettuali innovarono davvero l'ambiente culturale della televisione, ancora molto legato a personalità provenienti dall'EIAR, venendo in seguito considerati come i veri promotori della centralità della RAI nel sistema culturale italiano.  Dall'esperienza lavorativa in RAI, incluse amicizie con membri del Gruppo 63, Eco trasse spunto per molti scritti, tra cui il celebre articolo Fenomenologia di Mike Bongiorno. Codirettore editoriale della casa editrice Bompiani. Pubblicò il saggio Opera aperta che, con sorpresa dello stesso autore, ebbe notevole risonanza a livello internazionale e diede le basi teoriche al Gruppo 63, movimento d'avanguardia letterario e artistico italiano che suscitò interesse negli ambienti critico-letterari anche per le polemiche che destò criticando fortemente autori all'epoca già "consacrati" dalla fama come Carlo Cassola, Giorgio Bassani e Vasco Pratolini, ironicamente definiti "Liale", con riferimento a Liala, autrice di romanzi rosa. Ebbe inizio anche la sua carriera universitaria che lo portò a tenere corsi, in qualità di professore incaricato, in diverse università italiane: Torino, Milano, Firenze e, infine, Bologna dove ha ottenuto la cattedra di Semiotica, diventando Professore. All'Bologna è stato fra i fondatori del primo corso di laurea in DAMS, poi è stato direttore dell'Istituto di Comunicazione e spettacolo del DAMS, e in seguito ha dato inizio al corso di laurea in Scienze della comunicazione. Infine è divenuto Presidente della Scuola Superiore di Studi Umanistici, fondata nel 2000, che coordina l'attività dei dottorati bolognesi del settore umanistico, e dove ha ideato il Master in Editoria Cartacea e Digitale.  Nel corso degli anni ha insegnato come professore invitato alla New York University, Northwestern University, Columbia University, Yale, Harvard (Norton lectures sponsored by the Department of Romance Languages), University of California-San Diego, Cambridge, Oxford – Weidenfeld lectures at the female-only St. Anne’s, São Paulo e Rio de Janeiro, La Plata e Buenos Aires, Collège de France, École normale supérieure (Parigi). Nell'ottobre 2007 si è ritirato dall'insegnamento per limiti di età. Dalla fine degli anni cinquanta, Eco cominciò a interessarsi all'influenza dei mass media nella cultura di massa, su cui pubblicò articoli in diversi giornali e riviste, poi in gran parte confluiti in Diario minimo e Apocalittici e integrati. Apocalittici e integrati (che ebbe una nuova edizione) analizzò con taglio sociologico le comunicazioni di massa. Il tema era già stato affrontato in Diario minimo, che includeva tra gli altri il breve articolo Fenomenologia di Mike Bongiorno.  Sullo stesso tema, ssvolse a New York il seminario Per una guerriglia semiologica, in seguito pubblicato ne Il costume di casa e frequentemente citato nelle discussioni sulla controcultura e la resistenza al potere dei mass media.  Significativa fu anche la sua attenzione per le correlazioni tra dittatura e cultura di massa ne Il fascismo eterno, capitolo del saggio Cinque scritti morali, dove individuava le caratteristiche, ricorrenti nel tempo, del cosiddetto "fascismo eterno", o "Ur-fascismo": il culto della tradizione, il rifiuto del modernismo, il culto dell'azione per l'azione, il disaccordo come tradimento, la paura delle differenze, l'appello alle classi medie frustrate, l'ossessione del complotto, il machismo, il "populismo qualitativo Tv e Internet" e altre ancora; da esse e dalle loro combinazioni, secondo Eco, è possibile anche "smascherare" le forme di fascismo che si riproducono da sempre "in ogni parte del mondo".  In un'intervista del 24 aprile  mise in evidenza la sua visione rispetto a, della quale Eco si definiva un "utente compulsivo", e al mondo dell'open source. Pubblicò il suo primo libro di teoria semiotica, La struttura assente, cui seguirono il fondamentale Trattato di semiotica generale e gli articoli per l'Enciclopedia Einaudi poi riuniti in Semiotica e filosofia del linguaggio.  Fondò VersusQuaderni di studi semiotici, una delle maggiori riviste internazionali di semiotica, rimanendone direttore responsabile e membro del comitato scientifico fino alla morte. È anche stato segretario, vicepresidente e dal 1994 presidente onorario della IASS/AIS ("International Association for Semiotic Studies"). È stato invitato a tenere le prestigiose conferenze Tanner (Cambridge), Norton (Harvard), Goggio (Toronto), Weidenfeld lectures on comparative literature and translation, sponsored by the female-only college St. Anne’s (Oxford,) e Richard Ellmann (Università Emory). Collaborò sin dalla sua fondazione, nel 1955, al settimanale L'Espresso, sul quale tenne in ultima pagina la rubrica La bustina di minerva (nella quale, tra l'altro, dichiarò di aver contribuito personalmente alla propria voce su ), ai giornali Il Giorno, La Stampa, Corriere della Sera, la Repubblica, il manifesto e a innumerevoli riviste internazionali specializzate, tra cui Semiotica (fondata da Thomas Albert Sebeok), Poetics Today, Degrès, Structuralist Review, Text, Communications (rivista parigina del EHESS), Problemi dell'informazione, Word & Images, o riviste letterarie e di dibattito culturale quali Quindici, Il Verri (fondata da Luciano Anceschi), Alfabeta, Il cavallo di Troia, ecc.  Collaborò alla collana "Fare l'Europa" diretta da Jacques Le Goff con lo studio La ricerca della lingua perfetta nella cultura europea,  in cui si espresse a favore dell'utilizzo dell'esperanto. Tradusse gli Esercizi di stile di Raymond Queneau (nel 1983) e Sylvie di Gérard de Nerval (entrambi presso Einaudi) e introdusse opere di numerosi scrittori e di artisti. Ha anche collaborato con i musicisti Luciano Berio e Sylvano Bussotti.  I suoi dibattiti, spesso dal tono divertito, con Luciano Nanni, Omar Calabrese, Paolo Fabbri, Ugo Volli, Francesco Leonetti, Nanni Balestrini, Guido Almansi, Achille Bonito Oliva o Maria Corti, tanto per nominarne alcuni, hanno aggiunto contributi non scritti alla storia degli intellettuali italiani, soprattutto quando sfioravano argomenti non consueti (o almeno non ritenuti tali prima dell'intervento di Eco), come la figura di James Bond, l'enigmistica, la fisiognomica, la serialità televisiva, il romanzo d'appendice, il fumetto, il labirinto, la menzogna, le società segrete o più seriamente gli annosi concetti di abduzione, di canone e di classico.[senza fonte]  Grande appassionato del fumetto Dylan Dog, a Eco è stato fatto tributo sul numero 136 attraverso il personaggio Humbert Coe, che ha affiancato l'indagatore dell'incubo in un'indagine sull'origine delle lingue del mondo. È stato inoltre amico del pittore e autore di fumetti Andrea Pazienza che fu suo allievo al DAMS di Bologna, e ha scritto la prefazione a libri di Hugo Pratt, Charles Monroe Schulz, Jules Feiffer e Raymond Peynet. Scrisse la presentazione di "Cuore" a fumetti, di F. Bonzi e Alain Denis, pubblicata su "Linus".Esordì nella narrativa. Il suo primo romanzo, Il nome della rosa, riscontrò un grande successo sia presso la critica sia presso il pubblico, tanto da divenire un best seller internazionale tradotto in 47 lingue e venduto in trenta milioni di copie. Il nome della rosa è stato anche tra i finalisti del prestigioso Edgar Award nel 1984 e ha vinto il Premio Strega.[26] Dal lavoro fu tratto anche un celebre film con Sean Connery.  Pubblicò il suo secondo romanzo, Il pendolo di Foucault, satira dell'interpretazione paranoica dei fatti veri o leggendari della storia e delle sindromi del complotto. Questa critica dell'interpretazione incontrollata viene ripresa in opere teoriche sulla ricezione (cfr. I limiti dell'interpretazione). Romanzi successivi sono L'isola del giorno prima (1994), Baudolino (2000), La misteriosa fiamma della regina Loana, Il cimitero di Praga () e Numero zero (), tutti editi in italiano da Bompiani.  Nel  è stata pubblicata una versione "riveduta e corretta" del suo primo romanzo Il nome della rosa, con una nota finale dello stesso Eco che, mantenendo stile e struttura narrativa, è intervenuto a eliminare ripetizioni ed errori, a modificare l'impianto delle citazioni latine e la descrizione della faccia del bibliotecario per togliere un riferimento neogotico. Molte opere furono dedicate alle teorie della narrazione e della letteratura: Il superuomo di massa, Lector in fabula, Sei passeggiate nei boschi narrativi, Sulla letteratura, Dire quasi la stessa cosa (sulla traduzione). È stato inoltre precursore e divulgatore dell'applicazione della tecnologia alla scrittura.  In contemporanea alla nomina di "guest curator" (curatore ospite) del Louvre, dove organizzò una serie di eventi e manifestazioni culturali, uscì per Bompiani Vertigine della lista, pubblicato in quattordici paesi del mondo.  Nel  Bompiani pubblicò una raccolta dal titolo Costruire il nemico e altri scritti occasionali, che raccoglie saggi occasionali che spaziano nei vari interessi dell'autore, come quello per la narratologia e il feuilleton ottocentesco. Il primo saggio riprende temi già presenti ne Il cimitero di Praga. Muore nella sua casa di Milano a causa di un tumore del pancreas che lo aveva colpito due anni prima. I funerali laici si sono svolti  nel Castello Sforzesco di Milano, dove migliaia di persone si sono recate per l'ultimo saluto. Sono state eseguite due composizioni alla viola da gamba e al clavicembalo: Couplets de folies (Les folies d'Espagne) dalla Suite n. 1 in re maggiore dai Pièces de viole, Livre II di Marin Marais e La Folia dalla Sonata per violino e basso continuo in re minore, di Arcangelo Corelli. Nel proprio testamento Eco ha chiesto ai suoi familiari di non autorizzare né promuovere, per i dieci anni successivi alla sua morte alcun seminario o conferenza su di lui. Il corpo di Eco è stato infine cremato. La moglie, Renate Eco-Ramge, rifiutando la proposta di tumularne le ceneri nel Civico Mausoleo Garbin, ex edicola privata del Cimitero Monumentale di Milano ora provvista di piccole cellette destinate a ceneri o resti ossei di personalità artistiche illustri, ne ha preferito la conservazione privata, con il progetto di costruire un'edicola di famiglia nel medesimo cimitero. Nei suoi romanzi, Eco racconta storie realmente accadute o leggende che hanno come protagonisti personaggi storici o inventati. Inserisce nelle sue opere accesi dibattiti filosofici sull'esistenza del vuoto, di Dio o sulla natura dell'universo.  Attratto da temi piuttosto misteriosi e oscuri (i cavalieri Templari, il sacro Graal, la sacra Sindone ecc.), nei suoi romanzi gli scienziati e gli uomini che hanno fatto la storia sono spesso trattati con indifferenza dai contemporanei.  L'umorismo è l'arma letteraria preferita dallo scrittore di Alessandria, che inserisce innumerevoli citazioni e collegamenti a opere di vario genere, conosciute quasi esclusivamente da filologi e bibliofili. Ciò rende romanzi come Il nome della rosa o L'isola del giorno prima un turbinio variopinto di nozioni di carattere storico, filosofico, artistico e matematico.  Centrale ne Il nome della rosa è la questione del riso, post-modernisticamente declinata.  Ne Il pendolo di Foucault Eco affronta temi come la ricerca del sacro Graal e la storia dei cavalieri Templari, facendo numerosi cenni ai misteri dell'età antica e moderna, rivisitati in chiave parodistica.  Ne L'isola del giorno prima l'umanità intera è simboleggiata dal naufrago Roberto de la Grive, che cerca un'isola al di fuori del tempo e dello spazio.  In Baudolino dà vita ad un picaresco personaggio medioevale tutto dedito alla ricerca di un paradiso terrestre (il regno leggendario di Prete Giovanni).  Ne La misteriosa fiamma della regina Loana riflette sulla forza e sull'essenza stessa del ricordo, rivolto, in questo caso, ad episodi del XX secolo.  Il cimitero di Praga è incentrato sulla natura del complotto e, in particolar modo, sulla storia 'europea' del popolo ebraico.  Il suo ultimo romanzo, Numero zero, riprendendo temi da sempre cari all'autore (il falso, la costruzione del complotto e delle notizie) si sofferma sulla storia italiana recente, narrando fatti realmente accaduti, ma riletti attraverso una chiave complottistica. Fu tra i 757 firmatari della lettera aperta a L'Espresso sul caso Pinelli e successivamente della autodenuncia di solidarietà a Lotta Continua, in cui una cinquantina di firmatari esprimevano solidarietà verso alcuni militanti e direttori responsabili del giornale, inquisiti per istigazione a delinquere. I firmatari si autodenunciavano alla magistratura dicendo di condividere il contenuto dell'articolo. Peraltro le severe critiche di Eco al terrorismo e ai vari progetti di lotta armata sono contenute in una serie di articoli scritti sul settimanale L'Espresso e su Repubblica, specie ai tempi del caso Moro (articoli poi ripubblicati nel volume Sette anni di desiderio). In effetti l'arma che ha caratterizzato l'impegno politico di Eco è diventata l'analisi critica dei discorsi politici e delle comunicazioni di massa.  Questo impegno è sintetizzato nella metafora della guerriglia semiologica dove si sostiene che non è tanto importante cambiare il contenuto dei messaggi alla fonte ma cercare di animare la loro analisi là dove essi arrivano (la formula era: non serve occupare la televisione, bisogna occupare una sedia davanti a ogni televisore). In questo senso la guerriglia semiologica è una forma di critica sociale attraverso l'educazione alla ricezione. Partecipa alle attività dell'associazione Libertà e Giustizia, di cui è uno dei fondatori e garanti più noti, partecipando attivamente tramite le sue iniziative al dibattito politico-culturale italiano.  Il suo libro A passo di gambero contiene le critiche a quello che lui definisce populismo berlusconiano, alla politica di Bush, al cosiddetto scontro tra etnie e religioni. Nel, nelle settimane delle rivolte arabe, durante una conferenza stampa registrata alla Fiera del libro di Gerusalemme, scatena una polemica politica la sua risposta a un giornalista italiano che gli domanda se condivida il paragone fra Berlusconi e Mubarak, avanzato da alcuni: "Il paragone potrebbe essere fatto con Hitler: anche lui giunse al potere con libere elezioni";[36] lo stesso Eco, dalle colonne de l'Espresso, smentirà tale dichiarazione chiarendo le circostanze della sua risposta. Eco faceva parte dell'associazione Aspen Institute Italia. Cavaliere di gran croce dell'Ordine al merito della Repubblica italiana nastrino per uniforme ordinaria Cavaliere di gran croce dell'Ordine al merito della Repubblica italiana — Roma, 9Medaglia d'oro ai benemeriti della cultura e dell'artenastrino per uniforme ordinariaMedaglia d'oro ai benemeriti della cultura e dell'arte — Roma. Onorificenze straniere Commendatore dell'Ordine delle Arti e delle Lettere (Francia)nastrino per uniforme ordinariaCommendatore dell'Ordine delle Arti e delle Lettere (Francia), Cavaliere dell'Ordine pour le Mérite für Wissenschaften und Künste (Repubblica Federale di Germania)nastrino per uniforme ordinariaCavaliere dell'Ordine pour le Mérite für Wissenschaften und Künste (Repubblica Federale di Germania), Premio Principe delle Asturie per la comunicazione e l'umanistica (Spagna)nastrino per uniforme ordinariaPremio Principe delle Asturie per la comunicazione e l'umanistica (Spagna), Ufficiale dell'Ordine della Legion d'Onore (Francia) nastrino per uniforme ordinariaUfficiale dell'Ordine della Legion d'Onore (Francia), Gran croce al merito con placca dell'Ordine al merito della Repubblica Federale di Germanianastrino per uniforme ordinariaGran croce al merito con placca dell'Ordine al merito della Repubblica Federale di Germania, Commendatore dell'Ordine della Legion d'Onore (Francia) nastrino per uniforme ordinaria Commendatore dell'Ordine della Legion d'Onore (Francia), Parigi. Cittadinanze onorarie Monte Cerignone, Nizza Monferrato, San Leo, 11 giugno. Torre Pellice,. Lauree Eco ha ricevuto 40 lauree honoris causa da prestigiose università europee e americane, come quella del, che gli è stata conferita dall'Università federale del Rio Grande do Sul, di Porto Alegre, in Brasile. In occasione della laurea in comunicazione conferita da Torino, Umberto Eco ha rilasciato severi giudizi sui social del Web che, a suo dire, possono essere utilizzati da «legioni di imbecilli» per porsi sullo stesso piano di un vincitore di un Premio Nobel. Le affermazioni di Eco hanno suscitato approvazioni ma anche vivaci discussioni. Affiliazioni e sodalizi accademici Umberto Eco è stato membro onorario (Honorary Trustee) della James Joyce Association, dell'Accademia delle Scienze di Bologna, dell'Academia Europea de Yuste, dell'American Academy of Arts and Letters, dell'Académie royale des sciences, des lettres et des beaux-arts de Belgique, della Polska Akademia Umiejętności ("Accademia polacca della Arti"), "Fellow" del St Anne's, Oxford e socio dell'Accademia Nazionale dei Lincei. Eco è stato inoltre membro onorario del CICAP.  Altro Gli è stato dedicato l'asteroide 13069 Umbertoeco, scoperto nel dall'astronomo belga Eric Walter Elst.  Il 12 aprile 2008 è stato nominato Duca dell'Isola del Giorno Prima del regno di Redonda dal re Xavier. Nel  il comune di Milano ha deciso che il suo nome venga iscritto nel Pantheon di Milano, all'interno del cimitero monumentale. Eco ha scritto numerosi saggi di filosofia, semiotica, linguistica, estetica:  Il problema estetico in San Tommaso, Torino, Edizioni di Filosofia,  poi Il problema estetico in Tommaso d'Aquino, 2ª ed., Milano, Bompiani, Filosofi in libertà, come Dedalus, Torino, Taylor, poi in Il secondo diario minimo. Sviluppo dell'estetica medievale, in Momenti e problemi di storia dell'estetica, I, Dall'antichità classica al Barocco, Milano, Marzorati, Arte e bellezza nell'estetica medievale, Milano, Bompiani, Storia figurata delle invenzioni. Dalla selce scheggiata al volo spaziale, e con G. B. Zorzoli, Milano, Bompiani, Opera aperta. Forma e indeterminazione nelle poetiche contemporanee, Milano, Bompiani, Diario minimo, Milano, A. Mondadori (include i saggi Fenomenologia di Mike Bongiorno e Elogio di Franti) Apocalittici e integrati, Milano, Bompiani, Il caso Bond. [Le origini, la natura, gli effetti del fenomeno 007], e con Oreste del Buono, Milano, Bompiani, Le poetiche di Joyce. Dalla "Summa" al "Finnegans Wake", Milano, Bompiani (ed. modificata sulla base della seconda parte di Opera aperta) Appunti per una semiologia delle comunicazioni visive, Milano, Bompiani (poi in La struttura assente) L'Italie par elle-meme. A portrait of Italy. Autoritratto dell'Italia, e con Giulio Carlo Argan, Guido Piovene, Luigi Chiarini, Vittorio Gregotti e altri, Milano, Bompiani, La struttura assente, Milano, Bompiani, La definizione dell'arte, Milano, Mursia, L'arte come mestiere, a cura di, Milano, Bompiani, I sistemi di segni e lo strutturalismo sovietico, e con Remo Faccani, Milano, Bompiani, L'industria della cultura, a cura di, Milano, Bompiani,  Le forme del contenuto, Milano, Bompiani, I fumetti di Mao, e con Jean Chesneaux e Gino Nebiolo, Bari, Laterza, Cent'anni dopo. Il ritorno dell'intreccio, e con Cesare Sughi, Milano, Bompiani, Documenti su il nuovo Medioevo, con Francesco Alberoni, Furio Colombo e Giuseppe Sacco, Milano, Bompiani, Estetica e teoria dell'informazione, a cura di, Milano, Bompiani, I pampini bugiardi. Indagine sui libri al di sopra di ogni sospetto: i testi delle scuole elementari, e con Marisa Bonazzi, Rimini, Guaraldi, Il segno, Milano, Isedi; Milano, A. Mondadori, Il costume di casa. Evidenze e misteri dell'ideologia italiana, Milano, Bompiani, Beato di Liébana. Miniature del Beato de Fernando I y Sancha. Codice B.N. Madrid Vit. 14-2, testo e commenti alle tavole di, Milano, Franco Maria Ricci, Eugenio Carmi. Una pittura di paesaggio?, Milano, Prearo, Trattato di semiotica generale, Milano, Bompiani, Il superuomo di massa. Studi sul romanzo popolare, Roma, Cooperativa Scrittori, Milano, Bompiani, Stelle & stellette. La via lattea mormorò, illustrazioni di Philippe Druillet, Conegliano Treviso, Quadragono Libri, Storia di una rivoluzione mai esistita. L'esperimento Vaduz. Appunti del Servizio opinioni, Roma, Rai, Servizio Opinioni, Dalla periferia dell'impero, Milano, Bompiani, Come si fa una tesi di laurea, Milano, Bompiani, Carolina Invernizio, Matilde Serao, Liala, con altri, Firenze, La nuova Italia, Lector in fabula, Milano, Bompiani, De bibliotheca, Milano, Comune di Milano, Postille al nome della rosa, Milano, Bompiani,  Il segno dei tre, Milano, Bompiani, Sette anni di desiderio. [Cronache], Milano, Bompiani, 1983. Semiotica e filosofia del linguaggio, Torino, Einaudi,  Sugli specchi e altri saggi, Milano, Bompiani, Lo strano caso della Hanau 1609, Milano, Bompiani, Saggio in Leggere i Promessi sposi. Analisi semiotiche, Giovanni Manetti, Milano, Gruppo editoriale Fabbri-Bompiani-Sonzogno, I limiti dell'interpretazione, Milano, Bompiani, Vocali, con Soluzioni felici di Paolo Domenico Malvinni, Napoli, Collana "Clessidra" di Alfredo Guida Ed., Il secondo diario minimo, Milano, Bompiani, Interpretation and Overinterpretation, Cambridge, Cambridge University Press, La memoria vegetale, Milano, Rovello, La ricerca della lingua perfetta nella cultura europea, Roma-Bari, Laterza, Sei passeggiate nei boschi narrativi, Milano, Povero Pinocchio. Giochi linguistici di studenti del Corso di Comunicazione, a cura di, Modena, Comix, In cosa crede chi non crede?, con Carlo Maria Martini, Roma, Liberal, Kant e l'ornitorinco, Milano, Bompiani, Cinque scritti morali, Milano, Bompiani, Talking of Joyce, con Liberato Santoro-Brienza, Dublin, University College Dublin Press, Serendipities. Language and Lunacy, New York, Columbia University Press, Tra menzogna e ironia, Milano, Bompiani, La bustina di minerva, Milano, Bompiani,  Riflessioni sulla bibliofilia, Milano, Rovello, Diario minimo, Secondo diario minimo, Bustina di minerva e altre  parodie da raccolte in tedesco) Sulla letteratura, Milano, Bompiani, Guerre sante, passione e ragione. Pensieri sparsi sulla superiorità culturale; Scenari di una guerra globale, in Islam e Occidente. Riflessioni per la convivenza, Roma-Bari, Laterza, Bellezza. Storia di un'idea dell'Occidente, CD-ROM a cura di, Milano, Motta On Line, Dire quasi la stessa cosa. Esperienze di traduzione, Milano, Bompiani, Mouse or Rat?, Translation as Negociation, London, Weidenfeld & Nicolson (Experiences in translation e saggi selezionati da Dire quasi la stessa cosa) Storia della bellezza, a cura di, testi di Umberto Eco e Girolamo de Michele, Milano, Bompiani, Il linguaggio della Terra Australe, Milano, Bompiani, Il codice Temesvar, Milano, Rovello, Nel segno della parola, con Daniele Del Giudice e Gianfranco Ravasi, a cura e con un saggio di Ivano Dionigi, Milano, BUR, 2A passo di gambero. Guerre calde e populismo mediatico, Collana Overlook, Milano, Bompiani, La memoria vegetale e altri scritti di bibliofilia, Milano, Rovello, Sator Arepo eccetera, Roma, Nottetempo, Storia della bruttezza, a cura di, Milano, Bompiani, La cospirazione impossibile, con Piergiorgio Odifreddi, Michael Shermer, James Randi, Paolo Attivissimo, Lorenzo Montali, Francesco Grassi, Andrea Ferrero e Stefano Bagnasco, Massimo Polidoro, Casale Monferrato, Piemme, Dall'albero al labirinto. Studi storici sul segno e l'interpretazione, Milano, Bompiani, Historia. La grande storia della civiltà europea, e con altri, 9 voll., Milano, Motta, Storia della civiltà europea, e con altri, 18 voll., Milano, Corriere della Sera, Nebbia, e con Remo Ceserani, con la collaborazione di Francesco Ghelli e un saggio di Antonio Costa, Torino, Einaudi (antologia letteraria di racconti a tema) Non sperate di liberarvi dei libri, con Jean-Claude Carrière, Milano, Bompiani, Vertigine della lista, Milano, Bompiani, Il Medioevo, a cura di, 4 voll., Milano, Encyclomedia, La grande Storia, a cura di, 28 voll., Milano, Corriere della Sera,. Costruire il nemico e altri scritti occasionali, Milano, Bompiani, Scritti sul pensiero medievale, Collana Il pensiero occidentale, Milano, Bompiani, L'età moderna e contemporanea, a cura di, 22 voll., Roma, Gruppo editoriale L'Espresso, -. Storia delle terre e dei luoghi leggendari, Milano, Bompiani, Da dove si comincia?, con Stefano Bartezzaghi, Roma, La Repubblica,. Riflessioni sul dolore, Bologna, ASMEPA, La filosofia e le sue storie, e con Riccardo Fedriga, 3 voll., Roma-Bari, Laterza, Pape Satàn Aleppe. Cronache di una società liquida, Milano, La nave di Teseo, Come viaggiare con un salmone, Milano, La nave di Teseo, Sulle spalle dei giganti, Collana I fari, Milano, La nave di Teseo, Il fascismo eterno, Collana Le onde, Milano, La nave di Teseo, Cinque scritti morali, Bompiani, Sulla televisione. Scritti, Gianfranco Marrone, Collana I fari, Milano, La Nave di Teseo, Narrativa Il nome della rosa, Milano, Bompiani, Il pendolo di Foucault, Milano, Bompiani,L'isola del giorno prima, Milano, Bompiani, Baudolino, Milano, Bompiani, La misteriosa fiamma della regina Loana. Romanzo illustrato, Milano, Bompiani, Il cimitero di Praga, Milano, Bompiani, Numero zero, Milano, Bompiani, Narrativa per l'infanzia La bomba e il generale, illustrazioni di Eugenio Carmi, Milano, Bompiani, I tre cosmonauti, illustrazioni di Eugenio Carmi, Milano, Bompiani, 1966. Ammazza l'uccellino, come Dedalus, illustrazioni di Monica Sangberg, Milano, Bompiani, Gli gnomi di Gnu, illustrazioni di Eugenio Carmi, Milano, Bompiani, Tre racconti, Milano, Fabbri  (raccolta dei tre precedenti) La storia de "I promessi sposi", raccontata da, Torino-Roma, Scuola Holden-La biblioteca di Repubblica-L'Espresso, Traduzioni Raymond Queneau, Esercizi di stile, Torino, Einaudi. Claudio Gerino, Morto lo scrittore Umberto Eco. Ci mancherà il suo sguardo nel mondo, in la Repubblica, Massimo Delfino e Emma Camagna, Alessandria piange Umberto Eco, in La Stampa, Cosimo Di Bari, "A passo di critica: il modello di media education nell'opera di Umberto Eco", Firenze, Èco, Umberto, in TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  LINCEI, ENRICO MENESTO' E UMBERTO ECO NUOVI SOCI DELL'ACCADEMIA, su tuttoggi.info. 30 ottobre.  'Il nome della rosa' debutta su Rai1 e conquista gli ascolti della prima serata, su la Repubblica, 5 marzo. 30 gennaio.  quotidiano la Stampa; Gianni Coscia: «quando suono col mio amico Umberto Eco», su genova.mentelocale. «È il lato dolente e angoscioso di un uomo che è cresciuto nell'Azione Cattolica, che l'ha lasciata in polemica con il grande Gedda; un uomo, Eco, che ha studiatodiconoTommaso d'Aquino, e che un giorno se n'è uscito dalla Chiesa proclamandosi orgogliosamente ateo, o se si preferisce, agnostico.» (In Rassegna stampa cattolica: Mario Palmaro, Eco è solo un refuso, 2 «His new book touches on politics, but also on faith. Raised Catholic, Eco has long since left the church. "Even though I'm still in love with that world, I stopped believing in God in my 20s after my doctoral studies on St. Thomas Aquinas. You could say he miraculously cured me of my faith..."» «Il suo nuovo libro tratta di politica, ma anche di fede. Cresciuto nel cattolicesimo, Eco ha lasciato da tempo la Chiesa. "Anche se io sono ancora innamorato di quel mondo, ho smesso di credere in Dio durante i miei anni 20, dopo i miei studi universitari su Tommaso d'Aquino. Potete dire che egli mi ha miracolosamente curato dalla mia fede..."»  (Articolo in Time)  Liukkonen, Petri, Umberto Eco. Pseudonym: Dedalus in.  Eco, quando l'Torino gli consegnò il libretto con 27 in letteratura italiana, su la Repubblica, 2Antonio Galdo, Saranno potenti? Storia, declino e nuovi protagonisti della classe dirigente italiana, Sperling & Kupfer, Milano  Giuseppe Antonio Camerino, ECO, Umberto, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  "Riparte il Master in Editoria, ideato da Umberto Eco"  Capozzi Bondanella, Cinque scritti morali, Bompiani Intervista a Umberto EcoWikinotizie, su it.wikinews.org.  Umberto Eco, Ho sposato?, «l'Espresso», 4Con lo pseudonimo di Dedalus: Dedalus e il manifesto, su ilmanifesto, Ostini, Sclavi citazione: "Sto leggendo un libro [In cosa crede chi non crede, N.d.R.] di Umberto Eco che mi è arrivato dall'Italia. Curioso no? Ha il mio stesso nome e il cognome è l'anagramma del mio..."  Umberto Eco, su premiostrega.Italian Writer Umberto Eco is the Louvre's New Guest Curator  Emma Camagna, La morte di Eco, il ricordo di Gianni Coscia, in La Stampa. L'ultimo saluto a Umberto Eco: "Grazie maestro", in La Stampa, Marco Del Corona, «Follie di Spagna»: ecco che cos'è la musica suonata per Umberto Eco, su Corriere della Sera. Umberto Eco, la richiesta nel testamento: "Non autorizzate convegni su di me per i prossimi 10 anni", su Il Fatto Quotidiano. La lettera della vedova Eco al Comune, in Corriere della Sera. Pinelli, Calabresi e l'eskimo in redazione Archiviato il 19 gennaio  in., opinione, Bruno Pischedda, Come leggere Il nome della rosa di Umberto Eco, Mursia, La struttura assente,  "Eco a Gerusalemme attacca il Cavaliere. È polemica", di Francesco Battistini (dal Corriere della Sera) Corriere della Sera  Berlusconi, Hitler e io, su l'Espresso. Comitato Esecutivo | Aspen Institute Italia, su aspeninstitute. 20 fSito web del Quirinale: dettaglio decorato.  Sito web del Quirinale: dettaglio decorato. Umberto Eco all'Eliseo onorato da Sarkozy con Legion D'Honneur, su liberoquotidiano).  Curriculum Vitae, su umbertoeco. Unibo e Brasile: Laurea ad honorem a Eco, su magazine.unibo. Umberto Eco contro i social: "Hanno dato diritto di parola a legioni di imbecilli", su Il Fatto Quotidiano. Il problema di Umberto Eco con internet, su Il Post.  Imbecilli e non, tutto il mondo è social, su LaStampa. 2Serena Vitale e Umberto Eco entrano nell'Accademia dei Lincei, , Il Giornale.  Decise all'unanimità le 15 personalità illustri da iscrivere nel Pantheon di Milano, su comune.milano, Opere:  Bondanella, Peter,  Umberto Eco and the Open Text: Semiotics, Fiction, Popular Culture Capozzi, Rocco, Eco's Prophetic Vision of Mass Culture in McLuhan Studies: Premier Issue, Antonio Galdo, Saranno potenti? Storia, declino e nuovi protagonisti della classe dirigente italiana, Sperling & Kupfer, Milano  Alberto Ostini, Umberto Eco e Tiziano Sclavi. Un dialogo, in Dylan Dog, indocili sentimenti, arcane paure, Milano, Euresis, 1998. Tiziano Sclavi, Bruno Brindisi, Lassù qualcuno ci chiama, Dylan Dog n. 136, Milano, Sergio Bonelli Editore, Film  Walt Dey e l'ItaliaUna storia d'amore (): viene mostrata un'intervista durante lo "speciale Walt Dey" con Ettore Della Giovanna e Gianni Rodari  Luigi Bauco, Francesco Millocca, Dizionario del «Pendolo di Foucault», Milano, Corbo, Manlio Talamo, I segreti del Pendolo, Napoli, Simone, Francesco Pansa, Anna Vinci, Effetto Eco, Roma, Nuova Edizione del Gallo; Marco Testi, "Il romanzo al passato": medioevo e invenzione in tre autori contemporanei in Analisi letteraria, 27, Roma, Bulzoni, Walter Pedullà, «L'utilitaria di Eco» in Le caramelle di Musil, Milano, Rizzoli, Salman Rushdie, «Umberto Eco» in Imaginary Homelands: Essays and Criticism 1981-1991, Londra, Penguin, 1992. Bruno Pischedda, Come leggere «Il nome della rosa» di Umberto Eco, Milano, Mursia, 1994. Jean Petitot, Paolo Fabbri, Nel nome del senso. Intorno all'opera di Umberto Eco, Milano, Sansoni, Antonio Sorella, Umberto Eco. Sponde remote e nuovi orizzonti, Pescara, Tracce,  Roberto Rampi, L'ornitorinco. Umberto Eco, Peirce e la conoscenza congetturale, M & B Publishing, Milano; Marco Sonzogni, Echi di Eco, Balerna, Edizione Ulivo, Cinzia Bianchi, Clare Vassallo, “Umberto Eco's interpretative semiotics: Interpretation, encyclopedia, translation”, in Semiotica. Journal of the International Association for Semiotic Studies (Berlin/New York: Mouton de Gruyter), Peter Bondanella, Umberto Eco and the open text. Semiotics, fiction, popular culture, Cambridge, Cambridge University Press, Peter Bondanella, New Essays on Umberto Eco, Cambridge, Cambridge University Press, Jean-Jacques Brochier, Umberto Eco. Du semiologue au romancier, in Le Nouveau Magazine Littéraire, Michael Caesar, Umberto Eco. Philosophy, Semiotics and the Work of Fiction, Cambridge, Polity Press, Rocco Capozzi, Reading Eco. An Anthology, Bloomington, Indiana University Press, Michele Castelnovi, La mappa della biblioteca: geografia reale ed immaginaria secondo Umberto Eco, in Miscellanea di Storia delle esplorazioni n. LX, Genova, Remo Ceserani, Eco e il postmoderno consapevole in Raccontare il postmoderno, Torino, Bollati Boringhieri, Michele Cogo, Fenomenologia di Umberto Eco. Indagine sulle origini di un mito intellettuale contemporaneo. Introduzione di Paolo Fabbri. Bologna, Baskerville, Furio Colombo, «L'isola del giorno prima», in La rivista dei libri;  Roberto Cotroneo, La diffidenza come sistema. Saggio sulla narrativa di Umberto Eco, Milano, Anabasi, Roberto Cotroneo, Eco: due o tre cose che so di lui, Milano, Bompiani,  Teresa de Lauretis, Umberto Eco, Firenze, La Nuova Italia, Nunzio Dell'Erba, Alla ricerca delle fonti del romanzo "Il Cimitero di Praga", in Id., L'eco della storia. Saggi di critica storica: massoneria, anarchia, fascismo e comunismo, Universitas Studiorum, Mantova, Cosimo Di Bari, A passo di critica. Il modello di Media Education nell'opera di Umberto Eco, Firenze, Firenze University Press, Richard Ellmann, Murder in the Monastery?, in The New York Review of Books Lorenzo Flabbi, La disposizione del sapere di Umberto Eco, in Atlante dei movimenti culturali. C. Cretella ePieri, Clueb, Bologna, Cristina Farronato, Eco's Chaosmos, Toronto, University of Toronto Press, Franco Forchetti, Il segno e la rosa. I segreti della narrativa di Umberto Eco, Roma, Castelvecchi, Grit Fröhlich, Umberto Eco. PhilosophieÄsthetikSemiotik, Paderborn, Wilhelm Fink Verlag, Margherita Ganeri, Il «caso» Eco, Palermo, Palumbo. Alfredo Giuliani, «Scherzare col fuoco» in Autunno del novecento, Milano, Feltrinelli, Renato Giovannoli, Saggi su «Il Nome della Rosa», Milano, Bompiani, Fabio Izzo, Eco a perdere, Associazione Culturale Il Foglio, Paolo Jachia, Umberto Eco. Arte semiotica letteratura, San Cesario, Manni, Anna Maria Lorusso, Umberto Eco. Temi, problemi e percorsi semiotici, Roma, Carocci, Patrizia Magli et. al., Semiotica: Storia Teoria Interpretazione. Saggi intorno a Umberto Eco, Milano, Bompiani; Sandro Montalto, Umberto Eco: l'uomo che sapeva troppo, Pisa, ETS; Franco Musarra et al., Eco in fabula. Umberto Eco in the Humanities. Umberto Eco dans les sciences humaines. Umberto Eco nelle scienze umane, Proceedings of the International Conference, Leuven, Leuven U.P. e Firenze, Franco Cesati Editore, Claudio Paolucci, Umberto Eco. Tra ordine e avventura, Milano, Feltrinelli, Semiotica Monte Cerignone, luogo di residenza Struttura (semiotica) umbertoeco.  Umberto Eco, su TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Umberto Eco, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Umberto Eco, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Umberto Eco, su The Encyclopedia of Science Fiction.  Umberto Eco, su BeWeb, Conferenza Episcopale Italiana.  Opere di Umberto Eco, su Liber Liber.  Opere su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere Pubblicazioni su Persée, Ministère de l'Enseignement supérieur, de la Recherche et de l'Innovation.  di Umberto Eco, su Internet Speculative Fiction Database, Al von Ruff. Umberto Eco (autore), su Goodreads. Umberto Eco (personaggio), su Goodreads. italiana di Umberto Eco, su Catalogo Vegetti della letteratura fantastica, Fantascienza.com.  Registrazioni di Umberto Eco, su RadioRadicale, Radio Radicale. Umberto Eco, su Internet Movie Database, IMDb.com. Umberto Eco, su AllMovie, All Media Network; Umberto Eco, su filmportal.de.  Eco, Umberto, in Lessico del XXI secolo, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, -. "La bustina di minerva": la rubrica periodica di Eco su L'Espresso, L'Espresso. 10 gennaio. signosemio.comSignoBiografia di Umberto Eco e la presentazione della sua teoria semiotica, su signosemio.com). Approfondimento, su italialibri.net. Curiosità (anche la "cacopedia"in PDF), su bibliotecheoggi. Opere in TecaLibri/1, su tecalibri.info. Opere in TecaLibri/2, su tecalibri.info. Considerazioni su: "Non sperate di liberarvi dei libri", su antonietta.philo.unibo ). Golem L'indispensabile (il sito della rivista)rivista online diretta da Umberto Eco, Renato Mannheimer, Carlo Bertelli, Danco Singer Un articolo di Eco su, su espresso.repubblica. encyclomedia, su encyclomedia. Il «questionario Proust» a Umberto Eco, su elapsus. Umberto Eco, in Perlentaucher, Perlentaucher Medien GmbH. Opere di Umberto Eco V D M Vincitori del Premio Strega V D M Vincitori internazionali del Prix Médicis V D M Vincitori del Premio Bancarella V D M Vincitori del Premio Cesare Pavese V D M Vincitori del Premio di Stato austriaco per la letteratura europea V D M Vincitori del Premio Mediterraneo per stranieri, Europeana agent/base/ Filosofia Giallo  Giallo Letteratura  Eco provides a bridge between Graeco-Roman philosophy and Grice! Eco is one of the few philosophers who considers the very origins of philosophy in Bolognaand straight from RomeOn top, Eco is one of the first to generalise most of Grice’s topics under ‘communication,’ rather than using the Anglo-Saxon ‘mean’ that does not really belong in the Graeco-Roman tradition. Eco cites H. P. Grice in “Cognitive constraints of communication.” Umberto b.2,  philosopher, intellectual historian, and novelist. A leading figure in the field of semiotics, the general theory of signs. Eco has devoted most of his vast production to the notion of interpretation and its role in communication. In the 0s, building on the idea that an active process of interpretation is required to take any sign as a sign, he pioneered reader-oriented criticism The Open Work, 2, 6; The Role of the Reader, 9 and championed a holistic view of meaning, holding that all of the interpreter’s beliefs, i.e., his encyclopedia, are potentially relevant to word meaning. In the 0s, equally influenced by Peirce and the  structuralists, he offered a unified theory of signs A Theory of Semiotics, 6, aiming at grounding the study of communication in general. He opposed the idea of communication as a natural process, steering a middle way between realism and idealism, particularly of the Sapir-Whorf variety. The issue of realism looms large also in his recent work. In The Limits of Interpretation 0 and Interpretation and Overinterpretation 2, he attacks deconstructionism. Kant and the Platypus 7 defends a “contractarian” form of realism, holding that the reader’s interpretation, driven by the Peircean regulative idea of objectivity and collaborating with the speaker’s underdetermined intentions, is needed to fix reference. In his historical essays, ranging from medieval aesthetics The Aesthetics of Thomas Aquinas, 6 to the attempts at constructing artificial and “perfect” languages The Search for the Perfect Language, 3 to medieval semiotics, he traces the origins of some central notions in contemporary philosophy of language e.g., meaning, symbol, denotation and such recent concerns as the language of mind and translation, to larger issues in the history of philosophy. All his novels are pervaded by philosophical queries, such as Is the world an ordered whole? The Name of the Rose, 0, and How much interpretation can one tolerate without falling prey to some conspiracy syndrome? Foucault’s Pendulum, 8. Everywhere, he engages the reader in the game of controlled interpretations. “Il nome della rosa” is about the dark ages in Northern Italy, where the monks were the only to find a slight interest in philosophy, unlike the barbaric Lombards!” --   Il problema estetico in San Tommaso. Torino: Edizioni di Filosofia. 2d revised ed.: Il problema estetico in Tommaso d'Aquino. Milano: Bompiani, I97O. Translations: The Aesthetics of Thomas Aquinas. Cambridge: Harvard U.P., 1988 and London: Radius, 1988 (Revised). Le problème esthétique chez Thomas d'Aquin. Paris: PUF, 1993 (Revised). Zetemata Aisthetikes ston Thoma Akinati. Athena: Ekdoseis Gnose, 1993. Estetici problem u Tome Akvinskoga. Zagreb: Nakladni Zavod Globus 2001 1958 Filosofi in libertà. Torino: Taylor (now in Il secondo diario minimo) Traslations: Filozofia frywolna. Kraków: Wydawnictwo M 2004. 1959 "Sviluppo dell'estetica medievale." In Momenti e problemi di storia dell'estetica. Milano: Marzorati. Translation: Art and Beauty in the Middle Ages. London-New Haven: Yale U.P., 1985. Evoliuzija srednevekovoi estetiki. Saing Petersburg: Asbuna Klassika 2004 2d revised ed.: Arte e bellezza nell'estetica medievale. Milano: Bompiani, 1987. Translations: Arte e Beleza na estetica medieval. Lisboa: Presença, 1989. Arte e beleza na estetica medieval. Rio: Globo, 1989. New edition Rio: Record 2010 Kunst en Schoonheid in de Middleeuwen. Amsterdam:Bakker, 1989. Arte i bellesa en l'estética medieval. Barcelona: Destino, 1990 Kunst und Schonheit im Mittelater. München: Hanser, 1991 Umetnosti i lepo u estetici srednjeg veka. Novi Sad: Svetovi 1992. Techne kai kallos sten Aisthetike tou Mesaiona. Athena: Ekdoseis Gnose, 1992. Sztuka i piękno w średniowieczu. Kraków: Znak, 1994 Art et beauté dans l'esthétique médiévale. Paris: Grasset, 1997. Arte y belleza en la estética medieval. Barcelona: Lumen 1997. Menas ir grozis vduramziu estetikoje. Vilnius: Baltos Lakos, 1997. Ortaçağ estetiğinde sanat ve güzellik. Instanbul: Ca Yayýinlarý 1998 Umení a krasa ve stredoveké estetice. Praha: Argo, 1998. 7   Chungseui Mowa. Seoul: The Open Books 1998. Arta si frumosul in estetica medievala. Bucuresti: Meridiana, 1999. Chusei bigakushi. Tokyo: Janiritsu shobo 2001 Műveszet és szépség a középkori esztétikában. Budapest: Európa Könyvkiadó 2002. Middelalderens Aestetik. Copenhagen: Forum 2003. Iskusstvo i krasota v Spednevekovoҋ estetike.Moskva:Corpus 2014 1962 Opera aperta. Milano: Bompiani (2d revised edition 1967according to the French edition 1965, 1971, 4th revised edition 1976. This first edition also contained Le poetiche di Joyce, then as a different book). Translations: L'Oeuvre ouverte. Paris: Seuil, I965 (revised translation). Obra abierta. Barcelona: Seix & Barral, 1966(from the 1962 ed.) Otvoreno Djelo. Sarajevo: Veselin Maslesa, 1966 (from the 1962 ed.) Obra aberta. São Paulo: Perspectiva, I968 (from the 1967 ed.) Opera Deschisa. Bucuresti: Editura Pentru Literatura Universala, 1968 (from the 1967 ed.) Dzieło otwarte. Warszawa: Czytelnik, 1973 (from the 1967 ed.). New edition, WAB 2008 Das Offene Kunstwerk. Frankfurt: Suhrkamp, 1973 (from the 1967 ed. with the essay on Joyce). Obra abierta. Barcelona, Caracas, Mexico: Ariel, 1979 (from the 1976 ed.) Hirakareta Sakuhin. Tokyo: Seidosha, 1984 (from the 1976 ed.) The open work. Cambridge: Harvard U.P., 1989 (from the 1976 ed., with other essays added). Obra aberta. Lisboa: Difel, 1989 (from the 1976 ed.). Açik Yapit. Istanbul: Kabalci, 1992 (from American ed.). New translation from Italian, Istanbul: Can Yayýnlarý 2001. Yeolin Yesool Jakpoom. Seoul: Saemulgyol, 1995 (partial tr. from the German edition). Nyitott mü. Budapest: Europa Könyvkiadó, 1998 (from the 1976 ed.). Atviras kūrinys. Vilnius: Tyto alba 2004 Otevřené dílo. Praha: Argo 2015 1963 Diario minimo. Milano: Mondadori. Revised edition, Milano: Mondadori, 1975. Translations: Diario Minimo. Madrid: Horizonte, 1964 and Peninsula, 1973 (abridged). Diario Minimo. Lisboa: Difel, 1984. Pastiches et postiches. Paris: Messidor, 1988 (enlarged). Paris: 10/18, 1996. Platon im Striptease-Lokal. München: Hanser, 1990. Kultürknäk: Liten guide till den livade kultura. Stockholm: Brombergs 1990. Med Platon til striptease. Copenhagen: Forum, 1991. Unberuto eko no buntai renshu. Tokyo: Sinchosha, 1992 (partial tr.). Onderste boven. Kleine kroniek 1. Amsterdam: Backer, 1992. Diari minim. Barcelona: Destino 1993. 8   Misreadings. London:Cape and New York: Harcourt 1993. Plato in de bananenbar. Parodien en travestieen. Amsterdam: Ooievaar pockethouse 1996. Partial tr. Yanlis okumalar. Istanbul: Can Yayýnlarý, 1996. Proto Elachisto Emerologio. Athens: Ellenika Grammata, 1999. Yanlyþ okumalar: Demene. Istambul: Can Yayýnlarý 1999. Iz minmimalnog dnevnika. Beograd: Narodna Knjiga, 2000. Sämtiliche Glossen un Parodien. München: Hanser, 2001 (complete edition with Diario Mimimo, Secondo Diario Minimo, Bustina di Minerva and other German collections of parodies) Wu du. Taibei shi: Huang guan wen hua chu ban she (Taiwan. Crown) 2001. Babylonskỳ rozhovor. Bratislava: Kalligram (with a choice of Il secondo Diario Min imo) 2003 Jurnal sumar. Bucuresti: Humanitas 2004 Chagun ilgi. Seoul: The Open Books 2004. Minipäevik. Tallinn: Varrak 200 (Chinese tr in simplified characters). Shangai: Sanhui Culture 2006 Diariusz najmniejszy. Kraków: Wydawnictwo Znak 2007 e Filozofia frywolna. Kraków: Wydawnictwo M 2004. (Hebrew tr.) Or Yehuda: Kinneret 2010 Diário mínimo. O segundo Diário mínimo. Rio de Janeiro: Record 2012 1964 Apocalittici e integrati. Milano: Bompiani. Revised edition, Milano: Bompiani, 1977. Translations: Apocalipticos e integrados ante la cultura de masas. Barcelona: Lumen, 1969. Apocalipticos e integrados. São Paulo: Perspectiva, 1970 (partial) Apokalyptiker und Integrierte. Frankfurt: Fischer, 1984 (revised). Kinsores kai therapontes. Athina: Ekdoseis Gnosi, 1987. De Structuur van de Slechte Smaak. Amsterdam: Bert Bakker, 1988 (revised). Apocalipticos e integrados. Lisboa: Difel, 1991. Apocalypse Postponed. Bloomington: Indiana U.P., 1994 (partial tr. with other texts). Sunupi ieketo jolhaguin itta. Seoul: Saemulgyol 1994; Umberto Eco Mania Collection. Seoul: Open Books 2009 Skeptikové a těšitelé. Praha: Nakladatelstvì Svoboda, 1995. Praha: Argo 2006 . Apocaliptici şi integraţi. Bucuresti: Polirom 2008 Apokaliptycy i dostosowani. Komunikacja masowa a teorie kultury masowej. Warszawa: WAB 2010 (Korean tr) Umberto Eco Mania Collection. Seoul: Open Books 2009 1965 Le poetiche di Joyce. Milano: Bompiani. Revised edition of the second part of 1962. Translations: Gendai sakkaron: James Joyce / Kutani Saiichi. Tokyo: Hayakawa 1974. The Aesthetics of Chaosmos. Tulsa Monograph Series, Oklhaoma University. Now as The Middle Ages of J.Joyce. London: Hutchinson and Cambridge: Harvard U.P., 1989. 9   De poëtica van Joyce. Amsterdam: Bakker, 1990. E poietike tou Tzainms Tzoys. Athen:Delfini, 1993. Las poeticas de Joyce. Barcelona: Lumen, 1993. Poetyki Joyce’a. Warszawa: Wydawnictwo KR, 1998. Poetiki Djoisa. Moskva: Symposium 2003 1967 Appunti per una semiologia delle comunicazioni visive. Milano: Bompiani. (Now in La struttura assente). Translations: Alýmlama göstergebilimi. Istanbul: Düzlem 1991 1968 La struttura assente. Milano: Bompiani. Last revised edition, I983. Translations: Voprosy filosofii / [edited by] Kh. F. Sabirov. Kazan’ : The Institut, 1970 (partial translation) Den frånvarande strukturen. Lund: B.Cavefors 1971 (Revised). Peizaz Semiotyczny. Warszawa: PIW, 1972. La estructura ausente. Barcelona: Lumen, 1972 (Revised). Debolsillo 2011 A estrutura ausente. São Paulo: Perspectiva, 1971. La structure absente. Paris: Mercure, 1972 (revised). Einführung in die Semiotik. München: Fink, 1972 (Revised). Kultura, informacija, komunikacija. Beograd: Nolit, 1973. Nieobecna struktura (revised ed.). Warszawa: Wydawnictwo KR, 1996. Otsutstvujušcaja struktura. Sankt-Peterburg: Petropolis, 1998. Now Sankt-Peterburg: Symposium 2004 Kihowa Hyundai Yesul. Seoul: The Open Books 1998 1968 La definizione dell'arte. Milano: Mursia. Translations: La definicion del arte. Madrid: Martinez Roca, 197O. A definiçao da arte. Lisboa: Ediçoes 7O, 1981. La definición del arte. Barcelona: Destino 2001 Sztuka. Kraków: Wydawnictwo M 2008 1971 Le forme del contenuto. Milano: Bompiani. Translations: As formas do contenido. São Paulo: Perspectiva, 1974. 1971 Il segno. Milano: Isedi. 2d edition, Milano: Mondadori. Translations: Signo. Barcelona: Labor, 1976. O signo. Lisboa: Presença, 1977. Zeichen. Frankfurt: Suhrkamp, 1977. Le signe. Bruxelles: Labor, 1988; Paris: Livre de Poche, 1992. Kigoron nyumon: Kigo gainen no rekishi to bunseki. Tokyo: Jiritsu shobo 1997 10   Kihowa Kaenyumkwa Yeoksa. Seoul: The Open Books 2000. 1973 Il costume di casa. Milano: Bompiani. Translations, with parts of Dalla periferia dell'Impero and Sette anni di desiderio): Pealkiri rais hüperreaaalsusse. Tallin: Wagabund 1977 Viagem na irrealidade cotidiana. Rio: Nova Fronteira, 1984. Matka arkipaivan epatoddellisunten. Helsinki: Soderstrom, 1985. De alledaagse Onwerkelijkheid. Amsterdam: Bakker, 1985. Uber Gott und die Welt. München: Hanser, 1985. La guerre du faux. Paris: Grasset, 1985. Travels in Hyperreality. New York: Harcourt, 1986. La estrategia de la illusion. Barcelona: Lumen, 1986. Bolsillo 2012. Viagem na irrealidade cotidiana. Lisboa: Difel, 1986. Vad kostar ett mästerverk? Stockholm: Bromberg, 1987. Middelalderens genkomst. Copenhagen: Forum, 1988. Günlük Yasamdan Sanata. Instambul: Adam, 199 (with other artic1icles). Az új középkor. Budapest: Europa, 1992 Semiologia życia codziennego. Warszawa: Czytelnik, 1996 Reis Rüperreaalsusse. Tallin:Vayalun, 1997 Ortaçaδý Düþlemek. Istanbul: Ca Yayýinlarý, 1996. Svakodnema semiotika. Beoigrad: Narodna knijga 2001. Podziemni bogowie. Warszawa: Czytelnik 2007 1973 Beato di Liébana. Milano: F.M. Ricci. Translations: Beatus de Liébana. Paris: Ricci, 1982. El Beato de Liébana. Barcelona: Ricci, I983. E Apokalipse tou Ioanne. Thessalonikes: Ekdotikos Organismos, 1989 1975 Trattato di semiotica generale. Milano: Bompiani. 1976 A Theory of Semiotics. Bloomington: Indiana U.P., and London: Macmillan, 1977. (Original english version of the above Trattato). Translations: Tratado de semiotica general. Barcelona: Lumen, I977. Mexico: Debolsillo 2005 Tratado geral de semiotica. São Paulo: Perspectiva, I980. Kigoron. Tokyo: Inawami Shoten, I980. Tratat de semiotica generala. Bucuresti: Editura stintifica si enciclopedica, 1982. Kihihak Iron. Seoul: Moonhak kwa Jiseong 1985 (from English). Semiotik. München. Fink, 1987. Fu hao xue li lun. Beijing : Zhong guo ren min da xue chu ban she 1990 La production des signes. Paris: Livre de Poche, 1992 (partial tr.) 11   Traktat po obsha semiotika. Sofija: Haika i Istorystvo, 1993 Theoria semeiotikes. Athens: Gnosis, 1994. O teoria a semioticii. Bucuresti: Editura Meridiane (from English) 2003 Teorie sémiotiky. Brno: Janáčkova akademie 2004 Teoria semiotyki. Kraków: Wydawnictwo Uniwersytetu Jagiellońskiego 2009 1976 Il superuomo di massa. Milano: Cooperativa Scrittori. Revised ed., Milano: Bompiani, 1978. Translations: O uperanthropos ton mazon, Athens: Gnosis, 1988. O superhomen das massas. Lisboa: Difel, 1990. O super-homem de massa. São Paulo: Perspectiva, 1991. De Superman au Surhomme. Paris: Grasset, 1993. Daejungui Superman. Seoul: T`ukpyolsi : Yollin ch`aektul 1994; Umberto Eco Mania Collection. Seoul: Open Books 2009 El superhombre de masas. Barcelona: Lumen, 1995. Debolsillo 2012. Superman w literaturze masowej. Warszawa: PIW, 1996. Kraków: Wydawnictwo Znak 2008 1977 Dalla periferia dell'impero. Milano: Bompiani. Translations, with parts of Il costume di casa, Sette anni di desiderio and Travels in Hyperreality: Viagem na irrealidade cotidiana. Rio: Nova Fronteira, 1984. Matka arkipaivan epatoddellisunten. Helsinki: Soderstrom, 1985. De alledaagse Onwerkelijkheid. Amsterdam: Bakker, 1985. Uber Gott und die Welt. München: Hanser, 1985. La guerre du faux. Paris: Grasset, 1985. Travels in Hyperreality. New York: Harcourt, 1986. La estrategia de la illusion. Barcelona: Lumen, 1986. Viagem na irrealidade cotidiana. Lisboa: Difel, 1986. Vad kostar ett mästerverk? Stockholm: Bromberg, 1987. Middelalderens genkomst. Copenhagen: Forum, 1988. Günlük Yasamdan Sanata. Instambul: Adam, 1991. Az új középkor. Budapest: Europa 1992, 2008 Posuto modanin ga senoun junseinga. Seoul T`ukpyolsi : Saemulgyol, 1993; Umberto Eco Mania Collection. Seoul: Open Books 2009 Semiologia życia codziennego. Warszawa: Czytelnik, 1996. Ortaçagi Düslemek. Istanbul: Can Sanat Yayýinlarý, 1996. Reis Rüperreaalsusse. Tallin:Vayalun, 1997 Svakodnevna Semiotika. Beograd: Narodna knjiga 2001. 1977 Come si fa una tesi di laurea. Milano: Bompiani. Como se faz uma tese. Lisboa: Presença, 1980. São Paulo: Perspectiva, 1983. Como se hace una tesis. Barcelona: Gedisa, 1983 12   Hoe Schrijf ik Een Scriptie. Amsterdam: Bakker, 1985. Wie man eine wissenschaftliche Abschulssarbeit schreib. Heidelberg: Müller, 1988. Oppineisunde Osoittaminen: Eli Miten Tukielma Tedhään. Helsinki: Ylioppilaspavelu, 1989 Ronbun saho: Chosa kenkyu shippitsu no gijutsu to tejun.Tokyo : Jiritsu shobo, 1990 Hogyan irjunk szakdolgozatot? Budapest: Gondolat, 1991. Nonmoon jaksongbub langui. Seoul T`ukpyolsi: Yollin ch‘aektul 1991 Pos ginetai mia diplomatike ergasia. Athens: Nesos, 1994. Cegune mitavan yek payan name-ye tahsili nevesht. Teheran University of Science and Industry 1996 Jak napsat diplomovu praci. Prague: Votobia, 1997. Kunsten at scrive speciale. Copenhagen: Akademisk Forlag, 1997. Cum se face o tezã de licentã. Bucarest: Pontica, 2000. Kan napiscat' diplomnuju rabotu. Moskva: Universitet, 2001; Moskva: Symposium 2004. Kako napišemo diplomsko nalogo. Ljubljana: ValeNovak 2003 Kunsten á skrive en akademisk oppgave. Oslo: Idem Forlag 2002. Da xue sheng ru he xie bi ye lun wen. Beijing : Hua ling chu ban she 2003 Kā uzeakstīt diplomdarbu. Riga: Jāņa Rozes 2006 Cum se face o teză de licenţă. Bucuresti: Polirom 2006 Si shkruhet një punim diplome. Tirana: Disuria 2006. Jak napisać pracę dyplomową. Warszawa: Wydawnictwo Uniwersytetu Warszawskiego 2007 Kak ce nuwe gunlomna rabona. Sophia:Trud 2013 1979 The Role of the Reader. Bloomington: Indiana U.P. and London: Hutchinson, 1981 (Containing essays from Opera aperta, Apocalittici e integrati, Forme del contenuto, Lector in Fabula, Il Superuomo di massa). Translations Rol' čintača. Lviv: Litonic 2004 1979 Lector in fabula. Milano: Bompiani. Translations: Lector in fabula. Barcelona: Lumen, 1981. Leitura do texto literario. Lisboa: Presença, 1983. Lector in fabula. Paris: Grasset, 1985. Lector in fabula. São Paulo: Perspectiva, 1986. Lector in fabula. München: Hanser, 1987. Lector in fabula. Amsterdam: Bert Bakker, 1989. Lector in fabula. Bucarest: Univers, 1991. Monogatari ni okeru dokusha. Tokyo: Seidosha, 1993. Lector in fabula. Warszawa: Państwowy Instytut Wydawniczy, 1994 Sosol sokui Dogja. Seoul: The Open Books 1996. al-Qari fi al-hikayah: al-taadud al-tawili fi al- nusus al-hikaiyah. al-Dar al-Bayda [Casablanca] : al-Markaz al- 13   Thaqafi al-Arabi 1996 Lector in fabula. Tartu: Ulikooli Kirjastus 2005ù Pol' citatelja. Moskva: Symposium 2005 Lector in fabula. Praha: Academia 2010 1980 "Function and sign: the semiotics of architecture"; "A componential analysis of the architectural sign /column/". In: Broadbent, G., et al., eds., Signs, symbols and architecture. New York: Wiley. 1980 E semeiologia sten kathemerine zoe. Tessaloniki: Malliares (selected essays). 1980 Il nome della rosa. Milano: Bompiani (Commented edition, ed. by Costantino Marmo. Milano: Edizioni Scolastiche Fabbri, 1990). Revised edition Milano: Bompiani 2011. Translations: Le nom de la rose. Paris: Grasset, 1982. Revised ed. Grasset 2011 Der Name der Rose. Munchen: Hanser, 1982. For nearsighted people, Wien, Ueberreuter 2006 El nombre de la rosa. Barcelona: Lumen, 1982. The Name of the Rose. New York: Harcourt, 1983, London: Secker & Warburg, 1983 (Vintage Classics 2004, Everyman Library 2006). Mariner Books, N.Y.: Harcourt 2014 Rosens Namn. Stockholm: Brombergs, 1983. Ruusun Nimi.Helsinki: Söderström, 1983. De Naam van de Roos. Amsterdam: Bert Bakker, 1983. Now Amsterdam: Prometheus 2005 O Nome da Rosa. Lisboa: Difel, 1983. Lisboa: Gradiva 2011 O Nome da Rosa. Rio de Janeiro: Nova Fronteira, 1983. New edition 2006. Record 2009. Revised ed. Bolsillo 2012 Rosens Navn. Copenhagen: Forum, 1984. Rosens Navn. Oslo: Tiden, 1984. Numele trandafirului. Cluj-Napoca: Dacia, 1984 (revised ed. Bucuresti: Polirom 2002). Ime rože. Ljubljana: Mladiska, 1984. Ime ruzie. Zagreb: Graficki Zavod Hrvatske, 1984. Nafn Rosarinnar. Reykyjavik: Svart ahvitu, 1984. To onoma toy rodoy. Athenai: Ekdosei Geose, 1985. El Nom de la Rosa. Barcelona: Libres a Óm, 1985; Destino 2007. Imeto na rozata. Sophia: Narodna Kultura, 1985; Sophia: Bard 2002; Sophia: Dneven-Trud 2005). Der Name der Rose. Berlin: Volk und Welt, 1985. Gulun Adi. Istambul: Can Yayýnlarý, 1986. Mei gui de ming zi. (First mainland Chinese edition of Il Nome della Rosa, from English) Taibei shi : Huang guan chu ban she (Taiwan: Crown), 1983,1986. Chongqing (Beijing): Chongqing chu an she, 1987; 2000. (Simplified characters) (tr from English) SL: Zuoija Chubanshe 2001. Tr from Italian. Shanghai Publishing House 2009. Revised ed from Italian. Taiwan: Crown 2014 Nam-e gol-e sorkh. Teheran: Shabaviz 1986 14   Imie róży. Warszawa: PIW, 1987. Warszawa: Noir sur Blanc 2004 and Kolekcja Gazety Wyborczej 2004 Shem ha-vered. Tel Aviv: Zemora Bitan, 1987. Iméno růže. Praha: Odeon, 1985. Praha: Český klub, Praha 1999. Praha: Argo 2014 Imja ros'i. Inostrannaja Literatura 8-9, Moskwa, 1988; Moskwa: Izdatel'stvo Knijaja Palata, 1989; St.Petersbourg, Symposium, 1997, 2004; CD edition, Moskwa: Bibliofonika 2006; Moskwa: Corpus Astrel 2011. Illustrated ed. Moskva: Act A rozsa neve. Budapest: Europa Könyvkiado, 1988. Bara no namae. Tokyo: Sogensha 1990. Tên Gùa Dóa Hông. Thàn pho Ho Chì Minh: Nhà xuãt bán tré 1989. Hanoi: vh, 2013 Meno ruze. Bratislava: Tatran, 1991. Bratislava: Vydavatelstvo Slovart, 2000. Rozes vardas. Vilnius: Leidykla Alna, 1991. Janmi ui irum. Seoul:Open Books, 1991. (Arab tr.). Le Barto: Turki, 1991 (Arab pirate edition with the title “Sex in the monastery”, 1999 ?) Umja ros'i. Minsk: Scaz, 1993. (Korean tr) Seoul: Open Books 1993 Emri i trëndafilit. Tirana: Botimet 'Elena Gjika', 1996. Also Bibliotheka 'Koha ditore' 2005 Roosì nìmì. Tallinn: Eesti Raamat, 1997. Rozes vards (with Postcript). Riga: Jana Rozes Apgads, 1998 (Thai translation) Lighthouse Publishing, 2010. Ime Ruže. Beograd: Paideia 2000. Eilse päeva saar. Tallin: Eesti Ramat 2003. Im'ja rosi. Karkiv: Folio 2006. Revised ed. 2023 Umeto na rozata. Skopje: Tabernakyl 2006 (Georgian tr) 2011 Qizilgülün adi. Baku: Qanun Naşiyyati 2012 (Libanese tr.) Beirut: Dar al kitab aljadid 2014 1981 De Bibliotheca. Biblioteca Civica di Milano (non commercial edition) Translations: De Bibliotheca. Caen: L'Echoppe 1986. Die Bibliothek. München: Hanser 1987 De bibliotheek. Amsterdam: Bakker 1988 O bibliotece. Woclav: Ossolineum 1990 1983 Postille al nome della rosa. Added to the pocket italian edition, 1984. Translations: Nachschrift zum NdR. München: Hanser, 1984. Postscript to The Name of the Rose. New York: Harcourt, 1984. 15   Pós-escrito a ONdR. Rio: Nova Fronteira, 1984. Naschrift bij DNvdR. Amsterdam: Bakker, 1984. PS till RN. Stockholm: Bromberg, 1985. Apostillas a ENdlR. Barcelona: Lumen, 1985. Efterskrift til RN. Copenhagen: Forum, 1985. Reflections on the Name of the Rose. London: Secker, 1985. Epimythio sto Onoma toy Rodoy. Athena: Ekdoseis Gnose, 1985. Now Ellenika Grammata 2005 Szeljegysetek a Rozsa Nevèhez. In Nagy Vilag, 1987/4. Randbemerkinger till Rosens mavn. Oslo, 1998. Apostille au Nom de la Rose. Paris: Grasset. Porque O Nome da Rosa? Lisboa: Difel, s.d. Bara no namae oboegaki. Tokyo : Jiritsu shobo 1994 Jangumiui Irum Ch’angjak Note. Seoul: T`ukpyolsi: Yollin ch`aektul (Open Books) 1993 Sametki na lorjah ‘Imeni ros’i. Saint Petersburg: Symposium 2002; Moskwa: Corpus Astrel’ 2011 Järelkiri Roosi Timele In Akadeemia 6 (Tartu). 2004 (Simplified Chinese Edition) Sganghai: Translatuion Publishing House 2009 (Libanese tr) Beirut: Dar al kitab al jadid 2013 Glosy do “Imienia róży”. Literatura na Świecie nr 12, 1985 1983 Sette anni di desiderio. Milano: Bompiani. Translations, with parts of Il costume di casa and Dalla periferia dell'Impero): Viagem na irrealidade cotidiana. Rio: Nova Fronteira, 1984. Matka arkipaivan epatoddellisunten. Helsinki: Soderstrom, 1985. De alledaagse Onwerkelijkheid. Amsterdam: Bakker, 1985. Uber Gott und die Welt. München: Hanser, 1985. La guerre du faux. Paris: Grasset, 1985. Travels in Hyperreality. New York: Harcourt, 1986. La estrategia de la illusion. Barcelona: Lumen, 1986. Viagem na irrealidade cotidiana. Lisboa: Difel, 1986. Vad kostar ett mästerverk? Stockholm: Bromberg, 1987. Middelalderens genkomst. Copenhagen: Forum, 1988. Günlük Yasamdan Sanata. Instambul: Adam, 1991. Az új középkor. Budapest: Europa, 1992 Semiologia życia codziennego. Warszawa: Czytelnik, 1966. Ortaçadý düplemek. Istambul: Can Yayýnlarý 1996 Reis Rüperreaalsusse. Tallin:Vayalun, 1997 Ortaçagi Düslemek. Istanbul: Ca Yayýinlarý, 1996 (with other articles). Svakodnema semiotika. Beoigrad: Narodna knijga 2001. 1984 Semiotica e filosofia del linguaggio. Einaudi: Torino, 1984. 16   Translations: Semiotics and the Philosophy of Language. Bloomington: Indiana U.P., 1984 Semiotik und Philosophie der Sprache. München: Fink, 1985. Kihohakkwa Eoneo Chulhak. Seoul: Chunga, 1987 (from English). Sémiotique et philosophie du langage. Paris: PUF, 1988. Semiótica i filosofia del llenguatge. Barcelona: Laia, 1988. Semiotica y filosofia del lenguaje. Barcelona: Lumen, 1990. Semiotica & Filosofia da linguagem. São Paulo: Atica, 1991. Semyotyka y fylosofyja na ezuka. Sofia: Hayka i iskysstvo, 1993. Semiotica e Filosofia da linguagem. Lisboa: Difel, 1991. Kigoron to gengo tetsugaku. Tokyo: Kokubunsha, 1996. (Arab Trabnslation) AOT, Arab Organisation for Translation 2005 (Korean tr) in Umberto Eco Mania Collection. Seoul: Open Books 2009 1984 Conceito de texto. São Paulo: Queiroz. Translations: Tekusuto no gainen : Kigoron imiron tekusuto ron e no josetsu. Osaka: Jiritsu-shobo, 1993. 1985 Sugli specchi e altri saggi. Milano: Bompiani. Translations: Dels miralls. Barcelona: Destino, 1987. Ueber Spiegel. München: Hanser, 1988. De los espejos. Barcelona: Lumen, 1988. Sobre os espelhos e outros ensaios. Lisboa: Difel, 1989. Inovacija u serjalu. Rijeka: Pedagoski Fakultet u Rijeka 1989-9 Sobre os espelhos e outros ensaios. Rio de Janeiro: Nova Fronteira, 1989. Wat Spiegels betreft. Amsterdam: Bakker, 1991. Om spejle. Copenhagen: Forum, 1991. O zrcdlech a jiné eseje. Prague: Mlada Fronta 2002 (partial tr.). Posuto modanin ga senoun junseinga. Seoul: Saemulgyol 1993 (Korean tr) Umberto Eco Mania Collection. Seoul: Open Books 2009 Po drugiej stronie lustra i inne eseje. Znak, reprezentacja, iluzja, obraz. Warszawa: WAB 2012 1987 Streit der Interpretationen. Universitätverlag Konstanz GMBH. 1987 Notes sur la sémiotique de la reception. Paris: Actes Sémiotiques ix, 81. 1987 Jie gou zhu yi he fu hao xue : Dian ying wen ji. Np: San lien shu dian chu ban fa xing (Chinese edition of various articles originally in English and French 1988 Il pendolo di Foucault. Milano: Bompiani. Translations: Foucault's Pendulum. New York: Harcourt, 1989; London: Secker and Warburg, 1989. Das Foucaultsche Pendel. München: Hanser, 1989. 17   Foucaults Pendel. Stockholm: Brombergs, 1989. Foucaults Pendel. Oslo: Tiden Norsk Forlag, 1989. Pockett ed. 2005 El pendel de Foucault. Barcelona: Destino, 1989. El pendolo de Foucault. Barcelona: Lumen-Bompiani, 1989. Foucaults Pendul. Copenhagen: Forum, 1989. O pendulo de Foucault. Rio: Record, 1989. Best Bolso 2009 O pendulo de Foucault. Lisboa: Difel, 1989. To Ekkremes tou Fouko. Athens: Ekdoseis Gnose, 1989. Athens: Ellenika Grammata 2000. Foucault's Pendulum. The Signed First Edition Society. The Franklin Library, 1989. De Slinger van Foucault. Amsterdam: Bert Bakker, 1989. Now Amsterdam: Prometheus 2005. Foucaultin heiluri. Helsinki: Söderström, 1990. P`uk`o ui ch'u. Seoul T`ukpyolsi : Yollin ch`aektul 1990 Le pendule de Foucault. Paris: Grasset, 1990 (Livre de Poche 1992). Ha-metultelet shel fuko. Or Yehuda: Kinneret, 1991) Pendulul lui Foucault, Constanta: Editura Pontica, 1991. Revised ed. Polirom 2005 Foucaultovo kyvadlo. Praha: Odeon, 1991. A Foucault-Jnga. Budapest: Europa, 1992. Maxalomo na Phyko. Sofia: Narodna Kyltyra, 1992 (Sophia: Bard 2001). Fuge bai. First Chinese edition. Taibei shi : Huang guan wen xue chu ban you xian gong si (Taiwan, Crown), 1992, 2006 Fuko no furiko. Tokyo, Bungei shunju, 1993. Paperback 1999. Foucault Sarkaci. Istanbul: Can Yayýnlarý, 1992. Foucaultovo Kyvadlo. Bratislava: Slovensy Spisovatel, 1992; Vydavatel’slo Slovart 2002.. Foucaultui Chu. Seoul: Open Books, 1993, 1990 Wahadlo Foucaulta. Warszawa: PIW, 1993. Also Warszawa: Noir sur Blanc, 2002. Majatnik Fuko. Inostrannaja Literatura 7-9, 1995. Fuko svytuokle. Vilnius: Tyto Alba, 1995. Majatnik Fuko. Zug, pirate translation and edition, 1995. Avang-e Fuko. Teheran: Shabaviz 1998 Majatnik Fuko. Saint Petersburg: Symposium, 1998. Authorized edition and translation. CD edition, Moskva, Bibliofonika 2006. Moskva : Astrel' 2012 Fuko Svārsts. Riga: Jāņa Rozes 2001. Fuge bai. Beijing: Zuo jia chu ban she, 2001 (simplified characters) Fukoovo Klatno. Beograd: Naradona knjiga 2002. Foucaultovo Njihalo. Zagreb: Izvori 2003. Foucaltovo nihalo. Ljubljana: Mladinska 2005 Fukooboto Nišalo. Skopje:Tabernaku 2007 Foucault’s Pendulum. Yogykarta: Bentang 2010 18   1989 Im Labyrinth der Vernunft. Texte über Kunst und Zeichen. Leipzig: Reclam. (Selected essays) 1989 Lo strano caso della Hanau 1609. Milano: Bompiani. Translations: L'énigme de la Hanau 1609. Paris: Bailly, 1990. El estraño caso de la Hanau 1609. Madrid: Ollero, 1989. 1990 Auf dem Wege zu einem Neuen Mittelater. München: DTV Grossdruk (selected essays). 1990 Jie gou zhu yi he fu hao xue: Dian ying wen ji. Taibei shi : Jiu da wen hua gu fen, you xien gong si. (Chinese edition of various original English and French articles) 1990 I limiti dell'interpretazione. Milano: Bompiani. Translations: Els limits de la interpretació. Barcelona: Destino, 1991. The limits of interpretation. Bloomington: Indiana U.P.,1990. Les limites de l'interpretation. Paris: Grasset, 1992. Die Grenzen der Interpretation. München: Hanser, 1992. Los limites de la interpretacion. Barcelona: Lumen, 1992. Os limites da interpretaçao. Lisboa: Difel, 1992. Ta oria tes ermeneias. Athena: Ekdoseis Gnose, 1992. De Grenzen van de Interpretatie. Amsterdam: Bakker, 1993. Haesokui Hangye. Seoul: Yollin ch`aektul 1995. Limitele interpretârii. Costanta: Editura pontica, 1996. Os limites da interpretação. São Paulo: Perspectiva, 1996. Czytanie świata. Kraków: Znak,1999 (also from Sugli specchi and other sources) Granice tumačenja. Beograd: Paideia 2001. Meze interpretace. Praha: Univerzita Karlova v Praze, 2004 Limitele interpretării. Bucuresti: Polirom 2007 1991 Stelle e stellette. Genova: Melangolo. 1991 Vocali. Napoli: Guida. 1992 Il secondo diario minimo. Milano: Bompiani. Translations: Stora stjärnor och små. Stockholm: Bromberg, 1992 Deytero ellachisto emerologio. Athena: Ekdoseis Gnose, 1992. Wie man mit einem Lachs verreist. München: Hanser, 1993. Omgekeerde wereld. Amsterdam: Bakker, 1993 (partial). Op reis met een zalm. Amsterdam: Bakker, 1998 (partial) Hvordan man rejser med en laks. Copenhagen: Forum, 1993. Zapiski na pudełku od zapałek. Poznań: Historia i Sztuka, 1993 (partial tr.) O segundo Diario Minimo. Lisboa: Difel, 1993. 19   O segundo Diario Minimo. Rio de Janeiro: Record, 1993. El segon diari minim. Barcelona: Destino, 1994. How to travel with a salmon. New York: Hacourt Brace and London: Secker, 1994 (partial) Dommedag er naer. Oslo: Tiden, 1994. Bábeli Beszélgetés. Budapest: Europa, 1994 (partial, with parts of Diario Minimo) Segundo Diario Minimo. Barcelona: Lumen, 1994. Barcelona: Bolsillo 2014 Diariusz Najmniejszy. Krakow: Znak, 1995 (partial, with parts of Diario Minimo) Yoneowa Yogaenghanun Bangbeob. Seul:T`ukpyolsi : Yollin ch`aektul 1995 (partial tr.). Miten Käy. Helsinki: Söderström, 1995 (partial). Somon baligyyla yolculuk. Istanbul: Can Yayýnlarý, 1996. Le-tayel 'im dag salmon. Or Yehuda: Kinneret 1997 Trzecie zapiski na pudelku od zapalek. Poznan: Historia i Sztuka, 1997 (partial tr.) Comment voyager avec un saumon. Paris: Grasset, 1998 (partial). Hvordan det ender hvordan det begynder. Copenhagen: Forum, 1998 (partial with other essays). Dai zhu xie yu qu lü xing. Taibei shi : Huang guan wen hua chu ban you xian gong si (Taiwan: Crown), 2000 Sesangeu Bobodeulege Uismeyeonseo Hwanaeneun Bamgbeob. Seoul: Open Books 1999 (tr. from French). Kako putovati s lososom i drugi korisni savjeti.. Zagreb: Izvori 1999. Sämtiliche Glossen un Parodien. München: Hanser, 2001 (complete edition with Diario Mimimo, Secondo Diario Minimo, Bustina di Minerva and other German collections of parodies) Iz minimalnog dnevnika. Beograd: Narodna knjiga 2000 (partial tr.) Babylonskỳ rozhovor. Bratislava: Kalligram (a choice, with Diario Minimo) Minumea sfantului Baudolino. Bucuresti: Humanitas 2000. Dai zhu xie yu qu lü xing . Tr in simplified characters. Guilin: Guangxi University Press and Shanghai Sanhui Culture & Press 2004 Minunea Sfântului Baudolino. Bucuresti: Humanitas 2011 (partial tr.) 1992 Interpretation and overinterpretation. Cambridge: Cambridge U.P. Translations: Over interpretatie. Kampen: Kok Agora, 1992. Eko no yomi to fukayomi. Tokyo: Iwanami Shoten, 1993. Interpretaçao e sobreinterpretaçao. Lisboa: Presença, 1993. Zwischen Autor und Text. München: Hanser, 1994. Ermeneia kai Yperermeneia. Athens: Ellenika Grammata, 1993. Fortolkning og overfoltolkning. Gylling: Systime, 1995 Interpretación y sobreinterpretación. Cambridge: Cambridge U.P., 1995. Interpretazione e sovrainterpretazione. Milano: Bompiani, 1995. Interpretation et surinterpretation. Paris: PUF, 1995. Quanshi yu goudou quanshi Complex characters. Xianggang: Niujin da xue chuban she 1995 20   Simplified characters. Beijing: Sanlian 1997 Other Simplified characters Chinese edition. SDX Joint Publishing Company 2005 Yorum ve aşiri yorum. Instanbul: Can Yayýnlarý, 1996. Interpretacja i nadinterpretacja. Kraków: Wydawnictwo Znak, 1996 Haesokiran Muoinka. Seoul: The Open Books 1997. 1992 La memoria vegetale. Limited edition. Milano: Edizioni Rovello. 1993 La ricerca della lingua perfetta nella cultura europea. Bari: Laterza, 1993. Translations: Die Suche nach der vollkommemen Sprache. München: Beck, 1994. La busqueda de la lengua perfecta en la cultura europea. Barcelona: Critica, 1994. La recherche de la langue parfaite dans la culture européenne. Paris: Seuil, 1994 The search for the perfect language. Oxford: Blackwell, 1995. Avrupa kültürkünde kusursuz del arayisi. Istambul: AFA 1995 Kanzen gengo no tankyu. Tokyo: Heibonsha 1995. Europa en de volmaakte taal.Amsterdam: Agon, 1995 E Anazétese tes Teléias Glossas. Athens: Ellenika Grammata, 1995. A tökeletes nyelv keresére. Budapest: Atlantisz Könyvkiado 1998. A procura da lìngua perfeita. Lisboa: Presença, 1996. Also Bauru: Signo, 2001. La sercado de la perfecta lengvo. Pisa. Edistudio, 1996. Hedlani dokonalého jazyka v evropské kulture. Praha: Lidové noviny 2001 W poszukiwaniu języka uniwersalnego. Warszawa: Marabut 2002. Warszawa:Aletheia 2013 In cautarea limbij perfecte. Bucuresti: Polirom 2002. U potrai savršenim jezikom. Zagreb: Hena Com 2004 Poiski soverscennogo zyka. Saint Petersburg: Alexandria 2007 Në kërkim të gjuhës se përkryer në kulturën europiane. Tiranë:Dituria 2008 1993 Ton augousto den Uparchoun eideseis. Thessalonike: Parateretés (selected articles). 1994 Apocalypse Postponed. Bloomington: Indiana U.P. (selected essays edited by R. Lumley) 1994 Six Walks in the Fictional Woods. Cambridge: Harvard U.P., 1994. Translations: Sei passeggiate nei boschi narrativi. Milano: Bompiani, 1994. Im Wald der Fiktionen. München: Hanser, 1994 Seis paseos pelos bosques da ficção. São Paulo: Companhia das letras, 1994. Sehs turer i fortellingenes shoger. Oslo: Tiden, 1994. Zes wandelingen door fictieve bossen. Amsterdam: Bakker 1994. Exi periplaneseis sto dasos tes afegeses. Athens: Ellenika Grammata, 1994. Anlati ormanlarinda alti gezinti. Istanbul: Can Yayýnlarý, 1995. Sześć przechadzek po lesie fickcji. Kraków: Wydawnictwo Znak, 1995 Seis paseos nos bosques da ficção. Lisboa: Difel, 1995. 21   Hat séta a fikció erdejében. Budapest: Európa, 1995. Six promenades dans les bois du roman et ailleurs. Paris: Grasset, 1996. Eko no bungaku kogi : Shosetsu no mori sansaku. Tokyo: Iwanami Shoten, 1996.. Paperback 2013. Sase plimbări prin pădurea narativa. Costanţa: Pontica, 1997. Šest procházek literárnimi lesy. Olomuc: Votobia 1997 Sis passejades pels boscoss de la ficció. Barcelona: Destino, 1997. (Korean tr.). Seoul: The Open Books 1998 Sesk sprehodov skozi pripovedne gozdove. Ljubljana: Literarno-umenisko drustvo literatura 1999. (Arab translation) 2001 You you xiao shuo lin. Taibei shi : Shi bao wen hua chu ban qi ye gu fen you xian gong si. Taiwan: China Times 2000 Simplified characters Chinese edition. SDX Joint Publishing Company 2005 Ŝestv progulok v literaturnvih lesah. Saint Petersburg: Symposium 2002. Šest šetniji kroz narativnu šumu. Beograd: Narodna Knijiga 2003 (Chinese tr., simplified characters) SDX Joint Publishing Company 2005 Šest šetnji pripovjednim šumama. Zagreb: Algoritma 2005 Seks vandringer i fiktionens skov. Copenhagen: Alinea 2006 Hat séta a fikció erdejében. Budapest: Europa 2007 Gjashtë shëtitje në pyjet e tregimtarisë. Tirana:Dituria 2002ù Kuuss jalutuskäiku kirjandusmetsades. Tallinn: Kiriastus Varrak 2009 1994 L'isola del giorno prima. Milano: Bompiani Translations: To nesi tes proegoumenes emeras. Athens: Gnosis, 1994. Athens: Ellenika Grammata 2000. Het Eiland van de Vorige dag. Amsterdam: Bakker, 1995. Amsterdam:Ooievaar, 20001. A ilha do dia anterior. Rio de Janeiro: Record, 1995. Pocket ed. BestBolso 2010. Die Insel des vorigen Tages. München: Hanser, 1995. Øen af i går. Copenhagen: Forum, 1995 A ilha do dia antes. Lisboa: Difel, 1995 The Island of the Day Before. New York: Harcourt Brace and London: Secker and Warburg 1995. La isla del dia de antes. Barcelona: Lumen, 1995. Also Biblioteca Viajero ABC 2004. L'illa del dia abans. Barcelona: Destino, 1995. Edellisen päivän saari. Helsinki: Werner Söderström, 1995. Øya fra dagen før. Oslo: Tiden, 1995. Pocket ed. 2005 Ostrvo dana predašnjeg. Beograd: Centar za geopoetiku, 1995. Insula din ziua de ieri. Constanta: Editura Pontica, 1995. New edition, Bucuresti, Polirom 2009 Gårdagens ö. Stockholm: Brombergs, 1995. Ostrov vcerejsiho dne. Praha: Simon and Simon, 1995. L' île du jour d'avant. Paris: Grasset, 1996. 22   Ostrovot od pretchodinot deh. Scopje: Detsca Padost, 1995 Önceki günün adasi. Istanbul: Can Yayýnlarý, 1995. Wyspa dnia poprzedniego. Warszawa: PIW, 1995; Warszawa: Noir sur Blanc 2003 Ha-i chel yom ha-etmol. Or Yehuda: Kinneret, 1995 Jonnalui Som. Seoul: Open Books 1996 Ostoviem ot proedeshinja den. Sofia: Khemus, 1997. Jazire-ye ruz-e pishin. Ahvaz (iranian): Nash-i Tir 1997 Otok prethodnoga dana. Zagreb: Izvori, 1997 Ostrov vcerajsieho dna. Bratislava: Slovart, 1998. A tegnap Szigete. Budapest: Europa Könyvkiadó, 1998. Zuo ri zhi dao. Taiwan: Crown, 1998 Vakarykstes dienos sala. Vilnius: Tyto Alba, 1998. Zenjitsu shima.Tokyo: Bungei Shunju, 1999. Ostrov Nakanune. Saint-Petersburg: Symposium, 1999. CD edition, Moskva, Bibliofonika 2006. Astel’ 2012 Jazirat al-yawm al-sabiq. Tarabulus : Dar Uya (Tripoli) 2000 Zuo ri zhi dao. Simplified characters). Beijing : Zuo jia chu ban she, 2001 Ostrovbt ot prediscinja. Sophia:Bard 2003. Eilse päeva saar. Tallinn: Eesti Raamat 2003 Otok prejšniega dne. Ljubljana: Mladinska Knijiga 2007 1996 In cosa crede chi non crede? (with Carlo Maria Martini). Roma: Liberal. 2d edition Milano: zzzzzzzzzBompiani 2014 Translations: En qué cren los que non creen? Mexico: Taurus 1997. Croire en quoi? Paris: Payot & Rivages, 1988. En què creuen els qui no creuen. Barcelona: Empóries, 1997. Woran glaubt wer nicht glaubt? Wien: Zsolnay, 1998 and München: Hanser, 1999. Ti pisteúei autós pou den pisteúei; Athena: Ellenika Grammata, 1998. Als we niet geloven, wat geloven we dan? Amsterdam: Prometheus, 2000. En que creen los que non creen? Madrid: Temas de Hoy 1997. Mueoseul Mideul Geosinga. Seoul: The Oper Books 1998. Wyspa dnia poprzedniego. Warszawa: PIW, 1995; Warszawa: Noir sur Blanc 2003 Belief or Nonbelief? New York: Arcade, 2000. Miben hisz aki nem hisz? Budapest: Europa 2000. In ce cred cei care nu cred? Iasi: Polirom 2001. U sto vjeruje tko ne vjeruje? Zagreb: Izvori 2001. Mihin uskot jos et usko? Turku: Kirja- Aurora 2002. Xin yang huo fei xin yang : zhe xue da shi yu shu ji zhu jiao de dui tan. Taibei Shi : Jiu jing chu ban she gu fen you xian gong si 2002 23   (Georgian tr) 2012 1997 Cinque scritti morali. Milano: Bompiani Translations: Pénte ethika Keimena. Athens: Ellenika Grammata, 1997. Cinco escritos morais. Lisboa: Difel, 1997. Vier moralische Schriften. München: Hanser, 1998. Cinc escrits morals. Barcelona: Destino 1998. Spisi o moralu. Beograd; Paideia 1998 Cinco escritos morales. Barcelona: Lumen, 1998. Barcelona: Debolsillo 2006 Piat’ esse na tem’i etiki. Saint Petersburg: Symposium, 1998. Moskva: Astrel 2012 Cinco escritos morais. Rio de Janeiro: Record, 1998. Moralske Tanker. Copenhagen: Forum, 1998. Vijf Morele Dilemmas. Amsterdam: Bakker, 1998. Beş ahlak yazisi. Istanbul: Can Yayýnlarý, 1998. Öt írás az erkölcsröl. Budapest: Europa, 1998. Eien no fashizumu. Tokyo: Inawami Shoten, 1998. Spisi o moralu.Beograd: Paideia, 1998 Pet moralni eseta. Sofia: Lik, 1999. Fyra moraliska betraktelser. Stockholm: Brombergs, 1999. Pieae pism moralnych. Krakow: Spoleczny Instytut, Wydawniczy Znak 1999. Fire moralske betraktninger. Oslo: Tiden Norsk, 2000. Pjat’ essje na tjem’i etiki. Saint Petersbourg: Simposium, 2000. Cinq questions de morale. Paris: Grasset, 2000. Five Moral Pieces.. London: Secker and Warburg, New York, Harcourt Brace 2001. Ljatv essie naa teml’i etiki. Saint Petersburg: Symposium 2002 Nugu rul wihayo chong ul ullina mutchi mapsida. Seoul:The Open Books 2003 Pät’ úvah o morálke. Bratislava: Kalligram 2004 Cinci serieri morale. Bucuresti. Humanitas 2005 Pięć pism moralnych. Kraków: Wydawnictwo Znak 2008 1997 Kant e l’ornitorinco. Milano: Bompiani. Translations: Kant e o ornitorrinco. Rio de Janeiro: Record, sd. Kant i l’ornitorinc. Barcelona: Destino, 1999. Kant et l’ornithorynque. Paris: Grasset, 1999. Kant and the Platypus. New York: Harcourt and London: Secker 1999. London: Vintage 2000. Kant y l’ornitorrinco. Barcelona: Lumen, 1999. Barcelona: Debolsillo 2013. Kant e o ornitorrinco. Lisboa: Difel 1999. Kant és a kacsacsörü emlös. Budapest: Europa, 1999. 24   O Kant & o ornithorygchos. Athens: Ellenika Grammata 1999. Kant und das Schnabeltier. München: Hanser 2000. Kant og næbdyret. Copenhague: Forum 2000. Kant en het vogelbekdier. Amsterdam: Bakker, 2001. Kant i kljunar. Beograd: Paideia 2000 Kant si ornitorincul. Constanta: Editura Pontica 2002. Second revised edition , Bucuresti: Polirom 2010 Kanto to kamonohashi. Tokyo: Iwanami Shoten 2003. Kant u itučecovkata. Sofia: 2004 (Korean tr.) Seoul: Open Books 2005 Kant a ptakopyzxk. Praha: Argo 2011 Kant a dziobak. Warszawa: Aletheia 2012 1998 Talking of Joyce (with Liberato Santoro). Dublin: University College Dublin Press. 1998 Gesammelte Streichholbriefe. München: Hanser, 1998. 1998 Serendipities. Language and Lunacy. New York: Columbia U.P. and London: Weidenfeld, 1999. Translations: Serendipities. Japanese tr. Tokyo: Ihei Taniguchi 2008. 1998 Tra menzogna e ironia. Milano: Bompiani. Translations Lüge und ironie. München: Hanser, 1999. Entre a mentira e a ironia. Lisboa: Difel, 2000. Entre mentira e ironia. Barcelona: Lumen, 2000. Metaxú pseúdous kai eironeìas. Athens: Ellenika Grammata 2000. Između laži i ironije. Beograd: Paideia 2000. Nadsolge hagiui julgoum. Seoul:The Open Books 2003 Entre a mentira e a ironia. Rio de Janeiro: Record 2006 Između laži I ironije. Zagreb: Izvori 2004 2000 La bustina di Minerva. Milano: Bompiani. Translations: Streichholzbriefe. München: Hanser 1990 (partial tr:) Semeiomata. Tessaloniki: Ekdoticos 1990 (partial). Tou augusto den uparchoun edeseis. Tessaloniki: Paraterlté 1993. Partial Drugie zapiski na pudełku od zapałek. Poznań: Historia i Sztuka. 1994 Das alte Buch und das Meer. München: Hanser 1995 (partial tr.) Neue Streichholzbriefe. München: DTV 1997 (partial tr.). Gesammelte Streichholzbriefe. München: DTV 1998 (partial tr.) Derrick oder die Leidenschaft für das Mittelmass. München: Hanser 2000 (partial). Gyufalevelek. Budapest: Europa, 2001 (partial). 25   Derrick oder die Leidenschaft für das Mittelmass: Streichholzbriefe 1990-2000. München: Hanser 2000. Sämtiliche Glossen un Parodien. München: Hanser, 2001 (complete edition with Diario Mimimo, Secondo Diario Minimo, Bustina di Minerva and other German collections of parodies) Pliculetul Minervei. Bucuresti: Humanitas 2004 Zhi hui nu shen de mo fa dai. Taibei shi: Hang guan chu ban she (Taiwan: Crown) 2004 Mineruba songnyanggap. Seoul: The Open Books 2004 Poznámky na krabičkách od sirek. Praha: Argo 2008 Kartoniki Minerv’i. Moskva: Symposium 2008 2000 Den nye Middelalderem og andre essays. Oslo: Tiden Norske (selected essays). 2000 Mein verrücktes Italien. Berlin: Wagenbach (selected essays) 2000 Mysl a smysl. Praha: Moravia press (selected essays) 2000 Baudolino. Milano: Bompiani Translations: Bodolino. Riga: Jãņa Rozes apgadas 2000 Baudolino. Amsterdam: Bakker, 2001 Baudolino. Athen: Ellinika Grammata, 2001. Baudolino. Bucuresti: Pontica, 2001; Polirom 2007 Baudolino. Barcelona: Lumen, 2001. Debolsillo 2003. Baudolino. Barcelona: Destino, 2001. Baudolino. München: Hanser, 2001. Baudolino. Stockholm: Bromberg, 2001. Baudolino. Rio de Janeiro: Record, 2001. Baudolino. Warszawa: Noir sur Blanc, 2001. Baudolino. Bratislava: Slovart, 2001. Baudolino. Beograd. Narodna Knjiga 2001. Baudolino. Zagreb:Izvori 2001 Baudolino. Paris: Grasset, 2002. Baudolino. Copenhagen: Forum 2002. Baudolino. Lisboa: Difel 2002 Baudolino. Seoul: The Open Books 2002 Baudolinas. Vilnius: Tyto Alba 2002. Baudolino. New York: Harcourt and London: Secker and Warburg 2002. Baudolino. Helsinki: Sőderstrőm 2002 Baudolino. Oslo: Tiden Norsk Forlag 2002. Baudulinu. Arabic Cultural Center Morocco and North Africa 2003 Baudolino. Istanbul: Doğan Kitap 2003. Baudolino. Budapest: Europa Könyvkiadó 2003. Baudolino. Ljublijana: Mladinska Knijga 2002 26   Baudolino. Moskva: Symposium 2003. CD edition, Moskva, Bibliofonika 2006. Moskva: Astrel’ 2012 Baudolino. Tallinn: Warrak 2003 Baudolino. Sophia: Bard 2003. Baudolino. Taibei shi: Huang guan chu ban she (Taiwan: Crown) 2004 (Hebrew tr.) Or Yehuda: Kinneret 2005 Baudolino. Yogyakarta: Bentang Pustaka 2006. Baudolino. Shanghai: Translation Publishing House 2007 Bavdolino. Charkiv: Folio 2009 (Japanese tr.) Tokio: Iwanami Shoten, 2 vol 2010. 2000 Experiences in translation. Toronto: Toronto U.P. 2001 Riflessioni sulla bibliofilia. Limited edition. Milano: Edizioni Rovello. 2002 Sulla letteratura. Milano: Bompiani. Translations Sobre la literatura. Barcelona: Destino 2002 Perí logotechnías. Athens: Ellenica Grammata, 2002. Sobre literatura. Barcelona: RequeR Editorial 2002. Bolsillo 2005, 2013 Sobre Literatura. Lisboa: Difel 2002 O književnosti. Beograd: Narodna knjiga 2002. Die Bücher und das Paradies. München: Hanser 2003. Sobre a literatura. Rio de Janeiro: Record 2003. BestBolso 2013 De la littérature. Paris: Grasset 2003 O literaturze. Warszawa: Muza 2003 Over literatuur. Amsterdam: Bert Bakker 2003. Si shkruaj. Partial tr. Prishtine: Aikd 2003. Tankar om literatur. Stockholm: Brombergs 2004 O literatuře. Praha: Argo 2004 La Mancha és Bàbel Között Irodalomról. Budapest: Europa Könyvkiadó 2004 Om Litteratur. Oslo: Tiden, 2004 On Literature. New York: Harcourt and London: Secker 2004 (Korean tr.) Seoul: The Open Books 2005 O literaturi. Tržič Učila international 2005 (Chinese tr.) Taiwan: Crown 2008 Për letërsinë. Tiranë: Dituria 2007 2003 Dire quasi la stessa cosa. Milano: Bompiani. Empeiries metáphrasis: Athens: Ellenica Grommata 2003 Dizer quasi a mesma coisa. Lisboa: Difel 2005 Scasat' pocti to je samoe. Moeskva: Simposium 2006 Quasi dasselbe mit anderen Worten. München. Hanser 2006. DTV 2009  27   Otprilike isto: iskustva prevođenja. Zagreb: Algoritam 2006 Të thuash gati të njëjtën gjë. Përvoja përkthimi. Tirana: Dituria 2006 Quase a mesma coisa.. Rio: Editora Record 2007 Dire presque la même chose. Paris: Grasset 2007. Pocket ed. Livre de Poche 2010 Decir casi lo mismo. Barcelona: Lumen 2008. Ediccion Debolsillo 2009. A spune cam acelaşi lucru. Bucuresti: Polirom 2008 (Korean tr.) Seoul: Open Books 2010 (Arab tr.). Arab Organization for Translation 2012 2003 Mouse or Rat? Translation as Negotiation. London: Weidenfeld and Nicolson 2003, Phoenix paperback 2004 (With Experiences in Translation, partial version of Dire quasi la stessa cosa) 2004 Il linguaggio della terra australe. Limited edition. Milano: Bompiani 2004 La misteriosa fiamma della regina Loana. Milano: Bompiani. Paperback ed. 2006 Translations: Die geheimnisvolle Flamme der Königin Loana. München: Hanser 2004 Drottning Loanas mystika eld. Stockholm: Brombergs 2004 La misteriosa flama de la reina Loana. Barcelona: Destino 2004 Misterioasa flacără a reginei Loana. Bucarest: Polirom/Pontica 2004 La misteriosa llama de la reina Loana. Barcelona: Lumen 2005 La mysterieuse flamme de la reine Loana. Paris: Grasset 2005. Livre de Poche 2006 De mysterieuze vlam van konoingin Loana. Amsterdam: Prometheus 2005 The Mysterious Flame of Queen Loana. NewYork: Harcourt; London: Secker 2005; London: Vintage 2006. E musteriodes floga tes basilissas Loana. Athens: Ellenika Grammata 2005, Athens: Psychologios 2012 A misteriosa chama da rainha Loana. Rio: Record 2005 Dronning Loanas mystiske flamme. Copenhagen: Forum 2005 A misteriosa chama da rainha Loana. Lisboa: Difel 2005 Kuningatar Loanan arvoituksellinen liekki. Helsinki: Söderstrom 2005 Kraliçe Loana'nin gizemli alevi. Istanbul: Doğan Kitap 2005 Tayemnýplamen královny Loany. Praha: Argo 2005. Tajemniczy płomień królowej Loany. Warszawa: Noir sur Blanc 2005 Tjuplný plameň král'ovnej Loany. Bratislava: Vydavatel'stvo Slovart 2005 Paslaptingoji karalienės Loanos liepsna. Vilnius: Tyto Alba, 2006 Dronning Loanas mystiske flame. Oslo: Tiden 2006 Srivnostni plamen kraaljice Loane. Lublijana: Mladinska Knijiga 2006 Tajanstveni plamen kraljice Loane. Zagreb: Izvori 2006 Loana királynő titokzatos tüze. Budapest: Europa 2007 (Korean tr.) Seoul: Open Books Tanistbennoe plamja zarizvi Loany. St. Petersburg: Symposium 2008. Moskva: Ast 2013 (Chinese tr) Taiwan: Crown 2009 28   Tanistveniot plamen na kralishata Loana. Skopje: Begemot 2011. Kēninienes Loanas Mistiskā liesma. Riga: Roses 2013 2006 A passo di gambero. Milano: Bompiani. Milano: Mondolibri 2006 Translations À reculons comme une écrevisse. Paris: Grasset 2006. Livre de Poche 2008. Rakiem. Gorąca wojna i populizm mediów. Warszawa: Wydawnictwo WAB 2007. A passo de cangrejo. Lisboa: Difel 2007. A passo de caranguejo. Lisboa. Gradiva 2012 Im Krebsgang voran. München: Hanser 2007. DTV 2011 A paso de cangrejo. Barcelona: Debate 2007. Barcelona: Debolsillo 2008. Me to bēma tou káboura. Athena: Ellēnika Grammata 2006 Înainte ca racul. Bucuresti: Class 2007 Tordele og ulemper ved dǿden. Copenhagen: Forum 2007 Turning back the clock. New York: Harcourt & London: Secker 2007. London: Vintage 2008 Poln'y dazan. Moskwa: Eksmo 2007 Kräftgånd. Stockholm: Brombergs 2008 Po rakovi poti. Ljubljana: Mladinska 2009 (Chinese edition) Taiwan: Krown 2011 Br’šča li se časobnik’t nazad. Sophia: Ciela 2010 (Korean tr.) Seoul: Open Books 2012 A paso de caranguejo. Lisboa Gradiva 2012 Yengeç Adɪmlarɪyla. Istanbul: DK 2012 Poliyi nazad! Moskva: Astrel 2012 (Chinese simplified ed.). Lijangbook 2012 (Japanese tr) Tokyo: Inawami Shoten 2013 Po rakovi poti. Ljubljana Mladinska Knjiga 2009 2006 Sator Arepo eccetera.Roma: Nottetempo. 2006 Schüsse mit Empfangsbescheinigung. München: Hanser 2006 La memoria vegetale. Milano: Rovello. Ed. I Grandi Tascabili Bompiani 2011. Translations: Anamvéseis epí kártou. Athena: Ellenica Grammata 2007 Die Kunst des Büchenrliebens. München: Hanser 2009 (partial tr.) Memoria vegetală. Bucuresti: Rao 2008 A memória vegetal. Rio: Record 2010 (Complex chinese ed.) Taiwan: Crown 2012 (Chinese simplified characters). Beijin: Ylin Press 2014 2007 Dall'albero al labirinto. Milano: Bompiani Translations: Apo to dentro ston labyrintho. Athens: Ellenika Grammata 2008 29   Od drzewa do labiryntu. Warszawa: Aletheia 2009 De la arbore spre labirint. Iaşi: Polirom 2009 De l'arbre au labyrinthe. Tr by Hélène Sauvage. Paris: Grasset 2010. Livre de Poche 2011 Od stromu k labyrintu. Praha: Argo Do árvore ao labirinto. Rio: Record 2013 From the tree to the labyrinth. Cambridge: Harvard U.P. 2014 2008 Mój 1968. Po drugiej stronie muru. Kraków: Wydawnictwo Literackie. 2009 Vertigine della Lista. Milano: Bompiani Translations: Vertige de la liste. Paris: Flammarion 2009 The infinity of lists. New York: Rizzoli International 2009 Die unendliche Liste. München: Hanser 2009. DTV edition 2011. Vertigo. Lista infinita. Bucuresti: Rao 2009 El vertigo de las listas. Barcelona: Lumen 2009 A lista mamora. Budapest: Europa 2009 Vertigo. Moskwa: Slobo/Slovo 2009 Budiště Seznamů. Praha: Argo 2009 A vertigem das listas. Lisboa: Difel 2009 Szaleństwo katalogowania. Poznań: Rebis 2009 De betovering van lijsten. Amsterdam: Bakker 2009: A vertigem das listas. Rio: Record 2010 O omorphias tes listas. Athena:Ekdoseis Kastanioti 2010 Sarakstu Karuselis: Riga: Jäņa Rozes 2010-09-18 Korean tr. Seoul: Open Books 2010. Beskrajni Spiskovi, Beograd: Plato 2011 Vrtinec Seznamov, Ljubljana:Modrijan 2011 (Simplified Chinese edition) Beijing: CentralCompilation and Translation Press 2013 2009 Cultura y Semiotica. Madrid: Circulo de Bella Artes. 2010 La storia dei Promessi Sposi raccontata da Umberto Eco. Roma: Repubblica. La historia de Los Novios explicada por Umberto Eco. Barcelona: Anagrama 2012 A historia de Os noivos contada par Umberto Eco. Rio de Janeiro: Galera 2012 Odryrenn’ie. Moskwa: Astrel’ A historia de Os noivos contada par Umberto Eco. Rio de Janeiro: Galera 2012 2010 Il cimitero di Praga. Milano: Bompiani. Vintage edition 2011. Translations: El cemeterio de Praga. Barcelona: Lumen 2010 El cementiri de Praga. Barcelona:RosadelVents 2010 De Begrafplaats van Praag. Amsterdam: Prometheus 2011 30   To koimitirio tes Pragas. Atina: Ekdoseis Psychogios 2010 Le cimetière de Prague. Paris :Grasset 2011. Livre de Poche 2011. Der Friedhof in Prag. München: Hanser 2011. Büchergild sd. O cemitério de Praga. Lisboa: Gradiva 2011 Gravlunden i Praha. Copenhagen: Tiden 2011 The Prague Cemetery. New York and London: Harcourt & Secker 2011. Vintage 2012. Large print edition AudioGo Ltd 2012 Begravningsplatsen I Prag. Stockholm. Bromberg 2011 Prag Mezarliği. Istambul: DK 2011 Praz’kij cvintar. Kharkiv: Folio 2011 Cmentarz w Pradze. Warszawa: Noir sur Blanc 2011 Pražský hřbitov. Praha: Argo 2011 O cemitério de Praga. Rio de Janeiro: Record 2011 Pražskoe kladvišče. Moskwa: Astrel 2012 Cimitirul din Praga. Bucuresti: Polirom 2911. Paperback 2013. Prāgas kapsēta. Rigā: Jānas Rozes 2011 Prahan kalmisto. Helsinki: Söderström 2012 Kirkegården I Prag. Copenhagen: Rosinante 2012 (Hebrew tr) Or Yehuda: Kinneret 2012 Praško pokopališče. Ljubljana: Mladinska kniga 2012 Praško groblje. Podgorica: Nova Knjiga 2012 Praško groblje. Zagreb: Mozaik knjiga 2012 Pražsky cintorín. Bratislava: Slovart 2012 (Korean tr) Seoul: Open Books 2013 (Chinese tr) Taipei: Crown 2013 Prahos kapines. Vilnius: Tyto Alba 2012 (Libanese tr) Beirut: Dar al kitab al jadid 2014 2010 Una tromba sulle colline. Limited editon of a chapter of Il pendolo di Foucault. Milano: Rovello 2011 Perché l’isola non viene mai trovata. Limited edition. Milano: Rovello 2011 Confessions of a Young Novelist. Cambridge: Harvard U.P. Translations: Confesiones de un joven novelista. Barcelona: Lumen 2011. Debolsillo 2014 (Korean tr) Seoul: Chungrim 2011 Bekenntnisse eines jungen Scheiftstellers. Münche: Hanser 2011 Genç bir romancinin İtiraflari. Istanbul: Edebiyat İnceleme 2011 Confesiunile unui tînăr Romancier. Bucuresti: Polirom 2011 Bekentenissen vane en Jonge Roman-schijver. Amsterdam: Bert Bakker 2011 Anlati ormanlarinda alti gezinti. Istanbul: Can 2011 31   Wyznania młodego pisarza. Warszawa: Śviat Książki 2011 Exomologiseis enos neou muthistoriographou. Athena: Ekdoseis Patake 2011 Confissões de um jovem escritor. Lisboa: Horizonte 2012 Noore romaanikirjalu pihtimused. Tanapäev 2011 Confissões de um jovem romancista. São Paulo: Cosae Naify 2013 Ispovesti mladog romanopisca. Beograd: Glasnik 2013 Confessions d’un jeune romancier. Paris: Grasset 2013 Zpověd’ mladého romanopisce. Praha : Argo 2012 (Chinese tr. Simplified Characters) Beijng: Beijging Imaginist Time Culture Company. (Chinese complex characters). Taiwan: Business Weekly Publications 2014 2011 Costruire il nemico. Milano: Bompiani. Ed. Mondolibri 2011 Cum ne costruim duşmanul. Bucuresti. Polirom 2011: Construir o inimigo. Lisboa: Gradiva 2011-12-17 Kataskeuazontas ton exthro. Athena: Psichologios 2011 Wymyślanie wrogów. Poznań: Dom Wydawniczy Rebis 2011 Sukurti priešą ir kiti proginiai rašiniai. Vilnius: Tyto Alba 2011 Ellenséget alkotni és más alkalmi frások. Budapest: Európa Könivkiadó 2011 Inventing the Enemy. New York: Houghton and Mifflin Harcourt. London: Harvill Secker 2012 Het creëren van de vijand. Amsterdam Bert Bakker 2012 Ustvarjanje sovražnikov. Ljubljana: Mladinska Kniga 2012 Vytváreni nepřítele a jiné příležitosné texty. Praha: Argo 2013 Construire l’ennemi. Paris: Grasset 2014 Die Fabrication des Feindes. München: Hanser 2014 Sotvori seb’e vraga. Moskva: Act 2014 (Korean tr.. Seul: Open Books 2014) Da stborim Brata. Sofia: Bard 2013 Düşman Yaratmak. Istanbul: Dogan Kitar 2014 2012 Scritti sul pensiero medievale. Milano: Bompiani 2013 Storia delle terre e dei luoghi leggendari. Milano: Bompiani Translations: The Book of legendary lands. London: MacLeose Press2013 The Book of legendary lands. New York: Rizzoli 2013 Geschiedenis van imaginaire landen en plaatsen. Amsterdam:Prometeus 2013 Dĕjny legendárních zemí a míst. Praha: Argo 2013 Die Geschichte der legendären Länden und Städte. München: Hanser 2013 Historia das terras e lugares legendarios. Tr by Eliana Aguiar. Rio de Janeiro: Record 2013 Istorija illiusii lerendarniie mesta, semli I strain. Moskva: Slovo 2013 Istoria mitskin zemalja. Beograd: Vulkan 2014 32   Istoria Tǎrǎmurilor și locurilor legendare.Bucuresti: Editura Rao 2014 2014 Riflessioni sul dolore. Bologna: Asmepa 2014 Numero zero. Milano: Bompiani 33   EDITED BOOKS, WITH OTHER AUTHORS, TRANSLATIONS ETC. 1961 Storia figurata delle invenzioni. Ed. by .U.Eco and G.B.Zorzoli. Milano: Bompiani. Translations: The Picture History of Inventions. New York: Macmillan, 1963. The Pictorial History of Inventions. London: Weidenfeld, 1962 Uppfinningarnas Historia. Stockholm: Natur och Kultur, s.d. Opfindensernes Historie. Copenhagen: Gyldendal, s.d. Histoire illustrée des inventions. Paris: Laffont, I961. Zum Nutzen des Menschen. Bern: Scherz, 1963. Geschiedenis der uitvindingen in woord en beeld. Brussel: Belgisch Agentenschaap von Grote Encyclopedieen, 1965. Historia ilustrada de los inventos. Buenos Aires: Fabril, 1962. 1965 Il caso Bond. Edited by O.Del Buono and U.Eco. Milano: Bompiani. Translations: Proceso a James Bond. Barcelona: Fontanella, 1965. Der Fall James Bond. München: DTV, 1966. The Bond Affair. London: Macdonald, 1966 (Unreliable translation). 1966 La bomba e il generale, with Eugenio Carmi. Milano: Bompiani (revised edition, 1988) Translations: H e bomba kai o strategos. Athens: Gnosis, 1989, Ellenika grammata 2004. A bomba e o general. Lisboa: Quetzal 1989. The bomb and the general. New York: Harcourt 1989; London : Secker & Warburg, 1989 Bakudan to shogun. Tokyo: TBS 1990 Poktan kuwa jamgun. Seoul: Open Books 1991. 1966 I tre cosmonauti, with Eugenio Carmi. Milano: Bompiani (revised edition, 1988) Translations Die drei Kosmonauten. Frankfurt: Insel, 1971 Los tres astronautas. Buenos Aires: Ed. de la flor, 1973 (without Carmi's drawings). Les trois cosmonautes. Paris: Grasset, 1989. With La bombe et le géneral at Les gnomes de Gnou, 2008./ De tre astronauterna. Stockholm: Brombergs, 1989. Los tres cosmonautas. Barcelona: Destino, 1989. Os tres cosmonautas. Lisboa: Quetzal, 1989. The three astronauts. New York: Harcourt 1989, London : Secker & Warburg, 1989 Oi treis astronautes. Athens: Gnosis, 1989. Sannin no uchu hikoshi. Tokyo: TBS 1990 Oi treis kosmonaytes. Athens: Ellenika Grammata 2004 34   1967 L’Italie par elle-meme. A portrait of Italy. Autoritratto dell'Italia. Edited by Umberto Eco, Giulio Carlo Argan, Guido Piovene, Luigi Chiarini, Vittorio Gregotti ed al. Milano: Bompiani. Translations: Eko no itaria annai. Tokyo : Jiritsu shobo, 1988 1969 L'arte come mestiere. Edited by U.Eco. Milano: Bompiani. 1969 I sistemi di segni e lo strutturalismo sovietico. Ed. by U.Eco and R.Faccani. Milano: Bompiani. 1969 L'Industria della cultura. Edited by U.Eco. Milano: Bompiani. 1969 Dove e quando? Indagine sperimentale su due diverse edizioni di un servizio di 'Almanacco'. Edited by U.Eco et al. Roma: Rai, Servizio Programmi Sperimentali-Servizio Opinioni. 1970 Socialismo y consolacion. Edited by U.Eco. Barcelona: Tusquets. 1971 I fumetti di Mao. Edited by G.Nebiolo, U.Eco and J. Chesneaux. Bari: Laterza. Translations: Das Mädchen aus der Volkskommune. Reinbek: Rowohlt, 1972. Los comics de Mao. Barcelona: Gili, 1976. 1972 Cent'anni dopo. Il ritorno dell'intreccio. Ed. by U.Eco and C.Sughi. Milano: Almanacco Bompiani. 1972 I pampini bugiardi. Edited by U.Eco and M.Bonazzi. Rimini: Guaraldi. Translations: Las verdades que mientem. Buenos Aires: Tiempo Contemporaneo 1974. Mentiras que parecen verdades. Sao Paulo: Summus 1980. 1972 Estetica e teoria dell'informazione. Edited by U.Eco. Milano: Bompiani. 1973 Eugenio Carmi:una pittura di paesaggio? Edited by U.Eco. Milano: Prearo. 1976 Storia di una rivoluzione mai esistita: l'esperimento Vaduz. Edited by U.Eco et al. Roma: Rai, Servizio Opinioni. 1979 Invernizio, Serao, Liala. A cura di U.Eco, I.Pezzini, M.P.Pozzato, M. Federzoni. Il Castoro. Firenze: La Nuova Italia. 1979 A Semiotic Landscape. Edited by.S. Chatman, U. Eco and J.M. Klinkenberg. Proceedings of the First Congress of IASS-AIS, Milano, 1974. The Hague: Mouton. 1983 The Sign of Three. Peirce, Holmes, Dupin. Edited by U. Eco and T.A.Sebeok. Bloomington:Indiana U. P. Translations: Il segno dei tre. Milano: Bompiani 1983. Der Zirkel oder Im Zeichen der Drei. München: Fink, 1985 El signo de los tres. Barcelona: Lumen, 1989. Sannin no kigo: Dupan homuzu pasu. Tokyo : Tokyo tosho, 1990 O signo de tres. São Paulo: Perspectiva 1991 Nori wa churi ui kihohak: Kihoro kaduk chan sesang ui iherul yhaie. Seoul: Inkansaram, 1994 1983 Raymond Queneau, Esercizi di stile. Introduction and translation. Torino: Einaudi, 1983. 1984 Carnival! Edited by Thomas A. Sebeok (Texts by Umberto Eco, V.V. Ivanov, Monica Rector). Berlin ; New York ; Amsterdam : Mouton publishers 35   Translations: Kanibaru! Tokyo : Iwanami shoten, 1987 Carnaval! Tezlonte: Fondo de cultura economica, 1989 1988 Meaning and mental representations. Edited by U. Eco, M. Santambrogio and P. Violi. Bloomington: Indiana U.P. 1989 On the medieval theory of signs. Edited by U.Eco and C. Marmo. Amsterdam: Benjamins, 1989. 1992 Gli gnomi di Gnu, with Eugenio Carmi. Milano: Bompiani. Translations: Gnuttarna på Gnu. Stockholm: Brombergs, 1992 The gnomes of gnù. Milano: Bompiani-Stefanel, 1992 Le gnomes de Gnou. Paris: Grasset, 1993 Os gnomos de Gnu. Lisboa: Presença, 1992. Los Gnomos de Gnu. Barcelona: Lumen, 1994. De Gnomen van Gnu. Amsterdam: Bakker, 1992. Die Gnome von Gnu. Bompiani/Stefanel, 1992. Oi nanoi toy Gnou. Athens: Gnosis, 1992. Now Athens: Ellenika Grammata 2004 Kobito no hoshi nieu. Bompiani/Stefanel 1992. Gnomy z planety Gnu. Wrocław: Wydawnictwo Dolnośląskie, 1994 Els gnoms de Gnu. Barcelona: Lumen, 1992. Os gnomos de Gnu. Lisboa: Presença, 1992 1995 Povero Pinocchio. Edited by U.Eco. Modena: Comix, 1995. 1998 Entretiens sur la fin des temps, avec J.C. Carrière, J. Delumeau, S.J. Gould, par C. David, F. Lenoir, J.-p. de Tonnac. Paris: Fayard. Translations: La fin dels temps. Barcelona: Empuries-Anagrama, 1999. Pensieri sulla fine dei tempi. Milano: Bompiani 1999 Entrevista sobre a fim dos tempos. Rio: Rocco, 1999. Das Ende der Zeit. Kön: DuMont, 1999. Mo shi tan. Beijing: Zhong guo wen chu ban she 1999. Conversations about the end of time. Harmondsworth: Allen Lane. The Penguin Press 1999. Sigan ui chongmal : Saeroun milleniom e taehan negaji nonui. Seoul: Kkullio, 1999 Synomilíes gia to télos toy krónoy. Athens: Ekdotikos Organismos Libani, 1999. O fim dos tempos. Lisboa: Terramar 1999. Zamanlarin sonu üstüne söyleşiler. Istanbul: Can Yayýnlarý 2000. Rozmowy o końcu czasów. Wrocław: Wydawnictwo Dolnośląskie, 2000. 1999 Gérard de Nerval, Sylvie , Translation and Postface. Torino: Einaudi 1999. 2002 Islam e occidente. Riflessioni per la convivenza. With M. Camdessus, J. Daniel and A. Riccardi. Roma: Laterza. 2004 Tre racconti.Milano: Bompiani. New edition of La Bomba e il generale, I tre cosmonauti, Gli gnomi di gnu. 36   Translations: Trei Povestiri. Bucuresti: Polirom 2005 Trzy Opowieści. Poznan: Dom Wydawniczy Rebis 2005 Cecü' nün Yer Cüceleri. Istanbul: Yky 2005. Korean translation. Seoul: Momo 2005 Tres contos. Sao Paulo: Berlendis & Vertecchia 2007 Três pequenas histórias. Lisboa: Caderno 2007 Los Tres Tosmonautas e Contes Mei. Ortès: Per Noste Edicions 2011 Geschichten fur aufgeweckte Kinder . München: Hanser 2012 (Chinese tr.) 2001 Tri Skazki. Moskva : OGI 2013 Tri opovidki. Kiev : Laurus 2013 (Iranian tr.) Teheran:Hatami Abolhassan 2014 2004 Storia della bellezza, ed. b.y U.Eco. Milano:Bompiani. Vintage 2012 Translations: Histoire de beauté: Paris: Flammarion, 2004 Die Geschichte der Schönheit. München: Hanser, 2004. History of Beauty. NewYork: Rizzoli, 2004 On Beauty. History of a Western idea. London: Secker & Warburg, 2004 Skjønnhetens Historie. (Oslo): Kagge, 2004 História da belleza. Lisboa: Difel 2003 Historia de la belleza. Barcelona: Lumen 2004 (ed de bolsillo 2010) Iστορια τησ ομορφιασ. Athens: Ekdoseis Kastanioti 2004 Povijest ljepote. Zagreb: Hena Com 2004 Istorija lepote. Beograd: Plato 2004 A szépség története. Budapest: Europa 2005 História da belleza. São Paulo: Record 2004; Circulo de Leitores 2005. Historia piękna. Poznań: Rebis 2005 De Geschiedenis van de Schoonheid. Abakker 2005 (Corean Translation) Seoul: Open Books 2005 Om Skönhet. Stockholm: Brombergs 2005 Skønhedens historie. Amsterdam: Ascheoug 2005 Dějiny krásy. Praha: Argo 2005. Historia frumuseţii. Bucuresti: Enciclopedian RAO 2005 (Japanese tr.) Tokyo 2005 Skǿnhedens historie. Ascheoug Dansk Forlag 2005 Istorija krasotvi. Moskva: Slovo 2005 Zgodovina Lepote. Ljubliana: Modrijan 2006 37   (Chinese tr.) Taiwan 2006 Ilu ajalugu. Tallinn: Eesti 2006 Güzelliğin tarihi. Istanbul: Doğan Kitapçilik 2006 Istorija na krasotata. Sofia: Kibea 2006 (Chinese simplified characters) Shanghai: Central Compilation and Translation Press 2006 Deutscher Taschenbuch Verlag 2006 (Hebrew tr. Or Yehuda: Kinneret 2010 2007 Storia della bruttezza. Ed. by U. Eco.Milano: Bompiani Translations: On ugliness. New York: Rizzoli international 2007 On ugliness. London: Secker 2007 Histoire de la laideur. Paris: Flammarion 2007 Die Geschichte der Hässlickheit. München: Hanser 2007 Istoria Urâtului. Bucuresti: Enciclopedia rao 2007 Istoria tēs Asxēmias. Athena: Ekdoseis Kastaniōtē 2007 Istyorija Yrodstva. Moskva: Slovo 2007 Des Geschiedenis van de Lelijkheid. Amsterdam: Bakker 2007 Dĕjiny ošlivosti. Praha: Argo 2007 A rútság törtenete. Budapest: Europa 2007 Istorija ružnoće. Beograd: Plato 2007 História da feiúra. Rio de Janeiro: Record 2007 História do feio. Lisboa: Difel 2007 Historia de la fealdad. Barcelona: Lumen 2007 Historia brzydoty Poznan: Rebis 2007 Kauneuden istoria. Helsinki: WSOY 2008 Korean transl. Seoul: Open Books 2008-10-02 Neglītuma vēsture. Riga: Jāņa Rozes 2008 Zgodoviuna Grdega. Ljublijana: Modrijan 2008 Inetuse Ajalugu. Tallinn: Eesti Entsüklopeediakirjastus 2008 Om Fulhet. Stockholm: Brombergs 2008 Chinese transl. Taiwan: Linking 2008 Simplified ChineseEdition: Central Compilation and Translation Press 2010 (Hebrew translation) Or Yehuda: Kinneret 2013 2008 The Art of Fiction No 197. Interview with Lila Azam Zaganeh. The Paris Review 185, pp.74-109. 2009 N’esperez pas vous debarrasser des livres (entretiens avec Jean-Claude Carrière). Paris: Grasset. Club Edition 2009.. Livre de Poche 1010. Translations: Non sperate di liberarvi dei libri. Milano: Bompiani 2009. Edition Mondolibri 2009. 38   Nadie acabará con los libros. Barcelona: Lumen 2010 Knih se jen tak nezbavíme. Praha: Argo 2010 Complex Chinese Edition. Taiwan: Crown 2010 Die grosse Zukunft des Buches. Munich: Hanser 2010. DTV 2011 Simplified Chinese Edition. Guangxi Normal University Press 2010 Não contem com o fim do livro. Rio de Janeiro. Record 2010. Ne nadeiytes’ izbavit’sja ot knig! Moskva: Symposium 2010 Min elpizete na apallageite apo ta biblia. Athena: Ekdotikos Organismos Libani 2010 Nie myśl, że książki znikną. Warszawa: WAB 2010 Nu speraţi că veţi scăpa de cărti. Bucuresti: Humanitas 2010 (Japanese transl.) Tokyo: Hankyu Communications 2010 Korean tr. Seoul: 2011Open Boks. 2011//// This is not the end of the book. London: Harvill Secker 2011. Vintage Books 2012 Ne rémelje, hogy megsza badul a könyvektől. Budapest: Europa Konyvkiado 2010 Nesitikėkite atsiktatyti knygų. Leydikla: Zara 2011 Kitaplardan kurtulabileceğinizi sanmayin. Istanbul: Can Yainlari 2012 Tova ne e kpajat na knigite. Sophia: Enthusiast 2011 2009 Nebbia, with Remo Ceserani eds. Torino: Einaudi 2007 Il Cinquecento (Editor) . Corriere della Sera 2007 Historia (Editor). Milano: Motta 2009 Il Medioevo (Editor) La Biblioteca di Repubblica-L’Espresso. Il Medioevo. 3 voll. Encyclomedia Publishers.2011 Translations: Idade Media: Barbaros, Cristao e Muçulmanos. Alfragide;, Dom Quixote, 2013, >- Idade Media: Catedrais, Cavaleiros e Cidades, Alfragide: Dom Quixote 2013, Idade Media: Castelos, Mercadores e Poetas.Alfragide: Dom Quixote 2013, Ortacag: Barbarlar, Hiristiyanlar, Muslumanlar, Istanbul: ALFA 2014 Oetacag: Katedraller, Svalyeler, Sehirler),Istanbul:ALFA 2014 2011 La grande Storia (Editor). 14 voll. Corriere della Sera 2012 L’antichità. Grecia (Editor). Milano: Encyclomedia Publishers 2012 L’età moderna e contemporanea (Editor). 10 voll. La Biblioteca di Repubblica-L’Espresso 39   2014 Il Settecento. Il secolo delle rivoluzioni. 2 voll. Milano: Encyclomedia Publishers 40   2014 (with Riccardo Fedriga, eds.) Storia della filosofia. 3voll. Roma Laterza. Milano: EM Publishers 2014 (with Isabella Pezzini) El museo. Madrid: Casimiro 2014 (with Riccardo Fedriga, eds.) La filosofia e le sue storie. Roma: LaterzaUmberto Eco. Keywords: il nome del nome, lingua perfetta; semiotica, la rosa segnata --. Refs.: Umberto Eco on H. P. Grice in “Cognitive constraints on communication,” Luigi Speranza, "Grice ed Eco: semantica filosofica," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia.  https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51679859739/in/photolist-2mJLMNt-2mJLNuJ-2mJMUr7-2mJLNvR-2mJHmtd-2mJHmr4-2mJMUmN-2mJMUmY-2mJDfiM-2mJMUn9-2mJDfsK-2mJDfrH-2mJMUs9-2mJJEFF-2mJMUqL-2mJMUpZ-2mJMUd6-2mJHmkh-2mJLNBC-2mJJERW-2mJMUqR-2mJLNvW-2mJLND6-2mJDfrn-2mJHmt8-2mJLNxu-2mJMUq5-2mJMUoM-2mJMUdb-2mJHmqY-2mJMUfq-2mJLNxz-2mJLNBN-2mJHmwK-2mJDfji-2mJHmuq-2mJMUqa-2mJHmhM-2mJDfva-2mJDfrN-2mJLNw2-2mJLNF5-2mJHmuF-2mJHmkc-2mJMUfv-2mJDfrs-2mJDfiX-2mJMUe3-2mJHmvs-2mJJEFW

                                                                                                                                                                                                                                                             

Grice ed Emiliani – semiotica – filosofia italiana – Luigi Speranza (Lugo). Filosofo. Grice: “I like Emiliani; of course in proper English we don’t pluralise ‘meanings’! But he speaks of ‘significati,’ which is literate! The vernacular Italian is ‘segno,’ and the ‘ficare’ is also learned latinate! Gotta love him!”  Dio è la mia speranza Anch'io vivo nella speranza di avere amici in cielo che pregano per me e che attendono di unirsi a me nella nostra comune patria. Dobbiamo sempre ricordare che questa vita terrena è soltanto un passaggio verso la nostra vera patria che è quella celeste. La Madonna è apparsa e ha parlato a moltissimi veggenti di molti popoli e nelle più svariate circostanze, come una persona viva, che promette, annunzia, loda, esorta, profetizza, prega, guida e protegge dai pericoli, risana i malati, opera i miracoli, piange, invita alla conversione ed alla penitenza, aiuta ad avvicinarsi a Cristo, suo Figlio. La mia sicura bussola è camminare sulla strada della carità in ogni circostanza della vita. La presenza in noi dello Spirito Santo è la caparra della nostra vita eterna futura. Solo Dio resta. Egli è l'unica roccia a cui mi posso aggrappare per non essere travolto dai flutti tempestosi in mezzo ai quali galleggio.  Alessandro Emiliani, Dio è la mia speranza, Edizioni Studio Domenicano. Nel suo saggio sul segnato, valore, communicazione e ragionamento, Emiliani presenta un'analisi del ‘segnato,’ topico della semiotica. Il segnato è un modo di una correlazione astratta posta dall'attività razionale intersoggettiva e cooperativa con cui un contenuto e intenzionato e strutturato in ordine al valore della profferenza e alla correttezza del ragionamiento conversazionale. La forme logica non è innata, né e un atto o evento psichico soggettivo, ma una struttura intersoggetiva astratta e relazionale, invariante intersoggettivamente. Il segnato (non il ‘segno’) fonda la correttezza del ragionamiento conversazionale (colloquenza – dialettica), segnato dal segno di una operazione (negans, negatum, negatore; connettivi, -- conjunctum, congiutivo, disjunctum, disgiuntivo, ‘if’ filoniano, il quantificatore universale o totale (ogni), il quantificatore parziale o essitenziale (G. jemand), il descrittore, descriptum) non è privo di ‘segnato’. Il segno di negazione, p. es., ‘non’, segna la negazione. ‘Non piove’ segna che non è il caso che piove. Il segno (‘non’) ha come UNICO segnato quello che s’esprime nella forma logica (explicatura, no implicatura). L’intensionale e il contenuto nozionale di ciò che è mentato o segnato, distinto dal segnato estensionale o funzionale – e spiegabile in una teoria di mondi possibili. Pensatile sempre dentro e mediante una determinata struttura logicha. L’atto de denotare (referire) e l’atto di predicare sono le due elementi di un complesso proposizionale (“Fido is shaggy”). Un oggetto dell'universo di riferimento, considerato reale nel modo più ampio (valore di una variabile). Il valore di una profferenza è spiegato da una teoria della correpondenza. Il valore di soddisfacibilità e parte del meta-languaggio che presuppone la sintassi, la semantica, e la prammatica. Lo scopo del griceanismo: il segnato. Fondamento della introduzione del segnato, simbolo mono-semantico, simbolo bi-semantico, simbolo tri-semantico, segnato del termine, segnato della formula del linguaggio. Relazione estensione/intensione, referenza e predicazione. Il valore della profferenza di soddisfacibilità e meta-linguistico. Rapporto tra sintassi, semantica e pragmmatica – linguaggi- oggeto e meta-linguaggio. Il linguaggio di una teoria del ragionamiento formalizzata elementare – Sistema G-hp. Calcolo di predicati di primo ordine con identità.  Sintassi di una generica teoria del ragionamento normalizzata elementare. Simbolo primitivo. Definizione ricorsiva del termine, definizione ricorsiva della formula del sistema G-hp. Termine aperto e termine chiuso. Formula aperta e formula chiusa. Profferenza semplice, proferrenza complessa. Componente deduttivo, induttivo ed adduttivo di una generica teoria del ragionamiento elementare (G. R. I. C. E. – gruppo per la ricerca dell’inferenza e la comprensione elementare). Il segnato di una profferenza in romano ed italiano (Piove). Il segnato intenzionale di una profferenza semiotica comunicativa, distinzione tra atto intenzionale dell'io e forma intenzionale con cui ciò che è segnato e compressibile dal ‘tu’, intenzionalità e consapevolezza, forma intenzionale, contenuto intenzionato. Profferenza e modalità intenzionale. Tre dimensioni del segnato nella profferenza comunicativa; Il segnato della profferennza assertiva (il simbolo di Frege),L’assertivo di una profferenza semplice. Segnato intensionale (il senso fregeiano) di una profferenza semplice. Il topico o denotatum di una profferenza semplice (“The dog is shaggy”). Il segnato logico del termine, il segnato intensionale del termine, il segnato referenziale del termine, ragioni che giustificano l'introduzione di una descrizione chiusa nel Sistema G-hp di una teoria del ragionamento Normalizzata elementare. Il segnato logico, intensionale e referenziale del segno predicativo (‘shaggy’), il segnato logico del segno predicativo, il segnato intensionale del segno predicativo, Relazione tra segnato logico e segnato intensionale del segno predicativo. Il segnato referenziale del segno predicativo, rapporti tra il segno intensionale e il referente o denotatum or relatum di un segno predicativo. Il segnato del segno mono-sematico. Il  segnato logico del segno del negare (cf. Grice, “Negation and Privation”). Il segnato logico di una operazione di connessione fra sintagme: le particelle coordinante ‘e’, ‘o,’ e subbordinante, ‘se’, il segnato del segno di quantificazione totale o universale, ‘ogni’ – il segnato del segno di quantificazione sustituzionale parziale o esistenziale (Ex), Il segnato del segno dell’articolo definito (‘il’), descrizione, el segnato logico dei segni ausiliari, il segnato intensionale e referenziale di una profferenza complessa, il segnato intensionale di una profferenza complessa; il denotatum di un profferenza complessa. Refutazione delle impostazione convenzionalista (in termini di implicatura convenzionale) di Strawson circa l'interpretazione del formalismo. Ragioni della inadeguatezza dell’approccio di Strawson, interpretazione logica, interpretazione intensionale e interpretation referenziale della semantica di una teoria dell’inferenza elementare, interpretazione intensionale del linguaggio di una teoria, interpretazione referenziale del linguaggio di una teoria, il valore di satisfactorieta di una profferenza nel sistema G-hp nel quadro del meta-linguaggio. I requisiti della definizione del valore di soddisfacibilità; condizioni che rendono la definizione di ‘soddisfacibile’ adeguata al contenuto della nozione intuitiva, condizioni che devono essere soddisfatte perché la definizione del valore sia formalmente sana. Il valore di soddisfacibile associato a una profferenza del sisstema G-hp. Considerazioni sulla definizione del valore di soddisfacibile, distinzione tra concetto di soddisfacibilità e criterio di soddisfacibilità. Il valore di soddisfacibilità associato ad una profferenza non è ‘segnato’ dalla profferenza o profferente a cui è associata, il soddisfacibile rispetto alla profferenza a cui a associate non e ‘segnato’, ma un valore. Il soddisfacibile è meta-linguistico, profferenza soddisfacibile, relazione tra profferenza soddisfacibile e ragionamento sano. Il principio di bivalenza (Tertium non datur – il terzo incluso). Stato del problema: la polemica Grice/Strawson. Il valore di soddisfacibilità è associabile soltanto alla profferenza per la quale il communicatore o profferente (implicans, implicaturus) segna che p o q, il valore di soddisfacibilità e associabile a ogni profferenza. Critica di un sistema bivalente che accetta la categoria confuse di “lacuna” di valore di soddisfacibilità. Bivalenza e il sistema considerato poli-valente. Bivalenza e l’intuizionismo di Lemmon e Dummett. Communicazione e segnato, rapporto tra materia e forma dell’espressione per la quale il communicatore o profferente o implicaturus segna (empiega) che p o q e il rispettivo segnato.  Il segnato come criterio per determinare la primitività di un simbolo, Le regole o teoremii di formazione sintattica d’introduzione e eliminazione, il teorema del ragionamiento sano definito dalla sintassi e il segnato logico. Communicazione naturale, segnare artificiale, arbitrario, non naturale, e segnato. Natura, genesi, funzione e invarianza della forma e struttura logica. Natura, genesi e funzione della forma predicativa (“Fido is shaggy”), natura, genesi e funzione della forma soggettiva o topica, natura, genesi e funzione della forma logica semplice, Natura, genesi e funzione della forma logica espressa da un simbolo mono-semantico di operazione logica, Rapporto tra l'attività dell'io intenzionante (implicaturus, e la struttura logica intesa come modalità con cui il contenuto e intenzionato (“He went to bed and took off his boots”). L'invarianza della forme o struttura logica.  Wikipedia Ricerca Significato Lingua Segui Modifica Ulteriori informazioni Questa voce o sezione sull'argomento linguistica è priva o carente di note e riferimenti bibliografici puntuali. «Noi non sappiamo che cosa significano le parole più semplici, tranne quando amiamo e desideriamo.»  Emiliani, “Significati e verità dei linguaggi delle teorie deduttive(Ralph Waldo Emerson) Il significato è un concetto espresso mediante segni che possono essere grafici, verbali-orali, o mediante cenni e gesti. Il significato permette di capire o esprimere il senso, il valore o il contenuto del segno. Secondo il linguista ginevrino Ferdinand de Saussure, il segno linguistico è costituito dall'unione di un significato (un concetto, cioè la nozione mentale che abbiamo di un determinato oggetto) con un significante (cioè una forma sonora, o un'immagine uditiva).   Il triangolo semiotico In semantica (la disciplina che studia i rapporti tra segni e oggetti), secondo il classico modello a tre elementi, il significato è la nozione o immagine mentale generica che possediamo di un oggetto, la quale media tra la parola e la cosa. Ad es. il concetto di albero ci dà modo di riconoscerlo sia che si tratti di una quercia sia di un melo. Il significato è indicato graficamente o foneticamente dal significante, mentre l’albero reale al di fuori della sfera linguistica è detto referente. Va notato che mentre significato e significante sono sempre presenti, il referente può mancare o cessare di esistere (es. nelle parole “Napoleone” o “unicorno”).  In semiotica, il significato è uno dei vertici del triangolo semiotico postulato da Charles Peirce, come mostrato nella figura accanto.  Per quanto riguarda la porzione di realtà indicata, si distingue in genere tra:  denotazione, ovvero ciò che una parola indica in quanto tale (uomo, e il suo significato di animale razionale); riferimento, ovvero ciò che una parola indica in una frase determinata (quell'uomo è alto). BibliografiaModifica Gottlob Frege, Senso, funzione e concetto, (edizione originale 1892). Giorgio Graffi; Sergio Scalise, Le lingue e il linguaggio. Bologna, Il Mulino, 2002. ISBN 88-15-09579-9 Charles Kay Ogden e Ivor Armstrong Richards, Il significato del significato. Studio dell'influsso del linguaggio sul pensiero e della scienza del simbolismo, con saggi in appendice di B. Malinowski e F. G. Crookshank, trad. Luca Pavolini, Milano, Il Saggiatore, 1966 (orig.: The Meaning of Meaning. A Study of the Influence of Language upon Thought and of the Science of Symbolism, London, Routledge & Kegan Paul, 1923). Ferdinand de Saussure, Corso di linguistica generale, Bari, Laterza, 1970, (edizione originale 1916). Voci correlateModifica Disambiguazione Semantica Semantica lessicale Significato (psicologia) Struttura (semiotica) Triangolo semiotico Altri progettiModifica Collabora a Wikizionario Wikizionario contiene il lemma di dizionario «significato»   Portale Linguistica: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di linguistica Ultima modifica 6 mesi fa di Dedda71 PAGINE CORRELATE Segno concetto base della semiotica  Significante Triangolo semiotico Wikipedia Il contenuto Grice: “Alessandro Emiliani should be distinguished from Alessandro Emiliani. Alessandro Emiliani is a philosopher; Alessandro Emiliani is a semiotician!” Alessandro Emiliani. Emiliani. Keywords: semiotica, Dr. Wilde, Wilde lectures on religion? That’s after Henry Wilde, not a doctor? He was a doctor: “Dr. Henry Wilde” -- -- -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Emiliani” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51763275664/in/dateposted-public/

 

Grice ed Enriques – implicatura arimmetica – filosofia italiana – Luigi Speranza (Livorno). Filosofo. Grice: “I like Enriques; of course his “Problemi della scienza’ implicates that philosophy does not have any!” Il Dipartimento "Federigo Enriques" di Matematica dell'Università degli Studi di Milano, via Saldini, Milano. Nato in una famiglia ebrea, si trasferì a Pisa. Suo fratello Paolo Enriques, uno zoologo, fu padre di Enzo Enriques Agnoletti e Anna Maria Enriques Agnoletti. Dopo gli studi liceali, compì gli studi universitari a Pisa e la Scuola Normale Superiore. Si laurea. Frequenta in seguito un anno di perfezionamento a Pisa e uno a Roma, dove ebbe modo di incontrare e collaborare con Castelnuovo. Inizia inoltre a collaborare con Cremona, Segre e Amaldi. Lincei. Insegna a Bologna. Fu invitato presso l'Roma, per occupare la cattedra di matematiche superiori e di geometria superiore. Venne invitato da Neurath a divenire un collaboratore dell'Encyclopaedia of Unified Science, la cui pubblicazione era stata individuata come lo strumento per lo sviluppo del movimento per l'unità della scienza (cf. Grice, “Einheit des Wissenschaft”). Quando però furono promulgate le leggi razziali anti-ebraiche, e espulso dall'insegnamento e da qualsiasi altra occupazione legata all'attività culturale. Durante l'occupazione tedesca fu dapprima nascosto in casa di  Frajese e poi a San Giovanni in Laterano. Insegna a Roma nella scuola ebraica clandestina fondata da Castelnuovo per i giovani ebrei estromessi dalle università italiane, e riusce a pubblicare alcuni articoli in forma anonima sul Periodico delle Matematiche, di cui era stato direttore. Torna a insegnare. Tra i fondatori della scuola italiana di geometria algebrica, allarga gli orizzonti del dibattito scientifico occupandosi di filosofia, storia e didattica della matematica. Fonda la Società filosofica italiana (di cui fu presidente), assieme a Bruni, Dionisi, Rignano e Giardina fonda la rivista internazionale Rivista di Scienza ed e nominato direttore del Periodico di matematiche, organo della Mathesis. Diresse, tra l'altro, la sezione di matematica dell'Enciclopedia Italiana. Fu un filosofo di notevole livello e la sua fama fu internazionalmente riconosciuta. I suoi contributi allo sviluppo della geometria algebrica furono rilevanti, per importanza e originalità. Il periodo in cui si trova a vivere era un periodo di cambiamenti epocali, cambiamenti che interessarono anche i concetti base della matematica e della fisica. Enriques recepì immediatamente la portata delle novità introdotte dalle opere di Einstein, che fu da lui invitato a tenere una conferenza a Bologna. Nel campo dei fondamenti della matematica si ricordano i testi scolastici di grande diffusione, rivolto all'insegnamento nei licei e scuole superiori, nei quali la geometria euclidea, l'algebra elementare e la trigonometria vengono presentate con il metodo razionale deduttivo. Fra le sue opere più diffuse di matematica elementare si ricordano:  Questioni riguardanti le matematiche elementare, Questioni riguardanti la geometria elementare, Bologna Zanichelli); Elementi di Geometria ad uso delle scuole superiori (con U. Amaldi), Zanichelli Bologna e successive edizioni e ristampe);  Nozioni di matematica ad uso dei licei moderni (con U. Amaldi), Zanichelli Bologna); Gli elementi di Euclide e la critica antica e moderna (Roma e Bologna, Le matematiche nella storia e nella cultura, Bologna. Come opere principali di matematica superiore si ricordano in particolare:  Lezioni di geometria proiettiva, (it, de). Lezioni di geometria descrittiva, Bologna, Lezioni sulla teoria geometrica delle equazioni e delle funzioni algebriche. Bologna. Lezioni di geometria descrittiva, Le superficie algebriche, Oltre alla sua attività come matematico, sviluppa significative ricerche di epistemologia, storia della scienza e filosofia della scienza. Questo suo impegno per il rinnovamento della cultura, avvenne in un periodo non facile, sia per gli eventi bellici, sia per la cultura dominante nella prima metà del Novecento, caratterizzata dalla filosofia idealistica e dal ridotto interesse verso la cultura scientifica. Fra le sue numerose saggi in queste materie si ricordano:  Problemi della scienza” (Zanichelli, Bologna); “Razionalismo e storicismo in "Rivista di Scienza", Zanichelli, Bologna, Il pragmatismo in "Scientia", Zanichelli, Bologna); “Scienza e razionalismo, Zanichelli, Bologna. Matematiche e teoria della conoscenza in "Scientia", Zanichelli, Bologna); “Per la storia della logica, Zanichelli, Bologna. Storia del pensiero scientifico, Bologna, scritta con G. Santillana. Il significato della storia del pensiero scientifico, Bologna, ripubblicato da Barbieri, La teoria della conoscenza scientifica da Kant ai nostri giorni, Bologna. Le dottrine di Democrito d'Abdera. Testi e commenti, con M. Mazziotti, ripubblicato per Edizioni immanenza. Sviluppò una corrente di pensiero vicina al razionalismo. Assieme a Peano si può considerare uno dei principali filosofi italiani che si sono dedicati allo studio della logica e della filosofia della scienza nella prima metà del Novecento. Ha messo in luce due aspetti fondamentali del pensiero scientifico  nella prima metà del sec XX: la sempre maggiore specializzazione delle discipline fisiche, tecniche, ecc. e la tendenza al rinnovamento che si è avuta sia nei fondamenti della matematica, sia nella fisica moderna. Assieme a Bruni, Dionisi, Giardina e Rignano, fonda la rivista di ricerca e divulgazione scientifica Rivista di scienza (rinominata successivamente Scientia), con l'obiettivo dichiarato di superare le divisioni disciplinari in nome dell'unità del sapere e contro l'eccessiva specializzazione accademica. Contro codesti criterii ristretti intende reagire soprattutto il movimento nuovo di pensiero verso la sintesi; una Filosofia libera da legami diretti coi sistemi tradizionali, sorge appunto a promuovere la coordinazione del lavoro, la critica dei metodi e delle teorie, e ad affermare un apprezzamento più largo dei problemi della Scienza. Pel quale il particolarismo stesso viene compreso in un aspetto più adeguato nella interezza del processo scientifico. (Programma, Rivista di Scienza). Condusse la rivista, quando un articolo di Rignano sulle cause della guerra lo costrinse a rassegnare le dimissioni. Torna alla direzione alla morte di quest'ultimo e sotto sua esplicita richiesta fino al’anno delle leggi razziali. Abbandonato ogni incarico, ritorna infine alla guida di Scientia a due anni dalla morte. Il primo saggio significativo dedicato da Enriques a questioni di metodo e filosofia della conoscenza è l'opera Problemi della scienza nella quale compie un'analisi articolata delle varie discipline della matematica, della geometria, della meccanica, della fisica edella chimica alla fine del XIX secolo. Mette in evidenza l'importanza che lo scienziato deve analizzare con la massima attenzione, sia i fondamenti logici e sperimentali delle diverse discipline, sia il contesto storico e le situazioni in cui i principi scientifici sono stati scoperti.  In quest'opera Enriques indica che una visione dinamica della scienza, porta naturalmente nel terreno della storia. I fondamenti della scienza quindi non possono essere capiti completamente se non si analizza anche il contesto storico e culturale nel quale sono stati formulati. L'opera ebbe maggiore fortuna e diffusione all'estero, che non in Italia, dominata agli inizi del Novecento dalla cultura letteraria e della filosofia idealistica. Il suo pensiero trova riscontro nelle teorie elaborate dai massimi epistemologi filosofi fra cui Popper, Lakatos e Kuhn. In particolare nel pensiero di Lakatos e di Kuhn viene sviluppata la concezione della formazione storica dei concetti scientifici, come opera di più autori e ricercatori, che in un determinato periodo storico elaborano una serie di principi-base sui quali viene sviluppata una teoria ipotetico-deduttiva e le successive verifiche sperimentali.  Importante è anche la presa di posizione sia rispetto alla filosofie idealistiche del ‘900, che hanno tralasciato gli aspetti della filosofia della scienza, sia la sua posizione critica rispetto alla filosofia di Kant. In particolare, critica il concetto di giudizio sintetico a priori di Kant (Critica della ragion pura). Secondo Enriques, i principi fondamentali delle scienze sono elaborazioni razionali derivate per induzione dall'esperienza e dalla percezione sensoriale e non sono giudizi sintetici a priori. In questo saggio porta alcuni esempio fondamentali. I postulati della geometria sono generalizzazioni, per astrazione, di semplici esperienze geometriche, che ogni allievo compie fin dalle prime osservazioni razionali del mondo esterno, svolte anche in ambito scolastico. I principi della geometria sono generalizzazioni di esperienze sensoriali concrete.  Allo stesso modo anche i principi della Fisica e della Chimica derivano direttamente da generalizzazioni di esperimenti reali. Ad esempio la Legge di conservazione della massa dovuta a Lavoisier non è un giudizio sintetico a priori, come crede Kant. È noto infatti che deriva da semplici esperimenti fisici, svolti pesando i composti chimici prima e dopo una reazione chimica. La nuova impostazione razionalistica e storica fu avviata in Italia da Enriques, in Francia da Duhem e in Austria da Mach e da altri autori riunitisi intorno al Circolo di Vienna. Fu poi sviluppata ulteriormente in Italia da Geymonat e dalla sua scuola milanese che ha ripreso gli studi di Enriques, sviluppando i temi di storia della scienza e di filosofia della scienza.  Un'altro saggio fondamentale è Per la storia della logica che mette in evidenza l'importanza della deduzione, della induzione e gli altri aspetti interpretativi ed epistemologici della logica.  Il saggio ha un approccio storico e descrittivo della logica è ricco di citazioni originali, e affronta questo difficile argomento anche con una certa ironia ed eleganza letteraria. Nell'opera, sono illustrati in modo semplice e sintetico i contributi portati a questa disciplina dai vari filosofi nelle varie epoche. Si può considerare uno dei pochi testi in cui la materia è esposta in modo chiaro, essenziale e interessante.  Di notevole interesse per le fonti storiche citate e per la narrazione della genesi dei concetti scientifici sono la serie di opere dedicate alla storia della scienza. Il primo saggio fu la “Storia del pensiero scientifico” scritto in collaborazione con G. Santilana. Quest'opera ripercorre la storia delle scienze matematiche, geometriche, astronomiche, meccaniche e fisiche dall'antica Grecia fino ai giorni nostri, con numerose citazioni e fonti storiche degli autori originari. A esso seguirono altri testi di approfondimento, fra cui, “Il significato della storia del pensiero scientifico e La teoria della conoscenza scientifica da Kant ai nostri giorni; Lineamenti di filosofia della scienza. Dei numerosi saggi dedicati agli aspetti filosofici della scienza si desumono i principali lineamenti del suo pensiero razionalista, che, a titolo orientativo si possono cercare di sintetizzare nei seguenti punti:  Equilibrio fra intuizione e ragionamento logico. Nelle opere scientifiche gli argomenti sono esposti in modo intuitivo, evidenziando i motivi sperimentali e oggettivi alla base di alcuni concetti astratti. Dopo la descrizione dei suoi principi, si sviluppa poi la materia con criteri logici, deducendo razionalmente le principali leggi, teoremi e applicazioni. Questo carattere, comune anche ai grandi scienziati del passato (Galilei, Cartesio, Newton, Eulero, Coulomb, ecc.) contraddistingue il metodo di Enriques, rispetto agli indirizzi formalisti che  si sono avuti nella logica e nella matematica del XX secolo. Problema della specializzazione delle scienze: ha colto questo aspetto critico delle numerose edeterogenee discipline scientifiche nel XIX e XX secolo. Per superare il problema della eccessiva frammentazione del sapere ha proposto di ripensare i concetti fondamentali della fisica, della geometria, della matematica e delle altre scienze naturali con criteri unitari, approfondendone il significato intuitivo, sperimentale e la sua genesi storica. Approccio storico alla conoscenza scientifica. Questo aspetto caratterizza il metodo di Enriques, che ha sviluppato con passione e impegno moltissimi aspetti di storia della scienza. La storia della scienza fa parte della scienza stessa. Per capire veramente un teorema non è sufficiente capire solo la sua dimostrazione, ma anche il contesto storico nel quale è stato formulato, quali sono stati i problemi tecnici che hanno portato alla sua formulazione e come sono stati risolti tali problemi con l'applicazione delle teorie scientifiche. Sviluppato in Italia il nuovo approccio di storia della scienza avviato da Mach e da Duhem, precursori del gruppo di filosofi e scienziati Professore del Circolo di Vienna. Valenza fisica dei concetti geometrici. La geometria può essere considerata come il primo capitolo della fisica, diversamente dai matematici e filosofici formalisti che la considerano una scienza astratta. L'orientamento formalista nella geometria è stato delineato da Kant (Critica della ragion pura) per il quale i postulati geometrici non derivano solo dall'esperienza visiva, ma sono giudizi sintetici a priori di carattere soggettivo e indipendenti dalle percezioni sensoriali. La tesi di Kant è stata discussa dai massimi esperti di filosofia teoretica con orientamenti contrastanti. Nel XIX secolo in opposizione a Kant si è delineato un approccio fisico-sperimentale ai principi geometrici, al quale hanno aderito molti storici e filosofi della scienza. Ha contribuito alla riscoperta del significato più autentico, di carattere storico, intuitivo e sperimentale alla base della geometria, della matematica e delle scienze fisiche. Contributi su Scientia Articoli “Eredità ed evoluzione” su amshistorica.cib.unibo. “I numeri e l'infinito” su amshistorica.cib.unibo. “Il pragmatismo” su amshistorica.cib.unibo. “Il principio di ragion sufficiente” su amshistorica.cib.unibo. “Il problema della realtà” su amshistorica.cib.unibo. “Il significato della critica dei principii nello sviluppo delle matematiche” su amshistorica.cib.unibo. “Importanza della storia del pensiero scientifico nella cultura nazionale” su amshistorica.cib.unibo.   su amshistorica.cib.unibo. “L'infinito nella storia del pensiero” su amshistorica.cib.unibo. La filosofia positiva e la classificazione delle scienze, I motivi della filosofia di Eugenio Rignano, su amshistorica.cib.unibo. Recensioni (in francese)  Ailly (D'),Imago mundi, Aliotta, A. L'esperienza nella scienza, nella religione e nella morale, su amshistorica.cib.unibo.  Archibald, R. C. Outline of the History of Mathematics, su amshistorica.cib.unibo.  Bignone, E.  L'Aristotele perduto e la formazione filosofica di Epicuro, su amshistorica.cib.unibo.  Blanche, R. Le rationalisme de Wewell, su amshistorica.cib.unibo.  Bouasse H.Bachot et bachotage, su amshistorica.cib.unibo.  Brunetet Mieli, A. Histoire des Sciences. Antiquite, su amshistorica.cib.unibo.  Brunschwig, L. De la connaissance de soi, su amshistorica.cib.unibo.  Carbonara, C. Scienza e filosofia ai principi dell'età moderna, su amshistorica.cib.unibo.  Carnap, R. L'ancienne et la nouvelle logique, su amshistorica.cib.unibo.  Carnap, R. La Science et la Metaphysique devant l'analyse logique du langage, su amshistorica.cib.unibo.  Caullery, M. La science francaise depuis le XVII siecle, su amshistorica.cib.unibo.  Collected papers of Charles Sanders Peirce, su amshistorica.cib.unibo.  Correspondance duMarin Mersenne, su amshistorica.cib.unibo.  CournotConsiderations sur la marche des idees et des evenements dans les temps modernes, su amshistorica.cib.unibo.  Crowter, J. G.British Scientists of the Nineteenth Century, su amshistorica.cib.unibo.  D'Amato, F. Studi di storia della filosofia, su amshistorica.cib.unibo.  De Waard, G.L'experience barometrique, ses antecedents et ses explications, su amshistorica.cib.unibo.  Del Vecchio Veneziani, AGaetano Negri, su amshistorica.cib.unibo.  Della Volpe, G. La filosofia dell'esperienza di Davide Hume, su amshistorica.cib.unibo.  Della Volpe, G. La filosofia dell'esperienza di Davide Hume, su amshistorica.cib.unibo.  Dingler, H.Philosophie der Logik und Arithmetik, su amshistorica.cib.unibo.  Dugas, R.Essai sur l'imcomprehension mathematique, su amshistorica.cib.unibo.  Fano, G. Geometria non euclidea, su amshistorica.cib.unibo.  Frank, Ph. Theorie de la connaissance et physique moderne, su amshistorica.cib.unibo.  Galilei, G. Opere, su amshistorica.cib.unibo.  Ginzburg, B. The Adventure of Science, su amshistorica.cib.unibo.  Gli atomisti. Frammenti e testimonianze, su amshistorica.cib.unibo.  Gregory, J. C.Combustion from Heracleitos to Lavoisier, su amshistorica.cib.unibo.  Hahn, H. Logique, mathematique et connaissance de la realite, su amshistorica.cib.unibo.  Heidel, W. A.The heroic Age of Science, su amshistorica.cib.unibo.  Hessenberger, G. Grundlagen der Geometrie, su amshistorica.cib.unibo.  I frammenti degli stoici antichi, su amshistorica.cib.unibo.  Jaffe, H. Natural Law as controlled but not determined by Experiment, su amshistorica.cib.unibo.  James W. Philosophie de l'experience, su amshistorica.cib.unibo.  Janek, A. Die realitat vom Standpunkte des Efallelismus, su amshistorica.cib.unibo.  Keyser, C. J.Mathematics and the Question of Cosmic Mind, with other Essays, su amshistorica.cib.unibo.  La philosophie de Giovanni Vailati, su amshistorica.cib.unibo.  La philosophie de la nature, su amshistorica.cib.unibo.  Le Bon G. La Revolution Francaise et la psychologie des revolutions, su amshistorica.cib.unibo.  Lecat, M.Erreurs de mathematiciens des origines a nos jours, su amshistorica.cib.unibo.  Lennhardt, H.La nature de la connaissance et l'erreur initiale des theories, su amshistorica.cib.unibo.  Liebert, A. Philosophie des Unterrichtes, su amshistorica.cib.unibo.  Maiocco F. L.Le leggi di Mendel e l'eredita, su amshistorica.cib.unibo.  Marshall, C. E.Microbiology, su amshistorica.cib.unibo.  Matematiche e teoria della conoscenza, su amshistorica.cib.unibo.  Metz, A. Meyerson, une nouvelle philosophie de la connaissance, su amshistorica.cib.unibo.  Metzger, H. La philosophie de la matiere chez Lavoisier, su amshistorica.cib.unibo.  Meyerson, E. Du cheminement de la pensee, su amshistorica.cib.unibo.  Ness, A.Erkenntnis und Wissenschaftliches Verhalten, su amshistorica.cib.unibo.  Nordstrom, J.Moyen age et Renaissance, su amshistorica.cib.unibo.  Platone e la teoria della scienza, su amshistorica.cib.unibo.  Reflexions sur l'art d'ecrire un traite: a propos d'un traite de mathematiques, su amshistorica.cib.unibo.  Rensi, G. Le ragioni dell'Irrazionalismo, su amshistorica.cib.unibo.  Rey, A.Rey, A.Les mathematiques en Grece au milieu du V siecle, su amshistorica.cib.unibo.  Servien, P.Principes d'esthetique. Problemes d'art et langage des sciences, su amshistorica.cib.unibo.  Smith, D. E.The Poetry of Mathematics and other Essays, su amshistorica.cib.unibo.  Spirito, U. Scienza e filosofia, su amshistorica.cib.unibo.  Stefanini, L. Platone, su amshistorica.cib.unibo.  Stefanini, L. Platone, su amshistorica.cib.unibo.  Tannery, P.Puor l'histoire de la science hellène, su amshistorica.cib.unibo.  Wind, E. Das Experiment und die Metaphysik, su amshistorica.cib.unibo.  Wolf, A. A History of Science, Technology and Philosophy in the 16 and 17 Centuries, su amshistorica.cib.unibo.L'autore ha curato una decina di manuali didattici di geometria e algebra elementare e oltre 20 trattati di matematica superiore. Ha inoltre pubblicato un'ampia serie di testi di storia e di filosofia della scienza e numerosi articoli specializzati. L'elenco completo delle sue opere comprende oltre 300 titoli, fra saggi, articoli e trattati scientifici.   Questo testo proviene da Mille anni di scienza in Italia, opera del Museo Galileo. Istituto Museo di Storia della Scienza di Firenze Spoglio di articoli e recensioni disponibile sul Catalogo Italiano dei Periodici (ACNP). Informazioni sulla storia editoriale di Scientia. Silvia Haia Antonucci e Giuliana Piperno Beer, Sapere ed essere nella Roma razzista. Gli ebrei nelle scuole e nell’università, Roma, Gangemi editore, Collana Roma ebraica-7,  Tina Nastasi,Federico Enriquez e la civetta di Atena, ed plus,Pisa, Comunità ebraica di Livorno. TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Federigo Enriques / Federigo Enriques (altra versione), in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Federigo Enriques, su MacTutor, University of St Andrews, Scotland. Federigo Enriques, su Mathematics Genealogy Project, North Dakota State University.  Opere di Federigo Enriques, su Liber Liber.  Opere di Federigo Enriques, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Federigo Enriques, Gaspare Polizzi, ENRIQUES, Federigo, in Il contributo italiano alla storia del Pensiero: Filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,. Edizione nazionale delle opere. Digitalizzazione completa di Scientia e Rivista di Scienza su AMS Historica. Sito ufficiale del Centro Studi Enriques di Livorno. "Le Armonie Nascoste", un recente documentario su Enriques su lalimonaia.pisa. Coloro che s'immergono nella dialettica, dice Aristone di Chio, fanno come i mangiatori di gamberi: per un boccone di polpa perdono il loro tempo sopra un mucchio di scaglie. Ma Hamilton, riportando il motto, vi aggiunge un’osservazione che non sembra aver perduto valore ai nostri giorni. Da noi, dice, il filosofo perde il tempo senza nemmeno gustare un boccone di polpa. Infatti il filosofo che ha percorso gli studi romani antichi classici, domanderebbe invano alla dialettica che gli fu insegnata, un concetto adeguato di quello che è l’ordinamento di un calcolo deduttiva come la geometria, nonché una spiegazione del significato e del valore dei principi che s’incontrano in la geometria. Che cosa e una definizione, un’assioma, un postulato? Che posto occupano nell’organismo della teoria dialettica? Quali sono i criteri che presiedono alla loro scelta o che permettono di giudicare della loro accettabilità? Tutte queste domande rimangono senza risposta, pel filosofo, se pure ad esse si alluse vagamente da qualche oscura dottrina del concetto. Certo esse non ricevono lume dalle minute classificazioni sillogistiche, per mezzo delle quali egli vien abilitato, quando mai, a verificare ciò che non ha alcun bisogno di verifica, cioè la coerenza formale di una dimostrazione geometrica. Ora è essenziale rilevare che il filosofo, ponendosi il problema dell’ordinamento della propria disciplina, si ritrova in faccia alla dialettica nella posizione stessa dei filosofi che hanno lavorato a costruirne l’edifizio, giacche lo sviluppo della dottrina del ragionamento procede appunto dalla critica dei filosofi che hanno riflettuto intorno alla natura e all’ordine della consequenza logica. Come padre della dialettica viene designato Aristotele. Ma Aristotele non può essere ritenuto se non raccoglitore e sistematore di ciò che nella dialettica e elaborato prima di lui, qualunque sia il contributo originale che può aver recato al sistema. L'affermazione precedente apparirà tosto giustificata quando si ricordi che le matematiche avevano raggiunto, già all’epoca di Platone, uno sviluppo assai elevato, [Il vanto che Aristotele dà a sè stesso (al termine degli Elenchi Sophistici) di aver creato una nuova scienza, appare, a chi legga tutto il paragrafo, riferirsi in modo stretto alla scienza della discussione o dialettica o collequenza e ad ogni modo non prova nulla contro il nostro asserto. La logica degli anlichi fiacche — a partire da Ippocrate di Chio — si cominciò a scrivere trattazioni dei suoi Elementi. Anche, che anzi, proprio all'epoca di Platone, ed in più o meno stretta connessione coll’accademia da cui pure usce Aristotele, alcune teorie aritmetiche furono oggetto di una profonda elaborazione critica (Eudosso, Teeteto...), che costituisce il precedente storico degli Elementi d'Euclide. Anche, che, d’altra parte, la dialettica aveva ricevuto uno straordinario sviluppo nelle discussioni dei Sofisti, sia presso i primi insegnanti salariati che presero tal nome, filosofi — come Protagora dì Abdera — sostenitori dell’ empirismo avverso il razionalismo metafisico del circolo di Velia, sia, più specialmente, presso i Megarici ed altri pensatori affini, che, in connessione coi circoli socratici, ripresero e svolsero in un modo formalistico la veduta veliatica. La finezza di alcuni sofismi attribuiti a filosofi di Velia, basterebbe da sola a testimoniare della profondità dell’analisi da essi ragggiunta, di fronte a cui fanno talora meschina figura le spiegazioni o confutazioni d’Aristotele negli Elenchi Sophistici. Aggiungasi che le stesse polemiche aristoteliche contro avversari non nominati (per esempio, intorno alla necessità e al carattere dei principi negli Analytica posteriora) valgono ad indicare che il problema logico dell’ordinamento di un calcolo analitico-deduttivo si dibatte secondo vedute diverse, alcune delle quali si riveleranno — ad un esame approfondito — più vicine alle vedute moderne, in confronto a quelle adottate dal filosofo di Stagira. I trattati d’Aristotele, che furono raccolti sotto il nome comprensivo di Organo, manifestano la doppia origine, dalla critica dell’aritmetica e dalla pratica della colloquenza. Infatti, i primi due saggi (Categoriae e De Interpretatione) si riferiscono alla classificazione o tassonomia delle espressione isolate e della proposizione, formando quasi una introduzione a tutta l’opera. I due saggi successivi (Analytica priora e Analytica posteriora) svolgono appunto la colloquenza come calcolo, quale risulta dall’analisi del ragionamento. Invece i due saggi (Topica ed Elenchi Sophistici) concernono l’arte della colloquenza o argomentare, mirante — non all’analitico ma soltanto al ‘desirabile’ ed al ‘credibile’ o ‘probabile’ in rapporto alla pratica della colloquenza. Aristotele ritiene per quest’arte il nome eleatico-platonico di ‘colloquenza’, mentre distingue col nome di propedeutica analitica – lo studio dell’analitico -- l’esame del procedimento della scienza dimostrativa, in cui dalla possibilità della scienza si desumono le condizioni del suo ordinamento questo senso è stato ripreso da Kant in quella parte della Critica della ragion pura che costituisce l’Analitica trascendentale. L’espressione ‘logicus’ è usato dal nostro per designare procedimenti del discorso che, non partendo da principi, non hanno valore dimostrativo. Ma quest’espressione s'incontra, già prima, [Quest’osservazione è fatta da Pranll, Geschichte der Logik. La logica degli antichi nel titolo di un saggio di Democrito d’Abdera:  rtepi Xoytxwv i) xavwv. E nella misura in cui si può ammettere che Aristotele ne abbia conservato il ‘significato’, rivelerebbe una diversa cocezione (più relativa e formale) del ragionamento: la quale s’incontra di fatto dopo Aristotele, e spalmente presso gli Stoici. Ora questi filosofi, appunto a partire da Zenone Cizio, designano come “to logikón” quella parte della filosofia che ha relazione al “logo” o discorso, e che comprende questioni attinenti al ragionamento e questioni rettoriche o di grammatical della profundita; mentre la scuola contemporanea di Epicuro ha tratto sicuramente da Democrito il nome di canonica, con cui designa le regole del metodo. Siffatte osservazioni, tendono a mostrare che l’influenza della vasta opera aristotelica sui successori, non fu così esclusiva come di solito si ammette, e c’inviterà a ricercare in questi stessi successori il riflesso delle opinioni più antiche, ed in particolare di quelle del maestro d’Abdera. Per formarsi un concetto dell’origine della logica, sarebbe interessante di ricercare se e quali ([Diels, Die Fragmente der Vorsokraliker: Dem.A 33, B. 10^. Diog. Laert. VII, 33 (In Arnim, Diogenes, 16). CO Aggiungeremo che Prantl opina che il nome proprio vj, come appellativo della scienza del ragionamento, o come nome comprensivo di esso e della rettorica, introduca piuttosto dai tardi peripatetici che dagli stoici] rapporti sieno interceduti fra la critica dei matematici e le sottili disquisizioni e implicature dei sofisti. Clairaut, per spiegare il rigore del ragionamento di Euclide, notta: ce geomètre avait à convaincre des Sophistes obstinés qui se faisaient une gioire de se lefuser aux vérités le plus évidentes. Houel ripette che la forma dogmatica d’Euclide è dovuta a “sa préoccupation de fermer avant tout la bouche à des sophistes que la Grece avait le tori de prendre au sérieux.” “De là,” egli aggiunge, “son habitude de demontrer toujours qu' une chose ne peul pas ótre au lieu de demontrer qu’ elle est.” Queste affermazioni sono state frequentemente contestate, giacche è difficile riconoscere che i sofisti abbiano esercitato un'influenza diretta, non dico sopra Euclide, ma nemmeno sopra i geometri, suoi predecessori, che hanno elaborato criticamente la scienza matematica. Tuttavia si può citare, a questo proposito, qualche accenno ad una polemica antimatematica di Protagora e di Antifonte tendente a restituire (avverso la filosofia razionalistica) il carattere empirico (alla Mills, i. e., sintetico, non analitico) ai concetti della geometria: argomenti dello [Elementi de geometrie, Parigi] [Essai critique sur les Principes fondamenlaux de la Géométrie” Parigi] Nondimeno i rapporti amichevoli di Protagora col matematico Teodoro di Cirene sono attestati da Platone: Teeteto 161 b 162 a. (Aristotele, Met. II, 2. (20). Cfr. Simplicio in Aristotele Phys.: Diels B. 13. La logica degli antichi] stesso genere vedonsi comunemente ripetuti dagli empiristi» e — per quanto concerne l'antichità — si trovano raccolti da Sesto Empirico (‘). Ma, qualunque veduta si abbia intorno alle idee espresse da Clairaut e da Hoiiel (che sono errate almeno per quel che concerne la svalutazione del movimento sofistico I), un altro nesso, più importante, appare fra la critica logica dei matematici e la dialettica dei sofisti, poiché l’una e l’altra sono generate insieme dalla filosofia di Velia. Infatti Zenone di Velia, è additato, dallo stesso Aristotele, come inventore di quell’arte litigiosa che è la dialettica e, d’altra parte, l’analisi penetrante di Tannery e di Zeuthen sui celebri argomenti intorno al moto (la dicotomia, l’Achille, la freccia, ecc.), ha messo in evidenza il loro significato e valore matematico, sicché il sottile dialettico in cui la tradizione non ha veduto che un ragionatore ‘paradossale’, si scopre ai nostri occhi come iniziatore di quell’ ordine di considerazioni che costituisce l'analisi infinitesimale. Ed é sommamente istruttivo riconoscere che proprio dalle considerazioni infinitesimali — in cui il pensiero i trova esposto a non sospettate fallacie — trae origine la critica del ragionamento, onde ne esce fuori la sco¬ perta del principio di contraddizione e il procedimento [Adversus Aialhcmaticos, I. III. (2 ) Cfr. Diog., L., Vili, 57; Sesto Adv., Math., VII, 6 (in Diels, Zenone, A, IO); Aristotele ed. Didot] di riduzione all'assurdo, o eliminazione della negazione. Democrito che spingerà innanzi l’analisi infinitesimale, scoprendo il volume della piramide, viene parimente ricordato da Diogene Laerzio come prosecutore della dialettica zenoniana. Ma importa spiegare, sia pure con brevità, come le origini dell’analisi infinitesimale si riattacchino ad un critica dei principi della geometria, a cui pertanto viene a connettersi lo sviluppo della logica. La dimostrazione delle cose che qui asseriamo si troverà nei lavori degli storici sopra citati, ed anche in altri nostri scritti, in cui abbiamo trattato più particoiar-mente questo soggetto. Secondo le notizie che ci vengono fornite da Proclo, nel commento al primo libro dell' Euclide, le principali teorie geometriche che costituiscono gli Elementi furono elaborate dai pitagorici e ricevettero già a Crotone uno sviluppo dimostrativo. Zeuthen suppone che il punto di partenza di questo sviluppo sia stato il tentativo di stabilire in generale la relazione fra i quadrati dell’ipotenusa e dei cateti del triangolo rettangolo, nota sotto il nome di teorema di Pitagora. D’altronde vi sono numerosi indizi che la geometria pitagorica avesse come fondamento una teoria delle proporzioni (symmetria, o della misura o analogia), basata sopra un concetto EMPIRICO del punto-esteso, preso come [Cfr. Enriques, Il procedimento di riduzione all'assurdo, Bollettino della Mathesis ».Cfr. in ispecie Tannery, Pour la Science hellcne, cap. X. La logica degli antichi] elemento unitario di tutte le cose (monade). Così l’affermazione pitagorica che le cose sono numeri è da interpretare nel senso che un corpo, o una figura geometrica, che in questo stadio della filosofia si pensa in maniera concreta, e un aggregato di punti, cioè unità aventi posizione. Ma l’ipotesi monadica traeva con se la commensurabilità (simmetria) di due segmenti qualsiansi, che appunto rendeva senz' altro possibile la misura, e questa conseguenza doveva urtarsi — nel stesso circolo pitagorico— colla scoperta che la diagonale e il lato del quadrato sono incommensurabili. Ora, mentre i pitagorici si affaticavano intorno a questa difficoltà, altri filosofi che del resto sono usciti dai medesimi circoli, iniziano la critica dei concetti geometrici, riconoscendo che un ragionamento, il quale voglia mantenersi immune da contraddizioni, deve riguardare il punto come privo di estensione, la linea come lunghezza senza larghezza, la superficie senza spessore, e di qui vengoo naturalmente condotti alle prime considerazioni infinitesimali. Questi critici razionalisti sono i filosofi di Velia: Parmenide e il suo discepolo, l’italiano Zenone. La loro speculazione segna un punto decisivo nella storia della filosofìa, perocché essa proclama nettamente, per la prima volta, i diritti della ragione: il ragionamento coerente viene assunto [Parmenide è annoverato fra i pitagorici nel catalogo di Giarablico (Diels, Pyth, 45, A.) e delle sue relazioni con altri pitagorici ci viene attestato da Diogene Laerzio. Senz’ altro a misura della verità, cioè dell' esistenza metafisica, distinta e contrapposta all’ opinione probabile che si riferisce alla realtà sensibile. Da questo razionalismo, per cui il pensiero non esita a staccarsi dalle apparenze fenomeniche per serbare rigida fede ai suoi principi, nasce — come si è detto — il metodo dialettico, che è il germe della logica. La quale ebbe a svilupparsi di poi, mentre fervevano le controversie fra empiristi e razionalisti, e — per opera di questi — si proseguiva lo sviluppo dell analisi infinitesimale (Democrito), e se ne indagava criticamente i principi (Eudosso). Ma, poiché questa critica — toccando alla teoria fondamentale degli incommensurabili e delle proporzioni — veniva ad involgere l’intiero problema dell’assetto rigoroso della geometria, la ricerca logica non poteva limitarsi all’ analisi dei sottili procedimenti implicaturali della deduzione, anzi doveva naturalmente estendersi all’ordinamento della scienza e alla valutazione dei suoi principi. In rapporto a ciò che precede riescono sommamente espressivi ed interessanti i giudizii di Plato ne, sebbene forse, si sia esagerata dallo Zeuthen l’influenza che il filosofo ateniese può. “Sur la riforme qu' a subie la malhématique de Platon à Euclide et gràce à laquelle elle est devenue Science raisonnée, “Memorie dell’ Accademia di Copenhagen”)] avere esercitato su pensatori matematici quali Eudosso Teeteto, allorché designa il movimento critico el tempo col nome di riforma platonica dèlle matematiche. Riferiamo alcuni passi della Republica 510. Quelli che si occupano di geometria e di aritmetica ecc. assumono il “pari” ed il “dispari”, e le figure e tre specie di angoli, e altri simili supposti nelle dimostrazioni; e come avendone certa scienza questi supposti li prendono per base, e quasi fossero evidenti non pensano affato a darne alcuna ragione, nè a se stessi, nè agli altri; anzi, di qui partendo, ordinatamente dimostrano lutto il resto giungendo infine a ciò che si proponevano di dimostrare. Essi si valgono, per ciò, di figure visibili, e ragionano su di esse, non ad esse pensando, ma a quelle di cui queste sono l’immagine, ragionando sul quadrato in se stesso e sulla sua diagonale, anziché su quello o quella che disegnano; e cosìutte le figure che formano o disegnano (quasi ombre o immagini specchiate dall' acqua), tutte le adoperano come rappresentazioni, cercando di vedere attraverso di esse i loro originali, che non sono visibili se nndall’intelligenza (5:cV3ix).... ». (511). Questa specie invero io la dicevo intelligibile, e intendevo dire che l’anima nell’ investigazione di essa, è costretta a valersi di remesse. Ci valiamo dell’ed. Didot e della trad. it. edita da Laterza, che riportiamo con lievi modificazioni. non procede al principio, perchè non è in grado di andare oltre alle premesse, ma si vale, come d’ immagini, degli originali appartenenti al mondo di quaggiù, da esse imitali, valutandoli e stimandoli come eidenti di fronte a quelle,” mentre “il ragionamento che usa la forza della dialettica, considerando le remesse non come principi ma soltanto come pre¬ esse — quasi punti d’ appoggio e di partenza — giunge a ciò che più non ha premesse, cioè al principio universale, e raggiuntolo e tenendosi fermo alle conseguenze che ne derivano, perviene al fine senza far uso di nessun sensibile, cioè procede dalle idee stesse alle idee attraverso le idee, per finire alle idee. Di qui la distinzione posta fra la ragione del dialettico (vo’jc, vóy}oic) e l’intelligenza del geometra (3:xvo:s() che sta di mezzo fra l’opinione e la ragione”. La stessa distinzione ritorna in: Rep. (533c,...): la geometria e le scienze affini sognano rispetto all’ essere, ma è imposibile che lo vedano ad occhi aperti, intanto che si valgono di postulati e li tengon fermi, mentre non sanno renderne conto. Veramente la disciplina, che ignora il suo principio, e che ha la fine e il mezzo legato a ciò che non sa, come si potrebbe chiamarla scienza?... ».Vi è qualche difficoltà a comprendere queste vedute. Anzitutto giova respingere l’ interpretazione più comune, che stabilisce una differenza radicale fra la ragione del dialettico e l’intelligenza del geometra, giacché non si riesce a dare alcun significato alle idee platoniche, se non ammettendo che esse esistano nello stesso modo in cui si afferma l’esistenza di rapporti o di forme matematiche nella natura. L' apparente contraddizione fra questo modo d'intendere la dottrina e le parole del testo sopra accennato, si toglie ammettendo che il posto inferiore attribuito alle matematiche di fronte alla dialettica, si riferisca non tanto alle matematiche pure, costruibili come scienze (pafW’yiJ.aT*) secondo l’ideale del nostro, quanto alle matematiche considerate come arti (zl'/yy.:). Ed in appoggio a tale veduta si possono citare altri passi dello stesso dialogo, p. es.: Rep. (527)  anche coloro che sono poco profondi in geometria, non metteranno in dubbio che questa scienza è tutto il contrario di quanto parrebbe dalla terminologia che usano quelli che la professano. È una terminologia troppo ridicola e misera, perchè — quasi si trattasse di scopo pratico — parlano sempre di quadrare, di prolungare o di aggiungere. Invece tutta la scienza si coltiva collo scopo di conoscere”. Ma qual’ è l’ordinamento della geometria vagheggiato da Platone? su che base vorrebbe egli edificarne i principi? I passi citati indicano assai chiaramente che per conferire alla scienza un valore razionale, il filosofo [Cfr. G. Milhaud: Les philosophes géometres de la Grece. Parigi, Alcan; Enriques: Scienza e razionalismo, Bologna, Zanichelli] vorrebbe eliminare quelle domande che si pongono a fondamento delle dimostrazioni, sotto il nome di postulati (axioma), mercè cui si assume la possibilità di certe costruzioni, facendo appello ad operazioni pratiche sopra modelli sensibili. La base della geometria, edificata secondo i criteri della dialettica, consisterebbe duue in pure definizioni (il procedimento dialettico ha appunto come scopo di definire i concetti !) o in principi evidenti — quali gli assiomi — che Platone riguarderebbe come conoscenze innate, giusta la teoria della reminiscenza (annamnesis) esposta nel Menone. In tal guisa le proprietà elementari che una figure visibile ha porto occasione di riconoscere, merce 1 intelligenza ideahzzatrice (dianoia), apparirebbero fondate sulla pura ragione (nous). Rivolgendoci agli Analytica di Aristotele, vi troveremo notizie più precise sui criteri adottati dai geometri nell ordinamento logico della scienza, criteri che sara interessante di raffrontare a quelli che appaiono, in atto, negli Elementi euclidei. Già al principio degli Analytica priora, l’autore definisce il concetto della scienza di cui imprende lo studio. Anzitutto e da dire il soggetto e lo scopo di questo studio: il soggetto è la dimostrazione e lo scopo è la scienza dimostrativa (à~:a~y.tirj à7to8sM~:xf/). Quindi, negli stessi Analytica priora, viene a stabilire la teoria del sillogismo (teorico o aletico, e pratico o volitivo), e passa poi ad esaminare — nei posteriora — l’ordinamento delle scienze deduttive, riferendosi perciò continuamente alle matematiche. Quest’ ultimo trattato, che qui occorre specialmente esaminare, si apre coll’ enunciato che ogni conoscenza razionale, sia insegnata, sia acquistata, deriva sempre da conoscenze anteriori. L'osservazione mostra che ciò è vero di tutte le scienze. Infatti questo è il procedimento delle matematiche e, senza eccezione, di tutte le altre arti. Ora dal concetto stesso del sapere segue necessariamente che la scienza dimostrativa procede da principi veri, da principi immediati, più noti che la conclusione, di cui sono la causa ed a cui precedono. Aristotele (ibidem, 1, 3) esamina e respinge le obiezioni di due specie di avversari di questa dottrina, i quali pretendono o che non vi sieno principi e però che la dimostrazione riesca impossibile, dando luogo ad un regresso all’ infinito; o, all' opposto, che il procedimento della dimostrazione sia affatto relativo, sicché i principi possano provarsi partendo dalle conclusioni, così come le conclusioni dai principi: ciò che egli dice dar luogo ad un circolo vizioso. Sarebbe assai interessante conoscere gli avversari [Cfr. Enriques: Il concetto della Logica dimostrativa secondo Aristotele in « Rivista di filosofia ») An. post. I, 2 (6). a cui il nostro si riferisce. Forse la prima obiezione apparteneva alla polemica antimatematica di filosofi empiristi, mentre la seconda potrebbe essersi presentata nei circoli megarici (imbevuti del relativismo veliatico) ovvero a Democrito o ad altri matematici, critici dei principi della scienza. Ad ogni modo, della veduta qui espressa — che è solo apparentemente illogica — ci colpisce l'analogia che essa presenta con talune vedute moderne. Aristotele combatte questo relativismo, poiché tutta la sua metafisica, ispirata alla dottrina platonica delle idee, e soggiacente alla sua logica, reagisce appunto alle tendenze relativistiche delle speculazioni, che dalla scienza presocratica erano passate nel dominio del costume e delle credenze religiose, in guisa da minacciare le condizioni della vita sociale nel mondo ellenico. Il parallelismo che i veleiatici avevano scorto fra il logo o ragione e l’essere, e che i sofisti (avversari e prosecutori) avevano interpretato nel modo di proiettare nella realtà l’arbitrario che è proprio della libera critica, riceve, nella dottrina socratico-platonica, una interpretazione inversa. Infattim  la teoria ontologica delle idee, suppone un ordine assoluto di consistenza che stanno di fronte alla ragione come dati, sopra cui esso ha da modellare l’ordine della propria scienza. Così dunque Platone vede nella classificazione delle forme geometriche un modello della gerarchia delle specie naturali, la quale si rispecchia nquel procedimento più generale di “divisione” (diaresis) e di definizione (horismos) che costituisce la dialettica. Ed analogamente per Aristotele, il rapporto necessario ed irrversibile fra causa ed effetto, offerto dalla natura, si riflette nel rapporto fa premesse (p) e conseguenze (q) della scienza dimostrativa (p implicat q); la quale perciò possiede un ordine naturale che non può essere invertito, onde i suoi principi appariscno assolutamente indimostrabili, An. post. I, 2 (9): Bisogna che i principi da cui si parte sieno indimostrabili. Altrimenti, non possedendone la dimostrazione, on potrebbero ritenersi noti, poiché sapere in modo non accidentale le cose di cui la dimostrazione è posibile, è possederne la dimostrazione, Ora, proseguendo l’esame degli Analityca posteriora, veniamo istruiti più precisamente che i principi della scienza, si lasciano distinguere in più specie. Primo, i Termini o definizioni (3 poi), cioè supposizioni del ‘significato’ (semiosis,segno) dell’espressione (in linguaggio moderno: assunzioni di concetti primitivi non definiti) e definizione propriamente detta. Secondo, Supposizioni d’esistenza del genere e delle sue modificazioni, cioè delle cose designate dai termini. Terzo, Proposizioni immediate che occorre necessariamente [La teoria logica della definizione è trattata da Aristotele in An. post. II, e specie nei Capi 9 e 12: dove si pscrive la regola di restringere successivamente l’estensione del genere aggiungendo — nell’ordine naturale — la differenza specifica che lo delimitano, fino a che esse circoscrivano, nel loro insieme, l’estensione del soggetto da definire] riamete conoscere per apprendere qualsiasi cosa, le quali vengono chiamate assiomi (ófiwpaTsc) giacché vi sono proposizioni di tal natura e ad esse si riserva abitualmente questo nome. Infine anche ipotesi o postulati (odr^i-istra), che s'introducono effettivamente nell’ insegnameto delle matematiche (o anche nella discussione) domandando al discente di ammettere l'esistenza di qualche cosa di cui egli non abbia alcuna idea, ovvero abbia un’idea contraria. Qui d concetto d Aristotele riesce alquantscuro, iacché da una parte egli sembra ammettere (come Platone) che un postulato potrebbe essere eliminato * postulato... e ciò che si pone senza dimostrazione, quantunque potrebbe dimostrarsi, e di cui ci si serve senz’ averlo dimostrato » (I, 10 (8) ); e d’ altra parte (riferendo evidentemente le vedute dei geometri) egli avverte che una definizione non e un’ ipotesi perchè non dice se la cosa definita esista oppur no. Ma probabilmente il suo pensiero è che il sapere dovrebbe edificarsi su quelle sole supposizioni d'esistenza che hanno carattere di necessità, essendo vere di per sé stesse (xaO’ alili), le quali non si possono considerare come ipotesi o postulati.. (1, 10(7)), imperocché la dimostrazione si rivolge non alla parola esteriore, ma alla parola interiore dell’animo. Con ciò il Nostro fa appello a quel sentimento d’evidenza del pensiero che Platone. Usalo dai pitagorici secondo Giamblico (in Diels, D, 6). ha rappresentato come intima sincerità nel Teeteto, servendosi quasi delle stesse parole. Tuttavia Aristotele critica la teoria platonica della reminiscenza, negando che vi siano conoscenze innate. La conoscenza universale dei principi viene per lui acquisita indubbiamente dalla sensazione. Essa si produce mercè l’unità dell’ esperienza che sussiste nell' anima, nonostante la molteplicità degli oggetti, in forza della facoltà di fissare ciò che vi è di simile o d’identico nei particolari e di riconoscerlo come dato del pensiero. (An. post. 11, 15 (5,6, 7)). Ciò non toglie all’ assoluta verità che l'intelligenza idealizzatrice (òtavaa), fondamento della scienza, conferisce ai suoi principi (II, 1-5 (8)). Alle dottrine d’Aristotele giova paragonare quelle che appariscono nell’ ordinamento degli Elementi di Euclide: Il ragionare è un discorso che l'anima rivolge a sè stessa, per sè, intorno alle cose che consideri nemmeno in sogno hai ardito dire a te stesso che il dispari è pari, o altra simile cosa. An. priora II, 21 (7) e An. post. I, I (7). Heiberg, Euclidis opera omnia, Teubner, Lipsia, Secondo le indicazioni del commentatore Proclo di Bisanziom Euclide sarebbe vissuto in Alessandria al tempo del re Tolomeo. Le opere di Aristotele che conosciamo sembrano appartenere all’ultimo decennio della sua vita. Nei quali si trovano tre specie di principi: 1) termini o definizioni (Spot): 2) postulati 3) nozioni comuni (y.otvof Ivvoiat). Non è qui il luogo per sottoporre ad un’analisi appiofondita queste premesse, che — a dir vero — sono lungi dall’apparire soddisfacenti, tanto che da Tannery si è perfino messo in dubbio la loro autenticità; solo, riferendoci alla critica che ne ha fatto lo Zeuthen, Limiteremo ad alcune osservazioni logiche. Ma anzitutto vogliamo arrestarci un momento sopra una questione di parole. Non pochi si meravigliano che Euclide usa l’espressione ‘nozione comune’ per designare quelli che Aristotele chiama (coi matematici pitagorici) * assiomi», tanto più che — si dice — l’espressione « evvow » compare solo più tardi nel linguaggio degli Stoici. Ora non è fuor di luogo rilevare che la stessa espressione si trova pure in Democrito. Il rilievo assume interesse per la circostanza che Democrito compose, circa cent’anni prima d’ Euclide, degli Elementi, che non sono annoverati nel sunto storico di Proclo, ma di cui Trasillo ci ha conservato i titoli (:J ); tanto più che questi lasciano (*) Clr. Hisloire dea malhimallquea traci, dal danese di Mascari (Parigi, Gauthier-Villars): n. 14, 69 94. Cfr. Sesto in Diels, A, III. (3 ) rsti>|isi?t>t(óv (A, li?), Api0|io£, IIspl à/.dyfev Ypxfijitòv stai vxowùv A, li (cfr. Diels B, II", II 0, I |P)] scorgere un ordinamento della materia simile a quello adottato dallo stesso Euclide. Non sembra fuor di luogo congetturare che nella terminologia democritea gli assiomi venissero appunto designati come nozione o nozione comune, e che il geometra alessandrino, imprendendo a sistemare la stessa materia, in rapporto ai progressi critici del secolo, abbia conservato la denominazione del suo illustre predecessore: al quale di preferenza doveva guardare. Diciamo ora che la distinzione fra le nozioni comuni o gli assiomi, e i postulati, viene spiegata da Gemino in Proclo come analoga a quella fra teoremi e problemi, o fra identità e equazioni, in quanto i primi porgono delle relazioni, per cui certe proprietà resultano conciute come conseguenza di altre date, laddove i secondi assegnano costruzioni elementari, ciò che, nel concetto dei antichi, significa affermare l’ esistenza di enti particolari cui s’impongono certe condizioni. Questo carattere costruttivo sembra mancare soltanto al post. 4 (tutti gli ngoli retti sono uguali fra loro); ma Zeulhen spiega come in tale affermazione debba vedersi un complemento del post. 2, nel modo di affermare che il prolungamento di una retta è unico. In appoggio della nostra veduta può valere, forse, un passo del noto commento. Prodi Diadoclii in primum Euclidis Elemenorum librato commentarii (ed. Friedlein), in cui sembra che Proclo alluda all'uso dei geometri di chiamare nozione comune ciò che Aristotele chiama assioma. Cfr. Vailati, Scritti, Proclo osserva pure che gli assiomi e i postulati differiscono anche per essere: questi, principi particolari della geometria, e quelli, principi comuni alle varie scienze; infatti si tratta qui delle proprietà generali dell uguaglianza e diseguaglianza fra grandezze. Infine la distinzione fra le due specie di principi si accorda anche col criterio d'Aristotele, che riconosce negli assiomi delle verità cessarie ed indimostrabili, perchè evidenti di per se (xocS' èx jvx), e nei postulati delle verità — partecipanti ad un’ altra specie di evidenza (sensibile) — che non risultano ugualmente dviyxw dal significato dei termini che vi figurano: la natura del principio, enunciato da Euclide come nozione comune, sembra infatti rispondere a questo criterio. Ma se taluni geometri (al dire dello stesso Proclo) recusavano di distinguere assioma e postulato, mancano tuttavia indizi per affermare che essi respingessero il significato che Aristotele e probabilmente altri ancora (secondo la metafisica del senso comune) attaccavano a codesta distinzione, così come lo respinge la critica moderna, che per tale motivo appunto — considera ugualmente le proposizioni primitive della scienza quali postulati, da ricevere, in una qualsiasi teoria deduttiva, come dati anteriori allo sviluppo della teoria stessa. Un piccolo lume ci è recato in tali questioni dal riferimento dello stesso Proclo circa un tentativo di dimostrare l'assioma I (cose uguali ad una terza sono uguali fra loro), che sarebbe stato fatto da Apollonio. Infatti della tentata dimostrazione viene porto il seguente cenno. Sia a uguale a b, e b uguale a c; dico che a è uguale a c. Invero a occupa Io stesso luogo (córto;) di b, e così b occupa lo stesso luogo di c; quindi anche a occupa lo stesso luogo di c. Questo ragionamento indicherebbe forse che Apollonio voleva ricondurre il concetto euclideo di ‘eguaglianza’ geometrica al caso della sovrapponibilità delle figure, facendo appello ad esperienze ideali di movimento, mercè cui poteva iludersi di ridurre ad una pura proposizione identica la proprietà transitiva di quella relazione. Mentre il ricorso a siffatte esperienze ci avverte appunto (con Helmholtz e Stolz) che il detto assioma 1 ha un significato o carattere sintetico e non può ritenersi come una semplice proposizione analitica (vera per definizione). Comunque il rifermento accennato lascia presumere che la critica dei principi sia stata spinta innanzi da Apollonio, dopo Euclide, con quella penetrazione di cui volentieri siamo disposti ad accreditare il grande geometra iPerga. Ritorniamo all' Euclide per esaminare, in breve, i principi eh' egli ha designato col nome horós: termine o definizione. Se essi vengono considerati come definizione, non si può a meno di rilevarne la manchevolezza, poiché non offrono, spesso, che descrizioni atte a indicare la genesi psicologica dei concetti. Così, p. es., in 3 e 3, dove si dice che gli estremi di una linea sono punti, e che gli estremi di una superficie sono linee. Ma, verosimilmente, queste ed altre spiegazioni sono da considerare in rapporto alla tradizione storica precedente, come un richiamo dei caratteri per cui gli enti delia geometria razionale appaiono idealizzazioni dell'esperienza: p. es. le I, 2, 5 stanno a ricordare che — secondo il risultato della critica veliatica il punto è inesteso, la linea è lunghezza senza larghezza, e la superficie non ha spessore. Anche quelle che si presentano come definizioni propriamente dette, non ottemperano sempre al criterio fondamentale enunciato da Aristotele, che l’insieme degli attributi restringa l’estensione del genere in guisa da non appartenere ad alcun concetto più esteso. Per questo motivo sembra insufficiente la def. 4, inea retta è quella che e posta ugualmente rispetto ai suoi punti. Imperocché, se s interpreta come si usa comunemente, retta è quella linea che è divisa in due parti uguali da qualsiasi uo punto’, si enuncia una proprietà non caratteristica della retta, che appartiene anche all’elica (cfr. Apollonio in Proclo: 105, 5). Ora conviene aggiungere che Euclide, non soltanto suppone l’esistenza di ciò che viene immediatamente designato da alcuni termini, ma sembra anche introdurre surrettiziamente alcune ipotesi esistenziali, per mezzo di definizioni, laddove — per analogia coi criteri seguiti in altri casi — si sarebbe aspettata l'esplicita introduzione di un postulato. Ciò accade, in ispecie, per quel che riguarda le intersezioni di rette e circoli, le assunoni adoperate nelle prop. I, 12, 22 sembrando giustificarsi (secondo che osserva ) Cfr. Proclo 1. linea II] Zeuthen) mediante la definizione (15) del circolo come figura piana compresa da una sola linea. Ma non giova insistere su tali difetti, che apparten¬ gono all’esecuzione e non modificano i criteri logici del disegno. Restando nell’ordine d’idee euclideo, avremmo soltanto da completare i postulati coll’ enunciare esplicitamente i casi d'esistenza delle interse¬ zioni di rette e cerchi o di due cerchi, che si offrono nelle costruzioni elementari. Interessa piuttosto di rile¬ vare come queste ipotesi esistenziali, che la geometria antica introduceva nei singoli casi, mercè appropriate costruzioni, oggi si lasciano dedurre da un unico principio generale di continuità, onde l'affermazione d’esistenza si libera dalla ricerca dei mezzi costruttivi, complicantisi colla natura del problema. E questo un progresso conforme all'indirizzo preconizzato da Platone, che— come si è visto — repugnava appunto da ciò che sa di pratico o di meccanico nella formu¬ lazione dei postulati. Nota. A complemento di quel che si è detto intorno alla geometria euclidea, aggiungeremo che Archimede (5) sembra classificare e distinguere i principi in modo diverso, poiché (in una lettera a (Cfr. p. e*. I* art. 5° di G. Vii a li nelle Questioni riguardanti le matematiche elementari raccolte e coordinate daF. Enriques Voi. J, Bologna, Zahelli. De sphaera et cilindro in « Archiinedis opera omnia cum commentari^ Eutocii », ed. Heiberg. Lipsia, 1910. Cfr. The Work* of Archimedes, e. Heath, Cambridge, Capitolo I Dositeo) chima «assiomi» (à^:ih\i.xTx) le definizioni accompagnate da supposizioni d’esistenza: p. es. esi¬ stono linee piane che giacciono tutte da una parte ecc., e queste si dicono concave; mentre poi dà il nome di * assunzioni » (Aa|l3*V0;xsva) a taluni principi (teoremi precednemente stabiliti o postulati, assai eleganti) da cui muove la sua trattazione: p. es. la retta è la linea più breve tra due punti. Il commento d’Eutocio restituisce agli àfjuojtara archimedei il nome di opy. ConsiderazioSe ora, riguardando soprattutto ai secondi Analitici d’Aristotele e agli Elementi d’Euclide, cerchiamo di esprimere le nostre impressioni in un giudizio sintetico sulla logica degli antichi, domandandoci fino a che punto i loro criteri ci sembrino accettabili o esaurienti, siamo condotti alle seguenti riflessioni. La logica dei antichi suppone un ingenuo realismo per cui il pensiero appare come la copia o la visione di una natura esterna. Così il numero dai pitagorici e lo spazio continuo dagli eleati, sono pensati in concreto, ad imitazione di quella sostanza cosmica che viene figurata costituire il sostrato naturale (la epa:;) di tutte le cose. La supposizione realistica è tipicamente espresa nella teoria delle idee di Platone, che (orma infine la metafisica soggiacente alla logica d'Aristotele. Da essa deriva il carat¬ tere di necessità dei principi, e quindi la pretesa di un ordine naturale della scienza, facente capo a pre- messe assolutamente indimostrabili; la qual pretesa viene corretta, almeno in parte, nelle vedute dei geometri.  Ma dallo stesso realismo, ha origine la radicale manchevolezza della teoria della definizione. Poiché le oscunta del trattato di Aristotele e le imperfezioni dell’Euclide, in enere gli errori della critica che si riscontrano in tali opere, si possono riattaccare a codesto presupposto, quasi a comune radice. Si ammette infatti che le parole rispondano ad enti di un mondo intelligibile trascendente il soggetto, che si tratta di fissare univocament Di qui il criterio che la deduzione logica debba tener presenti, non soltanto le premesse esplicitamente enunciate come assiomi o postulati, bensì anche il significato dei termini su cui si ragiona, vedendo, attraverso di essi, quella realtà (geometrica ecc.) che è oggetto del pensiero. Ma ciò significa autorizzare nel ragionamento inconfessati appelli all' intuizione, che, dichiarati, si tradurrebbero in nuovi assiomi. Ora, se l'intuizione (o visione del significato) rimane sempre presupposta nel ragionamento, quando mai potremo assicurarci che gli assiomi formino un sistema completo? A stretto rigore di tale domanda non si riesce neanche a definire il senso ! E quindi non si comprende perchè si senta il bisogno di enunciare — a preferenza di altri — alcuni fra gli assiomi, che pure sono dichiarati evidenti, necessari ecc. ecc. Aggiungiamo che anche l’analisi aristotelica del ragionamento, facente capo alla teoria del sillogismo (An. priora) sta pure in relazione col presup¬ posto metafisico della logica. E specialmente colla circostanza che i Greci, in generale, immaginarono la realtà intelligibile rappresentata dalla scienza, sul tipo statico della classificazione delle forme geome¬ triche: tale è infatti il carattere dell’ ontologia eleatica, che imprime il suo suggello sulla dottrina platonica non superata veramente da Aristotele. Soltanto Democrito, come diremo più avanti, si solleva al concetto di una scienza razionale del moto, ma le sue vedute filosofiche non trovano adeguato sviluppo se non due mila anni più tardi, all epoca della Rinascita. Qui conviene rilevare che le critiche mosse alla teoria sillogistica dagli empiristi inglesi (da Bacone a Mill), opponenti alla deduzione 1 induzione generahzzatrice dell’esperienza, hanno fatto perder di vista ciò che manca all’ analisi aristotelica del ragionamento, pur riguardato nelle forme rigorose, che sole appartengono — secondo il concetto del filosofo greco alla logica dimostrativa propriamente detta. Infatti i brevi cenni che Aristotele dedica all’induzione (completa), negli Analylica priora, non suppliscono certo all’analisi delle operazioni logiche costruttive (significate da particelle come « e », o » ecc.) che accanto al sillogismo ricorrono nello sviluppo delle dimostrazioni matematiche. La quale lacuna torna a (i) Cfr. Cli. Werner, Aristotele et V ideallsme plalonicien, Alcan, Parigi] riflettersi sulla teoria delle definizioni, che appunto esprimono codesto lavoro costruttivo del pensiero. Infine giova rilevare che l’anzidetto realismo si riflette in una concezione ingenua del linguaggio: la filosofia greca — sia che abbia ammesso l'origine naturale della lingua (come Platone nel Cratilo), sia che abbia rilevato ciò che vi è di convenzionale nelle parole (come Democrito e Aristotele) — non riesce a scorgere la varietà essenziale delle lingue, che tiene ai diversi modi di rappresentazione delle cose ed esprimendo la libera attività del soggetto, dà origine all'intraducibilità. Dice infatti Aristotele: De Inlerpretatione, 1. Una espressione e una l'immagine delle modificazioni dell'anima. L’espressioni differiscono fra loro. Ma una modificazione dell’anima, di cui l’espressione e i SEGNO immediato, e identica per tutti gli uomini, come sono identiche per tutti le cose che quelle modificazioni esattamente rappresentano. E chiaro come una siffatta dottrina spieghi quella confusione fra analisi logica e analisi del linguaggio,  Proclo, nel commento al “Cratilo”, riferisce appunto questa opinione di Democrito, basata auiromonimia e la sinonimia di una espressione E1 e una espressione E2, sul cambiamento dei nomi e sul difetto di analogia nella formazione di certe espressioni verbali. (Cfr. le note al Cratilo di Cousin). De Interpretatione, 2 (1), che culmina nel concetto aristotelico di trarre dalla forma o materia dell’espressione grammaticale  una classificazione o tassonomia di questa o quella categoria. In ciò che precede ci siamo fermati a studiare il pensiero degli antichi traverso le sistemazioni scientifiche che sono a noi pervenute. Ma, per l’intelligenza dello sviluppo ulteriore che la logica riceve nelle scuole filosofiche dopo Aristotele, conviene tener conto dell'influsso che i predecessori del Stagirita sembrano aver esercitato sul movimento delle idee. Infatti codesto sviluppo si lascia definire, nlle sue linee generali, come tendente a liberare il pensiero dall ontologismo, che pure sopravvive in qualche modo alla ideologia platonico-aristotelica, nella misura in cui tale filosofia esprime la metafisica del senso comune. E l’anzidetta tendenza liberatrice si esplica in un progresso verso il formalismo logico, che procede dallo studio degli schemi discorsivi, formante oggetto degli Analytica priora. Questo progresso si avverte già nei primi paripatetici, come Eudemo, lo scrittore di una storia delle matematiche, e Teofrasto il raccoglitore delle opinioni dei fisici, ma più largamente ancora negli Stoici, in cui è pure passata 1 eredita dei dialettici megarici. Questo progresso si avverte anchein una revisione dei principi della teoria della conoscenza, che ha per oggetto l’origine e il valore dei concetto generale da cui muove la scienza dimostrativa: qui soprattutto vengono in luce delle vedute che debbono essere riattaccate ai grandi predecessori di Platone e di Aristotele; sulle quali l’interesse della questione c invita a fermarci. Ora, se ci volgiamo a riostruire induttivamente le idee di codesti predecessori, la figura di Democrito d'Abdera, deve attirare, sovra ogni altra, la nostra attenzione. Democrito, vissuto 40 anni dopo Anassagora e 25 anni dopo il suo concittadino Protagora che è il maggiore rappresentante della sofistica), deve esser considerato come un contemporaneo di Platone. Così, soltanto i pregiudizii dominanti la ricostruzione della storia della filosofia greco-romana nel secolo decimonono, hanno impedito di stdare più da vicino i rapporti fra Democrito e Platone, relegando Democrito tra i pre-socratici e perfino tra i pre-sofisti, in onta alla cronologia. Democrito è il ande fondatore dell’atomismo, in cui ha tuttavia come precursore Leucippo, e che fu svolta da lui come una teoria cinetica cosmologica. Attraverso questa dottrina Democrito agiunse ad una rigorosa concezione del determinismo meccanico, e verosimilmente he alla scoperta di principi (massa, inerzia) chalileo. Fanno eccezione Windelband e Burnel, che restituiscono airAbderita il suo posto cronologico, ma che tuttavia non sembrano arne un apprezzamento proporzionato all' importanza del suo lavoro scientifico] ha riostruito due mil’ anni più tardi, riprendendo le intuizioni fondamentali del lontano predecessore. Per il suo rigido meccanicismo, con esclusione di ogni teleologia, Democrito viene considerato come il padre del materialismo, e da ciò appunto ha origine il pregiudizio da cui in ispecie la storia svoltasi sotto l’nfluenza hegeliana, nel secolo decimonono, non ha saputo mai emanciparsi completamente. Quantunque un esame accurato avrebbe permesso di riconoscere ello stesso Democrito anche il padre dello spiritualismo (così come Leibniz sembra avere intuito!) e forse anche di far risalire a lui l’argomento per l’immortalita dell’anima basato sulla sua semplicità o in-divis-ibilità, che s'incontra nel Fedone 78, b, c. Le opere di Democrito, di cui ci sono trasmessi i titoli da Trasillo, formano una mole imponente e si riferiscono ai più svariati argomenti, dalle matematiche alla fisica, alle scienze naturali, all’agricoltura, alla teoria dei segno e dell’espressione, la dialettica, la grammatica, alla poetica, alla teoria della conoscenza ecc. ecc.; fra i frammenti più belli sono da annoverare quelli morali, conservatici da Stobeo. La posizione filosofica di Democrito, per ciò che concerne la teoria della conoscenza, resulta dalla testimonianza di Sesto Empirico, laddove egli parla di Democrito e Platone sostenitori della verità degli intelligibili (ià vorjra) in contraddizione con Protagora [Di ciò mi propongo fornire altrove la prova col confront dei testi aristotelici] aora. Si tratta dunque di un razionalismo, che si contrappone all’ empirismo protagoreo. Ma, poichè a sua volta questo empirismo dei sofisti era sorto come una reazione di caratere “positivistico” al razionalismo metafisico della scuola di Velia, è naturale che Democrito avesse a tener conto dell’ esigenza fondamentale che i sofisti avevano formulato. Democrito non posse semplicemente riprendere come materia della scienza una Verità (£M)0s:a) indifferente rispetto all’opinione (doxa) che si riferisce alle cose sensibili, ma doveva invece cercare una razionalizzazione dell’empirico, cioè una verità atta a salvare i fenomeni (ofttTe'.v ~ì 6|JtSV«); e siffatta veduta si poteva esprimere nel linguaggio tecnico del tempo, dando per compito alla scienza l’opinione vera, o inverata mediante il ragionamento. Appunto questa teoria della scienza come lii^x (isià Xóyo'j, viene riferita e discussa da Platone nel “Teeteto”, ed una comparazione analitica del testo con altri dello stesso Platone e di Aristotele, prova che il riferimento deve essere attribuito a Democrito. Ma, poiché la spiegazione razionale dei fenomeni suppone dei concetti, per mezzo dei quali si unifichi la rappresentazione delle cose del mondo empirico, si può domandare su che Democrito ne basasse il ossesso da parte dal soggeto percipiente. Qui soccorono alcune indicazioni. /. ' (l ) Diel. A. 59 i eh. A. 114. (! ) Cfr. Enriques: La teoria democritea delta scienza nel dialoghi di 'Platone, Rivista di Filosofia, n. I. 1) Anzitutto Democrito viene additato da Aristotele come il primo a trattare delle definizioni di cose fisiche, mentre ei ci dice che con Socrate crebbe l'uso del definire e si estese soprattutto alle nozioni morali. Conviene intendere che Democrito inizia quel modo di definire proprio della scuola socratica, in cui si ricercano i caratteri comuni delle cose che rispondono al definito; è più difficile dire se lo stesso Democrito, come Socrate, facesse anche appello alla nozione comune che tutti gli uomini si formano in rapporto a dati oggetti; e tuttavia questo criterio ei ben poteva derivare da Eraclito, cui lo stesso Socrate sembra avere attinto. In un frammento della già citata opera logica di Democrito rtsp: àoyrxtòv noi xzvwv che ci è statmandato da Sesto, vengono distinte due speecie, di conoscenza, l’una relativa all’intelligenza (à7j; Siavaas), l’altra alla sensazione (Ò:à rwv aìofi^oetov). Dice precisamente Democrito: “Vi sono due forme della conoscenza: una conoscenza pura o legittima (yvyjafyj) ed una adombrata spuria (av.v.ri). Appartengono a quest’ ultima forma adombrata spuria le cinque sensi: la vista (visum), l’udito (uditum), il gusto (gustatum), l’odorato (odoratum), il tattoo (tactum). Ma la conoscenza pura è completamente distinta. Ed aggiunge ce questa conoscenza pura è relativa ad un (') Mtt. I, 4, (3), De Partibus Animalium I, 1 (ed. Didot, t. IH, pag. 223, 2). (! ) In Diel» B. II) orbano di pensiero più raffinato che prende il posto di un vedere o di un udire o gustare o odorre o tastare nel più piccolo (mettendoci così in rapporto colla vera natura delle cose, cioè cogli atomi. Anche in altri modi Democrito esprime la relazione fra le due forme del conoscere; per esempio ove dice che « apparenza (vòptoi) il colore, apparenza il dolce, apparenza l'amaro. In realtà soltanto gli atomi e il vuoto. Ma poi, facendo parlare i sensi contro l’intelligenza, soggiunge povera me, prendendo da noi la tua fede, tu vuoi confonderci; la tua vittoria è la tua caduta. Troviamo qui una notizia estremamente interessante. Democrito, al pari di Platone e di Aristotele, e prima di loro, dibatteva il problema dell'origine dell’idea. Democrito non si fermava, come il filosofo ateniese alla supposizione della conoscenze innata (teoria della reminiscenza -- anamnesis), anzi piuttosto sembra derivare la idea dalla sensazione, sicché è lecito pensare che a lui possa aver attinto Aristotele la veduta che gli abbiam visto esprimere in An. Post. Il, 15. Ma, mentre in Aristotele non si vede come possa conciliarsi questa dottrina colla dignità attribuita alla nozione induttivamente acquistata, che debbe costituire le premesse necessarie della scienza dimostrativa, ciò che sappiamo intorno alla teoria delle sensazione di Democrito (in rapporto alla fondamentale (*) Galeno in Die!» B. 125; cfr. Sesto in Diels B. 9.] supposizione atomica) e ben atto a sciogliere la difficoltà. Ammetteva infatti il Nostro,  che la sensazione in generale derivassero da piccole immagini (sKoiXa) emesse dai corpi e proprie ad impressionare gli organi dei cinque sensi ed anche lo stesso pensiero in quella guisa in cui la luce impressiona una lastra fotografica. L’immagini rispondente alla conoscenza inteligibile partenti direttamente dagli atomi — sono di natura più fine. Si comprende quindi che esse possano liberarsi dalla mescolanza colle immagini più grossolane che colpiscono i cinque sensi, quando il confronto di sensazioni ripetute, in rapporto ad una molteplicità di cose, permette di fissare i caratteri comuni che definiscono il concetto. Che effettivamente Democrito riconoscesse il valore logico del concetto, quasi come anticipazioni dell'esperienza, resulta anche dalla testimonianza di Diotimo in Sesto (VII, 1401), che egli assumeva come criterio della comprensione delle cose oscure il fenomeno, e come criterio della ricerca'il concetto, èvvoia xpurr/pwv Z,r\vtpzwq. Qui è notevole lo del termine. Ivvotoe che già notammo a proposto della designazione di y.oiw.l Ivvs:% adoperata da Euclide per gli assiomi, giacche abbiam pur detto che codesto termine non si trova nella [Cfr. p. et. Aetiui in Diel», A. 30. (2 ) Diels, A. III. 37]letteratura filosofica di Platone ed Aristotele, ma invece, più tardi, presso gli Stoici. Appunto ad un’opera di Crisippo 7tepì £?jT^7S(0£ sembra fare allusione Plutarco presso Olimpiodoro, dove dice che gli Stoici allegano a causa di ciò (cioè della possibilità di arrivare a cose che non si conoscono) le nozioni fisiche: tàj qjuaixà; èvvofa?. D’altronde Diogoene Laerzio (VII, 54) (c’informa che Crisippo dice esservi DUE criteri della verità, la sensazione e il concetto. Qui in cambio di svvoia viene adoperata l’espressione TtpóXvjtjt:?, che ricorre anche presso gli Epicurei, designando l’anticipazione dell’esperienza. Ora il significato preciso che gli Stoici davano alle ÈVV 3 tati, si può rilevare, per esempio, da un passo del De Civitate Dei di S. Agostino dove si parla di coloro che riposero la verità nei sensi, cioè degli Epicurei e degli stessi Stoici. Qui cum vehementer aaerint sollertiam disputando quam dialecticam nominant, a corporis sensibus eam ducendam putarunt, hinc asseverantes animum concipere notiones, quas appellant èvvo'st;, earum rerum scilicet quas definiendo explicant. Da questi riferimenti sembra potersi dedurre che gli Stoici abbiano adottato, al pari di Aristotele, la dottrina democritea dell’ origine sensibile dei concetti – nihil est in intellectu quod prior non fuerit in sensi (l ) Cfr. Arnim, Stoicorum veterani fragmenta. Voi. II, n. 104. Crisippo, discepolo di Zenone Cizio (280-209 a. C.).In Arnim, op. c. 105. In Arnim, 106. (cui soltanto gli Epicurei conservarono come fondamento l’ipotesi delle piccole immagini), ma spogliando i concetti di quella dignità superiore che il razionalista cerca conferire agli intelligibili; così, per loro, la dimostrazione scientifica (àiróSs:^;) viene ridotta, per dirla con Cicerone, ad una “ratio, quae ex rebus perceptis ad id, quod non percipiebatur, adducit.”  In corrispondenza di queste vedute, di carattere più empirico, è interessante rilevare come si modifichi la dottrina democritea della scienza, che Zenone Cizio dice essere una comprensione sicura e ferma e immutabile dalla ragione » (à,u£-*sov ùttò Àóyo j /./.- ovvero anche un possesso immutabile dalla ragione, nell’accoglienza delle rappresentazioni » (èv a>xvT5tTO)v r.ozz- a&o. Pertanto gli Stoici non giunsero a quello schietto empirismo, che si vede accolto da Epicuro, per cui è accettata sempre come vera ogni sensazione o apparenza: richiesero anzi che all apparenza si aggiunga 1 assenso volontario dell animo, che per il saggia ha motivo nell identità fra la ragione individuale e la Ragione o logos universale. Così il concetto eracliteo del logos, che la scuola Arnim, 111. () Riferimenti di Sesto e Diogene Laerzio in Arnim: Zeno- Citius, n. 68. (' ) Cfr. Sesto e Cicerone in Arnim: Zeno Citius, nn. 63 e 61.  3] stoica ha fatto proprio, doveva pur sempre conservare al pensiero una certa dignità, e quindi facilitare il trapasso alla veduta posteriore degli eclettici (Cicerone), per cui le commune notio vengono ritenute non più come uniformità della natura bensì come idea innata, attestanti la reminiscenza della vera origine divina dell' uomo, onde la teoria stoica (ritornando in effetto a Platone) viene a fondersi colla neoplatonica. Più direttamente degli Stoici (che pure ne derivarono il principio del determinismo universale) si riattaccano a Democrito gli Epicurei, che ne adottarono la teoria atomica, spogliata bensì del suo più profondo significato meccanico. Ma, come abbiamo già accennato, Epicuro e lungi dal razionalismo del maestro d’Abdera. La sua “Canonica” comprende poche regole di cui abbiamo chiaro riferimento da Sesto Empirico, e che Gassendi ha ricostruito con precisione nella sua Logica. Riferiamo la parte essenziale dei canoni epicurei così formulate. Sensus nunquam fallitur. Opinio est consequens sensum, sensiomque superadiecta, in quam veritas aut falsitas cadit.  Opinio illa vera est, cui vel suffragata, vel non refragatur sensus evidentia. Petri Gassendi Opera Omnia, Firenze. 1277, Voi. 1. Pari 1, De Logicae origine el varietale]. Omnis quae in mente est anticipatio, seu prae-notio, dependet a sensibus, idque vel incursione, vel proportione, vel similitudine, vel compositione. (Questo stesso modo di formazione dei concetti appare negli Stoici). Anticipatio est ipsa rei nodo, sive definitio. Est anticipatio in omni ratiocinadoe principium. Quod inevidens est, ex rei evidenti anticipaticele demonstrari debet. Qui è notevole 1 appello all’evidenza sensibile (ev%ex) che viene così assunta come criterio di verità. Nonostante la modificazione subita, è facile riconoscervi lo stesso criterio di Democrito che contrapponendo la conoscenza pura o legittima alla conoscenza oscura, viene appunto a ritenere la chiarezza delle idee come segno del loro valore: senonchè quella che per Democrito era chiarezza di concepimento, diviene per Epicuro chiarezza sensibile. Toccherà poi a Descartes di ritornare al criterio dell’evidenza (cf. Grice, “Descartes on clear and distinct perception) rispetto al pensiero, riguardando come vera la idea chiara e distinta (l’aggiunta deriva dal Teeteto 209c-2l0). Dopo aver parlato degli Stoici e degli Epicurei, ci convien dire degli [Notisi che già in Teofrasto si applica il criterio dell’evidenza tanto all’intelligenza che al senso. (Cfr. Sesto Adv. Malh.)] scettici i qual per verità non formano ugualmente una setta o scuola chiusa, ma — a partire da Pirrone d’Elide e dal suo amico Timone — ofno tuttavia una certa continuità di tradizione critica, mantenendo di fronte alle filosofie dogmatiche un atteggiamento di dubbio metodico. No Diogene, ma Arcesilao di Pitane e Carneade (che venne ambasciatore a Roma nel 155 a. C.), portarono la filosofia scettica nella media Accademia – e che fascina a Scipione! Più tardi incontriamo Enesidemo di Cnosso, Agrippa, e finalmente Sesto Empirico che riassume tutto questo movimento nella sua opera pregevole, fonte cospicua di notizie per la storia della filosofia romana. I rapporti esteriori che la tradizione segnala fra Pirrone e qualche democriteo come Nausifane, nonché le tendenze scettiche che si attribuiscono ad altri democritei (Metrodoro, Anassarco) indicano già una certa dipendenza della scepsi da Democrito. D’altronde il legame appare prima di tutto nel motivo morale che ispira la riserva degli scettici di fronte alla vera natura delle cose, giacche la sospensione del giudizio mirava a conquistare quella atarassia o imperturbabilità dell' animo, che si riduce infine alla vittoria sulle passioni, inculcata dall'Abderita. Ma il apporto teorico della scepsi con Democrito resulta da ciò che questi aveva ridotto la realtà alla materia indifferente degli atomi, negando le qualità sensibili; un passo ulteriore della critica (riportantealla posizione di Protagora) doveva naturalmente estendere il dubbio anche a quelle proprietà primarie in cui il grande atomista aveva scorto l'oggetto intel¬ ligibile della conoscenza. E certo questo sviluppo era suggerito dal contrasto fra le vedute dei due razio¬ nalisti, sorti a combattere l’empirismo protagoreo: Democrito e Platone. Giacche questi riteneva proprio come intelligibili quelle stesse qualità (ipostatizzate sotto il nome di idea) che 1 altro aveva con¬ siderato vane apparenze. Inoltre, anche nello stesso sistema democriteo, si può riconoscere 1 origine della critica che investirà gli intelligibili, se — come siamo stati tratti induttivamente ad ammettere — l’Abderita faceva pur nascere 1 intelligenza dai sensi. In tal guisa il pensiero antico avrebbe percorso una via non lon¬ tana da quella per cui il pensiero moderno giunse dalla posizione di Galileo, di Descartes e di Locke (i quali ripresero la distinzione fra la qualità primaria e le qualità seconda) alla critica di Berkeley, che — attraverso la teoria della visione - riusciva a negare anche il significato trascendente di codesto sostrato geometrico della materia. La teoria degli scettici, si noti, non nega affatto il mondo fenomenico, bensì oppugna la pretesa dei dogmatici di affermare qualcosa della verità o della natura delle cose in se stesse. La critica che essi svolgono a tale scopo, rilevando ciò che vi è di relativo nei criterii della verità, costituisce in gran parte un acquisto durevole per la dottrina della conoscenza: lo La logica degli antichispirito che l’anima è affine a quello del positivismo moderno, salvo il sentimento che la veduta di una scienza più progredita ispira oggi ai critici della metafìsica. Ma per la storia della logica interessa soprattutto esaminare gli argomenti di Carneade contro il concetto aristotelico della dimostrazione: intorno ai quali siamo informati da Sesto Empirico. Ricompare qui l’idea, già affacciata dai predecessori di Aristotele e da questi oppugnata, che ogni prova dia luogo ad un regressus in infmitum, poiché ogni premessa deve essere dedotta da un’altra premessa. E questo argo¬ mento prende forza dalla negazione di ogni certezza immediata, alla quale gli scettici pervengono (come si è accennato) mercè la veduta che i concetti su cui si ragiona traggono pure origine dal senso, onde 1 incer¬ tezza della sensazione si riflette anche sull intelligenza. Quindi viene presa in esame l'opinione che sia lecito fondare la scienza sopra ipotesi, e che queste sieno fatte ferme e valide dalla verità delle conseguenze che se ne deducono. Il passo di Sesto che critica questa opinione non dice chi ne sia l’autore; ma resulta assai chiaro che essa deve riferirsi particolar¬ mente ai fìsici matematici, e vi è forse qualche motivo di attribuirla già a Democrito, che per primo propose alla scienza il compito di spiegare razionalmente i feno¬ meni. Infatti abbiamo già accennato che questi appunto (i) Adv. Math. VII, 159-189 e Vili in ispecie 367-463. (s ) Vili, 375] potesse essere preso di mira da Aristotele, ove eicontesta che voler provare le premesse mediante le conclusioni costituisce un circolo vizioso (*). Di nuovo Cameade riprende la tesi aristotelica, notando che dal vero si può dedurre il falso; e certo l'argomento — in stretta logica — non potrebbe essere confutato. Ma, per quanto o scettico sia portato a dare il maggior peso a questa constatazione negativa, Cameade non vi si arresta. Dopo aver negato l'esistenza di criteri assolutamente certi del vero e del falso, egli accorda pure alla conoscenza un valore probabile; e questo valore lo riconosce, in primo luogo, ad ogni rappresentazione dotata di sufficiente evidenza, ma in grado più alto alle catene di rappresentazioni legate 1’una all'altra in un sistema logico (ibidem, VII, 176 e seg.). Non diverso è, in ultima analisi, il cri¬ terio positivo con cui anche oggi possiamo giudicare il valore delle teorie scientifiche: soltanto appare, ai nostri tempi, un atteggiamento più fiducioso, che è in rapporto collo sviluppo della trattazione matematica della fisica; mentre il sentimento degli scettici risponde ad una scienza meno evoluta, ed anche — piuttosto che alla mentalità di matematici — a quella dei circoli medici, in cui Io scetticismo antico ebbe acco¬ glienza. Effettivamente l’uso di ipotesi, il cui valore probabile viene desunto dalla verifica sperimentale delle conseguenze che ne dipendono, caratterizza il metodo deduttivo-sperimentale della scienza moderna. L. c. An. posi., I, 2] quale si disegna in Kepler, Galileo e Descartes. L' esame intorno allo sviluppo della logica post-aristotelica, in cui abbiamo cercato l'influsso delle idee di qualche predecessore, ci ha mostrato che in verità il realismo logico di Aristotele è stato superato dallo stesso pensiero greco; il quale ha toccato posizioni affatto conformi alle più alte vedute moderne. Ma della critica speciaente istituita dai geometri dopo Euclide, abbiamo notizie troppo scarse per misurarne il significato; e secondo le apparenze dobbiamo ammettere che le fini ricerche di Apollonio su questo soggetto non abbiano trovato prosecutori. D’altra parte l’opera dei filosofi che hanno riflettuto sulla scienza, nella filosofia romana, non aderendo propriamente ad uno sviluppo scientifico, e tanto meno matematico, prese spesso quella forma negativa che nel modo più raffinato ci presenta la dottrina scettica. Infatti per osservatori cui non sia dato di riprendere e di proseguire il pensiero profondo dei più antichi filosofi matematici, la confutazione di un ordine di verità necessario, quale è affermato da Aristotele, deve apparire una confutazione dell stessa possibilità della scienza. Resta nondimeno un esempio pieno d’interesse nella storia, quello che ci viene offerto dalla scuola stoica, per cui la trattazione formale della logica si associa ad una dottrina empirica della conoscenza. E, se codesto sviluppo formale approda ad un arido schematismo (di fronte a cui comprendiamo il disprezzo della dialettica manifestato dallo stoico Aristone di Chio), tuttavia non si può disconoscere il valore dell’analisi logico-grammaticale dell’espressione, mercè cui si riesce a scorgere in qualche modo nel linguaggio, l’espressione di una attività costrittiva. Fino a che punto gli stici sieno proceduti su questa via, non vogliamo qui esaminare. Ma certo si scopre in essi quella distinzione fra subiettivo ed inter-soggettivo, che riapparire agli inizii dell’epoca moderna, come fondamento della filosofia. Dalla storia della filosofia romana si passa, senza indugiarci al movimento delle idee che accompagna la rinascita della scienza, agli inizi dell’ Evo moderno. Basta rilevare il carattere generale degli sviluppi che la dialettica riceve nel periodo intermedio (medius aevus), arido se non del tutto infecondo. Diremo per ciò come la logica aristotelico-stoica fu introdotta dal filosofo romano Boezio presso i Romani. La traduzione di Boezio del greco al romano dei primi due trattati dell’Organum (Categoriae e De Interpretatione – the only two that Grice lectured on with J. L. Austin and P. F. Strawson), nonché dell’Isagoge di Porfirio [arbor griceana], e i commenti con cui egli stesso ed altri scrittori neo-platonici accompagnarono codesti scritti (nel senso della tecnica formale, secondo la tradizione stoica), costituiscono il fondamento della cultura del più antico (alto) Medio Evo. Del resto, la cultura generale sembra ^ppjesentata da un certo numero di enciclopedie clella bassa antichità, come quella di Marciano Capella, nelle quali si tratta delle sette artes liberales che, nel tirocinio scolastico, formarono il trivio (I. grammatica, II. Rettorica, III. Dialettica) ed il quadrivio (IV. Aritmetica. V. Geometria. VI. Astronomia. VII. Musica).  Specialmente degno di nota che questa prima parte del Medio Evo non ha conosciuto, nè le altre opere (logiche, fisiche ecc.) di Aristotile, nè le opere originali di Platone, fuori del “Timeo”, tradotto in romano da Calcidio. Più tardi, il Rinascimento umanistico doveva venir fecondato mercè una conoscenza diretta dei testi, in seguito alla caduta dell’impero romano d'Oriente, che addusse numerosi profughi segnatamente in Italia. Ora nella logica scolastica due aspetti sono degni di nota. Primo,la progressiva elaborazione della tecnica formale, acuitasi mercè sottili distinzioni. Secondo, la grande questione della realtà degli universali, di cui a stento riusciamo a comprendere il carattere drammatico, traverso la forma aridamente schematica delle discussioni. Sorvoleremo affatto sul primo punto, sebbene sarebbe interessante per la storia della dialettica, di mostrare, per esempio, in Buridano il riconoscimento della proprietà distributiva della particella (adverbium) ‘non’ (~) rispetto a “et” (/\) e “vel” (\/). non (p et q), ~ (p /\ q) ≡ non p vel non p (~p \/ q).  (notizia segnalatmi da Vacca) o di cercare simili analisi in Paolo Veneto. Ma, quanto alla questione della realta degl’universale, diremo che si tratta dell'antica questionollevata dalla ideologia platonico-aristotelica, se all’idea generali corrisponde una realtà. La quale questione fu riaccesada un passo dell’Isagoge di Porfirio (I, 3). “E anzitutto, per ciò che riguarda il genero o la specie, io evito di ricercare se esiste di per sè, ovvero se esiste soltanto come pure nozione; e — ammettendo che esista di per sè — se apartengano alla cosa corporea o incorporee; e infine se abbiano esistenza separata ovvero solo nella cosa corporea sensibile. E una questione troppo profonda che esigerebbe uno studio differente da questo e troppo este. Nel vasto intreccio della polemica medioevale appare che il nominalista (negante la realtà dell’universale) rappresentano, in generale, le tendenze scientifiche, avverso il misticismo platonizzante del realista. Ciò è vero soprattutto per riguardo ai rinnovatori del nominalismo nel secolo come Guglielmo Occam e Giovanni Buridano, rettore dell'Università di Parigi, ai quali è dovuta la teoria che ha preso il nome di terminismo. Il terminista (che si accosta al concettualismo di Abelardo) ritiene i concetto (o termino) come un segno intersoggettivo (signa) della singola cose, o di una classe di cose, realmente esistenti. La dialettica si riferisce soltanto alle reazione di questo segno della cose (Occam, Quodlibeta V. 5). Occam avverte pue che l’espressione assume il suo proprio significato nella proposizione, e spesso in unione a qualche altro termine. Terminus conceptus est intentio seu passio animae aliquid NATURALITER SIGNIFICANSaut consignificans, nata esse pars propositionis. Sifftta dottrina supera lo stretto nominalismo e tuttavia nega il realismo: cioè nega che il ‘significato’ (o ‘signato’) dell’espressione  sia da cercare nella sua comprensione o connotazione, ossia nell’ insieme delle note o attributi, di cui esso esprimerebbe  l'unità sostanziale; e si afferra invece all’estensione o denotazione (denotatum, relatum), cioè all’ insieme delle cose rappresentati dall’espressione (‘homo’), che — sotto la specie di certe reali somiglianze — vengono vramente unificati. Al lume di questa veduta, la definizione scolastica, discendente dal astratto generale universale al concreto particulare individuo, e la logica stessa perdono importanza: onde è fatto invito a volgersi dalla spiegazione dell’espressione al concreto della esperienza. Ciò spiega abbastanza l’interesse appassionato  della polemica intorno agli universali che nel mondo sociale e morale deve rivendicare la libertà dell'individuo soffocata dalla tirannia delle istituzioni e dall'autorità delle credenze e dell’insegnamento tradizionale. Nulla sembra più proprio a favorire un tale affrancamento degli spiriti, che abbattere alla radice l’albero della deduzione infeconda, triviale, analitica, ricostruendo induttivamente tutto il sapere. Onde la stessa tendenza si continua ed esplica nella reazione anti-aristotelica (platonista) degli umanisti italiani purificatori della logica dalla sottigliezza o implicatura scolastica (Valla, Agricola, Vives) e si manifesta poi in nuove forme nella rinascita del movimento scientifico.  RENATO DEL PONTE    IL MOVIMENTO  TRADIZIONALISTA ROMANO  NEL NOVECENTO    Studio storico preliminare     SeaR Edizioni  1987      RENATO DEL PONTE    IL MOVIMENTO TRADIZIONALISTA  ROMANO NEL NOVECENTO   Studio storico preliminare    Seconda edizione riveduta    SeaR Edizioni  1987           PREMESSA    Quanto segue è, nella sostanza, il contenuto di una  conferenza tenuta a Palermo presso ristituto Platone  il 31 maggio 1986 e successivamente, verso la fine di  queiranno, riprodotto in un numero limitato di co¬  pie, con aggiunte note critiche e documentarie, per le  «Dispense di Arx» di Messina, edite da Salvatore  Ruta.   Oggi il testo viene ripresentato con maggiore digni¬  tà tipografica e tiratura, onde favorirne la diffusione,  con poche modifiche e aggiunte, in questa nuova col¬  lana della Sear di Scandiano.   Poiché è certamente la prima volta che con una  certa organicità viene affrontato questo argomento, il  presente scritto può a ben diritto definirsi una novità.   Tuttavia, dal momento che il nostro testo viene  presentato come uno «studio storico preliminare», il  lettore potrà dedurne che: a) i dati storici, biografici  e letterari, le notizie contenute ed ogni altra informa¬  zione non sono frutto di fantasia o di illazioni avven¬  tate, ma desumibili nella loro grande maggioranza da  fonti documentarie (come dimostrato dai miei stessi  riferimenti); b) Tinsieme costituisce, d'altra parte,  qualcosa di non definitivo, in quanto suscettibile di  essere ampliato ed ulteriormente specificato da suc¬  cessive indagini e approfondimenti di maggior  respiro.   Bisogna peraltro subito aggiungere che anche a  molte notizie documentarie non sarei pervenuto se  non avessi tenuto conto, nel corso di più anni, di in-    11        dicazioni, suggerimenti, informazioni pervenutimi  per via amichevole o riservata. Quanto qui esposto,  tuttavia, non fa parte di alcun segreto esclusivo —  come vorrebbero alcuni — bensì del patrimonio sto¬  rico della nazione italica e come tale lo offriamo alla  meditazione di quei lettori che vorranno o sapranno  trovarvi spunto di interesse interiore, nonché agli sto¬  rici «laici», perché almeno in questa occasione si ren¬  dano conto del tipo di dimensione occulta che corre  parallela e interferisce nelle vicende della storia: nella  fattispecie, prendano atto dell 'esistenza, sinora igno¬  rata, delle correnti esoteriche che tentarono di dare al  fascismo queiranima priva di compromessi che non  fu capace di far sua.   Renato del Ponte    Entrando il Sole nei Gemelli  — anno MMDCCXL a.U.c. —    12    Nella prefazione da lui posta ad un recente lavoro  dedicato soprattutto alla cosiddetta «Nuova De¬  stra», il noto politologo Giorgio Galli, a cui si deve  senza dubbio riconoscere una notevole apertura  mentale e un’intelligente operazione culturale volta  alla riscoperta di alcune tematiche proprie della de¬  stra tradizionale, ha potuto osservare come alla  «Nuova Destra» sia mancata «precisamente una ri¬  lettura della componente “magica” ed “esoterica”  della cultura di destra». La «Nuova Destra» si trove¬  rebbe anzi, attualmente, «in difficoltà sul piano pro¬  priamente politico forse anche perché ha trascurato  l’analisi di fenomeni ai quali si dimostrava sensibi¬  le (...) la destra tradizionalista “esoterica’^): tale fal¬  limento, dunque, sarebbe implicito nel «completo  abbandono di un bagaglio culturale di indubbia ri¬  levanza» (1).   Tale diagnosi ci pare esatta e le acute osservazioni  del Galli (al quale si debbono anche tentativi di pe¬  netrare nel mondo oggi ancor poco conosciuto, pro¬  prio perché poco adeguatamente studiato, dell’eso-    (1) G. GALLI, prefaz. a: MONICA ZUCCHINALI, A destra in Ita¬  lia, Sugarco Edizioni, Milano 1986, pp. 7-14. Tale lavoro non merita, di  per sé, alcuna annotazione di rilievo, essendo molto superficiale e limi¬  tato nel settore dedicato alia «destra radicale» (e in questo largamente  superato da precedenti pubblicazioni, per quanto decisamente a sini¬  stra, come La destra radicale, a cura di F. Ferraresi, che è del 1984), ec¬  cessivamente ampio e parziale nei confronti della cosiddetta «Nuova  Destra», mentre la «destra tradizionale» è pressoché inesistente. In so¬  stanza, ciò che dà rilievo al libro, sono le poche notazioni preliminari  del Galli, che peraltro suonano da campana a morto per i profeti della  fine del «mito incapacitante»...    13          terismo del III Reich) (2), che ben difficilmente, del  resto, potrebbero essere recepite nella loro portata  da quanto sopravvive della «Nuova Destra», pro¬  prio per la sua impostazione profana e modernista  (per non parlare della destra «tecnocratica» missina,  per sua intrinseca natura da sempre impermeabile  ad ogni discorso «intelligente») (3), potranno ser-    (2) In una relazione sul tema tenuta nel giugno 1984 a Torino (pare  per la Fondazione Agnelli), il cui testo abbiamo potuto leggere, il Galli  osserva come «la storiografia ufficiale e accademica abbia sempre esita¬  to a muoversi in questa direzione, appunto per il timore di spostarsi dal  piano della storia a quello della fantasia». Ciononostante il Galli, che  dunque sembra muoversi tra i primi al di fuori di tale logica paralizzan¬  te, afferma come «vi siano sufficienti elementi per una riflessione stori¬  ca organica sulla componente esoterica soprattutto dei nazismo, mentre  per quanto riguarda il fascismo italiano questa riflessione potrebbe con¬  cernere esclusivamente la personalità di Julius Evola». 11 presente volu¬  metto dovrebbe dunque servire ad ampliare le prospettive conoscitive  del Galli e di quanti altri si interessino di tali tematiche proprio sull’ulti¬  mo punto, quello concernente il fascismo. Circa poi le correnti esoteri¬  che del nazismo, bisognerebbe intanto distinguere fra ciò che ha prece¬  duto la sua presa del potere, le gerarchie ufficiali dello Stato ed alcuni  settori delle SS. In base a ricerche che stiamo effettuando, possiamo an¬  ticipare che tali correnti esoteriche poggiano su fondamenta assai fragi¬  li, contrariamente a quel che potrebbe pensare il Galli stesso, che in que¬  sto caso pare essere rimasto vittima di alcune «ingenuità» propalate sul¬  la scia del famigerato Mattino dei Maghi di Pauwels e Bergier. Per un  discorso preliminare su quanto andiamo dicendo, si veda ora il mio sag¬  gio su La realtà storica della «Società Thule», in introduzione alla pri¬  ma traduzione italiana di: Prima che Hitler venisse di Rudolf von Se-  bottendorff. Edizioni Delta-Arktos, Torino 1987. Su Evola e certi am¬  bienti delle SS, pubblicherò in seguito documenti provenienti dall’archi¬  vio di stato tedesco (Quartier Generale di Himmler), in cui tali temati¬  che saranno ulteriormente trattate.   (3) In un recente articolo che vuole costituire una sorta di recensione  del libro della Zucchinali, un anonimo missino cosi sintetizza gli interes-    14    virci qui da spunto iniziale per una breve indagine  preliminare, necessariamente per ora limitata, su  una corrente di pensiero indubbiamente assai mino¬  ritaria, ieri ed oggi, in Italia, ma come è stato di re¬  cente sottolineato, «nel contempo assolutamente ne¬  cessaria per l’Italia» (4), che ha svolto ed è destinata  a svolgere ancora una funzione molto importante,  per non dire essenziale, per la nostra nazione: quella  della conservazione dtXV identità delle nostre radici.   Essa, se è stata opacizzata nelle masse e in una  classe dirigente sclerotizzata e corrotta per incapaci¬  tà e colpevole negligenza, nondimeno persiste im¬  mutata, come presenze e immagini primordiali, ne¬  gli archetipi divini che presiedono alle nostre sorti.  Il compito di tale minoranza, al di là della pura e  semplice azione conservativa, è stato quello di saper  ridestare nei momenti opportuni quelle immagini, sì  che divenissero presenze vive ed operanti, concretiz¬  zandole nelle nuove realtà della nazione italica.   Si tratta delle immagini primordiali e delle epifa¬  nie divine del Lazio e dell 'Italia delle origini, ovvero  della Saturnia tellus: quelle che hanno reso possibile  la manifestazione sul nostro suolo della tradizione  di Roma — che simboli, funzioni ed attribuzioni    si e i tentativi controcorrente del Galli: «A cosa ciò possa condurre in  concreto, è imprevedibile. Forse a nulla» (in «Proposta», I, 2, marzo-  aprile 1986, p. 95).   (4) Conventum Italicum, comunicato anonimo in «Arthos», XII-  XIII, 27-28 (1983-84), p. 85.    15         hanno reso evidente essere emanazione della Tradi¬  zione primordiale (5) — ed il suo rinnovellarsi attra¬  verso i tempi.   Il precedente riferimento del Galli all’esoterismo  è, nel nostro caso, più che pertinente, dal momento  che la trasmissione e perpetuazione della tradizione  romana, almeno negli ultimi quindici secoli, ha po¬  tuto avvenire, per motivi ben comprensibili, per via  segreta, cioè esoterica e di necessità sotto forme e vie  anche molto diverse. Se oggi si può parlare di «de¬  stra» esoterica è soltanto perché, per circostanze sto¬  riche particolari, in un ambito (peraltro, assai ri¬  stretto) della destra del nostro secolo certe tematiche  hanno potuto trovare parziale ospitalità (6): va da sé  — e non sarebbe il caso di insistervi sopra — che la  .tradizione di cui tali correnti sono portatrici si situa  ben al di là e al di sopra di ogni miserabile dialettica  fra destra e sinistra, termini e concetti di derivazione  parlamentare moderna e quindi del tutto inadeguati  ad inquadrare forme di realtà spirituali quali quelle  a cui ci riferiamo.   Tuttavia, dal momento che il presente intende es¬  sere semplicemente uno «studio storico» su tale cor-    (5) Per tali evidenziazioni, debbo rimandare ad alcuni capitoli del  mio Dèi e miti italici. Il ed., ECIG, Genova 1986, specialmente in con¬  nessione con le figure di Giano e Saturno (con il ciclo a lui connesso).   (6) Si deve peraltro notare che ad interessi esoterici inerenti anche alla  tradizione romana non furono aliene certe personalità della «sinistra  storica» e nel corso della nostra esposizione non mancherà un esempio  concreto.    16    rente, dovremo fare solo riferimenti indiretti e limi¬  tati al suo lato esoterico, quanto invece insistere sui  suoi riflessi politici, culturali e religiosi.   L’abbiamo definita «corrente tradizionalista ro¬  mana» (7) nel Novecento: un’élite che ha in ogni ca¬  so lasciato una sua impronta in una certa epoca e  che, nell’incertezza del «pensiero debole» attuale,  potrebbe ancora essere portatrice di un messaggio  radicalmente alternativo, poiché radicalmente (e qui  l’espressione va intesa, con coscienza di causa, nel  suo pieno valore etimologico, a radicibus) orientata  contro gli pseudovalori che reggono la scena del  mondo moderno.   Non è mio compito qui riassumere i termini della  questione intorno alla possibilità della trasmissione  della sacralità e della tradizione di Roma dall’epoca  degli ultimi sapienti pagani sino ai nostri giorni: è  uno studio che, in riferimento soprattutto alle gentes  dei Simmachi, dei Nicomachi, dei Pretestati ed altri,  abbiamo da anni iniziato in varie riviste e pubblica-    (7) Derivo l’espressione di «corrente tradizionalista romana» dal po¬  deroso (e ponderoso) lavoro di P. DI VONA, Evola e Guénon. Tradizio¬  ne e civiltà, Napoli 1985, pp. 179-210, in cui, nel VI cap., intitolato ap¬  punto Il tradizionalismo romano, l’A. studia la «corrente romana del  tradizionalismo, ad opera di Reghini, Evola e De Giorgio». È evidente  che col termine «corrente» noi non intendiamo riferirci (se non in singo¬  li casi, che ben preciseremo) ad una linea di pensiero omogenea, bene  organizzata in un gruppo unitario e compatto dalle caratteristiche co¬  muni, ideologicamente e politicamente parlando, ma ad una tendenza  che potè assumere aspetti e sfaccettature diverse, come proprio i casi di  Reghini, Evola e De Giorgio (e non sono certo gli unici) sono a dimo¬  strare.    17          zioni (8) e che non mancherà di ulteriori sviluppi.   In questa sede sarà sufficiente fare rapido riferi¬  mento a quell’epoca gravida di grandi e decisive tra¬  sformazioni che fu il Rinascimento italiano. È so¬  prattutto nel corso del XV secolo che tradizioni oc¬  culte, sopravissute per secoli nel più grande segreto,  paiono ricevere nuova linfa e l’impulso ad una nuo¬  va manifestazione dal contatto con personalità del¬  l’Oriente europeo di altissima rilevanza intellettuale,  come quella di Giorgio Gemisto Pletone, il grande  rivitalizzatore della filosofia platonica negli ultimi  anni dell’Impero d’Oriente e fondatore di un cena¬  colo esoterico a Mistra, la medievale erede dell’anti¬  ca Sparta, all’interno del quale, oltre a conservare  testi dell’antichità pagana (come le opere dell’impe¬  ratore Giuliano, che vi venivano trascritte), si cele¬  bravano veri e propri riti e si elevavano inni in onore  degli dèi olimpici (9).   La figura e la funzione di Giorgio Gemisto Pleto¬  ne sono ancora troppo poco note in generale e, in  Italia, non ancora studiate (10). In genere, ci si limi-    (8) Cfr. ad esempio: R. DEL PONTE, Sulla continuità della tradizio¬  ne sacrale romana, parti I e II, in «Arthos», voi. V, numeri 21 e 25  (1980-82), pp. 1-13, 275-281; parte III, voi. VI, n. 29(1985), pp. 149-157;  vedi anche: Q. AURELIO SIMMACO, RelazionesuH’altare della Vitto¬  ria, con un’introduzione di R. del Ponte su Simmaco e isuoi tempi. Edi¬  zioni del Basilisco, Genova 1987.   (9) Si tenga conto che nel sud del Peloponneso sono attestati, a livello  popolare, culti nei confronti degli dèi classici sino al IX secolo della no¬  stra era.   (10) In lingua italiana mancano ancora del tutto studi approfonditi.    18    ta a citare, a proposito di lui, la sua partecipazione  al Concilio di Firenze e l’istituzione dell’Accademia  Platonica Fiorentina, che ebbe sede nella villa di Ca-  reggi (o «delle Cariti», o «Muse»), concepita da Co¬  simo il Vecchio e realizzata da Lorenzo il Magnifico  su suggestione del Pletone. Ma gli effetti dovettero  essere ancora più interessanti e gravidi di conseguen¬  ze, se si considerino i legami, ad esempio, fra Gior¬  gio Gemisto Pletone e Sigismondo Pandolfo Mala-  testa. Signore di Rimini: colui che ne sottrarrà il ca¬  davere agli Ottomani (1464), i quali avevano occu¬  pato Mistra nel 1460, onde deporlo pietosamente in  un’arca marmorea del suo famoso «Tempio Malate¬  stiano». Lo stesso Malatesta dovette pure essere in  rapporto con la ben nota «Accademia Romana» di  Pomponio Leto (11), propugnatore, scrive il von Pa-  stor, del «romanesimo nazionale antico». Il capo    Ci si dovrà pertanto limitare a rimandare a: B. KIESZKOWSKI, Studi  sul platonismo del Rinascimento in Italia (vedi soprattutto cap. II),  Sansoni, Firenze 1936; P. FENILI, Bisanzio e la corrente tradizionale  del Rinascimento, in «Vie della Tradizione», X, 39 (1980), pp. 139-147  (ci viene comunicato ora, che a cura dello stesso P. Fenili è in corso di  stampa un’antologia di brani di Pletone, dal titolo «Paganitas», lo  squarcio nelle tenebre, per Basala Editore di Roma). Di recente, ci è ca¬  pitato di leggere in un’insolita pubblicazione, una rivistina satirica di si¬  nistra, un reportage da Mistra singolarmente informato e documentato  su Gemisto Pletone e la sua scuola (cfr. P.LO SARDO, La repubblica  dei Magi. Da Sparta alla Firenze del '400, in «Frigidaire», 56-57, luglio-  agosto 1985, pp. 55-63).   (11) Per mezzo del Platina (definito da Pomponio pater sanctissi-  mus), 1 ’Accademia Romana intratteneva rapporti col Malatesta, il quale    19          dell’Accademia Romana, riporta il von Pastori   «spregiava la religione cristiana ed usciva in vio¬  lenti discorsi contro i suoi seguaci... venerava il ge¬  nio della città di Roma. (...) Quale rappresentante  di queU’umanesimo, che gravitava verso il pagane¬  simo, si schierarono ben presto attorno a Pompo¬  nio un certo numero di giovani, spiriti liberi dalle  idee e dai costumi mezzo pagani. (...) Gli iniziati  consideravano la loro dotta società come un vero  collegio sacerdotale alla foggia antica, con alla te¬  sta un pontefice massimo, alla quale dignità fu  elevato Pomponio Leto» (12).   Si noti che sembra certa l’adesione alla cerchia del  Leto del principe Francesco Colonna, Signore di Pa-  lestrina, l’antica Praeneste, dai più ritenuto l’autore  della celeberrima Hypnerotomachia Poliphili, un te¬  sto molto citato, ma molto poco letto e soprattutto  compreso, dove, in ogni modo, una sapienza ermeti¬  ca si sposa all’esaltazione, non tanto filosofica.    fu notoriamente nemico dei papi e ammiratore del movimento pagano  di Mistra (cfr. F. Masai, Pléthon et le platonisme de Mistra, Paris 1956,  p. 344, nota. L’opera del Masai è a tutt’oggi la più completa esistente  sulla dottrina e la figura di Giorgio Gemisto Pletone). Si noti che il Pla¬  tina fu allievo a Firenze dell’Argiropulo, discepolo di Pletone, e che un  altro antico discepolo, il Cardinal Bessarione, si prodigò per la liberazio¬  ne da Castel Sant’Angelo dei membri dell’Accademia Romana nel 1468,  dopo che furono accusati dal papa Paolo II — non senza fondamento  — di «paganesimo». 11 Masai (op. cit., p. 343) si domanda se l’Accade¬  mia Romana «non fosse in qualche modo una filiale di quella di  Mistra».   (12) L. von PASTOR, Storia dei Papi, voi. II, Roma 1911, pp. 308-309.    20    quanto mistica, del mondo della paganità romano¬  italica, culminante nella visione di Venere Genitrice.   Se si rifletta al fatto che Francesco Colonna, rea¬  lizzatore fra il 1490 e il 1500 del nuovo imponente  palazzo gentilizio eretto sulle rovine del tempio di  Fortuna Primigenia (ancora oggi ben identificabili  nelle strutture originali), vantava discendenza diret¬  ta dalla gens Julia e quindi da Venere (13), si potrà  allora intravedere come l’apporto vivificante della  corrente sapienziale reintrodotta in Italia da Gemi¬  sto Pletone si fosse incontrato col retaggio gentilizio  di una tradizione antichissima, gelosamente custodi¬  to nel silenzio dei secoli col tramite di alcune fami¬  glie nobiliari italiane, in ispecie laziali, generosa¬  mente fruttificando: nel senso di spingere ad un rin¬  novamento tradizionale non solo l’Italia, ma persi¬  no, ad un certo momento, lo stesso papato, se avven¬    ti 3) Risulterà forse sorprendente apprendere come i Colonna posse¬  dessero ancora fino ai nostri giorni (è documentato almeno sino al  1927) il «feudo» originale di Giulio Cesare, Boville (Frattocchie d’Alba-  no). Sempre fino al 1927 era visibile nel giardino Colonna al Quirinale  l’aitare antico dedicato al Vediove della gens Julia (notizie ricavate da:  P. COLONNA, I Colonna, Roma 1927, pp. 5-6). Tolomeo 1 Colonna  ostentava il titolo di Romanorum consul excellentissimus e Julia stirpe  progenitus (cfr. P. FEDELE, s.v. Colonna, in «Enciclopedia Italiana»,  X, 1931). Ha compiuto un’attenta analisi deWHypnerotomachia Poli¬  phili (editio princeps nel 1499, presso Manuzio) come opera di France¬  sco Colonna, M. CALVESI, Il sogno di Polifilo prenestino, Roma 1980.  Si veda anche: OLIMPIA PELOSI, Il sogno di Polifilo: una quéte del¬  l’umanesimo, ed. Palladio, s.l. 1978. A.C. Ambesi, in considerazione  della dimensione iniziatica dell’opera di Francesco Colonna, la conside¬  ra come un’anticipazione cifrata del movimento dei Rosacroce (/ Rosa¬  croce, Milano 1982, pp. 76 e sgg.).    21          ne che poco mancò che salisse al soglio pontificio  quel cardinale Giuseppe Bassarione che fu discepolo  diretto di Giorgio Gemisto Pletone, da lui giudicato,  come scrisse in una lettera privata ai figli del mae¬  stro dopo la sua morte, «il più grande dei Greci do¬  po Platone» (14).    Ma altri tempi tristi dovevano giungere, tempi in  cui sarebbe stato più prudente tacere, come dimo¬  strò il bagliore delle fiamme in Campo dei Fiori, av¬  volgenti nell’anno di Cristo 1600 il corpo, ma non  l’animo, di Giordano Bruno, rivivificatore generoso,  ma impaziente, di dottrine orfico-pitagoriche, che  trovavano analoga eco — frutto di una linfa non  mai del tutto estinta nell’Italia Meridionale — nella  poesia e nella prosa dell’irruente frate calabrese  Tommaso Campanella, lui pure oggetto di odiose  persecuzioni.   Bisognerà giungere sino all’unità d’Italia, parzial¬  mente realizzatasi nel 1870 con la fine della millena¬  ria usurpazione temporale dei papi, per trovare una  situazione mutata. A questo punto bisogna chiarire  una volta per tutte, con la maggiore evidenza, che  dal punto di vista del tradizionalismo romano l’uni¬  tà d’Italia — indipendentemente dai modi con cui    (14) Si dovrà ricordare che il Bessarione raccolse cum pietate nel suo  studio le opere e i manoscritti del maestro, in particolare alcuni fram¬  menti apertamente pagani delle Leggi, dotandone poi la Biblioteca  Marciana da lui fondata, a Venezia.    22    potè in effetti verificarsi (modi spesso arbitrari e  prevaricatori della dignità e delle sacrosante autono¬  mie di diverse popolazioni italiche) e dall’azione di  certe forze sospette (Carboneria, massoneria e sette  varie) che per i loro fini occulti poterono agevolarla  — era e rimane condizione imprescindibile e necessa¬  ria per ritornare alla realtà geopolitica dell’Italia au-  gustea (e dantesca): quindi per propiziare il rimani¬  festarsi nella Saturnia tellus di quelle forze divine  che ab origine a quella realtà geografica — consa¬  crata dalla volontà degli dèi indigeti — sono legate.   È un dato che si dovrà tenere ben presente, per  meglio intendere certi fatti che avremo modo di  esporre in seguito.    Intanto, negli ultimi anni del XIX secolo è nell’a¬  ria qualcosa di nuovo e antico insieme, che verrà av¬  vertito dalle anime più sensibili.   Fra queste, il grande poeta Giovanni Pascoli, con  un equilibrio ed una compostezza veramente classi¬  ci, valendosi di una sensibilità non inferiore a quella  con cui in quegli stessi anni conduceva l’esegesi di  certi lati occulti della dantesca Commedia, con il se¬  guente sonetto (e col corrispondente testo in esame¬  tri latini, da noi non riprodotto) celebrava in una  semplice aula scolastica la solennità del 21 aprile  1895:    23         «L’aratro è fermo: il toro d’arar sazio,  leva il fumido muso ad una branca  d’olmo; la vacca mugge a lungo, stanca,  e n’echeggia il frondifero Palazio.   Una mano sull’asta, una sull’anca  del toro, l’arator guarda lo spazio:  sotto lui, verde acquitrinoso il Lazio;  là, sul monte, una lunga breccia bianca.   È Alba. Passa l’Albula tranquilla,   sì che ognun ode un picchio che percuote   nell’Argileto l’acero sonoro.   Sopra il Tarpeio un bosco al sole brilla,  come un incendio. Scende a larghe ruote  l’aquila nera in un polverio d’oro» (15).   Allo scadere del secolo, nel 1899, è un fatto nuovo  di ordine archeologico il punto di riferimento im¬  portante ed essenziale per il secolo che sta per aprir¬  si: la scoperta nel Foro da parte dell’archeologo Gia¬  como Boni (un nome che non dovremo scordare) del  cippo arcaico sotto il cosiddetto Lapis Niger (VI sec.  a.C.), in cui l’iscrizione in caratteri antichi del termi¬  ne RECHI ( = regi) attesta documentariamente l’ef¬  fettiva esistenza in Roma della monarchia e, con  quanto ne consegue, la sostanziale fondatezza della  tradizione annalistica romana, trasmessa nel corso  di innumerevoli generazioni, dai primi Annales Ma¬  ximi dei pontefici sino a Tito Livio e, al termine del-    (15) G. PASCOLI, Antico sempre nuovo. Scritti vari di argomento  latino, Zanichelli, Bologna 1925, p. 29. 11 lettore esperto potrà notare  come in pochi versi il poeta abbia saputo sapientemente concentrare  particolari nomi evocativi di determinate realtà primordiali dell’Urbe.    24    l’Impero d’Occidente, alle ultime gentes sacerdotali  ed a quegli estremi devoti raccoglitori e trasmettitori  della sapienza delle origini, come poterono essere un  Macrobio ed un Marziano Capella nel V secolo.   È come se, fisicamente, una parte di tradizione ro¬  mana si esponesse improvvisamente alla luce del so¬  le a smentire l’incredulità e l’ipercriticismo della  scuola tedesca, che, in nome di un presunto realismo  scientifico, aveva respinto in blocco le più antiche  memorie patrie, e soprattutto dei suoi squallidi se¬  guaci italiani, come quell’Ettore Pais che nella sua  Storia di Roma (ristampata innumerevoli volte fino  in piena epoca fascista) aveva negato ogni tradizione  da una parte, costruendo dall’altra fantastici castelli  in aria, senza alcuna base, né storica, né filologica.   Risulta che Giacomo Boni fu in corrispondenza  con un altro principe romano, pioniere degli studi  islamici e deputato al parlamento nei banchi della  sinistra: Leone Caetani duca di Sermoneta, principe  di Teano, marito di una principessa Colonna.   Suo nonno, Michelangelo Caetani, era stato l’au¬  tore di un fortunato opuscolo di esegesi dantesca sin  dal 1852, dove si sosteneva l’identità di Enea col  dantesco «messo del cielo» che apre le porte della  Città di Dite con «l’aurea verghetta» degli iniziati di  Eieusi (16): quello stesso che nel 1870, già vecchio e  quasi cieco, fu il latore a Vittorio Emanuele II dei    (16) Cfr. M. CAETANI di SERMONETA, Tre chiose nella Divina  Commedia di Dante Alighieri, II ed., Lapi, Città di Castello 1894.    25           risultati del plebiscito che sanciva l’unione di Roma  all’Italia.   Proprio Leone Caetani sarebbe stato l’autorevole  tramite attraverso cui si sarebbero manifestate al¬  l’interno della Fratellanza Terapeutica di Myriam  (operativa proprio negli anni della scoperta del La¬  pis Niger) fondata da Giuliano Kremmerz (cioè Ciro  Formisano di Portici) — che la definì talvolta come  Schola Italica — determinate influenze derivanti  dall’antica tradizione romano-italica se, come scrive  l’esoterista Marco Daffi {alias il conte Libero Ric-  ciardelli) (17) è lui il misterioso «Ottaviano» (altro  riferimento alla gens Julia!) autore nel 1910, nella ri¬  vista «Commentarium» diretta dal Kremmerz, di un  articolo sul dio Pan e di una lettera di congedo dalla  redazione in cui egli riafferma in tali termini la pro¬    ti?) «Sotto tale pseudonimo si nascondeva persona veramente auto¬  revole, autorevolissimo collega di ricerche ermetiche di Kremmerz tanto  da potere essere ritenuto portavoce di sede superiore (...) Don Leone  Caetani, Duca di Sermoneta, Principe di Teano» (M. DAFFI, Giuliano  Kremmerz e la Fr+Tr+ di Myriam, a cura di G.M.G., Alkaest, Genova  1981, pp. 62 e 84). Gli scritti firmati da «Ottaviano» in «.Commenta¬  rium» sono tre: La divinazionepantéa (n. 1 del 25 luglio 1910), Per Giu¬  seppe Francesco Borri (n. 3 del 25 agosto 1910), Gnosticismo e inizia¬  zione (n. 8-10 di novembre-dicembre 1910). In quest’ultimo scritto, con¬  sistente in una lettera di congedo come collaboratore della rivista, si ri¬  manda all’opera di un altro personaggio che, come «Ottaviano», doveva  riconnettersi allo stesso ambiente iniziatico gravitante alle spalle dell’or¬  ganismo kremmerziano: l’avvocato Giustiniano Lebano, autore di un  curioso libretto intitolato Dell’Inferno: Cristo vi discese colla sola ani¬  ma o anche col corpo? (Torre Annunziata 1899), in cui nuovamente si  accenna al «ramoscello dorato del segreto, ossia la voce mistica di con¬  venzione» (p. 66) che Enea presenta a Proscrpina.    26    pria fede pagana:    «... non sono che pagano e ammiratore del paga¬  nesimo e divido il mondo in volgo e sapienti (...)  volgo, che i miei antenati simboleggiavano nel ca¬  ne e lo pingevano alla catena sul vestibolo del Do-  mus familiae con la nota scritta: Cave canem; ca¬  ne perché latra, addenta e lacera» (18).   In quegli stessi anni (a partire dal 1905) era co¬  minciata l’attività pubblicistica ed iniziatica di Ar¬  turo Reghini (1878-1946). La sua importanza fra i  più autorevoli esponenti europei della Tradizione, e  del filone romano-italico in particolare, risiede cer¬  tamente non tanto nel tentativo, vano e fatalmente  destinato all’insuccesso, per quanto disinteressato,  di rivitalizzare la massoneria al suo interno (19),  quanto nell’attenzione da lui portata allo studio ed    (18) OTTAVIANO, Gnosticismo e iniziazione, cit., p. 210.   (19) Tentativo che si concretizzò soprattutto con la creazione del Rito  Filosofico Italiano, fondato nel 1909 dal Reghini, Edoardo Frosini ed  altri (il 20 ottobre 1911 vi sarà accolto come membro onorario Aleister  Crowley...), ma dall’esistenza effimera, dal momento che sin dal 1919 si  fuse con la massoneria di Rito Scozzese Antico ed Accettato di Piazza  del Gesù. 11 Reghini seguirà le sorti e le direttive di Piazza del Gesù di  Raoul Palermi, molto favorevole nei confronti del fascismo, sino ai  provvedimenti contro le società segrete del 1925. Giovanni Papini ha de¬  dicato alcune pagine nel contempo pungenti e commosse ad Arturo Re¬  ghini di cui fu amico negli anni giovanili, cosi concludendo: «Arturo  Reghini visse, povero e solitario, una vita di pensiero e di sogno: anch’e¬  gli difese e incarnò, a suo modo, il “primato dello spirituale’’. Nessuno  di quelli che lo conobbero potrà dimenticarlo» (Passato remoto (1885-  1914), ed. L’Arco, Firenze 1948, p. 129).    27         alla riscoperta della tradizione classica e romana,  che gli era stato dato in compito di rivitalizzare «in  segreto», così come egli stesso si esprime in una let¬  tera inviata ad Augusto Agabiti e pubblicata nel nu¬  mero di aprile 1914 di «Ultra»:   «sai bene come il nostro lavoro, puramente meta¬  fisico e quindi naturalmente esoterico, sia rimasto  sempre e volontariamente segreto» (20).   In tal modo il Reghini ben si inseriva nel filone  della corrente tradizionalista romana, in quella sua  variante che si può legittimamente definire «orfico-  pitagorica» (21), col contributo di numerosi scritti,  soprattutto sulla numerologia pitagorica, sparsi fra  molti articoli e opere impegnative, come Per la resti¬  tuzione della geometria pitagorica (1935; rist. 1978),  I numeri sacri della tradizione pitagorica massonica  (postumo 1947; rist. 1978), Aritmosofia (postumo    (20) A. REGHINI, La «tradizione italica», in «Ultra», Vili, 2 (aprile  1914), p. 69.   (21) Allo stesso modo, di tradizione ermetica «egizio-ellenistica» si  potrebbe parlare per il filone essenzialmente seguito dalla corrente  kremmerziana. È chiaro come nessuna di queste correnti possa preten¬  dere di identificarsi con il filone centrale deWa tradizione romana (come  vorrebbero, ad esempio, certi continuatori del Reghini dei nostri giorni),  rappresentandone, semmai, corollari concentrici ed espressioni validis¬  sime, ma essenzialmente periferiche. Il nucleo della tradizione romana  è altra cosa: può includere tutto ciò, ma al tempo stesso ne è al di sopra  nella sua essenza originaria. Per cercare di comprendere la cosa, si dovrà  riflettere sul simbolismo e sulla funzione del dio Giano, non per caso  divinità unica e propria della sacra terra laziale.    28    1980) ed il tuttora inedito Dei numeri pitagorici (22).   Con questa attività egli avrebbe perseguito la mis¬  sione affidatagli da un’antica scuola iniziatica di tra¬  dizione pitagorica della Magna Grecia (23) allorché,  ancora giovane e studente a Pisa, fu avvicinato da  colui che sarebbe divenuto il suo maestro spirituale:  Amedeo Rocco Armentano (24), calabrese, ufficiale  dell’esercito all’epoca in cui lo conobbe il Reghini.   Ad Amedeo Armentano (1886-1966) apparteneva    (22) Di recente, per il quarantesimo anniversario della scomparsa del  Reghini (1986), è stata edita una raccolta di suoi scritti vari: Paganesi¬  mo, pitagorismo, massoneria, ed. Mantinea, Fumari 1986, a cura del¬  l’Associazione Pitagorica, un gruppo costituitosi solo nel giugno 1984  con un poco iniziatico «atto notarile» (sic), ma che vanta diretta discen¬  denza dal gruppo del Reghini. La raccolta è stata purtroppo eseguita  con dilettantismo, senza criteri ed inquadramenti storico-filologici e gli  scritti reghiniani (uno addirittura incompleto) non seguono nè un ordi¬  ne logico, nè cronologico. Il saggio suW Interdizione pitagorica delle fa¬  ve si potrà leggere ora completo in «Arthos» n. 30 (1986, ma stampato  1987).   (23) DIOGENE LAERZIO (Vili, 56) ricorda come il pensiero di Pi¬  tagora avesse trovato accoglienza presso gli Italioti della Magna Grecia:  «Come dice Alcidamante tutti onorano i sapienti. Così i Pari onorano  Archiloco, che pur era blasfemo, e i Chii Omero, che era d’altra città (...)  e gli Italioti Pitagora» (Die fragmente der Vorsokratiker, a cura di H.  Diels-W. Kranz; trad. ital. Bari 1981, v. I).   (24) Per alcune notizie su Armentano (ed una sua foto), cfr. R. SE-  STITO, A.R.A., il Maestro, in Ygieia, bollettino interno dell’Associazio¬  ne Pitagorica, 111, 1-4 (1986), pp. 1-3. Di Armentano si vedano le Massi¬  me di scienza iniziatica, commentate dal Reghini in vari numeri di  «Atanòr» ed «Ignis» (1924-25). Negli anni Trenta Armentano lasciò l’I¬  talia per il Brasile, dove morì. È sintomatico come anche «Ottaviano»  in quel periodo si sarebbe allontanato dall’Italia stanziandosi a Vancou¬  ver in Canada.    29         quella misteriosa «torre in mezzo al mare. Una ve¬  detta diroccata, su di uno scoglio deserto» (25) dove,  con gran dispiacere di Sibilla Aleramo, il giovane  protagonista del romanzo Amo, dunque sono (Mon¬  dadori, Milano 1927), «Luciano» {alias Giulio Pari¬  se), avrebbe dovuto «diventare mago» in compagnia  di un amico non nominato, vale a dire proprio il  Reghini.   Fu proprio nella torre di Scalea, in Calabria, che  il Reghini rivide nell’estate 1926 il testo della tradu¬  zione italiana deirOccw//flr Phylosophia di Agrippa,  a cui premise un ampio saggio di quasi duecento pa¬  gine su E.C. Agrippa e la sua magia. Vi scriveva, fra  l’altro:    «E perciò, in noi, il senso della romanità si fonde  con quello aristocratico e iniziatico nel renderci  fieramente avversi a certe alleanze, acquiescenze e  deviazioni. Forse si avvicina il tempo in cui sarà  possibile di rimettere un po’ a posto le cose, e noi  speriamo che ci venga consentito, una qualche vol¬  ta, di riportare alla luce qualche segno dell’esoteri¬  smo romano. Quanto alla permanenza di una  “tradizione romana”, si vorrà ammettere che se  una tradizione iniziatica romana pagana ha potu¬  to perpetuarsi, non può averlo fatto che nel più as¬  soluto mistero. Non è quindi il caso di interloquire  con affermazioni e negazioni» (26).    (25) S. ALERAMO, Amo, dunque sono, cit., p. 15. Cfr. p. 50: «Lu¬  ciano, Luciano, e tu vuoi essere mago! M’hai detto d’aver già operato  fantastiche cose, fantastiche a narrarsi, ma realmente accadute».   (26) A. REGHINI, E.C. Agrippa e la sua magia, in: E.C. AGRIPPA,    30    Il 1914 è un anno molto importante, sotto diversi  aspetti, per i tentativi di rivivificazione della tradi¬  zione italica. Nel numero di gennaio-febbraio 1914  di «Salamandra», in un articolo dal titolo fortuna¬  to, poi ripreso da Evola, Imperialismo pagano, il Re¬  ghini coglieva occasione, scagliandosi contro il par¬  lamentarismo ed il suffragio universale che favoriva  cattolici e socialisti, di riaffermare l’unità e l’immu¬  tabilità della tradizione pagana in Italia, che, sempre  ricollegata nella sua visione al pitagorismo, si sareb¬  be trasmessa attraverso le figure di alcuni grandi ini¬  ziati sino ai nostri giorni (27). In ottobre, dalle pagi¬  ne di «Ultra», precisava nello stesso tempo, in un  importante articolo dottrinario, che:   «Il linguaggio e la razza non sono le cause della  superiorità metafisica, essa appare connaturata al  luogo, al suolo, all’aria stessa. Roma, Roma caput  mundi, la città eterna, si manifesta anche storica¬  mente come una di queste regioni magnetiche del¬  la terra. (...) Se noi parleremo del mito aureo e so¬  lare in Egitto, Caldea e Grecia prima di occuparci  della sapienza romana, non è perché questa derivi  da quella, ché il meno non può dare il più» (28).    Lm Filosofia occulta o la Magia, voi. I, rist. Mediterranee, Roma 1972,  pp. XCIII-XClV, nota.   (27) L’articolo fu poi ripubblicato in «Atanòr», I, 3 (marzo 1924),  pp. 69-85 (oggi nella ristampa anastatica a cura dell’omonima casa edi¬  trice di Roma).   (28) A. REGHINI, Del simbolismo e della filologia in rapporto alla  sapienza metafisica, in «Ultra», Vili, 5 (ottobre 1914), p. 506.    31          Intanto, nella notte del solstizio d’inverno del  1913, si era verificato un insolito episodio, gravido  di future conseguenze: in seguito a misteriose indi¬  cazioni, nei pressi di un antico sepolcro sull’Appia  Antica era stato rinvenuto, a cura di «Ekatlos» (29),  accuratamente celato e protetto da un involucro im¬  permeabile, uno scettro regale di arcaica fattura e i  segni di un rituale.   «Ed il rito — riporta «Ekatlos» (30) — fu celebra¬  to per mesi e mesi, ogni notte, senza sosta. E noi  sentimmo, meravigliati, accorrervi forze di guerra  e forze di vittoria; e vedemmo balenar nella sua lu¬  ce le figure vetuste ed auguste degli “Eroi” della  razza nostra romana; e un “segno che non può fal¬  lire” fu sigillo per il ponte di salda pietra che uo¬  mini sconosciuti costruivano per essi nel silenzio  profondo della notte, giorno per giorno».   «Il significato, le vere intenzioni e le origini di tali    (29) Lasciamo ogni responsabilità circa l’identificazione di «Eka¬  tlos» con il principe Leone Caetani, già da noi incontrato, all’anonimo  autore (si tratta, peraltro, certamente di C. Mutti, fanatico integralista  islamico) di una postilla alla parziale traduzione francese della rivista  evoliana «Krur» (TRANSILVANUS 1984, A propos de l’article d’Eka-  tlos, seguito da una Note sur Leone Caetani, in: J. EVOLA, Tous les  écrits de «Ur» & «Krur», 111 [Krur 1929], Arché, Milano 1985, pp. 475-  486). Ancor più lasciamo all’autore di tali tristi note (in cui ancora una  volta si dimostra come tra fanatismo religioso e via iniziatica esista un  divario invalicabile) la pesante responsabilità delle poco ragguardevoli  espressioni usate nei confronti del benemerito principe romano.   (30) EKATLOS, La «Grande Orma»: la scena e le quinte, in «Krur»,  I, 12 (dicembre 1929), pp. 353-355, oggi in: GRUPPO di UR, Introdu¬  zione alla Magia, voi. Ili, Roma 1971, pp. 380-383.    32    riti pongono un problema», osserva il Di Vona (31),  «ma il loro fine immediato fu esplicito, e come tale  è stato dichiarato. (...) Esso fu compiuto nel dovuto  modo da un gruppo che si propose di dirigere verso  la vittoria italiana la I Guerra Mondiale».   Ma l’episodio ha un seguito: il 23 marzo 1919  (giorno in cui cade la festa romana del Tubilustrium,  o consacrazione delle trombe di guerra) fu fondato  a Milano, nella famosa riunione di Piazza Sansepol-  cro, il primo Fascio di Combattimento (dal 1921 de¬  nominato Partito Nazionale Fascista). Fra gli astanti  vi fu chi, emanazione dello stesso gruppo che aveva  riesumato l’antico rituale, preannuncio a Benito  Mussolini: «Voisarete Console d’Italia». E fu la stes¬  sa persona che, qualche mese dopo la Marcia su Ro¬  ma, il 23 maggio 1923, vestita di rosso, offrì al Capo  del Governo un’arcaica ascia etrusca, con «le dodici  verghe di betulla secondo la prescrizione rituale le¬  gate con strisce di cuoio rosso» (32).   Con tale atto dal sapore sacrale, come è evidente.    (31) P. DI VONA, Evola e Guénon, cit., p. 202.   (32) EKATLOS, art. cit., p. 382, nota. La notizia è riportata con altri  particolari nel «Piccolo» di Roma del 23-24 maggio 1923, p. 2 [cfr. Ap¬  pendice 1]. Particolare curioso: la sera stessa del 23 maggio Mussolini  parti in aereo alla volta di Udine, onde potere inaugurare il giorno dopo,  24 maggio, anniversario dell ’entrata in guerra, il monumentale cimitero  di Redipuglia, alla presenza del Duca d’Aosta. La sera del 24, sulla via  del ritorno verso Roma, l’aereo fu costretto, da un inspiegabile guasto,  ad un atterraggio di fortuna nei pressi di Cerveteri, cioè l’antica etrusca  Cere, donde forse proveniva l’arcaico fascio.    33             le correnti più occulte portatrici della tradizione ro¬  mana avrebbero voluto propiziare una restaurazione  in senso «pagano» del fascismo.   Altri episodi concomitanti concorrono a rafforza¬  re questa supposizione. Dopo essere stata composta  proprio nel 1914, fra il 21 aprile ed il 6 maggio 1923  (altre significative coincidenze di date), fu rappre¬  sentata sul Palatino la tragedia Rumori: Romae sa-  crae origines (il solo terzo atto), col beneplacito e la  presenza plaudente di Benito Mussolini. La tragedia  (o, meglio, alla latina, il Carmen solutum) risulta  opera di un certo «Ignis» (pseudonimo sotto cui si  celerebbe l’avvocato Ruggero Musmeci Ferrari Bra¬  vo), che risulta godere di appoggi assai influenti, co¬  me quello di Ardengo Soffici [cfr. Appendice 11], e  appare, specialmente in quel terzo carmen che fu re¬  citato, più che una semplice rappresentazione sceni¬  ca, un vero e proprio atto rituale: un rito di consa¬  crazione, certamente denotante nell’autore, o nei  gruppi restati nell’ombra di cui egli era emanazione,  una conoscenza non solo filologica della tradizione  romana (si pensi che in intermezzi scenici vengono  cantati, al suono di flauti, i versi ianuli e iunonii dei  Fratres Arvales), ma anche di certi suoi lati occulti,  come lascia intendere il rito di incisione su lamine  auree dei nomi arcani deU’Urbe e l’esegesi, voluta-  mente incompleta, dei significati del nome di Roma.   Quest’azione, occulta e palese, sulle gerarchie fa¬  sciste affinché i simboli da esse evocate, come l’aqui¬  la o il fascio, non restassero puro orpello di facciata,  continuerà sino al 1929, che è anche l’anno in cui    34    Rumon verrà pubblicata, in splendida edizione uffi¬  ciale, dalla Libreria del Littorio, con i frontespizi or¬  nati di caratteri arcaici romani, disegnati apposita¬  mente nel 1923 da Giacomo Boni, lo scopritore del  Lapis Niger già da noi incontrato, il quale avrà il pri¬  vilegio poco dopo, alla sua morte (1925), di essere  inumato sul Palatino stesso (33).   Ancora noteremo come sintomatica l’uscita, nello  stesso 1923, della Apologia del paganesimo (Formig-  gini, Roma) di Giovanni Costa, futuro collaboratore  delle iniziative pubblicistiche di Evola [cfr. Appendi¬  ce III].   Fra il 1924 e il 1925 uscirono le due riviste «di stu¬  di iniziatici» «Atanòr» ed «Ignis», dirette da Arturo  Reghini, e in cui iniziò una collaborazione il giovane  Evola: affronteranno con un rigore ed una serietà  inconsuete, per l’eterogeneo ambiente spiritualista  dell’epoca, tematiche e discipline esoteriche di parti¬  colare interesse: vi comparvero, per la prima volta in  Italia, scritti di René Guénon, fra cui a puntate, pri¬  ma ancora che in Francia, L'esoterismo di Dante. È  peraltro evidente come il contenuto di queste riviste  non avesse un valore puramente speculativo, come  dimostrano gli scritti di «Luce» suirO/7M5 magicum  (Gli specchi - Le erbe) negli ultimi due numeri di    (33) Fu proprio Giacomo Boni che, risalendo ai modelli d’origine, mi¬  se a punto il prototipo del fascio romano (oggi al Museo dell’Impero)  per il Regime Fascista: è quello che compare sulle monete da due lire di  quel periodo (cfr. V. BRACCO, L’archeologia del Regime, Volpe, Roma  1983).    35           «Ignis», che preludono a quelli del successivo Grup¬  po di Ur. Ma intanto l’auspicata svolta in senso pa¬  gano da parte del fascismo sperata dalla corrente  tradizionalista romana non solo stenta a verificarsi,  anzi è messa pericolosamente in forse dalle mene de¬  gli ambienti cattolici e clericali. Nel n. 5 del maggio  1924 di «Atanòr» Reghini con parole di fuoco de¬  preca alcune espressioni pronunciate da Mussolini  in occasione del Natale di Roma:   «Il colle del Campidoglio, egli ha detto, "‘dopo il  Golgota, è certamente da secoli il più sacro alle  genti civiir. In questo modo l’On. Mussolini, in¬  vece di esaltare la romanità, perviene piuttosto ad  irriderla ed a vilipenderla. (...) Noi ci rifiutiamo di  subordinare ad una collinetta asiatica il sacro colle  del Campidoglio».   E nel n. 7 di luglio, dopo il delitto Matteotti:   «... ecco un clamoroso delitto politico viene a  sconvolgere la vita della nazione, ad agitare gli ani¬  mi. (...) Investito da popolari e da ogni gradazione  di democratici, a Mussolini non resterebbe che  battere la via dell’imperialismo ghibellino, se non  esistesse un partito che già lo sta esautorando...  tengano ben presente i nostri nemici che, nono¬  stante la loro enorme potenza e tutte le loro pro¬  dezze, esiste ancor oggi, come è esistita in passato,  traendo le sue radici da quelle profondità interiori  che il ferro e il fuoco non tangono, la stessa catena  iniziatica pagana e pitagorica, inutilmente e seco¬  larmente perseguitata».   L’ordine del giorno Bodrero e le successive leggi    36    sulle società segrete tolgono ulteriore spazio all’atti¬  vità pubblicistica del Reghini, che peraltro conflui¬  sce, fra il 1927 e il 1928, nel «Gruppo di Ur», for¬  malmente diretto da Julius Evola.   A noi qui non interessa tanto esaminare il lavoro  di ricerca esoterico svolto dal Gruppo di Ur, cui par¬  teciparono, come è noto, personalità appartenenti  alle principali correnti esoteriche operanti in quegli  anni in Italia, dai pitagorici ai kremmerziani, dagli  steineriani (antroposofi) ai cattolici eterodossi come  il De Giorgio, quanto sottolineare come in quella se¬  de dovesse essere stato, almeno in parte, ripreso il  programma di influenzare per via sottile le gerarchie  del fascismo, nel senso già voluto dal gruppo mani¬  festatosi nel 1913 con la testimonianza di «Ekatlos»  (che, non lo si dimentichi, viene riportata proprio  nel terzo dei volumi che raccolgono le testimonianze  di tutto il gruppo — in apparenza slegata da esse —  successivamente apparse col titolo di Introduzione  alla Magia). In un inserto per i lettori comparso nel  n. 11-12 di «Ur» (1927), Evola poteva scrivere: «...  possiamo dire che una Grande Forza, oggi più che  mai, cerca un punto di sbocco in seno a quella bar¬  barie, che è la cosidetta “civilizzazione” contempo¬  ranea — e chi ci sostiene, collabora di fatto ad una  opera che trascende di certo ciascuna delle nostre  stesse persone particolari».   Del resto, molti anni più tardi, Evola stesso di¬  chiarerà piuttosto esplicitamente nella sua autobio¬  grafia spirituale che l’intento del Gruppo era stato  quello, oltre a «destare una forza superiore dr servi-    37           re d’ausilio al lavoro individuale di ciascuno», di far  sì che «su quella specie di corpo psichico che si vole¬  va creare, potesse innestarsi per evocazione, una vera  influenza dall’alto», sì che «non sarebbe stata esclu¬  sa la possibilità di esercitare, dietro le quinte, un’a¬  zione perfino sulle forze predominanti nell’ambien¬te generale» (34). Un’indagine ben più approfondi¬  ta, come si vede, meriterebbe di essere svolta sugli  evidenti tentativi di rivitalizzazione, all’interno del  Grupo di Ur (35), delle radici esoteriche e dei conte¬  nuti iniziatici della tradizione romana: a parte i con¬  tributi dello stesso Evola (che firmerà come «EA» e,  pare, anche come «AGARDA» e «lAGLA»), di cui  ricordiamo l’importante saggio (nel HI volume) Sul  «sacro» nella tradizione romana, ancora una volta  fondamentale resta l’apporto del Reghini (che firma  come «PIETRO NEGRI»): egli, nella relazione Sul¬  la tradizione occidentale, sulla scorta di un’attenta  esegesi delle fonti antiche (soprattutto Macrobio) e  di personali acute intuizioni, nonché di probabili  «trasmissioni» iniziatiche, non esiterà ad indicare  nel mito di Saturno il «luogo» ove è racchiuso il sen¬  so e il massimo mistero iniziatico della tradizione    (34) J. EVOLA, Il cammino del cinabro, Milano 1972 (li ed.), p. 88.   (35) Un esame generale, storico-bibliografico, sul Gruppo di Ur è sta¬  to da me compiuto in lingua tedesca, come studio introduttivo alla ver¬  sione tedesca del I volume di Introduzione alla Magia (Ansata Verlag,  Interlaken 1985). Si tratta del notevole ampliamento, riveduto e corret¬  to, di un mio precedente studio già apparso in «Arthos» n. 4-5  (1973-74).    38    romana, un’indicazione utilizzata e sviluppata ulte¬  riormente nel nostro recente Dèi e miti italici.   Intanto, nella seconda metà del 1927, una serie di  articoli polemici sui nuovi rapporti tra fascismo e  chiesa cattolica, che Evola aveva pubblicato in «Cri¬  tica fascista» di Bottai e in «Vita Nova» di Leandro  Arpinati, e la successiva comparsa, nella primavera  del 1928, di Imperialismo pagano, che quegli articoli  raccoglieva e sviluppava, riversarono proprio sul  Gruppo di Ur pesanti attacchi clericali, fra cui è in¬  teressante segnalare quello particolarmente violento  e ambiguo, del futuro papa Paolo VI, Giovanni Bat¬  tista Montini, allora assistente centrale ecclesiasti¬  co della Federazione Universitari Cattolici Italiani  (F.U.C.I.), che aveva come organo culturale la rivista  «Studium» (redazione a Roma e a Brescia). Dalle  pagine di «Studium» il Montini accusava «i maghi»  riuniti attorno a Evola di «abuso di pensiero e di pa¬  rola (...) di aberrazioni retoriche, di rievocazioni fa¬  natiche e di superstiziose magie» (36).    (36) G.B.M., Filosofia: una nuova rivista, in «Studium», XXIV, 6  (giugno 1928), pp. 323-324. Oltre che del futuro Paolo VI (certamente  il più nefasto fra i papi di questo secolo), apparvero in «Studium» anche  gli attacchi del futuro ministro democristiano del dopoguerra Guido  Gonella {Un difensore del paganesimo, ivi, gennaio 1928, pp. 28-31; //  nuovo colpo di testa di un filosofo pagano, ivi, aprile 1928, pp. 203-  208), cui Evola replicò — dopo averlo definito «un tale il cui nome  esprime felicemente che vesti gli si confacciano più che non quelle della  romana virilità» — nell'«Appendice Polemica» di Imperialismo paga¬  no. Contro Imperialismo pagano (le nostre citazioni sono tratte dalla  ristampa del 1978, presso Ar di Padova) si scomodò tutto Ventourage  del giornalismo clericale, da «L’Osservatore Romano» a «L’Avvenire»,    39            Imperialismo pagano fu l’ultimo deciso, inequivo¬  cabile e tragico appello da parte di esponenti della  «corrente tradizionalista romana», prima del triste  compromesso del Concordato, affinché il fascismo,  come si esprimeva Evola, «cominciasse ad assumere  la romanità integralmente e a permearne tutta la co¬  scienza nazionale», così che il terreno fosse «pronto  per comprendere e realizzare ciò che, nella gerarchia  delle classi e degli esseri, sta più su: per comprendere  e realizzare il lato sacro, spirituale, iniziatico della  Tradizione» (p. 162). A questo scopo Evola non ri¬  sparmiava taglienti critiche alle gerarchie del  Regime:    «Il fascismo è sorto dal basso, da esigenze confuse  e da forze brute scatenate dalla guerra europea. Il  fascismo si è alimentato di compromessi, si è ali¬  mentato di retorica, si è alimentato di piccole am¬  bizioni di piccole persone. L’organismo statale che  ha costituito è spesso incerto, maldestro, violento,  non libero, non scevro da equivoci» (p. 13).    Di più: Evola, nel 1928, prevedeva addirittura gli    al «Cittadino» di Genova, nonché tutta la pubblicistica fascista fautrice  dell’intesa col Vaticano, da «Educazione fascista» a «Bibliografia fasci¬  sta», sino alla stessa bottaiana «Critica fascista» che aveva ospitato i  primi articoli evoliani.    40    esiti e gli sviluppi della Seconda Guerra Mondiale:    «L’Inghilterra e l’America, focolari temibili dei  pericolo europeo, dovrebbero essere le prime ad  essere stroncate, ma non occorre di certo spendere  troppe parole per mostrare che esito avrebbe una  simiie avventura sulla base dell’attuale stato di fat¬  to. Data la meccanizzazione della guerra moder¬  na, le sue possibilità si compenetrano strettamente  con la potenza industriale ed economica delle  grandi nazioni...» (pp. 88-89).   Era dunque necessario che il fascismo, che «bene  o male ha messo su un corpo. Ma... non ha ancora  un'anima» (p. 13), si rivolgesse senza esitazioni a  quella della Roma precristiana prima che fosse trop¬  po tardi, sì da «eleggere l'Aquila e il fascio e non le  due chiavi e la mitria a simbolo della sua rivolu¬  zione» (p. 138).   «Nostro Dio può essere quello aristocratico dei  Romani, il Dio dei patrizi, che si prega in piedi e  a fronte alta, e che si porta alla testa delle legioni  vittoriose — non il patrono dei miserabili e degli  afflitti che si implora ai piedi del crocifisso, nella  disfatta di tutto il proprio animo» (p. 163).   L’il febbraio 1929 il governo di Mussolini firma¬  va a nome del Re d’Italia, dal 1870 considerato dai  papi un «usurpatore», il cosiddetto Coneordato con  la Chiesa Cattolica (37) e nasceva il monstrum giuri-    (37) Che il cosiddetto Concordato abbia sortito un effetto a dir poco  nefasto sulle sorti, non solo dello stesso fascismo (come le vicende stori-    41          dico della Citta del Vaticano (38). Veniva con ciò  tolta ogni speranza residua di azione all’interno de¬  gli ambienti ufficiali, sia da parte di Evola che di Re-  ghini e di altri autorevoli esponenti, restati per lo più  in ombra, del «tradizionalismo romano»: alcuni di  loro, come già si è accennato in nota, abbandonaro¬  no per sempre l’Italia per il Nuovo Continente nel  corso degli anni Trenta.    Restava il «programma minimo» indicato ancora  da Evola in Imperialismo pagano, secondo cui il fa¬  scismo avrebbe dovuto:   «promuovere studi di critica e di storia, non parti-  giana, ma fredda, chirurgica, sull’essenza del cri¬  stianesimo (...). Contemporaneamente dovrebbe  promuovere studi, ricerche, divulgazioni sopra il  lato spirituale della paganità, sopra la sua visione  vera della vita» (p. 125).    che successive ben presto dimostrarono, avvalorando i timori di Reghini  e di Evola), ma della stessa Italia del dopoguerra, lo sperimentiamo an¬  cora oggi sulla nostra pelle, dopo che un quarantennale dominio  clericale-borghese ha provveduto, quasi in ogni campo, ad addormenta¬  re la coscienza delle «masse» ed a stroncare, con un autentico «terrori¬  smo di Stato», qualsiasi velleità di reazione delle minoranze coscienti  della necessità di mutare uno stato di cose ormai incancrenito.   (38) «Mussolini non si era reso conto che prima di lui uomini non so¬  lo autoritari, ma dal potere assoluto — gli Ottoni, gli Svevi, perfino  Carlo V ecc. — si erano dovuti pentire di ogni intesa, patto e transazio¬  ne con la Santa Sede. (...) ogni intesa tra Santa Sede e Stato italiano  avrebbe significato unicamente il riconoscimento giuridico della validità    42    Chi avesse pensato che la «Scuola di Mistica Fa¬  scista», fondata significativamente poco dopo la  «Conciliazione», nell’aprile 1930 nell’ambito del  G.U.F. di Milano per opera di Nicolò Giani, avrebbe  svolto una funzione del genere, avrebbe dovuto ben  presto ricredersi amaramente. In realtà, il sentimen¬  to religioso dichiarato di quella che avrebbe voluto  costituire Vélite politico-intellettuale del fascismo si  configurava con precisione come cattolico. Lo di¬  chiara, in una maniera che non potrebbe essere più  esplicita, lo stesso fratello del «Duce», Arnaldo  Mussolini, in un discorso tenuto alla Scuola nel  1931:    «La nostra esistenza deve essere inquadrata in una  marcia solida che sente la collaborazione della  gente generosa e audace, che obbedisce al coman¬  do e tiene gli occhi fissi in alto, perché ogni cosa  nostra, vicina o lontana, piccola o grande, contin¬  gente od eterna, nasce e finisce in Dio. E non parlo  qui del Dio generico che si chiama talvolta per  sminuirlo Infinito, Cosmo, Essenza, ma di Dio  nostro Signore, creatore del cielo e della terra, e  del suo Figliolo che un giorno premierà nei regni  ultraterreni le nostre poche virtù e perdonerà, spe¬  riamo, i molti difetti legati alle vicende della no¬  stra esistenza terrena» (39).    dei principii su cui si fonda l’ingerenza della Chiesa nelle questioni del¬  lo Stato italiano» (N. SERVENTI, Dal potere temporale alla repubblica  conciliare. Volpe, Roma 1974, p. 42).   (39) Cfr. «11 Popolo d’Italia» del 1° dicembre 1931. Sulla «Scuola di  Mistica Fascista», si veda: D. MARCHESINI, La scuola dei gerarchi,  Feltrinelli, Milano 1976.    43            E il filosofo Armando Carlini, discutendo della  nuova mistica, ravvisava la nota più originale del fa¬  scismo proprio nel suo presupposto «religioso, anzi  cristiano, anzi cattolico» (40); perché «il Dio di  Mussolini vuol essere quello definito dai due dogmi  fondamentali della nostra religione (...): il dogma  trinitario e quello cristologico» (41).   Quel programma che abbiamo detto «minimo»  cercherà Evola più tardi in parte di compiere con  l’organizzare il lavoro di alcuni suoi insigni collabo¬  ratori attorno al «Diorama filosofico», la pagina  speciale che, con uscita irregolare e alterna, quindi¬  cinale e mensile, curò per dieci anni, dal 1934 al  1943, all’interno del quotidiano cremonese di Fari¬  nacci, «11 Regime Fascista». La tematica della tradi¬  zione romana, esaminata nei suo simboli, nei suoi  miti, nella sua forza spirituale, ritorna qui frequen¬  temente negli scritti dello stesso Evola, di Giovanni  Costa (già da noi incontrato), di Massimo Scaligero  e di diversi collaboratori stranieri, come Edmund  Dodsworth (appartenente alla famiglia reale britan¬  nica) e lo storico tedesco Franz Altheim. Analoghe  collaborazioni sono fornite dall’allora giovane An¬  gelo Brelich, in quell’epoca sconosciuto, ma destina¬  to nel dopoguerra a ricoprire degnamente l’impor-    (40) A. CARLINI, Mistica fascista, in «Archivio di studi corporati¬  vi», voi. XI (1940), p. 299.   (41) ID., Saggio sul pensiero fUosofico e religoso del fascismo, Roma  1942, p. 56.    44    tante cattedra, che fu del Pettazzoni, di Storia delle  Religioni nell’Università di Roma, e da Guido De  Giorgio, già collaboratore di «Ur» e di altre iniziati¬  ve evoliane. Nel contesto della corrente da noi defi¬  nita del «tradizionalismo romano» il De Giorgio oc¬  cupa una posizione piuttosto anomala e tale che il  Reghini avrebbe visto con sospetto: egli infatti con¬  cepisce in Roma la sede eterna, geografica e storica,  ma soprattutto metafisica, in grado di unire in sé  stessa la religione pagana e il cristianesimo, tesi ela¬  borata soprattutto ne La tradizione romana, uscita  postuma solo nel 1973 (42). D’altra parte, è lo stesso  De Giorgio a ribadire con sorprendente sicurezza la  persistenza del culto di Vesta in un misterioso cen¬  tro, nascosto e inaccessibile:   «Il fuoco di Vesta (...) arde inaccessibilmente nel  Tempio nascosto ove nessuno sguardo profano sa-    (42) L’uscita alle stampe di questa edizione (presentata come Ed. Fla-  men, Milano 1973) offre contorni alquanto misteriosi. In ogni caso, il  manoscritto dell’opera sarebbe stato consegnato all’autore della nota  introduttiva, «ASILAS» (che corrisponderebbe ad uno degli ispiratori  del «Gruppo dei Dioscuri» e nel contempo autore di due dei fascicoli  omonimi [si veda poi]), da un antico componente del Gruppo di Ur, che  noi sappiamo corrispondere al «TAURULUS» del 1929, cioè Corallo  Reginelli, tuttora vivente.   L’uscita della Tradizione romana, in ogni modo, è stata 1 ’occasione  per una salutare riflessione sul tema da parte dell’ambiente tradizionali¬  sta nella prima metà degli anni Settanta, sia da parte cattolica (si veda¬  no il bollettino «Il rogo», operante fra il 1974 e il 1976 e la successiva  rivista «Excalibur»), sia da parte propriamente «pagana» (si veda la no¬  stra recensione dell’opera del De Giorgio, confortata da un parere di  Evola, in «Arthos» n. 8: essenziale come punto di ripresa del discorso  sulle origini della tradizione romana).    45             prebbe penetrare e a lui deve l’Europa intera la sua  vita e il prolungamento della sua agonia. Da questo  fuoco occulto partono scintille che alimentano le  crisi e risollevano periodicamente l’esigenza del ri¬  torno alla Romanità attraverso le varie vicende di  cui s’intesse la storia delle nazioni europee conside¬  rata geneticamente, internamente e non sul piano li¬  mitatissimo della contingenza dei fatti e degli  uomini» (43).    Queir immane conflitto, già previsto da Evola nel  1928, e che anche il De Giorgio giudicava del tutto  inefficace, «se non addirittura letale per lo spirito e  il nome di Roma» (44), avrà in effetti come risultato  più manifesto, per i fini dello studio che qui andia¬  mo conducendo, di occultare del tutto le fila della  corrente di pensiero di cui siamo andati ripercorren¬  do la trama.   Solo verso la fine degli anni Sessanta è proprio la  ristampa dell’evoliano Imperialismo pagano (e la  scelta pare significativa), curata nel 1968 dal «Cen¬  tro Studi Ordine Nuovo» di Messina (45), a tentare    (43) G. DE GIORGIO, op. di., p. 245 (vedi anche pp. 239 e 243).   (44) ibidem, p. 296.   (45) L’edizione, ciclostilata, con copertina stampata in azzurro, venne  tolta subito dalla circolazione in quanto non autorizzata da Evola: la si  può considerare oggi una vera rarità bibliografica.    46    di riannodare i termini di un antico discorso:   «L’angoscioso grido d’allarme rivolto dall’Autore  in quel lontano 1928 a Benito Mussolini per met¬  terlo in guardia contro il ventilato proposito della  cosiddetta “Conciliazione’)) — si afferma nell’a¬  nonima introduzione — «risuona oggi con inusi¬  tata attualità e fa si che Imperialismo pagano ven¬  ga guardato come un oracolo».   Ed è proprio provenendo dalle fila di «Ordine  Nuovo», un’organizzazione che lo stesso Evola ha  tenuto in buona considerazione (46) — almeno fino  a che, sul finire del 1969, la sua ala borghese¬  modernista, condotta da Rauti, non confluì nel  MSI (47) — che comincia ad agire, tra la fine degli  anni Sessanta ed i primi anni Settanta, il «Gruppo  dei Dioscuri», con sede principale a Roma e dirama¬  zioni a Napoli e Messina. Pare assodato che all’in¬  terno del «Gruppo dei Dioscuri» venissero riprese    - (46) Cfr. J. EVOLA, Il cammino del cinabro, cit., p. 212: «L’unico  gruppo che dottrinalmente ha tenuto fermo senza scendere in compro¬  messi è quello che si è chiamato AeWOrdine Nuovo».   (47) L’interesse dei «tradizionalisti romani» nei confronti di «Ordine  Nuovo» si esaurisce sin dall’inizio degli anni Settanta, allorché, da una  parte, la frazione rautiana rientrata nei ranghi del MSI si isterilì in fatui  ed estenuanti «giochi di potere» (!?) all’interno del partito e in decla¬  mazioni populistico-giovanilistiche (non a caso la cosiddetta «Nuova  Destra» proviene quasi esclusivamente da quell’ambiente torpido ed  ambiguamente compromissorio), dall’altra, la frazione «movimentista»  ed extraparlamentare condotta da Clemente Oraziani ed altri si smarrì  nelle velleità inconcludenti e pericolose della «lotta di popolo», con  conseguente ed inevitabile suo annientamento da parte del Potere vero...    47             tematiche e pratiche operative già in uso nel «Grup¬  po di Ur» ed è perlomeno probabile che lo stesso  Evola ne fosse al corrente.   Fatto sta che nei quattro «Fascicoli dei Dioscuri»,  usciti in quel torno di tempo, l’idea di Roma da una  parte e di un Centro nascosto dall’altra, a cui il tra¬  dizionalismo dovrebbe far riferimento, ritornano  con grande evidenza.   Per l’anonimo autore del primo «Fascicolo dei  Dioscuri», intitolato Rivoluzione tradizionale e sov¬  versione (Centro di Ordine Nuovo, Roma 1969), il  più grande dei meriti di Evola è quello:   «di avere rammentato il destino di Roma quale  portatrice dell’Impero Sacro Universale e di avere  tratto da tale verità le necessarie conseguenze in  ordine alle idee-forza che devono essere mobilitate  per una vera rivoluzione tradizionale» (p. 20).   Qualche anno dopo, al termine del terzo «Fasci¬  colo» intitolato Impeto della vera cultura (tradotto  poi anche in francese nel 1979), il mito di Roma vie¬  ne additato come l’unico che sia in grado di condur¬  re ad una superiore unità gli sforzi di tutti i tradizio¬  nalisti italiani:   «a tutti i tradizionalisti, anziché proporre uno dei  tanti miti soggetti a rapido e facile logoramento, si  può ricordare la presenza di una forza spirituale  perennemente viva e operante, quella stessa che il  mondo classico ed il medio-evo definirono l’AE-  TERNITAS ROMAE» (p. 18).    48    Il «Gruppo dei Dioscuri» ebbe notevole impor¬  tanza come cosciente riconnessione alle precedenti  esperienze sapienziali e come indicazione, per taluni  elementi particolarmente sensibili dell’area della de¬  stra radicale, di possibili indirizzi e sbocchi futuri  del «tradizionalismo romano», anche se la partico¬  lare via operativa scelta e, soprattutto, la mancata  qualificazione di taluni componenti, porterà ben  presto alla distruzione dall’interno del Gruppo stes¬  so, di cui non si sentirà più parlare già prima della  metà degli anni Settanta (ci viene detto che frange  disperse del gruppo continuerebbero a sussistere so¬  prattutto a Napoli). È tuttavia da supporre che alcu¬  ni dei gruppi periferici, sia pure trasformati, ne ab¬  biano continuato il retaggio se, ad esempio, a Messi¬  na nel 1975, molto probabilmente nell’ambito di al¬  cuni dei vecchi membri del «Gruppo dei Dioscuri»  viene elaborato un testo dottrinale ed operativo, a  circolazione interna, sotto forma di «lezioni» di un  maestro a un discepolo, piuttosto interessante. La  via romana degli dèi:   «Diremo anzitutto dell’essenza della tua religiosi¬  tà, fornendo alla tua mente profonda gli argomen¬  ti per una serie di esercizi di meditazione affinché  con saldo cuore, tu possa prepararti all’assolvi¬  mento del rito» (48) [cfr. anche Appendice IV].    (48) N.N., La via romana degli dèi. Istituto di Psicologia Superiore  Operativa, Messina 1975 (ciclostilato ad uso interno), p. 1.    49             E certamente non priva di connessioni genetiche  col gruppo romano appare la sortita, improvvisa,  verso la fine degli anni Settanta, nella stessa Messi¬  na, del «Gruppo Arx», successivamente editore del  periodico «La Cittadella» e degli omonimi quader¬  ni, in cui senza alcuna attenuazione i possibili itine¬  rari di approccio alla «via romana degli dèi» sono  indicati attraverso la cosciente riappropriazione del-  Vanimus romano-italico, rivissuto nel rito stesso, e  nel rigetto, sostanziale e formale, di ogni adesione a  forme anche esteriori del culto cristiano.    Quanto segue è storia dei nostri giorni, dal mo¬  mento che proprio con l’inizio degli anni Ottanta vi  è stata una nuova cosciente ripresa del moderno  «movimento tradizionalista romano», una cui rima¬  nifestazione «pubblica» si estrinsicherà in una data  ed in un luogo alquanto significativi. Infatti nel  1981, il 1° marzo (data in cui iniziava l’anno sacro  romano), a Cortona (donde in epoca primordiale  Dardano, figlio di Giove, si sarebbe mosso alla volta  della Troade) si tenne un importante Convegno di  studi sulla Tradizione italica e romana (49), che, a    (49) Gli Atti sono stati pubblicati nel numero speciale triplo di «Ar-  thos» n. 22-24, daU’omonimo titolo, di pp. 192. Per una sintetica analisi  sulla diversa valenza del termine «italico» nei vari interventi, cfr. R.  DEL PONTE, Che cos’è la tradizione italical, in «Vie della Tradizio¬  ne», XV, 57 (gennaio-marzo 1985), pp. 1-3.    50    parte l’emergenza di differenti prese di posizone dei  tradizionalisti presenti, ebbe il merito di riproporre  la questione — non puramente dottrinale o formale  — di una cosciente riconnessione aWaurea catena  Saturni della tradizione indigena da parte di chi, pur  in quest’epoca di totale dissoluzione di ogni valore,  intenda coscientemente riassumere il fardello delle  proprie radici etniche e spirituali. Successivamente  ad un nuovo Convegno, tenutosi nel dicembre 1981  a Messina, sul Sacro in Virgilio (50), la rielaborazio¬  ne dottrinale e la ridefinizione concettuale dei valori  difesi dagli attuali esponenti del «tradizionalismo  romano» (di cui è parte cospicua anche l’apparire  alle stampe di alcune collane di libri specifiche) (51)  si è spostata su un piano più interiore, ma la loro  presenza è destinata a riaffiorare a livello di influen¬  za sottile e indiretta di gruppi o ambienti eticamente  sensibili di un’area superante i limiti stessi del mon¬  do della «destra politica».   Il futuro dimostrerà se la funzione di questa mi¬  noranza (ben cosciente di esserlo) si limiterà ad una    (50) Gli Atti sono stati pubblicati in buona parte nel numero speciale  di «Arthos» n. 20 (uscito successivamente al n. 22-24), daH’omonimo  titolo, di pp. 72.   (51) Ci limiteremo a ricordare la collana «1 Dioscuri» per le ECIG di  Genova, in cui figurano L’oltretomba dei pagani di C. Pascal, il mio  Dèi e miti italici. La religiosità arcaica dell ’Eliade di N. D’Anna e Arca¬  na Urbis di M. Baistrocchi (in stampa); o quella di «Studi Pagani» del  Basilisco di Genova, in cui sono comparsi testi di antichi (Giuliano Au¬  gusto, Giamblico, Simmaco, Porfirio) e di moderni (Guidi, De Angelis,  Beghini, Evola ecc.).    51           pura e semplice azione di testimonianza, sia pure  «scomoda» per molte cattive coscienze. Il «mito ca¬  pacitante» di Roma, come l’antica fenice, è destina¬  to a risorgere continuamente dalle sue ceneri, poiché  riposa nella mente feconda degli dèi archegeti di  questa terra.    Appendici documentarie    52    53        I    Da: «Il Piccolo» di Roma, 23-24 maggio 1923,   p. 2:   «Il Fascio littorio a Mussolini»   Il giorno 19 scorso, presentata dall’esimia prof.a  Regina Terrazzi, fu dall’on. Mussolini ricevuta la  dott.a prof.a Cesarina Ribulsi, che offriva al Presi¬  dente del Consiglio come augurio per la data del  XXIV Maggio un fascio littorio da lei esattamente  ricostruito secondo le indicazioni storiche e icono¬  grafiche.   L’ascia di bronzo è proveniente da una tomba  etrusca bimillenaria ed ha la forma sacra col foro  per la legatura al manico: alcuni esemplari simili so¬  no conservati nel nostro Museo Kircheriano.   Le dodici verghe di betulla, secondo la prescrizio¬  ne rituale, sono legate con stringhe di cuoio rosso  che formano al sommo un cappio per poter appen¬  dere il fascio, come nel bassorilievo per la scala del  Palazzo Capitolino dei Conservatori.   Il fascio ricomposto con elementi antichissimi e  nuovissimi è stato offerto al Duce come simbolo del¬  la sua opera organica di ricostruzione dei valori del¬  la nostra stirpe allacciando le vetuste origini alle for¬  me più vibranti dell’attività gagliarda e rinnovata  che prende le mosse dal XXIV Maggio 1915.   La rudezza espressiva del Fascio è ingentilita dal  contrasto tra il verde della patina bronzea e il rosso    55         del cuoio che ricorda la stessa armonica tonalità che  producono le colonne di porfido presso la porta di  bronzo àcWheroon di Romolo, figlio di Massenzio,  al Foro Romano.   L’offerta era accompagnata da una epigrafe latina  dedicatoria composta dall’offerente, la quale nel¬  l’Università Popolare fascista svolge una fervida  opera di propaganda di romanità viva.   Il Duce gradì l’augurio ed il voto accogliendoli  colla sua consueta serena nobiltà, non senza un se¬  gno della vivacità del sorridente suo spirito latino:  «Lei mi ha dato una lezione di storia» — osservò in  tono scherzoso. Singolari parole in bocca di chi dà  e darà non poco a fare agli storici futuri.   (La notizia è riportata in una rubrica dedicata a  «I solenni riti del XXIV Maggio», senza indicazione  di paternità).    56    II    Da: IGNIS, Rumori. Sacrae Romae origines, tra¬  gedia in cinque carmi. Editrice Libreria del Littorio,  Roma 1929.   pag. non numerata, IV dopo il frontespizio:   LETTERA DI ARDENGO SOFFICI A S.E.  MUSSOLINI   Mio caro Presidente, (...) permettimi ti dia, scritte  e sottoscritte anche da me, che ne resto garante, al¬  cune prove di pregi eccezionali della tragedia, che, in  fondo, in un vero poema epico delle origini, è l’esal¬  tazione di oggi della nostra stirpe. Comincio da un  mio giudizio, già a te noto; Rumori è tragedia roma¬  na che può stare a paro col Giulio Cesare di Shake¬  speare (...) ti fo osservare che il titolo di Poeta di Ro¬  ma, dato da Jean Carrère ad ignis, si è dato solo a  Virgilio e ad Orazio: Augusto, vive, oggi, tra noi tut¬  ti in ispirito, più per questi due poeti, da lui protetti,  che per la sua politica imperiale.   E tu vedi come Rumori sia stato giudicato, prima  ancora che esistessero l’idea e la forza fascista, tra¬  gedia degna di Roma (...) quando competenti — dai  nostri a Carrère, ed a me che sono l’ultimo al giudi¬  zio del 1923 — corrono all’iperbolico per lodare Ru¬  mori di ignis bisogna concludere che ci si trova da¬  vanti ad un’opera d’arte somma, e per fortuna no¬  stra, d’arte italiana — opera che è, anche per se stes-    57         sa, di alto significato politico, e di spirito fascista  (...) Mi rileggo, e mi credo, caro Presidente ed amico  carissimo, di averti scritto una lettera storica. Fai  che non sia stata scritta invano, ma invece il tuo no¬  me vada unito a quello della tragedia Rumori, al  poema di Roma e degno di Roma: e di questo lega¬  me in avvenire, spero che tu possa essere un po’ gra¬  to al tuo affezionato amico e devoto   ARDENGO SOFFICI   pag. successiva non numerata:   IL MINISTERO DEGLI AFFARI ESTERI  Caro Soffici,   bisogna assolutamente far marciare Rumori. 11  Governo appoggia fervidissimamente l’iniziativa  perché essa rientra nel grande quadro della rinascita  nazionale.   Saluti fascisti e cordialissimi.   f.to MUSSOLINI   Roma, 7 marzo 1923    pagg. CLXV-CLXVI (Carme terzo):   AUGURE   Manifesto è dunque: amor — essere — ROMA.  Se tutte move, ed incende, le create cose...  legge si è — Amor — dell’universo vita...  così, un tanto Nome, a noi predice:    58    dono di regno e potestà sovra ogni terra,  e dello spirito, e d’imperio.   Confirmato si è, per te, prodigioso il vaticinio.   Non pronunciati mai più sien i Nomi occulti...  su la Città terribili chiamerebbero fortune...   Li trasmettano, oralmente, i Pontefici ai Pontefici.  Né mai più, tu, l’eccelso pronuncia Nome palese,  se concluso non avrai, prima, il solco sacro.  Permesso e commesso mi è: Nunziare, allora,  in gran letizia, al Popolo... quel Nome  che licito non più mi è dire   quando, già per tre volte, qui, in tre diversi suoni,  de la gran Madre nostra il Nome risonò.   {Dispiega le dita della sinistra, ad una ad una, per nu¬  merare i significati del nome).   Di significati cinque:   È... ’l Nome palese, latore, con l’occulto:   Chiama la Città: Valentia... Ròbure... Virtù!  e ancor: Madre... Mamma... Alma Nutrice!   Vostra — nei nomi vostri — oh Re! suoi fondatori...  Come del grande Rumon: URBE: la Città del  Fiume!   {Pausa)   Ammirate! se gli Dei saputo abbiano addensare,  in così breve Verbo, sì pieni... tanti arcani.   Mirifici! donando Nomi nove:   in quattro occulti ed un — Medio — palese,   e quando, nove, siamo al Rito.    59       Ili    Da: G. COSTA, Apologia del paganesimo, A.F. For-  mìggini Editore, Roma 1923, pagg. 69-70:   Il pagano è, per definizione, buono. Né un greco,  né un romano avrebbero concepito che l’uomo po¬  tesse esser qualcosa di diverso da ciò, che in lui liti¬  gassero per così dire due nature, che la manifestazio¬  ne esterna fosse diversa dall’interna, che né nella vi¬  ta individuale, né in quella sociale vi fossero mezzi  termini, transazioni, compromessi. Esso è quello  che naturalmente è, cioè buono, come ideale supre¬  mo della vita, come dovere, come necessaria fatalità  insita nelle cose umane. Egli vive quindi la vita inte¬  ramente, dolorosamente, gioiosamente a un tempo,  con un pragmatismo sano e forte che non ammette  ipocrisie, doppiezze, scuse.   Solamente all’uomo cosiddetto moderno è stato  concesso, per virtù di dottrine religiose e culturali  che si sono formate a lui d’intorno, una distinzione  ed una separazione del suo essere intimo, spirituale,  psicologico, dal suo essere apparente, esteriore, ma¬  teriale. All’antico quando di questa scissione appar¬  ve per un momento la possibilità, egli ne cacciò da  sé l’idea, ne biasimò perfino la concezione.   La concezione pagana della vita ha fatto perciò  l’uomo tutto d’un pezzo, ne ha affermato il caratte¬  re, ne ha provocato 1 ’azione. Ecco perché la vita nel  paganesimo ha avuto tutto il suo massimo sviluppo  ed è stata accettata non come un male, ma come un    60    bene che bisognava con interezza di carattere vivere  interamente e sanamente per sé e per gli altri.   pag. 91:   Per stabilire l’equilibrio l’uomo deve tornare al  paganesimo poiché il cristianesimo si è mostrato di¬  vina opera cui le sue spalle non sanno sottostare.   Ma paganesimo è sincerità e l’uomo deve ritorna¬  re ad essere sincero. Il cozzo a cui l’ha costretto per  due millenni il suo desiderio di seguire il messaggio  cristiano e la sua manifesta impotenza di non saper¬  lo fare, deve risolversi in armonia se egli vuol sanare  in sé l’eterno dissidio. Lo spirito e la carne debbono  avere il medesimo valore ed il loro prevalere non può  essere determinato che da circostanze speciali di in¬  dividuo, di momento e di luogo che l’uomo può in-  travvedere, non deve violare con convinta testardag¬  gine. L’equilibrio di queste forze, l’esteriore e l’inte¬  riore, quindi, deve essere nella dottrina, come nella  vita, assoluto.    61           IV    Da: Im via romana degli dèi, ciclostilato anonimo,  Messina 1975 pagg. 41-42:   L'immagine di un dio è lo stemma della Forza che  essa rappresenta. A tutti i fini pratici tali immagini  sono personae, perché qualsiasi cosa possano essere  nella realtà esse sono state personalizzate e forme di  pensiero sono state proiettate su un altro piano (...)   Alcune di queste immagini e le loro attribuzioni  sono così antiche e sono state costruite con tanta  ricchezza di lavoro sottile da essere capaci di rico¬  struirsi da se stesse, durante l’eventuale lavoro di  meditazione, che l’allievo può fare su una divinità.  Resta un minimo «invito», un minimo stimolo, per¬  ché il meccanismo scatti e l’immagine si ricompon¬  ga, sia pure su un piano semplicemente psichico.  Così, della limatura di ferro, dispersa su un piano,  si raccoglie intorno ad un magnete che venga posto  in mezzo. Se il magnete è forte esso attirerà i granelli  anche se essi sono pochi e molto distanti...    62     AMKDKO R(K ( () ARMKM ANO  (im -    da «Ygieia», 111, 1-4 (dicembre 1986)    63             Arturo Reghini  (1878-1946)    64    0 Piscio littorio a Mussolini   n florno If »cor*o. pr^eniaU dalla tsl-  bjU prof.» Rcidna Trmiizl. fa rtalTon. Maa.  aOltnl rlotwta la doti.» pmf.» Osarina RI-  baiai cba offriva al Proatdanta dr’. Conti¬  guo romo aufurln la data de) XXIV  Mabfio «n falcio littorio da lei eaattamcDte  licoatndto lecoudo la lodicaslonl atorictie  e leooograflclia.   l.‘aicla di bronra k prorenlenU dm aoa  tomba etmaca hlmtneoarta ed ba la forma  aorra eoi foro per la Vantura hi manico:  alcool eaamplan slmili sono coosenrat: :.«!  nostro Ma.*«o Klrcberiamo. é   La dodict verace di l>ctulla. ascondo la  prescrizione rit'iale. sono legala con tiri¬  sele ^ cuoio rosso cba formano al tonimo  ua cappio per poter appendere fi fascio,  conta nel ba.MorUiero per la acala del Pa  lazzo Capitolino dd Conaenalori.   Il Fascio ricomposto con elementi antl-  fhlHilmt a nuoTltaUnl k stato offerto al  Dora come simbolo della saa opera onra-  ntea di rieoatruztona del valori della no-  Mra attrpa allacciando le veia«ie origini  alla fonn* più vibranti dell'attività ga-  giarda a rinnovata cha prendo la mosse  ^ XXIY Maggio 19t8  Là rudezza espressiva dal Fascio è in-  gantlHta dal contrasto tra (I verde della  patind bronsea e U rosso del molo che ri¬  corda la stes.aa armonica tonalità che pm-  doeono le colonne di porfido presso la por¬  ta di bronzo deD'brroon di Itomdlo, figlio  41 Massenzio al Foro Romano.   L'oflerla efa accompagnata da ani epl-  graia latina dedicatoria composta dall'or-  farente. la quale nell'UntvcnUtà Popolare  faartsta avolga una fervida opera di pro-  pafgada di romani Ih viva.   n Duca gradi raugorto a fi voto acro-  Mlaodoll colla sua consueta serena nobiltà.  2«m senza tm segno della vivacità del sor>  ridaots ano spirito latino: • Let mi ba dato  nna testone di storia • — osservò In tono  aehanoao. Btngolart parole In bocca di r.hl  db a darà non poca a fare agli storici fu-  tnrl    Riproduzione da «11 Piccolo».  V. pag. 55. Grice: “Like Reghini, of the movimento tradizionalista romano, Enriques was, for different reasons, all into Pythagoras’s ‘arimmetica’!” -- Federigo Enriques. Enriques. Keywords: implicature arimmetica, unity of science, history of logic, foundations of mathematics, the synthetic a priori. Grice e Enriques su Peirce, l’arimmetica pitagorica, Reghini. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Enriques” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51761739337/in/photolist-2mS1rKF-2mPEDc8

 

Grice ed Enzo – l’uomo – filosofia italiana – Luigi Speranza (Burano). Filosofo. Grice: “I like Enzo; for one, his “Ubi es?” is a classic – only in Italy they take the Bible so seriously – “Ubi es” can be interpreted literally – sans implicature. And that’s what Enzo does.”. Figlio di Alessandro, vetraio a Murano, un mestiere estremamente usurante, morirà appena cinquantenne. Uomo concreto e critico nella sua essenziale bontà.  La madre, Flaminia Vio, è una bravissima maestra merlettaia. Da lei apprende il rigore e lo spirito di rispetto verso l'istituzione. È lei, una cattolica laica, che vive al servizio della Chiesa, ad accompagnarlo  dalle suore perché serva come chierichetto alla prima Messa. È lei che accoglie la proposta del parroco di mandarelo in seminario a Venezia per permettergli di continuare gli studi, ma preferisce ritardarne l'entrata e chiede alla nipote di ospitare a Venezia il cugino che posse così frequentare i primi anni come esterno. Negli anni di studio ginnasiale,  si imbatte per la seconda volta nella lettura della Bibbia. Il primo contatto era stato quando, aveva deciso di leggere ai fratelli, nella traduzione di Martini, una vecchia Bibbia trovata in casa, per accompagnarli al sonno. Il contatto è più corposo e sistematico, ma come la lettura lo entusiasma e nello stesso tempo lo delude, intuisce infatti la mancanza di adeguate conoscenze e strumenti concettuali per poter penetrare pienamente il messaggio biblico. Ha la stessa reazione anche quando, finito il liceo, sceglie gli studi, dove la lettura della Bibbia è seria e critica, ma rimane, per importanza, sempre la seconda o la terza materia dopo la dogmatica e la morale. Viene mandato a fare cura pastorale come vicario cooperatore a Caorle, dove accoglie 350 alluvionati del Polesine. Qui, meta preferita di turisti tedeschi, studia da auto-didatta la lingua tedesca per meglio servire la Chiesa. Viene trasferito con lo stesso incarico nella vicina frazioncina di Ca' Cotoni per divergenze con il parroco di Caorle e nella popolare parrocchia di S. Giuseppe di Castello a Venezia. Aveva conosciuto questa comunità quando vi era stato per una stazione quaresimale con il patriarca Piazza e l'accoglienza ostile degli operai verso una personalità vista come filo0fascista aveva reso necessaria la scorta della polizia. A S. Giuseppe di Castello compera un appartamento, indebitandosi, per fare patronato con doposcuola tutti i pomeriggi sino alle 20, e a sera gli incontri con i ragazzi più grandi. Insegna al Lido e poi nella vicina "P.F.Calvi", organizzando anche uno spettacolo per un concorso al teatro "Goldoni". Il vicario generale Gottardi, dopo essersi consultato con monsignore Capovilla, segretario del cardinale Roncalli, gli comunica che andrà a studiare a Roma. Gottardi era stato suo insegnante di teologia e scienze bibliche in seminario e aveva conosciuto il suo profondo interesse per gli studi biblici, ne aveva poi apprezzato il saggio, “La 'Giustificazione' nella Lettera ai Romani” in cui analizza le varie interpretazioni bibliche in maniera dia-cronica risalendo sino alle tradizioni patristiche. Le due omelie di Carlo a S. Giuseppe di Castello ascoltate dallo stesso vicario generale avevano poi confermato quella scelta.  A Roma è ospite presso il Pontificio Collegio Nepomuceno in via Concordia ed è lì che lo viene a prelevare Capovilla per una visita guidata alla città, alla vigilia del Conclave da cui uscirà papa Roncalli. A fargli da cicerone è proprio il futuro papa Giovanni XXIII e le bellezze della città illustrate da una guida tanto preziosa assieme al paterno congedo di Capovilla costituiranno il ricordo più bello della sua vita. Consegue la Licenza con una tesi su "I Carismi" e contemporaneamente i corsi in scienze bibliche presso il Pontificio Istituto Biblico, dove perfeziona lo studio dell'ebraico già iniziato in seminario, ma soprattutto ha l'incontro, decisivo per i suoi studi, con il grande biblista Schoekel. Segue i corsi del quinto anno che gli avrebbero permesso di redigere il saggio su "Grazia e benevolenza" per la laurea, tesi che non può però portare a termine perché torna a Venezia, chiamato da Urbani a svolgere la funzione di vicerettore del Seminario Patriarcale, nel burrascoso periodo tra il rettorato di Vecchi e Villa. Da vicerettore del seminario insegna anche scienze bibliche, diviene in seguito pro-rettore, sino a quando chiede di essere sollevato dall'incarico per poter assistere la madre paralizzata ed è quindi ascritto alla parrocchia di S. Zaccaria, dove abiterà con la madre. Qui si fa promotore dell'allestimento e della conduzione di un teatro, dell'organizzazione del cinema per ragazzi, del cineforum, dell'istituzione della biblioteca, mentre cura anche l'esecuzione di opere di risanamento e ristrutturazione di tutti gli ambienti frequentati dai ragazzi. Continua ad insegnare in seminario, e dal rettore viene mandato nel Benedektiner Kloster di Metten a Degendorf (Germania) per preparare alla maturità i seminaristi che studiano la lingua italiana. Compensa l'esiguo stipendio con l'insegnamento nella scuola pubblica, come il liceo classico "M. Polo", dove matura la sua sottoscrizione delle tesi del "Manifesto". Viene nominato patriarca di Venezia Luciani e pochi giorni dopo il suo insediamento emerge il suo diverso sentire con Enzo, che, nella mensile lezione culturale al clero, trattando il tema della "Consumatio saeculi" o secolarizzazione nella Bibbia, provoca una dura reazione del presule. Dà le dimissioni dall'insegnamento in seminario, dapprima ritirate,  perché lui, che da tempo nella santa messa pratica l'omelia dialogata, non si sente in consonanza con le direttive indicategli. Sino a questo momento i patriarchi veneziani che avevano conosciuto Carlo, Piazza, Agostini, Roncalli ed Urbani, gli avevano dimostrato la loro stima. Proprio Urbani aveva chiesto ad Enzo un commentario al Vangelo di Marco. Sin dagli inizi, accompagna la vita sacerdotale di Carlo una costante e intensa cura pastorale, rivolta sia ai ragazzi che agli adulti, e non solo nelle sue sedi parrocchiali. Più che trentennale è a questo proposito la collaborazione che gli chiede Marangoni nella parrocchia di Marghera, nel quartiere Cita, nei difficili anni Settanta e, dagli anni Ottanta, a San Giacomo dell'Orio a Venezia, a testimoniare la stima e l'affetto maturati dagli anni del seminario. Si laurea a Venezia con “Alle origini dell'utopia messianica. Insegna a Venezia, Oriago, Mestre e Giudecca. Va in pensione dall'insegnamento.  Tiene a Venezia dei cicli di seminari di esegesi biblica nell'ambito dei corsi tenuti dal prof. Arnaldo Petterlini, da Madera, e allo IUAV di Venezia seminari di antropologia biblica ed esegesi invitato da Rizzi. Sudia filosofia scolastica, propedeutica alla teologia. Nel manuale di Calcagno, "Elementa philosophiae scolasticae" trova il capitolo dedicato alla filosofia immanentistica, che considera Dio la natura o non considera affatto Dio e considera solo la natura. Lo colpisce Spinoza per la sua vita nascosta, dimessa, umile, scriveva infatti solo per gli amici. Ne legge l"Ethica more geometrico", commentata da G. Gentile, più facile a reperire perché considerata meno sospetta del "Tractatus theologicus politicus" che studia in seguito, dedicando particolare attenzione al capitolo "De interpretatione". Spinoza afferma che la Bibbia va letta e interpretata con la Bibbia, era quanto Enzo aveva intuito sin da ragazzo, ma aveva abbandonato quella strada in seminario dove si praticava il metodo storico-critico. A Roma, il Nuovo Testamento viene studiato ed interpretato secondo il metodo della storia delle forme che applica al testo biblico le regole dello scrivere greco-latino, mentre per il Vecchio Testamento si segue la teoria dei generi letterari. Incontra Schoekel, insegnante di teologia, esegesi ed ermeneutica biblica, che ha un'attenzione speciale alle particolarità stilistiche e semantiche del lessico biblico che schiudono un nuovo orizzonte metodologico e tematico. Considera fondamentale per la comprensione dell'intera Bibbia lo studio dei primi tre capitoli di Genesi e incoraggia Enzo, verso cui dimostra profonda stima e un'amicizia che durerà sino alla propria scomparsa, ad affinarne l'esegesi e a continuare il suo lavoro. Torna a Venezia con l'intenzione di mettere a frutto quanto appreso applicando le indicazioni metodologiche spinoziane. Gli studi su Genesi 1-3 vengono pubblicati in "Biblica". La interpretazione di Genesi è alla base di diversi testi, dalla tesi di laurea, all'articolo su Servitium, al testo "Adamo dove sei?" In parallelo decide di approfondire la connessione tra i testi di Genesi e il vangelo di Matteo e scrive diversi appunti che continuamente rivede nel corso degli anni. Da questi nasce il progetto "La generazione di Gesù Cristo nel vangelo di Matteo". Altre opere: “Testo e interpretazione in Weber e Bultmann, Unicopli, Milano); Alle origini dell'utopia messianica, Antenore, Padova); Sulla nascita della filosofia medievale, Venezia 1984 Sitz im Leben e interpretazione, Venezi); “Individuo e comunità, nella riflessione biblica delle scritture antiche Servitium: Quaderni di ricerca spirituale, Adamo dove sei?, il Saggiatore, Milano); La terza delle dieci parole di “Esodo” 20 nell’interpretazione di Gesù in Le parole dell'essere: per Emanuele Severino Petterlini A., Brianese G. e Goggi G., Pearson Italia S.p.a Il Progetto di Mondo e di Uomo delle Generazioni di Israele (Genesi 1-4), Mimesis, Milano, La Generazione di Gesù Cristo nel Vangelo secondo Matteo. I. Gli Inizi, Mimesis, Milano, La Generazione di Gesù Cristo nel Vangelo secondo Matteo. II. La Legge, Mimesis, Milano, Le prime dieci parole di YHWH a Israele in Panta, Decalogo, Donà M. e Toffolo R., Bompiani,  La Generazione di Gesù Cristo nel Vangelo secondo Matteo. III. La Regola dell'Apostolo, Mimesis, Milano, La Generazione di Gesù Cristo nel Vangelo secondo Matteo. IV. Il Regno dei Cieli, Mimesis, Milano, La Generazione di Gesù Cristo nel Vangelo secondo Matteo. V. La Ecclesia di Gesù Cristo, Mimesis, Milano, La Generazione di Gesù Cristo nel Vangelo secondo Matteo. VII. La consegna del figlio dell'Adamo, Mimesis, Milano, Genere adamico. Riflessioni sui testi fondativi della tradizione spirituale occidentale che si trovano nei primi quattro capitoli di Genesi, Servitium: Quaderni di ricerca spirituale,  Interventi alla radio Giuda: consegnare e tradire: Marco 14,43-52 con Ludwig Monti, 3 marzo  Sulla barca le parole del regno Matteo 13, con Romano Madera, Le parole del regno Matteo 13; Due lezioni bibliche: Il “mondo” del nostro Dio, Rovato e L’ “uomo” del nostro Dio, Rovato,  Lo Spirito di Cristo nel progetto messianico, comunità della parrocchia di S. Giacomo, Venezia La rivelazione secondo la Bibbia, Università degli studi di Venezia, Dipartimento di filosofia e Teoria della scienza, Seminario sul “Der Mann Moses und die monotheistische religion”, Incontro tra Carlo Enzo e Romano Madera, 13 marzo, IUAV (Venezia) ‘ôLaM, il progetto consegnato, Le decadi, dieci incontri con pensatori eccellenti sul tema “Le potenze invisibili”, IUAV (Venezia) Scritti su Carlo Enzo e testimonianze Tagliapietra A. La Bibbia, libro sempre “aperto”, Gazzettino Tattara G. e altri Per una rilettura del vangelo di Matteo, Mosaico di pace (on line),  Madera R. Date al cielo quello che è del cielo, L’Unità, Gnoli A. Rileggere la Bibbia, La Repubblica Della Pergola F. Parola di biblista,  Della Pergola F. La Bibbia svelata,  e in Left, Lamonaca L. Su una nuova lettura della Genesi, Patrignani C. Laicità: il biblista Carlo Enzo batte i marxisti ratzingheriani,  MorettoUn mondo possibile, Della Pergola F. Il problema dell’unicità e della trascendenza di Dio nella Bibbia ebraica, Della Pergola F. Il Dio del nulla Tattara G. e altri Gesù e le donne nel vangelo di Matteo,  Della Pergola F. La lunga battaglia contro la Bibbia e in Left, 1 aprile  Video Da Burano a Roma, parte I, dal progetto Memoro. La Banca della Memoria La prima visita di Roma, parte II, dal progetto Memoro. La Banca della Memoria Dal Biblico a Baruch Spinoza, parte III, dal progetto Memoro. La Banca della Memoria Gesù Maestro ed Elohîm dell'Ecclesìa, parte IV, dal progetto Memoro. La Banca della Memoria Vai, vai per te, parte V, dal progetto Memoro. La Banca della Memoria Dalla Bibbia Ebraica alla generazione di Gesù Cristo. Un'intervista di Romano Màdera La Bibbia non dice quello che ci hanno fatto credere. Un’intervista a Carlo Enzo  Date al cielo quello che è del cielo di Romano Madera, in L'Unità, Rileggere la Bibbia di Antonio Gnoli, in La Repubblica.  x    V          TW   T    rvH A •ol.T > - h ui               &lW    \rr   V Jà. f*      t:   P*J    *SV   r      ^ '*■•.        j^lAì      •W 4Kj           /   | rVj      jV r^»J j . ^ ^'l, jy ■ >   — vliv^vT ! yjjjS 1 /    AiAìA J          f jl           v. 1    2wHfcv^   ,.' j». »-*• v® ■ <T Vu!           V^l j    W i                ntkVi'f |V      rf^v^M- pi   f \f* / T/ t ' ^ ,{/*¥     et/   V.uf.V',     2) I S C 0 X S O     DELLA RELI     « >     r. =• *' t j     GIONE ANTICA   D E R. O M A N I,   ’fcSbr     lnjìeme <rrn altro Difcorfo della CaUrametatione , f£)  difciplma militare, % agni, & efferati] an-  tichi di detti Xomani,     tU     *'\d     «   4 •**     I      »   i.   i     Comporti in Franzefc dal S.Gugliclmo Choul,GcntiJhuomo  Li onde, & Bagty delle Montagne del Dclfinato,       'otti in Tofcano da M. Gabriel Simeoni Fiorentino.   di Medaglie & Figure , tirare de i marmi amichi,  quali fi trouano à Roma , & nella Francia.     ^ IN LIONE,,   APPRESSO GVGLIELMO ROVILLIO.      . » ■        ‘ 'jì Htf’* ^   ^1 - *^v 9KAffly . v /# • 4 \Iaj(4 « ■   ^V '?;? ^X> ^ 7 » ir > * % •, , fc ' tf ;/ *   %> . . « 7 v-* » r * > • -W7 • w . i     l * 1 ' * . * . ; .«•> %   * 7 4> •« Jh- f MT t > ,JS  *' - * sr .W.V ;*,        . ’   . *-V > 3 - •*•   ^1# < »     w Armoiries dudiB S.(juiUdume du Choul.     hi'*     BEATVS.        J      m     I        r     I        r     "«Hi.      alla christianissim a et   ScreniiTìma Rcinadi Francia, Macia ma Cateri-  na de Medici, Guglielmo Rouillio humi-   liflìmofcruitore,(aIutc & con^ 'c'N   tentezza Tempi- '■%     terna.         i ^4. purità & dolcetta della lingua Tofcana  pare che fia di prefenre ( Chnfiianifima Rei-  na) falira in tanto pregio , che doppo la (^re-  ca (èj? la LatinafiTofcani medefimi Jludian -  dolaci ingegnano ogni giorno di renderla più     bella y i letterati firanieriì ammirano, (gj ( come hanno fatta  t*Ariofio,il "Bembo, fèd il Sennaz&aro') ne iloro ferini cerca-  no di imitarla , & in fomma, non fi troua natione-à cui non  piaccia cjuafi ogni opera compofiapiù tofio in Tofcano,che in  altra /inguada ejuale cofa conofco io tffere ogni dt più yera  nel fare Jìampare {gfi mandare fuora i miei libri ,nafcendo ( co-  me io credo) <juefio,che poche altre lingue fi pronunziano (tfi  fcriuono di \na medefima maniera, come fanno la Latina & In  Tofcana, le quali oltre di ciò hanno Vna certa conformità in-  ferno per la vicinità delle ‘Provincie, che nelfignificato,nel fitto-  ne , Qf nell'accento fi poffono meritamente nominare f or elle.  Jtla fi come ogniTofianofe non ben letterato, non può ne par-  lare, ne fcriuere bene,cofi e gran felicità disdire le parole, (gfi  leggetegli ferirti di colui che Tofcano (gr letterato fi ritrova.  Traitjuah ha vendo io fempre \ dito per tale filmare Jrfejftre  (jabncl Symeoni da gli h ut miniì tram ente dotti, oltre à quel-     li   ' &        I   ►ig*        10 che io medefimo ne ho cogno fiuto , (gl egli da fe (leffo ha di'  mojlro in più opere fue fampate in Francia & in Italia , mi  fon mojfo à gregario di tradurre m Tofcano il libro della Reli-  gione antica de Romani,prima compofo in Frange fe dalS.  (julielmo Choul,2?agly delle montagne del T> elfinato, la quale  fatica volentieri egli ha fui ito profanarne anchoragia fece del -  laltromio libro della Caframetatione de Romani, pur e com-  porlo dal mede fimo autore- Là onde, considerando futilità gran  de che di tal libro fi può cauar e, (gl maf ime hauendolo fiam-  pato nella più bella forma che io ho faputo imaginare, ho pre/i  ardire di dedicarlo à ZJ.Jrf- parendomi [fe fi debbo hauer ri-  guardo che il prefente habbia qualche proportione con la per-  dona a cui fi prefenta ) non poter più degnamente quello mio  conuenire ad altri che a ZJ.M. come lettura non meno nobile ,  che V rile alla Republica , potendo percofi fatti mezzi cono fie-  re, che la grandezza & profferita dell’Imperio Romano non  nacque ctaltroue,che dalla virtù deltarmi proprie ,dallagiu-  fitia,(gl dal culto frequente (anchora chefaljo, altrettanto che   11 noffro ordinato dalla chiefa catholica , e falutifero (gl vero }  della Religione dei loro falfi Z>q,i quali o come creature ( deifi -  cando gli fiocchi i loro co fi buoni come cartiui lmper adori}  o come inanimati numi [adorando & temendole felle, i Fia-  neti,la forte, (gir gl' accidenti h umani} fe bene non haueuono  poffanza d aiutarli, nondimeno fi vede che fomnipotenre &>  Vero 2 )io,hauendo più riguardo alla /implicita & buono animo  loro t ch e alla loro cieca credenza ,tion anchora illuminata dal  Vero Mefiiaglifauoriuafempre (gl aiuraua, non altrimenti  che io lo priego al prefente che al Re, à U.JM.(gl à tutta la  fua regia & bella prole doni fanitàconrinoua, allegrezza fini#  fineffl longa vita.Di Lione el dì }0.dùdgofio,itf8.   Difcor,     'S:     5         Stata comune opcnionc d’alcuni hiftori  ci antichi che lano, primo Re de Latini,  forte elprimo che caificaflc tépio a Dio;  Alcuni altri hanno voluto che quello fa -  ccflìno in Candia Foraneo & Dionigi,&  che di qui tutte le republichc, i Principi, & gl’imperato-  ri di buona voluntà, fegunarterodi poi à fare templi ma  gnifìchi, ornatifsimi& ricchi: tra cuttii quali i Romani  principalmente oflcruorno fopta ognicofa le cerimo-  nie, & culto della Religione, mettendo ogni loro sfor-  fo nel fare chiefc grandi & merauigliofc,come anchora  hoggi fi vede per quella piùintcra & più bclla,chc in Ra  marecc fareM. Agrippa, genero d’Ortauiano Imp.da;  luy chiamata Panteone, & da noi fi oggi la Ritonda* rif-  . petto alla fua forma.. Quello tepio di fuoraecompo-  n o di mattoni,& dentro folcua eflcre ornato di marmi  di diuerfi colori, con certe cappcflettc,in ogniuna delle  quali era porta laftatua et vno Diodi quel tempo: ma  fopra tutte vi era venerata quella di Mtncrua*fatrada-  uorio per lemanidcl celcbratiflìmo fcultorc FidiaGrc-  co:5 e dart'altrapartc quella di Venerei gl orecchi della   A 3     DE GL’ ANTICHI   ROMANI.     Imo prima  inuentore  it templi     Tempio dt  M.Agrip-  JW.       P tfó t Ud-  ititi dtUa  Perla di  Cleopatra.     Torma er  ricchezza  del P antco-  ne.     P dnteone  dedicato i  Gioite.     Sacrilegio  di Coftanti-   no impera.     DELLA RELIGIONE   quale pendeua la Pcrla,chc auanzò à Cleopatra Rana  d’Egitto , la quale Augufto haucua per quello effetto  fatta diuiderc in due parti, non hauendo potuto trouar-  nein tutto il mondo vn’altra che la fomigliaflc.Concio  Ila che la compagna di quella mangiata da Cleopatra  nel conuitodi Marcantonio pefaflc mezza oncia, che  fono l x x x. carati, & folfc (limata cento fcllerti j , di lc-  flertij che al modo nollro varrebbono cc. cinquanta  mila feudi. Di quella Perla Icriuendo Plinio ncll’v ni.  libro dcH’Hilloria naturale, dice che ella era di co lì ma-  rauigliofa grandezza Se bellezza, che la Natura non ha-  ucua mai fatto opera ne più perfetta ne più pretiofa.  Ma tornando al proposto del nollro tempio , dico che  egli ha le porte di bronzo di fmifurata groflezza & al-  tczza,con colonne innanzi nel medelìmo modo fmifu-  ratcrte quali nel principio lolcuono ellèrc x v i. ma  hoggi à x n i. fono ridottc,conciolìa che due ne fumo  guade dal fuoco , & la terza non fi fa ciò che ne lìa fe-  guito. Le traui , architraui & cornici di querto mirabile  tempio erano ùmilmente di bronzo dorato, & finalmcn  te fu la fua principale dedicatone à Giowc Vincitore, ò  Vendicatore, quantunque Dione fcriua che Agrippa lo  facerte fare in honorc d’Augudo. Collantino terzo di-  poi, Imperatore & nipote d’Hcraclio,Ieuò la copertu-  radi qucdotcmpio,la quale era di piadrc d’argento , &  interne con molte rtaruedi marmo & di bronzo, che  feruiuonodi bellezza & d’ornamento àRoma, le fece  metrere lòpra mare pcnlàndo diportarle in Codanti-  nopoli,il q naie facrilegio non volendo lafciare impuni-  to Iddio, fece che in Siracufa , Città di Sicilia , lì morì   Codand     DE GL’ A NTI CHI ROMANI. :   Coftantino,& tante cofefìngulari Se rare fumo rapite  dall'armata dei barbari corfali,& portatelo Egitto. Coi!  fece quello Iceleratifhmo-tyrano più danno invi r. gior-  nichcegli (lette in Roma, che in c c.anni non haucuor-  no fatto i Corti & tante altre barbare narioni. L’archi-  tettura di quello tempio (per quello che io ne hò potuto  conofccre)è fopra tutte l'altre bene intefa & mirabile , lì  come anchora li può vedere inRoma,& vedranno qui  quelli,che non vi fono (lati, per la medaglia di detto  Agrippa^riprcfcntata qui difottoal naturale.     MARCO AGRTPPA.   BRONZO.      Vn’altro firmici quello tempio fece già fare (pacan-  do per Atene) HadrianoImpcratote,il quale dedicò li-  milmcnteà tutti gli Dij,.&lo cinfc di c x x. colonne di  marmo Frigiano,conporrichi&loggieintorno per pai-  feggiare al coperto, limili àichioftri delle nollre chiefe.  Fece oltre à quello nel detto tempio vnn libreria, Se dal  fuonomcvngynnafio ornato di cento colonnedi mar-      T empio d‘-  H adnano.     Librrrié   d'HadrU-   no.     •HMSfri.v,     8 DELLA RELIGIONE   raufanU. mo che egli haucua,comc fcriuc negl’ Attici Paufiinia?  fatte condurre di Libia: foggiugncndo il detto Autore  che il nome d’Hadriano fi trouaua per infino nel tem-  pio comune à tuttegli Dijila quale verità apparile an-  chora per le medaglie Greche, quiui battute per memo-  ria di cofi nobile edificio:& nelle quali fi vede il*? «fcp.,,  chcè il portale della chicfii, con altre letrerc Greche,  che diconoKoiNON&moTNiAs, cioè tempio com-  muneà ruttigli Dij.     HADRIANO GRECO.   BRONZO. BRONZO.     Ma.lafciando (lare i templi dedicati à tutti quelli fal-  fi Dij & Demonij , pieni di fuperftitioni & di bugie,  venghiamo (blamente à confiderarc la grandezza &  Tempio di ma g n ificcnza di quello di Salomone, il quale di ricchcz  Sélmonc. ^ ^bellezza ha pafiito tutti gl’altri ,conciofia chcncl-  l’ Arca douc erano ferrate le leggi & comandamenti di  Dio,fi vedeuono infinite pietre pretiofedi grandifiìmo   pregio,          DE GL’ ANTICHI ROMANI.     pregio, & l’Arca medefima era coperta di grolle piaftre  tutte d’oro.Quiui fimilmcnte era vna tauola tutta do-     ro malficcio con innumcrabili vali d’oro & d’argento, di stlomo -  calici , ampolle, & altre cofe, che leruiuono nell’ammi- Bf '  niftrationc & cerimonie de i facrificij. Vncandellicre   S andiflimo d’oro, del quale vlciuonotre rami da ogni  to con altrettante lucerne, figurate per i fette pianeti,  tra le quali quella del mezzo4'o ftcnuta dal tronco , era  più grande à mifura che il Sole e più bello di tutte l’al-  tre ltelle. Et tutte quelle cofe furono portatcfdoppo la Tempio del  prefa di Giudea) innanzi ài trionfo di Velpafiano & di  Titofuo figliuolo, &pofte nel tempio della PaceàRo-  ma, &di poi {colpite nell’Arco trionfale di marmo, edi-  ficato in honoredi Tito Vepafiano dal Senato Roma-  no, il quale Arco con molti facrificij fi vede anchora  quafi tutto intero.   A 5        *     WS, -     TTUfr", tT"i .        * .vi, »* v .. fi» . .   ♦ 1 <r l suo i j.     •cv. U     ■ .QCij     •■'i ■' '.'i vi H     • * ■«     t .     > « », X,        k- . v ”* iv'. ir. . ..   i t il ,* i wi.u :» y   ì; ) 1 f . ,     ;• •..-ftn.ii'v (     7     , V),     ‘ ’i - .a . ,’,’i     9        IO      Quello tempio di Pace, del quale tra l’altrccofe piu  IT eccellenti della Città di Roma Plinio ha fatto mentione   Minio. nc lxxxvi.librodeirHi(lorianaturalc,abbruciò nel tc-  H aodUno. podi Commodo Imp.Sicomc fcriue Herodiano,fog-  giugnendo ch’eglicrafopra ogn’altro ricchiflìmo &or-  natiflìmo di (lame & altre cofc belle coli dentro >comc  fuora,ficomc anchora fi puoconofccrc per le meda-  glie de due fopradetti padre & figliuolo Imperatori.   V E S     DELL A RE LIGI ONE   TTqvTZd R ITR u TT^i Z>  f xArco Triomplfdle di Tito  in Ronu. i       V     DE GL'ANTÌCHI ROMANI.   VTspXsTa no. tTtò:     BRONZO. BRON ZO.      Della bontà & valore di quelli d uc Principi , che rir  duflero(comecdetto)turtala Giudea fotro l’obedicnza  de Romani, & della miferabile prefa &diftruttioncdcl  tcjnpio di Salomone, ha Icritto affai à pieno Iofcpho nel  fuo libro, che tratta della guerra de i Giudei.     VESPA SIA NO. "C T I T O.   ARGENTO. , BRONZO.      Il     DELIA RELIGIONE     VESPASIANO. TITO.   bronzo. argento.      VESPASIANO.     BRONZO. ARGENTO.      AMA      DE GL’ ANTICHI ROMANI. i }   Jtt *A T l ST *A Z^nTTTZa,  quale è nelle mani Je fautore.     gradiftìmo piacere Vefpafiano fopradetto neir p ^ f  edificare & ornare quello tempio di Pace, di tutte le piu J tUaltm »  belIecole,ch’ei potette haucrc,come quello, che doppo ve-  la prefadi Giudca,haucua mcfl'o in pace tutto il mondo:  il che moftrano anchora le Medaglie battute al Tuo tem  po cofidi bronzo,comed'oro,tralcqualifcne trouano  alcune colfimulacrodclla pace, accompagnato da lette-  re che dicono,PACi orbis ter rar vm. & in alcune  altre fi vede la Pace con vn torchio accclo in mano, che  abbrucia & diftrugge vn fafeio d’archi, di frcccic, di cela  tc,di fcudi,& di corazze con altri inftrumenti della guer-  ra^ nell'altra mano ha vn ramo d’vliuo & lettere che  moftrano la pace d’Augufto, con quelle parole, pax ptee.  avgvsti.     VES.      M DELLA RELIGIONE   VÌfSPÀS I A NO. DOMINANO.   BRONZO. BRONZO.      Et li come Vefpalìano ha di fopra figurata la pace eoa  Lvliuo &col Caduceo di Mercurio, coli Tito la difegnà  poi con vn ramo di Palma.      Pace nutrì- Quelle fono tutte le figure antiche della pace, tanto  cc detta feti dcfidcratadaogniuno,comequelIa cheè nutrice della  ctu pubti- p U bIi caV tilita,&con lafclicitàdellaquale fi conferma il  mondo.La pace è quella, per la quale la Natura Huma-  na va crefcendojlc richezzc fimilmcnte multiplicano,la   virtù     VESPASIANO. TITO.   BRONZO.     DE GL’ ANTICHI ROMANI.   virtù c in pregio, & finalmente ella contiene in (e tutte le  colcbuone,chcfipoflonodefidcrarein quello mondo.  Et che ciò fia vero, ficonolce, che nel tempo di pace  fiorifeono affai piu i begli ingcgni,& i principi fauorifeo  no piu i letterathcomc quelli , che intrattenendo coli i  virtuofi, i lettori publici, &crcfccndo il numcrodeCol  legi&dcllclcuolc,conolcono pcrtal mezzo, haucreà  reltare immortali,elTcndoilibri come vna tromba per-  petua à gl’orccchi de noftri fucccflori : fi come lenza  quelli vegliamo che non farebbe piu memoria de nomi  & fatti di Filippo, ò Aleflandro Re di Macedoni a,diCe  (are, ne di Pompeo, di Cyro , de Perii , ne de Greci:& la  gloria &grandezzade Romani col nome di tanti huomi  ni eccellenti farebbegia del tutto fpentaxhec quella co-  là(Signore illuftriflìmo)Ia quale vi può portare maggio  re gloria & honore,facendoammacftrarc & introdurre  nelle buone lettere il figliuolo del Re, che meritamente  fua MaelU haconftituito lòtto ladifciplina & cuftodia  voftra:dclla quale tornando à propofito della noftra pa-  ce,dico che Augnilo Cefarc prima fu quello, che fece fa  re l’altare della Pace in Roma, & Agrippa Tacerebbe , fi  comcanchoradimoftra Ouidio nei Tuoi Falli, doue ci  dice,   Ipfum no s carmen deduxit ‘Pack ad /tram,   Hac erit a mtnjis jìnefecunda dies.   Veggonfi le forme di quello altare perle Medaglie  diTiberio,battutcin honore d’Augulto, quali limili à  quelle di Nerone , doue fono lettere che dicono pace  avgvsti p erpet v a, & nell’altra, ara pacis.   TI     >5     Lf Intere  C T letterati  rendono il  nome de U  principi im-  mortale.     V Altare d  Pace.   Ouidio.        1 6     DELLA     TIBERIO.     RE LIGIO ISTE   N E R O N ET     BRONZO.       Tempio di Numa Pompilio fu il primo che infegno di pace edi  Un °uJrI & ^ crm ° ^ r ^P‘° Lano,iI quale (come fcriue Pro -   tL ? copio)era quadro &grandecomc vna Capella, tutto di   bronzo,& tanto alto, quanto la ftatua di ramedi Iano vi  potefle ilare dentro, la quale non era lunga piu di cinque  piedi,& con due vifi,l’vno riuolto allenente, & all’occa  fo l’altro ronde ci fu detto Gemino ,& del quale Plinio  nel libro xx x v.de l'hifloria naturale ha cofì fatto men-  tione.     unmgcmi' Ianni geminiti a 'Numd Rege dicdttts , qui pdeii, belli que dr~  gumenro colitur.   Augufto     nm.        • , k           *7     DE CL’ANTICHI ROMANI.  A V G V S T O.     BRONZO.      Haucua quello tcpio due porte di bronzo, Icquali in  tempo di pace ftauano chiulc, & aperte in quello della  gucrra,ficomc anchora lì vede in Virgilio,doucei dice,  Sunt gemina belli porta.   Furono quelle pone tre volte fermate al tepo de Ro-  manica prima lotto Numa, la feconda fotto il Conlòlo  Tito Manlio,& la terza & vltimafotto Augullo,quado  piacque al Signorc&fabbricatorc del’ vniucrlo,vcro au  tore& di pace & di luce, pigliare carne humana: della  quale cola lafciò mcmoriail fucccflorcd’ Augullo(dop-  po che ei fu deificato) facccndo battere medaglie, nelle  quali lì veggono due mani llrettcinfieme,convn Cadu  eco nel mezzo, & due corni d’abbondanza con parole,  che dicono , p a x. Significando che dalla concordia  dipende la copia di tutù quanti i beni.     Caduceo   inftgm   pace.     B     li     DELLA RELIGIONE  avgvsto:     ARGENTO.      Tito Liuio lcriue,che doppofa guerra Adliaca,hauc-  % do Ccfarc pacificato il mondo per mare & per terra, fer-   mò il tepio di Iano. Et Nerone dipoi lenza haucrc rigar-  do à la pace,mofi:rò per la Icrittura delle fuc medaglie, &  la figura del tepio di Iano,d’haucrc{bFo rcnduto lapacc  Umilmente per mare & per terra al Popolo Romano^,  facendo fcolpire coli fatte parole ,pace popvlo   ROMANO TERRA MARIQVE PARTA, I A-  NVM CIVSIT.     NERONE. DI BRONZO.      Tro     DE GL* ANTICHI ROMANI. ip   Trouafi vn Marmo in Roma di colore bia co & ton-  do/! quale mie parfo di riprefcntarc qui innanzi, per  moftrarcla differenza delle parole che gli fono intor-  no, limili nondimeno nel fenfo à quelle, che nella meda-  glia di Nerone habbiamo viftequi fopra, ianvm c l v-   SIT PACE pRIVS POPVtO ROMANO VBIQVE  PARTA.   Plinio nel libro xxm. dell’hiftoria naturale (feri- IANO  uendo di Iano gemino) dice che i Romani nella pri- * min0 ‘  magucrra,chchcbbonocon i Cartagincfi,fcciono bat-  tere molte medaglie di bronzo, da vn de lati delle quali  era la teda di Iano con due vili, & dall’altro la poppa  d'vnanauecon quella parola, Roma.   Si trouano ancora medaglie di Iano,ncllc quali fi ri-  prefentano nauili & trofei'Ja deferittion delle quali fi  vedrà piu allongo nel libro de l’Antiquità di Roma, il  quali’ Autor mcttra torto in luce.   MEDAGLIA DI I A Na     BRONZO.      La caufa perche Iano fi depingeua con due vili, ella-  ta affai benedichiarata da Plucarcho nel libro delle lue Ijjjf***  quilUoni,doucdicc chcqùcflo nacque perche Iano era   B a     Uno con  due uijì.     Ouidio.     Berofo.  Uno Dio-  deli pace .     IO     DELLA RELIGIONE   (lato i! primo che haucua rend u ti i collumi rozzi delle  pedone piu ciuili , dando loro leggi, & inoltrando che  per la commodita de mari Se de fiumi gl'huomini potc-  uono hauerc Tempre abbondanza di tutte le cofc , tranf-  portandolc d’vn luogo ad altro. Alcuni altri dicono che  arriuando Saturnoin Italia in vna naue,& infegnando a  Iano l’arte dcllagricultura, & altre cole vtili & buone,  lancio prclèpcr compagno nella Monarchia, & per  eterna memoria del Tuo- nome, fece battere medaglie  con due vilì,& nel roueTeio la nauecon la quale Satur-  no era venuto in Italia:di che anchora. pare che habbia.  rcnduto teftimonio Ouidio,doueci dice,   ±At bona pojleritds Unum formante in are   Hofitis aduentum tejlificata Dei.   Io nondimeno m’accofterci piu volentieri all’oppe-  nionc di Macrobio, che dice cnc Iano Tu (colpito con  due vift,percflere Rato vn Re molto Tauio , che confi-  dcrado le cole pallatc,giudicaua Se prouedeua à quel-  lo che doucuaaucnircjchc e certo, quella prudenza, la  quale epiuneccflaria àtuttc le noftre attioni : laonde  confidcrado la varictadcllc leggi Se manierede collumi  de gli huominbparc che quafimcriramcntelanollravi-  ta fi polla aflomigliare alla figura di Iano con due vili.  ScriueBcroTo.che Iano Tu chiamatoDio di pace Se di co  cordia,doppo che Romolo &Tatios’accordornoinfie  mcj&che per la pacc& vnioncchc quelli due popoli ha -  ucuonofatta l’vnacon l'altro, l’imagine di Iano Tu Tcol-  pita con due vifi,& nel tépo pure di Romolo fatta di le-  gnoTolamcte/ccondo ilcollumc de grantichi,volendo  mollrare Se fignificarcchclapoucrtaè amica diDio,     come       DE GL’ ANTICHI ROMANI. zi  come quelle che contienile in fe l’honcftà , & la pace,  quello che conferma Tibullo ne Tuoi verfi > douepar- ritmilo.  landò dellantichcimagini degli Dei, dice.   Ne pudeatprifco Vos ejjìe e Jìipite fatto s.   Sic Reterei fedes incoluijhs aui.   Tunc meline renuere fdem } cttm paupere culeu  S tabarin exigua ligneus adcDetts.   N urna di poi fu quello, che fece fare quxfta imagine  di bronzo da Mamurio Ofco ,grandi(hmo maeftro di Ju xm<t.  fondere ilbronzo&iIramc,ilquaIcda Numa fu chia-  mato àRomaperfondcrcfimilrnentei xn.ancili,che di  poi foleuono portare nei facrificij r faccrdoti detti Salij,  come noi moftraremo apprclfo piu dillcfamcntc nel  difcorlo de noftrifacerdotij.   Quello Iano fu chiamato anchora quadriforme, &  dipinto con quattro vili, come quello che haueua fi-  gnoreggiato da tutti iquattro angoli del Mondo, nella  qualeforma di poi Ip riprefentò anchora Hadriano nel-  le fuc Medaglie.        M. A VRELIO. DIOCLETIANO.     HADRI ANO.   BRONZO.     Etpcrchcgia dal Signore Iacopo Strada Mantova-  no, grandiflìmo & diligente amatore &inueftigato  delle cofe antiche, mi fu altre volte donata la figura d’  tempio di Ianoquadrifrontc, però mie parfo di  fentarlo qui fotto al naturale, ocr maggiore inrell  del lettore.         DE GL’ ANTICHI     ROMANI.   ~Ò CON      z 4 - DELLA RELIGIONE   Hauendo à baldanza fcritto de templi della Pace &di  Iano,ragionercmo al preferite di quelli della Dea Cócor  dia, alla quale gli Antichi ne edificarono tati, che non ha  rebbono mai fineà volerli tutti recitare.Ma purccomin-  ciando da quello,che in Roma per tcftamcnro di Liuia   c oneordu ^ ua ^ a< ^ re & mo g^ c d’Augufto,fece fare Tiberio impe-  sto da radore, diremo, chele la concordia & la pace fono vnà  Tiberio. mcdefimacola,eipotrcbbceflcreforfc quello, del quale   Dionr. Dione haragionato nel libro l v i. dell’ hiftoria Roma-  na, fcolpito per le medaglie di molti Imperadori, nelle  quali fi vède la concordia con vna tazza in mano, in le-  gno della fuadcità,& nell’altra tiene vn Corno d’abbon-  danza,fignificatorc della copia di tutti i beni, quando gli  huomimfonoinvnionc: vedefianchora qualche volta  con due figure , che fi danno la mano I’vna all’altra : nel  modo che fi vede qui difotto , potrà il lettor vedere la  concordia.      «—     wm       DE GL’ ANTICHI ROMANI. aj   Et perla medaglia di Bronzo, di Caracalla, potrà ve-  der il lettore la concordia tra lui & il Tuo fratello Geta,  lignificata per la mano delira che fidano l’vno all’altro,  accompagnati da vna vettoria che gli corona améduc.  ''che mollrala vettoria d Inghilterra, douc erano Ita-  ti tutti infieme.     Nelle McdagliediM. Antonio Triumuiro lì troua  anchorala tefta di Concordia da vn Iato , Se dall’altro  duemani ftrette infieme con vn caduceo nel mezzo, &  lettere che dicono, m a r c v s antonivs, caivs   B L I C AE CON-       .r       Auicuncaltrepure del mede/ìmo hanno fcolpita la  Concordia con ducfcrpichc cingono vn’altarc , fopraal quale e polla la tcftad Auguflo, lignificando la con-  cordia del Triumuirato:& nelle medaglie d'Augufto li  figura dei- vedcanchorala concordia, che con vna mano tiene  U Contar- cornocopia,&con l’altra prclcnta de frutti àiTriumui  ri,quali furono Lepido, Cclarc& Antonio, per mollra  rechc dalla loro vnionc nafceua il bene della R  ca,&di tutta fhumana generinone, fpecificato  mili parole, salvs generis h v m a     *7     DE G I/ANTICHI ROMANI.  MARCO ANTONIO.     ARGENTO.      AVGVSTO T RI V MV IRÒ.     ARGENTO.      Ma volendo vedere quanto folle {limata la concor-  dia àccmpiantichi &da gl'imperatori Romani, & dagli  Efferati loro, riguardiamo alle altre medaglie , che fole-  uono fare, in alcune delle quali fi vedeuano cofi fatte  parole, concordia miei tv m , con vnavettoriache  coronaua con due mani à vn tempo medefimoj due  Imperatòri , lignificando d’haucre vinto per fvnionc   & vir     Concordi*   degli folda-  ti Romani,      I     z8 DELLA RELIGIONE  & virtù de loro fo!dati:& in altre fi troua la concor-  dia con due infegne militari in mano, & le medefime  parole.           SEVERIN A.   ARGENTO.     C^V I N T I L I S.   ARGENTO.       »     -     — — - B—i. 11*     a* ’•/ .. »-••*••   DE GL’ ANTICHI ROMANI. 19  Hcbbono Tempre tutti i piu faur Imperatori quefta  ferma Ipcranza^he nella concordia de foldati confi-  ftcuono tutte le vettoric Se la falutc del popolo Roma-  no, & pcròfareplicauono fpcflbcon limile medaglia.   H A D R 1 A N O.     BRONZO. BRONZO.      Per alficurarfi poi meglio deirvnionc degli Efferati  loro , gli faccuono giurare per mezzo i facrificij, non  trouando colà che piu gli. faccflc temere, quanto la  religione.. ,   A quefta concordia dcdicomo glantichi fa Cornac- C om<tcchU  chia,&di qui nalce chcEliano ha Icritto che gl'anticht dcdUaual-  ncl far matrimonio inuocauono quello vccello.Il Po- ^ Con<0, ’  Iitiano fcrittorc diligcntiffimo fa. nelle lue Mifccllancc  mcntionediqucftoi& per mcglioprouarlo, dice haucrc  veduta vna medaglia doro della minore Fauftina, figli-  uola di M. Aurelio, Semoglic di L.Vcro,ncI rouefeio  della quale era vna Cornacchia con lettere, che diccuo-  no, concordi a. Et perche io n’ho vn altra limile nel-  fc mani, però mie parfo riprcfcntarla qui difotto.   Fauftina.     • *   * •         0        • *   ìj&k   Mi f j              La quale colà per   p UMU vo ! u 1 , ° ^ompagnarc la fopradcrra Medaglia con  moglie di vn alcra d orodl Plautilla Augufta, figliuola di Plaudo,  cauviu Jaqualc fiotto Scucro goucrnò tutto Tlmpcrio Roma-  ** P ' fu poi moglie d' Anronino Caracalla, figliuolo di   Scucro Impcratore,douc fipotravedcrcinchcmodo fi  dauano la fede in fiegno di concordia due pcrfionc ma-  ritate,con quelle parole, felix concordia.     ’ : DELLA R ELI Gì ONE   FA VSTIN A.   doro.     PLA VTILLA.   D ORO.     Vfauono      DE GL’ÀNTl CHI ROMÀNI. 31  .' Vfauono limilmcntcgrimpcratori di {tendere la man  drittafoprale infegne dciloro foldati , inoltrando 1 vni~  onc &concordiache doucuaclfcrcin vn Campo, & dal-  lequali nalceuono quali tutte le vettoric loro, li come io  ho già inoltro nel dilcorfo pallàto , che io feci del modo  del campare antiquo de Romani;   TRAIANO. FILIPPO.     ARGENTO. BRONZO.      Erano à Roma anchora moiri altri Templi , come  quello della Speranza col Tuo limulacro, adorato da i  Romani nel modo, che li vedcperlc mcdaglied’Hadria-  no,d’Anronino Pio, di Traiano & di Plotina, con limili  fcritturc, spes popvli roman \ y spes Temp i 0 a   PVBLICA, SPES AVGVSTA. Spirane.   HA     3i DELLA RELIGIONE  HADRIANO. ANTONINO PIO.     BRON-ZO. BRONZO.      Per mezzo di tutte le fopralcrittc imprefe noihabbia-  comegtd n mo conolciuto chiaramente come gl’antichi figura-  gli Tu uono laPace ,Ia Concordia,&la Speranza, reità à mo-  Ttdc. ftrare hora come da quelli era dipinta la Fede. Facccuo-   no quello per mezzo di due mani diritte congiunte in-  terne, nclmodoqualichclioggianchora fanno i nollri  orefici in certi anelletti d’oro: ma l’accompagnauono i  Romani con l’H onore, con la Verità , & con l’Amore,  come a Roma li vede anchora hoggi fcolpito in vn mar-  mo bianco.     FICV     de gl* Antichi romani. 33     F I (j Z/ It D E L L <A FEDE  ritratta da yn marmo antiquo in Roma.         lo non midiltcnderò piu oltre nel inoltrare candì ,  modi, in quanti gl’antichi dipingcuono la fedc,& malfi-  mccol caduceo, & con le mani, macontenterommifo-  lamenredi ripreientare come priuatamentc & publica-  mcnte ella fu figurata & intrattenuta da i buoni & cat-  tiui Imperatori con fuperflue Ipcfc, nella maniera che lì     C      P L O T I N A   BRONZA     VESPASIANO. DOMI TI ANO   BRONZO BRONZO.     34 DELLA RELIGIONE  ohi» da vede per la medaglia di Com modo Imperatore,}! qua -  lTj «Unte k con larghiflimi promeflc la foleua comperare da  soli ni, fuoi !bldati,nel modo che fi vede qui difotto. ,     -iiDBlnrfj .'ro'ur.icni.IRVW  •|f.i Z incuci i nhs-7'i:-'  ìbdo fosiru.rn sfj&rvr/ ac  O     !tiu 0 • E;n.».v ’ ' : * i   ; ili i ,j& ti i   rjjscjj     Hadriano, 1   fclijiàojrn     m     H        %   ti'-     i'     h        hi*     ÌV        DE GL* ANTICHI ROMANI. 35  HADRIANO. COMMODO.   BRONZO. BRONZO.       Tra tutte le medaglie che io tengo piucare,io n’ho *  vna d’argcnto,donatami già dal S.TcforicroGrolicro,   (iugulari flìmo amatore delle co fc antiche, nelle quale  fi vede daduc lati fcolpitc le mani in legno di concor-  dia,con lettere, che ncll’vno dicono , fidis e x er-  oi t v v m, & nell’altro, fide s provino i a rvm. La  quale cola come rara,& poco vifla da coloro, che fi  dilettano delle mcdaglie,potcndo arrecare loro qualche r 1   marauiglia,pcrò fara caufa che io narrerò qui le cagio-  ni, ond^ ella fu in tal modo battuta.   Quello era che volendo le Prouincic, alla guardia De f critlio ,  delle quali erano ordinate le legioni Romane, ogn’an- Ze-   no reiterare la fede & patti che haueuonoinficme, face-   uono nel melò di Gennaio battere cofi fatte monete : &  infogno diconcordia ne faccuono prefente l’vno all’al-     tro.              >rn rrv     ....V;,: vi. <4        5 *     DELLA RELIGIONE     MEDAGLIE.     D'ARGENTO.      il primo che edificate mai tempio alla Fedepubliea,  piddcUdfe- fu NumaPompiliOjfi come recita HalicarnalTco, quiui  de fatto U facendo lacrificio alle fpefe del comune , doue i Saccr-  N|WM ‘ doti detti Flamini facrificauono fenza fare fangue, vedi-   ti di panni bianchi, & portati in vn carro con vna mano  coperta cerimoniofamentc,pcrmoftrarechc la fede pu-  blica,comc cofafagranon fi debbe violare. Ma perche  io mi trouohaucre detto di foprachegrantichiftimor-  hono- no l'honorc come Dio,&gli fecero vn tempio ,come à  re. conferuatore della fede promefla: però àconfermatio-  ne di quello dico,chc chi di ciò dubitate , vada à vedere  cicerone, il fecondo libro, che Cicerone ha fatto della nkura de  r. Liuto." gli Dei.Marccllo anchora(comc Icriuc Liuio) fu quello   T 'd* m 1" che f ccc vn tem P‘° a ^ a v * rc,a ^ a lfl lonorc > & Mario  no,*iUvir vn’altro fimilc,come fi vede nelle medaglie di Vitcllio,  tù cr ho- jougfono due figurcttejl’vna delle quali mezza ignuda  Tifici, tiene nella mano delira vn’hafla,& nella finillravn Cor  tbonorea- noc0 pja,con il piè deliro fopra vno morrionc: l’altra  detta utrta. ^ l atoraan co con vnmorrione in tcfta,ha vna halla   nella     DE GL’ ANTICHI ROMANI. 37  nella mano manca, & nella ritta vn fccttro,Ie gambe ar-  mate, & il pie ritto fopra vna tcftugginc,con lettere  che dicono, ho nos et vi rtvs. Vcggonfi Umilmen-  te nelle medaglie d’Antonino Pio dipinte Iefigure del-  l’honore con il tuo corno d’Abondanza, il quale tie-  ne nella mano mancatchccrinfegnachc portano tutti i  noftri Dei & Dee.   V I T E L L I O. M. A VRELIO.     UO N Z O. BRONZO.      Fu anticamente collocato il tempio di virtù innanzi T . en !f ,, ' 0 &  à quello dell’honorc, lignificando che all’honorc & di-  gnità mondane, non fi può facilmente peruenirc lenza  il mezzo di virtùràpropofito della quale materia io ho  tra l’altrc vna medaglia di Gordiano , nel rouefeio della  quale c vn'HercoIc ignudo , appoggiato fopra la fua jj  mazza ,& fopra al braccioha la pelle del Iione,con lette coUfìgura  rcinrorno che dicono, virtvti avgvs.ti. Ma per le t0 **  medaglie di Traiano, d’Hadriano, di M. Aurelio, & di  Filippo fi vede che la virtù c dipinta in altri modi come  qui di lotto.   C 3     DE LA RELIGIONE     5 »   FILIPPO. GORDIANO."   ARGENTO. ARGENTO.      Per la dili-  gizafeuie-  ne al fine  deU'impre-   r<-     Come gfan  tichi ordi-  nauono le  eafe [agre 4  iloro Dif.   Tempio di  Mercurio  cr di Bac-  co.     Per la medaglia fopradettadi M. Aurelio & quella di  Filippo, fi vede l’Imperatore vcftito della Tua corazza,  vn morrionein tcfta,vn’hafta in mano,& accompagna-  to da Tuoi foldati paflarc fòpravn ponte innanzi à tutti,  perfornirela fuaimprefaja quale ha figurata per le pa-  role che dicono, vi rtvs a vgvsti. Et per l’altra me-  daglia di Filippo fi vede il padre & figliuolo correre à  cauallo leggiermente, per moftrare la diligenza ,con la  quale ei veniuono à capo di tutte le loro imprefc,con li-  mili parole, virtvs avgvstorvm.   Ma lafciando qui l’interpreratione di tutte quelle  cole , farà piu à propofito tornare alla noflra religione,  & moftrare, fecondo Virruuio, come &douc gl’antichi  foleuono fare iTcpli ài loro Dij,comc quello di Mer-  curio nel mercato-.cT A pollo & di Bacco vicino al Thea-  trord’Hercolc nella Citta , douc anchora non eranoi  gynnafij ne gl’anfitcatri : di Marte fuora della terra: di  Venere allacampagna,&à Cerere fopra al porto fuora  della Città, eleggendo femprcluoghi,doue non frequen   taflino     DE GL* ANTICHI ROMANI. 35  taffino molto Icpcrfone,fcgià noi riccrcauala ncceffità  de facrificij , & i quali fi guardauono rcligiofamcntc &  cattamente. Il medefimo Autore fcriuendo dcH'archi-  tettura dcrcmpli nel fuo terzo & quarto libro dice,chc a  Mmerua,à Marte, &à Hercolcfi doueua ofleruar l’or-  dine Dorico:à Venere, Flora.Profcrpina , & le N ymfc de  Fonti, Corintio, cioè con le colonne Toltili, dilicate, pu-  lite^ ornate de fogliami perla morbidezza delle Dee:  & fé Ionico, à Giunone & Diana, fi doueua nondimeno  in ciò alla mediocrità haucrc riguardo: fcriuendo an-  chora appretto le regioni &quarticri,verfo i quali doue-  uono edere volti colifatti templi, altari, ftatuc,& altre fì-  gurccelcfti, per fare loro facrificij : circa che fi conofce,  che nella loro diucrfa& fuperttitiofa religione errorno  grandemente i Romani,& molto piu il popolo, ncll’ha-  uerc conofccza d vn folo & vero Dio, come piu oftina-  to in quella imprcffionc che vna volta ha fattada cagio-  ne del quale errore dichiarò affai bene Prudétio ne Tuoi  verfi, quando ditte,   Puerorum infanti a primo  Errorem curri latte hibit,gujlauerat inter  Uagìtus de ftrre mola.   Madi tutti i Templi che fumo in Roma edificati , il  piu celebrato fu quello di Giouc Capitolino,cofi chia-  mato per cffcrc ftato fatto in Campidoglio, fi come fi  vede per la medaglia d’Aurclia Qmrina, Monaca Ve -  ftalc,douc cfcolpito Gioue nel mczzodcl fuo tempio a  fcdere,fatto in forma quadrata con la factta in vna ma-  no, & nell’altra vno feettro con lettere che dicono, iyppi-  ter. o p t iu vi max. capjtolinvs.   C 4     Tempio di  Minerva,  di Marte ,  CT d’HcT'  cole, di ve-  nere, di fio  ra , c di  Proftrpina.     Errore de  Romani nel  la religio-  ne.     Pruduti io.     Tempio di  Gioue Ca-  pitolino.     J     DELLA RELIGIONE     Tempio di  Giove Veti  dicatore ,  Olympico,  CT Tonile.     4Ó   AVRELIA QVlRINA, VESTALE.     ARGENTO.      Quello tempio fu prima deftinato da TarquinoPu-  fco,&dipoi edificato da Tarquino Superbo in forma  quadra, & ogni faccia di CC. piedi con rrc ordini di co-  lonne, fi come lì troua nelle medaglie di Traiano, nel-  le quali lìveggono fopra al detto tempio molti trofei,  carri trionfali, vetrorie, & altre cofc belle. Vna altra mc-  daglialìmilmente lì troua di Gioue Vincitore, ò Ven-  dicatore, la quale fece battere Alelìàndro Scuero, figli-  uolo di Mammear&r altre di Gioue Olympico & To-  nante, fatte da Augufio, comepiu àlungo lì vedrà nel  mio libro delle Antichità di Roma.     Traiano     r*     fe,        DE GL’ ANTICHI ROMANI.  TRAIANO. ALESS. SEVERO.   BRONZO.     4 »     BRONZO.      A V G v h O, AVGVST 67  argento.      MEDA. DE P ET I H V S.   A n G P N T O.      «   N     5     DE GL* ANTICHI ROMANI,     4 +     '(co-   pura   tito-   lano   tcile   pio,   che   : de   yit     k     TEMPIO Z> I Cj 1 0 V E,  ritratto dalli Antico.      44     Spefa fatta  nel tempia  di Gioue.  Cofe ftngu-  l ari nelté-  pio di Gio-  ue Capito-  lino*     h aUcmdf  feo.     Tlinio .     DELLA RELIGIONE   Dicono gl Hiftoriciche Tarquinofuperbo (pcfc nel-  la fondanone di quello tempio x L.mila libre d’argento,  nel quale oltre all’altre cole lingolari fi vedeua vna ftatua  d’oro aita dieci piedi, vi. Tazze di fmeraldo, vi. vali mur  rini, che Pompeo portò d’ Alia, truffando di quella pro-  uincia,&vnmatello,o velie di Porpora tanto bella, che  melìa àparagonc con l altre d‘ Aureliano Imperatore, le  faceua parere di colore di cenere pi u tolto che di fcarlac-  tordella quale velie dicono che era già fiato fatto vn pre  fcntc (come di cofa rara) dal Rcd’IndiaàqucIlodcPcr-  fiani,&chc quello dipoi l’haucua donata al detto Im-  pcratorc.Era fimilmcntc in quello tempio vna calìa di  marmo, guardata da x.huomini,ch’ci chiamauono Dc-  ccmuiri, nella quale erano i libri Sibillini , contrccap-  pellcttc legrctc d’vna medefima maniera, douenon era  lecito à neffuno d'entrarc(comc fcriue HaIicarnalTeo)fi:  non à ifaccrdotidelmcdcfimotépio.NcH'vnadi quelle  Cappelle, cioè quclladcl mezzo, era lartatuadiGioue,  nell’altra ama diritta Mincrua, Stalla finiftra Giunone:  douc afferma Plinio hauerc veduto vn cane di bronzo,  che c5 arte marauigliofa fabbricato fi Icccaua vna ferita.   Io nonlafcicrò di fcriucrecomcrAquilafutragral-  tri vccelli dedicata à Gioue,non volédo gli antichi ligni-  ficare altra cofa , fc non che come l’Aquila è Reina de  gli vccelli, coli Gioue c Signore di tutti gli altri Dij,fi co-  me hanno mofiro non folamcntci Romani, mai Gre-  ci anchorancllc loro medaglie.   Àlefian       «   DEGL’ ANTICHI ROMANI. 43  ALESSAND. RE DI GLI EPIROTI."   ARGENTO.     Non voglio mancare d’aucrtire il Icttorecomc Gio-  ue,Giunone,&Mincruafurno figurati da gli antichi per  tre animalirquali furono , per la ductta Minerua, per  Giunone il Pagonc, & per Gioue l’Aquila, fi come fi  vede in vna medaglia d Antonino Pio.     ANTONINO PIO.        V arieti  deli Aqui-  la falla tef-  ta di Cio-     Vcdefianchora in dì molte medaglie, tanto di Con-  foli, comcd’Impcratori,che l’Aquila c poftafopra la fa-  cttadi Giouc,altroucchcella porta il Tuo fimulacro ò fi-  gura filila tcfta , & in altri luoghi lctcftedi Giouc &di  Giunone fopra le due alle.     4 <? DELLA RELIGIONE   Per la figura d’vna Pila antica che fi vede qui di fiotto,  Giouc c accompagnato della fina Aquila, &Giunonc  dal fuo Pagone,doue c Nettuno col fuo tridente, &pre-  fientc al fiicrificio inficme con Mercurio, col fiuo cadu-  ceo, & col Cappello chiamato Galero da i Latini.   V   Z>’ V N ? 1 ÌTJl . ">   fica ritratta et\n marmo di Roma.     H AD      47        A V G V S T O.  argento.     re Den cnc Scappella di Giunone foflefeome e detto)  nel tempio di Giouc, nodimeno haueua anch’ella il Tuo  tempioàpartCjComefi vede nella medaglia di bronzo  d’Augufto,doueè il tempio di Giunone arrichito dinan  zi di quattro colonne Doriche, & nel fregio e tale inferir  zione,i vn o n i.conilnomcdcmacftri di     HI ROMANI.  HADR. GRECO.   BRONZO.     BRONZO.     [     4*     DELLA RELIGIÓNE  AVGVSTO'      n r n m i n      Et come l’Aquila era di Gioue , coli il pagonc&lo  bruzzolo furono cólagrati à Giu none, come fi vede nel-  le medaglie di Fauftina,diGiuliaPia,&di Filippo Impe  ratorc,& il Tuo carro tirato per i Tuoi pauoni, di che ha  fatto mentione Ouidio,   * Halili Saturnia curru  Ingrediturliquidum fauonibus aera fiBis.     F A V S T I N A.     FILIPPO.         ARGENTO.      A       DE GL’ ANTICHI ROMANI.  G1VLIA PIA. F A VST INA.     4 »     ARGENTO.     BRONZO.       F A V S T I N A.     BRONZO.     ARGENTO.       — — MINER-   A Mincrua(comc c detto) per eflcrc dedicata la Ci- v A -  uctta , nafccua che nelle Medaglie degli Atcniefi fi ve- JJ“J  dcua da vn lato la teda della Dea , & dall’altro il detto Minena.  vccello con lettere Greche che diccuano ,athna, cóli  nominata da loro Minerua:&come m olirà il rouefeio  de la prima medaglia, la Ciuctta vola con Tali fpanfe , &  tenendo vn ramo di Palma co i picdi.Pcr i! volodi la Ci-  uettagli Ateniefi ftimauano il fimbolo de la vittoria.   D      5 °     Giouc   Vincitore.   Mintruj   nutrice.   Lypnuco.     DELLA RELIGIONE  MONETA ATHENIESE.     ARGENTO.      MONETA ATHENIESE.     ARGENTO.      Ec fi come Gioue fu da Greci & Romani chiamato  Vincitorc,quadolo faccuono dipingere con vna vetro-  ria nella mano diritta , & nell’altra vn’hafta in luogo di  fccttro,cofi fu Mincrua figurata da loro vettoriofa, ac-  compagnandola con vna vcttoria,ncl modo che fi vede  per le medaglie di Lyfimaco , vno de fucccflbri d’Alef-  fandro Magno , doue da vn lato è la fua teda con vn  i Diade     u.     I     DE GL’ANTIC HI ROMANI. 51  Diadema, &dua corna, in fegno di grande honore , per  haucrc fermato & ritenuto vn toro per le corna, il qua-  le (cappato delle manidi colui , che lo menauaper fare  facrificio ad Aleflandro,fi fuggiua.     LISIMACO.   ARGENTO.      LYSIMACO.   BRONZO.      Erano principali tutori & auocatidella Città di Ro-  ma G ioue, Mi nenia, & Giunone, &di qui nafccchePol-  lioneha fcrittonel libro della fua Architettura, che il   D a     ' Si DELLA RELIGIONE   luogo più a!to,dal quale fi poteua meglio {coprire &  Icorgcrc tutto il fito di Roma, quale c il Capidoglio ,fu  eletto per edificami il tempio di quelli tre dij.Ondc tor-  ntdiToZ riandò alla ftolta fupcrllitione de Gentili , che non fola-  nL mente adororno Giouecomc Dio omnipotéte,ne fi con  tcntomo’di dedicarli l'Aquila,come Reina di tutti gl’ vc-  cclI»,penlàndolo maggiore di tutti glabri Dij,ma gli con  Ammone f a g rorno ancho il Montone, chiamadolo Iuppiter Am-  moni mettendolo fopraquello à fcderccon lo Icettro  in mano. Nacque quello vocabulo Ammon dalla rena,  che i Greci chiamano «w** .ciochc Plinio (fcriuendo del  Tale Ammoniaco nelxi i. libro) ha meglio dichiarato in  quello modo.   Ergo ^AEtbiogU fuhie&d ^AJricd^mmonUci Ucrynum  Jìiìldt in drenti [un, inde etto, nomine w Ammonii oraculo iuxtd  quod gignitur drhor.   Quantunque Tinterpreted’ A rato Latino, ò Ballo, ó  Celare che fi fbflcjfcriuachc quello fia il Montone, che  anchora di poi fu meflb il primo tra i legni cclelli per ha  uerc infognata a Bacco Tacquaperilfuo ElTercito,chc da  lui condotto per la Libya fi moriua di fete,fi come piu à  pieno potrà il lettore vedere nel mijibro di Q^Curtio,  o xv 1 1. di Diodoro Siciliano, ò nel 11 1. lib. che Arriano  ha Icritto de fatti d’ AlclTandro Magno.   Meda.         DE GL’ ANTICHI ROMANI.  MED.. D’HAD. BATTVTA IN GRECIA,   BRONZO. BRONZO.     Fuanchoraà Gioue dedicata la Capra, per hauerlo t* c*pré  nutrito del Tuo Iartc,ondc ei fu detto Egiuco,& da Greci  ùtyic X t f,Ia quale capra intendcuono quella della Nymfa  Amaltea^he l’haucua allcuato, A come afferma Gcrma  nico Celare ncAioi vcrA d’ Arato, douc ci dice,   -lUaputatur   Nutrix ejje louu/i 'vere luppicer infdm  Ubera Crete* muljìt fidi^ima capra,   Sy dere qua clarograrum cejlaturalumnum.   Il che moftrarono anchora meglio Filippo Se Valc-  riano Imperatori , facendo nelle loro medaglie mettere  vna volta la Capra fola con lettere che dicono , io v i  conservatori a v cvsT i, & altrouc la Capra che  portaua addoffo vn Gioue à modo di fanciullo con altre  lettere à quello modo , iovi crescenti.     Vi V         54     Gioite vit-  tore.     Calcidonio   dittico.     DELLA’   FILIPPO.   ARGENTO.     RELIGIONE   VALERI ANO.   ARGENTO.      Attribuì Umilmente molti altri nomi & dignità la fu-  perftitiofa antichità à quello Gioue,vna volta chiaman  dolo Vcttoriofojcome quelli che péfauono che ei donaf  fclcvcttoricj&cohlo fugurauonoconvna Vettoriain  mano,& con vno fccttro nell’altra:& vn’altra volta face  uonolaVcttoriachccoronaualuid’vnacoronad’Allo-  ro,(ì come io lapoflo moftrare (colpita in vn mio Calci  donio antico, poco minorcd’vna medagliada quale pie-  tra anticamente fu confcgrata à Gioue Fulguratorc,per  vfeirne il fuoco, onde i noftri Soldati l'adopranoancho  ra hoegi all’archibufo.   CAL       DE GL’ ANTICHI ROMANI.  CAL CIDONIO ANTICO.     BRONZO.     MEDA. GRECA.   BRONZO.     DOMITIANO.   BRONZO.         DELLA   MARCO     RELIGION   AVRELIO.      BRONZO.     BRONZa      cottegli Per le medaglie qui appreflo , fi vede Gioue mezzo  * *** * *'• ignudo di Copra, & dalla cintura in giù vcftito,chc fta à  ciò**. federe nel mezzo di quattro elementi , tenendo da vna  mano vna hafta , & l’altra la ripofa Copra la tefta de l' A-  quila,fi comclalcultturalo dimoftra peri due carri ce-  ledi dclSo!c,& delaLuna:& per i due fimulachri che  fono Cotto i Cuoi piedi, lignifica gl’altri due elementi,  cioè , l’acqua & la terra , hauendo il Z odiaco attorno,  doue Cono riprefentati i dodici Cegni ideili. Et la ca-  gion perche riprefentauano cofi Gioue, era, chcgl’an-  tichi nella loro miftica & occulta theolo^ia volcuono  lignificare, che le cole lupcriori debbono a gli huomini  efìcrc celate, & Colamcnte manifcftc à Dio. Mafuadi-  uinità & tutte le Cuc potenze, ci ha moftrato Alcxan-  dro figliuolo di Mammea per i Cuoi medaglioni bat-  tuti in Grecia, doue fi veggono da vn lato caratteri ab-   bre      DE GL’ ANTICHI ROMANI. 57   breuiati, che dicono XrTOKPA'Tnp K^riAP ma'pkos  atpe*aioì iebaitòs a* AEfg a n a po z , che iLatinihan  no interpretato ,imperator caesar marcvs   AVRELIVS AVGVSTVS ALEXANDER.   Alexandr o mamme a.     bronzo.      I Greci chiamorono Gioue per varij nomi, malfima-  mcncci Siraculànijcomc recita Tito Liuio nel quarto  libro della terza Dccadctcon ciò Ila, che hebbero il tem- t empio di  pio di Gioue detto Olimpio,alcrimcnti Eleo , celebrato  primajpcril Tuo oracolo, & dapoi per i giochi publici  che lìfaccuono in Elide , nel Campo di Pifar&di là e ve-  nuto il nome di Gioue Elco,come lì potrà vedere per la  medaglia Greca polla quidifotto,nelìa quale lì troua da  la bandadritta il lìmolacrodi la teila di Gioue con que- Gioue  Ite lettere Grechc,s e rs iAET02 > chcfignificano J ciovE ^  ELEO.EtncI rouefcio elcolpito il fuo Folgore & l’Aqui-  la con tale inlcrizionc,zr paro sion: la quale cifaap-  parircchela città di Siracufa portògrandiflimo honorc   D s   w',ltrr r*jr" *- ** •‘.‘r * 4 .   -r* • .*• . v ‘. v. ‘‘ ■     m     58 DELLA RE LÌGIO NÉ   a Giouc Eleo, à cui fece edificare vn cofi bcllilfimo tèni  pio,& battere fimili medaglie in fua eterna memoria.     MEDA. DE I SIRACVSANI.   BRONZO.      SttBd fot»-   tiferà di  Giouc.     Per le medaglie d’argento che furono battute per  Lucio Lentulo,& Caio Marcello Confoli,fi troua la te-  tta di Giouc d'vna banda con tale inflizione, ivcio   L E N T V L Oj CAIO MARCELLO C ONSVL I»   b v s. &da l’altra è vn Giouc coi fuo Folgore nella man  dritta,& l’Aquila nell’altra , &innanzi aìui vno piccolo  altare,& dietro laftella falutifcra,laquale c polla nel fe-  condo luogo tra le fteile erranti: lignificando tutte que-  lle cofc vn facrificio fatto per detti Confoli à Giouc, per  caula del Folgore caduto fopra il fuo tempio Capitoli-  no à Roma.     Meda?       DE GL‘ANTICHI ROMANI. ss>     MEDA. DI L. LENTVLO, ET C.  MARCELLO, CONSOLI.   ARGENTO.     I Romani chiamorono quello Giouc Confèruato- Gioite cc%>  re , fi come noi leggiamo nelle medaglie di Diocletiano { enutort '  Si di Gordiano Imp.che lo dipinlcro ritto eon due faeffe  nella man delira, & nella finiftra vn’hafta, infieme col  medefimo Imperatore fiotto la cuftodia fua,& lettere  che dicono, io vi conservatori. Nclrouelciodcl-  l’altra medaglia di Diocletiano fi troua vn’altro limile  Giouc, che prclènta vna vetraria, la quale ha fiotto i pie-  di vnglobo,&Gioue {aquila vicina àifiioi: fi come Li-  cinio ne fece battere vn’altra,doue l'aquila hain becco  vna Corona d’allòro & lettere in quella guifa, ioyi   CONSERVATORI AVGVSTORVM NOSTRORVM.   Domi     *■     v.     «*         DELLA RELIGIONE  DOMITI ANO ANTON. PIO.     ARGENTO. ARGENTO.      GORDIANO.     BRONZO. ARGENTO.      MASSIMIANO • LICINIO.     ARGENTO. ARGENTO.      Oltre      ì            !•;   * '?*\ P M   r     DE GL’ ANTICHI ROMANI. 61   Oltre à Vettoriofo,Fulguratorc, ò Fulminatore, fu Dìutrfe po  anchora chiamato Statore, Propugnatore, Vendicatore dl   & Cuftode,Anxur, ò Auxur. Et come Marte Vincitore  fu honoraro da Romani, coll ancora fu adorato da loro  Gioue Vendicatore, perche da lui erano punitele cole Gl - owf v j_  malfatte.     tote.     GORDIANO.   ARGENTO.     ALESS. SEVERO.   ARGENTO.       GORDIANO. DIOCLETIANO.     argento.     ARGENTO.      Del     Seneca,     CJ. della religione   Del foprafiguratoGioueCullodc nella medagliadi  Nerone, ha fatto mentionc Seneca, nel fuo fecondo li-  bro delle qucflioni naturali,douecidice:   Quem Iouem tnteUigunr cujlodem rettorémtjue \niuerf.   Qucllo,chc parimente fi vede nelle medaglie d Ha-  driano, douc Gioue c dipinto à Ledere nel fuo Trono  conia filetta in mano dritta, Se lettere chcdicono, ivpi-  ter cvstos. Vcfpafiano le fece battere con inferi -  zion diffcrcntc,chc dice, iovis cvstos.     Cicerone.     NERO.   ORO.     VESPASIANO.     ARGENTO.      Ma quanto à Gioue Statore, cofi chiamato, perche,  mediante lui, fi confcrua ognicofinli vede che Cicero-  ne ne fece anch’egli mcntione nclloratione, cheei fece  innanzi che andare in cfiglio:doue ei dille; O Gioue Sta-  torc,quale i noftri antichi cofi chiamarono , come con-  fèruatoredi quello Imperio,& dalle mura del cui rem-  pio io tenni difcollo le violéti imprefedi Cati!ina,dop-  po che Romolo l’hebbe edificato nel palagio , apprefib  la vettoria hauuta de Sabini, io ti priego d’cllcrc in aiuto  alla Rcpublica & Città diRoma, Stame in tutte le dif-  gratie mie. yltore           P'S     DE GL' ANTICHI ROMANI. <r 3   Vlcorc fu chiamato, & honorato da Romani come  Marce, per edere l’vno & l’altro vendicatore delle cofe  mal fatte: & in Italia , maTTimamcntc nel territorio Ca-  pouano detto Auxur,& figurato il Tuo lìmulacrope r vn Auxun  fanciullctto lenza barba, del qualefcce mentione Vie- Virgilio.  gilio nell’ viij.libro dell’ Encida, quando dille:   Cyneumejue iugum^uets I uff iter ^Auxttrus aruis  r Pr<efìdet.   Et è ancor Giouc coli (colpito (opra vna medaglia  d’argentodi Pania, da vn lato della quale fi vedeà fede-  re nel fuo T rono con vna tazza nella mano mra,& nel-  la manca lo fcettro,con vna corona di Quercia, o d’Vlt-  uo,ilchc non ho potutotroppo bene difccrnerc,per la  piccolezza della mcdagliarnondimeno Phornuto affer-  machefolamcnccGiouccra coronato d’Vliuo,in fegno  di perpetuitàrperchc egli è Tempre verde, & tiene qual-  che poco del colore cclcltc.   ME DATgTi E DI P ANSAI   ARGENTO.       Et Ti     *4     Tempio   d'Augufto  in Alcjptn  ària.     DELLA RELIGIONE   EtlicomcGiouchaucua in Roma (come e dctto)iI  Tuo tempio magnifico , & era chiamato Scruatorc Se  Conlcruatorc,coli in Alcflandria nera vn’altró limile  conlagratofcome fcriuc Filone nel libro della Tua lega-  tioncà Caio Ccfarc) à A uguftoConfcruatorc, chiama-  to hauuto in vcncrationcda i nauiganti.Era   quello grandillimo & altiflìmo tempio pollo innanzi al  Porto,picno di Tau ole offerta, di pitture cxccllcnti,& di  flacuc marauigliofamentcfabricatc,& ornate d’argento  Se d’oro, con portichi Se loggic per Ilare al coperto, &  palleggiare, & vna libraria accompagnata dagradilEmc  làlc,portali,bofchetti,& lunghe vie, che di lontano por-  geuonofpcranzadi falutc à tutti i nauiganti,che volc-  uono pigliare porto in Alcflandria: benché quali per  tutto il modo foflcro flati dirizati & fatti molti altri tem  pii in memoria d’Augufto & per eternità del fuo nome,  li come li troua nelle medaglie battute al tempo di Ti-  berio, il quale cominciò vn tempio in honorc fuo che  Caligula fornì poi,& Io confagro al fuo nomccon ofH-  cij Se facrificij pieni di pietà Se di rcIigione,il che ei con-  ferma perle fuc medagIie,doucda vn Iato è il lìmula-  cro della pietà à federe con vna tazza nella man dritta,  & la fianca ripofafopra vnfanciuIIctto,che moftral'of  fido pio che Caligula faccuainuerfo i fuoi parenti , con  quelle parole, e. caesar divi avgvsti prone-  POS AVCVSTVS PONTIF EX MAXIMVS TRIBVNIT1 A  POTESTATE QVARTVM PATER PATR1AE. & poi   quella altra appreflo folamcntc, pietas. Dall’altro Ia-   Sdtrificio to mC£ ^ a g* ia fi vede fi tempio d’Augufto flato ri-  diCéU&uU. ccuuto (comeci penfauono) tra gli Dci:& nel mezzodi   detto     Librario   b.Uifiinu   d'AuguJlo.     Tempio  tA ugujlo  (omincUto  per Tibe-  rio, cr for-  nito per C4  ligula.     - *"*            DE GL’ ANTICHI ROMANI. <r 5  detto tempio vn’altare,fopra al quale c vn Buc,tcnuto  da colui che n’haucua la cura, chiamato Vittimario,con  vnfaccrdotc chemoftra di volere fa me facrificio, teneri  do vna razza nella mano deftra,& dietro alle fpalc vn  miniftro con vnvafopcrriccuercilfanguc della beftia.     AVG VSTO.   ORO.              *      DELLA" RELIGIONE  MED ÀGLI ÒNI DI TIBERIO.     Tempio   dkugujlo   reflituito   per A nto~  nino.      Comminciando dipoi quello tempio col tempo à  rovinare, Antonino Pio lo fece inftaurarc, fi come h ve-  de per le Tue medaglie d’argento, d’oro, & di bronzo,  douc fono lettere che dicono .templvm divi  avgVsti restitvtvm. Ne contento di qucfto,  ne fece fare vn’altroad Adriano fuo predcceflbrc,comc  ricordeuolc de benefici), che haucua riccuuti da lui.   Anto       »           DE GL’ ANTICHI ROMANI. c-j  ANTONINO PIO.   BRONZO.     Oltre à quelli templi , furono anchora fatti molti  altari in honored’Augulto, per moftraremaggiormen- imiti de  te, & per diuerfe vie la fua eternità con quelle parole,  providentia, hauendo quei Romani quella vana  opinione, chela deitàd’Augullo potcflèloro concedere  tutto quello,dichehaueuonobifogno per laucnire.        tu»-,   -ilKrTivb'Jì     /      68 DE LA RELIGIONE   Et coli per tutte l’altre medaglie de gli Imperatori;  che erano (lati à modo loro deificati, folcuono gl’anti-  chi (colpire quelli altari in legno della loro deificatione-.     Deferivo* Scriuc Apulco nel dogma di Platone , chela proui-  XkJu denzanon è altroché vnafenccnza diuinachc mantie-  ne femprcfelice colui,checlla piglia vna volta iti cura:  & altri hanno detto che folamenteriguardaua Se pcnlà-  Dtuodi uaalIecofeaucnire:ma i dannati Epicuri£al(amcntecre-  zpÙHro. deuonochcDio non haueflc alcuna cura de mortali.  Ond’io à propofito di quella Prouidenza mi ricordo ha-  uerctra molte altre pietre intagliate, cheiofcrboin ho-  nore dell’antichità, vn Diafpro, nel quale è (colpita vna  vtformU* formica con tre fpighc in bocca,fignificatricc della Pro-  K de Polii- uidenza-.la quale pietra fu altre volte trouata ne i fonda-  de*K4. menti d’vna delle torri cheio ho fatte farcnclla mia cafa   della Maddalena, che per edere cofa anttchitfìma & rà-  ra,mi c parlo farla ritrarre qui Cotto al naturale.   — Diafpro         DE GL’ANTICHI ROMANI.      Et perche Plotina ha già comporti in 4. libri della  Prouidenza, inoltrando che tanto le piccole come le  grancofe cranogoucrnate per il Dio di natura, io rimet-  terò il lettore à quella lcttione,& ritornando al propoli -  to mio, dico chegl’antichi riputorno la Prouidenza per  Dea, come anchora ha inoltrato Cicerone nel libro del-  la naturadegli DcijOndcpcrla Tua figurabile clafem-  bianzad’vna matrona ftolata , ò velata & dritta , che in  vnamano hàlolccttro,&con l’altra moftra vn globo,  chcgli Ita à piedi, pare che voglia lignificare che la Pro-  uidenza goucrna tutto il mondo, come vna buona ma-  dre di famiglia, nel modo, che nelle loro medaglie la fi-  gurorno (benché con diuerlì atti) Traiano & Pertinace  Imperatori.     r. ;• -      fiorini.   PROVI   DENZA.   Cietront.     '■.V ' >     r !       Alcuni altri Imperatori, comeTito, la fecionodipin  gereconvntymone& vn globo, inoltrando come ella  gouernaua il mondo. Antonino Pio la figurò per vna  filetta di Giouc accompagnata da molte altre. A leda n-  droScucroper vn vaio pieno di fpighe,& Probo & Fio  riano per vna fcminaftolatacon vn globo in mano,vn  fccttro &vn Corno d’abbondanza.     rrouidtnz'*  diuerfmen  tc pinta da  antichi.      Caracal         Ei mi parrebbcinuano affaticare ,fc io non auertiflì  0 « lettore della pazza fuperftitionc de gli aderbi Roma  ni,i quali durante la vita de i loro Imperaton, o buoni,  o catti u i,cKc ci follerò, in ogni modo non lalciauonodi  fare loro templi,ttatue & altari , & doppo la morte di  lànftificarli,attribuendofaIfamentc loro nomi dibuo  ni Principiai fondatori di pace, & (non ottante che ha -  ueflino maltrattato il Scnato,& Popolo Roman o)di re   E 4     CONSE   CRATIO-   NB.     V<tra f a .   flit ione  ir Romani  nel fanttfi-  tar loro ^   imperato^   ri.     FLORI AN   A     HI ROMANI. 71   S S. MAMM EAT   BUON Z O.      7i DELLA RELIGIONE  . ftauratori della Città di Roma, fteome auenne di Lu-   cio Settimio Scuero,il quale oltre aireflcrehuomobar-  baro,beftiale,homicida,&che di fimplice foldàto pcr-  ucnnealla dignità deilTmpcrio, ingannò & tradì Clo-  dio Albino gcntilhuomo Romano per venire à capo  dei fuoidifegni, &: nondimeno s’attribuì & fece dare  più per paurache per volontà dal Senato Romano tùt-  ti i titoli di buono Imperatore.     S   A R G E N T     < 3*23     ‘   DF GL’ ANTICHI ROMANI. 73  Ma che diremo noi di quello Monftro di Natura co-  minciato & non finito,il quale doppo la fua morte fu  connumerato daRomaninelnumerodei buoni Dei,&  del quale foleuadirc Nerone, che l'haueua fatto auelc-  nare, che egli era ftato fatto Dio p c r mezzo del boccone  d’vn fungo?   clodio;     ORO.      Et per contrario furono i buoni Principi, di T raiano,  Antonino Pio,& Marco Aurelio, che per le loro virtù &:  buoni coftumi,mcritarono d’cflcre chiamati ottimi Im- c .   pcratori,& canonizati,fe lecitaméte fifolfc potuto ciò fa  re. Trai quali è pur degno d’clTcrc Tempre nominato&  ricordato il nome d Antonino Pio , lolito dire che piu  tofto volcuacolcruarc &faluare la vita d vn Cittadino,  che ammazarc mille defuoinimici. Parola certamente £ Antonino  piena di pietà & degna d’vn buono Imperatore, come  cglicra,&:comclo chiamòil Senato, facendoli dirizarc  come à Traiano, vnaColonna,& Templi nel modo che £ Antonino  fi vede qui di fono.   'i .... e $ c     w • . • • r     0        amo moftraco cornea! tempo anticogli   ucrrdctì Inipcratorieranoconfngrati,&diuentauonoDijdoppo   ^TLi ]aI . 0r ° m05tCj& comc * Romani faccuono tem pii &al-  tio di ttm - rar * * n Sonore loro coni /àcnficij de vitelli ficdegl’agncl-'  & Reonfegnado loro Sacerdoti & Flammini nel modS che  di Celare A ugufto ha già fcrirro Prudcnrio^diccndo:  Prudenti». Hunemorem V ererum docili Um aiate fejnuta  ? olì eritas t men fa t atque adytit } & fiamme^ tris     DELLA RELIGIONE  ANTONINO PIO.   BRONZO.     ON. PIO.     BRONZO.        Uuguft     75        DE GL* ANTICHI ROMANI.   \AuguJlum col nitritalo placa uù tgd agno:   Strafa ad puluinar iacuit, refj>onfa popofcit.   Tcjlantur tituli,prod»nt confulta Scnatus  Cafareum louis ad ) fecitm Jlatuentia templum.   Equanto al reità della conftgratione , chiamata da  Greci & della quale ha le ritto minutamente He   radiano al vij.capitolo del iii j.Iibro,mi è parlo non fola-  ménrc di figurarla cjui fottoal naturale, ritratta dalle me-  daglieantiche d’Antonino Pio,& dt M. Aurelio, ma tra-  durla in volgare,pcr maggiore intelligenza del lettore.   ANTON; Pia M- AVRELIOl '     BRONZO.     BRONZ O.     c     Soleuono i Romani confagrarc doppo la morte lo-  ro tuttiquclli Imperatori, i quali làlciauono i figliuoli  heredi dell' Imperio, in quello modo penlando efTcre ri--  ceuutr nel numero de loto fallì DijrEa Citta tiftta vcftita  abruno,&picna di dolore &di lamenti, folennemente  fatta fàrcvnaimaginediccra limile al morto Imperato  re, la poneua dentro a vn ricco letto d’auorio,lcuato in  alto aU’cntrarc del palagio Imperiale. Era quello letto  coperto di prctiofì panni d’oro &dcntroui quella ima-   gine     H erodiano.     b o«».f  W «HV        Ccrimonù  de Roma*  nella mori  de loro l«  fe rotori.     - 7 6 DELLA RELIGIONE   ginc pallida àguifa quali di ammalato Imperatore/! ri-  polaua,haucndo dal lato manco à ledere tutti i Senato  ri vcftiti di bruno,chequiuigran parte del giorno dimo  rauono.Et dal lato deliro tutte le Donne Romane, cias-  cuna fecondo ladignità & grado dcloro padri,ò mariti,   . fenza ornamento alcuno d’anelli, maniglie, ò catene  d’oro,ma fedamente vcftircdi bianco leggicrmetc(qualì  come portano in tal calo le getildonne in Francia)# tue  te piene di maninconia. Durauono quelle cerimonie  vij.giorni,nel qual tempo i Medici ogni giorno s’apprcf  fauonóalla bara, fingendo di toccare il polfo all’amma-  lato,# mollrando che gli andaua fempre peggiorando.  Ma fubito che ci diccuono quello cflèrc fpirato, i primi  letto i Up4 Senatori lì lcuauono il letto Tulle fpallc, portandolo nel  YtZ'ZÌ? ^ av ‘ a ^ acra ^ no al Mercato vecchio, douc i Magillrati  tutori Romani Toleuono fpogliarlidelladignitàdi tutti i loro.  officij.Erano in quello luogo da due lati fatti certi pal-  chi con ilcalc,dai’vn de quali tutti i piu nobili giouani &  patritij Romani, & dall’altro le piu illullri donne canta-  Himi tan- uonoHynni & Cantici Iamctcuoli# pietofi,nelmodo,  tati nette po che s’vla ncllcpópe funebri. Dopo quello i Senatori di  pt funebri. nuouo fa lcuauono la bara fullc Ipallc, &la portauono  fuora della Città in vn luogo chiamato il capo di Mar-  te,douecravn tabernacolo quadro fatto di gradirmi  legni fcccjii,& ripieno di fcrméti.di paglia, & di falcine,  & di fuora riccamctc adorno di cortinclauorarc d'oro,  di flatucd’auorio,#altrediuerfcdipinturc.Sopraàque  Ho tabernacolo n’era vn altro lìmile,ma piu piccolo,&  riccamente acconcio come l'altro,cccetto che haueua le  porte & le fincllre aperte, & coli di mano in mano mó-   taua        DE GL’ANTICHI ROMANI. H77   tauapiù alto nel mcdclimo modo fempre diminoedo.  Potrebbe!! quella ftruttura ailbmigliarc à certe Torri  fondate in marc,ò fopra ài Porti, chiamate da moderni,   Fanali, dagl’antichi Phari,douela notte Hanno acccfi lu TJnaU  mi perfarefeorta a inauiganti.Portato adunque ildet- chiamati  to letto fopra al fecondo ftaggio.quiui fpargcuono gra-  dequantitàdi fpcticrie,diprofùmi,difrutti,d’hcrbc, &  d’vngucnti odoriferi di tutte leparri del Mondo, facen-  doqualì à gara di chi più , ò meglio, porc/Tc honorare,   & fare quello vltimo prefente al loro Imperatorc.Fat-  to quello, lì moueuono certi Caualicri à corfa intorno  al tabernacolo, facendo vn modo di Morcfcha tonda, MortfAé  Pyrricada gli antichi nominata:& apprefib à quelli fa- ryntt4 '  ceuono il mcdelìmo i Cocchi, ò carrette , fopra lequali i  carrettieri erano vcllitidiporpora,8cdi velluto chcrmi-  lì,con mafchcrc fomiglianti à i Capitani , & principi che  haueuonogià fcruito il morto Imperatore. Et con finite  tutte quelle ccrimonie,colui che doueua fuccedcre all’-  Imperio, pigliato vn torchio accefo in mano,mettcua il  fuoco nel Tabernacolo, & il limile faccuono tuttigl'al-  trhpoidi mano, in manoùl quale per la materia tato fec-  ca,& le cofc vnte deprofumi, & olij profumati, leuaua { j, e   fubito le fiamme in alto,pcr mezzo lequali, vfcitavn’ A- t*   quila viua del minore & più alto Tabernacolo, fc n’an- «  daua volando in verfo il cielo , quiui di terra portando i cieli  (come crcdeua &gridauala lloltitia de Romani nql me  delìmo tempo) l’anima del loro Imperatore), il quale  poi coli adorauono come Dio,& gli faccuono altari &     templi, come e detto di fopra.     » C rwr,-*  r-’ìRtn             «     v 7 8 ' DELLA RELIGIONE   ’ M. AVRELIO. F AVSTINA      4U«         tu 1 -     PERTINAX.   BRONZO.     F AVSTINA.   ARGENTO.     Crédcuonoi Romani qiicfto mi fieri o non Iblam"  elfere vcro,ma molti giurauono hauerc veduto vfeire  del fuoco l’anima dell Imperatore , & altri pagauono  huomini à polla per confermare coli fatta bugia, diccn -  do che l’Axjuila di Gioue l’haucua portata in Ciclo, &  coli ecco in cheniodofu anchora canonizato Seucro  lottizzo* collocato nel numcrodegli Dei, inlìcmccon moltialrri  Imperatori & Imperatrici ch’elPopo.Ro. fece fàlir per   forza      DE GL’ ANTICHI ROMANI. 7 9      COM     forza alciclo nel medefimo modo che Scucro. Ma ri -  tornando alla materia de noftri templi, doppo haucrc  fcritto de i più trionfanti di tu tti,cioc,di quello di Giouc  Capitolino , di quel d'Augufto à Roma&in Alcflan-  dria,del Pantcone^ di quello della Pace, ci reftai vede- Tempio «K  rcil marauigliofo di Diana Efcfiamcllà fu perba edifica ^j c pg %  rione del quale concorfcro tutti i Re,Potcntati,& Repu  blichc dell* Alia maggiore, contribuendo ogniuno per  lafuaparrc/olamcntcmoflidalzelo di religionc,qua'n-   tunquepcr Ja fuagrandezza folle a pena tornito in CC.  anni,& fondato rifpetto a i tremuoti in vn Pantano, tal-  mente che ci fu connumcrato per vno dei lette miracov  li del Mondo, & di poifcolpito in piu medaglie di di-  ucrfi Imperatori.   “ CLAVDia   ‘ ' A R G E N T O.     stnr. *4     • Ma pcrcbeil fimulacro interodi Diana,qualc era nel   Àmpio degli Efcfij,nonfi. può interamcce {cingere nel  le med agliedi pi ntedi fo p ra,mi cpàrfódi farlo-hilthopa  di nuouo ritrarre qui di fotto nel modo , che io ihoirt  e ” due     '.Ikimfc        K.OII     8o DELLA RELtGIO   due medaglie Grechc,l’ vna di C5modo,S: l aura a nn -  tonino Pio , nell'vna delle quali e Icritto aptemhx  e «• e x i a n , cioè, Diana degli Efelìj , & nell’altra quella  l ola parola, e « e s i a spedendo tutte l’altrc lettere perdute.     ANTOM. PIO.     COMMODO.     BRONZO.     Dtfcrizìon  del tempio  di Diana.     Era la lunghezza di quello tempio ccccxxv. piedi,  & la larghezza e e x x. ornato di e x x v 1 1 . colóne, ogniu-  naalta lx. piedi, & nondimeno fu abbruciato da quel-  lo fcclcrato Eroftrato,folamentc per dire che egli hau  ua fatto qualche cofa degna di mctporia:bcnche di poi  fu rillaurato & rifatto anchora piu bello da Dinocratc,  Celebrati!) Architettore d’Alellandro Magno. Quiui aduque lolc-  cUDianf* L, ono ogn'anno, nel giorno che lì cclcbraua la fella di  ~ Diana, trouarlì tutti i giouani ,& fanciulle , vergini del  paefe,vcllitidibiaco,doucfpeflò lìmaritauono iUcrne?   Il fimulacro ò imagine di quella Dea fu fccodo le fue  dignità & qualità dipinto & figurato da gli antichi in di-  uerfe manierc,lt come ella fu pariméte chiamata perdi;  JSSL. uer/I nomi.ConciòlìachcquàdoIaLunaera tutta pie-  na, la dilegnauono per la lua chiarezza con vno tor-  chio     v      DE GL’ANTICHI ROMANI. 8x  chioaccelo in ambedue le mani, come fi vede nelle mc-  dagliedi GiuliaPia, moglie di Seuero Imperatore, con  lettere chedicono, di an a lvcifera.     G I V L I A PIA.     argento.     BRONZO.      Et per inoltrare anchora meglio che Diana &la LlT-  na eranoinqucl tempo vna mcdefimacofa,ioho fatto  qui mettere vn'altra medaglia di brózo della mecfefima  Giulia, nella quale e ferino, lvna lvcifer a,&ìI(uo  carro tirato daducccruic, chcfignificauono checll'cra  Dea della caccia, quantunque l’interprete d’Arato hab-  bia detto che quello fignificaua la fila leggerezza. Ma  quadogl’antichila figurauono poico vnolpiedcinma  no,& vn ccruio apprcfio,voleuono lignificare che cac-  ciando, ella pigliaua & ammazzauai ccrui pcrforza,no  minadola »^óa«c, & per memoria che ella era la prima   cacciatricc,fofpcndcuono le corna de cerui dinanzi al  fuò tepio.DclIa quale cofahauendo affai à baftazadif-  corfo nel libro , che per comandamento di fua Maefli  iohò fittodella naturadc giammai! ferochpcrò rimette  rò il lectorcà vederne quello, chcion’hò quiui trattato.     F     8i     DELLA RELIGIONE  MED AGLI E D’H OSTILIO.   A G R E N T O.       Trouanfi anchoradelle medaglie , doue Dinnac di-  pinta, òfcolpitacon Io fpiede, in legno che ella foleua  ammazzarci cingùiali, diche fa chiaro rcflimoniolamc  daglia di Gcta Triumuiro, nella quale da vn lato è fcol-  pita la tefta di Diana , & dall’altro vn cinguialc , ferito  d’vno fpiede in vna fpalla con vn cane appreffo.     GETA TRIVMVIR      DE GL’ ANTICHI ROMANI. 83   Quando i Romani figurauono Diana cacciatrice,  ordinariamente la folcuono accópagnared’vn turchaf-  fo,d’vn , arco,& di frccciccon vn cane da ghignerei fc -  gugio,(cnzaraiiirode quali non fi può cacciarci come  mortra la medaglia qui di lotto.   med 7 ~d f C~P OS T VMO.     ARGENTO.      Ma nelle medaglie d’Augurto fi vede vna volta Dia-  na figurata tutta ritta in habito virginale, con l'arco in  vna mano , & con l’altra /opra al turcharto, facendo le-  gno di cauarne vna freccia pcrtirare,&: nel mezzo lette-  re, che dicono/iM pera t or DECiEs,&di fotto,sici-  x.i a. & altre che dicono , im perator vNDEciEs.Et L  nel rouefciod’vn altra fi vede con la velie alzata, vnar- sthukitl  co in vna mano , & nell’altro vno fccttro, vn can da giu- *  gnerc,& gli rtiualcrti infino à mezza gamba , colà prò- £ 1  pria per lei come cacciatrice, &i quali daPolluccfono An<lro »”-  ftati Endiomidi chiamati. des '     F     z     «4     *       • ì t ari- t   m r rfi & PpSKT’ • r T v   DELLA RELIGIONE  A V G V S T O.     Tra cucce le medaglie d oro, che fanno ìjjj.furnorro  uaccàTolofa, & rraquelleche mi vennero nelle mani,  io ne hò vna,nclla quale da vn lato è fimaginc di Diana,  col Tuo arco & la faretra,*: dall'altro vn tempio, nel cui  mezzo c vn trofeo naualc,in cima al quale è vna celata  antica:& della prua della natte, c fitto vn tronco come  vno Itile con due rami, vno riuclliro d’vna corazza, & da  l’altro pendono due dardi & vna rotelIa:& à pie del tron  co è vn Ancora da vn lato,& vn timone da J aItro,in le-  gno della rotta di Sello Pompeo, quando Ccfarc Augu-  ro racquiftò la Sicilia, la quale in mezzo al frontilpi-  Tri gSbe, c *° ^ mc J c h mo tempio e figurata per tre gambe, con  impresici lettere che dicono,i mper ator . c ae s ar,co!ì fignifi-  UsùiU can do che Augullo ringratiaua Diana della vettoria  hauutadc nimici Tuoi.   - av       1      i       DE G'E’ ANTICHI /ROMANI. *5     AVGVSTO.     Et nc rouefci delle medaglie battute in honoredt Mar  cello, fi vede parimente-vn facardote, chccon due mani lebrato in  prclcnra al tempia di Diana vn altro trofeo di Sicilia, s *” a *-  ringratiandola delI’Kauuta vittoria di Siracu(a,&dcl te-  foro portatone à Roma,iI quale-fu {limato tanto, quan-  to quello che i Romani cauorno di Cartagine.   * MAJICELLINO,. ~     BRONZO..     *6 DELLA RELIGIONE     Animali  tonfatati  i Diana.     Solcuono gl antichi placare Diana imolando la cer-  iliaci daino, il ccruio,& il toro,tutci animali confècrati  lei, fi come tcftimoncranno le medaglie Latine &  chc,che io ho fatto ritrarre qui di lotto.     FILIPPO.   BRONCO.      Tempi o di Scriuc Strabonc nel x ri 1 1. libro della fua Cofmògra  to“ra*ro~ & 1 che quello tempio cra fondato nclflfola d’Icaria &  polon. chiamato Tstupóirtxor. Et Tito Liuio neh ni. della quinta  Decade , lo chiamò parimente Tauropolum , & Tauro poli*  i ficrificij,chclifaccuonoà Diana. Dionilìo nondime-  no nel fuo libro de Sicu Orbis dice,chc Diana non fu chia  mataTauropoU dalla regione, ma dalla quantità de tori,  ehcvinalceuonofotto la fua protezione :& però detta  dum Tau eguale colà appari Ice vera per la medaglia Gre   ca qui di fottojdoue fono lettere, che dicono, e petp i-   IÓN DAMASI AZ.   MED      f     vi.     DE Gl'ANTICHl ROMANI. 87  MED AGLIA GRECA D I DIANA.     ARGENTO.       Chequcfto fiavcro,& che Diana Ila (lata chiamata  TaurofoloSybiTdurof oliai Tuoi facrificij dal toro che l’era  confagrato,come il cane, dimoftra anchora Diodoro  nel iti. libro, douc parlando della Rcina delle Amazo-  nc dice, che ella faceua ogni giorno cflcrcitarc le Tue ver-  gini allacaccia, acciò chcpiu facilmente tollcraflino il  difagio dcllarme & della guerra , facendo le fare vn cer-  to facrificio, che ella chiamò T*opej 3 fojo.,benchc gl’ Autori  tanto Greci come Latini habbinoconfufi tutti quelli no  mi Tdurouoliumjduropolum, & Tauropobolum, & malli me  Suidane i Collcttanei, chiamando Diana Tduroholosfal  Toro(quello che anchora conferma Euftathio) il quale  l’era facrificato, come fi vede nella medaglia d’argento  ' d’ Aulo Pofthumo, nella quale fi vede da vnlato Diana  con vna luna in teda, l’arco & il turcafTo:& dall'altro il fa  orifìcio del toro, nel modo, che fi vede qui di fotro.   F 4     Sacrifìci»  di Diati»  ordinato  da la regi,  na deli a-  mazonc.     Diana chi»  mata Tau-  robolos .     tttJICi  * *   : v ni'        I     $8 .'D É L L A Rì L 1 G f Ò M £ '   A VLO PO STHVMO. - ~ i     ARGENTO.      eia, & ma/firneàLettora,doue fe nc vede grandi/fim»  Tùtro gì - quantità, donatimi già da Pietro GiIio,huomo dotto Se  deVanuZ g ranc * c amatore delle cofc antiche, fi conofcechcifacri-  ti ficij fatti anticamente da i facendoti alla madre degli Dij  congrande apparecchio,crano chiamati TAuroj>olium&  •>- • altre volte Taurtuolium , &non folamente à Diana   Cibelc,maanchoraàMinerua, volendo maflìmamente  credere àSuidas: benché di coli fatti fiicrificij io habbia,  aliai diftefamete fcritto negli Epigrammi, che io hò rac-'  colti di tutta la Francia. *   'a • ; ' b - ••   . „ j ( . t . * e*   V. ... LeBor* inpropugrutcttlo \rbis.   matri devm pomp. philvmenae   t*VAE PRIMA EECTORAE TAVROBOIIVM  F e e r T. .   tìdi°G4f!o fedeli àiichora in vna piccola chiefa di S. Tomafo  giuu mezza rouinata nella medefima terra, vn’altro epitaffio   in vna     D E GL’ ANTICHI ROMANI. S*   hi vna colonna, che regge l’altare grande, per il quale fi  conolce che i Decurioni di quel tempo , cioè gouucr-  torì della Tcrra,feciono il facrificiodi Tauropolium alla  madre degliDij per la falutc diGordiano Imperato-  re, & di Sabina Tranquillina Tua moglie.     In facelle D.Thanutnunc diruto in columna i   aitarli vijìrur. 1   PRO SALVTE I MP. ANTONINI GOR- <   DI ANI PII FEL A V G V. TOTIVSCHE^  DOMVS DI VI N A£, PROQVE STATV C li  V 1 T- LACTOR. TAVROPOLIVM FECIT  ÒRDO LACT. D. N. GORDIANO II. ET  POMPEIANO COS. VI. 1D. DEC. CV- "  RANTIB. M. EROTIO ET FESTO CA- »   NINIO SACÈRD.   Di quella Sabina Tranquillina ho io veduto altre  yolte yna medaglia d’argento, & vno Epitaffio fatto in  quello modo,   FVRIAE SABINAE TR AN QV 1 LLIN AE  SANCTISSIMAE A V G. CONIVGI DOMI-  NI N. M. ANTONINI GORDIANI PII  FEL1CIS INVICTI A V G V STI DECVRIA-  LES AEDILIVM PLEBIS C ERI ALI VM  DEVOTI NVM1NI MAIESTATICHE EO-  R VM.     Trouafià Roma vn gran marmo antico fcolpitoin otfmzion  honorc della madredegli Dei,douelì fa mentione del- * cibele  Taurouohum,& quiui lì vede l’imagine della Dea co-  ronata d’vna Torre con vn tamburo nella man manca     appoggiato fopra alla fuacolcia,& con la ritta tiene cer-  te fpighe di grano, à federe fui fuo carro tirato da due  liooi,& accompagnata del fuo Atis, che tiene vna palla  in mano, & cappeggiato à vn Pino, come albero con-     F 5     90     DELLA RELIGIONE     Carro de  la madre de  gli Dei , ti-  rato di duo  leoni.     Dichiara-  tionedel'in  fegna de la  madre de  gli Dei.     {agrato arale Dea, à caufa della monragnad’Ida, eh ciò  Candia, òdi quella di Frigia, abondantifiime ambedue  diPinij&doue cllac adorata principalmente per Dea,'  & dedicatele le Pine, onde Marciale ha detto di quelle  parlando,   Toma fumus Cybeles.   Ma quanto à i due Iioniche tirano il Tuo carro ,co-.  mefcriuc Virgilio,   Et iunBi rerum dominai fubiereleones.  voltano i Greci lignificare, che non fi troua cofi Acrile  terra,chc ben coltiuata,non diuenti fertile & buona. La  torre lignifica leCitta & edifìci j de quali la terra è orna-  taci tamburo la mondezza della terra, benché alcuni  veglino che ciò lignifichi i venti rinchiufiui dentro, &  le fpighe,ch© la terra fola è quella che nutrifee l’huomo.   Figura     .u ■ :• '• :•> h . ' it   j . .     \ 9J®.: -,   3 A trt,     ,Ou u;j . .   . ;ì. ‘   A .w y. LA   «... uidy. . adX   > m ri </ a r»     fi     il .   ■ J .     ri   Vf.TOJ tOplI     ini r.twyt ^ •*   . u Yiai n i.ir^u cTonorl  li : ;j v £ i , j.T   .v vii./r , rr/tarV;ioi   f! - •> J   *. ■ i V •   ... ... ;   . • V'-vi - j   *- *'y ^ 1 '-i ‘I • •           DE GL' ANTICHI ROMANI.     in     FJG y R A~ D E LA MADRE DE I DEI R I 7 R ATTA  del marmo artico, il qual fi vede in Roma ntll’ecchiefa di S.Sebafliano.      M. d: M. L ET ATTINIS     L. CORNELIVS SCIPIO OREITVS  V. C. AVGVR TAVROBOLIVM  SIVE CRIOBOLIVM , FECIT  DIE IIII. KAL. MART.  TVSCO ET ANNVLLINO COSS.         Cibelt tOf-  riU.     Nell’altra medaglia pure Greca li vede da vn lato  Cibelc torrira,& dall’altro il folgore di Giouc con al-  tre facttc, la quale c tanto vecchia & frulla, che non lì  c potuto cauare alcun fenfo delle parole Greche.   Meda     Vari I nomi  de la madre  dei Dei.     Diana con-  feruatrice,  adorata in  Sieilia.     Chiamaronlagl’antichi madre degli Dei, perche in  guifadi madreche nutriteci figlìuoli.la terra limilmcn-  te nutrilcetuttigrhuomini & animali del Mondo, coli  dice Furnuto.I «Greci & Romani le dettono più nomi  & attribuirne diuerfe virtù.chiamandola Cibelc, Cere-  re,^ Terra,Prolcrpina, &fecondo Lucretio, madre delle  beftie. Veda, &Diana:il che li vede & conferma per due  medaglie di bronzo Greche, ncll’vna delle quali c Dia-  na da vn lato con quelle parole, 2 atei p a, & da l’altro  il folgorc,dcdicatole cornea Velia ,& limili parole  x i aeqi a r a ©ojc a e n 2, ci oc , medaglia battuta dal  Agatoclc in honoredi Diana confcruatrice.               Nel tempo, che io Faceuo quello 33cor|oi mi fumo mc faglie  clonate alcune medaglie d’argento, di quelle, che viti- doro &  inamente furono trouateà Reims, tutte quafi di Seuc- trouute°t  ro,di Giuliani CaracaHa,di Geta,8t diMacrino. Et per-  chcrracfleio netrouaitrc,doue livedcCibelc  convnfolgorc in mano,& à federe fopra vn  qucflc parole , ind  mi cparfo non fuora  di fotto.     L’vna.     GLIA GRECA.   bronzo.     « ■ .     V «A        »     i       5>4 DELLA RELIGIONE   if pino con- L’vna dell altre due medaglie e dì Giulia, nella quale  madre dc*i ^ vc< ^ c Cibclc tortila in compagnia di due lioni & àfc-  Dd. dere fopra vna Tedia con vn ramo di pino in vna mano,   & nell altra lo fcctcro,chcclIa appoggia fopra il Tuo tam  buro,3c lettere che dicono intorno ,mater devm.  Il medefìmo rouefeio nella medaglia di Fauftina e quali  del tutto foni iglianteà quello.     ARGENTO.     BRONZO.     Figuro     MED. DI C. VOLTEIO.   ARGENTO.;     ANTO. Pio.   BRONZO.     p JJ ■ ' ■'■W ■■     DE GL’ANTICHI DOMANI.   Figurornoanchoragl’antichiil lìmulacro di quella  Cibcìe con vn gran numero dipoppe,fignificando‘ che  cllanutricaua tutto il Mondo, con vn a torrefalla tefta,  due Honi Copra i bracci , & diuerfr animali incorno,  produtei da lei come Dea della Natura, & di più due  ccruie ài piedi, che moftrauono che Diana, & quella  erano vnamedchmacolà.Ncl qual modo nonhd mot-  to tempo che ella fu ricrouata in vna grotta ancichiflì-  maàRomadadipinturadellaqualemi donò altra vol-  ta M. Antonio Fantuflì dipintore Romano, la quale io  ho polla nel miolibro de la Natura de gli dèi , per dame  la villa à .gli amatori dell’antichità. Furono tutte quelle  forme attribuite à Dianacondiuertì nomi di triforme,  come per il tellimoniodiPaufania la chiamò Alcamc-  nc:& Virgilio, dichiarandoci che in cielo lì chiamaua  Luna, in terra. Diana,& nell’inferno Profcrpina , coli laf :  ciò fcritto,   Tergeminamque Hccaten>trU ùrginìs or a Tfidnx.   Et perche la figuradi Diana, ritratta da vn marmò  antico,!! vedrà meglio nelnollro primo libro dell anti-  chitàdiRoma, io non nelcriùero qui altro , ma fola-  mence dirò come fotto la deità & nome d’Hccate i più  ricchi Romani foleuono ogni mefe far facrificio à Dia-  na, mettendo fopra i canti delle llradc della Città, pane  & altre cofe,chcfubito da ipoueri erano leuaje via , co-  me fcriuc Ateneo, llimando che Diana, la Luna, & Pro-  ferpina fodero vna mcdclima coCa.   Hauendoà baftanza parlato di Diana , & defìderan-  - do venire alladcfcrittionc degli altri Dij, comincieremo  da ^inerita* la quale fccondoi Poeti, nacque.de l capo   diGio     55     Dea di m-  tura.     Diana tri-  forme.  Paufinid.  Virgilio.     Sacrifìcio  fattoi Dia  na fotto il  nome di  He tate.  Ateneo.     MINER-   VA.     96 DELLA RELIGIONE  di Giouc, pcreflcrcrintcllctto collocato nella certa dell*  huomo. Armaronla oltre à quello gl’antichi d’vno feu-  do, nclqnalcera il capo di Mcdufa,moftradochcrhuo-  mo fauiodcbbecon force animo & intrepido vifo refi-  ftcrc aU’aucrficà,& à nimici.il pennachio che ella hauc*  ua fopra al morrionc , fignificaua rornamenro di tutte  lefciczc, &cofcaItenclccruclIo dcH‘huomo:le tre vedi  differenti l’vna all’altra, che la Capienza debbe clferefc-  grcta,&l'hafta che ella haucua in mano, che l’huomo  fauio guarda, con fiderà, & batte di lontano & con van-  drdicXt*! taggto. Mala Ciuctta le fu dedicata (come habbiamo  Mintrtu. detto) per moftrarcche la Capienza cuopre con le tene-  bre il fuolplcndore-.i qualitutti lignificati pare chedcf-  criucffc affai bene Ouidio nel Certo libro della fua Mc-  tamorfofi, quando dille,   ^t fili datelypeumjat acuta cuflidis hafiam,   Datgaleam capiti, defendituragide pettus,   ‘PercuJìa'mejuefua fimulàt decufiide ferrarti.   Edere cu mi; accia factum canentis oliua ,   Jrfirartque deos «perù vittoria finis.   Minmu Scriuc Varronc che Mincrua fu quella , che fondò  ie untoti Atcne,& per ciò fu chiamata, aohn a quafi idxraìoe rrdfOt-  i- Atene. r e, che voi dire, vergine immortale, àcaufa chcfcomc   fcriue Fulgentio) la ìapienza non muore mai. Di qui ha  voluto Porfirio dire, che Mincrua none altro che la vir-  tù del fole, mediante la quale lafapienza entra & pene-  tra dentro alcuorcdcH’huomo, là onde nafcendodalla  fommkàdcU’aria : però fi vede che i Poeti hanno finto  che Mincrua c vfcitadelcapodiGiouc. I Filici dicono  chela virtùintellccciuaècollocata nel cerucllo deliquio     DE GL'ANTICHI ROMANI. *7   mo,comc denrroalia principale fortezza del redo del  corpo. Chiamaronla Umilmente gl’antichi Bellona, BrBofl4  cioè Dea della guerra, lignificando chei Soldati debbo- d « * u  no non fidamente edere del continouo armati Spederei- S* frr <-  caci, ma proueduri di configlio: &rprima chccominciarc  vn imprcfa,cdàminarc molto bene le forze del nimico:  quello che confermò anchora Saludio dicendo, che ei  bifogna prima configliarfi,& doppo il configlio, & la  deliberationc fatta mandar predo ad effetto ìlfuo dife-  gno.Lacaufà perche gl’hiftorici l’hanno fatta fondatri-  ce d’Atcnc, è, che dicono che nafccndo difeordia tra lei  & Nettuno, di chi douede porre nome alla Città, gli Dei  fimedono in mezzo per pacificarli, &giudicorno che Ncttu-  qualc di loro due produrrebbe cofa piu vtilc alla detta Vaim  terra, quello le douede dare il nome, per il che pcrcoccn-  do la terra, & facendo nafcerc Nettuno vn cauallo, &   Minerua l’vIiuo,fu fententiato chcl’vliuo, piu che il ca-  uallo fodènccedirio & vtile alla vita humana,& cofi re-  do la Dea vincitrice, con attribuirle l’vliuo & cdcrechia-  mata Pacifera, come fi vede nelle medaglie di M. Aure- vulimit -   Iio,& di Commodo Imperatore. - 4 ut   1 q ncrua.   f • *. • T   V ■ * 1 t\ e k \ ■ l A ,|f I. fi , * . I ..   '• •• 1 ■ • "• «f; IM ,1 - f . n     L         M. AVRELIO. COMMODO.   BRONZO.     Ttfle di mi Scriue Plinio che infino alfuo tempo duraua ancho-  ra la celcbrationc della fella & giuochi di Minerua,  tjuatria. chiamati Quinquatrij, quali erano, che i fanciulli facen-  do vacationc dalle fcuolc & da gli ftudij porrauono la  mancia ài loro maellri in honore della Dea,come quel  Jache aiutaua la mcmoriarciò che Quintiliano a! 1 1 1. li-  bro^ nefuoi falli Ouidio anchora meglio ha dichia-  rato, quando ci dice,   'Pallata nunc putrì tener a j ornate p nella:   Qui lene placarit Palla Ja,Jolhuerir.   L’occafione fopradetta della difeordia di Mincrua  nettv- & di Nettuno, pare che mi porgea conuencuolcmare-  « n o. ria di ragionare anchora di quello Dio,il quale (come   il Delfino fcriuc Higinio) fi dipingevi con vn Delfino fotto il  dedicato ì piede 5 ò la "mano mancaappogiataui fopra, hauendo il  nettano, tric | enrc nc lJ a r j t ta , fi come dimollrano i rouefei delle   medaglie di M Agrippa.   M.Agr       I     1     L     DE GL’ ANTICHI ROMANI,     M.     A G R I P P A.   BRONZO.      Fu Umilmente da gl’antichi dipinto Nettuno con uettunodi  vn Tridente & vna Acroftolia (ornamento antico di  galea) in mano , come fi vede ne rouefei di due mie te cr una  medaglie d’argento, l'vnad’ A ugufi:o,& l’altra di Vefpa*  fiano.douc fono lettere che dicono, neptvno redv-  ci, in fegnodi ringratiare lo Dio del felice ritorno dal-  le imprefe nauali.     Acrojlolta  dagli anti-  chi.     AVGVSTO.     VESPASIANO.   ARGENTO.      G z     100      ut     -inai*     :     DELLA RELIGIÓNE  vufciiut 4t- Attribuirno parimente grantichiii Tridente a Nct-  mttuno 4 tuno,,n %no dello feettro , & ancho per efl'erc vno in-  perfetttro. frumento molto ncceflario à i marinai, dipingendolo  vna volta pacifico>& vn’altra adirato ,come fi vede per  le medaglie di Pompeo doppol’imprela fatta, & la vet-  roria hanuta de Corlali, donc da vii Iato fono lettere,  che dicono, MAGNVS IMPERATOR ITERVM-.&  dell’altro, PRAEFECTVS CLASSIS ET O  ilARITIMAE EX SENATVSCONSV   MED. DI PO MP     DE GL’ ANTICHI ROMANI. ioi   Io ho tra molte pietre antiche, intagliate di diuerfc Ag<tu <m-  forci, l’Agata di forco figu rata , nella quale è il mcdelìmo  Nettunoà ledere, con vn braccio appoggiato fopra vn tmo*  va Co alta maniera d'vn fiume,& doppo quella vna Cor-  niolaanticadicolorcdi rubino, nella quale cvn Nettu-  no fui fuo carro, tirato da due caualli, nel modo , ch’egli tumori-  è anchora figurato in vna medaglia di M. Agrippa con rito dà <a -  lertcrc che dicono aeqvoris me omnipotens.     AGATA. CORNIOLO.       M. AGRIPPA.   arg e n t o.      . v."“ v - -m *   ....     VA            monete     ioz     N rtttmo i  fiutilo.     DE LA RELIGIONE  La caufa perche glancichi dedicorno il causilo à  Nettuno, fu,perchc ci fu il primo che trouò il modo di  domarli &frenarli, come dice Virgilio nel y.dil'EncidL  / ungir eejuos curru geni tot fumanti a. <jue addir  Frana f'eris ì manilupjue omnes ejfundit babenat.   Fanno vera teflimonanza di quello, ’   Tarcntini, nelle quali da vn lato fi vede Nettuno  uallo,& dall’altro Taras fuo figliuolo fopra vn Delfino.     HÌppOCTé-   tid.   Confutili.     Nettuno in  h entore di  tutte del  tuuigtr.     A iNettunocauanere recionoiKomanjgia vn tem-  pio,comc fi leggein Haficarnalco,&chiamaronogl’Ar  cadi) il dì della fila fella Higgocratia , fi come gl'antichi  Confualia , nel quale tempo tutti i causili > muli, & mule  non erano in modo alcuno adoperati à rrauagliare,'  madai garzoni di Italia condotti à moftra per tuttala  Città di Roma con la teda coperta di fiori & ornata di  ghirlande con ricchi fornimenti.   Scriuc Diodoro che Nettuno fu il primo che trouò  l’arte del nauigarc& didrizarc vna armata di marc,&   che     D E GL’ ANTICHI ROMANI. 103 '  che per quello ci fu fatto da Giouc Ammiraglio del ma-  re^ di poi adoratocome Dio.Et per le due medaglie,   & vn Niccolo, figurate qui Cotto, vollono glantichi li-  gnificare che Nettuno haucua poflanza tanto in mare Ncttuno ^  quanto in terra,figurando vn caualloconla coda tor- gnordrima  ta & diuifà in due partidnfegno de iduc Elementi, l’vno  (quale e la terra) ripreientato dinanzi per il cauailo, &  l’altro (qual’ è il marc)difcgnato dietro per la coda in  forma di Delfino.     ANTICO NICCOLO.      Qi CREPERIO. GALLIENO.       * »o4 DELLA RELIGIONE   Quando i Romani volcuono moftrarc di ringratia-  rcNettuno di qualche vettoriahauuta in mare, lo facc-  uono Scolpire nelle loro medagliedavn lacoconil Tri-  dente^ dall’altro mctteuono vnaVcttoriafulla poppai  d’vnaNaucmel quale modolofcciono già fare Deme-  trio, Augufto Ccfarc,Vcfpafiano , & Tito fuo figliuolo.  Imp.Rom.     MED. DI DEMETRIO.   ARGENTO.      AVGVSTO. VESPASIANO.   ARGENTO. ARGENTO.      Ritor       -     I     E serv-  ir API a     Machione     DE GL’ ANTICHI ROMANI. 105  Ritornando à gl’altri noflri Dij,& loro templi, altari  & fimulachrijdiciamo chcEfculapio Dio della fa nità,fu  il primo chctrouò l’vfo della Medicina, infcgnataglifor  fc prima da qualche Dio flato innazi à lui. Quelli al rem  po di Homero fi vcdcchcnon era anchora flato collo-  cato nel numcrodegli Dei,cóciofìa che il detto Poeta fa  medicare àPconcle piaghe di Marte. Ma quadoci parla  diMachaonc,figliuolo d’ÈfcuIapio,ci lo chiama huomo Ma(hégj  figliuolo d’EfcuIàpio Medico, chctrouò molti rimedij figliuolo  ncccflarij perla fanità dcllhuomo , & lo fa tato eccellete  in quella arte, che ci dice che rifufcitaua i morti .Dice Lat Stantio.  tantiochc Efculapio nacque di padre & di madrc,chcn6  fumo da perfonaconofciuti,& coli lafciato in mezzo à  vn campo,& trouato da certi cacciatori, fu dato i n guar-  dia à Chironc Centauro,chcgl’infegnò lar te di medica-  renella quale vfarono dipoi fempregl’antichi fino al tc-  pod’Hippocrate,che la riduflc alla fua perfezionc.L’ha- Kippocratt  birationed’EfcuIapiofugiààRaugiacittàdi Schiauonia, Umdu^a  & dagli antichi chiamata Epidauro,doue ci fucòfiigra- * pnfctno  to, fattogli vn tempio, & vna flarua d’oro & d’auorio per " f *  le mani di Trafimcdc,cccclIcntiflìmo(comc fcriuc Pau  fàniajfculcorcdi queltcpo, &natiuo dcll’IfoladiParos. ^ef^iuio  Eufebio nondimeno lo vedi &dipinfenel modo, che in nedeiima-  marmo bianco fi vede anchora à Roma,& in molte me  daglic & pietre antiche, cioè vcflitod’vn mantello alla do Eufebio.  Greca, con vn baflonc in mano, & fopra al quale(attor-  cigliato d’ vna ferpe)pare che il Dio s’appoggi, nella ma-  niera che io l’hò in vn’altra belliffima Corniola, &in  vno Niccolo, ritratti qui di forco al naturale.   G 5     .ori oia/ì     Jr     ioc DELLA RELIGIONE   ‘CORNIOLA ANT. NICCOLO ANT.      Tornato.     Microbio.     I a Ciuciti  dedicata ì  Efculapio.     Significai™ la fcrpc (fecondo Fornuto) che fi come  quelle fi fpogliano & mutano la icorza, cofi auiehedc  Mcdccichc riducono gl’ammalaci dalla malaria alla fa-  ttiti, rendendo loro vn corpo nuouo. Altri voglionoche  fi come la ferpe lignifica laprudcza,cofi bifogni al buo  Medico edere prudente circa alia finità d’vna perfona.  Ma Plinio rede vn’altra ragione, cioè che la fcrpc fia de-  dicata à Efculapio per edere buona a molte mcdicinc:&  Macrobio dice che quello e, perche la ferpe ha la villa  fiottile, come bifiogna che habbia il Medico nella cura  d’vn infermo, &chc il battone fignifica,chcvn huomo  ammalato ha bifiogno di nutrimento che Io fiollcnga,  in modo,ch’ei non caggiaaffatto.EtEufebio,chcilba-  ftonegl’è attribuito, come quello che ^er appoggiarli e  ncccdario à vn’ammalato. Fu oltre a quello dedicata  à Eficulapio la Ciuctta, lignificando che il medico debbe  edere vigilante più la notte che il giorno intorno all'in-  fcrmo.fi come lì vede ne rouefici delle medaghedi Nero  nc,&di Vitcllio.     Nerone.        DE GL’ ANTICHI ROMANI. 107  NERONE. VITE L LrO. *     ORO. BRONZO.      Vcdc(i anchoraà Roma nel mezzo del Teuero vn’I-  foletta à modo d’vna galeotta, cioè larga nel mezzo,lua-  ga due ottani di miglio, appuntata da bado , & piu larga  di fopra, à modo d’vna poppacL’vna naue:la quale Ifola  fu già confagrata à E(culapio,ati!ina,dop-  po che Romolo l’hebbe edificato nel palagio , apprefib  la vettoria hauuta de Sabini, io ti priego d’cllcrc in aiuto  alla Rcpublica & Città diRoma, Stame in tutte le dif-  gratie mie. yltore           P'S     DE GL' ANTICHI ROMANI. <r 3   Vlcorc fu chiamato, & honorato da Romani come  Marce, per edere l’vno & l’altro vendicatore delle cofe  mal fatte: & in Italia , maTTimamcntc nel territorio Ca-  pouano detto Auxur,& figurato il Tuo lìmulacrope r vn Auxun  fanciullctto lenza barba, del qualefcce mentione Vie- Virgilio.  gilio nell’ viij.libro dell’ Encida, quando dille:   Cyneumejue iugum^uets I uff iter ^Auxttrus aruis  r Pr<efìdet.   Et è ancor Giouc coli (colpito (opra vna medaglia  d’argentodi Pania, da vn lato della quale fi vedeà fede-  re nel fuo T rono con vna tazza nella mano mra,& nel-  la manca lo fcettro,con vna corona di Quercia, o d’Vlt-  uo,ilchc non ho potutotroppo bene difccrnerc,per la  piccolezza della mcdagliarnondimeno Phornuto affer-  machefolamcnccGiouccra coronato d’Vliuo,in fegno  di perpetuitàrperchc egli è Tempre verde, & tiene qual-  che poco del colore cclcltc.   ME DATgTi E DI P ANSAI   ARGENTO.       Et Ti     *4     Tempio   d'Augufto  in Alcjptn  ària.     DELLA RELIGIONE   EtlicomcGiouchaucua in Roma (come e dctto)iI  Tuo tempio magnifico , & era chiamato Scruatorc Se  Conlcruatorc,coli in Alcflandria nera vn’altró limile  conlagratofcome fcriuc Filone nel libro della Tua lega-  tioncà Caio Ccfarc) à A uguftoConfcruatorc, chiama-  to hauuto in vcncrationcda i nauiganti.Era   quello grandillimo & altiflìmo tempio pollo innanzi al  Porto,picno di Tau ole offerta, di pitture cxccllcnti,& di  flacuc marauigliofamentcfabricatc,& ornate d’argento  Se d’oro, con portichi Se loggic per Ilare al coperto, &  palleggiare, & vna libraria accompagnata dagradilEmc  làlc,portali,bofchetti,& lunghe vie, che di lontano por-  geuonofpcranzadi falutc à tutti i nauiganti,che volc-  uono pigliare porto in Alcflandria: benché quali per  tutto il modo foflcro flati dirizati & fatti molti altri tem  pii in memoria d’Augufto & per eternità del fuo nome,  li come li troua nelle medaglie battute al tempo di Ti-  berio, il quale cominciò vn tempio in honorc fuo che  Caligula fornì poi,& Io confagro al fuo nomccon ofH-  cij Se facrificij pieni di pietà Se di rcIigione,il che ei con-  ferma perle fuc medagIie,doucda vn Iato è il lìmula-  cro della pietà à federe con vna tazza nella man dritta,  & la fianca ripofafopra vnfanciuIIctto,che moftral'of  fido pio che Caligula faccuainuerfo i fuoi parenti , con  quelle parole, e. caesar divi avgvsti prone-  POS AVCVSTVS PONTIF EX MAXIMVS TRIBVNIT1 A  POTESTATE QVARTVM PATER PATR1AE. & poi   quella altra appreflo folamcntc, pietas. Dall’altro Ia-   Sdtrificio to mC£ ^ a g* ia fi vede fi tempio d’Augufto flato ri-  diCéU&uU. ccuuto (comeci penfauono) tra gli Dci:& nel mezzodi   detto     Librario   b.Uifiinu   d'AuguJlo.     Tempio  tA ugujlo  (omincUto  per Tibe-  rio, cr for-  nito per C4  ligula.     - *"*            DE GL’ ANTICHI ROMANI. <r 5  detto tempio vn’altare,fopra al quale c vn Buc,tcnuto  da colui che n’haucua la cura, chiamato Vittimario,con  vnfaccrdotc chemoftra di volere fa me facrificio, teneri  do vna razza nella mano deftra,& dietro alle fpalc vn  miniftro con vnvafopcrriccuercilfanguc della beftia.     AVG VSTO.   ORO.              *      DELLA" RELIGIONE  MED ÀGLI ÒNI DI TIBERIO.     Tempio   dkugujlo   reflituito   per A nto~  nino.      Comminciando dipoi quello tempio col tempo à  rovinare, Antonino Pio lo fece inftaurarc, fi come h ve-  de per le Tue medaglie d’argento, d’oro, & di bronzo,  douc fono lettere che dicono .templvm divi  avgVsti restitvtvm. Ne contento di qucfto,  ne fece fare vn’altroad Adriano fuo predcceflbrc,comc  ricordeuolc de benefici), che haucua riccuuti da lui.   Anto       »           DE GL’ ANTICHI ROMANI. c-j  ANTONINO PIO.   BRONZO.     Oltre à quelli templi , furono anchora fatti molti  altari in honored’Augulto, per moftraremaggiormen- imiti de  te, & per diuerfe vie la fua eternità con quelle parole,  providentia, hauendo quei Romani quella vana  opinione, chela deitàd’Augullo potcflèloro concedere  tutto quello,dichehaueuonobifogno per laucnire.        tu»-,   -ilKrTivb'Jì     /      68 DE LA RELIGIONE   Et coli per tutte l’altre medaglie de gli Imperatori;  che erano (lati à modo loro deificati, folcuono gl’anti-  chi (colpire quelli altari in legno della loro deificatione-.     Deferivo* Scriuc Apulco nel dogma di Platone , chela proui-  XkJu denzanon è altroché vnafenccnza diuinachc mantie-  ne femprcfelice colui,checlla piglia vna volta iti cura:  & altri hanno detto che folamenteriguardaua Se pcnlà-  Dtuodi uaalIecofeaucnire:ma i dannati Epicuri£al(amcntecre-  zpÙHro. deuonochcDio non haueflc alcuna cura de mortali.  Ond’io à propofito di quella Prouidenza mi ricordo ha-  uerctra molte altre pietre intagliate, cheiofcrboin ho-  nore dell’antichità, vn Diafpro, nel quale è (colpita vna  vtformU* formica con tre fpighc in bocca,fignificatricc della Pro-  K de Polii- uidenza-.la quale pietra fu altre volte trouata ne i fonda-  de*K4. menti d’vna delle torri cheio ho fatte farcnclla mia cafa   della Maddalena, che per edere cofa anttchitfìma & rà-  ra,mi c parlo farla ritrarre qui Cotto al naturale.   — Diafpro         DE GL’ANTICHI ROMANI.      Et perche Plotina ha già comporti in 4. libri della  Prouidenza, inoltrando che tanto le piccole come le  grancofe cranogoucrnate per il Dio di natura, io rimet-  terò il lettore à quella lcttione,& ritornando al propoli -  to mio, dico chegl’antichi riputorno la Prouidenza per  Dea, come anchora ha inoltrato Cicerone nel libro del-  la naturadegli DcijOndcpcrla Tua figurabile clafem-  bianzad’vna matrona ftolata , ò velata & dritta , che in  vnamano hàlolccttro,&con l’altra moftra vn globo,  chcgli Ita à piedi, pare che voglia lignificare che la Pro-  uidenza goucrna tutto il mondo, come vna buona ma-  dre di famiglia, nel modo, che nelle loro medaglie la fi-  gurorno (benché con diuerlì atti) Traiano & Pertinace  Imperatori.     r. ;• -      fiorini.   PROVI   DENZA.   Cietront.     '■.V ' >     r !       Alcuni altri Imperatori, comeTito, la fecionodipin  gereconvntymone& vn globo, inoltrando come ella  gouernaua il mondo. Antonino Pio la figurò per vna  filetta di Giouc accompagnata da molte altre. A leda n-  droScucroper vn vaio pieno di fpighe,& Probo & Fio  riano per vna fcminaftolatacon vn globo in mano,vn  fccttro &vn Corno d’abbondanza.     rrouidtnz'*  diuerfmen  tc pinta da  antichi.      Caracal         Ei mi parrebbcinuano affaticare ,fc io non auertiflì  0 « lettore della pazza fuperftitionc de gli aderbi Roma  ni,i quali durante la vita de i loro Imperaton, o buoni,  o catti u i,cKc ci follerò, in ogni modo non lalciauonodi  fare loro templi,ttatue & altari , & doppo la morte di  lànftificarli,attribuendofaIfamentc loro nomi dibuo  ni Principiai fondatori di pace, & (non ottante che ha -  ueflino maltrattato il Scnato,& Popolo Roman o)di re   E 4     CONSE   CRATIO-   NB.     V<tra f a .   flit ione  ir Romani  nel fanttfi-  tar loro ^   imperato^   ri.     FLORI AN   A     HI ROMANI. 71   S S. MAMM EAT   BUON Z O.      7i DELLA RELIGIONE  . ftauratori della Città di Roma, fteome auenne di Lu-   cio Settimio Scuero,il quale oltre aireflcrehuomobar-  baro,beftiale,homicida,&che di fimplice foldàto pcr-  ucnnealla dignità deilTmpcrio, ingannò & tradì Clo-  dio Albino gcntilhuomo Romano per venire à capo  dei fuoidifegni, &: nondimeno s’attribuì & fece dare  più per paurache per volontà dal Senato Romano tùt-  ti i titoli di buono Imperatore.     S   A R G E N T     < 3*23     ‘   DF GL’ ANTICHI ROMANI. 73  Ma che diremo noi di quello Monftro di Natura co-  minciato & non finito,il quale doppo la fua morte fu  connumerato daRomaninelnumerodei buoni Dei,&  del quale foleuadirc Nerone, che l'haueua fatto auelc-  nare, che egli era ftato fatto Dio p c r mezzo del boccone  d’vn fungo?   clodio;     ORO.      Et per contrario furono i buoni Principi, di T raiano,  Antonino Pio,& Marco Aurelio, che per le loro virtù &:  buoni coftumi,mcritarono d’cflcre chiamati ottimi Im- c .   pcratori,& canonizati,fe lecitaméte fifolfc potuto ciò fa  re. Trai quali è pur degno d’clTcrc Tempre nominato&  ricordato il nome d Antonino Pio , lolito dire che piu  tofto volcuacolcruarc &faluare la vita d vn Cittadino,  che ammazarc mille defuoinimici. Parola certamente £ Antonino  piena di pietà & degna d’vn buono Imperatore, come  cglicra,&:comclo chiamòil Senato, facendoli dirizarc  come à Traiano, vnaColonna,& Templi nel modo che £ Antonino  fi vede qui di fono.   'i .... e $ c     w • . • • r     0        amo moftraco cornea! tempo anticogli   ucrrdctì Inipcratorieranoconfngrati,&diuentauonoDijdoppo   ^TLi ]aI . 0r ° m05tCj& comc * Romani faccuono tem pii &al-  tio di ttm - rar * * n Sonore loro coni /àcnficij de vitelli ficdegl’agncl-'  & Reonfegnado loro Sacerdoti & Flammini nel modS che  di Celare A ugufto ha già fcrirro Prudcnrio^diccndo:  Prudenti». Hunemorem V ererum docili Um aiate fejnuta  ? olì eritas t men fa t atque adytit } & fiamme^ tris     DELLA RELIGIONE  ANTONINO PIO.   BRONZO.     ON. PIO.     BRONZO.        Uuguft     75        DE GL* ANTICHI ROMANI.   \AuguJlum col nitritalo placa uù tgd agno:   Strafa ad puluinar iacuit, refj>onfa popofcit.   Tcjlantur tituli,prod»nt confulta Scnatus  Cafareum louis ad ) fecitm Jlatuentia templum.   Equanto al reità della conftgratione , chiamata da  Greci & della quale ha le ritto minutamente He   radiano al vij.capitolo del iii j.Iibro,mi è parlo non fola-  ménrc di figurarla cjui fottoal naturale, ritratta dalle me-  daglieantiche d’Antonino Pio,& dt M. Aurelio, ma tra-  durla in volgare,pcr maggiore intelligenza del lettore.   ANTON; Pia M- AVRELIOl '     BRONZO.     BRONZ O.     c     Soleuono i Romani confagrarc doppo la morte lo-  ro tuttiquclli Imperatori, i quali làlciauono i figliuoli  heredi dell' Imperio, in quello modo penlando efTcre ri--  ceuutr nel numero de loto fallì DijrEa Citta tiftta vcftita  abruno,&picna di dolore &di lamenti, folennemente  fatta fàrcvnaimaginediccra limile al morto Imperato  re, la poneua dentro a vn ricco letto d’auorio,lcuato in  alto aU’cntrarc del palagio Imperiale. Era quello letto  coperto di prctiofì panni d’oro &dcntroui quella ima-   gine     H erodiano.     b o«».f  W «HV        Ccrimonù  de Roma*  nella mori  de loro l«  fe rotori.     - 7 6 DELLA RELIGIONE   ginc pallida àguifa quali di ammalato Imperatore/! ri-  polaua,haucndo dal lato manco à ledere tutti i Senato  ri vcftiti di bruno,chequiuigran parte del giorno dimo  rauono.Et dal lato deliro tutte le Donne Romane, cias-  cuna fecondo ladignità & grado dcloro padri,ò mariti,   . fenza ornamento alcuno d’anelli, maniglie, ò catene  d’oro,ma fedamente vcftircdi bianco leggicrmetc(qualì  come portano in tal calo le getildonne in Francia)# tue  te piene di maninconia. Durauono quelle cerimonie  vij.giorni,nel qual tempo i Medici ogni giorno s’apprcf  fauonóalla bara, fingendo di toccare il polfo all’amma-  lato,# mollrando che gli andaua fempre peggiorando.  Ma fubito che ci diccuono quello cflèrc fpirato, i primi  letto i Up4 Senatori lì lcuauono il letto Tulle fpallc, portandolo nel  YtZ'ZÌ? ^ av ‘ a ^ acra ^ no al Mercato vecchio, douc i Magillrati  tutori Romani Toleuono fpogliarlidelladignitàdi tutti i loro.  officij.Erano in quello luogo da due lati fatti certi pal-  chi con ilcalc,dai’vn de quali tutti i piu nobili giouani &  patritij Romani, & dall’altro le piu illullri donne canta-  Himi tan- uonoHynni & Cantici Iamctcuoli# pietofi,nelmodo,  tati nette po che s’vla ncllcpópe funebri. Dopo quello i Senatori di  pt funebri. nuouo fa lcuauono la bara fullc Ipallc, &la portauono  fuora della Città in vn luogo chiamato il capo di Mar-  te,douecravn tabernacolo quadro fatto di gradirmi  legni fcccjii,& ripieno di fcrméti.di paglia, & di falcine,  & di fuora riccamctc adorno di cortinclauorarc d'oro,  di flatucd’auorio,#altrediuerfcdipinturc.Sopraàque  Ho tabernacolo n’era vn altro lìmile,ma piu piccolo,&  riccamente acconcio come l'altro,cccetto che haueua le  porte & le fincllre aperte, & coli di mano in mano mó-   taua        DE GL’ANTICHI ROMANI. H77   tauapiù alto nel mcdclimo modo fempre diminoedo.  Potrebbe!! quella ftruttura ailbmigliarc à certe Torri  fondate in marc,ò fopra ài Porti, chiamate da moderni,   Fanali, dagl’antichi Phari,douela notte Hanno acccfi lu TJnaU  mi perfarefeorta a inauiganti.Portato adunque ildet- chiamati  to letto fopra al fecondo ftaggio.quiui fpargcuono gra-  dequantitàdi fpcticrie,diprofùmi,difrutti,d’hcrbc, &  d’vngucnti odoriferi di tutte leparri del Mondo, facen-  doqualì à gara di chi più , ò meglio, porc/Tc honorare,   & fare quello vltimo prefente al loro Imperatorc.Fat-  to quello, lì moueuono certi Caualicri à corfa intorno  al tabernacolo, facendo vn modo di Morcfcha tonda, MortfAé  Pyrricada gli antichi nominata:& apprefib à quelli fa- ryntt4 '  ceuono il mcdelìmo i Cocchi, ò carrette , fopra lequali i  carrettieri erano vcllitidiporpora,8cdi velluto chcrmi-  lì,con mafchcrc fomiglianti à i Capitani , & principi che  haueuonogià fcruito il morto Imperatore. Et con finite  tutte quelle ccrimonie,colui che doueua fuccedcre all’-  Imperio, pigliato vn torchio accefo in mano,mettcua il  fuoco nel Tabernacolo, & il limile faccuono tuttigl'al-  trhpoidi mano, in manoùl quale per la materia tato fec-  ca,& le cofc vnte deprofumi, & olij profumati, leuaua { j, e   fubito le fiamme in alto,pcr mezzo lequali, vfcitavn’ A- t*   quila viua del minore & più alto Tabernacolo, fc n’an- «  daua volando in verfo il cielo , quiui di terra portando i cieli  (come crcdeua &gridauala lloltitia de Romani nql me  delìmo tempo) l’anima del loro Imperatore), il quale  poi coli adorauono come Dio,& gli faccuono altari &     templi, come e detto di fopra.     » C rwr,-*  r-’ìRtn             «     v 7 8 ' DELLA RELIGIONE   ’ M. AVRELIO. F AVSTINA      4U«         tu 1 -     PERTINAX.   BRONZO.     F AVSTINA.   ARGENTO.     Crédcuonoi Romani qiicfto mi fieri o non Iblam"  elfere vcro,ma molti giurauono hauerc veduto vfeire  del fuoco l’anima dell Imperatore , & altri pagauono  huomini à polla per confermare coli fatta bugia, diccn -  do che l’Axjuila di Gioue l’haucua portata in Ciclo, &  coli ecco in cheniodofu anchora canonizato Seucro  lottizzo* collocato nel numcrodegli Dei, inlìcmccon moltialrri  Imperatori & Imperatrici ch’elPopo.Ro. fece fàlir per   forza      DE GL’ ANTICHI ROMANI. 7 9      COM     forza alciclo nel medefimo modo che Scucro. Ma ri -  tornando alla materia de noftri templi, doppo haucrc  fcritto de i più trionfanti di tu tti,cioc,di quello di Giouc  Capitolino , di quel d'Augufto à Roma&in Alcflan-  dria,del Pantcone^ di quello della Pace, ci reftai vede- Tempio «K  rcil marauigliofo di Diana Efcfiamcllà fu perba edifica ^j c pg %  rione del quale concorfcro tutti i Re,Potcntati,& Repu  blichc dell* Alia maggiore, contribuendo ogniuno per  lafuaparrc/olamcntcmoflidalzelo di religionc,qua'n-   tunquepcr Ja fuagrandezza folle a pena tornito in CC.  anni,& fondato rifpetto a i tremuoti in vn Pantano, tal-  mente che ci fu connumcrato per vno dei lette miracov  li del Mondo, & di poifcolpito in piu medaglie di di-  ucrfi Imperatori.   “ CLAVDia   ‘ ' A R G E N T O.     stnr. *4     • Ma pcrcbeil fimulacro interodi Diana,qualc era nel   Àmpio degli Efcfij,nonfi. può interamcce {cingere nel  le med agliedi pi ntedi fo p ra,mi cpàrfódi farlo-hilthopa  di nuouo ritrarre qui di fotto nel modo , che io ihoirt  e ” due     '.Ikimfc        K.OII     8o DELLA RELtGIO   due medaglie Grechc,l’ vna di C5modo,S: l aura a nn -  tonino Pio , nell'vna delle quali e Icritto aptemhx  e «• e x i a n , cioè, Diana degli Efelìj , & nell’altra quella  l ola parola, e « e s i a spedendo tutte l’altrc lettere perdute.     ANTOM. PIO.     COMMODO.     BRONZO.     Dtfcrizìon  del tempio  di Diana.     Era la lunghezza di quello tempio ccccxxv. piedi,  & la larghezza e e x x. ornato di e x x v 1 1 . colóne, ogniu-  naalta lx. piedi, & nondimeno fu abbruciato da quel-  lo fcclcrato Eroftrato,folamentc per dire che egli hau  ua fatto qualche cofa degna di mctporia:bcnche di poi  fu rillaurato & rifatto anchora piu bello da Dinocratc,  Celebrati!) Architettore d’Alellandro Magno. Quiui aduque lolc-  cUDianf* L, ono ogn'anno, nel giorno che lì cclcbraua la fella di  ~ Diana, trouarlì tutti i giouani ,& fanciulle , vergini del  paefe,vcllitidibiaco,doucfpeflò lìmaritauono iUcrne?   Il fimulacro ò imagine di quella Dea fu fccodo le fue  dignità & qualità dipinto & figurato da gli antichi in di-  uerfe manierc,lt come ella fu pariméte chiamata perdi;  JSSL. uer/I nomi.ConciòlìachcquàdoIaLunaera tutta pie-  na, la dilegnauono per la lua chiarezza con vno tor-  chio     v      DE GL’ANTICHI ROMANI. 8x  chioaccelo in ambedue le mani, come fi vede nelle mc-  dagliedi GiuliaPia, moglie di Seuero Imperatore, con  lettere chedicono, di an a lvcifera.     G I V L I A PIA.     argento.     BRONZO.      Et per inoltrare anchora meglio che Diana &la LlT-  na eranoinqucl tempo vna mcdefimacofa,ioho fatto  qui mettere vn'altra medaglia di brózo della mecfefima  Giulia, nella quale e ferino, lvna lvcifer a,&ìI(uo  carro tirato daducccruic, chcfignificauono checll'cra  Dea della caccia, quantunque l’interprete d’Arato hab-  bia detto che quello fignificaua la fila leggerezza. Ma  quadogl’antichila figurauono poico vnolpiedcinma  no,& vn ccruio apprcfio,voleuono lignificare che cac-  ciando, ella pigliaua & ammazzauai ccrui pcrforza,no  minadola »^óa«c, & per memoria che ella era la prima   cacciatricc,fofpcndcuono le corna de cerui dinanzi al  fuò tepio.DclIa quale cofahauendo affai à baftazadif-  corfo nel libro , che per comandamento di fua Maefli  iohò fittodella naturadc giammai! ferochpcrò rimette  rò il lectorcà vederne quello, chcion’hò quiui trattato.     F     8i     DELLA RELIGIONE  MED AGLI E D’H OSTILIO.   A G R E N T O.       Trouanfi anchoradelle medaglie , doue Dinnac di-  pinta, òfcolpitacon Io fpiede, in legno che ella foleua  ammazzarci cingùiali, diche fa chiaro rcflimoniolamc  daglia di Gcta Triumuiro, nella quale da vn lato è fcol-  pita la tefta di Diana , & dall’altro vn cinguialc , ferito  d’vno fpiede in vna fpalla con vn cane appreffo.     GETA TRIVMVIR      DE GL’ ANTICHI ROMANI. 83   Quando i Romani figurauono Diana cacciatrice,  ordinariamente la folcuono accópagnared’vn turchaf-  fo,d’vn , arco,& di frccciccon vn cane da ghignerei fc -  gugio,(cnzaraiiirode quali non fi può cacciarci come  mortra la medaglia qui di lotto.   med 7 ~d f C~P OS T VMO.     ARGENTO.      Ma nelle medaglie d’Augurto fi vede vna volta Dia-  na figurata tutta ritta in habito virginale, con l'arco in  vna mano , & con l’altra /opra al turcharto, facendo le-  gno di cauarne vna freccia pcrtirare,&: nel mezzo lette-  re, che dicono/iM pera t or DECiEs,&di fotto,sici-  x.i a. & altre che dicono , im perator vNDEciEs.Et L  nel rouefciod’vn altra fi vede con la velie alzata, vnar- sthukitl  co in vna mano , & nell’altro vno fccttro, vn can da giu- *  gnerc,& gli rtiualcrti infino à mezza gamba , colà prò- £ 1  pria per lei come cacciatrice, &i quali daPolluccfono An<lro »”-  ftati Endiomidi chiamati. des '     F     z     «4     *       • ì t ari- t   m r rfi & PpSKT’ • r T v   DELLA RELIGIONE  A V G V S T O.     Tra cucce le medaglie d oro, che fanno ìjjj.furnorro  uaccàTolofa, & rraquelleche mi vennero nelle mani,  io ne hò vna,nclla quale da vn lato è fimaginc di Diana,  col Tuo arco & la faretra,*: dall'altro vn tempio, nel cui  mezzo c vn trofeo naualc,in cima al quale è vna celata  antica:& della prua della natte, c fitto vn tronco come  vno Itile con due rami, vno riuclliro d’vna corazza, & da  l’altro pendono due dardi & vna rotelIa:& à pie del tron  co è vn Ancora da vn lato,& vn timone da J aItro,in le-  gno della rotta di Sello Pompeo, quando Ccfarc Augu-  ro racquiftò la Sicilia, la quale in mezzo al frontilpi-  Tri gSbe, c *° ^ mc J c h mo tempio e figurata per tre gambe, con  impresici lettere che dicono,i mper ator . c ae s ar,co!ì fignifi-  UsùiU can do che Augullo ringratiaua Diana della vettoria  hauutadc nimici Tuoi.   - av       1      i       DE G'E’ ANTICHI /ROMANI. *5     AVGVSTO.     Et nc rouefci delle medaglie battute in honoredt Mar  cello, fi vede parimente-vn facardote, chccon due mani lebrato in  prclcnra al tempia di Diana vn altro trofeo di Sicilia, s *” a *-  ringratiandola delI’Kauuta vittoria di Siracu(a,&dcl te-  foro portatone à Roma,iI quale-fu {limato tanto, quan-  to quello che i Romani cauorno di Cartagine.   * MAJICELLINO,. ~     BRONZO..     *6 DELLA RELIGIONE     Animali  tonfatati  i Diana.     Solcuono gl antichi placare Diana imolando la cer-  iliaci daino, il ccruio,& il toro,tutci animali confècrati  lei, fi come tcftimoncranno le medaglie Latine &  chc,che io ho fatto ritrarre qui di lotto.     FILIPPO.   BRONCO.      Tempi o di Scriuc Strabonc nel x ri 1 1. libro della fua Cofmògra  to“ra*ro~ & 1 che quello tempio cra fondato nclflfola d’Icaria &  polon. chiamato Tstupóirtxor. Et Tito Liuio neh ni. della quinta  Decade , lo chiamò parimente Tauropolum , & Tauro poli*  i ficrificij,chclifaccuonoà Diana. Dionilìo nondime-  no nel fuo libro de Sicu Orbis dice,chc Diana non fu chia  mataTauropoU dalla regione, ma dalla quantità de tori,  ehcvinalceuonofotto la fua protezione :& però detta  dum Tau eguale colà appari Ice vera per la medaglia Gre   ca qui di fottojdoue fono lettere, che dicono, e petp i-   IÓN DAMASI AZ.   MED      f     vi.     DE Gl'ANTICHl ROMANI. 87  MED AGLIA GRECA D I DIANA.     ARGENTO.       Chequcfto fiavcro,& che Diana Ila (lata chiamata  TaurofoloSybiTdurof oliai Tuoi facrificij dal toro che l’era  confagrato,come il cane, dimoftra anchora Diodoro  nel iti. libro, douc parlando della Rcina delle Amazo-  nc dice, che ella faceua ogni giorno cflcrcitarc le Tue ver-  gini allacaccia, acciò chcpiu facilmente tollcraflino il  difagio dcllarme & della guerra , facendo le fare vn cer-  to facrificio, che ella chiamò T*opej 3 fojo.,benchc gl’ Autori  tanto Greci come Latini habbinoconfufi tutti quelli no  mi Tdurouoliumjduropolum, & Tauropobolum, & malli me  Suidane i Collcttanei, chiamando Diana Tduroholosfal  Toro(quello che anchora conferma Euftathio) il quale  l’era facrificato, come fi vede nella medaglia d’argento  ' d’ Aulo Pofthumo, nella quale fi vede da vnlato Diana  con vna luna in teda, l’arco & il turcafTo:& dall'altro il fa  orifìcio del toro, nel modo, che fi vede qui di fotro.   F 4     Sacrifìci»  di Diati»  ordinato  da la regi,  na deli a-  mazonc.     Diana chi»  mata Tau-  robolos .     tttJICi  * *   : v ni'        I     $8 .'D É L L A Rì L 1 G f Ò M £ '   A VLO PO STHVMO. - ~ i     ARGENTO.      eia, & ma/firneàLettora,doue fe nc vede grandi/fim»  Tùtro gì - quantità, donatimi già da Pietro GiIio,huomo dotto Se  deVanuZ g ranc * c amatore delle cofc antiche, fi conofcechcifacri-  ti ficij fatti anticamente da i facendoti alla madre degli Dij  congrande apparecchio,crano chiamati TAuroj>olium&  •>- • altre volte Taurtuolium , &non folamente à Diana   Cibelc,maanchoraàMinerua, volendo maflìmamente  credere àSuidas: benché di coli fatti fiicrificij io habbia,  aliai diftefamete fcritto negli Epigrammi, che io hò rac-'  colti di tutta la Francia. *   'a • ; ' b - ••   . „ j ( . t . * e*   V. ... LeBor* inpropugrutcttlo \rbis.   matri devm pomp. philvmenae   t*VAE PRIMA EECTORAE TAVROBOIIVM  F e e r T. .   tìdi°G4f!o fedeli àiichora in vna piccola chiefa di S. Tomafo  giuu mezza rouinata nella medefima terra, vn’altro epitaffio   in vna     D E GL’ ANTICHI ROMANI. S*   hi vna colonna, che regge l’altare grande, per il quale fi  conolce che i Decurioni di quel tempo , cioè gouucr-  torì della Tcrra,feciono il facrificiodi Tauropolium alla  madre degliDij per la falutc diGordiano Imperato-  re, & di Sabina Tranquillina Tua moglie.     In facelle D.Thanutnunc diruto in columna i   aitarli vijìrur. 1   PRO SALVTE I MP. ANTONINI GOR- <   DI ANI PII FEL A V G V. TOTIVSCHE^  DOMVS DI VI N A£, PROQVE STATV C li  V 1 T- LACTOR. TAVROPOLIVM FECIT  ÒRDO LACT. D. N. GORDIANO II. ET  POMPEIANO COS. VI. 1D. DEC. CV- "  RANTIB. M. EROTIO ET FESTO CA- »   NINIO SACÈRD.   Di quella Sabina Tranquillina ho io veduto altre  yolte yna medaglia d’argento, & vno Epitaffio fatto in  quello modo,   FVRIAE SABINAE TR AN QV 1 LLIN AE  SANCTISSIMAE A V G. CONIVGI DOMI-  NI N. M. ANTONINI GORDIANI PII  FEL1CIS INVICTI A V G V STI DECVRIA-  LES AEDILIVM PLEBIS C ERI ALI VM  DEVOTI NVM1NI MAIESTATICHE EO-  R VM.     Trouafià Roma vn gran marmo antico fcolpitoin otfmzion  honorc della madredegli Dei,douelì fa mentione del- * cibele  Taurouohum,& quiui lì vede l’imagine della Dea co-  ronata d’vna Torre con vn tamburo nella man manca     appoggiato fopra alla fuacolcia,& con la ritta tiene cer-  te fpighe di grano, à federe fui fuo carro tirato da due  liooi,& accompagnata del fuo Atis, che tiene vna palla  in mano, & cappeggiato à vn Pino, come albero con-     F 5     90     DELLA RELIGIONE     Carro de  la madre de  gli Dei , ti-  rato di duo  leoni.     Dichiara-  tionedel'in  fegna de la  madre de  gli Dei.     {agrato arale Dea, à caufa della monragnad’Ida, eh ciò  Candia, òdi quella di Frigia, abondantifiime ambedue  diPinij&doue cllac adorata principalmente per Dea,'  & dedicatele le Pine, onde Marciale ha detto di quelle  parlando,   Toma fumus Cybeles.   Ma quanto à i due Iioniche tirano il Tuo carro ,co-.  mefcriuc Virgilio,   Et iunBi rerum dominai fubiereleones.  voltano i Greci lignificare, che non fi troua cofi Acrile  terra,chc ben coltiuata,non diuenti fertile & buona. La  torre lignifica leCitta & edifìci j de quali la terra è orna-  taci tamburo la mondezza della terra, benché alcuni  veglino che ciò lignifichi i venti rinchiufiui dentro, &  le fpighe,ch© la terra fola è quella che nutrifee l’huomo.   Figura     .u ■ :• '• :•> h . ' it   j . .     \ 9J®.: -,   3 A trt,     ,Ou u;j . .   . ;ì. ‘   A .w y. LA   «... uidy. . adX   > m ri </ a r»     fi     il .   ■ J .     ri   Vf.TOJ tOplI     ini r.twyt ^ •*   . u Yiai n i.ir^u cTonorl  li : ;j v £ i , j.T   .v vii./r , rr/tarV;ioi   f! - •> J   *. ■ i V •   ... ... ;   . • V'-vi - j   *- *'y ^ 1 '-i ‘I • •           DE GL' ANTICHI ROMANI.     in     FJG y R A~ D E LA MADRE DE I DEI R I 7 R ATTA  del marmo artico, il qual fi vede in Roma ntll’ecchiefa di S.Sebafliano.      M. d: M. L ET ATTINIS     L. CORNELIVS SCIPIO OREITVS  V. C. AVGVR TAVROBOLIVM  SIVE CRIOBOLIVM , FECIT  DIE IIII. KAL. MART.  TVSCO ET ANNVLLINO COSS.         Cibelt tOf-  riU.     Nell’altra medaglia pure Greca li vede da vn lato  Cibelc torrira,& dall’altro il folgore di Giouc con al-  tre facttc, la quale c tanto vecchia & frulla, che non lì  c potuto cauare alcun fenfo delle parole Greche.   Meda     Vari I nomi  de la madre  dei Dei.     Diana con-  feruatrice,  adorata in  Sieilia.     Chiamaronlagl’antichi madre degli Dei, perche in  guifadi madreche nutriteci figlìuoli.la terra limilmcn-  te nutrilcetuttigrhuomini & animali del Mondo, coli  dice Furnuto.I «Greci & Romani le dettono più nomi  & attribuirne diuerfe virtù.chiamandola Cibelc, Cere-  re,^ Terra,Prolcrpina, &fecondo Lucretio, madre delle  beftie. Veda, &Diana:il che li vede & conferma per due  medaglie di bronzo Greche, ncll’vna delle quali c Dia-  na da vn lato con quelle parole, 2 atei p a, & da l’altro  il folgorc,dcdicatole cornea Velia ,& limili parole  x i aeqi a r a ©ojc a e n 2, ci oc , medaglia battuta dal  Agatoclc in honoredi Diana confcruatrice.               Nel tempo, che io Faceuo quello 33cor|oi mi fumo mc faglie  clonate alcune medaglie d’argento, di quelle, che viti- doro &  inamente furono trouateà Reims, tutte quafi di Seuc- trouute°t  ro,di Giuliani CaracaHa,di Geta,8t diMacrino. Et per-  chcrracfleio netrouaitrc,doue livedcCibelc  convnfolgorc in mano,& à federe fopra vn  qucflc parole , ind  mi cparfo non fuora  di fotto.     L’vna.     GLIA GRECA.   bronzo.     « ■ .     V «A        »     i       5>4 DELLA RELIGIONE   if pino con- L’vna dell altre due medaglie e dì Giulia, nella quale  madre dc*i ^ vc< ^ c Cibclc tortila in compagnia di due lioni & àfc-  Dd. dere fopra vna Tedia con vn ramo di pino in vna mano,   & nell altra lo fcctcro,chcclIa appoggia fopra il Tuo tam  buro,3c lettere che dicono intorno ,mater devm.  Il medefìmo rouefeio nella medaglia di Fauftina e quali  del tutto foni iglianteà quello.     ARGENTO.     BRONZO.     Figuro     MED. DI C. VOLTEIO.   ARGENTO.;     ANTO. Pio.   BRONZO.     p JJ ■ ' ■'■W ■■     DE GL’ANTICHI DOMANI.   Figurornoanchoragl’antichiil lìmulacro di quella  Cibcìe con vn gran numero dipoppe,fignificando‘ che  cllanutricaua tutto il Mondo, con vn a torrefalla tefta,  due Honi Copra i bracci , & diuerfr animali incorno,  produtei da lei come Dea della Natura, & di più due  ccruie ài piedi, che moftrauono che Diana, & quella  erano vnamedchmacolà.Ncl qual modo nonhd mot-  to tempo che ella fu ricrouata in vna grotta ancichiflì-  maàRomadadipinturadellaqualemi donò altra vol-  ta M. Antonio Fantuflì dipintore Romano, la quale io  ho polla nel miolibro de la Natura de gli dèi , per dame  la villa à .gli amatori dell’antichità. Furono tutte quelle  forme attribuite à Dianacondiuertì nomi di triforme,  come per il tellimoniodiPaufania la chiamò Alcamc-  nc:& Virgilio, dichiarandoci che in cielo lì chiamaua  Luna, in terra. Diana,& nell’inferno Profcrpina , coli laf :  ciò fcritto,   Tergeminamque Hccaten>trU ùrginìs or a Tfidnx.   Et perche la figuradi Diana, ritratta da vn marmò  antico,!! vedrà meglio nelnollro primo libro dell anti-  chitàdiRoma, io non nelcriùero qui altro , ma fola-  mence dirò come fotto la deità & nome d’Hccate i più  ricchi Romani foleuono ogni mefe far facrificio à Dia-  na, mettendo fopra i canti delle llradc della Città, pane  & altre cofe,chcfubito da ipoueri erano leuaje via , co-  me fcriuc Ateneo, llimando che Diana, la Luna, & Pro-  ferpina fodero vna mcdclima coCa.   Hauendoà baftanza parlato di Diana , & defìderan-  - do venire alladcfcrittionc degli altri Dij, comincieremo  da ^inerita* la quale fccondoi Poeti, nacque.de l capo   diGio     55     Dea di m-  tura.     Diana tri-  forme.  Paufinid.  Virgilio.     Sacrifìcio  fattoi Dia  na fotto il  nome di  He tate.  Ateneo.     MINER-   VA.     96 DELLA RELIGIONE  di Giouc, pcreflcrcrintcllctto collocato nella certa dell*  huomo. Armaronla oltre à quello gl’antichi d’vno feu-  do, nclqnalcera il capo di Mcdufa,moftradochcrhuo-  mo fauiodcbbecon force animo & intrepido vifo refi-  ftcrc aU’aucrficà,& à nimici.il pennachio che ella hauc*  ua fopra al morrionc , fignificaua rornamenro di tutte  lefciczc, &cofcaItenclccruclIo dcH‘huomo:le tre vedi  differenti l’vna all’altra, che la Capienza debbe clferefc-  grcta,&l'hafta che ella haucua in mano, che l’huomo  fauio guarda, con fiderà, & batte di lontano & con van-  drdicXt*! taggto. Mala Ciuctta le fu dedicata (come habbiamo  Mintrtu. detto) per moftrarcche la Capienza cuopre con le tene-  bre il fuolplcndore-.i qualitutti lignificati pare chedcf-  criucffc affai bene Ouidio nel Certo libro della fua Mc-  tamorfofi, quando dille,   ^t fili datelypeumjat acuta cuflidis hafiam,   Datgaleam capiti, defendituragide pettus,   ‘PercuJìa'mejuefua fimulàt decufiide ferrarti.   Edere cu mi; accia factum canentis oliua ,   Jrfirartque deos «perù vittoria finis.   Minmu Scriuc Varronc che Mincrua fu quella , che fondò  ie untoti Atcne,& per ciò fu chiamata, aohn a quafi idxraìoe rrdfOt-  i- Atene. r e, che voi dire, vergine immortale, àcaufa chcfcomc   fcriue Fulgentio) la ìapienza non muore mai. Di qui ha  voluto Porfirio dire, che Mincrua none altro che la vir-  tù del fole, mediante la quale lafapienza entra & pene-  tra dentro alcuorcdcH’huomo, là onde nafcendodalla  fommkàdcU’aria : però fi vede che i Poeti hanno finto  che Mincrua c vfcitadelcapodiGiouc. I Filici dicono  chela virtùintellccciuaècollocata nel cerucllo deliquio     DE GL'ANTICHI ROMANI. *7   mo,comc denrroalia principale fortezza del redo del  corpo. Chiamaronla Umilmente gl’antichi Bellona, BrBofl4  cioè Dea della guerra, lignificando chei Soldati debbo- d « * u  no non fidamente edere del continouo armati Spederei- S* frr <-  caci, ma proueduri di configlio: &rprima chccominciarc  vn imprcfa,cdàminarc molto bene le forze del nimico:  quello che confermò anchora Saludio dicendo, che ei  bifogna prima configliarfi,& doppo il configlio, & la  deliberationc fatta mandar predo ad effetto ìlfuo dife-  gno.Lacaufà perche gl’hiftorici l’hanno fatta fondatri-  ce d’Atcnc, è, che dicono che nafccndo difeordia tra lei  & Nettuno, di chi douede porre nome alla Città, gli Dei  fimedono in mezzo per pacificarli, &giudicorno che Ncttu-  qualc di loro due produrrebbe cofa piu vtilc alla detta Vaim  terra, quello le douede dare il nome, per il che pcrcoccn-  do la terra, & facendo nafcerc Nettuno vn cauallo, &   Minerua l’vIiuo,fu fententiato chcl’vliuo, piu che il ca-  uallo fodènccedirio & vtile alla vita humana,& cofi re-  do la Dea vincitrice, con attribuirle l’vliuo & cdcrechia-  mata Pacifera, come fi vede nelle medaglie di M. Aure- vulimit -   Iio,& di Commodo Imperatore. - 4 ut   1 q ncrua.   f • *. • T   V ■ * 1 t\ e k \ ■ l A ,|f I. fi , * . I ..   '• •• 1 ■ • "• «f; IM ,1 - f . n     L         M. AVRELIO. COMMODO.   BRONZO.     Ttfle di mi Scriue Plinio che infino alfuo tempo duraua ancho-  ra la celcbrationc della fella & giuochi di Minerua,  tjuatria. chiamati Quinquatrij, quali erano, che i fanciulli facen-  do vacationc dalle fcuolc & da gli ftudij porrauono la  mancia ài loro maellri in honore della Dea,come quel  Jache aiutaua la mcmoriarciò che Quintiliano a! 1 1 1. li-  bro^ nefuoi falli Ouidio anchora meglio ha dichia-  rato, quando ci dice,   'Pallata nunc putrì tener a j ornate p nella:   Qui lene placarit Palla Ja,Jolhuerir.   L’occafione fopradetta della difeordia di Mincrua  nettv- & di Nettuno, pare che mi porgea conuencuolcmare-  « n o. ria di ragionare anchora di quello Dio,il quale (come   il Delfino fcriuc Higinio) fi dipingevi con vn Delfino fotto il  dedicato ì piede 5 ò la "mano mancaappogiataui fopra, hauendo il  nettano, tric | enrc nc lJ a r j t ta , fi come dimollrano i rouefei delle   medaglie di M Agrippa.   M.Agr       I     1     L     DE GL’ ANTICHI ROMANI,     M.     A G R I P P A.   BRONZO.      Fu Umilmente da gl’antichi dipinto Nettuno con uettunodi  vn Tridente & vna Acroftolia (ornamento antico di  galea) in mano , come fi vede ne rouefei di due mie te cr una  medaglie d’argento, l'vnad’ A ugufi:o,& l’altra di Vefpa*  fiano.douc fono lettere che dicono, neptvno redv-  ci, in fegnodi ringratiare lo Dio del felice ritorno dal-  le imprefe nauali.     Acrojlolta  dagli anti-  chi.     AVGVSTO.     VESPASIANO.   ARGENTO.      G z     100      ut     -inai*     :     DELLA RELIGIÓNE  vufciiut 4t- Attribuirno parimente grantichiii Tridente a Nct-  mttuno 4 tuno,,n %no dello feettro , & ancho per efl'erc vno in-  perfetttro. frumento molto ncceflario à i marinai, dipingendolo  vna volta pacifico>& vn’altra adirato ,come fi vede per  le medaglie di Pompeo doppol’imprela fatta, & la vet-  roria hanuta de Corlali, donc da vii Iato fono lettere,  che dicono, MAGNVS IMPERATOR ITERVM-.&  dell’altro, PRAEFECTVS CLASSIS ET O  ilARITIMAE EX SENATVSCONSV   MED. DI PO MP     DE GL’ ANTICHI ROMANI. ioi   Io ho tra molte pietre antiche, intagliate di diuerfc Ag<tu <m-  forci, l’Agata di forco figu rata , nella quale è il mcdelìmo  Nettunoà ledere, con vn braccio appoggiato fopra vn tmo*  va Co alta maniera d'vn fiume,& doppo quella vna Cor-  niolaanticadicolorcdi rubino, nella quale cvn Nettu-  no fui fuo carro, tirato da due caualli, nel modo , ch’egli tumori-  è anchora figurato in vna medaglia di M. Agrippa con rito dà <a -  lertcrc che dicono aeqvoris me omnipotens.     AGATA. CORNIOLO.       M. AGRIPPA.   arg e n t o.      . v."“ v - -m *   ....     VA            monete     ioz     N rtttmo i  fiutilo.     DE LA RELIGIONE  La caufa perche glancichi dedicorno il causilo à  Nettuno, fu,perchc ci fu il primo che trouò il modo di  domarli &frenarli, come dice Virgilio nel y.dil'EncidL  / ungir eejuos curru geni tot fumanti a. <jue addir  Frana f'eris ì manilupjue omnes ejfundit babenat.   Fanno vera teflimonanza di quello, ’   Tarcntini, nelle quali da vn lato fi vede Nettuno  uallo,& dall’altro Taras fuo figliuolo fopra vn Delfino.     HÌppOCTé-   tid.   Confutili.     Nettuno in  h entore di  tutte del  tuuigtr.     A iNettunocauanere recionoiKomanjgia vn tem-  pio,comc fi leggein Haficarnalco,&chiamaronogl’Ar  cadi) il dì della fila fella Higgocratia , fi come gl'antichi  Confualia , nel quale tempo tutti i causili > muli, & mule  non erano in modo alcuno adoperati à rrauagliare,'  madai garzoni di Italia condotti à moftra per tuttala  Città di Roma con la teda coperta di fiori & ornata di  ghirlande con ricchi fornimenti.   Scriuc Diodoro che Nettuno fu il primo che trouò  l’arte del nauigarc& didrizarc vna armata di marc,&   che     D E GL’ ANTICHI ROMANI. 103 '  che per quello ci fu fatto da Giouc Ammiraglio del ma-  re^ di poi adoratocome Dio.Et per le due medaglie,   & vn Niccolo, figurate qui Cotto, vollono glantichi li-  gnificare che Nettuno haucua poflanza tanto in mare Ncttuno ^  quanto in terra,figurando vn caualloconla coda tor- gnordrima  ta & diuifà in due partidnfegno de iduc Elementi, l’vno  (quale e la terra) ripreientato dinanzi per il cauailo, &  l’altro (qual’ è il marc)difcgnato dietro per la coda in  forma di Delfino.     ANTICO NICCOLO.      Qi CREPERIO. GALLIENO.       * »o4 DELLA RELIGIONE   Quando i Romani volcuono moftrarc di ringratia-  rcNettuno di qualche vettoriahauuta in mare, lo facc-  uono Scolpire nelle loro medagliedavn lacoconil Tri-  dente^ dall’altro mctteuono vnaVcttoriafulla poppai  d’vnaNaucmel quale modolofcciono già fare Deme-  trio, Augufto Ccfarc,Vcfpafiano , & Tito fuo figliuolo.  Imp.Rom.     MED. DI DEMETRIO.   ARGENTO.      AVGVSTO. VESPASIANO.   ARGENTO. ARGENTO.      Ritor       -     I     E serv-  ir API a     Machione     DE GL’ ANTICHI ROMANI. 105  Ritornando à gl’altri noflri Dij,& loro templi, altari  & fimulachrijdiciamo chcEfculapio Dio della fa nità,fu  il primo chctrouò l’vfo della Medicina, infcgnataglifor  fc prima da qualche Dio flato innazi à lui. Quelli al rem  po di Homero fi vcdcchcnon era anchora flato collo-  cato nel numcrodegli Dei,cóciofìa che il detto Poeta fa  medicare àPconcle piaghe di Marte. Ma quadoci parla  diMachaonc,figliuolo d’ÈfcuIapio,ci lo chiama huomo Ma(hégj  figliuolo d’EfcuIàpio Medico, chctrouò molti rimedij figliuolo  ncccflarij perla fanità dcllhuomo , & lo fa tato eccellete  in quella arte, che ci dice che rifufcitaua i morti .Dice Lat Stantio.  tantiochc Efculapio nacque di padre & di madrc,chcn6  fumo da perfonaconofciuti,& coli lafciato in mezzo à  vn campo,& trouato da certi cacciatori, fu dato i n guar-  dia à Chironc Centauro,chcgl’infegnò lar te di medica-  renella quale vfarono dipoi fempregl’antichi fino al tc-  pod’Hippocrate,che la riduflc alla fua perfezionc.L’ha- Kippocratt  birationed’EfcuIapiofugiààRaugiacittàdi Schiauonia, Umdu^a  & dagli antichi chiamata Epidauro,doue ci fucòfiigra- * pnfctno  to, fattogli vn tempio, & vna flarua d’oro & d’auorio per " f *  le mani di Trafimcdc,cccclIcntiflìmo(comc fcriuc Pau  fàniajfculcorcdi queltcpo, &natiuo dcll’IfoladiParos. ^ef^iuio  Eufebio nondimeno lo vedi &dipinfenel modo, che in nedeiima-  marmo bianco fi vede anchora à Roma,& in molte me  daglic & pietre antiche, cioè vcflitod’vn mantello alla do Eufebio.  Greca, con vn baflonc in mano, & fopra al quale(attor-  cigliato d’ vna ferpe)pare che il Dio s’appoggi, nella ma-  niera che io l’hò in vn’altra belliffima Corniola, &in  vno Niccolo, ritratti qui di forco al naturale.   G 5     .ori oia/ì     Jr     ioc DELLA RELIGIONE   ‘CORNIOLA ANT. NICCOLO ANT.      Tornato.     Microbio.     I a Ciuciti  dedicata ì  Efculapio.     Significai™ la fcrpc (fecondo Fornuto) che fi come  quelle fi fpogliano & mutano la icorza, cofi auiehedc  Mcdccichc riducono gl’ammalaci dalla malaria alla fa-  ttiti, rendendo loro vn corpo nuouo. Altri voglionoche  fi come la ferpe lignifica laprudcza,cofi bifogni al buo  Medico edere prudente circa alia finità d’vna perfona.  Ma Plinio rede vn’altra ragione, cioè che la fcrpc fia de-  dicata à Efculapio per edere buona a molte mcdicinc:&  Macrobio dice che quello e, perche la ferpe ha la villa  fiottile, come bifiogna che habbia il Medico nella cura  d’vn infermo, &chc il battone fignifica,chcvn huomo  ammalato ha bifiogno di nutrimento che Io fiollcnga,  in modo,ch’ei non caggiaaffatto.EtEufebio,chcilba-  ftonegl’è attribuito, come quello che ^er appoggiarli e  ncccdario à vn’ammalato. Fu oltre a quello dedicata  à Eficulapio la Ciuctta, lignificando che il medico debbe  edere vigilante più la notte che il giorno intorno all'in-  fcrmo.fi come lì vede ne rouefici delle medaghedi Nero  nc,&di Vitcllio.     Nerone.        DE GL’ ANTICHI ROMANI. 107  NERONE. VITE L LrO. *     ORO. BRONZO.      Vcdc(i anchoraà Roma nel mezzo del Teuero vn’I-  foletta à modo d’vna galeotta, cioè larga nel mezzo,lua-  ga due ottani di miglio, appuntata da bado , & piu larga  di fopra, à modo d’vna poppacL’vna naue:la quale Ifola  fu già confagrata à E(culapio,doppo che il fuo lìmula-  cro fuilato condotto à RomafQttolafbrma d’vnalcr-  pc,òpiùtoftod'vnDcmonio:in honorcdcl quale fedo*  no già i Raugei battere monete con la lèrpc &: conlctre-  re Greche, che diceuono epuat pio N,la. quale Città  (comclcriueLiuio)fufoIàmenre nobilitata dal tempio  d’Efculapiojlontanodaquellacinque miglia,douecon  molte cerimonie fu adorato come Dio.   MON.        Simulacro  d'Efculapù  portato fa  Roma.  Moneta é  i Epidauri          Quelle parole Greche attorpatop o taaepia-   •NOS, r A A A I E NO X , O TAAEPIA NOJ KAJXAPES.nOH   dinotano altra co(à,fc nonchcVaIeriano Imp.fccc bat-  tere quella medaglia con l’effigie Tua &rde due Tuoi figli-  uoli Gallieno & Va!criano J & i tre tcpli nel rouelcio con  tali parole Greche, tpix neokopoi nikomhaeon:  lignificano chetrc guardiani de detti tcpli pregauono  pcrlafanità & falute(figurataperlafcrpe)dc fopradetti  tre Impcradori.        iTP I C N t^KD   k PvA-N     Nel     Vittri di  ThafiU.     DE GL' ANTICHI 1 ROMANI. io*   Ncllhorto dcllachielàdi S.BartoIomeo,che c ncll’l-  fola nominata di (opra, fi vede anchora vna nauicclladi  pietra Thaflìa,chcè molto (limata per la varietà de (uoi  colori, nella qualcdavnlato fi vede (colpita vna ferpe,  che alcuni vogliono che fia delle reliquie del tempio già  detto d’Efculapio : &quafi Tempre nelle medaglie de gli  Imperatori fi trouala ferpe con la fanità,chc fiotto figura SANITA>  d’ElcuI.tpiogli fa làcrificiorò veramente la ticneabbrac-  ciata, lignificando che da quello Dio dipendeua la fani-  tàfiola.     Anton, pio.     BRONZO.     M. AVRELIO.   ARGEN TO.      M. AC ILI A.   ARGENTO. ARGENTO.      Sono      no     Medaglio-  ne din.  Aurelio  trouato in  JU ione.     P ub. Vitto  re.     DELLA RELIGIONE  Sono forfcfei mcfi,ch’eflcndomi portato vna vecchia  medaglia di M. AureIio,ft:ata crociata nc fondamenti del  la vecchia zecca di Lione, mi e parfo di farla ritrarre qui  di fottoalnaturalc,pcrfarc meglio intendere àgl’ama-  tori del l'antichità in che modo,fotro colore d’vna ferpe,  gl’antichi fingeuonodi fare facrificio iEfcuIapio per le  manidiMinerua,con vna tazza in mano coperta d’vno  vliuo.&dinazi la Vcttoria,chc porta vn’altra tazza pie-  na di frutte.   MEDAGLIONI.   M. AVRELIO. COMMODO.      Non fi potendo lenza la finità fare bene alcuna cofa,  pare che meritamente ella debbia haucre luogo tra tanti  altri Dijril tempio della qualefcome fcriué Publio Vic-  tore)era nclvi.quartiere della Città di Roma, quantun-  que Domitiano le ne faccfTc edificare vn’altro piccolo , 1  doppo il pericolo che egli haueua portato nella venuta  di ViteUioàRoma.     DO.       Ili     CASTI-   TÀ.     L’habitodi quella Dea con l’imagine Tua, (colpita  nelle medaglie di Giulia Pia, Donna di Scuero Impera-  tore, fu limile à quello d’vna Donna vedouaaflifafopra  vna Tedia con lo feettro in mano, & due colóbc appref-  fo, lignificando che come la colomba c bianca & pura, ^ fo/om _  coli la caftitàdcbbe edere fenza macchiarla Donna da bt j imbolo  bene fcmplicc&purafimilmentc. dictjUu.   gTvlia PIA.   ARGENTO.     GL’ ANTICHI XOMANI.  DOMITIANO.   ARGENTO.     DELLA RELIGIONE  Quelli, che hanno dichiarata la Caftità, dicono che  dtu cajli - ella c vna virtù, che cfccd’vn buon cuorc:& piu torto co-  fentc di patirc,chc fare atto lontano dall’honcrto &dal-  l'honore.Et le pure egli auicne che cllafia forzata, non  per quello riccue alcun torto, non fi potédo corrompe-  re il cuore accompagnato da vna buona indiamone &  nutrimentoialla quale (come cofa fimilmente chara &   li ber P ret ' 0 ^ a )g^ an fi c ^*^ cttcr0 P cr cópagna la Libcrtà,chia«  T a. madola,comc l'altrc, Dea, amata & cerca da tutti i begli   ingegniionde ci non farebbe polfibile di fcriucre à pieno  lacontentczza di colui, che viuendo liberamente lenza  ambinone, fi contenta di quello checglihà, ncconofcc  perfona che per Pallidità de beni di quello mòdo (fotto-  poftiaU‘inuidia& alla fortuna) gli porta comandare, &  farlo pervn poco di bene incorrere ingrandirtìmima-  li, quello che anchorapcr Euripide c ftato dottamente  Euripide. dichiarato,douc ci dice:   'Ham hberum effe, maximum dico bonum:   Quoti fi quii ejl pauper,puter fe diuirem.   Et Cicerone ne Tuoi Paradofli dichiarando la Libertà  fimilmente dille, che la vera libertà non era alerò chcpo  Tempio di tere viucrecomc l’huom volcua.il tépiodi quella Dea  uberei. cra nc j m 5 tc Aucntino, ornato di molte ftatue &r cotóne  di bronzo, onde per l’orazione che Cicerone fece à i Pó-  tcfici per la fuacafa, fi conofcc come Claudio l’haucua  conlagrataalla Dea Libertàd’habito della qualeerad’v-  naDonnacon vna Itola, òvn velo addoflb,vn’haftain  vna mano, & nell altra vn capello, folitodarfi àiferui,  che erano liberati da i padroni, quantunque alcuni altri  habbino detto che forte vna campana.*   GAL.     «5        Chequcfìocappcllofairein legno della Libertà(fì co il cappella  me io ho più chiaramente inoltrato nella fine del mio li  bro dell’antichità di Roma)lì vede nelle medaglie battu  rein honoredi Brutto libcratoredella Patri a,& di Ccfa-   quidi fotto al naturale.   CALIGVLA.   BRONZO:     DE GL' ANTICHI ROMANI.  GALBA. ~ TRAIANO.   BRONZO- ARGENTO.     cnc delia libertà nalcc la felicità, io accompa- FELICI  gneròqucltacon quella^ inoltrerò cornei Romani L- TA ‘  fcciono vn tempio & vn’alcare,dcl quale fcriuendoPli-   H     - iM • DELLA RELIGIONE  , . nio dice che la (latua della Dea Felicità,crafl:ata fatta da   rufits! ° Archcfilao Pla(les,& coftata à Luculloix.gran fcfter-  tij, (limando i Romani cflcre all'hora i tempi felici , & la  vera Felicità regnare per tutto, quando i loro Imperato-  ri haucuono viuuto,ò regnato lungamente:quando ha-  ueuonogencratibci figliuoli,&foggiagati, & vinti i lo-  ro nimicijondclapaccpublica regnaua: quando fi feo-  priua qualche tradimento òcogiuratione contro all lm  perio,& quando egli era abbondanza di grano, ò le naui  cariche di quello, & d’altre mercanzie arriuauono al  portod'Oftiaàfaluamento.   FAVSTIN A.     BRONZO. BRONZO.      CARACALLA. TACITO.     ARGENTO. ARGENTO.             4            DE GL’ANTICHI ROMANI. wj  ANTON. PIO. SEV.ERO.   BRONZO. ARGENTO.     Maqucllacla vera felicità quando la Giuftitia regna  in vn Reame, laqualefa che gl'imperatori, i Rc,& le Re ^ia* 71  publichc durano Iungamente:ondegl’antichifoIeuono i Principi  dire che Giouc fenza la Giuftitia non farebbe potuto fta  reinciclo,nclaRepublicain piede pu re vn’h ora. E v la  Giuftitia vna perpetua & ferma volontà di fare ragione  adogniuno, &viuédo virtuofamente, non fare torto à  perfona , rendendo àciafcuno quello che c fuo. Della  Giuftitia fono nate due leggi , l’vna publica , & priuata Lfgg[ fUm  l’altra. La publica c di por méte alla comunefalutc de- blica&pri  gli ftati,& la priuata è quella (come anchoras’accordail uiU ‘  Iurifc5fuIto)de i particulari. Quella cóccrnc la religio-  ne, le colè fagrc,i Sacerdoti & iMagiftrati:& quella è fon  data fulla ragione naturale, ciuile,&: humana:della qua-  le fc piace al lettore di fapcrne piu oltre, legga Plutarco, v lutano.  doue,fcriucndo della dottrina de principi, moftra aflài:  chiaramente quantoprctioIa,fanta , Se ncccflariacofa è  la Giuftitia :lacui forza è tale, che ella regna in inferno  (doue non èvirtùalcuna)quiuicflTendo cadi gate le fcc-   H »          rr n:i     n* DELLA RELIGIONE   leratczzc degli huomini fecondo i meriti & grandezze  loro.Quefla a Juque volcdo (colpire, ò dipingercglan-  tichija (aceuono con vna taflàin vna mano, che era la  gruatMgii r ‘ tta : & nella manca le dauono lo feettro , ponendola à  intubi u federe in vna Tedia nel modo, che l’hà figurata Hadria-  Giujìitia, no nc jj c f uc mC( J a gIi C- quelli che non hanno co-  gnitione delle cole antiche, l'hanno figurata nel modo,  che fi vede hoggi, cioè con la fpada & le bilancic,che fo -  no propriamente le infegne,con le quali foleua l’Equi-  tà cflèrcdifcgnatadagl’antichi.   TIBERIO.     BRONZO. BRONZO.      I     DE GL’ANTICHI ROMANI.  HADRI ANO- ALE X.M A M M E A.     »7     ARGENTO.     BRONZO.       Che l’Equità folle dipinta nel modòdettodi fopra,& E ^   in luogo dilpadacon vn corno d’abbondanza, li vede ta.  per le medaglie di Gordiano & di Filippo, non altriméti  che fi folle in limile modo il fimulacro della Dea Mone  rain quelle di Collante ,& di Diocleciano,con lettere,  che diccuono, sacra moneta avgvstorvm et nontuf *-   CAESARVM NOSTRORVM. fr< *     GORDIANO.   ARGENTO.     FILIPPO.   BRONZO.       H 3     1     I         V* -vj   * *. -'f O. J i /* «MITCJb     MS DELLA R E L 1 G I O N E  COSTANTE. DI OC LETI A N O.     BRONZO.     MED. D I T.   A R G E N     — Volendo t»TlmpcracoriRomani dare cimorc ài talli  £!$Z ficittori delle mon'ete,hlccuono in quelle (colpire le ima  perfori f, inj lorojconfidciando che non e cola che piu ìmpedll-   ZX. ca l'abbondanza de iviueciin vna -Città, quanto la mo- ‘  inugini nel nc rafalfa,aftcncndofi gl'huomini forcOicn di portami  u lormonc ^ j oro mcrc hantic:chec pure vn peccato troppo cnor-  me,chcgrhuomlnifalfificatori(portando fi gran danno  all’vniuerfale per vno vtile particularcjcorrópino quek   lo che        -irJP»       DE GL’ ANTICHI ROMANI. u*   Io che l'ingiuria dei tempo, nela terra, ne il fuoco non  hanno potuto ne {apuro guaftare.Et di qui nacque chei rrimuin  Romani crearono tre huomini,da loro detti T riumuiri, * te mone-  fopraie monete con autorità di fare battere oro, argéto  & bronzo, come fi vede per le medaglie di Celare Dit-     A VGVSTO   BH.ONZO.     L'officio di Macftri delle     monete era di guardare,& fa  reproua selle erano di buona lega, prima che farle fta-  pare,& poi ch'elle erano battute, selle erano di pefo : on-  d’io penfo che Aùgufto, volendo che quella buona vfim  za fi mantcneflc Tempre conia maelHdcirimperio Ro-  mano, ^erò lafirinflè a i Triumuiri delle monete quella  autorità accompagnata dalla poflànzade Tribuni, co-  me fi vede perle medaglie battuteda M. Saluto Otonc,  CaioPlotio Ruffo, &diuerfi altri.      t     ■>     UO della religione   AVGVSTO.   ' BRONZO. BRONZO.      Trouanfi anchora molte altre medaglie lenza l'ima-  ginc d’Augufto,per le quali fi conolcc quello edere vc-  ro,chc noi habbiamo fcritto qui di fopra,&maflìmc per  lcparole,chc accompagnate d’vna corona ciuica, dico-  no, avgvstvs tri bvnitja pot est a t e. & dal-  l’altro lato , AERE, ARGENTO, AVRÒ FLAVO FE-  RVNTO.   A V.GVST O. ~     BRONZO. BRONZO.      Pc                 GL’ ANTICHI ROMANI,  l'cr i quali tcftimonij chiaramente vergiamo che  tale autorità di fare battere monete , pcfarlc,& e {lami-  narle, apparteneua anticamente à i Tribuni , & mafiì-  tnc che tra le loro leggi fi trouano fcrittc cofi fatte pa- hrggi (fr _   role, TRIBVNI SVNTO DOMI, PECVNIAM PVBLI- ttnuirali.  CAM CVSTODIVNTO, &! più baffo, AES, ARGENTVM,  AVRVMYE PVBLICE SIGNANTO.   Erano tutti huomini da bene & virtuofi quelli, à qua •  li gl’imperatori concedcuono cofi fatto Magiftrato,  con pcrmifiìoncdi fare mettere nelle medaglie i nomi>  loro, per piùficurtà delle monetc,& perche il popolo  conofirefie quando &fotto quali huomini erano fiate  battute.Pur nondimeno mancò col tempo ( come fan-  no tuttel'altrc^quefta buona vfanza,& pallate le meda-  gliedi Claudio & di Neronc,non fi trouò neviddepiù  l’Equità dipinta con la bilancia in mano.     BRONZO.     NERONE.   BRONZO.     Soleuono tutti i buoni Principi & Imperatori Ro-  mani vifitando le Prouincic fuggette alloro Imperio   H 5     ua DELLA RELIGIONE   fare lcrcparationi per tutto doue erano neceflàrie,& fo-  pra tutto liuiHtarc Je monete , & farne battere dcllc :  nuouc per le Città principali in ogni regione. Ciò che  strabane, conferma Strabonc, quando ci dice, che i Principi Ro-  mani lèdono battere monete d’argento & d’oro nella  Luigixm- G*ttà di Lioneda quale cofa imitò Luigi mi. Impera-  perutorc 4 . tore & Principe virtuofo & bellicolb, amato da tutto il  Rrdì ma mondo, quantunque sfortunato fi trouafleneH’imprelà  che ci fece in Vnghcria. Somigliò molto quello buon  Principe Hadriano Imperatore, con ciò lìa che ei fece-*  a#aiviaggi,&nominòlcterrc principali, che egli hauc-ì  ua rillaurateal fuo tempo nelle fue monetc.Et ficomei  buoni Principi Romani ficeuono fcolpirc le* infegne  della Religione nelieloro medaglie,colì quello religio-  fó Imperatore mctteua nelle fue monete da vn lato vn  tempio con la figura d’vna Crocc,& parole che diccuo-  no, c hristi an a re Li ciò. & dall’altro , vna Croce  maggiore con qucllcaltrc parole > lvdovicvs impe-  rator.     MED.      u .>/{ avi ■ a«.v-   <■- ’ V * - . • ^ •              DE GL ANTICHI ROMANI. 115   MED. DI LVIGI IMPERATORE 1 1 1 iT  RE DI FRANCIA.   ARGENTO.      Non è molto tempo éhc vn lauoratore di terranei vafo piena  paefedi Lione, trouò lauorado vnltio campo, vicino à  vna tcrricciuola chiamata Anfa,vn gran vafo di terra troultoa'p-  pieno di medaglie d’argéto del detto Imperatore, delle  quali(haucdoncio vnaparte)mi e parfo non fuora'pro- Uour '  polito di moftrarne qui di Lotto lcflempio al Lettore.   ~ MONETA DI LVÌGÌ IlÌL ' ‘       Mone     li 4     DELIA RELIGIONE     MONETA DEL MEDESIMO.     ARGENTO.     tini   A' ri.       c icerone.     Volle quello magnanimo & virtuolo Principe (coli  valorofamencc operando, & facendo officio di pio &  catholico) moftrarcà i Tuoi fucceflòri in che modo fi  debbe imitare la virtù, honorare la memoria de gl'anti-  chi, portare riucréza alla R cligionc,tcmerc Dio, & ama  re la Republica& la Patria: Quello, che anchora ci ha  infegnato Cicerone dicendo, nel fuo libro della Natura  Diffinitio i- degli Dei,chc leflcrc pio none altro che la riucrenza  w dì vut*. c | ie no | debbiamo hauercà Dio, à i noftri maggiori, ài  pitturi de parenti,à gl amici,& alla patria. Quella virtù fu dipinta  da Antonino Pio in habito di Matrona, ò dona vedoua  conia fua verte lunga, vnturibulo in mano, chiamalo  da i Latini ^cerrafic dinanzi vnaltarc cinto d’vn fefto-  nccol fuoco accefo pcrfacrificare.   Antonino   Wt   -r.'- . JWjr . ' £ -pr •     Xttrr 4.     onci/        DE GL’ANTICHI ROMANI. 115     ANTONINO PIO. HADRIANO.   BRONZO. ARGENTO.      diariamente nel libro della Cita di Dio, dice chela vera  pietà non è altrochel’adoratione d’vnfolo Dio,creato-  re del ciclo & della terra, ribattendo & dannando l’op-  pinioni de gl’antichi Romaniche cglihauclfino inRo-  ma(comc afferma Prudcntio)tanti templi &alcari,quah indenti*.  ti penlàuono edere Dij nella Naturaci che tutta volta  fivcdechcnalceuada buona intentione, facendo que-  llo per religione : della quale cofa ci fan fede le meda-  glicdi Giulio Ccfare, di Pompeo, d’Augufto, di Vclpa- ln f egnt ^  lìano, d’Hadriano, d’Antonino Pio, & di Màico Aure- l* rtii&io-  lio,pienc d’antichi inftrumenti di religione, come d’vn  cappello,d’vn lituo, d’vn prcfcriculo, d’vn fimpulo,d’vn  coIccllo,chiamatoiVr^//vr,di taze & validi molte fort£  dequah (come cofa aliai nota) non bilognagià fare più  lunga mcntione.     j -     GIV.       ANTONINO PIO. M. AVRELIO.     argento. Argento.      PtlUdioii Da l’atto pio di religione, venendo à quello che fi  Tnia. debbe vfareinuerfo i padri, noi ne faremo qui fede per   lemcdaghe di M.Herennio, che portò fuo padre Tulle  fpalle,& per quelle di Cefare,doue fi vede Enea, che fi-  milmente portò Anchife nel medcfimo modo, portan-  doin manpil Palladio di Troiarondc Vergiliolcrifle,  ^At t>w ^ÀeneAs.     M. HE-     DE GL'ANTICHI ROMANI.     12.7     M. HERENNIO. GIVLIO CESARE.   ARGENTO. ARGENTO.       Quello medefimo ateo pio pare che habbia concefi.   Co la Natura infino à gl’animali bruti, onde veggiamo  che la Cicogna fofticne & nutrifee il padre & la madre vitti di u  nella loro vecchiezza: Cofa da farebene arroflìre , & c,f0 £' w *  vergognare gl’ingrati, che rendono male per bene ài  loro benefattori:& da fare adirare infino à Dio, al quale  temendo anchora di non difpiacere i Romani, fi vede vieti di  che fumo amorcuoli & grati fimilmente ne i proprij fi- «<« » nfa  gliuoli,& maflìme Antonino Pio,nel rouefeio d’vna  medaglia, nel quale fi vede la Pietà con due figliuoli in  braccio, & due altri ài piedi:Et nelle medagliedi Domi-  na, & di Sabina moglie di Traiano fi vede anchora la  Pietà figurata in diuerfe maniere.   Anton.     i ~     ‘ AV  -     ÌJÌ3K     fcl & *     l»,° ì'r*          iz* DELLA RELIGIONE     ANTON. PIO. M. AVRELIO.   BRONZO.     DOMITI A.   ARGENTO. ARGENTO.     S A BINA.      bronzo.             ' .Tv   DE G’LANTICHI ROMANI. izp   Per le medaglie battute di Titofigliuolo di Vefpafia -  no, fi vede la Pietà che mette inficine d’accordo i duo  fratelli Dominano & Tito, dandoli la mano l’vno ali ai  tro,pcr mofirare l’amore, il quale debbono duo fratelli  portare I’vno all’altro.       TITO.     B R O N 2 0.      ma.     Vlinio.   CLE-   MENZA.     Era il tempio della Dea Pietà in Roma, fatto da At- t mpio di  tilio fulla piaza,douc era fiata la cala di quella figliuo- ********  la, che haueua già dato la poppa à Tuo padre in prigio-  nc,conIafua fiatuachcriprcfenraua latto piccolo vlà-  to da lei, & col quale(comcdice Plinio) non fi può fare  comparatione alcuna.Et perche dalla pietà nafee lami*.  fericordia& la clcméza,hò giudicato. non fuora di prò-  poficoaccópagnarecon qucfti eflcmpli la cella di Giu-  lio Celare(comc quello ched’humanicà&di clemenza  pafiò tuttii Principi del mondo) ftampatain vna meda-  glia di Tiberio , aggiugnendoci vna Temenza antica  degna d’efierclcritta con lettere d’oro, fi come era in vn BcUifiima  marmo, che diccua ,nihil est qvod magis ftntmùu   I     1     130     DELLA RELIGIONE     DECI AT PRINCIPEM QVAM LIBERALITAS ET   ole menti a. Etnei vero,non è cofa nel mondo piu   E retiofa & piùconueneuoleà vn Principe che la libera-  ta & la mifcricordia.     TIBERIO.   BRONZO.     V I T E L L I O.   ARGENTO.       Da quelli atti pij inuerfo la rcligione,il padre, la ma-  drc,i parenti & la Patria,proccdc poi l’eternità de nomi  di coloro, che fono fiati tali,fi come ci hanno dimoftra-  to i Romani per ifimulacri delle loro vcttoric, perle  fcftc & giuochi fccolari, penanti magnifichi & ricchi  templi &cdifitij, ne i quali faccuono fcolpirc f Eternità  come vna Dea in habito di matrona, con vn’hafta nella  man dritta,& nell’altra vn Corno d'abbondanza, & il  pie manco (opravnglobo.Alcuni altri l’hanno figura-  ta con due teAe in mano, fi come fi vede in vna meda-  aliad'Hadriano,   ° Tito     / #■     D E GL* ANTICHI ROMANI, 131     TITO VESPA. FAVST1NA.      rii. Et Filippo Imperatore riprcfentò l’eternità ne i fuot  giuochi Secolari fopra vno elefante^ quale fignificaua  vna longa & cjuafi eterna vita. I Romani la difpinfero  con duo elefanti, & alcune volte conduolioni cnetira-  uono il cirro de glImperatorc> o Imperatrice eh crano>  fiati deificati.     W     I x      DE LA RELIGIONE 7     LA TER-  RA.     Gl' titubi  ftcnficaut   noi la ter-   T4.         : TJt     GfVLIA PIA. FILIPPO.      E* certo,cofa molco difficile (confìderato il numero  fìgrandedcgli Dij antichi) di potere crollare Je meda-  glie àpropofito di cutrùpurc fermando la mia imprefa,  io m ingegnerò di ripreientarci tutte quelle, nelle quali  furono figurati gli Dij.ò Dee à modo loro, che portor-  noqunlche vrilcalIJuimana natura, come la terra, alla  qualcfc ono vn tempio, & in luogo che a' glabri Dcifà-  crificauono con l’inccnfo J & altri buoni odori, à quella   face              DE GL ANTICHI ROM ANI. 133  fàceuono fàcrificio de femi, eccetto che delle faue, & al-  tre colè aromatiche : là onde per la medaglia che fece  ftamjxtrcCómodo in honorc della tcrra,fi vede che ei la  fece a giacere in terra mezza ignuda , come cola ftabilc  con vn braccioappoggiato (opra vn vafo,dcl quale efee  vna vite,&con Tauro ripofà fopra vn globo celefte, in-  torno al quale fono un. piccole figure che le prefenra- '  no TvnadclTvuc, l’altra delle fpighccon vna corona di  fiori, l altra vn vaio pieno di liquore,*: l’vltimac la Vct-  toriaconvnramodi palma & lettere che dicono, te l-  tvs stabilts, lignificando che tutte quelle cofechc  la tetra produce/onoper lavitadelThuomo.     MEDAGLIONE     CO M MODO.     Perhaucre affai lungamente trattato delle feite Ce- C e r e*  reali nel mio libro dell’Antichità di Roma, io non nc RE *  parlerò qui altrimente, contentandomi folamétc di met  tcrc innanzi il rouefeio della medaglia di C. Mcmmio c nummi»  Edile Curulc, nella quale fi vede Cerere che hà in vna ^naltQt  mano tre fpighe,& nell'altra vn torchio accefo, &il pie rc»u.  manco fopra vna ferpe, con parole che dicono , mem-   I 3 '      *34 DELLA RELIGIONE   MIVS. AEDILI5 C £ R. £ A L I A PR.IMVS F E C I .tJ   Ma per altre medaglie tanto diVoltcio,chedi Panfa, fi  vede femprc Cerere con due torchi nel fuo carro, tirato  da due lerpi.Etin due altre medaglie fi trouacon la ve-  de alzata, con due torchi, & à i piedi la manica di Tara-  ti porto co tro,& nell’ altra ilporco,òla porca, che gli antichi le fo-  enrere. * Ictiono racrificare,pcrchcguada le biade: onde Ouidio  haferitro,   Prima Ceres grauid* gauifaejì fanguine porca, i   Ulra fuas merita cade nocentu opes.   debutiti ^ comc cra p cr mcdh d’ammazare il porco, coli era  fcfo fra li proibito d’immolarei buoi nellàcrificio di Cerere, per-  Roawni. chelauorano Se non guadano i beni della terra, onde  ouidio. Ouidio xiel 1 1 1 1. de Fadi fende anchora,  kA bone fuccintti cultros remouete minijìri:   %os aree, ignauamfacrijì care fuem.  lAptd mgo cern ix non efl ferienda fecuri:   ZJiuaCi&J in dura fape laboret humo. *   «   Ve. ME     MED.     h Óf>ì » »         ùueihi Cerere e la Pace, con ciò  lìache la guerra porga impedimento al lauoratore di  coltiuare&lcminare i campi, eflendo conrtretto di fug-  girli &faluarc dentro ài bofchj.,0 fu per i monti i Tuoi  beftiami. Quello che Umilmente ha bene fcrittoOui-  dio nel u n. deludi Farti, doucei dice,   Pace Cerei Uta \os orate coloni  . ‘Perpetuam pacem,pacifì cum <jue Z)eum.   EtTibullo quel medelìmo nella x.Elegia>   Intere a pax ama coldt,pax candida p)   Z)uxit aratura fub tuga curila boues.   Et poco piu difetto,   ‘Pace bidens fornir yue Vigent-jit trijtta   Stillini in tenebra occupat arma Jìtics.   Quando gl’antichi dipingcuono la Pace col Cadu-  ceo, vi aggiugneuonolcfpighcdigranojil corno d’ab-  bondanza, lignificando che la Pace era quella,chcf ce-  lia multiplicarc il grano & le frutte per la vitadcU'hua-   i ■ , - \ I 4   uloitioJ -     PACE.  L4 guerra  contraria à  Cerere.     Ouùlio» ’i   h t%J*v     Tibullo »     BACCO.   Il buco fi  reificato ,   Bieco.      i3<r DELLA RELIGIONE   mojondc il raedelìmo Tibullo nella x.Elegiaparimen-  tc dille,   ^irnobispax alma y>eni,Jj>icdmejue tenero,   ‘P erfluat pomis candidai ante [mot.     OTTO.     ARGENTO.     VESPASIANO.   ARGENTO.     Et lì come Cerere haueua la corona di ipighe per in-  fegna,& per vittima la T roia,colì al atdrc Libero, altri-  mente detto Bacco, lì ponetiaintcfta Ta corona d’Ellcra,  & il becco à i piedini quale gl era £acrificato,perchc gua-  ita le vignc,ondc Virgilio dille,   Saccho caper omnibus ari*   Caditur.   Et nel rouclcio della medaglia di Molò lì vede vn  faccrdote col Tuo habito innanzi à vn’alrarc riucllito  d’vn fellone, che con vna mano tiene il Jituo,&: con l’al-  tra il lìmpulo con vn becco innanzi,tcnutoda vnmini-  llro per lacrificarlo.Etio tra l’altrc mie cofc ho longua-  menteferbato vna Corniola antica, nella quale c vn Sa-  tiro , che conduce vn becco fuiralrarc,doue e il fuoco  aCccfo per lacrifìcarlo allo Dio Bacco.     Corniola      DE GL* ANTICHI ROMANI. «57  CORNIOLA ANTICA.     f 'Wm.   ir ■   Ma perche   di Bacco in diuerfe manicre,come farebbe à dire, in for- e «to'.  ma d'vn fanciullo che abbraccia vn grappolo d’vue,&  vn'altra volracome vngiouane co vn ramo di Pino, nel  modo che fi potrà vedere nel libro, che io ho comporto  in Latino delle Imagini de gli Dei antichi:però mi e par  fo di ripreientare qui al naturale il piccolo Bacco di  bronzo,chc ioguardo(comc cofa fi ngu la re & arti fitio*   f à)tra le mie ftatuc & medaglie antiche. ■   l'iCLOLO MMOLACRO DI BACCO.     d’antichi lo leuono dipingercilfimulacrò .     Ciltuv. il     V      i 3 8      DELLA RELIGIONE 5  Vogliono gl’ancichiffigurado Bacco in quello modo)  lignificare che vn'huomo troppo fuggetto al vino,diué-  ta limile à vnfanciuIlo,chcnon fa quello clic fifa. Tro-  uomi anchora due Niccoli antichi, i quali riprefentano  quello Bacco ignudo con vnbaftoncin manometto da  i Latini Tyrfo,& nell'altra vn grappolo d’vuc,& intorno  kMcIto' a ^ r,lcc *° vni P e ^ c di Tigre, animale particularmentc  Bièco. 0 4 confacraro à Bacco.Et quanto alle Baccanti , ò Bacchi-  dc,o Mimalonidcschc cclcbrauono la fella di Bacco, io  ^ ne metterò qui fotto l’eflcmpio d’vna medaglia Greca,   & M , chegiàmi donò M.Giulio di Calcftan da Parma ,gran-  - • • diflimo amatore delle cole antiche idoue da vn laro c  Bacco incoronato d HeIIera,& lettere Greche, chedico-  nó avì un, cioè libcro,& dall’altro fono le Baccanti,chc  ballano, facendo vn prclcntc à Dionifio (chccofi ancho  ra era chiamato Bacco)con vn fuoco, in fegno di facrifì-  cio , & lettere che dicono aiowvio acpds. che vuol  dire, Donod Dionifio.   • ••••’. .• • » i ,* * *" ,   NICCOLI ANTICHI.     Medaglia     DE GL’ANTICHI ROMANI. m  MEDAGLIA GRECA.     ARGENTO.      Et per glabri due medaglioni di Bacco porti qui di  fiotto, dequali vno e di Nerone, & l’alerò d’Antonino  Pio, fi vedrano lefefte Baccanali, &vn Bacco nel Tuo car buccmmIì.  rotiraroda d ue Pantere (animali dedicati à lui) accom-  pagnato de Tuoi Satiri con tutto il Tuo mifterio : & qual-  che volta per due tigri, comcdice Propcrtio , parlando  d'Ariadna rapita da Bacco,   Lynciius in c*lnm \c&d \ArUdna. tu'u.   Et per le medaglie di Filippo &di Gallieno fi vede  anchora il tigre, il qual ripreienta Bacco, con lettere che   dicono , LI BERO PATRI CONSERVATORI A VQV-   - sti, rimettendo il lettorcal mio primo libro dell’An.- '■ 1  tichità di Roma,doucpiù lungamente io hòdifeorfo di a J   querti Baccanali. , » .   V , ME ' - 1   . ’» -UXjdij'V j-ci'id t   ~ ■ . r.< u OtX-.èi^'ì tipi - • é a   *•,. . ■; ‘.n ;h»>» -vr fc?o<t   4 - k     140     V     km     LIBERA-   LITÀ.   XAuitdeU   Oberatiti.      FILIPPO     DELLA RELIGIONE  MEDAGLIONI.   NERO. ANTONINO PIO.     Si come daCcrerc]& Bacco nalce l’abbondanza d’o-  gni cofa,cofi dall’abbondanza dipende la liberalità, Dea  delidcrata & cara acuito il mondo , la quale tira à le il  cuore dcH'huomo.comc la Calamita il ferro, tanto che  lìnoà quelli che habitano nelle eftreme parti del mon-  do per la loro liberalità ne vengono lodati, anchora che  non lì fpcri cofa alcunadaloro:!! come vituperati &in  poca Rima fono quelli , che fono tutti lepolti nella loro     GALLIENO.   BRONZO     141     DE GL’ ANTICHI ROMANI.   auaritia.Là onde fé noi porremo ben mente allo fplcn- Liberalità  dorè della liberalitàdi Celare, d’Augulto, di Tito,di Vef  pafiano,di Traiano,&d’Alcflandro di Mammca,trouer  rcmoch’ei dura infino a hoggi, ne hard forza il tepo che  fi fponga mai : della quale cola fé alcuno dubicalfc, va-  da à leggere Tranquillo, & vedrà come Auguftohauc- sartorio  ua per vfanzadi diltribuirc fpefl'o al popufo Romano  vnagrandiffimafommadidan«iri,dai Latini chiamata  Congiarium , da Tofeanila mancia, & dai Franccfi larghe  zarlc quali quando fi dauonoà i foldati, fi chiamauono  Donatiuojcomc fi vede in più luoghi nel libro di Taci  to,douc parlando di Cefarcgiouanedice,0»^/Wr///»7^.  pulo,Z)onariuHm mtlitibus iedit.'Hc mai mancòquefio li-  beralifiimo Principe nel Tuo Imperio, che palio cin-  quanta anni, di donare quella mancia, dilhibuendot.il  volta xxx. piccoli feftcrtij per huomo , altre volte x l.   & altre volte, e CL.comediceSuetonio , tantoché non  crafanciullo(purccheci pallafic xi i. anni) che non ha-  ueffe qualche colarla quale vlanza fu conferuata da tut-  ti glabri Imperatori buoni &cattiui,chc voleuonoha-  licre lagratia del populo Romano ,come fi inoltrano  le Medaglie di Commodo, di Ncronc.di Tito, di Traia-  no, d’Hadriano,d’ Antonino Pio,di M. Aurelio, &: dimoi  ti altri, i quali tutti farebbono tropo lunghi à raccon-     Congiario .     Liberalità  di Augufto  Ce fare.     tare.     TI     IV     t/i        liberatiti  di il. Aure  Ito .   Pittiti* de  U Liberati  ti.     TITO. TRAIANO.     BRONZO. RRONZO.      La maggioredillributioncnon Ci faccua croppafpcf-  fò,mala minore fi benc,comchà {cricco Succoniordalla  quale liberalità cofi vfacainuerfoilpopolo,nafceua che  Ipefio finoà i cacciui Imperacori erano màtenuti in ilia-  co &difefi da lui,& da foldaci nella pacc,& doppo hauc  rcccrminaca qualche pericolofa & difficileimprefa, nel  quale ccmpoquafiordinariamcnccdauono quello con-  ciario, & faceuono quello donaciuo. Onde era le mie  medaglie io in ho vna di M. Aurclio,doucfi vede che egli  baucua vlaca quella liberalità già fecce voice, figurando  nelrouefcio di detea medaglia la Liberalicà,vellita d vna  velia funga,. come falere Dee > con lettere che dicono,  liberalitas avgvsti s epti m a. nel modo che  anchora fi vede nelle medaglie di Gordiano minore, &  Tacito Imperatore con altre limili parole, cioè, li b e-   RALITAS AVGVSTI T ERTI A ET QVARTA, CÌÒ   che anchora fccionoin vna altra maniera Filippo il pa-  dre & figliuolo, come fi vede per le lor medaglie pólle  qui appreflo.     M.Au     DE GL’ANTIC HI ROMANI.      *43   M. AVRELIO. GORDIANO.   BRONZO. BRONZO.     tt nella medaglia a Adriano &: d’ Alcflandro Seuero Liberatiti  fi veggono ìin.figurc, onde la maggiore è quella dell’- dl 0 Had J]ff  Im pcratoreà federe fopravna Tedia, con vnruotolodi [miro. *  carta in vnamano,& con l'altra moftra di donare qual-  che cofaà vno,chc fi prefenta innanzi àlui:la qualità &   Comma della quale,parc che fia figurata per i punti, che  fi veggono notati nel rialto doue ci tiene i piedi,! quali fa  cilmente potrebbono cflère il numero de feftcrtij:& l’al-     tro     FILIPPO PADRE. FILIP. FIGLIVOLO.      i44 DELLA RELIGIONE  trochemoftradilalire, e colui che riceuc il donatiuo  conlimaginc ritta della Liberalità da vn lato, che tiene  vn Dado in mano con limili parole, liberalità*   a ve v s t i ;     \     Dentizio-  ne di nobili  tì.     HADRI ANO.   BRONZO.     ALESS. SEVERO.   BRONZO.      Ugge de  Macedoni/-   Ugge delle  Amazzoni,  crdrglt Sey  ti.     Il Dado, portato dalla Liberalità, è tanto conofciu-  to,che io non ne parlerò piu oltrc,dcliderofo di moftra-  re che la liberalità nafee da nobilità di cuore: la quale co  là fola ha cauGito che i nobili virtuofi fono (lati hono-  rati comegiufo, onde c vfcitalapoflanza reale,& tutti  gli altri principati, che mediante la Giu fona & l’Equità  hanno mantenuti i loro fuggetti 3 6r quelli difelì dai loro  nimici.Di qui nafee che tutti coloro , che afpirano alla  lode & alia gloria, li danno volentieri all'eflcrcitio della  guerra, per eflèrc tanto priuilegiati:ondeiMacedonijfo  leuono condannare colui àportarcvna corda in luogo  di cinturaci quale no hauefle fatto qualchccola hono-  rcuolc alla guerra. Alle Amazzoni non era permclTo  maritarli , fe prima non haueuono fuperato vn loro   nimico.     DE GL* ANTICHI ROMANI. i 45  nimico. EttragliScyti non era lecito a perfona toccare  la tazza òvafovfato nei facrificij, che non hauc/Tc alla  guerra meritato qualche honorc. Di tutte quelle cofc  fanno fedele hiftorieRomanc,douefi leggono le qua-  lità de premi) che fi dauonoà coloniche haueuono fat-  toqualchc fcruitio alla Rcpubl.come erano le corone c " 0 "'  ciuichc,Ie trionfali,Ic murali, & le nauali,infieme con ti- KomLi.  toli,cpiteti Sellarne, che fàccuono fede della virtù loro:  onde non c da marauigliarfi,fe Roma venne in coli fat-  ta grandezza, poi che di grado ingrado dTaltaua & ho^  norauai Tuoi foldati, fino alla dignità dell’Imperio,& il  Confido ò Imperatore riftoraua il buon foldaco con ca-  tene d’oro,maniglie, corone, & ricchi fornimenti dica-  ualli,fi come moltra vn’Epitaffio che fi vede in Turino,  inoltratomi già dal Symeonc,il cui tenore è quello,   C. G A V IO L. F.   STEL. SILVANO  PRIMIPILARI LEG. Vili. A VG.   TRIBVNO COHOR. II. VIGILVM  TRI B V NO COH. XIII. VRBAN.   TRIBVNO COH. XII. PRAE TOR.   DONIS DONATO A DIVO CLAVD.   BELLO BRITANNICO  TORQVIBVS ARM1LLIS PHALERIS  CORONA AVREA  PATRONO COLON.   D D   Et fi come dei buoni Temi nalcono anchora i buoni  frutti,cofideglihuominivirtuofinafconoinobili,purc  che fianoeflercitati nelle lettere cneH'armi:lequali qua-  do fono accompagnate infieme, fanno chela no bilità fia   K     Cicerone.  Dichiara-  tione delti  nobiliti.     Tlinio.   Cornelio   Nipote.     Tullio.     luuenale.     Annotile.     i 4 <? DELLA RELIGIONE  perfetta & duri fiempiternamentc.Stimauafi amicameli  te la nobilita che nafceua dalla gcncrofità del fanguc,di-  fcgnata da Cicerone nelle fue Topiche à qucflo modo,  C tntile s fune, qui inter fe todem nomine funr, quia! ingenui s  oriundi funr quorum maiorum nemo feruitutem feruiuit,qui  capire non funr diminuti. La quale definitionc dice Tul-  lio edere nata daSccuolaPontefice,&io l’hò intcrpreca-  ra in quello modo, Nobili fono coloro che ha no vn me •  defimo nome, che nafeono di padri & madri liberi, glan  tichide quali non hanno mai fcruiro,nccambiato di (la  to,conciò fia che la mtitatione faccia perdere la nobili-  ta & la gctilczza , la quale gl'antichi riprefentauono per  leimaginijdaloro portate nelle pompe funeralide loro  maggiori, come recita Plinio nel xx x ix.librodeUHiflo'  ria naturale , Se Cornelio Nipote nel libro de gli Huomi  ni illuflri.il quale parlando di Portio Catone òìcc, Ima-  go buius funeri* grati* producifolet. Della quale oppenione  canchora M.Tullio, Se gl’antichi chiamorno tali ima-  gi ni Stemmata, come fi vede in lu uenale, quando beffan  doli di tale nobilita fienza l’operc nobili, dice.   Stemmata quid ' fucilanti quid prodejl Pontice longo  Sanguine cenferifè) pt&os o fendere vultas  Jrfaiorum?& fante s in curri! us ^AemilUnosI  Ariflotilc nondimeno nclv.libro della Politica dicc,che  nobili fono coloro, i preccfTori de quali fono flati, ò ric-  chi,ò virtuofi:effcndolc ricchezze neceffarie per foccor  rere la Rcpnblica,&vfiarelalibcra!ità, la quale fenza la  ricchezza non può flare.Etfc qualcuno domadafleche  differenza c tra la nobilita d’AriflotileSr di Sceuola, tifi-  pondo, che Ariflótile domanda la ricchezza, &Sceu ola     non:     DE GL’ ANTICHI ROMANI. 147   nonrattclochc la nobilita può viucrccon la pouertà:  benché col tempo poi(volendofì palcerc di quello fumo  di direche fono nobili) fi muoiam di fame : onde nafee  che gli antichi faui hanno Icritto che la vera nobilita  condite nella virtù,comc quella, alla quale non può mai  mancarc:& quello è quello di che ragiona luucnale, di-  cendo:   Tota licet Veteres exornent indizile cera  tria:nohiliras fola efyOtque Vmca v ireos.   Conciò lìachcl’huomovitiofocheprcdicalafua nobi-  lita, mediante i fattidefuoi antccclTori,condannafeme-  delìmo,non fendo egli virtuofo,& lì può dire di lui quel  locherifpofe Anacarfeà vn’altro che lo chiamaua bar- Rìjpofta  baro,& nato nella Scytia,chc fu tale, la mia patria ****&&   COME BARBARA MI ARRECCA QVALCHE 1 N-  f AMIA, MA TV FAI D 1 S H O N OR E ALEA T V A   che e' tanto nobile et c e nti l e. Circa  che bifogna conchiudere che la vera nobilita c quella, g*  che procede dalla virtù propria, nel modo cheproua  Boetionelm. libro di Confolatione,doucei dice,^?#^   Jì quid ejl in nobilitate bonumjd arhitror effe folum,vr impo-  rta noi? dii us necefuudo vide a tur, ne a maiorum V ir tute dege-  nerent. il quale propofito feguita dicendo,   TJmu enim rerum pater ejl,   XJnus cuntta mmiBrat-.   J Ile dedir Tinello radiati  Dediti cornua Luna:   1 He h ornine s & ferri*     Omne liumanumgenus m terris  Similifurgit ah or tu.      K i     i 4 » DELLA RELIGIONE i   Dedit fè) fiderà Calo:   Hic claufit membri! animo s  Celfafedepetitos.   Mortale! igitur cunBos  Edit nobile germen.   Quid gentts féj proauos Jlrepifù ?   Si primordia 'vejlra  ^yiutorénujue Deum fieftes,   Nullus degener exrat ,   Ni 'finn peiora fouens  ‘Propriumdeferat ortum.   Parmi d’aucrtirc qui il lettore della differenza eh ed  tra nobile & generoforcon ciò fia che A riftotilc nel prin-  cipio dell’Hiltoria degli animali,fcriue che nobile è quel  ladifftren lo che c nato di buona razza, & colui gencrofo che non  ** traligna dalla fua razzala buona , ò cattiua , allegando   fccrii gt l'eflcmpiodcl lupo& dcllione. Il lupo (dice egli) farà  ne ^[ 0 '. chiamato generofo, ma ignobile.Gcnerofo, perche non   deihpò ©• digcncra dalla fua cattiua razza:& ignobile perche egli e  ieliiooe. nato di cattiuo feme.Ma il Itone lì può dire nobile & gc-  nerofo inficme.Nobilc,perchcè vfeito di buonfeme, &  gencrofo, perche non digcncra dal fuo femeronde nafee  che fi comclc virtù dell’animo meritano d’eflcrc lodate  con parole, l’opere virtuofe richieggono d’cficrc hono-  ratecon i fatti.Cocludédo chcegli è impoffibile che vn  principe, fia gràde quato vuole, poffa nobilitare vn’huo-  mo che vuole edere villano : laqualc nobilita ci ha aliai  bene dichiarata in vna fua medaglia Antonino Gcta,  figliuolo di Seuerojhaucndo fatta dipingere la nobilita  inhabitod’vnaDonnada benc,conlofcetrro nella ma-  no di     DI GL* A NT! C HI KÓMÀtfl. i 4 >       nodirirra.&nellamanca il fimulacro di Mincrua , per  inoltrare chelarmc& lelcccerefonoduccofe ccccllcn-  'ti/dallcquali debbe Tempre eflcrc l'huomo nobile ac-  compagnato.     GETA     O     natura tegli huo.miiu e la no - genio»  pinta conieruata&.crc(ciuta, però non fàràimpertintn-  tetrattarc anchqra qualche colà dello Dio di Natura, G°iró d io  chiamato dagl antichi Genio, & il quale ftimaronopa-  dredegli huomini,& figliuolo diDiorpenfandoncllalo  ro rèligiòncehc ciafcuno haueffe particolarmente vn ge  nÌGk& vno intelletto diuerfo Se propriojcomc lì vede per  la medaglia di Nerone, nella quale òlcritto, genio a v-  cvsTijin quelle d’AntoninoPio, genio senatvs,  in quelle di Collantino, genio pop vii rom ani^   in quelledi Claudio, genio exerci t v vMrfigù- ^ ^ ^  randolo mezzo vcllito& mezzo ignudo, con vno altare ^io.  innanzi A: yiì fuocojvna tazza nella manodiritta, & nel- ,• - ;; » j  l’altra vn Corno d’abbondanza, nel modo che Thà dipia . .  to A m rhi ano Marcelli no nel xxv. libro che egli ha fatta  'di Giuliano Imperatore..   " K *     •n      ANT. PIO,   BRONZO.     NERONE   BRONZO.     COSTANTINO     CLAVDIO        Scriuc Ccnforinoncl libro da lui fatto De die nau-  tiche (ubico che noi nasciamo, noi fiamo accompagnati  da vngcnio,chcciconducc,guarda & non mai ci abbati  donna. Altri hanno detto, & maflìme Fiacco nel lib.chc  lares. cilafeiò à Ccfarc de lniigitdmtntìi>che Lare & Genio era  b KtUde. no vnamedefima cofa.Et Euclide vuole che ogni huo-  mohabbia due Lari, cioè l’vn buono & l’altro catriuo,   chia       DE G L’ ANTICHI ROMANI,  chiamado il buono Larc,&: il cattiuo Lemure, come noi  hoggi anchora diciamo buono Angelo & cattiuo;à pro-   { jofito dei quali Icriuc Plutarcbo nella vita di Bruto } chc  a notte mentre che ci penfaua con vna lucerna accerti  alle facccdc della guerra jgl’apjjarfc vno fpirito in for-  ma d’vna perfona tragica, & più grado che il naturateci  quale fubito domandò Bruto (comehuomo intrepido  che egli era)chi egli folle , ò quello che ci cercaflc , & che  quello rilpofc,Io folio il tuocattiuo Genio, il quale tu ve  drai à Filippo:di che non punto fpauctatoBrutogli dif-  fe,Adunqucti vcdròioinquelluogoul che auennepot  innanzi eh’ eimoriflc:& di quella mcdelima oppcnione  fono flati & fonoi noftriTcologi, cioè che noi flamo  Tempre accompagnati (cornee detto) da vno Angelo  buono, che ci guida al bcne,& da vn cattiuo, che ci mena  al male.Platone parlando di Socrate loleuadire,chein  lui era vno fpirito, ò Genio particularc & diucrlo da  glaltri-Nel tempo de Romani non era lccito(comelcri  uc il Iurifconfulto fotto il titolo T)e \ erborarti oUigationi-  bus) di giurare per i Lari, ne per il Genio del Principe, ri-  putando qucfto giuramento grandiflìmo, però chefàcc-  dolo& fapendofl, erano puniti graueméte, laonde rom  peuonograntichi più torto il giuramento fitto fotto il  nome d’ogni loro Iddio, che Torto il Genio del Principe  lorojlìcomehàmoftro Tertulliano nella Apologia da  lui fatta contro à i Gentili, &Ouidio parlando della cu-  ra che hanno di noi i noftri Genij,quando ci dice:   Et vigiUntnoJìnt frmper in \rbt Ldres.   Da quelli Lari fuchiamato Larario quel luogo à par-  te &fcgreto nelle cafe,doue gl’antichi adorauonoiloro   K 4     >5*   Lare c r  L( mure-   Buoni c r  canini fal-  liti.   Genio appi  rato 4 Bru-  to.     P Ul*     Difefo di  giurar per  il genio de  t'imperato,  re trai Ro-  mani.     Tertullia-   no.   Gnidio,      f$i DELLA' RELIGIÓNE   / ,   Xf tjfmdro Dij domcftici & particulari,il che hà confermato Spar-  baHfMin tiano, quando nella vita d’AlelIandro figliuolo di Mam-  fui Urtino mea, dice che egli haucua nel luo Larario l’imagine di  GUfuchrf- Giefu Chrifto con quelle d’altri Dij.Ne è molto tempo  fio. che in Lione fui monte della croce di Colle fu trouara   vna Lucerna ant cadi bronzo che mi fu donata , nella  quale erano fcrittc coli fatte pa rolc, l a ri b v s sacrvm . 1  con altre più baflc,^ più piccole, che lignificandola pu  blica felicità de Romani, dicono, p ve lic /e telici*  tati ro m a n or v M,nel modo che lì vede qui di fottoi   ' ~LV CE jTiTJl JL KT1 '   di H ronzo , trovata in Lione Canno      LARI B V S   SACRVM  P. F. ROMAN.     Stima       DE GL" ANTICHI ROMANI. 5 r 153   Stimarono gl’antichichei Lari follerò figliuoli della iUri pgiil  Luna & di Mercurio, come fi vedeindiuerfi Autori , la «oli di uh  quale oppenione mi porge materia di parlare di Mer-  curio lecondo la Teologia de gl’antichi , che volcuonò mercv-  che la ftella di quello Pianeta facelle gli huomini elo- R 1 °*  ìquenti &grAmbalciatori,maflìmamente quando egl( stella dì  èra congiunto col Sole & con Gioue,comeper contra-  rio volcuonoche ci folle dannofo cficndo accompagna  to da Martc,ò da Saturno Et lacaufa perdici Poeti nan  ilo attribuito à Mercurio Ambalciator de gli Dei il ca-  duceo, il cappello chiamato Galero da Latini, & laiicaf  capo & ài piedi, è, pcrchevolcuono lignificar, che fico-  me vn’vcccllo vola leggiermcntepcr l’aria, coli la paro-  Jafàcilmcnte efee della bocca d’vn’huomo eloquente.   I Greci lo chiamornoe PMH2,cioé interprete , ò Tur- uermet.  cimanno,&Dio della Mercatura, perche le parole fo-  no quelle che fono mezzane d fare comperare, ò vende- menadi»-  revnacofa. *'•   a 7 r ~~"   N T O.     154 DELLA RELIGIONE  coprilo di Plauto nondimcmo & glabri Icmtori più antichi  Mercurio hanno chiamato il cappello Pccafo, come fi vede perle  ntafo. Icntture di piu marmi antichi che dicono, cvm m e r-   cvrio petasato, volendo lignificare cheli co-  me il cappello cuoprclatcfta,cofi le parole fcruono per  coprirli & giuflificarlì contro alle falfc calunnie degli  huomini maligni & inuidiolì. Altri hanno detto, che  quello cappello lignificauache vn buono Ambafciado-  redoueua goucrnarli nelle fuc faccédc fegrctamente:&  il Caduceo che Mercurio ha in mano,Ia pace che il piu  delle volte lì tratta per mezzo d hu omini eloquenti, co-  me lì vede in diuerle medaglie de glantichi.   V E S P A S l A N O. FOSTVMO.     ARGENTO. BRONZO.      • i - - - , ,   ylìnio Della lignificatione delle dueferpi intornoai Cadu-   ceo ha Icritto Plinioallài diftefamentc,& però io (come  cofa fu peritinola) rimetterò il lettore à quella lezione:   . . & pcrfaperncla fauoIa,àHiginio, il qualenel Tuo libro   t adirò in Agronomico ha fatto il medelìmo, confermando che  f'gnadip*- J Caduceo fu concedo à Mercurio in légno della pace:  ~ ‘ " " la     DE G’LANTICHI ROMANI. i 5f   la quale volendo dipingere gl’imperatori nelle loro  monete,&moArarecncei n’erano flati autori,faceuono  battere nelle monete la Dea di Felicità, con vn Caduceo peuci-  invnamano,&neira!travncornod’abbondanza,figni- T A -  ficandochc nella pace publica non fi (ènte careflia.   G A L B A. " TITO.   BRONZO. BRON ZO.      Ne i Comenrari j di Celare fi troua fcritto che i Fran-  ccfi adorornoMercurio/rome inucncore di tutte Farti,  & guida de camini , (limando che egli hauefle gran pof-  fanza per fare ricchi i mercanti, ciò chcconferma Plinio  nclxxxnii. libro dellHiftoria naturale, parlando de  coloflì&ftatue antiche, & doueei dice, che Scnodoro  haueuanel Tuo tempo Superato in grandezza di fiatue  tutti glabri fculcori,haucndo inx.anni fatto in Auuer-  nia quella di Mercurio d'altezza di c c c c. piedi.Solc  uonooltreàqucflograntichi attribuire il galloà Mcrcù  rio,figni beando che i mercanti debbono edere vigilati  ti&folliciti lamattinaàbuon’hora, volendo arricchire  &farc bene le faccende loro. Tra le mie pietre antiche,   io ho     Mercurio  dorato da  franctjì.   Plinio.     Scnodoro  fcultor ec-  ctUauifii.  mo.   Statua di  Mercurio  fatta in  AuMernia.        ij<r DLL A' REELIGIONE   io Ho vn Niccolo &dùe Corniole, ncllequalrfono le fi-  gure di Mercurio. Nel Niccolo fi vede con vna boria  in mano,& nell’altra il caduceo. Et nella Corniolaàfc-  dcre fopravn granchio marino: con il caduceo in vna  mano, & con l’altra tiene l'vno de piedi del granchio;  col cappello in tefta.Per Mercurio c fignificata la paro  Ja,& per il granchio, che i mercanti non fi debbono af-  frettare nelle parole, ne (penderci loro danari fenzacon  fidcratione.        I fi     s /   * < /.r       V     DE GL’ANTICHI ROMANI. i > 7  Sono (lati alcuni altroché hanno detto che l’eloquen  zà fu attribuita à Mcrcurio,pcrelfere (lato ii primo che  haueua ordinate & meflè le parole inficine per ifprime-  fei concetti della mente, deformare vna bella oratione,  ncceflaria à gl'Auocati & Procuratori , & pero dille Vi-  truuiocheil fuo tempio lì doueua edificare preflò alle  piazze.   Grande fu certamente la curiofità & fupcrlìitionc de  gl’antichijvolendoche Gioue finalmente fignificaflè il  ciclo, &Giunone l’aria, per cflerecofi vicino l’vnoallal-  tro:Nettuno il mare:&Plutonela terra, 8c che la mo-  gi ie di Netruno folle Salaria, & quella di Plutone Profcr-   1 >ina,fi come Giunone di Gioue, alla quale attribuirno  a cura delle Donne grollèjinuocandola in quel tempo  cheell’crano vicine à partorire , & poi che il figliuolo  era nato (come Diodoro afferma) lalciandone la cura à  Dinna,ncl modo che fi può vedere per l'hynno fatto da  Callimaco in honore della Dea. Et quando le Donne  Romane che non potcuonoingrauidare,voleuono ha-  uere figliuoli,cllc andauono al tempiodi Giunone,chia  mata Luci na,douc llaua vn facerdotc detto Lupcrcalc,  che fattole fpogliare tutte ignude & dillcndcre in terra,  le pcrcoteuacon vna sferza fitta di cuoio di becco,co-  me fi vede per le medaglie di Lucilla : ne i rouefei delle  quali fi vede Giunone à federe in habito didonna ve-  douacol fuo lecttroinmano comeRcina,& nellaltra  vna sferza & lettere che dicono ,ivnoni lvcinae.   Lucilla     Menurio  Dio d’rio '  quenza.     Vitruuio.     GIVNO-   NE.   Giunone * -  iutrice de  le dine gr 4  uide.   Diuotione  de le donne  Romane 4  Giunone  Lucina»     *J«     DELLA RELIGIONE  L VC I L L A~   BRONZO. BRONZO.        cerimonie Quando quelli facerdoti Lupercali corrcuono per  dt faccrdo- mezzo le llradc, erano tutti ignudi,eccctto le parti vcr-  t« Lupcrca- g 0 g no f ejC h c erano coperte di pelli di beccbi,llati faenfi  cati fu l'altare di Giunonc.Et delle coreggie che haueua-   no        Era pure grande quella luperllitionc chele Donne  Romane pcnlalTino (clTcndo coli battute da ifacerdoti  di Giunone) d’hauereàingrauidare,&chc la felicità piu  grande era di hauer molti figliuoli, come fi vede perle  infraferittte Medaglie.   FA V S T I N A. GIVLIA M A MME A.   ARfitNTO. BRONZO.          I •        DE GL’ ANTICHI ROMANI. 155  no in manoandauono pcrcotcdo le mani delle Donne  che le norgeuono loro per ingrauidarc. Era qucfto  luogo chiamato Lupcrcale nel palagio di Roma, & de-  dicato allo Dio Lupino, chiamato altrimenti daiRo-  maniPan Lyceo.Pcròchequiui haucuono già- poppa-  tala lupa Romolo & Remo, come moftrano le piccole  imagini Fatte di bronzo, che hoggi anchora fi veggono  in Campidoglio , & le molte medaglie di Confoli &  d’imperatori.   ME DAGL ÌE Di'     D io lupino  ò nero, Pan  Lyceo.     MEDA. DI SESTO P      lOmI           l(Zo     DE LA RELIGI ONE     DOMITI ANO.     HADRI ANO.      Fu Romolo di poi la Tua morte conlagrato & meflo  nel numero de gli Dei, come fi vede perle medaglie  d’Anconino Pio, nelle quali è Romolo veftito come vn  Marte,che tiene da vna mano vn’hafta & dall’altra vn  trofeo fullcfpallc con quelle parole , romvlo avg.   ANTO N I N G~P To.     BRONZO.     BRONZO.      La lini plici ta degl’antichi fu tale, che non badando  roma. j oro j iaue r C deificato Romolo, fcciono anchoradiuerfi  templi à Roma, & la chiamorno Dea, dipingendola vna  r volta     DE GL’ANTIC HI ROMANI, k;i  volta vcttoriofa con vna hafta in vna mano,& nell altra  vna vcttoria che l’incoronaua di lauro , & altra volta  con vn globo, in fegno della Monarchia,& limili paro -  le* r o m ae AE T E R N AE.     NERONE.   ARGENTO.     FILIPPO.   ARGENTO.      Roma eter  no.     Et nelle medaglie di Malfientiofitrouano Umilmen-  te più templi dedicati i Roma eterna, la quale i lèdere  fopra certe infegne militari,&convn morrione in tcfla,  hi in vna mano lo ficctcro,& nell’altra vn globo, che ella  prefenta all’Imperatore coronato d’alloro, lignificando  che egli era conferuatore del Mondo, come fi vede per ni ff entio  vna Prouincia foggiogata che ei tiene fiotto i piedi , il ‘onferu*-  dardoche egli hi in vna mano,& dell’altra piglia ilglo  bordino con la fiua corazza & mantello militare , &  lettere intorno che dicono , conservatori vrbis   AE T E R N AE.       \C l     MA SSENTIO.   BRONZO. BRON ZO.     Vcfpafiano fimilmcntcfccc (lampare nelle Tue meda  SdTRoM gta Roma con vn celatone incapo, la veflecinta, mez-  nrOr meda- za ignuda, lo feettro in mano, gli (liualetti in piedi , col  glie di ve- Teuero prediche havn giunco in manovella appog-  frajìin 0 . gj ata ( a f cttc co ijj ? lettere che dicono , Roma.Ec  nelle medaglie d’Hadrianofi vcdeconvn ramo d'allo-  ro nella mano manca,& nell altra vna Vetcoria con vn  globo fotto i piedi.   VESPA’   i.           ICHI ROMANI. iti     M. AVRELIO.   BRONZO.     Mentre che io fcriucuo quelle cofc,mi fu donata vna KmJi. 4  medaglia di bronzo, nella qualeda vn Iato è la teftadel  Sole,& dall’altro vna Luna convn globo, & due (Ielle  r opra,con lettere fottoche dicono, Roma, lignifican-  te le vectorie & fatti de Romani rifplcndeuono , co-  ll Sole per tutto il mondo, &erano (àliti (ino al cielo.     ITALIA.     1*4 DELLA RELIGIONE  MEDAGLIA DI ROMA?   BRONZO.      Non ballando à i Romani haucrc figurata Roma in  tanti modijfcciono quel limile d’Italia, coronàdola co-  me Reina del mondo à federe fopra vn globo (Iellato, &  mezza ignuda con vnofcettro&vn corno d’abbódan-  za,in fegno della fertilità del paefe d’Italia, come fi vede  nelle medaglie d’Antonino Pio.   ANTONINO PIO.   B R O N Z O. BRONZO.      Volendo à pieno narrare le Iodi di queda Prouincia,  noi ci diuertiremo troppo dal nodro intento principale:   Pur      D E GUANTI CHI ROMANI. i<r 5  Pur nondimeno non lafciercmo di recitare qui quei  yerfi che il Petrarca , tornando di Proucnzain Italia, Pt(Wrt ,  cantò arriuato falla cima del Mon Gencua,in quello  modo,     Saluecard T)eo tellnsfdnBifimd ftlue,   Teìlus tuta honis } teUus metuenddfuperbis »   Tellus nobilibus multum genero f or oris .   Ne manco voglio lafciare in dietro che Collanti-  no Impciatorc fece battere medaglie di bronzo in Ro-  ma,nelle quali da vn lato è la lupa che lecca Romolo  & Remo mentre ch’ci la poppanoj&rdall’altro la Tua te-  tta. Et in Collantinopoli Umilmente dipoi fece batte-  re monete d’argento & d’oro con la Tua tetta , & lettere  che dicono, constantinopolis, lì come in quel  Jc di Roma haueua metto, vr b s koma.     Ver fi iti  Vttrarcd in  lode i'itn-  IU.      COSTANTINO.     BRONZO. ARGENTO.      ScriueStrabone(parlado d’Italia) che in quettaPro-  uincia fitroua il temperamento dell'aria migliore che  in altro luogorl’abbondanza delle fontane & de bagni ft «*  falubri,per Jacommodità&fanità dell'huomo, i frutti  i L 3     1 66     DELLA     REELIGI     ONE     buonijc mine-di cuttii metalli, & marmi di diucrfi co-  ìtJid gU lori, onde non fcnza ragione, è ella Hata Regina del  rtgin* del mondo , producendo tutte le cofc neceflarie alla vita  mondo. humana:huomini eccellenti ncllarmc, & nelle lettere,  nella pittura, (cultura, architettura, & in tutte lecofe più  rare&fingulari,lc quali con molti libri farebbono an-  chorain piede, fe la maladctta & barbara natione de  Gotti, non l’haueflc tante volte corla & moleftata.Ma  perche di fopranoici trouiamo hauere aliai ragionato  vetto- delle Vcttorieicolpitc per tante medaglie, non faràfuo-  radi proposto (feguitando il fubietto della noftra ma-  teria) di (criucrecomeanchora quella fu da gli antichi  riputata vergine & Dea, & fattili più templi nella Gre- .  pittura del cia,douc (comefcriucTaufaniaró^tf/Và) ella fu adora-  la vetto- figuratacon l’alie,vna corona d’ Alloro in vna ma-"   no,& nell’altra vna Palma, ’& lotto i piedi vn globo :an-  chora che Domitiano la facelTc dipingere con vnCor-  nocopia,fignificando che dalla Vettoria nafee l’abbon-  danza delle cofc.     DOMITIANO.   BRONZO. BRONZO.       r     i     i        lw        TICHI ROMANI. ic 7   tc perii rouelcio della medaglia d’argento diL.Ho-  ftilioli troua la Vettoria figurata con vn Caduceo in  vna delle maniche lignificala pace di Mercurio, Se ncL-  l’altra vn trofeo delle fpoglie d i ninnici , modrando-chc  la guerra & la Vertoria apportano la pace.     JL. H O S T I L 1 O.   A R G F. N T O.     DOMITIANO.     BRONZO.     Ma Tuo Imperatore la feccfcolpire nelle fue meda- vittore del  glie d’argento con vna palma & corona d’Alloro fenza  'alimonie quellochc no voleua chcella difpartiffc mai  da.ìui: Se co fi la dipinfero gli Atenicfi (come dice Pau-  fania nelle fue Attiche) per quella medefima ragione.  '“VÈSPA SI ANO. ' TITO VESPA - .     -L     #     ics DELLA RELIGIONE      Labaro in l cm,c medaglie doro io n’ho vna d’Auguflo,’   ftSM pria- nel rouefeio della quale e vna Vetcoria Copra vn globo  cipde de & l’alie aperte per volare, con vna corona d’Alloro in  ri«per<- vna mano ^ nell’altra il Labaro, infegna dcll’I mpera-  tore,che i Franzefi Hoggi dicono Cornetta, folita por-  tarli innanzi al Principe, quando in perfona fi trouaua  alla guerra, come inoltrano le lettere che intorno alla,  medaglia dicono, i mperator c     Nella declinatiòne dell’Imperio Romano,commin-'   linoni ciorno di P oi gl’l m P cratori a fare <ii P in 8 ere l’Aquila in  tT quello labaro, come fi vede nel rouefeio della medaglia   di Maflcntiojdouc fi vede armato della corazza, & velie  militare con il Labaro in vna mano,& nell altra vn ra-  mo d’Alloro,le gambe armate , & vna Prouincia , ò ni-  mico folto i piedi, & lettere che dkono, victqru 1   AVGVSTI LIBERATORI ROM ANOIVM. Bctt   che dipoi folle vinto da Collantino Imperatore , in  virtù d’vna Croce , ò figlilo moftrato al detto Co-  , - " llantino     DE GL’ ANTICHI ROMANI. i<r?  {lamino in vifionc , & ancho perche fu aiutato affai i lf'g»optr  da 1 medefimi Romani, & chiamato in Italia, non potè- ^n 0 ^ Un  do più fopportarela tyrannide di coli crudele huomo.  Haucndo coli Coflantino reftituito nella fua dignità  Tlmperio, fi fece Chrifliano , & volle che tutti gl abri cojUntino  adoraffino Chrilto, al quale edificò piuchiefc, & per  l’innanzi portò lemprcin tutte lefucimprcle il Labaro (0 Ui tempii  pcrinfegna,di fcarlatto, & d’oro con quello carattere»  fesche non lignifica altro fe non il nome & la virtù di  christ o, accompagnata da lettere, A. & w .cioè , che sìgnìficatio  il principio & la fine di tutte le cole è Di o, & ancho per- nf<u, “ n  che i Greci feriuendo il nome di Chrillo , cominciano  per X.la prima lettera diqucllo.Onde molti hanno er-  rato intorno à quello, dicedo che tal fegno era vna Cro-  ce d’oro che Collantino haueua fatta lare partendo di  Francia per andare à combattere in Italia con Malfen-  tio. Vfarono poiifucccfiori di Collantino lungo tempo  quella infogna, come fi vede per le monete di Collante»  nelle quali èl lmpcratorc armato col mantello digucr-  ra, vna Vettoriain mano, che lo vuole incoronare d’Al  loro,& in vna altra tiene il labaro col fopradetto fegno  di Collantino , pofando i piedi fulla prua d’vna galea»  il tinjone dcllaquale tiene in mano vna Vettoria, & let -  tcrecbc dicono, f elix temporvm reparatio*   V, ■’ L x     * 7 °     DELLA RELIGIONE     MASSENTIO.   ARGENTO.      COSTANTE.   ARGENTO.      G'udUno Dccentio,Coftanzo,& altri Imperatori di poi infino   àpojìata. £ j tempi di Giuliano A portata vfarono Tempre quella  inlègna&figillodi Coftantino con limili parole, s a lvs   DOM INO RV M NOSTRORVM AVGVSTORVM LVCET,     COSTANZO. DECENTIO.     BRONZO. BRONZO.      s. a mbro- Chetale figillo forte il fegno diChrifto , dimoftra S.   I 10 ' Ambrogio nel v. libro, & nella Epiftola xxix. che egli  fcriuciTeodofioImpcratorc,&Prudétio nei Tuoi verfi  àquerto modo:   Chrijhts     DE GL’ ANTICHI ROMANI. i 7 x   Chrijlus purpureum gemmanti textiu in auro ,   Signabat labarum,clypeorum infignia Chrijlus  £crip[erat,ardebat fummis crux addita crijlis.   Era quello flcndardo fatto di fcta pagonazza chermi  fina con vna frangia d’oro tutto intorno, ornata di pie-  tre pretiofe,nel mezzo del quale era la Croce di Chrifto  fatea di riite uo,& nel mezzo di quella ricamato il fegno  ■di Coftantino,&cofi legata fullacima d’vna lancia do-  rata fi portauain tutte le guerre dinazià fopradetti Im-  peratori, quali nel modo che fanno hoggi gli ftcndardi,  dedicati chià vn Santocchi àvn’altrod’alcu ne religio  iccompagnie. Ma ritornando all’imagini delle noftrc comedipin  Vettorie,dicochegrantichi ladipinferoin formad’An  gclo con l’alic,& bene fpefioà federe fopra le fpogliede torio.  nimici con vn trofeo dinanzi, il petto fcopcrto,con vna  palma, &vno feudo &paroleche diceuono,vicTORi a  a vg vs ti, nel modo che l’ha dcfcrittaClaudiano quan- cUudiano.  do ci dice:   Jpfa Duci [aerai ZJittoria panderetalos,   Et palma viridi gaudens & amica trophaù.   Cujlos imperij 'virgo qua fola mederii  ZJulneribuijnullumque docesfentire dolore m.   Et Plinio dille,   Eaborem in vittoria nemo fentit.   MED.      ir     t I     «           1 71 DELLA RELÌG   MEDAGLIONE DI M.     IONE     COMMODO.     avremo.     BRON/O.      Et perche la vettoria non fi può acquetare IcnzaFati-  t ° ca >f enza virtu,ne lènza forza, non farà fuora di propofi-  figura codi ragionare qui d’HcrcoIe, che ne guadagnò tante in  <l ucfto raodo > onclc » Romani volédo figurare la virtiUo  ualauirtù leuono dipingere il fuo fimulacro appoggiato fopra al  fuo ballone,& la pelle d’vn lioneauiiuppata intorno al  braccio, & altre volte tenédo abbracciato Anteo, il qua-  le vccifc, come dice Giuucnalc,   - Ceraie il us ctquat   H erettiti ^Anteum pronti a tellure tenenti*.   Nel quale modo lo dipinfcroanchora nelle loro meda-  glie Hadriano& Poftumio, con quelle parole, hercvli   MACVSANO,     HA D.      DE GL’ANTIC HI ROMANI.     *73     HADRIANÒ. POSTVMIO.     BRONZO. BRONZO.      Et fi come la mazza & in lione fono due cofc fortiflì- Pm .  mc,& la virtù e fiata Tempre figurata ignuda, come quel tribuirono  la che non cerca ricchczzc,ma immortalità,gloria,& ho  norc,comc fi è vifto in vn marmo antico che dice, vi r- U pelle del   T VS NVDO HOMINE CONTENTA EST, Cofi   el’antichi volendo moftrare la virtù d’Hercole , doppo  la morte lo figurorno ignudo , con la pelle del lione &  con la mazza, &. la mazza & la pelle infiemc,comc fi ve-  de per le medaglie qui di fiotto.     PRIN.      Ss. JW/     »74     DELLA RELIGIONE     PRINCIPESSA DI MACEDONIA.     BRONZO.     BRONZO.       Q^CINCINNIO III. VIR. AVGVSTO.     argento.     ARGENTO.      mix* di Fu chiamata da Greci quella mazza psrraAc*, la quale  Htrcole g lamichi fpeflè volte (dipingendo Hercolc)accompa-]   Ja Greci gnorono d’vn trofeo,&Hercolecon vn ramod’Alloro  Kbopalos. nc J} a ma dritta,& nella finiftra la mazza,& vna pelle di  lione,chiamandolo Vincitore: & volédo per la mazza  anchora lignificare la prudenza, conia quale fi gouer-  naua in tutte le fucimprefe.     ;; i     C. AN.     DE GL’ ANTICHI ROMANI.     i     75        uaif   f   [lor   llc<5   n»   ifltf   Vii     C. A NT IO. MEDAGLIONE DI   ARGENTO. COMMODO.      Apulco lo nominò cercatore del mondo, domatore Epitetili  de gl huomini,&dclIcbeflieferoci:&:Tcocrito,occifore  di lioni & di tori, come moftrano le medaglie (lampare a puleo.  in honorc fuo,ncI modo che fi vede qui di Cotto. t tonilo.     MED. GRECA. C.   BRONZO.     POBLITIO.   ARGENTO.      tk     ^ | iv laVttUia i/wiv»»*» » «■»»». w v< » »•»»   pelle di lione & della mazza, fu, perche in quel tempo  nons’vfauonoaltrearmijche le pelli dcgranimalifalua-  tichi> per coprire il corpo : & i baffoni per offendere i   nimici,      i 7 <r DELLA RELIGIONE   Arme che nimici^ vendicare l’ingiurie. Et perche Homcro con  o mo ^‘ a ^ cr * P° ct * hanno fcritto.chc Hcrcolccauò Cerbe  "L Suo ro cane con tre teftejdell’inferno^crò mi c parfo non  HtrcoU. fuoradi propofito riprefentare qui appreso la figura  d’vna pietra antica, fiatami mandata da Narbona,&ri-  trouata in quel tempo che fi cauauono i fondaméti de i  baftioni di quellaCittà,nel modo che fivede qui di fiotto.     S1MVLACRO DI HERCOLE ET DI  Cerbcro.ririrato d’vn mattilo antico di Natbona.      DE G L'ANTICHI ROMANI. 177  “Interpretarono i Teologi antichi quclfo Cerbero per  tutti i vitij,lfati fupcrati & vinti della virtù d’HercoIe, co  me più apertamente potrà il lettore vedere nel trattato  * che hà fatto Lilio Gregorio Ferrarefe della vita d’Herco rarefi  leda (fatua del quale fu altrimenti dipinta con tre palle  nella mano diritta, &nclla manca la mazza, volendo Lffr ; wr .  perle tre palle lignificare la virtù di tre colè, cioè, lènza tudiHcrto  ira,fenza auaritia,& lenza defiderij vitiofironde ancho- k ’  ra hoggi li vedeà Roma vna fua (fatua di bronzo con  vna palla in mano trouata, non e lungo tepo,douc era  flato il fuo grade altare fulla piaza del mercato de buoi.   Fu oltra à quelfo dedicato à Hercole il Popolo albero di po o[g A  fpctic di Salicio, del quale i fiacerdoti Sali; fi faceuono ferro dedica  girlandc, volédo fare à Hercole làcrificio, come ha mo- t0 * Hfrf0 "  ffro Virgilio, doueci dice, “   Tunc Sali) ad canta inceri fa altaria circuì n  *?opuleid adfunt tuinRi tempora ramit.   Soggiugncndo altroue,   Copulai ^Alcida gratif ima.   La quale cofa fi conferma ancora meglio per la me-  daglia Greca d’HcrcoIe, nella quale da vn Iato c la fua  telfa coronata di popolo con la pelle di lione intorno ai  collo,& dall’altro il Zodiaco con tutti iluoi fegni , & Fe-  tonte caduto del carro del fole con ini i.caualli, la fac-  cia del fole, & lettere intorno che dicono, a’at'nata  z h t n n, lignificando che ei cercauacofc impolfibilipcr  le forze fiumane.     M         MED. GRECA D’HERCOLE.   BRONZO. BRONZO.     FuanchoradipintoqueftoHercoledagl’antichiGrc  cicon la pelle della teda del lionc in capo, in cambio di  celata, vn’arco,vn turcaflo,& la mazza,volendo lignifi-  care che la virtù dell huomo fcrcifccdi lontano.     MED. GRECA   BRONZO.     D’HERCOLE   BRONZO.     Non        V .     r ,.t*     mi   t'W.   §* T*  1 ■ » • ■     b     i^v   flfr   m     m     DE GL’ ANTICHI ROMANI. 17* *  Non porto fare che (criucdo d'HcrcoIe, non mi ricor  di&non mi ridaanchoradellabertialità di Commodo   Imperatore, che vanamente afpirando aU’immorralita p * zz u   del Tuo nomc,8,Tendo emulatore, ò più torto iuuidiofo £  della virtù d’Hercole,rinuntiò il cognome fuo Droprio,   &della carta fua:&in luogo di Comodo figliuolo di M.   Aurelio, vollceflcrc chiamato Hcrcole figliuolo di Gio-  uc:& lartciando I'habito d’imperatore Romano, fi veftì  d’vna pelle di lionc, portò vna mazza in mano:&mefco  landò le vcfti di porpora ricamate d oro con quella altra,  non fi vergognò d’vfcircin pub!ico,& mortrarfi al popo  Io per tutto, come fi vede per le file medaglie d oro,d’ar-  gcnto,& di brozo, nelle quali da vn lato eia fua iella ac-  concia come quella d'Hercolecoil la pelle del lione, &  d’allaltro l’arco, il turcaflo,le freccierà mazza, & lettere  che dicono, h e r c v l 1 romano avgvsto.   ■p , • . . ■ ■   MEDAGLIONE DI COMMODO.   bronzo. bronzo.       M z        i8o     DELLA RELIGIONE     Dione.     Colonie   Commo-   dma.     COMMODO.   BRONZO.       Ne contento anchora Commodo di quello, vollc(co  me ferine Dionc)eflerc chiamato Hercolc fondatore di  Roma, facendo battere monete, nelle quali fi vedeua in  habito d’Hercolc condurre due buoi, in fegno di nuoua  colonia, Scche ci voleua mettere nuoui habitatori in  Roma, la qualcchiamò Commodiana,&Cómodiani i  Tuoi faldati, comefi vedepcr le lettere, chcdicono,coLo  N I A LVCII ANTONINI COM MODIAN A. & altrO-  UC, HERCVLES ROMANVS COND1TOR.     COMMODO.      DE GL’ANTICHI ROMANI.   Ma quello chein quello moltrò anchora più la Tua  pazia, furono i titoli,! quaIi(fcriuendo al Senato Roma-  nojs'atcribuiua in quello modo,   IMPERATOR CAESAR LVCIVS AELIVS  AVRELIVS COMMODVS AVGVSTVS PIVS  FELIX SARMATICVS GERMANICVS MA-  XIMVS BRITANNICVS PACATOR ORB1S  TERRARVM INVICTVS ROMANVS HER-  CVLES PONTIFEX MAXIMVS TRIBVNI-  TIAE POTESTATIS XVIII. IMPERATOR  Vili. CONSVL VII. PATER PATRIAE CON-  SVL1BVS PRAETORIBVS TRIBVNIS PLE-  BIS SENATVIQ^VE C.OMMODIANO FELI-  CI SALVTEM. Andando poi per paefe. lì faccua  portare innanzi la mazza,& la pelle di lionc , onde mol-  te ftatuegli furono fatte alla fomiglianza dell’altro Hcr  cole antico.Dal quale propofìto ritornando à quello del  noftro Hcrcole vcro,& lanciando in dietro tutte le fauo-  lepcr accodarci alla verità deirhiiloria,diciamo che(lc-  condoHalicarnalTeo)Hcrcolcfu vno eccellente Capita  no, il qualcardito&fauiotrouàdofi vn efferato gagliar  do,pigliauapiaccrcd’andarc per il mondo, riformando i  cattiuicoflumide gl’huomini , ipegnendo i Tiranni,!  ladri , & giada Alni coll Greci , come Barbari , & Latini:  edificando nuouecittà:& drizzando per publica vtilità  (quello che è il debito d’ogni buon Principe) i camini, &  fiumi che guadarono il paefcrdella virtù del quale, qua-  tuque iohaueffi deliberato nó fare coli lungo dffeorfo*  nondimenoilgran numero di mcda^licchc iomitroua  di lui, mi conllringono,per piacere ai letterati amatori  delle cofc antiche, di leguitarc & mettere inanzi Hcrco-  le,chiamato da i Franiceli Ogmionffccondo la narratio-     r. ri     M     3 .     rou['     r8i     I nomi is-  tituii che fi  duua Com-  modo.     Qual fu   hcrcole fe-  condo li Hi  fonografi.     hcrcole  Gallico .     l     i$z DELLA RELIGIONE   ne di Luciano oratore &Filofofo Greco, il fenfo della  come i Fri quale fatto prima latino da Erafmo, è tale: I Francefi in  « fi dipinfe loro lingua hanno chiamato Hercole Ogmion,& l’han-  roucrtole. n0 formato in vn modo molto nuotio & Urano, però  che ei l'hanno figurato vecchio , canuto , & decrepito,  tutto caluo dinanzi, con pochi capelli , dietro "rinzuto,  & cotto dal Sole come vn contadino vecchio, o marinic  rc,tantocheinaItracofa non pare Hercole fenon per  l’habitochc ci porta, veftito d’vna pelle di lionecon la  mazza, l’arco tefo, & il turcafiòda quale cola io harciccr  tamentc penfaro che folle Hata fatta da i Francefi in dc-  Htrtolc rifione & difprcgio di quei Grcci,chc haueuono fcritto  negno^l ^ oro Hercole haueuafeorfo come virtcitorc ilRe-   f ranci*, gno di Francia, {ciò non hauclfi villo vn numero infini-   to di huomini,& di donne legate per gl’orccchicon cate-  • nuzzcd’oro,& d’ambra alla lingua d’HercoIe, lenza fa-  re non folamcntc légno d’cllérccofi menate contro alla  loro voglia, & di volere rompere i legami, ma parendo  che tutti facclfinoà gara di follccitarc il palTo piu di lui,  dubitando nonrcllarc indietro, anzi leccando lecatenc,  comecola grata, métrcchc Hercole col vifo volto inuer  fo loro gli guardaua tutti allcgramentcril quale miflcrio  mentre che coli riguardato arrccaua marauiglia à Lucia  no, dice che vn altro Filofofo Francclc,ma dotto in Grc-  co,fc gli fece innanzi & dille. Amico io ti voglio dichia-  rare la difficultà di quella dipintura: Sappi che noi altri  Francefi non attribuiamo l’eloquenza à Mercurio, co-  me vo i a Ic r i Greci folcre fare, ma à Hercole, come qucl-  édanreolc. lo che è più robullodi Mercuriodà onde tu non «debbi  marauigliarc fe tu lo vedi vecchio, con ciofiajchel’clo-   quen     DE GL’ ANTICHI ROMANI. 183  qucnza rade voice è ne i giouani,eflendo offufcaci dalle  tenebred’ignoranza,ondc la lingua de vecchi lènza paf-  jfione pronuncia più cleganrcmcnrcifuoiconcerti,cncc  il lignificaco di quella pitcura, volendo inoltrare, che il  parlare ornaco li eira apprcflo le perfone perlaconue-  nicnza,che hàlalinguacongl’orecchi.Ncmcno ci debbi  marauigliarc,ncbialimarc Hcrcolc, che egli habbia la  lingua toraca,conlidcrandoche noi vfiamo nelle nollre  Comedicdidire,che cucci coloro hanno bucara la lin-  gua che parlono aflai,& bene, come faceua Hcrcole:che  per ciò(lecondo l’opinione di noi alcri Francclì ) lì rcn- Hfrf0 / f  dcua luggecce cucce lenarionij&orrcneuaciòcheglipia tot fuo fcrf  ccua, mediate léfóttìliflìmc & ingegniolc ragione ch'ci  {àpcuaallcgarc,&concireperfuadercleperfone,la qua- ti™* i fe  leacucezza & foccigliczza d’ingegno c figuraca perle huom *   freccie, per l’arco & pel curcalTo:onde voi alcri Greci lo-  Iecedirechela parola c pennucacome vndardodaqua-  lcinccrprecacione ci fcruiràhora Umilmente per ilcriuc  redellefrecc^&dclrarcod’ApollojCon le quali am-  mazzo il TerpencePitone,& per ciò daHomcrofu decco L0>  ^oWu^«,cioècheiciraua lonrano:&i Greci Io figu-  rornoinquello modo, come fi vede per le medaglie di  Nerone, doue da vn laro c dipinco con vna corona d’al-  loro, il curcaflo Tulle fpalle & la ftella di Febo, con lectcrc  che dicono, a no a aon snrHP.cioc Apollo Conferua  tore,lì come i Greci vfarono faquila,& ilfolgorc nel me  defimoTenfo.   A • ,     M 4     184     DELLA RELIGIONE     CLAVD. NERONE.     ARGENTO.      MEDAGLIA GRECA.     BRONZO.     Apollo dio  di [oiukori  di lira.       Quella lira fu attribuirai Apollo, perche gl'antichi  penfornoche cifofle Dio de fonatori, dipingendolo an-  cora con i capei lunghi fenza barbala lira, & vn ramo  d alloro in mano,& vn altra volta con vna tazza & vna,  velie lunga fino à i piedi, per mollrare la fua deità.     AN      DE GL* ANTICHI ROMANI. ì$$     I   l     ANTON. PIO. CARACALLA.     ARGENTO. ARGENTO.      - Mai Grecigh attribuirne non folamcntclalloro per vdHoroc 5   la fauoladi Dafne, ma per la virtù della pianta Tempre f*sr*to ai  verde, volendo mollare l'ctcrnftà del Sole, & perche - 1   ella feruiua nella purificatone de i facrificij, & perche la è mai touo  factranonla tocca,comciha fcritto Plinio:& pcrchcdi U f* u ~  quella s’ornauonoi turcaflì, le citare, &i cappelli de gli L'alloro de  Imperatori, quando trionfauono con vn ramo d’alloro dic .* t0 * *  in mano, onde il medefimo Plinio la chiamò Portina-  ea delle cale de i Cefiiri & de Pontefici , & nuntiatrice di \   vettoria, conciò fia chela coróna d'alloro foleua ariti- 1   camente Ilare legata dinanzialpalagio de gli Imperato-  ri, con quella di Quercia in mezzo, come fi vede per il  tcftimoniod’Ouidio nel primo libro del Mctarriorfo- o iddio.   (co douc ci dice,   * JMediamtjtie tuebere ejuercum.   Delle quali corone fi rrouano tutte piene le monete  de gl'imperatori in quello modo,   < M j   v: c'n;.m r.ll.i: r.:iv i; .«•- ... otr.ooiop        tic DE LA RELIGIONE     A VGVSTO.   BRONZO. ARGENTO.             Plinio.  Inodore di  rdUoroftfc  ttiU pejle.     Dbterpcpà  ture de U  flatua d'Ar  pollo.     Probo.     La virtù di qucfta pianta c tale, che fc nel tempo di  peftc(comc fcriue Plinio) i’huomo (blamente l'odora Se  porta fcco,ei non può hauerc malc:&: per certo fi legge  che cflendo vnagranpeftein Roma, Commodo fi ritirò  à Laurentojcoficonhgliacoda i medici Tuoi, per cflcrc  quel luogo abbondante d’allori. Et quanto alì’imagine  d'Apollojoltrc aU’arcoJefrccciej Se la lira, con la quale  lo (oleuonodipingcregl’antichi, l’Imperatore Gallieno  (volendo moftrarela (ua im prefa d’Oriéte) lofecefcol-  pire informa di Ccntauro,con la lira in vna mano, &  nell'altra vna palla con quefte parole., apollini co-  miti, moftrando che egli andaua col fauorc del Sole.  Ma Probo lo dipinfc Copra vn carro con piu razzi in ca-  po, & con la briglia in mano di n n.caualli, chiaman-  dolo luuitto con quefte parole, soli invicto. Et  glabri Imperatori , come Coftantino , Aureliano Se  Crifpo ftamporno nelle loro medaglie il Sole ignudo,  coronato di razzi, con vna palla nella mano diritta, Se   nella     DE G L' ANTICHI ROMANI. 187   nella manca vnasfcrza, con limili parole, soli invi-  cto coMiTi, fignificando,che con 1 aiuto d Apol-  lo egli haueuono vinto &lbttomeflcdiucrfe regioni.     GALLIENO.     BRONZO.      COSTANTINO.   BRONZO-     PROBO.   BRONZO.      A VP EL I AN O.   BRONZO. ,      Ec perche alcuni hanno detto che il tempio del Soìè Tempio del  era in forma tonda, però mi èparlbdiriprefénrarequi la SoIe '  medaglia di M.Antonio Triumuiro, nella qualeha fi-  figurato il Sole in vn.tcmpio quadrato,& accompaqna-  to da limili. parole, in. v ir r, p. c. cioc, trxvm-     vir          i38 DELLA RELIGIONE   vir reipvblicae c ons tit v e n d ae, &dalf altro Ia-  to, MARCVS ANTONIVS 1MPERATOR.   M. ANTONIO TRIVMV IRÒ.   ARGENTO.     Moneta di I Rodianidipinfono nelle loro monete il Sole coni   KodianL razzi j n capo, lenza barba, & con i capei lunghi da vn  lato, & dall’altro (colpirnovna rolà,Hora in vn modo,&  horain vnoalcrocon quelle parolcpoamN apizto-   KPITOI, Se POAION,   MONET ARO PI A N A. '     VVù OiT^ v   iV     MONE     DE GL' ANTICHI ROMANI. <i8j>     MONETA RODI ANA.     BRONZO.      ALTRA MON. RODIANA.     ARGENTO.      Etne roucfci delle medaglie d’oro di Traiano, Ha- Vorlpat '  driano>& Aureliano Imperatori fi troua ( fecondo l'v- u°mc2gul  fanza de Greci) fcolpito I Oriente per la faccia del So- de limpt-  le,con lettere che dicono , o r i e n s. Ma in quelle di ratoru  Lucio Plaucio fi vede la tetta d’Apollo accompagnara  dadueferpi,comcPythio, & nelroucfcio della medefi-  ma medaglia vna Vettoria,che tiene per la briglia i ca- •  ualli del Sole.     TRA     Coloffo   Rodi-      DELLA RELICION E   T R A I A N CL A V R E L 1 A N O.     ORO. ARGENTO.      , ' Non erTlaTnaTaTintcntionedi fcriuerc altrimenti del  * ColofTodiRodi,il quale era la flatuad Apollo, perche  io ne haueua già parlato.nel fecondo mio libro dell An-  tichità di Roma,maeflèndomi flato predato vn certo  libro Greco antichiflìmo,& lenza Autorc/critto a ma-  no da M Giorgiodi Vauzelles Caualierc di Rodi, &h-  ■ onore della Torretta, quale egli haueua portatodi Grc-   cia,non ho voluto mancare di communicarc a gl altri   huomini           DE GL’ ANTICHI ROMANI. ì*r  huomini quello, che io ne ho ritratto intorno à quello,  nel modo che fcguc: Tra gl’altri miracoli del mon-   do (dice egli) era il Coloflo di bronzo dentro à Rodi Deferito-  fatto in honorcdel Sole, da Colalìe in dodici anni,& al-  todi fettanta cubiti. La bafeche lo fofteneua era trian a.  golare , & ciafcuno lato (ottenuto da fettanta colon-  ne di marmo. La (tatua era tutta vota dentro & fatta à  (cala à vite, per la quale fi faliuafinoà la cima:&quiui  erano diuerfi ftromenti, che in verfi Iambici faccuo-  no vna mufica foaue. In quella (tatua, la quale era  volta inuerfo Egitto , fi vedeua tutto il paefedella Si-  ria, & i nauili che andauono in Egitto, mediate vno fpec-  chioche ella haucua legato intorno al collo , cttcndo  del retto tutta ignuda, con vnafpada nella mano diritta,   & nella manca vn’hafta lunga,tanto che la (pefa cofta-  ua ccc. Talenti d’oro. Aucnne di poi, che doppo cin-  quanta anni, che ella era ftatafatta,ellafu metta per ter-  ra da vntremuoto, che durò vii. giorni , & coli rotta in Mirrile  piu parti (ì trouauono pochi huomini, che potettmo ab- trmuoto '  tracciare vnodei fuoi diti grottì,& colui che ne compe-  rò i pezzi del bronzo, ne caricò 500. Camelli.Ma ritor-  nando al noftro Apollo, & alla diferenzachc egli hebbe rifiorii*  con Marfiafonatore,come ha fcritto Apulco,nel primo ** A P °£ 9  libr.de fuoi Floridi, dico che à cottui parcua edere coli  eccellente, che accecato dalla fua infolenza , non fi ver-  gognò di volere competere nella mufica cori vntanto . v  Dio,allaprc(cnza delle mule, le quali, data la fentenza  in fauorc d’ A pollo,fcciono che legato Marfiaad vno al- M -  bcro per punirlo (come ci meritaua) della fua temerità, fiortiutt.  lo (corticaflc, nel modo che ha moftrato Ouidio ne i.  t: fuoi     isn . ■ DELLA REE LI Gl ONE  Tuoi Farti, dicendo,   o uidio. ‘Prouocat & e Phcebum i < Phxbo fuperante pependin   . Cafa recejprunt a cute membra fua.   Et Nerone nel fuofuggello, del quale la figura cpofta  qui di fotto.   sy OO LL LO DI NERONE RlTR ATTO  d’ t ma pietra tattica.      Dipingeuono fimilmcntcgrancichi Apollo accom-  dtUc°Mufe pagnato bene (peflo dalle Mule, volendo inoltrare che  con Apollo, tra lui Sdoro, è vna naturale conuentione, fi comcmo-  Virgilio, rtrò Vergilioall’horache della natura di quelle ragio-  nando dille,   In medio rejìdens compleBìtur omnia ‘Phccbut.  l*. ùv/è Le quali però fumo da gl’antichi vergini figurate(co-   ucrgini. mc h a fcritto Phumuto) perche il frutto delle feienze  « . ' nafee     DE GL’ ANTICHI ROMANI, 1*3  nafcc dal giuditio dell’ingegno, & perche la virtù occul  ta fi contenta del fuo ornamento naturale: &: che l'ha-  bitationc delie Mule uer i monti &; per i bofchi,non fi-  gnifica altrove non cal gli huominipiù dotti & ccccl- imonti.  lenti viuono,& vanno volentieri foli,& feparati dalla  ignoranza della plebe, (blamente (come dille il Petrar-  ca)al vii guadagno intenta, imaginandofi la (ciocca,  che le lue ricchezze le habbinoà infondere ad vn tratto  la fapienza,& la dottrina nel capo , perii che diuenuta  infolcntillìma, & volendo riprendere quei, che fanno  più dilei, rimane alla finelcorbacchiata & fcorticata, co-  me vna bcllia della propria pellciilqualc propofitocoti  fermò Plutarcho quando fcrilTechei templi delle Mufe  non fi trouauono altrouc le non lontani alle Citta , & a  i eradichi de gli huomini plebci:& Orfeo & Proclo ha-  no voluto che le Mufe fodero le prime inucntrici della gionc . rc  ■ rcligionc,dclla quale ritorneremo fubito a parlare, che  noi haremo inoltrata la figura del Trepie,ò Tripode  d'Apollojgià tanto celebrato & venerato da gl’antichi. S Apollo,  Di quello adunque fi vede il difegno nelle medaglie  d’argento di Vitcllio,& di Vefpafiano,& (quello che io  Rimo anchora più cofa rara) in vn dialpro rollò antico  che io hò meco , douc egli e figurato con vna cornac- a j  chia,la lira,& vn ramo d’alloro, tutte cofe conlagrate à a pollo,  lui, come qui fi vede.   * N     t>4     DELLA RELIGIONE     DIASPRO ANTICO.      VITELLI O.   ARGENTO.     VESPASIANO:   ARGENTO.      Il iimu     Tf         GL’ANTICHI ROMANI. 155  » Il fimulacro del Sole, che i Fenicij chiamorno nella ìtsoledrt -  loro lingua HeliogabaIo,fu portato à Roma dall’Impe-  latore Antonino, coli chiamato anchora lui, il quale nel (,«/„*  monte Palatino gli fece fare vn tempio (come fcriuc  Lampridio)& qui volle che non folamcntci Romani, r  ma i Chriftiani & Giudei facchino tutti i loro facrificij,  non per altra ragione, fe non perche nella fuagiouanez- rèpio dedi  za egli era flato fatto fàcerdotc del Sole , honorato & ** s ®:   tenuto in grande riuerenzada i Fenicij, però che gl’ha- tiero&mo»  ueuono fatto vn tempio marauigliofo di pietre quadra- Antonino  te, & (come fcriuc nel 5. libro Herodiano) ornato dar-  gento,d’oro,& di pietre prctiofè : onde io ho tra le mie le.  due medaglie d’argento del detto Imperatore, nelle  quali fi vede in abito di fàcerdotc di Fenicia facrilicare  al Sole con vna tazza in vna mano,& nell’altra vn ra-  mo d’a!loro,&fopra l’altare, doue c il fuoco accefo,fi  Vede il Sole,& lettere che dicono ncll’vna delle meda-  glie, svmmvs sa cer do s, & nell’altra, invictvs  sacerdos ,chc fono i medefimi epiteti del Sole.        HELIOG A B A LÒ.     ARGENTO.      FORT V  NA.     t5rf DELLA RELIGIONE   Io nonmidiftcnderò più oltre àfcriucre la vita fede-  rata di quello Imperatore, ma bene mi dorrò del cieco  & tirannico arbitrio della Fortuna, che lo meflc in quel  luogo che ci non mcriraua,ficomcanchora veggiamo  che ella fa di molti altri à i tempi no(lri,onde gl’antichi  volendo moltrarc la fua portanza , & come ella gouer-  naua tutte le cofe del mondo, la dipinfcro con vn corno  pitta* de d’abbondanza in vnamano,& nell'altra con vn timone  U fortund. Ji nauc fopra vna palla.     TR AI AN O.     BRONZO.     HADRIANO.   ORO.     ARGENTO.      ANTON. PIO.   ARGENTO.        DE GL* ANTICHI ROMANI. 1*7  F,u Umilmente figurata da glantichi à federe in terra  col comocopia,& vn braccio appogiato fopra vnaruo-  ta,per moflrarc la fua inconftanza , & limili parole,  fORTVNAE red ver. Et di qui nacque che A pel le Aprile rr-  cclcbratilfimo pittore Greco,domandato perche hauc-  uadipinta la Fortuna à federe, rifpof? chchaucuaciò  fatto per che ella non haucua mai ripofo.     ANTON. GETA TRAIANO.  argento. argento.      Ma quella che noi habbiamo chiamata Fortun a, i  Greci lachiamorno sella folle fiata buona,*«^ w, ^ ^  *»»comc fi vedrà per vno intaglio antico portato di Gre- fortuna  cia,& donatomi da Frate Andrea Thcuet d’Angulcmc,  nel ritorno del fuo viaggio di Ierufalem.con molte al- Caladi  tre medaglie antiche, che io moftrerò ritratte, nel libro  che io hò fatto dell’Antichità di Roma, accompagnan-  do in quello mezzo la nollra Fortuna d’vnDiafpro , &  d’vna Corniola antica,doueella c fcolpita con vn cor-  no d’abbondanza, & vn ramo d’alloro, lignificando     N       3     della religione   DIASPRO antico, corni O-  LA ANTICA.      La fortuna  accompa-  gnava il Ut  to diCefa-  ri.   Vlinio.     Difftnition  de la fortu-  na.     Arijlofane.     Tempio fu-  perbo de la  Fortuna in  Prenefte.     Vcdcfi per l'hifìorie che vna Fortuna tutta doro acr  compagnaua Tempre il Ietto de gl’imperatori , & che  quando ci veniuonoà morire, in Tua prefenza eraporta-  taàiloro fuccelforr.ondePlinio la chiama leggiera, in-  conftante,&fallacc,come quella che fauorilcei manco  degnirnon dimeno , alla verità, la Fortuna non c altro  che la prouidenza di Dio , dalla quale fecondo i noftri  iteriti noi riceuiamo male,ò benè.Et la caufa perche  gl'antichila dipinfono anchora cieca, fu per la cagione  nominata di fopra-di che ha molto bene icritto Arifto-  fahe nel fuo Plutone,DiodcIleRicchezze:il quale argu  • mento hà Tradotto Luciano nel fuo Mifarftropos.il det-  to Ariftofanc fcriue che quando Giouc donale richczzo  à i buoni, ei fi moftra zoppo, & porgedoleà icattiui,cor-  re leggiermente. A‘ Prtfncftc anticamente fu il fupérbo .  tempio di Fortuna cdificatoda Sylla , con la Tua ftatuà  di bronzo dorata, la quale èra di tanta eccellenza cheli  foleuadire perproucrbio(volendolodarc vna cofaben   dorata     DE G L’ANTICHI ROMANI. w>  dorata) la doratura Prcneltina. Nc contento Sylla di  quello, cominciò à fare il pauimento di detto tempio  di Mufaico,chegl’antichi chiamorno Lytoftrates , con  mirabili figure di diuerlì colorali comcPlimo (parlando  dei pauimenti) fcriuc nel xxxv. capitolo del xxxvi. li-  bro dcH’Hiftoria naturale. Et perche la Fortuna può  molto nella guerra, però mie parfo di collocarla preffo  lo Dio Marte, al quale i Romani feciono fare diucrli  templi,&dandoglifacerdoti , detti Salijdo chiamorno  vna volta Vincitore, all'hora cheei porrà vna Vettoria  (lilla mano:vn’altra volta Propugnatore, Vendicatore,  &Pacatore, quando egli haucua nella mano dritta vn  ramod’vliuoj&nellaltrala fuahalla con la corazza à i  piedi, & dinanzi targhe, rotelle, & il celatone,con vn pen  nacchio,& lettere cnedicono , Marti pacatori, li-  gnificando che quelli che vanno alla guerra, li debbono  lenza paura moftrarc à inimici.     M« [aito.     MARTE-     Epiteti di  Marte.     Qui ua al-  la guerra  non deve ha  tter paura.     V 1TELLI O.     ANTON. PIO.     zoo      L’haftachc eiportauafu chiamata Qiiiris dai Sabi-  ni,& Romolo Quirino,comefi vede per le infralcrittc  medaglic,doue egli è dipinto tutto armato , per fignifi-  care,che lui era vendicatore, nel modo che lo chiama-  rono i Romani.     QniriJ.   Marte QH*  rtno.      ANTON. PIO.   BRONZO.     V       DE GL’ANTICHI ROMANI. aoi  GORDIANO. ALEX. MAMMEA.   BRONZO.     HADRI ANO.   ARGENTO.     CLAVDIO.   B R O N ZO     Il tempio di Marte Vendicatore fu fatto i Roma per Tépioetifì  Cefare Auguftoin forma tóda,à cau fa della gucrra.chc  egli haueua giurata concra Filippo, per vendicare fuopa da a ugufto  dre,come fcriue Suctonio,& Ouidionci Falli, doue ei Ct f* re ’  dice   Tempi d feresfè) me vittore Vocaberis Ultori ouidio.   Uoueraty&fufoUtnt ab bojlereJit.   Scriue Dione neliniUibrodellHiftoriaRomana, che OÌ9at »   N 5      ARGENTO.     r pmfr.     101 DELLA RELIGIONE   Celare Augufto edificò quello tempio in Campidoglio}  & vi fece portare gli ftendardi &inlcgne militari, con  l’Aquila deRomanirondeil Senato dipoi volendo an-  chora maggiormente honorare Ja fua memoria, vi fece  condurre il carro fui quale egli haueua trionfato.   A VG V STO. L. - CTN NX   ARGENTO. ARGENTO.     Si come gi’antichi dipinlero Marte, nelle maniere già  ville di fopra, chiamandolo infieme con Giouc Vendica  torc & Propugnatore, & in molti altri modi Greci & La-  ùniche forebbono troppo lunghi à raccontare, coli dir   pin     A V G V S T O.     ' , . Ci , ' *   ARGENTO.     DE CL’ANTICHI ROMANI. *>3     jpingendo Venere, la chiamorno Vincitrice, con la Vet-  raria, Io feeeero & appogiata fopra vno grande feudo, & v e n b -  altra volta con vn morrionc in luogo di Vettoria,ò con R E *  vna palla, in figno che ella haucua fupcrate in bellezza  tutte Falere Dee. Il fuo carro,fecondoil direde Poeti, era carro div e  tratto daduocigni:Ecper tanto dice Ouidio,   - JuriBif^ue per dir A cygnis  'C arpie iter.   C A R A C A L L A M ACNVR B FcX     nere tratto  da duo ti-  gni.      PLAVTILLA. FA VSTINA.      La Ve      io4 DELLA RELIGIONE  venere La Venere chei Greci chiamorno Afroditi ,i Latini   1 hanno detta Dea di bcllcza,&di gencratione,nata(fec6  do i Poeti)dclla fchiuma del marerEt Cicerone nel libro  della Natura de gli Dei,parlado di i n i. Venere, dice che  Tempio di l’vna fu figliuola del Cielo,& di Giouc,&haucre vifto il  eMc* hi o tempio in Elide: l’altra vfeita della fchiuma del mare:  la terza di Gioue& Dione moglie di Volcano:& la quar  ta Siriaca di Siro nominato Allarte,chc fu quella mari-J  D*r vene* tat ‘™l bello Adonc.MaPlatone nel fuo Conuiuio hàpo  re fecondo fto due Venere, vna cclefteche incita gl’huominialbuo  vintone. no amorc> & l’altra terrena che gli muouc al piacererdi-  cendo chela prima fenza madre fu figliuola del CicIo,&  venere uc- 1^ altradi Dione &diGioue:Iaquale 1 Fenicijvenerauo-   ne rata   Tcnicij.     ta dai no afiai, per cflere (lata moglie d’ Adone, & Adone nato  nel pacic loro, onde in memoria della mortedi quello     lamentandoli lefaccuono facrificio:le quali fàuololc  opinioni & fu perftitioni lanciando tutte in dietro, ven-  ghiamoà vedere come fenfa laVcttoriala dipinfcCe-  fare Dittatore nellefue medaglie.     ARGENTO     GIVLIO CESARE.     Et ne        DE GL’ ANTICHI ROMANI. io*   Et ne i rouelci delle medaglie d’argento di Cefa re mi -  norc,fi veggono due Cupidi condurre il carro di Vene- corrodi ut  re volando, & lei che ticncabbracciato il fuofccttro con   11,. lo d 4 duo   lettere che dicono, lvc n ivli lvcii filii. cupidi.     Gl VL. CESARE.   ARGENTO.     AVGVSTO.   ARGENTO.       Auguftodipoi dedicò à Giulio Celare il tempio di Tempio di  Venere Genitrice, coli adorata da i Romani, &alla qua- j' n ' rede '  le haucua Cefarc fatto vn bullo di perle, le quali (come A u g u ji 0  fcriue Plinio nel libro xxx vi. dell Hilloria naturategli Ctfurt,  haueua portate d’Inghilterra, hauendo prima farrofa-  bricarla detta figura diVenere Genitrice da Archefi-  lào:& per la fretta di dedicarla,non fi fendo potuta for-  nire, coll imperfetta la collocò nel mezzo del fuo Foro.   nf i" AV.        * 5:1     ' OU <   K ri.   ; • c $ -iìtfj     .1 'J J             106     R E LI  AVGVSTO CES     ANT I-  NOVS.     Tempio £  fAntinoo  magnifico e  di fiotto da  Adriano,  fopra il Ni  lo.   Taufania in  Arta£ck.     Io non hareì altrimenti qui fcritto d’ Antinoo , quali  tunqucHadriano Imperatore lo faccflegià deificare, fc   10 non mi forti per forte ritrouate due fue medaglie, che   11 detto Imper.fcce battere in honoredi quello, doppo  chcei fu morto, accompagnando Hadriano nellafuapc  regrinationc fopra al Nilo:il quale non cotento di que-  llo, & doppo haucrlo pianto molti giorni, gli fece edifi-  care vn tempio, &vno altare, con vna Città chiamata  dal fuo nome,douc meflè faccrdoti & Flamini per farti  làcrificio:&in Arcadia nella Città di Mantinea feccfir  milmcntc vn’altro tempio celebratiflìmo, con ftatuc ne  igynnafij,& per tutta la Città fono nome di Dionifio,  come narra Paufania.EtpcriI rouefeio dvnamcdaglia  ch’io mi trouoncllcmanijè riprefentato il tempio ma-  gnifico eh Hadrianp fece edificare fopra il Nilo in fuo  honore,& adornare & arricchire di belle ftatue& inda-  gini, con talcinfcrittione,AAPiANos okoaomhìen,  che voi dire, adrianvs constrvxit, frdifottoil   tempio      de gl’ Antichi romani.   tempio è vnCrocodilo, animale particolare del fiume  Nilo, nel quale mori Antinoo.     MEDAGLIONE GRECO   CANTI NO O.      ■f        k              DELLA RELIGIONE  MEDAGLIONE GRECO   D-ANTINOO.     Antmoo tu     Ma nell'altra fua medaglia fi vede vn giouane di Biti  toin b iti- n i a Ji marauigliofa bellezza con lettere Greche che dico   nO,OZTIAlOZ MAPKEAA02 O IEPETt TOT AN * »   or. & dall’altro lato, t 012 axaioxx an e ©hke , cioè ,   HOSTILIVS MARCELLVS SACERDOS ANTIN0I   acheis dic avit , & nel rouefeio della medaglia c  il eauJb fcolpito il cauallo Pcgafo,& Mercurio con i talari & il  regdfo. Caduceo.   DAGLIONE GRE   D'ANTJNOO.     Fina     DE GL’ ANTICHI ROMANI. i °9  Finalmente per l'intera cognitionc de i templi anti-  chi, quanto alla religione io ne ho farti ritrarre 1 1 1 i.qui  di lotto, de quali pcreflère le medaglie logore, non ho  potuto tirare (enfo alcuno.     CL. NERONE. TITO.     BRONZO. BRONZO.      SEVERO.   bronzo. bronzo.      L’ vicini o di quelli quartro templi,fattoin forma ron VESTA -  da,parequafi limile à quello di Velia tanto riuerira da r  Romani, per ripofare là dentro Iaftatuadi Mi nenia, fta-  ta portata, da T roia:& la quale era in tanta vencrationc   O — -     no     Tempio di  Pace abbru  ciato.     DELLA RELIGIONE   che mai huomo non l’haucua vida.Nondimeno quado  abbrucici il tempio della Pace, il fuoco s’appicò anchora  à qucfto,onde le vergini Vedali prefo il Palladio, & con  cdo paflandoperla via facra, lofaluornofìno al palagio  dcirimpcratorcj&vcdefi il Tuo ritrattone irouefei del-  le medaglie di Vcfpafiano,& di Giulia Pia, che non è al-  troche vna piccola datua di PaIlas,con l’hadainvna  mano, & nell’altra vno brocchiere.   VESPASIANO. GIVLIA PIA.     ARGENTO. ARGENTO.      CLAVDIO. VESPASIANO.     ARGENTO. BRONZO.      Fedo      DE GL'ANTICHI ROMANI. in  Fccionogl’antichi quello tempio di Vefta informa Tempio di  tonda,llimando che tale Dea folTe la terra, & il primo fu  Numaà corniciarlo per addolcire, lòtto Ipctie direligio  ne, la ferocità de Tuoi fuggetti.     EVINTO   ARGENTO.     NERONE.   ORO.     VESPASIANO.   ORO.     ~ L’entrata dfq nello tempio era vietata à gl’liuomini,  comeànoi hoggiquclla deMunilleridcIIc nollre Mo- ^  nache già (late riformate :& il numero delle Vertali fu drOcvrfia-  ncl principio mi.&dipoiv i.& coli durò lungarni nte, w -   O ‘ z     mi DELLA RELIGIONE   come mollrano le medaglie di Fauftina , & di Lucilla^  ùiu'vr/lì nc ^ c c I ua ^ fi vede il loro modo di facrificare,con i loro  li. vefti menti bianchi.chia mari dai Latini Sufftul* , lun-   ghetti & quadrati , tanto che le ne potcuono coprire la  iella, & Maflìma tralalrrefcome farebbe tra le noftrc la  BadefTa)hauere come prima il fympulo (vafo ordinato  peri facrificij)in mano, & l’altra innanzi alci, chela ri-  guardaci turibulo in mano Umilmente detto ^cerradi  Latini, col quale(facendoalIa Dcafacrificio)dà lo incen-  do alla Dea fopra all’altare, dipinto inficmc concila nel  modo che fi vede.   '-'FAVSTINA: medaglione di   BRONZO. LV CILLA.      Augmcntornocoltcmpo quelle Vertali fino al nume  fiali orditi* ro di vcnth&bifognaua per edere Monache cheellefof  tt al [imi- £ no natc Ji padre libero non feruo, vergini, & lènza ma  fta. 1 Vt ~ cula alcuna nella loro pcrfona,& d’età di Tei anni fino à  dieci, nel qual tempo era loro infegnato 1 vfo del facrifi-  care,comc moflra la medaglia di Fauftina, netta quale fi  vede la piccola Vellalc riceuuta dentro al Munifleroda   quale      DE GL* ANTICHI ROMANI. zi 3   quale à capo d’altri X. anni faceua làcrificio , & ncl-  l’vltimo della fua vecchiezza inlègnaua all'altre que-  fiomedefimo,con qucftaconditionc,chcinxxx. anni vajffti io.  fi poceuonomaritare,quatunquc(pcrquellochc filcg- jj IHp p 0 u  ge^tutte quelle che cxercitorno quella vita, furono sfor uano mari -  lunate &. capitorno male. Etpcrchedi fopra habbiamo ttrc ‘  detto che la principale di Ioro,cioè la Badeffa fu da i Ro  mani chiamata Maflìma : noi prouerremo quello per  due Epitaffi antichi fiati ritrouati à Roma nel noftro  tempo ,1’vno de i quali comincia, &fornilcc in quello  modo.     Epitaffio di Fiatila Manilla U e fiale.   FL. MANI LI AE V V. MAXIMAE, CV1VS EGRE- *  G1AM SANCTIMONIAM ET VENERABILEM  MORVM D1S C1PLLNAM INDEOS Q^VOQ^.  PERVIGILEM ADMINISTRATIONEM SENA-  TVSLAVDANDO COMPROBAV1T AEM1LIVS  FRATER ET RVFINVS FRATER ET FLAV1I  SILVANVS ET H IR E N E V S S O R O R 1 S FILII  A' M I LI TU S OB EXIMIAM ERGA SE l’IETA-  TEM PRAESTANTIAM Q^_.     Epitaffio di Claudia Elia Claudiana  ZJ e fiale.   CL. AE LI AE CLAVDIANAE V V. MAX. RELI-  GIOS1SSIMAE BENLGN1SS1MAE Q__. CVIVS  RITVS ET PLENAM SACRORVM ERGA  DEOS ADMINISTRATIONEM VRBIS AE-  TERNAE LA V DI B V S SS. COMPROBATA  OCTAVIA HONORATA V V. D1V1NIS AD-  MON1TIONIBVS SEMPER PROVECTA.   O 5     i!4 DELLA RELIGIONE   Erano quelle vergini Veftali hauute in grandilfima  vcnerationcdal popolo Romano, come fi vede nelquin  venerano - to libro della prima Deca, di Tito Liuio, douc èferitto  wrfoUv* c b c rincontrandole vna volta à piede Albino huomopo  fiali. polare,comadòalla moglie & a i figliuoli di Icéderedel  carro, perfarui fiilircfopra levcftali: &quefto aueniua  pcrlarfucrcnzachc i Romani portali ono al fuoco pcr-  fuoco per - p Ctuo ,che ledette Monache tcncuono Tempre accefo,d  pttU °' qualcfe per dilgratialafciauonofpegncrc, elle erano dal   gran Pontefice acerbamcte caftigare,quantunquc ogni  r inoiutio- annofoflTcda loro rinouato,quafi nel modo che foglia-  ne del fuoco mofarenoidcl gran cero di Pafqua.Su l’altare degli He  U fitto fan brei fimilmcntcftaua Tempre il lumeaccefo,fignifican-  no in anno . do che le grafie di Dio Ita no Tempre per gl'huominiap-  parecchiatc tanto di dì, che di notte:& nella miftica Tco  logia de gl’antichi Verta non fignificaua altroché fuoco,  ilquale(comedicc Furnuto) perche nel Tuo continouo  mouimcnto per le medefimo non genera nulla,però era  dalle vernini guardato : &i Poeti anchora (parlandodi  fuoco. Vefta)l’hanno Tempre prefa & intefa in qucfto fcnlo,co-   me fi vede in Ouidio,quando ci dice,   ’Nectu aliud "vejlam ejuampuram intelligejlammdm,  ‘Natdque de fiamma, corpora nulla. vides.   Iure igìtur virgo e[,(jua [emina nulla remittìt,   *tiec capirà comires virginitatis amar,  dciic’vc- Anzi furono quelle Veftali in tata auroriti,chelpcf-   flali. Co pacificornoinficmeil Popolo Romano nelle guerre  ciuili:& ho ollèruato io che,quado entrauono la prima  Lt ve fiali volta in Muniftero fi tofauono, come anchora hoggi fan  togate. no ] c Monache noftre: ne era loro permelTo di lafciarfi   piu     DE GL’ ANTICHI ROMANI.   più crefcereicapegIi,comcfi vede in Plinio , quando al  xvi.Iibro dcH’Hiftorianaturale fcriue: Antiquior lothos  efiejua C<t pillata dicìtur,quoniam xirginum Uejìalium ad ea  capillus defertur.\\ vitto loro vfciuadal publico, & durò  quella vfanza (ino al tépodiTeodalio Imp.chriftiano,  al quale mandorno iGécilhuomini Romani Symmaco  Patritio per ambalciacorc fìnoà Milano (doue all’hora  faceua refideza il detto Impcratore^pregandolodi con-  fcruarc i priuilegi alle loro Vertali, acciò che elle potelfi-  no cflèguire i teliamoti &lafciati ftati loro fatti da diucr  Ce pcrfone,però che i loro beni potcuono cflcrc tali, che  di quello che farebbe auanzato loro, harebbono potu-  to aiutare molte pouere pcrfonc,& guardare che aliai di  loro nonfoflero andate mendicando per Roma, & po-  tendo giouare anchora à iforerticri.Nondimcnofu tan  to in quello roftinationedcH’Imperatore,che Symma-  co non potette ottenere il defiderio Tuo, ne del Popolo  Romano:& cofì fumo tolte alle Vertali tutte l’entrate,  di che egli dolédofl nella fua oratione,dice limili parole:  Honorauerat lex parentum TJejlales virgines,ac minitlros  Deorum vittu modico, iu fi fijue priudegmfijtt muneris huius  integriti yfque ad degentres trapelerai. Soggiugnen-  do più baffo. : Sequura ejl hoc fames puhlica , & Jf>em  prouinciarum omnium me fi agra decepit,. 'Non fìtnt hac  "pitia terrarum , nihil imput ernia aufiu , nec rubigofe -  getibus ohfuit , nec auena frugei necauit. Sacrilegio annus  exaruit. Ne cefi enim fiit perire omnibus quod religioni-  bus negabatur. Quid tale proauipertulerunt,cum religtonum  miniftros honor publicus pafeeretì A' i quali argu menti   rifpofe poi affai bene Prudentio,moftrando che innan*   O 4     ir 5     Le Veftali  haue ujno  lor vitto  dal publico.  Teodofìo  imp. Cbri-  ftiano.  Symmaco  patritio am  bafi.     Amba f. di  Symmaco  nulla .     Aifrojìa de  Prudcntioi  Symmaco-     ruf     DELLA RELIGIONE  zi che il Palladio, ncVcfta , ne lari, ne Dei penati follerò  itati portaci àRoma,ilportod’Hoftiacra picnodinaui-   li carichi digrano,i granai pieni iìmilmétc,& tanta gran  de abbondanza di viueri erano in Roma,chc neiTunofo  reitiero che vi venifle per vederci giuochi Circciì,non  morì di famc,& che fc tal volta la terra iterile non ren-  derla le biade in abbondanza, naiceuaqueito,ò per cagio   Trudtntio. ne dcH'aria.ò per altri accidenti naturali, il cheanchora  meglio dichiara nel principio del iuo libro fecondo, do-  ue dice parlando contro àSymmaco:   Ultima legati defitta dolore querela ejl ,   ! Palladiu quod farra focu,vel quod fip'u ipfs  U irgimbm } caìlifque torti alimenta negentur. h   XJeJlales foluù faudenturfumptibus ignei.   Doppo laqualc rifpoitadcicriucndo la vita & modi ho-  nciti delle vergini Vertali, dice in quello modo:   Qua nunc Oefalis fu virginità tu bone fot,  2)ifcutiam,qua lege regat decus omne pudori*.  kA c primum parua teneri i capiuntur in annis,  lAnte Voluntati* propria, quam libera feda  Laude pudiciria feruens,(Q amore Deorum,   1 tifa maritandi condemnat vincala fexus.   Captiutts pudor ingrata addicitur arit ,   ‘Nec contenta perir miferisfed adempta voluptas ,   Corporii intatti meni non intatta tene tur.   ’Necrequies dar uri Ila torli , quii ut innuba cacum  ZJulnuiy&' amiffat fujjnratfoemina redat.   Tum,quianon totum JJ>es falua interfeit ignem,   Nam refdes quandoquefaccs adolere licebir,   Feda     Dtfcrizio-  ne della ui ■  ta delle Ve  fiali.     DE GL* ANTICHI ROMANI.   FeJldrjue decrepiti s offendere flammea canti  Tempore prafcripto, membra intemerata retjuirens ,  Tandem virgineam fajlidit Zdejìa feneBam,   2)um rhalamit habilis timuit Vigor, irrita nuUns  Foecundauit amor materno vifcera par tu ,   Tdubir anta veterana [acro perfunBa labore ,  2)efertisejue foca, tjuibus ejl famulata tuuentus,  Transfert emerita* ad f ultra iugalia rugar,   Z)ifcit &• in gelido noua nupra repefcere leBo.   Intere a dum torta vagos ligat infula crine s,  Fataléfjue adoler primas innupta facerdos,   Fertur per mediai vt publica pompa platea t.   Rilento refdens, molli scejue ore reteBo  Imputar attonita virgo ffeBabilis Vrbi:   Inde ad concejfum cauea pudoralmus expers  Sanguina, it pietas hominum vifura cruento s  Congrejfu, morte fjue,^d vulnera Vendita pajlu  Spellatura facris oculisfed & illa Verendis,  Vittarum infignU phalerufuiturtjue lanifis.   0 tenerum mirimene animarne onfurgit ad iBus,  Et tjuoties viBorferrum iugulo inferir ,illd  T)elicias ait effe fuas,peBufe]ue incentri  TJirgo mode fi a iubet conuerfo pollice rampi,   *He lateat pars ‘itila anima vitalibus ima  girini impreffd dum palpitar enfe fecutor.   Hoc illud mentum efl,tjuod continuare feruntur  Excubiat, Lari] prò maiejlate palati],   Quod redimane viram populi.procertimaue falutem,  ‘Perfundunr quia colla comis bene, Voi bene cingane  Tempora taniolrsjtf litia crinibue addane.   9 5     p ompa iti  le V filali  nel tempo  di Pruden-  ti.     Di qual ma  feria fabri-  cauono gli  antichi le  imagini.  p aufania in  Arcadie if.     \A uite è  mtn fugget  ta à corro-  sione.     U8 DELLA REELrGIONE   Et quia fubterhumum lujlrales rejlibus Ombrìi   In fldmmam tuguUnt pecuJes,&' murmurc mifeent.  Quello c tutto quello che Prudentio fcriue della fuper  (licione & pompa delle Vertali , che acconcic lafciua-  mente andauono fopra i loro cocchi, o carrette à vede-  re tutte le felle St giuochi cheli faceuono ne i circhi &  Amfiteatri & (oltre à quello che fi conuienc all’habi-  to,& l’animo pio de i religiofi)pigliauono piacere di  vedere i gladiatori combattere con le beftic feroci, &  ammazare le pcrfone,ondc Prudentio nella fine de ver-  fi fopradetti priega l'Imperatore di tor via coli fatti  fpettacoli crudeli, dicendo in quello modo,   Te precor ^ Aufonij T)ux ^Auguftifìme regni,   TJtum trifie ftcrttm tube *s ,yt exter a rolli.   Hauendo à baftanza fcritto de templi, & nomi de  gli Dei & Dee de gl’antichi Romani ,rcfta à vedere, &  faperela materia della quale ei fabricauono le imagini  Sellarne loro. Qucfteerano (come IcriucPaufania) dc-  bano,d’arcipreflb,di cedro, di quercia, di loto,di milacc,  & di boflolo , anchora che Teofrafto vi aggiunga la  radice deU’vliuo per le ftatue minori, & Plinio la vitc^  quando ci dice dhauere veduto nella Città di Polo-  nia il fimulacro antichiflìmo di Gioue fatto di legno di  vite : la quale cofa io crederrei facilmente potere effere  fiata vera , confiderato che Ce gl‘antichi eleggeuono i  fopradetti legnami, come quelli che durauono aflai, la  vite fenza dubbio, è quella che è men fuggetta alla cor-  rozionc,ficome fi è villo per diuerfe fperienze, quan-  tunque la ftatua di Mercurio in Arcadia non forte fatta  d’alcuno de i fopradetti legnami , ma di quello che c   chiama     DE GL* ANTICHI ROMANI zip  chiamato Thya,& da Homcro Troìetbes ; la fpctic del rhya.  quale è limile aH’arcipreflb di rami, di foglie, d'odore &  di frutto,&comcfcriueTcofrafto, tenuto in pregio per  l’odore tra tutti quelli, che nafeono nella contrada  di Cyrcne,foggiugnendo che della Tua radice fi faccuo-  no anchora mille intagli & cofc pretiofe. Vfiirono fi Gli antichi  milmcntc gl’antichi di fare ftatue di cera & di falc, onde u b aron ? di  non è molto tempo che in vna grotta prefloà Volterra i magni &  nefurno alcune ritrouatc, fi come anchora fi trouano  molte cole antiche di vetro, tra le quali io ho vn vafo  fatto in forma della teftad’vn Moro, & ripieno il fondo  di certa compofitionc anticaglie fa molto di buono, il  qualccon molti altri fu trouatogiànel Delfinaroin ca-  la del fignore della Motta, che ne fece prefente alla buo-  na memoriadi Monfignore d’Orliens. Adopcrorno ol-  tre à quello gl’antichi nelle imagini loro, l’oro, l’argcto,  il bronzo,il ferro, lo llagno,il piombo, l’auorio, &ìater  ra grafia detta arzilla, accompagnandole permaggiorc  ornamento de iloro templi, di pietre pretiolè, & final-  mente fi feruirono d’ogni forte di marmi, portati dilon  tani paefi. Dal quale ragionamento venendo al modo  &ordinedelorofacerdoti,&facrificij,dircmo cheque- f^dlu  Ili fumo diuerfi,comeil maggiore,& minore Pontefice, Romani.  Flamini, &Archiflamini, che tcneuono i primi ordini  fagri:gl’Auguri per gl’vccelli:i Salijper Marte, & altri   preti particulari (quali come i noftri Canonici) che fur-  r rr lì 1 • i i . . . . . Sacerdoti   no afiegnati alla memoria de loro Imperatori, da poi che Augnati»   egl'erano fiati deificati, come gl’Auguftali d’Augufto,   gl’Heluiani d'Heluio,gr Antoniani d'Antonino, gl’Au - TulTiìanU   rcliani d’ Aurelio, & i Fauftiniani di Faufiina , tutti oidi- f*»fiinia-     na     220     DELLA RELIGIONE  nati per la religione, pietà, & fàntità, la quale Cicerone  interpreta per la fciéza d’adorare i loro Dei, ò più rollo  demonij,& per fare facrificij, cerimonie fagre,dedicatio-  n',confasrationi,(uppIicarioni,proccflìoni, voti &altre  loro vane pompe diaboliche, & vane fupcrllitioni.     Sicrrdotio   ic i futi   Amili.     QUffto fi-  enfi do è  detto da Li  tini. Ambir  tuli fieri.      2) e s^t Cervo ti 1 et fz^ti   Ornali elei facrificio chiamato  isi mheruale .   Omolofuil primo inuentorc di quello  ordinc,8c dicreare il primo facerdotc per  i facrificij publici intorno alle terrc,& al-  le biade , acciochc elle crcfccffino in   maggiore abbondanza , pigliando per   infegna vna corona, ògirlanda di fpighe, legata con vn  cintolo bianco, ne palfauono il numerodi xn. Quelli  cofì fatti faccrdoti,&il modo del loro facrificio era tale.  Il primo di quelli facerdoti accompagnato da tutti  graltri,&r coronato d’vna girlandadi quercia , cantando  le Iodi di Cerere con vna troia,© vna vacca pregna cir-  cundaua tre voltci campi pieni di biade, & doppo ha-  uerebeuto del vino,& del latte innanzi che fegarc le  biade/acrificauaà Cerere la troia, ò la vacca. Et il pa-  ftorcvolendoalficurarcilfuo belliame dalla rogna &  da tutte altre malattie, gli fpruzaua prima 1 acqua fopra,  &di poifatta vnafaccellinad’aIloro,& di fauina mefeo-  lata con zolfo I’acccndeua,& tre volte circondando il  Tuo belliame con certi verlì facri Io profumaua,facrifi-  candoneH’vltimo vna torta di miglio, & di latte alla Dea  Pale,auocata dei pallori, credendo in quello modo   rende       DE GL’ ANTICHI ROMANI, in  rendere ficuro( come e detto) il Tuo gregge da tutti  quanti i mali.   ~1d E q L‘ V g V X I, ET Z> E  U lor dignità.   Verta fpetie di religione fu portata à Ro- cicerone  ma & inlegnata da i Tolcani , la quale A»g»re.  Cicerone (per eflèrc flato di quefto or-  dinc^ Icriue nel libro della Natura de rate di prò  gli Dei, 8i doue egli hi parlato de Diin- ^tf^aiKo  natione,cllerc fiata tanto venerata da Romaniche non mani.  harebbono mai fatto, ne deliberato cofa alcuna dentro  o fuora di Roma,che prima non haueflìno prefo l’Au-  gurio. Anzi venne quella dignità in tale riputatione,  rifpetro allhonorc & vtile , che ne riceucuono quelli  eh erano Auguri,che i primi Romani cercauono d’en-  trare in quefto laccrdotio, come fi vede per le medaglie  di Pompeo, &di Ccfarc Dittatore, che vi mcllèanchora  M. Antonio & Lepido, nelle quali fi troua il lituo(bafto- m. Anio-  ne torto & limile alpaftoralcdeinoftri vclcoui^ilfym-  pulo,i 1 cappelloni vafo,&i pulcini , tutte infegne che  moftrano la dignità &cofe necclfaric à quefto officio.   IL LI        DELLA RELIGIONE r*   * «►   IL L 1 TU 0, S USTORI B UV-  gurale degli antichi Romani.     GIVLIO CESARE. POMPEO.   argento. a r r. f. n t o.     M. AVR.     DE GL' ANTICHI ROMANI. zz 5     M. AVR. ANTONINO, ET AEL. VERO.   RESTI T. ARGENTO.      ARGENTO.     ARGENTO.      M. ANTONIO.   ARGENTO. ARGENTO.         Erano      Nuwfro de  gli Auguri.     Augurato-   rio.   jJtuoJbajlo  ne Augura-  le.     zi 4 DELLA RELIGIONE   Erano in quello Collegio degli Auguri tre nel prin-  cipio diputati,àcaufia delle treTribu,&di poi quattro  comeficriueHalicarnalèo. Madomandando il popolo  col tempo che quello numero folle crclciuto, ve nefuro  no aggiunti cinque della Plebe & mi. Patri tij, & coll  continouò dipoi femprequeftavfanza di noueinterpre-  ti de gli Dei fino alla fine. Il luogo, nel qualcfipiglia-  uono gl’Augurijieraà modod’vn tempio, douc l’Au-  guratore ftaua àlcdcrccon latclla velata, & il Lituo in  mano,col quale fegnaua 1 quattro angoli del ciclo, eficn-  do veftito d’vna verta doppia, & lunga,tintain Scarlat-  to, &chiamata Lena, o Trabea da i Latini, come fi vede   nelle medaglie di M. Antonio , con tale infcrizione,  MARCVS ANTONIVS LVCII FILIVS MARCI  NEPOS, AVGVR 1MPERATOR T E R T 1 V M.  Et in vn’altra fi vede la terta del Sole , con tali parole  abbrcuiatc,TRlVMViR REIPVBLICAE consti.  TVENDAE CONSVL DESIGNATVS ITE R VM  ET TERTIVM: & figurate con altre di LcntuloSpin-  ter,nel modo che fi vede qui di fiotto.   m. anto"n ia     ARGENTO.      Lcntu         LENTVLO SPINTE R..   ARGENTO. ARGENTO.     Ec per venire alla conclùfione di quanto io voglio vtjtidift-  fcriuerc de gl’Augurij, io metterò qui dinanzi la. figura a»*  ritrattadVnàmedagliad’argétod’AuguJfto, nella quale SUuU '  fi veggono ifacerdoti conlorovcfti lunghe, & il fimpu  I . lo , & lituo in mano x tutti inrtrumenti accomodati alla   loro religione,   • -V P • H]        k   ■ i       fi        Wc      ite • DELLA' RELIGIONE   xXrGygt ET SACERDOTI. CHE. PORTANO L'Vfitt-  gnt tltld religioni per mejlrdr U fitti.     %     DE GL* ANTICHI ROMANI.’ I17  Quanto all’augurio de Galletti , & del loro beccare,  onde gl’Aurpici de i Romani folcuono pigiare l’augu-  rio, & giudicare delle cofefuture,anchora che io ne hab-  bia ragionato qui difopra,&chciociò ftimicofa ridicu  la, vana & piena di fuperftitionc, io nondimeno non ho  voluto mancare per fatisfatione del lettore & de gli  amatori delle buone lettere di moftrarne qui Ja.prefen-  te figura.     P a     2*8 DELLA’ RELIGIONE   FiayK^f È ITA ATT A Dt-LL c/f JUXD^GtliA D'iAM-  gmtt iiJU.Lef ìit rriummrt.       - • - —     DE GL' ANTICHI ROMANI.     I Romani hcbbcro in tale venerationc i lacerdoti  drepolli allo Aufpicio, che ei fondauono tutto il loro  giuditiodcllccolcaucnire & di quello che doucuono  fare,(opra il beccare de polli, non cominciando alcuna  imprefa che prima non hauclTìno prefo quello augu-  rio,ncl quale fé vedeu ono beccarli allegra mentc,piglia *  uonotalcofaperbuonfcgno,&lcalrrimentiaccadcua, ne de ro-  non faccuono in quel giorno cola alcuna. L’huomo,  che baueua la cura di quelli polli, li chiama ua pvll a •   Rio, & la gabbia, ò Hia douc erano rinchinlì, cavea  tVL l aria, fatta nella medelìma forma diqucliachclì  vede di marmo nella loggia del palagio dei Cardinale  Cclìsin Roma,accompagnara d’vn bcllilHmo epitaffio  pollo qui di Lotto nel modo chefegue,        wt I.     0 ST1U *P ZJ L L  ria, ritratta <Tì>n marmo antico in Roma .        * 3 o DELLA RELIGIONE ’   M. POMPEIO M. F. ANI ASPRO   > LEG. XV. APOLLlNAR.> COH. III. PR.  PRIMOP. LEG. III. CYREN PRAEF. CASTR.  LEG. XV. VICTR.   ATIMETVS LIO. PVLLAR1VS   FECIT ET SIBI ET  M. POMPEIO M. F. ET C1NCIAE  COL. ASPRO SATVRNINAE ,   FILIO SVO ET VXORI SVAE ■   M. POMPEIO M. F COL. ASPRO FILIO MINGRI     U.varro.     1 fdctrioti  differenti  fecondo le  dijferentìt  de gli Dij.      Ornamen-  to del fla-  mine Dia-  le.     Del Flamine Diale.   Sacerdoti di Giouc& di Marte fumo ora-  dinari, & chiamati Flamini da Numa  Pompilio: onde Varrone nel libro della  Lingua Latina dicc,chcgrantichi hebbe-  ro tanti Flamini j. quanti haueuono Difc  come il Diale di Gioue,il Marnale di Marte, il Quiri-  nale di Romolo, il Volcanale dì V òlcano, & molti altri  alla differenza de noltri che noi chiamiauono Vcfcoui,   Archiuefcoui, Patriarchi, Cardinali. Mail Senatodipoi   ordinò anchora Flamini à ^'Imperatori diati da loro  deificati-come gl’Auguftali per Augufto,& gl’ Antoni-  ni per Antoninoctra quali il Diale era meglio vellico de  gl'altri, & haucua la fua Tedia d’auorio, ordinata loia-  mente per i Magiftfaci, &il Flamine lolo portauail cap-  pello biancojfcnza.il quale non gli era lecito vfeire fuo-  ra dicafa-   CAP     .«Sw -'-v -        DE GL* A NTICH I ROMANI. z)i   CAPPELLO DEL FLAMINE  ritratto et i>n fregio antico di marmo eh e in /Lorna.      De Sali],           Ra tutti quelli faccrdoti ne fece Numa  anchorax 1 1. chiamati Salij,da i Etiti Io  Icnni,che ei faccuorio ne i loro facrificij.  Et dipoi Tulio Hbftilro gli crebbe infì-  noà x xiiil & di x x 1 1 n. alla fine flir-  tanti che feciono vngran Collegio^, ne potcuono  cfleredi quello ordine le non quelli, che non haueuo-  no padre ne madre. Di quelli Icriué Tito Liuio,  egli andauono cantando & ballando per mezzo la Ara-  ba, & cantando veri! Saliarij n<*l melodi Marzo porra-  uono in mano lo feudo célerte 1 chiamato , zHncilè ì in ho-  norc di Marte, come lìvedeDtr le medaglie d’Àu’truAn  <^efaxe,& d’Antonino     nmm Poi»  pii infittiti  iSalif.   Tutto  fillio.     Anale, jcu-   ànrrltM*     1     »ji DELLA RELIGIONE     A VG. CESARE.   ARGENTO.     A N T. PIO.   BRONZO.       totani*- L’acconciatura di quelli Salijcra vna velie honorc-  turddis*- uo I Cj di calore pagonazzo, con vna celata in capo,&  quando ballauono pcrcoteuono i loro feudi con vna  daga,o pugnale che portauonoin mano.     Uj,     ■<     Sdendoti   tbumeti   Epuloni.      2>e \ij. h uomini Epuloni.   Er quanto fi è potuto conofccre, quello  ordine d’Epuloni era vna fpetie di faccr-  doti,trouatida i Pontefici ppr ordinare!  conuicichei Romani faccuono,cclebran  do le fede de i loro Dij, annuntiando il  giorno nel quale fi doueua fare la cena di Gioue:doucfc  per fortuna accadcua che la folcnnità non foflcintcra-  mcnte oflcruata,con ledebite cerimonie, ci lo diccuono  à i Pontefici, che rimediauono à tutto ; quantunque i  i lutili*. GrccigHchiamaflbno piuto{ltì»^«f«, cioè,faccrdoti di  buon tem po, che fare facnficio à i loro Dij.   L. CAL     DE GL* ANTICHI ROMANI. xjj  L. CALDO SEPTEMVIR EPVLONE.   ARGENTO.      Vedeli la memoria di coftuianchorahoggi in Roma Vir<tm ^ e   • 1 _ | \ c ' c * . . , ittica che   per le paroleinragliarcin vna Guglia, o Piramide di mar fìutdcint *■  jno quadrata, che fono tali, opvs a bsolvtvm D i E _ «irto*.   BVS CxXX. EX TBSTAM. C. CORNELII TRIB.   pleb. septemviri epvlon v m> le quali interpreta*  tc voltano dire,ch'ella fu fatta in ex xx. giorni per tc>  ftamenro di Caio Cornelio,Tribuno della plebe, & del  numero di quelli v 1 1. Epuloni, moftrando l’autorità &  portanza che egli haucuono con limili parole, tv c ivs   CALDVS SEPTEMVIR EPVtONVM.   De due y cl xv. huomini.         Tarquino fumo ordinati due  mini per fare fieri ficiorà quali ne agg  Zeftio & Licinio Tribù  olì fletterò lino à temp  Sylla,chc veneaggiunfcv.altri lcuan  donc duciamo che in tutto furnox v.lacerdoci fulamcn M buoni-  tc:l’officio de quali era d» leggere & interpretare i librila-   P 3     mento il tm.  — J»< tf-     *34 DELLA RELIGIONE  cri; oSibilIini:&rifpondcre & consigliare al popolo Ro  mano tutte le cole dubbiofcjaffiftcndoiifacrificijd'A*  pollo.romcmoftra il Tri podeftampato nelle medaglie  di Vitcllio & di Velpafiano con lettere che dicono»  qvindecim vir sacris fAc ivndis. \   ; v   VITELLIO. VESPASIANOTli   '*■ •   ARGENTO. ARGENTO. *        Del gran ‘Pontefice.   Ra tutti i Pontefici creaci da Numa nc  fu fatto vno più grande degl altri,il qua*  lecol tempo venne in tanta riputatone  chenonpoteua eflerne alcuno fenonSe  t l cttione Ba^aa a natorc,& cofi m orendo glabri Pontefici  drigri fon minori ncelcggeuonovn’altro.come fanno hoggi i nc  *É“cZ* ftri Cardinali vn Papa. Haueua quello gran Pontefice  5 cura delle eofc Sagre, coli priuatc come publiche» delle   ^ . cerimonie, prodigi], rnortorijjd’intcrpretarc le cofc diui?   hp.u * nc,fegnare,{criucrc accomandarci qualialtari&r Dij fi  * doucuono fare i facrificij : & Sopra tutto. por mente 8t  ■ ’ prohibire        a :     DE G’LANTICHI ROMANI. x J5   prohibirc che nuoue vfanze non entragno in Roma   perdifturbatc,o corrompere le cerimoniedclla loro pri   ma religione & loro Dij : della quale autorità ha ferino non ricette-   Cicerone nel Po ratio ne che fece per conto della fua prò U0 "‘ 0n ^ 0tte   pria cala in quello modo» Cum multa, diuimtusfponnfi- cerimonie   ces.amaiorilms no (lri« inuenta arane inftirura fune, rum mini rt ^~   , . , J v , , 1 . / _ 1 gwnr.   praclanns quam quod )>o; @T religioni bui Deorum immorta-   lium , (g) flemma Xeipuhlica pratjfe \>oluerunt,'vt ampi fimi  clarifiimi Citte; ReipuMicabene gerendo , ‘Pontifico s reli-  gione; fapienttr interpretando , Rempuilicam conferttarenr.   Laonde per meglio inoltrare la lua autorità & dignità  chcgl’antichi (timauono tanta, eiportaua vn cappello,  fatto nel modo che lì vede per le medaglie di Celare Die  tatore in compagnia del fimpulo& lettereche dicono, ^fg^UnPò   CAESAR IM0ERATOR PONTIFEX MAXIMVS. All teficc.   chora che in altre medaglie fi vegghino la tazza, il cappcl  lo, il limpulo,&: il lituo , come proprie infegne del gran  Pontefice.     GIVL. CESARE.   ARGENTO argento      li „     *3* DELLA RELIGIONE   Non ottante quello fi veggono anchora affai meglio  cappella ^ quelle inlègnc della religione, & cappello del gran Potè  u$xT ° ^ ce nc » fregi di marmo , che fono in Roma {colpite in  quello modo.        .MM     CAPPELLO 2) E L   ‘Pontefice.     ■     • •      confetta- La confccratione di quello Pontefice è tanto ridicu-  tione dipo la & llrana,che ella merita d’efièrc tutta interamente di-  “rldentio. mollrata nel medefimo modo che l’hà ferina Pruden-  tio:il quale dice che quello Pontefice nel fuo habito P5-  tificale,con la miccra in tc(la,& la velie alzata entraoain  vna foflà,fopra la quale era vn pótedi legno tutto bue-  cato,douc dal Victimario era condotto vn toro ornato  Horr Mi tutro fi° r * > & d’oroin torno alcapo , che il detto coa-   ctto,& del fangue co fi caldo che n’v •  cr i bufehi del ponte,cra il detto Pon   teficc     cerimonie     ductorctcriuanelp  Mti - feiua & trapclaua p         Cenativi     loridi.  il tordo di *  litato libo.     DE GL’ANTICHI ROMANI. *37  teficc tutto imbrattato con fregartene gl’occhi 3 gI’orec-  chUclabia & la bocca, & coll vfeendo fu ora coli fpor-  cho & brutto,& molto terribile a riguardare, era da tut-  to il popolo falutato & adorato. L’altre cerimonie , fatte  per i piccoliPontcfici,Flamini,Archiflamini & albera-  no i conuiti magnificamente apparecchiati, de quali hi  jfcritro Macrobio dicendo, che all'entrare della Cenale tifici,  prime viuande prefentate erano fpinofi di mare, dipoi s P ino fì &  peloridi & fpondili,fpetic di nicchi , o chiocciole mari- spo ^ c p*  ne,& tordi,chc i Romani ftimorno cofi dilicato cibo,  che venuti in tauolalafciauono ogni altra viuanda , &  pc^trouarli mcgliori nel tempo d'Auguftogli riempie-  uono dentro di più buòne cofe. Dipoi feruiuòno fpara-  gi con vna gallina grafia, oingraflàta àpoda, la quale  vfanza leuò via pcrleggc & bando publico Caio Annio cjjoAmifa  Eannio, volendo che le galline fi mangiaflero,comc elle ramo.  erano trouatc,dclmodode iquai conuiti chivuole an-  chorapiù àpieno vederne lniftoria, legga Varrone &  ColumcIla,doucegli infognano tutti i modi della gola.   Doppo quelle colè veniuono piatti d’oftrighe, peloridi,  che ci chiama , Salanos nigros ffialbos, fpondilos&gly- BaUnL  comandas,fpetie di nicchi & d'altri pefei che non fi pof-  fano (non fendo in vfo) altrimenti dichiarare al nortro BeccafiebU  tepo, bcccafichi, colombcllc,vn’arifta di porco, cingialc, rorpórj  . capretti, bcccafichi impattati, po!ipi,oporpori et murici «i [angue  del (angue de quali gPantichi faccuono lo fcarlatto , &  de quali fcriuédo Seneca nella prima Epiftoladel x 1 1 1 1.  libro dice , marauigliandofi della gola degli huomini,   O quanteforti di Conchili portati di lontani paefi palla- zfcUmatti  noper loftomacodell’huqmo,chclbno ben poucri d’in * Seneca.   gegno.      *3» DELLA' RELIGIONE   gegno,&dilgratiati poi che maggiore hanno lappemo  che il ventre .El fccòdo piatto era d’vna teda di cinguia-  Ic,vn piatto di pelei fritti nella padella: vn piatto di Som-  sommta. mataj f atta delie poppe d'vna troia, che haucflTc figliato  frclcamente,lequali erano (limate tanto migliori quan-  to più erano piene di latte. Doppo quelle leruiuonoi  petti dcH'anitre faluatiche,ccrucllid’animali Jeifi , lepri,  vani detta molti vccelli arroftiti,con pani della Marca d’Ancona,  ^Ancona. * quali fifaccuo no di farina ftcmpcrata noue giorni ncl^  latifana,oalica,&poiarroftica con zibibbo in vna pen-  tlinio. toladi terra dentro alfornoja quale (come dice Plinio)  non fi poteua poi altrimenti disfarete mangiare fc non  meda nel lattc,o nell’acqua & nel mclIe.Et taleerail mo  do del cenare & l’apparecchio delle viuandede Pontefi-  ci, ripiene d’vn fi grande numero di viuande mefeokte.     2) e fi cerdoti ^ugttjldli^ di loro collegio*     I berlo Celare fu quello chccrcò prima,  il collegio defàccrdoti Augullalijdoppò  Ihauerc edificato vn ten^io ad Augu-  ro, che C,. Caligu la co nfiigrò dipoi ap-  porne fi vede     rUerio c»  fare fondi  glihngyfU     predo la morte di Tiberio  per la fua medaglia di bronzo..         DE GL’ANTÌCHI ROMANI.        CESARE. CALIGVLA.   BRONZO. BRONZO.      Scriuc Strabono nell in.Iibro della Tua Geografia che Tempio  à LyoncdoucilRodano&laSona fi congiungono in- * A w*  ficmc ,fu fatto vn altare, &vn tempio doppo la morte ’^yoM?  d’Augufto,&quiui porta vnaftatua da tutte JcProuin-  cic della Francia, la quale cofa m’hà fatto penfitre che  quello poteflèeflereilluogOjdoucchoggilaBadiad’Ai- colonne di  né,rifpctto alle gran colonne di getto che vi fi veggono w  dentro:&quiui penfcrei io che folle fiato il collegio de i  faccrdoti Auguftali, come chiaramente dimoftra vna  pietra antica di marmo, eh e fi vede nella chiefa delle Mo  nache di S. Pietro, in Lyonc,     IO VI O. M. >   (VADCINNIVS VRBId  FIL. MARTINVS SEQ.   SACER.DOS ROM AE ET A VG.   AD ARAM AD CONFLV ENTES ARA.   RIS ET RHODANI FLAMEN  ff. V 1 R IN CIVITATE   SE QJ/AN OR VM.   Ter              i 4 o DELLA RELIGIONE   Per il (opra (cricco epitaffio (ì conofcc , che non Co Ia-  menccàRoma&àLyonc,mapcr tutto il mondodoppo  la morte d'Auguflogli furono edificati templi, dcrizati  a ^ CiU ' con vn collegio di Sacerdoti detti Stxtum-'vir't^iu  Ut. gujlalesjin honored’Auguflo, comcanchora fi vedein  vna pietra fcritta alla porta di S.Giufto in Lyone,in que-  llo modo,   D. M.   C AL VISI AE VBRICAE ET  MEMORI AE S A N C TISSI MAE  P. POMPONIVS GEME LLl N VS  limi. V I R A V G. LVGD. À   CONIVGI CARISSIMAE  ET INCOMPARABILI  POS VIT.   Tranquillo Quello collegio de gl’ Augurali venne col tempo in   sagio gA tanto credito, che( fecondo che fcriuc Tranquillo) Scr-  ba A«gW * gj 0 G a lb a innanzi che fode Imperatore, vi. volleencrare  dentro, & fu riceuutotraifàcerdoti Auguflali ,de quali  inficmecol Scflumuiratohaucndo àbaflanzafcritto,&  maffime neh n.libr.delle mie Antichità di Roraacócro  all’oppenione dclI’Alciato nelm. libro.del Codice, &  moftroqual’era rautoritàdcDecurioni,&comeei dona  uono&diftribuiuono quelli offici) perle Prouincic,tor  nero à parlare della Cittàdi Lyone,la quale doppo ede-  re data popolata daPlanco per ordine del Senato Ro-  mano, paflò di grandezza, di magnificenza, & di richez-  za tutte raltrcterrcdelmondo,rifpettoallefierc& traffi-  chi che fempre fono flati in edà fatti , come ^iùi I Ugo io  ho moflro ne detti mici libri dell’Antichità di Roma,  cdcndoobligatodi pagare quello debito alla mia patria.   De     Aleuto.     lodi della  Città di  Lyooe.     X     DE C*L ANTICHI ROMANI. m»     2) e Sacerdoti di Cy Itele Madre degli Dei.   Sacerdoti di quella dea fumo detti Gal-  li^ Archigalio il maggiore di loro:i qua  li nel principio della primaucra (come  recita Herodiano)vfauonoogn’anno fa  re vnagran fella in honoredi quella, por  il lìmulacro.o ftatua della, acompngnato  dalle più prctiolè cole, che haueuono in cala, come vali  riccamente lauorati d’oro & d’argento, elfendo permef-  foà ogniuno di traucllirlì & vcltirlì in che modoglipia-  ccua celebrando quella fella,la quale chiamarono Me-  galejìa&ioè, maggiore di tutte lai tre. Quella fu folcnne-  mcntc già fatta da Com modo Impalipoi che cghhcbbc  (campato dallacongiurationedi Materno, & fattoli ta-  gliare la tella, però che clTo Commodo volendo ringra-  tiare la dea del pericolo paflàto,portò egli medelìmo tue  tele reliquicdi quella, & il popolo fecegrandi/Tima alle-  grezza & diuerlì giuochiper la falutc del Principe, chia-  mandoli Seteria, cioè,facrifìcij di falutc:dcllc quali ceri-  monie chi vuole più largamente fapere, legga ilxxix.  libro delle Decadi di Liuio.Vedclì adunque che l’officio  di tutti quelli faccrdoti non era altro che fare facrificio  à i loro demonij più rollo che Dij,inlIcmecon procef-  fìoni& orationi, oringratiamenti di qualche vetroria  hauuta, opcr mitigare l’ira dclcielo : portando innanzi  il lìmulacro di Giouc,& fu per i canti delle vie pofando-  lo fopra certi altari,quafì comc noi hoggi vlìamo di fa •  re per lafèlla del corpo di Chrillo,anchora che non con  uenga quelle vere & lecite à quelle falfc & profane ceri-  ci      Calli, Sacer  doli di Cy-  bele.   Tejla in ho  nore di <jne  /la Dea.     MrgalcfU.     Sacrificio  di falutc d't  to Sotcria.  Tifo Limo.  Qual tra  l'officio d'i  faccrdoti.     Cofiumi de  gli antichi  guardati  in trancio.      Ordine del  le procreo  ni degli an-  tichi.     Nel I-libr.  degli F ajli.     141 DELLA RELIGIONE  monic aflomigliare.Et à quello propofito io mi ricordo  hauere veduta vna medaglia di Dominano, nel rouclcio  della quale era vna proceflìone fatta da i Romani,do-  uc fi vedeuono innanzi à tutti i fanciulli chetici, & poi i  fiiccrdoti più vecchi in habito, & getto dicaminarei  tutti con vna girlanda in tcfta.in mano vn ramo d’allo;  ro,& l’Imperatore ncll’vltimo, vettito di (carlatro:onde  none dubbio alcuno che i prieghi, l'offerte, i voti,i facri-  ficij,& l'orationi fono i mezzi, per i quali s’arriuaàgl’o-,  recchi di Dio: quello che afiai bene haferitto Ouidio  quando ei dice,   Fleti itur ir ar ut 'voce rogante Deut.   Sape Iouem \idi,cum fetta mietere pellet  Fulmina, th ur e dato fujlinuijjemanttm.   L’orationeha tanta forza,fccondo Pittagora,chc media  te quella fiorirono tutte falere virtù, & ella conduce  l’huomo infino al cielo, eflendo fatta con fede inuerfo  Dio.il quale c quello che ci fa forti contro àtutte le pafi*.  fioni&r dilgratie humane,rifufcitandoinnoi Iafpcran-  za che faremo difefi da lui,&per mezzo dcH’orationcfà  remo ripieni di carità con animo di correggerci de no-  ftri errori, &nó tornare piùà peccare, comchabbiamo  fatto per il pattato, trouàdoci tanto fortificati.che cofi fa  cilmentenon potremo piùcrrarc:Sc finalmente delibe-  rando di viueregiuftamentc, & accompagnarci con la  temperanza con fermo propofito di vincere tutti gl’tn-  fortunijchecipoccttìnoaueniredi Dio, eflendo ragionc-  uole che fotte ringratiato colui,checidaua&dona tutti  i beni, il che non fi può fare per altro mezzo migliore.  fittene, che quello dcll’orationc:ilchc cófcrmò finalmente Pi*     F de   loratione  fecondo Pit  tagora .     cone     DE GL'ANTIC HI‘ ROMANI. *43   tonedicendo,chcà l’huomoera ncccflàrio d’honorarc,   & riuerirc Dio,volcndolo hauerc con elfo Iui,& prolpc murre in  rare in ogni atrionc:ondc fi vede che quelli che di que- ;ìfi  fto non hanno curarono il più delle volte dilgratiati, ne damentode  fono mai eflauditi da Dio, come per contrario fortunati  o felici tutti coloro che ricorrono à Dio, come moftra  Homcrodicendo,   o't « èiriT<i'S»T«i, ixdtut Ti<t>u»r iu-n.   Cioè, coluièeffauditodaDio,cheolIcruaifuoi precetti. colui indi   Era parimente l’officio di quelli fiiccrdou di fare ogni [ 0 h ^ e ^\  annoi voti publicidoppoleCalendidi Gennaio, come fuoiprtut-  fcnueTacito nelfcfto libro de fuoi Annali, & Plinio Se *«•  condo nel fuo Panegirico, dicendo che i Romani vfauo atiiom*  nodi nominarci voti perl’eternità. deH'Impcrio , per la rL  fanità de Cittadini, & principalmente per Ja falutc de  Principi, che è quello che i Latini propriamente hanno  detto, Nuncupare ìord, facendo facrificij publici : onde 2T* 0 *  nafccche fi trouano lettere diuerfe fcritte in quella for-  ma , vota PVBLICA, QVIN QV ENNAL1A, DECEN-  N ALI A, VICENN ALIA, TRICENNALIA, QVADRI*   c e nn a l i a , come fi vede in più medaglie di Impera -     144 DELLA RELIGIONE   severo geta:     ARGENTO. ARGENTO.      CRISPO. GIVLIANO.   BRONZO . ARGENTO.*      CONSTANTI NO. GIVLIANO.   BRONZO.' BRONZO.      Mallìm/a        MAòSIMIANO. DIOCLETlANO.   BRONZO. BRONZO. ___     DE GL’ ANTICHI ROMANI.     Faccuanfi quefle cerimonie da ifaccrdoti &? Flami-  ni vertici nel loro habito (accrdotalc alla pri Lenza de-  Confoli, Pretori &Cenfori, che pigliauono il votopubli  cp innanzi à tutto il popolo Romano.      CARAC ALL A.   bronzo     MEDAGLIONE DI   CR tSPINA.     ' Tutti iM agi tirati di poifaceuonofcriuerequeftLvo ìuotiferit-  ri in vn marmo>o in vna tauola di ramc.battendo meda  wlicchc mollrauono gl’anni domadati per ricominciar- uolc di t *■  li,cio<ì di cinque in cinque anni, di x.di xx.di xxx. &tal Wf *   O a     U       *4* DELLA RELIGIONE   volta iniìnoàxL. come moftrano le medaglieri Maf-  fentio & Dccentio,neIlcqualic ferino, votis qvin-   QVENNAL1BYS MVLTiS D E C E NN A LI B VS, ornate di   cappelletti guarniti nella fommitàdel laboro,& intór-  no lettere che dicono, v ictorue do minouvm   NOSTRORVM AVCVSTORVM ET CAESARVM.     M ASSENTI O. DECENTI O.   BRONZO- BRONZO.                 i        t-   i •■■■      I \     . \     -r       DE /GL’ANTICHI ROMANI. *47   $CUZ> O 7)1 FORM .A  oliale gratto del marmo antico .      TERi     Etpcr le medaglie d* Antonino Pio &. di M. Aurelio Ci  veggono i voti fatti per zo.anni conejueftc parole,v ot a  syscepta vicennalia,& iUàcerdotc il qual prò-,  metto de render i voti.       ;     i- ■'   ,|K3Kl   L'/ * v     Ó     Q. 4        é          MS della religione   FLAVIO Gl VL IO CRISPO ”   BRONZO. BRONZO..     Tra l’altrc mie medaglie ione hòdue d’argento l’vna  di Valente & l’altra di Teodono Irap.ne rouefei delle,  voti# jo. fi veggono i voti di xxx.&2fxxx.anni,conrimagi   tir 4 m ne di Roma à federe,chc tiene vn globo io mano con la  croce difopra , lignificando [imperio de principi Chri-  ftiani.   VALENTE. TEODOSIO.     Quello elici faccrdotidomandauonoin quelli voti  inliemecol popolosa lunghezza di vita per gl’impe-  ratori.     Ronwiù w  lor uoti,<ì  gli Dei.     DE GL’ ANTICHI ROMANI. a*?  ratori , ficurtà dell’Imperio , la grandezza della cala de cfcr donni i  i.Principi,la fortezza delleflercito^a fidelità del Sena- <<4 " 4no '  to,la bontà del popolosa pace del mondo, & Iavctto-  ria contro à nimici,comc li vede per le medaglie polle  quidi fopra,doue habbiamo villo, vie tori a domi-   NORVM NOSTROR VM AVGVSTORVM ET CAE-   s a r v m, in maniera che quelli voti hanno durato infi-  no àhogg’,&fubito che i Romani erano giunti al ter-  mine di elfi, di nuouo ringratiauono Dio,& (come fcri-  uc Plinio Secondo à Traiano)faceuono altari con facri p /&„•„ $ f _  ficij, balli, fede & conuiti, dimando opera rcligiofa &  pia,quello che piu torto fi doucua profano Si empio KO manintt  giudicare, poi che egli haueuono licenzadi fare ogni ma ringratù -  lcicon ciò fia infino che negli Anfiteatri i carcerieri  correuòno per il circo, le bertic feroci erano ammaza- noti «iu-  te, i gladiatori sbranati, & gli Imperatori faliti lopra vn piut, ‘  palco ragionauono di dare la Mancia ai-popolo , che fdtrimnti  gridaua ad alta voce, c<w ?~   Denofins dnnu dugedt ubi I uff iter dnnos. Latino, cr   Et mentre che fi faceuono quelli voti, il Pontefice era tramo di -  vcftito d’vna verta lina tutta bianca, & lunga fino ài  piedijfignificando la fermezza d’vna rifplendcnte virtù: za.   & de gli altriiàcerdoti chi cantaua hymni &peani,chi  fonaua flauti, chi la lira, o la ceterajn tanto che il mini-  ftrodcl facrificio tcneua vn bue,& vn’alcro detto vitti-  roario lammazaua,comc fi potrà vedere nelle Meda-  glie di Dominano, & di Geta per la cclebrarionc de i cMtuu*  loro giuochi, & fcfte feculari. ™ bi   5     ri.        » ■ -enfe- r*b% tljrm 4      DELLA RELIGIONE     FtGVRA ritratta     h t* (/^  gmochifeciLm d\yt*g*fb.     iiiiiii          DOMITI A N O     ANT. GETA   BRONZO.     BRONZO.     DE GL’ ANTICHI ROMANI.     domiti ano:   BRONZO. BRONZÒ.     Facendoli quelli facrificij , tutto il popolo in Geme     con l lmperatorc fi inginocchiaua.&adorauono i loro     fallì Dij,come lì vede nelle mcdagliedi Dominano.   DOMI         DELLA RELIGIONE •       Sagrauono nmilmcntc le imagini de i loro Dij > non  firn* togli per amore di quelle (come dice Platone) ma perche elle  fomigliauono le deità di quelli, come noi hoggi figuria-  mo le no(lre,& tral’altrc cofc venerauono affai la faetta  di Gioueffimaginedellaqualccra confagràta dal gran  d! UtoZ Pontefice, (limando che per quella via il popolo &lc  fiumi!*» biade farebbono accurati dalla tempefta del ciclo, co-  4i Romam. me fa vc dcpcr le medaglie qui di fotto.   TV G V S T o! A N T. P 1 0~     A’ que           DE G L’ANTICHI ROMANI, ijj  A' quello mcdcfimo effetto quello che i Cetili oflci>  ùauono& crcdcuono nella loro fupcrftitiofa religione,  noi l’vfiamo hoggi nella conlàcrationcdcllc noftrc cam Confacra-  panc, (limando che fonate caccino il mal tempo, fi co-  me egli vfauono ilfalc,l’acqua&gli cflorcifmi,pcnfan •  do che cacciafiìno i cattiui (piriti d intorno à i luoghi,   & à le perfone:ondcio mi marauiglio grandemente che  tanti begli ingegni, & valorofi faui,& prudenti huomi-  ni, come fumo i Romani, penlàflino ((appendo la licen  tiofa& dishonefta vita di Gioue) che egli hauefle forza La uta 4  di tonare, danneggiare, mandare laette, & beneficare le ^ iou *  co le humanc,chiamandolo Ottimo, Mafiìmo & Omni  potente , & perche più torto non crcdefiìnodi poi che  Chrifto era già nato di molto tempo, che come illoro  Efculapiojchci fcciono volare al cielo per forza, non hrrtligio.  poteflè più torto Giefu Chrifto hauere rifulcitato i mor- •   ti,& che ci folTc figliuolo d’vna vergine, come ei diceuo -  no che vergine era Verta &madrc de gli Dei, & chcno-  ftro Signore haueua alluminato vn cicco, come egli af-  fermauono hauere veduto fare quello medefimo mi-  racolo à Vcfpafiano in Alertandria.Ma tutta quella in-  credulità nafceua dal demonio che gl’accccaua. Ha-  ucndo aliai à balla nzaoflcruato & Icritto de l’ordine di  quelli facerdoti,facrificij & voti , i quali erano anchora,  che fecondo lefortune che egli haueuono (campate &  la qualità de voti fatti, egli appicauono alle mura de haucr t /Um  templi le tauole,douc erano dipinti tutti i cali, fi come pato qual -  hoggi fi coftuma in Fiorenza, & in molte altre chicfe f . he ca f° *  d'Italia,ondcHoratio fcriflc; Fortiuw.     Me     rnr qual ca  gioitegli ut  fichi facri *  ficomo.     Cerimonie  del ftcrifi-  ciò.     Moti.  Plinio nel  17. libr.de  tHifioria  tutur.  N«n»M fa-  cùfico il  primo 4  Dio, fecon-  do il diredi  Plinio.  Microbio.  Virgilio.     purgatione  degli anti-  chi con l'oc  qua ffiarfa.     154 DELLA RELIGIONE   Jrfe tabula facer  ZJ attua paria indicai h umida  Sufj>endiJJe potenti  ZJefimenta maria Dee.   Refla à vedere tutte le cerimonie & inftrumcnti vfad  da glantichi ne i loro làcrificij,i quali fc alcuno mi do-  mandali! perche erano fatti, rifponderei per tre cofc. La  prima,pcr honore di Diod’altraper vtilcdel faccrdote,  che impetrauafanitàper il Principc,& per il popoIo;co-  mc cofa più prctiofa tra l’altre, & la terza , per doman-  dare perdono à Dio dcgl’crrori commcflì, pregandolo  di volere fanarc l’alma inferma. Era adunque il princi-  pio di quello facrificio che il prete innanzi, che ammaz-  zare la bcflia,lcmcttcua fui capo , o Culla fronte della  farina, dell’orzo arroflito,& del fale tutti mcfcolati in-  ficine, la quale millura gl antichi chiamorono Mola,  come fi vede in Plinio, quando ei dice, che Numa fu il  primo chcfacrificò à Dio col grano, & lo pregò con la  mola falatarnondimeno innanzi che fàcrificareil faccr-  dote fi lauaua,& quando volcua folamcntc rappacifi-  care l'ira de gli Dei,o rallegrarli fi gettaua l'acqua fopra»  come fcriuc Macrobio,& Vcrgilio parlando di Didone  apparecchiata per fare facrificio,   ^yfnnam,cara mihi nutrixfuc fi fi e fororem.   Die corpus properet fluuialifargere lympha.   Etaltroue quando il detto Poeta parla della fèpoltura  di Mifeno,ci moftra come gl’ailìilenti al facrificio erano  purgati dal facerdote con l’acqua fparfa convn ramo  d’vliuo,o d’alloro nel modo chefeguev  Idem ter focios pura circumtulit inda,   Spar     DI GL' ANTICHI ROMANI, * 55   $pdrgen$rortleHÌ,(èfr rtmoftlicìi olia*, _ \   Mai Romani di jjoì in luogo di quelli rami vfarono  vn’afperge, limile a quella che fi colliima hoggi nelle  nollre chicle, come li vede in più medaglie & fregi an-  tichi che fono à Romaà quello modo.         Quelta alperge llaua ncll’acqua,douc prima era /la-  ro fpcntovn torchio accerojchchaueuaferuiro al làcri-   ficiofu l’altare. Et di qui nacque l’acqua di Mercurio .  predo alla porta Appia,della quale via ua il popolo Ro" « £££  manoinuocando Mercurio, & penfando coli fcanccl- s ^ rr fi i ~  Ure i peccati leggieri & fpccialmcnre la fede rotta , & le ‘ÌZ  bugic.Oltrc a quello ho olléruato che gl’antichi driza-  uono innanzi ài loro templi vna Pila magnifica, douc  del continouo teneuonol’acqua, con la quale li tocca-  uono prima che entrare nel tempio per fare fa orificio.     A     %}( DELLA RELIGIONE:   ‘PILLjl T 1 2t sAT DEL '   marmo antico.      *     I     !»   ir     Vfauonodi poi vn’altro vafctto minore & portatile. li  con acqua, limile à quello che portano anchora hoggi uà   nelle chicfc & fuora i noftri preti. 1 1   Fi g V a     sin   ir   tot   tf   VI        DE GL’ANTICHI ROMANI. 257     FigVK^l 2)' UK VASETTO  portàtile a tenere l acqua [aera.      Ma gl’Hebrcià l’entrare de loro templi vfauonovn Tind  gran vafo fatto in forma di Tina, chiamato da i Latini altrimenti  lal>rum ì del quale i facerdoti che andauono per (acrilica-  re pigliando dell’acqua lì lauauono le mani,& i piedi, & il modo di  volendola benedire vi gittauono dentro le cenere della f ar l ac ì u4  vittima arfa,& di quella con vn ramo d’hifopo bagna- degli h «-  uonogl’alfiftenti, benché io ho ofleruatoche nella fine trfi *  de loro facrifìcij, quando il fuoco era per mancare, vi  gittauono fopra certe fcheggicdi cedro, hifopo , & co-  rnino, & della cenere diqucfte tre cofefaceuono l’acqua  facra.Douec danotarcchein tutti i facrifìcij antichi lì rrèfortidi  trouauono tre forti di purgationi,cioè di pino, di zolfo, pmrgationi  & d’acqua, quello che conferma Plinio nel vi. libro  quando ei dice che la teda, o vero pino tra tutti gl’albc-  ri, che fanno la ragia, è molto grato per il fuo fuoco nei   R     i5 8 DELLA RELIGIONE   vrodo. facrificij. Del zolfo (come dice Proclo) vfarono i faccr-  doticon 1 alphalto o bitume, & acqua di mare nelle loro  purificationi,pcrchc il zolfo per l’acutezzadcf fuo odo-  zoìfo. ^ re ha forza di purificare.Et Plinio /criue che il zolfo è  buonoalla religione &per purgare le cafe col fuo fu-  mo. Oltre a quello i fàccrdoti ftauono conrinenri & di-  giunauono prima checntrarc al facrificio,ondc volen-  ti»* ^.° ^ uma Pom P'^° pregare perla ricolta & facrificnre,  Tompj&di s aftenne prima dal mangiare della carne, & dalle don-  GiulUno nc. Et Giuliano Imperarore(fe noi vogliamo crede-  spartùno. re a Spaziano) fi contentò prima che andare al facri-  ficio di cenare d’hcrbe & di pere folamenteicon ciò fia  (come dice Porfirio) che l'vfo della carne nuoca piùto-   fto alla fanità chele gioui,confiderato che le infermità   nenzf. afii ' fi N g uarifcon ° benc fpàfo per dieta. Et cofi per fobrie-  ta,pcr carità, & religione debbiamo cercare di purgare,  & nettare l’anima , acciochc ella viua ficura contro ì  ogni pericolo che le poteflè auenirc, cacciando da noi   . tutti i penfierichecipo{Tonoporrarepregiudicio,&o£   fufcarci 1 ingegno & la ragione, confiderato che I’afti-  nenzaguardal huomo di peccare, la /obrietà fa finge -  TauoUfu- gno fottile,&ildigiunoperl’eflèmpiodellatauoIa/agra  bru'dì ri- & ^ 0 ^ r,a ^ e P‘ ta g or,c, >cifa viucrc lungamente. La legge  tagorid. de i Bracmani era tale, che ella non patiua , che alcuno  ugge de entraflè nelloro collegi o,chc non potelfe aftenerfi dalla  diunto i carne, dal vino, & dal peccato. Et le noi porremo ben  hjUncnzi. mente al x xx v. libro di Tito Liuio, noi troueremo  il digiuno c ^ c il digiuno fu oflcruato per «lamichi, quando ei di-  ojjWo ce, che comandando il Senato all’officio de’Dicci huo-  Sf anti ' mini di riguardare i libri Sibillini,pcr intendere il /igni-     DE GL’ANTICHI ROMANI,  iìcato d'alca ni prodigaci rilpofono,chc bilognaua di  cinque in cinque anni ordinare i digiuni in honore del-  la Dea Cerere. Ma quanto alla continenza, ella c vtile  all’anima &r al corpo,comc inoltrarono ilaccrdori de-  gli Atenielì chiamati Hierofantes , i quali lìcallrauono h icrofdn*  col bere il fugo di la cicuta.Ne balla quello (blamente, Us ‘  che ei bifogna fpogliarlì d’ogni affezione & pallìone  particulare , come dice Cicerone nelle Tue queltioni cicerone •  Tulculanc, chiamandole pcllifercmallattie dell’animo:  ondeincambio,che gl’antichi penlauonodilauare con  l’acqua i loro peccati , lauiamo noi con la penitenzai penitenza  noltri euori/eguitandoin quella la Temenza di Seneca. èilueromo  in Thiefte,dooc ei dice, t&fi'ì /£   Qutm poenitet peccajje,pene e/l innocens.. Iute.   La quale cofa ci feruira di vero zolfo , Se vera bitume , Seneta *  come Icriflc Ouidio,nel libro </r Tonto, ouidio.   Sape leuant pcenas,ereptd<jue lumia* reddunt,   Cùm bene peccati poenieuijje V idear.   Vlauono anchora gl’antichi rElcmolìna , come ferme  Spartiano nella vita d’Antonino Caracalla, dicendo, s P* rtiano '  'Nontenaxin Urgitionem , non lentus in eleemofynam. Ec La limojìn*  Homcro narra d’vn giouaneche s’adira con Anrinoo “ ^P r< \“  Proco, perche egli haucua ingiuriato vn pouero huo- m tr^gU  mo, che gli domandaua la limolala innanzi aH’vfcio R- 0 '"*'"*"»-  della Tua cala, inoltrandogli che Diocclclle lopunireb- *** **  be.E' certo che i laccrdotidc Gentili innanzi che fare tf*eerdo i i  facrifìcio lì confeflauonod’hauereerrato,domandando  (come dice Pitagora & Orfeo) ài loro Dij Tempre cofe facrip.care  giulle,doppo la quale confcdionc publica il preteche u f auAno ld  andaua innanzi & miniltraualecole fagre vfaua di f lr co ^ c P ,onr ‘   R a     2.60 DELLA RELIGIONE   silcntio ne - mili parole, hoc age , per fare che il popolo tacef-  <'ir™ ncl fc,& ftclfc intento à i facrificij, facccndo fare largo con  grf . 7 vna bacchcttaùlqualcfilentioè neceffario nelle cofcfa-  grc,come Icriuc Ver^ilio quando dice,   Hinc fida filtntia fiacris.   Non elfendo dubbio alcuno che ogni bene procede  rune ft- d a l poco parlare. Et coli il prete comandaua fautrtfa-  trfto. crù,ò funere linguis , che altro non è (come dice Fedo)   che honafiari, le quali parole io ho vfate latine per non  vfeirefuora de termini antichi circa ài facrificij, maflì-  « inamente che i noftri poethvolcndo dire filentio, vfa-  rono aliai quello \cxbo fiauere. Finalmente quando il  -, . prete s’appreflaua all’altare per facrificare, ei lo trouaua   ornato in quello modo,   FigVX^i 2 ) 1 U ^ LT^XE 0  nato de fiefioni,come fi vede nel marmo antico .      ' 1 .   i   i     (   \(   1   1   (   (   li   (i   G   1 .   t   F   a   !   il   ti   It   ri   i   t   i   ■<a I   ♦   3      Menandro.     DE GL’ ANTICHI R OjM ANI.   Et il faccrdotc era coronato d’herbe chiamate ver- verbene.  bene, per edere appropriate,& (limate felici ne i facrifì-  cij.Ie quali coglieuono in luoghi fagri : quantunque noi  impropriamente parlando chiamiamo verbene Tallo-  ro,Tvliuo,& la mortine, nondimeno Mcnandro afferma  che quello era proprio la mortine vfata nelle loropurifi  cationi infieme col Pcntafìlo,chc noi diciamo cinque  foglie:anzi erano gTantichi d'oppinione che Tvliuo foflè proprietà  albero tanto netto &puro,che fcvna meretrice, o altra ^Muo.  femina impudica lo toccaua , o piantaua,non portadè  frutto, & fi fcccadè.Et benché gTantichi ornaffino i lo-  ro altari di quede foglie , pur nondimeno (limauono  che ogni Dio haueife la fua hcrba,& albero particularc:  comeGioue Te(cuIo,ch’è vna fpctiedi quercia, Apollo  l’alloro, Minerua Tvliuo, Venere la mortinc,àcaufadel  fuo buono odore,Pan il pino, & gli Dei infernali Tarci-  preflò, per non rimettere mai quefla pianta vna volta f° tagliato  tagliata, non più che vn morto non e buono à nulla:   Bacco Tcllera,& Hercolcil popolo nominato di (opra. veUeraeo-  Stimauonoparimentechc ogni loro Dio hauede vna- *  nimale proprio, come Bacco la capra,o ilbecco, perche ogni dìo     I Romani  eonfatraro -  no ad ogni  Dio la fua  berba.  Varcipref-     ei nuoce alle vigne. Cerere la troia, perche guadale *»  biade, Diana ilceruio & il cane, Nettunodl cauallo per proprio.  le ragioni allegate di fopra,Fauno,laca^l,Gioue il to-     ro, Efculapio il gallo, & Ifis , Tocha. NclTimmolaré  adunque, o (àcrificarc quedi animali, il Flamine, o fa'-  cerdoteera veditod’vna vede di lino bianca, chiamata  da Latini lignificando che la purità e grata   àDio,& perche ogni colà che efee della terra , è nel fuo t fce di u  principiopura & nettadaquaje vfanza c anchora hoggi terra ' m ~   R 3 “ t0 '     Zdi DELLA RELIGIONE  trai noftri preti nella popa di loro faenfieij, & nel prin  cipio che egli entrano all'altare : & vogliono alcuni che  gl'Egittij ne fodero inuctori,vfando le dette velli ne i fa-  crificij d’vn lino detto A^/flWjonde fu detta la vede Xylin*  rUnio. nel modo che lo IcriuePlinionel xvi ni. libro dell’Hi-  cucrone. fLoria naturale. He Cicerone dice nel libro delle Leggi,  che il colore bipco e molto grato à Dio:&r che le vedi  colorate non debbono fcruire le non à gl'huomini di  HrfWfo de guerra:fomma, che quello habito faccrdotalecra fi lun-  [kcerdoti go,ched’ogni parte dracinaua per terra, come lì vede  per la prclcnte figura.      SACRIFICIO TIRATO DEL MARMO ARTI,  co Ài Jlom*.     Veluuon      DE GL' ANTICHI ROMANI.' a * 3   Veftiuonfi ancora quelli faccrdoti d’vna tonaca dr-  pinta,&foprala tonaca vna falcia intorno al petto, fi  comcparlandodiNuma Pompilio ha fcritto Tito Li-  uio,dicendo che ei creò à Giouc vn Flamine Diale per-  petuo, vcftillo d’vna bella verte , &gli donò la Iella Cu-  rulc:& clic oltre à quello ordinò xii. preti Salij per fa-  re lacrificio à Marte, vertendoli d’vna tonaca dipinta  con vna falcia di rame intorno al petto, quali nella ma-  niera che vlàno hoggi i noftri facerdori.ma di feta orna-  ta d’argento, & d’oro, & di piecre pretiofe.Ornolli Umil-  mente d’vn cappello di la nabiàca, chiamato Albogalc-  ro,il quale perche à caufa del troppo caldo non pote-  uono Iellate fopportare,fi legauono vn filo intorno al  capo,non ellendo loro lecito d’andare lènza nulla in te-  rta,nondimeno bifognaua che idi delle felle lo portafli-  no,pcr moftrare meglio la dignità facerdotale: oltre à  tutte quelle cofe bifognaua che il facerdore antico ha-  uerteil caporafo/ccondoil modo degli Egitti] , come  fcriuono Herodoto&Plinio,dicendo che altroue i pre-  ti portauonoi capcgli,main Egitto nonronde Com-  modo Antonino volendo portare (come fcriue Lam-  pridio)rimagined’Anubi,bifognòchefiradefie il capo:  ia quale cola gl’interpreti della Icrittura (aera , & mallì-  mc S. Hieronimo hanno interpretata che la tefta rafa  non vuole altro lignificare,, che la depofitionc di tutti i  penficri & cofe temporali, & che la corona, ò cherica  de ipreti fignificala corona del cielo. Ma ritornan-  do alle cerimonie de noftri facrificij antichi , dico che  quando fi veniua à facri ficare , il facerdore voltando-  li dallaltarc inuerfo il popolo, fi mcttcua la mano al-   R 4     Tonaca do  i fateraori.   Tito Lir.  MÌO.     A Ihogale-  royucjlimtn  to del fla-  mine Diale*  Alfacerdo-  te non tra  lecito an-  dar con la  tefta ignu-  da.   il facerdo-  te antico  baueua la  tejta rafa.  Commodo  fi fece ra-  dere il ca-  po.   Hieroni-   mo.   Cherica de  freti.     Segno di fi-  lmilo.     *?4 DELLA RELIGIONE  la bocca, lignificandoli il filcntio, quali nel modo che fi  sonatori volgono i preti di noftra religione : nel quale mezzo *  "io. ^ auc ‘ & ^ cctcrc fonauono,i quali flauti ne i facrificij  erano di boflolo : & nelle fede & giuochi fècolari d’àr-  ornamento g cnto > & la vittima paffo à paflo andaua caminando  4riu uitti- verfo l’altare ornata di fiori intorno al capo, & certi pa-  m ' ternoftri dorati, che le penderono dalla punta de corni,   efifendo condotta da i vittimarij mezi vediti d’altre pelli  ntn , JU di beftie,chc egli haueuonogia facrificate, comcmoftra   Ouidio dicendo,   -Induraque cornilus auro  vaglio. Vittima. EtVergilio,   vlinio. ^ ft atUdm ante ar4S dUrata fronte iuuencum.   Quello che ha confermato Umilmente Plinio , nel  xxxiii. libro deH’Hiftoria naturale, douc ci dice, che  non fi penfaua nel fuo tempo ad altra colà che trouare  vna gran bcftia,con le corna doratc,pcr farne honore &  facrificio «à gli Dij immortali nel modo che fi vede qui  difotto.     FIG V      DE GL ANTICHI ROMANI. is 5  • FiCjVR^ YlrTZrrfZi IdeZ   marmo antico, che fi vede in Roma.     Mala viteima minore cheli doneua imolareà qual- i» oUtione  che Dio,era coronata d’vn ramo delle foglie dell albero  dedicato arale Dio,o veramente d’vna falcia di lana,  chiamata infula, dalla quale pendeuonoduc bendedette  Tal viti da Greci, & Vitu & a i Latini, & fe menata all'alta-  re Lenza clfcre legara(quantunquc per l’adietro ella lo fo  ledè ellèrcjcome inoltra Iuuenaledicendo,   Sei proctil extenfum perulans <j uatìt hojìia funem.) segni di   ella faccua refiltcza d’accoltarlì , o fi fuggiua,o che per-,  colla gridaua,o cadcua da vn’altro lato che quello, che lime de ro  dilègnauono i Romanici pélauono quello cllere mal- mani •   R 5     Virgilio .     1 Vittima  ri j dowrjli-  t duerno le  bejUcperle  vittime.  Tranquil-  lo.   Audacia di  Ceftre.     Btfticpiù   utili ithuo         a<r<? ‘DELLA RELIGIONE'  l’augurio,# illacrificio non grato à gli Dij, nondimeno  non lafciauonod’ammazzarlaful luogo medcfìmo,do-  ue era fopragiunta, come per contrario,pigliauonoin  bcne/c pacientcmente ella afpcrtaua il colporqucllo che  ha moftro Vcrgilio in quel verfo,chc dice.   Et duElus cornu Jldbit fteer bircus dJ dir dm.   & Hadriano Imperatore nelle fuc medaglie.   MED. GRECA D’HAD~RIANO.   BRONZO. _____ BRONZO     Dipoi per ouuiare à quefli dubbi) , Scnondiftur-  barei {acri fìcij,ordinorno gli antichi i vittimarij à po-  lla, che domellicauono le beftie, & coli facilmente le  conduceuonoaH‘altare:quantunque Celare del fuggire,  o non fuggire della vittima(come lèriucTraquilh  faceflèconto,&non IalcialTedi combattere doue  rione lì prefentaua : anzi fumo gl’antichi in quelli,  riolì , che prima che itnolare vna bcftia.la poneuo  mentedaleapo lino ài piedi, accioche ella folle fènz  "^ , ~ula,& coli pcnfauonodouerc cflerc molto piùgra-  Ioro Dij.Etfurono le vittime vfatedai Romani,!*  ;a,la troiani bue, &la capra,comebellicpiù man-   fuece     DE GL’ ANTICHI ROMANI. z6 7   fuctc& facili à condurre douc l’huomo vuole, & an- no, trono  cho come beftìe più vtili alla vira dcH’huomo, con ciò  lìache le pecore danno il latte & la lana, & i buoi lauora- p t u e de «-  noia terra , & del jfelo delle capre gl’antichi faccuono ft roniin  feltri per la pioggia, & delle pelle dccaftroni cucite in- v ^ 0 ‘* , ^ oUd  ficme , i foldati mantelli perla guerra.Et coli nelprin  cipio del facrificio illàcerdotc Romano veniua all’al-  tare velato Scoronato d’alloro in compagnia del coro  di fanciulli^ fonatori di flauti & di ccrere.che fonauo-  no&cantauono,come moftralaprefcnte medaglia di  Longino Triumuiro.     ti Romani  perla gu nr  ra.     LONGINO TRIVMVIRO.     ARGENTO. ARGENTO.      Oltre àqueflo non farebbe parfo interamente buo-  no ilfacrificiOjfc illaccrdore non haueflè tenuta la ma-  no fu l’altare , come ha moftro Vergilio nel 4. dell’ Ac- vtrgilio.  neid.doueei dice:   Talli ut orantem JiBis ardfijue tenentem ’ *   ^duJtit omniporens.     Volta     168 D E L L A RELIGIONE   soltuono i Voltaua Umilmente il iàcerdotc il vifo all’Oriente nel   g^Umt P rc g arc gli Di j, -fida mattina di buon’hora, {limando  titutxr f*- gl’antichi che quello folle il tempo proprio, nel quale gli  ucrfrorié- Dci lecndeuono nel tempio perricctiere & vdirc i prie*  te. ghi,& voti di queflo &dic]ucllo:Ia<]uaIev{anzahabbia  Forano, moritenutaanchora noi ncllanoflra Rcligione:& Por-  fino ha voluto che le ftatue & entrate de templi fiano  tutte volte aH’OrientCjConforme in <juc{lo(feben miri-  cordo)con Vitru uio.   ' FiqLm^t TlTt^T^l Z> L-  la colonna di Traiano.          tifine 1     DE GL' ANTICHI ROMANI.  Doppo quello il facerdote pigliaua tra le corna della  vittima del pelo, & lo gitrauafoprail fuoco accelo, nel  modo che ha fcritto Vergilio quando dice.   Et fummat carpens mediti inter comua feto*»   Jgnibta imponitfacris.   La quale fuffumigatione fatta con altre di frutti &  biade primaticcie, chiamate dai Greci come fi   vede per la prelènte figura.     i Co     Virgilio .     Fl^VR^A T> E COLTURE,  don erano polle le primicie ftj fruttijnnanzi  cine facrifìcafiino.      Gl’antichi penfauono quelto cflcreaugurio di futura  fertilità, rendendo gratic à gli Dij d’cflcrc arriuati in vn  tempo più ciuile,& più bcllo,nel quale in cambio di ghi  ande & d’orzo potcuono mangiare viuande più dili-  catc. I granelli di quello orzo mclcolati con Tale ( Sic   mifcel      a 7 o DELLA RELIGIONE   Cerche mef tnifìellam inteìligunt Oraci ex hordeo, & f*le> mar eri am )  Ronuni f- fichiamauono Ole&cUle,\ quali coli magiauonagl'an-  orzo con il tichi,prima che folle in vfo il macinare. Ne vi mefcola-  rt ficrifi- uono *1 P cr h fertilità, eflcfndo cola (Ieri le, nc manco   àj. per ringratiaregli Dij,ma perche lo Rimarono vn lega-  Uftlcriprc mc £ f e£ , no d’amicitia , & di qui nafceua che innanzi à  game dumi gl hofti&aglamici liprclentaua il (ale prima che tutte  citu. l’altrccofè, volendo /igni ficare la fermezza dcH’amici-  tia,& moltrarechecomedi più acque fijfavn corpofo-  Iidò(quajc c il (ale)cofi della volontà di più perfone fi  genera vna perfetta concordia & amicitia. il medefimo  faccrdote d ipoi gittaua tra le corna della vittima la mo-  la, & verfaua del vino,comehà moftroVergilio, douc  ei dice.     Simbolo di  ucraamici-  tu.   Mola.     Vrobatione -Frontone inuergit vinafacerdos.   della uitti - lignificando per quello che la vittima era crcfciuta in di  ma " gnitàr&ancho lo faceuonopcr prouarc fecllahaucua   paura , {limando che lenza la mola il ficrificio non era  . . grato à i loro Dij:&: il vino era portato in vn vafo detto  l 0 . Prcfcriculo,per vnodei miniflridel lacnficio,nclmodo   chcfe ne veggono à Roma invìi marmo antico.   VUSO         DE GL’ANTICHI ROMANI.     171     VUSO, Tinnirò DEL M^tR-   mo antico-, chiamato ^ref inculo.      Ma innanzi che il prete fpargefleil vinofu la tcftadel-   Ia vittima, eil’aflàggiauacoì/ìmpulojchceravnaltro pie s imputo.   colovafo , fatto nel modo che fi vede qui difotto,& ri-  tratto da diuerfi marmi & medaglie antiche.   SI MTV LI TIRATI D‘V 2ST  fregio dntico cine in Roma.      Ne man       t 7 i DELLA RELIGIONE   i Ro»Mn{ Ne manco fi faceuono quelli fiicrificij fenza fuoco, il   non fucrifi- q Ua J c era dilegnc (ceche porte fu l'altarc,fi come vfiamo  ““fuoco, anchora hoggi ne i noftri facrificij (non per ouuiareallc  tcnebre,ma per moftrarc nell’adoratione fegno di gioia)  & come fi vede per il candeliere de gl’antichi, fatto in  quella forma,   CERVELLI ERE, RITRUT-   to del nurmo antico.     M ^ Lclegnedel detto facrificiononpoteuonoc/Ièred’v-  téttiu o tu- liuo,d’alIoro,ne di quercia, perche gl’antichi ftimauono  *’"*• che tutti quelli alberi faceflìnocattiuoaugurio:& quan-  fidccold il do il facerdote racccndcua,pigliaua vna fiaccola di pi-  P in0 \ • no guardando bene di non errare fecondo l’ordine delle   Cerimonie ’o , • i , i i< -t   primdch oc loro cerimonie antiche ,doppo le quali il prete toccaua  eiderUuit- | a k e ftj aC0 n vn coltello, dalla iella per infino allacoda,  yergìlìo, come ha moftro Virgilio, douc dice»   Et     V DE G’L A NTICHI ROMANI. 273   (. -Et tempora ferro   ' Stimma notar pecudum.   Comandando dipoi al vittimano di mettere i coltelli fo  pra alla bcftia,come dinuouo ha inoltrato Virgilio qua  do dice,   Supponunr alif cultros ,   Et di qui c nato che gl’antichi diceuono mattare, cioè  crefccre,percotcndo la viteima con vn maglio/atto nel  modochefi vede qui difotto,   MAGLIO ET SCURE   con quali ammazzinone le Vittime.        Non era lecito à i miniftri di percuotere la vittima» ^   fé il faccrdote non Io comandaua;gI habiti de quali per i mnìjbi  cflerc differenti , mi è parfo inoltrarne la figura qui di- d, ff eTtnte >  (beco.      S     *74     DELLA RELIGIONE     FICfV'R^l Z>’ l MJlslJSTXJ   del facrifdo, ritratta del marmo antico.      Et tutti quelli ch’andauono innanzi 1 . grand jfacrifì  cijdicenro buoi, chiamati Hecntombc,ciòè trombet  ti, fonatori di flauti, o dicorni, & quei chcconduccuo  no le vittime , óccheporrauono i vali, Se altre cofe ne  ceflaric per il ficrificio, èrano differen temerne corona  ti, 6i vcftiri *ncl modo che fi vedc.qui difolto,     H eeatobr.     SO      DE GL’ ANTICHI ROMANI.     no innanzi alle vittime,      Quella vittima era bene fpellbammazata di coltello, colteUochi  fubico che il làcerdotc comandaua di ferirla nella gola, Sf "  il quale coltello, chiamato Seeejpira, era limile à quello  ritratto da i marmi & fregi antichi , che fi veggono in  Roma.   S a        ■v       DE G'L ANTICHI ROMÀNI. zf?     Wf i <K1 / X r z J ! qjj ^ L 1   ammazzino le vittime.     Etalcunialtri tcneuonograndillìmi bacini da loro  detti difchi,per riceucre gli inteftini della beftia,Ia forma  de quali Ci vede in Italia & in Francia in molti luoghi  fatta à quello modo.     S       Tutte quelle colè non erano fatte lènza millerio, con  ciò lìa,chc doppo haucre glatichi lacrificato i buoi, per  Mijitrio memoria del facrificio,& in honorede loro Dij faccuo-  no f u I luogo (colpire 1 bacini, &:i tcfchidc buoi, có fcfto*   pojitnticni. # . c • . \ | . r , . .   nnntorno.comeinpiulati li vede mgran marmi anti-  chi, & maflìme fopraà gl’archi delle pone di S.Giufto in  Lyonc.     2) 1 S CO, 0 2 CI     Fregio        DE GL’ANTICHI ROMANI, *7*   FX3 q io TTYZTro Wltm   marmo antico eh' è in Lyone. •       Pelle detto  vittima in-     Alcuni alcri,lcQrticatada vittima/accuorio rtietrère la  pclleconl’altreinfegne della religione, dormendo bene  fpeffone i templi fopra le dette pelli, per affettare la ri- religione.  fpofta de iloro Dij,come mollraVerglio, quando dice, y  ‘Pellihus ine uh ut t JlratisJomnofque perirne.   S 4     vìD l “     UT''        I Giu     Etficomeletcftedc buoi erano quiui collocate per  moftrare la pietà & la religione, & tutte le loro cerimo-  nie vfate nei facrificij, colici mctteuonoanchora quelle  de caftroni facrificati,fi come fi vede nel fopradetto fre-  gio, onde io ho fatta ritrarre la prefente figura.     a i ,/V'y, '■ ' . ^ x yfq   i8o' DELIA RELIGIONE   /. TESCHIO DEL' TO X q  mejfo tra le infegne della religione.      DE GL’ANTICHI ROMANI. ito  ‘ I Giudei (come fcriue Straberne al vi. libr.)haueuo- i Giudei  no anch’eglino quella vfanza di dormire ne i tcmpli,&  di vegliami dentro , come faccuono i Romani , perche tomcTUo- ■  comehà detto Cicerone, gli Dei parlano (blamente à mni '  coloro che ei trouano dormendo : la quale vfiinza (co-  me (criucEufebio Panfilo) fu dipoi tolta via daCoftan E “A bio  tino,auertito de i maliche fotto colore di bene fi face-  uono là dentro.     ‘PELLE PELLAI VITTIMAI.      Vltimamcnte il fiicerdotefaceuarizarc vna gran ta-  uola chiamata EncUhrnjz ome i vafi , che fcruiuono per  ifacrificij, fumo detti EncUbria, , fopra la quale faceua  porre la vittima (parata percercarcdiligctemente gl’in- QsoUinte-  teftini (quali erano il cuore,iI polmone &il fegato)con  vn coltello di ferro,& cognofcerc fe gli Dei s’erano con- *   tentati del facrificio & pacificatila i Greci (come' fcri-  ue Paufania) appreflo hauere guardati gl’inteftini de Taufaù.  glagnclli, capretti, & vitelli, folcuono predire le cofc  ■;.v: - - _ S 5          jl8i della religione   officio de future.EfgrArufpicioflcruauonofolamentclc fiamme  t^nelfacri' delfuoco,dal q ua le era la vittima abbruciata. Hauen-  ficio. do i faccrdoti coli bene effeminati gl’intcftini , faccuo-  no diuiderele membra della beftia, & quelle coperte di  farina,& polle in vn paniere, ne faceuono offerta à c o-  lui,chehaueua fatto il fecrificio,&cofì (limauono la vit-  tima pcrfetta.il coItcIlo,col quale era la vittimafquar-  DoUbré tata, fu chiamato Dolabra ‘Pontifici* , fi come Tito Liuio  ponfj/icu, ha nominato quello, col quale fe le tagliaua la gola , Se-  ua,yel a fecando SeceJj>ir*.}Az i coltelli, coni quali s’am-  mazzauonoi piccoli animali, fumo detti Cultrii come  ottico nel hàmoftro Ouidio quando ci dice,  il TrJff ‘ ‘PercuJJufque [augnine cultros  form, lnficit.   Et de gl abri coltelli che feruiuono alla caccia, detti Ve-  natori) cultriy ha fatto mcntione Tranquillo nella vita  di Claudio, douc ei dice , Reperti eejuejlri ordinuduoin pu-  hlico cum dolane & "venatorio cultro. Solamente i Giudei     Coltelli di nelle loro circuncifioni vfaronoi coltcllidi pietra.   putra per *   e™™"' ~SCVRE ET COLTELLA [A N TJ CH ì\      Laltro      • DE GL’ANTlCHI ROMANI; Ì83  L altro coltello , col quale era fquartata la vittima, coltelli per  era fatto nel modo,che fi vede qui (otto. uìttim ^     ^ LTXO CO LTE L LO ^ANTICO.     Inuitami la diuerfitàdi quelli co!telIi,& per fare pia- piwr p f j  ccreàgl’amatori delle cofe antichc,à riprefentare quindi de coltelli  forco la figura dei coltelli antichi, che i vittimarij porta- *  uono appiccati alla cintura in quello modo.     COL     i8 4 della religion e   • COTTE L Li CHE ‘PORT^V^'HO  w »*» ordinariamente i ZJittìmarij alla cintura.     4      Etfc alcuno purefteflc anchora in dubbio del mo-  do di quelli facrificij, mi è parfo di riprefcntarc qui al  naturale quello che fi è potuto ritrarre della colonna di  Traiano à Roma. .     S.JCR 1     Bh>'ob -A. ih' iup 31 l MI 51   ■1141^     ♦Ha .     ; t pn jnnr. 3 KV)*j   f ■ :J. ^ 'ff ’   !:Ì,W MJtll 11 * 03 1     n I :        ,obomofbop ni Mina; ; sjbinoàiq ; : onta*         DE GL’ÀNTICHI ROMANI. zfy   s uc r i fTcTo~~u wr Tcori fxZf ttò   dalla colonna diTr alano.      Riguardata la vittima, & fatto preferite al facrifica-  tore di pezzi migliori , il prete gli faceua abbruciare fu  l'altare, quantunque benefpclfo la carne reftaflè i i fa-  ccrdoti doppoil (angue fparfo fu l'alrare,come hi tno-  ftro Vergilio quando ei dice,   Sanguinis @r [acri patera*.   Mane gran &crificij .dntida i la   vittima h gittaua tutta intera dentro al fuoco , come hi  dimoftroil mcdefimo Poeta dicendo,   Etfolida imponunt taurorum inferra fammi s.     La       itt DELLA RELIGIONE   La quale carne non era coli torto porta dentro a 1 fuo-  frtu ì'tc- co, che il prete vifpargcua fopra delì incenfo del corto,  nerliiuen- & altre cole odorifere, che ci pigliaua dentro à vna caf-  fetta detta ^ cetra da i Lati n i,& de noi hoggi Turibulum ,  come moftrala predente figura,   , t ~ . ~ ‘ d   C S S E TT yA DOVE TEMEVANO   ifacerdoti line enfi.      W ’ :     il uino in Qucfto iflccnfo,o profummo (comeio penfo) s’ab-  ufo ntl fa- bruciaua per amorzarc il cattiuo odore della carne  «rifido, abbruciata, doppo il quale il facerdote vcrfauadcl vino   rane in mag fu l’altare , & all’hora fi ftimaua fornito il facrifici     tono in ma g LU I aitare , oc auuuia u muuw lumuu n facrificio,  gior pregio quantunque il più perfetto & maggiore era tenuto quel  mi Curi - j Q ^ c j lc ^faccuad’vnatroiajd’vn toro,d’vn becco, &d’vn  montone, & appreflo àgl’Ateniefi d’vna troia.d’vn mon-  tone & d’vn toro,chiamatodai Romani Solitaurilia , &  fatto da Cenfori ogni cinqueanni,pcrluftrarc,o purga-  re la Città di Roma, come qui lo dimoftra la figura,   "" ■'* “ ' ~ “ SjLCZi     nel facrifi  ào .   Solitauri-   lia.     DE GL’ ANTICHI ROMANI. z8 7      SACRIFICIO CHIAMA TO S 0 L 1-  taurihajirato dui marmo antico.     ~ Qiì e ft ovoca bolo,folo,dirnoflra laqualirà delfacrU  ficio, cioc che egli era perfetto & intero, conciofia che  Solum in lingua T ulca lìgnificaua intero, come dimoierà . Solum -  Tito liuio, chiamando gli ftrali fohferrei,cioè tutti di T i itoiiuio.  ferro.Nel refto & vlrimo de làcrificij i medclìmi preti  apparecchiauono la cena, alla quale era permeilo di Ctnd ^ i  trouarfì à ciafcuno, che era flato prelènte aIlacrificio:& preti Ro-  di quel che auanzaua,poteua il facrificarorcportarc & mnu  donare ài parenti, &à gli amici,qualì come li fa nella <   noftra religione hoggi del pane ,che ogni domcnicair   diftri      i38 DELLA RELIGIONE   nijlribu- diftribuifce per Icchicfc.il modo del loro mangiare craj  tionejetta nc l tempio ftauono tutti ritti con certi panetti ton-  ati anti * diin mano, mentre che ficantauono d’altra parte le lo-  «*>*• di di Dio , facendo cuocere la loro carne dentro à vn  vafo detto Olld,&. da noi Pentola, nel modo che da i  marmi antichi ella fi vede ritratta qui difotco. •      PENTOLA DOVE 1 S UCÌtl El-  ettori ftceuano cuocere Ucarne de li facrijìcij.      Hauendo anchora olìcruato per la icultura d'vn'al-  tro marmo antico, che fi vede fopra la porta della chicia  di Bcauieu ixn. leghe di Lyone.comcdoppo che la vit-  tima era fiata pofta morta lu l’altare, il vittimario fe la  caricaua fu le (palle,& la portaua per metterla in pezzi,  & farla cuocere, come fi vede pcrilgiouane vittima-  rio,che porta la pentola & la mcfiola,& il facrificatorc  noUfiU- il paniere douc era la mola falata , però mi è parlo di  u, riprefentarne qui la figura al naturale.   r • ~ ■ Eigv      4   >   M   Me      FiqUR^l T12tUT<st' D'V'N   fico eh’ è /opra la porta de la chiefa di Tcauiett in Seauiolois.     1J>0 DELIBA RELIGIONE’ . J   Cerere lulus^ per le biadc,di Venere Ereriches,c ioc picn  d’amore, & di Bacco, Dityramhus : benché grimbriachi  h yanl de haucuono i loro hynni à parte, i quali Ariltofanc inXd-  ba chiamati *ft**yÌHunct , à caufa che i Greci chiamano  e». 4 >1 tremito de la tefta*p>*a'>irr, & mangiare & bere J   troppo. H ora appreflo à tutte quelle cole, il prete, liccn-  venilio. tiaua ogniuno,comc moftra Vcrgilio, quando dice,   -Dixutjue nouifiirru vtrl> 4 . 1*   il fine del ^ et: volendo mollrarccheil facrificio eraforni-   fecrifieio. to,comehoggi anchora fanno i noftri preti alla fine del-  la mefla, quando dicono, ItemiJJa e fi. In quelli templi  tra l’altrc era vna Tedia à parte dinanzi all’altare, perii ^   Principe, o quello che tencua la giuftitia, intorno ali ai- r   tare vn coro, & nel rcfto del tempio erano portichi ®  Ioggie,doucil popolo lpaflcggiaua,afpcttando che lì fa- ^   celle il lacrificio. Et certamente che Te noi mettiamo ^   ogni induftria & facciamo ogni grande fpela per Tare ^   bei palagi, &: belle cafe,tanto più douerremo ingegnarci ^  di fare beile chielc, Scorationi à Dio , per intrattenere  Religione co *‘ * a P‘ cta, * a religione & la mifericordia,come ci hati  degli enti- noinfegnatoCefarc Augufto,Vclpafiano,Ncrua,&M. 'Jf   ehi impero Aurelio, tutti buoni & diuoti Impcratori,pcr quanto li  tifarne- vede nelle loro medaglie, doue fono tutte infegne della  gnifiebité- antica loro religione, nel modo che fi trouano qui di-     fottO;     ANTON.       A     Pf-         DE GL’ ANTICHI ROMANI. 2*1  ANTON. PIO. M. AVRELIO.     ARGENTO. ARGENTO. «      Ma perche gl’ Egitcij fono (lati i primi , che Icuando Religione  gl’occhi in verfo ilcielo,& affifando la mente nella co- E S‘*'  gnitione di Dio.trouorno molte cerimonie, & modi di  religione:pcrò ho giudicato non fuora di propofito , Io  fcriuere qui neH’vlfimo qualche colà di loro: & come  penfando che il Sole & la Luna fodero Dij ,chiamorno  quello Ofiris,& quell’altra Ifis, adorata poi infino à Ro- ^ s '  ma,come fi vede per la infraferitta mcdaglia,dclla qua-  le io ho fcritto altroue adai largamente.   MEDAGLIA DEL CINOCEFALO.     ARGENTO.      T 2     ff         DELLA RELIGIONE  Et Commodo Imperatore (come fcriuc Spartiano)  hpiiorò molto tra gli altri facrificij, quello di quella  Dea, come fi vede nelU fua medaglia , doue ella tiene  vna sfera in mano, come madre di tutti Parti, & vn vaio,  ovcroamfora piena di Ipighe, lignificando la fertilità  d’Egitto.     BRONZO.     BRONZO.     L’vfanza de gl’Egitij nell’adorarc i loro Dij,fu nel  principio pura &femplice,fenza effuzione di fanguc, o  vfare altra crudeltà, però che egli offeriuono fu l'altare  quei mcdcfimi frutti, che ei magiauono, il che fecio-  noanchora tal voltai Romani, come dimoftra Iaprc-  fente figura: & abbruciando le radici & le foglie infic-  mc,guardauonoi frutti offerti all’altare, pacificando gli  Dei celefti col fumo fidamente.     v pinzi fo-  gli Egitti/  nelTadora-  rt » loro  X>ij.     s^Cz/      DE GL‘ ANTICHI ROMANI. zs>}     SACRIFICIO 2)1 FRVTTI TIRATO  del marmo antico di Roma.      Scriue Porfirio che in quel primo tempo non erano Porfirio.  invfo ne rincenfo,nc Iamyrra,nc la cannellate il zol-  fine il zafferano, ma l'hcrba verta, la quale moftraua »   la potenza della cerra,& tale facrificio quale fi faccua  propriamente delle herbe fi chiamaua da Greci 5v*t*.   Di poi vennero Hipcrbio & Prometeo che trouorno il Hipfr&io  modo di Eterificare le bclfic,& di conofcere selle erano  intere &fane,& il facrificio grato à gli Disperò chefcil fiacri fi tato-  toro rifiuta u a la farina, o le capre i ceci,chc erano pre- acif ~  (curati loro , giudicauono il facrificio ne le beftie edere  buono.Dipoi offerirno myrra &: zafferano, & ndl'vlti-   T 3 .     Cerimonie  degli Egit-  ti f, i felli'  tarloroDij  ld mattina.  Vitruuio.     Itore certe  per far ora   tione,cr ci  tare.   P linio.  Tacito.  Macrobio,  Marcelli-  no,     Cojlume  t Orfeo à  far giurare  i forejiitri  entrido nel  la fua reli  gione.     L ecofebuo  ne commu-  nicate ima  Ugni, perdo  nolorripu-  tatione.     1*4 DELLA RELIGIONE   mofcciono vna vera beccheria dei facrificij loro. L’al-  tre cerimonie de gl’Egittij erano di falutare la mattina i  loro Dij,il quale modo da gl’antichi fu detto adoratio-  nc,comc moftra Vitruuio nel in i. libro della Aia Ar-  chitettura,doueci vuole che i templi de gli Dei fiano  prdl'o alle ftrade macftrc:acciochc i paflànti gli pollino  più commodamentc falutare & adorareda quale vfanza  pare che habbino ritenuta i noftri preti,diccndo il mat-  tutino,&terza&feda,comcgrEgirtijfaccuonoorationc  la prima, feconda & terza hora, cantando hynni & altri  canti, fitti in laude del loro Dci,& fcritti (come fcriuc  Plinio) ne i loro libri di Rcligione,per figure & caratte-  ri di beftic,d’vccelli,& d’altre cofe, che Tacito, Macro-  bio & Marcellino chiamano Hycrogliphice , come an-  chora fi può vedere ne i loro obclifci, o vero piramidi  & guglie, delle quali ragiona Plinio al x x x v i. hb.dcl-  fHiftoria naturale in quello modo,Gl’intagli, caratteri,  & imagini,chc noi veggiamo, fono lettere de gl’Egittij  fcnzaordine& inrclligcnza di perfona,fcnondi coloro  che crono prepolli alla religione. Et Orfeo (come narra  Firmico) mollrando à gli huominiforellieri,chc entra -  uono nella fua religione, i lecreti & miflerij di quella,  gli faceua prima folla portadel tempio giurare, che non  riuclcrebbono maicofa,che egli hauellìno veduta ài  profani, cioè à quellichcnon erano dell’ordine loro:&  certamente non fenza ragione, conlìdcraco come le co-  le buone perdono di rìputationcquando ellcfonocoftì  municatc à huomini ignorami, incredulfonuidioii, per-  fidi & maligni. Vlauono oltre à quello gl’Egittij, che pi-  gIiauonogl’ordinifacri,di pigliare anchora prefentida   ogniuno.     DE GL’ ANTICHI ROMANI, a* 5   ogniuno,& poi faccuonovn conuitoà tutti quelli , che  erano flati prefentialle cerimonie loro: &il gran facer-  dote (come noi diremo hoggi vno de i noftri vefcoui)  infegnaua poi lorc^ciò che ci doueflìno fare, dandoli vn  libro, o ruotolo , come quelli che vfauono i Giudei.   I Romani poi (come habbiamo detto) haueuono altri vigniti de  ordini tra loro, come il maggiore & minori Pontefici,  flamini,archiflamini,& protoflamini, limili alnoftro  Papa, cardinali, patriarchharchinefcoui, vefcoui , abbati*  priori, canonici & altri , à i quali porta uono molto ho-  nore& obbediuonogl’antichigrandemcntr-.ondc Cice-  rone fcriuc,che la religione fu quella che fece coli gran- urrllgim  di i Romani, anchora che egli haueflino affili nationifu-  periori à loro in molte cofe. Pofledcuono parimente  gl’antichi benefici) con la difpenfa del maggiore Ponte- eB  fìce,come fi vede in T ranquillo nella vita di Claudio, & doti Antichi  in Tito Liuio, quando ci dice che il figliuolo di Fabio  Maflimo haueua due bencficij,quando ci fu fatto Pon-  tefice:i quali benefici) erano di fi gran valuta, che non fo-  lamentc ei poteuono intrattenere le loro cafc& famiglie  magnificamcnte,ma peruenire alle fbmmc dignità de i  loro trionfi, nonlafciando perqueftodi tenere altri of-  fici) fecolari & publichhandarc alla guerra, & fare mer-  canti a, fecondo che roccafionc fi prefcntaua:& erano  quefli bcneficijdiduefortid’vnaVfa fuggettaalla colla-  tionedcPonteficbde la Rcpublica,& degli Imperatori,   & l'ahra reftaua libera & hcreditaria di mano in mano à R 0m JT «  i fucceflorijche chiamorno tali facerdotij Gentilirij,& tuamentr.  quafi al modo noftro patronati:de quali hà coli parlato  Cicerone, nel libro de ^Aruftìcum reftonfìs, Ei fono (dice citarne.   , che hanno fattoi  T 4     egli) in qucfto ordine molte perfone     DELLA RELIGIONE  intrjte de facrificij Gentilicij in quello iftclTotcmpio.Nc e dama-  tntjiaf. rauigliarfi fc l’enrrattc di quelli benefici j antichi erano  cofi grandi, confidcraro che quando i Romani veniuo-  noa fondarctcpli o munillerj,ci gli jfotauono digran-  dilfimi beni, cofi indanari,& penfioni,comcin tcrre&  altre cole (labi li, & i Re &gl Imperatori le faccuono fi-  jonluioni a quelle , che in Francia fi chiamono Fondationi  rtélL Realidcntratte delle quali fi coinè fono rifeofTe & pa-  gate dai Riceuitori del Dominio, cofi quelle de Roma-  ni paflàuono per le mani de Queftori,o Telorieri, fi co-  coUcgìdd m x c m °ft ra Tito Liuio,quando ei dice che Numa ordi-  ne V rftaii no i Collegi de i Flamini & delle vergini Vcftali,&: aflc-  - N ^ id4 £ n ° foro entrate & prouifionidei beni publicida quale  vfanza non bifogna dubitare che non fo/Iè poi oflerua-  ta & matcnuta da gl altri fondatori che vennono do-  cSformiti P° lui. Concludendo che fc noi porremo ben mente,noi  troucrrcmo & vedremo che gl’ordini della noflra reli-  Gentili con gionefonóin moire cole limili à quelli de gl’antichi Egit  k nojircin tij,&Romani,comclbno i camicide pretine ftolcde piì-  netejecherichc ralc, che i Franzcfi, chiamano Corone,  lo inclinare della tcfla, volgendoli all altare, il principio  & la fine del facrificio, i prieghi,i voti,l’orationi , gl’fiy ti-  ni, le mufichc delle voci,ifuonicomequellidegli orga-  ni,^ proccfIìoni,& molte altre cofc,chc vn buono fipiri-  to potrà facilmente ricorre, hauendo bcneconlidera-  tc quelle cerimonie & qucIle:ecccttoche quelle de Gcn-’  df ti,icrano ^«tlupcrfiitiofe, ma lenollre fono Chri-  g aitili. diane & catholichc, eflèndo fatte inhonoredi Dio Pa-   dre Omnitenrc, &di Gicfu Chrillofoo figliuolo,à cui  fiagloria etcrnalmente. Grice: “There are many issues about philosophical theology, as we may call it. The romans were into cult, rather than religion – they didn’t even know where ‘religio’ came from, and Lucrezio famously disagreed with Cicero – It seems it was all about killing livestock in lieu of humans, as the barbarians did!” -- Grice: “Enzo should concentrate a bit on how the ancient Romans dealt with their civil religion. Roma and romanitas. Carlo Enzo. Enzo. Keywords: l’uomo, essegesi, ermeneutica, i quattro sensi – from Genesis to Revelations: a new discourse on metaphysics, eschatology – perhaps Moses got more than the 10 comm from Sinai --. Ebraismo e romanita – romanita pagana – la teologia naturale dei romani antichi – la religione civile dei romani – I simboli della religione romana pagana --. La religione ufficiale della Roma antica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Enzo” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51763158449/in/photolist-2mS8HB8-2mS81kq-2mRSqwK-2mRWmWX-2mRYsHJ-2mRV8wa-2mRWmUx-2mRV8zS-2mRYsKN-2mRWmSP-2mRQT1q-2mRYsKh-2mRV8zr-2mRV8zX-2mRWmR1-2mRV8yQ-2mRV8xY-2mRV8wL-2mRZy1m-2mRZxZV-2mRWmVu-2mRV8uG-2mRWmPx-2mRV8wW-2mS2fwZ-2mRWmTF-2mRWmUc-2mRWmQE-2mRZy54-2mRV8xc-2mRZxZz-2mRWmTq-2mRWmWG-2mRQSYg-2mRV8AJ-2mRYsJR-2mRQT1L-2mRWmP7-2mRV8yK-2mRYsM1-2mRZy2Z-2mRV8vJ-2mRYsLE-2mRWmU2-2mRVFhB-2mRPtKR-2mRV5s7-2mRSmRq-2mRLp9C-2mREWCm

 

Grice ed Epicoco – la religione civile dei romani -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Mesagne). Filosofo. Grice: “I like Epicoco; he has a way with words – e.g. ‘only the sick heal.” Is that synthetic a priori?” Grice: “My favourite is Epicoco’s emphasis on some symbols, like blood, and Canova’s Eros – and ‘l’amore che decide.’ Insegna a San Carlo Borromeo all'Aquila. Altre opere:  Vergine Madre figlia del tuo figlio; Itaca editrice; Jesu dulcis memoria; Itaca editrice; Il grido di Benedetto XVI; con Michele G. Masciarelli; Tau editrice; Futuro presente. Contributi sull'enciclica Spe salvi di Benedetto XVI; con Angelo Amato e Paola Bignardi; Tau editrice; L'Immacolata perfezione. Sentieri in preparazione alla festa dell'Immacolata; Tau editrice  Io vedo il tuo volto. Arte e liturgia; Tau editrice  Ex coelesti virtute. Miscellanea di studi in onore di S. E. Mons. Giuseppe Molinari nel Suo 50º di Sacerdozio; Tau editrice  Etty Hillesum. Introduzione ad una donna; Tau editrice  Piccola introduzione alla Bibbia; Tau editrice  Qualcuno accenda la luce. Conversazioni sull'Enciclica Lumen Fidei di papa Francesco; Tau editrice  Giovanni Paolo II. Ricordi di un papa santo; con Mons. Piero Marini; Tau editrice  La misericordia ha un volto. Il Giubileo straordinario della Misericordia secondo papa Francesco; Tau editrice  Preghiere di ogni giorno; Tau editrice  Nati per amare. I giovani raccontano la famiglia; LUP  Solo i malati guariscono. L'umano del (non) credente; San Paolo, Milano  Educare è meglio che curare; Tau editrice,  La malattia è un dono di vita. Storia di Teresa Ruocco; Tau editrice  La stella, il cammino, il bambino. Il natale del viandante; San Paolo, Milano  Quello che sei per me. Parole sull'intimità; San Paolo, Milano  Amen. La Parola che salva; San Paolo, Milano  Sale non miele. Per una fede che brucia; San Paolo, Milano. Telemaco non si sbagliava. O del perché la giovinezza non è una malattia; San Paolo, Milano  L’amore che decide; Tau editrice,  Camminando tra pastori e Re Magi. Trenta piccole meditazioni e un "quaderno" per la riflessione personale: un percorso di preparazione al Natale, San Paolo, Cinisello Balsamo,  Qualcuno a cui guardare. Per una spiritualità della testimonianza, Città Nuova, Roma,. Note  A L'Aquila Epicoco diventa il nuovo preside dell’Istituto Superiore Scienze Religiose, Giovani: don Epicoco (filosofo), “proporre un incontro che può cambiare la loro vita”, in Servizio Informazione Religiosa, 11 settembre.  Intervista a Il Faro di Roma Scheda in Itaca libri  Scheda sito San Paolo  Scheda del docente nel sito dell'Università Pontificia  Articolo incarichi diocesani  Intervista a Credere  Sito della Parrocchia Universitaria L'Aquila  Incarichi nel Sito Ufficiale della Diocesi, su diocesilaquila. Scheda sul profilo di don Luigi Maria Epicoco  Radio Radicale Comunicato stampa  Sito Rai Caterpillar  Rai Due intervento a NemoNessuno escluso in prima serata  Membri Cavalieri della Luce Archiviato il 18 gennaio  in.  Testimonianza nella rivista Credere  Roma Sette sul nuovo Messalino edito da San Paolo  Intervista e nuovo libro sul sito Aleteia  La prefazione di Massimo Recalcati al libro di don Luigi Maria Epicoco  Don Epicoco nuovo preside dell’Issr L’Aquila  Conferenza di don Luigi Maria Epicoco a Nizza il 13 novembre.  Wikipedia Ricerca Religione sistema di credenze e attività umane nei confronti di una o più entità sovrannaturali Lingua Segui Modifica La religione è un costrutto sociale formato da quell'insieme di credenze, vissuti, riti che coinvolgono l'essere umano, o una comunità, nell'esperienza di ciò che viene considerato sacro, in modo speciale con la divinità, oppure è quell'insieme di contenuti, riti, rappresentazioni che, nell'insieme, entrano a far parte di un determinato culto.[1]   Alcuni simboli religiosi. Da sinistra a destra, dall'alto verso il basso: Cristianesimo, ebraismo, induismo, bahaismo, Islam, Neopaganesimo, Taoismo, Shintoismo, Buddismo, Sikhismo, Brahmanesimo, Giainismo, Ayyavazhi, Wicca, Templari e Chiesa Nativa Polacca Va tenuto presente che «il concetto di religione non è definibile astrattamente, cioè al di fuori di una posizione culturale storicamente determinata e di un riferimento a determinate formazioni storiche».[1] Lo studio delle "religioni" è oggetto della "Scienza delle religioni" mentre lo sviluppo storico delle religioni è oggetto della "Storia delle religioni".  Etimologia       Modifica  Marco Tullio Cicerone(106 a.C.-43 a.C.), fu il primo autore a proporre un significato etimologico, collegato all'attenzione verso ciò che riguardava gli dèi, e una definizione del termine religio.  Lattanzio (250-327), apologeta cristiano, criticò l'etimologia di "religione" proposta da Cicerone, ritenendo che questo termine dovesse essere riferito al "legame" tra l'uomo e la divinità. Il termine religione deriva dal latino relìgio, la cui etimologia non è del tutto chiarita[2].  Secondo Cicerone (106 a.C.-43 a.C.), la parola originerebbe dal verbo relegere, ossia "ripercorrere" o "rileggere", intendendo una riconsiderazione diligente di ciò che riguarda il culto degli dèi[3]:  (LA)  «qui autem omnia quae ad cultum deorum pertinerent diligenter retractarent et tamquam relegerent, sunt dicti religiosi ex relegendo, ut elegantes ex eligendo, diligendo diligentes, ex intelligendo intelligentes»  (IT)  «invece coloro che riconsideravano con cura e, per così dire, ripercorrevano tutto ciò che riguarda il culto degli dei furono detti religiosi da relegere, come elegante deriva da eligere (scegliere), diligente da diligere(prendersi cura di), intelligente da intelligere(comprendere)»  (Cicerone. De natura deorum II, 28; traduzione in italiano di Cesare Marco Calcante in Cicerone. La natura divina. Milano, Rizzoli, 2007, pagg. 214-5) Jean Paulhan evidenzia come Lucrezio fece invece derivare religio dalla radice di re-ligare, nel significato «dei legami che uniscono gli uomini a certe pratiche»[3] – derivazione che fu poi ritenuta tale anche da Lattanzio e Servio Mario Onorato (però col significato di «legarsi nei confronti degli dei»[4]). Secondo Michael von Albrecht, da essa, poiché verbo contrario all'idea di liberazione, Lucrezio ne derivò il significato negativo, del quale è: «molto grafica l'espressione religione refrenatus (5, 114), che rispecchia le inibizioni al pensiero filosofico causate dal paganesimo: l'uomo è trattenuto, impedito, essendo le sue mani letteralmente "legate dietro la schiena"». Inoltre «parla spesso dei “nodi stretti” [...]della religio, dai quali Epicuro avrebbe liberato l'umanità».[5][6] Un significato simile le aveva attribuito lo storico greco Polibio, dando alla religione, ma con particolare riguardo alla tradizione e ai costumi dei Romani, il senso di un instrumentum regni.[7] Nello specifico Lattanzio (250-327)[8], che fu ripreso anche da Agostino d'Ippona (354-430)[9], correggendo Cicerone, sostiene:  (LA)  «Hoc vinculo pietatis obstiicti Deo et religati sumus ; unde ipsa religio nomen accepit, non ut Cicero interpretatus est, a relegendo.»  (IT)  «Con questo vincolo di pietà siamo stretti e legati (religati) a Dio: da ciò prese nome religio, e non secondo l'interpretazione di Cicerone, da relegendo.»  (Lattanzio. Divinae institutiones IV, 28. Traduzione di Giovanni Filoramo. Le scienze delle religioni. Brescia, Morcelliana, 1997, pag.286) Così lo studioso Luigi Alici (1950-) mette a confronto la lettura etimologica offerta da Agostino in De civitate Dei X,3, che si richiama a Cicerone, con quella di Lattanzio il quale "preferisce insistere sull'idea primitiva di 'ciò che lega' di fronte agli dèi":  «tale legame sarebbe pure indicato dall'uso simbolico delle vitae, cioè delle bende con cui si coprivano il capo i sacerdoti»  (Luigi Alici. Nota 5 in Agostino. La città di Dio. Milano, Bompiani, 2004, pag.462) Tuttavia lo storico delle religioni italiano Enrico Montanari (1942-) osserva che:  «Etimologicamente, religio non deriva da religare('legarsi faccia a faccia con gli dèi'): questa interpretazione, di fonte cristiana (Lattanzio), fu attribuita agli antichi, ma sulla base del nuovo culto monoteistico.»  (Enrico Montanari. Roma. Il concetto di "religio" a Roma. In Dizionario delle religioni (a cura di Giovanni Filoramo). Torino, Einaudi, 1993, pag.642) Quindi, per Enrico Montanari, l'origine del termine "religione" è da ricercarsi nella coppia dei termini religere/relegere intesi come "raccogliere nuovamente", "rileggere"[10] osservare "con scrupolo e coscienziosità l'esecuzione di un atto"[11] e quindi eseguire con attenzione l'"atto religioso". Furono i primi teologi cristiani, nel IV secolo, a rovesciare il significato originario del termine per collegarlo al nuovo credo[12].  Allo stesso modo osservò Gerardus van der Leeuw(1890-1950) che coniando l'espressione homo religiosus lo oppose all'homo negligens:  «Possiamo quindi intendere la definizione del giurista Masurio Sabino: religiosum est, quod propter sanctitatem aliquam remotum ac sepositum a nobis est. Ecco precisamente in che cosa consiste il sacro. Usargli sempre debiti riguardi: è questo l'elemento principale della relazione fra l'uomo e lo straordinario. L'etimologia più verosimile fa derivare la parola religio da relegere, osservare, stare attenti; homo religiosus è il contrario di homo negligens.»  (Gerardus van der Leeuw. Phanomenologie der Religion (1933). In italiano: Gerardus van der Leeuw. Fenomenologia della religione. Torino, Boringhieri, 2002, pag.30) Storia della definizione            Modifica Occidente                                           Modifica Grecia antica                                         Modifica Magnifying glass icon mgx2.svg                           Lo stesso argomento in dettaglio: Religione dell'antica Grecia. Il termine che nella lingua greca moderna indica la "religione" è θρησκεία (thrēskeia). Tale termine è collegato a θρησκός (thrēskos; "pio", "timoroso di Dio"). Quindi anche se nella cultura religiosa greco-antica non esisteva un termine che riassumesse quello che noi intendiamo oggi per "religione"[13], thrēskeia[14] possedeva tuttavia un ruolo e un significato precisi[15]: indicava la modalità formale con cui andava celebrato il culto a favore degli dèi[16]. Scopo del culto religioso greco era infatti quello di mantenere la concordia con gli dèi: non celebrare loro il culto significava provocarne l'ira, da qui il "timore della divinità" (θρησκός) che lo stesso culto provocava in quanto connesso con la dimensione del sacro.  Roma antica                            Modifica Magnifying glass icon mgx2.svg                            Lo stesso argomento in dettaglio: Religione romana  Monaci manichei intenti a copiare testi sacri, con un'iscrizione in sogdiano (manoscritto da Khocho, Bacino del Tarim). Il manicheismofu una religione perseguitata, al pari di altre, nell'Impero romano in quanto contrastava con il mos maiorum. La concezione romana di "religione" (religio) corrisponde alla cura nei confronti dell'esecuzione del rito a favore degli dèi, rito che, per tradizione, va ripetuto finché non risulti correttamente eseguito[17]. In questo senso i romani collegavano al termine di "religione" un senso di timore nei confronti della sfera del sacro, sfera propria del rito e quindi della religione stessa[18].  In un ambito più aperto i romani accoglievano comunque tutti i riti che non contrastassero con il mos maiorum dei tradizionali riti religiosi, ovvero con il costume degli antenati. Quando nuovi riti, e quindi novae religiones, venivano a contrastare con il mos maiorum questi venivano proibiti: fu il caso, ad esempio e di volta in volta, delle religioni ebraica, cristiana, manichea e dei riti bacchanalia[19].  La prima definizione del termine "religione", ovvero del suo originario termine latino religio, la dobbiamo a Cicerone il quale nel De inventione così la esprime:  (LA)  «Religio est, quae superioris naturae, quam divinam vocant, curam caerimoniamque effert»  (IT)  «Religio è tutto ciò che riguarda la cura e la venerazione rivolti ad un essere superiore la cui natura definiamo divina»  (Cicerone. De inventione. II,161) Con l'epicureo Lucrezio (98 a.C.-55 a.C.) si affaccia una prima critica alla nozione di religione intesa qui come un elemento che sottomette l'uomo per mezzo della paura e da cui il filosofo deve liberarsi[20]:  (LA)  «Humana ante oculos foede cum vita iacere / in terris oppressa gravi sub religione / quae caput a caeli regionibus ostendebat / horribili super aspectu mortalibus istans, / primum Graius homo mortalis tollere contra est / oculos ausus primusque obsistere contra»  (IT)  «La vita umana giaceva sulla terra alla vista di tutti turpemente schiacciata dall'opprimente religione, che mostrava il capo dalle regioni celesti, con orribile faccia incombendo dall'alto sui mortali. Un uomo greco[21] per la prima volta osò levare contro di lei gli occhi mortali, e per primo resistere contro di lei.»  (Lucrezio. De rerum natura I,62-7. Traduzione di Francesco Giancotti in Lucrezio. La natura. Milano, Garzanti, 2006, pagg. 4-5) (LA)  «primum quod magnis doceo de rebus et artis religionum animum nodis exsolvere pergo»  (IT)  «prima di tutto in quanto grandi cose insegno, e tento di sciogliere l'animo dai nodi stretti della religione»  (Lucrezio. De rerum natura I,932) Occidente cristiano             Modifica  Massacre saint Barthelemy di François Dubois (1529–1584) conservato presso il Musée cantonal des Beaux-Arts di Losanna. A seguito dei massacri provocati dalle Guerre di religione i pensatori francesi del XVII secolo misero in dubbio la sovrapposizione delle nozioni di civiltà e religione fino a quel momento in vigore. Magnifying glass icon mgx2.svg                                                Lo stesso argomento in dettaglio:Cristianesimo.  Ebrei in preghiera il giorno dello Yom Kippur, opera di Maurycy Gottlieb(1856–1879). Nell'Occidente cristiano, l'Ebraismo, come l'Islām, verrà indicato come una religione solo a partire dal XVII secolo. Le prime comunità cristiane non utilizzarono il termine religio per indicare le proprie credenze e pratiche religiose[22]. Con il tempo, tuttavia, diffusamente a partire dal IV secolo, il Cristianesimo adottò tale termine nell'accezione indicata da Lattanzio, individuandone l'unicità in quanto la "religione" era l'unica via di salvezza per l'uomo.  La relazione tra religio cristiana e quelle dei culti o delle "filosofie" precedenti fu variamente interpretata dagli esegeti cristiani. Giustino (II secolo)[23], ma anche Clemente Alessandrino e Origene, sostennero che partecipando tutti gli uomini al "Verbo" coloro che tra questi vissero secondo "ragione" erano comunque dei cristiani[24]. Con Tertulliano (III secolo) la prospettiva cambiò e le differenze tra mondo "antico" e il mondo dopo la "rivelazione" cristiana furono decisamente accentuate.  Con Agostino d'Ippona (354-430), ma già precedentemente con Basilio, Gregorio Nazianzeno e Gregorio di Nissa, il pensiero platonico rappresentò per i teologi cristiani un esempio della comprensibilità di cosa fosse la vera "religione"[25].  Rispetto ai significati del termine "religione" nel mondo cristiano, lo storico delle religioni svizzero Michel Despland osserva che:  «Diventato cristiano l'Impero, si trovano presso i cristiani tre accezioni della parola. La religione è un ordine pubblico mantenuto dall'imperatore cristiano che instaura sulla terra la legislazione voluta da Dio (idea imperiale). Può anche essere l'eros dell'anima individuale verso Dio (idea mistica). Infine religio può designare la disciplina propria ai battezzati che hanno fatto voto di perfezione e sono diventati eremiti o cenobiti (Monachesimo).»  (Michel Despland. Religione. Storia dell'idea in Occidente, in Dictionnaire des Religions (a cura di Jacques Vidal). Parigi, Presses universitaires de France, 1984. In italiano: Dizionario delle religioni. Milano, Mondadori, 2007, pagg. 1539 e segg.) Quindi se inizialmente il termine "religione" è assegnato esclusivamente agli ordini religiosi[26], a partire dalla Francia il termine accoglie dapprima anche quei pellegrini o cavalieri che se ne mostrano degni attraverso il mantenimento dei loro voti, poi i mercanti onesti e gli sposi fedeli, aprendo così il termine all'intero mondo laicale che osserva con scrupolo i precetti della Chiesa.  Con la Scolastica la "religione" venne collocata tra le "virtù morali" inserite nella "giustizia" in quanto essa rende a Dio l'onore e l'attenzione che gli sono "dovuti" esprimendosi con atti esteriori, come la liturgia o il voto, ed atti interiori, come la preghiera o la devozione[27].  Infine il termine "religione" diviene sinonimo di "civiltà". Con la Riforma protestante a partire dal XVI secolo il termine "religione" è assegnato a due confessioni cristiane distinte, e solo con il XVII secolo l'Ebraismo e l'Islām saranno considerate "religioni"[28].  Le Guerre di religione del XVI secolo provocarono in Francia l'abbandono dell'idea che il termine "religione" potesse essere sovrapponibile a quello di civiltà e, ad incominciare dal XVII secolo, alcuni intellettuali francesi avviarono una critica serrata al valore stesso della religione[28].  «Vive forze nazionali si risvegliano e insorgono contro l'adattamento compiuto dopo le guerre di religione. Da allora la religione è vista come riguardante un'autorità oppressiva, la fede come una credenza poco ragionevole, anzi quasi irragionevole. In Francia, le intelligenze cominciano a preferire la civiltà alla religione. E c'è la tendenza a credere che quanto l'uomo più si civilizzerà tanto meno sarà incline alla religione.»  (Michel Despland. Op.cit.) Occidente moderno e contemporaneo                              Modifica A partire dal XVII secolo, la Modernità attribuisce valore supremo alla razionalità affrontando con questo strumento conoscitivo anche l'alveo della religione che così viene sottoposto al suo esame.  Se da una parte autori come Gottfried Wilhelm von Leibniz (1645-1716) e Nicolas Malebranche (1638-1715) dopo l'analisi razionale esaltarono i valori religiosi, altri, come ad esempio John Locke (1632-1704) o Jean-Jacques Rousseau (1712-1778), utilizzarono la "ragione" per spogliare la "religione" dei suoi contenuti non giustificabili razionalmente.  Altri autori, come l'irlandese John Toland (1670-1722) o il francese Voltaire (1694-1778) furono propugnatori del deismo, una lettura decisamente razionalista della religione.  Con David Hume (1711-1776) vi fu un rifiuto dei contenuti razionali della religione, nell'insieme considerata un fenomeno del tutto irrazionale, nato dai timori propri dell'uomo nei confronti dell'universo. Partendo dal giudizio di "irrazionalismo" della religione, in Occidente, con ad esempio Julien Offray de La Mettrie (1709-1751) o Claude-Adrien Helvétius(1715-1771), si affacciarono le prime critiche radicali alla religione che portarono all'affermazione dell'ateismo.  In questo ambito Paul Henri Thiry d'Holbach (1723-1789) giunse a sostenere che:  «L'idea di un Dio terribile, raffigurato come un despota, ha dovuto rendere inevitabilmente malvagi i suoi sudditi. La paura non crea che schiavi [...] che credono che tutto divenga lecito quando si tratta o di guadagnarsi la benevolenza del loro Signore, o di sottrarsi ai suoi temuti castighi. La nozione di un Dio-tiranno non può produrre che schiavi meschini, infelici, rissosi, intolleranti.»  (Holbach, Il buon senso, a cura di S. Timpanaro, Garzanti 1985, p.150) Culture non occidentali                                           Modifica Nelle culture non occidentali il termine "religione" viene reso con termini che non hanno la stessa etimologia latina. Così, se in Occidente, fatto salvo la lingua greca, il termine "religione" ha ovunque origine dal latino religio, l'etimologia del termine ebraico origina invece da un termine proprio dell'antico persiano, allo stesso modo l'arabo dove il termine "religione" origina dall'avestico. Nelle lingue del Subcontinente indiano invece il termine "religione" viene reso con termini di origine sanscrita e, in Estremo Oriente, con termini di origine cinese.  Vicino e Medio Oriente                 Modifica In lingua ebraica il termine occidentale "religione" viene reso come דת (alfabeto ebraico) traslitterato in caratteri latini come dath. Tale termine compare alcune volte nel Tanakh, così nel Libro di Ester  (HE)  «ויאמר המלך להעשות כן ותנתן דת בשושן ואת עשרת בני המן תלו»  (IT)  «Il re ordinò che così fosse fatto. Il decreto (dath) fu promulgato a Susa. I dieci figli di Amàn furono appesi al palo.»  (Libro di Ester, IX,14) In questo verso דת (dath) sta per "editto", "legge", "decreto". L'ebraico dath deriva dall'avestico e dall'antico persiano dāta[29].  Il termine avestico dāta possiede in quella lingua sempre il significato di "legge" o di "legge di Ahura Mazdā"[30], ovvero legge del Dio unico e supremo dello Zoroastrismo.  (AE)  «ahmya zaothre baresmanaêca mãthrem speñtem ashhvarenanghem âyese ýeshti, dâtem vîdôyûm âyese ýeshti, dâtem zarathushtri âyese ýeshti, darekhãm upayanãm âyese ýeshti, daênãm vanguhîm mâzdayasnîm âyese ýeshti.»  (IT)  «Con questo zaothra e baresman desidero questo Yasna per il generoso Manthra, il più glorioso e lo desidero per Dāta, la Legge, la più gloriosa, santificata Aša, istituita contro i daēva, e per la legge insegnata da Zarathuštra. Desidero, questo Yasna, per Upayana, l'antica tradizione mazdea, e per Daēna, la santa religione mazdea.»  (Avestā II, 13. Traduzione di Arnaldo Alberti, in Avestā. Torino, UTET, 2008, pag.96) In lingua araba il termine occidentale "religione" viene reso come دين (alfabeto arabo) traslitterato in caratteri latini come dīn. (AR)  «الْيَوْمَ أَكْمَلْتُ لَكُمْ دِينَكُمْ وَأَتْمَمْتُ عَلَيْكُمْ نِعْمَتِي وَرَضِيتُ لَكُمُ الإِسْلاَمَ دِينا ً»  (IT)  «Oggi ho perfezionato la vostra religione ( dīn) compiendo per voi il mio beneficio e ho scelto per voi l'Islām come religione ( dīn)»  (Corano V,3) Il termine arabo dīn deriva dal medio persiano dēn[31].  In lingua persiana il termine occidentale "religione" viene reso come دین (alfabeto arabo-persiano) traslitterato in caratteri latini come dīn. Tale termine deriva dal termine medio persiano dēnche, a sua volta, deriva dall'avestico daēnā che in quella antica lingua significa "religione" intesa come splendore, luminosità di Ahura Mazdā. Daēnā a sua volta proviene, nella medesima lingua, dalla radice dāy(vedere).  (AE)  «nivaêdhayemi hañkârayemi mãthrahe speñtahe ashaonô verezyanguhahe dâtahe vîdaêvahe dâtahe zarathushtrôish darekhayå upayanayå daênayå vanghuyå mâzdayasnôish»  (IT)  «Annuncio e celebro in lode del benefico ed efficace Manthra, ašavan, rivelazione contro i daēva; rivelazione che viene da Zarathuštra, e in lode di Daēna, la buona religione mazdea, che ha un'antica Tradizione»  (Avestā I, 13. Traduzione di Arnaldo Alberti, in Avestā. Torino, UTET, 2008, pag.92) Subcontinente indiano Modifica  La bandiera dell'India. Al centro della bandiera è collocato, raffigurato in blu, il Čakra di Aśokaovvero il sigillo che compare negli editti promulgati dall'imperatore indiano Aśoka (304-232 a.C.) e che rappresenta il Dharmačakra, la "Ruota del Dharma". Nella lingua hindi, la lingua ufficiale e più diffusa dell'India, il termine occidentale "religione" viene reso come धर्म (alfabeto devanagari) traslitterato in caratteri latini come Dharma.  «È abbastanza difficile trovare un'unica parola nell'area dell'Asia meridionale che denoti ciò che in italiano è definito "religione", un termine effettivamente piuttosto vago e dall'ampio raggio semantico. Forse il termine più appropriato potrebbe essere il sanscrito dharma, traducibile in diversi modi, tutti pertinenti alle idee e alle pratiche religiose indiane»  (William K. Mahony. Induismo, "Enciclopedia delle Religioni" vol. 9: "Dharma induista". Milano, Jaca Book, 2006, pag.99) Gianluca Magi precisa tuttavia che il termine Dharma  «è più ampio e complesso di quello cristiano di religione e, dall'altro, meno giuridico delle attuali concezioni occidentali di "dovere" o di "norma", poiché privilegia la consapevolezza e la libertà piuttosto che il concetto di religio od obbligo»  (in Dharma, "Enciclopedia filosofica" vol.3. Milano, Bompiani, 2006, pag. 2786) Il termine Dharma (धर्म) è usato nella maggior parte delle religioni di origine indiana per indicare tali contesti religiosi: Induismo (सनातन धर्म Sanātana Dharma), Buddhismo (बौद्ध धर्म Buddha Dharma), Giainismo (जैन धर्म Jain Dharma) e Sikhismo (सिख धर्म Sikh Dharma).  Ma anche per indicare le religioni occidentali come l'Ebraismo (यहूदी धर्म, Dharma ebraico) o il Cristianesimo (ईसाई धर्म, Dharma cristiano)  Il termine Dharma deriva dalla radice sanscrita dhṛtraducibile in italiano come "fornire una base", ovvero come "fondamento della realtà", "verità", "obbligo morale", "giusto", "come le cose sono" oppure "come le cose dovrebbero essere".  (SA)  «Ṛtasya gopāv adhi tiṣṭhatho rathaṃ satyadharmāṇā parame vyomani yam atra mitrāvaruṇāvatho yuvaṃ tasmai vṛṣṭir madhumat pinvate divaḥ»  (IT)  «O guardiani dell'ordine cosmico (Ṛta), o Dei le cui leggi (Dharma) sono sempre realizzate, voi salite sul vasto carro del cielo più alto; a chi, Mitra e Varuṇa, mostrate il vostro favore, la pioggia del cielo dona abbondanza di miele»  (Ṛgveda, V 63,1 a-c) Estremo Oriente                 Modifica  三教一教 sānjiào yījiào Tre religioni (insegnamenti) una religione (insegnamento). Confucio (孔丘 Kǒng Qiū) e Lǎozǐ (老子) proteggono il Buddha Śākyamuni(釋迦牟尼 Shìjiāmóuní) infante. Rotolo dipinto su seta, Dinastia Ming (1368-1644) conservato presso il British Museum di Londra.  Scrittura oracolare su ossa, all'origine del carattere cinese (zǐ, bambino). Il carattere cineseche indica la singola "religione" è (jiào) e si compone, oltre del carattere (zǐ), del carattere (lǎo, vecchio), il tutto ad indicare l'insegnamento. In lingua cinese il termine occidentale "religione" viene reso come 宗教, traslitterato in caratteri latini in zōngjiào (Wade-Giles tsung-chiao).  Da questa lingua il termine religione (宗教) viene così reso nelle altre lingue estremo-orientali in:  lingua giapponese 宗教 shūkyō; lingua coreana 종교 jonggyo lingua vietnamita tôn giáo. In lingua cinese (jiào) rende anche il khotanesedeśanā, a sua volta resa del sanscrito deśayati(causativo del verbo di III classe diś: "mostrare", "assegnare", "esibire", "rivelare") e anche il sanscritośāsana (insegnamento).  Il carattere è formato da (zǐ, bambino, dove la figura stilizzata è avvolta in fasce e agita le braccia), (lǎo, vecchio).  Mentre (zōng) indica "scuola", "tradizione acclarata", "religione" quindi 宗教 "insegnamento di una tradizione acclarata/religione".  Il carattere cinese (zōng) è formato dai caratteri (mián, tetto di un edificio) e ( shì "altare", oggi nel significato di "mostrare") a sua volta composto da (altare primitivo) con ai lati (gocce di sangue o di libagioni); il tutto a significare "edificio che contiene un altare".  Le singole religioni vengono indicate dal nome che le caratterizza seguite dal carattere (jiào): Buddhismo佛教 (Fójiào da Fó Buddha), Confucianesimo 儒教 (Rújiào, da Rú, letterato confuciano), Daoismo 道教 (Dàojiào da Dào) Cristianesimo 基督教 (Jīdūjiāo da 基督 Jīdū Cristo), Ebraismo 犹太教 ( Yóutàijiào da 犹太 Yóutài Giuda), Islām (伊斯兰教 Yīsīlánjiāo da 伊斯 Yīsīlán Islām).  Descrizione                                           Modifica Il dibattito sulla nozione di religione                         Modifica La nozione di "religione" è problematica e dibattuta.  Da un punto di vista fenomenologico-religioso il termine "religione" è collegato alla nozione di sacro:  «Secondo Nathan Söderblom, Rudolf Otto e Mircea Eliade, la religione è per l'uomo la percezione di un "totalmente Altro"; ciò ha come conseguenza un'esperienza del sacro che a sua volta dà luogo a un comportamento sui generis. Questa esperienza, non riconducibile ad altre, caratterizza l'homo religiosus delle diverse culture storiche dell'umanità. In tale prospettiva, ogni religione è inseparabile dall'homo religiosus, poiché essa sottende e traduce la sua Weltanschauung (Georges Dumézil). La religione elabora una spiegazione del destino umano (Geo Widengren) e conduce a un comportamento che attraverso miti, riti e simboli attualizza l'esperienza del sacro.»  (Julien Ries. Le origini, le religioni. Milano, Jaca Book, 1992, pagg.7-23) Da un punto di vista storico-religioso la nozione di "religione" è collegata al suo esprimersi storico:  «Ogni tentativo di definire il concetto di "religione", circoscrivendo l'area semantica che esso comprende, non può prescindere dalla constatazione che esso, al pari di altri concetti fondamentali e generali della storia delle religionie della scienza della religione, ha una origine storica precisa e suoi peculiari sviluppi, che ne condizionano l'estensione e l'utilizzo. [...] Considerata questa prospettiva, la definizione della "religione" è per sua natura operativa e non reale: essa, cioè, non persegue lo scopo di cogliere la "realtà" della religione, ma di definire in modo provvisorio, come work in progress, che cosa sia "religione" in quelle società e in quelle tradizioni oggetto di indagine e che si differenziano nei loro esiti e nelle loro manifestazioni dai modi a noi abituali.»  (Giovanni Filoramo. Religione in Dizionario delle religioni (a cura di Giovanni Filoramo). Torino, Einaudi, 1993, pag.620) Da un punto di vista antropologico-religioso la "religione" corrisponde al suo modo peculiare di manifestarsi nella cultura:  «Le concezioni religiose si esprimono in simboli, in miti, in forme rituali e rappresentazioni artistiche che formano sistemi generali di orientamento del pensiero e di spiegazione del mondo, di valori ideali e di modelli di riferimento»  (Enrico Comba. Antropologia delle religioni. Un'introduzione. Bari, Laterza, 2008, pag.3) Anche se come evidenzia lo stesso Enrico Comba:  «Non è dunque possibile stabilire un criterio assoluto per distinguere i sistemi religiosi da quelli non religiosi nel vasto repertorio delle culture umane»  (Enrico Comba. Op.cit. pag.28) Quindi, come notano Carlo Tullio Altan e Marcello Massenzio, il fenomeno della religione:  «come forma specifica della cultura umana, ovunque presente nella storia e nella geografia, è un fenomeno estremamente complesso, che va studiato con molteplici procedure, mano a mano che queste ci vengono offerte dal progresso degli studi delle scienze umane, senza pretendere di dire mai in proposito l'ultima parola, come accade per un lavoro che sia costantemente in corso d'opera.»  (Carlo Tullio Altan e Marcello Massenzio. Religioni Simboli Società: Sul fondamento dell'esperienza religiosa. Milano, Feltrinelli, 1998, pagg. 71-2) Analisi filosofica            Modifica Magnifying glass icon mgx2.svg                            Lo stesso argomento in dettaglio: scienze delle religioni Natura problematica della definizione di "religione"   Max Weber (1864-1920) sostenne che la definizione di "religione" si può declinare alla fine della ricerca su di essa.  Leszek Kołakowski(1927-2009) ha osservato che, come per altri ambiti umanistici, difficilmente si potrà addivenire ad una definizione condivisa del termine "religione". La definizione moderna del termine "religione" è problematica e controversa:  «Definire la religione è compito tanto ineludibile quanto improbo. È infatti evidente che, se una definizione non può prendere il posto di una indagine, quest'ultima non può avere luogo in assenza di una definizione.»  (Giovanni Filoramo. Op.cit 1993, pag.621) Già Max Weber aveva sostenuto che:  «Una definizione di ciò che la religione 'è' non può trovarsi all'inizio, ma caso mai, alla fine di un'indagine come quella che segue.»  (Max Weber. Economia e società Milano, Comunità, 1968, pag.411. (prima ed. 1922)) Melford E. Spiro (1920-)[32] e Benson Saler[33]obiettano in proposito che quando non si definisce l'oggetto di indagine in modo esplicito si finisce per definirlo in modo implicito.  Lo storico polacco Leszek Kołakowski (1927-2009) rileva invece che:  «Studiando le attività umane nessuno dei concetti di cui disponiamo può essere definito con assoluta precisione, e, sotto questo aspetto, 'religione' non si trova in una situazione peggiore di "arte", "società", "storia", "politica", "scienza", "linguaggio" e innumerevoli altre parole. Ogni definizione della religione deve essere fino ad un certo punto, arbitraria, e, per quanto scrupolosamente tentiamo di far sì che si conformi all'impiego attuale della parola nel linguaggio comune, molte persone riterranno che la nostra definizione comprenda troppo o troppo poco.»  (Leszek Kołakowski. Se non esiste Dio. Bologna, Il Mulino, 1997) Le spiegazioni sulla natura e le ragioni dell'esistenza dei credi religiosi  Ulteriori informazioni Questa sezione sull'argomento religione è solo un abbozzo. Contribuisci a migliorarla secondo le convenzioni di Wikipedia. Segui i suggerimenti del progetto di riferimento. Il filosofo tedesco Ludwig Feuerbach (1804-1872) sosteneva che: la religione consiste di idee e valori prodotti dagli esseri umani, erroneamente proiettati su forze e personificazioni divine. Dio sarebbe quindi la costruzione di un Super uomo (uomo potenziato con attribuiti ideali dati dall'uomo stesso). È una forma di alienazione (che non ha lo stesso significato attribuito da Marx), in quanto la religione estranea l'uomo da sé stesso facendogli credere di non essere in prima persona: l'uomo è sottomesso da sé stesso. La religione si trova ad essere dunque un rifugio dell'uomo di fronte alla durezza della realtà quotidiana.  Karl Marx (1818-1883) affermò che: la Religione è «il gemito della creatura oppressa, l'animo di un mondo senza cuore, così come è lo spirito d'una condizione di vita priva di spiritualità. Essa è l'oppio dei popoli»[34].  Secondo l'ottica di Max Weber (1864-1920): le Religioni mondiali sarebbero capaci di raccogliere vaste masse di credenti e di influenzare il corso della storia universale. Weber non crede che la religione sia una forza conservatrice (Karl Marx), bensì crede che essa possa provocare enormi trasformazioni sociali: La religione influisce sulla vita sociale ed economica. Il Puritanesimo e il protestantesimo, ad esempio, furono all'origine del modo di pensare capitalistico. Ne ”L'etica protestante e lo spirito del capitalismo” Weber discusse ampiamente l'influenza del cristianesimo sulla storia dell'Occidente moderno. Weber scoprì che effettivamente alcune religioni sono caratterizzate da un ascetismo ultramondano, che privilegia la fuga dai problemi terreni, distogliendo gli sforzi dallo sviluppo economico. Il cristianesimo sarebbe una religione di salvezza per Weber, poiché è incentrata sulla convinzione che gli esseri umani possano essere salvati purché scelgano la fede e seguano le sue prescrizioni morali. Le religioni di salvezza presentano un aspetto rivoluzionario perché sono caratterizzate da un ascetismo intramondano, cioè uno spirito religioso che privilegia la condotta virtuosa in questo mondo. Le religioni asiatiche invece avevano un atteggiamento di passività rispetto all'esistente.  Tra le riflessioni contemporanee, particolarmente interessante è la spiegazione del fenomeno religioso proposta da Marcel Gauchet a iniziare dall'opera del 1985 Il Disincanto del mondo[35]: secondo lo storico-filosofo francese, la religione non è né una tensione individuale verso il trascendente, né una costruzione funzionale alla giustificazione del potere. La religione va invece intesa, in una prospettiva storica e antropologica, come maniera particolare di strutturazione dello spazio sociale e umano. In particolare la forma più pura di religione è da rintracciare negli animismi che caratterizzano quelle società che Pierre Clastres definisce “contro lo Stato”. Nelle società di questo tipo, la legge viene cioè fatta risalire a un tempo e a forze assolutamente altre rispetto al presente e nessun membro della società può quindi rivendicare un rapporto privilegiato con il trascendente. La nascita di un'istanza separata del potere è indisgiungibile da una trasformazione della religione: dopo tali trasformazioni, il mondo terreno e la realtà trascendente entrano in rapporto. La religione, che nella sua forma più pura era un disinnescamento totale dell'instabilità sociale, una rimozione assoluta della divisione attraverso l'assolutizzazione della separazione terreno/trascendente, si apre a quella che Gauchet definisce l'uscita dalla religione.  Alcuni termini classificatori e descrittivi delle religioni                          Modifica  Edward Burnett Tylor introdusse, nel 1871, la nozione di "animismo".  Il teologo calvinista svizzero Pierre Viret (1511-1571) che, nel suo Instruction chrétienne del 1564 introdusse il termine "deismo".  Friedrich Schelling nel 1842 introdusse per primo il termine "enoteismo" poi ripreso e diffuso dall'indologo Friedrich Max Müller (1823-1900).  John Toland(1670-1722) nel suo Socinianism Truly Stated. By a pantheist (1705) utilizzò per primo la nozione di "panteismo". Animismo                                                     Modifica "Animismo" (dall'inglese animism, a sua volta dal latino anĭma) è il termine introdotto nello studio delle religioni primitive dall'antropologo inglese Edward Burnett Tylor (1832-1917) che, nel 1871 nel suo Primitive Culture: Researches into the Development of Mythology, Philosophy, Religion, Language, Art and Custom, lo utilizzò per indicare quella prima forma di credenza spirituale ("anima" o "forza vitale") che viene riscontrata in oggetti o luoghi. In tal senso la teoria di Tylor si opponeva a quella di Herbert Spencer(1820-1903) che invece poneva nell'ateismo le convinzioni degli uomini primitivi[36].  La teoria "animistica", già messa in discussione da Marcel Mauss (1872-1950) e da James Frazer (1854-1941), è rifiutata oggi dalla maggior parte degli antropologi.  Tuttavia, come nota Jacques Vidal[37]  «in mancanza di altre espressioni l'uso del termine rimane frequente.»  Carlo Prandi[38] nota anche come tale termine venga utilizzato per indicare le credenze religiose dell'Africa subsahariana, quelle afrobrasiliane e quelle attinenti alle culture dell'Oceania.  Ateismo      Modifica Esistono religioni atee, per considerarle tali prevale la definizione legata al culto piuttosto che al sacro, e l'interpretazione strettamente etimologica su quella abituale di "atteggiamento antireligioso".[39]. Nel 1993 durante i lavori del Parlamento Mondiale delle Religioni (PoWR) i buddisti, guidati dal Dalai Lama, protestarono contro l’uso del termine Dio che essi rifiutano, concordando solo su quello di Realtà suprema[40].  Deismo                                                            Modifica Il termine "Deismo" (dal francese déisme, a sua volta dal latino deus[41]) fu coniato dal teologo calvinista svizzero di lingua francese Pierre Viret (1511-1571) che nella sua Instruction chrétienne (Ginevra, 1564) lo utilizzò per indicare un gruppo che si opponeva agli "ateisti", ma Viret descrisse questo "gruppo" come di coloro che pur credendo in un Dio unico e creatore rigettavano la fede in Gesù Cristo.  Il poeta inglese John Dryden (1631-1700), in Religio Laici del 1682 definì il "Deismo" come la credenza in un Dio creatore rifiutando qualsivoglia dottrina propugnata dalla tradizione e dalla rivelazione.  Con la pubblicazione del Dictionnaire historique et critique (Rotterdam, 1697) di Pierre Bayle (1647-1706), che riprese la nozione di Déisme (s.v. "Viret"), il termine si diffuse ampiamente nella cultura europea.  Tuttavia il significato di "Deismo" ha posseduto, di volta in volta, connotazioni diverse. Allen W. Wood[42]ne ha identificate quattro:  credenza in un Essere supremo privo di tutti gli attributi di personalità (come intelletto e volontà); credenza in un Dio, ma rifiuto di qualsiasi cura provvidenziale da parte di questi per il mondo; fede in un Dio, ma negazione di ogni vita futura; credenza in un Dio, ma rifiuto di tutti gli altri articoli di fede religiosa. Molti filosofi e scienziati, per lo più illuministi del Settecento, sostennero tali posizioni; varianti istituzionalizzate del "Deismo" sono il Culto dell'Essere supremo durante la Rivoluzione francese e la spiritualità della Massoneria.  Enoteismo              Modifica "Enoteismo" (dal tedesco henotheismus, a sua volta dal greco εἷς eîs + θεός theós "un dio") fu il termine coniato dal Friedrich Schelling (1775-1854) in Philosophie der Mythologie und der Offenbarung(1842) per indicare un "monoteismo " rudimentale sorto durante la preistoria della coscienza e precedente al "monoteismo evoluto" e al politeismo. In questo senso il termine si presenta simile a quello di Urmonotheimus ovvero "monoteismo primordiale" elaborato nel 1912 dall'antropologo e sacerdote Wilhelm Schmidt.  Successivamente, l'indologo tedesco Friedrich Max Müller (1823-1900) utilizzò questo termine[43] per indicare una pratica propria del Ṛgveda consistente nell'isolare una divinità rispetto alle altre durante le invocazioni rituali.  Nel suo significato storico-religioso, "enoteismo" occorre ad indicare quella forma di culto per cui una divinità viene, durante il rito, momentaneamente isolata e privilegiata rispetto alle altre, assurgendo così a divinità principale.  Monoteismo        Modifica Il termine Monoteismo (neologismo greco, dal grecoμόνος, mónos = unico, solo e θεός theós = dio) caratterizza quelle religioni che propugnano l'esistenza di una singola divinità.  André Lalande (1867-1963) ha così descritto, nel suo Vocabulaire technique et critique de la philosophie, revu par MM. les membres et correspondants de la Société française de philosophie et publié, avec leurs corrections et observations par André Lalande, membre de l'Institut, professeur à la Sorbonne, secrétaire général de la Société (2 volumi) Parigi, 1927, il termine "monoteismo":  «Dottrina filosofica o religiosa che ammette un solo Dio, distinto dal mondo»  Il tema, controverso, è quali possano essere le religioni ascrivibili a questo contesto. Dopo una disamina di tale problema, Paolo Scarpi così chiosa:  «In questa prospettiva, pertanto conviene limitare l'uso del termine monoteismo alle forme religiose che storicamente si sono affermate come tali e che hanno elaborato una speculazione teologica finalizzata alla dimostrazione dell'unicità di Dio»  Intendendo in questa prospettiva sostanzialmente l'Ebraismo, il Cristianesimo e l'Islām. Di tutt'altro avviso è invece, ad esempio, Theodore M. Ludwig che nella Encyclopedia of Religion nata dal progetto internazionale proposto da Mircea Eliade include, sia nell'edizione del 1987 che nella seconda edizione del 2005, nella voce Monotheism[44], altre religioni oltre quelle qui sopra citate come lo Zoroastrismo, la Religione greca nella forma di alcuni culti e nel pensiero di alcuni teologi greci, la Religione egizia del culto di Aton, il Buddhismo nella forma della Terra Pura, l'Induismo in alcune sue particolari manifestazioni e il Sikhismo.  Panteismo                                          Modifica Il termine Panteismo (dall'inglese pantheism a sua volta dal greco παν pan + θεός theós = tutto Dio) letteralmente significa "tutto è Dio". Tale termine fu derivato da analogo termine, pantheistic, utilizzato dal filosofo irlandese John Toland (1670-1722) nel suo Socinianism Truly Stated. By a pantheist (1705), ed ebbe larga diffusione in Europa durante le polemiche inerenti al Deismo.  Oggi il termine "Panteismo" occorre come termine tecnico-descrittivo per individuare quei credi religiosi, o filosofico-religiosi, che individuano una divinità che abbraccia ogni cosa, ovvero Dio che compenetra ogni aspetto e luogo dell'universo rendendo così sacro ogni aspetto dell'esistente, anche quello naturale[45]. Sono imparentati ad esso i termini di "panenteismo", termine coniato nel 1828 da Karl Krause per indicare una visione in cui Dio è sia immanente che trascendente. e di "monismo", genericamente ogni dottrina unitaria che presuppone un'unica sostanza, nella fattispecie la concezione di un unico Dio impersonale ed ozioso [46].  Politeismo                                 Modifica Il termine "politeismo" è attestato nelle lingue moderne per la prima volta nella lingua francese (polythéisme) a partire dal XVI secolo[47]. Il termine polythéisme fu coniato dal giurista e filosofo francese Jean Bodin, e quindi utilizzato per la prima volta nel suo De la démonomanie des sorciers (Parigi, 1580), per poi finire nei dizionari come il Dictionnaire universel françois et latin (Nancy 1740), il Dictionnaire philosophique di Voltaire (Londra 1764) e, l'Encyclopédie di D'Alembert e Diredot (seconda metà del XVIII secolo), la cui voce polytheisme è curata dallo stesso Voltaire. Utilizzato in ambito teologico in opposizione a quello di "monoteismo"; entra nella lingua italiana nel XVIII secolo[48].  Il termine polythéisme, quindi "politeismo", è formato da termini derivati dal greco antico: πολύς (polys) + θεοί (theoi) ad indicare "molti dèi"; quindi da polytheia, termine coniato dal filosofo giudaico di lingua greca Filone di Alessandria (20 a.C.-50 d.C.) per indicare la differenza tra l'unicità di Dio nell'Ebraismo rispetto alla nozione pluralistica dello stesso propria delle religioni antiche[49], tale termine fu poi ripreso dagli scrittori cristiani (ad esempio da Origene in Contra Celsum).  Tale termine indica quelle religioni che ammettono l'esistenza di più dèi a cui destinare i culti. Non vi rientra pertanto il Dualismo, che nella versione classica del Manicheismo vede il mondo retto da due principi opposti in lotta tra loro, il Male e il Bene, quest'ultimo destinato a trionfare alla fine dei giorni. Il termine Dualismo viene inoltre esteso ad eresie quali gli Gnostici e i Catari, che nell'esaltare la figura del male distinguono nettamente tra spirito e materia, ma trattandosi di Cristiani, per quanto borderline, vanno inclusi tra i Monoteisti.  Religioni (in ordine alfabetico) con maggior numero di fedeli                            Modifica Buddhismo                                           Modifica  Il Buddhismo nel mondo Il Buddhismo è una religione che comprende una varietà di tradizioni, credenze e pratiche, in gran parte basata sugli insegnamenti attribuiti a Siddhārtha Gautama, vissuto nel Nepal intorno al VI secolo a.C., comunemente appellato come il Buddha, ossia "il Risvegliato".  Le numerose scuole dottrinarie afferenti a questa religione si fondano e si differenziano in base alle raccolte scritturali riportate nei Canoni buddhisti e agli insegnamenti tradizionali trasmessi all'interno delle stesse scuole.  Le due grandi differenziazioni all'interno del Buddhismo riguardano le correnti Theravāda, presente prevalentemente in Sri Lanka, Thailandia, Cambogia, Myanmar e Laos, e Mahāyāna, presente invece prevalentemente in Cina, Tibet, Giappone, Corea, Vietnam e Mongolia.  Cristianesimo          Modifica  I cristiani nel mondo per nazione Il Cristianesimo è la religione più diffusa nel mondo, in particolare in Occidente (Europa, Americhe, Oceania). Le forme storiche del cristianesimo sono molteplici, ma è possibile indicare quattro principali suddivisioni: il Cattolicesimo, il Protestantesimo, l'Ortodossia e l'Anglicanesimo. Oltre a queste quattro suddivisioni, esistono alcuni credi che si riallacciano al Cristianesimo ma non sono classificati nelle quattro categorie principali, tra cui Mormonismo e i Testimoni di Geova.  Tutte queste tradizioni cristiane riconoscono, seppure con piccole varianti, che il loro fondatore, Gesù di Nazaret, è il Figlio di Dio, e lo riconoscono come Signore. Credono altresì, a parte i Testimoni di Geova, i Mormoni e i Protestanti Unitari, che Dio è uno in tre persone: il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo.  Inoltre, tenendo presente che la Bibbia protestante ha 7 libri in meno della Bibbia cattolica, considerano la Bibbia un testo ispirato da Dio. La Bibbia dei cristiani è composta dall'Antico Testamento, il quale corrisponde alla Septuaginta, versione e adattamento in lingua greca della Bibbia ebraica con l'aggiunta di ulteriori libri[50], e dal Nuovo Testamento: quest'ultimo ruota interamente sulla figura di Gesù Cristo e del suo "lieto annuncio" (Vangelo).  Induismo                                                Modifica  Induismo nel mondo L'Induismo è un insieme di dottrine, credenze e pratiche religiose e filosofico-religiose che hanno avuto origine in India, luogo dove risiede la maggioranza dei suoi fedeli. Secondo la tradizione, questa religione è eterna (Sanātana dharma, religione eterna) non avendo né un principio né una fine.  L'Induismo fa riferimento ad un insieme di testi sacriche per tradizione suddivide in Śruti e in Smṛti. Tra questi testi occorre ricordare in particolar modo i Veda, le Upaniṣad e la Bhagavadgītā.  Islam                               Modifica  Presenza musulmana nel mondo L'Islam è la più recente delle tre principali religioni monoteiste originarie del Vicino Oriente. Ha come principale riferimento il Corano considerato libro sacro. Il testo in lingua araba, una raccolta di predicazioni orali, è relativamente breve rispetto ai testi sacri ebraici o indù. Il termine Islam significa letteralmente "sottomissione", intesa come fedeltà alla parola di Dio. L'Islam condivide con l'Ebraismo e il Cristianesimo gran parte della tradizione dell'Antico Testamento, legittimando il riferimento biblicosecondo cui Isacco (progenitore degli israeliti) e Ismaele (progenitore degli arabi) erano entrambi figli di Abramo. Riconosce la vita e le opere di Gesùritenendolo però un profeta. La figura di riferimento dell'Islam è Muhammad (Maometto), vissuto nel VII secolo nella penisola arabica, di cui la Sunna raccoglie gli aneddoti. Le due suddivisioni principali di questa religione sono l'Islam sunnita e l'Islam sciita.  Altre religioni                          Modifica Altre importanti religioni, diffuse soprattutto in Asiasono:  Animismo Bahá'í Confucianesimo Culti sincretici africani Ebraismo Ermetismo Esoterismo Giainismo Gnosticismo Manicheismo Mitraismo Shintoismo Sikhismo Taoismo Zoroastrismo Nuovi movimenti religiosi                                            Modifica Magnifying glass icon mgx2.svg                            Lo stesso argomento in dettaglio: Nuovo movimento religioso. Bambini di Dio Chiesa dell'unificazione Meditazione trascendentale Movimento raeliano Neopaganesimo Organizzazione Sathya Sai Pastafarianesimo Rajneeshismo Rastafarianesimo Sahaja Yoga Scientology Testimoni di Geova Wicca Note                            Modifica ^ a b Religione, in Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. URL consultato il 6 settembre 2020. ^ Sull'etimologia di "religio" si possono vedere gli studi di Huguette Fugier, Recherches sur l'expression du sacré dans la langue latine, Saint-Amand, Ch.A. Bedy, 1963, pp. 172-179 e Godo Lieberg, "Considerazioni sull'etimologia e sul significato di religio", Rivista di Filologia Classica, (102) 1974, pp. 34-57. ^ a b Jean Paulhan, Il segreto delle parole, a cura di Paolo Bagni, postfazione di Adriano Marchetti, Firenze, Alinea editrice, 1999, p. 45, ISBN 88-8125-300-3. ^ ««le fait de se lier vis-à-vis des dieux», symbolisé par l'emploi des uittæ et des στέμματα dans le culte.»  (( FR ) Alfred Ernout e Antoine Meillet, Dictionnaire étymologique de la langue latine - Histoire des mots ( PDF ), ristampa della IV edizione, in nuovo formato, aggiornata e corretta da Jacques André (1985), Parigi, Klincksieck, 2001   [1932] , p. 569, ISBN 2-252-03359-2. URL consultato il 24 luglio 2013.) ^ Michael von Albrecht, Terror et pavor: politica e religione in Lucrezio ( PDF ), su basnico.files.wordpress.com, ETS, 2005, 238-239. URL consultato il 5 giugno 2017. ^ cfr. anche ( EN ) Robert Schilling, The Roman Religion, in Claas Jouco Bleeker e Geo Widengren (a cura di), Historia Religionum I - Religions of the Past, vol. 1, 2ª ed., Leiden, E. J. Brill, 1988   [1969] , p. 443, ISBN 978-90-04-08928-0. URL consultato il 5 giugno 2017. ^ Polibio, Storie, VI 56. ^ Concetta Aloe Spada, “L’uso di religio e religiones nella polemica antipagana de Lattanzio”, in Ugo Bianchi (ed.), The Notion of «Religion» in Comparative Research. Roma: 'L'Erma' di Bretschneider, 1994, pp. 459-463. ^ Retractationes I, 13. Anche se in De civitate DeiX,3 Agostino segue invece l'etimologia offerta da Cicerone:  «Eleggendo quindi Dio, o piuttosto rieleggendolo (da cui verrebbe il termine religione) avendolo perduto per nostra negligenza»  (Agostino. La città di Dio. Milano, Bompiani, 2004, pag.462) ^ Cfr. anche Giovanni Filoramo. Che cos'è la religione. Torino, Einaudi, 2004, pag.81-2. ^ Giovanni Filoramo. Op.cit. 1993. ^ Giovanni Filoramo. Op.cit. 2004 pag.82 nota 2; Op.cit. 1993, pag. 624; Le scienze delle religioni. Brescia, Morcelliana, 1997, pag.286 ^ Cfr., ad esempio, Paolo Scarpi. Grecia (religione) in Dizionario delle religioni (a cura di Giovanni Filoramo). Torino, Einaudi, 1993, p. 350. ^ Dialetto ionico. ^ Questo tuttavia al di fuori del dialetto attico, cfr. in tal senso e per una più approfondita disamina dei termini Walter Burkert, La creazione del sacro, pp. 491 e sgg. ^ «Tutti questi dati si intrecciano e completano la nozione che la parola thrēskeia evoca di per sé stessa: quella di 'osservanza, regola della pratica religiosa'. La parola si ricollega a un tema verbale che denota l'attenzione al rito, la preoccupazione di restare fedeli a una regola.» Émile Benveniste. Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, voll. II. Torino, Einaudi, 1976, p.487. ^ «Per i Romani religio stava a indicare una serie di precetti e di proibizioni e, in senso lato, precisione, rigida osservanza, sollecitudine, venerazione e timore degli dèi.»  (Mircea Eliade. Religione in Enciclopedia del novecento. Istituto enciclopedico italiano, 1982, pag.121) ^ Enrico Montanari. Dizionario delle religioni (a cura di Giovanni Filoramo). Torino, Einaudi, 1993, pag. 642-4 ^ Enrico Montanari. Op.cit., pag. 642-4 ^ Va precisato tuttavia che gli epicurei non negavano l'esistenza delle divinità quanto piuttosto affermavano la loro lontananza e il loro disinteresse nei confronti degli uomini. ^ Si riferisce ad Epicuro. ^ Michel Despland. Religione. Storia dell'idea in Occidente, in Dictionnaire des Religions (a cura di Jacques Vidal). Parigi, Presses universitaires de France, 1984. In italiano: Dizionario delle religioni. Milano, Mondadori, 2007, pagg. 1539 e segg. ^ I Apologeticum XLVI, 3 e 4. ^ Tra questi Giustino cita esplicitamente Socrateed Eraclito: «Coloro che hanno vissuto secondo il Logos sono cristiani, anche se sono stati considerati atei, come, tra i Greci, Socrate ed Eraclito, ad altri simili, e tra i barbari, Abramo, Anania, Azaria, Misael, Elia, e molti altri ancora, dei quali ora non elenchiamo le opere e i nomi, sapendo che sarebbe troppo lungo. Di conseguenza coloro che hanno vissuto prima di Cristo, ma non secondo il Logos, sono stati malvagi, nemici di Cristo e assassini di quelli che vivevano secondo il Logos; al contrario coloro, quelli che hanno vissuto e vivono secondo il Logos sono cristiani, non soggetti a paure e turbamenti»  (Giustino. Apologia I, 47,3 e 4. Traduzione di Giuseppe Girgenti in Giustino Apologie. Milano, Rusconi, 1995, pagg. 125-7) . ^ Cfr. a titolo esemplificativo Agostino d'Ippona. De vera religione 1-3. ^ «Nel XIII sec. una religione è un Ordine religioso»  (Michel Despland. Op.cit..) ^ Antonin-Dalmace Sertillanges. La philosophie morale de saint Thomas d'Aquin. Parigi, 1947. ^ a b Michel Despland. Op.cit.. ^ F. Brown, S. R. Driver, Ch. A. Briggs. A Hebrew and English Lexicon of the Old Testament. Oxford, Clarendon Press, 1968 ^ Dāta' nella Encyclopædia Iranica. ^ «DlN, I. Definition and general notion. It is usual to emphasize three distinct senses of din: (i) judgment, retribution; (2) custom, sage; (3) religion. The first refers to the Hebraeo-Aramaic root, the second to the Arabic root ddna, dayn (debt, money owing), the third to the Pehlevi dēn(revelation, religion). This third etymology has been exploited by Noldeke and Vollers.»  (Louis Gardet. Encyclopedia of Islam, vol.2. Leiden, Brill, 1991, pag.253) ^ Melford E. Spiro. Religion: problems of definition and explanation, in M. Banton (a cura di) Anthropological Approaches to the study of Religion. London, Tavistock, 1966, pag. 90-1. ^ Benson Saler. Conceptualizing Religion: Immanent Anthropologist, Trascendent Natives, and Unbounded Categories. Leiden, Brill, 1993, pagg. 28-9. ^ Karl Marx, "Introduzione" alla Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, in Opere filosofiche giovanili, Torino, Einaudi 1969. ^ (traduzione italiana Einaudi 1992) ^ Kees W. Bolle. Animism and Animatism. Encyclopedia of Religion vo.1. NY, Macmillan, 2005 (1987) pagg. 362 e segg. ^ Dictionnaire des Religions (a cura di Jacques Vidal). Parigi, Presses universitaires de France, 1984. In italiano: Dizionario delle religioni. Milano, Mondadori, 2007, pag. 60. ^ Carlo Prandi. Dizionario delle religioni (a cura di Giovanni Filoramo). Torino, Einaudi, 1993, pag.37 ^ Giancarlo Bascone, Manualetto di storia religiosa: introduzione ^ Hans Küng, Ciò che credo, Rizzoli: cap. 6 ^ La sua etimologia è del tutto simile a quello di "Teismo" derivando quest'ultimo dal greco théose il primo dal latino deus. ^ Encyclopedia of Religion, vol.4. NY, Macmillan, 2005, pag. 2251-2 ^ Friedrich Max Müller. Selected Essays on Language, Mythology and Religion, vol. 2, Londra, 1881. ^ Theodore M. Ludwig. Monotheism, in Encyclopedia of Religion vol.9. NY, Macmillan, 2005, pagg. 6155 e segg. ^ H. P. Owen. Concepts of Deity. Londra, Macmillan, 1971. ^ Maria Vittoria Cerutti, Storia delle religioni, EDUCatt: 2. 4 ^ Paolo Scarpi, Politeismo in Dizionario delle religioni, Torino, Einaudi, 1993, p. 573. ^ Alberto Nocentini, L'Etimologico, Firenze, Le Monnier, 2010 edizione elettronica ^ Gabriella Pironti. Il "linguaggio" del politeismo in Grecia: mito e religione vol.6 della Grande Storia dell'antichità (a cura di Umberto Eco). Milano, Encyclomedia Publishers/RCS, 2011, pag.22. ^ Da tener presente che la Bibbia protestantecontiene una differente raccolta di libri rispetto a quella, ad esempio, cattolica.   Bibliografia                                                         Modifica Ugo Bianchi (a cura di), The Notion of 'Religion' in Comparative Research. Selected Proceedings of the 16. Congress of the International Association for the History of Religions, Rome, 3.-8. September, 1990, Roma, 'L'Erma' di Bretschneider, 1994. Angelo Brelich, Introduzione alla storia delle religioni, Roma-Bari, Editori Laterza, 1991. Walter Burkert, La creazione del sacro, Milano, Adelphi, 2003. Yves Coppens, Origines de l'homme - De la matière à la conscience, Paris, De Vive Voix, 2010. Yves Coppens, La preistoria dell'uomo, Milano, Jaca Book, 2011. Alfonso Maria Di Nola, Attraverso la storia delle religioni, Roma, Di Renzo Editore, 1996. Ambrogio Donini, Lineamenti di storia delle religioni, Roma, Editori Riuniti, 1959. Mircea Eliade, Trattato di storia delle religioni, Torino, Bollati Boringhieri, 1999. Giovanni Filoramo, Storia delle religioni, Roma-Bari, Editori Laterza, 1994. GiovanniFiloramo, Maria Chiara Giorda e Natale Spineto (a cura di), Manuale di Scienze della religione, Brescia, Morcelliana, 2019. Voci correlate                             Modifica Ateismo Antropologia delle religioni Credenza religiosa Critiche alla religione Culto Dio Divinità Fanatismo religioso Fenomenologia della religione Filosofia della religione Fede Homo religiosus Importanza della religione per stato Preghiera Psicologia della religione Religione di Stato Religioni maggiori Religioni per nazione Rivelazione Rito Santuario Sacrificio Scienza delle religioni Storia delle religioni Sacro Sociologia della religione Teologia Uscita dalla religione Altri progetti                                                Modifica Collabora a Wikisource Wikisource contiene di argomento religioso Collabora a Wikiquote Wikiquote contiene citazioni sulla religione Collabora a Wikizionario Wikizionario contiene il lemma di dizionario «religione» Collabora a Wikinotizie Wikinotizie contiene notizie di attualità su argomenti di religione Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file sulla religione Collabora a Wikivoyage Wikivoyage contiene informazioni turistiche su religione Wikiversity contiene materiale del Corso di laurea in Scienza delle Religioni, Facolta' di Lettere e Filosofia Collabora a Wikibooks Wikibooks contiene un approfondimento sulla storia della nozione di religione Collabora a Wikibooks Wikibooks contiene un libro su Le religioni e il sacro Collegamenti esterni                                         Modifica religione, su Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su Wikidata ( EN ) Religione, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su Wikidata ( EN ,  FR ) Religione, su Enciclopedia canadese. Modifica su Wikidata ( EN ) Religione, su The Encyclopedia of Science Fiction. Modifica su Wikidata ( EN ) Opere riguardanti Religione, su Open Library, Internet Archive. Modifica su Wikidata ( EN ) Religione, in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton Company. Modifica su Wikidata ( EN ) Kevin Schilbrack, The Concept of Religion, in Edward N. Zalta (a cura di), Stanford Encyclopedia of Philosophy, Center for the Study of Language and Information (CSLI), Università di Stanford. Dale Tuggu, Theories of Religious Diversity, su Internet Encyclopedia of Philosophy. Centro Studi sulle Nuove Religioni (CESNUR), su cesnur.org. Controllo di autorità Thesaurus BNCF 7544 · LCCN( EN ) sh85112549 · GND ( DE ) 4049396-9 ·BNE ( ES ) XX524493 (data) · BNF( FR ) cb11963568t (data) · J9U( EN ,  HE ) 987007529427605171 (topic) · NDL( EN ,  JA ) 00572394   Portale Religioni: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di Religioni Ultima modifica 6 giorni fa di Ontoraul PAGINE CORRELATE Religione romana credenze del popolo romano  Storia delle religioni Dio entità divina, essere supremo e oggetto di fede  Wikipedia Il contenutoWikipedia Ricerca Religione romana credenze del popolo romano Lingua Segui Modifica La religione romana è l'insieme dei fenomeni religiosi propri dell'antica Roma considerati nel loro evolvere come varietà di culti, questi correlati allo sviluppo politico e sociale della città e del suo popolo[1][2].   Giove Tonante in una scultura risalente al 100 a.C. circa. Le origini della città, e quindi della storia e della religione di Roma, sono controverse. Recentemente l'archeologo italiano Andrea Carandini[3] sembrerebbe aver quantomeno dimostrato di poter datare l'origine di Roma all'VIII secolo a.C., saldando quindi le sue conclusioni, basate sugli scavi da lui condotti nella zona del Palatino, all'età di fondazione stabilita dal racconto tradizionale[4][5].  Le origini della religione romana vanno individuate nei culti dei popoli pre-indoeuropei stanziati in Italia[6], nelle tradizioni religiose dei popoli indoeuropei[7] che, probabilmente a partire dal XV secolo a.C.[8], migrarono nella penisola, nelle civiltà etrusca[9] e della Grecia[10] e nelle influenze delle civiltà del Vicino Oriente occorse lungo i secoli.  La religione romana cessò di essere la religione "ufficiale" all'interno dell'Impero romano con l'editto di Tessalonica e i successivi editti promulgati a partire dal 380 dall'imperatore romano convertito al cristianesimo Teodosio I[11], il quale proibì e perseguitò tutti i culti non cristiani professati nell'Impero, soprattutto quelli pagani[12]. Precedentemente (362-363) c'era stato il vano tentativo dell'imperatore Giuliano di riformare la religione pagana per contrapporla efficacemente al cristianesimo, ormai ampiamente diffuso.  Una religione civile                                                            Modifica L'espressione "religione romana" è di conio moderno. Il termine italiano "religione" possiede tuttavia la sua chiara etimologia nel termine latino religio ma, nel caso del termine latino, esso esprime una nozione circoscritta alla cura nei confronti dell'esecuzione del rito a favore degli dei, rito che, per tradizione, va ripetuto finché non risulti correttamente eseguito[13], e in questo senso i Romani collegavano al termine religioil vissuto di timore nei confronti della sfera del sacro, sfera propria del rito e quindi della religione stessa[14]:  (LA)  «Religio est, quae superioris naturae, quam divinam vocant, curam caerimoniamque effert»  (IT)  «Religio è tutto ciò che riguarda la cura e la venerazione rivolte a un essere superiore la cui natura definiamo divina»  (Cicerone, De inventione. II,161) Pertanto, l'integrità e la prosperità di Roma (monarchica, repubblicana, imperiale) erano la finalità dello Stato e, a questo scopo, doveri civili e religiosi coincidevano: lo Stato si è attribuito il diritto di stabilire e specificare qual è il sacro e pertanto la religione romana è una religione civica, una religione che ha carattere pubblico e, di conseguenza, nella organizzazione istituzionale di Roma è presente anche un apparato religioso"[15].   La nozione moderna di "religione" è invece più complessa e problematica[16] andando a coprire un più ampio spettro di significati:  «Le concezioni religiose si esprimono in simboli, in miti, in forme rituali e rappresentazioni artistiche che formano sistemi generali di orientamento del pensiero e di spiegazione del mondo, di valori ideali e di modelli di riferimento»  (Enrico Comba, Antropologia delle religioni. Un'introduzione. Bari, Laterza, 2008, p. 3) Precisare la differenza di "contenuto" tra il termine latino religio e quello di uso comune e moderno di "religione" rende conto della caratteristica unica dei contenuti religiosi del vivere romano:  «La religione romana (o più in generale greco-romana) può essere caratterizzata da due elementi: è una religione sociale ed è una religione fatta di atti di culto. Religione sociale, essa è praticata dall'uomo in quanto membro di una comunità e non in quanto singolo individuo, persona; è squisitamente una religione di partecipazione e nient'altro che questo. Il luogo dove si esercita la vita religiosa del romano è la famiglia, l'associazione professionale o di culto, e soprattutto, la comunità politica.»  (John Scheid, La religione a Roma. Bari, Laterza, 1983, p. 8) Ne consegue che per i Romani la religio non aveva molto a che fare con quello che noi indichiamo come credenza religiosa individuale in quanto è lo Stato a essere il tramite tra l'individuo e la divinità[17]:  «L'atteggiamento religioso del romano va [...] distinto dal sistema della fede. Religio non equivale a credo.»  (Robert Schilling, Rites, Cultes, Dieux de Rome. Parigi, Klincksieck, 1979, p.74; cit. in John Scheid, Op.cit., p. 8) Il sentimento religioso romano (pietas) verte dunque nella forte volontà di garantire il successo alla respublica mediante la scrupolosa osservanza della religio, dei suoi culti, dei suoi riti, della sua tradizione, osservanza che consente di ottenere il favore degli dei e garantire la pax deum (pax deorum)[18]. Tale concordia con gli dei determinata dalla scrupolosa osservanza della religio e dei suoi riti è testimoniata, per i Romani, dal successo di Roma nei confronti delle altre città e nel mondo.  (LA)  «...sed pietate ac religione atque una sapientia, quod deorum numine omnia regi gubernarique perspeximus, omnes gentes nationesque superavimus.»  (IT)  «... ma è nel sentimento religioso e nell'osservanza del culto e pure in questa saggezza eccezionale che ci ha fatto intendere appieno che tutto è retto e governato dalla volontà divina, che noi abbiamo superato tutti i popoli e tutte le nazioni.»  (Cicerone, De haruspicum responso, 9; traduzione di Giovanni Bellardi, in Cicerone, Le orazioni vol. III, Torino, UTET, 1975, pp. 302-305) Il che fa concludere a Cicerone:  (LA)  «Et si conferre volumus nostra cum externis, ceteris rebus aut pares aut etiam inferiores reperiemur, religione, id est cultu deorum, multo superiores.»  (IT)  «E se vogliamo confrontare la nostra cultura con quella delle popolazioni straniere, risulterà che siamo uguali o anche inferiori sotto ogni altro aspetto, ma che siamo molto superiori per quello che concerne la religione, cioè il culto degli dei.»  (Cicerone, De natura deorum. II, 8; traduzione di Cesare Marco Calcante. Milano, Rizzoli, 2007, pp. 156-7) La "mitologia" romana: le fabulae          Modifica La nozione di "sacro" (sakros) nella cultura romana Lapis niger stele (modificato).JPG  Qui sopra il cippo del Lapis Niger risalente al VI secolo a.C. che riporta un'iscrizione bustrofedica. In questo reperto archeologico compare per la prima volta il termine sakros (Forum inscription (dettaglio).jpg: sakros es)[19]. Dal termine latino arcaico sakros originano due successivi termini latini: sacer e sanctus. Lo sviluppo del termine sakros, nel suo variegarsi di significati procede, per quanto inerisce al sanctus per via del suo participio sancio che è collegato a sakros per mezzo di un infisso nasale[20]. Ma sacer e sanctus, pur provenendo dalla stessa radice sak, possiedono dei significati originari molto diversi. Il primo, sacer, è ben descritto da Sesto Pompeo Festo (II secolo d.C.) nel suo De verborum significatu dove precisa che: «Homo sacer is est, quem populus iudicavit ob maleficium; neque fas est eum immolari, sed, qui occidit, parricidii non damnatur». Quindi, e in questo caso, l'uomo sacro è colui che portando una colpa infamante che lo espelle dalla comunità umana deve essere allontanato. Non lo si può perseguire, ma non si può perseguire nemmeno colui che lo uccide. L'homo sacer non appartiene, non è perseguito, né è tutelato dalla comunità umana. Sacer è quindi ciò che appartiene ad 'altro' rispetto agli uomini, appartiene agli Dei, come gli animali del sacrificium (rendere sacer). Nel caso di sacer la sua radice sak inerisce a ciò che viene stabilito (quindi ciò che è sak) come non attinente agli uomini. Sanctus invece, come spiega il Digesto, è tutto ciò che deve essere protetto dalle offese degli uomini. È sanctaquell'insieme di cose che sono sottomesse a una sanzione. Esse non sono né sacre, né profane. Esse non sono comunque consacrate agli Dei, non appartengono a loro. Ma sanctus non è nemmeno profano, deve essere protetto dal profano e rappresenta il limite che circonda il sacer anche se non lo riguarda. Sacer è tutto ciò che appartiene quindi a un mondo fuori dall'umano: dies sacra, mons sacer. Mentre sanctus non appartiene al divino: lex sancta, murus sanctus. Sanctus è tutto ciò che è proibito, stabilito, sanzionato dagli uomini e, con questo, anche sanctus si relaziona al radicale indoeuropeo sak. Ma col tempo, sacer e sanctus si sovrappongono. Sanctus non è più solo il "muro" che delimita il sacer ma entra esso stesso in contatto col divino: dall'eroe morto sanctus, all'oracolo sanctus, ma anche Deus sanctus. Su questi due termini, sacer e sanctus, si fonda un ulteriore termine, questo dall'etimologia incerta, religio, ovvero quell'insieme di riti, simboli e significati che consentono all'uomo romano di comprendere il "cosmo", di stabilirne i contenuti e di mettersi in relazione con esso e con gli Dei. Così la città di Roma diviene essa stessa sacra in quanto avvolta dalla majestas che il dio Iupiter ha consegnato al suo fondatore, Romolo. Attraverso le sue conquiste, la città di Roma offre una collocazione agli uomini nello spazio "sacro" da essa rappresentato. La sfera del sacer-sanctus romano appartiene al sacerdosche, nel mondo romano unitamente all'imperator[21] si occupa delle res sacrae che consentono di rispettare gli impegni verso gli Dei. Così sacer divengono le vittime dei "sacrifici", gli altari e le loro fiamme, l'acqua purificatrice, gli incensi e le stesse vesti dei "sacerdoti". Mentre sanctus è riferito alle persone: i re, i magistrati, i senatori (pater sancti) e da questi alle stesse divinità. La radice di sakros, è il radicale indoeuropeo *sak il quale indica qualcosa a cui è stata conferita validità ovvero che acquisisce il dato di fatto reale, suo fondamento e conforme al cosmo[22]. Da qui anche il termine, sempre latino, di sancire evidenziato nelle leggi e negli accordi. Seguendo questo insieme di significati, il sakrossancisce un'alterità, un essere "altro" e "diverso" rispetto all'ordinario, al comune, al profano[23]. Il termine latino arcaico sakros corrisponde all'ittita saklai, al greco hagois, al gotico sakan[24]. La presenza di una mitologia romana che prescindesse da quella greca è stato oggetto di dibattito fin dall'antichità. Il retore greco Dionigi di Alicarnasso (I secolo a.C.) ha negato questa possibilità attribuendo a Romolo, fondatore della città di Roma, l'espressa intenzione di cancellare qualsivoglia racconto mitico che attribuisse agli dei le condotte sconvenienti degli uomini[25]:  (GRC)  «τοὺς δὲ παραδεδομένους περὶ αὐτῶν μύθους, ἐν οἷς βλασφημίαι τινὲς ἔνεισι κατ´ αὐτῶν ἢ κακηγορίαι, πονηροὺς καὶ ἀνωφελεῖς καὶ ἀσχήμονας ὑπολαβὼν εἶναι καὶ οὐχ ὅτι θεῶν ἀλλ´ οὐδ´ ἀνθρώπων ἀγαθῶν ἀξίους, ἅπαντας ἐξέβαλε καὶ παρεσκεύασε τοὺς ἀνθρώπους {τὰ} κράτιστα περὶ θεῶν λέγειν τε καὶ φρονεῖν μηδὲν αὐτοῖς προσάπτοντας ἀνάξιον ἐπιτήδευμα τῆς μακαρίας φύσεως. Οὔτε γὰρ Οὐρανὸς ἐκτεμνόμενος ὑπὸ τῶν ἑαυτοῦ παίδων παρὰ Ῥωμαίοις λέγεται οὔτε Κρόνος ἀφανίζων τὰς ἑαυτοῦ γονὰς φόβῳ τῆς ἐξ αὐτῶν ἐπιθέσεως οὔτε Ζεὺς καταλύων τὴν Κρόνου δυναστείαν καὶ κατακλείων ἐν τῷ δεσμωτηρίῳ τοῦ Ταρτάρου τὸν ἑαυτοῦ πατέρα οὐδέ γε πόλεμοι καὶ τραύματα καὶ δεσμοὶ καὶ θητεῖαι θεῶν παρ´ ἀνθρώποις»  (IT)  «Censurò tutti quei miti che si tramandano sugli dèi, in cui erano offese e accuse contro di essi, ritenendoli empi, dannosi, offensivi e non degni degli dèi e neppure degli uomini giusti. Prescrisse inoltre che gli uomini pensassero e parlassero riguardo agli dèi nel modo più rispettoso possibile, evitando di attribuire loro una pratica indegna della loro natura divina. Presso i Romani infatti non si racconta che Urano fu evirato dai figli né che Crono massacrò i figli per paura di essere detronizzato, che Zeus pose fine alla supremazia di Crono, che era suo padre, rinchiudendolo nelle carceri del Tartaro, non si raccontano neppure guerre, né ferite, né patti, né la loro servitù presso gli uomini.»  (Dionigi di Alicarnasso, II, 18-19; traduzione di Elisabetta Guzzi, p.94.)  Calco in gesso della fronte del "Sarcofago Mattei" (III secolo d.C.), conservato presso il Museo della civiltà romana (Roma). L'originale del calco è murato nello scalone principale di Palazzo Mattei in Roma. Questa fronte del sarcofago intende raffigurare una delle fabulae fondative della civiltà romana: il dio Mars (Marte) che si avvicina a Rhea Silvia (Rea Silvia) addormentata[26]. I gemelli Romulus (Romolo) e Remus (Remo) saranno il frutto della relazione tra il dio e Rhea Silvia, figlia di Numitor (Numitore), questi discendente dell'eroe troiano Aeneas (Enea) e re dei Latini. Allo stesso modo il filologo tedesco Georg Wissowa[27] e lo studioso tedesco Carl Koch[28] hanno diffuso in età moderna l'idea che i Romani non avessero in origine una propria mitologia. Diversamente il filologo francese Georges Dumézil in varie opere aventi come oggetto la religione romana[29] ha invece ritenuto di considerare la presenza di una mitologia latina e quindi romana come diretta eredità di quella indoeuropea, al pari di quella vedica o di quella scandinava, successivamente il contatto con la cultura religiosa e mitologica greca avrebbe fatto dimenticare ai Romani questi loro racconti mitici basati su una trasmissione di tipo orale. Lo storico delle religioni italiano Angelo Brelich[30] ha ritenuto di individuare una mitologia propria dei Latini che, seppur priva di ricchezza come quella greca, è comunque parte autentica e originaria di quel popolo. Lo storico delle religioni italiano Dario Sabbatucci[31]riprende di fatto le conclusioni di Koch quando individua nei Romani e negli Egiziani due popoli che hanno concentrato nel "rito" religioso il contenuto "mitico" non estraendone, a differenza dei Greci, il racconto mitologico. Più recentemente lo storico delle religioni olandese Jan Nicolaas Bremmer[32] ritiene che i popoli indoeuropei e quindi di eredità indoeuropea, tra questi anche i Latini e i Romani, non abbiano mai posseduto dei racconti teogonici e cosmogonici se non in forma assolutamente rudimentale, la particolarità della mitologia greca risiederebbe quindi nel fatto di averli elaborati sull'impronta di quelli appartenenti alle antiche civiltà orientali. Allo stesso modo Mary Bread[33] ha criticato le conclusioni di Dumézil sulla presenza di una mitologia indoeuropea, collegata all'ideologia tripartita, presente anche nella Roma arcaica.  Di certo a partire dall'VIII/VII secolo a.C. si osserva la penetrazione di racconti mitici greci in Italia centrale con i reperti archeologici che li raffigurano[34][35]. Nel VI secolo a.C. l'influenza greca emerge in modo decisamente impressionante con la costruzione del tempio a Iupiter Optimus Maximus al Campidoglio[36].  Andrea Carandini ritiene di individuare una precisa cesura tra la mitologia originaria del Lazio e quella successiva determinata dall'influenza greca:  «Ma a partire da un certo momento la creatività mitica originaria si esaurisce e gli ulteriori sviluppi cominciano a perdere autenticità, per cui viene a prodursi una cesura. Questa cesura cade a nostro avviso nel Lazio al tempo dei Tarquini quando avvengono manipolazioni del mito indigeno ed intrusioni di miti greci paragonabili a un grosso intervento chirurgico nella cultura del tempo.»  (Andrea Carandini, La nascita di Roma, p. 48) Le mediazione etrusca all'epoca dei Tarquini, per mezzo della quale entrano nella religione romana anche nozioni mitiche proprie dei Greci, era già stata evidenziata da Mircea Eliade:  «Sotto la dominazione etrusca perde di attualità la vecchia triade costituita da Giove, Marte e Quirino, che viene sostituita dalla triade formata da Giove, Giunone e Minerva, istituita all'epoca dei Tarquini. È evidente l'influenza etrusco-latina, che del resto apporta alcuni elementi greci. Le divinità hanno ora delle statue: Juppiter Optimus Maximus, come d'ora innanzi sarà chiamato, è presentato ai Romani sotto l'immagine etruschizzata dello Zeus greco.»  (Mircea Eliade, Storia delle idee e delle credenze religiose, vol. II, p. 128) Se quindi già a partire dall'VIII/VII secolo a.C. i racconti mitologici greci, questi decisamente influenzati dal contatto della civiltà greca con quelle orientali, segnatamente con la civiltà mesopotamica[37], penetrano nell'Italia centrale determinando la successiva e decisiva influenza della mitologia greca sulle idee religiose latine, resta che alcuni racconti di natura mitica, alcuni dei quali anche di possibile eredità indoeuropea, possano essere appartenuti alla cultura orale latina arcaica e poi ripresi e in parte riformulati dai letterati e dagli antichisti romani dei secoli successivi.  L'accezione moderna del termine "mito" inerisce a racconti tradizionali che hanno come oggetto dei contenuti di tipo significativo[38], il più delle volte afferenti al campo teogonico e cosmogonico[39], e comunque inerente al sacro e quindi del religioso[40]:  «Il mito esprime un segreto proprio delle origini, che conduce ai confini tra gli uomini e gli dei.»  (Jacques Vidal, Mito, in  Dizionario delle religioni(a cura di Paul Poupard). Milano, Mondadori, 2007, p. 1232) «Il mito si distingue dalla leggenda, dalla fiaba, dalla favola, dalla saga, pur contenendo in varia misura, elementi di ciascuno di questi generi letterari. [...] Tutti questi tipi di racconto hanno in comune il fatto di non essere portatori di quei contenuti di verità che rendono il mito profondamente coinvolgente sul piano esistenziale e religioso»  (Carlo Prandi, Mito in Dizionario delle religioni (a cura di Giovanni Filoramo), Torino, Einaudi, 1993, p.494) Il termine moderno "mito" risale al greco μύθος (mýthos)[41] laddove, invece, i Romani utilizzano il termine fabula (pl. fabulae) che possiede origini nel verbo for, "parlare" di contenuti religiosi[42]. Se fabulaper i Romani è quindi il "racconto" di natura tradizionale circondato da un'atmosfera religiosa, esso possiede l'ambivalenza di essere anche il "racconto" leggendario che si oppone a historia[43], il "racconto" fondato storicamente. Ne consegue che il fondamento di verità di una fabula è lasciato all'uditore che ne stabilisce il criterio di attendibilità, questo stabilito dalla tradizione. Così Livio, in Ad Urbe Condita (I), ricorda che tali fabulae fondative non si possono né adfirmare (confermare), né refellere (confutare).  Le fabulae fondative di Roma si riscontrano sostanzialmente coerenti in una letteratura che prosegue per circa sei secoli[44]. Tali fabulae narrano di un primo re dei Latini, Ianus (Giano), cui segue un secondo re giunto esule dal mare, Saturnus (Saturno), il quale condivise con Ianus il regno. Figlio di Saturnus fu Picus (Pico), a sua volta padre di Faunus (Fauno) che generò il re eponimo dei Latini, Latinus (Latino). A partire da Ianus, questi re divini introdussero nel Lazio la civiltà, quindi l'agricoltura, le leggi, i culti, fondando città.  Evoluzione                                   Modifica Lo sviluppo storico della religione romana passò per quattro fasi: una prima protostorica, una seconda fase dall'VIII secolo a.C. al VI secolo a.C., contrassegnata dall'influenza delle religioni autoctone; una terza contraddistinta dall'assimilazione di idee e pratiche religiose etrusche e greche; una quarta, durante la quale si affermò il culto dell'imperatore e si diffusero le religioni misteriche di provenienza orientale.  Età protostorica                            Modifica Magnifying glass icon mgx2.svg                            Lo stesso argomento in dettaglio: Fondazione di Roma. Nell'età protostorica ancora prima della fondazione di Roma, quando nel territorio laziale c'erano solo tribù, nel territorio dei colli si credeva nell'intervenire nella vita di tutti i giorni di forze soprannaturali tipicamente magico-pagane. Queste forze non erano tuttavia personificate in divinità ma ancora indistinte e solo col rafforzarsi dei contatti con altre popolazioni, tra cui i Greci (nell'VIII secolo a.C. poi nel IV-III secolo a.C.), i Sabini e gli Etruschi, tali forze cominceranno a essere personificate in oggetti e, solo a Repubblica inoltrata, in soggetti antropomorfi. Sino ad allora erano viste come forze chiamate numen o al plurale numina, grandi in numero e ciascuna avente il suo compito nella vita di tutti i giorni.  Età arcaica                                  Modifica Magnifying glass icon mgx2.svg                           Lo stesso argomento in dettaglio: Età regia di Roma. La fase arcaica fu caratterizzata da una tradizione religiosa legata soprattutto all'ambito agreste, tipica dei culti indigeni mediterranei, sulla quale si inserì il nucleo di origine indoeuropea. Per la tradizione romana si deve a Numa Pompilio, il secondo re di Roma, la sistemazione e l'iscrizione delle norme religiose in un unico corpo di leggi scritte, il Commentarius, che avrebbe portato alla definizione di otto ordini religiosi: i Curiati, i Flamini, i Celeres, le Vestali, gli Auguri, i Salii, i Feziali e i Pontefici[45].   Busto di Giano bifronte, culto istituito da Numa Pompilio[46] Gli dei principali e più antichi venerati nel periodo arcaico, la cosiddetta "triade arcaica", erano Giove(Iupiter), Marte (Mars) e Quirino (Quirinus), quella che Georges Dumézil definisce invece “triade indoeuropea”[47]. Proprio a Iupiter Feretrius (garante dei giuramenti) è dedicato il santuario cittadino di più antica consacrazione: stando a Tito Livio era stato proprio Romolo a fondarlo sul colle Palatino[48], così come fu responsabile della creazione del culto di Iupiter Stator (che arresta la fuga dai combattimenti)[49].  Tra le divinità maschili troviamo Liber Pater, Fauno, Giano (Ianus)[46], Saturno, Silvano, Robigus, Consus (il dio del silo in cui si racchiude il frumento), Nettuno (in origine dio delle acque dolci, solo dopo l'apporto ellenizzante dio del mare[50]), Fons (dio delle sorgenti e dei pozzi[51]), Vulcano (Volcanus, dio del fuoco devastatore[52]).  In questa fase primitiva della religione romana è riscontrabile la venerazione di numerose divinità femminili: Giunone (Iuno) in diversi e specifici aspetti (Iuno Pronuba, Iuno Lucina, Iuno Caprotina, Iuno Moneta)[53], Bellona, Tellus e Cerere (Ceres), Flora, Opi (l'abbondanza personificata), Pales (dea delle greggi), Vesta[46], Anna Perenna, Diana Nemorensis(Diana dei boschi, dea italica , introdotta secondo la tradizione da Servio Tullio come dea lunare[54]), Fortuna (portata in città da Servio Tullio, con vari culti entro il pomoerium), la Dea Dia (la dea “luminosa” del cielo chiaro[55]), la dea Agenoria (la dea rappresentante dello sviluppo).  Frequenti sono le coppie di divinità legate alla fertilità poiché essa era ritenuta per natura duplice: se in natura esistono maschio e femmina dovevano esserci anche maschio e femmina per ogni aspetto della fertilità divina. Ecco così Tellus e Tellumo, Caeres e Cerus, Pomona e Pomo, Liber Pater e Libera. In queste coppie il secondo termine rimane sempre una figura secondaria, minore, una creazione artificiale dovuta ai sacerdoti teologi più che alla reale devozione[56].  Il periodo delle origini è caratterizzato anche dalla presenza di numina, divinità indeterminate, come i Larie i Penati.  Età repubblicana                           Modifica Magnifying glass icon mgx2.svg                            Lo stesso argomento in dettaglio: Repubblica romana. La mancanza di un "pantheon" definito favorì l'assorbimento delle divinità etrusche, come Venere(Turan), e soprattutto greche. A causa della grande tolleranza e capacità di assimilazione, tipiche della religione romana, alcuni dèi romani furono assimilati a quelli greci, acquisendone l'aspetto, la personalità e i tratti distintivi, come nel caso di Giunone assimilata a Era; altre divinità, invece, furono importate ex novo, come nel caso dei Dioscuri. Il controllo dello Stato sulla religione, infatti, non proibiva l'introduzione di culti stranieri, anzi tendeva a favorirla, a condizione che questi non costituissero un pericolo sociale e politico. Nel II secolo a.C. furono ad esempio proibiti i baccanali con Senatus consultum de Bacchanalibusdel 186 a.C. perché durante tali riti gli adepti praticavano la violenza sessuale reciproca (sodomia compresa), specialmente sui neofiti, e ciò era in contrasto con le leggi romane che impedivano tali atti tra cittadini, pur permettendole nei confronti degli schiavi, mentre il culto dionisiaco fu represso con la forza.  Età alto imperiale                                                      Modifica Magnifying glass icon mgx2.svg                            Lo stesso argomento in dettaglio: Alto Impero romano.  L'imperatore Commodorappresentato come Ercole La crisi della religione romana, iniziatasi nella tarda età repubblicana, s'intensificò in età imperiale, dopo che Augusto aveva provato a darle nuovo vigore.  «[Augusto] ripristinò alcune antiche tradizioni religiose che erano cadute in disuso, come l'augurio della Salute, la dignità del flamine diale, la cerimonia dei Lupercalia, dei Ludi Saeculares e dei Compitalia. Vietò ai giovani imberbi di correre ai Lupercali e sia ai ragazzi, sia alle ragazze di partecipare alle rappresentazioni notturne dei Ludi Saeculares, senza essere accompagnati da un adulto della famiglia. Stabilì che i Lari Compitali fossero adornati di fiori due volte all'anno, in primavera ed estate.»  (Svetonio, Augustus, 31.) Le cause del lento degrado della religione pubblica furono molteplici. Già da qualche tempo vari culti misterici di provenienza medio-orientale, quali quelli di Cibele, Iside e Mitra, erano entrati a far parte del ricco patrimonio religioso romano.  Col tempo le nuove religioni assunsero sempre più importanza per le loro caratteristiche escatologiche e soteriologiche in risposta alle insorgenti esigenze della religiosità dell'individuo, al quale la vecchia religione non offriva che riti vuoti di significato. La critica alla religione tradizionale veniva anche dalle correnti filosofiche dell'Ellenismo, che fornivano risposte intorno a temi propri della sfera religiosa, come la concezione dell'anima e la natura degli dei.  Un'altra caratteristica tipica del periodo fu quella del culto imperiale. Dalla divinizzazione post-mortem di Gaio Giulio Cesare e di Ottaviano Augusto si arrivò all'assimilazione del culto dell'imperatore con quello del Sole e alla teocrazia dioclezianea.  Età tardo imperiale                                                 Modifica Magnifying glass icon mgx2.svg                            Lo stesso argomento in dettaglio: Tardo Impero romano. Nel 287 circa Diocleziano assunse il titolo di Iovius, Massimiano quello di Herculius[57][58]. Il titolo doveva probabilmente richiamare alcune caratteristiche del sovrano da cui era usato: a Diocleziano, associato a Giove, era riservato il ruolo principale di pianificare e comandare; Massimiano, assimilato a Ercole, avrebbe avuto il ruolo di eseguire "eroicamente" le disposizioni del collega[59]. Malgrado queste connotazioni religiose, gli imperatori non erano "divinità", in accordo con le caratteristiche del culto imperiale romano, sebbene potessero essere salutati come tali nei panegirici imperiali; erano invece visti come rappresentanti delle divinità, incaricati di eseguire la loro volontà sulla Terra[60]. Vero è che Diocleziano elevò la sua dignità imperiale al di sopra del livello umano e della tradizione romana. Egli voleva risultare intoccabile. Soltanto lui risultava dominus et deus, signore e dio, tanto che a tutti coloro che lo circondavano fu attribuita una dignità sacrale: il palazzo divenne sacrum palatium e i suoi consiglieri sacrum consistorium[61][62]. Segni evidenti di questa nuova qualificazione monarchico-divina furono il cerimoniale di corte, le insegne e le vesti dell'imperatore. Egli, infatti, al posto della solita porpora, indossò abiti di seta ricamati d'oro, calzature ricamate d'oro con pietre preziose[63]. Il suo trono poi si elevava dal suolo del sacrum palatium di Nicomedia.[64] Veniva, infine, venerato come un dio, da parenti e dignitari, attraverso la proschinesi, una forma di adorazione in ginocchio, ai piedi del sovrano[62][65].  Nella congerie sincretistica dell'impero durante il III secolo, permeata da dottrine neoplatoniche, e gnostiche, fece la sua comparsa il cristianesimo. La nuova religione andò lentamente affermandosi quale culto di Stato, con la conseguente fine della religione romana, da ora indicata spregiativamente come "pagana", sancito, nel IV e V secolo, dalla chiusura dei templi e dalla proibizione, sotto pena capitale, di professare religioni diverse da quella cristiana.  Flavio Claudio Giuliano, discendente del cristiano Costantino I, tentò di restaurare la religione romana in forma ellenizzata a Costantinopoli, ma la sua morte prematura nel 363 pose fine al progetto. Teodosio Iemanò nel 380 l'editto di Tessalonica per la parte orientale, rendendo il cristianesimo unica religione di Stato, poi nel 391-92 con i decreti teodosianicominciarono le persecuzioni ai danni dei pagani nell'Impero romano; infine nel 394, i decreti furono estesi alla parte occidentale, dove stava avvenendo specialmente a Roma una rinascita pagana.  A partire dal XX secolo emersero correnti neopagane, come la Via romana agli dei e il neo-ellenismo.  Organizzazione religiosa                        Modifica Magnifying glass icon mgx2.svg                            Lo stesso argomento in dettaglio: Sacerdozio (religione romana). Secondo la tradizione, fu Numa Pompilio a istituire i vari sacerdozi e a stabilire i riti e le cerimonie annuali[66]. Tipica espressione dell'assunzione del fenomeno religioso da parte della comunità è il calendario, risalente alla fine del VI secolo a.C. e organizzato in maniera da dividere l'anno in giorni fasti e nefasti con l'indicazione delle varie feste e cerimonie sacre[66].  Collegi sacerdotali                                               Modifica  Augusto nelle vesti di pontefice massimo La gestione dei riti religiosi era affidata ai vari collegi sacerdotali dell'antica Roma, i quali costituivano l'ossatura della complessa organizzazione religiosa romana. Al primo posto della gerarchia religiosa troviamo il Rex Sacrorum, sacerdote al quale erano affidate le funzioni religiose compiute un tempo.  Flamini, che si dividevano in tre maggiori e dodici minori, erano sacerdoti addetti ciascuno al culto di una specifica divinità e per questo non sono un collegio ma solo un insieme di sacerdozi individuali[67]; Pontefici[66], in numero di sedici, con a capo il Pontefice massimo, presiedevano alla sorveglianza e al governo del culto religioso; Auguri[66] , in numero di sedici sotto Gaio Giulio Cesare, addetti all'interpretazione degli auspici e alla verifica del consenso degli dei; Vestali[46] , sei sacerdotesse consacrate alla dea Vesta; Decemviri o Quimdecemviri sacris faciundis, addetti alla divinazione e alla interpretazione dei Libri sibillini; Epuloni, addetti ai banchetti sacri. Sodalizi                                        Modifica A Roma vi erano quattro grandi confraternite religiose, che avevano la gestione di specifiche cerimonie sacre.  Arvali, (Fratres Arvales), ("fratelli dei campi" o "fratelli di Romolo"), in numero di dodici, erano sacerdoti addetti al culto della Dea Dia, una divinità arcaica romana, più tardi identificata con Cerere. Durante il mese di maggio compivano un'antichissima cerimonia di purificazione dei campi, gli Arvalia. Luperci, presiedevano la festa di purificazione e fecondazione dei Lupercalia, che si teneva il 15 febbraio, il mese dei morti, divisi in Quintiali e Fabiani. Salii[66] (da salire, ballare, saltare), sacerdoti guerrieri di Marte, divisi in due gruppi da dodici detti Collini e Palatini. Nei mesi di marzo e ottobre i sacerdoti portavano in processione per la città i dodici ancilia, dodici scudi di cui il primo donato da Marte al re Numa Pompilio, i restanti copie fatte costruire dallo stesso Numa per evitare che il primo venisse rubato. La processione si fermava in luoghi prestabiliti in cui i Salii intonavano il Carmen saliare ed eseguivano una danza a tre tempi (tripudium)[68]. Feziali (Fetiales), venti membri addetti a trattare con il nemico. La guerra per essere Bellum Iustumdoveva essere dichiarata secondo il rito corretto, il Pater Patratus pronunciava una formula mentre scagliava il giavellotto in territorio nemico. Dal momento che, per motivi pratici, non era sempre possibile compiere questo rito, un peregrinusvenne costretto ad acquistare un appezzamento di terreno presso il teatro di Marcello, qui fu costruita una colonna, Columna Bellica, che rappresentava il territorio nemico, in questo luogo si poteva quindi svolgere il rito. Feste e cerimonie         Modifica Magnifying glass icon mgx2.svg                          Lo stesso argomento in dettaglio: Festività romane.  Suovetaurilia, Museo del Louvre Delle 45 feste maggiori (feriae publicae) le più importanti, oltre a quelle suddette, erano quelle del mese di dicembre, i Saturnalia, quelle dedicate ai defunti, in febbraio, come i Ferialia e i Parentalia e quelle connesse al ciclo agrario, come i Cerialia e i Vinalia di aprile o gli Opiconsivia di agosto.  Sulla base delle fonti classiche si è potuto individuare quali tra le numerose festività del calendario romano vedevano un'ampia partecipazione di popolo. Queste feste sono la corsa dei Lupercalia (15 febbraio), i Feralia (21 febbraio) celebrati in famiglia, i Quirinalia(17 febbraio) celebrati nelle curie, i Matronalia (1º marzo) in occasione delle quali le schiave venivano servite dalle padrone di casa, i Liberalia (17 marzo) spesso associata alla festa familiare della maggiore età del figlio maschio, i Matralia (11 giugno) con la processione delle donne, così come i Vestalia (9-15 giugno), i Poplifugia (5 luglio) festa popolare, i Neptunalia (23 luglio), i Volcanalia (23 agosto) e infine i Saturnalia (17 dicembre), la cui vasta partecipazione di popolo è attestata da numerose fonti[69].  Durante le cerimonie sacre spesso venivano praticati sacrifici animali e si offrivano alle divinità cibi e libagioni. La stessa città di Roma veniva purificata con una cerimonia, la lustratio, in caso di prodigi e calamità. Sovente anche i giochi circensi (ludi) avevano luogo durante le feste, come nel caso dell'anniversario (dies natalis) del Tempio di Giove Ottimo Massimo, in concomitanza del quale si svolgevano i Ludi Magni.  Pratiche religiose                                                Modifica «Cumque omnis populi Romani religio in sacra et in auspicia divisa sit, tertium adiunctum sit, si quid praedictionis causa ex portentis et monstris Sibyllae interpretes haruspicesve monuerunt, harum ego religionum nullam umquam contemnendam putavi mihique ita persuasi, Romulum auspiciis, Numam sacris constitutis fundamenta iecisse nostrae civitatis, quae numquam profecto sine summa placatione deorum inmortalium tanta esse potuisset.»  (Cicerone, De natura deorum, III, 5) Tra le pratiche religiose dei Romani forse la più importante era l'interpretazione dei segni e dei presagi, che indicavano il volere degli dei. Prima di intraprendere qualsiasi azione rilevante era infatti necessario conoscere la volontà delle divinità e assicurarsene la benevolenza con riti adeguati. Le pratiche più seguite riguardavano:  il volo degli uccelli: l'augure tracciava delle linee nell'aria con un bastone ricurvo (lituus, vedi Lituo), delimitando una porzione di cielo, che scrutava per interpretare l'eventuale passaggio di uccelli; la lettura delle viscere degli animali: solitamente un fegato di un animale sacrificato veniva osservato dagli aruspici di provenienza etrusca per comprendere il volere del dio; i prodigi: qualsiasi prodigio o evento straordinario, quali calamità naturali, epidemie, eclissi, ecc., era considerato una manifestazione del favore o della collera divina ed era compito dei sacerdoti cercare di interpretare tali segni. Lo spazio sacro        Modifica  Edicola dedicata ai Lari nella Casa dei Vettii a Pompei Lo spazio sacro per i Romani era il templum, un luogo consacrato, orientato secondo i punti cardinali, secondo il rito dell'inaugurazione, che corrispondeva allo spazio sacro del cielo. Gli edifici di culto romani erano di vari tipi e funzioni. L'altare o ara era la struttura sacra dedicata alle cerimonie religiose, alle offerte e ai sacrifici.  Eretti dapprima presso le fonti e nei boschi, progressivamente gli altari furono collocati all'interno delle città, nei luoghi pubblici, agli incroci delle strade e davanti ai templi. Numerose erano anche le aediculae e i sacella, che riproducevano in piccolo le facciate dei templi. Il principale edificio cultuale era rappresentato dall'aedes, la vera e propria dimora del dio, che sorgeva sul templum, l'area sacra inaugurata. Col tempo i due termini diventarono sinonimi per indicare l'edificio sacro.  Il tempio romano risente inizialmente dei modelli etruschi, ma presto vengono introdotti elementi dall'architettura greca ellenistica. La più marcata differenza del tempio romano rispetto a quello greco è la sua sopraelevazione su un alto podio, accessibile da una scalinata spesso frontale. Inoltre si tende a dare maggiore importanza alla facciata, mentre il retro è spesso addossato a un muro di recinzione e privo dunque del colonnato.  Note                                                            Modifica ^ «“Roman religion” is an analytical concept that is used to describe religious phenomena in the ancient city of Rome and to relate the growing variety of cults to the political and social structure of the city.»  (Robert Schilling (1987) Jörg Rüpke (2005), Roman Religio, in Encyclopedia of Religion, vol.12. New York, Macmillan, 2005, p. 7895) ^ Sul considerare la "religione romana" strettamente collegata alla città di Roma:  «Although Rome gradually became the dominant power in Italy during the third century BCE, as well as the capital of an empire during the second century BCE, its religious institutions and their administrative scope only occasionally extended beyond the city and its nearby surroundings (ager Romanus).»  (Robert Schilling (1987) Jörg Rüpke (2005), Roman religion, in Encyclopedia of Religion, vol. 12. New York, Macmillan, 2005, p. 7895) Ma anche:  «La religione romana esiste solo a Roma o là dove stanno i Romani»  (John Scheid, La religione a Roma. Bari, Laterza, 1983, pp. 13-4) ^ Cfr. Andrea Carandini, La nascita di Roma. Dèi, Lari, eroi e uomini all'alba di una civiltà. Torino, Einuadi, 2003; Milano, Mondadori, 2010. ^ La datazione al 753 a.C. risale all'erudito romano Marco Terenzio Varrone (I secolo a.C.). Altre datazioni come quelle proposte da Catone, Dionigi di Alicarnasso e Polibio non si discostano molto. Fabio Pittore indica il 748-747, Cincio Alimento il 729-728, Timeo si spinge fino all'814-813. ^ Per una sintesi, cfr. Cristiano Viglietti, L'eta dei re in La grande storia dell'antichità -Roma (a cura di Umberto Eco), vol. 9, pp.43 e sgg. ^ Così Mircea Eliade in Storia delle idee e delle credenze religiose, vol. II, p. 111: «orbene, l'etnia latina da cui è nato il popolo romano, è il risultato di una mescolanza fra le popolazioni neolitiche autoctone e gli invasori indoeuropei scesi dai paesi transalpini»; diversamente Georges Dumézil, in La religione romana arcaica, p. 69-70: «A differenza dei greci che invasero il mondo minoico, le diverse bande di indoeuropei che discesero in Italia non dovettero certamente affrontare grandi civiltà. Coloro che occuparono il sito di Roma probabilmente non erano neppure stati preceduti da un popolamento denso e instabile; tradizioni come il racconto su Caco inducono a pensare che i pochi indigeni accampati sulle rive del Tevere siano stati semplicemente e sommariamente eliminati come lo sarebbero stati, agli antipodi, i tasmaniani dai mercanti venuti dall'Europa.» ^ Per un'introduzione alle religione degli Indoeuropei cfr. Jean Loicq, Religione degli Indoeuropei in  Dizionario delle religioni (a cura di Paul Poupard). Milano, Mondadori, 2007, pp. 891-908; Renato Gendre, Indoeuropei in Dizionario delle religioni (a cura di Giovanni Filoramo). Torino, Einaudi, 1993 pp.371 e sgg.; Regis Boyer, Il mondo indoeuropeo in L'uomo indoeuropeo e il sacro, in Trattato di antropologia del sacro (a cura di Julien Ries) vol. 3. Milano, Jaca Book, 1991, pp. 7 e sgg. ^ André Martinet, L'indoeuropeo. Lingue, popoli culture, Bari, Laterza, 1989, pp. 78-79; Francisco Villar, Gli Indoeuropei, Bologna, il Mulino, 1997 p. 480. ^ Per le decisive influenze della cultura religiosa etrusca su quella romana cfr. Marta Sordi, L'homo romanus: religione, diritto, e sacro, in Le civiltà del Mediterraneo e il sacro., in Trattato di antropologia del sacro (a cura di Julien Ries) vol. 3. Milano, Jaca Book, 1991, pp. 7 e sgg. ^ Per quanto attiene alla decisiva influenza della mitologia greca sulla religione romana si rimanda alle conclusioni di Georges Dumézil in La religione romana arcaica, Milano, Rizzoli, 2001, pp. 63 e sgg. ^ Cfr. al riguardo Salvatore Pricoco, in Storia del cristianesimo (a cura di Giovanni Filoramo) vol. 1, Bari, Laterza, 2008, pp. 321 e sgg. ^ Gli editti contro gli eretici e gli apostati furono in seguito raccolti nel sedicesimo libro del Codice teodosiano del 438. ^ «Per i Romani religio stava a indicare una serie di precetti e di proibizioni e, in senso lato, precisione, rigida osservanza, sollecitudine, venerazione e timore degli dèi.»  (Mircea Eliade, Religione in Enciclopedia del novecento. Istituto enciclopedico italiano, 1982, pag. 121) ^ Enrico Montanari, Dizionario delle religioni (a cura di Giovanni Filoramo, Torino, Einaudi, 1993, pag. 642-644 ^ Pietro Virili, La politica religiosa dello Stato romano, Nuova Archeologia (inserti), marzo/aprile 2013. ^ «Ogni tentativo di definire il concetto di "religione", circoscrivendo l'area semantica che esso comprende, non può prescindere dalla constatazione che esso, al pari di altri concetti fondamentali e generali della storia delle religioni e della scienza della religione, ha una origine storica precisa e suoi peculiari sviluppi, che ne condizionano l'estensione e l'utilizzo. [...] Considerata questa prospettiva, la definizione della "religione" è per sua natura operativa e non reale: essa, cioè, non persegue lo scopo di cogliere la "realtà" della religione, ma di definire in modo provvisorio, come work in progress, che cosa sia "religione" in quelle società e in quelle tradizioni oggetto di indagine e che si differenziano nei loro esiti e nelle loro manifestazioni dai modi a noi abituali.»  (Giovanni Filoramo, Religione in Dizionario delle religioni (a cura di Giovanni Filoramo). Torino, Einaudi, 1993, pag.620) ^ In tal senso Pierre Boyancé, Etudes sur la religion romaine, Roma, École française de Rome, 1972, p.28. ^ Deum al posto di deorum per l'arcaicità del genitivo. ^ Cfr. Julien Ries in Saggio di definizione del sacro. Opera Omnia. Vol. II. Milano, Jaca Book, 2007, pag.3: «Sul Lapis Niger, scoperto a Roma nel 1899 vicino al Comitium, 20 metri prima dell'Arco di Trionfo di Settimio Severo, nel luogo che si dice sia la tomba di Romolo, risalente all'epoca dei re, figura la parola sakros: da questa parola deriverà tutta la terminologia relativa alla sfera del sacro.» ^ Cfr. Émile Benveniste: «Questo presente in latino in -io con infisso nasale sta a *sak come jungiu 'unire' sta a jug in lituano; il procedimento è ben noto.», in le Vocabulaire des institutions indo-européennes (2 voll., 1969), Paris, Minuit. Ed. italiana (a cura di Mariantonia Liborio) Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, Torino, Einaudi, 1981, pag. 426-7. ^ Qui inteso come ricolmo di augus, o ojas, dopo l'inauguratio, ovvero pieno della "forza", della "potenza", che gli consente di avere relazioni con il sakros, quindi non nell'accezione molto più tarda riferita prima al ruolo militare e poi politico di alcune personalità della Storia romana. ^ Julien Ries, Saggio di definizione del sacro, in Grande dizionario delle Religioni (a cura di Paul Poupard). Assisi, Cittadella-Piemme, 1990 pagg. 1847-1856 ^ Julien Ries, Saggio di definizione del sacro, Op.cit.. ^ Julien Ries, Saggio di definizione del sacro, Op.cit. ^ Dionigi di Alicarnasso, II, 18-19 ^ Questa versione della fabula è in Ovidio, Fasti, III, 11 e sgg. ^ Religion und Kultus der Römer, 1902 ^ In Der römische Jupiter del 1937. ^ Una riassuntiva è La Religion romaine archaïque, avec un appendice sur la religion des Étrusques, Payot, 1966, edito in Italia dalla Rizzoli di Milano con il titolo La religione romana arcaica. Miti, leggende, realtà della vita religiosa romana. Con un'appendice sulla religione degli etruschi; in tal senso cfr. p. 59 edizione del 2001. ^ In Tre variazioni romane sul tema delle originidel 1955 con revisioni fino al 1977, Roma, Editori Riuniti, 2010. ^ Ad esempio in Mito, rito e storia, Roma, Bulzoni, 1978. ^ Insieme a Nicholas Horsfall in Roman Myth and Mythography, University of London Institute of Classical Studies, Bulletin Supplements S. No.52, 1987. ^ Cfr. ad esempio Early Rome, In Religions of Rome I vol. (con John North e Simon Price), Cambridge, Cambridge University Press, 1998, pp. 14 e sgg. ^ In tal senso cfr. Mauro Menichetti, Archeologia del potere. Re, immagini e miti a Roma e in Etruria in età arcaica, Roma, Longanesi, 1994 ^ Da ricordare che la stabile presenza dei Greci nelle colonie italiane è databile fin dall'VIII secolo a.C. ^ «The most impressive testimony to early Rome’s relation to the Mediterranean world dominated by the Greeks is the building project of the Capitoline temple of Jupiter Optimus Maximus (Jove [Iove] the Best and Greatest), Juno, and Minerva, dateable to the latter part of the sixth century. By its sheer size the temple competes with the largest Greek sanctuaries, and the grouping of deities suggests that that was intended.»  (Robert Schilling (1987) Jörg Rüpke (2005), Roman religion, in Encyclopedia of Religion, vol.12. New York, Macmillan, 2005, p. 7895) ^ In tal senso e ad esempio cfr. Charles Penglase, Greek Myths and Mesopotamia: Parallels and Influence in the Homeric Hymns and Hesiod, Londra, Routledge, 2005. ^ «Myth is a traditional tale with secondary, partial reference to something of collective importance.» Walter Burkert, Structure and History in Greek Mythology and Ritual. Berkeley, University of California Press, 1979, p. 23. ^ Per il livello teocosmogonico cfr. Carlo Prandi, Mito in Dizionario delle religioni (a cura di Giovanni Filoramo), Torino, Einaudi, 1993, p.492 e sgg. ^ Come "fondamentale indicatore religioso" e come "irruzione della dimensione del sacro" cfr. Carlo Prandi, Mito in Dizionario delle religioni (a cura di Giovanni Filoramo), Torino, Einaudi, 1993, p.494 ^ Da considerare che il termine "mito" (μύθος, mýthos) possiede in Omero ed Esiodo il significato di "racconto", "discorso", "storia" (cfr. «per gli antichi greci μύθος era semplicemente "la parola", la "storia", sinonimo di λόγος o ἔπος; un μυθολόγος, è un narratore di storie» Fritz Graf, Il mito in Grecia Bari, Laterza, 2007, 1; cfr. «"suite de paroles qui ont un sens, propos, discours", associé à ἔπος qui désigne le mot, la parole, la forme, en s'en distinguant...» Pierre Chantraine, Dictionnaire Etymologique de la Langue Grecque, p. 718). Un racconto "vero" (μυθολογεύω, Odissea XII, 451; così Chantraine (Dictionnaire Etymologique de la Langue Grecque, 718: «"raconter une histoire (vraie)", dérivation en εύω pour des raisons métriques».), pronunciato in modo autorevole (cfr. «in Omero mýthos designa nella maggior parte delle sue attestazioni, un discorso pronunciato in pubblico, in posizione di autorità, da condottieri nell'assemblea o eroi sul campo di battaglia: è un discorso di potere, e impone obbedienza per il prestigio dell'oratore.» Maria Michela Sassi, Gli inizi della filosofia: in Grecia, Torino, Boringhieri, 2009, p.50), perché «non c'è nulla di più vero e di più reale di un racconto declamato da un vecchio re saggio»(Giacomo Camuri, Mito in Enciclopedia Filosofica, vol.8, Milano 2006, pag.7492-3). Nella Teogoniaè μύθος ciò con cui si rivolgono le dee Muse al pastore Esiodo prima di trasformarlo in "cantore ispirato" (cfr. 23-5: Τόνδε δέ με πρώτιστα θεαὶ πρὸς μῦθον ἔειπον) ^ Deriva *for, il suo valore religioso è messo in evidenza da Émile Benveniste (in  Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, vol. II, Torino, Einaudi, 1981, p.386). Dall'arcaico *for deriva anche fatus e fas ma anche fama e facundus; il suo corrispettivo greco antico è phēmi, pháto, ma manca completamente in indoiranico il che lo attesta nell'indoeuropeo di parte centrale (vedi anche l'armeno bay da *bati). ^ Termine e nozione di eredità greca. ^ Angelo Brelich,op.cit. p. 83; per un'esaustiva rassegna dei testi Brelich rimanda ad Albert Schwegler, Römische Geschichte, Tübingen, 1853, Vol. I, pp. 212 e sgg. Cfr., comunque, Virgilio Eneide, VII 45 e sgg. 177 e sgg.; VIII, 319 e sgg. ^ Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, II, 63-73. ^ a b c d Floro, Epitoma de Tito Livio bellorum omnium annorum DCC, I, 2.3. ^ George Dumezil, La religione romana arcaica, p. 137 segg. ^ Tito Livio, 1, 10, 5-7 ^ Jacqueline Champeaux, La religione dei romani, p. 23 ^ Jacqueline Champeaux, p. 32 ^ Jacqueline Champeaux, p. 32-33 ^ Jacqueline Champeaux, p. 33 ^ Jacqueline Champeaux, p. 25-26 ^ Jacqueline Champeaux, p. 37 ^ Jacqueline Champeaux, p. 44 ^ Jacqueline Champeaux, p. 29 ^ Aurelio Vittore, Epitome 40, 10; Aurelio Vittore, Caesares, 39.18; Lattanzio, De mortibus persecutorum, 8 e 52.3; [1]Panegyrici latini, II, XI, 20. ^ Bowman, "Diocletian and the First Tetrarchy" (CAH), 70–71; Liebeschuetz, 235–52, 240–43; Odahl 2004, pp. 43-44; Williams 1997, pp. 58-59. ^ Barnes 1981, pp. 11–12; Bowman, "Diocletian and the First Tetrarchy" (CAH), 70–71; Odahl 2004, p. 43; Southern 2001, pp. 136-137; Williams 1997, p. 58. ^ Barnes 1981, p. 11; Cascio, "The New State of Diocletian and Constantine" (CAH), 172. ^ Aurelio Vittore, Caesares, 39.4. ^ a b E.Horst, Costantino il Grande, p.49. ^ Aurelio Vittore, Caesares, 39.2-4; Eutropio, IX, 26; Zonara, XII, 31. ^ . ^ Aurelio Vittore, Caesares, 39.2-4; Eutropio, IX, 26; Eumenio, Panegyrici latini, V, 11. ^ a b c d e Floro, Epitoma de Tito Livio bellorum omnium annorum DCC, I, 2.2. ^ Jacqueline Champeaux, p. 39 ^ Jacqueline Champeaux, p. 43 ^ Jörg Rüpke. La religione dei Romani, Torino, Einaudi, 2004, p. 210 ISBN 88-06-16586-0. Bibliografia                    Modifica Risorse bibliografiche Santiago Montero, Sabino Perea (a cura di), Romana religio = Religio romanorum: diccionario bibliográfico de Religión Romana, Madrid, Servicio de publicaciones, Universidad Complutense, 1999. Fonti primarie Floro, Epitoma de Tito Livio bellorum omnium annorum DCC, I. Tito Livio, Ab Urbe condita libri. Fonti storiografiche moderne R. Bloch, La religione romana, in Le religioni del mondo classico, Laterza, Bari 1993 A. Brelich, Tre variazioni romane sul tema delle origini, Editori Riuniti, Roma 2010 J. Champeaux, La religione dei romani, Il Mulino, Bologna 2002 R. Del Ponte, Dei e miti italici. Archetipi e forme della sacralità romano-italica, ECIG, Genova 1985 R. Del Ponte, La religione dei romani, Rusconi, Milano 1992 G. Dumezil, La religione romana arcaica, Rizzoli, Milano, 2001 D. Feeney, Letteratura e religione nell'antica Roma, Salerno, Roma 1998 K. Kerényi, La religione antica nelle sue linee fondamentali, Astrolabio, Roma, 1951 U. Lugli, Miti velati. La mitologia romana come problema storiografico, ECIG, Genova 1996 D. Sabbatucci, Sommario di storia delle religioni, Il Bagatto, Roma, 1985 D. Sabbatucci, Mistica agraria e demistificazione, La goliardica editrice, Roma, 1986 D. Sabbatucci, La religione di Roma antica, Il Saggiatore, Milano, 1989 J. Scheid, La religione a Roma, Laterza, Roma-Bari 2001 Voci correlate      Modifica Mitologia romana Via romana agli dei Sacerdozio (religione romana) Sacro (Romani) Dies religiosus Altri progetti                                Modifica Collabora a Wikibooks Wikibooks contiene un approfondimento sulla Religione romana Collabora a Wikiquote Wikiquote contiene citazioni sulla religione romana Collabora a Wikibooks Wikibooks contiene testi o manuali sulla religione romana Collegamenti esterni                                                Modifica ( EN ) Religione romana, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su Wikidata Religio romana, su novaroma.org. Controllo di autorità Thesaurus BNCF 25620 · LCCN( EN ) sh96009771 · BNF ( FR ) cb16271420r(data)   Portale Antica Roma   Portale Religioni Ultima modifica 25 giorni fa di 95.229.80.181 PAGINE CORRELATE Flamine floreale Palatua Flamine pomonale Wikipedia Il contenutoGrice: “The Italians take ‘natural theology’ for granted; at Oxford, as Webb pointed out in his very first Wilde lecture on natural theology, things ain’t that easy, and they are not meant to be easy by the lecture founder, Dr. Wilde. Webb analyses Wilde’s letter in some detail. There’s naturalism and natural theology, there’s revealed theology, but there’s also civil theology, and it’s nice Webb’s main source is Varro!” Grice: “Most of the best Italian philosophers have been very much ANTI-ROMA; in part influenced by classical culture, but more so by the German protestant movement, which also had affinities with the Italian passion for ‘l’antico’” “Ironically, Roma is considered hardly a representative of romanita!” Cf. the neo-paganism of Evola, which is meant to represent romanita. -- Luigi Maria Epicoco. Epicoco. Keywords: Wilde readership in natural religion. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Epicoco” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51762667478/in/dateposted-public/

 

Grice ed Ercole – difesa della metafisica – transnaturalia -- esologia, essologia, e sinautologia – filosofia italiana Luigi Speranza (Spinazzola). Filosofo. Grice: “I like it when Ercole emphasizes that bit in De Interpretatione which I love – every ‘logos’ is ‘significant’ (significativo, semantikos, -- adds Ercole quoting from the Greek) of this or that – even a prayer!” -- Grice: “I must say I love Ercole; for one, he expands on my idea of the longitudinal unity of philosophy, being an Oxfordian Hegelian, almost, he thinks history can be regarded LOGICALLY: scepticism has to follow dogmatism – this is pretty interesting; for another, he tutored for years on the very same topics I did, notably “De interpretation” and “Categoriae” – The former being a theory of semiotics, of course!” – Studia a Napoli. Si interessa per Hegel. A Berlino si perfeziona sotto Michelet, Trendelenburg, e Mommsen. Adere anche alla "Società filosofica hegeliana". Insegna a Pavia e Torino. Dall'hegelismo iniziale, con l'affermarsi del positivismo, passa a posizioni di adesione all'evoluzionismo di Darwin e di Spencer. Polemizza con il teismo, giudicato contraddittorio e illusorio, manifesta interesse per la riforma del liceo classico secondo Pestalozzi (Ercole attaca Pestalozzi e defende Fröbel. Altre opere: Alcune proposte di riforma nella istruzione secondaria, Pavia, Stabilimento tipografico Successori Bizzoni); “La pena di morte e la sua abolizione dichiarate teoricamente e storicamente secondo la filosofia hegeliana, Milano, U. Hoepli); “Il teismo filosofico cristiano. Teoricamente e storicamente considerato, con speciale riguardo a Tommaso e al teismo italiano” (Torino, Loescher); “L'educazione del bambino secondo Pestalozzi, Fröbel e Spencer” (Roma, Tipografia della Reale Accademia dei Lincei); “L'origine del pitagorismo” (Roma, Tipografia Terme Diocleziane di G. Balbi); “La filosofia della natura di Ceretti” (Torino, Unione tipografico-editrice); “La panlogica di Ceretti” (Torino, Fratelli Bocca); “L'esologia di Ceretti”; “L’essologia di Ceretti”, “La sinautologia di Ceretti”, “Cerettiana”; La logica aristotelica, la logica kantiana ed hegeliana e la logica matematica (Torino, Vincenzo Bona), “La logica algebraica”. Dizionario Biografico degli Italiani.  Il Ceretti fino a pochi anni fa era un uomo quasi del tutto sconosciuto. Io mi consolo immensamente a vedere come egli mano mano venga non solo conosciuto ma anche apprezzato, giacchè merita davvero e l'uno e l'altro.  È probabile che parecchi di quelli, cui capiti nelle mani questa Sinossi dell' enciclopedia speculativa conoscano ancor poco, o fors’anche men di poco, l'autore della medesima. Io non posso certamente in questa Introduzione entrare nelle particolarità della sua persona e degli scritti suoi, si perché la natura e i limiti di uno scritto introduttivo non lo permetterebbero, si perchè ho già pubblicata intorno a lui un'opera abbastanza voluminosa (1), alla quale chi voglia può avere ricorso.  Ciò non ostante, non posso a meno di pur riferirmici brevemente, e riferirmi sopratutto al suo general pensiere, ed ai suoi scritti; perchè, essendo egli passato  (1) Notizia degli scritti e del pensiero filosofico di PIETRO CERETTI, accompagnata da un cenno autobiografico del medesimo, intitolato: < La mia celebrità » per PASQUALE D'ERCOLE, Torino 1886, pp. ccccx-187.  per diverse fasi di si fatto pensiere, non si potrebbe, senza tal ricordo, convenientemente collocare e giudicare questa sua Sinossi.  Quanto alla persona, tanto da invogliare a conoscerla chi ancora non la conosca, mi limiterò a ricordarla con pochissime parole. Nato ad Intra nel 1823, educato nella puerizia e nell'adolescenza da preti e gesuiti, usci, dall'educazione e istruzione loro, l'uomo meno informato allo spirito de'medesimi. Più che coll'opera altrui si è istruito coll'opera propria: sì che può dirsi ch'egli è stato il vero autodidattico.  In giovinezza viaggiò, e per anni, quasi tutta l'Europa a piedi, da una parte, studiandone le diverse genti ne’loro costumi e prodotti scientifici e letterari, dall'altra, vedendone la natura nelle sue diverse forme e manifestazioni.  Ed è, certo, da tal visione ch'egli acquistò un grande amore agli studi naturali, ne'quali riesci a procacciarsi vaste e profonde conoscenze. I predetti viaggi gli furono tanto più fruttuosi, in quanto egli, accanto allo studio de'costumi e delle scienze e lettere de'moderni popoli europei, ne studiava, apprendeva e parlava anche le lingue. Le quali lingue moderne, congiunte ad antiche è classiche, ch'ei pure conobbe (sanscrito, ebraico, latino e greco), divenner poi una mirabile, solida e fruttuosa base pe'suoi studi d'ogni sorta, specialmente filosofici. Ebbe mente assai varia, cioè poetica, filosofica e letteraria, e fu indubbiamente un'alta e cospicua individualità, segnatamente dal lato del pensiero filosofico. Egli è stato, infatti, un fortissimo pensatore e ad un tempo un fecondissimo scrittore. Ha scritto una quantità veramente sorprendente di opere (1), appunto di contenuto filosofico, poetico e letterario. Nel letterario comprendo anche un certo numero di opere sociali, le quali son tra filosofiche e letterarie, e sotto forma di romanzi, commedie, biografie, ecc., propugnano una riforma sociale basantesi su principii filosofici.  In una dozzina d'anni, dal 1854 al 1866 circa cominciò a pubblicar qualcuna di tali opere, e propriamente, di contenuto poetico, un poemetto intitolato: Il Pellegrinaggio in Italia ed alcune Liriche, e di contenuto filosofico, i tre primi volumi di un'opera scritta in latino intitolata : Pasaelogices specimen. Gli scritti poetici pubblicò sotto il pseudonimo di Alessandro Goreni, lo scritto filosofico sotto il pseudonimo di Theophilus Eleutherus; e, quel che più importa, si de' primi che del secondo non ne mise in pubblico (così comincia a comprendersi l'oscurità del Ceretti) che pochissimi esemplari, quasi a scandagliar primamente con essi la pubblica opinione.  De' primi qualche giudizio, e abbastanza favorevole, venne fuori, e poi non se ne parlò più; del secondo, che io sappia, non se ne parlò punto, e credo che non lo lesse nessuno. L'autore stesso, in una sua umoristica autobiografia, riferendosi specialmente a questa  (1) L'elenco compiuto di esse si trova nella mia citata Notizia, ecc., p. xxvi SS., e tra grandi e piccole non sono meno di una quarantina. opera filosofica, dice: « Tuttochè questi volumi non fossero letti da nessuno, furono però variamente interpretati, e da taluni supposti essere inintelligibili pel proprio autore; perciò mi guadagnarono la fama della madre notte, che non lascia vedere cosa veruna » (1). Dopo questa prima, quasi ignorata pubblicazione, non pubblico, anzi non volle pubblicare più nulla; e cosi si finisce di spiegare la predetta oscurità.  Singolare uomo! rispetto a quest'ultima, più che dispiacersene, egli n'era contentissimo, e quasi ne gioiva, avendosela persin proposta per scopo, secondo l'adagio (che sovente ripeteva): Bene vive chi bene si nasconde. E meglio di lui veramente non si era nascosto nessuno; giacchè nel suo oscuro e silenzioso recesso ei volgeva ed agitava nella mente tutto un mondo vastissimo di idee poetiche, filosofiche, storiche, sociali, umane. E, lavoratore infaticabile e costante, queste idee veniva solertemente scrivendo, finchè ha potuto scrivere egli stesso, e dettando, quando non potè più scrivere. Giacchè, colto nel 1874 da una paralisi, da prima leggera, ma pur spietatamente progressiva, dovette a poco a poco smettere lo scrivere e ridursi a dettare i pensieri, che ancor sempre l'occuparono fino alla morte, avvenuta nel 1884.  Quanto agli scritti, omettendo di allegare i poeticoletterari, che non è qui il luogo e l'intento, ricordo i principali filosofici. La citata opera latina doveva essere  (1) La mia celebrità, pag. 101, allegata alla mia citata opera.  di otto volumi, ma egli non ne scrisse che propriamente cinque e non ne pubblicò che tre soli. Oltre ad essa e ad un'altra opera filosofica, intitolata : Idea circa la natura e la genesi della Forza, e rimasta incompiuta, scrisse questa Sinossi dell' enciclopedia speculativa; Sogni e Favole (il titolo par letterario, ma è opera filosofica e voluminosa); Considerazioni circa il sistema generale dello spirito e circa il sistema della natura entro i limiti della riflessione; Insegnamento filosofico; Stramberie filosofiche, e parecchie altre minori.  Nella gran massa de'suoi scritti il pensiere del Cerelti non rimase stazionario e inalterato, ma si mutò anzi non poco, e passò per diverse fasi. Le quali (comprendendovi anche il pensiero poetico, sociale e letterario) si possono riassumere in quattro o cinque, e sono la fase poetica; la fase filosofica hegeliana; la fase filosofica di transizione; la fase utopistica e riformativa sociale; e finalmente la fase detta del sistema contemplativo (filosofica anch'essa).  La fase poetica fu la prima della mente del Ceretti, e la prima si per aspirazioni che per studi e produzioni. Ciocchè si è notato rispetto alla generale evoluzione della sua mente, va notato anche di questa specifica fase poetica, in quanto egli passò per varii stadii e varie maniere di concezione e corrispondente produzione poetica, cominciando dalla leopardiana e foscoliana, passando un po' per quella di Giusti e finendo con una concezione e forma poetica umoristicofilosofica.  Quanto alla fase filosofica hegeliana, ella è dalla sua propria designazione indicata chiarissimamente da se stessa. Il Ceretti ne' suoi svariati, larghi e profondi studi filosofici giunse ad accogliere come risultato finale di essi la filosofia hegeliana; e nell'alta Italia è stato, credo, il solo hegeliano, o certamente il solo notevole hegeliano. Tanto più che egli non si limitò alla pura e semplice riproduzione dell'hegelianismo, ma si allargò ed elevò ad una propria produzione sotto il nome di riformazione del medesimo (1).  Ma ecco che il Ceretti nella fase filosofica in genere subisce di bel nuovo una evoluzione, la quale passa per diversi stadii, ognuno de'quali è una specifica fase filosofica. Egli stesso crede che questi stadii o queste specifiche fasi sien due, l'una hegeliana, ch'egli designa come « speculazione hegeliana», l'altra di allontanamento da essa, ch'egli designa come di « divorzio dalle idee hegeliane » 2).  Io però (come ho ampiamente mostrato nella mia citata Notizia), modificando e integrando l'istesso pensiere dell'autore, dico che queste fasi specifiche del suo  [ocr errors] (1) Nella prefazione alle Grullerie poetiche, pubblicate in Torino in questi giorni pei tipi di Bona, alla pag. ix, riferendosi ai suoi studi filosotici nella storia filosofica passata e recente, dice: « Le ultime fasi della filosofia ellenica, del neoplatonismo, dell'idealismo germanico, e soprattutto dell'hegelianismo, guadagnarono il mio spirito, che indi prese le mosse per un ulteriore sviluppo speculativo, e si costituì in proprio sistema ».  (2) Vedi La mia celebrità, pag. 92 e 107.  pensiere filosofico son tre, cioè la hegeliana, una seconda, che ho appellata di transizione, e finalmente quella del sistema contemplativo.  Or la Sinossi, che si pubblica presentemente, è un'opera che cade appunto nella fase di transizione del pensiere filosofico di Ceretti; e di ciò fra poco. Quanto al così detto sistema contemplativo cerettiano, che non entra neppur esso nella considerazione e nei limiti della mia Introduzione, rimando il lettore a ciocchè ne ho scritto nella mia Notizia, segnatamente a pagina cccxxix ss.  Qui mi limito a dir solo che esso è un complesso di idee stoiche, pessimistiche e subbiettivistiche, ed il subbiettivismo poi (già cominciato nella fase di transizione) è spinto a tale estremo da essere un subbiettivismo più immaginativo che pensivo. In filosofia il Ceretti cominciò coll’Idealismo assoluto hegeliano, procedè, attraverso l'Idealismo obbiettivo di Schelling, verso l'Idealismo subbiettivo di Fichte (fase di transizione); e questo Idealismo subbiettivo esagerò poi verso il sistema contemplativo nel senso predetto.  La fase utopistico-sociale è pure in grosso e chiaramente designata dalla sua denominazione stessa. Infatti, il Ceretti in essa propugna uno stato sociale e una relativa costituzione, che non sono lontani da quelli della repubblica di Platone, ossia da una società civile addirittura utopistica.  Poste queste generalità, vengo allo scopo principale di questa Introduzione, cioè quello di riferirmi in modo  [ocr errors] particolare alla Sinossi da me edita. Senonchè, come questa non s'intenderebbe ed apprezzerebbe bene, se non mi riferissi all'antecedente pensiere filosofico cereltiano, del quale ella è, in parte, continuazione, in parte, deviazione, cosi comincerò da quest'ultimo.  L'antecedente pensiere, che fu anche il primo, come è detto, è stato l'hegeliano. Però è stato parimenti detto che il Ceretti non accolse l'hegelianismo come un semplice riproduttore di esso, ma come un riformatore del medesimo. Ora, che cosa pensava egli dell'hegelianismo? pensava che, nella storica evoluzione filosofica il  pensiere hegeliano rappresentasse il momento culminante, il pensiere speculativo più puro, però non ancora tanto puro, quanto è richiesto dal Logo assoluto (1).  Da questo modo di apprezzare il pensiere hegeliano, da lui accolto, seguivano due cose. L'una che, benchè rispetto a tutto il rimanente pensiere, il pensiere hegeliano fosse il più elevato e il più compiuto, pur non era interamente compiuto, era ancora difettivo. L'altra, che bisognava correggerne i difetti ed integrarlo. La correzione e la integrazione sono appunto la riforma dell'hegelianismo, quale il Ceretti la intende; e la esecuzione di ciò costituisce un proprio sistema filosofico, che è il sistema panlogico cerettiano.  [merged small][ocr errors][ocr errors][ocr errors] (1) Logus hegelianus (aveva egli detto nella citata opera latina, vol. I, pag. 685) est cogitationis cogitatio magis pura quam omnis hactenus a philosophia prolata logica cogitatio, nondum vero quantum logus absolutus requirit. Chi non ha l'edizione latina confronti la traduzione italiana, vol. I, Prolegomeni, pag. 875.I difetti, che il filosofo intrese trovava nel filosofo di Stoccarda si estendevano a tutte le tre parti della filosofia di quest'ultimo, alla Logica, alla Natura ed allo Spirito.  Rispetto alla Logica ei trovava i seguenti. Primo: la Nozione (ossia l'Idea) hegeliana si genera dialetticamente in sè stessa in modo inconscio. Ora, il Ceretti trova giusto che la Nozione si generi dialetticamente in sè e da sè; ma ritiene però vizioso ed irrazionale il prodursi dialettico di una Nozione che non si conosce Nozione (di un'Idea che non si conosce Idea). Secondo: la trattazione logica, nel suo processo dialettico, è una astratta semplice esplicazione delle categorie, mentrechè, per essere vera e concreta, dovrebb' essere, secondo il Ceretti, un processo di esplicazione ed implicazione. Terzo: la predetta trattazione costituisce piuttosto un logo astratto, che si esplica e riassume astrattamente in un risultato, anzichè affermarsi in tutti i momenti del corso esplicativo.  Se questi difetti si guardino nel loro complesso e si esprimano in linguaggio più comune, essi si riducono alla rimproverata incoscienza e astrazione (non concretezza) del processo dell'Idea logica hegeliana. Il rimedio a questi vizii (e questo è uno de' punti della riforma hegeliana) è per lui, primamente che la Nozione o l'Idea logica sia accompagnata da coscienza, secondamente che il processo dialettico logico fosse esplicativo ed implicativo ad un tempo, in terzo luogo, che tal processo logico non lo si vedesse ed esprimesse in un semplice risultato, ma che si veda, affermi e verifichi in ogni singolo momento del suo corso.  Rispetto alla Natura (e corrispondente filosofia), ei trova il general difetto che il processo dialettico, che Hegel segue in questa, è anche astratto (come nella Logica) e non locca le concretezza della Natura istessa. La filosofia della Natura pel Ceretti non dev'essere, come per Hegel, un’Idea raccoglientesi in sè stessa dal suo Esser-altro, ossia dalla sua esteriorità, ma dev'essere anche e piuttosto un veramente naturare l'Idea logica. L' emendazione a tal difetto s'intende bene che pel Ceretti consista nell'effettuare il processo naturale della Nozione o dell'Idea in guisa che questa realmente si obbiettivi e concreti nell'esteriore realtà.  Finalmente, rispetto allo Spirito, il filosofo intrese trova, lasciando da banda qualche vizio secondario, due vizii principali. Il primo è che, nel processo dialettico hegeliano, lo Spirito sorga in ultimo come un risultato, invece di sorgere e costituirsi in tutta la serie evolutiva dello Spirito stesso. Il secondo è che lo Spirito non raggiunga quella libertà, nella cui essenza il filosofo tedesco lo fa massimamente consistere. Anche qui l'emendazione consiste nel rimuovere i notati difetti, e però far sì che lo Spirito si costituisca tale nella suc: cession graduale della sua evoluzione e raggiunga veramente la libertà.  lo qui allego senza discutere: qualche vizio rilevato anche a me è parso reale, altri no: rimando per questo il lettore alla mia opera sul Ceretti e lì, in una discussione piuttosto ampia in proposito (1), veda e giudichi da sè stesso.  Come effettua ora il Ceretti la emendazione dei predetti vizii e la conseguente riforma dell'hegelianismo?  Come segue.  Va innanzi tutto notato che egli nella riforma non vuole uscire dall'hegelianismo istesso; e qui ha ragione, e mostra uno sguardo filosofico veramente speculativo e profondo. Giacchè ei pensa, e giustamente, che i sistemi filosofici tutti costituiscono e debbono costituire tanti singoli, ma pur necessari momenti di un solo universale Principio, di una sola universale Idea, di un solo universale Pensiere. L'hegeliano è stato l'ultimo pensiere e l'ultimo principio, comprensivo di Tutti gli antecedenti. Chi vuole, ora, seguire la catena storica della filosofia deve riattaccarsi a quest'ultimo, e questo stesso, pur accogliendolo, ulteriormente sviluppare in sè stesso. E cosi fa egli.  Di fatto, oltre al pensiere hegeliano or rilevato e da lui accolto del significato della storia filosofica e de' sistemi che lo compongono, ha accolto anche il principio, pur hegeliano, di tre generali forme di sistemi, vale a dire il sistema dommatico, lo scettico e l'idealistico. Ha, inoltre, accolto il pensiere hegeliano fondamentale della triplice forma del principio assoluto, forma logica, naturale e spirituale, non che la conseguente triparti  (1) Citata Notizia, pag. ex ss. Vi troverà anche i corrispondenti luoghi latini dell'opera del Ceretti,  zione e trattazione di tutta la materia filosofica. Ha parimenti accolto il concetto enciclopedico della filosofia, il metodo dialettico con la nota tricotomia che lo accompagna, ed altri principii. Ma, ciò non ostante, egli sviluppa ulteriormente, modifica e riforma l'hegelianismo.  Punti importanti della riforma son primamente l'Assoluto ed il Logo: e chi è a notizia delle cose hegeliane, intende bene che con essi il Ceretti non si colloca punto fuori dell'hegelianismo, ma si pone anzi nel cuore del medesimo. Imperocchè l'Assoluto (già importantissimo in tutta la filosofia tedesca) è, notoriamente, l’un capo della filosofia hegeliana, mentre, d'altra parte, l’Idea, segnatamente logica (il Logo, insomma), ne è l'altro. Assoluto e Logo dunque, ossia riunendo, e giustamente, i due, il Logo assoluto diviene in Ceretti il Principio e pernio di tutta la sua concezione riformativa. Questa concezione, s'intende, vien da lui sistematicamente disegnata ed effettuata; e il sistema che ne risulta è un Panlogismo, ossia una universale considerazione speculativa del Logo.  Il Logo è cosi il nuovo principio, che il filosofo intrese pone innanzi, modificando l'Idea hegeliana e specialmente allargando, anzi addirittura universalizzando l'Idea logica di Hegel. Se non che, accanto al Logo troviamo in Ceretti una seconda designazione di tal nuovo principio, ed è quella di Coscienza. Come questa seconda designazione comincia già ad essere importante nella prima fase filosofica del Ceretti (nella hegeliana) e divien poscia prevalentemente determinante nella seconda (in quella di transizione, in cui cade la Sinossi); cosi vuol essere chiarito come la stia con questi principii, che apparentemente paion due (Logo e Coscienza) e realmente sono il solo principio novello cerettiano.  Si noti che uno de' punti cardinali cerettiani della riforma è che l'Idea o la Nozione logica sia non già inconscia, come in Hegel, ma conscia. Si pensi, d'altra parte, che il principio cerettiano (sorgente dall'hegeliano e modificante l'hegeliano istesso) è, come s'è visto, il Logo assoluto. Ora, tal Logo assoluto (secondo il vizio antecedentemente rilevato e la relativa emendazione) il Ceretti lo vuol conscio; ed allora è un passaggio più che naturale, è una naturale esigenza che il Logo assoluto conscio sia e divenga in lui Coscienza (non certo subbiettiva od obbiettiva, ma assoluta).  In tal guisa Logo assoluto e Coscienza pel filosofo intrese costituiscono in fondo un sol principio, e sono il suo novello principio emergente dall'hegeliano. Dico emergente dall'hegeliano, anche perchè, notoriamente, in Hegel, accanto all'Idea, che è posta come principio assoluto, spicca come tale anche lo Spirito (der Geist). Or lo Spirito è l'Idea conscia. Quando si vede la cosa cosi, può dirsi che si in Hegel che in Ceretti spiccano due principii, almeno due speciali denominazioni di un sol principio, che son poi in fondo un sol principio. Cioè, in Hegel spiccano Idea e Spirito, che son poi (l'unico principio) l'Idea spirituale, ossia conscia; e in Ceretti spiccano il Logo e la Coscienza, che son poi (pur un unico principio) il Logo conscio, o puramente e semplicemente la Coscienza.  Che poi e come poi il Ceretti colla Coscienza crede di porre innanzi un principio diverso dallo Spirito di Hegel, o almeno più largo dello Spirito, lo vedremo più innanzi. Ora, pel progresso del discorso, è necessario rilevare primamente un'altra cosa: ed è che dei predetti due principii cerettiani (che in fondo son poi uno), il primo o Logo assoluto è quello che dà più specialmente denominazione, concezione e sistemazione alla fase hegeliana del Ceretti, ossia al Panlogismo: ed il secondo, o la Coscienza (pur già appariscente nella predetta prima fase), è quello che dà più specialmente l'intonazione, la concezione e la sistemazione della seconda fase, cioè di quella di transizione, in cui cade la Sinossi. Il che vuol dire, in altri termini, che il Logo informa prevalentemente il sistema panlogico dell'opera latina, Pasaelogices specimen (prima fase), e la Coscienza informa più particolarmente la presente opera italiana della Sinossi.  Diamo ora brevemente uno sguardo al sistema panlogico, che per me costituisce ancor sempre il più poderoso, più originale e più speculativo pensiere (1)  (1) Per veder ciò, naturalmente, non bisogna limitarsi al fuggevolissimo e magrissimo cenno che ne fo qui; ma bisogna leggere l'opera cerettiana, alla quale un buon aiuto, mi lusingo di dirlo, è la mia citata Notizia.  del Ceretti: il quale sguardo ci agevolerà l'entrata nel pensiere della presente opera sinottica.  Il Logo per lui è tutto, è l'universale realtà, è l'assoluta realtà; e la filosofia è la scienza che considera appunto il Logo nella sua universalità ed assolutezza. Il Logo ha tre forme di esistenza, cioè è Logo in sé, Logo fuori di sè, Logo per sè; forme, che pel Ceretti hanno anche il significato e valore di essere il Logo nella sua Subbiettività, il Logo nella sua Obbiettività (obbiettivazione, estrinsecazione), il Logo nella unità di Subbiettività e Obbiettività.  Si consideri l'Idea hegeliana e le sue note forme, e si troverà che il Ceretti attribuisce al suo Logo quelle stesse forme di esistenza che Hegel attribuiva alla sua Idea. Si pensi un'altra cosa. L'Idea di Hegel è Pensiere ed Essere insieme: può dirsi però che essa è prevalentemente Pensiere nella Logica, prevalentemente Essere nella Natura, prevalentemente Coscienza nello Spirito. Il Logo di Ceretti è pur Pensiere ed Essere, ma, starei per dire, colla prevalente anzi colla essenziale caratteristica di Pensiere: il Logo é essenzialmente pensivo (senza cessare di essere essente), e però è essenzialmente conscio, è essenzialmente Coscienza. L'Idea logica di Hegel non è conscia; l'Idea naturale del medesimo non è neppure conscia; conscia è soltanto la sua Idea spirituale. Il Logo cerettiano invece è sempre Pensiere ed è sempre Coscienza in tutte le sue forme di esistenza, che, come fondamentali, sono le tre predette.  Queste tre forme di esistenza, speculativamente considerate, costituiscono poi tre parti della filosofia, ciascuna delle quali è una speciale considerazion del Logo. Le quali parti, designate con nomi un po' singolari, ma, in fondo, pur veri, sono la Esologia (da eis, és dentro), o dottrina del Logo in sè, del Logo considerato dentro di sė, la Essologia da (85w, fuori) o dottrina del Logo fuori di sè, e finalmente la Sinautologia (da cúv e aviós, con, stesso) o dottrina del Logo con sè (1).  A maggiore intelligenza di queste tre parti, rilevo che il concetto e il relativo obbietto di esse son dal loro autore espressi in una maniera, che è pur degna di considerazione, e che, del resto, discende dall'anzidetto. Si è già visto come il Logo cerettiano, benchè genericamente contenga in sè gli elementi dell'essere e del pensiere, pure prevalentemente e più specificamente è pensiere. Conformemente a ciò, il filosofo intrese designa il concetto e obbietto delle tre mentovate parti appunto dal lato del pensiere, e dice che la Esologia è la considerazione speculativa del pensiere del pensiere; la  (1) Lo dice Logo con sè, ma la espressione ha quel medesimo significato che ha in Hegel quella (del terzo momento) di in sè e per sè. Qui il lettore può intender meglio ciocchè si è detto innanzi del significato ed estensione del Panlogismo cerettiano. Infatti, queste tre parti, che sono tutte, e le sole, dottrine del Logo, nel loro complesso costituiscono la Panlogica (Pasaelogice o Pasalogice: titolo dell'opera latina); onde il Panlogismo. Intende anche un'altra cosa, cioè, la relazione intima di queste tre parti con le hegeliane, in quanto la Esologia corrisponde alla Logica (Logik) di Hegel, la Essologia corrisponde alla filosofia della Natura (Naturphilosophie) e finalmente la Sinautologia corrisponde alla filosofia dello Spirito (Geistesphilosophie) del medesimo.  Essologia, un'altrettale considerazione del pensiere del pensato, e finalmente la Sinautologia è la considerazione speculativa del pensiere del pensante.  Sempre dunque considerazion del pensiere: Il pensiere del pensiere esprime il pensiere nella sua subbiettività; il pensiere del pensato è la considerazione pensiva del pensiere come obbiettivato; e l'ultima è la considerazion del pensiere come unità di subbietto e obbietto (di pensiere subbiettivo e pensiere obbiettivo).  Ciò posto, ecco ora come l'autore pensa e determina la materia di queste tre parti: nel dir delle quali, dirò qualche cosa di più della prima od Esologia, perchè essa nella susseguente Sinossi apparisce poco o punto.  Esologia. Questa è la logica cerettiana, nella quale la coscienza logica, come Coscienza del Logo in genere, è essenzialmente pensante (essentialiter cogitativa, come egli dice). La Coscienza logica è da lui definita quale Coscienza di sè e di altro non ancora esteriore a sè stessa, cioè, non ancora estrinsecata (non ancora divenuta Logo naturale, Natura).  Ei distingue ora l’Esologia in tre parti, che (sempre dal Logo, che è in fondo ad esse) appella Prologia, Dialogia e Autologia. La prima considera il Logo esologico nella astratta identità del pensiero; la seconda lo considera nella differenza del pensiero istesso, la terza lo considera come sintesi della identità e della differenza del pensiero.  Queste tre ultime, ragguagliate alle parti della Logica hegeliana, corrispondono alla sfera del Concetto, a quella dell'Essere e a quella dell’Essenza. Il Concetto in Hegel tien l'ultimo posto; invece, tiene il primo il Ceretti col nome di Prologia.  La Prologia cerettiana (vicinamente alla dottrina hegeliana del Concetto) è dottrina della Proposizione, del Giudizio e del Sillogismo. Il Ceretti comincia dalla Prologia, ed in questa dalla Proposizione, in quanto pensa che il Primo prologico (come dice egli; noi diremmo in generale il Primo logico) non è nè l'Essere di Hegel e Rosmini, nè l'Io di Fichte, nè la schellinghiana Identità dell'Ideale e del Reale; ma è la Proposizione, ch'ei pensa come qualcosa di più semplice e primitivo del Giudizio stesso.  Non entro nelle particolarità nè nell'apprezzamento della cosa; mi limito a far risaltare soltanto il pensiero cerettiano. Non posso però a meno di richiamare l'attenzione del lettore sulla triplicità che pervade (come già in Hegel) la trattazione filosofica cerettiana, la quale triplicità, come si scorge qui, cosi segue in tutta la susseguente trattazione. È inutile dire che, trattando di questa parte, l’autore entra nelle particolarità della teoria si della proposizione, si specialmente del giudizio e del sillogismo.  La Dialogia è la dottrina dell'Essere e considera questo (come già Hegel) siccome distinto ne' subordinati principii o momenti di Qualità, Quantità e Modalità (1), ne'quali, alla lor volta, vengono suddistinti e  (1) La Modalità è la misura hegeliana (das Maas): già Rosenkranz l'avea appellata anche Modalità.speculativamente considerati altri principii subordinati, come qualcosa, il limite, il quanto, la realtà, la sostanza, la essenza, la necessità, ecc.  Chi è pratico delle cose hegeliane, si accorge che il Ceretti anche in questa seconda parte ha fatto degli spostamenti, trasportando e trattando sotto la sfera dell'Essere principii (e persin l'essenza stessa), che in Hegel ricorrono sotto quella dell'Essenza. La cagion di ciò, a mio credere, è che il Ceretti tratta tutta la materia logica (anzi tutta la materia filosofica) secondo i tre momenti della Posizione, della Riflessione e della Concezione. Così facendo, ha potuto accogliere i principii o momenti hegeliani dell’Essenza (la quale, notoriamente, è la sfera della riflessione) sotto il proprio Essere, considerato appunto secondo il momento della riflessione; ossia ha potuto accoglierli sotto l'Essere riflesso.  L'Autologia finalmente, che è pensata come unità della Prologia e della Dialogia, tratta de'tre principii del Sapere, Volere, Agire. S'intende bene che anche in questi vengono distinti, rilevati e trattati altri momenti subordinati come Sapere immediato, mediato e assoluto, Volere subbiettivo, obbiettivo, ecc. I tre principii predetti pur ricorrono nella Logica hegeliana, ma in una guisa e sfera subordinata, mentre qui abbracciano una intera sfera logica per sè, e costituiscono il punto culminante ed unitivo di tutto il pensiere esologico (ossia logico).  Questa parte del sistema panlogico cerettiano non rimane poi così magra ed astratta, come potrebbe sembrare, ma si addentra nella storia, e viene additata in questa la evoluzione di tutte le categorie logiche (esologiche) trattate. Io qui naturalmente non posso entrare nelle particolarità: di più ho detto nella mia Notizia degli scritti e del pensiere filosofico di Ceretti; ma anche in questa fui piuttosto scarso. Ora si è pubblicata in italiano questa parte della filosofia cerettiana sotto il nome di Esologia, ed essa sola comprende ben mille e dugento pagine. Io cercherò un'altra occasione in cui discorrere più lungamente di quest'opera e paragonarla con la Logica hegeliana, dalla quale prende il general pensiere e il generale andamento, ma della quale vuol essere, e in parte è, una modificazione.  EssOLOGIA. La Natura è il Logo obbiettivato: però la dice anche Non-Logo, ossia l'opposto (il negativo) del Logo subbiettivo. La designa parimenti come Coscienza in forma d'Incoscienza, ossia, in fondo, di Coscienza ancora inconscia. Che la dice Coscienza, dopo tutto l'anzidetto, s'intende benissimo; perchè la Coscienza non è che il Logo conscio in genere, salvo poi a passare per diversi gradi della Coscienza, cominciando dalla incoscienza. Questo stato ancora inconscio della Coscienza della Natura è incluso nella mentovata designazione, che, cioè, questa sia Coscienza in forma di incoscienza. Qualche cosa di consimile egli esprime, quando la designa anche come Coscienza dormente.  Distingue la Natura (alla hegeliana) in meccanica, fisica, organica o, come anche si esprime, in Logo meccanico, Logo fisico e Logo organico; e la tratta speculativamente in queste tre forme. Il punto culminante della Natura è la Vita, il cui Logo supremo, dice egli, è l'organo sensorio. Col senso poi (che è funzione e manifestazione di quest'organo) si esce dalla sfera della Natura propriamente detta e si entra in quella dello Spirito, ossia della Coscienza del Logo conscio, e però del pensiero del pensante, la cui speculativa trattazione è la  SINAUTOLOGIA. Il concetto della sinautologia dall'anzidetto è chiarissimo e si riassume in questo, che il pensiero del pensante da essa considerato esprime la concretezza del pensiero istesso, cioè la Coscienza altuosa di quello Spirito (di quel Pensiero), che nella Esologia e nella Essologia era ancora inconscio.  Le parti in cui si suddivide la Sinautologia sono l'Antropologia, l’Antropopedeutica e l'Antroposofia. Queste stesse tre parti sono ulteriormente divise in altre subordinate, trattandosi in ciascuna in grosso quei principii che nell' hegelianismo fan parte dello Spirito e della filosofia dello Spirito. Nelle particolarità io rinunzio di entrare, tanto più che la maggior parte di esse entrano nella Sinossi, che si presenta ora al pubblico.  Con ciocchè è detto, che io lascio senza apprezzamento, è stato certo il lettore messo nel caso di conoscere quelle antecedenze, delle quali la Sinossi, da una parte, è continuazione, dall'altra, ulteriore modificazione, e veniamo dunque alla presente opera sinottica.  Rispetto a questa vi sono due punti a cui mi riferirò: l'uno è quello dell'opera da me prestata nella pubblicazione di essa: l'altro è quello di dare una idea generica del suo contenuto e di rilevare alcune cose che mi paiono degne di nota.  Per ciò che concerne il primo punto, il manoscritto che mi fu consegnato, di indicazioni del contenuto e dello scopo dell'opera non portava che soltanto il titolo generale di essa, cioè Synossi dell'Encyclopedia speculativa. Non aveva prefazione od altra indicazione di sorta, ma cominciava subito col primo paragrafo, e così senz'altro continuava in sussecutivi paragrafi fino all'ultimo.  Or bene, io ho creduto utile di fare innanzi tutto due piccole innovazioni: primamente, di ammodernare l'ortografia dell'autore; secondamente di fornire l'opera di intestazioni.  Quanto all'ortografia, il Ceretti era un uomo, dirò cosi, stampato sul classico, e però rispetto ad essa ha ancora ritenuto le forme latine e greche. Gli è per ciò che, conformemente al saggio ricorrente nel titolo predetto, egli scriveva analysi, systema, sympathia, philosophia, abysso, e via dicendo. Adduceva anche le ragioni di ciò, e, in una scrittura umoristica (1), riferendosi a questo punto, pregava che lo « si lasciasse spropositare a suo agio, perchè la sua crassa ignoranza di orthographia italiana non gli permetteva di fare altrimenti ».  Senza che io mi distenda su questo punto, il lettore intenderà che al nostro tempo una tale ortografia non poteva trovar favore presso il pubblico. L'autore stesso,  (1) Nella Prefazione ai Sogni e Favole (ancora inediti, ma che si pubblicheranno fra non molto).  del resto, non l'aveva seguita neppur egli in tutte le sue scritture italiane. Per esempio, non l'aveva seguita nè in una sua prima opera filosofica italiana, rimasta incompiuta (intitolata Idea circa la genesi e la natura della Forza), nè in qualche opera letteraria de' primi tempi (poniamo, nelle Lettere d'un profugo): in generale poi non l'ha mai seguita nelle sue opere poetiche italiane. Io poteva dunque senza scrupoli innovarla.  Quanto alle intestazioni, mi sono parse utilissime anch'esse. Il Ceretti è uno scrittore molto difficile, è sovente oscuro. Leggere una sua opera senza intestazioni di sorta, tranne quella del titolo generale, è una cosa che non invoglia il lettore. Gli è perciò che, ad agevolare a questo l'intelligenza e la lettura della medesima, ho diviso innanzi tutto l'opera nelle grandi e generali parti che la costituiscono, e ho dato loro le rispettive intestazioni; poscia ho fatto lo stesso coi paragrafi, dando, sia ad un solo sia a più insieme, la intestazione corrispondente al pensiere da essi espresso.  Per la giusta lezione del testo mi son dato tutta la cura possibile. Non una, ma ben molte volte sono intoppato in difficoltà: tanto più che il manoscritto era scritto da un amanuense. Nelle difficoltà ho fatto fare scrupolosi raffronti coll'originale, nei quali la figlia dell'illustre filosofo, tuttora amorosamente intenta alla pubblicazione delle opere paterne, mi ha prestato valido aiuto (1). Ma,  (1) Ad onor del vero, mi piace di far noto che l'opera della figlia verso il padre non è soltanto di riconoscenza filiale, ma di intelligente ad onta del buon volere e degli aiuti, mi è rimasto qualche scrupolo, che in questo o quel luogo qualche mancamento od inesattezza vi sia rimasto.  Quanto a mancamento, mi cade in acconcio di potere affermare siccome una verità, che, per chi conosce le opere filosofiche cerettiane, quelle che susseguono l'opera latina in genere si risentono un po' tutte di qualche mancamento rispetto all'ordinamento e all'integrità del pensiere. Questo, secondo me, proviene da più cagioni: l’una, che, avendo ogni scrittore un momento culminante nella sua attività intellettiva, il Ceretti lo ha avuto nell'opera latina: l'altra che, avendo egli, dopo la pubblicazione de' tre primi volumi di questa, fermamente deliberato di non pubblicar più nulla, ha creduto che le sue opere rimanessero inedite; e con tal credenza la cura di esse è minore: una terza, che negli ultimi dieci anni di vita (in cui cadono quasi tutte le opere filosofiche italiane, compresa la Sinossi) egli fu travagliato dalla mentovata infermità.  Continuando a dire dell'opera da me prestata, rilevo che, per l'accennata difficoltà e talvolta anche oscurità del pensiere dell'autore, vi ho pure aggiunto delle note illustrative, ove mi son parse necessarie od almeno utili.  E finalmente, un po' per la ragione ora detta, un po' per continuare a far conoscere la persona é gli scritti del Ceretti, un po' per agevolare al lettore l'entrata nel  prestazione, come ha anche dimostrato, benchè ella lo abbia taciuto, nella mentovata pubblicazione delle Grullerie poetiche, non che delle Poesie giovanili, apparse contemporaneamente ad esse.  pensiere della Sinossi, vi ho preposta la Introduzione che sta ora leggendo.  Per ciocchè concerne il secondo punto, quello del contenuto, comincio col richiamare innanzi tutto l'attenzione del lettore sul principio costitutivo della Sinossi, cioè, la Coscienza; principio, come ho già detto innanzi, che l'autore crede distintivo della propria filosofia da quella di Hegel, il quale, invece, pone in genere l’Idea, e più specificamente l'Idea conscia, ossia lo Spirito.  Ebbene, dal poco che ho detto, antecedentemente e da altro che ho qui taciuto, posso affermare che la differenza che il Ceretti vuol vedere tra la sua Coscienza e lo Spirito di Hegel a me non pare così essenziale, certo, non così grande, come egli pensa. E che la cosa sia cosi lo voglio confermare con le stesse parole dell'autore. Nella sua Autobiografia, opera interessante e ricca di notizie sul corso de'suoi pensieri, egli stesso dice: « In quel tempo io seppi (1) che l’Assoluto è la Coscienza, e la Coscienza nel suo svolgimento è, correttamente parlando, una storia, ma fui lontano dal distinguere la Coscienza dallo spirito e considerare lo spirito come un momento storico della Coscienza. Per me la Coscienza era un ente, piuttosto che il termine generale, la cui distinzione costituisce gli enti ».  È chiaro dunque che una distinzione vera dei due principii non l'aveva ancor fatta. Però qualche cosa di  (1) La mia celebrità citata, pag. 89. Il tempo di cui parla è verso il 1870, certo, dopo la pubblicazione de' tre primi volumi dell'opera latina, pubblicazione che cessò il 1867,  distintivo cominciava ad andargli pel capo. Di fatto, egli afferma in altro luogo dell'opera, che verso quel tempo di cui si sta parlando « principiava a balenargli l'idea di una Coscienza più generale dello spirito, Coscienza, della quale lo spirito fosse uno storico momento. Quest'idea gli era balenata molto tempo prima, ma piuttosto come un'imagine dell'idealità che come una categorica avvertenza, la quale avvertenza principiò in questo tempo ed ebbe il suo categorico fondamento anzitutto nell'infinito nulla, sopra il quale riposa la nostra cogitabilità » (1).  Da questo luogo, che conferma il primo, non solo emerge ulteriormente che la distinzione ei non l'aveva ancor veramente fatta nell'opera latina, ma fa capire che in questa (ov'egli pure aveva cominciato a parlare di tal distinzione) la distinzione era come un primo baleno di pensiere presentatosi alla mente e intraveduto, non però ancora veramente visto, compreso' e consciamente fermato. È questo veramente un punto, che io non aveva neppur nella mia Notizia così determinatamente ancora indicato e, sopratutto, documentato; son lieto, che mi si è presentata l'occasione di farlo qui.  Ora, è nella Sinossi che il Ceretti è veramente conscio di tal distinzione, ed è in essa che la Coscienza predomina e spicca come l'universale e fondamentale principio  (1) Loc. cit., pag. 104. Può parere strano che il Ceretti faccia poggiare la cogitabilità sull'infinito nulla. Lo strano sparisce, quando si pensa che per lui l'infinito nulla è uno de' modi di designare l'essere indeterminato. Ora, il pensiere è appunto o una determinazione dell'essere indeterminato, o una ulteriore determinazione dell'essere già determinato.  di tutto l'Essere e di tutto lo Scibile (Pensiero). E la ragion principale della distinzione, come si scorgerà dalla lettura dell'opera, consiste per lui specialmente in ciò: Che, giusto perchè la Coscienza è l'universale ed assoluta realtà, l'unico universale essere, ella accoglie sotto di sè l'istesso spirito come uno de' propri momenti, una delle proprie manifestazioni e forme di esistenza (1). Ad intendere ciò, e in generale la larghezza della Coscienza cerettiana, allego volentieri il seguente luogo, nel quale ei dice che il filosofo speculativo « considera l'animale come un momento definito nel sistema della Natura, la Natura come un momento nel sistema spirituale, e lo Spirito come un sistema nel sistema della Coscienza » (2).  Ora può meglio comprendere il lettore, perchè io, nel dividere la Sinossi in Tre Parti e nel dare a ciascuna di esse la relativa intestazione, ho sempre fatto entrare la Coscienza. Del resto, l'istesso autore dice che: « la Coscienza, sendo il termine più generale, che possibilita l'essere e l'esistenza, deve necessariamente essere il termine più generale, nella cui distinzione si distingue logicamente l'Enciclopedia speculativa » (3).  Volendo ora con un breve cenno introdurre il lettore nel contenuto della Sinossi, rilevo innanzi tutto che le tre grandi Parti, nelle quali ella è divisa, sono la Coscienza universale, ossia i Principii logici o logico-metafisici, che  (1) Vedi in questo stesso volume appresso $ 21, pag. 10.  (2) Si confrontino specialmente il g 164 e la mia relativa nota, non che il S 203.  (3) Sinossi, $ 163, pag. 124,  voglian dirsi (Logica); la Coscienza naturale, ossia i Principii naturali (Natura); e la Coscienza spirituale o Principii spirituali (Spirito).  Quanto alla Coscienza universale e ai corrispondenti principii logici, l'autore non entra in particolarità, anzi non ne espone addirittura la dottrina. Si limita soltanto ad indicare innanzi tutto le forme dello scibile e le corrispondenti verità; poscia a designare alcune verità logiche supreme; indi ad accennare in genere la natura della speculazione logica; e finalmente ad una divisione del pensiere sistematico logico.  Rispetto alle forme dello scibile (ch'ei distingue in a) scibile estetico e religioso; b) scibile empirico-induttivo, e c) scibile speculativo), pone che la forma speculativa, che è l'unica e vera filosofica, è quella « che non con: tiene se non verità necessitate dal pensiero in sè stesso, indipendente da qualsivoglia autorità esteriore ». Queste verità necessitate poi ricorrono propriamente, od almeno in modo speciale, nella Logica. E delle tre indicate Parti e corrispondenti discipline filosofiche ei pensa che « la scienza veramente speculativa è la Logica, e le discipline della Natura e dello Spirito non possono contenere verità speculative, ossia necessarie, se non in quanto siano ridotte alla loro radicalità logica », vale a dire, alla forma o tipo logico.  Quanto alle verità logiche supreme, elle si concentrano nel mentovato principio della Coscienza.  E, di fatto, ei pone come verità prima e radice di tutte le altre verità, e ad un tempo come « verità generalis sima della speculazione », questa, che a è contenuta nella proposizione: L'assoluto è coscienza ». E pone quindi come a verità più particolare, ma non meno necessaria », quest'altra, « la quale è nella proposizione: La verità assoluta è nella coscienza pensante » (1). A queste due proposizioni se ne può aggiungere una terza, che, benchè ricorra in fin dell'opera, pure è con esse intimamente legata; ed è che a nulla è e nulla può essere fuori della Coscienza » (2).  Quanto alla natura della Logica, ei l'indica, e mi pare eccellentemente, siccome il « sistema generale della cogitabilità », o, come anche dice, « della pura cogitabilità ».  Finalmente l'autore, non entrando nelle esposizioni di tal sistema, ma limitandosi alla partizione di esso in tre cicli, designa il primo siccome « la categoria pura dell'Essere indefinito, l'essere generale qualitativo e quantitativo v: il secondo come « l'Ente, ossia l'Essere finito, per il quale il pensiero si definisce in pensieri particolari reciprocamente differenziati ed opposti »: il terzo come a l'unità del pensiero infinito col pensiero finito, nella quale unità il pensiero s'individualizza » (3). Questa individuazione, soggiunge, estrinsecandosi, genera la Natura.  (1) La Coscienza pensante è per lui la Coscienza razionale o concettiva, com'ei la dice, a differenza delle forme inferiori di Coscienza, cioè la Coscienza riflessa e la Coscienza sentimentale (quest'ultima abbraccia la Coscienza estetica e si estende alla religiosa).  (2) Sinossi, S 203, pag. 218.  (3) Vedi Sinossi, pag. 1-12.   [blocks in formation] Passando a trattare della Coscienza naturale o Natura, ne dà una definizione, in cui si sente l'influsso fichtiano, definendola, cioè, siccome «l'Idea scissa in due termini, che hanno l'apparenza della separazione », e che sono a l’lo e il Non-Io » (1). Quanto alla partizione però, divide ancora hegelianamente la Natura in a) meccanica, b) fisica, c) biologica (organica).  Cominciando a dir della prima, tocca innanzi tutto della considerazione estetica della Natura istessa, di quella considerazione, che attribuisce ai corpi celesti vita e persin coscienza. Tocca parimenti della considerazione riflessa (o empirico-induttiva), la quale, oppostamente alla prima, considera la Natura come disanimata e puramente meccanica. Son due considerazioni ch'ei tiene per egualmente false, ritenendo invece per unicamente vera la considerazione speculativa.  Conformemente a quest'ultima, piglia le mosse da’ principii primitivi e condizioni prime della Natura, che sono lo Spazio, il Tempo, il Movimento, la Forza; quattro principii che nella loro unità costituiscono poi la Materia. Questi principii ei riunisce in guisa da ricordare addirittura la consimile unione di Spencer, la quale, del resto, prima che spenceriana, è stata già hegeliana.  Si addentra poscia vieppiù nella Natura, e la considera nella vita e nel movimento dei corpi celesti. Ribatte la considerazione estetica, che attribuisce a  « Vita e Coscienza analoga all’umana », siccome  questi  (1) Sinossi, $ 28, pag. 13.  [ocr errors] fantastica. Rispetto alla Vita di essi, rileva egli, la speculazione (e considerazione speculativa) a ritiene giusto » che « i corpi celesti.... debbano possedere necessariamente la propria vita, dalla quale abbiano il proprio movimento, la propria forza e le proprie fasi formali ma respinge interamente che « detta vita possa essere analoga all'animale ed alla vegetale » (1).  Passa quindi a considerare, secondo la speculazione, la Coscienza nei corpi celesti; e, anche qui, pur ammettendo una generica coscienza ne' medesimi, dice che « la Coscienza propria de' corpi celesti non può sotto verun rapporto somigliare a quella degli animali e delle piante ». Ritiene però che « l'armonia generale de’loro rapporti cinematici e induttivamente anche dinamici prova evidentemente che sono regolati non solo dalla coscienza, ma anche dalla coscienza pensante e razionale » (2).  Allontanandosi, ciocchè qui dice l'autore, non poco dalle comuni intuizioni, è bene di rilevare e determinare ulteriormente il suo pensiere e la ragione del suo pensiere, non che la ragione, per la quale egli respinge anche la considerazione riflessa della Natura (che è poi in grosso la considerazione delle scienze naturali). Riattaccandosi a quest'ultima, dice che, se la considerazione estetica attribuisce vita e coscienza agli astri, sbagliandosi nel modo dell'attribuzione, la riflessione spegne  (1) Sinossi, § 41, pag. 22 e seg. (2) Sinossi, $ 42, pag. 23.  addirittura l’una e l'altra. Imperocchè essa, nella concezione e considerazione della natura, è dominata « dalla cardinale irrazionalità » di considerare il pianeta terrestre « come un ente meccanico e fisico, e non mai come un organismo planetario vivente e cosciente di vita e coscienza propria, altra dalla vegetabile ed animale » (1). L'autore attribuisce alla riflessione l'errore della « diremzione (scissione) della Natura e della Coscienza », per cui « deve necessariamente considerare i singoli fenomeni come altri da quelli della Vita e della Coscienza o (2).  Diversa poi, a senso dell'autore, è la speculativa considerazione si della Natura in genere, che dell'ordine terrestre. In quanto che « la speculazione, ponendo il principio generale, che la Natura e l'Idea della Natura sono reciproci fattori, deve conchiudere necessariamente che una Natura qualsivoglia non può esistere se non come viva e cosciente. Le diverse specifiche nature sono appunto differenziate dalle differenze specifiche della loro vita e coscienza ». E, conformemente a ciò, rileva i diversi gradi di vita e coscienza de' corpi celesti, de' minerali, delle piante, degli animali.  « La speculazione (aggiunge egli) concepisce che nessuna esistenza è possibile se non in quanto sia Coscienza, e nessuna Coscienza è possibile se non come un sistematico svolgimento dall’una nell'altra determi  (1) Sinossi, $ 49, pag. 30.  (2) Sinossi, $ 52, pag. 32.   nazione, locchè è Vita ». Mette però in rilievo che « Vita e Coscienza nella speculazione non sono menomamente limitate all'analogia del processo vegeto-animale; epperciò, dicendo che i corpi celesti, il globo terrestre e le materie terrestri sono vive e coscienti, non intendiamo dire che un numero finito di organismi componga un tale organismo, ma semplicemente che tutta la natura è organica, viva e cosciente, e conseguentemente ogni organismo è principio e fine di altri organismi, cosi nel proprio totale, come in ciascuna minima particella divisibile all'infinito » (1).  Non men lontano dalle comuni intuizioni è ciocchè segue sotto il titolo di anatomia, fisiologia e psicologia del globo. Si badi però che a si fatte denominazioni il Ceretti non attribuisce il significato che lor comunemente corrisponde. La ragione, per la quale egli ha adoperate le predette denominazioni è ch'ei considera il globo siccome un organismo vivo e cosciente. Di fatto ei dice: « Considerando il globo come un individuo organico vivo e cosciente, si conchiude necessariamente che vi sia un'anatomia, una fisiologia ed una psicologia del globo ». Avverte però ch'egli « usa questi vocaboli in un significato più generale che non in quello della vita vegeto-animale » (2). E quanto all'espressione di psicologia del globe, che è quella che più delle altre urta le comuni intuizioni, egli ne giustifica e chiarisce  (1) Sinossi, $ 53, pag. 29 e seg.  (2) Loc. cit., $ 59, pag. 36. il significato come segue. « Dobbiamo per prima cosa notare, dic'egli, che non intendiamo parlare di psicologia nel significato analogo a quello dell'animalità, ma usiamo questo vocabolo nel significato amplissimo di coscienza vivente. Cosi, per es., la bestia pratica, nell'uso della sua facoltà locomotiva, esattamente le regole matematiche della statica; ma questo non vuol dire che la bestia possegga qualche nozione di matematica e di meccanica razionale; ella non possiede veruna nozione riflessa, ma semplicemente il senso regolativo della statica, requisito della pratica della locomozione; ma non è una regola teorica; ossia una Coscienza riflessa della medesima. In questo significato generalissimo di coscienza la terra possiede la sua psicologia, non altrimenti che ogni individuo vivente » (1).  Da tutto ciocchè il Ceretti dice intorno a coscienza degli astri in genere e a coscienza e corrispondente psicologia della terra in ispecie, se ne deduce ch'egli attribuisce sì ai primi che alla seconda quella coscienza ch'egli nel luogo ultimamente allegato chiama coscienza vivente, cioè una coscienza che si caratterizza e risume nella vita, una coscienza che potrebbe chiamarsi inconscia. E questa è quella coscienza che antecedentemente io stesso ho designata come generica, non già come specificata e molto meno come individuata.  Ad intender ciò, si pensi che per Ceretti il principio universale della realtà (qui nella Sinossi) è appunto la  (1) Sinossi, $ 74, pag. 47.  Coscienza come universale ed assoluta. In quanto la Coscienza è universale ed assoluta, è già Coscienza la Natura stessa, che è una delle forme di manifestazione ed esistenza della Coscienza. Se è così, è ben naturale ch'ei pensi come cosciente (genericamente, non individuamente gli astri tutti, anzi le cose tutte. Ma la Coscienza della Natura, nelle formazioni siderali della medesima, non si è ancora individuata, soggettivata , ossia è una coscienza che non è ancora presente a sè stessa, non è consapevole di sè stessa, è una Coscienza ancora inconscia.  Ora, il Ceretti pensa che tutto il processo della Coscienza naturale o, come comunemente diciamo, della Natura, consiste appunto nella graduale individuazione e soggettivazione di questa Coscienza. Nella terra ed in genere nella natura minerale tale individuazione, almeno tal vera e reale individuazione non è ancora avvenuta e ne cerca e segua i relativi gradi evolutivi. « Il primo esordio, secondo lui, della Coscienza verso una propria individuazione, oltre l'individuazione planetaria, appare nella vita vegetativa» (1). E questo esordio è, a tal riguardo, si poca cosa, chè, benchè la pianta abbia « un'individualità distinta dall'individualità planetaria, quest'individualità si manifesta tuttavia equivocamente nella vita vegetabile » (2). E di questa equivocità arreca varie ragioni.  (1) Sinossi, $ 80, pag. 52. '  (2) Sinossi, $ 85, pag. 55.   Additata l'individuazione nella pianta, passa ad additarla nella ulteriore e superiore forma di esistenza della animalità. È primamente nell'organismo animale che, secondo il Ceretti, avviene la compiuta individuazione, la quale, si noti, non è ancora soggettivazione in tutta l'animalità. La soggettivazione, che è il grado supremo dell'individuazione, da una parte, « si palesa progressivamente nelle specie superiori », dall'altra, si manifesta nella sua vera compiutezza soltanto nell’uomo; il quale nella serie zoologica è a l'ultimo frutto, ossia il massimo sviluppo psichico dell'animalità » (1). « Quando l'animale, dic'egli, arriva definitivamente alla soggettivazione della propria Coscienza, ossia al suo Io distinto categoricamente dal Non-Io, entra categoricamente nella Coscienza spirituale. Questo passaggio costituisce la creazione dell'uomo, e solamente questo passaggio colla propria manifestazione può significare un soggetto umano » (2).  Con l'antecedente esposizione il Ceretti, nella Evoluzione della Coscienza, esce dalla Coscienza naturale ed entra nella Coscienza spirituale, cioè nella terza parte dell'opera. In questa, cominciando colla distinzione di senso e pensiero, vien subito all'additamento delle forme, 0, com'ei le dice, fasi dello spirito, le quali per lui sono il sentimento, l'intelletto ed il concetto. Il concetto è la facoltà razionale, a distinzione della intellettiva, secondo  (1) Loc. cit., $ 96, 106, 107, pag. 61 e seg.  (2) Sinossi, $ 115, pag. 76.   che ciò s'intende nell'hegelianismo. Il sentimento è da lui inteso in senso più largo del senso, tanto che designa come momenti del sentimento l'attenzione, la memoria e l'immaginazione. Così inteso, il sentimento viene ad esser come una funzione media tra il senso e l’intelletto, quella funzione che costituisce come il passaggio dalla coscienza senziente alla cogitante (1), e che perciò somiglia quella che i tedeschi chiamano facoltà rappresentativa (Vorstellungsvermögen).  Segue l'evoluzione della Coscienza spirituale in quelle forme che, secondo la terminologia hegeliana, fan parte dello spirito soggettivo, come linguaggio e suoi stadii; stato primitivo dell'uomo (primitiva coscienza umana); sonno, sogno e veglia ; temperamento; specifiche disposizioni mentali, tra le quali piglia di mira anche il genio nella sua distinzione dall'ingegno; carattere e criterio.  Dopo di ciò passa alla considerazione di quei principii che possono designarsi come costitutivi della Coscienza oggettiva (oggettivata), che corrispondono a quelli del cosi detto spirito oggettivo hegeliano, e che il Ceretti in questa Sinossi risume ne' tre di Morale, Diritto, Ragione. La Morale regola i rapporti sociali degl'individui consociati, ma soltanto siccome regola interiore alla Coscienza. Il Diritto, facendosi indipendente dalla interiorità della Coscienza morale, statuisce  (1) Ei dice di fatto: « La Coscienza che dalla sensazione si svolge nella mentalità si sistematizza in un sentimento pressochè comune alla umanità ». Sinossi, S 128.  una legge che divien comune e normativa nei rapporti esteriori del corpo sociale. La Ragione concilia le esigenze della Morale e del Diritto, cioè dell'elemento soggettivo e dell'elemento oggettivo della civile società (1).  Continuando, l'autore segue l'evoluzione della Coscienza spirituale nella sua costituzione sociale. Da prima rileva e determina i gradi evolutivi di questa ultima nel regime patriarcale, strategico (militare) e politico. Poscia viene alla determinazione della ragione, la quale è « come il fattore essenziale del buono e del giusto contenuto » nelle organizzazioni sociali. Alla ragione disposa la coltura, in quanto l'una e l'altra si suppongono e svolgono insieme. « La ragione, com’ei si esprime, reclama un libero svolgimento della coltura e la coltura è il corpo della ragione; questa e quella sono reciproche esigenze, epperciò non si possono reciprocamente realizzare se non in quanto concorrono nell'unità del proprio sistema » (2). Termina questa parte con la distinzione, la determinazione ed il rapporto dello scibile delle discipline finite e dello scibile speculativo.  Assolta questa parte della Coscienza spirituale, passa all'ultima e suprema della medesima, che è quella che si riferisce all'Arte, alla Religione ed alla Filosofia, o, che vale lo stesso, alla Coscienza artistica, religiosa, filosofica. Ciascuna di queste tre ei considera non solo  (1) Sinossi, § 139, pag. 96 e seg.  (2) Sinossi, S 134, pag. 113. nel suo principio, ma anche nella sua storica evoluzione. Gli stadii di si fatta evoluzione sono in genere l'asiatico, il pagano, il cristiano; e quindi arte, religione e filosofia asiatica; arte, religione e filosofia pagana; arte, religione e filosofia cristiana.  Quanto all'arte, egli accenna non solo all'arte in genere, ma anche alle diverse forme di arte, additandone l'evoluzione appunto ne' predetti stadii asiatico, pagano e cristiano.  Il medesimo fa per la religione, e qualificando la religione e le religioni asiatiche per naturalistiche, la religione e le religioni pagane per antropomorfistiche, la religione e le diverse forme religiose cristiane per spiritualistiche.  E finalmente, quanto alla filosofia, rilevato il generale concetto di essa e il suo legame coll'arte e colla religione, viene a toccare della sua storica evoluzione. Comincia dalla filosofia asiatica, nella quale dà importanza alla filosofia indiana, essendo questa nell’Asia « la sola che si possa considerare come un tentativo di speculazione esordiente. Ella si distingue in tre grandi periodi, di cui il primo è teologicamente ortodosso, epperò armonizza colla religione costituita; il secondo ed il terzo consistono di sistemi teoretici, che però non negano il principio fondamentale della religione, alla quale contradicono » (1).  Passa alla filosofia pagana, la quale si risume essen  (1) Sinossi, S 191, pag. 188 e seg.  zialmente nella greca, e nella quale la speculazione non s'ispira, come l'indiana, alla teologia, ma « si sente perfettamente libera da ogni prestatuto, da ogni estrinseco alla speculazione » stessa. E ciò si mostra fin dall'inizio della filosofia greca, nella quale « i primi filosofi furono fisici non teologi ». Ella « si distingue in tre grandi cicli. Nel primo è speculazione naturalistico-noologica. Nel secondo è speculazione etica. Nel terzo è speculazione pneumatologica » (1).  Termina colla filosofia cristiana, nella quale, secondo lui, « le speculazioni dei teologi, la così detta filosofia scolastica, non appartengono positivamente alla filosofia, ma piuttosto a quello che si direbbe teologia speculativa », Più vicina al punto di vista filosofico própriamente detto, come poggiante sulla ragione, è la a nuova speculazione », o quella del Rinascimento. Questa « esordi con una semplice rinnovazione della ellenica filosofia ); ma in alcune speculazioni« si distingue per la forma delle nuove filosofie », come in Giordano Bruno, in Giacobbe Böhm e in qualche altro.  Quello però che fonda la filosofia cristiana propria mente detta è Cartesio, al quale poi si riattaccano i posteriori moderni filosofi per ulteriormente svilupparla. « La filosofia cristiana differisce dall’ellenica; perocchè questa si svolse nel piano dell'Idea fisica o metafisica e della sua identità realizzata nel mondo, quella si svolge nel piano dello Spirito concreto, ossia  (1) Sinossi, $ 195, pag. 192 e seg.  unità distinta dell'Idea in sè stessa (metafisica) colla Idea fuori di sè stessa (Natura). Questa concreta unità prima è realizzazione dei suoi termini separabili, che astrattamente si svolgono in astrazioni fisiche o metafisiche; poscia è concreta unità dei suoi termini indirimibili e distinti » (1).  Questa è la tela del pensiere filosofico della Sinossi dell'enciclopedia speculativa. Ora, a complemento della cosa, credo ancora utile di rilevare alcuni punti ed alcune opinioni dell'autore, che mi sembrano degni di nota.  Primamente mi riferisco al punto concernente le idee cerettiane sugli astri in genere e sulla terra in ispecie, e propriamente riguardo all'animazione e persin coscienza che l'autore ha vedute in essi.  Innanzi tutto allego un luogo di un'altra opera di lui: in questo si dice chiaramente come egli intende l’evoluzione planetaria, la quale poi non è altro che l'evoluzione di ciocchè si nella Sinossi, si in questa mia Introduzione si è appellata la Coscienza naturale. « La mia astronomia, dic'egli, ossia perlustrazione de' corpi celesti, non somiglia punto alla disciplina finita (cioè all'astronomia de' naturalisti) di questo nome, ma si riferisce semplicemente alle più arrischiate ipotesi circa la genesi di quei corpi. L'idea fondamentale è che le varie età di un corpo celeste corrispondono alle varie qualificazioni di nebulosa, sole, pianeta, e cosi oltre, e conseguentemente anche i vari fenomeni sulla superficie di esso appartengono a  (1) Sinossi, $ 199, pag. 204 e seg.  vari momenti della sua età. Cosi, per es., la vita fitozoica e la storia umana sarebbero una fenomenale momentaneità della vita planetaria sopra il globo, che oggidi dagli uomini si chiama Terra » (1).  Or qui si dice che la vita non solo vegetale ed animale, ossia vegeto-sensitiva, ma la stessa vita pensiva umana è una manifestazione planetaria, che si concreta sulla terra: il che è come dire in altri termini che nella terra vi sono fenomeni sensitivi e pensivi. In conseguenza di ciò il Ceretti ha parlato di vita e coscienza degli astri, vita e coscienza del pianeta terrestre; come, d'altra parte, conformemente a ciò, ha parlato di anatomia, fisiologia e psicologia della terra.  È indubitato che queste ultime espressioni suonano un po'stranamente, e più stranamente ancora suonavano alcuni decennii addietro. Però, a misura che si fa strada nella scienza il realismo e l'evoluzione, quelle espressioni van mano mano perdendo non poco della loro stranezza. Siam giunti a tale, che leggiamo, e senza meraviglia (io almeno non me ne meraviglio, (simiglianti cose in libri seriissimi, che veggono la luce negli stessi nostri giorni. Uno di siffatti libri (che io credo seriissimo e raccomando a chi no'l conosce ancora), è, per esempio, il « Cosmos die Wellentwickelung nach monistisch-psychologischen Principien auf Grundlage der exakten Naturforschung dargestellt von D. Hermann Wolff. Leipzig 1890. Zwei Bände ».  (1) La mia celebrità già citata, pag. 66 e seg.  Ebbene, il Wolff parla anch'egli non solo di psicologia animale, ma anche di psicologia della pianta e psicologia della cellula. Notoriamente, di quest'ultima ha parlato e scritto Ernesto Haeckel, seguito poi da altri. Ma con ciò siamo nella natura organica. Il Wolff va ancora più innanzi e parla anche di fisiologia della natura inorganica (si badi bene, inorganica) (1). E non si arresta neppur qui: parla persino di segni di manifestazioni psichiche nella natura inorganica: e, dopo avere additati questi segni, anche coll'appoggio di Copernico, Herschel, Haeckel, Schopenhauer, viene alla conclusione che nella natura inorganica c'è un fondo psichico (einen psychologischen Hintergrund der anorganischen Natur) (2). Siffatte manifestazioni, secondo il Wolff, « non sono però segni di una esistenza individuale animata, ma comuni manifestazioni di specie » o generi (3). Anche il Ceretti pensa la cosa in grosso allo stesso modo; giacchè la sua Coscienza degli astri e della terra non è individuale, ma generica come ho fatto innanzi rilevare.  Fo considerare, inoltre, come ora si parli non poco di Panpsichismo: chi è a notizia della recente letteralura filosofica, lo sa. Lo spirito universale di Hegel (der Weltgeist), lo spiritualismo assoluto del medesimo sono imparentati con si fatte intuizioni. Non vi è meno imparentato l'Inconscio del vivente filosofo Eduardo di Hartmann; giacchè l'Inconscio contiene in sè un ele  (1) Vedi dell'Opera citata del Wolff, vol. I, pag. 239 e seg., 245 e seg,  (2) Loc. cit., specialmente a pag. 334.  (3) Al secondo volume di detta Opera, pag. 145, mento pensivo e spirituale che, foss’anche inconsciamente (e, del resto, nella natura dev'essere cosi), si manifesta ed agisce nel mondo materiale.  Altra intima parentela con queste intuizioni ha l'attuale e assai generale Monismo; perchè col Monismo si ha un solo principio superiore, che è spirituale e materiale, conscio ed inconscio insieme, e che è presente ed agente così nell'animale e nell'uomo, come anche nella pianta e nel minerale. Sicchè dunque bisogna guardare e giudicare con sentimenti amichevoli ed indulgenti ciocchè il Ceretti dice intorno all'animazione e coscienza degli astri.  L'aver testè ricordato il nome di Eduardo di Hartmann accanto a quello di Hegel, mi fa andar per  la mente, che accanto a questi due va collocato immediatamente il Ceretti, e propriamente, da una parte, come contrapposto a quello, dall'altra, come unito a quello nella comune provenienza da Hegel. È indubitato che entrambi  provengono da questo, ma si noti, che vi provengono, propugnando ciascuno un principio opposto a quello dell'altro: Eduardo di Hartmann, propugnando l’Inconscio, Ceretti la Coscienza, ossia il Conscio. È questo un punto assai degno di considerazione, ma che meriterebbe uno sviluppo, il quale non può entrare in questa Introduzione. Prego però che gli rivolgano la mente coloro che ora conoscono il Ceretti, fino a poco fa sconosciuto. Cercherò un'altra occasione, nella quale ritornerò su di ciò.  Un altro punto, che si collega ai precedenti e pure degno di rilievo da parte del Ceretti è il dichiarare e ribatter ch'ei fa come assurda la « supposizione d'una natura meramente inorganica, cieca e macchinale » (1). Con questa dichiarazione egli si fa, sia direttamente, sia indirettamente, oppugnatore del Positivismo e dell'Evoluzionismo, in quanto meccanici. E in ciò bisogna unirsi interamente a lui. Io non ispregio punto, anzi pregio moltissimo le dottrine positivistiche ed evoluzionistiche: e persin dichiaro novellamente (l'ho già fatto altra volta) che accolgo l'evoluzionismo disposato all'hegelianismo sotto il generale concetto e processo di evoluzione finale. Ma ritengo immensamente irrazionale l'evoluzionismo meccanico, col quale non solo non si possono spiegare i prodotti superiori della realtà, l'arte, la religione, la scienza, la vita domestica e sociale ecc., ma neppure la vita animale e vegetale, e diventano inesplicabili gli stessi prodotti minerali nelle ordinate formazioni dei medesimi.  Già l'antichità al meccanismo atomistico e in genere naturalistico aveva giustamente contrapposta la finalità, specialmente nelle scuole platonica ed aristotelica. Il principio finale, che fu accolto ne' tempi e filosofi posteriori, è stato nell'ultima filosofia accentuato specialmente da Schelling ed Hegel, che han visto ed affermato nella natura un finale, razionale e progressivo organizzarsi della medesima in tutte le sue maravigliose forme.  L'evoluzionismo con Spencer ha assai progredito a  [blocks in formation] riguardo de’due grandi filosofi tedeschi in moltissimi rispetti; ma, d'altra parte, col meccanismo ha immensamente regredito rispetto ad essi. Chi sarà l'uomo ragionevole che potrà pensare che la scienza si possa costituire meccanicamente ed automaticamente? Ebbene è proprio cosi che dee pensarne la costituzione e formazione chi accetta il meccanismo comtiano e spenceriano; giacchè da’principii comtiani e spenceriani riguardo alla scienza non ne discende altra conseguenza. Innanzi a una tale assurdità o debbon cadere senz'altro il Positivismo e l'Evoluzionismo, o bisogna, come io penso, integrarli colla finalità. Per ciocchè concerne questo mio pensiere, sono lieto d'incontrarmi nella stessa idea con un uomo assai rispettabile e favorevolmente noto nella scienza, col Vacherot. Il quale, pur movendo dall'hegelianismo, è giunto (nel Nouveau spiritualisme) per altra via a quella conclusione (all'Évolution finale), cui songiunto anch'io(1).  Altro punto che voglio rilevare è quello dell'opinione del Ceretti rispetto all'origine e natura della specie; e lo fo volentieri, perchè si tratta di cosa oggi tanto dibattuta. Rispetto a questo punto parrebbe che egli si discostasse tanto da Hegel quanto da Darwin; ma a me sembra che, in fondo, ei riesca alla stessa idea di quest'ultimo. Il Ceretti dice: «È assurdo supporre che una specie si  (1) Vedi Le nouveau spiritualisme del VACHEROT, Paris 1884, specialmente il capitolo intitolato l'Évolution finale, pag. 359. Nell'istesso anno 1884, nel mio Teismo filosofico cristiano, senza che io sapessi nulla del filosofo francese, ho sostenuto (vedi pag. 414 in nota) lo stesso principio, con la stessa espressione di evoluzione finale.  tramuti in un'altra come tale, perocchè le specie sono mere distinzioni teoriche del nostro intelletto. La natura, come disse un sommo naturalista, non facit saltum » ecc. Con ciò parrebbe quasi quasi che non ammettesse vere specie di sorta e non si accordasse col darwinismo. Ma, d'altra parte, ei soggiunge: « La vera trasformazione della specie non si deve investigare nelle specie come lali, ma piuttosto ne'minimi termini della specie, ossia nelle variazioni individuali. Queste variazioni, tuttochè lentissime, modificano col volgere de' secoli le specie » (1).  Ora a me pare che l'opinione cerettiana si converta colla darwiniana: perchè secondo i darwinisti le modificazioni alle specie provengono e non possono d'altronde provenire che dagl'individui.  Un altro punto non meno dibattuto e controverso è ai di nostri quello della religione; e mi piace di rilevare l'opinione cerettiana in proposito. Innanzi tutto egli è contrario ad ogni religione filosofica o scientifica che voglia dirsi. « Provate, dic'egli, a istituire un culto, ossia una pubblica credenza filosoficamente ragionata; e voi fallirete senza dubbio al vostro scopo, perocchè la Coscienza pubblica non è disposta a un filosofico sistema ». E  per tal rispetto può dirsi ch'ei si oppone al positivismo, a dir vero, non a quello del fondatore del medesimo, perchè Comte ammetteva la ragion di essere della religione, ma al comunale positivismo, che vuol sostituita la religione colla scienza. E, venendo poi ad esprimere  (1) Sinossi, $ 185, pag. 174 e seg.  il suo pensiere su tale importante argomento, ei dice: « La religione che conviene al nostro tempo e alla nostra civiltà non può essere una religione di miti e di misteri. Non può essere una rivelazione miracolosa d'un tempo e d'un luogo, epperciò non può essere una religione autorizzata da un codice e da una tradizione. Il solo fondamento religioso, tuttavia reale del nostro spirito, è l'idealismo trascendentale, per es., la credenza in una Coscienza e Ragione generale che governa il mondo: è questa il nostro Dio superstite come Dio, possibile oggetto d'una credenza religiosa » (1).  Probabilmente il lettore troverà che anche questa religione proposta dal Ceretti (e che abbastanza generalmente, e da un pezzo, la si propone ed anche coltiva da filosofi, scienziati e uomini colti) senta un po' del filosofico anch'essa. Io, per parte mia, penso  lo  pensava anche il filosofo intrese) che la religione in genere sorge dalla coscienza popolare. E siccome questa non è nè può essere mai filosofica o scientifica che dir si voglia; così una religione scientifica, quale la vogliono i predetti comunali positivisti, è una chimera e, per giunta, assolutamente contraria alla coscienza del popolo, che costituisce qualitativamente e quantitativamente la larga base e la gran massa de' credenti.  Questi sono i punti principali e le relative opinioni dell'autore, che io voleva in ispecial modo rilevare: altri tralascio.  (1) Sinossi, $ 108, pag. 71 e seg. Prima di terminare questa già lunga Introduzione, non posso a meno di rivolgere ancora l'attenzione del lettore sulla posizione della Sinossi nel complesso e nel corso del pensiere filosofico dell'autore, non che sulle ragioni che hanno consigliata la pubblicazione dell'opera.  Quanto alla posizione, ho già detto che essa rappresenta una fase o momento di transizione dall'idealismo assoluto hegeliano (già accolto dall'autore ed espresso, pur già con modificazione, nella sua opera latina) ad un assoluto idealismo subbiettivo, o ad un assoluto subbiettivismo, assai vicino a quello di Fichte. Ho pur già detto che tal passaggio segue attraverso dello schellinghianismo, del quale son visibili alcuni vestigi nella presente opera. Il lettore che leggerà attentamente questa ultima, scorgerà la cosa da sè stesso. Se non che io voglio ulteriormente rilevare che questo punto io l'ho già rilevato nella mia opera sul Ceretti, e, per non tornare a dir lo stesso, rimando il lettore a questa (1).  Quanto alle ragioni della pubblicazione (oltre al desiderio, anzi volere della figlia del filosofo, la quale crede dovere filiale di cooperare a far conoscere e pregiare il suo genitore), elle son varie. L'una è che, benchè ella sia un'opera indubbiamente inferiore alla latina, ciò non di meno, con tutta la stessa sproporzione che ha nelle tre parti che la costituiscono, è pur sempre tale da meritare di essere conosciuta. Una seconda è che,  (1) Alla più volte citata notizia, e propriamente alle pagine clxxx e seg., CXCIII e seg.  siccome essa rappresenta una delle fasi di transizione del pensiere filosofico cerettiano, cosi, per conoscer questo tutto intero, era necessaria la pubblicazione di essa ; tanto più che essa, tra le opere filosofiche che si riferiscono a tal fase, è una delle migliori. Una terza ragione è questa, che, accanto all'Enciclopedia filosofica latina, è bene che se ne conosca di lui anche una italiana. Una quarta è che, essendo rimasta incompiuta l'opera latina, specialmente per la parte che concerne la filosofia dello spirito, era opportuno di pubblicare la Sinossi, che si estende anche a questa parte. A dir vero, le idee sulla filosofia dello spirito nell'opera latina sarebbero state più vicine alle hegeliane, ma un generico fondo hegeliano v'è in grosso anche nella Sinossi. Un'ultima ragione è questa che, come nella pubblicazione dell'opera latina in traduzione italiana, assai probabilmente non si andrà più in là del secondo volume (dell’Esologia, o logica del Ceretti), perchè il terzo (la Essologia o filosofia della natura) è rimasto incompiuto, così la Sinossi si adatta ad esser come la continuazione della stessa opera latina tradotta. E si adatta tanto più, in quanto questa giunge, come abbiam detto, fino alla logica, che è trattata ampiamente; e la Sinossi, invece, appena accennando la logica, tratta più estesamente la filosofia della natura e quella dello spirito, specialmente quest'ultima. E non è improbabile che il Ceretti stesso, per avere appunto largamente trattata la logica nell'opera latina, ne abbia poi fatto appena un piccolo cenno nella Sinossi, che fu scritta dopo.  Termino esprimendo il voto, che una così eminente individualità filosofica, poetica e letteraria, quale fu il Ceretti, venga sempre più conosciuta ed apprezzata. Per conoscerla però ed apprezzarla degnamente, non bisogna arrestarsi ad una sola delle sue opere, ma bisogna abbracciarle tutte; giacchè, essendo stata la sua individualità assai varia e complessa, bisogna vederla e conoscerla nella varietà e nel complesso delle sue opere.  Dividerò e tratterò in "varii punti la quintuplice forma di Logica enunciata nel  titolo.   Il primo punto è che questa quintuplice forma di Logica si riattacca nel modo  più intimo al mio scritto già pubblicato ed intitolato: L'Essere evolutivo finale come  tentamento di una nuova concezione ed orientazione del pensiero filosofico uscente dal-  l' Hegelianismo. E si riattacca in guisa che la concezione, la posizione e la soluzione  delle indicate forme logiche dipendono in tutto e per tutto dal medesimo.   Il secondo punto concerne la importanza della trattazione delle enunciate forme  logiche.   La importanza, quanto alla Lo gica aristotelica, è addirittura imm ensa, in quanto  sì fatta Logica conta ormai 24 secoli di esis tenza, di ammirazione e di attuazione  nel pensiero umano in genere e nel pensiero filosofico in ispecie.   Per ciocché concerne la importanza della Logica kantiana, benché questa, rela-  tivamente al tempo, conti poco più di un secolo di esistenza, pur la sua importanza  è assai grande, in quanto, da una parte, continua ed ulteriormente esplica la Logica  aristotelica, dall'altra, prepara la via, l'indirizzo e la stessa materia alla susseguente  Logica di Hegel.   Quanto poi alla Logica hegeliana, se la sua importanza rispetto al tempo è  immensamente minore della aristotelica, e, relativamente, della stessa kantiana, con-  tando appena circa un secolo di vita, pur non di meno, considerata come entit à del  fatto logico in se stesso, è grandissima anch' essa. Giacché, la Logica hegeliana, da  una parte ; riattaccandosi e contrapponendosi com e_ reale od ontolog ica alla aristotelica  ritenuta e detta formale, e, dall'altra, sviluppando, integrando e realizzando in un  compiuto organismo dialettico il tentativo ontologico kantiano, è divenuta il più impor-  tante fatto e pensiero logico de' tempi nostri.     102     PASQUALE D'ERCOLE     2     Quanto alla importanza della cosi detta Logica matematica, tale importanza  rispetto al tempo è di bel nuovo assai minore non solo della 24 volte secolare ari-  stotelica, e della poco più che secolare kantiana, ma della stessa secolare hegeliana.  Giacche la Logica detta matematica conta soltanto pochi decennii di vita, ed anzi,  nella sua ultima determinata forma, appena una ventina d'anni.   E da ultimo, per ciocche concerne la importanza della Logica indiana, tale impor-  tanza è grandissima anch'essa; in primo luogo, perchè la Logica indiana è una reale  e vera forma logica distinta dalle altre, e pensata ed esercitata da un popolo anti-  chissimo tuttora pensante e logicante con essa; in secondo luogo, perchè, rispetto  alla universale evoluzione della Logica in genere, la Logica indiana è la prima ma-  nifestazione, avente ragion di essere come le altre. A queste ragioni essenziali potrei  aggiunger l'altra di opportunità ; ed è che essa è assai poco conosciuta, ed è invece  degnissima di esserlo, il che avverrà coll'accenno mentovato della medesima.   Un'ultima considerazione rispetto alle predette forme logiche, e specialmente  rispetto alla sequela storica delle medesime, è la seguente. Che, cioè, benché la  indiana sia la prima in ordine di tempo, pur non nuoce, anzi giova di esporla, e trat-  tarla in ultimo, perchè essendo essa di un tipo abbastanza dissimile dalle altre enun-  ciate, sarà più agevole di intenderne ed apprezzarne la natura dopo aver esposte  quelle che rappresentano lo sviluppo maturo e razionale rispetto ad essa.   Il terso punto concerne lo scopo della trattazione delle predette Logiche. Il quale  scopo è quello di determinare quale è la vera natura di ciascuna di esse, consi-  derandole sì dal punto di vista storico, epperò evolutivo, sì dal punto di vista  teoretico.   Di tutti questi punti dunque tratterò separatamente, cominciando dalla Logica  aristotelica.     I.   La Logica aristotelica.   Aristotele è stato detto il Padre della Logica.   Sorge subito la quistione : Ma non_cI è_ un' altra_ L ogica prima _della sua ? e se ce  n'è un'altra, in qual relazione sono quest'altra e la aristotelica, da una parte, dal  punto di vista della anteriorità e della posteriorità, dall'altra, dal punto di vista della  evoluzione storica dall'una all'altra ?   La risposta a tal quistione sarà più opportunamente fatta e compresa dopo la  trattazione e giudicazione di tutte le predette Logiche. E veniamo alla Logica ari-  stotelica.   Innanzi tutto è bene di allegare le Fonti della nostra esposizione e trattazione.   Tutti intendono che la prima ed essenzial Fonte è Aristotele stesso e questa  noi avrem sempre presente nel testo originale. Aggiungiamo solo che, come Aristo-  tele, specialmente attraverso del Medio evo e del Rinascimento, è stato ripensato e  riferito nella famosa traduzione latina " interpretibus variis „, riconosciuta come     LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECC.     103     giusta interpretatrice del grande filosofo greco, cosi noi ci serviremo anche di questa,  allegandola persino ordinariamente accanto al testo greco.   La edizione de' due testi che noi abbiam presente e seguiamo è quella della  « Academia Regia Borussica, Berolini, 1831-1836 „ fatta da Emanuele Becker e da  Cristiano Augusto Brandis.   Altre Fonti importantissime sono le seguenti:   Severino Boezio (l'infelice e insigne filosofo, condannato a morte e fatto uccidere  dal re Teodorico). Egli è uno de' più benemeriti della Logica aristotelica come tradut-  tore e illustratore degli scritti logici di Aristotele: Arist. Stag., Organimi, Boethio  Sever. interp. età, Venetiis, 1547.   Geschichte der Logik etc, von D/ Cari Prantl, che è un'opera addirittura mo-  numentale nel suo genere.   System der Logik und Geschichte der Logischen Lehren von D. r Friedrich Ueberweg,  4 e Àufl., Bonn, 1874: opera eccellente anche questa, dovuta al merito e alla giusta  fama di quell'uomo, che ha lasciato durevole traccia di sè anche nella Storia della  Filosofia.   Aristotelis Organon etc, edidit Theodorus Waitz Philos. Dr. Lipsiae, MDCCCXL1V:  importantissima e stimatissima opera in due volumi contenenti il testo greco e il  commento di lui al medesimo.   D. r Eduard Zeller, Die Philosophie der Griechen etc, nella quale (zweiter Theil,  zweite Abtheilung) vi è un volume speciale, di quasi un migliaio di pagine, trattante  di Aristotele.   Dello stesso Zeller è fonte anche preziosa il suo Grundriss der Geschichte der  griechischen Philosophie, specialmente nella 10 a edizione del 1911 (Leipzig) elaborata  (bearbeitet) dal D. r Franz Lortzing.   Trendelenburg, Elemento logìces Arist., Berolini, 1836, 9* ediz. 1892 : notissima   e importante operetta.   Barthélemy Saint-Hilaire, Logique d'Aristote, traduite, ecc. 4 voi.   Alle Fonti già indicate, che son le più importanti, aggiungerò quella del nostro  Galluppi che ha due' opere sulla Logica, luna quella degli Elementi di Filosofia, in  cui ha- una lunga trattazione della Logica pura; l'altra, amplissima, quella delle  Lezioni di Logica e metafisica; e, occasionalmente, forse anche qualche altra Fonte,  per esempio quella di Ruggiero Bonghi.   E ora vengo alla indicazione ed esposizione degli scritti logici aristotelici.  Gli scritti logici o V Organo (tò òqyavov) della filosofia aristotelica.  È opportuno riferire una osservazione che fa il Waitz [Arist. Org., II, 293 ss.),  e che accoglie e riferisce anche il Zeller (nel suo terzo volume precitato, pag. 187,  nota 3), sulle denominazioni di Logica ed Organo. Questi cioè dice che 8 presso gli  « espositori greci fino al sesto secolo „ non si trova ne l'una nè l'altra di queste deno-  minazioni come l'espressione tecnica e generalmente accettata degli scritti logici di  Aristotele : ma che però più tardi questi vengono " già denominati organici {òqya-  « vmd), perchè essi si riferiscono all' òqyavov (ovvero sM'ÒQyavixòv fiégog) tpOo-  ■ aotplag ».     104     PASQUALE D'ERCOLE     4     Ciò posto, gli scritti logici costituenti l'Organo sono:   1° Le Categorie (KaziqyoQiaì);   2° De Interpretatione {LTeoì c EQH7]vslag) ;   3° I Primi Analitici (due libri) : 'AvaÀvzixà nqózEQa ;   4° 1 Secondi (o Posteriori) Analitici: 'AvaXvzmà vazEqa;   5° I Topici (8 libri): Tomxd;   6° 8U Elenchi Sofistici (De Sophisticis elenchis): Uocpiozixoì "EÀsyxot.   Le Categorie. Questa prima parte degli scritti logici aristotelici è importantis-  sima, perchè essa costituisce come un anello di congiunzione tra la Logica e la Me-  tafisica di Aristotele. Il lor significato e la loro estensione appartengono e si allar-  gano ad entrambe queste parti del pensiero filosofico aristotelico.   Il significato è che essi esprimono i supremi pensabili, cioè, i supremi concetti  sotto cui cadono e si aggruppano nel nostro pensiere gli ogge tti della universale  realtà.   Il numero di tali supremi pensabili, ovvero delle categorie, secondo Arist., è,  notoriamente, di dieci: infatti, egli dice (Kateg., cap. 4, all'inizio): zwv xazà firjóe-  filav ovfMiÀoxrjv Xeyofièvoìv è'xaozov tfzoi oiaiav ar\\iaivu ?} noaòv ^ noìbv fj tiqóq  zi f} nov ^ note f} xeìo&cu è'xEiv fj noietv ^ nda%Eiv. La traduzione latina men-  tovata di questo luogo suona : " Eorum quae sine coniunctione dicuntur, unumquodque  " aut substantiam significat aut quantum aut quale aut ad aliquid aut ubi aut quando  " aut situm esse aut habere aut agere aut pati „ ■   Il predetto numero e la denominazione delle Categorie son anche riferiti in modo  chiaro e preciso nei Topici (I, 9, al principio) come segue: è'azi óè zavza (scilic. zà  yévrj %&v xazr}yoQiùv) %òv àoid-fiòv déxa, zi èazi, noaòv, noiòv, JiQÓg zi, nov, nozè,  xeìo&at, e%eiv, noisìv, nào%siv (1).   Per lo scopo che io mi propongo non posso entrare in tutte le particolarità,  nelle quali entra la maravigliosa mente analizzatrice di Aristotele. Ma come rias-  suntivo dell'essenziale a tal riguardo allegherò il seguente luogo del Zeller (loc.  cit., pag. 267).   " Fra le singole Categorie, dice questo, la più importante è di gran lunga la  * SQstg^za, della quale in seguito dovrà parlarsi più diffusamente. La Sostanza, in  " senso stretto, è sostanza singola. Ciocche si lascia dividere in parti è un Quanto  " (ein Quantum) ; se queste parti son divise (getrennt), il Quantum è discreto, una  ■ Moltitudine (Menge); se esse sono insiem congiunte, il Quantum è una Grandezza;  " se sono in una determinata posizione (&éoig), la Grandezza è spaziale; se poi le  " parti son soltanto in un ordine (zd^ig) senza posizione, allora la Grandezza non e     (1) Vedi pei due luoghi greci Zeller, 3° voi, citato, pag. 259; e nel testo greco stesso, vedi  Arist., KaTijy., cap. 4° e Tonino, al luogo indicato. »   Secondo il gusto e l'uso de' versi memoriali, queste 10 Categorie furono espresse dal seguente  distico :   Àrbor sex servos calore refrigerat ustos ;  Cras ruri stabo, sed tunicatus ero.     LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECC.     105     spaziale (ist eine unràumliche). L'Indiviso (das Ungetheilte) o l'Unità, per mezzo  di cui vien conosciuta (erkannt) la Grandezza, è la Misura della Grandezza stessa;  ed è questa appunto la nota distintiva della Grandezza, che essa è misurabile, che  ha una Misura. Come la Quantità spetta (zukommt) al Tutto sostanzialmente di-  visibile, così la Qualità esprime le distinzioni mediante le quali vien diviso il Tutto.  Giacché per Qualità in senso stretto Aristotele non intende altro che la nota distin-  tiva, o la determinazione più vicina, in cui si specifica un dato Generale. E come  le due specie principali delle Qualità egli designa quelle che esprimono una deter-  minazione essenziale, e quelle altre che esprimono un movimento od attività. In  altro luogo egli novera quattro determinazioni qualitative come le principali; ma  - queste però si lasciano sottordinare a quelle due. Siccome nota propria della Qua-  ■ lità vien considerato il contrapposto di Simile e Dissimile. Del resto, l'istesso Ari-   * stotele è imbarazzato nel conterminare questa Categoria verso altre. Al Relativo  " appartiene tutto ciò, la cui propria natura o essenza (Wesen) consiste in un deter-  « minato comportarsi verso altro; e come tale il Rektivp_è quella. Categoria cui   * corrisnonde la minima realtà. Aristotele distingue di esso tre specie, le quali però  « si lasciano" ridurre a due. Ma in ciò egli non rimane eguale a sè stesso ; ed ancor   * meno sa evitare più di una miscela (Vermischung) con altre Categorie, ovvero ot-   * tenere una nota sicura di quella costituente il Relativo. Le altre Categorie furono   * da Aristotele sì brevemente trattate nello Scritto delle Categorie, che anche noi  " non possiamo trattarne più diffusamente „.   E basti di ciocche concerne le Categorie, e passo a dire del secondo scritto del-  l'Orbaco, cioè del   " IIeqì èqiirivtiac, „, o De Interpretatiom. Rispetto al tempo in cui fu composto  questo scritto, è bene di rilevare, che esso fu composto dopo gli Analitici, come lo  stesso Aristotele dice chiaramente ed esplicitamente al cap. 10 di questi.   L'oggetto di questo piccolo trattato dell' Ermemia è la £rojosizione, e non . nel  senso di pura e semplice pr oposizione grammatica le, ma di proposizione logica od  esprimente un pensiere logico.   Aristotele, analizzatore per eccellenza, comincia coll'esaminare e stabilire ^li  elementi della proposizione stessa, i quali non sono altro che i nomi delle cose. E  comincia a farlo con una osservazione importantissima intorno al nome (tò ovo/ia)  e al verbo (tò §fj/ta), la quale è che i nomi prima della loro unione, sia tra loro sia  col verbo, non esprimono nulla di vero e di falso. Ed anzi, secondo lui, quando si  dice nome (dvo/ia) in senso lato, vi si comprende anche il verbo IIzqì yàg   (die' egli al Capo I dell' Ermeneia) oév&EOiv k<xì òia'iQEoiv èan tò ipsvóog xal tò àAy&és  (nella corrispondente traduzione latina: * nam in compositione et divisione est ve-   " ritas aut falsitas „).   Quando poi col collegamento e colla divisione delle parole,, Qffàa d<jLnomi, co-  mincia la verità e la falsità, allora il noma, come specificamente logico, è propria-  mente Uyog. Uno scrittore che ha rilevata bene la differenza di òvofia e di Myog  e il Biese {Die Philosophie des Aristoteles, Berlin, 1835, I Bd., p. 55 e 90), dicendo  che " Uyog designa la parola in quanto è espressiva del pensiere „. In altri termini,  kóyog è la parola logica per eccellenza.   2   . D'Ercole.     106     PASQUALE D'ERCOLE     6     Altra cosa notevolissima è che, secondo Aristotele (IIeqì 'Eq^veiag, c. 4), ogni  discorso, Àóyog, è significativo di alcun che (arjfiavxixóg) ; ... ma non ogni discorso  è enunciativo, giudicativo (dnotpavxixóg), sì bene quello che ha che fare {imdq%£i)  col vero e col falso. E soggiunge, ad esempio, che la preghiera {eb%<t\, deprecatio)  è certamente un discorso, ma non è nè vera nè falsa. Son dunque la verità e la  falsità che costituiscono la proposizione logica, o il giudizio, il quale senza di esse  non sorgerebbe nè verrebbe ad esistenza.   Che il g iudizio sia da Aristotele così concepito, ha una importanza straordinaria  rispetto alla quistione della Logica formale e della Logica reale od ontologica.   Comunemente si dice che la Logica di Aristotele è formale. Ciò è vero in certi limiti  e non in tutto e per tutto. Infatti, il dire che un giudizio è tale soltanto rispetto  alla verità ed alla falsità, vai tanto quanto dire che un giudizio è vero o falso se-  condo che esso è conforme o non conforme alle coso, ossia alla realtà. Per forma  che un giudizio non potrebbe neppure aver luogo, se, a così dire, non sorgesse ed  anzi non fosse prodotto dalle stesse cose reali.   Il Trendelenburg, autorevolissimo in tal materia, dice (1): " Senza un tal rap-  " porto alle cose non v'è alcun giudizio ». E, conformemente a ciò, lo stesso Tren-  delenburg ne' suoi Ehm. logie. Arisi., p. 63, aggiunge: Aristotelem, qui quidem enun-  ciationis naturam in rerum peritate positam esse voluit etc. Del resto, già in antico  aveva pensato ed espresso lo stesso Boezio (nel cit. Arisi. Stag. Organum, etc. pag. 6)  dicendo: " Sed denominationes istae (seilic. categoriae) ex rebus pendent etc. „   Ciò posto, passiamo a dire del giudizio, o, che vale lo stesso, della proposizione'  logica. E per l'esposizione di questo punto, ne' limiti dello scopo che ci proponiamo,  ci varremo degli stessi Analitici, i quali furon composti prima dell'Ermeneia, e nei  quali Aristotele ne aveva appunto trattato.   La Proposizione (Ilqóxamg) (2). La definizione che ne dà Aristotele è la seguente :  Ilqóxamg [tèv odv èaxl Zóyog xaxatpaxixòg fj dnocpaxixòg xivòg xaxd xivog : cioè: " La  ; proposizione è un discorso affermante o negante alcunché di alcunché „. E la fa-  mosa traduzione latina ha: " Propositio igitur est oratio affirmans vel negans aliquid  " de aliquo „.   Subito appresso, determinando l'estensione e la specifica natura della proposi-  zione, o del predetto discorso, dice: otixog de f xa&óÀov $ èv fiéqei j} dòióqiaxog.  Àéyo) de xad-óÀov fiev xò navxì i) (irjóevì fmaq%£iv, èv fiéqei de xò xivl % (irj navxì  iindqxeiv, àdióqiaxov òh xò Ò7iàq%eiv | fifj vnàq%eiv dvev xov xa&óAov, 1} xaxà fiéqog,  oìov xò xCùv èvavxiav slvai xrjv ctvxrjv èniax^firjv $ xò xrjv ^dovijv fifj eìvai dyadòv.  Cioè, nella traduzione latina: " Haec (scilic. oratio) autem aut est universalis, aut  " in parte (particolare), aut indefinita, universale appello omni aut nullo inesse, in  * parte vero, alicui aut non alicui aut non omni inesse, indefinitum autem, inesse  " aut non inesse absque universali aut particulari nota, veluti contrariorum eandem  t esse scientiam, aut voluptatem non esse bònum „.     (1) In Erlauterungen zu den Elementen d. aristot. Logik, 2 e Aufl. Beri., 1861, pag. 6.   (2) In Waitz, Aristotelis Organon etc, voi. I, pag. 368, vi è una interessante nota sulla voce  jiQÓiuais e le corrispondenti in Cicerone, negli Stoici ecc.     „ T ™< T* *ma*m Tf ATJTTANA ED HEGELIANA, ECC. 107  7 LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA K.AIS IIAJNìv   E qtì ad ulteriore intelligenza della eosa, debbo ricordare al lettore la famosa  finzione dello quattro forme di posizioni ohe rappresen ano una parte „ levan e  nella funzione del Sillogismo, cioè la Svenale affermativa, la umversaU nevai m la   7er 9 ouóle colle uote iniziali di a, e, i, o, prendendo « ed i da afnrnro ed e ed o da   "^Urliamo egualmente l'attenzione del lettore su di un'alt» parlar ^ricor-  rente poco appresso nel luogo stesso e riattaccante* a ciocche e teste detto che  ZTu dire di una cosa ohe è interamente in un'altra vai tanto quanto due che  essa interamente attribuita ad un'altra «-** -W*? « «•   ohe il re che una cesa non è in alcun modo frrt nHj B ™ lta °'  uanto dire che essa non è in alcun modo attribuita all'altra. Tott, ricenoscerann  TelTe due espressioni de. e del «* la ^   oorrisnondente espressione latina del Didum de amni et de nullo (2). .   Tvendo testò detto che nel trattare della Logica aristotelica m sare, limitato   ai punti fondamentali, Ve *V^SJS!^^^^^1  tale e che non posso a meno di riferire. Onesto concerne le regole della conversione  t esse e ricorre (ibid.) al paragrafo secondo; e per migliore intelligenza ed appre -  zam nt'o le allego nella sua integrità. Però nell'allegarie, s> perche e comunemente  neTa la lingua Francese, si per la grande autorità che ha un traduttore delle opere  aristoWi'he, quale è il B~mv ok S^-H^rna, mi valgo della tradu-   ZÌ °" Oomte tonte proposition (eoa, quest'ultimo) exprime quo la obese est sim-   ■ moment ou quelle est nécessairement, en qu'elle peut étre; et que dans tonte  •I pTee d'attributien, les prepesitions sont afflrmatives ou negative*: comme, de  - plus les prepesitions afflrmativee et négatives sont tant6t nmverselles, tentot par   • Mières tantot indéterminées, il y a necessitò ,ue la proposto simple umver-   • et privative pnisse se eonvertir en ses prepres termes; par exemple, s, neon   ■ nWsir Test un bien, il faut nécessairement anssi qu'aucun bien ne soit un plaisir.   ■ Crepo tion afiirmative doit anssi se convertir, non pas en umverselle, ma,   • L narticulière; si, par exemple, tout plaisir est un bien, il faut anssi quo qnelqne  . U sl un piparmi les prepesitions particella, ,'afnrmative se cenver   • nécessairement en particulière ; car si quelqne plars.r est un   • „ue quelqne bien soit un plaisir. Mais il n'y a pas de couversion necessaire peur   • a prTpositien privative: en effet, si homme n'est pas attrihnable qnelqne animai,  . il ne s'ensnit pas qne animai ne soit pas attribuable à qnelqne homnie.   ■ La règie (cosi ibidem, al paragrafo terzo) sera la meme encore pour les p.o     (1) Notoriamente in queste Ufiene delle Scolo, si esprime™ ciò, dicendo:   A.serit a, no B »t «, veruni universiditer «mbo:  Aisorit i. nogut o, Ter™ particulantei ambo.   (2) Il si.eiao.to di „..t. ».'*. & — « * "»» 6 <* e """"     PASQUALE D'EECOLE     " positions nécessaires, c'est-à-dire que l'universelle privative se convertii en uni-  ! vergelle, et que chacune des deux affirmatives se convertit en parti culière... Quant  ' à la P r oposition particulière privative elle ne peut ici non plus se convertir, par  " la mème raison que nous avons dite plus haut.   ■ Pour les propositions contingentes, comme contingent se prend dans bien des  " sens, puisque nous disons que le non-nécessaire et le possible sont contingente,   * la conversion de toutes les propositions affirmatives se fera ici de la mème ma-  8 niòre... La règie change pour la conversion des négatives; mais elle est encore la   * mènie P° ur les Propositions où les choses sont dites contingentes, soit parce que  " nécessairement elles ne sont pas, soit parce qu'elles ne sont pas nécessairement.  *! Par exemple, si l'on dit que l'homme peut ne pas ètre cheval, et que la blancheur  [ peut a ' étre à aucun vètement, de ces deux choses lune nécessairement n'est pas,  " l'autre n'est pas nécessairement. Ici donc la convertion a lieù de la mème ma-  " mete. En effet, si ètre cheval peut n 'appartenir à aucun homme, ètre homme peut   * n'appartenir aussi à aucun cheval; et si blancheur peut n'ètre à aucun vètement,  ' vétem ent aussi peut n'ètre à aucune blancheur. Autrement, s'il n'y a nécessité que  '• vétemen t soit à quelque blancheur, blancheur aussi sera nécessairement à quelque   * véfcemen t- C'est ce qu'on a démontré plus haut. Au contraire, pour les choses que  " l'on dit contingentes, parce qu'elles sont le plus habituellement et naturellement  " de telle facon, ce qui est la définition que nous donnona de contingent, il n'en   * sera plus de mème pour les conversions négatives. Ainsi la proposition unìversèlle  " privative ne se convertit pas, et la proposition particulière se convertit. Ceci de-  ! viendra évident quand nous traiterons du contingent. Bornons-nous ici à constater,  " a P rès tout ce <l ui précède, que pouvoir n'ètre à aucune chose ou pouvoir n'ètre'  " pas à quelque chose, ont la force d'affirmation. C'est que le verbe pouvoir est  " place dans la proposition comme le verbe ètre; et que le verbe ètre, à quelques   * attributions qu'on l'ajoute, forme toujours et absolument une affirmation : par   * exemple, ceci est non bon, ceci est non blanc; ou, d'une manière toute generale,  « ceci est non cela. Du reste cotte théorie sera reprise et confirmée plus loin. Mais,  " quant aux conversions, ces propositions contingentes seront comme les autres pro-  " positions „.   E ciò basti per lo scopo propostomi, delle proposizioni, e passo a dire dell'ele-  mento del termine.   Il Termine (8qo S ). Questo è definito da Aristotele (ibidem), così: "Ogov óè xalib  rig ov diaAvztai $ 7tQÓ%aai Sì oìov %ó re xaTiryoQoépevov xal %ò xaWoi xait]yoQel-rcu  f] nQoa'uèefiévov % òuuQovftévov %ov elvai mei elvai. Ossia: Io chiamo termine  quello in cui la proposizione si scioglie, cioè l'attributo, e quello a cui si attribuisce,  sia che si aggiunga sia che si separi Tessere o il non essere (nella traduzione latina:  « Terminum vero appello in quem dissolvitur propositio, ut attributum et id cui at-  ■ tribuitur, sive adiiciatur sive separetur verbum esse vel non esse „). L'attributo e  quello a cui si attribuisce sono ciocche comunemente chiamiamo il predicato ed il  soggetto.   Ciocche è qui allegato intorno al termine concerne il concetto e la definizione  del medesimo. Ma vi sono altre particolarità essenziali che si riferiscono ad esso.     LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECC.     109     Se non che, come queste si riferiscono più direttamente al Sillogismo, e si inten-  dono meglio dopo aver detto di questo, così io passo a dir prima di questo.   Il Sillogismo (avUoy^óg). - Prima di venire ad Aristotele stesso, è bene  ricordare un importante luogo di Boezio, il qual luogo è tanto più importante, m  quanto si riferisce alla natura non solo del Sillogismo, ma anche degli Analitici, che  sono la teoria del Sillogismo stesso.   " Duo sunt, dice Boezio (1), in syllogismo, tamquam in homine corpus et animus.  « In corpore est materia et dispositio ac ordo partium: in animo vis et vita et  « actio. In superiorità Analyticis (Primi Analitici) Aristoteles velut de syllogismi  « praecipit corpore, hoc est, de partibus, deque illarum nexu et compostone : ideoque  « priora nominantur. In his autem posterioribus, hoc est, interionbus, et magis re-  « conditis de anima ipsa syllogismi, nempe de demonstratione , de vi et efficacia  « rationis. Analytici libri sub Aristotelis nomine multi olim circumferebantur, sed hi  « quatuor ex orationis filo, totiusque praecipiendi rationis modo ac facie, Aristoteli  " sunt adiudicati, caeteris reiectis „. _   Veniamo ora ad Aristotele stesso, e primamente alla stupenda definizione che  egli dà del Sillogismo, la quale è e rimarrà sempre una delle più belle, più precise  e più espressive della vera natura del medesimo.   SvUoyiOfiòg èé hon Xóyog (2) èv § Ts&évwv tivùv foeqóv fi wv ^ifiévcov ég  àvdyxyg ov^aivzi *$ mvw rfvai. Cioè (in italiano): Il Sillogismo è un discorso,  nel quale, posto alcun che, segue necessariamente qualcosa d'altro da quel che e  posto, perciò solo che è posto. E la corrispondente traduzione latina ha: " Syllo-  « gismus autem est oratio, in qua quibusdam positis aliud quiddam diversum ab us  " quae posita sunt, necessario accidit eo quod haec sunt „.   A spiegar meglio il modo e la necessità della consecuzione, Aristotele (nella  predetta traduzione) soggiunge subito in continuazione: '< Dico autem eo quod haec  " sunt, propter haec evenire, ac propter haec evenire intelligo, nullo esterno ter-  " mino opus esse ut sit necessaria consecutio Il caso della consecuzione necessaria  senza bisogno di altro termine esteriore è poi quello che costituisce il Sillogismo  perfetto (léAeiog ovXXoyiafióg), come Aristotele lo appella.   Che il Sillogismo imperfetto (cheftfc) si possa poi ridurre al perfetto coi mezzi  da Aristotele indicati, è cosa a tutti nota, che occorre appena di rilevare.   Invece è bene di rilevare intorno al concetto aristotelico del Sillogismo alcune  cose degnissime di attenzione. La prima è che il rapporto delle proposizioni o de*  -iudizii sillogistici ed il procedimento de' medesimi son tali che costituiscono una  necessaria connessità. Il che importa che il Sillogismo non è un fatto accidentale,  ma è tale che ha una necessaria ragion di essere. La seconda è che la conclusione  non è una ripetizione e riproduzione delle due premesse, ma esprime altro da quel  che è espresso da esse: insomma, esprime un principio nuovo. Questa seconda cosa  è tanto più importante, in quanto in tempi posteriori ad Aristotele è stata messa     (1) In Abist. Stag., Organum, già mentovato, pag.   (2) Dic'egli subito all'inizio dei Primi analitici.     110     PASQUALE D'ERCOLE     10     innanzi la opinione (1) che nella conclusione non si contenga un novello principio,  ma soltanto la ripetizione del contenuto delle premesse. Una terza cosa è che la  parola conclusione è a prendere ed intendere nel vero" significato di inclusione di uno  de' termini negli altri due : per forma che la conclusione esprime addirittura il vero  chiudersi de' termini l'un nell'altro.   E giacche si è accennato al concetto del Sillogismo, è hene di accennare anche  al concetto del Sofisma, il cui concetto è proprio l'opposto di quello del Sillogismo.  Infatti, il concetto di quest'ultimo, come si è visto, è costituito da ciò, che le due  premesse conducono ad una necessaria conclusione. Il concetto del Sofisma (tò oó-  <piafia) (2), al contrario, è costituito da ciò, che la conclusione è in contraddizione  colle premesse, che, cioè, queste non concludono rettamente, e però concludono fal-  samente. Ma del Sofisma si dirà più ampiamente in seguito.   Ora è opportuno di ritornare alla esposizione dei Termini, ad integrazione di  ciocche di questi è stato teste detto. I Termini di un Sillogismo son tre, e non pos-  sono essere più di tre (Sqol tQsìc;). I quali tre hanno un contenuto od estensione  diversa; e sono il termine maggiore (fist^ov àxqov), il minore (è'Àanov) e il medio  (%ò \ièaov). Aristotele li designa anche puramente e semplicemente coi nomi di  primo (tò TiQ&'cov), ultimo (tò ia%a%ov) e medio (tò [aégov).   Il numero di soli tre termini non vien contradetto neppure dal caso del Poli-  sillogismo, nel quale vi possono essere più medii. Perchè i più medii son ciascuno  sempre il medio di un solo Sillogismo nei varii Sillogismi costituenti il Polisillo-  gismo stesso, cominciando dal cosidetto Prosillogismo e terminando coll'Episillogismo.   Indicata la denominazione e l'estensione de' Termini, la maravigliosa e precisa  mente aristotelica passa alla definizione di essi, che è la seguente:   * Aèyoy de fisl^ov \iev àxqov èv tò fièaov èativ, e'àccttov de tò imo tò fièaov  òv... KaÀà) óè fièaov fièv o xal aèxò èv àÀÀ(p xal écÀAo èv to-ùto) èativ, 8 xal %f\  &éoei yiyvEtai fièaov. axqog oh tò aè%ó te èv dAÀq> ov xal èv & àXXo èaiiv (3).  Cioè (in italiano): Chiamo (termine) maggiore quello in cui è (contenuto) il medio;   e (termine) minore quello che è accolto nel medio Chiamo termine medio quello   il quale è esso stesso in un altro, e nel quale è alla sua volta un altro, che divien  medio anche per posizione. Chiamo poi estremi sì quello che è in altro, sì quello in  cui è altro. E la nota traduzione latina ha : " Maius extremum appello, in quo medium  " est, minus autem quod est sub medio... Voco autem medium quod et ipsum est  " in alio, cum aliud in ipso sit, et positione quoque sit medium. Estrema autem  " appello et id quod est in alio, et id in quo est aliud „.   L'esser medio per posizione vuole uno schiarimento, che fa comprendere come  questa espressione aristotelica nella dizione greca è perfettamente esatta. Infatti,  nella prima Figura sillogistica (che è quella del Sillogismo perfetto) noi diciamo:  B (l'uomo) è A (mortale); C (Pietro) è B: dunque C è A.   Aristotele, invece, nella dizione greca dice:   A vale di B; B vale di C; dunque A vale di C.     (1) Opinione già espressa dagli antichi scettici, e poi ripetuta ne' tempi moderni.   (2) Amst, Top., 8, 11.   (3) Ibid., paragr. 4.     Sicch, dna,a, U medio -» nt .a vera   Ma questa popone medtana non e q»> ^ ^ come   la conclusione. ; Qfflntfismo Aristotele ne fa cadere   Però, ooanto a -amerò * che ne. Sillogismo non   tatto il poso «olle promesse, e penano m p u» Ae e dimostraai(m e ed ogni   vi sono ohe A» proposizioni. E dopo aver dette ^consta, e ogn   Siilogismo di soli tre termini (nella tradazmne '^^Zm^J^,:   ■ 8 iCplan.mestotiams y llo S ismnmoe„stareexdaabas propos t,on » ^ p   preponi ohe 4 »i sono indahhiamen e ^ ^ adsu .   • mini sunt doae propomtiones (o. yaQ r?«S »v » 3ec nndnm pria-   ■ ma t„r, at i„i,i.dictnmest,adper a eiendos «J**»^^^^, Lia   ■ eipa.es pro^ositiones ^ * -^J^TlC^ » —   : ffs :^^r^ti~ - *U-r + — -   ? dimidia pars propositionum „. _ . . , , q:ii ft „i Bm0 la Logica aristo-   ::' "re S?- " — ""•   seguenti otto (ricorrenti in tutte le Logiche delle Scuole).   Termina esto triple*, medius, maiorque, minorque;  Latius hos quam praemissae concludo non vult;  Nequaquam medium capiat concludo oportet;  Jtot semel, mot iterum medi™ generalità esto;  Utraque si praemissa neget, mail inde sequetur;  Ambae affirmantes nequeunt generare negantem;  Nil sequitur geminis ex particulanbus unquam;  Peiorem sequitur semper conclusio partem.   ki igiene di ,neste rogo.e si a^ «ohe ^  le cosi dette diverse forme di Sillogismo, cerne sono 1 Enhmema, V   pag. 95 seg.), ne allego £££££ oviaiano: . SOTV are potai: perderò   Dd»~~ _«* ^^tldolo .11. forma sillogistica di tre prepo-  " an possim, rogas „ ? & lo spiega, nuu   taPP itit:::v:c: o u^^     112     PASQUALE D'ERCOLE     12     lettore ne trova in tutte le Logiche che vanno per le Scuole; e passo a dire delle  Figure sillogistiche pur ricorrenti negli Analitici, e intimamente connesse col Sil-  logismo.   Le Figure (%à affiliata) sillogistiche.   Secondo Aristotele il Sillogismo è di tal natura che si distingue in tre Figure  sillogistiche, delle quali la prima {o%i\fia jiqùxov) poggia sul Sillogismo perfetto,  la seconda e la terza (axVP® devtegov e o%ruia tohov) poggiano sul Sillogismo im-  perfetto.   E qui è necessario di rilevare una cosa, che a primo aspetto pare di poco mo-  mento, ma che è invece importantissima. Ed è che Aristotele nella esposizione e  dimostrazione delle predette tre Figure si serve come simboli delle lettere dell'Al-  fabeto greco, specialmente delle prime tre del medesimo a, /?, y.   Il significato dell'adoperamento di tali simboli, specialmente per l'applicazione di  queste alle Matematiche, sarà detto tra poco.   Tornando alle Figure, è bene avvertire che Aristotele per esse si vale in com-  plesso degli stessi esempi allegati per triplicità di termini, dovendo ciascun di questi  rappresentare uno de' tre termini sillogistici.   Così, per darne una idea, nella prima Figura (ove adopera i simboli alfabetici a, p, y)  si vale de' termini piacere - bene - animale ; animale - uomo - cavallo ; scienza - linea -  medicina; bene - abito - sapienza ; bene - abito - ignoranza; bianco - cigno - neve.   Nella seconda Figura (ove adopera i simboli alfabetici <5, e, £, ecc.) si vale di  questi esempi, animale - cavallo - uomo ; animale - inanimato - uomo ; animale - scienza -  animale selvaggio; corvo - neve - bianco.   Nella terza Figura (ove adopera i simboli alfabetici n, q, o) si vale di bel nuovo  degli stessi esempi, che ricorrono nella prima e nella seconda.   E, per essere quanto è possibile esatti, soggiungo che nelle stesse due Fi-  gure seconda e terza, oltre agli indicati simboli alfabetici, si vale anche dei primi  tre a, /?, y.   La conclusione cui giunge Aristotele nelle indicate operazioni è che " tutti i   * sillogismi imperfetti diventan perfetti mediante la prima Figura (nel famoso testo   * latino : perspicuum est omnes imperfectos syllogismos perfici per primam figuram) „ .   La maravigliosa analisi di Aristotele intorno al Sillogismo non si arresta a ciò,  ma si estende alla considerazione e determinazione di altre forme del medesimo,  quali sono il Sillogismo per Analogia, il Sillogismo per Riduzione all'impossibile, quello  per Induzione, per Ipotesi, per Verisimiglianza, ecc. Ma noi non possiamo entrare  anche nella considerazione di queste forme speciali sillogistiche, e passiamo a consi-  derare la seconda delle tre predette cose.   Questa seconda è quella concernente la diretta relazione delle Scienze matema-  tiche colla prima Figura, o, che vale lo stesso, col Sillogismo perfetto : il qual punto  è da Aristotele trattato nel Primo degli Analitici Posteriori.   Prima di riferire da questi ciocche concerne le Matematiche, rilevo che Aristo-  tele anche per queste, come ha fatto per le altre discipline, si vale di esempi per  chiarire e determinare la cosa. Se non che gli esempi che egli arreca per esse sono     13     LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECC.     113     sopratutto di natura matematica. Infatti (nel paragrafo 5 ibid.) allega i seguenti  esempi tratti dal punto, dalla linea, dal triangolo, ecc.: K Triangulo, dio'egli nella  ■ famosa traduzione latina, inest linea et lineae punctum; ed anche: Triangulo,   * qua est triangumm, insunt duo recti, quia per se triangulum est aequale duobus  " recti s, etc. ».   Ed è, inoltre, oltremodo importante per la determinazione della natura delle  Scienze matematiche, che per lui (ibid., paragr. 13) Me Scienze matematiche versano  " intorno alle forme, perchè le cose matematiche non sono in alcun soggetto „ (" etenim  " scientiae mathematicae circa formas versantur, quia res mathematicae non sunt in   * ullo subiecto „) (1).   Ciò posto, venendo alla considerazione della diretta relazione delle Scienze mate-  matiche col Sillogismo e colle Figure sillogistiche, dice (ibid., paragr. 14): « Delle  8 Figure la prima è attissima a produrre la scnenza; imperocché le Scienze matematiche \  " effettuano le dimostrazioni .mediante tal Figura, come V aritmetic a, la geometria^ e |  « l'ottica „ (nel testo latino: " Ex figuris autem prima est ad scientiam gignendam   * aptissima ; nam mathematicae scientiae per hanc figuram demonstrationes afferunt   * ut arithmetica et geometria et optice   Passo alla terza ed ultima delle tre cose predette, a quella, cioè, concernente  la formazione della conoscenza. La qual formazione è dal grande filosofo (al paragr. 19,  ultimo degli Analitici Posteriori) espressa come segue: " Dal senso si genera la  " memoria Ma dalla memoria, formatasi dalla ripetuta riproduzione della stessa   * cosa, si genera l'esperienza; giacche molte memorie costituiscono una sola esperienza.   * Se non che, dalla esperienza si genera il principio dell'arte e della scienza;   ' dell'arte, se spetta alle cose della generazione (2); della scienza, se spetta a ciocche  «è,; (nella traduzione latina: " ex sensu igitur fit memoria ex memoria vero   * saepe eiusdem rei facta fit experientia; multae enim memoriae numero sunt una   * experientia; at vero experientia fit principium artis et scientiae, artis, si per-   * tineat ad generationem, scientiae, si pertineat ad id quod est „) (3).   La considerazione dell'arte è ciocche con stupenda designazione poco appresso  è denominato <5ófa, mentre la considerazione della scienza è appellata Àoyiafióg (4).   Ed ora è tempo che veniamo a determinare quale è in Aristotele il significato  dell'adoperamento dei simboli alfabetici come espressione del Sillogismo e delle Figure  sillogistiche. Ebbene, tal significato, brevemente indicato nella sua genericità, è che  le proposizioni del Sillogismo (le premesse e la illazione) in tutte le Figure sillogi-  stiche di questo vengono intese e adoperate in Forma universale, ossia in forma  estensibile ed applicabile a tutti gli elementi della Realtà.   Ora, questi elementi sono tre, il quantitativo, il qualitativo, e l'unità di entrambi,  ossia il modale (il modo, la misura). Che questo triplice elemento sia costitutivo     (1) E subbie tto ...vai. qui obbietta, cioè, singola e determinata ,_cosa_del_la realtà.   (2) La generazione concerne il sorgere e perirò delle cose.   (3) " Id qnod est „ nel corrispondente greco rò.Sv, e ciocche nell'Hegelianismo, e propriamente  nella Logica hegeliana, è stato designato come das Sein an und fiir sich.   (4) Anche questa denominazione di Àoyurpós è degna della più grande considerazione, perche  Aristotele ha già con essa additato e determinato l'elemento logico come elemento scientifico per  eccellenza, lasciando all'arte il carattere di elemento soltanto opinativo.   D'Ercole. 3     114     PASQUALE D'ERCOLE     14     della Realtà, emerge indirettamente dalla stessa tavola aristotelica de' giudizii, cioè  de' giudizii quantitativi, qualitativi e modali, come più chiaramente si sono appellati  nelle posteriori Logiche aristoteliche delle Scuole.   Qui basti l'avere accennato di ciò; le importanti applicazioni che ne derivano  rispetto alla Scienza matematica e alla voluta corrispondente Logica matematica le  faremo, quando giungeremo alla esposizione e giudicazione di quest'ultima; e ritor-  niamo per ora all'argomento delle Figure sillogistiche, per prendere in considerazione,  da una parte, i Modi, dall'altra, il Numero di esse.   Quanto ai Modi, è di bel nuovo il caso di dire che essi sono comunemente al-  legati e discussi in tutte le Logiche aristoteliche delle Scuole. Fra i tanti uomini  autorevoli che potrei citare a tal riguardo, rimando il lettore alla citata Logica e  Storia della dottrina logica di Friedrich Ueberweg, che ne tratta ampiamente a  pp. 296-344. Ma, per un breve ricordo di questo punto della Sillogistica, mi varrò  invece del nostro insigne Galluppi, il quale, nelle Lezioni di Logica e Metafisica,  Milano, Voi. I, pp. 358-385, espone tal dottrina con la solita sua lucidezza e preci-  sione. Della sua esposizione e discussione di questa materia, io riferirò brevemente  1 essenziale.   " Il Modo del sillogismo (dice egli, p. 36) consiste nella disposizione delle tre   * proposizioni secondo le loro quattro differenze A, E, I, 0 „.   Ora, * secondo la dottrina delle combinazioni, quattro termini quali sono A, E,  " I, 0, venendo presi tre a tre, non possono diversamente disporsi in più di 64 ma-   * niere ; ma di queste 64 maniere, 54 sono escluse dalle regole generali sillogistiche „  che sono state innanzi allegate: " restano perciò soli dieci Modi concludenti „.   Ma ciò non vuol dire " che solo dieci sieno le specie de' Sillogismi, perchè un  " solo di questi Modi può formare diverse specie „, secondo la varia disposizione de'  tre termini innanzi detta.   E qui il nostro Galluppi dispone addirittura i tre termini secondo le possibili  combinazioni, e ne risulta una tavola di 64 Modi, emergenti dalle quattro Figure  sillogistiche, delle quali egli indica anche brevemente le diverse regole.   A questo breve cenno aggiungo però volentieri due cose: l'una, alcuni versi  memoriali dei Modi delle quattro Figure: l'altra, un esempio di Sillogismi secondo i  predetti Modi.   I versi memoriali, fra i tanti, li allega Federico Ueberweg, loc. cit., p. 343 seg.,  come segue:   Barbara, Celarent primae, Darii Ferioque.  Cesare, Camestres, Pestino, Baroco secundae.  Tertia grande sonans recitat Darapt, Felapton,  Disamis, Datisi, Bocardo, Ferison. Quartae  Sunt Bamalip, Caleraes, Dimatis, Fesapo, Fresison.   Dinanzi a queste parole stranissime e non additanti per se stesse alcun senso,  il buon Galluppi fa la seguente sensata osservazione: " Queste formole (dic'egli,  " ibid., p. 368), di cui la prima cominciava infelicemente con barbara, sembreranno in  " effetto oggi molto barbare. Esse hanno ricevuto più ingiurie in un secolo, che onore  " in mille anni; esse hanno terminato col cadere in un intiero obblio; coloro che     15     LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECC.     115     * oggi le volgono in ridicolo non si hanno sempre dato la pena di meditarle... Il filo-   * sofo che riflette con attenzione sulle regole dell'antica Logica è sorpreso nel vedere  " sino dove gli autori avevano portato l'analisi del ragionamento. Colla più severa   * imparzialità alcuno non può impedirsi di convenire che ciascuna di queste regole   * era di una rigorosa esattezza, e che il loro insieme era sì completo che una sola  ■ delle forme possibili del ragionamento non era loro sfuggita. Aristotele, senza dubbio  u non aveva sovente il soccorso dell'esperienza : era questa la disgrazia del secolo, nel   * quale egli nacque; ma egli è stato forse il pensatore più profondo, il genio più   * eminentemente didattico che si sia mostrato sull'orizzonte della filosofia. Io dubito  8 che siensi innalzate dopo teoriche sì belle come quelle di cui egli ci ha lasciato il   * modello „.   Quanto alla profondità e genialità di Aristotele, il Galluppi ha perfettamente  ragione, e queste due doti spiccano di tale luce e verità proprio nella sillogistica  aristotelica e ne' Modi della medesima, che i posteri non hanno avuto ad aggiungervi  nulla, o nulla d'importante. Solo che, contrariamente al Galluppi, che accoglie il  pensi'ere, da non pochi seguito, delle quattro Figure, il grande Stagirita non ne  ammette che tre con tre soli corrispondenti Modi (1). Ma del Numero delle Figure  e de' Modi fra poco. Un esempio, intanto, del ragionare e concludere secondo le quattro  Figure, è pel Galluppi il seguente:     (1) La tavola aristotelica dei Modi, quale ricorre in Waitz, Arisi. Organon, voi. I, pag. 385  (rilevando le espressioni tecniche di nata navtòg, **** m óevòg ecc., sia colle corrispondenti De omm  et de nullo ecc., sia colle note quattro iniziali A, E, I, 0), è la seguente:     I. a', tò A xatà jiavTÒg tov B,  tò B %mà navTÒg tov P,   tò A narà navtòg tov P.   IL tì'. TÒ A xatà fAfi&svòg zov B,  tò A xatà navzòg zov P,   rò B xazà fiydevòg zov P.   y'. tò A xatà /^ijóevòg zov B,  zò A xazà Tivòg tov P,   zò B xatà Tivòg tov P ov.   III. tò A xazà navzòg tov P,   tò B xazà navzòg zov V,   zò A xazà zivòg zov B,   y' . zò A xazà zivòg zov P,  zò B xazà navzòg tov P,   zò A xazà Tivòg zov B.   e', zò A xazà zivòg tov P ov,  tò B xazà navTÒg zov P,   tò A nata zivòg tov B oli     §. tò A nata ^ijóevòg zov B,  tò B xarà navTÒg tov P,   tò A xazà /^tjdevòg tov P.   /5'. rò A xazà navzòg tov B,  tò A %aTà j^rjÒEVÒg zov P,   tò B naia fA,t]devòg zov P.   5'. tò A xazà navzòg tov B,  zò A xazà zivòg zov P off,   tò B xazà zivòg zov P oi!.   zò A xazà [A,t]Sevòg tov P,  tò B xazà navzòg tov P,   tò A xarà zivòg tov B ov.   ò". tò A nata navTÒg zov P,  zò B xazà zivòg tov P,   tò A xazà Tivòg tov B.   zò A xarà fifiòsvòg zov T,  tò B xazà zivòg tov P,   tò A xatà tivòg tov B oil.     116     PASQUALE D'ERCOLE     16     I Figura   (avente il medio come sogg. del magg. e predio, del minore)   Ogni sostanza pensante è semplice,  L'anima umana è sostanza pensante,  L'anima umana è dunque semplice.   II Figura   (avente il medio come predicato de' due estremi)  Niun corpo è una sostanza pensante,  L'anima umana è una sostanza pensante,  L'anima umana dunque non è corpo.   Ili Figura   (avente il medio come soggetto de' due estremi)  Ogni sostanza pensante è semplice,  Ogni sostanza pensante è indistruttibile,  Dunque qualche sostanza indistruttibile è semplice.   IV Figura   (avente il medio come predio, del maggiore e sogg. del minore)   Qualche essere semplice è sostanza pensante,   Ogni sostanza pensante è attiva,   Dunque alcune sostanze attive sono esseri semplici.   Il numero delle Figure e de' Modi. — Il lettore ha visto a pie' di pagina le tre  Figure e i tre corrispondenti Modi aristotelici allegati dal Waitz. Del Waitz riferisco  volentieri una osservazione concernente la seconda e la terza Figura, nelle quali ei dice  (loc. cit.): " ultimum modum secundae et quintum tertiae Figurae non demonstrari nisi  8 deductione facta ad absurdum „.   Galluppi, come si è visto, ha opinato doversi ammetter come valida anche la  quarta figura e i corrispondenti Modi. Ma, francamente detto, il Sillogismo, ch'egli  ne arreca ad esempio, da una parte, cammina stentatamente, dall'altra, è di difficile  comprensione. In generale, potrebbe dirsi che la mente umana nel suo naturale proce-  dimento logico non ragiona in quel modo. E un ragionamento logico che contraria  la natura nè può considerarsi come il migliore, nè deve ammettersi come buon proce-  dimento logico.   À conferma di tale osservazione rilevo che in generale i grandi filosofi si son  tenuti alla aristotelica triplità di Figure e di Modi.   Notoriamente, è stato il famoso medico Claudio Galeno di Pergamo (1) quello  che ha così " legato il suo nome alla Dottrina del Sillogismo (2), che apparisce in  " quasi tutti i compendii della Logica, anche ne' più triviali. Galeno, cioè, secondo   * l'espressione comune, ha accresciuto il numero delle tre Figure aristoteliche del Sillo-  " gismo categorico coll'aggiunzione di una quarta, nella quale il concetto (o termine)  " medio è predicato della maggiore e soggetto della minore „. Soggiunge che " la   * notizia di tale innovazione „ " non si trova in tutta la Letteratura greco-romana „,     (1) Zellek, Grundriss d. Gesch. d. Griechischen Phiìosophie, nella citata 10" ediz. del 1911 del  Loktzing, pag. 298, come anni di nascita e di morte 131-201 d. C.   (2) Così Prantl, Gesch. der Logìlc, età, I Bd., pag. 570 s.     ECC.     117     17 LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA,   e che proviene da fonte arabica, e propriamente da Averroe. Il quale Averroe, per  Giunta ne fa menzione proprio nella confutazione che fa della quarta Figura.   Alcune altre particolarità importanti tanto rispetto ai Modi, quanto rispetto alle   Figure sono le seguenti.   Quanto ai Modi, Aristotele, per ognuna delle tre Figure da lui ammesse e cor-  rispondentemente alle possibili combinazioni delle loro proposizioni secondo le indi-  cate lettere A E I 0, ha trovato che i Modi valevoli, perchè non contrarli alle otto  regole sillogistiche, sono 4 per la prima Figura, 4 per la seconda e 6 per la terza,  in tutto dunque quattordici.   Galluppi, che (con Galeno) ha ammesso la quarta Figura, ha anch'egli esaminato  le combinazioni e Modi che son possibili e valevoli in questa; ed ha trovato che,  accanto ai molti Modi contrarli alle otto regole sillogistiche, ve ne sono però 5 validi;  sicché il nostro filosofo napoletano, invece di 14, ammette 19 Modi validi.   Quanto poi alle Figure, va considerato un ultimo punto importante, cioè, quello  della riduzione della 2* e 3 a Figura, che danno sillogismi imperfetti, alla l a che   sola li dà perfetti. ,   Ora, tal riduzione, secondo Aristotele, avviene per mezzo di conversione: Azi yaq  ytyvstai òià %fjs dvvunqof^g ovUoyiGfióg, dic'egli, Anal. Pr., I, cap. 7.   Inoltre, la conversione può avvenire in due modi, cioè, o estensivamente, ovvero  per riduzione all'assurdo òemtix&$ % tov àòvvàiov).   E da ultimo, secondo lui, " tutti i sillogismi, quando sono rettamente convertiti,  « si riducono a sillogismi universali della prima figura „ {tpaveQÒv ovv fot 7zdv%eg  àva%Sf\aov%ai eig rovs & %<$ nqcbto? oxfipan xa&óXov ovMoyiopovg).   Di quest'ultimo punto, a maggior intelligenza e a complemento della cosa, allego  la solita traduzione latina non soltanto de' passi corrispondenti a quelli da me alle-  gati in greco, ma anche della rimanente parte, che è dimostrativa e illustrativa dei  medesimi La traduzione suona così: « Semper enim fit syllogismus per conversionem,  « praeterea manifestimi est pronuntiatum indefinitum prò attributivo particulari  « acceptum efficere eundem syllogismum in omnibus figurili, item perspicuum est  « omnes imperfectos syllogismos perfici per primam figuram. aut enim demonstratione  " aut per impossibile perficiuntur omnes: utroque autem modo fit prima figura, ac  « demonstratione quidem si perficiantur, fit prima figura, quia sic omnes perficie-  « bantur per conversionem: conversio autem efficiebat primam figuram. si vero per  « impossibile confirmentur, adhuc fit prima figura, quia posito quod falsum est, syl-  " logismus conficitur in prima figura, ut in postrema figura si tò a ac tò p omni y,  « probatur tò a inesse alicui p. nam si tò a insit nulli 0 ac tò § omni y, tò a  « inerit nulli y. sed antea positura erat omni inesse, similiter fit etiam in alns. licet  • etiam reducere omnes syllogismos ad syllogismos universales primae fìgurae. nam  » qui fiunt in secunda figura, sine dubio per illos perficiuntur, non tamen omnes  « eodem modo, sed universales converso pronuntiato privativo, particularmm autem  « uterque per deductionem ad impossibile, particulares autem primae fìgurae perfì-  » ciuntur quidem per se ipsos, sed licet etiam secunda figura eos confirmare ducendo  « ad impossibile, ut si tò a inest omni |3 ac tò p alicui y, tò a inerit alieni y. nam  » si nulli insit, omni autem fi insit, certe nulli y tò § inerit: hoc enim scimus per  « secundam figuram. similiter enim in privativo syllogismo erit demonstratm. nam     118 PASQUALE D'ERCOLE 18   * si zò a nulli | ac %b 0 alicui y inest, tò a alicui y non inerit. etenim si omni  ■ insit ac nulli § insit, zò § nulli y inerit: hoc enim erat media figura, itaque cum  " omnes sillogismi mediae figurae reducantur ad syllogismos universales primae  1 figurae, particulares autem primae ad syllogismos secundae, perspicuum est etiam  " syllogismos particulares primae figurae reduci ad syllogismos universales primae  " figurae. qui vero fiunt in tertia figura, terminis quidem universaliter acceptis statim  " per eos syllogismos perficiuntur, terminis autem in parte sumptis perficiuntur per  " syllogismos particulares primae figurae. hi vero ad illos reducti sunt: quapropter  " ad eosdem reducentur etiam syllogismi particulares tertiae figurae. perspicuum  " igitur est omnes reduci ad syllogismos universales primae figurae „.   E ora, ritenendo di aver detto a sufficienza della Sillogistica aristotelica, passo  a dire del quinto scritto dell'Organo, cioè di quello de' Topici.     I Topici {Tonino). — Di questo scritto del grande Stagirita Boezio (loc. cit., p. 7)  dà la seguente notevole informazione e giudicazione: " Topica: hoc est, loci, unde  " ducuntur argumenta. Opus est octo voluminibus distinctum, varium sane, hoc est,  " multae eruditionis et observationis rerum diversarum. Sed ut illa omnia primus  " ipse pariebat, non potuit tam multa simul edere, simul expolire : itaque relieta est  " velut ingens quaedam materia et dives, ad extruendum pulcherrimum aedificium   Questo giudizio di Boezio, primamente, è vero, come il lettore stesso se ne  convincerà dal cenno che noi faremo de' Topici; secondamente, ha grande importanza  anche per l'influenza da Boezio esercitata nell'insegnamento logico delle Scuole cri-  stiane medioevali (1). Accanto al giudizio di Boezio debbo riferirne un altro vera-  mente acuto e profondo di Trantl {Gesch. d. Logik im Abendlande, t** Bd., 1855,  Leipzig, pag. 341) sulla grandezza speculativa della mente di Aristotele. Prantl dice  che ■ la superiorità {Ueberlegenheit) della mente di lui era capace di esaminare secondo  " il concetto {begrifflich) e di costruire teoricamente secondo concetti adeguati anche  ■ campi (Gebiete) ed aspirazioni che sono al di sotto della speculazione propriamente  " detta », come sono il campo e la materia de' Topici.   Rispetto a' Topici riferisco volentieri anche una circostanza rilevata dal Zeller (2),  che cioè, ■ il 5° libro de' Topici rimastoci non provenga da Aristotele, come dimostra  " Pplug, de Ar. Topicorum libro V (1908) „. Ma, ciò nonostante, noi ne accenneremo  egualmente.   Cominciando dal Libro I, Aristotele subito nel primo paragrafo indica lo scopo  de' Topici in genere, il quale scopo è quello di trovare il metodo di argomentare  di ogni problema proposto dajrobabili je£ èvóófrv), e disputarne in guisa da non  dir nulla di ripugnante. Nella traduzione latina il predetto scopo è indicato così:  * Propositum huius tractationis est invenire methodum per quam possimus argumentari     (1) Tale influenza viene attestata da tutte le parti; la confermano, tra gli altri, Friedrich  Ueberweg-Heinze nel Grundriss d. Gesch. d. Philosoph., 8° Aufl., das Alterthum, Beri., 1894, p. 213.   (2) Nel Grundriss d. Gesch. d. GriecMsohen Philosophie della citata ediz. 10% 1911 del Loetzino,  pag. 174.     19 LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECC. 119   « de omni proposito problemate ex probabilibus, et ipsi disputationem sustinentes   " nihil dicamus repugnans „ (1). _   E soggiunge doversi innanzi tutto dire " che cosa sia il Sillogismo „, estenden-  dosi intorno a questo ed indicarne le diverse specie, ecc. E non ha torto di dire del  Sillogismo, della sua natura, delle sue specie, ecc.; perchè, se lo scopo della tratta-  zione de Topici è quello di trovare il metodo di argomentare, foss'anche da' probabili,  l'argomentare è un sillogizzare, e quindi bisogna conoscere come si sillogizza, ecc.  Ed in generale il lettore vedrà che in questi Topici si tratta di una grande quantità  di cose di cui si è già trattato nelle Categorie, nell'Ermeneia e negli Analitici tanto   Primi quanto Secondi.   Intanto Aristotele, sempre preciso, dice subito ivi stesso che cosa debba inten-  dersi per probabile. E lo determina dicendo (nella traduzione latina): " Probabile  « autem sunt ea quae videntur omnibus vel plerisque vel sapientibus, atque his vel  « omnibus vel plerisque vel maxime notis et claris „.   Nel secondo paragrafo investiga e determina « a quante e quali cose sia ntite  « questa trattazione , de' Topici. E statuisce che ella sia " utilis ad tna, ad exerci-  « tationem, ad congressi, ad philosophicas scientias. quod igitur ad exemtationem  « sit utilis, ex his perspicuum est, quoniam hanc methodum habentes facile de omni  « re proposita poterimus argumentari, ad congressi autem, quia multorum opmiombus  » enumerata, non ex alienis sed ex propriis singulorum sententns poterimus cum  « eis a-ere refellentes quod non recte dicere nobis videtur. ad philosophicas autem  « scientias, 'quia cum poterimus in utramque partem dubitare, facile in smgulis per-   " spiciemus veruni et falsum „.   Il predetto metodo, soggiunge egli nel terzo paragrafo, sarà perfettamente pos-  seduto, quando lo si adoprerà nella retorica e nella medicina, come fanno l'oratore  e il medico.   Ho rilevata volentieri questa circostanza della retorica e dell oratore, perche  tutti sanno come questa materia trattata ne' Topici è passata realmente, se non m  tutto certo in buona parte nella Retorica: Retorica, che specialmente noi vecchi  abbiamo studiata, con qualche profitto sì, ma anche con non poca pedanteria d'in- \  segnanti e d'insegnamento.   Sono stato piuttosto diffuso nella indicazione di queste generalità del 1° Libro  de' Topici per dare una idea della trattazione e del modo di trattazione de' mede-  simi. Ma ora procederò più speditamente e più brevemente, fermandomi però alquanto  di più ne' punti di maggiore importanza.   Nel paragrafo 4 continua ad occuparsi di sillogismi e di proposizioni, ma con  riguardo ai principii comuni ad entrambi, come sono il genere, il proprio, l'accidente,  Indifferenza, la definizione, ecc.; e nei seguenti paragr. 5 e 6 determina e illustra  siffatti principii.   Nel paragr. 7 pone il quesito: 11 Quot modis idem dicatur , ; e lo risolve dicendo:     (1) Quanto alla materia de' problemi proposti, anch'essa, secondo l'uso delle Scuole, fu espressa  nel seguente verso memoriale:   Quis? quid? ubi? quibus auxilds? cur? quomodo? quando?     120 PASQUALE D'ERCOLE 20   ' Videri autem possit idem, ut typo expìicem, tripertito distributum esse, aut enim   ■ numero aut specie aut genere idem soliti sumus appellare, etc.   Più avanti al paragr. 9 si propone di definire i generi delle Categorie, e di indi-  carne il numero, che è di dieci; e il relativo luogo è stato già riferito.   Nei paragr. susseguenti determina la natura della proposizione dialettica, del  sillogismo dialettico, della tesi (determinata al paragr. 11 come " sententia alieuius  * nobihs philosophi , ut dicebat Antisthenes ,).   Nel seguente paragr. 12 si propone di " esplicare quot sint rationum dialecti-  « «tram species „; e in seguito si occupa ancora de 3 generi delle proposizioni, per  quindi occuparsi nel paragr. 17 della somiglianza (e propriamente della « similitudo   ■ consideranda in iis quae sunt in diversis generica „). E con ciò si chiude la consi-  derazione del 1° Libro.   Il lettore che consideri bene la trattazione aristotelica deve convenire nell'acu-  tezza e giustezza del giudizio di Boezio intorno ai Topici.   Libro II. Nel primo paragrafo di questo, Aristotele torna ad occuparsi de' pro-  blemi, in quanto « alia (scilic. problemata) sunt universali», alia particularia „ ; e si  fa a considerarli ne' diversi rispetti della generalità e della particolarità.   Nei paragrafi immediatamente susseguenti torna a considerare i varii modi  secondo cui alcunché si dica, sia quantitativamente sia qualitativamente.   Ma nel paragr. 7 passa a considerare un punto importantissimo, e propriamente  quello concernente:   La Opposizione e il Principio di contraddizione: il qual punto è da lui considerato  ne più minuti casi ed aspetti, con relative distinzioni, suddistinzioni ecc.; e noi ne  riferiremo con qualche ampiezza.   ' Q uoniam au * em contraria (dic'egli, nella traduz. latina) sex modis inter se   * coniunguntur, contrarietatem autem efficiunt quattuor modis coniuncta, oportet  " accipere contraria prout expedit evertenti et adstruenti. sex igitur modis ea coniungi  " manifestum est. aut enim utrumque utrique contrariorum iungitur, atque hoc bi-  " fariam, ut de amicis bene mereri et de inimicis male, vel contra de amicis male   ■ et de inimicis bene, autem ambo de uno, et hoc quoque bifariam, ut de amicis  ' bene mereri et de amicis male, vel de inimicis bene mereri et de inimicis male.  " aut autem de ambobus, et hoc quoque bifariam, ut de amicis bene et de inimicis   • bene, vel de amicis male et de inimicis male, primae igitur duae coniunctiones  " quas dixi, non faciunt contrarietatem : de amicis enim bene mereri et de inimicis  " male non sunt contraria, cum ambo sint optabilia et eorundem morum effectus „ (badi  il lettore alla circostanza e corrispondente espressione del morum effectus, che net  testo greco suona: d/upóreQa yÙQ aÌQ£%à Hai zoì) av%ov ij9ov S ). « neque item contraria   ■ sunt de amicis male et de inimicis bene mereri. nani et haec sunt ambo fugienda  " et eorundem morum effectus „.   E Aristotele nelle dette distinzioni e suddistinzioni non si arresta neppur qui,  ma procede ad altre, che noi omettiamo di riferire.   N Se non che, continuando a parlare de' contrari!, passa a considerarli da quel  rispetto, che è stato appellato i\ principio di contraddizione, sostenendo: " fieri nequit  " ut contraria simul eidem subiecto insint „ (cioè, nel corrispondente testo greco:  àòvvaiov yàq tàvavxia djia t$ ai>%$ òndgxeiv).     21     LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECC.     121     E trattandosi di un principio tanto importante, che, per giunta ha avuto poste-  riormente una rigida e non sempre bene intesa applicazione, voglio allegarlo anche  nella forma più compiuta in cui ricorre in Metaph. Iti, 3; cioè: xò yàg afixò djm  ■bjia,Q%Eiv xe xal [ir] vnaQxeiv àóvvaxov %(p avxòì uaì xaxà xò avx ó (nella traduzione  latina: " idem enim simul inesse et non inesse eidem et secundum idem impossibile  " est „). E soggiunge poco appresso che questo è il più certo di tutti i principii: avxr\  ài] naa&v èaxl ^E§aioxdxmj xcov àq%(àv (traduz. latina : " hoc autem est omnium prin-  " cipiorum certissimum „).   Noti però il lettore che, per non fraintendere il principio aristotelico di contrad-  dizione, si deve aver presente ciocche Aristotele ha detto teste, che, cioè gli opposti  non sono contraddittorii, epperò non escludentisi (poniamo, come amici e nemici)  quando siffatti opposti sono morum effectus, ossia effetto della natura di essi. L'uomo,  per chiarire ancor meglio l'esempio, ha nella propria natura umana l'essere amico  ed anche l'essere nemico, come per sua natura può esser buono e può essere anche  cattivo. Non sarà l'una e l'altra cosa ééfia, nel medesimo tempo; ma l'uomo è però  pur sempre il medesimo soggetto, che .ora è amico ora nemico, ora buono ora cat-  tivo: ed inoltre, è amico e buono ne' tali e tali uomini, ed è nemico e cattivo ne'  tali e tali altri uomini.   E basti di questo importantissimo punto.   Ne' paragrafi immediatamente susseguenti si continua a parlare dell'opposizione,  si accenna anche alle simiglianze, e non ricorre altro di rilevante. Passo a dire del   Libro III. Aristotele apre questo Libro col quesito di ciocche sia migliore e più  desiderabile, e, per giunta, di esaminare e a tal riguardo " sermonem instituere   * (paragr. 1) non de iis quae longe inter se distant et magnam differentiam habent...,  " sed de iis quae vicina sunt „. E risolve la quistione dicendo che " quod est diuturnius   * et constantius, magis est eligendum quam quod est minus tale „.   E nella elezione è certo anche di peso " quod eligat vir prudens, aut lex recta...,   ■ aut ii qui in uno quoque genere scientes sunt „.   Ne' due seguenti paragrafi continua in grosso l'esame e soluzione dell'istesso  quesito, per poi venire, ne' paragrafi 4 e 5, a prendere in considerazione i luoghi  utili a conoscere ciocche debba eleggersi e ciocche fuggirsi. E statuisce (paragr. 5):   * Sumendi sunt loci de eo quod magis vel maius est quam maxime universales. sic   ■ enim sumpti ad plura problemata utiles erunt „.   E questa è la sostanza della ricerca e soluzione del quesito proposto in questo  Libro. Passo al   Libro IV. E qui posso essere ancora più breve di quel che sono stato nell'an-  tecedente Libro. Giacche in questo IV si torna a discorrere " de iis quae ad genus  " et proprium pertinent „, colla considerazione di differenze, specie, distinzioni e  suddistinzioni di casi, di esempii, di applicazioni (anche al principio di contraddizione),  che servono ad illustrare e confermare il proposto quesito. E si giunge così al   Libro V (che, come è detto innanzi, non proverrebbe da Aristotele).   Ma in questo stesso Libro V non vi sono altri argomenti veramente nuovi, ma  si torna a trattare di quelli antecedentemente trattati.   Infatti questo Libro comincia così: " Utrum autem proprium sit necne id quod   * est propositum, ex his locis quos deinceps exponemus considerandum est „. E   D'Ercole. 4     122     PASQUALE D'eBCOLE     22     prosegue dicendo: * Proponitur autem proprium vel per se et semper, vel per com-  " parationem cum altero et interdum „. E passa ad investigare e determinare, quando  il proprio è per sè, quando per comparazione, ecc.   E ne' seguenti paragrafi 2, 3 e 4 continua ancor sempre il discorso intorno al  proprio ne' suoi più diversi aspetti e rapporti : ne' quali aspetti e rapporti non manca  la considerazione de' principii contrarii (fatta nel paragrafo 6), e de' principii con-  trarli relativamente al proprio, per scorgere " an contrarium sit contrarii proprium „ etc.   In grosso è lo stesso nel paragrafo 7, in cui " ex casibus refellitur, si ille casus  " non est illius casus .proprium „ etc.   E finalmente, nel nono ed ultimo paragrafo, " refellitur, si quis potestate proprium  " tradidit, etiam ad id quod non est rettulit illud potestate proprium, cum potestas  " rei quae non est, inesse nequeat „ etc.   Rispetto alla predetta opinione di Pflug accennata dal Zeller, dico rispetto a  tale opinione, non contro ad essa, mi permetto di fare una personale osservazione.  Ed è che, leggendo e considerando attentamente questo V Libro, la materia, il modo  di pensarla, ordinarla, distinguerla e suddistinguerla ne' suoi varii rispetti e rapporti,  si mostra, da una parte, interamente simile a quella degli antecedenti Libri topici,  dall'altra, interamente conforme alla mente di Aristotele.   Ed ora vengo al   Libeo VI. Questo si inizia coll'argomento delle definizioni, e si continua tutto  con esse ; ma queste stesse vengono di bel nuovo considerate ed esaminate con rife-  rimento al proprio, al genere, alle differenze, ecc. Trattandosi di un argomento che ha  della importanza, e che si addentra nella natura delle definizioni e nelle diverse  parti costitutive di esse, allegherò un lungo luogo, in cui ciò è effettuato.   Della trattazione dunque * quae ad definitiones pertinet quinque sunt partes.  " vel enim definitio reprehenditur, quia omnino non vere dicitur, de quo nomen,  14 etiam oratio, quandoquidem oportet hominis definitionem de omni homine vere  " dicitur. vel quia cum sit aliquod genus, non collocavit rem definitam in genere  " aut non collocavit in proprio geuere, quoniam debet is qui definit, cum in genere  " definitum collocaverit, differentias adiungere, si quidem eorum quae in definitione  " ponuntur, maxime genus videtur rei definitae essentiam declarare ; vel quia oratio  " non est propria (nam oportet definitionem propriam esse, quemadmodum et supra  u fuit); vel quia, cum omnia quae dixi perfecerit, tamen non definivit, nec dixit  " quidditatern rei definitae. reliquum est praeterea definitionis vitium, si definivit  " quidem, non tamen recte definivit. an igitur de quo nomen dicitur, non etiam  " oratio vere dicatur, ex locis ad accidens pertiuentibus considerandum est. nam ibi  8 quoque omnis consideratio in eo consistit ut intelligatur utrum sit verum an non  " verum. cum enim disserendo ostendimus accidens inesse, dicimus esse verum. cum  " autem ostendimus non inesse, dicimus non esse verum. an autem non in proprio  " genere posuerit, vel non propria sit oratio tradita, ex dictis locis, qui ad genus  " et ad proprium pertinent considerandum est. reliquum est ut dicamus quomodo  " disquiri debeat an non sit definitum, vel an non recte sit definitum, etc. „.   Nel susseguente paragr. 2 vien la considerazione dell' omonimo, del simmetrico, con  le corrispondenti definizioni. Qui stesso Aristotele si fa a considerar la definizione in  rapporto al sillogismo, e se in tal rapporto essa sia fatta chiaramente od oscuramente ecc.     23 LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECC. 123   Ne' paragrafi 3 e 4 continua sempre l'argomento delle definizioni. Nel para-  grafo 5 si considera la definizione del corpo, determinandolo (come si è poi sempre  ripetuto e si ripete tuttora, meno il caso presentemente considerato da Zollner ed  altri, della cosi detta 4 a dimensione) siccome « id quod habet tres dimensiones „.   Nel paragr. 6 Aristotele fissa l'attenzione alle differenze, in quanto in esse  ' considerandum est an generis differentias dixerit „. Se tali differenze non sono  state indicate e precisate, non vi sarebbe stata vera definizione.   Nei susseguenti paragrafi continua sempre lo stesso argomento delle definizioni,  con esemplificazioni intorno all'abito (paragr. 9), alla simigliala (paragr. 10), e si  termina con la considerazione della composizione delle cose, della quale, per avere  una giusta definizione, bisogna indicare tutti gli elementi che la costituiscono. E così  si passa al   Libro VII. — Gli argomenti di questo Libro sono anch'essi suppergiù i medesimi  di quelli trattati negli antecedenti Libri con speciale riguardo all' Oratoria, la quale  naturalmente vien congiunta coi modi e forme di sillogizzare, obbiettare, ecc., col  consueto riguardo ai generi, specie, differenze, opposizioni, casi tali o tali altri.   Ecco, infatti, come al principio del Libro è enunciata la materia da considerare  in essa : " Utrum autem id de quo agitur sit idem an diversum, secundum eum modum   * qui inter modos supra de eodem expositos est maxime proprius, nunc dicendum  « est. dicebatur autem maxime proprie idem esse quod est numero unum, considerare  « autem oportet atque argumenta sumere ex casibus et coniugatis et oppositis. nam  « si iustitia est idem quod fortitudo, etiam iustus est idem quod fortis, et iuste idem  " quod fortiter. similis ratio est oppositorum etc. J. Qui stesso vien la volta di pren-  dere in considerazione anche il sorgere e perire " ortus et interitus „ delle cose.  Poco appresso ricorre un riferimento anche alle cose che accadono : " nam quae  " alteri accidunt, etiam alteri accidere debent „. E ciò vien messo ivi stesso in rela-  zione anche colle Categorie, in quanto " videre oportet an non in uno categoriae  ' genere ambo sint, sed alterum qualitatem, alterum quantitatem vel ad aliquid   * relationem declaret „.   Al paragrafo 3 vien la considerazione della definizione e del sillogismo, pur  con riferimento ai generi, alle specie, alle differenze, non che ai contrarii, alle diffe-  renze contrarie, ecc.   Al paragrafo 4 si ritorna sui luoghi atti a disputa, oratoria, ecc., ma con riferi-  mento all'aiuto della memoria. Infatti statuisce : " Maxime autem locorum omnium  » apti sunt ii quos nunc dixi, necnon ex casibus et coniugatis. Ideoque maxime me-  « moria tenere et in promptu habere oportet hos locos (utilissimi enim sunt ad  « plurima problemata), atque etiam ex ceteris eos qui sunt maxime communes, quo-  " niam inter reliquos sunt efficacissimi „.   Nel seguente ed ultimo paragrafo 5 ricorrono ulteriori considerazioni pur attinenti  a definizione, sillogismo, a genere, proprio, ecc.; e con esse si chiude il Libro.   Libro Vili. — L'argomento principale di questo Libro de' Topici è la disposi-  zione della materia del discorso, con riguardo speciale ad interrogazioni, risposte,  e ritrovamento (inventio) di quegli argomenti che spettano ed importano al dialettico,  al filosofo. E quale argomento conduce naturalmente Aristotele a connettervi, come  d'ordinario, i modi di argomentare, sillogizzare, ecc. Ma sentiamo Aristotele stesso.     124     PASQUALE D'ERCOLE     24     Egli indica (nella traduzione latina) lo scopo e la materia della trattazione con  queste parole : " Post haec de dispositene, et quomodo interrogare oportet, dicendum  " est. primum autem debet is qui interrogaturus est, locum invenire ex quo argu-  s mentetur, deinde interrogare et disponere singula ipse per se, tertio et postremo  " haec dicere contra alterum. ac loci quidem inventio aeque ad philosophum et ad  " dialecticum pertinet, eorum autem quae inventa fuerunt dispositio et interrogatio  " dialectici est propria, quoniam hoc totum adversus alterum est : philosopho autem  " et ei qui ipse secum veritatem inquirit, curae non est, si vera sint et nota ea ex  " quibus efficitur syllogismus, nec tamen ea ponat is qui respondet, propterea quod  " propinqua sint quaestioni ab initio propositae ac provideat quod eventurum sit.  " quin immo fortasse dat operam ut axiomata sint maxime nota et problemati pro-  * pinqua, quandoquidem ex his Constant syllogismi qui scientiam pariunt ,,   Sillogismo senza proposizioni intanto non si dà ; perciò Aristotele rivolge la sua  attenzione a queste. Di queste ve n'ha di necessarie ed anche di non necessarie.  " Necessariae autem „, dic'egli, * dicuntur eae ex quibus syllogismus conficitur. quae   ■ vero praeter has sumuntur, quattuor sunt : vel enim sumuntur inductionis causa,  " ut detur quod est universale, vel ut amplificete oratio, vel ut celetur conclusio,  " vel ut magis perspicua sit oratio etc. „.   Nell'anzidetto si contiene il pensiere aristotelico di questo Libro, e s'intende  che ciocche segue non può essere che l'ulteriore e più ampia esplicazione di ciò con  applicazione a singoli casi e quesiti ed a singole corrispondenti soluzioni.   A conferma di ciò, nel paragrafo 2 si pone che nel dissertare " utendum syllo-  " gismo apud dialecticos potius quam apud multos ; contra inductione apud multos  " potius „. Si fanno di ciò, ad illustrazione, applicazioni a casi vari, poniamo al caso  della salute, valetudo, della malattia, morbum, ecc. Quanto alla natura della proposi-  zione dialettica e al corrispondente elemento dialettico, si dice poco appresso : " Pro-  " positio enim dialectica est, ad quam respondere licet etiam aut non „.   Al paragrafo 3 si prendono in considerazione le hypoiheses, le captiosae argu-  mentationes con riferimento ai principia ultima, da cui tutte le dimostrazioni e tutti  i principi subordinati traggono origine e ragione probativa. " Nam cetera (scilic.  " principia) per haec probantur, ipsa vero per alia probari non possunt „.   Nel paragrafo 4, riferendosi all'interrogare e rispondere, dice: " De responsione  " autem primun determinandum est, quod eius sit officium qui recte respondet, quemad-  " modum eius qui recte interrogai est autem interroganti^ ita disputationem deducere,  " ut respondentem cogat maxime incredibilia dicere ex iis quae praeter thesim sunt   ■ necessaria ; respondentis vero, ne sua culpa videatur evenire quod absurdum vel   ■ praeter opinionem est, sed propter thesim „.   L'istesso argomento dell'interrogare e rispondere viene svolto nei paragrafi 5, 6  e seguenti con ulteriori considerazioni di altri casi e rispetti.   Ma più innanzi nel paragrafo 11, a proposito della reprehensio argumentationis,  ricorre l'accenno ad argomentazioni false e vere nel senso ed intendimento di ciocche  si è discorso ed esposto negli Analitici ; e il corrispondente luogo, relativo a molti  modi di argomentazione, è degno di essere riferito e suona così : " Qui vero „, dice  Aristotele, " ex falsis verum concludunt, non possunt iure reprehendi, quoniam falsum  " quidem semper necesse est ex falsis concludi, sed verum licet interdum etiam ex     25 LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECC. 125   " falsis concludere : hoc autera est perspiciram ex Analyticis. quando autem argu-  ■ mentatio quae dieta est, alicuius rei est demonstratio, si quid aliud sit quod nihil   * cum conclusione probanda commune habeat, profecto non erit ex eo syllogismus.   * sin autem videatur, sophisma erit, non demonstratio. est autem philosophema syllo-   * gismus demonstrativus, epicheirema vero syllogismus dialecticus, sophisma syllo-   * gismus contentiosus, aporema syllogismus dialecticus contradictionis „.   Per ragione del tecnicismo di queste ultime espressioni della Logica aristotelica,  allego quest'ultima parte del luogo nel testo greco, il quale suona così : "Eati òe  (piloaócprifia (lèv ovÀÀoyiafiòg ànoòeimixóg, km%eiqrnia òè avlkoyiofiòg òiaXemmóg,  oóqjiofia òè cvAZoyiofiòg ègiormóg, ànóqrifia òe ovZAoyiofiòg òialemwòg àvwpdoewg.   Nel seguente paragrafo 12 si stabilisce come massima che 8 argumentatio est  " perspicua uno modo, eoque maxime vulgari, si ita concludat ut nihil amplius opor-  " teat interrogare „. E dopo altre consimili considerazioni si conclude il Libro Vili  con quest'altra massima di carattere generale : - oportet paratas argumentationes  " habere adversus eiusmodi problemata, in quibus cum paucae argumentationes  " suppetant, adversus plurima problemata utiles erunt. hae vero sunt argumenta-  " tiones universales, et quas assumere ex rebus passim obviis difficile est „.   Dopo siffatte, se non diffuse, certo sufficienti indicazioni sulla materia, sullo  scopo e sul modo di trattazione de' Topici, passo a dire degli Elenchi Sofistici.   JUeqì t&v ooyiauxwv èÀéy%ù)v. — Anche per questa parte, come ho fatto per  le altre, della Logica aristotelica comincio coll'allegare un notevole giudizio di Boezio,  il quale (loc. cit., p. 7) dice: * Elenchus multa significai sed hoc loco prò redar-  14 gutione sumitur. Libri sunt duo, ad cavendas sophisticas captiones, et ne in disse-  " rendo falsa prò veris per ignorationem colligamus, aut admittamus. Huic operi  * initium dedit Plato in Euthydemo : ostenduntur illic pauci quidem doli disputatoris  " captiosi : Aristoteles autem rem omnem, ut solet, a primis initiis complexus,  " digessit in ordinem et formulas „.   A questo giudizio di Boezio si unisce Prantl. il quale colla sua autorità in tal  materia, lo allarga ed integra con altre importanti osservazioni. La qual cosa egli  fa nella pagina 346 della sua citata opera Gesch. d. Logik, età, voi. I, primamente,  osservando come questi Elenchi Sofistici si colleghino intimamente ai Libri topici  in genere ed al Libro Vili in ispecie ; e secondamente, esponendo in un breve e  succoso cenno la materia e lo scopo de' medesimi.   Ma vi è stato in Italia un uomo, che, riattaccandosi ai due nominati scrittori,  ha fatta una traduzione eccellente de' primi 14 capitoli degli Elenchi, facendovi pre-  cedere un elaborato ed illustrativo proemio, corredando i capitoli stessi di sommarli  ragionati abbastanza diffusi, estendendosi a dar sommarli anche de' rimanenti venti  capitoli, e, per giunta, a confermare ed illustrare il tutto con note amplissime e  dottissime, nelle quali è abbracciata tutta la parte storica dell'argomento, fino al  secolo XIII inclusivamente.   Quest'uomo, veramente sommo e a tutti noto, è Buggero Bonghi, il quale non  solo mostrò vastità di dottrina in questo speciale argomento della Logica aristotelica,  ma ha allargato ed approfondito i suoi studi nella traduzione e illustrazione delle  opere di Platone e della Metafisica di Aristotele, traducendo ed illustrando quasi tutte  le opere del primo, e i primi sei Libri della Metafisica del secondo. E, per giunta,     126     PASQUALE D'ERCOLE     26     fortificò i suoi studi filosofici, oltre che collo studio della Storia della Filosofia fino  agli ultimi tempi inclusivamente, anche colle sue amplissime conoscenze di Storia  di tutti i tempi, e con un'ampia erudizione nelle altre discipline dello scibile.   La esposizione che io, per assolvere il mio scopo e compito, farò di questi  Elenchi, consisterà in tre diversi cenni : il primo, quello di valermi della traduzione  italiana stessa e delle corrispondenti illustrazioni del Bonghi ; quale migliore e più  sicura guida nell'adempimento del mio scopo ? il secondo, nell'allegamento di un  brevissimo luogo del Boezio, riportato in nota dallo stesso Bonghi, luogo che ser-  virà alla indicazione delle espressioni latine de' sofismi trattati da Aristotele ; il terzo,  nell'allegamento di un luogo importantissimo dell'Ueberweg, nel quale, in breve e  succoso cenno, sono distinti e illustrati tutti i sofismi con le relative denominazioni  greche. E vengo alla esposizione.   Cominciando dal Bonghi, è bene ed utile di rilevare alcune importanti afferma-  zioni e considerazioni di lui in riattaccamento a Boezio, a Prantl, allo stesso sorgere  e costituirsi della Sofistica, ed anche a Socrate, Platone ed Aristotele in quanto  riferentisi alla medesima.   Per ciocche concerne il sorgere e costituirsi della Sofìstica, benché egli ricordi  cose note, pur voglio ricordar le parole di lui. Prodico, Gorgia e Protagora (dic'egli  nella prima parte dell'Introduzione alla traduzione dell' Eutidemo, pag. 15) " per i  " primi accettarono i nomi di sofisti e fondarono la sofistica „. E, come essa 8 è il  " principio e il fondamento dell' 'eloquenza e il più grande stimolo e sprone di coltura,  " essi furono maestri di eloquenza, e diffonditori di cultura in tutta la Grecia ».   Senonchè, pur troppo la sofistica degenerò in eristica. Ora, Platone (ibid., pag. 18)  " si oppose a questa perversione di giudizii „ : tanto più che " non si sarebbe potuto  " mai far intendere il valore di Socrate, fino a che questa confusione avesse preoccu-  " pato le menti „. Si aggiunga a ciò, che quando " in Grecia si moltiplicò il numero  " di quei professori o maestri che si ripromettevano d'insegnare al cittadino la miglior  " maniera di condursi per se e per gli altri nello stato „, nacque una gran " contra-  " rietà d'opinioni ne' nuovi metodi d'insegnamento „. E da questa, e dal " nome di  8 uno degli Eristici che vi discorre „ trasse origine YEutidemo di Platone.   Vengo ora alle Confutazioni Sofistiche.   Nell'avvertenza alle Confutazioni Sofistiche, come Bonghi traduce il trattato jieqì  %ùv oocpMmxcòv èÀéyx<op (1), egli dice di essere stato indotto alla traduzione * dal  " pensiero, che avrebbe potuto riuscire di molto interesse e utilità il vedere come una  " mente così sottile, investigatrice, sistematica (come quella di Aristotele) abbia per  " la prima volta messo ordine e luce in una materia per sè così complicata e buia,  " com'è questa del ragionamento usato a inganno altrui. Neil' Eutidemo Platone aveva  " rappresentata l'arte ; nelle Confutazioni Sofistiche Aristotele, che vi ricorda tante volte  " l' Eutidemo e Platone, ne dette la teorica „.   Soggiunge, Aristotele " non esser facile in nessuno suo scritto; e questo è uno  " di quelli ne 1 quali è più difficile „. Indicando la ragione, i limiti e il modo come ha     (1) Vedi Dialoghi di Platone, trad. da Ruggero Bonghi, voi. IV (continuaz.), Eutidemo, 2* ediz.;  Aristotele, il primo Libro Delle Confutazioni Sofistiche, ecc. Torino-Roma-Firenze, Fratelli Bocca, 1883.      27 LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECC. 127   condotto la propria opera, dice essergli • mancato il tempo „ di condurre a termine  la traduzione ; ma che, ciò non ostante, " la trattazione teorica de' sofismi è ne' primi  " (14 capitoli) compiuta „ essendo 8 nei seguenti (venti capitoli) solo indicate le vie  « praticamente utili a cavarsene fuori „ ; e che, per giunta, come si è detto, anche per  questi ultimi ha aggiunto " lunghi sommari! „ ; sì che il lettore finisce per aver  conoscenza di tutta la materia dell'ultimo trattato logico di Aristotele.  Ora ecco i punti sostanziali di questo.   Aristotele nel Primo Capitolo, paragrafo 1, di questo dice che "prende a   • discorrere.... delle Confutazioni Sofistiche e di quelle che paiono bensì confutazioni,  " ma sono paralogismi e non confutazioni , .   E nel seguente paragrafo 2 fonda questo suo giudizio con questa osservazione :  " Che de' sillogismi alcuni son veramente tali, altri paiono e non sono, è manifesto ;  " chè come questa apparenza ha luogo nelle altre cose per una cotal simiglianza,   • così accade ancora nei ragionamenti. E difatti, la persona, che altri hanno aitante,   ■ altri col gonfiarsi e acconciarsi.... paiono averla.... E delle cose inanimate è del  " pari ; chè di queste quale è argento e oro davvero ; quale non lo è, ma pare al  « senso ; per mo' d'esempio, d'argento quelle di stagno e di piombo ; d'oro quelle   * tinte di giallo „. E allo stesso modo, sillogismi e confutazioni, quali sono, quali  non sono, ma paiono per l'imperizia.   « Dappoiché (continua egli nel paragrafo 3, indicando la ragione dottrinale della   * differenza di sillogismo e confutazione, ossia di sofismo) il sillogismo si compone  " di alcune premesse per modo, che di necessità per via di esse proposizioni dica   ■ qualcosa di diverso dalle proposizioni ; e confutazione è sillogismo in cui si con-  " traddice la conclusione „.   Nel paragrafo 4, cominciando ad enumerare le cause, dice che di queste « una   " fonte è più copiosa e comune di tutte, quella per via di vocaboli I vocaboli   « sono finiti di numero e i ragionamenti altresì ; dove gli oggetti sono infiniti ; sicché  " è necessario che un solo ragionamento e un unico nome significhi più oggetti „.   Nel paragrafo 5 fa ulteriori esemplificazioni sulla sofistica, che si intendono e spie-  gano con ciocche è detto innanzi.   Ma nel seguente Capitolo Secondo, passando ad indicare ,! le specie de' ragiona-  menti sofistici „ Aristotele, nel paragrafo 2, dice che di quelli " che occorrono nel   ■ conversare, v'ha quattro generi: didascalici, dialettici, pir astici ed eristici. Sono:   « Didascalici (insegnativi) quelli che si sillogizzano da' principi propri di ciascuna  " disciplina e non dalle opinioni di chi risponde ; (chè chi impara, deve credere) :   " Dialettici (discorsivi) quelli che da proposizioni probabili sillogizzano la con-  " tradittoria:   " drastici (tentativi) quelli che lo fanno da proposizioni ammesse da chi risponde  " e necessarie a sapere da chi ha la scienza (e in che modo si è chiarito altrove):   " Eristici (contenziosi) quelli che sillogizzano o paiono sillogizzare da proposi-  " zioni ammesse solo in apparenza, ma non in realtà »,   Nel paragrafo 3, ricordando che " de' ragionamenti apodittici (dimostrativi) s'è  " discorso negli Analitici, de' dialettici e de' pirastici altrove „, dice doversi " discorrere  " al presente degli agonistici (garosi) e degli eristici „. E ciò fa nel   Capitolo III. — Aristotele, proponendosi in questo " di fermare quante sono le     128     PASQUALE D'ERCOLE     28     " mire di quelli che gareggiano e si puntigliano nel ragionare „ , dice che queste   * son cinque di numero : confutazione, falsità, paradosso, solecismo, e quinto il far  " cianciare chi conversi teco (e questo è il costringerlo a dire più volte il medesimo) ;  " o non la realtà, ma l'apparenza di ciascuna di queste cose „.   E, spiegando nel paragrafo 3, le predette cinque cose, dice che * quello che  " sopratutto si propongono, è di parere di confutare ; in secondo luogo, di mostrare  " che uno dica il falso in qualcosa ; terzo, di tirarlo a un paradosso ; quarto, di  " fargli commettere un solecismo ; e questo è, il fare che chi risponde, per effetto  " del ragionamento, barbarizzi; per ultimo, il fargli dire più volte la stessa cosa „.   Capitolo IV. — In questo Capitolo, venendo alla indicazione " dei modi di con-  " futare „ , dice esservene " di due sorte ; gli uni stanno nella dizione, gli altri fuori  " della dizione „.   Nel paragrafo 2, indicando 8 i motivi che per effetto della dizione generano un  " falso vedere „, dice che di essi * ve n'ha sei; e sono l'equivocazione, l'anfibologia,  " la composizione, la divisione, l'accento, la figura della dizione. E la prova di ciò s'ha  " per induzione „. E ne' susseguenti paragrafi chiarisce e illustra con esempi i pre-  detti sofismi della dizione.   Capitolo V. — In questo Capitolo passa il nostro filosofo alla designazione  de'" paralogismi fuori della dizione „ e ne novera " sette specie, una dell'accidente,  " la seconda dal dirsi una cosa in assoluto o non in assoluto^ ma per un certo modo  " o posto o tempo o rispetto ; la terza dall'ignoranza della confutazione ; la quarta dal  " susseguente ; la quinta dalla petizion di principio ; la sesta dal porre la, non causa  " come causa ; la settima dal fare di più interrogazioni una sola „ .   E anche per questi paralogismi Aristotele fa nei seguenti paragrafi illustrazioni  ed esemplificazioni.   Notevole è in questo Capitolo ciocche Aristotele statuisce, al paragr. 11, intorno  all'ultimo de' sette paralogismi allegati, cioè intorno a quelli che * nascono dal fare   * di due interrogazioni una sola „. Rispetto a questi, " quando resti nascosto che son  " più, e come se fossero una sola, le si dia una unica risposta „ ; benché rispetto a  tal caso riconosca che " in alcune è facile scorgere che son più, .... ma in altre meno   Capitolo VI. — In questo Capitolo, al paragrafo 1, pone l'alternativa che " o  " s'hanno a distinguere così i sillogismi e confutazioni apparenti „, come si è detto  e fatto negli antecedenti paragrafi, " o a ridurre tutti all'ignoranza della confuta-   * zione, ponendo per principio questa : che v' è modo di risolvere tutti i modi che  " se ne son detti, nella definizione della confutazione „. E l'alternativa e corrispon-  dente soluzione proposta vien discussa a proposito degli altri ultimi paralogismi  allegati.   Capitolo VII. — In questo Capitolo si continua a prendere in considerazione  altri degli allegati paralogismi, come quelli dall'equivocazione, dall'anfibolia, dalla  composizione e dalla divisione, dall'accento e dalla figura della dizione, dall'accidente, ecc.,  e si indica il modo di conoscerli e confutarli.   Capitolo VIII. — 8 Poiché sappiamo (si dice nel paragrafo 1) per quante vie  " si generino i sillogismi apparenti, sappiamo altresì per quante si possano generare  " i sillogismi e le confutazioni sofistiche „.   " E dico (paragrafo 2) sillogismo e confutazione sofistica non solo il sillogismo     29     LA LOGICA AKISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECC.     129     * o la confutazione che appare e non è, ma anche quello che è bensì, ma proprio della   * cosa appare soltanto. E cotesti sono quelli che non confutano secondo la cosa, e   * non mostrano che altri l'ignora, che era il caso della Pirastica. Ora, la Pìrastica  " è parte della Dialettica; e questa può sillogizzare il falso per ragione dell' igno-   * ranza di chi rende ragione. Invece, le confutazioni sofistiche, quando anche siilo-   * gizzino la contradizione, non fanno manifesto se altri ignora ; poiché anche chi sa,   * impacciano con siffatte argomentazioni „.   " E che gli otteniamo (paragrafo 3) collo stesso metodo, è chiaro ; dappoiché   * per quante vie appare a chi ascolta, che si siano sillogizzate appunto le proposi-   * zioni di cui gli s'era fatta interrogazione, per altrettante potrebbe altresì parere   * a chi risponda ; sicché per queste, o tutte o alcune, verran fuori sillogismi falsi,  " che quello che uno non interrogato crede d'aver conceduto, interrogato lo conce-   * derebbe. Eccettochè in alcuni paralogismi succede insieme che si dimandi quello   * che manca, e la falsità si chiarisca, come in quelli dalla dizione e dal solecismo „.   Si fanno, ne' paragrafi seguenti, consimili considerazioni intorno ad altri para-  logismi, come quelli risultanti dall'accidente, dal conseguente, ecc.   Capitolo IX. — In questo Capitolo, nel paragrafo 1, Aristotele statuisce che   * da quanti luoghi si traggano confutazioni di quelli che son confutati, non bisogna  « provarsi a determinarlo senza la cognizione delle cose tutte. Ora, ciò non è di   * nessun'arte ; stantechè le scienze sieno infinite forse, sicché è chiaro che anche  " le dimostrazioni son tali „.   " E di confutazioni ve n'ha anche di vere; stantechè quante cose v'ha luogo  " a dimostrare, tante v'ha luogo a confutare a chi asserisca il contraddittorio del  " vero ; p. es., se uno ha asserito commensurabile il diametro, altri lo confuterebbe col   * dimostrare eh' è incommensurabile. Sicché bisognerà essere scienti d'ogni cosa, ecc. „.   " Però (paragrafo 2) , anche le confutazioni false saranno del pari infinite ; chè   * v'ha secondo ciascuna arte il sillogismo falso; p. es., secondo geometria il geo-  8 metrico, secondo medicina il medico ; e dico secondo ciascun'arte quello secondo*  " i principi di essa ,. E ne' seguenti paragrafi, su questi stessi principi stabiliti, si  fanno consimili considerazioni.   Capitolo X. — In questo Capitolo si pone in discussione e si risolve la seguente  importante quistione intorno a ragionamenti relativi al vocabolo e al pensiero : " Non   * v' ha ; dic'egli, tra i ragionamenti la differenza che taluni dicono ; alcuni ragiona-   * menti riferirsi al vocabolo, altri al pensiero ; chè è assurdo il pensare, che altri  " sono i ragionamenti che si riferiscono al vocabolo, e altri quelli al pensiero, e   * non già i medesimi „.   " Poiché (paragrafo 2) , che è egli mai il non riferirsi al pensiero se non quando   * uno non usi del vocabolo nel senso cui l'interrogato ha consentito, credendo che   * fosse quello che avesse nella interrogazione? Ora, questo stesso è riferirsi al voca-   * bolo. E riferirsi al pensiero è, quando l'altro pensi quello cui egli ha consentito, ecc. „.   E ne' paragrafi immediatamente seguenti viene confermando ciò con ulteriori non  meno acute illustrazioni ed applicazioni, delle quali voglio rilevare l'applicazione che  ne fa alle Matematiche, che attirano in modo speciale la nostra attenzione per la  trattazione della così detta Logica matematica. " I ragionamenti nelle matematiche,   * dice infatti Aristotele al paragrafo 7, si riferiscono al pensiero o no ? E se ad uno   D'Ercole. c     130   PASQUALE D'ERCOLE g „   I t " ang03 ° SÌgDÌfichÌ PÌÙ C0S6 ' 6 non ha che esso sia la figura flì   della quale s'è concluso, che son due retti rnWn , ■ ! tì g ura 0)>   " al pensiero di questo o no? ' '«Wonamento s'è egli diretto   =' a ™a (Paragrafo 2) ,1 comune a piii cose secondo ciascuna è dialettico- eh   «ut 71 m aPPa T a ' è ^ - D °" d6 " » ritornare suìl' TZ a h   W * ^conducono , so/fe « stessi, ehe . preflggm(Iosi vinler a „ S ni   ■nodo, sappiano a tatto „ come appunto • fauno gli eristici 8  SousUcTche "f T" Ò SOt ' ile, Se,Tat °' ""-*»■*' » mesta m at"eria degli Elenchi  ci : lc n T' ° ^ *S C, ' eata SÌCC ° m8 ** * "' Ksta ^ r te 8 log I   ' ehe alcuno di! f!l , P m08trare (dic ' e S li . iafatti, al paragrafo 1)   cacca adatta a co ; che quelli che parlano a caso, errano di più ' e parlano a  caso, quando non si siano proposto nulla P P &   • e il" TJIZTJ''J!T S ^° " a "' abbatteraÌ 1 " na Wsita ° a » paradosso  ' dir r„Zo s are ' er v 7 T°" Pr ° P0SM0M 0gge "° ^ mt.rroga.iene, ma   • d'attacco ! ' S ° ,mParare ; daF P° Ì<!hè ^ acquisizione dà „,„do   di £ r:i n ~:ir che A " istotek abbk ~— « -**   • lnog„ A Lelirr t (COntÌ , n ° a ArÌ8t ° tele " Paragraf ° 4 » Cle "no dica falso, è proprio  luogo quello aojsfco, ,1 menare a tali cose, che s'abbia contro osse copia di aL  m „ta z ,o„, ; e ,„esto vi sarà modo di farlo bene e non bene, seconTs l So     ed ™2 Z deÌTuak 8 ; £S* '"T ** *" relali ™ alla   ' luto f, i " '' lJeVa " lat ° Paradossastico come segue - ■ Il   (1) La qual S gu ,a, se lo noti i, lettore, rappresenterebbe qui Trento del vocabolo.     81     LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECC.     131     * essere cosa bella secondo legge, ma secondo natura non bella. Sicché bisogna chi   * parla secondo natura, affrontarlo secondo legge ; e chi secondo legge, menarlo alla  a natura; giacche vi sia luogo a dir paradossi ne' due modi „.   Capitolo XIII. — In questo Capitolo si tratta di un argomento che par futile,  cioè quello del cianciare; eppur questo dà luogo a una acuta e teorica disamina della  sofìstica da parte di Aristotele.   Prima di allegare le parole del grande filosofo, allego una osservazione inter-  pretativa che fa il Bonghi in proposito, e che è questa : Col cianciare, cioè, dice  quest'ultimo, " si passa al quarto fine del sofista, che è il forzare l'avversario a dir  " più volte la stessa cosa, che torna al cianciare o infilzar parole senza senso. Il   ■ presupposto di tali sofismi è che il vocabolo è tutt'uno colla sua definizione e quello  " non differisce in nulla da questa, sicché si può in una proposizione surrogare l'uno   * all'altra. P. es. doppio si definisce doppio di metà : ora, se la definizione può essere  8 surrogata al definito, noi possiamo definirlo : doppio di metà di metà ; e da capo  41 doppio di metà di metà e così in infinito „.   Ciò posto, ecco ciocche dice Aristotele (al paragrafo 2) intorno al discorrere  per puro cianciare : * Tutti i siffatti discorsi vogliono far questo ; se non differisce  " per nulla il dire il vocabolo o la definizione, doppio e doppio di metà è tutt'uno;   se adunque è doppio di metà, sarà doppio di metà di metà ; e di novo, se in luogo  " di doppio, si ponga doppio di metà si sarà detto tre volte : doppio di metà di metà  " di metà(l). Ed evvi egli il desiderio del piacevole? Ora, questo è appetito del   * piacevole; dunque, desiderio è appetito del piacevole del piacevole, ecc. „.   Capitolo XIV. — L'argomento di questo Capitolo è il Solecismo e la sofistica-  zione in cui può incorrersi con esso.   Aristotele (al paragrafo 2) parla e ragiona in questo modo : 8 Questo (cioè il  Solecismo) v'è luogo a farlo e a parere senza farlo, e a non parere facendolo;  " siccome diceva Protagora, se ò fiijvig e ò s**Pff sono un mascolino ; giacché chi  " dice oi)Aofiévt]v solecizza secondo lui, ma agli altri non pare ; chi ovÀó/ievov pare   ■ bensì, ma non solecizza „ (Si noti che firjvig e JvfjÀrji son propriamente femminili).   " Sicché è chiaro (paragrafo 3) che uno potrebbe ad arte far questo ; per il che  molti ragionamenti pur non sillogizzando un solecismo paiono di sillogizzarlo, sic-   * come nelle confutazioni „.   * I solecismi apparenti (paragrafo 4) hanno occasione pressoché tutti dal vóde,   * e quando la desinenza non manifesta né maschio nè femmina, ma il di mezzo. Difatti  ofirog significa maschio ed a%%r\ femmina ; ma tomo vuole bensì significare il di   " mezzo, pure spesso significa anche l'uno o l'altro di quelli : p. es. , che è %ov%o ?  Calliope, legno, Corisco. D'altronde, del maschile e del femminile le desinenze de' casi     (1) Qui mi par di vedere Aristotele (senza menomare la fina osservazione e interpretazione del  nostro Bonghi) riferirsi al famoso dialettico Zenone eleate, del quale uno degli argomenti famosi,  quello cioè del non potersi andare da un punto all'altro dello spazio, era pensato e condotto  appunto in tal guisa: cioè, di non potersi percorrere l'intero spazio senza giungere alla metà di  questo, non potersi giungere a questa metà senza percorrere la metà di questa metà, e così non  potersi giungere a questa seconda senza percorrere la metà della metà della metà, ecc. in infinito,  il che era impossibile a fare in un tempo finito.     132     PASQUALE D'EtiCOLE     32     " differiscono tutte, ma del genere di mezzo quali sì, quali no. Ed ecco che spesso,  " essendosi lor concesso %ov%o, sillogizzano, come se fosse stato detto %ov%ov ; e del  " pari una desinenza in luogo d'un' altra. E il paralogismo si genera perchè il tóóe  * è comune a più desinenze ; giacche tomo significa quando ovzog quando zovxov.  8 Però deve significare quando l'uno e quando l'altro ; con è oixog, con essere iqviqv,  8 per es., è KoQioxog, essere Koqioxov. E nei vocaboli femminili del pari ; e in quelli,  " che son bensì d'utensili, ma però hanno appellazione femminile o maschile. Dap-  8 poiché tutti quelli che terminano in o e in v, hanno soli l'appellazione da utensili,  8 come ^vkov, o%oiviov ; ma quelli che non così, l'hanno maschile o femminile, di  8 cui applichiamo alcuni agli utensili ; p. es. daxòg è vocabolo maschile, xÀhrj fem-  " minile. Per il che anche rispetto a questi differirà del pari l'è e l'essere „.   " E in un certo modo (paragrafo 5) il solecismo è simile alle confutazioni tratte  8 dal prendere per simili cose non simili. Giacché come a queste accade di sole-  8 cizzare sulle cose, così a quello su' vocaboli ; chè uomo e bianco sono e cosa e  8 vocabolo „.   8 Sicché è manifesto (paragrafo 6) che da simili desinenze bisogna sforzarsi di  " sillogizzare il solecismo.   " Le specie, dunque, de' discorsi contenziosi e le parti delle specie e i modi son  8 quelli che si son detti „.   Con questi quattordici Capitoli finisce la parte teorica degli Elenchi Solistici, e  che, come si è detto, nei seguenti venti Capitoli si espone e fa l'applicazione dei  primi quattordici. Io ometto di esporre anche questa parte applicativa, ritenendo suffi-  ciente pel mio scopo la conoscenza della teoria.   Passo perciò al secondo punto del triplice cenno che io voleva fare degli Elenchi  predetti, cioè alla indicazione latina de' paralogismi o sofismi, secondo la indicazione  di Boezio. Questi infatti (vedi Bonghi, nota 129 alle Confutazioni Sofistiche, pag. 529)  indica le tredici denominazioni sofistiche di Aristotele così : 1° Aequivocatio ; 2° amphi-  bolia; 3° compositio; 4° divisto; 5° accentus; 6° figura dictionis; 7° propter accidens;  8° propter id quod simpliciter vel non simpliciter ; 9° propter redargutionis ignorantiam ;  10° propter consequens ; 11° propter id quod est in principio sumere ; 12° propter id  quod non est causa ut causam ponere, ovvero, propter non causam ut causam; 13° propter  phires interrogationes unam facere.   In questa stessa nota 129 il Bonghi ha un notevole accenno ad Alberto Magno,  che pure scrisse degli Elenchi Sofistici. E altri accenni non meno notevoli ha nella  nota 160 per Alfarabi ; nella nota 161 per S. Tommaso ; e nella nota 163 per Duns  Scotus, il cui tractatus logicae è l'ultimo nella Scolastica, e che è intitolato De sillo-  gismo sophistico sive fallaciis.   Ed ora pongo termine alla mia esposizione coll'allegamento dello stupendo e  comprensivo luogo dell'TJEBERWEG (Syst. d. Logik u. Gesch. d. Logischen Lehren, citato,  pag. 370), che suona come segue:   " Aristotele nel suo scritto tisqì xtbv ao(pia%iKù>v èXèy%(àv si è fatto guidare  8 nelle diverse parti del medesimo dallo speciale riguardo ai sofismi molto disputati  " al suo tempo. Egli definisce (Top. Vili, 11) il oócpiofia come avÀÀoyia/iòg EQiatixóg,  " e divide i Sofismi in due Classi principali : naqà tìjv As^iv e è'^co vrjg Àé^ecog.   " Alla Prima Classe principale novera (De Soph. Elench., c. 4) come appartenenti     33     LA LOGICA ARISTOTELICA, LA LOGICA KANTIANA ED HEGELIANA, ECC.     133     " sei specie: ófihìvvfila (aequi vocatio), àfMpifioXia (ambiguitas) , ovv&soig (fallacia a  8 sensu diviso ad sensum compositum), diaigeoig (fallacia a sensu composito ad sensum  " divisum), jiQoacpòia (accentus), a%f[na vf/g Aé^sojg (figura dictionis) : de' quali Sofismi  " però il terzo ed il quarto (la confusione del senso distributivo e del collettivo,  " ovvero la confusione di ciocche vale in modo speciale di tutti i singoli od in ogni  " singolo rapporto, e di ciocche vale della generalità come tale), in quanto appar-  " tenenti alle fallaciis secundum dictionem, si lasciano aggruppare (subsumere) sotto  " il concetto dell'anfibolia nel senso indicato di sopra. (Per ayfifiaza zfjg Aé^scog  " Aristotele intende qui le forme grammaticali de' nomi e de' verbi, e, secondo  " Poet. c. 19, in modo speciale le proposizioni grammaticali fondate sui diversi rap-  8 porti di Predicato con Soggetto : proposizioni grammaticali, alla cui espressione  " servono in parte i Modi verbali, come Comando, Preghiera, Minaccia, Enunciazione,  " Domanda e Risposta).   " Alla Seconda Glasse principale, cioè ai Sofismi è'^oy xfjg Àé^eag, Aristotele novera  " come appartenenti le seguenti sette specie : naqà tò avfi^s^rjìióg (fallacia rationis  " ex accidente), tò ànX&g fj [lì] àicl&g (a dicto simpliciter ad dictum secundum quid),  " fj tov èXéy%ov àyvoia (ignoratio elenchi), naqà tò èuó/À,evov (fallacia rationis ex   * consequente ad antecedens), tò èv àQ%fj Aafifiàveiv, aheìa&ai (petitio principii),  " tò /li] ahiov Ti&épai (fallacia de non causa ut causa), tò tó tiàeiù) èqo)%fji4,ma ev  " noielv (fallacia plurium interrogationum).   Se non che questi errori sono in parte errori di dimostrazione (Beweisfehler ;  " ved. appresso paragr. 137). Degli errori indicati adduce Aristotele stesso esempi  " nel suo scritto tieqì %<òv ao<pianxò)v èXéy%(av ; si può paragonare con esso il Dialogo  " di Platone (o di un platonico) Eutidemo. Antiche e moderne esemplificazioni, però   * in gran parte già fatte, dà il Fries {System der Logik, paragr. 109). Una diffusa ed   * esatta disamina di Sofismi si trova in Mill, Log. trad. da Schiel, 2 (e 3) Ediz.,  " pag. 398-432. Rispetto al carattere nebuloso e confuso di parecchie moderne spe-   * culazioni, e rispetto ad innumerevoli sofismi, per mezzo de' quali, dato l'insolvibile  " compito di derivare il pieno dal vuoto, si è creduto di ottenere l'apparenza di una   * soluzione, ha detto il Trendelenbtjrg (Eri. su den Ehm. der Arisi. Log., 1842, p. 69)  " con ragione : * Sarebbe tempo di tradurre secondo il tempo moderno (iris Moderne)  " lo scritto aristotelico degli Elenchi Sofistici „. Questo compito è stato risolto sol-  " tanto in modo unilaterale mediante Y Antibarbarus logicus von Cajus, 1851 ; 2 a Ediz.,  " 1° fase, 1853, comunque il suo autore nel campo del pensiero filosofico sappia  " esercitare con destrezza di Polizia certe funzioni (polizeiliche) di vigilanza s .   Chiudo la mia considerazione ed esposizione della Logica aristotelica, e concludo  dicendo che questi punti fondamentali del pensiero logico aristotelico e la corrispon-  dente legislazione del medesimo sono addirittura una immortale creazione, che non  i soli 24 secoli passati han già confermata e glorificata, ma che continueranno a  confermare e glorificare anche i secoli venturi. Una più specificata illustrazione e  determinazione di tal giudizio verrà data in seguito.   Ed ora vengo alla Logica kantiana.Grice: “How can people speak of ‘mathematical logic’ when Russell says that mathematics rests on logic?!” – logica aritmetica, aritmetica logica – His exposition of ‘logica aristotelica’ is impressive, and overlaps with Grice/Strawson’s seminars on Categoriae and De Interpretatione. His editorial work on Ceretti is excellent. He has written on some other Italian philosophers, too. Pasquale D’Ercole. Ercole. Keywords: difesa della metafisica, panlogica, esologia, essologia, sinautologia.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Ercole” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51690276800/in/photolist-2mKGbqY-2mKBEmt-2mKBBHH-2mJ4GHU-28JguMC-GuJA5G-GUC8Z8-Guv9WS-FZ7Kws-GUCp7T-Guvagu-FZd4Ka-GRC81o-GNEbxc-GuviMY-FZd4Zi-GNEika-Guv9zu-GUCpfZ-GuviZb-GUCps2-GRC7Zw-FZd4Hg-FZd4wp-FZ7KKJ-GNEior-GRBWqA-FZ7ykj-GNE2Lp-GNEiw2-FZ7L1J-FZddTR-FZ7KbC-FZddSD-FZ7KmC-FZd4An-GLjTPy-GLk2q5-GUCoZt-GNE2hD-FZ7Kbh-Dw1w1R-DndBhH-Cntjci-FZddBP-GLjUhY-GNEbSF-Guv1bq-GRC1UW-GUCpnc

 

Grice ed Esposito – il Sistema dell’in/differenza – filosofia italiana – Luigi Speranza (Piano di Sorrento). Filosofo. Grice: “I like Esposito; of course, his ‘origine della filosofia italiana’ owes a bit to the historians of Roman literature and that infamous embassy of the very best of Grecianism: Carneade, Critolao, and Diogene!” 599 ab urbe condita!”. Parte dalla constatazione dell'esaurirsi del tradizionale lessico della politica e dalla consapevolezza della necessità di una sua diversa formulazione. Su questo presupposto, si incentra sulla ripresa e sulla rielaborazione di questa tradizione all'interno di nuove esigenze, a partire da una re-interpretazione delle categorie classiche della filosofia. A tal fine nelle sue opere lascia interagire saperi e linguaggi differenti, dalla filosofia alla letteratura, all'arte, alla poesia, all'antropologia, alla teologia.  Dopo i primi studi su Vico e Machiavelli, il suo lavoro si è concentrato intorno a quattro nuclei tematici. L'impolitico viene inteso come rovescio impensato dalla politica. Le riflessioni su questo tema sono confluite in “Categorie dell'impolitico” (il Mulino, Bologna), Nove pensieri sulla politica (Bologna, il Mulino), “L'origine della politica” (Roma, Donzelli).  La filosofia della comunità e biopolitica sono confluite in una trilogia. “Communitas: origine e destino della comunita” (Einaudi, Torino)” è un tentativo concettuale di ridefinire il concetto di comunità, al di fuori di ogni riferimento ai comunitarismi passati e presenti, privilegiando piuttosto gli filosofi da Rousseau a Kant, da Heidegger a Bataillein cui prevale una concezione della comunità in quanto legge comune dell' “essere insieme”, ma anche la coscienza tragica di ciò che contiene di irrealizzabile da un punto di vista politico. “Immunitas: protezione e negazione della vita” (Einaudi, Torino) è una lettura biopolitica dei conflitti in seno al corpo sociale. “Immunitas” persegue il lavoro di scavo teorico cominciato in Communitas e pone la categoria dell'immunità al centro di questa riflessione sulle contraddittorie strategie di difesa della società rispetto ai rischi, reali e immaginari, che la insidiano. In questo senso l’immunizzazione è allo stesso tempo una protezione e una negazione della vita che rischia sempre di diventare una sorta di malattia immune del corpo sociale. “Bios: biopolitica e filosofia” (Einaudi, Torino) è una rilettura, a partire di Foucault, della storia del pensiero biopolitico alla luce del concetto d'immunità. Essendo l'immunitas una protezione negativa della vita, la biopolitica che ne incorpora le procedure è sempre a rischio di trasformarsi in tanato-politica. Ciò non toglie che possa profilarsi una, sia pur problematica, nozione affermativa di bio-politica.  Al concetto di persona e di impersonale ha dedicato “Terza persona: politica della vita e filosofia dell’impersonale” (Einaudi, Torino) e “Due. La macchina della teologia politica e il posto del pensiero” (Einaudi, Torino) e “Le persone e le cose” (Einaudi, Torino). A partire da una critica del concetto, giuridico romano di persona, inteso come un dispositivo che separa la vita umana da se stessa, l’impersonale è inteso come la forma di una possibile ri-unificazione tra corpi. e persona.  Nel dittico costituito da “Pensiero vivente. Origine a attualità della filosofia italiana” (Einaudi, Torino) e “Da fuori. Una filosofia per l'Europa” (Einaudi, Torino) ha ricostruito i caratteri prevalenti della tradizione filosofica italiana, a partire da Machiavelli, Bruno e Vico, fino a quella che viene definita Italian Theory. Essi riguardano la connessione tra le categorie di storia, politica e vita. Altre opere: La politica e la storia. Machiavelli e Vico (Liguori, Napoli); Termini della politica. Comunità, immunità, biopolitica (Mimesis, Milano); “Politica e negazione: per una filosofia affermativa” (Einaudi, Torino); “La filosofia italiana come problema: da  Spaventa all’Italian Theory, "Giornale Critico di Storia delle Idee"; “Protezione e negazione della vita (Einaudi, Turin), più largamente, documenti di tutti gli interventi ripresi, con le risposte dell'autore).Politiche della vita sul margine pericoloso dell'impersonale, di Ciccarelli per il «Centro per la Riforma dello Stato». Treccani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. The category of applicational generality relates to Esposito’s concept of the im-PERSONAL. La terza persona is not a person like “I” and “thou”.  Grice uses ‘person’ generally, “Someone (i. e. I) is hearing a noise). “Someone” is (Ex) with the addition of ‘person’. A sock is not a someone; a rose bush is not a someone – a dog is not for Grice a someone. But then ‘someone’ is a solecism.  Esposito considers the communication and community alla Tonnies. Grice knows the connection community and communication, when he criticizes Stevenson for trying to define the Anglo-Saxon ‘meaning,’ circularly, in terms of ‘communication. – The problem of the third person is fascinating. Obviously a grammarian’s mistake – a grammarian usually not knowing anything about philosophy, used philosophical concepts – such as person – first person for “I” is ok, second person for “Thou” is okay – when it comes to verbs, and pronouns, “The chair is comfy” (La sedia e comoda.) – there is nothing personal about a chair being personal. It is not true that someone is comfortable (jemand). – there’s nothing personal about this. Since Homer, prosôpon [πϱόσωπоν], etymologically “what is opposite the gaze,” has designated the human “face” in particular, and then, metaphorically, the “façade” of a building, and synechdochically, the whole “person” bearing the face. Another remarkable semantic extension is that of the theatrical “mask” (Aristotle, Poetics 1449a36), leading in turn to the meaning “character in a drama” (Alexandrian stage directions for dramatic works regularly included the list of the prosôpa tou dramatos [πϱόσωπα τоῦ δϱάματоς]), and then to a narrative. Its Latin equivalent, persona, refers in its turn to the mask that makes the voice resonate (personare), before it designates a character, a personality, and a grammatical person (Varro). The meaning of the compound prosôpopoiein [πϱоσωπо-πоιεῖν]—“to compose in direct discourse,” that is, to make the characters speak themselves—clearly shows that the dramatic meaning of prosôpon had a particularly great influence on the history of the word. In any event, it seems quite likely that when grammarians adopted prosôpon to designate the grammatical “person,” they were thinking of the dialogue situation characteristic of the theatrical text, which makes use of the alternation “I-you”: the face-to-face encounter between person(age)s is rooted in the category of the “person” (see SUBJECT, Box 6). Whereas terms like “tense” (chronos [χϱόνоς]) and “case” (ptôsis [πτῶσις]) are attested before they appear in strictly grammatical texts, this is not the case for prosôpon used to refer to the “person” as a linguistic category. On the other hand, in the earliest grammatical texts, and in a way that remains perfectly stable later on, prosôpon is adopted to describe both the protagonists of the dialogue and the marks, both pronomial and verbal, of their inscription in the linguistic material. In fact, the main difficulty encountered by grammarians regarding the notion of prosôpon seems to have been how properly to articulate reference to real persons occupying differentiated positions in linguistic exchange (speaker, addressee, other) with reference to the person as a grammatical mark. This difficulty occurs notably in a quarrel about definition. In the Technê attributed to Dionysius Thrax (Grammatici Graeci 1.1 [chap. 13, p. 51.3 Uhlig = 57.18 Lallot]), the verbal accident of prosôpon is defined as follows: Prosôpa tria, prôton, deuteron, triton; prôton men aph’ hou ho logos, deuteron de pros hon ho logos, triton de peri hou ho logos [Пϱόσωπα τϱία, πϱῶτоν, δεύτεϱоν, τϱίτоν· πϱῶτоν μὲν ἀφ’ оὗ ὁ λόγоς, δεύτεϱоν δὲ πϱὸς ὃν ὁ λόγоς, τϱίτоν δὲ πεϱὶ оὗ ὁ λόγоς]. There are three persons: first, second, third. The first is the one from whom the utterance comes, the second, the one to whom it is addressed, the third, the one about whom he is speaking. This minimal definition clearly sets forth the two protagonists of the dialogue, distinguishing them by their position in the exchange, and introduces without special precaution a third position, characterized as constituting the subject matter of the utterance. The parallelism of the three definitions—a simple pronoun for each “person”—masks the lack of symmetry between the (real) first and second persons and the third person; the latter, as Benveniste pointed out (Problèmes de linguistique générale, 228), may very well not be a “person” in the strictest sense. This definition, which remained canonical for several centuries, was attacked by Apollonius Dyscolus, who completed it as follows (I adopt the formulation in Choeroboscos [Grammatici Graeci 4.2 (p. 10.27 Uhlig)], a Byzantine witness to the Alexandrian master): Prôton men aph’ hou ho logos peri emou tou prosphônountos, deuteron de pros hon ho logos peri autou tou prosphônoumenou, triton de peri hou ho logos mête prosphônountos mête prosphônoumenou [πϱῶτоν μὲν ἀφ’ оὗ ὁ λόγоς πεϱὶ ἐμоῦ τоῦ πϱоσφωνоῦντоς, δεύτεϱоν δὲ πϱὸς ὃν ὁ λόγоς πεϱὶ αὐτоῦ τоῦ πϱоσφωνоυμένоυ, τϱίτоν δὲ πεϱὶ оὗ ὁ λόγоς μήτε πϱοσφωνοῦντος μήτε πϱоσφωνоυμένоυ].) The first person is the one from whom the utterance comes meaning me, the speaker, the second, the one who to whom the utterance is addressed meaning the addressee himself, the third the one about whom the utterance speaks and who is neither the speaker nor the addressee. Apollonius’s arrangement contributes useful explanations: (a) each “person,” including the first two, can be the subject of the utterance; (b) the third is defined negatively as being neither the first nor the second (which implicitly opens up the possibility that it is a “person” only in an extended sense, insofar as it does not need to be competent as an interlocutor); (c) the overlap of enunciation and enunciated is explicit: there is a first person when the utterance refers to the enunciator-source, a second person when it refers to the addressee, and a third when it refers to someone or something else. Despite the incontestable advance represented by Apollonius’s revision, it nonetheless leaves an ambiguity regarding the designatum of prosôpon: are we talking about extralinguistic entities, “persons” engaging in dialogue or not, or are we talking about linguistic entities, “accidents” of the conjugated verb and the pronomial paradigm (personal pronouns)? Apparently the former, which is surprising coming from a grammarian who prides himself on correcting another grammarian. In fact, there is hardly any doubt that in Apollonius, the ambiguity I mentioned is still attached to the term prosôpon. Consider the following text, taken from Apollonius’s Syntax 3.59 (Grammatici Graeci 2.2 [p. 325.5–7 Uhlig]): Ta gar meteilêphota prosôpa tou pragmatos eis prosôpa anemeristhê, peripatô, peripateis, peripatei [τά γὰϱ μετειληφότα πϱόσωπα τоῦ πϱάγματоς εἰς πϱόσωπα ἀνεμεϱίσθη, πεϱιπατῶ, πεϱιπατεῖς, πεϱιπατεῖ]. The persons who take part in the act [of walking] are distributed into persons: I walk, you walk, he/she walks. We can interpret this to mean that in a group of persons—extralinguistic entities— who are walking, every utterance concerning the walk will elicit the appearance of verb endings distributing the walkers among the three grammatical persons: such is the alchemy of Apollonius’s prosôpon. Jean Lallot BIBLIOGRAPHY Benveniste, Émile. “Structure des relations de personne dans le verbe.” Chap. 18 in Problèmes de linguistique générale, 225–36. Paris: Gallimard, 1966. Translation by M. A. Meek: Problems in General Linguistics. Coral Gables, FL: University of Miami Press, 1971. Grammatici Graeci. Edited by A. Hilgard, R. Schneider, G. Uhlig, and A. Lentz. Leipzig: Teubner, 1878–1902. Reprint, Hildesheim, Ger.: Olms, 1965. Lallot, Jean. La grammaire de Denys le Thrace. Paris: Le Centre National de la Recherche Scientifique.  Wikipedia Ricerca Liberté, Égalité, Fraternité motto della Francia Lingua Segui Modifica Ulteriori informazioni Questa voce o sezione sull'argomento società non cita le fonti necessarie o quelle presenti sono insufficienti. Liberté, Égalité, Fraternité (in italiano Libertà, Uguaglianza, Fratellanza) è un celebre motto risalente al Settecento e associato in particolare all'epoca della Rivoluzione francese, divenuto poi il motto nazionaledella Repubblica Francese.   Testo esposto su un cartello che annunciava la vendita dei biens nationaux, ovvero di quei possedimenti e domini della Chiesa (edifici, oggetti, terreni e foreste) che furono confiscati dopo la Rivoluzione francese (1793). All'epoca, il motto fu talvolta mutato in Libertà, Egualità, Fraternità, o Morte: ma quest'ultima parte fu poi abbandonata perché troppo fortemente associata con il regime del Terrore LibertàModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Libertà. La prima parola del motto repubblicano francese è "Liberté", che fu all'inizio concepita secondo l'idea liberale. La Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino (1789) la definiva così: «La libertà consiste nel potere di fare ciò che non nuoce ai diritti altrui». «Vivere liberi o morire» fu un grande motto repubblicano, adottato nello stemma originale del Club dei Giacobini. Sotto il governo giacobino-montagnardodel Comitato di salute pubblica, di cui Maximilien de Robespierre fu il leader più importante (cosiddetto regime del Terrore), divenne famoso il motto: «Nessuna libertà per i nemici di essa».  UguaglianzaModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Uguaglianza sociale.  Timpano di una chiesa con un'iscrizione risalente al 1905, anno della legge sulla separazione tra Chiesa e Stato Secondo termine del motto repubblicano, la parola "Égalité", significa che la legge è uguale per tutti e le differenze per nascita o condizione sociale vengono abolite (egualitarismo); ognuno ha il dovere di contribuire alle spese dello Stato in proporzione a quanto possiede. Il principio teoricamente era già presente nel concetto di Stato di diritto, ma con la Rivoluzione Francese venne praticamente messo in atto.  FratellanzaModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Fraternità. Nella Dichiarazione dei diritti e doveri del cittadino, parte integrante e iniziale della Costituzione dell'anno III (1795), la parola "Fraternité", terzo elemento del motto repubblicano, è definita così: "Non fate agli altri ciò che non vorreste fosse fatto a voi" (cosiddetta etica della reciprocità)  Origini e usoModifica I primi contenuti riferibili al motto Liberté, Égalité, Fraternité sono presenti nel saggio pubblicato nel 1774 a Londra da Jean-Paul Marat, Work wherein the clandestine and villainous attempts of princes to ruin liberty are pointed out ("Opera in cui s'illustrano i sotterranei e scellerati tentativi dei prìncipi di cancellare la libertà"), che egli pubblicherà poi in francese col titolo più noto Les chaînes de l'esclavage("Le catene della schiavitù"), dove si anticipavano i temi dell'azione politica: una violenta presa di posizione contro il dispotismo a favore della sovranità popolare e dell'uguaglianza. Successivamente, nel libro La Costituzione, o Progetto di Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo e del Cittadino del 1789 vengono ripresi e perfezionati gli ideali di Libertà, Uguaglianza e Fratellanza che verranno progressivamente adottati a motto e simbolo. La prima formulazione del motto è attribuita a Camille Desmoulins (l'inventore anche della coccarda tricolore francese) per la Festa del 14 luglio 1790, anniversario della presa della Bastiglia.[1]  Sebbene Liberté, Égalité, Fraternité sia un motto nato dalla Rivoluzione francese e usato nella Prima repubblica, occorre attendere la IIIe République (Terza Repubblica) perché venga adottato come simbolo ufficiale: prima di allora il motto subisce una battuta d'arresto, insieme ai principi fondanti della Repubblica. L'Impero e la Restaurazione trascurarono la valorizzazione legislativa del motto, che ritorna alla pubblica ribalta solo nel 1848 grazie alla penna di Pierre Leroux, all'epoca rappresentante del popolo in seno alla Assemblée Nationale (Assemblea Nazionale). Egli partecipa attivamente al percorso di riconoscimento del motto come principio costituente della Seconda Repubblica.  Nell'ambito di una repubblica a cui sovente si pospone l'aggettivo "operaia", il motto acquista significati più ampi: l'adozione del suffragio universale estende a tutti la Liberté di scelta politica. La Commission du Luxembourg (Commissione del Luxembourg), nel promuovere le Associazioni Operaie (antenate delle cooperative di produzione), estende l'Égalité ai domini specifici dell'economia e della società. Infine, per mezzo di uno Stato che assegna la sovranità al popolo, la Fraternité esprime il senso della solidarietà e modera i potenziali ardori estremisti delle altre due sorelle. Mentre in passato si tendeva a privilegiare l'Égalité o la Liberté, questa fase storica vede la Francia percorrere la strada della democrazia con un maggiore equilibrio.  Tuttavia, ancora una volta, la Repubblica si divide: la repressione popolare del giugno 1848 e il ritorno dell'Empire rimettono in vigore la filosofia e la portata sociale del triplice motto. È necessario che trascorrano ancora dei decenni per arrivare a vedere, nel 1880, la celebre massima incisa sui frontoni di tutti gli edifici pubblici. Poi, le Costituzioni del 1946 e 1958riconoscono autorevolmente il valore che il triplice motto ha per la storia del Paese d'oltralpe.  Liberté, Égalité, Fraternité rappresentano un valore così grande da travalicare i confini della Francia, sono simboli che hanno portata e rilevanza universali. Questo motto, nato dalla fucina d'idee della rivoluzione francese, è un caposaldo irrinunciabile della moderna cultura dell'Occidente.  Alcune repubbliche sorelle della Francia rivoluzionaria come la Repubblica Cisalpina napoleonica e la Repubblica Napoletana adottarono un motto simile ("Libertà Eguaglianza" e "Libertà e Uguaglianza").  Note                      Modifica ^ Yannick Bosc, «Sur le principe de fraternité», 19 janvier 2010. Voci correlateModifica Emblemi della Francia Motti nazionali Altri progetti                                                Modifica Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Liberté, Égalité, Fraternité Collegamenti esterniModifica liberte, egalite, fraternite, su Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su Wikidata ( EN ) Liberté, Égalité, Fraternité, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su Wikidata (IT)  Il motto della Repubblica francese - Il sito ufficiale della Francia ( FR ) Liberté, Égalité, Fraternité, su Les symboles de la République française, Présidence de la République - Élysée.fr. URL consultato il 9 giugno 2010 (archiviato dall' url originale  il 4 aprile 2010).   Portale Francia   Portale Rivoluzione francese Ultima modifica 4 giorni fa di Vituzzu PAGINE CORRELATE Emblemi della Francia Révolution nationale Stemma di Haiti Wikipedia Il contenutoWikipedia Ricerca Uguaglianza sociale ordinamento per cui tutte le persone di una società godono degli stessi diritti e doveri Lingua Segui Modifica Ulteriori informazioni Questa voce sugli argomenti diritti umani e sociologia è solo un abbozzo. Contribuisci a migliorarla secondo le convenzioni di Wikipedia. Segui i suggerimenti del progetto di riferimento. Ulteriori informazioni Questa voce o sezione sugli argomenti diritto e sociologia è priva o carente di note e riferimenti bibliografici puntuali. L'uguaglianza sociale - che si applica ai diritti e ai doveri della persona, considerati in termini di giustizia- è un ideale che dà ad ognuno, indipendentemente dalla sua posizione sociale e dalla sua provenienza, la possibilità di essere considerato alla pari di tutti gli altri individui in ogni contesto. Si tratta di un ideale presente, almeno come tale, in tutti i paesi civilizzati, come rivendicazione di pari dignità individuale e sociale per tutti.   Luigi Taparelli d'Azeglio Mentre il concetto di giustizia sociale può essere ricondotto alla teologia di sant'Agostino e alla filosofia di Thomas Paine, il termine "giustizia sociale" iniziò ad essere esplicitamente utilizzato negli anni '80 del 1700. Al sacerdote gesuita Luigi Taparelli viene tipicamente riconosciuto l'aver coniato il termine, che si è poi diffuso durante i moti rivoluzionari del 1848attraverso le opere di Antonio Rosmini.[1][2]  StoriaModifica Studi antropologici su siti archeologici indicano l'esistenza di una sostanziale uguaglianza nelle società di cacciatori-raccoglitori mentre con l'avvento dell'agricoltura si rilevano gli inizi delle disuguaglianze[3].  Concetti di baseModifica L'uguaglianza sociale è una situazione per cui tutti gli individui all'interno di società o gruppi specifici isolati debbano avere lo stesso stato di rispettabilità sociale. Come minimo, l'uguaglianza sociale comprende la parità di diritti umani e individuali secondo la legge. Esempi sono la sicurezza, il diritto di voto, la libertà di parola e di riunione, e dei diritti di proprietà. Tuttavia, essa comprende anche l'accesso all'istruzione, l'assistenza sanitaria e altri basilari diritti sociali, ed inoltre pari opportunità e obblighi.  Genere sessuale, orientamento sessuale, età, origine, casta o classe, reddito e proprietà, lingua, religione, convinzioni, opinioni, salute o disabilità non devono tradursi in una disparità di trattamento. Un problema aperto è la disuguaglianza orizzontale, la disuguaglianza di due persone della stessa origine e capacità. Nel mondo contemporaneo, poi, "i confini dell’uguaglianza sociale si spostano in avanti: dopo le importanti conquiste dei diritti sociali, legate alle lotte di emancipazione dei lavoratori e alla costruzione dei moderni welfare state, si apre oggi un piano di azione per una emancipazione ulteriore, che ha caratteristiche più sottili e insieme più profonde: quelle della agibilità effettiva dei diritti sociali formalmente sanciti e del pieno dispiegamento delle capacità individuali ancora compresse o sotto-utilizzate per una larga parte della popolazione. In questi termini appare evidente la natura «universalistica» delle nuove politiche, come politiche per la promozione delle capacità e l’empowerment di tutti i cittadini. Il principio universalistico dunque è costitutivo dell’approccio di queste nuove politiche"[4].  In filosofiaModifica L'uguaglianza in termini aristotelici è l'analogia delle parti da attribuire a soggetti uguali rispetto a qualche caratteristica specifica (eguaglianza proporzionale) o la pura uguaglianza matematica. Ci sono diverse forme di uguaglianza relative alle persone e alle situazioni sociali. Per esempio, si può considerare la parità tra i sessi per quanto riguarda l'accesso al lavoro; le persone interessate sono di sesso opposto, la cui situazione sociale comune è l'accesso all'occupazione. Allo stesso modo, la parità di opportunità, in senso generale, implica l'idea che le persone dovrebbero essere nelle stesse condizioni di partenza nella vita, ovvero che tutti dovrebbero avere pari opportunità indipendentemente dalla loro nascita e successione.  Peraltro, una perfetta uguaglianza sociale è una situazione ideale che, per vari motivi, non ha riscontro in alcuna società odierna. Le ragioni di ciò sono ampiamente dibattute: circostanze concrete, addotte per il perpetrarsi della disuguaglianza sociale, sono comunemente ritenute l'economia, l'immigrazione/emigrazione, la politica estera e gli altri vincoli di cui soffre la politica nazionale.  Storia delle ideeModifica L'uguaglianza sociale è un obiettivo politico soprattutto dei partiti di ispirazione socialista in tutte le sue variegature storiche. Il concetto di uguaglianza anche in massoneria è estremamente importante, divenendone uno dei cardini unitamente alla tolleranzaed alla fratellanza[5]. Le battaglie in questa direzione hanno avuto un apice con l'abolizione dei privilegi della rivoluzione americana del 1791. La prima parla di Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino, versione francese del 1789, comincia così: Les hommes naissent et demeurent libres e lala7  en droits (Gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti). In antitesi vi è il concetto di gerarchiameritocratica tipico della destra, mentre un sincretismo può considerarsi il "comunitarismo". Un controesempio di uguaglianza sociale è stata ritenuta la disuguaglianza sociale dell'Europa medievale.  MedioevoModifica Il concetto di uguaglianza tra le persone si riscontra anche in epoca medievale. Si tratta di un concetto ereditato dall'epoca della cavalleria (che raggiunse il suo apice durante il XII secolo), dove grande importanza aveva l'ideale secondo cui la vera nobiltà sgorgava dal cuore delle persone, i quali quindi sarebbero stati al fondo tutti uguali.  «...tu vedrai noi d'una massa di carne tutti la carne avere, e da uno medesimo Creatore tutte l'anime con iguali forze, con iguali potenzie, con iguali virtù create. La virtù primieramente noi, che tutti nascemmo e nasciamo iguali, ne distinse;»  (Boccaccio, Decameron) Tra gli studiosi dell'epoca medievale c'è chi (si può citare Huizinga) rintraccia in quei documenti che testimoniano la diffusione di questo principio i presupposti per poter parlare dell'esistenza di un ideale egualitaristico già in epoca medievale.[6] Se così fosse, nonostante la grande diffusione nella letteratura di corte dell'epoca, andrebbe comunque sottolineato come questo primitivo concetto di uguaglianza si limiti tuttavia a una mera considerazione di natura morale, senza che sia minimamente avvertita la necessità, da parte di chi abbraccia tale ideale (nella fattispecie i membri della nobiltà), di attivarsi per operare attivamente sulla società per ridurre le disuguaglianze esistenti. Ciò si può anche spiegare in base al fatto che durante il Medioevo dominava nella cultura popolare e nobiliare una visione della società divisa in classi, regolate da rapporti gerarchici ben precisi secondo un ordine che non poteva essere messo in discussione, in quanto emanazione diretta della Divinità[7]. Rimanendo nell'ambito di questa interpretazione, l'unica nozione diffusa relativa all'uguaglianza tra le persone, al di fuori dei già nominati ideali nobiliari, è l'uguaglianza di tutti di fronte alla morte.  Nella Costituzione italianaModifica In Italia il principio è riconosciuto nell'art. 3 della Costituzione il quale afferma che:  «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali»  (eguaglianza in senso formale)  Quest'articolo esprime il principio di uguaglianza in base al quale non devono essere attuate discriminazioni di alcun genere tra i cittadini. Tale principio può apparire scontato ma ci sono state, anche in tempi recenti, situazioni in cui esso non era assolutamente riconosciuto.  Concludendo, poi, che:  «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana»  (eguaglianza in senso sostanziale)[8]  Note                                                   Modifica ^ Thomas Paine, Agrarian Justice, Printed by R. Folwell, for Benjamin Franklin Bache. ^ J. Zajda, S. Majhanovich, V. Rust, Education and Social Justice, 2006, ISBN 1-4020-4721-5 ^ Kohler,et al., Greather post-Neolithic wealth disparaties in Eurasia than in North America and Mesoamerica , Nature, 2017, 551, 619-622, in Chiara Volpato, Le radici psicologiche della disuguaglianza,Introduzione, 2019, ed.Laterza, Bari, ISBN 978-88-581-3415-3 ^ M. Paci e E. Pugliese (a cura di), Welfare e promozione delle capacità, Bologna, Il Mulino, 2011, pp. 25-26. ^ Domenico V. Ripa Montesano, Vademecum di Loggia, Roma, Edizione Gran Loggia Phoenix, 2009, ISBN 978-88-905059-0-4. ^ L'autunno del Medioevo,  p. 82. ^ L'autunno del Medioevo,  p. 77. ^ Tra i contributi alla stesura di questa parte della norma costituzionale si ricorda quello di Massimo Severo Giannini, offerto su richiesta del costituente Lelio Basso. Ritenendosi da parte socialista che fosse “un tradimento fermarci all'enunciazione dell'uguaglianza formale”, ma non essendo “pensabile una norma di garanzia dell'uguaglianza economica e sociale, che presupponeva un tipo di Stato allora e anche oggi inesistente”, Giannini propose due soluzioni alternative: la prima più spinta, che impegnava la Repubblica a offrire a tutti i cittadini “uguali posizioni economiche e sociali di partenza”; l'altra che corrispondeva al testo poi accolto. E senza una minima carica retorica noterà che “non avevamo intenzione di fare del nuovo, ma solo di affermare un principio di dinamica dell'azione dei pubblici poteri per una società più giusta” (Cesare Pinelli, Lavare la testa all'asino, in Mondoperaio, n. 11-12/2015, p. 36). BibliografiaModifica Carlo Crosato, L'uguale dignità degli uomini. Per una riconsiderazione del fondamento di una politica morale, ed. Cittadella, Assisi 2013. Huizinga, L'autunno del Medioevo, Roma, Newton Compton, 2011   [1919] , p. 82. John Rawls, Una teoria della giustizia, in Sebastiano Maffettone (a cura di), Universale economica, traduzione di Ugo Santini, 5ª ed., Milano, Feltrinelli, 2019   [1971] , ISBN 9788807888045. Jean-Jacques Rousseau, Il contratto sociale, in Universale economica, traduzione di Jole Bertolazzi, introduzione di Alberto Burgio, 12ª ed., Milano, Feltrinelli, 2019   [1762] , ISBN 9788807901027. Alberto Burgio, Eguaglianza, interesse, unanimità. La politica di Rousseau, Napoli, Bibliopolis, 1989, ISBN 9788870882094. Accademia nazionale dei Lincei, Disuguaglianze e classi sociali: la ricerca in Italia e nelle democrazie avanzate, in Atti dei convegni lincei, Roma, Bardi, 2020, ISBN 9788821812026. Voci correlateModifica Differenziazione sociale Disuguaglianza sociale Distribuzione della ricchezza#Disuguaglianza Egualitarismo Potere Stratificazione sociale Società (sociologia) Pari opportunità Femminismo Altri progettiModifica Collabora a Wikiquote Wikiquote contiene citazioni sull'uguaglianza Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file sull'uguaglianza Collegamenti esterniModifica Eguaglianza, su Enciclopedia Treccani, treccani.it. URL consultato il 27 maggio 2021. Controllo di autoritàThesaurus BNCF 21271 · GND ( DE ) 4021216-6   Portale Diritto   Portale Politica   Portale Sociologia Ultima modifica 3 mesi fa di 146.241.143.49 PAGINE CORRELATE Egualitarismo dottrina politico-sociale che propone la parità di diritti e opportunità degli individui  Una teoria della giustizia Uguaglianza di genere in Azerbaigian Wikipedia Il contenutoeguaglianza Condizione per cui ogni individuo o collettività deve essere considerato alla stregua di tutti gli altri, e cioè pari, soprattutto nei diritti civili, politici, sociali ed economici. L'eguaglianza di tutti davanti alla legge è, assieme alla libertà, un diritto fondamentale dell'uomo e una delle regole-base di una convivenza democratica. In Italia l'eguaglianza è garantita dall'articolo 3 della Costituzione. Le costituzioni democratiche assicurano inoltre l'eguaglianza dei cittadini attraverso la libera partecipazione alla vita politica e mirano a garantire pari opportunità nella vita sociale, cioè a offrire a tutti le stesse possibilità di crescita e di affermazione personale e professionale.  eguaglianza formale e politica  ADVERTISING Di eguaglianza si parla in molti sensi: innanzitutto come eguaglianza formale e politica. La prima consiste nel fatto che tutti i membri della società sono assolutamente eguali nei diritti e nei doveri senza distinzione di sesso, origine, razza, ricchezza, convinzioni religiose o politiche, e non devono subire discriminazioni. L'eguaglianza politica, invece, sta nel fatto che ogni cittadino ha uguale diritto di voto e può a sua volta essere eletto. Questi ideali di libertà e di eguaglianza si sono venuti affermando in Europa e negli Stati Uniti alla fine del Settecento, dopo una lunga lotta contro i regimi monarchici e assolutistici (e contro la Gran Bretagna per le colonie americane) che riconoscevano, tra l'altro, privilegi e differenze di status giuridico alle classi aristocratiche. Gli ideali di eguaglianza hanno trovato espressione nelle dichiarazioni dei diritti della storia inglese (a cominciare dalla Magna charta libertatum, 1215) e soprattutto nella Dichiarazione d'indipendenza americana (1776) e nella Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino approvata dall'Assemblea costituente francese nel 1789, in cui l'enunciazione di tali principi gettava le basi di un nuovo ordine politico.  APPROFONDIMENTO di Stefano De Luca  Entrata nella cultura occidentale con lo stoicismo e soprattutto con il cristianesimo (che considera tutti gli uomini dotati della stessa dignità, in quanto figli di un medesimo Padre), l'idea che gli uomini siano eguali tra loro ha giocato un ruolo decisivo nelle vicende sociali e politiche soltanto a partire dal Seicento. I principali pensatori politici del 17° e 18° sec. (da T. Hobbes a J. Locke, da J.-J. Rousseau a I. Kant) partono dall'ipotesi che gli uomini siano liberi ed eguali e di conseguenza pongono l'origine dello Stato in un accordo volontario (il patto o contratto) stipulato dagli individui stessi. Mentre per Platone e Aristotele esisteva una gerarchia 'naturale' (fondata sull'intelligenza e sul sapere) tra chi è adatto al comando e chi è adatto all'obbedienza - gerarchia che durante il Medioevo si irrigidì nel criterio ereditario, fondato sulla nascita - per i moderni pensatori contrattualisti gli uomini dispongono di eguali diritti e di conseguenza l'ordine sociale e politico è qualcosa di 'artificiale', che gli individui costruiscono tramite accordi.  Queste idee troveranno spettacolare applicazione nelle due grandi rivoluzioni moderne, quella americana e quella francese, i cui più famosi documenti si aprono con un solenne richiamo all'idea di eguaglianza. All'inizio della Dichiarazione d'indipendenza americana (1776) troviamo un elenco di 'verità' autoevidenti, la prima delle quali è "che tutti gli uomini sono creati uguali"; e nel primo articolo della Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino (1789) troviamo proclamato il principio secondo cui "gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti".  1. Diverse interpretazioni di una stessa idea  Il principio dell'eguaglianza si rivelò ben presto suscettibile di varie interpretazioni: esso poteva infatti essere invocato sul piano civile, come eguaglianza di fronte alla legge e nei diritti di libertà (garanzie giudiziarie, libertà di coscienza, libertà di iniziativa economica); oppure sul piano politico, come eguale partecipazione al potere tramite il diritto di voto; oppure, sul piano sociale, come eguaglianza nel possesso di risorse economiche. La richiesta dell'eguaglianza civile ha caratterizzato, tra 18° e 19° sec., i movimenti politici di ispirazione liberale, la cui principale preoccupazione era la tutela della libertà individuale da ogni forma di potere collettivo; l'eguaglianza politica - con la connessa richiesta del suffragio universale - è stata invece, nella seconda metà del 19° sec., la ragion d'essere dei movimenti democratici, i quali consideravano la partecipazione di tutti al potere politico (cioè l'autogoverno collettivo) la forma più alta di libertà; l'eguaglianza sociale, infine, è stata la bandiera dei movimenti socialisti, che hanno teorizzato - sino alla metà del 20° sec. - la scomparsa della proprietà privata e del libero mercato, nella convinzione che la vera libertà potesse scaturire soltanto dall'eguale possesso delle risorse economiche e non dal possesso di 'diritti astratti'.  Tra questi diversi tipi di eguaglianza, la differenza più grande è quella che separa l'eguaglianza formale da quella sostanziale. L'eguaglianza nei diritti civili e politici è un'eguaglianza formale, perché riguarda la sfera dei diritti e non quella dei beni; di conseguenza, è compatibile con un grado più o meno ampio di diseguaglianza sociale. Il fatto di essere eguali di fronte alla legge e nelle libertà individuali significa che ogni individuo non subisce discriminazioni e che dispone delle stesse facoltà: ma quanto ai risultati, sul piano sociale, questi dipenderanno dal suo impegno e dalla sua abilità. Anche l'eguaglianza politica non incide direttamente sulla sfera sociale, sebbene la partecipazione di tutti al voto (e quindi, indirettamente, alle decisioni legislative) possa far prevalere politiche di ridistribuzione della ricchezza. L'eguaglianza sociale, invece, è un'eguaglianza di tipo sostanziale, giacché non riguarda i diritti, ma i bisogni, e si traduce nell'eguale distribuzione dei beni: poiché si tratta di una forma radicale di eguaglianza, in questo caso si è soliti parlare di egualitarismo.  2. Diritti sociali e pari opportunità  Se per gran parte del 19° sec. lo scontro è stato soprattutto tra liberali e democratici (divisi dal tema del suffragio universale), nel secolo successivo lo scontro è stato tra liberali e democratici da un lato e socialisti e comunisti dall'altro, divisi dal tema dei diritti civili, dei diritti politici e della libertà economica: dal punto di vista dei socialisti e dei comunisti, infatti, l'eguaglianza civile e politica era soltanto una maschera degli interessi economici della borghesia, i quali determinavano la più reale e oppressiva delle diseguaglianze. Nel corso del Novecento, tuttavia, sono sorte correnti di socialismo democratico o riformista, che non rifiutavano i diritti conquistati da liberali e democratici, ma pensavano piuttosto a integrarli con una serie di diritti e politiche sociali (diritti sindacali, istruzione, assistenza sanitaria e pensionistica, assegni di disoccupazione, servizi sociali), il cui scopo è correggere gli squilibri dell'economia di mercato e ridurre le diseguaglianze sociali. Per altro verso, anche nel pensiero liberale si è manifestata una maggiore sensibilità sociale, che si è concretata nel principio dell'eguaglianza delle opportunità, che mira (attraverso le borse di studio, i prestiti d'onore e altri strumenti) a dotare tutti gli individui delle stesse possibilità, cioè ad eguagliare i punti di partenza.  A partire dagli anni Sessanta del Novecento, il tema dell'eguaglianza ha giocato un ruolo decisivo nella questione femminile, ossia nella lotta per eliminare le discriminazioni e le diseguaglianze tra uomini e donne sul piano dei rapporti personali e dei ruoli pubblici. Il tema delle 'pari opportunità', in questo ambito, ha avuto negli ultimi anni un grande risalto: sono sorte infatti apposite istituzioni il cui scopo è garantire, per le donne, eguali possibilità di carriera nel settore pubblico e privato e una maggiore presenza nella vita politica (a livello locale e nazionale).egualitarismo Concezione politico-sociale tendente a realizzare, accanto all’uguaglianza di diritto sancita dalle norme costituzionali o legislative, una uguaglianza di fatto, fondata sull’equa ripartizione dei beni e delle fortune tra tutti i membri di una società. L’egualitarismo affonda le sue radici nell’Illuminismo e nella Rivoluzione francese e ha ricevuto particolare impulso dai movimenti socialisti.   1. Egualitarismo salariale Tipo di politica sindacale mirante a ridurre le differenze retributive tra le diverse qualifiche nell’ambito di una categoria o nell’insieme dei lavoratori dipendenti. In Italia si è parlato di egualitarismo salariale per gli aumenti retributivi in cifra fissa previsti dai contratti collettivi di lavoro (1969-79) e per l’unicità del punto di contingenza (1975-86).Roberto Esposito. Esposito. Keywords: fascismo, il Sistema dell’in/differenza, Vico, Spaventa, Machiavelli, Bruno. Tanato-ethics, tanato-politica, three features of the conversational imperative: generality: formal generality, applicational generality, conceptual generality. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Esposito” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51702454844/in/photolist-2mQwYd8-2mQiU3r-2mPYYve-2mPQGvz-2mN35cA-2mMQbzj-2mLLAxf-2mLExs3-2mKHtgX-2mPpVqK

 

Grice ed Evola --romanità – l’implicatura di Romolo – filosofia romana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo. Grice: “Evola was a bit of a linguistic philosopher; I enjoyed his rambling on the proper use of “Latin” versus “Roman;” Evola notes that the implicatures differ. ‘Roman’ he links with Spartan, and he opposes to the formation, ‘greco-romano’ o ‘classico’ – “Latin” he applies to “lingua romana,” as Orazio and Tacitus had done!” – Grice: “If I had to think of the equivalent linguistic analysis by an English philosopher, I can only think of DeFoe, and his satire on what constitutes an Englishman! Later parodied by Gilbert and Sullivan and put to good effect in “Chariots of Fire,” where Abrams is seen referred to as “HE IS.. an Englishman! For he himself has said it!” -- - Italian philosopher – Figlio di Vincenzo e Concetta Mangiapane, barone di Castropignano. Studia a Roma. Manifesta un'opposizione a Roma, soprattutto in riferimento alla teoria del peccato e della redenzione, del sacrificio divino e della grazia. Studia filosofia. Entra in contatto con alcuni esponenti del Futurismo quali Balla e Marinetti. Partecipa alla esposizione futurista a Palazzo Cova, Milano. Rientra a Roma dopo il conflitto ed attraversa una profonda crisi esistenziale che lo porta al bordo del suicidio. Aderisce al Dadaismo ed entra in contatto epistolare con Tzara. Fonda “Bleu” Esce un saggio sull'idealismo magico. Si deve superare i limiti dell'umano per andare verso “l'oltre-uomo”.Studia la teoria e fenomenologia dell'individuo assoluto. Nel “L'uomo come Potenza” compare una concezione dell'io ispirata ai dettami del tantrismo e del taoismo.  Queste ultime opere segnano un'ulteriore svolta: passaggio da una posizione filosofica di tipo teoretico ad una di tipo pragmatico. Cerca infatti di individuare strumenti concreti per mezzo dei quali calare nella vita quotidiana la teoria dell'Individuo assoluto. Inizia un'intensa esperienza giornalistica: partecipa alla redazione di Lo Stato democratico e collabora a riviste come Ultra, Bilychnis, Ignis, Atanor e Il mondo. Frequenta i circoli esoterici romani e partecipa alla vita notturna della capitale. Disumano qual è, gelido architetto di teorie funambolesche, vanitoso, perverso, s'è trovato dinanzi a me come a cosa tutta viva, tutta schietta, mentre aveva fantasticato chissà quale avventura necrofila. E questa cosa tutta schietta l'ha turbato, l'ha commosso, segretamente. Coordina “Ur”, che si occupa di esoterismo. Conosce Reghini. Pubblica “Paganesimo.” Attacca violentemente Roma ed esorta a ritrovare la grandezza della civiltà romana. Oserà dunque Italia assumere qui, qui donde già le aquile imperiali partirono per il dominio del mondo sotto la potenza augustea, solare, regale, oserà qui riprendere la fiaccola della tradizione mediterrane? Influenzato da Guénon abbandona in seguito le tesi estremiste a favore del concetto di “tradizione" e fonda “La Torre” destinata a difendere principi sovrapolitici, in realtà una tribuna di filosofi che si battevano per una Italia più radicale e più intrepida. Critiche mosse ad alcuni personaggi del Regime dalle pagine de La Torre, provocano l'intervento di Starace che prima diffida Evola dal continuare la pubblicazione, poi proibisce a tutte le tipografie romane di stampare la rivista la cui pubblicazione, alla fine, viene sospesa. Viene sorvegliato dal regime in quanto accusato di affiliazione all'Ordo Templi Orientis ed è costretto ad assumere alcune guardie del corpo (come testimoniato da Massimo Scaligero). In Meditazioni delle vette, intende l'alpinismo come pratica ascetica e meditazione spirituale: superamento dei limiti della condizione umana attraverso l'azione e la contemplazione, che divengono due elementi inseparabili, un'ascesa che si trasforma in ascesi. Successivamente pubblica due saggi La tradizione ermetica e Maschera e volto dello spiritualismo. “La tradizione ermetica” è una disamina dell'aspetto magico, esoterico e simbolico dell'alchimia. “Il volto e la maschera” è un saggio critico su quella filosofia che invece di elevare l'uomo dal razionalismo e dal materialismo, lo portano ancora più in basso: spiritismo, teo-sofia, antropo-sofia e psicoanalisi. In “Rivolta contro il mondo” traccia un affresco della storia letta secondo lo schema ciclico tradizionale delle quattro età: oro, argento, bronzo e ferro nella tradizione occidentale. Analizza le categorie qualificanti l'uomo della tradizione e le anticha "razza divina” Esamina a fondo Il mistero del Graal e le sue implicazioni dottrinarie nelle visioni dei diversi periodi storici, impostando tutta la sua disamina sul concetto di "tradizione ghibellina dell'impero", cercando di svincolare il Graal e la sua portata simbolica da Roma. Collabora attivamente con la Scuola di mistica da Giani, tenendo alcune conferenze e figurando nel comitato di redazione della rivista Dottrina. La maggior parte degli interventi di Evola in conferenze e scritti, riguardano principalmente il concetto di “razza divina”, argomento che trova appoggio da parte di Giani. Il concetto di “mistica” rappresenta un'incongruenza potendo parlare, al più, di “etica.” Questo perché in realtà la dottrina non affronta il problema dei valori superiori, i valori del sacro, solo in relazione ai quali si può parlare di mistica. Evola ravveda nella mistica un elemento rilevatore di una spiritualità lunare e del polo femminile. E infatti il sottotitolo di Diorama filosoficola pagina prima mensile e poi quindicinale curata da Evola nel quotidiano Il Regime è: Problemi dell’etica. Una serie di scritti di Evola relativi alla scuola di mistica, sono stati pubblicati dall'editore Controcorrente e aiutano in parte a chiarire le posizioni assunte dal filosofo all'interno della suddetta corrente.  Sia in fatto o nell’ideale, esiste una opposizione fra l'uomo ariano e tradizionale europeo e l’altri. L’ariano e capace di concepire e di realizzare un'armonia fra corpo ed anima (“La civiltà occidentale”, Augustea). In “Mito del Sangue ricostruisce le concezioni sulla razza dalle civiltà fino alle teorie di Gobineau, Woltmann, de Lapouge, e Chamberlain. L'ariano (da "Arya") appartiene al corpo e lo spirito. Si esprime negativamente sul colonialismo giudicando l'Etiopia conquistata dall'Italia nient'altro che una contraffazione degenerescente di un organismo tradizionale. Critic ail materialismo zoologico. Ha una concezione dell'uomo come essere costituito da corpo, anima e spirito, dove lo spirito deve avere il primato sull’anima e il corpo. L’opportunità di questa formulazione risiede nel fatto che una razza può degenerare, anche restando biologicamente pura, se lo spirito è diminuito o obnubilat, se ha perso la propria forza, come presso certi tipi nordici. Un corpo di una data razza si liga in un individio lo spirito di un'altra razza. Respinge ogni teorizzazione del razzismo in chiave “zoologica”! ponendo il pensatore tradizionale tra coloro che «imboccata una certa strada, la seppero percorrere, in confronto con tanti che scelsero quella della menzogna, dell'insulto, del completo obnubilamento di ogni valore culturale e morale, con dignità e persino con serieta. Non è il solo a prendere le distanze dal razzismo zoologico. Altre note figure della cultura del tempo, come Acerbo, e meno note, come Mazzei, se ne dissociano. L'impostazione critica data da De Felice su questo passaggio del pensiero di Evola è particolarmente apprezzata dagli autori filo-evoliani. Anche Orano sviluppa, secondo taluni, una forma di razza divina etico-sociale che rinvia a Il mito del sangue di Evola. Primo, in ordine di tempo fu Orano. Dietro di lui, con una vena più scadente, comparvero Romanini ed Evola. C’e tre ordini di razza: corpo, anima, spirito. Dunque, Evola riprende, seppur in maniera meno esplicita, alcune delle teorie del de Gobineu che cercano di identificare una gerarchia ideale nei gruppi delle razze umane. Cio non impedisce ad Evola di avere una "doppia affiliazione" ed essere pure membro della Massoneria. Evola non aderisce al Partito e tale mancata adesione gli impedisce di arruolarsi come volontario contro l'Unione Sovietica nel corso della Seconda guerra mondiale. Critica del germanismo tuttavia l'incompletezza nell'attuazione di questo programma, non abbastanza radicale e aderente ai principi della "Tradizione".Per esempio una difesa della razza e improntata giuridicamente e il potere e derivato dal popolo e non un potere regale di origine divina come nell'ideale società ario-germanica delle origini. Teorizza dunque il tradizionalismo puro, ideale e radicale, capace di attuare i propri principi e di far trionfare la cultura romana pagana delle origini -- un impero europeo e pagano sotto la guida egemonica della Roma di Cesare. Fa ritorno nell'Italia liberata solo al termine della guerra. Essendo rigorosamente contrario all'abrogazione della Monarchia e alla trasformazione dell'Italia in una Repubblica, intraprende tentativi di influenza.Si occupa di studiare e combattere le trame occulte e antitradizionali della massoneria.  Pubblica “Impero”.Scrive Evola: “Io potevo aver difeso e potevo continuare a difendere certe concezioni in fatto di dottrina dello Stato. Si era liberi di fare il processo a tali concezioni. Ma in tal caso si dovevano far sedere sullo stesso banco degli accusati: Platone, un Metternich, un Bismarck, il Dante del De Monarchia e via dicendo.” Si tenta di effettuare una "doppia lettura" dei suoi testi: una lettura palese per il volgo ed una "esoterica" per gli "iniziati". Pubblica “Gli uomini e le rovine” che esercita grande influenza negli ambienti della destra italiana nel quale spiega la decadenza del mondo moderno in seguito alla distruzione del principio di autorità e di ogni possibilità di trascendenza per l'affermarsi del razionalismo, in contrasto con le antiche civiltà e i valori della tradizione. In “Metafisica del sesso” tratta la forza magica e potentissima dell'atto sessuale, attraverso lo studio dei simboli esteso a numerose tradizioni. L'«Operaio» in Jünger. “Cavalcare la tigre”. Scrive sul concetto metafisico ed immanente di tradizione, come Il Ghibellino. “Gli uomini e le rovine” e “Cavalcare la tigre” sono considerati due testi fondamentali grazie ai quali c'è una fattiva adesione al ribellismo anti-sistema”Pubblica Il cammino del cinabro, la sua autobiografia, e L'arco e la clava.  Assiste alla costituzione dei “dioscuri”, sodalizio dedito al ripristino della cultualità romana ed italica, di cui è uno degli ispiratori, attraverso i suoi scritti sulla romanità, il paganesimo e le idee imperiali, oltre che attraverso un particolare rapporto di intimità con i dioscuri.  Solstitivm. Evola è propugnatore del Tradizionalismo, un modello ideale e sovratemporale di società caratterizzato in senso spirituale, aristocratico e gerarchico. Tale modello si riscontra, da un punto di vista storico, in la civiltà romana. La civiltà romana non si basa su criteri economici, materiali e biologici, ma e suddivisa e gestita in base a criteri di gerarchia sociale di carattere ereditario e spirituale.  Ogni azione che avviene durante la vita biologica (il divenire) rispecchia direttamente una medesima azione di carattere metafisico (l'essere) e dunque imperitura e sovratemporale.  Il cammino dell'uomo avviene attraverso un percorso di tipo circolare. Traccia di questa teoria la si trova, ad esempio, nella teoria delle *cinque età* (dell'oro, dell'argento, del bronzo, degli eroi, del ferro). La civiltà romana, ritenuta superiora da Evola si basa dunque su una più elevata dimensione metafisica e spirituale dell'esistenza, anziché su criteri di ordine materiale. L'uomo ha la possibilità di elevarsi alla sfera divina e metafisica attraverso precise strade (il rito e l'iniziazione), utilizzando determinati strumenti (l'azione e la contemplazione) all'interno di contesti sociali predeterminati (la casta, l'impero). Non esiste differenza quantitativa tra l'uomo e il dio. Ogni uomo è un dio mortale. Ogni dio un uomo immortale. La razza e "spirituale". Rifiuta una visione zoological, in favore di un patrimonio di tendenze e attitudini che, a seconda delle influenze ambientali, giunge rebbero o meno a manifestarsi compiutamente. L'appartenenza a questa razza spiritual si individuerebbe dunque sulla base dello spirito, e in seguito del corpo, diventandone col tempo questo ultime il segno visibile. E un concetto metafisico di razza. La romanita spirituale del quale parla Evola parte appunto dal dato biologico, che gli pare ancora troppo zoologico, rozzo e deterministico, per sublimarlo e portarlo a pieno compimento sul piano dello spirito – non romano, ma romanita --, ossia sul piano metafisico. Intendeva potenziare e nobilitare la romanita, avvolgendolo in una nebulosa filosofeggiante e scrostandolo di quel tanto di ruvido zoologismo. Vengono ritrovate sette lettere da Evola a Croce (più una indirizzata all'editore Laterza. Evola invia inizialmente a Croce la richiesta di intercedere presso Laterza per la pubblicazione dei “Idealismo magico” e “Teoria dell'individuo assoluto”. La seconda e una cartolina postale di Croce ringraziandolo per il giudizio di apprezzamento sul lato formale dei due manoscritti dell’Idealismo magico e Teoria dell’individuo assoluto.  Laterza, nonostante l'appoggio favorevole di Croce, Laterza scrive una lettera  in cui precisa di volersi riservare la massima libertà di decidere anche nei riguardi di autorevoli amici. Evola scrive a Croce chiedendo aiuto per “La tradizione ermetica”, un saggio sull'alchimia. In una quarta lettera, Evola ringrazia Croce per l'interessamento. “La tradizione ermetica” esce per i tipi dell'editore barese.  Evola invia quattro lettere a Gentile. Nonostante le marcate divergenze sul piano filosofico Evola si discosta dall'attualismo gentiliano in favore di una rigida codificazione teoretica (l'idealismo magico) il pensatore tradizionale cerca un confronto con uno dei massimi esponenti del mondo accademico. Tale confronto non produce risvolti interessanti sotto il profilo speculativo in quanto i due filosofi sono su posizioni eccessivamente distanti, ed anche i presupposti dottrinali sono inconciliabili.  Il tentativo di Evola di aprire un colloquio costruttivo rimane un fiore che non sboccia. Evola cerca di costruire, pur senza risultati apprezzabili, un punto di riferimento culturale alternativo al gentilismo. Nel Cammino dei cinabro tenta di spiegare così le ragioni di questo mancato incontro.“Ogni riferimento extra-filosofico di cui il mio sistema filosofico e ricco sirve come un comodo pretesto per l'ostracismo. Si poteva liquidare con un'alzata di spalle un sistema che accordava un posto perfino al mondo dell'iniziazione, della "magia" e di altri relitti superstiziosi. Che tutto ciò da me fosse fatto valere nei termini di un rigoroso pensiero speculativo, a poco sirve. Però anche da parte mia vi e un equivoco, nei riguardi di coloro ai quali, sul piano pratico, la mia fatica speculativa posse servire a qualcosa. Si tratta di una introduzione filosofica ad un mondo non filosofico, la quale posse avere un significato nei soli rarissimi casi in cui la filosofia ultima avesse dato luogo ad una profonda crisi esistenziale. Ma vi e anche da considerare (e di questo in seguito mi resi sempre più conto) che i precedenti filosofici, cioè l'abito del pensiero astratto discorsivo, rappresentano la qualificazione più sfavorevole affinché tale crisi potesse essere superata nel senso positivo da me indicato, con un passaggio a discipline realizzatrici.” Gentile tuttavia riconosce ad Evola una certa competenza in campo esoterico-alchemico ed infatti chiede al filosofo della tradizione di curare la voce “atanor” per l'Enciclopedia Italiana. Anche alcuni allievi di Gentile riconoscono ad Evola una certa stima, in particolare Calogero. Giuli successivamente riporta altre informazioni, relative al carteggio Evola-Gentile, reperite all'interno della "Fondazione Giovanni Gentile per gli studi filosofici", occupandosi dei saggi che Evola invia con dedica a Gentile.  Invia sette lettere a Schmitt che mette in luce da una parte alcune amicizie e conoscenze in comune tra i due pensatori (Jünger, Mohler e il principe di Rohan), dall'altra il tentativo di proporre la pubblicazione in italiano del saggio di Schmitt sul tradizionalista Cortes.Tale tentativo non va in porto, così come fallisce anche il secondo progetto di pubblicare un'antologia schmittiana.  Di rilievo, all'interno dello scambio epistolare, le due divergenti visioni rispetto al ruolo dell'uomo politico e la sua autonomia. Evola interpreta il concetto di dittatura incoronata come «necessità di un potere che decida assolutamente, ma ad un livello di una dignità superiore, indicata dall'aggettivo incoronata. Per Schmidt, invece, esiste prima di tutto un passaggio significativo che porta dal concetto della legittimità del regnare a quello della dittatura. La dittatura incoronata significa solo un pis-aller pratico mai ha concepito questo espediente pragmatico come una forma di salvezza. E in questo caso così come già ampiamente esposto in Rivolta contro il mondo moderno, il costante rimando di Evola ad un fondamento trascendente dell'ordine politico rimane quell'ineliminabile discrimine che non può essere in alcun modo occultato o minimizzato. L'epistolario assume rilievo in relazione al tentativo di fornire di solidi contrafforti ideologici e culturali il mondo conservatore che, nel dopoguerra italiano, si trovava a combattere la sua battaglia politica. Entra in contatto epistolare con Benn, appartenente alla cosiddetta Rivoluzione conservatrice. Il primo incontro risale durante la tappa berlinese di un viaggio che Evola effettua in Germania. Da quell'incontro scaturisce una recensione-saggio di Benn alla versione di “Rivolta contro il mondo moderno” che appare in “Die Literatur di Stoccarda”. Nel presentare “Rivolta contro il mondo moderno”, Benn espone le sue teorie convergendo con la visione del mondo di Evola. Si ha rintracciato tre lettere da Evola a Benn. Le lettere sono importanti in quanto chiariscono la comunanza di vedute dei due autori rispetto al tema della tradizione e di una visione del mondo conservatrice, oltre al fatto che entrambi non si riconoscono nel establishment. “Sono sempre più convinto che a chi voglia difendere e realizzare senza compromessi di sorta una tradizione spirituale e aristocratica non rimanga purtroppo, oggi e nel mondo moderno, alcun margine di spazio; a meno che non si pensi unicamente a un lavoro elitario». E un tentative di riprendere, nel dopoguerra, i rapporti con i filosofi conservatori. Invia lettere a Tzara. Si tratta di una trentina di documenti tra lettere e cartoline. Molte tappe del cammino artistico del filosofo romano sono già note prima del rinvenimento della corrispondenza con Tzara: in parte perché lo stesso Evola ne parla nella sua autobiografia, in parte perché dedotte dai critici e dagli studiosi nelle partecipazioni, in qualità di articolista, che ha in alcune riviste d'arte dell'epoca: Noi, Cronache d'Attualità, Dada e Bleu. Ciò che invece non è noto prima del rinvenimento della corrispondenza, sono le modalità dell'avventura evoliana nella sfera artistica, ovvero come essa si attuò, come fu vissuta, a che mirava. L'archivio della corrispondenza tra i due artisti ha, inoltre, il pregio di colmare il vuoto di un periodo poco conosciuto di Evola. Questo vuoto si colma sia attraverso la ricostruzione di tappe cronologiche (il recupero di alcune date, partecipazioni a mostre, riviste, incontri) sia attraverso il recupero di tappe più specificamente psicologiche. In particolare quelle che portano Evola ad annunciare il proprio suicidio e che raccontano di un uomo colto nel pieno male di vivere, di una sperimentazione del travaglio interiore che l'artista vive, dove la sofferenza acuta si alterna alla disperazione. Altre opere: “Arte astratta, posizione teorica” (Roma, Maglione e Strini); La parole obscure du paysage intérieur, Roma-Zurigo, Collection Dada); Saggi sull'idealismo magico, Todi-Roma, Atanòr);  L'individuo e il divenire del mondo, Roma, Libreria di Scienze e Lettere); “L'uomo come potenza, Todi-Roma, Atanòr, “Teoria dell'individuo assoluto, Torino, Bocca); “Imperialismo pagano, Todi-Roma, Atanòr); “Fenomenologia dell'individuo assoluto” (Torino, Bocca); “La tradizione ermetica, Bari, Laterza); “Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo, Torino, Bocca); “Rivolta contro il mondo moderno, Milano, Hoepli); “Tre aspetti del problema” (Roma, Mediterranee); “Il mistero del Graal, Bari, Laterza); “Il mito del sangue, Milano, Hoepli); “Indirizzi per una educazione” Napoli, Conte); “Sintesi di dottrina” (Milano, Hoepli); La dottrina del risveglio, Bari, Laterza); “Lo Yoga della potenza, Torino, Bocca); “Orientamenti, Roma, Imperium”; “Gli uomini e le rovine, Roma, Edizioni dell'Ascia); “Metafisica del sesso, Todi-Roma, Atanòr); L'«Operaio» in Jünger, Roma, Armando); “Cavalcare la tigre, Milano, Vanni Scheiwiller); Il cammino del cinabro, Milano, Vanni Scheiwiller);  “Saggio di una analisi critica” (Roma, Volpe); “L'arco e la clava, Milano, Vanni Scheiwiller); “Raâga Blanda, Milano, Vanni Scheiwiller); “Il taoismo, Roma, Mediterranee); Ricognizioni. Uomini e problemi, Roma, Mediterranee); Lao Tze, Il libro della via e della virtù, Lanciano, Carabba, Cesare Della Riviera, Il mondo magico de gli heroi, Bari, Laterza, René Guénon, La crisi del mondo moderno, Milano, Hoepli,  Emanuel Malinski, Léon De Poncins, La guerra occulta, Milano, Hoepli, Gustav Meyrink, Il Domenicano bianco, Milano, Fratelli Bocca Editori, Gustav Meyrink, La notte di Valpurga, Milano, Fratelli Bocca Editori); Johann Jakob Bachofen, La virilità (Torino, Bocca); Gustav Meyrink, L'Angelo della finestra d'Occidente, Milano, Fratelli Bocca Editori, Mircea Eliade, Lo sciamanesimo e le tecniche dell'estasi, Milano, Fratelli Bocca Editori, Ur, Introduzione alla magia come scienza dell'Io, Torino, Bocca, Otto Weininger, Sesso e carattere, Milano, Bocca, Oswald Spengler, Il tramonto dell'occidente, Milano, Longanesi,   Eduard Erkes, Credenze religiose della Cina antica, Roma, IsMEO, “Pitagora I Versi d'Oro” (Todi-Roma, Atanòr); Lao Tze, Il Libro del Principio e della sua azione, Milano, Ceschina, Gabriel Marcel, L'uomo contro l'umano, Roma, Volpe, E. Jünger, Al muro del tempo, Roma, Volpe, Hans-Joachim Schoeps, Questa fu la Prussia, Roma, Volpe, Erik Von Kuehnelt-Leddihn, L'errore democratico, Roma, Volpe); Theodor Litt, Le scienze e l'uomo, Julius Evola, Roma, Armando, Pascal Bewerly Randolph, “Magia Sexualis”, Evola, Roma, Mediterranee, K. Loewenstein, La Monarchia nello Stato moderno, Julius Evola, Roma, Volpe) Robert Reininger, Nietzsche e il senso della vita” (Roma, Volpe); Arthur Avalon, Il mondo come potenza, Roma, Mediterranee, Daisetsu Teitarō Suzuki, Saggi sul Buddhismo Zen 1, Roma, Mediterranee, Lu Tzu, Il mistero del fiore d'oro, Roma, Mediterranee, Lu K'uan Yû, Lo Yoga del Tao, Roma, Mediterranee, Come “Carlo d'Altavilla”: Theodor Litt, Istruzione tecnica e formazione umana, Roma, Armando, Gustav Meyrink, Alla frontiera dell'Aldilà, Napoli, Casa Editrice Rocco, Theodor Litt, Eduard Spranger, Enrico Pestalozzi, Roma, Armando,  Franz Hilker, Pedagogia comparata: storia, teoria e prassi, Roma, Armando, Jacques Ulmann, Ginnastica, educazione fisica e sport dall'antichità ad oggi, Roma, Armando, Karlfried Graf Dürckheim, Hara: il centro vitale dell'uomo secondo lo Zen, Roma, Mediterranee, Bernard George, L'ondata rossa sulla Germania dell'Est, Roma, Volpe, Erik von Kuehnelt-Leddihn, L'errore democratico, Roma, Volpe, Hans Reiner, Etica, teoria e storia, Roma, Armando,Stephan Leibfried, L'università integrata: l'istruzione superiore nella Repubblica federale tedesca e negli Usa,  Roma, Armando, Ernst Cassirer, Saggio sull'uomo: introduzione ad una filosofia della cultura, Roma, Armando,  Walter Wefers, Basi e idee dello Stato spagnolo d'oggi, Roma, Volpe, François Gaucher, Idee per un movimento, Roma, Volpe, Donald Edward Keyhoe, La verità sui dischi volanti, Milano, Atlante, Altre: I saggi di "Bilychnis", Padova, Edizioni di Ar, I saggi della "Nuova Antologia", Padova, Edizioni di Ar, L'idea di Stato, Padova, Edizioni di Ar, Gerarchia e democrazia, Padova, Edizioni di Ar, Meditazioni delle vette, La Spezia, Edizioni del Tridente, Diario, Genova, Centro Studi Evoliani, Etica aria, Genova, Centro Studi Evoliani, L'individuo e il divenire del mondo, Carmagnola, Edizioni Arktos, Simboli della Tradizione Occidentale, Carmagnola, Edizioni Arktos, La via della realizzazione di sé secondo i misteri di Mitra, Roma, Fondazione, Considerazioni sulla guerra occulta, Genova, Centro Studi Evoliani, Le razze e il mito delle origini di Roma, Monfalcone, Sentinella, Il problema della donna, Roma, Fondazione Julius Evola, Ultimi scritti, Napoli, Controcorrente, La Tradizione di Roma, Padova, Edizioni di Ar, Due imperatori, Padova, Edizioni di Ar, Cultura e politica, Roma, Fondazione Julius Evola, Citazioni sulla Monarchia, Palermo, Edizioni Thule, L'infezione psicanalitica, Roma, Fondazione Julius Evola, Il nichilismo attivo di Federico Nietzsche, Roma, Fondazione Julius Evola, Lo Stato, Roma, Fondazione Julius Evola, Europa una: forma e presupposti, Roma, Fondazione Julius Evola, La questione sociale, Roma, Fondazione Julius Evola, Saggi di dottrina politica, Sanremo, Mizar, La satira politica di Trilussa, Roma, Fondazione Julius Evola, Scienza ultima, Roma, Fondazione Julius Evola, Spengler e il "Tramonto dell'Occidente", Roma, Fondazione Julius Evola, Lo zen, Roma, Fondazione Julius Evola, I tempi e la storia, Roma, Fondazione Julius Evola, Civiltà americana, Roma, Fondazione Julius Evola, La forza rivoluzionaria di Roma, Roma, Fondazione Julius Evola, Scritti sulla massoneria, Roma, Edizioni Settimo Sigillo, Oriente e occidente, Milano, La Queste, Un maestro dei tempi moderni: René Guénon, Roma, Fondazione Julius Evola, Julius Evola, Filosofia, etica e mistica del razzismo, Monfalcone, Sentinella d'Italia, Monarchia, aristocrazia, tradizione, Sanremo, Casabianca, I placebo, Roma, Fondazione Julius Evola, Gli articoli de "La Vita Italiana" durante il periodo bellico, Treviso, Centro Studi Tradizionali, Dal crepuscolo all'oscuramento della tradizione nipponica, Treviso, Centro Studi Tradizionali, Il ciclo si chiude, americanismo e bolscevismo, Roma, Fondazione Julius Evola,  Il Cinabro, Julius Evola, Il problema di oriente e occidente, Roma, Fondazione Julius Evola, Fenomenologia della sovversione in scritti politici, Borzano, SeaR, Julius Evola, Scritti sull'arte d'avanguardia, Roma, Fondazione Julius Evola, Esplorazioni e disamine, gli scritti di " fascista,” Parma, Edizioni all'insegna del veltro, Julius Evola, Esplorazioni e disamine, gli scritti di " fascista", Parma, Edizioni all'insegna del veltro, Lo Stato, Roma, FondazioneEvola, La tragedia della Guardia di Ferro, Roma, Fondazione Julius Evola, Julius Evola, Scritti per "Vie della Tradizione" Palermo, Edizioni Vie della Tradizione, Carattere, Catania, Il Cinabro, L'idealismo realistico, Roma, Fondazione Julius Evola, Idee per una destra, Roma, Fondazione Julius Evola, Fascismo e Terzo Reich, Roma, Mediterranee, Evola, Il "mistero iperboreo". Scritti sugli Indoeuropei, Roma, Fondazione Julius Evola, Critica del costume, Catania, Il Cinabro, Julius Evola, Augustea, La Stampa, Roma, Fondazione Julius Evola, Anticomunismo positivo. Scritti su bolscevismo e marxismo, Napoli, Controcorrente, ulius Evola, Il Mondo alla Rovescia (Saggi critici e recensioni), Edizioni Arya, Genova, La scuola di mistica fascista. Scritti di mistica, ascesi e libertàm Napoli, Controcorrente, Julius Evola, Le sacre radici del potere, Edizioni Arya, Genova. Evola, Civiltà americana. Scritti sugli Stati Uniti, Napoli, Controcorrente, Evola, Scritti sulla Massoneria volgare speculativa, Edizioni Arya, Genova.Julius Evola, Par delà Nietzsche, Torino, Nino Aragno Editore, Evola, Fascismo Giappone Zen. Scritti sull'Oriente, Roma, Pagine, Julius Evola, Ernst Jünger. Il combattente, l'operaio, l'anarca, Passaggio al Bosco,, Rigener Azione Evola, Evola, Il Fascismo e l'idea politica tradizionale, Documenti per il Fronte della Tradizione Fascicolo n. 7, Raido,   Julius Evola, Mussolini e il razzismo, Documenti per il Fronte della Tradizione Fascicolo, Raido, Evola, Le SS. Guardia e Ordine della rivoluzione nazionalsocialista, Documenti per il Fronte della TradizioneFascicolo, Raido,   Julius Evola, I "Castelli dell'Ordine" e i nuovi Junker, Documenti per il Fronte della Tradizione Fascicolo Raido,  Il significato di Roma per lo spirito "olimpico" germanico, Documenti per il Fronte della Tradizione Fascicolo, Raido,   Julius Evola, La Dottrina aria di Lotta e Vittoria, Documenti per il Fronte della Tradizione Fascicolo, Raido, Etica AriaOrizzonte Tradizionale, Edizioni Arya, Genova. Raccolte di lettere e carteggi Julius Evola, Lettere di Julius Evola a Girolamo Comi, Gianfranco De Turris, Roma, Fondazione Evola, Lettere di Julius Evola a Tristan Tzara, Elisabetta Valento, Roma, Fondazione Julius Evola, Lettere a Croce, Roma, Fondazione JEvola); La biblioteca esoterica. Evola Croce Laterza. Carteggi editoriali, Antonio Barbera, Roma, Fondazione Evola, Lettere a Carl Schmitt, Roma, Fondazione Julius Evola, Lettere a Gentile, Roma, Fondazione Julius Evola. Julius Evola, La Torre. Foglio di Tradizioni varie e di espressione una, Marco Tarchi, Milano, Il Falco, Claudio Mutti, Julius Evola sul fronte dell'Est, in Quaderni del Veltro, Gianfranco De Turris, La corrispondenza tra Julius Evola e Gottfried Benn, su centrostudilaruna, Gianfranco De Turris, Profilo di Julius Evola, in Julius Evola, Rivolta contro il mondo moderno, Roma, Mediterranee, Registro degli atti di nascita di Roma, Archivio di Stato di Roma  Registro degli atti di nascita di Cinisi, Archivio di Stato di Palermo  Registro degli atti di nascita di Cinisi, Archivio di Stato di Palermo  Registro degli atti di matrimonio di Cinisi, Tribunale di Palermo  Registro degli atti di nascita di Roma Archivio di Stato di Roma  Il Barone Immaginario Il Barone Immaginario,  Gianfranco De Turris, Ugo Mursia Editore, Milano,   Catalogus Baronum, pagina Vanni Scheiwiller, Nota dell'editore, in Julius Evola, Il cammino del cinabro, Milano, Scheiwiller); Julius Evola, Il cammino del cinabro, Catalogo della mostra con tutte le opere in:  Grande Esposizione Nazionale Futurista, Milano, Le Presse, Claudio Bruni, Evola Dada, in Gianfranco De Turris, Testimonianze su Evola, Roma, Mediterranee.  Julius Evola, Il cammino del cinabro. Egli prende la terra come terra, pensa alla terra, pensa sulla terra, pensa 'Mia è la terra' e si rallegra di ciò: e perché? Perché egli non la conosce, dico io. L'estinzione vale a lui come estinzione, allora egli deve non pensare all'estinzione, non pensare sull'estinzione, non pensare 'Mia è l'estinzione', non rallegrarsi dell'estinzione: e perché? Perché impari a conoscerla, dico io.” Lettere a Tzara, Roma, Edizioni Fondazione Julius Evola, Carlo Fabrizio Carli, Evola pittore tra futurismo e dadaismo, su juliusevola. Claudio Bruni, Evola Dada. Per un approfondimento: Vitaldo Conte, Maschere di Evola come percorso controcorrente, Atti del convegno di studi "Julius Evola e la politica", Alatri Emiliano Di Terlizzi. Luciano De Maria, Introduzione a: FT. Marinetti, Teoria e invenzione futurista, Milano, Mondadori,Per un approfondimento sulla produzione pittorica di Evola si rimanda a due cataloghi: Evola e l'arte delle avanguardie. Tra Futurismo, Dada e Alchimia, Roma, Fondazione Julius Evola, e Vitaldo Conte, Julius Evola. Arte come alchimia, mistica, biografia, Reggio Calabria, Iriti, Julius Evola, Il cammino del cinabro. Poi ristampati sotto forma di antologia: Gruppo di Ur, Introduzione alla magia come scienza dell'Io, Torino, Bocca, 1955.  Per una trattazione esaustiva dell'argomento si rimanda a Renato Del Ponte, Evola e il magico gruppo di Ur, Borzano, Sea R, Evola, Il cammino del cinabro. Francesco Lamendola, Alcuni aspetti del pensiero filosofico di Julius Evola. Fenomenologia dell'Individuo assoluto, Roma, Mediterranee, Alessandra Tarquini, Il Gentile dei fascisti, Bologna, Il Mulino, Giuseppe Gangi, Misteri esoterici. La tradizione ermetico-esoterica in occidente, Roma, Mediterranee, Evola, Renato Dal Ponte, Meditazioni delle vette, La Spezia, Edizioni del Tridente, Francesco Demattè, Julius Evola, Meditazioni delle vette, in Secolo d'Italia, Gianfranco De Turris, Biografia, in Gianfranco De Turris, Testimonianze su Evola, Julius Evola, Fascismo e Terzo Reich, Alain de Benoist, Julius Evola, reazionario radicale e metafisico impegnato, in Julius Evola, Gianfranco De Turris, Gli uomini e le Rovine e Orientamenti, Roma, Mediterranee, La scuola di mistica fascista. Scritti di mistica, ascesi e libertà, Napoli, Controcorrente, Il fascismo quale volontà di impero e il cristianesimo, in Critica Fascista,  Silvio Bertoldi, Salò. Vita e morte della Repubblica Sociale Italiana, Milano, Rizzoli, Roberto Vivarelli, Fascismo e fascismi, in Nuova storia contemporanea, Evola stipendiato dal Duce, in Avvenire, Marco Tarchi, Evola e il fascismo: note per un percorso non ordinario, in  Cultura e fascismo. Letteratura, arti e spettacolo di un ventennio, Firenze, Ponte alle Grazie, Giuseppe Parlato, Fascismo, Nazionalsocialismo, Tradizione, in Julius Evola, Fascismo e Terzo Reich, Roma, Mediterranee, Renzo De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Il Fascismo, saggio di un'analisi critica dal punto di vista della Destra, Volpe, Roma, Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Torino, Bollati Boringhieri, Pino Rauti e Rutilio Sermonti, Storia del fascismo, Roma, Centro Editoriale Nazionale, Giuseppe Parlato, Fascismo, Nazionalsocialismo, Tradizione. Cfr. anche, sulla critica allo stato educatore, Julius Evola, Fascismo e Terzo Reich, Evola, Fascismo e Terzo Reich, Fascismo e Terzo Reich.  Gianfranco De Turris, Nota del curatore, in Julius Evola, Fascismo e Terzo Reich, Per un elenco completo delle collaborazioni giornalistiche: Gianfranco De Turris, Biografia, in Gianfranco De Turris, Testimonianze su Evola, Julius Evola, Il mito del sangue, Milano, Hoepli, Evola, L'esposizione antiebraica di Monaco, "Il Regime fascista", Julius Evola, I testi del Corriere Padano, Padova, Edizioni di AR, Franco Cuomo, I Dieci. Chi erano gli scienziati italiani che firmarono il manifesto della razza, Milano, Baldini Castoldi Dalai, Julius Evola, Il mito del sangue. Julius Evola, Il mito del sangue. Il cammino del cinabro. Evola, Il cammino del cinabro, Franco Rosati, Un pessimismo giustificato? Intervista a Evola, in La Nation Européenne, Renzo De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Torino, Einaudi, Renzo de Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Torino, Einaudi, Gianfranco De Turris, Testimonianze su Evola, Roma, Edizioni Mediterranee e Vanni Scheiwiller, Note dell'editore in Julius Evola, Il cammino del cinabro. Tale è l'opinione di un'importante testata giornalistica italiana del tempo: Il Giornale d'Italia  (l'articolo è firmato da Adone Nosari). Il rif. si trova in: Renzo De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, opAttilio Milano, Storia degli ebrei in Italia, Torino, Einaudi, Francesco Germinario, Razza del Sangue, razza dello Spirito: Evola, l'antisemitismo e il nazionalsocialismo, Torino, Bollati Boringhieri, Alberto Lombardo, Razza del sangue, razza dello spirito, Centro Studi La Runa. Francesco Cassata, A destra del fascism: profilo politico di JEvola, Torino, Bollati Boringhieri. Gianni Scipione Rossi, Il razzista totalitario. Evola e la leggenda dell'antisemitismo spirituale, Catanzaro, Rubbettino, Furio Jesi, Cultura di destra, Milano, Garzanti,Guido Caldiron, Un filosofo buono per tutte le destre, in Avvenire, Furio Jesi. Luca Leonello Rimbotti, Linea, Massoneria e fascism: dall'intesa cordiale alla distruzione delle Logge: come nasce una «guerra di religione», Castelvecchi, Julius Evola, Per un allineamento politico-culturale dell'Italia e della Germania, in Lo Stato. Il cammino del cinabro. Fra queste la Piccola Treccani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Giorgio Bocca, La Repubblica di Mussolini, Roma-Bari, Editori Laterza, Bruno Zoratto, Julius Evola nei documenti segreti dell'Ahnenerbe, Roma, Fondazione Julius Evola,  G. De Turris, Julius Evola. Un Filosofo in Guerra, Milano, Mursia, Il cammino del cinabro, Fondazione Julius Evola, Una biografia di Julius Evola, su Fondazione Julius evola. Gianfranco De Turris, Lettere di Julius Evola a Girolamo Comi, Roma, Fondazione Julius Evola, Francesco Carnelutti, In difesa di Giulio Evola, in L'Eloquenza,  Julius Evola, Autodifesa, Roma, Edizioni Fondazione Julius Evola, Pino Rauti, Evola: una guida per domani, in Civiltà,  Gianfranco De Turris, Elogio e difesa di Evola, Roma, Mediterranee, Gianfranco De Turris, Elogio e difesa di Julius Evola, op. Julius Evola, Razzismo e altri orrori (compreso il ghibellinismo), in L'Italiano, Gianfranco De Turris, Elogio e difesa di Julius Evola, Felice Pallavicini, Evola, traditore dello spirito, in Corriere della Sera, Gianfranco De Turris, Elogio e difesa di Julius Evola. Pino Tosca, Il cammino della Tradizione, Rimini, Il Cerchio, La via romana, Centro Studi sulle Nuove Religioni. Julius Evola, Statuto della Fondazione Julius Evola, su juliusevola, Riccardo Paradisi, Gli Arya seggono ancora al picco dell'avvoltoio, in Giovanni Conti, Evola tascabile, Roma, Settimo Sigillo, Amalia Baccelli, Ricordo dell'uomo, in Civiltà,  //lastampa// edizioni/ aosta/la-nostra- fuga- dagli-sul- monte-rosa- per- seppellire- le-ceneri-di-evola- Julius Evola, Franco Freda  Orientamentiundici punti, Padova, Edizioni di Ar, Evola, Rivolta contro il mondo moderno, Enzo Collotti, Il fascismo e gli ebrei, Bari-Roma, Laterza, Alessandro Barbera, La biblioteca esoterica. Carteggi editoriali Evola-Croce-Laterza, Roma, Fondazione Julius Evola, Cesare Medail, Julius Evola: mi manda Don Benedetto, in Corriere della Sera,  Cfr. la prefazione del testo Lettere di Julius Evola a Benedetto Croce, pubblicato dalla Fondazione Evola.  Guglielmo Savelli, Cronache di un incontro mancato. Gli ardui rapporti tra l'attualismo e l'idealismo magico, su italiasociale.org, Stefano Arcella, Gentile amico e nemico, "L'Italia Settimanale", Margarete Durst, Il contributo di Julius Evola all'"Enciclopedia Italiana", in Il Veltro,  Guido Calogero, Come ci si orienta nel pensiero contemporaneo? Sansoni, Firenze, Alessandro Giuli, Evola-Gentile-Spirito: tracce di un incontro impossibile, in Annali della Fondazione Ugo Spirito. I volumi sono: Saggi sull'idealismo magico, Teoria dell'individuo assoluto, Imperialismo pagano e Fenomenologia dell'individuo assoluto.  Alberto Lombardo, Caro conservatore ti scrivo, su centrostudilaruna, Si tratta del saggio Donoso Cortes in gesamteuropäischer Interpretation, poi pubblicato in Carl Schmitt, Donoso CortésInterpretato in una prospettiva paneuropea, Milano, Adelphi, Julius Evola, Ricognizioni. Uomini e problemi, Roma, Mediterranee, C. Schmitt, Donoso Cortes Interpretato in una prospettiva paneuropea, Evola, Rivolta contro il mondo moderno, Giovanni Damiano, Evola e l'utonomia del politico, Atti del convegno di studi "Evola e la politica", Alatri, Emiliano Di Terlizzi, Antonio Caracciolo, Due atteggiamenti di fronte alla modernità, in Antonio Caracciolo, Lettere di Julius Evola a Carl Schmitt, Roma, Fondazione Evola. Essere e divenire, in Julius Evola, Rivolta contro il mondo modern. Evola, infatti, oltre a Benn, scrive a Guénon, Eliade e Schmitt e Jünger. Julius Evola, Il cammino del cinabro, Lettere a Tzara, Roma, Fondazione Evola, Elisabetta Valent.  In italiano Adriano Tilgher, Giulio Evola, in Antologia dei Filosofi Italiani del dopoguerra, Modena, Guanda,  Gianfranco De Turris, Omaggio a Julius Evola, Roma, Volpe, Gianfranco De Turris, Testimonianze su Evola, Roma, Mediterranee,Maura Del Serra, L'avanguardia distonica del primo Evola, in Studi Novecenteschi, Pier Luigi Aurea, Evola e il nichilismo, Palermo, Edizioni Thule, Piero Vassallo, Modernità e tradizione nell'opera evoliana, Palermo, Edizioni Thule, Philippe Baillet, Julius Evola e l'affermazione assoluta, Padova, Edizioni di Ar, Marcello Veneziani, La ricerca dell'assoluto in Julius Evola, Palermo, Edizioni Thule, Gian Franco Lami, Introduzione a Julius Evola, Roma, Volpe,  Marcello Veneziani, Julius Evola tra filosofia e tradizione, Roma, Ciarrapico editore, Roberto Melchionda, Il volto di Dioniso, Roma, Basaia, Giovanni Ferracuti, Julius Evola, Rimini, Il Cerchio, Anna Maria Jellamo, Julius Evola. Il filosofo della tradizione, in La destra radicale, Milano, Feltrinelli, Piero Di Vona, Evola e Guénon. Tradizione e Civiltà, Napoli, Società Editrice Napoletana, Marguerite Yourcenar, Incontri col Tantrismo, in Il tempo grande scultore, Torino, Einaudi, Gennaro Malgieri, Modernità e Tradizione, Roma, Settimo Sigillo, Tradizione e/o Nichilismo, letture e ri-letture di "Cavalcare la tigre", Milano, Società Editrice Barbarossa.   Antimo Negri, Julius Evola e la filosofia, Milano, Spirali, Luca Lo Bianco, Evola, in Dizionario biografico degli italiani,  43, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, Marco Fraquelli, Il filosofo proibito, tradizione e reazione nell'opera di Julius Evola, Milano, Terziaria, Pablo Echaurren, Evola in Dada, Roma, Settimo Sigillo, Gianfranco De Turris, Adolfo Morganti;, Julius Evola, mito, azione, civiltà, Rimini, Il Cerchio, Elisabetta Valento, Homo Faber, Julius Evola fra arte e alchimia, Roma, Fondazione Julius Evola, Renato Del Ponte, Evola e il magico "Gruppo di UR", Borzano, SeaR, Sandro Consolato, Julius Evola e il buddismo, Borzano, SeaR, Delle rovine ed oltre, saggi su Julius Evola, Roma, A. Pellicani. Gianfranco De Turris, Elogio e difesa di Julius Evola, il Barone e i terroristi, Roma, Mediterranee,Adriano Romualdi, Su Evola, Roma, Fondazione Julius Evola, Giovanni Damiano, La filosofia della libertà di Evola, Padova, Edizioni di Ar, Gigi Montonato, Comi-Evola. Un rapporto ai margini del fascismo, Lecce, Congedo, Beniamino Di Dario, La via romana al Divino: Evola e la religione romana” (Padova, Edizioni di Ar); Francesco Germinario, Razza del sangue, razza dello spirito, Torino, Bollati Boringhieri, Patricia Chiantera Stutte, Julius Evola. Dal dadaismo alla rivoluzione conservatrice, Roma, Aracne, Francesco Cassata, A destra del fascismo. Profilo politico di Julius Evola, Torino, Bollati Boringhieri, Giovanni Damiano, L'ora che viene. Intorno a Evola e a Spengler, Padova, Edizioni di Ar, Sandro Consolato, Julius Evola trentanni dopo, Roma, I libri del Graal, 2004.   Vitaldo Conte, Julius Evola. Arte come alchimia, mistica, biografia, Reggio Calabria, Iriti, Thomas Dana, Julius Evola e la tentazione razzista, Mesagne, Sulla rotta del sole, Alberto Lombardo, Evola, gli evoliani e gli antievoliani, Roma, Nuove Idee, Gianfranco De Turris, Esoterismo e fascismo, Roma, Mediterranee, Hans Thomas Hakl, La questione dei rapporti fra Julius Evola e Aleister Crowley, in Arthos, n. 13, 2006,  269-289. Gianni Scipione Rossi, Il razzista totalitario, Catanzaro, Rubbettino, 2Marco Iacona, Il maestro della tradizione. Dialoghi su Julius Evola, Napoli, Controcorrente,Alessandra Tarquini, Il Gentile dei fascisti, Bologna, Il Mulino, Marco Iacona, Julius Evola e le vicende processuali legate ai Far (1951-54), in Nuova Storia Contemporanea, Fabio Venzi, Julius Evola e la libera muratoria, Roma, Settimo Sigillo, Gianfranco De Turris, Evola. Un filosofo in guerra, Milano, Ugo Mursia Editore, Rene Guenon, Lettere a Julius Evola, edizioni Arktos, Heliodromos, Speciale Evola, Catania. Documentari Dalla Trincea a Dada di Maurizio Murelli. DVD  dalla Società Editrice Barbarossa di Milano, della durata di 101 min., che ripercorre il periodo artistico di Evola. Con musiche di: Ain Soph, Kaiserbund, Roma, Wien, Zetazeroalfa.  Pio Filippani Ronconi, Reghini, Parise, Pitagorismo Tradizionalismo, Paganesimo, Via romana agli dei, Fondazione Julius evola.  Treccani Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Dizionario biografico degli italiani, Rigenerazion Evola, Centro Studi La Runa. Vatimmo, “Evola, un filosofo scomodo per tutti”; Approfondimenti sul pensiero Francesco Rosati, Intervista a Evola, su juliusevola, Giovanni Monastra, Evola tra la seduzione e l’aristocrazia. Michele Ognissanti, Luci ed ombre su Evola, su salpan.org, Alberto Lombardo, Da Rivolta contro il mondo moderno a Gli uomini e le rovine. Mario Polia, Linee per una critica al concetto di tradizione in Evola, Giano Accame, Evola e la Konservative Revolution, Luca Lionello Rimbotti, Evola così com'era, Vitaldo Conte, Maschere di Evola come percorso controcorrente, Aleksandr Dugin, Astrazione e differenziazione in Julius Evola, Opere dadaiste, futur-ism. 2artericerca. 29 dicembre. Interviste Intervista a Julius Evola, su youtube 29 dicembre. Intervista a Salvatore Tringali, su youtube Intervista a Gian Franco Lami, su youtube Quando Evola intervistò il conte Kalergi, su rigenrazione evola.  GIULIO EVOLA    S \T0 A ROMA IL 19 MAGGIO 1889.    | Evola parie dall’idealismo: il mondo è per lui  ■fa rappresentazione dell’Io. Ma poiché l’Io subisce  Kfa rappresentazione del mondo come nn limite e  wLffrc in essa la sua passività, s’impone all’Io l’ob-  blitpi pratico di sciogliere la sua passività in atti-  vità riducendo il mondo sotto il comando suo, [a-  j rendo di esso l ' atto dell’Io. La tecnica di questo pro-  gresso di risoluzione del mondo nell’Io è data dal-  l’Occultismo magico. Dall’innesto dell’Idealismo clas-  sico con la Magia nasce /'Idealismo Magico di Evola.    irò I;   r„    Opere principali — Saggi sull’Idealismo magia  - L’uomo come potenza - imperialismo pagano, To-  di, Atanor; Teoria dell’Individuo assoluto - Feria-  menologia dell’Individuo assoluto - Maschera e voi.  to dello spiritualismo contemporaneo, Torino, Boc-  ca; L’indivìduo e il divenire del mondo, Roma, Li-  breria di Scienze e Lettere; La Tradizione ermetica  Bari, Laterza; Rivolta contro il mondo moderno  Milano, Hoepli. — Ha diretto le riviste Ur e La  Torre.     Dall    'idealismo assoluto all’idealismo magico.    1) La Grande Solitudine.    Una volta che l’Io si sia costituito a prin-  cipio a sè, a centro distinto di autoriferimen-  to. il fatto stesso che egli possa comunicare  con qualcosa di altro da lui, il fatto stesso che  egli possa in generale conoscere, appare come  un singolare mistero. E poiché è evidente che  posto il soggetto da una parte, l’oggetto dal-  l’altra non vi è più alcun modo di intendere  come quella lor congiunzione, in cui consiste  il conoscere, sia possibile; e poiché d’altra  parte l’Io ha preso ormai coscienza di sè e    75    non può più tornare a quello stato di ingem )4  adesione, di compenetrazione con le cose cli f  era appunto condizionato dal suo non esser.!  si ancora posto; resta aperta una sola via al  problema della conoscenza, e cioè: negar,,  che l’idea di una realtà esistente in sè stessa  abbia un qualunque senso, affermare che ] a  sostanza delle cose consiste semplicemente  nel loro venire rappresentate o pensate dal.  l’Io, intendere dunque che l’intero sistema  mondiale, nella ricchezza sterminata delle  sue forme, con i suoi oceani, i suoi soli e ] t .  sue vie lattee, non è che un fenomeno, una ap-  parizione che è di questo Io e per questo Io,  fuori dal quale non gli si saprebbe coeren-  temente garentire alcuna consistenza. Lungo  una tale via l’uomo vede dunque venir me-  no progressivamente tutti quegli appoggi e  tutte quelle naturali evidenze su cui prima  riposava — tutto gli si fa ora dubbioso, pro-  blematico, contingente. Tutto ciò che sa, è che  egli ora si trova così e così determinato, che  questa è la sua attuale esperienza, queste le  leggi e le categorie secondo cui egli si trova  costretto a pensarla. Ma circa il fondamento  di tale determinatezza, di tali leggi e di tali  categorie, egli non sa nulla, e così nulla sa-  prebbe garentirgli che le cose, se così sono  ed anche sono state nei casi osservati, non  possano ad un tratto cambiare, che ogni uni-     L rI )iilà cd ogni costanza non sia astratta e  precaria, c h e , fondato su una radicale contin-    g c,lZ    za , questo sistema di fenomeni e di cate-    ti» 1 '    j e non sia che un episodio fugace, disper-  mia incoercibile, imprevedibile vicenda.    in    Se, dopo di ciò, l’individuo cerca ancora  „ n punto fermo, egli soltanto nel suo « Io »    può    Irovarlo. — Il mondo è una rappresenta-    r joiie, sta bene: ma si può forse parlare di  Ljpprescnlazione, senza nello stesso punto  resupporre resistenza di un « rappresen tall-  ite». di un soggolo cioè che la rappresenti?  [n mondo è un sogno: ma ogni sogno non im-  Iplica forse un sognatore? Si può chiamare  f a | S o, illusorio, non esistente l’insieme dell’e-  sperienza — ma colui che sperimenta e affer-  ma cotesta falsità, illusione, non esistenza  non può essere, lui, falso, illusorio, non esi-  stente. Di là dall’obliquità e dalla fluttuazio-  ne delle « cose che sono e non sono » vi è dun-  que una sola certezza: 17o. Soltanto qui l’in-  dividuo, con un possesso, ha una realtà asso-  luta ed in sè stessa evidente. Di tutto il resto  _ dell’oceano sterminato dei nomi, delle for-  me e degli esseri — non vi è reale certezza:  parvenza, contingenza, violenza di un bruto,  irrazionale « esser là », tali ne sono i princi-  pi. * lo solo sono — il resto è mia rappresen-  tazione » : in ciò si può dunque intendere la  conclusione del secondo stadio della storia  della coscienza.     Prima di passar oltre, occorre rilevare v  necessità che questo momento critico deli  storia ideale dell’individuo sia portalo e vk  suto sino a fondo. Non prima che egli abbj a  di tutto dubitato e tutto negato, non prima eh,,  egli abbia fatto intorno a sè il deserto, noft  prima che di ogni realtà abbia sofferta I’j N  realtà, di ogni evidenza la precarietà, di ogi,,  luce l’oscurità: non prima che egli abbia di-  strutto ogni appoggio e ogni rifugio ed abbj a  realizzato il punto della «grande solitudine»   — non prima di ciò l’individuo può chiamar-  si veramente tale, non prima di ciò egli è un  essere autonomo ed autocosciente. E’ quest,,  atto negativo, questo assoluto strapparsi da  quanto prima gli dava consistenza — che ora  lo fa essere. Così come secondo l’energico del-  to dello Stirner, l’Io non è tutto, ma ciò che  distrugge tutto; per questa assoluta negatività  albeggia nell’uomo quel principio tragico che   — come fu distintamente visto dal buddhismo   — lo fa superiore all’insieme della natura ed  allo stesso regno degli « dei ».   Si può precisare il luogo di un tale Io co-  me segue. Ogni esperienza è inseparabilmen-  te accompagnata dalla nota, implicita o espli-  cita, di essere una mia esperienza. Uautorife.  rimento, l’ahamkàra della metafisica indiana,  è la condizione elementare, senza di cui non  è concepibile alcuna realtà, giacché la sola    78    Il 11    di cui posso concretamente parlare è  iella che, in un modo o nell’altro, si risolve    r eal |:l    in    ull a mia esperienza. Ora è possibile stacca-    fe cpiesto principio di autoriferimento dai  particolari contenuti delle esperienze per ri-  legarlo in un certo modo su sè stesso. Allo-  ra s i ha: IO — IO, cioè una nuda esperienza,  un possesso, qualcosa di semplice e di ineffa-  bile. Questa nuda esperienza si presuppone,  ,|i fatto e di diritto, a qualsiasi altra esperien-  za si può dire che essa è come la tela sul-  i a quale poi tutte le particolari esperienze si  ritagliano: qui si ha quel «veggente che non  -, mai veduto », quel « conoscente che non è  ina i conosciuto », quel punto di centralità pu-  ra di cui parlano le Upanishad, e rispetto a  cui ogni particolare esperienza, fenomeno o  pensiero è un « posterius », qualcosa che vie-  ne dopo e che sta alla periferia. Si badi: qui  non si tratta nè di un Io « superiore », nè di  un Io « inferiore », nè di un Io « empirico »,  nè di un Io « trascendentale », — semplici no-  mi e astrazioni concettuali — bensì del mio  I>>, di quella assoluta presenza che sono nella  profondità del mio essere individuale. Ora  che un tale Io sia qualcosa di immoltiplicabi-  lr, qualcosa che è « solo e senza un secondo »,  è troppo evidente. Parlare di altri Io da que-  sto livello è infatti contradizione in termini.  Gli altri Io, in quanto sono « altri », non so-      no « Io », bensì dei particolari contenuti p P  senti nella mia esperienza — dunque degl;  oggetti, dei « conosciuti », al più il concett  di un conoscente e di un soggetto, non il So  getto, non il conoscente quale è in sè stesso  (cioè: come autoesperienza), che, come t a |^  esso è unico e incomunicabile. Fenomeni pJj  tieolari in questo grande fenomeno, che è il  mondo a cui, come individuo, mi sveglio,   « altri Io » ne partecipano la contingenza, so-  no qualcosa il cui principio mi sfugge, di cui  non ho alcuna reale certezza (forse che ara  che i sogni non mi presentano la parvenza di  altri esseri simili a me? E non potrebbe essere  la cosidetta esperienza reale un sogno più po.  tenie e costante impresso in me, come lo sup-  pose la scepsi cartesiana, da un qualche spi-  rito?), che cadono fuori da quel centro che,  solo, può costituirmi una terra ferma nel gran  mare dell’essere. E’ questo un punto su cui  occorre richiamare particolarmente l’attenzio-  ne: colui che, o per preoccupazioni morali e  sentimentali — a dir vero riconnettentisi al-  la precedente fase dell’evidenza naturale —  o per insufficienza di riflessione critica, non  sia giunto ad estendere il dubbio sulla realtà  stessa degli altri soggetti, epperò a concepirli  come null’allro che mie rappresentazioni,  quegli non ha veramente condotto a fondo  quel distacco, di cui poco fa si è parlato, ep    .SO    però non ha ancora perfettamente realizzala  la pura essenza dell’individuale. Costui non  è ancora maturo per il passaggio alla terza  epoca giacché di nulla può avere assoluta  I certezza quei che prima non ha saputo di tul-  io dubitare.   2) La uia della Potenza.   Passando dunque alla terza fase, diciamo  subito che in essa si ha un superamento del  lato negativo connesso all’adergersi dell’indi-  vidualità. Come chi una avversa vicenda aves-  se gittato sur una isola deserta incalzato, di  là dal primo sgomento, dalla volontà di vive-  re, va a cercare ed a creare mezzi per una  nuova esistenza, così 1 individuo, che si sen-  te ormai solo con se stesso nell’intero ambito  del mondo, può essere portato a trarre dal  proprio interno un principio che sappia fis-  sare una nuova realtà di là dall’ordine della  parvenza e della mera rappresentazione, in  cui ogni cosa ormai è andata sommersa. Que-  sto principio è: LA POTENZA DI DOMINIO.  L’Io, infatti, non è una cosa, un « dato », un  «fatto», ma, essenzialmente, un centro pro-  fondo di volontà e di potenza. Come lo dice  il Fichte, egli non è, che in quanto si pone  — e soltanto un puro porsi è, a dir vero, il  suo « essere ». Come tale si rivela, per un ul-    c    8L    teriore autoapprofondimento, la natura di  quel punto fermo, che si è realizzato nel se-  condo stadio. Ora questo punto fermo può  comunicare la propria consistenza a quel che  non ne ha, e ciò evidentemente quando si va-  dano a riprendere secondo il rapporto pro-  prio ad una affermazione incondizionata dcl-  l’individuale i vari ordini di quella realtà, che  prima appariva irrazionalmente, in bruta con-  tingenza, senza partecipazione della volontà  dell’Io — quasi come in un sogno. Resta da  procedere ad una determinazione di questo  stadio, tale che si definisca l’oggetto della  presente trattazione, e cioè il rapporto del-  l’individuo al divenire del mondo. Nel frat-  tempo si può dire quale sia il criteiio di cer-  tezza che si impone a questo punto. Esso è  espresso dal principio: « Vi è assoluta certez-  za — ed è postulatile realtà — soltanto di  quelle cose, dell’essere o del non essere, del-  l’essere cosi o dell’essere altrimenti delle qua-  li l’Io ha in sé, in funzione di dominio, il  principio o la causa', delle altre, solamente  nella misura di ciò che in esse soddisfa ad un  tale criterio». Queste cose dipendendo infatti  interamente dalla potenza dell Io, partecipa-  no dell’intrinseca evidenza che è inerente al  nudo principio di questo.   Volendo dunque sviluppare la posizione  assunta dalla coscienza nel terzo stadio, si    82    ■ ns idererà l’unica vera obbiezione incontra-  W dall 'idealismo assoluto. Nell’idealismo as-  P 0lulO si ha la dottrina che cerca di trasfor-  I re in qualcosa di positivo quel lavoro ne-  1 ,ivo di critica e di scepsi che definisce il  Secondo stadio; e ciò cessando di intendere  I il inondo come un fenomeno, come una sem-  jj cC apparizione (unica legittima conclusio-  I „ e dell’indagine critica) per intenderlo invece  [ come qualcosa di posto, di creato dall’Io. Per-  Bianto quando si parla non più di rappresenta-  la bensì di porre e di creare, entra in giuo-  Ico il concetto di una libera volontà, ed allo-  I rii sorge questo problema: lo posso ben ri-  B durre il mondo alla mia ruppi esentazione,  nui fino a che punto posso ridurlo anche alla  mia volontà ed alla mia libertà?   Qui bisogna porre un punto fondamentale,  e cioè intendere l’essenziale differenza che in-  I lercorre fra spontaneità e volontà. Si ha spon-  taneità là dove il possibile essendo identico  al reale ossia dove quel che è essendo ciò che  soltanto poteva essere, l’atto ha la forma di  I una inconvertibile compulsione, di un bruto  accadere e scatenarsi, ed è passivo, impoten-  te rispetto a sè stesso. Invece nella volontà vi  f è una eccedenza del possibile sul reale, non si  passa cioè dal possibile al reale immediata-  mente, ma un punto di autarchia, di « pote-  stas», domina l’atto come l’estrema, incondi-    zionata ragione del suo essere o del suo i 1(Jll  essere, del suo essere così o del suo essere  altrimenti come alto che è solamente uno c| e j  possibili, anzi dei compossibili. E’ importante  notare che tanto la spontaneità che la volontà  possono dirsi libere: però mentre nella spoj,.  taneità si tratta di una libertà affatto ncgatj.  va, di una libertà cioè che vuole semplicenieji.  te dire: «non essere determinato dall’ester-  no», nella volontà si ha una libertà positiva,  una libertà cioè che significa assoluta assen-  za di condizioni, siano esse interne che ester-  ne, e quindi contingenza, o, se si preferisce,  arbitrarietà dell’atto.   Una volta compresa questa distinzione,  che non poggia tanto su concetti e sottiglicz-  ze intellettuali, quanto piuttosto sur un dato  immediato di coscienza, sur una evidenza in-  terna che o si ha o non si ha, quando l’idea-  lista assoluto di contro al sistema della realtà  afferma essere stato l’Io a porlo, è evidente  che egli si riferisce non ad una volontà, ma  ad una spontaneità. Egli si riferisce infatti a  quell’attività onde le cose vengono percepite  e rese intime al nostro Io, a quell’elementare  « assenso » onde ci si accorge di esse — as-  senso che se è condizione necessaria per ogni  realtà, in quanto realtà sperimentata dall'Io  (e di altra realtà noi non possiamo coerente-  mente parlare), è ben lungi dall’essere anche    84    r   ^dizione sufficiente. Infatti nel rappresen-  c , il reale non è dominato dal possibile, l’Io  passivo rispetto al proprio atto — non tanto  Lff ernia le cose, quanto piuttosto è come se  i L » cose si affermassero in lui. Come la passio-  ne e l’emozione, la rappresentazione è sì qual-  , sa di mio, qualcosa che io traggo dal mio  proprio interno (e fin qui arriva la legittimi-  tà dell’istanza dell’idealismo, del resto soddi-  sfatta sin dal Leibniz), ma non è me, giacché  jo non posso darla liberamente a me stesso,  giacché io non sto in rapporto di signoria alle  determinazioni di essa, onde mi si dispiega  lo spettacolo della realtà che è questa realtà,  |l0) i la realtà che io voglio. Conseguentemeu-  i c; in tanto l'idealista può dire di essere stato  [lo a « porre » la natura, in quanto egli ridu-  ce l’Io a natura, cioè in quanto di quelVlo, che.  c libertà, non sa nulla, o, per meglio dire, fa  come se non sapesse nulla, e, con evidente  paralogismo, mutua il concetto di Io con quel-  lo del principio di spontaneità. — Posso dire  di essere stato io a porre la natura, ma io in  quanto sono spontaneità, non in quanto sono  propriamente un Io, e cioè libertà e domina-  zione. — E questo è il primo punto.   I! realista, riferendosi propriamente al  punto della reale individualità, avanza dun-  que una istanza che è interamente legittima.  Egli ci pone dinnanzi ad una qualunque con-    85    tingenza dell’esperienza, per es. dinnanzi a ,|  una tempesta, e ci domanda se possiamo ( |j.  re di essere stati noi a « porla ». Mentre q U j   l’idealista risponderebbe con l’affermativa   e ciò perchè, come si è detto, per lui « porre >  significa semplicemente rappresentare C o a  « libera necessità » — noi invece, riferendoti  ad un porre che il principio del dominio <•  dell’incondizionata libertà comandi, rispon-  deremmo: « Ciò, in verità, non è posto dal-  l’Io ». Altro non chiede il realista per dire su-  bito: « Poiché ciò non è posto dall’Io, vi deve  essere un “ altro ” a porlo » — ed inferisce  ad una causa reale o esistente in se stessa del-  le rappresentazioni, quale Dio, la materia, il  noumeno, ecc. Qui sta invece l’errore e il pun-  to su cui ci si permette di richiamare tutta  l’attenzione del lettore. — Dire che io, come  lo, cioè come principio sufficiente e libero,  non posso riconoscermi come causa incondi-  zionata delle rappresentazioni, non vuole af-  fatto dire che queste rappresentazioni siano  causate da « altro » e abbiano per substrato  delle cose reali o esistenti in sè stesse, ma  vuole semplicemente dire che io sono insuf-  ficiente ad una parte della mia attività, la  quale è ancora spontaneità, che una tale par-  te non è ancora MORALIZZATA, che l lo co-  me libertà in essa soffre una PRIVAZIONE.  Tutto ciò su cui non posso, tutto ciò che re-    86    5 j e a iia mia volontà, non è che una priva-  tone di questa volontà stessa, qualcosa di ne-  (ivo, non un essere, ma un non-essere. Per-  il realista va respinto par ime fin de non  ecevoir : egli nel suo riferirsi ad un « altro »  ____ Dio, noumeno, sostanza, ecc. — fa del non-  ^sere un essere, chiama reale ciò che essen-  j 0 solamente una privazione della mia poten-  za , essendo nuH’altro che una negazione ed  ’ vuoto nel corpo immoltiplicabile della mia  attività, si dovrebbe invece, secondo giustizia,  dire irreale. Così conferma questa privazione  slcssa __ così {ugge-, all’atto che, dominando-  le, possedendole, annulla le cose (1) e redime  la privazione, egli invece sostituisce l’atto che  le riconosce e che dà loro superstiziosamente  un essere e una realtà autonoma. Proprio al  primo atto si appunta invece il criterio di cer-  tezza della terza delle fasi indicate: esso chie-  de cioè che l’Io libero e nudo dell’individuo  possa veracemente affermare il principio del-  l’idealismo assoluto, epperò dire: « In verità,  io sfesso son la causa ed il Signore di questo  mondo, in cui mi vivo ». Ma quando sarà pos-  sibile affermare ciò? Evidentemente quando  Tindividuo abbia redento in un corpo di li-    ti) Naturalmente: le annulla in quanto sono al-  tre, per affermarle invece come gesti di una vulon-  U) potente.    87    berla l’oscura passione del mondo, quando  abbia fatto passare la forma secondo cui egli  vive l’attività rappresentativa (quell’attività  cioè per cui si forma in lui lo spettacolo del-  l’universo), da spontaneità — da coincidenza  di possibile e reale — a nuda, incondizipnata  causalità, cioè a: volontà potente (1).   Ora che soltanto in una tale veduta l’atto  dell’individuo abbia un valore cosmico, e che  invece in quella del realismo all’attività ven-  ga tolto ogni vero senso e scopo, può risulta-  re ad ognuno chiaro. Infatti l’attività ha ve-  ramente un senso ed un valore soltanto là do-  ve vi è da far reale qualcosa, che già non e  tale. Questo caso si verifica appunto là dove  P « altro » — ossia ciò che rispecchia il limite    (1) Come questa trasformazione, che affermiamo  essere non un mito, ma possibilità reale, possa poi  praticamente compiersi, è un problema da noi trat-  talo almeno nei limiti in cui sia possibile pub-  blicamente e genericamente trattarlo — altrove, c  che qui non trova posto. Si può dire soltanto che  è un compito a cui nè cultura, nè devozione, nè fi-  losofia, nè arte, nè morale, nè nient’altro di ciò  che gli uomini chiamano «spiritualità», può porta-  re il menomo contributo. Quanto alla filosofia, il suo  limite è l’idealismo magico, in cui perviene a rico-  noscere la propria insufficienza e a postillare la rea  lizzazione della potenza come ciò in cui i suoi mas-  simi problemi possono trovare l’unica assoluta lo-  ro soluzione.    88    Ella mia ,i,)erla — venga inteso non come  ■"f 1 realtà» bensì come una negazione ed un  K » 0 - allora il mondo appare come qualco-  ' l \]i incompleto, come qualcosa che chiede  E u a integrazione a quell’atto dell’individuo,  ILe 1« necessità si faccia libertà, a quello  f ii u pp° deirautoaffermazione onde l’attua-  le potente dell’Unico si estenda e riaffermi  r q U anto ne è la privazione. Se invece si po-  f c i K . 1’ « altro » in quanto tale — cioè pro-  |Ljo come quel principio che limita la mia  |j!j )ert à — sia non una privazione e un non-es-  bensì una positività e una realtà — allo-  ro tutto è già perfetto, tutto è già « essere », e  „on occorre far altro. Ogni scopo ed ogni va-  lore dell’attività e del divenire, ogni respon-  I «abilità vengono meno — giacché i vuoti del  ìmio essere non sono anche vuoti dell’essere  in generale: l\ altro», con la realtà attribui-  tagli- li riempie. Invece nell’altro caso tutto il  inondo appare come una oscura, dolorosa ri-  chiesta all’Io affinchè questi si dia a sè me-  desimo secondo potenza e, in ciò, lo attui nel-  l'essere, in ciò lo redima dalla privazione, in  ciò lo faccia reale. E il divenire — ciò che io  faccio — ha allora un valore, un valore co-    smico.   Esaminando più da vicino la posizione  realistica, si vede che essa si fonda su que-  sto presupposto: che una attività imperfetta,    una attività limitata da per sè stessa non poJ  sa venire concepita, che non appena sia p r .ì  sente una attività limitata si debba snjjju  pensare a qualcosa che sia causa di questa li.  nutazione. Infatti così sta la quistione nel p r() _  hlema della conoscenza: nelle cose vi è Utl  aspetto per cui esse indiscutibilmente dip,.,,.  dono dall’attività dell’Io, aspetto che si rif c .  risce al loro venire in generale rappresentale  o sperimentate; ma vi è anche un secondo  aspetto, che rappresenta un lato negativo nel-  l’attività dell’Io, riferentesi appunto aU’in 1J)(> .  tenza di percepire, non percepire o trasmutare  la percezione come si vuole. Ora su che cosa  si basa il realismo? Appunto su ciò, che à  sente il bisogno di dare una spiegazione a  questa limitazione, che esso non vuole ammet-  tere che una attività limitata, cioè una attivi-  tà incompleta, sia ciò che sta prima, e quindi  sente il bisogno di spiegare la limitazione con  qualcosa di «altro»; si riferisce dunque ad  una realtà distinta dall’Io come causa delle  rappresentazioni. Ma un tale presupposto ilei  realista è ciò che vi può essere di più conte-  stabile.   La concezione a cui si rimette è questa:  che ciò che sta prima debba essere l’assoluto  e che tutto ciò che è particolarità e finitezza  non sia concepibile altrimenti che come una  negazione operata da parte di un « altro »    L Ila pienezza di questo assoluto preesisten-  tratta cioè della posizione platonica e  te -noziana, espressa dal principio: « Ciò che  ' veramente, è l’universale; il particolare da  1 ' s è stesso non esiste, cioè: in ciò che esso  1,0 . l’universale, e in ciò che è propriamente  Articolare non è, è fredda e piatta negazio-  r s Ora ad una tale concezione si può con-  Lmporre l’altra, secondo cui non si va a pre-   ' apporre 1,asso,uto al finito e al P articolare ’  f. aim nette invece che ciò che sta prima sia  {«recisamente il finito e il particolare, intesi  *\ r ò non come qualcosa di in sè contraditto-  Ijjjo bensì come qualcosa di incompleto, non  conni qualcosa che non esiste da sè stesso,  bensì come qualcosa che già in una certa mi-  sura possiede l’essere e rispetto a cui l’asso-  luto non ne sarebbe la negazione, ma lo svi-  luppo- P unto in cui esso va a rentlere P er '  folto il proprio principio secondo un proces-  so continuo dal meno al più, dalla potenza  all’atto, da un grado più povero ad un grado  pii, intenso di attualità e di essere. Ora in una  tale concezione — che si impone dovunque  sviluppo, sintesi e divenire non siano un vuo-  to nome — a ciò che viene prima, in quanto  viene prima, inerisce un certo grado di « pri-  vazione », il quale gli è naturale e in nessun  modo chiede di venire spiegato. La sua spie-  gazione, se mai, non sta indietro — in un as-    soluto limitato dalla potenza di un « altro »  — bensì avanti — nel processo dell’incornpi^  to che si integra, della potenza che arde nel  l’atto, onde non vi è propriamente da spiega  re, ma da agire, da procedere in una più j,  tensa affermazione (1).   (1) E’ importante notare la relatività del conte!,  to di privazione. Un dato elemento non è mai p ri .  vazione in sè, ma sempre in relazione al valore del-  Pautarchia. Il passaggio ad un tale valore fa di q ll( ,|  che era positivo come spontaneità qualcosa di ne-  gativo e di «in potenza» rispetto al punto ulterio-  re. Cosi pure per chi non vuole passare dal punto  di vista logico a quello della volontà il concetto di  privazione non è intelligibile — ma allora l’ideali-  smo astratto resta l’ultima istanza. — Quando si  crede di superare la presente dottrina spiegando la  privazione con una realtà distinta, non si fa un  passo avanti ma un passo indietro, giacché si [ a  uso della categoria logica della causalità, con il chi-  questa stessa realtà diviene condizionata, logica-  mente posta dall’Io. E il cerchio si richiude e il li-  vello critico resta il limite. Si passa invece oltre  per un assoluto positivismo.   Quale è la differenza fra una cosa reale ed una  imaginata? Rappresentate, lo sono tutte e due egual-  mente; ma di là da ciò l’attività rappresentativa a  cui corrisponde la cosa reale è una attività rispet-  to a cui sono impotente. Vi sono elementi su cui  non posso. Questo è tutto.   11 problema di interpretare questo non-potcre  non lo risolviamo, perchè non lo poniamo e anzi  tacciamo di intellettualistica, di astratta, di irrile-    92    Si può dunque contestare il presupposto  lei realismo, si può non concedere il concel-  |. gpinoziano del finito come negazione su   : peso si basa. Poiché le cose sono, in quan-  cu* ^ f   anzitutto sono rappresentate, cosi che un   ole rispetto a ciò che davvero importa a questo  * unto ogni ricerca di tale genere. Questo è un punto  fondamentale: noi affermiamo che la spiegazione  EL] fatto che si è impotenti in certe situazioni con  •| ricorso ad un « altro » — cosa in sè, Dio, « Sto-  ricità dello spirito» et similia — è una psendospie-  Laziorie, anzi un circolo vizioso per questo: che in  noi il concetto di « altro » trae il suo senso e il suo  fondamento dal concetto di « non potere », il quale  l ciò che sta prima e di cui oggettività, cosa in sè,  ilio. ccc. non sono che tanti simboli e traduzioni  intellettuali. Le cosidette cose reali sono simboli  ,1,1 mio non-potere, della mia privazione. E’ per-  ché sperimento una privazione che chiamo reale  una cosa c non viceversa. La privazione spiega il  concetto di una realtà oggettiva e non la realtà og-  gettiva il concettò di privazione. Segue da ciò una  dichiarata professione di agnosticismo, un arre-  co dinnanzi al nudo fatto del non-potere con ri-  nuncia a spiegarlo come che sia*? Niente affatto. Ciò  che neghiamo (non perchè non ne possiamo dare  una, ma perchè tali spiegazioni non ci servono e  non ci bastano ) è la pseudospiegazione intellettuale,  che lascia i fatti come sono, che non trasforma il  rapporto reale della mia potenza con le cose. (Si  crede sul serio che la miseria e la contingenza che  dannano l’essere finito siano in qualche cosa ri-  mosse quando le si spieghino con la materia anzi-    »3    grado di attività e però di positività è già j n ,  plicito; poiché l’Io si può sperimentare imme-  diatamente come una energia, come un p r j n .  cipio di azione, come qualcosa che non chi e .  de ad altro il suo essere; poiché di diritto non  esiste un limite inconvertibile per lo svilupp,,  del potere; non vi è alcuna necessità di t ra .  scendere, in ordine al problema del conosce-  re, il concetto di una attività imperfetta (qu a .  le è la spontaneità rispetto alla volontà) che  solo, ci viene imposto da un esame positivo  e spiegare la rappresentazione con il riferi-  mento realistico ad un « altro » che la causi  e la sottenda. In ciò si avrebbe non tanto una    che con Dio. con l’ Io trascendentale anziché con  la materia, e cosi via, in simili cattive e a buon mer-  cato astrazioni?). La spiegazione che l’ idealismo mu-  gico esige è ben altra: è una spiegazione mediuntt  l’azione, una spiegazione risolutiva: è ex-plicare, os-  sia attuare, rendere perfetto: far passare in atto ciò  che è in potenza, in perfezione ciò che è imperfe-  zione, in sufficienza ciò che è insufficienza, secon-  do un processo sintetico, originale, creatore. Que-  sta è la sola, vera spiegazione. Il resto è passatempo.   Noi aspramente combattiamo tutta la rettorica  intellettuale e filosofica onde l’uomo si indugia a  discorrere intorno alla sua impotenza (ciò noi in-  tendiamo quando ci si parla di « verità », « raziona-  lità », ecc.) anziché balzare finalmente in piedi, im-  pugnarsi e, ardendola, farsi ciò che in sé è: un  Dio, un costruttore del mondo.    94    Baione intellettuale, quanto piuttosto il  Rfjsnia infingardo di colui, che, insufficiente,    dall’atto.   ■perciò la concezione che si presenta al ter-  s tadio dello sviluppo dell’individuale è,  tj complesso» la seguente: un continuum di  Eit’vità che ha per limiti da una parte la spon-  f c ità, dall’altra la volontà libera. La spon-  r c jtà è l’universale, la volontà libera l’indi-  . i ua le. Questi limiti stanno fra loro come po-  I a a d atto: tutto ciò che nell’esperienza è  Eretti vità, immediatezza, necessità, è, rispet-  to al punto dell’individuale, il non-essere ine-  [fcnte a ciò che è in potenza — e qui si com-  anderà forse a che cosa alludessero certi  fistici quando parlavano dell’ « oscura pas-  sione del mondo », dell’ « indicibile sofferen-  za dell’esistenza » in cui il corpo dell’ « Uomo  I celestiale » è crocifisso. Di una tale tenebra,  di una tale privazione, la libertà è l’a//o e la  Lm ma luminosa; e il mondo diviene, si fa  reale secondo realtà assoluta soltanto in e per  questa fiamma, cioè soltanto nella misura in  cui l’individuo, affermandosi nel punto della  potenza e della dominazione, consuma, arde  ! la sua originaria natura, fatta di spontaneità.  Da qui un punto fondamentale: Solamente  nell’ « Individuo assoluto », solamente nel-  l'«Autarca» il mondo diviene reale: la suf-  ficienza che egli si dà a sè stesso dà alla na-     tura un essere, una consistenza, una certe?*.,  e una ragione che essa, prima di lui, non p 0 .  siede già, ma chiede. Onde cercare la verità  e la certezza nella natura è un assurdo: <jj ac>  che la natura in quanto tale è privazione  axépTjotc e la certezza e la verità non l’ha i n  sè, ma nell’individuo, epperò in tanto Pi la  in quanto l’ individuo se la dia a sè stesso. //  mondo è, soltanto se egli è. Ma questo essere  egli non potrà mutuarlo da nulla, chè, avuto  «la altro, esso non sarebbe più essere, essere  essendo soltanto ciò che è da sè stesso < xxil’  aùtó); se dunque egli non si fa il salvatore di  sè stesso, nulla mai potrà salvarlo. E’ così che  la spiegazione e la verità non stanno dietro,  ma avanti — e non in un dedurre, ma in un  passare aH’atto. Tutta la natura, insieme di  esseri condizionati, insieme di esseri che si  rimettono ognuno ad altro da sè, gravita sul-  l’individuo: quei che non ha bisogno di nulla,  quei che non si appoggia su nulla — è ciò di  cui tutti gli esseri hanno bisogno, su cui tutti  gli esseri si appoggiano e con cui, nella misu-  ra in cui essi sono, sono uno. Egli solo, come  colui che ha in sè stesso il proprio principio,  come colui che è « ente di possesso », clic è  « persuaso », sostiene il peso del mondo: a lui,  che consiste, il processo universale si appen-  de e in lui trova la sua condizione, ciò per  cui dall’eternità è, ed in cui ha la sua desti    96    1    nazione finale. Perciò solamente nel punto  in cui l’individuo si attua nella folgorazione  jello potenza sorge una finalità, una ragione  f ii uno scopo nella natura: non prima ; è lui  che gliela dà. Essa la chiede al suo atto. Ep-  però un solo imperativo ha ormai l’indivi-  ( | U o: «SII, fatti DIO, e in ciò fa essere, SAL-  VA H mondo ».   3 ) Il mondo, atto dell’Io.   A lumeggiare questo punto, connettiamo  due ultime considerazioni, riguardanti l’una  il problema dell’essenza e dell’esistenza, l’al-  tra quello dell’uno e dei molti.   Le cose sono essenza ed esistenza. L’idea  di cento talleri e cento talleri reali non sono  evidentemente la stessa cosa. Pertanto nei  cento talleri reali, così come lo ha mostrato  Kant, non vi è logicamente compreso nulla  più che non sia nell’idea dei cento talleri. Ne  segue che in tanto si fa differenza fra gli uni  c gli altri, in quanto ci si riferisce a qualcosa  ili irreduttibile all’elemento logico. Questo  qualcosa è 1’ « esistenza », opposta all’ « essen-  za » (o, più rigorosamente, 1’ « esse existen-  tiae » opposto all’ « esse essentiae »). — Ed  ora un secondo punto. All’essenza, al « che  cosa è » di una determinata realtà principio    t)7    esplicativo è il concetto: quando una realtà  venga mediante il concetto geneticamente co-  struita in tutte le note che la individuano,  l’istanza esplicativa nell’ordine dell essenza è  esaurita. Pertanto che un oggetto di cui si sia  interamente penetrato ciò che è, sia, il nudo  fatto del suo « esser là » come oggetto reale,  ciò costituisce un punto che sfugge interamen-  te alla spiegazione razionale, è un àXcyov — e  principio esplicativo ad esso adegualo è non  il concetto, bensì la volontà o, per meglio di-  re, la potenza. Infatti il puro essere delle cose  costituisce per me un mistero fin quando esso  ha carattere di bruto dato, di qualcosa che è  là senza partecipazione del mio volere, im-  ponendosi anzi secondo violenza a questo;  breve: come una privazione della mia atti-  vità. Mentre l’essenza posso pensarla e quin-  di « costruirla », l’esistenza semplicemente la  patisco — e per questo mi costituisce una oscu-  rità. Si imagini invece una situazione in cui  possa connettere Tesserci delle cose al loro  volerle incondizionatamente, cioè in cui la  mia volontà avesse valore di potenza creatri-  ce: allora la loro esistenza di fatto di là dal  loro concetto cesserebbe di essermi un miste-  ro, essa al contrario mi sarebbe perfettamen-  te intelligibile — essa sarebbe spiegata. Es-  senza ed esistenza hanno dunque per rispetti-  vi principi esplicativi la costruzione ideale    98    . opera del pensiero e la causazione reale  l"[ 0 pera della volontà. E questo è il secon-  di punto.   ‘ Il terzo punto è il seguente, che fra costru-    F" nza od esistenza — non vi è differenza di   « nnlinnlo /lì errarlo I .MHpa ò fTÌà 1111    ideale e volontà creatrice — quindi fra    atura. ma soltanto di grado. L’idea è già un    dell’affermazione reale; e la eosiddet-  f* realtà oggettiva non è che l’affermazione    pii 1    intensa e completa di quella potenza che.    • forma elementare, determina la cosa sem-  liceinente pensata o rappresentala. La real-  tà non è che l 'atto dell’idea, ciò in cui questa  individua ed esprime interamente sè, cosi co-  pidea non è che una realtà in potenza, os-  sia U na realtà semplicemente abbozzata o al-  lo stato nascente. Fra l’una e l’altra non vi è  dunque salto, vi è invece progressività. Il pen-  derò di cento talleri e cento talleri reali non  sono evidentemente la stessa cosa — ma ciò  n0 n qualitativamente (cosi come potrebbe  pensare chi crede che il pensiero, anziché  un'Impotenza, sia l’imagine impersonale di una  realtà oggettiva) ma intensivamente, nel sen-  so che i cento talleri reali sono la più profon-  da, intensa potenza, relativa propriamente al-  l’atto magico, dell’affermazione corrisponden-  te ai cento talleri pensati. Ed ora uniamo que-  sto risultato a ciò che si è detto poco la.   Vi è una esistenza che è morte, privazione,    99     irrealtà — e tale è quella corrispondente  spontaneità rappresentativa, residuo .yl  prima epoca, in cui l’atto è passivo rispep ^  sé stesso, die l’Io non domina come il SUo *  gnore. Di questa esistenza non vi è certeàjj  vera: non dipendendo da me come la n»«  ne o 1 emozione, essendo un puro accade  un principio di radicale contingenza la ripr e i  de. Vi è invece una seconda esistenza, che i  quella che una volontà elevatasi a pot eri2  può incondizionatamente produrre: sola mi^ !  te questa è propriamente esistenza, realtà ajJ  solida, e solamente di essa — ove si trova L nn  giunto soltanto con se stesso in un possesso  ed in un dominio — l’Io può avere una reale)  certezza. Fra l’una e l’altra di tali esistenze  vi è l’attività mentale propriamente detta. J  In altre parole: di là dal limite ideale del re-  gno della pura necessità — della natura e  della spontaneità — come di là dalla sua  « privazione », l’individuo fruisce nell’ordine  razionale o ideale di un primo grado dell’at-    tualità sufficiente e della libertà. Questo gra-  do procede verso la sua perfezione nello svi-  luppo secondo cui la potenza si riafferma in  livelli sempre più complessi e profondi della  spontaneità — dell’antica natura o dell’uni-  versale — fino a dominare lo stesso grado  intensivo dell’esistenza reale. Allora da oscu-  ra passione e da feroce deserto fatto di pii-    100      Rione, il mondo si farà l'atto stesso dell’in-  Jjduo, ed in ciò sara redento e persuaso . . .    Ji l'Individuo Assoluto.    Si può raccogliere insieme nel modo se-  dente quanto si è detto.   Il punto di partenza è l’universale, il qua-  L nell’ordine della realtà non costituisce il  grado più ricco — come lo vuole il platoni-  co — ■ ma invece il grado più povero, non il  punto di arrivo, il terniinus ad quem, ma il  punto di partenza, il terniinus a quo. In esso  s j ha infatti il semplice stato dell’essere che  trova sè stesso, che è pura spontaneità, che  nini si possiede ma, semplicemente, è. Stato  di pienezza e di luce per l’Io non ancor nato,  t presso al punto dell’individuale esso appare  invece come oscurità e morte: cosi in un pri-  mo momento esso si dissolve nel mondo della  parvenza e della mera rappresentazione; in  Jan secondo momento viene sentito come pas-  | suine infinita, come il dolore cupo e muto del-  la privazione, come l’indicibile crocifissione  nel mondo della necessità. Ma, nata da lui,  questa morte l’individuo la assume ora con    (gioia: egli è sufficiente ad essa; egli sa che  soltanto il suo proprio, sovrannaturale valore  I 1 essere fatto di possesso» ne è la causa;    101    egli la riconosce come la materia, dalla q„ a .  lo soltanto egli potrà trarre lo splendore <ij  una vita e di una realtà assolute. Ed allora  l’oscurità gradatamente si illumina, allora  dall’abisso della necessità sorge il fiore ferri .  bile dell’Individuo assoluto. Egli si erge lei,,  tissimamente nel cielo senza stelle, liacndosj  dalla vampa di ciò che egli divora nella sua  potenza. Le cose e gli esseri muoiono nell’i,,.  tensità vertiginosa di lui che, gradatamente,  irresistibilmente, diviene — che, spaventevoh  nella sua purità, è « Signore del Sì e del K<> >  <? Dominatore dei « tre mondi ». E in lui, ente  di possesso, ente che «arde e fiammeggi! »,  il processo dell’universo avrà con il suo allo,  la sua consumazione o perfezione tinaie. I   Questo è, ad un dipresso, il senso del siste-  ma che io sostengo; nel quale da una parte  ho cercato di fondere il problema gnoseologi  co e il problema ontologico con quello etico c  della autorealizzazione o magico; dall’altra,  di rivendicare il valore dell’individuo e di far-  gli nascere la coscienza del suo compito e del-  la sua dignità cosmica. j   E’ ciò che io riconosco come verità, o, per  meglio dire, è ciò che io voglio come verità (1).   (1) L’individuo e il divenire del mondo, Roma, Li-  breria di Scienze e Lettere, 1 5)2(5, cap. I. Race and the Myth of the Origins of Rome In his Life of Romulus (I,8), Plutarch writes: “Rome would not have risen to such power had it not had, in any way, a divine origin, such as to offer to th eyes of men something great and inexplicable.” Cicero repeats the same thing (Nat. Deor. II, 3, 8) and then goes on to consider (Har. Resp., IX, 19) the Roman civilisation as that which surpassed eveyr other people or nation through sacred knowledge: omnes gentes nationesque superavivums. For the ancient Romans, Sallust has the expression religiosissimi mortales [the most religious mortals]. On the other hand, in our day all of that is fantasy or superstition for many “serious” persons and “critical” minds. The “facts” are the only thing that count for them. The mythical traditions of the ancients have no value, or they have it only insofar as it is supposed that, here and there, they are confused reflections of real events, that is to say, tangibly historical. There is, in that, a fundamental misunderstanding that was already denounced to a certain degree by our Giambattista Vico, then by Schelling, still more recently by Bachofen and, finally, by the most recent school of the metaphysical interpretation of myth, and by those little known today (Guenon, W.R Otto, Altheim, Kerenyi, etc.). According to all these writers, the mystical traditions are neither arbitrary creations more or less on the poetic and fantastic plane, nor deformations and transpositions of historical elements. Especially in regard to origins, Bachofen correctly pointed out that symbols and legends, “If only in a dramatised form, represent actually and truly the history of the beginnings of a nation, but not the history of events occurring materially on earth, but rather of spiritual processes that have given birth to a new people alongside other people although different in culture and civilisation: history, so to say, of its prenatal period. Legend and history, are tightly connected; the former proceeds through interiorisation and is dispersed through images, while the latter proceeds through exteriorisation as facts and events. These images are the result of formative living forces, facts are organised by human thought. In legends one is transported by formative forces; in the other, there is premeditated organisation of facts. But the legend is the invisible part and root of history; it is not poetry, rather it is a reality much vaster than history itself. The threads of the destiny of a people that unravel visibly in the most various ways in their historical development, go back to the impulses, to the creative spheres, to which the heroes of its legends are connected.” 125  In a particular way, Bachofen revealed that even at the point in which evidence, by being recognised as a myth, came to be rejected by profane history, even when it is a positive witness to the spirit of a people. In that way, a study of mystical traditions, using new criteria, can lead us to interesting conclusions from the point of view of a theory of race that is not defined by the material aspects of the issues, but also addresses the inner reality of race. On the occasion of the current anniversary of the Birth of Rome, we want to illustrate this interpretative method, applying it precisely to the exegesis of the myth of our origins. The legends related to the birth of Rome concentrate such a quantity of sensitive elements based on general meanings of civilisations and mythologies of Aryan peoples, that a special work would be necessary to analyse them and clarify them adequately. Therefore, we will point out here only the most notable themes, among which are: the miraculous birth, the theme of being “saved by the waters”, the “wolf”, the “tree”, the rival pair of twins. The myth of the union of a god with a mortal woman, in the present case, of Mars with Rhea Silvia, form which union Romulus and Remus were born, recurs in almost all traditions in regard to the birth of “divine heroes”. Zeus and Leto gave birth to Apollo, Zeus and Alcmene to Hercules, Heracles being the symbolic hero of the Doric-Achaean Aryan peoples, and Apollo having a connection with the land of the Hyperboreans and with the primordial Nordic-Aryan races. An analogous origin, in properly Germanic traditions, is attributed to the heroic peoples of the Volsungs, to which Siegfried belongs. In the ancient royal Egyptian tradition - whose remove origin can with good reason also be considered to be Aryan and Atlantic-Occidental - every sovereign is thought to have been begotten by a god uniting with the queen: his tradition in which the hidden meaning of the myth comes to the fore, inasmuch as a miraculous birth without the help of a man, of a human father, was imagined. Since the queen had her consort, the idea that her son was conceived by a god, being awaken to life by her husband, could only indicate that he, not in his moral part, but so to say, in that eternal and “divinatory” part, had to be thought of as a type of incarnation of a decisive supernatural element that came to confer a royal dignity on him. In the case of Rome, therefore, Mars is such an element from above, that is, the divine representation of the principle of warrior virility. Such a force stands therefore at the origins of the Eternal City and at the basis of its secret origin, veiled by the legend: so that in some traditions form the era of the Roman Republic itself, it will be directly conceived as the “son” of Mars. And this “Mars” force is associated with those who may be the guardians of the sacred flame of life; symbolically, with a vestal (Rhea Silvia). 126  The twins Romulus and Remus are abandoned to the waters and are saved from the waters. Here again is a symbolic theme recurring in many traditions: Moses is saved from the waters, the Indo-Aryan hero Karna is left in a basket in the river and is saved from the waters, and so on. But the symbol contained in the most ancient Aryan tradition is especially important, i.e., the Vedic tradition, in which ascetics are depicted as “supreme natures who stand on the waters”. Analogous explanations and, therefore, the hidden meaning of such a symbol, can be clarified as follows: the waters have traditionally always depicted the current of time, i.e., the basic element of mortal, unstable, contingent, passionate, fleeting life. The weak man is taken from the waters and carried from the waters. The seer or hero, the ascetic or the prophet is saved from the waters, or is capable of standing on the waters, or of not sinking in the waters. Hence, in the myth of the origins of Rome this symbol must again characterise the “divine” element of the founders of Rome, their, so to speak, supernatural dignity. The twins find refuge near the fig tree [Ficus Ruminalis] and are suckeld by a She- wolf. The word Ruminal contains the idea of feeding: the quality of Ruminus, related to Jupiter, alluded to the quality of “nourisher”, of the “god who gives nourishment” in the ancient Latin language. But this is the most elementary aspect of the symbol. In general, in the most ancient traditions of the Aryan races, the tree is the symbol of universal life, it is the tree of the world or the cosmic tree. If it is in the form of a fig tree as it appears in the legend of Roman origins, precisely as a “fico indico” [Banyan tree] - the ashwattha tree - it is depicted as upside- down in the Indo-Aryan tradition to express that its roots are from above, in the “heavens”. The idea of a mystical flood from the tree is an often recurring theme: the myth of Jason, Hercules, Odin, Gilgamesh, etc. Naturally, according to the races and their spirit, this then present diverse variations. We know from the Hebraic myth that to pick and eat from the tree in order to make oneself like god is considered as the principle of guilt, abuse of power, and a curse. Things are conceived in a very different way in the myths of the Aryan races and even in the paleo-Chaldean myth of Gilgamesh. Also, in the legends of the Ghibelline Middle Ages, the heroic theme prevails and the tree often appears as that of the universal empire, reaching it in the symbolic lands of the mysterious Prester John means insuring the same dignity that the ancient Ario-Iranian rulers associated with the title of “king of kings”. Returning to our main subject, in the myth of the twins at the origins of Rome, we therefore have the allusion to a supernatural food from the Tree - but also the She- Wolf. The symbol of the She-wolf, considered in its entirety and in all the stories that refer to it, has an ambiguous character. Lucian and Emperor Julian recall that, in the ancient world, on the basis of the phonetic resemblance between the two words, the idea of the wolf [lupo] and of light [luce] are often associated: lykos, which in Greek means world, sounds like lyke, light. But there are also figurations of the wolf a sa hellish animal, as a dark force. The Wolf thus appears to us in the double aspect, symbol of a ferocious and savage nature and also as the symbol 127  of aluminous nature. This duality is verifiable, not only in Hellenic-Mediterranean prehistory, but also in the Celtic and Nordic. In fac,t on the one hand in the Nordic- Celtic and Delphic cults the “wolf” is connected to Apollo, i.e., to the Hyperborean, Nordic-Aryan god, simultaneously conceived as the solar god of the golden age and significantly associated by Virgil with Roman greatness. “Sons of the wolf”, on this basis, was a designation for warrior and heroic peoples of Nordic-Germanic origins, designations that persisted even up to the epoch of the Goths and Nibelungs. Yet, on the other hand, in the Edda, the “age of the Wolf” signifies a dark age, marking the epoch of the outbreak of savage and elementary forces, almost of the power of chaos, against the forces of the “divine heroes”, or Aesir. Now we can certainly also relate this quality to the principle that, according to the legend of origins, “fed” the two twins insofar as we see it reflected in their very nature, that is, in the antagonistic duality of Romulus and Remus, as related to us in the myth. As others already noticed, so also the theme of a single principle from which an antithesis is differentiated, whether depicted by the antagonism of two brothers of twins or, in general, of a couple, is found again in many traditions, and not rarely in respect ot particularly significant moments for the origins of a given civilisation, race, or religion. For example, we only recall that in the ancient Egyptian tradition Osiris and Set are two brothers of discord - sometimes conceived as wins - and one incarnates the luminous power of the sun, the other, a dark, “infernal”, principle, whose generation is called the “sons of the impotent revolt”. Does not something similar also show through perhaps in the Roman legend? Romulus is the one who marks the contour of the city as the meaning of a sacre drite and a principle of limit- of order, of law - having received the right of putting his name to the city form the apparition of the solar number, of the twelve vultures. Remus is instead the one who violates such a limit and is killed for this reason. One could say that the primordial force of Roman origins thus are differentiated and destroys the “dark” powers that contain din themselves, affirms in its luminous aspect of order, Olympian denomination, purified warrior force. There have been attempts to see in the contrast between Romulus and Remus the reflection of the contrast between opposed Aryan racial forces, or of the Aryan type, and non-Aryan or pre-Aryan types. Research of this kind is without doubt interesting: problematic in its conclusions, if it intends to remain exclusively on the plane of material facts, or archaeological and anthropological evidence. It has greater possibilities if it also penetrates the myth and legend in order to extract elements that integrate research in other domains. Naturally, in order to accomplish that, it also needs to resolve to outline general frameworks of various aspects of ancient Roman society, considering, for example, with various writers, somewhat probable that the social system of castes of ancient Rome had a racial substrate. 128  In this totality, it is interesting to examine the link between the two principles, whose symbolic figurations could well be Romulus and Remus, with the two hills Palatine and Aventine. The Palatine is, as we know, Romulus’ hill and the Aventine is Remus’. Now, according to the ancient Italic tradition, on the Palatine, Hercules met the good king Evander (who significantly founded a temple of the goddess Victoria on the same Palatine hill) after having killed Cacus, son of the Pelasgian (pre-Aryan) god of the subterranean fire: and Hercules conquered and killed in Cacus’ cave, located in the Aventine, and erected an altar to the Olympic god, to whom he was allied according to the Hellenic myth. Researchers like Piganiol, are of the opinion that this duel between Hercules and Cacus - with the corresponding opposition of the Palatine and Aventine hills - could be a mythic transcription of the battle waged by peoples of opposing races. The mythic legend of the origins of Rome is therefore saturated with deep meaning. The triumph of Romulus and the death of Remus is the key to the origin hidden in Romanity - and the first episode of a dramatic , outer and inner, spiritual, social and racial battle, in part known, in part still enclosed in symbols or in events not yet penetrated with respect to their most essential aspect - almost, we will say: with respect to the “third dimension” Through this secular battle Rome rises gradually and asserts itself in the world as triumphal manifestations of a principle of light and of order, of an ethic and a vision of life that, in its original and uncorrupted forms, is witness to the Aryan spirit. And we know what it is, according to the most widespread tradition, the conclusion of the legend of origins: it is the apotheosis of Romulus, Romulus deified, “He returned from the earth to heaven after his mortal part was destroyed by means of the dazzling fire.” So what has been treated is neither fantasy, nor poetry, nor rhetoric. Analogous explanations recur in the traditions of all peoples, according to a uniformity that should lead anyone to reflection. Also in regards to Romulus, the myth contains a faith and a spiritual certainty: it is the meaning of a reality that, freed from the person and symbol, was not once, but will always be, and will always be present, in its greatness beyond history, the race that knows how to recall the “mystery." EVOLA E LA TRADIZIONE  COME RIVOLUZIONE    Julius Evola è stato il più importante teorico della  «Rivoluzione conservatrice» in Italia nel nostro dopo¬  guerra. Nei suoi scritti si ritrova l'utilizzazione consa¬  pevole della espressione «rivoluzione conservatrice», la  base teorica e i limiti entro cui ha senso tale definizione.   Tuttavia in Evola la rivoluzione conservatrice si dis¬  socia nettamente dall 'ideologia italiana. La sua elabo¬  razione del concetto di rivoluzione conservatrice è at¬  tinta direttamente dalla konservative Revolution tede¬  sca, e ad essa si rifà espressamente, pur con alcune spe¬  cifiche motivazioni. In secondo luogo l’idea di  rivoluzione conservatrice in Evola si situa in una linea  fortemente critica verso la tradizione teorica e storica  italiana. A cominciare dall’idea stessa di nazione, di cui  Evola sottolinea l'eredità giacobina, egli sottopone a una  critica serrata tutte le stazioni più importanti della ideo¬  logia italiana: la critica del Risorgimento, che pure è ri¬  corrente in tutta l’ideologia italiana, è condotta da Evola  non più nel nome dell’inveramento del Risorgimento,  inteso come radicalizzazione o correzione di rotta, ma  diviene rifiuto e negazione del Risorgimento, visto co¬  me la traduzione nazionale della rivoluzione francese,  e rigettato come l'espressione di un liberalismo anti¬  tradizionale.   Qui Evola accoglie l'eredità del pensiero controrivo¬  luzionario e si situa nettamente nel solco della tradizio¬  ne «reazionaria», pur non condividendo il riferimento  cattolico e cristiano che la sottende. Critiche non meno  nette Evola rivolge al processo unitario postrisorgimen¬    198    tale e a tentativi come quello crispino di generare una  sintesi tra nazionalpopulismo e autoritarismo. Ma la cri¬  tica di Evola non si arresta nemmeno alle soglie del fa¬  scismo, a cui pure il suo nome è solitamente associato.  Quasi tutta la critica evoliana verso il fascismo gravita  proprio sul tentativo fascista di costituire una «ideolo¬  gia italiana» o di inserirsi nella tradizione «italiana»,  sia verticalmente, cioè come recupero della storia «ita¬  liana», sia orizzontalmente, come tentativo di integra¬  re le masse e tutte le diversità in una comunità nazio¬  nale.   Per Evola il fascismo non avrebbe dovuto abdicare  al suo ruolo di minoranza attiva, di aristocrazia, avreb¬  be anzi dovuto accentuare la sua «diversità», da quel  che costituiva la linea «italiana» risorgimentalista.   La critica di Evola all'ideologia italiana, così impla¬  cabile, sconsiglierebbe dunque di ritrovare nel suo pen¬  siero i lineamenti di quella «rivoluzione conservatrice»  che abbiamo indicato come il filo rosso della storia ita¬  liana. Le sue scelte lo porterebbero, piuttosto, nella li¬  nea di de Maistre e de Bonald o di larga parte del pen¬  siero mitteleuropeo.   Ma a questo punto si dispiega uno dei maggiori para¬  dossi della dottrina politica evoliana: quanto più Evola  ha teorizzato una tradizione radicalmente diversa dal¬  la modernità e integralisticamente depurata da ogni  scoria di «pseudo-tradizionalismo» nazionalista e risor¬  gimentale, tanto più Evola ha coniugato l’idea della tra¬  dizione con posizioni che appartengono al mondo della  rivoluzione. Rivolta, anomìa, anarchismo di destra, ni¬  chilismo attivo sono ricorrenti espressioni del pensie¬  ro evoliano che segnano un indubbio recupero della di¬  mensione «rivoluzionaria».   Questo dualismo, solitamente, è stato attribuito a due  tappe differenti e fondamentali del pensiero evoliano  del dopoguerra, divise da un decennio e identificate Lu¬  na ne Gli uomini e le rovine, 1 l'altra in Cavalcare la ti¬  gre. 2 Ma, più vastamente, l’intera opera evoliana si di¬  spiega all’interno di un orizzonte antinomico, tra Rivo¬  luzione e Tradizione, se si considera l'esperienza pitto¬  rica dadaista, fortemente eversiva, il periodo filosofico,  con sostanziali elementi rivoluzionari e stirneriani, la  valorizzazione del Tantrismo nel suo aspetto più «di-    199                                  struttivo» (la via della «Mano Sinistra»). Elementi che  convivono nell’opera evoliana con la ricerca e l'affer¬  mazione della tradizione, il primato dell'Essere, il re¬  cupero della dimensione metafisica; o nel mondo poli¬  tico con il richiamo a una concezione fondata sull'au¬  torità, l’ordine e la gerarchia. Sul piano della dottrina  politica, l'aporia può forse trovare agevole soluzione se  si tiene presente che in un mondo sconsacrato e secola¬  rizzato la tradizione non può che rivelarsi come una ri¬  voluzione e attraverso la rivoluzione. Il ritorno alla tra¬  dizione, in questo contesto, sarebbe infatti un evento  di rottura, una radicale inversione di rotta rispetto al¬  la realtà presente. La rivoluzione sarebbe dunque per  Evola il rigetto del presente nel nome del passato; rivo¬  luzione-restaurazione, ovvero rivoluzione nel senso del¬  l'astronomia classica, come già ripeteva Evola. In uno  scritto divulgativo, tra gli ultimi di Evola, il pensatore  tradizionalista affermava: «Se si vuole, ci si può riferi¬  re alla formula, solo in apparenza paradossale, di una  "rivoluzione conservatrice”. Essa concerne tutte le ini¬  ziative che si impongono per la rimozione di situazioni  negative, fattuali, necessarie per una restaurazione». 3   In linea di massima, si può riconoscere la coerenza  di questa posizione e il rigoroso uso dell'espressione «ri¬  voluzione conservatrice». Tuttavia, soprattutto se si tie¬  ne conto dell'orizzonte di pensiero in cui Evola utilizza  questa definizione, i due piani di rivoluzione e tradizio¬  ne non sembrano poi così nettamente delineati e divisi.  In Evola vi sono interpolazioni e attraversamenti: tal¬  volta la «pratica» rivoluzionaria finisce col rivoltarsi  contro gli stessi principi tradizionali e finisce con l'as¬  sumere valori autonomi; 1 ’anomìa finisce con Tessere  una pericolosa arma a doppio taglio. E dall’altra parte,  soprattutto nell’ultimo Evola, il metodo «rivoluziona¬  rio» risulta spesso alterato o addirittura soppiantato  da una scelta pratica di tipo conservatore, fondata sui  parametri del «salvare il salvabile», «preferire il male  minore», «allearsi con i moderati per combattere la sov¬  versione», eccetera.   A parte questi sconfinamenti, peraltro marginali se  si considera Titinerario evoliano nel suo complesso,  Evola si pone legittimamente come il teorico principa¬  le della «rivoluzione conservatrice» vista da «destra».    200    almeno nel nostro dopoguerra.   Il suo pensiero è alle origini sia delTintegralismo «di  destra» che del modernismo «di destra» (in parte deflui¬  to da destra). Non si potrebbe infatti comprendere il  neotradizionalismo, anche quello cattolico, senza tran¬  sitare per le opere di Evola imperniate sui valori della  tradizione. Ma dall'altro verso non si potrebbero com¬  prendere neanche i fermenti della cosiddetta «nuova  cultura», della «nuova destra» o i tentativi di andare «al  di là della destra e della sinistra», senza risalire a quel  filo rosso che scorre dall’Evola dadaista e iconoclasta  all’Evola filosofo, al seguace del tantrismo e soprattut¬  to all’autore di Cavalcare la tigre. Da entrambe le posi¬  zioni, neotradizionaliste e moderniste, si sono staccate  frange opposte e simmetriche, che hanno parimenti ri¬  fiutato l'eredità evoliana, l'una nel nome della tradizio¬  ne cattolica, l'altra nel nome della modernità assurta  a valore. Se il linguaggio non fosse improprio e desue¬  to, si potrebbe dire che la sua opera abbia generato una  «destra» e una «sinistra» evoliana.   È curioso osservare che i «modernisti» di destra ri¬  percorrono, pur con specifici tratti, lo stesso cammino  già percorso da un certo radicalismo «di destra» che  aveva trovato in Evola elementi per fondare una scelta  rivoluzionaria in senso nazionalpopolare. Il cammino  dei «modernisti» di destra si rivela come la versione «de¬  bole» (e quindi più intellettualistica, più dolce nel me¬  todo e più esitante) di quello stesso processo di moder¬  nizzazione del pensiero evoliano, la cui versione «for¬  te» è costituita proprio dal rivoluzionarismo nazional¬  popolare.   I vari filoni dipartitisi da Evola ritrovano oggi sul lo¬  ro cammino gli stessi incroci in cui si dibatteva il pen¬  siero evoliano:- trasgressioni e fedeltà, soggettività e tra¬  dizione, organicismo senza statolatria, ricomposizione  comunitaria ed élitismo, rigetto dell’ideologia italiana  e insieme esigenza di radicarsi nel tessuto reale di que¬  sta società, e così via. Le contraddizioni, mutatis mu-  tandis, sono ancora le stesse.   Per ripercorrere queste stazioni cruciali del pensie¬  ro evoliano, sarà proficuo attraversare le principali in¬  terpretazioni critiche del pensiero di Evola che si pos¬  sono ricondurre a quattro tesi fondamentali: in primo    201                                       luogo l'interpretazione di Evola come maestro eretico  del pensiero negativo; in secondo luogo Evola visto co¬  me teorico di un neopaganesimo anticristiano e antitra¬  scendente; in terzo luogo Evola visto come un gentilia-  no minore che tenta invano di superare l'attualismo; in¬  fine Evola visto come l'ispiratore del neo-nazifascismo.    Evola maestro eretico del pensiero negativo   L’accostamento tra Evola e il pensiero negativo si può  far risalire al tempo della contestazione, quando qual¬  cuno ravvisò impressionanti simmetrie tra il pensiero  evoliano e il pensiero di Marcuse. Simmetrie che lo stes¬  so Evola non ha mancato di sottolineare, seppure rimar¬  cando la radicale divergenza di fondo.   Di quel parallelo aveva parlato qualche anno fa Gior¬  gio Galli, soffermandosi soprattutto sulle sue valenze  politiche . 4   Da un punto di vista filosofico la collocazione di Evo-  la nell'alveo del pensiero negativo è stata recentemen¬  te proposta da Italo Mancini e da Massimo Cacciari . 5   Entrambi scorgono in Nietzsche il crocevia del pen¬  siero negativo. Dopo Nietzsche si potrebbe quasi parla¬  re di un pensiero negativo di sinistra che coniuga Nietz¬  sche con Marx, Freud e al limite Stirner, e che si espri¬  me, soprattutto, ma non solo, con la triade francoforte-  se Adorno, Horkheimer e Marcuse; e un pensiero  negativo di destra che coniuga Nietzsche con i valori tra¬  dizionali e che si esprimerebbe tra gli altri con Evola,  Junger e larga parte del pensiero rivoluzionario-conser¬  vatore . 6 Quale sarebbe il filo comune del pensiero nega¬  tivo? In primo luogo la critica radicale della ragione e  delle pretese sintetiche e costruttive della razionalità; in  secondo luogo lo smascheramento della civiltà moder¬  na e borghese e la rivolta contro la nostra società; in ter¬  zo luogo lo sfaldamento della fiducia nel progresso ma  anche negli antichi appoggi; la crisi del principio di iden¬  tità e di non contraddizione; indi, la concezione conflit¬  tuale e catastrofica della storia. E scavando più a fondo  si giunge alla matrice del nichilismo: la morte di Dio, la  perdita del reale, del senso e degli scopi, l'incertezza esi¬  stenziale, l'oscuramento della metafisica.    202    I due versanti del pensiero negativo sarebbero dun¬  que compresi nell’alveo del nichilismo. Soltanto che il  versante destro del pensiero negativo, a cominciare da  Evola, per estendersi a buona parte della rivoluzione  conservatrice, tradirebbe Nietzsche, mascherando il ni¬  chilismo nell'irrazionale e nella retorica dei valori.   A questo punto le conclusioni di un Italo Mancini con¬  ducono a una condanna senza appello del pensiero evo¬  liano, le conclusioni di un Cacciari conducono invece  a un appello senza condanna agli evoliani: liberatevi dal  camuffamento irrazionalistico, liberatevi dalle vostre  «certezze» che reggono solo sulla «retorica», e proce¬  dete «con occhio sgombro» verso un sapere senza fon¬  damenti, verso un nichilismo consapevolmente vissu¬  to e accettato come destino finale.   In fondo il discorso ruota intorno a un’equazione tutta  da dimostrare: l'equazione, appunto, tra Evola e il pen¬  siero negativo.   È necessario dunque affrontare la differenza radica¬  le che allontana Evola dal pensiero negativo. Una diffe¬  renza di provenienza e di approdi, di metodi e di aper¬  ture.   È certamente vero che il pensiero negativo e il P en -  siero evoliano nascono entrambi come filosofie della  crisi.   Ma la crisi del pensiero negativo è la crisi di una ra¬  zionalità che ha perduto la ragione, di una dialettica che  ha perso la possibilità della sintesi, di un materialismo  che ha perduto la materia, di un orizzontalismo che ha  perduto orizzonti, di una rivoluzione che ha perduto il  progetto. La crisi da cui nasce il pensiero evoliano è in¬  vece la crisi di una trascendenza che ha perduto Dio,  di un verticalismo che ha perduto il suo vertice, di un  eroismo che ha perduto gli eroi, di un Olimpo che ha  perduto gli dei, di una tradizione che ha perduto i suoi  templi, i suoi riti e i suoi uomini.   Da una parte è Yorfanità della ragione che incita a ri¬  pensare i miti; dall'altra parte Yorfanità del mito che  spinge a cercare le ragioni. In entrambe si assisto al «di¬  sormeggio della storia» secondo la suggestiva espres¬  sione di Emil Cioran . 7 Da una parte in Evola la tradi¬  zione sembra smarrire gli anelli che la congiungono al  presente; dall’altra parte nel pensiero negativo il P ro_    203                       gresso si separa daH'ottimismo e dal migliorismo sto¬  rico e scivola nella catastrofe, nel vuoto.   Ma differente è pure la reazione alla crisi: il pensiero  negativo diviene pensiero della liberazione trasgressi¬  va, sollecita a liberarsi dai vincoli della realtà e della  ragione, oppone la ragione distruttiva come risposta alla  ragione decretante.   Opposta appare invece la reazione evoliana alla cri¬  si: alla liberazione dal destino si oppone qui l'accetta¬  zione del destino, la fedeltà ai valori oscurati, l’azione  nonostante i frutti, la risposta eroica al nichilismo.   Entrambe le vie germogliano dunque dalla crisi: ma  il pensiero evoliano induce a vivere come se i valori esi¬  stano; il pensiero negativo induce a vivere come se non  abbia importanza avere valori. Evola scommette sui va¬  lori, il pensiero negativo rigetta la scommessa come in¬  significante, fuorviante, mistificatrice.   Nel pensiero negativo il nichilismo è pensato e vissu¬  to come esito finale; nel pensiero evoliano il nichilismo  è inteso come prova del fuoco, come deserto da attra¬  versare. L’esperienza del nichilismo è rivolta in Evola  a fortificare il bagaglio interiore, a essenzializzare la vi¬  ta, a denudare i valori dalle incrostazioni, per ricondurli  alla nudità originaria. Il nichilismo, secondo questa pro¬  spettiva che Evola coglie da Nietzsche, dovrebbe raffor¬  zare ciò che non riesce a spezzare.   Il pensiero evoliano ha Nietzsche alle sue spalle, om¬  bra titanica che si allunga sul suo cammino; il pensiero  negativo trova invece Nietzsche davanti a sé, scoglio in¬  sormontabile per la ragione dialettica. Ciò che in Evo-  la è punto di partenza, che pure si allunga su tutto il  percorso, nel pensiero negativo è punto d'arrivo, oltre  il quale non si può andare. Non è un caso, poi, che il pen¬  siero negativo si definisca tale, laddove il pensiero evo¬  liano si autodefinisce magico: il pensiero magico è per  sua stessa vocazione rivolto a comporre, a ordinare il  mondo e non a disfarlo, a rivelare la sua segreta armo¬  nia, a concepire la libertà come attività produttiva e  creativa. Il pensiero magico risale dal caos al cosmos,  dal conflitto all’armonia, ponendosi infine come pen¬  siero costruttivo, pensiero positivo. Il pensiero negati¬  vo al contrario dissolve il cosmos nel caos, nell'armo¬  nia scorge il contrasto, eternizza il conflitto e la cata¬    204    strofe, definendosi infine come pensiero distruttivo.   Nel crocevia tra magia e trascendenza, il pensiero evo¬  liano si inviluppa in alcune contraddizioni: le forti apo¬  rie tra senso della trascendenza e immanentismo volon¬  taristico che si esprimono nell'Autarca, le tentazioni  faustiane, il pericoloso velleitarismo di chi vuole tra¬  versare l'abisso, l'etica della disperazione che si risol¬  ve talvolta in Evola in uno spiritualismo nobile ma cie¬  co, che rigetta i frutti e le prospettive. Ma pur nella con¬  traddittorietà delle posizioni ciò che distingue radical¬  mente Evola dal pensiero negativo risale a una opzione  di fondo: è la opzione della trascendenza che conduce  Evola alla riscoperta del sacro. La trascendenza resta  una dimensione assente nel pensiero negativo in virtù  di una originaria opzione immanentistica mai smentita.   La f iducia in una «più che vita», la scommessa sul-  r immo rt alità, la certezza del sacro, il culto dell'invisi-   bil e e de fì'eterno, accend on o in Ev ola un bag lioré me¬   t afisico che non é flato tr ovare, n el pensi ero negativo.  Alla luce del sacro, la stessa concezione eroica esce dal  campo del puro arbitrio, della mera retorica, del vole¬  re autarchico, per farsi essa stessa segno di quella cer¬  tezza metafisica e metaesistenziale, espressione e testi¬  monianza che pure vacillando nel vuoto, la strada per¬  corsa è quella che sale.    Evola padre del neopaganesimo anticristiano   Occupandosi del radicalismo di destra, «Civiltà Cat¬  tolica» ha individuato in Evola il principale ispiratore  di una nuova destra fortemente anticristiana e neopa¬  gana . 8 Le argomentazioni condotte a rinforzo di questa  tesi erano attinte quasi interamente dalla lettura di Im¬  perialismo pagano . 9   Che in Evola vi sia una forte ascendenza di tipo paga¬  no è certamente fuori discussione: la grande valutazio¬  ne del mondo greco e romano, l’esaltazione della spiri¬  tualità nordica, il risalto attribuito alla figura di Fede¬  rico II, sono solo alcuni tra i segnali di questa ispira¬  zione «pagana» del pensiero di Evola.   Tuttavia l’interpretazione di Evola come padre di un  neopaganesimo anticristiano, è semplicistica e a tratti    205                                    fuorviante. Vi è in primo luogo una ragione metodolo¬  gica: non si può valutare il pensiero evoliano sofferman¬  dosi sulla lettura di Imperialismo pagano, un saggio che  Evola scrisse non ancora trentenne nel 1928 e che in se¬  guito «disconobbe». Imperialismo pagano è un pamph¬  let fortemente polemico che risente degli umori del tem¬  po e che si inserisce nel dibattito preconciliare. Impe¬  rialismo pagano è un'opera certamente minore rispet¬  to ad altre opere evoliane più mature e di spessore ben  più notevole: per comprendere Evola bisogna transita¬  re almeno da altre cinque, sei opere ignorate da «Civil¬  tà Cattolica».   In secondo luogo, il pensiero evoliano si alimenta di  correnti e torrenti che sarebbe improprio definire di ti¬  po pagano: la tradizione gnostica e orfica, pitagorica,  la metafisica orientale, il buddismo.   Se si vuol definire pagano, nel senso di anticristiano,  tutto ciò che non è cristiano, si finisce nel più piatto ma¬  nicheismo.   In terzo luogo, dal complesso dell'opera evoliana non  si può dedurre un orientamento anticristiano e ancor  meno un orientamento antitrascendente. Altrimenti non  si comprenderebbe in Evola la lettura dei mistici cri¬  stiani, l'influenza di certo gnosticismo cristiano, l’atten¬  zione positiva verso pensatori come Meister Eckart e  San Giovanni della Croce, la grande influenza di Carlo  Michelstaedter che rivela profondissime tracce di cri¬  stianesimo.   E non si comprenderebbe il carteggio evoliano con pa¬  dre Clemente Rébora, il ritiro di Evola in un convento  verso i trent'anni, la sua difesa della Chiesa del Sillabo  (se la Chiesa fosse ancora quella del Sillabo — afferma  Evola — non ci sarebbero esitazioni a schierarsi dalla  sua parte per affermare i valori della tradizione»), 10  ma anche della fede cristiana e del suo significato nella  nostra epoca «sconsacrata».   E non si comprenderebbe infine per quali misteriose  ragioni la lettura di Evola sia stata per molti una sta ¬   z ione d i transito ve rso una riconversion e al cattoli cesi-   una ris coperta d el sac ro e del trascendente, del rito e  dell aJracE zionèr Sarà un paradosso^lha mòTti dfcoTo-  ro che hanno poi criticato il pensiero evoliano alla luce    206    del cattolicesimo tradizionale, devono a Evola la cono¬  scenza di autori come de Maistre, Donoso Cortes, de Bo-  nald. È poi significativo che Evola condanni le franga  moderniste[del cristianesimo , colo ro che riducono la re¬   ligionenelForizzonte immanentistico de l messaggioso .  ciale, la stòricizzazione e l’umanizzazione del divino, la  tèòlogià dellà mòrte di Dio, la razionalizzazione dei prin¬  cipi e delle tradizioni, l a confusione d el cr istianesim o  conjun m oralistico sentimentalism o bor ghese.   ~In Evola permane, certamente, un senso di estranei¬  tà al cristianesimo, ma non di ostilità; vi è un differen¬  te tipo di spiritualità che trae alimento da differenti tra¬  dizioni.   Nel cristianesimo Evola denuncia la mancanza di una  dottrina esoterica che possa affiancarsi alla religione  fideistica e devozionale. Appare quindi improprio il ten¬  tativo di demonizzare il pensiero evoliano come l'espres¬  sione di una rivolta anticristiana con esiti immanenti¬  stici. Questa riduttiva interpretazione del pensiero evo¬  liano rimanda a un'antitesi più vasta e insensata quan¬  do pretende di essere assoluta: l’antitesi tra paganesimo  e cristianesimo alla cui radicalità mostrano di credere  da un verso «Civiltà Cattolica» e dall'altro verso alcuni  esponenti della nouvelle droite, a cominciare da de Be-  noist. 11   L'antitesi autentica e radicale della nostra epoca, in  realtà, non è tra paganesimo e cristianesimo ma tra sa¬  cro e nichilismo, tra vocazione alla trascendenza e sfal¬  damento nell'immanenza.   Per un autentico spirito cristiano la santità è intesa  come il culmine del sacro, è il gradino supremo in cui  il sacro si incarna nell'umano e si palesa nel mondo; per  una autentica religiosità di tipo pagano, la santità è una  delle più alte manifestazioni del sacro.   Per entrambi resta essenziale l'antitesi tra sacro e ni¬  chilismo. Per una spiritualità di tipo cristiano il senso  elèi sacro può dirsi quasi il rosminiano « sentimento fon¬  damentale», quell'innata vocazione metafisica sulle cui  basi si eleva poi la fede cristiana. 12   Per una spiritualità di tipo pagano, il sacro può in¬  tendersi non come la base ma come il vertice verso cui  convergono le religioni, il principio metafisico di cui le  religioni sono bracci, manifestazioni, assi di una ruota.    207                                             Nel pensiero contemporaneo, la distinzione di cam¬  po più rigorosa è senza dubbio quella tra pensiero ispi¬  rato alla trascendenza e pensiero esaurito neH'imma-  nenza, tra pensiero fondato metafisicamente (proteso  verso l'Essere) e pensiero senza fondamenti o comun¬  que fondato storicisticamente, vitalisticamente e ma¬  terialisticamente (risolto dentro il Divenire).   In questa distinzione di campo, il pensiero di Evola  ritrova una identità molto diversa da quella che gli vie¬  ne attribuita da «Civiltà Cattolica» e da taluni esponenti  del «neopaganesimo».   Vi sono certamente alcune «cadute» immanentistiche  e superomistiche nel pensiero evoliano che in un pen¬  satore come Guénon, ad esempio, non sono presenti: ma  il pensiero di Evola rischia l’impurità e talvolta l’incoe-  renza perché si cimenta con la crisi contemporanea. È  una scommessa più difficile quella di Evola, un cam¬  mino più arduo: attraversare il nostro tempo.   Questa sua scommessa può essere intesa come la sua  peculiarità più feconda e insieme come il suo limite più  netto: ma, in ogni caso, il.pensiero di Evola si incammi¬  na sul l a s trada, del sacro.    Evola «gentiliano minore»   Un autorevole filosofo come Antimo Negri ha recen¬  temente individuato in Evola un «gentiliano minore»  che tenta invano di superare l'attualismo. 13 L’interpre¬  tazione di Negri ripercorre i sentieri già solcati negli  anni Trenta da Spirito, Carlini e Sciacca che appunto  a Gentile avevano ricondotto il pensiero di Evola. 14   Che l’ombra gigantesca di Gentile si allunghi su tut¬  ta la filosofia italiana del nostro secolo, soprattutto ne¬  gli anni Venti, può essere difficilmente confutabile. Per¬  sino lo spiritualismo cattolico o la filosofia della pras¬  si di un Gramsci mostrano i segni di quella influenza.  Ma che vi siano specifiche e preponderanti tracce di in¬  fluenza su Evola è largamente inesatto.   Si deve anzi osservare il fenomeno opposto: forse non  è mai accaduto che due pensatori, vissuti nello stesso  tempo e nella stessa nazione, associati seppur generi¬  camente in uno stesso indirizzo «filosofico» e in uno    208    stesso ambiente storico-politico, siano stati così lonta¬  ni come Gentile ed Evola.   Alle sorgenti della formazione evoliana vi sono cor¬  renti e autori in larga parte estranei a Gentile. Manca  a Gentile il riferimento alla metafisica orientale, al pen¬  siero tradizionale e legittimista, a Stirner, a Nietzsche,  a Bachofen, a Weininger, a Michelstaedter e a tutta la  grande cultura mitteleuropea, a cominciare da Spen¬  gler e Junger.   E manca a Evola la lettura del pensiero risorgimen¬  tale, l’influenza di Spaventa e di Mazzini, di Gioberti e  di Rosmini, il confronto con la filosofia di Marx e con  lo storicismo, che sono invece determinanti nella for¬  mazione di Gentile. I riferimenti comuni si limitano a  certi autori dell'idealismo tedesco.   In Evola l'idealismo è un episodio, seppure notevole,  inserito in un altro episodio, seppure importante, qua¬  le è il suo periodo filosofico. Se si prescinde dalle coor¬  dinate extrafilosofiche, si è già lontani dalla compren¬  sione del pensiero evoliano.   Inoltre, va ricordato, della filosofia evoliana si occu¬  pò Croce ma non se ne occupò mai Gentile, che non vi  riconobbe mai alcuna «parentela». E della filosofia gen-  tiliana, Evola se ne è sempre occupato in chiave criti¬  ca. I suoi rilievi, le sue critiche alTattualismo sono no¬  tevoli, radicali e tutt’altro che superabili. 15   Sul piano storico, Evola condannò del fascismo quel  che Gentile approvava o addirittura aveva egli stesso  ispirato. E le distanze con Gentile non si attenuarono  nemmeno quando il vento del Concordato condusse  Gentile ed Evola a scontare una comune «emargina¬  zione».   Come per Gentile, anche per Evola il fascismo era in¬  teso come una rivoluzione conservatrice, anzi una «re¬  staurazione»; ma restaurazione non della tradizione ita¬  liana esaltata dal Risorgimento e dalla filosofia na¬  zionale, come voleva Gentile, ma restaurazione della  tradizione romana e ghibellina. Ovvero una restaura¬  zione così radicale che finisce con l'essere una ri¬  voluzione rispetto al passato più prossimo. Nel momen¬  to in cui Evola superava Gentile in radicalismo restau¬  ratore, lo superava al contempo in radicalismo rivolu¬  zionario.    209                                     Va infine considerata l'evoluzione storico-politica del  pensiero evoliano in senso aristocratico e tradizionali¬  sta, che diverge nettamente dall'evoluzione gentiliana  verso l'umanesimo del lavoro.   hi definitiva, se è riduttivo chiudere il pensiero evo¬  liano nell alveo dell'idealismo, è doppiamente ridutti¬  vo e fuorviarne considerare la filosofia di Evola alla stre¬  gua di un attualismo malriuscito, un tentativo velleita¬  rio di «superare» Gentile. In Evola vi è ben altro.    Evola ispiratore dell’attivismo neofascista e neona¬  zista   Per 1 j n ?,° tem P° EvoIa è stato conosciuto come l'ispi¬  ratore dell'attivismo neofascista e neonazista. Una de¬  finizione canonica che ha dominato per decenni nel gior-  nalismo e nella cultura politicante, che ha trovato la sua  giusti!ic aziope teo rica in studiosi come Furio Jesi ; 16  ma una definizione che ancora resiste, come dimostra¬  no certi interventi al convegno di Cuneo sulla cultura  di destra o certe pagine di un recente volume colletta-  neo sulla «destra radicale». 17   In realtà, se vi è stato un autore di destra che più ha  contribuito à scongelare il neofascismo dall’ibernàzio-  n e nostalgica, questi è stato proprio Julius Evola . Da  fy^gla^ prima di ogni altro autore, la gioventù di destra  ha imparato a leggere il fascismo e il nazismo in chiave  critica, anche se la critica di Evola ai due fascismi é pur  sempre «daTpùnto di vista della destra». Leggendo il  fascismo di Evola,Te sueNoIelutTérzo Reich , 18 la sua  critica al nazionalismo e alla statolatria, al bonaparti¬  smo e al populismo fascista, al razzismo biologico e agli  isterismi del Fuhrer, all'idealismo gentiliano e al senti¬  mentalismo cristiano-borghese, conoscendo le difficoltà  che Evola dovette affrontare durante il fascismo, il «ra¬  dicalismo di destra» ha avvertito l'esigenza di rivedere  il proprio patrimonio ideale e storico.   E leggendo Evola, quella gioventù ha cominciato a co¬  noscere orizzonti più vasti, prospettive storiche e me¬  tastoriche più ampie, nel tempo e nello spazio. Ha co¬  nosciuto autori e tradizioni che con i fascismi poco o  nulla avevano a che vedere. Si deve principalmente a    210    Evola, alle sue letture e alle sue divulgazioni, alle sue  traduzioni e ai suoi riferimenti, se quella destra ha po¬  tuto conoscere ampi filoni della cultura mitteleuropea,  a cominciare dalla konservative Revolution, grandi pi¬  lastri della sapienza orientale, solidi pensatori legitti¬  misti e tradizionalisti.   In secondo luogo, se vi è stato un autore di destra che  ha meno sollecitato l'attivismo, questi è stato proprio  Julius Evola. Se un limite si deve individuare nella le¬  zione «politica» di Evola esso è piuttosto di segno con¬  trario: coloro che si sono avvicinati a Evola si sono so¬  litamente allontanati dall’attivismo politico.   Ci si avvicinava a Evola alla ricerca di fondamenti per  la propria scelta politica: ma la radicalizzazione del Po¬  litico è coincisa con il rigetto della politica.   La lettura del pensiero evoliano ha avuto infatti un  esito generalmente impolitico. Quando Evola richiama  tradizioni lontane nello spazio e nel tempo, remote età  dell'oro, inaccessibili vette del Grande Passato di cui  non sopravvivono più neanche tracce e vestigia, né riti  né fiaccole viventi, la tradizione finisce di essere una  radice per diventare un'Idea, cessa di essere una tra¬  smissione di valori per convertirsi in una rappresenta¬  zione concettuale, si estingue come pratica viva e rituale  per ridursi a un oggetto del puro pensare.   Tradizione è collegamento e qui diventa isolamento,  è apertura verso il mondo e qui diventa solipsismo, è  anello di congiunzione e qui diventa rottura con il  tempo.   Quando Evola definisce la tradizione «una discesa del¬  l’Individuo Assoluto nella concretezza storica», 19 priva  la tradizione del suo significato metastorico e metafi¬  sico, riduce la tradizione o travestimento dell'Io, a una  volizione del soggetto. Non vi è alcuna tradizione che  possa ricondursi a una soggettività; ogni tradizione si  incarna e trascende i membri di una comunità. Altri¬  menti tradizione non è. Quando Evola ripropone la dot¬  trina tradizionale dei cicli storici, delle quattro età, e  ci ricorda che viviamo nell'età oscura, ci conduce da¬  vanti a un paradosso insolubile: se aderisco fedelmen¬  te alla dottrina, devo convincermi che io non posso mo-  ■ dificare il corso metafisico delle epoche, e quindi inuti¬  le sarà la mia azione politica, il mio impegno nel mon-    211                                             do; se viceversa penso che gli individui possono cam¬  biare radicalmente il corso dell'epoca, la dottrina per¬  de il suo vigore metafisico e la tradizione si piega anco¬  ra una volta al soggettivismo volontaristico.   Quando Evola sostiene che il fascismo sia stato «ro¬  vinato» dalla natura del popolo italiano, può avere ra¬  gione sul piano della pura teoria, ma esprime un'osser¬  vazione impolitica, riduce il fascismo a una pura cate¬  goria dello spirito, astratta dalle coordinate storiche e  temporali. La politica agisce in un dato tempo, in un da¬  to spazio e in un dato popolo: se si dice che il tempo,  lo spazio e il popolo sono inadatti per quell'idea si fa  dell’idealismo assoluto, e si è decisamente lontani da  ogni considerazione politica. Non può esistere una po¬  litica sradicata dalla storia e dalla natura degli uomini  su cui vuole agire.   Quando Evola sostiene che la nostra patria non deve  essere quella sancita dalla nostra appartenenza natu¬  rale e territoriale, ma «la vera patria è l’idea», 20 ridu¬  ce la patria, e la stessa tradizione, a un'essenza disin¬  carnata; riduce il radicamento, architrave di ogni tra¬  dizionalismo, a puro convincimento intellettualistico.   Sulla scia di queste aporie ha serpeggiato tra molti  evoliani una forma di pessimismo assoluto, una specie  di antiprovvidenza che vuole i migliori sempre perden¬  ti, poiché il successo di un’idea, nel nostro mondo scon¬  sacrato, sarebbe il segno del suo scadimento. Se la ve¬  rità è ciò che si oppone alla storia, è fatale che la via  della verità diventi la negazione della storia. Si è così  insinuata una cultura della disperazione, il mito dell’E¬  roe perdente, del Profeta inascoltato, del Suicida veg¬  gente. Senza una adeguata mediazione, questi orienta¬  menti evoliani conducono fatalmente a un esito impo¬  litico.   E conducono a quei due opposti equivoci che inibi¬  scono oggi il rapporto tra la cosiddetta «destra radica¬  le» e la politica: da un verso lo sradicamento e dall'al¬  tro l'ibernazione.   Da una parte nasce il tradizionalismo immobile, che  per inseguire il soprastorico scivola nell'astorico, il tra¬  dizionalismo chiuso a ogni forma di attivo impegno nel  mondo e dunque un tradizionalismo senza tradizione  perché senza continuità effettiva. Ma dall'altra, più re¬    centemente, è nato il tentativo di disancorare la storia  dalla tradizione, di liberare l’impegno civile e politico  da ogni punto fermo, di emanciparsi da ogni appartenen¬  za radicata.   I due pericoli sono opposti nello sviluppo ma uniti nel¬  la genesi: entrambi nascono dalla convinzione che vi sia  una frattura insanabile tra il mondo dei valori e il mon¬  do dei fatti, tra l’ideale e il reale, fra la tradizione e la  storia.   Partendo entrambi dalla constatazione di questa frat¬  tura, le strade poi divergono: i primi seguono la via del¬  l’imbalsamazione, del dogmatismo e fatalmente appro¬  dano all'isola immobile dell’impolitico. I secondi scel¬  gono la via della liquefazione, del relativismo e finiscono  poi a inseguire il successo ad ogni costo, prescindendo  dai motivi di fondo per cui il successo avrebbe un senso.   I due comportamenti sono fondamentalmente con¬  trassegnati dall'individualismo e si rivelano letteral¬  mente schizofrenici: nascono infatti da una dissociazio¬  ne di fondo tra pensiero e atto, idea e realtà, essere e  dover essere. L'esito dei primi è segnato dall'idealismo,  con la tradizione ridotta a pura rappresentazione men¬  tale e soggettiva, disincarnata dalle sue forme visibili,  sensibili e comunitarie. L'esito dei secondi è il nomina¬  lismo, la riduzione dei valori a strumenti di locomozio¬  ne, a convenzioni e volizioni del soggetto.   In questo senso va ripensata non solo la frattura po¬  sta da Evola tra i valori della tradizione e gli strumenti  della modernità. Ma occorre rimeditare anche lo iato  sancito da Evola sul piano storico-politico tra rivolu¬  zione conservatrice e ideologia italiana. Una frattura,  quest'ultima, che ha contribuito non poco a generare a  destra quel rigetto della tradizione nazionale e quella  ricerca di autori e modelli attinti da altre tradizioni e  da altri paesi. Nell'opera in cui Evola teorizza esplicita¬  mente i lineamenti di una rivoluzione conservatrice, vale  a dire Gli uomini e le rovine, è ribadita con forza la frat¬  tura tra «ideologia italiana» e rivoluzione conservatrice.   Dopo aver spiegato il senso in cui si può positivamente  parlare di «rivoluzione conservatrice», Evola aggiun¬  ge: «Pel vero conservatore rivoluzionario è questione  di una fedeltà non a forme e istituzioni di tempi trascor¬  si bensì a dei princìpi». 21 Affermazione che già presen-           ta l’insidia del puro idealismo ovvero il disancoramen¬  to della tradizione dalla storia; ma, al limite, si può an¬  cora condividere soprattutto se si tiene conto del pas¬  saggio da una veduta integralmente tradizionalista, e  quindi fondata sulla continuità, a una veduta rivoluzio¬  naria conservatrice, e quindi fondata sulla consapevo¬  lezza di una frattura verificatasi fra tradizione e mo¬  dernità. E ancor più si può comprendere e apprezzare  il riferimento evoliano se si ha presente il contesto a cui  Evola si rivolge: riferendosi agli ambienti del neofasci¬  smo, Evola invitava a non confondere la difesa di valo¬  ri con la nostalgica difesa di regimi e istituzioni che non  sono più presenti. Quello di Evola era un passo forse  troppo prematuro, per dissociare il mondo rivoluzio¬  nario-conservatore di destra dal puro nostalgismo.   Ma Evola si spinge ancora ben oltre. Egli giunge ad  affermare che la componente «rivoluzionaria» presen¬  te appunto nella «rivoluzione conservatrice», va intesa  nel senso di fare tabula rasa della storia per lasciare il  posto alle pure idee. Grazie al carattere rivoluzionario  le forze attive «si presenteranno ad uno stato quasi pu¬  ro, con un minimo di scorie storiche». E a questo Evola  aggiunge: «Appunto perché l’appoggio materiale con¬  sistente in un passato tradizionale ancora vivo e con¬  cretizzato in forme storiche non del tutto scadute è da  noi inesistente, la rivoluzione restauratrice dovrà pre¬  sentarsi in Italia come un fenomeno anzitutto spiritua¬  le ed avente come base la pura idea». 22   Rispetto a quel che Evola intende per tradizione, la  sua conclusione è rigorosa quanto ineccepibile. Ma al¬  trettanto evidente è l'esito impolitico e la separazione  dalla storia che essa sancisce.   Il problema che si pone, in fondo, è questo; se si in¬  tende scegliere una strada esistenziale dissociata da  ogni impegno politico, il rigetto della ideologia italia¬  na, e della storia italiana, è in linea di rigorosa coeren¬  za con le idee affermate da Evola e ha una sua legitti¬  mità e dignità incontestabili. Ma se, viceversa, si inten¬  de costruire una linea politica, se si intende davvero ado¬  perarsi per una rivoluzione conservatrice, allora è  impossibile fare il vuoto intorno e dietro a sé, reciden¬  do i ponti con la storia del proprio paese e con la realtà  del proprio popolo. Né si può disancorare, in questa se-    214    conda ipotesi, l'idea di tradizione dalla rappresentazio¬  ne storica che ha avuto.   Occorre allora rimeditare la storia italiana, almeno  dal Risorgimento in poi, con spirito critico, senza dub¬  bio, ma senza apocalittici dinieghi.   Né va trascurato il fatto che talvolta, a sostenere cau¬  se che metastoricamente si possono definire negative,  possono trovarsi uomini e ragioni che hanno intrinseci  tratti di giustezza, di nobiltà e di dignità. Uomini giusti  per cause sbagliate. Articolare i giudizi, dunque, pur  senza privarli della loro globalità, e risalire alle intime  ragioni di certi accadimenti.   In questo senso la teorizzazione evoliana di una linea  rivoluzionaria conservatrice rivela tratti di insufficien¬  za e di carenza sul piano storico-politico. Laddove in¬  vece, nelle grandi linee metafisiche e metastoriche, il  pensiero evoliano risulta ancora di inesaurita ricchez¬  za e fecondità.    NOTE   1. J. Evola, Gli uomini e le rovine, Roma 1972 (la prima edizione risale a  vent'anni prima).   2. J. Evola, Cavalcare la tigre, Milano 1961.   3. J. Evola, Essere di destra, in «Roma», 19 marzo 1973, poi in Citimi scrit¬  ti, Napoli 1977; cfr., Gli uomini e le rovine, cit., p. 17.   4. Di G. Galli su Evola cfr. La destra in Italia, cit., p. 65; La tigre di carta  ed il drago scarlatto, pp. 193-97 e 236-37, Bologna 1970.   5. I. Mancini, Il pensiero negativo e la nuova destra, Milano 1984. p er m.  Cacciari, i riferimenti sono a una intervista da lui concessa a G. De Turris, Z//r-  razionale? E chi lo conosce..., in «Il Settimanale», pp. 72-74, n. 16,1980, e all'ar¬  ticolo È una figura complessa su Evola, apparso sempre su «Il Settimanale»  n. 24, pp. 68-69, 1980.   6. Evola ha avuto un ruolo importante per la conoscenza e la diff us j one  in Italia della konservative Revolution. Oltre ai suoi contributi, e ai numerosi  riferimenti sparsi nella sua opera, Evola ha tradotto in Italia II Tramonto del¬  l’Occidente di Spengler, ha introdotto Anni decisivi dello stesso autore, h a tra¬  dotto/!/ muro del Tempo di Junger (Roma 1965) e ha scritto un’ampia sintesi  dell 'Operaio (cit.), solo per citare alcuni dei suoi contributi.   7. E. Cioran, Storia e utopia, Milano 1970.   8. Il riferimento è a un editoriale anonimo ma attribuito aH’allora diret¬  tore della rivista, padre Bartolomeo Sorge, apparso nel fascicolo 3210 del 15  marzo 1984 di «Civiltà Cattolica», Il neo-paganesimo della Nuova Destra.   9. J. Evola, Imperialismo pagano, Roma 1928.   10. Cfr. M. Veneziani, Julius Evola tra filosofia e tradizione, pp. 63-64 Ro¬  ma 1984.   11. A tale proposito si veda di A. de Benoist soprattutto Come si può essere  pagani?, Roma 1984.   12. Ibidem.    215                      13. A. Negri, Evola e il superamento dell'attualismo in appendice a M. Ve¬  neziani, Julius Evola tra filosofia e tradizione, cit., pp. 195-96. Negri si riferisce  a Evola anche nel suo Sviluppi e incidenze dell’attualismo, cit., p. 91.   14. I riferimenti a Evola di Spirito, Carlini e Sciacca sono stati raccolti da  G. De Turris in Omaggio a Julius Evola, Roma 1973.   15. Cfr. Gentile non è il nostro filosofo, in «Tradizione», II, n. 4,1965; Il filo¬  sofo G. Gentile, in «Il Conciliatore», 1, 1972 (poi in Ricognizioni, Roma 1974).  Si vedano inoltre di Evola su Gentile: Saggi sull’idealismo magico, pp. 148-61,  Roma 1925; Il cammino del cinabro, cit., pp. 41-43; e gli scritti Superamento  dell’idealismo (18 gennaio 1935), Superamento dell'idealismo (2 febbraio 1935)  e L'equivoco dell'immanenza (10 maggio 1935) raccolti in Diorama filosofico, cit.   16. F. Jesi, Cultura di destra. Il linguaggio delle parole senza idee, Milano  1979.   17. AA.VV., Nuova destra e cultura reazionaria negli anni Ottanta, cit. Si  veda anche AA.VV., La destra radicale, Milano 1985.   18. J. Evola, Il Fascismo visto dalla Destra. Con note sul Terzo Reich, cit.   19. J. Evola, Il cammino del cinabro, cit., p. 91. A proposito della teoria evo-  liana sulla razza è da riferire quanto emerge dai Documenti segreti del Terzo  Reich pubblicati a Roma nel 1986 a cura di N. Cospito e H. Werner Neulen.  In uno scritto, una nota inviata dal dirigente dell’Ufficio politico della razza  della NSDAR, dr. Gross, al ministro tedesco per l’istruzione popolare e propa¬  ganda, Evola viene accusato di elaborare una teoria razziale «italiana», e fon¬  damentalmente antitedesca. Osservando che Evola pone il primato dello spiri¬  to sul corpo, l’estensore della nota rileva che Evola aderisce all’idea della su¬  periorità spirituale dei popoli latini e asseconda «la favola della barbarie nor¬  dica in un altra forma» (p. 130). Dopo aver accusato Evola di teorizzare un  razzismo «annacquato», privo di scientificità, antievoluzionistico, il redattore  afferma: «Dalla latinità dell’autore scaturiscono concezioni che costituiscono  un atteggiamento totalmente estraneo alle visioni tedesche... Per questa ragio¬  ne colpisce in molti punti la sintonia con il cattolicesimo mediterraneo» e pro¬  segue con alcuni esempi (pp. 130-31 dr. Huttig, Berlino, 9 settembre 1942).   20. Su tale idea cfr. Gli uomini e le rovine, cit., p. 41; «Orientamenti», p.  17, Roma 1950. A tale proposito cfr. M. Veneziani, Prefazione all'ultima edizio¬  ne di «Orientamenti», Roma 1984 e in AA.VV., Testimonianze su Evola, Roma  1986; Evola e la generazione del sessantotto ».   21. J. Evola, Gli uomini e le rovine, cit., p. 19.   22. Ibidem, p. 23. The Germans do not have the concept of virility. Evola’s concept of ‘maschio’ is very complex – vir sums up best. Julius Evola. “Giulio Cesare Andrea Evola”. Keywords: romanità, virilità. pitagora, roma, origini di roma, romolo, romanità, virilità, pitagora canti d’oro, ercole, male bonding, virilita, vir, Dioscuri, castore e policce, Weininger, Buehler, homoerotic, intergenerational male bonding, tutor/tutee, hero, Aryan, European – Roma, l’implicatura di Romolo. Refs.: Luigi Speranza, "Grice ed Evola," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51763019614/in/dateposted-public/

 

Grice e Fabri – lizii -- i peripatetici – filosofia italiana – Speranza (Spinata di Brisighella). Filosofo. Grice: “I like Fabri; especially the ardour by which he fought Duns Scotus – a furriner! – and his malignant influence on the Continent – he was a thoroughbred Aristotelian, like me!” Insegnò a Padova. Critica Pico e Galilei, in difesa di Aristotele, dell'unità della metafisica e della separazione di matematica e fisica. Altre opere: Disputationes theologicae de restitutione et extrema unction (Venezia). “Adversus impios atheos” – PHILIPPI FABRI FAVENTINI ORD. MINOR. CONVENT. Jn Universitate Patauina Olim Sacrae Theologiae Professoris EXPOSITIONES, ET DISPVTATIONES In XII. Lib. Arist. MATAPHYSICORVM; QVIBVS DOCTIRNA IO. DVNS. SCOTI Magna cum facilitate illustratur, [et] contra Aduersarior omnes tam Veteres, quam Recentiores defenditur His Praeijt Auctoris Vita a MATHEO VEGLENSI, Nunc Sacrum Theologiam in eadem Vniuersitate Publice docente, Conscripta. Cum Duplici Disputationum, [et] Rerum Memorabilium Indice. Ad EMINENTIS. ET REVERENDIS. PRINCIPEM D. Dominum FRANSCISCVM CARDINALEM BARBERINVM S.R.E. Vicecancellarium. Il valore della "Metafisica" di Aristotele e la distinzione delle scienze speculative. In: Innovazione filosofica e università tra Cinquecento e primo Novecento. Filippo Fabri. Filippo Fabbri. His comment on Aristotle’s metaphysics is a gem. It’s divided in dissertatio – and chapters for each little unit. The following should serve as kewyords. DISPVTATIO PRIMA. contrarium solution cap, il Yorum appetitus addat aliquid supra facultatem, cuius De Structura Metaphysicorum est appetitus, & idem de concupicibile, & irascibile. cap. III P. 22 BIECTIO ' Adversariorum Aristotelis contra scientiam Metaphy DISPVTATIO VIL sicorum. Cap. I Excellentia Metaplıyl. explicatur. V trum inter omnes senſus magis senſum visus Cap. 11 diligamus, o hoc quia vilusfaciat nos Excellentia Merappyf. inductine din magis scire. scurrendo per diversas (ciencias, & questa varia pub. Cap. III pag. Is Rationes, quibusallata propositio Aristoteli videtur Adraciunes Adversariorum Arist. cap.1111 falla Declaratur alata propositio, & soluuntur rationes DISPVTATIO II. adduciæ. cap. II DC Inscriptione, Сар. Рnicит, DISPUTATIO VIII. DISPVTATIO II. Utrum in Brutis sit prudential. Utrum. Metaphys. sit scientia subalternans, Cap. Quid sit dicendum reiectis opinionibus contrariis, Рівіскі. cap. Vnicum. P. 34 DISPVTATIO IIII DISPVTATIO, VINNI. De Subiecte Metaphysicorum. Utrum ex experimentis generetur ars, siue scientia. Aliorum opiniones adducuntur, & reijciuntur, cap.1. Opinio Arist. & Scoti cum suis fundamentis brevi. ter explicatiil'. cap. I P: 36 Vera Opinio cap.nl p.21 Obiectiones contra opinionem Aristot.ex! Antiquis Heraclito, Platone, & Avicenna, & earum con DISPVTATIO. V. futatio, & Solutio. cap. II Obiectiones aliorum contra quædam dicta in 1. cap. Vtrum ens habeat peras causas, principia. & eorum solutio Vtruy verum sit quod expertus non habens artein, Quid sit dicendum. cap. 1 p. 22 nec scientiam certius operetur habente, & scienti. Obiectiones aliorum præfertim contra distinctionem ang, sed inexpertè, formalçın soluuntur. cap. I I p. 22 DISPVTATIO X. DISPVTATIO VI. Vtrum AEtiones sint circa singularia. vide lib.7. Vtrum illa propositio Aristot. Omnes homines Diput. natura scire dederant, sit vera, de quo auctitu DISPVTATIO XI. Opinio Thomist. & quorumdam aliorum adducitur, Vtrum aliquis SENSVS INTERNVS dividat, come & refellitur ponat, a discurrat, Opinio Scoti, & eius Comprobatio, & rationum in P.38 Di OPERA 15 Opinietur. Opinio D. Tho. ac Sectatorum refellitur, & Opinio Quid sit dicendum.c. vnic. 02 Scoti explicatur.c. Vdic DISPVTATIO DISPVTATIO V. XII. Vtrum detur Regressus, yorum obiectum per se sensus sit aliquid fub ra. tione singulariiatis. DISPVTATIO VI. DISPVTATIO XIII. Vtrum sit ponere Stutum in omni genere catfitri... ptrum ad Metaphyf. pertineat cognoscere omnes Quæ fine causæ essentialiter ordinatæ, & quæ acci. quidditates rerum in particulari. dentaliter, & quæ per se, & quæ per accidés.c. 1,93 Resolutio quæstionis secund. Scotum. c.2 Aliotum Opiniones adducuntur, & refelluntur. Obiectiones contrarationes Scoti, & Propoſitioné 49 Arift.& carundem folutio.c.3 Opinio Scoti explicatur, & rationes in oppofitum Coluuntu. DISPVTATIO. VII. DISPVTATIO XIV. Vtrum cauſæ ſecunde pendeant in sua causalitate ab aliis causis secundis superioribus, vt Vtrum magis universalia sint difficiliora cogni agentia hæc inferiora d cælo. DISPVTATIO Opinionibus Contrariis conſideratis, quid sit dicen X V. dum Itatuitur. Quomodo Celum sit causa lucis, luminis, & caloris trum metaphyſicæ sit scientia practica, vel Spe. permotum, vbi de generatione caloris quoque culatiúl, ego idem de logica. agitur. c.2 Quid sit dicendum de Metaphyſ. breviter explica- Quomodo Cçlu producat calore per lumé.c.z. SS Quid sit dicendum de Logica DISPVTATIO VIII. SVPER LIBRVM SECVNDVM. Vtrum infinitum possit à nobis cognolci. DISPVTATIO PRIMA. An poßit à nobis cognosci infinitum esse in rebus Vtrum prima principia Complexa vel illud de quo- An intellectus creatus poflit infinitum secundú quod libet perum est AFFIRMARE, VEL NEGARE, de nullo infinitum cognoscere. Opinio Suarez cun fais amboſimul, sint nobis naturaliternota. fundamentis Opinio allata reijcitur. Opinio Scoti explicatur, & ra Quid sit dicendum. ciones in oppositum foluuntur.c.3 An A Genfus principiorum sit actus distinctus ab apprehensione, & quædam alia dubia mota a Scoto SVPER LIBRVM TERTIVM. in hac quæst.&non soluta, Coluuntur. DISPVTATIO PRIMA. DISPVTATIO II. Utrum immobilitas sit causa efficiens, o finalis Vtrum difficultas cognoscendi resfit ex parte intellectus, vel ex parte rerum cognoscibilium. Quid sit dicendum breviter explicatur. cOpinio Averr. Thomist. & aliorum cum suis fundamentis DISPVTATIO II. Opinio Scoti comprobatur, & allaræ refelluntir. Vtrum genus prædicetur de differentia per se, Opinio Scoti explicatur, &rationes Aduerfariorum Quid sit dicendum. Cap. Vnicum ſoluuntur DISPVTATIO III SUPER LIBRVM QVARTVM rio. DISPVTATIO PRIMA. Utrum substantiæ abstracta immateriales possint cognosci secundum suas quidditates ab Vtrum ens uni-voce prædicetun de Deare creaturis intelle &tu nostro pro Aatu iſto. Opinio Thomist. adducitur substantia, e accidente: vbiquæ ad hancmate, & refellitur riam spe &tent quæq; tractata sint explicantur, Thomist. responsiones refelluntur. quædam observanda adduntur. Opiniones Auerr.Themistij, simplicii, & Platonicorum, ac Avicennæ adducuntur, & refelluntur Utrum ců Univocatione entis stet ANALOGIA An Analogum mediet inçer UNIVOCVM, & æquivocu. Explicatur Opinio Scoti, & rationes in oppositum DISPVTATIO IIII DISPVTATIO II.. Vtrum Privatio, Negatio sit ens rationis, In quo sit felicitas, & summum bonum hominis se iundum Aristotelem, alios Philosophos. Opinio Aucrc.D. Thoin, & sectatorium.c Cap. 2 soluuntur Opinio untur.C.2 IX. E Opinio Scoti, & solutio rationum pro Adversariis DISPVTATIO IX DISPVTATIO 111 Vtrum vniversale pro prima intentione sit in solo intellectu, an in rebus, a quo fiat, ứ quid sit. Vtrum cognitionem negatio habeat ab affirmatione diftinétamcuiformalitatem opponitur., ca Status quæftionis aperitur, & opinio Nominal. addu citur, & confutatur Quid sit formalitas Opinio Thomiſt. & multorum aliorum adducitur, & Quomodo formalitas ſeù conceptibilitas negationis refellicur.c.2 189 Te habeat ad formalitatein affirinationis Opinio Scoti Quomodo privatio per affirmatione, & privatio An intellectus agens, vel possibilis faciat universale, per positiuuin cognoscatur solutio trium quæftionum à Porphirio excitata rum in Proemio Prædicabil. DISPVTATIO IV. Rationes pro aliis opinionibus adductæ soluuntur. De ente rationis, e fecundis intentionibus. DISPVTATIO X. An fir ens rationis, & quotuplex sit Quotuplex sit ens rationis, Aliorum opiniones reijci Utrum verum ſit paſſio entis, & quid fit Opinio Scoti explicatur, & rationibus primo capite DISPVTATIO XI. addictis reſpondetur Quid fit ens rationis,& fecundaintentio. Opinio A. Vtrum bonum sit passio entis, & quid sit liorum, & eorumdem confutatione Quid sit ens rationis, & secunda intentio secundum DISPVTATIO XII. Scorú, & quomodo formatur,& an formetur a voluntate, & fenfitiua potential Vtrum preter vnum, verum, bonum den An: prædicametu undecimú debcat constitui, in quo tur aliæ passiones entis entia rationis reponantur Quid sit dicendum breviter declaratur. c. vnic DISPVTATIO V. DISPVTATIO XIII. virum ens habeat veras paſſiones, cproprietates. Vtrum iftud principium,impoſſibile eſt id eniſimul Variæ opiniones cum eorum fundamentis eſje; non efje fit firmiſſimim. Allara opinio refellitur Opinio Scoti explicatur, & rationes Aduerſarlorum Veritas breviter explicatur, & quædam obicctiones ſoluuntur soluuntur.c.vnic DISPVTATIO ATTO DISPVTATIO VI. XIV Vtrum propria paſio distinguatur realiter vtrum hoc principium inpossibile est idem fimulef à Juo subiecto. fes nonesse sit simpliciter primum principi um, e prima omnium dignitatum. Opinio & Auerroiſt Nominal. quorumdam. breuiter reijcitur cum fuis, & opinio fundamentis Thom.. Au principiun iſtud ſit diuerſum ab alijs principijs, & explicatur.c. præſertim ab illo, de quolibet verum eft affirmare 201 velnegare.c.1 Allata opinio reijcitur, & opinio Scoti, quæ eft etiam Auert. Comprobatur Opinio Allerentium primum principium ſimpliciter Rationes Aduerſariorum foluuntur elle illud de quolibet verum ett affirinare,vel nega Rationes Aduerſariorum contra diftinctionem for re, retellitur. malem inter ſubiectuin, & paflionem adducuntur, ConGdecancur opinio Antonij Andreæ, obiectiones & foluuntur.C.4 176 Aduerfarioruin, & quæfituin reſolutur.c.3 204 DISPVTATIO V11. DISPVTATIO XV. V trum vnü quod eft paffio entis, dicat quid poſitivi Vtrum inter contradictoria detur medium. Opinio Auicennæ reijcitur, & opinio D.Thom.& re. Quomodo vera fit hæc propofitio, & aſſertio, inter ctatorum explicatur cum ſuus fundamentis.c.1.177 contradictoria datur mediam explicatur, & ebie Opinio D.Thom. & ſectatorum refellitar.c.2 179 ctiones quædamin contrario foluuntur. C.1.206 208 Opinio Scoti explicatur, & rationes pro Aduerſarijs Argumenta quædam contraria toimuntur.c.2. foluuntur SUPER LIBRVM QVINTVM. DISPVTATIO VIII. DISPVTATIO I. De Vnitate indiuiduali, seu de principio individuationis. Vtrum cauſæ ſint tantum quatuor. Quierlain adduntur ad ea, quæ in Philoſopbia naturali Quæ fit diffinitio propria principij, & caufæ, & quod dicta ſunt de principio indiuiduationis contra Sua corum difcrimen. Suarez, & opinio Scoti magis confir. Vtrum fint plura quá quatuor genera cauſarú,vbide caula XCII Di 202 D D INDE X. 1 c. 308 299 -. caufi fine quanon,decauſa diſpoſitiua, obiectiva cxemplaridiecimur.c. 2 Vera explicatio difficultatis propofitæ,& rationen in oppofitum folutio. Verum cauſa exemplaris fit genas diſtinctuin caufæ à quatuorgeneribuscaularum pofitis ab Aristotelis. DISPVTATIO VIII. C. 3 DISPVTATIO II. Vtrum caufe ſint ſibi inuicem cauſa. in quo conſiſtat cauſalitascauſamaterialis, forma. Quæſtio breuiter reſoluitur, &quædam obiectiones lis, efficientis. in contrarium foliuntur.c.vnico DISPVTATIO IX. Opinio aliorum.com 237 Allatæ Opinio opiniones vera cuin luis refelluntur fundamentis, & folutio racionú verum neceſſaria habeant caufam fui esse Aducrſariorum. DISPVTATIO X. DISPVTATIO III. Vtrum ens diuidatur in decem prædicamenta per De cauſa finali. modos prædicandi, vel per modos eßendi. Caula finalem ele caulam realem, & caulam caliſa- Quid fitmodus rei, & quid modi intrinſeci, aliorum fum opinionibus reiectis,explicatur.c. I 305 An finis caufct, & moueat fecundum fuum elle rea. Opinio Scoti.c. 2 le, an secundum elle cognitum in inente, DISPVTATIO XI. Antinis caulec Meraphorice,vel efficienter Viruin ratio formalis conftitutiua finis in proxiina di ſpoſitione ad caufandam larbonitas tin:s,& Ancau Vtrumſecunda diuiſio vnius, quæ eft in vnum nu lalitas tinis babeat lociun in diuinis actionibus, in mero, unum specie, unum genere, & vnum propor mediis relationibus prusacion.bus, & in naturali tione sit conveniens.bus DISPVTATIO XII DISPVTATIO IV. Vtrum plura accidentia solo numero diucrſapoſfint De causa instrumentali ere simul in eodem fubie& to Opinio D. Thomz, & Thomist., cum suis fundamen- Opinio Thoiniſt. cum fuis fundamentis Alaca opinio celicitur, & opino Scoti explicatur,  & conriimtur Allaca opinio refellitur, & opinio Scoti explicatur Obectiones quęd.ım ex Suarez adducuntur, & folur Vtrum inſtrumenta Artium habcant vim activa n. tur, & ndiciva deeius speratione fertir Plures relaciones diltiactis numcroelli dc facto in co Opinio Scoti adducitur,& rationes Aduerſariorun, dei lubiecto contraaduerfarios prob cap.adductæ Coluuntur Rationes Aduerfariorum primo capite adducte lol muntur DISPVTATIO V. DISPVTATIO XIII. Vtrum onus effe &tus poſſit prouenire à pluribus caufis. V trum propria ratio quantitatisſit diuiſibilitas. Quaeslio quoad criamembra, & tres fenfus,breuitcr Diffinitio quantitatis explicatur cxplicatur Virum quantitas molis fit entitas distincta à ſubstan. Vtrum idem effectus poflit effe fimul a pluribus cull cia materiali, & qualitatibusillius ſis totalibus eiuſdeni generis, & ordinis sive speci Viruin ratio menſuræ fit ratio torinalis quantitaris.De principali quæfito, An divisibilitas sit ratio esé. DISPVTATIO VI cutis quantitates  Qienum fic excentio in quanticate, & quomodo ina Anidem indiuiduum poſſit produci à diue'ſis agen Ten yenda dit.c.s tibus, idem numero reproduci naturaliter. DISPVTATIO XIV. An idem effectus poflit eſſe à pluribus saufis rotali bus divisim, seu Anidem indiuiduum numeio por Vtrum punctum linea, superficies sint entia rear fit produci à diuerſis agentib ila vel railonis, An idem numero tam in fubftantia, quam in acciden te poflit reproduci naturaliter Opinio nominalium negantiuneſſe entiz realia cum iuus fundamcntis. DISPVTATIO VII. Opin o alaia reiicitur, & finul appo.iti, quod iint evtia rcalia, que elt com 10HS comprobitiir Vtrum cauſa particularisin a&u, &ſuus effe &tius in aftuſimulfint, & non fint:vel fub alio titulo. Opinio Sco: i, & folutio rationum in oppoſituin. Vtrum caufa fitprior ſuo effectu Quorundam opiniones adducuntur, &reijciuntur DISPV pas T Opinio Scoti cum fuis fundamentis. DISPVTATIO XV. Rationes crietani contra hanc opinionem, & rationem Scoti so trum quantitas discreta ſit proprieſpecies Opinio allata caietani cum suis fundamentis, & re. quantiiati, sponſionibus refellitur Soluuntur rationes aliorum.c4 Opinio negatiua cum fuis fundamentis Allata opinio refellitur & oppofita comprobatur, DISPVTATIO XX11 Opinio Scoti, & communis explicatur, & rationes Vtrum ad relationem realem tria fuffi in oppofitum foluunturçiant, Virum in ſpiritualibus tie quantitas diſcreta, & in dili nis fit numerus  Relationem habere cauſam efficientem, & finalem, quæ sunt extrema & relationem multiplicari ad DISPVTATIO XVI multiplicationcm fubicctorum, & potentialem el fercaliter diftinctam ab actuali. Vtrum qualitas rectè diftinguatur in qua., De Distinctione fubiecti, & fundamenti in relation tuor ſpecies ne.c.2 393 Vtrum fundamentum, & terminus in relatione reali Proponuntur difficultatesquædam generales circa do neccfiario diftingui debeant realiter. Vbi opinio ctrinam Ariftotelis de qualitatis ipecicbus.c.de Gregorij, Auscoli, & Okan apperiuntur, & rejciuntur Quid dicendum circa allatas difficultates DISPVTATIO DISPVTATIO XXIII, XVII. Vtrum dentur Relationes extrinfecus ad V trum locus fit quantitas. menientes, Explicatur quęnio 2. Q.101.b. Scoti, vbi de distin- Opin o Scoti explicatur cum ſuis fundamentis ctione loci, de existenia duorum corporum in eo dein oco difertur, & obicctiones Aducrtariorum Rationes aliorurn adduantur, & rcfelluntur retelluntur Locum non cfle vacuum, quamuis vacuum poflit da Rationes allaræ foluuntur leteffe ipeciem quantitates Solutio argumentorum conrra fecundam, & tertiam opinionem DISPVTATIO XVIII, DISPVTATIO XXIV. Vtrum motus, tempus fint species quantitatis.VNICUMI. Vtrum una relatio possit fundari in alia keliiione. DISPVTATIO XIX Opinio D. Thomæ cum ſuis fundamentis refellitur, Utrum relatio distinguatur à fundamento, vbi de distinctione reail, mondo, contra hea Opinio Scoti, & folutio rationum pro præcedenti opi cenciures un puitur. nioneadductorum Opinio eorum, qui aſſerunt relationein non distingui DISPVTATIO XX a fundamento. Opinio præcedenci capite allata, & doctrina de ditın Virum tres modi relativorum sint reétè clione reali Suarez iciclisur. allignati ab Aristotele. Opinio alionum allerenijum relaciones non diſting.is realiter à fundamento. Anomncs relationes fufficienter contineantur in his Opinio alioulin aflerenuun relationes eſſe idenirea a b smodis Tejatiliorum.c. I liter cuin fundamento, led dittingu rationc addu Vuum primus modus relatiuorum Git ſufficienter ani citur, & refellilur. gnaliis Opiniones aliorum foluuntur Yorum lccundus, & tertilis modus relatiuorum fic rectè aſiignatus.C.) DISPVTATIO XX. SUPER LIBRVM SEXTVM. Vtrum omnis relatio contineatur in predica mento relationis, an rerò aliqui fint DISPVTATIO PRIMA Transcandentales. Per quid scientia speculatina distingua. Opinio aliorum qui allerunt relationes rationis repo tur à Practica. nu in prædicamento relationis adducitur, & reijci tul Adversariorum ſententiæ; An açtus intellectus sie Que tint relationes prædicamentales, & quæ tran praxis adducuntur, & refellunur scendentales. Opinio Thomittarun a quo habitus, & scientia di. catur practica cum lius fundamentis DISPVTATIO XXI. Allaca opinio retellicur, & rationes pro ça Coluuntur, Virum relatiuum terminetur ad ſuum correlatiuum. DISPV Scou one CRUCI DI De conexione virtutum moralium acqui ſitarum inter fe. Opiniones aliorum refelluntirr.c.i SOI Opinio D. Tho. & aliorum refelluntur. Opinio Scoti, & dolutio rationuin sos DISPVTATIO X. DISPVTATIO III. Utrum scientiam sit una qualitas simplex. Opiniones aliorum refelluntur, & opinio Scoti ex plicatur Verum ſcientia: n totalis vt Philoſophia naturalis, vel Mertaph fit vna nuinero fimplex qualitas Opinio D. Thomæ Opinio Suarez Quomodo opinio nominalium Gt vera, Relponſio caierani retellitur Pugna inter Suarez & Vaſquez  DISPVTATIO IV De connexione virtutum moralium cum prudentia, Opinio Henrici, & aliorum reijcitur, & opinio Scou ti explicatur CI sog Opiniones Aliorum refutantur, & opinio Scoti con firmatur.  i foluuntur. 6.4 vtrum trimembris diuifio.ſcientia ſpeculatiuæ in DISPVTATIO XI. Phisicam Mathematica, de methaphysicam, fut bona. Vtrum necesse sit ponere charitatem creatam for maliter inherentem naturæ Beatifica Rationes quibus prædicta diuifio Arist, non vide Diſput. merè Thologica, cur conueniens Resolucio Difficultatis, & folutio rationum. cap.z. Homines iuſtificari per iuftitiam inherentem animæ pag. 460 formaliter, non autem per imputatiuain, contra hæ feticos breuiter probatur DISPVTATIO V. Opinio Magiſtri adducitur, & refellitur. Opinio catholica explicatur, & comprobatur ex Do Vtrumfit necefle ponerein habiturationem (trina Scoti. principi a &tiui reſpectu actus Quid fit dicenduin deſententia Magiſtri quo ad fubftantiam. Rationes pro opinione Magiftri adductæ coluntur cos 531 Duiz opinioncs adducuntur, & refelluntur.c. Opinio D. Thomæ Aureoli, & Durandi' refellitur. DISPVTATIO XI R. Opin o Scoti explicatur, & probatur. Utrum gratia fit virtus, quæ eſt charitas. Obiectiones contra opinionem Scoti adducuntur, & 469 Exponitur opinio D. Thomæ Vaum habitusgeneretur per a & tus, & quomodo opi Allara opinio reijcitur. nio alioruni.cos 474 Exponitur opinio Scoti, &rationibus aliorum tisaltir. DISPVTATIO VI. DISPVTATIO XIII. Vtrum habitus moralis in quantum virtusſit aliquo modo principium aétiuum refpectu bo Vtrum gratia fit in eſentia animæ tamquam in ſur nitatis in actu, biecto vel in potentys. Opinio Scoti cum ſuis fundamentis. Exponitur opinio illorum qui dicunt gratiain effe in Obiectiones caictani,& ipfius Scoti contra fe: c. 2 effentiam animæ.c, I 540 480 Rationes in oppofitum foluuntur DISPVTATIO: XIV. Rationes caietani, & aliorum adducuntur, & refeilun 484 Virum in patria remaneat habitus fidei. DISPVTATIO VII. Opinio aliorum refellitur, & Scoti explicatur. cap. SAS De ſubię to babituum, DISPVTATIO XV. Opinio Scoti defenditur, & comprobatur, C. vnic. pag. 486 De connexione vtrum intelleétualium inter fe, & Moralium cum Theologicis, Theolo DISPVTATIO VIII. gicarum inter fe. De subiecto virtutum. Quod fit dicendum. In quo conueniant Scoti D Tho. & alij. DISPVTATIO XVI. Opinio ai lara refellitur, & fimulopinió Scotiproba 492 Vtrum an anıma dertur alij habitus preter virtue Opinio Scoti explicatur, & rationes aliorum ſolaun tes morales intelectuales, C Theologicas. vbi de damnis Spiritus Sanéti beatitudi nibus ex fruitibus, pofiiis a Theo IX. Logis differitur, b 2 Opinio 1 pag. cur.c.4 vnic.  DISPVTATIO  ill tio DIE llill. Opiniones aliorum refelluntur Vtrum accidens in concreto primo ſignificet fubięz Opinio Scoti explicatur.c.. čtum vt eft lub tali forina; & an accidens in abftrą cto Gt ens incompletum. DISPVTATIO XVII DISPVTATIO IV. Utrum angumentum cum intentionefiat fema per per ačtum intenfiorem. Vtrum ſubstantia fit prior accidente tempore Opinio D.Thomæ. c.1. $ 57 Opiniones aliorum refelluntur Opinio Scou explicatur. Opinio Scotiexplicatur, & aliorum ſoluitur DISPVTATIO XVIII. DISPVTATIO V. De modo augumenti, & remissionis, & Utrum substantia prior sit accidente diffinitione coruprionis -habitus Opinio Thomiſtarum fefellitur.com ili Opinio aſſerentium in intentione habitus nihilpræ Opinio Scou explicatum ibid. exiftentis habicusremanere, & eiuldem confutae DISPVTATIO VI. Opino D. Thomæ, & aliorum refellitur Opinio Suarez ieiicitur. y trum ſubſtantia fit prior accidente cognitione. Quomodo habitus dimmuttur, & corumpitur.cap. Cina ini' 4: S75 Subſtanțiam,effe priorem cognitione accidentibus DISPVTATIO XIX Vtrum de e ne per accidens detur fcientia, DUI SPYT A FIO VIL Quid fit dicendum de ente per accidens quod prijat Dediuigone ſubſtantiæ in primam, & ſecundam, & perlelden neut a.c. cil 577 diferentiam inter prim.im fullt untiam, & ſuppoſi Deente per accidens quod contingenter non neceta 653 fio caulatur. De comparatione primæ subftantiæ ad suppositum, & ad lubfiftçocian leu perionalitatem DISPYTAȚIO XX, Quomodo inteligaty wla propofitio, actiones funç uppulitoruim.c.3 651 Vtruinens verum debe at ſeparari a, confideratione Quomodo mielligatur Axioma illud, actiones fins Merhapbojica. c.vnico lingubahuin.com SVPER LIBRVM SEPTIMYM, Rick SPVTATIO vill, DISPVTATIO PRIMA. Vtrum formafit prior compoſito: V trạm inherentia ſit de eſſentia accidentis. Aduerfariorum opinio fefélitur, & vera comproba. 664 Quid fit dicendum de inherentia accepta pro per ſe Rationes in oppofitum ſoluuntur.c.2 666 Tignificato, ieu pro accidentalitate quæ circuit no nein piedicaincnta. DISPVTATIO IX. Quud lii dicendum de accidente pro denominaco quod eit relatio. C.2 623 Vtrummateria ſitens, Vtrum inherentia actualis fit de ejentia ac, DISPY TATIO cidentis abjoluti. V trữ quod quid est sit idein chillo cüius ejt.c.1.667 Opinio Scoti, & aliorum reiicitur.C.3 Inherenţiam actualem non ele de jellentia acciden- Explicatur fenllis verus illius proportionis,c.2. 669 usabloluti DISPVTATIO XI, DISPVTATIO II. Vtrum genita ex putri, “ſemine ſint eiufdem ratio y trum ens finitum Prima ſui diuiſione diuida. 672 tur in dccem preurcamenta, o qualisfit bac diuifio, Ü eius analogia DISPVTATIO XII Opiniones aliorum adducuntar Vtrum Cælum in generatione animalium ex putri Allara opinioncs refeliuiiur, & opinio Scoti expli materia ſit principale a cris. ibido Callir.c.2 633 Au rationes adversariorum DISPVTATIO XIII DISPVTATIO III Vtrum compositum per se generetur Veritas questionis explicain & opinio Scoti defendi Vtrum accidens in ſe confideratum fit ens. tur.C.2 673 Rationes pro aliis opinionibus foluuntur, & opinio Veritas aperitur confutata opinione aliorum Suare, & Zimaræ diluuntur.c.3 675 DISPV: IS 1 ** 31 tur hos 624 nis DISPVTATIO XIII: Opinio quorundam refellitur. Allaca opinio refelitur, opinio Scoti explicatur, & ra De Ideis platonis an ſint Admittende. tiones in oppofitum foluuntur.c.2 720 Germina opinio Platonis. DISPVTATIO III. Rationes Arift. contra Platonem, & solutio rationú in oppositum.C.2 691 De ſubie &to accidentium. DISPVTATIO XV An hoc fit potentia qnæ lam paſſiua in. herens (abſtantiæ. Vtrum forme niturales de potentia matteriæ educantur Opinio Thomiſt. refellitur Opiniones illorum qui formas naturales produci ab Opinio quorumdam aliorum.c.2 725 agence leparatu, velab intelligentia vel a Celo ale runt.C.2 688 Vtrum poum accidens poffit effe fubie &tum Opinio Sco.& Solutio rationum alterius accidentis. DISPVTATIO XV I. Opinio Scoto, & folutio rationum. C.3 Vtrum materia fit pars quidditatis re DISPVTATIO IV. rum naturaliuin. Vtrum ad formationem prolis mater concurrat Quid sit dicendum. ci vnic. 694 active DISPVTATIO XVII. DISPVTATIO V. 1 728 Vtrum fingulare ſitper ſe a nobis cognoſcibile. Vtrum cælum fit compoſitum ex mate. rid, forni. DISPVTATIO XVIII. Næc Celum, nec animam rationalem, nec Angelam eiſe compoſica exmateria, & forma contra quoſ daw recentiores Scouſtas. C. Vnic. 731 Vtrum conceptus generis fit alius à concept u diffe rentie, speciei.Thomiltarú, & aliorú opinio, & confutatio Opinio Scoto, & folutio aliorun. DISPVTATIO VI DISPVTATIO XIX. Vtrum omnis creatura fit compoſita ex materia, como foruba, ex potentib, autu Virum differentia diuifiuig? neris inferioris inclu. Opinio afferentium omnes creaturas eſſe compoſi. dat differentiam gencris juperioris formaliter. tas ex materia, & forın potentia & actu refellitur & opinio Scoti explicatur Opiniones alioruin. Obiectiones A tucrinorum contra doctrinam alli Alata opinio retellitur, & vin statutis.c. 733 cam Scoti lefel iniur, DISPVTATIO XX DISPVTATIO VII. Virum universale sit aliquid in rebus.  DISPVTATIO Utrum ex materia, e forma fiat unum per se. Aliorum opinionibus confutatis exponitur opinio Scou.c. Voici XXI Utrum in compoſito ſubstantiali fint plures forme ſubſtantiales. 704 SVPER LIBRVM NON VM. DISPVTATIO XXII. DISPVTATIO I. 1 Verum totum eſſentiale diſtinguatur a luis partibus; De diuiſione entis in potentiam, actum, in ef fimulfunptis. Seniamy w exiſtentiam, SVPER LIBRVM OCTAVVM. Vitum potentia, & actus opponantur, &quaoppo tucione; vbi op.no Henrici de cflentia, & ex DISPVTATIO PRIMA Itentia conturauir Opinio Thomiſt. de diſtinctione en is in potentia, Vtrum in motu alterationis oporteat manere idem & actum retelitur, & opinio Scoti explicatur. fubie &tum fiinpliciter ſub zeroq; terminorum, 757 Rationes Aduerſariorum primo, &ſecundo capite Quid fit dicendum, & reſoluțio objęđionum in con adductæ foluuntur Obiectio ex Saclano,&corundem reiectio DISPVTATIO II. DISPVTATIO 11. Vtrum essentia, existentia in ente creato actuanter onijiente distinguuntur. Utrum accidens sit compoſitum intrixſece Eficntiam trariuin Blora afikas JIPEL " SI Essentiam, & existentiam non realite, nec ratione c'tantum, sed formaliter distingui, & opinionem Scoti elleveram defenditur. c. I Quid ſit exifteptia creaturæ, & an habeat aliquas cau DISPVTATIO I. Tās, & causalitates, & quædam aliæ quæstiones de existentia enodantur Utrum verum ſit illud Axioma,primum invnogue que genere eft metrum, o menfura omnium, que DISPVTATIO III. ſuntin illo genere: y trum potentia ſuficienter diuidat!ır in actiuam, Quid Ge menſura,& quæ conditiones eius vbi de du o paſiuam, earum diffinitiones ſint ratione,de æternitate, & to, & aliis inenfuris agi reita aſſignatæ. tul Verus intellectus propofitiAxiomatis Obicctiones cótra vtráq; partem adducútur Diuifionem potentiæ in actiuam, & pafſiuain eſte DISPVTATIO II. difficientem, & diffiniționės vtriuſq; potenciæ ef de l'ecrè allignatas Vtrum vnum, multa opponantur contrarie, vbi DISPVTATIO IV. de paſſionibus entis agitur: 1 Firew.idem moreripoſſit à ſeipſo,velvt alij loquit Quomodo vnum lic paflio ſimplex, & difuncta en tir', Vtrum potentia actiua, & paffiua jem tis, qualis fit diuitio entis in vnum, & multa, & qua per ré, ú ſubiecto differant. lis ipforum oppofitio.c.vbic, 819 Opinio Thomiſt. & aliorum tenenrium parcein nega DISP V TATIO II.1 ) tiua,nimirú ide à feipfo moueri non pofle Allata opinio refellitur V ti un,ptáralitas ſei diuifibilitas fit prior Rationes pro Aduerfariis primo capite a iductæ ſol vno, jer indiuiſibílı, oc. uunub. DISPVTATIO V. Quid fit dicendum breuiter aperitur. c.vnic. Vtrum omnis potenti 1.fite tantum attina, veltātum DISPVTATIO paliud,vel aliqua fit fimul actiua, o pajuna. V trum à priuatione ad habitum ſit poſibilis Quedamquæſtiunculæ de potentia tractaræ à Scoto regreſſus jeù tranſmutatio: an hoclibro Nono breuiter explicantur ic. i 784 Eamdem potentiam poffe efle actiuam, & paffiuan Ruid fit dicendup. c.ynic, i $ 23 nedyn selpecriducrforum,led relpectu tuijpfi us, & quomodo DIS P Y TATIO YA D'ISP V TATIO VI. Vtrum identitas abſoluta, a relatiua fint eadem V tim potentia paſina diuidatur in potentiã notu. entitas an distinci e realiter. i ralerno upernaturalé,jei obediétialé,a violétă. Opinio Aduerſariorum refellitur cum ſuis fundansé Diftinctionem allatam eſſe de potentia paffiua, non tis, & opinio Scoti explicatur, & prob.c.ynic, 8.24 actina. L'orenciain obedientialem acuvam non da. ri, & membra omnia fecundum doctrinam Scori DISPVTATIO VI elle intelligenda. C. vnic. Vtrum idem, & diuerſuin habeant inediú. c.vnic.DISPVTATIO VII. DISP V TATIO VII. V trum aétus ſit prior potentia.. V triem media cõt: ariorū ſint cöpoſita ex terninis: 10 cuo ſenſu ſit vera, & quid dicendum explicatur. Duæ contrariæ opiniones adducuntur in propoſita DISPVTATIO VIII. questione, & an duo contraria poflint elle in co. dem fubiecto.c.I 828 Vtrum actio fit in agente, vel in paflor 791 Quid fit dicendum de vtraque, opinio allata, & opiu nio Scoti explicatur. DISPVTATIO IX. Quodam alia adducuntur ad majorem declaratione; Kanduio contaria in fumino de potentia Dei ab y trum differentia,quam alignat Philofophus inter ſoluta pollint elle fimul. c.; potentias rationales, e irrationales fit conuenienter poſita. DISPVTATIO VIII. Rationes contra allaraw differentiam aßignatam ab Vtrum formæ ſubſtantiales formaliter repugnantes, Anttotele opponantur oppoſitione contrarietatis. Resolutio quæstionis. Arguincita primo capite adducta ſoluiuntur.C.3.794 Opinio aferens formas ſubstantiales eſſe contrarias cțiin tus fundamencis. DISPVTATIO X. Fundamenta quædam pro veritate inueftiganda, vbi de natura oppofitorum agitur. Utrum detur aliquis aétus malus in voluntate ſine Solutio principalis dubitationis, & rationes pro pri vlla ignorantia in inielletin maopinione DISPUTATIO IX. Obiectio quid tun'ex Scoto ipfo,& ex recentioribus aduerſus ſecundam partem quartz conclufionis fit l'trum corruptibile, e incorruptibile differant perius probatæ, probans rarionc naturali pode de pluſquam genere monftrari Deum eſtepropriè omnipotentem,reij. Citur SVPER LIB. VNDECIMVM. Alixrationes exrecentiotibiis ad idem adducuntur, & foluuntur. DISPVTATIO PRIMA. An verum sit Deum posse saccreomze illud, quot non implicat contradictionem. Vtrum primæ quatuor qualitates fint for, An Deus ponit facere fimul omnia quæ poteft, & an me ſubſtancialeselementorum. poſit facere in infiniçum Opinio affirmatiua cu niluls fundamentis DISPVTATIO VIII. i Fundamenta pro opinione Græcorum.c Primaratio contra opinionem Græcoram adduci- vtrum potentiæ in Deo diſtinguatur abtur.C.3 tia,& voluntatealiquomodo,fie cius fcien Aliæ rationes ad idem. C.4 8.46 Intellectum, &voluntatem detur potentia efe Quædam ali rationes ad idem.c.s 848 cutiua in Dco, quid in Angelis. 0 Solutio rationum in oppoſitum Deopinione Auerroes.c.7, s'agi ! 855 Opiniones aliorum cum fuis fundamentis.c.r924 Explicatio opinionis Scoti; & confutatio aliarum DISPVTATI II Vtrum generatio, corruptio fiant in inftanti DISPVTATIO Opinio áfferentium ſubſtantiam?ſucceſſiuélgenera. Quid comprahendati fub'obie & o omnipotentiæ: ricum ſuis tuntamientis Opinio allata refellitur, & omnem generationem An omnipotentia se extendar'adactis notionales ſe ſubſtantialem fieri in inſtanci cum Arift.defendi cundum Theologos. cLimas. Anomnipotentia fe extendat ad creationem Angelo Rationes aduerfariorun foluuntur. C32.862: rum, & quid fit dicendum fecunduin Theologos, 00061: Jorcu & quid fecundum Philosophos.c.2 SVPER LIB. DVODECIM VM. Lupe pie DISPVTATIO X. Disputatio Vtrum Deusfit ſimplex, & omnis creatura ſit com DISPVTATIO IV. politan. Utrum omnis productio, velindu &tio cuiufcumque DISPVTATIO XI. forma sit univoca, ſoue à fuo ſimili perrun solum Deus sit inmutabilis. Quid sit dicendun aperitur. Rationes in oppositum foluantur, & quomodo meti13 Deum in ſe ele irmutabilem probatut rationibus fit caula caloris Philofophorum, & Theologorum.co.Analiquid aliud á Deo habeat immutabilitatem, DISPVTATIO V IWA quid lenſerincPhilofophi Obiectionescontradeterminata tisperivis, & opinio Vtrum animarationalis it'immortalis. eorum, qui dicunt Deum agere libere ad extraie cundum Philosophos, & endem confutatio DISPVTATIO VI Rationes pro' opinione Philoſophorum, quod Deus Venum detur vnum primum ens infinitum, quod eſt agat necefario ad extra,& quod dcntiraiiqua ca Deus,in qua rationibusnaturalibus demonftratiuis tia ex fe neceffe eiſe,adducantur, & eadein opinio proceditur, contra Atheiſtas. retelliill's Cof Quædam præambulæ conclufiones ad probanda'n Deum effe immutabilem quoad intellectun, & volú primamens ex triplici primitate prædicta elle in tatem, & quomodo. finitum præmittunur. Rationes pro Philofophis foluuntur. Primum ens triplici primitate præmiffa effe infinitú Quæ virtutes cx ijs que conſequentar voluntatein $ erat fecundum principale intencū prob.c.7. 399 Tint in Deo. Rationes D. Thom. & aliorum, quibus probant Deā elle infinitum,adducuntur, & reijciuntur. DISPVTATIO XII DISPVTATIO VII. V trum dctur infinitum actu in permanenti bis, c filceclivis. Vtrum Deum eſſe omnipotentem poſſit natnrali ratione, neceſjaria demonſtrari. Status queſtionis, & rationes quaſdam recentiorü, quod mundus non pocucrit elle ab æterno, non có Explicatur çitalis quæftionis, & quid fit dicendan. cludcre oftendicar, c. 960 quoad demonſtrationem propter quid. Opmio eorunqai affcrun dari infinitum aétu tam Quid dicendum quoad demonftrationem quia, tam in permanentibus,gratia fuccelifuis adducitur, & fecundum Philoſophos, quam fecundum Theolo reijcitur & quoinodo diſcrepent Philosophi à Theolo. Pofitio Scoti, & folutio rationum in contrariain. gis DDISPVTATIO XXVI.  DISPVTATIO XIII. Vtrum attributa diſtinguantur inter ſe, ab eſſentia Dei DISPVTATIO XIV, De voluntate Dei. Aſignantur loca in quibus præcipuię difpufationes pertinentes ad voluntatem Dei ab Auctore tracta. tur, & oftenditur Deum amare le, & alia extra ſe, & quomodo. Caput Vnicum. i DISPVTATIO XXVII Utrum Deus fit Immenſus. DISPVTATIO X V. An voluntas Dei semper implicatur  DISPVTATIO XXVIII. INDI Diſputatio primacontra Atheos. DISPVTATIO XVI. Diſputatio ſecunda contra Atheos. DISPVTATIO XVII. An Deus contingenter velit, & eius voluntas abalie quo determinetur. DISPVTATIO XXIX. Diſputatio tertia contra Atheos. De alijs fubjt antiis.è prima distinctis. DISPVTATIO XVIII. Naturalitatione porce probari dari ſubftantiasabſtra & tas, & rationes in oppofiuum efle nullas Diſputatio quarta contra Atheos. DISPVTATIO XIX. Si Aristoteles demonstravit Mundum elle æternum Devi DISPVTATIO XXX. DISPVTATIO XX. Utrum Angelus, Anima rationalis dif ibi serant specie, OS Opiniones aliorum. Opinio Scoti, & AnimcellectualitasAngeli, & Ani mæ rationalis ſpecie diſtinguantur, &An potentiç ſpecie diftinctæ poflint veulari circa idem object. Utrum primum cælum moueatur immediate a primo motore  DISPVTATIO XXI DISPVTATIO XXXI. Utrum Philosophus posuerit omnes intelligentias ejse vigoris infiniti. DISPVTATIO XXII. Utrum Anima intellectiva in corpore habeat pro priumeße existentiæ diſtincim ab elle compos Jiii, len vtaly ducuntsAn in corpore fubfiftatvel vt quo, vel vt quod. Opinio D. Thomæ ratiqpibus Scoti confutatur, & eiuſdein ſententia explicatur, cap.I Defenſio Thomiliarlim. cap. 2 Allata opinio refellitar, cap.3 Virum Cælum ſit animatum. DISPVTATIO XXIII. Utrum Deus sit invisibilis, incompræbensibilis, & ineffabilis. DISPVTATIO XXXII Nils An Deus fit viſbilis oculo corporeo, & quid de his tribus attributis sit dicentum. DISPVTATIO XXIV. Urum separatio Anime rationalis a corpor, cu Status animæ rationalis exiia corpus violenter, an naturaliter.compeiani animæ rationali;. Opinio Thomiftarum, & Sequaciun cum liris fun damnentis Opinio Scoti explicatur, & præcedens refellitur. cap.2 V trum Dcus ſit ſubstantia viuens intellectua lis, felicissima Attributa prædicta competere Deo probatur DISPVTATIO XXV. DISPVTATIO XXXIII De scientia dei. Utrum omnes potentiæ animæ rationalis inſint anim & icparita Quid Git dicendum de Vegetativa, & Sensitiva, reiecta opinione affirmativa. cap. Vnic.  Quomodo scientia ponatur in Deo, quomodo Intellectus, Intellectio, & intellectuin in eo sint idem An scientia sit de cilentia Dei in primo modo dicendi per se Vtrum secundum Aristotelem Deus habeat cognitio nein aliarum rerum extra se. DISPVTATIO XXXIV. De cognitione animæ separate. An anima separata cognoscat quidditates, & res, quas coniuncta cognoscebat, & quid dicendum reiectis opinionibus opposiris.  Wikipedia Ricerca Liceo di Aristotele luogo della scuola di Aristotele ad Atene Lingua Segui Modifica Nota disambigua.svg Disambiguazione – "Peripato" rimanda qui. Se stai cercando l'antica strada alla base dell'Acropoli di Atene, vedi Peripatos. Liceo di Aristotele Athens Lyceum Archaeological Site 2.jpg CiviltàAntica Grecia Localizzazione StatoGrecia Grecia ComuneAtene Altitudine         108 m s.l.m. Amministrazione Visitabile                            si Sito webodysseus.culture.gr/h/3/eh355.jsp?obj_id=20744 Mappa di localizzazione  Wikimedia | © OpenStreetMap Il Liceo (in greco antico Λύκειον Lykeion) era un luogo dove Aristotele fondò la scuola che fu chiamata Liceo e anche peripatetica.  Geografia ed etimologiaModifica Sito alle pendici meridionali del Licabetto, era un luogo esteso tanto da essere adatto alle esercitazioni militari. Pericle vi aveva fondato un ginnasiosuccessivamente ampliato da Licurgo. Il nome della località derivava da un santuario dedicato ad Apollo Licio.  Nella mitologia greca "Licio" era un epiteto attribuito ad Apollo o perché riferito al termine «lupo» (λύκος) o al fatto che il dio appena nato era stato portato in Licia, (Λυκία) o infine perché si voleva indicare la sua caratteristica di divinità solare (dalla radice λευκ-, λυκ-«candore, luce»).[1]  La scuolaModifica  Il Licabetto nel 1880 Quando nel 340 a.C. Alessandro divenne reggente del regno di Macedonia, cominciando anche ad avvicinarsi alla cultura orientale, il suo maestro Aristotele, che era intanto rimasto vedovo e conviveva con la giovane Erpillide, da cui aveva avuto il figlio Nicomaco, nell'ultimo periodo della sua vita tornò forse a Stagirae, intorno al 335 a.C., da lì si trasferì ad Atene dove si dedicò all'insegnamento della sua dottrina, ormai matura e del tutto distaccata da quella platonica, che costituisce quasi interamente il corpus aristotelicum a noi pervenuto.[2]  Il nome peripatetica della scuola aristotelica deriva dal greco Περίπατος, «la passeggiata» (da περιπατέω «passeggiare», composto di περι «intorno» e πατέω «camminare») cioè quella parte del giardino dove era un colonnato coperto dove il maestro e i suoi discepoli camminavano discutendo[3][4].  Secondo la pedagogista Bianca Spadolini[5] il Liceo, come l'Accademia di Platone, non avrebbe avuto nessuna finalità religiosa e i suoi discepoli erano divisi come in un tiaso tra quelli che erano iniziati e frequentavano la scuola come interni (gli "esoterici") a cui erano riservate le lezioni più specialistiche e complesse e coloro che partecipavano come discepoli esterni ("essoterici"), uditori a cui era dedicata la parte divulgativa della dottrina.   Gli scavi Il piano di studi probabilmente si basava sull'insegnamento:  delle scienze teoretiche dedicate all'osservazione degli enti e del loro divenire (fisica, zoologia, psicologia) e degli enti immobili (metafisica e teologia); delle scienze pratiche, che dovevano guidare all'azione (etica e politica); delle scienze poietiche (retorica e poetica). La logica non compariva come scienza, ma come strumento propedeutico allo studio di qualsivoglia scienza.[6]  Alla morte di Aristotele, avvenuta nel 322 a.C., Teofrasto gli succedette nella direzione del Liceo. Nel 287 a.C., alla morte di Teofrasto, la direzione fu assunta da Stratone di Lampsaco.  Il Liceo fu depredato da Filippo V di Macedonia e successivamente da Lucio Silla. Il nome continuò ad essere usato per indicare la scuola peripatetica e in seguito fu riferito a quei luoghi pubblici dove si tenevano dissertazioni letterarie e filosofiche.  NoteModifica ^ Dizionario di filosofia Treccani (2009) alla voce "Liceo". ^ Enciclopedia Treccani alla voce "Aristotele". ^ Vocabolario Treccani alla voce "Peripato". ^ Rebecca Solnit, Storia del camminare, Pearson Italia S.p.a., 2005 p. 16. ^ Cfr. qui. ^ Bianca Spadolini, Educazione e società. I processi storico-sociali in Occidente, Armando Editore, 2004 p. 68. BibliografiaModifica ( EN ) The Lyceum, in Encyclopedia of Classical Philosophy, Westport, Greenwood, 1997. John Patrick Lynch, Aristotle's School: a Study of a Greek Educational Institution, Berkeley, University of California Press, 1972. Voci correlateModifica Scuola peripatetica Altri progetti Modifica Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Liceo Collegamenti esterni                               Modifica (EN)  The Lyceum da The Internet Encyclopedia of Philosophy.   Portale Filosofia: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di filosofia Ultima modifica 1 anno fa di Placentinus PAGINE CORRELATE Teofrasto filosofo e botanico greco antico  Scuola peripatetica scuola filosofica fondata ad Atene da Aristotele  Eudemo da Rodi filosofo e storico della scienza greco antico  Wikipedia Il contenutoWikipedia Ricerca Scuola peripatetica scuola filosofica fondata ad Atene da Aristotele Lingua Segui Modifica Ulteriori informazioni Questa voce sull'argomento scuole e correnti filosofiche è solo un abbozzo. Contribuisci a migliorarla secondo le convenzioni di Wikipedia. La scuola peripatetica (in greco Περιπατητική Σχολή Peripatetiké Scholé) fu una delle grandi scuole filosofiche greche, fondata da Aristotele. I suoi membri erano detti peripatetici.   La scuola di Aristotele, di Gustav Adolph Spangenberg Denominazione                                                   Modifica La scuola in origine deriva il suo nome Peripato(Περίπατος, Peripatos) dai peripatoi (περίπατοι, "colonnati dei porticati") del ginnasio di Atene, dove i membri si riunivano, che si trovava presso il santuario dedicato ad Apollo Licio da cui deriva l'altro nome della scuola: il Liceo. Una parola greca simile, peripatetikos (περιπατητικός) si riferisce all'atto di camminare e, come aggettivo, "peripatetico" è spesso usato per indicare itinerante, errante, in movimento. Dopo la morte di Aristotele, nacque la leggenda che egli fosse un docente "peripatetico" - che camminasse intorno insegnando - e la designazione Peripatetikos è venuta a sostituire il Peripatos originale.  StoriaModifica La scuola risale al 335 a.C. circa, quando Aristotele intraprese l'insegnamento nel Liceo. Si trattava di un'istituzione informale, i cui membri conducevano indagini filosofiche e scientifiche. La scuola peripatetica diede inoltre grande impulso all'indagine storica come strumento di indiscussa validità per la conoscenza e la comprensione delle manifestazioni religiose, artistiche, poetiche e letterarie.  Teofrasto e Stratone, i successori di Aristotele, continuarono la tradizione di esplorare teorie filosofiche e scientifiche, ma dopo la metà del III secolo a.C. la scuola cadde in declino, per rinascere non prima del periodo romano. In seguito i membri della scuola si concentrarono sulla conservazione e sul commento delle opere di Aristotele, piuttosto che estenderle, e la scuola alla fine morì nel III secolo d.C.  Anche se la scuola si estinse, lo studio delle opere di Aristotele fu proseguito da studiosi che vennero chiamati peripatetici attraverso la tarda antichità, il Medioevo ed il Rinascimento. Dopo la caduta dell'Impero romano d'Occidente, le opere della scuola peripatetica andarono perse in Occidente, ma in Oriente furono incorporate nella prima filosofia islamica, svolgendo un ruolo importante nella rinascita delle dottrine aristoteliche nell'Europa medioevale e rinascimentale. Si riflessero nel doppio filtro applicato all'aristotelismo dapprima da Alessandro di Afrodisia e poi continuato nell'eredità spirituale di Al-Farabi, Avicenna e Averroè.  Scolarchi ed altri PeripateticiModifica Maggiori esponenti della Scuola peripatetica  NomeDate di riferimento                                                            Note Aristosseno375 a.C. - ?Teofrasto371 - 287 a.C.II scolarca (322–288) Eudemo da Rodi350 ? - 290 ? a.C.Prassifane di MitileneIII secolo A. C. ?Demetrio Falereo345 - 282 a.C. Dicearco? - 275 a.C. Ieronimo di Rodic. 275 a.C.Stratone di Lampsaco335 - 269 a.C.III scolarca (288 – ca. 269) Licone (peripatetico)274? – 254 a.C.               IV scolarca (ca. 269 – 225) Aristone di Ceoc. 250 a.C.V scolarca (225 – ca. 190) Critolao156 ? a.C.VI scolarca (ca. 190 – 155) Diodoro di TiroII secolo a.C. ?VII scolarca (ca. 140) Cratippo di PergamoI secolo a.C.Andronico di RodiI secolo d.C.Boeto di Sidonec. 75 - 10 a.C. Senarco di SeleuciaI secolo d.C.Ario DidimoI secolo d.C. Nicola di DamascoI secolo d.C.BibliografiaModifica Marcello Gigante, Kepos e Peripatos. contributo alla storia dell'aristotelismo antico, Napoli, Bibliopolis, 1999. John Patrick Lynch, Aristotle's School: A Study of a Greek Educational Institution, Berkeley, University of California Press, 1973. Paul Moraux, L'Aristotelismo presso i Greci, Milano, Vita e Pensiero, 2000 (tre volumi). R. W. Sharples, Peripatetic Philosophy, 200 BC to AD 200. An Introduction and Collection of Sources in Translation, Cambridge, Cambridge University Press, 2010. Fritz Wehrli (a cura di): Die Schule des Aristoteles. Texte und Kommentare. 10 volumi e 2 Supplementi. Basel 1944-1959, 2. Edizione 1967-1969 (raccolta dei frammenti). Voci correlateModifica Liceo di Aristotele Peripatetici antichi Peripatos Scolarca Altri progettiModifica Collabora a Wikiquote Wikiquote contiene citazioni sulla scuola peripatetica Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su scuola peripatetica Collegamenti esterniUltima modifica 9 mesi fa di FrescoBot PAGINE CORRELATE Liceo di Aristotele luogo della scuola di Aristotele ad Atene  Boeto di Sidone (peripatetico) filosofo greco antico, peripatetico  Peripatetici antichi lista di un progetto Wikimedia  Wikipedia Il contenutoPeripatetici antichi lista di un progetto Wikimedia Lingua Segui Modifica Questa è una lista dei filosofi peripatetici antichi in ordine (approssimativamente) cronologico.  NomePeriodoNote Secoli IV, III, II a.C.Eraclide Pontico(385 a.C. – 322 o 310 a.C.)Wehrli lo ha inserito nel VII volume della sua opera, ma si tratta di un discepolo di Platone Aristosseno di Taranto(375 a.C.? – dopo il 322 a.C.)Uno dei principali allievi di Aristotele, scrisse diverse opere sulla musica Teofrasto(371 - 287 a.C.)Secondo scolarca del Peripato, autore di libri di botanica e logica Eudemo di Rodi(350? - 290? a.C.)Collaboratore di Aristotele ed autore di opere di storia della geometria e della teologia Dicearco da Messina(350 - 290 a.C.)                       Discepolo di Aristotele, autore di opere filosofico-politiche e geografiche Cameleonte di Eraclea Pontica(c. 350 - 275 a.C.)Edizione: "Chamaeleontis Heracleotae fragmenta" a cura di David Giordano, Bologna, Patron 1990 Fania di Ereso(IV secolo a.C.)Allievo di Aristotele, filosofo e scienziato Clearco di Soli(IV - III secolo a.C.)Autore di scritti sulle culture orientali e di un'opera Sull'educazione Prassifane di Mitilene(III secolo a.C. ?)Allievo di Teofrasto, ebbe come discepolo Callimaco Demetrio Falereo(345 - 282 a.C.)Oratore, scrisse opere di etica, retorica e letteratura Stratone di Lampsaco(335 - 274 a.C.)Fu maestro di Aristarco di Samo, importante la sua teoria del vuoto Licone (peripatetico)(299 – 225 a.C.)Autore di un'opera Sui caratteri. fu rivale di Ieronimo di Rodi Ieronimo di Rodi(290 - 230 a.C.)Fu avversario di Arcesilaoe fondò una scuola a indirizzo eclettico Sozione il Peripatetico(230 a.C. circa – 160 a.C.)Autore delle Successioni dei filosofi di cui restano solo pochi frammenti Ermippo di Smirne(III - II secolo a.C.)Seguace di Callimaco, scrisse le Vite degli uomini illustri Aristone di Ceo(II secolo a.C.)Allievo di Licone Critolao(II secolo a.C.)Scrisse sull'etica, avvicinandosi allo Stoicismo Diodoro di Tiro(II secolo a.C.)Discepolo di Critolao Aristone il Giovane(II secolo a.C.)Allievo di Critolao Stasea di Napoli                                                   (II secolo a.C.)Il primo Peripatetico che soggiornò a Roma, secondo Cicerone maestro di Calpurniano I Secolo a.C.Apellicone di Teo(? - 84 a.C.)Bibliofilo, comprò i manoscritti di Aristotele che Neleo di Scepsi aveva ricevuto da Teofrasto Aristone d'Alessandria(I secolo a.C.)Discepolo di Antioco di Ascalona, aderì alla Scuola Peripatetica Cratippo di Pergamo(I secolo a.C.)Amico di Cicerone, che ne parla nel suo De divinatione Erinneo(I secolo a.C.)Secondo Paul Moraux Probabile scolarca del Peripato dopo Diodoro di Tiro Tirannione il Vecchio(I secolo a.C.)Grammatico, noto per avere messo in ordine la biblioteca di Cicerone I e II Secolo d.C.Alessandro di Ege(I secolo d.C.)Insieme allo stoico Cheromonte fu maestro di Nerone Andronico di Rodi(I secolo d.C.)Ha curato l'edizione del Corpus aristotelicum Boeto di Sidone (peripatetico)(c. 75 a.C. - 10 d.C.)Discepolo di Andronico di Rodi Ario Didimo(I secolo d.C.)Filosofo romano, insegnante di Augusto la sua opera è una sintesi di stoicismo ed aristotelismo Nicola di Damasco(I secolo d.C.)Autore di una Storia universale e di un'opera Sulla filosofia di Aristotele Senarco di Seleucia(I secolo d.C.)Negò l'esistenza dell'etere Adrasto d'Afrodisia(prima metà del II secolo)Scrisse sull'ordinamento degli scritti di Aristotele e commentò alcune su opere Aristocle di Messene(II secolo d.C.)Scrisse un'esposizione delle scuole filosofiche di cui restano alcuni frammenti Aspasio(II secolo d.C.)Commentatore di alcune opere di Aristotele, in particolare l'Etica nicomachea Ermino(II secolo d.C.)Allievo di Aspasio e maestro di Alessandro di Afrodisia Sosigene(II secolo d.C.)Autore di uno scritto Sulle sfere dei pianeti Tolomeo Efestione o Chenno(inizio II secolo d.C. – metà II secolo d.C.?)La sua opera Storia nova è riassunta da Fozio di Costantinopoli nella sua Biblioteca Alessandro di Afrodisia(II - III secolo d.C.)Il più importante dei commentatori delle opere di Aristotele BibliografiaModifica Paul Moraux, L'Aristotelismo presso i Greci, Milano, Vita e Pensiero, 2000 (tre volumi). Robert William Sharples, Peripatetic Philosophy, 200 BC to AD 200. An Introduction and Collection of Sources in Translation, Cambridge, Cambridge University Press, 2010. Fritz Wehrli (a cura di): Die Schule des Aristoteles. Texte und Kommentare. 10 volumi e 2 Supplementi. Basel 1944-1959, 2. Edizione 1967-1969. Voci correlateModifica Platonici antichi Stoici antichi Liceo di Aristotele Scuola peripatetica   Portale Antica Grecia   Portale Antica Roma   Portale Ellenismo   Portale Filosofia Ultima modifica 2 anni fa di Bultro PAGINE CORRELATE Scuola peripatetica scuola filosofica fondata ad Atene da Aristotele  Prassifane di Mitilene filosofo peripatetico ed erudito greco antico  Boeto di Sidone (peripatetico) filosofo greco antico, peripatetico  Wikipedia Il contenutoFilippo Fabri. Filippo Fabbri. Fabbri. Keywords: lizii, accademici, i peripatetici, The 34 disputationes. Galilei, Pico, aristotelismo, anti-aristotelismo, platonismo, l’unita della metafisica, distinzione tra matematica e fisica.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Fabri” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51762247093/in/photolist-2mS43G6-2mRxLkZ-2mRgKq7-2mQoQhs-2mQmZZv-2mPMBQM-2mN8Hgb-2mLNXjb-2mLP3hz-2mPrdWj-2mLznXk-2mPu6xB-2mPtp3t-2mPV6V9-2mPsUUV-2mPxhsE-2mKNjCv-2mKM3mC-2mKLGeD-2mKN88B-2mKC3nj-2mKDLrD-2mKCfz1-2mKjsJY-2mJq2uE-DvhhWW-DhRHD2-DndBhH-Cfbrxc-CcSX6Q-Ck5UQW-CcC1aL-xFwdxt-nSSg3U-nurrdd-nupnpX-nu4v1p-ncRvsK-jkLyDB-jkNtpy-jkDa7R

 

Grice e Fabro – Senone di Velia, l’innamorato di Parmenide -- per la porta di Velia – filosofia italiana – Luigi Speranza (Flumignano). Filosofo. Grice: “I like Fabro; my favourite of his essays is on Giorgio Hegel, “La dialettica,” which is really about Socrates and Alcibiades! My Athenian Dialectic which I turned into Oxonian!”. Studia al seminario degli stimmatini. Si laurea a Roma sotto Reverberi con “Il concetto di ‘causa’” e la critica di D. Hume. Insegna a Roma. Si dedica quindi allo studio della biologia filosofica. Pubblica “La partecipazione”. Insegna a Napoli e Perugia. Si inscrive nell'alveo della neoscolastica, o, più precisamente, del neotomismo. Il suo apporto più profondo alla metafisica classica, sulle orme di san Tommaso d'Aquino, è la distinzione reale tra "essenza" e "atto d'essere”. È questa tesi che lo porterà a riconoscere con sicurezza le debolezze e le aporie dall'immanentismo del cogito cartesiano, che sfocia ineluttabilmente nell'ateismo. Trova l'origine dell’ateismo in Cartesio e Spinoza, nasce nel concetto di "immanenza" contro "trascendenza”.Critica Severino e Rahner. Valorizza l’esistenzialisto anti-idealista di Kierkegaard. Altre opere: “Partecipazione in Platone, Aristotele e Aquino, S.E.I., Torino); “Neotomismo” Piacenza) “La fenomenologia della percezione, Vita e Pensiero, Milano); “Percezione e pensiero, Vita e Pensiero, Milano), “L’esistenzialismo, Vita e Pensiero, Milano); “Esistire” (Vallecchi, Firenze); “Dio” (Studium, Roma); “L'Assoluto nell'esistenzialismo” (Miano-Catania); “L'anima” (Studium, Roma); “Dall'essere (essuto, suto) all'esistente” (Morcelliana, Brescia); “Il Tomismo” (Desclée, Roma); “Hegel: La dialettica, La Scuola Editrice, Brescia); “Partecipazione e causalità, S.E.I., Torino); “Feuerbach-Marx-Engels. Materialismo dialettico e materialismo storico (La Scuola Editrice, Brescia); “L’ateismo” Studium, Roma); “L'uomo e il rischio di Dio, Studium, Roma); “Esegesi tomistica, Pontificia Università Lateranense, Roma); “Tomismo” Pontificia Università Lateranense, Roma); “La svolta antropologica di Rahner” (Rusconi, Milano); “L'avventura del progressismo” Rusconi, Milano); “La fede di Kierkegaard” La Scuola Editrice, Brescia); “La trappola del compromesso storico: da Togliatti a Berlinguer, Logos, Roma); La preghiera” Edizioni di Storia e Letteratura, Roma); “L'alienazione dell'Occidente. Osservazioni sul pensiero di Severino, Quadrivium, Genova); Momenti dello spirito I, Sala Francescana di cultura «P. Antonio Giorgi», AssisiS. Damiano; Momenti dello spirito II, Sala Francescana di cultura «P. Antonio Giorgi», Assisi S. Damiano); Aquino, Ares, Milano); La libertà, Maggioli, Rimini); Gemma Galgani), Il sopra-naturale, Cipi, Roma); L'enigma Rosmini, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli); Le prove dell'esistenza di Dio, La Scuola, Brescia); Commento al Pater Noster” Pontificia Accademia di San Tommaso d'Aquino, Città del Vaticano); Cristianesimo, L'Aquila, Japadre). Essere e libertà. Studi in onore di Cornelio Fabro, Maggioli, Rimini); Giuseppe Mario Pizzuti, Veritatem in caritate. Studi in onore di C. Fabro, Ermes, Potenza); Rosa Goglia, La novità metafisica in Cornelio Fabro, Marsilio, Venezia); Federico Costantini, Fabro e il problema della libertà, Forum, Udine); Elvio Celestino Fontana, Fabro all'Angelicum, EDIVI, “Segni (EDIVI)  Fabro e l'Esistenzialismo, EDIVI, Segni. Rosa Goglia, Fabro. Profilo biografico, cronologico, tematico da inediti, note di archivio, testimonianze, EDIVI, Segni,. Ariberto Acerbi, Crisi e destino della filosofia. Studi su Fabro, EDUSC, Roma,. Note  Goglia, Rosa, Fabro: profilo biografico cronologico tematico da inediti, note di archivio, testimonianze, EDIVI,  Kierkegaard Neotomismo Ateismo. Fondo Fabro presso la Biblioteca della Pontificia Università della Santa Croce., su pusc.   CAP. V.   ZHNON EAEATH2. ZENO ELEATES.   J5. Z^vwv 'EXeaTTj;. xouxov 'A7toXXoo«pd'; ^Y)otv «T- i 25* ^ n0 Eleates. Hunc Apollodorus ait in Chronicis na-  vat Iv Xpovixot; ^puoei piv TeXeuxaYopou , OsVet Si tura quidem Teleutagorae , adoptione autem Parmenidis  20 IlapaEviSou. irspl xooxou xal MeXfoaou TCjmov cpyjol 2 filium. De hoc atque Melisso Timon haec ait :  xauxa*   'AfxcpoTipoYXwacou xe {xffa ffOivcx; oux aXawaSvov Andpitis linguae vis maxima cuncta secantis   Z^vcdvo? rcavxtov smXiiTrxopoc ^Ss MeXiaaou, Zenonis, qui corripit omnes, atque Melissi;   TroXXwv <pavTa<T|xwv Indvb), rcaupwv ft fiiv eiaw. plurima visa errant in summo , rara sed intus.   25 *0 §•?) Zr,vci)v Stax^xos IIap[ievi5ou xal yeyovev autou 3 FjiimveroZeno Parmenidis auditor erat,abeoqueamatus est.  TzonBixa. xal eo^XTj? ^v, xa6a cpTjai nXarwv iv tw Fuit autem procerae staturae , quemadmodum Plato in Par-  IlapfAevCoTi, 6 8' auxb; Iv xw 4>a(5pw xal 'EXeaxixov menide notat, idemquein Phaedro ipsum Eleaticum Pala-  IIaX*jji^5yiv autov xaXel. {pr,dl 8' 'AptaxoxsXy,? Iv xw 4 medem vocat. Aristoteles autem in Sophista auctor est in-  2otpiax7J eupex^v auxbv yeveaOai ^taXExxiXTJ; , (ocircp ventorem ipsum fuisse dialectics , quemadmodum Empe-   30 'EixweSoxXfia firixopiXT)?. (20) yeyove Si av^.p y^vvaio- doclem rhetoric®. {26) Fuit et in philosophia et in republi-  xaxo^ xal Iv cptXoao^fa xal Iv 7roXixe(a* cpipexat youv ca vir sane nobilissimus : feruntur nempe ipsius volumina  auxou pi^Xta 7roXXrj<; ffWato*; YCfxovxa. xaOeXsTv SI Oe- 5 sapientiae plenissima. Is quum Nearcbum tyrannum seu , ut  Xifaac N^ap^ov xbv xupavvov — ot Se, Aiof/iSovxa — alii volunt, Diomedontem imperio exuere voluisset, com-  ouveX^cpOy), xa6d cp^atv 'HpaxXe^Tj; Iv x9j 2axupoo prebensus est, ut in Satyri epitome ait Heraclides : quo   36 lirixopuj. 6xe xal l;6xa£o'[Aevoc xou<; auveiSoxa^ xal 7T£pl tempore quum de consciis et armis qua; Liparam ad vexerat,  xwv oVXmv 5v ^y 6V e ^ Aiirotpav, iravxa? Ip.>5vu«v au- inquireretur,volensipsmndesertumdestitutumquereddere,  xoo xooc cpiXou; , pouXo(X£vo<; auxov ^aov xaxaaxyjaar omnes illius amicos conjurationis esse conscios dixit ; deinde  •Txa 7cep( xtvwv efceiv e^ttv auxw wpbc xb o3<; IXeye xal quum de quibusdam dixisset quiddam ipsi ad aurem loqui  xu^avxo? Saxwv xb wxiov oux av9jx£v Tok imwrffiri , velle, earn mordicus apprehensam non ante dimisit quam   \o lautbv'AptoxoYeCxovtxtoxupavvoxxovwTraOtov. (27) Ar,u^- confoderetur ; quod idem accidit Aristogitoni tyrannicidae.     Digitized by     Google     234     biba. e, Q. AEVKinnos.     rpto? Se ^r,aiv ev xoi< ojawvuu.oi; xbv puxxTJpa auxbv  diroTpaYeiv. 'AvxiaOevrj; 5' ev xal; SiaSo^al? ^r,<jt fJLExdc   TO (JLTjVUffai XOU? <p(X0UC IpWX1f]09ivai 7TpO? XQU XUpaVVOU   e? ti? aXXo? eiYj • xbv 8i eiireiv, « au 6 xyfc woXews aXi-  6 tiqpio^. » 7rpo; x£ xou$ 7capE<rcwxa; ©avai , « Oauuut£w  6fxwv r?)v SeiXCav, et xouxwv Ivsxev wv vuv e*Y&> ^Trofxe-  vw, SouXeuexe xw xupavvw* * xal xeXoc aitoxpayovxa  tJjv yXwxx«v 7rpo<;7mj<iai auxw, xou? 8i TroXfxac 7rapop-  (i.r,0£VTa<; auxixa xbv xupavvov xaxaXsuaat. xauxa oe  io oyeSbv of irXe(ou<; Xe'Youaiv. "Epu.nnroc S§ <piQctv eU 6V  fxov auxbv pXTjO^vat xal xaxaxo7c9jvai. (2§) xal eU auxbv  ^)(jlcT< efarofxev oSxciK*   *H8eXe<;, w Z^vwv, xaXbv ^OeXe< avSpa xupavvov  xxe(va? IxXuaai SouXoouvtjs 'EXe'av.  15 dXX' ISau-Ttf- 5^1 yap « Xa€u>v 6 xupavvos ev 5Xu.w  xo^c. x( xouxo Xs*y<«> ; ffWfAa yap , ofyl 8s «.   yiyove Se xa t* £XXa aya6b<; 6 Zi^vwv, dXXa xal &ict p-  oicxixb? xwv (xtt^vtov xax' fcov 'HpaxXetxw* xal yap  o5xo« xV wpoxepov p.ev 'YeXTjv, (Saxepov 5* 'EXfov, <I>w   20 xaiwv ouaav airoixtav, auxou Se 7raxp(Sa, ttoXiv eoxeXri  xal |xo'vov avSpacoYaOoucxpscpetv ^taxafjLEvrjv ^YaTrrjae  |xaXXovx9i? 'AOTjvaiwv iuyxXoLuyia^ oux iTriSYi^aa? xb  icapaTrav Trpb? auxouc, aXX' auxd8i xaxa&ouc [29) ou-  xo? xal xbv 'Ax^ca irpwxo? Xoyov ^pwxTjffE- <I>a6o>pT-   25 voc Se' <prjo-t napfX£v(Sr,v xal aXXou<; cuyvouc. 'Aplaxet  S f auxw xaSe* Koauou? eJvai xevo'v xe u^ eTvar Y £ Y 6 "  V7j<r8ai Se x^,v xwv wavxwv <puatv ex Gep|AOu xal ^u/pou  xal fopou xal uypou, Xau.€avovxwv eU aXXrjXa x^v jxe-  xa€oXr,v • Y^vEdtv x' avOpo)7TO)v ix yr;? eTvai xal tfu^v   30 xpS{ia &Trap/6iv Ix xwv 7rpo£ipT)asvwv xaxa |XYiSevb<;  xouxcov iTrixpaxTjaiv. xouxov cpaai XoiSopoutxevov aya-  vaxxTJaat- aixiaaa|X£vou 8e xtvo<;, cpavai, « £av X01S0-  poujxevo? (jl^j 7rpo<;Tcoiw(xai , ouS' ItuaivoujAEvoc ^aG^ao-  (xat. » tf Oxt S£ Ysyo'vaai Zr,vo)V£<; 6xxw ^v xw KixieT   65 StetX^UEOa. fixiLOiZi oSxo; xaxa x9jv Ivax^v xal  £6$ou.Y)xo<rri:v 'OXujjLiriaoa.     (27) Demetrius vero in Cognominibus nasutu ei morsu  abstuJfssc ait. Porro Antisthenes in Successionibus ait il-  ium, quum amicos tyranni detulis et, rogalum a tyranno  essetne alius quispiam, dixisse, Tu civitatis> pernicies. Deintle  astantibus ita locutumesse, Admiror equidem vestram so-  cordiam, si horum gratia quae nunc ego tolero , tyranno  servire sustinetis. Deniquc praecisam linguam in ora tyranni  conspuisse, cives autem continuo facto impetu lapidibus  tyrannum obruifise. Usee ferme pleriquc tradiderunt. Cc-  terum Hermippus ilium in mortariuro injectum contusum-  que fuisse ait. (2f) Et in hunc nos sic diximus :   Tentasti, Zeno, crudelis canle tyranni   Eleus ut populus libera turba foret.  At prensiim in pita te content articulatim   iste : imo non te , sed tua membra terit.   6 Praeclarus et in ceteris fuit Zeno potentiorumque non secus  atque Heraclitus quadam animi altitudine contemptor r nam  hie prius quidem Hyelen, postea vero Eleam nominatam  Phocaeensium coloniam suamque patriam , civitatem humi-  lem bonosque tantum virosnutrirc solitam, dilexitmagis  quam Atheniensium magnificentiara : ad quos nunquam   7 profectus est , domi assidue commorans. (28) Hie etiam  primus syilogismo usus est qui Achilles appellatur, quam-   8 vis Favorinus Parmenidem et alios plures proferat. Placent  autem illi lieecce : Mundos esse plures et inane non esse;  naturam omnium re rum ex calido et frigido aridoque et  humido fuisse ortam , quum ista in se invicein commute n-  tur. Generationem hominum e terra esse , animamque ita  ex his omnibus commixtam quae praediximus, ut a nullo   9 eorum plus quam a ceteris obtineatur. Hunc aiunt quum  conviciis laceraretur, indignari solitum : et vituperante  quodam dixisse, Si maledicta me non tangunt , nee laudes   I ome delectabunt. Octo vero fuisse Zenones, quum de Citieo  loqueremur, diximus. Floruit autem hie Olympiade nona  et septuagesima.     KE4>. Q'.  AETRinn02.   80. AEuxtirircx; 'EXeaxTi;, w? U xtve;, 'A6Sv)piti}C 9 I  xax' lvtou<; bl MiiXio;. oSxcx; ^xouae Ztivwvoc. "Hptdxs  o* auxw dWpa fitvat xa uavxa xal ik aXXYjXa fxexa- 2   40 SaXXetv. x<^ xe Ttav Jvai xevbv xal TrXripec <iw|a<xxwv.  tou? te xdff[A00s yivtafai <jw(jloitwv tU to xevov I|xtti-  ttxovxwv xal aXX^Xotc 7reptwX£X0|xivwv ^x xe xtk xtv^-  «&k xaxa xtjv aufow auxwv YtveaOat x^jv x(ov dW-  pwv ^uffiv. cpe'peffOai 8e xbv ^Xtov Iv fiet^ovi xuxXw wapa   ^ B Tf^v <ieX^vy|V t^v y^v ^ewOat Trepl *rb jieaov Stvouui-  vvjv ffX^H^ f' auxTJ? TujiTcavoetSe^ elvai. «pwxd< x'  dxouou^ap/a? uxwffx^aaxo.xalxecpaXaiwSwsfxiv xauxa*  Zenone lleate.   I. Zenone eleate. Era costui, al dire di Apollodoro, a5  nelle Cronache , p«r natura, figlio di Teleutagora, per  adozione, di Parmenide. »   II. Di lui « di Melisso dice Timone queste cose :   // prò ed il contro a disputar potente,  Zenone, invitto, riprensor di tutti;  E Melisso di molte fantasie  Superiore, di poche inferiore.   Zenone fu veramente discepolo di Parmenide e suo bar-  dassa.   III. Era grandissimo della persona, secondo che, nel  Parmenide, scrive Platone, che, nel Fediv , lo chiama  anche eleatico Palamede.   IV. Afferma Aristotele , nel Sofista , eh 9 e 9 fu V in-  ventore della dialettica, siccome Empedocle della reto-  rica ; che fu uomo e in filosofia e in politica assai pre-  stante ; e che vanno attorno suoi libri pieni di molta a g  sapienza.   V. Volendo Zenone rovesciare il tiranno Nearco -  secondo alcuni Diomedonte - fu , al dire di Eraclide ,   Epitome di Satiro, sostenuto} e quando lo si inquisì     Digitized by     2^6 CAPO V   circa i complici e V armi, eh 9 erano state portate a Li-  para , affermò , onde colui rimanesse solo, che di tutto  consapevoli erano i suoi amici. Poscia soggiugnendo che  intorno a taluno qualche cosa avea da dirgli alP orec-  chio , addentandoglielo , non prima il lasciò che ca-  desse trafitto ; lo che ebbe in comune col tirannicida  Aristogitone. Demetrio, negli Omonimi, afferma che gli 37  morsicò il naso ; ma Àntistene racconta , nelle Succes-  sioni, che dopo di averne denunciati gli amici, interro-  gato dal tiranno, se alcun altro vi fosse, egli rispose: Tu,  peste della città ! e che dopo di aver detto agli astanti :  Meravigliomi della vostra codardia , se , in grazia di  ciò eh* io patisco, servirete al tiranno, spiccatosi final-  mente la lingua co 9 denti la sputò ad esso in faccia; e  che i cittadini concitati a quel fatto lapidarono il ti-  ranno. Queste cose, presso a poco, si vanno narrando  dai più. Ma Ermippo asserisce che gettato Zenone in  un mortaio, vi fu pestato.- Sopra di lui noi parliamo così:   Tu volevi^ o Zenon, volevi torre, a8  Uomo egregio, la patria dal servaggio,  Il tiranno uccidendo. Ma cadesti  Oppresso, Perocché tosto il tiranno,  Presoti , in un mortaio ti pestò.  Che dico! Te non già, ma il corpo solo.   VI. Zenone , se in altre cose preclaro , il fu ezian-  dio, al pari di Eraclito, nel guardare con ispregio i più  grandi; poiché egli, quella che prima fu Iele e da ultimo  Elea, colonia fenicia e sua patria, città meschina e solo     Digitized by     Googk     ZENONE ELEATE. 277   atta a nutrire uomini dabbene , amò di preferenza ai  vanti degli Ateniesi, per lo più non recandosi presso di  loro , ma abitando in essa.   VII. Usò primo nelle dispute P argomento detto 29  V Achille ( sebbene Favorino dica ciò di Parmenide ) e  molti altri.   Vili. Credette che vi fossero mondi, e non vuoto. -  Che la natura di tutte le cose venisse prodotta dal caldo  e dal freddo * dal secco e dall' umido mutantisi a vi-  cenda. - Che la generazione degli uomini derivasse dalla  terra, e Vanima fosse una mescolanza dei prefati senza  prevalenza di alcuno.   IX. Narrano che sentendo di essere biasimato, se  ne impazientò , e che taluno condannandolo disse ; Se  comporto le contumelie, neppure mi accorgerò <T esser  lodato.   X. Che vi fossero otto Zenoni già è detto nella vita  del cizieo. - Il nostro fiorì nella settantesima nona Olim-  piade. Cornelio Fabro. Fabro. Keywords: per la porta di Velia, essere, e, essente, esuto, suto. L’uomo allo specchio. Dialettica di hegel, tomismo, essere atto d’essere – immanenza – trascendenza -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Fabro” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51762152843/in/dateposted-public/

 

Grice e Faggin – bei -- metrica filosofica – inno orfico – filosofia italiana -- Luigi Speranza (Isola Vicentina). Filosofo. Grice: “I like Faggin: he is obsessed with love; he translated Fedro, he selected some passages from the Roman philosopher Plotino and titled it, implicaturally “Dal bello al divino,” but surely for Plotino, via hypernegation, the divine IS beautiful – and finally, being an Italian, he became interested in “Dutch Protestantism” – “il Pellegrino cherubico”!” Si laurea a Padova sotto Troilo. Insegna a Padova, Bassano del Grappa, Campobasso, Vicenza.  Studioso del platonismo, della tradizione mistica e dell'occultismo, commenta le Enneadi di Plotino. Altri suoi lavori riguardano Meister Eckhart e la mistica medioevale, Schopenhauer, la stregoneria e l'occultismo rinascimentale.  Altre opere: “Van Gogh, Padova, MILANI); Plotino, Milano, Garzanti); “Eckhart e la mistica” Bocca, Milano); “Schopenhauer: il mistico senza Dio, Firenze, La nuova Italia); “Le streghe: trentatré incisioni dell'epoca, Milano, Longanesi & C.); “Gli occultisti dell'età rinascimentale, Milano, Marzorati); “Storia della filosofia: ad uso dei licei classici, Milano, Principato); “Dal Rinascimento a Immanuel Kant, Milano, Principato); “La filosofia antica” (Milano, Principato); “Diabolicità del rospo” (Vicenza, Neri Pozza); “Dal Romanticismo alla scuola di Francoforte, Milano, Principato); “Enneadi” Milano, Istituto Editoriale), “Sulla libertà del volere”; “Sul fondamento della morale” (Torino, Boringhieri); Eckhart, Trattati e prediche, Milano, Rusconi); Inni orfici, Giuseppe Faggin, Roma, Āśram Vidyā).  Platone Fedro  Edizione Acrobat a cura di Patrizio Sanasi (patsa@tin.it)   Platone Fedro  SOCRATE: Caro Fedro, dove vai e da dove vieni? Platone FEDRO FEDRO: Dalla casa di Lisia, Socrate, il figlio di Cefalo, (1) e vado a fare una passeggiata fuori dalle mura. Ho passato parecchio tempo là seduto, fin dal mattino; e ora, seguendo il consiglio di Acumeno,(2) compagno mio e tuo, faccio delle passeggiate per le strade, poiché, a quanto dice, tolgono la stanchezza più di quelle sotto i portici. SOCRATE: E dice bene, amico mio. Dunque Lisia era in città, a quanto pare. FEDRO: Sì , alloggia da Epicrate, nella casa di Monco, quella vicino al tempio di Zeus Olimpio.(3) SOCRATE: E come avete trascorso il tempo? Lisia non vi ha forse imbandito, è chiaro, i suoi discorsi? FEDRO: Lo saprai, se hai tempo di ascoltarmi mentre cammino. SOCRATE: Ma come? Credi che io, per dirla con Pindaro, non faccia del sentire come avete trascorso il tempo tu e Lisia una faccenda «superiore a ogni negozio»? (4) FEDRO: Muoviti, allora! SOCRATE: Se vuoi parlare. FEDRO: Senza dubbio, Socrate, l'ascolto ti si addice, poiché il discorso su cui ci siamo intrattenuti era, non so in che modo, sull'amore. Lisia ha scritto di un bel giovane che viene tentato, ma non da un amante, e ha comunque trattato anche questo argomento in modo davvero elegante: sostiene infatti che bisogna compiacere chi non ama piuttosto che chi ama. SOCRATE: E bravo! Avesse scritto che bisogna compiacere un povero piuttosto che un ricco, un vecchio piuttosto che un giovane, e tutte quelle cose che vanno bene a me e alla maggior parte di voi! Allora sì che i suoi discorsi sarebbero urbani e utili al popolo! Io ora ho tanto desiderio di ascoltare, che se facessi a piedi la tua passeggiata fino a Megara e, seguendo Erodico,(5) arrivato alle mura tornassi di nuovo, non rimarrei dietro a te. FEDRO: Cosa dici, ottimo Socrate? Credi che io, da profano quale sono, ricorderò in modo degno di lui quello che Lisia, il più bravo a scrivere dei nostri contemporanei, ha composto in molto tempo e a suo agio? Ne sono ben lungi! Eppure vorrei avere questo più che molto oro. SOCRATE: Fedro, se io non conosco Fedro, mi sono scordato anche di me stesso! Ma non è vera né l'una né l'altra cosa: so bene che lui, ascoltando un discorso di Lisia, non l'ha ascoltato una volta sola, ma ritornandovi più volte sopra lo ha pregato di ripeterlo, e quello si è lasciato convincere volentieri. Poi però neppure questo gli è bastato, ma alla fine, ricevuto il libro, ha esaminato i passi che più di tutti bramava; e poiché ha fatto questo standosene seduto fin dal mattino, si è stancato ed è andato a fare una passeggiata, conoscendo, corpo d'un cane!, il discorso ormai a memoria, credo, a meno che non fosse troppo lungo. E così si è avviato fuori dalle mura per recitarlo. Imbattutosi poi in uno che ha la malattia di ascoltare discorsi, lo ha visto, e nel vederlo si è rallegrato di avere chi potesse coribanteggiare con lui (6) e lo ha invitato ad accompagnarlo. Ma quando l'amante dei discorsi lo ha pregato di declamarlo, si è schermito come se non desiderasse parlare: ma alla fine avrebbe parlato anche a viva forza, se non lo si fosse ascoltato volentieri. Tu dunque, Fedro, pregalo di fare adesso quello che comunque farà molto presto. FEDRO: Per me, veramente, la cosa di gran lunga migliore è parlare così come sono capace, poiché mi sembra che non mi lascerai assolutamente andare prima che abbia parlato, in qualunque modo. SOCRATE: Ti sembra davvero bene. FEDRO: Allora farò così . In realtà, Socrate, non l'ho proprio imparato tutto parola per parola: ti esporrò tuttavia il concetto più o meno di tutti gli argomenti con i quali lui ha sostenuto che la condizione di chi ama differisce da quella di chi non ama, uno per uno e per sommi capi, cominciando dal primo. SOCRATE: Prima però, carissì mo, mostrami che cos'hai nella sinistra sotto il mantello; ho l'impressione che tu abbia proprio il discorso. Se è così , tieni presente che io ti voglio molto bene, ma se c'è anche Lisia non ho assolutamente intenzione di offrirmi alle tue esercitazioni retoriche. Via, mostramelo! FEDRO: Smettila! Mi hai tolto, Socrate, la speranza che riponevo in te di esercitarmi. Ma dove vuoi che ci sediamo a leggere? SOCRATE: Giriamo di qui e andiamo lungo l'Ilisso,(7) poi ci sederemo dove ci sembrerà un posto tranquillo. FEDRO: A quanto pare, mi trovo a essere scalzo al momento giusto; tu infatti lo sei sempre. Perciò sarà per noi facilissimo camminare bagnandoci i piedi nell'acqua, e non spiacevole, tanto più in questa stagione e a quest'ora.(8) SOCRATE: Fa' da guida dunque, e intanto guarda dove ci potremo sedere. FEDRO: Vedi quell'altissimo platano? SOCRATE: E allora? FEDRO: Là c'è ombra, una brezza moderata ed erba su cui sederci o anche sdraiarci, se vogliamo. SOCRATE: Puoi pure guidarmici. FEDRO: Dimmi, Socrate: non è proprio da qui, da qualche parte dell'Ilisso, che a quanto si dice Borea ha rapito Orizia?(9) SOCRATE: Così si dice. FEDRO: Proprio da qui dunque? Le acque appaiono davvero dolci, pure e limpide, adatte alle fanciulle per giocarvi vicino. SOCRATE: No, circa due o tre stadi più in giù, dove si attraversa il fiume per andare al tempio di Agra: (10) appunto là c'è un altare di Borea. 2  Platone Fedro  FEDRO: Non ci ho mai fatto caso. Ma dimmi, per Zeus: tu, Socrate, sei convinto che questo racconto sia vero? SOCRATE: Ma se non ci credessi, come fanno i sapienti, non sarei una persona strana; e allora, facendo il sapiente, potrei dire che un soffio di Borea la spinse giù dalle rupi vicine mentre giocava con Farmacea, ed essendo morta così si è sparsa la voce che è stata rapita da Borea (oppure dall'Areopago,(11) poiché c'è anche questa leggenda, che fu rapita da là e non da qui). Io però, Fedro, considero queste spiegazioni sì ingegnose, ma proprie di un uomo fin troppo valente e impegnato, e non del tutto fortunato, se non altro perché dopo questo gli è giocoforza raddrizzare la forma degli Ippocentauri, e poi della Chimera; quindi gli si riversa addosso una folla di tali Gorgoni e Pegasi (12) e un gran numero di altri esseri straordinari dalla natura strana e portentosa. E se uno, non credendoci, vorrà ridurre ciascuno di questi esseri al verosimile, dato che fa uso di una sapienza rozza, avrà bisogno di molto tempo libero. Ma io non ho proprio tempo per queste cose; e il motivo, caro amico, è il seguente. Non sono ancora in grado, secondo l'iscrizione delfica, di conoscere me stesso;(13) quindi mi sembra ridicolo esaminare le cose che mi sono estranee quando ignoro ancora questo. Perciò mando tanti saluti a queste storie, standomene di quanto comunemente si crede riguardo a esse, come ho detto poco fa, ed esamino non queste cose ma me stesso, per vedere se per caso non sia una bestia più intricata e che getta fiamme più di Tifone, oppure un essere più mite e più semplice, partecipe per natura di una sorte divina e priva di vanità fumosa.(14) Ma cambiando discorso, amico, non era forse questo l'albero a cui volevi guidarci? FEDRO: Proprio questo. SOCRATE: Per Era, è un bel luogo per sostare! Questo platano è molto frondoso e imponente, l'alto agnocasto è bellissimo con la sua ombra, ed essendo nel pieno della fioritura rende il luogo assai profumato. Sotto il platano poi scorre la graziosissima fonte di acqua molto fresca, come si può sentire col piede. Dalle immagini di fanciulle e dalle statue sembra essere un luogo sacro ad alcune Ninfe e ad Acheloo.(15) E se vuoi ancora, com'è amabile e molto dolce il venticello del luogo! Una melodiosa eco estiva risponde al coro delle cicale. Ma la cosa più leggiadra di tutte è l'erba, poiché, disposta in dolce declivio, sembra fatta apposta per distendersi e appoggiarvi perfettamente la testa. Insomma, hai fatto da guida a un forestiero in modo eccellente, caro Fedro! FEDRO: Mirabile amico, sembri una persona davvero strana: assomigli proprio, come dici, a un forestiero condotto da una guida e non a un abitante del luogo. Non lasci la città per recarti oltre confine, e mi sembra che tu non esca affatto dalle mura. SOCRATE: Perdonami, carissimo. Io sono uno che ama imparare; la terra e gli alberi non vogliono insegnarmi nulla, gli uomini in città invece sì . Mi sembra però che tu abbia trovato la medicina per farmi uscire. Come infatti quelli che conducono gli animali affamati agitano davanti a loro un ramoscello verde o qualche frutto, così tu, tendendomi davanti al viso discorsi scritti sui libri, sembra che mi porterai in giro per tutta l'Attica e in qualsiasi altro luogo vorrai. Ma per ì l momento, ora che sono giunto qui io intendo sdraiarmi, tu scegli la posizione in cui pensi di poter leggere più comodamente e leggi. FEDRO: Ascolta, dunque. «Sei a conoscenza della mia situazione, e hai udito che ritengo sia per noi utile che queste cose accadano; ma non stimo giusto non poter ottenere ciò che chiedo perché non mi trovo a essere tuo amante. Gli innamorati si pentono dei benefici che hanno fatto, allorquando cessa la loro passione, mentre per gli altri non viene mai un tempo in cui conviene cambiare parere. Infatti fanno benefici secondo le loro possibilità non per costrizione, ma spontaneamente, per provvedere nel migliore dei modi alle proprie cose. Inoltre coloro che amano considerano sia ciò che è andato loro male a causa dell'amore, sia i benefici che hanno fatto, e aggiungendo a questo l'affanno che provavano pensano di aver reso già da tempo la degna ricompensa ai loro amati. Invece coloro che non amano non possono addurre come scusa la scarsa cura delle proprie cose per questo motivo, né mettere in conto gli affanni trascorsi, né incolpare gli amati delle discordie con i familiari; sicché, tolti di mezzo tanti mali, non resta loro altro se non fare con premura ciò che pensano sarà loro gradito quando l'avranno fatto. Inoltre, se vale la pena di tenere in grande considerazione gli amanti perché dicono di essere amici al sommo grado di coloro che amano e sono pronti sia a parole sia coi fatti a rendersi odiosi agli altri pur di compiacere gli amati, è facile comprendere che, se dicono il vero, terranno in maggior conto quelli di cui si innamoreranno in seguito, ed è chiaro che, se parrà loro il caso, ai primi faranno persino del male. D'altronde come può essere conveniente concedere una cosa del genere a chi ha una disgrazia tale che nessuno, per quanto esperto, potrebbe tentare di allontanare? Essi stessi, infatti, ammettono di essere malati più che assennati, e di sapere che sragionano, ma non sanno dominarsi; di conseguenza, una volta tornati in senno, come potranno credere che vada bene ciò di cui decidono in questa disposizione d'animo? E ancora, se scegliessi il migliore degli amanti, la tua scelta sarebbe tra pochi, se invece scegliessi quello più adatto a te tra gli altri, sarebbe tra molti; perciò c'è molta più speranza che quello degno della tua amicizia si trovi tra i molti. Se poi, secondo l'usanza corrente, temi di guadagnarti del biasimo nel caso la gente lo venga a sapere, è naturale che gli amanti, credendo di essere invidiati dagli altri così come si invidiano tra loro, si inorgogliscano parlandone e per ambizione mostrino a tutti che non hanno faticato invano; mentre coloro che non amano, essendo più padroni di sé, scelgono ciò che è meglio in luogo della fama presso gli uomini. Inoltre è inevitabile che molti vengano a sapere o vedano gli amanti accompagnare i loro amati e darsi un gran da fare, cosicché, quando li vedono discorrere tra loro credono che essi stiano insieme o perché il loro desiderio si è realizzato o perché sta per realizzarsi; ma non provano affatto ad accusare coloro che non amano perché stanno assieme, sapendo che è necessario parlare con qualcuno per amicizia o per qualche altro piacere. E se poi hai paura perché credi sia difficile che un'amicizia perduri, e temi che se sorgesse un dissidio per un altro motivo la sventura sarebbe comune ad entrambi, mentre in questo caso verrebbe un gran danno a te, perché hai gettato via ciò che più di tutto tieni in conto, a maggior ragione dovresti temere coloro che 3  Platone Fedro  amano: molte sono le cose che li affliggono, e credono che tutto accada a loro danno. Per questo allontanano gli amati anche dalla compagnia con gli altri, per timore che quelli provvisti di sostanze li superino in ricchezza, e quelli forniti dì cultura li vincano in intelligenza; in somma, stanno in guardia contro il potere di tutti quelli che possiedono un qualsiasi altro bene. Così , dopo averti indotto a inimicarti queste persone, ti riducono privo di amici, e se badando al tuo interesse sarai più assennato di loro, verrai in discordia con essi. Chi invece non si è trovato a essere nella condizione di amante, ma ha ottenuto grazie alle sue doti ciò che chiedeva, non sarebbe geloso di chi si accompagna a te, anzi odierebbe coloro che rifiutano la tua compagnia, pensando che da costoro sei disprezzato, ma trai beneficio da chi sta assieme a te. Perciò c'è molta più speranza che dalla cosa nasca tra loro amicizia piuttosto che inimicizia. Per di più molti degli amanti hanno desiderio del corpo prima di aver conosciuto il carattere e aver avuto esperienza delle altre qualità individue dell'amato, così che non è loro chiaro se vorranno ancora essere amici quando la loro passione sarà finita; per quanto riguarda invece coloro che non amano, dal momento che erano tra loro amici anche prima di fare questo, non è verosimile che la loro amicizia risulti sminuita dal bene che hanno ricevuto, anzi esso rimane come ricordo di ciò che sarà in futuro. Inoltre ti si addice diventare migliore dando retta a me piuttosto che a un amante. Essi lodano le parole e le azioni dell'amato anche al di là di quanto è bene, da un lato per timore di diventare odiosi, dall'altro perché essi stessi danno giudizi meno retti per via del loro desiderio. Infatti l'amore produce tali effetti: a coloro che non hanno fortuna fa ritenere molesto ciò che agli altri non arreca dolore, mentre spinge coloro che hanno fortuna a elogiare anche ciò che non è degno di piacere, tanto che agli amati si addice più la compassione che l'invidia. Se dai retta a me, innanzitutto starò assieme a te prendendomi cura non solo del piacere presente, ma anche dell'utilità futura, non vinto dall'amore ma padrone di me stesso, senza suscitare una violenta inimicizia per futili motivi, ma irritandomi poco e non all'improvviso per motivi gravi, perdonando le colpe involontarie e cercando di distogliere da quelle volontarie: queste sono prove di un'amicizia che durerà a lungo. Se invece ti sei messo in mente che non possa esistere amicizia salda se non si ama, conviene pensare che non potremmo tenere in gran conto né i figli né i genitori, e non potremmo neanche acquistarci amici fidati, poiché i vincoli con essi ci sono venuti non da una tale passione, ma da altri rapporti. Inoltre, se si deve compiacere più di tutti chi ne ha bisogno, anche nelle altre cì rcostanze conviene fare benefici non ai migliori, ma ai più indigenti, poiché, liberati da grandissimi mali, serberanno la massima gratitudine ai loro benefattori. E allora anche nelle feste private è il caso di invitare non gli amici ma chi chiede l'elemosina e ha bisogno di essere sfamato, poiché costoro ameranno i loro benefattori, li seguiranno, verranno alla loro porta, proveranno grandissima gioia, serberanno non poca gratitudine e augureranno loro ogni bene. Ma forse conviene compiacere non chi è molto bisognoso, ma chi soprattutto è in grado di rendere il favore; non solo chi chiede, ma chi è degno della cosa; non quanti godranno del fiore della tua giovinezza, ma coloro che anche quando sarai diventato vecchio ti faranno partecipe dei loro beni; non coloro che, ottenuto ciò che desideravano, se ne vanteranno con gli altri, ma coloro che per pudore ne taceranno con tutti; non coloro che hanno cura di te per poco tempo, ma coloro che ti saranno amici allo stesso modo per tutta la vita; non coloro che, cessato il desiderio, cercheranno il pretesto per un'inimicizia, ma coloro che daranno prova della loro virtù quando la tua bellezza sarà sfiorita. Dunque tu ricordati di quanto ti ho detto e considera questo, che gli amici riprendono gli amanti perché sono convinti che questa pratica sia cattiva, mentre nessuno dei familiari ha mai rimproverato a coloro che non amano di provvedere male ai propri affari per questo motivo. Forse ora mi domanderai se ti esorto a compiacere tutti quelli che non amano. Ebbene, io credo che neanche chi ama ti inviti ad avere questo atteggiamento con tutti quelli che amano. Infatti né per chi riceve benefici la cosa è degna di un'uguale ricompensa, né, se anche lo volessi, ti sarebbe possibile tenerlo nascosto allo stesso modo agli altri; bisogna invece che da ciò non venga alcun danno, ma un vantaggio a entrambi. Io penso che quanto è stato detto sia sufficiente: se tu desideri ancora qualcosa e pensi che sia stata tralasciata, interroga». FEDRO: Che te ne pare del discorso, Socrate? Non è stato pronunciato in maniera straordinaria, in particolare per la scelta dei vocaboli? SOCRATE: In maniera davvero divina, amico, al punto che ne sono rimasto colpito! E questa impressione l'ho avuta per causa tua, Fedro, guardando te, perché mi sembrava che esultassi per il discorso intanto che lo leggevi. E dato che credo che in queste cose tu ne sappia più di me ti seguivo, e nel seguirti ho partecipato al tuo furore bacchico, o testa divina! (16) FEDRO: Ma dai! Ti pare il caso di scherzare così ? SOCRATE: Ti sembra che io scherzi e che non abbia fatto sul serio? FEDRO: Nient'affatto, Socrate, ma dimmi veramente, per Zeus protettore degli amici: credi che ci sia un altro tra i Greci in grado di parlare sullo stesso argomento in modo più grande e copioso di lui? SOCRATE: Ma come? Bisogna che il discorso sia lodato da me e da te anche sotto questo aspetto, ossia perché il suo autore ha detto ciò che bisognava dire, e non solo perché ha tornito ciascun termine in modo chiaro, forbito e puntuale? Se proprio bisogna, devo convenirne per amor tuo, dal momento che mi è sfuggito a causa della mia nullità. Infatti ho posto mente soltanto all'aspetto retorico del discorso; quanto all'altro, credevo che neppure Lisia lo ritenesse sufficiente. A meno che tu, Fedro, non abbia un'opinione diversa, mi è parso che abbia ripetuto due o tre volte gli stessi concetti, come se non avesse a disposizione grandi risorse per dire molte cose sullo stesso argomento, o forse come se non gliene importasse nulla; e mi sembrava pieno di baldanza giovanile quando mostrava com'era bravo, dicendo le stesse cose prima in un modo e poi in un altro, a parlarne in tutti e due i casi nella maniera migliore. 4  Platone Fedro  FEDRO: Ti sbagli, Socrate: precisamente in questo consiste il discorso. Infatti non ha tralasciato nulla di ciò che meritava d'esser detto in argomento, tanto che nessuno mai saprebbe dire cose diverse e di maggior pregio rispetto a quelle dette. SOCRATE: In questo non potrò più darti retta: uomini e donne antichi e sapienti, che hanno parlato e scritto di queste cose, mi confuteranno, se per farti piacere convengo con te. FEDRO: Chi sono costoro? E dove hai ascoltato cose migliori di queste? SOCRATE: Ora, lì per lì , non so dirlo; ma è chiaro che le ho udite da qualcuno, dalla bella Saffo o dal saggio Anacreonte o da qualche scrittore in prosa.(17) Da cosa lo arguisco per affermare ciò? In qualche modo, divino fanciullo, sento di avere il petto pieno e di poter dire cose diverse dalle sue, e non peggiori. So bene che non ho concepito da me niente di tutto ciò, dato che riconosco la mia ignoranza; allora resta, credo, che da qualche altra fonte io sia stato riempito attraverso l'ascolto come un vaso. Ma per indolenza ho scordato proprio questo, come e da chi le ho udite. FEDRO: Ma hai detto cose bellissime, nobile amico! Neanche se te lo ordino devi riferirmi da chi e come le hai udite, ma metti in atto esattamente il tuo proposito. Hai promesso di dire cose diverse, in maniera migliore e non meno diffusa rispetto a quelle contenute nel libro, astenendoti da queste ultime; quanto a me, io ti prometto che come i nove arconti innalzerò a Delfi una statua d'oro a grandezza naturale, non solo mia ma anche tua.(18) SOCRATE: Sei carissimo e veramente d'oro, Fedro, se pensi che io affermi che Lisia ha sbagliato tutto e che è possibile dire cose diverse da tutte queste; ciò, credo, non potrebbe capitare neanche allo scrittore più scarso. Tanto per incominciare, riguardo all'argomento del discorso, chi credi che, sostenendo che bisogna compiacere coloro che non amano piuttosto che coloro che amano, abbia ancora altro da dire quando abbia tralasciato di lodare l'assennatezza degli uni e biasimare la dissennatezza degli altri, il che appunto è necessario? Ma credo che si debbano concedere e perdonare simili argomenti a chi ne parla; e di tali argomenti è da lodare non l'invenzione, ma la disposizione, mentre degli argomenti non necessari e difficili da trovare è da lodare, oltre alla disposizione, anche l'invenzione. FEDRO: Concordo con ciò che dici: mi sembri aver parlato in modo opportuno. Pertanto farò anch'io così: ti concederò di stabilire come principio che chi ama è più ammalato di chi non ama, e quanto al resto, se avrai detto altre cose in maggior quantità e di maggior pregio di queste, ergiti pure come statua lavorata a martello a Olimpia, presso l'offerta votiva dei Cipselidi! (19) SOCRATE: L'hai presa sul serio, Fedro, perché io, scherzando con te, ho attaccato il tuo amato, e credi che io proverò veramente a dire qualcosa di diverso e di più vario a confronto dell'abilità di lui? FEDRO: A questo proposito, caro, mi hai dato l'occasione per un'uguale presa.(20) Ora tu devi parlare assolutamente, così come sei capace, in modo da non essere obbligati a fare quella cosa volgare da commedianti che si rimbeccano a vicenda, e non volermi costringere a tirar fuori quella frase: «Socrate, se io non conosco Socrate, mi sono dimenticato anche di me stesso», o quell'altra: «Desiderava dire, ma si schermiva»; ma tieni bene in mente che non ce ne andremo di qui prima che tu abbia esposto ciò che sostenevi di avere nel petto. Siamo noi due soli, in un luogo appartato, io sono più forte e più giovane. Da tutto ciò, dunque, «intendi quel che ti dico»,(21) e vedi di non parlare a forza piuttosto che spontaneamente. SOCRATE: Ma beato Fedro, mi coprirò di ridicolo improvvisando un discorso sui medesimi argomenti, da profano che sono a confronto di un autore bravo come lui! FEDRO: Sai com'è la questione? Smettila di fare il ritroso con me; poiché penso di avere una cosa che, se te la dico, ti costringerà a parlare. SOCRATE: Allora non dirmela! FEDRO: No, invece te la dico proprio! E le mie parole saranno un giuramento. Ti giuro... ma su chi, su quale dio? Vuoi forse su questo platano qui? Ebbene, ti giuro che se non pronuncerai il tuo discorso proprio davanti a questo platano, non ti mostrerò e non ti riferirò più nessun altro discorso di nessuno. SOCRATE: Ahi, birbante! Come hai trovato bene il modo di costringere un uomo amante dei discorsi a fare ciò che tu ordini! FEDRO: Perché allora fai tanti giri? SOCRATE: Niente più indugi, dal momento che hai proferito questo giuramento. Come potrei astenermi da un tale banchetto? FEDRO: Allora parla! SOCRATE: Sai dunque come farò? FEDRO: Riguardo a cosa? SOCRATE: Parlerò dopo essermi coperto il capo, per svolgere il discorso il più velocemente possibile e non trovarmi in imbarazzo per la vergogna, guardando verso di te. FEDRO: Purché tu parli; quanto al resto, fa' come vuoi. SOCRATE: Orsù, o Muse dalla voce melodiosa, vuoi per l'aspetto del canto vuoi perché siete state così chiamate dalla stirpe dei Liguri amante della musica,(22) narrate assieme a me il racconto che questo bellissimo giovane mi costringe a dire, così che il suo compagno, che già prima gli sembrava sapiente, ora gli sembri tale ancora di più. C'era una volta un fanciullo, o meglio un giovanetto assai bello, di cui molti erano innamorati. Uno di loro, che era astuto, pur non essendo innamorato meno degli altri aveva convinto il fanciullo che non lo amava. E un giorno, saggiandolo, cercava di persuaderlo proprio di questo, che bisogna compiacere chi non ama piuttosto che chi ama, e gli parlava così : «Innanzi tutto, fanciulfo, uno solo è l'inizio per chi deve prendere decisioni nel modo giusto: bisogna sapere su cosa verte la decisione, o è destino che si sbagli tutto. Ai più sfugge che non conoscono l'essenza di ciascuna 5  Platone Fedro  cosa. Perciò, nella convinzione di saperlo, non si mettono d'accordo all'inizio della ricerca e proseguendo ne pagano le naturali conseguenze, poiché non si accordano né con se stessi né tra loro. Che non capiti dunque a me e a te ciò che rimproveriamo agli altri, ma dal momento che ci sta dinanzi la questione se si debba entrare in amicizia con chi ama piuttosto che con chi non ama, stabiliamo di comune accordo una definizione su cosa sia l'amore e quale forza abbia; poi, tenendo presente questa definizione e facendovi riferimento, esaminiamo se esso apporta un vantaggio o un danno. Che l'amore sia appunto un desiderio, è chiaro a tutti; che inoltre anche chi non ama desideri le cose belle, lo sappiamo. Da che cosa allora distingueremo chi ama e chi non ama? Occorre poi tenere presente che in ciascuno di noi ci sono due princì pi che ci governano e ci guidano, e che noi seguiamo dove essi ci guidano: l'uno, innato, è il desiderio dei piaceri, l'altro è un'opinione acquisita che aspira al sommo bene. Talvolta questi due princì pi dentro di noi si trovano d'accordo, talvolta invece sono in disaccordo; talvolta prevale l'uno, talvolta l'altro. Pertanto, quando l'opinione guida con il ragionamento al sommo bene e prevale, la sua vittoria ha il nome di temperanza; mentre se il desiderio trascina fuori di ragione verso i piaceri e domina in noi, il suo dominio viene chiamato dissolutezza. La dissolutezza ha molti nomi, dato che è composta di molte membra e molte parti; e quella che tra queste forme si distingue conferisce a chi la possiede il soprannome derivato da essa, che non è né bello né meritevole da acquistarsi. Il desiderio relativo al cibo, che prevale sulla ragione del bene migliore e sugli altri desideri, è chiamato ingordigia e farà sì che chi lo possiede venga chiamato con lo stesso nome; quello che tiranneggia nell'ubriachezza e conduce in tale stato chi lo possiede, è chiaro quale epiteto gli toccherà; così , anche per gli altri nomi fratelli di questi che designano desideri fratelli, a seconda di quello che via via signoreggia, è ben evidente come conviene chiamarli. Il desiderio a motivo del quale è stato fatto tutto il discorso precedente ormai è pressoché manifesto, ma è assolutamente più chiaro una volta detto che se non viene detto; ebbene, il desiderio irrazionale che ha il sopravvento sull'opinione incline a ciò che è retto, una volta che, tratto verso il piacere della bellezza e corroborato vigorosamente dai desideri a esso congiunti della bellezza fisica, ha prevalso nel suo trasporto prendendo nome dal suo stesso vigore, è chiamato eros».(23) Ma caro Fedro, non sembra anche a te, come a me, che mi trovi in uno stato divino? FEDRO: Certamente, Socrate! Ti ha preso una certa facilità di parola, contrariamente al solito! SOCRATE: Ascoltami dunque in silenzio. Il luogo sembra veramente divino, percio non meravigliarti se nel prosieguo del discorso sarò spesso invasato dalle Ninfe: le parole che proferisco adesso non sono lontane dai ditirambi.(24) FEDRO: Dici cose verissime. SOCRATE: E tu ne sei la causa. Ma ascolta il resto, poiché forse quello che mi viene alla mente potrebbe andarsene via. A questo provvederà un dio, noi invece dobbiamo tornare col nostro discorso al fanciullo. «Dunque, carissimo: cosa sia ciò su cui bisogna prendere decisioni, è stato detto e definito; ora, tenendo presente questo, dobbiamo dire il resto, ossia quale vantaggio o quale danno presumibilmente verrà da uno che ama e da uno che non ama a chi concede i suoi favori. Per chi è soggetto al desiderio ed è schiavo del piacere è inevitabile rendere l'amato il più possibile gradito a sé; ma per chi è malato tutto ciò che non oppone resistenza è piacevole, mentre tutto ciò che è più forte o pari a lui è odioso. Così un amante non sopporterà di buon grado un amato superiore o pari a lui, ma vuole sempre renderlo inferiore e più debole: e inferiore è l'ignorante rispetto al saggio, il vile rispetto al coraggioso, chi non sa parlare rispetto a chi ha abilità oratorie, chi è tardo di mente rispetto a chi è d'ingegno acuto. è inevitabile che, se nell'animo dell'amato nascono o ci sono per natura tanti difetti, o anche di più, l'amante ne goda e ne procuri altri, piuttosto che essere privato del piacere del momento. Ed è altresì inevitabile che sia geloso e causa di grande danno, poiché distoglie l'amato da molte altre compagnie vantaggiose grazie alle quali diverrebbe veramente uomo, danno che diventa grandissimo quando lo allontana da quella compagnia grazie alla quale diventerebbe una persona molto assennata. Essa è la divina filosofia, da cui inevitabilmente l'amante tiene lontano l'amato per paura di essere disprezzato, così come ricorrerà alle altre macchinazioni per fare in modo che sia ignorante di tutto e guardi solo al suo amante; e in questa condizione l'amato sarebbe fonte di grandissimo piacere per lui, ma del massimo danno per se stesso. Quindi, per quanto riguarda l'intelletto, l'uomo che prova amore non è in nessun modo utile come guida e come compagno. Poi si deve considerare la costituzione del corpo, e quale cura ne avrà colui che ne diventerà padrone, dato che si trova costretto a inseguire il piacere anziché il bene. Lo si vedrà seguire una persona molle e non vigorosa, non cresciuta alla pura luce del sole ma nella fitta ombra, inesperta di fatiche virili e di secchi sudori, esperta invece di una vita delicata ed effeminata, ornata di colori e abbellimenti altrui per mancanza dei propri, intenta a tutte quelle attività conseguenti a ciò, che sono evidenti e non meritano ulteriori discussioni. Ma stabiliamo un punto essenziale, e poi passiamo ad altro: per un corpo del genere, in guerra come in tutte le altre occupazioni importanti, i nemici prendono coraggio, gli amici e gli stessi amanti provano timore. Perciò questo punto è da lasciar perdere, dato che è evidente, e bisogna passare invece a quello successivo, cioè quale vantaggio o quale danno arrecherà ai nostri beni la compagnia e la protezione di chi ama. è chiaro a chiunque, ma soprattutto all'amante, che egli si augurerebbe più d'ogni altra cosa che l'amato fosse orbo dei beni più cari, più preziosi e più divini; accetterebbe che rimanesse privo di padre, madre, parenti e amici, ritenendoli causa d'impedimento e biasimo della dolcissima compagnia che ha con lui. E se possiede sostanze in oro o altri beni, egli penserà che non sia facile da conquistare né, una volta conquistato, trattabile; ne consegue inevitabilmente che l'amante provi gelosia se l'oggetto del suo amore possiede delle sostanze, e gioisca se le perde. Inoltre l'amante si augurerà che l'amato sia senza moglie, senza figli e senza casa il più a lungo possibile, poiché brama di cogliere il più a lungo possibile il frutto della 6  Platone Fedro  sua dolcezza. Ci sono altri mali ancora, ma un dio ha mescolato alla maggior parte di essi un piacere momentaneo; per esempio all'adulatore, bestia terribile e fonte di grande danno, la natura ha comunque mescolato un piacere non privo di gusto. E così qualcuno può biasimare come rovinosa un'etera o molte altre creature e attività del genere, che almeno per un giorno possono essere occasione di grandissimo piacere; ma per l'amato la compagnia quotidiana dell'amante, oltre al danno che arreca, è la cosa di tutte più spiacevole. Infatti, come recita l'antico proverbio, il coetaneo si diletta del coetaneo (credo infatti che l'avere gli stessi anni conduca agli stessi piaceri e procuri amicizia in virtù della somiglianza); tuttavia anche il loro stare insieme genera sazietà. Inoltre si dice che la costrizione è pesante per chiunque in qualsiasi circostanza: ed è proprio questo il rapporto che, oltre alla differenza d'età, l'amante ha con il suo amato. Infatti, quando uno più vecchio sta assieme a uno più giovane, non lo lascia volentieri né di giorno né di notte, ma è tormentato da una necessità e da un pungolo che lo conduce a destra e a manca procurandogli di continuo piaceri a vedere, ascoltare, toccare l'amato e a provare tutto ciò che lui prova, sì da mettersi strettamente e con piacere al suo servizio. Ma quale conforto o quali piaceri darà all'amato per evitare che questi, stando con lui per lo stesso periodo di tempo, arrivi al colmo del disgusto? Quando quello vedrà un volto invecchiato e non più in fiore, con tutte le conseguenze già spiacevoli da udire a parole, per non parlare poi se ci si trova nella necessità di avere a che fare con esse; quando dovrà guardarsi in ogni momento e con tutti da custodi sospettosi e sentirà elogi inopportuni ed esagerati, come anche insulti già insopportabili se l'amante è sobrio, vergognosi oltre ogni sopportazione se è ubriaco e indulge a una libertà di linguaggio stucchevole e assoluta? E se quando è innamorato e dannoso e spiacevole, una volta che l'amore è finito sarà inaffidabile per il tempo a venire, in prospettiva del quale era riuscito a malapena, con molte promesse condite di infiniti giuramenti e preghiere e in virtù della speranza di beni futuri, a mantenere il legame già allora faticoso da sopportare. E allora, quando bisogna pagare il debito, dato che dentro di sé ha cambiato padrone e signore, e assennatezza e temperanza hanno preso il posto di amore e follia, è divenuto un altro senza che il suo amato se ne sia accorto. Questi, ricordandosi di quanto era stato fatto e detto e pensando di parlare ancora con la stessa persona, chiede che gli siano ricambiati i favori resi allora; quello per la vergogna non ha il coraggio di dire che è diventato un altro, né sa come mantenere i giuramenti e le promesse fatte sotto la dissennata signoria precedente, dato che ormai ha riacquistato il senno e la temperanza, per non ridiventare simile a quello che era prima, se non addirittura lo stesso di prima, facendo le stesse cose. Perciò diventa un fuggiasco, e poiché l'amante di prima ora è di necessita reo di frode, invertite le parti, muta il suo stato e si dà alla fuga.(25) L'altro è costretto a inseguire tra lo sdegno e le imprecazioni, poiché non ha capito tutto fin dal principio, cioè che non avrebbe mai dovuto compiacere chi ama e di necessità è privo di senno, ma ben più chi non ama ed è assennato; altrimenti sarebbe inevitabile concedersi a una persona infida, difficile di carattere, gelosa, spiacevole, danno sa per le proprie ricchezze, dannosa per la costituzione fisica, ma dannosa nel modo più assoluto per l'educazione dell'anima, della quale in tutta verità non c'è e mai ci sarà cosa di maggior valore né per gli uomini né per gli dèi. Pertanto, ragazzo, bisogna intendere bene questo, e sapere che l'amicizia di un amante non nasce assieme alla benevolenza, ma alla maniera del cibo, per saziarsi; come i lupi amano gli agnelli, così gli amanti hanno caro un fanciullo». Questo è quanto, Fedro. Non mi sentirai dire di più, ma considera ormai finito il discorso. FEDRO: Eppure io credevo che fosse a metà, e che tu avresti speso uguali parole per chi non ama, dicendo che bisogna piuttosto compiacere lui e indicando quanti beni ne derivano; ma ora perché smetti, Socrate? SOCRATE: Non ti sei accorto, beato, che ormai pronuncio versi epici e non più ditirambi, proprio mentre muovo questi rimproveri? Se comincerò a elogiare l'altro, cosa credi che farò? Non lo sai che sarei certamente invasato dalle Ninfe, alle quali tu mi hai gettato deliberatamente in balia? Perciò in una parola ti dico che quanti sono i mali che abbiamo biasimato nell'uno tanti sono i beni, ad essi opposti, che si trovano nell'altro. E che bisogno c'è di un lungo discorso? Di entrambi si è detto abbastanza. Così il racconto avrà la sorte che gli spetta; e io, attraversato questo fiume, me ne torno indietro prima di essere costretto da te a qualcosa di più grande. FEDRO: Non ancora, Socrate, non prima che sia passata la calura. Non vedi che è all'incirca mezzogiorno, l'ora che viene chiamata immota? Ma restiamo a discutere sulle cose che abbiamo detto; non appena farà più fresco, ce ne andremo. SOCRATE: Quanto ai discorsi sei divino, Fedro, e semplicemente straordinario. Io penso che di tutti i discorsi prodotti durante la tua vita nessuno ne abbia fatto nascere più di te, o perché li pronunci di persona o perché costringi in qualche modo altri a pronunciarli (faccio eccezione per Simmia il Tebano, (26) ma gli altri li vinci di gran lunga). E ora mi sembra che tu sia stato la causa di un mio nuovo discorso. FEDRO: Allora non mi dichiari guerra! Ma come, e qual è questo discorso? SOCRATE: Quando stavo per attraversare il fiume, caro amico, si è manifestato quel segno divino che è solito manifestarsi a me e che mi trattiene sempre da ciò che sto per fare. E mi è parso di udire proprio da lì una certa voce che non mi permette di andare via prima d'essermi purificato, come se avessi commesso qualche colpa verso la divinità. In effetti sono un indovino, per la verità non molto bravo, ma, come chi sa a malapena scrivere, valido solo per me stesso; perciò comprendo chiaramente qual è la colpa. Perché anche l'anima, caro amico, ha un che di divinatorio; infatti mi ha turbato anche prima, mentre pronunciavo il discorso, e in qualche modo temevo, come dice Ibico, che «commesso un fallo» nei confronti degli dèi «consegua fama invece tra gli umani».(27) Ma ora mi sono reso conto della colpa. FEDRO: Che cosa dici? 7  Platone Fedro  SOCRATE: Terribile, Fedro, terribile è il discorso che tu hai portato, come quello che poi mi hai costretto a dire! FEDRO: E perché? SOCRATE: è sciocco e sotto un certo aspetto empio. Quale discorso potrebbe essere più terribile di questo? FEDRO: Nessuno, se tu dici il vero. SOCRATE: E allora? Non credi che Eros sia figlio di Afrodite e sia una creatura divina? FEDRO: Così almeno si dice. SOCRATE: Ma non è detto da Lisia, né dal tuo discorso, che è stato pronunciato tramite la mia bocca ammaliata da te. E se Eros è, come appunto è, un dio o un che di divino, non sarebbe affatto un male, e invece i due discorsi pronunciati ora su di lui ne parlavano come se fosse un male; in questo dunque hanno commesso una colpa nei confronti dì Eros. Inoltre la loro semplicità è proprio graziosa, poiché senza dire niente di sano né di vero si danno delle arie come se fossero chissà cosa, se ingannando alcuni omiciattoli troveranno fama presso di loro. Pertanto io, caro amico, ho la necessità di purificarmi; per coloro che commettono delle colpe nei confronti del mito c'è un antico rito purificatorio, che Omero non conobbe, ma Stesicoro sì . Costui infatti, privato della vista per aver diffamato Elena, non ne ignorò la causa come Omero, ma da amante alle Muse quale era la capì e subito compose questi versi: Questo discorso non è veritiero, non navigasti sulle navi ben costrutte, non arrivasti alla troiana Pergamo.(28) E dopo aver composto l'intero carme chiamato Palinodia gli tornò immediatamente la vista. Io pertanto sarò più saggio di loro almeno sotto questo aspetto: prima di incorrere in un male per aver diffamato Eros tenterò di offrirgli in cambio la mia palinodia, col capo scoperto e non velato come allora per la vergogna. FEDRO: Non avresti potuto dirmi cose più dolci di queste, Socrate. SOCRATE: Veramente, caro Fedro, tu intendi con quale impudenza siano stati pronunciati i due discorsi, il mio e quello ricavato dal libro. Se un uomo dall'indole nobile e affabile, che fosse innamorato di uno come lui o lo fosse stato in precedenza, ci ascoltasse mentre diciamo che gli amanti sollevano grandi inimicizie per futili motivi e sono gelosi e dannosi nei confronti dei loro amati, non credi che avrebbe l'impressione di ascoltare persone allevate in mezzo ai marinai e che non hanno mai visto un amore libero, e sarebbe ben lungi dal convenire con noi sui rimproveri che muoviamo ad Eros? FEDRO: Per Zeus, forse sì , Socrate. SOCRATE: Io dunque, per vergogna nei suoi confronti e per timore dello stesso Eros, desidero sciacquarmi dalla salsedine che impregna il mio udito con un discorso d'acqua dolce; e consiglio anche a Lisia di scrivere il più in fretta possibile che, a parità di condizioni, conviene compiacere più un amante che chi non ama. FEDRO: Ma sappi bene che sarà così : quando avrai pronunciato l'elogio dell'amante, sarà inevitabile che Lisia venga costretto da me a scrivere un altro discorso sullo stesso argomento. SOCRATE: Confido in ciò, finché sarai quello che sei. FEDRO: Fatti coraggio, dunque, e parla. SOCRATE: Dov'è il ragazzo a cui parlavo? Faccia in modo di ascoltare anche questo discorso e non conceda con troppa fretta i suoi favori a chi non ama per non aver udito le mie parole. FEDRO: Questo ragazzo è accanto a te, molto vicino, ogni qualvolta tu voglia. SOCRATE: Allora, mio bel ragazzo, tieni presente che il discorso di prima era di Fedro figlio di Pitocle, del demo di Mirrinunte, mentre quello che mi accingo a dire è di Stesicoro di Imera, figlio di Eufemo. Bisogna dunque parlare così : «Non è veritiero il discorso secondo il quale anche in presenza di un amante si deve piuttosto compiacere chi non ama, per il fatto che l'uno è in preda a "mania", l'altro è assennato. Se infatti l'essere in preda a mania fosse un male puro e semplice, sarebbe ben detto; ora però i beni più grandi ci vengono dalla mania, appunto in virtù di un dono divino. Infatti la profetessa di Delfi e le sacerdotesse di Dodona,(29) quando erano prese da mania, procurarono alla Grecia molti e grandi vantaggi pubblici e privati, mentre quando erano assennate giovarono poco o nulla. E se parlassimo della Sibilla (30) e di tutti gli altri che, avvalendosi dell'arte mantica ispirata da un dio, con le loro predizioni in molti casi indirizzarono bene molte persone verso il futuro, ci dilungheremmo dicendo cose note a tutti. Merita certamente di essere addotto come testimonianza il fatto che tra gli antichi coloro che coniavano i nomi non ritenevano la mania una cosa vergognosa o riprovevole; altrimenti non avrebbero chiamato "manica" l'arte più bella, con la quale si discerne il futuro, applicandovi proprio questo nome. Ma considerandola una cosa bella quando nasca per sorte divina, le imposero questo nome, mentre gli uomini d'oggi, inesperti del bello, aggiungendo la "t" l'hanno chiamata "mantica". Così anche la ricerca del futuro che fanno gli uomini assennati mediante il volo degli uccelli e gli altri segni del cielo, dal momento che tramite l'intelletto procurano assennatezza e cognizione alla "oiesi", cioè alla credenza umana, la denominarono "oionoistica", mentre i contemporanei, volendola nobilitare con la "o" lunga, la chiamano oionistica.(31) Perciò, quanto più l'arte mantica è perfetta e onorata della oionistica, e il nome e l'opera dell'una rispetto al nome e all'opera dell'altra, tanto più bella, secondo la testimonianza degli antichi, è la mania che viene da un dio rispetto all'assennatezza che viene dagli uomini. Ma la mania, sorgendo e profetando in coloro in cui doveva manifestarsi, trovò una via di scampo anche dalle malattie e dalle pene più gravi, che da qualche parte si abbattono su alcune stirpi a causa di antiche colpe, ricorrendo alle preghiere e al culto degli dèi; quindi, attraverso purificazioni e iniziazioni, rese immune chi la possedeva per il tempo presente e futuro, avendo trovato una liberazione dai mali presenti per chi era in preda a mania e invasamento divino nel modo giusto. Al terzo posto vengono l'invasamento e la mania provenienti dalle Muse, che impossessandosi di un'anima tenera e pura la destano e la colmano di furore bacchico in canti e altri componimenti poetici, e celebrando innumerevoli opere degli antichi educano i posteri. Chi invece giunge alle porte della poesia senza 8  Platone Fedro  la mania delle Muse, convinto che sarà un poeta valente grazie all'arte, resta incompiuto e la poesia di chi è in senno è oscurata da quella di chi si trova in preda a mania. Queste, e altre ancora, sono le belle opere di una mania proveniente dagli dèi che ti posso elencare. Pertanto non dobbiamo aver paura di ciò, né deve sconvolgerci un discorso che cerchi di intimorirci asserendo che si deve preferire come amico l'uomo assennato a quello in stato di eccitazione; ma il mio discorso dovrà riportare la vittoria dimostrando, oltre a quanto detto prima, che l'amore non è inviato dagli dèi all'amante e all'amato perché ne traggano giovamento. Noi dobbiamo invece dimostrare il contrario, cioè che tale mania è concessa dagli dèi per la nostra più grande felicità; e la dimostrazione non sarà persuasiva per i valent'uomini, ma lo sarà per i sapienti. Prima di tutto dunque bisogna intendere la verità riguardo alla natura dell'anima divina e umana, considerando le sue condizioni e le sue opere. L'inizio della dimostrazione è il seguente. Ogni anima è immortale. Infatti ciò che sempre si muove è immortale, mentre ciò che muove altro e da altro è mosso termina la sua vita quando termina il suo movimento. Soltanto ciò che muove se stesso, dal momento che non lascia se stesso, non cessa mai di muoversi, ma è fonte e principio di movimento anche per tutte le altre cose dotate di movimento. Il principio però non è generato. Infatti è necessario che tutto ciò che nasce si generi da un principio, ma quest'ultimo non abbia origine da qualcosa, poiché se un principio nascesse da qualcosa non sarebbe più un principio. E poiché non è generato, è necessario che sia anche incorrotto; infatti, se un principio perisce, né esso nascerà da qualcosa né altra cosa da esso, dato che ogni cosa deve nascere da un principio. Così principio di movimento è ciò che muove se stesso. Esso non può né perire né nascere, altrimenti tutto il cielo e tutta la terra, riuniti in corpo unico, resterebbero immobili e non avrebbero più ciò da cui ricevere di nuovo nascita e movimento. Una volta stabilito che ciò che si muove da sé è immortale, non si proverà vergogna a dire che proprio questa è l'essenza e la definizione dell'anima. Infatti ogni corpo a cui l'essere in movimento proviene dall'esterno è inanimato, mentre quello cui tale facoltà proviene dall'interno, cioè da se stesso, è animato, poiché la natura dell'anima è questa; ma se è così , ovvero se ciò che muove se stesso non può essere altro che l'anima, di necessità l'anima sarà ingenerata e immortale. Sulla sua immortalità si è detto a sufficienza; sulla sua idea bisogna dire quanto segue. Spiegare quale sia, sarebbe proprio di un'esposizione divina sotto ogni aspetto e lunga, dire invece a che cosa assomigli, è proprio di un'esposizione umana e più breve; parliamone dunque in questa maniera. Si immagini l'anima simile a una forza costituita per sua natura da una biga alata e da un auriga.(32) I cavalli e gli aurighi degli dèi sono tutti buoni e nati da buoni, quelli degli altri sono misti. E innanzitutto l'auriga che è in noi guida un carro a due, poi dei due cavalli uno è bello, buono e nato da cavalli d'ugual specie, l'altro è contrario e nato da stirpe contraria; perciò la guida, per quanto ci riguarda, è di necessità difficile e molesta. Quindi bisogna cercare di definire in che senso il vivente è stato chiamato mortale e immortale. Ogni anima si prende cura di tutto ciò che è inanimato e gira tutto il cielo ora in una forma, ora nell'altra. Se è perfetta e alata, essa vola in alto e governa tutto il mondo, se invece ha perduto le ali viene trascinata giù finché non s'aggrappa a qualcosa di solido; qui stabilisce la sua dimora e assume un corpo terreno, che per la forza derivata da essa sembra muoversi da sé. Questo insieme, composto di anima e corpo, fu chiamato vivente ed ebbe il soprannome di mortale. Viceversa ciò che è immortale non può essere spiegato con un solo discorso razionale, ma senza averlo visto e inteso in maniera adeguata ci figuriamo un dio, un essere vivente e immortale, fornito di un'anima e di un corpo eternamente connaturati. Ma di queste cose si pensi e si dica così come piace al dio; noi cerchiamo di cogliere la causa della perdita delle ali, per la quale esse si staccano dall'anima. E la causa è all'incirca questa. La potenza dell'ala tende per sua natura a portare in alto ciò che è pesante, sollevandolo dove abita la stirpe degli dèi, e in certo modo partecipa del divino più di tutte le cose inerenti il corpo. Il divino è bello, sapiente, buono, e tutto ciò che è tale; da queste qualità l'ala dell'anima e nutrita e accresciuta in sommo grado, mentre viene consunta e rovinata da ciò che è brutto, cattivo e contrario ad esse. Zeus, il grande sovrano che è in cielo, procede per primo alla guida del carro alato, dà ordine a tutto e di tutto si prende cura; lo segue un esercito di dèi e di demoni, ordinato in undici schiere. La sola Estia resta nella dimora degli dèi; quanto agli altri dèi, quelli che in numero di dodici sono stati posti come capi guidano ciascuno la propria schiera secondo l'ordine assegnato.(33) Molte e beate sono le visioni e i percorsi entro il cielo, per i quali si volge la stirpe degli dèi eternamente felici, adempiendo ciascuno il proprio compito. E tiene dietro a loro chi sempre lo vuole e lo può; infatti l'invidia sta fuori del coro divino. Quando poi vanno a banchetto per nutrirsi, procedono in ardua salita verso la sommità della volta celeste, dove i carri degli dèi, ben equilibrati e agili da guidare, procedono facilmente, gli altri invece a fatica; infatti il cavallo che partecipa del male si inclina, e piegando verso terra grava col suo peso l'auriga che non l'ha allevato bene. Qui all'anima si presenta la fatica e la prova suprema. Infatti quelle che sono chiamate immortali, una volta giunte alla sommità, procedono al di fuori posandosi sul dorso del cielo, la cui rotazione le trasporta in questa posa, mentre esse contemplano ciò che sta fuori del cielo. Nessuno dei poeti di quaggiù ha mai cantato né mai canterà in modo degno il luogo iperuranio.(34) La cosa sta in questo modo (bisogna infatti avere il coraggio di dire il vero, tanto più se si parla della verità): l'essere che realmente è, senza colore, senza forma e invisibile, che può essere contemplato solo dall'intelletto timoniere dell'anima e intorno al quale verte il genere della vera conoscenza, occupa questo luogo. Poiché dunque la mente di un dio è nutrita da un intelletto e da una scienza pura, anche quella di ogni anima cui preme di ricevere ciò che conviene si appaga di vedere dopo un certo tempo l'essere, e contemplando il vero se ne nutre e ne gode, finché la rotazione ciclica del cielo non l'abbia riportata allo stesso punto. Nel giro che essa compie vede la giustizia stessa, vede la temperanza, vede la scienza, 9  Platone Fedro  non quella cui è connesso il divenire, e neppure quella che in certo modo è altra perché si fonda su altre cose da quelle che ora noi chiamiamo esseri, ma quella scienza che si fonda su ciò che è realmente essere; e dopo che ha contemplato allo stesso modo gli altri esseri che realmente sono e se ne è saziata, si immerge nuovamente all'interno del cielo e fa ritorno alla sua dimora. Una volta arrivata l'auriga, condotti i cavalli alla mangiatoia, mette innanzi a loro ambrosia e in più dà loro da bere del nettare. Questa è la vita degli dèi. Quanto alle altre anime, l'una, seguendo nel migliore dei modi il dio e rendendosi simile a lui, solleva il capo dell'auriga verso il luogo fuori del cielo e viene trasportata nella sua rotazione, ma essendo turbata dai cavalli vede a fatica gli esseri; l'altra ora solleva il capo, ora piega verso il basso, e poiché i cavalli la costringono a forza riesce a vedere alcuni esseri, altri no. Seguono le altre anime, che aspirano tutte quante a salire in alto, ma non essendone capaci vengono sommerse e trasportate tutt'intorno, calpestandosi tra loro, accalcandosi e cercando di arrivare una prima dell'altra. Nasce così una confusione e una lotta condita del massimo sudore, nella quale per lo scarso valore degli aurighi molte anime restano azzoppate, e a molte altre si spezzano molte penne; tutte, data la grande fatica, se ne partono senza aver raggiunto la contemplazione dell'essere e una volta tornate indietro si nutrono del cibo dell'opinione. La ragione per cui esse mettono tanto impegno per vedere dov'è sita la pianura della verità è questa: il cibo adatto alla parte migliore dell'anima viene dal prato che si trova là, e di esso si nutre la natura dell'ala con cui l'anima si solleva in volo. Questa è la legge di Adrastea.(35) L'anima che, divenuta seguace del dio, abbia visto qualcuna delle verità, non subisce danno fino al giro successivo, e se riesce a fare ciò ogni volta, resta intatta per sempre; qualora invece, non riuscendo a tenere dietro al dio, non abbia visto, e per qualche accidente, riempitasi di oblio e di ignavia, sia appesantita e a causa del suo peso perda le ali e cada sulla terra, allora è legge che essa non si trapianti in alcuna natura animale nella prima generazione. Invece l'anima che ha visto il maggior numero di esseri si trapianterà nel seme di un uomo destinato a diventare filosofo o amante del bello o seguace delle Muse o incline all'amore. L'anima che viene per seconda si trapianterà in un re rispettoso delle leggi o in un uomo atto alla guerra e al comando, quella che viene per terza in un uomo atto ad amministrare lo Stato o la casa o le ricchezze, la quarta in un uomo che sarà amante delle fatiche o degli esercizi ginnici o esperto nella cura del corpo, la quinta è destinata ad avere la vita di un indovino o di un iniziatore ai misteri. Alla sesta sarà confacente la vita di un poeta o di qualcun altro di coloro che si occupano dell'imitazione, alla settima la vita di un artigiano o di un contadino, all'ottava la vita di un sofista o di un seduttore del popolo, alla nona quella di un tiranno. Tra tutti questi, chi ha condotto la vita secondo giustizia partecipa di una sorte migliore, chi invece è vissuto contro giustizia, di una peggiore; infatti ciascuna anima non torna nel luogo donde è venuta per diecimila anni, poiché non rimette le ali prima di questo periodo di tempo, tranne quella di colui che ha coltivato la filosofia senza inganno o ha amato i fanciulli secondo filosofia. Queste anime, al terzo giro di mille anni, se hanno scelto per tre volte di seguito una tale vita, rimettono in questo modo le ali e al compiere dei tremila anni tornano indietro. Quanto alle altre, quando giungono al termine della prima vita tocca loro un giudizio, e dopo essere state giudicate le une vanno nei luoghi di espiazione sotto terra a scontare la loro pena, le altre, innalzate dalla Giustizia in un luogo del cielo, trascorrono il tempo in modo corrispondente alla vita che vissero in forma d'uomo. Al millesimo anno le une e le altre, giunte al sorteggio e alla scelta della seconda vita, scelgono quella che ciascuna vuole: qui un'anima umana può anche finire in una vita animale, e chi una volta era stato uomo può ritornare da bestia uomo, poiché l'anima che non ha mai visto la verità non giungerà mai a tale forma. L'uomo infatti deve comprendere in funzione di ciò che viene detto idea, e che muovendo da una molteplicità di sensazioni viene raccolto dal pensiero in unità; questa è la reminiscenza delle cose che un tempo la nostra anima vide nel suo procedere assieme al dio, quando guardò dall'alto ciò che ora definiamo essere e levò il capo verso ciò che realmente è. Perciò giustamente solo l'anima del filosofo mette le ali, poiché grazie al ricordo, secondo le sue facoltà, la sua mente è sempre rivolta alle entità in virtù delle quali un dio è divino. Quindi l'uomo che si avvale rettamente di tali reminiscenze, essendo sempre iniziato a misteri perfetti, diventa lui solo realmente perfetto; dato però che si distacca dalle occupazioni degli uomini e si fa accosto al divino, è ripreso dai più come se delirasse, ma sfugge ai più che è invasato da un dio. Questo dunque è il punto d'arrivo di tutto il discorso sulla quarta forma di mania, quella per cui uno, al vedere la bellezza di quaggiù, ricordandosi della vera bellezza mette nuove ali e desidera levarsi in volo, ma non essendone capace guarda in alto come un uccello, senza curarsi di ciò che sta in basso, e così subisce l'accusa di trovarsi in istato di mania: di tutte le ispirazioni divine questa, per chi la possiede e ha comunanza con essa, è la migliore e deriva dalle cose migliori, e chi ama le persone belle e partecipa di tale mania è chiamato amante. Infatti, come si è detto, ogni anima d'uomo per natura ha contemplato gli esseri, altrimenti non si sarebbe incarnata in un tale vivente. Ma ricordarsi di quegli esseri procedendo dalle cose di quaggiù non è alla portata di ogni anima, né di quelle che allora videro gli esseri di lassù per breve tempo, né di quelle che, cadute qui, hanno avuto una cattiva sorte, al punto che, volte da cattive compagnie all'ingiustizia, obliano le sacre realtà che videro allora. Ne restano poche nelle quali il ricordo si conserva in misura sufficiente: queste, qualora vedano una copia degli esseri di lassù, restano sbigottite e non sono più in sé, ma non sanno cosa sia ciò che provano, perché non ne hanno percezione sufficiente. Così della giustizia, della temperanza e di tutte le altre cose che hanno valore per le anime non c'è splendore alcuno nelle copie di quaggiù, ma soltanto pochi, accostandosi alle immagini, contemplano a fatica, attraverso i loro organi ottusi, la matrice del modello riprodotto. Allora invece si poteva vedere la bellezza nel suo splendore, quando in un coro felice, noi al seguito di Zeus, altri di un altro dio, godemmo di una visione e di una contemplazione beata ed eravamo iniziati a quello che è lecito chiamare il più beato dei misteri, che celebravamo in perfetta integrità e immuni dalla prova di tutti quei mali che dovevano attenderci nel tempo a venire, contemplando nella nostra iniziazione mistica visioni perfette, semplici, immutabili e 10  Platone Fedro  beate in una luce pura, poiché eravamo purì e non rinchiusi in questo che ora chiamiamo corpo e portiamo in giro con noi, incatenati dentro ad esso come un'ostrica. Queste parole siano un omaggio al ricordo, in virtù del quale, per il desiderio delle cose d'allora, ora si è parlato piuttosto a lungo. Quanto alla bellezza, come si è detto, essa brillava tra le cose di lassù come essere, e noi, tornati qui sulla terra, l'abbiamo colta con la più vivida delle nostre sensazioni, in quanto risplende nel modo più vivido. Per noi infatti la vista è la più acuta delle sensazioni che riceviamo attraverso il corpo, ma essa non ci permette di vedere la saggezza (poiché susciterebbe terribili amori, se giungendo alla nostra vista le offrisse un'immagine di sé così splendente) e le altre realtà degne d'amore. Ora invece soltanto la bellezza ebbe questa sorte, di essere ciò che più di tutto è manifesto e amabile. Chi dunque non è iniziato di recente, o è corrotto, non si innalza con pronto acume da qui a lassù, verso la bellezza in sé, quando contempla ciò che quaggiù porta il suo nome; di conseguenza quando guarda ad essa non la venera, ma consegnandosi al piacere imprende a montare e a generare figli a mo' di quadrupede, e comportandosi con tracotanza non ha timore né vergogna di inseguire un piacere contro natura. Invece chi è iniziato di recente e ha contemplato molto le realtà di allora, quando vede un volto d'aspetto divino che ha ben imitato la bellezza o una qualche forma ideale di corpo, dapprima sente dei brividi e gli sottentra qualcuna delle paure di allora, poi, guardandolo, lo venera come un dio, e se non temesse di acquistarsi fama di eccessiva mania farebbe sacrifici al suo amato come a una statua o a un dio. Al vederlo, lo afferra come una mutazione provocata dai brividi, un sudore e un calore insolito; e ricevuto attraverso gli occhi il flusso della bellezza, prende calore là dove la natura dell'ala si abbevera. Una volta che si è riscaldato si liquefano le parti attorno al punto donde l'ala germoglia, che essendo da tempo tappate a causa della secchezza le impedivano di fiorire. Così , grazie all'afflusso del nutrimento, lo stelo dell'ala si gonfia e prende a crescere dalla radice per tutta la forma dell'anima; un tempo infatti era tutta alata. A questo punto essa ribolle tutta quanta e trabocca, e la stessa sensazione che prova chi mette i denti nel momento in cui essi spuntano, ossia prurito e irritazione alle gengive, la prova anche l'anima di chi comincia a mettere le ali: quando le ali spuntano ribolle e prova un senso di irritazione e solletico. Dunque, quando l'anima, mirando la bellezza del fanciullo, riceve delle parti che da essa provengono e fluiscono (e che appunto per questo sono chiamate flusso d'amore) (36) e ne viene irrigata e scaldata, si riprende dal dolore e si allieta. Quando invece ne è separata e inaridisce, le bocche dei condotti donde spunta fuori l'ala si disseccano e si serrano, impedendone il germoglio; ma esso, rimasto chiuso dentro assieme al flusso d'amore, pulsando come le arterie pizzica nei condotti, ciascun germoglio nel proprio, tanto che l'anima, pungolata tutt'intorno, è presa da assillo e dolore, e tornandole il ricordo della bellezza si allieta. In seguito alla mescolanza di entrambe le cose, l'anima è turbata per la stranezza di ciò che prova e trovandosi senza via d'uscita comincia a smaniare; ed essendo in stato di mania non può né dormire di notte né di giorno restare ferma dov'è, ma corre in preda al desiderio dove crede di poter vedere colui che possiede la bellezza: e una volta che l'ha visto e si è imbevuta del flusso d'amore, libera i condotti che allora si erano ostruiti, riprende fiato e cessa di avere pungoli e dolore, e allora coglie, nel momento presente, il frutto di questo dolcissimo piacere. Perciò non se ne distacca di sua volontà e non tiene in conto nessuno più del suo bello, ma si dimentica di madri, fratelli e di tutti i compagni, e non gli importa nulla se le sue sostanze vanno in rovina perché non se ne cura, anzi disprezza tutte le consuetudini e le convenienze di cui si ornava prima d'allora ed è disposta a servire l'amato e a giacere con lui ovunque gli sia concesso di stare il più vicino possibile al suo desiderio; infatti, oltre a venerarlo, ha trovato in colui che possiede la bellezza l'unico medico dei suoi più grandi travagli. A questa passione cui si rivolge il mio discorso, o bel fanciullo, gli uomini danno il nome di eros, gli dèi invece la chiamano in un modo che a sentirlo, data la tua giovane età, ti metterai ragionevolmente a ridere. Alcuni Omeridi citano due versi, credo presi da poemi segreti, riguardanti Eros, uno dei quali è piuttosto insolente e non del tutto corretto come metro; essi suonano così : I mortali lo chiamano Eros alato, gli immortali Pteros, ché fa crescere l'ali.(37) A questi versi si può credere oppure non credere; non di meno la causa e la sensazione di chi ama è proprio questa. Ora, se chi è stato colto da Eros era uno dei seguaci di Zeus, riesce a sopportare con più fermezza il peso del dio che trae il nome dalle ali; quelli che erano al servizio di Ares e giravano il cielo assieme a lui, quando sono presi da Eros e pensano di subire qualche torto dall'amato, sono sanguinari e pronti a sacrificare se stessi e il proprio amore. Così ciascuno conduce la sua vita in base al dio del cui coro era seguace, onorandolo e imitandolo per quanto gli è possibile, finché resta incorrotto e vive la prima esistenza quaggiù, e in questo modo si accompagna e ha relazione con gli amati e con le altre persone. Quindi ciascuno sceglie tra i belli il suo Eros secondo il proprio carattere, e come fosse un dio gli edifica una specie di statua e l'abbellisce per onorarla e tributarle riti. I seguaci di Zeus cercano il loro amato in chi ha l'anima conforme al loro dio:(38) pertanto guardano se per natura sia filosofo e atto al comando, e quando l'hanno trovato e ne se sono innamorati, fanno di tutto affinché sia effettivamente tale. E se prima non si erano impegnati in un'occupazione del genere, da quel momento vi mettono mano e imparano da dove è loro possibile, continuando poi anche da soli, e seguendo le tracce riescono a trovare per loro conto la natura del proprio dio, perché sono stati intensamente costretti a volgere lo sguardo verso di lui; e quando entrano in contatto con lui sono presi da invasamento e tramite il ricordo ne assumono le abitudini e le occupazioni, per quanto è possibile a un uomo partecipare della natura di un dio. E poiché ne attribuiscono la causa all'amato, lo tengono ancora più caro, e sebbene attingano da Zeus come le Baccanti,(39) riversando ciò che attingono nell'anima dell'amato lo rendono il più possibile simile al loro dio. Coloro che invece erano al seguito di Era cercano un'anima regale, e trovatala fanno per lei esattamente le stesse cose. Quelli del seguito di Apollo e di ciascuno degli altri dèi, procedendo secondo il loro dio, bramano che il proprio fanciullo abbia un'uguale natura, e una volta che se lo sono procurato imitano essi stessi il dio e con la persuasione e 11  Platone Fedro  l'ammaestramento portano l'amato ad assumere l'attività e la forma di quello, ciascuno per quanto può; e lo fanno senza comportarsi nei confronti dell'amato con gelosia o con rozza malevolenza, ma cercando di indurlo alla somiglianza più completa possibile con se stessi e con il dio che onorano. Dunque l'ardore e l'iniziazione di coloro che veramente amano, se ottengono ciò che desiderano nel modo che dico, diventano così belle e felici per chi è amato, qualora venga conquistato dall'amico che si trova in stato di mania per amore; e chi è conquistato cede all'amore in questo modo. Come all'inizio dì questa narrazione in forma di mito abbiamo diviso ciascuna anima in tre parti, due con forma di cavallo, la terza con forma di auriga, questa distinzione resti per noi un punto fermo anche adesso. Uno dei cavalli diciamo che è buono, l'altro no: quale sia però la virtù di quello buono e il vizio di quello cattivo, non l'abbiamo precisato, e ora bisogna dirlo. Dunque, quello tra i due che si trova nella disposizione migliore è di forma eretta e ben strutturata, di collo alto e narici adunche, bianco a vedersi, con gli occhi neri, amante dell'onore unito a temperanza e pudore e compagno della fama veritiera, non ha bisogno di frusta e si lascia guidare solo con lo stimolo e la parola; l'altro invece è storto, grosso, mal conformato, di collo massiccio e corto, col naso schiacciato, il pelo nero, gli occhi chiari e iniettati di sangue, compagno di tracotanza e vanteria, dalle orecchie pelose, sordo, e cede a fatica alla frusta e agli speroni. Quando dunque l'auriga, scorgendo la visione amorosa, prende calore in tutta l'anima per la sensazione che prova ed è ricolmo di solletico e dei pungoli del desiderio, il cavallo che obbedisce docilmente all'auriga, tenuto a freno, allora come sempre, dal pudore, si trattiene dal balzare addosso all'amato; l'altro invece non cura più né i pungoli dell'auriga né la frusta, ma imbizzarrisce e si lancia al galoppo con violenza, e procurando ogni sorta di molestie al compagno di giogo e all'auriga li costringe a dirigersi verso l'amato e a rammentare la dolcezza dei piaceri d'amore. All'inizio essi si oppongono sdegnati, al pensiero dì essere costretti ad azioni terribili e inique; ma alla fine, quando non c'è più alcun limite al male, si lasciano trascinare nel loro percorso, cedendo e acconsentendo a fare quanto viene loro ordinato. Allora si fanno presso a lui e hanno la visione folgorante dell'amato. Scorgendolo, la memoria dell'auriga è ricondotta alla natura della bellezza, che vede di nuovo collocata su un casto piedistallo assieme alla temperanza; a tale vista è colta da paura e per la reverenza che le porta cade supina, e nello stesso tempo è costretta a tirare indietro le redini così forte che entrambi i cavalli si piegano sulle cosce, l'uno, spontaneamente perché non recalcitra, quello protervo decisamente contro voglia. Ritiratisi più lontano, l'uno per vergogna e sbigottimento bagna tutta l'anima di sudore, l'altro, cessato il dolore che gli veniva dal morso e dalla caduta, a fatica riprende fiato e incomincia, pieno d'ira com'è, a ingiuriare, coprendo di male parole l'auriga e il compagno di giogo perché per viltà e debolezza hanno abbandonato il posto e l'accordo convenuto. E costringendoli di nuovo ad avanzare contro la loro volontà a stento cede alle loro preghiere di rimandare a un'altra volta. Quando poi è giunto il tempo stabilito ed essi fingono di non ricordarsene, lo rammenta a loro con la forza, nitrendo e trascinandoli con sé, e li obbliga ad accostarsi di nuovo all'amato per fare i medesimi discorsi; e quando sono vicini tende la testa in avanti e rizza la coda, mordendo il freno, e li trascina con impudenza. L'auriga, sentendo ancora più intensamente la stessa impressione di prima, come respinto dalla fune al cancello di partenza, tira indietro ancora più forte il morso dai denti del cavallo protervo, insanguina la lingua maldicente e le mascelle e piegandogli a terra le gambe e le cosce lo dà in preda ai dolori. Quando poi il cavallo malvagio, subendo la medesima cosa più volte, desiste dalla sua tracotanza, umiliato segue ormai il proposito dell'auriga, e quando vede il bel fanciullo, muore dalla paura; di conseguenza accade che a questo punto l'anima dell'amante segua l'amato con pudicizia e timore. Poiché dunque l'amato, come un essere pari agli dèi, è oggetto di ogni venerazione da parte dell'amante che non simula, ma prova veramente questo sentimento, ed è egli stesso per natura amico di chi lo venera, se anche in precedenza fosse stato ingannato dalle persone che frequentava o da altre, le quali sostenevano che è cosa turpe accostarsi a chi ama, e per questo motivo avesse respinto l'amante, ora, col passare del tempo, l'età e la necessità lo inducono ad ammetterlo alla sua compagnia; infatti non accade mai che un malvagio sia amico di un malvagio, né che un buono non sia amico di un buono. E dopo averlo ammesso presso di sé e avere accettato di parlare con lui e stare in sua compagnia, la benevolenza dell'amante, manifestandosi da vicino, colpisce l'amato, il quale si avvede che tutti gli altri amici e parenti non offrono neppure una parte di amicizia a confronto dell'amico ispirato da un dio. Quando poi questi continua a fare ciò nel tempo e si accompagna all'amato incontrandolo nei ginnasi e negli altri luoghi di ritrovo, allora la fonte di quei flusso che Zeus, innamorato di Ganimede, (40) chiamò flusso d'amore, scorrendo in abbondanza verso l'amante dapprima penetra in lui, poi, quando ne è ricolmo, scorre fuori; e come un soffio di vento o un'eco, rimbalzando da corpi lisci e solidi, ritornano là dov'erano partiti, così il flusso della bellezza ritorna al bel fanciullo attraverso gli occhi, e di qui per sua natura arriva all'anima. Quando vi è giunto la incoraggia a volare, quindi irriga i condotti delle ali e comincia a farle crescere, e così riempie d'amore anche l'anima dell'amato. Pertanto egli ama, ma non sa che cosa; e neppure è a conoscenza di cosa prova né è in grado di dirlo, ma come chi ha contratto una malattia agli occhi da un altro non è in grado di spiegarne la causa, così egli non si accorge di vedere se stesso nell'amante come in uno specchio. E in presenza di questi, il suo dolore cessa esattamente come a lui, se invece è assente allo stesso modo di lui desidera ed è desiderato, perché reca in sé una sembianza d'amore che dell'amore è sostituto: però non lo chiama e non lo crede amore, bensì amicizia. Più o meno come l'amante, ma in misura più debole, desidera vederlo, toccarlo, baciarlo, giacere con lui; e com'è naturale, in seguito non tarda a fare cio. Quando dunque giacciono insieme, il cavallo sfrenato dell'amante ha di che dire all'auriga, e pretende di trarre un piccolo guadagno in cambio di tante fatiche; invece quello dell'amato non ha nulla da dire, ma, gonfio di desiderio e ancora incerto abbraccia e bacia l'amante, manifestandogli affetto per la sua grande benevolenza. Così , nel momento in cui si congiungono, non è più tale da rifiutare di compiacere da parte sua l'amante, se viene pregato di soddisfare; ma il compagno di giogo assieme all'auriga 12  Platone Fedro  si oppone a ciò, obbedendo al pudore e alla ragione. Se dunque prevalgono le parti migliori dell'animo, quelle che guidano a un'esistenza ordinata e alla filosofia, essi trascorrono la vita di quaggiù in modo beato e concorde, poiché sono padroni di sé e ben regolati, avendo sottomesso ciò in cui nasce il male dell'anima e liberato ciò in cui nasce la virtù; e alla fine, divenuti alati e leggeri, hanno vinto una delle tre gare veramente olimpiche, di cui né la temperanza umana né la mania divina possono fornire all'uomo un bene più grande.(41) Se invece seguono un genere di vita piuttosto grossolano e privo di filosofia, ma ambizioso, forse, in stato di ubriachezza o in qualche altro momento di negligenza, i loro due compagni di giogo sfrenati, cogliendo le anime alla sprovvista e portandole nella stessa direzione, possono compiere la scelta che tanti considerano la più beata e mandarla ad effetto; e una volta che l'hanno mandata ad effetto, se ne avvalgono anche in futuro, ma raramente, poiché fanno cose che non sono approvate da tutta l'anima. Anche costoro vivono in amicizia reciproca, ma meno di quelli, sia durante l'amore sia quando ne sono usciti, credendo di essersi dati l'un l'altro e di aver ricevuto i più grandi pegni, che non è lecito sciogliere perché ciò condurrebbe all'inimicizia. Al termine della vita escono dal corpo senz'ali, ma col desiderio di metterle, cosicché riportano un premio non piccolo della loro mania amorosa; infatti non è legge che coloro i quali hanno già iniziato il cammino sotto la volta del cielo scendano di nuovo nella tenebra e camminino sotto terra, bensì che trascorrano una vita luminosa e felice compiendo il viaggio in compagnia reciproca, e che una volta rinati rimettano le ali assieme per grazia dell'amore. Questi doni così grandi e così divini, o fanciullo, ti darà l'amicizia da parte di un amante. Invece la compagnia di chi non ama, mescolata con temperanza mortale, capace di amministrare cose mortali e misere, dopo aver generato nell'anima amata una bassezza lodata dal volgo come virtù, la farà girare priva di senno attorno alla terra e sotto terra per novemila anni. Questa, caro Eros, per le nostre facoltà, è la più bella e virtuosa palinodia che abbiamo potuto offrirti in dono e in espiazione, costretta a causa di Fedro a essere pronunciata, oltre al resto, anche con alcune parole poetiche. Ma tu concedi il perdono per le cose di prima e serba gratitudine per queste, e, benevolo e propizio, non togliermi e non storpiarmì per la collera l'arte amorosa che mi hai dato, anzi concedimi di essere in onore tra i bei fanciulli ancor più di adesso. E se nel discorso precedente io e Fedro abbiamo detto qualcosa che a te suona stonata, attribuiscine la colpa a Lisia, che del discorso è padre, e fallo desistere da simili prolusioni, volgendolo alla filosofia come si è volto suo fratello Polemarco,(42) affinché anche questo suo amante non sia nel dubbio come ora, ma dedichi senz'altro la sua vita ad Eros in compagnia di discorsi filosofici. FEDRO: Mi unisco alla tua preghiera, Socrate: se questo è meglio per noi, che avvenga. Da un pezzo ho ammirato il tuo discorso per quanto l'hai reso più bello del precedente; quindi temo che Lisia mi appaia misero, quand'anche voglia opporre ad esso un altro discorso. Recentemente infatti, mirabile amico, un politico lo biasimava criticandolo proprio per questo, e in tutta la sua critica lo chiamava logografo;(43) perciò forse si tratterrà per ambizione dallo scrivercene un altro. SOCRATE: Ragazzo, la tua opinione è ridicola, e quanto al tuo compagno sbagli di grosso, se credi che si spaventi così al minimo rumore. Ma forse pensi che chi lo biasimava dicesse quello che ha detto proprio per criticarlo. FEDRO: Così pareva, Socrate; del resto sei anche tu conscio che coloro che nelle città hanno il massimo potere e la massima reverenza si vergognano a scrivere discorsi e a lasciare propri scritti, temendo l'opinione dei posteri, cioè di essere chiamati sofisti. SOCRATE: Ti sei scordato, Fedro, che la dolce ansa ha preso il nome dalla lunga ansa del Nilo (44) e oltre all'ansa dimentichi che gli uomini di governo piu assennati amano tantissimo comporre discorsi e lasciare propri scritti, almeno quelli che, quando scrivono un discorso, apprezzano a tal punto chi li loda da aggiungere in testa per primi i nomi di quelli che li devono lodare in ogni singola occasione. FEDRO: In che senso dici ciò? Non capisco. SOCRATE: Non capisci che all'inizio del discorso di un uomo politico per primo viene scritto il nome di chi lo loda! FEDRO: E come? SOCRATE: «Il consiglio ha deciso», dice più o meno, ovvero «il popolo ha deciso», o entrambi, e ancora «il tale e il tal altro ha detto» (e qui lo scrittore cita se stesso con grande reverenza e si fa l'elogio). Poi si mette a parlare, mostrando a chi lo loda la sua abilità, talvolta dopo aver composto uno scritto assai lungo. O ti pare che una cosa del genere sia altro che un discorso scritto? FEDRO: Non mi pare proprio. SOCRATE: Quindi, se il discorso regge, l'autore esce di scena tutto lieto; se invece viene escluso e radiato dallo scrivere discorsi e dall'essere degno di scriverli, piangono lui e i suoi compagni. FEDRO: E anche molto! SOCRATE: è chiaro dunque che non disprezzano questa attività, ma l'ammirano. FEDRO: Sicuro! SOCRATE: E allora? Quando un retore o un re è in grado di raggiungere la potenza di Licurgo, di Solone o di Dario (45) e di diventare un logografo immortale nella sua città, non si crede forse egli stesso pari agli dèi mentre ancora vive, e i posteri non pensano di lui la stessa cosa, contemplando i suoi scritti? FEDRO: Certamente! SOCRATE: Credi allora che uno di costoro, chiunque sia e in qualunque modo sia ostile a Lisia, lo biasimi proprio perché scrive discorsi? 13  Platone Fedro  FEDRO: Non è verosimile, da ciò che dici, poiché a quanto pare criticherebbe anche il proprio desiderio. SOCRATE: Allora è chiaro a tutti che non è cosa turpe in sé lo scrivere discorsi. FEDRO: Ma certo. SOCRATE: Ora però io ritengo turpe questo, il pronunciarli e scriverli in modo non bello, ma riprovevole e disonesto. FEDRO: è chiaro. SOCRATE: E allora qual è il modo di scriverli bene e quale il modo contrario? Abbiamo bisogno, Fedro, di esaminare a questo proposito Lisia e chiunque altro abbia mai composto o comporrà uno scritto sia pubblico sia privato, in versi come un poeta o non in versi come un prosatore? FEDRO: Chiedi se ne abbiamo bisogno? E per quale ragione uno, oserei dire, vivrebbe, se non per i piaceri di questo tipo? Non certo per quelli per cui bisogna prima soffrire, altrimenti non si prova godimento, come sono quasi tutti i piaceri del corpo, che per questo motivo sono stati giustamente chiamati servili. SOCRATE: Tempo ne abbiamo, a quanto pare. E poi mi sembra che in questa calura soffocante le cicale, cantando sopra la nostra testa e discorrendo tra loro, guardino anche noi. Se dunque vedessero che anche noi due, come fanno i più a mezzogiorno, non discorriamo, ma sonnecchiamo e ci lasciamo incantare da loro per pigrizia della mente, giustamente ci deriderebbero, considerandoci degli schiavi venuti da loro per dormire in questo luogo di sosta come delle pecore che passano il pomeriggio presso la fonte; se invece ci vedranno discorrere e navigare accanto a loro come alle Sirene senza essere ammaliati, forse, prese da ammirazione, ci daranno quel dono che per concessione degli dèi possono dare agli uomini. FEDRO: E qual è questo dono che hanno? A quanto pare, non l'ho mai sentito. SOCRATE: Non si addice davvero a un uomo amante delle Muse non averne mai sentito parlare.(46) Si dice che un tempo le cicale erano uomini, di quelli vissuti prima che nascessero le Muse; quando poi nacquero le Muse e comparve il canto, alcuni di loro restarono così colpiti dal piacere che cantando non si curarono più di cibo e bevanda e senza accorgersene morirono. Da loro in seguito ebbe origine la stirpe delle cicale, che ricevette dalle Muse questo dono, di non aver bisogno di nutrimento fin dalla nascita, ma di cominciare subito a cantare senza cibo né bevanda fino alla morte, e di andare quindi dalle Muse a riferire chi tra gli uomini di quaggiù le onora, e quale di esse onora. A Tersicore riferiscono di quelli che l'hanno onorata nei cori, rendendoli a lei più graditi, a Erato di chi l'ha onorata nei carmi d'amore, e così per le altre, secondo l'onore che ha ciascuna. A Calliope, la più anziana, e a Urania, che viene dopo di lei, riferiscono di quelli che trascorrono la vita nella filosofia e onorano la loro musica, poiché esse, avendo cura del cielo e dei discorsi divini e umani, emettono tra tutte le Muse la voce più bella.(47) Per molte ragioni, quindi, a mezzogiorno bisogna parlare e non dormire. FEDRO: E allora bisogna parlare. SOCRATE: Dobbiamo dunque esaminare quello che ora ci siamo proposti, ossia come è bene pronunciare e scrivere un discorso e come non lo è. FEDRO: è chiaro. SOCRATE: I discorsi che saranno pronunciati in modo bello e decoroso non devono forse implicare che l'animo di chi parla conosca il vero riguardo a ciò di cui intende parlare? FEDRO: A tal proposito, caro Socrate, ho sentito dire questo: per chi vuole essere un retore non c'è la necessità di apprendere ciò che è realmente giusto, ma ciò che sembra giusto alla moltitudine che giudicherà, non ciò che è veramente buono o bello, ma che sembrerà tale, poiché il convincere il prossimo viene da questo, non dalla verità. SOCRATE: «Non parola da buttare»(48) dev'essere, Fedro, ciò che dicono i sapienti, ma si deve esaminare se le loro affermazioni sono valide. Anche per questo non bisogna lasciar cadere quanto ora è stato detto. FEDRO: Hai ragione. SOCRATE: Esaminiamolo dunque in questo modo. FEDRO: Come? SOCRATE: Se volessi persuaderti a difenderti dai nemici acquistando un cavallo, ed entrambi non conoscessimo un cavallo, ma io per caso sapessi di te solo questo, che Fedro reputa sia un cavallo quell'animale domestico che a orecchie assai grandi... FEDRO: Sarebbe ridicolo, Socrate. SOCRATE: Non ancora. Ma lo sarebbe nel caso che, per convincerti sul serio, componessi un discorso di elogio dell'asino chiamandolo cavallo e sostenendo che tale bestia è assolutamente degna di essere acquistata sia per uso domestico sia per le spedizioni militari, utile per il combattimento in groppa, valente a portare bagagli e vantaggiosa in molte altre cose. FEDRO: Allora sarebbe davvero ridicolo. SOCRATE: E non è forse meglio essere ridicolo e amico piuttosto che esperto e nemico? FEDRO: Così pare. SOCRATE: Pertanto, quando il retore che non conosce il bene e il male inizia a persuadere una città che si trova nelle sue stesse condizioni, facendo non l'elogio dell'ombra dell'asino come se fosse del cavallo, ma l'elogio del male come se fosse il bene, e presa dimestichezza con le opinioni della gente la persuade a operare il male anziché il bene, quale frutto credi che mieterà in seguito la retorica da quello che ha seminato? FEDRO: Sicuramente non buono. 14  Platone Fedro  SOCRATE: Ma buon amico, abbiamo forse svillaneggiato l'arte dei discorsi in modo più rozzo del dovuto? Essa forse dirà: «Cosa mai andate cianciando, o mirabili uomini? Io non costringo nessuno che non conosca il vero a imparare a parlare, ma, se il mio consiglio vale qualcosa, a prendere me solo dopo aver acquisito quello. Questa dunque è la cosa importante che vi voglio dire: senza di me, anche chi conosce le cose come sono in realtà non saprà essere più persuasivo secondo arte». FEDRO: E non dirà cose giuste, se parlasse così ? SOCRATE: Sì , se i discorsi che si presentano le rendono testimonianza che è un'arte. In effetti mi sembra di udire alcuni discorsi che vengono a testimoniare che essa mente e non è un'arte, ma una pratica priva di arte. Un'autentica arte del dire senza il tocco della verità, afferma lo Spartano,(49) non esiste né esisterà mai. FEDRO: C'è bisogno di questi discorsi, Socrate: su, portali qui ed esamina cosa dicono e in che modo. SOCRATE: Venite avanti, nobili rampolli, e persuadete Fedro dai bei figli (50) che se non praticherà la filosofia in modo adeguato, non sarà mai in grado di parlare di nulla. Fedro dunque risponda. FEDRO: Chiedete. SOCRATE: La retorica, in generale, non è l'arte di guidare le anime per mezzo di discorsi, non solo nei tribunali e in tutte le altre riunioni pubbliche, ma anche in quelle private, la stessa sia nelle questioni piccole sia in quelle grandi, e non è affatto di maggior pregio, almeno quando è retta, nelle cose serie che in quelle di poco conto? O come hai sentito parlare in proposito? FEDRO: No, per Zeus, assolutamente non così , ma soprattutto nei processi si parla e si scrive con arte, come pure nelle assemblee pubbliche. Non possiedo informazioni più ampie. SOCRATE: Ma allora, a proposito dei discorsi, hai sentito parlare solo delle arti di Nestore e Odisseo, che hanno messo per iscritto a Ilio nei periodi di tregua, e non di quelle di Palamede? (51) FEDRO: Per Zeus, neanche di quelle di Nestore, a meno che tu non faccia di Gorgia un Nestore, o di Trasimaco e Teodoro un Odisseo.(52) SOCRATE: Forse. Ma lasciamo perdere costoro. Tu dimmi piuttosto: nei tribunali gli avversari cosa fanno? Non fanno affermazioni tra loro contrastanti? O cosa diremo? FEDRO: Proprio questo. SOCRATE: Riguardo al giusto e all'ingiusto? FEDRO: Sì . SOCRATE: Allora, chi opera in questo modo con arte, farà apparire la stessa cosa alle stesse persone ora giusta, ora, quando lo voglia, ingiusta? FEDRO: Come no? SOCRATE: E in un'assemblea popolare farà sembrare alla città le stesse cose ora buone, ora, al contrario, cattive? FEDRO: è così . SOCRATE: E non sappiamo che il Palamede di Elea (53) parlava con un'arte tale da far apparire agli ascoltatori le stesse cose simili e dissimili, una e molte, ferme e in movimento? FEDRO: Ma certo! SOCRATE: Dunque l'arte del contraddire non si trova solo nei tribunali e nell'assemblea popolare, ma a quanto pare in tutto ciò che si dice ci sarebbe questa sola arte, se mai la è veramente, con la quale uno sarà capace di rendere ogni cosa simile a ogni altra in tutti i casi possibili e per quanto è possibile, e di mettere in luce quando un altro fa la stessa cosa e lo nasconde. FEDRO: In che senso dici una cosa del genere? 5OCRATE Se cerchiamo in questo modo credo che ci apparirà evidente. L'inganno si verifica di più nelle cose che differiscono di molto o in quelle che differiscono di pOco? FEDRO: In quelle che differiscono di poco. SOCRATE: Ma è più facile che non ti accorga di essere arrivato all'opposto se ti sposti poco per volta che se ti sposti a grandi passi. FEDRO: Come no? SOCRATE: Dunque chi ha intenzione di ingannare un altro senza essere ingannato a sua volta deve distinguere con precisione la somiglianza e la dissomiglianza degli esseri. FEDRO: è necessario. SOCRATE: Ma se ignora la verità di ciascuna cosa, sarà mai in grado di discernere la somiglianza dì ciò che ignora, piccola o grande che sia, con le altre cose? FEDRO: Impossibile. SOCRATE: Dunque, in coloro che hanno opinioni contrarie alla realtà degli esseri e si ingannano, è chiaro che questa impressione si insinua attraverso certe somiglianze. FEDRO: Accade proprio così . SOCRATE: è possibile allora che uno possieda l'arte di spostare poco a poco la realtà di un essere attraverso le somiglianze, conducendolo ogni volta da ciò che è al suo contrario, o viceversa di evitare questo, se non ha cognizione di cosa sia ciascun essere? FEDRO: Non sarà mai possibile. SOCRATE: Dunque, amico, colui che non conosce la verità, ma è andato a caccia di opinioni, ci offrirà un'arte dei discorsi ridicola, a quanto pare, e priva di arte. FEDRO: Pare di sì . 15  Platone Fedro  SOCRATE: Vuoi dunque vedere, nel discorso di Lisia che porti e in quelli che noi abbiamo fatto, qualcuna delle cose che definiamo prive di arte e conformi all'arte? FEDRO: Più d'ogni altra cosa, poiché ora noi parliamo in certo qual modo a vuoto, non avendo esempi adeguati. SOCRATE: E per un caso fortunato, a quanto pare, sono stati pronunciati due discorsi che recano un esempio di come chi conosce il vero, giocando con le parole, possa condurre fuori strada gli ascoltatori. Ed io, Fedro, ne attribuisco la causa agli dèi del luogo; ma forse anche le profetesse delle Muse, che cantano sopra la nostra testa, possono averci ispirato questo dono, poiché io non sono certo partecipe di una qualche arte del dire. FEDRO: Sia come dici tu. Solo spiega ciò che affermi. SOCRATE: Su, leggimi l'inizio del discorso di Lisia. FEDRO: «Sei a conoscenza della mia situazione, e hai udito che ritengo sia per noi utile che queste cose accadano; ma non stimo giusto non poter ottenere ciò che chiedo perché non mi trovo a essere tuo amante. Gli innamorati si pentono...» SOCRATE: Fermati. Bisogna dire in che cosa costui sbaglia e opera senz'arte, non è vero? FEDRO: Sì . SOCRATE: Non è forse evidente per chiunque almeno questo, che siamo d'accordo su alcune di queste cose, in disaccordo su altre? FEDRO: Mi sembra di capire il tuo pensiero, ma esprimilo ancora più chiaramente. SOCRATE: Quando uno dice la parola "ferro" o "argento", non intendiamo forse tutti la stessa cosa? FEDRO: Certo! SOCRATE: E quando si tratta dei termini "giusto" e "bene"? Non siamo portati chi in una direzione, chi in un'altra, e siamo in conflitto gli uni con gli altri e persino con noi stessi? FEDRO: Proprio così ! SOCRATE: Dunque concordiamo su alcune cose, su altre no. FEDRO: è così . SOCRATE: In quale dei due campi siamo più facilmente ingannabili e la retorica ha maggior potere? FEDRO: Quello in cui vaghiamo nell'incertezza, è evidente. SOCRATE: Pertanto chi si accinge a praticare la retorica deve innanzitutto aver distinto con metodo queste cose e aver colto un carattere peculiare di entrambe le forme, quella in cui è inevitabile che la gente vaghi nell'incertezza e quella in cui non lo è. FEDRO: Chi avesse colto questo, Socrate, avrebbe compreso un'idea davvero bella. SOCRATE: Inoltre credo che, nell'occuparsi di ciascuna cosa, non debba lasciarsi sfuggire, ma debba percepire con acutezza a quale delle due specie appartiene ciò di cui intende parlare. FEDRO: Come no? SOCRATE: E allora? Dobbiamo dire che l'amore appartiene alle questioni controverse oppure no? FEDRO: Alle questioni controverse, non c'è dubbio. O credi che ti sarebbe stato possibile dire quello che poco fa hai detto su di lui, ossia che è un danno sia per l'amato sia l'amante, e al contrario che è il più grande dei beni? SOCRATE: Parli in modo eccellente; ma dimmi anche questo, giacché io a causa dell'invasamento non lo ricordo troppo bene: se all'inizio del discorso ho dato una definizione dell'amore. FEDRO: Sì , per Zeus, in modo davvero insuperabile. SOCRATE: Ahimè, quanto sono più esperte nei discorsi, a quel che dici, dici, le Ninfe dell'Acheloo e Pan figlio di Ermes rispetto a Lisia figlio di Cefalo! Può darsi che dica una sciocchezza, ma Lisia, cominciando il suo discorso sull'amore, non ci ha costretto a concepire Eros come una certa realtà unica che voleva lui, e in relazione a questo ha composto e condotto a termine tutto il discorso seguente? Vuoi che rileggiamo il suo inizio? FEDRO: Se ti sembra il caso. Tuttavia ciò che cerchi non è lì . SOCRATE: Parla, in modo che ascolti proprio lui. FEDRO: «Sei a conoscenza della mia situazione, e hai udito che ritengo sia utile per noi che queste cose accadano; ma non stimo giusto non poter ottenere ciò che chiedo, perché non mi trovo a essere tuo amante. Gli innamorati si pentono dei benefici che hanno fatto, allorquando cessa la loro passione...». SOCRATE: Sembra che costui sia ben lungi dal fare ciò che cerchiamo, se mette mano al discorso non dall'inizio ma dalle fine, nuotando supino all'indietro, e prende le mosse da ciò che l'amante direbbe al suo amato quando ormai ha smesso di amarlo. Oppure ho detto una sciocchezza, Fedro, mia testa cara? FEDRO: è certamente la fine, Socrate, quella intorno a cui compone il discorso. SOCRATE: E il resto? Non ti pare che le parti del discorso siano state buttate lì alla rinfusa? O ciò che è stato detto per secondo risulta che per una qualche necessità doveva essere messo per secondo piuttosto che un altro degli argomenti trattati? A me, che non so nulla, è sembrato che lo scrittore abbia detto in maniera non rozza ciò che gli veniva in mente; e tu sei a conoscenza di una qualche arte di scrivere discorsi, in base alla quale lui ha disposto questi argomenti così di seguito, uno dopo l'altro? FEDRO: Sei troppo buono, se credi che io sia in grado di vedere nelle sue parole in modo così preciso! SOCRATE: Ma penso che tu possa dire almeno questo, che ogni discorso dev'essere costituito come un essere vivente e avere un corpo suo proprio, così da non essere senza testa e senza piedi, ma da avere le parti di mezzo e quelle estreme scritte in modo che si adattino le une alle altre e al tutto. FEDRO: Come no? 16  Platone Fedro  SOCRATE: Esamina dunque il discorso del tuo compagno, se è composto così o in altro modo, e troverai che non differisce in nulla dall'epigramma che secondo alcuni è stato scritto sulla tomba di Mida il Frigio.(54) FEDRO: Qual è questo epigramma, e cos'ha di particolare? SOCRATE: è questo qui: Vergine bronzea sono, e sto sull'avello di Mida. Fin che l'acqua scorra e alberi grandi verdeggino, stando qui sulla tomba di molte lacrime aspersa, annuncerò a chi passa che Mida qui è sepolto. Capisci senz'altro, come credo, che non c'è alcuna differenza se un verso viene recitato per primo o per ultimo. FEDRO: Tu ti fai beffe del nostro discorso, Socrate! SOCRATE: Allora lasciamolo perdere, così non ti crucci (eppure mi sembra che contenga parecchi esempi ai quali gioverebbe porre attenzione, cercando di non imitarli in alcun modo); e passiamo agli altri due discorsi. In essi, mi sembra, c'era qualcosa che per chi vuole fare indagini sui discorsi è conveniente esaminare. FEDRO: A che cosa alludi? SOCRATE: In qualche modo erano opposti: uno diceva che si deve compiacere chi ama, l'altro chi non ama. FEDRO: E con molto vigore! SOCRATE: Pensavo che tu avresti detto il vero, cioè con mania: ciò che cercavo è appunto questo. Abbiamo detto infatti che l'amore è una forma di mania. O no? FEDRO: Sì . SOCRATE: E che ci sono due forme di mania, una che nasce da malattie umane, l'altra che nasce da un mutamento divino delle consuete abitudini. FEDRO: Giusto. SOCRATE: Distinguendo quattro parti di quella divina in relazione a quattro dèi, abbiamo attribuito l'ispirazione mantica ad Apollo, quella iniziatica a Dioniso, quella poetica alle Muse, la quarta ad Afrodite ed Eros, e abbiamo detto che la mania amorosa è la migliore. E non so come, rappresentando con immagini la passione amorosa, forse toccando da un lato un che di vero, dall'altro uscendo un po' di strada, abbiamo composto un discorso non del tutto incapace di persuadere e abbiamo levato quasi per gioco, con parole misurate e pie, un inno in forma di mito in onore di Eros, mio e tuo signore, Fedro, e protettore dei bei giovani. FEDRO: E almeno per me, un discorso davvero non spiacevole da ascoltare! SOCRATE: Prendiamo dunque in esame solo questo, come il discorso sia potuto passare dal biasimo alla lode. FEDRO: Cosa intendi dire con ciò? SOCRATE: A me pare che il resto sia stato fatto realmente per gioco; ma in alcune di queste cose dette a caso ci sono due procedimenti di cui non sarebbe spiacevole se si riuscisse a coglierne con arte la potenza. FEDRO: Quali? SOCRATE: Il primo consiste nel ricondurre le cose disperse in molteplici modi a un'unica idea cogliendole in uno sguardo d'insieme, così da definirle una per una e da chiarire ciò su cui si vuole di volta in volta insegnare. Per esempio, nel discorso fatto poco fa su Eros, una volta definito ciò che è, a prescindere se sia stato detto bene o male, è appunto grazie a questa definizione che il discorso ha acquistato chiarezza e coerenza interna. FEDRO: E dell'altro procedimento cosa dici, SOcrate? SOCRATE: Esso consiste, al contrario, nel saper dividere secondo le idee in base alle loro articolazioni naturali, senza cercar di spezzare alcuna parte, alla maniera di un cattivo macellaio; ma come i due discorsi di poco fa concepivano la dissennatezza dell'animo come un'idea unica in comune, e come da un corpo unico hanno origine membra doppie dallo stesso nome, chiamate destra e sinistra, così i due discorsi hanno considerato anche la componente della follia come un'idea per sua natura unica in noi: il primo discorso, tagliando la parte di sinistra, e poi tagliandola ancora, non ha smesso prima di aver trovato in queste divisioni un certo qual amore chiamato sinistro e di averlo a buon diritto biasimato; l'altro discorso invece ci ha condotto nella parte destra della mania e vi ha trovato un amore che ha lo stesso nome dell'altro, ma è divino, e dopo aavercelo posto innanzi lo ha elogiato come la causa dei nostri più grandi beni. FEDRO: Dici cose verissime. SOCRATE: Io, Fedro, sono amante di questi procedimenti, delle divisioni e delle unificazioni, al fine di essere in grado di parlare e di pensare; e se ritengo che qualcun altro sia per sua natura capace di guardare all'uno e ai molti, lo seguo «tenendo dietro alle sue orme come a quelle di un dio». E quelli che appunto sono in grado di fare ciò, lo sa un dio se la mia definizione è giusta o meno, fino a questo momento li chiamo dialettici. Quelli che invece hanno appreso da te e da Lisia ciò di cui si è discusso ora, dimmi tu come conviene chiamarli: o è proprio questa l'arte dei discorsi, grazie alla quale Trasimaco e gli altri sono diventati abili a parlare essi stessi e rendono tali gli altri, che vogliono coprirli di doni come dei re? FEDRO: Sono uomini regali, sì , ma non esperti delle cose che chiedi. Ma mi pare che tu dia il nome giusto a questo metodo, chiamandolo dialettico; quello della retorica invece pare ci sfugga ancora. SOCRATE: Come dici? Potrebbe forse esserci qualcosa di bello, che anche senza questi procedimenti si apprende lo stesso con arte? Né io né tu dobbiamo assolutamente disprezzarlo, ma dobbiamo appunto precisare che cos'è ciò che rimane della retorica. FEDRO: Rimangono moltissime cose, Socrate, almeno quelle che si trovano nei libri scritti sull'arte del dire. 17  Platone Fedro  SOCRATE: Hai fatto bene a ricordarmelo. Per primo, credo, all'inizio del discorso dev'essere pronunciato il proemio; sono queste che chiami le finezze dell'arte, non è vero? FEDRO: Sì . SOCRATE: Al secondo posto viene una narrazione seguita da testimonianze, al terzo le argomentazioni, al quarto le verosimiglianze. Poi vengono la conferma e la riconferma, così almeno credo che dica l'eccellente uomo di Bisanzio, il Dedalo dei discorsi. FEDRO: Vuoi dire il valente Teodoro? SOCRATE: Come no? E poi sia nell'accusa sia nella difesa vanno fatte una confutazione e una controconfutazione. E non tiriamo in ballo il bellissimo Eveno di Paro, che per primo trovò l'insinuazione e gli elogi indiretti; (55) alcuni sostengono che pronunciasse persino dei biasimi indiretti in poesia per esercitare la memoria (in effetti era un uomo abile). E lasceremo riposare Tisia e Gorgì a,(56) i quali videro come il verosimile sia da tenere in conto più del vero e con la forza del discorso fanno apparire grande ciò che è piccolo e piccolo ciò che è grande, vecchio ciò che è nuovo e al contrario nuovo ciò che è vecchio, e scoprirono la brevità dei discorsi e le prolissità infinite su ogni sorta di argomento? Una volta Prodico,(57) sentendo da me queste cose, scoppiò a ridere, e sostenne di aver scoperto lui solo i discorsi di cui l'arte abbisogna: né lunghi né brevi, ma misurati. FEDRO: Parole molto sagge, o Prodico. SOCRATE: E non menzioniamo Ippia? Credo che anche l'ospite eleo voterebbe con lui.(58) FEDRO: Perché no? SOCRATE: E come parleremo dei Templi alle Muse dei discorsi innalzati da Polo, ad esempio la ripetizione o il parlare per sentenze e per immagini, e dei Templi alle Muse dei nomi di cui Licimnio gli fece dono per la composizione del bello stile?(59) FEDRO: E le opere di Protagora,(60) Socrate, non erano più o meno di questo tipo? SOCRATE: Una certa Correttezza dello stile, ragazzo, e molte altre belle cose. Ma quanto ai discorsi strappalacrime sfoderati per la vecchiaia e la povertà, mi pare che l'abbia vinta per arte la potenza del Calcedonio, uomo d'altronde straordinario nel suscitare la collera nella gente e poi nell'ammansire chi aveva fatto adirare incantandolo, come soleva dire, e potentissimo nel lanciare e sciogliere calunnie in ogni modo. Sembra poi che ci sia comune accordo tra tutti sulla conclusione dei discorsi, alla quale alcuni danno il nome di riepilogo, altri un altro nome. FEDRO: Intendi il ricordare per sommi capi agli ascoltatori, alla fine del discorso, ciascuno degli argomenti trattati? SOCRATE: Intendo questo, e se tu hai qualcos'altro da aggiungere sull'arte dei discorsi... FEDRO: Cose da poco, che non vale la pena di dire. SOCRATE: Lasciamo perdere le cose di poco conto, e vediamo piuttosto in piena luce quale potenza dell'arte hanno le cose di cui abbiamo parlato, e quando. FEDRO: Una potenza davvero forte, SOcrate, almeno nelle adunanze del popolo. SOCRATE: Infatti l'hanno. Ma guarda anche tu, o esimio, se la loro trama non sembra anche te, come a me, slegata. FEDRO: Purché tu lo dimostri. SOCRATE: Allora dimmi: se uno si presentasse al tuo compagno Erissimaco o a suo padre Acumeno e dicesse loro: «Io so somministrare ai corpi farmaci tali da riscaldarli e raffreddarli, se lo voglio, e se mi pare il caso tali da farli vomitare e persino evacuare, e moltissime altre cose del genere. E dal momento che ho queste conoscenze sono convinto di essere un medico e di far diventare medico un altro a cui comunico la scienza di queste cose», cosa credi che direbbero dopo averlo ascoltato? FEDRO: Cos'altro se non chiedergli se sa anche a chi e quando bisogna fare ciascuna di queste cose, e in quale misura? SOCRATE: E se allora rispondesse: «Non lo so affatto: ma sono convinto che chi ha appreso queste conoscenze da me sia a sua volta in grado di fare ciò che chiedi»? FEDRO: Direbbero, credo, che quell'uomo è pazzo, e che crede di essere diventato un medico per aver sentito qualcosa da qualche libro o per aver usato casualmente dei farmaci, senza avere alcuna conoscenza dell'arte. SOCRATE: E se uno si presentasse a Sofocle e ad Euripide dicendo che sa comporre discorsi lunghissimi su un argomento piccolo e piccolissimi su un argomento grande, commoventi, quando lo vuole, e al contrario spaventevoli e minacciosi, e tante altre cose del genere, e che insegnando ciò crede di trasmettere il modo di comporre una tragedia? FEDRO: Credo che anche costoro, Socrate, riderebbero se uno pensa che la tragedia sia altra cosa che l'unione di questi elementi ben connessi tra loro e accordati con il tutto. SOCRATE: Però non lo rimprovererebbero con villania, credo, ma come un musico, se incontrasse un uomo che crede di essere esperto nell'armonia, perché il caso vuole che sappia come si fa a produrre il suono più acuto e quello più grave, non gli direbbe villanamente: «Disgraziato, tu sei pazzo!», ma in quanto musico gli direbbe, in modo più affabile: «Carissimo, chi vuole essere un esperto di armonia è necessario che conosca anche questo, tuttavia nulla vieta che chi ha le tue capacità non sappia neppure un poco di armonia; tu infatti conosci le nozioni necessarie e preliminari dell'armonia, non come si produce l'armonia». FEDRO: Giustissimo. SOCRATE: Allora anche Sofocle direbbe a chi si esibisse di fronte a loro che conosce i preliminari dell'arte tragica ma non il modo di comporre una tragedia, e Acumeno direbbe all'altro che conosce i preliminari della medicina, non la scienza medica. FEDRO: Assolutamente. SOCRATE: E cosa pensiamo che direbbero Adrasto voce di miele o Pericle, (61) se sentissero parlare degli accorgimenti che abbiamo elencato poco fa, cioè parlare conciso, parlare per immagini e tutte le altre cose che abbiamo 18  Platone Fedro  scorso affermando che erano da esaminare in piena luce? Forse per villania, come abbiamo fatto io e te, si rivolgerebbero con parole aspre e rudi a chi ha scritto queste cose e le insegna spacciandole per retorica, oppure, essendo più saggi di noi, ci lascerebbero di stucco dicendo: «Fedro e Socrate, non bisogna essere aspri, ma indulgenti, se alcuni, non essendo a conoscenza della dialettica, non hanno saputo definire cosa mai sia la retorica e in conseguenza di questa condizione, possedendo le nozioni necessarie e preliminari dell'arte, hanno creduto di averla scoperta; e impartendo queste nozioni ad altri ritengono di averli istruiti compiutamente nella retorica e presumono che i loro discepoli debbano procurarsi da sé nei discorsi la capacità di esporre ciascuna di queste cose in maniera convincente e di collegare tutto l'insieme, come se fosse opera da nulla!». FEDRO: Ma può anche darsi, Socrate, che sia proprio un qualcosa del genere cio che concerne l'arte che questi uomini insegnano e presentano per iscritto come retorica, e mi sembra che tu abbia detto il vero; ma allora come e dove ci si può procurare l'arte di colui che è veramente esperto di retorica e persuasivo? SOCRATE: Riuscire a diventare un perfetto campione della retorica, è naturale, Fedro, e forse anche necessario, che sia come negli altri campi: se per natura sei portato alla retorica, sarai un retore famoso, a patto d'aggiungervi scienza ed esercizio; ma se manchi di una di queste qualità, resterai imperfetto. Quanto poi all'arte connessa a ciò, non mi sembra che il metodo proceda nella direzione in cui vanno Lisia e Trasimaco. FEDRO: Qual è il metodo, allora? SOCRATE: Si dà il caso, carissimo, che Pericle sia stato probabilmente il più perfetto di tutti nella retorica. FEDRO: Perché? SOCRATE: Tutte le grandi arti hanno bisogno di sottigliezza e di discorsi celesti sulla natura, poiché questa elevatezza di pensiero e questa capacità di condurre tutto ad effetto sembrano provenire in qualche modo da qui. E Pericle, oltre alla buona disposizione naturale, si acquistò anche questo: imbattutosi, credo, in Anassagora,(62) uomo di tal fatta, si riempì di discorsi celesti e giunse alla natura dell'intelletto e della ragione, argomenti intorno ai quali Anassagora si diffondeva ampiamente, e da qui ricavò quello che era utile per l'arte dei discorsi. FEDRO: In che senso dici ciò? SOCRATE: Il modo di procedere dell'arte medica è lo stesso della retorica. FEDRO: E come? SOCRATE: In entrambe bisogna dividere una natura, in una quella del corpo, nell'altra quella dell'anima, se tu, non solo per esercizio e in modo empirico, ma con arte, vuoi procurare all'uno salute e vigore somministrandogli medicine e nutrimento, e trasmettere all'altra la convinzione che desidera e la virtù offrendole discorsi e occupazioni rispettose delle leggi. FEDRO: è verosimile che sia così , Socrate. SOCRATE: Ritieni dunque che sia possibile comprendere la natura dell'anima in modo degno di menzione senza conoscere la natura dell'insieme? FEDRO: Se si deve dare qualche credito a Ippocrate, che è degli Asclepiadi,(63) senza questo metodo non è possibile neanche comprendere la natura del corpo. SOCRATE: E dice bene, amico; tuttavia bisogna confrontare il discorso con quanto afferma Ippocrate ed esaminare se si accorda. FEDRO: Certamente. SOCRATE: Allora esamina cosa dicono sulla natura Ippocrate e il discorso vero. Non bisogna forse ragionare così riguardo alla natura di qualsiasi cosa? Innanzitutto si deve considerare se ciò in cui vorremo essere esperti noi stessi e in grado di rendere tale un altro sia semplice o multiforme; poi, se è semplice, si deve esaminare quale potenza ha per sua natura nell'agire e su che cosa la esercita, o quale potenza ha nel subire e da che cosa la subisce, se invece ha più forme bisogna enumerarle e vedere per ciascuna di esse ciò che si vede per un'unità, cioè in virtù di che cosa è portata per sua natura ad agire e su che cosa, o in virtù di che cosa a subire, che cosa e da che cosa. FEDRO: Può essere, Socrate. SOCRATE: Dunque il metodo privo di questi procedimenti somiglierebbe all'andare di un cieco. Chi invece persegue con arte una qualsiasi cosa non è da rassomigliare a un cieco o a un sordo, ma è chiaro che, se uno vuol trasmettere ad altri discorsi fatti con arte, dimostrerà puntualmente l'essenza della natura di ciò a cui rivolgerà i suoi discorsi; e questo sarà in qualche modo l'anima. FEDRO: Come no? SOCRATE: Perciò tutto il suo sforzo è teso a questo, poiché in questo cerca di produrre persuasione. O no? FEDRO: Sì . SOCRATE: è chiaro dunque che Trasimaco e chiunque altro offra seriamente l'arte della retorica, innanzitutto descriverà e farà vedere con la massima precisione l'anima, se per sua natura è una e tutta uguale o multiforme come l'aspetto del corpo; diciamo infatti che questo è dimostrare la natura di una cosa. FEDRO: Assolutamente. SOCRATE: In secondo luogo, in virtù di che cosa è per sua natura portata ad agire, e su cosa, o in virtù di che cosa è portata a subire, e da che cosa. FEDRO: Come no? SOCRATE: In terzo luogo, classificati i generi dei discorsi e dell'anima e le loro proprietà, passerà in rassegna tutte le cause, adattando ciascun genere di discorso a ciascun genere di anima e insegnando quale anima, da quali discorsi e per quale causa viene di necessità persuasa, quale invece non viene persuasa. 19  Platone Fedro  FEDRO: Sarebbe bellissimo se fosse così , a quanto pare! SOCRATE: Pertanto, caro, ciò che verrà dimostrato o detto in altro modo non sarà mai detto o scritto con arte, né su questo né su un altro argomento. Ma quelli che oggi scrivono le arti dei discorsi che tu hai ascoltato sono scaltri, e pur conoscendo molto bene l'anima sono portati a dissimulare; perciò, prima che parlino e scrivano in questo modo, non lasciamoci convincere da loro, credendo che scrivano con arte. FEDRO: Qual è questo modo? SOCRATE: Già usare le espressioni appropriate non è cosa facile; ma per quanto mi è possibile voglio dirti come bisogna scrivere, se si intende farlo con arte. FEDRO: Dillo dunque. SOCRATE: Poiché la forza del discorso sta nella guida delle anime, chi vuole essere esperto di retorica è necessario che sappia quante forme ha l'anima. Esse sono tantissime e di svariate qualità, e di conseguenza alcuni uomini sono di un certo tipo, altri di un altro; e dato che le forme dell'anima risultano così divise, a loro volta sono tantissime anche le forme dei discorsi, ciascuna di tipo diverso. Per questo motivo gli uomini di un certo tipo si lasciano facilmente persuadere da discorsi di un certo tipo su determinati argomenti, mentre gli uomini di un altro tipo, sempre per questo motivo, sono difficili da persuadere. Perciò chi vuole diventare retore deve innanzitutto tenere in adeguata considerazione queste cose, poi, osservando il loro modo di essere e di operare all'atto pratico, dev'essere in grado di seguirle acutamente con le sue facoltà intellettive, altrimenti non avrà mai niente più dei discorsi che ascoltava quando frequentava un maestro. E quando sappia dire in modo adeguato quale genere di uomo viene persuaso e da quali discorsi, e sia in grado di accorgersi della sua presenza e di provare a se stesso che si tratta di quell'uomo e di quella natura sulla quale vertevano a suo tempo i discorsi, e poiché ora è di fatto presente deve riferirle questi discorsi nella maniera prevista, per persuaderla di determinate cose, una volta che dunque sia in possesso di tutti questi requisiti, sappia cogliere i momenti giusti in cui bisogna parlare e quelli in cui bisogna trattenersi e sappia discernere l'opportunità e l'inopportunità del parlare conciso, commovente o indignato e di tutte le altre forme di discorso che ha appreso, allora l'arte è realizzata in modo bello e compiuto, prima no. Ma se uno manca di una qualsiasi di queste cose quando parla, insegna o scrive, e afferma di parlare con arte, vince chi non si lascia persuadere. «E allora?», dirà forse il nostro scrittore. «Fedro e Socrate, la pensate così? Dobbiamo forse definire in altro modo l'arte che è detta dei discorsi?». FEDRO: è impossibile in altro modo, Socrate; eppure sembra un lavoro non da poco. SOCRATE: Hai ragione. Proprio per questo bisogna rivoltare tutti i discorsi sottosopra ed esaminare se da qualche parte appare una via più facile e più breve per giungere ad essa, così da non procedere inutilmente per una via lunga e aspra, quando è possibile percorrerne una corta e liscia. Ma se hai da qualche parte un aiuto, per averlo ascoltato da Lisia o da qualcun altro, cerca di richiamarlo alla memoria e di dirlo. FEDRO: Così , per fare una prova, potrei, ma non me la sento, almeno adesso. SOCRATE: Vuoi dunque che io riferisca un discorso che ho ascoltato da alcuni che si occupano di queste cose? FEDRO: Perché no? SOCRATE: D'altronde, Fedro, si dice che è giusto riferire anche le ragioni del lupo. FEDRO: Allora fa' così anche tu. SOCRATE: Dunque, essi sostengono che non si devono magnificare e levare così in alto queste cose, con tanti giri di parole; infatti, come abbiamo detto anche all'inizio del discorso, chi intende essere sufficientemente esperto nella retorica non deve certo partecipare della verità circa questioni giuste e buone, o uomini tali per natura o per educazione, poiché nei tribunali non importa proprio niente a nessuno della verità su queste cose, ma importa solo ciò ch'è atto a persuadere: è il verosimile, a cui si deve applicare chi intende parlare con arte. Talvolta infatti non bisogna neanche esporre i fatti, a meno che non si siano svolti in maniera verosimile, ma solo quelli verosimili, sia nell'accusa sia nella difesa, e in genere chi parla deve seguire il verosimile, dopo aver detto tanti saluti alla verità; poiché è appunto questo che, se percorre l'intero discorso, procura tutta quanta l'arte. FEDRO: Hai esposto, Socrate, proprio le ragioni che adducono quelli che danno a vedere di essere esperti nell'arte dei discorsi; mi sono ricordato che già in precedenza abbiamo toccato brevemente tale argomento, e sembra che ciò sia di enorme importanza per chi si occupa di queste cose. SOCRATE: Sicuramente hai studiato con precisione proprio Tisia: quindi Tisia ci dica anche questo, se per verosimile intende qualcosa di diverso da ciò che sembra ai più. FEDRO: E che altro? SOCRATE: E avendo fatto questa scoperta, a quanto pare, di saggezza e d'arte insieme, ha scritto che se un uomo debole e coraggioso, che ha percosso un uomo forte e vile e gli ha portato via il mantello o qualcos'altro, viene condotto in tribunale, nessuno dei due deve dire la verità, ma il vile deve asserire di non essere stato percosso dal solo uomo coraggioso, questi deve confutare ciò ribattendo che erano loro due soli, e servirsi del seguente argomento: «Come avrei potuto io, data la mia condizione, mettere le mani addosso a una persona come lui?». L'altro non ammetterà la propria viltà, ma cercando di dire qualche altra menzogna offrirà subito materia di confutazione all'avversario. E anche negli altri campi le cose dette con arte sono più o meno di questo genere. Non è così , Fedro? FEDRO: Come no? SOCRATE: Ahimè, sembra che abbia fatto la scoperta davvero sensazionale di un'arte nascosta, Tisia o chiunque altro sia e da qualunque luogo si compiaccia di trarre il nome! Ma a costui, amico, dobbiamo dire o no... FEDRO: Cosa? 20  Platone Fedro  SOCRATE: Questo: «O Tisia, da tempo noi, prima ancora che tu venissi qui, ci trovavamo a dire che questo verosimile viene a nascere nei più per somiglianza col vero; e poco fa abbiamo spiegato che chi conosce la verità sa scoprire benissimo le somiglianze. Perciò, se hai qualcos'altro da dire sull'arte dei discorsi, lo ascolteremo; altrimenti daremo credito a ciò che abbiamo esposto or ora, cioè che se uno non enumererà le nature di coloro che lo ascolteranno, e non sarà in grado di dividere gli esseri secondo le forme e di raccoglierli uno per uno in un'idea, non sarà mai esperto nell'arte dei discorsi, per quanto è possibile a un uomo. E non potrà mai acquisire queste capacità senza molta applicazione; ad essa il sapiente dovrà indirizzare i suoi sforzi non per parlare e agire con gli uomini, ma per poter dire cose che siano gradite agli dèi e fare ogni cosa in modo a loro gradito, per quanto è nelle sue facoltà. Infatti i più saggi tra noi, Tisia, dicono che chi ha intelletto deve prendersi cura di compiacere non i compagni di schiavitù, se non in modo accessorio, ma i padroni buoni e che discendono da uomini buoni. Perciò, se la strada è lunga, non meravigliartene, in quanto per raggiungere grandi traguardi bisogna percorrerla, non come credi tu. D'altronde, come dice il nostro discorso, anche queste fatiche diventeranno bellissime grazie a quei traguardi, se uno lo vuole». FEDRO: Mi pare che si stia parlando in modo bellissimo, Socrate, se davvero qualcuno ne è capace. SOCRATE: Ma per chi intraprende azioni belle è bello anche soffrire, qualunque cosa gli tocchi di soffrire. FEDRO: Sicuro. SOCRATE: Quanto si è detto a proposito dell'arte e della mancanza di arte nel fare discorsi sia dunque sufficiente. FEDRO: Come no? SOCRATE: Rimane la questione della convenienza e della non convenienza della scrittura, quando essa vada bene e quando invece sia sconveniente. O no? FEDRO: Sì . SOCRATE: Sai allora come, nell'ambito dei discorsi, potrai acquistarti il massimo favore di un dio con le tue azioni e le tue parole? FEDRO: Per niente. E tu? SOCRATE: Io posso raccontarti una storia tramandata dagli antichi; il vero essi lo sanno. E se noi lo trovassimo da soli, ci importerebbe ancora qualcosa delle opinioni degli uomini? FEDRO: Hai fatto una domanda ridicola! Ma racconta ciò che dici di aver udito. SOCRATE: Ho sentito dunque raccontare che presso Naucrati, in Egitto, (64) c'era uno degli antichi dèi del luogo, al quale era sacro l'uccello che chiamano ibis; il nome della divinità era Theuth.(65) Questi inventò dapprima i numeri, il calcolo, la geometria e l'astronomia, poi il gioco della scacchiera e dei dadi, infine anche la scrittura. Re di tutto l'Egitto era allora Thamus e abitava nella grande città della regione superiore che i Greci chiamano Tebe Egizia, mentre chiamano il suo dio Ammone.(66) Theuth, recatosi dal re, gli mostrò le sue arti e disse che dovevano essere trasmesse agli altri Egizi; Thamus gli chiese quale fosse l'utilità di ciascuna di esse, e mentre Theuth le passava in rassegna, a seconda che gli sembrasse parlare bene oppure no, ora disapprovava, ora lodava. Molti, a quanto si racconta, furono i pareri che Thamus espresse nell'uno e nell'altro senso a Theuth su ciascuna arte, e sarebbe troppo lungo ripercorrerli; quando poi fu alla scrittura, Theuth disse: «Questa conoscenza, o re, renderà gli Egizi più sapienti e più capaci di ricordare, poiché con essa è stato trovato il farmaco della memoria e della sapienza». Allora il re rispose: «Ingegnosissimo Theuth, c'è chi sa partorire le arti e chi sa giudicare quale danno o quale vantaggio sono destinate ad arrecare a chi intende servirsene. Ora tu, padre della scrittura, per benevolenza hai detto il contrario di quello che essa vale. Questa scoperta infatti, per la mancanza di esercizio della memoria, produrrà nell'anima di coloro che la impareranno la dimenticanza, perché fidandosi della scrittura ricorderanno dal di fuori mediante caratteri estranei, non dal di dentro e da se stessi; perciò tu hai scoperto il farmaco non della memoria, ma del richiamare alla memoria. Della sapienza tu procuri ai tuoi discepoli l'apparenza, non la verità: ascoltando per tuo tramite molte cose senza insegnamento, crederanno di conoscere molte cose, mentre per lo più le ignorano, e la loro compagnia sarà molesta, poiché sono divenuti portatori di opinione anziché sapienti». FEDRO: Socrate, tu pronunci con facilità discorsi egizi e di qualsiasi paese tu voglia! SOCRATE: E pensa che alcuni, mio caro, hanno asserito che i primi discorsi profetici nel tempio di Zeus a Dodona venivano da una quercia! Agli uomini di allora, dato che non erano sapienti come voi giovani, bastava, nella loro semplicità, ascoltare una quercia o una roccia, purché dicessero il vero; ma forse per te fa differenza chi è colui che parla e da dove viene. Non miri infatti solamente a questo, se le cose stanno così o diversamente? FEDRO: Hai colto nel segno, e mi sembra che riguardo alla scrittura le cose stiano come dice il re di Tebe. SOCRATE: Allora chi crede di tramandare un'arte con la scrittura, e chi a sua volta la riceve nella convinzione che dalla scrittura deriverà qualcosa di chiaro e di saldo, dev'essere ricolmo di molta ingenuità e ignorare realmente il vaticinio di Ammone, se pensa che i discorsi scritti siano qualcosa in più del riportare alla memoria di chi già sa ciò su cui verte lo scritto. FEDRO: Giustissimo. SOCRATE: Poiché la scrittura, Fedro, ha questo di potente, e, per la verità, di simile alla pittura. Le creazioni della pittura ti stanno di fronte come cose vive, ma se tu rivolgi loro qualche domanda, restano in venerando silenzio. La medesima cosa vale anche per i discorsi: tu potresti anche credere che parlino come se avessero qualche pensiero loro proprio, ma se domandi loro qualcosa di ciò che dicono coll'intenzione di apprenderla, questo qualcosa suona sempre e 21  Platone Fedro  solo identico. E, una volta che è scritto, tutto quanto il discorso rotola per ogni dove, finendo tra le mani di chi è competente così come tra quelle di chi non ha niente da spartire con esso, e non sa a chi deve parlare e a chi no. Se poi viene offeso e oltraggiato ingiustamente ha sempre bisogno dell'aiuto del padre, poiché non è capace né di difendersi da sé né di venire in aiuto a se stesso. FEDRO: Anche queste tue parole sono giustissime. SOCRATE: E allora? Vogliamo considerare un altro discorso, fratello legittimo di questo, in che modo nasce e quanto è per sua natura migliore e più potente di questo? FEDRO: Qual è questo discorso e come, secondo te, nasce? SOCRATE: è quello che viene scritto mediante la conoscenza nell'anima di chi apprende; esso è in grado di difendersi da sé, e sa con chi bisogna parlare e con chi tacere. FEDRO: Intendi il discorso vivente e animato di chi sa, del quale quello scritto si può a buon diritto definire un'immagine. SOCRATE: Per l'appunto. Ora dimmi questo: l'agricoltore che ha senno pianterebbe seriamente d'estate nei giardini di Adone (67) i semi che gli stessero a cuore e da cui volesse ricavare frutti; e gioirebbe a vederli crescere belli in otto giorni, o farebbe ciò per gioco e per la festa, quand'anche lo facesse? E riguardo invece a quelli di cui si è preso cura sul serio servendosi dell'arte dell'agricoltura e seminandoli nel luogo adatto, sarebbe contento che quanto ha seminato giungesse a compimento in otto mesi? FEDRO: Farebbe così , Socrate: sul serio per gli uni, diversamente per gli altri, come tu dici. SOCRATE: Dovremo dire che chi possiede la scienza delle cose giuste, belle e buone abbia meno senno dell'agricoltore con le sue sementi? FEDRO: Nient'affatto. SOCRATE: Allora non le scriverà seriamente nell'acqua nera, seminandole attraverso la canna assieme a discorsi incapaci di difendersi da sé con la parola, e incapaci di insegnare in modo adeguato la verità. FEDRO: No, almeno non è verosimile. SOCRATE: Infatti non lo è. Ma a quanto pare seminerà e scriverà i giardini di scrittura per gioco, quando li scriverà, serbando un tesoro da richiamare alla memoria per se stesso, nel caso giunga «alla vecchiaia dell'oblio»,(68) e per chiunque segua la sua stessa orma, e gioirà a vederli crescere teneri. E quando gli altri faranno altri giochi, ristorandosi nei simposi e in tutti i divertimenti fratelli di questi, egli allora, a quanto pare, invece che in essi passerà la vita a dilettarsi in ciò di cui parlo. FEDRO: è un gioco molto bello quello che dici, Socrate, rispetto all'altro che è insulso: il gioco di chi sa divertirsi coi discorsi, narrando storie sulla giustizia e sulle altre cose di cui parli. SOCRATE: Così è in effetti, caro Fedro: ma l'impegno in queste cose diventa, credo, molto più bello quando uno, facendo uso dell'arte dialettica, prende un'anima adatta, vi pianta e vi semina discorsi accompagnati da conoscenza, che siano in grado di venire in aiuto a se stessi e a chi li ha piantati e non siano infruttiferi, ma abbiano una semenza dalla quale nascano nell'indole di altri uomini altri discorsi capaci di rendere questa semenza immortale, facendo sì che chi la possiede sia felice quanto più è possibile per un uomo. FEDRO: Ciò che dici è molto più bello. SOCRATE: Ora che siamo d'accordo su questo, Fedro, possiamo giudicare quelle altre questioni. FEDRO: Quali? SOCRATE: Quelle che volevamo indagare e per le quali siamo arrivati a questo punto, ossia esaminare il rimprovero rivolto a Lisia circa lo scrivere i discorsi e i discorsi stessi, quali fossero scritti con arte e quali senz'arte. Ciò che è conforme all'arte e ciò che non lo è mi sembra che sia stato chiarito opportunamente. FEDRO: Così almeno mi è parso: ma ricordami ancora una volta come abbiamo detto. SOCRATE: Se prima uno non conosce il vero riguardo a ciascun argomento su cui parla o scrive e non è in grado di definire ogni cosa in se stessa, e una volta che l'ha definita non sa dividerla secondo le sue specie fino ad arrivare a ciò che non è più divisibile, quindi, dopo aver scrutato a fondo allo stesso modo la natura dell'anima, trovando la specie adatta a ciascuna natura non dispone e regola il discorso secondo questo procedimento, offrendo discorsi variegati a un'anima variegata e dalla piena armonia, discorsi semplici a un'anima semplice, non sarà possibile, per quanto è conforme a natura, maneggiare con arte la stirpe dei discorsi né per insegnare né per persuadere, come il discorso fatto in precedenza ci ha chiaramente indicato. FEDRO: Risulta in tutto e per tutto così . SOCRATE: Riguardo poi alla questione se sia bello o turpe pronunciare e scrivere discorsi, e quando un rimprovero sia rivolto giustamente oppure no, non ha forse chiarito ciò che abbiamo detto poco fa... FEDRO: Cosa abbiamo detto? SOCRATE: Che se Lisia o altri ha mai scritto o scriverà su argomenti d'interesse privato o pubblico, proponendo leggi o scrivendo un'opera politica, nella convinzione che in ciò vi sia una grande solidità e chiarezza, allora il biasimo ricade su chi scrive, che lo si dica o meno: poiché il non distinguere realtà e sogno in ciò che è giusto e ingiusto, male e bene, non può davvero evitare di essere riprovevole, quand'anche tutta la gente lo apprezzasse. FEDRO: No di certo. SOCRATE: Chi invece ritiene che nel discorso scritto su qualsiasi argomento vi sia necessariamente molto gioco e che nessun discorso con pregio di grande serietà sia mai stato scritto né in versi né in prosa (e neanche pronunciato, come i discorsi dei rapsodi che sono recitati senza essere sottoposti a vaglio e non mirano a insegnare, ma a persuadere), 22  Platone Fedro  ma che i migliori di essi siano realmente un mezzo per aiutare la memoria di chi già conosce l'argomento, e ritiene che solo nei discorsi sul giusto, sul bello e sul bene, pronunciati come insegnamento allo scopo di far apprendere e scritti realmente nell'anima, vi sia chiarezza, compiutezza e pregio di serietà; e inoltre è convinto che discorsi tali debbano essere detti suoi come se fossero figli legittimi, innanzitutto quello che reca in sé, nel caso si trovi che lo possiede, poi quelli che discendenti e fratelli di questo, sono nati allo stesso modo nell'anima di altri uomini secondo il loro valore, e ai rimanenti manda tanti saluti; bene, un uomo siffatto, Fedro, è probabile che sia tale quale tu e io ci augureremmo di diventare. FEDRO: Io voglio e mi auguro in tutto e per tutto ciò che dici. SOCRATE: Dunque, per quanto riguarda i discorsi, ormai abbiamo scherzato abbastanza: tu ora va' da Lisia e digli che noi due siamo discesi alla fonte e al santuario delle Ninfe e abbiamo ascoltato dei discorsi che ci ordinavano di riferire a Lisia e a chi altri componga discorsi, a Omero e a chi altri abbia composto poesia epica o lirica, e in terzo luogo a Solone e a chiunque nei discorsi politici abbia scritto dei testi con il nome di leggi, quanto segue: se ha composto queste opere sapendo com'è il vero e può soccorrerle quando ciò che ha scritto viene messo alla prova, e quando parla è in grado egli stesso di dimostrare la debolezza di quanto è stato scritto, una persona del genere non deve essere chiamato col nome di costoro, ma con un nome derivato da ciò a cui si è dedicato con serietà. FEDRO: Quale nome gli assegni dunque? SOCRATE: Chiamarlo sapiente, Fedro, mi sembra che sia cosa troppo grande e che si addica solo a un dio; chiamarlo invece filosofo o con un nome del genere sarebbe a lui più adatto e conveniente. FEDRO: E niente affatto fuori luogo. SOCRATE: Chi invece non possiede cose di maggior pregio di quelle che ha composto e ha scritto, rivoltandole su e giù per lungo tempo, incollandole l'una con l'altra o separandole, non lo dirai a buon diritto poeta o autore di discorsi o scrittore di leggi? FEDRO: Come no? SOCRATE: Riferisci dunque questo al tuo compagno! FEDRO: E tu? Cosa farai? Non bisogna lasciare da parte neanche il tuo compagno. SOCRATE: Chi è costui? FEDRO: Isocrate (69) il bello. Cosa riferirai a lui, Socrate? Come lo definiremo? SOCRATE: Isocrate è ancora giovane, Fedro: tuttavia voglio dire ciò che prevedo di lui. FEDRO: Che cosa? SOCRATE: Mi sembra che per doti naturali sia migliore a confronto dei discorsi di Lisia, e che inoltre sia temperato di un'indole più nobile. Perciò non ci sarebbe affatto da meravigliarsi se, col procedere dell'età, proprio grazie ai discorsi cui ora pone mano superasse più che se fossero fanciulli quanti mai si sono dedicati ai discorsi, e se inoltre questo non gli bastasse, ma uno slancio divino lo spingesse a cose ancora più grandi; giacché nell'animo di quell'uomo, caro amico, c'è una forma naturale di filosofia. Pertanto io riferisco queste cose da parte di questi dèi al mio amato Isocrate, tu fa' sapere quelle altre al tuo Lisia. FEDRO: Sarà così . Ma andiamo, poiché anche la calura si è fatta più mite. SOCRATE: Non conviene rivolgere una preghiera a questi dèi prima di metterci in cammino? FEDRO: Come no? SOCRATE: O caro Pan e voi altri dèi di questo luogo, concedetemi di diventare bello dentro, e che tutto ciò che ho di fuori sia in accordo con ciò che ho nell'intimo. Che io consideri ricco il sapiente e possegga tanto oro quanto nessun altro, se non chi è temperante, possa prendersi e portar via.(70) Abbiamo bisogno di qualcos'altro, Fedro? Da parte mia si è pregato in giusta misura. FEDRO: Fa' questo augurio anche per me; le cose degli amici sono comuni. SOCRATE: Andiamo! 23  Platone Fedro  NOTE: 1) Celebre oratore ateniese vissuto tra il quinto e il quarto secolo a.C., di cui restano 34 orazioni giudiziarie. Il discorso sull'amore che gli viene attribuito nel dialogo è probabilmente fittizio. Il padre Cefalo, originario della Sicilia, aveva una fabbrica d'armi al Pireo; nella sua casa è ambientata la Repubblica. 2) Noto medico dell'epoca. 3) Epicrate era un oratore democratico; Morico, forse il proprietario precedente della casa, era un cittadino ateniese che per le sue ricchezze e il suo lusso divenne frequente bersaglio dei poeti comici. 4) Pindaro, Isthmia 2. 5) Erodico di Megara, divenuto poi cittadino di Selimbria, era un medico famoso per il suo regime di vita "salutistico"; Platone lo menziona anche nella Repubblica e nel Protagora. 6) I Coribanti erano i sacerdoti della dea Cibele, i cui culti erano caratterizzati da una forte valenza orgiastica. 7) Piccolo fiume che scorre vicino ad Atene. 8) Il dialogo è immaginato in piena estate, a mezzogiorno. 9) Borea, vento del nord, rapì Orizia, figlia di Eretteo, re di Atene; in cambio concesse agli Ateniesi il suo favore nelle battaglie navali. Farmacea, citata poco sotto, era una ninfa cui era sacra la fonte dell'Ilisso. 10) Demo dell'Attica. 11) Letteralmente 'colle di Ares', era un'altura in Atene dove aveva sede il più antico tribunale della città, formato dagli arconti usciti di carica. 12) Sono tutti esseri mitologici. Gli Ippocentauri o Centauri, nati dall'unione di Issione con una nube, erano metà uomo e metà cavallo. La Chimera era un mostro con tre teste, una di leone, una di capra spirante fuoco, una di serpente. Le Gorgoni, mostri marini, erano Steno, Euriale e Medusa; le prime due erano immortali, mentre Medusa, che aveva il potere di pietrificare con lo sguardo, era mortale e fu uccisa da Perseo. Pegaso era il cavallo alato nato dal sangue della testa di Medusa tagliata da Perseo; con il suo aiuto Bellerofonte uccise la Chimera. 13) «Conosci te stesso» era appunto il precetto scritto nel tempio di Apollo a Delfi. 14) Tifone o Tifeo, figlio di Gea e del Tartaro, era un drago dalle molte teste che emettevano fumo e fiamme; al termine di una dura lotta Zeus lo fulminò e lo scagliò sotto l'Etna. Il suo mito è ricordato in Esiodo, Theogonia 820 seguenti. Da Tifone ha avuto origine il nome comune indicante un vento caldo portatore di tempeste. Nel testo greco c'è un gioco di parole, intraducibile in italiano, con il quale Tifone viene paretimologicamente accostato al participio di "túpho" ('fumare', 'bruciare') e, tramite l'aggettivo privativo "atuphos" a "tuphos" ('vanità', 'orgoglio', superbia'). Nel dialogo Platone fa uso più volte di simili giochi verbali, impossibili da mantenere nella traduzione, per creare paretimologie. 15) Alle Ninfe, divinità dei boschi e dei fiumi, Socrate in seguito attribuirà il dono dell'ispirazione. Acheloo, oltre ad essere un fiume della Grecia centrale, era anche dio dei fiumi. 16) Una locuzione simile ricorre in Omero, Iliade libro 8, verso 281. 17) Saffo è la famosa poetessa lirica di Lesbo vissuta tra il settimo e il sesto secolo a.C., autrice di carmi soprattutto d'amore omoerotico, divisi dagli Alessandrini in nove libri; di essi ci sono pervenuti un'ode intera, una quasi completa e parecchi frammenti di varia lunghezza. Anacreonte di Teo, lirico monodico del sesto secolo, fu autore tra l'altro di poesie amorose dal tono leggero, di cui restano pochi frammenti. Non è invece possibile sapere a quali autori in prosa si allude nel passo. 18) Gli arconti ateniesi, al momento di entrare in carica, giuravano che se avessero trasgredito le leggi di Solone avrebbero innalzato a Delfi una statua d'oro della loro grandezza e peso. 19) Cipselo fu tiranno di Corinto nel sesto secolo e fondò una dinastia di tiranni. L'offerta votiva cui si allude era forse una statua. 20) Immagine derivata dalla lotta: Fedro intende che Socrate a sua volta ha offerto il fianco a una critica. 21) Pindaro, frammento 105 Snell-Maehler (citato anche in Meno). 22) Il testo greco gioca sull'assonanza tra "ligús", 'dalla voce melodiosa', e "ligús" 'Ligure' (con lambda maiuscolo). Questo gioco paretimologico è probabilmente alla base della leggenda secondo cui i Liguri erano amanti del canto. 23) Socrate istituisce un nesso paretimologico tra "èros" e "róme" ('forza'). 24) Il ditirambo, componimento lirico corale associato al culto di Dioniso, ai tempi di Platone era in piena decadenza. Qui il termine ha una connotazione negativa, indicando una forma di invasamento non ispirata da "mania" divina, e quindi non mediata dal logos. 25) L'immagine è ricavata da un gioco fatto con un coccio (óstrakon), nero da una parte e bianco dall'altra; i giocatori, divisi in due squadre, sceglievano un colore e a seconda di quello che risultava lanciando il coccio dovevano fuggire o inseguire. La metafora significa che l'amante, prima inseguitore, ora fugge l'amato. 26) Simmia, prima pitagorico, poi discepolo di Socrate, è uno degli interlocutori del Fedone. 27) Ibico, frammnto 310, Page. Poeta lirico corale del sesto secolo a.C., di lui restano un'ode e pochi frammenti. 28. Stesicoro, poeta lirico corale, visse nel sesto secolo a.C. Secondo una leggenda perse la vista per aver accusato Elena di infedeltà in un carme omonimo e la riacquistò per aver scritto la Palinodia (la 'Ritrattazione'), in cui sosteneva che Paride non aveva portato a Troia la vera Elena, ma un fantasma con le sue sembianze; questa versione del mito fu ripresa da Euripide nell'Elena. Omero invece, non avendo fatto la stessa cosa, rimase cieco. Allo stesso modo Socrate pronuncerà una ritrattazione del discorso precedente su Eros, nella quale solleverà il dio dalle accuse che gli aveva mosso. 24  Platone Fedro  29) A Delfi, in Beozia, c'era il più famoso santuario di Apollo, che dava i responsi per bocca della sua sacerdotessa, la Pizia; a Dodona, nell'Epiro, c'era un santuario di Zeus. 30) Questo nome designava in origine una, in seguito più sacerdotesse di Apollo, di cui era nota l'ambiguità dei responsi; la più celebre era la Sibilla di Cuma, in Campania. 31) L'arte divinatoria, in greco "mantike", viene fatta derivare da "manikos" cioè 'affetto da mania'; il composto "oionoistike", di invenzione platonica, viene ricondotto a "oieris" ('opinione', 'credenza'), e accostato a "oionistike", ovvero l'"arte di trarre gli auspici" dal volo degli uccelli. Il gioco paretimologico, di cui si è provato a rendere ragione nella traduzione, è importante in quanto è funzionale al rovesciamento della tesi sostenuta da Lisia. 32) è il celebre mito dell'anima come una biga alata, metafora complessa e non facile da interpretare. Se infatti l'auriga rappresenta palesemente la ragione, non è del tutto chiaro il significato dei due cavalli; è poco soddisfacente l'interpretazione tradizionale, secondo cui il cavallo nero rappresenterebbe l'anima concupiscibile, quello bianco l'anima impulsiva, e l'intera immagine sarebbe da intendere come la tripartizione dell'anima che Platone teorizza nella Repubblica (libri 4 e 9). Infatti nel Timeo si dice che anima concupiscibile e anima impulsiva sono mortali, mentre qui i due cavalli fanno parte proprio della struttura dell'anima immortale, come prova anche il fatto che essi si nutrono di nettare e ambrosia, cibo e bevanda degli dèi, e che tale struttura è comune sia all'anima umana sia a quella divina. è preferibile pensare che i cavalli indichino due componenti opposte connaturate comunque all'anima immortale, che l'auriga ha la funzione di conciliare per trovare un equilibrio. 33) Estia, dea del focolare, nella cosmologia antica veniva identificata col centro dell'universo, che era immobile; per questo essa, unica tra gli dèi, non viaggia per il cielo. Le divinità che guidano le dodici schiere sono probabilmente quelle olimpiche. 34) L'Iperuranio, il luogo 'oltre il cielo', è il mondo delle Idee. Luogo metafisico, immagine della sfera dell'intelligibile che nella sua immutabilità trascende la realtà sensibile, esso è raggiungibile solo dell'anima. 35) Adrastea, letteralmente 'l'inevitabile', in questo caso è una personificazione del destino; in Repubblica (libro 5) impersonifica invece la vendetta. Viene qui esposto il destino escatologico delle anime e la teoria della metempsicosi, argomento che ha una più ampia trattazione con il mito di Er nel libro decimo della Repubblica. Nel Fedro l'assegnazione della vita futura è strettamente determinata dalla misura in cui le anime hanno contemplato la pianura della verità prima di tornare sulla terra, poiché ad esso corrisponde il grado di verità connesso alla vita in cui si reincarnano. 36) Altro gioco verbale basato su una paretimologia il termine "imeros" ('desiderio'), collegato per assonanza ad Eros, viene fatto derivare da i-, radice di "eiri" ('andare'), "mer-" radice di "méros" ('parte'), "ro-", radice di "roé" ('flusso'). 37. Gli Omeridi erano una scuola di aedi nell'isola di Chio che la tradizione voleva fondata dallo stesso Omero. Invenzione platonica sono sia i poemi segreti cui si allude ironicamente sia i due versi citati, nei quali c'è un gioco di parole tra "Eros" e Ptéros" (epiteto scherzosamente coniato da "pterós" ('alato'), probabilmente suggerito da quei passi omerici (Iliade libro 1, versi 403-404; libro 14, verso 291; libro 20, verso 74) in cui si dice che gli dèi chiamano le cose in modo diverso dagli uomini. 38) è impossibile conservare nella traduzione il gioco tra il genitivo "Diós" ('di Zeus') e l'aggettivo "dios", solitamente reso con 'splendente' o 'divino'. 39) Le Baccanti o Menadi erano le sacerdotesse di Dioniso. 40) Zeus, innamorato di Ganimede, bellissimo fanciullo frigio, in forma di aquila lo rapì sull'Olimpo, e ne fece il coppiere degli dèi. Per il gioco linguistico su "imeros", la nota 36. 41) L'espressione significa che né la temperanza umana esaltata da Lisia, né la follia divina di per sé bastano a costruire una scienza nel senso pieno del termine, ma occorre una giusta mescolanza delle due cose; questo, in ultima analisi, può essere il senso del mito della biga alata. L'immagine agonistica, più che a tre differenti gare, allude probabilmente al fatto che per vincere nella lotta bisognava atterrare l'avversario tre volte. 42) Figlio di Cefalo e fratello di Lisia, fu vittima delle persecuzioni politiche sotto i Trenta tiranni. 43) Ad Atene la frequenza dei processi e l'assenza del patrocinio legale, che obbligava l'accusatore o l'accusato a parlare personalmente in giudizio, avevano fatto nascere la professione del logografo ('scrittore di discorsi'), che preparava su commissione i testi da pronunciare in tribunale; le orazioni di Lisia sono appunto la testimonianza della sua attività di logografo. Il termine ha nel contesto una connotazione negativa, tanto da essere poco sotto equiparato a sofista. Il parallelo ritorna più avanti, dove si allude ai compensi che i sofisti chiedevano per i loro insegnamenti. 44) L'espressine, un po' enigmatica, significa probabilmente che da una cosa semplice ne è derivata una difficile. 45) Figura storicamente indeterminata, Licurgo fu, secondo la tradizione, il legislatore di Sparta. Uomo politico e poeta, annoverato tra i sette saggi, Solone attuò, durante il suo arcontato (594-593 a.C.), una riforma dello stato ateniese che prevedeva la divisione dei cittadini in classi in base al censo. Dario primo, re di Persia dal 521 al 485 a.C., fu il promotore della prima guerra greco-persiana. 46) Il mito che segue è probabilmente creazione platonica. Il canto delle cicale è metafora dell'ispirazione a comporre discorsi ma anche del rischio, da parte dell'ascoltatore, di lasciarsene ammaliare senza sottoporli a vaglio critico, un atteggiamento passivo che le cicale stesse, intermediarie tra gli uomini e le Muse, non approvano. 47) Sulla scia del catalogo esiodeo (Theogonia 75 seguenti), le Muse qui citate hanno nomi parlanti Tersicore è 'colei che gioisce dei cori', Erato è connessa con Eros, Calliope è 'dalla bella voce', Urania 'la celeste'. 25  Platone Fedro  48) Omero, Iliade libro 2, verso 361. 49) Per Spartano qui si intende semplicemente una persona che dice la verità in modo franco e lapidario. 50) I "figli" di Fedro sono i discorsi che ha indotto gli altri a fare. 51) Nestore, il più vecchio dei guerrieri greci a Ilio, era famoso per la sua eloquenza persuasiva. Abile, e soprattutto astuto parlatore era notoriamente Odisseo. Anche Palamede, l'eroe che smascherò un tentativo di Odisseo di non partecipare alla guerra di Troia, era fornito di capacità oratorie. 52) Gorgia di Lentini, nato tra il 485 e il 480 a.C. e morto vecchissimo dopo il 380 a.C., fu uno dei principali esponenti della sofistica; a lui è dedicato l'omonimo dialogo di Platone. Delle sue numerose opere restano pochi ma significativi frammenti. Il sofista Trasimaco di Calcedonia, vissuto nel quinto secolo a.C., è uno dei personaggi della Repubblica, dove difende in modo combattivo la sua idea della giustizia come diritto del più forte. Teodoro di Bisanzio, attivo nella seconda metà del quinto secolo a.C., scrisse un trattato di retorica. 53) Allusione ironica a Zenone di Elea (quinto secolo a.C.) e ai paradossi con i quali cercava di confutare dialetticamente i concetti di molteplicità e movimento; famosi sono i paradossi della freccia e di Achille e la tartaruga. 54) Mida era il leggendario re della Frigia che per avidità di ricchezze chiese e ottenne da Dioniso di poter trasformare in oro tutto ciò che toccava; ma poiché anche tutto ciò che voleva mangiare o bere diventava oro, pregò il dio di liberarlo da questo dono funesto. L'epigramma citato è attribuito a Cleobulo di Lindo, uno dei sette saggi. 55) Poeta e sofista contemporaneo di Socrate. 56) Tisia fu maestro di Gorgia e iniziatore, assieme a Corace, della scuola retorica siciliana. 57) Prodico di Ceo, uno dei più importanti esponenti della sofistica, discepolo di Protagora e maestro di Socrate. 58) Ippia di Elide, il celebre sofista da cui prendono il titolo due dialoghi di Platone. 59) Polo di Agrigento e Licimnio di Chio furono discepoli di Gorgia; il primo è uno dei protagonisti del Gorgia di Platone. Nel passo si allude probabilmente a opere di retorica dei due sofisti, come poco sotto a proposito di Protagora. 60) Protagora di Abdera, protagonista dell'omonimo dialogo Platonico, visse ad Atene nell'età periclea. Considerato il principale esponente della sofistica, è ricordato soprattutto per il suo agnosticismo religioso, che gli valse una condanna per empietà, e il suo relativismo, sintetizzato nella massima «l'uomo è misura di tutte le cose». Nulla ci rimane delle sue numerose opere. 61) Adrasto, il re di Argo che guidò la spedizione dei sette contro Tebe, è rappresentato da Eschilo nelle Supplici come abile oratore; l'epiteto «voce di miele» gli è già riferito da Tirteo (frammento 9,8 Gentili-Prato). Adrasto è qui usato come eteronimo di un personaggio contemporaneo, forse un sofista. Anche Pericle, lo statista ateniese del quinto secolo che radicalizzò il processo democratico della polis portandola al massimo splendore, è qui ricordato, con un tocco d'ironia, per le sue capacità oratorie. 62) Anassagora di Clazomene (quinto secolo a.C.) visse per molti anni ad Atene, dove ebbe come discepoli Pericle e lo stesso Socrate. Punto cardinale del suo pensiero è l'esistenza di un principio razionale che dà ordine al mondo, da lui chiamato "nous" ('intelletto'). 63) Ippocrate di Cos, vissuto tra il quinto e il quarto secolo a.C., fu il fondatore della medicina antica; l'epiteto di Asclepiade deriva da Asclepio, dio della medicina. Di lui e dei suoi discepoli resta un considerevole numero di scritti riuniti nel cosiddetto corpus Hippocraticum. 64) Città sul delta del Nilo, sede di un emporio commerciale greco. 65) Theuth o Thoth era il dio egizio dell'invenzione,che i Greci identificavano con Ermes; rappresentato con la testa di ibis, era scriba nel tribunale dei morti. Con questo mito Platone assegna alla scrittura un valore puramente "ipomnematico", ovvero la considera un mero supporto alla memoria, e non veicolo di sapienza; la trasmissione del vero sapere resta per lui affidata all'oralità dialettica. 66) «La regione superiore» è l'alto corso del Nilo. Thamus, leggendario re dell'Egitto, viene considerato un eteronimo dello stesso Ammone, una delle principali divinità egizie, venerata da una potente casta sacerdotale e identificata dai Greci con Zeus; poco sotto infatti, la risposta da lui data a Theuth è chiamata «vaticinio di Ammone». 67) I «giardini di Adone» erano recipienti in cui d'estate si piantavano semi che nascevano entro otto giorni e subito morivano; il rito simboleggiava la morte prematura di Adone, il bellissimo giovane amato da Afrodite. Allo stesso modo i «giardini di scrittura», ovvero i discorsi scritti, devono essere intesi come una forma di gioco, poiché i veri discorsi latori di verità sono affidati alla dimensione orale. 68) Citazione poetica di autore ignoto. 69) Il retore Isocrate (436-338 a.C.) fondò ad Atene una scuola in competizione con l'Accademia platonica; di lui restano 21 orazioni. Isocrate era fautore di un'alleanza di tutte le città greche sotto la guida di Filippo di Macedonia, in vista di una spedizione contro i Persiani. 70) Pan, figlio di Ermes, era la principale divinità agreste del pantheon greco, venerata soprattutto in Arcadia; presiedeva alla pastorizia e per questo era rappresentato con sembianze caprine. Pan compare già come protettore del luogo assieme alle Ninfe, e per questo Socrate gli rivolge la preghiera conclusiva. «Oro» è da intendersi in senso metaforico come ricchezza della sapienza.  Wikipedia Ricerca Orfeo personaggio della mitologia greca Lingua Segui Modifica Nota disambigua.svg Disambiguazione – Se stai cercando altri significati, vedi Orfeo (disambigua). Orfeo DSC00355 - Orfeo (epoca romana) - Foto G. Dall'Orto.jpg Orfeo circondato dagli animali. Mosaico pavimentale romano, Museo archeologico regionale di Palermo. Nome orig.                                    Ὀρφεύς Specie                                               umana Sesso                                                Maschio Luogo di nascita                                       Tracia Professione                                                            cantore e argonauta Orfeo (in greco antico: Ὀρφεύς Orphéus, pronuncia: [or.pʰeú̯s]; in latino: Orpheus) è un personaggio della mitologia greca[4].   Bassorilievo in marmo di epoca romana, copia di originale greco del 410 a.C., che rappresenta Ermes, Euridice e Orfeo. L'opera originale, probabilmente di Alcamene, è andata perduta. Questo bassorilievo, conservato presso il Museo archeologico di Napoli, è tra le testimonianze che attesterebbero l'esito negativo della catabasi di Orfeo già a partire dal V secolo a.C. Qui Orfeo voltatosi verso Euridice, le alza il velo, forse per verificare l'identità della donna e quindi la perde. Secondo l'opinione di Cristopher Riedweg[1] sarebbe infatti evidente che Ermes a questo punto trattenga per un braccio la sposa di Orfeo, che volge quindi il piede destro per tornare indietro.  Orfeo ritratto in un kratēr (κρατήρ) attico a figure rosse risalente al V secolo a.C. e oggi conservato presso il Metropolitan Museum di New York. Orfeo, che siede a sinistra impugnando la lira (λύρα), veste un abito tipicamente greco, a differenza dell'uomo che gli si pone in piedi davanti che invece indossa un costume tracio. Questo particolare, unitamente alla presenza, a destra, della donna che impugna una piccola falce, può rappresentare una delle varianti della sua leggenda che lo vuole missionario greco in Tracia, ucciso lì dalle donne in quanto escludendole dai suoi riti induceva i loro mariti ad abbandonarle:  «Dicono poi che le donne di Tracia tramavano la sua morte, perché aveva persuaso i loro uomini a seguirlo nei suoi vagabondaggi, ma non osavano passare all'azione per paura dei loro mariti. Ma una volta, riempitesi di vino, attuarono la scellerata impresa. E da quel momento invalse per gli uomini il costume di andare ebbri alle battaglie.»  (Pausania, Periegesi della Grecia, IX, 30, 5[2]) [3]  Mappa dei luoghi che, secondo la mitologia, Orfeo avrebbe visitato e legato a sé. Il nome di Orfeo è attestato a partire dal VI secolo a.C., ma, secondo Mircea Eliade, «non è difficile immaginare che sia vissuto 'prima di Omero'»[5]. Si tratta dell'artista per eccellenza, che dell'arte incarna i valori eterni[6], ma anche di uno «sciamano, capace di incantare animali e di compiere il viaggio dell'anima lungo gli oscuri sentieri della morte»[7], fondatore dell'Orfismo. I molteplici temi chiamati in causa dal suo mito - l'amore, l'arte, l'elemento misterico - sono alla base di una fortuna senza pari nella tradizione letteraria, filosofica, musicale, culturale e scultorea dei secoli successivi.  Orfeo e l'Orfismo                       Modifica Il primo riferimento a noi pervenuto sulla figura di Orfeo è nel frammento 25 del lirico di Rhegion (Reggio Calabria) Ibico vissuto nel VI secolo a.C. nella Magna Grecia, nel quale appare già "famoso"[9]. Attorno alla sua figura mitica, capace di incantare persino gli animali[11], si assesta una tradizione che non gli attribuisce un normale modo di fare musica, bensì la psychagogia, che si estende alle anime dei morti. Il papiro di Derveni, rinvenuto negli anni 1960 vicino a Salonicco, offre un'interpretazione allegorica di un poema orfico non a caso in concomitanza con un rituale per placare i morti[12].  Associato alla figura di Dioniso, divorato dai Titani con i quali rappresenta, da un lato la componente dionisiaca della vita –ossia l'elemento divino o "anima"– e dall'altro il corpo mortale, Orfeo è la figura centrale dell'Orfismo, una tradizione religiosa che, per prima nel mondo occidentale, introduce la nozione di dualità fra corpo mortale e anima immortale[13].  Il mito                Modifica  Orfeo ucciso dalle menadi, in uno stamnos a figure rosse, risalente al V secolo a.C., oggi conservato al Museo del Louvre di Parigi. Questo dipinto racconta la morte di Orfeo secondo il mito che lo vuole ucciso dalle seguaci di Dioniso, da questo dio a lui inviate in quanto mosso dalla gelosia per l'ardore religioso che il poeta conservava nei confronti di Apollo, da lui invocato sul monte Pangaio (anche Pangeo) quando il sole, immagine di Apollo, sorgeva:  «[Orfeo] Non onorò più Dioniso, mentre considerò più grande Elio, che egli chiamò anche Apollo; e svegliandosi la notte sul far del mattino, per prima cosa aspettava il sorgere del sole sul monte chiamato Pangeo per vedere Elio; perciò Dioniso, adirato, gli inviò contro le Bassaridi, come racconta il poeta tragico Eschilo: esse lo dilaniarono e ne gettarono via le membra, ciascuna separatamente; le Muse poi riunitele, le seppellirono nel luogo chiamato Libetra.»  (fr. 113 in Testimonianze e frammenti nell'edizione di Otto Kern; traduzione di Elena Verzura. Milano, Bompiani, 2011, p. 99) Le origini                   Modifica Ulteriori informazioni Questa voce o sezione sugli argomenti religione e mitologia greca è priva o carente di note e riferimenti bibliografici puntuali. Secondo le più antiche fonti Orfeo è nativo della città di Lebetra in Tracia, situata sotto la Pieria[14], terra nella quale fino ai tempi di Erodoto era testimoniata l'esistenza di sciamani che fungevano da tramite fra il mondo dei vivi e dei morti, dotati di poteri magici operanti sul mondo della natura, capaci tra l'altro di provocare uno stato di trance tramite la musica.  Figlio della Musa Calliope e del sovrano tracio Eagro(o, secondo altre versioni meno accreditate, del dio Apollo), appartiene alla generazione precedente degli eroi che parteciparono alla guerra di Troia, tra i quali ci sarebbe stato il cugino Reso. Secondo un'altra versione Orfeo fu il sesto discendente di Atlante e nacque undici generazioni prima della guerra di Troia[14]. Egli, con la potenza incantatrice della sua lira e del suo canto, placava le bestie feroci e animava le rocce e gli elementi della natura.  Gli è spesso associato, come figlio o allievo, Museo.  Orfeo fonde in sé gli elementi apollineo e dionisiaco: come figura apollinea è il figlio o il pupillo del dio Apollo, che ne protegge le spoglie, è un eroe culturale, benefattore del genere umano, promotore delle arti umane e maestro religioso; in quanto figura dionisiaca, egli gode di un rapporto simpatetico con il mondo naturale, di intima comprensione del ciclo di decadimento e rigenerazione della natura, è dotato di una conoscenza intuitiva e nella vicenda stessa vi sono evidenti analogie con la figura di Dioniso per il riscatto dagli Inferi di una fanciulla (Euridice nel caso di Orfeo e la madre Semele in quello di Dioniso). Orfeo domina la natura selvaggia e può addirittura sconfiggere la morte temporaneamente (anche se alla fine viene sconfitto perdendo la persona che doveva salvare, a differenza di Dioniso).  La letteratura, d'altra parte, mostra la figura di Orfeo anche in contrasto con le due divinità: la perdita dell'amata Euridice sarebbe da rintracciarsi nella colpa di Orfeo di aver assunto prerogative del dio Apollo di controllo della natura attraverso il canto; tornato dagli Inferi, Orfeo abbandona il culto del dio Dionisorinunciando all'amore eterosessuale. In tale contesto si innamora profondamente di Calaide, figlio di Borea, e insegna l'amore omosessuale ai Traci. Per questo motivo, le Baccanti della Tracia, seguaci del dio, furenti per non essere più considerate dai loro mariti, lo assalgono e lo fanno a pezzi (vedi: Fanocle). Nella versione del mito contenuta nelle Georgiche di Virgiliola causa della sua morte è invece da ricercarsi nell'ira delle Baccanti per la sua decisione di non amare più nessuno dopo la morte di Euridice.  Le imprese di Orfeo e la sua morte          Modifica  Le ninfe ritrovano la testa di Orfeo(1900) di William Waterhouse. Secondo la mitologia classica, Orfeo prese parte alla spedizione degli Argonauti: durante la spedizione Orfeo diede innumerevoli prove della forza invincibile della sua arte, salvando la truppa in molte occasioni; con la lira e con il canto fece salpare la nave rimasta inchiodata nel porto di Jolco, diede coraggio ai naviganti esausti a Lemno, placò a Cizico l'ira di Rea, fermò le rocce semoventi alle Simplegadi, addormentò il drago e superò la potenza ammaliante delle sirene.  La sua fama è legata però soprattutto alla tragica vicenda d'amore che lo vide separato dalla driadeEuridice, che era sua moglie. Come Virgilio narra nelle Georgiche, Aristeo, uno dei tanti figli di Apollo, amava perdutamente Euridice e, sebbene il suo amore non fosse corrisposto, continuava a rivolgerle le sue attenzioni fino a che un giorno ella, per sfuggirgli, mise il piede su un serpente, che la uccise col suo morso. Orfeo, lacerato dal dolore, scese allora negli inferi per riportarla nel mondo dei vivi. Raggiunto lo Stige, fu dapprima fermato da Caronte: Orfeo, per oltrepassare il fiume, incantò il traghettatore con la sua musica. Sempre con la musica placò anche Cerbero, il guardiano dell'Ade. Raggiunse poi la prigione di Issione, che, per aver desiderato Era, era stato condannato da Zeus a essere legato a una ruota che avrebbe girato all'infinito: Orfeo, cedendo alle suppliche dell'uomo, decise di usare la lira per fermare momentaneamente la ruota, che, una volta che il musico smise di suonare, cominciò di nuovo a girare.  L'ultimo ostacolo che si presentò fu la prigione del crudele semidio Tantalo, che aveva ucciso il figlio Pelope (antenato di Agamennone) per dare la sua carne agli dei e aveva rubato l'Ambrosia per darla agli uomini. Qui, Tantalo è condannato a rimanere legato a un albero carico di frutta ed immerso fino al mento nell'acqua: ogni volta che prova a bere, l'acqua si abbassa, mentre ogni volta che cerca di prendere i frutti con la bocca, i rami si alzano. Tantalo chiede quindi a Orfeo di suonare la lira per far fermare l'acqua e i frutti. Suonando però, anche il suppliziato rimane immobilizzato e quindi, non potendo sfamarsi, continua il suo tormento. A questo punto l'eroe scese una scalinata di 1000 gradini: si trovò così al centro del mondo oscuro, e i demoni si sorpresero nel vederlo. Una volta raggiunta la sala del trono degli Inferi, Orfeo incontrò Ade (Plutone) e Persefone (Proserpina).  Ovidio racconta nel decimo libro delle Metamorfosi[15]come Orfeo, per addolcirli, diede voce alla lira e al canto. Il discorso di Orfeo fece leva sulla commozione, richiamando alla gioventù perduta di Euridice e l'enfasi sulla forza di un amore impossibile da dimenticare e sullo straziante dolore che la morte dell'amata ha provocato. Orfeo assicurò anche che, quando fosse venuta la sua ora, Euridice sarebbe tornata nell'Ade come tutti. A questo punto Orfeo rimase immobile, pronto a non muoversi finché non fosse stato accontentato.   Paesaggio con Orfeo ed Euridice (1650-51) di Nicolas Poussin. Mossi dalla commozione, che colse persino le Erinnistesse, Ade e Persefone acconsentirono al desiderio.   «Intonando al canto le corde della lira, così disse: «O dei, che vivete nel mondo degl’Inferi, dove noi tutti, esseri mortali, dobbiamo finire, se è lecito e consentite che dica il vero, senza i sotterfugi di un parlare ambiguo, io qui non sono sceso per visitare le tenebre del Tartaro o per stringere in catene le tre gole, irte di serpenti, del mostro che discende da Medusa. Causa del viaggio è mia moglie: una vipera, che aveva calpestato, in corpo le iniettò un veleno, che la vita in fiore le ha reciso. Avrei voluto poter sopportare, e non nego di aver tentato: ha vinto Amore! Lassù, sulla terra, è un dio ben noto questo; se lo sia anche qui, non so, ma almeno io lo spero: se non è inventata la novella di quell’antico rapimento, anche voi foste uniti da Amore. Per questi luoghi paurosi, per questo immane abisso, per i silenzi di questo immenso regno, vi prego, ritessete il destino anzitempo infranto di Euridice! (...) Si dice che alle Furie, commosse dal canto, per la prima volta si bagnassero allora di lacrime le guance. Né ebbero cuore, regina e re degli abissi, di opporre un rifiuto alla sua preghiera, e chiamarono Euridice.»  (Ovidio, Metamorfosi) Essi posero però la condizione che Orfeo avrebbe dovuto precedere Euridice per tutto il cammino fino all'uscita dell'Ade senza voltarsi mai all'indietro. Esattamente sulla soglia degli Inferi, temendo che lei non lo stesse più seguendo, Orfeo non riuscì più a resistere al dubbio e si voltò per assicurarsi che la moglie lo stesse seguendo. Avendo rotto la promessa, Euridice viene riportata all'istante nell'Oltretomba.  Orfeo, tornato sulla terra, espresse il dolore fino ai limiti delle possibilità artistiche, incantando nuovamente le fiere e animando gli alberi. Pianse per sette mesi ininterrottamente, secondo Virgilio,[16]mentre Ovidio riduce il numero a sette giorni.[17] Sa che non potrà amare più nessun'altra, e malgrado ciò molte ambiscono a unirsi a lui. Secondo la versione virgiliana le donne dei Ciconi videro che la fedeltà del Trace nei confronti della moglie morta non si piegava; allora, in preda all'ira e ai culti bacchici cui erano devote, lo fecero a pezzi (il famoso sparagmòs) e ne sparsero i resti per la campagna.[18]  Un po' diversa è la rivisitazione del poeta sulmonese, che aggiunge un tassello alla reazione anti-femminile di Orfeo, coinvolgendo il cantore nella fondazione dell'amore omoerotico (questo elemento non è di invenzione ovidiana visto che ne abbiamo attestazione già nel poeta alessandrino Fanocle). Orfeo avrebbe quindi ripiegato sull'amore per i fanciulli, facendo innamorare anche i mariti delle donne di Tracia, che venivano così trascurate. Le Menadi si infuriarono dilaniando il poeta, nutrendosi anche di parte del suo corpo, in una scena ben più cruda di quella virgiliana.[19]   Piatto con Orfeo circondato da animali presso il Museo Romano-Germanico di Colonia. In entrambi i poeti si narra che la testa di Orfeo finì nel fiume Ebro, dove continuò prodigiosamente a cantare, simbolo dell'immortalità dell'arte, scendendo (qui solo Ovidio) fino al mare e da qui alle rive di Metimna, presso l'isola di Lesbo, dove Febo Apollo la protesse da un serpente che le si era avventato contro. Il sofista del III secolo Filostrato nell'Eroico (28,8) racconta che la testa di Orfeo, giunta a Lesbo dopo il delitto commesso dalle donne, stava in una grotta dell'isola e aveva il potere di dare oracoli. Secondo altre versioni, i resti del cantore sarebbero stati seppelliti dalle impietosite Muse nella città di Libetra. Tornando a Ovidio, eccoci al punto culminante dell'avventura, forse inaspettato; Orfeo ritrova Euridice fra le anime pie, e qui potrà guardarla senza più temere.[20]  Orfeo vede ora scomparire Euridice e si dispera, perché sa che non la vedrà più. Decide allora di non desiderare più nessuna donna dopo la sua Euridice. Un gruppo di Baccanti ubriache, poi, lo invita a partecipare a un'orgia dionisiaca. Per tener fede a ciò che ha detto, rinuncia, ed è proprio questo che porta anche lui alla morte: le Baccanti, infuriate, lo uccidono, lo fanno a pezzi e gettano la sua testa nel fiume Evros, insieme alla sua lira. La testa cade proprio sulla lira e galleggia, continuando a cantare soavemente. Zeus, toccato da questo evento commovente, prende la lira e la mette in cielo formando una costellazione (la quale in alternativa, secondo le Fabulae di Igino, sarebbe non la lira di Orfeo ma quella di Arione). Secondo quanto afferma Virgilio nel sesto libro dell'Eneide, l'anima di Orfeo venne accolta nei Campi Elisi.  Evoluzione del mito         Modifica  Ragazza tracia con la testa di Orfeo (1865), di Gustave Moreau. «Pensavo a quel gelo, a quel vuoto che avevo traversato e che lei si portava nelle ossa, nel midollo, nel sangue. Valeva la pena di rivivere ancora? Ci pensai, e intravvidi il barlume del giorno. Allora dissi "sia finita" e mi voltai»  (Orfeo ne L'inconsolabile di Cesare Pavese, dai Dialoghi con Leucò, Einaudi 1947) Il mito di Orfeo nasce forse come mito di fertilità, come è possibile desumere dagli elementi del riscatto della Kore e dello σπαραγμος (sparagmòs) al greco antico "corpo fatto a pezzi") che subisce il corpo di Orfeo, elementi che indicano il riportare la vita sulla terra dopo l'inverno.  La prima attestazione di Orfeo è nel poeta Ibico di Reggio (VI sec a.C.), che parla di Orfeo dal nome famoso.[21] In seguito Eschilo, nella tragedia perduta Le bassaridi, fornisce le prime informazioni attinenti alla catabasi di Orfeo. Importanti anche i riferimenti di Euripide, che in Ifigenia in Aulide e ne Le baccantirende manifesta la potenza suasoria dell'arte di Orfeo, mentre nell'Alcesti spuntano indizi che portano in direzione di un Orfeo trionfatore. La linea del lieto fine, sconosciuta ai più, non si limita a Euripide, dato che è possibile intuirla anche in Isocrate (Busiride) e in Ermesianatte (Leonzio).[22] Altri due autori greci che si sono occupati del mito di Orfeo proponendo due diverse versioni di esso sono il filosofo Platone e il poeta Apollonio Rodio.  Nel discorso di Fedro, contenuto nell'opera Simposio, Platone inserisce Orfeo nella schiera dei sofisti, poiché utilizza la parola per persuadere, non per esprimere verità; egli agisce nel campo della doxa, non dell'episteme. Per questa ragione gli viene consegnato dagli dèi degli inferi un phasma di Euridice; inoltre, non può essere annoverato tra la schiera dei veri amanti poiché il suo eros è falso come il suo logos. La sua stessa morte ha carattere antieroico poiché ha voluto sovvertire le leggi divine penetrando vivo nell'Ade, non osando morire per amore. Il phasma di Euridice simboleggia l'inadeguatezza della poesia a rappresentare e conoscere la realtà, conoscenza che può essere conseguita solo tramite le forme superiori dell'eros.[23]  Apollonio Rodio inserisce il personaggio di Orfeo nelle Argonautiche, presentato anche qui come un eroe culturale, fondatore di una setta religiosa. Il ruolo attribuito a Orfeo esprime la visione che del poeta hanno gli alessandrini: attraverso la propria arte, intesa come abile manipolazione della parola, il poeta è in grado di dare ordine alla materia e alla realtà; a tal proposito è emblematico l'episodio nel quale Orfeo riesce a sedare una lite scoppiata tra gli argonauti cantando una personale cosmogonia.  Nell'Alto Medioevo Boezio, nel De consolatione philosophiae, pone Orfeo a emblema dell'uomo che si chiude al trascendente, mentre il suo sguardo, come quello della moglie di Lot, rappresenta l'attaccamento ai beni terreni. Nei secoli successivi, tuttavia, il Medioevo vedrà in Orfeo un'autentica figura Christi, considerando la sua discesa agli Inferi come un'anticipazione di quella del Signore, e il cantore come un trionfante lottatore contro il male e il demonio (così anche più tardi, con El divino Orfeo di Pedro Calderón de la Barca, 1634). Dante lo colloca nel Limbo, nel castello degli "spiriti magni" (Inf. IV. 139).   Nel 1864 compare la prima rivoluzionaria avvisaglia di un tema che sarà caro soprattutto al secolo successivo: il respicere di Orfeo non è più frutto di un destino avverso o di un errore, ma matura da una precisa volontà, ora sua, ora d'Euridice. Nel componimento Euridice a Orfeo del poeta inglese Robert Browning, lei gli urla di voltarsi per abbracciare in quello sguardo l'immensità del tutto, in una empatia tale da rendere superfluo qualsiasi futuro.  Il XX secolo si è appropriato della tesi secondo cui il gesto di Orfeo sarebbe stato volontario. Come è d'uopo, i primi casi non sono italiani. Jean Cocteau, ossessionato da questo mito lungo tutta la propria parabola artistica, nel 1925, diede alle stampe il proprio singolare Orfeo, opera teatrale che è alla base di tutte le rivisitazioni successive. Qui Orfeo capovolge il mito; decide di congiungersi con Euridice tra i morti, perché l'al di qua ha ormai reso impossibile l'amore e la pace. Laggiù non ci sono più rischi. Gli fa eco il connazionale Jean Anouilh, in un'opera pur molto diversa, ma concorde nel vedere la morte come unica via di fuga e di realizzazione del proprio sogno d'amore: si tratta di Eurydice (1941).  Nel dialogo pavesiano L'inconsolabile (Dialoghi con Leucò, 1947), Orfeo si confida con Bacca: trova sé stesso nel Nulla che intravede nel regno dei morti e che lo sgancia da ogni esigenza terrena. Totalmente estraneo alla vita, egli ha compiuto il proprio destino. Euridice, al pari di tutto il resto, non conta più nulla per lui, e non potrebbe che traviarlo da siffatta realizzazione di sé: ha nelle fattezze ormai il gelo della morte che ha conosciuto, e non rappresenta più l'infanzia innocente con cui il poeta l'identificava. Voltarsi diviene un'esigenza ineludibile.  «L'Euridice che ho pianto era una stagione della vita. Io cercavo ben altro laggiù che il suo amore. Cercavo un passato che Euridice non sa. L'ho capito tra i morti mentre cantavo il mio canto. Ho visto le ombre irrigidirsi e guardar vuoto, i lamenti cessare, Persefone nascondersi il volto, lo stesso tenebroso-impassibile, Ade, protendersi come un mortale e ascoltare. Ho capito che i morti non sono più nulla»  Più cinico, l'Orfeo delineato da Gesualdo Bufalino nel 1986[24] intona, al momento del "respicere", la famosa aria dell'opera di Gluck (Che farò senza Euridice?). La donna così capisce: il gesto era stato premeditato, nell'intenzione di acquisire gloria personale attraverso una (finta) espressione del dolore, in un'esaltazione delle proprie capacità artistiche.  Opere in cui appare o è trattata la sua figura         Modifica Letteratura                                         Modifica Simposio (discorso di Fedro) - opera filosofica di Platone. Argonautiche - poema epico di Apollonio Rodio. Elegia n.1 Powell - Orfeo e Calais - elegia contenuta ne Gli amori o i belli di Fanocle. Georgiche (libro IV) - poema di Virgilio. Eneide (libro VI) - poema di Virgilio (Orfeo è tra gli spiriti dei Campi Elisi; Virgilio lo chiama sacerdote di Tracia, senza dunque nominarlo) Metamorfosi (libri X e XI) - poema di Ovidio. Fabula di Orfeo - Opera teatrale di Angiolo Poliziano. Orfeo - idillio di Giovan Battista Marino. Euridice ad Orfeo - epistola lirica di Antonio Bruni. Sonetti a Orfeo - raccolta poetica di Rainer Maria Rilke. Orfeo, Euridice ed Hermes - poesia di Rainer Maria Rilke La persuasione e la rettorica - saggio di Carlo Michelstaedter (il rimando al mito di Orfeo è centrale anche nel ciclo di poesie A Senia, del medesimo Michelstaedter). Canti orfici - raccolta poetica di Dino Campana. Orfeo Vedovo - opera teatrale di Alberto Savinio. Tutte le cosmicomiche di Italo Calvino (racconti Senza Colori, Il cielo di pietra, L'altra Euridice). Il ritorno di Euridice (da L'uomo invaso) - racconto di Gesualdo Bufalino. Eurydice to Orpheus - poesia di Robert Browning. Eurydice (da Collected Poems) - poesia di Hilda Doolittle. Orphée - opera teatrale di Jean Cocteau. Eurydice - opera teatrale di Jean Anouilh. Orfeo - poema di Juan Martinez Jáuregui. Racconto di Orfeo - poema di Robert Henryson (o Henderson). Bestiaire ou Le cortège d'Orphée - raccolta poetica di Guillaume Apollinaire. La presenza di Orfeo - prima raccolta poetica di Alda Merini. Orfeo emerso - romanzo di Jack Kerouac. La terra sotto i suoi piedi - romanzo di Salman Rushdie. Il lamento d'Orfeo - opera teatrale di Valentino Bompiani. Dialoghi con Leucò - raccolta di racconti di Cesare Pavese (Orfeo appare nel dialogo L'inconsolabile). La discesa di Orfeo (Orpheus Descending), opera teatrale di Tennessee Williams. La Saga dei Mitago - Il Tempio Verde - di Robert Holdstock. Orfeo africano - romanzo breve di Werewere Liking. Lei dunque capirà - monologo di Claudio Magris. Orpheus - opera teatrale di Giuliano Angeletti. "Schatten" Euridyke sagt - opera teatrale di Elfriede Jelinek Poema a fumetti, (racconto per immagini del mito di Orfeo in chiave moderna) di Dino Buzzati, Mondadori. La Musica, Orfeo, Euridice – Il mitema e l'adeguamento al contemporaneo, di Francesca Bonaita, Virginio Cremona Editore Orfeo sconsacrato. Viaggio nelle vite di Orfeo, Danilo Laccetti, Jouvence, 2019 Musica             Modifica Magnifying glass icon mgx2.svg                           Lo stesso argomento in dettaglio: Orfeo (musica). Euridice (opera) - opere teatrali su libretto di Ottavio Rinuccini musicate da Iacopo Peri e da Giulio Caccini (1600). L'Orfeo - Melodramma di Claudio Monteverdi (1607). Orfeo dolente - Opera musicale di Domenico Belli(1616). La morte di Orfeo - Tragicommedia pastorale di Stefano Landi (1619). Orfeus und Euridice - Opera-ballo di Heinrich Schütz (1638). Orfeo - Opera musicale di Luigi Rossi (1647). Orfeo (Sartorio) - Opera musicale di Antonio Sartorio, su libretto di Aurelio Aureli (1673). Orfeo - Opera musicale di Jean-Baptiste Lully e Louis Lully (1690). Orfeo ed Euridice - Opera musicale di Christoph Willibald Gluck (1762). Orfeo ed Euridice - Ballo di Florian Johann Deller(1763). Orfeo ed Euridice - Opera lirica di Johann Gottlieb Naumann (1786). L'anima del filosofo ossia Orfeo ed Euridice - Opera musicale di Franz Joseph Haydn (1791). Orpheus - Poema sinfonico di Franz Liszt (1853-54). Orfeo all'inferno - Operetta di Jacques Offenbach(1858). Orfeo - Mimodramma di Roger Ducasse (1913). Orpheus und Eurydike - Opera lirica di Ernst Krenek(1926). La favola di Orfeo - Opera in un atto di Alfredo Casella (1934) Orpheus - Balletto di Igor' Fëdorovič Stravinskij(1947). Orfeu da Conceiçāo - Dramma musicale di Vinícius de Moraes (1947). Orfeo 9 - Opera rock di Tito Schipa Jr. (1970). Orpheus - Canzone di David Sylvian (1987) contenuta nell'album Secrets of the Beehive. Euridice - Canzone di Roberto Vecchioni dall'album Blumùn (1993) Orfeo - Singolo di Carmen Consoli (2000) contenuta nell'album Stato di necessità. Orfeo a Fumetti - Opera da camera di Filippo del Corno (2001). Abattoir Blues/The Lyre of Orpheus - album del 2004 di Nick Cave and The Bad Seeds, che contiene la traccia The Lyre Of Orpheus. Metamorpheus - Concept album dedicato al mito di Orfeo di Steve Hackett (2005). Eurydice - singolo d'esordio del progetto Sleepthief(2006). Orfeo Coatto - Mp3dramma di Francesco Redig de Campos 2009. Caliti junku, canzone dell'album Apriti sesamo di Franco Battiato, 2012. Awful Sound (Oh Eurydice) e It's Never Over (Hey Orpheus), canzoni dell'album Reflektor degli Arcade Fire, 2013. King of Shadows - track 1 dell'album R-Evolution2014 - Martiria featuring ex Black Sabbath Vinny Appice. Pittura                                            Modifica Orfeo morto - Dipinto di Jean Delville. Le ninfe ritrovano la testa di Orfeo - Dipinto di John William Waterhouse. Orfeo - Dipinto di Tintoretto. Orfeo solitario - Dipinto di Giorgio de Chirico Orfeo all'inferno - Dipinto di Rubens. La leggenda di Orfeo - Trittico di Luigi Bonazza. Ragazza tracia con la testa di Orfeo - Dipinto di Gustave Moreau. Orfeo - Dipinto di Pierre Marcel-Béronneau Scultura                                                   Modifica  La morte di Orfeo di Michele Tripisciano a Caltanissetta. Orfeo, Euridice ed Hermes - Rilievo fidiaco. Orfeo, formella di Luca della Robbia per il Campanile di Giotto. Orfeo ed Euridice, scultura di Auguste Rodin, New York, Metropolitan Museum of Art, 1893. La morte di Orfeo scultura di Michele Tripisciano, Caltanissetta, Museo Tripisciano di Palazzo Moncada, 1898[25]. Cinema                            Modifica Le sang d'un poète, di Jean Cocteau Orfeo (Orphée, 1949), di Jean Cocteau Il testamento di Orfeo (Le Testament d'Orphée, ou ne me demandez pas pourquoi!, 1959), di Jean Cocteau Pelle di serpente (The fugitive kind) di Sidney Lumet, dal dramma di Tennessee Williams Orpheus Descending Orfeo negro (Orfeu Negro, 1959), di Marcel Camus; dal dramma di Vinícius de Moraes. Harry a pezzi di Woody Allen Tre colori - Film blu (Film bleu, 1992) di Krzysztof Kieslowski Al di là dei sogni (Where dreams may come, 1997) di Vincent Ward Solaris di Steven Soderbergh Ritratto della giovane in fiamme di Céline Sciamma Fumetti e animazione Modifica Orfeo della Lira è un personaggio del manga e anime Saint Seiya (I cavalieri dello zodiaco).  Orfeo è figlio di Sogno nei fumetti Sandman scritti da Neil Gaiman.  Videogiochi                                                    Modifica Orfeo (Orpheus) è il Persona iniziale del protagonista del videogioco Shin Megami Tensei: Persona 3  Orfeo (Orpheus) compare anche nel viodeogioco Hades come personaggio secondario, legato ad una questline che, riprendendo il mito greco, coinvolge anche il personaggio di Euridice  Note                               Modifica ^ Cristopher Riedweg, Orfeo, in Salvatore De Settis (a cura di), Storia Einaudi dei Greci e dei Romani, vol. 4, Milano-Torino, Il Sole 24 Ore - Einaudi, 2008, p. 1259, SBN IT\ICCU\TO0\1712319. ^ Pausania, Viaggio in Grecia, traduzione di Salvatore Rizzo, Milano, Rizzoli, 2011, p. 243, ISBN 978-88-17-04635-0. ^ Anche Conone, f. 45 (115 Frammenti orfici, nella edizione di Otto Kern). ^ «Orfeo, fondatore dell'Orfismo» è l'incipit della voce nell'Oxford Classical Dictionary (trad. it. Dizionario di antichità classiche, Cinisello Balsamo (Milano), San Paolo, 1995, p. 1521, ISBN 88-215-3024-8.), voce firmata da Nils Martin Persson Nilsson, Johan Harm Croon e Charles Martin Robertson. La voce dell'Oxford Classical Dictionary prosegue precisando: «La sua fama di cantore nella mitologia greca deriva dalle composizione nelle quali erano esposte le dottrine e le leggende orfiche». In modo analogo la Encyclopedia of Religion ( NY, Macmillan, 2005   [1987] , pp. 6891 e sgg., ISBN 0-02-865733-0, SBN IT\ICCU\UMC\0030411. ) avvia la voce Orpheus a firma di Marcel Detienne(1987) e Alberto Bernabé (2005): «In the sixth century BCE, a religious movement that modern historians call Orphism appeared in Greece around the figure of Orpheus, the Thracian enchanter.». Werner Jaeger evidenzia tuttavia che «nella tarda antichità Orfeo era un nome collettivo il quale più o meno raccoglieva tutto quanto esisteva in fatto di letteratura mistica e di orge liturgiche.» (Cfr. La teologia dei primi pensatori greci, traduzione di Ervino Pocar, Firenze, La Nuova Italia, 1982, p. 100, SBN IT\ICCU\UFI\0058276.). ^ Orfeo, Pitagora e la nuova escatologia, in Storia delle credenze e delle idee religiose, vol. 2, Milano, Rizzoli, 2006, p. 186, SBN IT\ICCU\RMB\0590138. ^ Marcel Detienne (1987) e Alberto Bernabé, Encyclopedia of Religion, vol. 10, NY, Macmillan, 2005, p. 6892, ISBN 0-02-865743-8. «Thus, before he becomes the founding hero of a new religion or even the founder of a way of life that will be named after him, Orpheus is a voice—a voice that is like no other. It begins before songs that recite and recount. It precedes the voice of the bards, the citharists who extol the great deeds of men or the privileges of the divine powers. It is a song that stands outside the closed circle of its hearers, a voice that precedes articulate speech. Around it, in abundance and joy, gather trees, rocks, birds, and fish. In this voice—before the song has become a theogony and at the same time an anthropogony—there is the great freedom to embrace all things without being lost in confusion, the freedom to accept each life and everything and to renounce a world inhabited by fragmentation and division. When representatives of the human race first appear in the presence of Orpheus, they wear faces that are of war and savagery yet seem to be pacified, faces that seem to have turned aside from their outward fury.» ^ Giulio Guidorizzi, Il mito greco, vol. 1, Milano, Mondadori, 2009, p. 77, ISBN 978-88-04-58347-9. ^ La sapienza greca, traduzione di Giorgio Colli, vol. 1, Milano, Adelphi, 2005, ISBN 88-459-0761-9. ^ (GRC)  «ὀνομακλυτὸν Ὀρφήν.»  (IT)  «Orfeo dal nome famoso.»  (Ibico 4 [A 1] a.[8]) ^ Orfici. Testimonianze e frammenti nell'edizione di Otto Kern, traduzione di Elena Verzura, Milano, Bompiani, 2011, pp. 60-61, ISBN 978-88-452-6688-1. ^ (GRC)  «τοῦ καὶ ὰπειρέσιοι ποτῶντο ὄρνιζες ὑπὲρ κεφαλᾶς, ἀνὰ δ'ἰχθύες ὀρθοὶ κνανέου ἐξ ὓδατος ἃλλοντο καλᾶι σὺν ἀοιδᾷι»  (IT)  «Sul suo capo volavano anche innumerevoli uccelli e diritti dalla profondità dell'acqua cerulea i pesci guizzavano in alto al suo bel canto.»  (Simonides fr. 40; PLG III p. 408[10]) ^ ( EN ) Betegh, G., The Derveni Papyrus: Cosmology, Theology and Interpretation, Cambridge, 2004. ^ Giovanni Reale, La novità di fondo dell'Orfismo, in Storia della filosofia greca e romana, vol. 1, Milano, Bompiani, 2004, pp. 62-3. ^ a b DK 1 A1. ^ vv.1-85. ^ Georgiche, libro IV. ^ Metamorfosi, libro XI. ^ Virgilio, cit. ^ Metamorfosi, libro XI. ^ Nel libro XI delle Met. Il mito è narrato nei versi 1-66. ^ S. Jacquemard e J. Brosse, Orfeo o l'iniziazione mistica, traduzione di Dag Tessore, Roma, Borla, 2001, p. 7, ISBN 88-263-1375-X. ^ A. Rodighiero, Gli autori e i testi, in M. G. Ciani e A. Rodighiero (a cura di), Orfeo. Variazioni sul mito, Venezia, 2004, pp. 136-138, ISBN 88-317-8445-5. ^ Discorso di Fedro, in Platone, Simposio, 179 E. ^ Siamo nel racconto Il ritorno di Euridice, ne L'uomo invaso; per questo e tutti gli altri riferimenti cfr. A. Rodighiero, cit., pp. 141 e ss.; per una panoramica dettagliata delle riprese novecentesche della vicenda del cantore tracio cfr. M. di Simone, Amore e morte in uno sguardo. Il mito di Orfeo e Euridice tra passato e presente, Firenze, 2003, ISBN 88-8415-030-2. ^ AA.VV., Michele Tripisciano, su storiapatriacaltanissetta.it, Caltanissetta, Società Nissena di Storia Patria, Anno VII, n° 12. URL consultato il 22 settembre 2013. Bibliografia critica            Modifica Jacques Brosse e Simone Jacquemard, Orfeo o l'iniziazione mistica, traduzione di Dag Tessore, Roma, Borla, 2001, ISBN 88-263-1375-X. Andrea Cannas, Lo sguardo di Orfeo, Roma, Bulzoni, 2004, ISBN 88-8319-960-X. Maria Grazia Ciani e Andrea Rodighiero (a cura di), Orfeo. Variazioni sul mito, Venezia, Marsilio, 2004, ISBN 88-317-8445-5. Marina di Simone, Amore e morte in uno sguardo. Il mito di Orfeo e Euridice tra passato e presente, Firenze, Libri liberi, 2003, ISBN 88-8415-030-2. Giulio Guidorizzi e Marxiano Melotti (et al.), Orfeo e le sue metamorfosi, Roma, Carocci, 2005, ISBN 88-430-3348-4. Gilberto Lonardi, Alcibiade e il suo demone. Parabole del moderno tra D'Annunzio e Pirandello, Verona, Essedue Edizioni, 1988, ISBN 88-85697-22-4. Édouard Schuré, I grandi iniziati, traduzione di Arnaldo Cervesato, Bari, Laterza, 1995, SBN IT\ICCU\BVE\0079473. Charles Segal, Orfeo. Il mito del poeta, traduzione di Daniele Morante, Torino, Einaudi, 1995, ISBN 88-06-12469-2. Reynal Sorel, Orfeo e l'orfismo, traduzione di Luigi Ruggeri, Nardò, Besa, 2015   [2003] , ISBN 978-88-6280-146-1, SBN IT\ICCU\URB\0377948. Ediz. orig. ( FR ) Orphée et l'orphisme, Parigi, Presses Universitaires de France, 1995, SBN IT\ICCU\MIL\0277224. Voci correlate                       Modifica Euridice (ninfa) Orfeo (musica) Orfismo Decapitazione Altri progetti   Modifica Collabora a Wikiquote Wikiquote contiene citazioni di o su Orfeo Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Orfeo Collegamenti esterni                                             Modifica Orfeo, su Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su Wikidata Augusto Rostagni, ORFEO, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1935. Modifica su Wikidata ( EN ) Orfeo, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su Wikidata Controllo di autorità VIAF ( EN ) 309825473 · CERLcnp00931153 · LCCN ( EN ) n2014043594 ·GND ( DE ) 118590278 · J9U( EN ,  HE ) 987007319025005171 (topic) ·WorldCat Identities ( EN ) lccn-n2014043594   Portale Letteratura   Portale Mitologia greca Ultima modifica 8 giorni fa di 47.53.237.91 PAGINE CORRELATE Orfeo (nome) prenome maschile  Euridice (ninfa) driade della mitologia greca, moglie di Orfeo  Fabula di Orfeo Wikipedia Il contenutoGiuseppe Faggin. Faggin. Keywords: metrica filosofica, Lucrezio, inno orfico, inni orfici, philosophy of the toad – rospo – l’orfismo nella Roma antica; filosofia antica – l’antico nel rinascimento italiano – occultismo – misticismo – protestantismo italiano – Italia contro Roma. Fedro, ovvero del bellow, Dal bello al divino – Il peregrine cherubico – l’arbero come simbolo – il fuoco come simbolo – la luce come simbolo – canti orfici – sul bello -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Faggin” – The Swimming-Pool Library.  https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51762103188/in/dateposted-public/

 

Grice e Falciglia – senso e sensibilita -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Salemi). Filosofo. rice: “I like Falciglia; for one, he took dialectic seriously, as any Aristotelian does! So he wrote on sensus compositum, on ‘definitio,’ on ‘demonstratio,’ and he even ventured on moral philosophy – in a nutshell, the perfect Aristotelite!” --  Studia a Salemi per essere poi trasferito a Padova per proseguine negli studi sotto Paolo da Venezia e Giovanni di Cipro. Insegna a Siena, Bologna, Rimini. Altre opere: “Statuta pro conventu Parisiensi”; “De sensu composito”; “De medio demostrationis”, “De sophistarum regulis, Terminorum moralium, tractatus singularis, Definitiones et additions super constitutions, necnon formularium et privilegia ordinis -- Dizionario biografico degli italiani. Grice: Falciglia’s “De sensu composito” should  not be mistaken with “De sensu composito et diviso” by another Philosopher – Paolo di Pergamo --  sensus compositus: composite or compounded sense. The term has two applications. (1) A logical application, as distinguished from a divided or isolated sense (sensus divisus). In the composite sense (in sensu composito), a subject is understood in necessary connection with or as conditioned by its predicates or attributes; in the divided sense (in sensu diviso), the subject is understood in a hypothetical or contingent relationship to its predicates or attributes. Thus in the composite sense, it is necessary that a blind man cannot see or that a man who is running is in motion; whereas in the divided sense, a man is now blind, but it is possible that he could see; a man is now running, and it is possible that he stand still. The sensus compositus can be used to indicate a necessity of the consequent thing (necessitas consequentis, q.v.), while the sensus divisus can be used to indicate a contingency, namely, a necessity of the consequence (necessitas consequentiae, q.v.). And (2) a rhetorical or exegetical application, also identified as the sensus literalis compositus: composite or compounded literal sense; viz., either the literal meaning understood as a figure or type, with the allegorical, mystical, or moral sense embedded figuratively in the text as part of the literal meaning, or the literal sense of a larger unit as distinguished from the sense of an individual term, particularly in cases where one term is in itself unclear or subject to multiple interpretations but capable of a clear, unitary sense in its context. When the composite sense of a text rests on figurative meaning or on a type that is fully understood only with a view to its antitype, the Protestant exegesis stands in positive relation to the medieval quadriga (q.v.), albeit capable of denying multiple meanings.  sensus divisus: the divided sense; i.e., the meaning of a word or idea in itself apart from its general relation to other words of a text or apart from its logical relation to another term or thing; the opposite of sensus compositus (q.v.).  and fear of death.42 Thus physics is entirely subordinate to ethics, being merely the necessary means whereby the ethical goal is achieved. This is a point which it is particularly important to remember when reading the DRN, for although Lucretius is a perfectly orthodox Epicurean and is not concerned with scientific inquiry for its own sake,43 the great bulk of his subject-matter is scientific and he gives no systematic account of Epicurean ethical theory. His reasons for concentrating on physics will be considered in § 3.  As Diogenes Laertius (10.30) points out, Epicurus’ system “is divided into three parts: Canonic, Physics, and Ethics.”  The Canonic44 is his theory of knowledge. There are three criteria of truth: sensation, preconceptions, and feelings. Sensation (αἴσθησις, sensus) is the primary standard of truth (Lucr. 1.422-425). If an error is made, that is not because the sensation is not true, but because the reason draws a wrong conclusion from the evidence which the sensation provides (Lucr. 4.379-468). With the repetition of sensations, images of each class of things accumulate in the mind to form a general idea or preconception (πpόληψις, notities, anticipatio, praenotio) to which other examples are referred (e.g.Lucr. 5.182, 1046-1049). Without these preconceptions, attainment of scientific  xxx knowledge would be impossible, for sensation by itself is “irrational and incapable of memory” (Diogenes Laertius 10.31). As for the third criterion of truth, “there are two feelings (πάθη), pleasure and pain, which affect every living creature, the former being congenial to it, the latter repugnant; it is through these that choice and avoidance are determined” (Diogenes Laertius 10.34). Thus the feelings of pleasure and pain are the supreme test in matters of morality and conduct, and since they are a part of sensation, it is true to say that Epicurus’ ethical theory, like his physical theory, is founded on the validity of sensation.45  Epicurus derived his physical theory from Democritus (c. 460-c. 370), who had adopted and elaborated the atomic theory invented by Leucippus. However, he made some important alterations to Democritus’ theory, and differed from him in making physics subservient to ethics.  The first principles of Epicurean physics are that “nothing is created out of nothing” (Lucr. 1.150-151, 155-156, 159-214) and “nothing is destroyed into nothing” (Lucr. 1.215-264). In other words, Epicurus shared the belief of other ancient physicists in the conservation of matter. The universe (τὸ πᾶν, omne) consists of matter (σῶμα, corpus) and void (τὸ κενόν, inane). These are the only ultimate realities: nothing that is distinct from them can exist (Lucr. 1.430-448). That matter exists is proved by sensation; and if there were no void, matter would be unable to move (Lucr. 1.335-345, 370-383, 426-428), whereas sensation tells us that it does move.   Mentre nella storia della filosofia la parola sensocompare, a partire dalla αίσθησις di Aristotele[1], per indicare la facoltà di "sentire" (cioè di percepire l'azione di oggetti interni al corpo o esterni ad esso), le origini del sensismo, come filosofia, possono ritrovarsi in alcune affermazioni dei sofisti. [1] Aristotele, De anima (II, 5, 416 b 33) aveva dato una definizione del tutto corretta e coerente col pensiero del tempo, ancora molto lontano dal concepire una possibile sensibilità specifica di un essere umano come caratteristica peculiare della sua individualità.Giuliano Falciglia. Falciglia. Keywords: sensus, sentiment, sense and sensibilia, sentient, sensus divisus, sensus compositum – philosophy of the ‘senses’ – the use of Roman ‘sensus’ in Boezio.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Falciglia” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51689559666/in/photolist-2mKCvfA-2mKyrnu

 

Grice e Falzea – QVOD PRINCIPII PLACVIT LEGIS HABET RIGOREM – il sentiment condiviso -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Messina). Filosofo. Grice: “I like Falzea; for one he applies Apollonian principles to H. L. A. Hart’s analysis of ‘discorso giuridico’ – alla ‘discorso musicale’ – after all, there is ‘armonia’ in justice!” – Si laurea sotto Pugliatti a Messina. Insegna a Messina. Lincei. Sua costante preoccupazione è stata quella di integrare, sempre ed opportunamente, la prospettiva astratta logico-formale e filosofica con quella pragmatica del diritto mirante a fornire quel necessario ordine giuridico indispensabile alla co-esistenza pacifica di vita materiale, vita spirituale e vita sociale. Fra i suoi maggiori risultati, la centralità della nozione dell’’intersoggettivo”, “l’interazione” – “l’interpersonale” -- pensato sia astrattamente che in relazione alle correlative persone la fondazione di una etica giuridica e l'elaborazione di una assiologia del diritto, frutto rispettivamente della sua incisiva indagine critica ed ampia comprensione concettuale delle nozioni di ”valore“ da porre, al centro della sua filosofia giuridica, assieme a quello di “interesse” (cf. Prichard), e di “categoria giuridica” formale, quali nuclei fondanti del corpus dottrinario della giurisprudenza. Da qui, la constatazione di principio secondo cui “il giuridico”, nella sua accezione più ampia come fatto storico-sociale dinamico e non statico, si analizza nelle sue due componenti principali, quella ”formale“ e quella “materiale”, da considerarsi sempre in un reciproco, razionale equilibrio co-relativo garante di quella realtà umana fattuale del interesse e del valore. Il perno epistemologico dell'impianto teorico, quale presupposto ineludibile per l'esistenza di un qualsiasi “stato di diritto”, è quello che fa leva sull'imprescindibile ruolo formalizzante che ogni determinazione giuridica cogente deve avere nel catturare, indi razionalizzare (forma), quel nucleo affettivo-emotivo (materia) insito in ogni fatto umano consuetudinario della vita. Il diritto, come realtà assiologica, è quella naturale concezione cui si perviene allorché si abbandona quella riduttiva visione formalistica ed astratta della giurisprudenza la quale, invece, deve guardare alla realtà fattuale ed alle sue dinamiche complesse e multi-fattoriali, ai suoi contenuti pragmatici, di valore ed d’interesse. Da qui, la necessaria interdisciplinarità cui deve sottostarepur mantenendo la propria autonomia la costante giurisprudenza per non cadere in un anacronistico e sterile formalismo privo di materia. La forte, quasi esasperata dimensione teoretica (ma mai grettamente dogmatica) espressa non solo da un punto di vista meramente logico-formale ma sempre contestualizzata alla variegata problematicità e storicità della realtà umana, si evince, in tutta la sua evidenza, dagli scritti dedicati ai problemi di teoria generale del diritto, affrontati, oltre che in alcuni suoi lavori monografici, in certe voci la lui redatte per l'Enciclopedia del Diritto, sì da costituire dei classici della letteratura giuridica contemporanea: fra queste, accertare, apparire, efficacia giuridica, fatto giuridico. Fra i molti contributi dati da Falzea all'elaborazione teorica dell'ordinamento giuridico, in raccordo a quanto detto sopra, degno di nota è l'aver egli richiamata l'attenzione nella voce ”I fatti del sentimento“, sulla scia di parte del pensiero di Pugliatti sulla rilevanza giuridica del sentimento, inteso non come un principio generale dell'ordinamento, bensì come un vero e proprio sentimento soggetivo ed intersoggetivo – shared feelings -- fattualmente rilevante per l’interazione interpersonale, che la norma giuridica, specie quelle del diritto civile, classificano come un valore positivo, da rispettare dunque, o negativo (“disvalore”), da reprimere invece. Da questa presupposizione quindi, con metodo contraddistinto da ampiezza dell'indagine storica e improntato al rigore concettuale, consegue uno dei suoi maggiori risultati, riguardante l'analisi del concetto generale di diritto, quale diritto positivo, cioè effettivamente vigente, incardinato entro un sistema assiologico fondato su un ordine razionale intersoggetivo che rispetta il valore di una determinate intersoggetivo in un assegnato luogo ed in un certo tempo (storicità del diritto), secondo una scala della loro importanza. Quest'ordinamento razionale è un tratto distintivo sia del sistema intersoggetivo che dei suoi sottosistemi, fra i quali preminenti son oil sistema di comunicazione, e quello giuridico, che è il sistema normativo attualizzato dell'interazione. Da questa prospettiva, anche sulla base di un parallelo analogico-concettuale con la struttura della logica, perviene, tra l'altro, ad una elementare quanto fondamentale distinzione meta-giuridica fra teoria generale del diritto e dogmatica giuridica, argomentando solidamente a favore della tesi per cui la teoria generale del diritto opera ad un livello superiore di generalità rispetto a quello in cui si colloca la dogmatica giacché quest'ultima è sempre inerente a diritti positivi storicamente attualizzati, oggetti di studio della teoria generale che, in quanto tale, non discende dunque da alcun diritto positivo particolare, e quindi neppure dalla dogmatica. La teoria generale del diritto è piuttosto riflessione meta-teorica su quei particolari sistemi vigenti di diritto positivo, sistemi che verranno quindi interpretati speculativamente e spiegati razionalmente (interpretazione giuridica) tramite metodi centrati sulla individuazione e ordinazione concettuale. Solo in questi termini, si può allora più propriamente parlare di ”filosofia del diritto”. Altre opere: “L’intersoggetivo giuridico” Dott. A. Giuffrè Editore, Milano); “L’intersoggetivo giuridico, Dott. A. Giuffrè Editore, Milano); La separazione personale, Dott. A. Giuffrè Editore, Milano); L'offerta reale e la liberazione co-attiva del debitore, Dott. A. Giuffrè Editore, Milano); Il fatto naturale, MILANI-Casa Editrice Dott. Antonio Milani, Padova); Voci di teoria generale del diritto, Dott. A. Giuffrè Editore, Milano); Il gene giuridico” Dott. A. Giuffrè Editore, Milano, Introduzione alle giurisprudenza filosofica”. “Il concetto di diritto” Dott. A. Giuffrè Editore, Milano); Teoria generale del diritto, Dott. A. Giuffrè Editore, Milano,Ricerche di teoria generale del diritto e di dogmatica giuridica,  Dogmatica Giuridica, Dott. A. Giuffrè Editore, Milano,  Scritti d'occasione, Dott. A. Giuffrè Editore, Milano.  giuscivilista. Il civilista. Il nesso fra la fattispecie, ossia la premessa normativa (ovvero, il caso particolare fattuale), e la conseguenza, ossia il suo possibile effetto giuridico.  norma giuridica Diritto e interpretazione. Lineamenti di teoria ermeneutica del diritto. Il diritto può essere consuetudinario. consuetudine. Antropologia giuridica. diritto civile, Oltre il ”positivismo giuridico“, regola giuridica. Motivi volontaristici e imperativistici sono presenti nel pratico e volitivo spirito dei romani. Nemmeno tra i romani tuttavia troviamo formulate dottrine filosofiche che si propongano di ricondurre compiutamente il diritto alla volontà o al comando. Il lato imperativistico del diritto emerge piuttosto in singole tesi o massime di giuristi. Si ricordi il noto passo di Modestino riportato nel Digesto: « Legis virtus haec est: imperare, vetare, permittere, punire" (D. 1, 3, 7); o l'altro detto, di Ulpiano, ancora piu indicativo sotto il profilo volontaristico che sottolinea l'importanza della volonta del sovrano per la validita della legge: "quod principi placuit legis habet vigorem" (D. 1, 4, 1). Ma le espressione forse piu significative si trovano in un luogo di Gaio, nel quale egli, dopo aver distinto varie fonti del diritto romano, le caratterizza cosi: "Lex est quod populus iubet atque constituit. Plebiscitum est quod plebs iubet atque constituit... Senatusconsultum est quod Senatus iubet atque constituit" (Gai 1, 3, 5). Il rapporto regola giuridica-commando risulta ormai fissato in maniera esplicita, mentre e IMPLICITAmente enunciato il rapporto tra il comando (iubere) e l'imperativo (constituere). Rientra in questa configurazione  volontaristica e imperativistica del diritto la concezione della consuetudine come iussum populi, un comando del popolo alla stessa stregua della legge: lex lata sine suffragio. Ma e con la compilazione giustinianea che, associato al processo politico dell'epoca imperiale, il volontarismo giuridico ottiene la sua prima grande e compiuta affermazione. A cio concorsero due fattori strettamente collegati. La volonta d'onde promana la regola giuridica e adesso individuata e circoscritta nella persona dell'imperatore. La netta separazione, su piano empirico, tra interpretazione e applicazione della legge e la regolar rigorosa che riservava allo stesso imperatore il POTERE INTERPRETATIVO (nel senso di risoluzione dei casi dubbi) esaltano il peso della volonta imperiale, impedendo che altri, giurista o giudice che sia, possa sustituirsi, alterandola o integrandola, a quella volonta. E ben noto il monito che Giustiniano, sulla presunzione della completezza e perfezione della propria opera di legislatore, rivolgeva ai giuristi: «... nullis iuris peritis in posterum audentibus commentarios  illi adplicare et verbositate sua supra dicti codicis compendium confundere: quemadmodum et in antiquioribus temporibus factum est, cum per contrarias interpretantium sententias totum ius paene conturbatum est sed sufficiat per indices tantummodo et titulorum subtilitatem quae paratitla nuncupantur quaedam admonitoria eius facere nullo ex interpretatione eorum vitio oriundo" (C. 1, 17, 1, 12); e quello ancor piu energico e perentorio che gia in precedenza era stato fato ai giudici da Valentiniano e da Marciano: "Si quid vero in idsem legibus latum fortassis obscurius fuerit, oportet id imperatoria interpretatione patefieri duritiamque legum nostrae humanitati incongruant emendari" (C. 1, 14, 9). La prassi non poteva non smentire questo ambizioso proposito, la cui formulazione, tuttavia, giova a chiarire come una concezione volontaristica possa trovare un effetivo riscontro nella realta solo a patto che la VOLONTA legistlativa venga aggiunta a fonte unica del diritto al di fuori di ogni condizionamento esterno e risultati garantita nella sua fedele applicazione ed esecuzione.   Può il diritto penale di una moderna democrazia liberale essere invocato a tutela di sentimenti? L’idea della protezione penale sembra di primo acchito stridere nell’accostamento a oggetti come i sentimenti. Eppure, il problema non è estraneo alla realtà normativa italiana: nel codice Rocco il sen- timento religioso, il pudore, la pietà dei defunti, il sentimento per gli animali sono gli esemp i più evidenti. Di fronte all’impiego legislativo di suddetta terminologia, si apre il problema della definizione dell’oggetto di tutela: il presidio è rivolto a stati psicologici individuali? Oppure l’evocazione di sentimenti va ri- ferita alla collettività, quale salvaguardia di una sensibilità che si as- sume come propria della maggioranza dei consociati? La definizione in termini di sentimento comunica, in prima istan- za, l’attenzione verso aspetti non strettamente materiali della vita de- gli individui: riconosce la possibilità di recare offesa alla persona su versanti che trascendono la mera fisicità. Un richiamo a fenomeni che interessano la sfera psichica, e che si pongono di fronte al diritto come realtà da decifrare. La prima parte dell’indagine sarà dedicata a una mappatura del- l’orizzonte conoscitivo, attraverso contributi di conoscenza esterni al mondo del diritto. Cercheremo di sviluppare un dialogo interdisciplinare esteso non soltanto alle scienze lato sensu psicologiche, ma anche alle discipline sociologiche e filosofiche, secondo un’apertura che dà rilievo ai ca- noni metodologici elaborati in seno alla branca di studi della dottrina statunitense denominata ‘Law and Emotion’. A seguito di tale sintetico ma importante excursus, entreremo nel- la dimensione normativa, analizzando sia le fattispecie penali del- l’ordinamento italiano in cui l’oggetto di tutela viene definito come ‘sentimento’, sia le peculiari sfumature di significato che emergono dai discorsi dei giuristi. Culminata tale parte della ricerca, la quale è finalizzata a delinea-  XVI Tra sentimenti ed eguale rispetto re il quadro di riferimento normativo e a fissare le coordinate meto- dologiche di fondo, cercheremo di analizzare una specifica declina- zione del problema della tutela di sentimenti: i rapporti fra sensibilità soggettive e libertà di espressione. L’approfondimento di tale questione assume oggi una peculiare ri- levanza dovuta alla crescente conflittualità che si registra nel discor- so pubblico delle società occidentali, con particolare riferimento ad argomenti ad alto tasso emotivo dove vengono in gioco ‘appartenenze significative’ dell’individuo. L’asserita impossibilità che il diritto possa muoversi all’interno di coordinate eticamente neutrali impone di riflettere attentamente sul- la dimensione politica del problema penale, all’interno di una dialet- tica i cui poli opposti sono rappresentati da posizioni di individuali- smo democratico contrapposte a concezioni di tipo comunitarista- identitario. La parzialità dei sentimenti, la loro mutevolezza, la loro essenzia- lità per la persona acutizzano il problema degli equilibri fra coerci- zione e libertà. L’obiettivo è riuscire a bilanciare esigenze di rispetto per le persone con la salvaguardia di forme e contenuti comunicativi la cui libertà è anch’essa parte essenziale del reciproco rispetto dovu- to da ciascuno a tutti. Una misurata e accorta diffidenza verso il tessuto affettivo- emozionale è la premessa per un approccio critico che metta il diritto penale in condizione di distinguere richieste di riconoscimento da tentativi di sopraffazione, per «non confondere il pensiero e l’auten- tico sentimento – che è sempre rigoroso – con la convinzione fanatica e le viscerali reazioni emotive» 1. In questo senso, un confronto con i sentimenti sarà forse utile a meditare sugli spazi per una convivenza tra le diverse libertà che chiedono ascolto nella società pluralista.  1 MAGRIS, Laicità e religione, in AA.VV., a cura di Preterossi G., Le ragioni dei laici, Roma-Bari, 2006, p. 110.  PARTE I EMOZIONI E SENTIMENTI TRA FATTO E NORMATIVITÀ   2 Tra sentimenti ed eguale rispetto   Fenomeni affettivi e dimensione giuridica 3 CAPITOLO I FENOMENI AFFETTIVI E DIMENSIONE GIURIDICA: COORDINATE EPISTEMOLOGICHE E METODOLOGICHE «se trascuriamo tutte le reazioni emozionali che ci legano a questo mondo [...], noi trascuriamo anche gran parte della nostra umanità, e precisamente quella parte che sta alla base del perché noi abbiamo una legislazione civile e penale, e di quale aspetto essa prenda» NUSSBAUM M.C., Nascondere l’umanità. Il disgusto, la vergogna, la legge, p. 24 SEZIONE I L’orizzonte di indagine SOMMARIO: 1. Diritto penale, sentimenti, emozioni: panoramica dei problemi. – 2. Fulcro dell’indagine: il richiamo al sentimento nella definizione dell’oggetto di tutela. – 2.1. Oltre il lessico legislativo. 1. Diritto penale, sentimenti, emozioni: panoramica dei pro- blemi «Anche se nel diritto penale domina il fenomeno oggettivo ed esterno del comportamento, si trovano in esso frequenti espliciti ri- chiami ai fenomeni soggettivi e interiori del sentimento. Purtroppo si tratta di semplici richiami, dai quali nessuno finoggi ha tentato di as- surgere a una trattazione sistematica unitaria. Il peso di queste lacu- ne non può non accusarsi in sede di teoria generale perché sono gli  4 Tra sentimenti ed eguale rispetto istituti penalistici a offrire a uno studio giuridico del sentimento gli esempi più numerosi e più importanti» 1. Con queste parole, nel 1972, il civilista e teorico del diritto Angelo Falzea richiamava l’attenzione sulla rilevanza che i fenomeni affettivi assumono nella dimensione penalistica, lamentando l’assenza di stu- di specifici che avrebbero potuto giovare a un più esaustivo inqua- dramento teorico dei fatti di sentimento nella sfera giuridica. A distanza di decenni le parole di Falzea mantengono inalterato il loro valore di impulso a riflettere su ruolo e significato del sentimen- to nel diritto penale. Ad oggi il tema non è stato ancora compiuta- mente indagato in una prospettiva di sistema, per quanto l’attenzione della dottrina penalistica italiana sia andata crescendo negli ultimi decenni. I limiti dell’approfondimento, quasi una ‘presa di distanza’ dai fat- tori affettivi, non costituiscono una peculiarità del microcosmo pena- listico ma sono da contestualizzarsi in un atteggiamento del pensiero occidentale che ha considerato sentimenti ed emozioni come un fat- tore di distorsione del pensiero cognitivo e, conseguentemente, anche come elemento distonico in rapporto all’asserita ‘razionalità’ degli isti- tuti giuridici e delle riflessioni ad essi inerenti 2. 1 FALZEA, I fatti di sentimento, in AA.VV., Studi in onore di Francesco Santoro Passarelli, vol. VI, Napoli, 1972, p. 353. 2 «Si è soliti associare al concetto di “decisione” il qualificativo “razionale”, come garanzia di esattezza dei presupposti da cui promana e di “bontà”/coerenza delle ripercussioni che intende provocare. Ragione/razionalità come promessa di succes- so, di eliminazione dell’errore, di metodo fondato su argomentazioni logiche e su- scettibili di controllo critico», così CAPUTO, Occasioni di razionalità nel diritto penale. Fiducia nell’“assolo della legge” o nel “giudice compositore”?, in Jus, 2/2015, p. 213. Il tema della razionalità giuridica e penalistica affiora in innumerevoli scritti che non appare possibile menzionare esaustivamente; per un quadro di sintesi v. LA TORRE, Sullo spirito mite delle leggi. Ragione, razionalità, ragionevolezza, Napoli, 2012; con riferimento all’ambito penalistico, v. ex plurimis, LÜDERSSEN, L’irrazionale nel diritto penale, in AA.VV., Logos dell’essere Logos della norma. Studi per una ricerca coordina- ta da Luigi Lombardi Vallauri, Bari, 1999, pp. 1151 ss. Un eloquente monito a non dare per scontata la razionalità del giuridico si deve a GRECO, Premessa, in BIANCHI D’ESPINOSA-CELORIA-GRECO-ODORISIO-PETRELLA-PULITANÒ, Valori socio-culturali della giurisprudenza, Bari, 1970, p. 29: «nel mondo del diritto [...] l’attenzione è tradizio- nalmente rivolta ai contenuti strettamente giuridici delle leggi e della giurispruden- za e v’è una propensione ad attribuire significati razionali o “ideali” non soltanto al reale giuridico, ma anche a quello che tale non è. Ora in un mondo ampiamente dominato da leggi economiche e dai corrispondenti dinamismi socio-politici, la pre- tesa di considerare il fenomeno giuridico in linea generale negli stretti limiti della “scienza giuridica” propriamente detta è illusoria e illusionistica». Per un’interes- sante prospettiva sui rapporti tra razionalità dell’intervento penale ed emozioni mo-   Fenomeni affettivi e dimensione giuridica 5 Il modo di intendere le dinamiche del diritto, soprattutto del dirit- to penale, si è fondato implicitamente, forse anche inconsciamente, su una ‘narrazione convenzionale’ 3 che ha attribuito a sentimenti ed emozioni un ruolo negativo, quasi antagonistico rispetto alla ragione, e che ha portato in questo senso a marginalizzare il ruolo dei feno- meni affettivi, sia riguardo alla dimensione di razionalità della con- dotta del reo4, sia (soprattutto) in relazione al modo di concepire l’agire delle figure tecniche cui sono affidate le dinamiche applicative del diritto 5: soggetti, questi ultimi, idealmente assimilati, anche a li- vello di immaginario collettivo, a modelli di razionalità pura, secon- do veri e propri stereotipi che caratterizzano il modello culturale di diritto radicato nel mondo occidentale. Tale vulgata influisce tutt’og- gi sull’insegnamento per la preparazione di giudici e avvocati, ten- denzialmente, e forse talvolta ingenuamente, proiettati alla ricercadi una non ben definita ‘razionalità’, ma forse non ancora adeguata- mente messi in condizione di conoscere, studiare e gestire la com- plessità delle euristiche del pensiero e dei rapporti con l’emotività 6. rali v. MURPHY, Punishment and the Moral Emotions, Oxford, 2012. Quale testo di riferimento per un inquadramento in chiave socio-psicologica della razionalità umana, v. ELSTER, Ulisse e le Sirene. Indagini sulla razionalità e l’irrazionalità, tr. it., Bologna, 2005, pp. 85 ss. 3 Definizione di BANDES, Introduction, in AA.VV., ed. by Bandes, The Passion of Law, New York, 1999, pp. 1 ss. 4 Il tema è sviluppato principalmente in ambito criminologico; per una sintesi v. FORTI, L’immane concretezza. Metamorfosi del crimine e controllo penale, Mila- no, 2000, pp. 207 ss.; cfr. PALIERO, L’economia della pena (un work in progress), in AA.VV., a cura di Dolcini-Paliero, Studi in onore di Giorgio Marinucci, vol. I, Mi- lano, 2006, p. 594, il quale, in superamento di tale teorica, afferma che ormai non è «pensabile immaginare un attore della scena penalistica che sia contempora- neamente affekt-, tradition- e wert-frei». 5 È la critica di BANDES-BLUMENTHAL, Emotion and the Law, in 8 Annual Re- view of Law and Social Science, 2012, p. 162. 6 HARRIS, “A(nother) Critique of Pure Reason”: Toward Civic Virtue in Legal Education, in 45 Stanford Law Review, 1993, pp. 1773 ss.; per la critica al modello di pensiero sotteso all’insegnamento del diritto nel panorama occidentale vedi pp. 1785 ss. Emblematica è la figura del giudice, il quale per definizione si dovrebbe differenziare da figure atecniche, prive di una formazione giuridica e che dunque dovrebbero essere più esposte a condizionamenti emotivi (testimoni, imputato, pubblico), ma che andrebbe più realisticamente inteso, e studiato, anche come soggetto emotivo: «Judges are human and experience emotion when hearing ca- ses», v. MARONEY, Emotional Regulation and Judicial Behaviour, in 99 California Law Review, 2011, p. 1487; si veda soprattutto pp. 1532 ss. per il discorso sulla gestione delle emozioni; EAD., Angry Judges, in 65 Vanderbilt Law Review, 2012, pp. 1258 ss.; cfr. BANDES, Introduction, cit., p. 2. Sul tema delle emozioni del giu-   6 Tra sentimenti ed eguale rispetto I tempi sembrano però essere cambiati: i saperi sul mondo7, e dunque le scienze con cui anche il mondo del diritto deve confrontar- si – utilizziamo il termine ‘scienze’ in un’accezione lata che compren- de sia le scienze c.d. ‘dure’, sia le scienze sociali e le discipline filoso- fiche – inducono oggi a un ripensamento di fondo: non solo relativa- mente alla distinzione dicotomica ragione/emozioni 8, ma più in gene- rale al ruolo che emozioni e sentimenti assumono anche in rapporto alla qualità morale delle scelte di un individuo 9. dicante si veda anche WIENER-BORNSTEIN-VOSS, Emotion and the Law: A Fra- mework for Inquiry, in 30 Law and Human Behaviour, 2006, pp. 236 ss. L’emo- tività del giudice viene analizzata anche nel panorama italiano: fra le monografie v. FORZA-MENEGON-RUMIATI, Il giudice emotivo. La decisione tra ragione ed emozio- ne, Bologna, 2017, pp. 21 ss., 71 ss.; CALLEGARI, Il giudice fra emozioni, biases ed empatia, Milano, 2017. Fra gli articoli v. CERETTI, Introduzione, in Criminalia, 2011, pp. 347 ss.; LANZA, Emozioni e libero convincimento nella decisione del giudi- ce penale, in Criminalia, 2011, pp. 373 ss.; BERTOLINO, Prove neuro-psicologiche di responsabilità penale, in AA.VV., a cura di Forti-Varraso-Caputo, «Verità» del pre- cetto e della sanzione penale alla prova del processo, Napoli, 2014, pp. 116 ss. Per una critica all’attuale formazione dei giuristi, e la proposta di introdurre le scien- ze cognitive nel percorso di studi universitario v. PASCUZZI, Scienze cognitive e formazione universitaria del giurista, in Sistemi intelligenti, 1/2007, pp. 137 ss.; si sofferma sulla debolezza del modello di ‘azione razionale’ fatto proprio dal dirit- to, in una prospettiva mirata principalmente al diritto civile, CATERINA, Processi cognitivi e regole giuridiche, in Sistemi intelligenti, 3/2007, pp. 381 ss. 7 Traggo tale definizione da PULITANÒ, Difesa penale e saperi sul mondo, in AA.VV., a cura di Carlizzi-Tuzet, La giustizia penale tra conoscenza scientifica e sapere comune, Torino, in corso di pubblicazione. 8 La bibliografia sul tema è sterminata. Ci limitiamo a indicare alcune opere che, anche in virtù dell’attitudine divulgativa, hanno contribuito a favorire un dia- logo interdisciplinare. Un Autore che in tempi recenti ha impresso una svolta, an- che dal punto di vista comunicativo, per la confutazione della dicotomia ragio- ne/emozioni è il neuroscienziato portoghese Antonio Damasio, a partire del cele- bre studio intitolato L’errore di Cartesio. Emozione, ragione e cervello umano, tr. it., Milano, 1995, al quale si sono aggiunti successivamente Alla ricerca di Spinoza. Emozioni, sentimenti e cervello, tr. it., Milano, 2003 e Il sé viene alla mente. La co- struzione del cervello cosciente, tr. it., Milano, 2012. Si vedano anche gli scritti di Joseph Le Doux, il quale pone lo studio delle emozioni come base per la cono- scenza della mente umana, LE DOUX, Il cervello emotivo. Alle origini delle emozio- ni, tr. it., Milano, 2014. Per una prospettiva interdisciplinare, di taglio socio- filosofico, opera di riferimento è NUSSBAUM, L’intelligenza delle emozioni, tr. it., Bologna, 2004; per un quadro di sintesi di taglio prettamente divulgativo v. EVANS, Emozioni. La scienza del sentimento, tr. it., Roma-Bari, 2004, pp. 27 ss. 9 «Il problema non è mai stato, soprattutto da Hume in poi, ammettere che le emozioni possano essere motivi dell’azione umana, ma semmai ammettere che ne siano ragioni morali, che abbiano un’autorità, una forza normativa, pari a quella che il razionalismo classico attribuiva a principi della ragione incontaminati dalle   Fenomeni affettivi e dimensione giuridica 7 Non è possibile in questa sede addentrarci nello sconfinato dibat- tito; riteniamo però di poter sintetizzare lo stato dell’arte con un’elo- quente affermazione di Jonathan Haidt, psicologo di matrice intui- zionista, e dunque incline a riconoscere la primazia dell’intuizione emotiva nell’economia dell’agire umano: «la razionalità umana di- pende in maniera cruciale da un’emotività sofisticata: è solo perché il nostro cervello emotivo lavora così bene che i nostri ragionamenti possono funzionare» 10. Un’‘emotività sofisticata’: se la razionalità umana è il risultato di una complessa combinazione in cui anche la dimensione emotiva ha un ruolo importante, ne deriva l’esigenza di un ridimensionamento delle pretese di razionalità ‘pura’ che ci si ostina (o ci si illude) a ri- cercare nei prodotti legislativi e anche nelle condotte degli operatori del diritto (giudici, avvocati). In altri termini, appare tutt’altro che in- scalfibile la plausibilità dell’impostazione veterorazionalistica cui la tradizione giuridica occidentale 11 ha conformato i propri paradigmi e alla cui ombra sembra ancora coltivare l’autorassicurante illusione della legge e del sistema giuridico come dominio della ‘razionalità’ 12. passioni e che il sentimentalismo, d’altra parte, finiva per trattare solo nella con- tingenza del loro incidere su una ragione pratica», v. PAGNINI, Il rispetto al centro della morale, in Il Sole-24Ore, 22/04/2012; sul rapporto fra emozioni e ragioni mo- rali, un’opera che riassume lo stato dell’arte è AA.VV., ed. by Bagnoli, Morality and the Emotions, Oxford, 2011. 10 HAIDT, Felicità. Un’ipotesi, tr. it., Torino, 2008, p. 16; per un’esplicazione più dettagliata v. ID., The Emotional Dog and Its Rational Tail: A Social Intuitionist Ap- proach to Moral Judgment, in 108 Psychological Review, 2001, pp. 814 ss. Il tema è sconfinato; per una sintesi del dibattito v. MACKENZIE, Emotions, Reflection and Mo- ral Agency, in AA.VV., ed. by Langdon-Mackenzie, Emotions, Imagination and Moral Reasoning, New York-London, 2012, pp. 237 ss.; OATLEY, Psicologia ed emozioni, tr. it., Bologna, 1997, pp. 239 ss., 300 s. Una posizione che afferma l’esigenza di non trascurare l’effetto di possibile alterazione della razionalità da parte delle emozioni è quella di ELSTER, Emotions and Rationality, in AA.VV., ed. by Mansted-Frijda- Fischer, Feelings and Emotions. The Amsterdam Symposium, Cambridge, 2004, pp. 30 ss. Un’efficace sintesi, anche sul piano comunicativo, è il libro di GOLEMAN, Intel- ligenza emotiva. Che cos’è e perché può renderci felici, tr. it., Milano, 2013. Da ultimo, v. MORIN, Sette lezioni sul pensiero globale, tr. it., Milano, 2016, pp. 15 s. 11 Per un interessante quadro di sintesi sull’atteggiamento del pensiero giuridi- co occidentale teso a prendere le distanze dalla dimensione emotiva (senza peral- tro riuscirci), v. MUSUMECI, Emozioni, crimine e giustizia. Un’indagine storico- giuridica tra Otto e Novecento, Milano, 2015, pp. 15 ss. 12 «The mainstream notion of the rule of law greatly overstates both the de- marcation between reason and emotion, and the possibility of keeping reasoning processes free of emotional variables [...] It is also likely that emotion, by its very nature, threatens much of what law hopes to be. To the extent legal systems   8 Tra sentimenti ed eguale rispetto È emblematico l’assunto con cui la giurista statunitense Susan Ban- des apre un importante studio collettaneo intitolato ‘The Passions of Law’: «[l]e emozioni pervadono il diritto»13. Possiamo dire che ne im- pregnano sia la fase genetica sia la dimensione applicativa; la domanda cruciale non è se emozioni e sentimenti diano luogo a forme di intera- zione con la realtà giuridica, bensì in quali termini essi interagiscano e come possano essere ‘gestiti’ a livello teoretico e in ambito applicativo. L’osservazione della Bandes vale in misura ancora maggiore per il diritto penale, il quale intrattiene con le emozioni un rapporto di problematica contiguità, poiché coinvolge, e spesso travolge, beni che rivestono un ruolo importante nella scala dei bisogni e delle prefe- renze soggettive: per proteggere interessi rilevanti per la sopravviven- za e lo sviluppo della persona umana è chiamato a incidere su inte- ressi altrettanto essenziali (le libertà) 14. thrive on categorical rules, emotion in all its messy individuality makes such cat- egories harder to maintain [...] The notion of the rule of law is based, at least in part, on the belief that laws can be applied mechanically, inexorably, without human fallibility», v. BANDES, Introduction, cit., p. 7. Nella cospicua letteratura statunitense si vedano, ex plurimis, BRENNAN, Reason, passion, and “the progress of the law”, in 10 Cardozo Law Review, 1988-1989, pp. 3 ss.; DEIGH, Emotions, Values and the Law, Oxford, 2008, pp. 136 ss.; KARSTED, Emotion and Criminal Justice, in 6 Theoretical Criminology, 2002, pp. 299 ss.; MARONEY, The Persistent Cultural Script of Judicial Dispassion, in 99 California Law Review, 2011, pp. 630 ss. 13 BANDES, Introduction, cit., p. 1. Per una panoramica di taglio generale si ve- dano anche i contributi pubblicati in AA.VV., coord. Palma-Silva Dias-de Sousa Mendes, Emoções e Crime. Filosofia, Ciência, Arte e Direito Penal, Coimbra, 2013. 14 Il problema della razionalità del punire si identifica con anche l’esigenza di un equilibrato rapporto con la dimensione affettiva: nella sua versione più primi- tiva e brutale, la pena si manifesta come reazione istintiva a un torto: «Definendo la pena primitiva come ragione cieca, determinata ed adeguata soltanto agli istin- ti ed agli impulsi – in una parola, come azione istintiva – volevo innanzitutto ed in primo luogo porre con ciò in rilievo, nella maniera più efficace possibile, una caratteristica negativa della pena primitiva»: v. VON LISZT, La teoria dello scopo nel diritto penale, tr. it., Milano, 1962, p. 15. Cfr. FERRAJOLI, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, IX ed., Roma-Bari, 2008, p. 327. Il diritto penale costituisce il ramo dell’ordinamento in cui è maggiore è il rischio di assecondare istanze vendicative o bramosie punitive slegate da una razionalità strumentale e guidate da una ‘cieca’ emotività, esso vive in una continua dialettica con l’irrazionale: cfr., ex plurimis, DONINI, “Danno” e “offesa” nella c.d. tutela penale dei sentimenti. Note su morale e sicurezza come beni giuridici, a margine della categoria dell’“offense” di Joel Feinberg, in Riv. it. dir. proc. pen., 4/2008, pp. 1576 ss.; v. anche ID., Metodo democratico e metodo scientifico nel rapporto fra diritto penale e politica, in AA.VV., a cura di Stortoni-Foffani, Critica e giustificazione del diritto penale nel cambio di secolo. L’analisi critica della scuola di Francoforte, Milano, 2004, p. 85; BARTOLI R., Il diritto penale tra vendetta e riparazione, in Riv. it. dir. proc. pen., 1/2016, pp. 101   Fenomeni affettivi e dimensione giuridica 9 L’azione dello strumento penale è di per sé ‘emotigena’, ossia fat- tore di stimolo a emozioni 15. Vale per la fase precettiva, ossia l’espressione di divieti che, a se- conda degli interessi coinvolti, possono suscitare negli individui atteg- giamenti emotivi di diverso tipo 16 i quali finiscono per influire sul gra- do di adesione alla norma e dunque sulle condizioni di osservanza del precetto, in una dimensione che potremmo definire come ‘risvolto emozionale’ del problema della legittimazione delle norme penali 17. E vale, forse in modo più rilevante, per la fase applicativa, in cui si accertano le responsabilità e la sanzione ‘prende corpo’. Non è un ca- so che la dimensione emotiva nel diritto penale venga convenzional- mente collocata, e sovente circoscritta, a fasi e momenti in cui emo- zioni e sentimenti risultano più ‘visibili’18: la realtà delle aule di tri- ss.; PADOVANI, Alla ricerca di una razionalità penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 3/2013, pp. 1087 ss. 15 «In effetti, il reato è la mistura di un fatto che suscita reazioni immediate negative e di un’imputazione dalle origini spesso motivate politicamente e dagli effetti sempre stigmatizzanti», LÜDERSSEN, L’irrazionale nel diritto penale, cit., p. 1155. Per uno studio ad ampio spettro sulle emozioni suscitate dal fatto crimina- le, con particolare riferimento al sublime, v. BINIK, Quando il crimine è sublime. La fascinazione per la violenza nella società contemporanea, Milano, 2017. 16 Sul richiamo ad atteggiamenti emotivi della collettività come parte di un più ampio problema concernente adesione a valori, consenso sociale e normazione penale, v., per tutti, PALIERO, Consenso sociale e diritto penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 3/1992, pp. 852 ss. 17 Nella letteratura italiana v. FORTI, Le ragioni extrapenali dell’osservanza della legge penale: esperienze e prospettive, in Riv. it. dir. proc. pen., 3/2013, pp. 1125 ss. Sui rapporti fra la dimensione sociale delle emozioni e le scelte di politica del di- ritto si soffermano BANDES-BLUMENTHAL, Emotion and the Law, cit., p. 172. 18 Sui rapporti tra dimensione ‘visiva’ del crimine e ruolo delle emozioni v., per un’ampia panoramica, AA.VV., a cura di Forti-Bertolino, La televisione del crimi- ne, Milano, 2005; per l’analisi di un caso emblematico, v. CERETTI, Il caso di Novi Ligure nella rappresentazione mediatica, in AA.VV., a cura di Forti-Bertolino, La televisione del crimine, cit., pp. 451 ss.; sul tema v. anche PALIERO, Verità e distor- sioni nel racconto mediatico della giustizia. Uno sguardo d’insieme, in AA.VV., a cura di Forti-Mazzucato-Visconti A., Giustizia e letteratura, vol. II, Milano, 2014, pp. 671 ss.; più diffusamente, ID., La maschera e il volto (percezione sociale del crimine ed ‘effetti penali’ dei media), in Riv. it. dir. proc. pen., 2/2006, pp. 523 ss.; PALAZZO, Mezzi di comunicazione e giustizia penale, in Politica del diritto, 2/2009, pp. 193 ss.; volendo, v. BACCO, Visioni ‘a occhi chiusi’: sguardi sul problema penale tra immaginazione, emozioni e senso di realtà, in The Cardozo Electronic Law Bul- letin, 2/2015, pp. 1 ss. Sull’approccio ‘visuale’ in criminologia v., per una sintesi globale e per le coordinate di fondo, v. BROWN, Visual Crimonology, in http://- criminology.oxfordre.com/view/10.1093/acrefore/9780190264079.001.0001/acrefore- 9780190264079-e-206?print=pdf, 4/2017, pp. 1 ss.   10 Tra sentimenti ed eguale rispetto bunale e la dialettica spesso tumultuosa fra i soggetti del processo 19. E infine il carcere, il dramma umano della pena, da sempre intriso di atteggiamenti emotivi che si dividono fra vendetta, odio per il tra- sgressore e compassione 20. Siamo solo alla punta affiorante di un intreccio che affonda le proprie radici in un substrato per lo più invisibile 21. È bene riflettere non solo sulle emozioni che il diritto penale su- scita, ma anche sugli atteggiamenti emotivi e di pensiero che sono alla base e che modellano la fisionomia dell’intervento punitivo22, nelle forme e nei presupposti23. L’esigenza di riconoscere e proble- 19 Sulle emozioni della vittima, v. da ultimo BANDES, Share your Grief but Not Your Anger. Victims and the Expression of Emotion in Criminal Justice, in AA.VV., ed. by Abell-Smith, The Espression of Emotion. Philosophical, Psychological an Legal Perspectives, Cambridge, 2016, pp. 263 ss. 20 Richiamiamo, nella sconfinata letteratura, alcune opere in cui viene affron- tato lo specifico tema delle matrici affettive; per una sintetica ricognizione filoso- fica, a partire da un’analisi etimologica, v. CURI, I paradossi della pena, in Riv. it. dir. proc. pen., 3/2013, pp. 1073 ss.; nella letteratura angloamericana, SOLOMON, Justice v. Vengeance. On Law and the Satisfaction of Emotion, in AA.VV., ed. by Bandes, The Passions of Law, cit., pp. 123 ss.; POSNER, Emotion versus Emotional- ism in Law, in AA.VV., ed. by Bandes, The Passions of Law, cit., pp. 317 ss.; MUR- PHY, Punishment and the Moral Emotions, cit., pp. 94 ss.; NUSSBAUM, L’intelligenza delle emozioni, cit., pp. 525 ss.; EAD., Rabbia e perdono. La generosità come giustizia, tr. it., Bologna, 2017, pp. 284 ss. 21 «Emotions pervades not just the criminal courts, with their heat-of-passion, and insanity defenses and their angry or compassionate jurors but the civil court- rooms, the appellate courtrooms, the legislatures. It propels judges and lawyers, as well as jurors, litigants, and the lay public. Indeed, the emotions that pervade law are often so ancient and deeply ingrained that they are largely invisible», v. BANDES, Introduction, cit., p. 2. Cfr. ABRAMS-KEREN, Who’s Afraid of Law and the Emotions?, in 94 Minnesota Law Review, 2010, pp. 2033 s. 22 Secondo l’istanza razionalistica che è alla base del diritto penale postillumi- nistico, le emozioni sembrano subire una sublimazione che ne rende più difficol- toso riconoscerne la presenza pur avvertendone gli effetti: «The institutions of criminal justice thus find themselves in a paradoxical situation. They offer a space for the most intensely felt emotions – of individuals as well as collectivities – while simultaneously providing mechanisms that are capable of ‘coolig off’ emotions, converting them into more sociable emotions, or channelling them back into reasonable and more standardised patterns of actions and thought», v. KARSTED, Handle with Care: Emotions, Crime and Justice, in AA.VV., ed. by Karsted-Loader-Strang, Emotions, Crime and Justice, Oxford and Portland, 2011, p. 2. 23 Nella dottrina penalistica italiana è stata avviata una riflessione concernente il raffronto fra la logica razionalistico-consequenzialista e una diversa prospetti- va, più marcatamente intuitiva e a base emozionale, nell’approccio a problemi di   Fenomeni affettivi e dimensione giuridica 11 matizzare il ruolo della dimensione emotiva si pone dunque anche in rapporto al processo di deliberazione delle politiche penali e più in generale all’esercizio delle scelte pubbliche 24. Appare opportuna una tematizzazione delle connessioni fra diritto penale e dimensione affettiva, in relazione non solo al funzionamento di istituti del diritto vigente, ma più in generale all’assetto logico e te- leologico delle categorie penalistiche, le quali sono frutto di atteg- giamenti di pensiero e di cultura intrisi di emotività. In altri termini, il ruolo delle emozioni e dei sentimenti va concepito non solo come elemento da ‘incastrare’ all’interno di geometrie concettuali tradizio- nali, ma soprattutto come fattore che contribuisce, e ha contribuito fino ad oggi, a influire sulle geometrie. Le relazioni tra emozioni, sentimenti e diritto penale non sono dunque confinabili a singoli territori della c.d. ‘dogmatica’, né posso- no circoscriversi a particolari settori della parte speciale del codice 25. Il rapporto fra dimensione affettiva e diritto penale appare in defini- tiva come un intreccio di questioni che si dispiegano da monte (fase genetica) a valle (fase applicativa) dell’ordinamento normativo. Più radicalmente, è l’idea stessa della responsabilità penale, il suo dover essere e i suoi obiettivi, a essere in buona parte co-determinati da at- teggiamenti emotivi, dalla sensibilità sociale e dal sentire dei legisla- tori: un presupposto fondamentale per ogni riflessione penalistica, e che giustamente viene oggi evidenziato come dato preliminare nella presentazione del problema penale 26. regolamentazione normativa e a casi concreti: v. DI GIOVINE O., Un diritto penale empatico? Diritto penale, bioetica, neuroetica, Torino, 2009, passim; EAD., Una let- tura evoluzionistica del diritto penale. A proposito delle emozioni, in AA.VV., a cura di Di Giovine O., Diritto penale e neuroetica, Padova, 2013, pp. 344 ss. 24 WESTEN, La mente politica, tr. it., Milano, 2008; più recentemente, sul ruolo della componente emotiva nelle scelte politiche e nell’adesione a orientamenti va- loriali, fedi, ideologie, si veda HAIDT, Menti morali. Perché le brave persone si divi- dono su politica e religione, tr. it., Milano, 2013, pp. 93 ss.; una sintesi dei proble- mi in ROSSI, Emozioni e deliberazione razionale, in Sistemi intelligenti, 1/2014, pp. 161 ss. 25 Un’analisi del ruolo del fattore emotivo nel contesto applicativo evidenzia come il richiamo a emozioni sia ben presente nelle argomentazioni giurispruden- ziali anche al di là di un definito inquadramento in particolari istituti, e rappre- senti in questo senso un ausilio argomentativo polivalente, adoperato soprattutto in relazione alla colpevolezza e ai criteri soggettivi dell’art. 133 c.p., v. AMATO, Di- ritto penale e fattore emotivo: spunti di indagine, in Riv. it. med. leg., 2/2013, pp. 661 ss.  26 FIANDACA, Prima lezione di diritto penale, Roma-Bari, 2017, pp. 9 ss.  12 Tra sentimenti ed eguale rispetto 2. Fulcro dell’indagine: il richiamo al sentimento nella defini- zione dell’oggetto di tutela La dottrina penalistica parla oggi espressamente di ‘ruolo delle emozioni e dei sentimenti nella genesi e nell’applicazione delle leggi penali’, proponendo una classificazione dei profili di interazione fra stati affettivi e diritto penale basata su cinque piani prospettici i quali possono a nostro avviso sintetizzarsi in due macrocategorie: 1) profili pertinenti la genesi del diritto, della legge penale, e il dover essere della pena (ruolo della dimensione affettiva nelle scelte di politica del dirit- to e riflessi sulla configurazione del bene oggetto di tutela penale; in- fluenza sul modo di concepire i concetti o le categorie della teoria del reato, riflessi sul modo di concepire significato e scopi della pena); 2) profili concernenti la dimensione applicativa (ruolo di emozioni e sen- timenti nel giudizio di colpevolezza; influenza della dimensione affet- tiva nella riflessione del giudicante) 27. Questioni come l’influenza della dimensione affettiva sulla teoriz- zazione dei concetti della categoria del reato, sul modo di concepirele funzioni della pena e sulla graduazione della colpevolezza costitui- scono tematiche che, secondo un gergo ‘endopenalistico’, orientano la riflessione verso temi più vicini alla ‘parte generale’; appaiono maggiormente pertinenti a problemi di ‘parte speciale’ profili riguar- danti il ruolo di sentimenti ed emozioni nella configurazione di og- getti di tutela. Una prima ricognizione può essere condotta attraverso uno sguardo al diritto penale vigente, al testo prima che al contesto 28, alla ricerca di norme in cui vengano evocati fenomeni psichici lato sensu riconducibili a sentimenti ed emozioni; ed effettivamente nel codice penale italiano tali richiami non mancano. Un’avvertenza: partire da una lettura delle norme è funzionale a fornire delle coordinate di base per l’inquadramento delle questioni 27 FIANDACA, Sul ruolo delle emozioni e dei sentimenti nella genesi e nell’ap- plicazione delle leggi penali, in AA.VV. a cura di Di Giovine O., Diritto penale e neu- roetica, cit., pp. 215 ss. 28 Adoperiamo la diade testo/contesto per indicare due distinti livelli di analisi: il primo relativo alla dimensione letterale delle norme, il secondo, che non affron- teremo nella presente indagine, relativo all’emersione del lessico emotivo nelle applicazioni giurisprudenziali anche in relazione a disposizioni e istituti che non richiamano espressamente stati affettivi. Sul rapporto fra testo e contesto v. PA- LAZZO, Testo, contesto e sistema nell’interpretazione penalistica, in AA.VV., a cura di Dolcini-Paliero, Studi in onore di Giorgio Marinucci, vol. I, cit., pp. 525 ss.   Fenomeni affettivi e dimensione giuridica 13 che sono più strettamente legate al diritto vigente, evidenziando in questo modo le connessioni più immediate, ma non traduce una scel- ta metodologica tesa a ‘ontologizzare’ il lessico legislativo e a farne la chiave di lettura prioritaria. Al contrario, il lessico delle norme, con le sue approssimazioni, deve indurre a chiedersi quale sia, al di là delle formule, il ruolo dei fenomeni affettivi richiamati nelle dinami- che della penalità. Prendiamo le mosse dalla parte generale del codice penale29. Ri- chiami al lessico dei sentimenti e delle emozioni emergono in istituti relativi alla graduazione della colpevolezza: nel titolo relativo all’im- putabilità, l’art. 90 c.p. parla di stati emotivi e passionali 30; fra le cir- costanze del reato spiccano il riferimento allo ‘stato d’ira determinato da un fatto ingiusto altrui’ e la ‘suggestione di una folla in tumulto’ (artt. 62 c.p. e 599, comma 2, c.p.). Menzioniamo le suddette norme poiché contengono richiami testuali, senza allargare il campo a ulte- riori situazioni in cui gli stati affettivi rappresentano un elemento che può concorrere a integrare, o a influire dal punto di vista naturalisti- co, sulla configurazione di importanti istituti: pensiamo al dolo e alla 29 Menzioniamo gli istituti e le fattispecie in cui vengono richiamati espressa- mente fenomeni psichici definiti come sentimenti ed emozioni, o comunque a essi riconducibili; non si tratta quindi dell’elencazione di tutti gli istituti che rimandi- no a concetti psicologici; per una sintesi in tal senso vedi di recente NISCO, La tu- tela penale dell’integrità psichica, Torino, 2012, pp. 25 ss. 30 La norma che stabilisce che gli stati emotivi e passionali non escludono l’imputabilità è una disposizione controversa e dibattuta fin dalla genesi; per una sintesi v. MUSUMECI, Emozioni, crimine, giustizia, cit., pp. 82 ss.; FORTUNA, Gli stati emotivi e passionali. Le radici storiche della questione, in AA.VV., a cura di Vinci- guerra-Dassano, Scritti in memoria di Giuliano Marini, Napoli, 2010, pp. 347 ss. La rigidità della disposizione normativa viene oggi criticata, fino a farla definire da attenta dottrina come una delle finzioni più odiose del sistema, v. DI GIOVINE O., Il dolo (eventuale) tra psicologia scientifica e psicologia del senso comune, in www.penalecontemporaneo.it, 1/2017, p. 7; BARTOLI R., Colpevolezza: tra persona- lismo e prevenzione, Torino, 2005, pp. 137 ss.; ma è tuttora ben solida nella giuri- sprudenza, v., ex plurimis, Cass. pen., sez. VI, 20/04/2011, n. 17305, con nota di VISCONTI A., in Riv. it. med. leg., 4-5/2011, pp. 1243 ss.; cfr. Cass. pen., 26/06/2013, n. 34089. L’unico spazio di rilevanza per stati emotivi e passionali viene ammesso nel caso di fenomeni già radicati in un pregresso quadro di infermità, v. EAD., loc. ult. cit., p. 1246. In relazione alle circostanze dello stato d’ira e della suggestione della folla, secondo la giurisprudenza, nel primo caso lo stato emotivo deve corri- spondere a un impulso incontenibile, v. Cass. pen., sez. I, 13/04/1982, n. 10696; Cass. pen., sez. I, 26/04/1988; Cass. pen., sez. I, 12/11/1997, n. 11124; per le spora- diche applicazioni dell’attenuante della suggestione della folla v. Cass. pen., sez. VI, 27/02/2014, n. 11915; Cass. pen., sez. I, 13/07/2012, n. 42130.   14 Tra sentimenti ed eguale rispetto colpa e, più in generale, a tutta la materia dell’imputazione soggetti- va 31. 31 È oggetto di discussione se e in che misura la componente affettiva (emo- zioni e sentimenti) sia da prendere in considerazione quale fattore costitutivo dei coefficienti psichici che il diritto penale definisce ‘dolo’ e ‘colpa’, e, più in genera- le, si discute sul grado di rispondenza fenomenica della categoria della colpevo- lezza in rapporto allo stato soggettivo della persona; in relazione a tale aspetto il concetto di colpevolezza assume un ruolo che è stato definito ‘ambiguo’: «da un lato presidio del rilievo da attribuirsi allo stato soggettivo reale dell’imputato, on- de evitare una condanna che si fondi su mere istanze di esemplarità sanzionato- ria; ma nel contempo fattore che autorizza, quando la colpevolezza non viene esclusa, l’insignificanza di quel medesimo stato soggettivo (cioè della condizione vera in cui versi il soggetto agente) rispetto al contenuto della condanna», così EUSEBI, Le forme della verità nel sistema penale e i loro effetti. Giustizia e verità co- me «approssimazione», in AA.VV. a cura di Forti-Varraso-Caputo, «Verità» del pre- cetto e della sanzione penale, cit., p. 173. L’impostazione dominante in dottrina tende a escludere una rilevanza degli stati affettivi sul piano normativo: «Estranei alla natura del dolo sono affetti, emozioni, motivi di qualsivoglia natura che stan- no ‘a monte’ della decisione di agire [...] In via di principio, elementi emozionali non servono a fondare il dolo, né valgono a escluderlo», così PULITANÒ, Diritto pe- nale, VII ed., Torino, 2017, p. 282. Cauta è l’apertura di FIANDACA, Appunti sul ‘pluralismo’ dei modelli e delle categorie del diritto penale contemporaneo, in La Cor- te d’Assise, 1/2011, p. 87 il quale osserva che «[o]ccorrerebbe evitare, invero già nell’individuare l’essenza generale o nucleo centrale del dolo nella coscienza e vo- lontà del fatto, di concepire tali requisiti psicologici in termini eccessivamente razionalistici e idealisticamente depurati da corrispondenti componenti emotive». Appare difficilmente contestabile che a livello naturalistico la componente affetti- va sia un fattore costitutivo degli stati psicologici che fondano dolo e colpa; gli spazi per una eventuale considerazione del ruolo degli stati affettivi nella fisio- nomia del dolo e della colpa penale potrebbero eventualmente ampliarsi o re- stringersi a seconda che si propenda per una concezione ‘normativizzante’ dei coefficienti psichici oppure per una concezione più ‘naturalistica’, tema in rela- zione al quale il dibattito nella dottrina penalistica italiana è amplissimo: si veda- no, ex plurimis, VENEZIANI, Motivi e colpevolezza, Torino, 2000, pp. 71 ss., 165 ss.; EUSEBI, Formula di Frank e dolo eventuale in Cass., S.U., 24 aprile 2014 (Thyssen- krupp), in Riv. it. dir. proc. pen., 2/2015, pp. 623 ss., e più ampiamente ID., Il dolo come volontà, Brescia, 1993; DE VERO, Dolo eventuale, colpa cosciente e costruzione “separata” dei tipi criminosi, in AA.VV., a cura di Bertolino-Eusebi-Forti, Studi in onore di Mario Romano, vol. II, Napoli, 2011, pp. 883 ss.; DONINI, Il dolo eventuale, fatto-illecito e colpevolezza, in Diritto penale contemporaneo-Rivista trimestrale, 1/2014, pp. 83 ss.; 103 ss.; FIANDACA, Sul dolo eventuale nella giurisprudenza più recente, tra approccio oggettivizzante-probatorio e messaggio generalpreventivo, in Diritto penale contemporaneo-Rivista trimestrale, 1/2012, pp. 152 ss.; DEMURO, Il dolo. II. L’accertamento, Milano, 2010, pp. 3 ss.; PULITANÒ, I confini del dolo. Una riflessione sulla moralità del diritto penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1/2013, pp. 22 ss. Per una riflessione sulla consistenza psicologica del dolo eventuale alla luce delle più recenti acquisizioni della psicologia e delle neuroscienze v. BERTOLINO, Prove neuro-psicologiche di responsabilità penale, in AA.VV., a cura di Forti-   Fenomeni affettivi e dimensione giuridica 15 Si tratta di norme problematiche il cui specifico approfondimento non sarà oggetto della presente indagine; nondimeno va dato conto della rilevanza di tali disposizioni nell’impianto della responsabilità penale. Nella parte speciale del codice la definizione di oggetti di tutela in termini di sentimento rappresenta un’evidenza palmare: si parla di ‘sentimento religioso’, di ‘pietà dei defunti’, di ‘sentimento per gli ani- mali’, di condotte atte a ‘deprimere lo spirito pubblico’ (art. 265 c.p.), a ‘distruggere o deprimere il sentimento nazionale’ (artt. 271 – dichia- rato illegittimo dalla Corte costituzionale32 – e 272 c.p.) e a istigare all’odio fra le classi sociali (art. 415 c.p.), di atti finalizzati a incutere ‘pubblico timore’ (art. 421 c.p.), di ‘comune sentimento del pudore’ (art. 529 c.p.), di ‘perdurante e grave stato di ansia o di paura e timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto’ (art. 612 bis c.p.), di ‘passioni di una persona minore’ (art. 649 c.p.). Allargando lo sguardo al di là del codice, la legislazione comple- mentare offre ulteriori esempi: la legge n. 47 del 1948, nota come ‘Legge sulla stampa’, parla di ‘sensibilità e impressionabilità’ di fan- ciulli e adolescenti e incrimina condotte idonee a offendere il loro ‘sentimento morale’ (art. 14); sempre nell’ambito del medesimo testo normativo, è considerata penalmente rilevante la pubblicazione di stampati i quali descrivano o illustrino, con particolari impressionan- ti o raccapriccianti, avvenimenti realmente verificatisi o anche sol- tanto immaginari, ‘in modo da poter turbare il comune sentimento della morale’ (art. 15). Estremamente significative sono infine le nor- me contro la discriminazione razziale (legge n. 654 del 1975), nelle quali la tipicità della condotta è fondata sulla nota caratterizzante di ciò che comunemente è definito come un sentimento, ossia l’odio. Abbiamo constatato che «nel linguaggio legislativo penale il rife- rimento a sentimenti è ben presente» 33 e che «sentimenti e stati emo- Varraso-Caputo, «Verità» del precetto e della sanzione penale, cit., pp. 144 ss.; DI GIOVINE O., Il dolo (eventuale) tra psicologia scientifica e psicologia del senso co- mune, cit.; per una sintesi del ruolo delle scienze extranormative in rapporto al problema dell’imputazione soggettiva, v. da ultimo FIANDACA, Prima lezione, cit., pp. 168 ss. Nondimeno, nelle motivazioni dei giudici il richiamo alla dimensione affettiva figura quale corollario argomentativo in relazione all’elemento soggetti- vo, all’ipotesi di concessione di attenuanti generiche e più in generale in ordine alla commisurazione della pena; per un quadro di sintesi v. AMATO, Diritto penale e fattore emotivo, cit., pp. 662 s. 32 C. cost., 12/07/2001, n. 243. 33 PULITANÒ, Introduzione alla parte speciale del diritto penale, Torino, 2010, p. 41.   16 Tra sentimenti ed eguale rispetto tivi non sono certo realtà sconosciute al diritto penale»34: «i “senti- menti”, [...] ancorché di natura psichico-emozionale, sono [...] delle realtà personalistiche innegabili» 35. Le disposizioni della parte speciale (sentimento religioso, pudore, pietà dei defunti, sentimento per gli animali, sentimento nazionale) rappresentano la rispondenza più univoca e immediata di ciò che si suole definire ‘tutela di sentimenti’, con una formula tanto accatti- vante quanto ambigua e problematica nei contenuti, la quale soprat- tutto nell’attuale momento storico sta riscuotendo un inedito interes- se da parte della dottrina penalistica italiana 36. Le norme codicistiche forniscono una prima cornice, un panora- ma dalla capacità esplicativa simile a quella di una visione in contro- luce: sostanzialmente definiti appaiono i contorni, il tratteggio ester- no che inquadra il teatro dei fatti oggetto di interesse normativo; più nebuloso è il nucleo interno, legato al retroterra dei fenomeni e alle loro dimensioni di significato. Un primo ordine di problemi ha a che fare col profilo fattuale, le- gato all’inquadramento e alla decifrazione di ciò che i saperi sul mondo, e in particolare le scienze empirico-sociali, definiscono ‘sen- timenti’, soprattutto in rapporto ad altri fenomeni affettivi, come ad 34 FIANDACA, Sul bene giuridico. Un consuntivo critico, Torino, 2014, p. 81. 35 PALAZZO, Laicità del diritto penale e democrazia “sostanziale”, in Quaderni co- stituzionali, 2/2010, p. 441. 36 Menzioniamo gli scritti che si sono dedicati ex professo al tema, lasciando al momento da parte la cospicua produzione letteraria in cui l’argomento viene tocca- to in modo incidentale. Oltre al già menzionato saggio di FIANDACA, Sul ruolo delle emozioni e dei sentimenti, cit., pp. 215 ss., si segnala del medesimo Autore un ulte- riore approfondimento in occasione dello studio sul bene giuridico: v. FIANDACA, Sul bene giuridico, cit., pp. 81 ss. Si vedano quindi DONINI, “Danno” e “offesa” nella c.d. tutela penale dei sentimenti, cit., pp. 1546 ss.; GIUNTA, Verso un rinnovato romantici- smo penale? I reati in materia di religione e il problema della tutela dei sentimenti, in AA.VV., a cura di Bertolino-Eusebi-Forti, Studi in onore di Mario Romano, vol. III, Napoli, 2011, pp. 1539 ss.; CAPUTO, Eventi e sentimenti nel delitto di atti persecutori, in Studi in onore di Mario Romano, vol. III, cit., pp. 1373 ss.; NISCO, La tutela penale dell’integrità psichica, cit., pp. 69 ss.; PULITANÒ, Introduzione alla parte speciale del diritto penale, cit., pp. 41 ss.; volendo, BACCO, Sentimenti e tutela penale: alla ricerca di una dimensione liberale, in Riv. it. dir. proc pen., 3/2010, pp. 1165 ss. Fra i costitu- zionalisti v. GUELLA-PICIOCCHI, Libera manifestazione del pensiero tra fatti di senti- mento e fatti di conoscenza, in Quaderni costituzionali, 4/2013, pp. 851 ss. Per un’ana- lisi del sentimento quale elemento che concorre a fondare ragioni e struttura di di- sposizioni normative non solo penalistiche, v. ITALIA, I sentimenti nelle leggi, Milano, 2017. Per una sintesi delle più recenti posizioni della dottrina continentale, nel con- testo di un’analisi incentrata sull’ordinamento spagnolo, v. ALONSO ALAMO, Senti- mientos y derecho penal, in Cuadernos del polìtica criminal, I, 106/2012, pp. 36 ss.   Fenomeni affettivi e dimensione giuridica 17 esempio le emozioni. In termini complementari si pone un problema concettuale che riguarda le regole d’uso dei termini sia nell’ambito extragiuridico e, di riflesso, nella specifica dimensione giuridico-pe- nalistica: si tratta di prendere in considerazione le tassonomie scien- tifiche in rapporto alle esigenze di normatività, alla chiarezza defini- toria e alla funzionalità comunicativa del diritto. Un secondo ordine di problemi concerne gli spazi di legittimità di norme finalizzate a una tutela penale di interessi legati alla sfera af- fettiva degli individui: tema che proietta verso percorsi differenti a seconda del significato e del senso normativo attribuibile all’evoca- zione del peculiare sentimento o dell’emozione, in un discorso che chiama in gioco pregiudiziali di tipo filosofico, morale, politico. In questo senso la problematica si presta a essere sviluppata ad un pri- mo livello su un piano generale (la tutelabilità di sentimenti come problema di principio), e, successivamente, in una prospettiva più circoscritta concernente lo specifico problema di tutela che sia dato individuare dietro il richiamo alla dimensione affettiva della persona. Come detto, prendere le mosse dalle norme positive è volto a faci- litare l’inquadramento dei problemi; una volta fotografato l’esistente, il lessico dei legislatori è destinato a divenire oggetto di analisi criti- ca, nel tentativo di superarne la cortina di artificialità. 2.1. Oltre il lessico legislativo Un primo obiettivo è dissolvere l’alone di retorica e guardare ‘in trasparenza’, oltre le formule. La tendenza a costruire norme penali attraverso richiami alla di- mensione affettiva, pur manifestatasi in momenti storici differenti 37, rivela una sostanziale continuità 38, animata da variabili che si legano a fattori sociali e culturali i quali hanno concorso a dare stimolo a una sensibilità dei legislatori39. Si tratta di scelte culturalmente 37 Più remoti sono il codice penale e la c.d. ‘legge sulla stampa’, distanti anche culturalmente dall’attuale momento storico; più prossima cronologicamente è la c.d. ‘Legge Mancino’ (incriminazione di condotte d’odio razziale), mentre è relati- vamente recente la scelta di dare riconoscimento a esigenze di tutela di animali non umani attraverso la formula ‘Delitti contro il sentimento per gli animali’. 38 Una panoramica in MUSUMECI, Emozioni crimine, giustizia, cit., pp. 30 ss. 39 «I testi legislativi, che parlano di sentimenti, sono spia di un sentire dei legi- slatori che, ieri come oggi, hanno adottato quel lessico», così PULITANÒ, Introdu- zione alla parte speciale, cit., p. 41.   18 Tra sentimenti ed eguale rispetto orientate, nel contesto di una complessità di fondo 40 che è confluita in determinazioni di politica del diritto le quali, secondo un processo ricorsivo 41, si caratterizzano a loro volta per un elevato grado di pre- gnanza culturale e una forte valenza simbolica, nel senso che le nor- me giuridiche a loro volta contribuiscono a modellare atteggiamenti di pensiero ed emotivi. Seguendo le traiettorie del pensiero di Edgar Morin troviamo un efficace quadro riassuntivo della complessità di ciò che chiamiamo ‘cultura’: «La cultura, peculiarità della società umana, è organizzata/organiz- zatrice attraverso il veicolo cognitivo costituito dal linguaggio, a parti- re dal capitale cognitivo collettivo delle conoscenze acquisite, dei sa- per-fare appresi, delle esperienze vissute, della memoria storica, delle credenze mitiche di una società. Così si manifestano “rappresentazio- ni collettive”, “coscienza collettiva”, “immaginario collettivo”. E la cul- tura, sfruttando il suo capitale cognitivo, instaura le regole/norme che organizzano la società e governano i comportamenti individuali. Le regole/norme culturali generano processi sociali e rigenerano global- mente la complessità sociale acquisita dalla stessa cultura» 42. In che termini il giurista penale deve rapportarsi a tale complessità? «[S]olo se lo si considera da una prospettiva esterna, il diritto penale è un coacervo di norme: se si guarda con più attenzione, però, esso si ri- vela come una parte della cultura in cui viviamo», ricorda Winfried 40 Nel senso in cui il concetto è stato sviluppato da Edgar Morin: «Complexus significa ciò che è tessuto insieme; in effetti, si ha complessità quando sono inse- parabili i differenti elementi che costituiscono un tutto (come l’economico, il poli- tico, il sociologico, lo psicologico, l’affettivo, il mitologico) e quando vi è tessuto interdipendente, interattivo e inter-retroattivo tra l’oggetto di conoscenza e il suo contesto, le parti e il tutto, il tutto e le parti, le parti tra di loro. La complessità è, perciò, legame tra l’unità e la molteplicità. Gli sviluppi propri della nostra era planetaria ci mettono a confronto sempre più ineluttabilmente con le sfide della complessità», v. MORIN, I sette saperi necessari all’educazione del futuro, tr. it., Mi- lano, 1999, p. 38; sempre Morin afferma che «Il problema della complessità è quello che pongono i fenomeni non riducibili agli schemi semplici dell’osser- vatore», v. ID., Scienza con coscienza, tr. it., Milano, 1987, p. 171; cfr. più diffusa- mente, ID., Introduzione al pensiero complesso, tr. it., Milano, 1993, pp. 56 ss. 41 «I prodotti e gli effetti generati da un processo ricorsivo sono contempora- neamente co-generatori e co-causanti di tale processo», MORIN, Le idee: habitat, vita, organizzazione usi e costumi, tr. it., Milano, 1993, p. 88.  42 MORIN, Le idee: habitat, vita, organizzazione usi e costumi, cit., p. 19.  Fenomeni affettivi e dimensione giuridica 19 Hassemer43. L’osservazione dello studioso tedesco è un invito a riflet- tere sul diritto penale munendosi di ‘lenti’ che sappiano mettere a fuo- co non solo norme ma anche la cultura che fa loro da sfondo: gli uni- versi fattuali, valoriali, simbolici ed emotivi che la formano. Il giurista penale dovrebbe volgere il proprio sguardo verso i fe- nomeni al fine di costruire esplorazioni ‘a partire dal capitale cogni- tivo collettivo delle conoscenze acquisite’: delle conoscenze che han- no contribuito a dare un’impronta alla cultura, e dunque anche alla sensibilità dei legislatori; e del panorama di conoscenze del tempo presente, con l’annesso potenziale epistemico. Un approccio critico al lessico del diritto significa in questo senso presa di distanza da ‘ontologismi giuspositivistici’ o da ‘riduzionismi pangiuridici’ della realtà, e traduce l’esigenza di tenere ben presente la distanza tra il diritto, inteso come ideale regolativo, e i fatti della vita 44. L’‘inemendabilità’ di cui parla il filosofo Maurizio Ferraris, «il fatto che ciò che ci sta di fronte non può essere corretto o trasforma- to attraverso il mero ricorso a schemi concettuali»45, suona per il giurista come un monito aprendere sul serio la distinzione tra di- mensione ‘costruttivistica’ degli schemi del diritto e il piano ontologi- co dei fenomeni 46. 43 HASSEMER, Perché punire è necessario, tr. it., Bologna, 2012, p. 12. 44 «Non è vero e completo giurista colui che, pure conoscendo con scientifica precisione il diritto positivo di un determinato paese, non si rende conto della in- colmabile distanza tra il diritto e la vita, ossia della assoluta impossibilità di sod- disfare totalmente l’esigenza, presente in tutte le società, di razionalizzare le azioni degli uomini dando a esse un ordine stabile mediante regole». v. CESARINI SFORZA, Filosofia del diritto, Milano, 1958, p. 1. 45 FERRARIS, Manifesto del nuovo realismo, Roma-Bari, 2012, p. 48; si veda an- che la riflessione di un filosofo del diritto di matrice analitica SCARPELLI, Filosofia analitica, norme e valori, Milano, 1962, p. 52: «[l]e norme e le asserzioni svolgono nell’esperienza dell’uomo una differente funzione, ma le une e le altre possono svolgere la loro funzione solo se si riferiscono a stati ed eventi dentro l’esperienza e distinguibili dagli altri stati ed eventi dentro l’esperienza». 46 Non intendiamo prendere posizione sui rapporti tra ontologia ed epistemo- logia, addentrandoci nel ginepraio di problemi legati alla dialettica fra concezioni ‘realiste’ e ‘postmoderne’. Nella letteratura italiana, oltre al citato ‘manifesto’ di Maurizio Ferraris, si veda ID., Documentalità. Perché è necessario lasciar tracce, Roma-Bari, 2009, pp. 62 ss.; per una cristallina sintesi del dibattito sul realismo vedi D’AGOSTINI, Realismo? Una questione non controversa, Torino, 2013, pp. 12 ss., 59 ss. In termini generali, segnaliamo come tale produzione letteraria sia da inquadrarsi quale risposta al trend postmoderno che nella seconda metà del No- vecento ha sottoposto i concetti di ‘verità’ e di ‘realtà’ a tentativi di destruttura- zione da parte di correnti filosofiche che possiamo approssimativamente definire   20 Tra sentimenti ed eguale rispetto Nella dottrina penalistica italiana si parla di ‘vincoli di realtà’ 47, e si potrebbero definire tali istanze anche attraverso il richiamo a con- cetti meno abituali ma oggi non più alieni al discorso penalistico, come quello di ‘verità’ 48. Lo specifico caso dei sentimenti come pro- blema di tutela porta a riflettere sulla «verità dei presupposti su cui si fonda il ragionamento funzionalistico all’origine dei precetti»49. Si tratta di un impegno anche sul piano metodologico: come approccio di studio che pone la conoscenza dei fenomeni a fondamento di ana- lisi volte a testare la qualità delle scelte e delle possibili risposte da parte del diritto, emancipandosi dalla prospettiva di patenti ‘ontolo- giche’ alle formule coniate dal legislatore 50. Il punto di osservazione dello studioso non dovrebbe pertanto col- locarsi in un’ottica del tutto interna al linguaggio e agli schemi con- cettuali del diritto posto, ma, come ogni punto di osservazione, ne- cessita di una collocazione anche esterna rispetto all’oggetto che si come relativistico-ermeneutiche. La bibliografia è sterminata; ci limitiamo a menzionare il testo forse più emblematico, e raffinato, del trend postmoderno, ossia RORTY, La filosofia e lo specchio della natura, tr. it., Milano, 2004. 47 «Come impresa ‘di ragione’, il diritto è vincolato al principio di realtà. Il le- gislatore deve fare i conti con la realtà che intende regolare, nella quale ha da ri- tagliare gli oggetti e cercare le condizioni di una regolazione possibile e razionale rispetto agli scopi. Nei concreti orizzonti storici, i vincoli di realtà (ontologici) si traducono in vincoli epistemologici di razionalità rispetto al sapere disponibile», v. PULITANÒ, Il diritto penale fra vincoli di realtà e sapere scientifico, in Riv. it. dir. proc. pen., 3/2006, pp. 798 ss. 48 Le questioni di fondo sono oggi compendiate nell’importante volume di AA.VV., a cura di Forti-Varraso-Caputo, «Verità» del precetto e della sanzione pena- le, cit.; si veda inoltre il denso scritto di DI GIOVINE O., A proposito di un recente dibattito su “Verità e diritto penale”, in Criminalia, 2014, pp. 539 ss., quale tentati- vo di superamento,  nella prospettiva giuridica, della radicalità insita nell’alter- nativa tra teorie corrispondentiste e pragmatiste. 49 PALAZZO, Verità come metodo di legiferazione. Fatti e valori nella formulazione del precetto penale, in AA.VV., a cura di Forti-Varraso-Caputo, «Verità» del precetto e della sanzione penale, cit., p. 101. 50 Umberto Vincenti afferma la necessità di «combattere ogni formalismo in- terpretativo che ha la pretesa, per malintese aspirazioni di autonomia della scien- za giuridica, di risolvere ogni questione – e gli stessi casi della pratica – ragionan- do esclusivamente all’interno del testo normativo, levigando e combinando le sua parole, per comporre un certo prodotto linguistico – una certa massima di deci- sione – da accollare all’esperienza: alla nuova esperienza da conoscere e, nei fatti, destinata a rimanere, non volendosi andare oltre le parole di un testo (o, anche, di molti testi), di necessità sconosciuta (o quasi) perché impenetrabile attraverso il solo strumento verbale», v. VINCENTI, voce Linguaggio normativo, in Enciclopedia del diritto, Annali, vol. VII, Milano, 2014, pp. 683 s.   Fenomeni affettivi e dimensione giuridica 21 vuole indagare: «a partire dall’insopprimibile “eccedenza” della vita rispetto a tutte le forme», e nella consapevolezza che il diritto, rispet- to ai fenomeni che ne costituiscono il campo applicativo, «costituisce ormai una “semantica influente” in cui “quello di cui si parla” è mol- to di più di “quello che si dice”» 51.  51 Le citazioni sono tratte da RESTA, Diritto vivente, Roma-Bari, 2008, p. X. Si veda anche RODOTÀ, La vita e le regole. Tra diritto e non diritto, Milano, 2007, p. 17, p. 31, il quale sembra farsi sostenitore di istanze simili quando afferma che il ri- chiamo alla ‘verità’ dei presupposti implica che è in gioco qualcosa di più profon- do della precisione linguistica e dell’efficacia descrittiva di una norma: osserva Rodotà che «In realtà il diritto è più che una regola. Prima di tutto è un linguag- gio. Si può davvero dire tutto con le parole del diritto o è proprio la grammatica dei diritti a dimostrarsi povera di fronte alla complessità sociale e alla sua ric- chezza? [...] Il radicarsi del diritto nella realtà segue itinerari complessi, e meno lineari, di quello che misura l’effettività della norma unicamente da una sua diret- ta e immediata applicabilità in una situazione determinata. Già la sola trascrizio- ne nell’ordine giuridico di un valore o di un principio o di un fine pubblico porta con sé una variazione del contesto in cui collocare gli atti della vita, del discorso giuridico a cui fare riferimento, del sistema normativo con il quale misurarsi».   22 Tra sentimenti ed eguale rispetto SEZIONE II Percorsi concettuali e interdisciplinari SOMMARIO: 3. Spunti di riflessione attraverso le ‘Law and Emotion Theories’. – 4. Sentimenti ed emozioni: approcci di studio e questioni di linguaggio. – 4.1. Quale concezione di emozione per il giurista? – 4.2. Sull’uso del termine ‘emozione’. – 5. Sinossi. 3. Spunti di riflessione attraverso le ‘Law and Emotion Theories’ Un approccio orientato a problematizzare il profilo ontologico- fattuale dei fenomeni affettivi, e dunque a dialogare con ambiti disci- plinari diversi dalla scienza giuridica, trova un importante punto di riferimento dal punto di vista metodologico nel campo di studi di matrice statunitense denominato ‘Law and Emotion’ 52. Si tratta di un’area di discussione orientata a rimeditare i termini dell’interazione fra diritto e dimensione emotiva per ragioni che si le- gano non solo a un complessivo aggiornamento delle conoscenze ex- tragiuridiche sul tema, ma soprattutto per favorire una maggiore con- sapevolezza e un ‘uso’ più intelligente delle emozioni nel campo giuri- dico («intelligent and responsible engagement by law») 53. Secondo i teo- rici di ‘Law and Emotion’ i giuristi tendono a non prendere sufficien- temente in considerazione le acquisizioni delle scienze extragiuridiche sugli stati affettivi, rivelando un’autoreferenzialità frutto di mentalità chiusa e una riluttanza ad apprendere da altre discipline 54. 52 Per un inquadramento dei temi trattati e delle diverse impostazioni v. BANDES- BLUMENTHAL, Emotion and the Law, cit., passim; MARONEY, Law and Emotion: A Proposed Taxonomy of an Emerging Field, in 30 Law and Human Behavior, 2006, pp. 119 ss.; cfr. anche ABRAMS-KEREN, Who’s Afraid of Law and the Emotions?, cit., pp. 1997 ss. 53 ABRAMS-KEREN, Who’s Afraid of Law and the Emotions?, cit., p. 2000. 54 BANDES, Introduction, cit., p. 7.   Fenomeni affettivi e dimensione giuridica 23 Gli studi di ‘Law and Emotion’ mirano a mettere in luce l’influenza che la dimensione affettiva esplica sul modo di concepire ratio e struttura di istituti di diritto positivo e, più in generale, sulle ragioni addotte per legittimare l’essere e il dover essere del diritto 55, soprat- tutto del diritto penale. Si approfondisce la conoscenza dei fenomeni affettivi attraverso una base epistemica che non si limita alla dimen- sione bio-psicologica, ma che si apre alla sfera sociologico-umani- stico-letteraria, attraverso la filosofia, la letteratura, l’antropologia, la sociologia, in una prospettiva volta a dischiudere orizzonti di senso 56 e a guardare ai fenomeni affettivi attraverso un filtro interpretativo multidisciplinare 57. Ciò che sembra meglio riassumere l’istanza sottesa agli studi di ‘Law and Emotion’ è la ricerca di un dialogo finalizzato non solo a in- crementare consapevolezza e competenze dei giuristi sul tema delle emozioni, e dunque a favorire una maggiore attendibilità scientifica dei lavori dei giuristi, ma anche a promuovere un feedback virtuoso fra scienza giuridica e saperi empirico-sociali sugli stati affettivi 58. I contributi di ‘Law and Emotion’ non si identificano con una li- nea teorica univoca 59, ma si articolano in diverse correnti; una fra le 55 BANDES-BLUMENTHAL, Emotion and the Law, cit., p. 162. 56 BANDES-BLUMENTHAL, Emotion and the Law, cit., p. 162; MARONEY, Law and Emotion, cit., pp. 123 ss.; ABRAMS-KEREN, Who’s Afraid of Law and the Emotions?, cit., p. 2033. 57 Sotto tale profilo sembrano esservi sostanziali differenze rispetto ad altre branche di studi, affini ma distinte da ‘Law and Emotion’: in particolare ‘Law and Economics’ e ‘Law and Neuroscience’, le quali, peraltro, sembrano essere tenute in maggiore considerazione dai giuristi. Una possibile chiave di lettura di tale atteg- giamento è il fatto che ‘Law and Economics’ e ‘Law and Neuroscience’ sembrano basarsi su assunzioni che sono più vicine al modello di razionalità ‘classica’ con cui i giuristi hanno maggiore confidenza, v. ABRAMS-KEREN, Who’s Afraid of Law and the Emotions?, cit., p. 2018. 58 MARONEY, Law and Emotion, cit., p. 135: «We see as well a persistent divide between empiricists and theorists. The lack of dialogue across these dividing lines lessens opportunities for cross-fertilization. We therefore would do well to foster dynamic collaborations among social scientists, those trained in the life sciences, philosophers, lawyers, and legal scholars. The exercise of forging such collabora- tions would encourage creation of a common language, and resulting scholarship would be both more complex and more accessible to those across the range of implicated disciplines». 59 Quali caratteristiche deve avere uno studio per potersi inquadrare come contributo su ‘Law and emotion’? Questa la risposta di MARONEY, Law and Emo- tion, cit., p. 124: «The question as to at what point any given project is sufficiently about both “law” and “emotion” to productively be claimed for this particular en-   24 Tra sentimenti ed eguale rispetto più autorevoli studiose, la giurista Terry Maroney, individua ben sei tipologie di approccio60. Tale schematizzazione assume in primo luogo un valore descrittivo, individuando snodi concettuali che carat- terizzano le peculiarità dei singoli contributi nel contesto della pro- duzione scientifica sul tema; sotto un diverso profilo, la tassonomia degli approcci possiede anche la funzione di canone metodologico volto a evidenziare questioni fondamentali con cui il singolo studioso che intenda approfondire il tema delle interazioni fra diritto e dimen- sione affettiva si troverà a fare i conti 61. I percorsi individuati da Ter- ry Maroney fissano in questo senso delle coordinate che possono con- tribuire a suggerire al singolo studioso l’impostazione che meglio si attaglia al tipo di indagine che intende affrontare: la conoscenza dei nodi teorici fondamentali e, correlativamente, della possibilità di percorsi e di approcci alternativi, dovrebbe costituire un impegno ad acquisire consapevolezza riguardo l’impostazione adottata, anche al fine di renderne esplicita l’adesione 62. clave is worthy of greater exploration than is possible here. I offer, nonetheless, two premises, one pertaining to motivation and the other to method. First, con- temporary law and emotion scholarship is based on the beliefs that human emo- tion is amenable to being specifically and searchingly studied, that it is highly rel- evant to the theory and practice of law, and that its relevance is deserving of clos- er scrutiny than it historically has received. Second, such scholarship explicitly directs itself to both sides of the “and”; it takes on a question regarding law and brings to bear a perspective grounded in the study or theory of emotions». 60 MARONEY, Law and Emotion, cit., pp. 125 ss. Nel dettaglio, si parla di: 1) ‘emotion centered approach’, come approccio che si focalizza su una singola emo- zione e ne analizza le possibili interazioni con la dimensione giuridica; 2) ‘emo- tional phenomenon approach’, il quale muove dallo studio di processi mentali e comportamentali che non corrispondono propriamente a emozioni, ma che rap- presentano condizioni per l’elicitazione o la esternazione di stati emozionali 3) ‘emotion theory approach’, approccio porta a sviluppare riflessioni in linea con una o più teorie interpretative delle emozioni; 4) ‘legal doctrine approach’, il quale mira a far interagire il sapere su emozioni e stati affettivi con aree determinate del diritto o con particolari istituti; 5) ‘theory of law approach’, il quale studia i nessi tra emozioni e diritto a un livello puramente teoretico, facendo interagire teorie sulle emozioni con teorie generali sul diritto; 6) ‘legal actor approach’, il quale si occupa di analizzare come la dimensione emotiva influisce sull’attività dei soggetti che operano nell’ambito applicativo: giudici, avvocati, ecc. 61 MARONEY, Law and Emotion, cit., pp. 123 ss. 62 «[c]areful consideration of the analytical approaches potentially implicated in any given project will help identify blind spots or force unstated assumptions to the surface, and may further encourage scholars to justify why they make the choices they do. Thus, academic inquiry into the intersection of law and emotion should identify which emotion(s) it takes as its focus; carefully distinguish be- tween those emotions and any implicated emotion-driven mental processes or   Fenomeni affettivi e dimensione giuridica 25 4. Sentimenti ed emozioni: approcci di studio e questioni di linguaggio Gli studi su ‘Law and Emotion’ mettono in evidenza questioni teo- riche le quali riteniamo debbano essere prese in considerazione an- che nella presente indagine: in particolare, un importante step è rap- presentato dalla ricerca di punti di convergenza fra contributi di ma- trici scientifiche eterogenee, e dunque dall’esigenza di uno sguardo d’insieme alle acquisizioni elaborate dalle discipline che studiano gli stati affettivi. Sentimenti ed emozioni sono fenomeni relativi al sentire della persona: per comprenderne i profili di rilevanza nella dimensione del singolo e l’incidenza nelle dinamiche relazionali il giurista penale de- ve necessariamente rivolgersi a saperi esterni al diritto che potremmo definire lato sensu ‘psicologici’, ma che non si limitano alla sola psi- cologia 63. Nell’attuale momento storico le dinamiche interiori dell’in- dividuo sono poste sotto osservazione da una molteplicità di punti di vista: un’interazione fra discipline che dà luogo a complesse mappe epistemiche. Difficilmente potrà trovare appagamento la bramosia di defini- zioni che spesso anima le operazioni intellettuali dei giuristi quando si addentrano in campi di conoscenza diversi dal proprio. La lettera- tura sugli stati affettivi non è semplicemente una sovrapposizione di varianti tassonomiche e definitorie; differenti sono le discipline coin- volte, con angolazioni prospettiche e linguaggi che valorizzano profili differenti e complementari: non esiste un’unica ‘scienza dell’emozio- ne e dei sentimenti’. Come modello di approccio penalistico alle scienze extranormati- ve si è recentemente parlato di una prospettiva ‘separatista’ e di una ‘dialogante’64. La soluzione a nostro avviso preferibile è la seconda; nel presente caso, il dialogo si caratterizza per una particolare com- plessità, poiché le voci che il giurista si trova di fronte rappresentano una variegata polifonia da cui emergono prospettive di ricostruzione behaviors; explore relevant and competing theories of those emotions’ origin, purpose, or functioning; limit itself to a particular type of legal doctrine or legal determination; expose any underlying theories of law on which the analysis rests; and make clear which legal actors are implicated», v. MARONEY, Law and Emo- tion, cit., pp. 133 s. 63 Condividiamo in questo senso l’impostazione metodologica di NISCO, La tu- tela penale dell’integrità psichica, cit., p. 18.  64 FIANDACA, Prima lezione, cit., pp. 152 ss.  26 Tra sentimenti ed eguale rispetto e di classificazione alquanto diverse. Sarebbe segno di chiusura cul- turale se ci si accontentasse di identificare le rispondenze fenomeni- che del richiamo a sentimenti sulla base del senso comune, senza ap- profondire le articolate classificazioni proposte dai diversi saperi sul mondo 65; nondimeno, la non omogeneità del panorama di conoscen- ze grava il giurista di un compito severo. In primo luogo appare opportuno individuare le branche della co- noscenza che oggi tracciano le coordinate di riferimento. Al fine di delineare i presupposti di un’interazione fra scienza penale e saperi sugli stati affettivi, nella dottrina penalistica italiana è stata proposta una schematizzazione utile a mappare l’orizzonte conoscitivo. Tre le tipologie di approccio evidenziate: 1) approccio psicologico; 2) ap- proccio neurofisiologico e neuroscientifico; 3) approccio filosofico 66. La dimensione biologica e quella psicologica offrono un quadro in- centrato sulle dinamiche interne alla persona, ossia relativo a come gli stati affettivi si manifestano e a quale influenza possono avere sul- l’agire, sull’autodeterminazione individuale e dunque nella globale eco- nomia di vita di un soggetto. Prospettive come quella filosofica e so- ciologica forniscono chiavi di lettura differenti, facendo luce non solo sulla dimensione soggettivo-interiore e solipsistica dei fenomeni af- fettivi, ma proiettandoli nelle complesse dinamiche della vita di rela- zione e dunque nella sfera interpersonale. Nella prospettiva penalistica sono importanti entrambi i profili, sia quelli più legati al ruolo degli stati affettivi nella dimensione indi- viduale, sia quelli concernenti l’intersoggettività e la dimensione col- lettiva, i quali potranno assumere una maggiore o minore pertinenza a seconda dei problemi esaminati dal giurista. Rispetto ai temi oggetto della presente indagine, la parte definitoria è in larga pare debitrice di contributi di ambito psicologico; quanto al- lo sviluppo che riguarderà la specifica connessione della tutela di sen- timenti al tema del rispetto reciproco e dei limiti penali alla libertà di espressione, le traiettorie di pensiero a nostro avviso più feconde risul- tano intrecciate alla filosofia politica e a recenti sviluppi della filosofia fenomenologica. Non va infine dimenticata un’ulteriore branca del sa- pere che si focalizza su dinamiche di intersoggettività nella dimensione 65 Per una critica all’habitus culturale del penalista, talvolta poco propenso al confronto con il mondo dei fatti, e una conseguente esortazione a fare proprio uno spirito scientifico e una modalità di pensiero diversi dal mero senso comune, v. FORTI, L’immane concretezza, cit., pp. 44 ss. 66 FIANDACA, Sul ruolo delle emozioni e dei sentimenti, cit., p. 219 ss.; cfr. NISCO, La tutela penale dell’integrità psichica, cit., pp. 57 ss.   Fenomeni affettivi e dimensione giuridica 27 sociale: parliamo della sociologia delle emozioni67, un campo di studi relativamente giovane68 e alquanto promettente per le prospettive di interazione con la riflessione giuridica 69. Nel prosieguo cercheremo di compiere un excursus, necessaria- mente approssimativo, al fine di fare maggiore chiarezza sui tratti che distinguono in particolare il sentimento da un’altra manifesta- zione del sentire: l’emozione. Si tratta di un compito spinoso70. Eloquente è quanto affermato nella letteratura psicologica italiana negli anni ’60: «Nell’affrontare lo studio della vita emotiva si resta colpiti [...] dal disaccordo che vi è tra gli psicologi sull’uso e sul si- gnificato dei termini fondamentali, sulla classificazione e sui carat- teri differenziali degli stati affettivi, sul meccanismo della loro pro- duzione» 71. L’ambiguità e la vaghezza presenti nel linguaggio comune non do- vrebbero rinnovarsi nel linguaggio scientifico 72, e, soprattutto, quan- do si tratta di gestire l’interazione fra discipline differenti «le parole [non dovrebbero essere] introdotte in un sistema di linguaggio scien- tifico, serbando a tradimento il significato che loro viene dal modo in 67 Sul tema, amplius, v. AA.VV., a cura di Turnaturi, La sociologia delle emo- zioni, tr. it., Milano, 1995. 68 TURNATURI, Introduzione, in AA.VV., a cura di Turnaturi, La sociologia delle emozioni, cit., p. 7. 69 BANDES-BLUMENTHAL, Emotion and the Law, cit., p. 174. 70 SCHERER, What are emotions? And how can they be measured?, in 44 Social Science Information, 2005, p. 696. 71 ZAVALLONI, La vita emotiva, in AA.VV., a cura di Ancona, Questioni di psico- logia. Principi e applicazioni per psicologi, medici, insegnanti ed educatori, Milano, 1962, p. 367. Problemi di natura terminologica sono posti in evidenza anche da ABBAGNANO, Storia filosofica delle emozioni, in GALATI, Prospettive sulle emozioni e teorie del soggetto, Milano, 2002, p. 36. 72 Oltre ai complessi rapporti tra definizioni scientifiche, l’inquadramento di profili di rilevanza giuridica di sentimenti ed emozioni richiede di non trascurare il vocabolario tramite cui gli attori sociali connotano gli stati affettivi, e dunque le sfumature del linguaggio che possono concorrere a illuminare dimensioni di sen- so dei fenomeni. In altri termini, la ricerca di una tendenziale coerenza tra cate- gorie giuridiche e concettualizzazioni scientificamente fondate dovrebbe essere veicolata anche attraverso un esame di usi linguistici che, pur caratterizzati da approssimazioni e da una logica comunicativa incline al ‘senso comune’ o alla c.d. ‘psicologia ingenua’, possono nondimeno contribuire ad additare problemi di fondo e a identificare l’area di significato dei termini. Sul ‘senso comune’ come categoria che definisce ciò che è ritenuto ovvio e condiviso all’interno di una cer- chia sociale, v., per tutti, JEDLOWSKY, “Quello che tutti sanno”. Per una discussione sul concetto di senso comune, in Rass. it. sociologia, 1994, pp. 49 ss.   28 Tra sentimenti ed eguale rispetto cui sono usate in un altro sistema, o nel linguaggio comune» 73. Tale monito, proveniente da un filosofo italiano del diritto, trova rispondenza in ambito anglo-americano proprio negli scritti legati a ‘Law and Emotion’ 74: il lessico degli stati affettivi muta a seconda dei contesti di studio, e l’opera di consultazione di saperi esterni da parte del giurista penale dovrebbe essere accompagnata da una rielabora- zione dei contenuti, poiché le ipotesi definitorie e classificatorie pro- poste in ambito extragiuridico possono non assumere una corrispon- dente rilevanza nella prospettiva della valutazione penalistica75. I concetti di emozione e di sentimento vanno conseguentemente mo- dulati sulla dimensione giuridica, tenendo ben presente la base epi- stemica alla quale si sta facendo riferimento, ma senza vincoli sul piano strettamente lessicale né concettuale. Il problema non è certo inedito, e può essere ricollegato agli inter- rogativi formulati, ormai qualche decennio fa, da autorevole dottrina, relativi a come rendere metodologicamente compatibili il punto di vista normativo e quello delle scienze empirico-sociali di fronte al- l’esigenza di definire la rilevanza giuridica di fenomeni psichici 76. 73 Uberto Scarpelli richiama l’attenzione sull’esigenza di ‘pulitura’, ed even- tualmente di ri-strutturazione, del lessico giuridico, con l’importante avvertenza di non limitarsi a importare terminologie ‘esterne’ in modo pedissequo e irrifles- sivo, senza procedere a un’adeguata concettualizzazione: v. SCARPELLI, Scienza del diritto e analisi del linguaggio, ora in AA.VV., a cura di Scarpelli-Di Lucia, Il lin- guaggio del diritto, Milano, 1994, p. 89. 74 MARONEY, Law and Emotion, cit., pp. 124 ss.; BANDES-BLUMENTHAL, Emotion and the Law, cit., p. 163. 75 FIANDACA, Sul ruolo delle emozioni e dei sentimenti, cit., p. 226: «il giurista contemporaneo, se da un lato non può fare a meno di rivisitare i concetti di emo- zione e sentimento alla luce delle acquisizioni scientifiche e della riflessione filo- sofica più recenti, rimane per altro verso pur sempre vincolato all’esigenza di ri- pensare i concetti elaborati in altri ambiti disciplinari secondo la sua specifica ottica». Dello stesso avviso, BANDES, Introduction, cit., p. 8, secondo la quale «it is also true that law has its own set of purposes, demands and limitations. [...] The knowledge we gain about emotion is usable in a legal context only if it can be translated in light of law requities». 76 FIANDACA, I presupposti della responsabilità penale tra dogmatica e scienze so- ciali, in AA.VV., a cura di de Cataldo Neuburger, La giustizia penale e la fluidità del sapere: ragionamento sul metodo, Padova, 1988, pp. 29 ss. L’analisi di Fiandaca è in questo caso incentrata sui presupposti soggettivi della responsabilità penale, e pone in evidenza due distinti ordini di problemi: da un lato, il grado di affidabili- tà del sapere metagiuridico, che, specie con riferimento alle scienze psicologiche, offre contributi i cui esiti si prestano a letture non univoche. Dall’altro lato, evi- denzia come determinate acquisizioni in ambito psicologico siano tali da porre in dubbio la base fattuale di principi normativi come la colpevolezza, esponendone   Fenomeni affettivi e dimensione giuridica 29 Nello scenario contemporaneo, l’ampliamento dell’offerta epistemi- ca, ossia l’incremento delle branche della conoscenza che oggi si sof- fermano sullo studio dei fenomeni affettivi, rende ancora più com- plesso tale compito. A fronte di tali difficoltà, e nella consapevolezza che sia opportuno tenere distinte le finalità delle categorizzazioni dei saperi sul mondo dalla teleologia delle categorie penalistiche77, resta l’obiettivo di ridurre la distanza fra l’artificialità delle concettualizza- zioni giuridiche e la realtà dei fenomeni 78, sia al fine di individuare re- gole d’uso dei termini non ‘arbitrarie’, ossia fondate su connessioni fra le diverse proposte in ambito extragiuridico le quali siano adeguata- mente esplicative rispetto ai problemi in gioco; sia nella prospettiva di dare anche un impulso alla rivisitazione di categorie e di modelli con- cettuali presenti nel discorso giuridico 79 – non solo dei teorici ma an- che, soprattutto, degli applicatori – che risentono di schemi di pensiero legati al senso comune e alla cosiddetta psicologia ingenua 80. però a rischio anche il ruolo individual-garantistico; oppure, con riferimento a un possibile allineamento con quanto espresso da determinate teorie sociologiche, rimarca il rischio di una funzionalizzazione del diritto penale all’ascolto di istan- ze di mera difesa sociale. 77 Rileva tale problema, con riferimento al tema dell’imputabilità, BERTOLINO, L’imputabilità e il vizio di mente nel sistema penale, Milano, 1990, pp. 25 ss., 44 ss. Sul tema della costruzione di un modello di scienza penale integrale, non asservi- ta ai saperi empirici ma comunque attenta a limiti epistemologici, v. DONINI, La scienza penale integrale fra utopia e limiti garantistici, in AA.VV., a cura di Moccia- Cavaliere, Il modello integrato di scienza penale di fronte alle nuove questioni socia- li, Napoli, 2016, pp. 26 ss. 78 Anche aprendo la riflessione verso un’eventuale ‘rivisitazione’ di categorie che dovessero risultare mero riflesso di una psicologia cosiddetta ‘esoterica’: su tale definizione v. FIANDACA, Appunti sul ‘pluralismo’ dei modelli e delle categorie, cit., p. 83; cfr. VENEZIANI, Motivi e colpevolezza, cit., pp. 71 ss. 79 BANDES-BLUMENTHAL, Emotion and the Law, cit., p. 165. 80 Si è osservato che «il diritto può venire considerato un caso particolarmente brillante di scienza “ingenua”. Esso infatti impiega massicciamente una propria concezione della psicologia ma senza dichiararne i teoremi ed i postulati», v. PE- RUSSIA, Criteri giuridici e criteri psicologici: note sullo scambio epistemologico fra psicologia e diritto, in AA.VV., a cura di de Cataldo Neuburger, La giustizia penale e la fluidità del sapere, cit., p. 89. Per un quadro generale sulla ‘psicologia inge- nua’, con cui si intende la capacità spontanea degli esseri umani «di interpretare i comportamenti di un agente attribuendogli stati mentali quali credenze, desideri, piacere, interesse», v. MEINI, Alle origini della psicologia ingenua: interpretare se stessi o interpretare gli altri?, in Sistemi intelligenti, 1/2001, p. 119; con riferimento alla dimensione giuridica, v. di recente FORZA-MENEGON-RUMIATI, Il giudice emoti- vo, cit., pp. 93 ss. Per una sintesi del ruolo della commonsense psychology nel di- ritto penale, in una prospettiva tesa a non demonizzarne il ruolo ma ad analiz-   30 Tra sentimenti ed eguale rispetto 4.1. Quale concezione di emozione per il giurista? Non si tratta dunque di effettuare un travaso lessicale che intro- duca nomenclature e classificazioni ab externo; le diverse ‘emotion theories’ si prestano a sviluppi fra loro profondamente differenti, e il giurista non può limitarsi a importazioni passive di saperi 81. zarne i risvolti positivi quale alternativa a prospettive ‘comportamentiste’ e ‘ridu- zioniste’, v. SIFFERD, In defense of the Use of Commonsense Psychology in the Cri- minal Law, in 25 Law and Philosophy, 2006, pp. 571 ss.; per un’opinione differen- te v. COMMONS-MILLER, Folk Psychology and Criminal Law: Why We Need to Repla- ce Folk Psychology with Behavioral Science, in 39 The Journal of Psychiatry and Law, 2011, pp. 493 ss. Quando si parla di psicologia folk ci si riferisce a un terri- torio che non corrisponde a un sistema armonico di concetti (peraltro si tende anche a distinguere folk psychology da commonsense psychology), ma che è un campo variegato, caratterizzato anche da incongruenze interne, nel quale i saperi scientifici costituiscono l’humus di concettualizzazioni che vanno ad assumere forme differenti in relazione ai momenti storici; è più corretto parlare al plurale di ‘folk conceptions’ piuttosto che di un’unica visione ‘folk’ dei fenomeni affettivi. La dimensione folk resta eminentemente esplicativa, ma non descrittiva: è condi- zionata da un sapere approssimativo sulla fisiologia degli stati affettivi, e accom- pagna tale gap epistemico con congetture che rivelano un approccio tendenzial- mente valutativo del fenomeno emotivo, il quale trova espressione in immagini significative che traspongono in termini metaforici i caratteri del fenomeno. In generale possiamo affermare che la vita di relazione è in larga parte regolata da deliberazioni interiori assunte sulla base di postulati di ‘folk psychology’, in parte come frutto di competenze innate, e in parte effetto di deduzioni influenzate della cultura. Si osserva che nella dimensione penalistica la ‘folk psychology’ può rap- presentare un formante in relazione a tre distinti profili: influisce sulla confor- mazione categorie generali del diritto penale; influenza le argomentazioni degli studiosi di diritto; si insinua concretamente nel sistema legale attraverso argo- mentazioni che gli operatori pratici adoperano nella loro professione (giudici, av- vocati, e, con riferimento al sistema americano, giurati), v. FINKEL-GERROD PAR- ROT, Emotions and culpability. How the Law is at Odds with Psychology, Jurors, and itself, Washington, 2006, p. 48. Sull’interazione fra senso comune e studio delle emozioni, in una prospettiva che ne rimarca le reciproche implicazioni, v. GALATI, Prospettive sulle emozioni, cit., pp. 93 ss. Si veda anche CALABI, Le varietà del sentimento, in Sistemi intelligenti, 2/1996, pp. 274 ss., la quale afferma che la psicologia del senso comune contribuisce a fornire una rappresentazione del fe- nomeno emotivo che ne comunica la complessità in modo più coerente e attendi- bile rispetto alle tendenze riduzioniste o eliminativiste. 81 Per il giurista, oltre alla necessità di riuscire a districarsi fra gli ‘overlap- ping fields’ sulle emozioni (secondo la definizione di BANDES, Introduction, cit., p. 8) si pone l’esigenza di non introdurre tali conoscenze in termini meramente strumentali alla costruzione delle proprie teorie, importandoli e magari ‘co- stringendoli’ all’interno di argomentazioni giuridiche senza renderne manifesto il margine di opinabilità e la possibilità di ricostruzioni alternative, e senza dunque osservare il dovuto rispetto per la complessità a cui si sta facendo ri-   Fenomeni affettivi e dimensione giuridica 31 Il richiamo a vincoli di realtà si potrebbe così articolare: un primo livello, relativo all’esplorazione del panorama di conoscenze disponi- bili, all’esame di nozioni, di tassonomie e di differenti prospettive di ricostruzione; un secondo livello, incentrato su una concezione di sentimento e di emozione che sia suscettibile di entrare in connes- sione con i fatti e con le dinamiche che interessano i problemi di re- golamentazione penale. Nel complesso, a una fase di ricognizione epi- stemica si aggiunge un processo interpretativo e al tempo stesso ‘crea- tivo’, nel senso che il giurista finisce per concepire una particolare idea di emozione e di sentimento. Una critica mossa ad alcuni fra i primi contributi sul tema di ‘Law and Emotion’ è stata quella di non aver adeguatamente problematiz- zato ed esplicitato un importante passaggio metodologico, ossia di- scutere apertamente quale sia la concezione di emozione assunta alla base delle riflessioni 82. Parallelamente a tale critica, riteniamo che si attaglino anche al giurista le osservazioni del sociologo Sergio Manghi, quando afferma che per lo studioso di scienze sociali non è possibile limitarsi a de- scrivere il modo in cui le emozioni vengono socialmente definite: allo stesso modo per il giurista non è possibile far interagire la dimensio- ne giuridica con le diverse prospettive attraverso cui emozioni e sen- timenti vengono socialmente e scientificamente definiti, senza pren- dere al contempo una posizione che traduca maggiore o minore pre- ferenza per una determinata impostazione. Va dunque inoculato an- che nella riflessività dello studioso di diritto l’interrogativo di natura epistemologica su quale sia la concezione di emozione alla base del proprio discorso: «attraverso quale idea di ‘emozione’ parlo di ‘emozioni’? Essere o me- no dotati di un’idea di ‘emozione’, o per dirla con una parola più im- pegnativa, di una teoria delle emozioni, non è questione di scelta, per nessun essere umano che ricorra alla parola ‘emozione’. A maggior ra- gione, non è una questione di scelta per uno scienziato sociale. Una teoria c’è comunque. Possiamo scegliere solo se mantenerla implicita, colludendo con il senso comune, o [...] possiamo cercare di esplicitar- mando: «Legal scholars, as well as lawyers, legislators, judges, need to guard against this temptation to pillage other fields without regard for their full com- plexity and to use the spoils selectively to make legal arguments», v. BANDES, Introduction, cit., p. 8. 82 LITTLE, Negotiating the Tangle of Law and Emotion, in 86 Cornell Law Re- view, 2001, p. 981.   32 Tra sentimenti ed eguale rispetto la: ben sapendo, beninteso, che l’esplicitazione non tocca che uno scam- polo del vasto sistema delle nostre premesse implicite. L’assunzione di un’idea da altri ambiti testuali rimane [...] comunque un gesto attivo, un atto linguistico generativo, del quale non possiamo non assumerci la responsabilità epistemologica» 83. Il problema non è solo definitorio ma implica una presa di posi- zione sul piano epistemologico, con conseguenze sul merito delle ri- flessioni84: tematizzare problemi concernenti i rapporti fra diritto e dimensione affettiva porta anche il giurista a prediligere e a identifi- carsi con una o più proposte ricostruttive. Formarsi un’idea di cosa siano l’emozione e il sentimento, e in quale accezione si intenda in- trodurre tali concetti nel discorso penalistico, rappresenta in primo luogo un’acquisizione importante dal punto di vista della qualità epi- stemica dell’indagine e delle proposte eventualmente avanzate, e co- stituisce un impegno sul piano metodologico. 4.2. Sull’uso del termine ‘emozione’ Esigenze di chiarezza e di coerenza con le fonti bibliografiche ri- chiedono una puntualizzazione sul piano lessicale, o più precisamen- te, meta-lessicale. Nella lingua italiana i termini che definiscono gli stati affettivi so- no diversi: ‘sentimento’ ed ‘emozione’ sono quelli probabilmente più noti, cui si affiancano anche vocaboli come ‘passione’, ‘sensazione’, ‘impressione’, ‘affezione’, ‘stato d’animo’. In lingua inglese il termine di uso più comune e dal significato più ampio è ‘emotion’, il quale, a seconda dei diversi contesti, sembra po- tersi tradurre in italiano sia con ‘emozione’, sia con ‘sentimento’. Più circoscritto appare l’uso del termine ‘feeling’, il quale si presta a esse- re tradotto letteralmente come ‘sentimento’, al pari dell’ancor più univoco, ma meno frequente, ‘sentiment’. Diffuso è inoltre l’uso del termine ‘passion’, il quale sembra connotare un particolare modo 83 MANGHI, Le emozioni come processi sociali. Considerazioni teorico-epistemo- logiche, in AA.VV., a cura di Cattarinussi, Emozioni e sentimenti nella vita sociale, Milano, 2000, p. 40. 84 LITTLE, Negotiating the Tangle of Law and Emotion, cit., p. 982: «The tax- onomy issue is not a battle just about what goes on the list; the issue also goes to the core of what constitutes an emotion and how emotions emerge and transform».   Fenomeni affettivi e dimensione giuridica 33 d’essere degli stati affettivi, ossia l’effetto condizionante nei confronti dell’agire umano 85. Se si cerca una corrispondenza in lingua inglese con la formula ‘tutela di sentimenti’ non si trova praticamente mai il vocabolo ‘fee- ling’: il discorso giuridico sugli stati affettivi è fondamentalmente in- centrato sul termine ‘emotion’. Quando si parla di ‘Law and Emotion’, tale ultimo vocabolo non si riferisce solo ai fenomeni psichici che possono ricondursi a emozioni in senso stretto, ma comprende anche gli stati che, come avremo modo di osservare, in lingua italiana corrisponderebbero a ‘sentimen- ti’. Le questioni che nel panorama di studi giuridici in lingua italiana richiamano espressamente ‘sentimenti’ trovano dunque nella dottrina nordamericana una rispondenza col termine, più generico e com- prensivo, ‘emotion’ 86. Tale ambivalenza, se da un lato appare foriera di ambiguità, da un altro lato mostra una compenetrazione fra i due fenomeni che sugge- risce, in fase di esposizione e di impostazione dei problemi, l’uso del termine ‘emozione’ quale traduzione di ‘emotion’ in tutta la sua porta- ta semantica87, e dunque in modo sostanzialmente intercambiabile col termine ‘sentimento’. 85 Una panoramica in DIXON, “Emotion”: The History of a Keyword in Crisis, in 4 Emotion Review, 2012, pp. 338 ss. Da notare l’interessante equivoco linguistico nella traduzione del titolo del celeberrimo romanzo di JANE AUSTEN, Sense and Sensibility, tradotto, come noto, in italiano come Ragione e sentimento. In realtà in inglese ‘sensibility’ indica la sensibilità come emotività; sarebbe stato preferibi- le, come segnalato da Hugh Griffith e Helen Davies, autori di un saggio sull’opera di Jane Austen citato in http://www.unteconjaneausten.com/senno-e-sensibilita- piu-che-ragione-e-sentimento/, intendere ‘sense’ come risposta ragionata o pratica a una situazione, mentre ‘sensibility’, come percezione emotiva di tale situazione. Debbo la segnalazione di tale interessante questione all’amico Alessandro Corda, che ringrazio. Sull’uso del termine ‘passione’ v. anche infra, cap. II, nota 1. 86 Un’eccezione da noi riscontrata è relativa a un saggio di FEINBERG, Senti- ment and Sentimentality in Practical Ethics, in 56 Proceedings and Addresses of the American Philosophical Association, 1982, pp. 21 ss., nel quale il termine ‘senti- ment’ è utilizzato per indicare stati affettivi non episodici, distinti dall’‘emotion’ sia per la durata, sia per la presenza di un oggetto cognitivo. In controluce a tale impostazione emerge un complementare uso del termine emotion volto a indicare stati psicologici privi un oggetto cognitivo definito, in controtendenza dunque all’opinione di autori come Kahan e Nussbaum (v. infra, cap. II, par. 2.2). 87 Osserva DE MONTICELLI, L’ordine del cuore. Etica e teoria del sentire, Milano, 2008, pp. 21 ss. che «nella lingua franca della filosofia contemporanea la parte del leone affettivo la fa oggi la parola “emozione”. È questo il termine che viene di pre- ferenza usato con la stessa generosità onnicomprensiva di “passioni” in Cartesio, anche se a volte l’uso italiano è stridente, come lo sono spesso, prima che l’abitu-   34 Tra sentimenti ed eguale rispetto Il problema di un uso più sorvegliato si porrà al momento di in- quadrare i profili naturalistici che caratterizzano il sentimento e l’emozione al fine di verificare, nella prospettiva giuridica, il senso di una distinzione fra una ‘tutela di sentimenti’ e una ‘tutela di emozio- ni’ (v. infra, cap. IV). 5. Sinossi Il significato e il ruolo del sentimento nel diritto penale costitui- scono un argomento poco esplorato, il quale può inquadrarsi all’in- terno di un macroambito riguardante i rapporti fra diritto penale e stati affettivi. L’insufficiente attenzione ad oggi riservata a tali temi si motiva anche come effetto di un più generale atteggiamento del pen- siero occidentale tendente a relegare la dimensione affettiva nella sfe- ra dell’indominabile e dell’irrazionale; una vulgata attualmente in fa- se remissiva alla quale sta subentrando una nuova considerazione di sentimenti ed emozioni come elementi dotati di una peculiare forza non necessariamente negativa, ma anche potenzialmente virtuosa, nelle dinamiche del pensiero e dell’agire umano. Fra i diversi problemi concernenti il ruolo degli stati affettivi nella genesi e nell’applicazione delle leggi penali, quello che ci sembra di più immediata evidenza, quantomeno se si ha riguardo al lessico dei legislatori, ha a che fare con la c.d. ‘tutela penale di sentimenti’, o, in termini meno retorici, con il ruolo del sentimento quale oggetto di tutela. Per tematizzare tale problema, e più in generale tutte le questioni concernenti i rapporti fra diritto e dimensione affettiva, si rendono necessarie delle riflessioni preliminari sul piano epistemologico e me- todologico, profili teorici su cui si è mostrata particolarmente sensi- bile la dottrina giuridica statunitense attraverso il filone di studi noto come ‘Law and Emotion’. Seguendo i percorsi tracciati dai contributi afferenti al suddetto ambito, riteniamo che la presente indagine debba prendere le mosse da un inquadramento dei fenomeni cui le norme fanno richiamo. Un impegno che non dovrebbe limitarsi a un’importazione passiva di sa- peri e definizioni, e che sollecita piuttosto il giurista a interrogarsi su quale sia la concezione di emozione e di sentimento più funzionale e dine spenga il disagio, gli anglicismi (sospettiamo infatti che il senso del termine inglese “emotions” sia più lato di quello del suo falso amico italiano [...])».   Fenomeni affettivi e dimensione giuridica 35 meglio esplicativa rispetto ai diversi problemi in gioco. Vedremo nel prossimo capitolo quali siano i principali criteri di differenziazione fra stati affettivi, e quali profili distintivi appaiano più funzionali al discorso sul problema del sentimento come oggetto di tutela.   36 Tra sentimenti ed eguale rispetto  CAPITOLO II SENTIMENTI ED EMOZIONI: CLASSIFICAZIONI E DISAMBIGUAZIONI «Capire tu non puoi Tu chiamale se vuoi Emozioni» BATTISTI L.-MOGOL, 1971 «Io penso che un uomo senza utopia, senza sogno, senza ideali, vale a dire senza passioni e senza slanci sarebbe un mostruoso animale fatto semplicemente di istinto e di raziocinio... una specie di cinghiale laureato in matematica pura» DE ANDRÈ F., intervista tratta dal documentario ‘Dentro Faber, l’anarchia’ SOMMARIO: 1. Definire gli stati affettivi: una sfida continua. – 2. Emozioni. Un quadro ricostruttivo: dalla matrice filosofica alle neuroscienze. – 2.1. Le emo- zioni come giudizi di valore: la concezione di Martha Nussbaum. – 2.2. Con- cezioni ‘meccanicistiche’ e concezioni valutative dell’emozione: profili di rile- vanza giuridica. – 2.3. La dimensione sociale delle emozioni. – 3. Sentimenti: componente di riflessività e dimensione morale. – 3.1. Il pensiero filosofico e i sentimenti morali. Un’interpretazione fenomenologica. – 4. Emozioni e sen- timenti: il senso della distinzione concettuale. – 5. Sinossi. 1. Definire gli stati affettivi: una sfida continua I termini ‘sentimento’ ed ‘emozione’ definiscono fenomeni appar- tenenti alla categoria dei cosiddetti ‘stati affettivi’, e additano in que- sto senso differenze fattuali il cui approfondimento richiede di attin- gere da saperi esterni al mondo del diritto, tenendo presente che ri- spondere alla domanda ‘che cosa sia un’emozione o un sentimento’ rappresenta ancora oggi una sfida continua 1, data la difficoltà di cri-  1 BANDES-BLUMENTHAL, Emotion and the Law, cit., p. 163; cfr. SCHERER, What  38 Tra sentimenti ed eguale rispetto stallizzare nozioni univocamente condivise a livello interdisciplinare. Nella prospettiva giuridica è opportuno avere chiaro a quali fini si intenda evidenziarne le differenze2: non si tratta di perseguire una fedeltà al linguaggio dei legislatori ove adoperino una terminologia più o meno dettagliata, ma piuttosto di dotarsi di strumenti episte- mici per un’adeguata interpretazione delle situazioni descritte in eventuali norme e per una comprensione delle questioni di fondo, anche in una prospettiva de jure condendo 3. Il rinvio alle scienze psicologiche è funzionale a elaborare delle definizioni operative idonee a essere impiegate quale chiave di lettura di problemi penalistici. Ad esempio, in relazione a un interrogativo particolarmente rilevante nella presente indagine: per quale motivo si tende a parlare di tutela di ‘sentimenti’ e non di ‘emozioni’? Da un la- to vi è il riflesso condizionato dal lessico delle disposizioni, ma si tratta ovviamente di una spiegazione insufficiente ad accreditarne la coerenza. Appare invece necessario fare chiarezza sulla distinzione fattuale tra i suddetti stati affettivi e sulle conseguenti ripercussioni sul piano concettuale, al fine di chiedersi quali differenze possano di- scendere dall’orientare un’eventuale prospettiva di intervento sulle emozioni piuttosto che sui sentimenti. are emotions? And how can they be measured?, cit., p. 696. Non adoperemo il ter- mine ‘passione’, il quale è spesso utilizzato quale sinonimo di ‘emozione’ soprat- tutto in relazione agli aspetti di reattività e di passività, ma assume un significato più esteso, il quale non si limita al piano psicologico e fenomenico ma tende a includere una dimensione sociale e culturale, specie nel discorso che storicamen- te contrappone ‘passione’ e ‘ragione’. Come osserva BODEI, Geometria delle passio- ni, Milano, 2007, pp. 7 s.: «“Ragione” e “passioni” [fanno] parte di costellazioni di senso teoricamente e culturalmente condizionate [...] sono cioè termini pre-giu- dicati, che occorre abituarsi a considerare come nozioni correlate e non ovvie, che si definiscono a vicenda (per contrasto o per differenza) solo all’interno di de- terminati orizzonti concettuali e di specifici parametri valutativi»; cfr. CURI, Pas- sione, Milano, 2013, pp. 7 ss. Il termine ‘passione’ connota in definitiva una tipo- logia di stati affettivi caratterizzati dalla durata transitoria, fra cui rientrano an- che le emozioni, ma non, ad esempio, i sentimenti; per una ricostruzione in tal senso v. GOZZANO, Ipotesi sulla metafisica delle passioni, in AA.VV., a cura di Ma- gri, Filosofia ed emozioni, Milano, 1999, pp. 13 ss. Vedi anche infra, nota 71. 2 Nella dottrina penalistica si soffermano sulla distinzione fra sentimento ed emozione FIANDACA, Sul ruolo delle emozioni e dei sentimenti, cit., pp. 215 ss.; NI- SCO, La tutela penale dell’integrità psichica, cit., pp. 54 ss.; volendo si veda anche BACCO, Sentimenti e tutela penale, cit., pp. 1186 ss. 3 Si veda l’indagine di NISCO, La tutela penale dell’integrità psichica, cit., pp. 54 ss., il quale procede a una distinzione fra emozione e sentimento nell’ambito di una più ampia analisi volta a definire i tratti identificativi della ‘sofferenza’ come categoria esplicativa dell’offesa dei processi psichici.   Sentimenti ed emozioni: classificazioni e disambiguazioni 39 Non si possono sviluppare adeguatamente tali problemi affidan- dosi alla sola psicologia del senso comune, senza tener conto di come i saperi sugli stati affettivi configurano oggi il rapporto fra emozioni e sentimenti, e, più in generale, il ruolo della dimensione affettiva nella vita della persona. Cerchiamo pertanto di procedere a una di- sambiguazione che evidenzi i tratti distintivi fra i fenomeni definiti ‘emozione’ e ‘sentimento’. 2. Emozioni. Un quadro ricostruttivo: dalla matrice filosofica alle neuroscienze Prendiamo le mosse dalle emozioni; la definizione di altri stati af- fettivi viene formulata spesso in termini di comparazione e di differen- za con l’emozione, la quale mostra pertanto una rilevanza primaria. Ripercorreremo in estrema sintesi alcuni degli snodi fondamentali della storia delle emozioni, con particolare attenzione alle teorie del- l’età moderna e contemporanea, ossia quelle elaborate a partire da quando la psicologia ha assunto lo statuto di disciplina autonoma 4. Non va però dimenticato che l’interrogativo su cosa siano le emozioni ha interessato il pensiero umano fin dall’antichità, ed è a partire dai classici del pensiero filosofico che si aprono oggi buona parte delle trattazioni sulle emozioni 5. Osserva lo psicologo Dario Galati che lo studio delle emozioni na- sce come indagine filosofica; i fenomeni affettivi sono stati conside- rati da sempre una fondamentale chiave di lettura per lo studio della natura umana, e anche nell’attuale variegato panorama di branche della conoscenza la matrice filosofica mantiene una rilevanza pecu- liare: «[n]on si può fare psicologia delle emozioni senza avere un’opi- nione generale – e diciamo pure filosofica – su ciò che le emozioni sono, sul valore che hanno e sul ruolo che svolgono nell’esistenza quotidiana degli esseri umani» 6. 4 RIMÈ, La dimensione sociale delle emozioni, tr. it., Bologna, 2008, p. 29. 5 Un importante esempio è l’opera di GRIFFITHS, What Emotions Really Are. The Problem of Psychological Categories, Chicago, 1997; SOLOMON, The Philosophy of Emotions, in The Psychologists’ Point of View, in AA.VV., ed. by Lewis–Haviland- Jones, Handbook of Emotions, II ed., New York-London, 2004, pp. 3 ss. Per un’in- teressante prospettiva sulla ‘priorità’ delle emozioni da un punto di vista filosofico si veda VECA, Sulle emozioni, in Iride, 2000, pp. 529 ss.  6 GALATI, Prospettive sulle emozioni, cit., p. 29. Sulla stessa linea di pensiero v.  40 Tra sentimenti ed eguale rispetto In questa sede possiamo solo limitarci a rinviare alle belle pagine con cui il filosofo Nicola Abbagnano riassume la storia filosofica del- le emozioni, descrivendo la concezione platonica del Filebo («la pri- ma analisi delle emozioni che la filosofia occidentale ci ha dato») e la teorizzazione aristotelica della Retorica («una delle più interessanti analisi di cui la filosofia dispone»)7. Ai fini della presente indagine appare opportuno compiere un salto cronologico a epoche caratte- rizzate da una più definita differenziazione tra approcci di studio, e a prospettive che si estendono anche ai profili fisiologici e ‘corporali’ dei fenomeni affettivi. Arriviamo dunque all’Ottocento, cioè quando lo studio delle emo- zioni viene a focalizzarsi su un approccio empirico-sperimentale in relazione a movimenti corporei e pattern comportamentali. L’opera di Charles Darwin segna in questo senso uno spartiacque e la sua teoria evoluzionistica dell’emozione rappresenta il primo studio pro- priamente moderno 8. Ma è soprattutto un articolo di William James 9 a consolidare l’approccio empirico, con la celebre teoria secondo cui lo stato emotivo scaturisce dalla percezione dei cambiamenti biologi- ci e neurovegetativi innescati da uno stimolo emotigeno. Il carattere innovativo, ma anche l’aspetto più criticato di tale teoria, è l’inver- sione del rapporto tra elaborazione cognitiva e stimolo viscerale: l’espe- rienza emotiva come esito dalla percezione di mutamenti a livello corporeo, e non viceversa. Altrettanto importante, ma di opinione opposta, è la posizione di Walter Cannon, il quale, al contrario di James, riteneva che i centri di attivazione dei processi emotivi siano localizzati in regioni periferi- che del corpo (da cui la denominazione ‘teoria periferica’), propo- nendo un radicamento del processo di elaborazione emotiva nella re- gione talamica, in un’area che interessa principalmente le strutture dell’ipotalamo e dell’amigdala 10. Su tale ultima regione del sistema limbico si sono concentrati gli studi in epoca contemporanea; in particolare, secondo il neuroscien- FRIJDA, voce Emozioni e sentimenti, in Enciclopedia delle scienze sociali, Roma, 1997, pp. 559 s. 7 Sono parole di ABBAGNANO, Storia filosofica delle emozioni, cit., pp. 42 ss. 8 DARWIN, L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali, tr. it., Torino, 2012. 9 JAMES, What is an emotion, in 9 Mind, 1884, pp. 188 ss. 10 CANNON, The James-Lange Theory of Emotions: A Critical Examination and an Alternative Theory, in 39 The American Journal of Psychology, 1927, pp. 106 ss.   Sentimenti ed emozioni: classificazioni e disambiguazioni 41 ziato Joseph LeDoux, è l’amigdala ad assumere un ruolo primario nelle dinamiche dei fenomeni emozionali: non solo nella generazione delle emozioni, ma anche nella gestione della vita emozionale di un soggetto 11. Questi, in estrema sintesi, alcuni dei contributi più significativi che orientano verso una descrizione che pone in primo piano aspetti di attivazione a livello corporeo. Una prospettiva più genuinamente psicologica 12 si deve agli studi condotti da Stanley Schachter con la teoria c.d. ‘cognitivo-attivazio- nale’ 13. Lo psicologo statunitense riconduce l’emozione all’attivazione di una componente di tipo materiale-corporeo compresa fra due atti cognitivi: il primo è rappresentato dalla percezione e dalla valutazio- ne di uno stimolo elicitante; il secondo, successivo all’attivazione dell’arousal14, è costituito dalla riflessione sul legame causale fra lo stimolo esterno e l’attivazione emozionale interna, secondo un pro- cesso che viene letteralmente definito come ‘etichettamento’ (label- ling) e che corrisponde a un’elaborazione e a un’interpretazione del rapporto tra stimolo emotivo ed arousal. Si tratta di un significativo passo oltre la dimensione fisica delle emozioni, nel quale viene in considerazione l’esperienza cognitiva del soggetto: l’emozione assu- me una fisionomia complessa e multifattoriale rivelandosi come mo- mento dialettico fra mente e corpo, secondo un’interazione guidata da processi non meramente istintuali. Su tali premesse troveranno sviluppo teorie che assegnano impor- tanza centrale alle elaborazioni cognitive e alle valutazioni di cui si compone l’esperienza emotiva, meglio note come ‘teorie dell’appraisal’. Opera di riferimento è uno studio di Magda Arnold15, che definì 11 LE DOUX, Emotion circuits in the brain, in 23 Annual review of neuroscience, 2000, pp. 155 ss.; ID., Il cervello emotivo. Alle origini delle emozioni, cit., pp. 49 ss. 12 Sulla definizione del punto di vista psicologico sulle emozioni v. FRIJDA, The Psychologists’ Point of View, in AA.VV., Handbook of Emotions, cit., p. 60. 13 SCHACHTER-SINGER, Cognitive, Social and Psychological Determinants of Emo- tional State, in 69 Psychological Review, 1962, pp. 379 ss. 14 L’arousal (significato letterale: eccitazione, risveglio) rappresenta il risvolto più propriamente fisico dell’emozione, ossia l’attivazione nervosa che viene per- cepita dal soggetto a seguito di uno stimolo emotigeno, la quale può avere diverse gradazioni di intensità e provocare differenti stati affettivi: ad esempio nell’emo- zione vi sarebbe un intenso arousal provocato da eventi edonicamente rilevanti che sollecitano una risposta comportamentale, v. voce Arousal, in Enciclopedia della scienza e della tecnica, Roma, versione online.  15 ARNOLD, Emotion and Personality, New York, 1960.  42 Tra sentimenti ed eguale rispetto l’emozione come una spinta tendente all’attrazione o all’allontana- mento da un determinato oggetto a seguito di una valutazione di es- so; tale fase, cosiddetto ‘appraisal’, è seguita da una valutazione se- condaria, detta ‘reappraisal’, la quale di fatto implica una riflessività sugli stati che il soggetto ha percepito. Nel solco tracciato delle teorie dell’appraisal si sviluppano le elabo- razioni di Nico Frijda, secondo il quale le emozioni costituiscono ri- sposte modulate sulla struttura di significato di una determinata situa- zione: ‘significato’ da intendersi come attribuzione di senso in termini di positività o negatività da parte di un individuo. Elemento centrale dell’esperienza emotiva è la soggettività: la dimensione individuale è chiave di lettura della complessità e della variabilità delle emozioni 16. Le considerazioni di Frijda, e più in generale le teorie dell’appraisal, conducono verso l’inquadramento delle emozioni come «mediatori complessi fra il mondo interno e quello esterno [che] variano secon- do alcune dimensioni continue, quali la valenza edonica (piacevolez- za o spiacevolezza), la novità (o meno) degli eventi elicitanti, il livello di attivazione, il grado di controllo dei medesimi, la compatibilità (o meno) con le norme sociali di riferimento» 17. La prospettiva intrapsichica si apre in questo modo all’inclusione di aspetti cognitivo-valutativi che sono esito del continuo processo di giudizio che il soggetto compie nel suo rapportarsi alla realtà: «l’indi- viduo è continuamente impegnato in operazioni di valutazione cogni- tiva, con le quali egli mette a confronto la sua percezione della situa- zione attuale con una sorta di visione prospettica, che gli deriva dalla conoscenza del mondo, dalle sue credenze di base, dalle norme a cui si conforma e dai diversi obiettivi temporanei e permanenti che per- segue» 18. Negli anni a noi più vicini il panorama di conoscenze e di approc- ci di studio è andato arricchendosi, anche a seguito dell’avvento delle neuroscienze cognitive, una disciplina che nasce all’inizio degli anni Ottanta del Novecento e che porta a una nuova auge la dimensione neurobiologica19, grazie a innovative tecniche che consentono di vi- 16 FRIJDA, voce Emozioni e sentimenti, cit., p. 568; più ampiamente v. ID., Emo- zioni, tr. it., Bologna, 1990. 17 ANOLLI-LEGRENZI, Psicologia generale, Bologna, 2009, p. 254. 18 RIMÈ, La dimensione sociale delle emozioni, cit., p. 44. 19 DAMASIO, Emotions and feelings: a neurobiological perspective, in AA.VV., ed. by Mansted-Frijda-Fischer, Feelings and Emotions. The Amsterdam Symposium, Cambridge, 2004, pp. 49 ss.   Sentimenti ed emozioni: classificazioni e disambiguazioni 43 sualizzare l’attività del sistema neurale delle emozioni 20. Si deve soprattutto all’opera scientifica e divulgativa del neuro- scienziato Antonio Damasio un importante tentativo di definire l’emo- zione e di studiarne le strette connessioni con il ragionamento e con l’agire che definiamo ‘razionale’. L’articolata proposta di Damasio per dare una fisionomia all’emozione è la seguente: «l’insieme dei cambiamenti dello stato corporeo che sono indotti in miriadi di organi dai terminali delle cellule nervose, sotto il controllo di un apposito sistema del cervello che risponde al contenuto dei pen- sieri relativi a una particolare entità, o evento. [...] Per concludere, l’emo- zione è frutto del combinarsi di un processo valutativo mentale, sem- plice o complesso, con le risposte disposizionali a tale processo, per lo più dirette verso il corpo, che hanno come risultato uno stato emotivo del corpo, ma anche verso il cervello stesso [...] che hanno come risul- tato altri cambiamenti mentali» 21. 20 Per un quadro generale v. DE PLATO, Il modello delle emozioni, in AA.VV., a cu- ra di De Plato, Psicologia e psicopatologia delle emozioni, Bologna, 2014, pp. 25 ss.; BELLODI-PERNA, Emozioni e neuroscienze, in AA.VV., a cura di Rossi, Psichiatria e neuroscienze, in Trattato italiano di psichiatria, Milano, 2006, pp. 35 ss. Fra gli studi sulle emozioni che si avvalgono di tecniche neuroscientifiche possiamo includere i già citati contributi di Antonio Damasio e di Le Doux (v. supra, nota 11); di quest’ul- timo ricordiamo inoltre LE DOUX, Il Sé sinaptico. Come il nostro cervello ci fa diven- tare quello che siamo, tr. it., Milano, 2002. L’oggetto di studio delle neuroscienze co- gnitive si estende anche al di là delle emozioni, e le acquisizioni delle neuroscienze sono sempre più frequentemente oggetto di interesse da parte dei giuristi penali: per una sintesi v. GRANDI, Neuroscienze e responsabilità penale. Nuove soluzioni per problemi antichi?, Torino, 2016; BERTOLINO, Il vizio di mente tra prospettive neuro- scientifiche e giudizi di responsabilità penale, in Rass. it. criminologia, 2/2015, pp. 84 ss.; EAD., Imputabilità: scienze, neuroscienze e diritto penale, in AA.VV., a cura di Pa- lazzani-Zannotti, Il diritto nelle neuroscienze. Non “siamo” i nostri cervelli, Torino, 2013, pp. 145 ss.; EAD., L’imputabilità penale fra cervello e mente, in Riv. it. med. leg., 2012, pp. 925 ss.; DI GIOVINE O., Chi ha paura delle neuroscienze, in Arch. pen., 3/2011, pp. 842 ss.; EAD., voce Neuroscienze (diritto penale), in Enciclopedia del dirit- to, Annali VII, 2014, pp. 711 ss. EUSEBI, Neuroscienze e diritto penale: un ruolo diver- so del riferimento alla libertà, in AA.VV., a cura di Palazzani-Zannotti, Il diritto nelle neuroscienze, cit., pp. 121 ss.; CORDA, Riflessioni sul rapporto tra neuroscienze e im- putabilità nel prisma della dimensione processuale, in Criminalia, 2013, pp. 497 ss.; ID., Neuroscienze forensi e giustizia penale tra diritto e prova (Disorientamenti giuri- sprudenziali e questioni aperte), in Arch. pen. (Rivista web), 3/2014, pp. 1 ss.; ID., La prova neuroscientifica. Possibilità e limiti di utilizzo in materia penale, in Ragion Pra- tica, 2/2016, pp. 355 ss.; FUSELLI, Le emozioni nell’esperienza giuridica: l’impatto delle neuroscienze, in AA.VV, a cura di Palazzani-Zannotti, Il diritto nelle neuroscienze, cit., pp. 53 ss.  21 DAMASIO, L’errore di Cartesio, cit., pp. 201 s.  44 Tra sentimenti ed eguale rispetto Com’è evidente anche da questa sintetica trattazione, la mole di approcci e di contributi è tale da rendere difficoltoso definire l’emo- zione: è possibile individuare dei punti di convergenza tali da poter indicare al giurista dei tratti caratterizzanti? Nella dottrina giuridica americana gli studiosi Bandes e Blumen- thal, dopo aver formulato il caveat metodologico di non avventurarsi alla ricerca di ‘definizioni universali’, propongono una sintesi di ciò che a loro avviso può ritenersi condiviso nei diversi ambiti disciplina- ri, inquadrando le emozioni come: «un insieme di processi valutativi e motivazionali, che coinvolgono completamente il cervello, i quali ci aiutano a valutare e a reagire agli stimoli, e che prendono forma, significato e vengono comunicati in un contesto sociale e culturale. Le emozioni influiscono sul modo in cui selezioniamo, classifichiamo e interpretiamo informazioni; influenza- no le nostre valutazioni sulle intenzioni e sulla credibilità degli altri; e ci aiutano a decidere cosa sia importante o abbia valore. Cosa forse più importante, ci guidano nel fare attenzione ai risultati del nostro agire e forniscono motivazioni per agire o per astenersi dall’agire nelle situazioni che valutiamo» 22. Riteniamo tale definizione una buona base per il prosieguo dell’in- dagine, in quanto l’ampiezza è tale da coinvolgere diversi profili del- l’esperienza affettiva: è presente la dimensione neurobiologica, si fa riferimento all’interazione col contesto sociale e culturale, viene evi- denziato che le emozioni contribuiscono a guidare sia il pensiero co- gnitivo sia, conseguentemente, l’azione umana. Approfondiamo alcuni dei suddetti aspetti, a partire dal chiari- mento di cosa si intenda per emozione come ‘giudizio di valore’23, analizzando di seguito due prospettive di approccio alle emozioni nel discorso giuridico, ossia la concezione meccanicistica e quella valuta- tiva. 22 BANDES-BLUMENTHAL, Emotion and the Law, cit., pp. 163 s. (traduzione del- l’autore). 23 Ex plurimis, v. VECA, Dell’incertezza. Tre meditazioni filosofiche, Milano, 2006, pp. 301 ss.   Sentimenti ed emozioni: classificazioni e disambiguazioni 45 2.1. Le emozioni come giudizi di valore: la concezione di Martha Nussbaum Un’opera che a nostro avviso sintetizza emblematicamente la ri- scoperta della dimensione emozionale nella vita di relazione, e so- prattutto nella dimensione politica, è lo studio di Martha Nussbaum intitolato ‘Upheveals of Thought’24, autentico esempio di approccio interdisciplinare allo studio dei fenomeni emotivi: psicologia cogniti- va, neuroscienze, antropologia, etologia, filosofia morale vengono convogliate in un flusso epistemico nel quale non si avverte disomo- geneità ma sincretismo. Uno studio non collocabile in una corrente definita, il quale interseca differenti campi e prospettive al fine di in- terpretare il ruolo delle emozioni nelle scelte del singolo e nella di- mensione collettiva. Il titolo italiano si distacca dalla traduzione letterale (‘sommovi- menti del pensiero’25), e con enfasi retorica forse eccessiva recita ‘L’intelligenza delle emozioni’; il messaggio dell’opera è più comples- so, ma il tema di fondo può essere sostanzialmente identificato con una ricerca sull’intelligenza nelle emozioni: un dato non scontato ma da valutarsi con attenzione, intendendo con ‘intelligenza’ un giudizio sulla ‘bontà’ e sull’affidabilità dell’emozione. Secondo Martha Nussbaum l’emozione si fonda su un giudizio di valore: ha cioè un contenuto proposizionale di tipo valutativo e una componente intenzionale-cognitiva26 che la pone in relazione con un oggetto (c.d. ‘oggetto intenzionale’). Non è un evento prettamen- te fisico, ‘meccanico’ e viscerale, ma si articola in un giudizio sulla realtà esterna il quale è a sua volta modulato sulle credenze del sog- getto. Sono le credenze a influire in modo determinante sulla qualità dell’emozione, la quale non è giudicabile in sé come ‘vera’ o ‘falsa’ 27, bensì come più o meno appropriata. Credenze errate possono gene- 24 NUSSBAUM, L’intelligenza delle emozioni, cit. 25 Viene fatto notare come tale traduzione avrebbe consentito di salvare la ci- tazione di Proust, il quale definì le emozioni ‘soulèvements géologiques de la pen- sée’, v. FURST, Sommovimenti del pensiero: la teoria delle emozioni di Martha Nus- sbaum, in http://www.athenenoctua.it/sommovimenti-del-pensiero/. 26 NUSSBAUM, L’intelligenza delle emozioni, cit., p. 44. 27 Ciò che può essere valutato in termini di verità o falsità sono le credenze re- trostanti l’emozione; credenze false generano emozioni che possono essere valu- tate come più o meno appropriate, ma si tratta comunque di emozioni ‘vere’, v. NUSSBAUM, L’intelligenza delle emozioni, cit., pp. 68 ss.   46 Tra sentimenti ed eguale rispetto rare emozioni inappropriate a seconda dei contesti: le emozioni pos- sono essere dunque, a loro volta, valutate. Questo rapporto fra ‘nor- matività interna’ e ‘normatività esterna’ all’emozione risulta cruciale per l’evoluzione degli sviluppi del pensiero della studiosa americana: è infatti su tale presupposto che si fondano i successivi studi sull’affi- dabilità politica delle emozioni. A quali condizioni un determinato atteggiamento emotivo dei sin- goli e, soprattutto, della collettività – inteso come emozione social- mente diffusa – può essere assecondato dalle istituzioni e ‘riconosciu- to’ anche attraverso norme giuridiche? L’interrogativo rimanda al raffronto tra il giudizio di valore sulla base del quale l’emozione si genera, e l’orizzonte assiologico che si assuma a riferimento per gli assetti sociali e istituzionali. Martha Nussbaum ha il merito di aver messo a tema la dimensio- ne politica delle emozioni evidenziandone le profonde connessioni con l’etica pubblica, con i valori costitutivi di un ordinamento e dun- que con la genesi e le ricadute applicative di istituti giuridici, in un discorso che attraversa numerose discipline ma che cerca costante- mente nel diritto e nella teoria politica gli interlocutori privilegiati. La sua opera, dall’eloquente titolo ‘Emozioni politiche’, rappresenta in questo senso una proposta teorica ispirata ai canoni del liberali- smo, nella quale si esorta al buon uso delle emozioni in sede pubblica quale strumento di pedagogia civile (vedi infra, cap. VI) 28. Non vanno però dimenticati ulteriori contributi della studiosa americana, incentrati su profili più vicini alla dimensione giuridica 29, e in particolare sulla concezione di emozione che dovrebbe essere adottata dal giurista come punto di partenza nelle riflessioni perti- nenti Law and Emotion, alla luce dell’alternativa fra un modello bio- logico-meccanicistico e un modello cognitivo-valutativo30. Vediamo in dettaglio quanto osservato in tale studio. 28 NUSSBAUM, Emozioni politiche. Perché l’amore conta per la giustizia, tr. it., Bologna, 2014. 29 Anche in relazione alla figura del giudicante e alle sue emozioni, e con par- ticolare riguardo alla giusta compassione che dovrebbe accompagnarne le deci- sioni, v. NUSSBAUM, L’intelligenza delle emozioni, cit., pp. 525 ss.; NUSSBAUM, Giu- stizia poetica. Immaginazione letteraria e vita civile, tr. it., Milano, 2012, p. 40. 30 KAHAN-NUSSBAUM, Two Conceptions of Emotion in Criminal Law, in 96 Co- lumbia Law Review, 1996, pp. 269 ss.   Sentimenti ed emozioni: classificazioni e disambiguazioni 47 2.2. Concezioni ‘meccanicistiche’ e concezioni valutative del- l’emozione: profili di rilevanza giuridica Nella prospettiva giuridica è fondamentale interrogarsi sull’alter- nativa fra interpretazioni dell’emozione legate a paradigmi stretta- mente fisicalistici e concezioni incentrate sull’emozione come giudi- zio di valore. Dan Kahan e Martha Nussbaum riassumono tali ap- procci nella diade composta da ‘concezione meccanicistica’ e ‘conce- zione valutativa’ (‘mechanistic’ and ‘evalutative’ conception). Secondo la visione meccanicistica, le emozioni sono equiparabili a forze ‘non pensanti’ che spingono una persona all’azione31; per la ‘evalutative conception’ invece l’emozione scaturisce dalla relazione, definibile in base a un valore edonico (ossia di maggiore o minore piacere), con un oggetto cosiddetto ‘intenzionale’. Le emozioni sono ‘rivolte’ a un quid materiale, cognitivo o immaginativo: non sono energie naturali prive di oggetto ma «sono in relazione (about) a qualcosa [...] In secondo luogo l’oggetto è intenzionale: ovvero, esso appare nell’emozione nel modo in cui lo vede o lo interpreta la per- sona che prova l’emozione stessa» 32. L’approccio valutativo mostra una migliore rispondenza in rap- porto ai fenomeni e trova oggi un maggiore consenso rispetto all’al- ternativa meccanicistica. Ma quali conseguenze discendono dall’aval- lo di concezioni valutative piuttosto che meccanicistiche in relazione ai problemi penali? Ragionare in termini di approccio meccanicistico, e trattare le emozioni come meri impulsi senza considerarne la componente co- gnitiva, non offre strumenti per spiegare come le emozioni si possano differenziare ‘qualitativamente’ e dunque valutare. Come abbiamo precedentemente osservato, il nucleo della concezione valutativa po- 31 «without embodying ways of thinking about or perceiving objects or situa- tions in the world», v. KAHAN-NUSSBAUM, Two Conceptions of Emotion in Criminal Law, cit., p. 278. 32 «thought of a particular sort, namely appraisal or evaluation and, moreover, evaluation that ascribes a reasonably high importance to the object in question», v. KAHAN-NUSSBAUM, Two Conceptions of Emotion, cit., p. 286; il concetto è ripre- so in NUSSBAUM, L’intelligenza delle emozioni, cit., pp. 50 ss.; cfr. CALABI, Le varietà del sentimento, cit., pp. 276 ss., la quale ricostrusce il concetto di ‘razionalità’ del- l’emozione in base al rapporto tra fondamenti cognitivi e antecedenti cognitivi. Sulla definizione di ‘cattive emozioni’ intese come fallimentari dal punto di vista cognitivo, v. TAPPOLET, Le cattive emozioni, in AA.VV., a cura di Tappolet-Teroni- Konzelmann Ziv, Le ombre dell’anima. Pensare le emozioni negative, tr. it., Milano, 2013, pp. 16 ss.   48 Tra sentimenti ed eguale rispetto stula che l’emozione nasca da un giudizio che il soggetto elabora sul- la base di credenze; si può parlare in questo senso di una ‘razionalità’ dell’emozione in termini normativi, ossia modulata su pretese e aspettative che hanno a che fare con gli equilibri della convivenza 33. Secondo Kahan e Nussbaum il significato, e il disvalore, di una condotta non coincidono semplicemente con le conseguenze prodotte ma sono l’esito di una contestualizzazione che deve prendere in esame anche le motivazioni, e dunque, la matrice emozionale dell’agire 34. Un’implicita adesione alla concezione valutativa è alla base del modello di responsabilità che fa leva sul principio di colpevolezza 35 e sulla rieducazione36: è l’idea di emozione come giudizio di valore piuttosto che come moto irriflessivo a porsi come criterio per la valu- tazione della responsabilità penale e anche come chiave di lettura criminologica delle condotte 37. La concezione meccanicistica non riesce a dar conto dell’intreccio fra stati soggettivi e percezioni di valore, e configura una sensibilità meramente epidermica senza coloriture di senso, la quale non appare funzionale a tematizzare la problematica dell’attendibilità del giudi- zio sulla situazione che abbia cagionato un’emozione negativa 38. 33 Rileva Martha Nussbaum che il diritto definisce l’adeguatezza di una rea- zione emotiva adottando una prospettiva basata sull’immagine di ‘uomo ragione- vole’, v. NUSSBAUM, Nascondere l’umanità. Il disgusto, la vergogna, la legge, tr. it., Bari, 2007, p. 30. 34 KAHAN-NUSSBAUM, Two Conceptions of Emotion, cit., p. 352. 35 La concezione normativa della colpevolezza come ‘atteggiamento antidove- roso’ sottende la possibilità di un giudizio concernente ciò che è stato fatto in rapporto a ciò che si sarebbe dovuto fare. Le diverse articolazioni di questo giudi- zio, soprattutto il nesso psichico (dolo e colpa) e la verifica dell’imputabilità, non funzionerebbero se si attribuisse all’agente un’emotività priva di contenuti cogni- tivi apprezzabili sotto il profilo della normatività, ossia ‘giudicabili’ in base a cri- teri di ragionevolezza e adeguatezza alle situazioni; per una sintesi, v., ex pluri- mis, BARTOLI R., Colpevolezza, cit., pp. 47 ss., 70 ss. 36 L’approccio valutativo apre alla possibilità che le emozioni di un soggetto si prestino anche a percorsi (ri)educativi, v. KAHAN-NUSSBAUM, Two Conceptions of Emotion, cit., pp. 273 ss., 351 ss. 37 Per un’analisi criminologica dei rapporti tra emozioni, riflessività ed agire violento v. CERETTI-NATALI, Cosmologie violente. Percorsi di vite criminali, Milano, 2009, pp. 326 ss. 38 È emblematico lo studio di FEINBERG, Sentiment and Sentimentality, cit., pp. 19 ss., avente ad oggetto problemi del tutto collimanti con la tutela di sentimenti del codice penale italiano, nel quale l’Autore dichiara espressamente che la nozione di ‘sentimento’ da lui adoperata si caratterizza per il fatto di avere un oggetto cogniti- vo, di essere ‘riguardo a qualcosa’: «there is an irreducible “aboutness” to it».   Sentimenti ed emozioni: classificazioni e disambiguazioni 49 Anche con riferimento al problema della tutela di sentimenti (e/o di emozioni), assumere come presupposto la concezione meccanici- stica non avrebbe semplicemente senso, poiché non consentirebbe di focalizzare l’attenzione sulla cause emotigene e sugli oggetti inten- zionali, e non sarebbe pertanto funzionale allo sviluppo di un discor- so sui criteri di rilevanza normativa (di adeguatezza e di meritevolez- za) di un determinato atteggiamento del sentire. 2.3. La dimensione sociale delle emozioni Analizzata l’emozione come giudizio di valore, è importante prenderne in considerazione la dimensione sociale: una prospettiva incentrata non sul versante solipsistico bensì sul piano interperso- nale e collettivo, e dunque sul ruolo cognitivo e comunicativo delle emozioni 39, considerate come oggetto di costruzione sociale il quale è in grado di influenzare, a sua volta, l’esperienza delle situazioni sociali 40. La principale disciplina che si occupa di questi temi è la sociolo- gia delle emozioni, la cui nascita viene convenzionalmente collocata a metà degli anni Settanta 41. Ciò non significa che i sociologi avesse- ro ignorato le emozioni, ma fino ad allora gli studi ad esse specifica- mente dedicati risultavano di pertinenza di altre discipline. Il muta- mento di paradigma coincide con una diversa considerazione del fe- nomeno emotivo, visto non più come espressione irrazionale e di- storsiva dell’organizzazione sociale, ma come fattore indispensabile per la comprensione dei fatti sociali. L’attore sociale si sveste dell’aura di pura razionalità per divenire anche attore emozionale, il quale non è in contrapposizione con l’attore razionale «ma ne è invece un’altra faccia, una sua parte costi- tutiva e ineliminabile e non va inteso come un soggetto spontaneo, 39 Per una panoramica di sintesi e per richiami bibliografici su approccio in- tra-personale e inter-personale, v. VELOTTI-ZAVATTINI-GAROFALO, Lo studio della regolazione delle emozioni: prospettive future, in Giornale italiano di psicologia, 2/2013, pp. 249 ss.; PULCINI, Per una sociologia delle emozioni, in Rassegna italiana di sociologia, 4/1997, p. 642. 40 RIMÈ, La dimensione sociale delle emozioni, cit., p. 44; WENTWORTH-RYAN, L’equilibrio fra corpo, mente e cultura: il posto dell’emozione nella vita sociale, in AA.VV., La sociologia delle emozioni, cit., pp. 208 ss. 41 CATTARINUSSI, Sentimenti ed emozioni nella riflessione sociologica, in AA.VV., a cura di Cattarinussi, Emozioni e sentimenti nella vita sociale, cit., p. 19.   50 Tra sentimenti ed eguale rispetto libero da vincoli e costrizioni»42. Da un lato le emozioni vengono considerate come un importante elemento per la comprensione del- l’agire sociale 43, e simmetricamente l’ambiente sociale si pone a sua volta come chiave di lettura di atteggiamenti emozionali dei singoli, in un rapporto di influenza reciproca 44. Questa prospettiva rappresenta un importante contributo non solo allo studio delle emozioni45, ma anche in relazione all’approfondi- mento dei temi di Law and Emotion, poiché gli approcci focalizzati sulla dimensione individuale rischiano di essere limitanti, in ragione del fatto che esistono emozioni la cui genesi e le cui dinamiche sono meglio definibili attraverso il riferimento all’ambiente sociale 46. Uno sguardo alla dimensione sociale e culturale dei fenomeni emotivi può favorire un più esaustivo approfondimento delle intera- zioni fra emozioni e diritto, aprendo la strada a molteplici traiettorie di ricerca, come sottolinea la dottrina statunitense 47. Basta uno sguar- do ad alcuni dei capisaldi teorici che la sociologa Gabriella Turnaturi inquadra come linee conduttrici dell’analisi sociologica delle emo- zioni48 per individuare questioni che possono intrecciarsi virtuosa- mente con la riflessione giuridica. Qualche cursorio esempio: ci sem- 42 TURNATURI, Introduzione, in La sociologia delle emozioni, cit., p. 14. 43 DOYLE MCCARTHY, Le emozioni sono oggetti sociali. Saggio sulla sociologia delle emozioni, in AA.VV., a cura di Turnaturi, La sociologia delle emozioni, cit., pp. 77 ss. 44 «Il termine sociale, molto semplicemente, vuole qui richiamare l’idea che la parola “emozioni” possa/debba evocare eventi e processi che hanno luogo entro contesti interattivi e comunicativi, piuttosto che eventi e processi che hanno luo- go entro i confini del singolo organismo e/o della singola psiche», v. MANGHI, Le emozioni come processi sociali, cit., p. 40. 45 La sociologa Arlie Hochschild identifica quale ostacolo a un serio studio sul- la natura delle emozioni la tendenza a considerarle esclusivamente come un fe- nomeno affettivo individuale, v. BANDES-BLUMENTHAL, Emotion and the Law, cit., p. 172. Osserva KEMPNER, Social Models in the Explanation of Emotions, in AA.VV., Handbook of Emotions, cit., p. 45 che lo sviluppo di una larga parte di ciò che chiamiamo ‘personalità’ è un prodotto sociale. 46 Pensiamo ad esempio alla vergogna, e al radicamento che essa può raggiun- gere fino a connotare la fisionomia di una società; si parla di questo senso di ‘cul- ture della vergogna’ in alternativa alle cosiddette ‘culture della colpa’. Su tale di- stinzione, originariamente elaborata dall’antropologa statunitense Ruth Benedict, v., sintenticamente, CATTARINUSSI, Sentimenti ed emozioni, cit., p. 28. Per un’ana- lisi della dimensione pre-sociale della vergogna, v. NUSSBAUM, Nascondere l’uma- nità, cit., pp. 212 ss. 47 BANDES-BLUMENTHAL, Emotion and the Law, cit., pp. 171 ss. 48 TURNATURI, Introduzione, in La sociologia delle emozioni, cit., p. 17.   Sentimenti ed emozioni: classificazioni e disambiguazioni 51 bra di particolare interesse l’osservazione secondo cui ogni società ha delle regole implicite concernenti le situazioni attivanti e le modalità espressive delle emozioni: le cosiddette feeling rules 49. Ebbene, il te- ma potrebbe assumere rilevanza anche in relazione al problema del sentimento quale oggetto di tutela: le regole, più o meno implicite, che definiscono quali emozioni siano giustificate, accettabili, dovero- se o immotivate rappresentano una coordinata importante, forse l’elemento più significativo, per la definizione di quello che il diritto penale ha spesso evocato sotto le forme del ‘sentire comune’ 50. Po- tremmo in questo senso parlare di feeling rules come elemento del contesto sociale che contribuisce a imprimere una fisionomia a ciò che i legislatori hanno definito ‘sentimenti’. Ma sono diversi, e non analizzabili in questa sede, gli ulteriori profili in rapporto ai quali l’analisi sociologica dell’emozione può fornire importanti chiavi di lettura di problemi afferenti al diritto pe- nale 51. Si tratta quindi di non limitare l’angolo visuale alla dimensio- ne soggettiva del fenomeno emotivo, soprattutto in relazione a temi in cui risulta fondamentale la riflessione sugli equilibri politico- deliberativi e sulla ‘normatività’ delle emozioni. 3. Sentimenti: componente di riflessività e dimensione morale Veniamo ora a esaminare il sentimento, e prendiamo le mosse dalla dimensione neurobiologica. Sono d’aiuto ancora una volta gli spunti di Antonio Damasio, il quale nel suo primo studio intitolato ‘L’errore di Cartesio’ ha definito l’emozione come processo valutativo mentale che induce cambiamenti a livello corporeo, e ha successiva- mente distinto i sentimenti in due categorie: ‘sentimenti delle emo- zioni’ e ‘sentimenti di fondo’. I primi, strettamente legati alle emozio- ni, sono costituiti dall’esperienza che il soggetto prova a seguito dei 49 Sulla genesi del concetto, v. HOCHSCHILD, Emotion Work, Feeling Rules, and Social Structure, in 85 American Journal of Sociology, 1979, pp. 551 ss. 50 In questo senso si potrebbero teorizzare connessioni anche con il tema pe- nalistico delle c.d. Kulturnormen; v., per tutti, CADOPPI, Il reato omissivo proprio, vol. I, Profili introduttivi e politico criminali, Padova, 1988, pp. 673 ss. 51 Si veda ad esempio NISCO, La tutela penale dell’integrità psichica, cit., p. 66, quando afferma che «“strutturare” le emozioni, a partire dal tipo di situazione sociale in grado di generarle, può aiutare, nell’analisi delle norme penali, ad indi- viduare una soglia di rischio illecito all’interno della condotta tipica».   52 Tra sentimenti ed eguale rispetto cambiamenti indotti dalle emozioni: «l’essenza del sentire un’emo- zione è l’esperienza di tali cambiamenti in giustapposizione alle im- magini mentali che hanno dato avvio al ciclo» 52; mentre i ‘sentimenti di fondo’ appaiono come stati duraturi, radicati nel soggetto e non legati a emozioni contingenti 53. La distinzione viene affinata in uno studio successivo, ove si os- serva che nel sentimento vi è qualcosa di più che la percezione di un oggetto intenzionale; secondo Damasio ad essere oggetto di perce- zione è lo stato edonico che si manifesta a seguito del contatto con un determinato stimolo emotigeno: «un sentimento [è] la percezione di un certo stato del corpo, unita alla percezione di una particolare modalità di pensiero nonché di pensieri con particolari contenuti» 54. Le emozioni sono movimenti in larga misura pubblici, ossia percepi- bili e visibili; i sentimenti appaiono invece come moti di pensiero di tipo riflessivo, «invisibili a chiunque salvo che al loro legittimo pro- prietario [...] Le emozioni si esibiscono nel teatro del corpo; i senti- menti in quello della mente» 55. Al di là delle osservazioni sul piano neuroscientifico, ciò che in questa sede è bene sottolineare sono le implicazioni su un piano più propriamente antropologico-filosofico56, e in particolare sul ruolo che i sentimenti assumono nelle dinamiche comportamentali. L’ipo- tesi di Damasio è che il sentimento rappresenti una guida nei proces- si decisionali57, e risulta particolarmente interessante l’osservazione secondo cui tale fenomeno affettivo assume una funzione riflessiva in grado di fornire coordinate e criteri di demarcazione fra piacere e do- lore più complessi e stratificati rispetto a quelli che la mappe neurali trasmettono sulla base delle sole funzioni vitali a livello biologico: «I sentimenti coscienti sono eventi mentali cospicui che richiamano l’attenzione sulle emozioni che li hanno generati e sugli oggetti che, a loro volta, hanno indotto quelle emozioni. Negli individui che hanno anche un sé autobiografico – il senso di un passato personale e di un 52 DAMASIO, L’errore di Cartesio, cit., p. 210. 53 DAMASIO, L’errore di Cartesio, cit., p. 219. 54 DAMASIO, Alla ricerca di Spinoza, cit., pp. 108, 115 ss. 55 DAMASIO, Alla ricerca di Spinoza, cit., p. 40. 56 Per la verità tutt’altro che trascurate dallo stesso Damasio, il quale inquadra la propria opera come ideale prosecuzione del pensiero di Baruch Spinoza, v. DAMASIO, Alla ricerca di Spinoza, cit., pp. 315 ss.  57 DAMASIO, Alla ricerca di Spinoza, cit., p. 215.  Sentimenti ed emozioni: classificazioni e disambiguazioni 53 futuro anticipato, senso noto anche come coscienza estesa – lo stato del sentimento induce il cervello a porre in posizione saliente gli og- getti e le situazioni legate all’emozione. Se necessario, il processo di stima che porta dall’isolamento dell’oggetto al sorgere dell’emozione può essere rivisitato e analizzato. Poiché hanno luogo in uno scenario autobiografico, i sentimenti generano un interesse per l’individuo che li sperimenta. Il passato, il presente e il futuro anticipato ricevono la giusta attenzione e hanno maggiori possibilità di influenzare il ragio- namento e il processo decisionale» 58. La teorizzazione di Damasio descrive sentimenti ed emozioni co- me parti complementari di un processo, non come fenomeni dicoto- mizzati: richiamare l’emozione significa additare l’esteriorità e la di- namicità di uno stimolo, le contingenze dovute al contatto con un certo tipo di fattori emotigeni; richiamare il sentimento significa en- trare ‘in interiore homine’, confrontarsi con l’elaborazione che analiz- za lo stimolo emotivo e ne valuta il peso nella soggettività dell’indi- viduo: «un sentimento [è] la percezione di un certo stato del corpo, unita alla percezione di una particolare modalità di pensiero nonché di pensieri con particolari contenuti» 59. Il sentimento appare in definitiva come esito di una mediazione riflessiva che può avvenire non in tutti gli organismi, ma solo in quel- li che posseggono la capacità di rappresentarsi il proprio corpo all’in- terno di sé stesso 60. 3.1. Il pensiero filosofico e i sentimenti morali. Un’interpreta- zione fenomenologica Quanto osservato in ambito neuroscientifico sembra accreditare la portata del tutto peculiare che il sentimento assume nella dimen- sione affettiva dell’individuo come momento di incontro tra perce- zione e riflessione, ossia come «medio necessario tra il sentire sensi- tivo e l’intelligenza concettuale» 61. Passando ora a un approccio incentrato più sulla dimensione teo- retico-concettuale che sulla distinzione fenomenica, va specificato 58 DAMASIO, Alla ricerca di Spinoza, cit., p. 216. 59 DAMASIO, Alla ricerca di Spinoza, cit., p. 108. 60 DAMASIO, Alla ricerca di Spinoza, cit., pp. 133 ss. 61 MASULLO, voce Sentimento, in AA.VV., Enciclopedia filosofica, Milano, 2010, p. 10500.   54 Tra sentimenti ed eguale rispetto che l’inquadramento di una specifica nozione di sentimento non fi- gura nei classici della filosofia, da Aristotele, a Cartesio e fino a Hu- me 62, ma comincia a delinearsi a partire dal XVIII secolo. Sottolinea Aldo Masullo che un simile affinamento è legato anche a sviluppi del- la teoria politica: «L’assunzione da parte del sentimento di una sua specificazione forte è promosso dalla diffusa tensione della cultura illuministica che, per la nuova esigenza storica di fondare un’etica cosmopolitica, è assillata dal bisogno di scoprire un principio coesivo razionalmente argomen- tabile e nient’affatto razionalmente relativistico, generalmente ricono- scibile ma non dommaticamente irrigidibile» 63. Sono soprattutto alcuni studi dei cosiddetti filosofi moralisti in- glesi a definire il sentimento ‘forma sintetica dell’universale’ e fon- damento dell’umana convivenza, ossia principio coesivo nei rapporti umani, come recita l’opera di Adam Smith sui sentimenti morali 64. Si tratta di un indirizzo filosofico che ha come esponente di spicco Da- vid Hume, e che affonda le proprie radici nel sentimentalismo inglese di Shaftesbury e Hutcheson 65. Idea portante è la riconducibilità della moralità dell’agire a una matrice affettiva (per Hume, il cosiddetto principio della simpatia) 66. 62 CURI, Passione, cit., p. 9. 63 MASULLO, voce Sentimento, cit., p. 10501 ss. 64 SMITH, Teoria dei sentimenti morali, tr. it., Milano, 1995; per una riflessione sulle interazioni fra le teorie smithiane, in particolare il concetto di ‘simpatia’, e il diritto penale, v. CADOPPI, Simpatia, antipatia e diritto penale, in AA.VV., a cura di Di Giovine O., Diritto penale e neuroetica, cit., pp. 241 ss. 65 MORRA-BONAN, voce Sentimentalismo, in AA.VV., Enciclopedia filosofica, vol. XVI, Milano, 2010, pp. 10497 ss. 66 Per una sintesi v. LECALDANO, Prima lezione di filosofia morale, Roma-Bari, 2010, p. 27. L’Autore osserva che «non bisogna confondere il piano della rico- struzione genealogica o genetica della nostra capacità di trarre distinzioni mo- rali, con la riflessione su quali siano i giudizi morali corretti». L’opzione per una teoria sentimentalistica ha una valenza in primo luogo metaetica; a livello di etica sostantiva si apre infatti il problema di «[affiancare] una concezione normativa sul contenuto da privilegiare come moralmente rilevante», v. ID., Prima lezione, cit., pp. 17; 79. Da ciò, la critica a concezioni che, sulla base degli studi di neuroscienze, si sono mosse nella direzione di offrire una ricostruzione in termini ‘realistico-emozionali’ del sentimentalismo morale: «queste ricerche [...] suscitano dubbi laddove accampano la pretesa di aver identificato una base fisiologica o biologica a cui l’etica può essere ridotta nella sua interezza [...] Il sentimento morale non va caratterizzato sostantivamente, anche per non con-   Sentimenti ed emozioni: classificazioni e disambiguazioni 55 Venendo a sviluppi più recenti, relativamente ai rapporti tra senti- re e dimensione morale appare a nostro avviso particolarmente inte- ressante per il giurista uno studio di matrice fenomenologica67 di Roberta De Monticelli, nel quale il tema del sentire diviene oggetto di un problema etico in relazione sia alla formazione del singolo indivi- duo (l’etica del sentire intesa come qualità etica – maggiore o minore ‘correttezza’ – delle disposizioni del sentire di un soggetto) sia ad aspetti relazionali (la ricerca del giusto spazio – e dunque di limiti eticamente tollerabili – alla ‘fioritura’ dell’individuo, intesa come rea- lizzazione della sua personalità, resa unica e peculiare dalle disposi- zioni del sentire). Secondo tale studio, l’esperienza affettiva è riconducibile a due di- mensioni essenziali: il sentire e il tendere. Il sentire implica un recepi- re, il tendere è invece un vettore d’azione: «se diciamo che una persona è sensibile non intendiamo affatto dire che è eccitabile, e neppure che manca di obiettività, al contrario intendiamo dire che è più di altri ca- pace di discriminazione, e quindi di verità nell’esercizio del sentire» 68. Negli individui non è infatti riscontrabile il medesimo livello di matu- razione affettiva: «una sensibilità si attiva per strati o segmenti – e in- tendiamo dire con questo che uno sentirà [...] più o meno realtà a se- conda che più o meno “strati” della sua sensibilità siano attivati» 69. Ta- le soglia può variare ed essere incrementata positivamente durante l’esistenza; nondimeno, la diversità insita nelle molteplici varianti di sviluppo del sentire fonda le diversità di ordini assiologici dei singoli, quella che è in definitiva la loro identità morale 70. fonderlo con qualche emozione immediata: è invece proprio del sentimento morale il punto di vista riflessivo su tutte le passioni che si presentano senza qualificazione valutativa nella mente di una persona», v. ID., Prima lezione, cit., pp. 42 s. Per una differente impostazione, non propriamente ‘riduzionista’ ma comunque orientata a ricercare dei fondamenti naturalistici della morale v., ex plurimis, CHANGEUX, Il bello, il buono, il vero. Un nuovo approccio neuronale, tr. it., Milano, 2013, pp. 75 ss., 101 ss. 67 La fenomenologia del sentire e l’approccio fenomenologico ai sentimenti sono debitori dell’opera di SCHELER, Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori, tr. it., a cura di Guccinelli, Milano, 2013, il quale inquadra il sentimento come fattore costitutivo nell’ontologia della persona e come interfaccia tra sogget- tività e valori. Per una sintesi dei tratti caratterizzanti la fenomenologia come corrente filosofica v. GALLAGHER-ZAHAVI, La mente fenomenologica. Filosofia della mente e scienze cognitive, tr. it., Milano, 2009, pp. 9 ss. 68 DE MONTICELLI, L’ordine del cuore, cit., p. 26. 69 DE MONTICELLI, L’ordine del cuore, cit., p. 79. 70 «L’ethos di una persona è la sua identità morale, ma questa identità morale   56 Tra sentimenti ed eguale rispetto Così definito il fenomeno del sentire e delle sue manifestazioni, si pone il problema di inquadrare specificamente il sentimento: è uno stato momentaneo? un evento? un atto? Roberta De Monticelli af- ferma che esso è: «una disposizione reale – e non semplicemente virtuale – del sentire [...] È una disposizione del sentire che comporta un consentire più o meno profondo all’essere di ciò che la suscita, un più o meno profon- do dissentire da questo, e un atteggiamento caratteristico nei confron- ti di questo essere, capace di motivare altri sentimenti, emozioni, pas- sioni, scelte, decisioni, azioni, comportamenti» 71. Il sentimento è ciò che forma le risposte all’esperienza dei valori: in questo senso viene definito ‘matrice di risposte’. Le emozioni sono maggiormente legate all’attualità contingente, poiché costituiscono un’alterazione reattiva e presuppongono l’attivazione di uno strato minimo di sensibilità, anche di livello puramente sensoriale 72. I sen- timenti hanno un ruolo fondante nell’approccio dei singoli alla realtà, agli eventi, e, soprattutto, al rapporto con i propri simili: «[i] senti- menti costituiscono lo strato del sentire propriamente diretto sulla realtà personale. Se il sentire, in generale, è percezione di valore, i sentimenti sono, o perlomeno implicano, disposizioni a sentire gli al- tri sotto l’aspetto dei valori che la loro esistenza realizza o delle esi- genze che essa pone» 73. [...] si manifesta primariamente nella vita affettiva che queste scelte e comporta- menti motiva, e nella quale si esprime infine il modo di sentire che le è irrepeti- bilmente, inconfondibilmente proprio. Il modo di sentire è segnato da una storia individuale, “ancorato” agli incontri di una vita: è, come vedremo, il profilo stesso dell’individualità essenziale»: v. DE MONTICELLI, L’ordine del cuore, cit., p. 81. 71 DE MONTICELLI, L’ordine del cuore, cit., pp. 113, 121. 72 DE MONTICELLI, L’ordine del cuore, cit., pp. 124 ss. In presenza di una sensi- bilità strutturata la quantità di reazioni affettive è maggiore, ed è anche possibile che da emozioni scaturiscano risposte strutturanti, ossia che le emozioni stesse inducano alla formazione di nuovi sentimenti. Diverso discorso per le passioni, le quali costituiscono una manifestazione del volere e del tendere, e presuppongono la strutturazione di sentimenti, v. DE MONTICELLI, L’ordine del cuore, cit., pp. 130 ss. La tradizionale contrapposizione delle passioni alla ragione non è intrinseca alle passioni stesse, ma risale a un livello precedente, ossia al sentimento di cui quelle passioni sono manifestazione: «“irrazionali” sono dunque le passioni nella misura in cui sono “disordini del cuore”, ovvero ordinamenti assiologici perversi o inadeguati – per quanto difficile sia stabilire in positivo lo standard rispetto a cui definire la deviazione»: v. DE MONTICELLI, L’ordine del cuore, cit., p. 131.  73 DE MONTICELLI, L’ordine del cuore, cit., p. 111.  Sentimenti ed emozioni: classificazioni e disambiguazioni 57 4. Emozioni e sentimenti: il senso della distinzione concettuale In questa sede non è nostro obiettivo individuare un’esaustiva on- tologia dei fenomeni, bensì intendiamo verificare se vi siano diffe- renze che possano assumere una rilevanza concettuale nella prospet- tiva giuridica. Sentimenti ed emozioni hanno la funzione di classificare, in base al binomio piacere-dolore, le esperienze del sentire individuale. Un punto di contatto utile al fine di ricercare coerenza nella complessità delle de- finizioni, è il fatto che entrambi i fenomeni – naturalisticamente distin- guibili in base a criteri basati sull’intensità e la durata – da un punto di vista adattivo-funzionale rappresentano ‘proiezioni del sé’, ossia marca- tori dell’originalità che rende unico ogni individuo: «le emozioni guar- dano al mondo dal punto di vista del soggetto, e [...] ordinano gli eventi in base alla cognizione della loro importanza o valore per il soggetto» 74. Relativamente alle differenze, una prima, fondamentale, distinzione tra sentimento ed emozione è relativa ad aspetti di tipo ‘fisico-quan- titativo’, legati alla durata e all’intensità dell’esperienza affettiva: più bre- ve e accentuata nell’emozione, più duratura, ma meno intensa, nel sen- timento75. Secondo una definizione offerta da uno studio di psicologia: «[s]entimento e umore si riferiscono a stati affettivi di bassa intensità, durevoli e pervasivi, senza una causa direttamente percepibile e con la capacità di influenzare eventi inizialmente neutri»76. Il sentimento, co- me stato affettivo ‘radicato’, non si esaurisce in stimoli momentanei. Un tratto caratterizzante l’emozione è la componente reattiva: «il termine emozione dovrebbe indicare, in accordo anche con il senso comune, stati affettivi intensi di breve durata, con una causa precisa, esterna o interna, un chiaro contenuto cognitivo e la funzione di rio- rientare l’attenzione» 77. Uno stato affettivo di durata limitata, diverso dunque da stati duraturi 78. 74 NUSSBAUM, L’intelligenza delle emozioni, cit., p. 53. Si veda anche OATLEY, Psicologia ed emozioni, cit., pp. 77 ss., il quale parla di ‘condizioni di elicitazione’ per indicare che le emozioni insorgono sulla base della valutazione soggettiva di un evento da parte dell’agente in relazione alla sua condizione e ai suoi scopi. 75 Cfr. OATLEY, Breve storia delle emozioni, tr. it., Bologna, 2015, p. 20. 76 D’URSO-TRENTIN, Introduzione alla psicologia delle emozioni, Roma-Bari, 1999 p. 9; cfr. CATTARINUSSI, Sentimenti ed emozioni, cit., p. 15. 77 PIETRINI, Dalle emozioni ai sentimenti: come il cervello anima la nostra vita, in AA.VV., a cura di Colombo-Lanzavecchia, La società infobiologica, Milano, 2003, pp. 322 ss.  78 Per un esempio di tassonomia degli stati affettivi e per una conseguente ap-  58 Tra sentimenti ed eguale rispetto Passando a un piano di lettura differente, non limitato alla ‘di- mensionalità’ (intensità, durata), richiamiamo quanto osservato in ambito neuroscientifico da Damasio, secondo il quale il sentimento costituisce il momento della rappresentazione cosciente dell’emo- zione: la percezione che il soggetto ha di sé stesso. Viene evidenziata in questo modo una dimensione riflessivo-speculativa che trova ri- scontro anche nell’analisi di un altro neuroscienziato, Joseph Le Doux, il quale osserva le emozioni sono funzioni biologiche che si sono evolute per permettere agli animali di sopravvivere in un am- biente ostile e di riprodursi; i sentimenti invece sono un prodotto del- la coscienza, «stati di consapevolezza legati all’esperienza interna dell’emozione»79. Emerge qui una differenziazione che attiene a un piano funzionale, e che vede il sentimento come fenomeno che ha più a che fare con la sfera cognitivo-riflessiva del soggetto 80. E veniamo infine a un terzo criterio distintivo, quello forse più importante ai fini della presente indagine. L’analisi fenomenologica di Roberta De Monticelli ha richiamato il carattere disposizionale del sentimento, l’essere una matrice che può generare e formare ulteriori stati affettivi. Introduciamo dunque l’importante distinzione tra fe- nomeni affettivi ‘in atto’ e ‘disposizioni’ del sentire: «un’emozione in atto è un episodio nel quale proviamo effettivamente collera, paura, gioia o altro. Una disposizione emotiva è la suscettibilità a provare emozioni in atto» 81. Cosa significa ‘disposizionale’? Il concetto è stato approfondito in particolare da Gilbert Ryle, secondo il quale le espressioni disposi- zionali contengono l’affermazione che un uomo o un animale o una plicazione a un tema penalistico-criminologico, v. CORNELLI, Paura e ordine nella modernità, Milano, 2008, p. 71. 79 LE DOUX, Feelings: What Are They & How does the Brain Make Them?, in 144 Daedalus, 2015, p. 97. 80 Si osserva che «[l]e concezioni speculative del sentimento, da Platone a Vi- co, sottolineandone l’ambiguità di regione “intermedia” tra il senso e l’intelletto, cioè il suo partecipare marginale tanto all’uno quanto all’altro, tematizzano il sen- timento come una delle categorie o generi sommi della vita umana. Questa infatti è tale – umana –, solo in quanto è “soggettività”, il modo di essere che consiste nel- l’avvertire stimoli dal mondo esterno (senso) e ordinare gli avvertimenti in rap- presentazioni generali e ben connesse (intelletto), avendo come necessaria condi- zione il riferimento dei primi e delle seconde a un chiaramente o oscuramente avvertito “sé”, ossia comportando un sentimento fondamentale», v. MASULLO, vo- ce Sentimento, cit., p. 10500. 81 ELSTER, Sensazioni forti, tr. it., Bologna, 2001, p. 32, il quale cita, quali esempi di disposizioni emotive, la misoginia e l’antisemitismo.   Sentimenti ed emozioni: classificazioni e disambiguazioni 59 cosa ha una certa capacità o una certa inclinazione, o è esposto ad una determinata tendenza 82. Le definizione ‘disposizionale’ può rap- presentare in questo senso un’antitesi rispetto a ‘episodico’, poiché «possedere una proprietà disposizionale non vuol dire trovarsi in un certo stato particolare o essere soggetto a un certo cangiamento» 83. Più in generale la distinzione fra stati ‘episodici’ e ‘disposizionali’ descrive una diversità funzionale nella complessiva esperienza affet- tiva della persona, e si presta a evidenziare il rapporto fra mera reat- tività soggettiva contingente e carattere fondativo e ‘personologico’ (vedi infra, cap. IV) degli stati affettivi, i quali appaiono in questo senso come strutture di base della soggettività. È questa a nostro avviso un’importante chiave di lettura per la presente indagine: ciò che appare decisivo nel problema della tutela di sentimenti non è capire se si debba far riferimento a emozioni in senso stretto o ad altri fenomeni affettivi, ma è invece importante de- cidere se il fulcro dei problemi debba riguardare la reattività emozio- nale, oppure se si debba assumere quale vettore di senso l’affettività come base di stati disposizionali non episodici, ossia come strutture portanti della identità morale degli individui. Un richiamo alla sfera affettiva intesa come ‘struttura disposizionale’ orienta l’attenzione sul sentire quale marcatore della personalità, e pone in questo modo sen- timenti ed emozioni al centro di questioni concernenti la diversità di preferenze e di ordini assiologici fra individui. Tale ultima opzione è quella a nostro avviso più funzionale a in- staurare connessioni con le accezioni del termine ‘sentimento’ che emergono nel discorso penalistico: l’uso dei legislatori e della dot- trina. Nel prosieguo dell’indagine approfondiremo entrambi gli aspetti. 5. Sinossi Il panorama di fenomeni che costituiscono il tessuto affettivo de- gli individui è oggetto di definizioni dall’uso non univoco e talvolta polisenso. Il rimando a saperi lato sensu psicologici, pur assumendo 82 RYLE, Il concetto di mente, tr. it., Roma-Bari, 2007, pp. 121 ss. 83 RYLE, Lo spirito come comportamento, tr. it., Roma-Bari, 1982, p. 34; cfr. ID., Il concetto di mente, cit., p. 27: «Le tendenze sono cosa diversa dalle capacità e dalle suscettibilità».   60 Tra sentimenti ed eguale rispetto una notevole complessità, sembra nondimeno costituire per il giuri- sta penale un indispensabile tassello. Lo studio di contributi prodotti in ambito neuroscientifico, psico- logico e filosofico evidenzia come, al di là di possibili aree di contat- to, sentimenti ed emozioni non siano fenomeni del tutto accomuna- bili. Vi è una connessione di fondo relativa al fatto che entrambi, pur in modo differente, sono funzionali a classificare in base al binomio piacere-dolore le esperienze e le inclinazioni del sentire individuale, e contribuiscono così a definire l’identità e la peculiare originalità di ogni individuo. Da un altro lato, emergono differenze relative sia al- l’intensità, sia alla consistenza e alla durata. La distinzione che sembra maggiormente funzionale alla riflessio- ne sul problema del sentimento come oggetto di tutela concerne la nozione di stati episodici e disposizionali: con la prima accezione si definiscono fenomeni che si esauriscono in una contingente reattività psichica, con la seconda si indicano stati duraturi a loro volta matrici di ulteriori reazioni, i quali si intrecciano con le trame costitutive del- la personalità. Alla luce di tale ultimo distinguo cercheremo di trovare connes- sioni con le categorizzazioni che emergono dal diritto positivo e dal discorso dottrinale.  CAPITOLO III DIMENSIONE CODICISTICA E FUNZIONE DISCORSIVA DELLA FORMULA ‘TUTELA PENALE DI SENTIMENTI’ SOMMARIO: 1. ‘Tutela di sentimenti’: usi e significati della formula. – 2. Le tipolo- gie di interessi dietro le norme codicistiche: ‘sentimenti-valori’ e disagio psi- chico. – 2.1. La tutela di ‘sentimenti-valori’. – 2.1.1. Il sentimento religioso. – 2.1.2. Il pudore. – 2.1.3. La pietà dei defunti. – 2.1.4. Il sentimento nazionale e la condotta di istigazione all’odio fra le classi sociali. – 2.1.5. Il sentimento per gli animali. – 2.1.6. Il comune sentimento della morale. – 2.2. Lessico delle norme e piano fenomenico: sentimenti o emozioni? – 2.3. Atti persecutori: sofferenza psichica e libertà di autodeterminazione. – 3. La definizione di ‘sentimento’ come connotazione simbolica negativa nel discorso penalistico. – 3.1. Una virtuosa prospettiva di interazione: ‘sentire comune’ e legittimazione delle norme penali. – 4. Sinossi. 1. ‘Tutela di sentimenti’: usi e significati della formula Volgiamo ora lo sguardo alla dimensione giuridica e cerchiamo di inquadrare le rispondenze della formula ‘tutela di sentimenti’. Sono a nostro avviso distinguibili due accezioni: la prima, di tipo descrittivo-classificatoria, è strettamente legata al diritto positivo, e si presta a sintetizzare le disposizioni in cui l’interesse protetto viene de- finito nei termini di un sentimento o di un’emozione: si pensi alle nor- me codicistiche che parlano di sentimento religioso, pudore, pietà dei defunti et similia. La seconda accezione, che definiamo connotativa, è funzionale a tematizzare norme e problemi di tutela in cui la matrice emozionale non traspare da definizioni normative, ma emerge nei discorsi della dottrina penalistica in sede di speculazione teorica o di interpreta- zione, tendenzialmente per richiamare beni dalla fisionomia protei- forme, suscettibili di ricostruzioni profondamente differenti in quan-  62 Tra sentimenti ed eguale rispetto to esposte al condizionamento emotivo: interessi parificati dunque a sentimenti per via di un’intrinseca inafferrabilità 1. L’accezione connotativa enfatizza in chiave critica l’associazione tra fenomeni affettivi e oggetti di tutela dai confini incerti, disancora- ti da una base oggettiva e tendenti a sfociare in ricostruzioni di ma- trice soggettivistica. Parlare di sentimenti attiva nel lettore e nell’in- terprete frames psicologici che risentono della nebulosità epistemica che caratterizza le condizioni di conoscenza dei fenomeni psichici, contribuendo in questo modo a comunicare una sostanziale diffiden- za: «[le] parole non sono semplicemente dei mezzi per individuare gli oggetti. Le parole intervengono nella nostra percezione degli oggetti, e infatti trasmettono interpretazioni e attribuiscono senso ai loro refe- renti» 2. Associare un oggetto di tutela penale a un sentimento equivale a sottolinearne il potenziale di criticità, come coacervo di interessi ‘su- blimati’ che non rispondano a requisiti di razionalità e coerenza ri- spetto a principi ‘di sistema’ 3. Menzioniamo, per ora a titolo esempli- ficativo, il richiamo alla dignità umana, e pensiamo anche alla cosid- detta ‘sicurezza pubblica’ la quale è stata in tempi recenti associata criticamente a uno stato di tranquillità soggettiva dei singoli; si può inoltre ascrivere a tale categoria anche il concetto di onore, ben noto ai penalisti e da sempre oggetto di faticosi sforzi ermeneutici. Si trat- ta di interessi che non a caso vengono additati come ‘problematici’ dalla dottrina4, i quali evidenziano tutti una forte connessione con matrici emotive, tale da indurre a definirli anche come ‘sentimenti’. Nel prosieguo approfondiremo gli ambiti e i problemi connessi sia all’accezione descrittiva, sia a quella connotativa, a partire da una panoramica sulle fattispecie dell’ordinamento italiano in cui il senti- 1 Con riferimento alla dottrina tedesca si veda la ricostruzione di NISCO, La tu- tela penale dell’integrità psichica, cit., p. 84, il quale sottolinea come anche in Germania l’espressione ‘Gefühlschutzdelikte’ sia intesa in chiave essenzialmente critica. 2 SARTORI, Logica, metodo e linguaggio nelle scienze sociali, Bologna, 2011, p. 102. 3 Sulla specifica accezione del diritto penale come ‘sistema’ – definizione che attiene al piano del dover essere piuttosto che alla descrizione della realtà del- l’ordinamento – e sulle distinzioni tra principi di rilevanza normativa che entrano in gioco nel diritto penale, v. per tutti FIANDACA, Diritto penale, in FIANDACA-DI CHIARA, Un’introduzione al sistema penale. Per una lettura costituzionalmente orientata, Napoli, 2003, pp. 3 ss.  4 FIANDACA, Sul bene giuridico, cit., pp. 71 ss.  Dimensione codicistica e funzione discorsiva della formula 63 mento figura testualmente come coordinata descrittiva dell’interesse protetto 5. 2. Le tipologie di interessi dietro le norme codicistiche: ‘senti- menti-valori’ e disagio psichico Nel codice penale il sentimento viene espressamente evocato dalle norme poste a tutela del sentimento religioso, del pudore, della pietà dei defunti, del sentimento nazionale; nella legislazione complemen- tare viene menzionato come oggetto di tutela il ‘comune sentimento della morale’ 6. Oltre a tali ipotesi, riteniamo, in accordo con autorevole dottrina, che la problematica del sentimento come oggetto di tutela investa, pur con i dovuti distinguo, anche una norma di più recente introdu- zione, ossia l’art. 612 bis c.p., la quale incrimina il delitto di atti per- secutori. Si tratta di una fattispecie la cui tipicità appare fortemente improntata in senso emotivistico: ‘perdurante e grave stato d’ansia e di paura’, ‘fondato timore’ sono eventi di tipo psichico, e precisamen- te sono assimilabili a emozioni negative. Anche il delitto di atti per- secutori appare orientato a tutelare un sentire, o, più propriamente, 5 Non analizzeremo in questa sede ulteriori fattispecie codicistiche il cui so- strato di offensività sembra rimandare a un retroterra di tipo emozionale. Al di là dell’onore, che è unanimemente riconosciuto come interesse della persona caratterizzato da un’evidente componente ‘di sentimento’ che la dottrina si è impegnata a razionalizzare mediante il richiamo, comunque problematico, alla ‘dignità sociale’, v. MUSCO, Bene giuridico e tutela dell’onore, Milano, 1974, pp. 147 ss., vi sono altre norme la cui afferenza al tema in esame appare meno uni- voca. Una recente ricostruzione include ad esempio il vilipendio alla bandiera (come forma di offesa al sentimento nazionale), la corruzione impropria susse- guente (offesa al sentimento di onestà che dovrebbe guidare i pubblici ufficiali), l’ingiuria semplice, l’incesto (offesa al sentimento della morale familiare), la pedopornografia (sentimenti moralistici inerenti la sessualità) e infine il nega- zionismo: si tratta di un panorama variegato ed eterogeneo, il quale meritereb- be una dettagliata analisi volta a verificare in che termini dietro i casi menzio- nati si possa davvero parlare di sentimenti, v. GIUNTA, Verso un rinnovato ro- manticismo penale?, cit., pp. 1556 ss. 6 Si pongono al di fuori dell’area concettuale della tutela di sentimenti le pro- blematiche concernenti gli stati emotivi e passionali e le circostanze attenuanti fondate su emozioni; il profilo che viene qui in gioco è il ruolo che i fenomeni af- fettivi possono assumere in relazione alla graduazione della responsabilità pena- le, attraverso gli istituti dell’imputabilità e delle circostanze del reato (vedi anche supra, cap. I, nota 30).   64 Tra sentimenti ed eguale rispetto presidia l’equilibrio emotivo di un soggetto in chiave strumentale ri- spetto alla libertà di autodeterminazione 7. È plausibile definire tale ultima fattispecie come una forma di tu- tela di sentimenti8 (fatte salve le criticità che possono derivare da un’interpretazione meramente emozionale e soggettivistica degli even- ti), ma è altrettanto evidente che rispetto alle ipotesi precedentemen- te menzionate in cui il legislatore parla espressamente di ‘sentimento’ vi sono delle differenze: nel caso della religione, del pudore, della pie- tà dei defunti et similia, la parola ‘sentimento’ viene associata a ulte- riori concetti che indicano valori e oggetti significativi per il singolo e per la collettività, dando vita a un’entità in parte psicologica e in par- te di consistenza prettamente socio-valoriale. Nel caso dello stalking lo stato psichico assume una rilevanza autonoma, senza alcuna cor- relazione con specifici oggetti del sentire, ed è proprio il turbamento emotivo a rivestire importanza centrale nell’economia della fattispe- cie, precisamente come evento tipico 9. Si tratta di due diverse declinazioni del sentimento come oggetto di tutela, le quali necessitano di una trattazione distinta. 2.1. La tutela di ‘sentimenti-valori’ Con riferimento ai delitti contro il sentimento religioso, contro il pudore e contro la pietà dei defunti, sia l’interpretazione oggi do- minante in dottrina sia la realtà applicativa depongono per una li- nea ‘depsicologizzante’, secondo la quale il disvalore del fatto non dipende dall’impatto della condotta tipica sullo stato psichico del soggetto passivo. Si è osservato che l’ordinamento penale non tutela sentimenti, 7 Sul tema, pur con diversità di accenti, v. MAUGERI, Lo stalking tra necessità politico-criminale e promozione mediatica, Torino, 2010, p. 104; NISCO, La tutela penale dell’integrità psichica, cit., pp. 223 ss.; COCO, La tutela della libertà indivi- duale nel nuovo sistema ‘anti-stalking’, Napoli, 2012, pp. 116 s. 8 FIANDACA, Sul bene giuridico, cit., pp. 82 ss. 9 Uno tra gli aspetti più discussi della fattispecie di atti persecutori concerne l’alternativa fra reato di danno o di pericolo; per un’interessante prospettiva in- terpretativa MAUGERI, Lo stalking, cit., pp. 153 ss.; sulla stessa linea di pensiero, CADOPPI, Efficace la misura dell’ammonimento del questore, in Guida dir., 19/2009, p. 52. In giurisprudenza tende a prevalere la qualificazione come reato di danno; v., ex plurimis, Cass. pen., sez. V, 16/04/2012, n. 14391; Cass. pen., sez. V, 15/05/2015, n. 20363.   Dimensione codicistica e funzione discorsiva della formula 65 «anche se talora lo stesso codice penale si esprime in questi termini [...], ma [tutela] la loro obiettivazione in situazioni sociali, in interessi, in beni giuridici più definiti della percezione soggettiva: tanto che essi vengono tutelati a prescindere dalla prova di quella percezione in capo a un qualche individuo determinato» 10. Tale osservazione è ineccepibile, e trova riscontro nel panorama applicativo: la prova di un effettivo turbamento psichico soggettivo non è mai venuta seriamente in considerazione11. Le situazioni de- scritte nelle disposizioni codicistiche non richiedono la verifica di una concreta ‘elicitazione’ 12 della sensibilità di singoli individui: l’as- serita attitudine lesiva della sensibilità costituisce esito di un proces- so interpretativo di elementi di fatto e di condizioni di contesto esa- minati alla luce di criteri di adeguatezza e di tollerabilità modulati su parametri di tipo socio-culturale, in base a un’ipotizzata sensibilità media dei consociati. Come osserva Angelo Falzea, non è il mero fatto emozionale ad assumere ruolo decisivo, ma è piuttosto la sua traducibilità in valori e disvalori secondo un punto di vista sociale. Nel complesso, il senti- mento assume rilevanza sub specie iuris e non sub specie facti: «Non ogni volta che il diritto pone a base delle sue regole il sentimen- to si è in presenza di un fatto giuridico affettivo. Vi sono norme giuri- diche ispirate all’esigenza di tutelare un sentimento condiviso dalla 10 DONINI, “Danno” e “offesa” nella c.d. tutela penale dei sentimenti, cit., p. 1578. 11 Si prendano a riferimento gli ambiti della tutela penale della religione e del pudore, nei quali si registra un congruo numero di pronunce. Per una panorami- ca sulla tutela del sentimento religioso in Italia fino agli anni Ottanta v. SIRACUSA- NO, I delitti in materia di religione. Beni giuridici e limiti dell’intervento penale, Mi- lano, 1983, pp. 96 ss.; per uno sguardo sugli sviluppi più recenti v. BASILE, art. 403 c.p., in AA.VV., Codice penale commentato, diretto da Dolcini-Gatta, vol. II, 4a ed., Milano, 2015, pp. 1461 ss.; PECORELLA, Delitti contro il sentimento religioso, in AA.VV., a cura di Pulitanò, Manuale di diritto penale. Parte speciale, vol. I, I reati contro la persona, II ed., Torino, 2014, pp. 382 ss.; per una panoramica della giurispruden- za in materia di offese al pudore v. PROTETTÌ-SODANO, Offesa al pudore e all’onore sessuale nella giurisprudenza, Padova, 1972, pp. 3 ss.; PULITANÒ, Il buon costume, in BIANCHI D’ESPINOSA-CELORIA-GRECO-ODORISIO-PETRELLA-PULITANÒ, Valori socio- culturali della giurisprudenza, cit., pp. 172 ss.; FIANDACA, Problematica dell’osceno e tutela del buon costume, Padova, 1984, pp. 33 ss.; sugli sviluppi più recenti sia consentito il rinvio a BACCO, Tutela del pudore e della riservatezza sessuale, in AA.VV., a cura di Pulitanò, Manuale di diritto penale. Parte speciale, vol. I, I reati contro la persona, cit., pp. 300 ss. 12 In psicologia è d’uso il termine ‘elicitazione’ per indicare l’azione di stimolo volta a suscitare emozioni e/o a indurre comportamenti.   66 Tra sentimenti ed eguale rispetto comunità o di reprimere un sentimento che la comunità disapprova, ma nelle quali la considerazione del fenomeno emozionale resta al li- vello dell’interesse normativo e non si traduce in elemento della fatti- specie [...]: il sentimento tende allora a svincolarsi dalla necessità di una sua specifica manifestazione e a confondersi coi valori etici ogget- tivi» 13. Ciò che rileva è la ‘personalità affettiva comune’, ossia «l’insieme dei fatti biologici e psichici che influiscono sul comportamento emo- zionale affettivo e reattivo della persona» definito «in relazione al pa- trimonio sentimentale e alla sensibilità che sono propri in linea di principio dell’intero gruppo sociale» 14. Il sentimento viene in questo modo proiettato in una dimensione collettiva come modo di sentire diffuso che accomuna più individui (c.d. ‘atmosfera emozionale’). Alla luce di tale fisionomia dell’oggetto di tutela, il sentire indivi- duale viene filtrato «in funzione e sotto l’angolo visuale del sistema dei valori di un gruppo diverso e più comprensivo [...] la valutazione contenuta nel sentimento di certe persone o comunità diventa ogget- to di un’altra valutazione contenuta nel modo di sentire o comunque nel sistema dei valori di altre persone o comunità» 15. In definitiva, attraverso le «regole e [gli] istituti con cui il legislatore predispone una tutela penalistica a salvaguardia di sentimenti che nel- l’animo e nel costume dei consociati assumono un alto valore» 16, il di- ritto penale finisce per tutelare non un stato soggettivo della persona, bensì l’oggetto e il valore impersonale che fonda quel dato modo di 13 FALZEA, I fatti di sentimento, cit., p. 368. 14 FALZEA, I fatti di sentimento, cit., p. 380. 15 FALZEA, I fatti di sentimento, cit., p. 332. 16 FALZEA, I fatti di sentimento, cit., p. 356. L’Autore inoltre distingue fra ‘reati di sentimento’, ossia quelli in cui il diritto «punisce il disprezzo [...] verso valori ritenuti fondamentali», ossia le varie forme di vilipendio alle istituzioni (Repub- blica, nazione, bandiera), dai casi in cui il sentimento dell’agente è tale da influire sulla gravità della pena in funzione di circostanza (crudeltà, futilità dei motivi etc.). A ben vedere, una simile prospettazione potrebbe creare fraintendimenti: nella definizione del vilipendio quale reato di sentimento (la cui ragion d’essere trova dunque spiegazione nella mera censura di uno stato interiore considerato contrario a valori ‘oggettivi’) l’occhio del penalista non può fare a meno di riscon- trare una sottile caratterizzazione soggettivistica, secondo tecniche di incrimina- zione tipiche del Gesinnungsstrafrecht. Il suddetto schema non sembra inoltre funzionale ad una prospettiva di bilanciamento, poiché se l’aver provato disprez- zo diviene motivo di incriminazione tout court, relegando in secondo piano i pro- fili di turbamento del sentimento di altri, risulta assai più difficoltoso procedere sulla strada di un equilibrio tra posizioni.   Dimensione codicistica e funzione discorsiva della formula 67 sentire. Il lessico degli stati affettivi si rivela dunque un orpello retorico volto a porre sotto protezione penale gli oggetti del sentire, ossia valori e simboli ritenuti socialmente significativi nella comunità: «nell’apprestare tutela a determinati sentimenti, il codice non tende a proteggere stati affettivi duraturi in quanto tali: si tratta, piuttosto, di sentimenti – individuali e/o collettivi – concepiti altresì come atteg- giamenti intrisi di valore in una accezione culturale e normativa. Sic- ché si può dire, da questo punto di vista, che la legge penale mira a proteggere più che sentimenti in sé, sentimenti-valori, se non valori tout court» 17. Vediamo nel dettaglio quali sono i valori che, dietro le effigie del sentimento, sono entrati nel catalogo dei beni tutelati dal diritto pe- nale italiano. 2.1.1. Il sentimento religioso I delitti in tema di religione sono un elemento sintomatico del tas- so di secolarizzazione del sistema 18. Nelle legislazioni penali moder- ne, la religione è stata di rado identificata come bene di esclusiva per- tinenza del singolo, e più frequentemente come forma di adesione collettiva o come sentimento istituzionalizzato, ossia entità storica- mente e culturalmente determinata nella quale sono trasfusi valori e patrimoni propri di una o più confessioni. Il codice Rocco parla di ‘sentimento religioso’ 19, ma la legislazione del 1930, fedele nelle rubriche e nella sostanza alla sola religione di Stato, si identificava nel modello di tutela definito come ‘bene di ci- viltà’ 20: era la religione cattolica, affiancata dalla timida presenza dei culti ammessi, e non un qualsiasi sentimento religioso individual- 17 FIANDACA, Sul ruolo delle emozioni e dei sentimenti, cit., p. 228. 18 FIANDACA, Laicità del diritto penale e secolarizzazione dei beni tutelati, in AA.VV., a cura di Pisani, Studi in memoria di Pietro Nuvolone, vol. I, Milano, 1991, pp. 180 ss.; SIRACUSANO, Pluralismo e secolarizzazione dei valori: la superstite tutela penale del fattore religioso nell’ordinamento italiano, in AA.VV., a cura di Ri- sicato-La Rosa, Laicità e multiculturalismo. Profili penali ed extrapenali, Torino, 2009, pp. 70 s. Per una panoramica, v. AA.VV., a cura di Brunelli, Diritto penale della libertà religiosa, Torino, 2010. 19 Cfr. MARCHEI, Sentimento religioso e bene giuridico. Tra giurisprudenza costi- tuzionale e novella legislativa, Milano, 2006, pp. 35 ss.; PACILLO, I delitti contro le confessioni religiose dopo la legge 24 febbraio 2006 n. 85, Milano, 2007, pp. 16 ss.  20 SIRACUSANO, I delitti in materia di religione, cit., Milano, 1983, pp. 10 s.  68 Tra sentimenti ed eguale rispetto mente avvertito, a godere di un privilegiato regime di tutela 21. L’impianto codicistico ha subito profonde modifiche ad opera del- la Corte costituzionale, la quale, nel corso degli anni, ha ‘rabbercia- to’ 22 il sistema dei reati riducendo le distonie con i principi codificati nella Carta costituzionale. Particolarmente significativa è la linea giu- risprudenziale inaugurata con la pronuncia n. 440/1995 (sulla con- travvenzione di bestemmia) 23 e seguita dalle pronunce n. 329/1997 (equi- parazione del trattamento sanzionatorio fra religione di Stato e culti ammessi, in relazione all’art. 403 c.p.) e soprattutto n. 508/2000 (ablazione della fattispecie di vilipendio della religione di Stato, art. 402 c.p.) 24: decisioni che attuano un cambio di rotta rispetto alla giu- risprudenza costituzionale che, fino a pochi decenni prima, ancora legittimava il trattamento privilegiato della religione cattolica sulla base di criteri quantitativi e sociologici 25. Argomentando sulla base del principio di laicità, la Corte ha iden- tificato nella dimensione religiosa individuale il corollario di una li- 21 In linea con l’afflato statocentrico che ispira l’intera codificazione, le fatti- specie in tema di religione sono espressione di autoritarismo etico da parte del governo fascista, congeniale al sodalizio politico con la Chiesa Romana formaliz- zato nei Patti Lateranensi: «La religione» dice Rocco «è [...] non tanto un feno- meno attinente alla coscienza individuale, quanto un fenomeno sociale della più alta importanza, anche per il raggiungimento dei fini etici dello Stato», v. Codice penale, illustrato con i lavori preparatori, a cura di Mangini-Gabrieli-Cosentino, Roma, 1930, pp. 331. Per una sintesi, v., ex plurimis, PACILLO, I delitti contro le confessioni religiose, cit., pp. 6 ss. 22 L’espressione è di FIANDACA, Altro passo avanti della Consulta nella rabbercia- tura dei reati contro la religione, in Foro it., 1998, I, pp. 26 ss. Per un’ampia e pun- tuale sintesi della giurisprudenza costituzionale vedi il saggio di VISCONTI C., La tutela penale della religione nell’età post-secolare e il ruolo della Corte costituzionale, in Riv. it. dir. proc. pen., 3/2005, pp. 1041 ss. 23 Sul tema v., ex plurimis, PALAZZO, La tutela della religione tra eguaglianza e secolarizzazione (a proposito della dichiarazione di incostituzionalità della bestem- mia), in Cass. pen., 1/1996, pp. 47 ss.; DI GIOVINE O., La bestemmia al vaglio della Corte costituzionale: sui difficili rapporti tra Consulta e legge penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2-3/1996, pp. 824 ss. 24 Ex plurimis, VENAFRO, Il reato di vilipendio della religione non passa il vaglio della Corte Costituzionale, in Legislazione penale., 2001, pp. 1073 ss. 25 Cfr. FALCINELLI, Il valore penale del sentimento religioso, entro la nuova tipici- tà dei delitti contro le confessioni religiose, in AA.VV., a cura di Brunelli, Diritto penale della libertà religiosa, Torino, 2010, p. 33; MORMANDO, Religione, laicità, tol- leranza e diritto penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2/2005, pp. 657 ss.; MARCHEI, Sen- timento religioso e bene giuridico, cit., pp. 95 ss.   Dimensione codicistica e funzione discorsiva della formula 69 bertà costituzionale 26; parametro costituzionale decisivo che ha sup- portato le modifiche più rilevanti è stato il principio di uguaglianza 27. La riforma del 2006, nel dichiarato intento di superare l’anacro- nistico e illiberale modello del codice fascista, ha eliminato il riferi- mento alla religione introducendo il concetto di ‘confessione religio- sa’. In merito all’interesse protetto, la lettura critica offerta dalla pre- valente dottrina individua una sostanziale continuità con la vecchia normativa28, identificando l’oggetto di tutela in una prospettiva che oscilla tra il bene di civiltà ‘pluriconfessionalmente articolato’ e il sentimento collettivo della pluralità dei fedeli che si riconoscono in una determinata confessione religiosa29. Non mancano però letture alternative che cercano di armonizzare la duplice natura, individuale e collettiva, del bene protetto, sottolineando come «la nozione di sen- 26 Pur aderendo sostanzialmente al principio di laicità dello Stato, la giuri- sprudenza costituzionale presenta sensibili oscillazioni circa l’effettiva portata del concetto: cfr. VISCONTI C., Aspetti penalistici del discorso pubblico, Torino, 2008, pp. 45 ss.; ID., La tutela penale della religione, cit., p. 1050. Istanze personalistiche sono emerse quando si è parlato di «sentimento religioso, [il] quale vive nell’in- timo della coscienza individuale e si estende anche a gruppi più o meno numerosi di persone legate tra loro dal vincolo della professione di una fede comune», v. C. cost. n. 188/1975; cfr. MARCHEI, Sentimento religioso, cit., p. 143. 27 Così PULITANÒ, Laicità e diritto penale, in AA.VV., a cura di Ceretti-Garlati, Laicità e stato di diritto, Milano, 2007, p. 309; cfr. VISCONTI C., Aspetti penalistici, cit., p. 39. Sui rapporti tra uguaglianza e diritto penale, v. DODARO, Uguaglianza e diritto penale. Uno studio di giurisprudenza costituzionale, Milano, 2013; FIANDACA, Uguaglianza e diritto penale, in AA.VV, a cura di Cartabia-Vettor, Le ragioni del- l’uguaglianza, Milano, 2009, pp. 115 ss. 28 Si rileva che la Corte non ha assunto decisioni dirompenti, tali da condur- re all’abbattimento del sistema esistente, talvolta riducendo a un semplice pas- saggio ermeneutico, secondo alcuni Autori, lo stesso richiamo alla realtà reli- giosa individuale, nei fatti seguito dalla (ri)legittimazione del paradigma esi- stente: cfr. l’analisi di MARCHEI, Sentimento religioso, cit., pp. 143 ss. Osserva PIEMONTESE, Offese alla religione e pluralismo religioso, in AA.VV., Religione e re- ligioni: prospettive di tutela, tutela delle libertà, a cura di De Francesco-Piemon- tese-Venafro, Torino, 2007, p. 230, che «la libertà individuale parrebbe valoriz- zata, qui, solo in chiusura e ad abundantiam, all’interno di un iter argomentati- vo volto a preservare comunque l’originaria dimensione pubblica ed istituziona- le della tutela»; cfr. PADOVANI, Un intervento normativo scoordinato che investe anche i delitti contro lo Stato, in Guida dir., 14/2006, pp. 23 ss.; BASILE, art. 403 c.p., cit., pp. 1462 ss. 29 Nel primo senso SIRACUSANO, Pluralismo e secolarizzazione dei valori, cit., p. 83; per la seconda opzione v. BASILE, art. 403 c.p., cit., p. 1471. Cfr. anche VISCON- TI C., Aspetti penalistici, cit., p. 196. Ritiene che la riforma del 2006 abbia fatto assurgere il sentimento religioso individuale a bene protetto in via diretta e im- mediata, PACILLO, I delitti contro le confessioni religiose, cit., p. 26.   70 Tra sentimenti ed eguale rispetto timento è solamente un connotato – innegabile quanto imprescindi- bile – di un ben più articolato valore di libertà religiosa» 30. 2.1.2. Il pudore Il richiamo al sentimento è centrale nella definizione delle osceni- tà penalmente rilevanti: sono da considerarsi osceni gli atti e gli og- getti che ‘secondo il comune sentimento’ offendono il pudore (art. 529 c.p.). L’elemento normativo ‘comune sentimento del pudore’31 attinge da un fenomeno di reattività interiore dell’individuo: il pudo- re, genericamente definibile come disposizione soggettiva che induce al riserbo su quanto attiene alla vita sessuale, fonda la soglia sogget- tiva di eventuale disagio avvertibile di fronte a manifestazioni della sessualità 32. Inteso nella dimensione comunitaria il pudore si emancipa dal rapporto di implicazione emotiva individuale e dalla sua concreta sussistenza, scivolando verso un’identificazione con concezioni della morale sessuale: la valorizzazione normativa del pudore diviene in questo modo funzionale a introdurre soglie atte a delimitare manife- stazioni e rappresentazioni aventi contenuto sessuale 33. Il problema del buon costume e della pubblica moralità quali beni di categoria in ambito penalistico ha finito per tradursi nel richiamo a canoni di moralità sessuale 34, concetto quest’ultimo la cui delimita- 30 È la condivisibile notazione di FALCINELLI, Il valore penale del sentimento re- ligioso, cit., p. 48, la quale definisce l’interesse protetto dalle norme post riforma 2006 come sentimento religioso collettivo e al contempo individuale (pp. 39 ss.). 31 Sul tema degli elementi normativi, e in particolare sui rapporti fra il coeffi- ciente di certezza degli elementi normativi culturali e giuridici, v. lo studio di BO- NINI, L’elemento normativo nella fattispecie penale. Questioni sistematiche e costitu- zionali, Napoli, 2016, pp. 320 ss.; sul tema v. anche RISICATO, Gli elementi norma- tivi della fattispecie penale. Profili generali e problemi applicativi, Milano, 2004. 32 Per un’analisi in chiave psicanalitica v., ex plurimis, APPIANI, Tabù. Elogio del pudore, Milano, 2004, pp. 292 ss. 33 Fondamentale FIANDACA, Problematica dell’osceno, cit., pp. 4 ss. Sul proble- ma definitorio del pudore, nella letteratura penalistica più risalente v. ALLEGRA, Il “comune” sentimento del pudore, in Iustitia, 1950, pp. 78 ss.; LATAGLIATA, voce Atti osceni e atti contrari alla pubblica decenza, in Enciclopedia del diritto, vol. IV, Mi- lano, 1959, pp. 49 ss.; VENDITTI, La tutela penale del pudore e della pubblica decen- za, Milano, 1963; GALLISAI PILO, voce Oscenità e offese alla decenza, in Dig. disc. pen., vol. IX, Torino, 1995, pp. 204 ss.; FARINA, Il reato di atti osceni in luogo pub- blico: tensioni interpretative e prospettive personalistiche nella tutela del pudore, in Dir. pen. proc., 7/2005, pp. 867 ss.  34 Cfr. FIANDACA, Problematica dell’osceno, cit., pp. 78 ss.  Dimensione codicistica e funzione discorsiva della formula 71 zione è però nondimeno ardua, al punto da costituire classicamente un luogo di forti tensioni tra il diritto punitivo e i principi liberali 35. Ad oggi gli sviluppi giurisprudenziali, incentivati e affinati da im- portanti contributi della dottrina 36, depongono per una riconversione dell’interesse di tutela, il quale è identificato nel diritto a essere pro- tetti da indebite violazioni del proprio riserbo sessuale: esempio tipi- co, l’assistere a manifestazioni di contenuto erotico senza avervi pre- ventivamente acconsentito. Ciò ha condotto a un modello di interven- to incentrato non più su una lesione astratta e potenziale del pudore collettivo, ma teso a reprimere solo le manifestazioni oscene che si impongano a determinati soggetti senza che questi abbiano prestato un preventivo consenso 37. È il carattere della pubblicità più o meno indesiderata dell’atto o della pubblicazione, inteso come capacità di diffusione e percepibilità da parte di soggetti non consenzienti, a fondare l’illiceità, e non la sua natura eventualmente oscena. Si tratta di un ragionevole distacco da modelli di intervento non 35 Sul punto rimarca FIANDACA, Problematica dell’osceno, cit., p. 99, che «[...] il principio della tolleranza ideologica e della tutela delle minoranze impediscono di trasformare il diritto penale di uno Stato democratico in tutore della virtù. [...] Ciò induce a dover giustificare sotto ogni aspetto l’assunto, secondo il quale la punizione dell’immoralità non può rientrare tra gli scopi del diritto penale con- temporaneo. Tanto più che l’esplicito riferimento, contenuto nella Costituzione, alla tutela del buon costume potrebbe essere da taluno interpretato – come di fat- to è avvenuto – appunto in chiave di “copertura” costituzionale all’incriminazione di fatti lesivi di semplici valori morali». Cfr. WOHLERS, Le fattispecie penali come strumento per il mantenimento di orientamenti sociali di carattere assiologico? Pro- blemi di legittimazione da una prospettiva europea continentale e da una angloame- ricana, in AA.VV., a cura di Fiandaca-Francolini, Sulla legittimazione del diritto penale. Culture europeo-continentale e anglo-americana a confronto, Torino, 2008, pp. 125 ss. 36 Il riferimento è sempre a FIANDACA, Problematica dell’osceno, cit. 37 In giurisprudenza, sentenza capostipite è quella del Tribunale di Torino, 2/04/1982, in Foro it., 1981, II, cc. 529 ss. Nella giurisprudenza di legittimità, Cass. pen., sez. III, 21/01/1994, in Foro it., 1996, II, c. 21; v. anche Cass. pen., SS. UU., 24/03/1995, in Foro it., 1996, II, c. 17 ss. Da ultimo, v. Cass. pen., sez. III, 17/12/2004, n. 48532 e Cass. pen., sez. III, 6/07/2005, n. 34417, che conferma la per- cepibilità dell’osceno da parte del pubblico come elemento costitutivo della fattispe- cie il cui onere probatorio deve essere fornito dall’accusa. Per un avallo del suddetto orientamento da parte della Corte costituzionale, v. la sentenza n. 368/1992, secon- do cui «la misura di illiceità dell’osceno è data dalla capacità offensiva di questo verso gli altri, considerata in relazione alle modalità di espressione e alle circostan- ze in cui l’osceno è manifestato», v. C. cost., n. 368/1992; sia consentito il rinvio a BACCO, Tutela del pudore e della riservatezza sessuale, cit., pp. 303 ss.   72 Tra sentimenti ed eguale rispetto compatibili con uno Stato liberale e pluralista38. Ad oggi l’ordina- mento italiano non tutela un moralistico pudore collettivo 39, ma ap- presta gli strumenti affinché le persone non assistano a manifesta- zioni della sessualità per loro indesiderate: l’equilibrio si fonda su po- tenzialità nell’agire che trovano un limite nell’altrui pretesa di non subire contatti sgraditi. Vi è sì una depsicologizzazione dell’interesse protetto, presentato nelle fogge di una libertà negativa, ma va non- dimeno riconosciuto che il problema della tutela del pudore resta profondamente legato, nella sua matrice, anche a una sensibilità di tipo ‘epidermico’40, non semplicemente morale, ma saldamente in- trecciata alla reattività emotiva della persona. 2.1.3. La pietà dei defunti Pochi termini denotano un’appartenenza al lessico emozionale come la pietà: traduzione del latino pietas, essa, al di là dell’uso gene- rico che connota il sentimento di solidale comprensione nei confronti della sofferenza altrui, designa ancora oggi la dimensione psicologica che scaturisce dall’esperienza della morte dei propri simili, e fa la sua comparsa nel codice penale al capo II del titolo IV. 38 Esigenze di riforma sono state invocate evidenziando un ormai critico rap- porto tra il diritto vivente e la tipicità formale, sottolineando come lo stesso rein- quadramento in termini personalistici del bene giuridico disveli, in definitiva, un’irragionevole disparità sanzionatoria tra l’offesa al pudore (rectius, libertà da visioni indesiderate) e altre offese alla persona: v. FARINA, Il reato di atti osceni, cit., pp. 872 ss. 39 I sentimenti individuali rimangono sullo sfondo, preservati nella loro auto- nomia e senza dover render conto dei propri contenuti: le generalizzazioni e i giudizi su base quantitativa dovrebbero rimanere al di fuori della norma, poiché la libertà del singolo è anche libertà di usufruire e concedersi quello che per molti dei suoi simili potrebbe apparire indecoroso o ripugnante, ovviamente senza in- vadere le altrui sfere di libertà. Autorevoli esponenti del pensiero liberale hanno affermato in questo senso la necessità di una politica ‘anticollettivista’, nella quale cioè «gli interessi della maggioranza non possono mettere a tacere i diritti fon- damentali dell’individuo, se non in circostanze eccezionali, solitamente laddove siano ipotizzabili danni ad altre persone o qualche grave pericolo per l’intera na- zione», v. NUSSBAUM, Disgusto e umanità, tr. it., Milano, 2011, p. 68; cfr. HART, Diritto, morale e libertà, tr. it., a cura di Gavazzi, Acireale, 1968, p. 97. 40 È stato osservato come sia doveroso un approfondimento delle ragioni psi- cologiche alla base di atteggiamenti repulsivi dell’altro, al fine di disvelare (e ar- ginare) l’irrazionalità di fondo che, se trasfusa in dettami normativi, potrebbe condurre a esiti discriminatori: un tipico esempio sono istanze di tutela che tro- vino la propria motivazione in un mero ‘disgusto collettivo’, v. NUSSBAUM, Na- scondere l’umanità, cit., pp. 95 ss.   Dimensione codicistica e funzione discorsiva della formula 73 L’interpretazione consolidatasi in dottrina individua in tali norme un presidio a un sentimento universale, non una forma di difesa della salute pubblica 41. La tutela è incentrata su oggetti materiali e postula la rilevanza simbolica delle res: oggetti la cui violazione integra il pa- radigma delittuoso in quanto la materialità delle azioni assuma il si- gnificato di dileggio alla memoria 42. Al di là della topografia codicistica, pare opportuno rimarcare l’autonomia concettuale del sentimento di pietà per i defunti dalle eventuali caratterizzazioni religiose43: è sul presupposto di una di- mensione laica di tale sentimento 44, oltre il manto di ritualità cultua- li, che si pone la discussione sulla legittimità e opportunità di un pre- sidio sanzionatorio. Autorevole dottrina è critica nei confronti della scelta politico criminale del codice Rocco: «la previsione autonoma di delitti contro la pietà dei defunti non appare, nell’attuale momento storico, perfet- tamente congrua con la funzione propria di un diritto penale di uno Stato democratico e secolarizzato: il mero sentimento non sembra infatti poter assurgere al rango di bene giuridico, non intaccando la sua semplice violazione quelle condizioni minime della vita in comu- ne la cui salvaguardia legittima l’uso dello strumento penalistico» 45. L’osservazione ha il merito di evidenziare uno dei punti critici del rapporto tra sentimenti e tutela penale: libertà che rischiano di essere soggette alla coercizione di fronte a moti dell’animo umano, il cui turbamento, pur intenso, non dovrebbe essere destinatario di una priorità assoluta all’interno di un contesto pluralista. 41 FIANDACA, voce Pietà dei defunti (Delitti contro la), in Enc. giur., vol. XXIII, Roma, 1990, p. 1; per l’orientamento incline all’interpretazione della norma come tutela della salute pubblica, v. GABRIELI, Delitti contro il sentimento religioso e la pietà verso i defunti, Milano, 1961, p. 371. 42 ROSSI VANNINI, voce Pietà dei defunti (delitti contro), in Dig. disc. pen., vol. IX, Torino, 1995, p. 571. 43 Ex plurimis, cfr. FIANDACA, voce Pietà dei defunti, cit., p. 1; ROSSI VANNINI, vo- ce Pietà dei defunti, cit., p. 570. 44 Non potendo in questa sede offrire un quadro della sconfinata bibliografia, ci limitiamo a segnalare le intense riflessioni contenute nella pubblicazione di AA.VV., a cura di Monti, Che cosa vuol dire morire, Torino, 2010. Argomentazioni condivise da parte di autori di estrazione laica e autori cattolici emergono nei saggi di BODEI, L’epoca dell’antidestino, pp. 57 ss.; DE MONTICELLI, La libertà di divenire sé stessi, pp. 83 ss.; per i secondi, v. REALE, L’uomo non si accorge più di morire, pp. 25 ss.; MAN- CUSO, Se si ha paura della morte, si ha paura della vita, pp. 109 ss. 45 FIANDACA-MUSCO, Diritto penale. Parte speciale, vol. I, IV ed., Bologna, 2007, pp. 450 s.   74 Tra sentimenti ed eguale rispetto Nell’attuale configurazione normativa, tuttavia, la tutela del de- funto evoca sentimenti, ma non ha ad oggetto stati psicologici di pa- renti o delle persone ad esso affettivamente legate. Si tratta di un ri- conoscimento dovuto all’essere umano in quanto tale, a prescindere da metafisiche ultraterrene, ma anzi ben ancorato a una concezione secolare dell’esistenza, secondo cui il soggetto può e deve meritare rispetto anche dopo il trapasso 46. È in quest’ottica che può eventual- mente valutarsi l’opportunità del mantenimento di un presidio e i suoi limiti: secondo logiche non pervasive ma ragionevolmente orien- tate alla salvaguardia di un nucleo minimo di rispetto verso chi ha abbandonato la dimensione fisica dell’esistenza. 2.1.4. Il sentimento nazionale e la condotta di istigazione all’odio fra le classi sociali Fra i delitti contro la personalità dello Stato troviamo menzionati lo ‘spirito pubblico’ e il ‘sentimento nazionale’. Si tratta di fattispecie cadute ormai nel dimenticatoio e sostanzialmente inapplicate: l’am- bito di operatività dell’art. 265 (disfattismo politico) è circoscritto, per espressa previsione legislativa, al tempo di guerra; gli artt. 271 e 272 (nella parte in cui faceva riferimento al ‘sentimento nazionale’) sono stati oggetto di dichiarazioni di incostituzionalità con le senten- ze n. 87/1966 e n. 243/2001 47. Al di là del valore di ‘archeologia giuridica’, fra gli elementi costi- tutivi delle suddette fattispecie troviamo il cosiddetto ‘spirito pubbli- co’ e il ‘sentimento nazionale’: concetti strettamente legati, i quali evocano una disposizione affettiva, ossia l’atteggiamento di fede e di attaccamento del cittadino alla nazione. 46 GIUNTA, Verso un rinnovato romanticismo penale?, cit., p. 1554.; cfr. DONINI, “Danno” e “ offesa”nella c.d. tutela penale dei sentimenti, cit., p. 1587, il quale sot- tolinea la possibilità che dall’assenza di tali presidi scaturiscano esiti negativi per la stessa pace sociale; ERONIA, La turbatio sacrorum tra legge e cultura: il caso del- la riesumazione della salma di S. Pio, in Cass. pen., 2/2009, p. 747. Nella relazione al progetto di riforma del codice penale elaborato dalla commissione Pagliaro era stato osservato che: «il bene personalistico della dignità della persona defunta appare costituire l’oggetto primario e costante della tutela contro gli atti irriguar- dosi delle spoglie umane e dei sepolcri, mentre il pur rilevante bene collettivo del suddetto sentimento si presenta come bene secondario ed eventuale», v. Relazione alla bozza di articolato per un progetto di riforma del Codice Penale, consultabile in http://www.ristretti.it/areestudio/giuridici/riforma/relazionepagliaro.htm. 47 L’art. 272 c.p. è stato poi integralmente abrogato dalla legge n. 85 del 2006. Sul tema, v. ALESIANI, I reati di opinione. Una rilettura in chiave costituzionale, Milano, 2006, pp. 275 ss.   Dimensione codicistica e funzione discorsiva della formula 75 Il concetto di spirito pubblico appare più generico e va delimitato a contesti in cui, a causa dello stato di guerra, viene richiesta al citta- dino fiducia nelle sorti del Paese. Non si tratta di una disposizione da accertarsi in capo a singoli soggetti, bensì di un atteggiamento di col- lettiva partecipazione al sostegno morale della nazione, il quale, se- condo il legislatore del 1930, poteva essere frustrato dalla diffusione di notizie false, esagerate o tendenziose così da menomare la resisten- za della nazione di fronte al nemico. Il ‘sentimento nazionale’, secondo le parole della Corte costituzio- nale, è da intendersi come corrispondente «al modo di sentire della maggioranza della Nazione e contribuisce al senso di unità etnica e sociale dello Stato» 48. Anche in questo caso il pensiero giurispruden- ziale rifugge da interpretazioni emotivistiche e incentra la tutela pe- nale su un nucleo di valori asseritamente condivisi. La natura puramente ideologica di tale oggetto di tutela ne ha de- cretato l’incompatibilità con la libertà di manifestazione del pensiero. Va però evidenziato che, mentre nella prima parte della motivazione della sentenza n. 87/1966 la Corte descrive tale interesse in termini col- lettivistici, al momento di decretare l’illegittimità della norma incrimi- natrice la fisionomia dell’oggetto di tutela viene riproposta ponendo l’accento in chiave critica sulla componente soggettivo-emozionale: di- ce infatti la Corte che «è pur tuttavia soltanto un sentimento, che sor- gendo e sviluppandosi nell’intimo della coscienza di ciascuno, fa parte esclusivamente del mondo del pensiero e delle idealità». Facendo leva su tale carattere impalpabile 49 viene affermata l’ille- gittimità anche dell’art. 27250 nella parte in cui incrimina la propa- ganda per distruggere o deprimere il sentimento nazionale, salvando invece (fino alla formale abrogazione del 2006) l’incriminazione della propaganda per l’instaurazione violenta della dittatura, per la sop- pressione violenta di una classe sociale e per il sovvertimento violen- to degli ordinamenti economici o sociali costituiti nello Stato, rico- noscendo in tali norme una tutela del metodo democratico da forme di pensiero prodromiche ad azioni violente. Diversamente da altri ambiti in cui il richiamo a un sentire collet- 48 C. cost. n. 87/1966. 49 Lo sottolinea, ex plurimis, CAVALIERE, La discussione intorno alla punibilità del negazionismo, i principi di offensività e libera manifestazione del pensiero e la funzione della pena, in Riv. it. dir. proc. pen., 2/2016, p. 1009. 50 «Mero reato di opinione, sia pure in senso lato» secondo VASSALLI, Propa- ganda “sovversiva” e sentimento nazionale, in Giur. cost., 1966, II, p. 1100.   76 Tra sentimenti ed eguale rispetto tivo è stato riconvertito dagli interpreti in una prospettiva di tutela della persona, il sentimento nazionale non è riuscito a beneficiare di alcun maquillage ermeneutico, e, dissipatosi il manto della retorica di regime, è scomparso dai beni penalmente tutelati in quanto non in grado di sostenere il confronto con la libertà di espressione. Una vicenda similare ha caratterizzato la problematica disposi- zione dell’art. 415 c.p. (istigazione all’odio fra le classi sociali), che la Corte costituzionale ha dichiarato costituzionalmente illegittimo «nella parte in cui non specifica che tale istigazione deve essere at- tuata in modo pericoloso per la pubblica tranquillità». L’eccezione sollevata con riferimento al contrasto con l’art. 21 Cost. viene accolta dalla Corte motivando che la norma, poiché non indica come oggetto dell’istigazione un fatto criminoso specifico o un’attività diretta con- tro l’ordine pubblico o verso la disobbedienza alle leggi, ma sempli- cemente l’ingenerare un sentimento senza nel contempo richiedere che le modalità con le quali ciò si attui siano tali da costituire perico- lo all’ordine pubblico e alla pubblica tranquillità, «non esclude che essa possa colpire la semplice manifestazione ed incitamento alla persuasione della verità di una dottrina ed ideologia politica o filoso- fica della necessità di un contrasto e di una lotta fra portatori di op- posti interessi economici e sociali» 51. Si tratta di una piana applicazione di principi già evidenziati nella sentenza n. 87/1966 (v. supra), che culmina in questo caso in una pronuncia additiva la quale di fatto espunge dall’ordinamento l’incri- minazione dell’istigazione all’odio fra le classi sociali, riconoscendo la preminenza del diritto di libertà alla manifestazione di «teorie del- la necessità del contrasto e della lotta tra le classi sociali [...] che sor- gendo e sviluppandosi nell’intimo della coscienza e delle concezioni e convinzioni politiche, sociali e filosofiche dell’individuo appartengo- no al mondo del pensiero e dell’ideologia» 52. 2.1.5. Il sentimento per gli animali Un ambito del tutto peculiare è costituito dalle norme codicistiche a tutela del cosiddetto ‘sentimento per gli animali’. Nel 2004 è stata introdotta nel codice penale la disciplina che sanziona, in forma di delitto, le condotte di uccisione e maltrattamento di animali; stando alle parole del legislatore, l’interesse tutelato sarebbe il sentimento 51 C. cost., n. 108/1974. 52 C. cost., n. 108/1974.   Dimensione codicistica e funzione discorsiva della formula 77 per gli animali, ossia l’umana compassione che scaturisce dal rappor- to con la sofferenza dell’animale. L’evidenza testuale suggerisce una connessione con i problemi og- getto della presente indagine, ma l’inquadramento dell’interesse pro- tetto in ossequio al verbo legislativo appare una lettura superficiale. Le tesi dottrinali nel panorama italiano sono espressione di diversi orientamenti53: il primo tendente a dare rilievo alla definizione del legislatore 54; il secondo proiettato all’affermazione di una soggettività giuridica dell’animale 55; un terzo orientamento ‘di compromesso’ 56, e infine una quarta soluzione che appare protesa al riconoscimento di una tutela diretta dell’essere non umano, senza scivolare in proble- matiche (soprattutto da un punto di vista filosofico) ‘soggettivizza- zioni’ dell’animale, ma rimarcando come la tutela diretta dell’animale non umano sia da contestualizzarsi all’interno di un quadro di inte- ressi e controinteressi umani 57. Non potendo approfondire nel corso della presente indagine l’amplissima questione, ci limitiamo ad alcune osservazioni finalizza- te a definire il senso e la peculiarità dell’impianto normativo della tu- tela del sentimento per gli animali in rapporto agli altri ‘sentimenti- valori’ presenti nel codice penale. In primo luogo la tipicità delle fattispecie di cui agli art. 544 bis e 53 Secondo la ricostruzione di FASANI, L’animale come bene giuridico, in Riv. it. dir. proc. pen., 2/2017, pp. 713 ss. 54 Così GATTA, Art. 544 bis c.p., in AA.VV., diretto da Dolcini-Gatta, Codice pe- nale commentato, cit., pp. 2630 ss.; PISTORELLI, Così il legislatore traduce i nuovi sentimenti e fa un passo avanti verso la tutela diretta, in Guida dir., 2004, n. 33, p. 19. Per una sintesi della problematica, v. VALASTRO, La tutela giuridica degli ani- mali, fra nuove sensibilità e vecchie insidie, in Annali online di Ferrara, 1/2007, pp. 119 ss. Va evidenziata la posizione di MANTOVANI F., Diritto penale, IX ed., Pado- va, 2015, p. 188, il quale individua la ratio della tutela penale degli animali in una prospettiva promozionale della stessa dignità umana, in quanto «la riduzione dell’immensa crudeltà verso gli animali [...] attenuando la crudeltà complessiva del mondo, se non rende l’animale più uomo, rende l’uomo meno animale e mi- gliore la Terra». 55 POCAR, Gli animali non umani. Per una sociologia dei diritti, Roma-Bari, 2003, pp. 9 ss.; RESCIGNO, I diritti degli animali. Da res a soggetti, Torino, 2005, pp. 9 ss. Testo di riferimento per l’introduzione alle teorie animaliste è SINGER, Libe- razione animale, tr. it., Milano, 2015. 56 MAZZUCATO, Bene giuridico e “questione sentimento” nella tutela penale della relazione uomo-animale. Ridisegnare i confini, ripensare le sanzioni, in AA.VV., a cura di Castignone-Lombardi Vallauri, Trattato di biodiritto-La questione animale, Milano, 2012, pp. 697 ss.  57 FASANI, L’animale come bene giuridico, cit., pp. 742 ss.  78 Tra sentimenti ed eguale rispetto ss.58 non lascia spazio a valutazioni in termini emozionali; al senti- mento umano di rispetto per gli animali può essere riconosciuto un ruolo propulsivo nei confronti della scelta politico-criminale, ma per ricondurre l’oggetto della tutela ad una sorta di pietas verso gli esseri non umani, dovrebbe essere necessario richiedere nelle condotte quantomeno un grado di pubblicità tale da riflettersi sul sentire col- lettivo. Ciò che fonda la tipicità degli artt. 544 bis e 544 ter è aver uc- ciso con crudeltà un animale o averlo maltrattato con carichi di lavo- ro insopportabili: azioni che possono senz’altro indurre sentimenti negativi nella gran parte degli esseri umani, ma che rilevano norma- tivamente per il semplice fatto di essere state realizzate, e dunque quale offesa ad animali non umani 59. 58 Per una panoramica v. VALASTRO, La tutela penale degli animali: problemi e prospettive, in AA.VV., a cura di Castignone-Lombardi Vallauri, Trattato di biodi- ritto – La questione animale, cit., pp. 649 ss. 59 Sul tema, prima della riforma del 2004, vedi i saggi contenuti in AA.VV., a cu- ra di Mannucci-Tallacchini, Per un codice degli animali, Milano, 2001. Sottolinea FIANDACA, Prospettive di maggiore tutela penale degli animali, in AA.VV., a cura di Mannucci-Tallacchini, Per un codice degli animali, cit., pp. 86 ss., che, al di là della possibile disputa circa un’ipotetica soggettività giuridica animale, per legittimare una tutela penalistica possa essere sufficiente «parlare di “interessi animali” degni di riconoscimento e tutela: interessi considerati in una dimensione oggettiva, a pre- scindere dal problema di una loro riferibilità all’animale come soggetto giuridico», ritenendo plausibile che «gli animali [siano] portatori di due interessi fondamentali: l’interesse alla sopravvivenza e l’interesse alla minore sofferenza possibile». Il di- stacco da un’ottica antropocentrica, con implicita emancipazione da una ratio di tutela incentrata sul sentimento umano per gli animali, appare peraltro ravvisabile anche nella giurisprudenza, sia di merito che di legittimità, relativa all’art. 727, il quale, prima dell’introduzione del titolo IX bis, incriminava le condotte di maltrat- tamento di animali: v., in particolare, Cass. pen., sez. III, 14/03/1990, in Cass. pen., 1992, p. 951, la quale afferma che «in via di principio [...] l’art. 727, in considerazio- ne del tenore letterale della norma (maltrattamento) e del contenuto di essa (ove si parla non solo di sevizie ma anche di sofferenze e di affaticamento) tutela gli ani- mali in quanto autonomi esseri viventi, dotati di sensibilità psico-fisica e capaci di reagire agli stimoli del dolore, ove essi superino la soglia di normale tollerabilità. La tutela è, dunque, rivolta agli animali in considerazione della loro natura»; in senso conforme, v. Cass. pen., sez. III, 16/10/2003, n. 46291, in Dir. giust., 2003, pp. 46 ss.; Cass. pen., sez. III, 22/01/2002, n. 8547, in Nuovo dir., 2002, pp. 1071 ss., secondo cui «La “ratio” della disposizione di cui all’art. 727 c.p. è quella di voler perseguire condotte caratterizzate da un’apprezzabile componente di lesività dell’integrità fisi- ca e-o psichica dello animale». Più contraddittoria appare invece la giurisprudenza di legittimità dopo la novella del 2004: si veda, ad esempio, Cass. pen., sez. III, 24/10/2007, n. 44822, ove si afferma che «La norma è volta a proibire comporta- menti arrecanti sofferenze e tormenti agli animali, nel rispetto del principio di evi- tare all’animale, anche quando questo debba essere sacrificato per un ragionevole motivo, inutili crudeltà ed ingiustificate sofferenze», rimarcando tuttavia che «in   Dimensione codicistica e funzione discorsiva della formula 79 L’identificazione dell’oggetto di tutela in un (non meglio identifi- cato) sentire comune costituisce una lettura pregna di risvolti pro- blematici60, e sono in questo senso condivisibili interpretazioni più ragionevoli che suggeriscono di configurare l’interesse tutelato in termini di relazionalità e ‘interspecificità’: «andare oltre la dicotomia radicale e guardare nel mezzo [...] cioè nel rapporto tra l’uomo e l’animale; lì si rinviene il bene giuridico davvero tutelabile dal diritto penale, nel quadro delle garanzie costituzionali. [...] L’animale non riempie, non esaurisce, l’orizzonte di tutela (penale). L’uomo (che prova qualcosa davanti all’animale e che invoca per quest’ultimo un dignitoso trattamento) non scompare dalla scena» 61. Nel complesso, i problemi connessi alla tutela del sentimento per gli animali non sembrano propriamente accomunabili a quelli ri- scontrati in relazione agli altri ‘sentimenti’ tutelati dalle norme pena- li. Una differenza di fondo è che le disposizioni a tutela della religio- ne o del pudore chiamano in gioco un bilanciamento fra interessi in- terno al confronto fra esseri umani e basato su entità immateriali come i valori normativo-ideali; dall’altra parte, per quanto il ricono- scimento di una soggettività giuridica all’animale sia un problema aperto, in sede di ricostruzione dell’oggetto di tutela appare preferibi- le tenere conto della soggettività animale senza sublimarla né in un impalpabile sentire dell’uomo né in un mero contenuto ideale, ma piuttosto come problema che sollecita un approfondito studio delle condizioni di compatibilità fra esigenze umane e rispetto della vita di esseri non umani. Per tali ragioni, il tema del sentimento degli animali pone que- stioni non inquadrabili nella tutela dei cosiddetti ‘sentimenti-valori’, né appare accostabile al tema del disagio emotivo, rivelandosi piutto- sto la proiezione di un problema antico e ancora attuale, concernente gli equilibri di vita e sopravvivenza fra uomo ed ecosistema 62. tali disposizioni l’oggetto di tutela è il sentimento di pietà e di compassione che l’uo- mo prova verso gli animali e che viene offeso quando un animale subisce crudeltà e ingiustificate sofferenze. Scopo dell’incriminazione è quindi di impedire manifesta- zioni di violenza che possono divenire scuola di insensibilità delle altrui sofferenze». 60 Ben evidenziati da MAZZUCATO, Bene giuridico e “questione sentimento”, cit., pp. 697 ss. 61 MAZZUCATO, Bene giuridico e questione “sentimento”, cit., p. 703. 62 Un’interessante lettura sulla complessità del rapporto fra uomo e animali non umani è il libro di HERZOG, Amati, odiati, mangiati. Perché è così difficile agire bene con gli animali, tr. it., Torino, 2014. Per un inquadramento dell’impianto di tutela penale degli animali nel più ampio contesto dei reati contro l’ambiente e   80 Tra sentimenti ed eguale rispetto 2.1.6. Il comune sentimento della morale Passando all’ambito extracodicistico, le disposizioni normative in cui è più evidente ed univoco il richiamo al sentimento quale oggetto di tutela sono gli artt. 14 e 15 della legge n. 47 del 1948: l’art. 14 stabi- lisce la rilevanza penale, ai sensi dell’art. 528 c.p., di pubblicazioni destinate ai fanciulli e agli adolescenti quando, per la sensibilità e l’impressionabilità ad essi proprie, siano idonee a offendere il loro sentimento morale o a costituire per essi incitamento alla corruzione, al delitto, al suicidio; l’art. 15 si rivolge parallelamente alla tutela di soggetti adulti, vietando la pubblicazione di stampati i quali descri- vano o illustrino, con particolari impressionanti o raccapriccianti, avvenimenti realmente verificatisi o anche soltanto immaginari, in modo da poter turbare il ‘comune sentimento della morale’ 63. Punto centrale delle fattispecie, che ne determina (fortunatamente) anche le difficoltà applicative, è l’esigenza di accertare l’idoneità delle condotte alla causazione di eventi determinati («favorire il disfrenarsi di istinti di violenza, diffondersi di suicidi o delitti»). Al fianco di tali eventi si pone l’offesa o il turbamento al sentimento morale, formula tanto eloquente quanto indeterminata: «fondata sopra un presupposto empirico e nebuloso di morale corrente, essa reca con sé tutti i pericoli che le norme ispirate a concetti vaghi, a intuizioni, a sentimenti porta- no sempre nella loro applicazione concreta» 64. L’accostamento esplicito fra il sentire e la morale trova probabil- mente la sua ragione nell’intento di introdurre una disposizione il più possibile assonante con l’art. 529 c.p. (comune sentimento del pudo- re), rielaborando in termini più estensivi i divieti stabiliti in tema di buon costume sessuale65; una connessione che si motiva anche con l’obiettivo di trovare un aggancio costituzionale esplicito a un inte- resse che deve essere bilanciato con la libertà di espressione 66. l’ecosistema v. RUGA RIVA, Diritto penale dell’ambiente, II ed., Torino, 2016, pp. 293 ss. Per una prospettiva socio-criminologica sul rapporto uomo-ambiente v. NATA- LI, Green Criminology. Prospettive emergenti sui crimini ambientali, Milano, 2015 (in particolare v. pp. 252 ss.). 63 Sul tema, per tutti, NUVOLONE, Il diritto penale della stampa, Padova, 1971, pp. 232 ss.; ID., I limiti della libertà di stampa nell’art. 15 della legge 8 febbraio 1948 n. 47, in Arch. pen., 1952, II, pp. 555 ss. 64 NUVOLONE, Il diritto penale della stampa, cit., p. 234. 65 Parla di ‘triplice oggetto del reato’ (sentimento della morale, ordine familia- re, ordine pubblico) NUVOLONE, I limiti della libertà di stampa, cit., p. 551. 66 La connessione fra sentire, morale e buon costume emerge anche in C. cost., n. 9/1965, la quale ha ritenuto non fondate le questioni di legittimità costituzionale sol-   Dimensione codicistica e funzione discorsiva della formula 81 Le sporadiche applicazioni confermano la centralità a livello teo- rico del nesso fra turbamento emotivo e offesa alla morale: appare significativa ad esempio una pronuncia della Corte di Appello di Ro- ma nella quale si nega la sussistenza della fattispecie in relazione alle immagini di una donna col cordone ombelicale attaccato, sulla base della motivazione che simili immagini non potrebbero provocare tur- bamento o orrore, e pertanto non offendono la morale 67. Il più eloquente contributo alla definizione dell’interesse protetto dall’art. 15 è la sentenza n. 293/2000, con la quale la Corte costituzio- nale ha ritenuto inammissibile l’eccezione di incostituzionalità della norma per contrasto con l’art. 21 Cost.: «L’art. 15 della legge sulla stampa del 1948, esteso anche al sistema ra- diotelevisivo pubblico e privato dall’art. 30, comma 2, della legge 6 ago- sto 1990, n. 223, non intende andare al di là del tenore letterale della formula quando vieta gli stampati idonei a “turbare il comune senti- mento della morale”. Vale a dire, non soltanto ciò che è comune alle di- verse morali del nostro tempo, ma anche alla pluralità delle concezioni etiche che convivono nella società contemporanea. Tale contenuto mi- nimo altro non è se non il rispetto della persona umana, valore che anima l’art. 2 della Costituzione, alla luce del quale va letta la previsione incriminatrice denunciata. [...] La descrizione dell’elemento materiale del fatto-reato, indubbiamente caratterizzato dal riferimento a concetti elastici, trova nella tutela della dignità umana il suo limite, sì che appa- re escluso il pericolo di arbitrarie dilatazioni della fattispecie, risultando quindi infondate le censure di genericità e indeterminatezza» 68. Come è stato osservato in dottrina, tale sentenza ha compiuto un’operazione di rivisitazione/trapianto, finendo per concepire come vasi comunicanti il ‘comune sentimento del pudore’ e il ‘comune sen- timento della morale’ attraverso il passepartout della dignità uma- levate in relazione all’art. 553 c.p. (incitamento a pratiche contro la procreazione), osservando in motivazione che «[n]on diversamente il buon costume risulta da un insieme di precetti che impongono un determinato comportamento nella vita sociale di relazione, la inosservanza dei quali comporta in particolare la violazione del pu- dore sessuale, sia fuori sia soprattutto nell’ambito della famiglia, della dignità perso- nale che con esso si congiunge, e del sentimento morale dei giovani, ed apre la via al contrario del buon costume, al mal costume e, come è stato anche detto, può com- portare la perversione dei costumi, il prevalere, cioè, di regole e di comportamenti contrari ed opposti». 67 App. Roma, 13 maggio 1958, in Arch. pen., 1959, III, p. 166. 68 C. cost., n. 293/2000. Tali conclusioni sono state confermate in una succes- siva ordinanza che ha dichiarato la manifesta infondatezza della medesima ecce- zione di costituzionalità, v. C. cost., n. 92/2002.   82 Tra sentimenti ed eguale rispetto na69. La chiosa della Corte, quando esclude censure di genericità e indeterminatezza, è alquanto frettolosa, per non dire superficiale, e fonda il discorso su un valore sì fondamentale, ma tutt’altro che defi- nito nei risvolti applicativi 70. Merita attenzione la triade concettuale ‘sentimento-morale-di- gnità’: l’evocazione del sentimento è disgiunta da profili di reattività psichica, e dunque dall’aggancio a una dimensione individuale, po- nendosi come sinonimo di minimum etico. Il delitto di cui all’art. 15 della legge sulla stampa, pur essendo so- stanzialmente inapplicato, riveste a nostro avviso importanza centrale, dal punto di vista teorico, nel ‘microsistema’ delle disposizioni a tutela di ‘sentimenti’; ne rivela i tratti più problematici, poiché attribuisce a stati affettivi come disgusto e orrore il ruolo di parametro etico per la valutazione di cosa possa considerarsi moralmente adeguato, ricono- scendo dunque a tali emozioni un ruolo cognitivo-valutativo che oggi sappiamo essere tutt’altro che attendibile (vedi infra, cap. IV). 2.2. Lessico delle norme e piano fenomenico: sentimenti o emo- zioni? Un passaggio concettualmente importante consiste nel decodifica- re il richiamo giuridico a emozioni e sentimenti in rapporto all’al- ternativa fra concezioni meccanicistiche e concezioni valutative (v. supra, cap. II). A nostro avviso la chiave di lettura più funzionale all’analisi delle norme che l’ordinamento italiano pone a tutela di ‘sentimenti’ è la concezione valutativa: gli interessi denominati dal legislatore ‘senti- menti’ acquistano rilevanza normativa in virtù di una peculiare tra- iettoria dell’intenzionalità dello stato affettivo 71. Si tratta di un modo di concepire il sentimento del tutto simile al significato che Joel Feinberg propone quando analizza il cosiddetto ‘appello ai sentimen- 69 VISCONTI C., Aspetti penalistici, cit., p. 14. 70 Cfr. TESAURO, Riflessioni in tema di dignità umana, bilanciamento e propa- ganda razzista, Torino, 2013, pp. 14 s. 71 Intendiamo il concetto di intenzionalità secondo l’accezione proposta da John Searle, ossia «quella proprietà di molti stati ed eventi mentali tramite la quale essi sono direzionati verso, o sono relativi a oggetti e stati di cose del mon- do», SEARLE, Sull’intenzionalità. Un saggio di filosofia della conoscenza, tr. it., Mi- lano, 1985, p. 11. In termini generali, sul concetto di intenzionalità v. GALLAGHER- ZAHAVI, La mente fenomenologica, cit., pp. 166 ss.   Dimensione codicistica e funzione discorsiva della formula 83 ti’ nelle questioni etiche: il filosofo americano ritiene infatti che ciò a cui si fa riferimento non sia un mero stato emotivo, ma la peculiare risposta soggettiva che gli individui possono provare nel rapporto con determinati oggetti 72. È bene distinguere tra l’oggetto del sentire e la sindrome affettiva, quali elementi costitutivi delle entità psico-sociali che il diritto pren- de in considerazione. L’uso giuridico, in accordo col senso comune, adopera la categoria del sentimento in un modo che tende a fondere il profilo soggettivo dell’affettività con la sua proiezione esterna e dunque con l’oggetto del sentire 73. La distinzione fra sindrome affet- tiva e oggetto del sentire permette di tematizzare in modo separato i profili pertinenti da un lato alla selezione degli ‘oggetti emotigeni’, e dall’altra alla tipologia di stati affettivi che potrebbero eventualmente venire in gioco. L’oggetto del sentire è ciò che definisce il substrato materiale o ideologico dell’offesa: ad esempio si parla di sentimento religioso per dare rilevanza non a un astratto sentire ma quel genere di esperienza emotiva che ha a che fare con la fede religiosa. Stesso discorso per altri interessi definiti ‘sentimenti’: il sentimento del pudore come di- sposizione a provare un certo tipo di reazioni soggettive in rapporto a manifestazioni della sessualità; oppure il sentimento nazionale quale 72 FEINBERG, Sentiment and sentimentality, cit., pp. 21 ss.: «Unlike some emo- tions, sentiments are not mere objectless perturbations with subtle but neutral affective colorings. They too have an essential polarity to them (pleasant-unpleasant, friendly-unfriendly, postive-negative), though unlike attitudes, the positive or negative character of sentiments is not simply a “pro” or “con,” “for” or “against” posture [...] Some of the terms we apply to the objects of positive or negative sen- timents are themselves definable not in terms of the inherent properties of those objects but rather in terms of the sentiments they are thought naturally or properly to awaken». 73 È significativo quanto osservato in ambito psicologico: «[i]n genere, le per- sone dichiarano sentimenti patriottici più o meno intensi in momenti diversi del- la loro vita; come sono tali sentimenti? L’ovvia risposta a tale domanda è che que- sti sentimenti non hanno alcun senso di esistere, per lo meno non al di fuori della tendenza del singolo a provare altri tipi di sentimenti (orgoglio, dolore, vergo- gna), nei quali la sua vita affettiva appare in linea con sorti della nazione. In tal senso, da un patriota ci si aspetta che provi gioia e orgoglio quando la sua nazio- ne vince, dolore o compassione quando essa è in crisi, rabbia se è ingiustamente diffamata, e disperazione nella sconfitta umiliante. Pertanto, osservando atten- tamente la vita interiore e le abitudini di un patriota, non vi si troverà mai una traccia di quel sentimento particolare chiamato “patriottismo” al di fuori di quan- to scritto sopra», v. ROYZMAN-MCCAULEY-ROZIN, Da Platone a Putnam: quattro mo- di di pensare all’odio, in AA.VV., a cura di Sternberg, Psicologia dell’odio. Cono- scerlo per superarlo, tr. it., 2007, Gardolo, p. 11.   84 Tra sentimenti ed eguale rispetto forma di partecipazione affettiva, ‘patriottica’, alle vicende della pro- pria nazione. Veniamo ad analizzare il versante della sindrome affettiva: qual è il fenomeno che appare più aderente alle situazioni descritte nel con- testo codicistico? Una importante differenza fra emozione e sentimen- to è identificabile nella consistenza e nella durata: l’emozione, secon- do quanto abbiamo precedentemente osservato in accordo con le ela- borazioni delle diverse branche dei saperi lato sensu psicologici, rap- presenta una componente dinamica del sentire, ossia uno stato men- tale di breve durata, caratterizzato da una predominante componente reattiva; il sentimento è uno stato più durevole e radicato (vedi supra, cap. II). Parlare di una tutela di emozioni in senso stretto è improprio74; ma appare non del tutto corretta con anche un’eventuale associazio- ne degli oggetti tutelati dal codice a stati psichici più duraturi. L’accezione che in relazione ai ‘sentimenti-valori’ consente di in- staurare una connessione ‘non irrealistica’ con la dimensione feno- menica è rappresentata a nostro avviso dal concetto di ‘disposizione individuale del sentire’: non un accostamento a emozioni in senso stretto e neanche a stati duraturi in quanto tali, ma piuttosto ad at- teggiamenti che delineano l’orientamento affettivo e assiologico della persona in conseguenza della maggiore o minore partecipazione emotiva nel rapporto con determinati oggetti e situazioni. Entità co- me il sentimento religioso, il sentimento del pudore et similia, ap- paiono funzionali a richiamare disposizioni soggettive a provare emo- zioni 75. 2.3. Atti persecutori: sofferenza psichica e libertà di autodetermi- nazione Parlando di sentimenti come ‘disposizioni del sentire’ si potrebbe intendere il problema di tutela anche come protezione delle condi- zioni di formazione del sentire, e dunque come assenza di forme di coartazione psichica. In questo modo si finirebbe però per identifica- re nella libertà morale l’interesse di fondo, accomunando in modo improprio ambiti di intervento che restano ben distinti nel codice 74 Cfr. FIANDACA, Sul ruolo delle emozioni e dei sentimenti, cit., p. 228. 75 Si veda anche l’impostazione di FEINBERG, Sentiment and Sentimentality, cit., pp. 21 ss.   Dimensione codicistica e funzione discorsiva della formula 85 penale e che la dottrina ha contribuito anche di recente a definire nelle rispettive sfere di autonomia 76. Ci sembra più adeguato tenere in evidenza la distinzione concet- tuale e collocare la problematica dei ‘sentimenti-valori’ e delle dispo- sizioni del sentire a uno stadio nel quale la libertà morale, intesa co- me «libertà di conservare la propria personalità psichica, [...] di ra- gionare con la propria testa, [...] di formarsi una propria fede religio- sa politica e di conservarla come di mutarla [...]»77, sia da conside- rarsi elemento acquisito, e dunque come precondizione delle situa- zioni in cui possono eventualmente crearsi conflitti relativi al piano dei ‘sentimenti-valori’. Il tema della tutela da forme di turbamento emotivo e di coarta- zione psichica viene in gioco in relazione a un’altra fattispecie del codice italiano, anch’essa formulata attraverso il richiamo a stati af- fettivi, ossia il delitto di ‘atti persecutori’. La condotta tipica consiste nel porre in essere azioni di minaccia o molestia tali da ingenerare un perdurante e grave stato d’ansia e di paura, ossia stati psichici caratterizzati da un tono edonico negativo e dunque in grado di alterare l’equilibrio emotivo dell’individuo e la sua tranquillità 78. Si può parlare di tutela di sentimenti in un senso che contribuisce a rimarcare che l’interesse protetto ha a che fare in primo luogo con la dimensione affettiva del singolo; in questo senso si è ben sottoli- neato che il delitto di atti persecutori rappresenta l’avvio di un trend politico criminale «attento a consolidare la finora striminzita tutela codicistica dei sentimenti di stampo individuale, in luogo della classi- ca e per certi aspetti controversa tutela dei sentimenti di tipo colletti- vo [...] virando verso una maggiore concretizzazione personologica del bene giuridico» 79. La rilevanza giuridica dello stato affettivo non è però qualificata dall’oggetto del sentire, ma piuttosto dall’impatto 76 NISCO, La tutela penale dell’integrità psichica, cit., pp. 66, 70, 83 ss., 151 ss.; VITARELLI, Manipolazione psicologica e diritto penale, Roma, 2013, pp. 121 s. Quest’ul- tima si sofferma in particolare sulle interferenze fra tutela della libertà psichica e della libertà di manifestazione del pensiero osservando che il semplice utilizzo della parola, in assenza di violenza e inganno, resta comunque resistibile e dun- que non può considerarsi come forma di compressione della libertà morale. 77 È la cristallina definizione di VASSALLI, Il diritto alla libertà morale, in AA.VV., Studi giuridici in memoria di Filippo Vassalli, vol. II, Roma, 1960, p. 1675. 78 Ex plurimis, MAUGERI, Lo stalking, cit., pp. 104 ss.; COCO, La tutela della liber- tà individuale nel nuovo sistema ‘anti-stalking’, Napoli, 2012, pp. 119 ss.  79 CAPUTO, Eventi e sentimenti, cit., p. 1388 (nota 38).  86 Tra sentimenti ed eguale rispetto sull’equilibrio psico-fisico del soggetto. Non sono in gioco ‘sentimen- ti-valori’: nella fattispecie di atti persecutori il bene-sentimento as- sume una connotazione più psicologica che simbolico-valoriale. Il richiamo a stati affettivi nel delitto di stalking ha una funzione rilevante sul piano della tipicità: gli eventi emotivi descritti nella fat- tispecie devono essere oggetto di prova. L’alternativa di fondo è fra una concezione patologica, secondo la quale è necessario un accer- tamento medico-legale della sussistenza (quantomeno nel caso dello stato d’ansia) di disturbi diagnosticabili secondo un paradigma me- dico-psicologico80, e un orientamento differente secondo il quale è sufficiente un disagio accertabile in autonomia dal giudice 81. Appare comunque riduttivo appiattire il disvalore dello stalking sullo stimolo di sensazioni negative identificate attraverso standard cognitivi basati sul senso comune 82. La tipicità penale è imperniata su un’interazione di tipo psicologico e sulle conseguenti reazioni in- dotte nella vittima, e gli eventi psichici assumono rilevanza in un’ot- tica strumentale all’evento finale, sostanziandosi «in percorsi motiva- zionali diretti all’assunzione di una decisione da parte del soggetto passivo» 83. Nel delitto di atti persecutori il fatto emozionale assume rilievo quale causa potenzialmente condizionante il comportamento e la vita di un soggetto. Non dovrebbe essere sufficiente un mero stato edoni- co negativo, ma si dovrebbe, a nostro avviso, verificare la sussistenza di stimoli emotivi tali da produrre alterazioni della funzionalità di scopo nella complessiva economia di azione dell’individuo: forme di turbamento psicologico che la dottrina penalistica ha collocato nella 80 BRICCHETTI-PISTORELLI, Entra nel codice la molestia reiterata, in Guida dir., 10/2009, pp. 58 s.; cfr. BARBAZZA-GAZZETTA, Il nuovo reato di atti persecutori, in Al- talex, p. 3. 81 VALSECCHI, Il delitto di atti persecutori (il cd. stalking), in Riv. it. dir. proc. pen., 3/2009, p. 1389. A favore di una concezione intermedia si pongono FIANDA- CA-MUSCO, Diritto penale. Parte speciale, vol. II, tomo I, IV ed., Bologna, 2013, p. 231; CAPUTO, Eventi e sentimenti, cit., p. 1406. In giurisprudenza è discusso se debba trattarsi di uno stato tale da integrare gli estremi di una malattia mentale; per ora sembra prevalere l’orientamento che non richiede l’accertamento di uno stato patologico, ritenendo sufficiente che gli atti ritenuti persecutori «abbiano un effetto destabilizzante della serenità e dell’equilibrio psicologico della vittima», così Cass. pen., sez. V, 10/01/2011, n. 16864; cfr. Cass. pen., sez. V, 01/12/2010, n. 8832; Cass. pen., sez. V, 11/11/2015, n. 45184. 82 In questo senso la condivisibile posizione di NISCO, La tutela penale dell’inte- grità psichica, cit., pp. 238 ss.  83 Così li definisce efficacemente CAPUTO, Eventi e sentimenti, cit., p. 1400.  Dimensione codicistica e funzione discorsiva della formula 87 categoria della ‘sofferenza psichica’, corrispondenti a «un’alterazione della mente nella sua consistenza, né più né meno di quanto possa accadere ad una macchina danneggiabile; ed un’alterazione del fun- zionamento di questa ‘macchina’ come entità diretta ad uno scopo, secondo una prospettiva nella quale la sofferenza emerge come misu- ra eccessiva di frustrazione di tale scopo, a prescindere dal danneg- giamento della macchina» 84. 3. La definizione di ‘sentimento’ come connotazione simbolica negativa nel discorso penalistico Attraverso un excursus sulle norme di diritto positivo abbiamo cercato di dare una dimensione al versante descrittivo della formula ‘tutela penale di sentimenti’. Passiamo ora a considerare il profilo che abbiamo definito ‘connotativo’ e che attiene alla dimensione teoreti- co-speculativa. Nel discorso penalistico è oggi frequente l’uso della parola ‘senti- mento’ per definire in termini critici oggetti di tutela la cui fisiono- mia appare difficilmente determinabile, esposti al rischio di interpre- tazioni soggettivistiche e suscettibili di incentivare problematiche espansioni dell’intervento penale; il lessico dei sentimenti non emer- ge in questo caso da norme, ma dai discorsi dei giuristi. L’interrogativo concernente la tutelabilità di sentimenti per mezzo del diritto penale ha tradizionalmente suscitato la diffidenza della dot- trina penalistica, non solo nel panorama italiano ma anche nel conte- sto europeo-continentale85: più in generale, il pensiero penale che 84 NISCO, La tutela penale dell’integrità psichica, cit., p. 68. 85 «Ampio consenso sussiste [...] circa il fatto che l’utilizzo di norme penali è il- legittimo quando si tratti di tutelare sentimenti o rappresentazioni morali o di valore», v. WOHLERS, Le fattispecie penali come strumento per il mantenimento di orientamenti sociali di carattere assiologico?, cit., pp. 127 s. Nella dottrina tedesca, il richiamo a sentimenti è presente nello storico saggio di BIRNBAUM, Über das Erfoderniß einer Rechtsverletzung zum Begriffe des Verbrechens, mit besonderer Rücksicht auf den Begriff der Ehrenkränkung, in Archiv des Criminalrechts, Neue Folge, 1834, pp. 189 s. Vi è poi l’analisi di MISCH, Der Strafrechtliche Schutz der Gefühle, Frankfurt am Main-Tokyo, 1911 (ristampa del 1977), pp. 41 ss. Le opere successive mantengono il focus sul problema della configurabilità come bene giu- ridico (Rechtsgut) soffermandosi su un’analisi che privilegia l’aspetto dogmatico piuttosto che la dimensione di politica del diritto; cfr. VOLK, Gefühlte Rech- tsgüter?, in FS für Roxin zum 80. Geburstag, Band 1, Berlin-New York, 2011, pp. 215 ss.; SEELMAN, Verhaltensdelikte: Kulturschutz durch Recht?, in FS für H. Jung,   88 Tra sentimenti ed eguale rispetto identifichi la propria guida assiologica nei principi liberali ha da sem- pre un rapporto problematico con le norme a tutela di sentimenti 86. Le motivazioni non si limitano a questioni di tassatività e deter- minatezza delle fattispecie, ma hanno a che fare con ragioni di politi- ca del diritto: dietro gli oggetti di tutela definiti ‘sentimenti’ i legisla- tori hanno di fatto apprestato forme di presidio a valori, ossia a con- cezioni della vita buona, o della morale sessuale, o in generale a con- cezioni normativo-ideali. Le norme a tutela di sentimenti hanno dunque un altissimo coefficiente di pregnanza etica e riflettono at- teggiamenti valoriali di fondo la cui tutela per mezzo del diritto pena- le può rappresentare un fattore di alterazione degli equilibri fra mag- gioranze e minoranze in un contesto pluralista 87. Non deve dunque sorprendere il fatto che il problema della tu- tela di sentimenti rappresenti un capitolo importante nel discorso sulla legittimazione delle norme penali, per quanto spesso non venga richiamato attraverso la formula che qui stiamo analizzan- do, ma si trovi inserito all’interno di altri macrotemi; ad esempio nel discorso concernente i rapporti fra diritto penale e morale 88 o Baden-Baden, 2007, pp. 893 ss.; più diffusamente HÖRNLE, Grob anstößiges Verhalten. Strafrechtlicher Schutz von Moral, Gefühlen und Tabus, Frankfurt, 2005. Nella dottrina spagnola v. ALONSO ALAMO, Sentimientos y derecho penal, cit., pp. 64 ss.; GIMBERNAT ORDEIG, Presentaciòn, in AA.VV., a cargo de Alcàcer Guirao-Lorenzo- Ortiz de Urbina Gimeno, La teorìa del bien jurìdico. Fundamento de legitimaciòn del Derecho penal o juego de abalarios dogmàtico?, Madrid-Barcelona, 2007, pp. 11 ss. 86 Cfr. HÖRNLE, La protecciòn de sentimientos en el StGb, in AA.VV., a cargo de Alcàcer Guirao-Lorenzo-Ortiz de Urbina Gimeno, La teorìa del bien jurìdico. Funda- mento de legitimaciòn del Derecho penal o juego de abalarios dogmàtico?, cit., p. 383. 87 Cfr. TESAURO, La propaganda razzista tra tutela della dignità umana e danno ad altri, in Riv. it. dir. proc. pen., 2/2016, p. 972. 88 Il richiamo a sentimenti ed emozioni intrattiene un legame particolarmente stretto con i problemi relativi al rapporto tra diritto penale e morale; nella pro- spettiva liberale l’incriminazione di condotte ritenute contrarie a dettami morali o a tabù in assenza di veri e propri danni viene motivata, in termini critici, quale violazione di un sentire. Se da un lato le incriminazioni, o le ipotesi di incrimina- zione, di violazioni morali vengono definite criticamente come offese a sentimen- ti, non bisogna tuttavia inferire frettolosamente la veridicità dell’eventuale per- corso logico inverso, ossia che anche tutte le ipotesi di tutela di un particolare sentimento costituiscano delle proiezioni del più ampio problema della punizione della mera immoralità: sarebbe infatti una conclusione che pecca di genericità e non consentirebbe di riservare la dovuta attenzione ai diversi problemi di tutela, anche non meramente ‘moralistici’, che potrebbero ragionevolmente emergere dietro l’evocazione di un sentimento. Sul tema della punizione dell’immoralità, in una prospettiva che mette in dialogo i criteri di legittimazione di matrice euro- peo-continentale e anglo-americana, v. FIANDACA, Punire la semplice immoralità?   Dimensione codicistica e funzione discorsiva della formula 89 in relazione al problema del paternalismo penale 89. Nella dottrina italiana le perplessità di fronte a istanze di tutela caratterizzate da una componente emozionale sono inizialmente formulate in contesti di analisi incentrati su temi di diritto positivo o di teoria generale del reato, e mantengono un angolo visuale definibi- le come ‘endopenalistico’, se non proprio ‘endocodicistico’. Risulta particolarmente significativo il richiamo che viene fatto al sentimento in un autorevole studio sul bene giuridico 90: nell’esporre Un vecchio interrogativo che tende a riproporsi, in AA.VV., a cura di Cadoppi, Lai- cità, valori, e diritto penale. The Moral Limits of The Criminal Law. In ricordo di Joel Feinberg, Milano, 2010, pp. 207 ss.; DE MAGLIE, Punire le condotte immorali?, in Riv. it. dir. proc. pen., 2/2016, pp. 938 ss. 89 CADOPPI, Paternalismo e diritto penale: cenni introduttivi, in Criminalia, 2011, pp. 223 ss.; ID., Liberalismo, paternalismo e diritto penale, in AA.VV., a cura di Fian- daca-Francolini, Sulla legittimazione del diritto penale, cit., pp. 83 ss.; CANESTRARI- FAENZA, Paternalismo penale e libertà individuale: incerti equilibri e nuove prospettive nella tutela della persona, in AA.VV., a cura di Cadoppi, Laicità, valori e diritto penale, cit., pp. 167 ss.; CORNACCHIA, Placing care. Spunti in tema di paternalismo penale, in Criminalia, 2011, pp. 239 ss.; PULITANÒ, Paternalismo penale, in AA.VV., a cura Forti- Bertolino-Eusebi, Studi in onore di Mario Romano, I, cit., pp. 489 ss.; ROMANO, Danno a sé stessi, paternalismo legale e limiti del diritto penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 3/2008, pp. 984 ss.; SPENA, Esiste il paternalismo penale? Un contributo al dibat- tito sui principi di criminalizzazione, in Riv. it. dir. proc. pen., 3/2014, pp. 1209 ss. Con riferimento al tema del potenziamento cognitivo, v. ZANNOTTI, Potenziamento umano: le considerazioni di un penalista, in AA.VV., a cura di Palazzani, Verso la sa- lute perfetta. Enhancement tra bioetica e biodiritto, Roma, 2014, pp. 134 ss. 90 ANGIONI F., Contenuto e funzioni del concetto di bene giuridico, Milano, 1983, pp. 130 ss. Sul tema è d’obbligo il riferimento a BRICOLA, Teoria generale del reato, in Noviss. dig. it., XIX, Torino, 1973, pp. 7 ss.; v. anche MAZZACUVA, Diritto penale e Costituzione, in AA.VV., a cura di Insolera-Mazzacuva-Pavarini-Zanotti, Intro- duzione al sistema penale, III ed., Torino, 2006, pp. 83 ss. Fra le opere che hanno avuto maggiore rilievo per l’elaborazione di un concetto di bene giuridico costitu- zionalmente orientato v. MUSCO, Bene giuridico e tutela dell’onore, cit.: anche in questo caso il problema nasce dalla problematica fisionomia dell’oggetto di tute- la, il quale secondo alcune correnti interpretative viene fatto coincidere con un sentimento soggettivo. Per una panoramica sui differenti sviluppi della teoria del bene giuridico nei rapporti con la Costituzione, v. FIANDACA, Il bene giuridico come problema teorico e come criterio di politica criminale, in AA.VV., a cura di Mari- nucci-Dolcini, Diritto penale in trasformazione, Milano, 1985, pp. 139 ss. (in parti- colare, pp. 161 ss.); DONINI, Teoria del reato. Un’introduzione, Padova, 1996, pp. 117 ss.; ID., Ragioni e limiti della fondazione del diritto penale sulla Carta costitu- zionale, in ID., Alla ricerca di un disegno. Scritti sulle riforme penali in Italia, Pado- va, 2003, pp. 37 ss.; per un raffronto con la giurisprudenza costituzionale, v. PULI- TANÒ, Bene giuridico e giustizia costituzionale, in AA.VV., a cura di Stile, Bene giu- ridico e riforma della parte speciale, Napoli, 1985, pp. 135 ss.; MANES, Il principio di offensività nel diritto penale. Canone di politica criminale, criterio ermeneutico, parametro di ragionevolezza, Torino, 2005, pp. 59 ss.   90 Tra sentimenti ed eguale rispetto la problematica relativa a fattispecie penali che sembrerebbero rivol- gersi esclusivamente alla tutela di principi etici, si osserva che «con la realizzazione di un fatto che contrasta con quelle norme etiche si ur- ta in pari tempo, o si può urtare, contro i sentimenti di quella parte della popolazione che in quei principi morali crede, o che addirittura attribuisce loro tale rilievo da averne, come forza politica o culturale organizzata, difesa la conservazione al rango di valori penali» 91. Of- fendere valori può significare offendere i sentimenti di chi crede in quei valori: questa, in sintesi, la motivazione che, secondo Angioni, sarebbe a fondamento di norme quali, ad esempio, quelle a tutela del pudore e del sentimento religioso. Il riferimento a sentimenti appare in questo caso finalizzato a in- centrare il fuoco del disvalore su un bene della persona, così da poter rinvenire una base di legittimità ancorata a una prospettiva persona- listica di danno, o comunque non meramente moralistica. Non si tratta però di una soluzione appagante, in quanto, rileva successiva- mente lo stesso Autore, resta aperto il problema della necessità e del- la meritevolezza di pena: la considerazione che l’offesa a un senti- mento sia un criterio di per sé sufficiente a fondare il ricorso allo strumento penale sembra «cozzare contro un naturale senso di pro- porzione e di misura» 92. L’argomentazione che Angioni espone tramite categorie endope- nalistiche (principio di proporzione) rimanda in ultima istanza a ra- gioni che hanno a che fare con valori di fondo della democrazia libe- rale e con i principi costituzionali: ritenere che l’offesa a meri senti- menti non sia sufficiente a fondare una criminalizzazione legittima è l’esito di un ragionamento che assume a presupposto un pacchetto di principi di ispirazione liberale, laicità ed uguaglianza in primis 93. Ciò mostra come il discorso sia tutt’altro che limitabile a un piano tecnico-giuridico, ma investa in pieno la dimensione politica del pro- blema penale, anche in forza dei profondi nessi che legano, in termini di interdipendenza, la presenza di oggetti di tutela ad alta pregnanza etica, come i ‘sentimenti’, in rapporto alla laicità dell’ordinamento. 91 ANGIONI F., Contenuto e funzioni, cit., pp. 130 ss. 92 ANGIONI F., Contenuto e funzioni, cit., p. 132. 93 È stato messo in evidenza come, soprattutto a partire dagli anni Settanta e Ottanta, la riflessione sul dover essere del diritto penale si sia fondata non tanto sull’affinamento di principi ‘endopenalistici’, compreso il c.d. ‘bene giuridico’, ma piuttosto sul principio di uguaglianza, il quale ha assunto un ruolo decisivo nel contribuire a delineare i cardini del costituzionalismo penale: v. DODARO, Ugua- glianza e diritto penale, cit., pp. 97 ss.   Dimensione codicistica e funzione discorsiva della formula 91 Sulla base di questa consapevolezza la dottrina penalistica si è impegnata in un’opera di reinterpretazione delle diverse disposizioni del codice Rocco, offrendo un importante contributo al consolida- mento di un ideale di democrazia penale laica e costituzionalmente orientata 94. Esempi emblematici sono gli studi sui delitti di religione e sui rea- ti a tutela del pudore, ad opera rispettivamente di Placido Siracusano e di Giovanni Fiandaca. Con riferimento ai delitti di religione, Siracusano sottopone a cri- tica il modello del cosiddetto ‘bene di civiltà’ e del sentimento religio- so collettivo: «al bene giuridico sentimento religioso individuale si addice, di regola, una protezione penale dalle caratteristiche fonda- mentalmente “liberali”; o perlomeno dai tratti più aperti e tolleranti possibile» 95, tale dunque da attribuirgli un respiro costituzionale che invece non è riconducibile al paradigma del cosiddetto ‘bene di civil- tà’. L’approdo finale è di segno abrogazionista, ossia a sostegno di un ordinamento penale che non contempli fattispecie poste specifica- mente a presidio del sentimento religioso. Siracusano lascia comun- que intravedere la possibilità che attraverso un riorientamento in senso personalistico si possa realizzare una intervento penale compa- tibile con i principi costituzionali, e precisamente come apertura ver- so qualsiasi ideale di trascendenza, in quanto manifestazione della coscienza ed espressione della personalità dell’individuo 96. Anche i reati contro la cosiddetta ‘moralità pubblica’ e il comune sentimento del pudore sono stati oggetto negli anni ’80 di un’analisi che, orientata a spezzare i legami con l’impostazione del codice, so- stiene una riconversione in termini personalistici dell’interesse pro- tetto: dalla moralità pubblica alla riservatezza sessuale di quanti non intendano fruire di un certo tipo di manifestazioni. Si deve a uno studio di Giovanni Fiandaca la critica decisiva al moralismo conservatore che impregnava l’universo applicativo delle fattispecie a tutela del cosiddetto ‘comune sentimento del pudore’, a sostegno di un cambio di direzione per il rispetto di diritti di libertà 94 Come autorevolmente osservato, «la laicità del diritto penale esprime in qualche modo addirittura la sintesi e in un certo senso il coronamento del costi- tuzionalismo penale [...] essa evoca lo “spirito” più profondo del costituzionali- smo penale», V. PALAZZO, Laicità del diritto penale e democrazia “sostanziale”, cit., p. 438. 95 SIRACUSANO, I delitti in materia di religione, cit., p. 277. 96 SIRACUSANO, I delitti in materia di religione, cit., p. 272.   92 Tra sentimenti ed eguale rispetto che trovano riconoscimento nella Carta costituzionale, e che risulta- vano compressi dai modelli di intervento del codice Rocco e da orien- tamenti illiberali della giurisprudenza. Presupposto di fondo è che in una società liberale e pluralista lo Stato non debba ergersi a tutore della virtù 97. Il legame col sentimen- to – schermo retorico che ammanta di una patina personalistica l’impianto di tutela – viene radicalmente confutato: «non sarebbe suf- ficiente asserire che il danno provocato dai comportamenti contrari al buon costume consiste nell’“offesa ai sentimenti” [...] nel passag- gio dal bene moralità al bene sentimento, il mutamento della dimen- sione qualitativa dell’oggetto della tutela è appena percepibile: quest’ul- timo finisce infatti col trasferirsi nel riflesso psicologico di una regola etica di condotta» 98. Sotto un profilo metodologico l’angolo visuale adottato nei sud- detti studi appare ancora definibile come ‘endopenalistico’, se non proprio ‘endocodicistico’: in altri termini, la tematizzazione del pro- blema resta incentrata su profili che attengono precipuamente le scelte di intervento del codice. In questo senso, l’approccio muove dalla so- luzione normativa, e tende a seguire un percorso d’analisi che man- tiene come referente primario gli schemi d’intervento descritti nelle fattispecie di reato. Fulcro dell’interesse è la risposta normativa; più circoscritto è lo spazio per l’analisi della dimensione extragiuridica del fenomeno. In tempi più recenti, a partire dagli anni Duemila, il tema dei sen- timenti è divenuto oggetto di un rinnovato interesse da parte della dottrina, caratterizzato da mutamenti nell’apparato concettuale e da una maggior propensione a estendere lo studio a profili extragiuridi- ci. Si tratta di un ammodernamento che porta a superare lo statico quesito sulla configurabilità o meno del sentimento come oggetto di tutela, andando a tematizzare in termini più complessi la questione dell’incidenza dei fattori emotivi sulle scelte di politica penale, ossia del rilievo della componente affettiva come elemento che concorre a integrare l’oggetto di tutela anche senza identificarsi espressamente con esso 99. In questo senso l’orizzonte di problemi additato dalla formula ‘tu- tela di sentimenti’ viene esteso al di là degli ambiti tradizionali, favo- rendo una riflessione critica sulla consistenza di interessi di tutela 97 FIANDACA, Problematica dell’osceno, cit., p. 99. 98 FIANDACA, Problematica dell’osceno, cit., p. 104. 99 Si veda, ad esempio, ALONSO ALAMO, Sentimientos y derecho penal, cit., pp. 39 ss.   Dimensione codicistica e funzione discorsiva della formula 93 che apparentemente non evidenziano una matrice affettiva, ma che ad uno sguardo attento rivelano una forte pregnanza emozionale. È emblematico un saggio di Giovanni Fiandaca dedicato ai rap- porti tra bioetica e diritto penale, nel quale, definendo criticamente delle innovazioni legislative come riflesso di un clima sociale e politi- co italiano tendente a una rieticizzazione del diritto 100, l’Autore rileva che ai sentimenti e ai fenomeni a essi correlati spetti un ruolo tut- t’altro che secondario nell’economia del dibattito pubblico e soprat- tutto nelle scelte di politica del diritto volte a disciplinare i cosiddetti ambiti ‘eticamente sensibili’. Il terreno della bioetica si trova infatti a essere soggetto a contrapposizioni fondate su «timori e reazioni emo- tive che hanno a che fare con la sfera più irrazionale ed oscura di cia- scuno»101, ossia reazioni di orrore, spavento, raccapriccio, disgusto, definite dall’Autore «sentimenti e sensazioni»; reazioni emotive che possono indurre un uso distorto della politica penale tramite divieti assimilabili a mero palliativo psicologico per i cittadini. La parificazione di istanze di tutela penale a meri sentimenti è una strategia di critica argomentativa che diverrà sempre più fre- quente. Prendiamo ad esempio il discorso sulla dignità umana 102. Si tratta di un valore caratterizzato da una spiccata componente emozionale che la rende strumento retorico particolarmente efficace, ma che la 100 FIANDACA, Considerazioni intorno a bioetica e diritto penale, tra laicità e “post-secolarismo”, in Riv. it. dir. proc. pen., 1/2007, pp. 546; 549. 101 FIANDACA, Considerazioni intorno a bioetica e diritto penale, cit., p. 554. 102 Ad oggi nel panorama penalistico lo studio più approfondito è quello di TE- SAURO, Riflessioni in tema di dignità umana, cit., pp. 89 ss. Il tema della dignità umana come bene penalmente tutelabile è oggetto di riflessioni critiche in FIAN- DACA, Laicità, danno criminale e modelli di democrazia, in AA.VV., a cura di Risica- to-La Rosa, Laicità e multiculturalismo. Profili penali ed extrapenali, cit., p. 33; ID., Considerazioni intorno a bioetica e diritto penale, cit., pp. 553 ss.; VISCONTI C., Il reato di propaganda razzista tra dignità umana e libertà di espressione, in Jus 17@unibo.it, 1/2009, p. 195; pp. 202 ss.; più favorevole a un recupero (tramite un uso accorto e non inflazionistico) del concetto di dignità umana, PULITANÒ, Etica e politica del diritto penale ad 80 anni dal Codice Rocco, in Riv. it. dir. proc. pen., 2/2010, pp. 510 s. Nella dottrina tedesca si veda l’importante saggio di HASSEMER, Argomentazione con concetti fondamentali. L’esempio della dignità umana, in Ars interpretandi, 2007, pp. 125 ss.; profili critici del concetto di dignità in ambito pe- nalistico sono evidenziati anche in ZIPF, Politica criminale, tr. it., Milano, 1979, p. 89. Nel panorama statunitense, per una sintesi del dibattito v. MCCRUDDEN, Hu- man Dignity and Judicial Interpretation of Human Rights, in 19 The European Journal of International Law, pp. 655 ss.; per una panoramica di taglio più divul- gativo v. ROSEN, Dignità. Storia e significato, tr. it., Torino, 2012, pp. 65 ss.   94 Tra sentimenti ed eguale rispetto espone contemporaneamente al rischio di tramutarsi in un «bene- ricettacolo dei sentimenti di panico morale o delle reazioni emotive sgradite da cui veniamo sopraffatti di fronte a fatti (o eventi) insoliti o nuovi che contraddicono modelli morali consolidati [...] ovvero esu- lano da una radicata autocomprensione antropologica dell’identità dell’essere umano» 103. Definire la dignità umana è certo impresa ardua, ma è ragionevole ritenere che tale valore e il suo universo di significato non debbano es- sere intesi come mero riflesso di percezioni soggettive (vedi infra, cap. V). Si tratta di un rischio che trova esemplificazione in una incrimina- zione oggi fortemente discussa, ossia il divieto di propaganda razzista, definita «norma che si colloca a metà strada tra ‘tutela penale dei sen- timenti’ e ‘funzione (pedagogico-)promozionale del diritto penale’» 104. Altro interesse che rivela una problematica osmosi con la dimen- sione affettiva è la cosiddetta ‘sicurezza’, la cui fisionomia è alquanto nebulosa e rischia di essere intesa come «fonte di obblighi legislativi di penalizzazione in funzione ansiolitica»105. Anche dietro il problema che nel discorso penalistico è stato definito come ‘sicurezza pubblica’ si può scorgere una matrice emotiva: la paura della criminalità, intesa come emozione di risposta a una minaccia, reale o semplicemente percepita 106. Tale argomento è oggetto di studio soprattutto in ambito criminologico107, nel quale è stato osservato come la pervasività in ambito collettivo della paura non sia dovuta tanto alla percezione dei singoli cittadini, ma finisca per essere esito di un’insicurezza sovente manipolata108 attraverso stereotipi e modelli culturali che si incardi- 103 FIANDACA, Sul bene giuridico, cit., p. 78. 104 TESAURO, Riflessioni in tema di dignità umana, cit., p. 86. 105 FIANDACA, Sul bene giuridico, cit., p. 95. 106 Benché non vada dimenticato che dietro le istanze securitarie mobilitate dalla collettività vi possono essere, oltre a pretese meramente emotive, anche bi- sogni reali di tutela, v. PALIERO, Consenso sociale e diritto penale, cit., pp. 913 ss. Sul tema, in un’ottica critica riguardante le manifestazioni del trend securitario a partire dagli anni Duemila, v. CERETTI-CORNELLI, Oltre la paura. Cinque riflessioni su criminalità, società e politica, Milano, 2013, pp. 21 ss.; HASSEMER, Sicurezza mediante il diritto penale, tr. it., in Critica del diritto, 2008, pp. 15 ss.; DONINI, Sicu- rezza e diritto penale, in Cass. pen., 10/2008, pp. 3558 ss.; PULITANÒ, Sicurezza e di- ritto penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2/2009, pp. 547 ss.; per uno sguardo d’insie- me v. AA.VV., a cura di Donini-Pavarini Sicurezza e diritto penale, Bologna, 2011. 107 Per tutti, CORNELLI, Paura e ordine nella modernità, cit., pp. 75 ss. 108 DURANTE, Perché l’attuale discorso politico-pubblico fa leva sulla paura?, in Filosofia politica, 1/2010, pp. 49 ss.   Dimensione codicistica e funzione discorsiva della formula 95 nano nelle strutture istituzionali o che vengono diffuse attraverso i mass media 109, in un processo di circolarità dove l’insicurezza è al con- tempo motivo di crisi e motore di legittimazione per le istituzioni 110. Il problema della tutela di sentimenti ha portato la riflessione penali- stica a meditare anche sugli strumenti concettuali per lo sviluppo del di- scorso: da un lato la teoria del ‘bene giuridico’ di matrice continentale, dall’altra lo Harm e l’Offense Principle di matrice anglo-americana. È emblematico in questo senso un saggio di Massimo Donini il qua- le evidenzia come anche il ricorso alle categorie anglo-americane sem- bri deludere aspettative di oggettività delle scelte di criminalizzazione, in quanto tali categorie «sono spesso definite mediante un utilizzo ambiguo della categoria dei sentimenti. Troppi sentimenti sia nell’Of- fense (che si definisce proprio in quanto più sentimentale che dannosa, più irritante che dolorosa) e sia anche nello Harm, che si fonda pur sempre (specialmente in Feinberg) sul postulato che la lesione dell’in- teresse produca un dolore, una sofferenza nel suo titolare» 111. Sullo specifico punto concernente la tutela di sentimenti la con- clusione dell’Autore è netta: «la tutela specifica dei sentimenti [...] costituisce un esempio incon- gruo di diritto penale orientato all’irrazionalità delle funzioni [...] il di- ritto penale non tutela meri sentimenti anche se talora lo stesso codice penale si esprime in questi termini [...], ma [tutela] la loro obiettiva- zione in situazioni sociali, in interessi, in beni giuridici più definiti della percezione soggettiva: tanto che essi vengono tutelati a prescin- dere dalla prova di quella percezione in capo a un qualche individuo determinato. [...] La ragione per la quale non è possibile la tutela di- retta ed esclusiva come oggetto “giuridico”, dei sentimenti, neppure ovviamente dei sentimenti “morali”, è costituita dal fatto che essi non sono un oggetto giuridico, e non possono esserlo per carenza di tassa- tività. È infatti necessario che il sostrato umano fondamentale in cui si sostanziano le offese e che tocca direttamente la sfera emotiva e morale delle persone, si ancori a realtà socio normative più afferrabili e gestibili» 112. Così formulata tale osservazione sembrerebbe fondarsi prevalen- 109 CORNELLI, Paura e ordine nella modernità, cit., pp. 181 ss. 110 CORNELLI, Paura e ordine nella modernità, cit., pp. 253 ss. 111 DONINI, “Danno” e “offesa” nella c.d. tutela penale dei sentimenti, cit., p. 1575. 112 DONINI, “Danno” e “offesa” nella c.d. tutela penale dei sentimenti, cit., pp. 1577 ss.   96 Tra sentimenti ed eguale rispetto temente su ragioni epistemologiche: carenza di tassatività come ‘non afferrabilità’ e dunque sostanziale ‘non verificabilità’ secondo i prin- cipi che sovrintendono la responsabilità penale. Diverse le obiezioni avanzate in dottrina, le quali convergono so- stanzialmente nell’osservare che il pur ragionevole argomento della non-tassatività dei sentimenti non è decisivo, e rischia di anticipare troppo con interrogativi sul piano della tipicità che paiono non offri- re adeguato spazio alla problematica questione dei bilanciamenti che dovrebbero fondare la legittimazione dei precetti. Si rischia, insom- ma, di «chiudere la partita prima che cominci» 113. Il monito circa la carenza di tassatività coglie un aspetto rilevante ma che non pare sufficiente a escludere in via di principio la legitti- mità di interventi penali. La questione cruciale è «se e quale tutela [sentimenti ed emozioni] possano chiedere, a fronte di comporta- menti e manifestazioni espressive del sentimento di altri, nel contesto di una società aperta» 114. Tirando le fila del discorso, appare evidente come il mainstream penalistico mostri una sostanziale diffidenza nei confronti del tessuto emotivo. Si tratta di caveat condivisibili, ma che riteniamo non deb- bano essere letti, frettolosamente, come avallo di posizioni ‘veterora- zionalistiche’ che ancora concepiscano in termini dicotomici i rap- porti fra emozioni, sentimenti e diritto penale, o che intendano nega- re gli influssi della dimensione affettiva sull’impianto teorico e prati- co della criminalizzazione. La plausibilità di tali cautele trova una solida base in studi che hanno evidenziato la possibile inaffidabilità delle emozioni a causa di contenuti cognitivi falsi, abnormi o più semplicemente incompatibili con i valori di un ordinamento liberale 115. 113 Così TESAURO, Riflessioni in tema di dignità umana, cit., p. 90; cfr., FIANDA- CA, Sul ruolo delle emozioni e dei sentimenti, cit., p. 229. A ben vedere, va ricono- sciuto che l’argomentazione di Donini sembra andare oltre la questione della me- ra tassatività quando richiede «che il sostrato umano fondamentale in cui si so- stanziano le offese e che tocca direttamente la sfera emotiva e morale delle per- sone, si ancori a realtà socio-normative più afferrabili e gestibili: non solo da par- te della magistratura, ma prima ancora da parte del legislatore, onde evitare i ri- schi immanenti di un diritto penale irrazionale». Il richiamo a realtà socio-nor- mative, e non meramente empirico-fattuali, lascia intendere un disvalore leggibile non solo in termini di suscettibilità individuale, ma misurabile alla stregua di va- lori che lo facciano apparire ragionevole e non semplicemente riflesso di un so- lipsistico puntiglio. 114 PULITANÒ, Introduzione alla parte speciale, cit., p. 42. 115 La studiosa che di recente si è impegnata a rivendicare l’‘intelligenza   Dimensione codicistica e funzione discorsiva della formula 97 Si tratta di prendere atto di una complessità di fondo, riflettendo su quali siano i contenuti di pensiero che possono rendere l’emozione e il sentimento interlocutori inaffidabili per il diritto penale, riser- vando però la dovuta attenzione anche a prospettive differenti, orien- tate a vagliare anche il potenziale di interazione virtuosa che potreb- be generarsi da un intelligente ‘ascolto’ delle emozioni e dei senti- menti. Tale ultima istanza trova oggi riscontro anche nel panorama pena- listico italiano, grazie a contributi che hanno messo a tema ipoteti- che, auspicabili interazioni fra diritto penale e dimensione affettiva quale coordinata per una più realistica e consapevole attenzione al profilo umano delle questioni oggetto di interesse penalistico. 3.1. Una virtuosa prospettiva di interazione: ‘sentire comune’ e legittimazione delle norme penali Vi sono opere, di taglio differente, che fanno espresso riferimento alla dimensione affettiva e al ruolo positivo dell’emozione e del sen- timento quali elementi di comunanza e quali possibili vettori di rico- noscimento reciproco fra essere umani; non si tratta si riflessioni propriamente incentrate sul sentimento come problema di tutela, ma di profili legati al rapporto fra emozioni, sentimenti, genesi e struttu- ra dei precetti penali 116. delle emozioni’, affermandone l’imprescindibile ruolo anche nelle strategie di politica penale, ha d’altro canto fornito una delle più approfondite e convin- centi analisi sul potenziale anche negativo che determinati atteggiamenti emotivi possono assumere in rapporto alla legiferazione e all’applicazione di norme penali, v. NUSSBAUM, Nascondere l’umanità, cit., pp. 37 ss. 116 Merita menzione, per quanto sui generis, la posizione espressa diversi de- cenni fa da Giuseppe Maggiore, la quale, pur derivando da un retroterra episte- mico ed ideologico profondamente differente dalle elaborazioni degli autori con- temporanei, costituisce nel panorama penalistico italiano una emblematica af- fermazione del ruolo positivo del sentimento. In una serrata critica al pensiero che vorrebbe ricondurre il diritto a mero sillogismo, a puro «congegno di giudizi logici», lo studioso siciliano rivendica l’importanza di una ‘vocazione affettiva’, di un quid che possa offrire un senso alla mera logica formale: «Ogni mediocre in- terprete sa bene che l’applicazione del diritto non si riduce a un accostamento meccanico tra la legge e il caso concreto: ma che occorre valutare, ossia sentire giuridicamente la fattispecie – in tutti i suoi lineamenti, in tutte le sue ombre e sfumature – per ridurla sotto l’impero della norma [...] un giudizio puramente e freddamente logico può essere iniquo: nel clima della nuda logica il jus può trali- gnare facilmente in injuria», v. MAGGIORE, Il sentimento nel diritto, in Giornale cri- tico della filosofia italiana, 1932, pp. 137, 135 ss., 138.   98 Tra sentimenti ed eguale rispetto Ad esempio, in relazione alle condizioni di osservanza della legge penale si è definita la forma idealtipica del diritto penale come «dirit- to del comune sentire (declinato rispettivamente in forma di principi e di regole/precetti) che dovrebbe trovare cioè nei consociati il più al- to grado di corrispondenza ideale, di consonanza soggettiva e dunque di adesione spontanea» 117. Muovendo da presupposti differenti, si è invece osservato, con ri- ferimento allo specifico ambito della regolamentazione normativa in materia bioetica, che la ricerca di risposte normative dovrebbe assu- mere a riferimento anche l’emozione che scaturisce nei soggetti di fronte a un fatto bioeticamente rilevante. In altri termini, viene ipo- tizzata una relazione tra la componente emotiva che caratterizza le scelte individuali e la possibilità che, valorizzando nelle statuizioni normative elementi fattuali suscettibili di attivare una comune reatti- vità emozionale, sia possibile addivenire a una maggiore condivisibi- lità dei precetti 118. In risposta all’opinione di chi non ritiene che il diritto penale pos- sa tutelare sentimenti viene obiettato che «non può escludersi [...] che, quanto meno in materia di bioetica, il diritto penale, se vuole trovare la sua legittimazione, ben possa, anzi debba, tutelare, in un certo senso, i sentimenti ed addirittura il sentimento del caso concre- to, senza per ciò trascendere in concezioni soggettivizzanti e sprovvi- ste di sostrato empirico, ma recuperando, al contrario, insieme alla concretezza, altresì la prospettiva di un giudizio, se non condiviso, quanto meno diffuso» 119. Nelle linee tracciate da tali Autori viene attribuita al sentimento la funzione di parametro per l’‘accreditamento etico’ delle norme penali 117 MAZZUCATO, Dal buio delle pene alla luce dei precetti: il lungo cammino del di- ritto penale incontro alla democrazia, in MAZZUCATO-MARCHETTI, La pena ‘in casti- go’. Un’analisi critica su regole e sanzioni, Milano, 2006, p. 89. 118 DI GIOVINE O., Un diritto penale empatico?, cit., pp. 145 ss. Si tratta di un programma teorico che propone «una rinuncia, pur con tutte le cautele del caso, a parte della rigidità e della predeterminazione del precetto, per consentire a quest’ultimo di plasmarsi sul fatto concreto, di valorizzarne le nuances» Un ango- lo visuale che assume il fenomeno del sentire in una accezione che potremmo de- finire ‘naturalistico-emozionale’. La funzionalità del precetto sembra infatti legar- si alla condizione che esso arrivi a contenere elementi fattuali ad ‘alta carica emo- tiva’: «si porrebbero così le condizioni perché giochi una empatia che, facendo un punto di forza della sua natura prosaicamente biologica ed umana, possa svolgere la [...] funzione di coordinata epistemologica nei suddetti ambiti del penale», v. EAD., Un diritto penale empatico?, cit., pp. 179, 181.  119 DI GIOVINE, Un diritto penale empatico?, cit., pp. 78 s.  Dimensione codicistica e funzione discorsiva della formula 99 e più in generale per la legittimazione dell’intervento penale. Tra le due posizioni sussiste però una profonda differenza: nella prospettiva di Claudia Mazzucato il ‘comune sentire’ pare doversi intendere in termini normativi, ossia quale richiamo a valori condivisi modellati su «dati umani, stabili, trasversali, da sempre validi»120; la strada suggerita da Ombretta Di Giovine fa riferimento a un sentire ‘natura- listico’, ossia a un sostrato di reazioni emotive condivise che dovreb- bero costituire punto di riferimento per le scelte del legislatore nelle materie eticamente sensibili. A tali studi va affiancato un importante contributo dedicato al te- ma delle ragioni extrapenali della legittimazione della legge penale 121, il quale, sulla base di recenti acquisizioni della filosofia morale che evidenziano come le emozioni siano fra le condizioni della nostra ri- cettività alle considerazioni razionali e morali122, afferma che ogni concretizzazione del giudizio penale, dalla previsione edittale fino al- la applicazione della sanzione comminata, se non vuole limitarsi a pretendere la pura «obbedienza degli uomini-bambini», debba espri- mere una qualche coerenza rispetto a un tale ‘comune sentire’ 123. Ve- diamo come anche in questa teorizzazione le emozioni figurino in una veste emancipata da negatività e irrazionalità, e si propongano nel ruolo di coordinata epistemica per la ricerca di un terreno di in- contro tra la forza motivazionale del giudizio morale e le ragioni di un’osservanza dei precetti che sia ‘sentita’ e non solo imposta. Il rinnovato, e per certi versi inedito, interesse che i fenomeni del sentire assumono oggi in diverse branche del sapere – dalla psicolo- gia, alle neuroscienze, alla filosofia morale – sta avendo dunque ri- flessi anche nel pensiero penalistico: la prospettiva di analisi incen- trata sul sentimento come oggetto di tutela resta tema classico, ma i suddetti ulteriori spunti rappresentano un’importante base di rifles- sione che arricchisce, con promettenti intrecci con la dimensione morale, il discorso sulla legittimazione delle norme penali e sull’os- servanza dei precetti. 120 Così lo definisce MAZZUCATO, Dal buio delle pene alla luce dei precetti, cit., p. 90. 121 FORTI, Le ragioni extrapenali, cit., pp. 1108 ss. 122 BAGNOLI, Introduction, in AA.VV., ed. by Bagnoli, Morality and the Emo- tions, cit., p. 16.  123 FORTI, Le ragioni extrapenali, cit., p. 1120.  100 Tra sentimenti ed eguale rispetto 4. Sinossi Addentrandoci nel microcosmo giuridico, emergono due possibili accezioni nel significato della formula ‘tutela di sentimenti’: la prima, descrittiva, concerne il panorama delle disposizioni in cui il senti- mento è espressamente evocato quale oggetto di tutela; la seconda, connotativa, coincide con l’uso che della categoria del sentimento viene fatto nel discorso penalistico, ossia in una funzione prevalen- temente critica. L’accezione descrittiva ci conduce verso l’analisi delle fattispecie codicistiche ed extracodicistiche: un panorama variegato che con- templa due differenti declinazioni del sentimento. La prima, del tutto tendente alla ‘depsicologizzazione’, nella quale non entrano in gioco fenomeni psichici bensì ‘sentimenti-valori’; la seconda, più vicina alla dimensione naturalistica del sentire, si ricollega a fattispecie come gli ‘atti persecutori’, volte a tutelare la tranquillità psicologica come bene strumentale rispetto alla libertà di autodeterminazione. Relativamente all’accezione connotativa e ai discorsi dei giuristi penali, il tema della tutela di sentimenti ha rappresentato uno dei terreni in cui si è giocata la sfida culturale per il superamento dei modelli illiberali di incriminazione del codice Rocco, fungendo in questo senso da ‘trampolino teoretico’ per il consolidamento dell’in- terpretazione costituzionalmente orientata degli interessi di tutela penale. Attualmente i rischi di torsioni illiberali veicolate dall’appello a sentimenti ed emozioni si legano alla incerta fisionomia di beni e in- teressi caratterizzati da una marcata componente emozionale (digni- tà, sicurezza). A fronte di tali istanze di tutela il mainstream penali- stico tende a mantenere una forte diffidenza. Non vanno tuttavia trascurate anche le prospettive di interazione virtuosa fra dimensione affettiva e diritto penale, concernenti in par- ticolare il ruolo di sentimenti ed emozioni nelle dinamiche di adesio- ne e di osservanza del precetto.  PARTE II FRA DIRITTI ED EMOZIONI: ITINERARI E PROSPETTIVE   102 Tra sentimenti ed eguale rispetto   SEZIONE I Sensibilità individuali e libertà di espressione 103 CAPITOLO IV SENSIBILITÀ INDIVIDUALI E LIBERTÀ DI ESPRESSIONE Espressioni ed emozioni: prospettive di approccio «Troppo spesso ci capita di dover affrontare dilemmi postmoderni con un re- pertorio emozionale adatto alle esigenze del Pleistocene» GOLEMAN D., Intelligenza emotiva, p. 23 SOMMARIO: 1. Libertà di espressione e rispetto reciproco: l’esigenza di nuove pro- spettive di analisi. – 2. Approccio ‘naturalistico-emozionale’. – 2.1. La prospet- tiva dell’Offense secondo Joel Feinberg. – 3. Approccio ‘razionalistico-norma- tivo’: emozioni ragionevoli e irragionevoli secondo Martha Nussbaum. 1. Libertà di espressione e rispetto reciproco: l’esigenza di nuo- ve prospettive di analisi Le disposizioni del codice italiano nelle quali l’oggetto di tutela viene definito in termini di sentimento, pur presentando affinità sul piano del comune rimando a interessi legati alla sfera affettiva, pon- gono l’interprete di fronte a questioni eterogenee. I problemi relativi al sentimento religioso, al pudore, al sentimento nazionale, al comu- ne sentimento della morale, si collegano a un comune substrato in quanto basati su conflittualità di tipo espressivo-comunicativo e su forme di offesa ‘immateriali’; appare invece differente il sentimento per gli animali, a tutela del quale vengono incriminate aggressioni fisiche e maltrattamenti a esseri non umani. Riteniamo preferibile accantonare per il momento il tema del sen-  104 Tra sentimenti ed eguale rispetto timento per gli animali e focalizzare l’attenzione sul retroterra che accomuna i restanti ambiti. Filo conduttore è il coinvolgimento del piano comunicativo, in un senso non limitato a espressioni verbali, ma esteso a comportamenti in grado di veicolare significati1 e di esternare in termini simbolici prese di posizione che vanno a intera- gire con aspetti profondamente radicati, potremmo dire ‘costitutivi’, della personalità individuale e dell’identità morale di un soggetto. Tali profili rimandano, in ambito giuridico, al tema della libertà di espressione, ampiamente dissodato dalla dottrina non solo penalisti- ca 2. Nell’impianto del codice Rocco, limiti alla libertà di espressione sono posti in primo luogo a tutela di interessi dello Stato, mentre i risvolti personalistici dei conflitti limitati al piano comunicativo tro- vano formale riconoscimento esclusivamente nelle disposizioni sul- l’ingiuria (oggi abrogata) e sulla diffamazione: le uniche collocate nel titolo dei reati contro la persona. Al di là delle etichette legislative e della voluntas del legislatore, dietro reati come quelli contro il senti- 1 Sull’equiparazione fra condotte verbali ed espressioni fondate sul valore sim- bolico dei comportamenti, v. BERGER, Symbolic conduct and freedom of speech, in Russel (ed. by), Freedom, Rights and Pornography. A Collection of Papers by Fred R. Berger, Amsterdam, 1991, pp. 31 ss. Adotta tale impostazione nella recente let- teratura sulla libertà di espressione BROWN A., Hate Speech Law. A Philosophical Examination, New York, 2017, p. 5. Nel panorama italiano si sofferma su tale di- stinzione STRADELLA, La libertà di espressione politico-simbolica e i suoi limiti: tra teorie e “prassi”, Torino, 2008, pp. 21 ss., 59 ss. 2 Fra gli scritti più significativi di taglio generale, provenienti, relativamente al contesto italiano, dall’ambito costituzionalistico, v. ESPOSITO, La libertà di manife- stazione del pensiero nell’ordinamento italiano, Milano, 1958; BARILE, Libertà di mani- festazione del pensiero, Milano, 1975; DI GIOVINE A., I confini della libertà di manife- stazione del pensiero. Linee di riflessione teorica e profili di diritto comparato come premessa a uno studio sui reati d’opinione, Milano, 1980; PALADIN, Libertà di pensiero e libertà d’informazione: le problematiche attuali, in Quaderni costituzionali, 1/1987, pp. 5 ss.; PUGIOTTO, Le parole sono pietre? I discorsi di odio e la libertà di espressione nel diritto costituzionale, in www.penalecontemporaneo.it, 7/2013; CARUSO, La libertà di espressione in azione. Contributo a una teoria costituzionale del discorso pubblico, Bologna, 2013; fra i penalisti, v. BETTIOL, Sui limiti penalistici alla libertà di manife- stazione del pensiero, in AA.VV., Legge penale e libertà di pensiero, Padova, 1966, pp. 1 ss.; NUVOLONE, Il problema dei limiti della libertà di pensiero nella prospettiva logica dell’ordinamento, in AA.VV., Legge penale e libertà di pensiero, cit., pp. 349 ss.; FIORE, I reati d’opinione, Milano, 1972; PULITANÒ, Libertà di pensiero e pensieri cattivi, in Quale giustizia?, 1970, pp. 187 ss.; ALESIANI, I reati di opinione, cit.; SPENA, Libertà di espressione e reati di opinione, in Riv. it. dir. proc. pen., 2-3/2007, pp. 689 ss.; VISCON- TI C., Aspetti penalistici, cit. Si vedano inoltre, quale contributo collettaneo più re- cente, gli Atti del IV Convegno dell’Associazione Professori di Diritto Penale dedica- to al tema ‘La criminalizzazione del dissenso: legittimazione e limiti’, pubblicati in Riv. it. dir. proc. pen., 2/2016, pp. 859 ss.   Sensibilità individuali e libertà di espressione 105 mento religioso e contro la moralità pubblica sono in gioco fenomeni relativi all’universo interiore dell’individuo, alla sfera del sentire co- me nucleo da proteggere in positivo e in negativo, ossia favorendone la ‘fioritura’ e la libera espressione, e anche, eventualmente, preser- vandolo da forme di offesa. Ci sembra che il rispetto della reciproca sensibilità in rapporto a contenuti espressivi in grado di offenderla rappresenti il problema che con maggiore immediatezza logico-comunicativa può identificar- si anche come ‘tutela di sentimenti’. Le questioni che possono celarsi dietro il richiamo a stati affettivi sono molteplici, ma i rapporti tra forme di espressione e sensibilità soggettive sembrano costituire oggi una priorità nell’agenda penalistica. A suggerire un attento sguardo alle ‘guerre per la libertà di espres- sione’3 è soprattutto l’importanza nello scenario socio-politico con- temporaneo, il quale rivela un’inedita complessità derivante dalla consistenza pluralista della società occidentale, anche di quella ita- liana. È cresciuta la diversità sul piano quantitativo e parallelamente sono aumentate le sensibilità, incrementando la possibilità di attriti e portando a emersione, quale riflesso di difficoltà di integrazione in rapporto agli ingenti flussi migratori, una conflittualità fortemente radicalizzata in senso identitario4 e minacciata dal rischio del fon- damentalismo: «l’esperienza comune della diversità e tanto più la comparazione cul- turale specialistica mostrano che i modi stessi della sensazione e i ri- sultati della sensibilità sono variabili da cultura a cultura e all’interno stesso di società complesse, fino ai modi e ai risultati delle sensibilità individuali, così importanti nella cultura occidentale moderna» 5. Si è detto che è difficile trovare un argomento su cui si registri un accordo maggiore di quello relativo alla libertà di espressione, «[a]l- meno finché non ci mette mano la ricerca della saggezza»6. Nella 3 SULLIVAN, Free Speech Wars, in 48 SMU Law Review, 1995, pp. 203 ss. 4 Sul problema vedi MANCINA, Laicità e politica. Prove di ragione pubblica, in AA.VV., a cura di Risicato-La Rosa, Laicità e multiculturalismo, cit., pp. 5 ss. Per una critica alle tendenze identitarie e al concetto di identità, definita ‘parola avve- lenata’, v. REMOTTI, L’ossessione identitaria, Roma-Bari, 2010. 5 ANGIONI G., Fare, dire, sentire. L’identico e il diverso nelle culture, Nuoro, 2011, p. 224. 6 BENCIVENGA, Prendiamola con filosofia. Nel tempo del terrore: un’indagine su quanto le parole mettono in gioco, Milano, 2017, p. 17.   106 Tra sentimenti ed eguale rispetto prospettiva delineata dal filosofo Ermanno Bencivenga tale ricerca coincide con una paziente opera di analisi filosofica che allontani lo spettro dei luoghi comuni, nella consapevolezza di non poter risolve- re i problemi con ‘sentenze’ o ‘ricette’ 7. Per quanto il giurista senta l’onere di fornire una prestazione in- tellettuale che in qualche modo si identifichi in una ‘sentenza’ o in una ‘ricetta’, intese come proposte ‘risolutive’, riteniamo che in rela- zione ai problemi in esame tale ambizione debba essere accompagna- ta dalla consapevolezza del carattere contingente e parziale delle ri- sposte che potranno essere eventualmente avanzate8. Non vi sono rimedi taumaturgici e ‘indolori’: se un atteggiamento di tipo repressi- vo potrebbe portare a comprimere un diritto essenziale delle demo- crazie contemporanee, la prospettiva opposta di evitare una regola- mentazione lascia aperta la possibilità di ricadute comunque pro- blematiche. Condividiamo quanto osservato da attenta dottrina, ossia che per rapportarsi a tali problemi occorra mettere da parte l’ambizione di elaborare criteri di selezione del penalmente rilevante di tipo assio- matico-deduttivo, e vada pertanto considerato se «l’approccio tradi- zionale possa risultare decisivo nel circuito comunicativo delle de- mocrazie contemporanee; oppure se non vada piuttosto ricalibrato, rivisto, o quantomeno accompagnato da analisi e valutazioni che si facciano seriamente carico della complessità culturale, sociale e poli- tica dei contesti locali e globali in cui risultiamo oggi calati» 9. In altri termini, il tema dei conflitti in materia di libertà di espres- sione è un significativo banco di prova che impegna a rendersi fauto- ri di «una scienza non già autoreferenzialmente chiusa nel giuoco elegante di una dogmatica formalistica, bensì intenzionata a prende- re in qualche modo posizione sul merito contenutistico delle questio- ni spinose che il tempo presente prospetta» 10. 7 BENCIVENGA, Prendiamola con filosofia, cit., p. 11. 8 Parla di carattere ‘contestuale’ ROIG, Libertà di espressione, discorsi d’odio, soggetti vulnerabili: paradigmi e nuove frontiere, in Ars interpretandi, 1/2017, pp. 30, 45 ss. 9 VISCONTI C., Aspetti penalistici, cit., p. XIV. 10 FIANDACA, Aspetti problematici del rapporto tra diritto penale e democrazia, in Foro it., 2011, V, p. 10. Afferma la necessità di un’analisi calata nel contesto socio- politico BOGNETTI, La libertà di espressione nella giurisprudenza americana. Con- tributo allo studio dei processi dell’interpretazione giuridica, Milano, 1958, pp. 7 ss.; cfr. da ultimo ROIG, Libertà di espressione, discorsi d’odio, soggetti vulnerabi- li, cit., p. 29. Sia consentito il rinvio a BACCO, Dalla dignità all’eguale rispetto:   Sensibilità individuali e libertà di espressione 107 Riteniamo che occorra dunque provare a immaginare nuovi per- corsi, mettendo in conto l’irriducibile ‘politicità’ del tema, la quale mette a disagio il giurista che ancora oggi coltivi l’ambizione (illuso- ria?) di riuscire a concepire proposte e modelli di interpretazione as- seritamente ‘neutrali’ e avalutativi. È ricorrente in sede teorica prendere le mosse dall’interrogativo sul perché la libertà di espressione sia importante. Il livello di reattività emozionale, e purtroppo anche di violenza fi- sica, che hanno caratterizzato alcuni recenti episodi nel contesto eu- ropeo11, suggeriscono di affrontare il tema attraverso prospettive di analisi che non si limitino a una, pur problematica, riflessione su norme e principi 12. La complessità dei problemi esige un avvicinamento anche al sub- strato umano dei conflitti e dunque alle emozioni e ai sentimenti che si agitano sullo sfondo e che sono di fatto i vettori di senso che concor- rono a guidare le preferenze e le scelte degli individui, e dunque la loro posizionalità assiologica 13: un discorso che vale non solo per i destina- tari di espressioni avvertite come offensive, ma che è funzionale a in- quadrare e definire anche la posizione di chi esprime un pensiero14. libertà di espressione e limiti penalistici, in Quaderni costituzionali, 4/2013, pp. 823 ss. 11 Su tutti, i violenti disordini seguiti alla pubblicazione di vignette satiriche sulla religione musulmana in Danimarca, e il tragico attentato contro il settima- nale francese Charlie Hebdo, colpevole, agli occhi dei fondamentalisti, di aver pubblicato vignette blasfeme sull’Islam. 12 Il piano prettamente giuridico, ossia il riconoscimento di libertà nelle Carte costituzionali nazionali e in fonti sovranazionali, rappresenta una premessa del problema; né del resto sembra essere risolutivo l’appello a teorizzazioni classiche, come quella milliana, il cui pur apprezzabile ottimismo di fondo dalle coloriture utilitaristiche appare oggi forse troppo irenistico. Ci riferiamo all’obiezione di fondo con cui Mill critica la prospettiva di limiti alla libertà di espressione, ossia che la compressione della libertà limiterebbe la circolazione di eventuali verità che potrebbero arricchire il patrimonio intellettuale di un popolo, v. MILL, Sulla libertà, tr. it., a cura di Mollica, Milano, 2007, pp. 117 ss. 13 Traggo questo concetto dalla teorizzazione fenomenologica di Roberta De Monticelli: definito il sentimento come «disposizione del sentire che comporta un consentire più o meno profondo all’essere di ciò che la suscita», v. DE MONTICELLI, L’ordine del cuore, cit., p. 121, è importante a nostro avviso legare tale concetto al tema della posizionalità, per evidenziare come l’atto del consentire e dell’espri- mere rappresenti una presa di posizione nella quale la persona è coinvolta in quanto soggetto, v. DE MONTICELLI, La novità di ognuno. Persona e libertà, Milano, 2009, pp. 187 ss. Si veda anche infra, nota 94. 14 Non può essere condiviso l’assunto secondo cui la caratterizzazione di un’espressione di critica in termini affettivo-emozionali la renderebbe per ciò solo   108 Tra sentimenti ed eguale rispetto Anche in tempi in cui la considerazione della dimensione emotiva non poteva avvalersi degli studi che oggi ne affermano la rilevanza nelle scelte decisionali, e che ne riabilitano in buona parte anche la salienza morale, nella dottrina penalistica italiana fu osservato che «è il senti- mento, l’atteggiamento di adesione o indifferenza per questo o quel va- lore, e non la ragione raziocinante che di per sé è uno strumento “neu- tro”, a indicare all’azione i suoi possibili scopi e modi, e in tal modo addirittura a caratterizzare diverse forme di civiltà» 15. L’atteggiamento dominante della dottrina penalistica esorta con- divisibilmente alla cautela quando si tratta di valutare input di politi- ca del diritto che rivelano una componente emotiva. Ciò non significa cadere nell’eccesso opposto, ossia immaginare o ipotizzare un diritto penale sordo e cieco rispetto a qualsivoglia istanza di matrice emoti- va: un ideale ben poco plausibile, poiché la risposta penalistica è ne- cessariamente anche una risposta a emozioni che si legano inevita- bilmente ai fatti di vita su cui il diritto interviene, e dovrebbe in que- sto senso cercare di acquisire una «capacità di rispettoso governo del- le emozioni e dei sentimenti, come tale autenticamente liberale, ossia costantemente sostenuta dalla consapevolezza di come lo stesso si- stema di regolazione debba rassegnarsi, ma anche trarre vantaggio, da questa sorta di “passività buona”» 16. Da ciò la rilevanza, in primo luogo per la riflessione teorica, delle risonanze emozionali che trapelano dai conflitti interrelazionali, fra cui anche quelli legati alla libertà di espressione. L’obiettivo non è assecondare ciecamente le pretese di una delle incompatibile con una ‘vera’ manifestazione del pensiero; tale posizione è esplici- tata in NUVOLONE, Reati di stampa, Milano, 1971, p. 19: «poiché critica significa dissenso ragionato dall’opinione o dal comportamento altrui, sarà estraneo all’at- tività critica ogni apprezzamento negativo immotivato o motivato da una mera animosità personale, e che trovi, pertanto, la sua base in un’avversione di caratte- re sentimentale e non in una contrapposizione di idee». Il problema divise la dot- trina penalistica: si vedano a sostegno di un’apertura liberale PULITANÒ, Libertà di pensiero e pensieri cattivi, cit., pp. 187 ss.; più recentemente, PELISSERO, Reato po- litico e flessibilità delle categorie dogmatiche, Napoli, 2000, pp. 212 ss.; per l’opi- nione opposta v. ZUCCALÀ, Personalità dello Stato, ordine pubblico e tutela della li- bertà di pensiero, in AA.VV., Legge penale e libertà di pensiero, Padova, 1966, pp. 81 ss. Tale distinzione si lega alla categorizzazione fra manifestazioni del pensiero ‘pure’ e forme di sollecitazione all’azione, utilizzata anche dalla Corte costituzio- nale ad esempio nella sentenza n. 87/1966; per una critica vedi CARUSO, La libertà di espressione in azione, cit., pp. 95 ss. 15 PULITANÒ, Spunti critici in tema di vilipendio della religione, in Riv. it. dir. proc. pen., 1969, p. 225.  16 FORTI, Le ragioni extrapenali, cit., p. 1114.  Sensibilità individuali e libertà di espressione 109 parti, bensì riuscire ad avere una migliore visuale sulle sfumature as- siologiche che ogni singola vicenda lascia emergere. Come osservato da autorevole dottrina, vi è l’esigenza di «riuscire a gettare luce al di là del magma dei sentimenti, nel tentativo di trarre da essi ragioni argomentabili nella discussione pubblica e nel dibattito politico cri- minale» 17. Riteniamo che affrontare problemi concernenti la libertà di espres- sione anche attraverso una ragionevole attenzione alla dimensione affettiva, possa arricchire i contenuti del dibattito. In primo luogo, un attento sguardo alle dinamiche emozionali porta a non perdere di vista la dimensione socio-antropologica dei conflitti, a non perdersi nel ‘cielo dei concetti’ ma piuttosto a cercare di indagare le matrici umane del dissenso, le eventuali cause e i potenziali effetti di una conflittualità che oggi presenta tratti fortemente degenerati, con pre- occupanti echi che attingono da un inquietante repertorio di odio e di contrapposizioni. Sul piano della definizione dell’offesa, guardando i problemi at- traverso la prospettiva dello scontro fra sensibilità emerge un dato di fondo: non sono coinvolti beni primari quali la vita, l’integrità fisica o la libertà di autodeterminazione; si attinge un livello non esiziale ma comunque significativo, poiché dietro un’offesa a sentimenti si profi- la la possibilità di una sofferenza – in termini di emozione negativa 18 – nel venire a contatto, o anche semplicemente a conoscenza, di for- me di contrasto o di disapprovazione che hanno ad oggetto idealità, visioni del mondo, valori. Con le parole si possono toccare corde sen- sibili dell’animo, quando vengono criticati o irrisi simboli, dogmi nei quali un individuo si riconosce, anche a prescindere dal fatto che una data espressione sia rivolta a lui e quando colpisce in modo indistinto una molteplicità di soggetti accomunati da una credenza. Qual è l’elemento che può legittimare interventi normativi? È il disagio emozionale soggettivo che scaturisce di fronte a manifesta- zioni di pensiero che sostengono valori e visioni del mondo opposte a quella in cui ci si identifica? O l’attenzione va posta su ragioni ulte- 17 FIANDACA, Considerazioni intorno a bioetica e diritto penale, cit., p. 555. Giu- sto il contrario, dunque, di un uso populistico e meramente retorico dell’appello a sentimenti ed emozioni, il quale peraltro è assai frequente nel dibattito pubblico come osserva D’AGOSTINI, Verità avvelenata. Buoni e cattivi argomenti nel dibattito pubblico, Torino, 2010, pp. 122 ss. 18 Sul concetto di ‘polarità’ delle emozioni, o ‘valenza’, v., ex plurimis, TERONI, Più o meno: emozioni e valenza, in AA.VV., a cura di Tappolet-Teroni-Konzelmann Ziv, Le ombre dell’anima, cit., pp. 3 ss.   110 Tra sentimenti ed eguale rispetto riori che non hanno un’univoca corrispondenza con il contenuto co- gnitivo delle reazioni emotive suscitate? Le risposte a tali interrogativi possono condurre ad approcci pro- fondamente diversi, sintetizzabili a nostro avviso in forme paradig- matiche 19: da un lato un modello di intervento giuridico che potrem- mo definire ‘naturalistico-emozionale’, e dall’altra un modello ‘razio- nalistico-normativo’. Nel primo caso il sentire individuale è preso in considerazione nella dimensione fisico-naturalistica, come coefficiente di reattività psichica nelle interazioni relazionali e dunque come problema di so- glie di sensibilità soggettiva da verificarsi sul piano empirico, secon- do un’impostazione che individua il bene finale nella tranquillità emo- tiva della persona. L’approccio alternativo, ossia il modello ‘razionalistico-normati- vo’, cerca di identificare, attraverso le emozioni manifestate e i sen- timenti chiamati in gioco, istanze e rivendicazioni che possano essere tradotte in concetti razionalmente e normativamente filtrati, e valuta- te dunque in rapporto a cornici assiologiche di riferimento 20. In altri termini, l’approccio ‘razionalistico-normativo’ si propone di inqua- drare i problemi in una prospettiva nella quale la dimensione pret- tamente emozionale costituisce elemento da tradurre in un contesto 19 Utilizzo il concetto di ‘modello-paradigma’ nell’accezione di SARTORI, Logica, metodo e linguaggio nelle scienze sociali, cit., pp. 98 ss. 20 Si tratta di modelli di approccio che evocano alla memoria del penalista soluzioni metodologiche e interpretative elaborate in relazione all’inquadra- mento dell’interesse protetto nella tutela penale dell’onore: le concezioni ‘fattua- le’ e ‘normativa’. La prima configura l’onore come sentimento individuale, o, in riferimento alle condotte di diffamazione, come elemento sociopsicologico su base collettiva; secondo la concezione normativa, cui possono affiancarsi le successive rielaborazioni in chiave di concezione ‘mista’, l’onore è da intendersi come riflesso del valore dell’individuo in quanto tale, ossia come proiezione del- la dignità umana. Nel discorso penalistico sull’onore emergono in nuce que- stioni di fondamentale importanza: il rapporto tra dimensione fattuale e proie- zione normativa dello stato psicologico associabile al concetto di onore non è altro che la ricaduta settoriale di un nodo problematico che ricorre di fronte a ogni tipo di sentimento evocato dal diritto come oggetto di tutela. Nella dottri- na italiana, ex plurimis, MUSCO, Bene giuridico e tutela dell’onore, cit., pp. 4 ss.; SIRACUSANO, Problemi e prospettive della tutela penale dell’onore, in AA.VV., Verso un nuovo codice penale. Itinerari, problemi, prospettive, Milano, 1993, pp. 337 ss.; GULLO, Diffamazione e legittimazione dell’intervento penale. Contributo a una riforma dei delitti contro l’onore, Roma, 2013, pp. 17 ss.; per un’originale riela- borazione del tema, v. TESAURO, La diffamazione come reato debole e incerto, To- rino, 2005, pp. 11 ss.   Sensibilità individuali e libertà di espressione 111 di diritti di libertà e doveri di rispetto, con tutte le complessità che ne discendono in termini di bilanciamento. Esporremo i tratti salienti di tali modelli sulla base del pensiero di due autorevoli studiosi che hanno a nostro avviso contribuito a mo- strarne le coordinate fondamentali. 2. Approccio ‘naturalistico-emozionale’ Intendiamo come ‘naturalistico-emozionale’ un modello di inter- vento che assuma a riferimento primario la dimensione naturalistica del sentire, identificata in manifestazioni di reattività emotiva cui il diritto attribuisca rilevanza tramite la costruzione di precetti fondati su eventi di tipo psichico. Una simile prospettiva, nel caso sia volta a preservare la sfera psi- cologica degli individui da turbamenti emotivi dovuti alla semplice cognizione o al contatto ravvicinato con esternazioni di opinioni, comunicazione di contenuti di pensiero o più in generale con atteg- giamenti che suscitino contrasto fra sostenitori di visioni del mondo diverse, appare un’opzione fortemente problematica, e con buona probabilità impraticabile. Obiettare la mancanza di un’offesa significativa dal punto di vista penalistico è però un argomento non decisivo se si apre la riflessione alle concettualizzazioni di matrice anglo-americana dei cosiddetti Harm Principle e Offense Principle 21: da questo punto di vista non è af- 21 Constatata la crisi del cosiddetto ‘bene giuridico’, anche nella dottrina italiana si è fatto sempre più concreto l’interesse per le categorie dello Harm e dell’Offense, ricostruite soprattutto sulla base del pensiero di Joel Feinberg. Nella letteratura ita- liana il pensiero di Feinberg è stato fra i temi privilegiati di recenti studi collettanei dedicati al tema della legittimazione del diritto penale: v. AA.VV., a cura di Fianda- ca-Francolini, Sulla legittimazione del diritto penale, cit.; AA.VV., a cura di Cadoppi, Laicità, valori e diritto penale, cit.; si veda lo studio monografico di FRANCOLINI, Ab- bandonare il bene giuridico? Una prospettiva procedurale per la legittimazione del di- ritto penale, Torino, 2014, pp. 78 ss.; fra gli articoli in cui si ‘dialoga’ con le categorie feinberghiane v. CADOPPI, Liberalismo, paternalismo e diritto penale, cit., pp. 83 ss.; ID., Presentazione. Principio del danno (Harm Principle) e limiti del diritto penale, in AA.VV., a cura di Cadoppi, Laicità, valori e diritto penale, cit., pp. VII ss.; FORTI, Principio del danno e legittimazione “personalistica” della tutela penale, in AA.VV., a cura di Fiandaca-Francolini, Sulla legittimazione del diritto penale, cit., pp. 56 ss.; FIANDACA, Laicità, danno criminale e modelli di democrazia, in AA.VV., a cura di Ri- sicato-La Rosa, Laicità e multiculturalismo. Profili penali ed extrapenali, cit., pp. 18 ss.; ID., Diritto penale, tipi di morale e tipi di democrazia, in AA.VV., a cura di Fianda-   112 Tra sentimenti ed eguale rispetto fatto scontato che una tutela di meri sentimenti, o, più propriamente, volta a evitare emozioni negative, sia estranea all’ambito della penaliz- zazione legittima, ma si tratta al contrario di un problema aperto. Le categorie del pensiero giuridico anglo-americano sono partico- larmente efficaci nell’illustrare la stratificazione di soglie di offesa che possono ipoteticamente essere addotte per legittimare interventi penali: il discorso è infatti aperto non solo al danno, lo Harm, ma anche a forme di interferenza con interessi della persona meno incisive, ossia l’Offense, traducibile come ‘molestia’ 22. In particolare, è l’Offense Prin- ciple la categoria che meglio si presta a riassumere il tipo di offese che si legano al contatto sgradito con determinati atteggiamenti e contenu- ti espressivi 23. ca-Francolini, Sulla legittimazione del diritto penale, cit., pp. 153 ss. DONINI, “Danno” e “offesa” nella c.d. tutela penale dei sentimenti, cit., ROMANO, Danno a sé stessi, pa- ternalismo legale e limiti del diritto penale, cit.; PULITANÒ, Paternalismo penale, cit.; ID., voce Offensività del reato (principio di), in Enciclopedia del diritto, Annali VIII, Milano, 2015, pp. 683 ss.; DE MAGLIE, Punire le condotte immorali?, cit., pp. 938 ss. L’approccio feinberghiano ha suscitato interesse anche in Germania, per quanto, come espressamente affermato da Tatiana Hörnle, fino ai primi anni Duemila non sia stato oggetto di particolari approfondimenti, forse anche, secondo la Hörnle, per la mancata traduzione dei testi di Feinberg in tedesco, v. HÖRNLE, Offensive Beha- viour and German Penal Law, in 5 Buffalo Criminal Law Review, 2001, pp. 258 ss., anche per una sintetica analisi delle concettualizzazioni feinberghiane in rapporto al diritto penale tedesco. 22 Va specificato che l’atteggiamento di maggiore o minore apertura a principi di legittimazione diversi dallo Harm Principle discende da pregiudiziali politico- filosofiche: ad esempio, secondo una posizione di ‘liberalismo estremo’ solo il principio del danno (Harm) dovrebbe costituire criterio legittimo di incrimina- zione. In questo senso la posizione di Joel Feinberg si presenta più aperta, poiché non esclude che fra le ‘buone ragioni’ vi possano essere criteri complementari allo Harm: «[è] Feinberg, sostanzialmente, che amplia il discorso al c.d. “offense prin- ciple”», v. CADOPPI, Liberalismo, paternalismo, cit., p. 92; cfr. FIANDACA, Diritto pe- nale, tipi di morale, cit., p. 156. 23 Il concetto di Harm di matrice feinberghiana non corrisponde in toto a quel- lo che ha trovato successivamente applicazione nel sistema statunitense: lo Harm è stato oggetto di una dilatazione che ha portato ad allargarne lo spettro di rile- vanza, e molti dei problemi collocati da Feinberg nell’Offense sono ricollocati oggi in una versione più estesa dello Harm; per una sintesi v. DE MAGLIE, Punire le con- dotte immorali?, cit., pp. 947 ss. Si veda anche infra, nota 65. Sull’applicazione dello Harm a problemi concernenti la libertà di espressione v. COHEN, Psychologi- cal Harm and Free Speech on Campus, in 54 Society, 2017, pp. 321 ss. Harm e Of- fense non sono incompatibili fra loro, ma come principi di sistema possono inte- ragire in termini di complementarietà, ossia è possibile che alcune norme dell’or- dinamento penale si legittimino in nome dello Harm Principle e altre in norme dell’Offense Principle. Non va peraltro dimenticato che «I principi compendiano le ragioni morali che possono sostenere le proibizioni penali [...] servono a circo-   Sensibilità individuali e libertà di espressione 113 Illustriamo tali concetti attraverso un cursorio richiamo alla più importante elaborazione sul tema, ossia lo studio di Joel Feinberg dedicato ai limiti morali del diritto penale e in particolare al tema dell’Offense Principle 24. 2.1. La prospettiva dell’Offense secondo Joel Feinberg Cominciamo da un’importante distinzione: secondo Feinberg quando si parla di tutela della tranquillità psichica volta a evitare reazioni di disgusto, di rabbia e altre emozioni negative, bisogna di- stinguere fra molestie in cui vi è la compresenza di soggetto attivo e vittima, fondate su percezioni di tipo visivo, uditivo o olfattivo, e altre condotte tali da poter suscitare sensazioni sgradite pur senza un rap- porto di diretta percezione, ma semplicemente a seguito della presa di conoscenza. Nel primo caso si tratta della cosiddette ‘nuisance’, ossia offese ai sensi: nelle ‘mere offensive nuisance’ il torto (wrong) coincide ed è in- scindibile dall’esperienza di percezione visiva, uditiva, olfattiva o tat- tile 25. Nel secondo caso si tratta di forme di molestia, cosiddette ‘pro- found offenses’, le quali attingono una sensibilità di ordine più elevato e sono tali da indurre sofferenza e disagio anche quando non vi sia percezione sensoriale diretta. Le ‘profound offenses’ si differenziano dalle nuisances in quanto potrebbero continuare a provocare fastidio anche dopo l’iniziale presa di conoscenza 26: esempi addotti da Fein- berg sono il voyeurismo, la propaganda nazista e razzista in generale, le offese a simboli civili e religiosi, l’oltraggio a cadaveri; una dimen- scrivere l’ambito all’interno del quale la restrizione della libertà dei consociati è, secondo la concezione che li sostiene, moralmente legittima: ma non escludono le ulteriori valutazioni di utilità sociale e di effettiva opportunità che un determina- to legislatore positivo dovrà compiere prima di decidere se dovrà emanare o me- no una norma penale», v. FRANCOLINI, Abbandonare il bene giuridico, cit., p. 78. 24 FEINBERG, The Moral Limits of the Criminal Law, vol. II, Offense to Others, New York-Oxford, 1985. Una versione in nuce dell’elaborazione feinberghiana sullo Harm e Offense Principle, precedente alla tetralogia sui limiti morali del di- ritto penale, è contenuta in FEINBERG, Filosofia sociale, tr. it., Milano, 1996 (or. 1973), pp. 55 ss. 25 «[I]t is experiencing the conduct, not merely knowing about it, that of- fends», FEINBERG, The Moral Limits of the Criminal Law, vol. II, Offense to Others, cit., p. 58. 26 FEINBERG, The Moral Limits of the Criminal Law, vol. II, Offense to Others, cit., p. 51.   114 Tra sentimenti ed eguale rispetto sione che potremmo definire di ‘sensibilità morale’ nella quale la le- sione si lega a qualcosa di esterno al soggetto e viene definita ‘pro- fonda’ a causa del suo impatto su una sensibilità non meramente ‘epidermica’, e che non dipende dall’effettivo coinvolgimento emotivo di individui determinati. Quanto all’eventuale rilevanza penale, per Feinberg le profund of- fenses che non siano contemporaneamente anche nuisances, ossia commesse in un luogo pubblico e percepite da soggetti terzi, non do- vrebbero rientrare nell’area di criminalizzazione legittima coperta dall’Offense Principle 27. Con un’importante conseguenza: se le offese a sensibilità di alto livello non vengono realizzate attraverso condotte in grado di colpire anche la sensibilità di soggetti presenti, potrebbe escludersi la loro incriminabilità secondo il criterio dell’Offense, e si dovrebbe far ricorso a principi di legittimazione differenti, e del tutto distonici rispetto alle prospettive liberali: il moralismo giuridico 28. In secondo luogo, anche se si interpretasse il pensiero feinber- ghiano ammettendo che le cosiddette ‘profund offenses’ possano teo- ricamente costituire oggetto di incriminazione in quanto riconducibi- li all’Offense Principle, resta il fatto che i criteri di bilanciamento che Feinberg enuncia come ‘massime di mediazione’ porrebbero un serio ostacolo all’incriminazione di offese a sensibilità di ‘alto livello’ 29. Fra 27 Per una sintesi v. FRANCOLINI, Abbandonare il bene giuridico?, cit., pp. 218 ss. 28 È l’opinione di FRANCOLINI, Abbandonare il bene giuridico, cit., p. 221. Sui rapporti tra Offense Principle e Harmless Wrongdoing v. FEINBERG, The Moral Li- mits of Criminal Law, vol. IV, Harmless Wrongdoing, New York-Oxford, 1988, pp. 15 s.; ID., Filosofia sociale, cit., pp. 67 ss. Per una sintesi v. FIANDACA, Punire la semplice immoralità?, cit., pp. 208 ss.; DE MAGLIE, Punire le condotte immorali?, cit., pp. 945 ss. 29 FEINBERG, The Moral Limits of the Criminal Law, vol. II, Offense to Others, cit., p. 60. Nella teorizzazione feinberghiana il provare un’emozione negativa non è requisito che esaurisce gli elementi costituitivi dell’offense: condotte in grado di suscitare nei terzi sensazioni sgradevoli possono scaturire da attività che fanno parte dell’agire quotidiano di ogni individuo, attività comprese nella normale vita di relazione, e che tuttavia possono produrre quelli che sono dei cosiddetti ‘stati mentali sgraditi’. Per ovviare a possibili eccessi, Feinberg rimarca l’esigenza di elaborare dei criteri di bilanciamento che operino nel senso di restringere l’ambi- to di criminalizzazione della molestia. Secondo le ‘massime di mediazione’ da lui elaborate, va esaminato il limite della cosiddetta seriousness della molestia, e del- la reasonableness della condotta attiva: in sintesi, la serietà della molestia dipende dalla sua intensità, dalla durata; dall’estensione; dal grado di evitabilità (la diffi- coltà di sottrarsi senza inconvenienti alla situazione in cui si è assistito alla mole- stia è un parametro per la gravità della condotta attiva); dalla massima del con- senso, per cui l’assunzione volontaria del rischio di incorrere nelle condotte di   Sensibilità individuali e libertà di espressione 115 i parametri di selezione vi è infatti quello della ‘ragionevolezza’ del- l’offesa, valutabile attraverso i criteri dell’importanza che la condotta riveste per l’agente, e dell’eventuale utilità sociale della condotta stes- sa, con la conseguenza che azioni pur offensive, ma che siano al con- tempo forme di espressione dell’individuo, potrebbero essere consi- derate lecite in forza del valore individualistico (importanza per l’agen- te) e collettivistico (utilità sociale) della condotta 30. In relazione alla suscettibilità individuale, Feinberg è categorico nel porre un’obiezione alla tutela di soggetti caratterizzati da un’ab- norme emotività, definendoli ‘cavalli capricciosi’ (skittish horses): quan- to più un soggetto è emotivamente suscettibile, tanto meno potrà pre- tendere che il diritto penale assecondi le sue pretese 31. Fin qui la teorizzazione di Feinberg sembrerebbe sostanzialmente contraria all’incriminazione di condotte che offendano valori e sensi- bilità di ordine elevato. Se dovessimo proiettare le categorie feinberghiane nel diritto ita- liano potremmo associare tendenzialmente la c.d. tutela di ‘sentimen- ti-valori’ alle ‘profund offenses’, come offese ad aspetti concernenti il piano dei valori costitutivi dell’identità morale che attingono strati profondi 32 e relegano in posizione marginale, anche se forse non del tutto irrilevante, il profilo della nuisance 33. offense esclude la rilevanza penale di queste, v. ID., The Moral Limits of the Crimi- nal Law, vol. II, Offense to Others, cit., pp. 35 ss. 30 «no amount of offensiveness in an expressed opinion can counterbalance the vital social value of allowing unfettered personal expression», FEINBERG, The Moral Limits of the Criminal Law, vol. II, Offense to Others, cit., p. 39. 31 FEINBERG, The Moral Limits of the Criminal Law, vol. II, Offense to Others, cit., p. 34. Negli Stati Uniti si è recentemente sviluppato un dibattito avente ad oggetto la libertà di espressione nei campus e nei college, in relazione alla sensibi- lità degli studenti e alla possibilità che un’assoluta deregolamentazione della li- bertà di manifestare il proprio pensiero si riveli loro pregiudizievole: il tema è no- to come ‘Snowflakes’ (letteralmente ‘fiocchi di neve’, appellativo per gli studenti sensibili). L’orientamento maggioritario tende a ritenere illegittime eventuali re- strizioni alla libertà di espressione nei campus, adducendo il fatto che il plurali- smo delle idee, e il confronto anche aspro, è ciò che deve contribuire a formare e rafforzare la personalità degli studenti; per una sintesi di tale posizione v. COHEN, Psychological Harm and Free Speech, cit., pp. 320 ss. 32 Cfr. SPENA, Libertà di espressione e reati di opinione, cit., pp. 694 ss., il quale ri- chiama le sensibilità di alto livello quale chiave di lettura dei c.d. ‘reati d’opinione’. 33 Il profilo del turbamento da contatto visivo o comunque fisico assume una rilevanza, quantomeno sul piano della costruzione del tipo di reato, nel caso degli atti osceni; per quanto non si richieda la verifica di un disagio concretamente esperito da qualcuno, la fisionomia del fatto tipico resta basata su un’esperienza   116 Tra sentimenti ed eguale rispetto Inferire dalle teorie feinberghiane l’illegittimità tout court di in- criminazioni come ad esempio la propaganda razzista sarebbe però affrettato: va infatti rimarcato che Feinberg introduce una deroga espressa (ad hoc amendment) alla sua costruzione teorica al fine di dare un fondamento di legittimazione alla criminalizzazione di con- dotte di insulto rivolte a minoranze etniche, razziali, e religiose. Se infatti in linea di principio egli afferma che fra le massime di media- zione vada contemplato anche il cosiddetto ‘standard di universalità’, ossia la verifica che il comportamento offensivo sia ritenuto tale da una considerevole maggioranza di persone prese a campione dall’in- tera popolazione34, e dunque che l’offensività non debba essere de- dotta dal capriccio di pochi, nondimeno egli ritiene che vada fatta una deroga nel caso di offese indirizzate a certe minoranze, cui la mag- gioranza potrebbe restare indifferente ma che, agli occhi di Feinberg, dovrebbero meritare una rilevanza normativa. Se da un lato tale eccezione sembra introdurre una falla nella com- plessiva coerenza dell’impianto teorico feinberghiano35, dall’altro lato la deroga evidenzia come anche all’interno di posizioni fortemente li- berali sia avvertita l’esigenza di lasciare aperta la possibilità di limiti a determinate forme e contenuti espressivi: la motivazione non risiede nell’eventuale turbamento emotivo (diversamente ricadrebbe nel di- scorso delle nuisance), ma le ragioni sono più plausibilmente da ricer- carsi sul piano dei principi normativi e, in particolare, in relazione alle modalità tramite le quali una democrazia liberale dovrebbe tutelare le minoranze in una cornice di uguaglianza sostanziale. Appare evidente che la partita decisiva si gioca su valori; sia il principio dello Harm, sia il principio dell’Offense, non possono fare affidamento una base oggettiva e neutrale al punto da poter prescin- dere da una preliminare scelta assiologica su quali siano gli interessi la cui lesione deve essere considerata rilevante 36 e soprattutto su co- visiva, e che dunque richiede un contatto fra soggetti e non può limitarsi alla semplice presa di conoscenza. 34 FEINBERG, The Moral Limits of the Criminal Law, vol. II, Offense to Others, cit., pp. 26 ss. 35 Per un’attenta critica v. MANIACI, Come interpretare il principio del danno, in Ragion pratica, 1/2017, pp. 160 ss. 36 FORTI, Per una discussione sui limiti morali del diritto penale, tra visioni “liberali” e paternalismi giuridici, in AA.VV., a cura di Dolcini-Paliero, Studi in onore di Giorgio Marinucci, vol. I, cit., pp. 315 ss.; sulla componente valoriale del concetto di danno cfr. FIANDACA, Punire la semplice immoralità? Un vecchio interrogativo che tende a ri- proporsi, in AA.VV., a cura di Cadoppi, Laicità, valori, diritto penale, cit., p. 225.   Sensibilità individuali e libertà di espressione 117 me debbano essere bilanciate le opposte pretese. Nell’impostazione feinberghiana, comunque incentrata su aspetti di sensibilità soggetti- va, tale ruolo è svolto, come detto, dalle c.d. ‘massime di mediazione’; va però osservato che dopo Feinberg l’evoluzione dell’Offense Princi- ple sarà caratterizzato da un processo di ‘depsicologizzazione’, il qua- le condurrà a definizioni normativamente più pregnanti, per quanto ancor problematiche, come ad esempio quella proposta da Andrew Von Hirsch 37. Tirando le fila del discorso, un approccio puramente ‘naturalisti- co-emozionale’ al problema della tutela di sentimenti appare difficil- mente praticabile poiché finirebbe per incrementare la conflittualità. Secondariamente, anche le declinazioni a nostro avviso più vicine all’approccio naturalistico rivelano l’ineludibilità di un filtro norma- tivo delle pretese, volto a distinguere fra atteggiamenti ragionevoli e irragionevoli secondo una prospettiva di tollerabilità sociale. Il pas- saggio al piano di una considerazione delle emozioni e dei sentimenti da un punto di vista normativo è dunque inevitabile, così come è ine- vitabile far confluire le diverse istanze in una prospettiva di bilan- ciamento. Tale esigenza viene approfondita in particolar modo dalla statuni- tense Martha Nussbaum, e proprio a partire dalle sue elaborazioni cercheremo di illustrare le coordinate di un approccio alternativo. 37 VON HIRSCH, The Offence Principle in Criminal Law: Affront to Sensibility or Wrongdoing?, in 11 King’s Law Journal, 2000, pp. 82 ss. Il correttivo adottato da Von Hirsch – il quale ritiene che, inteso come ‘affront to sensibility’, l’Offense Prin- ciple sia troppo espansivo – consiste nel valutare la condotta ritenuta offensiva sia secondo parametri di adeguatezza sociale, sia soprattutto includendo nel giudizio il principio morale del reciproco rispetto: «All three reasons invoke convention to give social meaning to the conduct, but entail a further reason of a moral kind, concerned with treating others with proper respect»; v anche ID., I concetti di “danno” e “molestia” come criteri politico-criminali nell’ambito della dottrina pena- listica angloamericana, in AA.VV., a cura di Fiandaca-Francolini, cit., pp. 35 ss. Nel complesso, l’Offense feinberghiana è stata sottoposta a un graduale processo di depsicologizzazione che ne ha ridotto in buona parte il divario con lo Harm; osserva icasticamente HÖRNLE, Offensive Behaviour and German Penal Law, cit., p. 268, che «If one does not view “offense to others” as a psychological phenome- non, as does Feinberg, but as a normative concept, the conceptual difference between harm and offense disappears».   118 Tra sentimenti ed eguale rispetto 3. Approccio ‘razionalistico-normativo’: emozioni ragionevoli e irragionevoli secondo Martha Nussbaum Definiamo ‘razionalistico-normativo’ un approccio teorico che su- bordini la rilevanza giuridica di atteggiamenti emotivi e di fatti di sentimento alla valutazione dei relativi contenuti cognitivi, e in parti- colare alla verifica dell’adeguatezza del giudizio di valore alla base dell’atteggiamento emozionale, intesa come consonanza o compatibi- lità rispetto a principi base della convivenza. Martha Nussbaum assume come presupposto l’innegabile rilevan- za del fattore emozionale nel diritto e nelle questioni di etica pubbli- ca, sostenendo la necessità di un ‘buon uso’ delle emozioni, non di un avallo acritico, alla luce di ragioni che si intrecciano con profili di psicologia sociale e con valori di fondo connessi ai sistemi politici e ai modelli di democrazia. Per ora ci limitiamo a sintetizzare il cuore della prospettiva politi- co-normativa della Nussbaum, al fine di evidenziare come, rispetto alla teorizzazione di Feinberg, la componente sensoriale-emotiva ri- sulti decisamente in secondo piano. L’obiettivo che emerge dalle ope- re della Nussbaum è l’educazione dei legislatori e dei giudici a un ascolto critico e consapevole delle emozioni individuali e collettive, finalizzato a gettare luce sul riconoscimento di diritti e a non asse- condare atteggiamenti fondati su generalizzazioni e stereotipi di- scriminatori che collidono con i valori di una democrazia liberale. Secondo la Nussbaum, l’emozione ha un ruolo rilevante nella for- mazione delle opinioni e dei giudizi dell’individuo, non è un moto cieco e irriflesso ma implica credenze che possono essere più o meno attendibili o ragionevoli (vedi supra, cap. II). È fondamentale inter- rogarsi sui contenuti di pensiero alla base delle emozioni per poter maturare un atteggiamento selettivo sul piano giuridico: «[i] giudizi sulle credenze valutative sono essenziali per il ruolo giocato dalle emozioni nel diritto»38. Conseguentemente, l’etica pubblica non do- vrebbe essere fondata su una matrice puramente emotiva: risulta es- senziale un filtro normativo, ossia un passaggio di confronto fra l’emozione in senso psicologico, i fondamenti cognitivi e un’assiolo- gia di riferimento. È emblematico il caso di un’emozione particolarmente radicata nelle società umane come il disgusto, il quale nella sua dimensione primaria ha la funzione di proteggere l’essere umano da fattori con-  38 NUSSBAUM, Nascondere l’umanità, cit., p. 53.  Sensibilità individuali e libertà di espressione 119 taminanti, rappresentando un fondamentale strumento di sopravvi- venza in rapporto a un’importante sfida adattiva 39: quella di evitare il contatto con sostanze pericolose o nocive per la salute, stando ad esempio lontano da corpi in decomposizione, non abbeverandosi o nutrendosi da fonti di potenziali malattie et similia. Il disgusto esiste per condurre l’essere umano a un approccio se- lettivo, la cui traiettoria era, in origine, rivolta a oggetti cosiddetti ‘pri- mari’ (sangue, feci, sperma, urina, muco, cadaveri), e che con l’evolu- zione dei contesti culturali e delle norme sociali ha subìto un riadat- tamento in termini di proiezione40. Si parla di disgusto ‘proiettivo’ per indicare il caso in cui tale emozione si rivolga a individui o a gruppi di individui in virtù di un’associazione immaginativa deter- minata da norme sociali o dallo stretto contatto del gruppo con og- getti ‘primari’ del disgusto 41. In questo modo esso rischia di farsi por- tatore di una carica discriminatoria poiché si lega a idee di contami- nazione e a un rifiuto dell’animalità (e dunque della limitatezza e del- la mortalità) umana che conduce all’emarginazione e alla stigmatiz- zazione di ciò che può essere percepito come anomalo o ‘diverso’42, fino all’avversione verso soggetti riconducibili a cosiddetti ‘gruppi impopolari’ (minoranze razziali, ebrei, omosessuali, ecc.). Le riflessioni di Martha Nussbaum rappresentano un’importante coordinata riguardo al problema della tutela di sentimenti, per quan- to vadano fatte alcune precisazioni: l’oggetto principale delle analisi della studiosa sono gli atteggiamenti emozionali collettivi e i loro ri- flessi sul piano delle scelte di politica del diritto e, in particolare, di politica penale. In che termini tali indicazioni possono essere utiliz- 39 HAIDT, Menti tribali, cit., p. 159. 40 Come osservano gli antropologi Dan Sperber e Lawrence Hirschfeld, citati da Jonathan Haidt, bisogna distinguere tra fattori di attivazione originari, ossia gli oggetti per i quali la funzione adattiva è stata progettata dall’evoluzione, e fat- tori scatenanti che possono accidentalmente attivare quella reazione, anche in assenza di pericoli reali, in forza di percezioni erronee dovute a distorsioni senso- riali o a condizionamenti socio-culturali. Osserva Haidt che «[l]e variazioni cultu- rali della morale si possono in parte spiegare con il fatto che le culture sono in grado di ridurre o moltiplicare il numero di fattori scatenanti attuali di un qual- siasi modulo», v. HAIDT, Menti tribali, cit. p. 158. 41 NUSSBAUM, Disgusto e umanità, cit., p. 86. 42 NUSSBAUM, Nascondere l’umanità, cit., pp. 98, 157. Per una diversa opinione, volta a sottolineare aspetti in relazione ai quali l’emozione del disgusto può risul- tare importante nel giudizio morale e, secondo gli esempi riportati dall’Autore, anche nelle dinamiche del giudizio penale, v. KAHAN, The Progressive Appropria- tion of Disgust, in AA.VV., ed. by Bandes, The Passions of Law, cit., pp. 63 ss.   120 Tra sentimenti ed eguale rispetto zate relativamente ai problemi concernenti la libertà di espressione e il rispetto dei sentimenti altrui? Il suggerimento traibile dalle riflessioni della Nussbaum concerne l’esigenza di verificare in quale misura eventuali richieste di tutela per un dato sentimento trovino la propria matrice in atteggiamenti che, ad un’attenta valutazione sul piano cognitivo-razionale, rivelano una tendenza al rifiuto dell’altro, e dunque una portata sostanzial- mente discriminatoria. Ci sembra un avvertimento quantomeno opportuno e ben spendi- bile in rapporto alle odierne politiche penali, in cui l’ascolto di emo- zioni collettive si è talvolta rivelato strumentale all’emanazione di provvedimenti volti a raccogliere consenso43, senza valutare, o me- glio omettendo talvolta volutamente di considerare, se e in che misu- ra certe emozioni siano il riflesso di atteggiamenti che una democra- zia basata su libertà e uguaglianza non dovrebbe assecondare. Il punto nodale per addivenire a un modello di intervento orienta- to in termini non puramente emozionali è la previa ‘interpretazione’ delle dimensioni di significato di determinante emozioni e sentimen- ti, da considerarsi dunque non nella loro ‘bruta’ naturalità, bensì soppesandone la rilevanza soggettiva e sociale, e bilanciandola con un sistema di diritti di libertà il quale è a sua volta il precipitato di scelte di valore. La questione dell’orizzonte assiologico cui fare riferimento è cen- trale sia per inquadrare la fisionomia del modello normativo sia per il successivo sviluppo del discorso concernente gli equilibri relativi ai rapporti fra sensibilità soggettive e libertà di espressione.  43 Il problema rimanda al tema del cosiddetto ‘populismo penale’: per una pa- noramica v. PULITANÒ, Populismi e penale. Sull’attuale situazione spirituale della giustizia penale, in Criminalia, 2013, pp. 125 ss.; FIANDACA, Populismo politico e populismo giudiziario, in Criminalia, 2013, pp. 102 ss.   Sensibilità individuali e libertà di espressione 121 SEZIONE II Coordinate assiologiche «Quando sento parlare di idee liberali mi meraviglio sempre di come gli uo- mini giochino volentieri con parole vuote: un’idea non può essere liberale! Deve essere vigorosa, efficace, in sé compiuta, in modo da adempiere alla sua divina missione di riuscire feconda. Ancor meno può essere liberale il concetto; infatti ha un compito completamente diverso» GOETHE J.W., Massime e riflessioni, p. 57 «Non possiamo mai né atteggiarci a difensori radicali del multiculturalismo o dell’individualismo, né essere semplicemente comunitaristi o liberali, modernisti o postmodernisti; dobbiamo essere, al contrario, ora una cosa ora l’altra, a secon- da delle circostanze legate alla ricerca dell’equilibrio» WALZER M., Sulla tolleranza, p. 154 «E non abbiamo ciascuno lo stesso sentimento?» PIRANDELLO L., Il fu Mattia Pascal SOMMARIO: 4. Orizzonte costituzionale e spazio della politica. – 4.1. Dialettica fra prospettive individualiste e collettiviste. – 4.2. Dai valori collettivi all’indivi- dualismo democratico. – 5. Sentimenti ed emozioni come richiamo ‘metoni- mico’ e personologico. – 6. Sinossi. 4. Orizzonte costituzionale e spazio della politica Il modello ‘razionalistico-normativo’ appare quello più funzionale allo sviluppo delle nostre riflessioni, e pone in primo piano la que- stione di quali debbano essere gli assunti valoriali e i principi-guida in rapporto ai quali valutare se determinati ‘sentimenti-valori’ possa- no ragionevolmente accreditarsi come meritevoli di una qualche pro- tezione. Tale problema si articola in diversi piani di analisi: a un primo li-  122 Tra sentimenti ed eguale rispetto vello l’inquadramento di una cornice assiologica è funzionale all’in- terpretazione delle fattispecie vigenti, e trova nella Carta costituzio- nale il referente primario. Come abbiamo avuto modo di osservare, l’impronta ideologica che connota la fisionomia dei reati a tutela di ‘sentimenti’ presenti nel codice penale mostra una distonia rispetto ai principi della Costi- tuzione italiana: nei casi più evidenti ciò ha condotto alla caduta di importanti disposizioni (si pensi all’art. 402 c.p.44), mentre in altri ambiti vi è stata una radicale reimpostazione, a livello giurispruden- ziale, della prospettiva di tutela (si pensi ai reati a tutela della pubbli- ca moralità e del buon costume 45). Negli esempi menzionati si è trattato di eliminare contrasti la cui evidenza ha reso sostanzialmente agevole all’interprete capire quale potesse essere la strada ‘giusta’, o, più cautamente, la soluzione meno in contrasto con la Carta fondamentale, facendo leva in particolare sul connubio fra uguaglianza e laicità: l’uguaglianza ha costituito il parametro costituzionale fondamentale46, mentre attraverso il prin- cipio supremo di laicità 47 la Corte ha delineato la cornice assiologica di base, riconoscendo espressamente il pluralismo come un valore, non solo come un dato di fatto 48. 44 V. supra, cap. III, nota 24. 45 V. supra, cap. III, nota 37 per i riferimenti alla giurisprudenza di legittimità e costituzionale. 46 Si basa sul principio di uguaglianza il nucleo motivazionale della sentenza C. cost., n. 508/2000; per una contestualizzazione di tale pronuncia nel quadro della giurisprudenza costituzionale in materia di uguaglianza, v. DODARO, Ugua- glianza e diritto penale, cit., pp. 152 ss. Relativamente al tema del buon costume, la giurisprudenza costituzionale non è mai arrivata a pronunce di illegittimità, ma solo perché «il principio di conservazione dei valori giuridici – tanto più in casi in cui la dichiarazione d’illegittimità costituzionale comporterebbe, quanto- meno per qualche tempo, l’impunità anche di comportamenti che il legislatore considera inequivocabilmente come illeciti penali – impone il mantenimento in vita di una norma di legge quando a questa possa essere riconosciuto almeno un significato conforme a Costituzione»: con queste parole la Corte, con la sentenza n. 368 del 1992, ha salvato la norma che incrimina le pubblicazioni oscene rimar- cando la necessità di un’interpretazione adeguatrice coerente con gli artt. 21, 27, 2, 3, 13 e 25 Cost. 47 Sulla laicità come principio supremo, o più precisamente come ‘meta- principio’, v., nel contesto penalistico, PALIERO, La laicità penale alla sfida del ‘se- colo delle paure’, in Riv. it. dir. proc. pen., 3/2016, pp. 1164 ss. 48 Questo il messaggio fondamentale che ci sembra leggibile nel richiamo al principio di laicità che «[caratterizza] in senso pluralistico la forma del nostro Stato, entro il quale hanno da convivere, in uguaglianza di libertà, fedi, culture e   Sensibilità individuali e libertà di espressione 123 Vi è poi un secondo livello in cui l’individuazione di coordinate assiologiche ‘vincolanti’ a livello costituzionale diviene più sfumato, e meno univoco: il problema emerge sia in relazione al quadro di in- criminazioni oggi vigenti in cui vengono in gioco bilanciamenti con la libertà di espressione – non solo l’ambito del sentimento religioso ma anche le discusse norme sulla propaganda razzista – e si proietta, con ulteriore complessità, nella riflessione de jure condendo. Il sospetto di una illegittima compressione di spazi di libertà sem- bra richiedere un onere argomentativo più gravoso poiché, pur te- nendo sempre ben presente la bussola assiologica della Costituzione, il giurista penale si trova a doverne constatare la limitata precettività, ossia la compatibilità con un ventaglio di prospettive di segno diverso le quali potrebbero risultare tutte ‘non illegittime’ 49. Proprio quando si fanno più stringenti le esigenze di individuare soluzioni che ambiscano a una legittimazione costituzionale ‘forte’, e specialmente quando le materie da regolare chiedano al diritto prese di posizione che implicano l’assunzione di un punto di vista ideologi- camente pregnante50, la speranza di trovare nel testo costituzionale tradizioni diverse», testualmente contenuto nella sentenza n. 508/2000 (ma si ve- da anche l’inciso finale della sentenza n. 440/1995 sulla parziale illegittimità costi- tuzionale dell’incriminazione della bestemmia). Per la distinzione tra pluralismo come fatto e come atteggiamento v. MARCONI, Per la verità. Relativismo e filosofia, Torino, 2007, pp. 89 ss.; BARBERIS, Etica per giuristi, Roma-Bari, 2006, pp. 105 ss., 157 ss. Per una sintesi della portata assiologica e costituzionale del principio di laicità v., ex plurimis, BARBERA, Il cammino della laicità, in AA.VV., a cura di Ca- nestrari-Stortoni, Valori e secolarizzazione nel diritto penale, Bologna, 2009, pp. 19 ss.; nell’ambito penalistico, con diversità di accenti, v. FIANDACA, Laicità del diritto penale, cit., pp. 167 ss.; PULITANÒ, Laicità e diritto penale, cit., pp. 283 ss.; PALAZZO, Laicità del diritto penale e democrazia “sostanziale”, cit., pp. 440 ss.; CANESTRARI, Laicità e diritto penale nelle democrazie costituzionali, in AA.VV., a cura di Dolcini- Paliero, Studi in onore di Giorgio Marinucci, cit., pp. 139 ss.; EUSEBI, Laicità e di- gnità umana nel diritto penale (pena, elementi del reato, biogiuridica), in AA.VV., a cura di Bertolino-Forti, Scritti per Federico Stella, Napoli, 2007, pp. 163 ss.; FORTI, Alla ricerca di un luogo per la laicità: il “potenziale di verità” nelle democrazie libera- li, in AA.VV., a cura di Canestrari-Stortoni, Valori e secolarizzazione nel diritto pe- nale, cit., pp. 349 ss.; ROMANO, Principio di laicità dello Stato, religioni, norme pe- nali, in AA.VV., a cura di Canestrari-Stortoni, Valori e secolarizzazione nel diritto penale, cit., pp. 209 ss. Sul tema della laicità del diritto penale e delle connessioni con l’etica cattolica, v., per tutti, STELLA, Laicità dello Stato: fede e diritto penale, in AA.VV., a cura di Marinucci-Dolcini, Diritto penale in trasformazione, cit., pp. 317 ss. 49 FIANDACA, Legalità penale e democrazia, in Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, 2007, p. 1268. 50 FIANDACA, I temi eticamente sensibili tra ragione pubblica e ragione punitiva, in Riv. it. dir. proc. pen., 4/2011, pp. 1383 ss.   124 Tra sentimenti ed eguale rispetto una risposta definitiva deve fare i conti con una vocazione pluralisti- ca della Carta 51, la quale non addita soluzioni univoche ma è «suscet- tibile di subire più interpretazioni e più modalità di attuazione, entro uno spazio di discrezionalità politico-valutativa all’interno del quale nessuna interpretazione o modalità di attuazione può vantare titoli per imporsi come l’unica corretta o, al contrario, essere censurata perché scorretta» 52. Va dunque ridimensionata l’ambizione di usare il testo costituzio- nale come ‘strumento di precisione chirurgica’ per tratteggiare diret- tive univoche che consentano al giurista positivo di accreditare da un punto di vista intraordinamentale risposte concernenti conflitti fra libertà di espressione e sensibilità soggettive 53. Alla luce di tale panorama si è esortato a fare un uso ‘avveduto e parsimonioso’ della Costituzione 54. A nostro avviso, tale uso prudente potrebbe essere accompagnato, financo ‘compensato’, da una rifles- sione che esplori un ulteriore livello di normatività, trascendente sia il contesto codicistico sia l’orizzonte costituzionale 55, nella consape- 51 Sul pluralismo della Carta costituzionale italiana, in termini problematizzanti, v. ANGIOLINI, Il «pluralismo» nella Costituzione e la Costituzione per il «pluralismo», in AA.VV., a cura di Bin-Pinelli, I soggetti del pluralismo nella giurisprudenza costitu- zionale, Torino, 1996, pp. 14 ss. Fra i penalisti, con particolare riferimento al carat- tere non esaustivo dei principi costituzionali per la scelta degli oggetti di tutela, v. PALAZZO, Principi costituzionali, beni giuridici e scelte di criminalizzazione, in AA.VV., a cura di Pisani, Studi in memoria di Pietro Nuvolone, vol. I, cit., pp. 377 ss.; MANES, Il principio di offensività nel diritto penale, cit., pp. 160 ss. 52 VISCONTI C., Aspetti penalistici, cit., p. 244; cfr. DONINI, “Danno” e “offesa” nel- la c.d. tutela penale dei sentimenti, cit., p. 1576: «la fondazione positiva [...] di ciò che può essere reato, esige una ricostruzione più complessa, che trova nella Costi- tuzione, per es., solo alcuni, pur rilevanti parametri che convergono insieme nel dare al reato anche un volto positivo di matrice costituzionalistica». 53 Sulla teorizzazione di diversi modelli di rapporto e di conflitto fra principi costituzionali (modello ‘minimalista’ e modello del bilanciamento, a sua volta su- scettibile di essere declinato come modello ‘irenistico’ e modello ‘particolaristi- co’), v. CELANO, Diritti, principi e valori nello Stato costituzionale di diritto: tre ipo- tesi di ricostruzione, in Diritto e questioni pubbliche, 4/2004, pp. 8 ss. 54 Sono parole di VISCONTI C., Aspetti penalistici, cit., p. 243. 55 Tale istanza metodologica viene tematizzata ad esempio in FIANDACA, I temi eticamente sensibili, cit., pp. 1389 ss., quando parla di ‘coordinate teoriche e assio- logiche’ del diritto penale contemporaneo facendo riferimento ai concetti di plu- ralismo, ‘ragione pubblica’, costituzionalismo e laicità. Con riferimento all’ambito costituzionalistico v. SILVESTRI, Dal potere ai princìpi. Libertà ed eguaglianza nel costituzionalismo contemporaneo, Roma-Bari, 2009, p. 36. Sul ricorso ad argo- mentazioni morali sostanziali nell’applicazione di disposizioni costituzionali, v. CELANO, Diritti, principi e valori, cit., pp. 2 s.   Sensibilità individuali e libertà di espressione 125 volezza che «l’interpretazione delle disposizioni costituzionali sui di- ritti non è questione di pura tecnica giuridica: è questione politica in senso pieno» 56. Tuttavia, anche una volta che ci si spinga al di là dello spazio normativo della Costituzione per far riferimento all’offerta teorica proveniente dall’ambito filosofico-politico i problemi non svaniscono. Nel discorso penalistico è d’uso il richiamo al liberalismo quale teoria politica di riferimento 57, ma anche tale soluzione non è suffi- ciente a definire prospettive univoche: si parla oggi di «pluralità di liberalismi» 58. Un generico richiamo al liberalismo rischia di dar luogo oggi a una ‘comfort zone’ teoretica la quale non favorisce il confronto fatico- so, e quasi traumatico, con teorie filosofico-politiche che esorbitano da una prospettiva dicotomica ‘liberale-illiberale’. La diversità di vedute concerne principalmente, ma non solo, gli equilibri di priorità fra ‘giusto’ e ‘bene’59, riflesso dell’alternativa fra un liberalismo propriamente politico e un liberalismo eticamente più ‘spesso’ 60. 56 PINTORE, I diritti della democrazia, Roma-Bari, 2003, p. 116. 57 Malgrado l’aspetto ossimorico dell’espressione ‘diritto penale liberale’, v. FORTI, Per una discussione sui limiti morali, cit., p. 331. 58 MAFFETTONE, Fondamenti filosofici del liberalismo, in DWORKIN-MAFFETTONE, I fondamenti del liberalismo, Roma-Bari, 2007, pp. 128 ss. L’osservazione si riferi- sce in primo luogo alla coesistenza di correnti diverse interne all’idea liberale, ma evidenzia come le distinzioni possano dipendere anche dal contesto e dall’ambito disciplinare in cui viene spesa la nozione di ‘liberalismo’: esiste, ad esempio, an- che un «liberalismo dei giuristi [...] più attento alle caratteristiche legali e istitu- zionali» (p. 129). 59 È il problema nel quale si inscrive la dialettica fra posizioni à la Rawls, so- prattutto il Rawls dell’opera ‘Liberalismo politico’, e posizioni comunitariste. Te- sti di riferimento sono da un lato RAWLS, Liberalismo politico, tr. it. a cura di Fer- rara, Roma, 2008, e per le posizioni comunitariste v. per tutti SANDEL, Il liberali- smo e i limiti della giustizia, tr. it., Milano, 1994. Per una panoramica, v. VECA, La filosofia politica, Roma-Bari, 2009, pp. 92 ss. 60 In estrema sintesi, si definisce come ‘liberalismo politico’ la teoria che ritie- ne che lo Stato debba assumere a proprio fondamento una concezione morale minimale su cui sia possibile trovare un punto di incontro e di intersezione fra le diverse teorie morali presenti nella società plurale. In questo senso lo Stato do- vrebbe tendere a una neutralità. Dalla parte opposta, si argomenta come la ricer- ca di una neutralità possa portare da un lato a una eccessiva ‘asetticità valoriale’ e finisca per riservare un’attenzione insufficiente al discorso sulle preferenze e sul benessere degli individui, concependo un idealtipo di essere umano eccessiva- mente ‘vuoto’ e poco realistico. Nell’ampio panorama si vedano le declinazioni del   126 Tra sentimenti ed eguale rispetto Nel prendere atto di tale realtà, il giurista penale è chiamato ad adottare uno sguardo più disincantato anche di fronte all’assioma co- stituito dal richiamo a valori liberali. Dire oggi ‘liberalismo’ equivale ad aprire un discorso gravido di implicazioni problematiche: «[l]’Oc- cidente considera oggi scontato il liberalismo»61, ma «[f]ra tutti i concetti etico-politici odierni, forse, non ve n’è uno che sia più di- scusso del concetto di liberalismo» 62. Il liberalismo rappresenta la cornice culturale, più meno consoli- data, nella quale il pensiero giuridico occidentale, e anche il pensiero penalistico italiano, contestualizzano le proprie riflessioni, ma «L’opzione per la democrazia liberale lascia aperti i problemi della po- litica, anche della politica del diritto. Non addita soluzioni obbligate di questioni eticamente sensibili, o anche solo politicamente sensibili. [...] Delinea (e non è poco) una cornice nella quale chiunque può con- frontarsi con ragioni presentate nel quadro di concezioni comprensive anche molto diverse, ma che possano avere qualcosa da dire su punti che interessano specificamente la politica del diritto» 63. È come dire che il rifugio sotto l’ampio ombrello della dizione ‘li- berale’ non è sufficiente a esaurire gli oneri argomentativi con cui il giurista contemporaneo dovrebbe sostenere una posizione di fronte a temi ad elevato tasso di pregnanza etica ed esposti a una marcata di- screzionalità politica 64. problema elaborate da DWORKIN, I fondamenti dell’eguaglianza liberale, in DWOR- KIN-MAFFETTONE, I fondamenti del liberalismo, cit., pp. 14 ss. (strategia della ‘di- scontinuità’ e della ‘continuità’), e da MAFFETTONE, Fondamenti filosofici del libera- lismo, cit., pp. 133 ss. (liberalismo ‘critico’ e liberalismo ‘realista’). Sul tema si ve- dano inoltre, ex plurimis, NUSSBAUM, Perfectionist Liberalism and Political Libera- lism, in 39 Philosophy and Public Affairs, 2011, pp. 3 ss.; KYMLICKA, Liberal Indivi- dualism and Liberal Neutrality, in 99 Ethics, 1999, pp. 883 ss.; per una sintesi del dibattito a partire dalle critiche di Dworkin a Rawls v. VIOLA, Liberalismo e libera- lismi, in Per la filosofia, 1999, pp. 67 ss. Sul tema della neutralità, o maggiore in- clusività del liberalismo politico rawlsiano, v., ex plurimis, DEL BÒ, La neutralità politica in John Rawls, in Materiali per una storia della cultura giuridica, 1/2009, pp. 241 ss. In ambito penalistico, per un’approfondita rielaborazione di tali pro- blemi v. FORTI, Per una discussione sui limiti morali, cit., pp. 312 ss. 61 DWORKIN, I fondamenti dell’eguaglianza liberale, cit., p. 7. 62 BARBERIS, Etica per giuristi, cit., p. 88. 63 PULITANÒ, Diritto penale, V ed., Torino, 2015, p. 24. 64 Più diffusamente, FIANDACA, I temi eticamente sensibili, cit., pp. 1400 ss.; 1412 ss.; con approccio simile, sebbene con accenti differenti che lo pongono più vicino alle posizioni rawlsiane, PULITANÒ, Diritti umani e diritto penale, in Riv. it.   Sensibilità individuali e libertà di espressione 127 A ben vedere un mero richiamo al liberalismo assume oggi una funzione metaetica, ossia è un presupposto per avviare un discorso su problemi pertinenti la dimensione etica sostanziale: le questioni più spinose prendono corpo in un contesto che dà per acquisiti diritti di libertà, ma è sui contenuti e sulle modalità di esercizio di determi- nati diritti nei rapporti fra individui che si annidano le complessità 65. 4.1. Dialettica fra prospettive individualiste e collettiviste Alla luce del quadro descritto, è comprensibile che lo studioso di problemi penali sia chiamato in definitiva a elaborare proposte ‘poli- tiche’ nel senso nobile del termine, ossia a disegnare prospettive di politica del diritto e a emanciparsi da abiti mentali «che postulano una sorta di obbligo di prestazione scientifica consistente nel conce- pire modelli dogmatici di interpretazione del (presunto) sistema su- scettibili in quanto tali di fissare a priori, con nettezza e definitività, quel che è o non è legittimo trarre penalmente ai sensi della Costitu- zione» 66. L’individuazione di traiettorie assiologiche è l’esito di scelte che riflettono inevitabilmente le precomprensioni e la posizione valo- riale dell’interprete, in un contesto di non-neutralità. Cercheremo a questo punto di formulare ipotesi e proposte a par- tire da quella che ci sembra essere l’alternativa di fondo su cui si è imperniata fino ad oggi la discussione sul sentimento come problema di tutela nel contesto italiano, ossia se esso debba intendersi come richiamo ad atmosfere emozionali diffuse, e che si traducono in for- me di presidio a ideologie e concezioni valoriali proprie della mag- gioranza, oppure se nel richiamo al sentire umano sia rintracciabile dir proc. pen., 4/2013, pp. 1614 ss., 1633 ss., rimarca l’esigenza di tenere ben pre- sente a livello concettuale la distinzione fra valori politici e valori morali, pur ri- conoscendo l’impossibilità di posizioni neutrali. 65 Tale processo di complessificazione della prospettiva liberale si riflette an- che su categorie del pensiero giuridico. È importante notare come il principio del danno, lo Harm, abbia subito un graduale ampliamento dovuto non a una rifor- mulazione della struttura del concetto, bensì legato all’accentuarsi della proble- maticità delle premesse politico-filosofiche che ne guidano l’applicazione: è la ‘mappa del liberalismo’ a essere cambiata, osserva HARCOURT, The Collapse of the Harm Principle, in 90 The Journal of Criminal Law and Criminology, 1999, pp. 115 s., passando da un orizzonte basato sull’alternativa liberale-illiberale, a una pro- spettiva modulata su differenti modelli di liberalismo (Harcourt parla espressa- mente di ‘liberalismo progressista’ e ‘liberalismo conservatore’).  66 VISCONTI C., Aspetti penalistici, cit., p. 136.  128 Tra sentimenti ed eguale rispetto una istanza normativa differente, in grado di dare risalto alla dimen- sione del singolo e al connotato personalistico della Costituzione sen- za necessariamente confluire in un approccio ‘naturalistico-emozio- nale’ modulato su soggettivismi. Come osservato, nelle fattispecie dell’ordinamento italiano i ‘sen- timenti’ tutelati sono parte di una sfera emotiva sociale, ossia ‘atmo- sfere emozionali’ legate a valori assunti in un’ottica collettiva. Il sog- getto portatore degli interessi tutelati è un’entità plurale, una molti- tudine impersonale caratterizzata da valori asseritamente comuni 67. Nell’attuale momento storico la reificazione di entità definite come ‘valori collettivi’ non appare più legata a una retorica statocentrica, ma si presenta piuttosto come possibile reazione a un indebolimento del- l’omogeneità etica e culturale indotto dal pluralismo fattuale 68. 67 «[I]l principio di massima è che il sentimento, anche quando rileva come fatto di coscienza individuale, rileva nella misura in cui è collegato ad un fatto non individuale, appunto a un modo di sentire sociale, a un’atmosfera emoziona- le socialmente diffusa e divisa in più o meno larghi ambiti da un’intera comuni- tà», v. FALZEA, I fatti di sentimento, cit., p. 320. Si valuti ad esempio l’interesse de- nominato ‘sentimento religioso’: il codice Rocco si pone a tutela, nelle rubriche e nella sostanza, alla sola ‘religione di Stato’. È interessante notare come anche do- po l’entrata in vigore della Carta costituzionale, l’oggetto di tutela viene ricostrui- to in un’ottica prettamente collettivistica che privilegia il dato dell’adesione quan- titativa. Pensiamo agli argomenti che la giurisprudenza costituzionale italiana ha adoperato per motivare il differenziato regime di tutela penale del culto cattolico, sia precedentemente sia successivamente alla modifica del Concordato: la Corte nel 1957 parla di «antica ininterrotta tradizione del popolo italiano, la quasi tota- lità del quale ad essa sempre appartiene», e nel 1958 ne legittima la tutela penale in quanto «professata nello Stato italiano dalla quasi totalità dei suoi cittadini, e come tale è meritevole di particolare tutela penale, per la maggiore ampiezza e intensità delle reazioni sociali naturalmente suscitate dalle offese ad essa dirette [in quanto l’] universalità di tradizioni e di sentimenti cattolici nella vita del popo- lo italiano è rimasta, senza possibilità di dubbio, immutata con l’avvento della Costituzione», C. cost., n. 79/1958. Per una riflessione penalistica sul pluralismo delle fedi in Italia v. VISCONTI C., La tutela penale della religione, cit., pp. 1037 ss.; per una panoramica extragiuridica v. GARELLI, Il sentimento religioso in Italia, in Il Mulino, 5/2003, pp. 817 ss. 68 L’impatto della pluralità nella società contemporanea è parte di un processo «che vede la graduale erosione del fondamento tradizionalistico e religioso dei co- stumi e delle istituzioni a vantaggio della coscienza personale, vede crescere l’am- bito delle opzioni soggette al libero esame e all’adesione interiore, e assottigliarsi, per così dire, lo spessore di oggettività degli oggetti sociali [...] Questo processo di “umanizzazione” – di riconduzione ai suoi soggetti ultimi, le persone umane – della vita sociale corrisponde anche a una progressiva estensione dell’ambito delle opzio- ni soggette alla scelta e responsabilità degli individui, e alla giurisdizione della ra- gione», v. DE MONTICELLI, La questione morale, Milano, 2010, pp. 83 ss.   Sensibilità individuali e libertà di espressione 129 In ambito sociologico si riassume tale fenomeno affermando che la modernità pluralizza e deistituzionalizza69. La pluralizzazione na- sce dall’incontro di gruppi diversi, chiamati a condividere territori e spazi comuni in situazioni di mescolanza nelle quali diviene più dif- ficile, se non addirittura impossibile, addivenire a un consenso cogni- tivo e normativo, ossia a una visione del mondo omogenea e condivi- sa. L’allargamento del mercato delle idee moltiplica la possibilità di approcci alternativi alla realtà e contribuisce in questo senso a rende- re la costruzione della propria identità una questione di scelte e non l’esito scontato di programmi socialmente precostituiti 70. A seconda delle cadenze, l’appello a valori comuni giustificati sulla base di un sentire condiviso può rivelare sfumature di autoritarismo etico, soprattutto quando il ‘sentire comune’ sia addotto per sottoli- neare contrapposizioni sul piano valoriale: paradossalmente l’appello a un substrato di emozionalità condivisa può essere adoperato al fine di marcare differenze in termini di esclusione piuttosto che di inclu- sione. Fino a che punto ciò risulta compatibile con i valori di una demo- crazia liberale? Anche in questo caso l’appello al paradigma liberale non è suffi- ciente a definire risposte univoche, mantenendo aperti spazi di di- screzionalità politica, e in particolare rimandando alla discussione concernente l’alternativa fra un liberalismo di tipo ‘individualistico’ e un liberalismo di marca ‘comunitarista’. Le differenze fra le due cor- renti investono diversi profili della teoria politica; in estrema sintesi, secondo le teorie comunitariste «la comunità viene assunta ora come nucleo centrale di un paradigma normativo, a carattere etico o politi- co, ora come uno standard meta-etico, un parametro per la giustifi- cazione dei valori» 71; l’approccio individualista, più vicino al modello 69 BERGER-ZIJDERVELD, Elogio del dubbio. Come avere convinzioni senza diven- tare fanatici, tr. it., Bologna, 2011, pp. 14 ss. 70 Di fronte alle dinamiche di relativizzazione indotte dall’incremento di plura- lità nel tessuto sociale gli individui tendono a erigere delle ‘difese cognitive’, ossia ad affidarsi a esercizi mentali e strategie per mantenere alta la visione del mondo e l’approccio alla realtà a cui si dà credito. Nelle società contemporanee tale fe- nomeno può avere riflessi nelle determinazioni di politica del diritto: per placare l’ansia scaturita dall’irrompere della relativizzazione si erigono difese cognitive istituzionali, strumentalizzando il diritto quale veicolo promotore di valori identi- tari, v. BERGER-ZIJDERVELD, Elogio del dubbio, cit., pp. 18 ss. 71 PARIOTTI, voce Comunitarismo, in Enciclopedia filosofica, cit., vol. III, p. 2125.   130 Tra sentimenti ed eguale rispetto liberale classico, pone al centro dell’orizzonte etico e normativo l’in- dividuo, non la comunità 72. A partire da queste premesse, si riflette anche nella prospettiva giuridica l’alternativa fra una declinazione del problema di tutela del sentimento incentrato sul momento di condivisione collettiva, ancor- ché parziale e non universalistica, e una diversa prospettiva che met- ta al centro l’individuo e le sue libertà da bilanciarsi in un’ottica di reciprocità egualitaria con i propri simili. 4.2. Dai valori collettivi all’individualismo democratico Autorevoli esponenti del pensiero liberale hanno criticato a fondo l’evocazione di ‘valori collettivi’73: uno Stato che assegni rilevanza 72 Per un quadro ricostruttivo si vedano i saggi contenuti in AA.VV., a cura di Ferrara, Liberalismo e comunitarismo, Roma, 2000; FERRARA, Introduzione, in AA.VV., a cura di Ferrara, Liberalismo e comunitarismo, cit., pp. X ss.; per una definizione di ‘individualismo comprensivo’ e una ricostruzione critica v. LARMORE, Dare ra- gioni. Il soggetto, l’etica, la politica, Torino, 2008, pp. 119 ss. La distinzione fra li- beralismo di marca individualista e comunitario emerge anche nel discorso di Joel Feinberg. L’Autore specifica che la sua aderenza all’idea liberale va conte- stualizzata: Feinberg sembra prendere con cautela, financo negare, la propria aderenza all’idea liberale classica secondo la quale autonomia dell’individuo e comunità costituirebbero due antitesi; nel discorso sulla legittimazione del diritto penale il filosofo americano dichiara di adoperare una concezione di liberalismo ‘in a narrow sense’ che non si identifica con un liberalismo estremo inteso quale contrapposizione a un’idea di comunità, v. FEINBERG, Harmless Wrongdoing, cit., pp. 81 ss., 113 ss., 120 ss. 73 Ricordiamo le parole di Herbert Hart: “Sembra terribilmente facile pensare che la lealtà verso i principi democratici esiga che si accetti ciò che possiamo chiamare populismo morale: l’idea che la maggioranza abbia un diritto morale a stabilire come tutti devono vivere [...]. L’errore fondamentale consiste nel non di- stinguere il principio accettabile secondo il quale il potere politico è meglio affi- dato alla maggioranza, dalla pretesa inaccettabile che ciò che la maggioranza fa con quel potere, sia al di sopra di ogni critica e che non ci si possa mai opporre ad esso. Nessuno può dirsi democratico se non accetta il primo di questi principi, ma nessun democratico è tenuto ad accettare il secondo», v. HART, Diritto, morale e libertà, cit., pp. 95 s. Si tratta della ben nota risposta che il filosofo oxoniese die- de al giudice Patrick Devlin, e al suo ‘The Enforcement of Morals’, nel quale si ri- conduce la moralità all’atteggiamento etico dominante nella popolazione: «Every moral judgement, unless it claims a divine source, is simply a feeling that no right-minded man could behave in any other way without admitting that he was doing wrong. It is the power of a common sense and not the power of reason that is behind the judgements of society», v. DEVLIN, The Enforcement of Morals, New York-Toronto, 1965, p. 17.   Sensibilità individuali e libertà di espressione 131 normativa a un particolare modo di dar valore a oggetti e idee in quanto condiviso dalla maggioranza, sta di fatto considerando gli appartenenti alla maggioranza in una condizione privilegiata rispetto agli altri cittadini. In altri termini, è ben possibile che il principio di maggioranza 74 trasmodi in un principio di ‘tracotanza’ 75. Più recentemente, nell’ambito della filosofia analitica, si è affer- mato che il tema dei valori condivisi è una «questione relativa alle credenze o alle opinioni condivise, secondo le quali una o più cose pos- siedono un certo valore» 76. Quando si cerca di spiegare a quali condi- zioni un certo valore possa dirsi ‘condiviso’, la motivazione più sem- plice e più immediata è la cosiddetta ‘teoria sommativa’: si ha condi- visione quando la maggior parte dei membri di un dato contesto o di una comunità assegnano valore alla medesima cosa. La domanda a questo punto è se una spiegazione sommativa sia sufficiente per affermare che in una società vi è realmente condivi- sione di valori, e, di conseguenza, per ritenere che ciascun soggetto abbia lo status, ossia la legittimazione, per pretendere che il compor- tamento dei propri simili debba essere rispettoso e coerente con i va- lori condivisi dalla maggioranza. Si è osservato che «se due o più persone hanno una certa opinio- ne, esse possiedono, evidentemente, un certo grado di identità quali- tativa. In generale, tuttavia, tale identità fornisce agli individui umani soltanto una forma superficiale di unità [...] I valori condivisi in sen- so sommativo uniscono soltanto in un modo superficiale» 77. In altri termini, un riscontro storico-quantitativo della massiva adesione a un determinato valore in una società non dovrebbe esse- re considerato elemento sufficiente a fondare alcun tipo di pretesa nei confronti dei cittadini78, salvo il caso di un impegno espresso 74 Ex plurimis, VIOLA, Il principio di maggioranza e la verità in una democrazia, in Dialoghi, 3/2004, p. 1 ss. 75 HART, Diritto, morale e libertà, cit., pp. 86 ss. 76 GILBERT, Il noi collettivo. Impegno congiunto e mondo sociale, tr. it., Milano, 2015, p. 48. 77 GILBERT, Il noi collettivo, cit., pp. 56 s. 78 Una critica alla concezione ‘sommativa’ della democrazia è leggibile, a no- stro avviso, anche nelle parole di chi, nella dottrina penalistica, ha sottolineato che «[a]derire al metodo democratico non significa acconsentire alle idee dei più, bensì optare per una modalità collettiva, comunitaria, consensuale di creazione delle regole – valide poi per tutti – non fondate sul fattore-forza [...] La legalità democratica richiede ben oltre complesse tecniche di calcolo, l’adesione convinta a principi formulati in modo condiviso e perciò corresponsabilmente vincolanti»,   132 Tra sentimenti ed eguale rispetto che le parti accettino consapevolmente 79. Il sentire umano, nelle forme del sentimento e dell’emozione, è fattore di diversità, ma è anche, di base, il correlato fenomenico di un’uguaglianza di fondo fra individui resi al contempo uguali e diver- si dalle disposizioni del sentire: uguali in potenza, diversi in atto. La varietà di soglie di sensibilità, di assiologie personali e di repertori emotivi dei singoli sono parte di una dotazione universalmente con- divisa: tutti gli esseri umani (in assenza di condizioni patologiche) provano emozioni e sentimenti, e sulla base di tale potenzialità co- mune prende successivamente corpo la diversità. Per cercare di dare rilievo alla dimensione del sentire quale con- notato a vocazione universalistica, e non semplicemente quale base di frammentazione e di rivendica, ci sembra ragionevole prendere le distanze da strumentalizzazioni del sentimento in chiave identitaria, per riorientare la prospettiva a partire da diritti di libertà funzionali a consentire a ciascun cittadino di vivere la propria ‘assiologia voca- zionale’ 80. La sfida che sentimenti ed emozioni pongono oggi al diritto pena- le si focalizza sul riconoscimento di un’eguale dignità fra persone concretamente diverse, nella consapevolezza della varietà di preferen- v. MAZZUCATO, Dal buio delle pene alla luce dei precetti, cit., p. 85. Anche EUSEBI, Laicità e dignità umana nel diritto penale, cit., p. 172, sottolinea che il principio di laicità richiede che le regole giuridiche di uno Stato non siano configurate secon- do ciò che è comprensibile solo nell’ambito di una specifica concezione morale anche se maggioritaria. 79 L’elemento dirimente, e necessario, affinché si passi da una semplice condi- visione in senso sommativo a una condivisione tale da poter generare unità socia- le, è, secondo Margaret Gilbert, il cosiddetto ‘impegno congiunto’: «l’impegno congiunto è l’impegno a credere come un corpo unitario che una certa cosa C ab- bia un determinato valore V», v. GILBERT, Il noi collettivo, cit., p. 62. Gilbert, pur non discostandosi da un piano analitico-concettuale, non tralascia considerazioni su profili più propriamente politici: «[e]videntemente, il fatto che si abbia lo sta- tus per fare pressione sugli altri, se gli altri agiscono nell’inosservanza di un certo valore, non implica né che, in fin dei conti, si debba esercitare questa pressione, né che, in virtù di un impegno, si abbia ragione di farlo». Il caveat più significati- vo si rivolge, non a caso, all’ipotesi di adoperare il diritto penale quale strumento per la salvaguardia di valori collettivi. Anche in presenza di valori che possono dirsi ‘collettivi’ in virtù di presupposti assimilabili all’idea di ‘impegno congiunto’, e non solo di una mera spiegazione sommativa, la legittimità della pretesa di im- porre il rispetto di tali valori con strumenti normativi dipende da considerazioni sostanziali sul merito dei valori assunti a riferimento, sulla loro ‘correttezza’. ‘Va- lore collettivo’ non è di per sé sinonimo di un sentire ‘corretto’. 80 Traggo l’espressione e il concetto da DE MONTICELLI, L’ordine del cuore, cit., pp. 115 ss.   Sensibilità individuali e libertà di espressione 133 ze e dei molteplici, possibili stili e concezioni della vita buona. In questo senso appare importante evidenziare la matrice indivi- dualistica dei diritti di libertà: «significa che prima viene l’individuo, si badi, l’individuo singolo, che ha valore di per se stesso, e poi viene lo stato e non viceversa, che lo stato è fatto per l’individuo e non l’individuo per lo stato» 81. Col richiamo al momento individualistico non intendiamo adom- brare la vocazione solidaristica e la proiezione relazionale dei diritti di libertà, ben leggibile nelle trame della Carta costituzionale 82. Rite- niamo però che il problema della tutela di sentimenti debba essere oggetto di un deciso cambio di prospettiva che rompa con la tradi- zione del passato, nella quale il richiamo alla socialità era divenuto sinonimo di ‘statualità’, di dominio della collettività sul singolo, di assorbimento dell’individuo nel gruppo. Si rende in questo senso ne- cessario rinsaldare la connessione fra il sentimento e il principio per- sonalistico che pone «a base di tutto il sistema di rapporti fra stato e singoli l’esigenza di rispetto della persona, della ‘dignità’ corrispon- dente alla qualità dell’uomo come tale, quale che sia la posizione so- ciale rivestita» 83. Rispetto alla retorica comunitarista-identitaria, un’alternativa che emerge oggi nel pensiero politico e che a nostro avviso si candida come sintesi ragionevole tra individualismo e ottica solidaristica, è il cosid- detto ‘individualismo democratico’ elaborato da Nadia Urbinati 84: una 81 BOBBIO, L’età dei diritti, Torino, 1990, p. 59. Nel panorama penalistico si sof- ferma sul fondamento individualistico dei diritti PULITANÒ, Diritti umani e diritto penale, cit., pp. 1616 s. Il rapporto fra liberalismo e attenzione alle differenze è teorizzato in modo peculiare da Rosenfeld, il quale contrappone il liberalismo in senso classico, di marca individualistica, a una posizione politica che riconosce valore alla pluralità, da Rosenfeld definita ‘pluralism’, e che saremmo portati a tradurre con ‘liberalismo pluralista’. La distinzione di Rosenfeld non ci sembra però tesa a confutare la matrice individualistica dei diritti di libertà, ma a sottoli- neare come l’attenzione alla dimensione del singolo, tipica del liberalismo classi- co, risulti poco funzionale alla tematizzazione delle appartenenze e dell’identità: v. ROSENFELD, Equality and the Dialectic between Identity and Difference, in AA.VV., ed. by Payrow Shabani, Multiculturalism and Law: A Critical Debate, Uni- versity of Wales, 2006, paper n. 133, pp. 15 ss., 25 ss. 82 Ex plurimis, RIDOLA, Diritti fondamentali. Un’introduzione, Torino, 2006, pp. 97 ss. In ambito penalistico si è sottolineato l’intreccio e la reciproca interdipen- denza tra profilo personalistico e collettivistico di determinati interessi di tutela, v. DE FRANCESCO, Costituzione, persona, comunità: beni giuridici e programmi di tutela nella dinamiche della vicenda penale, in Dir. pen. proc., 5/2014, pp. 502 ss. 83 MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico, I, Padova, 1975, pp. 155 s. 84 Si tratta di un concetto che sottende una ben definita visione antropologica:   134 Tra sentimenti ed eguale rispetto reinterpretazione del concetto di individualismo classico, volta a di- stinguerlo dal negativo accostamento all’idea di egoismo, di ‘anarchia soggettiva’, di motore disgregativo a livello sociale. Il concetto di ‘individualismo democratico’ implica rispetto reci- proco e non-omologazione; una visione che si pone in antitesi sia con un individualismo egoistico che traduca disinteresse per la cosa pub- blica, sia con forme di comunitarismo identitario che comprimereb- bero l’individualità attraverso politiche di assimilazionismo e di im- posizione di ideali della vita buona. Come osserva la Urbinati: «Il problema sta quindi nel modo di concepire la comunità, poiché è evidente che le comunità totalizzanti e ascrittive sono in conflitto con l’individualismo democratico come lo sono con l’eguale diritto alla di- gnità e all’eguaglianza della legge. [...] Rispetto alla reificazione dei le- gami identitari, il richiamo alla “divinità” di ciascun individuo e al di- ritto che ciascuno ha di contraddirsi per restare coerente a se stesso suona come un invito tutt’altro che anacronistico a situare la supre- mazia nella ragione e nel carattere, rovesciando i criteri di selezione dei valori, facendo cioè della persona stessa il fulcro senza il quale nessuna comunità potrebbe esistere» 85. In quest’ottica, il legame fra sentimenti e individualità può acqui- stare una valenza normativa come presupposto del riconoscimento dovuto agli uomini in quanto agenti morali 86. Vi sono diversità fat- tuali che derivano dalla eterogeneità nel sentire, le quali invocano un sostegno normativo come riconoscimento di libertà e uguaglianza in «[l]a democrazia non è solo una forma di governo ma anche e prima di tutto una ricca cultura dell’individualità. L’individuo democratico è simile ma non identico a quello liberale ed economico perché non pensato come un essere puramente razionale che sceglie fra opzioni diverse in una condizione ipotetica di perfetta informazione e libertà; e nemmeno come un individuo neutro, vuoto di specificità culturali, economiche o di genere. È invece una persona che ha un senso morale della propria indipendenza e dignità e agisce mossa da passioni ed emozioni al- trettanto forti delle ragioni e degli interessi; che non è soltanto concentrata sulle proprie realizzazioni, ma anche emotivamente disposta verso gli altri per le ra- gioni più diverse, come l’empatia, la curiosità, la volontà imitativa, il piacere di sperimentare» URBINATI, Liberi e uguali. Contro l’ideologia individualista, Roma- Bari, 2011, p. 16. 85 URBINATI, Liberi e uguali, cit., pp. 122, 124. 86 Sul tema è fondamentale l’approfondita analisi di un Autore tendenzialmen- te vicino alle posizioni comunitariste: TAYLOR, La politica del riconoscimento, in HABERMAS-TAYLOR, Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento, tr. it., Milano, 2008, p. 9.   Sensibilità individuali e libertà di espressione 135 dignità e diritti87. La tutela delle libertà è la dimensione prioritaria; nondimeno, in nome di esigenze legate al riconoscimento, e in parti- colare tese a evitare il disconoscimento, si può porre il problema di interventi normativi al fine di salvaguardare equilibri di rispetto 88. È su questo crinale che si impernia la questione che definiamo ‘tu- tela di sentimenti’ 89. 5. Sentimenti ed emozioni come richiamo ‘metonimico’ e per- sonologico Cercando di tirare le somme del discorso, date le suddette pre- messe filosofico-politiche, quale può essere la sostanza normativa da identificarsi con il ‘sentimento’? Esclusa l’ipostatizzazione di atteggiamenti emozionali su base maggioritaria, riteniamo che una visione alternativa dovrebbe incen- trare la prospettiva sul significato del sentimento come marcatore dell’originalità individuale che si interlaccia con le trame costitutive della personalità morale di un soggetto. Definiamo tale prospettiva come ‘personologica’ per evidenziarne la peculiarità rispetto a una più generica definizione come ‘personalistica’. Il termine ‘personologia’ in uso nelle discipline psicologiche e filoso- fiche, designa, nel suo significato minimale, il discorso sulle caratteristi- che dell’individuo inteso come soggetto non riducibile alle dimensioni mentale e corporea 90, ma come esito di un’interazione con gli altri e con la realtà, all’interno di un percorso biologico e biografico unico e irripe- tibile. Questa impresa conoscitiva trova sviluppo soprattutto in seno alla 87 Sul rapporto tra dati di natura e dimensione dei diritti, fondamentale HER- SCH, I diritti umani da un punto di vista filosofico, tr. it., a cura di De Vecchi, Mi- lano, 2008, pp. 62 ss. 88 «L’individuo delle democrazie si ciba [...] di ‘riconoscimento’ e per questa ragione ha bisogno di essere circondato da simili, da chi è parte di una comunità di significato e di riferimento e con cui è possibile condividere una lingua, dei se- gni convenzionali che consentano una comunicazione immediata, delle tradizioni che facciano sentire sicuri e protetti», v. URBINATI, Liberi e uguali, cit., p. 116. 89 Condivisibilmente, nella dottrina penalistica, v. PULITANÒ, Introduzione alla parte speciale, cit., pp. 43 s. 90 Testo di riferimento è MARGOLIS, Persons and Minds. The Prospects of Nonre- ductive Materialism, Boston, 1978.   136 Tra sentimenti ed eguale rispetto psicologia e alla filosofia; non intendiamo però ricalcare le categoriz- zazioni elaborate in ambito filosofico sui rapporti fra personologia e personalismo 91. Nel discorso giuridico, e in particolare penalistico, si usa parlare di personalismo e di concezioni personalistiche per indi- care prospettive teoriche che mettono al centro dell’orizzonte assio- logico la persona umana92 e che si impegnano conseguentemente a riconoscere in essa il punto di riferimento ultimo di norme e di pro- blemi di tutela. Perché allora parlare anche di ‘personologico’? Dalla prospettiva filosofica riteniamo utile mutuare la definizione di personologia come ‘discorso su ciò che una persona è’93, in un quadro che non si riduce alle funzioni psichiche, concependo dunque sentimenti ed emozioni non solo come addentellato fenomenico che rimanda a stati contingenti e a moti interiori, ma come elementi co- stitutivi che concorrono a definire le disposizioni individuali e la complessiva ‘fisionomia morale’ della persona. È di secondaria importanza l’eventuale puntualizzazione se si stia in questo modo richiamando il sentimento in senso stretto ovvero l’emozione; è invece importante evidenziare che la rispondenza col mondo dei fenomeni affettivi deriva dalla connessione con ciò che abbiamo definito ‘stati disposizionali’: disposizioni del sentire, ossia coordinate costitutive della personalità morale dell’individuo, e non semplicemente reazioni episodiche. Nella prospettiva giuridico-penalistica, e con particolare riferi- mento ai rapporti fra libertà di espressione e reciproco rispetto, il ri- chiamo a sentimenti ed emozioni può ragionevolmente costituire una coordinata descrittiva dell’oggetto di tutela in senso simbolico, trasla- to, o meglio metonimico, come elementi che rimandano al substrato 91 In ambito filosofico si distingue tra personologia e personalismo: Roberta De Monticelli intende col primo termine «una teoria della realtà di ciò che noi siamo», mentre il personalismo «è una tendenza [...] più che una teoria» e i per- sonalismi del secolo scorso possono definirsi come «visioni del mondo cui “sta a cuore” una certa interpretazione della condizione umana», v. DE MONTICELLI, L’ordine del cuore, cit., p. 30. La distinzione appare più sfumata nella definizione di MIANO, voce Personalismo, in Enciclopedia filosofica, cit., vol. XIII, p. 8527, se- condo il quale «[i]n senso lato è personalistica ogni filosofia che rivendichi la di- gnità ontologica, gnoseologica, morale, sociale della persona, contro le negazioni materialistiche o immanentistiche. In senso rigoroso si dice filosofia personalisti- ca o personalismo la dottrina che accentra nel concetto di persona il significato della realtà». 92 Per una sintesi, v. CANALE, Persona in AA.VV., a cura di Ricciardi-Rossetti- Velluzzi, Filosofia del diritto. Norme, concetti, argomenti, Roma, 2015, pp. 23 ss.  93 V. supra, nota 91.  Sensibilità individuali e libertà di espressione 137 più profondamente identificativo dell’essenza individuale: si menzio- na la parte (il sentimento o l’emozione), per additare il tutto (la per- sona) 94. Dire ‘tutela di sentimenti’ equivale a dire ‘tutela della persona e della sua libertà di vivere ed essere riconosciuto come soggetto di pari dignità nella propria personale ‘assiologia vocazionale’ 95. Non ci si deve dunque limitare alla presa in considerazione di fe- nomeni psichici ‘bruti’, ma si deve guardare ad essi come segno di individualità che chiedono di essere tutelate nelle libertà e che al con- tempo non possono ritenersi titolari di prerogative assolute: l’indi- viduo è uno, ma è al contempo anche ciascuno96, ossia vive in un contesto di relazioni che implicano diritti e doveri. 94 L’antropologia alla base del pensiero di Martha Nussbaum è basata sul fatto che «le emozioni sembrano essere eudaimonistiche, ovvero concernenti il prospera- re della persona», v. NUSSBAUM, L’intelligenza delle emozioni, cit., pp. 51 s. Il legame tra sentire e sviluppo della persona, inteso come realizzazione del sé, emerge anche in altri filosofi, quando si definiscono le emozioni come ‘atti di base’ che esprimono ‘posizionalità assiologica’, ossia il «realizzare la salienza, o valenza o valore negativo o positivo della data cosa o situazione», v. DE MONTICELLI, La novità di ognuno, cit., pp. 195 ss.; non dunque risposte automatiche bensì posizionali, le quali possono es- sere più o meno appropriate, ma comunque rappresentano una parte fondamentale di ciò che una persona è, della sua struttura morale, «che è insieme velata e svelata dall’espressività personale: la quale indica infine lo stato in cui la persona si trova rispetto alla fioritura nuova che solo lei poteva portare al mondo» EAD., La novità di ognuno, cit., p. 314. In particolare attraverso il concetto di ‘posizionalità’ si osserva che la persona umana si costituisce nella propria individualità essenziale attraverso ‘atti’: con tale termine si vuole porre una fondamentale distinzione fra ciò che la persona ‘compie’, rispetto agli ‘eventi’ in cui un soggetto è coinvolto; l’atto comporta sempre un presa di posizione relativamente a un dato oggetto, e «[m]ediante le pre- se di posizione, e dunque, mediante gli atti, noi rispondiamo alla realtà circostante. Una risposta si distingue da una reazione precisamente in virtù della presa di posi- zione in essa contenuta. In ogni presa di posizione, pulsa, per così dire, l’individuo personale che mediante le sue prese di posizione costantemente si costituisce e si definisce», v. EAD., La novità di ognuno, cit., p. 187. 95 Si è parlato di ‘costituzionalizzazione della coscienza delle persone’ per sot- tolineare la rilevanza di «tutto ciò che la persona considera in coscienza come strettamente richiesto per la propria realizzazione, riconoscendo diritti collegati alle richieste d’identità e di libertà di scelta», v. VIOLA, Multiculturalismo, valori comuni, diritto penale, in AA.VV., a cura di Risicato-La Rosa, Laicità e multicultu- ralismo, cit., p. 120. 96 Vi è un termine che ci sembra possa definire la portata accomunante e al contempo differenziante dei fenomeni affettivi: ciascunità. Lo prendiamo in pre- stito dal lessico psicanalitico, in particolare da HILLMAN, Il codice dell’anima, tr. it., Milano, 1967, pp. 167 ss. In questo caso ci atteniamo però a un senso più let- terale-etimologico che all’accezione specifica elaborata dallo psicologo statuni- tense: ‘ciascuno’ è pronome che indica la totalità in modo non indistinto e sper- sonalizzante, bensì richiamando l’attenzione sui singoli.   138 Tra sentimenti ed eguale rispetto In assenza di tale filtro normativo fondato sul valore dell’ugua- glianza, il richiamo a sentimenti ed emozioni può rappresentare una china scivolosa, poiché il debordare del discorso sul piano emozionale rischia di innescare un processo che altera la fisionomia delle questio- ni, relegandole a una dimensione di microconflittualità soggettiva 97. Si rischia in altri termini di alimentare ciò che la sociologa Isabel- la Turnaturi ha eloquentemente definito ‘rivendicazionismo psicolo- gico’: «un nuovo campo di battaglia in cui gli individui oppongono l’uno al- l’altro le proprie emozioni. Vissuti, percezioni, sensibilità si confrontano e si scontrano quotidianamente e conflitti sociali, di genere e culturali si spostano sul piano dei rapporti interpersonali. [...] L’uguaglianza dei di- ritti si sposta sul campo emozionale, ciascuno è sempre più attento alle proprie emozioni e pretende per queste rispetto, attenzione e libertà di espressione-esibizione. [...] La valorizzazione della sofferenza psicologi- ca e le narrazioni di sé affidate a un linguaggio esclusivamente psicolo- gico mentre pongono l’accento sull’individuo cercano l’origine di torti e offese subiti nell’appartenenza a un gruppo etnico, di genere, o nella condivisione di preferenze sessuali. [...] Se sono i sentimenti a riscrivere la storia tutto può essere ri-narrato e ri-costruito secondo i punti di vista di chi sente offesa oggi la propria sensibilità. [...] Tutto viene affogato in un confuso mare magnum sentimentale, in un apparente coinvolgimen- to emotivo che soffoca ogni forma di distanza al rispetto e riconosci- mento reciproco. Quel diritto di ciascuno alla propria narrazione, giu- stamente rivendicato, andrebbe forse declinato in un linguaggio meno psicologico e psicologistico, imposto nel discorso pubblico con la forza dell’argomentazione, ancorato a una cultura dei diritti liberata dalla co- lonizzazione emotiva [...]» 98. 97 Il discorso politico mostra una sempre più accentuata tendenza al linguag- gio psicologistico ed emotivo, e più in generale tutta la comunicazione pubblica è problematicamente invasa da «confessioni, narrazioni, biografie, programmi e proclami politici che mettono in primo piano emozioni e passioni. Al discorso pubblico e in pubblico, possibile solo se rispettoso della propria e altrui discre- zione e della distanza fra sé e l’altro, si è sostituito il discorso emozionale, il di- scorso marmellata dove tutto diviene appiccicoso e dolciastro, dove ogni distanza fra Io e Tu, fra me e l’altro viene annullata nel mare di un presunto coinvolgimen- to», v. TURNATURI, Emozioni: maneggiare con cura, prefazione a ILLOUZ, Intimità fredde. Le emozioni nella società dei consumi, tr. it., Milano, 2007, p. 15. Eloquente è l’espressione con cui ALONSO ALAMO, Sentimientos y derecho penal, cit., p. 64, sintetizza il problema di una soggettivizzazione incentrata su aspetti di rettività emotiva: «¿Un derecho penal de sujetos pasivos?».  98 TURNATURI, Emozioni: maneggiare con cura, cit., pp. 20, 22 ss.  Sensibilità individuali e libertà di espressione 139 L’approccio del diritto non può assecondare il rivendicazionismo psicologico ma deve essere declinato in termini ‘razionalistico-nor- mativi’ facendo riferimento a «norme o [...] principi che si difendono e argomentano in quanto dotati di universalità, cioè in linea di prin- cipio valevoli per tutti coloro che si trovano nella medesima situazio- ne esistenziale» 99. Identifichiamo dunque sentimenti ed emozioni come ‘matrici di diversità’ tali da sollecitare la prospettiva penalistica in relazione al- l’esigenza di gestire equilibri di rispetto reciproco nella società plura- le di fronte a condotte in cui si manifesta l’‘originalità’ degli individui in quanto caratterizzati da culture, concezioni di valore, stili di vita, che ne identificano la personalità: da una parte richieste di libertà per poter affermare le proprie visioni del mondo e per vivere confor- memente a ciò in cui si crede; dall’altra parte istanze simmetriche, fondate sui medesimi contenuti ma di segno opposto, che chiedono a loro volta riconoscimento e rispetto attraverso l’altrui astensione da un certo tipo di espressioni e di comportamenti. 6. Sinossi Delineate le coordinate teoriche per lo studio dei rapporti fra di- mensione emotiva e diritto penale e, in particolare, del sentimento quale problema di tutela, l’indagine si focalizza sui rapporti fra sen- sibilità soggettive e libertà di espressione. A suggerire l’approfondimento di tale specifica questione sono sia ragioni concernenti gli interessi emergenti dalle norme codicistiche, sia esigenze legate alla sempre viva, e per molti versi crescente, conflit- tualità che si registra nel discorso pubblico delle società occidentali. Il richiamo a sentimenti ed emozioni può costituire un’utile coor- dinata esplicativa, a patto di chiarire in che termini i problemi legati alla libertà di espressione possano essere intesi anche come ‘fatti di sentimento’. Gli approcci di fondo sono a nostro avviso fondamen- talmente due: il primo, che definiamo ‘naturalistico-emozionale’, è incentrato sul turbamento psicologico che può discendere dall’essere oggetto di determinate espressioni o dal contatto con determinate manifestazioni espressive; il secondo, che definiamo ‘razionalistico- normativo’, mette al centro l’analisi critica dell’emozione o del senti-  99 VIOLA, Multiculturalismo, valori comuni, diritto penale, cit., p. 121.  140 Tra sentimenti ed eguale rispetto mento addotti quale ragione di potenziali divieti, al fine di verificarne la razionalità e la consonanza in rapporto ai valori e ai principi as- sunti quale riferimento per la regolamentazione politica. La partita decisiva si gioca sul piano delle alternative filosofico- politiche che concorrono a definire i tratti dei differenti, possibili modelli di democrazia. Con riguardo alla tutela di sentimenti, la scel- ta di fondo – probabilmente quella logicamente prioritaria – è fra l’avallo di interpretazioni del problema in chiave collettivistico-co- munitarista oppure in chiave soggettivo-individualistica. Sulla base delle istanze evidenziate dalla teorica dell’individua- lismo democratico, come elaborato da Nadia Urbinati, riteniamo che si debba in primo luogo emancipare la tutela di sentimenti da forme di presidio al sentire della maggioranza, interpretando il richiamo a fenomeni affettivi come forma metonimica tesa a evocare simboli- camente la persona nella sua dimensione di soggetto morale, riassu- mendone contemporaneamente, quale duplice faccia nello stesso ele- mento, la dotazione universalmente condivisa in termini egualitari (il provare sentimenti ed emozioni di ciascun individuo) e gli esiti po- tenzialmente conflittuali (la diversità nel sentire). La pretesa normativa definita ‘tutela di sentimenti’ viene così a identificarsi con un progetto teso a garantire il reciproco rispetto a partire da una cornice assiologica di libertà e pari dignità.  SEZIONE I CAPITOLO V FISIONOMIA DELL’OFFESA Oltre i sentimenti: gli interessi in gioco SOMMARIO: 1. Temi ‘sensibili’ e discorso pubblico: esempi guida. – 1.1. Sensibilità religiosa. – 1.2. Sentimento del pudore e pari dignità sessuale. – 2. Apparte- nenza e gruppalità. – 3. Rispetto, riconoscimento, stima reciproca. – 3.1. Pari dignità ed eguale rispetto. – 4. Bilanciare le pretese. – 4.1. Dignità e capacità umane. – 4.2. Rispetto di sé e umiliazione: la concezione di Avishai Margalit. – 5. Ai confini fra critica e discriminazione. – 5.1. Offesa ai sentimenti e offesa alla dignità nello hate speech secondo Jeremy Waldron. – 5.2. Ermeneutica del fatto ed ermeneutica della norma. 1. Temi ‘sensibili’ e discorso pubblico: esempi guida Cerchiamo a questo punto di dare una fisionomia più definita ai conflitti legati alla sensibilità degli individui. In un importante studio di fine anni Novanta, il giurista Richard Abel parlava emblematicamente di ‘lotte per il rispetto’ per indicare il tipo di contesa dialettica che contraddistingueva il dibattito sulla pornografia, il contrasto al discorso razzista e le prese di posizione seguite alla pubblicazione di opere ritenute blasfeme in quanto criti- che o irridenti verso temi religiosi 1. Storie che hanno un nucleo co- mune, le definisce Abel, poiché «investono valori che ispirano emo-  1 ABEL, La parola e il rispetto, tr. it., Milano, 1996, pp. 7 ss.  142 Tra sentimenti ed eguale rispetto zioni profonde» 2. In relazione a temi di questo tipo eventuali espres- sioni di critica o di scherno sono in grado di attivare reazioni anche su scala collettiva, estendendo la dimensione dei problemi fino a coinvolgere l’ordine pubblico di singole realtà nazionali e anche del panorama globale. Lo scenario contemporaneo non si discosta più di tanto dal quadro tracciato qualche decennio fa da Abel: razza/etnia, fede religiosa/cre- denze, modi di concepire e vivere l’identità sessuale, sono ancora oggi ambiti tematici in grado di accendere conflittualità esorbitanti da un ordinario dissenso, dando luogo a «un tipo particolare di scontro fra soggetti che ha a che vedere con la concrezione di affetti, interessi, ra- gioni e pregiudizi contrastanti che si fronteggiano e che paiono o sono fortemente vitali per coloro che ne sono portatori o portati» 3. Una dialettica ad alto tasso emotivo, nella quale emergono veri e propri ‘campi minati’ che potremmo definire ‘argomenti-trigger’, i quali hanno contribuito a riportare oggi il tema della libertà di espressione al centro del dibattito pubblico prima ancora che scientifico. Per meglio contestualizzare i problemi esporremo in modo sinte- tico alcune vicende tratte dal panorama nazionale ed europeo. In questa fase dell’indagine non ci concentreremo sulla qualifica- zione giuridica dei fatti, ma riteniamo preferibile individuare una ca- sistica ‘tipologica’ che possa fungere da palestra concettuale per ri- flettere sulle istanze di tutela che vengono associate a offese a senti- menti. Riportiamo anche episodi di rilevanza non strettamente pena- listica, i quali evidenziano come l’appello a sentimenti non sia conno- tato esclusivo della penalità ma possa presentarsi anche quale giusti- ficazione, più o meno esplicita, di forme differenti di intervento nor- mativo. Attingeremo dal tema della critica/satira su temi religiosi e da epi- sodi concernenti le manifestazioni della sessualità. Riteniamo di non dover introdurre, per il momento, esempi legati al discorso razzista: in questa fase dell’indagine presentare il discorso razzista come pro- blema di sentimenti può essere fuorviante perché limitativo 4. Nel di- 2 ABEL, La parola e il rispetto, cit., p. 27. 3 CERETTI, Vita offesa, lotta per il riconoscimento e mediazione, in AA.VV., a cu- ra di Scaparro, Il coraggio di mediare. Contesti, teorie e pratiche di risoluzioni al- ternative delle controversie, Milano, 2001, p. 59, definisce tali conflitti ‘di seconda generazione’ per sottolinearne la diversità da quelli che toccano le sfere della ri- produzione materiale-economica e della sfera politica. 4 Per le medesime ragioni, in termini ancora più stringenti, non si presta a fungere da esempio prototipico il problema dell’incriminazione del c.d. negazio-   Fisionomia dell’offesa 143 battito sullo hate speech, categoria nella quale rientra la propaganda razzista, la lettura dell’incriminazione come forma di rassicurazione collettiva e come tutela della sensibilità del soggetto offeso assume una funzione sostanzialmente critica e confutativa rispetto a un mainstream che individua quale interesse di fondo la pari dignità, in- tesa come pericolo di discriminazioni e come offesa a valori sul piano simbolico5. A prescindere dalle diverse formulazioni mediante le quali lo hate speech assume rilevanza normativa nelle singole realtà nazionali, non si tratta a nostro avviso di un esempio prototipico di ambito normativo in cui il sentire, individuale o collettivo, possa concorrere a definire l’oggetto di tutela, per quanto le connessioni ri- spetto al tema in esame siano numerose e feconde, ma necessitino di essere contestualizzate a un livello successivo dell’analisi (vedi infra). nismo, il quale «non può essere inquadrato soltanto come una specie del “discor- so razzista”», v. CANESTRARI, Libertà di espressione e libertà religiosa: tensioni at- tuali e profili penali, in Riv. it. dir. proc. pen., 2/2016, p. 922. Fra le diverse istanze addotte a sostegno dell’incriminazione è ravvisabile anche l’offesa a un sentire condiviso, come evidenziato anche da BRUNELLI, Attorno alla punizione del nega- zionismo, in Riv. it. dir. proc. pen., 2/2016, pp. 983 ss., il quale sottolinea in questo senso la differenza fra ‘negazionismo-vilipendio’ e ‘negazionismo-istigazione’; cfr. GUELLA-PICIOCCHI, Libera manifestazione del pensiero, cit., pp. 865 ss. Si veda an- che FRONZA, Criminalizzazione del dissenso o tutela del consenso. Profili critici del negazionismo come reato, in Riv. it. dir. proc. pen., 2/2016, pp. 1024 ss., la quale mette in evidenza la natura del reato di negazionismo come ‘modello di crimina- lizzazione altamente consensuale’, rispondente ad aspettative e a emozioni della collettività. L’ampiezza e la pluralità di argomenti e controargomenti lascia però in secondo piano la lettura del problema come mera tutela della sensibilità; per una panoramica v. ex plurimis, FRONZA, Il negazionismo come reato, Milano, 2012; VISCONTI C., Aspetti penalistici, cit., pp. 217 ss.; PULITANÒ, Di fronte al negazioni- smo e al discorso d’odio, in www.penalecontemporaneo.it, 3/2015, pp. 1 ss. CAPUTO, La “Menzogna di Auschwitz”, le “verità” del diritto penale. La criminalizzazione del c.d. negazionismo tra ordine pubblico, dignità e senso di umanità, in AA.VV., a cura di Forti-Varraso-Caputo, «Verità» del precetto e della sanzione penale, cit., pp. 263 ss. 5 Per un’accurata sintesi delle strategie di legittimazione e degli interessi pro- tetti dall’incriminazione dello hate speech nel panorama internazionale, v. BROWN A., Hate Speech Law, cit., pp. 19 ss.; la questione del danno alla sensibilità sogget- tiva e alla tranquillità psichica è trattata alle pp. 49 ss. Si è osservato che nella trattazione della tematica delle restrizioni normative allo hate speech sarebbe be- ne evitare generalizzazioni, non solo in relazione alla fenomenologia delle con- dotte, ma anche con riferimento all’individuazione, nella realtà dei diversi ordi- namenti, del sistema di prodotti normativi che vanno a costituire ciò che gli stu- diosi definiscono ‘hate speech laws’; si tratta infatti di un insieme eterogeneo, non limitabile ai soli divieti penali, ma composto da statuizioni di diverso tipo che ne- cessitano di strategie di legittimazione differenti.   144 Tra sentimenti ed eguale rispetto 1.1. Sensibilità religiosa Le contingenze storico-politiche suggeriscono di prestare partico- lare attenzione alla questione dei rapporti fra libertà di espressione e rispetto della sensibilità religiosa. L’attuale momento storico si caratterizza per una peculiare aura di passionalità, e purtroppo anche di violenza, che accompagnano una conflittualità per molti versi inedita 6. Le fonti mediatiche ci mettono oggi in condizione di ascoltare la ‘voce’ delle emozioni e di formularne interpretazioni con immedia- tezza; come ha scritto il filosofo Ermanno Bencivenga, dopo i tragici fatti di Charlie Hebdo «[i]nsieme con le emozioni esplosero contenuti intellettuali di ogni genere: commenti e chiarimenti, diagnosi e previ- sioni, giudizi e proposte» 7. Da un lato le emozioni di chi, avvertendo una ferita al proprio sentire religioso, ha agito con brutale violenza; dall’altro un’onda emotiva che di rimando ha stimolato riflessioni e prese di posizione che si sono rivolte non solo contro la condotta omicida, ma talvolta, più radicalmente, anche contro la religione e l’etnia di appartenenza dei soggetti autori del massacro. Per quanto le due posizioni siano del tutto incomparabili, prendere sul serio le emozioni di entrambe le parti è utile per provare a decodificarne le pretese. Le violente reazioni che negli ultimi tempi sono scaturite dalla pubblicazione di vignette satiriche sulla religione musulmana rap- presentano uno fra i tanti casi in cui la causticità di determinate forme di satira ha urtato la sensibilità di credenti di varie fedi religio- se. Riportiamo di seguito una sintesi di alcuni episodi tratti dalle cronache. 6 Una panoramica storica in HARE, Blasphemy and Incitement to Religious Hatred: Free Speech Dogma and Doctrine, in AA.VV., ed. by Hare-Weinstein, Ex- treme Speech and Democracy, Oxford, 2009, pp. 289 ss.; nella letteratura italiana, v. AA.VV., a cura di Melloni-Cadeddu-Meloni, Blasfemia, diritti e libertà. Una di- scussione dopo le stragi di Parigi, Bologna, 2015; FLORIS, Libertà di religione e liber- tà di espressione artistica, in Quad. di diritto e politica ecclesiastica, 1/2008, pp. 175 ss.; OZZANO, Il fondamentalismo religioso: implicazioni politiche, in Nuova infor- mazione bibliografica, 1/2010, pp. 65 ss.  7 BENCIVENGA, Prendiamola con filosofia, cit., p. 11.  Fisionomia dell’offesa 145 Caso 1: da una vignetta rispunta l’accusa di deicidio al popolo ebraico Nell’aprile 2002 un gruppo di palestinesi si rifugia all’interno della Basilica della Natività di Betlemme per sfuggire a una rappresaglia dell’esercito israeliano. I militari israeliani minacciano di entrare nel- la chiesa; chiedono che vengano consegnati loro quattro palestinesi, accusati di aver assassinato Rehavam Zeevi, ministro del governo Sharon. Giorni dopo, nel quotidiano italiano ‘La Stampa’ compare una vi- gnetta di Giorgio Forattini dal titolo ‘Carri armati alla mangiatoia’: la vignetta raffigura un tank israeliano contrassegnato con la stella di David mentre punta il cannone verso una mangiatoia sulla quale un bambino impaurito, chiaramente identificabile con Gesù, esclama: ‘Non vorranno mica farmi fuori un’altra volta?!’. La vignetta provoca lo sdegno e le proteste dell’allora presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Amos Luzzatto. Queste in sinte- si le motivazioni, così riportate da fonte giornalistica: «[u]na vignetta [...] che non esito a definire orripilante. Ritorna così a galla, come da- to indiscutibile a monte della caricatura stessa, l’accusa di deicidio che pareva esser scomparsa dopo il Concilio Vaticano II. E questo proprio nel momento in cui l’Europa è scossa da una nuova ondata di attentati contro le nostre sinagoghe [...] alla valutazione politica si aggiunge la teologia, ovvero la peggiore delle soluzioni. Cresce in modo nascosto e strisciante l’avversità per gli ebrei... Si attribuisce a una fantomatica malvagità giudaica la responsabilità di quanto sta succedendo a Betlemme» 8. Caso 2: le vignette danesi e l’insurrezione del mondo islamico per la rappresentazione del Profeta Il 30 settembre 2005 il quotidiano danese Jyllands Posten pubblica nella versione on line dodici vignette satiriche su Maometto, in una delle quali il Profeta è raffigurato con una bomba al posto del turban- te. Le vignette vengono successivamente ripubblicate da diverse te- state giornalistiche europee, fra cui, nel febbraio 2006, il settimanale satirico francese Charlie Hebdo. Le proteste sono immediate sia nel continente europeo sia nei paesi di religione islamica 9: il direttore del giornale danese viene mi- 8 L’Unità, 4 aprile 2002, p. 2 9 In Danimarca viene avviato un procedimento penale, poi archiviato, per bla-   146 Tra sentimenti ed eguale rispetto nacciato di morte, e nelle settimane successive alla pubblicazione vengono organizzate manifestazioni di protesta da parte di cittadini islamici e anche da parte di esponenti governativi che chiedono al governo danese di formulare delle scuse ufficiali. Dure le prese di po- sizione dei governi di paesi arabi 10. Una significativa sintesi delle ragioni della protesta si trova nel co- siddetto dossier ‘Akkari-Laban’ pubblicato da due Imam immigrati in Danimarca. Queste le principali rivendicazioni avanzate dagli Imam: viene chiesto un contatto costruttivo con la stampa ed in particolare con soggetti delle istituzioni (relevant decision makers), non sbrigati- vo, ma condotto con meticolosità e lungimiranza (with a scientific methodology and a planned and long-term programme) per rimuovere i malintesi tra le due parti. Si afferma che i musulmani non vogliono apparire arretrati e limitati, e non vogliono neppure accusare i danesi di «ideological arrogance»; obiettivo è avere relazioni sicure e stabili, e una Danimarca prospera per tutti. Si lamenta che i fedeli musulmani soffrono la mancanza di un riconoscimento ufficiale della fede isla- mica, circostanza che ha fra le immediate conseguenze la mancanza del diritto di costruire moschee. Si afferma infine che i musulmani non abbiano bisogno di lezioni di democrazia, e si ritiene ‘dittatoria- le’ e inaccettabile l’attuale modo europeo di concepire e gestire la democrazia 11. Caso 3: una discussa opera teatrale e l’offesa alla religione cattolica Nel 2012 viene presentato in Italia, dopo una tournée densa di po- lemiche in Francia, lo spettacolo teatrale di Romeo Castellucci dal titolo ‘Sul concetto di volto del figlio di Dio’. L’opera rappresenta la storia di un figlio che accudisce il padre, non più autosufficiente. Sullo sfondo della scena, una rappresenta- zione del volto del Cristo (il famoso ritratto di Antonello da Messina), che a fine spettacolo viene lacerato e fatto oggetto del lancio di varie cose, fra cui del liquido nero da molti interpretato come feci. Malgrado i tentativi dell’autore di spiegare il significato della pro- sfemia e vilipendio di gruppi di persone. Anche in Francia viene aperto un proce- dimento contro Charlie Hebdo, poi concluso con un’assoluzione. Una sintesi delle vicenda processuali in BASILE, La pubblicazione delle dodici vignette satiriche sull’Islam costituisce reato (in Italia)?, in Notizie di Politeia, 2015, pp. 70 s. 10 La Repubblica, 30 gennaio 2006; La Repubblica, 5 febbraio 2006. 11 Informazioni tratte dalla voce Wikipedia ‘Akkari-Laban dossier’, nella cui pa- gina si trova il link alla versione originale del dossier in lingua araba.   Fisionomia dell’offesa 147 pria opera, lo spettacolo è bersaglio di forti polemiche: si registrano manifestazioni di protesta da parte di alcuni esponenti del mondo cattolico, e anche il Vaticano arriva a definirla «un’opera che offende Gesù e i cristiani» 12. Particolarmente significative le parole usate dal- la Curia milanese in un comunicato ufficiale per criticare la messa in scena al teatro Parenti: si richiama l’esigenza che sia «riconosciuta e rispettata la sensibilità di quanti cittadini milanesi vedono nel Volto di Cristo l’incarnazione di Dio, la pienezza dell’umano e la ragione della propria esistenza [...]», criticando in questo senso una scelta che «avrebbe potuto farsi carico più attentamente della “dimensione sociale” della libertà di espressione» 13. 1.2. Sentimento del pudore e pari dignità sessuale In relazione alle manifestazioni della sessualità emergono pro- blemi differenti rispetto al passato in cui Abel si soffermava sul tema della liceità della pornografia; oggi assumono maggior rilevanza que- stioni legate all’affermazione e al riconoscimento della pari dignità degli orientamenti sessuali sul piano del discorso pubblico e anche della regolamentazione normativa. Al centro dell’attenzione è il fenomeno della cosiddetta ‘omofobia’; nella Risoluzione sull’omofobia in Europa del gennaio del 2006 essa viene definita come «una paura e un’avversione irrazionale nei con- fronti dell’omosessualità e di gay, lesbiche, bisessuali e transessuali (GLBT), basata sul pregiudizio e analoga al razzismo, alla xenofobia, all’antisemitismo e al sessismo». La rilevanza penale di espressioni omofobiche è legge in diversi Paesi europei, non ancora in Italia14. Il modello di incriminazione privilegiato fa confluire il discorso omofobico nello hate speech; per 12 Affermazioni di Peter Brian Wells, all’epoca assessore agli Affari generali della Segreteria di Stato vaticana, cui possono affiancarsi, per identità di contenuto, le opinioni di Padre Federico Lombardi, v. Corriere della Sera, 20 gennaio 2012. 13 Stralcio del comunicato della Curia milanese, così riportato in Avvenire, 14 gennaio 2012. 14 Una panoramica in GOISIS, Omofobia e diritto penale. Profili comparatistici, in www.penalecontemporaneo.it, 11/2012, pp. 7 ss.; DOLCINI, Omofobia e legge penale. Note a margine di alcune recenti proposte di legge, in Riv. it. dir proc. pen., 1/2011, pp. 24 ss.; ID., Omofobi: nuovi martiri della libertà di manifestazione del pensiero?, in Riv. it. dir proc. pen., 1/2014, pp. 7 ss.; RICCARDI, Omofobia e legge penale. Possibilità e li- miti dell’intervento penale, in www.penalecontemporaneo.it, 9/2013, pp. 1 ss.   148 Tra sentimenti ed eguale rispetto tali ragioni riteniamo che anche l’insulto omofobico non si presti a essere presentato in prima istanza come condotta offensiva di senti- menti: stati affettivi vengono certo in gioco nelle condotte omofobi- che, ma, come osservato per lo hate speech razzista, adottare come ipotesi di lettura primaria l’offesa a sentimenti rischia di incentrare la prospettiva sulla mera reattività emotiva. Con riferimento al tema della sessualità e della pari dignità degli orientamenti sessuali, si rivelano particolarmente problematiche le invocazioni dell’intervento penale che adducano offese al pudore mo- tivate non dal livello di particolare esplicitezza di condotte sessuali tenute in pubblico, ma in ragione dell’orientamento sessuale dei sog- getti 15. Detto in altri termini: può capitare, ed è capitato, che si invo- chino divieti per condotte sessuali dove il motivo dell’offesa è ricon- ducibile esclusivamente alla tipologia di relazione e dunque al- l’identità e alla dignità sessuale dei soggetti 16. Anche in Italia la stam- pa ha dato notizia di denunce per atti osceni a seguito di semplici ba- ci realizzati in pubblico nel contesto di un rapporto fra soggetti dello stesso sesso, benché nessuno dei procedimenti, per quanto ci è noto, sia giunto a una pronuncia di condanna 17. Caso 4: censura televisiva per un bacio gay Riteniamo particolarmente significativo, per quanto non sia inte- 15 Si veda il vasto, e grottesco, panorama di incriminazioni in vigore negli anni Ottanta in alcuni Stati americani. Definirle ‘leggi antisodomia’ appare improprio poiché i divieti attengono al tipo di atto piuttosto che al contesto della relazione. Ad esempio, in Arizona era penalmente rilevante la condotta di «un individuo che commetta volontariamente e senza costrizione, in qualunque modo innaturale, qualunque atto osceno libidinoso sul o con il corpo o qualunque parte o membro del corpo di un adulto di sesso maschile o femminile, con l’intento di eccitare, solleticare o gratificare la lussuria, la passione, o il desiderio sessuale di una qua- lunque delle persone coinvolte», v. NUSSBAUM, Disgusto e umanità, cit., pp. 116 ss. 16 Le radici storiche del problema riportano alle leggi antisodomia, diffuse so- prattutto in ambito angloamericano; su tale tema in Inghilterra si sviluppò il ce- lebre confronto dialettico tra il filosofo di Oxford Herbert Hart e il giudice Patrick Devlin. Hart si oppose alle tesi moralistiche di Devlin con un’opera divenuta un manifesto del liberalismo giuridico: v. HART, Diritto, morale e libertà, cit., 1968; per una sintesi, v. CADOPPI, Moralità e buon costume (delitti contro la) (diritto anglo americano), in Dig. disc. pen., VIII, 1994, pp. 187 ss. 17 Si tratta di episodi narrati da organi di stampa; a titolo esemplificativo si veda http://www.umbria24.it/cronaca/perugia-bacio-gay-tra-le-sentinelle-in-piedi- alfano-riferisce-in-aula-diretta-streaming; http://www.tg1.rai.it/dl/tg1/2010/articoli/- ContentItem-81e83656-04b5-4485-ac45-e4e5d912bc58.html.   Fisionomia dell’offesa 149 ressato il piano penalistico, un episodio di vera e propria censura nel- la televisione italiana di Stato, espressamente motivata da un ‘eccesso di sensibilità’, che ha portato al taglio e alla mancata messa in onda di una scena comprendente un bacio omosessuale. Nel luglio 2016 viene trasmesso sul canale nazionale italiano Rai 2 la serie tv statunitense ‘Le regole del delitto perfetto’. La puntata dell’8 luglio 2016 va in onda con dei tagli rispetto alla versione origi- nale: vengono infatti rimosse le sequenze ritraenti un bacio fra sog- getti di sesso maschile. A seguito delle polemiche levatesi contro una simile censura, la direttrice di Rai Due commenta «Non c’è stata nes- suna censura, semplicemente un eccesso di pudore dovuto alla sensi- bilità individuale di chi si occupa di confezionare l’edizione delle se- rie per il prime time» 18. 2. Appartenenza e gruppalità Negli argomenti addotti da coloro che lamentano un’offesa rico- nosciamo un’evidente componente emozionale, soprattutto con rife- rimento alla vignetta sulla religione ebraica e nell’opera teatrale con- testata da una parte del mondo cattolico. Nel primo caso lo si può desumere dal lessico (pensiamo alla parola ‘orripilante’ che evoca una sensazione di disgusto); nell’opera teatrale si è criticato soprat- tutto il gesto del lanciare materiali assimilati a feci contro l’immagine del Cristo, azione il cui significato iconoclasta sarebbe stato, forse, percepito in termini più attenuati senza il richiamo (peraltro non univoco) alle feci, e che invece ha indotto nei fedeli una sensazione di ‘disgusto morale’. Nel caso della censura televisiva, la giustificazione offerta in sede pubblica parla di ‘eccessiva sensibilità’ volta a evitare l’offesa al pudore, mentre appaiono più complesse le motivazioni ad- dotte in sede pubblica dai fedeli musulmani con riferimento alle vi- gnette danesi 19. Tutti i suddetti conflitti possono a nostro avviso inquadrarsi in 18 Corriere della Sera, 9 luglio 2016. 19 La reazione all’offesa religiosa si unisce ad argomenti inerenti la situazione politica e le condizioni di vita dei musulmani in Danimarca; al di là della cautela con cui è bene accogliere tali istanze, resta il fatto che la rappresentazione attra- verso le vignette si presta a essere interpretata anche come etichettamento dell’in- tera comunità musulmana nei termini di ‘terrorista’, in questo senso andando ol- tre la semplice irrisione sul piano religioso.   150 Tra sentimenti ed eguale rispetto contrapposizioni di carattere gruppale, nelle quali cioè le ragioni del- lo scontro si legano a profili che sono identificativi di un particolare gruppo o categoria di persone da cui si vuole prendere una ‘distanza’. Intendiamo il concetto di gruppo in un significato più esteso della sola appartenenza etnico-culturale, e che non è limitato a gruppi c.d. ‘minoritari’ o contrapposti alla cultura dominante20, ma che è fun- zionale a designare tensioni tra forme di appartenenza che attraver- sano i confini delle singole realtà geopolitiche 21. Un’appartenenza che si radica nel sentire dell’individuo, la cui de- finizione può a nostro avviso esser fatta coincidere con il termine ethos, il quale rimanda letteralmente ai concetti di abitudine e di usanza, intesi come elementi costitutivi della diversità fra popoli e fra individui, e che nella filosofia contemporanea è adoperato per desi- gnare «una complessiva, non necessariamente esplicita, concezione del be- ne, o uno stile di vita, che può anche avere una radice religiosa, e che in molti casi si identifica con la “cultura” di una qualche comunità di appartenenza, con il modo di sentire e giudicare, i costumi, le norme di questa comunità: in questo senso un ethos può definire l’identità culturale o religiosa, e lato sensu morale di una persona» 22. Un’ulteriore connessione può trovarsi nei concetti di ‘categorizza- zione’ e di ‘autocategorizzazione’. Secondo quanto osservato in psicologia sociale, il sistema cogniti- vo umano per far fronte alla complessità del mondo esterno sviluppa la tendenza a pensare gli oggetti raggruppandoli in insiemi, accomu- nandoli sulla base di informazioni e di dati estendibili alla totalità di 20 A questo livello non vi sono, a nostro avviso, esigenze penalistiche di delimi- tazione del concetto di appartenenza, le quali invece appaiono evidenti quando il richiamo al gruppo o alla cultura sia funzionale a introdurre eventuali fattori di attenuazione della responsabilità penale, come nel caso dei c.d. ‘reati cultural- mente motivati’. In tale ultimo caso la rilevanza sul piano penalistico è necessa- riamente subordinata a una specificità che deve consentirne l’accertamento in sede processuale: v., per tutti, DE MAGLIE, I reati culturalmente motivati. Ideologie e modelli penali, Pisa, 2010, pp. 25 ss.; EAD., voce Reati culturalmente condizionati, in Enciclopedia del diritto, Annali VII, Milano, 2014, pp. 872 ss.; in senso lato, il problema può riconnettersi alla categoria generale della c.d. ‘inesigibilità’, v., per tutti, FORNASARI, Il principio di inesigibilità nel diritto penale, Padova, 1990, pp. 319 ss. 21 Accenna a tale distinzione KYMLICKA, La cittadinanza multiculturale, tr. it., Bologna, 1999, p. 35.  22 DE MONTICELLI, La questione morale, cit., p. 143.  Fisionomia dell’offesa 151 essi. Tale processo classificatorio può avere a riferimento anche le persone, e si tratta di un momento essenziale del rapporto con l’altro: «Il mondo sociale, in altri termini, ci appare articolato in insiemi omogenei di persone unificate da un qualche tratto. Alcune di queste suddivisioni sono più importanti e cariche di significato, come l’ap- partenenza etnico culturale, la lingua, la religione, la famiglia, le ideo- logie, l’orientamento politico; ma anche il genere, l’età, l’orientamento sessuale, l’occupazione, la zona di residenza, e perfino aspetti molto più marginali come gli hobby, gli stili di consumo o la preferenza per una squadra di calcio, sono in grado di diventare potenti elementi di identificazione collettiva» 23. La tendenza alla gruppalità24 induce una propensione a ‘classifi- care’ gli altri individui, e si manifesta anche in senso riflessivo come percezione di sé basata sul sentirsi parte di una categoria, ossia come ‘autocategorizzazione’; più in particolare, l’autocategorizzazione si pone come fondamentale momento di costruzione dell’identità socia- le relativamente all’edificazione dell’immagine di sé e al modellamen- to delle sfere relazionali 25. Tale assunto ricorre anche in ambito antropologico: «l’esperienza della diversità di modi di vivere porta spesso a dare giudizi di valore, sulla base del sapere garante dell’identità del proprio gruppo, su di noi rispetto agli altri e sugli altri rispetto a noi» 26. Categorizzazione e autocategorizzazione rappresentano dunque concetti essenziali per la comprensione di dinamiche relazionali e comunicative in cui vengono in gioco ‘appartenenze significative’ del- l’individuo 27, tali da renderlo particolarmente sensibile a ciò che vie- 23 LEONE-MAZZARA-SARRICA, La psicologia sociale. Processi mentali, comunica- zione e cultura, Roma-Bari, 2013, p. 180. 24 HAIDT, Menti tribali, cit., pp. 237 ss. 25 Si vedano, ex plurimis, CRISP-TURNER, Psicologia sociale, tr. it., a cura di Mosso, Torino, 2013, pp. 59 ss.; BROWN R., Psicologia sociale del pregiudizio, tr. it., Bologna, 1997, pp. 51 ss.; CARNAGHI-ARCURI, Parole e categorie. La cognizione so- ciale nei contesti intergruppo, Milano, 2007; TAJFEL, Gruppi umani e categorie so- ciali, tr. it., Bologna, 1985, pp. 220 ss.; RAVENNA, Odiare. Quando si vuole il male di una persona o di un gruppo, Bologna, 2009, pp. 81 ss. 26 ANGIONI G., Fare, dire, sentire, cit., p. 268. 27 Ci riferiamo a caratteristiche costitutive dell’identità che siano particolar- mente totalizzanti o ‘dispotiche’, nel senso che, pur essendo oggetto di scelta, ten- dono ad assumere una portata fortemente invasiva della sfera personale, anche fino a generare situazioni di concorrenza e incompatibilità con altre appartenen-   152 Tra sentimenti ed eguale rispetto ne detto28 sia riguardo alla sua appartenenza a un gruppo, sia ri- guardo al gruppo in sé e a ciò che lo identifica 29, e anche riguardo a fatti di conoscenza che si pongono a confutazione o in contrasto con il patrimonio di conoscenze tramandato e acquisito dal gruppo 30. Secondo la ricostruzione dello psicologo sociale Jonathan Haidt, l’uomo ha una natura sia egoista sia gruppista, e possiede una mente ‘tribale’: l’aderenza al gruppo ‘unisce e acceca’, nel senso che crea i presupposti per la socialità e al contempo può intrappolare le perso- ne nelle matrici morali del gruppo di appartenenza, ingenerando conflittualità fra gruppi contrapposti 31. Un risvolto di tale relazione è l’accentuata emotività che si lega al- le questioni inerenti l’appartenenza: ma qual è la pretesa che acco- muna le parti in conflitto? cosa ‘chiedono’ le emozioni in termini di reciprocità? ze. L’esempio principale è l’identità religiosa; sul tema della costruzione dell’iden- tità e del particolare ruolo ‘dispotico’ dell’identità religiosa v. PINO, Identità perso- nale, identità religiosa e libertà individuali, in Quad. di diritto e politica ecclesiasti- ca, 1/2008, pp. 123, 137 ss. 28 «Il linguaggio [...] trasmette l’interazione con gli altri. Narra le categorizza- zioni sociali di cui ci serviamo. Reiterandoli consolida gli stereotipi. Partecipa alla costruzione e all’alimentazione dei pregiudizi. E così facendo influenza in modo rilevante la percezione sociale di un determinato gruppo», v. PUGIOTTO, Le parole sono pietre? I discorsi d’odio e la libertà di espressione nel diritto costituzio- nale, in www.penalecontemporaneo.it, 7/2013, p. 3. 29 Quali sono queste appartenenze e in base a quali criteri il diritto può attri- buire una rilevanza? L’interrogativo, nella sua estrema complessità, non può esse- re affrontato nel presente lavoro; nondimeno va tenuto conto che sia nelle scienze sociali, sia, di riflesso, nella prospettiva giuridica, si tratta di un problema aperto che può influire in modo determinante sull’approccio agli eventuali limiti alla li- bertà di espressione, v. BROWN A., Hate Speech Law, cit., p. 319. Il tipo di identità che sembra assumere una rilevanza peculiare sul piano politico è ciò che CA- STELLS, Il potere delle identità, tr. it., Milano, 1997, p. 7, definisce come ‘resisten- ziale’, ossia quella «generata dagli attori che sono in posizioni o condizioni svalu- tate e/o stigmatizzate da parte della logica del dominio». Nondimeno, il valore politico dell’identità può risultare condizionato anche dal grado di ‘dispoticità’ e della conseguentemente combattività nella sfera pubblica, v. supra, nota 27. 30 Si soffermano su tale ultima tipologia di conflitto, tra fatti di sentimento e fatti di conoscenza, GUELLA-PICIOCCHI, Libera manifestazione del pensiero, cit., pp. 855 ss., analizzando in particolare, in riferimento al contesto statunitense, il tema dell’opposizione all’insegnamento delle teorie evoluzionistiche negli istituti di istruzione di orientamento creazionista. 31 HAIDT, Menti tribali, cit., pp. 240 ss., 313 ss., 359 ss. Sul particolare profilo che Haidt definisce ‘principio di sacralità’, il quale porta a ritenere determinate cose (non semplicemente materiali ma anche teorie e ideologie) come identifica- tive della moralità del gruppo, v. pp. 184 ss.   Fisionomia dell’offesa 153 3. Rispetto, riconoscimento, stima reciproca Il concetto che meglio definisce l’atteggiamento relazionale che ciascuno esige dai propri simili è il rispetto. Ogni individuo si forma una propria intuitiva nozione di rispetto, la quale può fondarsi su istanze più o meno giustificate; non è però a una tale solipsistica concezione che il diritto può fare riferimento. La parola ‘rispetto’ ha assunto nel corso della storia significati dif- ferenti 32, ma ciò che ci interessa oggi è ricostruirne il contenuto dal punto di vista politico, non solo come atteggiamento individuale, ma soprattutto come principio per la convivenza nella diversità. Che cosa vuol dire rispettare le persone? Il pensiero filosofico ha riservato particolare attenzione a tale que- stione, e soprattutto nell’epoca attuale il tema ha assunto un’innovativa importanza: il rispetto per le persone e fra le persone rappresenta una aspetto costitutivo della qualità morale delle democrazie moderne. Si parla oggi non di un generico rispetto, ma di un rispetto democratico, non gerarchico, che assume come presupposto l’uguaglianza e la pari dignità: l’eguale rispetto, definito da un’autorevole interprete «ragione morale alla base dell’ordinamento democratico» 33. Sia chiaro: l’eguale rispetto rappresenta un’idea che riconosce im- portanza morale alla ricerca di ragioni comuni (nel senso di ‘meno comprensive’) 34 da porre a fondamento di scelte normative, ma non è una teorizzazione neutrale o dai caratteri meramente procedurali. È una concezione eticamente ‘spessa’ che sintetizza il cardine assiologi- co della democrazia: «un principio morale che richiede il riconosci- mento degli altri come pari in virtù della comune umanità» 35. Quando si parla di ‘eguale rispetto’ si intende un atteggiamento di necessario e aprioristico riguardo di cui ogni essere umano è con- temporaneamente titolare e debitore nei confronti degli altri indivi- 32 Per tutti v. MORDACCI, Rispetto, Milano, 2012, pp. 45 ss. 33 Si sottolinea che l’eguale rispetto rappresenta un principio comune alle principali strategie di giustificazione della legittimità democratica, v. GALEOTTI, La politica del rispetto. I fondamenti etici della democrazia, Roma-Bari, 2010, p. 31. 34 GALEOTTI, La politica del rispetto, cit., p. 35. Sulla definizione di ‘concezione comprensiva’, v. VECA, La filosofia politica, cit., p. 41: «[s]i usa dire che una teoria morale è comprensiva quando essa include e si estende sull’intero dominio di ciò che per noi vale».  35 GALEOTTI, La politica del rispetto, cit., p. 52.  154 Tra sentimenti ed eguale rispetto dui36, secondo una reciprocità fra pari37. Lo si definisce ‘rispetto- riconoscimento’ per distinguerlo dal cosiddetto ‘rispetto-stima’ «che consegue alla considerazione positiva del carattere, delle condotte, dei risultati conseguiti da una particolare persona» 38, e che è connes- so a una valutazione di meritevolezza che può mutare. La distinzione fra le due forme di rispetto esprime anche un’indi- cazione sul valore e sull’importanza che esse assumono in un oriz- zonte democratico: l’impegno prioritario è il rispetto-riconoscimen- to 39, mentre l’atteggiamento di stima è quello che più risente di emo- zioni contingenti e di inclinazioni individuali, e non è un obiettivo proponibile in un contesto pluralista e culturalmente disomogeneo, nel quale un dissenso intersoggettivo, anche aspro, tra opinioni e orientamenti etici, dovrebbe considerarsi fisiologico 40. Le oscillazioni del rispetto-stima rappresentano in definitiva un risvolto della libertà 36 Viene sottolineato che il rispetto come riconoscimento non può venir meno di fronte a nessuno, neppure di fronte al criminale più efferato o a chi si sia reso autore di azioni che travalicano ogni idea di umanità. Chi afferma che rispetto a determinati comportamenti esiste l’eventualità che un soggetto perda tale status, procede sulla base di un’ulteriore specificazione, la quale individua nel rispetto- riconoscimento due componenti distinte: il sentimento di riguardo e la dispo- sizione ad agire. La perdita del rispetto come riconoscimento può intaccare solo il sentimento di riguardo: «mentre possiamo sospendere l’atteggiamento di ri- spetto – smettendo di considerare quell’uomo degno del nostro riguardo – non possiamo ignorare i vincoli morali delle nostre azioni nei suoi confronti», v. GALEOTTI, La politica del rispetto, cit., p. 84. 37 È sulla reciprocità che si impernia la dimensione morale del rispetto: «[p]ensare moralmente, costruire un ragionamento morale, significa intrattenere con gli altri una relazione di mutuo riconoscimento, cioè dar loro pari dignità e [...] pretendere da loro il rispetto e il riconoscimento della nostra dignità», così BAGNOLI, L’autorità della morale, Milano, 2007, p. 24. 38 GALEOTTI, La politica del rispetto, cit., p. 77; DARWALL, Two Kinds of Respect, in 88 Ethics, 1977, pp. 36 ss. 39 Sottolinea come la nozione stessa di democrazia apra «a un concetto del rapporto secondo giustizia con l’altro fondato sul suo riconoscimento, e non sul giudizio inerente alle sue capacità o alle sue qualità» EUSEBI, Laicità e dignità umana nel diritto penale, cit., pp. 175 s. Sull’importanza del principio dell’eguale rispetto-riconoscimento nel diritto penale, v. PULITANÒ, Introduzione alla parte speciale, cit., pp. 26 ss. 40 Si apre qui il problema, sconfinato, della tolleranza e degli eventuali limiti alla tolleranza: sul tema v., ex plurimis, GALEOTTI, La tolleranza. Una proposta plu- ralista, Napoli, 1994; WALZER, Sulla tolleranza, tr. it., Roma-Bari, 2003; sul tema dei limiti, v. BOBBIO, L’età dei diritti, cit., p. 111; POPPER, Tolleranza e responsabili- tà intellettuale, in AA.VV., a cura di Mendus-Edwards, Saggi sulla tolleranza, Mila- no, 1990, pp. 27 ss.   Fisionomia dell’offesa 155 di critica, diritto da considerarsi fondamentale in una democrazia ispirata al pluralismo assiologico. A nostro avviso le categorie della stima e del rispetto-riconosci- mento ripropongono con un diverso lessico l’esigenza di distinguere tra offese alla sensibilità soggettiva e forme di offesa che appaiano orientate a minare qualcosa di più radicale, ossia il rapporto di rico- noscimento reciproco fra persone: nel secondo caso emozioni e sen- timenti entrano in gioco non solo da un punto di vista esteriore/feno- menico, bensì quale tratto della personalità che si presta a strumen- talizzazioni in chiave discriminatoria. Ed è in questi termini che si è affermata l’assoluta rilevanza del ri- spetto-riconoscimento per una società: «Fare del riconoscimento il tema centrale di un ragionamento filosofi- co-politico significa quindi che le società devono impegnarsi a pro- muovere delle regole capaci di creare e costituire istituzioni tali da non discriminare alcun soggetto – persona, famiglia, gruppo inclusivo – considerandolo oggetto, o non umano» 41. Per approfondire tale ultima prospettiva di significato ci appog- giamo all’elaborazione di Axel Honneth, il quale definisce il ricono- scimento: «un processo nel quale il singolo può pervenire ad una identità pratica nella misura in cui abbia la possibilità di accertarsi del riconoscimento di se stesso attraverso una cerchia sempre più va- sta di partner della comunicazione»42. Al mancato riconoscimento può conseguire, secondo Honneth, un vulnus definibile come ‘spre- gio’ o ‘offesa’, il cui effetto è l’alterazione dell’immagine che una per- sona ha di sé 43. Secondo Honneth le forme di mancato riconoscimento possono avere differenti gradazioni: si può avere uno spregio che coinvolge la dimensione fisica, conculcando la libertà di autodeterminazione; e si 41 CERETTI, Vita offesa, lotta per il riconoscimento e mediazione, cit., p. 66; nell’elaborazione di Ceretti la centralità del concetto di riconoscimento si inqua- dra in una prospettiva di applicazione della mediazione ai conflitti legati all’ap- partenenza. Più diffusamente sul tema del riconoscimento nella mediazione e nel- la giustizia riparativa, v. ID., Mediazione. Una ricognizione filosofica, in AA.VV., a cura di Picotti, La mediazione nel sistema penale minorile, Padova, 1998, pp. 44 ss.; MANNOZZI-LODIGIANI, La Giustizia riparativa. Formanti, parole, metodi, Torino, 2017, pp. 145 ss. 42 HONNETH, Riconoscimento e disprezzo. Sui fondamenti di un’etica post- tradizionale, tr. it., Messina, 1993, p. 18.  43 Sul tema vedi anche TAYLOR, La politica del riconoscimento, cit., pp. 9 ss.; 21 ss.  156 Tra sentimenti ed eguale rispetto possono avere forme di umiliazione che influiscono sulla cosiddetta ‘autocomprensione normativa’ della persona, escludendola struttu- ralmente dal godimento di diritti, oppure – ed è questa la forma per la quale il termine ‘spregio’ viene più comunemente in uso – negan- dole valore sociale tramite lo svilimento di modi di vita individuali o collettivi 44. Riguardo a tale ultima dimensione di significato si è detto che la questione del riconoscimento è cruciale nella costituzione dell’iden- tità personale, la quale si forma attraverso una «negoziazione che av- viene via dialogo, in parte esterno e in parte interiore, con altre per- sone», con l’importante conseguenza che «sia sul piano intimo sia su quello sociale (quello della politica dell’uguale dignità) la nostra iden- tità si forma (o deforma) in relazione ai nostri incontri con “altri si- gnificativi”» 45. Ebbene, è fondamentale il passaggio dal piano intimo a quello so- ciale, in un percorso che deve tenere ben presenti e ben distinti en- trambi i profili: nella individuazione di un’offesa il piano intimo en- tra in gioco ma non può rappresentare un criterio assoluto; il richia- mo al piano sociale, e a una dimensione di normatività oggettivabile, risulta cruciale 46. 44 Honneth afferma che «ciò che lo spregio qui sottrae alla persona, in termini di riconoscimento, è l’approvazione sociale di una forma di autorealizzazione, alla quale essa stessa ha prima dovuto faticosamente pervenire attraverso l’inco- raggiamento della solidarietà di un gruppo», v. HONNETH, Riconoscimento e di- sprezzo, cit., p. 23. 45 CERETTI, Vita offesa, lotta per il riconoscimento e mediazione, cit., p. 61. 46 È in base a tale distinzione, tra piano intimo e piano sociale, che possono eventualmente essere tematizzate questioni relative a quali siano gli ideali, le cre- denze, le concezioni valoriali, e più in generale quali profili dell’identità morale della persona possano essere presi in considerazione dal diritto, v. HÖRNLE, Prote- zione penale di identità religiose?, in Ragion pratica, 2/2012, pp. 379 ss. La studiosa lascia volutamente in sospeso la questione della soglia al di là della quale uno Sta- to dovrebbe adoperarsi per promuovere il mutuo riconoscimento, pur non na- scondendo notevoli perplessità sull’eventuale ricorso al diritto penale, e si limita a rimarcare che il dare rilevanza a particolari profili dell’identità morale, come ad esempio la fede religiosa, crei problemi di disuguaglianza rispetto ad altre forme di propensione alla trascendenza, e pertanto, non potendosi ragionevolmente ga- rantire a tutte lo stesso regime di tutela, lo Stato dovrebbe mantenere un atteg- giamento di neutralità astenendosi dal tutelare l’identità religiosa.   Fisionomia dell’offesa 157 3.1. Pari dignità ed eguale rispetto Il disconoscimento è anche un’offesa al sentire, nella misura in cui tocca corde significative dell’animo; ma non è scontato che un’offesa al sentire possa anche considerarsi come negazione del riconosci- mento. Il rispetto-riconoscimento non è il riflesso univoco di reazioni emotive, ma «ha più a che fare, naturalmente, con quella dignità ul- tima che non si inchina, che pretende il rispetto in forza di un valore intrinseco della persona, un valore che ciascuno rivendica per sé stes- so come inviolabile»47: si tratta, in definitiva, della proiezione rela- zionale del valore della dignità umana. Parlare di violazione del rispetto-riconoscimento ricalca prima fa- cie le cadenze dell’offesa alla dignità: un accostamento tutt’altro che risolutivo, e anzi assai problematico poiché rimanda alle profonde criticità che sono state espresse con riferimento alla configurabilità della dignità umana come oggetto di tutela penale 48. L’indeterminatezza penalistica è la ricaduta di una più generale difficoltà di dare alla dignità un contenuto e una dimensione oggetti- vi. La forte pregnanza emotiva che innerva tale concetto lo rende par- ticolarmente esposto a ricostruzioni di parte, e dunque a un uso che sul piano della politica del diritto appare problematico in rapporto alle dinamiche di una società pluralista 49. Il rischio è che il contenuto del concetto di dignità umana si tra- muti nel mero riflesso di concezioni ‘comprensive’ 50, le quali, ove tra- sfuse nella dimensione giuridica, incrementerebbero dissensi e frammentazioni. In altri termini, la dignità umana è un concetto «fondamentale ma “manipolabile”» 51. Si tratta di obiezioni che hanno il merito di mettere a nudo da un lato la forza retorica, e dall’altro la fragilità contenutistica di un ri- chiamo alla dignità umana tout court, probabilmente anche fino al 47 MORDACCI, Rispetto, cit., p. 26. 48 V. supra, cap. III, nota 102. 49 Per una panoramica sul dibattito a livello internazionale v. ROSEN, Dignità. Storia e significato, cit., pp. 65 ss.; per un’approfondita critica dell’appello alla dignità v. GUY E. CARMI, Dignity – The Enemy from Within: A Theoretical and Com- parative Analysis of Human Dignity as a Free Speech Justification, in 9 Journal of Constitutional Law, 2007, pp. 958 ss. Per una sintesi v. VERONESI, La dignità uma- na tra teoria dell’interpretazione e topica costituzionale, in Quaderni costituzionali, 2/2014, pp. 329 ss. 50 RAWLS, Liberalismo politico, cit., pp. 12 ss.; v. anche supra, nota 34. 51 CANESTRARI, Libertà di espressione e libertà religiosa, cit., p. 934.   158 Tra sentimenti ed eguale rispetto punto di non passare il vaglio dei principi penalistici; ma sono ragio- ni sufficienti a espungere radicalmente il valore della dignità dal di- scorso sui problemi di tutela? Il richiamo alla dignità umana non sembra un postulato da cui prendere le mosse per l’elaborazione di argomenti di parte52, bensì dovrebbe essere considerato come la dimensione di senso di ogni di- scorso che abbia a che fare con problemi di convivenza fra uomini. Le difficoltà, financo l’impossibilità, di un utilizzo del concetto di dignità sul piano tecnico-giuridico non ci sembrano una ragione suf- ficiente a mettere da parte l’orizzonte simbolico e semantico che ruota intorno alla dignità. Anche le critiche più radicali ci sembrano rivolte all’uso piuttosto che al valore sostanziale e alla pertinenza rispetto alle questioni in gioco53: si sta maneggiando un ‘superconcetto’ che sarebbe necessario introdurre nel discorso con maggiore cautela, per ragioni di tipo epistemico ed etico 54. Pur partendo dal presupposto che il concetto di dignità «è intuiti- vo, nient’affatto chiaro di per sé», pare difficile poterne fare del tutto a meno: «[s]ebbene sia un’idea imprecisa, il cui contenuto va appro- fondito in rapporto a nozioni correlate, l’idea di dignità fa comunque la differenza» 55. Martha Nussbaum esorta a non abbandonare le co- 52 «[È] fuorviante contrapporre in modo meccanico e astratto la dignità uma- na ai diritti che la Costituzione riconosce», v. AMBROSI, Costituzione italiana e manifestazione di idee razziste o xenofobe, in AA.VV., a cura di Riondato, Discri- minazione razziale, xenofobia, odio religioso. Diritti fondamentali e tutela penale, Padova, 2006, p. 52. Condivisibilmente, VERONESI, La dignità umana, cit., pp. 336 ss., sostiene che la dignità non debba essere identificata né con un diritto, né con la piana conseguenza della violazione di un diritto, né come un principio auto- nomamente azionabile, evidenziando in questo senso ragionevoli obiezioni a un appiattimento della dignità sulla dimensione del diritto positivo. 53 La distinzione fra il concetto di dignità (concept) e le plurivoche concezioni che da esso derivano (conceptions) è evidenziato da MCCRUDDEN, Human Dignity, cit., p. 679, in un discorso che cerca di evidenziare il rapporto fra il ‘nucleo duro’ del significato (core value) e le diverse declinazioni che emergono dal discorso giuridico. 54 Per tutti, v. HASSEMER, Argomentazione con concetti fondamentali, cit., p. 129. Pretendere di dare una veste conchiusa e definita della dignità, identifican- dola univocamente in un interesse ‘a senso unico’, rischia di essere una mossa azzardata sul piano epistemico e anche una forzatura sul piano etico, ove si pre- tenda di identificare il contenuto della dignità con istanze fondate su concezioni comprensive. 55 NUSSBAUM, Creare capacità, tr. it., Bologna, 2011, p. 36. Nel panorama italia- no, si veda la difesa del valore e del ruolo della dignità proposta da FLICK, Elogio della dignità (se non ora, quando?), in Politica del diritto, 4/2014, pp. 515 ss.   Fisionomia dell’offesa 159 ordinate tracciate dal concetto di dignità, e a trovare delle nozioni correlate e specificative che possano aiutare a renderlo meno liquido e più aderente ai contesti. Un importante suggerimento è quello di focalizzare l’attenzione sul concetto di rispetto: «La dignità è un’idea difficile da definire con precisione, e probabil- mente non dovremmo cercare di farlo nell’ambito politico, poiché di- verse religioni e prospettive laiche la descrivono in modi differenti [...]. Probabilmente dovremmo evitare che la dignità abbia un conte- nuto specifico tutto suo: sembra essere un concetto che acquista for- ma attraverso i legami con altri concetti, come quello di rispetto [...], e una varietà di principi politici più specifici» 56. Riteniamo tale passaggio di fondamentale importanza poiché con- tribuisce a ridisegnare la fisionomia della dignità in termini relazio- nali e non come valore assoluto, scisso da un rapporto fra individui. Parlare di rispetto reciproco significa chiamare in gioco non un valo- re esterno alla relazione, ma focalizza l’attenzione su un bilancia- mento. Le dinamiche del rispetto-riconoscimento non esauriscono lo spa- zio etico della dignità ma evidenziano il rapporto di simmetrica reci- procità nel quale devono essere collocate le pretese avanzate dagli at- tori nella dialettica pluralista, le quali appaiono tendenzialmente in- terpretabili come riflesso di due esigenze di fondo: «il rifiuto dell’im- posizione, sia essa in nome della neutralità e della verità [e] il rifiuto di una considerazione diseguale [...] che deriverebbe dal trionfo della posizione politica avversa» 57. Una ridefinizione dell’orizzonte di tutela nei termini dell’eguale e reciproco rispetto può rappresentare a nostro avviso un’opzione epi- stemicamente più cauta di un’asserita ‘tutela della dignità’: a risultare decisiva non è una ricerca di fondamenti ontologici del superconcet- to ‘dignità’, ma l’elaborazione di criteri di bilanciamento fra opposte posizioni secondo una prospettiva di uguaglianza. 56 NUSSBAUM, La nuova intolleranza. Superare la paura dell’Islam e vivere in una società più libera, tr. it., Milano, 2012, pp. 71 s. 57 GALEOTTI, La politica del rispetto, cit., p. 35. A chiosa della posizione della Galeotti, si è osservato che «il rispetto-riconoscimento è dunque un atteggiamen- to verso una persona, prima ancora che nei confronti di un’identità gruppale, che reclama azioni non umilianti e non degradanti», così CERETTI-CORNELLI, Oltre la paura, cit., p. 210.   160 Tra sentimenti ed eguale rispetto 4. Bilanciare le pretese 4.1. Dignità e capacità umane In merito al problema dei limiti alla libertà di espressione, la digni- tà umana mal si presta ad assumere le vesti di argomento ‘a senso uni- co’, tale da offrire univoca giustificazione a una sola delle pretese che si confrontano, ma è potenzialmente in grado di valere su più fronti. Parlare di tutela della dignità assume in primo luogo il significato di un sostegno alle libertà, in quanto l’attenzione e la cura nei con- fronti della dignità costituiscono da un lato la condizione generativa «di un “pensiero critico, eterodosso, collidente con pensieri e senti- menti dominanti”» e dall’altro lato «la condizione nei soggetti istitu- zionali, della stessa capacità di resistere alla tentazione di soffocarne la manifestazione» 58. Secondariamente, va tenuto in considerazione che nella dialettica fra istanze di libertà e richieste di rispetto vi sono più dignità che en- trano in gioco: quella di colui che manifesta il proprio pensiero e quella che si considera offesa dalla manifestazione espressiva 59. An- che nel linguaggio può essere importante esplicitare la connessione fra dignità e uguaglianza richiamando non semplicemente la dignità di ognuno, ma la pari dignità come presupposto di una relazione di eguale rispetto 60. Resta aperto il problema di contestualizzare pari dignità ed eguale rispetto in relazione a esigenze concrete dell’essere umano, e dunque di limitare la distanza fra la metafisica di tali concetti e le situazioni da cui scaturiscono problemi di convivenza. 58 FORTI, Le tinte forti del dissenso nel tempo dell’ipercomunicazione pulviscola- re. Quale compito per il diritto penale?, in Riv. it. dir. proc. pen., 2/2016, p. 1056. 59 Evidenzia tale ambiguità SCHAUER, Speaking of Dignity, in AA.VV., ed. by Meyer-Paren, The Constitution of rights. Human Dignity and American Values, Itha- ca and London, 1992, p. 179: «[t]he conflation of dignity and speech, as a general proposition, is mistaken, for although speaking is sometimes a manifestation of the dignity of the speaker, speech is also often the instrument through use which the dignity of others is deprived»; cfr. AMBROSI, Libertà di pensiero e manifesta- zione di opinioni razziste e xenofobe, in Quaderni costituzionali, 3/2008, p. 533. 60 Cfr. SCAFFARDI, Oltre i confini della libertà di espressione. L’istigazione all’odio razziale, Padova, 2009, pp. 232; 242. Si veda anche l’icastica osservazione di Nadia Urbinati, secondo la quale «eguale libertà è dunque il nome della difesa della dignità umana nel tempo della modernità», v. URBINATI, Ai confini della democra- zia. Opportunità e rischi dell’universalismo democratico, Roma, 2007, p. 10. Cfr., con diversità di accenti, CARUSO, La libertà di espressione in azione, cit., p. 112.   Fisionomia dell’offesa 161 Nel contesto penalistico italiano si è fatto di recente carico di tale onere Gabrio Forti, il quale, attingendo da una recente pubblicazione di Aaron Barak61, ha definito la dignità umana come «principio complesso che, necessariamente sganciato da visioni o concezioni fi- losofiche unilaterali, è suscettibile di scomposizione in entità valoria- li che devono essere rapportate tra loro» 62. Il richiamo alla distinzio- ne di Barak tra ‘dignità-madre’ e ‘diritti-figli’ è funzionale, per Forti, a evidenziare che la libertà d’espressione potrebbe incontrare limita- zioni volte alla tutela di altri ‘diritti-figli’ della stessa ‘dignità-madre’, a patto di uscire da un ragionamento meramente astratto e di proce- dere a una ‘lettura situazionale’ che sappia decifrare i contesti e gli specifici bisogni che possono emergere quale interesse da contrap- porre a eventuali manifestazioni espressive. Si tratta in altri termini di dare spessore e pregnanza personologi- ca all’interrogativo sul perché la libertà di espressione sia così impor- tante, al di là del riconoscimento che le è dato nelle carte costituzio- nali 63; e correlativamente, di chiedersi quale possa essere il peso delle parole nell’economia di vita sia di chi le esprime sia dei destinatari. Per abbozzare delle coordinate prendiamo le mosse dal pensiero di John Searle che individua la caratteristica fondamentale dell’essere umano nell’attitudine a porre in essere atti linguistici («we are speech act performing primates»), e fa conseguentemente derivare la piena dignità di un individuo dalla sua capacità di espressione 64. A nostro avviso non basta tuttavia configurare una semplice pro- pensione ad atti linguistici, ma sono necessarie ulteriori connessioni che ne mettano in luce la strumentalità rispetto a un quadro più va- riegato di capacità e di prospettive concernenti la realizzazione della persona. Nella riflessione filosofica contemporanea, il discorso sulle capaci- tà trova una fondamentale elaborazione nel ‘capability approach’ di 61 BARAK, Human Dignity. The Constitutional Value and the Constitutional Right, Cambridge, 2015. 62 FORTI, Le tinte forti del dissenso, cit., pp. 1054 ss. 63 Sulle istanze partecipative legate al discorso pubblico v. CARUSO, La libertà di espressione in azione, cit., pp. 156 ss. 64 SEARLE, Social Ontology and Free Speech, in 6 The Hedgehog Review, 2004, p. 62: «we attain our full dignity, our full stature as speech act peforming animals, when we exercise our capacities for expression [...] The need for dignity, self- esteem, and autonomy come with the genetic territory, and a healthy society has to recognize these needs and recognize that verbal self expression is an essential component in their satisfaction».   162 Tra sentimenti ed eguale rispetto Martha Nussbaum: si tratta di un’antropologia dei bisogni dell’uomo pensata come riferimento per le strategie politiche e di organizzazio- ne della società, basata sull’individuazione di un novero di capacità le quali integrano e danno sostanza umana all’idea di dignità 65. L’importanza di tale riflessione nella prospettiva penalistica è sta- ta messa in luce quale criterio di interpretazione dei bisogni e degli aspetti di vulnerabilità degli esseri umani al fine di tracciare le coor- dinate per un apporto del diritto penale alla difesa, al rispetto e an- che alla ‘costruzione’ della dignità umana 66. Nel condividere la suddetta impostazione, riteniamo che attraver- so il linguaggio delle capacità si possano meglio definire anche i con- torni delle istanze di libertà e delle richieste di rispetto che animano la dialettica sulla libertà di espressione. Ci sembra che un’immer- sione nelle note caratterizzanti la natura e la socialità umane possa contribuire a tradurre le pretese in una dimensione meno astratta, per verificare se e in che termini siano reciprocamente esigibili 67. Entrando nel dettaglio del catalogo della Nussbaum individuiamo un novero di capacità che definiscono una base di contenuti funzio- nale non solo alla ricognizione dei contorni di un’ipotetica dignità of- fesa, ma che si prestano a dare senso e sostanza alla posizione di chi chiede rispetto per la propria libertà di esprimere contenuti pur ‘di- scutibili’, fungendo in questo senso da connessione giustificativa an- che per la posizione di chi invoca il diritto alla libertà di espressione: 65 «Consideriamo la persona, proprio perché caratterizzata da attività, mete, progetti, in qualche modo capace di suscitare un rispetto che trascende l’azione meccanica della natura, eppure bisognosa di sostegno per portare a compimento molti progetti importanti», v. NUSSBAUM, Diventare persone, tr. it., Bologna, 2000, p. 90. 66 FORTI, «La nostra arte è un essere abbagliati dalla verità». L’apporto delle di- scipline penalistiche nella costruzione della dignità umana, in Jus, 2-3/2008, pp. 308 s. 67 L’approccio delle capacità può rappresentare un’importante coordinata de- scrittiva e una chiave di lettura delle istanze di tutela; in questo senso condivi- diamo e rilanciamo quale buon esempio la proposta di ‘lettura situazionale’ basa- ta sull’approccio delle capacità formulata da Matteo Caputo in tema di repressio- ne penale del negazionismo, v. CAPUTO, La “Menzogna di Auschwitz”, cit., pp. 309 s. A un livello successivo, relativo al problema della soglia di intervento normati- vo, TESAURO, Riflessioni in tema di dignità umana, cit., pp. 108 ss., evidenzia in termini critici come anche tale chiave di lettura non sarebbe però sufficiente a configurare un substrato di offensività verificabile in termini conformi allo stan- dard di bilanciamento che dovrebbe supportare eventuali norme basate sullo schema applicativo del pericolo concreto.   Fisionomia dell’offesa 163 «Sensi, immaginazione, pensiero. [...] Essere in grado di usare l’imma- ginazione e il pensiero in collegamento con l’esperienza e la produzio- ne di opere autoespressive, di eventi, scelti autonomamente, di natura religiosa, letteraria, musicale, e così via. Poter usare la propria mente in modi protetti dalla garanzia delle libertà di espressione rispetto sia al discorso politico, sia artistico, nonché della libertà di pratica reli- giosa [...]. Sentimenti. Poter provare attaccamento per cose e persone oltre che per noi stessi [...] Non vedere il proprio sviluppo emotivo distrutto da ansie o paure eccessive. Ragion pratica. Essere in grado di formarsi una concezione di ciò che è bene e impegnarsi in una riflessione critica su come programmare la propria vita. Appartenenza. [...] b) Avere le basi sociali per il rispetto di sé e per non essere umiliati; poter essere trattato come persona dignitosa il cui va- lore eguaglia quello altrui. Questo implica, al livello minimo, prote- zione contro la discriminazione in base a razza, sesso, tendenza ses- suale, religione, casta, etnia, origine nazionale. [...]» 68. Le suddette capacità appaiono connaturate a una società aperta, presupposto e obiettivo di una tutela delle libertà strumentale a met- tere ogni individuo nella condizione di formarsi una concezione di ciò che è bene potendo usare la propria mente in modi protetti dalla libertà di espressione. Emerge però anche un livello minimo di protezione il quale sem- bra richiamare l’esigenza di un fare attivo da parte della politica e del- l’ordinamento giuridico, fra le cui finalità viene messo in evidenza il contrasto alla discriminazione: significa che uno Stato dovrebbe im- pegnarsi per garantire «le basi sociali per il rispetto di sé e per non essere umiliati; poter essere trattato come una persona dignitosa il cui valore eguaglia quello altrui». Ritorna anche nel pensiero della Nussbaum l’esigenza di prestare attenzione al problema del mancato riconoscimento, qui richiamato attraverso i concetti del ‘rispetto di sé’ e dell’‘umiliazione’. In altri ter- mini, quando si creano le condizioni perché un soggetto venga umi- liato si potrebbero incrinare gli equilibri che costituiscono l’humus per le capacità umane fondamentali, e potrebbe rendersi necessario un intervento dello Stato per cercare di ripristinarle; libertà non può si- gnificare umiliazione dell’altro. Per quanto ispirato alla massima apertura liberale, anche il di-  68 NUSSBAUM, Diventare persone, cit., p. 96.  164 Tra sentimenti ed eguale rispetto scorso di Martha Nussbaum pone il problema di eventuali limiti e suggerisce un approfondimento del concetto di ‘umiliazione’. 4.2. Rispetto di sé e umiliazione: la concezione di Avishai Margalit Un tentativo di elaborare una nozione politicamente spendibile – non soggettivistica o emotivistica – dei concetti di ‘rispetto di sé’ 69 e ‘umiliazione’ si deve ad Avishai Margalit e alla sua teorizzazione sulla ‘società decente’, da intendersi come ‘società che non umilia’ 70. La nozione di umiliazione proposta da Margalit è, per stessa ammis- sione dell’Autore, di tipo normativo e non psicologico: «[u]miliazione è ogni comportamento o condizione che costituisce una valida ragione perché una persona consideri offeso il proprio rispetto di sé» 71. È di particolare importanza, ai fini della presente indagine, la di- stinzione fra insulto e umiliazione: pur essendo situati lungo un con- tinuum, rappresentano forme di offesa qualitativamente differenti, la prima delle quali si rivolge all’onore sociale, mentre la seconda lede il rispetto di sé inteso come percezione del valore intrinseco della per- sona 72. L’insulto è contraddistinto da contenuti che possono essere in un certo senso razionalizzati dal destinatario (ad esempio anche in relazione alla verità o falsità degli asserti), l’umiliazione è più gravo- sa: riprendendo la distinzione di Bernard Williams fra emozioni ‘bianche’ e ‘rosse’ 73, Margalit ritiene che l’umiliazione sia associabile a un’emozione bianca, la quale comporta che il soggetto umiliato si 69 Sul concetto di ‘rispetto di sé’, con un’impostazione differente, si veda anche BAGNOLI, L’autorità della morale, cit., pp. 25 ss., 143 ss.; DWORKIN, Giustizia per i ricci, tr. it., Milano, 2013, pp. 293 ss. 70 MARGALIT, La società decente, tr. it., Milano, 1998, passim. 71 MARGALIT, La società decente, cit., p. 57: «[q]uesto è un significato normativo piuttosto che psicologico dell’umiliazione. Il significato normativo non comporta per sé che la persona che abbia una buona ragione per sentirsi umiliata, di fatto si senta tale. D’altra parte, il significato psicologico dell’umiliazione non compor- ta che la persona che si sente umiliata abbia una buona motivazione per questo sentimento. La sottolineatura è sui motivi per provare umiliazione come risultato di un comportamento altrui». Nel panorama italiano, cfr. l’ampia analisi critica di TESAURO, Riflessioni in tema di dignità umana, cit., pp. 74 ss. 72 MARGALIT, La società decente, cit., p. 152. 73 WILLIAMS, Vergogna e necessità, tr. it., Bologna, 2007; un’emozione rossa è un’emozione in cui ci si vede attraverso gli occhi dell’altro, e perciò si arrossisce. Con un’emozione bianca una persona si vede attraverso l’‘occhio interno’ della propria coscienza, che può farla impallidire.   Fisionomia dell’offesa 165 guardi col proprio occhio interno ma applicando al contempo il pun- to di vista del soggetto umiliante, e dunque senza riuscire ad assume- re una distanza critica dall’addebito, poiché l’umiliazione attecchisce in contesti di squilibrio fra umiliatore e vittima, e assume l’effetto di una ‘minaccia esistenziale’ 74. L’umiliazione è più che un semplice insulto: «rifiutare un essere umano umiliandolo significa rifiutare il modo in cui egli esprime se stesso come umano»75, radicalizzando l’addebito su modi di essere costitutivi dell’individuo e negando l’umanità dell’altro a causa di un’ap- partenenza significativa 76 che concorre a definirne l’identità. Risulta perciò fondamentale distinguere quando un’espressione abbia il significato di forte critica e quando invece sottenda un’umi- liante esclusione e, di fatto, una discriminazione. 5. Ai confini fra critica e discriminazione Dal punto di vista concettuale la differenza fra critica e discrimi- nazione ricalca le due varianti del rispetto: rispetto-stima come at- teggiamento le cui oscillazioni in positivo o in negativo possono dar luogo a forme di critica legittima; rispetto-riconoscimento come va- lore che può essere negato attraverso manifestazioni espressive volte a umiliare e a marginalizzare. Si aggiunge in questo modo un ulteriore, importante, tassello al- l’itinerario concettuale che ha preso le mosse dall’esigenza di distin- guere offese ai meri sentimenti da condotte, e in particolare, da for- me di espressione, che, non limitandosi a offendere l’emotività sog- gettiva, si facciano veicolo di umiliazione e di negazione dell’eguale libertà e dignità delle persone. 74 MARGALIT, La società decente, cit., p. 154. 75 MARGALIT, La società decente, cit., p. 171. 76 MARGALIT, La società decente, cit., pp. 165 ss. Secondo l’Autore, ciò che rende più pregnante l’umiliazione è la connessione con il concetto di ‘gruppo inclusivo’: si intende con tale definizione «un gruppo [che] ha un comune carattere e una comune cultura, che include molti importanti e vari aspetti della vita [nel quale] le persone che crescono nel gruppo ne acquisiscono la cultura, e possiedono le sue particolari caratteristiche». Un tratto particolarmente significativo riguarda il fatto che l’appartenenza al gruppo è in parte materia di mutuo riconoscimento, nel senso che l’inclusione nel gruppo non è determinata da una scelta personale: «esse appartengono [al gruppo] a causa di quello che sono».   166 Tra sentimenti ed eguale rispetto È però assai problematico trovare le rispondenze di tali distinzioni all’atto pratico: «non è così netta, nella percezione viva, la differenza fra l’offesa alla stima e l’offesa al riconoscimento come semplice per- sona, perché le persone si identificano non solo con la propria umani- tà, ma soprattutto con le loro qualità, le loro storie individuali» 77. Sia la critica sia la discriminazione possono definirsi come forme di espressione ‘irrispettose’, e il sottile confine che le separa a livello fe- nomenico espone al rischio, nella prospettiva giuridica, di continue oscillazioni tra vuoti di tutela ed eccessi di intervento. Come osserva Michael Rosen, «[è] evidente che il diritto a comportarsi in maniera irrispettosa debba essere maneggiato con cura. Probabilmente vi sono dei limiti a ciò che dovrebbe essere permesso [...] ma dovremmo rifiu- tare l’idea che il linguaggio volto a irritare o insultare violi automati- camente l’essenza intrinseca di ciò che ha valore nelle persone con la conseguenza di “deprivarle della loro dignità di esseri umani”» 78. All’inizio del capitolo abbiamo riportato alcuni episodi tratti dalle cronache per identificare il tipo di conflitti in cui appare a nostro av- viso più evidente il coinvolgimento di sensibilità soggettive, esclu- dendo da tale apparato esemplificativo il tema del discorso d’odio (c.d. hate speech) e della propaganda razzista. Ora, alla luce dell’esi- genza di distinguere fra critica ed esclusione/discriminazione, il ri- chiamo al discorso d’odio diviene di importanza centrale poiché è proprio l’elaborazione teorica in materia di hate speech 79 a fornire in- teressanti spunti in tal senso. 77 MORDACCI, Rispetto, cit., p. 29. 78 In questi termini Michael Rosen rimarca l’esigenza di procedere con cautela nelle restrizioni a forme di espressione: ROSEN, Dignità, cit., pp. 76 s. 79 Il tema dello hate speech è indagato in modo particolarmente approfondito nel panorama anglo-americano, nel quale l’orientamento maggioritario è di con- trasto alle limitazioni alla libertà di espressione. In questo senso vi sono forti dif- ferenze rispetto al panorama europeo, le cui ragioni affondano nella storia geopo- litica dei due continenti. Quali esempi di contrarietà ai cosiddetti ‘hate speech bans’, pur con diversità di accenti, v. HEINZE, Hate Speech and Democratic Citizen- ship, Oxford, 2016, in particolare pp. 207 ss.; cfr. DWORKIN, Foreword, in AA.VV., ed. by Hare-Weinstein, Extreme Speech and Democracy, cit., pp. V ss.; POST, Hate Speech, in AA.VV., ed by Hare-Weinstein, Extreme Speech and Democracy, cit., pp. 132 ss. Nella vasta letteratura, v., fra le opere collettanee, AA.VV., ed. by Hare- Weinstein, Extreme Speech and Democracy, cit.; AA.VV., ed. by Herz-Molnar, The Content and the Context of Hate Speech: Rethinking Regulation and Responses, Cambridge, 2012. Per un quadro di sintesi sulle differenze emergenti fra la giu- risprudenza statunitense ed europea v. KISKA, Hate speech: a Comparison between the European Court of Human Rights and the United States Supreme Court Juris- prudence, in 25 Regent University Law Review, 2012, pp. 107 ss.   Fisionomia dell’offesa 167 La connessione della problematica della tutela di sentimenti al tema della discriminazione si lega a ragioni di maggiore selettività, mirate a differenziare offese alla sensibilità, le quali dovrebbero con- siderarsi come ricaduta di un fisiologico e pluralistico dissenso e co- me evento collaterale alla libertà di critica, da manifestazioni di ne- gazione della pari dignità e dunque del rispetto-riconoscimento. 5.1. Offesa ai sentimenti e offesa alla dignità nello hate speech secondo Jeremy Waldron Un importante contributo viene dal giurista Jeremy Waldron80 il quale argomenta sulla dannosità del discorso d’odio a partire da quel- la che considera una fuorviante commistione fra hate speech e tutela di sentimenti. Lo studioso sostiene che il disvalore dello hate speech non vada identificato nello stato psichico negativo concretamente o potenzial- mente indotto da manifestazioni espressive, e adotta in questo senso una posizione di contrasto a incriminazioni fondate sulla logica dell’offense di feinberghiana memoria; la protezione di sentimenti è un effetto solo indiretto, così come l’induzione di stati psichici nega- tivi è un elemento collaterale che non esaurisce il disvalore del di- scorso d’odio. L’orizzonte dello hate speech dovrebbe coincidere con offese alla dignità del singolo in quanto appartenente a determinati gruppi o credente in determinati ideali; le forme di critica anche aspre e irri- verenti che non rappresentino una stigmatizzazione dell’individuo in ragione di suoi specifici tratti, dovrebbero considerarsi al di fuori dell’area di interventi normativi 81. 80 Waldron si caratterizza per un approccio più disincantato nei confronti del- la libertà di espressione: l’Autore è aperto a prospettive di regolamentazione nor- mativa del discorso pubblico e in questo senso si distingue nel panorama statuni- tense in virtù di una posizione minoritaria, espressa in particolare negli studi rac- colti in WALDRON, The Harm in Hate Speech, Harvard, 2012. Per un quadro gene- rale e un excursus storico sulla libertà di espressione negli Stati Uniti, v. KALVEN, A Worthy Tradition: Freedom of Speech in America, New York, 1988; per una sinte- si del dibattito su pornografia e blasfemia v. POST, Cultural Heterogeneity and Law: Pornography, Blasphemy, and the First Amendment, in 76 California Law Re- view, 1988, pp. 297 ss. 81 Interessanti spunti sul tema sono offerti anche da Robert Post il quale inter- preta la distinzione tra espressioni tollerabili e intollerabili come riflesso di di- namiche di egemonia sociale delle classi dominanti: secondo Post il discorso   168 Tra sentimenti ed eguale rispetto Ricondurre la questione dello hate speech a un problema di offesa a sentimenti significherebbe sminuirne la portata 82, poiché una con- cezione emotivistica dell’interesse protetto non dà adeguatamente conto del radicamento del discorso d’odio e di come esso possa con- taminare l’ambiente sociale anche al di là del turbamento emotivo indotto su singoli individui 83. Lo hate speech non appare pertanto riducibile a un mero insulto dal forte impatto emotivo, ma piuttosto a un discorso che può intac- care la considerazione sociale dei destinatari dell’offesa, a detrimento di interessi come l’inclusività (inclusiveness) e la garanzia (assurance) di non essere discriminati 84. Il punto fondamentale, secondo Waldron, è distinguere fra espres- sioni che suscitano emozioni e dunque ‘offendono’ in un senso affine all’offense principle, ed espressioni che ‘aggrediscono’ la dignità del d’odio è ritenuto illegittimo poiché esorbita da standard che rinviano a norme so- ciali dettate dai gruppi dominanti: quando il diritto impone una determinata di- stinzione, come quella che richiede di non accomunare espressioni di fisiologico disaccordo a manifestazioni d’odio, sta in definitiva imponendo egemonicamente standard sociali di decorosità nei rapporti intersoggettivi: «This suggests that whenever law chooses to enforce cultural norms, as for example by enforcing norms that distinguish hate speech from normal disagreement, law hegemonical- ly imposes a particular vision of these norms. Hate speech regulation imagines itself as simply enforcing the given and natural norms of a decent society, á la Devlin; but from a sociological or anthropological point of view we know that law is always actually enforcing the mores of the dominant group that controls the content of law», v. POST, Hate Speech, cit., p. 130. Sembra fondarsi invece sulla ‘non astinenza epistemica’ che accompagna i divieti in materia di hate speech, e che sarebbe dunque incompatibile con una dimensione democratica del discorso pubblico, la critica di fondo di HEINZE, Hate Speech, cit., pp. 111 ss., 209. Nella letteratura italiana, con diversità di accenti, sul problema della (tendenzialmente impossibile) ‘astinenza epistemica’ del legislatore in materia di regolamentazione del discorso pubblico VISCONTI C., Aspetti penalistici, cit., pp. 247 s.; TESAURO, Ri- flessioni in tema di dignità umana, cit., pp. 128 ss. 82 La differenza risiede nella distinzione «between undermining a person’s dignity and causing offense to the same individual [...] to protect people from of- fense or from being offended is to protect them from a certain sort of effect on their feelings. And that is different from protecting their dignity and the assur- ance of their decent treatment in society», WALDRON, The Harm in Hate Speech, cit., pp. 105, 107. 83 WALDRON, The Harm in Hate speech, cit., p. 116; per un approfondimento critico sul rischio di interpretazioni soggettivistiche, e un riorientamento della categoria degli hate crimes in una prospettiva incentrata su dissenso politico e rispetto per le differenze v. PERRY, A Crime by Any Other Name: The Semantics of Hate, in 4 Journal of Hate Studies, 2005, pp. 123 ss.  84 WALDRON, The Harm in Hate speech, cit., pp. 4 ss.  Fisionomia dell’offesa 169 soggetto («offending people and assaulting their dignity»)85, intesa come «basic social standing, the basis of their recognition as social equals and as bearers of human rights and constitutional entitle- ments» 86. Il turbamento che un soggetto possa eventualmente avvertire, e dunque le emozioni negative che plausibilmente si accompagnano alle parole87, non sono del tutto irrilevanti (e testimoniano come l’offesa coinvolga qualcosa di importante per la persona), ma enfatiz- zarne il rilievo significherebbe, secondo Waldron, esporsi alla critica che lo hate speech tuteli meri sentimenti. L’offesa emotiva rappresen- ta una proiezione soggettiva, ‘metonimica’ nel senso che descrive solo una parte della dimensione del danno 88. Perché un’espressione di negazione del riconoscimento dovrebbe essere ritenuta più grave di una critica irridente che offende il sentire soggettivo? Fra le ragioni addotte a sostegno della diversa gravità di tali forme di offesa, anche Waldron richiama l’insondabilità delle emozioni soggettive e la mutevolezza delle soglie di suscettibilità individuale 89, 85 «[...] the basic distinction between an attack on the body of beliefs and an attack on the basic social standing and reputation of a group of people is clear. In every aspect of democratic society, we distinguish between the respect accorded to a citizen and the disagreement we might have concerning his or her social and political convictions [...] Defaming the group that comprises all Christians, as op- posed to defaming Christians as members of that group, means defaming the creeds, Christ, and the saints», v. WALDRON, The Harm in Hate speech, cit., p. 120. 86 WALDRON, The Harm in Hate speech, cit., p. 59. 87 Assumiamo come presupposto che le parole possano ferire, quantomeno in- ducendo emozioni negative; il fatto che tali conseguenze possano non essere con- siderate rilevanti in quanto non integrino la dimensione normativa del danno, è un problema successivo, ma che non dovrebbe portare a disconoscere una di- mensione di lesività a livello naturalistico. Sul punto risulta interessante la posi- zione di Schauer, il quale sostiene che definire aprioristicamente come ‘minore’ il danno provocato da parole, solo perché ‘non fisico’ o meno visibile, sia altamente opinabile. Riconoscere che un danno, inteso come sofferenza fisica, possa crearsi, non significa automaticamente inferirne la rilevanza sul piano giuridico in termi- ni di compressioni di libertà: «If there is a free speech principle, then a conse- quence will be that a range of distresses and negative outcomes produced by the relevant category of speech act will be considered not to have caused harms in the legally redressable sense, but that is very different from saying pretheoretically that it is a characteristic of the acts that they are as category less harmful», v. SCHAUER, The Phenomenology of Speech and Harm, in 103 Ethics, 1993, p. 652. 88 WALDRON, The Harm in Hate Speech, cit., p. 112. 89 WALDRON, The Harm in Hate Speech, cit., p. 113.   170 Tra sentimenti ed eguale rispetto ma non appaiono queste le ragioni decisive. L’offesa discriminatoria fa leva sulla diversità per comunicare esclusione da ogni prospettiva di dialogo: in questo senso realizza un’interazione con lo status socia- le e relazionale delle persone attraverso la negazione del patto etico su cui si fonda la convivenza, ossia la pari dignità dell’altro 90. L’intru- sione nella sfera di libertà altrui si realizza attraverso una potenziale compromissione delle trame sociali e relazionali, e più in generale dell’ambiente sociale in cui dispiegano la propria esistenza gli indivi- dui destinatari di determinate espressioni 91. Un’ulteriore importante precisazione avanzata da Jeremy Waldron concerne la distinzione a livello concettuale tra offese alla reputazio- ne del gruppo ed espressioni discriminatorie che si riflettono sul sin- golo individuo in quanto appartenente al gruppo. Troppo spesso, os- serva Waldron, la c.d. ‘diffamazione di gruppo’ (defamation group 92) 90 Si è osservato che l’incriminazione di tale tipologia di espressioni potrebbe essere l’unica eccezione al principio secondo cui in uno Stato liberale non si do- vrebbero incriminare concezioni di valore e modi di pensare: «[d]iversamente ac- cade, eccezionalmente, soltanto quando certi comportamenti manifestano e/o realizzano modi di pensare, convinzioni e concezioni di valore con i quali viene propagandato e/o trasformato un certo stile di vita che esclude in modo combat- tivo altre concezioni del bene, oppure addirittura nega a certi gruppi all’interno della società lo stato di membri aventi gli stessi diritti», v. WOHLERS, Le fattispecie penali come strumento per il mantenimento di orientamenti sociali di carattere as- siologico?, cit., p. 147. Cfr. ABEL, La parola e il rispetto, cit., pp. 101 ss., il quale individua la c.d. ‘riproduzione della disuguaglianza di status’ come uno dei possi- bili danni realizzabili dalle parole. 91 D’obbligo il richiamo alla cosiddetta ‘Critical Race Theory’ quale esempio di teoria che ha esposto con dovizia argomentativa, per quanto non immune da obie- zioni, le ricadute dannose del discorso denigratorio basandosi sulle espressioni a sfondo razziale: in estrema sintesi si sostiene che la diffusione dell’odio, e in parti- colare l’odio razzista, produrrebbe a livello individuale fenomeni di ansia, disagio psichico e perdita di autostima tali da poter influire sulla vita relazionale degli indi- vidui, mentre a livello sociale porterebbe alla formazione di un clima culturale di ostilità fino a poter generare anche il c.d. ‘Silencing Effect’, ossia l’effetto silenziatore consistente nello screditare socialmente le minoranze offese fino a minare il loro status di partner a livello comunicativo in ambito sociale. Per un’ampia e dettagliata sintesi v. TESAURO, Riflessioni in tema di dignità umana, cit., pp. 67 ss.; cfr. PINO, Di- scorso razzista e libertà di manifestazione del pensiero, in Politica del diritto, 2/2008, pp. 287 ss.; si veda anche AA.VV., a cura di Thomas-Zanetti, Legge razza diritti. La Critical Race Theory negli Stati Uniti, Reggio Emilia, 2005. 92 Il lessico angloamericano distingue fra individual defamation e group defa- mation intendendo con il secondo termine l’area di problemi che viene comune- mente identificata come ‘hate speech’: «In many countries, a different term or set of terms is used by jurist: instead of “hate speech”, they talk about “group libel” or “group defamation”», v. WALDRON, The Harm in Hate Speech, cit., p. 39. Mal-   Fisionomia dell’offesa 171 viene intesa come offesa che, indirizzandosi ai valori che fondano l’identità del gruppo, coinvolgono il singolo solo in termini di disagio emotivo: non è questa la prospettiva con cui identificare lo hate speech. L’offesa che dovrebbe rilevare come discorso discriminatorio è quella che strumentalizza l’appartenenza al gruppo come fattore di degradazione e di inferiorità della persona 93. In altri termini, una prospettiva di intervento normativo non do- vrebbe avere ad oggetto principi o concezioni valoriali in sé, neppure nella forma mediata di carattere identificativo di un gruppo, e dunque nella loro dimensione sovraindividuale e impersonale. I cosiddetti ‘va- lori’, intesi come principi su cui un soggetto impronta la propria vita specie con riferimento alla sfera morale, possono assumere rilevanza in quanto elementi costitutivi del modo d’essere degli individui 94. Al termine di tale complessa disamina, un dato di fondo sembra difficilmente contestabile: distinguere fra espressioni di odio e di cri- tica, tra offese alla dignità del singolo in quanto aderente a un grup- po e offese alla reputazione del gruppo stesso, e più in generale stabi- lire la portata offensiva di un’espressione verbale o simbolica, è un’operazione ermeneutica che necessita di un’attenta lettura di con- testi e situazioni, e che non può essere imbrigliata in categorizzazioni di carattere ‘assoluto’. 5.2. Ermeneutica del fatto ed ermeneutica della norma Prima di verificare la rispondenza di tali distinzioni nelle eventua- li prassi applicative, si pone l’esigenza di una riflessione sul piano dei presupposti del ragionamento. L’individuazione di un confine fra critica e discriminazione si ri- grado la sostanziale identità sul piano lessicale, la defamation group non appare perfettamente sovrapponibile a ciò che nel contesto italiano viene definito ‘diffa- mazione di gruppo’ come variante plurisoggettiva del reato di diffamazione sem- plice, la quale è volta, quantomeno in via teorica, a reprimere le medesime offese che rileverebbero ex art. 595 c.p., ossia un novero più ampio rispetto a ciò che si potrebbe definire ‘discorso d’odio’ (v. infra, nota 120). 93 WALDRON, The Harm in Hate Speech, cit., p. 122. 94 Sul tema, v. DE MONTICELLI, La questione morale, cit., p. 140.; cfr. RAZ, I va- lori fra attaccamento e rispetto, tr. it., a cura di Belvisi, Reggio Emilia, 2003, pp. 13 ss. Osserva GALEOTTI, La politica del rispetto, cit., p. 137 che «culture e tradizioni possono avere un valore estetico, storico e archeologico, ma non intrinsecamente morale. Il loro valore morale deriva dal fatto che sono importanti e fonti d’ispi- razione per i loro membri e non in sé».   172 Tra sentimenti ed eguale rispetto flette sul raggio applicativo di norme giuridiche, sia vigenti sia in prospettiva de iure condendo, e dipende in primo luogo dall’interpre- tazione di dinamiche intersoggettive e di aspetti fattuali: non sempli- cemente conoscenza di fatti, bensì attribuzione di significato ad azioni ed espressioni. La distinzione fra questi profili non sembra adeguatamente ap- profondita in sede teorica95, ed è del tutto trascurata nel contesto giurisprudenziale, ove l’interpretazione del fatto finisce per essere as- sorbita, e data per scontata, rispetto alla sussunzione normativa, sen- za riconoscere che le peculiarità del fatto possono dar luogo a pro- blemi logicamente autonomi e complementari all’ermeneutica della norma giuridica: problemi «di interpretazione del fatto, e che si riflet- tono sulla applicazione del diritto» 96. In questa sede ci limitiamo a evidenziare come la distinzione fra ermeneutica del fatto ed ermeneutica della norma si ponga a livello concettuale quale richiamo, a nostro avviso necessario, per eviden- ziare fasi differenti nella gestione epistemica del ragionamento giu- diziale 97. La soglia di rilevanza penale di manifestazioni espressive costitui- sce un tema in relazione al quale i rapporti fra ermeneutica del fatto ed ermeneutica della norma appaiono fortemente compenetrati; co- me osservato da Richard Abel: «gli sforzi giuridici per regolare l’espressione sprofondano nell’inelimi- nabile ambiguità dei significati. Il senso e la valenza morale dei sim- 95 Un’opera dedicata ex professo al rapporto fra giudicante e interpretazione di elementi extragiuridici, e più in generale, al tema del ruolo dei valori culturali quale fattore di influenza nelle decisioni giudiziali, è lo studio di BIANCHI D’ESPINOSA- CELORIA-GRECO-ODORISIO-PETRELLA-PULITANÒ, Valori socio-culturali della giuri- sprudenza, cit. 96 PULITANÒ, Nella fabbrica delle interpretazioni penalistiche, in AA.VV., a cura di Biscotti-Borsellino-Pocar-Pulitanò, La fabbrica delle interpretazioni, Milano, 2012, p. 203. 97 Problema differente è se la distinzione fra ermeneutica del fatto ed erme- neutica della norma sia meramente concettualistica, finendo per restare assorbita nella spirale ermeneutica e nell’intreccio tra fatto e diritto; sul tema, con diversità di accenti, v. FIANDACA, Ermeneutica e applicazione giudiziale del diritto penale, in ID., Il diritto penale tra legge e giudice, Padova, 2002, pp. 37 ss.; DI GIOVINE O., L’in- terpretazione nel diritto penale. Tra creatività e vincolo alla legge, Milano, 2006, pp. 231 ss.; DONINI, Disposizione e norma nell’ermeneutica penale, in AA.VV., La fab- brica delle interpretazioni, cit., pp. 96 ss.; PULITANÒ, Nella fabbrica delle interpreta- zioni penalistiche, cit., pp. 201 ss.; PALAZZO, Testo e contesto, cit., pp. 525 ss.   Fisionomia dell’offesa 173 boli variano radicalmente a seconda di chi parla e di chi ascolta e pos- sono capovolgersi rapidamente, perfino istantaneamente» 98. Quando si ha a che fare con forme di espressione non si pone tan- to un problema di conoscenza di fatti, quanto di selezione e valuta- zione di elementi di contesto chiamati a definirne la dimensione di significato: l’interpretazione di una manifestazione espressiva non si riduce a un esame della lessicalità o a un riscontro oggettivo di gesti simbolici senza tenere in considerazione la relazione intersoggettiva di base e il contesto di sfondo. Lo studioso, ed eventualmente il giudice, si trovano alle prese con una complessa ermeneutica finalizzata a «concretizzare il volto del fat- to punibile» 99, complementare rispetto all’ermeneutica della norma. Problemi simili sono emersi con riferimento anche ad altri ambiti, ad esempio nell’interpretazione del concetto di osceno in rapporto alla libertà di creazione artistica 100, in relazione all’accertamento del- l’appartenenza culturale di un soggetto quale eventuale causa di atte- nuazione della responsabilità101, e anche in relazione all’interpreta- zione del gesto del bacio come condotta sessualmente pregnante piuttosto che come approccio confidenziale e ‘innocente’ 102. Come è stato osservato in dottrina, la ricostruzione del fatto è probabilmente il momento più delicato del procedimento interpreta- tivo, avvinto in un intreccio col diritto che è stato definito ‘diaboli- co’ 103: l’interprete non è un semplice spettatore che importa passiva- 98 ABEL, La parola e il rispetto, cit., p. 98. 99 FIANDACA, Problematica dell’osceno, cit., p. 34. 100 FIANDACA, Problematica dell’osceno, cit., p. 153. Una caso emblematico è la vicenda giudiziaria relativa al film ‘Ultimo tango a Parigi’ del regista Bernardo Bertolucci, oggi riassunta nel volume di AA.VV., a cura di Massaro, Ultimo tango a Parigi quarant’anni dopo. Osceno e comune sentimento del pudore tra arte cine- matografica, diritto e processo penale, Roma, 2013; v. in particolare il saggio di MASSARO, Lo spettacolo cinematografico osceno tra elementi elastici e difetto di de- terminatezza, ivi, pp. 33 ss. 101 DE MAGLIE, I reati culturalmente motivati, cit., pp. 137 ss. 102 In relazione a tale ultima questione si è osservato come l’interpretazione del gesto non possa limitarsi a una statica rispondenza con pattern comportamentali, ma richieda piuttosto una prospettiva ermeneutica «incline a prendere in consi- derazione anche il “contesto” in cui il contatto fisico si realizza e dunque la com- plessa dinamica intersoggettiva che si sviluppa nell’ambito della situazioni coar- tanti», v. FIANDACA, Ermeneutica e applicazione giudiziale, cit., p. 56. 103 DI GIOVINE O., Considerazioni su interpretazione, retorica e deontologia in di- ritto penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1/2009, p. 124.   174 Tra sentimenti ed eguale rispetto mente e acriticamente elementi della realtà all’interno del proprio procedimento cognitivo, ma opera una selezione determinata dalle peculiari modalità di apprendimento che caratterizzano in modo dif- ferente ogni singolo individuo, sulla base di fattori che comprendono il corredo neurobiologico, la dimensione delle esperienze personali, la matrice culturale 104 e, piaccia o non piaccia, l’ideologia 105. In altri termini, il giudicante non si limita a prendere atto di ele- menti di fatto, ma interpreta i significati del fatto selezionando gli aspetti rilevanti per la decisione 106. In fase applicativa tali questioni finiscono per restare assorbite, e non sufficientemente distinte, dal piano strettamente giuridico, e si espongono in questo senso a una gestione epistemica sulla quale in- combe il rischio di un uso non adeguatamente sorvegliato di nozioni e di concetti che attengono al piano socio-psicologico 107. In altri termini, sarebbe opportuno far sì che determinate interpre- tazioni dei significati del fatto divenissero oggetto di analisi ed even- tualmente di confutazione, «piuttosto che essere semplicemente fatte passare per conoscenza generale o per ciò che i giudici ritengono esse- re, non sempre correttamente, e non sempre indipendentemente dal 104 Per tutti, DI GIOVINE O., L’interpretazione nel diritto penale, cit., pp. 192 ss., 205 ss., 211 s. 105 Per un’approfondita riflessione, ancora attuale, sull’ideologia del giudice v. GRECO, Premessa, cit., pp. 36 ss. 106 Cfr. DE MAGLIE, I reati culturalmente motivati, cit., p. 142. 107 Nel panorama italiano il problema di una perizia relativa ai profili socio- culturali del fatto si è posto, soprattutto in passato, con riferimento ai rapporti fra valore artistico e oscenità, e ad oggi è discusso prevalentemente in relazione ai c.d. reati ‘culturalmente motivati’; in riferimento al tema della perizia artistica v. LUCIANI, La nozione penalistica di “opera d’arte” di cui all’art. 529 c.p. Considera- zioni di diritto sostanziale e processuale, in AA.VV., a cura di Massaro, Ultimo tan- go a Parigi quarant’anni dopo, cit., pp. 51 ss. In relazione alla perizia culturale, oltre al citato studio di Cristina de Maglie, va menzionato un ulteriore importante contributo proveniente dall’ambito costituzionalistico nel quale viene tematizzata la necessità di un avvaloramento epistemico del ragionamento giudiziale attra- verso l’elaborazione un percorso volto a rendere tendenzialmente più oggettivo l’accertamento di un conflitto culturale: v. RUGGIU, Il giudice antropologo. Costitu- zione e tecniche di composizione dei conflitti multiculturali, Milano, 2012. Sempre in tema di reati culturalmente motivati, con riferimento alla valutazione della motivazione culturale, è frequente riscontrare nella giurisprudenza di legittimità argomentazioni carenti e approssimative, sovente esito di posizioni ideologiche pur benintenzionate ma nondimeno fortemente discutibili: per un esempio v. Cass. pen., sez. I, 15/05/2017, n. 24084, con nota di FERLA, Il pugnale dei Sikh tra esigenze di sicurezza e divieti normativo-culturali, in Giur. it., 10/2017, pp. 2208 ss.   Fisionomia dell’offesa 175 loro retroterra culturale, la saggezza comune dell’umanità» 108. Per tali ragioni ben si comprende che la valutazione del margine di confine fra espressioni tollerabili ed espressioni non consentite, anche ove sia tenuta a distanza dalla sensibilità della vittima, finisca poi per essere esposta, e dipendere in larga misura, anche dalla sen- sibilità dell’interprete, sia esso studioso teorico o applicatore di even- tuali norme 109. Si tratta di un fattore problematico del quale va tenu- to conto sia come chiave di lettura delle oscillazioni riscontrabili nel- la casistica giurisprudenziale, sia quale elemento di riflessione in rapporto al ruolo che i giudici assumono, o potrebbero assumere, nel farsi arbitri della soglia di intervento penale 110. In relazione a un ulteriore profilo, sempre legato alla ricerca di 108 SCHAUER, Il ragionamento giuridico, tr. it., Bari, 2017, p. 278. Sottolinea con chiarezza TARUFFO, Senso comune, esperienza e scienza nel ragionamento del giudi- ce, in ID., Sui confini. Scritti sulla giustizia civile, Bologna, 2002, pp. 121 ss., che il ragionamento del giudice non è determinato da criteri o norme di carattere giuri- dico, bensì, quando supera i confini di ciò che convenzionalmente si intende per ‘diritto’, risulta impregnato anche del cosiddetto ‘senso comune’. Da ciò la neces- sità che il giudice sia «consapevole della frammentazione e della variabilità delle coordinate conoscitive e valutative che ormai sono i tratti dominanti della società attuale» (p. 154). In ambito penalistico, HASSEMER, Perché punire è necessario, cit., pp. 68 ss., osserva, con realismo, che il giudice fa ricorso a teorie del senso comu- ne sia per questioni inerenti al contenimento dei tempi del giudizio, ma anche perché il suo ruolo deve restare comunque centrale rispetto ai pareri della scien- za; nondimeno egli deve assumersi tale responsabilità epistemica: «[i]l giudice penale ha il diritto e il dovere di apportare il suo “sapere fattuale” e di assumer- sene la responsabilità [...]. Da questa responsabilità non può liberarlo alcun pare- re». Sul cosiddetto ‘senso comune’ v. supra, cap. I, nota 72. 109 Esempio emblematico di ermeneutica del fatto impregnata di discutibili principi di psicologia del senso comune, per lo più riflesso di precomprensioni del giudicante, sono le sentenze relative alla vicenda del film ‘Ultimo tango a Pa- rigi, v. AA.VV., Ultimo tango a Parigi quarant’anni dopo, cit., pp. 114 ss. Un’altra pronuncia, più recente, in cui risulta altamente opinabile l’ermeneutica del fatto è Trib. Latina, 24/10/2006, n. 1725, riportata in SIRACUSANO, Vilipendio religioso e satira: “nuove” incriminazioni e “nuove” soluzioni giurisprudenziali, in Stato, Chie- se e pluralismo confessionale, 7/2007, pp. 14 ss.; per una critica v. VISCONTI C., Aspetti penalistici, cit., pp. 186 ss. 110 «Il fenomeno è evidente soprattutto in quelle disposizioni che hanno un’importanza politica, che regolano cioè, in senso lato i rapporti fra lo Stato e i cittadini, e che – naturalmente – consentano più di un’interpretazione. [...] E, nel- la possibilità di una duplice interpretazione, l’una e l’altra certamente, per così dire, politica, può stabilirsi, attraverso l’esame di una decisione, l’indirizzo ideo- logico del giudice», v. BIANCHI D’ESPINOSA, Introduzione, in BIANCHI D’ESPINOSA- CELORIA-GRECO-ODORISIO-PETRELLA-PULITANÒ, Valori socio-culturali della giurispru- denza, cit., p. 4.   176 Tra sentimenti ed eguale rispetto una soglia oggettiva di tollerabilità delle forme di espressione e, più in generale riferibile alle norme che richiamino, implicitamente o espressamente, fatti di sentimento, è stato condivisibilmente osserva- to in dottrina che quando vengono in gioco interessi di tutela assimi- labili in tutto o in parte a sentimenti la tipicità diviene prevalente- mente valutativa, rimettendo al giudice bilanciamenti che, teorica- mente, il diritto avrebbe dovuto cristallizzare in astratto 111. Un caso emblematico è l’onore personale, in relazione al quale si è osservato come esso non si presti a una predeterminazione esaustiva, ma sia in definitiva «co-determinat[o] dall’incidenza che i diritti co- stituzionalmente rilevanti [...] esercitano nel determinar[ne] i limiti di estensione» 112. Si è parlato di una ‘tipicità on balance’ «nel senso che la figura criminosa in questione, lungi dall’essere ricostruita una volta per tut- te in modo stabile e definitivo» assume una fisionomia variabile che dipende dalle caratteristiche del caso concreto 113. In altri termini, un intreccio simbiotico tra fatto e antigiuridicità, alla luce del quale non è appropriato parlare di un giudizio di tipicità del tutto indipendente dalla eventuale sussistenza di cause di giustificazione, con la conse- guenza che le operazioni di bilanciamento sottese al momento giusti- ficativo finiscono per avere una funzione indispensabile al fine di in- tegrare la tipicità stessa 114. Fattispecie così strutturate, prive cioè di una dimensione lesiva compiutamente apprezzabile in sede di tipicità, scaricano sul momen- to applicativo la definizione di requisiti strutturali, imponendo «in via surrogatoria al giudice di tracciare autonomamente i confini dell’illi- ceità attraverso tecniche di bilanciamento a vocazione “tipologica”» 115. 111 GIUNTA, Verso un rinnovato romanticismo penale?, cit., pp. 1559 s. 112 TESAURO, La diffamazione, cit., p. 24. 113 TESAURO, La diffamazione, cit., pp. 33 ss., 56 ss., 96 ss. 114 TESAURO, La diffamazione, cit., pp. 58 s. 115 TESAURO, La diffamazione, cit., p. 58. Oltre a tale profilo, e alle connesse implicazioni di teoria del reato, un simile intreccio fra tipicità e giustificazione rappresenta a nostro avviso la conferma che l’interpretazione dei conflitti in tema di libertà di espressione si sottrae a una logica binaria, tale per cui o vi è offesa o vi è esercizio di libertà; si tratta di un ambito dominato da situazioni in cui il con- fine tra lecito e lecito non solo non appare predeterminabile in chiave di tipicità astratta, ma è poroso, labile. Si è osservato che uno dei limiti della giurispruden- za italiana sul vilipendio alla religione è quello di adottare, con discutibili percor- si argomentativi, un’impostazione secondo la quale l’operatività della scriminante dell’esercizio di un diritto rappresenta un’alternativa che si pone in rapporti dico-   Fisionomia dell’offesa 177 L’incardinamento dei bilanciamenti sottesi alla giustificazione fra le trame di una tipicità ‘di matrice giudiziale’, se da un lato può ac- crescere il potenziale di discrezionalità degli applicatori, dall’altra parte produce l’effetto di concepire il fatto tipico come struttura in fieri, aperta alla presa in carico di problemi e di istanze sociali che trovano voce attraverso le cause di giustificazione 116, ricollocandone il raggio d’azione non semplicemente come elementi tali da neutra- lizzare una precedente offensività, ma come fattori che influiscono sul disvalore del fatto in concreto. In questo senso si potrebbe ipotizzare che l’intreccio fra tipicità e giustificazione finisca per assegnare alle scriminanti un ruolo di ‘re- spiro’ della fattispecie astratta simile a quello svolto dagli elementi normativi di matrice culturale. Le norme limitative della libertà di espressione appaiono in questo senso ‘a geometria variabile’117, ossia modellate su bilanciamenti che risentono dei mutamenti dei costumi e delle soglie di tollerabilità so- ciale, non fissabili aprioristicamente ma da determinarsi in relazione a un quadro di contingenze storiche e culturali. A conferma del fatto che non si possono affrontare tali questioni senza una chiara messa a fuo- co del contesto che fa da sfondo alle espressioni, ai mondi morali a confronto e alle contingenze storico-politiche: «[l]a apparentemente distaccata, analisi di diritto positivo su libertà di parola e repressione penale è [...] insidiata e talora travolta dal calore dell’urgenza della realtà così com’è, e quindi dal confronto politico tout court» 118. tomici con eventuali interessi concorrenti; in questo modo la ricognizione dei conflitti finisce per adagiarsi su una logica binaria, trascurando, o negando, che ciò che rende legittimo l’esercizio di una libertà o di una eventuale limitazione non è la radicale inconfigurabilità di un eventuale controinteresse, ma si tratta invece di un giudizio legato a contingenze del caso concreto e a criteri di oppor- tunità della sanzione; v. VISCONTI C., Aspetti penalistici, cit., p. 188. 116 Come osservato da Massimo Donini, «[i]l mondo dei diritti riflesso nelle cause di giustificazione riguarda [...] la continua evoluzione della società civile [...] una varietà ed evoluzione che sottostà all’apparente staticità delle incrimina- zioni e produce a volte nuove fattispecie di reato create in via legislativa, ma è capace di bilanciare tali diritti anche dentro e contro le vecchie incriminazioni, le quali non sanno darci un’immagine della società se non attraverso il mondo dei diritti, che cambiano il vero contenuto dei beni protetti dal codice penale, anche se questo può restare apparentemente invariato per decenni», v. DONINI, Critica dell’antigiuridicità e collaudo processuale delle categorie. I bilanciamenti d’interessi dentro e oltre la giustificazione del reato, in Riv. it. dir. proc. pen., 2/2016, p. 705. 117 Traggo l’espressione da PULITANÒ, Diritto penale, VII ed., cit., p. 126, il quale la usa per definire gli elementi normativi di valutazione culturale.  118 VISCONTI C., Aspetti penalistici, cit., p. 137.   178 Tra sentimenti ed eguale rispetto SEZIONE II Alla prova dei fatti: blasfemia e propaganda razzista «Non ho niente contro Dio, è il suo fan club che mi spaventa» WOODY ALLEN SOMMARIO: 6. Illegittimità o tollerabilità delle restrizioni penalistiche al discorso pubblico? – 7. Il dibattito sui rapporti fra libertà di espressione e sensibilità religiosa. – 7.1. L’ambiguità dell’art. 403 c.p. – 7.2. Le vignette di Charlie Heb- do: ‘diritto di offendere’ o offesa tollerabile? – 8. Le norme sulla propaganda razzista in Italia: quale spazio a sentimenti? – 8.1. Il discorso razzista fra estremismo politico e insulto discriminatorio. – 9. Sinossi. 6. Illegittimità o tollerabilità delle restrizioni penalistiche al discorso pubblico? Il tema della potenziale dannosità a livello sociale di determinati contenuti espressivi chiama in causa l’orizzonte comunicativo del di- scorso pubblico, il quale per definizione caratterizza il livello di liber- tà e di apertura della democrazia in rapporto al pluralismo delle idee e ai margini di tolleranza e di repressione del dissenso 119. Si tratta dell’area in cui la legittimazione di eventuali restrizioni normative è più problematica: offese circoscrivibili alla dialettica fra persone fisiche possono essere ricomprese nella tutela dell’onore in- 119 «L’oggetto della libertà di espressione è il discorso. Non qualsiasi tipo di di- scorso, bensì il discorso pubblico. L’esercizio della libertà di espressione ha una vocazione di pubblicità, di trascendenza nella sfera pubblica. La libertà di espres- sione è, in questa misura, il requisito fondamentale della comunicazione politica in democrazia», v. ROIG., Libertà di espressione, cit., p. 36. Sull’etica del discorso pubblico come strumento volto alla realizzazione, e non solo all’affermazione, di valori, v. VIOLA, La via europea della ragione pubblica, in AA.VV., a cura di Trujillo- Viola, Identità, diritti, ragione pubblica in Europa, Bologna, 2007, pp. 420 ss.   Fisionomia dell’offesa 179 dividuale120, eventualmente come condotte qualificate da contenuti tali da aggravare la responsabilità, situandosi in un’area di crimina- lizzazione che, per quanto problematica 121, non è mai stata messa se- riamente in discussione dal punto di vista della legittimità costitu- zionale 122. Maggiori criticità si addensano su altre fattispecie tese a incrimi- nare manifestazioni del pensiero, in primo luogo la propaganda raz- zista di cui all’art. 3 comma 1, lett. a, della legge n. 654 del 1975 (in- trodotto dalla c.d. ‘Legge Mancino’, cronologicamente successiva): non atti di istigazione alla discriminazione o alla violenza 123, ma pa- 120 L’ambito applicativo della fattispecie di cui all’art. 595 c.p. (diffamazione semplice) non si estende, secondo giurisprudenza costante, a offese rivolte a col- lettività, anche se circoscritte, di persone. Per una panoramica della giurispru- denza della Corte Edu e della giurisprudenza italiana v. CUCCIA, Libertà di espres- sione e identità collettive, Torino, 2007, pp. 159 ss.; 198 ss. Nella giurisprudenza italiana, v. Cass. pen., sez. V, 04/04/2017, n. 16612; cfr. Cass. pen., sez. V, 09/12/2014, n. 51096; più datata è Cass. pen., sez. I, 24/02/1964, in Giur. it., 1964, II, p. 241, con nota di LARICCIA, Sulla tutela penale delle confessioni religiose acattoliche; in senso favorevole, v. Cass. pen, sez. V, 16/01/1986, in Dir. inf., 1986, p. 457. Per una sintesi del problema v. LA ROSA, Onore, sentimento religioso e libertà di ricerca scientifica, nota a Trib. Mondovì, 22 febbraio 2007, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, 10/2007, pp. 20 ss. 121 Da ultimo, FIANDACA, Sul bene giuridico, cit., pp. 72 ss. 122 Si veda C. cost., n. 86/1974. Cfr. ROMANO, Legislazione penale e tutela della per- sona umana (Contributo alla revisione del Titolo XII del codice penale), in Riv. it. dir. proc. pen., 1/1989, p. 61; SIRACUSANO, Problemi e prospettive della tutela penale del- l’onore, in AA.VV., Verso un nuovo codice penale, Milano, 1993, p. 340; DONINI, Ana- tomia dogmatica del duello. L’onore dal gentiluomo al colletto bianco, in Indice pena- le, 2000, pp. 1080 ss.; per una sintesi, nel quadro di una posizione non radicalmente abolizionista ma tesa a limitare l’intervento penale a offese particolarmente gravi (attribuzione di fatti non corrispondenti a verità in contesti comunicativi estesi a più persone), v. GULLO, Diffamazione e legittimazione dell’intervento penale, cit., pp. 172 ss.; 202 ss. Fra i costituzionalisti v. PUGIOTTO, Le parole sono pietre?, cit., p. 15; MANETTI, Libertà di pensiero e tutela delle identità religiose. Introduzione ad un’analisi comparata, in Quad. di diritto e politica ecclesiastica, 1/2008, p. 46. La legittimità del- la tutela dell’onore individuale non è messa in discussione dalla Corte Edu, la quale si è limitata, fino ad oggi, a rilevare gli eccessi della risposta penale dell’ordina- mento italiano, in quanto, secondo la Corte Edu, non dovrebbe essere prevista, sal- vo casi eccezionali, la sottoposizione a pena detentiva; v. per tutte, Corte eur. dir. uomo, Sez. II, sent. 24/09/2913, Belpietro c. Italia, ric. n. 42612/10; per una sintesi del problema e per un’analisi della giurisprudenza italiana più recente sul tema del trattamento sanzionatorio della diffamazione v. GULLO, Diffamazione e pena detenti- va, in www.penalecontemporaneo.it, 3/2016, pp. 1 ss. 123 Incriminati ai sensi dell’art. 3 della legge n. 654/1975 lett. a) – seconda parte –, e lett. b).   180 Tra sentimenti ed eguale rispetto role e discorsi che possono costituirne un volano. Secondariamente, vengono in gioco le residue ipotesi di vilipendio alla religione, soprat- tutto l’art. 403 c.p., il quale si presenta nelle fogge di un’offesa al- l’onore personale ma sembra assumere nelle applicazioni giurispru- denziali un ruolo dai contorni più ampi. È soprattutto con riguardo a tali tipologie di incriminazione che oggi la dottrina penalistica fa ricorso al lessico dei sentimenti per sot- tolineare in chiave critica un’asserita impalpabilità del substrato dell’offesa: valga, come sintesi, il rilievo di Tesauro il quale si chiede se tramite l’incriminazione della propaganda razzista non si finisca per tutelare «emozioni collettive (di scandalo, imbarazzo, disgusto, inquietudine o paura), e se, dunque, non assomigli molto da vicino alla tutela penale di un sentimento a cavallo tra solidarietà e allarme sociale [...] Insom- ma, un impasto a metà strada fra sentimenti individuali di umiliazio- ne pubblica, reputazione di gruppo, uguaglianza formale senza distin- zioni di razza, ordine pubblico ideale, universalismo morale anti-di- scriminazione» 124. È plausibile ritenere che dietro tale norma vi siano anche, in buo- na parte, input che promanano da un disagio socialmente diffuso di fronte al fenomeno razzista, e che dunque la norma in un certo senso finisca per assumere anche la funzione di tutela di un ‘sentire demo- cratico’ 125. Tale rilievo, per quanto difficilmente confutabile, non sembra pe- rò sufficiente a chiudere il discorso sulla legittimazione. Al di là delle indiscutibili criticità, è lo stesso Tesauro a riconoscere che la que- stione non va declinata in termini meramente concettualistici ma è «irriducibilmente etico-politica e dagli esiti altamente controvertibili [...] [e] resta aperta a opposte soluzioni che convogliano giudizi di va- lore, preferenze culturali e scelte di politica criminale» 126. 124 TESAURO, La propaganda razzista, cit., pp. 962, 964; si veda anche SPENA, Li- bertà di espressione e reati di opinione, cit., pp. 714 ss. 125 L’analisi destrutturante di Tesauro evidenzia inoltre come il ricorso al cor- rettivo ermeneutico del pericolo concreto non appaia sufficiente a contenere l’am- bito di applicazione della disposizione entro una ragionevole area di oggettività, v. TESAURO, Riflessioni in tema di dignità umana, cit., pp. 114 ss., 122 ss. 126 TESAURO, La propaganda razzista, cit., pp. 972. Nella dottrina statunitense si è osservato criticamente che i discorsi a favore o contro il disvalore degli hate crimes sono affetti da un elevato grado di concettualismo, poiché, attraverso la ricerca di un danno ‘oggettivo’ riconducibile all’odio, cercano di rendere meno   Fisionomia dell’offesa 181 È una questione politicamente e costituzionalmente aperta, non archiviabile frettolosamente dietro l’invocazione, pur benintenziona- ta, dell’art. 21 Cost.: sono in gioco valori costitutivi della democrazia costituzionale, la cui protezione ha importanza rilevante anche (non solo) da un punto di vista simbolico 127. Il problema di un equilibrio con la libertà di espressione finisce per scaricarsi sul momento applicativo, alla ricerca di una ragionevolezza con ‘mitezza attenuata’, secondo una formula che è stata adoperata per indicare che il bilanciamento costituzionale fra valori confliggenti, e l’eventuale sacrificio di uno di essi (questo il senso della ‘non mitezza’), devono essere comunque accompagnati da ragionevolezza 128. Previsioni incriminatrici ‘non illegittime’ come quelle che l’ordina- mento italiano annovera nella legge Mancino necessitano di un regi- me di ‘sorveglianza speciale’: la loro tollerabilità è legata al grado di ragionevolezza applicativa. Un problema di qualità delle decisioni giudiziali, i cui esiti di giustizia non possono darsi per scontati: il ri- spetto del principio costituzionale della libertà di espressione richie- de che le interpretazioni e le applicazioni siano fortemente selettive, calibrate su criteri fra i quali deve a nostro avviso essere tenuta ben presente, quantomeno a livello concettuale, la necessità di distingue- re tra espressioni che offendono la mera sensibilità ed espressioni che veicolano contenuti di umiliazione. Tale delega alla ‘phronresis’ giudiziale è motivata dalla constata- zione, a nostro avviso, di una ‘non eliminabilità’ dall’ordinamento di fattispecie pur discutibili come quelle che incriminano la propaganda razzista: troppo forte la risonanza etica e la consustanzialità dei beni in gioco in rapporto ai valori che la democrazia riconosce come pro- prio fondamento. evidente il portato assiologico della scelta di politica del diritto al fine di restare coerenti con un liberalismo asseritamente neutrale: v. KAHAN, Two Liberal Falla- cies in the Hate Crimes Debate, in 20 Law and Philosophy, 2001, pp. 189 ss. 127 Si veda anche WOHLERS, Le fattispecie penali come strumento per il mante- nimento di orientamenti sociali di carattere assiologico?, cit., p. 151, secondo il quale rappresentazioni di valore e convinzioni possono essere considerati come legittimi beni da proteggere nel caso in cui la loro lesione metta in discussione l’«intesa sociale-normativa dominante». 128 Traggo l’espressione da SALAZAR, I «destini incrociati» della libertà di espres- sione e della libertà di religione: conflitti e sinergie attraverso il prisma del principio di laicità, in Quad. di diritto e politica ecclesiastica, 1/2008, p. 79, la quale sottoli- nea che il bilanciamento fra valori costituzionali potrebbe portare al sacrificio di uno di essi, non ‘mite’ dunque, ma pur sempre (necessariamente) ragionevole; vi può essere ragionevolezza senza mitezza, ma non mitezza senza ragionevolezza.   182 Tra sentimenti ed eguale rispetto Non si tratta però di un assunto risolutivo, bensì di un fattore che rende ancora più complesso il gioco di equilibri e che, soprattutto, responsabilizza la figura del giudicante quale anello ultimo e decisivo di una ‘catena della ragionevolezza’129 necessaria per affrontare il problema di limiti alla libertà di espressione. A risultare determinanti saranno doti di sensibilità culturale e ca- pacità interpretativa dei fenomeni da parte del giudice, nel quadro di una sapienza non ‘algoritmica’ 130 bensì auspicabilmente vicina a una ‘saggezza pratica’. È tutt’altro che scontato, e sarebbe ingenuo pensare, che tali doti risiedano in misura sufficiente nella totalità dei giudici, ma sarebbe forse altrettanto frettoloso dare per scontato che non vi siano margini per una intelligente e ‘non intollerabile’ gestione dell’arsenale penali- stico in materia di libertà di espressione. Il problema è aperto, e sol- lecita l’intero mondo della cultura giuridica a meditare su percorsi di studio e di formazione funzionali a dare ai soggetti giudicanti gli strumenti per un’attenta lettura delle vicende e dei contesti fattuali, non semplicemente delle norme 131. Nel prosieguo compiremo una sintetica disamina di alcuni recenti sviluppi giurisprudenziali in relazione alla tutela del sentimento reli- gioso e alla normativa sulla discriminazione razziale. Il tema del discorso razzista rappresenta la palestra concettuale più significativa per verificare la tenuta della distinzione fra critica e discriminazione. 129 Sul tema della ragionevolezza nel diritto penale v. per tutti PULITANÒ, Ra- gionevolezza e diritto penale, Napoli, 2012, pp. 10 ss. 130 ZAGREBELSKY, Su tre aspetti della ragionevolezza, in Il principio di ragionevo- lezza nella giurisprudenza della Corte costituzionale. Riferimenti comparatistici, in Atti del Seminario svoltosi in Roma, Palazzo della Consulta, nei giorni 13 e 14 otto- bre 1992, Milano, 1994, pp. 179 ss. 131 Osserva FIANDACA, Il giudice tra giustizia e democrazia nella società comples- sa, in ID., Il diritto penale tra legge e giudice, cit., p. 31, che sarebbe necessario un affinamento culturale nella preparazione dei magistrati, attraverso uno studio specifico delle logiche del ragionamento giudiziale e di altri aspetti che regolano il giudizio di fatto oltre che il giudizio di diritto. Istanze che vengono rimarcate da VINCENTI, Diritto e menzogna. La questione della giustizia in Italia, Roma, 2013, p. 19, quando descrive criticamente il giudice contemporaneo come «funzionario o burocrate, vittorioso in un concorso a cui segue una progressione in carriera pressoché automatica, formatosi su di una letteratura accademica di stampo ma- nualistico, spesso obsoleta e comunque aliena dal ricercare il perché delle regole, abituato a ragionar per massime, naturalmente assai poco curioso di andare oltre le rappresentazioni istituzionali e poco propenso ad assumere il dubbio metodico quale cifra del proprio agire». Vedi anche la bibliografia citata supra, nota 107.   Fisionomia dell’offesa 183 Quanto alla residua fattispecie di vilipendio di cui all’art. 403 c.p., non si richiede che le espressioni siano discriminatorie; lo schema tipico rimane quello della condotta di insulto, del ‘tenere a vile’132. Nondimeno, si pone l’esigenza di distinguere tra offese al patrimonio ideale delle confessioni, plausibilmente foriere di affronti alla sensibi- lità dei credenti ma che oggi dovrebbero considerarsi penalmente ir- rilevanti, da offese all’onore della persona. Iniziamo dai rapporti fra religione e libertà di espressione con particolare riferimento alla satira133, per sondare alcuni recenti ap- prodi giurisprudenziali nel contesto italiano e per dedicare una ri- flessione al caso delle pubblicazioni del settimanale francese Charlie Hebdo, al centro dell’attenzione dopo i tragici episodi del gennaio 2015. 7. Il dibattito sui rapporti fra libertà di espressione e sensibili- tà religiosa In nome di sentimenti religiosi è stato di recente versato del san- gue; l’esercizio di una libertà che è cifra simbolica dell’occidente libe- rale ha attivato spirali di violenza e generato un clima di terrore al cospetto del quale la riflessione sui modi d’uso della libertà non può abbandonarsi a cliché morali, pur benintenzionati, o a ingenui ireni- smi. Su un piano fattuale non sembra esservi ragione più immediata e plausibile della suscettibilità emotiva per dar conto delle conflittuali- tà emerse; se pure nella prospettiva penalistica i sentimenti possono difettare di tassatività, dall’altro lato, essi sono però in grado di pro- durre conseguenze ben visibili, a conferma della loro rilevanza indi- viduale e sociale. 132 PROSDOCIMI, voce Vilipendio (reati di), in Enciclopedia del diritto, vol. XLVI, Milano, 1993, pp. 739 ss. Sul vilipendio religioso v. MORMANDO, I delitti contro il sentimento religioso e contro la pietà dei defunti, in Trattato di diritto penale. Parte speciale, diretto da Marinucci-Dolcini, vol. V, Padova, 2005, pp. 148 ss.; ID., «Lai- cità penale» e determinatezza. Contenuti e limiti del vilipendio, in AA.VV., a cura di Dolcini-Paliero, Studi in onore di Giorgio Marinucci, vol. III, Milano, 2006, pp. 2456 ss. 133 Per un’accurata e ben documentata silloge di episodi in cui sono emersi at- triti fra satira e religione v. RUOZZI, Piccolo manuale di blasfemia audiovisiva. Dal Mistero Buffo televisivo a Southpark, in AA.VV., a cura di Melloni-Cadeddu- Meloni, Blasfemia, diritti e libertà, cit., pp. 93 ss.   184 Tra sentimenti ed eguale rispetto Il traumatico ritorno in scena della sensibilità, o forse, più pro- priamente, della suscettibilità religiosa nel contesto occidentale costi- tuisce un attacco frontale alla libertà di espressione per mano di for- ze che hanno usato il linguaggio della violenza e dell’annientamento dell’altro. A prescindere da quello che sia il giudizio sul merito delle rappre- sentazioni satiriche danesi e di Charlie Hebdo, va detto in premessa che le reazioni suscitate «non possono essere assunte a parametro di un “sentimento religioso” rilevante per il nostro ordinamento. Proprio le caratteristiche che ne fondano il forte e preoccupante rilievo politico, sullo sfondo di un te- muto “scontro di civiltà”, e sollecitano adeguate valutazioni e risposte politiche, impongono di tenere ferma la valutazione di estraneità e per così dire irricevibilità giuridica. Il sentimento religioso, che può porre un problema di tutela, non può essere misurato sulle fatwe né su vio- lenze aizzate politicamente in altri paesi» 134. L’agire violento esclude ogni prospettiva di considerazione giuri- dica per le istanze avanzate; resta tuttavia in piedi l’interrogativo su come sia più ragionevole oggi configurare una tutela del sentimento religioso ‘a misura liberale’. Uno dei nodi di fondo si identifica nell’al- ternativa fra tutela della/e religioni e tutela delle persone che profes- sano una religione 135: se la prima ipotesi rappresenta un retaggio del passato incompatibile con i principi del pluralismo assiologico e di laicità136, la seconda è aperta a diverse declinazioni. Riorientare la tutela sulla persona del credente esclude la prospettiva del ‘bene di civiltà’ 137; meno scontato è l’approdo ultimo. Vediamo in che termini la distinzione fra tutela della confessione e della persona del credente entra oggi in gioco nel panorama appli- cativo dell’ordinamento italiano. 134 PULITANÒ, Laicità e diritto penale, cit., p. 314. 135 Cfr. FERRARI, La blasfemia in Europa, dalla tutela di Dio alla tutela dei cre- denti, in www.resetdoc.org, 14 febbraio 2014; CIANITTO, Libertà di espressione liber- tà di religione: un conflitto apparente?, in AA.VV., a cura di Melloni-Cadeddu- Meloni, Blasfemia, diritti e libertà, cit., pp. 206 ss. 136 Cfr. CANESTRARI, Libertà di espressione e libertà religiosa, cit., p. 928. 137 Ex plurimis, PALAZZO, La tutela della religione tra eguaglianza e secolarizza- zione, cit., p. 50.   Fisionomia dell’offesa 185 7.1. L’ambiguità dell’art. 403 c.p. La distinzione tra offesa alle credenze e offesa alla persona trova un punto di riferimento nell’art. 403 c.p. La fattispecie costituisce, in- sieme all’art. 404 c.p., un residuo delle ipotesi di vilipendio origina- riamente previste, fra le quali l’art. 402 c.p. (dichiarato costituzio- nalmente illegittimo con la sentenza n. 508/2000) costituiva la norma più emblematica e dai risvolti più critici 138. Davvero il vilipendio alla religione può dirsi decriminalizzato sul piano della sostanza? L’art. 403 c.p. e l’art. 404 c.p. ne recuperano in parte l’eredità residua 139, circoscrivendo le ipotesi di rilevanza penale a una casistica più definita (quantomeno formalmente) di azioni le quali dovrebbero avere a oggetto le persone che professano una reli- gione o cose destinate al culto 140. Dopo la caduta dell’art. 402 c.p., è l’offesa alla persona che potrebbe rendere legittima una restrizione alla libertà di manifestazione del pensiero, lasciando fuori dall’area di intervento le forme di critica al patrimonio ideale di una confes- sione. In realtà l’art. 403 c.p. appare caratterizzato da una formulazione non particolarmente felice, la quale persiste nella rubrica e nel te- 138 L’incriminazione del vilipendio della religione cattolica è caduta sotto la scure della Consulta non per contrasto con l’art. 21 Cost., bensì per violazione de- gli artt. 3 e 8 Cost., in linea con un trend interpretativo che non ha mai asseconda- to le pochissime richieste di illegittimità dei vilipendi alla religione per violazione dell’art. 21 Cost. Risulta solo un ordinanza, la n. 479/1989, nella quale è stata sol- levata questione di legittimità costituzionale dell’art. 403 c.p. per contrasto anche con l’art. 21. In quel caso la declaratoria della Corte è stata la manifesta inammis- sibilità per la non pertinenza della questione rispetto al giudizio in corso, senza alcuna riflessione sul merito dei rapporti tra l’art. 403 c.p. e l’art. 21 Cost. Per una panoramica della giurisprudenza costituzionale sull’art. 402 c.p., v. SALAZAR, I «destini incrociati» della libertà di espressione, cit., pp. 86 ss. 139 Sembra aderire a un recupero pressoché pieno della portata dell’art. 402 c.p. FALCINELLI, Il valore penale del sentimento religioso, cit., pp. 54 ss., la quale, adesiva- mente alla giurisprudenza, osserva che il vilipendio generico a una confessione reli- giosa, anche in assenza del riferimento a persone determinate, possa rientrare nell’art. 403 c.p., e che anche l’offesa a simboli, come ad esempio il crocifisso, possa assumere rilevanza penale ai sensi della medesima disposizione (v. p. 58). Di diverso avviso PULITANÒ, Laicità, multiculturalismo, diritto penale, in AA.VV., a cura di Risica- to-La Rosa, Laicità e multiculturalismo. Profili penali ed extrapenali, cit., pp. 245 s. 140 Le condotte descritte dalle fattispecie non sono del tutto simmetriche: nel caso dell’art. 403 c.p. il vilipendio esprime la modalità di lesione, mentre nell’art. 404 c.p. è l’offesa alla confessione religiosa a costituire l’evento strumentale alla realizzazione del vilipendio a cose che formino oggetto di culto.   186 Tra sentimenti ed eguale rispetto sto141 a riconoscere la centralità del vilipendio alla confessione reli- giosa 142, relegando in una posizione strumentale l’offesa a chi la pro- fessa: «l’offesa alla religione resta il criterio ermeneutico essenziale del settore» 143. Non sono mancate applicazioni in cui la Corte di Cassazione ha optato per un approccio repressivo, sostenendo che ai fini dell’inte- grazione dell’art. 403 c.p. sia sufficiente che le espressioni di vilipen- dio siano genericamente riferite alla indistinta generalità dei fedeli «tutelando la norma il sentimento religioso e non la persona (fisica o giuridica) offesa in quanto appartenente ad una determinata confes- sione religiosa» 144. Tale pronuncia si esprime con nettezza a favore di un’interpretazione impersonale del vilipendio; sentenze successive, pur senza la medesima univocità, ne hanno ricalcato gli itinerari lo- gico-argomentativi, rivelando nel complesso un’adesione (inconscia?) all’impostazione del defunto art. 402 c.p. In un caso un soggetto è stato condannato per aver esposto «nel centro di Milano un trittico da lui realizzato – tre fotocopie in bianco e nero, stampate su tela – raffigurante, rispettivamente, il Pontefice in carica, un pene con testicoli e il segretario personale del Pontefice, con la didascalia «Chi di voi non è culo scagli la prima pietra» 145. 141 E anche nel regime della perseguibilità, prevista d’ufficio, la quale enfatizza la dimensione istituzionale dell’interesse protetto. 142 Un problema ben noto alla dottrina penalistica già negli anni Settanta; per un’approfondita critica agli orientamenti giurisprudenziali che operavano una sostanziale commistione fra artt. 402 e 403 c.p., applicando quest’ultimo anche a casi di offesa impersonale a contenuti di fede v. PULITANÒ, Spunti critici, cit., pp. 198 ss., 205 ss. 143 MORMANDO, I delitti contro il sentimento religioso, cit., p. 24; sulla stessa li- nea di pensiero v. FLORIS, Libertà di religione, cit., p. 189; MANETTI, Libertà di pen- siero e tutela delle identità religiose, cit., p. 65; PACILLO, I delitti contro le confessioni religiose, cit., pp. 39 ss. Cfr. ROMANO, Principio di laicità dello Stato, cit., p. 214: «il fatto vietato e punito resta il vilipendio delle religioni». Viene fatto notare come il trattamento sanzionatorio più grave per il vilipendio del ministro di culto con- fermi l’orientamento della tutela verso l’assetto istituzionale delle confessioni re- ligiose, così SIRACUSANO, Pluralismo e secolarizzazione dei valori, cit., p. 82. La di- sposizione è dunque ambigua e si presta a usi discutibili; in dottrina si è rilevato che per salvarla sul piano della legittimità costituzionale occorrerebbe prendere sul serio la direzione personale del vilipendio e il legame da accertarsi in concreto, non in via presuntiva, del vilipendio alla confessione con l’offesa alla persona, v. PULITANÒ, Laicità e diritto penale, cit., p. 313; cfr. SERENI, Sulla tutela penale della libertà religiosa, cit., p. 12. 144 Cass. pen., sez. III, 11/12/2008, n. 10535. 145 Cass. pen., sez. III, 07/04/2015, n. 41044.   Fisionomia dell’offesa 187 In un secondo episodio vi è stata condanna per aver esposto un cartellone raffigurante sullo sfondo una sagoma costituita dall’im- magine del Pontefice in carica, e, in primo piano, un bersaglio costi- tuito da una serie di cerchi concentrici con l’indicazione di punteggi vari, riportante in calce la scritta: «1.000 punti, caramelle, preservati- vi, vino e ostie sconsacrate se centri quel buco di culo da cui quoti- dianamente vomita fiumi di merda» 146. La Corte di Cassazione sembra riproporre la teoria dei limiti logi- ci 147, quando afferma che «in materia religiosa la critica è lecita quando – sulla base di dati o di rilievi già in precedenza raccolti o enunciati – si traduca nella espres- sione motivata e consapevole di un apprezzamento diverso e talora antitetico, risultante da una indagine condotta, con serenità di meto- do, da persona fornita delle necessarie attitudini e di adeguata prepa- razione: mentre trasmoda in vilipendio quando – attraverso un giudi- zio sommario e gratuito – manifesti un atteggiamento di disprezzo verso la religione, disconoscendo alla istituzione e alle sue essenziali componenti (dogmi e riti) le ragioni di valore e di pregio ad essa rico- nosciute dalla comunità» 148. In entrambi i casi menzionati la rilevanza penale delle condotte non appare in discussione; si pone però la questione se l’offesa sia da considerarsi rivolta alla persona del Pontefice o piuttosto al ruolo istituzionale e dunque al legame con un certo tipo di opinioni espres- se dall’istituzione ecclesiastica in tema di etica sessuale; l’integra- zione della diffamazione appare pacifica, meno scontato è il vilipen- dio alla religione ex art. 403 c.p. Secondo la lettura proposta dalla Corte tale fattispecie non sem- brerebbe configurarsi come delitto contro l’onore e la dignità della persona, ma assumerebbe piuttosto le vesti di un mero surrogato del vecchio vilipendio ex art. 402 c.p., orientato alla tutela di un interesse affine al ‘bene di civiltà’ 149. In occasione della condanna per il trittico 146 Cass. pen., sez. III, 28/09/2016, n. 1952. 147 Per una ricostruzione del panorama giurisprudenziale sul punto v. SIRACU- SANO, I delitti in materia di religione, cit., pp. 136 ss.; PACILLO, I delitti contro le con- fessioni religiose, cit., pp. 111 ss.; in termini generali, sulla teoria dei ‘limiti logici’ v. CARUSO, Tecniche argomentative della Corte costituzionale e libertà di manifesta- zione del pensiero, in http://www.forumcostituzionale.it/wordpress/images/stories/- pdf/documenti_forum/paper/0360_caruso.pdf, 10/2012, pp. 3 ss. 148 Cass. pen., sez. III, 07/04/2015, n. 41044. 149 Cfr. SIRACUSANO, Vilipendio religioso e satira, cit., pp. 4 ss.   188 Tra sentimenti ed eguale rispetto raffigurante il Pontefice, la Cassazione ha osservato che: «ai fini della configurabilità del reato, non occorre che le espressioni offensive siano rivolte a fedeli ben determinati, ma è sufficiente che le stesse siano genericamente riferibili alla indistinta generalità degli aderenti alla confessione religiosa [...] Perciò il vilipendio di una reli- gione, tanto più se posto in essere attraverso il vilipendio di coloro che la professano o di un ministro del culto rispettivo, come nell’ipotesi dell’art. 403 cod. pen., che qui interessa, legittimamente può limitare l’ambito di operatività dell’art. 21» 150. Si tratta di un orientamento che inverte il rapporto tra offesa alla persona e offesa al credo: la religione non appare come elemento qualificante l’offesa alla persona ma è il bene ultimo di un’incrimi- nazione che concepisce l’offesa individuale in termini strumentali ed episodici. Appare in questo senso avvalorata la tesi di chi ha individuato l’interesse protetto dalle nuove norme, post riforma del 2006, in un bene «a carattere superindividuale, la cui “consistenza” si gioca pre- valentemente sul piano ideale, così come sul medesimo piano si pone la condotta espressiva ritenuta lesiva del bene protetto» 151. Possiamo in definitiva affermare che l’offesa alla persona del cre- dente resti ancora oggi marginale, pur in presenza di una disposizio- ne che, nel suo tenore formale, si presenta come un delitto contro l’onore qualificato dallo status della persona offesa, ma che di fatto 150 Cass. pen., sez. III, 7/4/2015, n. 41044. 151 VISCONTI C., Aspetti penalistici, cit., p. 197; cfr. PELISSERO, La parola perico- losa. Il confine incerto del controllo penale del dissenso, in Questione giustizia (on- line), 4/2015, par. 4. Nel complesso si rimane ancorati a un sistema che differen- zia tra forme di religiosità ‘classiche’ e forme di religiosità ‘diversa’ o c.d. ‘negati- va’. Il legislatore conferma un favor verso manifestazioni della spiritualità ancora- te a un’ottica tradizionale che si identifica nelle forme di organizzazione delle re- ligioni; sul punto gli orientamenti nella dottrina divergono: da un lato SIRACUSA- NO, Pluralismo e secolarizzazione dei valori, cit., p. 87 ss. rileva che «siamo ben lontani dall’unica possibile prospettiva di tutela nello Stato laico: quella che si fonda su una considerazione paritaria di tutte le opzioni individuali in materia di fede, quindi anche delle opzioni agnostiche ed atee»; diversa è l’opinione di RO- MANO, Principio di laicità dello Stato, cit., p. 214, il quale riconosce il completo si- lenzio serbato dal legislatore «su forme di agnosticismo o di ateismo attivo, prati- cato con personali accenti di doverosità morale», concludendo tuttavia che esso «non porterebbe ad alcuna “discriminazione ideologica [...] perché per eventuali offese arrecate a forme associative ispirate a pur radicate convinzioni areligiose o agnostiche non è parso seriamente evocabile, nella situazione del nostro Paese, un qualsiasi rischio per la tranquillità».   Fisionomia dell’offesa 189 guarda più alla matrice dello status che a colui che ne è il rappresen- tante: la tutela di un’asserita sensibilità collettiva, legata all’offesa del patrimonio ideale di una confessione, costituisce ancora oggi il punto di riferimento principale 152. La casistica esaminata appare tutto sommato non particolar- mente problematica, quantomeno sul piano della rilevanza penale: vi è il coinvolgimento di soggetti concretamente individuabili, e a fronte di espressioni ingiuriose resta tutt’al più aperto il problema se si tratti di vilipendio alla religione o di offese tali da integrare la diffamazione. Problemi più complessi sorgerebbero se le forme di espressione avessero ad oggetto non persone reali, ma simboli, icone, e in genera- le i dogmi di una confessione. Nel contesto italiano la caduta del vili- pendio ex art. 402 c.p. dovrebbe deporre per l’irrilevanza penale; il problema merita però di essere analizzato anche in un’ottica extraor- dinamentale, in riferimento a episodi dove l’irrisione satirica ha su- scitato reazioni violente, con un’evidente sovraesposizione del fattore emotivo. 7.2. Le vignette di Charlie Hebdo: ‘diritto di offendere’ o offesa tollerabile? Prendiamo in esame quello che è stato definito uno ‘stress test’ per i modelli di tutela 153, ossia il caso delle vignette pubblicate dal setti- manale francese Charlie Hebdo e, originariamente, dal settimanale danese Jyilland Posten. Anche la dottrina penalistica italiana si è po- sta l’interrogativo se tali manifestazioni espressive possano assumere rilevanza penale nell’ordinamento italiano; la risposta, condivisibil- mente argomentata, è stata di segno negativo 154: nell’attuale panora- ma normativo le vignette irridenti la religione islamica non sarebbero incriminabili poiché non rivolte a soggetti determinati ma orientate a ironizzare su dogmi e contenuti di fede 155. 152 Per un’approfondita disamina del problema della diffamazione delle reli- gioni in ambito internazionale v. ANGELETTI, La diffamazione delle religioni nella protezione ultranazionale dei diritti umani, in AA.VV., a cura di Brunelli, Diritto penale della libertà religiosa, cit., pp. 149 ss. 153 CIANITTO, Quando la parola ferisce. Blasfemia e incitamento all’odio religioso nella società contemporanea, Torino, 2016, pp. 70 ss. 154 BASILE, La pubblicazione delle dodici vignette, cit., pp. 74 ss. 155 BASILE, La pubblicazione delle dodici vignette, cit., p. 75.   190 Tra sentimenti ed eguale rispetto Al di là della riconducibilità a una norma incriminatrice, è oppor- tuno chiedersi se i contenuti delle vignette siano accostabili a un’of- fesa ai sentimenti o al venir meno del rispetto-riconoscimento. Le vignette danesi (oggi facilmente visualizzabili su internet) non sembrano operare una vera e propria critica o messa in discussione di asserti religiosi, ma adoperano uno stile comunicativo particolar- mente forte nelle rappresentazione di figure sacre, violando in primo luogo il divieto di rappresentazione del Profeta. Si può a nostro avviso parlare di blasfemia, nel senso di rappre- sentazioni empie per l’ottica di un fedele, e dunque plausibilmente offensive del sentimento religioso. Non sembra però potersi chiamare in causa una vera e propria discriminazione assimilabile a hate speech: solo nel caso di un’unica vignetta, raffigurante il Profeta con una bomba in testa, si è osservato, a nostro avviso in modo forse un po’ forzato, che potrebbe veicolare un messaggio discriminatorio in forza di un’assimilazione dell’Islam a una religione ‘di guerra’ e a una considerazione di tutti gli islamici come terroristi 156. Il discorso sulle vignette pubblicate nel corso degli anni dal setti- manale francese Charlie Hebdo necessiterebbe di essere sviluppato attraverso un’analisi dettagliata delle singole immagini: non essendo possibile in questa sede, ci limitiamo ad alcune considerazioni di li- vello generale sui rapporti fra libertà di satira ed eguale rispetto. Partiamo da un presupposto: l’interpretazione dei contesti, gli at- tori delle vicende e le contingenze storico-sociali sono fattori coes- senziali nella configurazione degli equilibri di rispetto. Conseguen- temente l’interrogativo sulla tollerabilità di un’espressione satirica appare destinato a ricevere risposte differenti a seconda dei soggetti coinvolti, dei contesti e delle epoche. L’umorismo e la satira possono essere gravemente irrispettosi a seconda delle cadenze adoperate e degli aspetti della persona che mettono in ridicolo. Si tratta di un buon punto di partenza per uscire dalla ingannatoria ricostruzione che vorrebbe distinguere tra ‘satira buona’ o vera satira, e ‘satira cattiva’: il fine della satira è toccare cor- de sensibili, e l’irrispettosità non è un aspetto patologico, bensì è connaturato al fenomeno satirico. È plausibile che la satira offenda dal punto di vista emotivo chi ne è oggetto, nel senso che a nessuno piace essere preso in giro e che l’essere irrisi induce tendenzialmente emozioni negative. 156 CIANITTO, Libertà di espressione e libertà di religione: un conflitto apparente?, cit., pp. 215 s.; amplius, v. EAD., Quando la parola ferisce, cit., pp. 73 ss.   Fisionomia dell’offesa 191 Pensiamo alla solidarietà che il nostro Paese ha giustamente tribu- tato al giornale francese Charlie Hebdo per l’inaccettabile e brutale aggressione subita: rimarchiamo che il gesto criminale non ha atte- nuanti, e l’affermazione della libertà di satira rappresenta un princi- pio fondamentale. Nondimeno, va considerato che l’appoggio solidale a Charlie è frutto di un’intrinseca parzialità, poiché concernente un fatto (le vignette sull’Islam) che non aveva un impatto emotivo pari a quello provato dai fedeli di religione musulmana. Basta cambiare esempio per accorgersi come anche nel nostro Paese l’atteggiamento nei confronti della satira muti radicalmente ove vi sia un diverso coinvolgimento. Si pensi alle vignette pubblicate sempre da Charlie Hebdo in occasione del terremoto avvenuto nel- l’Italia centrale ad agosto 2016: le risposte dell’opinione pubblica so- no state ben differenti, fino ad arrivare, da parte di soggetti delle isti- tuzioni, alla definizione di ‘schifo’ 157. Ben diverso era il clima emoti- vo che aveva indotto molti cittadini ad adottare come effige dei pro- pri profili telematici il logo ‘je suis Charlie’. Rispetto alle vignette sull’Islam cambia l’atteggiamento perché so- no diverse le emozioni suscitate nei destinatari, ma la sostanza dei fatti appare non dissimile: in entrambi i casi la satira ha colto nel se- gno, stimolando sensazioni forti, probabilmente offendendo emoti- vamente, e suscitando reazioni sdegnate da parte dei diretti destina- tari, ma sempre di satira si tratta. A partire da queste premesse, forse poco politically correct ma ade- renti alla realtà dei fenomeni, si pone il problema su come legittima- re l’esercizio della satira in quanto potenzialmente irrispettosa e in grado di dare fastidio 158. Nel contesto penalistico si è talvolta tracciato il confine fra espres- sioni tollerabili e non tollerabili attraverso una ricerca ‘ontologica’ di cosa sia satira e cosa invece si collochi al di là di essa, al fine di far derivare da tale ricostruzione effetti sul piano normativo, adottando 157 Così le ha definite il Presidente del Senato della Repubblica; la notizia è re- peribile su http://www.tgcom24.mediaset.it/politica/vignetta-charlie-su-sisma-gras- so-libero-di-dire-che-fa-schifo-_3029174-201602a.shtml. 158 Diritto di satira e libertà di religione godono entrambi di protezione a li- vello costituzionale, e sono pertanto «due beni, dunque, destinati ad una convi- venza mite, senza sopraffazioni dell’uno rispetto all’altro», così COLAIANNI, Dirit- to di satira e libertà di religione, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, 5/2008, p. 3. Per una definizione e una panoramica ricostruttiva del genere espressivo della satira, v. RATANO, La satira italiana nel dopoguerra, Messina- Firenze, 1976.   192 Tra sentimenti ed eguale rispetto una concezione ‘deontologica’ della satira 159. Un simile modo di argomentare si caratterizza a nostro avviso per una fallacia che possiamo ricondurre alla violazione della Legge di Hume in senso inverso, ossia come ricostruzione fattuale a partire da un presupposto normativo: sarebbe satira ciò che non viola una certa soglia di continenza e che dunque non offende. Tale modo di proce- dere non consente di scindere adeguatamente i confini identificativi della satira da quelli che debbano essere, eventualmente, i limiti normativi. Come è stato efficacemente osservato: «Alla fine, sembra dunque non si possa fare a meno di accettare che la satira non abbia confini, benché in un senso diverso rispetto a quello che intendono quanti declinano questa tesi come tesi morale libertaria (“la satira non deve avere confini”); nel senso, invece, di una tesi con- cettuale che afferma che la libertà di satira non ha confini certi, poi- ché ci manca la possibilità di realizzare una precisa delimitazione teori- ca, attraverso la quale stabilire in maniera incontrovertibile quando ci si è mossi nell’alveo della libertà di satira e quando invece si è trasceso e si è entrati in un altro terreno, che, per quanto lo si possa continuare a considerare satirico, diventa sanzionabile dall’ordinamento» 160. Ciò non significa postulare una ‘amoralità’ della satira, ma al con- trario pone le condizioni per giudicare in modo distinto il fine dell’espressione satirica dalle modalità con le quali essa si manifesta: il fine positivo della satira non è incompatibile con un umorismo par- ticolarmente caustico tale da essere financo irrispettoso e desacraliz- zante. Quale argomento a sostegno della libertà di satira si è osservato che una politica di tolleranza, e dunque non restrittiva, rappresenti un mi- 159 Si veda ad esempio Trib. Latina, 24/10/2006, n. 1725, cit., quando osserva che «[l]a satira è, dunque, un punto di vista che si distingue dal dileggio, dal vili- pendio, dall’offesa, perché fornisce una lettura diversa della realtà e manifesta un giudizio di valore»; e ancor più netta è Cass. pen., sez. I, 24/02/2006 n. 9246: «La satira, notoriamente, è quella manifestazione del pensiero (talora di altissimo li- vello) che nei tempi si è addossata il compito di ‘castigare ridendo mores’; ovvero, di indicare alla pubblica opinione aspetti criticabili o esecrabili di persone, al fine di ottenere, mediante il riso suscitato, un esito finale di carattere etico, correttivo cioè verso il bene». Per una panoramica sulla giurisprudenza v. FLORIS, Libertà di religione, cit., pp. 183 ss.; INFANTE, Satira: diritto o delitto?, in Dir. inf., 1999, pp. 373 ss.; CAROBENE, Satira, tutela del sentimento religioso e libertà di espressione. Una sfida per le moderne democrazie, in Calumet, 3/2016, pp. 9 ss. 160 DEL BÒ, Col sorriso sulle labbra. La satira tra libertà di espressione e dovere di rispetto, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, 7/2016, p. 9.   Fisionomia dell’offesa 193 gliore humus per l’attecchimento di principi fondamentali che hanno una base dialettica e che, ove venissero cristallizzati in una teca al ri- paro da aggressioni, rischierebbero di trasformarsi in dogmi 161. Un simile modo di argomentare è stato definito come ‘utilitarismo delle regole’: l’atteggiamento di chi ha risolto la ‘questione Charlie’ af- fermando sì la presenza di un’offesa, ma optando per il pieno risco- noscimento della libertà di espressione, sarebbe viziato dal fatto che «nel dirigere l’attenzione verso le regole, l’utilitarismo insinua il so- spetto che le conseguenze di un atto (o di una regola) non siano in fondo determinanti per i giudizi e i valori etici di una persona: che lo siano invece le regole in quanto tali, in quanto vengono considerate intrinsecamente giuste, quali che siano le conseguenze della loro appli- cazione» 162. Si può riassumere tale critica anche come un’obiezione di ‘disinte- resse alle conseguenze’: «la sicurezza con la quale [si] proclama [tale ] opinione è totalmente aliena dai calcoli pazienti e minuziosi che sa- rebbero richiesti per sostanziare quella giustificazione (e ne rivela la vanità)» 163. L’argomento definito come ‘utilitarismo delle regole’ è da tenere in seria considerazione anche nella prospettiva giuridica; tuttavia, ciò che agli occhi del filosofo appare come un disinteresse alle conseguenze può rappresentare nella prospettiva penalistica una scelta di prudenza in rapporto a eventi offensivi la cui prevedibilità non appaia supporta- ta da una base nomologica sufficiente a legittimare divieti penali 164. Tenderemmo quindi a ritenere preferibile come opzione ultima la non restrizione della libertà di satira 165, ma al di là dell’atteggiamento 161 DEL BÒ, Col sorriso sulle labbra, cit., p. 22. 162 BENCIVENGA, Prendiamola con filosofia, cit., p. 47. 163 BENCIVENGA, Prendiamola con filosofia, cit., pp. 45 ss. 164 Tutt’altro che risolutivo si rivela anche il ricorso a criteri di selezione delle condotte ben consolidati nel pensiero penalistico e avallati dalla Corte costituzio- nale: ci riferiamo allo schema del pericolo concreto, in merito al quale, come è stato efficacemente rilevato da Alessandro Tesauro, anche la selezione delle pro- prietà universalizzabili del caso concreto da utilizzare come criteri indiziari di una pericolosità effettiva della condotta, costituisce un’attività ‘normativamente compromessa’, nel senso che non porterà comunque a individuare criteri di corri- spondenza suscettibili di verifiche empiriche, ma il ruolo determinante sarà pur sempre giocato da scelte di valore dell’interprete, v. TESAURO, Riflessioni in tema di dignità umana, cit., pp. 122 ss. 165 «Ciò che allora deve spingerci a non censurare quelle espressioni satiriche che, pur non istigando alla violenza, mancano gravemente di rispetto ai gruppi deboli e svantaggiati non è una generica libertà di espressione (questo, in alcuni   194 Tra sentimenti ed eguale rispetto prudenziale, riteniamo che la soluzione liberale possa trovare legit- timazione anche attraverso un ragionamento che si richiami al crite- rio dell’eguale rispetto e al bilanciamento fra reciproche pretese. Quando si analizzano i disaccordi in materia di satira religiosa bi- sogna individuare dei presupposti valoriali per impostare la discus- sione, ossia dei compromessi sul cui equilibrio ciascuna delle parti possa avere voce in capitolo: anche «coloro che credono in una reli- gione presa di mira possono dover considerare che il diritto di ridere di qualunque religione può esso stesso essere considerato dagli altri come un articolo di fede» 166. La sostanza di tale argomento è condi- visibile, anche se il percorso concettuale, con una ‘moltiplicazione di articoli di fede’, rischia di tramutarsi in un pendio scivoloso. Eguale rispetto dovrebbe significare preservare la libertà di pro- fessare una religione da un lato, e la fede nella libertà di satira, dal- l’altra: un impegno a far sì che nessun pregiudizio venga arrecato alle due libertà. Ebbene, la pretesa di coloro che chiedono restrizioni alla libertà di satira appare in questo senso sproporzionata poiché mentre vignette ed espressioni anche ‘urticanti’ non arrecano un vero e pro- prio pregiudizio alla libertà del credente e alla sua ‘identità religio- sa’ 167, la pretesa di comprimere la libertà di espressione altrui risulte- rebbe un vulnus sproporzionato. Si potrebbe a questo punto prendere in esame un ulteriore argo- mento, basato sulla maggiore suscettibilità che determinati fedeli, come ad esempio quelli di religione islamica, adducono sostenendo che ogni offesa alla propria religione è anche, intrinsecamente, un’of- fesa alla dignità delle persone che la professano168. Ebbene, quale spazio di legittimità può essere riconosciuto a tale obiezione? Abbiamo introdotto il problema parlando della suscettibilità sog- casi, come abbiamo visto, è sbagliato) e nemmeno il fatto che quelle espressioni contribuiscano in qualche modo al raggiungimento della “verità” (in molti casi, questo è falso); piuttosto, a caldeggiare una politica di tolleranza nei loro con- fronti è il fatto che consentono ai principi che ci sono cari di difendersi sempre meglio e mantenersi vivi e tonici, e con essi il tipo di società nella quale aspiriamo a vivere», v. DEL BÒ, Col sorriso sulle labbra, cit., p. 23. 166 TELFER, Umorismo ed eguale rispetto, in AA.VV., a cura di Carter-Galeotti- Ottonelli, Eguale rispetto, Milano, 2008, p. 212. 167 Utilizzo tale concetto nell’accezione sviluppata da PINO, Sulla rilevanza giu- ridica e costituzionale dell’identità religiosa, in Ragion pratica, 2/2015, p. 370, ossia come «l’insieme delle credenze, dei valori, delle appartenenze che un individuo ha in materia specificamente religiosa», e dunque come aspetto specifico della sfera della coscienza.  168 WALDRON, The Harm in Hate Speech, cit., pp. 132 ss.  Fisionomia dell’offesa 195 gettiva nella trattazione di Joel Feinberg; in questo caso il discorso è però differente, poiché riguarda non la suscettibilità di un singolo soggetto, ma di un gruppo: l’interrogativo è se si tratti di una vulne- rabilità meramente emozionale o se, diversamente, sia anche ricon- ducibile a una particolare debolezza sociale del gruppo. Con riferimento a tale seconda ipotesi, esponiamo le tesi di due Autori già incontrati nel corso dell’indagine. Da un lato, Avishai Margalit osserva che «[u]n gruppo vulnerabile, con una storia di umiliazione e sospetto da parte di coloro che lo cir- condano, specialmente da parte della cultura dominante, è suscettibi- le di interpretare ogni critica come umiliazione» 169; Jeremy Waldron tematizza il problema senza richiamare l’eventuale debolezza di un gruppo, ma incentrando il discorso sulla totale identificazione fra soggetto e ideologie/credenze. Di fronte all’interrogativo sul peso che possa essere riconosciuto alla percezione soggettiva nel caso di gruppi vulnerabili, e dunque al- la rilevanza della vulnerabilità nell’interpretazione dell’offensività di un’espressione, le posizioni di Margalit e Waldron divergono: biogra- fia personale e matrici culturali sono fattori che probabilmente in- fluiscono su prese di posizione concernenti ‘scelte ultime’170, la cui argomentazione in termini razionali è particolarmente difficoltosa. Il filosofo israeliano propone i seguenti criteri di soluzione: 1) un primo criterio, basato sulla reciprocità secondo cui dovreb- be essere considerato critica qualunque cosa si desideri offrire ad al- tri e che si accetterebbe ove venisse offerta a noi stessi 171; 2) un secondo criterio, in favore dell’interpretazione del gruppo vulnerabile, si lega alla «necessità morale di far pendere la bilancia dell’errore nell’interpretazione verso la parte del debole», e va però bilanciato da un altro principio secondo cui «qualunque cosa fosse considerata critica piuttosto che umiliazione se avvenisse “in fami- glia”, cioè all’interno del gruppo, dovrebbe pure essere considerata tale se proveniente dall’esterno del gruppo» 172. Diversamente da Margalit, il quale dunque non esclude una carità interpretativa a favore dei gruppi vulnerabili, Waldron rimarca la ne- cessità di non assecondare normativamente pretese avanzate in forza di un’identificazione fra persona e ideali religiosi o politici: richieste 169 MARGALIT, La società decente, cit., p. 201. 170 Traggo questo concetto da BOBBIO, L’età dei diritti, Torino, 2011, p. 245. 171 MARGALIT, La società decente, cit., p. 201. 172 MARGALIT, La società decente, cit., pp. 202 s.   196 Tra sentimenti ed eguale rispetto di tutela di questo tipo sono da considerarsi esorbitanti in un conte- sto pluralista. Vi è l’esigenza di una limitazione delle pretese sogget- tive, pur tenendo conto che il legame identificativo fra individuo e ideali può essere così intenso da essere assimilabile a una ‘seconda pelle’; ma ciò non può giustificare sul piano politico provvedimenti normativi che limitino le libertà di tutti per preservare la serenità in- teriore di alcuni 173. Sintetizzando: sia Margalit sia Waldron concordano sulla necessi- tà di prendere atto che determinate espressioni meritino una partico- lare attenzione da parte del diritto poiché possono esorbitare dall’or- dinario range della critica e del mero insulto e divenire forme di umi- liazione e discriminazione della persona. Per Margalit il discrimine fra insulto e umiliazione può essere diverso a seconda del tipo di de- stinatari in quanto di fronte a un gruppo cosiddetto ‘vulnerabile’ l’interpretazione delle espressioni dovrebbe essere condotta tenendo conto anche, eventualmente, della peculiare sensibilità; secondo Wal- dron tale differenziazione non è mai normativamente giustificabile e si presterebbe a divenire un problematico moltiplicatore di divieti sulla base di pretese soggettivistiche. Concordiamo con Waldron che l’identificazione fra critica a fedi e valori e offesa alla persona, rappresenti un argomento knock-out che sbilancerebbe le posizioni in gioco. Il credente il quale esige che i propri principi non vengano mai irrisi, adducendo che ciò significhe- rebbe automaticamente offendere lui come persona, sta implicita- mente cercando di sottrarre le proprie posizioni assiologico-religiose dal dibattito, ponendosi in questo senso in una posizione di supre- mazia, limitando la libertà di espressione altrui secondo criteri che non sono confutabili poiché si sottraggono per definizione a ogni ti- po di confronto. La prova di tale incommensurabilità fra posizioni emerge in rela- zione a un ulteriore test secondo il quale dovrebbe essere ritenuta of- fensiva un’espressione che nessun membro del gruppo avrebbe rite- nuto divertente 174, anche se a pronunciarla fosse stato uno del grup- po stesso. Tale test trascura a nostro avviso un dato fondamentale, ossia che i conflitti fra sensibilità nascono proprio dal fatto che vi possono es- sere gruppi che non accettano un certo modo di fare ironia tout court; non è un problema di qualità della satira, ma semplicemente la 173 WALDRON, The Harm in Hate Speech, pp. 131 ss. 174 TELFER, Umorismo ed eguale rispetto, cit., pp. 210 ss.   Fisionomia dell’offesa 197 satira su certi temi potrebbe non essere ritenuta mai ammissibile. Un test di questo tipo non appare ad esempio risolutivo se applicato alle vignette sul Profeta Maometto poiché la religione islamica non sem- bra tollerare alcun tipo di ironia in questo senso. Bisogna dunque prendere atto che tali test sono poco funzionali quando pretendono di mettere a confronto pretese fra loro incompatibili poiché ricondu- cibili a gruppi che non si riconoscono nei medesimi valori. L’analisi filosofica di Ermanno Bencivenga è in questo senso spie- tata quando osserva che dal fedele di qualsivoglia religione non si può esigere un atteggiamento lassista e compromissorio sul rispetto della propria fede. Il carattere radicale del vincolo è tale per cui l’al- trui libertà di satira non potrebbe mai essere ritenuta tollerabile 175. In definitiva, il tema dell’identificazione fra soggetto e credenze spinge verso esiti illiberali: pretese modulate su una simile rigidità non possono essere accolte in un contesto pluralista, nel quale un in- teresse, pur di rango elevato, va comunque calato in una prospettiva di bilanciamento 176. Sintetizzando, la risposta all’interrogativo sulla libertà di satira, anche quando consista in vignette dissacranti come quelle pubblicate in Danimarca e come alcune di quelle pubblicate dal settimanale Charlie Hebdo, deve essere a nostro avviso positiva: nessuna rilevanza penale secondo l’attuale normativa italiana, ma anche nessuna futu- ribile prospettiva di censura. Attenzione però a non fare della satira un dogma 177: parlare di ‘li- bertà di deridere’ 178 è una formula schietta ma che rischia di prestar- si a distorsioni. Esprimersi a favore della libertà di satira non signifi- ca ritenerla insindacabile; da un lato il riconoscere l’irrispettosità del- la satira può non essere elemento sufficiente per inferirne l’opportu- nità di una criminalizzazione; dall’altro l’irrilevanza penale non im- plica la certificazione di un buon uso della libertà di espressione 179. 175 BENCIVENGA, Prendiamola con filosofia, cit., pp. 86 ss. 176 Cfr. PINO, Sulla rilevanza giuridica e costituzionale dell’identità religiosa, cit., pp. 372, 381. 177 Concordiamo in questo senso con CANESTRARI, Libertà di espressione e liber- tà religiosa, cit., p. 936. 178 TELFER, Umorismo ed eguale rispetto, cit., p. 212. 179 Problema che si riconnette al più ampio tema dei valori e di un’etica della convivenza le cui polarità non dovrebbero essere determinate dalle dicotomie del- la liceità e illecità penale: «un’etica non legale e non penalistica di comportamen- to», come condivisibilmente osservato da DONINI, Il diritto penale come etica pub- blica, Modena, 2014, p. 13.   198 Tra sentimenti ed eguale rispetto Non appare opportuno diffondere a livello comunicativo formule come ‘libertà di offesa’ o ‘diritto di offendere’, mentre è bene riflettere su come gestire da un punto di vista sociale e comunicativo quelle che possono essere definite ‘offese tollerabili’, o meglio offese che i cittadini devono (imparare a) tollerare. La liceità dell’irrispettosità umoristica lascia aperto il problema di una ricostituzione del rispetto reciproco, di luoghi simbolici in cui possa essere offerta una compensazione a offese che, come nel caso delle reli- gioni, toccano strati profondi della persona. Riconoscere che le vignette di Charlie Hebdo possano ferire e abbiano offeso credenti di religione islamica non significa avallare la bestialità omicida dei terroristi, né comporta quale immediata implicazione quella di invocare lo strumento penale quale saracinesca. È però un punto importante per avviare un riconoscimento a soggetti che abbiano avvertito soggettivamente un’umi- liazione per la derisione ai propri simboli, anche in virtù del fatto che si tratta di appartenenti a gruppi deboli o comunque a minoranze180, nei confronti dei quali l’irrisione satirica può comunque rappresentare una forma di amplificazione della disuguaglianza di status sociale. 8. Le norme sulla propaganda razzista in Italia: quale spazio a sentimenti? Sentimenti, pari dignità e discriminazione rappresentano concetti che concorrono a identificare il retroterra delle norme sulla propaganda razzista, ossia lo hate speech a sfondo razziale che in Italia è incriminato 180 Si è osservato che l’impatto sociale dell’irrispettosità satirica e la conse- guente tollerabilità della satira dovrebbe essere correlata alla categoria di soggetti sui quali la satira va a incidere: massima libertà ove l’irrisione si rivolga a soggetti che hanno una posizione di supremazia a livello sociale, mentre più problematico appare il caso in cui si faccia satira nei confronti di categorie deboli, specie fa- cendo leva su stereotipi e luoghi comuni. Questo criterio, definito come frutto di una «precomprensione egualitaria del discorso pubblico», v. CARUSO, La libertà di espressione in azione, cit., p. 283, appare in definitiva un bilanciamento tra il fine morale della satira e la sua ‘moralità interna’, vista attraverso l’egida assiologica del principio di uguaglianza. Per un interessante commento a una pronuncia del- la Corte Edu che, tramite l’art. 17 CEDU ha respinto il ricorso per violazione dell’art. 10 a seguito della condanna di un noto comico francese per uno spettaco- lo satirico sull’Olocausto, v. PUGLISI, La satira “negazionista” al vaglio dei giudici di Strasburgo: alcune considerazioni in «rime sparse» sulla negazione dell’Olocausto, in www.penalecontemporaneo.it, 2/2016, pp. 1 ss.   Fisionomia dell’offesa 199 ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. a), della legge n. 654 del 1975 181. Cominciamo a interrogarci su quale sia l’effettivo rilievo del sen- timento nel richiamo all’odio quale elemento di fattispecie dell’art. 3 della suddetta legge, il cui presupposto è la sussistenza di un’idea di- scriminatoria fondata sulla diversità determinata da una pretesa su- periorità razziale o da odio etnico 182. Ad una prima lettura emerge come nel corpo della disposizione normativa il sentimento non definisca l’oggetto di tutela, bensì rappre- senti la nota caratterizzante il tipo di espressioni che la legge intende vietare. La prospettiva appare invertita rispetto alle norme che abbia- mo precedentemente analizzato con riferimento agli altri ‘sentimenti- valori’ menzionati nel codice: piuttosto che parlare di tutela di senti- menti, l’assetto delle norme tratteggia una tutela da sentimenti, in rap- porto alla quale l’odio rappresenta lo stato affettivo da ‘disinnescare’ 183. 181 In un’ottica più ampia, sono pertinenti al discorso d’odio a sfondo razziale anche altre norme: l’apologia di genocidio di cui all’art. 8 della legge n. 962 del 1967 e le disposizioni della c.d. ‘Legge Scelba’ che aggravano la cornice sanziona- toria per l’apologia di fascismo nel caso in cui venga realizzata attraverso ‘idee e metodi razzisti’. Nella letteratura penalistica, v. AA.VV., a cura di Riondato, Di- scriminazione razziale, xenofobia, odio religioso. Diritti fondamentali e tutela pena- le, cit.; DE FRANCESCO, Commento a D.L. 26/4/1993 n. 122 conv. con modif. dalla l. 25/6/1993 n. 205 – Misure urgenti in materia di discriminazione razziale, etnica, religiosa, in Leg. pen., 1994, pp. 179 ss.; FRONZA, Osservazioni sull’attività di propa- ganda razzista, in Riv. int. dir. dell’uomo, 1997, pp. 32 ss.; VISCONTI C., Il reato di propaganda razzista, cit., pp. 191 ss. 182 Per una panoramica sulle applicazioni della normativa v. PAVICH-BONOMI, Reati in tema di discriminazione: il punto sull’evoluzione normativa recente, sui principi e va- lori in gioco, sulle prospettive legislative e sulla possibilità di interpretare in senso con- forme a Costituzione la normativa vigente, in www.penalecontemporaneo.it, 10/2014, pp. 1 ss.; FERLA, L’applicazione della finalità di discriminazione razziale in alcune recenti pronunce della Corte di Cassazione, in Riv. it. dir. proc. pen., 4/2007, pp. 1455 ss. 183 Evidenzia la peculiarità delle incriminazioni contro la diffusione e l’incita- mento all’odio, rispetto al problema generale della cosiddetta ‘tutela penale di sen- timenti’, anche ALONSO ALAMO, Sentimientos y derecho penal, cit., pp. 59 ss. In realtà, secondo le indicazioni che emergono principalmente in ambito anglo-americano, va considerato che l’uso del termine odio, oltre a essere approssimativo, appare er- rato: «[w]hat has become clear is that the word ‘hate’ is really a misnomer. An of- fender need not actually hate his victim in order to have committed a ‘hate crime’; indeed he may feel no personal hatred towards that particular individual at all», v. WALTERS, Hate Crime and Restorative Justice, Oxford, 2014, p. 6; cfr. PAREKH, Is There a Case for Banning Hate Speech?, in AA.VV., ed. by Herz-Molnar, The Content and the Context of Hate Speech, cit., p. 40. Si veda anche PERRY, A Crime by Any Oth- er Name, cit., pp. 127 ss. Il concetto di ‘crimine d’odio’ sconta oltretutto un’indeter- minatezza di fondo: si tratta di una definizione cosiddetta ‘ostensiva’, ossia che pro- cede non attraverso un’esaustiva esplicazione del definiens (l’odio), ma attraverso   200 Tra sentimenti ed eguale rispetto Tale precisazione non risolve ma rilancia l’interrogativo se dietro le norme sulla propaganda razzista si ponga effettivamente un pro- blema di sentimenti negativi. Nelle pronunce della giurisprudenza italiana, la maggior parte del- le quali relative all’applicabilità della circostanza aggravante (art. 3, d.l. n. 122/1993), la risposta è negativa, in quanto è decisamente pre- valente l’orientamento che interpreta il requisito dell’odio non come tratto affettivo del soggetto attivo, bensì come sfondo valoriale dei contenuti espressivi e simbolici legati alle condotte 184. Come osservato dalla Corte di Cassazione: «non può considerarsi sufficiente che l’odio etnico, nazionale, razziale o religioso sia stato, più o meno riconoscibilmente, il sentimento che ha ispirato dall’interno l’azione delittuosa, occorrendo invece che que- sta, per le sue intrinseche caratteristiche e per il contesto nel quale si colloca, si presenti come intenzionalmente diretta e almeno poten- zialmente idonea a rendere percepibile all’esterno ed a suscitare in al- tri il suddetto, riprovevole sentimento o comunque a dar luogo, in fu- turo o nell’immediato, al concreto pericolo di comportamenti discri- minatori per ragioni di razza, nazionalità, etnia o religione» 185. una individuazione del definiendum (l’esempio concreto) il quale viene successiva- mente ricollegato al definiens. Si tratta delle cosiddette definizioni mediante esempi, suscettibili di convogliare istanze normative e culturali che tendono a ricondurre all’odio azioni e condotte le più diverse: «[c]lassificare un gesto criminale come crimine d’odio è compatibile in quest’ottica con un’ampia gamma di stati psicologi- ci, dalla rabbia alla noia, alla paura; perché non parlare, allora, di “crimini di rab- bia”? [...] Nascosto dietro al concetto di crimine d’odio sembra dunque esserci un altro significato culturale dell’odio, ossia ciò che motiva gesti di violenza insensata (normativamente ingiustificati) [...] l’insistenza sul termine “odio” in una data si- tuazione, più che un fatto descrittivo, è il riflesso dell’impegno normativo a identifi- carsi con le sventure della vittima e a prendere le distanze dal punto di vista dell’aggressore», v. ROYZMAN-MCCAULEY-ROZIN, Da Platone a Putnam: quattro modi di pensare all’odio, cit., p. 16. 184 Cass. pen., sez. V, 17/11/2005, n. 44295; si vedano, ex plurimis, Cass. pen., sez. V, 12/06/2008, n. 38217; Cass. pen., sez. V, 23/09/2008, n. 38591. Un diverso orientamento si pone a sostegno di un’applicazione più ampia, e in particolare estesa a comprendere anche situazioni in cui vi sia solo la presenza di soggetto attivo e vittima: «Non è, dunque, richiesta la plateale ostentazione di tali motiva- zioni sì da ingenerare il rischio di reiterazione di analoghi comportamenti, essen- do sufficiente che l’azione rechi, in sé, le prescritte connotazioni, immediatamen- te percepibili nel contesto in cui è maturata, avuto riguardo al comune sentire ed alla comune accezione dell’espressione usata» v. Cass. pen., sez. V, 11/07/2006, n. 37609; ulteriori pronunce sono analizzate in PAVICH-BONOMI, Reati in tema di di- scriminazione, cit., pp. 24 ss.  185 Cass. pen., sez. V, 17/11/2005, n. 44295; cfr. Cass. pen., sez. I, 28/02/2001, n. 341.  Fisionomia dell’offesa 201 L’orientamento della giurisprudenza italiana sembra aderire alla concezione dello hate speech come fattore in grado di alterare in ne- gativo il clima sociale e di inoculare il germe della discriminazio- ne186. Non viene riservato spazio allo stato soggettivo dell’agente né alla verifica di un’effettiva diffusione del pensiero razzista e di un ‘contagio emotivo’, adottando un modello di intervento basato sul pe- ricolo astratto 187 e orientato alla tutela della dignità umana 188. Un’eloquente evocazione dei sentimenti la troviamo invece in una pronuncia ormai datata, relativa alla legge 9 ottobre 1967 n. 962 (at- tuazione della Convenzione internazionale per la prevenzione e la re- pressione del crimine di Genocidio), e in particolare all’art. 8 che in- crimina l’istigazione e l’apologia di genocidio 189. Ebbene, nel 1985 la Corte di Cassazione ebbe a definire la ratio di tutela del reato di pro- paganda come contrasto della «intollerabile disumanità [...] odioso culto dell’intolleranza razziale che esprime, [...] orrore che suscita nelle coscienze civili ferite dal ri- cordo degli stermini perpetrati dai nazisti e dai calvari tragicamente attuali di talune popolazioni africane e asiatiche. L’idoneità della con- dotta ad integrare gli estremi del reato non è già quella generale di un improbabile contagio di idee e di propositi genocidiari, ma quella più 186 SPENA, La parola(-)odio. Sovraesposizione, criminalizzazione, interpretazione dello hate speech, in Criminalia, 2016, pp. 592 ss.; sul tema, in termini generali, cfr. WALDRON, The Harm in Hate Speech, cit., pp. 4 ss. 187 L’assunto è presente in Cass. pen., sez. III, 23/06/2015, n. 36906. Un’interpre- tazione correttiva è proposta da FRONZA, Osservazioni sul reato di propaganda raz- zista, cit., pp. 60 ss.; cfr., per un differente percorso argomentativo volto a rico- noscere che la propaganda di idee razziste è già di per sé concretamente pericolosa per la dignità della persona, v. PICOTTI, Diffusione di idee razziste ed incitamento a commettere atti di discriminazione razziale, ss., nota a Tribunale Verona, 24/02/2005, n. 2203, in Giur. merito, 9/2006, 9, pp. 1969 ss.; contra, v. SCAFFARDI, Oltre i confini della libertà di espressione, cit., p. 221; più ampiamente, TESAURO, Riflessioni in tema di dignità umana, cit., pp. 64 ss. 188 Per tutti v. DE FRANCESCO, Commento a D.L. 26/4/1993 n. 122 conv. con mo- dif. dalla l. 25/6/1993 n. 205, cit., p. 179; cfr. AMBROSETTI, Beni giuridici tutelati e struttura delle fattispecie: aspetti problematici della normativa penale contro la di- scriminazione razziale, in AA.VV., a cura di Riondato, Discriminazione razziale, xenofobia, odio religioso, cit., p. 97; PICOTTI, Istigazione e propaganda della discri- minazione razziale fra offesa dei diritti fondamentali della persona e libertà di mani- festazione del pensiero, in AA.VV., a cura di Riondato, Discriminazione razziale, xenofobia, odio religioso, cit., pp. 134 ss. 189 Sul tema v. CANESTRARI, voce Genocidio, in Enciclopedia giuridica, Roma, 1985, vol. XV, pp. 3 ss.   202 Tra sentimenti ed eguale rispetto strutturalmente semplice di manifestare chiaramente l’incondizionato plauso per forme ben identificate di fatti di Genocidio» 190. Attraverso un lessico ad alto impatto emotivo, la Corte afferma la legittimità dell’incriminazione dell’apologia di genocidio quale argine all’‘orrore che suscita nelle coscienze’. Si tratta del caso più emblema- tico in cui una norma penale italiana finalizzata al contrasto al razzi- smo e alla discriminazione viene declinata alla stregua di una vera e propria tutela di sentimenti; un profilo che è stato puntualmente, an- corché sinteticamente, messo in evidenza nei commenti critici della dottrina dell’epoca, che ne ha rilevato altresì la profonda distonia con i principi enunciati dalla Corte costituzionale in tema di apologia ed istigazione, del tutto disattesi dalla pronuncia della Cassazione 191. Tale orientamento rimane un caso isolato nell’ambito della esigua giurisprudenza, e viene espressamente sconfessato dall’unica pronun- cia successiva, ad opera della Corte di Assise di Milano che ne confu- ta l’intero impianto motivazionale al fine di restringere l’operatività della norma alle sole ipotesi in cui l’apologia sia una «forma di istiga- zione indiretta, caratterizzata dalla nota interna che in essa l’induzio- ne alla commissione di un certo fatto si realizza attraverso l’esalta- zione di un fatto analogo» 192. 8.1. Il discorso razzista fra estremismo politico e insulto discri- minatorio Veniamo infine ad analizzare alcuni profili di ermeneutica del fat- to che ricorrono nell’analisi della casistica sul discorso razzista. La giurisprudenza specifica che affinché siano integrati gli estremi del- l’espressione discriminatoria deve trattarsi di «consapevole esterio- rizzazione di un sentimento di avversione o di discriminazione fon- data su di un pregiudizio» 193: ma cosa consente di distinguere a livel- lo ‘esteriore’ una critica da un pregiudizio? 190 Cass. pen., sez. I, 29/03/1985, n. 507, in Foro it., 1986, II, p. 22. La vicenda è relativa all’esposizione di striscioni inneggianti all’Olocausto durante una manife- stazione sportiva: ‘Mathausen reggia degli ebrei’, ‘Una cento mille Mathausen’, ‘Hitler l’ha insegnato, uccidere l’ebreo non è reato’. 191 FIANDACA, nota a Cass. pen., sez. I, 29/03/1985, n. 507, in Foro it., 1986, II, p. 21. 192 Corte di Assise di Milano, 14/11/2001, in Ius explorer. 193 Cass. pen., sez. V., 11/07/2006, n. 37609.   Fisionomia dell’offesa 203 Nelle applicazioni della norma sulla propaganda razzista la giuri- sprudenza ha più volte adoperato il criterio basato sulla distinzione fra considerazioni che fanno leva sulla diffusione di determinati com- portamenti presso determinate etnie, e l’offesa all’etnia tramite inde- bite generalizzazioni. Risultano particolarmente problematiche le vicende riguardanti contesti di dialettica politica, nei quali è frequente il ricorso a stereo- tipi che, a seconda delle circostanze, possono assumere le vesti di veri e propri pregiudizi discriminatori. Il processo ai leghisti di Verona rappresenta un significativo leading case: sinteticamente, il fatto ri- guarda l’iniziativa di alcuni consiglieri comunali finalizzata a manda- re via gli zingari dal comune scaligero attraverso un coinvolgimento della popolazione allertata da un volantino che recitava ‘No ai campi nomadi. Firma anche tu per mandare via gli zingari’ 194. Fra le diverse questioni affrontate dai giudici, è importante ai fini della presente indagine rilevare quanto osservato dalla Corte di Cas- sazione in occasione dell’ordinanza di annullamento con rinvio: «La discriminazione [...] si deve fondare sulla qualità del soggetto (zingaro, nero, ebreo, ecc.) e non sui comportamenti. La discrimina- zione per l’altrui diversità è cosa diversa dalla discriminazione per l’altrui criminosità. In definitiva un soggetto può anche essere legitti- mamente discriminato per il suo comportamento ma non per la sua qualità di essere diverso» 195. Tale trend interpretativo rimane costante nella giurisprudenza successiva avente ad oggetto le dichiarazioni di soggetti politici nel- l’ambito dell’attività istituzionale e della campagna elettorale 196. Emer- gono tuttavia notevoli criticità in una recente pronuncia della Corte di Cassazione riguardante una condanna della Corte di Appello di Trieste per un volantino di promozione elettorale stampato e diffuso in occasione delle elezioni per il rinnovo del Parlamento Europeo, il quale secondo i giudici di merito 194 Un riassunto della vicenda in CARUSO, Dialettica della libertà di espressione: il “caso Tosi” e la propaganda di idee razziste, in AA.VV., a cura di Tega, Le discri- minazioni razziali ed etniche. Profili giuridici di tutela, Roma, 2011, pp. 133 ss.; si veda anche VISCONTI C., Il reato di propaganda razzista, cit., pp. 193 ss. 195 Cass. pen., sez. III, 28/03/2008, n. 13284. 196 Cass. pen., sez. I, 22/11/2012, n. 47894; Cass. pen., sez. III, 23/06/2015, n. 36906.   204 Tra sentimenti ed eguale rispetto «propagandava idee fondate sulla superiorità di una razza rispetto alle altre e sull’odio razziale, facendo ricorso, in particolare, allo slogan “basta usurai – basta stranieri” con sottinteso, ma evidente riferimen- to a persona di religione ebraica ed esplicito riferimento a persone di nazionalità non comunitaria e, sul retro del volantino, alla rappresen- tazione grafica esplicativa dello slogan di un’Italia assediata da sogget- ti di colore dediti allo spaccio di stupefacenti, da un Abramo Lincoln attorniato da dollari, da un cinese produttore di merce scadente, da una donna e un bambino Rom sporchi e pronti a depredare e da un soggetto musulmano con una cintura formata da candelotti di dinami- te pronti per un attentato terroristico» 197. La Corte di Cassazione dispone l’annullamento senza rinvio per- ché il fatto non sussiste, argomentando proprio sulla base dell’asse- rita differenza del caso trattato rispetto alla condanna dei leghisti ve- neti, nel quale, secondo la Corte, appariva invece palese la discrimi- nazione degli zingari per il solo fatto di essere tali, in quanto il do- cumento diffuso non indicava alcuna plausibile ragione a sostegno dell’allontanamento, mentre il diverso caso in esame, «ad avviso del Collegio, in maniera alquanto grossolana, vuole veicola- re un messaggio di avversione politica verso una serie di comporta- menti illeciti che, con una generalizzazione che appare una forzatura anche agli occhi del destinatario più sprovveduto, vengono attribuiti a soggetti appartenenti a determinate razze o etnie: il cinese che vende prodotti contraffatti, l’uomo di colore che spaccia stupefacenti, la rom che tenta di rapire il bambino, l’arabo che si fa esplodere in un atten- tato terroristico. E poi Abramo Lincoln, con i suoi dollari, a rappre- sentare la finanza e le banche, probabilmente da mettere in relazione alla scritta “basta usurai”». 197 Cass. pen., sez. III, 23/06/2015, n. 36906: secondo la descrizione riportata in sentenza, «su un lato compariva la propria foto sovrastata dalla scritta “Vota S.”, sotto la quale si leggeva, a grandi caratteri, la frase “BASTA USURAI, BASTA STRANIERI”. Sotto, il simbolo del partito di appartenenza (Destra Sociale – Fiamma Tricolore), con una mano che vi appone una croce e scrive di fianco “ S.”. Più in basso, l’URL del blog del candidato [...]; sull’altro lato, in alto la scritta: “Elezioni Europee 6-7 giugno 2009 DIFENDI L’ITALIA – VOTA S.”. Più sotto, sei caricature che raffigurano: a) un cittadino dai tratti somatici asiatici che vende prodotti “made in China”; b) un Abramo Lincoln con tanti dollari che gli svolaz- zano intorno; c) un uomo di colore che offre droga; d) un arabo con una cintura di candelotti di dinamite pronto a farsi esplodere; e) una donna italiana con un bambino in braccio e, di fianco, una mendicante rom che allunga le mani in dire- zione dello stesso.   Fisionomia dell’offesa 205 Non sono però solo considerazioni legate al merito delle afferma- zioni, definite ‘grossolane’, a far propendere la Corte verso un atteg- giamento di indulgenza, bensì risulta decisiva l’analisi del quadro contestuale e in particolare il particolare clima nel quale si svolgono le competizioni elettorali. Ora, la condivisibile apertura della Corte a una lettura dei fatti il più possibile aperta alla valutazione di tutti i fattori di contesto e alle prassi comunicative, anche quelle meno ortodosse, conferma in pri- mo luogo il carattere storicamente e socialmente condizionato delle soglie di liceità e di tollerabilità del discorso pubblico. Sul merito dell’interpretazione offerta dal Collegio, possiamo rite- nere avverato il vaticinio di Costantino Visconti riguardo l’elevata complessità di scindere, a livello di critica, la persona dal proprio comportamento: la nitidezza della distinzione è solo apparente, in quanto vi sono ambiti in cui il discorrere sulle differenze in rapporto a un contesto pluralistico e multiculturale può condurre a un punto in cui «il profilo della “diversità” in sé e quello dei “comportamenti” costituiscono un tutt’uno, e non è possibile, né verosimilmente avreb- be senso separarli» 198. In relazione a tale profilo, l’argomentazione dei giudici appare frettolosa e superficiale. Ciò che desta a nostro avviso perplessità non è tanto l’esito assolu- torio, il quale, pur opinabile, può trovare ragioni in un complessivo atteggiamento di favor libertatis; sorprende però che sia la stessa Cor- te ad riconoscere che «[s]iamo di fronte, evidentemente, ad un mes- saggio politico che risente di un pregiudizio per cui determinate atti- vità delittuose vengono poste in essere prevalentemente dai membri di determinate etnie». Ebbene, parlare di pregiudizio evoca una connessione immediata con la discriminazione199: come ammonisce Norberto Bobbio, «la conseguenza principale del pregiudizio di gruppo è la discriminazio- ne»200. In altri termini, quanto affermato dalla Corte depone per un 198 VISCONTI C., Aspetti penalistici, cit., pp. 151 ss. Abel osserva che «è impossibile distinguere le espressioni illegittime dall’opportunismo di routine dei politici quando vanno incontro ai pregiudizi popolari», v. ABEL, La parola e il rispetto, cit., p. 98. 199 Il legame tra pregiudizio e discriminazione non deve tuttavia portare a in- ferire automaticamente la sussistenza di un atteggiamento razzista: pregiudizio e razzismo, per quanto connessi, non sono sovrapponibili, ma si tratta di concetti distinti, v. RAVENNA, Odiare, cit., p. 87. 200 Per tutti, BOBBIO, Elogio della mitezza e altri scritti morali, Milano, 2010, pp. 111 ss.   206 Tra sentimenti ed eguale rispetto univoco accostamento delle opinioni del volantino al pensiero di- scriminatorio: sono frutto di pregiudizi razziali. Difficile a questo punto negarne il disvalore, quantomeno se si abbia a cuore un certo rigore concettuale. L’atteggiamento della Corte lascia perplessi, in quanto la circo- stanza legittimante l’esercizio della libertà di espressione è così espli- cata: «si tratta, peraltro, di un pregiudizio che da sempre viene agita- to nelle campagne elettorali al fine di recuperare consenso in situa- zioni locali in cui da parte dell’elettorato viene una richiesta di mag- giore sicurezza» 201. Un’indulgenza indotta dalla consuetudine: ma quale dovrebbe es- sere il ruolo del diritto penale in rapporto a prassi comunicative be- cere? La constatazione di una degradazione del linguaggio e di una brutalizzazione della dialettica in ambito politico è una buona ragio- ne per chiudere un occhio di fronte a casi come quello preso in e- same? La risposta travalica i confini della questione e riporta all’inter- rogativo se il diritto penale debba limitarsi a un’azione di conserva- zione dei valori o possa anche costituire uno strumento di ‘pedagogia sociale’. Resta il dubbio se in questo caso l’atteggiamento della Corte di Cassazione sia da avallare per essersi astenuta dal sindacare il me- rito di un discorso politico, o sia invece da criticare per non aver adeguatamente stigmatizzato la diffusione di pensieri offensivi che essa stessa ha implicitamente ammesso essere frutto di pregiudizi a base razziale. 9. Sinossi La connessione fra tutela di sentimenti e rispetto reciproco risulta particolarmente evidente nella dialettica avente ad oggetto argomenti ad alto tasso emotivo, dove vengono in gioco ‘appartenenze significa- tive’ dell’individuo. Nell’attuale scenario socio-politico del mondo oc- cidentale gran parte dei conflitti orbitano intorno al tema dell’appar- tenenza etnica, della fede religiosa, della identità e pari dignità ses- suale. Fra le ragioni dell’effetto emotigeno vi è il fatto che nel discorso 201 Tale principio viene esplicitato anche in Cass. pen., sez. III, 13/12/2007, n. 13234.   Fisionomia dell’offesa 207 concernente le appartenenze possono emergere problemi di mancato riconoscimento dell’altro e di categorizzazioni denigratorie. Ne deri- va l’esigenza di distinguere fra espressioni di mera critica o irrisione, pur emotivamente fastidiose ma comunque espressione della libertà del dissenso, da forme di diniego del riconoscimento: la priorità poli- tica è la dimensione del rispetto definita ‘rispetto-riconoscimento’, diversa dal ‘rispetto-stima’. L’eguale rispetto-riconoscimento costituisce la ricaduta relaziona- le più immediata del valore della dignità umana. Per quanto tale ri- chiamo possa risultare problematico agli occhi del penalista, esso rappresenta comunque una bussola assiologica se ci si impegni a modularne l’uso attraverso una lettura non metafisico-concettuali- stica ma volta a identificarne le proiezioni relazionali ed esistenziali, ad esempio attraverso la cosiddetta ‘teoria delle capacità’ elaborata da Martha Nussbaum. Il non facile obiettivo di bilanciare istanze di libertà e richieste di rispetto porta a identificare un livello minimo di protezione il quale sembra poter coincidere con l’esigenza di non essere umiliati e poter essere trattati come persona dignitosa il cui valore eguaglia quello al- trui. Nell’approfondimento del concetto di ‘umiliazione’, viene rimarca- ta l’esigenza di distinguere fra espressioni di insulto ed espressioni che umiliano. La distinzione, comunque afferrabile sul piano concet- tuale, appare sfumare nei suoi contorni essenziali al momento delle applicazioni in ambito giuridico: il processo interpretativo dipende in larga misura dall’ermeneutica del fatto, ossia dai diversi significati che determinate espressioni possono assumere a seconda dei contesti e dei soggetti coinvolti, e si espone a precomprensioni e a usi poco sorvegliati di inferenze logiche e valoriali. Un rapido riscontro relativo alle norme italiane a tutela del senti- mento religioso e della pari dignità mostra come il richiamo a senti- menti sia residuale nelle argomentazioni della giurisprudenza: pre- sente in minima parte nelle forme di vilipendio, comunque ancorate a un modello di tutela incentrato sulla religione piuttosto che sulla dignità del credente, e assente con riguardo alla normativa sul di- scorso razzista. Un ambito, quest’ultimo, nel quale meritano partico- lare attenzione, quale esempio di ermeneutica del fatto, le argomen- tazioni elaborate per tracciare la linea di confine fra discorso politico ‘estremo’ e discorso discriminatorio.   208 Tra sentimenti ed eguale rispetto  CAPITOLO VI DILEMMI SOMMARIO: 1. ‘Tutela di sentimenti’: una formula a più significati. – 1.1. Oltre la prospettiva penalistica: ‘cura dei sentimenti’ come sfida fondata sulle libertà. – 1.2. Tutela da sentimenti. – 2. ‘Idealtipi antropologici’ e realtà umana dei con- flitti. – 2.1. Dissensi ed estremismo. – 3. Quale ruolo per il diritto penale? – 3.1. Il ‘tormentato’ pensiero della dottrina penalistica. – 3.2. Precetti ‘pedago- gici’? – 4. Sinossi. 1. ‘Tutela di sentimenti’: una formula a più significati Cerchiamo di riannodare le fila di un discorso che ha preso le mosse dall’esigenza di riservare attenzione ai rapporti fra sentimenti, emozioni e diritto penale non solo come problema esegetico-inter- pretativo ma, più radicalmente, come coordinata per la riflessione sull’essere e sul dover essere del diritto penale. L’osservazione di Mar- tha Nussbaum posta in epigrafe al I capitolo ci ricorda che uno sguardo alla dimensione affettiva è fondamentale per non perdere di vista il substrato umano dei problemi e soprattutto gli aspetti di vul- nerabilità della persona che possono motivare il ricorso allo strumen- to giuridico. Parlare di tutela di sentimenti rimanda al problema del rispetto per le diversità coesistenti nella società pluralista: alla varietà di pre- ferenze e di assiologie personali. Il sentimento viene in gioco non semplicemente come stato psicologico, ma in termini normativi qua- le richiamo metonimico al ‘tutto della persona’ e al valore di cui sen- timenti ed emozioni rappresentano il correlato fenomenico, ossia la personalità e l’‘unicità’ del singolo. L’eventuale orizzonte di tutela dovrebbe in questo senso focaliz- zarsi non su risvolti contenutistici di stati affettivi o su oggetti (ideali, concezioni, fedi) caratterizzati da peculiari connotazioni valoriali, ma assumere a riferimento eventuali attacchi alla persona che adope-  210 Tra sentimenti ed eguale rispetto rino strumentalmente il sentimento (rectius, il modo d’essere e l’iden- tità dell’individuo) come fattore degradante per la negazione della pa- ri dignità 1. Abbiamo individuato nell’eguale e reciproco rispetto-riconosci- mento l’atteggiamento che meglio si presta a definire sia il dover es- sere dei rapporti fra singoli, sia la tendenziale equidistanza che do- vrebbe caratterizzare eventuali interventi normativi 2. Sarebbe corretto parlare di eguale rispetto come ‘bene giuridico’, per riportare il discorso sul piano dei concetti endopenalistici? Al di là della scarsa risolutività che una tale formula assumerebbe sul pia- no teoretico, la sostanza dei problemi appare diversa: in primo luogo il rispetto non definisce un oggetto di tutela a sé stante ma si pone piuttosto come parametro per valutare sia i rapporti tra singoli sia la qualità di eventuali risposte normative che abbiano come riferimento finalistico la tutela della persona. In secondo luogo, quando si analizzano le dimensioni sociologica, psicologica e filosofica del rispetto emerge una complessità che non appare comprimibile e ‘isolabile’ nell’involucro concettuale che si è soliti definire ‘bene giuridico’3. Possiamo sì parlare di ‘diritto al ri- 1 Cfr. PULITANÒ, Introduzione alla parte speciale, cit., p. 44. 2 Nelle moderne democrazie liberali, le ricadute effettuali del valore del rispet- to-riconoscimento coinvolgono due differenti profili. In primo luogo l’atteggia- mento dello Stato verso i cittadini: il rispetto-riconoscimento è da intendersi co- me aspetto complementare del principio di eguaglianza, indicando l’approccio che la normazione statuale dovrebbe assumere nei rapporti con le diverse voci dello scenario pluralista e nelle dinamiche fra maggioranze minoranze: «l’eguale rispetto appare in questa luce come una generalizzazione della dignità e dell’ono- re [...] è come l’esito di un processo di costituzione di una comunità di pari, di una comunità di mutuo riconoscimento: la comunità dell’eguale status di cittadi- nanza» v. VECA, Dizionario minimo. Le parole della filosofia per una convivenza democratica, Milano, 2009, p. 123; per uno studio sul tema delle discriminazioni attuate verso individui o gruppi mediante lo strumento giuridico, v. SALARDI, Di- scriminazioni, linguaggio e diritto. Profili teorico-giuridici, Torino, 2015, pp. 105 ss.; per un quadro, e un’analisi critica, di interventi normativi nel contesto italia- no che sembrano potersi definire come ‘discriminatori’, v. BARTOLI C., Razzisti per legge. L’Italia che discrimina, Roma-Bari, 2012, pp. 61 ss.; per un approfondimen- to sull’atteggiamento della Corte costituzionale in rapporto a questioni in cui so- no venuti in gioco profili di discriminazione, v. DODARO, Uguaglianza e diritto pe- nale, cit., pp. 30 ss.; 382 ss. 3 Sono numerose le voci che nella dottrina italiana hanno constatato la crisi di tale costrutto teorico. In termini generali v., per tutti, FIANDACA, Sul bene giuridi- co, cit., pp. 145 ss.; in relazione a profili più specifici è stato acclarato il «ruolo di strumento metodologico di chiarificazione concettuale più che di base cogente- mente normativa delle scelte di criminalizzazione», così PALAZZO, Tendenze e pro-   Dilemmi 211 spetto’ per descrivere l’interesse della persona a non essere offesa, ma si tratta di una formula da prendere con cautela e che necessita di specificazioni. Il filosofo Stephen Darwall osserva che rispettare un individuo si- gnifica prendere sul serio le sue richieste e le sue aspettative sul pia- no morale in forza non di un dovere impersonale ed esterno alla rela- zione, bensì in virtù dell’autorità morale che è inerente alla persona stessa, alla quale si deve rispetto per ragioni di uguaglianza (c.d. ‘ri- spetto in seconda persona’). In altri termini, le richieste di rispetto traggono legittimazione morale dalla persona in sé, ed è la persona ad essere destinataria dell’atteggiamento di riguardo fondato sull’ugua- glianza di status nella relazione di reciprocità 4. Di fondamentale importanza è lo sviluppo che Anna Elisabetta Galeotti ha dato al pensiero di Darwall, contribuendo a illuminare la distinzione tra rispetto e diritti. Riportiamo per esteso un importante passaggio: «Quando si dice “tutti hanno diritto di essere rispettati dagli altri” non stiamo parlando di diritto in senso proprio, perché il diritto al rispetto non ha uno specifico contenuto. Certamente di fronte a una violazione di diritti, si dice che il trasgressore non ha rispettato il titolare di dirit- ti. Però non possiamo concludere che il rispetto sia una qualificazione dell’ottemperamento dei diritti tale che, ogni qualvolta una persona fa il proprio dovere verso qualcun altro, il rispetto si manifesta come una qualità intrinseca e inestricabile del dovere morale ottemperato. Non possiamo concludere in quel modo perché, tra le altre cose, non siamo contenti di essere rispettati per dovere. [...] Il fatto è che non solo non vogliamo essere rispettati per un dovere in terza persona, ma neanche spettive nella tutela penale della persona umana, in AA.VV., a cura di Fioravanti, La tutela penale della persona. Nuove frontiere, difficili equilibri, Milano, 2001, p. 405. Altri Autori hanno evidenziato la dissoluzione della funzione critica, sul presup- posto della negazione di una preesistenza dei beni oggetto di tutela alle scelte del legislatore, v. DI GIOVINE O., Un diritto penale empatico?, cit., pp. 75 ss., rimar- cando inoltre l’appannamento della capacità descrittiva del concetto, e suggeren- done una dismissione o un sostanzioso restyling, v. FORTI, Le tinte forti del dissen- so, cit., pp. 1057 ss. Si veda anche PALIERO, La laicità penale, cit., pp. 1184 ss., il quale rimarca il perdurante ruolo di orientamento del ‘bene giuridico’ in rapporto al formante legislativo e giurisprudenziale, pur confermando la crisi sostanziale del costrutto in relazione ai suoi confini. 4 DARWALL, Respect and the Second-Person Standpoint, in 78 Proceedings and Addresses of the American Philosophical Association, 2004, pp. 43 ss. Si è osservato che «il rispetto-riconoscimento è dunque un atteggiamento verso una persona, prima ancora che nei confronti di un’identità gruppale, che reclama azioni non umilianti e non degradanti», così CERETTI-CORNELLI, Oltre la paura, cit., p. 210.   212 Tra sentimenti ed eguale rispetto per uno in seconda persona. Non vogliamo essere rispettati per dovere, punto e basta. In effetti credo che la prospettiva diritti/doveri collassi sempre in qualche forma di morale impersonale che non soddisfa pro- priamente le nostre aspettative circa l’essere rispettati [...] La richiesta reciproca di rispetto pur se avanzata in termine di diritto non può mai essere soddisfatta per dovere, anche se ciascuno di noi ha l’obbligo di ri- spettare gli altri. [...] La mancanza di rispetto non si rimedia attraverso l’imposizione di rispettare gli altri, ma solo attraverso una comprensio- ne autentica di ciò che la richiesta reciproca implica. Solo allora chi ha mancato di rispetto può riparare il suo torto, non già facendo per dove- re qualche atto, ma riconoscendo la propria mancanza e riparando l’offesa con un atto individualizzante di riconoscimento» 5. La natura del rispetto ‘in seconda persona’ implica che il rapporto di reciproco riconoscimento debba avvenire tramite un atto ‘indivi- dualizzante’, la cui sostanza è quella di dare valore morale a un sog- getto considerandolo nella sua concretezza di persona umana, non dunque come mera proiezione di una comune appartenenza di gene- re che prescinde dalle particolarità che lo caratterizzano 6. Un realistico disincanto suggerisce a questo punto una constatazio- ne: il rispetto, inteso come disposizione comportamentale dell’individuo, non è coercibile: «[l]a prospettiva dei diritti e dei doveri è una prospettiva impersonale, che non soddisfa compiutamente le aspettative di ricono- scimento e rispetto morale»7. Non le soddisfa perché se il rispetto deve essere ‘in seconda persona’, un eventuale divieto rappresenta invece una fonte eteronoma di doveri. Un rispetto giuridicamente imposto può es- sere una componente importante negli equilibri della convivenza, ma non esaurisce lo spazio morale delle relazioni e soprattutto non è da considerarsi strumento prioritario da un punto di vista politico. Rispettare le persone, e rispettarsi fra persone è prima di tutto un atto ‘sentito’ che discende da disposizioni soggettive sulle quali influi- scono strumenti di controllo sociale fra i quali può rientrare anche, eventualmente, il diritto penale; ma se prendiamo sul serio la matrice affettiva dell’atteggiamento di rispetto8, e dunque la sua natura an- 5 GALEOTTI, La politica del rispetto, cit., pp. 92 s. 6 Questa diversa prospettiva dell’atteggiamento di rispetto viene approfondita in GALEOTTI, Rispetto come riconoscimento, in AA.VV., a cura di Carter-Galeotti- Ottonelli, Eguale rispetto, cit., pp. 26 ss. 7 PULITANÒ, Introduzione alla parte speciale, cit., p. 43. 8 BAGNOLI, L’autorità della morale, cit., pp. 21 ss.; MORDACCI, Rispetto, cit., pp. 100 ss.   Dilemmi 213 che di sentimento, ne consegue che l’obiettivo del rispetto per le per- sone discende in primo luogo dalle possibilità di uno sviluppo sogget- tivo di tale sentire 9. Emerge un’importante indicazione per definire il progetto norma- tivo della ‘tutela di sentimenti’: la strategia dei divieti è del tutto resi- duale, certo non prioritaria. Il giurista penale è portato a pensare al concetto di tutela prevalentemente in chiave negativa o ‘difensiva’, come protezione di un dato oggetto da danni o da pericoli, ma si trat- ta di un’accezione che rispetto ai problemi in esame appare limitante, e che è preferibile scorporare in traiettorie differenti. Possiamo individuare una prima prospettiva che declina il concet- to di tutela come agire positivo, un ‘aver cura’ di sentimenti ed emo- zioni nella dimensione sociale, inteso come ‘coltivazione’10 di atteg- giamenti emotivi che favoriscano un clima favorevole al reciproco ri- spetto. 1.1. Oltre la prospettiva penalistica: ‘cura dei sentimenti’ come sfida fondata sulle libertà ‘Cura dei sentimenti’ è un concetto estraneo al tradizionale reper- torio di categorie non solo penalistiche, ma più in generale giuridi- che. Perché si dovrebbe aver cura dei sentimenti nella società con- temporanea? Una eloquente risposta è fornita da Martha Nussbaum in una cri- tica al pensiero liberale, reo di non aver adeguatamente tenuto in con- siderazione sentimenti ed emozioni, vedendoli come destabilizzanti e più confacenti a visioni politiche orientate in senso populista, ai fa- scismi e alle forme dittatoriali 11: «C’è chi pensa che soltanto le società fasciste o “aggressive” siano in- tensamente emotive e che solo tali società abbiano bisogno di coltiva- re emozioni. Sono convinzioni sbagliate e pericolose. [...] Cedere sul terreno delle emozioni, permettere che le forze illiberali vi trovino 9 «Non basta dare l’ordine di farlo perché la gente sia trattata effettivamente con rispetto. Il riconoscimento reciproco va negoziato, e questo vuol dire coinvol- gere in tutta la loro complessità il carattere degli individui tanto quanto la strut- tura sociale», v. SENNETT, Rispetto. La dignità umana in un mondo di diseguali, tr. it., a cura di Turnaturi, Bologna, 2009, pp. 254 s. 10 Traggo questo termine dal lessico di Martha Nussbaum. 11 NUSSBAUM, Emozioni politiche, cit., pp. 7 ss.   214 Tra sentimenti ed eguale rispetto spazio significa dare loro un grosso vantaggio nel cuore delle persone e rischiare che queste pensino ai valori liberali come a qualcosa di noioso e inefficace. Tutti i principi politici, buoni e cattivi, necessitano di supporto emotivo per consolidarsi nel tempo, e ogni società giusta deve guardarsi dalle divisioni e dalle gerarchie coltivando sentimenti appropriati di amore e simpatia» 12. La critica di fondo della studiosa statunitense si può articolare in due profili. Su un piano filosofico, l’ambizione a un liberalismo politico (il quale cioè cerchi di mantenere una tendenziale equidistanza senza promuovere una particolare concezione del bene) avrebbe prodotto teorizzazioni eccessivamente asettiche sul piano dei valori, o comun- que non adeguatamente esplicite nell’affermare il sostegno a un pac- chetto di principi 13. Conseguentemente, l’immagine di un liberalismo troppo preoccu- pato di presentarsi come neutrale14 ha disincentivato la riflessione sulle ragioni delle scelte valoriali degli individui 15, trascurando le emo- zioni e i sentimenti come fattori che influenzano gli atteggiamenti verso i valori. La seconda carenza di fondo è non aver adeguatamente riflettuto sulla ‘psicologia di una società dignitosa’16. Secondo la Nussbaum è fondamentale che una riflessione filosofico-politica prenda le mosse dalla psicologia umana, che cerchi chiavi di comprensione dei com- portamenti per evitare di elaborare teorie fondate su immagini ste- reotipate dell’essere umano. Lo studio delle emozioni e dei sentimen- 12 NUSSBAUM, Emozioni politiche, cit., p. 8 13 Secondo la Nussbaum, quando invece i liberali hanno tentato di addivenire a un liberalismo più ‘comprensivo’, si è arrivati a teorizzare una sorta di ‘religione civile’, ossia pacchetti di principi non adeguatamente inclusivi, bensì escludenti (come esempi vengono riportati la religione civile di Mill e Comte). 14 Nel panorama statunitense la critica al tentativo liberale di mostrarsi come asseritamente neutrale ha avuto ad oggetto anche il pensiero penalistico, visto come del tutto incentrato sul piano funzionalistico e consequenzialistico, e ten- dente non offrire il giusto risalto alla componente valoriale nella definizione del danno e della responsabilità, v. KAHAN, Two Liberal Fallacies, cit., pp. 190 ss. 15 Vedi supra, cap. IV, nota 60. 16 Da tale critica non sono esenti pensatori fra i più importanti della tradizione liberale, con la sola esclusione di John Rawls, al quale si deve, nello studio intito- lato ‘Giustizia come equità’, un fondamentale richiamo alla ‘psicologia morale ra- gionevole’, v. NUSSBAUM, Emozioni politiche, cit., p. 10; cfr. RAWLS, Giustizia come equità. Una riformulazione, tr. it., a cura di Veca, Milano, 2002, pp. 217 ss.   Dilemmi 215 ti si pone in questo senso come passo per identificare matrici di at- teggiamenti di pensiero e di comportamenti che possono rivelarsi problematici, e vieppiù dissonanti, in rapporto ai principi liberali. Il buon uso pubblico delle emozioni costituisce il nucleo di una strategia politica che riconosce al fattore affettivo una peculiare forza normativa e una salienza morale le quali dovrebbero contribuire a dare sostanza e a ‘vivificare’ i principi guida del paradigma liberale 17 attraverso un intelligente stimolo delle coscienze basato su virtuose interazioni con la sfera emotiva18. Si configura in questo senso un vero e proprio progetto culturale volto a ‘reinventare la religione civi- le’ 19, e a rendere la compagine sociale permeabile a emozioni positive al fine di dare al rispetto reciproco una dimensione più pregnante 20. Solo a uno sguardo superficiale la teorizzazione di Martha Nus- sbaum potrebbe risultare accomunabile a una sorta di moralismo au- toritario, come tentativo di porre le fondamenta di un ‘pensiero uni- co’. La studiosa, consapevolmente, ne prende le distanze: «[u]na cul- tura critica vigile è [...] fondamentale per la stabilità dei valori libera- li. Un’intensa cura delle emozioni può coesistere, anche se talvolta a fatica, con la presenza di uno spazio critico aperto» 21. Una simile prospettiva sembra di primo acchito esulare rispetto al campo del diritto penale. In verità essa contiene un messaggio impor- tante anche per la prospettiva penalistica: la ‘cura’ dei sentimenti de- 17 Da questo punto di vista, il percorso additato dalla Nussbaum pare potersi accostare a obiezioni critiche di altri Autori che hanno rimproverato al pensiero liberale un’eccessiva ‘asetticità’: in altri termini, un punto di vista troppo restritti- vo e ‘astensionistico’ dal punto di vista etico, a esclusivo vantaggio della prospet- tiva di giustizia e a detrimento di una riflessione sul bene, sia collettivo sia indivi- duale, v., per tutti, DWORKIN, I fondamenti dell’eguaglianza liberale, cit., pp. 12 ss. 18 «Un progetto politico normativo si legittima se può essere stabile. Le emo- zioni sono interessanti perché giocano un ruolo in questa stabilità» NUSSBAUM, Emozioni politiche, cit., p. 24. Le strategie proposte da Martha Nussbaum si ba- sano su esempi tratti dalla storia recente: discorsi pubblici, sostegno alle arti, educazione alla lettura e alla frequentazione di testi letterari sono alcune delle parti di un vasto programma che la studiosa pone come base per favorire lo svi- luppo di un ‘sentire democratico’, predisponente all’ascolto reciproco e alla capa- cità di immedesimarsi nell’altro, per stimolare negli individui emozioni consone ai valori liberali e per tenere di conseguenza sotto controllo la tendenza «radicata in tutta la società e, in ultima analisi, in tutti noi, a proteggere un Sé fragile deni- grando e mettendo in secondo piano gli altri», v. NUSSBAUM, Emozioni politiche, cit., pp. 9, 311 ss., 384 ss., 431 ss. 19 NUSSBAUM, Emozioni politiche, cit., p. 453. 20 NUSSBAUM, Emozioni politiche, cit., p. 455. 21 NUSSBAUM, Emozioni politiche, cit., p. 155.   216 Tra sentimenti ed eguale rispetto finisce un progetto che dà priorità alle libertà, alla promozione di una dialettica pubblica aperta al confronto anche aspro fra le idee, volta a creare per i cittadini la possibilità di costruzione di un’identità dialogica. 1.2. Tutela da sentimenti Da un altro lato, si pone il problema di quale strategia politico- sociale debba adottarsi di fronte a spinte emotive negative: vi sono emozioni e sentimenti per i quali si può porre un problema di tutela non nel senso di ‘cura’, bensì in termini opposti, come presidio disin- centivante che definiamo ‘tutela da sentimenti’. Si tratta della pro- spettiva più suscettibile di creare tensioni con i diritti di libertà, e che riguarda in modo più diretto l’eventuale coinvolgimento dello stru- mento penale. È abbastanza immediato pensare all’odio come atteggiamento emotivo che contrasta con l’eguale rispetto; esso rappresenta già oggi, a prescindere dalla concreta rilevanza assunta in fase applicativa, l’elemento caratterizzante condotte che molti ordinamenti vietano sotto l’appellativo di hate speech e hate crimes. Si tratta di un nucleo di atteggiamenti che, per quanto non definiti esaustivamente dalle fonti normative, presentano quale minimo comune denominatore l’avversione verso gruppi e categorie di persone che patiscono una debolezza e una marginalizzazione socialmente significativa 22. La formula ‘tutela da sentimenti’ può assumere un significato più esteso dell’accezione descrittiva degli ambiti normativi di contrasto all’odio: la si potrebbe intendere come istanza focalizzata non su at- teggiamenti emozionali definiti, bensì funzionale alla messa a tema di profili inerenti, più in generale, la dimensione psico-sociale delle matrici e delle ragioni dei dissensi. In altri termini, un’istanza che riassume l’esortazione all’approfondimento della ‘psicologia di una società dignitosa’. Parlare di odio come tratto univocamente identificativo di manife- stazioni offensive è un’approssimazione che rischia di peccare per eccesso. Anche nella quotidianità emerge come l’odio venga usato per definire e per connotare atteggiamenti di dissenso radicale frequen- temente riscontrabili nel contesto mediatico: ad esempio, in riferi- mento all’ambiente dei social network, si parla frequentemente di  22 SPENA, La parola(-)odio, cit., pp. 598 ss.  Dilemmi 217 ‘haters’23, ossia ‘odiatori’, termine col quale si indicano soggetti che aggrediscono verbalmente gli altri internauti escludendo ogni possi- bile approccio di mediazione con l’interlocutore. L’atteggiamento emotivo che definiamo ‘odio’ appare particolar- mente sovraesposto; la tendenza a focalizzare l’attenzione su di esso può però indurre a trascurare il ruolo di ulteriori atteggiamenti emo- tivi, altrettanto meritevoli di attenzione come fattori di degradazione del discorso e della dialettica pubblica24. In altri termini, la realtà psico-sociale è probabilmente più complessa e stratificata e le con- trapposizioni anche estreme non dovrebbero essere ricondotte tout court all’odio, il quale è forse una componente che, se presa sul serio, potrebbe essere residuale in rapporto ad altri atteggiamenti antago- nisti dell’eguale rispetto, quali rabbia, paura, vergogna, invidia, di- sgusto 25: più diffusi, e difficili da riconoscere e da ammettere, anche nei confronti di sé stessi. A nostro avviso si pone l’esigenza di pensare alla tutela da senti- menti come istanza normativa che suggerisca di «coltivare una certa attenzione verso i fattori in grado di favorire la conoscenza [delle] li- bertà e le condizioni che permettono di farne concretamente uso», individuando come punto nodale della questione l’interrogativo sui «margini di flessibilità di cui dispongono, di fatto, e soprattutto di cui hanno reale coscienza, le persone nell’espressione di un “dissenso” rispetto al senso, o meglio, ai sensi che vengono trasmessi nei rispet- tivi contesti di vita 26». In altri termini, il giurista penale deve oggi considerare che per la 23 Una panoramica in ZICCARDI, L’odio online. Violenza verbale e ossessioni in rete, Milano, 2016, pp. 15 ss. 24 Si tratta di ‘odiatori’ o semplicemente di ‘stupidi’? L’equiparazione fra intol- leranza, specie in ambito razziale, e stupidità, proposta in un breve saggio sul- l’analisi psicologica del razzismo ad opera di BLUM, Razzismo e stupidità, in AA.VV., a cura di Tappolet-Teroni-Konzelmann Ziv, Le ombre dell’anima, cit., pp. 87 ss., sembra da un lato suggerire il ridimensionamento della portata di un ri- chiamo all’odio quale matrice dell’intolleranza, e dall’altro lato sposta sul piano culturale e della decostruzione dialettica, soprattutto tramite lo strumento del- l’ironia, il contrasto al discorso razzista (pp. 90 ss.). 25 Rabbia e odio sono due emozioni autonome, per quanto non prive di forti connessioni. Osserva RAVENNA, Odiare, cit., pp. 20 ss., che la rabbia è sperimenta- ta più di frequente rispetto all’odio, e che quest’ultimo presenta delle caratteristi- che peculiari che lo rendono distinguibile sia a livello psicologico che psico- sociale. Sul ruolo politicamente negativo della vergogna, dell’invidia e del disgu- sto v., per tutti, NUSSBAUM, Emozioni politiche, cit., pp. 311 ss.  26 FORTI, Le tinte forti del dissenso, 1039 s.  218 Tra sentimenti ed eguale rispetto «comprensione dei percorsi attraverso cui il potere pubblico esprime le sue istanze repressive, occorra alzare e allargare lo sguardo al con- testo socio-culturale complessivo in cui i “sensi” e i relativi “dissensi” trovano il loro terreno di generazione» 27. Coerentemente con la suddetta esortazione, riteniamo che una ra- gionevole attenzione al versante affettivo, orientata a sondare la di- mensione umana dei conflitti e soprattutto lo sfondo antropologico, possa rappresentare un tassello importante per addivenire a un qua- dro fenomenicamente più realistico degli atteggiamenti degli indivi- dui e, conseguentemente, anche a una più dettagliata base di rifles- sione per la politica penale e per un razionale orientamento alle con- seguenze 28. Appare infatti poco sensato, in una riflessione sulle dinamiche del reciproco rispetto a livello espressivo-comunicativo, non prendere in considerazione le matrici dei dissensi, i canali di diffusione, e più in generale un’idea realistica di essere umano con cui il diritto si trova a interloquire, anche attraverso eventuali precetti. Più in generale, si tratta a nostro avviso di ricercare degli adden- tellati sul piano socio-fenomenico per sondare in modo non concet- tualistico margini di opportunità, oltre che di legittimità, circa la pro- spettiva di interventi normativi. 2. ‘Idealtipi antropologici’ e realtà umana dei conflitti Sia la ‘cura’ dei sentimenti, sia la tutela ‘da’ sentimenti presup- pongono che negli individui vi sia la capacità di recepire un certo ti- po di stimoli cognitivi ed emotivi. Viene da chiedersi quale sia il riscontro che una tale ambizione trova oggi nella compagine sociale: se si tratti di una prospettiva rea- listica o se invece presupponga un modello ideal-tipico di cittadino eccessivamente ottimistico. 27 FORTI, Le tinte forti del dissenso, loc. ult. cit. 28 Osserva PALAZZO, Tendenze e prospettive nella tutela penale della persona umana, cit., p. 404, che «nel configurare il sistema di tutela penale della persona, sarà del tutto legittimo prestare ascolto alle suggestioni anche di tipo antropolo- gico che possono provenire dalle convinzioni sociali sull’essere umano; ma, dal- l’altro, una razionale scelta politico criminale sulla tutela della persona e sui suoi limiti dovrà necessariamente essere ispirata ai princìpi di ultima ratio, di tolle- ranza e di laicità del diritto penale».   Dilemmi 219 La possibilità che la riflessione teorica finisca per fare affidamen- to su modelli non del tutto aderenti alla realtà sociale costituisce un avvertimento che la dottrina penalistica non ha mancato di eviden- ziare. Alberto Cadoppi in uno scritto sul paternalismo giuridico dall’im- pronta fortemente liberale, in tendenziale accordo con la posizione di Joel Feinberg propensa alla massima valorizzazione dell’autonomia di scelta e della volontà dell’individuo, evidenzia come il discorso sull’autonomia personale vada preso con molta attenzione e serietà, per non cadere nell’errore, attribuito anche a John Stuart Mill, di elaborare teorie assumendo quale prototipo di persona un soggetto apparentemente immune da inciampi cognitivi e da condizionamenti emotivi che potrebbero gettare un alone di problematicità sulla reale consapevolezza delle scelte adottate 29. Solleva problemi simili con riferimento al tema della libertà di espressione Costantino Visconti, quando si chiede se gli argomenti volti a ridimensionare l’impatto delle parole offensive, e a metterne in dubbio la dannosità, siano dettati anche (soprattutto?) da un irenisti- co, e tutt’altro che giustificato, affidamento su un modello di cittadi- no ‘ragionevole, colto e tollerante’, in grado di elaborare l’insulto e di non patirne gli effetti. Tale categoria personologica non appare del tutto rispondente alla realtà; ed è per tale motivo che Visconti osser- va, condivisibilmente, che «è [...] con riferimento alla tipologia di soggetti che non hanno la ca- pacità di controllare razionalmente e dialetticamente la potenziale pe- 29 CADOPPI, Liberalismo, paternalismo e diritto penale, cit., p. 124. L’osser- vazione di Cadoppi è volta a sottolineare in modo puntuale e condivisibile il ri- schio di una tendenza semplificante nella teorizzazione giuridica, e rilancia la problematizzazione dell’idea di essere umano, dei modelli di scelta razionale, de- gli interessi finali che dovrebbero idealmente rappresentarne il fine delle condot- te, tema pregno di ricadute sul piano politico. Ad esempio, si veda la questione relativa al benessere individuale, all’ideale normativo di ‘vita buona’, alla distin- zione fra interessi volizionali e interessi critici, presente in DWORKIN, I fondamenti dell’eguaglianza liberale, cit., pp. 46 ss., e ripreso, con diversità di vedute, in FIAN- DACA, Diritto penale, tipi di morale, cit., pp. 155 ss., e FORTI, Per una discussione sui limiti morali, cit., pp. 320 ss. A un livello successivo, la problematizzazione del ruolo delle emozioni, della riflessività, della consapevolezza delle proprie scelte da parte dell’individuo, si pone in termini funzionali alla lettura e all’interpre- tazione delle condotte umane, nel tentativo, sempre fallibile, di trovare dei signi- ficati: per una tematizzazione di tale problema in ambito criminologico, e sul rapporto fra riflessività e opacità, v. CERETTI-NATALI, Cosmologie violente, cit., pp. 332 ss. e bibliografia ivi citata.   220 Tra sentimenti ed eguale rispetto ricolosità di certe forme di discorso pubblico, o che – peggio – ne stru- mentalizzerebbero intenzionalmente i possibili effetti sociali dannosi, che si prospetta di fatto il problema di una scelta politico-criminale tra l’intervento e l’astensione» 30. Emerge da tali notazioni una necessità di realismo, di problema- tizzazione del modello antropologico di individuo che il diritto pena- le assuma a punto di riferimento, nella consapevolezza di non poter e non dover dare per scontate caratteristiche che finiscono per condur- re ad astrazioni perfezionistiche 31. Ricollegandoci a quanto osservato da Visconti, il discorso sui limi- ti alla libertà di espressione sembra talvolta presupporre la presenza di determinate capacità dell’essere umano le quali appaiono oggi non condivise dalla totalità degli individui. Tale rilievo si pone in primo luogo per i destinatari di espressioni offensive, ma è bene allargare la riflessione anche al versante degli autori, e dunque alle particolari di- sposizioni emotive e di pensiero che li caratterizzano: il carico emoti- vo della vittima e la spinta emotiva che anima chi offende sono en- trambi esposti al rischio di atteggiamenti radicali. All’interno del macro tema del dissenso intersoggettivo riteniamo che le traiettorie di ricerca per il giurista debbano focalizzarsi su dif- ferenti aspetti, uno dei quali, concernente le matrici cognitive del dis- senso e la qualità del flusso epistemico che alimenta le opinioni, è stato sinteticamente messo in luce nel saggio di Gabrio Forti poc’anzi citato. L’Autore evidenzia come il contesto generativo del senso e del dissenso versi oggi in condizioni alquanto problematiche, che metto- no a dura prova le risorse cognitive dei singoli e alimentano un gri- giore epistemico 32 il quale si accompagna a uno sbiadimento globale dell’etica della comunicazione. L’avvento del web, oltre a indurre la percezione di una deresponsabilizzazione del discorso pubblico, ha portato a un «sovraccarico informativo che [...] espone ognuno al ri- schio di mobilitare non “risorse cognitive adeguate”, bensì una “ca- 30 VISCONTI C., Aspetti penalistici, cit., p. 250; cfr. FORTI, Le tinte forti del dissen- so, cit., p. 1055, il quale parla criticamente di «credo (neo)liberale, costruito a mi- sura di soggetti capaci di farsi robustamente valere nell’agone socio-culturale (ivi compresi storici e intellettuali in grado di rintuzzare con gli argomenti della loro scienza le farneticazioni negazioniste)». 31 Tematizza il problema di una tendenza a elaborare modelli ‘deontologici’ di persona umana poco rispondenti con la realtà sociale anche FIANDACA, Diritto pe- nale, tipi di morale, cit., p. 160.  32 D’AGOSTINI, Verità avvelenata, cit., p. 13.  Dilemmi 221 pacità attentiva deteriorata”, generando così risposte meccaniche, “comportamenti automatici che evitano la paralisi al prezzo della qualità decisionale”» 33. A costituire un rischio per il pensiero critico, e dunque per la qua- lità etica ed epistemica del discorso pubblico, sarebbe, secondo Forti: «il manifestarsi in tale contesto di voci che si distaccano — solo per- ché rumorose, violente, sorprendenti — dal magma confuso dell’over- crowding informativo, riuscendo così a incanalare tunnel visions di schiere di followers a conseguire quella che potremmo definire una ve- ste “istituzionalizzata mediaticamente” [...] L’aspettativa di poter trar- re da tali voci “salienti” rassicuranti semplificazioni del complesso e angosciante overcrowding informativo che ci stringe, sarà potenziata laddove esse si sostengano su una violenza espressiva che sembri ap- pagare altresì, sia pure con un sortilegio illusorio, quella nostalgia di fisicità e corporeità che l’immersione quotidiana nei mondi virtuali e artificiali non può che acutizzare» 34. Come emerge da tali considerazioni, le cause dell’alterazione della dialettica pubblica e la conseguente canalizzazione della violenza e dell’aggressività verbale sembrano doversi ricondurre a una stratifi- cazione di fattori, non a un univoco atteggiamento emotivo. 2.1. Dissensi ed estremismo A nostro avviso si può inquadrare un secondo ambito di problemi legati alle matrici generative dei dissensi, riguardante più da vicino i microcosmi soggettivi e concernente l’analisi dei fattori psico-sociali che possono portare un individuo ad aderire in modo più o meno marcato, se non addirittura ‘estremo’ a certe idee e a convinzioni fino a porsi in radicale conflittualità con opinioni concorrenti e con i sog- getti che vi aderiscono. Perché anche soggetti ragionevoli sono spesso protagonisti di con- trapposizioni radicali? A un primo livello, relativo a uno stadio che potremmo definire ‘fi- siologico’ del dissenso, una buona chiave di lettura ci sembra quella proposta di recente da Jonathan Haidt, il quale rimarca come l’ade- sione a ideologie e credenze sia frutto di scelte basate su matrici pret- 33 FORTI, Le tinte forti del dissenso, cit., p. 1041. 34 FORTI, Le tinte forti del dissenso, cit., pp. 1042 s.   222 Tra sentimenti ed eguale rispetto tamente emotive: gli individui decidono quali idee appoggiare sulla base di emozioni che sono modellate dall’appartenenza gruppale, e tendono a elaborare narrazioni e adattamenti per riuscire a trovarsi in sintonia, inconsciamente e intuitivamente, con le proprie idee, svi- luppando dunque una tendenza a ricercare conferme alle proprie opinioni la quale rischia di tramutarsi in una cieca ottusità verso ra- gioni concorrenti. La morale unisce e acceca: «[c]i unisce in schie- ramenti ideologici che si danno battaglia come se il destino del mon- do dipendesse dalla vittoria della nostra squadra. Ci acceca rispetto al fatto che ogni schieramento è composto da brave persone che hanno qualcosa di importante da dire» 35. Lo studio di Haidt si attesta su un piano prettamente descrittivo: esplica le ragioni per le quali le persone tendono a dividersi su argo- menti importanti come la politica e la religione, ma non fornisce proposte per limitare i dissidi, affermando, con disincanto, che la no- stra parte intuitiva è alquanto difficile da dominare 36. Il fatto che gli esseri umani siano portati ad allinearsi in schiera- menti che si identificano nei valori del gruppo di appartenenza, svi- luppando una conflittualità su base gruppale, contribuisce a fornire delle spiegazioni, corroborate da evidenze sperimentali, sul ruolo dominante giocato dalla componente emotiva piuttosto che da un’as- serita dimensione ‘razionale’. Se bene intendiamo la posizione di Haidt, riteniamo si possano instaurare virtuose connessioni con i percorsi di crescita emotiva che Martha Nussbaum individua quale impegno per uno Stato liberale: per quanto i disaccordi possano essere forti, Haidt invita a non radi- calizzare le alternative in senso manicheo ma a leggerle come ricadu- ta di un’emozionalità istintuale che può essere educata a un maggio- re rispetto delle ragioni altrui37, in una prospettiva dunque che sa- 35 HAIDT, Menti tribali, cit., p. 400. Si veda anche FROMM, Marx e Freud, tr. it., Milano, 1997, p. 128: «l’individuo deve chiudere gli occhi e non vedere quello che il suo gruppo dichiara inesistente, o deve accettare come vero ciò che la maggio- ranza considera tale, anche se gli occhi lo convincessero che ciò è falso. Il gruppo è di importanza così vitale per l’individuo che per lui le opinioni, le convinzioni e i sentimenti del gruppo costituiscono la realtà, una realtà più valida di quella che gli trasmettono i sensi e la ragione». 36 La metafora utilizzata da Haidt è quella dell’elefante e del suo portatore: sin- teticamente, l’elefante rappresenta la parte emotiva dell’uomo, il portatore il pen- siero riflessivo, v. HAIDT, Felicità: un’ipotesi, cit., pp. 6 ss.; ID., Menti tribali, cit., pp. 13 ss., 286 ss. 37 «Noi tutti siamo risucchiati in comunità morali tribali. Gravitiamo attorno a valori sacri e condividiamo argomentazioni post hoc sul perché noi abbiamo ra-   Dilemmi 223 remmo portati a ricollegare alla ‘cura dei sentimenti’. Eccoci però giunti a un ulteriore profilo problematico: il tipo di conflittualità che oggi desta maggiore preoccupazione si manifesta attraverso cadenze espressive, e anche attraverso condotte, che rive- lano un attaccamento a ideali e a credenze in forme tendenti al- l’esclusione di ogni tipo di confronto e all’annullamento della posi- zione contrapposta. Si tratta di un fenomeno definito come ‘pensiero estremo’, nel quale l’individuo moderno rischia di scivolare anche a causa di una destabilizzazione soggettivamente avvertita di fronte al pluralismo etico e informativo, e dalla quale cerca rifugio e rassicu- razione affidandosi a morali e visioni del mondo autoritarie. Prendiamo a riferimento uno studio del sociologo francese Gèrald Bronner38, il quale identifica quali caratteristiche di fondo del pen- siero estremo la debole trans-soggettività e l’attitudine sociopatica39 delle idee. Alla base della concezione di Bronner vi è la convinzione, ampia- mente argomentata nel corso dell’opera, che le derive estremiste del pensiero, spesso legate anche a tragici esiti sul piano delle condotte, non siano affatto da considerarsi come frutto di anomalie sul piano psichico, ma al contrario possiedano una solida, inquietante raziona- lità. Partendo dalla consapevolezza che nelle considerazioni e nelle azioni di un estremista vi è una logica, si possono indagare le matrici di determinate forme di pensiero. È importante notare come una fra le diverse modalità di adesione a forme di pensiero estremo sia strettamente legata al contesto de- mocratico: col concetto di adesione ‘per frustrazione’ si indica il rifu- giarsi di un soggetto in una convinzione fanatica volta a compensare l’insoddisfazione dovuta al non possedere o possedere meno di ciò che ritiene di meritare. Bronner afferma che la democrazia, a causa all’essenza competiti- gione e gli altri torto. Pensiamo che nell’altro schieramento siano tutti ciechi alla verità, alla ragione, alla scienza e al buonsenso, ma in effetti siamo tutti ciechi quando parliamo di ciò che è sacro. [...] E se davvero volete aprire la vostra men- te, prima di tutto aprite il vostro cuore», v. HAIDT, Menti tribali, cit., pp. 398 s. 38 BRONNER, Il pensiero estremo. Come si diventa fanatici, tr. it., Bologna, 2012, pp. 159 ss. 39 La trans-soggettività di un’idea sta a indicare la capacità di essere accolta da altre persone a parità di condizioni; la sociopatia viene definita come una carica agonistica intrinseca che implica l’impossibilità per alcuni individui di vivere in- sieme ad altri, e per un’idea, di poter coesistere con altre idee, v. BRONNER, Il pen- siero estremo, cit., pp. 94 ss.; 110 ss.   224 Tra sentimenti ed eguale rispetto va che stimola e delle aspettative che non può compiutamente soddi- sfare, possa in un certo senso favorire la proliferazione e l’adesione a ideologie estremiste le quali si proiettano in un rapporto di competi- zione ad excludendum con il restante mercato delle idee, stimolando forme di particolare aggressività e di disprezzo nei confronti degli in- terlocutori: «la frustrazione e il desiderio di affermazione costitui- scono un mix esplosivo [...] in un sistema in cui troppi si sentono eleggibili benché il numero degli eletti non aumenti, dobbiamo aspet- tarci di osservare le conseguenze negative che l’amarezza condivisa non mancherà di produrre» 40. Tirando le fila del discorso, questo breve excursus a metà fra psi- cologia sociale e sociologia vorrebbe provare a offrire un quadro me- no astratto e disincarnato del mondo umano con cui il diritto penale si trova a fare i conti, al fine di contestualizzare i conflitti legati ad appartenenze significative, e dunque ad alto grado di pregnanza emo- tiva, sia in relazione all’ambiente di diffusione delle idee, sia al sub- strato personologico dei dissidi 41. Sarebbe infatti ingenuo e irenistico costruire un discorso soltanto su principi, levando gli occhi al cielo senza cercare di assumere reali- sticamente consapevolezza dei mondi sociali42 che si pongono alla base dei fenomeni. Diversamente, si rischia di cadere nel rischio paventato da Benci- venga, quando afferma che «[i]n discussioni su temi del genere, è abba- stanza comune prendere posizioni nette, a incrollabile sostegno di de- terminate regole», mostrando dunque un’aderenza quasi dogmatica a principi, nella convinzione, o nella speranza, che portare avanti una battaglia in nome di valori giusti conduca a decisioni anch’esse giuste 43. L’esperienza storica mostra come tale aspettativa possa rivelarsi fallace, non a causa del travisamento etico di regole che riteniamo 40 BRONNER, Il pensiero estremo, cit., pp. 174 s. 41 Utilizziamo il termine ‘dissidio’ nell’accezione proposta da CERETTI-GARLATI, Presentazione, in AA.VV., a cura di Ceretti-Garlati, Laicità e stato di diritto, cit., pp. XX ss., i quali citano in senso adesivo la teorizzazione di Lyotard: dissidio come conflitto fra interessi contrastanti e orientati a sistemi di riferimento non condivi- si, in totale asimmetricità. 42 Col concetto di ‘mondo sociale’ vogliamo evidenziare ulteriormente come le dinamiche dei conflitti vadano interpretate prendendo in debita considerazione il concetto di gruppo e l’importanza che esso riveste nella sfera affettiva e decisio- nale del singolo; per una sintesi, v. STRAUSS, Il concetto di mondo sociale, tr. it., a cura di Toscano, Milano, 2016.  43 BENCIVENGA, Prendiamola con filosofia, cit., p. 77.  Dilemmi 225 abbiano autorità su di noi, bensì poiché l’esistenza di un conflitto fra regole entrambe ‘giuste’ porta comunque a violarne una, la quale avrebbe potuto (forse) indurre esiti differenti sul piano fattuale. Non potendo però sapere quale sia all’interno di un dilemma etico l’al- ternativa migliore, bisogna realisticamente accettare che qualsiasi scelta ci pone di fronte a responsabilità: «l’aderenza a un principio non ci assolve; la nostra anima dovrà portare il carico della scelta che abbiamo fatto» 44. In altri termini, quale esercizio di onestà intellettuale appare preferi- bile immergere i principi nel contatto con la realtà, non perché in questo modo si possa risolvere un dilemma, ma quantomeno perché così facen- do si può avere una migliore percezione delle contingenze, sostituendo l’ambizione a cristallizzare una scelta con un più umile discorso che as- suma a propria bussola le categorie della necessità e della opportunità: «[è] per le strade tortuose, e spesso fra i detriti e le macerie, della vita quotidiana che le leggi universali vanno applicate, con tutta l’incertezza che compete a tali applicazioni; e non dobbiamo dimenticarlo» 45. 3. Quale ruolo per il diritto penale? 3.1. Il ‘tormentato’ pensiero della dottrina penalistica Il monito responsabilizzante formulato da Ermanno Bencivenga induce una comprensibile prudenza, e la complessità del dilemma di fondo si manifesta in modo evidente anche nel discorso penalistico, dove le riflessioni recenti sul tema dei rapporti fra libertà di espres- sione e reciproco rispetto sono confluite in prese di posizione in bili- co fra il recondito ottimismo in uno spazio comunicativo senza limi- ti, e la sofferta apertura verso la possibilità di risposte penali. Un atteggiamento profondamente combattuto, potremmo dire ‘tor- mentato’, di fronte a scelte che comporterebbero in ogni caso il sacri- ficio di principi fondamentali; lo ha ben sottolineato Alessandro Te- sauro quando, in tema di limiti alla propaganda razzista, ha parlato di un ‘Io diviso’, in senso psicanalitico, tra impegno antirazzista e passione liberal per la libertà di espressione 46. 44 BENCIVENGA, Prendiamola con filosofia, cit., p. 77. 45 BENCIVENGA, Prendiamola con filosofia, cit., p. 78. 46 TESAURO, Riflessioni in tema di dignità umana, cit., p. 184.   226 Tra sentimenti ed eguale rispetto Nell’orizzonte penalistico prevale una linea di forte cautela, spesso con posizioni ‘ibride’: anche le opere che hanno approfondito con maggiore dovizia obiezioni demolitorie rispetto a eventuali incrimina- zioni, sembrano escludere un atteggiamento di completa chiusura 47. Nel complesso sembra essersi affievolita la tendenza a voler elabo- rare modelli interpretativi orientati alla ricerca di conclusioni assio- maticamente deducibili dal diritto positivo, sia con riferimento a norme ordinarie che al testo costituzionale. Rispetto al mainstream tradizionale, nel quale l’emancipazione dall’autoritarismo del codice fascista poteva ragionevolmente identificarsi come rinascita in senso liberale, l’approccio odierno si scontra con la complessità delle diver- se declinazioni del liberalismo contemporaneo, ragion per cui è av- vertita l’esigenza di non scivolare in un uso dei principi liberali emo- tivamente appagante ma proprio per questo ad alto contenuto retori- co. L’esito ‘scontatamente liberale’48 del dibattito, coincidente con l’assoluto diniego a ogni forma di responsabilità per l’uso della libertà di manifestazione del pensiero, è oggi una risposta che rischia di ar- chiviare troppo prematuramente le questioni. Al fine di ‘guardare in faccia’ i problemi, autorevoli voci della dot- trina penalistica hanno sollevato interrogativi in una chiave meno convenzionale: ad esempio riorientando l’attenzione sugli effetti ne- 47 Ci sembra interpretabile in questo senso lo studio di TESAURO, Riflessioni in tema di dignità umana, cit., e soprattutto il contributo di VISCONTI C., Aspetti pena- listici, cit. Anche il lavoro di SPENA, La parola (-) odio, cit., p. 605 riconosce che il diritto alla libertà di espressione nel caso del discorso d’odio è comunque più de- bole e più bilanciabile con interessi confliggenti; cfr. CANESTRARI, Libertà di espressione e libertà religiosa, cit., p. 936. Più netta la chiusura di Autori come CA- VALIERE, La discussione intorno alla punibilità del negazionismo, cit., pp. 1013 ss.; FRONZA, Criminalizzazione del dissenso, cit., p. 1033. Più univoche sono invece le aperture di PULITANÒ, Di fronte al negazionismo e al discorso d’odio, cit.; FORTI, Le tinte forti del dissenso, cit., p. 1059. Negli anni Settanta la dottrina penalistica manifestò con sostanziale univocità, anche se con diversità di accenti, la contra- rietà a restrizioni penalistiche alla libertà di espressione, quale reazione all’auto- ritarismo delle fattispecie del codice Rocco, v. la sintesi di VISCONTI C., Aspetti pe- nalistici, cit., pp. 51 ss. Nell’ambito costituzionalistico sembra prevalere una linea di contrarietà a regolamentazioni del discorso pubblico, sia con riferimento allo hate speech, sia al negazionismo, v. ex plurimis, CARUSO, La libertà di espressione in azione, cit., pp. 115 ss.; ID., L’hate speech a Strasburgo: il pluralismo militante del sistema convenzionale, in Quaderni costituzionali, 4/2017, pp. 975 ss.; PUGIOT- TO, Le parole sono pietre?, cit., pp. 6 ss.; PARISI, Il negazionismo dell’Olocausto e la sconfitta del diritto penale, in Quaderni costituzionali, 4/2013, pp. 890 ss.; in tema di hate speech una posizione di non chiusura ai divieti è quella di SCAFFARDI, Oltre i confini della libertà di espressione, cit., pp. 228 ss., 279 ss.  48 FORTI, Le tinte forti del dissenso, cit., p. 1037.  Dilemmi 227 gativi di un’assoluta deregolamentazione del discorso pubblico (par- lando di dilagante, confuso ‘overcrowding informativo’ 49), o facendo ricorso a distopie immaginative fondate sulla possibilità che deter- minati atteggiamenti di pensiero possano effettivamente acquisire consenso 50. Per quanto i profili di disvalore che si accompagnano alle condot- te comunicative possano apparire sfuggenti rispetto alle esigenze di concretezza e di verificabilità empirica richieste dal diritto penale, in sede di speculazione teorica il giurista ha il compito di dar conto di una complessità di fondo, anche prendendo laicamente atto che ci si trova di fronte a «grandezze valoriali difficilmente contenibili nei no- stri beni giuridici» 51. Coglie nel segno, a nostro avviso, chi ha definito la questione dei limiti penali alla libertà di espressione come ‘sfida o scommessa’ 52, evidenziando la prospettiva del tutto aleatoria che si lega sia alle concezioni libertarie sia a quelle regolazioniste. L’incertezza empi- rico-cognitiva sugli effetti pericolosi o dannosi di determinati con- tenuti espressivi53 si accompagna al fatto che non è dato sapere quali conseguenze possano scaturire nel breve e nel lungo periodo da un’assoluta deregolamentazione del discorso pubblico; e ove si voglia propendere per un intervento del diritto penale resta da chie- dersi quali possano essere i metodi e gli effetti di un’eventuale cri- minalizzazione, sia essa solo minacciata, tramite precetti, o anche applicata. La ragione dell’impasse nella quale ci si trova al cospetto delle suddette alternative si motiva in primo luogo con il fatto che il ri- chiamo al diritto penale è, plausibilmente, percepito come minaccia di sanzione e, in particolare, di una sanzione che si identifica con la pena detentiva. Ma proprio in merito a tale ultimo profilo, ossia alla prospettiva lato sensu ‘sanzionatoria’, la dottrina penalistica più ‘aperturista’ – che non esclude radicalmente l’eventualità di interventi penali in materia di libertà di espressione – si fa portatrice di un dif- ferente modo di intendere, in prospettiva futura, le dinamiche dello 49 FORTI, Le tinte forti del dissenso, cit., p. 1042. 50 PULITANÒ, Cura della verità e diritto penale, in AA.VV., a cura di Forti- Varraso-Caputo, «Verità» del precetto e della sanzione penale, cit., p. 93. 51 FORTI, Le tinte forti del dissenso, cit., p. 1051. 52 VISCONTI C., Aspetti penalistici, cit., p. 252. 53 Per tutti, TESAURO, Riflessioni in tema di dignità umana, cit., pp. 104 ss.   228 Tra sentimenti ed eguale rispetto strumento penale. Sono emerse riflessioni volte a non limitare lo sguardo all’angusto orizzonte della pena, proiettate verso nuovi itine- rari, financo eclettiche ed ‘eterodosse’ rispetto al tradizionale reperto- rio concettuale penalistico. Ci riferiamo in particolare a interessanti proposte formulate in re- lazione ad ambiti specifici (sentimento religioso, negazionismo), il cui filo conduttore, pur con i dovuti distinguo, appare potersi indivi- duare in una (ri)valutazione dell’efficacia ‘virtuosamente simbolica’ del precetto penale. 3.2. Precetti ‘pedagogici’? Con riferimento alla tutela del sentimento religioso si è avanzata la proposta di una protezione giuridico-penale «costruita prevalen- temente (se non esclusivamente [...]) attorno alla capacità di orien- tamento culturale svolta dai precetti, mettendo finalmente da parte la forza inutile ed espressiva delle pene in senso stretto» per addivenire a un sistema di tutela «più mite e ‘relativo’ in quanto radicato sugli spazi di confronto dischiusi dal precetto penale che sancisce, ma non punisce» 54. In altri termini, uno strumento normativo che agisca al di fuori dell’ottica retributiva e di deterrenza, seguendo le coordinate della prevenzione generale cosiddetta ‘positiva’, ossia quella funzione della pena tesa a rinsaldare e a confermare valori già acquisiti e (più o me- no) radicati nei processi di socializzazione dell’individuo 55, tema am- piamente dibattuto nella dottrina italiana e non affrontabile nell’eco- nomia del presente lavoro 56. Al precetto viene in questo senso assegnata una funzione centrale, sulla base del presupposto che la prevenzione di forme di offesa lega- te al sentire religioso debba consistere in un rispetto volontario e spontaneo. Dal piano dei semplici propositi si passa a una teorizza- 54 MAZZUCATO, Offese alla libertà religiosa e scelte di criminalizzazione. Riflessioni de iure condendo sulla percorribilità di una politica mite e democratica, in AA.VV., a cura di De Francesco-Piemontese-Venafro, Religione e religioni, cit., p. 119. 55 Per tutti, PULITANÒ, Diritto penale, VII ed., cit., pp. 52 ss.; PALAZZO, Corso di diritto penale, VI ed., Torino, 2016, pp. 18 s., 62; FORTI, L’immane concretezza, cit., pp. 137 ss. 56 Per una sintesi si rinvia a DE FRANCESCO, La prevenzione generale tra normativi- tà ed empiria, in AA.VV., Scritti in onore di Alfonso M. Stile, Napoli, 2013, pp. 29 ss.   Dilemmi 229 zione più dettagliata ipotizzando una norma che faccia coincidere la sanzione con una formale declaratoria del contenuto del precetto: il giudice sarebbe chiamato, ove l’agente si rifiuti di riparare le conse- guenze del reato attraverso percorsi di mediazione con la persona of- fesa, a «enunciare il disvalore del fatto colpevole nel dispositivo della sentenza, dandone conto nella motivazione», e ordinandone even- tualmente la pubblicazione nei casi più gravi 57. La prospettiva appena descritta sembra fondarsi su una connes- sione tra proposta dialogica e stigma penale58, finalizzata a una re- sponsabilizzazione dell’autore in assenza di rimedi prettamente coer- citivi, cercando di salvaguardare il pluralismo delle parti dalla violen- za di provvedimenti autoritativi, e delegando alla forza del precetto la funzione espressiva di un richiamo responsabilizzante 59. Si inscrive in una traiettoria similare uno studio dedicato al tema del negazionismo, il quale si distingue nel mainstream penalistico per una esplicita apertura alla criminalizzazione di condotte che neghino l’Olocausto. Rileviamo come anche in questo caso le conclusioni di non contrarietà a interventi penali siano correlate alla proposta di una tipologia di intervento che non si inquadra nella canonica diade ‘pena detentiva-pena pecuniaria’, ma che cerca di elaborare soluzioni che valorizzino il dato simbolico del precetto, veicolato dalla portata dichiarativa della vicenda processuale e dall’eventuale, conseguente, provvedimento del giudice. Con le parole dell’Autore: «Si tratterebbe, già nella comminatoria edittale, di pensare a qualcosa di diverso dalla classica “caditoia” verso la reclusione. Per quanto la proposta possa spiazzare, e determinare un ripensamento del catalogo delle pene principali, il calibro della reclusione andrebbe accompa- gnato con l’immediata conversione in una pena di sostanza espressiva e reputazionale. [...] Perché non approfondire, ad esempio, la soluzio- 57 MAZZUCATO, Offese alla libertà religiosa, cit., pp. 128 s. 58 Per una panoramica sul tema v. AA.VV., a cura di Mannozzi-Lodigiani, Giu- stizia riparativa. Ricostruire legami, ricostruire persone, Bologna, 2015. L’ipotesi della mediazione come ‘risposta istituzionalizzata’, ossia elemento necessario di un percorso processuale di responsabilizzazione, è oggetto di dibattito in dottri- na; in merito a tale soluzione appare scettico PULITANÒ, Sulla pena. Fra teoria, principi e politica, in Riv. it. dir. proc. pen., 2/2016, p. 664; di opinione opposta DONINI, La situazione spirituale della ricerca giuridica penalistica. Profili di diritto sostanziale, in Cass. pen., 5/2016, p. 1856. 59 Di recente, VISCONTI A., Contenuti ‘informativi’ della sanzione penale e coe- renza del ‘sistema’, in AA.VV., a cura di Forti-Varraso-Caputo, Verità del precetto e della sanzione penale, cit., pp. 445 ss.   230 Tra sentimenti ed eguale rispetto ne della lettura in udienza di un dispositivo munito di una speciale narrativa, da cui traspaia – con formulazioni più estese ed efficaci del- l’ordinario – la disapprovazione dell’ordinamento all’indirizzo del- l’autore delle espressioni negazioniste, al quale ricollegare, ove possi- bile, una sanzione accessoria di natura inibitoria/interdittiva e la pub- blicazione della sentenza di condanna? Una pena/giudizio, dal caratte- re accentuatamente didascalico e “simbolico” per rispondere al “dia- bolico” del negare, volta a rendere il dispositivo una sorta di sanzione veritativa che renda giustizia, oltre all’esistenza delle camere a gas e dei forni crematori, all’esperienza della discriminazione e al senso di umanità. In tal modo, al contro-logos dell’annientamento, agito dai negazionisti, verrebbe opposto, con la solennità delle forme del pro- cesso penale, un potere di nominazione che, sancendo il limite, il con- fine tra libertà di espressione e abuso della possibilità di offendere, impedisce che l’ultima parola sia di menzogna» 60. Anche in questo caso sullo sfondo delle argomentazioni si pone un modo di pensare al potenziale simbolico del precetto come risorsa positiva 61 che può contribuire a una responsabilizzazione non trami- te il consueto binario repressivo, ma impegnandosi a contrastare de- terminate forme di discorso pubblico sul terreno comunicativo, senza cadere in eccessi punitivi che si esporrebbero a obiezioni sul piano della proporzionalità. Per quanto si tratti di posizioni che in definitiva avallano la pro- spettiva di interventi penali quale forma di contrasto alla diffusione di determinati contenuti di pensiero, collocarle sotto il segno di un trend repressivo sarebbe a nostro avviso un’approssimazione che non rende giustizia alla profondità delle opinioni espresse. La sanzione, 60 CAPUTO, La ‘Menzogna di Auschwitz’, cit., p. 325. Netta è la presa di distanza di DI MARTINO, Assassini della memoria: strategie argomentative in tema di rilevan- za (penale) del negazionismo, in AA.VV., a cura di Cocco, Per un manifesto del neoilluminismo penale, Padova, 2016, p. 211, il quale definisce «Meno convincen- te, anzi deleteria [...] la sanzione accessoria della pubblicazione della sentenza: essa finirebbe con l’offrire ancora l’arena che i negazionisti desiderano, trasmet- tere l’idea del martirio, risultare paradossalmente co-funzionale all’offesa: conse- guenze, queste, suscettibili di controbilanciare pesantemente il perseguito effetto di stigmatizzazione». 61 «Ben vengano, dunque, caveat e ammonimenti sui pericoli di strumentaliz- zazione dei singoli per bisogni di utilità sociale, purché non si finisca per disco- noscere, tra i caratteri della norma penale, il connotato di profonda stigmatizza- zione di un fatto, di affilato giudizio etico-sociale, e un’attitudine a sollecitare, più di ogni altra norma, l’attenzione diffusa per i valori tutelati e la conseguente di- sapprovazione sociale per l’offesa che li riguardi», v. CAPUTO, La ‘Menzogna di Au- schwitz’, cit., p. 296.   Dilemmi 231 pur restando contrassegno formale della norma penale, viene rivesti- ta con fogge che ne mutano la natura prettamente afflittiva per dare luogo a forme ‘narrativo-pedagogiche’ tese a potenziare la dimensio- ne contenutistica e comunicativa del precetto. Non si può a nostro avviso parlare di una vera e propria opzione a favore della soluzione penalistica dei conflitti, quantomeno ove si in- tenda il diritto penale nel senso tradizionalmente sanzionocentrico 62. In realtà, le suddette proposte ci sembrano da inscrivere all’in- terno di un più complesso movimento di pensiero, quale ricerca di percorsi che diano pratica attuazione a quella che per ora sembra ancora rimanere solo una massima elaborata dalla dottrina, ossia che la ragione del penale non è, solo, l’inflizione della pena: «sul piano delle norme, la ragione del penale è l’osservanza dei precetti» 63. Quale corollario alle riflessioni sul ruolo pedagogico dei precetti, riteniamo importante dar conto di uno studio che il giurista statuni- tense Fredrick Schauer ha dedicato al tema della forza del diritto, e in particolare al legame fra diritto e forza: si tratta di un indissolubile nesso di implicazione reciproca o è immaginabile un diritto senza coercizione? L’interrogativo porta in luce una questione fondamentale anche (soprattutto) per il giurista penale. Va detto anticipatamente che lo studio di Schauer non giunge a esiti ‘sconvolgenti’, in quanto la con- clusione non è nel segno di una superfluità del momento coercitivo; individua però importanti argomenti a confutazione del fatto che la coercizione e le sanzioni debbano essere al centro dell’idea di diritto. Bisogna distinguere due profili: il primo di tipo concettuale, il secon- do di tipo empirico. Dal punto di vista concettuale, Schauer sostiene che l’esistenza dell’obbligo giuridico sia logicamente distinta dalla sanzione, e l’in- teriorizzazione di un obbligo non accompagnato da sanzione sia pos- sibile64. Se però ci si sposta sul piano dei riscontri empirici e ci si chiede se la gente obbedisca, o sarebbe disposta a obbedire, a un di- 62 Per una critica all’atteggiamento sanzionocentrico, che cioè assume la pena come «principale e ineluttabile ‘dimensione di senso’ cui orientare la [...] attività di elaborazione concettuale», e la controproposta di prediligere una riflessione «guidat[a] dalla ‘precomprensione’ che la pena non è lo scontato punto di parten- za e di arrivo, ma è e non può non essere il problema (iniziale e finale) che pone le domande fondamentali», v. FIANDACA, Rocco: è plausibile una de-specializza- zione della scienza penalistica?, in Criminalia, 2010, pp. 202 ss. 63 PULITANÒ, Sulla pena. Fra teoria, principi e politica, cit., p. 656. 64 SCHAUER, La forza del diritto, tr. it., Milano-Udine, 2016, pp. 85 ss.   232 Tra sentimenti ed eguale rispetto ritto privo di sanzioni il problema diviene più articolato; vi sono studi di psicologia sociale che affermano che, in assenza di sanzioni, il li- vello di obbedienza alle leggi con cui le persone dissentono è alquan- to basso 65. Ora, se da un lato ciò conferma che un apparato coercitivo resta importante per assicurare effettività al diritto, Schauer invita però a considerare che una statuizione giuridica dispiega comunque effetti, anche quando il diritto si trovi a fare da ‘apripista’ culturale: «Sarebbe ingenuo credere, senza una prova evidente, che una sempli- ce modifica legislativa possa ottenere un alto livello di obbedienza senza il supporto della coercizione e di sanzioni di vario genere. Ma le dinamiche psicologiche e sociologiche sono complesse. La semplice approvazione di un divieto giuridico, solo perché enunciato dal dirit- to, può indurre sia un cambiamento di attitudine che di comporta- mento» 66. L’Autore prosegue osservando che tale cambiamento sarà più fa- cilmente verificabile in relazione ad argomenti su cui i cittadini non hanno un’opinione consolidata piuttosto che su temi oggetto di divi- sione; nondimeno, anche in assenza di vere e proprie sanzioni 67 il di- ritto può avere il potere di modificare comportamenti sociali 68. Senza addentrarci ulteriormente nel denso scritto di Schauer, ci sembra che tali osservazioni rappresentino un input sufficiente per guardare al diritto, e in particolare al diritto penale, anche come strumento che tramite i precetti, piuttosto che con le sanzioni, può contribuire a veicolare un messaggio di forte disapprovazione. Diritto penale ‘simbolico’? È innegabile che si avverta più di una remora ad avallare questa discussa formula; il termine ‘simbolico’ as- sociato al penale suscita una condivisibile diffidenza, ma non si può negare che «[l]’aspetto simbolico, che pure è terreno di pericolose (o inutili) deformazioni del sistema penale, è un aspetto non trascurabi- le per una efficace comunicazione politica, anche a livello legislati- vo» 69. 65 SCHAUER, La forza del diritto, cit., p. 123. 66 SCHAUER, La forza del diritto, cit., p. 185; sul tema, più diffusamente, v. MCA- DAMS, The Expressive Powers of Law. Theories and Limits, Harvard, 2015. 67 Per la precisazione del concetto v. SCHAUER, La forza del diritto, cit., p. 218. 68 SCHAUER, La forza del diritto, cit., p. 247. 69 PULITANÒ, La cultura giuridica e la fabbrica delle leggi, in www.penalecontem- poraneo.it, 10/2015, p. 10; in termini adesivi a tale posizione v. FORTI, Le tinte forti   Dilemmi 233 Ebbene, il disagio connesso all’opzione sanzionatorio-detentiva quale eventuale risposta penale in tema di libertà di espressione, in- duce a chiedersi se la dimensione simbolica possa assurgere anche al rango di ‘funzione primaria’, tramite norme costruite in modo da re- legare la restrizione di libertà a semplice minaccia disinnescabile in virtù di percorsi alternativi per il reo, o, in termini più radicali, tra- mite un aggiornamento del catalogo delle pene principali che intro- duca nuove forme di stigmatizzazione dotate di una specifica effica- cia sul piano comunicativo, come ipotizzato dai contributi preceden- temente menzionati. Si tratta, com’è evidente, di percorsi innovativi la cui complessità esigerebbe un’analisi distinta rispetto ai nuclei tematici del presente lavoro. Riteniamo però che non sia irrealistico pensare al giudizio pena- le anche quale luogo di confronto e rettifica in un contesto di dialet- tica ‘sorvegliata’, funzionale a far emergere e a dichiarare i profili di disvalore di determinate espressioni attraverso la sottolineatura in sede pubblica del carattere intrinsecamente fallace o della grossola- na offensività dell’eguale rispetto, magari avvalendosi del contribu- to di esperti che ne analizzino la portata sul piano sociologico e psi- cologico 70. Siamo al confine estremo della legittimità dell’intervento penale: problemi di eccezionale delimitazione di una libertà che in linea di principio è anche di libertà di ferire, e che per questo suo potere può tuttavia rendere opportuna una responsabilizzazione, la quale non do- vrebbe tracimare in censura autoritaria, bensì dovrebbe essere fina- lizzata a un’eventuale declaratoria di responsabilità concepita come del dissenso, cit., p. 1060. Sembra essersi affievolita l’ostilità della dottrina per la funzione simbolica, rivalutando in tal senso proprio quella ‘finalizzazione enun- ciativa’ che era stata fortemente stigmatizzata in sede di prima lettura della nor- mativa sulla repressione penale delle condotte di discriminazione, v. STORTONI, Le nuove norme contro l’intolleranza: legge o proclama?, in Critica del diritto, 1994, p. 14. Sul tema dell’uso simbolico del diritto penale, v. per tutti, nella letteratura ita- liana, v. BONINI, Quali spazi per una funzione simbolica del diritto penale?, in Indi- ce penale, 2003, pp. 491 ss. 70 Richard Abel ha parlato di ‘trattamento informale delle dispute’ per indicare il modo in cui la comunità dovrebbe reagire ai danni della parola, in un procedi- mento che sembra voler evitare il ricorso al potere coercitivo ma che appare non- dimeno fondato su una proceduta normativizzata: si parla di una ‘conversazione istituzionalizzata’ ma informale fra vittima e offensore, nel quale quest’ultimo deve «riconoscere la norma, ammetterne la violazione ed accettarne la responsa- bilità», nella convinzione che un simile scambio sociale di rispetto possa neutra- lizzare l’insulto, ABEL, La parola e il rispetto, cit., pp. 128 ss.   234 Tra sentimenti ed eguale rispetto confutazione delle espressioni proferite dal reo, cercando dunque di disinnescarne il potenziale offensivo sul piano dei contenuti 71. Di primo acchito tale prospettiva potrebbe apparire come una sor- ta di ‘tribunale delle opinioni’, esposto al rischio di torsioni illiberali; tale obiezione, è però ben applicabile anche all’attuale situazione or- dinamentale. Di fatto il sindacato su forme di espressione è presente anche oggi: un giudizio su opinioni il quale risulta prevalentemente affidato alla sensibilità culturale del giudicante, senza potersi sottrar- re alle relative precomprensioni. Si tratta di un procedimento molto delicato poiché, come osserva Judith Butler, l’uso che lo Stato, attra- verso il potere delle sentenza, fa del linguaggio offensivo e discrimi- natorio dà luogo a una ripetizione dello stesso, contribuendo, pur con finalità differenti, a una sua reiterazione 72. Nondimeno: 71 Prendiamo atto della critica formulata da DI MARTINO, Assassini della memo- ria, cit., p. 193: «l’idea della pena-giudizio in quanto tale è intrinsecamente pro- blematica. La paternale didascalica finisce con l’essere risibile di fronte ai delin- quenti per convinzione ed ai fanatici; ed è una ipocrita autoassoluzione dell’or- dinamento per le omissioni od i fallimenti delle sue agenzie educative, di fronte ai miserandi frustrati, reietti e falliti». La sfiducia verso una prospettiva ‘rieducativa’ può essere anche condivisa, ma, più radicalmente, va osservato che l’eventuale approntamento di sanzioni di tipo ‘espressivo-pedagogico’ non dovrebbe essere letto in una prospettiva di prevenzione speciale, bensì quale strumento di preven- zione generale positiva; la ‘risibilità’, che assumiamo come impossibilità fattuale di indurre un cambiamento di opinione, è un aspetto comunque secondario poi- ché l’obiettivo del diritto, nel rispetto della libertà morale della persona anche quando ‘delinquente per convinzione’ o ‘fanatico’, non è indurre un cambiamento di opinione coattivo nel reo. Non condividiamo però l’afflato rinunciatario il qua- le rischia di condurre a un vero e proprio vicolo cieco, e significherebbe consenti- re che davvero l’ultima parola sia di menzogna, o di insulto, o di umiliazione. Pur essendo sostenitori di uno spazio comunicativo libero e aperto, facciamo fatica a immaginare il diritto spettatore del tutto inerte di fronte al potere performativo delle parole, soprattutto in tempi in cui l’indominabilità delle capacità di diffu- sione dei messaggi dovrebbe rendere più accorti nel formulare prognosi di perico- losità. Un terreno comunque scivoloso e che necessita di attente riflessioni, senza nutrire eccessiva fiducia nello strumento normativo, ma anche senza restare av- vinti in un disincanto rinunciatario che amplificherebbe le asserite mancanze del- le agenzie educative primarie. 72 Si osserva provocatoriamente che «è la decisione dello Stato, l’enunciazione ratificata dallo Stato, che produce (produce ma non causa) l’atto dello hate speech», v. BUTLER, Parole che provocano. Per una politica del performativo, tr. it., Milano, 2010, p. 137. L’atto di ‘produzione’ a cui si riferisce la BUTLER riguarda il fatto che prima che una sentenza definisca come hate speech delle semplici paro- le, queste non erano hate speech; più che una vera e propria produzione sembra potersi intendere come effetto del potere di nominazione. La stessa BUTLER spe- cifica successivamente che le parole che lo Stato adopera per emettere una sen-   Dilemmi 235 «Nessuno ha mai elaborato un’ingiuria senza ripeterla: la sua reitera- zione rappresenta sia la continuazione del trauma sia ciò che segna una presa di distanza all’interno della struttura stessa del trauma, la sua possibilità costitutiva di essere qualcosa di diverso. Non c’è possi- bilità di non ripetere. La sola questione che rimane aperta è: come av- verrà quella ripetizione, in quale sede – giuridica o non giuridica – e con quale dolore e quali speranze?» 73. Una questione aperta e complessa, la quale carica di responsabilità il momento giudiziario e la produzione narrativa del giudice. Dovendo fare i conti con la reimmissione in circolo di parole offensive, ritenia- mo che sarebbe opportuno riflettere su forme di ritualità che possano dare un valido supporto epistemico all’autorità giudiziale, contribuen- do a dare la giusta rilevanza e il necessario approfondimento all’erme- neutica del fatto, con l’auspicio di trasformare il processo in un mo- mento anche educativo e di apprendimento. Da penalisti, e dunque da studiosi delle possibilità negative del- l’umano, ci sembra doveroso interrogarci sul ruolo che lo strumento penale potrebbe eventualmente assumere in una prospettiva di cura degli equilibri di rispetto, cercando di privilegiare non la dimensione interdittiva e censoria ma facendo leva sulle potenzialità di quello che, tra le diverse manifestazioni del giuridico, rappresenta, piaccia o non piaccia, il più formidabile, e terribile, ‘marcatore etico’. 4. Sinossi Rispettare le persone, e rispettarsi fra persone è prima di tutto un atto ‘sentito’ che discende da disposizioni soggettive. Il progetto normativo definito ‘tutela di sentimenti’ può essere scorporato in due distinte traiettorie. La prima, definibile come ‘cura dei sentimenti’, è da intendersi come promozione di atteggiamenti emotivi che favoriscano un clima favorevole al reciproco rispetto. La seconda, definibile ‘tutela da sentimenti’, può identificarsi co- tenza sullo hate speech non sono certo la stessa cosa del discorso pronunciato dai soggetti di cui si sta giudicando la posizione; nondimeno, le due cose appaiono «indissociabili in maniera specifica e consequenziale»; cfr. ABEL, La parola e il rispetto, cit., p. 99.  73 BUTLER, Parole che provocano, cit., p. 147.  236 Tra sentimenti ed eguale rispetto me strategia politica di contrasto a spinte emozionali negative, l’odio in primis, ma non solo. Più in generale, ciò che definiamo come ‘tute- la da sentimenti’ rappresenta un’istanza funzionale alla messa a tema di profili inerenti la dimensione psico-sociale delle matrici dei dis- sensi, e dunque all’approfondimento delle concezioni antropologiche che guidano la riflessione penalistica. Obiettivo di fondo è addivenire a una visione meno astratta e disincarnata del mondo umano con cui il diritto penale si trova a fare i conti. Tale atteggiamento di ‘realismo antropologico’ tende oggi a emergere anche nella dottrina penalistica. Riguardo il tema dei limiti penalistici alla libertà di espressione e ai problemi dell’eguale e reciproco rispetto, i penalisti mostrano un atteggiamento meno ‘concettualistico’ rispetto al passato; emergono posizioni di cauta apertura alla prospettiva di interventi normativi, modellati sul distacco da prospettive eminentemente sanzionatorie e fondati sulla valorizzazione del simbolismo positivo del precetto.  OSSERVAZIONI FINALI «[...] la mentalità sociale è in movimento, ciò che prima si diceva gratis oggi ha un costo etico, [...] ci sono nuove libertà e nuove dignità e ne conseguono nuo- vi problemi, di pensiero e di linguaggio. Siamo le parole che usiamo» SERRA M., Amaca, Repubblica 27 gennaio 2016 SOMMARIO: 1. Bilanci e prospettive. – 1.1. Cura dei sentimenti e attenzione alle differenze. – 1.2. Tra offesa alla sensibilità e discorso discriminatorio: profili problematici e spunti di riformulazione per la tutela della dignità del creden- te. – 2. La priorità delle libertà, l’importanza delle regole. 1. Bilanci e prospettive Recuperiamo l’interrogativo di fondo da cui è partita la presente indagine, ossia se il diritto penale di una moderna democrazia libera- le possa essere invocato a tutela di sentimenti. La tentazione di opporre un assoluto, per quanto benintenzionato diniego, appare destinata a scontrarsi con un maturo senso di realtà. Beninteso, non stiamo in questo modo cercando di assegnare fretto- lose patenti di legittimità a una delle più controverse modalità di esplicazione dell’intervento penale, ma riteniamo che nell’analisi del problema si debba cercare di andare oltre le etichette retoriche, senza farsi abbagliare né in positivo né in negativo dalla ambigua parola ‘sentimento’. Il percorso compiuto finora riteniamo abbia mostrato come un’asserzione netta, sia in termini affermativi sia in termini negativi, peccherebbe per approssimazione. Sarebbe dunque più opportuno partire da una più articolata formulazione dell’interrogativo: in rela- zione a quali fenomeni e in quali accezioni, al di là delle scelte dei le- gislatori storici, sentimenti ed emozioni possono essere ragionevol- mente evocati quali elementi costitutivi e/o integrativi nella descri- zione dell’oggetto di tutela penale?  238 Tra sentimenti ed eguale rispetto Le incrostazioni di matrice collettivistica, che nel contesto italiano hanno ammantato gli interessi definiti dai legislatori ‘sentimenti’, hanno contribuito ad acutizzare, in modo giustificato, la diffidenza della dottrina penalistica di stampo liberale. Il senso di un nuova tematizzazione del sentimento quale problema di tutela deve essere in primo luogo funzionale a svincolare dalle ‘col- lettivizzazioni normative’ un fenomeno legato all’interiorità dell’indivi- duo e che invece si è prestato, con evidente slittamento di significato, a divenire veicolo di incriminazioni di stampo moralistico-identitario. Riteniamo che debba essere presa in considerazione, quale ulte- riore sfaccettatura, una dimensione di significato che valorizzi la proiezione universalistica e, per certi versi egualitaria, dei fenomeni affettivi: sentimenti ed emozioni come ‘addentellato fenomenico’ di una dotazione universalmente condivisa dagli esseri umani. In base a quest’ultima prospettiva, declinare determinate questio- ni di interesse penalistico, come ad esempio i rapporti fra manifesta- zioni espressive e sensibilità, anche come problema di sentimenti acutizza i dilemmi, poiché il sentimento non può esser limitato all’eventuale, problematica, identificazione con l’interesse di una sola delle parti, col rischio di modulare eventuali, ipotetici, interventi normativi sulle cadenze di uno sterile rivendicazionismo psicologico soggettivo. Il risvolto di reciprocità egualitaria assume il significato di una pretesa ‘responsabilizzante’ nei confronti di tutti individui, quale do- verosa, e in primo luogo spontanea, autolimitazione: «Se ognuno ha diritto alla propria narrazione individuale, ugualmente non può, in nome dei propri sentimenti, dichiararla “intoccabile”, af- fermarla come pretesa di verità assoluta e non metterla in discussione e confrontarla con quella degli altri» 1. È nella distinzione tra ethos ed etica che si inquadra uno dei fon- damentali tratti costitutivi del pluralismo: ethos come ordine valoriale costitutivo del singolo, ed etica come limite che tutti i diversi ethe de- vono osservare, nel rispetto di «ciò che è dovuto da ciascuno a tutti [...] Lo stesso diritto a vivere e fiorire secondo il proprio ethos, che si chiede per sé» 2, secondo dinamiche di simmetrica reciprocità che uni- scono profili di diversità fattuale e accenti di doverosità normativa. 1 TURNATURI, Emozioni: maneggiare con cura, cit., p. 20. 2 DE MONTICELLI, La questione morale, cit., p. 153.   Osservazioni finali 239 La focalizzazione sul problema di un eguale e reciproco rispetto porta a emersione la duplice prospettiva di una tutela di sentimenti intesa come ‘cura’ del sentire individuale e collettivo, e come forma di contrasto a espressioni tese al disconoscimento dell’altro. Nell’atto di formulare delle osservazioni finali al presente lavoro emerge l’esigenza di distinguere fra linee di politica legislativa di va- lenza generale e spunti più dettagliati che richiedono di essere circo- scritti a singoli campi di materia. Il problema della tutela di senti- menti non può essere fatto confluire in un unico prospetto di model- lizzazione normativa, ma necessita di essere affrontato attraverso percorsi differenti: solo in rapporto al profilo della ‘cura’ si possono a nostro avviso proporre delle linee generali, mentre il tema, più stret- tamente penalistico, della tutela da sentimenti richiede di essere più attentamente contestualizzato. 1.1. Cura dei sentimenti e attenzione alle differenze Come abbiamo già specificato, il rapporto fra ‘cura’ e ‘tutela da’ è di complementarietà, per quanto sia la ‘cura’ a definire la declinazio- ne primaria del problema di tutela. La dimensione ‘ostativa’, ossia quella della ‘tutela da’, resta una parte residuale e strumentale al profilo della ‘cura’, finalizzata even- tualmente ed esclusivamente, al mantenimento di equilibri. Obiettivo di fondo, probabilmente non raggiungibile mediante il solo strumen- to giuridico, resta quello di un’adeguata formazione del sentire degli individui, intesa come capacità di rapportarsi all’altro nelle forme dell’ascolto, del confronto e anche della critica, da contestualizzarsi in un’arena polifonica aperta alla pluralità, poiché «di quanta più realtà una sensibilità diventa capace, tanto più esatto sarà, da un la- to, il sentimento delle differenze e delle priorità» 3. Il ruolo delle agenzie educative diviene in questo senso cruciale, a partire dalle istituzioni scolastiche 4: «l’arricchimento della giustizia da una condizione essenzialmente normativa a una condizione etica è [...] l’esito (un’aspirazione più che un traguardo certo) di un lavoro lungo e 3 DE MONTICELLI, L’ordine del cuore, cit., p. 169. 4 Si veda ad esempio la pubblicazione dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani, Abc: Teaching Human Rights – Practical Activities for Primary and Secondary Schools, pp. 19 ss., disponibile in http://www.ineesite.org/- en/resources/abc_teaching_human_rights_-_practical_activities_for_primary_and_se- condary.   240 Tra sentimenti ed eguale rispetto lento di educazione dei sentimenti, al quale partecipano le istituzioni politiche e quelle sociali, la vita pubblica e quella privata» 5. Qual è il messaggio di fondo che dovrebbe essere veicolato quale coordinata etica di una cura dei sentimenti? L’atteggiamento che ragionevolmente si pone a monte del recipro- co rispetto è la capacità di immedesimazione 6 e soprattutto di usare l’immedesimazione in modo da includere la differenza. In altri termini, «il rispetto basato sull’idea di dignità umana risulterà insufficiente a includere tutti i cittadini in termini di uguaglianza, a me- no che non sia nutrito da uno sforzo immaginativo nei confronti della vita degli altri e da una comprensione più intima della loro piena e co- mune umanità» 7. Ritorna anche in questo caso l’esigenza di non ridurre la dignità umana a un simulacro dispotico declinato in termini deonto- logici, bensì a modularne l’essenza su cadenze il più possibile inclusive. L’attenzione alle differenze può maturare attraverso percorsi di crescita emotiva finalizzati a migliorare la capacità di apertura al- l’altro 8, soprattutto ove si riesca a riconoscere e a dominare un’emo- zione che è tanto tremendamente umana quanto problematica nelle dinamiche di una società pluralista: la paura. La funzione primordia- le della paura è la difesa dell’essere umano da fonti di pericolo, ma la sua attuale variante sociale e adattiva (v. supra, cap. IV) corrisponde a un’emozione repulsiva e narcisistica, che si declina come una «pre- occupazione offuscante [e] un’intensa concentrazione su di sé che getta gli altri nell’ombra» 9. 5 URBINATI, Liberi e uguali, cit., p. 121. L’Autrice rimarca che tale passaggio è propriamente ciò che denota la cultura dell’individualismo democratico. 6 Richiamiamo il tema dell’empatia, soprattutto in relazione al suo valore etico per la vita di relazione: v., per tutti, BOELLA, Sentire l’altro. Conoscere e praticare l’empatia, Milano, 2006, pp. 53 ss., 87 ss. 7 NUSSBAUM, Emozioni politiche, cit., p. 455. 8 Riteniamo sia da accogliere positivamente l’iniziativa del Governo italiano che il 27 ottobre 2017 ha presentato, per voce della Ministra dell’Istruzione, il ‘Piano nazionale per l’educazione al rispetto’, ossia un progetto teso a introdurre nella formazione scolastica momenti di apprendimento per «promuovere nelle istituzioni scolastiche di ogni ordine e grado un insieme di azioni educative e for- mative volte ad assicurare l’acquisizione e lo sviluppo di competenze trasversali, sociali e civiche, che rientrano nel più ampio concetto di educazione alla cittadi- nanza attiva e globale» e per «promuover[e] azioni specifiche per un uso consa- pevole del linguaggio e per la diffusione della cultura del rispetto, con l’obiettivo di arrivare a un reale superamento delle disuguaglianze e dei pregiudizi, coinvol- gendo le studentesse e gli studenti, le e i docenti, le famiglie».  9 NUSSBAUM, La nuova intolleranza, cit., p. 67.  Osservazioni finali 241 Si pone dunque l’esigenza di non cedere alle chiusure indotte dalla paura, al fine di «adottare uno sguardo diverso, che dia rilevanza a mentalità, valori, idee, convinzioni e sensibilità culturali capaci di conferire significati inediti alle nostre paure» 10. In uno studio dedicato all’intolleranza come effetto della paura dell’altro, Martha Nussbaum afferma che l’eguale e reciproco rispetto richiede lo sviluppo dei cosiddetti ‘occhi interni’, ossia dello sguardo immaginativo, non corporeo, che consente di vedere l’altro 11: è preci- samente ciò che manca nell’odio, dove il sentire è cieco12 davanti all’individualità altrui. La promozione di un orizzonte di rispetto si gioca in primo luogo a un livello che ha a che fare con lo sviluppo di tale profondità di sguardo e di immaginazione: per rispettare l’altro bisogna ‘sentirlo’ 13, attraverso capacità di apertura, di ascolto, di discernimento. 1.2. Tra offesa alla sensibilità e discorso discriminatorio: profili problematici e spunti di riformulazione per la tutela della di- gnità del credente Venendo al profilo più strettamente penalistico, un primo bilancio può essere stilato in relazione al panorama normativo italiano vigen- te. L’impressione è che nel complesso il lavoro di rielaborazione con- cettuale e di riassetto etico compiuto dalla giurisprudenza e dalla dottrina abbia condotto a norme il cui coefficiente di compatibilità con le libertà costituzionali è tutto sommato accettabile. Come già osservato, non appare possibile in questa sede procedere all’enucleazione di prospettive de jure condendo calibrate su ogni sin- golo ambito in cui il codice fa riferimento a ‘sentimenti’ come oggetto di tutela. Ci limitiamo a prendere in analisi il settore in cui, a nostro avviso, 10 CERETTI-CORNELLI, Oltre la paura, cit., p. 204. 11 NUSSBAUM, La nuova intolleranza, cit., p. 69. 12 DE MONTICELLI, L’ordine del cuore, cit., p. 254. 13 In questo senso la dimensione della ‘cura’ si proietta verso un rispetto non meramente ‘passivo’, bensì guarda anche, soprattutto, a un rispetto ‘attivo’. Con la prima accezione si indica un atteggiamento di astensione dall’ostilità e dalla vio- lenza; il rispetto ‘attivo’ si traduce in qualcosa di più: «un’attenzione [...] per i bi- sogni, le esigenze, gli obiettivi e anche i progetti esistenziali delle persone, il rico- noscimento del fatto che esse attribuiscono valore a qualcosa che sta loro a cuore e che intendono realizzare», v. MORDACCI, Rispetto, cit., p. 34.   242 Tra sentimenti ed eguale rispetto emerge maggiormente l’esigenza di procedere a una disambiguazione tra forme di intervento a tutela della sensibilità e presidi contro di- scorsi discriminatori. In quest’ottica l’impianto dei reati a tutela del sentimento religioso presenta delle criticità che si addensano nella portata applicativa del- l’art. 403 c.p., ossia l’offesa a una confessione religiosa mediante vili- pendio di persone. Partiamo dal presupposto che sia ragionevole che lo stato laico tu- teli lo spazio umano-personale e sociale in cui si dispiega la dimen- sione religiosa dell’individuo 14: il problema è con quali modalità. Una delle più acute posizioni a difesa della tutela del sentimento religioso osserva che «discussione non è offesa. A maggior ragione quando il bene tutelato diventa [...] la dignità e la personalità dell’essere umano sotto lo specifico profilo della dimensione religiosa», e formula con- seguentemente la propria proposta normativa, a superamento delle attuali disposizioni, elaborando una fattispecie che incrimina «i com- portamenti o le espressioni oltraggiose tenuti in pubblico [...] che le- dono intenzionalmente la dignità delle persone a causa delle loro convinzioni sul significato ultimo dell’esistenza» 15. Ebbene, concordiamo con le ragioni di fondo di tale proposta, la quale ci sembra coerente con l’intenzione di circoscrivere l’impianto di tutela alla dignità della persona e non al prestigio e al patrimonio ideologico della confessione 16. Resta a nostro avviso il dubbio se sia opportuno mantenere una disposizione dedicata al fenomeno religioso, la quale potrebbe espor- si al rischio di assumere nuovamente le vesti di incriminazione sur- rogatoria del vilipendio17, come del resto oggi sembra capitare per l’art. 403 c.p., il quale tende a estendersi all’insulto alla confessione 14 MAZZUCATO, Offese alla libertà religiosa, cit., p. 111. 15 MAZZUCATO, Offese alla libertà religiosa, cit., pp. 117, 128. 16 La proposta di norma parla di ‘Offese alla libertà religiosa’, ma il richiamo alla dignità ‘a causa delle convinzioni sul significato ultimo dell’esistenza’ sem- brerebbe aprire anche alla tutela della dignità del non credente. Su tale ultima prospettiva si veda, anche per richiami comparatistici, PACILLO, I delitti contro le confessioni religiose, cit., pp. 126 ss. 17 Benché non compaia il termine ‘vilipendio’, anche il modello di norma ipo- tizzato dalla Mazzucato parla, con formula rischiosa, di «comportamenti o [...] espressioni oltraggiose tenuti in pubblico, anche rivolti a cose che formino ogget- to di culto o siano consacrate al culto». Ad un’attenta lettura, l’emancipazione dal modello del vilipendio della confessione emerge però dalla traiettoria dell’offesa, la quale deve «[ledere] intenzionalmente la dignità delle persone», v. MAZZUCATO, Offese alla libertà religiosa, cit., p. 128.   Osservazioni finali 243 piuttosto che limitarsi a sanzionare l’offesa alla persona 18. A nostro avviso, un riassetto e, soprattutto, una decisa disambigua- zione della linea di intervento penale potrebbe aversi attraverso un’abrogazione secca dell’art. 403 c.p., accompagnato da una parallela modifica dell’art. 3 della legge n. 654 del 1975 che estenda ai motivi re- ligiosi il tipo di discorso discriminatorio suscettibile di assumere rile- vanza penale, secondo una formula che incrimini «chi propaganda idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico o religioso» 19. Ciò non porterebbe, ci sembra, ad alcun vuoto di tutela: si tratte- 18 Vedi supra, cap. V, sezione II, paragrafo 7.1. Anche partendo dal presupposto che la libertà di espressione non sia assoluta, ma incontri limiti espressamente rico- nosciuti dall’ordinamento interno e anche da fonti sovranazionali, incriminare una manifestazione del pensiero consistente nel ‘tenere a vile’, e dunque nel formulare critiche anche sferzanti e in grado di ferire la sensibilità del credente, è esposta al rischio di tracimare in una forma di illegittima compressione della libertà di critica e di satira; come osserva SERENI, Sulla tutela penale della libertà religiosa, cit., p. 12, il vilipendio del credente è costantemente a rischio di trasformarsi in «vilipendio teolo- gale, più prossimo alla iper-sensibilità del credente rispetto al contenuto della verità di fede, al rigore della sua Autorità religiosa contro le critiche (anche satiriche) rivol- te a danno della Divinità, dei suoi simboli e dei suoi ministri di culto». Si è osservato criticamente che ipotetiche interpretazioni estensive della norma sul vilipendio ex art. 403 c.p., alla luce del dettato codicistico post riforma 2006, e dunque nel segno dell’uguaglianza fra confessioni religiose, sono da ritenersi applicabili anche alla tu- tela di religioni come l’Islam: un esito definito «non nello spirito dei tempi» da PULI- TANÒ, Laicità, multiculturalismo, diritto penale, cit., p. 246, plausibilmente per eviden- ziare come l’estensione della tutela, doverosa in quanto sancita dal principio di uguaglianza, rischi di introdurre uno strumento giuridico invasivo a disposizione di fedeli di religioni particolarmente suscettibili. Esprime contrarietà rispetto all’ipotesi di un presidio penale specifico del fenomeno religioso VISCONTI C., La tutela penale, cit., pp. 1066 s.; si pone a favore di una tutela incentrata sulle fattispecie comuni, senza necessità di norme ad hoc sulla religione, anche MANTOVANI M., L’oggetto tute- lato nelle fattispecie penali in materia di religione, in AA.VV., a cura di De Francesco- Piemontese-Venafro, Religione e religioni, cit., p. 253. Per una posizione favorevole al mantenimento del vilipendio, considerato «prototipo dell’insulto all’atteggiamento individuale verso il problema religioso», v. STELLA, Il nuovo Concordato fra l’Italia e la Santa Sede: riflessi di diritto penale, in Jus, 1989, p. 103. 19 Per un’analisi dei modelli di tutela imperniati sulla persona del credente e che si identificano nel paradigma dello hate speech, v. CIANITTO, Quando la parola ferisce, cit., pp. 28 ss., 65 ss. Si veda in particolare il caso della Gran Bretagna, Paese nel quale non esiste più l’incriminazione per la condotta di Blasphemy (abo- lita nel 2008), e che ha introdotto nel 2006 (Racial and Religious Hatred Act) una fattispecie di reato che incrimina le manifestazioni di incitamento all’odio religio- so, v. EAD., Quando la parola ferisce, cit., pp. 168 ss.; GIANFREDA, La blasphemy nell’ordinamento inglese di Common Law e la tutela penale della “religione”: pro- blemi aperti e nuove prospettive, in AA.VV., a cura di De Francesco-Piemontese- Venafro, Religione e religioni, cit., pp. 403 ss.   244 Tra sentimenti ed eguale rispetto rebbe di una più netta ridefinizione di confini tra fattispecie, senza intaccare la soglia ‘inferiore’ dell’intervento penale (il nucleo duro delle offese alla persona e alla sua dignità), lasciando univocamente al di fuori offese limitate al piano ideologico, e incentrando l’inter- vento su espressioni discriminatorie basate su motivi religiosi 20. Da un lato le offese al singolo potrebbero assumere rilevanza co- me delitti contro l’onore (oggi, dopo l’abrogazione dell’ingiuria, resi- duerebbe la sola diffamazione), eventualmente aggravati ai sensi del- l’art. 3 del d.l. n. 122/1993 (aggravante relativa alle finalità di discri- minazione); dall’altro lato, l’orizzonte del discorso pubblico in mate- ria di critica e satira religiosa si troverebbe affrancato dall’incom- bente censura del vilipendio, fermo restando il limite, comunque pro- blematico ma ben più selettivo, di non tracimare in propaganda di- scriminatoria 21. Un impianto di tutela così strutturato consentirebbe a nostro avvi- so di mantenere aperto uno spazio di illiceità per forme di espressio- ne volte a negare la pari dignità del credente, le quali chiamano in gioco un profilo altamente significativo della condizione esistenziale umana come l’identità religiosa 22. Al contempo, la necessità di valu- 20 Si veda in questo senso il parere rilasciato dalla Commissione Europea per la democrazia attraverso il diritto (c.d. ‘Commissione Venezia’, organo consultivo del Consiglio d’Europa), nel quale si suggerisce agli Stati membri l’abrogazione delle leggi sulla blasfemia e il mantenimento di presidi basati sulle generiche norme che incriminano ingiuria e diffamazione e, soprattutto, sulle norme che incriminano la diffusione di idee fondate sull’odio religioso, v. Compilazione di pareri e rapporti della Commissione di Venezia riguardante la libertà d’espressione e i media, 19 settembre 2016, pp. 26 ss. 21 La strada della tutela antidiscriminatoria è additata anche da DONINI, “Dan- no” e “offesa” nella c.d. tutela penale dei sentimenti, cit., p. 1586, il quale sembra però aprire alla prospettiva di un’applicazione dei delitti contro la discriminazio- ne solo nei casi di incitamento alla discriminazione o ad atti discriminazione nei confronti di persone, lasciando fuori dal raggio dell’intervento penale le offese collettive che potrebbero, a nostro avviso, essere invece vagliate come eventuali forme di propaganda razzista, previa opportuna modifica dell’art. 3 della legge n. 654 del 1975. Richiama la prospettiva di una tutela tramite le norme antidiscri- minazione proprio al fine di tutelare anche i gruppi, e non solo i singoli, MAZZOLA, Diritto penale e libertà religiosa dopo le sentenze della Corte costituzionale, in Quad. di diritto e politica ecclesiastica, 1/2005, p. 89; cfr. PACILLO, I delitti contro le con- fessioni religiose, cit., pp. 165 ss. 22 Nella dottrina penalistica italiana l’autorevole e cristallina posizione di ROMA- NO, Principio di laicità dello Stato, cit., p. 215 a sostegno di un presidio penale speci- fico per le religioni si basa su argomenti i quali possono, a nostro avviso, essere re- cuperati anche nella prospettiva da noi delineata. Secondo Romano, la non inop- portunità dell’intervento penale deriva dall’esigenza di mantenere all’interno del si-   Osservazioni finali 245 tare l’illiceità attraverso lo stretto filtro dell’incriminazione della pro- paganda discriminatoria potrebbe portare a un più cauto uso del di- ritto penale nei rapporti con la libertà di espressione e in particolare con la satira. Ci sembra questa una futuribile modifica che potrebbe contribuire a fissare in modo più definito spazi di libertà nella salvaguardia di un nucleo minimo di rispetto che tenga conto del diritto liberale di critica e della necessaria distinzione con l’orizzonte della discriminazione. 2. La priorità delle libertà, l’importanza delle regole Dietro il velo retorico dei sentimenti si pongono questioni di vitale importanza per la convivenza, non liquidabili dietro affrettate decla- ratorie di ‘irrazionalità’, e che richiedono un serio impegno in primo luogo nella prospettiva che abbiamo definito come ‘cura’. Resta aper- to, in via residuale, il problema di interventi limitativi delle libertà. Il giurista penale avverte il disagio di un’alternativa dilemmatica tra la fedeltà a principi di libertà e la ‘violazione’ che potrebbe scatu- rire dall’avallo di politiche di intervento; sì, perché di violazione si tratta in quanto un dilemma non ammette vie di fuga ma costringe, piaccia o non piaccia, ad accollarsi le conseguenze del cosiddetto ‘male minore’. Condividiamo l’atteggiamento combattuto che altre voci, ben più autorevoli, hanno confessato. Non lo diciamo semplicemente a no- stra discolpa, bensì a conferma della profondità del dilemma che ci attanaglia, nella convinzione che proclamare in questi casi un’asse- rita ‘soluzione’ rischi di sfociare in una hybris intellettuale, e che sia stema strumenti per marcare «l’essenziale differenza fra libertà di critica, anche in forme aspramente satiriche, e pura e semplice denigrazione o dileggio: differenza che deve modellarsi [...] su quanto comunemente accolto per le ingiurie rivolte ai singoli». Il richiamo all’offesa che caratterizza l’ingiuria contribuisce a connotare in termini personalistici l’interesse protetto, avvicinandolo univocamente alla, pur problematica, dimensione della dignità del credente. Fermo restando che le fatti- specie a tutela dell’onore restano comunque un presidio attivo per le offese ai singo- li, l’estensione dell'art. 3 della legge n. 654 del 1975 nella parte relativa alla propa- ganda si presterebbe, a nostro avviso, a perseguire l’auspicabile risultato teorizzato da Romano. Se intendiamo denigrazione o dileggio come forme di disconoscimento della pari dignità delle persone in quanto credenti in una determinata fede o visione del mondo, l’incriminazione della propaganda discriminatoria, debitamente estesa nella formulazione lessicale, può, a nostro avviso, assolvere in modo meno ambiguo dell’art. 403 c.p. ai predetti scopi di tutela.   246 Tra sentimenti ed eguale rispetto invece preferibile affrontare i problemi col dovuto rispetto per la complessità: «Un dilemma comporta un’oscillazione infinita; in quanto la nostra esperienza è teatro di continui dilemmi, la sua struttura è infinitamen- te provvisoria e le si fa torto ogniqualvolta si cerchi di rinchiuderla nello steccato di un arrogante e definitivo pronunciamento, nella su- perba convinzione di aver già sempre (prima che un qualsiasi proble- ma si ponga) visto giusto» 23. È comprensibile la tendenza a optare per la soluzione in grado di ‘lasciare in sospeso’ il più possibile le conseguenze di uno dei due ma- li, per evitare una violazione certa (delle libertà) nella speranza che il male alternativo non trovi realizzazione. Riteniamo che questa sia una possibile chiave di lettura, come ‘autorassicurazione psicologica’, di ciò che la filosofia ha definito ‘utilitarismo delle regole’, ossia l’at- teggiamento con cui si risponda all’incertezza di fronte a un conflitto cercando l’applicazione di una regola ritenuta giusta in quanto tale, quali che siano le conseguenze della sua applicazione 24, accettando il rischio di affidarsi a ragionamenti talvolta anche non adeguatamente orientati sul piano delle possibili conseguenze. Ed è altrettanto comprensibile che il cultore delle discipline pena- listiche, nella consapevolezza dei mali insiti nella coercizione, faccia il possibile per evitare di dare impulso e fornire ragioni allo strumen- to penale, cercando piuttosto di contenerne la pervasività. Vorremmo essere sicuri che la fede liberale ci porti nel giusto; ma un sano senso critico esorta a mettere in conto che potremmo anche aver torto. In linea di principio, sarebbero da evitare alcuni degli er- rori attribuiti a un pensiero irenisticamente liberale, che talvolta fini- sce per «esalta[re] la forma a discapito del contesto» 25, magari «eri- gendo steccati intellettualistici esibiti come fieri esercizi di democra- zia» 26. Quello che a nostro avviso va tenuto presente, e che parte della dottrina penalistica ha ben messo in luce, è il fatto che non vi sono risposte che possano considerarsi come esito indefettibile di un’ade- 23 BENCIVENGA, Prendiamola con filosofia, cit., p. 78. 24 BENCIVENGA, Prendiamola con filosofia, cit., p. 47. 25 ABEL, La parola e il rispetto, cit., p. 107. 26 Così, efficacemente, BRUNELLI, Attorno alla punizione del negazionismo, cit., p. 998.   Osservazioni finali 247 sione ai principi liberali (quale tipo di liberalismo?) o come soluzione ricavabile ‘a rime obbligate’ dal testo costituzionale, ma ogni eventua- le prospettiva resta legata a opzioni politiche che vanno attentamente commisurate sia a criteri di legittimità sia a criteri di opportunità. La posta in gioco è estremamente significativa. La difesa dell’eser- cizio di una libertà del pensiero critico, aperto anche a manifestazio- ni ‘disturbanti’ 27 è ciò che identifica e distingue il nostro mondo libe- rale, pur con tutti i suoi difetti, dalle oscurità del fondamentalismo: non dobbiamo dimenticarlo. La costruzione di una campana di vetro al fine di garantire ‘im- munità emotiva’ agli individui suscettibili non può far parte dello strumentario giuridico di una democrazia liberale, la quale può (de- ve?) esigere dai cittadini responsabilizzazione e capacità di elabora- zione della limitata efficacia pratica delle proprie convinzioni, o, più icasticamente, «una certa dose di robustezza» 28. Si tratta in altri ter- mini di favorire l’interiorizzazione di un onere di tolleranza consi- stente nella consapevolezza di poter realizzare il proprio ethos «solo nei limiti di ciò che compete parimenti a tutti» 29. Il richiamo alla ‘robustezza’ vale sia come monito a non cadere in uno sterile e polemogeno ‘sentimentalismo vittimocentrico’, acriti- camente proclive ad avallare doglianze di animi suscettibili, ma costi- tuisce a nostro avviso anche un monito a non dare per scontata tale condizione di tenuta etica nelle persone, dovendosi mantenere l’oc- chio vigile e l’orecchio proteso a captare segnali in grado di mostrare le crepe prima che si arrivi a un collasso. È di tutta evidenza come nell’attuale momento storico le dinamiche del reciproco rispetto stiano subendo una particolare curvatura, proba- bilmente una deformazione, sia sul piano dei contenuti, sia sul piano dei canali espressivi. Rispetto al passato, anche recente, siamo oggi por- tati a constatare quasi quotidianamente, grazie ai (o a causa dei) media, condotte che sono dettate da atteggiamenti di repulsione dell’altro. Se è vero che rinvenirne la dannosità immediata risulta operazio- ne assai complessa, la quale molto difficilmente riesce a soddisfare appieno i filtri dell’armamentario concettuale penalistico, non può essere però escluso che volgere gli occhi al cielo, confidando sul fatto che lo spirito critico e gli ideali di tolleranza riescano ad avere la me- glio, possa rivelarsi un atteggiamento «totalmente alien[o] dai calcoli 27 PULITANÒ, Laicità e diritto penale, cit., p. 315. 28 HÖRNLE, Protezione penale di identità religiose?, cit., p. 381. 29 HABERMAS, Tra scienza e fede, tr. it., Roma-Bari, 2006, pp. 160 s.   248 Tra sentimenti ed eguale rispetto pazienti e minuziosi che sarebbero richiesti per sostanziare quella giustificazione» 30. Tali riflessioni ci vengono suggerite dall’esigenza di non sottovalu- tare un repertorio ormai troppo consistente di fatti che rimandano a un passato non del tutto trascorso e con preoccupanti echi nel tempo presente. Le ragioni del diritto si intrecciano con un tessuto anche emozionale, il quale costantemente ci ricorda che il diritto è «priori- tariamente una risposta alla memoria del male, che esseri umani possono fare ad altri esseri umani» 31. Tenere ben ferma l’attenzione sui mondi umani e sulla realtà so- ciale è un impegno necessario per monitorare la qualità delle libertà in un contesto pluralista. Il diritto penale non rappresenta lo stru- mento più idoneo a svolgere una funzione promozionale 32, ma rite- niamo non debba essere aprioristicamente tacciato di vena illiberale il proposito di immaginare strumenti perché vi possa essere anche, eventualmente, un redde rationem sull’uso della libertà di espressione, non quale forma di soffocamento ma quale chiamata a dare spiega- zioni e ad assumersi la responsabilità di un certo uso del linguaggio, il quale è performativo non solo nei confronti della realtà esterna ma anche di sé stessi 33. Non intendiamo avallare forme di ‘democrazia protetta’34, bensì evitare di chiudere aprioristicamente il discorso su ciò che il diritto, e anche eventualmente il diritto penale, potrebbe fare nelle forme non 30 BENCIVENGA, Prendiamola con filosofia, cit., p. 47. 31 VECA, La priorità del male e l’offerta filosofica, Milano, 2005, p. 20. 32 FIANDACA, Laicità, danno criminale e modelli di democrazia, cit., p. 37. 33 Secondo quanto osservato da Michele Serra in esergo a questo capitolo, di fronte a nuove libertà e a nuove dignità conseguono nuovi problemi, di pensiero e di linguaggio, e le parole che usiamo definiscono gli altri ma al contempo ci defini- scono. 34 Concetto che peraltro rischia di prestarsi a usi retorici. Cosa vuol dire ‘de- mocrazia protetta’? Una democrazia liberale di tipo ‘aperto’ ha dei valori da di- fendere? Certamente non può dirsi che la democrazia sia una forma di governo relativistica; al contrario, essa «non ha fedi o valori assoluti da difendere a ecce- zione di quelli su cui essa stessa si basa. Nei confronti dei principi democratici, la pratica democratica non può essere relativistica», v. ZAGREBELSKY, Imparare de- mocrazia, Torino, 2007, p. 15. A partire da queste premesse, si può concordare con quanto osservato da SALAZAR, I destini incrociati della libertà di espressione, cit., p. 80, ossia che «non esistono “democrazie indifese”, cioè impossibilitate a difendersi se vogliono rimanere fedeli a se stesse, dovendo semmai distinguersi tra Costituzioni dotate di un sistema di protezione meno “appariscente” e quelle che, invece, ne esibiscono uno maggiormente strutturato».   Osservazioni finali 249 di una censura autoritaria, ma quale veicolo, tramite i precetti, di ri- chiamo simbolico a valori della convivenza liberale, nella convinzio- ne che lo strumento giuridico debba essere pensato non soltanto co- me un mezzo ‘di giustizia’, ma possa anche assumere le vesti di «un luogo di scoperta del giusto. È l’idea che l’istituzione del diritto nella sua essenza sia precisamente il mezzo che la nostra ragione ha indi- cato non solo per garantire il dovuto da ciascuno a tutti, ma anche per scoprire attraverso il confronto e non più lo scontro delle diverse concezioni del bene sempre nuovi aspetti di questo dovuto» 35.  35 DE MONTICELLI, La questione morale, cit., p. 156.Grice: “Falzea interprets, correctly, Roman law as imperativistic or better, volitive – volontarismo giuridico – My reflections on “Aspects of Reasons” point to the same direction. Indeed my focus is on the conversational IMPERATIVE!” Angelo Falzea. Falzea. Keywords: QVOD PRINCIPII PLACVIT LEGIS HABET RIGOREM, interesse, valore, disvalore, assiologia, accertare, apparire, efficacia, interesse, does moral philosophy rest on a mistake, duty cashes on interest, on desire. ‘sentimento condiviso’ -- H. L. A. Hart. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Falzea” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51761754946/in/dateposted-public/

 

Grice e Fano – glossogonia – imago acustica e imagine sensibile – filosofia italiana-- (Trieste). Filosofo. Grice: “I like Fano; for one, he took very seriously Plato’s Cratilo – “origine e natura del linguaggio,’ he has also explored a rather extravagant trend for Italian philosophers, when philosophy is reduced to ‘analisi del linguaggio’!” Neo-idealista, appartene a quel gruppo di artisti, letterati, e scrittori che hanno reso famosa Trieste. Legge in modo originale l'opera di Croce e Gentile. Sottolinea l'importanza delle scienze naturali e della matematica, che nel suo sistema non sono governate dagli pseudo-concetti. Da molta importanza agli aspetti più semplici e ferini dello spirito seguendo le riflessioni di Vico. Suo padre Guglielmo era un medico affermato, sua madre Amalia Sanguinetti. Il padre fu uno dei pochi ebrei di allora che passano al cattolicesimo per sincera fede. Ma tale conversione e accompagnata da manie religiose e disordini mentali precoci. Fin dall'adolescenza Fano ha un impulso di rivolta contro gli adulti, il loro conformismo, il loro spirito oppressivo. Nel romanzo Quasi una fantasia di Ettore Cantoni si parla di due ragazzi, in cui è facile riconoscere l'autore Ettore e Fano, che viaggiano e arrivano addirittura in Africa, appunto per sfuggire all'atmosfera pesante instaurata dagli adulti. Fu un ragazzo ribelle, non volle accettare la disciplina della scuola. Un episodio contraddistingue il suo carattere, quando getta nella stufa il registro di classe. Frequenta la scuole austriaca con scarso profitto. Afferma che una parte delle sue difficoltà era dovuta al fatto di avere poca memoria (non quella concettuale, in cui eccelleva, ma quella specifica, dettagliata, necessaria ad es. nello studio della storia e della geografia). Così abbandona gli studi assai prima di aver conseguito la maturità. Ritiratosi da scuola, i suoi congiunti gli procurarono un posto di impiegato. Ma abbandonò l’impiego e affitta, assieme ad alcuni coetanei, una cameretta sul colle di Scorcola, dove si dedica non solo a discussioni senza fine con gli amici, ma passò ore e ore a studiare filosofia. Più tardi a Vienna poté sentire le lezioni universitarie di alcuni luminari del tempo. Fu la lettura dei classici tedeschi, da Leibnitz a Schopenhauer, da Kant a Fichte e Hegel, a dare al suo pensiero un indirizzo al quale sarebbe rimasto fedele per tutta la vita, a fargli trovare le armi per la sua personale battaglia contro il dogmatismo, il fideismo, il clericalismo del proprio ambiente familiare. Certo alla formazione di Fano ha contribuito anche l'ambiente eccezionale della Trieste di allora. Fu suo amico Poli, il cui pseudonimo, Saba, fu inventato proprio da lui.  Si ispira certamente alla figura di Fano anche il sesto de I prigioni di Saba: «L’Appassionato/Natura, perché ardo, m’ha di rosso/pelo le guance rivestite e il mento./ Non è una brezza lo spirito: è un vento /impetuoso, onde anche il Fato è scosso. /…../ Ero Mosè che ti trasse d’Egitto, / ed ho sofferto per te sulla croce. / Mi chiamano in Arabia Maometto». Saba e Fano comprano in società la libreria antiquaria Mayländer, la futura "Libreria antica e moderna", ma non andano d’accordo, perché Fano non era persona da accollarsi diligentemente troppi compiti "noiosi". Così i due decisero di separarsi e, poiché entrambi volevano rimanere proprietari, Fano propose di giocare questo diritto a testa o croce e vinse. Ma Saba, che era amante e cultore di libri antichi, non accettò il verdetto della sorte e convinse l’amico a cedergli ugualmente la libreria. Un'altra persona dell'ambiente triestino con cui Fano ebbe grande amicizia è stato Giotti. E un incontro come di un artista toscano con un profeta ebreo. Io ne ebbi un grande giovamento. Egli leggeva a quel tempo Zola, Maupassant e Flaubert che io non conosco. Per il suo carattere indolente, in molte cose esteriori della vita fece ciò che gli consigliavo io. Se ne venne via da Trieste, poi fece venire la famiglia a Firenze e cose simili. Ma l'amicizia fra i due subì un tremendo contraccolpo a causa delle drammatiche vicende in cui fu coinvolta Maria, sorella di Virgilio, che Fano sposa. Ebbero un figlio minorato mentale, Piero, che fu ucciso dalla madre, la quale si tolse a sua volta la vita. Fu una tragedia che scosse profondamente tutto Trieste. Sposa Anna Curiel, da cui ebbe un figlio di nome Guido. Durante il periodo della grande guerrafu irredentista, come molti dei suoi amici, Benco, Saba, Giotti, Schiffrer e altri. In seguito il suo atteggiamento fu molto simile a quello di Croce, e per analoghi motivi ideologici. Gli ideali egalitari non facevano presa su di lui e gli sembrava utopistico, e comunque non desiderabile, l’instaurare una società comunista. Anzi si oppose con decisione al socialismo massimalista e turbolento di allora, tanto da dimostrare, per un breve periodo, una certa comprensione per la reazione fascista. Ma, già prima di Croce, divenne un antifascista, che non perdeva alcuna occasione per manifestare apertamente le sue opinioni.  Si laurea in filosofia a Padova con “Dell’universo ovvero di me stesso: saggio di una filosofia solipsistica” pubblicata sulla Rivista d’Italia. Probabilmente non frequenta le lezioni universitarie a Padova, anche perché era già sposato e doveva pensare a mantenere la sua famiglia. Semmai la sua formazione si compì, oltre che a Vienna, a Firenze, dove aveva trascorso qualche anno prima della guerra e dove aveva frequentato l’ambiente de La Voce. Professore di filosofia presso vari licei di Trieste, Fano aspira tuttavia all’insegnamento universitario, a cui giunse dopo molte traversie causate da intralci posti dalle autorità. Il motivo di queste difficoltà si deve alla fama di antifascista che egli si procurò quando, commemorando il cugino Enrico Elia, volontario nella grande guerra e morto sul Podgora, tenne un discorso in cui traspariva, in maniera non molto velata, la convinzione che il sacrificio di tante vite per la libertà veniva rinnegato dal regime politico allora dominante. Questa sua presa di posizione gli costò alcuni giorni di carcere nella fortezza di Capodistria e la fama di antifascista si ripercosse sulla sua carriera universitaria. Attorno a quegli anni a Trieste si andavano diffondendo le idee della psicoanalisi di Weiss, discepolo di Freud. A Fano non piaceva questa teoria, affermando che si basava su supposte attività del pensiero immaginarie e non verificabili. Il concetto di inconscio non posse venir accettato da chi come lui basava tutto sull' ‘auto-coscienza’. Studioso di Croce, che conosce, pubblicò vari articoli sulla filosofia crociana. Il saggio “La negazione della filosofia nell’idealismo” gli procurò l’attenzione di Radice, che gli offrì un posto di assistente a Roma. Da notare che nel suo primo saggio viene esposto organicamente il suo pensiero, Il sistema dialettico dello spirito. Dopo l'invasione tedesca trova rifugio a Rocca di Mezzo, in Abruzzo. La tranquilla sicurezza, la noncuranza dei pericoli non gli vennero mai meno, né per il rischio di venir scoperti dai tedeschi (lui e la moglie avevano falsificato le carte d’identità), né per i bombardamenti alleati. I tedeschi lo usarono spesso come interprete e poiché la sua casa stava proprio sulla strada maestra, spesso la cucina era piena di soldati che avevano bisogno di qualcosa. Lì, in quella cucina mal riscaldata, incurante dei rischi immediati, lavora forse più di quanto non avesse mai fatto in precedenza e portò a termine l'opera: La filosofia del Croce. Saggi di critica e primi lineamenti di un sistema dialettico dello spirito. Finita la guerra ritrovò il suo posto a Roma. Nel saggio sul Croce aveva rivendicato l'importanza delle scienze empiriche, che nella filosofia crociana non avevano dignità conoscitiva. In Teosofia orientale e filosofia greca  troviamo una descrizione dello sviluppo storico del pensiero umano, in cui tra l'altro viene rivendicata l'importanza della matematica, mentre Croce sostene che la matematica è uno pseudo-concetto. Inoltre cura la traduzione integrale dei Prolegomena ad ogni futura metafisica di Kant. Infine le sue ricerche lo portarono ad esaminare il problema dell'origine della lingua, su cui espresse il suo pensiero nel Saggio sulle origini del linguaggio, poi riedito accresciuto a cura di Guido Fano.  Altre opere: “Il sistema dialettico dello spirito” *Roma, Servizi editoriali del GUF/); “La filosofia del Croce. Saggi di critica e primi lineamenti di un sistema dialettico dello spirito” (Milano, Istituto editoriale italiano); “Teosofia orientale e filosofia greca. Preliminari ad ogni storiografia filosofica” (Firenze, La nuova Italia); “Saggio sulle origini del linguaggio. Con una storia critica delle dottrine glottogoniche” (Torino, Einaudi); “Origini e natura del linguaggio” (Torino, Einaudi); “Neo-positivismo, analisi del linguaggio e cibernetica” (Torino, Einaudi);  “Prolegomeni ad ogni futura metafisica” (Firenze, G. C. Sansoni). Ettore Cantoni, Quasi una fantasia: romanzo, Milano, Treves, Cantóni, Ettore, su treccani.  Giorgio Voghera su Il Piccolo. Viene venduta a Giorgio Fano e Umberto Poli, il poeta Umberto Saba, che ne diventa proprietario unico. Dice che una teoria può essere accettata solo se si prospettano anche delle ipotesi — che poi appariranno assurde e non si verificheranno concretamente — nelle quali essa dovrebbe venir respinta. La psicanalisi, invece, si mette accuratamente al coperto da ogni prova contraria. L'estetica nel sistema di B. Croce, L'Anima, da filosofia di B. Croce, Giornale critico della filosofia italiana, Un episodio illustra bene sia l’importanza che egli annetteva al suo lavoro, sia il suo coraggio. Una mattina, scendendo in cucina, che e diventata il suo studio, la trova invasa da soldati tedeschi che cercano acqua ed altro. Con l’abituale tono tranquillo, dimenticando con chi aveva a che fare, lui l’ebreo, col suo viso di profeta, addita ai soldati della Wehrmacht la porta. Prego, dice in tedesco se lor signori avessero la compiacenza di andare da un’altra parte. Io ho da lavorare. Senza fiatare, i soldati infilano la porta ed egli si rimise tranquillamente al suo tavolo di lavoro per battagliare con Croce, dimentico che la più superficiale inchiesta e sufficiente a convogliarlo assieme alla sua famiglia verso i campi di sterminio. L'ottimismo di Fano e il pessimismo di Voghera. Brani da lettere e testi, Milano, Mimesis, Silvano Lantier, La filosofia del linguaggio (Trieste, Riva); Silvano Lantier, “Vico e Fano: motivi di un'affinità ideale, Udine, Del Bianco); Dizionario biografico degli italiani, Roma.  The ‘signifier’, drawn from Saussurean linguistics, was arguably the central concept in Jacques Lacan’s engagement with psychoanalysis. As indicated in its programmatic texts, the effort to develop a ‘logic of the signifier’ that would account for the relations between subject, science, and ideology, was one of the guiding concerns of the Cahiers pour l’Analyse.  See also: Linguistics, Logic, Meaning, Speech, Structure, Subject, Unconscious Three conceptual distinctions lay at the heart of Ferdinand de Saussure’s innovative structural linguistics, the science that was foundational for twentieth-century French structuralism. The first was the distinction between langue [language] and parole [speech]. For Saussure, the former was to be considered in synchronic terms and as the primary terrain of linguistic analysis; in this it was opposed to the diachronic reality of the latter, which put language to use in time in spoken form. In his synchronic analysis of language, Saussure insisted on another distinction, that between the sign and the referent. For example, the sign ‘cat’ may in multiple instances refer to an actual cat which would be its real world referent, i.e., this cat. Most crucial, however, was the third distinction, that within the sign between the ‘signified’ and the ‘signifier’. The former was the conceptual content of the sign, in this case the idea of a cat, as a four-legged mammal, often domesticated, distinct from ‘dogs’ and other domestic pets. Opposed to this mental concept or ideational content, was the signifier ‘cat’ – as an ‘acoustic image’ or phoneme, a sequence of letters, i.e., the word itself apart from its meaning or content. For Saussure, meaning was produced through a sequence of differential relations in which signifiers were correlated to signified contents; in all instances, it was the difference between signifiers that allowed them to function as linked to specific signifieds or contents. In this regard, the production of the signified was the locus of Saussure’s linguistic concerns.  Jacques Lacan’s meeting of Roman Jakobson (a follower of Saussure’s, via their mutual friend Claude Lévi-Strauss) in 1950 was arguably the central event in Lacan’s own intellectual itinerary. His introduction to structural linguistics moved him away from the Hegelianism of his youth, and paved the way for his later concern with mathematics, formalisation, and systems theory analysis. Inspired by Saussure, Lacan nonetheless departed from him on several significant points. First, the sign/referent distinction was of minimal concern for Lacan. Second, where Saussure tended to denigrate parole in favour of a thoroughly synchronic approach to language, Lacan, as a psychoanalyst, was eminently concerned with speech, itself the medium of psychoanalytic practice and the crucial mechanism for the emergence of the subject of the unconscious. Finally, and most importantly, Lacan reversed the priority of the signified/signifier relationship found in Saussure’s example. For Lacan, meaning was the result of the play of signifiers apart from any synchronic correlation to fixed signified contents. Lacan introduced his new structural interrogation of Freud in his famous ‘Rome Discourse’ in 1953, reprinted in the Écrits as ‘The Function and Field of Speech and Language in Psychoanalysis’ (E, 237-322). The increasing pertinence granted to the signifier would be evident in the later texts of this volume, culminating in ‘The Subversion of the Subject and the Dialectic of Desire in the Freudian Unconscious’ (1960), wherein Lacan claims that ‘[s]tarting with Freud, the unconscious becomes a chain of signifiers that repeats and insists somewhere (on another stage or in a different scene, as he wrote), interfering in the cuts offered it by actual discourse and the cogitation it informs’ (E, 799).  For Lacan, the primacy of signifier was what accounted for the uniqueness of the human and distinguished its relationship to language from any notion of mere communication or the simple transfer of meaning. In his third seminar, on the psychoses, delivered in 1955-56, Lacan provides an illuminating example of this phenomenon that deserves to be quoted at length:  I’m at sea, the captain of a small ship. I see things moving about in the night, in a way that gives me cause to think that there may be a sign there. How shall I react? If I’m not yet a human being, I shall react with all sorts of displays, as they say – modelled, motor, and emotional I satisfy the descriptions of the psychologists, I understand something, in fact I do everything I’m telling you that you must know how not to do. If on the other hand I am a human being, I write in my log book – At such and such a time, at such and such a degree of latitude and longitude, we noticed this and that.  This is what is fundamental. I shelter my responsibility. What distinguishes the signifier is here. I make a note of the sign as such. It’s the acknowledgment of receipt [l’accusé de réception] that is essential to communication insofar as it is not significant, but signifying. If you don’t articulate this distinction clearly, you will keep falling back upon meanings that can only mask from you the original mainspring of the signifier insofar as it carries out its true function.  […] Indeed, it isn’t as all or nothing that something is a signifier, it’s to the extent that something constituting a whole, the sign, exists and signifies precisely nothing. This is where the order of the signifier, insofar as it differs from the order of meaning, begins.  If psychoanalysis teaches us anything, if psychoanalysis constitutes a novelty, it’s precisely that the human being’s development is in no way directly deducible from the construction of, from the interferences between, from the composition of, meanings, that is, instincts. The human world, the world that we know and live in, in the midst of which we orientate ourselves, and without which we are absolutely unable to orientate ourselves, doesn’t only imply the existence of meanings, but the order of the signifier as well.1  Lacan will ultimately link the ‘signifier, as such, signifying nothing’ to the Oedipus complex, and argue that the entry to the symbolic order of language is a result of a submission to the ‘law’ of the phallic signifier, grounded in the ‘Name-of-the-father’. More broadly, the signifier, distinct from meaning, lacking fixed signified or referent, will for Lacan come to be the concept for sexual difference as such – the integral incompleteness or indeed lack that constitutes the subject.  In the Cahiers pour l’Analyse Much as in Lacan’s teaching, the signifier is a ubiquitous concept in the Cahiers pour l’Analyse. In the inaugural article, ‘La Science et la vérité’ (CpA 1.1), Lacan develops his theses concerning lack and ‘truth as cause’ in scientific discourse. After making a distinction between the formal and material cause along Aristotelian lines, Lacan specifies that psychoanalyse is concerned with the latter and its relation to the former:  This material cause is truly the form of impact of the signifier that I define therein.   The signifier is defined by psychoanalysis as acting first of all as if it were separate from its signification. Here we see the literal character trait that specifies the copulatory signifier, the phallus, when – arising outside of the limits of the subject’s biological maturation – it is effectively (im)printed; it is unable, however, to be the sign representing sex, the partner’s sex – that is the partner’s biological sign; recall, in this connection, my formulations differentiating the signifier from the sign.  […] Conveyed by a signifier in its relation to another signifier, the subject must be as rigorously distinguished from the biological individual as from any psychological evolution subsumable under the subject of understanding (CpA 1.1:26, trans. 875).  The primacy of the signifier in Lacan’s teaching, and his attempt to provide a ‘rigorous’ account of it, are the inspiration behind Jacques-Alain’s Miller’s attempt in ‘La Suture’ to provide, as the subtitle suggests, the ‘elements for a logic of the signifier’ (CpA 1.3). Note, however, that in ‘La Science et la vérité’ Lacan is already gesturing toward tying the signifier back to the body, without however reducing it to anything that could be confused with biology. Miller’s contribution to the Cahiers will emphasize the formal elements of Lacan’s account, whereas others, chiefly André Green and Serge Leclaire will work to bring the body back in to analysis in response to Miller’s ultra-formalism.  Miller presents the ‘concept of logic of the signifier’ in clear terms at the outset of ‘La Suture’ (CpA 1.3):  What I am aiming to restore, piecing together indications dispersed through the work of Jacques Lacan, is to be designated the logic of the signifier - it is a general logic in that its functioning is formal in relation to all fields of knowledge including that of psychoanalysiswhich, in acquiring a specificity there, it governs; it is a minimal logic in that within it are given those pieces only which are necessary to assure it a progression reduced to a linear movement, uniformly generated at each point of its necessary sequence. That this logic should be called the logic of the signifier avoids the partiality of the conception which would limit its validity to the field in which it was first produced as a category; to correct its linguistic declension is to prepare the way for its importation into other discourses, an importation which we will not fail to carry out once we have grasped its essentials here (CpA 1.3:38-9, trans. 25).  The analysis that follows is a reading of Gottlob Frege’s Grundlagen der Arithmetik (1884), based around a demonstration that Frege’s attempt to give a logical construction of the series of whole natural numbers is predicated on this prior logic of the signifier. Frege’s concept of zero involves a simultaneous ‘summoning’ and ‘annulment’ of the non-identical that Miller claims can be related to Lacan’s account of primary repression and metonymic displacement in the ‘signifying chain’. For Miller, Frege does not recognize that the truth of his own discourse is predicated on a suturing over of an inaugural non-identity. He misrecognises ‘the paradox of the signifier’, that ‘the trait of the identical represents the non-identical’ (CpA 1.3:48/32).   In the concluding section of this article, Miller ties the logic of the signifier to the subject (CpA 1.3:47-49). In effect, Miller follows Lacan in defining the subject as ‘the possibility for one signifier more’:  In order to ensure that this recourse to the subject as the founder of iteration is not a recourse to psychology, we simply substitute for thematisation the representation of the subject (as signifier) which excludes consciousness because it is not effected for someone, but, in the chain, in the field of truth, for the signifier which precedes it (CpA 1.3:48/33).  The key point is that the signifying chain, in which the subject ‘flicker[s] in eclipses’, is marked by a constitutive lack that is sutured over. It is this lack, in its determinant capacity, that accounts for the persistence of the subject in his own discourse.  The signifier is a crucial concept in the first segment of Serge Leclaire’s seminar ‘Compter avec la psychanalyse’ that concludes Volume 1 (CpA 1.5). According to Leclaire, the analyst does not obey a logic of meaning [logique du sens] (CpA 1.5:57), but in listening for the unconscious must rather follow the formal paths opened up by the signifier.   In a discussion of clinical approaches to fantasy, Leclaire says that ‘two references are essential for the determination of the structure of the fantasy’ (CpA 1.5:61). On the one hand, fantasies are tied to an emotion that is corporeally localized. He gives examples: anal excitation, oral or dental excitations, or ‘sensations of threshold or passage [émoi de seuil, de passage]’. On the other hand, they are attached to signifiers; and more particularly to ‘signifiers as such’, that is, signifiers detached from their relation to the signified. This is how one should understand Freud’s suggestion that fantasies are ‘made up from things that are heard, and made use of subsequently’ (SE 1: 248). Leclaire gives examples of how certain signifiers used by the mother (proper names and pet names) can become detached from their common significance for the child and become sites for unconscious signifying chains.  Later, Leclaire turns to the notion of the ‘unconscious concept’, emphasizing its role in the constitution of signifiers which mark the body. Indeed, the chain created by the unconscious concept, the concept of the ‘small piece’ detached from the body, as Freud says, ‘in order to gain the favour of some other person whom he loves’ (SE 17: 131) is the libidinal condition for the emergence of the signifier. Leclaire goes on to elaborate that ‘this wandering piece that can be separated, by figuring the place of separation, transgresses, in the literal sense of the term, the surface’s function of limit. And as a limit itself, it marks difference, thus transcending the effaceable trace of the sensible: the pain of the wound becomes an ineradicable mark’ (CpA 1.5:68). This initial transgression, he says, is rediscovered in orgasm and in sadistic jouissance. It is, says Leclaire, ‘the void or hole around which fantasy turns’.  In his ‘Réponse à des étudiants en philosophie sur l’objet de la psychanalyse’ which opens Volume 3, Lacan insists that, while posing a challenge to dialectical materialism, his theory of language is nonetheless materialist; the signifier, he claims, is ‘matter transcending itself in language’ (CpA 3.1:10, trans. 111). This is in fact a crucial moment for the legacy of the Cahiers, e.g. in the work of Badiou and Slavoj Žižek, in that the symbolic nature of the signifier, as it well as its transcendentalizing character, remains grounded in a materialism irreducible to an account of raw inchoate matter.  In a section titled ‘The Suture of the Signifier, its Representation and the Object (a)’ from his contribution to this volume, André Green further develops some of Leclaire’s criticisms of Miller and also seeks to link the logic of the signifier to a more robust account of affect and the body (CpA 3.2:22ff). The signifier plays a key role in Luce Irigaray’s contribution to Volume 3 as well. Developing Miller’s arguments from ‘La Suture’, and supplementing them with a more extensive engagement with linguistics, Irigaray focuses on the family romance of the Oedipus complex and the emergence of subjectivity out of this scene. Irigaray maps out and explains the linguistic and intersubjective features of the transformation produced by the entrance of a third term into the original dyad of child and Other. In his or her very first relationship with the first Other, the child starts out as a fluid entity, ‘not yet structured as “I” by the signifier’ (CpA 3.3:40; trans. 9). ‘At the introduction of the third party into the primitive relation between the child and the mother, “I” and “you” are established as disjunction, separation’ (CpA 3.3:40/10). The mere presence of a third term, however, is insufficient for a radical break with the imaginary dyad, since the third initially appears in the form of a rival. ‘This opposition of “I” and “you”, of “you” and “I” remains “one” [on], without potential for inversion or permutation - the father being only another “you” - if the mother and the father do not communicate with each other’.  Later, Irigaray develops some of Lacan’s theses concerning the crucial role of the phallic signifier. The ‘fundamental fantasy’ of the hysteric is that they ‘did not get enough love’. With regard to his or her mother’s desire, he or she experiences themselves as marked by the sign of incompleteness and rejection, ‘unable to sustain the comparison with the phallic signifier’. For the male hysteric, ‘the confrontation with the mirror is like the test of his insignificance’ (CpA 3.3:51/20).  The obsessional neurotic, on the other hand, suffers from an early excess of love. ‘His mother found him too appropriate a signifier for her desire’ (CpA 3.3:51/22). The phallic reference is attributed to some absent hero, an all-powerful figure, whose death (as with the death of the father of the primal horde in Freud’s Totem and Taboo) would only in any case guarantee the subject’s ongoing acquiescence. The neurotic’s problem comes down to the adequacy of his signified to his signifier; he remains ‘riveted to what he has been’, unable to become. He is trapped in an empty ‘metonymy’, unable to metaphorise, and thus enter a ‘true temporal succession’.  As the title suggests, the ‘signifier’ is the central concept of Jean-Claude Milner’s reading of Plato’s Sophist in Volume 3, ‘Le Point du signifiant’ (CpA 3.5). For Milner, deeply inspired in this instance by Miller’s ‘La Suture’ (CpA 1.3) the key movement in Plato’s text is the vacillation of non-being as alternately function and term in the chain of Plato’s discourse, a movement which evokes the summoning and annulment of the subject that Miller found in Frege’s discourse. The signifying chain is the ‘sole space suited to support the play of vacillation’. Wherever an element in a linear sequence is replaced by an element which, as element, transgresses this linearity (as in the mechanism of structural causality identified by Miller in ‘Action de la structure’, CpA 9.6), a ‘vacillation’ is produced within the chain. Milner gives the examples of (1) the founding exception of a chain, and (2) any marking of the place of an erasure. The institution of a linear sequence is governed by a vacillation that testifies to a ‘double formal dependence’, and which ‘retroactively defines the signifier as a chain’ (CpA 3.5:77). Plato’s chain of genera thus points towards the possibility of an ‘order of the signifier in which being and non-being would regain those traits whose very coupling guarantees truth and authorizes discourse’ (CpA 3.5:77).  Milner speculates that the notions of being and non-being might borrow their traits from the order of the signifier itself in its basic constitution. In a passage cited by Leclaire in CpA 5.1:12, Milner mentions three aspects of vacillation. First, there is ‘the vacillation of the element’, which is ‘the effect of a singular property of the signifier’, and develops in a space ‘where the only laws are production and repetition: being and non-being recover this relation through their inverse symmetry, dividing themselves between term and expansion, between mark and abyss’ (CpA 3.5:77). There is also a ‘vacillation of the cause’ insofar as both being and non-being cannot posit themselves as cause except by revealing themselves to be the effect of the other. Finally, there is the movement of vacillation whereby the term that initially ‘transgresses the sequence’ calls up a transgression that annuls the whole chain.  Milner claims that grounding Platonic ontology on the logic of the signifier also makes possible a new understanding of the opposition between being and subjectivity. On the one hand, there is being as the order of the signifier, the ‘radical register of all computations’, totality of all chains, and on the other hand, the ‘one’ of the signifier, the unity of computation, the element of the chain, non-being, as the signifier of the subject (CpA 3.5:77). This latter reappears as such every time that discourse deploys its power to ‘annul’ signifying chains.  In the next segment of his seminar, in Volume 3, Leclaire focuses on the concept of drive [pulsion]. He asks: is the object of the drive a signifier or the objet petit a in Lacan’s sense? Leclaire explains that these two are indissociable: insofar as it is the terminus of sought-for satisfaction, it is the objet petit a, but insofar as it is connected with a differentiation in the body, it is a signifier. The difference between the objet petit a and the obtained corporeal satisfaction is ‘lived’ as an ‘antinomy of pleasure’, and through ‘the representation of the splitting of the subject’ [la schize du sujet] (CpA 3.6:87).  Jacques Derrida’s contribution to Volume 4, on the ‘writing lesson’ in Claude Lévi-Strauss’s Tristes Tropiques, presents his general case for a concept of ‘arche-writing’ that is in many respects distinct from the logic of the signifier (CpA 4.1:34). For Derrida, the metaphysical tradition and classical linguisticshave always presented writing as secondary to and dependent upon speech, which they understood as the absolute immediacy of meaning, of the signified to the signifier. Nevertheless, the rigorous development of linguistics by Saussure and his followers demonstrated that spoken language was structured not by a referential relationship to a signified but rather by the homology of the differences between signifiers and the differences between signifieds. In this situation, despite Saussure’s continued and classical disdain for writing, the traditional understanding of writing provided a better model for structural linguistics, because it also forewent the immediate presence of a signified to its signifier. The general structure of language then could be named ‘arche-writing.’ From this perspective, ‘the passage from arche-writing to writing as it is commonly understood […] is not a passage from speech to writing, it operates within writing in general’ (CpA 4.1:34).  In the first section of his reading of Freud’s ‘Wolf Man’ case in Volume 5, ‘On the Signifier’ (CpA 5.1:9-17), Leclaire distinguishes the psychoanalytic signifier from the linguistic signifier, which he describes a ‘psychic entity with two faces:’ a combination of two elements - signifier (Saussure’s ‘acoustic image’) and signified - that together constitute the sign; as such, it refers to the signified object it denotes. According to this definition, ‘the signifier is the phonic manifestation of the linguistic sign’ (CpA 5.1:10). As used by Jacques Lacan, however, the signifier cannot be considered as an element derived from the problematic of the sign, but rather as a fundamental element constituting the nature and truth of the unconscious (CpA 5.1:11). While Peirce famously defined the signifier as what ‘represents something for someone,’ Lacan declares that the psychoanalytic signifier ‘represents a subject for another signifier.’ Their functions of representation thus differ radically.  To elucidate this function, Leclaire cites two important essays from previous issues of the Cahiers, Jacques-Alain Miller’s ‘La Suture’ (CpA 1.3) and Jean-Claude Milner’s ‘Le Point du signifiant’ (CpA 3.5). For Miller, the central paradox of the Lacanian signifier is that ‘the trait of the identical represents the non-identical, from which can be deduced the impossibility of its redoubling, and from that impossibility the structure of repetition as the process of differentiation of the identical’ (CpA 5.1:12). Milner adds that ‘The signifying order develops itself as a chain, and every chain bears the specific marks of its formality’: the vacillation of the element, the vacillation of the cause, and ultimately the vacillation of transgression itself, ‘where the term that transgresses the sequence, situating as a term the founding authority of all terms, calls the one to be repeated as term transgression itself, an agent [instance] which annuls every chain’ (CpA 5.1:12). Leclaire embraces these formulations, but points out that they do not explain how the psychoanalyst can distinguish a given signifier. While any element of discourse may be a signifier, the psychoanalyst must be able to differentiate between signifiers, to privilege some over others. He warns against ‘the error of making the signifier no more than a letter open to all meanings,’ and argues that ‘a signifier can be named as such only to the extent that the letter that constitutes one of its slopes necessarily refers back to a movement of the body. It is this elective anchoring of a letter (gramma) in a movement of the body that constitutes the unconscious element, the signifier properly speaking’ (CpA 5.1:14).  Its development of a kind of prototype of the sought-after ‘logic of the signifier’ accounts for the inclusion of Georges Dumézil’s ‘Les Transformations du troisième du triple’ in Volume 7 (CpA 7.1). Dumézil argues that the multiple references in Roman legend to figures named ‘Horace’ (for instance, the story of Horatius Cocles in Livy 2.10) ‘have a signifying trait in common’ [un trait significatif] (CpA 7.1:9). All the narratives concern single combatants performing feats of extraordinary military prowess. The recurrence of these narratives, suggests Dumézil, indicate the remnants of a ritual ‘function’ (CpA 7.1:19-23). This emphasis on a recurrent function resonates with Milner’s insistence to Leclaire on the homogeneity of places, as opposed to the heterogeneity of terms, in the ‘Compter avec la psychanalyse’ segment in Volume 3 (CpA 3.6:96).  In his analysis of Freud’s ‘A Child is Being Beaten’, also in Volume 7, Jacques Nassif arrives at an account of ‘the place assigned to the subject in the signifying order’ (CpA 7.4:88). He suggests that the model can also help to explain the process of the overdetermination of symptoms, which can be thought as a ‘co-presence in the same archaeological disposition’ of superseded phases (CpA 7.4:86). Fantasy thus becomes the privileged site where the unconscious, structured like a language, ‘communicates with the signifying order that is language properly speaking’ (CpA 7.4:88).  In their questions to Michel Foucault which open Volume 9, the Cercle d’Épistémologie enquires into Foucault’s method for reading texts, navigating his conception of language and the signifier. ‘What use of the letter does archaeology suppose? This is to say: what operations does it practice on a statement in order to decipher, through what it says, its conditions of possibility, and to guarantee that one attains the non-thought which, beyond it, in it, incites it and systematises it? Does leading a discourse back to its unthought make it pointless to give it internal structures, and to reconstitute its autonomous functioning?’ (CpA 9.1:6).  In his ‘Remarques pour une théorie générale des idéologies’ in Volume 9, Thomas Herbert [Michel Pêcheux] develops an Althusserian account of ideology in which the logic of the signifier plays a key role. Herbert establishes how operations which take place within the ‘ideology of the empirical form’ are ‘fascinated by the problem of the reality to which the signifier must adjust’ (CpA 9.5:80). In establishing these semantic adjustments, the process itself is never forgotten or hidden. Indeed, it is the very process of adjustment itself that is the motor of ideological operations, and ruptures, at this level. By contrast, with ideologies of the speculative form, the operation takes place at the level of syntax, that is, in the relation of signifier to signifier, not in the ‘adjustment’ of signifier to signified. In Herbert’s reading, the ‘social effect’ is well described by Lacan’s description of the mechanism in the signifying chain which produces the subject effect in language: ‘the signifier represents the subject for another signifier.’ What is essential to this Lacanian formulation is that the sequence is one that covers its own traces; unlike the adjustment between signifier and signified that occurs out in the open in type ‘A’ ideologies (empirical form), in type ‘B’ (speculative form) the subjectification that occurs is constitutively forgotten. The ‘subject effect’ covers over the rupture that was its own condition. The ideas of Nicos Poulantzas serve Herbert in the following formulation: ‘let us say briefly that the putting into place of subjects [i.e., the syntactic chain] refers to the economic instance of the relations of production, and the forgetting of this putting into place to the political instance’ (CpA 9.5:83). In other words, what goes by the name of ‘politics’ in this social formation, i.e., the ‘State’, is the sign of the forgetting of the social ordering itself, which is anterior to ‘politics’.  In their preamble to the dossier on the ‘Chimie de la Raison’ which concludes Volume 9, the Cercle d’Épistémologie presents the ‘chemistry of reason’ – found in the works of D’Alembert, Lavoisier, Mendeleev, or Cuvier – in a manner that evokes the ‘logic of the signifier’ that has been the journal’s guiding concern:  To construct a chemistry of reason is thus to refer the sciences to the jurisdiction of the whole [tout], but this is also by the same stroke to submit them to another necessity. For this whole is also substantial since, being the science of the simple and the compound [composée], chemistry must direct its effort toward generating, through the sole operation of combination, all the materials that make all the things of the world; saving phenomena thus requires that chemistry constitute them as such, as a plenitude and liaison of substances. We see here that the crucial relation [relation] to the whole is but the reverse of a relation [rapport] to the representation to which chemistry is so intimately tied, namely that, given that anything representable is an object of analysis, all analysis is thus deduction from a representable body (CpA 9.11:169).Grice: “Fano is too obsessed with the ‘acoustic image’ (imagine Acustica) whereas Saussure is careful to add “acosutique ou sensible” – ‘immagine Acustica o imagine sensibile” – if we allow for imagine sensibile, the priority of the sound evaporates, and so does that of the tongue – and all the glossological societies of Europe!” -- Giorgio Fano. Fano. Keywords: Fano insists that the semiogonia, i. e. the origin of meaningful gestures will provide a clue as to the essence of the semiotic communication. He relies on Morris, Ferruccio Landi, Peirce, and Croce. He is interested in Croce’s views on ‘expression’ and Landi’s views on ‘lavoro.’ Fano is critical of Peirce. This is going on at the same time as Grice is giving seminars on Peirce at Oxford. Grice: “I agree with Fano that ontogenesis repeats phylogenesis, and that we should concentrate on utterances which are meaningful generally – ‘signare’ is a good verb in Italian for that.’ Grice: “In my view, it is the agent who signs that… ‘signa che’ – signat quod. The ‘-ficare’ only complicates things. A dark cloud ‘signa’ rain. And, by my hand gesture, I sign that going out is not a good day in view of the coming rain. Keywords: glossogonia, glottogonia, teoria glottogonica, dottrina glottogonica, teoria glossogonica, dottrina glossogonica, semiotics of the tongue, Croce. La glossogonia. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Fano” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51689659858/in/photolist-2mR7Xaf-2mPF8UJ-2mKAuZM-2mKbkhx-2mKD233

 

Grice e Fardella – sensuale, sensismo, sensualismo – romano -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Trapani). Filosofo. Grice: “I like Fardella; for one, he is a systematic philosopher; for another, he compares Aristotle (‘demonstratio peripatetica’) with Cartesio, as the Italians call him (‘demonstratio cartesiana’) – And while Italians consider him a reactionary Cartesian, I deem  him a closet Aristotelian!”. Studia a Messina sotto Borelli, dal quale accetta l’atomismo di Lucrezio, ma abbracciò il pensiero di Cartesio, dopo averne appreso gli insegnamenti durante il suo soggiorno a Parigi, grazie alle conversazioni con Arnauld, Malebranche e Lamy.  Insegna matematica a Roma, Modena, e Padova. Tenne corrispondenza con Leibniz e polemizza con Giorgi attacca il cartesianesimo. Il suo razionalismo, per quanto riconosca che solo Cartesio trova, fra gli antichi e i moderni, il retto e naturale metodo di filosofare, è tuttavia relativo, adeguato com'è al platonismo. Il mondo è organizzato secondo principi d’aritmetica e geometria. Ogni cosa ha peso, numero e misura, ossia secondo le leggi statiche, aritmetiche e geometriche. Mediante l’aritmetica e la geomtria si comprende il mondo e si comprende così la logica.  Nel punto, che non ha peso, non ha grandezza, non è divisibile, è tuttavia l'origine di ogni estensione. Nel punto, come il numero nell'unità, si risolve l'estensione. L'anima, che non ha estensione (non e ‘res extensa’), è un punto. Non è possibile dimostrare l'esistenza indipendente della realtà materiale. La stessa esperienza ci insegna che spesso nel sogno percepiamo oggetti che veramente non possiamo ammettere realmente esistenti. Quante volte, la notte, mentre dormo, vedo splendere il sole sopra l'orizzonte e vedo muoversi in vari modi moltissime cose prodigiose, che non sono niente extra ideam? Dunque, quel che sento e *vedo* non può in nessun modo essere dedotto come realmente esistente. E se si obbietta che una cosa è sognare, altra cosa è la veglia, per lui le cose che percepiamo nella veglia potrebbe anche essere soltanto cose percepite con maggiore chiarezza, distinzione e ordine, benché non siano niente in sé. I sensi non danno certezza del mondo, la quale può ritrovarsi soltanto in la legge dell’aritmetica e della geometria.  Altre opere: “Universae philosophiae systema, in qua nova quadam et extricata Methodo, Naturalis scientiae et Moralis fundamenta explanantur (Venezia); “Universae usualis mathematicae theoria” (Venezia); “Utraque dialectica rationalis et mathemathica”; “Animae humanae natura ab Augustino detecta in libris de Animae Quantitate, decimo de Trinitate, et de Animae Immortalitate” (Venezia); Pensieri (Napoli); “Lettera antiscolastica” (Napoli). Recensito immediatamente dopo la pubblicazione del primo e unico volume sulla rivista scientifica Acta Eruditorum Universae Philosophae Systema, Descartes e l'eredità cartesiana in Italia” Dizionario biografico degli italiani. Fardella elaborated a Cartesian philosophy of language, pretty much avant Chomsky, but using the same sources: Arnauld. While Chomsky focuses on Harris and others, he could at least have dropped the “Fardella” name! Grice: “He possibly did have some Italian friends in the Bronx!” Wikipedia Ricerca Sensismo Lingua Segui Modifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Sensazione (filosofia). «Infatti, dato che ogni sensazione è necessariamente gradevole o sgradevole, si è interessati a godere delle prime e a sottrarsi alle seconde. Questo interesse è sufficiente a spiegare le origini delle operazioni dell'intelletto e della volontà. Il giudizio, la riflessione, i desideri, le passioni e via dicendo, non sono altro che la sensazione stessa, la quale si trasforma in diverse maniere»  (E. Condillac, da Trattato sulle sensazioni) Il sensismo è un termine che designa quelle dottrine filosofiche che riportano ogni contenuto e la stessa azione del conoscere al sentire, ossia al processo di trasformazione delle sensazioni, escludendo in tal modo dalla conoscenza tutto quello che non sia riportabile ai sensi. A volte viene usato come suo sinonimo sensualismo, che però trova definizione diversa.  OriginiModifica Mentre nella storia della filosofia la parola sensocompare, a partire dalla αίσθησις di Aristotele[1], per indicare la facoltà di "sentire" (cioè di percepire l'azione di oggetti interni al corpo o esterni ad esso), le origini del sensismo, come filosofia, possono ritrovarsi in alcune affermazioni dei sofisti.  Già Protagora affermava che l'anima non fosse altro che un complesso di sensazioni: fu una tesi ripresa in maniera più approfondita dagli stoici e dagli epicurei.  La cultura romana e quella medievale hanno conservato il concetto riduttivo di senso, proprio della definizione aristotelica: è solo nei tempi moderni, con Locke prima e poi specialmente con Kant, che la parola senso assume il significato di sentire insieme alla consapevolezza di ciò che avviene sentendo.  I sensisti moderniModifica La dottrina sensista si precisa nella filosofia moderna, con il pensiero rinascimentale, nella filosofia della natura di Bernardino Telesio (1509–1588), che dà vita a una prima forma di metodologia scientifica basata sull'esperienza, e poi in Tommaso Campanella(1568-1639) e Antonio Persio (1543-1612).  Quest'ultimo intende la natura come un complesso di realtà viventi, ciascuna senziente, animata e tendente al proprio fine (in base al concetto aristotelico di entelechia), e d'altra parte tutte unificate e armoniosamente dirette verso un fine universale da una comune Anima del mondo, secondo la concezione tipicamente neoplatonica. La visione campanelliana è detta per questo pansensismo cosmico, (dal greco πάν, pàn, che significa tutto, e sensismo) a indicare una specie di sensibilità cosciente di tutto l'universo: il grande bestione vivente nella visione di Giordano Bruno.  Il sensismo nel '600Modifica Caratteristiche del sensismo, che lo accostano al materialismo, si trovano in Thomas Hobbes(1588-1679) il quale negli Elementi (1640) e nel De corpore (1655) sviluppa il suo sistema materialistico, meccanicistico onnicomprensivo, basandolo sull'elemento sostanziale corpo e su quello accidentale di moto. La sensazione è il risultato del moto dei corpi che generano le immagini, le sensazioni di piacere e dolore e le passioni. Tutto si origina da un moto, da un'azione a cui corrisponde un contromovimento, una reazione, che produce immagini fenomeniche; tutta la vita teoretica e morale può essere ricondotta alla sensazione.  Pur da una posizione di deciso rigetto della filosofia di Hobbes, anche Anthony Ashley-Cooper, III conte di Shaftesbury esprimerà una teoria di tipo sensista.  Il sensismo di CondillacModifica  Condillac Il termine "sensismo" è stato attribuito prevalentemente alla dottrina di Condillac (1714-1780) espressa nel Traité des sensation (1754), la quale riprende molte formulazioni che erano state proprie delle teorie di John Locke (1632-1704), [2]eliminandone però gli aspetti più propriamente psicologici, e sottolineando come tutte le facoltà conoscitive si sviluppino, in modo più o meno diretto, dall'azione dei sensi.   In questo senso, è famoso l'esempio di Condillac, il quale suggerisce di immaginare una statua dalle fattezze umane, la quale progressivamente si anima a mano a mano che prendono vita i vari sensi, e in particolare il tatto, il quale le permette la consapevolezza della realtà propria e del mondo circostante. Ciò che finora veniva attribuito all'attività spirituale, al giudizio, al desiderio e alla volontà non sono che "sensazioni trasformate".  Sensismo e materialismo                                   Modifica Va sottolineato che il sensismo non coincide con il materialismo, giacché il primo si limita a esprimere la posizione di chi afferma il primato della conoscenza sensibile, senza tuttavia determinare in alcun modo i contenuti che questa conoscenza possa raggiungere.   La posizione sensista riguarda quindi esclusivamente la forma della conoscenza, in particolare il modo in cui si formano e si espletano le varie facoltà conoscitive. Dire che la nostra conoscenza si origina dalla sensazione non vuol dire che la materia di per sé sia causa di movimento e sensazione per cui l'uomo alla fine sia un essere completamente materiale. Proprio in ragione di questo, Condillac poté teorizzare l'esistenza di Dio e l'immortalità dell'anima, congiungendo sensismo gnoseologico e spiritualismo.  La via del materialismo su base sensistica venne intrapresa invece da Julien Offray de La Mettrie (1709-1751), Claude-Adrien Helvétius (1715-1771) e Paul Henri Thiry d'Holbach (1723-1789), più conosciuto con lo pseudonimo di Mirabaud.  Per Julien Offray de La Mettrie estensione, movimento e sensibilità caratterizzano tutto ciò che è materiale; l'uomo stesso è una macchina ("L'homme machine") condizionata da leggi biologiche.  Helvetius condivide con Condillac l'idea che la conoscenza derivi dalle sensazioni ed estende quindi, nell'opera Lo Spirito (1758), la natura sensibile anche alla moralità riducendola a pure motivazioni utilitaristiche.   Per Holbach l'affermazione decisa del materialismo è collegata all'ateismo e alla negazione di ogni libera volontà nel comportamento dell'uomo.  Il materialismo in effetti era negato dagli illuministipoiché essi vi vedevano il mascheramento della vecchia pretesa metafisica di spiegare in maniera onnicomprensiva e totale l'universo. Si può affermare che, da molti di loro, il materialismo era sostenuto non tanto per ragioni gnoseologiche quanto per fini politici e morali come una polemica protesta, cioè, nei confronti dell'autoritarismo politico e religioso dei loro tempi.  NoteModifica ^ Aristotele, De anima (II, 5, 416 b 33) aveva dato una definizione del tutto corretta e coerente col pensiero del tempo, ancora molto lontano dal concepire una possibile sensibilità specifica di un essere umano come caratteristica peculiare della sua individualità. ^ «Nihil est in intellectu, quod non prius fuerit in sensu». (Locke Saggio sull'Intelletto Umano, Libro II, Cap. 1, § 5. «Nulla è nell'intelletto che non fu già nei sensi».) Ed aggiungeva  Leibniz(1646-1716):«excipe: nisi intellectus ipse» (Leibniz Nuovi saggi sull'intelletto umano, Libro II, Cap. 1, § 6.) «fatta eccezione per l'intelletto stesso». Bibliografia                                 Modifica Guido Calogero, «SENSISMO», in Enciclopedia Italiana, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1936. Voci correlate                             Modifica Intuito Sensibilità (filosofia) Senso comune Pensiero Percezione Altri progettiModifica Collabora a Wikizionario Wikizionario contiene il lemma di dizionario «sensismo» Collegamenti esterniModifica sensismo, su Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su Wikidata Guido Calogero, SENSISMO, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1936. Modifica su Wikidata sensismo, in Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2009. Modifica su Wikidata ( EN ) Sensismo, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su Wikidata Controllo di autorità                                                            Thesaurus BNCF 28632 · GND ( DE ) 4181004-1 · BNF ( FR ) cb11959281f (data)   Portale Filosofia: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di filosofia Ultima modifica 1 anno fa di 2.32.16.76 PAGINE CORRELATE Materialismo concezione filosofica  Étienne Bonnot de Condillac filosofo, enciclopedista e economista francese  Sensazione (filosofia) concetto filosofico  Wikipedia Il contenuto  Sessualità nell'antica Roma Lingua Segui Modifica Gli atteggiamenti e i comportamenti riferibili alla sessualità nell'antica Roma sono stati variamente descritti nell'arte romana, nella letteratura latina e nel Corpus Inscriptionum Latinarum; in misura minore anche da reperti di archeologia classica, quali manufatti di arte erotica (vedi ad esempio l'arte erotica a Pompei e Ercolano) e di architettura romana.   Rapporto sessuale in posizione con donna sopra, calco in gesso di un medaglione in terracotta del I secolo. L'iscrizione dice: "guarda come mi stai aprendo bene". È stato talvolta ipotizzato che la "licenza sessuale illimitata" fosse una delle caratteristiche più peculiari del mondo Romano antico[1]: "La sessualità degli antichi Romani non ha mai avuto buona stampa in Occidente, da quando si è verificato il predomino culturale del cristianesimo. Nella fantasia popolare e nella cultura di massa questa è sinonimo di licenziosità e abuso sessuale"[2]. Tuttavia la sessualità non è stata affatto esclusa dalle preoccupazioni del mos maiorum[3], il nucleo della tradizione etica della civiltà romana; ciò si è verificato attraverso consolidate norme sociali che hanno interessato la vita pubblica, privata e finanche militare[4].  "Pudor", ossia vergogna-pudore, è stato un fattore di regolazione del comportamento[5], oltre che parte di sentenze legali riguardanti casi di trasgressioni sessuali avvenute sia durante il periodo della repubblica romana che in quello dell'impero romano[6]. Il censore, pubblico ufficiale nonché magistrato adibito alla supervisione della "moralità pubblica", era anche atto a determinare il rango (ossia la classe sociale) degli individui; egli aveva tra gli altri anche il potere di rimuovere quei cittadini ritenuti colpevoli di cattiva condotta sessuale dal senato romano e/o dall'antica casta aristocratica del patriziato, ed in alcuni casi ciò è effettivamente avvenuto[7]. Lo studioso e filosofo francese Michel Foucault, nella sua opera Storia della sessualità, ha considerato la realtà sessuale in tutto il mondo greco-romano come severamente disciplinata dalla moderazione e dall'arte di gestire il piacere sessuale[8].  La società romana era fortemente intrisa di patriarcato(vedi la figura del Pater familias), e il concetto di mascolinità si basava essenzialmente sulla capacità di governare se stessi e gli altri, cioè oltre che gli schiavi e i sottoposti anche la propria persona, e ciò valeva pure nell'ambito delle relazioni sessuali[9]. "Virtus", la virtù-il valore, è stato un ideale mascolino di auto-disciplina attiva e che si viene direttamente a riferire alla parola latina indicante il maschio-Vir (la virtù è pertanto caratteristica dell'uomo inteso come rappresentante mascolino della società).   Un satiro in compagnia di una ninfa, simboli mitologici della sessualità. Mosaico rinvenuto nella casa del Fauno a Pompei. L'ideale corrispondente al termine "Vir" per la donna era la pudicitia, spesso tradotta come castità o modestia; ma essa rappresentava in realtà anche una qualità personale più pro-positiva e finanche competitiva, che doveva ben raffigurare sia il fascino che l'auto controllo di cui doveva essere dotata per Natura la matrona romana[10]. Le donne delle classi superiori avrebbero dovuto essere colte, forti di carattere, ed attive nell'impegnarsi a mantenere la posizione del proprio clan familiare all'interno della società civile[11].  Ma, tranne pochissime eccezioni, la letteratura ha conservato nei riguardi della sessualità solamente le voci dei colti patrizi di sesso maschile; è sopravvissuta quindi soltanto una parte del "discorso sessuale" presente nell'antica Roma. L'arte visiva era invece solitamente creata da individui di status sociale inferiore e rappresentanti di una gamma etnica più ampia di quella più prettamente letteraria; ma essa si è anche trovata a doversi adattare al gusto ed alle inclinazioni di coloro che erano abbastanza ricchi da permettersela e che potevano includere durante l'epoca imperiale anche alcuni liberti[12]; pertanto, anche in tal caso, non risulta essere completamente affidabile.  Alcuni atteggiamenti e comportamenti di natura sessuale ben presenti all'interno della cultura romanadifferiscono notevolmente da quelli della successiva cultura occidentale[13]. La religione romana ad esempio promuoveva la sessualità come uno degli aspetti fondamentali di prosperità per l'intero Stato; singoli individui potevano rivolgersi alla pratica religiosa privata, o anche alla magia, per migliorare la loro vita erotica o la salute e capacità riproduttiva; inoltre la prostituzione nell'antica Roma era legale, pubblica e diffusa. Soggetti artistici che oggi definiremmo senza esitazione come pornografia erano ampiamente presenti tra le collezioni d'arte delle famiglie più rispettabili e di elevato status sociale[14].  Si riteneva del tutto naturale, e il fatto in sé era "moralmente" irrilevante, che un uomo adulto potesse essere attratto sessualmente da adolescenti di entrambi i sessi; la pederastia veniva tranquillamente accettata fintanto che essa riguardava partner maschili - anche giovanissimi - che non fossero cittadini romani, quindi coloro che non erano nati liberi o attualmente in una condizione di schiavitù. La dicotomia moderna di eterosessuale ed omosessualenon costituiva in alcuna maniera la distinzione primaria del pensiero romano nei riguardi della sessualità ed in lingua latina non esistono neppure parole indicanti gli attuali termini[15] che vengono a distinguere nella sua totalità l'identità di genere o l'orientamento sessuale.  Nessuna censura morale vigeva contro l'uomo che godesse degli atti sessuali compiuti con donne o altri uomini di livello inferiore al suo; a patto che questi comportamenti non venissero a rivelare carenze o eccessi nel carattere, né violassero i diritti e le prerogative degli altri coetanei maschi. Era invece la caratteristica dell'effeminatezza a venir percepita in maniera unanimemente negativa, con casi divenuti celebri di denuncia letteraria pubblica a mo' di scherno e invettiva; questo poteva accadere particolarmente all'interno della retorica politica, quando si accusavano spesso e volentieri gli avversari di essere effemminati, cioè affetti da forti carenze caratteriali e pertanto del tutto inaffidabili anche per quel che concerneva la gestione della cosa pubblica.  Il sesso praticato con moderazione con prostitute o giovani schiavi maschi non è mai stato considerato come improprio o un rischio che potesse "viziare" l'intrinseca mascolinità, costitutiva dell'uomo romano adulto; l'importante era che il cittadino assumesse sempre il ruolo sessuale attivo e mai quello passivo (vedi attivo e passivo nel sesso). L'ipersessualitàtuttavia è stata d'altro canto condannata sia moralmente che come patologia medica, questo sia negli uomini che nelle donne.  La componente femminile della società era solitamente tenuta ad un codice morale più rigoroso rispetto alla sua controparte maschile[16]; relazioni omosessuali tra donne sono scarsamente documentate, ma la sessualità femminile in genere è stata ampiamente celebrata o insultata, a seconda dei casi, in tutta la letteratura latina. Nella sua generalità, gli antichi Romani si trovarono ad avere categorie di genere, se così si può dire, più flessibili rispetto all'antica Grecia[17].  Anche se analizzare la sessualità nell'antica Roma in rigidi termini di opposizione binaria "penetratore-penetrato" può risultare in parte fuorviante e dunque può oscurare la pienezza dell'espressività sessuale antica tra individui presi nella loro singolarità[18], l'assenza d'una qualsiasi altra "etichetta" per l'interpretazione culturale dell'esperienza erotica fa sì che tale distinzione continui ad essere utilizzata[19]. Anche la rilevanza stessa data alla parola "sessualità" nella cultura romana antica è stata da alcuni contestata ed è oggetto di disputa[20].  Arte e letteratura erotica                                           Modifica Magnifying glass icon mgx2.svg                            Lo stesso argomento in dettaglio: Arte erotica e Letteratura erotica.  Pan che insegna al suo eromenosDafni a suonare il flauto. La letteratura antica concernente la sessualità romana rientra principalmente in quattro categorie: testi giuridici, medici, poetici e politici[21]. Riferimenti a tipologie di espressività sessuale ci provengono dalla commedia del teatro latino, dalla satira, dalla poesia amorosa e dall'invettiva, dai graffiti, dagli incantesimi magici e dalle iscrizioni; tali forme culturali considerate come minori nell'antichità hanno avuto molto più da dire nei riguardi della sessualità che i generi cosiddetti più elevati della tragedia e dell'epica.  Varie informazioni sulla vita sessuale della popolazione è sparsa anche nella storiografia (nei riguardi di personalità conosciute), nell'oratoria e in alcuni testi filosofici, oltre che negli scritti di medicina, agricoltura e di altri argomenti tecnici[22]. I testi di diritto romanosi soffermano su quei comportamenti che si volevano disciplinare o vietare, senza necessariamente indicare quel che le persone realmente facevano o meno[23].  I principali autori latini le cui opere hanno contribuito significativamente alla comprensione della sessualità nell'antica Roma comprendono:  Il commediografo Tito Maccio Plauto, le cui opere ruotano spesso su trame concernenti casi sessuali, con giovani amanti ad esempio tenuti separati dalle avverse circostanze (200 a.C. circa). Lo statista e moralista Marco Porcio Catone(detto "il Vecchio") il quale offre scorci sulla sessualità vigente in un momento storico che successivamente fu considerato come epoca avente gli standard morali più elevati, di tutta la storia latina (150 a.C. circa). Il poeta e filosofo Tito Lucrezio Caro, che presenta un lungo trattato sulla sessualità epicurea nella sua opera De rerum natura (55 a.C. circa). Gaio Valerio Catullo, le cui poesie esplorano tutta una serie di esperienze erotiche avvenute verso la fine dell'epoca repubblicana; esse spaziano da un più delicato sentimento romantico (l'amore verso le donne-Lesbia e nei confronti dei ragazzi-Giovenzio) per giungere fino alle invettive più brutalmente oscene ("Pedicabo ego vos et irrumabo"-io ve lo metto in culo e in bocca; 50 a.C. circa). Marco Tullio Cicerone con numerosi interventi avvenuti in Senato in cui attacca il comportamento sessuale degli avversari politici, a cominciare da Gaio Giulio Cesare più volte additato come sessualmente ambiguo e quindi anche pericoloso per l'incolumità statale; ma anche con lettere disseminate di pettegolezzi contro l'élite romana che gli si opponeva (45 a.C. circa). I poeti Sesto Properzio e Albio Tibullo, che rivelano alcuni degli atteggiamenti sociali dell'epoca quando descrivono le loro storie d'amore avvenute con giovani donne e adolescenti maschi. Publio Ovidio Nasone, in particolare con i suoi Amores e Ars amatoria i quali, secondo la tradizione, hanno contribuito notevolmente ad affrettare la decisione dell'imperatore romanoAugusto di esiliare il poeta; ma anche tramite la sua raccolta epica Metamorfosi la quale presenta tutta una serie di miti a forte impronta sessuale (e ancora una volta sia con esempi di amori tra uomini e donne che tra uomini e ragazzi) riguardante figure divine ed esseri umani, con un'enfasi particolare data allo stupro - alla violenta aggressione di tipo sessuale - attraverso la lente della lettura mitologica (10 d.C. circa). Marco Valerio Marziale, le cui osservazioni sulla società in genere sono spesso e volentieri arricchite e rinforzate da invettive sessualmente esplicite (100 d.C. circa). Decimo Giunio Giovenale, che inveisce contro i costumi sessuali del suo tempo, attaccando con particolare fervore le donne e gli uomini effeminati (200 d.C. circa). Ovidio elenca anche un certo numero di scrittori molto noti al tempo per il materiale salace contenuto nelle rispettive opere, nessuna delle quali è però riuscita a giungere fino a noi[24]. Manuali sessuali greci, ma anche semplici testi di natura pornografica[25] sono stati pubblicati sotto il nome di famose etere (-cortigiane) e diffusi ampiamente. Le novelle erotiche di Aristide di Mileto, i Milesiaká furono tradotte da Sisenna, uno dei pretori del 78 a.C.; Ovidio definisce il libro come una raccolta di misfatti-crimina e ci dice che l'intera narrazione era infarcita con "barzellette sporche"[26]. A seguito della battaglia di Carre nel 53 a.C. i parti sarebbero rimasti scioccati nel trovare proprio quel libro nel bagaglio ufficiale appartenente a Marco Licinio Crasso[27].  L'arte erotica a Pompei e Ercolano, rinvenuta solamente a partire dal tardo XVIII secolo, è una ricca fonte di indizi sulla natura della sessualità nell'antica Roma, anche se non del tutto priva di ambiguità; alcune delle immagini paiono difatti contraddire almeno in parte le preferenze sessuali sottolineate in letteratura, ma potevano queste essere destinate ad un intento satirico, per provocare quindi il riso o alternativamente per sfidare gli atteggiamenti convenzionali seguiti[28].  Oggetti di uso quotidiano quali specchi e vasi in ceramica sigillata potevano essere decorati con scene decisamente erotiche le quali potevano andare dalle eleganti danze compiute in abiti succinti a disegni espliciti di penetrazione sessuale[29]. Dipinti erotici sono stati trovati nelle case più rispettabili della nobiltà romana, come nota Ovidio: "vi è un piccolo dipinto (-tabella[30]) raffigurante varie tipologie di accoppiamenti... ma anche una Venere bagnata che si asciuga i capelli gocciolanti con le dita, a malapena coperta dalle acque"[31]. Questa Venere carica di erotismo appare tra le vari immagini che un intenditore d'arte potrebbe sicuramente apprezzare[32].  Tutta una serie di dipinti rinvenuti all'interno delle terme suburbane di Pompei, scoperti solo nel 1986 e pubblicati in riproduzione nel 1995, presentano una varietà di scenari erotici che paiono destinati a divertire lo spettatore con rappresentazioni sessuali assai scandalose, tra cui un ampio numero di posizioni sessuali, sesso orale e sesso di gruppo eterosessuale, omosessuale e lesbico a scelta[33].  L'arredamento di una camera da letto romano poteva riflettere letteralmente il suo uso sessuale: il poeta augusteo Orazio possedeva presumibilmente una stanza con le pareti interamente ricoperte di specchi, di modo che quando aveva la compagnia di una prostituta poteva osservarla da tutte le angolazioni possibili[34]. L'imperatore Tiberio aveva le camere da letto decorate con i più lascivi e sconci dipinti e sculture, ma veniva rifornito costantemente di "guide del sesso" ricche di consigli e proposte scritte appositamente per lui dal medico greco Elefantide[35].  Nel II secolo si è verificato un autentico boom di testi riguardanti la sessualità, scritti sia in lingua greca che in lingua latina, assieme ai romanzi d'amore[36]; ma questo discorso franco e sincero sulla sessualità scompare quasi del tutto dalla letteratura successiva, con i temi sessuali che vengono riservati alla scrittura medica o alla teologia cristiana.  Nel III secolo il celibato era divenuto un ideale per un crescente numero di fedeli cristiani; gli stessi padri della Chiesa come Tertulliano e Clemente di Alessandria hanno disquisito sul fatto che anche il sesso coniugale dovesse essere consentito solamente per la procreazione. Nel martirologio la sessualità viene descritta come una delle peggiori torture rivolte contro la santa castità del cristiano[37], soffermandosi anche sugli atti di mutilazione sessuale (in particolare i seni) a cui venivano sottoposte in special modo le donne[38].  L'umorismo osceno di Marziale è stato per breve tempo fatto rivivere nel IV secolo dallo studioso e poeta Ausonio, seppur nominalmente cristiano, evitando però la predilezione dell'autore latino nei confronti della pederastia[39].  Sesso, religione e Stato              Modifica Così come per gli altri aspetti della vita romana, anche la sessualità è stata sostenuta e regolata da precise tradizioni religiose (vedi religione romana), sia per quanto concerne il culto pubblico statale sia per quel che riguarda le pratiche religiose private e magiche. La sessualità è in ogni caso una categoria importante del pensiero religioso romano[40].  Il complemento di maschile e femminile è stato di particolare importanza per la definizione del concetto romano di divinità. I Dei Consenti erano un consiglio di coppie divine maschio-femmina equivalenti in qualche misura alle dodici maggiori divinità Greche (vedi gli Olimpi)[41]. Almeno due tra i "sacerdozi statali" erano svolti congiuntamente da una coppia di coniugi[42].  Le vergini Vestali, uno status sacerdotale riservato alle donne, prendendo il voto di castità perenne, si vedevano riconosciuta una relativa indipendenza dal controllo maschile; tra gli oggetti religiosi di maggior pregio che avevano in custodia vi era anche il "fallo sacro"[43]. il fuoco di Vesta doveva evocare l'idea della purezza sessuale nella femmina e contemporaneamente rappresentare il potere procreativo del maschio[44].  Gli uomini che servivano nei vari collegia di sacerdoti (vedi pontefice (storia romana)) avrebbero dovuto in ogni caso sposarsi e crearsi una famiglia. Cicerone ha dichiarato che il desiderio di procreare era il vivaio della repubblica, causa prima per l'esistenza di quella forma di istituzione sociale chiamata matrimonio; a sua volta la casa-domus rappresentava l'unità familiare ch'era il mattone della vita urbana[45].  Molte delle festività romane stagionali contenevano in sé degli elementi sessuali: i Lupercalia del mese di febbraio sono stati celebrati fino al V secolo ed includevano un rito arcaico di fertilità; mentre i Floraliaerano caratterizzati da danze che si svolgevano tra persone nude. In alcune tra le più importanti feste religiose del mese di aprile, partecipavano e venivano ufficialmente riconosciute anche le prostitute.  Le connessioni esistenti tra riproduzione umana, prosperità generale e benessere dello Stato vengono ben incarnate dal culto romano di Venere, che si differenzia dalla sua controparte Greca Afroditesoprattutto per il suo ruolo di madre dell'intero popolo romano, questo attraverso il figlio per metà mortale Enea[46].  Durante il periodo delle guerre civili degli anni 87-82 a.C. Lucio Cornelio Silla, in procinto d'invadere il proprio stesso paese con le legioni assoggettate al proprio comando, ha fatto emettere una moneta raffigurante una Venere incoronata in qualità di suo personale nume tutelare, affiancata da un Cupido in possesso di un rametto di Palma (segno di vittoria). Sul retro vi erano tropaion (trofei militari) assieme a simboli degli àuguri, sacerdoti statali che svelano il volere degli dei. L'iconografia collega quindi la divinità dell'amore col buon augurio di successo militare e con l'autorità religiosa. Il dittatore romano assunse anche il titolo di Epafrodito-appartenente ad Afrodite[47].  Il fascinus fallico era onnipresente nella cultura romana ed appare praticamente su ogni tipo di oggetto, dai gioielli agli antichi campanelli eoliche o tintinnabulum fino alle lampade[48]; era inoltre un potente amuleto atto a proteggere i bambini[49] e ai generali che celebravano il proprio trionfo[50]. Cupido è colui che ispira il desiderio erotico; Priapo invece, importato dalla Grecia, rappresenta più la vera e propria lussuria, intrisa però d'un fondamento fortemente umoristico; Mutunus Tutunus promuoveva infine il sesso coniugale. Il dio Liber (versione latina di Dioniso) si prendeva cura, tra le altre cose, anche delle "risposte fisiologiche" durante l'atto sessuale. Vi erano infine tutta una serie di divinità atte a supervisionare ogni aspetto della relazione amorosa, dal concepimento fino al parto[51].  Quando un maschio assumeva la toga virile Libero diveniva il suo patrono; secondo quel che raccontano i poeti, in questo momento egli lasciava la modestia innocente (-pudor) caratteristica dell'infanzia per acquisire la libertà sociale (-Libertas) e poter iniziare così la sua personale vita sessuale[52].  La mitologia classica tratta spesso di temi sessuali anche molto impegnativi, quali adulterio, incesto e stupro; l'arte e la letteratura hanno proseguito con la scuola alessandrina la trattazione di figure mitologiche erotiche le quali compivano in modo molto umano, ma anche umoristico, atti sessuali in seguito del tutto rimossi dalla dimensione religiosa[53].  Concetti morali e giuridici                                              Modifica Castitas                                             Modifica La parola latina castitas, da cui deriva l'attuale castità, è un sostantivo astratto che denota "una purezza morale e fisica di solito in un contesto specificamente religioso" e a volte, ma non sempre, riferendosi specificatamente alla castità sessuale[54]. Il relativo aggettivo castus-puro poteva esser usato sia per riferirsi a luoghi ed oggetti, così come anche alle persone; l'aggettivo "pudicus" (da cui pudicizia, pudore) descrive in maniera più particolareggiata una persona che è sessualmente morale[54].  I rituali di Cerere concernevano sia la castitas che la sessualità, incarnando la Dea anche la maternità; la torcia portata in suo onore in processione durante lo svolgersi del corteo nuziale era associata alla purezza sessuale della sposa[55]. Vesta era la divinità primaria del pantheon romano associata al concetto di castitas, ed era essa stessa una Dea vergine; le sue sacerdotesse vestali dovevano mantenersi vergini per tutta la vita, avendo fatto voto di rimanere nubili.  Incestum                 Modifica L'incestum, da cui deriva l'attuale incesto, ossia ciò che è "non castum", è un atto che viola la purezza religiosa[54], forse sinonimo di ciò che è "nefas" (nefasto) ovvero religiosamente inammissibile[56].  La violazione ad esempio del voto di castità professato da una Vestale era considerato come incestum: la punizione riguardava sia la donna che l'uomo che la rendeva impura attraverso il rapporto sessuale, sia che l'atto fosse stato consensuale che ottenuto con la forza. Lei veniva seppellita viva, lui lapidato nel Foro. La perdita di castitas di una vestale equivaleva alla rottura del patto stipulato tra Roma e gli dei, la pax deorum[57] e veniva generalmente accompagnata dall'osservazione di cattivi presagi (-prodigia). L'accusa d'incestum che veniva a coinvolgere una vestale poteva spesso coincidere con una situazione di agitazione politica e con pericoli di sommosse[58].  Marco Licinio Crasso venne assolto dall'accusa d'aver commesso incestum con una vestale che condivideva il proprio nome di famiglia[59]. Quello che oggi s'intende per rapporti incestuosi erano solo una delle forme di incestum[54], a volte tradotto anche come sacrilegio. Quando Publio Clodio Pulcro si travestì da donna, violando così i riti della Bona Dea rivolti esclusivamente alla componente femminile della società, si attirò l'accusa di incestum[60].  Stuprum         Modifica Nel diritto romano, ma anche nella morale vigente comune, lo stuprum è il rapporto sessuale illecito, traducibile come "depravazione criminale"[61] o crimine sessuale[62]; esso viene a comprendere diversi reati di natura sessuale, tra cui vi è anche "l'atto sessuale illegale ottenuto con la forza"[63] e l'adulterio (uno stupro morale rivolto contro il coniuge).  Inizialmente col termine stuprum è stato considerato un atto vergognoso in generale, o qualsiasi disgrazia pubblica, il che includeva ma non si limitava alla sessualità considerata illecita[64], ma ai tempi della commedia romana di Tito Maccio Plauto la parola aveva già acquisto il suo più ristretto significato sessuale[65]: innanzitutto uno stuprum può avvenire solo tra cittadini, in quanto qualsiasi violenza sessualecommessa contro la schiavitù era perfettamente lecita e quindi non punibile. Proprio la protezione contro la cattiva condotta sessuale è sempre stato tra i diritti legali che maggiormente contraddistinguono il cittadino dal non-cittadino[65].  Raptus                                                 Modifica Derivante dal verbo latino rapio/rapere, significa "strappar via, portar via, rapire". Nel diritto romano il termine raptio viene utilizzato principalmente per indicare il rapimento o sequestro[66]. Il mitico ratto delle Sabine rappresenta un sequestro della sposa o rapimento a scopo matrimoniale in cui la violazione sessuale delle donne diviene un problema del tutto secondario. Il sequestro di una ragazza non sposata dalla casa di suo padre era in certi casi una "fuga di coppia" messa in atto in quanto non vi era il permesso paterno alla celebrazione delle nozze.  Leggi relative alla violenza sessuale (azioni sessuali commesse con violenza o coercizione) sono state codificate per la prima volta solo verso la fine dell'era repubblicana, mentre il rapimento avvenuto con lo scopo di commettere un reato sessuale è emerso come distinzione giuridica[67].   Offerte votive di Pompei: peni, seni e un utero. Guarigione e Magia Modifica L'aiuto divino poteva essere ricercato anche tramite rituali religiosi privati che avvenivano, associati a lunghi trattamenti medici, col compito di migliorare o bloccare la fertilità, o per cerar di curare malattie degli organi riproduttivi  Teorie della sessualità                            Modifica Antiche teorie riguardanti l'ambito sessuale sono stati prodotti da e per un'élite istruita. La misura in cui queste teorizzazione del sesso abbia effettivamente interessato il comportamento quotidiano rimane discutibile, anche tra coloro che fossero stati attenti agli scritti filosofici e medici che hanno presentato tali opinioni. Questo si presenta come un discorso elitario, mentre spesso deliberatamente critica i comportamenti più tipici o comuni, ma allo stesso tempo non può essere assunta per escludere la possibilità che questi valori fossero più o meno ampiamente seguiti nella società.   Una coppia eterosessuale, lampada a olio. Nel IV libro di [Lucrezio], il De rerum natura viene fornito uno dei passaggi più estesi sulla sessualità umana nella letteratura latina. Yeats descrivendo la traduzione da John Dryden l'ha definita la più bella descrizione del rapporto sessuale mai scritto[68]. Lucrezio era contemporaneo di Catullo e di Cicerone(verso la metà del I secolo a.C. ed il suo poema didattico è una presentazione della filosofia epicureaall'interno della tradizione della tradizione della poesia latina di Ennio.  L'epicureismo era materialista e dedito all'edonismo; il sommo bene qui è il piacere, definito come l'assenza di dolore fisico e stress emotivo. L'epicureo cerca di gratificare i suoi desideri con il minimo dispendio di passione e fatica. I desideri sono classificati come quelli che sono naturali e necessari, come la fame e la sete; quelli che sono naturali ma non necessari, come il sesso; e quelli che non sono né naturali né necessari, compreso il desiderio di dominare sugli altri e glorificare se stessi[69]. È in questo contesto che Lucrezio presenta la sua analisi dell'amore e del desiderio sessuale, che contrasta l'ethos erotico di Catullo e ha influenzato i poeti d'amore del periodo augusteo[70]  La sessualità maschile                                       Modifica Durante tutta l'epoca repubblicana la libertà politica di un cittadino romano ("Libertas") è stata definita in parte dal diritto come un preservare il corpo dalla costrizione fisica, il che comprendeva sia la punizione corporale che l'abuso sessuale[71]. Il valore-virtus era quella cosa che rendeva un uomo adulto ancor più completamente uomo/maschio-vir ed era questa una delle principali tra le virtù considerate attive[72].  Gli ideali romani di mascolinità furono così la premessa per l'assunzione di un ruolo attivo e dominante in ogni campo e sfera della vita; questa era anche la prima tra le direttive imposte al comportamento sessuale maschile: "lo slancio verso l'azione potrebbe esprimersi più intensamente in un ideale di dominio che riflette la gerarchia della società patriarcale romana"[73]. La mentalità di conquista faceva parte di un vero e proprio culto della virilità che, in particolare, dava forma alle "regole" riguardanti le pratiche omosessuali[74]. Un tal accento posto sull'idea di sottomissione e dominio ha portato gli studiosi a vedere le espressioni della sessualità maschile degli antichi romani esclusivamente in termini di modello binario penetratore-penetrato; cioè l'unico modo corretto per un maschio romano di cercare gratificazione sessuale era quello d'inserire il suo pene nel/nella partner[18]. Permettere di lasciarsi penetrare invece rappresentava una minaccia contro la sua libertà in quanto cittadino e contro la propria integrità sessuale: l'attività sessuale definisce così, almeno in parte, la definizione di libero cittadino rispettabile dallo schiavo o dalla persona "libera ma sottomessa-passiva".  Ci si aspettava ed era socialmente accettabile per un maschio romano nato libero il voler intrattenere rapporti intimi con partner di entrambi i sessi, questo almeno fintanto che egli prendeva ed assumeva su di sé il ruolo dominante[75]. Oggetti consentiti del desiderio erano quindi le donne di qualsiasi condizione sociale o giuridica, coloro che esercitavano la prostituzione maschile o gli schiavi, mentre i comportamenti sessuali al di fuori dal vincolo matrimoniale dovevano essere limitati a schiavi e prostitute o, meno frequentemente, ad una concubina.  La mancanza di autocontrollo, anche nella gestione della propria vita sessuale, era un'indicazione che quell'uomo era incapace di governare gli altri[76]; il puro e semplice godimento dato dal "basso piacere sensuale" minacciava pertanto di erodere l'identità maschile elitaria della società, così come la stima ed il rispetto rivolti naturalmente alla persona istruita[77]. Era un punto di orgoglio per Caio Gracco il sostenere che durante il suo mandato come governatore provinciale rimase senza alcuno schiavo scelto tra i ragazzi di più bell'aspetto, che nessuna prostituta visitò la sua casa, e che non avvicinò mai gli schiavi-bambini appartenenti ad altri uomini[78].  In epoca imperiale, preoccupazioni circa la perdita della libertà politica e la subordinazione del cittadino all'imperatore sono stati espressi da un percepibile aumento di comportamento omosessuale passivo tra gli uomini liberi, accompagnato ciò anche da una crescita documentata di punizioni corporali inflitte ai cittadini[79]. La dissoluzione degli ideali repubblicani di interità fisica in relazione alla Libertas contribuisce e viene riflessa dalla licenza sessuale e dalla decadenza associata con l'Impero[80].   Nudo eroico rappresentante Eurialo e Niso, esempio di omoerotismo maschile in linea con la morale romana a detta di Publio Virgilio Marone. Jean-Baptiste Roman 1827. Nudità maschile      Modifica Magnifying glass icon mgx2.svg                            Lo stesso argomento in dettaglio: Storia della nudità. Mostrarsi nudi in pubblico poteva essere offensivo o sgradevole anche in ambienti tradizionali; Cicerone deride Marco Antonio come indegno di apparire quasi nudo come partecipante al Lupercalia, anche se ciò veniva ritualmente richiesto[81]. La nudità è uno dei temi principali di questa festa religiosa che attira l'attenzione di Ovidio nei Fasti, il suo lungo forma poema sul calendario romano[82]. Augusto, durante il suo programma di revivalismo religioso, tentò di riformare i Lupercalia, in parte sopprimendo l'uso della nudità, nonostante il suo aspetto di fertilità[83].  Connotazioni negative di nudità includono la sconfitta in guerra, dal momento che i prigionieri sono stati spogliati, e la schiavitù, dal momento che gli schiavi in vendita sono stati spesso esposti nudi. La disapprovazione nei confronti della nudità era quindi nei tutta nei confronti della "marcatura" ch'essa dava al corpo (esser nudi marchiava d'indegnità il corpo deprivandolo della nobiltà che lo caratterizza in quanto cittadino; questo significato era molto più presente rispetto a quello d'esser una mera questione di cercare di reprimere il desiderio sessuale considerato inadeguato[84].  L'influenza proveniente dall'arte greca tuttavia ha portato sempre più a creare ritratti di nudità eroicariferibili sia agli uomini che alle divinità romane, pratica questa che ha avuto inizio nel II secolo a.C. Quando le statue dei generali romani nudi alla maniera del culto rivolto ai sovrani ellenistici cominciarono per la prima volta a diffondersi, vi fu da parte della popolazione una forte reazione "scandalizzata", non tanto o non semplicemente perché veniva esposta la figura maschile nuda, ma soprattutto in quanto evocante concetti di regalità e divinità che si trovavano in contrasto con gli ideali repubblicani di cittadinanza così com'era incarnata dalla toga[85].  Il dio Marte si presenta come uomo barbuto maturo in abito di generale, ciò quando viene concepito come padre del popolo in tutta la sua dignità, mentre le sue raffigurazioni giovanili, senza barba e nudo, mostrano tutta l'influenza proveniente dalla rappresentazione greca di Ares. Nella prima arte augustea e giulio-claudia l'adozione programmatica dello stile neoatticoe dell'arte ellenistica ha portato alla più complessa significazione del corpo maschile mostrato nudo, parzialmente nudo oppure indossante una lorica musculata (o corazza eroica)[86].  Una notevole eccezione nei confronti della nudità in pubblico riguardava le terme, purtuttavia anche in quest'ambito gli atteggiamenti sono cambiati nel corso del tempo. Nel II secolo a.C. Catone il Vecchiopreferiva non fare il bagno nudo alle terme in presenza del figlio, mentre Plutarco pare sottolineare il fatto che nei suoi tempi e in quelli immediatamente precedenti poteva esser ritenuto assai vergognoso per gli uomini maturi esporre i loro corpi davanti a maschi più giovani[87]. In seguito vi fu addirittura la possibilità per uomini e donne di fare il bagno assieme[88].  Fallicismo                           Modifica Magnifying glass icon mgx2.svg                            Lo stesso argomento in dettaglio: Simbolismo fallico. La sessualità romana, così com'è ripetutamente rappresentata in letteratura, è stata descritta come essenzialmente fallocentrica[89].  Il "fallo" (simbologia del pene in erezione) doveva avere il potere di scacciare il malocchio ed altre forze soprannaturali malefiche; è stato utilizzato come amuleto dalle capacità "fascinatorie" (fascinus), di cui sopravvivono molti esempi in particolare sotto forma di tintinnabulum[90].  Il fallo dalle dimensioni e dalla lunghezza esagerata è stato associato nell'arte romana col dio Priapo, divinità itifallica per eccellenza). La raccolta poetica di autori anonimi intitolata Carmina Priapea fa parlare direttamente il "dio dei giardini", che minaccia allegramente di stupro tramite sesso anale qualsiasi ladro potenziale e chiunque si azzardi ad oltrepassare i confini della casa quando non ben accetto dai padroni. La maledizione scagliata da Priapo può causare sia l'impotenza che uno stato tormentoso di eccitazione perenne senza alcuna possibilità di remissione, il priapismo.  Ci sono all'incirca 120 termini latini registrati per indicare metaforicamente l'organo sessuale maschile e nella stragrande maggioranza dei casi questi vengono a descrivere il sesso del maschio come uno strumento d'aggressione, quando non come una vera e propria arma[91]. L'oscenità più comune per chiamare il pene è "mentula", molto utilizzato da Marziale al posto di termini più gentili o soft. Virga, come altre parole significanti ramo, asta, palo, trave erano metafore comuni, così anche vomere o aratro.  Castrazione e circoncisione                                                  Modifica Alcuni romani, bramosi di conservare il più a lungo possibile la bellezza pre-adolescenziale e femminea dei propri schiavi (considerati e chiamati come deliciae o delicati-"giocattoli, delizie") a volte li facevano sottoporre poco dopo la pubertà alla castrazione, cioè all'asportazione dei testicoli nel tentativo di preservare l'aspetto androgino della loro giovinezza. L'imperatore Nerone aveva il suo castrato preferito di nome Sporo, che giunse fino al punto di sposarlo in una cerimonia pubblica[92].  Effeminatezza e travestitismo                                                  Modifica Quella di effeminatezza era tra le accuse preferite rivolte agli avversari nel corso dell'invettiva politica; essa colpiva soprattutto coloro che difendevano le istanze dei populares, quella fazione politica i cui capi si presentavano come difensori del popolo (democratici), che si trovava perennemente in contrasto con gli ottimati, l'élite conservatrice nobiliare[93].  Negli ultimi anni della repubblica varie personalità tra i populares sono state tacciate d'esser irrimediabilmente effeminate, oltre a Gaio Giulio Cesare anche Marco Antonio, Publio Clodio Pulcro e Lucio Sergio Catilina assieme a tutti i suoi amici cospiratori (vedi congiura di Catilina): venivano tutti derisi in quanto eccessivamente curati (ben vestiti e profumati) o perché giravano voci insistenti su loro trascorsi sessuali con altri uomini nei cui confronti avrebbero assunto il ruolo denigrato della femmina; allo stesso tempo però l'effeminato era anche il donnaiolo, il Don Giovanni impenitente in possesso di fascino e carisma superiori alla norma e che amava vestirsi elegantemente ed esser sempre profumato[94].  Forse l'episodio più celebre di crossdressingnell'antica Roma si è verificato nel 62 a.C. quando il succitato Clodio Pulcro violò i riti annuali della Bona Dea e che erano riservati alle sole donne; essi si svolsero nella casa di Cesare, nell'epoca in cui questi si trovava quasi al termine del suo mandato di pretoree s'apprestava ad assumere l'investitura di pontefice massimo. Clodio si travestì come una flautista per riuscire ad entrare, come viene descritto da Cicerone che lo addita come sacrilego[95]:  «Togli il suo vestito color zafferano, la sua tiara, le sue scarpette dai lacci viola, il suo reggiseno e il suo Salterio, togli il suo comportamento sfacciato e il suo crimine sessuale, ed ecco che allora Clodio si rivela improvvisamente come un democratico.[96]»  Le azioni di Clodio, che era stato appena eletto questore ed era in procinto di compiere trent'anni, sono spesso state considerate come un ultimo scherzo giovanile. La natura tutta femminile di questi riti notturni ha attirato nel corso del tempo molta speculazione pruriginosa negli uomini; sono state fantasticate come enormi orge lesbiche compiute tra i fumi dell'alcol e che potevano pertanto anche essere molto divertenti da osservare[97]. Clodio si suppone che avesse avuto lo scopo di sedurre la moglie di Cesare, ma la sua voce maschile lo ha smascherato prima di poter riuscire ad averne la possibilità. Lo scandalo ha spinto Cesare a cercare di ottenere un divorzio immediato per poter in tal maniera tenere sotto controllo i danni sopravvenuti alla propria reputazione, dando origine alla famosa frase divenuta proverbiale "la moglie di Cesare deve essere sopra di ogni sospetto." L'incidente ha riassunto comunque il disordine vigente durante gli ultimi anni della repubblica romana[98].  L'ambiguità sessuale è poi una caratteristica peculiare dei sacerdoti della dea Cibele conosciuti come Galli, il cui abbigliamento rituale includeva capi femminile. Essi sono a volte considerati come una specie di sacerdozio transgender, in quanto veniva richiesto loro di sottoporsi ad auto-evirazione ad imitazione di Attis. La complessità dell'identità di genere nella religione di Cibele e Attis e nel relativo mito sono ben esplorate da Catullo in una delle sue poesie più lunghe, il Carme 63[99].  Rapporti omosessuali           Modifica Magnifying glass icon mgx2.svg                            Lo stesso argomento in dettaglio: Omosessualità nell'Antica Roma.  Lato della Coppa Warren che mostra il "conquistatore erotico" del puer delicatus (ragazzino), incoronato. Gli uomini romani erano del tutto liberi di avere rapporti sessuali con maschi di status inferiore, senza per questo aver alcuna percezione di una qualche perdita di mascolinità; soltanto coloro che prendevano il ruolo passivo nel rapporto (a volte indicati come sottomessi) venivano fortemente denigrati come deboli e privi di virilità.  I cittadini romani che erano solitamente contrassegnati come "maschile" potevano attuare la penetrazione sessuale di uomini sia verso coloro che esercitavano la prostituzione maschile che nei confronti degli schiavi i quali solitamente erano ragazzi sotto i vent'anni d'età[100].  La letteratura comprende molte opere che parlano di omoerotismo; comprende le poesie di Catullo[101]dedicate al suo ragazzino quattordicenne di nome Juventius (Giovenzio), le elegie di Tibullo[102] e Properzio[103], la seconda egloga delle Bucoliche di Virgilio e diverse poesie di Orazio. Lucrezio affronta il tema dell'amore provato nei confronti dei ragazzi nel suo De Rerum Natura (4.1052–1056). Sebbene Publio Ovidio Nasone includa di trattare esempi mitologici di omoerotismo nelle sue Metamorfosi, egli risulta altresì prendere al riguardo una posizione che è insolita fra i poeti d'amore latini, ed in effetti tra i Romani in generale, quando esprime opinioni aggressivamente eterosessuali. Il Satyricon di Petronio Arbitro è talmente permeato di erotismo culturale di tipo omosessuale che nei circoli letterari europei del XVIII secolo, il suo nome è diventato addirittura un sinonimo di omosessualità.  Anche se il diritto romano non riconosceva il matrimonio tra uomini, nel periodo imperiale alcune coppie maschili celebrarono riti matrimoniali tradizionali. Tali forme di matrimonio tra persone dello stesso sesso sono riportati da fonti che li deridono; i sentimenti dei partecipanti non sono registrati.  Lo stupro sugli uomini            Modifica Gli uomini che erano stati violentati perdevano la legittimazione all'agire sociale, ne venivano esentati; acquisivano lo status di infamia, lo stesso degli uomini dediti alla prostituzione maschile o di quelli che assumevano volontariamente il ruolo passivo nell'atto sessuale. Secondo il giurista Pomponio, dopo che l'uomo è stato violentato con la forza dai ladri o dal nemico in tempo di guerra, dovrebbe sopportarne lo stigma. I timori di stupri di massa a seguito di una sconfitta militare veniva esteso anche ai maschi oltre che alle potenziali vittime di sesso femminile.  Il diritto romano ha affrontato lo stupro di un cittadino di sesso maschile già nel II secolo a.C., quando venne emessa una sentenza riguardante una causa che potrebbe aver coinvolto un maschio di orientamento omosessuale; anche se un uomo che aveva lavorato nell'ambito della prostituzione non poteva essere violentato per una questione di diritto, è stato stabilito difatti che anche un uomo poco raccomandabile e discutibile fosse in pieno possesso degli stessi diritti degli altri uomini liberi di non avere il proprio corpo sottoposto da una sessualità forzata. In un libro sull'arte della retorica del I secolo a.C. lo stupro di un maschio nato libero (ingenuus) è equiparato a quello di una matrona ed in quanto ciò trattarsi di un crimine capitale. La Leges Iuliae#Lex Iulia de vi publica et privata (17 a.C.) definisce lo stupro come il sesso forzato contro un ragazzo o una donna e lo stupratore era oggetto di esecuzione, una sanzione alquanto rara nel diritto romano. Costituiva inoltre un delitto capitale per un uomo rapire un bambino nato libero per utilizzarlo in scopi eminentemente sessuali; la corruzione del protettore del ragazzo per averne l'opportunità ne rappresentava un'aggravante: in questo caso la negligenza degli accompagnatori poteva essere perseguita sotto varie leggi, riversando patte della colpa su coloro che non erano riusciti nelle loro responsabilità come guardiani, piuttosto che sulla vittima. Anche se la legge riconosceva l'irreprensibilità della vittima, la retorica utilizzata dalla difesa indica che i cosiddetti "atteggiamenti colpevoli" avrebbeto potuto essere sfruttati fra i giurati.  Nella sua collezione di codici aneddotici che si occupavano d assalti alla castità, lo storico Valerio Massimo dispone in egual misura di un numero di vittime di sesso maschile rispetto a quelle di sesso femminile.  Sessualità militare                                          Modifica Il soldato romano, come ogni romano libero e rispettabile dello Stato, avrebbe dovuto mostrare autodisciplina in materia di sesso. Ai soldati colpevoli di adulterio veniva dato un congedo disonorevole, mentre agli adulteri condannati era impedito l'arruolamento[104], con condanne rigorose che potevano vietare le prostitute e i magnaccia dal campo,[105].  Anche se in generale l'esercito romano, sia in marcia che in un forte permanente (castra) mantenevano tra i partecipanti un numero di seguaci di campo che potevano includere anche le prostitute. La loro presenza sembra essere data per scontata e menzionata soprattutto quando poteva diventare un dato problematico[105]; per esempio quando Scipione Emiliano stava partecipando all'assedio di Numanzianel 133 a.C. respinse i seguaci sessuali del campo come una delle sue misure per il ripristino della disciplina[106].  Forse la cosa più singolare è il divieto contro il matrimonio romano mentre si faceva parte degli effettivi dell'esercito imperiale. Nel suo primo periodo, Roma aveva un esercito di cittadini che avevano lasciato le proprie famiglie per prendere le armi, quando ve ne fosse stato bisogno. Durante l'espansionismo della media repubblica romana, Roma iniziò ad acquisire vasti territori da difendere come le province (vedi la provincia romana), ma nel corso dell'epoca di Gaio Mario (fino all'86 a.C.) l'esercito era stato sempre più professionalizzato.  Il divieto di matrimonio per i soldati in servizio iniziò sotto Augusto (27 a.C.-14 d.C.), forse per scoraggiare le famiglie al seguito dell'esercito e compromettendone così la sua mobilità. Il divieto di matrimonio era applicato a tutti i ranghi fino a quello del centurione; mentre per gli uomini delle classi dirigenti c'era l'esenzione. Con il II secolo la stabilità dell'impero conosciuta come pax romana ha costretto la maggior parte delle unità a forti permanenze in terre lontane, cosicché si potevano spesso sviluppare rapporti anche con donne locali. Sebbene legalmente queste unioni non potevano essere formalizzate in matrimonio legittimo, è stato riconosciuto che il loro valore stava nel fornire un supporto emotivo.  Dopo che un soldato fosse stato dimesso, alla coppia era concesso il diritto di matrimonio legale in quanto cittadini (il connubium) e tutti i bambini che già eventualmente avevano veniva loro concesso lo status di esser nati cittadini[107]. Settimio Severo revocò il divieto augusteo nel 197[108].  Altre forme di gratificazione sessuale a disposizione dei soldati erano l'uso di schiavi, gli stupri di guerra e la relazione tra persone dello stesso sesso[109]. Il comportamento omosessuale tra i soldati è stato oggetto di sanzioni, compresa la pena la morte[105] in quanto violazione della disciplina e del diritto militare. Polibio (2 sec a.C.) riferisce che l'attività omosessuale all'interno delle forze armate era punita con la fustuarium, una fustigazione fino a morte[110].  Il sesso tra commilitoni violava il decoro romano in quanto s'intratteneva un rapporto sessuale con un altro maschio nato libero. Un soldato aveva sopra ogni altra cosa il dovere di mantenere la propria mascolinità, non consentendo in nessun caso pertanto che il proprio corpo potesse essere utilizzato per scopi sessuali. Questa integrità fisica era in contrasto con i limiti imposti sulle sue azioni come uomo libero all'interno della gerarchia militare; più sorprendentemente, i soldati romani erano i soli cittadini regolarmente sottoposti a punizioni corporali, riservate al mondo civile soprattutto agli schiavi. L'integrità sessuale ha contribuito a distinguere lo status del soldato, che altrimenti avrebbe sacrificato molto della sua autonomia civile rispetto a quella dello schiavo[111].  Nella guerra, subire lo stupro equivaleva alla sconfitta, un altro motivo per il soldato di non compromettere il proprio corpo sessualmente[112].  La sessualità femminile                    Modifica A causa dell'enfasi romana data alla famiglia, la sessualità femminile è stata considerata una delle basi per l'ordine sociale e la prosperità. Ci si aspettava che le donne romane esercitassero la propria sessualità all'interno del matrimonio, e venissero premiate per la loro integrità sessuale (pudicitia) e fecondità. Augusto concesse onori e privilegi speciali alle donne che avevano dato alla luce almeno tre bambini, attraverso lo Ius trium liberorum; la sua legge morale era incentrata sullo sfruttamento della sessualità delle donne.  Il controllo della sessualità femminile era considerata necessaria per la stabilità dello Stato, tanto che era sancito nella forma più vistosa data dalla verginitàassoluta delle Vestali[113] attendenti al sacro fuoco. Una vestale che avesse violato il proprio voto sarebbe stata sepolta viva in un rituale che avrebbe imitato per alcuni aspetti le pratiche funerarie romane ed il suo amante l'avrebbe seguita[114]. La sessualità femminile, sia disordinata sia esemplare, spesso poteva avere impatti anche profondi sulla religione di Stato in tempo di crisi per la repubblica romana[115].  Come avveniva per gli uomini, anche per le donne libere che si fossero esposte sessualmente, come prostitute od esecutrici di lenocinio, o che si fossero rese disponibili indiscriminatamente, sarebbero state escluse dalla protezione legale dovuta loro nonché dalla rispettabilità sociale[116].  Molte fonti letterarie romane approvano le donne rispettabili che esercitano la passione esclusivamente all'interno dell'istituzione matrimoniale[117]; mentre la letteratura antica prende con prepotenza una visione fortemente maschilista della sessualità, il poeta augusteo Publio Ovidio Nasone esprime invece un interesse esplicito e praticamente unico del modo in cui le donne subiscono il rapporto sessuale[118] (ciò innanzi tutto nellArs amatoria ma anche negli Amores).  Il corpo femminile                                Modifica Gli atteggiamenti morali nei confronti della nudità femminile differivano, almeno in parte, da quelli dei Greci, pur essendo notevolmente influenzati da loro; questi ultimi avevano idealizzato il corpo maschile nudo - il nudo eroico - mentre ritraggono sempre le donne rispettabili coperte. La parziale nudità delle dèe nell'arte imperiale romana, tuttavia, poteva mettere in evidenza il seno come parte fisica dignitosa, ma in quanto per renderne un'idea piacevole d'immagine di nutrimento, abbondanza e tranquillità[119].  L'arte erotica sopravvissuta di questo periodo indica che le donne con seni piccoli e fianchi larghi raffiguravano l'ideale forma del corpo umano femminile[120]. Dal I secolo d.C. l'arte romana comincia a mostrare un vasto interesse per il nudo artisticofemminile impegnato in varie attività tra le quali anche la sessualità[121] (vedi l'arte erotica a Pompei e Ercolano); l'arte pornografica rappresentante donne in qualità di presunte prostitute nel momento in cui svolgono atti sessuali poteva mostrare il seno coperto da uno "strophium" (una sorta di reggiseno) anche quando il resto del corpo era nudo.  Nel mondo reale, così come viene descritto in letteratura, le prostitute a volte si presentavano nude all'ingresso del cubicolo del bordello a loro riservato, oppure si mostravano indossare abiti di seta trasparente; gli schiavi (e schiave) in vendita sono stati spesso esposti nudi per consentire agli acquirenti d'ispezionare i loro eventuali difetti, ma anche per simboleggiare che non avevano il diritto di controllare il proprio corpo[122]. Seneca il Vecchio descrive il momento della vendita di una donna: "lei si presentò nuda sulla riva, a piacere dell'acquirente: ogni parte del suo corpo è stato esaminato e ritenuto. Volete ascoltare il risultato della vendita? Il pirata ha venduto, il protettore ha comprato, che la si potesse impiegare come una prostituta"[123].  La visualizzazione del corpo femminile lo rendeva maggiormente vulnerabile, Varrone ha detto che la vista era il più grande dei sensi, perché mentre gli altri sono in un modo o nell'altro limitati dalla vicinanza, la vista poteva penetrare anche fino all'altezza delle stelle; egli pensava che la parola latina per vista-lo sguardo intenso, "visus", fosse etimologicamente collegato a vis-forza/potere. Ma il legame tra visus e vis, continua, implica anche la possibilità sempre presente di violazione (tramite quindi lo sguardo maschile), come Atteone guardando nuda Diana ne aveva violato la divinità[124].  Il corpo femminile completamente nudo come viene ritratto nella scultura romana è stato pensato essenzialmente per incarnare un concetto universale di Venere, la cui controparte greca Afrodite è la Deapiù spesso dipinta in stato di nudità nell'arte greca[125].  Genitali femminili              Modifica Il termine basilare osceno per i genitali femminili è "cunnus"-fica, anche se forse non così fortemente offensiva come per la moderna lingua anglosassone[126]. Marziale utilizza la parola più di trenta volte, Catullo una volta e Orazio tre solo nei suoi primi lavori; appare anche nei Priapea e nei graffiti[127]. Una delle parole gergali usate dalle donne per i loro genitali era "porcus", in particolare quando donne mature discutevano di ragazze; Varrone collega quest'uso della parola al sacrificio di un maiale alla dea Cerere nel corso dei riti preliminari di nozze[128].  Le metafore di campi, giardini e prati sono anch'esse comuni, come lo è l'immagine dell'aratro maschile riferito al solco femminile[129]; altre metafore includono la grotta, la fossa, il sacchetto, il vaso, la stufa, il forno e l'altare[130].  Anche se i genitali delle donne appaiono spesso nelle invettive e all'interno dei versi satirici come oggetti di disgusto, sono invero raramente presenti nell'elegia d'amore[131]. Ovidio, il più eterosessuale dei poeti classici d'amore, è l'unico che si riferisce al dare un piacere alla donna attraverso la stimolazione dei genitali[132]; Marziale invece scrive dei genitali femminili solamente in una maniera offensiva, descrivendo la vagina di una donna come fosse l'esofago di un pellicano.[133] e la paragona inoltre al sedere del ragazzo come ricettacolo per il fallo[134].  La funzione della clitoride ("landica") è stata ben compresa[135]; nel latino classico il termine era di un'oscenità altamente indecorosa ritrovato solo nei graffiti e nei Priapea. Il clitoride era solitamente indicato come una metafora, come ad esempio fa Giovenale quando lo chiama "crista" (cresta)[136]  Omosessualità femminile          Modifica Magnifying glass icon mgx2.svg                          Lo stesso argomento in dettaglio: Storia del lesbismo. Le parole greche indicanti una donna che preferisce il sesso con un'altra donna includono l'hetairistria (da confrontare con hetaira-cortigiana/compagna), tribas (plurale tribadi) e lesbia  Sessualità e gioventù                              Modifica Sia i maschi che le femmine nati liberi potevano indossare la "Toga praetexta", una toga bianca normale con una larga striscia viola sui bordi; era riservata ai ragazzi cittadini che non avevano però ancora raggiunto la maggiore età. Questa toga assegnava chi la portava lo status di inviolabilità[137]; lo stupro di un ragazzo nato libero costituiva un crimine capitale.  Riti di passaggio                               Modifica Ulteriori informazioni Questa sezione sull'argomento sessualità è ancora vuota. Aiutaci a scriverla! Sesso, matrimonio e società                       Modifica Relazione padrone-schiavo                              Modifica L'attrattiva sessuale era una delle caratteristiche principali richieste negli schiavi in quanto considerati proprietà oggettiva, il loro padrone poteva utilizzarli sessualmente a piacimento o anche richiederli in prestito se appartenevano ad altri. Le lettere di Cicerone hanno suggerito ad alcuni studiosi che egli potesse aver avuto una relazione omosessuale a lungo termine col proprio schiavo, e poi liberto, di nome Marco Tullio Tirone.  Prostituzione                 Modifica Magnifying glass icon mgx2.svg                            Lo stesso argomento in dettaglio: Prostituzione nell'antica Roma. Atti sessuali e relative posizioni                                                  Modifica Masturbazione                                        Modifica Magnifying glass icon mgx2.svg                            Lo stesso argomento in dettaglio: Storia della masturbazione. Ermafroditismo e androginia                                                            Modifica Magnifying glass icon mgx2.svg                            Lo stesso argomento in dettaglio: Ermafrodito, Afrodito e Androgino. Note      Modifica ^ Catharine Edwards, The Politics of Immorality in Ancient Rome (Cambridge University Press, 1993), p. 65. ^ Beert C. Verstraete and Vernon Provencal, introduzione a Same-Sex Desire and Love in Greco-Roman Antiquity and in the Classical Tradition (Haworth Press, 2005), p. 5. Per una più estesa discussione su come la percezione moderna della decadenza sessuale romana sia stata prodotta ad arte dalla polemistica cristiana nei suoi strali anti-pagani, vedi Alastair J. L. Blanshard, "Roman Vice," in Sex: Vice and Love from Antiquity to Modernity (Wiley-Blackwell, 2010), pp. 1–88. ^ Rebecca Langlands, Sexual Morality in Ancient Rome (Cambridge University Press, 2006), p. 17. ^ Karl-J. Hölkeskamp, Reconstructing the Roman Republic: An Ancient Political Culture and Modern Research (Princeton University Press, 2010), pp. 17–18. ^ Langlands, Sexual Morality, p.17. ^ Langlands, Sexual Morality, p. 20. ^ Elaine Fantham, "Stuprum: Public Attitudes and Penalties for Sexual Offences in Republican Rome", in Roman Readings: Roman Response to Greek Literature from Plautus to Statius and Quintilian (Walter de Gruyter, 2011), p. 121; Amy Richlin, "Not before Homosexuality: The Materiality of the cinaedus and the Roman Law against Love between Men", Journal of the History of Sexuality 3.4 (1993), p. 556. Under the Empire, the emperor assumed the powers of the censors (p. 560). ^ Michel Foucault, Storia della sessualità vol. II: la cura di sé (New York: Vintage Books, 1988), vol. 3, p. 239 (in contrasto con la visione cristiana della sessualità come "legata al male") et passim, e come viene sintetizzato da Inger Furseth and Pål Repstad, An Introduction to the Sociology of Religion: Classical and Contemporary Perspectives (Ashgate, 2006), p. 64. ^ Eva Cantarella, Secondo natura. La bisessualità nel mondo antico (Yale University Press, 1992, 2002, originariamente pubblicato nel 1988 in italiano), p. xii. ^ Langlands, Sexual Morality, pp. 37–38 et passim. ^ Cantarella, Bisessualità nel mondo antico, pp. xii–xiii. ^ John R. Clarke, Looking at Lovemaking: Constructions of Sexuality in Roman Art 100 B.C.–A.D. 250 (University of California Press, 1998, 2001), pp. 9, 153ff. ^ Langlands, Sexual Morality, p. 31, in special modo la nota 55; Clarke, Looking at Lovemaking, p. 11. ^ Thomas A. McGinn, The Economy of Prostitution in the Roman World (University of Michigan Press, 2004), p. 164. ^ Craig Williams, Roman Homosexuality (Oxford University Press, 1999, 2010), p. 304, citando Saara Lilja, Homosexuality in Republican and Augustan Rome (Societas Scientiarum Fennica, 1983), p. 122. ^ Martha C. Nussbaum, "The Incomplete Feminism of Musonius Rufus, Platonist, Stoic, and Roman", in The Sleep of Reason: Erotic Experience and Sexual Ethics in Ancient Greece and Rome (University of Chicago Press, 2002), p. 299. ^ Marilyn B. Skinner, introduction to Roman Sexualities (Princeton University Press, 1997), p. 11. ^ a b Langlands, Sexual Morality, p. 13. ^ Edwards, The Politics of Immorality, pp. 66–67, especially note 12. ^ Clarke, Looking at Lovemaking, p. 8, sostiene che gli antichi romani "non hanno un'idea consapevole della loro sessualità". Vedi anche Diana M. Swancutt, "Still before Sexuality: 'Greek' Androgyny, the Roman Imperial Politics of Masculinity and the Roman Invention of the tribas", in Mapping Gender in Ancient Religious Discourses (Brill, 2007), pp. 15–16 et passim, e la discussione di costruttivismo sociale contrario all'essenzialismo di Thomas Habinek, "The Invention of Sexuality in the World-City of Rome", in The Roman Cultural Revolution (Cambridge University Press, 1997), p. 2ff. ^ Clarke, Looking at Lovemaking, p. 9. ^ Amy Richlin, "Sexuality in the Roman Empire", in A Companion to the Roman Empire (Blackwell, 2006), p. 330. ^ Richlin, "Sexuality in the Roman Empire," p. 331. ^ Ovid, Tristia 2.431ff. ^ Jasper Griffin, "Propertius and Antony", Journal of Roman Studies 67 (1977), p. 20. ^ Ovid, Tristia 2. 413 and 443–444; Heinz Hofmann, Latin Fiction: The Latin Novel in Context (Routledge, 1999), p. 85. ^ Plutarco, Vita di Crasso 32. ^ Clarke, Looking at Lovemaking, p. 3 et passim. ^ Clarke, Looking at Lovemaking, p. 108. ^ La "Tabella" era un piccolo dipinto portatile, distinto dalla pittura murale permanente. ^ Ovidio, Tristia 2, così com'è citato da Clarke in Looking at Lovemaking, pp. 91–92. ^ Clarke, Looking at Lovemaking, p. 93. ^ Clarke, Looking at Lovemaking, pp. 3 and 212 ff., quotation on p. 216. ^ L'osservazione critica proviene da Svetonio, Vita di Orazio: Ad res Venerias intemperantior traditur; nam speculato cubiculo scorta dicitur habuisse disposita, ut quocumque respexisset ibi ei imago coitus referretur; Clarke, Looking at Lovemaking, p. 92. ^ Svetonio, Vita di Tiberio 44.2; Clarke, Looking at Lovemaking, pp. 92–93. ^ Richlin, "Sexuality in the Roman Empire," p.329. ^ Richlin, "Sexuality in the Roman Empire," p. 329. ^ Ad esempio, Agatha of Sicily e Febronia of Nisibis; Sebastian P. Brock and Susan Ashbrook Harvey, introduction to Holy Women of the Syrian Orient (University of California Press, 1987), pp. 24–25; Harvey, "Women in Early Byzantine Hagiography: Reversing the Story," in That Gentle Strength: Historical Perspectives on Women in Christianity (University Press of Virginia, 1990), pp. 48–50. I racconti di mutilazione del seno si trovano nelle fonti e nell'iconografia cristiana, non nell'arte e nella letteratura romana.. ^ Richlin, "Sexuality in the Roman Empire," p. 330. Anche se non vi sono dubbi sul fatto che Ausonio fosse un cristiano, le sue opere contengono molte indicazioni che dimostrano un notevole interesse - forse addirittura ne è stato un praticante - nei riguardi delle religioni tradizionali romane e celtiche. ^ Come sostenuto da Ariadne Staples in tutto il suo From Good Goddess to Vestal Virgins: Sex and Category in Roman Religion (Routledge, 1998). ^ Celia E. Schultz, Women's Religious Activity in the Roman Republic (University of North Carolina Press, 2006), pp. 79–81; Michael Lipka, Roman Gods: A Conceptual Approach (Brill, 2009), pp. 141–142 ^ See Flamen Dialis and rex sacrorum. ^ Mary Beard, J.A. North, and S.R.F. Price, Religions of Rome: A History (Cambridge University Press, 1998), vol. 1, p. 53; Robin Lorsch Wildfang, Rome's Vestal Virgins: A Study of Rome's Vestal Priestesses in the Late Republic and Early Empire (Routledge, 2006), p. 20. ^ Staples, From Good Goddess to Vestal Virgins, p. 149. ^ Cicerone, De officiis 1.17.54: nam cum sit hoc natura commune animantium, ut habeant libidinem procreandi, prima societas in ipso coniugio est, proxima in liberis, deinde una domus, communia omnia; id autem est principium urbis et quasi seminarium reipublicae; Sabine MacCormack, "Sin, Citizenship, and the Salvation of Souls: The Impact of Christian Priorities on Late-Roman and Post-Roman Society," Comparative Studies in Society and History 39.4 (1997), p. 651. ^ Com'è espresso nella prima invocazione a Venere di Tito Lucrezio Caro nel De rerum natura: "Begetter (genetrix) of the line of Aeneas, the pleasure (voluptas) of human and divine." ^ J. Rufus Fears, "The Theology of Victory at Rome: Approaches and Problem," Aufstieg und Niedergang der römischen Welt II.17.2 (1981), pp. 791–795. Silla poteva in quel momento essere o meno stato un àugure. ^ Craig A. Williams, Roman Homosexuality: Ideologies of Masculinity in Classical Antiquity(Oxford University Press, 1999), p. 92. ^ Martin Henig, Religion in Roman Britain(London: Batsford, 1984), pp. 185–186. ^ Plinio, Naturalis historia 28.4.7 (28.39), dice che quando un generale celebrava un trionfo, le Vestali appendevano l'effigie del Fascinus nella parte inferiore del suo carro per proteggerlo dall'invidia. ^ Robert Turcan, The Gods of Ancient Rome(Routledge, 2001; originally published in French 1998), pp. 18–20; Jörg Rüpke, Religion in Republican Rome: Rationalization and Ritual Change (University of Pennsylvania Press, 2002), pp. 181–182. ^ Iter amoris, "journey" or "course of love". See Propertius 3.15.3–6; Ovidio, Fasti) 3.777–778; Michelle George, "The 'Dark Side' of the Toga," in Roman Dress and the Fabrics of Roman Culture(University of Toronto Press, 2008), p. 55. Robert E. A. Palmer, "Mutinus Titinus: A Study in Etrusco-Roman Religion and Topography," in Roman Religion and Roman Empire: Five Essays(University of Pennsylvania Press, 1974), pp. 187–206, ha sostenuto che quello di Mutunus Tutunus fosse un sotto-culto di quello che era dedicato a Libero; Agostino di Ippona, De civitate Dei 7.21, ha detto che un fallo era un oggetto divino utilizzato durante la Liberalia per respingere le influenze malevoli dalle colture. ^ Clarke, Looking at Lovemaking, pp. 46–47. ^ a b c d Langlands, Sexual Morality, p. 30. ^ Barbette Stanley Spaeth, The Roman Goddess Ceres (University of Texas Press, 1996), pp. 115–116, citing Festus (87 in the edition of Müller) parlando della torcia, rileva che le sacerdotesse devote e dedicate al culto di Cerere nelle province romane nordafricane fanno voto di castità come avviene tra le Vestali (Tertulliano, Ad uxorem 1.6 Oehler). Ovidio nota che Cerere è soddisfatta anche da piccole offerte, purché siano caste (Fasti 4.411–412). Statius dice che Cerere stessa è casta (Silvae 4.311). La preoccupazione di associare la dea con la "castitas" può avere a che fare con la sua funzione di tutelare i passaggi oltre i confini, compresa quindi anche la transizione tra la vita e la morte, come avviene nelle religioni misteriche. ^ H.H.J. Brouwer, Bona Dea: The Sources and a Description of the Cult (Brill, 1989), pp. 367–367, note 319. ^ Mueller, Roman Religion in Valerius Maximus, p. 51; Susanne William Rasmussen, Public Portents in Republican Rome («L'Erma» di Bretschneider, 2003), p. 41. ^ Wildfang, Rome's Vestal Virgins, p. 82 et passim. ^ Crassus's nomen was Licinius; the Vestal's name was Licinia (see Roman naming conventions). His reputation for greed and sharp business dealings helped save him; he objected that he had spent time with Licinia to obtain some real estate she owned. For sources, see Michael C. Alexander, Trials in the Late Roman Republic, 149 BC to 50 BC (University of Toronto Press, 1990), p. 84. The most likely year was 73 BC; Plutarch, Life of Crassus 1.2, implies that the prosecution was motivated by political utility. One or more Vestals were also brought before the College of Pontiffs for incestum in connection with the Catiline Conspiracy (Alexander, Trials, p. 83). ^ The sources on this notorious incident are numerous; Brouwer, Bona Dea, p. 144ff., gathers the ancient accounts. ^ Bruce W. Frier and Thomas A. J. McGinn, A Casebook on Roman Family Law (Oxford University Press, 2004), pp. 38 and 52. ^ Amy Richlin, The Garden of Priapus: Sexuality and Aggression in Roman Humor (Oxford University Press, 1983, 1992), p. 30. ^ Stuprum cum vi or per vim stuprum: Richlin, "Not before Homosexuality," p. 562. ^ For instance, in the mid-3rd century BC, Naevius uses the word stuprum in his Bellum Punicum for the military disgrace of desertion or cowardice; Elaine Fantham, "Stuprum: Public Attitudes and Penalties for Sexual Offences in Republican Rome," in Roman Readings: Roman Response to Greek Literature from Plautus to Statius and Quintilian (Walter de Gruyter, 2011), p. 117. ^ a b Fantham, "Stuprum: Public Attitudes and Penalties," p. 118. ^ Diana C. Moses, "Livy's Lucretia and the Validity of Coerced Consent in Roman Law," in Consent and Coercion to Sex and Marriage in Ancient and Medieval Societies (Dunbarton Oaks, 1993), p. 50; Gillian Clark, Women in Late Antiquity: Pagan and Christian Life-styles (Oxford University Press, 1993), p. 36. ^ Moses, "Livy's Lucretia," pp. 50–51. ^ Stuart Gillespie and Philip Hardie, introduction to The Cambridge Companion to Lucretius(Cambridge University Press, 2007), p. 12. ^ A scholiast gives an example of an unnatural and unnecessary desire as acquiring crowns and setting up statues for oneself; see J.M. Rist, Epicurus: An Introduction (Cambridge University Press, 1972), pp. 116–119. ^ Philip Hardie, "Lucretius and Later Latin Literature in Antiquity," in The Cambridge Companion to Lucretius, p. 121, note 32. ^ Thomas A.J. McGinn, Prostitution, Sexuality and the Law in Ancient Rome (Oxford University Press, 1998), p. 326. See the statement preserved by Aulus Gellius 9.12. 1 that " it was an injustice to bring force to bear against the body of those who are free" (vim in corpus liberum non aecum ... adferri). ^ Elaine Fantham, "The Ambiguity of Virtus in Lucan's Civil War and Statius' Thebiad," Arachnion 3; Andrew J.E. Bell, "Cicero and the Spectacle of Power," Journal of Roman Studies87 (1997), p. 9; Edwin S. Ramage, “Aspects of Propaganda in the De bello gallico: Caesar’s Virtues and Attributes,” Athenaeum 91 (2003) 331–372; Myles Anthony McDonnell, Roman manliness: virtus and the Roman Republic(Cambridge University Press, 2006) passim; Rhiannon Evans, Utopia Antiqua: Readings of the Golden Age and Decline at Rome (Routledge, 2008), pp. 156–157. ^ Craig A. Williams, Roman Homosexuality(Oxford University Press, 1999), p. 18. ^ Cantarella, Bisexuality in the Ancient World, p. xi; Skinner, introduction to Roman Sexualities, p. 11. ^ Richlin, The Garden of Priapus, p. 225. ^ Catharine Edwards, "Unspeakable Professions: Public Performance and Prostitution in Ancient Rome," in Roman Sexualities, pp. 67–68. ^ Edwards, "Unspeakable Professions," p. 68. ^ Aulus Gellius 15.12.3; Williams, Roman Homosexuality, pp. 20–21, 39. ^ Richlin, "Sexuality in the Roman Empire," in A Companion to the Roman Empire, p. 329. The law began to specify harsher punishments for the lower classes (humiliores) than for the elite (honestiores). ^ This is a theme throughout Carlin A. Barton, The Sorrows of the Ancient Romans: The Gladiator and the Monster (Princeton University Press, 1993). ^ Julia Heskel, "Cicero as Evidence for Attitudes to Dress in the Late Republic," in The World of Roman Costume (University of Wisconsin Press, 2001), p. 138; Larissa Bonfante, "Nudity as a Costume in Classical Art," in American Journal of Archaeology 93.4 (1989), p. 563. ^ Ovid, Fasti 2.283–380. ^ Carole E. Newlands, Playing with Time: Ovid and the Fasti (Cornell University Press, 1995), pp. 59–60. ^ Williams, Roman Homosexuality, pp. 69–70. ^ Paul Zanker, The Power of Images in the Age of Augustus (University of Michigan Press, 1988), p. 5ff. ^ Zanker, The Power of Images in the Age of Augustus, pp. 239–240, 249–250 et passim. ^ Plutarch, Life of Cato 20.5; Williams, Roman Homosexuality, pp. 69–70; Zanker, The Power of Images in the Age of Augustus, p. 6. ^ Fino alla tarda Repubblica, un bagno di casa probabilmente offerto le donne un'ala o struttura separata, o ha avuto un programma che permetteva alle donne e agli uomini di fare il bagno in tempi diversi. Dalla tarda Repubblica fino alla prevalenza del cristianesimo nel tardo impero, non vi è una chiara evidenza di balneazione mista. Alcuni studiosi hanno pensato che solo le donne delle classi inferiori si bagnassero con gli uomini, o le prostitute che erano infames, ma Clemente di Alessandria ha osservato che le donne delle più alte classi sociali potevano essere viste nude ai bagni. Adriano vietata la balneazione mista, ma il divieto non sembra fosse rigorosamente rispettato. In breve, i costumi variavano non solo nel tempo e nei luoghi, ma anche rispetto alla struttura sociale predominante; vedi Garrett G. Fagan, Bathing in Public in the Roman World (University of Michigan Press, 1999, 2002), pp. 26–27. ^ Clarke, Looking at Lovemaking, p. 84; David J. Mattingly, Imperialism, Power, and Identity: Experiencing the Roman Empire (Princeton University Press, 2011), p. 106. ^ Amy Richlin, "Pliny's Brassiere," in Roman Sexualities, p. 215. ^ Mattingly, Imperialism, Power, and Identity, p. 106. ^ Williams, Roman Homosexuality, pp. 251–252, citing Suetonius, Life of Nero. ^ Edwards, The Politics of Immorality, pp. 63–64. ^ Edwards, Politics of Immorality, p. 47 et passim. ^ The case, which nearly shipwrecked Clodius's political career, is discussed at length by his biographer, W. Jeffrey Tatum, The Patrician Tribune: Publius Clodius Pulcher (University of North Carolina Press, 1999), p. 62ff. ^ P. Clodius, a crocota, a mitra, a muliebribus soleis purpureisque fasceolis, a strophio, a psalterio, <a> flagitio, a stupro est factus repente popularis: Cicero, the speech De Haruspicium Responso 21.44, delivered May 56 BC, and given a Lacanian analysis by Eleanor Winsor Leach, “Gendering Clodius,” Classical World 94 (2001) 335–359. ^ Williams, Roman Homosexuality, p. ^ Edwards, The Politics of Immorality, p. 34; see also W. Jeffrey Tatum, Always I Am Caesar(Blackwell, 2008), p. 109. ^ Stephen O. Murray, Homosexualities (University of Chicago Press, 2000), pp. 298–303; Mary R. Bachvarova, "Sumerian Gala Priests and Eastern Mediterranean Returning Gods: Tragic Lamentation in Cross-Cultural Perspective," in Lament: Studies in the Ancient Mediterranean and Beyond (Oxford University Press, 2008), pp. 19, 33, 36. See also "Hermaphroditism and androgyny" below. ^ Williams, Roman Homosexuality, p. 85 et passim. ^ Catullo, Carmina 24, 48, 81, 99. ^ Tibullus, Book One, elegies 4, 8, and 9. ^ Propertius 4.2. ^ Thomas A.J. McGinn, Prostitution, Sexuality and the Law in Ancient Rome (Oxford University Press, 1998), p. 40. ^ a b c McGinn, Prostitution, Sexuality and the Law, p. 40. ^ David Potter, "The Roman Army and Navy," in The Cambridge Companion to the Roman Republic, p. 79. ^ Pat Southern, The Roman Army: A Social and Institutional History (Oxford University Press, 2006), p. 144. ^ Sara Elise Phang, The Marriage of Roman Soldiers (13 B.C.–A.D. 235): Law and Family in the Imperial Army (Brill, 2001), p. 2. ^ Phang, The Marriage of Roman Soldiers, p. 3. Il [[De Bello Hispaniensi|]], circa la guerra civile di Cesare sul fronte della Spagna romana, parla di un ufficiale che ha una concubina di sesso maschile (concubinus) che si porta appresso. ^ Polibio, Storie 6.37.9 (translated as bastinado). ^ Sara Elise Phang, Roman Military Service: Ideologies of Discipline in the Late Republic and Early Principate (Cambridge University Press, 2008), p. 93. See also "Master-slave relations"below. ^ Phang, Roman Military Service, p. 94. Roman law recognized that a soldier was vulnerable to rape by the enemy: Digest 3.1.1.6, as discussed by Richlin, "Not before Homosexuality," p. 559. ^ Beth Severy, Augustus and the Family at the Birth of the Roman Empire (Routledge, 2003), p. 39. ^ Hans-Friedrich Mueller, Roman Religion in Valerius Maximus (Routledge, 2002), p. 51. ^ Langlands, Sexual Morality, p. 57. ^ See further discussion at Pleasure and infamy below. ^ Clarke, Looking at Lovemaking, p. 103. ^ Roy K. Gibson, Ars Amatoria Book 3(Cambridge University Press, 2003), pp. 398–399. ^ Cohen, "Divesting the Female Breast," p. 66; Cameron, The Last Pagans, p. 725; Bonfante, "Nudity as a Costume in Classical Art," passim. See discussion of the iconography of breastsfollowing. ^ Kelly Olson, "The Appearance of the Young Roman Girl," in Roman Dress and the Fabrics of Roman Culture (University of Toronto Press, 2008), p. 143; Clarke, Looking at Lovemaking, p. 34. ^ Clarke, "Look Who's Laughing at Sex," in The Roman Gaze, p. 160. ^ Alastair J. L. Blanshard, Sex: Vice and Love from Antiquity to Modernity (Wiley-Blackwell, 2010), p. 24; Kyle Harper, Slavery in the Late Roman Mediterranean, AD 275–425 (Cambridge University Press, 2011), pp. 293–294. ^ Seneca, Controversia 1.2. ^ Varro, De lingua latina 6.8, citing a fragment from the Latin tragedian Accius on Actaeon that plays with the verb video, videre, visum, "see," and its presumed connection to vis (ablative vi, "by force") and violare, "to violate": "He who saw what should not be seen violated that with his eyes" (Cum illud oculis violavit is, qui invidit invidendum); David Frederic, "Invisible Rome," in The Roman Gaze, pp. 1–2. Ancient etymology was not a matter of scientific linguistics, but of associative interpretation based on similarity of sound and implications of theology and philosophy; see Davide Del Bello, Forgotten Paths: Etymology and the Allegorical Mindset(Catholic University of America Press, 2007). ^ Clement of Alexandria, Protrepticus 4.50; Allison R. Sharrock, "Looking at Looking: Can You Resist a Reading?" in The Roman Gaze, p. 275. ^ Adams, The Latin Sexual Vocabulary, pp. 80–81. ^ Adams, The Latin Sexual Vocabulary, p. 81. ^ Varro, On Agriculture 2.4.9; Karen K. Hersch, The Roman Wedding: Ritual and Meaning in Antiquity (Cambridge University Press, 2010), pp. 122, 276; Barbette Stanley Spaeth, The Roman Goddess Ceres (University of Texas Press, 1996), p. 17. ^ Adams, The Latin Sexual Vocabulary, pp. 82–83. ^ Adams, The Latin Sexual Vocabulary, pp. 85–89. ^ Richlin, The Garden of Priapus, pp. xvi, 26, 68–69, 109, 276 et passim. ^ Throughout the Ars Amatoria ("Art of Love"); Gibson, Ars Amatoria Book 3, p. 399. ^ Martial, Epigrams 11.21.1, 10: tam laxa ... quam turpe guttur onocrotali; Richlin, The Garden of Priapus, p. 27. ^ Richlin, The Garden of Priapus, pp. 49, 67; Clarke, Looking at Lovemaking, pp. 21, 48, 116. ^ Adams, The Latin Sexual Vocabulary, p. 97. ^ Juvenal 6.422; Adams, The Latin Sexual Vocabulary, p. 98. ^ Il bordo viola appare anche sulle toghe dei magistrati tra le cui funzioni vi è anche quella di presiedere ai sacrifici; era inoltre la toga indossata da un figlio in lutto dopo aver effettuato i riti funebri, ed infine lo stesso colore appariva sui veli delle Vestali; Judith Lynn Sebesta, "Women's Costume and Feminine Civic Morality in Augustan Rome," Gender & History 9.3 (1997), p. 532, and "Symbolism in the Costume of the Roman Woman," p. 47. Bibliografia     Modifica Adams, J.N. The Latin Sexual Vocabulary. Johns Hopkins University Press, 1982. ISBN 978-0-8018-4106-4. Brown, Robert D. Lucretius on Love and Sex. Brill, 1987. Cantarella, Eva. Bisexuality in the Ancient World. Yale University Press, 1992. ISBN 978-0-300-04844-5. Clarke, John R. Looking at Lovemaking: Constructions of Sexuality in Roman Art 100 B.C.–A.D. 250. University of California Press, 1998, 2001. Edwards, Catharine. The Politics of Immorality in Ancient Rome. Cambridge University Press, 1993. Fantham, Elaine. "Stuprum: Public Attitudes and Penalties for Sexual Offences in Republican Rome." In Roman Readings: Roman Response to Greek Literature from Plautus to Statius and Quintilian. Walter de Gruyter, 2011. Frederic, David, ed. The Roman Gaze: Vision, Power, and the Body. Johns Hopkins University Press, 2002. Gaca, Kathy L. The Making of Fornication: Eros, Ethics and Political Reform in Greek Philosophy and Early Christianity. University of California Press, 2003. Gardner, Jane F. Women in Roman Law and Society. Indiana University Press, 1991. Hallett, Judith P., and Skinner, Marilyn, eds. Roman Sexualities. Princeton University Press, 1997. Hubbard, Thomas K. Homosexuality in Greece and Rome: A Sourcebook of Basic Documents. University of California Press, 2003. ISBN 978-0-520-23430-7. Langlands, Rebecca. Sexual Morality in Ancient Rome. Cambridge University Press, 2006. McGinn, Thomas A.J. Prostitution, Sexuality and the Law in Ancient Rome. Oxford University Press, 1998. McGinn, Thomas A.J. The Economy of Prostitution in the Roman World. University of Michigan Press, 2004. Nussbaum, Martha C. "The Incomplete Feminism of Musonius Rufus, Platonist, Stoic, and Roman." In The Sleep of Reason: Erotic Experience and Sexual Ethics in Ancient Greece and Rome. University of Chicago Press, 2002. Phang, Sara Elise. The Marriage of Roman Soldiers (13 B.C.–A.D. 235): Law and Family in the Imperial Army. Brill, 2001. Richlin, Amy. "Not before Homosexuality: The Materiality of the cinaedus and the Roman Law against Love between Men." Journal of the History of Sexuality 3.4 (1993) 523-573. Richlin, Amy. The Garden of Priapus: Sexuality and Aggression in Roman Humor. Oxford University Press, 1983, 1992. Verstraete, Beert C. and Provencal, Vernon, eds. Same-Sex Desire and Love in Greco-Roman Antiquity and in the Classical Tradition. Haworth Press, 2005. Williams, Craig A. Roman Homosexuality: Ideologies of Masculinity in Classical Antiquity. Oxford University Press, 1999. Younger, John G. Sex in the Ancient World from A to Z. Routledge, 2005. Ancona, Ronnie, and Greene, Ellen eds. Gender Dynamics in Latin Love Poetry. Johns Hopkins University Press, 2005. ISBN 978-0-8018-8198-5. Skinner, Marilyn. Sexuality in Greek And Roman Culture. Blackwell Publishing. ISBN 978-0-631-23234-6. Voci correlate Modifica Arte erotica a Pompei e Ercolano Omosessualità nell'Antica Roma Sessualità nell'antica Grecia Storia della sessualità umana Altri progetti                                                Modifica    Portale Antica Roma   Portale Erotismo Ultima modifica 23 giorni fa di Rodolfo Baraldini PAGINE CORRELATE Omosessualità nell'antica Roma Irrumatio tipo di pratica del sesso orale  Lex Scantinia Wikipedia Il contenuto  Omosessualità nell'antica Roma Lingua Segui Modifica Gli atteggiamenti sociali nei confronti dell'omosessualità nell'antica Roma e i comportamenti relativi differiscono - spesso in una maniera assai notevole - da quelli assunti della contemporanea civiltà occidentale e presenti in essa; il tema deve pertanto essere affrontato necessariamente attraverso la visione del mondo e della sessualità tipica della maggioranza delle società antiche, molto diversa da quella moderna.   Graffito in versi proveniente da Pompei antica. Lo scrivente, bruciato dalle fiamme d'amore, incita il mulattiere a smetterla di bere e a pungolare semmai i muli per arrivare prima a casa, dove un bel ragazzo, di cui egli è innamorato, lo attende (là ove l'amore è dolce). Il ruolo passivo come discriminante morale                                                       Modifica Per le antiche civiltà precristiane intrise di paganesimo, soprattutto per quelle del mondo classico (antica Grecia e antica Roma), non esisteva un'autentica differenziazione individuale basata sull'orientamento sessuale o di identità di genere. Piuttosto, questa esisteva in base al ruolo assunto all'interno del rapporto sessuale: l'identificazione e le leggi che regolavano le relazioni e le varie pratiche amorose non si fondavano sull'oggetto del desiderio (una persona dello stesso sesso o di quello opposto), ma la discriminante era bensì data dal fatto che quella persona ricoprisse un ruolo attivo e associato quindi alla virilità e alla mascolinità, oppure uno passivo, generalmente considerato come estremamente degradante e tipico della femminilità (era dato cioè dall'atto che poteva essere dominante o sottomesso, come viene indicato anche nell'uso dei termini catamite e irrumatio).  Agli antichi romani era peraltro completamente sconosciuta anche la dicotomia del concetto moderno tra un'esclusiva omosessualità e un'altrettanto esclusiva eterosessualità[1], proprio per il fatto che l'identificazione sessuale avveniva per lo più in base al ruolo svolto durante l'atto intimo (vedi attivo e passivo nel sesso); la stessa lingua latina manca di parole traducibili con eterosessuale o omosessuale come un'identità consapevole di chi prova attrazione solo nei confronti di persone dell'altro o del proprio stesso sesso.   Antinoo, il giovane di cui s'innamorò l'imperatore romanodel II secolo Publio Elio Traiano Adriano. Quando l'amato morì, Adriano ne fece letteralmente un dio, innalzandogli decine di statue in tutto l'impero. La società romana seguiva i dettami del patriarcato, un sistema impregnato da forti connotazioni di maschilismo; per i maschi adulti ingenui, quelli che possedevano cioè a tutti gli effetti la cittadinanza romana (la Libertas-libertà politica e il diritto di governare sé stessi e la propria familia con l'autorità derivante dal pater familias), la Virtus è stata sempre intesa come una delle qualità attive per eccellenza e attraverso la quale l'uomo-vir si viene maggiormente a definire. Gli uomini erano liberi d'intrattenere rapporti sessuali con altri maschi senza alcuna percezione di perdita di virilità o di status sociale, fintanto e a condizione che avessero assunto la posizione di comando (sessualmente penetrativa).  Il ruolo attivo come segno di virilità             Modifica La mentalità di conquista e il culto della virilità formano nel corso del tempo anche le relazioni omoerotiche; la pratica omosessuale a Roma si afferma molto presto come rapporto di dominazione, ad esempio del cittadino sopra lo schiavo, il tutto a conferma della decisa virilità mascolina dell'uomo romano; la schiavitù nell'antica Roma contemplava difatti anche una decisiva sudditanza sessuale nei confronti di chi deteneva il potere sopra altre persone[2]. L'ideale romano di mascolinità funge in tal modo da premessa all'assunzione di un ruolo attivo sempre e comunque, preso e innalzato a valore supremo: ciò costituiva "la prima direttiva del comportamento sessuale maschile per i Romani"[3].  Partner maschili accettabili erano sia gli schiavi sia tutti coloro che si dedicavano alla prostituzione maschile ma anche quelli il cui stile di vita li immetteva nel nebuloso campo sociale dell'infamia, gli esclusi dalle normali protezioni accordate a ogni cittadino, questo anche se fossero stati tecnicamente liberi. Pur preferendo nella generalità dei casi la pederastia(compagnia intima con giovani di età compresa tra i 12 e i 20 anni), con i minori di sesso maschile nati liberi agli uomini adulti era rigorosamente proibito qualsivoglia tipo di approccio, mentre i prostituti di professione e gli schiavi potevano essere anche molto più vecchi[4].  Omosessualità femminile                                                   Modifica Le relazioni omosessuali tra le donne sono meno documentate. Anche se le donne nell'antica Romaappartenenti alle classi più alte (come le matrone) erano solitamente istruite e vi sono esempi noti di scrittura poetica e vaste corrispondenze con parenti di sesso maschile, molto poco e frammentario è ciò che è sopravvissuto rispetto a quello che potrebbe essere stato effettivamente scritto da mani femminili. Gli scrittori maschi hanno mostrato ben poco interesse al modo in cui le donne hanno sperimentato e vissuto la sessualità in generale; il poeta latino dell'era augustea (vedi Storia della letteratura latina (31 a.C. - 14 d.C.)) Publio Ovidio Nasone risulta qui un'eccezione, dimostrandosi particolarmente acuto e sensibile al riguardo; ma egli è anche uno dei più strenui sostenitori di uno stile di vita fortemente improntato all'amore verso le donne e in opposizione alle norme sessuali romane alternative a esso[5].  Durante la repubblica romana e nel corso dell'epoca costituita dal principato e dall'inizio dell'alto impero romano assai poco viene registrato riguardo a relazioni sentimentali tra donne, mentre prove migliori e di più ampio genere sussistono, anche se variamente disperse, per il successivo periodo del tardo impero romano e della tarda antichità.  Excursus storico                           Modifica Quando si parla di omosessualità nella romanità antica bisogna necessariamente distinguere almeno tre grandi periodizzazioni storiche, in cui spesso cambia la concezione e la visione e accettazione stessa dei rapporti omosessuali:  il periodo dell'Età regia di Roma e quello repubblicano antecedente al 146 a.C. (Grecia romana); il periodo repubblicano successivo alla conquista della Grecia fino all'Alto Impero romano; infine il periodo del basso Impero.  Busto antico romano di ignoto adolescente, conservato all'Ermitage di San Pietroburgo e datato al II secolo d.C. Periodo antecedente la conquista della Grecia                                                      Modifica Magnifying glass icon mgx2.svg                                                            Lo stesso argomento in dettaglio: Vizio greco (antica Roma). Nel periodo repubblicano antecedente alla conquista della Grecia i rapporti omosessuali erano osteggiati e visti con sospetto. I Romani identificavano infatti il rapporto tra persone dello stesso sesso come il vizio greco, sostenendo che nei loro antenati non esistesse l'omosessualità, ritenuta un'offesa al costume degli avi (il famoso mos maiorum), contraria al rigore del "civis Romanus" e motivo dell'indebolimento e del rammollimento della società romana stessa.  La libertà politica di un cittadino è stata definita in parte dal diritto di preservare il proprio corpo da qualsivoglia costrizione fisica, comprendente pertanto sia la punizione corporale sia l'abuso sessuale[6]; il sentimento di mascolinità era la premessa imprescindibile della capacità di governare sia sé stessi sia altre persone di status inferiore[7] e la Virtus, come già sottolineato, è il valore che rende l'uomo più pienamente uomo: la virtù attiva per eccellenza, quindi[8].  Periodo successivo alla conquista della Grecia e Alto Impero                           Modifica Con la conquista della Grecia, assieme alla cultura della Grecia classica, Roma assorbe anche molte usanze, tra cui il cosiddetto "amore greco". Ma i civesromani praticavano l'omosessualità solamente con gli schiavi e con i liberti. Era deprecabile che un cittadino assumesse il ruolo passivo in un rapporto omosessuale, perché questo era in conflitto con una certa ideologia virile e dominatrice presente in tutta la società romana.  La conquista sessuale diviene presto metaforacomune, utilizzata spesso nell'arte retorica romana più favorevole all'imperialismo[9], e la mentalità da conquistatori, inerente anche alla sfera della sessualità nell'antica Roma, faceva parte di un culto generico della virilità il quale poteva condurre anche a particolari forme di pratiche omosessuali tra gli uomini[10]. Gli studiosi contemporanei tendono pertanto a vedere le espressioni inerenti alla sessualità maschile umana all'interno della civiltà romana in termini di opposizione binaria nel modello penetratore-penetrato; cioè l'unico modo corretto per un maschio romano di cercare gratificazione sessuale era quello di inserire il suo pene nel/nella partner[11]: permettere di lasciarsi penetrare avrebbe invece minacciato la propria libertà come cittadino, oltre che la sua intrinseca integrità sessuale. Il ruolo passivo indicante sottomissione era sommamente disprezzato e visto come sintomo di mollezza, di rinuncia alla virilità e perciò deprecabile e vergognoso, specialmente se era un cittadino romano a ricoprirlo.[12]  Ci si aspettava ed era socialmente accettabile per un uomo romano nato libero di voler consumare esperienze sessuali con entrambi i tipi di partner, sia maschili sia femminili, l'importante era mantenere un ruolo dominante[13]. La moralità del comportamento dipendeva poi anche dalla posizione sociale del partner, indipendentemente dal fatto che fosse un uomo o una donna; le donne e i giovani uomini sono stati entrambi considerati normali oggetti del desiderio, ma fintanto che si manteneva al di fuori del vincolo matrimoniale un uomo avrebbe dovuto cercare di soddisfare i propri desideri solo con schiavi, prostitute (che spesso erano schiave o ex-schiave anch'esse) e gli infames (i succitati sottoposti a infamia).  Il sesso di un partner non determinava se questa relazione fosse accettabile o meno, sempre però a patto che il godimento di un uomo non usurpasse l'integrità di un altro uomo: era altamente immorale ad esempio avere una relazione con la moglie di un altro uomo nato libero, con una ragazza in età da marito o con un ragazzo minorenne di buona famiglia, o con lo stesso cittadino libero adulto; mentre l'uso sessuale degli schiavi di un altro uomo doveva sottostare al permesso del proprietario. La mancanza di autocontrollo, anche nell'ambito della gestione della propria vita sessuale, indicava platealmente che quell'uomo era del tutto incapace di governare gli altri; troppa indulgenza nei confronti dei "bassi piaceri sensuali" minacciava di erodere l'identità del maschio dell'élite nella sua qualità di persona istruita (quindi migliore e destinata a governare)[14].   Particolare della tomba-monumento di un giovane che mostra un antico ragazzo romano con indosso una bulla, l'amuletopensato per proteggere un bambino nato libero da influenze sovrannaturali malevoli e lo segnava come sessualmente indisponibile/intoccabile. La Lex Scantinia (149 a.C.) condannava espressamente l'uomo nel caso di rapporti omosessuali tra un adulto e un puer o praetextati (da praetexta, la toga bianca orlata di porpora che portavano i ragazzi che non avevano ancora raggiunto l'età della piena maturità sessuale (fino ai 15-17 anni)), mentre nel caso di rapporto omosessuale tra cittadini liberi adulti veniva punito quello che tra i due assumeva il ruolo passivo, con una multa che poteva ammontare fino a 10.000 sesterzi.  La Lex Scantinia, di cui non ci è pervenuto il testo ma che abbiamo solamente attraverso citazioni tratte dagli scritti del filosofo Marco Tullio Cicerone, di Decimo Magno Ausonio, dello storico Gaio Svetonio Tranquillo, del poeta Decimo Giunio Giovenale e infine da parte degli autori cristiani Tertulliano e Prudenzio, è un'importante testimonianza a dimostrazione del fatto che l'omosessualità veniva praticata in tutti gli ambienti sociali.   Stele funebre dell'adolescente Philetos, del demo di Aixone (prima metà del I secolo d.C.) che indossa la toga. Esposta nel cortile interno coperto del "Museo archeologico del Ceramico" ad Atene. In età imperiale, le ansie circa la perdita della libertà politica e la subordinazione del cittadino all'imperatore si sono espresse nella percezione di un aumento del volontario comportamento omosessuale passivo tra gli uomini liberi, accompagnato da una crescita documentata nell'esecuzione di punizioni corporali sui cittadini[15]. La dissoluzione degli ideali repubblicani di integrità fisica in relazione alla "libertas" contribuisce alla licenza sessuale e si riflette nella decadenza associata con l'impero[16].  A ogni modo, analizzando i testi e i poemi degli scrittori antichi, non si può fare a meno di notare alcune contraddizioni, almeno dal punto di vista del pensiero moderno, sul tema dell'omosessualità: se da una parte infatti molti scrittori esaltano e descrivono le gesta omoerotiche, vantandosi di conquiste amorose nei confronti di giovani, schiavi e liberti (in molte tra le poesie di Caio Valerio Catullo[17]), o addirittura dando consigli su come conquistare i ragazzi (come fa Albio Tibullo[18]); dall'altra altri scrittori, se non gli stessi, ironizzano, in modo molto spesso violento, contro chi si macchia di effeminatezza (gli uomini che ricoprono il ruolo passivo nei rapporti omosessuali maschili) soprattutto se cittadini romani, scherniti e derisi quando non violentemente attaccati come causa di decadimento sociale (lo stesso Catullo nei Carmina 16, 25 e 33).  Questa apparente contraddizione è in un certo senso giustificata dalla visione che della società avevano i romani, tipicamente e prettamente maschilista, dove il ruolo attivo in un rapporto sessuale, sia con donne sia con uomini, era sintomo di virilità e veniva esaltato, in rapporto anche alla superiorità della Gens Romana sopra gli altri popoli, destinata quindi a dominarli anche sessualmente[19].  Giulio Cesare                      Modifica  Statua di Giulio Cesare, esempio di nudo eroico. Anche molti uomini illustri tra i più noti e stimati, uno fra tutti Gaio Giulio Cesare - membro autorevole della Gens Giulia e capostipite della dinastia giulio-claudia - provavano una forte attrazione nei confronti di persone dello stesso sesso: l'omosessualità, o meglio la bisessualità, di Cesare è ben testimoniata da Cicerone secondo cui egli era "il marito di tutte le mogli e la moglie di tutti i mariti".  I suoi gusti nella sfera sessuale furono spesso motivo di pettegolezzo e canzonatura da parte sia dei detrattori sia degli stessi soldati a lui sottoposti; Plutarco e Svetonio[20] narrano approfonditamente della sua relazione omoerotica avuta in gioventù con l'ultimo sovrano del regno di Bitinia Nicomede IV; non vi fu nemico o personaggio pubblico che non cogliesse l'occasione, anche a distanza di anni, per fare della maldicenza a proposito dei rapporti particolari intercorsi fra il giovane Cesare e il re.  Cesare veniva di volta in volta definito "rivale della regina di Bitinia", "stalla di Nicomede", "bordello di Bitinia". Marco Campurnio Bibulo, collega di Cesare nel consolato del 59, riprendendo la vecchia accusa che lo dipingeva come regina di Bitinia, per attaccare la sfrenata ambizione di Cesare che manifestava tendenze monarchiche affermò: "Questa regina, una volta aveva voluto un re, ora vuole un regno". I legionari, il giorno del trionfo di Cesare sui Galli, seguendo il costume che consentiva ai soldati di indirizzare il giorno del trionfo versi piccanti e scurrili al proprio comandante, intonarono un canto che suonava più o meno così:   (LA)  «"Gallias Caesar subegit, Nicomedes Caesarem: ecce Caesar nunc triumphat qui subegit Gallias, Nicomedes non triumphat qui subegit Caesarem"»  (IT)  «Cesare ha sottomesso le Gallie, ma Nicomede ha messo sotto lui. Oggi trionfa Cesare che le Gallie ha sottomesso, non trionfa Nicomede che ha messo sotto lui.»  (Svetonio, Vita di Cesare.) Lo stesso Cicerone, riferendosi ai fatti di Bitinia, scriveva nelle sue lettere che con Nicomede IV Cesare “aveva perso il fiore della giovinezza” e un giorno, in Senato, durante una seduta in cui Cesare per perorare la causa di Nisa, figlia di Nicomede, ricordava i benefici ricevuti da quel re, Cicerone pubblicamente lo interruppe esclamando: “Lascia perdere questi argomenti, ti prego, poiché nessuno ignora che cosa egli ha dato a te e ciò che tu hai dato a lui”.  Gaio Valerio Catullo[21] ebbe a sostenere che Cesare e il suo ufficiale Mamurra durante la campagna di Galliaavessero avuto una relazione, ma più tardi si scusò: in quest'episodio Cesare dimostrò tutta la sua clementia, concedendo al poeta il suo perdono e lasciandogli frequentare la sua domus.[22] Marco Antonio, infine, insinuò, nel tentativo di diffamare il suo avversario durante la guerra civile, che Cesare avesse avuto un rapporto anche con il nipote Ottaviano, e che la causa della sua adozione fosse stata proprio la loro relazione amorosa.   Ottaviano Augusto da giovinetto. Omoerotismo tra gli imperatori                Modifica D'altra parte, tra i primi imperatori romani tutti (tranne Claudio) ebbero predisposizione ad abituali e ripetute esperienze omoerotiche: dopo Cesare, soprannominato con dileggio la "Regina di Bitinia" e la "moglie di tutti i mariti"; Augusto, il quale quand'era chiamato ancora solo Ottaviano veniva additato con disprezzo dai detrattori col nome di Ottavia: Marco Antonio ebbe modo in seguito di accusare Ottaviano di essersi guadagnato la sua adozione da parte di Cesare attraverso favori sessuali, anche se occorre dire che Svetonio[23] descrive l'accusa rivoltagli da Antonio come pura calunnia politica.  Dopo che Marco Favonio fu catturato e giustiziato a seguito della battaglia di Filippi Ottaviano acquistò uno dei suoi schiavi, un certo Sarmento, quando tutte le proprietà del nemico sconfitto vennero messe in vendita: è stato affermato poi ch'egli divenne il catamite preferito dello stesso futuro imperatore[24]. Quinto Dellio dirà in seguito a Cleopatra che, mentre lui e gli altri dignitari venivano trattati come vino acido da Antonio, Ottaviano si stava gustando il "catamite Falerno" a Roma[25].   Busto giovanile di Tiberio. Tiberio a Capri prediligeva i ragazzini appena puberi raccolti tra i figli della comunità locale e li chiamava i suoi "pesciolini", spiandoli mentre nuotavano nudi in piscina o intrattenevano rapporti sessuali tra di loro[26]; è sempre Svetonio a dirci, forse volutamente esagerando (tanto da fargli commentare: "si rese colpevole anche di azioni ancora più turpi e infamanti, che a mala pena si possono riferire e ascoltare, o addirittura credere"), che l'anziano imperatore avesse addestrato dei fanciulli in tenerissima età per andare in seguito a vivere con lui nella residenza di Villa Jovis, li invitava poi a scherzare tra le sue gambe mentre nuotava e a risvegliare i suoi sensi con baci e morsi. Nelle ville capresi infine, le orge sarebbero state all'ordine del giorno e si sarebbero svolte davanti a una collezione di dipinti erotici di arte greca da prendere a modello.[27].  Caligola era bisessuale e incestuoso; Neronesottopose a castrazione il suo schiavo adolescente Sporo per poi incoronarlo come propria sposa reale, ma sposò anche un uomo di nome Pitagora.  Anche i successivi imperatori pare non fossero immuni dall'amore tutto maschile: Servio Sulpicio Galba, che amava gli uomini grandi e grossi; Vitellio, soprannominato spintria ("marchetta") per esser stato tra i favoriti di Tiberio quando si trovava alla sua corte a Capri durante gli anni giovanili[28]; Domiziano, accusato dagli avversari di essersi prostituito per far carriera al pretore Clodio Pollione e poi per interesse al predecessore Marco Cocceio Nerva, fu accusato anche di mollezza[29] e di essere un dissoluto. Ebbe varie relazioni con uomini, come del resto anche il fratello Tito:[30] il grande amore provato nei confronti dell'eunuco Flavio Earino[31], suo schiavo affrancato, fu celebrato sia da Stazio[32] sia da Marco Valerio Marziale[33].  Traiano era noto per la sua predilezione nei confronti dei bei ragazzi[34]; Publio Elio Traiano Adriano fece diventare il suo giovane amante Antinoo dopo la morte niente meno che un dio, innalzandolo in apoteosi; Eliogabalo a 18 anni promise metà dell'impero a chi fosse riuscito a dotarlo di genitali femminili per poter così diventare una donna a tutti gli effetti[35], scandalizzando l'intera Roma che lo vide sposarsi con un auriga, un certo Ierocle di Smirne.   I busti di Adriano e Antinoo al British Museum. Adriano e Antinoo                    Modifica Il caso riguardante la relazione d'amore tra Adriano e Antinoo è particolarmente significativo; l'imperatore ebbe per anni come suo amasio preferito questo giovinetto di origini greche (che molto probabilmente non era uno schiavo) proveniente dalla Bitinia.[36].  Dopo la sua morte, avvenuta in circostanze rimaste in parte oscure, Adriano innalzò in apoteosi l'amato Antinoo e fondò un culto organizzato dedicato alla sua persona che si diffuse presto a macchia d'olio in tutto l'Impero; poi, sempre per commemorare il proprio diletto, fondò la città di Antinopoli, fatta sorgere vicino al luogo dove il ragazzo aveva trovato la sua prematura fine terrena e che divenne un centro di culto per l'adorazione del "dio Antinoo" in forma di Osiride.  Infine Adriano, per commemorare il ragazzo, organizzò dei giochi che si tenevano in contemporanea ad Antinopoli e ad Atene, con Antinoo divenuto simbolo dei sogni panellenici dell'imperatore.   Busto di Polideuce, allievo e amante[37][38] di Erode Attico; quando egli morì in giovane età nel 173/174[39] divenne un autentico oggetto di culto da parte di Erode. Erode Attico e Polideuce                                     Modifica Il filosofo di origini greche ed esponente della seconda sofistica Erode Attico (Lucius Vibullius Hipparchus Tiberius Claudius Herodes Atticus), è stato un retore e politico al servizio dell'impero; amico personale di Adriano, tra i suoi allievi vi fu anche il giovane erede al trono Marco Aurelio. Erode era noto, oltre che per la ricchezza e munificenza (fece costruire tra gli altri anche l'Odeo di Erode Attico) nella sua qualità di filantropo e mecenate di opere pubbliche, anche per i numerosi rapporti amorosi con i propri discepoli, in riferimento alla tradizione della pederastia greca.  Il suo affetto nei confronti del figlio adottivo Polideuce (Polydeukes/Polydeukion, da "Polluce") ha creato uno scandalo, non per il rapporto omosessuale intercorrente tra i due o per la giovane età del ragazzo, ma per l'intensità della passione dimostrata, considerata smodata e del tutto sconveniente.  Quando l'adolescente morì prematuramente Erode - come già precedentemente l'imperatore Adriano aveva fatto con Antinoo - incominciò un plateale culto della personalità del defunto e proclamandolo "eroe", facendo costruire tutta una serie di statue e monumenti in suo onore. L'anziano visse in un parossismo di disperazione pubblica alla morte del suo eromenos[40], arrivando a commissionare giochi sontuosi, iscrizioni e sculture su ampia scala[41].   Rilievo votivo in marmo pentelico del II secolo raffigurante l'apoteosidi Polideuce, il ragazzo amato da Erode Attico. Qui è mostrato con attributi eroici: il serpente e la sua nudità. Lo scrittore Luciano di Samosata racconta, nella sua biografia del filosofo esponente del cinismoDemonatte che questi affermò di avere in suo possesso una lettera proveniente dal defunto giovinetto; quando Erode chiese di essere informato su che cosa vi fosse scritto, Demonatte gli disse che il ragazzo dichiarava di essere triste perché il suo amante non era ancora giunto a fargli visita (nell'aldilà)[42].  Demonatte vuol qui criticare come eccessiva e indegna di un filosofo l'espressione dei sentimenti di dolore di Erode: soltanto l'enorme ricchezza e l'enorme potere di Erode gli permisero di esprimerlo in modo pubblico, anziché celarlo nel silenzio.  Arte erotica e oggetti di uso quotidiano                      Modifica Magnifying glass icon mgx2.svg                            Lo stesso argomento in dettaglio: Arte erotica a Pompei e Ercolano e Simbolismo fallico. Le rappresentazioni della sessualità omosessuale maschile e lesbica sono meno rappresentate nell'arte erotica dell'antica Roma rispetto a quelle che mostrano atti sessuali tra maschio e femmina. Un fregio di Pompei antica presente alle Terme Suburbanemostra una serie di sedici scene di posizioni sessuali, in cui ve n'è una omosessuale e un'altra lesbica, oltre ad abbinamenti omosessuali in rappresentazioni di sesso di gruppo.   Due uomini e una donna che si accoppiano. Pittura parietale pompeiana, da una delle Therms (bagni), parete sud degli spogliatoi - dipinta intorno al 79 a.C. Il sesso a tre (o threesome) nell'arte romana mostra solitamente due uomini che penetrano una donna, ma in una delle tante scene presenti nei muri delle "Terme suburbane" si vede un uomo penetrare una donna in posizione da dietro mentre a sua volta viene penetrato da un altro uomo posto dietro di lui: questo scenario viene descritto anche da Catullo nel Carmen 56ritenendolo un fatto umoristico[43]. L'uomo in mezzo potrebbe essere un cinaedus-cinedo, un uomo cioè a cui piace subire il sesso anale ma che al contempo è anche considerato attraente dalle donne[44]. Anche l'attività sessuale a quattro (foursome o "quartetto") appare, in genere composta da due donne e due uomini e a volte in coppie composte da persone dello stesso sesso.  Gli atteggiamenti romani verso la nudità maschile (vedi storia della nudità) differiscono anche in maniera notevole se confrontati con quelli assunti dagli antichi Greci, che hanno sempre considerato le rappresentazioni idealizzate del nudo maschile come espressione di eccellenza, ad esempio attraverso il nudo eroico. L'uso della toga virile designa un uomo romano come libero cittadino[45]; connotazioni negative della nudità includono anche la sconfitta in guerra, dal momento che i prigionieri venivano spogliati, e la schiavitù, poiché gli schiavi messi in vendita in piazza erano spesso esposti nudi[46].   Amuleti fallici della fertilità e della buona fortuna. Al tempo stesso il Phallus-fallo è stato visualizzato ubiquitariamente in forma di fascinus, ossia un "fascino magico" pensato per allontanare le forze maligne (come i moderni cornetti portafortuna), ed è divenuto col tempo una decorazione facente parte delle consuetudini e che si ritrova ampiamente tra le rovine pompeiane, in particolare sotto forma di speciali campanelli eolici detti Tintinnabulum[47].  Il fallo eretto e smisurato del dio Priapo potrebbe originariamente essere servito per uno scopo apotropaico, ma in arte il suo aspetto grottesco ed esagerato provoca spesso una grande risata[48].  L'ellenizzazione tuttavia ha influenzato la rappresentazione della nudità maschile all'interno dell'arte romana, portando a una più complessa significazione della forma del corpo umano maschile mostrato nudo, parzialmente nudo o indossando la lorica musculata[49].   La coppa Warren, skyphos romano d'argento che rappresenta una scena erotica omosessuale. Warren Cup Modifica Magnifying glass icon mgx2.svg                            Lo stesso argomento in dettaglio: Warren Cup. La Coppa Warren è una coppa d'argento raffigurante due scene di atti omosessuali in ambiente di simposio(pratica socio-rituale della convivialità collegata al banchetto), di solito datata al tempo della dinastia giulio-claudia (I secolo d.C.)[50]. Si è sostenuto[51] che i due lati di questo calice rappresentino la dualità nella tradizione presente nel mondo classico dell'istituzione della pederastia greca in contrasto con la forma esistente all'interno della cultura romana.  Sulla parte della coppa che rappresenta l'ideale greco vediamo un uomo maturo con la barba mentre si unisce in posizione da dietro a un giovane maschio già sviluppato e muscoloso il quale gli sta seduto sopra. L'adolescente si tiene in equilibrio rimanendo attaccato con la mano sinistra a un sostegno, così da mantenere una posizione sessuale altrimenti imbarazzante o scomoda. Uno schiavo bambino osserva la scena di nascosto attraverso una porta socchiusa.   L'uomo con la corona del "conquistatore erotico" e il suo puer delicatus. Lato B della Warren Cup Il lato romano della coppa invece mostra un puer delicatus, all'incirca di 12 o 13 anni, mentre viene tenuto saldamente stretto tra le braccia di un maschio più anziano, ben rasato e in perfetta forma fisica. Mentre il primo uomo con la barba può essere greco, con un partner che partecipa più liberamente all'incontro e con uno sguardo di piacere, la sua controparte, che ha un taglio di capelli più grave, sembra a tutti gli effetti essere romano e quindi utilizza uno schiavo; la corona di mirto che indossa simboleggia inoltre il suo ruolo di conquistatore erotico[52].  La coppa potrebbe essere stato concepita come un ritratto atto a stimolare la conversazione su quel tipo di ideali di amore e di sesso, che avevano luogo durante i banchetti simposiali tradizionali greci[53]. L'antichità della Coppa Warren è stata però contestata e potrebbe invece rappresentare la percezione dell'omosessualità greco-romana com'era al momento della sua ipotetica fabbricazione, forse a cavallo tra il XIX e il XX secolo[54].   Busto di Publio Virgilio Marone. Letteratura omoerotica                                                      Modifica Numerose testimonianze riguardanti la presenza dell'omosessualità e dell'omoerotismo in generale ci vengono da poeti e scrittori dell'epoca. Il tema omoerotico viene introdotto in letteratura latina a partire dal II secolo a.C. con la crescente ellenizzazione e una sempre maggior influenza Greca sulla cultura romana.  Il console nonché letterato Quinto Lutazio Catulofaceva parte di un circolo letterario frequentato da poeti che componevano brevi strofe richiamantesi alla moda della poesia ellenistica; uno dei suoi pochi frammenti superstiti è costituito da una poesia d'amore rivolta a un maschio con un nome greco[55]. L'innalzamento della letteratura greca, ma anche dell'arte greca in generale a modello espressivo in ambito poetico ha promosso tra le altre cose anche la celebrazione dell'omoerotismo come uno dei segni distintivi delle personalità urbanizzate e maggiormente sofisticate[56]. Nonostante ciò non vi sono prove o ipotesi generali su come questo abbia potuto avere un qualsiasi effetto sull'espressione del comportamento sessuale nella vita quotidiana reale tra i romani[57].  L'amore greco ha influenzato esteticamente i latini in relazione ai mezzi di espressione, molto meno nei riguardi della natura dell'omosessualità romana in quanto tale. L'omosessualità nell'antica Greciadifferiva da quella Romana principalmente nell'idealizzare dell'eros tra i cittadini maschi nati liberi di pari status, anche se di solito con una differenza di età (vedi pederastia greca) inserita nell'istituto erastes-eromenos. L'esistenza di un rapporto erotico-sentimentale tra un ragazzo e un adulto al di fuori della famiglia, visto come un'influenza positiva tra i Greci, nella società romana avrebbe minacciato l'autorità del paterfamilias[58].  Poiché le donne romane erano attive nell'educazione dei figli e si mescolarono con gli uomini socialmente, e le donne delle classi dirigenti spesso continuavano a consigliare e influenzare i loro figli e mariti anche nella vita politica, l'omosocialità non era così diffusa a Roma così come lo era stata ad esempio nell'antica Atene la quale ha indubbiamente contribuito a produrre il più avanzato livello di cultura pederastica, quella della pederastia ateniese[59].  La poesia neoterica dei Poetae novi introdotta alla fine del II secolo si è concretizzata negli anni attorno al 50 a.C. preminentemente con l'opera poetica di Caio Valerio Catullo (i Liber o Carmina) la quale include diverse poesie che esprimono il suo forte desiderio nei riguardi di un giovane nato libero chiamato esplicitamente "Giovenzio" (Juventius); il poeta, oltre ad amare l'amica Lesbia non era quindi meno ambiziosamente desideroso dei baci del suo bel ragazzo quattordicenne, che esalta in vari versi di volta in volta amorosi o ironici, definendolo effeminatoe passivo.[60].  Il nome latino e lo status di cittadino libero del ragazzo amato da Catullo sovverte totalmente la tradizione romana[61], ma contemporaneamente a lui anche Tito Lucrezio Caro nel suo De rerum natura riconosce esplicitamente la propria attrazione nei confronti dei "ragazzi"-pueri, il che può designare invero un partner sottomesso accettabile e non necessariamente ragazzino appena adolescente[62]; vi si può leggere inoltre che il piacere sublime consiste nel trasferire il proprio seme in un'altra persona, preferibilmente in un ragazzo piuttosto che in una donna[63]  «Si agita in noi questo seme, appena l'adolescenza rafforza le membra. Dall'uomo, solo l'attrattiva dell'uomo fa scaturire il seme Così dunque, chi riceve i colpi dai dardi di Venere lo trafigga un fanciullo di membra femminee tende là ove è ferito e anela a congiungersi e in quel corpo spandere l'umore tratto dal corpo[64].»   Eurialo e Niso, 1827, Louvre. A testimoniare il fatto che il fenomeno omosessuale stava divenendo sempre più un rapporto di desiderio e amore, interviene anche Publio Virgilio Marone, il quale racconta nell'Eneide le storie di due coppie di guerrieri, gli appartenenti al popolo dei troiani Eurialo e Niso[65] e i latini Cidone e Clizio, che nel reciproco amore trovano la forza per combattere da autentici eroi (soltanto Cidone scamperà alla morte)[66]; coppie di giovani uniti da un tenero legame omoerotico.  Di Clizio, Virgilio ci dice che è ancora un giovinetto, solo una leggerissima barba bionda incornicia il suo bellissimo volto; su Cidone invece il poeta non dà una descrizione fisica: scrive invece che prima di Clizio ha amato altri adolescenti, sicché è da ritenere che rispetto al compagno egli abbia un'età leggermente superiore (Eneide, libro X, vv.324-330).  Il particolare rapporto che lega Eurialo e Niso è definito dall'autore "amore", ciò che nel contesto dell'epoca va inteso come serena manifestazione di continuità tra l'amicizia fraterna e l'affettuosità omoerotica. Qui il poeta si avvale della tradizione dell'omosessualità militare nell'antica Grecia, ritraendo apertamente il rapporto amoroso esistente tra questi giovani il cui valore militare li segna solidamente come autentici uomini romani (viri)[67]. Virgilio descrive il loro legame come "pius", collegandolo alla virtù suprema della "pietas", in egual modo posseduto dallo stesso eroe Enea; una relazione avallata come "onorevole, dignitosa e collegata ai valori della centralità di Roma"[68].  Ancora nelle Bucoliche il poeta latino canta e descrive numerosi amori omosessuali e riconducibili alla pederastia greca, come la vicenda riguardante il giovane schiavo Alessi che viene concupito sia dal suo padrone Iolla sia dal bel pastore Coridone (Ecloga II), o quella di un altro pastore di nome Menalca il quale elogia la bellezza di Aminta (Ecloga III)[69].   Il mito di Ciparisso e Apollo, tratto dal racconto di Ovidio descritto nelle Metamorfosi (Ovidio). Temi omoerotici appaiono anche nelle opere di altri poeti del periodo augusteo (vedi Storia della letteratura latina (31 a.C. - 14 d.C.)): Albio Tibullo[70], Sesto Properzio[71] e Quinto Orazio Flacco fra tutti. A schierarsi invece decisamente a favore dell'amore femminile sarà Publio Ovidio Nasone: avere una relazione sessuale con una donna è più piacevole perché, a differenza delle forme di comportamento omosessuale ammesse all'interno della cultura romana, qui il piacere è reciproco[72]. Non mancano comunque anche in questo autore descrizioni di amori omosessuali, tutti appartenenti alla tradizione della mitologia greca: Ati e Licabas, il dio Apollo con Giacinto e Ciparisso[73]. Thomas Habinek ha fatto infine notare che il significato di rottura presentato da Ovidio nella categorizzazione delle preferenze sessuali è stata oscurata nella storia della sessualità umana dal concetto di eterosessualità (considerata normale e innata) sopravvenuto nella più tarda cultura occidentale[74].  Nella letteratura del primo periodo dell'impero romanoun posto privilegiato spetta al Satyricon di Petronio Arbitro; la narrazione è talmente permeata da riferimenti al comportamento omosessuale che nei circoli letterari europei del XVIII secolo il nome dell'opera finì col divenirne un sinonimo[75].  Anche il poeta e autore di epigrammi Marco Valerio Marziale spesso deride le donne come uniche partner sessuali preferendo di gran lunga i bei ragazzi-pueri.  Atti sessuali                                     Modifica Oltre al sesso anale, che viene frequentemente descritto sia nell'arte figurativa sia in quella letteraria, era comune anche il sesso orale. Uno dei graffiti di Pompei è in questo caso inequivocabile: "Secundus felator rarus" ("Secundus è un fellatore di rara abilità")[76].  A differenza che nell'antica Grecia, il pene di grandi dimensioni era un importante elemento d'attrattiva; Petronio ne descrive uno veduto in un bagno pubblico[77]. Molti imperatori vengono raffigurati circondati da uomini con grandi sessi[78].  Il poeta Ausonio fa una battuta su un trio sessuale maschile in cui "quello che sta nel mezzo compie il doppio dovere"[79].  Impudicitia     Modifica Il sostantivo astratto impudicitia (aggettivo impudicus) raffigura la negazione assoluta della pudicitia (morale sessuale, castità); come caratteristica dei maschi spesso implica la volontà e il desiderio di essere penetrati sessualmente[80]. Ballare era espressione, per un maschio, di impudicitia (la danza era difatti caratteristica della prostituta e dell'effeminato)[81].  L'impudicitia può anche essere associata a comportamenti in quegli uomini giovani che avevano conservato un certo grado di fascino da ragazzini, ma che erano comunque abbastanza grandi da esser tenuti a comportarsi secondo le ferree regole maschili e a sottostare alle sue normative. Giulio Cesare fu accusato di portare l'infamia su di sé perché quando aveva circa 19 anni assunse per un certo periodo di tempo il ruolo passivo in una relazione pederastica con Nicomede IV re di Bitinia e in seguito anche per i molti "affari sessuali" avuti con donne adultere[82]. Lucio Anneo Seneca il giovane (il tutore di Nerone) ha osservato che "l'impudicitia è un crimine per colui che è nato libero, una necessità in uno schiavo, un dovere per il liberto"[83].  Come già detto la pratica omosessuale a Roma affermò il potere del cittadino sopra gli schiavi, confermandone al di sopra di ogni dubbio la propria mascolinità[84]   Ganimede rapito dall'aquila di Giove. Scultura romana copia di un originale greco, esposta nel Palazzo Grimani a Venezia. Il termine catamite, indicante per lo più un giovane prostituto, è una derivazione latina del nome "Ganimede". Ruoli sessuali   Modifica Un uomo o un ragazzo che assumeva il ruolo passivo all'interno della relazione omosessuale poteva venir denominato in vari modi, tra cui i più comuni e frequenti erano cinaedus, pathicus, exoletus, concubinus (prostituto), spintria (marchetta), puer(ragazzo), pullus (pulcino), puso, delicatus(specialmente come puer delicatus-ragazzino squisito), mollis (molle, utilizzata in genere come qualità estetica in contrapposizione alla naturale aggressività maschile), tener (tenero, in opposizione alla durezza mascolina), debilis (debole), effeminatus(effeminato), discintus (discinto, volgare come una prostituta) e morbosus (malato).  Come si può notare, il significato del termine moderno gay (come anche di omosessuale) non è contemplato in quest'elenco, in quanto nel pensiero antico non v'era alcun'idea di identità sessuale: la persona era invece definita solo dal ruolo svolto all'interno dell'atto sessuale (attivo=maschio; passivo=femmina)[85].  Alcuni di questi termini, come exoletus, vengono a riferirsi specificamente a un adulto: gli antichi romani, fra cui vigeva il valore sociale contrassegnato come mascolinità, limitavano genericamente la penetrazione anale ai prostituti maschi o agli schiavi di età inferiore a 20 anni (chiamati ragazzi)[86].  Alcuni uomini più anziani potevano a volte preferire il ruolo passivo; Marco Valerio Marziale descrive ad esempio, nella sua solita maniera molto schietta, il caso di un uomo che aveva assunto il ruolo passivo facendo occupare al suo giovane schiavo quello attivo:  (LA)  «Mentula cum doleat puero, tibi, Naevole, culus Non sum divinus, sed scio quid facias.»  (IT)  «Se al tuo schiavetto fa male l'uccello; mentre tu, Nevolo, hai il culo dolorante Non è necessario essere un mago per indovinare quel che è accaduto.»  (Epigrammi (Marziale) liber III-LXXI) Il desiderio di un maschio adulto di essere penetrato sessualmente veniva considerato un morbus, una malattia; il desiderio di penetrare un bel ragazzo era invece considerato del tutto normale[87].  Cinaedus Modifica Cinedo è una parola dispregiativa che denotava un maschio con una identità di genere considerata deviante dalla norma, per la sua scelta di determinati atti sessuali o per la preferenza di certi partner sessuali; tali preferenze erano percepite come una carenza di virilità[88]. Catullo definisce cinedo (cioè un effeminato senza attributi virili) il collega poeta Marco Furio Bibaculo che si trova in compagnia d'un suo amico, nel famoso Carme osceno numero 16, in cui afferma senza tanti giri di parole che "pedicabo ego vos et irrumabo" (io ve lo metto prima nel didietro e poi direttamente in bocca).  Anche se in alcuni contesti il cinedo può denotare l'omosessuale passivo[88], ed è il termine più frequentemente usato per indicare un maschio che si è lasciato penetrare analmente[89], un uomo chiamato cinedo poteva bensì, in certi determinati casi, anzi esser considerato molto attraente e desiderabile per le donne[88] (non necessariamente quindi equivale al termine dispregiativo inglese faggot[90] o agli italiani frocio-checca, tranne per il fatto che tutti questi termini vengono usati per deridere e insultare un uomo considerato carente di virilità): con caratteristiche così ambiguamente androgine che le donne possono trovare sessualmente anche molto eccitanti)[91].  L'abbigliamento, l'uso di cosmetici e i manierismi (atteggiamenti, movimenti, modi di parlare) di un cinedo lo contrassegnavano inequivocabilmente come un effeminato[88]: ma la stessa effeminatezza che gli uomini romani potrebbero trovare allettante in un puer, diventa assolutamente poco attraente nel maschio adulto e anziano[92]. I cinaedus rappresentano quindi l'assenza generalizzata fatta persona di quello che i Romani consideravano un vero uomo, e la parola rimane di fatto intraducibile nelle lingue moderne[93].  In origine un cinaedus (parola derivante dal Greco Kinaidos) era un ballerino professionista generalmente poco più che adolescente, di origini persiane o comunque orientali, la cui performance era caratterizzata da una danza accompagnata dal suono di tamburelli e timpani e da movimenti ancheggianti del sedere che mimavano il rapporto anale[89].  Concubinus                       Modifica Alcuni uomini romani tenevano un concubinus (concubina maschio) in casa fino a quando non si sposavano con una donna: Eva Cantarella ha descritto questa forma di concubinato come "una relazione sessuale stabile, non esclusiva ma privilegiata"[94]. All'interno della gerarchia degli schiavi domestici, il concubinus sembra essere stato considerato in possesso di uno status speciale o comunque abbastanza elevato, e che veniva minacciato con l'arrivo di una moglie.  In uno dei suoi inni nuziali (Ephitalamium) Catullo[95] il concubinus dello sposo si ritrova ansioso per il suo futuro e con la paura d'esser abbandonato[96]: i suoi lunghi capelli saranno tagliati e dovrà d'ora in poi ricorrere alle schiave per la sua gratificazione sessuale, il che indica ch'egli prevedeva di dover presto cambiare ruolo sessuale da passivo ad attivo[97]. Al concubino poteva poi anche capitare di intrattenere relazioni sessuali con le donne della casa, diventando magari anche padre di qualche bambino, questo almeno a seguire le invettive di Marziale (Epigrammi 6.39.12-4)[98].  I sentimenti e la situazione del concubino sono trattati nella citata poesia matrimoniale di Catullo e occupano 5 strofe: egli svolge un ruolo attivo durante la cerimonia, distribuendo le noci tradizionali che poi i ragazzi dovevano lanciare in segno di buon augurio (un po' come il riso nella tradizione occidentale moderna)[99].  Il rapporto di un cittadino romano col proprio concubino poteva essere sia discretamente tenuto nell'ombra sia manifestato in modo più aperto: i concubini maschi a volte partecipavano anche alle cene (convivium) indette dal padrone di casa e rappresentar ufficialmente la parte di compagno, un ruolo particolarmente ambito e pregiato[100]. Marziale sembra anche suggerire che il concubino del padrone di casa poteva esser ereditato dal figlio alla morte de padre[101]. Un ufficiale poteva anche essere accompagnato durante le campagne militari dal proprio concubino[102].  Come il catamite e il puer delicatus (vedi sotto) il ruolo del concubino è stato regolamentato ispirandosi al mito greco di Ganimede (il cui nome in latino diventa Catamitus), il principe adolescente troiano rapito da Zeus affinché lo servisse sull'Olimpo come coppiere[103].  La concubina femminile, che poteva anche essere una donna libera, manteneva uno status legale tutalato dal diritto romano, ma i concubinus no dal momento che erano tipicamente degli schiavi[104]  Pathicus                                              Modifica Pathicus era una parola un po' soft per indicare l'uomo che è stato penetrato sessualmente; deriva dall'aggettivo greco phatikos (verbo paskhein) ed equivalente al latino patior-pati-passus (subire, sottomettersi, sopportare e soffrire)[89]: il termine passivo deriva proprio dal latino passus[85].  Pathicus e cinaedus non sono spesso così distinti nell'uso che ne fanno gli scrittori latini, ma cinedo può essere indicativamente il termine più generale per indicare un maschio non conforme al suo ruolo di vir - vero uomo; mentre pathicus denota precisamente un maschio adulto che ha assunto il ruolo passivo da donna all'interno di un rapporto, che desidera essere usato così[105].  Nella cultura romana sodomizzare un altro maschio adulto esprime quasi sempre disprezzo e desiderio d'umiliazione; il pathicus può essere interpretato allora, ancor più che come omosessuale passivo, come un masochista a cui piace farsi umiliare (da un uomo o da una donna indifferentemente): potrebbe anche esser penetrato da una donna tramite un dildo o essere costretto a eseguire cunnilingus, senza dimostrare alcun desiderio di assumere un ruolo attivo o alcuna eccitazione sessuale[106].  Puer      Modifica Con la parola puer s'indicava sia un ruolo nell'ambito sessuale sia uno specifico gruppo d'età[107]. Sia puersia il suo equivalente femminile puella-ragazza possono riferirsi al partner sessuale di un uomo. Il cittadino romano nato libero all'età di 14 anni assumeva la toga virile[108] e questo era il primo rito di passaggio oltre l'infanzia, ma doveva attendere poi fino a 17-18 anni prima di poter cominciare a prender parte attivamente alla vita pubblica[109]. Uno schiavo, che non veniva mai considerato un vir, un uomo vero, sarebbe stato chiamato puer, ragazzo, per tutta la vita[110].  I pueri venivano utilizzati come alternativa sessuale alle donne[111], cosa che non si poteva assolutamente fare con gli adolescenti maschi nati liberi[112]: accusare un uomo romano d'essere un puer era un insulto contro la sua virilità, soprattutto in campo politico[113]. Un cinedo anziano, un omosessuale passivo potevano anche voler presentare sé stessi come puer[114].  Puer delicatus                       Modifica Il puer delicatus era uno "squisito" schiavo giovanissimo, scelto dal padrone per la sua bellezza come giovane amante[115], citato anche al plurale come deliciae ('dolcetti' o 'delizie')[116]  A differenza dell'eromenos greco, che era protetto dal costume sociale, il romano delicatus rimaneva sempre invece, sia fisicamente sia moralmente, inferiore rispetto all'adulto che ne disponeva[117]. La relazione spesso coercitiva, di sfruttamento e non certo alla pari, tra il padre di famiglia e il delicatus (il quale poteva benissimo anche essere un minore di 12 anni), può essere definita come pedofila a differenza della pederastia greca[118].  Il ragazzino, appena compiuti 13 anni, veniva a volte castrato nel tentativo di preservare intatti nel tempo i suoi caratteri giovanili: l'imperatore Nerone fece questo nei confronti del suo puer Sporo, che fece evirare per poterlo poi sposare[119].  Vari pueri delicati sono stati idealizzati nella poesia latina: nelle Elegie erotiche di Tibullo il delicatus di nome Marathus indossa abiti sontuosi e molto costosi[120]. La bellezza che doveva caratterizzare il delicatus è stata misurata mediante le norme e misure apollinee, soprattutto per quanto riguardava i lunghi capelli i quali avrebbero dovuto sempre essere ondulati e profumati[121].  Il tipo mitologico per eccellenza del delicatus era rappresentato da Ganimede, il principino troiano rapito da Zeus per diventare il proprio compagno divino nonché coppiere alla corte olimpica[122]. Nel Satyricon, il ricco liberto Trimalcione parla del puer delicatuscome di un bambino-schiavo al servizio sia del padrone sia della padrona di casa[123].  Pullus                                   Modifica Il termine pullus indicava genericamente un piccolo animaletto e in particolare il pulcino[124]: era una parola affettuosa usata tradizionalmente per un ragazzo-puer che era stato amato da qualcuno in senso osceno[125].  Il lessicografo Sesto Pompeo Festo ne fornisce la definizione illustrandola con un aneddoto comico: Quinto Fabio Massimo Eburno, console nel 166 a.C. e poi censore era molto noto per il suo rigore morale, tanto da guadagnarsi il soprannome (Cognomen) di Eburno che significa avorio (l'equivalente moderno più simile potrebbe essere anche porcellana); questo a causa del suo candido e avvenente aspetto. Si diceva fosse stato colpito tempo addietro da un fulmineproprio sulle natiche (riferimento a una voglia che aveva sul sedere)[126]. Si scherzò quindi sul fatto che fosse stato contrassegnato da Zeus signore dei fulmini che s'era accorto della sua bellezza tanto da farne il proprio pullus/pulcino[127] pensando anche al rapporto esistente tra il re degli Dei col giovanissimo coppiere catamite Ganimede.  Anche se l'inviolabilità sessuale dei cittadini maschi minorenni era di solito molto ben sottolineata, quest'aneddoto è una prova che anche i giovani romani di buona famiglia avrebbero potuto passare attraverso una fase in cui potevano esser veduti come "oggetti sessuali"[128] Forse colpito dal destino,[129]questo stesso membro della illustre Gens Fabia ha dovuto concludere la sua vita in esilio come punizione per aver ucciso suo figlio dopo averlo incolpato di impudicitia[130].  Nel IV secolo il poeta Ausonio registra la parola pullipremo e dice che per primo tale termine è stato utilizzato dal poeta satirico Lucilio[131].  Pusio                                 Modifica Etimologicamente relazionato a puer, anche pusiosignifica ragazzetto; spesso aveva una connotazione spiccatamente sessuale e umiliante[132]. Giovenaleindica che il pusio era desiderabile in quanto più compiacente e al contempo meno impegnativo di quanto fosse una donna[133].  Scultimidonus Modifica Questo è un relativamente raro termine gergale[134] tra i più volgari (equivalente a pezzo di m. o buco di c.)[89]che appare in uno dei frammenti di Lucilio[134] e glossato[135] come: "coloro che elargiscono gratuitamente il proprio orifizio anale-scultima" (cioè la parte corporea più intima di sé, come fosse la parte interna di una prostituta/scortorum intima)[89].   Iolao assieme all'eroe e amante Ercole. Mosaico dalla Fontana del Ninfeo di Anzio, Museo Nazionale Romano a Palazzo Massimo alle Terme, Roma. Sottoculture                                                   Modifica Il mondo e la cultura latina hanno avuto una tale ricchezza di parole per indicare gli uomini al di fuori della norma maschile-vir, che alcuni studiosi sostengono l'esistenza di una vera e propria sottocultura di tipo omosessuale a Roma[136]. Plautomenziona una strada che era conosciuta come luogo d'incontro con giovani che praticavano la prostituzione maschile[137], e anche i bagni pubblici sono indicati come uno dei luoghi più usuali quando si voleva andar in cerca di partner sessuali maschi: Giovenale indica il grattarsi la testa con l'indice come segno di riconoscimento reciproco (nella II delle sue Satire).  Apuleio dice che i cinaedi formavano una vera e propria alleanza sociale allo scopo di realizzar il piacere generale, soprattutto organizzando banchetti e feste: nelle Metamorfosi (Auleio) (o Asino d'oro) descrive un gruppo che ha acquistato e condiviso un concubinus; mentre in un'altra occasione hanno invitato un giovane molto ben dotato (rusticanus iuvenis) alternandosi subito dopo nel sesso orale su di lui[138].  Altri studiosi, soprattutto quelli che sostengono il punto di vista del costruttivismo socio-culturale, sostengono invece che non vi è mai stato un gruppo sociale identificabile di maschi che si sarebbero auto-identificati come appartenenti a una qualche "comunità omosessuale"[139].  Matrimonio omosessuale                                            Modifica (LA)  «Liceat modo vivere; fient, fient ista palam, cupient et in acta referri»  (IT)  «Vivi ancora per qualche tempo e poi vedrai, vedrai se queste cose non si faranno alla luce del sole e magari non si pretenderà che vengano anche registrate.»  (Giovenale, Satira II, vv 135-136.) Anche se, in generale, i romani consideravano il matrimonio come unione eterosessuale al fine di generare figli, durante il periodo imperiale si sono verificati episodi in cui coppie maschili hanno celebrato il rito tradizionale del matrimonio romano in presenza di amici; queste forme di matrimonio tra persone dello stesso sesso sono riportati da fonti che ne deridono gli intenti, mentre non vengono registrati i sentimenti dei partecipanti.  Il primo riferimento nella letteratura latina di un matrimonio avvenuto tra uomini si trova nelle Filippiche di Marco Tullio Cicerone, il quale si trova a insultare Marco Antonio per essere stato in gioventù "la sgualdrina" di Gaio Scribonio Curione e aver "stabilito con lui un matrimonio vero e proprio (matrimonium), come se avesse indossato una stola(l'abito tradizionale di una donna sposata) da matrona"[140]. Anche se le implicazioni sessuali a cui vuole alludere Cicerone sono chiare, il punto fondamentale del passaggio oratoriale del filosofo stoico latino è quello è di gettare discredito su Antonio indicandolo nel ruolo di sottomesso all'interno del rapporto omosessuale, mettendo così in tal maniera in dubbio la sua virilità di cittadino; non vi è alcun motivo di pensare che siano stati effettivamente eseguiti riti matrimoniali ufficiali[141].  Sia Marziale sia Giovenale - nelle sue Satire - si riferiscono al matrimonio tra uomini come a un fatto che non accade di rado, cioè come qualcosa di usuale e diffuso, abbastanza ricorrente all'interno della società dell'epoca, anche se poi i due autori citati si ritrovano a disapprovarlo[142]. Il diritto romano non ha mai ufficialmente riconosciuto il matrimonio tra uomini, ma uno dei motivi principali di disapprovazione espressi nella satira datata alla prima metà del II secolo è che continuare a celebrarne i riti avrebbe anche potuto condurre a un'aspettativa di registrazione ufficiale per tali unioni[143].  Giovenale si scaglia contro la diffusione dei rapporti omosessuali, identificati dal poeta con l'effeminatezzae il vizio in generale; passa a descrivere coloro che mascherano i propri vizi sotto il mantello della filosofia greca: i pervertiti si vestono effeminatamente in pubblico, vi è poi chi difende la sua causa in vesti trasparenti, chi giunge fino al punto di sposare un qualche "suonatore di corno"... ma peggio ancora sono coloro che partecipano ai misteri della Bona Deavestiti e truccati come fossero delle donne (II satira).   Busto di Nerone. Nerone        Modifica Varie fonti antiche (tra cui Svetonio, Tacito, Dione Cassio, e Aurelio Vittore) affermano che l'imperatore romano del I secolo Nerone abbia celebrato ben due matrimoni pubblici con degli uomini, una volta assumendo per sé il ruolo della moglie (questo accadde col liberto chiamato Pitagora), un'altra volta invece prendendo il ruolo del marito (con l'eunucoSporo); vi sono poi indizi su un terzo caso in cui sembra aver avuto ancora la parte della moglie[144].  Le cerimonie neroniane includevano elementi tradizionali come la dote e l'indossare il velo da sposa romana[141]. Anche se le fonti al riguardo si trovano a essere nella loro generalità pregiudizialmente ostili, lo stesso Dione Cassio fa implicitamente notare che gli atti pubblici e politici di Nerone venivano considerati molto più scandalosi dei suoi matrimoni con degli uomini[145].  Sporo rimase accanto a Nerone fino all'ultimo giorno, e si tramanda che fu presente anche alla sua morte (Vita di Nerone 48, 1; 49, 3), e, addirittura, secondo Sesto Aurelio Vittore (Epitome de Caesaribus 5, 7), sarebbe colui che resse il gladio con cui egli si dava la morte. Un ruolo di rilievo al suo personaggio compare viene dato anche in varie opere teatrali che descrivono tale evento (ad esempio Martello 1735). Alcuni studiosi considerano quella effettuata su Sporo come la prima operazione di cambiamento di sesso storicamente descritta[146].   Profilo dell'imperatore Eliogabalo. Eliogabalo                                  Modifica Agli inizi del III secolo il giovanissimo imperatore di origini siriache Eliogabalo è indicato per esser stato la sposa in un matrimonio che ha voluto celebrare col suo partner maschile; ma anche molti altri uomini maturi della sua corte sembra avessero dei mariti ufficiali, facendo per lo più notare che ciò era fatto a imitazione dei "matrimoni imperiali"[147].  L'orientamento sessuale di Eliogabalo e la sua identità di genere sono stati origine di controversie e dibattiti; va notato, però, che in Eliogabalo l'aspetto religioso e quello sessuale erano profondamente intrecciati, come normale nella cultura orientale, ma la società romana non comprese questo aspetto a essa alieno e dunque considerò stravaganti e scandalose le pratiche sessuali del proprio imperatore, tra cui le orge, i rapporti omosessuali e transessuali, la prostituzione, all'interno delle quali va intesa la ricerca - nella figura dell'androgino - del desiderio di castrazione.  Stando a quanto ne dice il membro del senato romanoe storico contemporaneo Cassio Dione Cocceiano, la sua relazione più stabile sarebbe stata quella con un auriga, uno schiavo biondo proveniente dalla Caria di nome Ierocle, al quale l'imperatore si riferiva chiamandolo suo marito,[148]. La Historia Augusta, scritta un secolo dopo i fatti, afferma che sposò anche un uomo di nome Zotico, un atleta di Smirne, con una cerimonia pubblica svoltasi nella capitale.[149].  Cassio Dione scrisse inoltre che Eliogabalo si dipingeva le palpebre, si depilava e indossava parrucche prima di darsi alla prostituzione nelle taverne e nei bordelli di Roma,[150] e persino all'interno del palazzo imperiale:   «Infine, riservò una stanza nel palazzo e lì commetteva le sue indecenze, standosene sempre nudo sulla porta della camera, come fanno le prostitute, e scuotendo le tende che pendevano da anelli d'oro, mentre con voce dolce e melliflua sollecitava i passanti.»  (Cassio Dione Cocceiano, Storia romana, lxxx.13) Erodiano commenta che Eliogabalo sciupò il suo bell'aspetto naturale facendo uso di troppo trucco[151]. Venne spesso descritto mentre «si deliziava di essere chiamato l'amante, la moglie, la regina di Ierocle», e si narra che abbia offerto metà dell'Impero romano al medico che potesse dotarlo di genitali femminili[152]. Di conseguenza, Eliogabalo è stato spesso descritto dagli scrittori moderni come transgender, molto probabilmente transessuale.[153][154]  Proibizioni legali chiare e nette contrarie al matrimonio omosessuale cominciarono ad apparire durante il IV secolo, via via che la popolazione dell'impero romanostava sempre più convertendosi al cristianesimo[143].   Sileno ed Eros abbracciati. Bassorilievo in terracotta degli inizi del I secolo. Lo stupro omosessuale                                   Modifica Il diritto romano ha affrontato la questione relativa allo stupro di un cittadino di sesso maschile già nel II secolo a.C.[155], quando venne emessa una sentenza all'interno di una causa che potrebbe aver coinvolto un maschio di orientamento omosessuale. È stato stabilito che anche un uomo "disdicevole e discutibile" (infamis e suspiciosus) aveva lo stesso diritto appartenente a tutti gli altri uomini liberi che il proprio corpo non fosse sottoposto al sesso forzato[156].  Nella "Lex Julia de vi publica"[157], registrata nei primi anni del III secolo ma con tutta probabilità risalente al tempo del dittatore romano Gaio Giulio Cesare lo stupro viene definito come un forzare al rapporto sessuale un ragazzo o una donna e lo stupratore era oggetto di esecuzione capitale, una sanzione abbastanza rara nel diritto romano[158].  Gli uomini che erano stati stuprati venivano esentati dalla perdita dello status giuridico e sociale subita da coloro che concedevano volontariamente il proprio corpo per dare piacere agli altri (soprattutto attraverso il sesso anale e la fellatio); un giovane che si dedicava alla prostituzione maschile o che comunque intratteneva sessualmente altri uomini era sottoposto a infamia e pertanto escluso dalle protezioni legali di regola concesse ed estese a tutti gli altri cittadini[159]. Considerata come una questione di diritto, uno schiavo o una schiava non avrebbero potuto essere violentati, ma in quanto oggetto di proprietà e non in quanto persone il proprietario dello schiavo poteva tuttavia perseguire il violentatore per danni alla proprietà[160].  Il timore di stupri di massa a seguito di una sconfitta militare si estendeva anche a tutte le potenziali vittime di sesso maschile (in primis i bambini) oltre che alle donne[161]. Secondo il giurista Pomponio qualunque cosa l'uomo abbia subito (compresa la violenza sessuale a causa della forza soverchiante dei ladri o da parte del nemico in tempo di guerra), è una cosa che si deve sopportare senza alcuna stigmatizzazione[162].  La minaccia di un uomo di sottoporne un altro alla pedicatio (rapporto anale) o irrumatio (rapporto orale) è un tema assai frequente delle invettive poetiche, particolarmente famosa quella espressa da Catullo nel suo "Carmen 16"[163] ed è stata anche una forma comune di millanteria maschile[164]; lo stupro è stato inoltre una delle punizioni tradizionali inflitte su un uomo adultero da parte del marito offeso[165], anche se forse più come fantasia di vendetta che effettivamente realizzato nella pratica[166].  In una raccolta di dodici aneddoti che si occupano di "assalti subiti dalla castità" lo storico Valerio Massimodispone le vittime di sesso maschile a parità di numero se confrontate con le donne[167]. In un caso di processo farsa (esempio processuale) descritto da Seneca il Vecchio, un adulescens (un giovane che non ha ancora formalmente incominciato la propria vita da adulto) viene violentato da dieci suoi coetanei; anche se il caso è ipotetico Seneca qui presuppone che la legge contempli la possibilità effettiva di un tal accadimento[168]. Un'altra ipotesi immagina un caso estremo in cui la vittima di stupro venga indotta al suicidio; qui il maschio nato libero (appartenente agli ingenui) che ha subito violenza si uccide[169]: i romani consideravano lo stupro su un ingenuus come uno tra i peggiori crimini che potevano essere commessi, assieme col parricidio, la violenza su una ragazza ancora in condizione di verginità e il furto all'interno di un tempio romano[170].  Relazioni omoerotiche nelle forze armate                                       Modifica Magnifying glass icon mgx2.svg                           Lo stesso argomento in dettaglio: Omosessualità militare nell'antica Grecia. Il soldato romano, come ogni altro cittadino maschio libero e rispettoso dello Stato, avrebbe dovuto mostrare autodisciplina anche in materia sessuale. Augusto aveva vietato ai militari di sposarsi e questa proibizione è rimasta in vigore per l'esercito romanoimperiale per quasi due secoli[171]; le forme di gratificazione sessuale a disposizione dei soldati rimanevano quindi la prostituzione e l'utilizzo di persone ridotte in schiavitù, lo stupro di guerra e le relazioni tra persone dello stesso sesso[172].  Il Bellum Hispaniense, narrante gli eventi della guerra civile romana (49-45 a.C.) nella Spagna romana, cita un ufficiale che tiene con sé un concubinus/prostituto durante tutta la campagna militare. Il sesso tra commilitoni tuttavia violava il decoro romano, contrario a ogni tipo di rapporto sessuale tra cittadini liberi; di primaria importanza per un soldato era mantenere intatta la propria virilità (da vir, la sua condizione di uomo) non permettendo mai quindi che il suo corpo potesse venir utilizzato da altri per soddisfare scopi sessuali[173].  In guerra lo stupro simboleggiava la sconfitta, un motivo che rendeva il corpo del soldato costantemente vulnerabile sessualmente[174]. Durante il periodo della repubblica romana gli atti omosessuali tra commilitoni erano soggetti a sanzioni severe, che potevano comprendere anche la condanna capitale[175], in quanto violazione della disciplina militare; Polibio (II secolo a.C.) riferisce che la punizione per un soldato che volontariamente avesse acconsentito a essere sottomesso sessualmente, quindi sottoposto a penetrazione, era il fustuarium(ossia la bastonatura a morte)[176].  Gli storici romani registrano racconti cautelativi di ufficiali che abusano del loro potere per costringere i propri sottoposti a compiere atti sessuali e quindi a subire conseguenze disastrose[177]. Agli ufficiali più giovani, che ancora potevano mantenere alcune delle caratteristiche attrattive adolescenziali favorite maggiormente nelle relazioni tra maschi, era consigliato di rinforzare le proprie qualità maschili e non usare profumi, né tagliarsi i peli alle narici e non radersi le ascelle[178].  Un episodio riferito da Plutarco nella sua biografia di Gaio Mario illustra il dovere del soldato di mantenere la propria integrità sessuale nonostante le pressioni che potevano provenire dai suoi superiori. Una bella e giovane recluta di nome Trebonio[179] aveva subito molestie sessuali per un certo periodo di tempo dal suo ufficiale superiore, che si trovava anche a essere il nipote di Mario, Gaio Luscius. Una notte, dopo essersi nuovamente difeso, in una delle numerose occasioni in cui era stato sottoposto alle attenzioni indesiderate dell'uomo, Trebonio è stato convocato alla tenda di Luscius. Incapace di disobbedire al comando del suo superiore, si trova così a essere improvvisamente l'oggetto di una violenza sessuale e, a questo punto, sfoderata la spada uccide Luscius.  La condanna per l'uccisione di un ufficiale tipicamente provocava l'esecuzione immediata. Quando è stato portato a processo, il ragazzo è stato però in grado di produrre testimoni per dimostrare che aveva ripetutamente dovuto respingere Luscius, e che "non aveva mai prostituito il suo corpo a nessuno, nonostante le profferte di regali costosi". Marius non solo ha assolto Trebonio dall'accusa di aver assassinato un suo parente, ma gli ha consegnato una corona (vedi ricompense militari romane) per il coraggio dimostrato[180].   Diana e Callisto (1770), di Nicolas-René Jollain. Lesbismo                                           Modifica Magnifying glass icon mgx2.svg                            Lo stesso argomento in dettaglio: Storia del lesbismo. I riferimenti al sesso tra donne non sono frequenti nella letteratura latina della repubblica romana e dell'inizio del principato (storia romana). Ovidio, che è uno dei massimi sostenitori d'uno stile di vita generalmente rivolto all'amore per le donne, descrive e nota poi con partecipazione la storia di Ifi (o Ifide, cresciuta e allevata come fosse un maschio) che s'innamora di Iante e in seguito anche di Anassarete: si tratta di uno dei pochissimi miti lesbici presenti nella tradizione classica[181].   Scena di sesso lesbico. Terme Suburbane (Pompei). In epoca imperiale successiva le fonti riguardanti relazioni omosessuali tra donne divengono via via più abbondanti, in forma di ricette mediche, incantesimi e pozioni d'amore, tesi di astrologia e interpretazione dei sogni[182]. Un graffito rinvenuto nei muri di Pompei antica esprime il desiderio di una donna nei confronti di un'altra: "vorrei poter tenerla stretta al collo, abbracciandola ed accoglier tutti i suoi baci sulle mie labbra[183].  Parole di lingua greca indicanti una donna che preferisce la compagnia intima di un'altra donna includono hetairistria (in parallelo a hetaira-compagna (l'etera o cortigiana), tribas (tribade, da cui deriva tribadismo) e lesbia (dall'isola di Lesbo patria della poetessa Saffo). Alcuni termini della lingua latina sono tribas (per prestito linguistico, fricatrix-colei che strofina o sfrega (i propri genitali su quelli di un'altra) e virago (da vir-uomo, quindi una donna-maschio)[184].   Saffo e le sue amiche a Lesbo, dipinto erotico di Édouard-Henri Avril. Un primo riferimento ai rapporti omosessuali tra donne definito come lesbismo si trova nello scrittore greco del II secolo Luciano di Samosata: "dicono che ci sono donne come quelle di Lesbo, di aspetto maschile e che si prendono come consorti altre donne, proprio come se fossero uomini"[185].  Dato che il modo di pensare romano nei riguardi del rapporto sessuale era eminentemente fallocratico e richiedeva in ogni caso un partner attivo dominante gli scrittori uomini immaginavano che nella sessualità tra lesbiche una delle due donne avrebbe dovuto utilizzare un fallo finto (dildo) oppure avere una clitoride eccezionalmente grande tanto da consentire con essa la penetrazione sessuale; per entrambe sarebbe stata un'esperienza piacevole proprio in quanto si verificava l'atto penetrante[186].  Raramente menzionati nelle fonti romane, oggetti a forma di fallo da utilizzare al posto del reale penemaschile sono un popolare elemento di comicità nella letteratura greca e nell'arte in genere[187], anche attraverso la tradizione del simbolismo fallico; esiste invece una sola raffigurazione nota nell'arte romana di una donna che penetra con questo sistema un'altra donna, mentre l'utilizzo di un fallo artificiale da parte di donne è più comune nella pittura vascolare greca[188].  Marco Valerio Marziale descrive le lesbiche come aventi appetiti sessuali fuor di misura che, prese da quest'esagerazione di desiderio, potevano giungere a eseguire atti sessuali con penetrazione su altre donne, ma anche su bambini[189]; i ritratti imperiali di donne che sodomizzano ragazzi, che bevono e mangiano come i maschi e che s'impegnano in vigorosi regimi fisici, possono riflettere in parte le ansie culturali circa la crescente indipendenza delle donne romane[190].  Identità di genere                                Modifica  Mosaico che mostra Ercole mentre porta un abbigliamento femminile ed è in possesso di un gomitolo di lana (a sinistra), mentre Onfaleindossa la pelle del Leone di Nemea. Magnifying glass icon mgx2.svg                                                            Lo stesso argomento in dettaglio: Temi transgender nell'antica Grecia. Travestitismo e crossdressing                                                 Modifica Magnifying glass icon mgx2.svg                            Lo stesso argomento in dettaglio: Storia del crossdressing. Il crossdressing appare nell'arte e nella letteratura latina in vari modi per contrassegnare l'incertezza nell'identità di genere:  come invettiva politica, quando un uomo pubblico è accusato di indossare abiti eleganti e seducenti al modo degli effeminati. come tropo mitologico, come nella storia di Ercole e Onfale che si scambiano gli abiti e con essi anche i ruoli sessuali. come una forma di investitura religiosa, ad esempio nel sacerdozio degli adoratori di Cibele. molto raramente come feticismo di travestimento. Ulpiano categorizza l'abbigliamento romano sulla base di coloro che possono più opportunamente indossarlo: l'abbigliamento virilia-da uomo e caratteristico dei paterfamilias-i capi famiglia; puerilia è invece l'abbigliamento che marca chi lo indossa come bambino o minore; muliebria sono i capi d'abbigliamento della materfamilias; communia quelli che possono essere indossati da entrambi i sessi; infine i familiarica ovvero gli abiti per i famigli, i subalterni e gli schiavi di una casa[191].  Un uomo che volesse indossare abiti adatti alle donne, osserva sempre Ulpiano, rischierebbe di farsi oggetto di scherno: le prostitute erano le uniche donne a cui era concesso d'indossare a piacere anche la togamaschile, essendo loro di fatto al di fuori della categoria sociale e legale normativa indicante la donna[192].  Un frammento del commediografo Accio sembra riferirsi a un uomo che indossava segretamente "fronzoli più adatti a una vergine"[193]. Un esempio di travestitismo è riferito in una causa legale, in cui "un certo senatore era abituato a indossare di sera vestiti da donna"[194]. In una delle lezioni di diritto lasciateci da Seneca[195] un giovane-adulescens viene violentato mente indossava abiti da donna in pubblico, ma il suo abbigliamento è spiegato come atto di sfida compiuto davanti agli amici, non come una scelta basata sulla ricerca del piacere erotico[196].  L'ambiguità di genere era una caratteristica dei sacerdoti della Dea Frigia Cibele: conosciuti come Galli, il loro guardaroba rituale comprendeva capi di abbigliamento femminile. Essi sono a volte considerati come un'autentica casta sacerdotale transgender o transessuale: durante la celebrazione più importante in onore della Dea, a imitazione di Attis si auto-eviravano presi da smania e follia sacra[197]. La complessità della religione e del mito di Cibele e Attis viene esplorata in una delle poesie più lunghe di Catullo, la numero 63.   L'Ermafrodito dormiente, conservato al museo del Louvre. Ermafroditismo e androginia                                                        Modifica Il termine ermafroditismo viene riferito a una persona nata con caratteristiche fisiche di entrambi i sessi (vedi intersessualità); nell'antichità la figura dell'ermafrodita era una delle questioni primarie riguardanti l'identità di genere[198]. Plinio il Vecchioosserva nella sua Naturalis historia che "ci sono anche coloro che sono nati con entrambi i sessi, sono quelli che noi chiamiamo ermafroditi, un tempo detti androgini" (dal Greco Andr-uomo + Gyn-donna; un uomo che è anche una donna quindi)[199].  Lo storico Diodoro Siculo del I secolo a.C. scrisse che "alcuni dichiarano che il nascere di creature di questo tipo sia un evento meraviglioso (teratogenesi) in quanto, essendo un fatto molto raro, sia annunziatore del futuro, a volte con profezie benevole e altre con previsioni più malevoli"[200]. Isidoro di Siviglia descrive in maniera abbastanza fantasiosa un ermafrodito come colui "che ha il seno destro di un uomo e quello sinistro di una donna e dopo l'atto sessuale possono diventare sia il padre sia la madre dei loro eventuali figli"[201].  Secondo il diritto romano un ermafrodito doveva essere classificato o come maschio o come femmina, non esistendo una terza possibilità all'interno della categorizzazione giuridica[202]: l'ermafrodito rappresenta così una "violazione dei confini sociali, in particolare di quelli fondamentali per la vita quotidiana, come l'essere maschio o l'essere femmina"[203].  Nella religione romana tradizionale la nascita di un ermafrodito rientrava nell'ambito del prodigium, un evento cioè che segna un'interruzione nella pace tra Dei e umani; ma Plutarco osserva anche che mentre una volta erano considerati dei presagi divini, ora gli ermafroditi erano diventati oggetto di piacere-deliciae e venivano ampiamente contrattati e venduti al mercato degli schiavi[204].   Ermafrodito in un dipinto murale di Ercolano (prima metà del I secolo). Nella tradizione mitologica classica Ermafrodito era un ragazzino molto avvenente e grazioso figlio di Hermes(il romano Mercurio) e Afrodite (Venere)[205]. Ovidione ha scritto in dettaglio il racconto più famoso e influente, nelle sue Metamorfosi[206] sottolineando che, anche se il bel giovane era nel pieno della sua bellezza e attrattiva adolescenziale, respinse l'amore che gli veniva offerto esattamente come già aveva fatto Narciso[207].  La ninfa Salmace che lo aveva scorto lo desiderò immediatamente: rifiutata lei finse di ritirarsi ma poi, appena il ragazzo cominciò a spogliarsi per poter fare il bagno nel fiume, si slanciò su di lui abbracciandolo stretto e nel contempo pregando gli Dei di non essere mai separati. Gli spiriti benevoli accolsero la sua richiesta supplicante e così i due corpi, quello del ragazzo e quello della ninfa, si fusero in uno dando luogo a un essere fisicamente bisessuato.  Come risultato tutti gli uomini che andavano a bere dalle acque di quella sorgente avrebbero sentito sempre più crescere dentro sé caratteri da effeminatoe il morbo dell'impudicitia[208].  Il mito di Ila, il giovane compagno e amante maschio di Ercole che venne rapito da una ninfa delle acque (Lympha), condivide con Ermafrodito e Narciso il tema dei pericoli che si affacciano sul maschio adolescente nell'età della transizione che lo dovrebbe portare alla riconosciuta virilità adulta, e che invece ha esiti differenti per ognuno[209].  Raffigurazioni di Ermafrodito erano molto popolari tra i romani: "Rappresentazioni artistiche di Ermafrodito portano in primo piano le ambiguità concernenti le differenze sessuali costitutive di uomini e donne, nonché l'intima ambiguità esistente in tutti gli atti sessuali... Gli artisti trattano sempre Ermafrodito in qualità di spettatore di sé stesso, che scopre improvvisamente la sua più autentica identità sessuale... La figura di Ermafrodito è una rappresentazione altamente sofisticata, invadendo i confini esistenti tra i due sessi che sembra essere così chiara nel pensiero classico"[210].  Macrobio descrive infine una forma maschile della Dea Venere la quale aveva il suo culto principale nell'isola di Cipro: dotata di barba e genitali femminili, indossava invece abiti femminili. Gli adoratori di tale divinità travestita erano uomini vestiti da donna e donne vestite da uomini[211]. Il poeta latino Laevius ha parlato dell'adorazione di una Venere che non si sapeva bene se fosse maschio o femmina (sive femina sive mas); questi è stato talvolta chiamato Afrodito e in diversi esemplari di scultura questi si tira su le vesti rivelando d'avere genitali maschili, gesto tradizionalmente riconducibile a un rito magico dal potere apotropaico.  La transizione da paganesimo a cristianesimo                                      Modifica Infine non va sottovalutato il fatto che, è vero, nel tardo impero romano fu la condanna cristiana a rendere l'omosessualità un reato (cioè uno stuprum) sempre e comunque; tuttavia la terminologia usata per giustificare la condanna non è cristiana, ma è ripresa dalla filosofia greca e non dalla teologica ebraica. Il concetto di "contro natura", per esempio, viene da Platone, non dalla Bibbia. Per l'ebraismo, l'omosessualità non è "contro natura", ma semmai "impura", "abominazione" (to'ebah)[senza fonte].  Magnifying glass icon mgx2.svg                   Lo stesso argomento in dettaglio: Omosessualità ed Ebraismo. Tuttavia è innegabile che il Cristianesimo e la morale giudaica e testamentaria funzionarono da base e fulcro alle leggi che, successivamente adottate dagli imperatori cristiani come Costante, Teodosio I e Giustiniano, proibirono e punirono con la pena capitale il nuovo reato di omosessualità. Teodosio era infatti fortemente influenzato dal vescovo di Milano Sant'Ambrogio, tanto che quando promulgò la legge che condannava gli atti omosessuali passivi era sotto una penitenza assegnata dallo stesso Ambrogio[212] in un contesto in cui si stava svolgendo una lotta tra ariani e cattolici e in cui gli "eunuchi", molto influenti nella corte imperiale, erano schierati per la maggior parte con gli ariani affermando la natura umana di Gesù, ed esercitavano pressioni nei municipi contro i cristiani niceni, cioè cattolici, che sostenevano la duplice natura, divina e umana di Gesù, figlio di Dio[213]. Nel 389, cioè un anno prima del decreto che puniva gli atti omosessuali, un decreto di Teodosio tolse agli eunuchi neo-ariani il diritto di fare e ricevere testamento[214].  Sotto il dominio cristiano                           Modifica Nel Basso Impero il modo di concepire l'omosessualità cambia via via in modo sempre più restrittivo, fino ad arrivare al codice Teodosiano che, recependo due leggi precedenti databili rispettivamente al 342 e 390 d.C., reprimeva l'omosessualità passiva e l'effeminatezza con la pena capitale o la mutilazione, mentre con Giustiniano (483-565 d.C.) ogni manifestazione di omosessualità, anche attiva, fu bandita perché in ogni caso offendeva Dio, con riordino del sistema della persecuzione criminale e con pena di morte per infanda libido, formulando anche un giudizio morale ("infanda" = letteralmente che non può esser detta, innominabile).  Le cause di questo cambiamento legislativo, di irrigidimento e intolleranza sempre più crescente verso l'omosessualità sono ancora oggi dibattute da alcuni storici e studiosi. Indubbiamente un ruolo importante fu svolto dalla morale cristiana e dal passaggio del Cristianesimo da religione segreta e proibita a religione di Stato, unica ammessa in tutto l'Impero. La morale cristiana infatti, a differenza di quella pagana greco-romana, considerava comunque peccato l'atto omosessuale, di là dal ruolo svolto, contrapponendo, alla visione maschilista tipica della società romana sul sesso, una visione più ascetica e distaccata in cui il sesso era sempre considerato un peccato e un atto impuro, al di fuori della finalità di unione nella complementarità sessuale evocata in Genesi 2-3 e della apertura alla procreazione, e quindi dividendo le pratiche sessuali in lecite (rapporto tra uomo-donna atto alla riproduzione, sacralizzato a Dio tramite il matrimonio) e in illecite (tutto il resto, cioè gli atti sessuali non atti alla riproduzione, tra cui anche l'omosessualità attiva e passiva, oltre che la masturbazione).  Alcuni studiosi tuttavia ritengono che l'irrigidimento fosse stato coadiuvato, senza niente togliere alla morale cristiana sempre più dominante, anche a un certo puritanesimo pagano sempre più crescente di fronte alla decadenza dei costumi tipica del Tardo Impero.   Apollo tra gli amati Giacinto (mitologia) e Ciparisso (1834), di Aleksandr Andreevič Ivanov (pittore).  Scultura del 1846 di Herman Wilhelm Bissen che ritrae Ila, bellissimo giovinetto amato da Ercole.  Uno dei tanti busti dedicati da Adriano ad Antinoo.  Rapporto sessuale tra Antinoo e l'imperatore Adriano in uno dei tanti dipinti erotici di Édouard-Henri Avril.  Corteo trionfale del dio Bacco. Mosaico del II secolo.  Busto romano di ragazzo (forse Polydeukes amato da Erode Attico), conservato all'Ermitage di San Pietroburgo e risalente al II secolo d.C. Note                                                   Modifica ^ Craig Williams, Roman Homosexuality (Oxford University Press, 1999, 2010), p. 304, citando Saara Lilja, Homosexuality in Republican and Augustan Rome (Societas Scientiarum Fennica, 1983), p. 122. ^ Eva Cantarella, Secondo natura. La bisessualità nel mondo antico, 1988 p. 100. ^ Craig A. Williams, Roman Homosexuality(Oxford University Press, 1999), p. 18. ^ Williams, Roman Homosexuality, passim; Elizabeth Manwell, "Gender and Masculinity," in A Companion to Catullus (Blackwell, 2007), p. 118. ^ Thomas Habinek, "The Invention of Sexuality in the World-City of Rome," in The Roman Cultural Revolution (Cambridge University Press, 1997), p. 31 et passim. ^ Thomas A.J. McGinn, Prostitution, Sexuality and the Law in Ancient Rome (Oxford University Press, 1998), p. 326. Si veda la dichiarazione conservata in Aulo Gellio 9.12. 1 sul fatto che vim in corpus liberum non aecum ... adferri). ^ Eva Cantarella, Secondo natura. La bisessualità nel mondo antico-"Bisexuality in the Ancient World" (Yale University Press, 1992, 2002, originariamente pubblicato nel 1988 in italiano), p. xii. ^ Elaine Fantham, "The Ambiguity of Virtus in Lucan's Civil War and Statius' Thebiad," Arachnion 3; Andrew J.E. Bell, "Cicero and the Spectacle of Power," Journal of Roman Studies87 (1997), p. 9; Edwin S. Ramage, “Aspects of Propaganda in the De bello gallico: Caesar's Virtues and Attributes,” Athenaeum 91 (2003) 331–372; Myles Anthony McDonnell, Roman manliness: virtus and the Roman Republic(Cambridge University Press, 2006) passim; Rhiannon Evans, Utopia Antiqua: Readings of the Golden Age and Decline at Rome (Routledge, 2008), pp. 156–157. ^ Davina C. Lopez, "Before Your Very Eyes: Roman Imperial Ideology, Gender Constructs and Paul's Inter-Nationalism," in Mapping Gender in Ancient Religious Discourses (Brill, 2007), pp. 135–138. ^ Eva Cantarella, Secondo natura. La bisessualità nel mondo antico, p. xi; Marilyn B. Skinner, introduzione a Roman Sexualities (Princeton University Press, 1997), p. 11. ^ Rebecca Langlands, Sexual Morality in Ancient Rome (Cambridge University Press, 2006), p. 13. ^ Per un ulteriore approfondimento su come l'attività sessuale definisce il libero cittadino rispettabile dallo schiavo considerato non-persona e quindi passibile di qualsiasi abuso, vedi anche la voce Sessualità nell'antica Roma nella parte riguardante la relazione schiavo-padrone. ^ Amy Richlin, The Garden of Priapus: Sexuality and Aggression in Roman Humor (Oxford University Press, 1983, 1992), p. 225. ^ Catharine Edwards, "Unspeakable Professions: Public Performance and Prostitution in Ancient Rome," in Roman Sexualities, pp. 67–68. ^ Amy Richlin, "Sexuality in the Roman Empire," in A Companion to the Roman Empire (Blackwell, 2006), p. 329. La legge ha cominciato con l'indicare pene più severe per le classi più basse (humiliores) rispetto all'elite (honestiores). ^ Questo è un tema esposto da Carlin A. Barton, The Sorrows of the Ancient Romans: The Gladiator and the Monster (Princeton University Press, 1993). ^ Liber (Catullo) Carmina 21, 37, 55, 56, ^ Elegie (Tibullo), Libro I, 4 ^ Eva Cantarella, Secondo natura. La bisessualità nel mondo antico (Yale University Press, 1992, 2002, pubblicato originariamente nel 1988 in italiano), p. xii. ^ Svetonio, Vita di Cesare 45-53; ^ Carmina, 29. ^ Svetonio, Vita di Cesare, 73. ^ (Vita di Augusto 68, 71) ^ Osgood, J. Caesar's Legacy: Civil War and the Emergence of the Roman Empire, CUP, 2006, p. 263, in books.google.com ^ Plutarco,http://penelope.uchicago.edu/Thayer/E/Roman/Texts/Plutarch/Lives/Antony*.html Vite parallele: Antonio] ^ M. Fraquelli Omosessuali di destra 2007, pag.98 ^ Svetonio, Vite dei Cesari: Tiberio ^ Svetonio, Vite dei Cesari: Vitellio III. ^ Cassio Dione, LXVII, 6; Tacito, Agricola, 40. ^ Cassio Dione, LXVII, 6. ^ https://books.google.it/books?id=eUVvBQAAQBAJ&pg=PT143&lpg=PT143&dq=Clodio+ Pollione&source=bl&ots=ma--4gCTxi&sig=BLfjJsIiqk0vwvEuu2VAQh45m2Q&hl=it&sa=X&ei=UQ2vVOTfHMf7ygOVl4K4CA&ved=0CCYQ6AEwAQ#v=onepage&q=Clodio%20Pollione&f=false ^ Silvae, III, 4. ^ Marziale Epigrammi (Marziale) "Liber IX", 11, 12, 13, 16, 17, 36. ^ https://books.google.it/books?id= NAr3Riy4EYMC&pg=PA60&lpg=PA60&dq= Clodio+Pollione&source=bl&ots=FTuncuSDtC&sig= Hwrnh0vVLuLC6digxZLfeKFhMyE&hl=it&sa= X&ei=UQ2vVOTfHMf7ygOVl4K4CA&ved=0CDAQ6AEw Aw#v=onepage&q=Clodio%20Pollion e&f=false ^ M. Fraquelli Omosessuali di destra 2007, pag.99 ^ Raffaele Mambella, Antinoo. L'ultimo mito dell'antichità nella storia e nell'arte, Ed. Nuovi Autori, Milano 1995. ISBN 88-7230-353-2. ^ Luciano di Samosata, Dialoghi e epigrammi(24). ^ IG, III, 815. ^ IG, III, 110. ^ Polydeukion, su Aedicula Antinoi: A Small Shrine of Antinous. ^ Lambert, Beloved and God: The Story of Hadrian and Antinous, p. 143. ^ Luciano de Samosata, I dialoghi e gli epigrammi, Casini/I dioscuri, Genova 1988, vol. 1, pp. 481-482 ^ John R. Clarke, Looking at Lovemaking: Constructions of Sexuality in Roman Art 100 B.C.–A.D. 250 (University of California Press, 1998, 2001), p. 234. ^ Clarke, Looking at Lovemaking, pp. 234–235. ^ Habinek, "The Invention of Sexuality in the World-City of Rome," in The Roman Cultural Revolution, p. 39. ^ Williams, Roman Homosexuality, pp. 69–70. ^ Amy Richlin, "Pliny's Brassiere," in Roman Sexualities, p. 215. ^ David Fredrick, The Roman Gaze: Vision, Power, and the Body (Johns Hopkins University Press, 2002), p. 156. ^ Paul Zanker, The Power of Images in the Age of Augustus (University of Michigan Press, 1988), pp. 239–240, 249–250 et passim ^ John Pollini, "The Warren Cup: Homoerotic Love and Symposial Rhetoric in Silver," Art Bulletin 81.1 (1999) 21–52. John R. Clarke, Looking at Lovemaking: Constructions of Sexuality in Roman Art 100 B.C.–A.D. 250(University of California Press, 1998, 2001), p. 61, asserts that the Warren cup is valuable for art history and as a document of Roman sexuality precisely because of its "relatively secure date." ^ Pollini, "The Warren Cup," passim. ^ Pollini, "Warren Cup," pp. 35–37, 42. ^ Pollini, "Warren Cup," p. 37. ^ M.T. Marabini Moevs, “Per una storia del gusto: riconsiderazioni sul Calice Warren,” Ministero per i Beni e le Attività Culturali Bollettino d'Arte 146 (Oct.–Dec. 2008) 1-16. ^ Eva Cantarella, Secondo natura. La bisessualità nel mondo antico, p. 120; Edward Courtney, The Fragmentary Latin Poets (Oxford: Clarendon Press, 1992), p. 75. ^ Ramsay MacMullen, "Roman Attitudes to Greek Love," Historia 31.4 (1982), pp. 484–502. ^ David M. Halperin, "The First Homosexuality?" in The Sleep of Reason: Erotic Experience and Sexual Ethics in Ancient Greece (University of Chicago Press, 2002), pp. 242 and 263, with criticism of MacMullen. ^ Eva Cantarella, Secondo natura. La bisessualità nel mondo antico, p. xi; Skinner, introduzione a Roman Sexualities, p. 11. ^ Eva Cantarella, Secondo natura. La bisessualità nel mondo antico, pp. xi–xii; Skinner, introduzione a Roman Sexualities, pp. 11–12. ^ Vedi i Carmina 15, 24, 48, 81, 99 ^ John Pollini, "The Warren Cup: Homoerotic Love and Symposial Rhetoric in Silver," Art Bulletin 81.1 (1999), p. 28. ^ Amy Richlin, "Not before Homosexuality: The Materiality of the cinaedus and the Roman Law against Love between Men," Journal of the History of Sexuality 3.4 (1993), p. 536. ^ Tito Lucrezio Caro, De rerum natura 4.1052–1056). Vedi anche Sessualità nell'antica Roma#Rapporti omosessuali ^ Prima che sia peccato. L'omosessualità nella letteratura greca e latina. A cura di Piero Manni, 2012, pp. 96-98 ^ Williams, Roman Homosexuality, pp. 116–119. ^ Publio Virgilio Marone, Eneide, Libri V, IX e X ^ Mark Petrini, The Child and the Hero: Coming of Age in Catullus and Vergil (University of Michigan Press, 1997), pp. 24–25. ^ James Anderson Winn, The Poetry of War(Cambridge University Press, 2008), p. 162. ^ Ecloga III ver. 66-67, 70-71, 74-75, 82-83 ^ Tibullo, Elegie (Tibullo)-libro I 4, 8, e 9 ^ Properzio 4.2. ^ Publio Ovidio Nasone, Ars Amatoria 2.683–684; Pollini, "Warren Cup," p. 36. ^ Metamorfosi (Ovidio), V, X ^ Habinek, "The Invention of Sexuality in the World-City of Rome," p. 31 et passim. ^ Louis Crompton, Byron and Greek Love(London, 1998), p. 93. ^ CIL 4, 9027; translation from Hubbard, Homosexuality, 423 ^ Petronius: Satyricon ^ Aelius Lampridius: Scripta Historia Augusta, Commodus, 10.9 ^ Ausonius, Epigramma 43 Green (39); Matthew Kuefler, The Manly Eunuch: Masculinity, Gender Ambiguity, and Christian Ideology in Late Antiquity (University of Chicago Press, 2001), p. 92. ^ RIchlin, "Not before Homosexuality," p. 531. ^ RIchlin, The Garden of Priapus, pp. 92, 98, 101. ^ Svetonio, Vita di Cesare 52.3; Richlin, "Not before Homosexuality," p. 532. ^ Come citato da Cantarella, Bisexuality in the Ancient World, p. 99. ^ Cantarella, Bisexuality in the Ancient World, p. 100. ^ a b Richlin, "Not before Homosexuality," p. 531. ^ Williams, Roman Homosexuality, p. 85 et passim ^ Williams, Roman Homosexuality, p. 200. ^ a b c d Williams, Roman Homosexuality, p. 197. ^ a b c d e Williams, Roman Homosexuality, p. 193. ^ Williams, Roman Homosexuality, p. 6. ^ James L. Butrica, "Some Myths and Anomalies in the Study of Roman Sexuality," in Same-Sex Desire and Love in Greco-Roman Antiquity, p. 223, confronta l'uso di cinaedus come "faggot" nella canzone dei Dire Straits intitolata "Money for Nothing", in cui un cantante è chiamato esplicitamente "that little faggot with the earring and the make-up" e "gets his money for nothing and his chicks for free." ^ Williams, Roman Homosexuality, pp. 203–204. ^ Williams, Roman Homosexuality, pp. 55, 202. ^ Cantarella, Secondo natura. Bisesualità nel mondo antico, p. 125. ^ Catullus, Carmen 61, lines 119–143. ^ Butrica, "Some Myths and Anomalies in the Study of Roman Sexuality," pp. 218, 224. ^ Richlin, "Not before Homosexuality," p. 534; Ronnie Ancona, "(Un)Constrained Male Desire: An Intertextual Reading of Horace Odes 2.8 and Catullus Poem 61," in Gendered Dynamics in Latin Love Poetry (Johns Hopkins University Press, 2005), p. 47; Mark Petrini, The Child and the Hero: Coming of Age in Catullus and Vergil(University of Michigan Press, 1997), pp. 19–20. ^ Williams, Roman Homosexuality, p. 229. note 260: Martial 6.39.12-4: "quartus cinaeda fronte, candido voltu / ex concubino natus est tibi Lygdo: / percide, si vis, filium: nefas non est." ^ Cantarella, Bisexuality in the Ancient World, pp. 125–126; Robinson Ellis, A Commentary on Catullus (Cambridge University Press, 2010), p. 181; Petrini, The Child and the Hero, p. 19. ^ Quintiliano, Institutio oratoria 1.2.8, disapprova la frequentazione sia di concubini sia di (amicae)di fronte ai propri figli. Ramsey MacMullen, "Roman Attitudes to Greek Love," Historia 31 (1982), p. 496. ^ Williams, Roman Homosexuality, p. 24, citing Martial 8.44.16-7: tuoque tristis filius, velis nolis, cum concubino nocte dormiet prima ^ Caesarian Corpus, De Bello Hispaniensi 33; MacMullen, "Roman Attitudes to Greek Love," p. 490. ^ "They use the word Catamitus for Ganymede, who was the concubinus of Jove," according to the lexicographer Festus (38.22, as cited by Williams, Roman Homosexuality, p. 332, note 230. ^ Butrica, "Some Myths and Anomalies in the Study of Roman Sexuality," in Same-Sex Desire and Love in Greco-Roman Antiquity, p. 212. ^ Holt N. Parker, "The Teratogenic Grid," in Roman Sexualities, p. 56; Williams, Roman Homosexuality, p. 196. ^ Parker, "The Teratogenic Grid," p. 57, citing Martial 5.61 and 4.43. ^ Richlin, "Not before Homosexuality," p. 535. ^ Williams, Roman Homosexuality, p. 75. ^ Richlin, "Not before Homosexuality," p. 547. ^ Richlin, "Not before Homosexuality," p. 536; Williams, Roman Homosexuality, p. 208. ^ Richlin, "Not before Homosexuality," p. 536. ^ Elaine Fantham, "Stuprum: Public Attitudes and Penalties for Sexual Offences in Republican Rome," in Roman Readings: Roman Response to Greek Literature from Plautus to Statius and Quintilian (Walter de Gruyter, 2011), p. 130. ^ Richlin, "Not before Homosexuality," p. 538. ^ Williams, Roman Homosexuality, p. 199. ^ Elizabeth Manwell, "Gender and Masculinity," in A Companion to Catullus (Blackwell, 2007), p. 118. ^ Vioque, 2002, p. 120. ^ Manwell, "Gender and Masculinity," p. 118. ^ Beert C. Verstraete and Vernon Provencal, introduction to Same-Sex Desire and Love in Greco-Roman Antiquity and in the Classical Tradition (Haworth Press, 2005), p. 3. ^ Caroline Vout, Power and Eroticism in Imperial Rome (Cambridge University Press, 2007), p. 136 (for Sporus in Alexander Pope's poem "Epistle to Dr Arbuthnot", see Who breaks a butterfly upon a wheel?). ^ Alison Keith, "Sartorial Elegance and Poetic Finesse in the Sulpician Corpus," in Roman Dress and the Fabrics of Roman Culture, p. 196. ^ Fernando Navarro Antolín, Lygdamus. Corpus Tibullianum III.1–6: Lygdami Elegiarum Liber (Brill, 1996), pp. 304–307. ^ Vioque, 2002, p. 131. ^ William Fitzgerald, Slavery and the Roman Literary Imagination (Cambridge University Press, 2000), p. 54. ^ As at Orazio, Satire 1.3.45 e Svetonio, Vita di Caligola 13, as noted by Dorota M. Dutsch, Feminine Discourse in Roman Comedy: On Echoes and Voices (Oxford University Press, 2008), p. 55. See also Plauto, Poenulus 1292, come ha osservato Richard P. Saller, "The Social Dynamics of Consent to Marriage and Sexual Relations: The Evidence of Roman Comedy," in Consent and Coercion to Sex and Marriage in Ancient and Medieval Societies (Dumbarton Oaks, 1993), p. 101. ^ Le parole pullus e puer possono derivare dalla stessa radice Indo-Europea; vedi Martin Huld, la definizione "child," nell' Encyclopedia of Indo-European Culture (Fitzroy Dearborn, 1997), p. 107. ^ Amy Richlin, The Garden of Priapus: Sexuality and Aggression in Roman Humor (Oxford University Press, 1983, 1992), p. 289. ^ Festus p. 285 in the 1997 Teubner edition of Lindsay; Williams, Roman Homosexuality, p. 17; Auguste Bouché-Leclercq, Histoire de la divination dans l'antiquité (Jérôme Millon, 2003 reprint, originally published 1883), p. 47. ^ Richlin, The Garden of Priapus, p. 289. ^ Richlin, The Garden of Priapus, p. 289, trova la reputazione di Eburno come "pulcino di Giove" e la sua successiva estrema severità contro l'impudicitia del figlio come molto significativa e stimolante. ^ Cicerone, Pro Balbo 28; Valerio Massimo 6.1.5–6; Pseudo-Quintiliano, Decl. 3.17; Paolo Orosio5.16.8; T.R.S. Broughton, The Magistrates of the Roman Republic (American Philological Association, 1951, 1986), vol. 1, p. 549; Gordon P. Kelly, A History of Exile in the Roman Republic(Cambridge University Press, 2006), pp. 172–173; Richlin, The Garden of Priapus, p. 289. ^ Williams, Roman Sexuality, p. 17. ^ As at Apuleio, L'asino d'oro 9.7; Cicerone, Pro Caelio 36 (in riferimento al suo nemico personale Publio Clodio Pulcro); Adams, The Latin Sexual Vocabulary (Johns Hopkins University Press, 1982), pp. 191–192; Katherine A. Geffcken, Comedy in the Pro Caelio (Bolchazy-Carducci, 1995), p. 78. ^ Giovenale, Satire 6.36–37; Erik Gunderson, "The Libidinal Rhetoric of Satire," in The Cambridge Companion to Roman Satire(Cambridge University Press, 2005), p. 231. ^ a b Richlin, The Garden of Priapus, p. 169. ^ Glossarium codicis Vatinici, Corpus Glossarum Latinarum IV p. xviii; see Georg Götz, Rheinisches Museum 40 (1885), p. 327. ^ Primarily Amy Richlin, as in "Not before Homosexuality." ^ Plautus, Curculio 482-84 ^ Williams, Roman Homosexuality, p. 201. ^ As summarized by John R. Clarke, "Representation of the Cinaedus in Roman Art: Evidence of 'Gay' Subculture," in Same-sex Desire and Love in Greco-Roman Antiquity, p. 272. ^ Cicerone, Fillippiche 2.44, citato da Williams, Roman Homosexuality, p. 279. ^ a b Williams, Roman Homosexuality, p. 279. ^ Martial 1.24 and 12.42; Juvenal 2.117–42. Williams, Roman Homosexuality, pp. 28, 280; Karen K. Hersh, The Roman Wedding: Ritual and Meaning in Antiquity (Cambridge University Press, 2010), p. 36; Caroline Vout, Power and Eroticism in Imperial Rome (Cambridge University Press, 2007), pp. 151ff. ^ a b Williams, Roman Homosexuality, p. 280. ^ Le fonti sono citate da Williams, Roman Homosexuality, p. 279. ^ Dione Cassio 63.22.4; Williams, Roman Homosexuality, p. 285. ^ Tra gli altri: Durant (1935: vol. 3, p. 282); Koranyi (1980: 35). ^ Williams, Roman Homosexuality, pp. 278–279, citando Dione Cassio e Elio Lampridio. ^ Cassio Dione, lxxx.15. ^ Historia Augusta, x. ^ Cassio Dione, lxxx.14. ^ Erodiano, v.6. ^ Cassio Dione, lxxx.16. ^ Benjamin 1966. ^ Godbout 2004. ^ Richlin, "Not before Homosexuality," p. 561. ^ As recorded in a fragment of the speech De Re Floria by Cato the Elder (frg. 57 Jordan = Aulus Gellius 9.12.7), as noted and discussed by Richlin, "Not before Homosexuality," p. 561. ^ Digest 48.6.3.4 and 48.6.5.2. ^ Richlin, "Not before Homosexuality," pp. 562–563. See also Digest 48.5.35 [34] on legal definitions of rape that included boys. ^ Richlin, "Not before Homosexuality," pp. 558–561. ^ Cantarella, Bisexuality in the Ancient World, pp. 99, 103; McGinn, Prostitution, Sexuality and the Law, p. 314. ^ Williams, Roman Homosexuality, pp. 104–105. ^ Digest 3.1.1.6, as noted by Richlin, "Not before Homosexuality," p. 559. ^ Richlin, The Garden of Priapus, pp. 27–28, 43 (in Marziale), 58, et passim. ^ Williams, Roman Homosexuality, p. 20; Skinner, introduzione a Roman Sexualities, p. 12; Amy Richlin, "The Meaning of irrumare in Catullus and Martial," Classical Philology 76.1 (1981) 40–46. ^ Williams, Roman Homosexuality, pp. 27, 76 (con un esempio proveniente da Marziale 2.60.2. ^ Catharine Edwards, The Politics of Immorality in Ancient Rome (Cambridge University Press, 1993), pp. 55–56. ^ Valerio Massimo 6.1; Richlin, "Not before Homosexuality," p. 564. ^ Richlin, "Not before Homosexuality," p. 564. ^ Quintiliano, Institutio oratoria 4.2.69–71; Richlin, "Not before Homosexuality," p. 565. ^ Richlin, "Not before Homosexuality," p. 565, citando il passaggio proveniente da Quintiliano. ^ Men of the governing classes, who would have been officers above the rank of centurion, were exempt. Pat Southern, The Roman Army: A Social and Institutional History (Oxford University Press, 2006), p. 144; Sara Elise Phang, The Marriage of Roman Soldiers (13 B.C.–A.D. 235): Law and Family in the Imperial Army (Brill, 2001), p. 2. ^ Phang, The Marriage of Roman Soldiers, p. 3. ^ Sara Elise Phang, Roman Military Service: Ideologies of Discipline in the Late Republic and Early Principate (Cambridge University Press, 2008), p. 93. ^ Phang, Roman Military Service, p. 94. See section above on male rape: Roman law recognized that a soldier might be raped by the enemy, and specified that a man raped in war should not suffer the loss of social standing that an infamis did when willingly undergoing penetration; Digest 3.1.1.6, as discussed by Richlin, "Not before Homosexuality," p. 559. ^ Thomas A.J. McGinn, Prostitution, Sexuality and the Law in Ancient Rome (Oxford University Press, 1998), p. 40. ^ Polibio, Storie 6.37.9 (metodo antico di bastinado). ^ Phang, The Marriage of Roman Soldiers, pp. 280–282. ^ Phang, Roman Military Service, p. 97, citing among other examples Juvenal, Satire 14.194–195. ^ Lo stesso nome è citato anche altrove in Plozio Tucca. ^ Plutarco, Vita di Mario 14.4–8; vedi anche Valerio Massimo 6.1.12; Cicerone, Pro Milone 9, in Dillon e Garland, Ancient Rome, p. 380; in Dionigi di Alicarnasso 16.4. Discussione di Phang, Roman Military Service, pp. 93–94, e The Marriage of Roman Soldiers, p. 281; Eva Cantarella, Secondo natura. La bisessualità nell'antica Roma, pp. 105–106. ^ Ovidio, Metamorfosi (Ovidio) 9.727, 733–4, citato in Richlin, "Sexuality in the Roman Empire," p. 346. ^ Bernadette J. Brooten, Love between Women: Early Christian Responses to Female Homoeroticism (University of Chicago Press, 1996), p. 1. ^ The Latin indicates that the I is of feminine gender; CIL 4.5296, as cited by Richlin, "Sexuality in the Roman Empire," p. 347. ^ Brooten, Love between Women, p. 4. ^ Luciano, Dialoghi delle cortigiane 5. ^ Jonathan Walters, "Invading the Roman Body: Manliness and Impenetrability in Roman Thought," pp. 30–31, and Pamela Gordon, "The Lover's Voice in Heroides 15: Or, Why Is Sappho a Man?," p. 283, both in Roman Sexualities; John R. Clarke, "Look Who's Laughing at Sex: Men and Women Viewers in the Apodyterium of the Suburban Baths at Pompeii," both in The Roman Gaze, p. 168. ^ Richlin, "Sexuality in the Roman Empire," p. 351. ^ Diana M. Swancutt, "Still before Sexuality: 'Greek' Androgyny, the Roman Imperial Politics of Masculinity and the Roman Invention of the tribas," in Mapping Gender in Ancient Religious Discourses (Brill, 2007), pp. 11–12. ^ Martiale 1.90 e 7.67, 50; Richlin, "Sexuality in the Roman Empire," p. 347; John R. Clarke, Looking at Lovemaking: Constructions of Sexuality in Roman Art 100 B.C.–A.D. 250(University of California Press, 1998, 2001), p. 228. ^ Clarke, Looking at Lovemaking, p. 228. ^ Digest 34.2.23.2, as cited by Richlin, "Not before Homosexuality," p. 540. ^ Edwards, "Unspeakable Professions," p. 81. ^ Cum virginali mundo clam pater: Kelly Olson, "The Appearance of the Young Roman Girl," in Roman Dress and the Fabrics of Roman Culture(University of Toronto Press, 2008), p. 147. ^ Digest 34.2.33, as cited by Richlin, "Not before Homosexuality," p. 540. ^ Vedi sopra alla sezione "stupro maschio-maschio"." ^ Lucio Anneo Seneca il Vecchio, Controversia5.6; Richlin, "Not before Homosexuality," p. 564. ^ Stephen O. Murray, Homosexualities (University of Chicago Press, 2000), pp. 298–303; Mary R. Bachvarova, "Sumerian Gala Priests and Eastern Mediterranean Returning Gods: Tragic Lamentation in Cross-Cultural Perspective," in Lament: Studies in the Ancient Mediterranean and Beyond (Oxford University Press, 2008), pp. 19, 33, 36. ^ Clarke, Looking at Lovemaking, p. 49; Rabun Taylor, The Moral Mirror of Roman Art(Cambridge University Press, 2008), p. 78. ^ Pliny, Natural History 7.34: gignuntur et utriusque sexus quos hermaphroditos vocamus, olim androgynos vocatos; Veronique Dasen, "Multiple Births in Graeco-Roman Antiquity," Oxford Journal of Archaeology 16.1 (1997), p. 61. ^ Diodorus Siculus 4.6.5; Will Roscoe, "Priests of the Goddess: Gender Transgression in Ancient Religion," in History of Religions 35.3 (1996), p. 204. ^ Isidoro di Siviglia, Etimologie 11.3. 11. ^ Lynn E. Roller, "The Ideology of the Eunuch Priest," Gender & History 9.3 (1997), p. 558. ^ Roscoe, "Priests of the Goddess," p. 204. ^ Plutarco, Moralia 520c; Dasen, "Multiple Births in Graeco-Roman Antiquity," p. 61. ^ Ovid, Metamorphoses 4.287–88. ^ Taylor, The Moral Mirror of Roman Art, p. 77; Clarke, Looking at Lovemaking, p. 49. ^ Taylor, The Moral Mirror of Roman Art, p. 78ff. ^ Paulus ex Festo 439L; Richlin, "Not before Homosexuality," p. 549. ^ Taylor, The Moral Mirror of Roman Art, p. 216, note 46. ^ Clarke, Looking at Lovemaking, pp. 54–55. ^ Macrobio, Saturnalia 3.8.2. Macrobio dice che Aristofane chiama una tale figura col nome di Aphroditos. ^ Wilhelm Ensslin, Die Religionspolitik des Kaisers Theodosius des Grossen, Monaco, 1953. In: Sitzungsberichte der Bayerischen Akademie der Wissenschaften, Philosophisch-historische Klasse, Anno 1953, N. 2 ^ Atanasio, Storia degli Ariani, 5.38 ^ Codice di Teodosio,16.5.17 Bibliografia      Modifica Gaio Valerio Catullo, I Carmi. Publio Virgilio Marone, Bucoliche. Albio Tibullo, Elegie. Tito Petronio Nigro, Satyricon. Wilhelm Ensslin, Die Religionspolitik des Kaisers Theodosius des Grossen, Monaco, 1953. Michel Foucault, La volontà di sapere. (Storia della sessualità, vol. 1), Feltinelli, Milano 1978. Michel Foucault, L'uso dei piaceri. (Storia della sessualità, vol. 2), Feltrinelli, Milano 1984. Craig Arthur Williams: Roman Homosexuality, Ideologies of Masculinity in Classical Antiquity. in: Oxford University Press (ed.): Ideologies of Desire. Oxford 1999. ( EN ) Guillermo Galán Vioque, Martial, Book VII: A Commentary, traduzione di J.J. Zoltowski, Brill, 2002, pp. 61, 206, 411, ISSN 0169-8958 (WC · ACNP). Thomas K. Hubbard: Homosexuality in Greece and Rome, a Sourcebook of Basic Documents. Los Angeles, London 2003. ISBN 0-520-23430-8 Eva Cantarella, Secondo natura - La bisessualità nel mondo antico, BUR Biblioteca Univ. Rizzoli, 2006. ISBN 88-17-11654-8 RAYOR, Diane J. Homosexuality in Greece and Rome: A sourcebook of basic documents. Univ of California Press, 2003. ISBN 978-0520234307 Voci correlate                    Modifica Storia LGBT Omosessualità nell'antica Grecia Omosessualità nel Medioevo Pederastia Pederastia greca Storia dell'omosessualità in Italia Altri progetti       Modifica Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su omosessualità nell'Antica Roma   Portale Antica Roma   Portale LGBT Ultima modifica 16 giorni fa di Botcrux PAGINE CORRELATE Lex Scantinia Sessualità nell'antica Roma Terminologia dell'omosessualità Wikipedia Il contenuto – Grice: “And then there’s Roman sex”. Grice: “Like me in ‘Some remarks about the senses, Fardella with Giorgi follow Lucrezio’s materialism, -- and Cicero’s sensible terminology on sensibilia!” Michelangelo Fardella. Fardella. Keywords: metafisica, ontologia, razionalismo, aritmetica, geometria, solipsismo, percezione, vedere – sentire – atomismo di lucrezio, sensismo di Giorgi – Cartesio is actually borrowing it all from Platone’s Timeo – for whom the world is also only interpretable ‘more geometrico’. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Fardella” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51690424692/in/photolist-2mKEbWv-2mKGWoQ

 

Grice e Fassò – Igitur est RES PVBLICA RES POPVLI – l’implicatura di Bruto filosofia italiana – Luigi Speranza (Bologna). Filosofo. Grice: “I like Fassò; for one, he was, like my friend H. L. A. Hart, a philosophical lawyer! But unlike Hart, Fassò, being a Roman, knew what he was talking about!” “My favourite is his explication of Bruto’s reaction when being brought the corpses of his two sons!” Fassò, mi viene a conforto col suo ottimo lavoro, che dà una diligentissima ed acuta interpretazione ed esposizione del corso non già logico ma storico, o per meglio dire, psicologico della formazione della Scienza nuova; esposizione che è utile possedere e che si segue con curiosità. Con pari bravura è condotta la ricerca di quel che Vico attinse o credette di attingere ai quattro suoi autori. Croce, Illusione degli autori sui “loro” autori,). Figlio di Ernesto, generale dell'esercito, e Caterina Barbieri, discendente dalle famiglie Barbieri (il di lei nonno era Lodovico Barbieri) e Dallolio (Maria Sofia, moglie di Lodovico, era sorella di Alberto e Alfredo Dallolio), trascorre i suoi primi anni, fino all'adolescenza, fra il Piemonte (Mondovì), l'Emilia-Romagna (Parma) e la Lombardia (Mantova). Temperamento religioso, ereditato dall'educazione famigliare e dalla frequentazione con un anziano sacerdote, si caratterizza sempre per il rigore negli studi (perciò Mazzetti, suo compagno di gioventù, poté definirlo schivo degli incontri e quasi della società, teso in un impegno di chiarezza mentale, di serietà e finezza di sentire. Conseguita la maturità classica al Virgilio di Mantova, si laurea a Bologna, sotto Borsi con “L'elemento demografico nelle provvidenze assistenziali a favore dei lavoratori: la legislazione del lavoro”. Dopo aver rinunciato ad impiegarsi come funzionario nell'Unione industriale, ottiene anche la laurea in Filosofia, sotto Saitta, con “Vico e Michelet”. Confiderà poi al suo allievo, Enrico Pattaro, che la scelta della filosofia, lungi dall'essere redditizia, è un matrimonio con «madonna povertà», cui egli, tuttavia, non volle sottrarsi, non essendo versato, come rivelò a Fausto Nicolini, nella «professione forense». Svolse, quindi, l'attività di docente di storia e filosofia, inizialmente come supplente al "Galvani" di Bologna, poi a Forlì e, infine, al Liceo scientifico "Augusto Righi" di Bologna. Il suo saggio, dedicato a Il Vico nel pensiero del suo primo traduttore francese, che, però, a causa dell'indisponibilità degli editori, sarebbe stato pubblicato, grazie all'intervento di Giuseppe Saittacome memoria dell'Accademia delle scienze dell'Istituto di Bologna. Vicino al Partito Liberale Italiano, a guerra conclusa accetta di candidarsi, per il medesimo partito, alle elezioni comunali bolognesi.  Divenuto assistente volontario di Filosofia del diritto nell'Ateneo felsineo, fu convinto da Felice Battaglia a concorrere per la libera docenza, che ottenne nel 1949. Nel medesimo anno, all'Parma, gli viene quindi assegnato l'incarico in Filosofia del diritto. Aggiudicatosi l'ordinariato, si trasferì successivamente a Bologna, dove insegnò filosofia giuridica, presso la Facoltà di Giurisprudenza, e Storia delle dottrine politiche, nella Facoltà di Lettere e Filosofia.  Si occupò di studi vichiani (della cui validità scientifica è testimonianza una epistola di Gioele Solari del 17 maggio 1949, in cui si apprende che «l'interpretazione giuridica della Scienza nuova proposta da Fassò supera la visione Croce-Nicolini», ponendosi al livello qualitativo di quelle del Fubini e del Donati) e groziani, della cura e traduzione dei Prolegomeni al diritto della guerra e della pace di Grozio e scrisse Vico e Grozio, nonché, la Storia della filosofia del diritto in tre volumi, giudicata da Bobbio come la «storia della filosofia del diritto più completa» esistente «sulla faccia della terra».  Oltre Croce, Fassò criticò anche Gentile, autore di una «concezione speculativa indubbiamente grandiosa», che si risolveva, però, in «vana retorica», negante, entro la dialettica dello spirito, la realtà del fenomeno giuridico. Fra le altre opere, La democrazia in Grecia; Il diritto naturale; dello stesso anno è La legge della ragione, considerata una «tra le opere migliori di filosofia del diritto uscite in Italia» al tempo, e consistente in una «appassionata rivalutazione» del diritto naturale; Società, legge e ragione, apparso nell'anno della morte (i due ultimi volumi citati, tuttavia, ripropongono scritti precedenti). Le pubblicazioni in cui si esprime con più chiarezza l'ispirazione teoretica di Fassò sono, invece, La storia come esperienza giuridica  (in cui, ha commentato Bobbio, si dimostra che tutti i rapporti che l'uomo ha con gli altri uomini, contengono un germe di organizzazione, e quindi sono istituzioni giuridiche») e Cristianesimo e società, che susciterà un vivace dibattito nell'ambiente cattolico, incontrando financo il favore di Prezzolini. Il suo testament disponeva funerali semplici, «senza fiori e senza seguito di estranei». In un codicillo, inoltre, soggiungeva che, «se si trovassero miei scritti incompiuti, manoscritti o dattilografati, non si stampino, perché non possono essere stati riveduti come avrei ritenuto necessario», congiuntamente all'invito a non raccogliere «in volume opuscoli sparsi o "scritti minori", operazione che non dovrebbe mai esser fatta se non dall'autore». Alla memoria di Fassò, oltre che a quella di Augusto Gaudenzi, è intitolato il Centro Interdipartimentale di Ricerca in Storia del Diritto, Filosofia e Sociologia del Diritto e Informatica Giuridica a Bologna,. Benché Fassò abbia apprezzato il Romano sostenitore della concezione non normativistica del diritto, egli non poté tacerne il limite, consistente nell'assenza di una «definizione esauriente» dell'istituzione, dovuto alla volontà di Romano di tenersi «fuori dal campo della filosofia». Il più limpido storico del giusnaturalismo». Formatosi filosoficamente nella temperie culturale neoidealistica, Fassò se ne distaccò, rifiutandone soprattutto l'immanentismo, con La storia come esperienza giuridica, opera ispirata dalle suggestioni istituzionalistiche di Santi Romano (ma di questi deplorerà, nella successiva Storia della filosofia del diritto, il circolo vizioso, per cui una «istituzione è giuridica [solo] quando è giuridica» A Croce, che faceva coincidere storia e filosofia, Fassò replicava con l'identificazione di storia e giuridicità, estendendo il concetto di istituzione — contrariamente a quanto aveva fatto Romano, e risolvendone così il «circolo vizioso» — a «tutti gli aspetti della vita sociale, cioè della vita dell'uomo nella storia, che è sempre vita dell'uomo in società». L'elisione dell'identità fra realtà storica e razionalità filosofica non implica la rimozione dell'Assoluto, ma egli ne negava ogni possibilità conoscitiva, ricadendo la «concreta unità del reale» (sotto l'aspetto gnoseologico) nell'ambito del privo di senso, sebbene restasse attingibile in uno slancio mistico, descritto, in una pagina de La legge della ragione, come partecipazione dell'«uomo al Valore divino, ma solo quando si faccia anch'egli Dio per unirsi a lui, trascendendo la propria umanità, la propria soggettività empirica, storica». È importante tener fermo come Fassò, quantunque abbia legato l'Assoluto a uno slancio mistico, non si sia fatto teorico di un irrazionalismo misticheggiante, ma — giusta l'osservazione di Lombardi Vallauri — abbia formulato un «dittico» in cui si afferma, da un lato, la «sopragiuridicità dell'etica intesa come esperienza religiosa» e, dall'altro, «la funzione essenziale della ragione giuridica nel mondo». Proprio il riconoscimento della centralità della ragione giuridica nel governo della «concreta molteplicità del reale» costituì, per Fassò, un ulteriore motivo critico nei confronti dell'anti-gius-naturalismo crociano, da cui, dopo l'approfondimento della storia del giusnaturalismo, prese più convintamente le distanze. La concezione giusnaturalistica fassoiana, infatti, cerca di non cadere nell'errore proprio della tradizione precedente (errore che nella Storia della filosofia del diritto, non esitò a indicare quale «difetto capitale» della scuola del diritto naturale, consistente nell'«astrattismo e nel conseguente antistoricismo»), intendendo il diritto naturale quale «ordine che nasce dalla storia, e nel quale l'uomo non può non essere inserito proprio per la sua dimensione storica, che è la sua dimensione essenziale». Medaglia d'oro ai benemeriti della scuola della cultura e dell'artenastrino per uniforme ordinariaMedaglia d'oro ai benemeriti della scuola della cultura e dell'arte. B. Croce, Illusione degli autori sui “loro” autori, su Quaderni della Critica, Laterza, Ora anche in Id., Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici, A. Savorelli, Napoli, Bibliopolis, Cfr. E. Garin, Cronache di filosofia italiana, Bari, Laterza. La sua ricerca di Saitta, anche storica, sembra inscindibile da una polemica e da una protesta. Polemica e protesta che attraversano ugualmente l'attività così del Calogero come dello Spirito, annoverati talora col Saitta fra gli esponenti della "sinistra" gentiliana, e come lui accusati a volte, e non certo benevolmente, di crocianesimo».  E. Pattaro, Sull'Assoluto. Contributo allo studio del pensiero di Guido Fassò. Fassò segue con particolare attenzione i corsi di Saitta, che gli suggerì di approfondire Michelet, che lo avrebbe condotto a Vico.  Scheda senatore Dallolio Alberto, su Scheda senator Dallolio Alfredo, su senato. Le parole di Mazzetti sono riportate in Faralli, Il maestro e lo studioso, in Rivista di filosofia del diritto, Bologna, Il Mulino, Elenco dei laureati e diplomati nell'Anno Scolastico, in Annuario dell'Anno Accademico, Bologna, Società Tipografica già Compositori,Elenco dei laureati e diplomati nell'Anno Scolastico, in Annuario dell'Anno Accademico. Bologna, Tipografia Compositori, E. Pattaro, Alcuni ricordi personali e cenni sulla gnoseologia, ontologia e concezione della filosofia di Fassò, in Rivista di filosofia del diritto, Bologna, Il Mulino. “Mi disse che ci sarebbe stato un concorso per assistente ordinario alla cattedra e mi chiese se fossi interessato a partecipare. Ma mi prevenne con due avvertimenti sui quali avrei dovuto meditare prima di dargli una risposta. Essi sono: "chi fa filosofia del diritto in una facoltà di Giurisprudenza sposa madonna povertà e nell'università occorre sapere ingoiare amaro e sputare dolce perché l'intelligenza degli accademici è di regola superiore a quella dei comuni mortali, e ciò implica che essi siano capaci di cattiverie più raffinate e perfide di quelle di cui sono capaci i comuni mortali. La citazione è tratta dal carteggio Fassò-Nicolini, richiamato da E. Pattaro, nel suo Sull'Assoluto. Contributo allo studio del pensiero di Guido Fassò, premesso. In altre lettere allo stesso Nicolini, scrive di non sentire nessuna vocazione per la professione forense. Curriculum vitae di Andrea Fassò, Consiglio Nazionale del Notariato.. Gli studi vichiani di Guido Fassò, in Bollettino del Centro Studi Vichiani,  5, Napoli, Guida, Ha ultimato Il Vico nel pensiero del suo primo traduttore francese nel ma causa la difficoltà di trovare un editore — non gli fu possibile pubblicarlo allora: soltanto poté presentarlo all'Accademia delle scienze di Bologna per il tramite di Giuseppe Saitta. E. Pattaro, Sull'Assoluto. Contributo allo studio del pensiero dFassò, in G. Fassò, Scritti di filosofia del diritto,  E. Pattaro, C. Faralli, G. Zucchini,  1, Milano, Giuffrè.  Dopo i disagi della guerra, aveva ripreso le proprie ricerche incoraggiato da Felice Battaglia, che lo convinse ad affrontare l'esame di libera docenza in filosofia del diritto. Conseguita la libera docenza in filosofia del diritto, nello stesso anno Fassò ebbe il suo primo incarico in questa materia, all'Parma. Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, F. Battaglia, Guido Fassò: in memoria, in Rivista internazionale di filosofia del diritto [giunse] alla libera docenza, e nello stesso anno lo abilitarono a tenere l'incarico della filosofia del diritto nella Parma, ove divenne professore della materia. Passa all'Bologna, dove rimase titolare della disciplina, tenuta con alto prestigio e qualificata dignità fino alla morte che ne chiuse la laboriosa giornata».  Enrico Pattaro, Gli studi vichiani di Guido Fassò, in Bollettino del Centro Studi Vichiani, Napoli, Guida. Tra le carte personali di Guido Fassò ho trovato una cartolina postale, vergata fitta fitta da Gioele Solari. In essa, tra le altre cose, è scritto: ‘Da tempo ero convinto della verità della interpretazione giuridica della Scienza Nuova: ma Lei ne ha dato ampia, profonda, persuasiva dimostrazione. La cautela con cui è sostenuta è frutto della Sua modestia, e della Sua serietà di studioso. Il suo saggio sui quattro autori può stare a paro cogli scritti vichiani del Donati e del Fubini e supera la visione Croce-Nicolini che sul punto della genesi giuridica della scienza nuova stanno ancora sulle generali. Finalmente esiste in Italia (dico in Italia, ma potrei dire sulla faccia della terra) una storia della filosofia del diritto, non angustamente scolastica, non puramente nozionistica e per di più complete. Così Bobbio saluta la Storia della filosofia del diritto. In tutta la filosofia del Gentile si ha una concezione speculativa indubbiamente grandiosa, ma che si risolve in vana retorica, negante l'esperienza della realtà effettuale. Non è tuttavia dalla negazione della molteplicità dei soggetti che discende la negazione della realtà del diritto nella filosofia gentiliana. Come in quella del Croce, essa è compiuta in relazione alla dialettica dello spirito, cioè del soggetto assoluto. È importante, infine, sottolineare il valore di impegno civile che il filosofo bolognese riconosceva al testo e che ad esso venne riconosciuto dalla traduzione greca. Thessalonike, Poseidonas], all'epoca della dittatura militare in Grecia».  Bobbio, Giusnaturalismo e positivismo giuridico, prefazione di Luigi Ferrajoli, Roma-Bari, Laterza,  Norberto Bobbio, La filosofia del diritto in Italia, in Jus, Milano,  Faralli, I momenti della riflessione critica su Guido Fassò, Prezzolini chiosa Cristianesimo e società sia in un articolo su Il resto del carlino sia nel libro Cristo e/o Machiavelli. Conservo la prima edizione di Cristianesimo e società, egli scrive. La volli come compagna perché dovevo moltissimo a quel libro, cioè non dirò l'apertura, ma la conferma dotta, serena, eppure appassionata di un punto di vista importante. Prezzolini ritiene di aver trovato in Fassò, argomentate con un'alta filologia, sempre al corrente della produzione critica e accompagnata dalla conoscenza dei testi filosofici, quelle stesse idee che anch'egli aveva manifestato ‘lanciate piuttosto da un intuito che da un sapere storico Annuario, Bologna, Tipografia Compositori, E. Pattaro, Ricordo, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, Centro Interdipartimentale di Ricerca in Storia del Diritto, Filosofia e Sociologia del Diritto e Informatica Giuridica, sStoria della filosofia del diritto, edizione aggiornata C. Faralli,  Roma-Bari, Laterza. Romano si tiene deliberatamente fuori dal campo della filosofia, non sfruttando neppure quegli indirizzi di essa, primo fra tutti quello del Croce, che potevano valere a suffragar la sua tesi. Questa è sostenuta unicamente sul terreno della considerazione empirica del diritto, e non vuole avere né premesse né conclusioni che stiano al di fuori o al di sopra di essa.Neppure il Romano dà del concetto di istituzione una definizione esauriente».  G. Marini, Il giusnaturalismo nella cultura filosofica italiana del Novecento, in Storicità del diritto e dignità dell'uomo, Napoli, Morano, Cfr. N. Matteucci, recensione a G. Fassò, Cristianesimo e società, Giuffrè, Milano, in Il Mulino,  «L'esigenza filosofica fondamentale che si palesa nei lavori del Fassò è quella di uscire dallo storicismo immanentistico dei Croce e dei Gentile che vedeva nella storia la manifestazione di un principio assoluto (lo Spirito, l'Atto. Cfr. E. Pattaro, In che senso la storia è esperienza giuridica: l'istituzionalismo trascendentale, in appendice a G. Fassò, La storia come esperienza giuridica, C. Faralli, Soveria Mannelli, Rubbettino. L'esperienza che Fassò aveva avuto della filosofia idealistica egemone in Italia nella prima metà del secolo, la quale all'interno dei suoi precedenti studi vichiani, condotti in chiave di storia della filosofia, non necessariamente costituiva un'ipoteca con cui dover fare conti precisi, in sede teoretica, sia pure di filosofia del diritto, venne chiamata ad un inevitabile redde rationem. G. Fassò, Storia della filosofia del diritto, edizione aggiornata C. Faralli, Roma-Bari, Laterza, Il giudizio, tuttavia, è già presente in G. Fassò, La storia come esperienza giuridica. È proprio questo, del resto, il punto debole della dottrina del Romano, che fu subito rilevato dai suoi critici: il circolo vizioso in cui egli si aggira, presupponendo la giuridicità di quella istituzione che poi identifica con il diritto. In altre parole, il Romano afferma che sono istituzione, ossia ordinamento giuridico, ossia diritto, quegli enti o corpi sociali che hanno carattere giuridico. B. Croce, Logica come scienza del concetto puro, C. Farnetti, con una nota al testo di G. Sasso, Napoli, Bibliopolis, B. Croce, La storia come pensiero e come azione, M. Conforti, con una nota al testo di G. Sasso, Napoli, Bibliopolis, «Si può dire che, con la critica storica della filosofia trascendente, la filosofia stessa, nella sua autonomia, sia morta, perché la sua pretesa di autonomia era fondata appunto nel carattere suo di metafisica. Quella che ne ha preso il luogo, non è più filosofia, ma storia, o, che viene a dire il medesimo, filosofia in quanto storia e storia in quanto filosofia: la filosofia-storia, che ha per suo principio l'identità di universale ed individuale, d'intelletto e intuizione, e dichiara arbitrario o illegittimo ogni distacco dei due elementi, i quali realmente sono un solo. La storia come esperienza giuridica. L'esperienza giuridica non è altro che l'esperienza umana nella sua totalità, la storia stessa insomma dell'uomo. In che senso la storia è esperienza giuridica: l'istituzionalismo trascendentale di Guido Fassò, «La concreta unità del reale, l'universale concreto, è un residuato della grandiosa retorica metafisica idealistica. Fassò, con l'onore delle armi, lo colloca nella dimensione che gli compete, ossia dell'inconoscibile, indicibile, incomunicabile per definizione: dell'indiscutibile che è tale non perché sia vero o certo di là da ogni ragionevole dubbio, bensì perché non è possibile oggetto di discorso, non è suscettibile di ragionamento, sfugge ad ogni comprensione e spiegazione razionale. Lo colloca nella dimensione del privo di senso. Enrico Pattaro, In che senso la storia è esperienza giuridica: l'istituzionalismo trascendentale. Resti chiaro, peraltro, che Fassò rinvia sì al piano mistico l'unità del reale, l'assoluto, l'universale concreto, ecc., ma che, non per questo, egli professa una filosofia mistica intuizionistica. Il giudizio di Lombardi Vallauri è espresso nel suo Amicizia, carità, diritto, Giuffrè, Milano. Considerata nel suo arco complessivo, forma un dittico, che da un lato ribadisce rigorosamente la sopragiuridicità della esperienza cristiana giunta al suo culmine (identificato nella carità), e dall'altro lato riconosce la funzione preziosa della ragione giuridica ‘nel mondo, dove ogni individuo limita e contraddice l'altro e dove una norma di coesistenza è indispensabile’») e accolto in Guido Fassò, Società, legge e ragione, Milano, Edizioni di Comunità, Enrico Pattaro, In che senso la storia è esperienza giuridica: l'istituzionalismo trascendentale di Guido Fassò, La concreta molteplicità del reale, il flusso eracliteo dei particolari concrerti, l'eterogeneo continuum di cui parla richiamando Ross, è la realtà empirica, fenomenica: molteplicità infinita di eventi originali e irripetibili, non essendovi nello spazio, e più ancora nel tempo, due fenomeni perfettamente identici. Sulla posizione crociana rispetto al giusnaturalismo cfr., per esempio, Croce, Filosofia della pratica. Economica ed etica, M. Tarantino, con una nota al testo di G. Sasso, Napoli, Bibliopolis. Contraddittorio è altresì il concetto di un codice eterno, di una legislazione-limite o modello, di un diritto universale, razionale o naturale, o come altro lo si è venuto variamente intitolando. Il diritto naturale, la legislazione universale, il codice eterno, che pretende fissare il transeunte, urta contro il principio della mutevolezza delle leggi, che è conseguenza necessaria del carattere contingente e storico del loro contenuto. Se al diritto naturale si lasciasse fare quel che esso annunzia, se Dio permettesse che gli affari della Realtà fossero amministrati secondo le astratte idee degli scrittori e dei professori, si vedrebbe, con la formazione e applicazione del Codice eterno, arrestarsi di colpo lo svolgimento, concludersi la Storia, morire la vita, disfarsi la realtà. Sulla presa esplicita di distanza di Fassò da Croce, cfr. Società, legge e ragione. Ho continuato a ripetere la stessa cosa. Il diritto nasce dalla natura umana, la quale è natura storica e natura sociale. Ho rifiutato dapprima, sotto la suggestione dell'anti-gius-naturalismo del tempo in cui ero cresciuto, di chiamare naturale un siffatto diritto. Più tardi, dopo avere approfondito la conoscenza storica del gius-naturalismo ed essermi meglio chiarito la parte che esso ha avuto nella difesa della libertà contro l'assolutismo politico, mi sono deciso a designare con quell'aggettivo in realtà equivoco il diritto che la ragione trova nella natura della società. Laddove, invece, si è riscontrata coincidenza cronologica, si è preferito seguire l'ordine alfabetico. Altre opere: “I quattro auttori del Vico: saggio sulla genesi della Scienza nuova” (Milano, Giuffre); “La storia come esperienza giuridica, Carla Faralli, Soveria Mannelli, Rubbettino); “Cristianesimo e società” (Milano, Giuffrè); “La democrazia in Grecia, Carla Faralli, Enrico Pattaro e Giampaolo Zucchini (Milano, Giuffrè); “Il diritto naturale” (Torino, ERI, “La legge della ragione, Carla Faralli, Enrico Pattaro e Giampaolo Zucchini (Milano, Giuffrè); “Storia della filosofia del diritto, Roma-Bari, Laterza); “Vico e Grozio” (Napoli, Guida);  “Società, legge e ragione” (Milano, Edizioni di Comunità); “Scritti di filosofia del diritto” (Milano, Giuffrè); Diritto della guerra” (Napoli, Morano). Dizionario biografico degli italiani,.Gli studi vichiani di Guido Fassò, Centro Studi Vichiani,  5, Napoli, Guida),“Sull'Assoluto. Contributo allo studio del pensiero di Guido Fassò”, “In che senso la storia è esperienza giuridica: l'istituzionalismo trascendentale di Guido Fassò”, “Lo storicismo di Guido Fassò”, “Sulla annosa e ricorrente disputa tra positivisti e giusnaturalisti”, “Un itinerario filosofico tra diritto e natura umana”.  L'iniziativa di raccogliere gli scritti di filosofia del diritto di Guido Fassò è altamente opportuna e meritoria. Gli studiosi ne debbono essere grati ai curatori: Enrico Pattaro (che al Maestro è succeduto sulla cattedra bolognese), Carla Faralli, Giampaolo Zucchini. Con questi tre ricchi volumi diviene facilmente accessibile una produzione, altri- menti sparsa in riviste e in atti occasionali, che sta a testimoniare il cammino limpido e coerente di una tra le personalità intellettualmente più vive ed oneste della nostra cultura del secondo dopoguerra, pur- troppo strappata anzi tempo agli studi. I curatori avvertono che del- l'opera di Guido Fassò (1915-1974)rimangono escluse da questa pur ampia raccolta: a) le opere pubblicate quali volumi separati; b) arti- © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano   LETTURE 499 coli occasionali che sono parsi non riconducibili alla ((filosofia del di- ritto )); c) scritti di letteratura e di critica cinematografica, risalenti agli anni giovanili (p. XIII). Si può convenire sull’opportunità di pre- servare la purezza e omogeneità scientifica della raccolta, escludendo gli scritti delle due ultime categorie menzionate; giudicheranno i cura- tori, o altri studiosi interessati, se non sia opportuna la pubblicazione separata degli scritti minori ora esclusi, per dare un’immagine completa della cultura e dell’evoluzione di Fassò, ovvero di uno studioso che, alieno quant’altri mai da digressioni e dilettantismi, mostrava però in ogni pagina la vastità e classicità delle proprie conoscenze. Evidente è invece la necessità di escludere le opere apparse quali volumi separati. Tra esse sono opere a tutti note, che hanno saldamente stabilito il prestigio scientifico di Fassò: basti ricordare gli studi vichiani e gro- ziani (da I (( quattro auttori D del Vico. Saggio sulla genesi della Scienza nuova )), del 1949, alla cura e traduzione dei Prolegomeni al diritto della guerra e della pace di Grozio, dello stesso anno, a Vico e Grozio, del 1971) e la fondamentale Storia della filosofia del diritto (in tre volumi: 1966, 1968, 1970). Sono anche da ricordare: La democrazia in Grecia, del 1959;Il diritto naturale, del 1964; La legge della ragione, dello stesso anno; Società, legge e ragione, apparso nell’anno della morte (ma i due ultimi volumi raccolgono e rifondono scritti precedenti, che si trovano in questa stessa raccolta). Ricordiamo per ultimi, non per caso, i due scritti in cui è documentata la fisionomia teoretica di Fassò, il quale, se fu grande storico del pensiero, ebbe anche un’impronta filosofica originalissima, e una chiarezza ideale che diede senso unitario ai molti interventi su problemi teoretici, oggi raccolti nei presenti volumi. Ci riferiamo alle opere L a storia come esperienza giuridica, del 1953, e Cristianesimo e società, del 1956. Oltre agli scritti di Fassò, la raccolta contiene: una Nota dei curatori, che spiega i criteri seguiti (pp. XIII-XV);un’ampia Introduzione di En- rico Pattaro, dal titolo Sull’assoluto. Contributo allo studio del pensiero di Guido Fassò (pp. XIX-LXXXu);na Bibliografia degli scritti filosofico- giuridici di Guido Fassò, a cura di Giampaolo Zucchini (pp. 1465- 1473); uno studio di Carla Faralli dal titolo I momenti della riflessione critica su Guido Fassò (pp. 1477-1517). Di modo che questi volumi offrono una base per chiunque si accosti criticamente all’opera e al pensiero di Fassò: lo status quaestionis è chiaramente delineato. È ancora da dire che gli scritti di Fassò sono ripartiti in tre categorie: a) saggi e articoli, b) voci di enciclopedia, c) recensioni. Se i ((saggie articoli )) occupano la maggior parte dei volumi, notevole è però anche la mole delle ((vocidi enciclopedia )) (pp. 1205-1377): un genere lette- rario che Fassò coltivò con assiduità, e che era particolarmente conge- niale alla sua mente storica, e alla chiarezza concettuale alla quale egli era sempre solito congiungere rigorosamente la ricostruzione storica: poche pagine sono in grado, in queste voci, di dare le linee maestre di © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano   500 LETTURE un tema, o dell’opera di un autore (esemplari ci sembrano, tra le voci su temi teoretici, Democrazia, del 1960,e Giusnaturalisrno, apparso postumo nel 1976;tra le voci su temi storici, quelle sui due autori di Fassò per eccellenza, Groot, del 1967,e Vico, apparso postumo nel 1975). Non molte sono invece le recensioni (28, di contro a 49 voci di enci- clopedia) in chi pure fu studioso di larghissime letture. Se si tolgono le recensioni legate agli esordi scientifici e ai loro temi, rimangono pochi interventi; tra questi dobbiamo ricordare, per l’interesse oggettivo e per la luce che portano sulla personalità di Fassò, le recensioni dedi- cate ad autori coi quali egli fu in singolare vicinanza spirituale: come le recensioni a volumi di Bobbio su temi filosofico-giuridici, o al volume di Piovani, Giusnaturalismo ed etica moderna (del 1961;la recensione è dell’anno seguente), Peraltro, per valutare la presenza attiva, insieme critica e costruttiva, di Fassò nella cultura italiana, si deve pensare alle molte discussioni che egli costantemente e con passione sollevava su temi storici e teoretici: più della recensione, lo attraeva la discussione ampia che ruotasse intorno a un problema a lui congeniale. Si pensi alle osservazioni che egli svolse su due libri di Sergio Cotta, ancora uno studioso col quale egli fu in profondo dialogo: i libri di questo su San Tommaso e su Sant’Agostino (degli anni 1955 e 1960)sollecitarono la meditazione di Fassò in due articoli: .Sa% Tommaso giurista laico? (del 1958) e Sant’Agostino e il giusnaturalismo cristiano (del 1964).Inoltre, tutta l’attività di Fassò fu segnata dalla polemica, spesso anche dura o sarcastica, che egli rivolgeva ad autori grandi e piccoli, lontani e vicini. Polemizzava su temi filologici ed eruditi, riprendendo e correg- gendo; polemizzava su problemi teoretici, dove non trovasse chiarezza di pensiero, egli che era scrittore limpido e rifuggiva da qualsiasi ambi- guità o da compiacenti silenzi. Talvolta colpisce, ancor oggi, la durezza della polemica; ed egli ne era certo consapevole, e scrisse una volta queste parole, che valgono a spiegare un tratto della sua personalità: nella sua connaturata avversione ai (( radicatissimi luoghi comuni (nella ricerca scientifica come nei modi del pensare politico), egli re- plicava sempre con vigore, e talora con troppo vigore, e metteva in luce G componenti H opposte a quelle Comunemente accettate, Seri- veva: (( Forse, nel cercare di metterle in luce, ho calcato troppo sulla loro importanza? Se questo è avvenuto, è stato (per ricorrere ancora una volta a Grozio e prendere a prestito da lui l’immagine di cui si serve a proposito di Erasmo) con l’intenzione con cui si piegano in senso opposto gli oggetti incurvatisi, per cercare di farli tornare nella posi- zione giusta D (p. 830). I n quell’occasione, egli parlava delle convin- zioni diffuse sulle (( componenti )) originarie dell’etica laica, di solito vista derivare dal protestantesimo e dai suoi moti preparatori; mentre egli vedeva {< componenti D più ampie, e <<radici H che egli individuava ((pergran parte proprio nel tomismo (p.809).Egli era quindi in uno dei campi prediletti della sua indagine; ma quell‘intenzione lì dichia- © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano   LETTURE 501 rata e illustrata, con l’immagine degli G oggetti incurvatisi vale a farci comprendere la intransigente vena polemica, strumento per ri- portare alla (( posizione giusta H, che nel suo caso era la posizione della verità scientifica e del rigore metodologico. Di quella vena polemica, gran parte degli scritti qui pubblicati sono testimonianza, talora viva- cissima. C’era in Fassò tutta la serietà intellettuale di chi conosce la fatica della paziente ricerca quotidiana. Non solo la storia del pensiero propriamente detta, con le sue regole filologiche; anche la filosofia aveva i suoi canoni e le sue conoscenze tecniche. Nel corso di una pole- mica del 1956, su uno dei temi che più gli stettero a cuore, quello del rapporto fra cristianesimo e società, egli scrisse, sulla dignità della filosofia, parole di sapore hegeliano, che hanno la loro permanente e ritornante validità. Allora, ammoniva disinvolti (( giuristi cristiani)) a starsene nei propri confini (di giuristi; il cristianesimo era altra cosa), e scriveva: (( E strano, ma mentre tutti fanno a gara a dire che la filo- sofia è cosa astrusa, non v’è nessuno che non si senta legittimato a discuterne senza alcuna preparazione: ciò che non si sognerebbe di fare riguardo a qualsiasi altro argomento scientifico o tecnico )) (p. 287). Perché egli, che era in senso proprio e fino in fondo (<filosofo del diritto )), ebbe chiara la dimensione ((filosofica))della propria ricerca, e non intese mai che la propria controversa disciplina fosse riducibile a ri- flessione o generalizzazione di giuristi dotati di vocazione, tempera- mento, sia pure cultura, Opportunamente, gli scritti di Fassò sono riprodotti in ordine cro- nologico (all’interno delle tre categorie citate sopra: saggi e articoli; voci di enciclopedia; recensioni). Se si tengono presenti anche i lavori pubblicati come volumi a parte, e sopra ricordati, ne viene la possibi- lità di giungere ad una periodizzazione. Pattaro, nel suo studio intro- duttivo, suggerisce la quadripartizione seguente: I) il periodo 1947-51, (( dedicato alla storia della filosofia, in particolare a Vico )); 2) il periodo 1951-58 (che comprende La stovia come esfierienza giuridica e Cvistia- %esimo e società), (( caratterizzato precipuamente dalla tematica, che potrebbe dargli il nome, ‘Assoluto e storia )>; 3) il periodo 1958-68 (culminante nei volumi primo e secondo della Storia della filosofia del divitto), che (( potrebbe intitolarsi a ‘ I1 diritto naturale )>; 4) il periodo 1969-74 (nel quale si conclude la grande opera storiografica), che (( po- trebbe di converso intitolarsi a ‘I1 diritto positivo D (pp. xx-xxr). Così Pattaro, e con buone ragioni. Ma egli stesso ricorda che il Maestro (( riconobbe valida in uno dei suoi ultimi scritti la distinzione-periodiz- zazione suggerita da Luigi Eombardi Vallauri)) (p. XXI), il quale ve- dittico >) affermante - così riferiva Fassò consentendo intesa come esperienza religiosa, e dall’altro (. ..) la funzione essen- ziale della ragione giuridica nel mondo )) (p. XXI, da Società, legge e vagione, pp. 8-9; Lombardi Vallauri aveva formulato quel suggerimento deva nella sua ope- ra come un (( G da un lato (. ..) la sopragiuridicità dell’eticità © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano   502 LETTURE in Amicizia, carità, diritto, Milano 1969,p. 238).Tenendo presenti i punti di vista espressi dai due studiosi, saremmo propensi a vedere una tripartizione, che è insieme una partizione temporale e tematica, una periodizzazione e una distinzione di interessi scientifici; dove i periodi si collegano l’un l’altro per affinità e per approfondimenti in- terni. I1 primo periodo è certamente da collocare tra il 1947e il 1951; è il periodo che vede nascere gli studi su \‘ico e su Grozio, e che è se- gnato dalla presenza di motivi neoidealistici e dall’emergere dell’origi- nale storicismo di Fassò. Ilsecondo periodo, dal 1951al 1958,è quello che vede apparire il (<dittico )) di cui parla Lombardi Vallauri, quel dittico a cui Pattaro dà il nome di (( Assoluto e storiao. In questi anni è enunciata la filosofia di Fassò; gli anni successivi approfondiranno e talora ritoccheranno, ma i pilastri sono già posti saldamente. Dove la periodizzazione di Pattaro sembra meno giustificata, perché forse c’è soltanto accentuazione all’interno di un’unità, è nella cesura che pone tra il 1968e il 1969.Sembra di poter dire che tutta l’attività successiva al 1958,ovvero dal 1959al 1974(e che muove, come Pattaro ricorda, dall’articolo San Tommaso giurista laico?), è dedicata alla meditazione integrale, per estensione diacronica e sincronica, del problema della ragione giuridica nel mondo storico-sociale: è ripercorso tutto il pensiero occidentale; si ha la progressiva accettazione di un diritto di ragione, il quale ha una sua autonomia di fronte al diritto tradotto in leggi. Anche la riflessione politica di Fassò, intensa in quegli anni, e più, certamente, dopo gli sconvolgimenti del 1968,rientra in quella visione di una ragione che opera nella storia con i suoi equilibri e meccanismi. Gli scritti raccolti in questi volumi consentono di ritrovare gli aspetti salienti della meditazione di Fassò, di ripercorrerla nelle singole tappe del suo maturarsi, di seguire, come in una fuga a più voci, l’ac- cedere di nuovi motivi a quelli di datazione più antica. In questo senso, come s’è già detto all’inizio, grande è l’utilità di questa raccolta per chi studi l’opera di Fassò; non solo, ma per chi si dedichi a ricostruire la vita intellettuale e morale, la cultura politica di quegli anni, I n questa occasione, a chi scrive interessa porre in luce alcuni essenziali aspetti teoretici di quella riflessione. Ma ciò non intende certo sminuire il ri- lievo che si deve riconoscere a Fassò storico delle idee. Lo studioso di Vico e di Grozio, del diritto naturale classico, cristiano e moderno, è tale che ogni suo contributo è degno di attento studio vuoi per l’oggetto trattato, vuoi per ricostruire in modo più adeguato l’evoluzione dello stile di ricerca storiografica del suo autore, vuoi infine per gli apporti d’ordine teoretico che esso fornisce. In quest’ultimo senso, quello che qui interessa maggiormente, molti studi storici apportano argomenti per la visione della storia e della sua organizzazione giuridico-politica. Ma per fermarsi al solo rilievo storiografico, si deve ricordare che in questi volumi tornano studi su molti temi tipici e prediletti dell’atti- vità di Fassò. Si vedano i vari ritorni su Vico: quello del 1947,11 Vico © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano   LETTERE 503 nel pensiero del suo primo traduttore francese (dedicato al rapporto Vico- Michelet); al quale si ricollega, ventun anni dopo, U n presunto disce- polo del Vico. Giulio Michelet; e inoltre vari interventi critici sulla Scienza Nuova e su temi vichiani, a cominciare dal saggio del 1948, Genesi storica e genesi logica della filosofia della ((Scienza nuova D, per finire con lo scritto postumo Il problema del diritto e l’origine storica della (( Scienza Nuova a di G. Vico. Si vedano anche gli scritti vari su Grozio: Ugo Grozio tra medioevo ed età moderna, del 1950, e il saggio, assai signi- ficativo per l’evoluzione personale di Fassò, Ragione e storia nella dot- trina di Grozio, del 1950. Accanto a tali studi dovrebbero esserne men- zionati molti altri, a cominciare da quello del 1961 su Sociologia e diritto nella filosofia civile del Romagnosi, fino ai molti studi su temi storici, sulla laicità immanente in pensatori cristiani, o sull’evoluzione del pensiero giuridico in senso più stretto, come nel saggio postumo, scritto per la Storia delle idee politiche, economiche e sociali diretta da Luigi Firpo, dal titolo La scienza e la filosofia del diritto: ricostruzione storica ammirevole nella sua lucida sinteticità, frutto maturo di una mente storica che aveva già prodotto le sue opere maggiori. Né si devono dimenticare i ritornanti interessi per il mondo greco, e per la forma democratica che in esso si realizzò: valga l’esempio dello studio del 1959La democrazia .izell’antica Grecia e la riforma agraria. Si può dire che non manchi, in questa raccolta, nessuno dei grandi temi storiografici di Fassò: Vico e Grozio, il pensiero cristiano, l’affermarsi della ragione giuridica, la grecità. Chi voglia ricostruire l’itinerario scientifico di Fassò storico delle idee, avrà ora a disposizione un materiale impo- nente, qui riunito dalle varie sedi in cui egli usava pubblicare i suoi saggi e articoli, e che erano quasi sempre riviste giuridiche: singolare e significativa predilezione in un autore che non ridusse mai la filosofia del diritto a teoria generale del diritto, ne volle preservata la filosoficità, ma volle anche mostrare come non si potesse prescindere dalla cono- scenza dei problemi scientifici del diritto. I n questo senso si può esser certi che Fassò ebbe profonda e genuina dimestichezza con i problemi dei giuristi. Anche lo stile del suo pensiero e il suo stesso modo di esprimersi, serio e sobrio, tutto attento alle prove e ai nessi concettuali, risentiva beneficamente della formazione giuridica e degli interessi giuridici, anche se questi non furono pecu- liari ad un ramo specifico del diritto, ma si rivolsero piuttosto alla teoria generale, e semmai ai modi procedurali del divenire del diritto - si pensi all’interesse per il problema del giudice - come a quelli in cui meglio si scorge l’originalità della ragione giuridica nel suo affermarsi. Si può anche dire che la cultura giuridica di Fassò influì sull’originale forma del suo storicismo, al quale, fino agli ultimi anni, egli non venne mai meno, Gli scritti appartenenti al primo periodo mostrano Fassò che, movendo dall’interno della prospettiva neoidealistica, ne esce con una propria visione della realtà come storia, e della storia come © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano   504 LETTURE struttura in sé organizzata, razionale, scandita in istituzioni. Lo stori- cismo assoluto di Croce (un autore che, pure, Fassò ha ben conosciuto) è estraneo a questa forma di storicismo, tutto fatto di cose e di nessi reali, Vico e Grozio sono stati i fondamenti filosofici di questa visione della storia, Pattaro pone bene in luce come l'avversione di Fassò a un razionalismo astratto divenga visione storicistica (<nei primi studi vichiani )) (pp. XXIX-xxx)ri;ferisce quanto Fassò stesso scriveva, sul- 1'((esser vichiani )) per il fatto di avere una (<visione della storia come concreta razionalità )). Pattaro prosegue illustrando il passaggio di Fassò dagli studi vichiani, condotti in quell'atmosfera speculativa (non necessariamente o integralmente condivisa), alla personale vi- sione storicistica del diritto. Qui influirono le nuove correnti che si affacciavano in Italia. (<Le suggestioni del neoempirismo che si affac- ciava nella nostra cultura tra la fine degli anni Quaranta e i primi anni Cinquanta trovarono un'accoglienza non ostile in un Fassò convinto che, ' nella filosofia del diritto, molto spesso l'empirismo non è lontano dallo storicismo ', La specifica tematica giuridico-filosofica (. , .) lo faceva incontrare con le correnti sociologiche ed istituzionalistiche, ma nel contempo lo induceva, per superarne 1" oggettivismo naturalistico ', ad adottare un'impostazione filosofica di fondo lato sensu kantiana (così Pattaro, ibidem, p. XXIV). In queste parole è detto l'essenziale sulla visione filosofica di Fassò. I1 quale descriveva egli stesso, nel 1951, come vedeva la (( crisi dell'idealismo D, provocata da varie correnti di pensiero, che egli enumerava: il marxismo, l'esistenzialismo, lo spiri- tualismo cristiano, il neopositivismo. Empirismo e storicismo, egli li aveva accostati nelle parole prima citate, tratte dall'Introduzione ai Prolegomeni di Grozio (nella edizione 1961~,p. 7) e nuovamente li aveva accostati, parlando dell'opera di Alessandro Levi, quando rite- neva utile muovere, sia pur con misura e senso delle sfumature, dalla constatazione delle affinità tra (( storicismo idealistico e sociologismo positivistico )) (in questa raccolta, p. 216). In quello stesso scritto su Levi, Fassò avvertiva un'analogia tra due generazioni in crisi, quella di Levi, che usciva dal positivismo, la sua, che usciva dall'idealismo: due generazioni accomunate da ((una posizione che conduce ad ap- prezzare, non già i beati possessori della verità, ma coloro che sono andati faticosamente fabbricandosene una, senza cieche fedeltà a dogmi e senza chiudere gli occhi davanti alla storia in cammino (ibi- dem, p. 225). Quello scritto su Levi era del 1954,e vedeva, come altri scritti, lo sgretolarsi dell'idealismo per l'irruzione di nuove tendenze di pensiero, più legate all'osservazione diretta dell'esperienza. Rien- trano in questo quadro anche le polemiche che Fassò condusse in quegli anni contro le facili riesumazioni del diritto naturale, talora troppo coerenti, e inconsapevoli nella loro professione di un diritto astorico, talora troppo incoerenti e disinvolte nella loro combinazione di diritto naturale e storia. Lo storicismo era così diffuso in quegli anni, e senza © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano   LETTURE 505 effettiva consapevolezza critica, che si ebbero anche coloro che Fassò chiamò i (( giusnatural-storicisti )) (p. 521). Lo storicismo di quegli anni, e specialmente all’interno della cultura filosofico-giuridica (una cultura, in quel periodo, assai vivace, in ricambio con altri àmbiti filosofici e culturali), fu uno storicismo di origine, più che filosofica, empiristica, o addirittura empirica: fu lo storicismo di chi era cresciuto nell’indagine delle teorie giuridiche sociologiche e istituzionalistiche, e aveva medi- tato sul diritto e sui modi del suo farsi.I1diritto come t( sistema stori- camente progrediente)), avrebbe detto Savigny; e in modi affini ave- vano pensato Santi Romano, Gurvitch, Capograssi, per fare soltanto pochissimi ma influenti nomi (per la valutazione dell’influenza di Capo- grassi, si può qui vedere la recensione di Fassò alla IntevFYetazione di CaFogYassi, pubblicata da Carnelutti nel 1956). Anche lo storicismo di Fassò si modellò in aspetti affini, pur nella indubbia sua penetrazione filosofica. Ma quello storicismo, se aveva le sue basi in Vico e in Gro- zio, si approfondì e dispiegò nella visione istituzionalistica del diritto. Tra gli autori di Fassò non è Hegel (né in sé né nelle scuole che a lui si richiamarono), e non sono gli autori del moderno storicismo indivi- dualistico, da Dilthey in poi, che tanta influenza avrebbero avuto su Pietro Piovani, pure affine a Fassò per più interessi ed aspetti. Si può dire allora che lo storicismo professato da Fassò fu di impronta giu- ridica. Ebbe tratti affini allo storicismo post-crociano da molti condi- viso in quegli anni; ma non derivava tanto da precise correnti filosofi- che, quanto dai giuristi non strettamente positivisti: la scuola storica del diritto in Germania; ma molto di più le correnti istituzionalistiche; e infine la tradizione di common-law, da Fassò ammirata come esem- plare organizzazione giuridica e politica e presidio del valore liberale della dignità deli’individuo. La storia era, secondo il titolo dell’opera del 1953,esperienza giuridica; e non era questo un pensiero da poco, ma anzi una robusta e meditata posizione storicistica, perché il diritto, come struttura razionalizzatrice e regolatrice della convivenza, mo- strava la ragione immanente alla storia, che era anche l’unica ragione accessibile all’uomo. Avverso al razionalismo omnicomprendente - fosse la metafisica metastorica della tradizione o la metafisica della storia come totalità (idealismo, materialismo storico) -, Fassò credette in una razionalità che guida la convivenza, che nasce dall’interazione di individui e di gruppi, che è garanzia di libertà per gli individui. I valori nltimi, invece, non sono accessibili agli uomini per via razionale; la ragione non può che fermassi a questo mondo terreno, e studiarlo nelle strutture che in esso si formano e variano. Era una visione, se voglia- mo parlar filosoficamente, neokantiana, nel senso di tanto neokantismo diffuso nella filosofia del diritto e nelle scienze sociali. Conoscibile ra- zionalmente il mondo dei fenomeni come mondo storico; non-conosci- bile, ma soltanto sperimentabile emozionalmente, il mondo del valore. Cadeva la fondazione pratica della morale; restava la inconoscibilità © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano   506 LETTURE dei valori ultimi. In questo senso, Radbruch o Max Weber non pensa- vano diversamente. Quel che ebbe Fassò, a differenza di questi autori (ma non del neokantismo in genere), fu l’interesse per quel sopramondo che egli affermava non-conoscibile, e che vedeva tradotto, nella forma più pura, nel cristianesimo, fi questo l’altro versante della filosofia di Fassò, che si tradusse nel 1956 in Cristianesimo e società, opera tra le più alte della nostra cultura recente. E forse interessante notare quel che scriveva Fassò, recensendo nel 1962 il libro di Piovani sul giusna- turalismo. Piovani faceva sua la proposizione (( la personalità stessa è l’assoluto )), che d’altronde traeva da Kierkegaard, e la svolgeva nel senso di un individualismo visto come unico coerente sbocco dell’etica moderna. Scriveva Fassò: (( E qui si potrebbe, naturalmente, discutere a lungo (, ..); e del resto anche chi, come me, davanti alle affermazioni di una presenza, che non sia totalmente mistica, dell’assoluto nell’indi- viduo, rimanga perplesso, e non veda come un ipersoggettivismo quale quello professato dal Piovani possa sfuggire al relativismo, non può non apprezzarne il profondo significato morale: assai più alto in ogni caso di quello delle etiche oggettivistiche, che, coprendosi della reto- rica dei valori eterni, conducono all’alienazione dell’uomo, e lo pri- vano di ciò che costituisce la sua umana essenza morale (p. 1436). Tre affermazioni sono da rilevare in questo passo: a) v’è il rifiuto della (( retorica dei valori eterni )), giudicata alienante e tale da privare l’uomo della sua essenza morale, che è, evidentemente, collegata alla ricerca e all’irrequietezza; b) l’ipersoggettivismo (ma tanto varrebbe dire sog- gettivismo) non può sfuggire al relativismo, sentito da Fassò come pericolo; c) Fassò si dichiara (( perplesso )) (( davanti alle affermazioni di una presenza (. ..) dell’assoluto nell’individuo )), ma con l’eccezione che si tratti di una presenza a totalmente mistica B. Rifiutate un’etica oggettivistica e un’etica soggettivistica, che cosa rimane nella visione morale di Fassò? Rimangono: la razionalità formale del diritto come ragione vivente nella storia e l’esperienza mistica come unica via di accesso all’assoluto. Questi due piani sono privi di relazione; ma essi appaiono tali da produrre queste conseguenze: a) è salvata l’irrequie- tezza che è condizione della morale; b) è evitato il pericolo del relati- vismo; c) è consentito l’accesso all’assoluto. 11 mondo dei valori assoluti è accessibile soltanto all’esperienza mistico-religiosa. La carità, intesa in senso teologico, ovvero come virtù teologale, è proprio questa capacità di inserirsi nella vita divina, La simpatia di Fassò va agli spiriti capaci di questa immedesimazione: da San Paolo a Kierkegaard, va a coloro che hanno ben chiara la di- stinzione tra mondo della terra, della legge, della ragione, e mondo divino, della carità. Quella linea del cristianesimo aveva contrapposto il mondo, regno del peccato e della legge, al regno della carità, del- l’immedesimazione in Dio (quel mondo che non conosce diritto). Tra © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano   LETTURE 507 cristiaizesimo e società v’era quindi un contrasto ineliminabile, come tra generi diversi e inconciliabili, come tra santità e peccato, come tra l’assolutezza dei valori e il mondo degli uomini comuni, I1 libro in cui queste tesi erano argomentate fu quello che sollevò le maggiori pole- miche. Sul piano più propriamente filosofico, Luigi Bagolini fu il cri- tico più attento - come Pattaro ricorda (pp. LXV-LXVI) a lucida analisi quella divisione netta tra la realtà e il valore, per affer- marne l’insostenibilità: gli appariva inconseguente negare la conosci- bilità razionale del valore e allo stesso tempo parlarne. Ma si può dire - prosegue Pattaro - che Fassò (iintenzionalmente rinvia tutti i ‘ Va- lori che si pretende siano di questo mondo nel cielo indefinito e inde- finibile dell’assoluto )) (p. LXVI). Fassò conobbe e trattò il mondo im- perfetto e relativo; non dimenticò - era la strada della mistica - il mondo perfetto e assoluto del quale ci hanno dato testimonianza grandi spiriti, e che noi stessi avvertiamo nel nostro desiderio di perfezione. Ma quella divisione così recisamente affermata provocò le polemiche più accese al di fuori del campo propriamente filosofico, e se fu discussa e rispettata da teologi e da uomini di fede e di chiesa (questa raccolta ne reca più tracce: dai giudizi del padre Salvatore Lener fino a quelli espressi nel colloquio di Strasburgo del novembre 1959,dedicato pro- prio al tema tipico di Fassò: L a révélation chrétienne et le droit), fu trat- tata invece con non altrettanta serietà e consapevolezza da giuristi, e da coloro che, professandosi (igiuristi cristiani o, o (( giuristi catto- lici)), si fondavano proprio sulla tesi opposta a quella sostenuta da Fassò nel suo libro. Erano due tesi teologiche a confronto, dov’era conoscenza dei problemi; ma Fassò aveva buon gioco a spiegare ai suoi interolcutori giuristi che la carità e la giustizia di cui parla il Vangelo riguardano il rapporto con Dio, rispetto al quale tutto il resto vien dato per soprappiù, e non il rapporto con gli uomini, che è soltanto una con- seguenza del vivere in Dio. Se carità e mondo sono in un tale contrasto, non si può parlare, senza cadere in contraddizione, di diritto cristiano, di giuristi cristiani, di politica cristiana, di cristianesimo sociale. Ripe- tutamente Fassò polemizzava con i (( giuristi cristiani )), innanzi a tutti con Carnelutti; e ricordava che carità non è filantropia, e che la giu- stizia,nelVangelo,(( sta(...)aindicareunasituazioned’ordineesclu- sivamente religioso, l’elezione, la perfezione, la santità)), e non è la virtù sociale pur teorizzata da teologi e filosofi morali cristiani, e che San Tommaso definisce iustitia meta$horice dicta (p. 244). Rispondendo nel 1956a Carnelutti (è lo stesso scritto nel quale deplorava, con pa- role prima ricordate, che tutti si sentissero autorizzati a parlar di filo- sofia), Fassò precisava: (( Ciò di cui (. ..) non posso ringraziare l’illustre Maestro è d’aver pensato che a me non garberebbe d’aggiungere al mio titolo di filosofo del diritto l’aggettivo ‘ cristiano il che mi fa ritenere che anche a me, anzi soprattutto a me egli si rivolga, quando, nell’intitolare il suo scritto garbatamente parodiando l’intitolazione del © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano - e sottopose   508 LETTURE mio, parla di pericoli per i ‘filosofi non cristiani Non vedo in verità perché quell’aggettivo non dovrebbe garbarmi, né che cosa abbia po- tuto far sospettare ciò al pur benigno lettore: forse perché ho criticato qualche ‘ giurista cattolico (. , .) il quale mostrava di non conoscere con troppa esattezza alcuni termini usati nei testi cristiani? >) (pp. 285- 286). Nel 1960, quei concetti venivano organicamente presentati, dal punto di vista storico e teorico, nello scritto Giwtizia, carità e filantro- pia, e furono anche inseriti negli scritti in onore di Arturo Carlo Jemolo, grande giurista storico e grande spirito religioso, uno degli spiriti più congeniali a Fassò, se non forse il più congeniale. La separazione di cristianesimo e società era pure destinata a scontrarsi con l’opinione dominante nel mondo religioso, e di coloro che, richiamandosi al cristia- nesimo, intendevano tradurlo nella società. Fassò dissentiva (( in ma- niera totale )) dalle idee di Felice Balbo (Ritorna il sufposto cristiane- simo sociale, era il titolo di una nota polemica del 1958), come pure, naturalmente, dalle idee di chi nutrisse progetti politici meno radicali. Ribadiva che ((ilcristianesimo è una religione, e che la religione ha per oggetto Dio e soltanto Dio )), e (( che la novità, e quindi l’essenziale significato del cristianesimo rispetto alla filosofia ed alla morale greca ed alla morale ebraica sta tutta in questa sua proiezione totale verso Dio, che consuma e supera ogni interesse umano e mondano e perciò anche sociale )) (p. 357). Non negava certo un ideale di vita cristiano; negava che il cristianesimo potesse tradursi in dettami politici. Fac- ciamo cristiani noi stessi, diceva; ma guardiamoci dall’a immischiare Dio nei problemi di Cesare )) (p. 359). E concludeva quelle pagine ammi- rando la scelta religiosa di Dossetti, che così commentava: a Questo sì è il vero ideale cristiano; ed è bello vedere che c’è chi, riconosciutolo, ha - o riceve - la forza di realizzarlo. 1 superficiali interpreteranno tutto ciò come una rinuncia, come l’accettazione dolorosa di una scon- fitta. Io penso che sia una grande vittoria, la sola vera vittoria cri- stiana (. ..) B (p. 362). Questa visione del problema andava risoluta- mente, e con insofferenza dichiarata, contro la sintesi politico-religiosa di Maritain, che tanto ha influenzato nel nostro tempo il cristianesimo sociale (si vedano in proposito i vari cenni di Fassò, e in particolare quelli a p. 382, a p. 597, a 667). E andava contro le soluzioni e con- ciliazioni dello (<spiritualismo cattolico )) (del quale spesso si trova menzione in queste pagine), nel quale ultimo Fassò svelava (( una grave contraddizione (. ..) nello sforzo di assumere una posizione che sia ad un tempo religiosa e razionalistica, trascendentistica e storicistica, salvando in pari tempo, e connettendoli e conciliandoli, il valore (tra- scendente) e la storia, la moralità e la giuridicità, la città di Dio e quella città terrena, che è pur sempre, per chi senta davvero religiosamente, la città del demonio e del peccato: soddisfacendo ecletticamente due istanze pienamente legittime e valide, certo, ma irriducibili fra di loro (. ..) )) (p. 1401; parole del 1954). © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano   LETTURE 509 Tutto un periodo della vita di Fassò - quello che sopra si è detto il secondo - gravita intorno a questi pensieri; ma è il periodo in ogni senso centrale della vita di Fassò. Quel che valeva per il problema religioso valeva per l’àmbito filosofico generale, Di qui anche l’avver- sione di Fassò alle facili combinazioni di diritto naturale e storia, e ai teorici di un diritto naturale razionalmente deducibile e perciò anche applicabile (si vedano le ripetute e dure critiche a Leo Strauss, e parti- colarmente lo scritto del 1958 Diritto naturale e storicismo, appunto in polemica con questo). L’assoluto non è conoscibile; conoscibile è soltanto il mondo della storia, e ad essa, come a mondo pervaso da strutture e istituzioni che si formano, volge lo sguardo lo studioso del fenomeno giuridico, La storia, aveva scritto Fassò nell’opera del 1953, è esperienza giuridica; e su quella visione egli avrebbe fondato negli anni le sue riflessioni, le sue ricerche storiche, i suoi interventi sui pro- blemi politici e culturali. Di lì nascevano la sua concezione del diritto e la sua concezione della vita associata. La storia del pensiero giuridico occidentale conduceva a una visione razionalistica, che poteva ben dirsi ((laicae liberaleD. Questi due attributi sono usati da Pattaro (a p. XXXIV), e si può esser d’accordo con quella definizione; natural- mente non dimenticando tutto quel che s’è detto finora sulla com- plessità e ricchezza del pensiero di Fassò: nel senso, in ogni modo, nel quale se ne potrebbe parlare per Jemolo, ma anche per studiosi prima menzionati, e a lui in quel tempo vicini per affinità di sentire su molti temi, come Bobbio, Piovani, Cotta. In questo senso può dirsi che dopo il 1958la meditazione di Fassò sia tutta rivolta alla inve- stigazione storiografica e teoretica di quella visione razionalistica, laica e liberale della storia, I1 diritto diviene, allora, la ragione cono- scibile agli uomini, la ragione che salva la convivenza degli individui. L’assoluto può essere attinto da invididui eccezionali o in momenti eccezionali, è un dono concesso e non una strada consentita alla ragione; ma il mondo della storia ha una sua dimensione razionale proprio nel diritto, che assicura istituzioni in grado di garantire gli individui nel loro vivere in comune, Se Cristianesimo e società insegna che non si può mescolare Dio a Cesare, le opere successive al 1958, insistendo sul- l’indagine del mondo storico-giuridico, già avviata nell’opera del 1953, insegnano che neppure si può, né si deve, trasformare Cesare in Dio, e vedere nella storia valori e significati immanenti. Questa etica e questa visione politica si chiariscono e arricchiscono via via nella ri- cerca di Fassò. I1 problema si intreccia con quello del rispetto della legge, e quindi con la valutazione del positivismo giuridico. Già nel 1960, Fassò si domandava, e concludeva senza risposte perentorie: (( Dobbiamo insegnare l’obbedienza assoluta alla legge?>). Era il pro- blema del fondamento della convivenza e del fondamento dell’obbliga- torietà della legge. Diventava anche il problema se fosse razionalmente deducibile la democrazia, Fassò negava, e con chiarezza in uno scritto © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano   510 LETTURE del 1961, che fra diritto naturale e democrazia ci fosse nesso necessario, contraddicendo in tal modo diffuse concezioni. Conveniva invece su di un fondamento morale della forma democratica (che per la cristal- lina mente di Fassò volle sempre dire forma democratico-liberale) della convivenza. Era un diritto che poteva magari esser detto natu- rale, ma ricordando la storicità della natura umana: ((ildiritto natu- rale sul quale la libertà e la democrazia possono fondarsi non può essere un astratto dogma esterno alla storia dell’uomo: esso non può consistere che nell’idea di giustizia che l’uomo ritrova nella propria coscienza morale, il cui valore è sì certamente assoluto, ma il cui con- tenuto può essere soltanto quello che lo sviluppo storico di questa coscienza comportaD (p. 576). La limpida relazione su Stato di diritto e stato di gizlstizia, del 1963, rivendicava il valore dello stato liberale di diritto, che non ha fra i suoi scopi - Fassò concludeva con i versi di Holderlin - di far dello stato il paradiso dell’uomo, col risultato di farne un inferno, Si richiamava all’esperienza costituzionale inglese, che avrebbe ribadita come modello di sviluppo giuridico, civile e poli- tico nella prolusione bolognese dell’anno successivo, La legge della ra- giofie. In quell’occasione, contemporanea al libro dallo stesso titolo, Fassò affermava che (( non possiamo, oggi, rifiutare il giusnaturalismo, quando il giusnaturalismo si propone come appello alla legge della ragione D (p. 747). Era un modo di affermare, più che un diritto natu- rale, il diritto di giudicare le circostanze storiche al lume della ragione; al modo seguito dai giuristi inglesi di commofi law. Le leggi, il diritto positivo, avevano il loro valore, e si doveva loro obbedienza, ma la ragione giuridica non si limita a sistemare i loro dettami, in un modo che sarebbe anch’esso astratto, pur se in modo opposto a quello tenuto dal giucnaturalismo meta-storico (<<ma se continuiamo a rifiutare)) - obiettava Fassò a Scarpelli nel 1967 - ((come abbiamo sempre rifiutato, l’idea di un diritto naturale extrastorico, immutabile ed eterno, dobbiamo per questo abbracciare il culto di un diritto positivo altrettanto extrastorico e astratto? p. 789). Stava avvenendo in Fassò un passaggio dal rifiuto dell’espressione (( diritto naturale ove non fosse coerentemente inserita in una metafisica soprastorica, ad un’accettazione della medesima espressione in un senso più lato, come diritto di una natura dell’uomo che è ragione operante nella storia. In questo senso si poteva anche affermare un diritto naturale, che giudicasse razionalmente, in modo storico, fatti, istituzioni, leggi, ma senza sistemazioni assolute. Era il sistema pragmatico, empirico, sto- rico, anche antiilluministico, seguito dalla civiltà giuridica anglosas- sone, la quale, non a caso, era anche quella che aveva dato il più dura- turo esempio di stato democratico-liberale. Su questa base, scientifica e politico-morale, si sarebbe espresso Fassò negli ultimi anni della sua vita, durante i sussulti del 1968 e degli anni seguenti, durante quegli avvenimenti e quelle teorizzazioni che tanto avrebbero influito sulla © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano   LETTURE 511 nostra ultima storia, e che da lui furono giudicati senza le incertezze, le ambiguità, i silenzi, le fragili adesioni, di cui molti si resero respon- sabili. In verità, tutta la formazione culturale, oltreché l’intransigenza morale, garantiva Fassò di fronte alla crisi di quegli anni. Era stato sempre convinto che il diritto è il momento razionalizzatore nella sto- ria, e che è esso stesso fenomeno storico. I1 riferimento all’esperienza anglosassone gli permetteva di criticare con misura il positivismo giu- ridicolegalistico(sivedaIlpositivismogiuvidico(( contestato del1969); ma lo faceva anche accorto, sul piano politico, del valore irrinunciabile dello stato democratico-liberale, coi suoi valori di tutela della libertà individilale attraverso metri comuni a tutti gli individui e attraverso misure inevitabilmente repressive. Contro la riduzione del diritto a politica, egli non cedette alle nuove idee che si diffondevano tra giuristi e magistrati, e che pretendevano di richiamarsi a una ((democrazia sostanziale))(p. 924); seppe subito additare le fonti teoriche di quelle idee, e le rintracciò in Carl Schmitt, nelle (( parole, certo, di un insigne giurista; il giurista più insigne del Terzo Reich 1) (p. 925). Poté par- lare, per quelle correnti, di (( nazismo giuridico )), e dovendo scegliere tra Positivismo e nazismo giuvidico (pp. 921-932), egli potè richiamarsi tranquillamente ai suoi autori, e a quella (<ragione artificiale (. ..) di cui aveva parlato fin dal Seicento Edward Coke )) (p, 931). Si trattava, come egli intitolava un saggio nel 1972, di vedere in modo razionale e insieme storico il rapporto tra giudice e legge (si veda Il giudice e l’ade- guamento del diritto alla realtà storico-sociale, pp. 987-1050, ampia inda- gine teorica e storica del problema). Vedeva i pericoli insiti nel rifiuto del principio di legalità; rifiutava, nel 1971, che si potesse parlare del diritto di resistenza nella società democratico-liberale, e vedeva nella (( contestazione )) di quegli anni non il riferimento a una ragione diversa per stabilire un ordine più giusto, ma la negazione di qualsiasi ordine, di qualsiasi istituzione repressiva, della stessa ragione, in nome di un atteggiamento che definiva anarchico )) e (( religioso R (pp. 1055-1056); ripeteva che diritto è necessariamente repressione, e che si trattava soltanto di fare in modo che quella repressione fosse frutto della ra- gione (si veda, del 1973, Società, diritto e repressione, pp. 1067-1087). Da questi stessi principi e preoccupazioni era ispirato l’ampio saggio postumo già menzionato su La sciefiza e la filosofia del diritto, viste nel loro sviluppo storico. Questa indagine, come d’altronde tutta la Stovia della filosofia del divitto, ribadiva la visione del diritto come Fassò era venuto maturandola negli anni della sua coerente medita- zione. In queste occasioni, di fronte ai problemi più gravi dei tempi, Fassò poteva richiamarsi a quanto aveva pensato, sul rapporto fra cristianesimo e storia, nel suo periodo teoretico. (<Nella società - che non è società, e neppure comunità, ma comunione - dei santi, come si è liberi dal diritto, così lo si è dalla ragione (. ..). Siccome invece © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano   512 LETTURE purtroppo non siamo guidati dallo Spirito, siamo, come ci ricordava San Paolo, sotto la legge; e l’unica cosa che possiam fare per non sen- tirne troppo la ‘ repressione è cercare che essa sia conforme alla ra- gione (, ..) )) (pp. 1086-1087). Ma sarebbe riduttivo vedere l’ultimo periodo della riflessione di Fassò nella luce di queste polemiche contro idee effimere; anche se si doveva ricordarle per rendere onore alla coe- renza e alla rettitudine dello studioso. In realtà, alla base di quelle polemiche era la meditazione di tutta una vita, nella quale era sempre stato operante l’amore per la distinzione: distinzione tra Dio e Cesare, tra esperienza religiosa ed esperienza giuridica, tra assoluto e storia.  Wikipedia Ricerca Lucio Giunio Bruto politico romano Lingua Segui Modifica Lucio Giunio Bruto Project Rome logo Clear.png Console della Repubblica romana Capitoline Brutus Musei Capitolini MC1183.jpg Busto di Bruto, nei Musei Capitolini in Roma. Nome originale                     Lucius Iunius Brutus Nascita                                     545 a.C. circa Roma Morte                                       509 a.C.[1] Roma Gens                                         Iunia Consolato                                              509 a.C. Lucio Giunio Bruto (in latino: Lucius Iunius Brutus; 545 a.C. circa – 509 a.C.) è stato il fondatore della Repubblica romana[2] e secondo la tradizione uno dei due primi consoli nel 509 a.C.[3].  Biografia                                  Modifica Il nome di Bruto è legato alla leggendaria cacciata dell'ultimo re di Roma, Tarquinio il Superbo.  Secondo la narrazione di Livio, rafforzata da Ovidio, Bruto aveva molti motivi di ostilità contro il re, di cui era nipote in quanto figlio di una sorella: nel corso degli eccidi familiari che spesso accompagnano la presa di potere di un despota, Tarquinio aveva disposto fra l'altro l'omicidio del fratello di Bruto, il senatore Marco Giunio. Bruto, temendo di subire la stessa sorte, allora si mimetizzò nella famiglia di Tarquinio, impersonando la parte dello sciocco (in latino brutus significa sciocco).  Lui accompagnò i figli di Tarquinio, Tito ed Arrunte, in un viaggio all'oracolo di Delfi[4][5]. I figli chiesero all'oracolo chi sarebbe stato il successivo sovrano a Roma e l'oracolo rispose che la prossima persona che avesse baciato sua madre sarebbe diventato re.[4]Bruto interpretò la parola "madre" nel significato di "Terra" così, al ritorno a Roma, finse di inciampare e baciò il suolo.[6]  In seguito Bruto dovette combattere in una delle tante guerre di Roma contro le tribù vicine e tornò in città solo quando venne a sapere della morte di Lucrezia.   Lucio Giunio Bruto da giovane  Il giuramento di Bruto, Jacques-Antoine Beaufort, 1771  I littori portano a Bruto i corpi dei due figli, Jacques-Louis David, 1789 Secondo la leggenda, la cacciata dell'ultimo re da Roma ebbe inizio con il suicidio di Lucrezia, moglie di Collatino e parente di Bruto, perché costretta a cedere con le minacce alle richieste amorose di Sesto Tarquinio, figlio del re Tarquinio il Superbo.[2][7]  Tito Livio racconta che, suicidatasi davanti ai suoi occhi, del marito Collatino e del padre di lei Spurio Lucrezio, Bruto estrasse il coltello dalla ferita e disse:  «Su questo sangue, purissimo prima che il principe Sesto Tarquinio lo contaminasse, giuro e vi chiamo testimoni, o dei, che da ora in poi perseguiterò Lucio Tarquinio il Superbo e la sua scellerata moglie, insieme a tutta la sua stirpe, col ferro e con il fuoco e ogni mezzo mi sarà possibile, che non lascerò che né loro, né alcun altro possano regnare a Roma.»  (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, Libro I, 59.) Bruto, il padre ed il marito di Lucrezia giurarono di vendicarne la morte. Quindi trasportarono il corpo della donna nella piazza principale della città di Collatia, dove la donna si era suicidata, attirando l'attenzione della folla, che dopo aver saputo dell'accaduto si indignò per la protervia di Sesto Tarquinio.  Molti dei giovani lì presenti si offrirono volontari per condurre una guerra contro i Tarquini. Le truppe ora riunite riconobbero in Bruto il loro comandante, facendo rotta su Roma per conquistarne il potere. Giunti a Roma, Bruto si rivolse al popolo romano riunito nel Foro, raccontando della triste sorte toccata a Lucrezia.  Aggiunse quindi della superbia del re, Tarquinio, e della miseria della plebe romana, costretta dal tiranno a costruire ed a ripulire le fogne, invece che portata a combattere come era nella natura dei Romani.[8]  Ancora ricordò dell'indegna morte di re Servio Tullio, calpestato da sua figlia, moglie di Tarquinio, con un cocchio. Invocò infine gli dei vendicatori, infiammando gli animi del popolo romano alla rivolta contro il tiranno, tanto da trascinarlo ad abbattere l'autorità regale e a esiliare Lucio Tarquinio, insieme alla moglie ed i figli.[8] Partì quindi per Ardea, dove il re era accampato, per ottenere che anche l'esercito si schierasse dalla sua parte, dopo aver lasciato il comando di Roma a Lucrezio (in precedenza nominato praefectus della città, da parte dello stesso Superbo). Frattanto, Tullia, moglie di Lucio Tarquinio riuscì a fuggire dalla città.[8]  Quando la notizia di questi avvenimenti arrivò ad Ardea, Tarquinio il Superbo, allarmato dal pericolo inatteso, partì per Roma per reprimere la rivolta. Bruto, allora, informato che il re si stava avvicinando, per evitare l'incontro, fece una breve diversione e raggiunse l'accampamento regio ad Ardea dove fu accolto con entusiasmo da tutti i soldati, i quali espulsero i figli del re, mentre a quest'ultimo venivano chiuse in faccia le porte di Roma e comunicata la condanna all'esilio.[9]  Due dei figli seguirono il padre in esilio a Cere(Cerveteri), Sesto Tarquinio invece, partito per Gabii, qui fu assassinato, da coloro che si vendicarono delle stragi e razzie da quello compiute.  In seguito a questi eventi, il prefetto della città di Roma convocò i comizi centuriati, che elessero i primi due consoli della città: Lucio Giunio Bruto e Lucio Tarquinio Collatino.[3][9][10][11]   Busto conservato al Museo archeologico nazionale di Napoli I primi provvedimenti di Bruto furono: evitare che il popolo, preso dalla novità di essere libero, potesse lasciarsi convincere dalle suppliche allettanti dei Tarquini, costringendolo a giurare che non avrebbe permesso più a nessuno di diventare re a Roma;[12]rinforzare il senato ridotto ai minimi termini dalle continue esecuzioni dell'ultimo re, portandone il totale a trecento, nominando quali nuovi senatori i personaggi più in vista anche dell'ordine equestre. Da qui l'uso di convocare per le sedute del senato i padri (patres) ed i coscritti (dove è chiaro che con questo termine si alludeva agli ultimi eletti). Il provvedimento aiutò notevolmente l'armonia cittadina ed il riavvicinamento della plebe alla classe senatoriale.[12]  Durante il consolato i suoi figli, Tiberio e Giunio, complottarono con il deposto re Tarquinio il Superbo, per farlo tornare a Roma come re, ma furono scoperti grazie ad uno schiavo[13]. Incatenati, chiesero pietà e il popolo, impietosito, ne chiedeva la loro liberazione. Ma Bruto fu irremovibile, e li fece uccidere, assistendo personalmente senza versare una lacrima per la loro morte[14][15].  In seguito alle dimissioni forzate del collega Lucio Tarquinio Collatino, Bruto chiese al popolo di nominare un altro console in sua sostituzione, così da non dare adito al sospetto che volesse governare sulla città come un monarca. Allora i cittadini riuniti elessero Publio Valerio Publicola.[16]  Il suo consolato terminò con la battaglia della Selva Arsia, combattuta contro gli Etruschi, che si erano alleati con i Tarquini, per restaurarne il potere. Durante la battaglia Bruto si scontrò con Arrunte Tarquinio, figlio di Tarquinio il Superbo e cugino di Bruto; i due, spronati i loro cavalli al galoppo, si trafissero vicendevolmente con le loro lance, perdendo la vita nello scontro[17].  Il console superstite, Valerio, dopo aver celebrato un trionfo per la vittoria, tenne un funerale di grande magnificenza per Bruto, che fu pianto dalle nobildonne per un anno.  Altro                                                    Modifica  Servilio Ahala e Bruto in un denario di Marco Giunio Bruto. Marco Giunio Bruto, il cesaricida che si vantava di essere un discendente di Lucio Giunio Bruto, nel 54 a.C., dieci anni prima delle Idi di marzo quando Giulio Cesare rimase ucciso, emise un denario con al diritto la testa di Lucio Giunio Bruto, il fondatore della repubblica romana e la scritta BRVTVS ed al rovescio la testa di Gaio Servilio Strutto Ahala e la scritta AHALA.[18]  Secondo Michael Crawford (Roman Repubblican Coinage - p. 455-6) il denario fu emesso quando a Roma corse la voce che Pompeo volesse diventare dittatore.  Critica storica                      Modifica Il racconto proviene dall'Ab Urbe condita di Livio e tratta di un punto della storia di Roma che precede le annotazioni storicamente affidabili (praticamente tutte le annotazioni precedenti furono distrutte dai Galliquando saccheggiarono Roma nel 390 a.C.)  La figura di Bruto nell'arte                                      Modifica Il busto di Bruto si trova nel palazzo dei Conservatoridi Roma. Proveniva dalla collezione privata del Cardinale Rodolfo Pio da Carpi, che la donò alla città nel XVII secolo. Trafugato da Napoleone che lo fece esporre al Louvre, fu riportato a Roma nel 1815.  Dante lo citò nel limbo, nel IV canto dell'Inferno, quando scrive   «Vidi quel Bruto che cacciò Tarquino...»  (Dante Alighieri, Divina Commedia, Inferno, Canto IV, 127) William Shakespeare, nella sua tragedia Giulio Cesare, fa un riferimento a Lucio Giunio, quando fa ricordare a Cassio che parlava a Bruto, l'altro cesaricida, lo spirito repubblicano dei propri antenati.  Lucio Giunio Bruto è uno dei personaggi principali de Il ratto di Lucrezia, un poema sempre di Shakespeare, e nella tragedia di Nathaniel Lee, Lucius Junius Brutus; Father of his Country.  A Giovan Francesco Maineri è attribuito un dipinto, databile tra il 1490 e il 1493, dal titolo Lucrezia, Bruto e Collatino.  Nel 1789, all'alba della rivoluzione francese, il pittore francese Jacques-Louis David realizzò il dipinto I littori riportano a Bruto i corpi dei suoi figli, oggi esposto al Louvre di Parigi. Il dipinto provocò grandi timori nelle autorità, poiché si temeva un paragone tra l'intransigenza del console Lucio Giunio Bruto, che non esitò a sacrificare i figli che cospiravano contro la Repubblica, e la debolezza di Luigi XVI rispetto al fratello conte d'Artois, favorevole alla repressione dei rappresentanti del Terzo Stato.  Giunio Bruto è anche un'opera seria musicata da Cimarosa nel 1781, libretto di Eschilo Acanzio.  Note                                                           Modifica ^ Matyszak, pp. 14, 43. ^ a b Eutropio, Breviarium ab Urbe condita, I, 8. ^ a b Eutropio, Breviarium ab Urbe condita, I, 9. ^ a b Livio, Ab Urbe condita libri, 1.46. ^ Giorgio de Santillana e Hertha von Dechend, Il mulino di Amleto, Adelphi, p. 42, ISBN 978-88-459-1788-2. ^ Livio, Periochae ab Urbe condita libri, 1.47. ^ Livio, Ab Urbe condita libri, 1.49. ^ a b c Tito Livio, Ab Urbe condita libri, Libro I, 59. ^ a b Tito Livio, Ab Urbe condita libri, Libro I, 60. ^ Livio, Periochae ab Urbe condita libri, 1.50. ^ Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, V, 1, 2. ^ a b Tito Livio, Ab Urbe condita libri, II, 1. ^ Tito Livio, Ab urbe condita libri, Libro II, 4, 5-6. ^ Tito Livio, Ab urbe condita libri, Libro II, 5, 5-8. ^ Dionigi racconta che furono due i figli accusati ed uccisi da Bruto, Antichità romane, Libro VIII, 79. ^ Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, V, 12, 13-14. ^ Tito Livio, Ab Urbe condita libri, Libro II, 6, 6-9. ^ (Iunia 30 e Servilia 17; Sydenham. 932; Crawford 433/2). Bibliografia              Modifica Fonti primarie Tito Livio, Ab Urbe condita. Fonti secondarie William Smith, Dictionary of Greek and Roman Biography and Mythology, vol. I, Taylor, Walton and Maberly, London, 1849. Philip Matyszak, Chronicle of the roman Republic, New York, Thames & Hudson, 2003, ISBN 0-500-05121-6. Andrea Carandini, Res publica: Come Bruto cacciò l'ultimo re di Roma, Milano, RCS Libri S.p.A., 2011, ISBN 978-88-586-1712-0. Voci correlate                                                Modifica Bruto capitolino Consoli repubblicani romani Gens Iunia Lapis Satricanus Elenco degli oracoli di Delfi Altri progetti                               Modifica Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Lucio Giunio Bruto Collegamenti esterni                   Modifica Bruto, Lucio Giunio, in Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2010. Modifica su Wikidata ( EN ) Lucio Giunio Bruto, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su Wikidata (EN)  Lucio Giunio Bruto nel Dizionario delle antichità greco-romane di William Smith Controllo di autorità                                          VIAF ( EN ) 296192012 · ISNI ( EN ) 0000 0004 4891 5955 · CERL cnp00541602 · LCCN( EN ) n83206586 · GND ( DE ) 1032033371   Portale Antica Roma   Portale Biografie Ultima modifica 5 mesi fa di Podz00 PAGINE CORRELATE Tarquinio il Superbo settimo e ultimo re di Roma  Lucrezia (antica Roma) figlia di Spurio Lucrezio Tricipitino e moglie di Collatino  Lucio Tarquinio Collatino politico romano  Wikipedia Il contenuto Guido Fassò. Fasso. Keywords: RES PVBLICA RES POPVLI, ius, Grice on Hart, Hart’s failure as a jurisprudentialist – “La filosofia romana” “La giurisprudenza romana” la genesi logica della scienza nuova di Vico, la genesi storica della scienza nova di vico, Michelet, filosofo uganotto discipolo di Vico, Croce su Fasso, Fasso su Gentile, Fasso su Romano – iurisprudenza, ius-naturalismo – legge e raggione, legge raggione, societa – positivismo – storia come esperienza giuridica, l’assoluto giuridico – natura umana – grozio e vico – lo stato fascista di Gentile. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Fassò” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51761863938/in/dateposted-public/

 

Grice e Fazzini – filosofia italiana – Luigi Speranza (Vieste). Filosofo. Grice: “I like Fazzini; he can be too theological, but that’s okay!”  Divulgatore di materie  filosofiche e il fondatore dell'omonima scuola private a Napoli, una delle più celebri nel Regno delle Due Sicilie. Figlio di Tommaso e Porzia Medina, che appartenevano a due delle famiglie più agiate della città. Il suo talento per la matematica fu notato fin dai primi anni; i genitori decisero quindi di far proseguire i suoi studi in ambienti che potessero garantire una formazione adeguata. Fazzini si trasferì a Foggia, poi a Benevento e in ultimo nel seminario di Nusco. Qui trascorse l'adolescenza approfondendo anche lo studio dei classici. Terminato il seminario, torna a Vieste. Lì, poco dopo il suo rientro, recita in Duomo un'orazione in lode dell'Arcangelo Michele che fu molto apprezzata dal clero e dai fedeli.  Il rientro nella città natale fu comunque di breve durata. Desiderando continuare i suoi studi, Fazzini si trasferì a Napoli. Venne ordinato sacerdote e nello stesso anno ebbe come insegnante Fergola. La scuola di quest'ultimo era un rinomato centro per la formazione e un punto di incontro per studiosi e ricercatori del Mezzogiorno. Ne fu uno degli allievi più illustri. Proseguì anche gli studi in filosofia. Si era avvicinato al sensismo (empirismo). Ottenne dalla Chiesa il permesso di acquisire testi proibiti sul sensismo, a patto che non ne divulgasse i contenuti. Questo aspetto della formazione filosofica influirà sulla sua docenza e sulla sua personalità, determinando una contraddizione che, secondo le testimonianze di allievi e amici, lo accompagnò per tutta la vita. Apre una scuola privata in cui venivano insegnate filosofia, matematica e fisica. La scuola aveva sede nella Strada nuova dei Pellegrini, nel quartiere di Montecalvario, e divenne uno dei centri di studio più rinomati di Napoli.  Nel periodo di maggior successo La Fazzini arrivò a contare tra i 300 e i 400 allievi. In una data non precisabile, dovette quindi spostare la scuola in una sede più grande, in via Magnacavallo, nello stesso quartiere. Anche dopo aver aperto la propria scuola, comunque, insegnò presso altre scuole private. Dedica all'insegnamento sei o sette ore al giorno. La maggior parte del tempo di insegnamento di Fazzini e dedicata alla matematica. Al servizio di questa attività Fazzini pubblica aritmetica, geometria piana e geometria solida. Oltre all'insegnamento della filosofia, si dedica alla ricerca e alla divulgazione. Al servizio di queste tre attività allestì anche un laboratorio scientifico, considerato all'epoca uno dei migliori di Napoli. Per Fazzini venne composta da Gaetano Donizetti una Messa da Requiem oggi perduta, mentre Basilio Puoti recitò un elogio di Fazzini, di cui era amico. Si occupa a lungo di ricerche scientifiche in vari campi della fisica. In particolare, studiò l'induzione elettromagnetica, il magnetismo in generale e la relazione tra luce e magnetismo. Non pubblica però quasi nulla a proposito di queste ricerche, che sono note soprattutto attraverso le testimonianze di Tellini e di Gaetano Fazzini.  Era convinto che diverse delle forze naturali allora note, e in particolare il calorico, la luce, l’elettricismo, il galvanismo e il magnetismo, fossero in realtà diverse manifestazioni di un'unica forza. Partendo da questa idea di base, studia soprattutto il magnetismo, e in particolare due fenomeni di induzione, oggi spiegati in base alla Legge di Faraday, che erano stati scoperti negli anni immediatamente precedenti:  il magnetismo di rotazione, scoperto da Arago -- il fenomeno per cui un ago magnetico posto sopra un disco di rame in rotazione inizia a sua volta a ruotare -- l'induzione tellurica, scoperta da Faraday: la generazione di una corrente elettrica indotta in un circuito che si muove attraverso il campo geo-magnetico Per quanto riguarda il magnetismo di rotazione, ripeté e approfondì le esperienze di Arago notando che la rotazione dell'ago magnetico si verificava anche quando al di sopra del disco di rame si sovrapponeva materiale isolante, mentre non si verifica se il disco di rame veniva sostituito da un disco di materiale isolante.  Per quanto riguarda l'induzione tellurica, ne identifica con maggiore chiarezza le modalità. Cerca poi di combinare lo studio di questo fenomeno con quello del magnetismo di rotazione, costruendo per questo tre diversi apparecchi. Una ricostruzione dettagliata del modo in cui gli apparecchi operano è fornita sulla base delle testimonianze lasciate da Cirelli e Gaetano Fazzini. Descrisse una delle sue esperienze sull'induzione tellurica in una lettera a Faraday.Questa lettera è l'unica descrizione lasciata da Fazzini in persona riguardo ai propri esperimenti. Eseguì inoltre esperimenti sul rapporto tra luce e magnetismo, proiettando raggi di luce su un ago magnetico. Le testimonianze rimaste, tutte indirette, non permettono però di ricostruire in modo sicuro le intenzioni di Fazzini e i risultati dei suoi esperimenti. Opere: “Elementi di geometria piana” (Napoli), “Geometria solida: la sfera e il cilindro (Napoli); Elementi di aritmetica (Napoli). Dizionario biografico degli italiani. INDICE  NOTA DEL CURATORE  pag. III » 1  PREMESSE Cap. I  »  12  »  25  Cap. III - La terna dei numeri primi dispari entro la decade  »  34  Cap. IV - Il pentalfa pitagorico e la stella fiammeggiante  »  45  Cap.  »  59  Cap. VI - La tavola tripartita  »  71  Cap. VII - La Grande Opera e la Palingenesi  »  78  Cap.  - La Tetractis pitagorica ed il Delta massonico II - La quaterna dei numeri composti o sintetici  V - Il numero e le sue potenze  II  Arturo Reghini  NOTA DEL CURATORE «Il matematico ed erudito fiorentino Arturo Reghini (1878-1946), alto dignitario della Massoneria prima del suo scioglimento ad opera del fascismo, fu il più noto esponente del neo-pitagorismo nel XX secolo e teorico dell’“lmperialismo Pagano”. Amico di Giovanni Amendola e di Giovanni Papini, personaggio di punta della scapigliatura fiorentina all’epoca delle riviste “Leonardo”, “Lacerba” e “La Voce”, fu a sua volta fondatore delle riviste “Atanòr” (1924), “Ignis” (1925) e - con Julius Evola - “UR” (19271928). Alla sua opera sono legate la riproposizione della “magia colta”, neo-platonica e rinascimentale, che contrappose al Cristianesimo come via d’accesso al divino, ed una critica radicale dell’occultismo e degli pseudo-esoterismi moderni. In collaborazione con René Guénon, auspicò la rinascita spirituale dell'Occidente attraverso la formazione di un’élite iniziatica nel quadro di un processo di rigenerazione della Massoneria, in cui vedeva un residuo “deviato” di un'antica organizzazione ermetico-pitagorica, d’origine pre-cristiana ed erede degli antichi Misteri. Polemista efficacissimo; fu interventista e fautore del primo fascismo, ma ruppe con Mussolini all’epoca del delitto Matteotti e con l’instaurazione della dittatura, ritirandosi nello studio della geometria e della matematica pitagoriche. Già in vita, sul suo conto s’era formata una corposa leggenda di “mago” e di facitore di prodigi, arricchitasi con il tempo di altre fantasiose aggiunte». In questi termini, icastici ma sostanzialmente esatti, una recente biografia (1) presentava la complessa figura di Arturo Reghini. La storia della presente opera, l’ultima scritta da Reghini prima della morte, è stata brevemente narrata dal suo discepolo Giulio Parise nella “Nota” di presentazione ad un opuscolo postumo dello stesso Reghini (2): «Chiesi ad A. R. lo sviluppo filosofico ed iniziatico della opera sui numeri pitagorici; poté condurre a termine, in circa due mesi, un volume su I numeri sacri nella tradizione pitagorica massonica…». 1  DI LUCA N. M., Arturo Reghini. Un intellettuale neo-pitagorico tra Massoneria e Fascismo, Atanòr, Roma, 2003. 2 REGHINI A., Considerazioni sul Rituale dell’apprendista libero muratore con una nota sulla vita e l’attività massonica dell’Autore di Giulio Parise, Edizioni di Studi Iniziatici, Napoli, s.d. [1946].  III  Il libro fu finito di stampare il 20 gennaio 1947 «per i tipi dello stab. tip. S. Barbara di Ugo Pinnarò, Roma – Via Pompeo Magno, 29». Editore fu il già citato Parise, attraverso la Casa editrice Ignis, la medesima che nel 1935 aveva pubblicato lo studio reghiniano Per la restituzione della geometria pitagorica. Reghini era morto sei mesi prima, il 1° luglio 1946. Nell’elaborazione del testo elettronico si è provveduto ad operare le correzioni indicate dall’Editore nell’Errata Corrige in allegato alla prima edizione del 1947, nonché quelle di errori di stampa individuati nel corso della trascrizione, come pure a rettificare talune (rarissime) imprecisioni bibliografiche sparse qua e là ed indubbiamente dovute alle particolari condizioni in cui Reghini si trovò a lavorare nell’immediato dopoguerra, senza la possibilità di effettuare gli opportuni riscontri. Con ciò il Curatore ha inteso assolvere un debito di riconoscenza contratto esattamente 40 anni fa nei confronti di Giulio Parise, sebbene all’insaputa di quest’ultimo. Cosmopoli, 24 maggio 2007  IV  ARTURO REGHINI  I NUMERI SACRI NELLA TRADIZIONE PITAGORICA MASSONICA  A. Reghini - I Numeri Sacri nella tradizione pitagorica massonica - Premesse  Premesse Libertà va cercando ch'è sì cara Come sa chi per lei vita rifiuta. DANTE, Purg., I, 71-72.  Secondo quanto affermano concordemente gli antichi rituali e le antiche costituzioni massoniche, la Massoneria ha per fine il perfezionamento dell'uomo. Anche gli antichi misteri classici avevano lo stesso scopo e conferivano la teleté, la perfezione iniziatica; e questo termine tecnico era etimologicamente connesso ai tre significati di fine, morte e perfezione, come osservava già il pitagorico Plutarco. Ed anche Gesù ricorre alla stessa parola, tèleios, quando esorta i suoi discepoli ad essere «perfetti come il Padre vostro che è nei cieli», sebbene, con una delle frequenti incongruenze delle Sacre Scritture, lo stesso Gesù affermi che «nessuno è perfetto ad eccezione del Padre mio che è nei cieli». La definizione che abbiamo riportato sembrerebbe esplicita e precisa; eppure con una lieve alterazione formale essa ha subìto una grave alterazione nel concetto. Per esempio, il dizionario etimologico del Pianigiani afferma che il fine della Massoneria è il perfezionamento dell'umanità; e non soltanto molti profani ma anche molti massoni accettano questa seconda definizione. A prima vista può sembrare che perfezionamento dell'uomo e perfezionamento dell'umanità significhino la stessa cosa; di fatto si riferiscono a due, concetti profondamente diversi, e l'apparente sinonimia genera un equivoco e nasconde una incomprensione. Altri adopera l'espressione: perfezionamento degli uomini, anche essa equivoca. Ora, evidentemente, non è possibile sentenziare quale sia l'interpretazione giusta, perché ogni massone può dichiarare giusta quella che si confà ai suoi gusti, e magari può compiacersi dell'equivoco. Se però si vuole determinare quale sia, storicamente e tradizionalmente, la interpretazione corretta e conforme al simbolismo muratorio, la questione cambia aspetto e non è più questione di gusti. Il manoscritto rinvenuto dal Locke (1696) nella Biblioteca Bodleyana e pubblicato solo nel 1748 e che è attribuito alla mano di Enrico VI di Inghilterra, definisce la Massoneria come «la conoscenza della natura e la comprensione delle forze che sono in essa»; ed enuncia espressamente l'esistenza di un legame tra la Massoneria e la Scuola Italica, perché afferma che Pitagora, un greco, viaggiò per istruirsi in Egitto, in Siria, ed in tutti i paesi dove i Veneziani (leggi i Fenicii) avevano impiantato la Massoneria. Ammesso in tutte le loggie di Massoni, acquistò un grande sapere, tornò in Magna Grecia... e vi fondò una importante loggia in Crotone (1). A vero dire il manoscritto parla di Peter Gower; e, siccome il cognome Gower esiste in Inghilterra, Locke rimase alquanto perplesso nella identificazione di Peter Gower con Pitagora. Ma altri (1) HUTCHINSON, Spirit of Masonry; PRESTON, Illustrations of Masonry; DE CASTRO, Mondo segreto, IV, 91; ARTURO REGHINI, Noterelle iniziatiche. Sull’origine del simbolismo muratorio, Rassegna Massonica, giugno-luglio 1923.  2  A. Reghini - I Numeri Sacri nella tradizione pitagorica massonica - Premesse  manoscritti e le stesse Costituzioni dell'Anderson fanno esplicita menzione di Pitagora. Il manoscritto Cooke dice che la Massoneria è la parte principale della Geometria, e che fu Euclide, un sottilissimo e savio inventore, che regolò quest'arte e le dette il nome di Massoneria. E delle reminiscenze pitagoriche nelle «Old Charges» è traccia anche nel più antico rituale stampato (1724) il quale (2) attribuisce un pregio speciale ai numeri dispari, conforme alla tradizione pitagorica (3). Gli antichi manoscritti massonici concordano dunque nell'indicare come fine della massoneria quello del perfezionamento dell'uomo, del singolo individuo; e le prove iniziatiche, i viaggi simbolici, il lavoro dell'apprendista e del compagno hanno un manifesto carattere individuale e non collettivo. Secondo la concezione massonica più antica, la «grande opera» del perfezionamento va attuata operando sopra la «pietra grezza», ossia sopra l'individuo singolo, squadrando, levigando e rettificando la pietra grezza sino a trasformarla nella «pietra cubica della Maestria», ed applicando nella operazione le norme tradizionali dell'«Arte Regia» muratoria di edificazione spirituale. Con perfetta analogia una tradizione parallela, la tradizione ermetica che almeno dal 1600 compare anche innestata a quella puramente muratoria, insegna che «la grande opera» si attua operando sopra la «materia prima» e trasformandola in «pietra filosofale» seguendo le norme dell'«Arte Regia ermetica». Essa è compendiata nella massima di Basilio Valentino: Visita interiora terrae, rectificando invenies occultum lapidem (4) oppure nella Tabula smaragdina attribuita da moderni arabisti al pitagorico Apollonio Tianeo. Secondo invece la concezione massonica profana e meno antica, il lavoro del perfezionamento va attuato sopra la collettività umana, è la umanità ossia la società che bisogna trasformare e perfezionare; e in questo modo all'ascesi spirituale del singolo si sostituisce la politica collettiva. I lavori massonici acquistano in tal modo uno scopo ed un carattere prevalentemente sociali, se non unicamente sociali; ed il fine vero e proprio della massoneria, cioè il perfezionamento dell'individuo, viene posto in seconda linea, se non addirittura trascurato, dimenticato ed ignorato. La concezione tradizionalmente corretta è sicuramente la prima, e nella letteratura massonica di due secoli fa ebbero grande voga esagerati e fantasiosi avvicinamenti ed identificazioni dei misteri eleusini e massonici. Senza ombra di dubbio il patrimonio ritualistico e simbolico dell'Ordine muratorio è in armonia soltanto con la concezione più antica del fine della massoneria; infatti il testamento dell'iniziando, i viaggi simbolici, le terribili prove, la nascita alla luce iniziatica, la morte e resurrezione di Hiram, non si capisce quale relazione possano avere coi lavori massonici e con lo scopo della Massoneria se tutto si deve ridurre a fare della politica. Storicamente l'interessamento e l'intervento della Massoneria nelle questioni politiche e sociali si manifesta solo verso il 1730 e solo in alcune regioni europee col trapiantamento della Massoneria inglese nel continente. Quel poco che si conosce delle antiche loggie muratorie prima del 1600, mostra la presenza e l'uso nei lavori massonici di un simbolismo di mestiere, architettonico, geometrico, numerico; il quale per sua natura ha un carattere universale, non è legato ad una civiltà determinata e neppure ad una lingua particolare, ed è indipendente da ogni credenza di ordine politico e religioso. Per questa ragione il massone, secondo il rituale, non sa né leggere né scrivere. . Un elemento ebraico compare nella leggenda di Hiram e della costruzione del Tempio, e le parole sacre del novizio e del compagno (i soli gradi allora esistenti) che si riferiscono a questa leg(2) The Grand Mystery of Free-masons discovered wherein are the several questions put to them at their Meetings and installation, London 1724. (3) VERGILIUS, Bucolicon, Eglo VIII: Numero impari Deus gaudet. (4) Le iniziali di questa massima formano la parola vitriol, il solvente universale degli alchimisti, detto ancor oggi acqua regia.  3  A. Reghini - I Numeri Sacri nella tradizione pitagorica massonica - Premesse  genda sono ebraiche. Questa leggenda non fa parte del patrimonio tradizionale dell'Ordine; la morte di Hiram non figura negli antichi manoscritti massonici, e le costituzioni dell'Anderson ignorano il terzo grado. Comunque la presenza di elementi e parole ebraiche non deve stupire in un tempo in cui l'ebraico era considerato una lingua sacra, anzi la lingua sacra in cui Dio aveva parlato all'uomo nel Paradiso terrestre; è una presenza di cui non va esagerata l'importanza ed il significato, e che non basta certo a giustificare l'asserzione del carattere ebraico della Massoneria. La lettera G dell'alfabeto greco-latino, iniziale di geometria e dell'inglese God, che compare talora nella Stella Fiammeggiante o nel Delta massonico, sembra che sia una innovazione (senza utilità per chi non sa né leggere né scrivere), mentre quei due simboli fondamentali dell'Ordine non sono altro che i due più importanti simboli del pitagoreismo: il pentalfa o pentagramma e la tetractis pitagorica. L'arte muratoria od arte reale od arte regia, termine di cui fa uso il filosofo neoplatonico Massimo di Tiro (5), era identificata con la geometria, una delle scienze del quadrivio pitagorico, e non si capisce come Oswald Wirth, il dotto massone ed ermetista, possa scrivere che i Massoni del XVII secolo (6) hanno potuto proclamarsi adepti dell'Arte reale perché dei re si interessarono un tempo all'opera delle corporazioni costruttive privilegiate del Medio Evo. Gli elementi di carattere muratorio puro costituiscono, insieme al simbolismo numerico e geometrico, il patrimonio simbolico e ritualistico arcaico e genuino della fratellanza. Non diciamo patrimonio caratteristico perché questi elementi compaiono, almeno parzialmente, anche nel compagnonnage, del resto assai affine alla Massoneria. In seguito, tra il 1600 ed il 1700, quando le loggie inglesi principiano ad accettare come fratelli anche gli accepted masons, vale a dire anche persone che non esercitano la professione di architetto od il mestiere di muratore, compaiono anche elementi ermetici e rosacroce, ad esempio Elia Ashmole, come mostra il Gould nella sua storia della Massoneria. Questo contatto tra la tradizione ermetica e quella muratoria avviene anche fuori dell'Inghilterra presso a poco nel medesimo tempo, il che naturalmente implica l'esistenza nel continente di loggie massoniche non derivanti dalla Gran Loggia d'Inghilterra. Il frontespizio di un importante testo di ermetismo edito nel 1618 (7) contiene accanto a simboli ermetici (il Rebis) anche i simboli prettamente muratori della squadra e del compasso, ed altrettanto accade in un libretto italiano di alchimia (8) impresso in lamine di piombo e che risale presso a poco a quel periodo. In questo libretto è raffigurato, tra l'altro, Tubalcain che tiene nelle mani una squadra ed un compasso. Ora Tubalcain è nella Bibbia il primo fabbro; e per un errore etimologico allora accettato ed assai diffuso, per esempio dall'erudito Vossio, venne identificato con Vulcano, il fabbro degli Dei e Dio del fuoco, che secondo il concetto degli alchimisti ed ermetisti presiedeva al fuoco ermetico (od ardore spirituale), fuoco il quale compiva da solo la grande opera della trasmutazione. In un nostro lavoro giovanile (9) abbiamo dato una errata interpretazione della parola di passo Tubalcain, non conoscendo la errata identificazione di Vulcano con Tubalcain accettata dagli ermetisti ed in generale dagli eruditi del seicento e del settecento. Ci sembra oggi manifesto che questa parola ed altre parole di passo traggano la loro derivazione dall'ermetismo, e riteniamo probabile che siano state introdotte in massoneria e poste a lato delle parole sacre a testimonianza del contatto stabilito tra le due tradizioni, la muratoria e l'ermetica. Le parole di passo del 2° e 3° grado non esistono (5) MAXIME DE TYR, Discours Philosophiques, trad. par FORMEY, Leida 1764. Disc. XI, pag. 173. (6) Cfr. OSWALD WIRTH, Le Livre du Maître, 1923, pag. 7. (7) Si tratta della Basilica Philosophica - JOHANNIS MYLII, Francof. 1618. (8) Cfr. PIETRO NEGRI, Un codice plumbeo alchemico italiano, nella rivista UR, anno 1927, n.ri 9 e 10 [Nota del Curatore: “Pietro Negri” era lo pseudonimo impiegato dallo stesso Reghini sulla rivista «UR»] (9) Cfr. ARTURO REGHINI, Le parole sacre e di passo ed il massimo mistero massonico, Todi 1922.  4  A. Reghini - I Numeri Sacri nella tradizione pitagorica massonica - Premesse  nel rituale del Prichard (1730). Ermetismo e Massoneria hanno per fine la «grande opera della trasmutazione», e le due tradizioni trasmettono il segreto di un'arte, che entrambe designano con il termine di arte regia, già usato da Massimo di Tiro. Era quindi naturale che si riconoscessero mutuamente affini. Osserviamo come l'adozione del simbolismo ermetico non avvenga a detrimento della universalità massonica e della sua indipendenza dalla religione e dalla politica, perché anche il simbolismo ermetico od alchemico è per sua natura estraneo ad ogni credenza religiosa o politica. L'arte massonica e l'arte ermetica, detta anche semplicemente l'arte, è un'arte e non una dottrina od una confessione. Sino al 1717 ogni loggia massonica era libera ed autonoma; i fratelli di una officina erano ricevuti come visitatori nelle altre purché sapessero rispondere alla tegolatura, ma ogni maestro Venerabile era l'autorità unica e suprema per i fratelli di una officina. Nel 1717 si ebbe un mutamento con la costituzione della prima Grande Loggia, la Grande Loggia di Londra, e poco dopo venivano compilate per opera del pastore protestante Anderson le Costituzioni massoniche per le Loggie all'Obbedienza della Gran Loggia di Londra; e, sebbene teoricamente un'officina potesse e possa mantenere la propria autonomia o mettersi all'Obbedienza di una Gran Loggia (10), nella pratica vengono oggi considerate loggie regolari quelle che direttamente od indirettamente sono emanazione e derivazione della Gran Loggia di Londra, supponendo che questa derivazione e soltanto essa possa conferire la «regolarità». Ora è molto importante notare che le Costituzioni dell'Anderson affermano esplicitamente che per essere iniziato ed appartenere alla Massoneria si richiede solo di essere un uomo libero e di buoni costumi, ed esaltando (a differenza delle varie sette cristiane) il principio della tolleranza reciproca di ogni fratello per le altrui credenze, aggiungendo solo che un massone non sarà mai uno «stupido ateo». Taluno potrà forse pensare che l'Anderson ammetta che il massone possa essere un ateo intelligente, ma è più verosimile che l'Anderson da buon cristiano ammetta che un ateo è necessariamente uno stupido, seguendo la massima che dice: Dixit stultus in corde suo: Non est Deus. Bisognerebbe qui fare una digressione ed osservare che in questa disputa tanto chi afferma quanto chi nega non ha in generale nozione alcuna di quanto afferma esistere o no, e che la parola Dio viene adoperata di solito con un senso talmente indeterminato da rendere vana qualunque discussione. Comunque le Costituzioni della Massoneria sono esplicitamente teistiche; e quei profani che accusano la Massoneria di ateismo sono in mala fede od ignorano che essa lavora alla gloria del Grande Architetto dell'Universo; ed osserviamo ancora che questa designazione oltre ad essere in armonia col carattere del simbolismo muratorio ha un significato preciso ed intelligibile a differenza di altre designazioni vaghe o prive di senso come quella di «Nostro Signore», di «Padre di tutti gli uomini» ecc. Maggiore interesse offre il requisito di uomo libero fatto al profano per iniziarlo ed al massone per considerarlo fratello. L'Anderson non fa che continuare a chiamare liberi Muratori i FreeMasons, e resta solo da esaminare in che cosa consista questa freedom dei Free masons. Si tratta solo di franchigia economica e sociale che esclude gli schiavi o servi e delle franchigie e dei privilegi di cui godeva la corporazione dei liberi muratori rispetto ai governi degli stati e delle varie regioni in cui essa svolgeva la sua attività? Oppure questo appellativo di liberi muratori va inteso anche in altro senso di non schiavo dei pregiudizii e delle credenze che non era il caso di ostentare? Se cosi fosse sarebbe vano cercarne le prove documentate, e la questione resterebbe indecisa. Pure è possibile dire qualche cosa in proposito grazie ad un documento del 1509 la cui esistenza od importanza sembra non sia stata finora avvertita, (10) O. WIRTH esprime categoricamente questa opinione (Livre du Maître, p. 189).  5  A. Reghini - I Numeri Sacri nella tradizione pitagorica massonica - Premesse  Si tratta di una lettera scritta il 4 febbraio 1509 ad Enrico Cornelio Agrippa da un suo amico italiano, certo Landolfo, per raccomandargli un iniziando. Scrive Landolfo (11): «E' un tedesco come te, originario di Norimberga, ma abita a Lione. Curioso indagatore degli arcani della natura, ed uomo libero, completamente indipendente del resto, vuole sulla reputazione che tu hai già, esplorare anche lui il tuo abisso... Lancialo dunque per provarlo nello spazio; e portato sulle ali di Mercurio vola dalle regioni dell'Austro a quelle dell'Aquilone, prendi anche lo scettro di Giove; e se questo neofita vuole giurare i nostri statuti, associalo alla nostra confraternita». Si tratta di una associazione segreta ermetica fondata da Agrippa ed è manifesta l'analogia tra questa prova dello spazio da fare affrontare all'iniziando e le terribili prove ed i viaggi simbolici della iniziazione massonica, sebbene qui la prova si effettui sulle ali di Ermete; Ermete psicopompo, il padre dei filosofi secondo la tradizione ermetica, è la guida delle anime nell'al di là classico e nei misteri iniziatici. Anche qui compare la qualifica di uomo libero, sufficiente ad aprire le porte a chi bussa profanamente alla porta del tempio; anche qui compare in sostanza il principio della libertà di coscienza e conseguentemente della tolleranza; le due tradizioni parallele muratoria ed ermetica pongono la stessa unica condizione al profano da iniziare: quella di essere un uomo libero; e ne deriva che presumibilmente essa non si riferiva alle franchigie particolari delle corporazioni di mestiere, che sarebbe stato del resto fuori di luogo pretendere dagli accepted Masons che non erano muratori di mestiere ma liberi muratori. Il carattere fondamentale delle Costituzioni massoniche dell'Anderson sta adunque nel principio della libertà di coscienza e della tolleranza, che rende possibile anche ai non cristiani di appartenere all'Ordine. Nelle Costituzioni dell'Anderson la Massoneria conserva il suo carattere universale, non è subordinata ad alcuna credenza filosofica particolare né ad alcuna setta religiosa, e non manifesta alcuna tendenza a lavori di ordine sociale e politico; può darsi che questo carattere aconfessionaJe e libero inspirasse anche la Massoneria anteriore al 1717 e che l'Anderson non abbia fatto altro che sancirlo nelle Costituzioni. Trapiantandosi in America e nel continente europeo la Massoneria conserva in generale questo suo carattere universale di tolleranza religiosa e filosofica e resta aliena da ogni partecipazione ai movimenti politici e sociali, talora accentuando, come in Germania, il suo interesse per l'ermetismo. Sorgono per altro a partire circa dal 1740 i nuovi riti e gli alti gradi, i quali però hanno cura di mantenere intatti il rito ed i rituali dei primi tre gradi, ossia della vera e propria massoneria detta anche massoneria simbolica od azzurra. I rituali di questi alti gradi sono talora uno sviluppo della leggenda di Hiram, oppure si riattaccano ai Rosacroce, all'ermetismo, ai Templari, allo gnosticismo, ai catari..., vale a dire non hanno un vero e proprio carattere massonico, e dal punto di vista della iniziazione massonica sono assolutamente superflui. La massoneria sta tutta nei primi tre gradi, riconosciuti da tutti i riti, e posti alla base degli alti gradi e delle camere superiori dei varii riti. Il compagno libero muratore, una volta divenuto maestro ha simbolicamente terminato la sua grande opera; e gli alti gradi potrebbero avere una qualche funzione veramente massonica soltanto se contribuissero alla corretta interpretazione della tradizione muratoria ed a una più intelligente comprensione ed applicazione del rito ossia dell'arte regia. Naturalmente questo non significa che si debbano abolire gli alti gradi perché i fratelli insigniti degli alti gradi sono liberi, e quelli di loro cui piace di riunirsi in riti e corpi per svolgere lavori non in contrasto con quelli massonici debbono avere la libertà di farlo. Però dal punto di vista strettamente massonico questa loro appartenenza ad altri riti ed a camere superiori non li pone in alcun (11) ENRICO CORNELIO AGRIPPA, Epistol. Cfr. anche la monografia di ARTURO REGHINI premessa alla versione italiana della Filosofia Occulta di Agrippa.  6  A. Reghini - I Numeri Sacri nella tradizione pitagorica massonica - Premesse  modo al di sopra di quei maestri che non sentono il bisogno di altro lavoro che quello della universale massoneria dei primi tre gradi. Del resto è manifesto che riti distinti, come quello di Swedenborg, quelli scozzesi, quello della Stretta Osservanza, quello di Memphis... appunto perché differenti non sono più universali, oppure lo sono solo in quanto si basano sopra i primi tre gradi. Dimenticarlo o tentare di snaturare il carattere universale, libero e tollerante della Massoneria, per imporre ai fratelli delle Loggie particolari punti di vista ed obbiettivi, sarebbe mettersi contro lo spirito della tradizione muratoria e contro la lettera delle Costituzioni della Fratellanza. La prima alterazione appare in Francia, simultaneamente alla fioritura degli alti gradi. Il fermento degli spiriti in cotesto periodo, il movimento dell'Enciclopedia, si ripercuotono nella Massoneria, che si diffonde largamente e rapidamente; ed accade cosi per la prima volta che l'interesse dell'Ordine si dirige e si concentra nelle questioni politiche e sociali. Affermare che la rivoluzione francese sia stata opera della Massoneria ci sembra per lo meno esagerato; è invece innegabile che la Massoneria subì in Francia, e sarebbe stato difficile che ciò non avvenisse, l'influenza del grande movimento profano che condusse alla rivoluzione e culminò poi nell'impero. La Massoneria francese divenne e rimase anche in seguito una massoneria colorata politicamente ed interessata nelle questioni politiche e sociali, e si formò quella che da taluni è considerata come la tradizione massonica, sebbene sia tutt'al più la tradizione massonica francese, ben distinta dalla antica tradizione. Questa deviazione e questa persuasione è la causa prima, sebbene non la sola, del contrasto che è poi sorto tra la massoneria anglosassone e la massoneria francese; anche in Italia essa è stata la sorgente dei dissensi massonici di questi ultimi cinquanta anni e della conseguente disunione e debolezza della Massoneria di fronte agli attacchi ed alla persecuzione fascista e gesuitica. Comunque anche i fratelli che seguono questa tradizione massonica francese non hanno dimenticato il principio della tolleranza, e nelle loggie massoniche italiane, anche prima della persecuzione fascista, si trovavano fratelli di ogni fede politica e religiosa, compresi i cattolici ed i monarchici. Va anche ricordato che nel periodo di poco precedente lo scoppio della rivoluzione francese non tutti i massoni dimenticarono la vera natura della Massoneria, sebbene disorientati dalla pleiade di riti diversi e contrastanti; e si tenne il Convento dei Filaleti allo scopo di rintracciare quale fosse la vera tradizione massonica, ossia, la vera parola di maestro che, secondo la stessa leggenda di Hiram, era andata perduta. Al Convento dei Filaleti convennero massoni di ogni rito, tutti desiderosi di ristabilire l'unità. Il solo Cagliostro, che aveva fondato il rito della Massoneria Egiziana in soli tre gradi, dedito esclusivamente all'opera della edificazione spirituale, rifiutava di partecipare al Convento dei Filaleti per ragioni che sarebbe lungo esporre. L'influenza massonica francese si affermò, dopo la rivoluzione e durante l'impero, anche in Italia; la presenza anche oggi di alcuni termini tecnici nei «travagli» massonici come il «maglietto» del Venerabile, versione poco felice del maillet ossia del martello, ne fa testimonianza (12)12. La massoneria francese e quella italiana ebbero durante tutto lo scorso secolo intimi rapporti, ed assunsero insieme talora atteggiamento rivoluzionario, repubblicano ed anche materialista e positivista seguendo la voga filosofica del tempo. Non si può dire per altro che la massoneria divenne in Italia una massoneria materialista, perché non soltanto fu sempre tollerante di tutte le opinioni, ma venerò in modo speciale la grande anima di Giuseppe Mazzini; ed i grandi massoni italiani come Garibaldi, Bovio, Carducci, Filopanti, Pascoli, Domizio Torrigiani e Giovanni Amendola furono tutti idealisti e spiritualisti. Era riserbata alla teppa fascista la selvaggia furia di devastazione dei (12) Cosi pure pietra polita invece di pietra levigata dal francese pierre polie; lupetto ed anche lupicino che è una versione di louveton, a sua volta trasformazione fonetica e semantica da Lufton, figlio di Gabaon, nome generico del massone secondo i primitivi rituali inglesi e francesi.  7  A. Reghini - I Numeri Sacri nella tradizione pitagorica massonica - Premesse  nostri templi, delle nostre biblioteche ed il vandalismo che fece a pezzi i ritratti ed i busti dei grandi spiritualisti come Mazzini e Garibaldi che decoravano le nostre sedi. D'altra parte bisogna riconoscere che, se la massoneria anglosassone ha sempre mantenuto il carattere spiritualista e non ha mai pensato a dichiarare la inesistenza del Grande Architetto dell'Universo, essa è stata spesso incline, e lo è ancora, a conferire un colorito cristiano al suo spiritualismo, allontanandosi dallo spirito di assoluta imparzialità ed aconfessionalità delle Costituzioni dell'Anderson. Non si può negare che l'imporre il giuramento sul Vangelo di San Giovanni sia una manifestazione non troppo tollerante rispetto a quei profani ed a quei fratelli che, essendo agnostici, o pagani, od ebrei o liberi pensatori, non sentono particolare simpatia per il Vangelo di San Giovanni e non sanno nulla della tradizione gioannita. L'intolleranza si accentua con l'andazzo di infliggere la lettura ed il commento di versetti del Vangelo durante i lavori di Loggia. Questo mal vezzo, qualora si affermasse, ridurrebbe i lavori di Loggia al livello di un service di una chiesa quacchera o puritana, ad una specie di rosario e vespro fastidioso, inconcludente, e ripugnante alla libera coscienza dei moltissimi fratelli i quali, anche in Inghilterra, ed in America, non solo non vanno alla messa, e non accettano l'infallibilità del Papa, ma non accettano più neppure l'autorità della Bibbia. Vale la pena di provocare il disagio e l'insofferenza tra le colonne senza sensibile compenso? Si crede proprio con simili mezzi di convertire gli altri alla propria credenza, e di arginare la potente ondata dell'agnosticismo inglese ed americano? Queste considerazioni inducono a mantenere alla Massoneria il suo carattere universale al di sopra di ogni credenza religiosa e filosofica e di ogni fede politica. Il che non vuol dire che si debba fare astrazione dalla politica. Occorre infatti difendersi. L'intolleranza non può lasciare prosperare la tolleranza; e la tolleranza tutto può tollerare salvo l'intolleranza dichiaratamente ostile. Appena comparvero le Costituzioni dell'Anderson col loro principio della libertà e della tolleranza la Chiesa cattolica scomunicò la Massoneria rea appunto di tolleranza; e l'accanimento contro la Massoneria non si è mai più smentito. In Italia la persecuzione contro la Massoneria in questo ultimo ventennio è stata iniziata e sostenuta dai gesuiti e dai nazionalisti (13); ed i fascisti per ingraziarsi questi messeri non esitarono a provocare l'avversione del mondo civile contro l'Italia con le loro gesta vandaliche contro la massoneria. I gesuiti hanno perduto questa guerra; ma la peste dell'intolleranza non è finita, anzi si affaccia sotto nuove forme e ne segue la necessità di prevenirla. D'altra parte giunge l'ora, se non erriamo, di spargere la Massoneria sopra tutta la superficie della terra e di stabilire una fratellanza tra gli uomini di tutte le razze, civiltà e religioni; e per assolvere questo compito è necessario che la Massoneria non abbia una fisionomia ed un colorito che appartiene solo alla minoranza dell'umanità a cui le grandi civiltà orientali, tutta la Cina, tutta l'India, il Giappone, la Malesia, il mondo dell'Islam si sono dimostrati refrattarii. La cosa è possibile sin tanto che la Massoneria non si circoscrive in una qualunque credenza e resta fedele al suo patrimonio spirituale che non consiste in una fede codificata, in un credo religioso o filosofico, in un complesso di postulati o pregiudizii ideologici e moralistici, in un bagaglio dottrinale in cui si creda contenuta ed espressa la verità cui convertire i miscredenti. Bisogna pensare che, anche se esiste la vera religione o la vera filosofia, è una illusione il credere di poterla conquistare o comunicare con una conversione o con una confessione od una recitazione di formule determinate, perché ognuno intende le parole di questi credi e formule a modo suo, conforme alla sua cultura ed intelligenza: ed in fondo esse non sono, come diceva Amleto, che words, words, words. Fin tanto che non ci si ragiona sopra, permane l'illusione di comprendere queste parole nello stesso modo; appena si comincia a ragionare, sor(13) Cfr. gli art. di EMILIO BODRERO nell'organo della Compagnia di Gesù, la Civiltà cattolica, ed il giornale Roma Fascista; cfr. et.: Ignis e Rassegna Mass., annata 1925.  8  A. Reghini - I Numeri Sacri nella tradizione pitagorica massonica - Premesse  gono le sette e le eresie, ciascuna persuasa di possedere la verità. La sapienza non può essere razionalmente intesa, espressa e comunicata; essa è una visione, una vidya, essenzialmente e necessariamente indeterminata, incerta; e, aprendo gli occhi alla luce con la nascita alla nuova vita, ci si avvia a questa visione. L'arte muratoria od arte regia è l'arte di lavorare la pietra grezza in modo da rendere possibile la trasmutazione umana e la graduale percezione della luce iniziatica. Il che non significa naturalmente che la Massoneria abbia il monopolio dell'arte regia. Durante questi ultimi due secoli la grande maggioranza dei nemici della massoneria ha fatto sistematicamente ed unicamente ricorso soltanto all'ingiuria ed alla calunnia facendo leva sui sentimenti moralistici e patriottici. Si è affermato che i lavori massonici consistono in orgie abbominevoli, svisando a questo scopo i rituali, si sono svelate le cerimonie massoniche ponendole in ridicolo, si è accusato i massoni di tradire la loro patria a causa del carattere internazionale dell'Ordine, si è affermato che la Massoneria non è altro che uno strumento degli Ebrei, sempre mirando ad ingannare ed aizzare i fedeli credenti ed il grosso pubblico contro la «Società Segreta». I massoni naturalmente sapevano bene che non si trattava che di calunnie; e, non potendoli persuadere, si è pensato a sopprimerli od a togliere ad essi la possibilità di adunarsi, di lavorare, di rispondere e di difendersi. Recentemente uno scrittore cattolico (14) ha pubblicato uno studio storico sopra «la Tradizione Segreta» condotto con competenza ed abilità, ed in cui le contumelie e le solite calunnie dirette a fare presa sull'animo dei profani sono state sostituite da una critica insidiosa diretta a fare presa sul lettore colto ed anche sull'animo dei fratelli. Questa critica afferma che nel fondo della tradizione segreta è contenuto il vuoto assoluto (pag. 139) e conclude con l'affermare che «la Scuola Iniziatica o per essa la Tradizione Segreta, non ha insegnato assolutamente nulla all'umanità» (pag. 155). Veramente non si capisce bene come si possa allora anche affermare che questo vuoto assoluto, «questa tradizione segreta coincide (pag. 141), se pure spesso in forma corrotta, con le dottrine gnostiche», ma non pretendiamo troppo. La Massoneria è dunque, secondo l'autore, una sfinge senza segreto perché non insegna alcuna dottrina, ed il lettore è così portato a concludere che essendo priva di contenuto la Massoneria non val niente. In quanto precede noi abbiamo mostrato che la Massoneria non insegua alcuna dottrina e non deve insegnarne; e che questo è un merito e non un demerito della Massoneria. Per concludere poi che, non contenendo una dottrina, la Tradizione segreta contiene il vuoto assoluto bisogna credere che soltanto una dottrina possa occupare il vuoto. Afferma ancora (pag. 153) il Del Castillo che «il sistema iniziatico suppone che l'uomo possa arrivare a capire con lo sforzo del cervello i problemi insoluti del cosmo e dell'al di là»; e che la «Chiesa cattolica (pag. 156) oppone alle vane elucubrazioni dei così detti iniziati la forza intangibile del suo dogma che deve essere unico perché non possono esistere due verità»; e che il sistema iniziatico (pag. 152) è incompatibile can il cristianesimo. A queste e simili affermazioni rispondiamo che ignoriamo la esistenza di un sistema iniziatico, che non conosciamo iniziati che facciano delle supposizioni, e tanto meno che si illudano di potere capire col solo cervello e con elucubrazioni di problemi insoluti: ma non ci è possibile ammettere che la fede in un dogma costituisca una conoscenza perché sapere non è credere. Anzi noi comprendiamo che la verità è necessariamente ineffabile ed indefinibile, e lasciamo ai profani l'ingenua e consolante illusione che sia possibile una qualsiasi formulazione della verità e della conoscenza in credi, formule, dottrine, sistemi e teorie. Anche Gesù, del resto, sapeva che le sue parabole non erano che delle parabole, ma diceva anche ai suoi discepoli che ad essi «era dato intendere il mistero del regno dei cieli». Evidentemente sola fides sufficit ad firmandum cor sincerum, ma non sufficit per intendere i misteri. Lo stesso dicasi naturalmente per il solo raziocinio. E con questo (14) Cfr. RAFFAELE DEL CASTILLO, La tradizione segreta, Milano, Bompiani, 1941.  9  A. Reghini - I Numeri Sacri nella tradizione pitagorica massonica - Premesse  non intendiamo menomare il valore della fede e del raziocinio; la sola fede conduce al fanatismo ignorante, il solo raziocinio conduce alla disperazione filosofica; sono un po' come il tabacco ed il caffè: due veleni che si compensano; ma naturalmente non basta fumare la pipa e centellinare il caffè per assurgere alla conoscenza. Alla conoscenza multi vocati sunt, non tutti; e, tra questi molti, pauci electi sunt; secondo la Chiesa cattolica invece basta la fede nel Dogma, e conoscenza e paradiso sono alla portata di tutte le borse a prezzi di vera concorrenza. Riassumendo: Non esiste una dottrina segreta massonica (15); ma esiste un'arte segreta, detta arte reale, od arte regia o semplicemente l'Arte; è l'arte della edificazione spirituale cui corrisponde l'architettura sacra. Gli strumenti muratorii hanno perciò un senso figurato nell'opera della trasmutazione; ed al segreto dell'arte regia corrisponde il segreto architettonico dei costruttori delle grandi cattedrali medioevali. E' naturale che i liberi muratori venerino il Grande Architetto dell'Universo, anche se non si definisce cosa si debba intendere con questa formola. Nell'architettura antica, specialmente in quella sacra, avevano grande importanza le questioni di rapporto e di proporzione; l'architettura classica regolava la proporzione delle varie parti di un edificio, ed in particolare dei templi, basandosi sopra un modulo segreto cui accenna Vitruvio; sopra l'architettura egiziana e specialmente sopra la Piramide di Cheope esiste tutta una letteratura che ne mostra il carattere matematico; ed, anche procedendo con molto scetticismo, è certo ad esempio che tale piramide si trova esattamente alla latitudine di 30° in modo da formare col centro della terra e col polo Nord un triangolo equilatero, è certo che essa è perfettamente orientata e che la faccia rivolta a settentrione è esattamente perpendicolare all'asse di rotazione terrestre, anzi alla posizione di questo asse al tempo della sua costruzione. Ed anche i costruttori medioevali non erano guidati da criterii puramente estetici, e si preoccupavano dell'orientazione della chiesa, del numero delle navate ecc.; e l'arte dei costruttori era posta in connessione con la scienza della geometria. La squadra ed il compasso sono i due simboli fondamentali di mestiere dell'arte muratoria; e la riga ed il compasso sono i due strumenti fondamentali per la geometria elementare. La Bibbia afferma che Iddio ha fatto omnia in numero, pondere et mensura; i pitagorici hanno coniato la parola cosmo per indicare la bellezza del cosmo in cui riconoscevano una unità, un ordine, un'armonia, una proporzione; e tra le quattro scienze liberali del quadrivio pitagorico, cioè l'aritmetica, la geometria, la musica e la sferica, la prima stava alla base di tutte le altre. Dante compara il cielo del Sole all'aritmetica perché «come del lume del Sole tutte le stelle si alluminano, cosi del lume dell'aritmetica tutte le scienze si alluminano, e perché come l'occhio non può mirare il sole così l'occhio dell'intelletto non può mirare il numero che è infinito» (16). Lasciando da parte ogni critica di questo passo resta stabilita la posizione occupata secondo Dante dalla Aritmetica. Tanto la Bibbia quanto l'architettura portavano alla considerazione dei numeri. Oggi, anche rifiutando di riconoscere nel cosmo un'unità, un ordine, un'armonia, una legge ed accettando solo un determinismo limitato dalla legge di probabilità la fisica moderna si riduce sempre alla considerazione di numeri e rapporti numerici; anzi non restano altro che quelli, e tanto Einstein quanto Bertrand Russel hanno constatato e riconosciuto il ritorno della scienza moderna al pitagoreismo. (15) La stessa cosa era già stata detta dal WIRTH nel 1941: «Comme la méthode initiatique se refuse à inculquer qui que ce soit, il n'est guère admissible qu'une doctrine positive ait été enseignée au sein des Mystères» (Le livre du Maître, 119). Il DEL CASTILLO invece sostiene senza alcuna prova che la Massoneria ha preteso insegnare una tale dottrina segreta, constata che di questa dottrina positiva non si trova traccia, ed invece di riconoscere che la sua personale asserzione non ha fondamento, accusa la Massoneria di millantato credito e di incapacità. O Vos qui cum Jesu itis, non ite cum Jesuitis. (16) DANTE, Conv. II, 14.  10  A. Reghini - I Numeri Sacri nella tradizione pitagorica massonica - Premesse  Non stupisce quindi che i liberi muratori identificassero l'arte architettonica con la scienza della geometria e dessero alla conoscenza dei numeri tale importanza da giustificare la loro pretesa tradizionale di essere i soli ad avere conoscenza dei «numeri sacri». Dobbiamo per altro fare ancora alcune osservazioni. La geometria nella sua parte metrica, ossia nelle misure, richiede la conoscenza dell'aritmetica; inoltre l'accezione della parola geometria era anticamente più generica che ora non sia, e geometria indicava genericamente tutta la matematica; di modo che la identificazione dell'arte reale con la geometria, tradizionale in Massoneria, si riferisce non alla sola geometria intesa nel senso moderno, ma anche alla aritmetica. In secondo luogo dobbiamo osservare che questa relazione fra la geometria e l'arte regia dell'architettura e della edificazione spirituale è la stessa che inspira la massima platonica: «Nessun ignaro della geometria entri sotto il mio tetto». Questa massima è di attribuzione un po’ dubbia perché è riportata solo da un tardo commentatore: ma in opere che indiscutibilmente appartengono a Platone leggiamo essere «la geometria un metodo per dirigere l'anima verso l'essere eterno; una scuola preparatoria per una mente scientifica, capace di rivolgere le attività dell'anima verso le cose sovrumane», essere «perfino impossibile arrivare ad una vera fede in Dio se non si conosce la matematica e l'astronomia e l'intimo legame di quest'ultima con la musica» (17). Questa concezione ed attitudine di Platone è la medesima che si ritrova nella scuola Italica o pitagorica che esercitò sopra Platone grandissima influenza, di modo che anche volendo sostenere che la Massoneria si sia inspirata a Platone, si è sempre in ultima analisi ricondotti alla geometria ed all'aritmetica dei pitagorici. Il legame tra la Massoneria e l'Ordine pitagorico, anche se non si tratta di ininterrotta derivazione storica, ma soltanto di filiazione spirituale, è certo e manifesto. L'Arciprete Domenico Angherà nella prefazione del 1874 alla ristampa degli Statuti Generali della Società dei Liberi Muratori del Rito Scozzese Antico ed Accettato, già pubblicati in Napoli nel 1820, afferma categoricamente che l'Ordine massonico è la stessa, stessissima cosa dell'Ordine pitagorico; ma anche senza spingersi tanto oltre l'affinità tra i due ordini è sicura. In particolare l'arte geometrica della Massoneria deriva, direttamente od indirettamente, dalla geometria ed aritmetica pitagoriche; e non più in là, perché i pitagorici furono i creatori di queste scienze liberali, a quanto risulta storicamente e secondo la attestazione di Proclo. Ad eccezione di alcune poche proprietà geometriche attribuite, probabilmente a torto, a Talete, la geometria, dice il Tannery, scaturisce completa dal genio di Pitagora come Minerva balza armata di tutto punto dal cervello di Giove; ed i pitagorici sono stati i primi ad iniziare lo studio dell'aritmetica e dei numeri. Per studiare le proprietà dei numeri sacri ai Liberi Muratori e la loro funzione in Massoneria, la via che si presenta spontaneamente è dunque quella di studiare l'antica aritmetica pitagorica; e di studiarla sia dal punto di vista aritmetico ordinario, sia dal punto di vista dell'aritmetica simbolica od aritmetica formale, come la chiama Pico della Mirandola, corrispondente al compito filosofico e spirituale assegnato da Platone alla geometria. I due sensi si trovano strettamente connessi nello sviluppo dell'aritmetica pitagorica. La comprensione dei numeri pitagorici faciliterà la comprensione dei numeri sacri alla massoneria.  (17) GINO LORIA, Le scienze esatte nell'antica Grecia, 2a ed., Milano, Hoepli 1914, pag. 110.  11  A. Reghini - I Numeri Sacri nella tradizione pitagorica massonica - Cap. I - La Tetractis pitagorica ed il Delta massonico  CAPITOLO I  La Tetractis pitagorica ed il Delta massonico No, io lo giuro per colui che ha trasmesso alla nostra anima la tetractys nella quale si trovano la sorgente e la radice dell'eterna natura. Detti aurei.  Riesumare e restituire l'antica aritmetica pitagorica è opera quanto mai ardua, perché le notizie che ne sono rimaste sono scarse e non tutte attendibili. Bisognerebbe ad ogni passo ed affermazione citare le fonti e discuterne il valore; ma questo renderebbe la esposizione lunga e pesante e meno facile la intelligenza della restituzione. Perciò, in generale, ci asterremo da ogni apparato filologico, ci atterremo soltanto a quanto resulta meno controverso e dichiareremo sempre quanto è soltanto nostra opinione o resultato del nostro lavoro. La bibliografia pitagorica antica e moderna è assai estesa, e rinunciamo alla enumerazione delle centinaia di libri, studii, articoli, e passi di autori antichi e moderni che la costituiscono. Secondo alcuni critici, storici e filosofi, Pitagora sarebbe stato un semplice moralista e non si sarebbe mai occupato di matematica; secondo certi ipercritici Pitagora non sarebbe mai esistito; ma noi abbiamo per certa la esistenza di Pitagora, e, accettando la testimonianza del filosofo Empedocle quasi contemporaneo, riteniamo che le sue conoscenze in ogni campo dello scibile erano grandissime. Pitagora visse nel sesto secolo prima di Cristo, fondò in Calabria una scuola ed un Ordine che Aristotile chiamava scuola italica, ed insegnò tra le altre cose l'aritmetica e la geometria. Secondo Proclo, capo della scuola di Atene nel V secolo della nostra era, fu Pitagora che per il primo elevò la geometria alla dignità di scienza liberale, e secondo il Tannery la geometria esce dal cervello di Pitagora come Athena esce armata di tutto punto dal cervello di Giove. Però nessuno scritto di Pitagora od a lui attribuito è pervenuto sino a noi, ed è possibile che non abbia scritto nulla. Se anche fosse diversamente, oltre alla remota antichità che ne avrebbe ostacolato la trasmissione, va tenuta presente la circostanza del segreto che i pitagorici mantenevano, sopra i loro insegnamenti, o parte almeno di essi. Un fìlologo belga, Armand Delatte, nella sua prima opera: Études sur la littérature pythagoricienne, Paris, 1915, ha fatto una dottissima critica delle fonti della letteratura pitagorica; ed ha messo in chiaro tra le altre cose che i famosi «Detti Aurei» o Versi aurei, sebbene siano una compilazione ad opera di un neo-pitagorico del II o IV secolo della nostra era, permettono di risalire quasi all'inizio della scuola pitagorica perché trasmettono materiale arcaico. Quest'opera del Delatte sarà la nostra fonte principale. Altre antiche testimonianze si hanno negli scritti di Filolao, di Platone, di Aristotile e di Timeo di Tauromenia. Filolao fu, insieme al tarentino Archita, uno dei più eminenti pitagorici nei tempi vicini a Pitagora, Timeo fu uno storico del pitagoreismo, ed il grande filosofo Platone risenti fortemente l'influenza del pitagoreismo e 12  A. Reghini - I Numeri Sacri nella tradizione pitagorica massonica - Cap. I - La Tetractis pitagorica ed il Delta massonico  possiamo considerarlo come un pitagorico, anche se non appartenente alla setta. Assai meno antichi sono i biografi di Pitagora cioè Giamblico, Porfirio e Diogene Laerzio, che furono dei neopitagorici nei primi secoli della nostra era, e gli scrittori matematici Teone da Smirne e Nicomaco di Gerasa. Gli scritti matematici di questi due ultimi autori costituiscono la fonte che ci ha trasmesso l'aritmetica pitagorica. Anche Boezio ha assolto questo compito. Molte notizie si debbono a Plutarco. Tra i moderni, oltre al Delatte ed all'opera un po' vecchia dello Chaignet su Pythagore et la philosophie pythagoricienne, Paris, 2a ed. 1874, ed al Verbo di Pitagora di Augusto Rostagni, Torino, 1924, faremo uso dell'opera The Theoretic Arithmetic of the Pythagoreans, London 1816; 2a ed., Los Angeles, 1934, del dotto grecista inglese Thomas Taylor che fu un neo-platonico ed un neopitagorico; e tra gli storici della matematica faremo uso delle Scienze esatte nell'antica Grecia, Milano, Hoepli, 1914, 2a ed., di Gino Loria, e dell'opera A History of Greeck Mathematics di T. Heath, 1921. Per la matematica moderna l'unità è il primo numero della serie naturale dei numeri interi. Essi si ottengono partendo dall'unità ed aggiungendo successivamente un'altra unità. La stessa cosa non accade per l'aritmetica pitagorica. Infatti una stessa parola, monade, indicava l'unità dell'aritmetica e la monade intesa nel senso che oggi diremmo metafisico; ed il passaggio dalla monade universale alla dualità non è così semplice come il passaggio dall'uno al due mediante l'addizione di due unità. In aritmetica, anche pitagorica, vi sono tre operazioni dirette: l'addizione, la moltiplicazione e l'innalzamento a potenza, accompagnate dalle tre operazioni inverse. Ora il prodotto dell'unità per sé stessa è ancora l'unità, ed una potenza dell'unità è ancora l'unità; quindi soltanto l'addizione permette il passaggio dall'unità alla dualità. Questo significa che per ottenere il due bisogna ammettere che vi possano essere due unità, ossia avere già il concetto del due, ossia che la monade possa perdere il suo carattere di unicità, che essa possa distinguersi e che vi possa essere una duplice unità od una molteplicità di unità. Filosoficamente si ha la questione del monismo e del dualismo, metafisicamente la questione dell'Essere e della sua rappresentazione, biologicamente la questione della cellula e della sua riproduzione. Ora se si ammette la intrinseca ed essenziale unicità dell'Unità, bisogna ammettere che un'altra unità non può essere che una apparenza; e che il suo apparire è una alterazione dell'unicità proveniente da una distinzione che la Monade opera in sé stessa. La coscienza opera in simil modo una distinzione tra l'io ed il non io. Secondo il Vedanta advaita questa è una illusione, anzi è la grande illusione, e non c'è da fare altro che liberarsene. Non è però una illusione che vi sia questa illusione, anche se essa può essere superata. I pitagorici dicevano che la diade era generata dall'unità che si allontanava o separava da sé stessa, che si scindeva in due: ed indicavano questa differenziazione o polarizzazione con varie parole: dieresi, tolma. Per la matematica pitagorica l'unità non era un numero, ma era il principio, l' di tutti i numeri, diciamo principio e non inizio. Una volta ammessa resistenza di un'altra unità e di più unità, dall'unità derivano poi per addizione il due e tutti i numeri. I pitagorici concepivano i numeri come formati o costituiti o raffigurati da punti variamente disposti. Il punto era definito dai pitagorici l'unità avente posizione, mentre per Euclide il punto è ciò che non ha parti. L'unità era rappresentata dal punto ( = segno) od anche, quando venne in uso il sistema alfabetico di numerazione scritta, dalla lettera A od α, che serviva per scrivere l'unità. Una volta ammessa la possibilità dell'addizione dell'unità ed ottenuto il due, raffigurato dai due punti estremi di un segmento di retta, si può seguitare ad aggiungere delle unità, ed ottenere successivamente tutti i numeri rappresentati da due, tre, quattro... punti allineati. Si ha in tal modo lo sviluppo lineare dei numeri. Tranne il due che si può ottenere soltanto come addizione di due unità, 13  A. Reghini - I Numeri Sacri nella tradizione pitagorica massonica - Cap. I - La Tetractis pitagorica ed il Delta massonico  tutti i numeri interi possono essere considerati sia come somma di altri numeri; per esempio il cinque è 5 = 1 + 1 + 1 + 1 + 1; ma è anche 5 = 1 + 4 e 5 = 2 + 3. L'uno ed il due non godono di questa proprietà generale dei numeri: e perciò come l'unità anche il due non era un numero per gli antichi pitagorici ma il principio dei numeri pari. Questa concezione si perdette col tempo perché Platone parla del due come pari (1), ed Aristotile (2) parla del due come del solo numero primo pari. Il tre a sua volta può essere considerato solo come somma dell'uno e del due: mentre tutti gli altri numeri, oltre ad essere somma di più unità, sono anche somma di parti ambedue diverse dall'unità; alcuni di essi possono essere considerati come somma di due parti eguali tra loro nello stesso modo che il due è somma di due unità e si chiamano i numeri pari per questa loro simiglianza col paio, così per esempio il 4 = 2 + 2, il 6 = 3 + 3 ecc. sono dei numeri pari; mentre gli altri, come il tre ed il cinque che non sono la somma di due parti o due addendi eguali, si chiamano numeri dispari. Dunque la triade 1, 2, 3 gode di proprietà di cui non godono i numeri maggiori del 3. Nella serie naturale dei numeri, i numeri pari e dispari si succedono alternativamente; i numeri pari hanno a comune col due il carattere cui abbiamo accennato e si possono quindi sempre rappresentare sotto forma di un rettangolo (epipedo) in cui un lato contiene due punti, mentre i numeri dispari non presentano come l'unità questo carattere, e, quando si possono rappresentare sotto forma rettangolare, accade che la base e l'altezza contengono rispettivamente un numero di punti che è a sua volta un numero dispari. Nicomaco riporta anche una definizione più antica: esclusa la diade fondamentale, pari è un numero che si può dividere in due parti eguali o disuguali, parti che sono entrambe pari o dispari, ossia, come noi diremmo, che hanno la stessa parità; mentre il numero dispari si può dividere solo in due parti diseguali, di cui una pari e l'altra dispari, ossia in parti che hanno diversa parità. Secondo l'Heath (3) questa distinzione tra pari e dispari rimonta senza dubbio a Pitagora, cosa che non stentiamo a credere; ed il Reidemeister (4) dice che la teoria del pari e del dispari è pitagorica, che in questa nozione si adombra la scienza logica matematica dei pitagorici e che essa è il fondamento della metafisica pitagorica. Numero impari, dice Virgilio, Deus gaudet. La tradizione massonica si conforma a questo riconoscimento del carattere sacro o divino dei numeri dispari, come risulta dai numeri che esprimono le età iniziatiche, dal numero delle luci, dei gioielli, dei fratelli componenti una officina ecc. Dovunque si presenta una distinzione, una polarità, si ha una analogia con la coppia del pari e del dispari, e si può stabilire una corrispondenza tra i due poli ed il pari ed il dispari; cosi per i Pitagorici il maschile era dispari ed il femminile pari, il destro era dispari ed il sinistro era pari.... I numeri, a cominciare dal tre, ammettono oltre alla raffigurazione lineare anche una raffigurazione superficiale, per esempio nel piano. Il tre è il primo numero che ammette oltre alla raffigurazione lineare una raffigurazione piana, mediante i tre vertici di un triangolo (equilatero). Il tre è un triangolo, o numero triangolare; esso è il risultato del mutuo accoppiamento della monade e della diade; il due è l'analisi dell'unità, il tre è la sintesi dell'unità e della diade. Si ha così con la trinità la manifestazione od epifania della monade nel mondo superficiale. Aritmeticamente 1 + 2 = 3. Proclo (5) osservò che il due ha un carattere in certo modo intermedio tra l'unità ed il tre. Non soltanto perché ne è la media aritmetica, ma anche perché è il solo numero per il quale accade che (1) PLATO, Parmenide, 143 d. (2) ARISTOTILE, Topiche, 2, 137. (3) HEATH, A History of Greek Mathematics, I, 70. (4) E. REIDEMEISTER, Die arithmetic der Griechen, 1939, pag. 21. (5) PROCLO, Comm. alla 20a proposizione di Euclide, e cfr. TAYLOR, The Theoretic Arithmetic of Pythagoreans, 2a ed., Los Angeles 1924, pag. 176.  14  A. Reghini - I Numeri Sacri nella tradizione pitagorica massonica - Cap. I - La Tetractis pitagorica ed il Delta massonico  sommandolo con sé stesso o moltiplicandolo per sé stesso, si ottiene il medesimo resultato, mentre per l'unità il prodotto dà di meno della somma e per il tre il prodotto dà di più, ossia, si ha: 1+1=2>1.1  ;  2+2=4=2.2  ;  3+3=6 Grice: “Some of my Oxonian friends are masonic, and some are Pythagorean!” Lorenzo Fazzini. Laurentis Maria Antonius. Fazzini. Keywords: la matematica di Pitagora, Platone, aritmetica, geometria, definizione di assioma, problema, lemma, numero, demonstrazione, ragione, postulato, numero sacro, reghini – crotona, Taranto, aristosseno, meloponto filolao crotone crotona -- ecc. Grice. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Fazzini” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51689413478/in/photolist-2mLKeCe-2mKBKN7-BK4WFZ-BK3k3B

 

Feliceto search.

 

Grice e Ferdinando – la masculinita, il maschio e la tarantella -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Mesagne). Filosofo. Grice: “I like Ferdinando; for one he describes himself as a ‘philosophus,’ which is good – second, he deals with ‘philosophia’ in terms of this or that ‘theorema,’ which is good, and third he follows Aristotle!” Definito dai suoi concittadini “Socrate Salentino”, studia grammatica, poetica, greco e latino sotto Riccio, intimo amico di Paolo e Aldo Manuzio. Si trasferì successivamente a Napoli dove studia filosofia. Si laurea in filosofia. Ebbe dieci figli. Tra le saggi principali del Ferdinando grande rilievo assumono i “Teoremi Filosofici”, dedicati alla sua amata città natale; Morso della tarantola, che testimonia l'importanza del tarantismo e della tradizione salentina nel suo pensiero; Centum Historie o Casi Medici, raccolta di cento casi clinici più peculiari analizzati dal medico nella sua vita professionale; infine Antiqua Messapographia, attenta e appassionata analisi della storia di Mesagne.  Dal punto di vista culturale, l'opera di riferimento per eccellenza del Ferdinando è fuor di dubbio Centum Historiae, dedicata a Giulia Farnese, Marchesa di Mesagne, di cui l'autore fu medico di fiducia, intimo amico e compagno di viaggio, come quello che li condusse a Roma dove Epifanio conobbe Cinzio Clemente, medico di Paolo V e fu contattato, per la sua fama, da noti scienziati e medici romani dell'epoca tra cui Marco Aurelio Severino, con cui ebbe una disputa riguardo al metodo migliore di operare l'incisione della salvatella, la vena presente sul dorso della mano che parte dalla base del mignolo e si connette con la vena ulnare.  Profondo conoscitore dei classici e seguace non solo delle teorie di Ippocrate di Kos e Galeno, ma anche di quelle formulate da Mercuriale, Eustachio, Falloppia e Fracastoro, attento alle tradizioni della sua terra, propose un nuovo metodo di insegnamento con lezioni al letto del malato, in una perfetta sinergia tra lo studio teorico e la sua applicazione clinica. Per la sua grande cultura e competenza fu richiesto non solo in tutta la provincia, ma anche a Bari, Napoli e Lecce. Noto fra i concittadini per la sua bontà d'animo, curava anche senza compenso somministrando farmaci costosi pure ai poveri. Nelle sue diagnosi si concentrava sull'importanza delle analisi del sangue valutandone consistenza, opacità, densità e colore e riteneva centrale per la terapia attenersi ad una adeguata dieta. Per curare i suoi pazienti si serviva non solo di salassi, purghe e clisteri, secondo la prassi ordinaria, ma preparava anche dei farmaci di origine vegetale ottenuti miscelando quantità variabili di erbe mediche a seconda della terapia. Nella sua vita si occupò anche di due casi di interesse neurologico e pediatrico, descritti nei particolari nelle Centum Historiae, e nutre anche uno spiccato interesse nei confronti del tarantismo e della musica come terapia “certissima”. Grazie alle sue opere, in cui l'impostazione medico-scientifica si compenetra con quella storica, grazie ad uno stile tendente al genere narrativo, ed ai contatti che mantenne con i medici napoletani, fu uno dei più importanti intermediari fra la cultura medica napoletana e quella di Terra d'Otranto. Studiosi, soprattuto Ferdinando, si sono interrogati sulla natura del tarantismo, o tarantolismo, dopo essere venuti a conoscenza delle cure previste dalla tradizione popolare per questo morbo, tra cui la più importante di tutte è senza dubbio la “musico-terapia”somministrata al malato da vere e proprie orchestre composte da violinisti, chitarristi e soprattutto tamburellisti a pagamento. Proprio il tamburello assume una funzione fondamentale in questo tipo di terapia poiché scandisce il tempo modificando via via il ritmo del brano che, divenuto frenetico, viene assecondato dai movimenti della danza del tarantato. La credenza vuole che il malato dopo essere stato morso dovesse espellere il veleno scatenandosi a ritmo di musica, ma non di una qualunque. Il tema musicale doveva essere scelto in base al colore della tarantola responsabile del morso. Il primo documento che testimonia il legame tra musica e taranta è il Sertum Papale de Venenis redatto, presumibilmente da Guglielmo di Marra da Padova, nel primo anno del pontificato di Urbano V. Il secondo a documentare per esperienza diretta questa connessione fu Ferdinando. Nelle sue Centum Historiae analizza, tra gli altri, il caso di un suo giovane concittadino, tale Pietro Simeone, pizzicato mentre dormiva di notte in un campo. Il medico credette fermamente nella musica come terapia “certissima” criticando chi sosteneva che il tarantismo non fosse necessariamente scatenato da un morso tanto reale quanto velenoso. Inoltre, fu il primo a proporre come metodo di cura per i tarantati morsi da tarantole le malinconiche (nenie funebri).  Kircher riferisce nel suo Magnes un episodio accaduto ad Andria, nel barese, talmente singolare da destare ragionevoli sospetti su quanto starebbe alla base di questa terapia. Come il veleno stimolato dalla musica spinge l'uomo alla danza mediante continua eccitazione dei muscoli, lo stesso fa con la tarantola; il che non avrei mai creduto se non l'avessi appreso per testimonianza dei Padri ricordati, che son degnissimi di fede. Essi infatti mi scrivono che in proposito fu tenuto un esperimento nel palazzo ducale di Andria, in presenza di uno dei nostri Padri, e d tutti i cortigiani. La duchessa infatti, per mostrare nel modo più adatto questo ammirabile prodigio della natura, ordina che si trovasse a bella posta una taranta, la si collocasse, librata su una piccola festuca, in un vasetto colmo d'acqua, e che fossero quindi chiamati i suonatori. In un primo momento la taranta non dette alcun segno di muoversi al suono della chitarra. Ma poi, allorché il suonatore dette inizio ad una musica proporzionata al suo umore, la bestiola non soltanto faceva le viste di eseguire una danza saltellando sulle zampe e agitando il corpo, ma addirittura danzava sul serio, rispettando il tempo. E se il suonatore cessa di suonare anche la bestiola sospendeva il ballo. I Padri vennero a sapere che ciò che in Andria ammirarono in quella circostanza come episodio straordinario, era a Taranto fato consueto. Infatti i suonatori di Taranto, i quali erano soliti curare con la musica questo morbo anche in qualità di pubblici funzionari retribuiti con regolari stipendi (e ciò per venire incontro ai più poveri, e sollevarli dalle spese), per accelerare la cura dei pazienti in modo più certo e più facile, sogliono chiedere ai colpiti il luogo dove la taranta li ha morsicati, e il suo colore. Dopo ciò i medici citaredi sogliono portarsi subito sul luogo indicato, dove in gran numero le diverse specie di tarante si adoperano a tessere le loro tele: e quivi tentano vari generi di armonie, a cui, cosa mirabile a dirsi, or queste or quelle saltano. E quando abbiano scorto saltare una taranta di quel colore indicata dal paziente, tengono per segno certissimo di aver trovato con ciò il modulo esattamente proporzionato all'umore velenoso del tarantato e adattissimo alla cura, eseguendo la quale essi dicono che ne deriva un sicuro effetto terapeutico. Altre opere: Theoremata philosophica (Venezia); “De vita proroganda seu iuventute conservanda et senectute retardanda” (Neapoli); “Centum Historiae seu Observationes et Casus medici” (Venezia); Aureus De Peste Libellus (Napoli); “Libellus de apibus”; “Tractatus de natura leporis”; “De coelo Messapiensi”; “De bonitate aquae cisternae”; “Libellus de morsu tarantolae.” Ernesto De Martino La terra del rimorso,Milano,Est, Magnes sive de arte magnetica opus tripartitum, Le notizie biografiche sono tratte da:  Mario Marti e Domenico Urgesi, Epifanio Ferdinando, medico e storico del Seicento. Atti del convegno di studi, Besa Editrice, Nardò, Altre fonti:  Atanasio Kircher, Magnes sive de arte magnetica opus tripartitum, Ernesto De Martino, La terra del rimorso, Est, Milano, M. Luisa Portulano Scoditti, A. Elio Distante, Roberto Alfonsetti, Enzo Poci. Edizione Assessorato alla Cultura Città di Mesagne, Mesagne, Nicola Caputo, De tarantulae anatome et morsu, Lecce, M. Luisa Portulano Scoditti e Amedeo Elio Distante, La peste, traduzione italiana del De peste aureus libellus, M. Luisa Portulano Scoditti e Amedeo Elio Distante, Epifanio Ferdinando Le centum historiae e la medicina del suo tempo, Città di MesagnM. Luisa Portulano Scoditti e Amedeo Elio Distante, Epifanio FerdinandoDe Vita Proroganda, Città di Mesagne, traduzione italiana del De Vita Proroganda seu juventute conservanda..., Napoli, M. Luisa Portulano Scoditti e Amedeo Elio Distante,, Atti del XLI Congresso Nazionale della Società Italiana Storia della Medicina, Mesagne. Grice: “Ferdinando says that tarantella proves that the aspects of reason are not sufficient, since the dance is irrational – Churchill liked it though and he thought his bronze of the male dancer in his garde reminded him of his adventures in Southern Italy when he would dance nude in the hills!” --  Epifanio Ferdinando. Ferdinando. Keywords: mito, taranta, tarantella, Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Ferdinando” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51690423022/in/photolist-2mS22wB-2mRKf98-2mRFDHV-2mRjrN1-2mPMaQM-2mPsU62-2mPpmMv-2mNzeEc-2mN35cA-2mN8Hgb-2mMYDGZ-2mMLXtT-2mLQc9e-2mLGjg5-2mKR9ZM-2mKCdPg-2mKQqs3-2mKLP2r-2mKLYsa-2mKGVU3-2mKMqqn-2mKCQBD-2mKBsEN-2mPBcdN-2mKw3hq-2mKBwcu-2mKxnN1-2mKEJsY-2mKAuZM-2mKbkhx-2mKiNkD-2mJd7nN-2mJ4GHU-2mJ3q6x-2mHGgw3-F7umuM-Gz3rcP-Cntjci-o64NpB-nriWaK-nt38ne-no9vGL

 

Grice e Fergnani – il gesto e la passione – filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano). Filosofo. Grice: “I love Fergnani; especially his “Il gesto e la passione,” which I apply to them extravagant Victorian male-only interactions!” Si laurea a Milano sotto Banfi. Insegna a Crema e Bergamo, Milano. Saggi in “Il pensiero critico”, “Rivista di filosofia”, “aut aut”, “Rivista critica di storia della filosofia” e “Nuova corrente”.  Fu figura di spicco nell’esistenzialismo. Si dedica a Sartre, Marx, Merleau-Ponty, Bloch, Lukács, Althusser, Heidegger, Lévinas, Bergson. Altre opere: “Marx” (Padus, Cremona); “Un critico di se stesso”; “More geometrico” (TET, Torino, “Prassi di Gramsci” (Unicopli, Milano); “Materialismo” (il Saggiatore, Milano); “La dialettica dell’esistere” Feltrinelli, Milano);  L'essere e il nulla” (Il Saggiatore, Milano); “Da Heidegger a Sartre, Farina Editore, Milano, “Sartre sadico” (Farina Editore, Milano); “Esistire” (Farina Editore, Milano); Kierkegaard (Farina Editore, Milano); “Il gesto e la passione” Farina Editore, Milano, “Merleau-Ponty”, Farina Editore, Milano.  “L’Esistenzialismo” Farina Editore, Milano, “Sartre” (Farina Editore, Milano); “Jaspers, Farina Editore, Milano);  F. Manzoni, “Il filosofo che ci “spiega” Sartre”, Corriere della Sera.  La lezione di Franco Fergnani", in Materiali di Estetica,Massimo Recalcati, L'ora di lezione, Einaudi, Torino,  F. Papi.  Fisiognomica interpretazione del carattere di una persona sulla base del suo aspetto esteriore Lingua Segui Modifica Nota disambigua.svg Disambiguazione – Se stai cercando l'album di Franco Battiato, vedi Fisiognomica (album). La fisiognomica o fisiognomonica è una disciplina pseudoscientifica[1] che attraverso la  fisiognomia o fisiognomonia[2] pretende di dedurre i caratteri psicologici e morali di una persona dal suo aspetto fisico, soprattutto dai lineamenti e dalle espressioni del volto. Il termine deriva dalle parole greche physis(natura) e gnosis (conoscenza). Fin dal XVI secoloquesta disciplina godette di una certa considerazione tanto da essere insegnata nelle università. La parola fisiognomica o fisiognomia venne usata fra gli studiosi per distinguerla dal termine fisionomia (o fisonomia) che ha un significato simile ma più generico.[3]   Esempi di fisiognomica di criminali, secondo Cesare Lombroso: "Rivoluzionari e criminali politici, matti e folli" Tutto il sapere umano si basa infatti sulla fisio-gnomica derivata dalla fisio-nomia estetica della realtà. Ovverosia dal dedurre, attraverso i sensi e l'osservazione morfo-genetica della natura, la sua intrinseca legge del divenire in atto. La cosiddetta " fisio-gnosia " in cui rientrava pure l'uomo quale cosciente parte della legge naturale.  Descrizione         Modifica Esistono due principali tipi di fisiognomica:  la fisiognomica predittiva assoluta, che sostiene una correlazione assoluta tra alcune caratteristiche fisiche (in particolare del viso) e i tratti caratteriali; queste teorie non godono più di credito scientifico. la fisiognomica scientifica, che sostiene una qualche correlazione statistica tra le caratteristiche fisiche (in particolare del viso) e i tratti caratteriali a causa delle preferenze fisiche di una persona dovute al comportamento corrispondente. La correlazione è dovuta al rimescolamento genetico. Questo tipo di fisiognomica trova fondamento nel determinismo genetico del carattere. La fisiognomica nell'antichitàModifica Riferimenti a relazioni tra l'aspetto di una persona e il suo carattere risalgono all'antichità e si possono rinvenire in alcune antiche poesie greche. Le prime indicazioni allo sviluppo di una teoria in questo senso risultano nell'Atene del V secolo a.C. dove un certo Zopyrus si proclamava esperto di quest'arte.  I giovani che volevano entrare nella scuola pitagoricadovevano dimostrare di essere già istruiti nella fisiognomica (ephysiognomonei).[4]  Il filosofo Aristotele, nel IV secolo a.C., si riferiva spesso a questo tipo di teorie anche con citazioni letterarie. Aristotele stesso era d'accordo con queste teorie come testimonia un passaggio di Analitici primi(2.27):  «È possibile inferire il carattere dalle sembianze, se si dà per assodato che il corpo e l'anima vengono cambiati assieme da influenze naturali: dico 'naturali' perché se forse, apprendendo la musica, un uomo fa qualche cambiamento alla sua anima, questa non è una di quelle influenze che sono per noi naturali; piuttosto faccio riferimento a passioni e desideri quando parlo di emozioni naturali. Se quindi questo è accettato e anche il fatto che per ogni cambiamento c'è un segno corrispondente, e possiamo affermare l'influenza e il segno adeguati ad ogni specie di animale, saremmo in grado di inferire il carattere dalle sembianze.»  (Traduzione A. J. Jenkinson) Il primo trattato sistematico sulla fisiognomica giunto fino ad oggi è il volumetto Physiognomica attribuito ad Aristotele ma più probabilmente frutto della sua scuola. È diviso in due parti e quindi probabilmente in origine erano due lavori separati. La prima sezione tratta soprattutto del comportamento umano sorvolando su quello degli animali. La seconda sezione è incentrata sul comportamento animale dividendo il regno animale in maschile e femminile. Da questo vengono dedotte corrispondenze tra l'aspetto umano e il comportamento.  Dopo Aristotele, i trattati più importanti sono:  Polemo di Laodicea, de Physiognomonia (II secolo a.C.), in greco Adamanzio il Sofista, Physiognomica (IV secolo d.C.), in greco Anonimo latino, de Physiognomonia (IV secolo d.C.) La fisiognomica moderna                                                Modifica  Tipica illustrazione di un libro ottocentesco sulla fisiognomica (a sinistra: "profonda disperazione"; a destra: "collera mischiata con paura") La fisiognomica, in quanto studio delle particolarità del volto umano in grado di rivelare peculiarità caratteriali, era piuttosto diffusa nel Rinascimento ed è risaputo che Leonardo ne era appassionato, come pure Michelangelo.  «Nello stesso passo, Condivi accenna all'intenzione di Michelangelo di scrivere un trattato di anatomia con particolare riguardo ai "moti" e alle "apparenze" del corpo umano. Esso evidentemente non si sarebbe fondato sui rapporti e sulla geometria, e nemmeno sarebbe strato empirico come quello che avrebbe potuto scrivere Leonardo; i termini "moti" ( che fa pensare alle "emozioni" oltre che ai "movimenti") e "apparenze" fanno invece ritenere che Michelangelo avrebbe insistito sugli effettipsicologici e visuali delle funzioni del corpo.»  (James Ackerman, L'architettura di Michelangelo, Torino, 1968, p. 13) Il trattato di Pomponio Gaurico intitolato De Sculptura, pubblicato a Firenze nel 1504, presenta questo tipo di conoscenza nei termini seguenti:  «La fisiognomica è un tipo di osservazione, grazie alla quale dalle caratteristiche del corpo rileviamo anche le qualità dell'animo.[...] Se [gli occhi] saranno piuttosto grandi e con uno sguardo un po' umido, mostreranno un grande spirito, un'anima eccelsa e capace di grandissime cose, ma anche l'iracondo, l'amante del vino e il superbo senza misura: così dicono che fosse Alessandro il Macedone. [...] Se vedrai un naso pieno, solido e tozzo, come quello dei leoni e dei molossi, lo considererai segno di forza e arroganza. [...] La fronte quadrata, che ha la lunghezza quanto l'altezza, è indice evidentissimo di prudenza, saggezza, intelligenza, animo splendido»  (Estratti citati da Michiaki Koshikawa, Individualità e concetto. Note sulla ritrattistica del Cinquecento in: AA.VV., Rinascimento. Capolavori dei musei italiani. Tokyo-Roma 2001(catalogo della mostra di Roma, Scuderie Papali del Quirinale. 15.09.2001-06.01.2002), Milano,Skira, 2001, p. 41) Gli studi di fisiognomica influenzarono artisti del Cinquecento - come Sofonisba Anguissola (Fanciullo morso da un gambero) e Fede Galizia (Ritratto di Paolo Morigia) - nell'interpretazione dell'emotività del soggetto ritratto.  Il principale esponente della fisiognomica pre-positivista è stato il pastore svizzero Johann Kaspar Lavater (1741 - 1801) che fu amico, per un breve periodo, di Goethe. Il saggio di Lavater sulla fisiognomica fu pubblicato per la prima volta in tedesco nel 1772 e divenne subito popolare. Venne poi tradotto in francese ed inglese influenzando molti lavori successivi. Le fonti principali dalle quali Lavater trasse conferma per le sue idee furono gli scritti di Giambattista della Porta (1535 - 1615) e del fisico e filosofo inglese Thomas Browne (1605 - 1682) del quale lesse e apprezzò Religio medici. In questo lavoro Browne discute della possibilità di dedurre le qualità interne di un individuo dall'aspetto esteriore del viso:  «(...)nei tratti del nostro volto è scolpito il ritratto della nostra anima (...).»  (R.M., parte 2:2) In seguito Browne affermò le sue convinzioni sulla fisiognomica nella sua opera Christian Morals (1675circa):  «Poiché il sopracciglio spesso dice il vero, poiché occhi e nasi hanno la lingua, e l'aspetto proclama il cuore e le inclinazioni basta l'osservazione ad istruirti sui fondamenti della fisiognomica....spesso osserviamo che persone con tratti simili compiono azioni simili. Su questo si basa la fisiognomica...»  (C.M., Parte 2, sezione 9) A Thomas Browne è accreditato l'uso della parola caricatura in inglese, sulla quale si cercò di basare con fini illustrativi l'insegnamento della fisiognomica.  Browne possedeva alcuni scritti di Giambattista della Porta tra cui Della celeste fisionomia[5][6] nel quale egli sosteneva che non sono gli astri ma il temperamento ad influenzare sia l'aspetto che il carattere. In De humana physiognomia (1586) [7][8][9][10] Porta usò delle xilografie di animali per illustrare i tratti caratteristici dell'uomo. I lavori di Porta sono ben rappresentati nella libreria di Thomas Browne ed entrambi erano sostenitori della dottrina delle firme — cioè, le strutture fisiche in natura come le radici, i gambi e i fiori di una pianta, sono chiavi indicative o firme delle loro proprietà medicamentose.  La popolarità della fisiognomica, nonostante precursori come Marin Cureau de La Chambre nel XVII secolo, crebbe soprattutto durante il XVIII e XIX secolo. Trovò in particolare nuovo vigore negli studi del celebre antropologo e criminologo italiano Cesare Lombroso, il quale ne trasse ipotesi di applicazioni pratiche nella criminologia forense e nella prevenzione dei reati, giungendo a predicare la pena capitale come unica soluzione contro la tendenza criminale innata e pertanto non educabile con la sola pena detentiva.  La fisiognomica influenzò anche altri campi al di fuori della scienza, come molti romanzieri europei tra i quali Honoré de Balzac; nel frattempo la 'Norwich connection' alla fisiognomica si sviluppò attraverso gli scritti di Amelia Opie e del viaggiatore e linguista George Borrow, inoltre fra molti romanzieri inglesi del XIX secolo si diffuse l'uso di passaggi molto descrittivi dei personaggi e del loro aspetto fisiognomico in particolare Charles Dickens, Thomas Hardy e Charlotte Brontë.  Nel XX secolo questa dottrina è stata da più parti tirata in campo a supporto di ideologie xenofobe e pseudo-studi sulla razza.  La frenologia era pure considerata fisiognomica. Fu creata intorno al 1800 dai fisici tedeschi Franz Joseph Gall e Johann Spurzheim e si diffuse nel corso del XIX secolo in Europa e negli Stati Uniti.  In sostanza la fisiognomica moderna subisce nel tempo una serie di modificazioni strutturali che la specializzano in varie discipline (dai primi rudimenti di psicanalisi alla antropologia criminale di Cesare Lombroso). Essa infatti è proporzionale alle conoscenze del periodo, ma ancor più alle metodologie impiegate. Parlando infatti di fisiognomica moderna, si invade un campo vastissimo fatto di congetture neo-aristoteliche, ma anche di mirabolanti imprese antropologiche, come la macchina che misura le capacità intellettive umane partendo dall'analisi della forma del cranio, inventata dai fratelli Fowler. Tuttavia, che si tratti di tentativi pseudo-scientifici, o di volontari indottrinamenti razzisti, questo spesso strato di ricerche resta un monumento alle buone e alle cattive intenzioni umane, in quanto mai ha concesso prove scientificamente insindacabili. Il recentissimo studio del naturalista Dario David (La vera storia del cranio di Pulcinella: le ragioni di Lombroso e le verità della fisiognomica), ha messo in evidenza quanto effimero sia il piedistallo antropocentrico, e nel contempo come possa essere studiato il volto umano, in relazione al comportamento, utilizzando il solo grandangolo dell'etologia comparata e dell'ecologia. I tratti somatici sono infatti indicativi di una regione ben identificabile per cultura, religione, storia, tradizioni o magari isolamento geografico. Se quei tratti somatici (ammesso che siano effettivamente diversi) si associano quindi ad un comportamento, che magari sarà tipico o frequente nel luogo, allora ecco la fisiognomica, o per lo meno una sua versione scientificamente accessibile, in grado di relazionare comportamento e sembianza.  Benedict LustModifica Per Benedict Lust questa scienza non aveva nulla di pseudo-scientifico; egli aveva osservato, per il rigoroso metodo naturopatico che sviluppava in quegli anni, che quando la gente guariva, cambiava anche in volto. Eliminando le scorie e le tossine, il viso diventava più "snello": il doppio mento scompariva, tornava a vedersi il collo in quei volti che prima lo avevano "sepolto" sotto strati di tessuto adiposo, anche i capelli in alcuni casi erano più folti.  Per tutto questo cominciò a sviluppare un sistema di diagnosi "all'inverso", ossia: se le modificazioni, una volta che la gente guariva da un determinato male erano costanti, allora significava anche che, quando e quanto più quelle caratteristiche facciali "sintomatiche" erano presenti in una persona, tanto più la persona era anche affetta da quel determinato "male" specifico di cui le alterazioni nel viso erano soltanto un sintomo.  NoteModifica ^ Enciclopedia Garzanti di Filosofia, Milano 1981, alla voce corrispondente. ^ fisiognomonìa o fisiognomìa, in Enciclopedia generale Sapere.it De Agostini. ^ Vocabolario Treccani alla voce "Fisiognomia" ^ Aulo Gellio, Noctes Atticae, I, 9, 1 ^ ( LA ) Giovanni Battista Della Porta, Coelestis Physiognomonia, in Alfonso Paolella (a cura di), Edizione Nazionale delle opere di Giovan Battista della Porta, vol. 1, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1996. ^ Alfonso Paolella, G.B. Della Porta e l'astrologia: la Coelestis Physiognomonia, in M. Montanile (a cura di), Atti del Convegno "L'Edizione nazionale del teatro e l'opera di G.B. Della Porta", Salerno, 23 maggio 2002, Pisa-Roma, Istituti Editoriali e Poligrafici internazionali, 2004, pp. 19-42. ^ Giovanni Battista Della Porta, Humana Physiognomonia / Della Fisionomia dell'uomo libri sei, in Alfonso Paolella (a cura di), Edizione Nazionale delle opere di Giovan Battista della Porta, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2011/2013. ^ Alfonso Paolella, L’autore delle illustrazioni delle Fisiognomiche di Della Porta e la ritrattistica. Esperienze filologiche, in "Atti del Convegno La “mirabile” Natura. Magia e scienza in Giovan Battista Della Porta (1535-1615)", Pisa-Roma, Fabrizio Serra Editore,, 2015, pp. 81-94. ^ ( DE ) Alfonso Paolella, La fisiognomica di G.B. Della Porta e la sua influenza sulle ricerche posteriori, in "Atti del Convegno Giovan Battista Della Porta nel IV Centenario della morte (1535-1615)", Piano di Sorrento, 27 febbraio 2015,, Roma, ed. Scienze e Lettere,, 2015, pp. 43-62. ^ ( DE ) Alfonso Paolella, Die Physiognomonie von Della Porta und Lavater und die Phrenologie von Gall, in Morgen-Glantz 18 (2008), "Zeitschrift der Christian Knorr von Rosenroth-Gesellschaft Naturmagie und Deutungskunst. Wege und Motive der Rezeption von Giovan Battista Della Porta in Europa - Akten der 17. Tagung der Christian Knorr von Rosenroth-Gesellschaft" - Herausgegeben von Rosmarie Zeller und Laura Balbiani, 2008, pp. 137-152. Voci correlate                                     Modifica Bruno Lüdke, la più celebre vittima della Antropologia Criminale di Lombroso. Emanuel Felke, studioso di naturopatia, applica l'omeopatia, l'iridologia e la fisiognomica Benedict Lust, utilizza la Fisiognomica nella sua diagnosi medica e ne sviluppa una vertente tutta sua. DisciplineModifica Frenologia Patognomia Caratterologia Personologia Altri progettiModifica Collabora a Wikiquote Wikiquote contiene citazioni di o su fisiognomica Collabora a Wikizionario Wikizionario contiene il lemma di dizionario «fisiognomica» Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su fisiognomica Collegamenti esterni Modifica ( EN ) Fisiognomica, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su Wikidata Controllo di autorità                           Thesaurus BNCF 6948 · LCCN( EN ) sh85101673 · GND ( DE ) 4128352-1 ·BNF ( FR ) cb12159619w (data) · J9U( EN ,  HE ) 987007546011105171 (topic)   Portale Antropologia   Portale Sociologia Ultima modifica 5 mesi fa di Equoreo PAGINE CORRELATE Frenologia teoria pseudoscientifica  Johann Kaspar Lavater scrittore, filosofo e teologo svizzero  Giovanni Battista Della Porta filosofo, scienziato, alchimista e commediografo italiano  Wikipedia Il  Nudo eroico concetto dell'arte classica Lingua Segui Modifica Il nudo eroico o nudità ideale è un concetto dell'arte e della cultura classica che si propone di descrivere l'utilizzo del corpo umano nudo soprattutto, ma non solo, nella scultura greca; con esso si vuole indicare che il soggetto umano apparentemente mortale raffigurato nella scultura è in realtà un essere semi-divino, ossia un Eroe.   L'Apollo del Belvedere attribuito a Leocare, esempio tipico di nudo eroico-divino dell'antichità, al Museo Pio-Clementino. Questa convenzione ha avuto il suo inizio durante il periodo della Grecia arcaica (800-480 a.C.) ed in seguito adottato anche dalla scultura ellenistica e dalla scultura romana. Il concetto ha operato sia per i ritratti di figure maschili che per quelli di figure femminili (nei ritratti di Venere e altre dee[1]). Particolarmente in alcuni esempi romani ci ha potuto portare alla strana giustapposizione tra un gusto iper-realistico (difetti fisici o elaborate acconciature femminili) con la visione idealizzata del "corpo divino" in perfetto stile greco.   Il Galata morente. Come concetto è stato modificato fin dalla sua nascita con altri tipologie di nudità appartenenti alla scultura classica, ad esempio la nudità (che richiama al pathos) dei valorosi combattenti sconfitti in battaglia dai nemici barbari, come il Galata morente[2].  Dopo essere scomparsa per quasi tutto il Medioevo[3]l'idea è stata reintegrata nell'arte moderna quale esempio di Virtù (il vero, il bello e il buono) incarnate dal corpo umano maschile nudo. Tra la fine del XVIII e l'inizio del XIX secolo questa metafora ha rappresentato la perfetta raffigurazione di grandi uomini, coloro cioè le cui azioni potrebbero incarnare il più alto status esistenziale[4].  Riapparso con grande vigore soprattutto durante il Rinascimento e il Neoclassicismo, periodi in cui l'eredità classica ha potentemente influenzato tutte le forme di arte alta: molto famosi sono i nudi eroici di Michelangelo Buonarroti (esemplare è la figura del suo David) o quelli di Antonio Canova (con Perseo trionfante che tiene in mano la testa di Medusa e Napoleone Bonaparte come Marte pacificatore, per fare solo due esempi tra i tanti)[5][6][7][8].   Un principe seleucide raffigurato in nudità eroica, Museo nazionale romano.   Statua eroica di un generale romano con la testa di Augusto (I secolo .C.), al museo del Louvre.   Statura romana con la testa di Marco Claudio Marcello(I secolo, da un prototipo greco del V secolo a.C.).   Napoleone Bonaparte come Marte pacificatore (1802-1806) di Antonio Canova, all'Apsley House a Londra.  StoriaModifica  Leonida alle Termopili (1814) di Jacques-Louis David. Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Storia della nudità.  Achille in assetto da battaglia, rilievo ateniese del 240 a.C. La nudità maschile era di norma socialmente accettata entro certi contesti sportivi e militari dell'antica Greciae ciò è divenuto col tempo un tratto distintivo della cultura ellenica. A quanto pare, come risulta da un passo di Tucidide, la nudità fu praticata per primi dagli Spartani nelle loro esercitazioni militari e da loro in seguito introdotta anche nei giochi olimpici antichi, ma altre fonti invece sostengono che l'usanza ebbe invece origine quando un atleta vinse la gara di corsa durante la V olimpiade (720 a.C.) il quale a metà percorso si liberò della fascia che aveva attorno ai fianchi e che lo intralciava nei movimenti[5].  La studiosa Larisse Bonfante pensa che la nudità potesse servire ad uno scopo magico-protettivo, così com'era comune a quel tempo il simbolismo fallico e l'uso dell'amuleto; ora, qualunque sia stata la forma della sua introduzione, la nudità è rapidamente adottata dalla società greca e dalle arti in una sua idealizzante formale e concettuale, generando una prolifica ed influente iconografia attestata fin dall'VIII secolo a.C. in dipinti di navi e numerosi kouroiarcaici[9].  Nel V secolo a.C., quando appaiono le prime palestre o ginnasio di atletica, la nudità atletica era già diffusa: la stessa parola ginnastica, per inciso, deriva dal greco gymnos che significa nudo[5].  NoteModifica ^ Trajanic woman as Venus (Capitoline Museums) ( JPG ), su indiana.edu, Indiana University. ^ Hallett, 2005, pag. 10. ^ Jean Sorabella, "The Nude in Western Art and its Beginnings in Antiquity", su Heilbrunn Timeline of Art History, metmuseum.org, The Metropolitan Museum of Art, 2000. ^ J. Colton, Monuments to Men of Genius: a Study of Eighteenth Century English and French Sculptural Works, Ph.D. NewYork University, 1974, pagg. 297-310. ^ a b c Nigel Spivey, Greek Sculpture, Cambridge University Press, 2013, pp. 133-148, ISBN 978-0-521-75698-3. ^ R. Osborne, "Men Without Clothes: Heroic Nakedness and Greek Art", in Gender & History, vol. 9, n. 3, 1997, pp. 504-528. ^ Tom Stevenson, "The 'Problem' with Nude Honorific Statuary and Portrait in Late Republican and Augustan Rome", in Greece and Rome, XLV, 1998, p. 1. ^ Jane Stevenson, "Nacktleben", in Dominic Montserrat (a cura di), Changing Bodies, Changing Meanings: Studies on the Human Body in Antiquity, Routledge, 2002, pp. 200-201, ISBN 0-415-13584-2. ^ Larissa Bonfante, Etruscan Dress, The Johns Hopkins University Press, 2003   [1975] , pp. 20; 102, ISBN 0-8018-1640-8, SBN IT\ICCU\MIL\0633135. BibliografiaModifica Christopher H. Hallett, The Roman Nude: Heroic Portrait Statuary 200 B.C.-A.D. 300, Oxford University Press, 2005, ISBN 978-0-19-924049-4. Jesse Casana, The Problem with Dexileos: Heroic and Other Nudities in Greek Art, in American Journal of Archaeology, vol. 111, n. 1, 2007, pp. 35–60, DOI:10.3764/aja.111.1.35, ISSN 0002-9114 (WC · ACNP). Robin Osborne, Men Without Clothes: Heroic Nakedness and Greek Art, in Gender & History, vol. 9, n. 3, 1997, pp. 504–528, DOI:10.1111/1468-0424.00037, ISSN 0953-5233 (WC · ACNP). Tom Stevenson, The 'Problem' with Nude Honorific Statuary and Portraits in Late Republican and Augustan Rome, in Greece & Rome, 2, vol. 45, n. 1, Cambridge University Press, aprile 1998, pp. 45–69, JSTOR 643207. Voci correlateModifica Nudo artistico Altri progettiModifica Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su nudo eroico   Portale Arte: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di arte Ultima modifica 6 mesi fa di InternetArchiveBot PAGINE CORRELATE Storia della nudità Storia degli atteggiamenti sociali delle varie culture verso la nudità  Apollo di Piombino Perizonium Wikipedia Il contenutoGrice: “Napoleon, an Italian, thought he was French, but he was a Corsican – “No, I don’t know Corsica” – however he thought he was an emperor and as such, as every student at Milano laughs at, that he should convince Canova to go nudist! Nelson tries but Vivian Leigh opposed!”  Franco Fergnani. Fergnani. Keywords: il gesto e la passione, exist, Grice on ‘a is’ Grice on ‘a exists’ – E-committal – Peano on ‘existent’ – esistono – es gibt, there is/there are, some, or at least one, il y a, c’e, Warnock on ‘exist’ I gesti dei imperatori romani nudita eroica! Fisionomia – porta ---- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Fergnani” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51762395305/in/dateposted-public/

 

Grice e Ferrabino – la terza Roma – la base mitologica di Latino -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Cuneo). Filosofo.  Grice: “I like Ferrabino; if I were not into the unity of philosophy, I would say he is a philosophical historian – and a Roman historian, too! Strictly, a philosopher of Roman history, alla Gibbon!”  “Si compie il mio ottantesimo anno. Declinano le stelle della sera sulla diuturna milizia di storia e di magistero che fu la mia vocazione, non tradita ma superata. Misticamente m'accoglie la dimora del Verbo dove l'Io s'incontra col suo Dio nascosto.” Figlio di Angelica Toesca, donna sensibile e generosa e di Vincenzo Agostino, funzionario dello Stato, uomo dalla natura affettuosa e sobria e di idee agnostiche, che per questo motivo non volle far battezzare i figli. Compì il primo ciclo di studi dimostrandosi subito allievo modello e con rare doti di intelligenza. Prosegue gli studi classici a Cremona, e quando la famiglia dovette nuovamente trasferirsi in Alessandria, terminato il Liceo, si iscrisse a Torino. Inizia a frequentare assiduamente l'ambiente universitario dedicandosi con il massimo impegno allo studio e dando lezioni private per non dover pesare troppo sulle finanze paterne. Il suo tutore fu Graf. Verso il terzo anno iniziò a seguire con crescente interesse la filosofia antica frequentando le lezioni di Sanctis, sotto il quale si laurea con “Kalypso”. Insegnò a a Torino, Palermo, Napoli, e Padova. Fu rettore dell'Ateneo fino al anno in cui ottenne la cattedra di filosofia romana presso a Roma. Morta la prima moglie Mercedes, Ferrabino concluse il suo periodo di avvicinamento alla religione cattolica facendosi battezzare. Sposa Paola Zancan, proveniente da agiata e cattolica famiglia, con la quale si stabilì a Roma. Inizia in quel periodo a frequentare "La Cittadella di Assisi" diventando grande amico di Rossi, fondatore di “Pro Civitate Christiana” e “La Rocca”. Ad Assisi, Ferrabino prese l'abitudine di trascorrere con la moglie e le nipoti lunghi periodi durante le vacanze estive alternate a quelle trascorse a Fregene. Venne eletto senatore per la Democrazia Cristiana e rimase al Senato. Divenne presidente della Enciclopedia Italiana, incarico che detenne, insieme a quello di direttore scientifico.  Era stato intanto incaricato di presiedere al Consiglio Superiore delle Accademie e promosse il Centro nazionale per il catalogo unico delle biblioteche italiane e per le informazioni bibliografiche diventandone il presidente.  Divenne corrispondente dell'Accademia del Lincei e corrispondente nazionale della stessa e presidente dell'Istituto italiano per la storia antica.  Presidente della Società Nazionale "Dante Alighieri" e insieme a Vincenzo Cappelletti, fonda "Il Veltro".  Pubblica sull'Italia romana, l'età dei Cesari, la filosofia fatalistica della storia. Alter opere: “Calisso: la storia di un mito” (Bocca, Torino) – with a  section on the myth among the Latins, and a later section on the treatment by Roman authors, “Arato di Sicione e l'idea federale” (Le Monnier, Firenze); “L'impero ateniese” – note that it’s Roman empire and impero ateniense, but BRITISH empire not London empire, and American empire, rather than Washington empire – “La dissoluzione della libertà nella Grecia antica” (Milani, Padova); “L'Italia romana” (Mondadori, Milano); “Giulio Cesare” (Unione Tipografica, Edizione Torinese); “La vocazione umana”  (Nuova Edizione Ivrea, Ivrea); “L'esperienza Cristiana” (Libreria Draghi, Padova); “Le speranze immortali” (Casa Editrice Società per Azioni, Padova); “Trilogia del Cristo” (Casa editrice Le tre venezie); “Adamo” (Morcelliana, Brescia); “Le vie della storia romana” (Sansoni, Firenze, “Rivelazione e cultura” (La Scuola, Brescia); “Storia dell'uomo avanti e dopo Cristo” (Edizioni Pro Civitate Christiana, Assisi); “L'essenza del Romanesimo” (Tumminelli, Roma); “L'inno del Simposio di S. Metodio Martire” (G. Giappichelli, Torino); “Storia di Roma” (Tumminelli, Roma); “La filosofia della storia” (G. C. Sansoni); “Trasfigurazioni” (Aldo Martello, Milano); “Pagine italiane,  Il Veltro, Roma); “Misticamente” (Stamperia Valdonega, Verona); “La bonifica benedettina” (Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Enciclopedia dell'Arte Antica: Classica e Orientale, (presidente), Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma, Dizionario Enciclopedico Illustrato,  Jannaccone, Sturzo, Istituto della Enciclopedia italiana fondata da Giovanni Treccani, Roma, Nel Centenario Della Battaglia Del Volturno, Ente Autonomo Volturno, Napoli. Prefazione in  Misticamente, Verona, L'Erma di Bretschneider, Il figlio dell'uomo (nella testimonianza di S. Matteo) II: Il figlio di Dio (nella testimonianza di S. Giovanni) III: Il risorto (nella testimonianza di S. Paolo), Lincei, Roma. Treccani, Dizionario biografico degli italiani.  Roma era il sogno de' miei giovani anni, l'idea-madre nel concetto della mente, la religione dell'anima; Cv'entrai, la sera, a piedi, sui primi del marzo [1849], trepido e quasi adorando. Per me, Roma era - ed è tuttavia malgrado le vergogne dell'oggi - il Tempio dell'umanità; da Roma escirà quando che sia la trasformazione religiosa che darà, per la terza volta, uni- tà morale all'Europa!. Così, nel 1864, Mazzini ricordava il proprio ingresso nella città poco dopo che vi era stata proclamata la repubblica; e, insieme a ciò,ribadival'importanza cheRomaavevanellasuavisionepolitica, secondo la quale l'unità e l'indipendenza d'Italia si collegavano a una missione universale di liberazione dei popoli e a una vera e pro- pria riforma religiosa. Dopo la Roma dei Cesari e la Roma dei Papi, affermava in tono profetico Mazzini, sarebbe nata la Roma del Po- polo, centro della nuova religione dell'umanità. Si trattava di una. concezione peculiare, in cui confluivano tuttavia vari elementi .dell!! cultura dell'epoca: dall'enfasi con cui il romanticismo aveva predi- cato l'idea della particolare missione di ciascun popolo, al posto che l'istruzione scolastica riservavaalla storia greco-romana, alimentan- do indirettamente la passione per le idee di libertà e di repubblica. È indicativo che anche in un uomo dalla cultura piuttosto approssi- mativa come Giuseppe Garibaldi avesserolargo spazio concetti fon- dati su reminiscenze classiche, in primo luogo romane, da cui deri- torità moderatrice del pontefice»; inoltre il «primato» italiano veni- va fatto dipendere proprio dalla presenza di quella Roma «cattolica e poqtificale» che Mazzini voleva invece distruggere. Tuttavia era anch'esso un modo di'legare inscindibilmente Roma all'Italia. Non era sempre stato così. Nei primi decenni del secolo - ha scritto Federico Chabod - «Roma era stata relegata sullo sfondo e, in sua vece, entusiasmi e affetti s'eran riversati verso l'Italia medie- vale, l'Italia dei Comuni, di Pontida, della' Lega Lombarda e di Legnano, l'Italia di Gregorio VII e di Alessandro II!, o, ancor più su, l'Italia di Arduino, nella quale s'eran visti gli albori della nazione italiana»2.Dopo la Repubblica romana del 1849,invece, il richiamo a Roma divenne centrale nel processo di indipendenza nazionale, per l'aura di gloria che aveva accompagnato la sconfitta e anche per il particolare ruolo di traino che su questo argomento svolsero Mazzini e i democratici. Ma l'importanza di quel richiamo dipende- va, in fondo, dalle peculiarità stesse dell'idea nazionale italiana, che s'era fondata e costruita su richiami al passato e alla tradizione cul- _.. turale che ben difficilmente avrebbero potuto prescindere da Roma. L <<Rompaer me è l'Italia», scrisse Garibaldi nelle sue memorie3. E non diversamente pensava un democratico pur così lontano dal profetismomazzinianocomeCarloCattaneo.AncheCavourebbe a riconoscere quel nesso strettissimo, affermando nel famoso discor-. ì'- sodel25marzo1861che<<Romasoladeveesserelacapitaled'Ita- L. lia»4.Dopo la spedizione tentata da Garibaldi nel 1862, <<Romao Cmorte» divenne la ~arola .d'~rdine de~~e~~~~E~.!:!c~i),I~trog~)Verni che parevano loro dimentichi àel comploo-supremodi riCongIunge- re la città all'Italia. Gli uomini della Destra, in realtà, eranoimpe- gnati ad affrontare le grandi e gravi questioni legate alla costruzione del nuovo Stato e, per la soluzione del problema di Roma, confida- vano soprattutto nel formarsi di condizioni internazionali favorevo- li (ciò che avvenne appunto nel 1870). Anche i moderati tuttavia, benché estranei alla concezione eroicizzante della politica comune a tanta parte della Sinistra, erano partecipi a modo loro del mito di Roma. La presenza nell'Urbe, in quanto centro della cattolicità, di un'idea universale induceva infatti, nei democratici come nei mode- rati, la convinzione che da Roma italiana avrebbe dovuto irradiarsi ~- 2F. Chabod, Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896, Bari, Laterza, 1965, p. 234. J Cito in P. Treves, Videa di Roma e la cultura italiana del secolo XIX, Milano- Napoli, Ricciardi, 1962, p. 78. 4 C. Benso di Cavour, Discorsi parlamentari, a cura di D. Cantimori, Torino, Einaudi, 1962, p. 224. TIfascino dell'idea di Roma andava ben oltre l'area di influenza del mazzinianesimo. Si irradiava infatti anche negli ambienti neoguelfi,sullasciadelgiobertianoPrimatomoraleeciviledegliIta- liani, del 1843. Certo, quest'opera si collocavaper molti aspetti agli antipodi del disegno mazziniano: contro l'idea di ridurre l'Italif-lad un unico Stato Gioberti proponeva una confederazione «sotloTiìu- '." l G. Mazzini, Note autobiografiche, Milano, Rizzoli, 1986, p. 382. . " 'I I I   ~messa~&!o anch'esso universale: la nuova religione dell'umanità f p r MazzInl,la libertà religiosa (cioè la separazione tra Stato e Chie- sa) per molti esponenti della Destra, oppure il trionfo dd libero pensiero e della scienza sulle rovine dell'«oscurantismo clericale», secondo quanto auspicavano soprattutto gli esponenti della Sini- stra5. I sogni d'una missione che la nuova Roma ayrebb~ ~ovuto an- vunciareàl-morido-stndèvano'piùes'eÌnéntecon1a reaIiJiai uno"Sfa- to'debole e arretrato, e di modesta caratura internazionale. Così il mito mazziniano della terza Roma si dissolse presto, e analoga sorte toccò alle speranze di un rinnovamento religioso che si irradiasse dalla nuova capitale o alla visione di una missione di Roma quale centrouniversalediscienza.Tuttavia,Romaavevarappresentato un «mito animatore» dd Ri~rgimento (secondo una definizitJhe di Gioacchino Volpe)6,era ormai troppo connessa con l'idea italiana, perché i fantasmi romani, tanto lungamente evocati, potessero dav- vero dileguarsi. L'invito, che pure qualcuno formulò, a «dimentica- re il passato» dovevadunque rimanere disatteso, e il richiamo a Roma avrebbe influenzato a lungo il modo in cui gli italiani consideravano se stessi e il proprio paese. i I Ii I I i I l I ! I j j ! ~ j guerriera e con,qui~tatrice,cara soprattutto ai nazionalisti, sensibili .per parte loro anChe al fascino che emanava dalla Roma cristiana, alla.Roma laica e anticlericale cdebrata da democratici e massoni nei' cotilizi dd 20 settembre. Ma proprio questo è una conferma dellapervasivitàdd tema,dellasuaineliminabilitàdaldiscorsopub- blico dell'epoca. Ciò non toglie che nelle evocazionidd mito di Roma (e di molteplici e diversi miti, anzi) ci fosse molto artificio e un sen- tore, spesso, di imparaticcio ginnasiale;questo non dipendeva però - come a molti è sembrato - da una co!maturata propensione degli italiani agli eroismi verbali e alla retorica magniloquente, ben- sì dall~particolare storia dd nostro paeserlSenzagli ideali «romanh> non V]sarebbero state molte delle tragedie che hanno segnato la storia dell'Italia unita; <<ma,probabilmente - osservava Rosario Romeo-, non ci sarebbe stata neppure l'Italia»8. La permanenza e diffusione dei miti romani dipese anche dal- l'insegnamento di una scuola che fu in larga misura di impronta carducciana. Carducci, infatti, ebbe un ruolo essenziale nd diffon- dere gli ideali risorgimentali tra le nuove generazioni, ma anche, per ciò stesso, nd tener deste aspirazioni e mitologie romane che a que- gli ideali erano inscindibilmente connesse. Cdebrò la <,deaRoma» in tanti versi famosi, mandati a memoria da generazioni di italiani; !masoprattutto alimentòilriferimentQaRomacomebasediuncon- fronto tra la viltà dd presente, da un lato, e, dall' altro, l'antica gran- , dezza e l'eroismo «romano» degli uomini dd Risorgimento. In so- , stanza, Carducci tradusse e diffuse in poesia un giudizio formulato da Mazzini. Questi aveva stigmatizzato che l'Italia fosse andata in Roma «codardamente»; e il poeta, da parte sua, cantò l'epopea risibile dell'Italia che sale in Campidoglio tra lo starnazzare delle oche. Mazzini riservò parole di fuoco a un'Italia unita «corrotta in sul nascere e diseredata d'ogni missione», a uno Stato cui mancava «l'ali- to fecondatore di Dio, l'anima della Nazione»9.E Carducci fissò in versi assai noti 1'opposizione tra 1'aspirazioneitaliana a rinnovare la gloriadiRomaelarealtàmeschirtadiunanUOVB!lisanzio.Così,nd mito di Roma rivisitato da Carducci, si materializzavaun demento di fondo della cultura politica dell'Italia unita, una specie - po- tremmo dire - di bovarismo nazionale, c.onsistentenella difficoltà acommisurareimezziaifini,nd rimproverocostantedd sognoalla realtà, nella oscillazione perenne tra sentimenti di superiorità e un senso amaro di inadeguatezza. 8R Romeo, Vitadi Cavour,Bari, Laterza.1984, p. 5l7. 9M~, Note autobiografiche,cit., pp. 89 e 5-6 (da una lettera dell'agostd 1871). . Nell'ultimo tratto dell'Ottocento, cioè nell'epoca dell'impe- J, rialismo e deIcolonialismo, ~Q~~ venne invocata a giustificazione ! di un particolare diritto italiano all'espansione e della necessità che il..n.1JQv~'.Regengouagliassela grandezza dei suoi progenitori roma- ni. Questo, ad esempio, proclamò Crispi, che in gioventù era stato mazziniano. E in effetti di questo spostamento dd mito della terza Roma dalla emancipazione dei popoli alla espansione della propria nazione si trova qualche traccia già nell'ultimo Mazzini, che rilevava nd 1871come,nd <<motoinevitabilechechiamal'Europa aincivili- re le regioni Mricane», Tunisi dovesse spettare per contiguità geo- graficaall'Italia.«Esullecimedell'Adante- proseguiva- svento- lò la bandiera di Roma quando, rovesciata Cartagine, il Mediterra- neo si chiamò Mare nostro. Fummo padroni, fino al V secolo, di tutta quella regione. Oggi i Francesi l'adocchiano e l'avranno tra non molto se noi non l'abbiamo»7. Certamente, nell'Italia liberale i riferimenti a Roma ebbero vari, e spesso opposti significati:si andava dalla cdebrazione dell'Urbe .( I , Su tutto ciò resta fondamentale Chabod, Stona della poli#ca estera italiana, . ciL 7 G. Mazzini, Politica internazionale, in Scritti editi ed inea#hImollt, 1941, voI. XCII, pp. 167-168. 6G.Volpe,ItaliamodernaF,irenze,Sansoni,1973,voI.I,p.26.... .-."', "... Galeati.  Wikipedia Ricerca Terza Roma concetto storico Lingua Segui Modifica Terza Roma o Nuova Roma è un'espressione che ha due accezioni.   Aquila bicipite, stemma imperiale dell'Impero Romano d'Oriente. Si può riferire alla città russa di Mosca, intendendo in questo caso per «prima Roma» l'antica capitaledell'Impero Romano e per «seconda Roma» la città di Costantinopoli, oggi Istanbul, ex-capitale dell'Impero Bizantino o Impero Romano d'Oriente.  Per «Terza Roma» ci si può riferire anche alla terza epoca della città di Roma: quella in cui assolve il ruolo di capitale d'Italia, seguita alle prime due epoche, quella della Roma dei Cesari e quella della Roma dei papi.  Uso del termine per Mosca                     Uso del termine in Italia                                        Modifica L'espressione «Terza Roma» venne usata anche da Giuseppe Mazzini durante il Risorgimento italianoriferendosi al superamento sia della Roma antica sia della «Roma dei papi»: la terza epoca della storia di Roma avrebbe dovuto essere contraddistinta dai nuovi ideali patriottici di libertà e uguaglianza con cui fare da modello all'Italia e all'Europa intera.[1]  L'ideale mazziniano sarà ripreso in epoca fascista e riadattato da diversi esponenti del regime come Enrico Corradini, che interpretarono la Terza Roma come l'avvento di una nuova civiltà.[1][2]  Lo stesso Mussolini, in un discorso pronunciato il 31 dicembre 1925 in Campidoglio, profetizzava una nuova era per Roma che avrebbe visto il territorio dell'Urbe espandersi fino ad approdare a uno sbocco sul mare.[3]  Una lunga citazione del suo discorso venne scolpita su una facciata del Palazzo degli Uffici all'Eur realizzato su progetto dell'architetto Gaetano Minucci:   «La Terza Roma si dilaterà sopra altri colli lungo le rive del fiume sacro sino alle spiagge del Tirreno»  La costruzione del quartiere dell'Eur nel 1942 avrebbe appunto rappresentato il primo passo in questa direzione.[4]   Iscrizione sul Palazzo alle Fontane nel quartiere EUR di Roma Note                                     Modifica ^ a b Fusatoshi Fujisawa, La terza Roma. Dal Risorgimento al Fascismo, Tokyo, 2001. ^ Parallelamente in Germania si stava affermando il cosiddetto Terzo Reich. ^ Discorso pronunciato in Campidoglio per l'insediamento del primo Governatore di Roma il 31 dicembre 1925. ^ AA.VV., E42. Utopia e scenario del regime, Venezia, Cataloghi Marsilio, 1987. Voci correlate                                    Modifica Antica Roma Costantinopoli Mosca (Russia) Storia di Roma Collegamenti esterni                          Modifica ( EN ) Terza Roma, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su Wikidata Controllo di autorità                            GND ( DE ) 4207361-3   Portale Italia   Portale Russia   Portale Storia Ultima modifica 3 giorni fa di LittleWhites PAGINE CORRELATE Costantinopoli capitale dell'Impero romano d'Oriente  Milion Successione dell'Impero romano Wikipedia Il contenuto  Pl€°Ifl      ffRMBIKOjI.   KflLYPSO     % H. ^'     l'.^^>^>M-     Z%!^-'^^J1     'V, j^i;»-'     AL bO FLRRABI MO   Kf\\ypso      PIC^ BIBLIOTtCB     S?254     bi SCIENZE nODLRME  r"i'BOCCB EDIT.     Digitized by the Internet Archive   in 2011 with funding from   University of Toronto     http://www.archive.org/details/kalypsosaggiodunOOferr     KALYPSO     ALDO FERRABINO     KALYPSO     Saggio d'una Storia del Mito      TORINO  FRATELLI BOCCA, EDITORI   MILANO - BOMA  1914     PROPRIETÀ LETTERARIA     yti      779987     Torino — Tipografia Vincenzo Bona (12496).     A MERCEDE PALLI KALYPSO     LIBRO I. — STORIA.   Capitolo I. La storia del mito . . . pag. 3-37  È necessaria e legittima, 3 — Il suo triplice valore, 8   — Caratteri, 18 — Il genio mitopeico, 23 — Ka-  lypso, 36.   Capitolo II. Andromeda pag. 39-107   Prima di Euripide, 39 — Euripide, 58 — Dopo Eu-  ripide, 89.   Capitolo III. La Demetra d'Enna . . pag. 109-157  Il mito siculo, 109 — Il mito greco, 118 — Il mito  siracusano, 127 — Il mito contaminato, 135.   Capitolo IV. L'abigeato di Caco . . pag. 159-206  Presso gli Indiani e i Greci, 159 — Presso i Latini,  170. — I poeti, 183 — Gli storici, 197 — I razio-  nalisti, 201.   Capitolo V. Cirene mitica pag. 207-255   11 sostrato storico, 207 — L' " Eea , di Cirene e d'Ari-  steo, 210 — Cirene in Tessaglia, 218 — Cirene in  Libia, 228 — Euripilo ed Eufemo, 233 — Gli Eufe-  midi e Batto, 248 — Conchiusione, 254.   Capitolo VI. Kalypso pag. 257-318   L'intuizione mitica, 257 — Le manifestazioni mitiche,  267 — L'evoluzione della mitopeja letteraria, 284   — Il flusso e riflusso delle saghe, 301 — La fine, 308.     vili INDICE     LIBRO IL - INDAGINE.   Avvertenza pag. 321   Capitolo I. Andromeda „ 323-369   Il racconto di Ferecide, 323 — Perseo, 326 — Acrisie,  Preto, Polidette, Ditti, 328 — Atena e la Gorgone  Medusa, 338 — Cefeo, Fineo e Cassiopea, 341 — I  miti etimologici presso Erodoto (VII 61) ed EU ani co  (frr. 159. 160), 356 — I frammenti dell'* Andromeda „  di Euripide, 358 — Euripide nel 412, 368.   Capitolo II. Il culto di Demetra inEnnajart*;. 371-395   La questione , 371 — I caratteri del culto ennense   nell'età storica, 372 — Il primitivo probabile nucleo   siculo, 378 — Le versioni greche del nitto di Kora, 386.   Capitolo III. L'abigeato di Caco . . 2>('£l- 397-420  11 problema, 397 — Il valore del mito indiano, 399  — Vergilio e Ovidio ; Properzio, 401 — Livio e Dio-  nisio, 405 — 1 particolari etiologici del culto, 407  Gli eruditi, 412 — Conchiusione, 420.   Capitolo IV. Cirene mitica pag. 421-448   Bibliografia e metodo, 421 — La ninfa Cirene, 422 —  Apollo Carneo, 427 — Aristeo, 428 — La ricostru-  zione dell'Eea di Cirene, 430 — Euripilo ed Eu-  femo, 434 — Gli Argonauti in Libia, 442 — Calli-  maco e il mito di Cirene, 446 — Esegesi novis-  sima, 448.     LIBRO I   STORIA     A. Ferrabino, Kalypso.     CAPITOLO I.  La Storia del Mito.     I, — nitto di Kora, 386.   Capitolo III. L'abigeato di Caco . . 2>('£l- 397-420  11 problema, 397 — Il valore del mito indiano, 399  — Vergilio e Ovidio ; Properzio, 401 — Livio e Dio-  nisio, 405 — 1 particolari etiologici del culto, 407  Gli eruditi, 412 — Conchiusione, 420.   Capitolo IV. Cirene mitica pag. 421-448   Bibliografia e metodo, 421 — La ninfa Cirene, 422 —  Apollo Carneo, 427 — Aristeo, 428 — La ricostru-  zione dell'Eea di Cirene, 430 — Euripilo ed Eu-  femo, 434 — Gli Argonauti in Libia, 442 — Calli-  maco e il mito di Cirene, 446 — Esegesi novis-  sima, 448.     LIBRO I   STORIA     A. Ferrabino, Kalypso.     CAPITOLO I.  La Storia del Mito.     I, — È necessaria e legittima.   Non esatta, anzi può dirsi fallace la nozione  del mito che è più diffusa. Andromeda, esposta  su lo scoglio al mostro marino ; la ninfa Cirene,  domatrice di leoni ; Cora di Demetra, rapita da  Aidoneo; Caco che, ladro di bovi, la forza di  Ercole piegò annientandolo (1) : tali persone e  vicende, come l'altre il cui insieme assunse presso  noi nome di Mitologia greca e latina, inducono,  ciascuna, al pensiero un racconto, non pur defi-  nito ne' termini e preciso ne' particolari , ma  costante nel contenuto, si da valere (usando  espressioni proprie a fenomeni differenti) per     (1) Cfr. in questo voi. i cap. II, III, IV, V. E cosi ri-  spettivamente ogni volta chC;, nel testo, si allude a uno  fra questi quattro miti.     I. - LA STORIA DEL MITO     classico o canonico, da apparire quel mito. Né il  prevalente costume , a pari di molti, è senza  motivi : già che si ricollega per un lato ai modi  che, nel concepire ed esporre miti , tennero i  compilatori alessandrini, quando miti non più  s'inventavano, ma si raccoglievano in contesti  dotti, e a scopo di conservazione erudita cia-  scuno si ordinava secondo uno schema princi-  pale, ne' margini sol tanto apposte discrepanze  minori e facili a obliterarsi; si ricollega esso  costume per altro lato al vezzo, — malo quanto  diffuso, suffragato dall'ignoranza, — pel quale  la saga chiude in sé una sostanza di verità, in  ispecie storica; si che, la verità non potendo  esser che singola, unico similmente sarebbe l'in-  treccio della fiaba onde è compresa. Ora, poiché  i criterii de' gramatici alessandrini, vissuti negli  ultimi tre secoli avanti Cristo, in nessun modo  possono essere più i nostri; e né meno è più  nostra, per ciò che non sodisfa la riflessione  né il senso storico, una tanto facile fede nella  veridicità del racconto mitologico ; bisogna riso-  lutamente farsi a considerare qual via possa  divenire la buona non che la nuova.   Sùbito sgombra la mente di assai equivoci e  di troppe astrazioni il porre, con precisione sto-  rica, i materiali grezzi della mitologia. // mito  di Cirene, — dimostrano questi, — non esiste :  meglio, esiste bensì, ma soltanto dopo le odi  pitioniche di Pindaro, i capitoli erodotei, l'inno  di Callimaco, questa o quell'altra anfora, un'iscri-  zione di Rodi; dopo ciò, e dopo tutto che è an-  dato perduto nell'esserci trasmesso dai secoli e  che di conseguenza ignoriamo. In altre parole,     E NECESSARIA E LEGITTIMA     l'indagine concreta non conosce se non un com-  plesso di componimenti letterarii, manufatti ar-  tistici, riti cultuali ; e sente entro ciascun compo-  nimento, ciascun manufatto, ciascun culto, in sé  e per sé, il mito. All'infuori, questo può tuttavia  sussistere; e per vero in due modi. risulta da  quelli, sia per ordinata compilazione, sia per  alterazion fantastica ; ma è allora diverso e  nuovo, un altro mito a pena affine a qualunque  l'uno di quelli. pm-e rende conto dei varii  componimenti manufatti culti e spiega i singoli  stadii e i singoli trapassi; ma in tal caso è di-  venuto, non la forma canonica o classica, bensì  la storia di quel mito. Conchiudendo : l'artista  moderno clie ci ripete una fra le molteplici  fiabe pagane, prosegue, e non termina, una serie  .di vicende, cui sottostò quella fiaba già nel pas-  sato; egli, insomma, elabora una fiaba nuova,  la quale può essere per certe analogie di casi e  identità di nomi avvicinata a talune antiche  meglio che ad altre, ma non diviene per questo  la fiaba di  quei nomi e di quei casi: questa in  qualclie modo ci dà, solo, lo storico , compren-  dendo nel suo dire tutte le trascorse apparenze  della favola e organandole geneticamente ed  evolutivamente. Chi vuole il mito di Andromeda,  ne legga la storia. Se non che, ond'è nato il concetto di racconti  principi nella mitologia pagana? Da due radici:  un fatto, e una tendenza. — Riandando storie di  miti accade di avvertire, chi anche sia grosso-  lano osservatore, quale e quanta rete di interessi  politici, di orgogli civici, di odii regionali, di  vanti principeschi, di rivalità religiose, ricopra,     I. - LA STORIA DEL MITO     musco boschivo, il crescente tronco della leg-  genda. Indi, la preferenza decisa vien concessa,  in certo luogo e in certo momento, a quella tra le  forme esprimenti la saga, la qual contenga il  particolare simpatico, 1' aneddoto favorevole, o  (che basta) si atteggi nella luce che più appaga.  Un fine pratico, per conseguenza, può canoniz-  zare i miti. altre volte, V ala d' un poeta, la  vigoria d'uno storico. 0, infine, il piti fortuito  caso. — Sempre, tuttavia, a canto di questa pre-  minenza d'una fra le forme mitiche, valse a  traviare il pensiero, l'abito, ch'è talora il vezzo,  dell'astrazione, sovente inopportuna. E perché,  comparati tra loro diversi racconti d'una saga,  parte coincidevano, e pareva il più, parte dif-  ferivano, e sembrava il meno ; si ritenne lecito  prescinder dalle differenze per insistere su le  coincidenze ; e di queste costituire la saga, e  quelle giustaporre in guisa di " varianti „ se-  condarie. Cosi le simiglianze riscontrate in cinque  testi di cinque autori intorno alle vicende, po-  niamo, di Cora, legittimavano la creazione ar-  bitraria d'un fittizio mito di Cora. G-rossolano  errore contrassegnato di superficialità. Difatti,  oltre le minori discrepanze notate, pure sotto le  uguali apparenze slontanava l'un l'altro i varii  testi alcunché, men ponderabile forse, ma al-  trettanto reale: la complessiva intonazione del  racconto. Il paesaggio medesimo, certo; ma in-  combente la luce di tramutati Soli. L'artificio  è cosi palese che stupisce potesse ingannare e  diffondersi. E pure condusse più oltre : a fìngere,  dopo il mito di ciascun personaggio, il mito in  sé, quasi ente separato, capace di influssi attivi     E NECESSARIA E LEGITTIMA     e passivi ; senza che divenisse tosto palese, come  cotesto ente non sussista se non col suo predeces-  sore logico; come quest'ultimo sorga da una  contaminazione di varie forme letterarie arti-  stiche cultuali; come quindi uniche esse forme  costituiscano la realtà da pensarsi e studiarsi.  Alle quali noi ritorniamo con franchezza; per  asserire (e lo asserimmo dianzi) che conoscerle  significa giustificarne le vicende.   Ossia : per affermare che solo storicamente si  può conoscere il mito. Ma dopo tale asserto, e  dopo scoperti i motivi reconditi dell' equivoco  consueto, rimane ancor dubbio, se o no sia legit-  tima la storia del mito. Difatti chi sa di aver  innanzi espressioni multiformi, cui f uron mezzo  le più disparate materie, dalla parola al colore,  dal bronzo al gesto sacerdotale, può sospettare  a ragione che trasceglier quelle espressioni, con-  netterle in serie, narrarle in istoria debba ac-  cadere per nessi, non intimi, ma estrinseci : per  identità di nomi di figure d' imprese ; mentre  tempi lontani, fibre tanto varie d'uomini, carat-  teri cosi mutati di ambiente, sembrerebbero per-  mettere, o comandare, la distinzion pili recisa.  Sospetto lecito, questo ; ma specioso. — Non im-  porta che certa temperie (dico, ad esempio, l'e-  poca di Augusto, o il magistero di Ovidio) ac-  costi molto fra loro due saghe di soggetto diverso;  là dove lontananza d'anni e di spazii separan  spesso saghe dell'identico soggetto. Ciò vale, o ci  ajuta, a informarci dell'epoca augustea o di  Ovidio, e del posto che la mitologia prende in  quella o presso questo. Ma è d'altra parte irre-  cusabile che ciascuna espressione di un mito,     I. - LA STORIA DEL MITO     in qualsivoglia materia avvenga, è stretta alle  precedenti da un vincolo più profondo e più in-  timo che r argomento : le conosce, ciò è, e le  rielabora. Disposte quindi in serie cronologica  coteste espressioni, ciascuna è materia greggia  rispetto alle successive, ed è sintesi originale  (anche negativamente originale, si capisce) a  confronto con le anteriori. Ne segue che la storia  ha buon diritto di farle scaturire l'una dall'altra :  essa, co' suoi criterii di tempi e di luoghi, con  tutti i sussidii di cui può valersi, riesce a co-  struirne quasi una genealogia ; della quale i rami  e i gradi son segnati da reciproci influssi più o  meno profondi, da modelli più o meno diversi,  sempre da caratteri intrinseci ed essenziali. — Del  resto, il resultato medesimo o, se piace di più,  il medesimo soggetto di questa, che diciamo,  storia del mito ne legittima, dopo gli argomenti  or ora esposti, la esistenza. Giunge essa a co-  struire sopra varianti forme favolose un indi-  viduo organico e definito : individuo ch'è, come  mostrammo, la leggenda.     II. — Il suo triplice valore.   Ma quali saran per essere i modi di tale istoria?  Il suo procedimento è chiaro. Raccolte (suppo-  niamo) le espressioni del racconto su Cirene  o su Cora, sia per notizie tramandate sia per  industria di congetture ne è, quasi sempre,  presto determinato l'ordine cronologico, se non  nelle sue minuzie, almeno in linee sufficienti.     IL SUO TRIPLICE VALORE     Solo di poi s'inizia un più arduo lavoro. Il pen-  siero, insomma, prende a conoscere quelle espres-  sioni: di ciascuna distingue prima gli elementi  costitutivi ; ciò sono i particolari della saga, e  quanti ne sieno espressi, e quali, che scene e che  episodi!: in sèguito, ne ravvisa la tempera, il  punto di veduta onde i particolari le scene gli  episodii furon guardati: per ultimo, discerne ove  consiste o se esista la forza sintetica che i par-  ticolari le scene gli episodii trascelse, aggruppò,  fuse. Triplice processo: valevole come per un  carme, cosi per una pittura e, checché sembri,  per un culto. Giusta poi le risultanze di questa  nostra fatica, le diverse espressioni mitiche in-  torno a Cirene o a Cora, si raccolgono, quasi  per sé, secondo nessi ed influssi, sino a costruire  lo schema delle lor geniture. — Allora lo scopo è  conseguito e l'indagine ha fine; mentre un'altra  specie di conoscenza si avvia: non più dubitosa,  qual si conviene alla ricerca, e faticosa di con-  troversie; ma conscia e sicura. Quel che rimane  incerto è delimitato ; quel che può essere certo,  è posseduto ; si che le lacune e il ricolmo si di-  stinguono nette. Altrui giudizii su la materia  son superati con l'approvarli o respingerli o mo-  dificarli. E insomma stabilito l'ordine; pel quale  lo schema ch'era conquista ultima dell'indagine,  diviene poi quasi base ; e sovr' esso si erige, pei  suoi muri maestri nei suoi archi di commessione  co' suoi travi intelajati, 1' edificio definitivo. Il  mito ha la propria storia.   Il mito è, da questo momento, vera ricchezza  nello spirito nostro. — Si obietta che è acquisto  mal certo, però che sieno per pensarsi o seri-     10 I. - LA STORIA DEL MITO   versi ancora, nell'avvenire come nel passato, di  quella stessa leggenda storie molto o poco di-  verse con asserzioni contradittorie alle prece-  denti e con intelletto nuovo. Il clie ridonda in  parte al difetto delle nostre fonti, mal perve-  nuteci frammentarie o lacunose, e in parte alla  discordia dei pensieri individuali. — Ma né l'una  né l'altra verità scema l'importanza dell'acquisto.  E in primo luogo : l'insufficienza delle fonti tra-  mandate o è cosi fatta che impedisca la storia  o pure solo qua e colà la fiacca. Se l'impedisce  (e son taluni casi), il danno è davvero grave.  Ma, ove solo la fiacchi (e sonvi gradazioni mol-  teplici che non perseguiamo qui), la jattura può  variare di entità ma si riduce tutta, in ultimo,  al fenomeno comune della individuale memoria  e, traverso questa, della memoria collettiva; si  riduce, quindi, alla condizione imprescindibile  della nostra conoscenza intorno al passato. In se-  condo luogo, il differire degli storici intorno a una  saga, se dimostra che nessuna storia deve a nes-  suno parere domma, prova insieme che ciascuna  è acquisizione viva a cui lo spirito muove libero  per indursi ad accettarla, e poi difenderla, con  agile freschezza e cura non intermessa ; attesta  quindi di ciascuna l'importanza, assidua perchè  dinamica. — Nell'uno e nell'altro luogo, poi:  quello spirito che ha conosciuto la storia d'una  leggenda, o di per se o con assimilare 1' opera  altrui, ferma con ciò duplice possesso; sia tra-  mutando in organismo il tutto insieme inorga-  nico delle fonti; sia impregnando della propria  essenza quell'organismo. Ha, in somma, composto  armonia del discorde, e reso personale l'alieno.     IL SUO TRIPLICE VALORE 11   Quindi, l'acquisto, come non dubbio, cosi è anche  materiato della più alta virtù di pensiero. Dura  come una fatica ; splende come una vittoria. Che  se di poi mutazioni intervengano e pentimenti,  non se ne scema, ma più tosto se ne innalza,  superando, il pregio insigne. H quale consiste, fi-  nalmente, nell'aver provocato la sintesi, se non  immutabile, certo personale, in tutta la serie co-  nosciuta di determinate espressioni mitiche, lon-  tane e disperse.   Il mito è, dunque, da quel punto viva ric-  chezza nello spirito nostro. Se facile mostrare  tal verità, sottile è però discernere i valori di-  versi della conoscenza in quella guisa procurata.  Ma è necessario, per farla più conscia.   Lo storico si è, durante i successivi momenti  della saga, uguagliato a' successivi artefici di essa.  Un ignoto cantor popolare vi trasfuse il suo sogno?  Io, per comprenderlo, debbo mirare con gli occhi  di lui ; e dinanzi a me la visione ha da concre-  tarsi in quelle fogge che f m-on di lui. Erodoto ?  Pindaro? Claudio Claudiano? Uno appresso al-  l'altro, s'immedesimano per l'istante con lo sto-  rico e questi con loro, fin quando similmente a  ciascuno la materia si sublimi in arte. — Tuttavia,  in si fatte individuazioni, o mischianze con gl'in-  dividui creatori, la Storia avverte tosto il suo  vantaggio. Nell'atto d'intuire la saga il poeta o  il pittore muovono dalle sue forme anteriori, che  conoscono, verso la nuova espressione, che igno-  rano e producono; a quell'atto rifacendosi l'in-  telligenza dello storico, deve muovere tanto dalla  loro espressione quanto dall'altre precedenti, e  quella conosce, e queste conosce del pari. Si che     12 I. - LA STORIA DEL MITO   là dove l'artista si trova di fronte a un che di  imprevisto, in cui l' impreveggibile è determi-  nato dalla potenza della sua energia creativa ;  per contro lo storico si trova sùbito a conoscere,  traverso l'opera compiuta, appunto quella po-  tenza dell'artista e può ponderarla e giudicarla.  L'effetto è che non solo egli si è identificato  con una delle espressioni nelle quali la saga  visse, ma anche l'ha valutata. L'attimo di pos-  sesso si conclude in giudizio. — Di più lo storico  non si considera pago né pur di questo giudizio  che già di per sé lo eleva sopra l'artista in-  tuente : vi avverte un valor m omentaneo e, te-  nendo l'occhio a ben più alto segno, vuole e può  assurgere a quell'intuizione sintetica della saga,  da cui appajono giustificate le intuizioni singole  degli stadii e delle forme come dallo scopo il  mezzo. Tale pregio, che è della storia del mito,  può quindi esser detto pregio intuitivo.   Ce n'è un secondo: scientifico. Non poche di-  scipline difatti van di continuo preparando al  pensiero cognizioni che gli giovino nell' opera  sua: attinenti ai linguaggi dell' antichità, agli  scrittori co' lor caratteri e con la misura in cui  sono attendibili, ai culti con le fogge che di-  vennero consuetudinarie, ai popoli con le cre-  denze e i pregiudizii, con le superbie le ire e le  menzogne. Certo, non son leggi rigide e fisse,  quelle che cotesto discipline ci offrono, né tanto  meno impongono ceppi all'intelligenza. Sono,  più tosto, formule in cui l'esperienze vannosi  condensando; consigli, che risparmino fatica in-  dividuale o suppliscano a irrimediabili ignoranze.  Costituiscono il tesoro comune, cui possono tutti     IL SUO TBIPLICE VALORE 18   riferirsi, che è stolto trascurare, né si può senza  fallacia. Orbene ; anche le cognizioni cosi cumu-  late lungo gli anni da tanti sforzi concordi,  convergono nella storia della leggenda; e quanto  più numerose, meglio l'afforzano, rassodandole  l'ossatura, e permettendole o promettendole con-  senso più vasto e interesse più vario. — Fra tutte,  precipue quelle in cui s'è tradotta la coscienza  dell'antico e recente, vicino e lontano, favoleg-  giare : maraviglioso sempre, di rado inconsueto.  Cento numi agresti si rinvengono fra cento po-  poli, dagli Urali alle Ande, dall'Islanda all'E-  quatore. E i riti, le danze, i canti, i vestimenti,  le fiabe, si mischiano somigliandosi e differendo  insieme, vario concento sopra un ritmo unico:  che ogni gente reca il suo contributo. E cielo,  monti, acque silvestri marine lacustri, paschi  pingui di bovi opimi, biade che la golpe uccide,  biade che la zolla e il Sole indorano, notti il-  luni, meriggi piovosi, silenzii delle cime, fragori  delle spiagge e dei tuoni, fauci di caverne e fen-  diture del suolo : l'immenso respiro pànico, che  penetra pei sensi ed abbacina l'anime, ritoma  costante nelle voci e nei gesti di viventi in terre  lontane. E ritornando erudisce l'uomo dell'uomo.  Ond'è che son opere in cui questa varietà spe-  ciosa è ricercata con amore intento, disposta  con cura e scrupolo in chiaro ordine (1). Ivi     (1) Cito ad esempio W. Makshardt Mythologische For-  schungen (Strasburg 1884); H. Usexer Sintfluthsagen (Bonn  1888); J. G. Frazer The golden Bough ^ spec. parte V  Spirits ofthe corn and of the wild (London 1912); W. v. Bau-     14 I. - LA STOBIA DEL MITO   molte leggende sono narrate, molte cerimonie  descritte, quelle che gli uomini dicono e com-  piono da quando sorge il lor Sole a quando tra-  monta, e quelle anche che la notte conosce. Ma  ivi nessuna leggenda vale per sé, nessun rito  pel suo modo; anzi, non a pena ripetuta l'una,  tracciato l'altro, si distrugge tosto l'individua-  zione, perché si vuole, badando al generale ed  al comune, conseguire identità spirituali contro  distanze di tempi di luoghi e differenze di forme.  Vi si fa propedeutica; non storia. — Cosi in altre  opere, le quali scaltriscono su gì' infingimenti  obliqui di interessate invenzioni che non è lieve  scoprire ; o vero su i traviamenti della intelli-  genza che tenta le cause del fenomeno ignoto,  ma s'abbaglia di fantasmi. Avvertono, queste,  come un nome frainteso generasse talvolta un  popolare etimo errato, e l'etimo la fiaba: come  Scaevola connesso con l'aggettivo che significa  " mancino „ determinò il racconto dell'intrepido  Muzio e della destra bruciata. Insegnano che  per dar ragione al nome di una città (Roma?)  s'inventò pari pari un eroe o un nume (Romolo?).  Spiegano che un culto greco fra culti romani  parve agli antichi giustificato col narrare qual-  mente al dio stesso fosse piaciuto recarsi da  l'Eliade nel Lazio. Procurano, infine, di segnare  in classi i fatti; e creano alle classi fin la de-  nominazione discorrendo di " miti etimologici „  per i primi casi ; di " miti etiologici „ per l'ul-     DissiN Adonis und Esmun (Leipzig 1911); E. S. Haktland  The legend of Perseus (voli. 3, London 1894-6).     IL SUO TRIPLICE VALORE 15   timo (1). Tutti bisogna che lo storico sappia, per  sviscerare gli stadii della sua saga, senza equi-  voco grande né troppe dubbiezze. — Di tutti,  quindi, è conscia la storia di una leggenda. La  quale leggenda nel tempo stesso cbe ne riesce de-  finita, si da impedir confusioni con altre pur si-  miglianti, si allaccia poi tutta, o quasi tutta, con  le formule della propedeutica confermandole in  presso che ogni sua vicenda. Non che in tal  modo scemi la singolarità sua propria; e allora  perché farne storia? Né manco che non aggiunga  tal volta materia alla propedeutica medesima;  già che questa non è mai conchiusa, e di con-  tinuo si accresce, per l'appunto come la espe-  rienza dell'uomo in cui la contenemmo. Ma anzi  la storia di un mito ha questo pregio scientifico:  mentre è impregnata, come più latamente può,  del sapere collettivo intorno alla propria ma-  teria; mentre è dissimile da quel sapere, ed esiste  per la sua dissimiglianza ; è pronta a contri-  buirvi con tutta sé medesima, per quanto con-  tiene di insolito, e per quanto riafferma del con-  sueto.  Terzo pregio è un altro, fors' anche maggiore.     (1) Cfr. G. De Sanctis Per la scienza dell'antichità (To-  rino 1909) pagg. 319 sgg., ove in polemica è chiarito assai  bene anche con esempii il contenuto di quelle due deno-  minazioni. — Chi poi voglia avere rapidamente un'idea  su la vastità e gl'indirizzi dell'indagine mitologica può  per gli anni 1898-1905 consultare la intelligente ras-  segna di 0. Gruppeìu " Jahresbericht tìber die Fortschritte  der klassischen Altertumswissenschaft „ Supplementband  CXXXVII (1908).     16 I. - LA STOEIA DEL MITO   Filosofico, si riferisce a un' alta visione del jias-  sato e del presente. La saga è dell' uomo, nasce  di lui, or come nebbia da piani pigri, or come  da lago ninfea. Le vicende della luce la iridano  durante un giorno, e le compongono varia bel-  lezza, fin che la tenebra giunga. Ma il motivo  delle trasfigurazioni luminose come del soprav-  venir tenebroso, è secreto dello spirito umano.  Secreto dell'uomo, che ha fermati i suoi saldi  piedi sul suolo tenace, e vede intorno a sé la  meraviglia del cielo nel sole nelle nubi negli  astri, purezze nivee e dentate di vette inviola-  bili, scompigli di chiome arboree nello squassar  dei vènti, rigidità delle rupi cui arcana opera  finge sembianze umane, mefiti di putizze dagli  acri fumi ; vede, e conosce, mentre un empito  indicibile gli urta su la fronte le tempie, illu-  dendolo centro a quel mondo ; o mentre una forza  ineffabile lo gitta prono nello stupore che pa-  venta ed adora. Secreto, in fine, dell'uomo che  con occhi incerti guata, fra il mento e i capelli,  la maschera fosca del suo rivale, ad apprenderlo  ed eluderlo ; e con occhi scaltri studia nel moto  i muscoli e gli artigli della belva silvana, per  farla sua preda o imitarne il destro miracolo ;  e poi, con occhi ebbri di sogno, nelle improv-  vise forme che la natura plasma tra cielo e terra,  nelle prepotenti energie che essa suscita ovunque,  ammira il volto del suo nimico o la violenza  della fiera. Appresso, su la prima trama esigua,  quasi ragna d' oro fra due rami d' un mirto, si  consuma la dolorosa fatica dei posteri ; che l'in-  venzione originaria non si perde, ma, serbata  tal volta in reliquarii preziosi, salva altre volte     IL SUO TRIPLICE VALOEE 17   per caso, regge su le sue fila tenui il trascorrer  lento e difficile dei travagli clie martellano Fu-  manità nei secoli e le rodono il cuore invincibile.  Ogni fiaba s'impregna cosi di sapori dolci e agri,  forti ed amari : abbrividisce delle cose tremende,  s'esalta delle cose salienti, supplica, spera, esorta,  rampogna. Il suo intreccio si foggia su i meandri  dello spirito. E nello spirito la sua virtii cerca  le potenze dell' espressione ; stimola 1' energia  onde si crea il diafano contesto verbale o si  plasma nella dura materia il moto o si finge l'an-  sito nel colore; e con lei genera creature d'ale  e di fiamma, o per lei si corrompe in miserevoli  mostri e deformi. Far quindi la storia del mito  significa spremerne cotesto succo occulto, il quale  si mischia col nostro più profondo pensiero su  la vita e saggia le nostre idee sul bello sul  buono sul vero, su l'uomo e la forza della sua  visione, e la forza della sua espressione, e il suo  lungo cammino. — Idee che costituiscono d'altro  lato lo scheletro stesso della storia d' un mito.  Del quale il trapasso di forme può venir conce-  pito geneticamente, l'una determinando l'altra ;  o staticamente, i nessi essendo privi di forza  generatrice; o in rapporto all'evolversi comples-  sivo dello spirito ; o in altre maniere, di cui cia-  scuna dipende da una teoria filosofica. Persino  chi per orror metafisico mai abbia voluto im-  pacciarsi di problemi si fatti, porterà la sua av-  versione nella storia e ve ne lascerà i segni,  non giova dire di quale specie. Onde la cono-  scenza del mito di Caco o di Andromeda, pur  contenendosi nei termini di un limitatissimo fe-  nomeno, pur fermando nel pensiero una por-   A. Ferrabino, Kalypso. 2     18 I. - LA STORIA DEL MITO   zioncella minima del grande moto di cui tutto  il passato è pieno nella memoria degli anni,  tuttavia impegna con sé un'idea di quel moto  e del nostro pensiero: la stimola e la cimenta.  Filosofìa : senza cui, il breve mito sarebbe assai  poco ; con cui, diviene moltissimo.     in. — Caratteri.   Che se a quest'ultimo i3regio filosofico pen-  siamo ora aggiunti in perfetta fusione di Storia  gli altri due, intuitivo e scientifico, non appare  sùbito qual sia la lega comune onde tanto com-  patto è il resultato. Ma lega si rivela l'intel-  letto dello storico ; ove i concetti assimilati dalle  discipline propedeutiche, e le idee elaborate dal  pensiero meditante, s'illuminano di luce nuova  nella vita dellintuizione, quando vengono esposti  all'attrito della realtà testimoniata. — Di più  non può dirsi: che ha da restare intatto il mi-  stero creativo. Tuttavia, pur da questo si vede  come larghissima parte della intelligenza vada  a imprimere la storia d'una semplice saga; come  quindi questa storia sia, anzi tutto, soggettiva.  Né forse è detto ciò senza stupore di molti ;  perché prevale oggi il principio della oggetti-  vità storica, tanto che il riconoscimento del con-  trario nell'opera di chi che sia suona quasi a  rampogna. Si avvezzano cosi i lettori d'istorie a  cercarvi le parole della certezza assoluta, allet-  tandoli con un equivoco ch'è quasi una mistifi-  cazione. Si proclami dunque chiaro e alto. Nel     CARATTEBI 19     racconto delle vicende storielle per cui un mito  si svolse sono le stimmate d'una personalità; né  solo, ma il valore di quel racconto è in queste  stimmate ; in quanto la personalità, non pure as-  somma, si anche fonde e ritempra, com'è neces-  sario, quelle cognizioni dottrinali, quella teoria  filosofica, quella geniale potenza intuitiva, che  si riconoscono indispensabili alla costruzione  d'una qual siasi storia; e in quanto, inoltre,  dalla misura di esse cognizioni teoria potenza  e del loro commettersi, dalla misura, in breve,  della personalità medesima, è segnato il pregio  del contesto narrativo.   Dal qual evidentissimo principio si definisce  anche l'atteggiamento di chi legge a fronte di  chi ha scritto. Non accettazione sùbita ; né re-  verenza ad autorità indiscussa : invece, ragione-  vole assenso, ora parziale ora totale, ora nei par-  ticolari ora nella sintesi. E sempre, al di là degli  uni e dell'altra, valutazione del pensiero che è  solo responsabile e che, scoprendosi con ardi-  tezza, accetta onestamente d'essere imputato.  Compito arduo, adunque, è il leggere non meno  che lo scrivere storie; si che può ben dirsi, che  quasi mai viene assolto integro. Ma, per lo più,  solo per il lato si adempie che costituisce l'in-  teresse onde mosse la lettura ; e da quel lato  soltanto sogliono originarsi le censure, le più  modeste e le più burbanzose. E a volta a volta la  storia della saga di Cirene deve soddisfare le  pretese del filosofo, la dottrina dello scienziato,  il gusto del contemplatore. Ora, affinché sia più  lieve a tutti costoro l'opera di critica rielabo-  ratrice, lo storico mostra sempre (fra noi, al-     20 I. - LA STORIA DEL MITO   meno; non costumava cosi Tucidide, né Ma-  chiavelli ; con pena della moderna indagine)  mostra, in una qualunque parte del suo lavoro,  i mezzi di cui si è valso e le vie che ha seguite;  onde ne è pronto il riscontro (1).   Per che si giunge a scoprire l'opposto aspetto  della soggettività fin qui rilevata. Quando l'ar-  tefice medesimo scinde, pei lettori critici, l'opera  propria ; allora, sopra le testimonianze e le for-  mule e i giudizii, ch'egli cita e discute, si fan  concrete ed esteriori le sue idee e intuizioni, si  cristallizzano in materia nuova su la materia  che vedemmo preesistere allo storico. Accade  perciò, da tal momento, che si possa misurare  quanto ciascuna individuazione sia piena di  realtà, cimentandola con tutti gli elementi, di-  venuti esteriori e concreti, di cui nella intimità  e fluidezza dello spirito creativo essa si era nu-  trita. Il critico, se è (fenomeno raro) compiuto,  vaglia, in qualità di scienziato di filosofo di  individuatore, tutti questi elementi, scissi prima,  organati poi; e valuta il pregio dei singoli e  della mischianza loro. Cosi, quel che fu già ema-  nazione viva d'una vivente persona; imponde-  rabile, quindi, oltre la sfera di essa persona; e  definito, per tanto, '' soggettivo „ : diventa pas-  sibile di metro, di scandaglio e di analisi; defi-  nito, per tanto, " oggettivo „.   Sempre, per opera dello storico la leggenda  assume la finitezza della persona e i caratteri  dell'organismo. Si scevera da l'altre: è quella.     (1) In questo volume ciò è fatto nel libro II: Indagine.     CARATTERI 21     una. Le sue vicende hanno, inoltre, un principio  e un termine, per conseguenza un culmine ; v'è  quindi un nascimento e un corrompimento, fra  cui si tocca la maturità. La storia d'una saga  sarebbe dunque una ^ storia catastrofica ,, e sul  suo finire sonerebbe l'elegia, inetta a risuscitar  la creatura morta, ma pretensiosa di balsa-  marla? (1). Si risponde: è catastrofica; già che  si chiude col dissolversi di quel che al suo inizio  si compone : non è elegiaca ; però che, pur la-  mentando , se crede , la morte avvenuta, ne  indaga i motivi e prociu-a comprenderli col pen-  siero senza stingerli col sentimento. Ma en-  trambe queste risposte esigono d'esser più am-  piamente delucidate.   Qualche pagina innanzi fu provato (per quanto  io credo) che non solo è necessaria la storia  del mito per conoscer il mito, ma è in tutto  legittima, perché opera sopra un individuo pre-  ciso il quale ha una reale e non disconoscibile  esistenza. E. già sappiamo del pari che quell'in-  dividuo risulta da una serie di stadii, e ciascun  d'essi non può star solo, ma è in intima atti-  nenza coi precedenti e coi successivi. — Ora pos-  siamo specificare meglio : che ciascuno stadio  rappresenta una creazione spirituale. Sia di poco  o di molto momento, vi è immancabile l'attività     (1) Contro le storie catastrofiche ed elegiache si pro-  nuncia Benedetto Croce in Questioni storiografiche [" Atti  dell'Acc. Pontaniana , XLIII (1913), a pag. 6 sgg. del-  l'estratto]. Egli muove, s' intende, dalla sua identifica-  zione della storia con la filosofia.     22 I. - LA STORIA DEL MITO   d'un artefice che ha segnato di sé medesimo,  con grande o con piccola impronta, la materia  leggendaria. Ognuno di questi artefici apporta  speciali energie e del mito sviluppa potenze che  o vi giacevano celate o n'erano state mal svolte.  Per conseguenza, astraendo si possono conside-  rare, in un qual siasi stadio leggendario, tre ele-  menti : la manifestazione, senza  cui non sa-  rebbe ; la sostanza del mito desunta dagli stadii  anteriori ; l'energia innovatrice dell'artefice. Di  qui, son possibili varie evenienze: o che a un  certo momento ogni manifestazione cessi, per  qual siasi motivo, sebbene ce ne fosse la potenza  ancora negli spiriti e nel mito; o che la mani-  festazione appaja inadeguata alle precedenti e  per ciò monca e non bastevole ; o che, in fine,  l'energie dell'artefice apportino alla sostanza  della saga violenze che la rinneghino. Nel primo  caso, la catastrofe è sùbita e tronca un rigoglio;  nel secondo è preceduta da uno scadimento, che  la prepara; nel terzo, da una corrosione, che la  vuole ; i quali due ultimi è evidente che debban  spesso coincidere. Ma la catastrofe, la morte, è  sempre. E la storia, in quanto storia, deve nar-  rarla, come narrò il nascimento ; ed essere, ine-  vitabilmente, catastrofica.   Non è, dicemmo, elegiaca. Sarebbe, senza  dubbio, se lo spegnersi d'una luce non signifi-  casse, fra gli uomini che hanno assiduo il fer-  mentar delle forze nello spirito, l'accensione di  un'altra, di più altre, quasi pel ripetersi ardito  di magie misteriose. Ma qui dove dai vecchi  ceppi si spiccano a dieci i virgulti giovani, v'è  motivo a sconforto sol tanto per chi brami, come     IL GENIO MITOPEICO 23   meglio, la distruzion del tutto. — Rimane, per  altro, legittimo, se non lo sconforto, il senso del  danno. Lo stampo di Caco s'infranse, e qual  egli era stato concepito, quale gli artefici l'ave-  vano formato, ninna potenza terrena può ri-  crearlo indipendentemente: un individuo inso-  stituibile scompare. E^ scomparso, non lui solo  perdiamo. Molte saghe venner create con bel-  l'impeto dalla giovine mitopeja dei Pagani; molte,  non tutte le nate, si svolsero traverso gl'inni  dei poeti, i bronzi degli statuarii, i gesti sacer-  dotali; non molte, poche divennero nell'epoca  del pili adulto pensiero classico, quando per con-  taminazioni la ricchezza del numero si fu as-  sottigliata in bellezza della specie. E ogni nuova  morte sminuisce quella dovizia di una unità,  scema questa bellezza di grande efficacia : quel  che sottentra è copia e grazia dello spirito  umano, della mitopeja classica non più... Una  maggior individualità, dunque, è minacciata  dalle morti di questi minori individui mitici.  Un colpo di accetta, ognuna ; e la quercia si  squassa.     IV. — Il genio mitopeico.   Quella individualità maggiore è oramai em-  brionalmente posseduta dal nostro pensiero.   Quando siasi letta la saga di Andromeda, e  poi di Cirene, e di Caco, e anche di Cora;  appresso, non si conoscono pure quattro vite di  saghe, come fossero di eroi o di santi o di sta-     24 I. - LA STORIA DEL MITO   tisti; ma è già vivo, se anche non maturo, nel-  l'intelletto un nuovo sapere. La ancor recente  esperienza, rotti i termini entro cui si è for-  mata, tenta di organarsi in altro stampo, in-  frange l'intuizione del singolo per disporsi, in  che ? come ? Per la risposta, da principio ingan-  nano due parvenze, contradittorie nella forma,  entrambe erronee.   La prima parvenza è brevemente questa. Con  l'ajuto delle cognizioni acquisite nello studio  di quattro miti si possono perseguire due com-  piti differenti. Uno, più modesto, consiste nel  raccogliere tutti i fatti constatati durante lo  studio e nel disporli con altro criterio che il cro-  nologico e genetico : nel guardare, in breve, il  medesimo mondo, nei medesimi margini, ma da  altro pimto di veduta. H secondo compito, in  vece, costringe a trascendere i limiti segnati  dalle quattro saghe, fino ad affermare di tutte le  saghe qualcosa che per le quattro soltanto venne  sperimentato : costringe a varcare verso l'ignoto  l'esperienza acquisita, pregiudicando da questa  quello. Entrambi i compiti hanno natura e scopo  pratico ; come quelli che servono a concludere  ordinatamente sotto la specie di leggi (nel se-  condo caso) o di formule (nel primo) esperienze  compiute storicamente sotto la specie delFindi-  viduo. E sono , perché pratici , utilissimi ; né  giova, secondo piace a taluno, predicarli ride-  voli o in altro modo spregiarli. — Non mostrano,  tuttavia, lo stremo di quanto possa e voglia il  nostro pensiero, elaborato che abbia un certo  numero di storie su fiabe. Non può esistere un  soggetto vivo cui attribuire quelle formule e     IL GENIO MITOPEICO 25   quelle leggi, si cke gli aderiscano come i carat-  teri all'uomo ; ond'è che ci appajono e le une e  le altre, dopo che arbitrarie, insufficienti. Arbi-  trarie le formule, perché incardinate su criterii che  non sono immanenti al loro soggetto, ignoto e  irreale, ma che vengono dal di fuori imposti alla  massa dei fatti storici ; e le leggi, perchè teme-  rariamente affermano più del conosciuto, impe-  gnando in sé, insieme con il già intuito, il non  mai visto. Cosi le prime, avulse dalla realtà  viva onde germinano, incadaveriscono in freddo  schema e, come schema, lasciano straripare oltre  di sé e sfuggire sotto di sé la vita vera delle  quattro saghe ; le seconde, pur danneggiando  tal vita nella stessa guisa, non sodisfano i^oi  affatto un intelletto veramente avido di sapere  concreto : entrambe, quindi, definimmo or ora  insufficienti.   Fallita la prova di questa parvenza, l'altra  vediamo qual sia, e ]Derché non appaghi. Dove fu  avvertita mancanza d'un soggetto che sostituisca  nella nuova opera i miti, soggetti delle singole  storie, ci s'illude di coglierne uno ; se ne crea  uno difatti, f)ur che si astragga un poco come  suole il pensiero. Si crea un (diciamo) ente o spi-  rito, cui competano tutti i caratteri dei varii in-  telletti che influirono, di stadio in stadio, su  l'uno o su l'altro dei quattro miti storicamente  appresi; cui, quindi, appartengano patriottismo  e fede, scettico scherno e dubbio religioso, pre-  occupazione sociale, sensualità voluttuosa e i)re-  giudizio manchevole ; e che concilii inoltre ogni  virtù in una sintesi superiore alle contradizioni  apparenti. Cotesto ente o spirito avrebbe, forse.     26 I. - LA STORIA DEL MITO   esso pure una evoluzione, e certi stadii lungo i  quali si disporrebbero le sue energie e i suoi  attributi. Parrebbe, per tanto, assai bene passibile  di storia. — Ma l'artificio più palese l'ha origina to.  Difatti, mentre chi narra la storia di un mito  opera (vedemmo) su stadii, che sono di per sé  congiunti, e che senza nesso non sono né pure  compiutamente intelligibili ; i caratteri in vece  e le energie di quel pseudo spirito vengono solo  per caso delimitati, avvicinati e graduati : già  che unico motivo per cui quel falso ente si af-  ferma con alcune qualità, e non altre, con alcune  vicende, e non altre, è la scelta, precedente-  mente fatta con criteri! estranei, di quattro miti,  e non d'altri. Che se dieci o diversi fossero, gli  attributi muterebbero numero, specie e succes-  sione. Segue, che è necessario guardarsi dall'in-  sistere sopra un soggetto cosi fittizio, se non si  voglia ricadere negli stessi vantaggi pratici e  svantaggi teorici in cui trascinano formule e leggi.  Vinto l'errore, la salute appare spontanea.  Basta che si trovi uno spirito, il qual sia vero  e non artificiato, intuibile dallo storico e sog-  getto vivo delle nostre esperienze anteriori, li-  mitate per qualità e per quantità. Ora, se è  (come dicemmo) arbitrario determinare un in-  dividuo mitopeico valevole per quattro miti,  perché è introdotto dal caso, ossia dalla nostra  anterior ricerca, il numero di quattro : soppri-  mendo quel numero, ci troveremo dinanzi a un  reale individuo, allo spirito greco-romano in  quanto elabora saghe, o al genio mitopeico dei  Pagani: dinanzi, ciò è, a un che di esistito ef-  fettivamente, di certamente vivifìcabile, di indù-     IL GENIO MITOPBICO 27   bitabilmente storico. Qui il pensiero si ritrova  a suo agio e, intuendo, lotta a sottomettersi la  realtà proteiforme ; qui formule e leggi vanno  a confluire nella materia ignea , rimettendo di  lor rigidezza fino a liquefarsi nel flusso incan-  descente. — E conquistato una volta questo certo  soggetto, si comprende d'un tratto come tutto  che si afferma nell'ambito delle quattro fiabe  conosciute vale ed è esatto per il genio mito-  peico, ne è la storia ; è, sol tanto, incompiuto e  insufficiente : perché lembo di un tutto ; lembo  casuale di un tutto reale. Ma, appunto in forza  di questo tutto, ha importanza, dev'essere affer-  mato, e può assumere, esprimendosi, un tono  generale. La medesima sua incompiutezza poi  è solo in parte insufficienza. E, in quanto oltre  alle quattro fiabe cónte altre assai sarebbero a  disposizione del pensiero che volesse conoscerle  in istoria e attribuirle poi al genio mitopeico.  Non è, quando si avverta che, i)ur conoscendo  tutte le fiabe, quel genio mitopeico risulterebbe  per noi sempre, dalle fortune del caso e dal de-  corso del tempo, privo di qualche sua saga, e  quindi scemo di talune energie, per guisa che  dovrà in ogni maniera venir intuito traverso  molte si ma non tutte le sue manifestazioni ;  non dissimilmente dall'indole degli uomini che  la sorte ci pone su la via o dalle vicende degli  istituti che remoti echi ci tramandano irrego-  lari. — Quattro miti son dunque poco i3er pos-  sedere, nei suoi confini e nelle sue virtù, l'animo  leggendario dei Pagani ; tuttavia il loro inse-  gnamento è certo, se bene incompiuto; insuffi-  ciente, non arbitrario.     28 I. - LA STORIA DETi MITO   Cosi le storie di quattro miti conducono alla  storia della mitopeja. — La quale pertanto non  può consistere nell'insieme inorganico di quelle  quattro singole storie, se si mantenga incom-  piuta, né, se voglia integrarsi, nell'insieme inor-  ganico delle storie su le varie saghe conosciute.  Tale è l'uso dei manuali; ed è uso degno del  nome e dei libri: che noi vedemmo dianzi la  esigenza di quella più larga istoria emergere a  punto dal succedersi (che è stimolo, dunque, non  sodisf acimento) di taluni racconti men larghi.  Come, per analogia, le biografie di cento indi-  vidui non souD la storia della nazione cui ap-  partengono, e che li comprende in sé e in sé li  distrugge. Flutti nel mare, le molteplici saghe  non s'individuano che a patto di delimitar  volta per volta il total genio mitopeico in mar-  gini che non sono i suoi proprii. E a quel modo  che l'Uomo non attua le sue potenze tutte se  non nella umanità ; il Mito non sviluppa tutte  le sue virtù se non se nella mitopeja. E tutte  non si conoscono, che spezzando in un testo più  ampio i termini in cui si conchiusero le cono-  scenze dei singoli. — Evidenza pari ha, o do-  vrebbe avere, un altro vero eh' è parallelo a  questo. Dianzi, giustificandosi legittima la storia  di un mito, nell'atto di mostrare come le mol-  teplici manifestazioni leggendarie potessero ag-  grupparsi in tanti cespiti quanti sono i nomi e  le fondamentali vicende che accomunano ta-  lune fra esse ; disegnavasi pure , come possi-  bile, l'impresa di ridurre quelle manifestazioni  molteplici più tosto sotto le rubriche delle di-  verse epoche e dei differenti luoghi, per com-     IL GENIO MITOPEICO 29   porre, con criterio cronologico e geografico, la  storia della mitopeja pagana lungo i secoli e  traverso le regioni del mondo classico. Età per  età si vedrebbero gli spiriti, informati da quella  determinata temperie, intervenire su tutto il pa-  trimonio favoloso; e ciascuna avrebbe le sue  predilezioni nello scegliere i soggetti e le sue  attitudini nel foggiarli. Or bene : dopo una tale  opera, cosi se siasi estesa a intero l'ambito tem-  porale e regionale dei Gentili, come se sia stata  ristretta in taluni confini di paese o di momento,  è tutto sodisfatto il desiderio di conoscenza?  o pure, anche da essa deriva allo spirito un bi-  sogno più alto? Senza dubbio, un paragone  con l'insieme inorganico delle singole storie di  miti sarebbe a sproposito. In questo secondo caso  difatti v'è organicità : ogni epoca influendo su  la susseguente dopo che la precedente su essa  aveva operato ; ogni luogo fra i Glreco-romani  riconnettendosi, quant'alla mitopeja, con qualcbe  altro, o in senso negativo o in positivo. Ma, a  parte tal rilievo, è certo che il bisogno sussiste  tuttavia. Sopra le differenze più o men no-  tevoli fra regioni e tempi, colpisce in tutt'e due  i casi la costanza con cui talune energie del-  l'anima nostra, e sol tanto quelle, e sempre quelle,  influiscono su le saghe: siano la fede e Tamor  patrio, il senso naturalistico e l'acume psicolo-  gico, lo scetticismo ragionevole ed il razionale.  Colpisce che, come più si risalga nei secoli, meno  fra esse intervengono nella mitopeja, fin che  alle scaturigini pochissime si ritrovano ; e che,  come più si discenda nei secoli, non solo si ac-  crescono per numero ma quasi si succedono per     30 I. - LA STORIA DEL MITO   dignità, tramandandosi tal volta nel corso la  fiaccola, umanamente. Si comprende che son le  potenze del genio pagano in officio di mitopeja ;  s'indovina, entro la libertà delle manifestazioni,  cosi traverso l'epoche come sotto i cespiti no-  minativi, un'armonia ch'è ancora imprecisa ma  merita indagine; e si desidera cercare questa  armonia e quelle potenze.   Concetti empirici, dunque, tali potenze? ar-  bitrio di astrazione a scopo pratico? Non cosi.  Il tono generico è solo esteriore ; nell'intimo, chi  ben guardi, ciascuna di quelle parole vuol indi-  care qualcosa di assai individuo e concreto : al-  tr' e tante energie spirituali che, in certi momenti  della storia, e in determinati punti della terra,  hanno gittate singolari riflessi su la saga, ora  iridandola di sfumature, ora riardendola fin nel-  l'essenza : altr'e tanti fatti passibili di storia, e  solo per storia conoscibili. Le carità patrie di  Euripide e di Vergilio ; i razionalismi di Dio-  nisio e di Luciano ; le religioni d'un esiodeo e  d'un latino : fatta breccia nei confini onde sto-  ricamente son racchiusi entro un'opera e un  temperamento, si compenetrano, ricalcano l'un  l'altro i caratteri comuni, contraddistinguono le  differenze, quelli e queste ordinano in sintesi:  fino a divenire, in diverso contesto storico, la  carità patria, il razionalismo, la religione del  genio mitopeico pagano,con valore (si vide) bensi  non compiuto, ma pm- sufficiente ; generale e in-  dividuato a un tempo. Generale, rispetto alle sin-  gole saghe: individuato, rispetto al genio mito-  peico. ,— Di che può aversi riprova. A quel modo  che durante la storia d'una specifi.ca fiaba, Tinte-     IL GENIO MITOPEICO 31   resse più attento soverchia il cerchio breve del  palco ove poche persone son mosse in non molte  vicende, e tocca, al di là, la forza animatrice di  quel moto ; del pari, per l'interesse più attento,  anche gli amor patrii di Vergilio e di Euripide,  e i razionalismi di Dionisio e di Luciano, com-  petono fin da principio , dopo che a Vergilio a  Luciano a Dionisio ad Euripide, alla mentalità  pagana di cui son pregni, alla vita de' Grreco-  romani nella quale immersi son trascinati su-  bendo e reagendo, come massi che il fiume ha  composti e disgretola poi con la medesima forza.  Si che, a rigor di discorso, già i successivi stadii  d'un mito superano il mito, e si proiettano, in  altra serie, su lo sfondo comune, dove li dispone  non più affinità di nomi e di casi, ma di potenze  spmtuali.   Però a questa disposizione nuova manca tut-  tora l'ordine della successione : che è, anche,  l'ordine secondo cui la mitopeja si evolve. Non  può valerci più, adesso, il criterio cronologico :  atto bensì a graduare strati di leggende ; inetto  del tutto a decider, con certezza che non sia di  pallida congettura o non nasca da arbitrio di  pregiudizio, a decider se la fede versi la purezza  delle sue acque nel mito prima che l' analisi  psicologica vi gitti i suoi dati. Interrogata al  proposito, ogni saga darebbe una propria ri-  sposta, diversa secondo vicende casuali o neces-  sarie (1). Qualcuna persino mostrerebbe con-  temporanee le manifestazioni in apparenza più     (1) Sul valore di queste es^pressioni cfr. cap. VI Ka-  lypso § IV.     32 I. - LA STORIA DEL MITO   disparate o in sostanza più contradittorie. E, per  tanto, necessario sceglier altro mezzo allo scopo  di vedere il genio mitopeico vivere, com'è d'ogni  individuo definito, evolvendo le sue speciali  energie. Ora, esso ha, tra i Pagani, alcune espres-  sioni che ci richiamano senza dubbio alla sua  origine ; altre, che ci riportano quasi con cer-  tezza al suo termine. Basta dunque, jier graduare  ciascuna delle caratteristiche mitopeiche, com-  pararle o alle qualità originarie o agl i ultimi  corrompimenti. Ma perché più certe appajono le  prime, a esse la com[)arazione va riferita. E  tanto più si sente, allora, tarda (nell'essenza)  quell'energia che, acquisita allo spirito mito-  peico, più lo distorna dai suoi primi sogni : per  essa, in vero, lo spirito procede, nel tutto suo  insieme, a una tappa nuova ; si che il momento  della conquista è ben paragonabile all'oscilla-  zione d'una lancetta sul quadrante : s'inizia l'ora.  Una storia compiuta dovrebbe però seguire il  mostrarsi di ciascuna energia, segnalando il  punto in cui dopo la precedente essa confluisce  nella saga a nutrirla e deformarla, e precisando  il modo del deformare. Una storia, per contro,  incompiuta e provvisoria dovrebbe, facendo i  suoi raffronti, mantenersi entro gli argini della  sua incompiutezza, col tratteggiare senza dise-  gnarle le linee dell'opera propria. Tutt'e due  vedrebbero , oltre l'assiduo rinnovellarsi delle  forme e il disordine scapigliato in ciascuna saga  introdotto dall'insita sorte, la vasta e chiara  armonia del complessivo progresso geniale, le  cui pietre miliari hanno nome dalle potenze del-  l'animo e dalle forze del pensiero.     IL GENIO MITOPEICO 33   Legame, da ultimo, fra quel disordine e questa  armonia, apparirebbe la constatazione che tutte  quasi le saghe, le quali la storia può scegliere  a suo oggetto, fanno testimonianza di sé di  fronte a noi, in lavori di arte letteraria e ma-  nuale o in riti di culto, quando oramai o per  intiero o in buona parte lo spirito onde sono  elaborate ha acquisito le sue virtù : pel che  quest'ultime possono manifestarsi od occultarsi,  secondo nessi stabiliti non dal loro reciproco  grado, ma dalle vicende della fiaba. Succede, in  somma, nei singoli miti, un perpetuo rinnovarsi  di quei fenomeni che segnano, ciascuno, un di-  verso stadio del genio mitopeico ; rinnovarsi che  non è senza evoluzione ma con evoluzione di-  versa dall'originaria. Condizioni di ambiente  fanno si che in una sola età, l'augustea, la leg-  genda di Caco si manifesti infusa di x^atriottismo  e zelo religioso presso Vergilio, incrinata di  scettico dubbio e di saccente sofisticheria presso  Dionisio ; ma, contro questa contemporaneità  cronologica, non esitiamo a proclamare più ve-  tusta l'una forma a petto dell'altra nel riguardo  della complessiva mitopeja. Tal certezza si con-  forta, in questo caso, dell'esame delle fonti, donde  appare VergiKo attingere a più antica sorgente  che Dionisio ; certezza dovrebbe durar tuttavia  anche quando il riscontro non fosse possibile  per qual siasi motivo. Com'è del mito di An-  dromeda, il quale è già scaduto in un tentativo  di travestimento storico allor che Euripide lo  solleva al culmine della sua vita penetrandolo  di passione patria e di pensiero religioso. Crii è  che la mitopeja ha oramai il possesso sicuro   A. Feeeabino, Kalypao. 3     34 I. - LA STORIA DEL MITO   di ciascuna tra quelle sue forze e di volta in  volta ne fa uso secondo richieggano sorti di-  verse. Spetta all'occliio dello storico separare,  caso per caso, dal suo rinnovarsi il primigenio  acquisto: per decidere se lo stadio di una fiaba  sia evolutivo solo rispetto agli stadii anteriori  di quella fiaba; o sia in vece, insieme, evolutivo  nel progresso del genio mitopeico.   Va perduto cosi l'impetuoso rigoglio di forme,  per cui le figure si moltiplicano disponendosi  l'una a canto dell'altra, affini sorelle, non iden-  tiche aggeminazioni ; e i casi si ripetono e s'in-  trecciano simiglianti e differenti ; e si dispon-  gono in racconti svariati, che ciascuno possiede,  quasi nome personale, una peculiare orma, né  confusioni son lecite, e taluno, fatto vivo dal-  l'arte, ha destino qualche volta non perituro.  La storia della mitopeja per contro diviene  scaltra a scoprire, in luogo dell'abbondanza  creativa, la limitatezza fondamentale della ma-  nifestazione : il sottostrato di potenza definita,  di là dalla superficie delle creazioni che si tra-  mutano lungo serie senza termine e fogge senza  numero. — E né meno qui, in quest'altro ufficio,  essa si converte in scienza astraente e classifi-  cante. Quando vengono disegnate le vie che la  mitopeja trovò per le sue creature, si adoperano  certo concetti empirici e partizioni; quali fra  letteratura e arte pittorica, fra statuaria e culto,  per cui il filosofo userebbe termini ben diversi.  Ma i medesimi concetti intervengono nelle storie  dei singoli miti, insieme con altri, e non impe-  discono che quelle storie concretino individui  ben precisi e reali. Si che a ogni modo la loro     IL GENIO MITOPBICO 35   presenza non può decidere senz'altro contro  la natura storica di un' opera. Difatti, ancor  questa di cui parliamo lata storia mitopeica  fonde leggi categorie e formule nello scoprire:  in primo luogo, i confini entro cui tutte le ma-  nifestazioni favolose son racchiuse; in secondo  luogo, i gradi secondo cui esse sono disposte;  onde riesce a precisare una risposta a questo  problema, ch'è denso di realtà storica : con che  mezzi e con quale sodisfacimento lo spirito  pagano mitopeico si manifesta ? — Il badile ed  il coltello han diritto alla loro epopea, dopo le  pagine ove Tincruento travaglio campestre e la  sanguinolenta strage hanno diffuso riflessi dolci  e selvaggi.   Ma poi che questa diversa istoria del genio  mitopeico, nel suo nascere, nel succedersi delle  sue potenze, nell'ordine dei suoi mezzi, siasi  compiuta, e non ancora conchiusa, riapparirà a  sua volta catastrofica e non elegiaca : segnando,  senza sconforto, la fine della mitopeja pagana.  — Non senza rimpianto però, ch'è differente cosa.  Non vediamo pili Centauri scender galoppando  dai ventosi antri dei monti : né per noi ogni sera  il Sole muove verso l'ombra a combattere mostri  marini e piegare tracotanza di violenti. Quella  cecità e questa negazione sono stati il prezzo  con cui pagammo altri spettacoli ed altre cer-  tezze. Ma il prezzo duole, nel fondo del cuore,  alla nostra avarizia di uomini, a questa cupi-  digia di opulenza spirituale.     36 I. - LA STORIA DEL MITO     V. — Kalypso.   Sin qui tentammo della mitopeja e della sua  storia il concetto compiuto. Ma un motivo, che  si forma nella pratica degli studii e della vita,  e si rafforza di esigenze, estranee bensì alle  fiabe e alle storie loro, ma non agli storici ; un  motivo interviene spesso a ridurre le indagini  e le ricostruzioni del mito nei confini di una sol  tanto fra le maniere dell'espressione mitica: nei  confini della letteratura. Certo, il genio lette-  rario dei Grreci e dei Latini ha saputo rendere  immortale il tessuto de' suoi sogni mitici con  l'opera di non so qual spola d'oro. E anche sia  concesso senz'altro esser la letteratura di gran  lunga preminente rispetto e alle altre arti e ad  ogni diversa forma del significare le saghe (1).  Non cessa però che di queste ridurre la storia  nell'ambito di pur una fra le loro espressioni è  compiere una arbitraria amputazione. Lealmente  riconoscendola, questa colpa è grave.   Né medicabile. Si può palliarla: come suole  lo storico dell'arte richiamarsi per accenni alla  storia civile e alla letteraria ; e cosi in reci-  proca guisa. In ispecie quando, per le lacune  che sono ampie e non rade nel pur ricco pa-  trimonio trasmessoci dagli antichi, uno o più  stadii d'un mito sieno costituiti da nessuna forma  di letteratura, bensi da prodotti scolpiti o di-     (1) Su ciò V. cap. VI Kalypso § II.     KALTPSO 37   pinti o in altro modo artisticamente lavorati  dall'attrezzo e dalla mano. Allora la storia monca  deve a forza integrarsi di quella sua parte che  un caso rende ben necessaria e come vitale. Con  simile pensiero è fatto ricorso alle notizie cul-  tuali, e le formule de' sacerdoti le litanie dei fe-  deli si cercano, farmachi preziosi, a supplire e  lenire organiche deficienze. Ma la plenitudine  non è se non nell'intreccio del tutto ; e i rife-  rimenti, fìngendola, tradiscono il vuoto.   Mal colmato, il difetto permane, e si appaja con  la incompiutezza cui limitate esperienze entro  esiguo numero di miti costringono il ritratto  del genio pagano facitore di saghe. Permane :  la sua radice s'insinua fra stretto] e rupestri, si  che non è pronto lo svellerla ; ineffettuabile tal  volta. Onde avviene che dinanzi la storia insuf-  ficiente cosi della singola favola come della total  mitopeja antica , la nostra insoddisfazione si  cresce del diffìcile sforzo per rimanerne sgom-  bri. Tant'è: nell'isola ove piaceva a Kalypso di  amarlo, con promessa di rendergli " senza vec-  chiezza né morte per sempre „ la vita, Odisseo,  da la rupe a fronte del mare, piangeva la pa-  tria lontana.     CAPITOLO II.  Andromeda d).     I. — Prima di Euripide.   L'anno avanti Cristo quattrocento dodici Eu-  ripide fece rappresentare in Atene una sua tra-  gedia intitolata Andromeda^ alla quale forniva  materia un episodio del mito di Perseo. Ma se  l'opera dramatica aveva tratto dalla saga la so-  stanza a nutrire la sua compagine, nell'opera  la saga viveva una vita altra da l'anteriore:  però che lunga già e complessa ne fosse stata,  innanzi, l'evoluzione.   Antichissimamente, negli anni cui corrispon-  dono, eco affievolita, i più vetusti canti della  epopea e poche mal certe tracce, una assai uber-     ei) Cfr. per tutto questo cap. l'Indagine in libro II  cap. I; di cui si citano i §§ nelle note successive.     40 II. - ANDBOMEDA     tosa terra di Grecia aveva fecondato di sé un  semplice racconto (1).   Si narrava in Tessaglia, e in ispecie nella  pianura pelasgia che fu detta Pelasgiotide poi,  di un re, cui era regno in Ai'go (Pelasgico),  molto potente ma triste. Vecchio, difatti, e non  lontano da morte, egli era tuttora senza prole  maschile, unica essendogli nata una figlia a  nome Danae. Ansioso per l' avvenire di sua  schiatta, si sarebbe recato a consultare in Delfi  l'oracolo di Apollo, dal quale ebbe in risposta,  non essergli per nascer maschi se non da Danae,  ma dovergli il nipote togliere e trono e vita.  Non fu vano il grave mònito; ed ogni cura fu  posta a che la vergine restasse dal generare,  contro la sorte. Ma Preto, fratello del re Acrisio,  riusci occultamente a renderla madre d'un bimbo  che fu chiamato Perseo. La nascita, che si volle  tener celata, fu in vece scoperta e causò l'irosa  vendetta del re impaurito, il quale decretava  che la giovine e il neonato fossero, — come  Preto per altra parte fu, — cacciati, e derelitti  in balìa della violenta natura e delle intemperie.  Mossero Danae e Perseo verso l'oriente e per-  vennero in Magnesia: ove per loro fortuna li  accolse un pescatore, Ditti, che li ospitò di poi  nella casa sua e del fratel Polidette. Il bambino  crebbe fanciullo, giovane agile e vigoroso: tra  i coetanei valente in giuochi ginnici ove nerbo  di muscoli e destrezza di ginocchia d'occhi di  braccia si rivelassero. Allora piacque al caso     (1) Cfr. § II e III.     PRIMA DI EURIPIDE 41   che il re di Larisa indicesse fra' giovani ima  gara pubblica e che all'agone partecipasse l'a-  dolescente Perseo e assistesse il vecchio Acrisio  ospite del dinaste vicino. Accadde l'inevitabile,  che la Pizia aveva predetto e a cui non si poteva  sfuggire: il disco venne dalla mano di Perseo  lanciato, — opera d'un nume! — contro le de-  boli membra del nonno, che ne fu morto. L'o-  racolo per tal modo compiendosi, il nepote ri-  conosciuto si ebbe il trono e la dignità dell'avo.  Una tal fiaba parrebbe germogliata, semplice  e intiera, su dal suolo mitico d'una tribù aria,  frutto non insolito d'un seme a più altri simi-  gliante: ove la stessa sua trasparenza non ne  scernesse, una ad una, le fibre. C'è, in quel breve  racconto, lo spunto originario della morte inflitta  dal giovine, che si rivendica l'avvenire, al vecchio  progenitore, che il passato ha curvo e fiacco :  dal Sole, — ciò sono, — nascente circonfuso di  purpureo sangue, per illuminare l'oggi, al Sole  occidente verso il bujo, circonfuso di pm-pureo  sangue, dopo aver rischiarato il jeri. Durante la  notte, nell'ombre, il delitto si è compiuto ; e  l'astro giovine regna in luogo dell'antico, nato  da una Danae (donna di quei Danai che nella  leggenda combattono i Liei o ^' Luminosi „) e  sorto, oltre la linea dell'orizzonte, su dalle case  sotterranee diPolidette ("l'accoglitoredi molti „  sovrano dell'oltretomba). A cotesto schema rozzo,  cui è il mal grato biancore di ossa a pena  commesse, diedero nel principio veste di muscoli  e colori i nomi locali, che tante reminiscenze di  bellezza e di rigoglio traevano con sé e richiama-  vano a tanti concreti particolari della realtà : le     42 li. - ANDROMEDA     pianure d'Argo Pelasgico ; Larisa ; il venerando  oracolo di Delfi; le montagne della Magnesia  in ispecie, nell'est, dalle cui giogaje ride prima  la luce su i pascoli, e che dalle grotte temibili,  disagiato ospizio di fuggiaschi, recavano al mito  un brivido tra di paura e di pietà.   Di poi sul racconto naturalistico, come i3Ìù  venne foggiandosi in forme di plastica umana,  s'innestò una di quelle novelle, simili tra loro  come tra essi i cristalli di medesima specie, nelle  quali il popolo par condensare, con la propria  esperienza, la propria filosofìa della vita, i^erché  vi fissa gli esempli tipici delle consuete vicende  (per lo più, familiari) e le sembianze caratteri-  stiche delle figure che sospinge la sorte comune.  Traverso la fantasia delle masse, come traverso  un vaglio singolare, il complesso, per esempio, dei  pastori o de' pescatori e l'insieme de' vizii e delle  virtù che in genere presso quelli si riscontrano,  si affina in una selezione di cui è vano cercar le  leggi, per comporsi nella sintesi d'un personaggio  tradizionale con tradizionali e pregi e difetti : il  pastore, — dico, — o il pescatore soccorrevole e  onesto che come suo alleva, dopo averlo accolto  ed ospitato, il figlio non suo. Analogo è lo schema  della fanciulla cui nasce illegittimo un bimbo e  che l'ira del padre discaccia per pena. Grracili  virgulti quello e questo ; cosi fatti però che im-  provvisa linfa vi rifluisce non a pena s'immet-  tano sopra una determinata leggenda : cui recano,  per altro, non esiguo contributo in compiutezza  e bellezza. Nella Pelasgiotide appunto impres-  sero alla fiaba tutta una diversa vivacità roman-  zesca e forza dramatica. Non fu tuttavia so-     PRIMA DI EURIPIDE 43   vrapporsi d'uno strato a un altro, cosi che il  più recente prevalesse sul più antico fino a ri-  durlo in oblio: fu, come mi espressi, innesto;  onde l'essenza solare di Perseo, la sede orientale  del bujo Polidette, permasero a costituire il  volto significativo del mito durante tutto questo  primo stadio, tessalico, della sua formazione.   Il che fu chiaro in sèguito (1). L'Argo Pelasgico  o v'erano re nella fiaba Acrisio prima e Perseo poi,  venne confondendosi, nei canti dei poeti e per gli  scambi! mitici fra i varii popoli della Grecia, con  altro Argo, che sorgeva a offuscar in gloria e  potenza il più antico, ed era situato in un con-  chiuso piano del Peloponneso fra monti e mare,  nell'oriente della penisola. I due Argo furon  quindi, in realtà, uno: prima il tessalico, poi  il peloponnesiaco; per guisa che a questo si  riportarono via via le leggende che a quello  si erano dianzi riferite. Fra l'altre, anche la  nostra di Perseo: il quale divenne adunque, se  pm" nipote dello stesso nonno, rampollo di  schiatta cresciuta sopra altro suolo. La popola-  zione argolica assimilò ben presto la saga tes-  sala con i suoi particolari e le sue figure: persino  l'accenno a la Magnesia, che quanto mai discon-  veniva alle sedi mutate, si serbò in solco pro-  fondo ; persino, e specialmente, la morte di  Acrisio in Larisa, cui grande varco di terre e  di mare separava dal Peloponneso, si mantenne  non alterata. Al conservarsi contribuirono due  motivi. La Magnesia era nel mito ricordata per     (1) Cfr. § III.     44 II. - ANDROMEDA     mezzo del suo eponimo Magnete, che si fìngeva  padre di Polidette e Ditti: facile quindi sottrarre  al nome della persona ogni valore di riferimento  al luogo geografico e ripeterlo fuor d'ogni atti-  nenza concreta, A Larisa poi durò alquanto un  sacrario {heroon) dedicato ad Acrisie : sicuro  perno adimque, che nemmeno la nuova leggenda  poteva facilmente trascurare.   Ma col proceder degli anni tutto che nel mito  non fosse o compatibile senz'altro con la mutata  sede o ineliminabile per cause intrinseche fini  con l'alterarsi. Il ricetto, in particolare, ove Ditti  figlio di Magnete avrebbe accolto Danae, e il  padre di Perseo vennero corretti e adattati: né  è a dirsi qual de' due ritocchi sia il più antico ;  ma si vede bene quale è per essere il più impor-  tante. A Preto fu, nella seduzion furtiva, sosti-  tuito Zeus, il dio veneratissimo in Argo, da cui  si faceva discendere anche l'eroe eponimo Argo :  già che forse piacque cosi adombrare quel Preto  che in Argolide doveva riuscir meno noto, e che  aveva, per quanto ci è dato supporre, contenuto  naturalistico simile a Zeus. Ai monti poi della  Magnesia, pur permanendo Magnete, fu sosti-  tuita l'isola di Serifo ch'è di fronte all'orientai  costa del Peloponneso nel mare del golfo argivo.  Perché quell'isola fosse la prescelta, s'ignora;  notevole a ogni modo è che per essa un lembo  di territorio jonico sia tocco dalla leggenda nata  fra Eoli e trapiantata in Argolide. Da Argo fra  tanto il mito si diffonde: attinge Micene, pe-  netra a Tirinto. Nella quale anzi cosi si radica,  che s'inventò come Perseo, ucciso il nonno,  avesse onta di rientrare in Argo e preferisse     PRIMA DI EURIPIDE 45   ceder questa, per riceverne Tirinto, a suo cugino  Megapènte figlio di Preto.   Se non che: con l'irradiarsi la saga, perno  Argo, nel Peloponneso; e col pervenire essa in  territorio jonico: si prepara all'evoluzione futura  una base duplice in cui son contenuti potenzial-  mente due ulteriori sviluppi. Entrambi si devol-  vono nel fatto, simiglianti tra loro per sostrato  e valore, e paralleli in modo che non è riuscibile  lo stabilire la priorità dell'uno su l'altro.   Era leggenda fra i Joni (1) che la dea Atena,  cui molto culto si tributava e particolar reve-  renza, recasse sopra il suo scudo la testa di un  mostro pauroso e ricinto d'ombre : Medusa, una  delle Gròrgoni dimoranti al limite estremo del-  l'Oceano, oltre la terra, dove il Sole scompare  e si profonda nel bujo. Su lo scudo quel capo  significava trofeo d'una vittoria conseguita dal-  l'iddia avverso la protervia nefasta di quella  figlia di abissi marini. La leggenda era antica,  traccia della natura xDrima ond'era informata  Atena, divinità della luce solare, nume del tem-  porale, in cui più vivo è il contrasto fra le forze  luminose e la potenza delle tenebre. E del Sole  per vero un altro attributo si riferiva, tra i  Joni, alla dea Pallade: il possesso d'una cappa,  lavorata nella pelle canina, onde si dissimulava  il suo splendoreogni qualvolta piacesse a lei  di occultarsi : a quel modo che l'astro sparisce  agli occhi umani per molte ore vestendosi di     (1) Cfr. § IV.     46 II. - ANDROMEDA     oscuro. C'erano adunque, in racconti embrionali  tuttavia, spunti di gesta eroiche o divine: le  quali, se si accoglievano bene nella figura di  Atena, non formavano ancora intorno alla sua  persona una veste cosi aderente, che non fosse  possibile separamela in parte con lievi altera-  zioni. Si direbbe anzi che la vittoria contro la  Gròrgone e la proprietà della cappa invisibile si  riportavano assai meglio al sostrato naturalistico  della Dea che non al suo individuo, alla folgo-  rante luce che non alla sostanza corporea della  effigie umanata. E perché Perseo quando per-  venne in Serifo, e come in Serifo in Atene in  Mileto nella Jonia, ancor traeva alimento al suo  essere dall'energia naturale (la veemenza del  Sole) di cui era forma e onde era nato, e poteva  pertanto in facil guisa accostarsi, simile nume, a  Pallade; accadde che a lui pure si attribuissero  e l'impresa contro Medusa e il cappuccio ca-  nino : cosi che alla dea non rimase altro ufficio  se non quello di ajutare e protegger l'eroe. Fu  quasi una contaminazione delle due leggende  in una; ma di due leggende non indipendenti  né ciascuna distinta per sé, si di due che si ori-  ginavano da una medesima intuizione delle forze  naturali, e aggeminate si erano dopo che aspetti  simigliantissimi dell'unico Astro avevan tolto  in luoghi distinti doppio nome di Atena e di  Perseo.   Il racconto che ne nacque, come prese a vi-  vere d'una essenza propria, ebbe la sorte d'ogni  materia vivente in organismo : si accrebbe. La  fantasia che plasma le leggende ha certi suoi  modi, quasi formule, quasi schemi, nei quali va     PBIMA DI EUEIPIDB 47   foggiando analoghe le sue opere : essa imprime  del suo segno terreno il racconto di quegli spet-  tacoli della Natui'a cui aveva già dato volti  e gesti umani : prende una seconda volta pos-  sesso della sua materia. Cosi non concede essa  all'eroe, — e sia pur grande d'assai più che  l'uomo, e assistito da soccorrevoli iddii. — facile  e pronto il conquisto; vuole sia arduo: prepa-  rato con forza ed astuzia. Ecco imaginati talis-  mani senza cui l'opera non può compiersi e per  i quali trovare si richiederanno altre fatiche :  ecco pensata, prima dell'impresa, un'awentui'a  preparatoria, ch'è mezzo non fine , ma non è  dispensabile : e all'avventura apparecchiati i per-  sonaggi. — Qui, furono le figure in cui la novella  fissa ed esagera la vecchiaia: le tre sorelle Graje,  canute fin dalla nascita, veggenti, tre, per un  occhio solo vicendevolmente, masticanti, tre, con  un dente. Esse, — si narrò, — sapevano la sede  di certe Ninfe dai calzari alati, senza cui non  era concesso ad uomo trasvolar fino al limite  dell'Oceano presso le Gòrgóni, e dalla bisaccia  (xi^iaig) magica, che fosse atta a contenere, dopo  spiccato, il capo di Medusa. Perseo vi si recò  dunque ma non ottenne né quelli né questa se  prima non ebbe con violenza privato le tre vec-  chiarde dell' occhio e del dente , esigendo a  compenso della restituzione i due oggetti cui  mirava.   Gli fu agevole poi, auspice Atena, conseguire  lo scopo. Arma gli venne attribuita la falce.  Ermes glie l'avrebbe donata, nume in particolare  diletto, se pur non quanto Atena, agli Ateniesi;  il quale, avendo allora già assunto rilievo di dio     48 II. - ANDROMEDA     luminoso, era affine a Perseo e dicevole soc-  corritore contro i mostri bui. Cosi erasi d'assai  allargata la saga.   A concliiuder la quale non rimaneva oramai  se non motivare l'impresa strana del fanciullo  cacciato con la madre da Argo e accolto in Serifo.  Cronologicamente essa non poteva cadere ciie  nell'intervallo fra l'ordine iniquo di Acrisio e il  ritorno del giovine sul trono avito. Logicamente  la causa dell'avventura e del pericolo aveva a  connettersi con gli ospiti di Danae : Ditti e Po-  lidette. E poiché non certo l'originalità è più  ricercata nella mitopeja, fu sfruttato ancor qui  un comune motivo leggendario, stracco per quel  che parrebbe a noi, non tuttavia si sterile da  non riuscire ad arricchii'e la fiaba di quei tramiti  episodici onde abbisognava. Come contro la Chi-  mera fu spinto Bellerofonte da chi ne desiderò  la morte; come Q-iàsone in Colchide venne in-  viato perché perdesse nell'arduo cimento la vita;  cosi Perseo avrebbe assunto il rischio medusèo  per stimolo di Polidette, che innamorato di  Danae bramava toglier di mezzo il giovine di-  fensor della donna.   Oramai il racconto era compiuto : armonico,  organico, uno: vibrava d'una forza sintetica dalla  quale eran fusi i diversi elementi confluitivi da  parti lontane. 11 lavorio invisibile di penetra-  zione, lata e i)rofonda, nel suolo jonico a tra-  verso strati naturalistici e nove] listici aveva  dato alla fine il suo bel frutto maturo.   Analogo al processo d'evoluzione mitica per  cui il nucleo tessalo-argolico della saga s'era     PBIMA DI EURIPIDE 49   accresciuto d'un episodio e di due campeggianti  figure, Atena e Medusa, fu l'altro che in diverso  terreno preparò novella sixnigliante (1). Ma, a  un tempo, incomparabilmente più complesso ed  inviluppato: tanto che l'indagine riesce a rico-  struirlo non con la fondata probabilità ch'è con-  cessa all'esame del mito di Medusa, ma con in-  certezze non jDOclie, e con grande cautela. Se  l'ipotesi non erra, due personaggi costituirono i  X^erni fondamentali di quel processo: e l'uno è  Perseo nella sua natura di eroe luminoso in lotta  con i mostri tenebrosi ; l'altro è Cassiepèa o, —  come il suo nome significa senza dubbio, — la  " millantatrice „; tipo popolaresco della donna  orgogliosa troppo di sua bellezza che osa com-  petere in gara ineguale con le Dee, e n'è punita  per fiere pene nella sua prole. Due perni adunque  di essenza diversa, che l'uno è naturalistico,  novellistico l'altro ; cui tuttavia compete un co-  mune carattere precipuo: l'attitudine, cioè, a  commettersi con più altri elementi, a raccoglierli  intorno a sé, quasi per energia magnetica; cosi  da allacciare in maglia e in rete più trame mi-  tiche distinte. Per essi si formarono due compa-  gini leggendarie che insieme li contenevano e  n'erano quindi accostate fra loro. —   L'una. Si conosceva, fra i Peloponnesiaci in  particolare, un re mitico Càfeo o, in altra forma,  Cèfeo, che sarà x)iù tardi venerato con carattere  e attributi di divinità ctonia in Cafìe, luogo del-  l'Arcadia ; e che veniva creduto signore di po-     (1) Cfr. § V.   A. Ferrabino, Kalypao.     50 n. - ANDROMEDA     poli abitanti all'orizzonte fra la luce e l'ombra.  Quivi eran, secondo già l'epopea omerica, gli  Etiopi, arsi appunto dal Sol nascente e dal tra-  montante, tòcchi dal bujo per un lato, immersi  nella vampa per l'altro. Cèfeo dunque re degli  Etiopi reggeva il suo popolo in quelle stesse  lontane regioni, o in tutt'affatto conformi, nelle  quali ritrovammo aver sede le Grorgoni, e verso  cui come a simili mete muovono in awentm'a  i simili eroi solari. Che anche fra gli Etiopi  nella terra di Cefeo fosse condotto Perseo, è a  pena bisogno, — quindi, — di dire. Per scopo fu  scelto non an mostro specifico, quale Medusa,  ma una vagamente indicata belva che sorgesse  da l'onde a esterminio e terrore: il ketos. Soc-  correvole, nell'officio di Atena contro la preda  gorgonèa, s'indusse un diffuso tipo di Vergine,  strenua in combattere, ignara di mollezze fe-  minee, il cui maschio nome istesso rendeva ima-  gine di possanza non muliebre si virile: l'An-  dromeda. Qual motivo in fine si ritrovasse alla  impresa ignoriamo; ma possiam senza errore  fìngercene uno non dissimile da quel che ap-  prendemmo nell'altro episodio , cosi concorde  con questo per contenuto forma e valore. Si  ottiene un mito modellato sopra i medesimi  schemi su cui è foggiata l'impresa fra i Joni ;  nel quale i nomi a pena pajon mutati; ma  tutte le tinte sarebber identiche se non fosser  d'alquanto più sbiadite, e tutti i particolari in-  variati se non apparissero scemi al paragone.  Un arricchimento però venne ad esso mito  quando Cassiepèa vi fu introdotta. E consistette  non nell' aggiungersi d'un personaggio all'azione.     PEIMA DI EURIPIDE 51     si più tosto nel trasformarsi profondo del signi-  ficato complessivo che quell'acquisto ebbe a pre-  parare. Due avventure di Perseo contro mostri  delle tenebre non potevano non venir avvicinate  prima, e dissimilate i)oi. Si tramutò Tuna, la  minore e più svigorita. E fu iDer un evolversi,  si direbbe spontaneo, della sostanza eroica di  Andromeda. La " Maschia v, si andò raggenti-  lendo fin che si transfuse del tutto nel tipo  novellistico della fanciulla che l'eroe libera di  prigionia, ama e sposa. Gli era stata al fianco  nella lotta, in gara aveva lanciato i sassi contro  il ketos avanzante dal mare, — e un vaso del  secolo sesto ce raffigura nell'atto sgraziato del  lancio, — constringendole e movendole le membra  l'animo pugnace. Fu poi dinanzi al prode, premio  insigne alla vittoria, bella non forte. Allora, di-  venne indispensabile giustificar la cattività della  fanciulla, motivar la lotta di Perseo contro il  mostro a liberarla : e Cassiepea servi allo scopo.  n vanto della " millantatrice „, dalle Dee offese  punito nella vita giovine e florida della figlia,  — Andromeda fu tramutata in sua figlia, —  sarebbe appunto stato la causa prima del peri-  colo orrendo e della pugna eroica. Per tal modo  tutto l'aspetto originario dell'episodio è alterato,  nel profondo. La seconda forma possiede la vita  che non la prima. E individuata come non la  prima.   Da l'una a l'altra segna il passaggio Andro-  meda trasformantesi, e accanto a lei resta Cefeo  che con lei si evolve. Ma se questi sono di tal  mito i personaggi caratteristici, i fondamentali  sono Perseo e Cassiepea. —     52 II. - ANDROMEDA     Cassiepea e Perseo prevalsero pure, sembra,  in un'altra leggenda differente di origine. Pro-  tagonista è qui Fineo : divinità del fosco setten-  trione di cui le saghe lumeggiarono due aspetti  opposti. Benefico e malefico egli può esser difatti :  secondo che dietro lui muova il rigente turbine  del nord a offuscare le chiarità solatie ; o che la  freschezza dei suoi vènti temperi l'afe estive ri-  cacciando a mezzodì gli affocati avversarli che il  Sole suscita su l'equatore. Quest'ultimo carattere  fu, in vero, la base del racconto, giusta cui egli  sarebbe stato fin nelle sue sedi assalito dalle  Arpie, mostruosi uccelli, mossegli contro da  Elios ene sarebbe perito senza l'intervento de'fìgli  di Bòrea i quali respinsero le moleste e perse-  guitarono a ritroso fin là dond'erano venute. In  tutto parallelo al formarsi di questo mito delle  Arpie, ma mosso da principio diverso, fu il for-  marsi della nostra saga intorno a Fineo. Contro  di lui il Sole non si sarebbe levato col maleficio  deleterio de' suoi vènti meridionali, ma con la  forza purificatrice dei suoi raggi chiari: per  vincerlo, non per esserne sopraffatto. Non l'au-  tunno sopravviene, nella nostra leggenda, a miti-  gare le ardenze della riarsa estate ; si la prima-  vera a dissipar le brume e i geli foschi dello  inverno.   Ora l'eroe solare che trionfa del re nordico  fu, — sembra, — appunto Perseo, in singoiar  duello. E cotesto embrionale racconto, cercò, e  trovò, un motivo in Cassiepea : ancor una volta  pare che il vanto di lei fosse addotto a spiegar  la sorte inferiore di Fineo, — suo figlio : figlio  per vero alla donna ce lo testimonia l'epica che     PKIMA DI EURIPIDE 53   si dice da Esiodo. Col che si ottenne anche  di fornire compiutezza romanzesca alla favola,  quando il significato naturalistico ne andasse  smarrito. C era dunque la materia , idonea a  produrre, ove uno spirito creatore trovasse in sé  il levame opportuno, un mito pur esso drama-  tico né meno denso di bellezza poetica. In vece,  prima ancora che riuscisse a comporsi in opera  ben delimitata, fu travolta e assorbita in diverso  complesso. —   Però che i due intrecci di Andromeda e di Fineo,  ne' quali entrambi Perseo e Cassiepea appari-  vano non pure nell'identità de' nomi ma e nella  analogia degli uffici, non potevano rimanere  distinti: e tanto meno potevano se, — come non  è provato ma è forse da ritenere, — un mede-  simo suolo li generava. Si com penetrarono di-  fatti fin che divennero una narrazione sola in  cui gli elementi delle due generatrici sussiste-  vano tuttavia presso che integri, là sol tanto  alterati ove fosse parso inevitabile alla logica  della commessura. Rimase il duello fra Perseo  e Fineo; rimase la discendenza di Andromeda  da Cassiepea: ma, — e fu il segno della con-  nessione fra le 'due saghe indipendenti, — la  causa della lotta fra i due eroi, fu rintracciata  non più nel supposto vanto d'una madre, ma  nella stessa precedente vittoria di Perseo contro  il ketos e nelle successive nozze. Fineo, si disse,  sarebbe stato il promesso sposo di Andromeda  avanti la venuta del giovine liberatore: cosi  ignavo prima a soccorrerla, come presuntuoso  poi nell'accampare diritti di precedenza. Inascol-  tato ricorse, ancora si disse, al coperto agguato     54 II. - ANDROMEDA     con l'armi. Fu abbattuto. Cosi si conchiuse questa  fiaba di doppia scatuiigine : senza che nulla dei  due miti che vi si fusero (su Cefeo l'uno e An-  dromeda, su rineo r altro) andasse perduto,  tranne il nesso di maternità fra Cassiepea e  Fineo.   Chi confronti ora da un lato l'avventura me-  dusèa di Perseo con l'assistenza di Atena ed  Ermes, e l'impresa d'altro lato avverso il ketos  con il premio della vergine e il contrasto con  Fineo ; e si fermi alla superfìcie variopinta dei  due episodii, senza indagarne il significato re-  condito ; non vi trova pili tracce di quella simi-  gliali za che le saghe della "Maschia,, e della  Gorgone rendeva pallide entrambe ; bensì li av-  verte dramaticamente diversi, materiati entrambi  di moti sentimentali ma or verso la madre Danae  or verso la liberata Andromeda; di cimenti pe-  rigliosi ma ora contro Medusa spietata ora contro  la famelica belva ora contro l'imbelle ostinato.  La cosi ottenuta diversità formale, permise a  chi volle aggruppare intorno al nome di Perseo  tutte le vicende di lui, di comporre queste due  in ordine insieme con la nascita dell'eroe e la  uccisione del nonno Acrisio. — Un'opera siffatta  fu compiuta da Ferecide, il quale ci trasmise  tutto il mito, nel suo insieme organico, e di-  venne per tanto la base prima d'ogni ricerca  costruttrice (1). Ne possediamo un sunto per     (1) Cfr. § I.     PRIMA DI EURIPIDE 55   opera d'uno scoliaste; lacunoso, j)erò, onde è  necessario integrarlo col testo del ben più tardo  Apollodoro. Non ridaremo qui la trama disa-  dorna. Essa non è più per noi, nella forma con  cui ci pervenne, il corpo, plasmatosi dopo la  lunga gestazione per effetto della sintesi nar-  rativa; ma è, di quel corpo, lo scheletro. Dalla  nascita misteriosa vediamo Perseo compiere ,  dopo l'infanzia trascorsa in Serifo, le sue av-  venture, la medusèa e l'etiopica, per ritornar-  sene in Serifo a impietrar Polidette e in Larisa  a uccidere per equivoco Acrisio, stabilendo poi  in Tirinto il suo regno, che Argo gli era di-  venuta infesta. Ma effetto dell'esser stata rac-  colta in sintesi la serie delle gesta eroiche di  Perseo non fu solo di fargli attribuire per  arma contro Fineo il capo della Gorgone o di  condurre sul trono di Argo Andromeda re-  gina; ma fu, più tosto e meglio, di sottraiTe  all' episodio del ketos ogni vita autonoma :  valse esso qual momento d'una complessiva  azione ed ebbe valore di conseguenza da un  lato, di premessa da l'altro. Parte d'un tutto,  doveva dal tutto ricever sua norma e sua im-  portanza: fin che al meno non ne fosse mu-  tato il sostanziai contenuto; e l'essenza sua  romanzesca, — gradita a' novellatori, tanto più  quanto più di fatti si 'arricchiva la trama, di  particolari le vicende, di gesti le figure, — non  si trasformasse in essenza diversa.   Nel molto che andò perduto eran certo forme  varie di cotesta indispensabile trasformazione.  Una ne ravvisiamo tuttavia appresso gli sto-     56 li. - ANDROMEDA     rici del secolo quinto (1). Per essi la favola  di Perseo e Andromeda acquista una impor-  tanza nuova di reliquia fededegna serbata a  traverso gli anni. La cagione è un avvicina-  mento verbale : uno de' consueti di cui si com-  piacque la fantasia degli anticM nel conato  e nella pretesa di farsi pensiero critico : fra  Perseo e i Persiani. L' analogia non etimolo-  gica ma fonica indusse a ritener quello capo-  stipite di questi: non direttamente però, si bene  per mezzo d'un figlio suo di cui fu coniato  il nome " Perse „ per più di verisimiglianza.  A dar poi un aspetto anche meglio credibile  alla congettm^a fu addotto il nome d'impronta  ària di cui doveva esser memoria fra i Persiani,  " Artèi „: questo ritenendosi epiteto primitivo ;  quello, posteriore, tolto dall'eroe e dalla sua  discendenza. Naturalmente si lasciò, a tal fine,  sbiadire fino alla scomparsa il ricordo degli  Etiopi, sudditi di Cefeo nella più antica saga:  però che essi si riconoscessero, in quell'epoca,  or mai identici a reali " Etiopi „, situati al sud  dell' Egitto. In luogo loro si coniarono i " Ce-  fèni „ desumendoli, come traspare, dall'ap-  pellativo medesimo del re. E si pensò che a  Cefeo succedesse nel regno il nipote Perse, figlio  di Andromeda e Perseo ; che Perse, guidando i  Cefeni, li conducesse a sottometter gli Artei ;  e il popolo fuso dei vincitori e vinti da lui  si denominasse Persiano. La garbata ricostru-  zione critica non fini in questo : perché, difatti,     (1) Cfr. § VI.     PRIMA DI EURIPIDE     57     i Cefeni con Perse sarebbero mossi a sottoporsi  gli Artei? La risposta si trovò combinando  questa congettm:"a con un'altra. Oltre ai Caldèi  semiti che avevan sede intorno a Babilonia,  eran noti altri Caldei abitanti lungo il Ponto,  presso i Mariandini e i Paflàgoni; e il gruppo  esiguo di questi si riteneva un ramo da quelli  staccatosi in età antichissime. Poiché inoltre  sul Ponto la leggenda delle Arpie affermava  abitar Fineo fratello di Cefeo e principe per  tanto dei Cefeni; fu facile dire che i Cefeni  avevano abbandonato la regione loro, allor  quando da Babilonia i Caldei eran mossi verso  il nord. E costrurre quindi in un sol tutto la  trasmigrazione totale cosi: da Babilonia si di-  parte una schiera di Caldei ad occupare la  terra settentrionale dei Cefeni e scaccia questi ;  che si spingono verso gli Allei, li sottomet-  tono e insieme divengono il popolo de' Persiani.   Se non che questa mitopeja di eruditi pur  riuscendo a staccar l'episodio di Andromeda in  singoiar guisa dalla leggenda di Perseo, infon-  dendogli una essenza nuova dissonante dal resto  della fiaba , finiva però in una soppressione  dell'avventura. La venuta di Perseo fra i Ce-  feni, la lotta col ketos, le nozze con Andro-  meda, il duello con Fineo, sono un niente a  petto della conseguenza precipua su cui ogni  altro fatto s'impernia : la nascita di Perse. Le  premesse non hanno più vita artistica; le con-  seguenze, ne hanno una storica. Una pseudo  realtà nasce; ma la bellezza muore.   Per tanto, se le gravi lacune del nostro pa-  trimonio letterario troppo non ci traggono in     58 II. - ANDROMEDA     inganno, l'episodio di Andromeda, che nacque  dal combinarsi di esigui intrecci leggendarii»  emergenti a lor volta su da rigide abitudini  mentali e in mezzo a consueti aspetti della  fantasia mitopeica, non solo perde presto la  sua autonomia col commettersi ad altre vicende,  ma indugiò a svincolarsi da F impaccio, e a cir-  coscriversi in forma e colore : a bastanza, perché  il senso critico lo adulterasse e , un poco , lo  vituperasse.     n. — Euripide.   Fu sorte della tragedia dare a esso episodio  di Andromeda il contenuto nuovo : che non fu  né romanzesco né storico ; ma psicologico. Di  altri non ci rimase sufficiente notizia. Di Euri-  pide possediamo i frammenti bastevoli a rico-  struire il drama, se non ne' suoi particolari di  arte e nelle sue forme di tecnica teatrale, certo  nelle sue linee maestre (1).   Era consuetudine ferrea che la tragedia nei  suoi episodii svolgesse un mito. Ma in quale  modo i tragedi pervenissero all' elezione del  tema e alla scelta dell'argomento non è possi-  bile dire, per la oscurità imperscrutabile de' pro-  cessi artistici tal volta inconsci, e per la penui'ia     (1) Cfr. § VII. I frammenti, naturalmente, son citati  e tradotti su Nauck Fragmenta tragicorum graecorum^  (Lipsia 1889).     EURIPIDE 59   delle notizie tradizionali. Sol tanto si può con  qualche chiarezza intendere come il problema di  arte si presentasse al poeta allor quando si ac-  cinse a elaborare la fiaba di Perseo e Andro-  meda ; come, in somma, lo spirito di lui pren-  desse possesso, nell'impeto creatore, della materia  leggendaria. Nel mito del ketos si trovavano fusi,  come ai)pare dal testo di Ferecide, due elementi  distinti : e l'uno era il divino, palese nel potere  singolare della Gorgone e nel volo miracoloso tra-  verso l'aria, segni d'una forza mossa da l'alto per  consenso di Dei ; e l'altro era l'umano, sensibile  nell'amore dell'eroe con la fanciulla, nel corruccio  di Fineo, nel vanto di Cassieijea, nel patto nu-  ziale di Cefeo. Entrambi cotesti elementi trovano  la loro unità in un terzo, che è, in somma, del  mito il carattere eroico e la forma romanzesca.  Euripide adunque ebbe , dinanzi al suo pen-  siero, l'umano, il divino, l'eroico. Di questi, uno  suscitava spontaneamente il suo più vivo inte-  resse. Non solo difatti egli staccava nella tra-  gedia l'episodio mitico dalla serie narrativa sua  I)ropria; ma lo indirizzava al fine, eh' è di tutta  la dramatica greca, di appassionare non la fan-  tasia bensì il sentimento degli sf)ettatori; e lo  sottoponeva all'esigenza di \àbrare per pregio  e forza intrinseci non per smaglianza esteriore  di tinte. Le menti in cui il mito ora si accoglie,  come sono ben lontane da quelle che l'hanno  creato dinanzi la natura e complicato in novella,  cosi son anche più mature dell'altre che ne han  goduto, con puerile compiacenza, lo straordinario  e l'impossibile. Per certo le più antiche e le  moderne cerca van tutte nella saga una verità ;     60 II. - ANDROMEDA     ma la verità naturalistica e la verità eroica non  appagavano ora quei cittadini di Atene che vi  desideravano una verità psichica. Ora, con si fatto  spostarsi dell'interesse mitologico, il colorito ro-  manzesco che un tempo riusciva opportuna o  indispensabile commessione fra i due diversi  elementi della fiaba, sopravviveva adesso, in-  sieme col divino, quale materia in apparenza  superflua. In qual maniera difatti allivellare  sopra un piano medesimo una gesta miracolosa,  un affetto terreno, un intervento di Dei? E  ovvio però che il poeta non vide, come qui cri-  ticamente si espone, il suo problema; ma che  lo intui da artista. A punto per questo egli non  ebbe un modo costante di risolverlo in tutte le  sue opere; ma il genio gli soccorse, or peggio  or meglio, di volta in volta, e a seconda dei casi  in guise diverse.   Poiché ci sono rimaste nella loro integrità  V Elettra ch'è del 413 e V Elena ch'è di quel  medesimo 412 da cui V Andromeda si data, in-  trawediamo a bastanza la vita dello spirito  euripideo nel torno di tempo in cui la sua arte  tentava il nodo mitico di Perseo (1).   Il nucleo primo cosi dell'una come dell'altra  tragedia è un contrasto di passioni. Elettra ed  Oreste che, contro ogni vincolo di stirpe, per     (1) L'analisi, che segue, del pensiero religioso e so-  ciale d'Euripide intorno al 412 è fatta di sul testo (edi-  zione Murray Oxford s. a.) di&WEletta e AqW Elettra ed  emana da quello. Di più cfr. § Vili.     EURIPIDE 61     vendicare il padre uccidono la madre ; clie odiano  fino a darle la morte la donna da cui nacquero,  ma le sono tuttavia carnalmente congiunti, cosi  che col sangue di lei scorre nelle lor vene una  indicibile virtù di amore e rispetto : proten-  dono da la scena una dolorante maschera umana ;  fraterna con la grande pallida faccia intenta  dagli scanni del teatro. — E quando Menelao re-  duce da Troja naufraga su le spiagge d'Egitto  recando con sé la riconquistata Elena ; e vi s'im-  batte nell'Elena vera, quella che gli Dei re-  carono celatamente in Egitto, mentre un vuoto  simulacro fuggiva con Paride e presedeva alla  decennale guerra; e la gioja irrompente per la  ritrovata sposa s'urta nello spirito del principe  con lo sconforto per i travagli sopportati in  vano e la vita gittata in vano da centina] a di  prodi : allora con la sua s'agita la sorte di tutte  le creature terrene, cui piacere e sofferenza giun-  gono inseparabili per tramutarsi a vicenda l'uno  nell'altra.— E in queste situazioni palese l'immer-  gersi dell'artista nella sostanza dei personaggi,  nella correntia delle vicende, con un oblio com-  pleto di tutto l'estraneo : stolto cercarvi un si-  stema filosofico applicato, co' suoi postulati ge-  nerali, ai casi particolari. Qui l'uomo è espresso,  dal profondo, con la freschezza d'una polla cui  s'apra nel terreno la via. Ma di qui non è pos-  sibile indurre riferimenti con l'ambiente storico  del poeta o, peggio, conseguenze intorno allo  stato psichico di lui in quegli anni; ma solo  intorno al consueto modo della sua forza d'arte.  L'animo di Euripide si rivela più in là. In  quello anzitutto che dalla tradizione egli accettò.     62 II. - ANDROMEDA     Giacché nei miti di Clitemestra uccisa e di  Elena in Egitto erano affermati fatti ch'egli non  poteva respingerené poteva non alterare. Tali  l'oracolo delfico di Apollo, che avrebbe imposto  a Oreste di compiere l'esecrando delitto ; e l'or-  dine di Zeus, che Ermes recasse di nascosto  Elena in Egitto e un simulacro inviasse a Troja,  permettendo sperpero immane di energie e va-  lore. Cotali interventi divini eran la premessa  indispensabile dell'azione ; divennero per Euri-  pide radice di nuova tragicità : però che, tanto  più gli parve orribile il delitto di Elettra, in  quanto era ineluttabile ; e in quanto voluto dal  Dio sommo, tanto più spaventoso il vacuo scempio  di vite intorno ad Ilio. Sotto questo aspetto  adunque le parti divine della tragedia si con-  nettono per lui strettamente con il travaglio  umano ; ma costituiscono una forza cieca e  buja contro cui bisogna urtare : simile al peso  corporeo che non s'evita con gli slanci dello  spirito, all'aderenza col suolo che non si sopprime  con i trovati dell'ingegno.   Onde il poeta accettò l'oracolo di Apollo ; ma  chiese ' come potè il Dio saggio ordinar cose  non savie ? ' ; rispose, per bocca dei Dioscuri,  "Febo Febo... — taccio: certo egli è saggio;  ma vaticinò cose non saggio „ (1) : o sia non ri-  spose. E anche si domandava, e fece suo inter-  prete il Coro, " perché o Dioscuri, essendo Dei  e fratelli di questa ch'è morta Clitemestra, non  distornaste la sciagura dalla casa ? „ ; per farsi     (1) Elett. vv. 1245-6.     EURIPIDE 63     rispondere con una parola ch'è poco o molto,  àvdyxr] " Necessità „ (1). E chiaro : il suo spirito  s' è formato un concetto alto della divinità :  giusta, la pensa, e misericordiosa; da essa non  può concepire derivi il delitto ; né la stoltizia,  né alcuna forma di male ; ma sol tanto il bene :  e quel concetto urta contro le affermazioni del  mito, contro l'eco che il passato gli manda. Urta;  non supera. Il poeta, in quanto poeta, resta per-  plesso ; non decide, ma porge intatta la que-  stione al pubblico , dopo averla agitata col  prestigio dell'arte, e posta con lucidezza di in-  telligenza.   Del iDari, se non forse in guisa più a^Dcrta, si  comporta nelVElena. Un capriccio di Afrodite  ha voluto il ratto della bellissima per opera di  Paride ; l'ambizione rivale di Era le toglie di  conseguir il fine, e a Paride concede una par-  venza di quel corpo che nella realtà si cela ap-  presso Proteo in Egitto. Non basta : la contesa  delle feminette continua ; e mentre la dea amante  vuol Elena sposa di Teoclìmeno, successo a  Proteo nel trono, la moglie di Zeus la vuol salva  e casta per Menelao : indi volgare bisticcio. Su  la terra fra tanto, uomini e donne, migliori che  gli " abitatori delle case olimpie ,,, procedono  secondo purezza di virtù : Elena si mantiene  fedele al marito lontano e sopp ' come potè il Dio saggio ordinar cose  non savie ? ' ; rispose, per bocca dei Dioscuri,  "Febo Febo... — taccio: certo egli è saggio;  ma vaticinò cose non saggio „ (1) : o sia non ri-  spose. E anche si domandava, e fece suo inter-  prete il Coro, " perché o Dioscuri, essendo Dei  e fratelli di questa ch'è morta Clitemestra, non  distornaste la sciagura dalla casa ? „ ; per farsi     (1) Elett. vv. 1245-6.     EURIPIDE 63     rispondere con una parola ch'è poco o molto,  àvdyxr] " Necessità „ (1). E chiaro : il suo spirito  s' è formato un concetto alto della divinità :  giusta, la pensa, e misericordiosa; da essa non  può concepire derivi il delitto ; né la stoltizia,  né alcuna forma di male ; ma sol tanto il bene :  e quel concetto urta contro le affermazioni del  mito, contro l'eco che il passato gli manda. Urta;  non supera. Il poeta, in quanto poeta, resta per-  plesso ; non decide, ma porge intatta la que-  stione al pubblico , dopo averla agitata col  prestigio dell'arte, e posta con lucidezza di in-  telligenza.   Del iDari, se non forse in guisa più a^Dcrta, si  comporta nelVElena. Un capriccio di Afrodite  ha voluto il ratto della bellissima per opera di  Paride ; l'ambizione rivale di Era le toglie di  conseguir il fine, e a Paride concede una par-  venza di quel corpo che nella realtà si cela ap-  presso Proteo in Egitto. Non basta : la contesa  delle feminette continua ; e mentre la dea amante  vuol Elena sposa di Teoclìmeno, successo a  Proteo nel trono, la moglie di Zeus la vuol salva  e casta per Menelao : indi volgare bisticcio. Su  la terra fra tanto, uomini e donne, migliori che  gli " abitatori delle case olimpie ,,, procedono  secondo purezza di virtù : Elena si mantiene  fedele al marito lontano e sopp orta paziente  l'ignominia che cade sopra lei incolpevole, con-  fusa con il simulacro ; Teonoe, sorella di Teo-  climeno, ajuta lei nel proposito, non il fratello     (1) Elett. vv. 1298-1301.     64 II. - ANDROMEDA     ne' suoi tentativi di coniugio ; Menelao è onesto,  cortese e affettuoso. Che dunque ? Cotesti iddii  sarebbero d'assai più piccini, nell'animo, che i  terreni ? risibili ? Eui'ipide non dice. Anche qui  il problema si formula ; ma nulla lo risolve ;  nessun raggio fende il cumulo nero nel cielo.  Osserva il Coro (1) : " Chi è dio, chi non dio, chi  semidio? qual fra i mortali, anche spingendo  molto lontano la sua ricerca, dirà di saperlo?  quale, dopo aver visto l'opere divine or qua  or là balzare con contradittorie e inaspettate  vicende? ,,. Nessuno risponde.   Questo silenzio è una tragedia a sé. Non si  svolge materialmente su la scena, accanto i per-  sonaggi sé moventi, ma è nello spirito del poeta,  ed è a noi non meno fraterna. Ben sua, la se-  conda tragedia, più che la prima. Non di com-  passione, di simpatia geniale verso la sofferenza  d'un'Elettra o d'un Menelao ; ma di spasimo e  strazio interiore. E la tragedia del dubbio. La  quale nasce ad Euripide nel seno medesimo della  sua arte, lungi a ogni filosofìa. Il suo pensiero  di critico e filosofo, nel fatto, ha superato or mai  la concezione omerica e infantile degli Dei, non  vi crede ; l'ha sostituita con una più matura.  Ma, poeta, vi deve credere per rivivere il suo  mito, che rivivere gli bisogna per crear il drama.  Poeta, sente l'urto fra le due idee; se ne tor-  menta : ripete a chi l'ode la favola bella degli  antichi, fa trasparire a chi l'intende la sua filo-     (1) Elena tv. 1136 sgg.     EURIPIDE 65   sofia ; questa e quella compone, senz'accordo  logico, entro il suo affanno.   Ma oltre agl'interventi divini, che la tradizione  postulava nel mito, ed Euripide accetta trava-  gliandosene ; sono neW Elettra e, di più anche  hqW Eìena^ giunte che il poeta solo volle e in  cui espresse il pili personale tra' suoi aneliti ;  intrusioni sgorgate da un animo che, non pure  assorbe in sé per rielaborarla la saga, ma nella  saga si profonda e si abbandona, anche con  quelle forze e ricchezze che le sarebbero estranee.   Tale s'originò nel drama di Clitemestra la  figura del contadino, povero e rozzo, ma pur  squisito di sentimenti e schietto di azioni :  VaixovQyóc,, a cui Elettra sarebbe stata costretta  in sposa dalla madre, la qual ne temeva i figli  se nati da nobile genitore. Egli, come apprese  la condizione della fanciulla che gli veniva de-  stinata e gli scopi della regina, fece rinunzia a'  suoi diritti coniugali, pur continuando ad ospi-  tare nell'umile sua capanna la donna e fìngendo,  per eluder la maligna, nozze felici. A lui, quando  aijpare su la scena verso l'alba e l'ultime ombre  son vinte da le prime luci, fanno sfondo i campi  arati e le file degli alberi e i freschi pozzi : la  Terra, la grande generatrice di frutti buoni e di  forze sane. Dopo, ogni suo gesto è virile e so-  brio, contenuto e cordiale ; il suo spirito si rivela  semplice perché diritto : e mentre Elettra ed  Oreste si laniano di x^assioni, di odii, di paure,  egli va crescendo in valore fino a superarli nella  sua persona salda e nel suo fermo polso. Né  basta. Il poeta, sottolineando sé stesso, richiama  gli sguardi su la sua creatura : e ad Oreste fa   A. Feekabino, Kalypso. 5     66 II. - ANDROMEDA     esclamare con maraviglia un poco attonita (1) :  "Ahimé! Non v'ò criterio alcuno a distinguere  la nobiltà : v'è scompiglio nella natura degli  uomini. Ecco io vidi esser da nulla il figlio di  padre generoso; e rampolli onesti di genitori  perversi ; la penuria nello spirito d'un ricco ; la  magnanimità in un corpo povero. C'ome orien-  tarsi ? secondo il danaro ? mal fido criterio  questo sarebbe : secondo la povertà ? ma la mi-  seria è una malattia, cattivo maestro è il bi-  sogno : secondo l'esercizio dell'armi ? ma cM  risguardando a la lancia giudicherebbe qual  sia il virtuoso ? Meglio sembra lasciare inde-  cisi codesti problemi. Costui per esempio grande  non è fra gli Argivi [VadTOVQyóg], non insigne  per rinomata schiatta : è uno dei molti : e pure  si rivela ottimo „. Ottimo si che la sua onesta  figura divien quasi di maniera e par disegnata  per dimostrar una tesi o attingere uno scopo.  Quale tesi o quale scopo si propose Euripide  nel concepirla e nello stagliarla?   Non meno larga che neìV Elettra è nelV Elena  la novità introdotta. E anzitutto nella scelta  medesima della favola : un mito secondario che  risale a Stesicoro (2) e che, a lato della principal  leggenda di Menelao e Paride a Troja, sem-  brava destinato a viversi gramo nell'oblio. Il  tragico lo preferi per motivi ch'è vano indagare;  che forse si assommano nel desiderio di met-     (1) Elett. vv. 367 sgg.   (2) Cfr. Bethe Helene in Pauly-Wissowa " R. Encyclo-  pàdie , VII (1912) pag. 2833.     67     terne in risalto il singoiar contenuto. La donna  bellissima che, secondo la tradizione diffusa, sa-  rebbe stata causa unica di ire e guerre per un  decennio, di sventure ed errori per altri dieci  anni di poi ; la donna su cui pittarono tutti gli  strali dell'ironia del sarcasmo e fin dell'odio i  poeti misogini ; è di colpo trasformata nella più  pura e casta moglie che fiaba conosca. Ella ha  giurato a Menelao di " morire ma non mai vio-  lare il letto „ (1) ; né ha giurato in vano, che di  morire è sul punto, e attiene la parola, ed è  beata di cadere, — dice al marito, — " vicino a  te „ (2). E a lei fa degno riscontro (forse troppo)  il coniugale amore di Menelao ; che le afferma  " Privo di te, io finirò la vita „ (3). Onde sol più  li preoccupa di scomparir degnamente cosi " da  acquistare gloria „ (4). Ora tanta fedeltà di af-  fetti traverso anni e vicende acquista il suo più  vero significato quando venga contrapposta al-  l'adulterio di Clitemestra verso Agamemnone,  di cui era intessuta l' Elettra. Fra questa di-  fatti e V Elena le attinenze sono indubbie, non  pure cronologicamente, ma anche, e si direbbe  più, spiritualmente : su la fine difatti di quella  prima viene annunziato e svolto in breve il  tema della seconda (5). E le attinenze diven-  gono palesi quando le due cognate si parago-  nino fra loro e le due sorti. Clitemestra non è  presso Euripide se non la malvagia donna : tale  la condanna Elettra che le rinfaccia il lusso e i     (1) Elena v. 836. (2) Ih. v. 837. (3) Ih. v. 840.  (4) Ib. V. 841. (5) Elett. v. 1278 sgg.     68 II. - ANDROMEDA     vezzi durante l'assenza del re. Si difende ella  bensì rimproverando ad Agamemnone l'uccisione  di Ifigenia ; in vano : " la moglie bisogna che, s'è  savia, tutto consenta al marito „ (1); non è giustoj  per una figlia, ammazzar lo sposo, uomo insigne  nell'Eliade (2). No, — osserva sdegnata Elettra,  — tu nascesti cattiva (3) : " tu, prima che fosse  decisa l'uccisione della tua figlia, lontano appena  da le sue case il marito, intrecciavi allo sj^ecchio  le bionde trecce della tua chioma „ (4) : e " la  donna che, assente il marito, adorna la sua bel-  lezza, si cancelli come cattiva „ (5). Appropriato  amico di cotesta non buona, figura Egisto, non  prode, non nobile, ma ambizioso della sua grazia  corporea e avventurato sol tanto fra mezzo alle  donne. C'è dunque nelle due tragedie il riscontro  fra due coppie : riscontro a base morale, ma in-  trodotto dall'arbitrio dell'artista in miti privi  d'ogni cosi fatta preoccupazione. E perché intro-  dotto? perché l'arbitrio?   Alla domanda che per la seconda volta in  breve esame ci si presenta non si deve rispon-  dere se non dopo aver rilevato un altro parti-  colare. Il Nunzio, veduto vanii*e in fumo il  simulacro d'Elena e ridursi in nulla sforzi du-  rissimi e sacrifìzii immensi, si accende di sdegno  contro gl'indovini che, prendendo parte all'im-  presa, non scorsero la verità, non svelarono il  comune abbaglio, né evitarono vittime inutili.  Dice al suo Signore : " Vedi quanto l' opere     (1) Elett. V. 1052. (2) Ih. vv. 1066 sgg. (3) ib. v. 1061.  (4) Ib. vv. 1069-71. (5) Ib. vv. 1072-3.     BUBIPIDE 69     degli auguri sono stolte e menzognere!... Cal-  cante non disse né rivelò all'esercito vedendo  gli amici morire per una nuvola ; e né pure  Eleno : e la città fu predata in vano. Dirai forse,  che un Dio non volle. E perché allora ci rivol-  giamo agli auguri ? agli Dei basta far sacrifizio  invocando fortuna ; e non badar ai vaticinii :  furono inventati ad allettaménto della vita, ma  nessun ozioso divenne ricco per gl'ignispicii. Il  senno e il buon consiglio sono l'augure mi-  gliore „ (1). Per contro è nella tragedia perso-  naggio, non pur dramaticamente notevole, ma  anche moralmente insigne, Teonoe sorella di  Teoclimeno, la quale dagli Dei possiede la virtù  di saper tutte quante cose avvengono ; è quindi  invasa da una potenza profetica analoga alla  magia d'un Calcante o d'un Eleno. Ma ella è  buona, ella è giusta, ella è savia : sa, ove occorra,  tacere al fratello gli avvenimenti più vicini af-  finché trionfi la fede amorosa di Elena e Me-  nelao. Perché aver creato questo contrasto ? Che  non è fittizio né casuale : Euripide parla cosi  per bocca del Nunzio come per bocca de' Dio-  scuri lodanti Teonoe : esprime in entrambi i casi  il suo più soggettivo pensiero.   In questo suo pensiero sta di fatti la ragione  e dell'esser stato concepito VadxovQyóg, e della  purezza di Elena, e del dissidio tra le due forme  di vaticinio. Il poeta è percosso da un'unica ansia,  di cui quelle son le forme momentanee ; è morso     (1) Elena vv. 744     70 II. - ANDROMEDA     da convinzioni contradittorie, di cui quelli sono  gl'indizii occasionali.   Egli appare un moralista. Ecco i personaggi  per cui parteggia con simpatia : una moglie  onesta, un marito fedele, un'indovina equa ; la  figura che crea con compiacenza paterna : un  lavoratore dignitoso e saggio ; gli esseri che av-  versa acre e violento : un bellimbusto galante,  una feminetta vana, un augm'e stolto. Da un  lato coloro che rientrano nel suo concetto del  bene e del giusto ; dall'altro quelli che appar-  tengono al suo concetto del male e dell'iniquo.  Ed è dicevole : nessuno può disconvenire sul  principio che regola la sua morale ; solo la  espressione può venirne discussa.   Ma quando gli si scruta più dentro nell'animo  ci s'accorge che quel bene e quel giusto egli  vuole a prò dello Stato, che VavtovQyóg egli re-  puta degno e capace di governare la pubblica  cosa, che di mariti e di mogli simili ad Elcna  e Menelao gli piace constituita la polis a scopo  di fermezza e quiete politica. Ci s'accorge che  il suo occhio mira più in là d'una teoria morale:  mira, fiso e intento, ad Atene, alla patria. Mentre  scrive, navi e uomini ateniesi sono in pericolo  in Sicilia : pericolo grave che si tramuterà di K  a poco in disastro immane. I Dioscuri si affret-  tano a conchiuder V Elettra perché debbon " sal-  vare le prore nel mar siciliano „. Il Peloponneso  minaccia dal Sud. Negli altri territori! la sorte  non volge migliore. E all'interno ? E peggio. La  democrazia non dà buoni frutti dopo la morte  di Pericle. Il partito de' temperati si alterna nel  potere con quello degli estremi : ed è tale la     EURIPIDE 71     sfortuna di Atene che gli uni non attingono il  governo se non quando le disfatte han dimo-  strato rinettitudine degli altri, e non son per  per lasciarlo fin che disastri non li colpiscano  a lor volta. Ogni mutamento è una esperienza;  ed ogni esperienza, fruttifera di tosco (1). Sopra  tutti, male comune nell'inettitudine comune, si  stende la piovra della cupidigia, la sete del gua-  dagno a ogni costo e in ogni modo. Corrono  massime cui ciascuno informa l'opere se non le  parole : ' beato chi è ricco ', ' la ricchezza è po-  tenza ', ' il ricco è libero, anche se schiavo ; il  povero è servo, anche se cittadino'; 'l'uomo è  il danaro '. E la sete inesausta travolge ognuno  in una lotta, ove il pregio morale non conta,  la forza intellettiva non importa più che il tesoro  cumulato ; forse meno.   Aspra e grovigliata situazione adunque ; dif-  ficile a risolversi. Che per risolverla bisognava  superarla ; piegar la realtà possedendola sino al  fondo, conoscendola in ogni forma ed esigenza.  E difatti voci di riforma e tentativi d'un ri-  volgimento costituzionale serpeggiavano e fer-  mentavano all'oscuro : si preparava la rivolu-  zione dei Quattrocento. Il lievito che era in tutta  la materia sociale toccò Euripide ; il suo spi-  rito ne fu macerato e sconvolto : però che contro  l'immediata e ineluttabile realtà dello Stato, ine-  riva il suo ideale con i pallidi sogni. Egli non     (1) Cfr. su questi anni Beloch Attische Politik (Leipzig  1884). Naturalmente il rapido quadro che se ne dà qui  è veduto con gli occhi di Euripide.     72 II. - ANDBOMEDA     segui né l'uno né l'altro dei partiti. Fu in vece  con la classe di mezzo. Ebbe il cuore con gli  adxovgyoi della sua fantasia, con l'Elene e i Me-  nelai del suo mito. Trasfuse l'esigenza politica,  che il suo genio d'artista non poteva né doveva  sodisfare, in esigenza morale: spostando i pro-  blemi dalla sfera pratica a quella etica. E di-  venne malinconico di speranze deluse e rina-  scenti. A canto alla tragedia religiosa sussistette  nel suo spirito quest'altra: di patriota, di sta-  tista, che è a bastanza acuto per vedere i pro-  blemi, troppo poeta per saperli risolvere.Tragedia  flebile, nella quale confluiscono, — opportuna-  mente, — tutte quante le quistioni minori della  vita sociale e familiare ; le contese minute su  questa legge o quel decreto : le spine sparse  lungo i sentieri del grande roveto. Tale l'invet-  tiva contro gli auguri, secondaria piaga dello  Stato ateniese e di tutte le poleis greche, che  repugnava, ancor \)\\x che al suo intelletto di  filosofo evoluto, alla sua coscienza di cittadino  probo ; e il riscontro di Teonoe in cui il vero  dono divino si rivela appunto pel modo del suo  uso e la bontà delle sue conseguenze. " Attuale „  corruccio ancor questo: che favore di auguri  aveva secondato l'infausta spedizione siciliana (1).  Cosi tutta Atene può entrare, ed entra, nel-  l'animo del poeta per tal via: melanconico spi-  raglio alla più intensa vita.   Mirabile di intuito psicologico nell'elaborar la  materia umana del mito ; pensoso su' dubbii della     (1) Tucidide VII 50; Vili 1.     EUKIPIDE 73   religione e della filosofia ; preoccupato dalle  sorti politiclie e dalle condizioni sociali della  sua patria Atene : Euripide crea i drami fra l'urto  di due interiori tragedie. Crea, dopo V Elettra e  con VElena^ V Andromeda.   Il suo spirito si fece largo, sùbito, di fra i par-  ticolari minori e grinciampanti aneddoti della  saga ; e colse di questa il profondo cuore. Nel  pensiero di chi imaginò la lotta di Perseo col  ketos la tragedia era nel combattimento delle  due potenze avverse ; l'ansia, nell'esito incerto.  Nel pensiero di cìii raccolse, ordinando, tutta la  leggenda dell'eroe argivo e ne divenne mito-  grafo, la bellezza era constituita dal numero e  dall'intreccio delle gesta. Nel pensiero, ora, del  poeta di Atene, il pregio consistette nell'amore  di Perseo e di Andromeda : il congiungersi dei  due giovini fu ritmo fondamentale all'opera in  cui novellamente l'antico mito viveva. Ogni altro  elemento si dispose intorno a questo : dal quale  ebbero tutti l'armonia di composizione. Era il  primo flusso del nuovo sangue infuso nella  vecchia compagine: fu vigoroso ancor pili che  non sembri.   Come dichiarano i frammenti, a l'inizio della  tragedia appariva la fanciulla sospesa a una  rupe, in abiti di cerimonia festiva, mestissima e  piangente. I lamenti di lei Eco ripete da lungi;  non lontano è il mare onde la belva vorace  verrà al selvaggio convito ; sono li presso, in  Coro, fanciulle etiopi, le eguali di Andromeda,  che tentano vani conforti a la tremenda scia-  gm-a. E notte. All'alba il ketos deve sopravve-  nire. E nell'animo degli astanti la deprecazione     74 II. - ANDROMEDA     del male imminente lotta con la tormentosa  ansia pel greve indugio : l'attesa gravita su i  capi come un mostro informe. " sacra notte,  qual lungo cammino con i cavalli percorri, reg-  gendo il tuo cocchio su gli stellanti dorsi del  divino etra, traverso il santissimo Olim^DO ! „ (1):  tale parla nei silenzii l'aspettazione. E il cuore  si ribella contro l'asprezza del fato e la trista  disparità del dolore : " loerché più larga parte  di mali Andromeda s'ebbe^ che misera è presso  alla morte ? „ (2). Il Coro s'impietosisce e tenta  il conforto dividendo il dolore : " perché chi soffre  sente alleviato il suo male, se del pianto fa  parte con altri „ (3). La sofferenza che sta nel  petto, senza sollievo, con la durezza della ma-  teria minerale, e non prorompe se non per voci  d'ira e suoni di sdegno, non a pena ha inteso il  moto compassionevole delle compagne, si di-  scioglie nella rievocazione lacrimosa di tutta la  vicenda : la vanità f eminea e il puntiglio divino  onde la fanciulla fu addotta, incolpevole, alla  pena. I presupj)osti dell'eiDisodio vibrano non di  forza narrativa, si di spasimo lirico : che si as-  sommano nel presente pianto della figlia pu-  nita, e di quel pianto s'impregnano. Ve su la  scena, nell'ambiente creatovi dall'arte, un'amara  voluttà del dolore stesso onde si soffre, e una  insistenza : non sposa a nozze, — e delle nozze  avrebbe diritto pel fiore della sua giovinezza,  — ma vittima a sacrifizio la fanciulla è recata;  non fra i cori delle compagne, si avvinta in funi     (1) Fr. 114. (2) Fr. 115. (3) Fr. 119.     EUBIPIDE 75     e tra il compianto virgineo (1). Ma a rompere  Tuniformità di questo tormento, giunge a tra-  verso l'aria con l'alato piede Perseo, reduce dal  rischio di morte incontro a Medusa: il capo ne  reca in Argo (2). E radioso della sua recente  gloria ; bello della sua giovinezza. Stupisce  prima : "" Dei ! a qual terra di barbari col   veloce sandalo siam giunti? (3) Che vedo?   Timagine d'una vergine, come scolpita da mano  sapiente tra i rupestri rilievi! „ (4). Si fa poi sol-  lecito. E richiede l'avvinta. Ma invano. " Tu  taci „ — la persuade — " ma il silenzio è inade-  guato interprete del pensiero „ (5). Non senza ran-  cuna son le prime parole di quella : " ma tu chi  sei ? „ ; se non che la forza stessa del dolore la  tradisce e senz'altro, per la veemenza del sof-  frire, non definisce audace colui che persiste nel  voler sapere, si comx)assionevole : " ma tu chi  sei, c'hai pietà del mio male ? „ (6). " vergine,  ho pietà di te che veggo sospesa „ (7). Ogni  freddezza si dissipa. Quel che d'ostile era an-  cora nelle parole della fanciulla si placa. Quel  che di vago era nell'animo dell'eroe si concreta.     (1) Fr. 117, 121-122. Convengo col Bethe " Jahrb. des  Arch. Inst. „ XI (1896) pa^. 252 sgg. che questa scena, nei  particolari esteriori, è rappresentata sul cratere del Beri.  Mus. Inv. N. 3237. Lascio indiscussa la quistione, però,   ntorno al coro che il Bethe riconoscerebbe nella figura  a sinistra di Ermes.   (2) Fr. 123. (3) Principio del fr. 124.   (4) Fr. 125, parafrasi. (5) Fr. 126. (6) Fr. 127.  (7) ibid. Inverto l'ordine dei due versi ipoteticamente  dato dal Nauck.     7G II. - ANDROMEDA     La frase dell'uno accende quella dell'altra ; si  susseguono rincalzandosi per armonizzarsi in un  concento unico di vivace simpatia vicendevole.  E alla fine la generosità dell'eroe, la quale si  forma adesso assai più nell'inconscio secreto del  cuore desideroso che nella vigoria dei muscoli  forti e pronti, erompe in promessa : " vergine!  s'io ti salvi, mi sarai grata?,, (1), Egli si è tradite-  la sua prodezza non vuole compenso per solito ;  la gloria gli è premio valevole. Ma quel che ora  chiede è più che una gloria : è il possesso ma-  gnifico, Andromeda intende ; se non che il suo  animo troppo è ancora tenuto dall'imminenza  mortale per abbandonarsi alla fede: teme d'il-  ludersi : e lo dice " Non m' esser cagione di  pianto, inducendomi speranze! „. La risposta, che  nasce da l'immensità del suo soffrire, può parer  dura al generoso offertore; l'istinto femineo se  ne avvede e la spinge a soggiungere : non per  colpa di te " ma molto può avvenire contro  l'aspettazione... „ (2), La speranza di campar la  vita non è nata o almeno non è del tutto salda;  è nata la fiducia in Perseo. Ma questi, in nome  del suo passato di vittoria, della sua strenua  energia, dell'animo bramoso che lo incende e gli  moltiplica le forze, riesce finalmente a trasci-  narla con sé nel sogno, a persuaderle certa la  liberazione prossima. E Andromeda allora lascia  ch'esca diritto dall'anima il grido di promessa  onde è dato al giovane, oltre l'avanzante mostro  oltre la minacciata morte, su la rupe triste sul     (1) Fr. 129. (2) Fr. 131.     EURIPIDE 77     mare vicino, gaudio maraviglioso : " Straniero !  e tu conducimi, come tu vuoi, sia ancella, sia  moglie, sia schiava ! Abbi pietà di me che soffro  tutto; mi sciogli dai vincoli! „ (1). Perseo com-  batterà difatti il ketos sorgente da " l'Atlantico  mare „. E gli s'affollerà intorno " tutto il popolo  dei pastori : a ristoro della fatica, chi recando  una tazza d'edera colma di latte, chi succo di  grappoli „. I principi, " in casa, a torno la tavola  del banchetto „. Si vuoterà il xéÀsiog, la coppa  del salvatore (2).   Sùbito profondo si manifesta, in questa ch'è  la fondamental intuizione psicologica della tra-  gedia, il progresso rispetto al mito ferecideo. In  quello Andromeda non è più, nel suo intrinseco  valore, che una fronda di alloro o un raro cammeo  offerto da Cefeo al vincitore Perseo. La fan-  ciulla è mezzo nelle loro mani ; come è vittima  nelle mani di Cassiepea. L'anima le è sottratta:  meglio, l'anima non le è data. Euripide per  contro ne fa il centro della scena : plasmandola  d'una sostanza indipendente, la costituisce di  sensazioni affetti empiti ; e, conchiudendola in  una persona non comparabile con altre, la crea  fuor dalla materia ove si giaceva informe. Ella  gitta nell'aria lo spirito sofferente; eia natura  mesta le si accoglie d'intorno nel compianto di  Eco. Ella contrappone il proprio forsennato de-  siderio di vivere alla sorte tremenda che la vuol  morta ; e ogni volto, dal cielo dalla terra dal  mare, la guarda. E quando il giovine eroe giunge,     (1) Frr. 132 e 128. (2) Dai frr. 145-148.     II. - ANDROMEDA     la divinità di lui si menoma e si abbassa di-  nanzi la sventiu'a di lei: ella è chiusa in una  corazza dura di dolore, ed egli supplica. Poi,  tutto sembra invertirsi : nel riandar le sue glorie  Perseo si accresce, nel narrar la sua doglia An-  dromeda si piega in lacrime, e il giovane ve-  nuto per l'aria pare alla fine attrarre sopra di  sé, ch'è per affrontare il ketos, tutta la luce.  Ma è parvenza fallace. La vergine lancia al  fervido desiderio del prode il grido della sua  dedizione, — e si afferma per tanto di nuovo,  vivace, nella sua libertà che dalla passione forma  il volere, del volere compone il proprio decreto.  La " Maschia „ che nel primitivo antichissimo  mito ajutava d'opera e di consiglio Perseo contro  la belva, era più vigorosa corporalmente; non  era cosi forte nell'interiore spirito. Certo, nella  tragedia euripidea, una tanto geniale innova-  zione doveva sembrare anche anarchica urtando  contro le consuetudini legali e morali della vita  ateniese; e per ciò senza dubbio si dovette ve-  lare e temiDcrare agli occhi dei cittadini. E  chiaro che Cefeo interveniva in qualche modo,  o prima o dopo, a simulare la sanzione paterna,  e a ricomporre nello schema giuridico la mossa  ardita della figlia. E fine si manifestava forse,  in questo, l'arte del poeta. Ma s'ignora.   L'intervento, tuttavia, di Cefeo non fu senza  effetti. L'amore della vergine che prima della  lotta trionfale era come offuscato di paura e di  speranza egoistica se ben legittima, dopo si velò  di malinconia contrastando con gli affetti filiali.  " Conducimi con te „ aveva esclamato : dove ?  Lontano : in Ai'go, in Serif o. Ma ell'era unica al     EURIPIDE 79     vecchio padre canuto : e la dipartita ne diveniva  grave, aspra la lontananza : era svèlta ancora  (da un eroe, sia pure, non dalla morte) alla vec-  chiezza di lui. Accanto al padre, la madre : col-  pevole, è vero, del rischio; madre tuttavia. Nel  doloroso contrasto levasi l'appello al dio che  travaglia, a Eros, il quale dovrebbe soccorrere  i mortali che affligge : " Ma tu, tiranno di uomini  e Dei, Eros, o non mostrarci belle le cose belle  o ajuta benigno gli amanti che penano pene di  cui tu sei l'artefice ! E, per tal modo facendo,  onorando sarai ai mortali ; non facendo, per lo  stesso insegnare l'amore, tu perderai la grazia  di che ti onorano „ (1). Calda invocazione che tanto  piacque al pubblico perché nella veemenza del-  l'amante incontro al Dio della sua passione tras-  pare il profondo gaudio, onde, pur nel soffrire,  non invoca la salute del morbo, ma un ajuto a  tollerarlo. Eros soccorrerà nel fatto : l'amore  vince.   Era ancor questa una giunta di Euripide al  mito. Ma secondaria: un che di convenzionale  la gravava ; non improntandola il segno del pen-  siero innovatore, ma parendo scaturir ovvia  dalla situazione medesima. Per ciò lo spirito del-  l'artista, inappagato, volle nutrir d'altro sangue  quel dissidio sorto dalla pietà e dall' affetto  e dirizzarlo a scopi diversi, più profondi o più  larghi. S'innestarono difatti sopra l'analisi psi-  cologica queir ansia pregna di preoccupazione     (1) Fr. 136, leggendo dvìjzots al v. 5. Cfr. § VII.     80 II. - ANDKOMEDA     politica, quel travaglio complesso di meditazione  sociale, che vedemmo costituire Tuna delle due  tragedie soggettive al poeta e tutta l'opera ma-  gnificamente arricchire. Quando l'ingegno di lui  crede di aver esaurito per una via la materia  psichica del dramma, una nuova senza indugio  gli s'apre : cessa di toccare la più schietta ma  generica umanità del suo pubblico, per eccitarne  peculiari moti e destarne i singolari interessi.  Parlava all'uomo : parla all'ateniese. E, al solito,  l'idealismo lo tradisce, conducendolo senz'altro  alla difesa della giovinezza e della passione, da  lui concette e atteggiate sotto la piti seducente  specie: a Perseo e Andromeda fa esprimere il  pensiero eh' egli dilige; a Cefeo e forse a Cas-  siepea spetta di combatterlo. Qualunque sia la  quistione giuridica o sociale o politica di cui è  per far cenno, dalla sola impostatura dei ter-  mini si comprende che Euripide, — anche una  volta, — aspira a risolvere una difficoltà em-  pirica col criterio non dell' utile e del pratico  ma del buono e del bello.   La quistione poi non è sola, si consta più ve-  ramente di due. I genitori della vergine s'ar-  mano oltre che dei proprii diritti sentimentali,  di sofismi ed argomentazioni. Il congiungimento  degli esseri si trasforma in un contratto econo-  mico: nel quale l'eroe detronizzato, e cresciuto  da la pietà ospitale, ha troppo palesemente la  peggio di fronte a le ricchezze dell'unica figlia  del fastoso re etiopico. Dice l'un parente : " Oro  io voglio sovra tutto avere nelle mie case : anche  se schiavo, onorabile è l'uomo ricco ; il libero, bi-  sognoso, a nulla riesce : l'oro riconosci causa della     EURIPIDE 81     felicità! „ (1). Che importa forza di gioventù,  ardimento di cuore ? clie importa la gloria im-  mortale, per cui " già morto, già sotto la terra, sii  venerato ancora „ ? Nulla : " è vano : fin ch'uno  viva, l'agio gli giova „ (2). Né basta obiettargli,  con l'esempio recente, che si può per ricchezze  fiorire, e tuttavia giacersi nella sventura (3).  Risponde, al ricco anche la sventura esser più  lieve che al povero: già che quello non soffre  se non del presente ; questo " ogni giorno spa-  venta il futuro, che non sia dell' attuale il do-  lore avvenire più grande „ (4). Il dissidio fra la  fiducia idealistica e il materialismo gretto si as-  somma in una sentenza : " questa delle ricchezze  è la maggiore : nobili nozze contrarre „ (5). Eu-  ripide ha torto ; la ragion pratica lo deve con-  dannare, se pure lo asseconda il sentimento. Ha  torto tanto più quanto che egli ha lo sguardo non  al singolo caso svolgentesi su la scena, ma alla  plutocrazia d'Atene e alla cupidigia immorale  dei suoi concittadini. Ma se il fine propostosi dal  tragico non vien conseguito, un altro lo è, più  dramatico : di far sorgere il dubbio, di irritare  la piaga, di stimolare i cuori. La memoria è  recente della sconfitta tócca in Sicilia ; è vivo il  lutto de' numerosi uomini perduti ; dalle Latomie  di Siracusa gli urli de' suppliziati giungono an-  cora in Atene ; ognuno interroga l' imminente  destino; ma le risposte scavano inutili l'aria tor-  bida d'ansie. Su questi spiriti Euripide lasciando     (1) Fr. 142. (2) Fr. 154. Cfr. § VII.   (3) Fr. 143. (4) Fr. 135. (5) Fr. 137.   A. Ferbabiko, Kalypso.     82 li. - ANDROMEDA     cader la sua massima morale il suo rigido e  teorico principio, se non insegna una via, dis-  gusta del presente cammino.   Nel male generico poi rocchio di lui scorge,  e rileva, un difetto specifico. Nel 451 a. C, —  quarant'anni circa prima deìVAndromeda^ — Pe-  ricle aveva proposto e fatto votare un psèfisma,  secondo cui si ritenevano illegittimi (vód'Oi) i  nati da genitori di cui l'uno fosse non cittadino.  E tale legge era durata in vigore di poi fino  ad attirarsi nel 414 gli strali sarcastici di Ari-  stofane. In verità se si pensa agli scambii con-  tinui fra Aliene e gli alleati e gli stranieri, ci  s'avvede subito in qual forte numero gli Ate-  niesi dovevano veder diseredati i x3roprii figli e  decaduti a un grado inferiore, solo per aver con-  tratto unioni con donne straniere. Pericle stesso  fu colpito a causa di Aspasia da Mileto. Né  solo il sentimento coniugale e l'affetto paterno  urtava quel decreto incresciosamente; ma tutte  le esigenze politi clie gli eran contrarie. Se né  pure la cittadinanza dello sposo poteva far ate-  niese, per esempio, una donna nata in città della  Lega marittima, dura e perigliosa barriera si  rincalzava fra gli alleati ed Atene, la quale pur  del loro ajuto di continuo abbisognava, e su la  loro fedele assistenza doveva contare specie du-  rante le guerre infelici. Onde il largo spirito  euripideo, il qual tutto accoglieva che agitasse  la società de' suoi tempi, si giovò dell'attributo  etnico che la saga conferiva ad Andromeda per  riproporre al suo pubblico il quesito scabro. Ad  Andromeda difatti diceva il padre, — o la madre :  " Non voglio che tu n' abbia figli illegittimi !     EURIPIDE 83     che, ai legittimi in nulla essendo inferiori, sof-  frono per legge: da questo è necessario che ti  guardi„ (1). L'accortezza artistica di un cosi fatto  mònito è pari alla profondità del problema toc-  cato. Perseo accoglie su di sé le simpatie non  pur dell'autore si del pubblico, per la sua ge-  nerosa attitudine verso la vergine. Ch'egli proprio  sia la eventual vittima della dura legge ; che  la ragion giuridica stia con il cattivo genio della  tragedia avverso il buono : trasporta l' uditorio  intiero contro il decreto e gli strappa, non per  raziocinio ma per sentimento, il solenne biasimo.  Aristofane muove a riso se un suo cotale perde  l'eredità a causa del psèfisma periclèo. Eurij^ide  indigna se fìnge Perseo offeso non nell' avere  ma, dopo un estremo rischio, nel giusto com-  penso d' amore. All' architettura passionale la  scenica doveva corrispondere per modo che non  s'adombrasse alcuno né dell'anacronismo né del-  l'irrazionaUtà (2), di cui qualche mediocre spirito  potrebbe menare grande scalpore.   Anacronismo e irrazionalità era difatti mo-  strare Perseo ed Andromeda sotto l'aspetto —  che so ? — di Pericle e Aspasia : l'arte forse non  se ne avvide, certo non li discoperse. Ma restano  essi indizio d'un' alterazione del mito ben più  profonda ed esiziale di quella operata dalla ge-  nialità iDsicologica : ch'era tuttavia un modo di     (1) Fr. 141. Cfr. § VII.   (2) Mi piace qui ricordare l'arguto e acuto studio di  G. Fraccaroli su L'irrazionale nella letteratura (To-  rino 1903).     84 II. - ANDBOMEDA     rivivere il mito, di serrare e appalesare i tramiti  fra la nostra essenza umana e le favolose vi-  cende. Invece, una volta intrusi fini di ripren-  sione politica e di biasimo sociale sopra la trama  della sa^a, essa ne rimane soffocata e asservita.  Eppure il poeta che, a proposito di Perseo e del  ketos, affronta problemi proprii dello statista, non  prosegue se non l'opera del mitologo che, al me-  desimo proposito, finse l'amore di Andromeda e  il vanto di Cassiepea : quegli immette nel mito  la società, questi l'uomo ; e tutt'e due sviluppano  r antropomorfismo contenuto nel primissimo  germe. Si assiste cosi a una penetrazione suc-  cessiva e graduale del fenomeno solare nella  sostanza umana. Ma quanto più l'assorbimento  procede, tanto meno il mito serbasi, qual era,  mito di maraviglia cui si presta la fede non ra-  zionale ma fantastica: tanto meglio si tramuta  in paradigma d'una teoria logica, in schema di  una tesi politica. In vero, dopo che Perseo è di-  venuto pretesto a un problema giuridico, egli  è per diventare l'esempio aggraziato d'una fra  le possibili soluzioni : segno che già l'intelletto  si preoccupa d'altro. Cosi la saga si avvince alla  vita con nuovi sottili filamenti, che non valgono  però le sue prime rigogliose radici.   Mentre da questo lato la leggenda si profonda  verso la terra, per l'altro richiama al cielo i pen-  sieri. Il religioso spirito di Euripide non mancò  di agitare, anche per Andromeda e Perseo e le  vicende loro, i dubbii e le incertezze della fede.  Quanto e come, è impossibile dire: solo per bar-  lumi s'intravvede alcunché : " Non vedi come  la divinità sconvolge la sorte ? in un giorno ri-     EUKIPIDE 85     volge l'un qua l'altro là Quegli era felice ;   lui, un dio oscurò dell'antico splendore: piega  la vita, piega la fortuna con lo spirar dei  vènti „ (1), " Non v' è mortale che nasca felice,  senza che in molto l'assecondi il Divino „ (2).  E ancora: " La Giustizia si dice esser figlia di  Zeus e seder presso ai falli degli uomini „ (3).  Né manca un moto d'ira contro la divinità che  ha voluto il sacrifizio di Andromeda ; ma è  espresso in forma accorta e velata : non avverso  a Posidone e alle Nereidi, si a Cefeo che ha ub-  bidito loro. " Spietato è quegli „ — dice ad An-  dromeda il Coro — " che dopo averti generata,  o afflittissima fra i mortali, ti concesse all'Ade  in favor della patria ! „ (4). Di questi frammenti  il principale, da cui traggono luce gli altri, è  intorno a Dike, la Giustizia : e si compie esso  con un suo analogo, rimastoci della Melanippe  incatenata (5). " Pensate voi che le colpe bal-  zino su con le ali presso gli Dei? e che poi  qualcuno vi sia per inscriverle entro le tavo-  lette di 'Zeus? che Zeus le vegga e ne renda  giustizia ai mortali? L'intiero cielo non baste-  rebbe, se Zeus volesse annotare i peccati degli  uomini ; non basterebbe Egli stesso a tutti esa-  minarli e aggiudicare le pene. Aprite gli occhi :  Dike [non è là su: ella] è qui basso, vicino a voi,,.  Dunque Euripide ha un concetto di giustizia     (1) Fr. 152-3. Nel primo leggo (Aolgav al v. 2. Nel se-  condo, Tòv al V. 1. (2) Fr. 150.   (3) Fr. 151. Leggo àf^aQziag, non TifioìQlag.   (4) Fr. 120. (5j Fr. 506.     86 II. - ANDROMEDA     a cui non vede rispondere né l'opere né i de-  creti divini, a cui gli pare meglio s' addica la  condotta degli uomini. Per lui v' è disaccordo  fra Zeus eDike: questa non può seder presso  quello. Per lui v'è incoerenza fra colpe e pene:  queste mal rispondono a quelle né sempre presso  al " fallo dei mortali „ abita Griustizia. In verità:  un re felice è tramutato in infelicissimo per  l'ambizione di talune iddie ; un eroe vittorioso  non ha la gioja del premio e deve superare  nuovi contrasti; la figlia è punita per la madre.  E pure tutto ciò vogliono gli Dei dall'alto. Che  cos'è dio? che cosa non dio? che cosa semidio?  La domanda angosciosa, — l'eterna del dubbio  tragico, - — ritorna, e accompagna, in tono mi-  nore, il concerto delle passioni eroiche e dei pro-  blemi sociali.   Ma cotesto non è più mito. E critica del mito :  in quanto esso contiene un ricco elemento reli-  gioso. Critica singolare però : che è insieme atto  di negazione e atto di fede. Euripide accetta la  leggenda, la narra senza alterarne il lineamento  essenziale. Solo dopo si domanda s'essa riveli  un legittimo procedere della divinità. E la sua  risposta ha un sottinteso profondo. Egli po-  trebbe difatti negar di credere al racconto per  le azioni che vi sono attribuite agli Dei. Al con-  trario, perché le sente, dopo averle psicologica-  mente vivificate, umane e, come umane, verisi-  mili, se ne fa una base al suo dubbio di filosofo.  E una maniera di sceverar, nella fiaba, la in-  corruttibile verità, — il dolore l'amore la morte,  — dalla verità caduca, onde sorgono gli aspetti  e le forme divine. Se non che essa verità ca-     EURIPIDE 87     duca non è morta, ha vita in assai spiriti an-  cora: quindi la ribellione è difficile, faticosa; lo  svilupparsi da' suoi impacci è un travaglio. E  il tentativo di ripossedere totalmente il mito  fallisce; una rocca resta inespugnata.   Cosi fu adunque, dal genio artistico di Euri-  pide investito il problema che la leggenda eroica  di Perseo e Andromeda offriva al suo magistero.  Della leggenda la sostanza umana fu la più  riccamente rielaborata : quella in cui lo spirito  creatore si profondò con la sua potenza d'in-  tuito da un lato, con le sue preoccupazioni di  politica da l'altro; quella per cui l'animo si com-  piacque della finzione antica, e la godette ri-  creandola. L'elemento divino fu contemplato con  occhi di esitazione, accettato quasi rassegnata-  mente. Al di sopra si conservava intanto la patina  eroica, lo splendore delle avventure, la maestà  delle figure e dei gesti. Perseo giunge a volo.;  reca il capo di Medusa; trionfa di un mostro  orrendo : v'è quanto basta perché chi s' appaga  dell' ap]3arenza lo senta d' un' altra specie, im-  mensamente lontano. Non si sa se nella tra-  gedia avesse luogo, come nel racconto di Fere-  cide, l'ostilità di Fineo e il duello fra i due rivali:  certo questo fu, se mai, un fatto di più, non un  sentimento nuovo: rientrò insomma nella sfera  estrinseca eroica della tragedia. Ma sostanza  umana, elemento divino, vernice romanzesca non  trovarono la loro sintesi se non nell'unità dello  spirito euripideo : sintesi che non è concordia  logica, né armonia estetica ; si bene vita in an-  goscioso travaglio ; nel quale l'intuito psicolo-  gico e l'affanno politico e il dubbio religioso     88 li. - ANDKOMEDA     si fondono ; pel quale il personaggio di Perseo,  la sorte di Perseo assommano in un solo vivo  vertice le divergenti passioni dell' intera tra-  gedia. Per comprender questa nella sua forma  poliedrica, per ravvisarla una, oltre le superfìcie  molteplici, bisogna aver ricostruito l'animo del  poeta e essersi immedesimati con lui. Con lui  potè identificarsi anche il popolo d'Atene: una  sola volta: quello stesso anno 412 onde nacque  e in cui fu rappresentato il drama. Preoccu-  pato del pari, aveva sotto gli occhi uguali spet-  tacoli, sentimenti simili ne scaturivano. Agli  spettatori come al poeta il fato travaglioso  dell'eroe, audace generoso e mal soccorso dagli  Dei, suscitando il dubbio d'una vera Dike, si  tramutava a poco a poco in un'altra angoscia più  sorda di spavento : chi avrebbe retto e vigilato,  da l'alto, le infortunate vicende della grande  Atene ? Questo Perseo che la leggenda pretende  argivo, si è quasi fatto cittadino ateniese dinanzi  gl'inconsci risguardanti, da quando un psèfìsma  di Pericle viene opposto al suo amore; si è quasi  fatto simbolo concreto e doloroso di Atene, da  quando il suo impulso ideale vien premuto dalla  material cupidigia. L'incerto futuro che lo elude  ha la maschera ambigua dell' avvenire che at-  tende, lontano, la Città confusa. A lui definisce  la sorte Atena, apparendo a predirgli le nozze  con Andromeda, il ritorno in Argo, l'assunzione  in cielo con la sposa e Cefeo e Cassiepea tra-  mutati in constellazioni. I problemi umani della  sua vita sono tronchi da un intervento divino :  non resoluti. Onde più tragico ricade sugli ascol-  tanti il timore per le imminenti sorti della     I     DOPO EURIPIDE 89     patria; s'accresce il senso vivace del mistero che  regola le fortune terrene.   Se non che Tessersi l'umano, il celeste e l'eroico  del mito compaginati negli spiriti di Euripide  e del primo suo pubblico, non significa che si  fosser fusi nell'opera d'arte: perché la scissione  può, nello spirito, comporsi per il dolore me-  desimo di cui è causa; ma rende, senza dubbio,  disarmonica la forma estetica che la esi^rime-  Quindi l'unità è momentanea, non stabile. Le  diverse materie della leggenda si serbano dis-  gregate e inorganiche. E, non potendosi nel  tempo, se non per via di critica, riprodurre iden-  tico l'ambiente spirituale del tragedo e dell'età  che fu sua, le innovazioni che al mito ne erano  derivate non accolgono simpatie e non trovan  cultori. Ond' è che il drama nella storia della  fiaba rappresentò una pausa senza echi.     III. — Dopo Euripide.   Si assiste, nell'ulteriore vicenda del mito, a un  lento ma spiccato impoverirsi della sua vita.  Fino ad Euripide, il processo era stato, in vece,  di arricchimento; la tendenza verso una polie-  drica complessità: onde naturalismo e novel-  Hstica s'eran da prima complicati insieme, avevan  avuto giunta dal romanzesco, per attingere il  sommo della pienezza nel dramatico travaglio  del pensiero religioso e politico, il vertice del-  l'altitudine nella fine intuizione psicologica. Dopo     90 II. - ANDROMEDA     Euripide, la parabola discende sino ai confini  d'una più consueta mediocrità: si che par nel  principio che fuor dalla corteccia non si sviluppi  se non il midollo originario della fiaba, ma si  mostra poi ch'esso medesimo è presso che inari-  dito. Che la saga non ritorna in sua vecchiezza  alle fogge giovanili, acerbe più che esigue; si bene  lo spirito che negli inizii verso lei convergeva in-  tiero, vie meglio alimentandola nel suo assiduo al-  largarsi, se ne distrae ora insensibilmente, e si  immerge in altre creazioni. L'impoverirsi della  leggenda di Andromeda è parallelo al formarsi  del disinteresse mitico; ed è quindi preludio d'un  nuovo stadio spirituale, in cui l'uomo, colmato  a pena uno stampo, prende a foggiarsene e  riempire un altro : maggiore.   Il lamento ch'è solito allo storico del mito si  deve ripetere ancor qui : assai fu perduto che ci  avrebbe di molto giovato nello studio di cosi  fatta decadenza mitica. Non son più che quattro  gli autori (1), in cui ci ritorni il racconto del ketos;  ma per fortuna rappresenta ciascuno una tappa  caratteristica.   Apollodoro, raccogliendo nella Biblioteca con  l'altre ancor questa favola, si riconnette a Fe-  recide : muove ciò è, non dalle forme eh' essa  aveva assunte nei più vicini tempi, ma dalla sua  origine. Né vi aggiunge gran cosa ; al più, pio-     ti) Dal numero è escluso Igino Fav. 64, come quello  che contiene varianti di particolari, ma non imprime  d'un propi'io segno la fiaba.     DOPO EURIPIDE 91     coli insignificanti particolari; qua e colà, quasi  in margine, ferma la notizia d' una tradizione  alcun poco diversa dalla ferecidea (1). Chi legga  distratto vi bada a pena. Vi s' indugia sol chi  abbia intenti d'investigazione erudita : nel che  si appalesa dunque la caratteristica di questo  strato evolutivo. All'autore che la narra la leg-  genda è morta: è cadavere che egli ricompone  fra bende, con qualche cautela, a fin che poco  di quelle membra che furono organismo vada  disperso. E vi sono ragioni pratiche per cui,  nell'opera, si preferisca modello l'antichissimo  compilatore ; presso il quale è già armonia di  contesto e compiutezza di termini. V'è, inoltre,  una ragione più alta, intima alla logica dello  sviluppo storico, onde Euripide dev' essere ta-  ciuto : la singolare opera di lui non ha vinto, e  la volgata con tutte le sue piccole e grandi va-  rianti è oltre; più sopra o più sotto, non importa ;  è distinta e prevale. Quindi ben fa chi compila  a lasciar quella in oblio: le compete luogo fra  le produzioni libere dell'arte, non fra le specifiche  della mitopeja; già che la distinzione deve va-  lere, se mai per alcuno, per il mitografo tardo.   Se non che tale aspetto non fu del solo Apol-  lodoro. Anche di un poeta. Ovidio mosse del  pari, se pure non nell'atto materiale del suo la-  voro, certo nella sfera fantastica della sua mente,  da Ferecide : o sia da quelle che in Ferecide  erano le fondamentali intuizioni della saga. Ciò     (1) Cfr. § I.     92 II. - ANDROMEDA     sono : lo stupore simpatico verso il romanzesco ;  la ricchezza dei gesti e dei movimenti nei per-  sonaggi ; il pathos sobrio dell' idillio fra i due  giovini. Ciascuna di queste intuizioni è ripresa  e svolta a costituire l'ordito del racconto; e sol  tanto entro i loro limiti il poeta si concede di  imitare altre fonti, sia pure Euripide.   Il romanzesco imprenta tutto quanto il com-  patto manipolo degli esametri tra la fine del  quarto e il principio del quinto libro nelle Me-  tamorfosi. Sottinteso costante e necessario è il  miracolo della potenza oltreumana: dal volo  che conduce Perseo fra i Cefeni, alla virtù del  capo gorgoneo che termina l'episodio. In appa-  renza però Ovidio non se ne compiace con la  maraviglia schietta di Ferecide ; si tenta di com-  primerlo in termini di umanità. E fallacia. Certo,  il ketos avanzante al feroce convito vien pa-  ragonato a nave rapida: onde n'è ridotto il con-  fine mostruoso. E Perseo gli piomba di sopra  con l'empito discendente dell'aquila: non insolito  spettacolo. Ed essa belva si dibatte a simi-  glianza di cignale fra cani in torma : scena cui  è abitudine nella vita comune. E lo scoppiar  degli applausi su la spiaggia dopo la vittoria  dell'eroe richiama l'eco dei fragorosi anfiteatri.  In realtà, queste similitudini umane riescono una  più sicura esaltazione dello stupefacente: — ne-  cessarie perché le intuizioni si concretino, escano  dall'indefinito ferecideo, e conseguano una pla-  sticità chiusa e viva, che non sarebbe senza il  riscontro consueto e terreno : — utili, di più, per  creare, di là del riscontro, il contrasto fra lo  straordinario e il normale. Si compie qui, ac-     DOPO EURIPIDE 93     canto a un magistero d' arte più evoluto che  vede i particolari e li esprime non li accenna,  uno sforzo per accrescere la distanza di cui se-  parasi la terra dal cielo, la creatura dal semidio.  Gli corrisponde il rombo del verso. A che fine?  Per la metamorfosi che conchiude, in due ri-  prese, il racconto. In quella il romanzesco si  dissolve, come in sua foce : il capo di Medusa  che impietra in coralli le verghe del mare e  converte lo stuolo dei congiurati in affoltata  marmorea di statue danno una sanzione estrema  a l'inverosimile che precede. Non in egual modo,  a dir vero ; che ciascuna di quelle trasforma-  zioni ha importanza speciale, né può valere se  non congiunta con la prima o la seconda delle  scene in cui il racconto si divide.   La prima è intorno alla venuta di Perseo, al  duello con la fiera, alla vittoria (1).   Novamente da l'una parte e da l'altra egli si av-  vince con le penne i piedi ; della curva spada sì arma :  e il limpido etra fende movendo i talari. D'intoi'no e  di sotto innumeri genti lasciate, scorge le schiatte  etiopiche e i campi cefèi. Ivi l'ingiusto Ammone aveva  ingiunto che l'incolpevole Andromeda della materna  lingua scontasse le colpe. Lei come l'Abantìade vide,  avvinta le braccia su la dura rupe, se Paura lieve non  avesse agitato i capelli né gh occhi stillato un tepido  pianto, opera di marmo l'avrebbe creduta. Ignaro ne  avvampa e stupisce, e rapito all'aspetto dell'apparsa     (1) IV vv. 665-752. Traduco sul testo di H. Magnus  (Berlino 1914).     94 II. - ANDEOitfEDA     bellezza dimentica quasi d'agitare le penne per l'aria.  Si ferma. "0 tu — dice — degna non di queste ca-  tene, ma di quelle che serran fra loro i cupidi amanti,  il nome a chi '1 chiede rivela della terra e di te, e  perché porti legami „. Si tace ella da prima né osa  parlare, vergine, a un uomo : delle mani celerebbesi il  volto pudico, se legata non fosse. Gli occhi, — e poteva,  — di sgorgante pianto colmava. A lui, che insiste più  spesso, svela, perché celar non sembrasse delitti suoi  proprii, il nome della terra e di sé, e quanta fosse  stata fiducia della materna bellezza.   Ancor non compiuto il racconto, l'onda risuona :  avanzando, la belva a l'immenso mare sovrasta, e molta  sotto il petto acqua soggioga. Stride la vergine. Do-  loroso il padre, e insieme la madre è presente : miseri  entrambi, più giustamente questa. Non recano ajuto con  sé, ma, come vuole il momento, pianti e lamenti, e si  serrano al corpo legato. Or cosi l'ospite parla : " Di la-  crime molti giorni vi potranno restare ; a porger sal-  vezza è breve l'ora. Questa s'io vi chiedessi, — Perseo  nato da Giove e da quella che rinchiusa Giove fé'  pregna d'oro fecondo; Perseo vincitor della Gorgone  anguicoma, e per gli spazii etèrei agitando le ali vo-  latore ardito, — sarei qual genero a tutti, per certo, an-  teposto. A tante doti io tento di aggiungere un bene-  fizio, pur che m'assistan gli Dei. Che, dal mio valore  salvata, sia mia, fo patto ,. Accettano (chi avrebbe per  vero esitato ?) e pregano, e promettono inoltre in dote  il lor regno, i genitori.   Ecco, quale nave veloce solca col prominente rostro  le acque, da sudanti braccia di giovini condotta ; tale  la fiera, spartendo con l'empito del petto le onde, tanto  dalla rupe distava, quanto del cielo interposto possa  Balearica fionda col piombo vibrato varcare : allorquando     DOPO EUKIPIDE 95     d'un sùbito il giovane, da i piedi respinta la terra,  alto si leva verso le nubi. Come alla sommità dell'acque  fu vista l'ombra dell'uomo, s'infuria contro la vista  ombra la belva. E come l'uccel di Giove, vedendo che  nel campo sgombro un serpe al Sole le livide terga  concede, da dietro lo afferra, perché la nefasta bocca non  torca, e figge i bramosi artigli nella cervice squammea;  cosi con volo rapido a piombo calando pel vuoto, della  fiera fremente oppresse le terga, nel fianco destro l'Ina-  chide le nascose il ferro, fin dove è ricurvo (1). Laniata  da grave ferita, ora eretta si aderge nell'aria, ora si  asconde nell'acque, ora voltando si avventa a guisa di  fiero cignale cui la turba de' cani latranti d'intorno  spaura. Egli causa con l'ale veloci gli avidi morsi ;  adesso le terga soprasparse di cave conchiglie, adesso dei  fianchi i margini, adesso dove la tenuissima coda si  termina in pesce, ovunque si porga indifesa, flagella  con la spada falcata. La belva da le fauci vome i fiotti  misti con purpureo sangue. Le penne asperse s'appe-  santiron madide : né Perseo osando più oltre affidarsi  a' zuppi talari, scorse uno scoglio che col supremo  vertice l'onde supera chete, è coperto da l'onde agitate.  A quello poggiato, con la sinistra della rupe tenendo i  gioghi estremi, tre quattro volte inferisce la spada nei  fianchi colpiti.   D'applausi il clamore riempie la spiaggia e le su-  perne case de' Numi. S'allietano, lo salutano genero, au-  silio della schiatta e salvator io proclamano, Cassìope e     (1) Per avere una idea precisa della " spada ricurva ,  " falcata „ di Perseo e per comprendere il v. 720  {curvo tenus hamo) si veda il disegno in Roscher Lexicon  d. Gr. ti. R. Mythologie III 2 (Leipzig 1902-9) pag. 2053-4.     96 II. - ANDROMEDA     Cefeo padre. Sciolta da le catene s'avanza la vergine,  della fatica e causa e premio. Egli in acqua attinta  purifica le vincitrici mani : e perché dura non offenda  l'arena il capo gorgoneo, fé' molle di foglie il terreno,  virgulti distese nati nel mare, e sopra vi pose la testa  di Medusa Porcinide. Il recente virgulto, dal succoso  midollo ancor vivo assorbì la forza del mostro, al con-  tatto di questo fu duro, nelle fronde e nei rami assunse  rigidezza inusata. Ma sperimentan le ninfe del pelago il  mu-abile fatto in più verghe e con gaudio lo vedon  ripetersi uguale. Poi che di quelle i semi sparser su  l'acque, ancora ai coralli la stessa natura è rimasta,  che dal tocco dell'aria ricevan durezza, e ciò ch'era  verga nel mare, sopra il mare sasso diventi.   Seguono le scene di festoso tripudio cui s'ab-  bandonano con Cefeo e Cassiepea i Cefeni tutti.  E si termina, col libro quarto, il primo episodio,  per sé stante, del mito. Chi lo cerchi più a fondo, deve soffermarsi  sopra il dialogo fra Perseo e Andromeda, fra  Perseo e Cefeo con Cassiepea. Vibra, ivi, il sen-  timento attorno cui Ferecide aveva trovato rac-  colta la fiaba del ketos. Ma, si direbbe, in sor-  dina. Un che d'ignoto par che l'attenui come  d'un velo. Cosa non senza maraviglia, giustifi-  candosi tutto il successivo evento appunto dal  sorger dell'amore in Perseo e dalla promessa  del padre. Anzi, se l'origine dei coralli è il  vertice avventuroso del racconto, questa scena a  l'inizio dovrebbe esser il perno sentimentale o,  meglio, umano. Ora in ciò a punto è la causa  del poco rilievo concessole dal poeta. Il suo  senso d'arte l'avverti che questo poteva divenire     DOPO BURIPIDB 97     "iin elemento disgregatore, una disarmonia nel-  l'opera: e la passione tramutò in accordo nu-  ziale. I due protagonisti impiccioliscono visibil-  mente: ella s'induce a rivelare allo straniero il  perché di sua xDOsitura " a fin clie non sembri  celare colpe sue proprie „, — e accusa la madre:  egli sciorina dinanzi ai piangenti genitori, mentre  la belva avanza e il terror tragico martella i  cuori, i proprii titoli, quelli per cui si ritiene  onorevole genero al re. I più generosi appajono,  poveretti, quei due vecchi che di tutto cuore  danno, con la figlia, il regno! Si che l'artista  fu, in questo argomento, volubile ; né gli soccorse  alcuno di quei fini tratti di psicologia di cui è  capace in altri casi. I soli accenni più appropriati  toglie a Euripide: tali lo stupor del veniente  Perseo per l'aria, e il pudore silenzioso della  vergine. Ma deliba a pena il calice, e l'ampiezza  numerica della forma cela l'esiguità della intui-  zione. Il romanzo gli ha, non pur scemato, ma  un poco anche guasto la vita.   Dopo che tra grande esultanza si sono raccolti  a banchetto nuziale il re e la regina con la  figlia e il genero nuovo, si fa innanzi Fineo. E  l'uomo di Ferecide: il fratello di Cefeo già fidan-  zato con Andromeda ; il quale non ha avuto il  coraggio di liberarla col proprio rischio ; ma  tenta ora di riaverla quando il ketos è ben  morto.   Mentre fra mezzo alla schiera cefena quell' im-  prese (1) l'eroe danaejo racconta, gli atrii regali riempie     (1) Le precedenti sue avventure : le Graje, Medusa, ecc.  A. Ferbabino, Kalypso. 7     98 II. - ANDROMEDA     una turba fremente ; sorge un clamore, non di canti  alle feste nuziali, ma d'annunzio a feroce contesa. E  i conviti mutati in sìibiti tumulti potresti assomigliare  a golfo che, quieto, sollevi in onde commosse la fervida  rabbia dei vènti.   Primo Fineo tra quelli, temerario autore della con-  tesa, agitando un'asta di frassino con bronzea punta,  " Ecco „ dice * ecco, mi avanzo a vendetta della car-  pita sposa. Né a me te le penne, né sottrarrà Giove  in falso oro converso „ (1). A lui clie tentava scagliare,  Cefeo opponeva " Che fai ? qual mente ti spinge in-  furiato al delitto ? tale grazia si rende a ineriti grandi ?  con questa mercede compensi la vita di lei ch'è sal-  vata ? La quale ritolse, se tu cerchi il vero, non Perseo  a te, ma l'aspro nume delle Nereidi, ma il cornìgero  Ammone, ma quella belva del mare che veniva per  farsi satolla delle viscere mie ! Allora rapita ti fu,  quand'era a morire. Se non se, crudele, ciò stesso tu  brami, che muoja, e t'allieti del nostro dolore. non  basta che nel tuo cospetto ella fu avvinta ? che nullo  soccorso recasti, tu sposo, tu zio ? in oltre, ti duoli  che fu da taluno salvata, e gli carpisci il premio ?  Questo se a te grande paresse, da quegli scogli dov'era  affisso l'avresti richiesto. Ora lascia che quegli il qual  lo richiese, pel qual non è orba questa vecchiezza, si  porti quanto con opre e parole pattuì ; e comprendi  come lui s'antepone non a te, ma a una morte sicui'a „.   Non cede Fineo a' consigli del fratello, anzi     (1) È forse inutile ricordare che, secondo il mito, Zeus  avrebbe generato Perseo (sopra pag. 94) cadendo dal sof-  fitto in forma di pioggia aurea nel grembo di Danae.     DOPO EURIPIDE 99     comincia il combattere. E il racconto si distende  lungo per circa due centinaja di versi : che la  battaglia è seguita ne' suoi particolari con ab-  bondanza di nomi di persone di gesti. Il tu-  multo è grande (1).   " Le congiurate schiere d'ogni lato combatton per  la causa che impugna inerito e fede. Per questi il va-  namente pio suocero, e con la madre la nuova sposa,  son favorevoli, e d'ululato riempiono gli atrii. Ma  prevaleva il suon dell'armi e il gemito dei caduti „.  Per poco ancora dura la lotta. " Però quando alla  turba soccombere vide il valore, Perseo : " Poi che  mi costringete voi stessi, ausilio richiederò al nemico.  Rivolga il viso chi, propizio, è presente „ : e trasse il  capo della Gorgone. " Cerca un altro, che i tuoi vanti  commuovano! „ esclamò Tèscelo; ma, mentre con la  mano apprestavasi a scagliare il dardo fatale, in tal  gesto rimase statua di marmo ,. All'ultimo è pro-  strato, dopo assai altri come Tescelo irrigiditi dal  mostro meduseo, lo stesso Fineo. E implora : " Vinci,  Perseo : allontana i fieri mostri, togli il capo impie-  trante della tua Medusa, qual che si sia. Togli, ti prego.  Non odio ci spinse a contesa, né brama di regno ; per  la sposa movemmo le armi ; migliore fu la tua causa  per opre, pel tempo la mia. Non m'è grave di cedere.  Nulla, fortissimo, fuor che quest'anima concedi a  me! tuo il resto ti sia „. A lui, che cosi parlava, né  risguardare ardiva quello cui con la voce pregava,  rispose : " Ciò che, o timidissimo Fineo, concederti  posso, ed al vile è dono ben grande, — lascia il timore.     (1) V 30-235 ; la parafrasi è dei vv. 150 sgg.     lOO II. - ANDROMEDA     — ti concederò: da ferro non sarai violato. Che anzi  vo' darti un monumento che duri perenne ; e sempre,  nella casa del suocero nostro, sarai guardato si che la  mia sposa da l'imagine del fidanzato abbia conforto „.  E lo impietra.   Cosi la vasta e agitata folla che nel principio  commoveva la scena si tramuta in un popolo  rigido di statue, di cui ciascuna serba, nella fis-  sità, un gesto di vita. Ed è qui a punto il car-  dine del secondo episodio mitico: efficace tra-  passo per il quale la compiacenza ferecidea  verso la riccliezza del movimento e l'ampiezza  dell'azione si sublima in motivo di armoniosa  bellezza. Che è quasi esclusivamente merito di  Ovidio; come di quello che, sviluppando a sé  tutta la seconda parte della leggenda, la equi-  librò con l'ampUarne, ai due estremi, il combat-  mento e la metamorfosi. Ma non fu pago a tanto.  Inserì nella sua materia anche la nobile fede  di Cefeo che si oppone al fratello esortandolo  a giusta pace, e l'ironia ultima di Perseo non  priva di malignità né di un grossolano sale.  Se bene già questa non era una giunta che com-  piesse, si più tosto una intrusione che alterava,  il jDoeta volle perseguir fin nelle minuzie anche  le vicende della contesa; e tradusse il duello in  una battaglia omerica; — cadendo nella più  stucchevole prolissità. Non fu ricco, ma pleto-  rico : non diverso, si bene monotono. Nella scialba  sostanza impresse poi, su l'inizio e su la fine,  senza garbo né acume, tracce d' umane pas-  sioni. Della cui banale mediocrità s' intende  quindi il motivo : fu necessario all'autore inspes-     DOPO EURIPIDE 101     sirle per ottenerne un qualche rilievo da 1' im-  menso piano uniforme dello sfondo. Sola, or qui  or là, la perizia tecnica foggia il verso con  eleganza; e varia musicalmente il ritmo. Nel-  l'insieme, sopra un ben intuito fondamental con-  trasto, lo sforzo d' esser profondo deforma e  rigonfia gli elementi dell'opera.   E ricordiamo. Contrario ci apparve il difetto  nel primo episodio: volubile superficialità psico-  logica accanto a larghezza romanzesca. Ma ana-  logo è nella sua radice. Nell'un caso e nell'altro  il poeta non ha colto il cuore del mito, né ha,  da quello, vissuto il mito. Altrimenti, egK non  avrebbe errato : il suo respiro coinciderebbe con  il respiro della fiaba. In vece, essa gli fu estranea :  pagina fredda di volume svolto. Il suo interesse  la tentò con approcci successivi, e di ciascuno  rimase una traccia: ora piacque l'analisi psichica,  ora la smaglianza dell'avventura, ora l'agita-  zione bellicosa; in parte fu possibile imitare  Euripide, Omero in parte. Mai però, in alcun  punto, l'interesse divenne simpatia, tanto meno  amore. Sembra che la leggenda uncini con tutte  le molteplici sue bellezze uno spirito stanco, che  reagisce pigramente se ben non dorma ancora.  In realtà lo spirito è distolto ; vive altrove.   Un secolo e mezzo dopo, il pensiero umano è  molto lungi. Ha nel trattare il mito una grazia  nuova, '' lucianesca „. Ecco il quattordicesimo  dei Dialoghi marini di Luciano. Le nozze di  Perseo e Andromeda si stan celebrando ; il ketos  è a pena morto. In non si sa qual recesso del  mare Tritone e le Nereidi cambian fra sé     102 II. - ANDROMEDA     quattro ciance. È un mormorio di donnicciuole  con un rivenditore del mercato. L'uno dà le  notizie ; l'altre gli si fanno attorno, — e ov'è la  bellezza dei volti? — con moti curiosi: ora  questa ora quella alza la voce ; le compagne in  tanto ascoltano con stupor muto. Sono ignare  de' più recenti fatti, e l'amico li ha appresi ori-  gliando. L'eco della terra par muovere da una  lontananza. Ma la terra è presente (1).   Tritone e le Nereidi.   Tbit. — Quel vostro ketos, o Nereidi, che inviaste  contro la figlia di Cefeo, Andromeda, non solo non fé'  danno alla fanciulla come credete, ma fu ucciso già  esso medesimo.   Ner. — Da chi, o Tritone ? forse Cefeo, esposta  come ésca la vergine, lo assalse ed uccise, attenden-  dolo in agguato con molti guerrieri ?   Trit. — No. Ma voi conoscete, — credo o Ifianassa  — Perseo, il bambino di Danae, che fu cacciato sul  mare nell'arca insieme con la madre ad opera del nonno  e che per compassione di loro voi avete salvato.   Ifian. — So di chi parli: suppongo che ora sia  un giovine e molto prode e bello di aspetto.   Trit. — Egli uccise il ketos.   If. — E perché, o Tritone ? non questo compenso  per vero egli ci doveva.   Trit. — Vi dirò tutto, come avvenne. Egli fu man-  dato contro le Gorgoni per compiere al re quest'im-  presa ; dopo poi che fu pervenuto in Libia...   If. — Come, o Tritone ? solo ? o conduceva com-  pagni? che altrimenti la via è difficile.     (1) Testo del Jacobitz (Lipsia, Teubner, 1881).     DOPO EURIPIDE 103     Tbit. — Traverso l'aria : Atena lo aveva fornito  d'ali. Quando dunque fu pervenuto là dove dimora-  vano, esse dormivano, ritengo, ed egli potè tagliare il  capo a Medusa e scapparsene a volo.   If. — Ma come le guardava ? sono difatti inguar-  dabili : o pure chi le guardi, non vedrà altro dopo  di esse.   Trit. — Atena col porgli innanzi lo scudo (queste  cose udii ch'egli raccontava di poi ad Andromeda e a  Cefeo) Atena dunque gli diede a vedere l'imagine di Me-  dusa su lo scudo risplendente, come sur uno specchio :  allora egli aflPerrata con la sinistra la chioma, sempre  riguardando nell'imagine, recise con la falce nella  destra il capo di lei, e prima che le sorelle si destas-  sero volò via.   Come poi giunse a questa spiaggia d'Etiopia, già  basso su la terra volando scorge Andromeda esposta  sopra una sporgente rupe, infissavi, bellissima, o dèi !,  sciolta le chiome, seminuda assai sotto i seni : e da  prima, compassionando la sorte di lei, dimandava la  causa del supplizio, ma a poco a poco preso da amore  (bisognava pure che uscisse salva la fanciulla) decise  di soccorrerla. Fra tanto il ketos avanzava pauroso  come per divorar Andromeda ; e il giovine, penden-  dogli di sopra, e brandendo la falce, con una mano lo  colpi, con l'altra gli mostrò la Gorgone e lo fece pietra:  la belva tosto mori e divenne rigida in molte membra,  quante avevan veduto Medusa : egli sciolse i vincoli  della vergine, e porgendole la mano la sostenne mentre  scendeva in punta de' piedi dalla rupe sdrucciolevole;  e ora celebra le nozze nelle case di Cefeo e la condurrà  in Argo : cosi che in luogo della morte ella trovò un  marito, e non comune.   Ir. — Io già dell'avvenuto non mi sdegno; che     104 li. - ANDBOMBDA     colpa di fatti aveva verso noi la figlia se la madre  menava vanto e riteneva d'esser più bella ?   DoB. — Ma in tal modo, come madre, avrebbe  sofferto per la figlia sua.   If. — Non rammentiamo più tali cose, o Doride,  se una donna barbara ciarlò un po' più del giusto.  Basti, a nostra vendetta, cbe fu spaventata per la  figlia. Rallegriamoci dunque delle nozze.   Certo, la terra è presente. E nei gesti che si  sottintendono ; e, più, nei confini mentali degli  interlocutori. L'arte di Luciano li designa con  perizia finissima nelle varie domande chemuovon  a Tritone le Nereidi. Da principio, annunziata  la morte del ketos, suppongono, com'era più  semplice, un agguato di Cef eo. No ; fu Perseo :  — è il primo ingresso dello stupefacente. Perseo  s'era recato in Libia. E quelle pensano a una  regolare spedizione con compagni, ^' che altri-  menti la via è difficile „. Ragionan bene; ma,  per altro, Perseo volava : — nuova maraviglia.  Or egli aveva, prima, ucciso Medusa. " Ma come  la guardava?! „. L'inverosimile è al colmo. Da  quel momento Tritone può continuar ininter-  rotto. E continua; ma svela, in un suo breve  inciso, improvvisamente, l'importanza di quelle  interrogazioni. Perché Perseo fu " preso da  amore „ per Andromeda? Risponde: " bisognava  salvar la fanciulla „. Tal motivo non vale per  l'animo dell'eroe, che in esso quella non è causa  sufficiente e appropriata ; bensì smaschera l'ar-  tificio del mitologo, e mostra la passione in-  ventata a giustificare la salvezza della vergine.  E una critica genetica, diremmo oggi. Ed è     DOPO EDRIPIDE 105     la stessa che avevan fatta, più coperta, le figlie  di Nereo. Il dono delle ali è rilevato come stro-  mento mitopeico perché Perseo potesse recarsi  in Libia ; l'astuzia dello scudo, come mezzo ar-  tefìciato ad eliminar in Medusa quella medesima  nefasta efficacia che le si soleva attribuire  Dunque, — è deduzione implicita, — ci fu una  interessata volontà, la qual condusse con varie  furberie il giovine in Libia e contro Medusa e  fra gli Etiopi. Dunque il mito è favola che ima-  ginò taluno. Passo a passo i colpi son recati,  fin che la leggenda non ha più una base di fede,  si una di scetticismo sorridente e maligno. Onde  si appalesa fittizio lo stupore crescente delle Ne-  reidi dinanzi all'avventura: però che il pensiero  da cui sono animate è, non cosi ristretto da non  concepir l'insueto, ma largo a bastanza da ne-  garlo. E nell'ultime parole la larghezza si ac-  cresce d'un contenuto morale , estrema vetta di  cotesta saliente bellezza d'arte : non era giusto  colpir la figlia per Terrore materno ; fu molto  che Cassiepea avesse a temere tanta sventura ;  né dovrebbe importare a Dee la gara in bellezza  d'una donna barbara con loro. Son questi, si,  ancor gli attacchi che al mito avrebbe mossi la  coscienza etica di Euripide; ma la tragedia  manca, né può sussistere adesso. La fiaba è stata  svèlta da l'anima, e respinta al di fuori ; onde  il biasimo tocca alcun che di esterno, non logora  il cuore stesso dell'artista.   Come un luogo comune dell'ornamentazione  retorica l'aveva sfruttata Manilio per le sue  Astronomiche^ a proposito delle costellazioni     106 II. - ANDROMEDA     denominate da Perseo e da Andromeda. Ma  senza vigoria originale. E difatti in cotesto uso  (non importa se anteriore nel tempo) assai men  vita leggendaria che nello stesso Luciano: nel  quale l'intellettual sorriso della critica è tutta-  via indizio di un sopravvissuto interesse, come  a passato recente e sentito ancora. Manilio per  contro segue l'andazzo letterario, e non illumina  né pure con la luce della sfera più alta le te-  nebre deir ormai superata. La conversione dei  personaggi in astri, che presso Euripide era  giunta a troncare ardui problemi dello spirito,  diviene qui lo spunto, donde il raccónto si di-  parte : le è anzi asservito il racconto medesimo,  il quale nella mente all'astrologo imbelletta la  pseudo scienza celeste, che di Grecia aveva tro-  vato favor di accoglienza fra i Latini (1). Si  che qui si misura, con precisa esattezza, il re-  gresso dell'efficacia leggendaria.   Né Luciano né Manilio accennano a Fineo.  Se per ciò si connettano con il tragico che, —  forse, — non gli aveva trovato luogo nel drama,  non è a dirsi. La natura del tema, in entrambi,  giustifica il silenzio: che Fineo non divenne  astro né ebbe attinenze col ketos. Per contro è  notevole che non essi, come non Apollodoro né  Ovidio, accettano la Andromeda euripidea. E  per chiaro motivo. Creata quella nel momento  del culminante interesse pel mito, scompare di     (1) Cfr. M. ScHANZ Geschichte der romischen Litteratur^  (Miinchen 1913) II 2 pagg. 28 e 37.     DOPO EURIPIDE 107     poi con lo scemarsi della simpatia traverso le  posteriori vicende del pensiero. Nel sommo della  parabola, che segna lo sviluppo di questa leg-  genda, sta adunque una singolare originalità  ch'è in contrapposto ad un tempo con gli stadii  precedenti e con i successivi. E una singolare  ricchezza psichica, che dell'originalità è la causa  diretta.     CAPITOLO III.  La Demetra d'Enna ^^l     1. — Il mito siculo.   Enna: nell'interno della Sicilia, a presso che  mille metri sul mare, non lungi a un lago cui  oggi è il nome di Pergusa e di Pergo era nella  antichità, sopra una larga groppa dei monti  Erei (2), onde, traverso l'aria diafana delle au-  rore e dei tramonti settembrini, le pupille be-  vono, oltre le giogaje lungo le valli e i tortuosi  solchi dei fiumi, la dorata luce dei piani. De-  metra genitrice delle biade, Cora-Persef one figlia     (1) Per questo capitolo v. Vlndagine in libro II cap. II,  di cui nelle note successive si citano i §§.   (2) La descrizione d'uno straniero : 0. Rossbach Ca-  strogiovanni, das alte Henna in Sizilien (Leipzig 1912).     Ilo III. - LA DEMETRA d'bNNA   di lei, Trittolemo dall'aratro, vi avevano negli  anni di Cicerone templi statue culto. Le donne,  cui talune cerimonie eran riservate, vi salivano  forse dai paesi vicini; tutte fin da Panòrmo da  Drèpano da Catana da Camarina da Siracusa  da l'Etna vi lasciavano giungere certo il pen-  siero divoto, supplice per la famiglia ed i campi,  timoroso dell'ire e delle vendette divine: però  elle di là la Dea, la quale è nume ad un tempo  del matrimonio e delle spighe, sembrasse ve-  gliare su l'intiera isola, e proteggere l'isolane  in casa, gl'isolani su le glebe. Di quella religione  l'oratore romano vantava, nell'arringa scritta  contro il mal governo di Verre, l'origine anti-  chissima : ivi nate le Dee, ivi vissute e viventi ;  ivi dall'età vetuste le case dei numi ed i riti  sacri. E l'antichità asseriva riconosciuta da ogni  popolo senza contrasto (1). Contrasto certo non  sussisteva, in Sicilia, ove al santuario ennense  si guardava, come a reliquia dei tempi, con un  profondo rispetto, che le arcane leggende dei  primordii rendevano più intimo e sentito.   Né la memoria secreta del popolo o il suo  pronto intuito di fedele s'ingannavano. Da poi  che, — forse, — la Storia oggi, molti nessi rav-  visando e molte trasformazioni che s'ignoravano  allora, riesce a dare un più saldo fondamento  alla credenza di quei Siciliani, un contenuto  meglio ampio al loro ricordo; se bene diffìcil-  mente serbi la grata bellezza poetica di cui in-  sieme erano pregnanti religione e mito.     (1) CicER. in Verr. IV 106.     IL MITO SICULO 111     È probabile che gli avvenimenti seguissero  cosi (1).   Enna, nella sua forte positura montana, è da  presumere fosse uno dei luoghi ove gl'Italici  appartenenti alla tribù dei Siculi ebbero a cercar  rifugio sul finire dell'età micenea, nel sec. IX  avanti l'èra. Le coste, più agevole sede, eran  divenute mal fide per l'incursione dall'Oriente  di predatori troppo ben armati perché fosse riu-  scibile la resistenza. Sotto l'irrompere dei vio-  lenti s'era per alcun tempo spostato verso l'in-  terno il processo evolutivo che, non senza influssi  esterni e tal volta notevoli, durava fin dall'età  eneolitica. E sulle vette dei monti si stratificava  fino a cristallizzarsi la vita civile dei Siculi ;  tra cui, com'è ovvio, prendeva consistenza anche  il pensiero religioso, con la leggenda divina che  n'è, fra gli Arii, foggia consueta. Per disavven-  tura, dagli scavi archeologici noi siamo assai  meglio informati su gli oggetti delle più ve-  tuste necropoli e su gli stili loro, che non su la  maturità mentale, su gli dèi, su le fiabe, di  questa tribù in quell'epoca. Ci manca, sovra  tutto, qua! si sia testimonianza atta a fermare  una caratteristica dell'intelletto siculo antichis-  simo la quale valga a contraddistinguerne, p. es.,  i miti da quelli dei popoli affini nel Lazio e  nella Grrecia. L'affinità concede bensì volontieri  l'analogia; ma questa deve, sobria, fermarsi a  linee sommarie e incompiute.   Per ciò la congettura ancor che acuta lascia     (Ij Cfr. §§ 1 e III.     112 III. - LA DEMETRA d'eNNA   intrawedere, se cauta, poco. Gl'incunabuli del-  l'arte e scienza che insieme ammaestra a sparger  il seme nelle zolle e stringe i vincoli dell'isti-  tuto familiare, erano stati il tesoro comune che  gl'Indoeuropei dividendosi recavano seco traverso  le regioni dissimili. Agricoltura e famiglia, vie  meglio possedute e costituite col cessar del no-  madismo, avevano per sé più e più secoli di  trionfo nell'avvenire : costituivano, con la loro  celata forza e importanza, due poli essenziali  nella vita presente. Essenziali e magnetici tanto,  da attrarre parecchie fra le medesime divinità  della luce e del cielo, e sopra tutto fra le divi-  nità delle tenebre e di quella morte, che la mente  bambina dei primitivi, iDer non averne compreso  il profondo valore e la non palese bellezza, cir-  condava di ombra nelle celate viscere della terra  ove scompajono i corpi di uomini'ed animali.   Di questi due poli religiosi seguire a ritroso  la progressiva formazione, conduce a origini tra  sé lontane. Il naturismo che venera l'albero e il  sasso, il ruscello e la zolla, la spiga del grano ;  l'animismo, che poi se ne evolve, e adora lo spi-  rito del sasso e la potenza del seme ; il più ma-  turo pensiero che, in fine, riesce a foggiarsi di  tutta la terra una divinità sola o di tutte le  biade: ci riassumono, — nei loro gradi più re-  cisi, e nelle loro sfumature assai meno formula-  bili, — la storia sintetica del Nume agreste, il  quale tutta la vita degli agricoltori accoglie e  disciplina intorno al suo proprio culto. È un'a-  scesa dalla pianta al dio, dalla terra al cielo : è  un germogliare della credenza su da quel suolo  cui si richiama. — Altra via tien la famiglia     IL MITO SICULO 113     nel venerare i suoi iddii. Il vecchio padre, che  è morto dopo aver in vita esercitata la suprema  autorità su le mogli e i figli ; ed è morto la-  sciando nella dimora le cose tutte che già furono  segnate del suo possesso e cedendole ai succes-  sori insieme con le vendette da compiere e gli  odii da esaurire; ed è morto spezzando con l'ul-  timo alito la compagine che si raccoglieva in-  torno a lui e sciogliendo i suoi nati dal vincolo  che li legava per la sua difesa : rappresenta con  la scomparsa un troppo profondo evento, j)erché  l'ombra di lui non debba venir placata dai ne-  poti, e il suo nome di " Padre „ ripetuto. E  quando, anche qui, la intelligenza divien sensi-  bile ai nessi, e i padri delle diverse famiglie si  accostano si penetrano si fondono nella simi-  glianza della lor figura, la divinità del Padre  è prossima a precisarsi. Prossima, j)ure, a in-  fluire su l'altre simili della Madre (ove anche il  matriarcato le sia al tutto estraneo) del Figlio  della Figlia; le quali presuppongono però sensi  d'affetto di gran lunga più svilupx3ati e squisiti  tra i diversi membri della famiglia. Cosi l'uomo  vivo, che s'era sminuito tra l'ombre, si addensa  di luce: si scioglie dal suo proprio sepolcro; e,  in sintesi, protegge per la sua parte la vita fa-  miliare. Ed è processo comparativamente recente,  se si pensa all'istituto e agli affetti che lo pre-  cedono; ma è comparativamente vetusto se si  pensa alla non piccola serie di alterazioni cui  già è andato soggetto in poemi antichi come gli  omerici.   Ma, se la formazione originaria degli iddii  agresti su dalla natura è diversa da quella dei   A. Febeabino, Kalypso. 8     114 III. - LA DEMETRA d'eNNA   familiari su dalla morte , non mancano , tra le  due, attinenze. Che il culto dei morti e il culto  de' divini influiscano l'uno su l'altro, vicende-  volmente, è ben noto. Ma nel caso speciale  anche più efficace influenza vi doveva essere.  Però che la terra sola faccia (se fecondata dal  cielo) prosperare il gregge ed i figli, — la fa-  miglia, in somma. Il campo dell'erba e quel  delle biade son la ricchezza; perché sono il nu-  trimento la salute la vigoria, de' buoi e delle  capre l'uno, di uomini e donne l'altro. Il padre  vivo ha gittato il seme e ha fatto che s'indo-  rasse al sole la spiga; il Padre morto, perché  protegga i suoi che lo placano e pregano, deve  tener lontana dal grano la tempesta e la rubigine,  e provveder che carestia non affami gli agri-  coltori. — Antica accanto a questa, ma anche  maggiore, è l'attinenza tra il concepimento e la  nascita dei figli per opera delle madri, e il ger-  mogliar dei semi in seno alla terra ; riflessi a  pena diversi d'un unico miracolo, cui i primi,  se non i primissimi, uomini apersero gli occhi:  la conservazione e la rinnovazione perenne di  quel mistero ch'è la vita. " Schiatta senza più  seme „ è in Omero la schiatta che muore. Dice,  in Euripide, Febo a Lajo: " re, non seminare  di figli il tuo solco „: e intende il talamo ma-  ritale (1). E o può sembrare un antropomorfismo  capovolto : una figurazione dell'uomo a simi-  glianza della terra. Se non che, in realtà, deve  più tosto dirsi una tra le forme dell'antropo-     (1) Biade I 303, Euripide Fenici 18.     IL MITO SICULO 115     morfismo, per cui il fenomeno naturale assume,  nel cielo o sulla terra o nella terra, l'aspetto  dell'atto umano: cosi che Zeus, nell'alto del-  Taria, è padre della pioggia, e i campi hanno  dopo il raccolto un abbandono puerperale. E  tra le forme questa appare certo antichissima:  perché, anche psicologicamente, sembra tosto  suggerita alla fantasia dalla frequenza periodica  e dalla importanza, tanto della generazione  umana , quanto della produzione terrestre : e  perché è contraddistinta da una elementare  semplicità, che la rende compatibile con uno  stadio civile ancor a bastanza involuto. E ad  ogni modo, — come principio ad effetto, —  forma anteriore a quella teogonia che figura  gli Dei a sé costituiti, come gli uomini, in fa-  miglie composte da genitori e figli, da parenti  ed affini.   Or come per un lato le divinità dei campi  e della famiglia si avvicinano e fan intimi i lor  nessi, cosi per l'altro i Numi della terra feconda  richiamano al pensiero quelli che sotto la terra  regnano su i morti. Sotto la terra sta nascosto  il seme per lunghi mesi; sotto la terra profon-  dano le radici gli alberi, e ve le abbarbicano  con tanta forza e tenacia che duro è abbattere  una quercia; sotto terra scompaiono tal volta  alcuni tra i fiumi; da la terra sgorgano polle,  che l'uomo ignora dove abbiano origine, e dis-  setano del pari la bocca dei bimbi e i grumi  inariditi del suolo. Nelle viscere che inghiottono  il corpo dei morti si svolge un mistero tenebroso,  di cui si scorgono al sole pochi segni : la vicenda  della spiga, ad esempio, matura e granita, che     116 III. - LA DEMETKA d'eNNA   s'è indugiata prima tra i meandri terrosi, e ad  essi deve in parte tornare di poi. La Dea che  la protegge e ch'essa rappresenta forse sa ; gli  Dei inferi forse sanno. Ed ecco l'attinenza fra i  due, diversi.   Quanto però sono facili rapporti fra la zolla  feconda e l'invisibile profondità sotterranea,  tanto, e più, sono palesi tra il campo ed il cielo.  La luce del Sole, la pioggia delle nubi danno  forza e colore, spirano nella vegetazione la loro  secreta virtù. Dopo che il tralcio ha forato la  crosta del suolo, e s'è vestito di pampini, e s'è  onusto di grappoli, l'Astro sol tanto par dargli  il verde per le frondi e il rosso per i frutti.  Dopo che la spiga s'è eretta a sommo del culmo  perché l'aria l'impregni, da la calda aria pure  essa sembra ricevere l'oro e il peso per che si  flette. Per converso l'impeto rabido d'un vento,  l'assalto cieco della gragnuola convertono in  desolazione la speranza, in strage la messe. Le  potenze della luce e della volta celeste reggono,  per una grande lor parte, benigne o maligne, le  vicende della terra ferace.   A tale stadio di evoluzione religiosa (1) eran  assai probabilmente giunti i Siculi quando in  Enna si elaborò il mito. E tutti i concetti fonda-  mentali, tutti i principali stami di questo inci-  piente tessuto sacro, nel mito appunto conversero.  — Quando delle figurazioni che si accennarono     (1) Una sintesi su la religione degli Indoeuropei e su  Fantichissima romana, in De Sanctis Storia dei Romani I  (Torino 1907) capp. Ili e Vili.     IL MITO SICULO 117     è ormai ricca la mente, le fiabe che possono es-  serne conteste sono molteplici, e solo il caso o  la preponderante importanza di taluno tra i fe-  nomeni riesce a far prevalere qualunque l'una  di esse. Le vicende del grano assalito dalla golpe  o fecondato dalla pioggia o isterilito dalla sic-  cità o squassato dai vènti ; il suo nascer e i  primi fili gracili che il bestiame calpesta e tenta  brucare; l'incurvarsi sotto il peso della spiga e  l'abbondante capellatura delle arèste ; la semina-  gione e il riposo invernale: posson del pari offrire  contenuto alla leggenda, si prestano a foggiarsi  sotto sembianza umana e familiare, si attengono  per l'uno o per T altro modo agli Dei del cielo  e delle tenebre. — Ma principalissimo è senza  dubbio, nel suo assiduo mistero, il miracolo,  onde la pianta nasce, del soggiorno lungo che  il seme, spiccato alla messe matura, compie sotto  la terra. Tal miracolo il mito ennense venne ad  elaborare. Richiamò i riti degli uomini, tra cui  avevan parte le nozze della figlia tolta alla  madre; le nozze richiamò in una delle forme  consuete, il ratto. Fece salire su la terra la po-  tenza delle sotteiTanee ombre, e il ratto le at-  tribuì. Disse il lamento della Madre biada cui  la biada sua Figlia è rapita, simile al lamento  delle madri umane. Alla scena disegnò lo sfondo  delle selve che circondavano il lago di Pergo,  da cui, secondo l'ideazione usuale, sarebbe salito  il Dio inferno.   A questo poco si limita quel che nella proba-  bilità storica la congettura può affermare della  originaria saga sicula. Però che troppo esigue  tracce ella abbia lasciate di sé, sopraffatta, più     118 III. - LA DEMKTRA d'eNNA   tardi, da nuove vicende, e non fermata, — quel  che più importa, — in canti che il pregio del-  l'arte e la fortuna ci serbassero. Visse nel culto ;  i sacerdoti ne ebbero e tramandarono forse me-  moria traverso gli anni; ma col suggello del  segreto. E forse ancora nei primi secoli avanti  e dopo Cristo, le donne, cui solo era l'accesso ai  riti, conoscevano alcun particolare che ignoriamo :  il nome delle Dee agresti, antichissimo; quel  del rapitore; o le circostanze del ratto; o tutto  il di più ch'è vano e impossibile supporre. Ma  ogni rivelazione era celata tra veli mistici. Oggi  è, e resterà, nelle tenebre.     n. — Il mito greco.   E certo tenebre graverebbero del pari sopra  un altro consimile mito e culto in Grecia, ove  l'arte non ce ne avesse serbato ampio e colorito  ricordo. Gli stadii per cui in Grecia trapassò la  leggenda furono, secondo è verisimile, a un di  presso quei medesimi che si possono tracciare  in sintesi svelta pei Siculi: cosi che le due saghe  sono strette, come i due popoli, da intima pa-  rentela. Rami e fiori dell'unico ceppo ario, dis-  simili certo ma certo anche analoghi fra loro.   Se non che quando l'arte, almeno nella più  vetusta espressione a noi pervenuta, elabora il  mito presso gli Eliòni, questo ha già raggiunto  uno sviluppo maggiore, che non toccasse i)ro-  babilmente nell'antichissima Enna. Certo nel-  Vlnno omerico a Demetra^ il quale è da attri-     IL MITO GRECO 119     buire, sembra, al secolo VII avanti l'èra (1), la  leggenda si preoccupa, non pur di adombrare  le vicende del seme durante l'inverno, ma ancbe  di giustificar la periodicità costante con cui la  seminagione la vegetazione e il raccolto si al-  ternano nei mesi dell'anno : coglie in somma il  fenomeno con uno sguardo più ampio, oltre il  singolo momento. La figlia pertanto è tolta  prima, poi ricondotta alla madre; col patto però  cbe abbia ad intervalli determinati a ritornare  nel grembo della terra, soggiornando con vicenda  alterna otto mesi nel sole e quattro nelle tenebre.  La ragione del fatto è cercata, com'è ovvio, nel-  l'essersi ormai consumato tra la rapita e il dio  rapitore il matrimonio : e, più rettamente, nel  simbolo di questo, il gustato frutto del melo-  grano.   Oltre poi a rivelare cotesta sostanziale matu-  rità mitica, l'Inno a Demetra palesa anche di-  venuta più ricca la leggenda. Un primo a ba-  stanza antico innesto accrescitivo è da scorgersi  nella presenza di Ecate " bendata di luce ,, e  di Elios " chdaro figlio di Iperione ,. ; i quali,  giusta l'Inno, rivelerebbero alla Dea delle biade  il modo del ratto e, dopo nove giorni di vana e  affannosa ricerca, la persona del rapitore. Ecate,  sia la Luna che risplende su le notti della  terra ; Elios, o sia il Sole, che fa chiari i giorni  e vede tutto degli uomini: sono probabilmente     (1) T. W. Allen and E. E. Sikes The homeric hymns  (London 1904) pag. 10 sgg.     120 III. - LA DKMETRA d'eNNA   i pili arcaici personaggi entrati su la scena ac-  canto ai protagonisti : però che essi fossero i più  adatti (ognun lo nota) a informare la " Madre „  su la " Figlia „ perduta, essi che son gli occhi  diurni e notturni del cielo. Né l'originario lor  valore è al tutto obliterato nel carme; se bene  non vi permanga senza alterazione.   Di più, altro segno di compiutosi progresso  mitico, nell'Inno ogni figura è precisa perché  risponde a un modulo sancito, e il poeta possiede  con sicurezza una teologia e una teogonia. Cia-  scun Dio è figlio di un certo, padre di un altro  e fratello, ha caratteristiche sue, un passato ben  suo. Le due principali Dee del racconto, le di-  vinità agresti, hanno assunto definito aspetto. La  Madre, la Signora delle biade " Demetra „, ha  profondamente evoluto la sua duplice essenza  agricola e familiare : è delirante nel suo dolore  di madre cui l'unica figlia è tolta X3er tradi-  mento ; è d'altra parte padrona della vita degli  uomini, che può prosperar per il dono grami-  minaceo di lei ed esaurirsi senz'esse: porta in  somma al supremo vertice la sua natura umana  e la sua virtù germinativa. La Figlia, in greco  " Cora „, spazia, vivente d'una vita che par s'a-  limenti da sangue nostro, su tutti i campi ov'è  vegetazione, e le grazie della sua feminea gio-  vinezza cercan a preferenza fiori profumi e  prati. Il suo valore naturalistico dì seme che  i primitivi trasfigurarono in lei) s' adombra :  è dea, è bella, è ingenua, e le vergini Oceanine  le fanno corteo. — Presso agli agresti, con uguale  individuata determinatezza appajono gli Dei sot-  terranei, addotti da quel vincolo di analogia che     IL MITO GRECO 121     vedemmo pili sopra (1). L'infero Nume rapitore  è " Ade „ o " Aidòneo „ ; signoreggia su la vasta  moltitudine degli estinti : fiero astuto atro ; non  gradevole. Balza dalle tenebre alla luce per  preda; ripiomba nel bujo: e i cavalli del suo  cocchio sono caliginosi: e la corsa del suo cocchio  è un vortice travolgente. Sul trono, al suo fianco,  siede Persèfone, regina fra i trapassati com'egli  re; com'egli veneranda e truce fra le xDallide  larve. — Dal cielo le potenze luminose, gl'Iddii  supremi, partecipano alle scene del dramma :  Zeus, giusto in sue sentenze, x^adre di uomini e  numi; Iride, messaggera di lui a Demetra per  placarne il dolore, se bene vano le riesca il  viaggio; Ermes, loquace ambasciatore ed accorto,  che induce Ade a cedere la recente conquista.  — Fra tutti, agresti tenebrosi chiari Dei, si  stringono attinenze come sogliono tra gli umani :  Zeus, fecondatore dei campi con la pioggia di  cui è padre, appar fratello di Demetra : Zeus,  risplendente face della terra, è germano di Ade,  come quegli che da l'alto ajuta il suolo nella  secreta germinazione del grano. Uniche non po-  tevano congiungersi in parentela, perché s'eli-  devano l'una con l'altra, Cora e Persèfone : la  rapita di Aidoneo e la moglie del He. E poiché  il contrasto non si poteva dalla fantasia supe-  rare in altro modo, il quale non offendesse l'una  delle Dee, le due figure diverse si ridussero a  differenti nomi dalla medesima persona scam-  bievolmente usati, e la Figlia assunse alquanto     (1) Pag. 115.     122 III. - LA DEMETRA d'eNNA   il tono austero della Regina, di cui tuttavia  mitigava la maschera accigliata. La creatura  leggendaria e religiosa che ne scaturì tenne  delle due onde fu composta, ma risultò armo-  nica ed ebbe riso e vezzi su la terra i)resso la  Madre, rigidezza e austerità fra i morti i^resso  il marito.   Il poeta adunque ricevette dalla tradizione  una trama di leggenda ben più ricca che la  povera da noi ricostruita per Enna ; i^ersonaggi  più precisi e raccolti in gruppo organico. Vi  apportò in oltre la sua arte che addusse la saga  a nuovo grado di progresso. La vagheggia egli  difatti non senza raccoglimento religioso né  senza coscienza, al meno complessiva, del suo  significato riposto. Ma la vagheggia sovra tutto  quale una creazione bella dello sph'ito : come il  suo sguardo di greco avrebbe potuto carezzare  il torso nudo di un efebo o le ginocchia del  vincitore nella corsa. Insensibilmente per lui,  sensibilmente per noi, la fiaba si stacca dalla  sua origine; e le mani pajono comporla e pla-  smarla allora per la prima volta in un fervore  pacato di concezione e di espressione. Tutto  si ordina secondo un'architettura severa, dal re-  spiro ampio e calmo. E il centro di quel mondo  di Dei e di Dee disegnato sopra la tela dei  secoli lontanissimi è, più che in ogni altro  senso, in un tranquillo godimento. Segno non  piccolo, di fronte all'oscuro mito siculo, dell'ef-  ficacia che all'arte compete qual balsamo delle  belle creature mitiche.   Intercalato però nel mito è un lungo racconto,     IL MITO GBECO 123     diverso (1). Demetra, appreso da Elios il nome  del rapitore, in preda alla sua folle sofferenza  giunge neir Attica ad Eleusi e qui^d sosta sopra  un sasso, " la pietra del pianto „, assumendo  l'aspetto d'una vecchia donna. L'incontrano le  figlie del Re del luogo, Còleo, e l'intrattengono  col chiederle e col darle notizie: attratte anzi  dalla simpatia che spira il sembiante venerando,  l'invitano nella casa della madre loro, Metanira,  accennandole d'un bimbo di recente nato cui  ella potrebbe prodigar sue cure. Nella reggia la  Dea diviene infatti nutrice prov\dda e attenta  al piccolo Demofònte. Al quale anzi l'Iddia vor-  rebbe donare il sacro dono dell'immortalità ;  onde di notte lo pone, con certe sue arti ma-  giche, tra le fiamme, fra cui, non combusto, si  accresce di vigore e acquista la virtù sovrumana.  Se non che Metanira, destatasi d'improvviso e  scorta Demetra nell'atto, se ne impaura, urla e  distrugge l'incantesimo. Demofonte non sarà  libero di morte. Ma per compenso la Madre  delle biade insegna a Celeo a ai principi eleusini!  Trittòlemo Eumòlpo Diocle e Polissèno i secreti  del suo culto. — A spiegare, appimto, il culto che  in Eleusi con specialissima pompa si rendeva a  Demetra è dunque indirizzata tutta questa ampia  parte del carme ; la quale cosi nell'insieme come  nei particolari costituisce dunque un complesso  etiologico ben distinto dal complesso mitologico.  E a quel modo che quest'ultimo ci mostrava  quanto a\Tebber potuto maturità di pensiero e     (1) Yv. 91-304.     124 III. - LA DEMETBA d'eNNA   soffio d' artista svolgere e imbellire il nucleo  rozzo e imperfetto del mito ennense ; quel primo  fa intrawedere la guisa per cui, nel seno della  vita religiosa che in Enna si svolgeva intorno  alla Dea agreste innominata, la saga si sarebbe  potuta complicare di personaggi e di episodii, ri-  vestendo un venerando colore di antichità sacra.  Ma anche per altro rispetto mito ed etiologie  deirinno attraggono la nostra attenzione (1).  All'uno e all'altre è sostrato un'idea r)rincipale  che importa porre in tutto il suo risalto. Questa:  nel momento in cui Cora è rapita da l'Ade, gli  uomini conoscono già l'uso del grano, come si  semini e come cresca fra le zolle ; quel momento  anzi cagiona un temporaneo danno ai campi :  che " molti nei campi in vano trascinarono i  bovi aratri ricurvi; molto su la gleba bianco  orzo sterile cadde; ed ecco dei parlanti uomini  tutta quanta la schiatta per fiera fame periva „ (2).  E solo dopo la sentenza di Zeus che ridona alla  Madre la figlia per " due terzi del volgente  anno „ ritorna in terra la gloria del biondo cibo.  Il soggiorno di Demetra in Eleusi è contempo-  raneo al danno, e la sua conseguenza si riduce  intera all'iniziazione dei misteri sacri. In somma,  appare qui a bastanza conservato il contenuto  originario del mito naturalistico: se difatti De-  metra è la biada il cui chicco scompar sotterra  per germinare e risorgere culmo, è giusto che  le biade esistano prima del ratto sotterraneo,  scompaiano poi, riappajano col ritorno della ra-     (1) Cfr. fino a pag. 126 il § IV. (2) Vv. 305-310.     IL MITO GEKCO 125     pita. E la sentenza di Zeus giova a rendere  periodico, ma senza dolore, questo alternarsi  agreste. Cosi, sebbene un nuovo senso di uma-  nità siasi trasfuso nel racconto a velarne il si-  gnificato primitivo, questo permase non corrotto;  si che la leggenda dell'Inno merita il nome di  prisca.   E noi la diremo protoattica, in confronto con  un'altra meno antica (del V secolo) che, per  essere del pari eleusinia, può dirsi neoattica.  Questa seconda concepisce il mondo ignaro di  messe prima che si compisse il ratto, esperto  solo di poi : di maniera che la violenza di Ade  è causa, oltre che de' Misteri e del giudizio di  Zeus, anche dell'apprendere gli uomini la semi-  nagione e l'aratura. E l'apprendono a opera di  Trittolemo : nome che ricorre già nell'Inno qual  di principe in Eleusi a lato di Celeo re in una  con altri (Eumolpo, Diocle, Polisseno); figura  per contro che appare adesso la prima volta,  e prevale, e si diffonde nell'arte letteraria pla-  stica pittorica, col carattere di adolescente gio-  vinezza e con l'officio di maestro nella fatica no-  vissima e preziosa. Semi ed aratro definiscono il  pregio del fanciullo prediletto alla Dea; e la  triade recente spezza lo schema anteriore rico-  stituendone un altro. Nel quale, dunque, non si  oblitera tutto il senso naturalistico del mito, ma  acquista un valore riflesso : perché il rapimento  di Cora diviene, meglio che la trasfigurazione  umana della sorte graminacea, l'inizio storico,  cronologicamente e geograficamente inteso, del  grano coltivato su la terra. Tal diverso concetto  non sostituisce soltanto con importanza mag-     126 III. - LA PEMETRA d'eNNA   giore Trittolemo al Demofonte deirinno per la  magia del fuoco ; bensi sopprime anche la ven-  detta di Demetra, che in verità non avrebbe più  modo di attuarsi; e riduce Celeo e Metanira,  genitori di Demofonte e or di Trittolemo, a  quella condizione di misera vita, ch'è acconcia  a uomini privi della vera e primissima fonte  di agio.   Accetta permase questa leggenda. Nel suo  largo diffondersi subì, è vero, non pochie, sviluppando a sé  tutta la seconda parte della leggenda, la equi-  librò con l'ampUarne, ai due estremi, il combat-  mento e la metamorfosi. Ma non fu pago a tanto.  Inserì nella sua materia anche la nobile fede  di Cefeo che si oppone al fratello esortandolo  a giusta pace, e l'ironia ultima di Perseo non  priva di malignità né di un grossolano sale.  Se bene già questa non era una giunta che com-  piesse, si più tosto una intrusione che alterava,  il jDoeta volle perseguir fin nelle minuzie anche  le vicende della contesa; e tradusse il duello in  una battaglia omerica; — cadendo nella più  stucchevole prolissità. Non fu ricco, ma pleto-  rico : non diverso, si bene monotono. Nella scialba  sostanza impresse poi, su l'inizio e su la fine,  senza garbo né acume, tracce d' umane pas-  sioni. Della cui banale mediocrità s' intende  quindi il motivo : fu necessario all'autore inspes-     DOPO EURIPIDE 101     sirle per ottenerne un qualche rilievo da 1' im-  menso piano uniforme dello sfondo. Sola, or qui  or là, la perizia tecnica foggia il verso con  eleganza; e varia musicalmente il ritmo. Nel-  l'insieme, sopra un ben intuito fondamental con-  trasto, lo sforzo d' esser profondo deforma e  rigonfia gli elementi dell'opera.   E ricordiamo. Contrario ci apparve il difetto  nel primo episodio: volubile superficialità psico-  logica accanto a larghezza romanzesca. Ma ana-  logo è nella sua radice. Nell'un caso e nell'altro  il poeta non ha colto il cuore del mito, né ha,  da quello, vissuto il mito. Altrimenti, egK non  avrebbe errato : il suo respiro coinciderebbe con  il respiro della fiaba. In vece, essa gli fu estranea :  pagina fredda di volume svolto. Il suo interesse  la tentò con approcci successivi, e di ciascuno  rimase una traccia: ora piacque l'analisi psichica,  ora la smaglianza dell'avventura, ora l'agita-  zione bellicosa; in parte fu possibile imitare  Euripide, Omero in parte. Mai però, in alcun  punto, l'interesse divenne simpatia, tanto meno  amore. Sembra che la leggenda uncini con tutte  le molteplici sue bellezze uno spirito stanco, che  reagisce pigramente se ben non dorma ancora.  In realtà lo spirito è distolto ; vive altrove.   Un secolo e mezzo dopo, il pensiero umano è  molto lungi. Ha nel trattare il mito una grazia  nuova, '' lucianesca „. Ecco il quattordicesimo  dei Dialoghi marini di Luciano. Le nozze di  Perseo e Andromeda si stan celebrando ; il ketos  è a pena morto. In non si sa qual recesso del  mare Tritone e le Nereidi cambian fra sé     102 II. - ANDROMEDA     quattro ciance. È un mormorio di donnicciuole  con un rivenditore del mercato. L'uno dà le  notizie ; l'altre gli si fanno attorno, — e ov'è la  bellezza dei volti? — con moti curiosi: ora  questa ora quella alza la voce ; le compagne in  tanto ascoltano con stupor muto. Sono ignare  de' più recenti fatti, e l'amico li ha appresi ori-  gliando. L'eco della terra par muovere da una  lontananza. Ma la terra è presente (1).   Tritone e le Nereidi.   Tbit. — Quel vostro ketos, o Nereidi, che inviaste  contro la figlia di Cefeo, Andromeda, non solo non fé'  danno alla fanciulla come credete, ma fu ucciso già  esso medesimo.   Ner. — Da chi, o Tritone ? forse Cefeo, esposta  come ésca la vergine, lo assalse ed uccise, attenden-  dolo in agguato con molti guerrieri ?   Trit. — No. Ma voi conoscete, — credo o Ifianassa  — Perseo, il bambino di Danae, che fu cacciato sul  mare nell'arca insieme con la madre ad opera del nonno  e che per compassione di loro voi avete salvato.   Ifian. — So di chi parli: suppongo che ora sia  un giovine e molto prode e bello di aspetto.   Trit. — Egli uccise il ketos.   If. — E perché, o Tritone ? non questo compenso  per vero egli ci doveva.   Trit. — Vi dirò tutto, come avvenne. Egli fu man-  dato contro le Gorgoni per compiere al re quest'im-  presa ; dopo poi che fu pervenuto in Libia...   If. — Come, o Tritone ? solo ? o conduceva com-  pagni? che altrimenti la via è difficile.     (1) Testo del Jacobitz (Lipsia, Teubner, 1881).     DOPO EURIPIDE 103     Tbit. — Traverso l'aria : Atena lo aveva fornito  d'ali. Quando dunque fu pervenuto là dove dimora-  vano, esse dormivano, ritengo, ed egli potè tagliare il  capo a Medusa e scapparsene a volo.   If. — Ma come le guardava ? sono difatti inguar-  dabili : o pure chi le guardi, non vedrà altro dopo  di esse.   Trit. — Atena col porgli innanzi lo scudo (queste  cose udii ch'egli raccontava di poi ad Andromeda e a  Cefeo) Atena dunque gli diede a vedere l'imagine di Me-  dusa su lo scudo risplendente, come sur uno specchio :  allora egli aflPerrata con la sinistra la chioma, sempre  riguardando nell'imagine, recise con la falce nella  destra il capo di lei, e prima che le sorelle si destas-  sero volò via.   Come poi giunse a questa spiaggia d'Etiopia, già  basso su la terra volando scorge Andromeda esposta  sopra una sporgente rupe, infissavi, bellissima, o dèi !,  sciolta le chiome, seminuda assai sotto i seni : e da  prima, compassionando la sorte di lei, dimandava la  causa del supplizio, ma a poco a poco preso da amore  (bisognava pure che uscisse salva la fanciulla) decise  di soccorrerla. Fra tanto il ketos avanzava pauroso  come per divorar Andromeda ; e il giovine, penden-  dogli di sopra, e brandendo la falce, con una mano lo  colpi, con l'altra gli mostrò la Gorgone e lo fece pietra:  la belva tosto mori e divenne rigida in molte membra,  quante avevan veduto Medusa : egli sciolse i vincoli  della vergine, e porgendole la mano la sostenne mentre  scendeva in punta de' piedi dalla rupe sdrucciolevole;  e ora celebra le nozze nelle case di Cefeo e la condurrà  in Argo : cosi che in luogo della morte ella trovò un  marito, e non comune.   Ir. — Io già dell'avvenuto non mi sdegno; che     104 li. - ANDBOMBDA     colpa di fatti aveva verso noi la figlia se la madre  menava vanto e riteneva d'esser più bella ?   DoB. — Ma in tal modo, come madre, avrebbe  sofferto per la figlia sua.   If. — Non rammentiamo più tali cose, o Doride,  se una donna barbara ciarlò un po' più del giusto.  Basti, a nostra vendetta, cbe fu spaventata per la  figlia. Rallegriamoci dunque delle nozze.   Certo, la terra è presente. E nei gesti che si  sottintendono ; e, più, nei confini mentali degli  interlocutori. L'arte di Luciano li designa con  perizia finissima nelle varie domande chemuovon  a Tritone le Nereidi. Da principio, annunziata  la morte del ketos, suppongono, com'era più  semplice, un agguato di Cef eo. No ; fu Perseo :  — è il primo ingresso dello stupefacente. Perseo  s'era recato in Libia. E quelle pensano a una  regolare spedizione con compagni, ^' che altri-  menti la via è difficile „. Ragionan bene; ma,  per altro, Perseo volava : — nuova maraviglia.  Or egli aveva, prima, ucciso Medusa. " Ma come  la guardava?! „. L'inverosimile è al colmo. Da  quel momento Tritone può continuar ininter-  rotto. E continua; ma svela, in un suo breve  inciso, improvvisamente, l'importanza di quelle  interrogazioni. Perché Perseo fu " preso da  amore „ per Andromeda? Risponde: " bisognava  salvar la fanciulla „. Tal motivo non vale per  l'animo dell'eroe, che in esso quella non è causa  sufficiente e appropriata ; bensì smaschera l'ar-  tificio del mitologo, e mostra la passione in-  ventata a giustificare la salvezza della vergine.  E una critica genetica, diremmo oggi. Ed è     DOPO EDRIPIDE 105     la stessa che avevan fatta, più coperta, le figlie  di Nereo. Il dono delle ali è rilevato come stro-  mento mitopeico perché Perseo potesse recarsi  in Libia ; l'astuzia dello scudo, come mezzo ar-  tefìciato ad eliminar in Medusa quella medesima  nefasta efficacia che le si soleva attribuire  Dunque, — è deduzione implicita, — ci fu una  interessata volontà, la qual condusse con varie  furberie il giovine in Libia e contro Medusa e  fra gli Etiopi. Dunque il mito è favola che ima-  ginò taluno. Passo a passo i colpi son recati,  fin che la leggenda non ha più una base di fede,  si una di scetticismo sorridente e maligno. Onde  si appalesa fittizio lo stupore crescente delle Ne-  reidi dinanzi all'avventura: però che il pensiero  da cui sono animate è, non cosi ristretto da non  concepir l'insueto, ma largo a bastanza da ne-  garlo. E nell'ultime parole la larghezza si ac-  cresce d'un contenuto morale , estrema vetta di  cotesta saliente bellezza d'arte : non era giusto  colpir la figlia per Terrore materno ; fu molto  che Cassiepea avesse a temere tanta sventura ;  né dovrebbe importare a Dee la gara in bellezza  d'una donna barbara con loro. Son questi, si,  ancor gli attacchi che al mito avrebbe mossi la  coscienza etica di Euripide; ma la tragedia  manca, né può sussistere adesso. La fiaba è stata  svèlta da l'anima, e respinta al di fuori ; onde  il biasimo tocca alcun che di esterno, non logora  il cuore stesso dell'artista.   Come un luogo comune dell'ornamentazione  retorica l'aveva sfruttata Manilio per le sue  Astronomiche^ a proposito delle costellazioni     106 II. - ANDROMEDA     denominate da Perseo e da Andromeda. Ma  senza vigoria originale. E difatti in cotesto uso  (non importa se anteriore nel tempo) assai men  vita leggendaria che nello stesso Luciano: nel  quale l'intellettual sorriso della critica è tutta-  via indizio di un sopravvissuto interesse, come  a passato recente e sentito ancora. Manilio per  contro segue l'andazzo letterario, e non illumina  né pure con la luce della sfera più alta le te-  nebre deir ormai superata. La conversione dei  personaggi in astri, che presso Euripide era  giunta a troncare ardui problemi dello spirito,  diviene qui lo spunto, donde il raccónto si di-  parte : le è anzi asservito il racconto medesimo,  il quale nella mente all'astrologo imbelletta la  pseudo scienza celeste, che di Grecia aveva tro-  vato favor di accoglienza fra i Latini (1). Si  che qui si misura, con precisa esattezza, il re-  gresso dell'efficacia leggendaria.   Né Luciano né Manilio accennano a Fineo.  Se per ciò si connettano con il tragico che, —  forse, — non gli aveva trovato luogo nel drama,  non è a dirsi. La natura del tema, in entrambi,  giustifica il silenzio: che Fineo non divenne  astro né ebbe attinenze col ketos. Per contro è  notevole che non essi, come non Apollodoro né  Ovidio, accettano la Andromeda euripidea. E  per chiaro motivo. Creata quella nel momento  del culminante interesse pel mito, scompare di     (1) Cfr. M. ScHANZ Geschichte der romischen Litteratur^  (Miinchen 1913) II 2 pagg. 28 e 37.     DOPO EURIPIDE 107     poi con lo scemarsi della simpatia traverso le  posteriori vicende del pensiero. Nel sommo della  parabola, che segna lo sviluppo di questa leg-  genda, sta adunque una singolare originalità  ch'è in contrapposto ad un tempo con gli stadii  precedenti e con i successivi. E una singolare  ricchezza psichica, che dell'originalità è la causa  diretta.     CAPITOLO III.  La Demetra d'Enna ^^l     1. — Il mito siculo.   Enna: nell'interno della Sicilia, a presso che  mille metri sul mare, non lungi a un lago cui  oggi è il nome di Pergusa e di Pergo era nella  antichità, sopra una larga groppa dei monti  Erei (2), onde, traverso l'aria diafana delle au-  rore e dei tramonti settembrini, le pupille be-  vono, oltre le giogaje lungo le valli e i tortuosi  solchi dei fiumi, la dorata luce dei piani. De-  metra genitrice delle biade, Cora-Persef one figlia     (1) Per questo capitolo v. Vlndagine in libro II cap. II,  di cui nelle note successive si citano i §§.   (2) La descrizione d'uno straniero : 0. Rossbach Ca-  strogiovanni, das alte Henna in Sizilien (Leipzig 1912).     Ilo III. - LA DEMETRA d'bNNA   di lei, Trittolemo dall'aratro, vi avevano negli  anni di Cicerone templi statue culto. Le donne,  cui talune cerimonie eran riservate, vi salivano  forse dai paesi vicini; tutte fin da Panòrmo da  Drèpano da Catana da Camarina da Siracusa  da l'Etna vi lasciavano giungere certo il pen-  siero divoto, supplice per la famiglia ed i campi,  timoroso dell'ire e delle vendette divine: però  elle di là la Dea, la quale è nume ad un tempo  del matrimonio e delle spighe, sembrasse ve-  gliare su l'intiera isola, e proteggere l'isolane  in casa, gl'isolani su le glebe. Di quella religione  l'oratore romano vantava, nell'arringa scritta  contro il mal governo di Verre, l'origine anti-  chissima : ivi nate le Dee, ivi vissute e viventi ;  ivi dall'età vetuste le case dei numi ed i riti  sacri. E l'antichità asseriva riconosciuta da ogni  popolo senza contrasto (1). Contrasto certo non  sussisteva, in Sicilia, ove al santuario ennense  si guardava, come a reliquia dei tempi, con un  profondo rispetto, che le arcane leggende dei  primordii rendevano più intimo e sentito.   Né la memoria secreta del popolo o il suo  pronto intuito di fedele s'ingannavano. Da poi  che, — forse, — la Storia oggi, molti nessi rav-  visando e molte trasformazioni che s'ignoravano  allora, riesce a dare un più saldo fondamento  alla credenza di quei Siciliani, un contenuto  meglio ampio al loro ricordo; se bene diffìcil-  mente serbi la grata bellezza poetica di cui in-  sieme erano pregnanti religione e mito.     (1) CicER. in Verr. IV 106.     IL MITO SICULO 111     È probabile che gli avvenimenti seguissero  cosi (1).   Enna, nella sua forte positura montana, è da  presumere fosse uno dei luoghi ove gl'Italici  appartenenti alla tribù dei Siculi ebbero a cercar  rifugio sul finire dell'età micenea, nel sec. IX  avanti l'èra. Le coste, più agevole sede, eran  divenute mal fide per l'incursione dall'Oriente  di predatori troppo ben armati perché fosse riu-  scibile la resistenza. Sotto l'irrompere dei vio-  lenti s'era per alcun tempo spostato verso l'in-  terno il processo evolutivo che, non senza influssi  esterni e tal volta notevoli, durava fin dall'età  eneolitica. E sulle vette dei monti si stratificava  fino a cristallizzarsi la vita civile dei Siculi ;  tra cui, com'è ovvio, prendeva consistenza anche  il pensiero religioso, con la leggenda divina che  n'è, fra gli Arii, foggia consueta. Per disavven-  tura, dagli scavi archeologici noi siamo assai  meglio informati su gli oggetti delle più ve-  tuste necropoli e su gli stili loro, che non su la  maturità mentale, su gli dèi, su le fiabe, di  questa tribù in quell'epoca. Ci manca, sovra  tutto, qua! si sia testimonianza atta a fermare  una caratteristica dell'intelletto siculo antichis-  simo la quale valga a contraddistinguerne, p. es.,  i miti da quelli dei popoli affini nel Lazio e  nella Grrecia. L'affinità concede bensì volontieri  l'analogia; ma questa deve, sobria, fermarsi a  linee sommarie e incompiute.   Per ciò la congettura ancor che acuta lascia     (Ij Cfr. §§ 1 e III.     112 III. - LA DEMETRA d'eNNA   intrawedere, se cauta, poco. Gl'incunabuli del-  l'arte e scienza che insieme ammaestra a sparger  il seme nelle zolle e stringe i vincoli dell'isti-  tuto familiare, erano stati il tesoro comune che  gl'Indoeuropei dividendosi recavano seco traverso  le regioni dissimili. Agricoltura e famiglia, vie  meglio possedute e costituite col cessar del no-  madismo, avevano per sé più e più secoli di  trionfo nell'avvenire : costituivano, con la loro  celata forza e importanza, due poli essenziali  nella vita presente. Essenziali e magnetici tanto,  da attrarre parecchie fra le medesime divinità  della luce e del cielo, e sopra tutto fra le divi-  nità delle tenebre e di quella morte, che la mente  bambina dei primitivi, iDer non averne compreso  il profondo valore e la non palese bellezza, cir-  condava di ombra nelle celate viscere della terra  ove scompajono i corpi di uomini'ed animali.   Di questi due poli religiosi seguire a ritroso  la progressiva formazione, conduce a origini tra  sé lontane. Il naturismo che venera l'albero e il  sasso, il ruscello e la zolla, la spiga del grano ;  l'animismo, che poi se ne evolve, e adora lo spi-  rito del sasso e la potenza del seme ; il più ma-  turo pensiero che, in fine, riesce a foggiarsi di  tutta la terra una divinità sola o di tutte le  biade: ci riassumono, — nei loro gradi più re-  cisi, e nelle loro sfumature assai meno formula-  bili, — la storia sintetica del Nume agreste, il  quale tutta la vita degli agricoltori accoglie e  disciplina intorno al suo proprio culto. È un'a-  scesa dalla pianta al dio, dalla terra al cielo : è  un germogliare della credenza su da quel suolo  cui si richiama. — Altra via tien la famiglia     IL MITO SICULO 113     nel venerare i suoi iddii. Il vecchio padre, che  è morto dopo aver in vita esercitata la suprema  autorità su le mogli e i figli ; ed è morto la-  sciando nella dimora le cose tutte che già furono  segnate del suo possesso e cedendole ai succes-  sori insieme con le vendette da compiere e gli  odii da esaurire; ed è morto spezzando con l'ul-  timo alito la compagine che si raccoglieva in-  torno a lui e sciogliendo i suoi nati dal vincolo  che li legava per la sua difesa : rappresenta con  la scomparsa un troppo profondo evento, j)erché  l'ombra di lui non debba venir placata dai ne-  poti, e il suo nome di " Padre „ ripetuto. E  quando, anche qui, la intelligenza divien sensi-  bile ai nessi, e i padri delle diverse famiglie si  accostano si penetrano si fondono nella simi-  glianza della lor figura, la divinità del Padre  è prossima a precisarsi. Prossima, j)ure, a in-  fluire su l'altre simili della Madre (ove anche il  matriarcato le sia al tutto estraneo) del Figlio  della Figlia; le quali presuppongono però sensi  d'affetto di gran lunga più svilupx3ati e squisiti  tra i diversi membri della famiglia. Cosi l'uomo  vivo, che s'era sminuito tra l'ombre, si addensa  di luce: si scioglie dal suo proprio sepolcro; e,  in sintesi, protegge per la sua parte la vita fa-  miliare. Ed è processo comparativamente recente,  se si pensa all'istituto e agli affetti che lo pre-  cedono; ma è comparativamente vetusto se si  pensa alla non piccola serie di alterazioni cui  già è andato soggetto in poemi antichi come gli  omerici.   Ma, se la formazione originaria degli iddii  agresti su dalla natura è diversa da quella dei   A. Febeabino, Kalypso. 8     114 III. - LA DEMETRA d'eNNA   familiari su dalla morte , non mancano , tra le  due, attinenze. Che il culto dei morti e il culto  de' divini influiscano l'uno su l'altro, vicende-  volmente, è ben noto. Ma nel caso speciale  anche più efficace influenza vi doveva essere.  Però che la terra sola faccia (se fecondata dal  cielo) prosperare il gregge ed i figli, — la fa-  miglia, in somma. Il campo dell'erba e quel  delle biade son la ricchezza; perché sono il nu-  trimento la salute la vigoria, de' buoi e delle  capre l'uno, di uomini e donne l'altro. Il padre  vivo ha gittato il seme e ha fatto che s'indo-  rasse al sole la spiga; il Padre morto, perché  protegga i suoi che lo placano e pregano, deve  tener lontana dal grano la tempesta e la rubigine,  e provveder che carestia non affami gli agri-  coltori. — Antica accanto a questa, ma anche  maggiore, è l'attinenza tra il concepimento e la  nascita dei figli per opera delle madri, e il ger-  mogliar dei semi in seno alla terra ; riflessi a  pena diversi d'un unico miracolo, cui i primi,  se non i primissimi, uomini apersero gli occhi:  la conservazione e la rinnovazione perenne di  quel mistero ch'è la vita. " Schiatta senza più  seme „ è in Omero la schiatta che muore. Dice,  in Euripide, Febo a Lajo: " re, non seminare  di figli il tuo solco „: e intende il talamo ma-  ritale (1). E o può sembrare un antropomorfismo  capovolto : una figurazione dell'uomo a simi-  glianza della terra. Se non che, in realtà, deve  più tosto dirsi una tra le forme dell'antropo-     (1) Biade I 303, Euripide Fenici 18.     IL MITO SICULO 115     morfismo, per cui il fenomeno naturale assume,  nel cielo o sulla terra o nella terra, l'aspetto  dell'atto umano: cosi che Zeus, nell'alto del-  Taria, è padre della pioggia, e i campi hanno  dopo il raccolto un abbandono puerperale. E  tra le forme questa appare certo antichissima:  perché, anche psicologicamente, sembra tosto  suggerita alla fantasia dalla frequenza periodica  e dalla importanza, tanto della generazione  umana , quanto della produzione terrestre : e  perché è contraddistinta da una elementare  semplicità, che la rende compatibile con uno  stadio civile ancor a bastanza involuto. E ad  ogni modo, — come principio ad effetto, —  forma anteriore a quella teogonia che figura  gli Dei a sé costituiti, come gli uomini, in fa-  miglie composte da genitori e figli, da parenti  ed affini.   Or come per un lato le divinità dei campi  e della famiglia si avvicinano e fan intimi i lor  nessi, cosi per l'altro i Numi della terra feconda  richiamano al pensiero quelli che sotto la terra  regnano su i morti. Sotto la terra sta nascosto  il seme per lunghi mesi; sotto la terra profon-  dano le radici gli alberi, e ve le abbarbicano  con tanta forza e tenacia che duro è abbattere  una quercia; sotto terra scompaiono tal volta  alcuni tra i fiumi; da la terra sgorgano polle,  che l'uomo ignora dove abbiano origine, e dis-  setano del pari la bocca dei bimbi e i grumi  inariditi del suolo. Nelle viscere che inghiottono  il corpo dei morti si svolge un mistero tenebroso,  di cui si scorgono al sole pochi segni : la vicenda  della spiga, ad esempio, matura e granita, che     116 III. - LA DEMETKA d'eNNA   s'è indugiata prima tra i meandri terrosi, e ad  essi deve in parte tornare di poi. La Dea che  la protegge e ch'essa rappresenta forse sa ; gli  Dei inferi forse sanno. Ed ecco l'attinenza fra i  due, diversi.   Quanto però sono facili rapporti fra la zolla  feconda e l'invisibile profondità sotterranea,  tanto, e più, sono palesi tra il campo ed il cielo.  La luce del Sole, la pioggia delle nubi danno  forza e colore, spirano nella vegetazione la loro  secreta virtù. Dopo che il tralcio ha forato la  crosta del suolo, e s'è vestito di pampini, e s'è  onusto di grappoli, l'Astro sol tanto par dargli  il verde per le frondi e il rosso per i frutti.  Dopo che la spiga s'è eretta a sommo del culmo  perché l'aria l'impregni, da la calda aria pure  essa sembra ricevere l'oro e il peso per che si  flette. Per converso l'impeto rabido d'un vento,  l'assalto cieco della gragnuola convertono in  desolazione la speranza, in strage la messe. Le  potenze della luce e della volta celeste reggono,  per una grande lor parte, benigne o maligne, le  vicende della terra ferace.   A tale stadio di evoluzione religiosa (1) eran  assai probabilmente giunti i Siculi quando in  Enna si elaborò il mito. E tutti i concetti fonda-  mentali, tutti i principali stami di questo inci-  piente tessuto sacro, nel mito appunto conversero.  — Quando delle figurazioni che si accennarono     (1) Una sintesi su la religione degli Indoeuropei e su  Fantichissima romana, in De Sanctis Storia dei Romani I  (Torino 1907) capp. Ili e Vili.     IL MITO SICULO 117     è ormai ricca la mente, le fiabe che possono es-  serne conteste sono molteplici, e solo il caso o  la preponderante importanza di taluno tra i fe-  nomeni riesce a far prevalere qualunque l'una  di esse. Le vicende del grano assalito dalla golpe  o fecondato dalla pioggia o isterilito dalla sic-  cità o squassato dai vènti ; il suo nascer e i  primi fili gracili che il bestiame calpesta e tenta  brucare; l'incurvarsi sotto il peso della spiga e  l'abbondante capellatura delle arèste ; la semina-  gione e il riposo invernale: posson del pari offrire  contenuto alla leggenda, si prestano a foggiarsi  sotto sembianza umana e familiare, si attengono  per l'uno o per T altro modo agli Dei del cielo  e delle tenebre. — Ma principalissimo è senza  dubbio, nel suo assiduo mistero, il miracolo,  onde la pianta nasce, del soggiorno lungo che  il seme, spiccato alla messe matura, compie sotto  la terra. Tal miracolo il mito ennense venne ad  elaborare. Richiamò i riti degli uomini, tra cui  avevan parte le nozze della figlia tolta alla  madre; le nozze richiamò in una delle forme  consuete, il ratto. Fece salire su la terra la po-  tenza delle sotteiTanee ombre, e il ratto le at-  tribuì. Disse il lamento della Madre biada cui  la biada sua Figlia è rapita, simile al lamento  delle madri umane. Alla scena disegnò lo sfondo  delle selve che circondavano il lago di Pergo,  da cui, secondo l'ideazione usuale, sarebbe salito  il Dio inferno.   A questo poco si limita quel che nella proba-  bilità storica la congettura può affermare della  originaria saga sicula. Però che troppo esigue  tracce ella abbia lasciate di sé, sopraffatta, più     118 III. - LA DEMKTRA d'eNNA   tardi, da nuove vicende, e non fermata, — quel  che più importa, — in canti che il pregio del-  l'arte e la fortuna ci serbassero. Visse nel culto ;  i sacerdoti ne ebbero e tramandarono forse me-  moria traverso gli anni; ma col suggello del  segreto. E forse ancora nei primi secoli avanti  e dopo Cristo, le donne, cui solo era l'accesso ai  riti, conoscevano alcun particolare che ignoriamo :  il nome delle Dee agresti, antichissimo; quel  del rapitore; o le circostanze del ratto; o tutto  il di più ch'è vano e impossibile supporre. Ma  ogni rivelazione era celata tra veli mistici. Oggi  è, e resterà, nelle tenebre.     n. — Il mito greco.   E certo tenebre graverebbero del pari sopra  un altro consimile mito e culto in Grecia, ove  l'arte non ce ne avesse serbato ampio e colorito  ricordo. Gli stadii per cui in Grecia trapassò la  leggenda furono, secondo è verisimile, a un di  presso quei medesimi che si possono tracciare  in sintesi svelta pei Siculi: cosi che le due saghe  sono strette, come i due popoli, da intima pa-  rentela. Rami e fiori dell'unico ceppo ario, dis-  simili certo ma certo anche analoghi fra loro.   Se non che quando l'arte, almeno nella più  vetusta espressione a noi pervenuta, elabora il  mito presso gli Eliòni, questo ha già raggiunto  uno sviluppo maggiore, che non toccasse i)ro-  babilmente nell'antichissima Enna. Certo nel-  Vlnno omerico a Demetra^ il quale è da attri-     IL MITO GRECO 119     buire, sembra, al secolo VII avanti l'èra (1), la  leggenda si preoccupa, non pur di adombrare  le vicende del seme durante l'inverno, ma ancbe  di giustificar la periodicità costante con cui la  seminagione la vegetazione e il raccolto si al-  ternano nei mesi dell'anno : coglie in somma il  fenomeno con uno sguardo più ampio, oltre il  singolo momento. La figlia pertanto è tolta  prima, poi ricondotta alla madre; col patto però  cbe abbia ad intervalli determinati a ritornare  nel grembo della terra, soggiornando con vicenda  alterna otto mesi nel sole e quattro nelle tenebre.  La ragione del fatto è cercata, com'è ovvio, nel-  l'essersi ormai consumato tra la rapita e il dio  rapitore il matrimonio : e, più rettamente, nel  simbolo di questo, il gustato frutto del melo-  grano.   Oltre poi a rivelare cotesta sostanziale matu-  rità mitica, l'Inno a Demetra palesa anche di-  venuta più ricca la leggenda. Un primo a ba-  stanza antico innesto accrescitivo è da scorgersi  nella presenza di Ecate " bendata di luce ,, e  di Elios " chdaro figlio di Iperione ,. ; i quali,  giusta l'Inno, rivelerebbero alla Dea delle biade  il modo del ratto e, dopo nove giorni di vana e  affannosa ricerca, la persona del rapitore. Ecate,  sia la Luna che risplende su le notti della  terra ; Elios, o sia il Sole, che fa chiari i giorni  e vede tutto degli uomini: sono probabilmente     (1) T. W. Allen and E. E. Sikes The homeric hymns  (London 1904) pag. 10 sgg.     120 III. - LA DKMETRA d'eNNA   i pili arcaici personaggi entrati su la scena ac-  canto ai protagonisti : però che essi fossero i più  adatti (ognun lo nota) a informare la " Madre „  su la " Figlia „ perduta, essi che son gli occhi  diurni e notturni del cielo. Né l'originario lor  valore è al tutto obliterato nel carme; se bene  non vi permanga senza alterazione.   Di più, altro segno di compiutosi progresso  mitico, nell'Inno ogni figura è precisa perché  risponde a un modulo sancito, e il poeta possiede  con sicurezza una teologia e una teogonia. Cia-  scun Dio è figlio di un certo, padre di un altro  e fratello, ha caratteristiche sue, un passato ben  suo. Le due principali Dee del racconto, le di-  vinità agresti, hanno assunto definito aspetto. La  Madre, la Signora delle biade " Demetra „, ha  profondamente evoluto la sua duplice essenza  agricola e familiare : è delirante nel suo dolore  di madre cui l'unica figlia è tolta X3er tradi-  mento ; è d'altra parte padrona della vita degli  uomini, che può prosperar per il dono grami-  minaceo di lei ed esaurirsi senz'esse: porta in  somma al supremo vertice la sua natura umana  e la sua virtù germinativa. La Figlia, in greco  " Cora „, spazia, vivente d'una vita che par s'a-  limenti da sangue nostro, su tutti i campi ov'è  vegetazione, e le grazie della sua feminea gio-  vinezza cercan a preferenza fiori profumi e  prati. Il suo valore naturalistico dì seme che  i primitivi trasfigurarono in lei) s' adombra :  è dea, è bella, è ingenua, e le vergini Oceanine  le fanno corteo. — Presso agli agresti, con uguale  individuata determinatezza appajono gli Dei sot-  terranei, addotti da quel vincolo di analogia che     IL MITO GRECO 121     vedemmo pili sopra (1). L'infero Nume rapitore  è " Ade „ o " Aidòneo „ ; signoreggia su la vasta  moltitudine degli estinti : fiero astuto atro ; non  gradevole. Balza dalle tenebre alla luce per  preda; ripiomba nel bujo: e i cavalli del suo  cocchio sono caliginosi: e la corsa del suo cocchio  è un vortice travolgente. Sul trono, al suo fianco,  siede Persèfone, regina fra i trapassati com'egli  re; com'egli veneranda e truce fra le xDallide  larve. — Dal cielo le potenze luminose, gl'Iddii  supremi, partecipano alle scene del dramma :  Zeus, giusto in sue sentenze, x^adre di uomini e  numi; Iride, messaggera di lui a Demetra per  placarne il dolore, se bene vano le riesca il  viaggio; Ermes, loquace ambasciatore ed accorto,  che induce Ade a cedere la recente conquista.  — Fra tutti, agresti tenebrosi chiari Dei, si  stringono attinenze come sogliono tra gli umani :  Zeus, fecondatore dei campi con la pioggia di  cui è padre, appar fratello di Demetra : Zeus,  risplendente face della terra, è germano di Ade,  come quegli che da l'alto ajuta il suolo nella  secreta germinazione del grano. Uniche non po-  tevano congiungersi in parentela, perché s'eli-  devano l'una con l'altra, Cora e Persèfone : la  rapita di Aidoneo e la moglie del He. E poiché  il contrasto non si poteva dalla fantasia supe-  rare in altro modo, il quale non offendesse l'una  delle Dee, le due figure diverse si ridussero a  differenti nomi dalla medesima persona scam-  bievolmente usati, e la Figlia assunse alquanto     (1) Pag. 115.     122 III. - LA DEMETRA d'eNNA   il tono austero della Regina, di cui tuttavia  mitigava la maschera accigliata. La creatura  leggendaria e religiosa che ne scaturì tenne  delle due onde fu composta, ma risultò armo-  nica ed ebbe riso e vezzi su la terra i)resso la  Madre, rigidezza e austerità fra i morti i^resso  il marito.   Il poeta adunque ricevette dalla tradizione  una trama di leggenda ben più ricca che la  povera da noi ricostruita per Enna ; i^ersonaggi  più precisi e raccolti in gruppo organico. Vi  apportò in oltre la sua arte che addusse la saga  a nuovo grado di progresso. La vagheggia egli  difatti non senza raccoglimento religioso né  senza coscienza, al meno complessiva, del suo  significato riposto. Ma la vagheggia sovra tutto  quale una creazione bella dello sph'ito : come il  suo sguardo di greco avrebbe potuto carezzare  il torso nudo di un efebo o le ginocchia del  vincitore nella corsa. Insensibilmente per lui,  sensibilmente per noi, la fiaba si stacca dalla  sua origine; e le mani pajono comporla e pla-  smarla allora per la prima volta in un fervore  pacato di concezione e di espressione. Tutto  si ordina secondo un'architettura severa, dal re-  spiro ampio e calmo. E il centro di quel mondo  di Dei e di Dee disegnato sopra la tela dei  secoli lontanissimi è, più che in ogni altro  senso, in un tranquillo godimento. Segno non  piccolo, di fronte all'oscuro mito siculo, dell'ef-  ficacia che all'arte compete qual balsamo delle  belle creature mitiche.   Intercalato però nel mito è un lungo racconto,     IL MITO GBECO 123     diverso (1). Demetra, appreso da Elios il nome  del rapitore, in preda alla sua folle sofferenza  giunge neir Attica ad Eleusi e qui^d sosta sopra  un sasso, " la pietra del pianto „, assumendo  l'aspetto d'una vecchia donna. L'incontrano le  figlie del Re del luogo, Còleo, e l'intrattengono  col chiederle e col darle notizie: attratte anzi  dalla simpatia che spira il sembiante venerando,  l'invitano nella casa della madre loro, Metanira,  accennandole d'un bimbo di recente nato cui  ella potrebbe prodigar sue cure. Nella reggia la  Dea diviene infatti nutrice prov\dda e attenta  al piccolo Demofònte. Al quale anzi l'Iddia vor-  rebbe donare il sacro dono dell'immortalità ;  onde di notte lo pone, con certe sue arti ma-  giche, tra le fiamme, fra cui, non combusto, si  accresce di vigore e acquista la virtù sovrumana.  Se non che Metanira, destatasi d'improvviso e  scorta Demetra nell'atto, se ne impaura, urla e  distrugge l'incantesimo. Demofonte non sarà  libero di morte. Ma per compenso la Madre  delle biade insegna a Celeo a ai principi eleusini!  Trittòlemo Eumòlpo Diocle e Polissèno i secreti  del suo culto. — A spiegare, appimto, il culto che  in Eleusi con specialissima pompa si rendeva a  Demetra è dunque indirizzata tutta questa ampia  parte del carme ; la quale cosi nell'insieme come  nei particolari costituisce dunque un complesso  etiologico ben distinto dal complesso mitologico.  E a quel modo che quest'ultimo ci mostrava  quanto a\Tebber potuto maturità di pensiero e     (1) Yv. 91-304.     124 III. - LA DEMETBA d'eNNA   soffio d' artista svolgere e imbellire il nucleo  rozzo e imperfetto del mito ennense ; quel primo  fa intrawedere la guisa per cui, nel seno della  vita religiosa che in Enna si svolgeva intorno  alla Dea agreste innominata, la saga si sarebbe  potuta complicare di personaggi e di episodii, ri-  vestendo un venerando colore di antichità sacra.  Ma anche per altro rispetto mito ed etiologie  deirinno attraggono la nostra attenzione (1).  All'uno e all'altre è sostrato un'idea r)rincipale  che importa porre in tutto il suo risalto. Questa:  nel momento in cui Cora è rapita da l'Ade, gli  uomini conoscono già l'uso del grano, come si  semini e come cresca fra le zolle ; quel momento  anzi cagiona un temporaneo danno ai campi :  che " molti nei campi in vano trascinarono i  bovi aratri ricurvi; molto su la gleba bianco  orzo sterile cadde; ed ecco dei parlanti uomini  tutta quanta la schiatta per fiera fame periva „ (2).  E solo dopo la sentenza di Zeus che ridona alla  Madre la figlia per " due terzi del volgente  anno „ ritorna in terra la gloria del biondo cibo.  Il soggiorno di Demetra in Eleusi è contempo-  raneo al danno, e la sua conseguenza si riduce  intera all'iniziazione dei misteri sacri. In somma,  appare qui a bastanza conservato il contenuto  originario del mito naturalistico: se difatti De-  metra è la biada il cui chicco scompar sotterra  per germinare e risorgere culmo, è giusto che  le biade esistano prima del ratto sotterraneo,  scompaiano poi, riappajano col ritorno della ra-     (1) Cfr. fino a pag. 126 il § IV. (2) Vv. 305-310.     IL MITO GEKCO 125     pita. E la sentenza di Zeus giova a rendere  periodico, ma senza dolore, questo alternarsi  agreste. Cosi, sebbene un nuovo senso di uma-  nità siasi trasfuso nel racconto a velarne il si-  gnificato primitivo, questo permase non corrotto;  si che la leggenda dell'Inno merita il nome di  prisca.   E noi la diremo protoattica, in confronto con  un'altra meno antica (del V secolo) che, per  essere del pari eleusinia, può dirsi neoattica.  Questa seconda concepisce il mondo ignaro di  messe prima che si compisse il ratto, esperto  solo di poi : di maniera che la violenza di Ade  è causa, oltre che de' Misteri e del giudizio di  Zeus, anche dell'apprendere gli uomini la semi-  nagione e l'aratura. E l'apprendono a opera di  Trittolemo : nome che ricorre già nell'Inno qual  di principe in Eleusi a lato di Celeo re in una  con altri (Eumolpo, Diocle, Polisseno); figura  per contro che appare adesso la prima volta,  e prevale, e si diffonde nell'arte letteraria pla-  stica pittorica, col carattere di adolescente gio-  vinezza e con l'officio di maestro nella fatica no-  vissima e preziosa. Semi ed aratro definiscono il  pregio del fanciullo prediletto alla Dea; e la  triade recente spezza lo schema anteriore rico-  stituendone un altro. Nel quale, dunque, non si  oblitera tutto il senso naturalistico del mito, ma  acquista un valore riflesso : perché il rapimento  di Cora diviene, meglio che la trasfigurazione  umana della sorte graminacea, l'inizio storico,  cronologicamente e geograficamente inteso, del  grano coltivato su la terra. Tal diverso concetto  non sostituisce soltanto con importanza mag-     126 III. - LA PEMETRA d'eNNA   giore Trittolemo al Demofonte deirinno per la  magia del fuoco ; bensi sopprime anche la ven-  detta di Demetra, che in verità non avrebbe più  modo di attuarsi; e riduce Celeo e Metanira,  genitori di Demofonte e or di Trittolemo, a  quella condizione di misera vita, ch'è acconcia  a uomini privi della vera e primissima fonte  di agio.   Accetta permase questa leggenda. Nel suo  largo diffondersi subì, è vero, non pochimuta-  menti, né tutti soltanto di particolari; giacché,  dovunque a Demetra e Cora fosse culto, divenne  costume lecito alterare la saga per adattarla  alle esigenze e ai vanti locali. Ma sul xjullulare  di coteste piccole invenzioni essa si ergeva con  l'alto suo fusto, destinata a varcare i confini di  un Comune per attingere gli estremi del mondo  colto. Unica può starle a paro, per intima vì-  goria di concepimento, e per potenza espansiva,  la favola composta nell'ambito di quel moto  filosofico e religioso onde il pensiero greco, e  specie nell'Attica, fu travagliato al tempo dei  Pisistratidi, moto che conosciamo col termine di  " Orficismo „. Serbandosi solo le due Dee e  Trittolemo, nuova veste di nomi e nuovo in-  treccio di casi assunse il mito di Cora fra gli  Orfici ; ma non tutti i suoi particolari ci impor-  tano qui : quelli soltanto che furono poi efficaci  sul vetusto nucleo leggendario dei Siculi in Enna.   Però che tutt'e tre, la proto e neoattica e  l'orfica, s'incontrassero queste versioni greche  con la siciliana, tenace per antichità, infantile per  incompiutezza. E dall'incontro scaturiva un lungo  moto di storia.     IL MITO SIRACUSANO 127     in. — Il mito siracusano.   I Siculi, che si erano ritirati su i monti del-  l'interno perché incapaci di resistere ai predoni  dell'Oriente venuti a loro traverso i mari, e che  in Enna avevan con più insistenza fissato il lor  mito agreste, lasciarono nello scorcio dell'^TH se-  colo le coste dell'isola popolarsi di Greci, sonare  dei nuovi linguaggi e dell'armi nnove, ornarsi  di sedi le quali si trasformavano via via, dive-  nendo sempre più salde più ampie più belle, in  città ricche. E gli EUeni in quel secolo e nel VII  e nel VI seguenti, trovando sgombro per sé il  terreno, o sgombro facendolo con distruggere  e sottoporre gl'indigeni, s'insediarono nella teri'a  siciliana con tutto agio, fino a giungere in breve  a fiore civile intellettuale e artistico grandis-  simo in paragone di quelli, e a distendere sn  tutte le portuose spiagge dell' isola un incan-  cellabile smalto greco (1). Dèi miti templi ceri-  monie della loro mentalità religiosa si radicano  ivi senza resistenza, e, nel trapiantamento fuor  dalla patria, pajon rinascere con rinnovellata  vigoria e bellezza.   Certo la lor somma di progresso spirituale e     (1) Ampio racconto su la colonizzazione greca dell'Oc-  cidente, in HoLM Storia della Sicilia (trad. ital.) voi. I  (Torino 1896) lib. Il; Freeman History of Sicihj voi. I  (Oxford 1891); Pais Storia della Sicilia e Magna Grecia  voi. I (Torino 1894).     128 m. - LA DEMBTRA d'eNNA   di culto civico, accopj)iandosi con la congenita  irrequieta genialità e l'inconculcabile aspira-  zione ad accrescere il possesso, doveva spingerli  presto a violare i segreti delle regioni più in-  terne e a portarvi il soffio della propria opera  contro le resistenze dei Siculi, non restii ad evol-  versi si a sottomettersi. E forse, traverso anche  i commerci di scambio, a Enna ebbero a per-  venire folate di vento greco fin dal secolo VI.  Eorse (1). Ma quante e quali nessuno direbbe ;  perclié non la minima traccia n' è rimasta ; né  fino ad ora gli scavi archeologici e' illuminano  alcun poco.   La palese influenza dei Grreci su Enna co-  mincia nel V secolo e per opera di Sii^acusa.  Dopo che Gelone ebbe, con il sussidio del suo  alleato Terone tiranno di Agrigento, sconfìtti ad  Imera circa il 480 a. C. gli eserciti cartaginesi  di Amilcare, Enna entrò nella sfera siracusana  e ne fu assorbita. Qual resistenza politica op-  ponesse non importa qui sapere. Senza dubbio  oppose una resistenza ■ riguardo al suo culto e  al suo mito, che non poterono venir eliminati,  ma rispettati dovettero essere. La risultante di  queste due forze (la siracusana che assorbiva e  la ennense che non cedeva) fu una leggenda,  la quale impropriamente si direbbe contaminata,  perché è più tosto un compromesso di politica  religiosa, una formula felice per conciliare le  pretese o, se piace, i diritti dei due centri di-  versi (2).     (1) Cfr. § li. (2) Cfr. § II.     IL MITO SIRACUSANO 129   In Siracusa Grelone fu un institutore e un pro-  pagatore zelante del culto delle greche iddie  Demetra e Cora (-Persefone). Di queste il culto  aveva, — come fu visto poc' anzi, — a base il  mito del rapimento. E a quel modo che nel-  r Inno a Demetra la favola naturalistica , non  spoglia della sua prisca indeterminatezza, vien  ad arte connessa con un preciso e determinato  centro religioso, Eleusi; cosi un' analoga ten-  denza doveva indurre i Siracusani, per mezzo  dei loro sacerdoti e poeti (questi gli artefici delle  saghe), a sostituire i nomi dei lor proprii luoglii  alle indeterminate frasi del racconto mitico e a  applicare quest'ultimo non senza artifìcio su le  cerimonie sacre vigenti nella loro città. Era un  moto religioso, tanto spontaneo e consueto fra  Greci, quanto egoisticamente esclusivo, per la  preferenza che cosi ciascun paese si attribuisce  di fronte a un certo nume. Di qui nascono di-  fatti sovente contese tra regioni ; in particolare  se vi partecipa, com'è per le dee agresti, il vanto  della maggior fecondità d'un suolo a paragone  d'un altro. Né pare che Siracusa derogasse alla  generale tendenza: però che ci sia rimasto in-  dizio, se bene esiguo, d' una sua leggenda la  quale vi s'informa per l'appunto. ^q\V Epitafìo  di Bione (1) ch'è del sec. I a. C. non che in altri  testi il ratto di Cora è localizzato su l'Etna ;  onde Ade sarebbe molto dicevolmente scaturito,  come da una delle bocche dell'Erebo e del sot-  terraneo fuoco. Che se accanto a questo parti-     ci) V. 133.   A. Ferrabino, Kalypao.     130 III. - LA DEMETRA d'eNNA   colare si pone Taltro, secondo cui il Dio infer-  nale si apre la via del ritorno presso lo stagno  di Ciane (1); si ottengono i due estremi punti  topografici di una saga che adatta il vecchio  mito greco agl'interessi di Siracusa: perché Ciane  è una palude nelle vicinanze della città ; e sulla  zona dell'Etna l'influenza politica e militare dei  Siracusani si è sempre estesa o nel fatto o nel-  l'intenzioni. Ma come tale tentativo mitico pret-  tamente libero da Enna dimostra qual fosse  l'impulso originario del culto instituito da Ge-  lone ; cosi la penombra in cui permane e la ca-  ducità che lo contraddistingue provano quanto  diffìcile fosse serbar nella leggenda di Demetra  l'indipendenza contro i diritti di prima occu-  pante che competevano alla fiaba dei Siculi.   La quale s'imponeva difatti tanto più quanto  maggiormente s' era, traverso gli anni molti,  radicata nelle coscienze degl'indigeni rifugiati  su i monti, e quanto era più stretta, nel nucleo  essenziale per lo meno, la sua simiglianza con  il mito ellenico. Il ratto, sul lago di Pergo po-  tevasi rivestir di fogge e definire con nomi  greci ; non asportare dal lago : ove del resto la  feracità del luogo e la credenza, anche greca,  che dai laghi o da vicine grotte sorgessero so-  vente i numi sotterranei, ne difendevan la vita.   E difatti il ratto rimase. I Siracusani die-  dero alla divinità delle biade il nome di De-  metra; ne chiamaron la figlia col duplice ter-  mine di Cora-Persef one ; il rapitore con quello     (1) V. sotto pag. 131.     IL MITO SIRACUSANO 131   di Ade o Aidoneo. Colorirono i loro artisti tutto  l'episodio con quei pennelli che gli Elleni ben  sapevano, e con quei particolari che eran dive-  nuti fissi e tradizionali. Ma sottostettero ai di-  ritti di precedenza. Nel resto si valsero del campo  libero : la palude siracusana di Ciane fu l'aper-  tura per il ritorno, dopo che Ade sul cocchio vi  aveva da Enna trascinata Cora-Persefone. A  Siracusa, sembra, si poneva pure 1' " anagoge „  di Cora dall' Èrebo alla terra su bianchi ca-  valli. E noi non sappiamo molto di più; ma  è facile che altri particolari della leggenda si  connettessero al culto ai suoi riti ed ai sacer-  doti. Suggello poi di questo compromesso reli-  gioso tra Enna e Siracusa è l' elaborazione ca-  ratteristica d'un motivo orfico attinente al ratto  di Cora. Questa avrebbe avuto compagne du-  rante la raccolta dei fiori (1' " antologia „), oltre  le Oceanine, anche Artemide ed Atena, le dee  vergini. Ora Artemide grandemente importava  nel culto siracusano ; Atena in quello di Imera,  città a Siracusa amica durante le guerre del  V secolo specie contro Atene. Per ciò in uno  dei suoi rami la leggenda, la quale ancor qui  si vede costretta a riconoscere che a Demetra  doveva esser spettata la signoria di Enna, at-  tribuisce al meno quella di Imera ad Atena, di  Siracusa ad Artemide ; introducendo pertanto  questi due luoghi per obliqua via a lato di Enna  e, quel che importava, al medesimo livello.   Conchiuso in tal modo il compromesso tra l'esi-  genze dell'antichissima saga ennense e le pretese  della pili recentemente sopraggiunta saga sira-  cusana, i due centri dovettero trovarsi concordi     132 III. - LA DEMETRA d'eNNA   nell'adattare a sé la figura e gli uffici di Trit-  tolemo. Non poteva esservi dubbio. A Enna  Cora è rapita mentre coglie fiori mirabili per  vaghezza e profumo ; presso Ciane Cora scende  sotterra e in Siracusa risale alla luce; Demetra  e la figlia prediligono l'isola e dal suo ombelico  la proteggono; Atena ed Artemide, compagne  alla violata, signoreggiano due città siciliane ;  il suolo è opulento di biade come non altrove :  certo dunque che in Sicilia, non altrove, cadde  il primo seme, e il primo culmo spuntò da zolla  sicana. Ma la leggenda neoattica, prevalente,  diceva l'attico Trittolemo beneficato primo del  grano. Bisognava dunque, da che respinger Trit-  tolemo non era dicevole, adattarlo in Sii^acusa  ed Enna. E l'adattamento avvenne non senza  garbo (1). Si concedette che un eleusinio, Tritto-  lemo, avesse avuto il favore di Demetra e co-  municato alle terre il dono preziosissimo; si con-  cedette che ciò accadesse in occasione del ratto  di Cora ; e fu lasciato cosi senza ritocco tutto  il racconto. Ma, — gli si premise, — già dianzi,  avanti il ratto e avanti Trittolemo, la Sicilia  produceva grano, prediletta alle due Dee per la  sua fertilità e scelta a loro dimora. Quindi, —  si conchiuse, — Trittolemo fu primo rispetto  agli altri popoli; secondo dopo i Siciliani. Una  separazione dunque della Sicilia dal restante  paese, onde il ratto divenne il momento pro-  pizio per diffondere al mondo il privilegio si-  culo. Che era non poco orgoglio.     (1) Cfr. § IV.     IL MITO SIRACUSANO 133   Dopo ciò esistevano in Sicilia oramai tutti  senz'eccezione gli elementi per un ben contesto  tessuto leggendario che un poeta potesse far  suo tema : i luoghi pittoreschi fra Enna e Sira-  cusa offrivano dicevole sfondo, il racconto mi-  tico aveva i suoi punti topografici fìssi e armo-  nicamente collegati ; il culto preparava salda e  e vasta base per un'accorta serie di invenzioni  etiologiche ; gli stessi orgogli delle singole città  s'eran tradotti in accrescimenti della favola, la  stessa gara con Eleusi le aveva tribuito qualche  particolare non privo di attraenza. Né manca-  rono forse i cantori che la materia non inde-  gnamente lusingasse. E pure a noi non rimane  se non il testo, povero non chiaro e senza vi-  goria espressiva, di Diodoro che attinge a Timeo.  Perché tutto vivace si senta il contrasto fra la  potenzialità artistica del mito e la mancata  espressione di esso, eh' è a un tempo mancata  intuizione, piace qui tradurre dalla Biblioteca  istorica (1), lasciando il racconto nel suo disor-  dinato svolgimento.   I Sicelioti che abitano l' isola appresero dai loro  progenitori la fama, tramandatasi traverso il tempo  nelle generazioni, ch'essa fosse sacra a Demetra e Cora;  ... e che le predette Dee in questa isola primamente ap-  parvero ; e che questa per prima produsse il fi-utto del  grano a cagione della feracità del suolo... (2). A riprova     (1) Cfr. Geffcken Timaios' Geographie des Westens in  Phi lologische Untersuchungen , XIII (1892) pag. 103 sgg.   (2) DioDORo V 2, 3. 4 passim.     134 III. - LA DEMETRA d'eNNA   adducono il ratto di Cora che avvenne in quest'isola  e che mostra chiarissimamente come in questa le Dee  soggiornassero e di questa sovra tutto si compiacessero.   Favoleggiano poi che il ratto di Cora accadde ne'  prati intorno ad Enna. Questo luogo è vicino alla città,  per viole insigne e altri fiori d'ogni genere, e degno  di vedersi. A causa del profumo di quei fiori si narra  che i cani avvezzi a cacciare perdon le tracce ottun-  dendosi loro la naturai virtù. È il prato predetto  piano e d'ogni parte ben irriguo; ai lati però scosceso  e rotto tutt'intorno da burroni. Sembra giacere nel  mezzo dell'isola : per che è detto anche da alcuni l'om-  belico della Sicilia. Ha vicino boschi e, intorno a  questi, paludi, e un grande speco con apertura sot-  terranea rivolta a settentrione; dal quale favoleggiano  che balzasse col cocchio Plutone a rapire Cora. Le  viole e gli altri fiori colà odoranti rimangon fioriti mi-  racolosamente per l'intero anno e rendono lo spetta-  colo pittoresco e gradito.   Favoleggiano ancora che insieme con Cora cre-  scessero Atena e Artemide, tutt'e tre vergini, e che  insieme raccogliessero fioH e preparassero in comune  il peplo al padre Zeus. Per l'intimità e la conversa-  zione reciproca si compiacquero specialmente di que-  st'isola; e ciascuna si ebbe un territorio : Atena dalle  parti di Imera..., cosi che gli indigeni consacrarono a  lei la città e il territorio chiamato fino ad oggi Atenèo :  Artemide ebbe in Siracusa dagli Iddii l'isola che per  lei è da oracoli e uomini chiamata Ortigia: e, pa-  rimenti alle due predette dee, anche Cora ottenne i  prati intorno a Enna. Favoleggiano poi che Plutone,  compiuto il ratto, recò Cora sul cocchio presso Sira-  cusa ; e che, spalancata la terra, scomparve con la rapita  nell'Ade ; e che ivi fece sgorgare la fonte detta Ciane...     IL MITO CONTAMINATO 135   Dopo il ratto di Cora favoleggiano che Demetra,  non potendo ritrovare la figlia, accese fiaccole nei  crateri dell'Etna, si recò in molte parti della terra  abitata e beneficò, donando il frutto del grano, gli uo-  mini i quali meglio l'accolsero. Più benignamente aven-  dola accolta gli Ateniesi, a essi primi dopo i Sicelioti  donò il frutto del grano ; pel che questo popolo più  d'ogni altro onora la dea con splendidi sacrifìzii e coi  misteri eleusinii... (1).   Il mito siracusano è qui per intero : ogni linea  ne viene accennata; pietra a pietra, chi nùmeri,  l'edifìcio esiste. Né mancano (che noi trala-  sciammo per brevità) cenni etiologici alle feste  sacre. Fece difetto il genio architettonico: e il  difetto si tradisce ogni volta che Diodoro ri-  pete, — ed è spesso, — quel suo " favoleggiano „.  Altri; non egli: eh' è estraneo a quel che rac-  conta. Modello insigne, questo, del come possano  mascelle di erudito maciullare e rugumare il  fiore della saga.     IV. — Il mito contaminato.   Il mito siracusano di Demetra e Cora, imper-  niato in Enna e Ciane, e nato dal compromesso  dei due centri religiosi, venne accolto nell'am-  biente poetico di Alessandria. E fu questo l'i-     (1) DioDOBo V 3-4:, 4 con qualche omissione.     136 III. - LA DBMETRA d'eNNA   nizio d'una sua vita nuova. In Alessandria (1) di  fatti, oltre alla forma siracusana della favola,  erano affluite, ed affluivano, la primitiva forma  dell' Inno omerico, insieme con la variante di  Trittolemo inventor dell'aratro : cosi che quella  diveniva la fucina ove cotesti elementi, parte  simili, parte dissimili, mossi da origini diverse,  avevan da commettersi l'un l'altro e penetrarsi.  E non pur cotesti elementi precipui ; bensì anche  alcuni altri secondarii, che per varie ragioni fos-  sero riusciti a trascendere i limiti della medio-  crità espressiva e della ristrettezza geografica,  per intrudersi nella letteratura tradizionale. La  mitopeja orfica in ispecie aveva trovato acco-  glienza favorevole nel colto ambiente alessan-  drino ; e a canto d'essa fiorivano ivi le differenti  e notevoli saghe metamorfiche, che presso i più  antichi non erano se non una forma, fra l'altre,  dell'intuizione naturalistica, e che il gusto po-  steriore, compiacendosene, moltiplicò artefece. La  storia per tanto del mito siculo fuor di Sicilia  è la storia della sua seconda immersione nel  flusso del pensiero e dell'arte greca; è la storia  del successivo accogliersi intorno ad esso di  giunte e di innovazioni via via più complesse.   Si sono smarrite per noi parecchie fra l'opere  dell'arte letteraria in cui cotesto processo ci sa-  rebbe stato trasparente: dei maggiori alessan-  drini medesimi. Sola di quelle ci è rimasta traccia     (1) Sul culto di Demetra e Cora in Alessandria cfr., p. es.,  Scolio a Callimaco Inni VI (Schneider I 133).     IL MITO COìs^TAMINATO 137   e tal volta quasi copia in autori romani. Con  questo valore, ci appare un ampio tratto del  quinto delle Metamorfosi ovidiane (1), in cui  appunto si rivela la contaminazione fra diverse  correnti leggendarie.   Vige l'indirizzo siracusano, — senza dubbio.  Anzi vi si manifesta con talun nuovo partico-  lare ; cosi il poeta sembra seguire più tosto una  tradizione tutt'affatto sicula, che abbandonarsi  a una variazion fantastica, quando nel luogo  di Ecate fa dare a Demetra, durante la ricerca  affannosa e dolorante di Cora, il primo indizio  del ratto dalla fonte Ciane ; e in luogo di Elios  introduce la ninfa del siracusano lago di Are-  tusa, nell'isola di Ortigia fra mezzo i due Porti.  Se non che questi elementi siciliani, che al pari  di Enna pajono saldati con il concetto duplice  di una Sicilia esperta del grano prima del ratto  e di una umanità esperta sol dopo (si ricordi  Timeo), qui invece sono trasfusi in uno schema  diverso. Quando Proserpina è rapita, la terra, se  non tutta per buona parte, già ha avuto il dono  del seme ; e Cerere del suo dolore si vendica col  privare gli uomini di aratri di bovi di spighe :  dunque, come nel mito protoattico. Ma, come  nel neoattico, Trittolemo, dopo il verdetto di  Giove, sparge per segno di pace la semenza. E i  due miti si conciliano nel pensiero che uguale bi-  sogno del nuovo dono ha cosi la zolla mai colta  come quella di cui per la vendetta divina fu  pretermessa la coltura. In tale contaminazione     (1) Vv. 341-661. Cfr. § IV.     138 III. - LA DEMETEA d'eNNA   dei due miti protoattico e neoattico la saga si-  ciliana s'inquadra umiliandosi un poco, col porre  la propria terra fra più altre, prima nel godere  le biade, i)oi nel riaverle. Resta il vanto di fer-  tilità singolare e di fedeltà a Demetra.   D'altra parte il poeta asseconda, cosi per l'at-  titudine sua mentale come per la natura del  suo tema, con particolar compiacenza l'impulso  letterario delle metamorfosi. Sembra persino che  ogni vicenda del mito in tanto gì' importi in  quanto si risolve in uno di cotesti travestimenti  di forme. Ciane, ad esempio, che solo perché  palude era sembrata luogo dicevole alla scom-  parsa di Ade come un lago alla comparsa, offre  spunto a una d'esse, quale ninfa tramutata in  acqua. E anche. L'episodio di Cora-Persefone  che gusta la melagrana è sfruttato per immet-  tervi un Ascalafo ; il quale scorge la Dea nel-  l'atto, ne riferisce ed è converso in gufo. Sovra  tutto però, l'efficacia della tradizione letteraria  si risente in Ovidio per il tentativo di analisi  psicologica nei personaggi: in Cora special-  mente, per cui egli giunge sino a finezze troppo  cerebrali per esser vere, sino a farla piangere,  non che per il ratto, j)er lo smarrimento dei  fiori raccolti. Anzi, passionale diventa tutto  l' antefatto del mito : il ratto è voluto , non  da un decreto di Zeus, bensì da Afrodite cui è  sdegno che tante dee si sottraggano al suo po-  tere e che libero ne resti il medesimo Ade (la-  tinamente Dite). Amore sostituisce cosi, quando  psicologico diviene il racconto, un particolare  che, allor che esso era naturalistico, valeva con  tutt' altra importanza: la fecondante pioggia.     IL MITO CONTAMINATO 139   Tuttavia lo spunto viene, non senza garbo, in-  serito sullo sfondo siciliano della fiaba : Afrodite  difatti è l'Ericina, che i Siculi facevan oggetto  di culto singolare. Cosi perché pili appaja la  giustizia di Griove e ne risalti la umanità del  mito, l'anno è pel doppio soggiorno di Proser-  pina con la madre e col marito diviso a mezzo  non più per terzi. Simile attenzione psicologica  governa i discorsi di Aretusa a Demetra, di De-  metra a Giove, materiati di accortezza feminea  e l'uno e l'altro. Al qual carattere corrisponde  poi lo studio dei gesti in ciascuna figura, per  toccare di quelli che a ciascun momento del-  l'animo competono, là dove tecniche mitologiche  più elementari non cercano se non il consueto  e costante attributo del Nume : cosi che Aretusa,  — e basti per tutti l' esempio solo, — ritrae  prima di parlare i capelli roridi via dalla fronte  sino alle orecchie per lasciar nudi la bocca e  il viso. Siam lontani dal cristallizzato epiteto  omerico che s'addice alla Dea; il gesto si con-  viene alla donna. Siamo allo stremo dell' alle-  goria agreste. E su la soglia dell'umanità (1).   Non lungi a le mura di Enna son le profonde  aeque d'un lago: Pergo, di nome. Più numerosi non  spande canti di cigno Caìstro su l'onde scorrenti. L'acque  corona una selva, d'ogni lato le cinge ; con le sue fronde  è di schermo alla vampa solare. Frescura, i rami;  purpurei fiori dà l'umida terra. Primavera è perjDetua.   Mentre nel bosco Proserpina gioca ed or viole or     (1) Vv. 885 sgg. Edizione H. Magnus (Berlino 1914).     140 III. - LA DEMETKA d'eNNA   gigli candidi coglie, mentre con fanciullesca cura seno  e canestri empie e nella raccolta studia superar le com-  pagne — ad un punto è veduta amata rapita da  Dite. Tanto fu pronto amore! Atterrita la Diva con  mesta voce madre e compagne chiamava; la madre  più spesso ; e poi che lacerata dal sommo s'era la veste,  da r allentata tunica caddero i fiori raccolti. Ed ecco  anche questa sventura, cosi fur ingenui gli anni pue-  rili, il virgineo dolore commosse. Il rapitor regge il  cocchio, e ciascuno chiamando per nome esorta i ca-  valli: scuote su colli e criniere le redini tinte di fer-  ruggine persa (1).   È nel mezzo fra Ciane ed Aretusa un golfo d'an-  gusti bracci raccolto e chiuso. Quivi fu già — e dal  suo nome lo stagno ha nome — tra le siciliane ninfe  notissima, Ciane. Ella fino a sommo il ventre sorse  tra mezzo il gorgo, e riconobbe la Dea. " Non più lungi  andrete ! „ esclamò " non puoi di Cerere essere il ge-  nero contra sua voglia: chiederla non rapirla dovevi.  Che se m'è lecito alle grandi le piccole cose accostare,  me pure Anàpi amava; ma pregata sposa mi addusse  non, come questa, atterrita „. Disse, e con aperte le  braccia si oppose. Non più non più l'ira il Saturnio  frenava: i cavalli terribile esortando, nel fondo del gorgo  il vibrato scettro regale con forte braccio affondò : la  terra percossa una via pel Tàrtaro aperse ed i preci-  piti carri nel mezzo della voragine accolse. Ma Ciane,  la rapita Dea piangendo ed i violati diritti della sua  fonte, tacita soffri ferita inconsolabile e si consunse  tutta di pianto. Neil' acque di cui grande nume già  era, or s'estenuava: molli le membra, flettevansi     (1) Omessi i vv. 405-8.     IL MITO CONTAMINATO 141   l'ossa, la rigidezza perdevano l'unghie ; le tenerissime  parti da prima si sciolser fra tutte, le cerulee chiome,  le dita le gambe ed i piedi, che di delicate membra  in acque gelide il trapasso è breve: gli omeri poi e  le terga ed i fianchi vanescendo ed il petto in tenui  si dissolvono rivi: nelle tramutate vene alla fine al  vivo sangue la linfa subentra, e nulla rimane che  prender si possa (1).   Per quali terre la Dea, e per quali acque errasse,  lungo indugio sarebbe narrare. A lei che cercava venne  meno la ten'a. Ritornò in Sicilia ; e mentre ogni dove  indaga vagando , a Ciane viene. Tutto le avrebbe  narrato, se non fosse mutata; ma lei che voleva, non  ajutavan la bocca e la lingua, né con altro poteva  parlare. Ma segni palesi ella diede e indizio alla madre:  di Persefone il cinto, in quel luogo per caso caduto  nel gurgite sacro, a fiore dell'acqua mostrava. Come  lo riconobbe, quasi il ratto appena allora apprendesse,  i disadorni capelli si lacerava la Dea ed una e più  volte il petto con le sue mani percosse.   Dove la figlia si sia ancora non sa ; ma le terre  biasima tutte ed ingrate le chiama né degne del  dono di biade: Trinacria su tutte, dove le tracce del  danno aveva trovate. Ed ecco colà di sua mano spez-  zava gli aratri che fendono duri le glebe, ed a pari  morte nell'ira mandava e i coloni ed i bovi aratori,  ed ai campi di sperdere il lor aflSdato tesoro ordinò,  ed i semi corruppe. La molto nota nel mondo fertilità  del paese è fiaccata: senza far césto muojon le biade,  ed ora le vizia l'eccesso di sole ed ora di piogge l'ec-     (1) Omessi i w. 438-461: errore di Cerere; metamor-  fosi di Ascalabo.     142 III. - LA DEMETBA d'eNNA   cesso, le stelle ed i vènti fan danno, gli sparsi semi  ingordi nccelli colgono, triboli e loglio fan guerra a  le piante del grano e non estirpabil gramigna.   Il capo allora da l'elèe onde solleva Alfèjade e  dalla fronte le roride chiome a l'orecchie ritrae. Dice:  " tu della vergine cercata nel mondo, o tu genitrice  di biade, cessa da tue immense fatiche e da la vio-  lenta ira contro la teiTa a te fida. Non ha colpa la terra ;  la rapina tollerò contro sua voglia. Né per la pati'ia sup-  plico : ospite son qui venuta. Pisa è mia patria, l'Elide  diede i nataK. Sicania abito straniera, ma d'ogni suolo  pili grata m'è questa terra. Ai-etusa, questi ora ho per  penati, questa per sede : e tu clementissima la salva !  Perché mi sia mossa per tanto spazio, e per tanto grande  mare all'Ortigia mi rechi, tempo verrà ch'io ti dica, op-  portuno, quando alleviato TatìPanno e migliore il tuo  volto sarà. A me un sotterraneo varco offre il cam-  mino e, traverso profonde caverne scendendo, qui il capo  sollevo e a le stelle di nuovo mi avvezzo. Or mentre là  sotto nel gurgite Stigio scorreva, là sotto dai nostri  occhi veduta la tua Proserpina fu. Triste ella per vero,  né per anco tranquilla nel volto; — ma Regina, ma  nell'oscuro mondo Signora, ma dell'inferno tiranno  Sposa potente „.   La madre udendo le voci stupisce ed impietra, ed  attonita a lungo rimane. Appena dal grave dolore la  grave demenza è rimossa, a l'aure superne col cocchio  ella ascende. Ivi tenebrosa il volto, scarmigliata i ca-  pelli, d'odio riarsa, stié innanzi a Giove. " Per il mio  (dice) supplice a te venni o Giove e per il tuo sangue !  se nessuno gode favore la madre, la figlia il padre com-  muova; né meno cara — preghiamo — ti sia perché  da nostro parto nata. La figlia che a lungo cercai ecco  rinvenni: — se rinvenire tu chiami il perder più cex-to,     IL MITO CONTAMINATO 143   se rinvenire tu chiami il saper dove sia. Rapita, sop-  porto : pur ch'egK la renda : che d'un marito predone  degna non è la tua figlia..., se anche mia figlia non è ,.  E Giove obiettava : " Pegno comune e gravame a me  con te è la figlia. Ma, se i veri nomi alle cose noi  vogliam dare, non è questa un'offesa : è amore ! Né ci  sarà quel genero a vergogna, sol che tu voglia o  Dea. Se pur altri pregi non sieno , qua! pregio è fra-  tello dirsi di Giove ! Né mancano gli altri ; né fuor  che per sorte mi cede. Ma se tanto di separarli hai  desiderio, ritomi Proserpina al cielo, fermo il patto  restando che con la bocca là giù cibo alcuno non  abbia toccato: che delle Parche tal fu la legge „.   Avea detto. Ma Cerere è ferma di ricondur la figlia.  Non cosi vogliono i fati ; la vergine aveva rotto il di-  giuno e, ingenua errando per gli adorni giardini, dal  ricurvo albero dispiccato un pomo fenicio e fuor da  la gialla corteccia sette chicchi fra i denti premuti (1).   Ma, tra il fratello e la mesta sorella, imparziale,  il volgente anno per mezzo Giove divide. Ora la Dea,  di due regni nume comune, altrettanti mesi è con la  madre, altrettanti è con lo sposo. D'animo si muta  ella e di volto ; e la fronte che dianzi poteva allo stesso  Dite mesta parere, lieta fronte diviene: simile a Sole  che da gravide nubi coperto era già e da le vinte nubi  riappare (2).   A coppia i serpenti la fertile Dea al cocchio ag-  gioga, e costringe coi freni le bocche, e nel mezzo per  l'aria fra il cielo e la terra coire e conduce il lieve     (1) Omessi i vv. 538-563: metamorfosi di Ascalafo e  delle Sirene.   (2j Omessi i vv. 572-641 : metamorfosi di Aretusa.     144 III. - LA DEMETRA d'eNNA   SUO carro nella città Tritonide, a Trittolemo : e parte  dei semi donati comandava di sparger sul suolo mai  colto, parte sul suolo dopo assai tempo rilavorato.   Contaminato ma diversamente, ci appare il  racconto appresso Ovidio medesimo, nei Fasti  libro quarto (1). Occasione gli è offerta dai ro-  mani Ludi Cereri. E alle cerimonie rituali tien  difatti rocchio alquanto il poeta (o il suo mo-  dello).   La mente che ricorda il racconto delle Meta-  morfosi, pur riconoscendo nel principio del nuovo  carme (2), con la mano del medesimo poeta, il  I)aesaggio siculo del ratto, nota tuttavia un ri-  tegno, quasi una schiva attenzione per evitar  d'insistervi troppo. In Enna le Dee sono invi-  tate da Aretusa; non quella è la lor sede: né  nella palude Ciane si sprofonda Dite, o al meno  non è detto. Il mito sorto dal compromesso ta-  cito fra Enna e Siracusa è senza dubbio noto ;  ma non usurpa da signore lo schema greco più  antico: vi s'insinua. E quando la ricerca affan-  nosa della Madre comincia (" dai tuoi campi, o  Enna „), Ciane l'Anapo Oela Ortigia Mègara  Imera Agrigento Tauromènio Camarina ed altri  luoghi ancora e i tre capi Peloro Pachino e Li-  libeo, offrono bensì materia alla fantasia del  poeta non ignaro di geografìa siciliana, ma sono  per ciò a punto introdotti dal suo solo arbitrio  nella leggenda, onde costituiscono un elenco di     (1) Vv. 393-620. Edizione H. Peter* (Leipzig 1907). Con-  fronta § IV.   (2) Vv. 419-50.     IL MITO CONTAMINATO 145   nomi regionali, non già altr'e tanti addentellati  mitici. C'è dunque una cauta fedeltà al mito  siracusano : speciosa fedeltà che è per risolversi  sùbito dopo in abbandono.   Quel che oggi si chiama la Cereale Eleusi, questo del  vecchio Cèleo fu il campo.   Egli in casa porta le ghiande e le more spiccate  agli spini e le risecche legna pel focolare che l'arda.  La figlia piccina riconduce due caprette dal monte ;  e nella zana un tenero figlio giace malato. " Madre „  la fanciulla dice — e commossa è la Diva pel nome  di madre — " che fai in solitarii luoghi senza com-  pagnia ? „ . Si sofferma anche il vecchio, quantunque  il peso lo spinga, e la prega, ella vada sotto il come che  misero tetto della sua capanna. Si rifiuta. Assemprava  una vecchia e d'una mitra i capelli avea cinti. A quello,  che insiste, tali parole risponde : " Salvo tu stia ! e  padre per sempre. A me fu rapita la figlia. Oh la tua  sorte di quanto è migliore che la mia sorte!. Disse,  e come di lacrima — che non piangon gli Dei —  cadde sul tepido seno una lucida goccia. Piangon, del  pari teneri in cuore, la fanciulla ed il vecchio ; e  dopo, del giusto vecchio le parole son queste : " Se a  te, che la piangi rapita, sia salva la figlia, levati, non  disprezzare il tetto della misera casa „. Cui la Dea  " Conducimi „ dice " come mi potessi costringer, hai  ben saputo ! „ . E s'alza dal sasso ed al vecchio tien  dietro.   Alla compagna la guida racconta, come sia il figlio  malato e sonni non prenda ma vegli pel male. Ella, pria  di varcare la povera soglia, soporoso il papavero coglie  lene nella terra agreste. Mentre raccoglie, si narra che  ne gustasse con bocca obliosa, e involontaria rompesse   A. Ferrabino, Kalypso. 10     146 III. - LA DBMETKA d'eNNA   la lunga fame: — e perché della notte in principio  ella finiva i digiuni, gl'iniziati ritengon per tempo del  cibo l'apparir delle stelle.   Come varcò la soglia, piena di pianto vede ogni  cosa : già speranza alcuna non v'era di salvezza pel  bimbo. Salutata la madre — Metanìra la madre si  chiama — alla sua congiunger degnava la bocca pue-  rile. Fugge il pallore, sùbite forze vengon nel corpo:  tanto vigore viene da la celeste bocca. Tutta la casa è  lieta : la madre il padre — ciò sono — e la figlia :  tutta la casa, quei tre. Pongon tosto le mense, e cagli  stemprati nel latte e pomi e nei favi suoi proprii miele  dorato. L'alma Cerere non mangia, ma a te, o bimbo,  a bere con tiepido latte dà i papaveri causa del  sonno.   Della notte era il mezzo, era nel placido sonno  silenzio ; ed ella nel grembo Trittolemo prende, con la  mano tre volte lo palpa, tre dice scongiuri : — scon-  giuri, che non ripete parola mortale. E nel focolare il  corpo del bimbo entro la calda cinigia nasconde, che  l'ardore purghi l'umano incarco. Si scuote dal sonno la  madre a torto pietosa, ed insensata esclama " che fai ? ,  e rapisce dal fuoco le membra. A lei la Dea : " Per  non esser scellerata tal fosti „ dice ; " vani i miei doni  divengon pel timore materno. Questi sarà bensì mor-  tale; ma primo e con aratro e con seme da le colti-  vate terre coglierà premii „.   " Disse : uscendo d'una nube s'avvolse, su i serpenti  sali, e con l'alato cocchio Cerere riparte „ (1).   Qui non è più il racconto dell'Inno con il     (1) Vv. 507-562.     IL MITO CONTAMINATO 147   mito protoattico ; non è né meno il racconto di  Timeo con il mito siracusano : però che a diffe-  renza profonda dal primo la umanità è presen-  tata ignara di biade e cibata di ghiande prima  del ratto; e a differenza caratteristica dal se-  condo la Sicilia non ha privilegio alcuno rispetto  all'altre terre. Qui dunque è il mito neoattico»  di cui dicemmo, che ha sostituito Trittolemo  a Demofonte nella magia del fuoco, e ha tra-  mutato il semplice istitutore di un rituale sacro  nel giovinetto onde per favore della Dea un  inestimabile benefizio si largiva agli umani.  Celeo e Metanira recano identici i loro nomi,  ma intorno ad essi il polito palazzo regale s'è  tramutato in povera capanna: sul desco stanno  cagli; nei cuori è ingenua ignoranza. Cosi per-  tanto la versione siciliana, dianzi cautamente se-  guita, è soppiantata, senz'urti, da una seconda.  Ma finisce apjjena questo brano, che un terzo  influsso si rivela. Come nell' Inno, informatori  di Cerere su la persona del rapitore sono due  astri ; identico è il nome dell'uno, il Sole (EHos) ;  analogo l'officio dell'altro. Elice, che è però non  la Luna (Ecate), ma la stella dell'Orsa maggiore  che mai non tramonta nel mare, e per ciò tutto  vede, di notte. D'altra parte, dopo il colloquio  fra Cerere e Griove, questi decide di dividere  l'anno in due parti perché Proserpina rimanga  sei mesi col marito e sei con la madre (1). Ora,  Elice sostituisce Ecate perché preferita nella con-  sueta mitopoetica alessandrina; e l'anno diviso     (1) Vv. .575-614.     148 III. - LA DEMETRA d'eNNA   pel mezzo già ritrovammo nel gusto alessandrino  delle Metamorfosi. E sotto la medesima luce  posson venire considerati anche l'idilliaca scena  in casa di Celeo, dal tono dolce dal colore de-  licato dall'insieme grazioso ; e il quadro del flo-  rilegio in Enna.   L'arte però converte la triplice mischianza  in armonia. Onde la vicenda si snoda men lenta  che nelle Metamorfosi, s'indugia solo nel pasto-  rale abbandono di Eleusi, e diviene rapida nel  termine ove più personaggi agiscono e parlano  con una stringata prontezza che culmina forse  nelle parole di Ermes " La rapita ruppe il di-  giuno con tre di quei grani che le melagrane ri-  copron con molle corteccia „ (1). Le varie correnti  mitiche son fuse ed è scomparsa ogni traccia di  mosaico mitologico; una inspirazione centrale  muove tutto il carme, lo ricollega con qualche  sparso accenno a questo o a quel particolare del  culto, su dal culto lo stacca elevandolo a ricordo  solenne del benefìzio divino, scaturito dal dolore  d'una Madre e compiuto nella capanna d'un  misero. La gratitudine verso la Dea si traduce  bensì in sacrifìzii suini e in vestimenta candide,  ma non è di origine religiosa, si più tosto muove  da una intima commozione umana, di simpatia  per la sofferenza eterna, per la semplicità pri-  meva, per la faticosa Terra.   Nei Fasti quindi minor parte è fatta al mito  siracusano; ma per compenso è conseguito più  alto pregio letterario che non nell'altro carme     (1) Vv. 606-7.     IL MITO CONTAMINATO 149   ovidiano, ove il poeta con l'innesto delle frequenti  trasformazioni deforma la sua materia, or ridu-  cendola a magrezza or distraendola a rimoti  oggetti.   Oltre che elementi siculi proto e neoattici,  anche particolari orfici compose insieme con  abbondanza Claudiano nel poemetto che al Ratto  di Proserpina volle dedicare, senza per altro  condurlo a termine. Grli spunti siciliani sono i  ben noti: Enna sede del rapimento, Ciane op-  pressa dal rapitore e tramutata in fonte (1), le  fiaccole notturne accese su l'Etna. Gli spunti  protoattici dovevano esser copiosi nella parte  del poemetto che non fu scritta e trattava del  soggiorno della Madre in Eleusi, forse nella casa  di Coleo e Metanira. Gli spunti neoattici in fine  si assommano nella figura di Trittolemo a cui  par probabile che venisse attribuito il dono delle  biade (2). Su questa trama vennero innestati  parecchi motivi che si dovevano all'orficismo.  Leggevasi presso gli Orfici che Demetra aveva  affidato la propria figlia alle Ninfe ai Coribanti  e ai Cm-eti e che in loro custodia Cora trascor-  reva il tempo intenta a tessere un tessuto ove  fossero affigurate le stelle del cielo. E ancora :  che il ratto accadde si per volontà del Fato  {òaifiovog aiarj) sotto cui traspare il favore di  Zeus pluvio, ma con l' inganno delle sorelle  {pvvófiaifioì) : o sia Artemide ed Atena. Più tardi  cotesta circostanza fu alterata ; da chi, pare, non     (1) III 246 sgg. (2) I 12 sgg., Ili 51.     150 III. - LA DEMETRA d'eNNA   s'accorse o non volle accorgersi che il concorso  delle due Dee al ratto non era se non un asse-  condar le leggi fatali e irremovibili ; ma ritenne  che più nobile officio loro, nel punto in cui Cora,  vergine com'esse erano vergini, soggiaceva a  violenza, fosse la lotta contro il fosco Aidoneo :  nelVElena di Euripide difatti (1) elleno gli ap-  pajono ostili. Se non che scemato cosi al ratto  il favore di Atena e d'Artemide, a compenso vi  fu introdotto quello, che pareva più dicevole,  d'Afrodite, nume propizio agli amori (2). L'an-  tico aneddoto orfico pertanto fu e rinnovato nel  suo contenuto e ampliato nelle sue linee : rimase  tuttavia, e Claudiano ne fece suo possesso. Molte  altre fiabe erano nella poesia orfica attinenti a  Demetra e a Persef one ; ma poi che vertono su  quella parte la quale nel poemetto sul Ratto  non è svolta sarà qui da tacerne. Oramai difatti  sono stati raccolti tutti i materiali che da tri-  plice fonte il poeta adunò per l'opera sua e che  gli bastarono, con giunte e innovazioni, a nar-  rare del ratto e i precedenti e le primissime  conseguenze. Importa ora vedere come lo spirito  del poeta investisse quella sostanza leggendaria  e la elaborasse esprimendo.   Il suo racconto si spezza spontaneamente in  due parti: delle quali la prima ha termine col  ratto. Plutone nell'Ade è infelice perché privo  di moglie e ignaro delle dolcezze che la pater-  nità concede. Tanto l'assilla il suo veemente     (1) Vv. 1301 sgg.   (2) V. Igino Fav. 146 e cfr. § IV.     IL MITO CONTAMINATO 151   desiderio, ch'egli giunge a minacciare lo stesso  Zeus di sovvertirgli l'ordine dell'universo e li-  berare i Titani incatenati, ove non sia fatto pago.  E Zeus, intimorito, cede e promette: solo è in  dubbio intorno alla scelta della sposa, già che  nessuna volentieri accetterebbe marito il tene-  broso Re dei morti. Contemporanea a cotesta  scena però si svolge l'altra in cui Demetra, per  sottrarre l'unica sua figlia Cora allo stuolo degli  insistenti proci fra cui Apollo e Ares primeg-  giano, la reca in Sicilia ove l'affida alle cure  della nutrice Elettra delle Ninfe e di Ciane (ri-  tornano, — come si vede, — sott' altra specie, le  orfiche Ninfe e i Coribanti e i Cureti) e la ritiene  certa da ogni attentato sotto l'alta protezione  celeste del padre Zeus : onde si ritorna ella poi  in Frigia appresso Cibele. Si congiungono alla  fine queste due linee narrative da quando il  Signore degli Dei decide di maritare Cora ap-  punto, profittando della lontananza materna, a  Plutone, e j)repara le nozze. Connivente Afro-  dite, egli fa si che la vergine esca con le com-  pagne e Artemide ed Atena e la stessa dea del-  l'amore a raccoglier fiori su i prati smaglianti  di Enna e che su quelli, balzando improvviso  dal suolo spalancato in voragine, la rapisca il  sotterraneo Nume. Grande scompiglio ne sorge.  Fuggono le giovani amiche. Atena e Artemide  tentano opporsi con l'armi che sono lor proprie.  Ma Zeus da l'alto tuona il suo assentimento. E  presto Cora, trascinata dai cavalli dell'oltretomba,  fa il suo solenne ingresso nelle sedi buje, ove  l'accolgono, con festa ch'è insueta colà, gl'iddii  torvi e le paurose iddie de' regni flegetontèi.     152 III. - LA DEMETRA D^ENNA   La seconda parte possiede quell'unità di strut-  tura che manca a questa prima. Il centro natu-  rale dell'azione è offerto da Demetra; intorno  a cui ogni altra luce si deve comporre. La Madre  non vive tranquilli i giorni presso i Frigi: un  presentimento vago ma assiduo la turba con  sogni atri che mal si dileguano nel risveglio.  Alla fine, decide di abbandonar le terre di Ci-  bele e recarsi a visitar la figlia fra i Siciliani.  Parte, tutto temendo, nulla sperando. Da Imigi  le appajono i luoghi ove s'aspetta di trovar  Cora ; ma ben presto scorge deserta e sconvolta  la casa. Entra, e vede incompiuta l'opera tessile  della vergine, e lacrimante in profondo dolore  la nutrice Elettra. Chiede con voce ch'è già di  disperazione; e apprende il ratto. Lo schianto  le è però quasi sùbito superato dallo sdegno  contro gli Dei tutti, e Zeus in ispecie, che per-  misero il delitto, lo lasciarono impune, non cu-  rando se per tal modo si sovvertissero leggi di  giustizia e principii di morale. Giura che non  cesserà di percorrere, intenta alla ricerca, l'uni-  verso intero fin che non le sia ritrovata la figlia.  E la ricerca inizia senz'altro, dopo aver fatto a  sé, per la notte, fiaccole di due pini recisi presso  il fiume Aci in bosco sacro a Zeus.   Il resto si desidera. Ne importa gran fatto,  che poco più apprenderemmo nel sèguito. Il  poeta si era assunto ben grave soma, chi guardi  alla difficoltà insita in ogni forma leggendaria,  ove sempre la materia poetica è molta, ma sorda  ad artefice che non sia di assai fermo polso; e  ove la stessa potenziale bellezza contribuisce a  rendere scabro l'officio dell'attuarla. Claudiano     IL MITO CONTAMINATO 153   vi mancò: non esito a dire che vi mancò per  intiero (1). Noi lo giudichiamo qui a fronte della  sua saga, e possiamo farlo con pienezza di giu-  dizio, che la sua saga è la nostra: abbiam appreso  a conoscerla da l'origine lungo la vita complessa.  Non c'illude quindi, — e sarebbe facile errore,  — quella, che prima colpisce, bellezza formale  di particolari, eleganza di scene, armonia di  verso. Riconosciamo cotesti pregi ; ma come  perfezion delle parti in un tutto su cui si volge  il nostro interesse e l'esame più vero. Né la per-  fezione stessa è anche da concedersi intera :  guasta per certa esuberanza, che assempra il  vecchio pescatore teocriteo dalle vene gonfie sul  collo, spiace dopo le prove d'un'arte più cauta  se bene già troppo a sé indulgente. Ma in ogni  modo, sopra le singole pennellate riuscite e  oltre le mancate, com'è composto il grande  affresco ?   Claudiano avverti primi, e svolse gli spunti  psichici di cui tutto il racconto è pregno: non  diversamente operando, in ciò, da Ovidio. Le sue  dee per tanto divennero donne; uomini, i suoi  numi. E suo grande compiacimento si fu narrare  ora il cordoglio della madre, ora lo spavento  della figlia; qua i coniugali rimpianti di Plu-  tone, là le dolcezze filiali di Cora. Se non che  in Ovidio tal via era tenuta con due pregi: la  accorta profondità dell'investigazione intima; e,     (1) Giudizio opposto tenne W. Pater, nel suo garbato  essay su Demeter and Persephone in " Greek Studies ,  (London 1901) pag. 130 sgg.     154 m. - LA DEMETRA d'eNNA   inoltre, una grazia di tocco per cui, oltre la  donna o l'uomo, figuravan sempre senza stri-  denza di contrasti la Dea e il Dio. Nel Ratto  per contro cosi quello come questo pregio man-  cano del tutto. Nulla, che non sia vieto e grosso-  lano richiamo di motivi abusati, è infuso nel-  l'ordito passionale; le finezze di certi gesti, le  sfumature di talune emozioni gli sono ignote ;  i suoi personaggi, non pur non condensano la  loro personalità per l'arte di lui, si scemano per  la imperizia fin quel vigore e scancellano quella  determinatezza ch'era lor impressa dalla tradi-  zionale teologia. Una madre, una figlia, un ma-  rito recente, un giudice un po' pauroso e a  bastanza ingiusto: ecco i protagonisti: non im-  portano nomi, non colori, non linee. Basta, che  per ciascun tipo sono applicati i luoghi comuni  della retorica.   Che se poi ci s'avvicina alla scena, colpisce  la solennità jeratica dei paesaggi. Lungo periodo  di versi circoscrive la Sicilia con un senso di  sacro rispetto. Enna, poco prima che le Dee  l'onorino di lor presenza, invoca da Zefiro splen-  dor di fiori ; ed ha nell'atto una compostezza e  un contenuto orgoglio matronali. La Frigia  lontana riceve da Cibele, quasi un recondito  balsamo religioso. Persino il bosco onde Demetra  svelle i due pini a illuminare la notte è un lucus  Jovis. Lo sfondo, pertanto, delle scene, se pur  varia, è tuttavia sempre ampio alto e severo :  non è in proporzione con la statura degli attori ;  o meglio, non con la loro statura d'uomini, si  con un'altra, fittizia, di Dei. Onde si a\^erte il  primo contrasto, che par creato a posta dal poeta,     IL MITO CONTAMINATO 155   fra la diminuita materia divina della fiaba e  l'accresciuta materia terrena: quasi fosse stato  trasferito al paesaggio il decoro che avrebbe  dovuto essere dei Numi.   Primo contrasto ; non solo. Ben presto si nota  che nessuno dei consueti attributi è stato tolto  da Claudiano né a Demetra né a Cora né a  Plutone né ad Atena né ad Artemide né ad  alcun'altra figura celeste del poemetto. Il re dei  morti Ila tutta la sua terrificante corte ; la ver-  gine Figlia ha intero il suo sèguito di bellissime  ninfe; hanno l'armi Pallade e la Cacciatrice,  quella lo scudo gorgonèo, questa l'arco e le  frecce; la Madre corre per l'aria su cocchio trai-  nato da draghi e doma leoni. Il meccanismo  oltreumano resta inalterato, e il poeta v'insiste.  Ond'è che la vita umana e affettiva vi è poi  spirata dentro senza che Fautore mostri di ac-  corgersi del dissidio che ne risulta. Il quale è,  a volte, men grave. Ma a volte attinge a dirit-  tura il grottesco e tramuta il poema in com-  media. Quando, — gli esempii potrebber essere  moltissimi, desunti ogni cento versi ; basti l'uno  più notevole, — quando Plutone ha rapito Cora  e ne ha uditi i primi gemiti e poi gli urli e i  lamenti pietosi e le invocazioni alla Madre, si  commuove : " Da tali detti il feroce e dal pianto  vezzoso è convinto, e sente i palpiti del primo  amore. Le lacrime (le) deterge con ferruginea  tunica, e con pacata voce consola il mesto do-  lore (di lei) „ (1). E, questa, una innovazione di     (1) II 273-276.     156 III. - LA DEMETBA d'eNNA   Claudiano : già che le parole che seguono e che  vantano di Plutone i pregi qual marito e re son  le medesime che l' Inno attribuiva ad Elios e  Ovidio a Giove, per consolar Demetra. Ma rin-  novazione a punto svela a maraviglia a qual  grado di risibile pervenga il poeta nel colorire  pateticamente quello spauracchio " feroce „ di  Aidoneo che egli stesso ha poc'anzi dipinto mostro  a tutte tremendo.   Dai medesimi errori iniziali consegue l'essere  artisticamente (non dico logicamente, che sa-  rebbe inutile rilevarlo) mal connesso il mondo  divino del breve poema. Tutti gli Dei balzano  all'improvviso su dalla terra al cielo. Demetra  ridiviene di colpo sorella di Zeus, dopo che il  tono dei suoi lamenti e l'incertezza dell'angoscia  ce l'avevano affigurata di Zeus suddita umile e  meschina al pari d'una qualsiasi siracusana.  Ciascun dio sembra supinamente soggetto a Zeus;  ma Zeus a sua volta prende a impaurirsi e tre-  mare non a pena Plutone lo minaccia di far liberi  i Titani. Non c'ispirano quindi reverenza né ti-  more cotesti numi ambigui. E l'invettiva che  contr'essi scaglia la Madre nell'ira non è per nulla  sacrilega : ci scende fredda nel pensiero, perché  è vuota cosi di dolore materno come di ribellion  religiosa. Se per poco fosse spinta in là la ten-  denza del poeta, i suoi dèi finirebbero con l'ap-  parirci, nella loro scema sostanza um^ana, e tra-  cotante pompa esteriore, marionette fìngenti per  gioco di fili occulti e virtù di orpelli gravità  olimpica, in un consesso di stolidi e in una fa-  miglia disamorata. L'errore d'intuizione artistica  in fine culmina in quel solenne decreto di Zeus     IL MITO CONTAMINATO 157   con cui s'apre il libroni: il quale vorrebbe mo-  strare come, col decretar da Demetra il dono  del seme, la suprema volontà sapesse ritrarre  un vantaggio agli uomini dalla vicenda di Cora;  ma non prova nel fatto se non quanto Claudiano  ha deformato il sommo Iddio.   Conchiudendo , il poeta è giunto proprio al  contrario di quel che era compito dell'arte: ha  dissimilato in luogo di ordinare in armonia ; ha  contrapposto, in vece di avvicinare senza con-  trasto. Ora, gli elementi del dissidio erano già  tutti nella primitiva saga di Cora, e avevan  perdurato identici lungo il suo evolversi. E pure  non gli avevamo avvertiti: non so che secreta  forza li faceva coerire in unità e bellezza. Se  adesso adunque si frangono e s'iu"tano, segno è  che non pure s'è svigorita l'arte, ma l'orga-  nismo del mito è moribondo, — e si dissolve.   Cosi né pur la contaminazione di motivi,  desunti dalle più diverse fonti, riesce a infon-  dere ricchezza di contenuto alla leggenda agreste.  Un più profondo guasto la uccide, senza rimedio.  Onde finisce l'ultima forma di quell'antichissimo  racconto siculo, che una prima volta aveva sen-  tito, per opera di Siracusa, vigoroso l'influsso  greco, e trovò una seconda volta, traverso gli  AlessandiTni, arricchimento di bellezza poetica  da iDrincipio, gravame in sèguito di mal con-  gesti elementi.     CAPITOLO IV.  L'abigeato di Caco (i).     I. — Presso grindiani e i Greci.   Indra e Vritra si combattono.   Nel profondo cielo dove il Sole si vela di ar-  dore, Indra teneva le sue smaglianti mucche al  pascolo e lasciava vagare leggère, qua e colà,  nell'azzurro. Non sfuggirono a Vritra, turpe fi-  gura di serx^e dalle tre teste, né tentarono in  vano la sua maligna cupidigia. Le rapi, e tras-  sele nell'antro che gli era dimora; e ve le tenne  secrete. I ben colorati animali furono avvolti  dalle tenebre, celati sotto un' incupita parvenza  uniforme. Ma Indra corse alla vendetta. Dal-  l'antro, ove segregato si stava il bottino, gli     (1) Per tutto questo capitolo v. Vlndagine, in libro II  cap. Ili ; di cui si citano i §§ nelle note successive.     160 IV. - l'abigeato di caco   giunse un profondo e rauco muggito che gli svelò  e il furto e il luogo. Vi si precipita, fende con  la sua possente forza la grotta, di frecce e di  clava colpisce più e più volte il mostro nemico,  l'abbatte, lo uccide. E riconduce le mucche nel  cielo, onde lasciano esse scorrere il latte fin  sopra la terra.   Cosi nel Rigveda indiano (1) si adombra per  noi la vicenda del temporale, i bianchi cirri sparsi  per l'azzurro mutandosi in torvi cumuli, che  dopo tuoni e lampi scatenano benefica la pioggia.   L' odio , che un' anima paganamente infusa  nella natura nutre acre contro il velame dal  quale è tal volta celato il Sole agli sguardi, ha  sentito nelle nubi gravide d'acqua e di fuoco  la presenza di una forza attiva, e nemica cosi  della luce benefica come della fiamma benefica,  però che si compiaccia, in vece, di tenebrori e  di vampe distruggitrici. Vampe escono dalla  caverna di Vritra : fulmini percuotono 1' opere  umane e le annientano. Il bujo della notte;  l'ombra dei secreti abissi sotterranei, ove occhio  non si spinge, e che, quando spiragli appajono  traverso il suolo, atterriscono i cuori ; l'atra  tinta del fumo , che gì' incendii sprigionano,  pregno di odori corrotti, su dai possessi degli  uomini ; l'ambiguo rossastro delle lame di fuoco,  che s'insinuano avide fra cosa e cosa, per far  di tutte cenere uguale ; la negra cortina dei cu-  muli ; l'abbagliante incandescenza del baleno,  che acceca le pupille: — questi colori queste     (1) Cfr. fino a pag. 163 § E.     PRESSO gl'indiani E I GRECI 161   forme quest' energie si accostano nel pensiero  primitivo, si compongono variamente e diversi  si foggiano in figurazioni molte, ripetendo però  con ritmo unico il malefìcio costante e il duro  danno, in antitesi violenta contro il dono, in cui  è prodigo l'Astro, di luce e di calore. La fiam-  mata che cuoce l'alimento è una scintilla tolta  dal Sole per gli uomini : e, come il Sole, ha virtù  di respingere l'oscurità intomo a sé. La fiam-  mata in vece che rade una selva è nemica del  Sole perché nemica dell'uomo: e, poi che teme  la luce solare, s'avvolge di bujo. La mente bam-  bina non sa che la tenebra è un modo della  luce, e che il fuoco è un solo principio, distrugga  o giovi. Contrappone le parvenze ; crea, dagli  effetti, delle antinomie fallaci nelle cause.   Cosi fatto l'atteggiamento fondamentale del  pensiero. Che è comune, come si sa, agli Arii ;  e comuni, se bene traverso le differenze a volte  non piccole, sono le forme di cui si veste e le  associazioni psichiche di cui si vale : l'antropo-  morfismo, ciò sono, ed i nessi fra la notte e il  sotterraneo mondo, fra il bujo e la fiamma ma-  lefica, fra gli ascosi meandri del suolo ed il cielo.  E questo d'ogni singolo mito del fuoco, quale  che sia per esserne il valore più immediato, per-  mane il riposto senso di allegoria naturalistica.  Anzi, in grazia a punto di essa affinità di con-  cetti, poco importa se la fiaba si connetta più  tosto con la freccia del fulmine che squarcia il  perso involucro dei nuvoli, o più tosto col dente  infocato che appare impro\^iso e avido tra le  sph'e di un fumo caliginoso, o altrimenti con  altro. Griacché la fantasia primigenia, la quale   A. Ferrabino, Kalypso. 11     162 IV. - l'abigeato di caco   ha narrato sotto la specie dell'uomo una spet-  tacolosa vicenda della natura, deve esser stata  indotta dalle medesime sue associazioni analo-  giclie a ripetere, nelle aridità della concezione,  un solo racconto per fenomeni simili.   Ciò spiega perché, fuor del E-igveda, il mito  ritorni bensì presso assai popoli arii, ma presso  pochi come là simboleggi il temporale. Presso  gli Eranii tramutato si è, pur serbando pa-  recchie simiglianze, in una forma, per cui Tistrj^a  e Apaosha si combattono ; e a dirittura rinno-  vato in altra forma, la quale, per il nesso che  nel pensiero già intercede fra tenebra e male,  luce e bene, trasporta il mito a significare il  contrasto tra Ormuzd il buono e il cattivo  Ahriman.   Che se, dopo averle spiegate, non grande  conto è da farsi di queste trasposizioni della  fiaba da uno ad altro fenomeno ; molto mag-  giore se ne deve attribuire in vece all'alterarsi  o al persistere di taluni particolari significanti.  In essi è il segno di qilanto si accosti o allon-  tani dalla saga originaria il nuovo racconto :  simili a quei tratti caratteristici che perman-  gono a contraddistinguere il volto di una fa-  miglia nei secoli. E quando del mito si è poi  perduto tutto il senso riposto, restano testimoni  veritieri ed irrefutabili dell'origine prima e di-  mostrano che in fondo scarsa fu la elaborazione  innovatrice sul modello più antico. Quando in  vece un significato s'intrude sopra e contro l'o-  riginario e lo modifica o lo soffoca, si perdono  insieme i primitivi particolari episodici, come  un muro coinvolge nella sua caduta gli affreschi.     PRESSO gl'indiani E I GBECI 163   o solo tanti se ne serbano quanti non discon-  vengono al nuovo dominante pensiero. Giacclié  l'energia conservatrice insita in quei partico-  lari è costituita, in somma, da una non più co-  sciente memoria dell'importanza essenziale clie  tutti, in vario modo, avevano, quando ancora  la saga travestiva un reale fenomeno. E cessa  pertanto, allorclié al ricordo incosciente sot-  tentra nel racconto la coscienza d'un contenuto  e d'un fine diverso.   Un fine e un contenuto del tutto nuovi ha  assunti il mito primitivo appresso i Greci. Ed  ecco difatti tramutarsi anche la foggia este-  riore e l'intreccio dei casi. Come il furto di buoi  perpetrato a danno d'una divinità solare venisse  narrato insieme con la successiva vendetta nelle  saghe antichissime degli Elleni, ignoriamo : e  ci sembra inutile pel nostro assunto la conget-  tura. Certo che in secolo a bastanza antico la  metamorfosi del racconto si rivela profondis-  sima. L'omerico i Inno a Ermes è la nostra fonte  in una sua ampia parte(1). Ed è pervaso tutto  dalla minore anima greca: quella che baratta  e commercia; che ruba con astuzia, e nega con  impudenza ; che è scaltra in ben parlare, e av-  volge di parole artificiate, di periodi fluenti,  di frasi ambigue, d'esclamazioni infinte e do-     li) Tralascio tutte le quistioni su gli " strati ,, la  cronologia, ecc. dell'/nno, come estranee al tema. Con-  fronta A. Gemoll Die homerischen Hymnen (Leipzig 1886)  181 sgg. e T. W. Allen and E. E. Sikes The homeric hymns  (London 1904) 128 sgg.     164 IV. - l'abigeato di caco   mande coperte, l'infelice derubato ; che giura  invocando i men pericolosi dèi, nella speranza  di averli meglio indulgenti ; che non ignora al-  cuna furberia, e si vanta di tutte ; e nessuno  più le crede, e ognuno le s'arma di sospetto, ma  ne resta poco o molto gabbato. L'uomo il quale  discorre a lungo e lascia i suoi detti vagare per  l'aria, incurante se assai ne cadano a vuoto,  certo che giungono in parte al brocco, e tiene  fra tanto i suoi occhi, sotto le palpebre basse,  fissi qua e là su oggetti che non guarda; il  Grreco dei proverbi e dei motti ironici: vive in-  tiero, per una fresca vivacità di dipintura, nel  ladro di buoi. E lo ritrae la maggiore anima  greca, la virile, cui la cupidigia di guadagno  s'è congiunta con la brama di gloria, cui il buono  è anche bello, e forza indirizzata al suo fine è  anche il bene. Ma fra questa maggiore e la mi-  nore anima greca i tramiti non sono affatto  tronchi. Onde una celata coscienza della supe-  riorità di quello spirito che può, se voglia, rin-  chiudere in un labii"into di dubbii e di certezze,  entrambi illusorii, l'intelligenza del suo inter-  locutore, serpeggia per il racconto. E un sorriso  di compiacimento interno lo illumina : il sorriso  mal palese degli aruspici, secondo Catone; il  sorriso, dagli occhi assai più che dalla bocca,  con cui gli ambasciatori d'Atene dovevan ac-  cogliere, pacati d'indulgenza ironica, la dichia-  razione frequente dei Peloponnesiaci : " Grli Ate-  niesi discorrono troppo bene perché si possa lor  credere „. C è un biasimo tacito del furto ; ma  c'è una lode sobria del ladro abile. E la com-  media nasce. Comico, il racconto eh' era stato     PEBSSO gl'indiani E I GRECI 165   tragico allorquando Vritra cadeva sotto la in-  vitta clava di Indra.   Perno del mito diviene adunque l'astuzia clie  elude la forza. I protagonisti sono mutati. Ca-  duti taluni particolari, altri s'improvvisano dal  largo patrimonio novellistico. Lo sfondo è di-  verso, perchè alla furberia del mortale compete  scena la terra, come alla violenza del mostruoso  iddio sede il cielo. Resta la pascente mandra di-  vina, di splendido aspetto ; e il secreto del furto ;  e l'antro ove l'ombra accoglie i mugghianti.  Apollo è il derubato, Ermes il ladro; Ermes, nella  sera del giorno in cui nacque, piccolo bimbo di  inverosimile forza e di mente già dotta nelle  oblique vie. Fra il neonato dalla tenera pelle  ed esigua statura, e il Dio vigoroso e alto, si  svolge la principal scena. Due altre la precedono.   La prima narra il furto. Non è opera di vio-  lenza, ma di scaltrezza. I buoi, — cinquanta, —  pascevano nella Pieria mentre " con il suo carro  e i cavalli „ il Sole spariva sotto la terra. Ermes,  per celare ogni traccia dell' abigeato sul suolo  sabbioso, condusse le bestie all'indietro, intrec-  ciando per sé accorti e leggeri sandali con vin-  castri e sarmenti. Giunto presso TAlfeo cela la  refurtiva in una grotta " da la volta elevata „.  Poi, ritorna presso la madre, sul monte Cillène.   E ha luogo la seconda scena (1).   E di Cillene, tosto, egli ai divi gioghi toi'nava in  sul mattino ; né per la lunga via alcuno scontrossi con     (1) Vv. 142 sgg. Edizione T. W. Allen (Oxford 1912).     166 IV. - l'abigeato di caco   lui o tra gli Dei beati o tra i mortali uomini; e non la-  travano i cani. Ermete, il benefico figlio di Zeus,  obliquo per il serrarne della casa scomparve, simile  a vento d'autunno o pure a la nebbia. Avanza dix-itto  nell'antro fino al ricco recesso, piano coi piedi mo-  vendo : né così fa rumore sul suolo. Subitamente entrò  nella zana l'inclito Ermes, le fasce a le spaUe avvol-  gendo, come d'un piccolo bimbo che in braccio alla  balia i lini scompone coi piedi (1). Ma non sfuggiva  l'Iddio alla sua madre Dea, che gli disse parole.   " E perchè mai tu, o ben furbo, e donde in ora di  notte ne giungi, o cinto d'inverecondia ? Ed ecco te  pi'eveggo, da indissolubili vincoli intorno allo sterno  legato, uscir da queste soglie fra le mani di Apollo, o  finir per recarti a predar nelle valli al pari di ladro.  Pèrditi, stolto : che per grande sventura ti generava il  Padre agli uomini mortali e agl'immortali Dei „.   Ed Ermete a lei scaltre parole rendeva : " Madre,  perché queste cose tu m'ammonisci, come ad un piccolo  bimbo, che malizie ben poche conosca nel cuore, e ti-  mido tema fin della madre i rimprocei ? Ma io un'arte  apprendere voglio, ch'è la più bella (2). Né fra gli Dei  immortali spogli di doni e negletti, quivi restando, ci  rimarremo come tu vuoi. Meglio è per sempre fre-  quentar gl'immortali ricco ed agiato di beni e di messi  che nella casa sederci, nell'oscura caverna. Quanto ad  onore, il convenevole anch'io voglio ottenere, ben come  Apollo. E se il mio padre non me lo dona, io stesso  per certo tenterò — che posso — dei rapinatori dive-  nire il capo. Che se mi ricerchi il figlio dell'illustre     (1) Omesso il v. 153.   (2) Omesso il v. 167 ch'è corrotto.     PRESSO gl'indiani E I GRECI 167   Latòna, altr'e tanto (io mi credo) avrebbe in ricambio  e anche più : mi reco in Pitóne al saccheggio della  grande sua casa, molto da quella rubando stupendi  tripodi ed oro e lebéti, molto sfavillante ferro, e vesti  di molte. Tu certo vedrai — se ti piaccia „.   n senso d'umanità e la sostanza greca che  sono divenuti il nucleo nuovo del mito appa-  iono qui in tutta la loro vivace contrapiDOsizione  alla forma indiana di cui fu veduto. Perché la  difesa, che il poeta adorna cosi bene su le labbra  bambine, è un breve mal represso anelito di sim-  patia per il ladro perspicace ed ardimentoso,  simile a profondo brivido onde nelle fibre arcane  della carne si ax)provi quel che la ragione con-  danna. Ben altro era l'odio atterrito per cui, nel  Rigveda, il rapinatore trascinava la sua mole  serpentina nel dimenio orrendo delle tre teste.  Là, freme il ribrezzo contro Vritra, l'ignobile, e  l'ombra della sua caverna, dalla quale il mug-  ghio bovino suscita un' eco di sgomento negli  animi. Qui, noi abbiamo ormai preso parte in  favor del breve Ermes fasciato, che si crogiola  di caldo nella zana, orgoglioso senza pudore  di quanto ha compiuto, pronto a difender sé e  la i)ropria opera, certo di saperla proseguire nel  futuro. E non v' è dubbio che a Maja piac-  ciano le vesti che l'arti del figlio le recheranno  rapite! Le due spanne onde il corpicino si mi-  sura sono molto piccola cosa di fronte alle cin-  quanta terga di tori: e nella grazia furbesca del  contrasto, che la onnipotenza divina giustifica  e legittima, sta il motivo della simpatia e nostra  e del poeta.     168 IV. - l'abigeato di caco   Come lui (1) scorse di Zeus e di Màjade il figlio,  adirato pel furto dei bovi l'arciero Apollo, dentro la  fascia odorosa s'immerse : quale del legno la cenere  molta brace di ceppi nasconde all'intorno, tale celava  sé stesso Ermes, il Lungisaettante vedendo : in breve  raccolse il capo le mani ed i piedi, come se per bagno  dolce sonno chiamasse a ristoro, sveglio restando però.  Il figlio di Leto e di Zeus riconobbe, né gli sfuggì,  la montana bellissima ninfa con il suo figlio, bimbo  piccino, avvolto dentro ingannevoli astuzie. Della grande  casa i recessi mirando, con la splendida chiave tre ri-  postigli schiudeva, di nettare colmi e di gradita am-  brosia : molto oro ed argento dentro giaceva, molte  della Ninfa purpuree vesti e smaglianti : tutto che dei  beati dentro sogliono avere le sacre dimore. Della  grande casa i seni esplorati, il Latoide con detti par-  lava ad Ermes illustre.   " bimbo che nella zana ti giaci, mostrami i bovi :  presto, che tosto in disdicevole modo contenderemo fra  noi. Ti piglierò ti scaglierò nel fosco Tartaro nella te-  nebra triste irreparabile ; né te la madre né il padre  alla luce potrà ritrarre ; ma' sotto terra errerai primeg-  giando fra i bimbi „.   Ed Ermete a lui scaltre parole rendeva : " Latoide,  qual mai aspro discorso parlasti ? e perché ricercando  agresti bovi qui sei venuto ? Non vidi, non so, né  d'altri intesi parole, né mostrare potrei, né vprenderne  premio, né somiglio ad un ladro di buoi, uomo pos-  sente. Non questo è da me, e prima altre cose mi piac-  ciono : il sonno a me piace, ed il latte della mia  madre, e attorno alle spalle le fasce, ed i tiepidi bagni.     (1) Vv. 235 sgg.     PEESSO gl'indiani E I GRECI 169   Nessuno potrebbe sapere donde sorse tale contesa,  che per vero gran maraviglia fra gl'immortali sarebbe  che un bimbo nato da poco varcasse la soglia fra  mezzo di bovi silvani. Oh male tu parli ! Ieri mi nacqui ;  i piedi son molli ; scabra, di sotto, la teri'a. Ma se vuoi,  su la testa del padre un grande giuramento farò : né  io — affermo — né io stesso fai causa, né vidi alcun  altro ladro dei vostri buoi — checché i bovi si sieno,  poi che per fama sol tanto ne odo „.   Cosi dunque parlò, e di frequente con le palpebre  ammiccava, inarcando le ciglia, e qua e là guar-  dando (1). Ma a lui lene ridendo l'arciero Apollo ri-  spose :   " amico, in dolo scaltro e in inganni, io preveggo  per vero che spesso per invader le ben abitate case  durante la notte, più c'uno stenderai sul suolo, senza  rumore ripulendo la casa : tale tu parli. E molti nelle  valli dei monti molesterai agresti pastori, allor che,  bramoso di carne, t'imbatta in mandre di bovi o in  pecore lanute. Ma via! l'ultimo ed estremo sonno se  non vuoi dormire, scendi dalla zana, o compagno della  nera notte. Questo per certo anche poi tra gl'immor-  tali avi'ai officio, di esser per sempre chiamato capo  dei ladri „.   Cosi disse adunque e il bimbo prendendo trasse  Apolline Febo. Allora, il forte Argicida, tra le mani  levato, tutto serio, un presagio emetteva, ardito servo  del ventre, e messaggero impronto. Dopo esso, starnuti  tosto : poi che Apollo l'udiva, da le mani sul suolo  l'illustre Ermes gittava. Gli si mise dinanzi e, pur af-  frettando il cammino, Ermes gabbava ed a lui diceva     (1) Omesso il v. 280.     170 IV. - l'abigeato di oaco   parole : * Coraggio, o fasciato, figlio di Majade e Zeus:  con questi presagi troverò pure, alla fine, i capi ga-  gliardi dei buoi : tu, per altro, m'insegnerai la strada „ .   La contesa continua un po', fin che si deci-  dono entrambi a recarsi nel cospetto del Cronio  Zeus per aver giustizia. Li Ermete giura di nuovo  solennemente il falso ; ma poco vale. Pur troppo  Zeus conosce ogni cosa e anche dell' abigeato  ben sa. Sorride, il gran Dio, e comanda ai due  Dei di cercare insieme " con animo concorde „  i buoi e ad Ermes ordina d'indicarne il rifugio.  Ubbidiscono. E la commedia finisce come le com-  medie sogliono terminare: con una buona pace.   Di essa rimangono cardini notevoli l'accor-  tezza del trascinare le mucche all'indietro per  disperderne l'orme e travolger gl'indizii ; e l'in-  sistente ammiccante spergiui'o di Ermes dinanzi  ad Apollo ed a Zeus : particolari che, pur ap-  partenendo forse ad antiche trame novellistiche,  sono tuttavia qui per il loro piglio maliziato  probabilmente a bastanza tardi.     II. — Presso i Latini.   Le fila s'intrecciano poi presso gl'Italici, e  presso i Latini in ispecie (1).   Né della trasposizione, per cui il mito vien  riportato da un fenomeno all'altro analogo ; né     (1) Cfr., di qui fino a pag. 182, § V e (in parte) § VI.     PRESSO I LATINI 171     dell'intrusione, per la quale un nuovo signifi-  cato scaccia, d'entro lo schema leggendario, l'an-  tico, e rinnova per conseguenza i particolari del  racconto : si deve tener parola a proposito della  saga romana di Caco. Altre vicende essa ha su-  bite allor quando ci appare formata in età di  storia. Non quelle. Segno certo, che rimase da  prima ben radicata nella memoria delle gene-  razioni, approfondita nel sangue della stirpe ;  che vi si cristallizzò in una foggia, la quale  non aveva più il contenuto cosciente della an-  tica, ma dell'antica tutti serbava i tratti, anche  i più minuti, e dall'antica ripetendo il suo essere  ne diveniva veneranda e intangibile. E però al-  lora che r elaborazione artistica sopravvenne  con voce più sicura e lievito più possente, non  potè distruggere per ricreare ; — dovette co-  stringersi nella materia, né sorda né asx^ra, ma  irrigidita dai secoli : sopravveniva difatto troppo  tardi. Il rispetto, per vero, di tutti i particolari,  che furono proprii della saga primordiale aria e  che si rinvengono intatti nel Rigveda, contraddi-  stingue, senza eccezione, la serie intiera delle  vicende che il racconto attraversa di poi, tanto  nei carmi dei poeti, quanto nelle storie e nelle  interpretazioni dei dotti.   La presentazione dei protagonisti. Però che  forse la differenza più notevole fra il racconto  indiano e il probabile, — d'una probabilità ot-  timamente fondata, — i^rimitivo racconto latino,  consista nei mutati nomi delle iDersone. Né è da  ammirare. Sono molteplici gli aspetti onde un  qual siasi spettacolo naturale si presenta all'oc-     172 IV. - l'abigeato di caco   chio ingenuo : e tanto più quanto meno il pensiero  scorge tra i varii il nesso unico e ha vigoria per  riportare ciascun parvente alla sola sostanza.  Ogni aspetto poi si presta a tramutarsi, da  prima, assai più che in una personale figura  di Dio, in un nome cui risponde una sbiadita  ombra divina. Spiccatisi più tardi dal comune  ceppo ario i rami diversi, l'evoluzione linguistica  da un lato trasforma quei nomi per fenomeni  fonetici appresso le differenti razze; dall'altro,  il caso lascia smarrire taluni di essi, e taluno  fa prevalere, addensando di questo il contenuto  e concretando il valore (1). Cosi l'intuizione fon-  damentale della fiamma aveva certo moltissimi  termini che le corrispondevano : ma uno ne trion-  fava là, ed un altro qui. Onde accade che un  solo mito del fuoco possa rinvenirsi in fogge  bensì quasi identiche presso gl'Indiani e i La-  tini, — ma non mai con identici nomi.   La presentazione, adunque, dei protagonisti.  Quando i Latini (e forse si potrebbe dii-e sen-  z'altro gl'Italici ; ma, se bene intorno a ciò le  loro leggende ci appajono per barlumi, in fondo  ne siamo all'oscuro, ed è quindi prudenza non  affermare alcun che) ripeterono l'antichissimo  mito indoeuropeo senza ancora averne dimen-  ticato il valore naturalistico, s'indussero ad usare  i nomi di Caco e di un non sappiamo se Garano  o Recarano. Di fronte ai quali la storia si trova  in ben diverse condizioni. Non solo il primo è     (1) Cfr. G. De Sanctis Storia dei Bomani I (Torino  1907) 88.     PRESSO I LATINI 173     ben certo, là dove il secondo non è né pur for-  malmente sicuro e varia nei due testi ove ap-  pare sol tanto ; ma quello è analizzabile con un  etimo di cui riflessi si rinvengono pure fra i  Grreci, e questo offre difficoltà molto maggiori.  Glie in Caco ritorni la radice che anche in xaio)  (" brucio, ardo „) e nel prenestino Caeculus, è  probabilissimo e consuona bene alla sua natura  ed ai suoi offìcii. Ma Garano-Recarano è restio  a tentativi cosi fatti ; ed è preferibile compren-  derlo fra gli dèi cui non è di certa analisi il  nome. Inoltre a lui toccò di esser più tardi sop-  piantato da un altro Iddio, ond'è impossibile  definire, quali sieno gli attributi suoi proprii, e  quali al personaggio sieno stati aggiunti dal  secondo attore. Unica certezza, cbe se fu pre-  scelto a significare la forza della natm-a la quale  nel Rigveda esprime Indra, da Indra non dif-  ferì forse troppo. E difatti Caco non differisce  né pure, nel tutt' insieme, molto da Vritra. In-  dubitata è la forma mostruosa ; certo è l'atto del  vomitar fuoco da le fauci e nerissimo fumo ;  congetturabile, l'orribile cervice tripartita. Un  antro immane è sua dimora, fra le tenebre cupe.  AlFintorno, egli rapisce e distrugge: né forza  gli resiste, né ostacolo lo rattiene. Il terrore lo  circonda. L'odio invano lo minaccia. Tale sua  effìgie ripugnante ed immonda però si deve  riferire ad un secondo stadio del suo evolversi  mitico , perché son tracce palesi d'una sua più  vasta comprensione. Egli dovette, ciò è, nell'i-  nizio, valere come non pur malefico si anche  fuoco benefico: e senza dubbio i due aspetti  antitetici erano potenzialmente, più che in lui,     174 IV. - l'abigeato di caco   nel suo nome. Difatti sotto sembianze piacevoli  ed amicali Cacu ritorna presso gli Etruschi in  certi specclii dipinti che ne pervennero unica  reliquia. E, sopra tutto, in Roma è attestato il  culto d'una Caca^ cui vergini avrebbero con as-  sidua cura vigilato un sacro focolare, non dissi-  milmente da Vesta. Eorse il termine non signi-  ficava da principio se non il fuoco nell'atto  dell'ardere e in quanto arde ; e solo poi le due  contrapposte concezioni della fiamma conflui-  rono in esso, e valsero a derivarne ben due  figure divine. Il terzo stadio in fine della sua  evoluzione Caco toccava quando nei posteriori  tentativi di genealogie divine divenne figlio di  Vulcano, che aveva a sua volta assunto il primo  posto fra i Numi della fiamma.   Dei due protagonisti, il furto e il duello si  svolgeva quasi certamente in modo simile al  racconto del Rigveda. Vi ritornavano il muggito  bovino rivelatore dell'inganno; le frecce e la  clava, forse ; con certezza, la distruzione violenta  della caverna e l'abbattimento del mostro tra  il fragore il fumo ed il fuoco. E tutto il mito  latino si esauriva, per quanto ci è concesso sa-  pere, dentro questi termini : senza né originalità  sua propria di particolari e di figure né sma-  glianza singolare di colorito formale.   Un primo arricchimento gli derivò dall'avere,  in proceder di tempi, localizzato con più esat-  tezza la fiaba, — topograficamente vaga nelle  origini, come quasi ogni altra. Nello spazzo  che s'apre su la riva sinistra del Tevere tra il  Palatino a oriente, a sud l'Aventino, il Campi-  doglio a nord, e dove erano nell'età storica il Foro     PEESSO I LATINI 175     Boario e il Velabro, trovò la sua fìssa sede la  saga. E fu più vicina alla terra, e più lontana  come dal cielo cosi dal suo proprio senso natura-  listico. Fra i colli romani essa divenne il racconto  di avventure terrene, il ricordo di tempi lonta-  nissimi, di cui testimoni unici restavano i monti  ed il fiume. Prese a trasformarsi in una leggenda  che la pretende a storia accampando una verità  fallace e diversa dalla sua prima, ben j)ìu ef-  fettiva. Un particolare locale s'insinua : la ca-  verna di Caco è pensata nel monte Aventino. E,  assai più di quanto possiamo scorgere nelle te-  stimonianze, i luoghi ove poi saranno le scalae  Caci e Vatrium Caci danno contributo di pic-  coli nuovi tocchi precisanti alla fiaba. La quale  si forma pertanto colà in uno stadio, che è il  suo primo fra i Latini, e di cui il colle Aven-  tino e i due numi Caco e Garano-Recarano co-  stituiscono i iDerni.   Acquistare una sede significa però per un mito,  non pure raggiungere una consistenza e saldezza  maggiori, bensi allargarsi via via per attinenze  nuove, suggerite dai luoghi ove altri miti son  radicati. E un contagio cui il suolo serve di  conduttore: e che qui fu invero non presto, ma  fu per compenso profondo. Quando il dio greco  Eracle penetrasse nel patrimonio leggendario  latino e sotto la veste di Ercole venisse defini-  tivamente adottato è e sarà del tutto incerto (1).  Senza dubbio poi alquanto tempo dovette tras-  correre innanzi ch'egli potesse fondersi con gli     (1) Cfr. De Sanctis St. d. R. I 193.     176 IV, - l'abigeato di caco   dèi latini a lui simiglianti o per qual si voglia  modo contigui : prima, dovette divenire familiare,  ottenere culto e insediarsi sugli altari, esser co-  nosciuto anche nei suoi minori attributi, assi-  milarsi infine air ambiente. Non presto dunque  dall' " Ara massima „ ove nel Foro Boario gli  si faceva sacrifizio, presso al Palatino, soprav-  venne ad assorbire in sé ed annientare la figura  di Grarano-Recarano. La quale difatti non cade  in cosi profondo oblio clie non se ne serbino  tracce fra gli eruditi dell'età imperiale. Ma come  l'ebbe assorbita. Ercole prevalse onninamente.  Il dio solare poco noto che era di fronte al dio  solare notissimo, impresso di grecità? A en-  trambi, — sembra, — competevano e le frecce  e la clava: simboli dei raggi della Stella. E le  lotte erculee avverso l'Ade o avverso Neleo non  erano se non se i riscontri analoghi del duello  fra Grarano-Recarano e Caco. Ma là dove l'uno  apparteneva a una religione poco evoluta qual  la latina, l'altre recavano con sé grande matu-  rità religiosa. Una poi di cotesto imprese di  Eracle, la fatica con cui uccise il ^' ruggente „  Gerione e gli tolse la stux)enda mandra, offriva  il pretesto per rinsaldare quel nesso fra Ercole  e Caco, che circostanze di luogo e simiglianza  di forma e contenuto tanto favorivano. Fra Eritia  nell'occidente spagnolo, ove quella fatica avrebbe  avuto luogo, e la Grecia, cui doveva ritornare  l'eroe, l' Italia era ponte, e nell' Italia Roma.  Della positura geografica approfittarono molti  facitori di saghe per le loro combinazioni (1);     (1) Per es. Stesicoeo nella sua Gerioneide: cfr. U. Man-     PBESSO I LATINI 177     per nessuna forse cosi felicemente come per la  latina di Caco. Giacché la vittoria conseguita in  Eritia sul Ruggente giustificava, oltre che la  presenza di Ercole su l'Aventino, il possesso  della mandra che Caco rapisce.   In progressione, quanto più Ercole prevaleva  su Recarano-Grarano, tanto più s'allargò la leg-  genda. Vi si aggiunsero i particolari sul culto  romano dell'eroe nel Foro Boario, e se ne fece  tutto un paragrafo nuovo del racconto, contrad-  distinto per profondi caratteri dal resto. Non più  il mito della natura; ma l'impasto non sempre  coerente di etiologie, con le quali si tenta di  spiegare l'uno o l'altro aspetto del rituale, un  costume, un gesto, projettando il tutto, senza  prospettiva di tempo, sopra uno schermo unico.  Del paragrafo che cosi accresce la leggenda,  uno strato appare, se l'ipotesi non erra, di unica  origine; rispetto a cui sussistono inserzioni più  tarde.   Addette al culto di Ercole nell'Ara Massima  erano in età storica, prima che il servizio vi  fosse assunto da pubblici ufficiali (anno 312 a. C),  le famiglie dei Potizii e dei Pinarii ; se non che  a questi ultimi sembra che non spettasse come  a quei primi di partecipare al banchetto in cui  dopo il sacrifizio si consumavano i resti delle  vittime. Era inoltre uso di offrire al Nume la  decima, per consueto, d'un proprio guadagno o     CUBO La Urica classica greca in Sicilia e nella Magna  Grecia I (Pisa 1912) (" Annali della R. Scuola Normale  Sup. di Pisa , XXIV) pag. 216.   A. Ferrabino, Kalypso. 12     178 IV. - l'abigeato di caco   d'un bottino conseguito in guerra : e l'offerta era  lecita cosi a generali come a privati cittadini.  Il primo fra questi fatti e forse anche il secondo  costituiscono la trama originaria della leggenda  etiologica. Per essa Ercole avrebbe instituito,  subito dopo la sua vittoria su Caco, un altare,  l'Ara Massima, e vi avrebbe sacrificato la decima  del bottino strappato al mostro: sacrifizio cui  sarebber stati partecipi membri dei Potizii e dei  Pinarii, con zelo e per tempo quelli, con ritardo  questi onde non poteron partecipare al ban-  chetto delle viscere. Ercole decretò allora che  tale nei secoli restasse il costume fra le due  famiglie.   Se non che dal culto erculeo dell'Ara le donne  erano escluse. Anche qui occorrendo un motivo,  non si pensò che in Roma Ercole è anche dio  della generazione maschile ; ma si disse che le  donne avevano offeso il Nume, in qualche ma-  niera, durante quel primo sacrifizio. L'etiologia  dev'essere a bastanza tarda, e discorda nei testi  ov'è riferita. Per gli uni Carmenta (e la Porta  Carmentalis che ne ha il nome è prossima al  Foro Boario) avrebbe respinto l'invito di assi-  stere l'eroe presso l'ara ; o vi sarebbe pervenuta  in ritardo : ancor più che i Pinarii ! Per una reda-  zione forse più antica in vece, donne rinchiuse  presso il Velabro pel culto della Bona Dea avreb-  bero, per mezzo della loro sacerdotessa, rifiutato  al Dio sitibondo di concedergli un po' d'acqua,  per non lasciar violare il sacrario da un uomo :  — onde la vendetta di lui. E anche recente è,  sembra, il nesso che si strinse fra Ercole e un'ara,  esistente vicino alla Porta Trigemina non lungi     PRESSO I LATINI 179     al Foro Boario, dedicata Jovi inventori. Certo  è secondario, e per ciò non da tutti accolto, il  particolare che essa fosse eretta da Ercole per  ringraziare, col sacrifizio di un giovenco, il  suo padre Giove.   Ora, se tutti cotesti accrescimenti leggendarii,  i quali si commettono con la figura di Ercole  ed il culto di lui nell'Ara Massima, rappresen-  tano, pur tenendo conto di talune interpola-  zioni più tarde, nel complesso un secondo stadio  del racconto; un terzo venne di poi a sovrap-  porsi. Entrò nel mito la figura di Evandro. Le  cause furono, come per Ercole, due. L'una è  identica per entrambi : la contiguità delle sedi ;  poiché di Evandro era un altare presso la Porta  Trigemina non lungi all'Aventino e al Foro  Boario. L'altra è analoga, non uguale. Come per  Ercole era valsa la simiglianza di lui con Ga-  rano-Recarano, cosi per Evandro influì la forma  del suo nome. La mente non matura che cerca  di motivarsi le tradizioni, quasi sem^^re ritiene  d'aver tutto spiegato allor che ha supposto l'e-  timo d'un termine. Caco ad esempio venne, —  e forse da eruditi greci, — accostato per omo-  fonia all'aggettivo xaTtó^ ^' cattivo ^ ; il quale  parve del resto convenir bene al mostruoso la-  drone. D'altra parte Euander che volto in greco  divenne EdavÓQog, fu inteso " buon uomo „. Indi  fu facile il riscontro tra il " malvagio ,, del-  l'Aventino e il •' buon uomo „ della Porta Tri-  gemina.   Evandro era, — in una leggenda che qui non     180 IV. - l'abigeato di caco   accade di analizzare (1), — un signore di Arcadi  dalla Grecia venuti a insediarsi sul Palatino,  accanto agli Aborigeni retti da Fauno. La sua  persona pareva dunque acconcia a esser legata  per più attinenze con quella di Ercole e Caco;  e se il racconto lo avesse accolto in età pili  antica senza dubbio troveremmo una volgata  concorde intorno a ciò. L'accoglimento in vece  fu tardo, e la volgata non esiste. Esistono rac-  conti cbe oscillano, dalla forma in cui egli è  ostile ad Ercole, alla forma in cui egli ospita  Feroe e gli rende culto. Ma evidentemente la  natura stessa dei suoi ra^Dporti etimologici con  Caco rende certo ch'egli dovette in prevalenza  figurar contro di questo e a favore del greco  figlio di Zeus.   In questo medesimo terzo stadio venne a  confluire, confondendovisi, e innestandosi con  Evandro, un'altra tarda invenzione. Quella Car-  menta, di cui era un anticbissimo sacrario presso  la Porta Carmentalis e che già vedevamo usu-  fruita per una etiologia del racconto, fu in altra  guisa sfruttata per accrescere di solennità la  venuta di Ercole in Roma e immetterla nelle tra-  dizioni più propriamente indigene. Ella avrebbe,  cioè, predetto in un suo vaticinio l'avvento del-  l'eroe e la futura divinità di lui. Il fato cosi  rendeva veneranda la gesta; e la favoletta ser-  viva assai bene a vantare per antichissimo fra  tutti il culto romano di Ercole. Tarda trovata,  che si foggia tal volta coi nomi, in vece che di     (1) L'analisi v. in De Sanctis St. d. R. I 192.     PKESSO I LATINI 181     Carmenta, di Nicostrata, di Temide o, presso  Greci, con quel dell'oracolo Delfico. Tarda, che  si trovò la maniera di unire all'altra di Evandro»  questo facendo figlio o amico della profetessa, e  col ricordo del vaticinio giustificando l'acco-  glienza di lui al Tirinzio.   Basti di coteste invenzioni, cosi povere e re-  centi che anche presso i poeti mal si collegano  col restante racconto. E impossibile dire chi per  primo abbia in un testo scritto accolto il nucleo  leggendario più antico, dai successivi stadi!  delFetà volgenti deformato in parte, in parte  svolto e compiuto ; chi abbia, bene o male com-  posto un organismo di quel che era opera, non  del tutto compaginata, d' una lenta e libera  evoluzione traverso slanci fantastici ed erudi-  zieni grame. Sol tanto si può congetturare che  Ennio commettesse nel suo poema la materia  come del primo (Caco), cosi anche del secondo  stadio (Ercole), al meno nella sua più vetusta  parte. E di poi un annalista del II sec. a. C. desse  adito al terzo stadio (Evandro) ed alle sue pro-  paggini.   La quale ipotesi potrebbe sussistere parallela-  mente ad un' altra che giustifica assai bene ta-  luni aspetti del mito di Caco ax)presso gli scrit-  tori dell'età augustea. E probabile difatti, la  fiaba greca di , Ermes ed Apollo, che l' Inno  omerico divulgava in degna veste d'arte e con  autorevole efficacia, non rimanesse senza influsso  su quel mito il quale tra i Latini riproduce, con  fedeltà maggiore, lo stesso unico spunto alle-  gorico indoeuropeo. E se l'abigeato del figlio di     182 IV. - l'abigeato di caco   Maja fu nella mente di talun culto scrittore, —  come Ennio, — non privo di analogie con l'a-  bigeato di Caco, da quello questo ebbe forse a  ripetere qualche particolare attinente più tosto  all'astuzia che alla forza. Tale lo scaltro accor-  gimento del condurre per la coda all'indietro i  buoi fino all'antro per disperderne le tracce ;  tale anche lo spergiuro del ladro che nega il  furto : — questi difatti ritrovammo nella G-recia  tratti essenziali della saga rielaborata.   Certamente però, quanto al di là di coteste  innovazioni e giunte s'è conservato intatto il  primo profilo del mito, cosi che i particolari  posteriori si sono aggregati ma non sostituiti  ai precedenti ; tanto se ne son venute alterando  la luce e la prospettiva e se n'è obliterata la  coscienza. Chi ricorda più se la rapina e la  vendetta narrino del temporale che il Sole vince  o del fuoco malefico e tenebroso cui la luce è  nemica ? Ora, il fenomeno naturale è lontano :  la terra il cielo il fiume ^ sono intorno alla leg-  genda, non dentro ; la colorano, non la costi-  tuiscono. Ora, essa è duplice nella sua parvenza.  Narrata con un certo abbandono della fantasia,  con una cura precisa di non omettere le più  vivide tinte, è una fiaba, da ripetersi perché  gradita, da ripetersi con arte per non guastarla,  da apprezzarsi come l'eco di due cose venerande :  il tempo e la bellezza. E i poeti la toccheranno  con il loro tocco più lieve e più esperto. Tra-  mandata in vece con un ritegno sobrio che la  contenga dentro i margini dell'umano e dell'e-  roico, riman sospesa ambigua tra la realtà e il  sogno, che la fiaba muore e non è storia ancora;     I POETI 183   riempirebbe la lacuna dei tempi bui, ma non  elimina ogni dubbio e non genera certezza di co-  noscenza. E gli storici dotati di senso d'arte la  riprodurranno guardinghi e pur non spiacenti.  Una fiaba, — dunque, — presso e il poeta e lo  storico. Ma una, cui quello è pago di ammirare,  questo è desideroso di credere. Noi non posse-  diamo però né i versi degli artisti più antichi  né le prose dei più antichi annalisti che in  Roma accolsero il mito : solo li conosciamo ri-  prodotti e compiuti nell'opere mature dell'età di  Augusto.     ni. — I Poeti.   Quando, dopo Ennio, l'arte incastonò nel verso  il fulgore della fiaba, già la tecnica aveva po-  lito r esametro e , temprandolo per la forza»  l'aveva reso agile per la grazia delle movenze.  La parola regnava : scelta, limata, contesta, vi-  geva nel tono quanto nel significato; aveva un  senso nel pensiero, e un ritmo nella frase. Espri-  meva, e aggiungeva. E il mito visse nella pa-  rola, che gli divenne fine più che mezzo. Valse  in quella come la congiuntura nella vita: per  gli effetti che produceva, scelto a pretesto o a  tema di un carme; per i distici che l'infrena-  vano e gli esametri in cui adagiavasi; per gli  aggettivi che esigeva e i sostantivi ove si distil-  lava. Ond' è che raro il poeta innovò, sempre  quasi si attenne alla tradizione. L'arte era nel-     184 IV. - l'abigeato di caco   l'adattamento, che non fosse trito, della ribelle  massa linguistica allo schema rigido e inviola-  bile : mentre la licenza facilitava l'opera, il me-  rito splendeva nel difficile. Il gesto della mano  che elegge e soppesa la parola, simboleggia,  riguardo a Caco, l'opera e di Properzio e di  Vergilio e di Ovidio: emblema cui sol tanto  non si attennero là dove altro procedere esigesse  il general tema dell'opera loro, — il quarto  libro delle Elegie^ l'ottavo déìTEneide^ il primo  dei Fasti (1).   Properzio occupa rispetto agli altri due un  posto singolare. La sua dipendenza da Vergilio,  difficile cronologicamente a dimostrarsi, è anche  artisticamente improbabile, cosi che gli sembra  più tosto parallelo. In tal caso, sia che egli at-  tingesse a un modello diverso, sia che con  Ennio non contaminasse altre fonti, sia che in-  fine si ritenesse lecita una libertà maggiore, —  il suo racconto non comprende Evandro, il terzo  stadio della leggenda, ma, solo i due primi. Caco  ed Ercole : per noi è quindi, qual che ne sia la  causa, un esempio della forma che avrebbe po-  tuto assumere la fiaba senza il mito etimologico  sul " cattivo „ ladro.   Pel resto, il racconto è in tutto personale. I  vero tema dell'elegia è Ercole Anfitrioniade, in  qualità di Dio venerato nel Foro Boario con  rito greco e senso romano. La sua sola figura  campeggia in due quadri, che uniscono egli e il     (1) Gir § III.     135     momento del tempo e la postura della scena.  Nel primo combatte Caco in una lotta breve-  mente descritta, la quale sembra importare al  poeta più nel suo insieme cbe nei particolari.  Nel secondo invoca dalle donne, raccolte nel mi-  stico culto della Bona Dea, l'acqua che gli ne-  gano e ne trae vendetta. Sono dunque le due  sole avversioni che Teroe abbia trovate innanzi  a sé sul suolo dell'Urbe, superate entrambe con  un moto di violenza, concretate entrambe in  prescrizione di rito. Una caverna dell'Aventino,  e il riposto limitare sacro d'un bosco presso il  Velabro, si fanno riscontro; le tre teste di Caco,  e le chiome bianche d'una sacerdotessa. E l'an-  tichissimo mito della natura si dispone allo  stesso piano e nella medesima luce del recente  mito etiologico. L'arte, serbata la bellezza di  quello, ha creato la bellezza di questo ; svolgen-  done una fantasiosa scena cui rende grata e  fresca il murmure d'un fonte.   Quando (1) l'Anfitriomade da le tue stalle, o Eritia,  aveva stornato i giovenchi, vincitor venne agli alti pe-  corosi palatini monti, ed i bovi stanchi stanco egli  stesso posò, là dove il Velàbro con la sua propria cor-  rente stagnava, dove su le urbane acque apriva le vele  il nocchiero. Ma su la terra dell'infido Caco salvi non  furono : quegli di furto Giove macchiava. Indigeno  Caco si era, ladrone da l'antro pauroso, che suoni  emetteva per tre bocche divisi. Egh, perchè non fos-     (1) Properzio Elegie IV 9; edizione J. S. Phillimore^  (Oxford s. a. [1907]).     186 IV. - l'abigeato di caco   sere indizi! certi di palese rapina, per la coda al-  l'indietro trasse nell'antro i buoi ; ma non sfuggiva  al Dio : i giovenchi muggirono il ladro, del ladro le  tane spietate l'ira abbatté. Dalla Menalia clava le tre  tempie percosso, giacque Caco, ed Alcide si parla :  " bovi andate, o d'Ercole bovi andate, fatica estrema  della clava nostra, due volte da me ricercati, due volte  mia preda, o buoi, ed i campi Boarii con lungo mug-  gito sacrate : il pascolo vostro sarà nobile Foro di  Eoma „.   Avea detto, e per la sete ond'è secco il palato il volto  è contratto ma nessun'acqua gli procacciava umida la  terra. Il riso ode lungi di rinchiuse fanciulle. In om-  brosa cerchia gli alberi un bosco avevan formato, clau-  sura di feminea dea, con venerandi fonti e sacelli, a  maschio nessuno impunemente aperti. Le riposte soglie  purpuree bende velavano; nella vecchia dimora odoroso  fuoco splendeva ; il tempio adornava con lunghe fronde  un pioppo e cantanti uccelli densa ombra copriva.   Quivi egli corre, con ammucchiata la polvere su  l'arida barba, e parole non degne d'un Dio gitta di-  nanzi all'ingresso : " voij che nel sacro recesso del  bosco giocate, aprite, vi prego, allo stanco eroe ospi-  tale il santuario ! Erro una fonte cercando, e qui in-  torno è sonoro di acque ; del ruscello mi basta quanto  nel concavo palmo si accoglie. Udiste di alcuno che  il mondo con le spalle sostenne ? Quegli son io : Al-  cide la sostenuta terra mi chiama. Chi dell'Erculea  clava le forti imjirese non ode ? e contro le immense  fiere le non mai vane frecce ? e che ad un uomo solo  si diradar le tenebre di Stige? (1). E s'anche celebraste     (1) Omesso il v. [42J.     I POETI 187   sacrifizio all'avversa Giunone ? le sue acque non mi  avrebbe negate la stessa matrigna. Ma se qualcuno il  mio volto e del leone il vello e le chiome riarse dal  libico Sole spaventano, io pure, in veste Sidonia, compii  offici di schiava, e cotidiani pennecchi con Lida co-  nocchia ; ed anche a me cinse una fascia morbida l'ir-  suto petto e fui con le dure mani garbata fanciulla ,.   Con tali detti Alcide ; ma con tali l'alma sacerdo-  tessa, da purpureo nastro ricinta le chiome bianche :  * Non riguardar, o straniero, e lascia l'inviolabil bosco;  ritirati or su, abbandona, sicuro fuggendo, la soglia. Per  temibile legge interdetta ai maschi, si venera un'ara  che del rimoto sacello si fa riparo. Con gran danno  scorse il vate Tiresia Pallade mentre, la Gorgone de-  posta, le forti membra lavava! Altre fonti gli Dei ti  donino : quest'acqua scorre per le fanciulle solo, ap-  partata dentro limitare secreto „.   Cosi la vecchia : quegli con le spalle scuote gli opachi  battenti : né l'uscio chiuso all'adirata sete resiste. Ma  poi che col ruscello bevuto aveva placato l'ardore, un  triste giuro con le a pena rasciutte labbra pronuncia.  " Quest'angolo del mondo ora me con i miei fati ac-  coglie : questa terra a me stanco s'apre con pena. La  massima ara „ egli dice " che dai ritrovati greggi è  consacrata, l'ara da queste mani Massima fatta, questa  nessuna donna mai veneri, perché senza vendetta non  resti la sete d'Ercole escluso „.   Padre santo salve! di cui si compiace oramai  l'avversa Giunone ; o santo vogliti rivolgere benigno al  libro mio.   Cosi il breve carme assempra il magistero  delle pause musicali, cui si affida più espressione  tal volta che al contesto delle note : giacché     188 IV. - l'abigeato di caco   quando il mito vive di forza verbale, la pausa  lo costituisce non meno della parola. Dal com-  plesso della leggenda volgata e nota, che rin-  chiude abbozzato nella mente di tutti il lavoro  dell'arte, il poeta crea con pochi tocchi i rilievi  e le luci, — le ombre e gli sfondi lascia alla me-  moria comune ; e nel silenzio di lui vibra il ri-  cordo di tutti. Noi non sappiamo oggi a pieno  ciò che tale ricordo potesse supplire; ma in  parte l'abbiamo supposto, in parte ci verrà  mostrato da Vergilio ed Ovidio. Intendiamo per  tanto quest'arte. E insieme ne scorgiamo il ca-  rattere profondo: è eulta. Il mito, nella sua  squisitezza formale, è dottrina; e il compiaci-  mento del poeta è di una garbata esumazione  dinanzi a lettori cui la raffinatezza ha svigorito  la forza delle sensazioni. Non il senso religiosa  non l'idea nazionale anima quei distici, se bene  dell'uno e dell'altra vi sieno echi. Li regola un  senso fine dello stile e un gusto aristocratico  dell'accenno sapiente, della misurata allusione  mitologica.   Nei limiti dell'arte, che non può esser mai  volgare, assai meno aristocratica, ma in com-  penso atta a una più vasta cerchia di lettori, è  la narrazione di Vergilio: perché l'informano  quei caldi sensi trascendenti, i quali sono Tamor  patrio e la santità della fede. Dentro la cornice  del poema, che esalta la nazione nei suoi prin-  cipi! primi, ed è percorso tutto dal rispetto alla  leggenda, come a quella onde scaturisce l'or-  goglio del nome romano e si giustifica la glo-  riosa istoria dei tempi più vicini; accanto alla     I POETI 189   figura del pio eroe Enea, che opera per volere  di Griove e abbassa la fronte sotto l'afflato de-  gl'incombenti Numi : il mito, cbe narra Tinsti-  tuzione del culto erculeo, e celebra età anteriori  alla venuta dei Trojani nel Lazio, non può non  essere circonfuso d'una luce due volte sacra, e  ascoltato in atteggiamento inchinevole. Il libro  ottavo dell'Eneide si equilibra su i due suoi  estremi: comincia con le lotte cruente di Enea  contro Turno; finisce con l'inno alle mirabili  vittorie romane e alla battaglia d'Azio, signi-  ficate da Vulcano su lo scudo dell'eroe. Dalle  prime alle estreme gesta, balza il pensiero senza  intervallo in un constante sentimento ; e, nella  compagine salda degli esametri, appajono le  divinità di tre Dei, Venere Ercole e Vulcano.  La leggenda si affonda nella realtà ; la religione  le penetra entrambe ; e il canto muove dalle ra-  dici profonde dei profondi sentimenti del popolo  che diede la fantasia alle fiabe, i soldati forti  alle imprese, al culto i divoti.   Per ciò, e il mito di Caco vien esposto (1) du-  rante un sacrifizio ad Ercole, e spazia abbon-  dante di particolari. Qui è detto quel che Pro-  perzio accenna. Qui Ennio non si lùchiama, ma  si sostituisce. E la primordiale figura della saga,  — Caco, — non è svolta meno della seconda, —  Ercole, — né della terza, — Evandro : — però che  rappresentino, in ordine, la divinità mostruosa  e la divinità bella e un antichissimo assetto poli-  tico presso il colle Palatino. E tutt'e tre sono     (1) Vv. 154-279 ; edizione R. Sabbadini' (Torino 1908).     190 IV. - l'abigeato di caco   cosi collegate che Evandro, il quale dà il segno  dell'epoca, è il narratore, e nel racconto di lui  le due forze divine si combattono. Il combatti-  mento assume, difatti, la parte più notevole  perché il canto intiero suona d'armi e perché  nella lotta si rivelano a pieno tutti gli aspetti  dei due awersarii. Quindi, per l'esigenze del  tema generale, il mito adombra quei particolari  di astuzia che supponemmo dedotti dalla Grecia,  e lumeggia bene ogni forma di violenza; ricon-  ducendoci per obliqua via alla sua probabile  foggia originaria : — breve in ispecie l'accenno  allo spergiuro del ladro, che più si accosta al  furbo diniego di Ermes.   Ma allora, quasi insensibilmente, il gravitar  dell'importanza su questo duello ne accresce le  conseguenze e, insieme col pretenzioso sfondo  storico, le spinge al di là dell'origine di un culto.  Poiché il poeta vuol credere alla leggenda, e la  pareggia alla storia, in Caco con la belva muore  la vita selvaggia, e dalla sua fine principia non  sol tanto il rito d'Ercole, con i Potizii e i Pi-  narii, ma la quiete per gli abitanti del Palatino.  E il suo cadavere trascinato per i piedi empie  d'un'avida curiosità le menti e non basta ad  appagare i cuori, atterriti dal lor terrore morto;  e i fuochi spenti su le fauci somigliano un  simbolo. Le lotte saran poi di guerrieri con  guerrieri. E su l'Aventino, ove Enea contempla  ancora le tracce del passato, i contemporanei  d'Augusto scorgono marmoree dimore.   Parla Evandro ad Enea (1):     (1) Vv. 190 sgg,     I POETI 191   Guarda da prima questo masso tra le rupi sospeso:  e come lungi son sparsi i macigni, e deserta è la di-  mora nel monte, e rovinarono le pietre in frana. Qui  fu la spelonca, remota     in suo immenso recesso, che il  semiumano Caco di feroce aspetto abitava non tócca  dai raggi del sole ; e sempre di strage recente era  calda la terra ed affissi su la soglia violenta pende-  vano volti foschi di lurida tabe. A un tal mostro Vul-  cano era padre, del quale atri fuochi dalla bocca re-  cendo trascinava la sua vasta mole. A noi bramanti  il tempo alla fine recava soccorso, e l'avvento del Dio.   Infatti vendicator supremo Alcide giunse, di Gerìone  ucciso e deUe spoglie superbo, e i tori ingenti qui  vittorioso guidava, e la valle ed il fiume occupavano  i buoi. Ma l'efferata mente bramosa di Caco — a ciò  che nullo delitto ed inganno inosato o intentato re-  stasse — dal pascolo quattro di mirabile corpo tori  distorna e altr'e tante di magnifiche forme giovenche.  Poi, perchè nessun'orma diretta vi sia, per la coda li  trascina nell'antro, del cammino capovolgendo gl'indizii,  e li occulta nell'opaca caverna.   Traccia nessuna guidava chi cercasse allo speco.  Fra tanto, quando già dal pascolo il gregge pasciuto  moveva l'Anfitrionìade, e procacciava il partire, nella  partenza mugghiano i buoi e tutta di lamenti riempion  la selva e con clamore abbandonano i colli. Alle voci  una delle giovenche rispose per l'enorme antro mug-  ghiando, onde deluse le speranze di Caco la prigioniera.   Allor per la rabbia il dolore d'Alcide d'atra bile  riarse : con la mano afferra l'armi e la quercia gra-  vata di nocchi, e a corsa raggiunge l'erta dell'aereo  monte. Per la prima volta videro i nostri occhi Caco  pauroso e turbato. Fugge senz'altro più veloce del-  l'Euro, l'antro raggiunge : ai piedi il timore presta le     192 IV. - l'abigeato di caco   ali. A pena vi s'era rinchiuso, ed un immane macigno,  che per ferro e per l'arte patema stava sospeso, avea  fatto cadere le catene spezzando, e di quello munito  le porte rinchiuse : ed ecco furente nel cuore incal-  zava il Tirinzio, e ogni accesso indagava, ratto qua  e là movendo, e digrignando i denti. Tre volte, d'ira  fremente, tutto perlustra il monte Aventino : tre volte  le pietrose soglie in vano tenta : tre volte, stanco, nella  valle riposa.   Vera, tra i diruti intorno macigni, acuminata una  roccia, a la caverna sorgente sul dorso, altissima allo  sguardo, sede opportuna a nidi d'inauspicati uccelli.  Questa che, prona, dal giogo a sinistra incombeva sul  fiume, verso destra all'incontro spingendo scrollava; da  le profonde radici la strappa e la svelle ; indi d'un sù-  bito la scaglia con impeto onde risuona l'etra gran-  dissimo, sussultano le rive, e si ritira spaventato il  fiume. E lo speco, e di Caco la reggia immane appar  scoperta, e l'ombrosa caverna si mostrò nel profondo,  non diversa che se nel profondo spalancandosi per  forza secreta la terra aprisse le inferne sedi e di-  schiudesse gl'invisi agli Dei pallidi regni, e dall'alto  l'immenso bàratro si scorgesse, e pel penetrato lucore  tremassero i Mani.   Lui, colto improvviso da la inattesa luce e nella cava  rupe rinchiuso e per insolito modo ruggente, di sopra  Alcide opprime di dardi, e si vale di tutte le armi, e  con rami l'incalza e con enormi macigni. Quegli allora  (non sopravanza difatti al pericolo scampo nessuno)  da le fauci — mirabile a dirsi — moltissimo fumo  vomita, ed avvolge la casa in caligine cieca, agli occhi  togliendo il vedere, e nell'antro una fumosa notte  aduna, tenebre miste con fuoco. Non sopporta Alcide  'nel cuore, e con precipite salto si scaglia nel fuoco,     I POETI 193   là dove più fitto il fumo volge sua spira e nel  grande speco fluttua atra la nebbia. Qui nelle tenebre  afferra in stretto nodo Caco, che vani incendii rece,  compresso schiacciato gli esorbitan occhi e la gola si  ingorga di sangue.   Si spalanca tosto, abbattute le porte, la nera casa :  i buoi rubati, la spergiurata rapina, riappajono al  cielo, e il deforme cadavere è trascinato pei piedi.  Non possono placarsi i cuori mirando gli occhi tre-  mendi, il volto, ed il petto della mezza fiera, villoso  di séte, e su le fauci i fuochi spenti.   Da allora gli si celebra onore, e i posteri lieti ricor-  darono il giorno ; e primo Potizio institutore ne fu con  la schiatta Pinaria, custode del sacrifizio erculeo. Que-  st'ara Ercole eresse nel bosco, che massima sempre  verrà detta da noi, e massima sempre sarà.   A Vergilio sembrerebbe di poter fare seguire  senz'altro Ovidio ; che lo imita su questo punto  assai strettamente e ne finge anche il senso  religioso e patrio, non inoioportuni né l'uno né  l'altro in quei Fasti ove si rassegnano le feste  sacre e nazionali di Roma (1). In realtà sotto una  superficiale simiglianza si cela ben profonda  differenza. La vita artistica del mito, pregnante  in Properzio, rigogliosa in Vergilio, vi agonizza.  Ce ne accorgiamo prima dalla parola; che s'è  esaurita, che non osa violare il modello i^er  rinnovarne le linee e si sforza imj)otente di  mutarne i suoni. Cosi che si perde nel vanto  piccolo d'un nuovo vocabolo coniato, allor che     (1) I 461-586; edizione H. Petee* (Lipsia 1907).  A. Ferrabino, Kalypso. IS     194 IV. - l'abigeato di caco   " claviger „ è detto con falsa audacia Ercole ;  si sminuisce nel gioco artificioso d'una frase,  quando è eletta a costituire un verso cosi (1) :   Dira viro facies, vires prò corpore, corpus  Grande ;   sorride bolsa nel bisticcio etimologico (2) " Cacus   non leve malum „. Non è più la finezza pro-   perziana e la ricca concisione : è il lezio ricer-  cato a far un poco attonito chi legga.   Ciò spiega poi anche la freddezza riposta di  tutto il racconto. Di esso l'occasione son le Car-  mentalia dell'll gennaio, e il legame che alla  cerimonia sacra lo congiunge è rappresentato  dal nesso ' Carmenta-Evandro-Ercole-Caco '. Car-  menta difatti, e perché madre di Evandro, e  perché profetessa del culto erculeo, giustifica  tutta la seconda parte del carme ovidiano. Ma  il legame è sottile. Carmenta, numen pì-aesens  della poesia, ne è lontana dal verso 541 al 582 ;  e la sua lontananza nell'essenza e nella forma  (e nell'essenza persiste forse anche quando cessa  nella forma) sottrae parte della forza reKgiosa  al mito: il quale tutta l'avrebbe avuta, se rac-  contato a proposito der sacrifìcio ad Ercole nel  12 agosto.   E parte similmente della sua forza patria la  fiaba smarrisce (inconscio il poeta) per il co-  lore eh' è dato alla figura di Evandro. Questi  non è più, come in Vergilio, il re che, ormai  latinizzato, ajuta Enea, e appare nell'atto di ce-     li) V. 553. (2) V. 551-2.     195     lebrar un sacro rito romano : è lo straniero, l'Ar-  cade, giunto da poco, nuovo alla terra, foru-  scito dalla sua patria, il quale lia bisogno ad  apprezzar il Lazio dell'incitamento e dello sprone  materno. Indi, senza dubbio, la luce, per coerenza  al tema, si addensa su la figura di Carmenta;  ma il figlio di lei se ne menoma. E menomato,  stronca il vigore nazionale del mito. Non solo :  che ^ stabant nova tecta „ quando Ercole giunse,  straniero egli pure. Unico indigeno, Caco: ossia  proprio il personaggio odioso del racconto ; Caco  " terrore ed infamia della selva aventina „. Cosi  una inezia apparente ha tramutato la situa-  zione. Ma l'inezia non sarebbe sfuggita all'ar-  tista se il suo sentimento patrio fosse stato, nei  riguardi di questo mito, reale ed efficace. In  vece egli imitò Vergilio nella superfìcie; e al-  l'artifizio di tale imitazione sospese il suo rac-  conto.   Pur nella facile vena del verso, nella sonorità  scorrevole, nella fantasia corriva, l'artifizio s'e-  leva ad arte (1).   Ecco i bovi d'Eritia conduce colà il clavigero eroe  che del lungo orbe ha misurato il percorso. Mentre lui  ospita la casa d'Evandro, incustoditi vagano pei campi  feraci i bovi. Il mattino sorgeva, e desto dal sonno il  Tirinzio pastore dal novero avverte mancare due tori.  Del tacito furto non vede, cercando, vestigia; le bestie  airindietro aveva tratte Caco nell'antro ; Caco, terrore  ed infamia della selva aventina, danno non lieve a     (1) Vv. 543 sgg.     196 IV. - l'abigeato di caco   stranieri e a vicini. Spietato è del forte l'aspetto, le forze  rispondono al corpo, il corpo ha grande. Del mostro,  Mulcìbero è padre : per casa, ingente di lunghi recessi  ha una spelonca nascosta, che mal troverebbero fino le  belve. Teste all'ingresso e braccia pendono infisse: la  terra squallida d'umane ossa biancheggia. Con la mal  serbata parte dei buoi, o nato da Giove, ne andavi :  diedero un mugghio i nibati con rauco suono. " Ac-  colgo il richiamo „ dice e, seguendo la voce, vincitor  per la selva all'empio antro perviene. L'adito quegli con  un masso strappato dal monte aveva munito, che  cinque a stento e cinque avrebbero smosso pariglie.  Delle spalle questi si serve — anche il cielo v'aveva  posato — e il peso immane smuove crollando. L'ab-  batte, e il fragore lo stesso etra spaventa ; da la pe-  sante mole percossa cede la terra. Da prima, venuti  alle mani, Caco combatte, e feroce con travi e con sassi  sostien la difesa. Ma poscia che non n'ha vantaggio,  ricorre, mal forte, alle arti del padre, e fiamme vo-  mita da la sonora bocca. Le quali sempre che esala,  crederesti che respiri Tifeo e che dal fuoco dell'Etna  ratto baleno si scagli. Alcide, incalza, e la vibrata tri-  nocchiuta mazza dell'avversario il capo tre quattro  volte percuote. Egli cade, e misto col sangue vomita  il fumo, e batte morendo col vasto petto la terra.   Un toro fra quelli, o Giove, t'immola il vincitore, e  chiama Evandro con gli agricoltoii. A sé costituiva  quell'ara che Massima è detta : qui, dove una parte  dell'Urbe ha il nome dal bue. Né tace la madre di  Evandro, che prossimo è il tempo, in cui la terra  abbia a bastanza goduto l'Ercole suo.     GLI STORICI 197     IV. - Gli Storici.   Il gesto più significante clie insieme compiano  Livio e Dionisio (i due storici dell'età di Augusto,  i quali riferirono la leggenda di Caco) è la di-  chiarazione con cui rifiutano di accettare respon-  sabilità per quanto raccontano (1). " Cosi si suol  tramandare „ dice Livio ; e richiama tacitamente  le parole del suo prologo : " né di affermare né  di negare ho in animo „. E Dionisio : " vi sono  intorno al nume d'Eracle racconti più favolosi,   e altri più credibili. Il più favoloso è questo „   E vero che, nel gesto comune, Livio crede più  di Dionisio ; tuttavia entrambi hanno accettato  l'opinione che il mito abbia un contenuto storico  (opinione la quale, come si disse dianzi, dovette  prender radice col primo insediarsi laleggenda  sull'Aventino) ed entrambi si pongono, e risol-  vono male, il problema della sua attendibilità.   Anzi, per diminuire quasi l'importanza stessa  del problema, giunsero ad accrescerla. Se aves-  sero riferito il racconto com'è in Vergilio, né  pur Livio, con la scarsa perspicacia critica che lo  segnala, avrebbe esitato a respingerlo tra le fa-  vole. In vece essi lo trovano attenuato presso i  più antichi annalisti: lo rinvengono sotto quella  veste di fiaba si, ma umana, che vedemmo con-  venirgli alla fine delia sua evoluzione. Caco  vale a dire,^non vome fiamma né è un mostro. E     (Ij Su Livio e Dionisio cfr. § IV.     198 IV. - l'abigeato di caco   un uomo malvagio (xaxóg), un violento, un ladro :  — uomo. La possibilità terrena informa la fiaba  e non ammette sopra sé che l'eroico, Ercole ;  onde le due forze divine avverse si spogliano  del soprannaturale e il valore del racconto pesa  assai più sul furto che su la vendetta. In questa  difatti troppo palese appare la natura mostruosa  di Caco, troppo il padre mitico di lui si rivela  nelle armi ch'egli usa. Un cenno breve dà, cosi  in Livio come in Dionisio, notizia della vittoria  d'Ercole. All'offesa serve la clava, arma d'eroe.  Alla difesa dovrebbe valere l'ajuto dei vicini ;  ma il malvagio lo invoca in vano.   Resta, tuttavia, la fiaba. Il colore la tradisce,  i buoi stupendi di Gerione la palesano. Fuor  dai nitidi periodi di Livio appaiono, negl'incu-  naboli di Roma, il fiume Tevere cosparso le ripe  di erbosi pascoli, ed Ercole dormiente nella queta  ombra sotto il peso del cibo e del vino. Sorge  l'aurora, si svolge la ricerca inutile, la vendetta ;  poi una breve folla d'uomini vigorosi si accoglie  intorno a un'ara, consuma il sacrificio fumante,  il banchetto ; su tutto, il carme profetico di Car-  menta. E l'aura favolosa si forma, oltre il pre-  ciso linguaggio prosastico, nel pensiero di chi  legge. Resta la fiaba. E nella trama della storia  si tinge d'una gravità un po' paludata, d'una  serietà riflessiva, le quali non la soffocano af-  fatto, si al contrario l'abbellano di un candore  ingenuo.   Ma solo la stessa arte di Livio può dare quel  senso secreto (1).     (1) I 7. 4 sgg. ; edizione Weissknbohn'^ (Lipsia 1910).     GLI STORICI 199     Che Ercole in quei luoghi conducesse dopo l'ucci-  sione di Gerione magnifici buoi e che presso il fiume  Tevere, per dove aveva nuotando traghettato innanzi  a sé la mandra, in luogo erboso si giacesse, stanco  egli stesso del viaggio e per ristorar con la quiete e con  un buon pascolo i buoi, si suol tramandare. Ivi, come  per la gravezza del cibo e del vino il sopore l'op-  presse, un pastore di quei dintorni, a nome Caco e di  violenta forza, allettato dalla bellezza dei buoi e vo-  lendo stornar quella preda, perché, se avesse spinto  all'inuanzi la mandra verso la spelonca, le impronte  medesime vi avrebbero addotto il padrone nella ricerca,  trasse per le code all'indietro verso la spelonca i bovi,  quelli insigni per bellezza. Ercole in sul far dell'aurora  come, desto dal sonno, esaminò con gli occhi il gregge  e s'accorse che una parte ne mancava dal numero,  si diresse alla vicina spelonca, se per caso colà con-  ducesser le impronte. Quando queste vide tutte rivolte  al di fuori né altrove dirette, confuso e mal certo  prese a condurre la mandra lungi dall'inospite luogo.  Ma poi, avendo alcune delle giovenche sospinte mug-  gito, come accade, per desiderio delle restanti, il ri-  sponder dalla spelonca dei buoi rinchiusi rivolse Ercole.  Lui che assaltava la spelonca Caco tentò di rattener  con la forza, ma colpito dalla clava in vano invocando   l'ajuto dei pastori cadde. Evandro allora reggeva quei   luoghi (1). Quest'Evandro, turbato dall'accorrer dei pa-  stori trepidanti pel forestiero reo di manifesta uc-  sione, dopo ch'ebbe udito il fatto e del fatto la causa,  scorgendo l'aspetto e i modi dell'eroe alquanto mag-  giori e più augusti degli umani, gli chiede chi mai     (1) Omesso in parte il § 8.     200 IV. - l'abigeato di caco   si sia. Quando il nome e la paternità e la patria ne  apprese : " nato da Giove, Ercole , disse " salve !  Che tu avresti accresciuto il numero dei celesti pre-  disse a me la madre, veritiera interprete degli Dei, e  che a te qui un'ara sarebbe stata dedicata, la quale  un giorno il popolo più opulento della terra chiamerà  " massima „ e venererà secondo il tuo rito „. Dando la  destra Ercole dichiara di accoglier l'augurio e di adem-  piere i fati, instituita e dedicata a lui l'ara. Ivi allora  per la prima volta con una stupenda giovenca della  mandra il sacrifizio di Ercole, attendendo al ministero  e al banchetto i Potizii e i Pinarii, che allora eran le  famiglie più insigni abitanti quei luoghi, fu celebrato.  Ora accadde che i Potizii fosser pronti per tempo e ad  essi venissero imbandite le interiora, i Pinarii giun-  gessero per i restanti cibi ma già consumate le in-  teriora. Di qui rimase stabilito, finché la schiatta dei  Pinarii visse, che non mangiassero le interiora del sa-  crifizio. I Potizii istruiti da Evandro furon i capi di  quella cerimonia per molte età, fin quando trasferito a  pubblici servi il ministero sacro della famiglia, tutta  la schiatta dei Potizii peri.   Tale, nell'insieme, è Dionisio (1): se se ne  toglie che Caco è per lui non un pastor ma un  predone dei luoglii; che Carmenta è mutata in  Temide (2); che il ladro, interrogato, nega la  sua rapina ; che Ercole, prima che a sé, alza un  altare a Giove Inventore; e pochi altri parti-  colari minori su la cui natura e sul cui valore  non è qui da dir nulla, poi che fiu'on sopra     (1) I 39-40. (2) Cfr. sopra pag. 181.     I RAZIONALISTI 201     vagliati. Se non che in Dionisio è, di più, una  stanchezza che Livio ignora. Si dilunga per due  capitoli sopra un racconto cui non crede affatto;  scrive ciascun particolare, ma reputa di vedervi  adombrato un simbolo che rivelerà poi, con si-  cumera da erudito certo di sé e del proprio  sapere (povera certezza in vero!). Eppure non  è nervoso; non sorvola né condensa: insiste e  stanca. Il suo pensiero critico è estraneo: si  afferma all'inizio, si ritrae poi, non ricompare  se non alla fine : ^ Intorno ad Ercole questo è  il racconto favoloso che si tramanda „. Alla  fiaba manca l'amore.     V. — I Razionalisti.   Quando alla fiaba manca l'amore, essa non può  che singhiozzare i suoi ultimi guizzi fra le  stretto j e fatali del razionalismo. I don Ferrante  dell'erudizione romana trovarono il fatto loro»  — come i poeti in Ennio, gli storici negli an-  tichi annalisti, — negli annalisti dell'età dei  Gracchi: Cassio Emina e Gneo Gelilo (1). Su la  forma precisa del racconto che si trovava presso  l'uno e l'altro siam tanto jdoco certi quanto non  possiamo dubitare su la forma generale. En-  trambi, abbandonandosi alla più rigorosa critica  razionalista, concordano nel ridurre il mito a un  gramo cencio per tramutarlo in realtà; ma si     (1) Cfr. § VI.     202 IV. - l'abigeato di caco   direbbe che il primo abbia l'occhio più tosto  alla redazione poetica della favola siccome ap-  parve poi in Vergilio ed era apparsa prima in  Ennio, il secondo invece si parta più tosto dalla  redazione storica che con riserve riprodurranno  Livio e Dionisio.   Cassio Emina difatti narrava un preteso " rac-  conto veritiero „ ove Caco appariva in qualità di  servo. Suo padrone sarebbe stato Evandro, il  buono Evandro signore del cattivo servo. Co-  testa concezione fondamentale ci ritorna in due  testimonianze, ma un po' diversamente: presso  il commentator di Vergilio Servio e il suo inter-  polatore ; e presso uno scritto L'origine del  popolo romano^ opera probabile d'un erudito  del IV secolo che compilava con grami intenti  storici. Quest'ultimo solo cita Cassio per sua  fonte; il primo sembra contaminarlo con altre  informazioni, ma certo non l'ignora. Per Servio  adunque (e chi l'interpola) Caco fu un uomo,  soggetto al re degli Arcadi, che per l'abitudine  malvagia di devastare i campi col fuoco fu detto  vomitar fumo e fiamme dalla bocca. Il nome  gli venne dal greco xanóg col ritiro dell'accento^  come fu di 'EMvtj in Hélena. Ercole lo abbatté  ponendo fine al suo mal fare. Dunque: il rac-  conto di Vergilio resta, ma, ridotto Ercole a  uomo forte e il fuoco di Caco a simbolo, è tra-  visato nella sua essenza. A tale effetto furono  bastevoli tre interventi del razionalismo : l'uno  a spiegar e ridurre la natura mostruosa del  ladro, l'altro a legittimarne il nome, l'ultimo a  giustificarne i rapporti con Evandro. — Più in  là si spinge in vece L'origine^ nell' attinger forse     I RAZIONALISTI 203     più compiutamente, certo in modo più esclu-  sivo, a Cassio Emina. Non solo Ercole è un uomo  forte (il suo vero nome è Recarano), e Caco uno  schiavo ribelle; ma il furto è punito per auto-  rità di Evandro senza duello né lotta. I motivi  razionali di questa notevole soppressione son  due : lo scrittore non aveva spiegato allegorica-  mente il fuoco di Caco e doveva quindi sorvo-  lare su la circostanza in cui più il fuoco ha  parte ; la qual necessità poi gli servi anche per  metter in rilievo la buona figura di Evandro e  la giustizia di lui. Ma in cosi fare egli si allon-  tana dalla fiaba poetica molto più che non  appaja Servio, se bene come questo la tenga  presente.   Come però questa di Cassio Emina doveva  essere, rispetto ad Ennio, una considerevole ri-  duzione del mito fantastico nei termini della  realtà possibile, ma, rispetto al racconto degli  annalisti più antichi, non era se non se un lieve  i tocco; cosi su questo racconto altri critici in-  rtervennero assai più profondamente. Ridurre il  mostro a servo : ecco una trovata buona. Ma  m.utare l'uomo singolo in condottiero di eserciti:  ecco uno spunto ottimo per inquadrare meglio  nella storia dei popoli anche la breve favola.  Quest'atteggiamento era assunto in Gelilo ; e  da un contemporaneo di lui, per qual si voglia  via, la derivò a sé Dionisio per il suo " più cre-  dibile racconto „ (1),     (1) 1 41 ; edizione C. Jacoby (Lipsia 1885).     204 IV. - l'abigeato di caco   Quale capitano fra tutti fortissimo nei tempi suoi e  comandante d'un numeroso esercito, Eracle percorse  tutta la terra compresa dall'Oceano ; abbattendo, ove  c'ei'ano, le tirannidi gravi ed aspre per i sudditi o le  repubbliche violente e dannose ai vicini o i ridotti di  uomini dalla condotta selvaggia ed iniqui uccisori di  stranieri; instituendo in vece legittimi regni e savie  repubbliche e costumanze socievoli e umanitarie ; colle-  gando inoltre gli Elleni con i barbari, i popoli marittimi  con i continentali, che fin allora vivevano disuniti e  diffidenti; eostruendo città ne' luoghi deserti, deviando  fiumi che inondavano i piani, aprendo strade nei monti  inaccessibili ; e l'altre opere compiendo, per modo che  l'intiera terra ed il mare divenisse comune pel vantaggio  di tutti. Venne dunque in Italia, non da solo né con-  ducendo una mandra di buoi (né di fatti la regione è  sulla via di chi si rechi ad Argo dall'Iberia, né per aver  traversato la contrada avi'ebbe meritato tanto onore);  ma guidando numeroso esercito per sottomettere e  dominare questi abitanti dopo avere ormai soggiogato  l'Iberia: e a colà permanere più a lungo fu costretto  e dall'assenza della flotta — phe avvenne pel soprag-  giunger dell'inverno — e dal non accettare tutti i  popoli che occupavano l'Italia di sottoporsi a lui.   Quindi è narrata la sottomissione armata dei  Liguri, non che d'altri ; per continuare (1) :   Fra costoro che furono superati in battaglia, si  dice che anche il favoleggiato Caco dei Romani — un  re affatto barbaro e signore di sudditi selvaggi — avesse     (1) I 42, 2 sgg.     I RAZIONALISTI 205     con Eracle contesa, perché occupando luoghi forti  era di danno ai finitimi. Costui, tosto ch'ebbe appreso  Eracle essersi accampato nella pianura vicina, con ap-  parecchio da ladrone attaccò in sùbita mossa l'eser-  cito dormiente, e quanto del bottino rinvenne incusto-  dito caricandosene predò. Dopo però, stretto d'assedio  dagli Elleni, vide i presidi! conquistati a forza e fu  ucciso egli stesso nelle fortificazioni. Abbattuti i pre-  sidi! di lui, i territorii all'intorno presero per sé i se-  guaci d'Eracle e alcuni Arcadi con Evandro....   Quest'ultima asserzione rivela quanta libertà  il razionalista si arrogasse; fino a far giunger  nel Lazio insieme con Ercole quell'Evandro si-  gnore degli Arcadi che la volgata afferma in-  sediato sul Palatino al momento del duello.  Libertà intesa al servizio del vero " secondo i  filosofi e gli storici „, — come s'esprime Servio,  — ossia di quella critica, che conduce a creare,  accanto alla favola più propria una fiaba fittizia e  grottesca : la fiaba dell'Ercole errante in awen-  tm'e cavalleresche, a liberare gli oppressi, render  civili i barbari, pacificar i nemici. Né del resto  sarebbe cosi risibile un tale sforzo verso il  " vero „, né cosi miserandi apparirebber i suoi  risultati; se non gl'inquinasse una mal celata  boria, un vanto sicuro di superiorità intellettiva  che è solamente sterile miseria.   Su queste rovine pochi poveri racconti si stre-  mano ancora. Evandro richiama con sé la figura  di Fauno di cui era divenuto un equivalente  sotto l'aspetto di buona mitezza: Fauno attira  il nome di Latino, suo figlio : il sacrario di Caca  suggerisce la storiella che la dea abbia otte-     206 IV. - l'abigeato di caco   nuto il culto sacro rivelando il furto di Caco,  suo fratello.   Poi, è il silenzio.   Singolare sorte della saga, in verità. Ricca  di densa materia; vissuta traverso il succedersi  delle geniture in una propaggine del vigoroso  ceppo ario; maturatasi lentamente tra il Pala-  tino l'Aventino e il Tevere : ebbe nel II se-  colo a. C. non pur la sua forma poetica e la  sua foggia istorica, si anclie soffri su quella e  su questa lo spruzzo livido dei razionalisti : per  modo, che sopra il quadruplice schema l'età più  possente del pensiero romano, l'augustea, non  seppe se non disporre adorne trame di ben va-  gliate parole, ma di poco varii disegni. Onde il  mito ebbe preclusa nel sèguito ogni ulteriore  vita : però che dovesse morire intero con l'estin-  guersi la potenza alla sua bellezza verbale.     CAPITOLO V.  Cirene mitica <i).     I. — Il sostrato storico.   Ricamo magnifico, pel quale dedussero i più  eletti stami poeti, tra quanti furono nell'anti-  chità, grandissimi, il mito greco di Cirene e di  Apollo, l'uno a l'altra amante, ha però nella  storia reale una sua trama di fatti concreti e in  parte sicuri , da cui deriva direttamente o indi-  rettamente tutte le proprie successive forme e  in cui è da ricercare il motivo appunto di questa  evolventesi trasformazione. Se il Peloponneso,  con due suoi luoghi in ispecie, Sparta e il Tè-  naro; se Tera, l'isola che nell'Egeo sta a set-     (1) Per tutto queeto capitolo vedi Vlndagine in libro II  cap. IV. Nelle note successive indicheremo solo i rispet-  tivi paragrafi.     208 V. - CIRENE MITICA   tentrione di Creta ; se la Libia, ferace di gregge  e di frutti, costituiscono alla leggenda lo sfondo  geografico: certo fra questi perni essenziali si  svolgono gli avvenimenti, di cui gli uni trovano  nella fiaba un riflesso e una deformazione im-  mediata, gli altri solo in modo mediato danno  impulso a talune vicende, determinano qualche  figura, causano pochi episodi! (1).   Grià in tempo antichissimo, intorno al secolo  decimo a. C, sciami di coloni s'eran condotti  fuor dal Peloponneso in Tera, costituendo a  quest 'isola un' incancellabile fìsonomia dorica.  Più tardi sol tanto, presso che nel secolo VI,  sembra Sparta abbia inviato colà uomini suoi,  a suggellare della sua particolar impronta il  carattere e la storia di quella breve terra. Ma  fin dallo scorcio dell'età precedente una mano  di cittadini Terei abbandonava con ardire la  spiaggia patria per avventurarsi nel mare, oltre  Creta, fino in Libia. Comunque l'impresa nei  particolari procedesse, quali che fossero le fa-  tiche sostenute e gli ostacoli superati, i coloni  non posero in vano il piede su la terra straniera :  la quale divenne per essi fiorente di fiore civile,  prospera di ricchezza, famosa al mondo; da essi  si ebbe i suoi Re (2). Largo era dunque il volo con-  cesso alla ricordevole fantasia dei discendenti,  perseguendo il tramutar delle sedi dalla penisola     (1) Cfr. § I.   (2) Cfr. Beloch Griechische Geschichte - I 1, 128. 264 ; Bo-  soLT Griechische Geschichte^ I 479 sgg. : Malten Kyrene  C Philologische Untersuchungen , XX 1911) 166 sgg.     IL SOSTBATO STORICO 209   a l'isola, dall'isola al continente. E la lunga  vicenda fu, come nella memoria, cosi nel mito;  ma quale è la realtà in cristallo iridato.   Però che la memoria fosse alterata da quell'am-  pio patrimonio di figure di\dne e leggendarie, il  quale è pregio d'ogni stirpe greca, in diversa  misui^a; e giungendo alla s^Diaggia insueta re-  cassero i Terei, nell'anima, il loro spirituale pos-  sesso di Dei di Ninfe di Dee : Numi abita-  tori del cielo della terra del mare. E allargato,  di li a non molto, già nel principio del secolo VI,  fu ancora l'ambito dei culti e delle figurazioni.  Regnando difatti Batto II della stirpe che prima  aveva ivi instaurato il soglio regale, un notevole  flusso di nuovi coloni pervenne alla Libia, per-  vadendo e mischiando l' antica massa. G-iun-  gevano dal Peloponneso, e tra essi gli Arcadi  distinti per la lor propria dissimiglianza. Griunge-  vano dall'isole egee, e tra essi i Cretesi, precipui  per la loro importante sede (1). Rinnovarono la  stirpe corrompendone l'uniformità; apx)ortarono  un soffio diverso e molteplice ad alimentare di  parole mistiche e di riti i sacri fuochi accesi dai  venuti prima. E furono per le vicende delle fiabe  locali di efficacia non piccola ; grandissima. Non  soltanto perché apportatori di nuovi elementi al  racconto; ma anche perché, numerosi, costitui-  rono a sé un centro secondario di creazione e  diffusione mitica, in antitesi al principale, cui  la casa regnante tribuiva più solenne sanzione e  la priorità donava un più schietto rilievo. Ond'era,     (1) Ebodoto IV 159. 161.   A. Ferrabino, Kalypso. 14     210 V. - CIRENE MITICA   da questi due distinti gruppi del popolo greco  in Libia formato, quasi per intiero, il sostrato  mitico delle leggende cirenaiche.   Tuttavia, né questo, che pur ora è stato detto,  sostrato mitico, né quella, che fu tratteggiata,  realtà storica, sarebbero bastevoli a chiarire,  soli, le mature forme della favola di Cirene e  Apollo ; ove sfuggisse il centro vero, il proprio  crogiuolo, nel quale divenne creazione viva e  vitale, possente d'un suo secreto alito di pura  bellezza, organata in una palese e pur varia  armonia, la massa confusa e diffusa che si spre-  cava candescendo in poveri rigagnoli senz'ordine.  Quel centro, quel crogiuolo fu l'antichissimo san-  tuario di Apollo in Delfi, già noto all'epopea  vetusta ch'è detta di Omero. Ivi la favola libica  si tramutò in mito greco: era d'una stirpe, di-  venne d'un popolo ; era d'una regione, se ne im-  possessò l'arte, universale (1).   E l'arte fu in fine la plasmatrice maggiore di  quel mondo fantastico, cui diede l'espressione  con voci perenni. L'epica esiodea , l'ode pitica  di Pindaro, l'inno di Callimaco, il racconto di  Erodoto, il carme didascalico di Vergilio in-  tonarono per quell'armonia le note.     n. — L' " Bea ., di Cirene e d'Aristeo.   D drappello d'uomini terei che s'insediava primo  sulla proda del mare libico recava con sé, prin-     (1) Cfr. § V e VI 2.     DI CIRENE E d'aBISTEO 211     cipalissimo tra i suoi Iddii, idoleggiato con spe-  ciale e insigne culto, uno il cui doppio nome  serbava ricordo di antica vicenda: Apollo Carneo.  Carneo era stato il Dio dell'età più antiche, ve-  nerato di profondo e rispetto e amore fra i po-  l}oli dori. Sol più tardi il nume di Febo Apol-  line era sorvenuto, in uno slancio di prepotente  predominio, a fondere con sé, come quella che  gii era per qualche carattere e attribuzione si-  migliante ed afiine, la vetusta divinità dorica.  E dalla mischianza, per nulla inconsueta, eran  nati il nome nuovo di termine duplice, e la  figura nuova in cui le linee primordiali soprav-  vivevano accanto alle ultimamente tracciate ;  senza vero dissidio, a causa della sostanziale  contiguità dei concetti, il Febo dei Delfi acco-  standosi al Carneo dei Dori. E ad Apollo Carneo  non fu, nella terra libica, pretermesso il culto.  Anzi, poiché dopo alcun tempo i coloni trova-  rono nella patria nuova un'abbondante fontana  da cui l'acqua scorreva copiosa a fecondare il  suolo riarso, a quel Nume appunto questa sor-  gente ricchezza delle glebe fu piamente dedi-  cata. A torno il " fonte di Apollo „, nel luogo  ove conosciamo la città di Cirene, posò una schiera  di cittadini terei (1).   Fra tanto, rapido era l'accostarsi de' coloni  alla stirpe dei Libi la cui compattezza venivan  variegando in un disegno ellenico: e come alla  stirpe, cosi a' costumi, cosi alla lingua. Appre-  sero, per ciò, che la notevole polla chiamata dal     (1) Cfr. § III.     212 V. - OIKENK MITICA   Carneo aveva pure, nella parlata indigena, un  suo appellativo: era detta '^ Gira „. Onde, presso  a quel più greco, questo ijiù libico nome rimase.  E poiché alla fantasia per abitudine secolare si  popolavan di Driadi gli alberi e di Ninfe le  sorgive, nell'acqua si vide abitatrice una vergine  fanciulla, diva del luogo: " quella di Gira ^  suonò l'espressione; e grecamente " Cirene „  (KvQi^vf], Kvqdva). E fu ella quasi il simbolo,  e certo il segno, del penetrarsi cbe il popolo in-  digeno e il sopraggiunto venivan facendo ; e  tanto più doveva apparir cara ai Dori quanto  più a' luoghi s'avvezzavano e le generazioni si  succedevano. Era destinata a compaginarsi per  impulso crescente con essi ; cosi che nessuno stu-  pisce di vederla scelta a riprodurre, direi eter-  nare, in sé l'opera che quelli spesero per adat-  tare il paese e renderlo quetamente abitabile.  Fu difatti rappresentata qual Dea cacciatrice  (nÓTvia d-i]Q(òv) nell'atto di afferrare crollare  abbattere un leone: sola, E nell'atto fu in  breve ferma per sempre, irrigidendolo come  in uno schema, fissandolo in un gesto tipico.  Rimase (1).   La Signora delle belve e la Ninfa di Gira era,  e per l'uno e per l'altro de' suoi attributi, insen-  sibilmente e inevitabilmente condotta presso  Apollo Carneo : protettore della fonte ov'ella  abitava, e antico Dio del popolo che simboleg-  giava ormai ella. Divennero amanti divini ;  amanti li narrò il sogno nuovo. E cosi il nodo     (1) Cfr. § IL     l' " EEA „ DI CIRENE E d'aEISTEO 213   primo del tessuto mitico s'era allacciato. In  Libia si compievano le nozze ; e Libia, l'eponima  del paese, la divinità che dava al nome della  regione una grazia feminea, fu difatti la pro-  nuba benigna e ospitale, cortese di favori agli  sposi.   Il pensiero era in un felice momento creativo :  in uno di quei momenti in cui il volo non si  tronca; e non si perde, e né meno si smarrisce,  la spinta prima. In quest'atmosfera innovatrice,  ove pareva urgesse il bisogno di costituire allo  Stato nascente un diverso patrimonio anche di  leggende, fu sùbito còlta l'analogia fra Cirene,  che reprimendo le belve e prodigando l'acque  procacciava agli agricoltori quiete e abbondanza;  Apollo Carneo, la cui natura solare era, in guisa  eminente, beneiica alle zolle ; e Aristeo, un gio-  vinetto iddio, il quale in Libia era giunto non  sappiamo ben d'onde. Egli era il caratteristico  protettore dei campi ove crescon le messi, dei  pascoli ove erran le mandre e le gregge, degli  aratori e dei pastori. Tale si venerava in assai  regioni greche, e fu presto diffuso sopra un'am-  plissima area : fino in Italia, fino in Sicilia, fino  in Sardegna, da un lato; fino in Tracia, da l'altro.  Nell'isole del mar Egeo aveva culto ; culto in Ar-  cadia. che dunque dall'isole si spingesse in  Libia o che da l'Arcadia lo recassero i venuti  all'appello di Batto II ; egli fu là. E, sia per la  natura sua propria assimilantesi, sia per la legge,  onde la fantasia greca è governata, di non lasciar  nume alcuno isolato ; come altrove s'era com-  messo con Dioniso dalle feraci viti o con Ninfe  indigene propizie agli aratri, cosi nell'Africa si     214 V. - CIRENE MITICA     congiunse, e presto, con la coppia amante; av-  vicinandosi forse prima a Febo, a quella guisa  che gli Arcadi lo dicevan non pur Aristeo ma  "Apollo Aristeo,,; o prima a Cirene: ad en-  trambi tuttavia divenendo figlio dopo aver ac-  costato l'uno, necessariamente. Portava egli con  sé tutt'una serie di attributi e di nessi, dei quali  alcuni gli eran più intimi; altri più proprii eran  di paesi lontani, sua antica sede. Congiunto era  con Agrèo, nume cacciatore; con Opàone, cu-  stode di gregge; con Nò mio, pastore; x^ersino  con Zeus padre. Né il dio delle terre coltivate  poteva non esser attinente, nel racconto, a Gea.  la madre TeiTa; e alle Ore, le fanciulle vario-  pinte il cui corso regola la vicenda dei raccolti,  e allieta o attrista i contadini a volta a volta :  attinenze indubbie, e antiche certo, ma costitui-  tesi s'ignora in qual luogo prima. Spiccatamente  però egli era tessalico : in Tessaglia è forse da  vedere fin la sua origine; di Tessaglia a ogni  modo gli venne la sua più speciale sembianza:  dalla pianura fertilissima in Grecia. Onde è pro-  babile che ivi fosse da tempo unito con il " giu-  stissimo tra i Centauri ,,, Chirone: quegli mede-  simo che, secondo l'epopea, ammaestrò nella  salutare arte medica Pèleo, e di questo il figlio  Achille, e Asclepio il sanatore eccellente di fe-  rite (1). Accanto dunque alla coppia d'Apollo e  Cirene, la quale recava mischiati i suoi caratteri  delfici dorici e libici, il dio fanciullo era a pre-  ferenza tessalico (2).     (1) niade A 822 sgg. 832 A 219. (2) Cfr. § IV.     l' " EEA „ DI CIRENE E d'aRISTEO 215   Di questa situazione profittò accortamente chi  ebbe a elaborare il mito in Delfi o nel flusso  letterario originatosi da Delfi. Colà la leggenda  in naturai guisa si riportava a cagione della  figura di Febo; sotto il supremo patronato del  quale la favola ricevette un più ampio svolgi-  mento. Ma per ben comprendere di esso l'origine  e i modi, è necessario badare a quella ch'è dei  rifacimenti leggendarii delfici la più profonda, se  ben forse più riposta, caratteristica. Tendono  tutti bensì, e in primissima linea, a rilevar l'im-  portanza del nume Apolline venerato nel locale  santuario; ma e tendono a intrecciare, sotto di  lui, le fila di più e diversi miti, ancor che sieno  (e meglio se sieno) attinenti a diverse e fin lon-  tane regioni. Un esempio: per più punti simili,  Asclepio di Tessaglia e Apollo di Delfi, dèi sa-  natori entrambi, dovevan facilmente unirsi nel  racconto, e spontaneamente Apollo aveva da  soverchiar Asclepio: orbene, a Delfi se ne trae  lo spunto per trasportar nei piani di Larisa e  di Tricca il dio di Pito. Ardimento anche mag-  giore permetteva la favola africana : il Carneo di  Libia e l'Aristeo di Tessaglia favorivano l'ordi-  tura d'un'ampia tela fra due paesi lontani e ben  separati; la quale filo maestro contenesse Febo  Latoide, identificato già col primo e padre già  del secondo ; e come su punti estremi si fissasse  su la città di Cirene e su le vette del Pelio. E tra  Cirene e il Pelio Febo Latoide fu mosso, tra  la sede dell'amata e la sede del figlio (1).     (1) Cfr. § V.     216 V. - CIRENE MITICA   Cosi fatta opera era compiuta nell' " Eea „ di  Cirene e di Aristeo, appartenente all'epica detta  di Esiodo. Due versi ce ne giunsero, unici: " O  quale in Ftia, donata di bellezza dalle Cariti,  presso l'acque del Pèneo abitava la bella Ci-  rene „. Il resto del carme si ricostruisce per  congettura. — Figlia del tessalo Ipsèo, re dei  Làpiti, e nipote del Penco, fiume locale, Cirene  crebbe vigorosa e animosa, strenua in combat-  tere. Durante la lotta con un leone la sorprese  Apollo e, còlto da amore, si ebbe da Chirone  la profezia delle nozze. La rapi dunque e la recò  sul cocchio aureo in Libia, ove Libia la ninfa  li accolse. Un bimbo nacque: Aristeo. Il j)adre  recò questo presso le Ore e Gea che l'allevarono  e fecero di lui un immortale simile a Zeus, ad  Apollo simile, un Agreo cacciante, un Opaone  custode di gregge, un Nomio pastore. — Tale  lo schema breve della fiaba. Ove si riconosce,  senz'altro, il corteggio dei numi che nel racconto  penetrarono al sèguito del fanciullo tessalo  Aristeo; e sùbito si avverte il colorito libico  riflessovi da Cirene; e né meno s'indugia a inten-  der perché, volendo insieme serbar intatto il  carattere tessalico del giovinetto e non cancellare  l'episodio della sua nascita in Africa, venisse  alla madre attribuita prosapia fra i Làpiti presso  i Centauri. S'otteneva cosi, è vero, di raffigurar  popolosi di leoni queti piani della Tessaglia ; ma  qual poeta ha mai temuto d'essere illogico '?  E fuor di questo, la trama era pregevole per  molta armonia ; e sovra tutto per un'intima leg-  gera grazia di tocco che temperava con l'amore  del dio la salvatichezza della fanciulla; per una     l' " BEA , DI CIRENE E d'aRISTEO 217   accorta sapienza prospettica nel disegnare le  scene su lo sfondo di due feracissime terre, onde  senza contrasto si rilevava, ben stagliato, in  gesto benefico, il giovine Aristeo ; per un intimo  senso sacro in fine diffuso nel carme, traverso  le parole di Chirone dal molto senno e assai  venerando, sino a dargli temperatamente un  tono religioso.   Che stupenda, del resto, fosse la concezione,  dimostrò la sua vita ulteriore presso gl'imitanti  poeti. Fascinati questi, oltre che dall'aura di  sogno emanante fuor della fiaba, anche dalle  lusinghe di cui eran ricche cosi la vecchia culla  dei canti greci, la Tessaglia, come la nuova fio-  rentissima colonia dorica, la Cirenaica. Per l'una  il mito si riallacciava alle tradizioni vetuste, per  l'altra si commetteva alle vicende di uno Stato.  Ma era inevitabile che questi due poli, ben ar-  monizzati (all'inf uori della irrazionalità su i leoni)  dall'Eea, attraessero poi in modo palese cia-  scuno a sé la materia; e la Ninfa tendesse a  divenire di qui quasi totalmente tessala, a ridi-  venire di là quasi esclusivamente libica. Due  filoni se ne originarono, non privi né l'uno né  l'altro, all'origine, di tracce lasciate dall'Eea,  unica fonte primitiva; ma ben divergenti in  processo di tempo : l'uno che con Aristeo tras-  porta sul Penco la stabile sede di Cirene: l'altro  che con Apollo rinforza e rincalza i tratti afri-  cani di lei.     218 V. - CIRENE MITICA     III. — Cirene in Tessaglia.   Su la via per la quale Cirene jDerverrà a sta-  bilirsi in Tessaglia la prima tappa è compiuta  dall'ode pitica nona di Pindaro, nel 474 a C,  in onore del cireneo Telesicrate, vittorioso nella  '^ corsa in armi „.   La patria del vincitore cui il canto è indiriz-  zato dovrebbe far supporre che amplissimamente  sul racconto pindarico si esercitasse l'influenza  libica. Fu, in vece, limitatissima. E ben deve  ridursi a un unico particolare. Ove l'Eea introdu-  ceva Libia accogliente gli amanti, Pindaro che  conosce tanto questo particolare e tanto lo ricorda  da valersene nel suo carme (1), non esita a dise-  gnar in vece, nel principio del carme medesimo,  la figura di Afrodite dal piede d'argento: riu-  scendo a un doppione. Perché ? Ad Afrodite era  dedicato un giardino in Cirene e a lei si ren-  deva culto con qualche importanza ; onde fu che  la notizia regionale s' insinuò non pur a modi-  ficar la trama del racconto esiodeo ma a dupli-  carne un tratto. Accanto a questa ben lieve al-  terazione può esser posta un'altra, meno visibile,  e dovuta a causa diversa. Apollo era con Ermes  strettamente congiunto nel mito (2); v'era tra  essi quasi un vincolo che ove Funo stava l'altro  adducesse. Quest'attinenza fu il motivo per il     (1) Vv. 55-68.   (2) Cfr. in questo volume (libro I) il capo III § L     Hi     CIRENE IN TESSAGLIA 219   quale, in Pindaro, altrimenti da l'Eea, non  Apollo, ma Ermes ebbe a recare il recente nato  Aristeo presso le Ore e Crea: ufficio, a ogni  modo, ben dicevole a lui. Delle quali intrusioni  però assai più notabile è la non compiuta au-  dacia con cui il poeta svolge la profezia di Ghi-  rone. Contro di essa si ribellava la sua coscienza  religiosa e la sua dottrina, ove a ciascun Iddio  eran assegnati attributi fissi e certi da non vio-  larsi da non obliarsi, ed erano al tutto scono-  sciute, riprovevoli, le confusioni le incertezze  dei primi canti divini. Già che, i^er esempio,  Apollo era, nell'essenza, l'onnisciente e profe-  tante Nume, troppo illogica e, diciamo, troppo  antropomorfica risultava la scena in cui al Vate  da un Centauro vengono vaticinate le nozze.  Sùbito lo vede Pindaro ; si ribella, ma a metà 5  protesta, non totalmente. Dimostra l'inconsi-  stenza dell'episodio, poi lo accetta con un sor-  riso ed un sospiro (1).   Fuori però di queste tre deviazioni il suo inno  riproduce l'Eea. Splendidamente per vero (2).   Voglio, con le altocinte Cariti Telesicrate procla-  mando, il Pitionica di bronzeo scudo, fortunato e  prode, celebrare, corona di Cirene agitatrice di cavalli :   Questa un giorno dai ventosi sonori antri del Pelio  il chiomato Latoide rapi ; condusse Egli su l'aureo  cocchio la Vergine selvaggia là, dove d'una terra in  gregge ed in biade ferace l'institui Signora, ad abitar     (1) Cfr. § V.   (2) Edizione di 0. Schrodee- (Lipsia 1914).     220 V. - CIRENE MITICA   la terza amabile fiorente radice del mondo. Accolse  Afrodite dal piede d'argento il Delio ospite, le divine  redini toccando con mano lieve: e per loro sul dolce  letto gi'ato diffuse pudore, in comuni nuziali vincoli  l'Iddio mischiando e la figlia d'Ipsèo ampio possente:   Ipsèo, re allora dei bellicosi Làpiti, da l'Ocèano  seconda genitura eroica ; lui un tempo negl'incliti an-  fratti del Pindo generò, goduto il letto del Pèneo, la  Nàjade Creusa, nata dalla Terra ; egli la figlia di belle  braccia crebbe, Cirene.   La quale, né de' telai amava l'alterna vicenda, né i  gaudii delle danze (1) fra casalinghe amiche ; ma, con  bronzei dardi e con spada lottando, l'ispide belve uc-  cidere. E molta per vero e queta pace ella ai bovi  procacciava del padre, e poco spendeva del sonno che,  dolce compagno di letto, su le ciglia si stende verso  l'aurora.   Sorprese lei un giorno, — sola, — in lotta senz'armi  con vigoroso leone, il lungisaettante Apollo d'ampia  faretra. Sùbito dalle sue stanze chiamò con grida  Chirone: " Lascia il venerando recesso, o Filiride,  lascia ! l'animo d'una donna e la grande possanza stu-  pisci, quale lotta con impavida fronte sostiene, giovi-  netta dal cuore all'impi'esa più alto: di paura non le  treman gli spiriti ! Chi lei fi-a gli uomini generò ? da  quale schiatta rampollata degli ombrosi monti abita  le caverne ? Forza illimitata manifesta in vero... È le-  cito l'inclita mia mano avvicinare a lei, e dal letto  tondere il fiore dolcissimo ? .,   A lui il forte Centauro, con sopracciglio benigno  chiaro ridendo, tosto il suo divisamento rispose : " Se-     (1) Nel V. 19 leggo òeCvcùv per óeljivoìv col Bergk.     CIRENE IX TESSAGLIA 221   crete alla savia persuasione sono le chiavi dei sacri  amori, o Febo ; e cosi fra gli Dei come fra gli uomini  questo del pari è pudore : palesemente il dolce letto  la prima volta salire. Ma ora te, cui non si conviene  menzogna, mite desiderio indusse a parlare queste  finte parole. Tu, onde sia interroghi la schiatta della  fanciulla, o Signore ? tu, che di tutte le cose conosci  il fine e tutte le vie : e quante di primavera germina  foglie la terra ; e quante nel mare e nei fiumi da  l'empito dei flutti e dei vènti sono agitate réne ; e quel  che sarà e donde sarà, ben vedi! — Ma, se anche coi  profeti bisogna gareggiare, dirò : a costei sposo venisti  su questa balza ; e oltre il mare devi portarla, nell'in-  signe giardino di Zeus. Donna di città ivi la porrai  raccogliendo l'isolano popolo sul colle c'ha cintura di  piani. Allora la diva Libia dagli ampi pascoli acco-  glierà l'inclita sposa benignamente nelle case d'oro ;  parte della terra a lei tosto donando, possesso comune,  non spoglia di tutte fruttifere piante né ignara di  belve. Ivi ella un fanciullo genererà, da l'illustre Ermes  di poi ritolto alla cara madre, e recato alla Terra e  alle Ore di ben costrutto trono. Queste su le ginocchia  al piccino di nettare le labbra e d'ambrosia stil-  leranno: lui rendendo immortale, uno Zeus, un pui-o  Apollo, delizia agli uomini diletti, un Opaone cu-  stode di gregge, un Agreo cacciante, Nomio pastore:  altri lui nominando Aristeo „.   Nella pausa che succede a quest'inno, se ne  sente inevitabilmente refficacia anticirenaica. La  più bella e la maggior sua scena si svolge fuor  di Libia, in Tessaglia; i progenitori tessalici  della fanciulla son rammentati; narrate le sue  imprese virginali su le vette ventose del Pelio ;     222 V, - CIRENE MITICA   né il suo figlio pure s'indugia su la sponda afri-  cana. E tuttavia non per questi motivi, di per  sé valevoli, l'ode pindarica scema il signifi-  cato primordiale di Cirene; si perché, continuando  l'impulso dell'Eea, sanziona in lei, più assai che  l'eroina indigena venerata e creata da un popolo  in uno Stato, la comune divinità ellenica sposa  di Apollo e madre di Aristeo, Apollo delfico e  Aristeo tessalico ; e le dà per tanto, come plinto  alla sua statua, l'Eliade; come credenti al suo  culto, gli EUeni.   A testimoniar tuttavia, effìcacenaente, su l'o-  rigine vera della Ninfa restava la sua lotta col  leone: particolare di precipuo sapore africano.  E questo pure andò, in progresso di vicende,  eliminato. Apollonio Rodio ne' suoi Argonauti  nel trattar da erudito la leggenda avverti l'in-  coerenza di quell'episodio che a due veri poeti  era sfuggita ; e lo soppresse senz'altro. Per lui.  Apollo scorge la vergine in Tessaglia intenta a  custodire gregge e di li la rapisce, senza lo spe-  ciale motivo della forza ammiranda di lei, in  Libia. In Libia le ninfe sotterranee (x&óviai  vv/i,g)ai) li accolgono : le quali son, come tutrici,  numi del paese e occupano presso il nuovo poeta  sapiente, cui la sminuita fantasia e l'accresciuta  dottrina tolgono d'intuire la bellezza nella per-  sonificazione d'una terra, il luogo dell'eponima  ninfa Libia. Apollo poi recherà il nato Aristeo  alle Muse, sue allevatrici: ove delle Muse il  concetto è attratto dalla fama del Latoide qual  Musagète. Che più resta della Signora delle  belve e Dea della fontana? L'esiguo accenno  alle nozze compiutesi in Libia e al soggiorno     CIRENE IN TESSAGLIA 223   duraturo della sposa colà. La maggior luce è  gittata su Aristeo, su la sua nascita e le sue  vicende ulteriori: l'africana, nel contesto, è un  momento. Contro questa general tendenza di  Apollonio non starebbe che la soppressione della  profezia del Centauro. Pindaro, discutendola,  l'aveva serbata; egli, più razionale e men rispet-  toso, l'elimina. Ma appunto perché a lui tutta  la leggenda si presenta in un'aura tessala, sente  poi il bisogno di non perdere totalmente questa  figura, cosi dicevole al suo pensiero; e la ram-  menta quindi, in altro luogo, come partecipe  all'educazione del Fanciullo pastore, insieme  con le Muse. Non più grande né più intenso  poteva essere, sembra, l'influsso della patria  acquisita contro la patria e prima e vera (1).   E fu più grande e fu più intenso. Bastò che  un poeta, Vergilio, riprendesse il racconto, im-  perniandolo, ancor più che i suoi predecessori,  su Aristeo. L'inevitabile avvenne. Dinanzi la  memore mente dell'artista (o della sua fonte)  è il noto e diffuso episodio omerico di Achille  invocante nella passion dell'ira e dello sconforto  la madre Tetide su la riva del mare. Quando  dunque egli ha narrato come il Fanciullo perdesse  il prezioso suo alveare, gli piace di figm^arselo nel-  l'atto dell'eroe epico ; e lo conduce verso la madre  Cirene. Di questa l'Eea diceva padre Ipseo e  nonno il fiume Peneo. Con una assai piccola  libertà il j)oeta la dice figlia non di quello ma  di questo ; e ottiene cosi di farla abitare nel pro-     (1) Cfr. § V.     224 V. - CIRENE MITICA   fondo gorgo paterno e di addurre su la sponda  della corrente acqua il Giovinetto afflitto da  eccessivo dolore. Non oblia Apollo, che a lui fa  breve cenno; ma al fantasioso innovatore del  mito tutta la scena si transfigura. Nuovo sfondo  è il talamo recondito di Penco ove le Ninfe  vivono (1).   Aristeo pastore fuggiva la ralle di Tempe penèa,  perdute — si narra — per morbo e per fame le api.  Triste, fé' sosta presso il sacro capo del fiume ; molto  lagnandosi, e così invocando la madre: " Madre Ci-  rene, madre, che il profondo abiti di questo gùrgite,  perché da preclara stirpe di Dei, se (come dici)  Apollo mi è padre, inviso ai fati mi generasti? o  il tuo amore per noi dove hai gittato? perché onori  celesti sperar mi facevi ? Ecco : fin questi onori ter-  reni, che a me alacre con pena procacciava solerte  custodia di biada e bestiame, ho perduti, te avendo  per madre. Or su or su : svelli di tua stessa mano le  beate selve ! apporta il nemico fuoco a le stalle ! di-  struggi le messi! i seminati riardi! e la temprata bi-  penne vibra neUe viti ! se tanto fastidio ti px-ese della  mia fama „.   La madre il lamento senti nel talamo del fiume  profondo. A lei d'intorno lane milèsie le Ninfe fila-  vano, lane di verdastro colore ritinte : Drimo e Santo e  Ligèa e Fillòdoce, sparse le chiome splendide su i  bianchi colh (2); e Cidippe e Lieorìade bionda : ver-  gine l'una, esperta l'altra allora a pena i dolori del     (1) Georgiche IV 317 edizione F. A. Hietzkl (Oxford 1900).   (2) Omesso il v. 338.     CIRENE IN TESSAGLIA 225   parto; e Clio e la sorella Bèroe. oceanine entrambe,  entrambe d'oro, di colorate pelli entrambe fasciate (1) ;  ed in fine, le saette deposte, la veloce Aretusa. Fra le  quali Olimene nan-ava di Vulcano la vana fatica e  l'astuzia di Marte e i dolci furti, e i frequenti anno-  verava dal Caos amori di Dei. Or mentre nel racconto  rapite devolvon dai fusi i molli pennecchi, novamente  il pianto di Aristeo percosse le orecchie materne. Su  i cristallini seggi stupirono tutte. Ma innanzi a l'altre  sorelle Aretusa a guatare dalla suprema onda il biondo  capo levò.   E da lungi: * di tanto gemito non atterrita in  vano, Cirene sorella : egli stesso, la tua massima cura,  Aristeo ! , tristemente lacrima presso l'onda del tuo  padre Penco : e te chiama crudele , . Allor percossa la  mente di nuovo terrore la madre : " Conducilo, or su,  conducilo a noi; è lecito a lui toccare le soglie di-  vine ,. E insieme, al profondo fiume comanda di  lasciar per V ingi'esso del giovine adito largo. Lui  l'onda ricinge, ricurva di montagna in guisa, e nel  vasto seno lo accoglie e sotto il fiume l'invia. Già la  sede della madre ammirando, ne andava egli, e gli  umidi regni, i laghi rinchiusi in spelonche, i risonanti  boschi ; stupefatto da l'ingente moto dell'acque tutti  osservava i fiumi sotto la grande terra fiuenti (2).   Dopo che fu sotto il redine pomicoso tetto del ta-  lamo giunto, e conosciuti lievi ebbe Cirene i pianti  del figlio ; alle mani danno le sorelle a vece limpida  l'acqua ; mantili recano di tonduti velli ; gravan  di cibi le mense ; colmi calici dispongono. Odoran gli     (1) Omesso il v. 343.   (2) Omessi i vv. .367-373.   A. Ferrabino, Kalypso. 15     226 V. - OIBENE MITICA   altari d'arabi incensi. E la madre: " Prendi^ — dice,  — la tazza di meònio bacco. Libiamo a l'Ocèano „. E  insieme, prega ella l'Oceano padre delle cose e le Ninfe  sorelle, che proteggon cento le selve, e i fiumi cento. Tre  volte del liquido nettare cosparse il fuoco ardente ;  tre volte la sottoposta fiamma al sommo del tetto  avvampò.   Mentre duran le cure ninfali, noi indugiamo  a convincerci d'esser tuttora dinanzi a una stessa  Cirene. In realtà, d'identico non rimase che il  nome. L'Eea aveva posti accanto, creando una  scena singolare, la Ninfa vincitrice del leone,  Apollo ammirato, e il Centauro in atto profetico ;  ed era stata, in cosi fare, scaltra ed ingenua.  Pindaro piomba su la scena col suo volo rapido  di aquila: — con Chirone si corruccia e si tra-  stulla ; par clie debba annientarlo con un colpo  d'artiglio della sua fede evoluta; ne cava in vece  un motteggiatore ironico del Dio, e ne fa un epi-  sodio marginale, quasi comico, e un poco inoppor-  tuno : — ma Apollo e Cirene pone l'uno dell'altra  a fronte; e sopr'essi non l'amore, non tanto la  cupidigia, quanto la Necessità, onde debbono  unirsi, onde il Nume s'è recato su quel poggio  montano, e ha da portare la selvaggia nella  terra dei Libi. Anzi, la Legge, che è la prota-  gonista men palese e più reale del duetto, de-  termina essa sola l'episodio centaureo che segue,  e gli dà, essa sola, quel contenuto da cui è sce-  mato e quasi annullato il comico inevitabile.  Sicché la Pitia addensa la materia vasta del-  l'Eea, nel nodo di un momento: ma uno di  quelli che la sorte prepara e rende decisivi nei     CIRENE IN TESSAGLIA 227   secoli. Due Muse austere, di Storia e di Reli-  gione, han toccato le loro ardue corde su l'arpa   •ttemplice.   Vergilio, — e tanto tempo era trascorso! —  fu più indipendente nel trasfonder sé entro il mito.  Si rammentò dell'ombre fresche sotto cupole  silvane ; e gli fu nel cuore la bramosia con cui  aveva assai volte spinto il viso nei misteri li-  quidi dei fiumi e del mare, fin sotto là dove il  Sole non giunge. E negli occhi gli fu l'imagine  che è nell'acque: la vita delle rive, capovolta  sopra uno sfondo d'inconsistenza e di fuggevo-  lezza, — l'uomo nel divino. E l'uomo fu il Ver-  :_ilio georgico. Quindi bellezze carnali soffuse di  grazia e immerse in un pudico garbo di colori  e di movenze; costumi domestici di fusi e di  conocchie, uso agreste di vivande parche e di  sacrifizii larghi ; tranquillità villereccia di rac-  conti, e brio, salace forse, non lubrico, di aneddoti  e facezie. Sovra ogni cosa, poi, — assemprato  dallo stillar non triste delle grotte sotterranee,  dall'umidore non nocivo di margini erbosi, —  sovra ogni cosa, il pianto, un po' futile, di Aristeo,  e le bambinesche imprecazioni, e lo spavento,  non estremo, della madre, e il racconsolo ultimo,  flebile ancor esso. Questo tono, appunto, flebile,  questo sapor non ripugnevole di lacrime, nel  recesso romantico, nega, da solo, l'antico mito  della Cacciatrice, vigorosa senz'arme in contro  alla belva, lo nega nell'origine e nell'intimo, più  che ogni variante di particolari o differenza di  luoghi o contrasto di episodii. C'è aria di Man-  tova; non, come in Cirenaica, calura di ghibli  conscio di ruggiti; non, come presso Pindaro,     k     228 V. - CIRENE MITICA   impetuoso vento del Pelio. Il mito è diverso.  Molle e prolisso nepote di un avo ferrigno e  conciso.   Ma è necessario non dimenticare che di tanto  trapasso, — se il terreno è lo spirito vergiliano,  — la radice è l'aver posto nell'acque, non più  della sorgente Gira, ma del paterno fiume tes-  salo, colei clie i Dori avevan veduta sterminare  le belve, e procacciar pace agli aratori nel franger  glebe. Ed è, questa, — si rammenti anche, —  l'estrema foce della vena mitica clie, dall'Eea,  trovò in Aristeo la sua origine prima e il fti'inio  motivo ; questo è l'ultimo effetto dello spostarsi  la materia mitica dall'un polo, la Libia, all'altro,  la Tessaglia.     IV. — Cirene in Libiu.   Narra in vece Acesandro, — storico cireneo  vissuto nel III o II (ch'è incerto) secolo a. C, —  " come, regnando in Libia un Euripilo, da Apollo  fosse in Libia trasportata Cirene; e come, poiché  un leone infestava il paese, Euripilo offrisse in  premio a chi uccidesse la belva il regno. Cirene  l'abbatté, e ottenne il trono „. E press'a poco  identico è il racconto d'un altro storico, Filarco.  Entrambi adunque lumeggiano a preferenza  l'aspetto libico della Ninfa. E fin l'episodio, —  culminante, — della lotta con il leone avviene  dicevolmente, non in Tessaglia, ma in Africa, a  difesa del paese e per iniziativa di un re indi-  geno, Euripilo.     CIRENE IN LIBIA 229     Né cotesta è accorta correzione di eruditi ra-  zionalisti. Il contesto medesimo ci appare difatti  negli esametri martellati d'un poeta cireneo : di  Callimaco; segno che la fiaba possiede, come  una non dubbia energia vitale, cosi radici assai  vaste e assai profonde nel territorio cirenaico (1).  Di Apollo e Cirene egli abbozza, nel suo Inno  ad Apollo^ rapidamente un quadro che ha per  sottinteso un racconto analogo a quel di Ace-  s andrò.   In verità molto fu lieto Febo, quando i succinti se-  guaci di Bellona tra le bionde figlie di Libia danzarono,  il sacro tempo ad essi venuto delle Cameadi. Non ancor  potevano alla fonte di Gira accostarsi i Dori; ma la  fitta di boscaglie Azili abitavano. Essi riguardò il  Signore, egli stesso, e alla sua sposa additava : sul  colle dei Mirti (2) dove la figlia di Ipseo uccise il leone,  infesto d'Euripilo ai buoi. Di quella più gradita danza  non vide ApoUo mai; né a città alcuna tanto giovò  quanto a Cirene, memore dell'antico ratto.   L'antico ratto è quel medesimo narrato dal-  l'Eea e da Pindaro ; ma il racconto di Callimaco,  come quello di Acesandro, è da l'Eea molto lon-  tano. Siam bene in Libia ; bene è lungi la Tes-  saglia; e il leone rugge da vero su le sabbie  del deserto. Per che modo e traverso che vicenda  si giungesse a cotesta forma della saga, che due     (1) Cfr. § Vili. Il testo di Callimaco è del Wilamo-  wiTz^ (Berlino 1907).   (2) Domina la fontana di Gira.     k     230 V. - CIRENE MITICA   storici e un poeta indigeno ripetono analoga-  mente, è indicato, nel medesimo carme calli-  macheo, dal processo del pensiero artistico.   Un gruppo di giovini si fìnge, nell'inizio, rac-  colto in un recesso ove son palme e allori, —  gli alberi di Febo Apolline; e nelFaria sta,  grave e dolce, il senso sacro del Dio immi-  nente.   Oli quale di Apollo croliossi la fronda d'alloro,  quale tutto il recesso ! Lungi lungi l'impuro ! Già già  a la porta col bello piede Febo percuote. Non vedi?  Stormi dolce lene la Delia palma d'un sùbito ; il cigno  nell'aere soavemente canta. Da soli or disserratevi pa-  letti dell'uscio; da soli, chiavistelli : però clie il Dio non è  juii lontano. Giovini, al canto ed aUa danza or vi ap-  parecchiate! Apollo non a tutti appare; ai generosi,  pure. Chi lui scorge, è grande; chi non lo vede, pie-  colo è quegli. Noi ti vedi'emo o Lungisaettante ; e non  mai saremo esigui.   Nell'èmpito di ardore sacro e, più, poetico che  trascina Callimaco , alquanto si svolge cosi  da prima il fervoroso esordio ; il quale non è  tuttavia vano, ma serve a preparare, animan-  dola della sua vita illuminandola del suo lucore,  la lauda che vi si farà poi del Dio e l'enume-  razione delle bellezze di lui e degli attributi.  Egli è Nomio, nei pascoli. Egli è l'Ecistère, fon-  dator di città. Quadrienne pose le fondamenta  in Ortigia.   E Febo anche la mia città ferace [Cirene] a Batto  indicò : — corvo, — fu guida al popolo che si recava     CIRENE IN LIBIA 231     iu Libia, propizio al colono : e fé' giuramento di mura  donare ai nostri Re. Sempre buon giuratore è Apollo-   La città di Callimaco è dunque fondata, egli  dice, dal Latoide e sotto la protezione di lui re-  stano i Sovrani. Quest'è fra il Dio e Cirene una  attinenza nuova e diversa, clie non avevamo fino  ad ora conosciuta. Apollo non è lo sposo di una  Vergine cacciatrice, ma il fondatore della città  che di quella lia il nome: si che accanto al  nesso pindarico del Nume e della Ninfa amanti,  si dispone quest'altro nesso, diverso. Ed è la  prima novità che ci sorprende.   Una lunga parentesi segue poi in cui si rin-  tracciano le sedi del culto di Apollo Carneo:   Apollo, molti te chiamano Boedromio ; molti  Clario; ovunque a te sono assai nomi. — Io però  Carneo te chiamo : mi è patrio costume cosi. Sparta,  Carneo, fu la tua prima sede : seconda Tera: terza  poi Cirene. Da Sparta te il sesto rampollo di Edipo (1)  condusse a la colonia Tera; da Tera te il sanato Ari-  stotele recò in terra d'Asbisti e splendido ti eresse un  tempio , un'annua cerimonia in città istituendo, in  cui molti fan l'estrema caduta su l'anca per te tori, o  Signore. 'l'j 1^ Carneo molto pregato! i tuoi altari  fiori in primavera recano, quanti variopinti le Ore  adducono mentre lo Zefiro spira rugiade: dolce croco,  l'inverno. Sempre a te è fuoco perenne ; né mai la ce-  nere rode carbone di jeri.     (1) Cfr. Erodoto IV 147 e il sèguito del nostro testo.     232 V. - CIRENE MITICA   Traluce qui nella vicenda del culto al Carneo  la realtà storica dei coloni dori mossi da Sparta  a Tera nel sec. VI e, nel VII, da Tera in Libia :  vanno, e li segue il Dio. Appare qui, di più, quel  " sesto nepote di Edipo „ e quell'Aristotele che  avrebbero, a punto, contribuito ai due trapassi.  Ed è la novità seconda.   Sùbito appresso vengono dal poeta indotte,  figure prime su la scena, Apollo e Cirene sul  colle dei Mirti in atto di contemplar, — vedemmo  dianzi, — i coloni Dori danzanti tra le fanciulle  libiche: sùbito appresso, dunque, al brano in cui  Cirene è asserita colonia di Apollo, e allo squarcio  dove dal Peloponneso a Tera e in Libia vien  perseguito il culto di Carneo e il trapasso dei  Dori. Comprendiamo allora da tale succedersi  dell'imagini, che l'Euripilodi cui la Ninfa avrebbe  quotato il regno deve essere in rapporto mitico  appunto con quei due spunti favolosi poco prima,  più che svolti, accennati: con la fondazione di  Cirene per opera di Apollo; e con le migrazioni  dei coloni dal Peloponneso, traverso Tera, in  Libia. Comprendiamo che al racconto più pret-  tamente libico su la Signora delle belve è pre-  fazione una saga su l'origine di essa colonia  cirenaica, saga in cui è da ricercare la causa di  quello.   Ed è da ricercare, anche, il motivo per che la  coppia di Apollo e Cirene s'aderge qui, su quel  suo colle dei Mirti, con un'energia nuova, che non  è la pindarica e oltrepassa l'Eea. Da prima di  fatti genera maraviglia che in un carme reli-  gioso, qual'è l'Inno in apparenza, si rilevi assai  meno che in un epinicio quel rispetto austero e     EFRIPILO ED EDFEMO 233   insieme divotamente inchinevole il quale costi-  tuisce Tanima della scena pindarica. Eppure  tutto l'Inno parrebbe mosso da quel medesimo  vento che, dal Nume, agita la palma delia e la  fronda peneja. Non è. Un sentimento vivace spira,  bensi; ma è patriottico: è del cittadino verso  chiunque, e sia dio, protegge le mura della sua  Città e il trono dei suoi Re ; non del fedele verso  (luel solo, ed è Dio, da cui è rapito nell'assoluto.  Quindi il breve componimento si spezza in due  parti diverse tenute insieme, male, da un elenco  dei pregi e degli attributi di Apollo. La prima  di quelle parti è mossa da una contenuta esal-  tazione patriottica che si veste, — abito non suo,   — del i^aramento religioso, si schematizza nella  scena rituale: ivi Callimaco non sa trovar che  scarsa armonia di struttura, e abusa di formule  innovate sol con sapienza verbale. La parte se-  conda, in vece, lascia prorompere la stessa esal-  tazione patriottica, ma questa volta verso espres-  sioni sue proprie ed adeguate : ivi è la glorifìca-  zion della patria nel suo bel passato. L'artificio  si discioglie in arte.   Ma il bel passato della patria Cirenaica è la  leggenda. E la leggenda bisogna a noi oramai,   — sospettatala, — rivivere tutta.     Y. — Euripilo ed Eufemo.   Regnava in Cirene una famiglia, la quale,  per ricorrere in essa il nome Batto e per esser  ritenuto un Batto primo re del luogo, era detta     I     234 T. - CIRENE MITICA   dei Battiadi. Di quel primo sovrano si serbava  memoria, e accanto al più vulgato si ricordava  un altro nome: Aristotele. Anzi era sorta in  qualche maniera a questo proposito una leggenda  etimologica: avvicinandosi cioè Batto al greco  verbo ^atTaQi^o) (balbettare) si raccontava d'una  sua balbuzie dalla quale avrebbe avuto il nomi-  gnolo (1). Ma ben più su di lui si spingeva la  genealogia fittizia dei Battiadi ; a simiglianza  difatti d'altre molte case regnanti, sostenevano  essi di scendere da un eroe : un Euf emo, che rite-  nevan figlio di Posidone e di stirpe beotica. Qua-  lunque valore tal j)retesa avesse e comunque si  fosse originata, a ogni modo raggiungeva lo  scopo di collegare i Re con un Dio: scopo, si  sa, non infrequente in fra i Sovrani. E poiché  tra la Libia e la Beozia un nesso era tutt' altro  che palese, fu facile lasciar in breve cadere  nell'ombra il particolare della patria di Eufemo  o, per lo meno, non accentuarlo con insistenza (2).  Ottimo appiglio inoltre era quell'Eufemo, a  fin di compiacere un desiderio che diremo non  illegittimo per regnanti. Bisognava, per rendere  più sacrosanta più fatale la signoria de' Battiadi  in Libia, che qualche avvenimento degli anti-  chissimi tempi, di tempi narrati nelle epoi^ee  dai cantori di eroi, non pur la giustificasse, si  anche la rendesse a dirittura inevitabile. E se  già Eufemo fosse stato su la spiaggia africana,  ben poteva quello essere il punto in cui il Fato     (1) F. Studniczka Kyrene (Leipzig 1890) 96.   (2) Cfr. § VI 2.     EURIl'ILO ED EUFEMO 235   ineluttabile toglieva inizio, e si stringeva il nodo  primordiale delle vicende future. Cosi piacque  loro di imaginar la fiaba.   Sono questi i due dati (l'Eufemo capostipite,  l'Eufemo in Libia) su cui deve aggirarsi tutta  la tradizione della colonia cirenaica. Ed entrambi  seppe assai opportunamente disporre svolgere e  compiere quella fucina medesima che aveva fog-  giato l'Eea di Cirene. E fu con gli stessi modi  e risultati analoghi. Come allora si vide la grezza  materia indigena imprimersi di uno stampo el-  lenico e assimilare in sua roventezza talun'altra  fiaba estranea; cosi si scorge ora il territorio  leggendario dei Greci spigolato a favore e di  Eufemo e dei Battiadi suoi nepoti. E d'Eufemo  questa è l'Eea, la quale risponde, abilmente, a  due domande: — con chi e quando fu in Libia  Eufemo, il figlio di Posidone? — quali vicende  traversarono e quali vie tennero i discendenti  di lui, fino a Batto, per raggiunger la Libia e  compiere il fato?   Alla prima dimanda fu sodisfatto con un  antico spunto mitico, assai propizio. Si raccon-  tava che gli Argonauti compagni di Griàsone  ìran giunti, in certo punto del loro viaggio, al  [lago Tritonio {Ufivri TQiTùìvig), ove sarebbero  ■stati impacciati nel proseguimento. Cotesto lago  'era quello ove venne detersa Atena nascente da  Zeus ed era riconosciuto poi (prima indipendente  da luoghi concreti) nella palude ch'è presso  la piccola Sirte, nell'odierna Tunisia: all'estremo  limite occidentale, verso l'occaso del sole. Quivi  sarebbe apparso loro il dio del luogo Tritone e,  placato col dono d'un tripode, avrebbe ammae-     i     236 V. - CIBENE MITICA   strato gli eroi su la via da tenere fuor dalle  strette. Episodio dunque atto quant'altro mai a  favorir qual si voglia racconto di anticM sog-  giorni greci in Africa. Quando, ad esempio, lo  spartano Dorieo intorno al 515 tentò di coloniz-  zare quei luoghi, la novella fu rinverniciata a  prò di lui cosi: dopo aver ricevuto il dono e  aver ajutato i naviganti, il Dio profetò che il  tripode rinvenuto da un discendente degli Argo-  nauti avrebbe determinato presso il lago la fon-  dazione di cento città greche. Malauguratamente  Dorieo falli nel suo tentativo, non lungi da Tri-  poli, al Cinipe, fiume tra le due Sirti (1): e il  tripode non fu rinvenuto perché le cento città  non crebbero. Ora in modo analogo procedette  TEea in grazia dei Battiadi. Per essa gli Argo-  nauti sarebber pure giunti alla palude Tritònide ;  ma a un'altra del medesimo nome: a un lago  chiamato cosi presso l'odierna Bengasi (si pen-  sino i '' laghi salati „), in temtorio dunque della  Cirenaica. Inoltre colà si presentò loro non Tri-  tone, ma un diverso nume: Euripilo (2). Il quale  è, come la sua denominazione significa, il Dio  della " larga porta ,, infernale ; molto diffuso in  vero tra i Q-reci e localizzato di preferenza, qual  divinità ctonia, presso grotte e antri ove la  volta rocciosa s' inarchi su la buja ombra. Cosi  appunto vicino ai laghi salati s'apre la bocca  orrida del Gioh onde le acque profluiscono fuor  dalle tenebre alla luce : e chi vi si avventuri non  può far all'oscuro lungo viaggio su l'onde, che     (1) Erodoto V 42. IV 178-9. (2) Cfr. § VI 1.     EURIPILO ED EUFEMO 237   ben presto la fiaccola è troppo scialbo chiarore, e  v'è al corpo concreto delFuomo esiguo spazio,  molto alle fantasime deirimaginazione spaurita.  I Dori scorsero i\'i la voragine dell'Ade e sen-  tirono ivi presente il dio Euripilo. Lui dunque  addussero al prossimo lago Tritonio e lui nar-  rarono farsi incontro ai compagni di Griasone  in luogo di Tritone. Con una variazione poi del  motivo originario, egli fu fatto donare una zolla  non ottenere un tripode. Chi la ricevette? Eu-  femo. L'avo dei Battiadi fu imaginato per tanto  Argonauta allo scopo di poterlo far x)aTtecipare  al \'iaggio che doveva sanzionare il dominio dei  suoi favolosi discendenti. Non vano dono in vero,  né inutile a chi Tebbe tra mani I però che fosse  fatidico e necessitasse molte vicende av\'enire.  D'Eufemo i nepoti toccheranno come lui quel  lago, ritorneranno nelle terre di Euripilo (1).   Per quali cammini? Era la dimanda seconda.  — Alla risposta forniva argomento anzi tutto  la realtà della storia: il Peloponneso, l'isola di  Tera, la Libia (le tre tappe storiche de' coloni  Dori di Cirenaica) dovevan essere almeno i tre  punti obbligati e le tre tappe della via compiuta  dai discendenti di Eufemo. Ad esse tre una quarta  ne aggiunse il mito : poiché Eufemo era di-  venuto Argonauta, e già l'epopea omerica co-  nosceva, come sede temporanea di Griasone e dei  compagni di lui, l'isola di Lemno, di fronte a la  costa trojana e all'apertura dell'Ellesponto (Dar-  danelli). Accettate e fissate queste come pietre     (1) Cfr. § YII.     238 V. - CIRENE MITICA   miliari su la strada, ancora bisognava addurre  i motivi per i quali i nati da Eufemo dall'una  all'altra di quelle sedi si trasportassero: e i mo-  tivi dovevano tutti accogliersi e disporsi intorno  alla prima causa e centrale, il dono della zolla  d'Euripilo. — Eufemo dunque dalla Libia, rice-  \aita la piota africana, si recò con i navigatori  iVArgo in Lemno e con essi là procreò, giusta il  mito assai vetusto, da l'isolane donne una schiatta  nuova. — Questa aveva ora da recarsi nel Pelo-  ponneso e da toccar quella Sparta che nel VI se-  colo inviò pure una colonia a Tera; ma perché?  A giustificare si disse che nel Peloponneso era  la patria di Eufemo; e poiché Posidone gli era,  nella leggenda, padre e poiché al capo Tènaro  Posidone aveva, coll'appellativo di Greàoco e con  valore di divinità ctonia, rinomatissimo culto,  ivi fu asserita la propria sede di quello. Ciò  non era senza incoerenze : al contrario, Eufemo  {£v(prifiElv) non aveva fin allora avuto carattere  alcuno di nume sotterraneo, e gli fu tribuito ; era  precipuamente beota, e diventò tenario; non  godeva di venerazione presso il Geaoco, e vi  venne imaginato. Ma l'incoerenza non è, com'è  noto, affatto l'eccezione non pur nell'arte si  anche nel mito. E qui ben trascurabile riusciva : di  fronte al risultato, raggiunto, di spiegare il  viaggio da Lemno al Tenaro come un ritorno  nei luoghi del packe. Ed eccellente riusciva : per  il vantaggio, conseguito, d'innestare nel racconto  le relazioni fra gli Eufèmidi e Sparta, come con  quella ch'era al Tenaro non lungi. — Inverati or  dunque questi primi due scopi, era d'uopo con  pari arte legittimar l'approdo in Tera. E qui lo     EURIPILO EP EUFEMO 239   spunto fu favorito da un aneddoto epico. Odisseo  na\dgante con l'otre di Eolo, ove tutti i maligni  vènti eran raccldusi, fu tradito nel sonno dai  compagni; dai quali sciolto l'otre contro il di-  vieto, la nave rifuggi da la pietrosa Itaca (1).  Similmente l'Eea narrò che su VArgo la gleba  d'Euripilo, ben custodita dai servi, era poi  stata, in un istante di men vigile attenzione,  travolta dall'acqua del mare: sin che, su l'onde  e le correnti, pervenne all'isola di Tera. Per ciò,  non essendo essa da Eufemo stata recata sul  Tenaro nella sua patria, ma dai flutti all'isola,  da l'isola non dal Tenaro partirono i coloni. —  Ma se cosi fatta partenza era voluta dai fati, il  segno ne fu offerto e il momento scelto per  opera di Apollo nel suo santuario delfico. Colà  essendosi Batto recato a cagion della sua mal  sicm^a voce {§aTxaQÌl,o)), n'ebbe 1' ordine espresso  di colonizzar quel tratto della spiaggia africana :  ove sarebbe guarito dell'ingrato difetto. Lode  dunque, ben meritata, al Dio. — Ultima inven-  zione questa che rivela il luogo ove la leggenda  degli Eufemidi si elabora e fa d'improvviso su  tutte le vicende camjjeggiare Febo ; ma che si  riconnette assai bene con la figura del Latoide  in qualità di Ecistere o colonizzatore, siccome  già rinvenimmo in Callimaco. Il calcolo poi  genealogico fissava nella quarta generazione dopo  l'Argonauta l'abbandono del Peloponneso; nella  diciassettesima la spedizione verso la Libia (2).  Con la qual serie di invenzioni episodiche l'Eea     (1) Odissea v. 46. (2) Malte.n 192.     240 V. - CIBENE MITICA   aveva alla fine assolto anche il secondo tra i  suoi due compiti fondamentali.   Essa era dunque intessuta sovi^a un canovaccio  dall'apparenza assai più logica che fantastica ;  ciascuna delle sue trovate secondarie era indi-  rizzata a un ben preciso fine e sodisfaceva a  un bisogno del ragionamento; al ragionamento  ai suoi scopi alle sue esigenze eran subordinati  i particolari, anche minuti, inerenti agli eroi e  alle sedi loro. E tuttavia quell'era opera di ec-  cellenza poetica. Queste, che pajono a noi am-  bizioncelle dinastiche e pretese mediocri ; questi,  che ci sembrano fini pratici non artistici: eran  nella realtà stimoli possenti della fantasia ; la  quale, obliando ben jjresto l'origine delle sue  imagini e il termine, spaziava poi nel suo proprio  regno da inconcussa signora. E la bella favola,  creata, ignorava il compenso del suo mercenario  creatore. L'accortezza medesima con cui vi si  profìtta di analogie nominali per accostare, ad  esempio, Eufemo traverso Posidone al Tenaro;  la prontezza con cui vi si sfruttano i vecchi  motivi dell'epopea e degli Argonauti; j)otrebber  essere mezzucci d'artifizio : ma sono in vece fun-  zioni spontanee della mente ricca di antiche  e recenti novelle, di miti radiosi e tenebrosi. Nel-  l'ardenza del fuoco inventivo, come le impurità  si distruggono, cosi si avvicinano i diversi, si  mischiano i contigui. Ond'è che il dovere dello  storico, intento a ricercar la causa d'ogni linea  nel disegno leggendario, incresce al contempla-  tore della bellezza.   La quale riappare, con tutta la sua unità sin-  tetica, nell'inno smagliante di Pindaro, quarto     I     EURIPILO ED EUFEMO 241   tra le Pitiche, in onore del re cireneo Arcesilao  vincente col cocchio. L'anno 462 a. C.   Oggi bisogna, o Musa, che tu stia presso un valo-  roso amico, Re dell'equestre Cirene, a fine di spirare  col trionfante Arcesilao l'aura degli inni dovuta ai  Latoidi e a Pitone.   In Delfi un giorno, presso le dorate aquile di Zeus,  presente Apollo, la sacerdotessa profetò Batto colo-  nizzatore della ferace Libia: 'avrebbe, la sacra isola  lasciata, costrutto una città di bei cocchi sul risplen-  dente colle e di Medea compiuto, con la settima e  decima generazione, il detto Tereo ; il qual l'animosa  figlia d'Eéta disse da la bocca immortale un di, la re-  gina dei Colehi '.   Disse Medea cosi ai semidivini navigatori del prode  Giasone: " Udite, figli di prodi e uomini e Dei! Af-  fermo che da quest'isola (1) battuta dai flutti, nelle  sedi di Zeus Ammone [Libia] la figlia di Epafo tra-  pianterà una stirpe cara ai mortali. Con i delfini di  brevi pinne scambiate veloci cavalle ; le redini coi  remi; guideranno vorticosi cocchi. Il fatidico segno  è per mutare Tei-a in madre di grandi città; il segno  che su le foci del Tritonio lago, da un Dio a uomo  simile, donante in dono ospitale una zolla, ricevette  Eufemo dalla prora disceso — benigno su lui Cronio  Zeus fé' rimbombar un tuono — quando gli s'imbattè,  mentre l'ancora di bronzee marre, briglia della veloce  Argo, sospendevano alla nave. Dodici giorni già la  portavamo, trave marina, dall'Oceano trattala per i miei     (1) (Tera).   A. Ferrabi^to, Kalypso. 16     242 V. - CIRENE MITICA   consigli, su i deserti dorsi della Terra. Allora soli-  tario un dèmone avanzò, bello assunto l'aspetto di  venerando uomo : con amici detti fece principio, come  ai sopravvenienti ospiti i generosi le mense offron  da prima. Ma la scusa del dolce ritorno ci vietava  l'indugio. Disse Euripilo nomarsi, figlio del Geàoco  immortale Enosigèo : riconobbe la fretta : sùbito allora,  con la destra divelta dal suolo una piota, l' improvvi-  sato dono ospitale volle donare. Non si rifiutò l'eroe,  ma balzato su la riva, a la mano porgendo la mano,  ricevette la fatidica zolla. Veggo che essa, travolta fuor  della nave, galleggia sul mare coi flutti, di sera,  l'umido pelago seguendo : che certo spesso furon  esortati i servi, che allevian le fatiche, di lei custodire ;  ma gli animi loro obliarono. Ed ecco in quest'isola  l'eterno s'è riverso seme della Libia d'ampie contrade  — prima del tempo. Che se in vece gittato l'avesse in  patria, a canto della sotterranea bocca dell'Ade, sul  sacro Tènaro, il sire Eufemo figlio dell'equestre Posidone  che un di Europa nata da Tizio generò presso le  sponde del Cefiso, — nella quarta generazione allora il  sangue di lui avrebbe toccato l'ampio continente con i  Danai, da la vasta Lacedemone partitisi da l'Argivo  golfo e da Micene. Adesso per contro nobili discen-  denti troverà nei letti di straniere donne, i quali, col  favor degli Dei, giunti a quest'isola genereranno un  Eroe signore nei piani di cupa nuvolaglia : a lui nella  molto dorata casa Febo , a lui in epoca futura di-  sceso al tempio Pitico, vaticinando ricorderà di condur  . popolo su navi presso l'opimo santuario niliaco del  figlio di Crono „.   Tali di Medea le schierate parole. S'impaurirono,  immobili silenziosi, gli eroi simili a Dei, gli accorti  detti ascoltando.     EURIPILO ED EUFEMO 243   beato figlio di Polimnesto (1), te giusta il discorso  di Medea elesse l'oracolo dell'Ape delfica — con spon-  taneo accento : la quale te, tre volte salutato, dichiarò  fatidico re di Cirene, te per la imperfetta voce inter-  rogante qual rimedio vi fosse appresso gli Dei!   Il conchiuso ciclo dell'ode si termina col san-  tuario delfico da cui aveva tolto l'inizio : nel  mezzo stanno le vicende di Eufemo e dei ne-  poti. Le quali sono in altro brano anche più  esplicitamente significate, ancor su la trama  dell'Eea: dico nei versi tra il 251 e il 260. " E  su le distese dell'Oceano e nel XJurpureo mare e  tra le mariticide donne di Lemno furono   essi (2) Ivi un giorno o notti fatali il seme   accolsero della raggiante vostra fortuna (o Bat-  tiadi); ivi infatti la stirpe di Eufemo piantata,  per l'avvenir sempre fiori. E mescolatisi di  poi per sedi coi Lacedemoni, abitarono l'an-  tica isola Calliste (Tera): dalla quale a Voi  il Latoide concesse di far prosperare con gli Dei  le i^ianure di Libia e di abitare, con savio con-  siglio regnando, la divina città di Cirene dal-  l'aureo trono „.   Ma questo secondo sviluppo del mito, se è più  minuto, è anche assai inferiore rispetto al primo,  n quale mostra quanto profondamente l'animo  severo e ascetico di Pindaro consentisse e con-  cordasse con il contenuto riposto della leggenda  cirenaica. Le due profezie (l'una, da cui comincia  e che sul finire richiama, della Pizia; Faltra,     (1) (Batto-Aristotele). (2) (Gli Argonauti).     b     244 V. - CIRENE 3IITICA     svolta con ampiezza, di Medea) son come il motto  ripetuto sur un soffitto nel ricorrere dei fregi :  significano con insistenza l'unico essenziale e fon-  damentale concetto del mito, il Fato onde il  regno dei Battiadi è voluto nei tempi. Medea  con il veggente occhio lo prevede. La Pizia con  la bocca immortale lo attua. Gli uomini si sce-  mano a strumenti della sorte; s'accrescono a suoi  eletti. Se non che il Fato è non soltanto il  nucleo del mito, ma l'intima fede di Pindaro, —  che è apx^unto stimolata dalle esteriori circo-  stanze in cui fu composta l'ode. Aveva egli avuto  incarico di indurre il re, Arcesilao di Cirene, col  vantarne la vittoria, a riaccogliere in città il f o-  ruscito Damofilo; ne era nuovo a tali offici non  graziosi e vi si vedeva sovente 'costretto. Di qui  un'amara tristezza: non pure pel rimorso secreto,  e qua e là palese, di piegar la sua Musa a com-  pito venale ; si anche ]3ev un coperto pessimismo  umano, onde crollava con uguale sfiducia il capo  dinanzi al forte che aveva vinto la gara come  dinanzi all'opulento che l'aveva pagato. Per lui  ricchezza e prodezza vengono all'uomo dal de-  stino dagli Dei, e l'uomo non se ne scordi, e  per sé lasci levare in minor tono il vanto, si  massimo per i Numi che l'hanno in protezion  benigna. Il fato dunque ancora. Tal coincidenza  fra la propria fede e il nucleo del mito fu còlta  dal poeta con un balzo magnifico di rapidità  intuitiva: Arcesilao vince a Pito ; da Pito muove  Batto ; ecco il trapasso esterno : un destino  solo fa vittorioso Arcesilao e colonizzatore Batto;  ecco il midollo intimo a questo organismo lirico.  Il resto, lo scopo pratico dell'ode è cosi obliato che     EUEIPILO ED EUFEMO 245   Pindaro deve ritornarci su con uno sforzo alla  fine, quand'è ormai arido e gli si spingon a fior  dell'animo i men nobili desiderii e una certa  compiacenza d'intrigo. Per ora, nell'inizio, tutto  è divino. Ma quella che comincia non è l'epopea  d'un eroe, né l'inno sacro ad un Dio : è l'elegia  d'uno spirito d'uomo.   La strada su cui Pindaro s'è lanciato non è  la " carrozzabile „ (à/ia^izóg) : è nuova , aperta  con un colpo di fantasia geniale. Oggi sarebbe  una scena coreografica ; a quei tempi uno spet-  tacolo dei misteri eleusinii ; sempre , il basso-  rilievo d'uno scultore che faccia i corpi come  le anime, concreti di evanescenza. Nella notte  dei tempi Medea, maga di semplici e vate del  futuro, dice agli eroi irrigiditi d'ansia la sua  profezia. Sono circa cento kola percorsi da un  brivido unico, che culmina alla fine nell'invoca-  zione a Batto, vibrante di fede. Se non che, su  la strada nuova ed insueta non dura l'imagina-  zione: già l'episodio di Euripilo apparso agli  Argonauti s'era innestato con diversissima effi-  cienza nel gran quadro di Medea vaticinante,  come quello che vi recava tempere più pesanti  e meno diafane. Con esso episodio si riconnette  poi, non appena cessato l'anelito dell'incom-  bente fato, l'ami^io racconto su i motivi e sulle  vicende onde mosse e per che riusci la impresa  degli Argonauti: ampio racconto che ha tutto  una nuova serenità omerica, una placidezza di  lunghi favellari, un indugio molle su i modi  delle vesti e i sussurri delle folle, un tono, in  somma, appreso dai rapsodi. Giasone fermo su  la piazza di Fere con le due lance e il doppio     246 V. - CIKENB MITICA   costume, l'abboccamento con Pelia, i banchetti  di cinque notti e cinque giorni, l'accorgimento  obliquo del Re contro il giovine, l'elenco degli  eroi saliti su l'Argo: questa è l'altra strada, la  " carrozzabile „. Pindaro vi entra franco e li-  bero; lo illude la facilità con cui la fantasia  gli crea nuove scene: nelle quali egli dà segni  dell'attitudine sua di statuario creatore della vita  neirimmobilità. Ma a poco a poco la concision  vigorosa scompare; la scena diviene atto, l'atto  dramma; e una imperfetta dramaticità trava-  glia lo spirito del poeta per affermarsi , senza  riuscirvi, o per integrarsi, senza poterlo. Egli si  distrae troppo, una parola lo devia spesso , gli  manca la sicurezza del ritaglio e il coraggio di  sacrificare i trucioli. E continua cosi , a lungo,  faticandosi, irritandosi : l'opera gli riesce un in-  sieme di momenti, scelti senza acume di tra-  gedo, e cuciti con lungaggini di epico. Lascia  un luogo e un gruppo per correre nell'altro  luogo e presso l'altro grupx30 a cercarvi quel  che là non aveva trovato; non si sodisfa; ri-  prende; e cade senza lena alla fine. Allora grida  con sdegno : " è troppo lungo per me seguir  la carrozzabile ! „. E sul suo spirito esausto  hanno presa, soli oramai, gli scopi materiali del  carme. Termina in pesce.   Falliva adunque l'epopea il dramma l'inno  sacro. Eppure Pindaro è tempora che sa gittare  un'ostia armoniosa su l'altare del Dio ; né sempre  sbigottisce di fronte all'eroe ed all'uomo, ma  tal volta li costringe col suo verso in perfetti  camagli. Perché, quindi, gli mancò quell'arte  nella quarta Pitica? La risposta è nella natura     EURIPILO ED EUFEMO 247   stessa del suo errore. Tutta quella ricerca affan-  nosa d'una base ove consistere cli'è il racconto  degli Argonauti è piena di maraviglie oltre  umane e di giustizie divine. Giasone viene a  rivendicare appunto il sacrosanto diritto di se-  dere sul trono tolto ingiustamente agli avi; e  nel paese dei Colclii, come già lungo il viaggio,  le sue gesta sono insolite non di coraggio ma  di miracolo. Il fuoco dei mostri non l'offende,  né i colpi del drago. Par chiaro, pertanto, che  il poeta poteva credersi avvolto sempre da quel-  l'atmosfera di fatalità grandiosa la quale som-  merge in sé il " tereo detto di Medea ,,. Ma  s'ingannò, ed è qui la sua elegia. Toccava il ro-  manzesco della novella, il mirabile della fiaba,  dopo essersi abbandonato, supino il volto, nel-  l'estasi santa. La magia lo deludeva con una  maschera di religione; il cuore non pago pun-  gendolo a irrequetudine. Cosi la sua arte non  propriamente gli mancò , ma più veramente  venne provandosi in vano a molti cimenti sotto  cui è una continua insoddisfazione intima: la  insoddisfazione dello spirito che ha aderito in-  tiero a un impeto di profonda religione e, non  accorgendosi a tempo del transito verso minori  sfere, s'agita come per men perfetti gusti. Ora  quella adesione era stata possibile nel cuore di  un mito: il mito dei Battiadi, in cui pulsa, ori-  gine e scopo della sua stessa vita, il senso so-  lenne d'una prov^ddenza e volontà fatale. Sicché  poche volte una saga ebbe più consono poeta;  pochissime, un tal inno è rimasto documento  lirico della mischianza dell'uno con l'altra e  dell'elegiaca nostalgia che ne consegue.     248 V. - CIRENE MITICA     VI. — Gli Eufemidi e Batto.   Una cosi compiuta intuizion del mito non ha  più Erodoto (1). Il sicuro suo equilibrio lo porta  anzi a svolgere della saga proprio quella parte  che Pindaro meno degnava di cure : dove, di-  fatti, il poeta volge tutto il suo compiacimento  verso Tetà primeve, verso Eufemo e gli Argo-  nauti , Euripilo ed Apollo, — eroi e numi ; lo  storico è pien di zelo per i discendenti di co-  loro, }3er gli Eufemidi, per l'Euf emide preferito  Batto, — non eroi né numi ma uomini. Il primo  era assorto nella premessa della leggenda; il  secondo corre alle conseguenze. Delle conse-  guenze Pindaro stesso aveva bensì fatto cenno,  non più nella Pitia quarta, ma nella quinta (del  medesimo anno); gli accadde però per sbalzi e  tratti non connessi, senza organismo, e senza  profondità di attenzione. Vide Batto porre in  fuga i leoni africani " perché recò loro una  lingua d'oltre mare „ ; vide i Terei guidati da  Aristotele fondar templi e instituir cerimonie:  tutto in pochi kola (2) de' quali la lode di Apollo  è lo scopo vero e precipuo. Ben altro Erodoto :  a lui la fiaba, che non è proprio fiaba, comincia  anzi dagli Eufemidi e da Lemno ; quel che pre-  cede è avvolto in un silenzio il quale può essere  incredulità, è forse sol tanto indifferenza. Cosi  lo storico comincia a narrare. Egli narra con     (1) IV 145-156. Cfr. Malten 95 sgg. (2) 103-137.     GLI EUFEMIDI E BATTO 249   una ingenuità dagli ocelli un poco attoniti e  forse un poco sorridenti ; molto si compiace nei  particolari minuti; molto più pensa di poter la  tradizione degli Eufemidi connettere con altre  indipendenti.   Ecco, a suo dire, da Lemno partono non  solo gli Eufemidi ma i più fra i nepoti degli  Argonauti, di cui quelli sono porzione. Onde gli  accade di giustificar doppiamente il loro sog-  giorno nel Peloponneso: sul Taigeto, non lon-  tano dal Tenaro, perché ivi (si sottintende; egli  non dice) è la sede di Eufemo; a Sparta, perché  i Tindaridi lacedemoni navigavan su VA?-go :  ritornan dunque " nelle sedi dei padri „. A tutti  X)oi dà il nome di Minii. Minii e Ai^gonauti son  difatti concetti affini (su la cui origine non è  qui dicevole indagare) ben presto uniti e tal  volta identificati. — Per spiegar poi la loro par-  tenza da Lemno richiama la leggenda, a bastanza  tarda, dei Pelasgi cacciati dall'Attica nell'isola :  i quali avrebbero sloggiato i Minii. Ma è com-  binazione grama e non primitiva. — In fine,  i Minii, giunti nel Peloponneso per quella causa,  per quale si recarono in Tera? Esisteva, come  un mito cirenaico dei Battiadi, cosi un mito,  ma j)iù tardo, tereo su la colonia spartana giunta  nellisola intorno al VI sec. ; e in esso si parlava  di un " Tera „, palese eponimo dell'isola, che vi  avrebbe condotto taluni Lacedemoni e le avrebbe  dato il suo nome. Di tal mito trae vantaggio lo  storico per far muovere parte de' Minii insieme con  quei Lacedemoni, il cui capo Tera avrebbe  fatto loro la profferta. Uniti navigarono dunque  su tre triacòntori verso l'isola. Ivi, — bisogna sup-     k     250 V. - CIRENE MITIGA   porre, — i Minii si serbaron distinti dagli altri  cittadini, al meno come schiatta; laddove il  trono fu ottenuto, è ovvio, dai discendenti di  quel Tera (l).   [In proceder di tempo] Grinno figlio di Esania e  discendente di cotesto Tera, essendo re dell'isola  di Tera, si recò a Delfi per condurre dalla città un'eca-  tombe. Lo seguiva, insieme con altri cittadini, Batto  figlio di Polimnesto, per stirpe appartenente agli Eu-  femidi dei Minii. A cotesto Grinno re dei Terei clie  lo interrogava intorno ad altre cose, la Pizia rispose  di fondare in Libia una città. Quegli obiettò dicendo :  " Ma io, o Signore, sono già vecchio e pesante nel  moto : tu dunque comanda di far queste cose a qual-  cuno di questi giovini „. A un tempo disse queste  cose e accennò a Batto. Allora tali avvenimenti. Più  tardi, andatisene, trascurarono l'oracolo non sapendo  in qual luogo della terra fosse la Libia né osando  inviare una colonia in un'impresa ignota. — Per  sette anni dopo ciò non pioveva in Tera, durante i  quali le piante tutte dell'isola tranne una s'inaridirono.  Ai Terei allora che l'interrogavano la Pizia rinfacciò  la colonia in Libia. E poiché non avevano altro ri-  medio al male, mandarono in Creta messaggeri per ri-  cercar se qualcuno dei Cretesi o dei meteci fosse per-  venuto in Libia. Vagando per l'isola, costoro giunsero  anche alla città di Itano, nella quale s'imbatterono in  un pescatore di porpora a nome Corobio, che dichia-  rava d'esser arrivato, portandolo i vènti, in Libia e, di  Libia, all'isola Platea. Assoldato costui, lo condussero     (1) Cfr. Erodoto IV 145-149.     i     GLI EUFEMin E BATTO 251   a Tera, e da Tera parti da prima un'avanguardia non  numerosa. Avendoli Corobio guidati a quest'isola di  Platea, vi lasciarono Corobio con cibi per alquanti  mesi e tornarono essi rapidamente ad informare i Terei  intorno all'isola. Ma indugiandosi costoro più del con-  venuto, a Corobio venne meno ogni cosa. In sèguito  una nave Samia, di cui era nocchiero Coleo, diretta in  Egitto, fu portata dinanzi a questa Platea. I Samii  appresero da Coi'obio l'avvenuto e gli lasciarono cibi  per un anno... I Cirenei e i Terei strinsero a partir da  quel fatto grande amicizia coi Samii. — I Terei che  avevan lasciato Corobio nell'isola, giunti a Tera an-  nunziarono d'aver occupata un'isola di fronte alla  Libia. Ai Terei piacque d'inviarvi il fratello sorteggiato  in gara col fratello e uomini da tutti i distretti che  erano sette : a loro preposero condottiero e re Batto.  Cosi inviano due navi pentecòntori a Platea (1).   Questo racconto riesce notevole anche perché  vi è taciuta con arte la balbuzie di Batto senza  che al consulto dell'oracolo si sostituisca altro  preciso motivo; e perché vi appare la volontà  di attribuire, oltre che ai Terei anche ai Cretesi  e ai Samii qualche parte nella colonizzazione  della Libia. Volontà, la quale risponde, eviden-  temente, a una tendenza politica tarda: a giu-  stificar le relazioni e di commercio e d'altro fra  lo Stato cirenaico e le due importanti isole. Ora  a xDunto questo facile rilievo addita il luogo     (1) Cfr. Eeodoto IV 150-153. Il brano che riguarda l'ul-  teriore storia dei Samii è omesso perchè estraneo al  nostro mito. Edizione C. Hude (Oxford 1908).     252 V. - CIRENE MITICA   onde Erodoto trasse tutta la sua fiaba. Egli fu  verso la metà del V secolo in Cirene. Ivi erano,  come si disse (1), due focolari mitici : l'uno dei  primi coloni, l'altro dei secondi venuti sotto il  re Batto II. Tra quelli, che tenevano il governo  e avevan quindi desiderio di giustificar con il  mito non pure il regno dei Battiadi ma anche  la loro politica, raccolse la narrazione tradotta  pur ora.   Tra quegli altri in vece che osteggiavano i Re  e i loro predecessori attinse un'altra fiaba. La  quale non è se non questa medesima ove Ari-  stotele sia divenuto e balbuziente e bastardo, e  i coloni Terei appajano pochi di numero e cac-  ciati dall'isola per opera dei lor proprii concit-  tadini. E poiché Creta, per la sua stessa posi-  tm-a geografica fra Tera e la Libia, non poteva  facilmente esser soppressa nel racconto, ne fu  tratto con accortezza profitto per far aiDparire  anche di impura discendenza il primo colono  Batto. Cosi:   Vi è a Creta una città Gasso nella quale era re  Etearco; che, avendo una figlia orfana, a nome Frò-  nime, sposò un'altra donna. Costei, entrata in casa,  volle anche nel fatto esser matrigna verso Fronime,  procacciandole danni e macchinando ogni male contro  di essa. Alla fine calunniatala d'insana lascivia persuase  il marito che le cose stavano cosi. Questi indotto dalla  moglie concepì un piano infame contro la figlia. Vi era  infatti ad Gasso un commerciante Tereo, Temisone.     (1) V. sopra § l II sostrato storico.     GLI EUFEMIDI E BATTO 253   Costui Etearco invitò a banchetto ospitale e fece giu-  rare che lo avrebbe servito in ciò di cui lo pregasse.  Quando quegli ebbe giurato, gli consegnò la figlia sua  propria e gl'ingiunse di condurla via e d'immergerla  nel mare. Temisone in vece, sdegnato per l'inganno del  giuramento, sciolse i vincoli ospitali e fece cosi: prese  la fanciulla e salpò ; quando poi fu in alto mare,  adempiendo il giuramento di Etearco, la legò con funi  e l'immerse nel mare; ma la ritrasse poi e si recò a  Tera. Colà Polimnesto, insigne cittadino tereo, fece  Fronime sua concubina. Trascorso del tempo, nacque  ad essa un figlio balbo e di sbilenca voce, cui fu  posto il nome di Batto... [A Batto la Pizia interrogata  d'un rimedio per la balbuzie, impose di colonizzar la  Libia, ma solo dopo una lunga serie di sventure e un  secondo comando inviarono i Terei Batto con due  navi pentecòntori]. Navigando verso la Libia costoro  non riuscirono ad altro fare che ritornarsene a Tera.  Ma i Terei cacciarono i reduci e non consentirono che  si avvicinassero alla spiaggia ; ordinarono invece di na-  vigare indietro. Essi, costretti, navigarono indietro, e  occuparono l'isola che giace sopra la Libia, la quale,  — come fu detto, — si chiama Platea (1).   Ma se tal versione della fiaba aveva il preciso  scopo di sminuire i Battiadi, anche l'altra non  serbava più in Erodoto la intima e possente vi-  goria pindarica. C'è una troppo spessa pàtina  di comune e piatta concretezza umana, su questa  leggenda, oramai. Le figure hanno scemato la     (1) Erodoto IV 154-156. Sono omesse le considerazioni  personali di Erodoto sul nome Batto.      254 V. - CIRENE MITICA   loro statura; le voci, abbassato il tono; i gesti,  ristretta l'ampiezza; fin l'oracolo delfico ha  rimesso della sua dignità religiosa, un poco a  pena, e a stento riesce a dargli valore di vene-  rando il sèguito delle sventure che puniscono  la trasgressione del suo ordine. Qui il mito vuol  esser storia con esagerata pretesa : ne ingoffisce  ed ingaglioffa alquanto. E in quell'aspetto della  sua evoluzione che permette la esegesi degli  eruditi o la prepara o quasi l'attende.     VII. — Conchiusione.   Gruardando ora a distanza questa tradizione  dei Battiadi, se ne distinguono ben chiare e  rilevate tre figure essenziali : Apollo Latoide,  di cui con pari insistenza Pindaro ed Erodoto  ripetono l'opera importante nell'impingere i co-  loni; Eufemo, capostipite della casata e com-  pagno di Giasone ; Euripilo infine, nume indigete  d'una grotta libica, simbolo, in sembianza d'uomo  e con valore divino, della pili antica vita afri-  cana anteriore ai Greci, strumento per ciò eletto  dai Fati a preparare dei Greci l'avvento. Ma  Apollo era il Dio medesimo che, nell'Eea di  Aristeo, aveva condotto Cirene dalla Tessaglia  in Libia. Euripilo è il nome stesso che ritorna  in Callimaco come d'un re da cui la Signora  delle belve ha il trono. Si profila dunque ora  compiuta tutta l'ossatura di questa compagine  mitica.   Due Eee stanno a fronte : di Cirene e Aristeo,     COSCHIUSION'E 255     luna; l'altra di Eufemo. Diverso hanno il con-  tenuto e diversa leggenda elaborano: della Ninfa,  la prima; dei Battiadi, la seconda. Ma comuni  sono e il rilievo di Apollo e il suolo libico e la  origine delfica. Simili dunque e differenti. In  forza della lor dissimiglianza restano in più  d'una evoluzione lontane: cosi l'Eea d'Aristeo  tocca, da un lato, il massimo del suo adulterarsi  tessalico ; l'Eea di Eufemo raggiunge, dall'altro,  la maggior sua umana pianezza; senza che si  formino attinenze e stringano nessi. Ma in forza  della loro simiglianza giungono per diversa via,  in uno stadio della lor vicenda, a compene-  trarsi : cosi TEuripilo dell'una Eea s'intrude nel-  l'altra, da Eufemo si trasporta a Cirene; e la  Ninfa della fontana j)assa a proteggere (insieme  con Febo) i coloni dori danzanti tra le fanciulle  libiche, la lottatrice solitaria si circonda d'un  popolo. Unici restano distinti, di qua e di là,  Eufemo ed Aristeo : i due perni delle due  Eee. Nel centro, punto del contatto, il carme  di Callimaco. All'un fianco, di Pindaro la Pitia  nona e Vergili© ; all'altro, Erodoto e la Pitia  quarta.   Lo schema di cotesta evoluzione mitologica  è dunque complesso come un quadro genealo-  gico. E per vero le singole forme della saga  son congiunte da intime attinenze di derivazion  vicendevole ; alle quali tutte predomina il nesso  fra la Cirenaica e Delfi, nesso che di tanto  vasto e lento propagginarsi mitopoetico è, quasi  capostipite, la origine prima.     CAPITOLO VI.  Kalypso.     I. — L'ÌTituizìone mitica.   Il mito è miracolo.   L'occliio vede il chicco di grano scender fra  le zolle, il Sole sparire nel mare, la luce vincer  le tenebre: vede piccole cose ed esigui spetta-  coli che appena lo affaticano lo abbagliano lo  trattengono, e che un nulla basta a significare (1).  Ma se all'occhio dia lo spirito una freschezza  nuova, una maraviglia ingenua, un acume creato  di verginità animatrice, fuor dal mondo reale  il fatto e la cosa escono trasfigurati, esalano  la lor concretezza in trasparenza, sfumano i     (1) In questo capitolo gli esempii addotti son desunti  dai precedenti capp. II-V. Ma ci dispenseremo dalle con-  tinue citazioni. Cfr. anche cap. I § IV e V.   A. Ferrabino, Kalypso. 17     258 VI. - KALYPSO   loro contorni in nuove linee : — si tramutano  in una specie nuova. Il Sole che tramonta nel  mare era il mondo esteriore, vivo della sua vita  secreta. Il vecchio re che il figlio uccide è il  mondo interiore, vivo della vita spirituale. E il  miracolo si è già compiuto: restio ad analisi  nella sua complessa essenza ed inesauribile ric-  chezza: figlio del mistero, perché nato da una  energia la quale tanto meglio si cela, quanto  più si manifesta varia: nato dall'uomo. Il filo-  sofo, riflesso dell'età tarde (1), indaga l'opera  mirabile, ne scevera taluni elementi : il più, il  fondo vero, — il miracolo dello spirito transfi-  gurante, — si perde fra le sue dita incerte. Quindi,  il mito solare è di origine oscura come le vicende,  che narra, dell'Astro. E il mito del seme è miste-  rioso nel suo principio come la fecondazione  della gleba.   Per ciò la saga naturalistica vibra tutta d'un  afflato lirico. E il canto dell'anima umana nel-  l'atto di coglier la vita al di fuori, di possedere  con suggello suo proprio quel che i sensi avver-  tono. Contiene quasi un ebro balzar ferigno dal-  l' interno all' esterno ; e pur racchiude insieme  un' illuminata elaborazione intima, un assorbi-  mento dell'esterno nell'interno. Esulta nello sco-  prir la natura, e le dà un nome e la umanizza.     (1) Cfr. p. e. la teoria dell'illusione presso Steinthal  Einleitung in die Psychologie und Sprachtvissenschaft (1871)  §219 sgg. ; e quella dell' ap per ce z ione (impressione,  associazione, appercezione) presso Wundt Volkerpsycho-  logie II 1 (Leipzig 1905) p. 577 sgg.     l'intuizione mitica 259   per avvicinarla allo spirito. Quando l'aratore ha  segnato diritto il suo solco, obbedendo al secreto  istinto geometrico della stirpe e imponendo alla  Terra indomita il segno dell'Uomo, ha preceduto  con atto analogo colui che armerà di clava, per  assomigliarlo agli umani, il Sole vittorioso contro  il bujo. Onde l'individuo in cui più intenso il  miracolo mitopeico si avvera, esalta in sé tutta  la razza, le dà la sua anima come una divina  coppa cui tutti e attingano e contribuiscano;  è l'eletto a godere il brivido e a lanciare il  prorompente grido della vittoria, conseguita  sopra la sensibile natura dallo spirito scosso fin  nelle radici profonde ; è il mortale che, calcando  la terra, volge in breve giro il suo braccio, in  più ampio, e pur ristretto, orizzonte il suo  sguardo, ma dice in sé stesso di fronte all'Uni-  verso dei suoi sensi " ti capisco „. La malinconia  dello scienziato moderno che sa di non poter  dare alla forza ignota, o mal palese in talune  forme, che un nome, e non crede d'aver capito  l'essenza quando ha vestito d'un aspetto umano  il fenomeno, è lungi di secoli. Quegli che ha  scoperto tra la luce e l'uomo un nesso, tra il  cielo e l'uomo, tra il mare e l'uomo, sente, trion-  fando di felice ignoranza, che ha, allora solo,  veduto la luce il cielo ed il mare.   Ma lo spirito umano, nell'atto di travestir di  sé il mare ed il cielo, di foggiar volti all'ar-  cobaleno e alla fiamma ed alla spiga, e di  scorgere nella vicenda delle stagioni un fatto  come civile, non va però si oltre in questo suo  bello errore, da non serbar, della forza immane  rivelata da quei fenomeni, del mistero per cui     260 VI. - KALTPSO     avvengono e sono ref rattarii all'intervento nostro,  traccia alcuna; né, per serbarla, trova modo più  efficace che trasportare il tutto in una sfera più  che la consueta possente e a cui esso medesimo  soggiace. Cosi il mito naturalistico si svolge su  la scena del divino. E il fenomeno mitologico  s'intreccia e si compone con il fenomeno reli-  gioso, seguendo con questo una simigliante evo-  luzione dal naturismo all'animismo al perso-  nismo, per la quale si complica si allarga si  condensa, e giunge ad acquisire diversa bellezza  perdendo l'originaria trasparenza. Si che nel  principio ogni mito della natura è un racconto  intorno ad un nume; e sia pur rozzo il racconto  e rozzo il nume.   La creazione della saga, adunque, somiglia  per tre aspetti a tre diversi ordini di elaborazion  spirituale : perché infonde la vita a individui che  la fantasia par animare di un soffio e la realtà  foggiar a sua sembianza, è analoga all'opera del-  l'arte ; perché finge i motivi dei fenomeni e quasi  li spiega dinanzi al pensiero non ancora ben  destro, è affine ai procedimenti scientifici che  insegnano le cause dei fatti ; perché, da ultimo,  induce l'animo a reverenza d'un potere più largo  più alto, or solo più forte or anche più buono,  rasenta l'intuito di Dio e il senso religioso. —  Non può, tuttavia, identificarsi con alcuno fra  quei tre ordini disparati. Anche quello con cui  sembra meglio coincidere è per vero disforme :  l'opera dell'arte non è accompagnata dalla co-  scienza di certezza e di apprendimento che è  (vedemmo) insita nella fiaba; non è quindi se-  guita, come la fiaba, da una tradizione di rispetto,     l'intuizione mitica 261   per cui venga riprodotta e amata traverso le  succedentisi geniture. La fede mistica per contro,  quando sente la divinità vivere e spirare, e la  vede risplendere, non si menoma in individua-  zioni personificate e denominate, si più tosto in  formule ove all'Essere è congiunto l'attributo.  Dalla scienza che mira alle leggi generali su  dai fatti specifici, che raggruppa in classi, rior-  dina in ischemi, è necessario dir lontanissima la  saga? la quale dal singolo fenomeno trae la sua  materia, e scorge ogni giorno un diverso Sole  farsi occiduo, ogni stagione un diverso seme  scender fra le zolle ; e soltanto tardi scopre le  ripetizioni delle apparenze e le identità fonda-  mentali; ed è già matura quando narra Cora  ritornar ogni anno, con sorte alterna, alla madre  e al marito. — Anzi, lungo ciascuno di quei tre  ordini lo spirito si evolve in guisa indipendente ;   ^fin che da l'una delle tre mete sopravviene a  deformare o incrinare o addirittura distruggere  il processo mitologico. Quanto l'artista, e specie  il letterario, violi con la sua indomabile licenza  la primordial purezza della favola è in queste  pagine segnato con studio. Né qui si tace come  anche la religione scavi alacre nella polpa stessa  del mito, fin nel ricettacolo della sua virtù ri-  posta, e lo vuoti del succo secrétovi dalle sca-  turigini prime. Ma, violento senza pietà, lo  scienziato non erige ove non abbia prima di-  strutto ; e ogni sua parola che afferma, nega in  pari tempo la saga.   Diverso dall'arte dalla fede dalla scienza, che  cos'è dunque il mito?  Badiamo anzi tutto che in esso il soddisfaci-     262 VI. - KALYPSO     mento pseudo-scientifico non è essenziale quanto  il resto, ma un poco estraneo. Forse, dopo aver  pensato il conflitto fra tenebre e luce sotto la  specie di lotta fra l'uomo forte e bello e l'uomo  torvo e mostruoso, il pensiero, poveramente cri-  tico, si appaga della rappresentazione come di  causa; ed è quella medesima che stimola un  senso rudimentale di questa: o forse, è il con-  trario ; e l'uomo crea la saga i^er apprendere, e  per spiegarsi le forze naturali le plasma umana-  mente e umanamente le fa vivere. Certo, negli  inizii ogni fenomeno pare, trasfigurato, causa di  sé stesso : ma incerto rimane se la ricerca della  causa preceda o segua la trasfigurazione, la de-  termini o ne scaturisca. Oggi nel bimbo si av-  verano entrambi i casi, cbé la fragile mente or  si chiede, dinanzi al sorgere della Luna dal mare,  " perché? „; ora con spontaneo moto traveste in  fogge fantastiche la veduta dei sensi. Comunque,  sia certo l'un modo, o sia sicuro l'altro, il mito  serba il nucleo più vero, là dove è il suo secreto,  intatto dalla pseudo-scienza. Accade un tempo-  rale; e un altro; e un terzo; molti: diversi sx)i-  riti li contemiDlano; tutti (supponiamo) si di-  mandano il motivo dello scompiglio dei bagliori  dei tuoni; ognuno, per contro, crea una favola  differente ; a tutti (supponiamo) la favola creata  è spiegazion del fenomeno apparso. L'identità  dell'impulso iniziale o, se cosi vuol credersi,  dell'effetto ultimo iDermane contradittoria alla  varietà delle creature mitologiche. Queste^, supe-  rando sempre e l'uno e l'altro, s'ergono animate  da una congenita forza eh' è propria, splendenti  d'una bellezza intima ch'è peculiare a loro. Più     l'intuizione mitica 263   tardi si scorgono bensi le simiglianze fra i varii  temporali e si adduce la falsa causa comune; ma  allora la saga non deve nascere, si trasforma  in vece e, accrescendosi di un particolar nuovo  clie la integra, raggiunge una taiDpa del suo  evolversi: dall'esterno dunque si muove questo  ulteriore intervento. Cosi il racconto di Cora  rapita sotterra e riapparsa in terra si compie  poi del giudizio di Zeus e del ritorno periodico ;  ma era. E si compie, fin che al meno l'attitudine  scientifica non si maturi cosi da non poter più  arrotondare la fiaba, ma da doverla oppugnare  e distruggere.   Né anche Tintuizione religiosa però dev'essere  senz'altro inclusa nel fenomeno mitico. E quella,  difatti, estremamente varia e vasta; trascen-  dendo la natura e le sue forze, si nutre anche  d'ogni altra esperienza attinta all'ambito che è  più specialmente umano. I primitivi avvertono  Dio nella famiglia, — e onorano di culto la dea  Madre e il dio Padre ; lo sospettano o persin lo  affermano nell'individuo che più sa e più intende,  onde inchinano il Vate. E pure ammesso che  primieramente la Divinità appaja traverso la  luce del Sole e il risucchio del mare, non si di-  mentichi che, in quei casi, l'uomo primevo si  pone in contatto con la sovrapotente forza della  Natura, in cui è Dio, ma non tutto Dio; che,  ciò è, egli si trova in un primo stadio della sua  evoluzione religiosa, oltre il quale deve progre-  dire ed entro il quale non intuisce, a dir vero,  se non se la sola Natura; che, quindi, il mito  coincide con il senso di Dio, ma con un aspetto  un momento, transitorii e insufficienti, di quel     264 VI. - KALYPSO     senso. E allora è più esatto affermare, la saga  contener l'intuito della possanza naturale rive-  lata nel fenomeno.   Da ultimo, molta luce viene anche dall'ana-  lisi di quelle che dicemmo trasformazioni e in-  dividuazioni artistiche: il vecchio re che cade  dal suo trono e cui succede il figlio; la donna  che le rapiscono la figlia per nozze; il duello  fra Perseo e Fineo. Qui sono i tipi dell'espe-  rienza consueta; qui accennano le figure che  jeri vide il mitopoeta, che vede oggi, e domani  di nuovo; i casi, di cui ha acquistato l'abito  il suo pensiero. Le forme della consuetudine so-  ciale alle quali è avvezzo gli aderiscono alla  fantasia come una veste indistruttibile. E somi-  gliano ai mezzi espressivi della tecnica che ogni  artefice possiede e che sono, nel suo spirito, quasi  le vie ove s'incanala l'intuizione. Lo scultore ha  l'esercizio della creta plasmanda; è sicuro del  proprio pollice ; la mano gli vale una certezza :  si che traverso questo possesso egli vede la statua  e foggia la statua. Il poeta sa giacente nel suo  scrigno celato la materia ambrata del Verbo e  la numerosa del Ritmo: onde ricava stimolo e  mezzo all'imaginare. Il facitor del mito aveva  limiti non varcabili alla sua ricchezza: le parole  eran acconce a dire le vicende sociali e a de-  scriver le forme umane ; la vita arborea non  possedeva moto se non per braccia, e il suo prin-  cipio non era da esprimersi se non con l'imagine  dell'uomo ; sola la umanità si possedeva dall'in-  terno, immersi in lei; la Natura si affrontava  dall'esterno: a questa quella unica poteva per  tanto fornire linee e procacciar significazioni. Il     l'intuiziqne mitica 265   Sole è lontano ; nuoce e giova a noi fuori di noi ;  come narrarlo? E un re. Il seme cresce nella  spiga celato allo sguardo, sta nel pugno ma è  diverso dal pugno, cade nel suolo ma è diverso  dall'occliio che lo vede: come narrarlo? E la  creatura tolta alla madre. In progresso di tempo  l'uomo troverà i termini atti ad esprimere il corso  apparente del Sole e il trapasso del chicco; non  li ha trovati allora. Allora serve per la Natura  l'umano; l'umano è quasi tecnica all'intuizione  naturalistica. — E l'analogia (non identità, si  badi) è i3rofonda; come quella che si regge anche  su l'indissolubile nesso intercedente tanto fra le  diverse intuizioni artistiche e le rispettive tec-  niche, quanto fra il fenomeno naturale e le forme  umane. V'è, tra l'uno e l'altre, vincolo di reci-  procità, si che queste par violino bensi quello,  ma par insieme che il primo esiga senza scampo  il sussidio di tal violazione. Parvenze entrambe  vere, che di tutt'e due il mito è complesso. Ac-  cade quindi che si possa decidere dell'epoca in  cui una saga fu da principio narrata, per ciò  solo, che gli elementi umani e i dati dell'espe-  rienza sociale sono, nel groppo originario, scarsi  o abondevoli. E accadde per converso che taluni  fenomeni non determinassero la loro leggenda,  se non quando li potè assalire e trascolorare una  copia maggiore di consuetudini nostre. Si pensi :   ^erseo contro la belva ed Ercole contro Caco  sono analoghe manifestazioni dell'urto fra luce   tenebra ; ma quella non presuppone che l'uomo,  la selce acuminata, la fiera; quest'altra in vece  3ontiene già l'uso della mandra, la proprietà, e  costume dell'abigeato. Si pensi, anche: le vi-     266 VI. - KALYPSO     cende agresti del seme e della spiga non diven-  gono vicende, o siano trama narrativa, che a  patto di convertirsi in rito nuziale; anteriormente  non esistono, clié non sono intuibili. Come (con-  tinua l'analogia) non esiste per me, ignaro di  plastica, la posa statuaria, che gli occhi vedono  senza il consenso dello spirito seguace. — Ana-  logia, non identità. Che il divario è tosto sen-  sibile, non a pena si rifletta alla rispondenza che  è fra l'arti e le tecniche, in contrapposto alla  ineguaglianza che è fra l'umano e il naturale.  Le tecniche non esistono che per l'arti, ne costi-  tuiscono la preparazione voluta, né servono ad  altro che non sieno l'arti, né hanno radici altrove  che nell'arti. Il loro progredire è verso un affi-  namento che permetta di sottoporre sempre più  e sem^Dre meglio la materia sorda al possesso  artistico. E il loro affinamento esalta sempre più  e sempre meglio le arti; non le nega non le di-  strugge già mai. La storia della mitologia per  contro attesta, nelle sue pagine severe, che, come  sia salita a più grosso valore la somma delle  esperienze umane, di quelle esperienze (ciò sono)  traverso cui il fenomeno della Natura passa tra-  sfigurandosi, incontanente questo legame s'in-  frange, si che a due poli estremi la vita sociale  e gii spettacoli naturali si esprimono con indi-  pendenza. L'accresciutasi esperienza ha tocche  le discrepanze superando le affinità ; e la perizia  esercitatasi martella, per le discrepanze, fogge  diverse da le dicevoli per le affinità. — Si di-  chiara ora pertanto l'oscuro testo. Nel mito è  una visione manchevole del mondo esteriore al-  l'uomo, limitata alle crasse sue simiglianze co^     i     jH     LE MANIFESTAZIONI MITICHE 267   mondo interiore all'uomo. Nel mito è, per con-  verso, una vision manclievole di questo ultimo  mondo, ignara del suo contrapposto con quel  primo. Quindi fra l'uno e l'altro di essi un rap-  porto sol temporaneo, perclié solo parallelo alla  doppia manchevolezza. Ma perché le due insuf-  iicienti visioni sono le uniche per ora acquisite,  e iDerché la duplice acquisizione è avvenuta sul  fondamento delle crasse analogie, il rapporto  dev'essere ed è, anche, necessario e indispensa-  bile ; ed è, anche, bastevole ai primitivi bisogni.   Dunque conchiudendo si avrà ; ogni mito è un  detei'minato avvenimento naturale intuito come  forza so"VT.'apotente e veduto a traverso l'umano  in una mischianza che li deforma entrambi:   come forza sovrapotente e divina; — indi  il rispetto della tradizione letteraria, l'onore del  culto, e il pregio di motivazione scientifica;   in una mischianza che li deforma entrambi ;  — indi la fine della mitopeja con l'eccesso della de-  formazione e l'imxDOssibilità della mischianza (1).   Vita, per ciò, e morte. Quale la vita, e onde  la morte, sarà detto appresso.     I     II. — Le manifestazioni mitiche.     Scaturita, la mitopeja si moltiplica multifor-  memente e si altera evolvendosi. Ma immutati     (1) Questo nostro risultato storico intorno al mito con-  traddice B. Croce {G. Vico pag. 66) per cui il mito è un  " universale fantastico „.     I     268 VI. - KALYPSO     restano, fra tanto trasfigurarsi di innovazioni e  di creazioni, i modi e i mezzi della manifesta-  zione mitica. La quale quindi è necessario pre-  cisare, innanzi che s'imprenda l'indagine sul  viver e sul morire mitopeico.   Poi che il fenomeno della Natura dovette, per  affiorare su le coscienze, traversar l'umano, pati  d'esser contemplato come l'umano, in tutti i ri-  spetti; ciò è: quale linea, volume, colore, moto  psichico e gesto corporeo ; e fu scolpito nella ma-  teria, dipinto su le tavole, narrato con parole.  Poi che d'altra parte il fenomeno della Natura  rimase luminoso della magnificenza divina, ri-  chiese di penetrare nei culti e nei riti in cui  ai Numi offrono i terreni l'olocausto dei loro  puri e torbidi cuori. Sono dunque due grandi  categorie espressive ; e su i caratteri di ciascuna  in generale non è qui da far cenno, che ne trat-  tano apposite discipline. Qui basta notare come  sieno entrambe primigenie, coeve tutt'e due  agl'incunaboli della saga; la quale quindi le  trovò senz'altro, sbocchi dicevoli alla sua vitalità  impetuosa. Il fuoco sotterraneo, rompendo la  crosta terrestre e scorrendo in lava, ebbe appa-  recchiati i canali al suo corso ardente. Che anzi  non si sarebbe né meno levato in un respiro  immane, ove non si fossero rinvenute le vie atte  al suo sfogo. Or è certo che dopo la nascita fu  dalla mitopeja tentato di continuo l'allargamento  di quei suoi mezzi; riuscendole senza dubbio di  svolgerli e di migliorarli, col secondare l'affinarsi  verbale, scultorio, pittorico, religioso. Ma falli,  se mai avvenne, ogni prova d'acquistare alla saga  quell'espressioni ch'erano potenziali all'ora del     ■ritò     LE MANIFESTAZIONI MITICHE 269   primo suo crearsi, e attuali divennero solo più  tardi. Il termine filosofico, la jDarola scientifica  (vocaboli astratti) fuggirono la leggenda come  si respingono sostanze non consentanee. E in un  dialogo di Platone la fiaba fu '' racconto,,, anche  se le si immettesse, come allegoria, un'astrazione :  l'astrazione riuscendo espressa, sia pure inade-  guatamente, dalla fiaba; mai questa da quella,  in alcun modo. Un poema sacro o patriottico, i  frontoni d'un tempio, l'umbone d'uno scudo, il  ventre d'un' anfora, il tergo di uno specchio: —  qui la saga si foggia a rivelare or l'una or  l'altra delle sue congenite potenze, senza dis-  sonare. L'arte. E quello, in cui la antichissima  intuizione della Natura esala uno dei suoi pro-  fumi pili reconditi, e non tra i meno intensi :  il culto.   Il mito può esser nel culto.   AUor quando su l'Ara massima si sacrificano  tori ad Ercole, in Roma, si narra la lotta del  dio contro il ladrone Caco. Persino nelle feste  di Carmenta o in quelle di Evandro il richiamo  della saga, se non certo, è possibile ; è in parte  sottinteso nelle menti dei fedeli. In Enna non  si venera Demetra senza ripetere il ratto di  Cora e, molto più, senza affigurarlo concreta-  mente. Nelle feste cirenaiche di Apollo Carneo  le danze trovan riscontro con i leggendarii balli  dei Dori in mezzo alle fanciulle di Libia.   Le forme però di questa interferenza fra culto  e saga sono varie. Nella più tipica, e ad un  tempo più semplice, il gesto del rito ripete la  vicenda mitica. Il cocchio trainato da cavalli     270 TI. - KALTPSO     bianchi, tra il popolo e i sacerdoti adunati (1) a  Siracusa, fìnge l'azione onde Cora fu ri addotta  alla Madre; e pretende di fingerla nel luogo  istesso ove l'anagoge avvenne. Il medesimo è  del ratto. E ad Eleusi si mostrava la " pietra  del pianto „, che aveva parte non piccola nel  culto e su cui Demetra si sarebbe seduta nel  cordoglio prima d'incontrarvi le figlie di Celeo.  Ma nessuno di cotesti esempii è tanto significa-  tivo, quanto il dramma greco nel suo contenuto  mitico. Né pure in Euripide, ove la concezione  è cosi moderna e lo spirito maturo cosi larga-  mente innova, è andato perduto il carattere pe-  culiare della tragedia o s'è cancellato il segno  delle attinenze antiche fra il lavoro letterario e  il culto sacro. Per le quali, in fondo, il dramma  appariva quasi la ripetizione gestita del mito,  il mito riprodotto attorno ad un altare, da per-  sone che ne affiguravano gli eroi, in vicende che  ne rendevano la trama. Appariva, in somma,  una specie di culto in cui il rispetto religioso  era ben presente, ben si sentiva l'ambrosia dei  numi; e tuttavia l'azione e il gesto awiavansi  a prendere il sopravvento. Appariva un culto  modellato sul mito.   Questa però, se è la più tipica interferenza tra  i due fenomeni umani, perché in essa la saga  offre al rituale i modi i tempi e i luoghi, non  è la sola né forse la più consueta. Un'altra è  frequentissima: per cui avviene appunto il con-  trario. Nel culto, molti fra gli atti obbligatorii     (1) Pindaro Olimpica VI 95 e lo scolio.     LE MANIFESTAZIONI MITICHE 271   e tradizionali si riportano, idìiì che ad un deter-  minato racconto leggendario intorno al dio che  si venera, agli attributi di quel dio alle sue  mansioni alle sue ordinarie potenze: le quali si  invocano in circostanze favorevoli, si supplicano  benigne ; o vero si irrogano lontane, si distornano  con offerte e con formule ritenute idonee. Vi  hanno inoltre, pure estranei al mito, atti reli-  giosi sorti in momenti diversi, per caso, per  coincidenze fortuite, per iniziative, anche inten-  zionate, di sacerdoti e di governatori. Si danno  infine templi e altari elevati, fuori di un certo  mito, per un nume cui il mito fu collegato  lDÌd tardi; come l'ara d'Ercole nel Foro Boario  che esistette innanzi all'avvento del Tirinzio  nella saga di Caco. Ora, tal complesso cultuale,  che è solo parallelo o, peggio, solo per incidenza  contiguo al racconto leggendario, non ne dura  a lungo estraneo, ma finisce col penetrarvi e  costituirvi un capitolo interpolato. E questa la  massa delle etiologie, che notammo neìVInìio a  Deìnefra, e che rinvenimmo a proposito dell'abi-  geato del ladrone latino. Sempre, in questi  esempii, il contesto narrativo si amplia a van-  taggio e ad interesse della realtà religiosa : fe-  nomeno che attinse il suo vertice in quei casi,  — ma non ne appajono in questo scritto, — che  tutta quanta la leggenda nasce dal rito.   Ebbene. Nella prima delle due interferenze  notate, troviamo la leggenda esprimersi per  mezzo del culto. Nella seconda, il modo opposto.  Fra le due non difettano attinenze; né è diffi-  cile decidere intorno alla priorità. I miti etiolo-  gici che scaturiscono dall'esercizio religioso sono     272 VI. - KALYPSO   senza dubbio, al pari degli etimologici, alquanto  più tardi degli spontanei miti naturalistici e per  solito, a differenza di questi, tristanzuoli. Anche,  la prima interferenza intacca e interessa intiera  la leggenda: onde il culto di Demetra investe  tutto il mito di Demetra, e il dramma tragico  tutta la saga di Andromeda; laddove la seconda  interferenza presuppone la leggenda, l'adotta,  non l'identifica con sé. Tuttavia, se ben si guardi,  la diversità non è tanto profonda quanto par-  rebbe. In entrambi i casi, difatti, dura un'anti-  tesi irrimediabile tra mito e culto. Del mito  sussiste sempre qualcosa, che non affluisce al  culto, ma lo prepara, lo motiva; permane un  che di non riducibile: fra una scena e l'altra  del rituale, fra un episodio e l'altro del dramma,  qualcosa è sottinteso, alcuni avvenimenti son  accaduti, che si rivelano nelle loro conseguenze,  ma si riferiscono a un diverso contesto: nel-  l'intervallo fra il sacrifizio a Giove Inventore  e quello su l'Ara Massima, si pensa, o si deve  narrare, l'apparir di Evandro con i Potizii e i  Pinarii, e quanto è poscia scritto: nel mezzo  tra la Catagoge e l'Anagoge sta il giudizio di  Zeus insieme con l'altre vicende : prima che  Perseo appaja ad Andromeda avvinta su la rupe  e agli spettatori stupefatti, egli ha compiuto  delle gesta e conquistato il capo della Gorgone ;  il che si deve dire, come in postilla, ma non  appartiene più al dramma sacro, bensi risale al  mito. Del mito, adunque, il culto illumina alcuni  tratti, essenziali se si vuole, esprime taluni punti;  ma si integra poi con interstizii d'ombra o con  premesse a pena accennate o con parentesi sup-     LE MANIFESTAZIONI MITICHE 273   pletive. Al che corrisponde quel che deve dirsi  sulla impotenza espressiva del mito rispetto al  culto ; la quale è però fatta più tosto di abbon-  danza, ijerché quello per solito trascende questo ;  consta tuttavia anche di debolezza. L'avventura  mitica di Cirene, invero, traduce assai poco del  culto ad Apollo Carneo: e le cerimonie eleusinie  0, in genere, greche in onore di Demetra non  sono a sufficienza chiarite dal solo ratto di Per-  sef one, si debbono venir comentate col sussidio  e d'altri mezzi e degli attributi che alla Dea  spettano in testi estranei a quella saga. Qui,  come altrove, il culto traspare nella leggenda,  ma per uno spiraglio solamente.   Il fenomeno cultuale e il fenomeno mitologico  non sono dunque idonei a esprimersi l'un l'altro.  Ciò può sembrare da prima strano, da poi che  si disse poc'anzi il nesso che li stringe. Strano  invece cessa di essere, quando si ponga mente  (che si disse pure poc'anzi) alla distinta natura  di tutt'e due: l'uno segue, se bene per solito con  lentezza, il maturarsi del pensiero religioso e l'af-  finarsi della sensibilità mistica, cosi che molto  si modifica, e si perfeziona di disinteresse, col-  l'evolversi del concetto di Dio; l'altro per contro  nasce da un'intuizione della natura che deve  permanere durabile, e vive nel suo profondo di  vita indipendente dalla religiosa. Due rami,  dunque, bensì dello stesso tronco; — ma rami  diversi. I quali s'incontrano come si vide ; e non  accidentalmente, giacché non si spiegherebbe la  costanza dell'incontro nei casi diversi ; ma per  due motivi.  1^ Ci è ben noto, per l'anteriore discorso, il carat-     274 VI. - KALTPSO     tere scientifico che assume la saga o già prima  del suo concretarsi o sùbito dopo. Ora, valendo  qual spiegazione del fenomeno essa tradisce  tosto un aspetto di utilità pratica ch'è quanto  mai confacente alle menti primitive (né solo a  quelle). Se il fulmine è la clava immane che  un Dio a volto d'uomo brandisce e agita con  braccio più che d'uomo possente, se ne stornerà  la minaccia e l'esizio con il j)lacare l'ira al  Nume dal cuore d'uomo : venerandolo di offerte,  in culto. E della spiga granita, della messe co-  j)iosa, è più salda la speranza se con gli aratori  l'attende una Dea, madre alla Spiga: e comune  suona il tripudio, come comune il lutto per il  rapimento: a lusinga, i mortali secondan pianto  e gioja dell'Immortale. Qui il sogno si af fioca,  si appanna; o no, ch'è meglio, si sgombra delle  nebbie rosate e si converte nell'egoismo quoti-  diano, ch'è il pane, il benessere, — la vita.   Ma l'altro motivo per cui culto e mito in-  terferiscono sta nella concretezza plastica, che è  di talune cerimonie del culto, e che le assempra  all'opera dello statuario, ossia le avvicina al-  l'arte. Quando di fatti la parola narra Demetra  trasmigrante per le terre con due fiaccole accese  su l'Etna, ha virtù di riprodurre nel suono la  figura dei sacerdoti agitanti le tede nelle ceri-  monie di Eleusi. E quando il ketos apparisse  vorace e si apprestasse alla vettovaglia umana,  riescirebbe a rendere nell'atto la forza conchiusa  del racconto. Il paludamento ed il gesto corri-  spondono all'elezione e alla disposizione verbale.  Ma non vi rispondono a pieno; e costituiscono  anzi forme secondarie dell'esprimersi, come un     LE MANIFESTAZIONI MITICHE 275   volto contratto nell'angoscia sottintende ma non  significa il dolore medesimo che il poeta piange  nell'elegia; né l'urlo del viandante assalito crea  nella carne vivente la divina maschera di Lao-  coonte.   Per tanto, non pure mito e culto non si so-  vrappongono del tutto; ma, anche là dove pajono  coincidere, il culto risulta una imperfetta espres-  sione del mito. Accanto alla quale perdura sempre,  e per integrarla nella quantità e per elevarla  nella qualità, la forma primaria e più acconcia :  — l'arte. Onde, nel fatto, all'arte aspirano,  quasi a compimento ed abbellimento, le varie  forme del culto, come i minerali alle fogge cri-  stalline. E la statua, il dipinto, il rilievo, insieme  con la ]3oesia, emergono, fiori di alto stelo, su da  quella gramigna ch'è il racconto dei sacerdoti  e il disadorno ricordo delle generazioni.   Tuttavia nell'arte stessa il mito trova diversa  efficienza di espressione. Il vasajo, che nel VI se-  colo affigura la saga di Andromeda su la materia  tornita e preparata alle vernici, si ripete, tra-  verso la serie dei suoi modelli, ad un'antica  forma del racconto caduta già in oblio nella let-  teratura ; ed è , solo , sufficiente per indurci a  costruire quella forma, di cui altre tracce non  sono rimaste. Ma sarebbe anche in questo spe-  cialissimo caso ardimento soverchio asserire in-  dipendente l'opera dei colori di lui. Giacché, in  tanto lo comprendiamo, e in tanto ci serve a  simboleggiare un intero strato mitico, in quanto  la letteratura possiede gli strati posteriori. Ci fa  risalire a una narrazione ; non ce la narra,     i^     276 VI. - KALYPSO   per sé. E del pari un bassorilievo ove Ades e  Persefone seggano sul trono tenendo fra le dita  tre spighe (1), richiama le nostre cognizioni sul  ratto della fanciulla, le conferma; ma non ce le  fornirebbe mai, per sé. Il motivo n'è palese per le  esigenze ineluttabili della scultura e pittura. Non  possono essere indipendenti dal racconto parlato  quelle arti che non debbono né fermare l'istante  né descrivere il moto. Il momento è la loro mi-  sura, ai due estremi della quale sono invarcabili  colonne d'Ercole. L'accenno è il loro mezzo per  rendere una vicenda, per fìngere il moto nella  statica. E né meno costituendo in serie i lor  prodotti riescono a rendersi autonome dalla  forma letteraria; che una Via Crucis raffigu-  rata da un genio non è se non mirabile chiosa  agli Evangeli (2).   Non pure, adunque, il mito è fenomeno, nella sua  espressione, a preferenza artistico; ma anche è  precipuamente letterario. La letteratura sola ha il  vantaggio di esprimerlo intiero, di insegnarcelo  se l'ignoriamo, di non abbisognare né di com-  pimenti né di premesse. Cotesto privilegio però  non s'intende tutto, che prescindendo da alquante  restrizioni. Bisogna, in primo luogo, ricordare  che il patrimonio delle lettere antiche ci giunse i  guasto e lacunoso, per dissipar lo stupore che,  contro la conchiusione recente, nasce dal ricordo     (1) " Annali dell'Istituto „ XIX (1847) tav. P.   (2) Su i rapporti fra arte e letteratura mitopoetica  scrisse belle pagine C. Robert BUd und Lied (= " Phi-  lologische Untersuchungen , V) Berlin 1881.     LE MANIFESTAZIONI MITICHE 277   dell'esame condotto intorno a quattro notevoli  miti. Si comprende difatti allora che, se le epopee  omerica ed esiodea, ad esempio, ci fosser per-  venute nella loro opulenza, il sussidio dell'arte  plastica alla Storia sarebbe ben diverso: non  cosi indispensabile né tanto notevole. La poesia  basterebbe. Bisogna inoltre allargare i termini  onde è concbiuso il concetto di letteratura: non  fermando l'occliio pure alla forma eletta, alla  ninfea emergente sul pelo dell'acque chete; ma  comprendendo nel vocabolo anche le manife-  stazioni più povere e grame, il racconto d'un  antistite, l'osservazione inetta d'un erudito, la  favola ciarlata fra i fedeli. Perché, se si consi-  dera nella sua ampiezza tutta questa saliente  marea, che si diparte da bassissimi fondi ed  espugna ben erte rupi, pervasa da un assiduo  moto di ascesa, insito nell'intimo o sospeso su  le forme come una legge fatale; se si scorge  il fremito creativo trascorrere in corsi e ricorsi  da Pindaro all'atleta, da l'atleta a Vergilio, da  l'umile all'eccelso, toccare le donne di Siracusa  e la mente di Timeo, raggiungere la Biblioteca  di Diodoro e la corte imperiale di Roma, per-  vadere l'abitante dell'Aventino e l'Annalista  dell'età travagliose: — si appalesa a pieno il  dominio, indipendente e incomparabile, che sul  Mito possiede la Parola.   Ed è dominio attivo. Il verbo non s'imprime  su l'intuizione, se non in una sintesi, che è sempre  originale, com'è sempre imprevedibile prima del  suo compiersi, e non del tutto sceverabile dopo.  E un castone che costringe il diamante ora a  smussare una punta ora ad arrotondare uno spi-     I     278     f?olo. Ogni racconto letterario di un mito, scritto  e parlato, ne è una forma nuova che non si può  ridurre, senza violenza o astrazione, a un'altra.  In questo, l'arte figurata e il culto, — a parte  la loro incompiutezza che si vide, — somigliano  alla letteratura; ma, anche in questo, le restano  addietro: perché serbano più tenaci, e l'una e  l'altro, non appena possedutala, una certa forma  e una certa versione d'una saga incidendola  per anni e anni in dati tipi e modi ; laddove la  parola ha una sua duttile mobilità, una sua  invitta energia innovatrice, che si tradiscono  nelle sfumature; fino a che l'imitatore, inconsa-  j)evolmente, travisa il modello, e Ovidio si di-  lunga intorno a Caco dall'Eneide, della quale  vuol ricalcare l'orme. La misura tuttavia d'una  cosi fatta attività di dominio, come distingue  tra loro le forme dell'arte, cosi gradua le specie  letterarie medesime, ed è il criterio del loro  pregio. La goffa nutrice che ripete la saga al  poppante innova bensì, che non s'evita; ma per  vero minimamente, a confronto dello storico e  del poeta: l'angolo del prisma è troppo esiguo,  al paragone, e la luce ne devia cosi poco che  si trascura. La personalità della parola è quella  di chi narra ; non si annienta mai, ma o si strema ;  o si invigorisce : e il mito ne riceve più o meno ]  individuate le sue forme. Onde è lecita per co-  modo di ricerca, se non esattissima in tutto, la  distinzione in due grandi categorie, separate per;  una diversa potenza creativa, dei contesti ver-  bali in cui la fiaba si esprime: nell'una stanno  gli sterili e gl'impotenti, nell'altra i vigorosi:  fecondatori.     LE MANIFESTAZIONI MITICHE 279   Senza traccia, come senza nome e senza gloria,  rimangono, e son massa, quelli: i ripetitori  menni. Non dispregevoli né pur essi, clie sono  la gleba rude, disprezzata ma indispensabile,  senza cui non esiste nulla e da cui tutto si ri-  pete. Sono del resto costoro, nella lor supinità  passiva, cosi tenaci nel rispettare per manco di  fantasia le fogge tradizionali, come utili a va-  gliar le innovazioni, che, diffidando, non accet-  tano se non quando una forza geniale le imponga,  e costanti ad applaudirle poi, assicurandone, col  ripeterle, la esistenza. Somigliano agli spetta-  tori, dinanzi a cui i tragedi vedevano agitarsi  le sorti delle loro creature, e che si serbavan  fedeli alle opere premiate. Per essi avviene la  selezione e si conserva la vita. Cosi che quando  non uno pili ne sopravvive, com'è oggi fra il  popolo nostro per i miti pagani, la favola è ben  morta, s'anche l'arte ne tenti con tocco divino  la resurrezione. Le radici sono inaridite.   Ma non possono d'altra parte raccogliersi in  un solo tutto i fecondatori del mito: che la  energia mitica non è semx)re la bellezza. Tal  volta l'artista dà il suo suono alla favola d'un  creatore ch'è disadorno: esiste il mitologo che  ordisce; esiste il mitopoeta che contesse ad  arazzo. Verità di non poca importanza, come  quella che serve a spiegare, perché il mito duri  e s'evolva anche durante periodi in cui l'arte si  tace, o compia anteriormente all'arte uno svi-  luppo assai grande. Cosi, pur tenendo conto dei  carmi perduti, ritorna nel nostro, pensiero la  trasformazione profonda subita dalla fiaba indo-  europea j)i"esso i Grreci prima di vestirsi nel-     280     Vlnno a Ermes di begli esametri omerici: o  pmi'e il comporsi della saga siracusana di De-  metra avanti a Timeo e agli Alessandrini. Né  senza traccia è rimasta, come senza nome d'in-  dividui, l'opera di cotesti facitori non artisti o,  per dir meglio, scarsamente artisti: dei mitologi.  Ai nomi delle persone, clie mancano e non var-  rebbero, possiamo sostituire quelli dei centri  onde il moto di elaborazione mosse e si propagò:  quali Delfi per la saga cirenaica, lo spazzo del  Foro Boario per il furto di Caco, Argo per le  imprese di Perseo: feraci campi di rigogliosa  messe, tra cui raro langue il ciano e il papa-  vero, e su cui ci vien fatto di gittare obliquo lo  sguardo traverso i voli di Pindaro i colori di Ver-  gilio il racconto di Ferecide. — In generale, per  conseguenza, la mitopoetica vigoreggia come un  progresso rispetto alla mitologia (1). E tale as-  serzione è sempre vera, se intesa a dovere: pe-  rocché il progresso può essere istantaneo e com-  piersi nell'attimo medesimo della innovazione,  ma né pui^e allora manca. Non sappiamo se  l'autor dell'^ea di Eufemo metta in versi il  lavoro mitologico di un predecessore o crei esso  medesimo la saga che contamina le pretese dei  Battiadi con la spedizione degli Argonauti al  lago Tritonio: non sappiamo né sapremo, e la     1     (1) Per chiarezza: mitopeja dico la complessiva ela-  borazione mitica (letteraria, artistica, cultuale). Fra l'ela-  borazioni mitopeiche della letteratura distinguo la mi-  tologica dalla mitopoetica che sola ha pregio  estetico.     LE MANIFESTAZIONI MITICHE 281   verità elude con volti ambigui i nostri occki  incerti. Ma se, come si ritiene meglio probabile,  la contaminazione balza insieme con il ritmo  dallo spirito di lui, è segno che, per fortunata  sorte, il gusto estetico coincidette con la vigoria  generatrice. E il caso è, in Grecia specialmente,  non raro; ed è ben motivato dalle premesse  nostre. Quando, difatti, il mitologo preferecideo  raccolga in un racconto su Perseo il mito tessalo  e il peloponnesiaco, e li fonda con gli elementi  jonici, che si dissero sopra, stringe membra  prima incoerenti in tale organismo d'intuizione  unitaria, che è del tutto normale, se egli stesso  riveli una a pena minore vigoria nell'esprimer  quello col verso; se appaja egli stesso anche  mitopoeta. Sa vedere di più, e sa dire meglio,  che gli altri. Il nesso è cosi ovvio, che sembre-  rebbe quasi insolita la contingenza, in cui al  più dell'intuizione non rispondesse il meglio  dell'espressione. Insolita certo; ma assai meno  che non sembri, a causa dell'indole propria di  ; talune stirpi e della natura speciale di certe in-  [novazioni mitiche. Nel fatto, tra i Romani è  [facilissimo che una fiaba si innovi appresso un  [arido annalista e che quindi scada dal carme  )opolare allo schema di un rozzo diario: tale  [fu, tra l'altro, la sorte della leggenda di Caco  [allorché, forse, un greco v'introdusse, per con-  [•asto etimologico, Evandro la prima volta, pur  [senza avere alcun intento, — si badi, — di ra-  sionalismo. E, ancora tra i Romani, è probabile  3he il capitolo delle etiologie inerenti al culto  [di Ercole si aggiungesse a quella stessa leggenda  in una forma regrediente, che non attingeva     282 VI. - KALYPSO     alcun pregio artistico. Tuttavia lasciando un ne-  cessario margine a simili casi, per solito si varca  d'un salto dalla medesima mente il varco che  intercede, — non ampio e non breve, — fra la  innovazione mitica e la procreazione d'un'opera  d'arte.   Superato tal varco, o per felicità d'ingegno o  per maturità conseguita nel tempo, e attinto il  vertice più bello, si apre una serie nuova d'in-  novazioni mitopoetiche, che son ben diverse dalle  mitologiche. Ma un facile criterio le distingue  senza possibile equivoco. Le une hanno un fine  che è estraneo alle altre ; le une si dipartono da  esigenze che sono estranee alle altre. Lo scrit-  tore, che altera la leggenda nel comporre, ob-  bedisce a uno scopo d'arte, cosciente o non con-  sapevole che l'obbedienza sia: un istinto, o il  suo gusto culto e fine, lo avvertono di dar quel  ritocco, mutar questo colore, adombrare una  figura, correggere la prospettiva ; il pubblico spe-  ciale cui si rivolge gli suggerisce, rimanendogli  dinanzi al pensiero dui'ante il lavoro, di conce-  dersi certi accenni e taluni richiami, di svilup-  pare più ampiamente una parte. Per contro il mi-  tologo, che è tale prima d'essere artista, tende  a una mèta mitica : pensa al patrimonio leggen-  dario, o nel suo insieme o in uno de' suoi vigo-  rosi rami, e a quello procura di recar contributo,  adunando, intorno a un nome di eroe o di nume,  tutte le gesta attribuitegli. Ovvero cerca una  mèta politica o altrimenti pratica : per conciliare  le pretese di due luoghi intorno a una Dea, si  chiamino anche i luoghi Siracusa ed Enna; per  esaltare una dinastia, e sia essa dei Battiadi ; per     LE MAXIFESTAZIOXI MITICHE 283   comprimere mia città avversaria, quale Tera; per  lodar un oracolo, il precipuo fra molti, il Delfico.  In ogni caso, muove da esigenze che non sono  quelle del suo tema letterario, né consistono nel  tono d'un poema su Enea o d'un canto su le  Metamorfosi; ma che sono inerenti a un indi-  rizzo mitologico.   I due ordini d'innovazioni però, pur essendo  tanto ben distinti nel fine e nell'origine, eserci-  tano, l'uno su l'altro, continui influssi. E l'ima-  gine che rende la loro reciproca condizione, è  quella della pila voltaica ove il succedersi alter-  nato dei dischi di rame e di zinco permette lo  scoccare sintetico della scintilla. Ogni mito di-  fatti non potrebbe entrare in quel componimento  letterario ove deve alterarsi, se per effetto della  sua intrinseca evoluzione mitologica non avesse  conseguito già un certo stadio; e per converso,  poi. il colore diversamente sfumato dall'arte  la variata prospettiva sono a punto cause  che permetteranno ad altro mitologo l'aggiun-  gere o il contaminare. Dopo che, nei carmi del  popolo, la leggenda di Caco è andata smarrendo  il suo senso allegorico antichissimo, per assu-  merne, a gradi, uno storico ben diverso: allora  solo, Ercole può sottentrare a Garano-Recarano,  e il gruppo delle etiologie incunearsi nel rac-  conto. E allora solo la fiaba di Perseo e An-  dromeda è matura per una interpretazione psi-  cologica e sociale nella tragedia, quando il  mitologo l'ha dissimilata dalla lotta contro la  Grorgone, cui era identica. Un ardimento giustifica  l'altro; un passo prepara il susseguente: non  importa se i fini del primo non sieno per l'ap-     284 VI. - KALYI'SO   punto quelli del secondo. Anzi, perché, come si  vide, l'innovazione mitologica avviene talvolta  in una con la innovazione mitopoetica, lo storico  resta esitante, in quei casi, prima di decidere da  quale fra esse sia mosso l'impulso, a quale tocchi  la precedenza, non nel tempo, ma nella respon-  sabilità del nuovo stadio raggiunto dalla saga.  Nessuno cosi saprebbe dire, fuor che in conget-  tura mal certa, se un poeta o un mitologo abbia,  per esigenza d'arte e ritocco estetico, o per scoilo  di chiarezza genealogica e armonia anagrafica,  identificato primo Persefone con Cora. I confini  sbiadiscono indecisi, la sintesi creatrice non ri-  trova chiare le sue vere cause. Questi casi am-  moniscono lo storico a cancellare ogni categoria  empirica allor quando si accinge ad esporre  l'evolversi nella letteratura del genio mitopeico  pagano.     IH. — L'evoluzione  della mitopéja letteraria.   Da due radici trae vigore la mitopéja al suo  arricchimento progressivo e al suo lungo variarsi :  dall'elaborare gli elementi spirituali onde consta  negli inizii ; e dall'acquisirne nuovi a sé stessa.  Curiosità scientifica, senso del divino, intuito  dell'uomo e della natura, immanendo nella saga  costituiscono costantemente altr'e tanti tentacoli,  che attirano verso di essa i prodotti del più  maturo pensiero scientifico, spirito religioso, abito  di contemplazione umana e sociale. Ma inoltre     l'evoluzione della mitopeja letteraria 285   nuove energie se le aggiungono; nuove, le quali  son sorte non da uno sviluppo delle primissime  antiche, ma da un superamento deciso di queste.   Siffatta opera duplice e immane di rinnova-  mento si comijie entro certi ampi limiti tem-  porali.   Da principio, ogni fenomeno, ogni aspetto del  medesimo fenomeno, ogni nesso, ogni sfumatura,  sono sufficienti impulsi alla creazione d'un mito:  nuovo, se pur non profondamente diverso dal  complesso dei suoi analoghi. E il fermentante  rigoglio della giovinezza. E la festa dei frutici  che il suolo ferace esprime da sé, per l'esube-  ranza della sua forza, in unico impeto con le  roveri e i pioppi. Si che le figure si moltipKcano  disponendosi l'una a canto dell'altra, affini so-  relle, non identiche aggeminazioni ; e i casi si  addensano e s'intrecciano, uno appresso all'altro,  simiglianti e differenti, e si dispongono in rac-  conti svariati, che ciascuno i^ossiede, quasi nome  personale, un peculiare suggello. La mitologia  |indiana serba traccia di questo pletorico groviglio  li fiabe, X30C0 dissimili ma non uguali, intrecciate  Era loro per tenui fili. Nella greca la traccia è  linore : perché già in essa sono sopravvissute  [unicamente le forme, in genere, geniali, cui la  [singolarità medesima apprestasse vigoria e resi-  stenza vitale, laddove le più scialbe, e per ciò  stesso meno individuate, vennero assorbite da  pelle cui somigliavano. Tuttavia, anche fra gli  lElleni il durar l'uno accanto all'altro i miti, che  man tutti il medesimo sostrato naturalistico, di  [Eracle nell'Ade, di Eracle contro Gerione, di     286     VI. - KALYPSO     Eracle contro Nèleo, di Perseo contro la Gor-  gone, di Perseo contro il ketos, attesta l'anti-  ch-issima fecondità originaria in favole dissociate  per minime differenze, per esigui e mal certi  confini, e prova anche come la mente creatrice  da sé e dalla propria stirpe sapesse a ciascuna  derivar notevole forza di vita e non scarsa energia  personale.   Di questo periodo di creazione mitica e di  moltiplicazione, le quattro saghe del nostro studio  additano gli ultimi, e non miserevoli, bagliori  tra il VI e V secolo avanti l'èra. In tale età di-  fatti, che l'occhio della storia può riguardar  sicuro traverso poche nebbie^ la letteratura mi-  tica si accresce della fiaba duplice di Cirene e  della siracusana di Demetra. Entrambe sono cosi  vigorose e determinate che non possono in verun  modo confondersi con le lor sorelle. E tuttavia né  Tuna né l'altra sono originali. Non originali anzi  tutto, perché non escono, — se bene adorne poi,  dall'arte, di stupenda efficacia poetica : Pindaro  Ovidio Vergilio le ritrovano in sottili ragne do-  rate su la loro cetra, — non escono da un bisogno  lirico incomprimibile: ma sono posteriori a un  fine pratico, in grazia del quale soltanto sussi-  stono, ma a malgrado del quale splendono di  magnificenza. Per ciò non creano, ma compon-  gono elementi noti, sfruttando intrecci ante-  riori. La saga degli Argonauti era ; conteneva il  lor soggiorno in Libia. I Cirenei se ne valsero,  e dissero di Eufemo e della zolla e d'Euripilo e  dei coloni giunti da Tera sul luogo del dono.  Cosi il ratto di Cora in Enna, la sua catagoge  presso la palude Ciane, non sono se non le sosti-     l'evoluzione della mitopeja letteraria 287   tuzioni d'un patriottismo locale ai termini ed alle  forme d'un antichissimo racconto greco. Singo-  lari apparizioni mitiche queste, adunque : nelle  quali si unisce un cotale spirito di riflessione,  un quasi gretto senso di praticità, con una indu-  bitabile freschezza creativa, un abbandono lan-  guido di sogno. Questo permise il loro travesti-  mento poetico, e cosi grande permise che i  razionalisti antichi non s'accorsero punto dello  scopo politico e materiale onde le belle fiabe  che gì' irritavano erano mosse; né se ne accor-  sero, prima che sorgesse il metodo critico mo-  derno, gli studiosi nuovi, i quali non esitarono  in vece ad avvertirsene in più disadorni e meno  ricchi racconti. Tuttavia, in quel senso di rifles-  sione pratica è il non dubbio indizio che il pe-  riodo in cui si moltiplicano i miti è per finire.  Esso si estenua, per vero, in bolse invenzioncelle,  in genealogie stremate, in giuochi etimologici  trasj)arentissimi ; singhiozza gli ultimi guizzi  in favolette che pochi eruditi ripetono; riven-  dica (1) il passaggio di Perseo per Micene ove  egli avrebbe perduto il puntale della spada  (ó /ivxt]g) ; attribuisce a Trittolemo discendenza  argiva (2) ; spiega il nome dei Pinarii pel dover  essi astenersi dal banchetto sacrificale {neivciù),  ho fame) (3). Poi muore.   Entro i limiti di tempo cosi largamente se-  gnati, profondo e vasto è il rivolgimento.     (1) Pausania II 16, 3.   (2) Padsania I 14, 2.   (3) Servio Comm. a Verg. Eneide Vili 269.     288 VI. - KALYPSO   In apparenza, tutti coloro che trattarono let-  terariamente le fiabe della nostra ricerca, le  considerarono, non il fine, ma un mezzo o, tal  volta, un artificio pel loro tema. Fine era, di  caso in caso, la celebrazione di una vittoria gin-  nastica, l'ammaestramento georgico, la meta-  morfosi d'una ninfa o d'un uccello, la ricorrenza  d'una festa, il vanto della preistoria romana :  mezzo, sempre, il mito. Persino nel dramma di  Euripide lo scopo vero è altro da quel che la  leggenda, in se, richiederebbe: è scopo comx)a-  tibile con essa, ma ad essa imposto mutandole  il suo contenuto. L'interesse per la saga non è  quello primigenio della intuizion naturalistica  onde nacque: è, nei varii letterati, vario. —  Quest'apparenza è troppo costante, e troppo si  conferma con tutti i testi del nostro studio, per  non dover essere tenuta in somma considera-  zione. Ma ecco che la realtà la contrasta dura-  mente. In tutti i carmi letti , in tutte le prose,  il mito entra non di straforo, si per le spalan-  cate porte: signore, certo del dominio che nel-  l'interno lo attende. Della Pitia IX come della IV  è il perno ; la colonna vertebrale della tragedia ;  la sostanza dell'elegia properziana. Nel libro  d'un poema vasto come l'Eneide è rispettato  anche in certi j)articolari minuti : ospite sacro  che Giove protegge. Dove penetra, penetra tutto.  Non importa che Callimaco sia molto breve nel  cenno alla saga di Cirene : i pochi tòcchi bastano  perché gli elementi essenziali delle due leggende  contaminate appajano totalmente. Fin in Livio.  Fin in Dionisio. — Si contraddicono, dunque, le  cause e i modi onde la letteratura accoglie il     l'evoluzione della mitopeja letteraria 289   mito: controversia intima a Kalypso. Contro-  versia, da cui derivano e gli acquisti letterarii  della saga e le sue letterarie deformazioni; clié,  violata da interessi nuovi, cui già era estranea,  per quanto con tutta la preponderanza della sua  congenita foga imponga le sue forme, è co-  stretta ad accettare, dalla sede che l'ospita,  le luci.   Su la soglia, le si fanno incontro, e prime la  intaccano, la novella e l'etiologia. Ne la novella  il popolo par condensare, con la propria espe-  rienza, la x^ropria filosofìa della vita, perché vi  fìssa gli esempii tipici delle consuete vicende  (per lo più, familiari) e i modelli caratteristici  delle fìgure che muove la sorte comune. Per  essa, traverso la fantasia delle masse, come at-  traverso un vaglio singolare, il complesso (ad  esempio) dei pastori o de' pescatori, e l'insieme  delle vii'tù e dei vizii che in genere presso  quelli si riscontrano, affìnansi in una selezione  di cui è vano cercar le leggi, per comporsi nella  sintesi di un personaggio tradizionale con tra-  dizionali pregi e difetti: il pastore, — dico, —  o il pescatore soccorrevole e onesto che come  suo alleva, dopo averlo accolto ed ospitato, il  figlio non suo. La novella è dunque, per propria  natura, pregna della medesima umanità che, nel  mito, conforma a sé il fenomeno esteriore ; le  creature difatti dell'una e dell'altro si somigliano  a volte come nate da unico ceppo. E si accor-  dano quindi, sovente e bene, in un medesimo  testo : — tale il ferecideo su Perseo. Un'acqua  affluisce cosi nella saga che del pari riflette, da  le rive imminenti, i cotidiani spettacoli; non,   A. Feekabiso, Kalypso. 19     290 VI, - KALTPSO     però, riverbera simileraente la vampa solare, né  vi si specchia azzurro di cieli e svettar di fronde  durante la divina estate: si che il volume flu-  viale acquista potenza di voce che s'ode da  lungi, vigore di empito che infrange le sponde ;  ma divino di stelle e di selve men vi trova echi  e consensi. E pertanto nella mischianza fra mito  e novella il principio dell'abbassarsi quello verso  pianure terrene e dell'adattarsi a stature umane :  in cui si attenua, senza per altro smarrirsi del  tutto, l'esorbitare originario fuor dai limiti che  più sono nostri. E poiché, d'altra parte, un vago  velame d' irrealtà favolosa soffonde pur la no-  vella, di spiriti non consueti anzi straordinarii ;  accade che essa ajuti a tenere la saga in un'aura  mediana fra il dio e l'uomo; la quale è dell'eroe.  E a questo si deve a punto se di eroi sono  i miti. Quando i lor personaggi non sono  stati dal culto salvi e resi intangibili su l'ara  dell'alta e intiera divinità, allora il nume pro-  tagonista della saga, e il " vecchio vecchio vec-  chio „ che i novellatori esagerando desumono  dalla vita loro visibile, si allivellano sopra il  piano istesso ; fin che anche il piccolo rito locale,  se mai fosse già iniziato da qualcuno, finisce,  non trovando altrove favori, con l'estinguersi o  diventare eroico. Vicino a Larisa di Tessaglia,  era il Sacrario di Acrisio, prisco iddio ; ma, per  ciò che oramai a lui stavano accanto Ditti pe-  scatore e le vecchiarde Graje, il tempio chia-  mavasi, né si ricordava nome diverso, tempio  di eroe [fjQc^ov). La novella trae cosi a sua so-  cietà il mito ; ed entrambi corteggiano il popolo  illudendolo nella speciosa finzione di maraviglie     l'evoluzione della mitopeja lbttbbaria 291   elle sono sol tanto le trite consuetudini di lui,  ma mosse dal soffio d'un più, dall'anelito d'un  meglio : gocciole di piova che rifrangono il Sole.  Nella cortegiania è terza l'invenzione etiolo-  gica, intenta a cercare la causa del fatto umano.  Affine sùbito, con ciò, essa pure alla saga, in  cui è, prima o dopo, inerente il conato verso la  causa del fatto naturale. Caco spiega il fuoco  distruttore; la presenza dei Potizii pronta e il  ritardo dei Pinarii spiega un costume del rito  erculeo nel Foro Boario. Che se i tentativi scien-  tifici appajono per tal guisa paralleli nei due  fenomeni, anche la semplicità dei procedimenti  gli adegua l'un l'altro. Entrambi ripetono per  causa del fatto il fatto medesimo, correggendo  solo uno, o pochi, tra i particolari che lo accom-  pagnano. La fiamma muta contorni divenendo  Caco e serba immutata la sua potenza deleteria.  E l'attinenza fra Potizii e Pinarii si trasporta,  identica, in tempi anteriori di assai, erculei. La  giunta sta nell'episodio umano e abituale : il  costume ladresco di Caco; l'indugio pigro dei  Pinarii. Quindi l'etiologia insinuandosi nella leg-  genda integra per un lato quel suo volto che  par compaginarsi di nostri nervi muscoli sangue;  secónda per l'altro quella sua tendenza che si  origina dalla gloriosa nostra curiosità di tutto. —  Questo tributo però non è solo copia. Rappre-  senta anche una riserva di potenze e di sviluppi,  che si determineranno in varia misura a seconda  dei contatti posteriori, dei luoghi, dei tempi. Un  poeta, un romanzatore, uno storico, e i diversi  individui entro queste diverse categorie, ne trar-  ranno spunto alla lor compiacenza differente. E     292 VI. - KALYP80   questi svolgerà l'etiologia in scena compiuta che  si disponga a fronte del più vero e antico nucleo  mitico. Quegli ne prenderà solo occasione per  ripeter la fiaba, comprimendo pel resto l'etio-  logia in ombra a mala pena schiarita. Properzio,  il primo; l'altro, Ovidio: li scorgemmo in atto  di elaborare diversamente cosi il mito di Caco. —  L'effetto quindi dell'innesto etiologico si misura  insieme con il deformarsi della saga sotto l'in-  flusso dei molteplici interessi cui la fa sottostare  il cuore infaticabile e travaglioso ch'è nostro   Cosi il patriottismo adultera il mito; e per  vero duplicemente. Prima, in forma subdola lo  ritocca o accresce. Poi, gli dà un contenuto sto-  rico che gli era estraneo affatto. Caco è un ladro  mostruoso di tempi antichi ; Euripilo un re di età  lontane : il lor valore d'iddio del fuoco o della  porta infernale è perduto, perché una storia fal-  lace lo usurpa. Ciò mette un mito di sostrato  naturalistico al medesimo livello di uno a sostrato  storico; o fa prevalere questo su quello, ove si  trovino misti. Immutato resta soltanto, insieme  con il complesso dei particolari cristallizzati, il  rapporto tra i protagonisti, però che il favore  patrio si trasporti tutto per l'appunto su l'eroe  che qual Dio aveva, nel primo significato, com-  battuto le tenebre ; e l'odio nazionale si accumuli  su la figura che era stata, nel primo significato,  ostile alla luce. Cosi nell'Eneide. Non muta la leg-  genda, ma solo il suo presupposto. Anzi, sotto  questo aspetto, poche luci di poesia sono tanto  favorevoli al serbarsi integro della saga. La psi-  cologica o la sensuale posson compiacersi del     l'evoluzione della MITOPEJA LETTERARIA 293   mostro come dell'eroe, a causa della plasticità e  della intelligenza clie li accomunano. La patriot-  tica no: deve preferire, deve parteggiare: rida  al mito un sentimento, lo riscalda con un calore  affettivo che, dopo la sua origine, gli eran dive-  nuti ignoti. Né anche il senso religioso è cosi  efficace : Pindaro coglie, nell'amore di Apollo e  Cirene, assai meno di Callimaco quello che n'è  il nucleo effettivo : la simpatia dei coloni per  il Dio e la Cacciatrice ne' quali si rispecchiano,  e la protezione perenne assicurata dalla coppia  divina ai Cirenei. Ond'è che nessun colpo dello  scalpello pindarico è giunto a scolpire la statua  che il patriottismo di Callimaco crea indelebil-  mente : la statua del giovine Iddio che accenna,  sul Colle dei mirti, alla bella sposa le danze,  onde si compiace, dei Doriensi fra le fanciulle  libiche. Il mito palpita invero nel gruppo con  la vita della sua stessa radice. E quando un  brivido di fervorosa simpatia scosse gli spetta-  tori ateniesi nell'atto di scorgere sul capo di  Perseo una sorte agitarsi non dissimile dalla  sorte che in allora il Fato volgeva su la città  marmorea, l'uomo si accrebbe ad eroe, l'eroe a Dio,  — Dio, qual era da prima, splendido al pari del  Sole. Se m.ai per lui si creò di nuovo un anelito  di innamorata estasi simigliante a quello che fu  verso l'Astro la Luce il Calore, e onde il suo  mito s'era originato in una mente ingenua e  profonda; — se mai si creò, fu l'anno 412 sopra  una scena greca, auspice l'amor della Polis.  Diverso anche allora, eppur analogo d'empito e  di vivezza.  Il senso religioso è, — già si vide più volte,     294 VI. - KALYPSO     — intrinseco al mito, che anzi se ne informa.  Esiste fra i due concordia come di gemelli. La  quale si svela però non molto jjrofonda. Le si  oppone anzi tutto l'essere il sacro uno bensì, ma  uno solo, fra i caratteri della saga ; ch'è ben piti  ricca di contenuto e complessa di aspetti: ond'è  elle il carme inspirato alla fede tende inevita-  bilmente a sviluppare un membro della leggenda  a scapito degli altri, tende a farne vibrare una  corda sola. E la contemplazione del mito da un  punto vicinissimo, ma cosi accosto da non per-  mettere più che una visione unilaterale. Tal  incompiutezza è grave; ma v'ha di peggio. Il  mito, dopo che è creato, resta e si cristallizza ;  non è privo di vita, tutt'altro, sotto quella sua  crosta, ma serba un'apparenza di rigidezza e di  immutabilità. Somiglia la formula d'un culto,  che i sacerdoti dicano, negli anni, un dopo  l'altro. Il pensiero e il sentimento religioso in  vece sono di lor natura non statici, ma energici  d'un moto assiduo e incalzante; sono la vita  stessa in una delle sue sublimazioni migliori.  Presto, raggiungono, — se non presso tutti,  presso talune menti alte al meno, presso l'inspi-  rato poeta della fede quasi sempre, — uno stadio  superiore, e forse di gran lunga, a quello onde  il mito si generò. E allora v'è contrasto. V'è  bisogno di eliminar una figura, di scemar la  crudeltà feroce d'un dio, di togliere il carattere  umano al cordoglio d'una dea : si deve informar  il vecchio mito al nuovo pensiero. Per ciò ap-  presso Pindaro Chirone esita e sorride e si at-  teggia a loico furbo, prima di dir la sua pro-  fezia ad Apollo. Altre volte in vece il particolare     l'evoluzione della mitopeja letteraria 295   leggendario rimane, non alterato ; ma il pensiero  critico lo discute e ne dubita: che è in appa-  renza guasto minore, maggiore in realtà. Per  quel modo, difatti, lo spirito cessa di riviver la  leggenda immergendovisi : la projetta lungi e  fuori di sé, se la contrappone: per qualche  istante, e sotto certe forme, le diviene estraneo.  Simile, Euripide dinanzi l'oracolo Ammoneo che  ha indotto Andromeda preda succulenta al ketos.  Tuttavia né prevale il dubbio filosofico né la fede  alla saga: il tradizionalismo mitico e il moder-  nismo religioso scendono a un compromesso: e  possono, fin che sono entrambi avvolti da una  atmosfera unica di j)aganità. Quando vènti nuovi  avran dissipato quell'atmosfera, i Padri della  Chiesa si rideranno dei miti: e vi rinverranno  l'indizio d'una religione povera e bambina.   Come la religione, cosi erano inclusi, fin dalle  origini, nel mito l'elemento sensuale e il psico-  logico. Poi che i fenomeni della natui-a si ve-  stivano di fogge umane, e il tuono e il Sole e il  mare acquistavano volti membra ed atti nostri,  essi divenivan senz'altro passibili di figurazione  sotto l'aspetto dei sensi e d'interpretazione nel  campo della psiche. Analizzare e graduare i sen-  timenti di un Perseo non è se non completar  l'opera di chi lui, uomo, ha veduto nell'Astro.  Perseguir con compiacenza, nelle particolari  movenze di grazia femminea, Cora mentre rac-  coglie i fiori, o descrivere con tocchi accorti le  brune e bionde bellezze delle Ninfe adunate in-  torno a Cirene nelle case cristalline di Penco,  non è che un rinvigorir di sangue, spremuto  dalla profonda voluttà umana, le creature cui     296 VI. - KALYPSO   ha dato un sesso il mito. Se non che, anche per  questa via la fiaba si trasforma: essa diviene  un modo di dire, una frase efficace per signi-  ficar un pensiero o una intuizione, una forma  vuota, per sé, di contenuto che si riempie, ade-  guatamente, a volta a volta. Perseo, — è l'esempio  già scelto, — può vestire di sé e delle proprie  avventure esteriori un ideal personaggio di Eu-  ripide, e potrebbe vestirne più altri, abito di  molti individui. Cora, — è l'esempio già usato,  — si muove con la leggiadria un po' stereotipa  della giovinetta innocente e pudica, che solo fiori  ama e fresche cascatelle e aromi salienti dalla  eulta terra: è scema di sé medesima, un'altra è  penetrata in lei, e l'anima d'una vita che è fit-  tizia, perché non è la prima, antica e vera. Per  ciò Vergilio sceglie, a caso o con arte, le com-  pagne di Cirene da un repertorio di nomi ; — e  non più che nomi, ciascuno dei quali si riduce a  un colore, non svela una persona. Demetra che  piange, e di cui si regola il pianto con magistero  di psicologia poetica, è una madre. Ma ell'era  anche una Dea. E da siffatte menomazioni nasce  il bisogno di sminuire, se non proprio soppri-  mere, Fineo nell'episodio di Andromeda, di creare  fra Andromeda e Perseo una scena novissima,  di plasmar un altro gesto a Cirene: nasce per-  sino la spiacevole inopportunità dell'intervento  di un Nume, in sul finire del dramma, per scio-  gliere, con atto oltreumano, una situazione di-  venuta umana.   Accanto a questa, che la psicologia e il sen-  sualismo gittano sul mito, è singolare la luce  che vi gitta la natura. Su nessuno sfondo, in     l'evoluzione della MITOPEJA LETTERARIA 297   alcun ambiente, gl'iddii e gli eroi, che la natura  personificano e di cui con la loro vicenda ren-  dono il fenomeno, dovrebber trovarsi più agevol-  mente. In pochi in vece si altera e deforma forse  tanto la saga. La Dea delle biade non domina  su la vegetazione lussureggiante, non vi regna,  qual'è, regina: vi s'incornicia, iDersonaggio del  quadro. Vive la sua vita di donna, non sopra,  ma in mezzo alle messi che significa e possiede:  parte d"un tutto che pur dovrebb'essere rajDpre-  sentato in lei. Aristeo, cui perirono l'api e che  si duole nella valle di Tempe, maravigliosa  di rigoglio verzicante, tiene su i pastorelli un  privilegio di nobiltà, che gli vien solo dagli anni  antichissimi in cui gli accadde di vivere; ma è  per altro uno di loro. L'erba gli cede sotto il  passo similemente. La cintura dei monti lo com-  prime. Di qui lo stupore ond'è còlto nell'attra-  versare i regni del nonno, le sedi di cristallo,  gli antri muscosi, cune di fiumi, roridi recessi  ignorati agli uomini. In lui, e nella sua madre  ninfa, non è difatti adunato lo splendore sacro  della natura acquatile e pastorale che af figu-  rano, ma una cosi fatta magnificenza è concre-  tata al di fuori di essi; li allieta in perpetuo  con perpetui doni ; li circonda non li costituisce.  La bellezza e il primato sono altrove che nelle  persone di entrambi : — nella Natura, effettiva  protagonista, cui convergono lo slancio del poeta  innamorato e la sua lode contesta di ritmi. Si  direbbe che il mito ritoma alla sua sorgente; ed  è vero : ma colà la Natura riprende il posto che  i suoi impersonati rappresentanti le avevano oc-  cupato. E una restaurazione.     298 VI. - KALYPSO   Dalla sorgente, in vece, è lontanissima l'eru-  dita sapienza di Properzio. La leggenda diviene,  nelle mani di lui, uno strumento polito da usarsi  con un'arte accorta e a pochi nota: unico esempio,  nel nostro studio, di quanto essa possa, senza  scemo di pregio letterario, stremarsi della sua  vita prima. Nata sopra un pascuo giogo di monte  si ritrova in una sala dal lacunare eburneo. La  qual cosa non toglie che ivi appunto il rispetto  al mito sia cànone più severo : per crescere al  magistero verbale pregio di finezza e di virtuosa  agilità. In vano; che altra vi è l'aria; e son  tramutati i tempi.   Più in là, si ritrova, fra più ampio volume  di carte, in una più chiusa austerità di ambienti,  la Storia.   Qui l'atteggiamento è senza dubbio uniforme.  Erodoto, sotto questo aspetto, non differisce  troppo da Livio, Livio da Diodoro. La lor critica  e il loro metodo sono diversamente insufficienti.  Ma un intuito comune li induce a sopprimere,  nel mito, talune scene e a servirsi a tempo di  certi silenzii, pel fine di non arrecare una sto-  natura sensibilissima nell'insieme dell'edifizio  che erigono. Serse Temistocle Milziade riducono  alle loro dimensioni un Tera; gli Ateniesi, i  Minii ; i Gracchi, Caco. Quando le leggende non  hanno ancora una storia per sé, si adattano in  quel letto di Procuste ch'è la storia civile, la qual  le raccorcia, esuberanti come son sempre.   Sopravvivono esse: attestando la loro incoer-  cibile vitalità. Uomini culti, che posseggono  la lingua, conoscono il passato, partecipan co-     l'evoluzione della mitopeja letteraria 299   scienti al presente del loro paese, pur avveden-  dosi del carattere favoloso di taluni racconti,  pur sentendosene costretti a scemarlo, ritengono  impossibile dar a quelli l'ostracismo totale con  l'espungerli da gli scritti che compongono. Livio  giunge persino a dichiarare in anticipo che non  vuol esser chiamato responsabile di quanto narra  per gli antichissimi tempi; — ma narra tuttavia.  Dionisio sa, o crede sapere (il che è lo stesso),  il vero che si cela sotto il velame; — ma ripro-  duce tuttavia il velame. Del fenomeno una spie-  gazione sola è possibile: il pubblico esige la  parola degli storici su i miti. Ne va dell'orgoglio  patrio, ne va della consuetudine. L'orgoglio : che  non ammette si ignorino le origini prime della  propria stirpe, le vicende antiche della propria  città, i nomi dei prischi abitatori, le gesta, i culti;  che si sente sodisfatto, — assai piti che dal  contenuto stesso della fiaba, — dalla sua forma  di bellezza e di fantasia, dai suoi colori vaghi  meglio della realtà; che ritiene di non poter  conoscere la vita dei padri se non traverso la  tradizione eredata da essi. E la consuetudine:  ch'è la forza grande delle masse; e resiste, sotto  la specie del misoneismo, alla ricerca innovatrice  del dotto; e ricalcitra, sotto la specie dell'orto-  dossia, ai risultati dell'indagine, illuminata da un  nuovo pensiero religioso o filosofico. Tucidide do-  veva saper di spiacere quando negava un nesso  fra Tereo, del mito di Filomela, e Tere degli  Odrisi signore di Tracia (1) ; ma era da lui l'af-     (1) Tucidide II 29, 3.     300 VI. - KALTPSO   frontar i supercilii dei ben pensanti. Solo di  fatti la vigoria d'una tale niente può bilanciare  la resistenza che, per tradizione patriottica, è  insita nella leggenda.   Che se parallelo a tal risultato appare l'effetto  dell'amor nazionale sul mito, i due fenomeni  però sono distinti. Il poeta, che canta la saga  patria, o nella saga introduce opportuni accenni  alle patrie vicende, serra un legame, tratto dal  cuore anelante, fra la sua visione di bellezza e  il cerchio della realtà che l'urge d'ogni lato :  sospira il presente nell'antico, e sotto le luci  dell'antico vede il presente: scorge l'Urbe mae-  stosa degl'Imperatori dietro il velo tenue del  re savio regnante Evandro: imagina la spada  del guerriero cadere, simile alla clava d'Ercole,  contro il male e l'onta e il mostruoso. Allo sto-  rico in vece accade appunto l'opposto: per lui,  il mito emana su su dalla storia, come una causa  su dagli effetti, una premessa su dalle conse-  guenze: j)er lui il mito è una preistoria, una  motivazione. Il nesso genetico di causa ed ef-  fetto, ch'è insito nella storia ancor quando si  manifesta sol grossolanamente in un nesso di  precedenza e susseguenza cronologica, orienta  nel suo indirizzo anche la concezione della saga,  e l'informa di sé. Onde l'analogia, che il poeta  vede tra il contemporaneo e l'antichissimo, è  per lo storico in vece un dipendere causalmente  del contemporaneo dall'antichissimo: sicché la  lotta fra Ercole e Caco serve solca spiegare un  rito di carattere greco, e la leggenda dei Minii  e di Tera e di Batto è una necessaria e suffi-  ciente premessa alla storia cirenaica. Per questo     IL FLUSSO E RIFLUSSO DELLE SAGHE 301   valgono : perché giustificano. E il loro valore di  motivi è cosi grande, che si accettano come  ipotesi sostenibili, anche quando è infirmata la  fede su la veridicità del lor contenuto.   Si fatta deformazione del mito, per cui il ca-  rattere etiologico di taluni suoi particolari e,  qualche volta, d'intieri suoi paragrafi intacca il  nucleo stesso, e lo tramuta in causa storica,  segna l'estremo della lontananza evolutiva dalle  origini. La saga aveva avuto negli inizii impor-  tanza per sé : stava oltre gli scopi pratici, riflessi  in parte nel culto, e i bisogni scientifici; supe-  ravali entrambi. Divenuta, nella poesia, quasi  un mezzo d'arte si alterò, serbando tutta volta  officio consono alla sua natura; tanto che, pur  connettendosi con etiologie cultuali, mantenne  su di esse il suo primato di bellezza e di forza,  presso poeti quali Vergilio ed Ovidio. Quando  alla fine si trasforma nella pura e semplice  causa di fatti, allora si astrae dai suoi termini,  cessa dalla sua indipendenza, acquista un che  di cerebrale fra le idee, perde molto d'imaginoso  tra le fantasie.     IV. — Il flusso e riflusso delle saghe.   In seno al possente spirito mitopeico lette-  rario, della cui evoluzione segnammo, con l'ajuto  della nostra recente esperienza, talune tappe ed  erigemmo le precipue pietre miliari, s'opera un  continuo nascere maturarsi ed estinguersi di  saghe : paragonabile all'immane vicenda di morte  e di vita cui sottostanno gl'individui umani nel     302 VI. - KALYPSO     grembo deirUmanità , che s'è originata e deve  a sua volta perire. Tale assiduo flusso e riflusso  è libero ; non perché non lo determinino sempre  forze pullulanti e incroci anti si, del cui intreccio è  schiavo e le cui maglie seconda, composte in arduo  disegno ; ma perché nessun nodo della contessi-  tm'a è prevedibile, prima del suo stringersi, o  analizzabile compiutamente, dopo. Non tutto vi  è del pari degno d'istoria; v'accade regresso  in rapporto al livello mediano della mitopeja, e  anche progresso: entrambi in diverso modo no-  tevoli. Esiste tuttavia una fondamentale sorte,  ch'è comune a quella ricchezza divèrsa.   Il mito, — ciò è, — ha due vite ; o forse vita  duplice. Una è la sua più propria: e consiste  nella capacità di evolversi, di assumer forme  nuove luci nuove sensi nuo^à, di concretarsi in  individui diversi: spirito di molte sostanze. L'altra  è la vita di ciascuna sua forma di ciascun in-  dividuo: della Pitia IV, del canto Vili nel-  l'Eneide, della lirica properziana, del racconto  di Livio. Uno stadio dell'evoluzione non elimina  i precedenti, né li comprende solo in potenza,  ma li lascia sussistere in tutta la loro realtà  concreta ; si allinea con essi. Ciascuna di queste  due vite pare uniformarsi a leggi diverse.   La vita seconda, delle singole individuazioni  mitiche, è retta da una forza d'arte. Dalla quale  s'informa la "lotta per l'esistenza,, dei varii com-  ponimenti e il sopravviver loro. Onde il carme  d'un poeta non affiora alla superficie che per la  strage di numerosi fratelli suoi minori, cui fu  più povero lo spirito vitale. Non pure ; ma anche  tra i superstiti l'arte conferisce più a l'uno che     IL FLUSSO E RIFLUSSO DELLE SAGHE 303   all'altro il primato, con decreto che non si di-  scute e che finisce col condur, tal volta, a pre-  valere una redazione e col tramutarla in volgata.  Fece cosi Pindaro per Cirene, Vergilio per Caco,  Ylnno a Deinetra pel ratto di Cora. All'in fuori  d'ogni vero rapporto cronologico, oltre ogni  effettiva consistenza di strati e importanza di  varianti, le narrazioni di pregio artistico infe-  riore si aggruppano intorno a quella cui più  riser le Muse, come forme incompiute d'uno  stesso pensiero. Vive tuttavia ciascuna ancóra :  di bellezza. E da tutte in selva risplende il  mito. Tra questa folla non è morte, fin che sieno  occhi a risguardare ; da questa sgorga anzi pe-  renne la vita, perché ogni forma è capace d'im-  pulsi, e nella diversità degli spiriti sono impon-  derabili gli effetti suoi. I\n. è serbato il seme  dei sopravviventi miti; e la virtù della razza,  che diede la passione onde nacquero ; e la virtù  del suolo del cielo dell'aria dell'acqua del fuoco,  che diede la materia onde si fusero. Di li ritor-  nano al nostro pensiero, affacciandosi in vetta  all'anime come iddìi giovinetti e belli: fantasmi  radiosi ai nexDoti nella veglia nottui-na.   La prima vita in vece non è né cosi varia  né altr'e tanto sgombra da morte. Si sviluppa  secondo una linea chiara. Durante lo svolgersi  della quale però, — ed è sua prima peculiarità,  — permangono al mito, quasi irrimediabili stim-  mate, i segni che furono del suo nascimento :  resistenti oltre ogni deformarsi. La saga di Ci-  rene, che sorse imperniandosi su la Libia e la  Tessagha, ha da queste due regioni diverse e lon-  tane la sua sorte ; e par che fino la più profonda     304 VI. - KALYPSO   violenza recata al suo schema confermi quel  carattere regionale. Similmente, per essersi for-  mato sopra un compromesso e in una contami-  nazione, il racconto siracusano di Cora rapita  si mischia, negli anni, in una sempre più larga  massa di favole. E allo sviluppo di Caco deriva  modo storico e religioso, quando prima s'insedia,  col suo nome, la sua memoria nei pressi del  Palatino. Anzi, il vero inizio di un mito, qual  forma spirituale a sé profilata, si rivela appunto  dall'apparire di quell'impronta che dovrà farlo  per sempre caratteristico. Onde la trama di An-  dromeda non è da vero compiuta, non pure nei  particolari esteriori, ma e nell'essenza più pro-  pria, se non allorché gli spunti novellistici si  immettono nel contesto naturalistico, — a prepa-  rare per l'avvenire la triplice serie di innova-  zioni, psicologiche romanzesche e religiose.   Quasi entro gli argini cosi definiti si muove  la corrente del tempo. E di mano in mano che  la storia della paganità procede, che il pensiero  pagano si trasforma, anche la saga è amata  sotto aspetti differenti. Nel V sec. a. C. De-  metra e Cora son narrate con intenti di gran  lunga dissimili da quelli che, dopo Cristo, inspi-  rano Claudiano e l'età sua. Ogni generazione  distende sul mito una propria vernice : che è un  particolar modo di vederlo. A noi poco è j)er-  venuto di questo stratificarsi perché non ogni  strato ha lasciato la sua traccia letteraria (e  artistica). Ma possiamo imaginarlo riandando,  in sintesi rapida, il processo spirituale del mondo  antico : a ogni tappa corrisponderebbe, se la ri-  costruzione fosse riuscibile nei particolari, una     IL FLUSSO E RIFLUSSO DELLE SAGHE 305   foggia mitica, — e sia pure a pena diversamente  .sfumata dell'anteriore, o a pena diversamente  disposta della posteriore. Tra l'una e l'altra di  esse, nesso causativo, porremmo la sintesi crea-  tiva per cui l'intelletto comune, innovandosi, si  è superato.   Il caso opera poi su talune vicende della saga.  Che ad Euripide sia caduto in mente di trattar  l'Andromeda nel 412 o che nel 412 sol tanto  il suo proposito si potesse tradurre in atto ; che  non esistesse un grande poeta quando il mito  di Demetra in Enna fu compiuto: è effetto di  caso, perché a volta a volta risulta dall'interf erire  di due linee causali la cui interferenza non con-  segue da nessuna delle due premesse. Dal caso  pertanto deriva, che non tutti gli strati della  evoluzione mitica hanno " lasciata traccia let-  teraria (e artistica) „; e che qualche strato ci ha  tramandate tracce più profonde e più varie. Del  mito di Cirene un secolo, il quinto, ci mostra  due trame sostanzialmente diverse, la pindarica  e la erodotea; il quarto non ce ne concede al-  cuna. Del mito di Caco l'età di Augusto ci tra-  manda ben cinque quadri con varianti colori e  linee; l'età di Giovenale nessuno. Vergilio ir-  radia del suo patriottismo il racconto, Properzio  della sua raffinatezza, Ovidio della sua sonora  compiacenza verbale, Livio della sua ingenua  critica, Dionisio del suo impotente razionalismo;  ma queste luci tutte scaturiscono dall'opere  complessive nelle quali esso viene inserito e  dagl'ingegni degli autori: onde nulla vietava  che altre ne potesse assumere e che ancor taluna  di queste potesse non aver assunta.   A. Feeeabiko, Kalypso. 20     306 VI. - KALTPSO     Attinenze fra l'evoluzione spirituale comples-  siva stratificantesi sul mito, e le forme casuali  della leggenda, esistono visibilmente. Il modo  con cui i posteri di Ferecide di Vergilio di  Ovidio di Callimaco amarono e ripeterono le  saghe di Perseo di Caco di Cora di Cirene  deriva, come dalla trasformazione compiutasi  nel xDensiero collettivo, cosi anche dalle pecu-  liarità dell'arte con cui quei letterati, dopo che  il caso gl'indusse a eleggere la fiaba all'opera  loro, la impressero di sé medesimi. Ora, tra  quella che dicemmo trasformazione del pensiero  collettivo, e questa che potrem definire energia  plasmatrice di artisti, esistono riferimenti quali  d'una parte al tutto: gli effetti, in vero, chela  letteratura d'una generazione compie su la ge-  nerazione successiva, non sono se non alcuni  degli effetti che tutta la mentalità della prima  compie su lo spirito della seconda. Vale a dire :  il fenomeno mitico-letterario avvenuto per l'in-  terferenza casuale di due linee causali riprende,  fondendo quelle in sé, l'efficacia determinativa.   Indi si spiegan anche, facilmente, le morti  dei singoli miti : quelle pause del loro evolversi  per cui si sospende il ritmo vitale onde parevano  spinti alla trasformazione né si riprende che  tardi, quando oramai è chiusa a sua volta la  mitopeja pagana. — Non è dubbio difatti che una  saga qua! siasi continua, più fioco più intenso,  il suo respiro fin che il genio mitopeico è una  operosa realtà. Ma per l'appunto quel che di-  ciam caso fa si che le manifestazioni letterarie  di ciascun mito si arrestino a un certo punto,  oltre il quale bruiva forse ancora il susurro, non     IL FLUSSO E RIFLUSSO DELLE SAGHE 307   più sonò il canto. Prova tipica, che non ve  n'ha forse più palmare, è la storia del mito di  Caco : languido già in quel torno di tempo che  segna il suo fine, si circonda poi di silenzio se  bene seguano ad Augusto epoche di culto intel-  lettuale di esumazione erudita di compiacenza  artistica in cui l'abigeato violento e fumoso  avi'ebbe potuto, — possibilità vana, — trovar  non manchevoli espressioni. Persino i germi  dissolutori insiti nel testo di Vergilio e, più, di  Ovidio e, peggio, di Dionisio, tolleravano svi-  luppo maggiore, cui certo l'agio non sarebbe  mancato, di cui in vece manca fin l'eco. — Op-  posto ammaestramento porge la fiaba di Cora e  la sua sorte. Un poeta di età protratte, mentre  sotto il cielo d'Omero si levavano vie più fre-  quenti i crociati segni di Cristo, tenta di pos-  sedere, anche una volta, la saga. Fallisce ; ma  il crollo dell'edificio male eretto non travolge  pure la perizia artistica di un uomo, pare in  vece che si ripercuota funereo fra peristilii e  celle dei templi cui men frequente stuolo di  fedeli e men pio animo di sacerdoti rende l'o-  maggio: già che, allora, la mitopeja pagana  sentiva da l'èdèma tronco a' suoi inni il respiro.  Non il caso terminando, quindi, in questo se-  condo esempio, la vita favolosa; ma, rigida causa,  l'orientamento diverso, vòlto a meta ch'è lunge,  del pensiero collettivo e delle passioni. — In  un rosajo si sfanno di molte corolle senza che  scemi il vigore delle radici e l'ascesa della linfa  pei rami: culmina l'estate. Ma come giunga il  settembre, con cieli più chiari e men caldi, gli  ultimi calici si reclinano su foglie vizze su cor-     308 VI. - KALYPSO     tecce aride su stecchi rigidi, e odore di dis-  solvimento è nell'aria : il cespo si addorme nel-  l'imminenti brume.     V. — La fine.   Kalypso lia pure, difatti, la sua morte ; che  non è scomparsa, ma fine di produzione. Ces-  sando d'immortalare afferma la sua mortalità.   L'agonia comincia con un periodo di rior-  dinamento, in cui i miti non si moltiplicano  ma si assommano, e che è già iniziato quando  l'altro, creativo, ancor dura. Lo motivano, del  resto, le stesse qualità psichiche proprie dei  Greci : di ordine di armonia di chiarezza. Qua-  lità che furono per fortuna, nel principio, assi-  stite da una levità di tocco e da un rispetto per  quanto è bello, i quali impedirono che le si tra-  mutassero tosto in ruvida villania distruggitrice  di fiabe. L'esempio più notevole ci fu offerto,  in queste pagine, da chi raccolse in unico con-  testo tutto che si riferiva a Perseo: la novella  della sua nascita, cui è congiunto il fatale as-  sassinio del nonno, la lotta contro la tenebrosa  G-orgone, il duello con la belva del mar etio-  pico. E un'attività solerte e diligente, cui poco  sfugge, e che ogni occasione cerca per compiere,  compaginando rinsaldando, la sua galleria di   dittici trittici Unisce con Cora, pel vincolo   della verginità comune, Artemide e Atena.  Trova posto per Ermes dov'è Apollo. E sovra  tutto venera e tutela sempre i miti che riordina.     309     Li ama. Per ciò non distrugge, e non guasta  né meno. Al contrario, tal volta crea: inven-  tando, per unire due leggende, un passaggio  accorto ; dissimilando due fiabe troppo visibil-  mente sorelle, a fin di poterle narrare Funa ap-  presso l'altra senza ripetizione uggiosa; imagi-  nando una circostanza, per colmare un vuoto ;  innestando un particolare nuovo su altri più  antichi. Caca somiglia troppo a Caco nella forma  verbale perché a cotesti ordinatori di miti non  cada nel pensiero di trovarle un posto nel rac-  conto del furto: ed ecco ch'ella diviene sorella  del ladrone, e spia dell'abigeato. Andromeda è  il troppo trasparente riscontro di Atena a canto  di Perseo nella lotta contro i mostri del bujo,  perché non abbia a essere (e con questa altre  cause v'influiscono per diversa via) trasformata,  e mutata in amante.   Affinché però un cosi fatto procedere si man-  tenga utile, è necessario, da un lato, che le va-  rianti da comporre in ordine intorno a un mito  non sieno strabocchevoli di numero o irriducibili  di forma; è necessario, dall'altro, che l'amoroso  rispetto per le fiabe si mantenga incorrotto. Col  cessar di queste due circostanze l'attività assom-  matrice prende a divenire impotente, perché il  suo compito s'è di troppo accresciuto, e deleteria,  perché i suoi modi si sono inviliti. Per questo  motivo essa si riduce a una compilazione che,  come presso Apollodoro, deve limitarsi a citar  le varianti inconciliabili con la volgata, a ri-  cordar Demofonte per preferirgli Trittolemo,  senza riuscire né ad eliminar quel d'essi che sia  soverchio né a superare il dissidio contaminando     310 VI. - KALYPSO   e creando. Non anche creando : però che la forza  creativa scompaja in una colla simpatia con-  corde per le leggende. Quasi sensibilmente il mito  diviene oggetto di erudizione, opera di dotto lo  scriverne, ufficio di memoria e vanto di facoltà  tenace il serbarne i modi e i nomi di persone  e luoghi.   Ora, quando il mitologo ha esausta la forza  inventrice, e s'è ridotto a catalogar la ricchezza  delle fiabe, la sua attenzione è tutta rivolta alla  forma di esse, ai j)articolari, cioè, il cui va-  riare costituisce fogge nuove della saga, e per-  sino alle sfumature. Ma per ciò appunto la sua  credenza si sposta : non può più, come nel prin-  cipio, poggiare suiresteriore, perché egli non ha  una redazione di ciascun mito cui sola presti  fede, ma di ciascuno ne scorge parecchie : deve  in vece fondarsi sull'interiore nucleo, su la so-  stanza, su quel che, in breve, è comune, oltre  ogni variante. Le vesti si mutano sotto i suoi  occhi: gl'importa il corpo. Ma questo effetto  somiglia quello che segue alla deformazione  storica del mito. Quando difatti l'artista non è  più intento a perseguir, nei carmi, di eleganze  ritmiche ciascuna peculiarità della fiaba, ad  eleggere un suono per ciascun colore; quando  della fiaba interessa il fatto ch'ella contiene,  per la storia, e il fatto poi vale come causa :  allora le vesti adorne e diverse cadono; im-  porta il corpo. — Ed ecco il razionalismo dare,  in entrambi i casi, una veste nuova a quel  corpo, ch'egli crede più consona, sovra tutto più  seria e dignitosa. Il mostruoso aspetto di Caco,  la spelonca, la clava d'Ercole, i bovi al pascolo,     LA FINE 311   il furto e la sua astuzia, la lotta risonante sotto  il cavo etra, il sussultar delle rive all'urto im-  mane : tutto ciò non conta. Conta il duello tra due,  e i due nomi: Ercole e Caco. Su questi la com-  piaciuta furberia del loico intesse un'altra sua  trama, imagina gli eserciti, ne fìssa gl'itine-  rarii con le norme d'età posteriori, concepisce  le tempeste invernali proibenti il tragitto alla  flotta erculea: crea una fiaba nuova su l'antico  scheletro, die resta ed è creduto.   Originatosi, cosi, dalle stanchezze della mi-  topeja, come un sentiero costrutto su scorie, il  mito razionale potrebbe vivere, se la sua nascita  non fosse troppo tarda. La saga di un Ercole  errante per monti e piagge, in imprese di ca-  valleresca generosità, serba in sé, chi ben guardi,  non minore forza di vita che la leggenda del-  l'eroe solare. Quel che le manca è l'aura d'intorno:  per ciò, il suo fiato è breve. La leggenda non  è ancor morta, quando essa saga si forma; e,  rimanendole al fianco, le è assidua pietra di  paragone. Per superarla e sostituirla, la saga  deve difendersi discutendo, far valere palesi le  sue origini logiche non artistiche. Onde il suo  vero e mortale scapito : però che la logica  chiegga, anche fra gli antichi, d'esser discussa;  l'arte, fra gli antichi in ispecie, d'essere imitata.  Quindi è che il razionalismo non genera figli  morti, ma, Saturno diverso, ingracilisce, col  soffocarle di greve afa, le sue creature fin dalla  cuna.   A questa capacità distruttiva, che il raziona-  lismo rivela a suo proprio danno, non corrisponde  una eguale potenza deleteria per le belle favole:     312 VI. - KALTPSO   che diviene esso della fiaba la foggia estrema.  Né pure allora si serba indipendente; vive anzi  come un parassita accanto ai testi dei poeti e  degli storici. In tarde età riflessive il lettor di  Vergilio o quel di Pindaro accetta la loro fan-  tasia mitica, ma dopo esser divenuto conscio del  suo sostrato. Dice: '' due eserciti si son combat-  tuti nel Lazio, condotti da Ercole che vinse e  da Caco che fu battuto ; ma al poeta piace espri-  mere altrimenti il fatto, approfittando della sua  libertà „. pure dice: " Caco era servo di  Evandro e devastava i campi col fuoco; questo  significa il vate con frase adorna „. E, se ha  sensi di gentilezza, s'india nell'espressione libera  e nella frase adorna. Il razionalismo gli ha fatto  da passaporto ; ma l'arte ha conservato il mito.  Ciascuna leggenda avrà molte di queste giu-  stificazioni; qualcuna ne cercherà in vano; tutte  ne sentiranno il bisogno. Cosi l'ultima forma in  cui la saga vive, soccorre, pur nella sua esigua  e stentata energia, le forme più antiche, più  belle e da più possente alito nate. Malefica è  appena quando in una mente rozza, distruggendo  intorno a sé, predomina sola.   Notevole è sempre perché, ultima, contiene i  motivi del morir la mitopeja pagana. La favo-  letta pretensiosa del razionalista è tutta conte-  nuta nell'ambito di una esperienza soda della  pratica umana: prova, l'esercito eracleo presso  Dionisio. Supera quindi essa il mito, che non  possiede altr'e tanta sicurezza di conoscimento  umano; non delle esteriori fogge sociali, ridotte  per quello a poche linee sommarie e a rapporti     LA FINE 313   semplicissimi ; non delle tortuosità e dei meandri  intimi all'anima: giacché nelle prime porta il  razionalismo una imaginativa più nutrita e più  competente, consona ai tempi progrediti e agli  instituti nuovi evoluti; nelle seconde reca una  certa gi'ossezza logica che se è lungi al sottile  acume del psicologo, è sopra, d'assai, all'in-  genua intuizione primitiva. Ma vanitoso di questa  sua prestanza su la leggenda, il razionalista non  s'avvede d' una inferiorità che la compensa :  smarrendosi in lui pur ogni traccia del feno-  meno naturale come potenza che trascende,  come magnificenza ricca di colori di suoni e di  moti, come mistero pregno d' interrogazioni.  Ciascuno di cotesti aspetti ha, quando il razio-  nalismo regna nella mitopeja, trovato ad espri-  mersi nel culto, nell'arte, nella scienza ; può  quindi, e deve, venir separato dalla saga, in cui  né anche l'uno dei tre vien più avvertito, — se  non forse, tal volta, per ipotesi filosofica. Evi-  dentemente, dunque, è venuta meno la condizion  prima ch'era stata già bastevole e necessaria al  nascer dell'attività mitopeica; la condizione per  cui lo spettacolo della Natura, nel punto che lo  spirito umano lo assaliva per esprimerlo in sé,  non disponeva per cotale manifestazione se  non d'una imprecisa conoscenza degli avve-  nimenti umani onde era, nel suo grosso, assomi-  gliato; la condizione senza cui la spontaneità  mitologica si allontana nelle tenebre d'un pre-  tèrito memorando.   Se non che la fine della spontaneità mitolo-  gica, che cosi si spiega, non è la fine dell'inte-  resse spirituale verso il mito, interesse dal quale     314 VI. - KALTPSO     trae inesausta vita, per secoli, la mitopeja. Nel  secolo VI a. C. e nel V vedemmo fioriture mi-  nori di saghe in forza di questo interesse; tanto  forte ancora nelle masse da indurre regnanti e  poeti a foggiare e contaminare fiabe per accre-  scimento di lor potenza e di favore. Più tardi,  se non induce a creazioni novelle con l'imitare  le prische e il ricomporle, spreme però nelle  guise più varie, secondo i gusti più diversi (se-  guimmo nei particolari tal opera), molteplici  aromi dal mito, a inebriarne spiriti lontani; e  ogni aroma si esala in seguito a una alterazione,  e una alterazione ognuno prepara; e dalla vi-  cenda vasta si conferma la forza vitale del  genio mitologico e del mitopoetico. -- Ma lo  storico, che sa l'uomo e le sue potenze nei limiti  oltre che nei modi, da questo adoperarsi dello  spirito pagano intorno alle favole dorate, spiega,  deducendo, dopo la fine della creazione spon-  tanea, il termine della ripetizione devota. Di-  fatti, ogni volta che un nuovo compiacimento  attrae l'antico verso la saga, quando il patriot-  tismo lo lega ad essa, e la sensualità lo diverte  di essa, e la fede se ne turba, e il senso psico-  logico la scava; ogni volta, una virtù di quella  appare splendendo, — e si esaurisce vanendo :  perché, al pari d'ogni passione, patriottismo  fede sensualità, energie indipendenti e non fa-  ticabili, non si arrestano mai su la lor via : ma  da ogni letizia si sdanno per un'altra che sia  nuova, e dopo aver succhiato il sangue migliore  degl'idoli loro li lasciano cader dietro sé, cenci  vuoti di sostanza o lerci di dissolvimento. Grli  approcci si rinnovano su una su vénti saghe ;     LA FINE 315   le energie si succedono, ad una due, a due  dieci; il culmine si attinge in cui il groppo pro-  fondo dell'anima è uncinato dal mito : ma poi  la patria l'amore l'altare cercano ostie diverse,  e canti di altro suono si intonano in loro ser-  vaggio. Nel suo complesso lo spirito dei Gentili  si distrae lentamente dalla mitopeja, le diviene  a poco a poco estraneo e si immerge in altre  creazioni ; s'aprono nuovi stadii spirituali in cui  l'uomo, colmato a pena uno stampo, prende a  foggiarsene e a riempirne un altro : — mag-  giore.   E il disinteresse mitopeico: la seconda morte  che la storia deve registrare nelle sue pagine.  Non è, né pur essa, senza compenso; però che  una resurrezion i)arziale pare la segua. Quando,  e come, e perché, non è qui luogo opportuno  a dirsi: chi narra dell'Umanesimo lo dice; e chi  fa opera d'indagine letteraria nei secoli più re-  centi e nel nostro raccoglie le tracce e cumula  le testimonianze della terza vita. Qui si elegge  la figura, tocca da melancolia, di Maurice de  Guérin, che rivide con questi nostri occhi mor-  tali il Centauro, avendolo i fragori marini e  l'albe di perla e le sere di ciano educato allo  spettacolo insueto. Egli potè dalla imagine fa-  volosa esprimere nuove bellezze poi che, con-  cordando col mito nella sensibilità viva della  natura, vi seppe scernere làtèbre occulte, ove  languiva la mestizia nata dalla coscienza della  propria debolezza in confronto con le cime sfio-  rate a volo dall'anima. E rinnovò, cosi, il gesto  mirabile di Kalypso, ritrovata la spola d'oro.  Ma è miracolo breve, e rado. Un poeta nostro,     316 VI, - KALYPSO   che sé con vigore asseriva pagano, vide Ninfe  e Driadi egli pure ; eran però fuggiasche, e l'a-  nelito del suo cuore si compose prima in sdegno  violento contro la presunta causa della fuga, —  Cristo, — che in ammirazione amorosa verso le  bellezze virginali. A un altro, vivo e fecondo,  Versilia ninfa boschereccia deve dire, sbucando  da l'albero, " Non temere o uomo „; e il rim-  pianto strappa biasimo fiero avverso chi " più  non vede gli antichi numi italici : vivon eglino  pieni di possanza; hanno il fiato dei boschi  entro le nari „. Ma non è giusto il suo rim-  proccio; il cuore non si sfa nel petto " come  frutto putre „. A lui medesimo, che pure vi  portava, nuova, la sua sensualità ferina e tor-  bida e tormentosa, il mito, creatura fraterna  alle stelle ed ai sogni, sembra vanire implaca-  bile, senza che il vanto e le promesse d'un'arte  " magnifica „ e fin troppo cosciente della sua  maraviglia valgano a fermarlo un istante, —  né meno presso le ruine del tempio antico, e  l'alte statue cadute dai fastigi, e le colonne   tronche. '' Si allontana melodiosamente „.   Perché? — Eumene di Cardia, nell'età dei  Diadochi, l'anno avanti Cristo 321, sogna, innanzi  a la battaglia contro Cratere, l'assistenza di  Demetra, avversa ad Atena, e l' imposizione di  una corona spicea. Il di seguente i soldati si  ricingono tutti del segno augurale; e la pro-  messa divina incita i cuori, come il calcagno  i cavalli. Sei secoli dopo, Costantino annunzia  (si narra) la croce apparsagli e l'esortazione fati-  dica in hoc signo vinces ; e lo sprone è uguale.  Eloquenza del fatto minore ! Nei petti si muta la     317     fede; le masse scerpano dagli spiriti creduli le  credenze adusate e (è la forma di scetticismo  lor propria il mutare credenza) altre ne accol-  gono al posto; scompare l'aura benigna in cui  si moltiplicano gli echi della saga; si isterilisce il  terreno fecondante ove ne penetravano le radici.  E accade che il valore religioso della fiaba, il  valore che sembrava, ed era presso molti, scom-  parso e ottenebrato, si riafferma non per rav-  vivarla ma iDer offrire appiglio alla sua distru-  zione. G-li eroi non avevano cessato di essere,  — nel profondo delle coscienze, al meno, —  iddii scaduti; e con gli iddii vengon ripudiati,  di mano in mano che la Divinità si schiarisce  e si eleva agl'intelletti collettivi: Perseo con  Demetra. Il resto opera la scienza. Non la  nostra, che rispettiamo oggi come vera. Ma  tutte, le rispettate durante i secoli come vere e  come sole, sostituiscono nelle menti la loro ve-  rità e il loro equivoco alle interpretazioni fan-  tastiche; e sopprimono quei vincoli fra popolo  e mito pagano, che un appagamento della cu-  riosità pel fenomeno poteva ancor stringere.  L'urlo delle dimonia nel temporale e l'arcoba-  leno di Noè condannano Caco ed Iride, come  Sansone soppianta Perseo. — Si che l'elemento  scientifico, insito nella saga (se non intrinseco  a lei) fin dal suo nascer, contribuisce con il  religioso al suo perire, quando l'una e l'altra  sete umana, di sapere e di credere, abbian tro-  vato altr'acqua al loro bisogno.   Morta la capacità creativa della mitopeja,  stornatosi l'interesse spirituale ad altre mete, in-  dottesi le masse per diversi cammini; non restan     818 VI. - KALYPSO   più, dell'opulenza antica, che i riti agresti simi-  glianti per sostanza o per forme ai pagani, e  l'ammirazione nostra nata da l'erudito ricordo.  Ma i riti agresti accolgono festoso scampanìo  di chiese, e ignorano il nume degli antichi dèi.  E noi siam piccola schiera ; bramosa in vano di  quella fresca e ingenua maraviglia, onde s'ori-  ginò la saga ; volonterosa in vano del passionato  amore, fra cui si svolse ; pallida, dinanzi l'ombre  crepuscolari ove si rifugian labili le figure fa-  volose evocate un istante, pallida di accorata  nostalgia.   Restano anche le storie dei miti e la storia  della mitopeja classica: nudrite, dunque, tutte  di nostalgia.     LIBRO II   INDAGINE     i     Avvertenza.     Ho procurato che la bibliografia speciale dei suc-  cessivi argomenti da me dibattuti nei capitoli di questo  Libro II fosse né ingombra dell'inutile né monca del  pregevole o dell'indispensabile. Diverso criterio mi parve  in vece di tenere per la bibliografia generale su gl'in-  dirizzi varii che intorno al mito si combattono per opera  degli studiosi, su i problemi di metodo e di ermeneu-  tica, su le dottrine che filosofi sociologi psicologi etno-  logi ecc. ecc. sostengono od oppugnano. A raccoglier  difatti quest'altra bibliografia un grosso volume mal ba-  sterebbe; e persino una scelta, oltre ad essere in parte  arbitraria, usurperebbe grandissimo spazio (1). La omisi  dunque presso che intera, salvo pochi accenni sporadici;  né l'includerla sarebbe stato dicevole, per esser questo  Saggio opera, non metodologica né sociologica, ma sto-  rica; tale, ciò è, che la posizione da me assunta di fronte  alle varie correnti e agli opposti principii degli studii  mitologici deve risultare, non da discussioni teoriche e  generali, bensì dal giudizio particolare recato nella in-  dagine e nella storia dei singoli miti.     (1) Un ottimo esempio di ciò che potrebbe farsi è il  recentissimo lavoro di Luigi Salvatorelli Introduzione  bibliografica alla scienza delie religioni (Roma 1914): lavoro  che, per il nesso intercedente fra religione e mito, riesce  utile anche per chi studia in particolare quest'ultimo.     A. Ferrabino, Kalypso. 21     CAPITOLO I.  Andromeda.     I. Il racconto di Ferecide. — Il problema che si pre-  senta primo intorno al mito di Perseo e Andromeda con-  siste nella ricostruzione del racconto presso Ferecide, del  quale ci è bensì pervenuta nell'estratto di uno scoliaste  la narrazione della nascita dell'eroe e del suo soggiorno  in Serifo e dell'impresa contro Medusa ; ci è pervenuta  anche, nella medesima fonte, la parte estrema delle vi-  cende cui Polidette ed Acrisio andarono incontro dopo  il ritomo di Perseo vittorioso ; ma difetta del tutto l'av-  ventura di Andromeda (cfr. Scoi. Apoll. R. IV 1091. 1515 =  Fee. fr. 26 Mùller ì^/fG'. I 75-77). Ma la parte mancante  del mito in Ferecide può venir ricostrutta con sicurezza  bastevole, con l'uso del testo di Apollodoro (II 43-45,  Wagner). Se si riesce difatti a dimostrare che per tutto  il resto della fiaba quel che ci avanza di Ferecide e quel  che racconta Apollodoro son congiunti da strettissima  simiglianza, divien lecito ritenere che il testo della Bi-  blioteca possa supplire senza errore né equivoco la lacuna  ferecidea.     324 I. - ANDROMEDA     Ora, bisogna anzi tutto tener presente che il mito di  Perseo, mentre non ci è giunto nel testo proprio di Fe-  recide, ma solo attraverso al riassunto d'uno scoliaste,  ci resta invece integralmente nella Biblioteca. È quindi  a priori chiaro che in quest'ultima debba essere qualche  particolare pili che in quell'altro. Ma ciò può anche pro-  varsi ne' singoli casi. — In due punti ApoUodoro dà a  lato del suo racconto una variante : 1. oltre ad attribuire  la paternità di Perseo a Giove, riferisce — senza espli-  cita preferenza — che altri l'attribuivano a Prete fll 34);  2. dopo aver raccontato l'uccisione di Medusa per opera  di Perseo, testimonia d'un'altra versione, per cui la Gor-  gone è uccisa da Atena (II 46). Ciò mostra ch'egli aveva  presenti racconti un poco diversi ; ma mostra a un tempo  che sapeva serbarli distinti: onde è legittima l'opinione  che forse non si sarebbe notevolmente scostato da una  fonte importante qual'era Ferecide senza avvertircene  in modo aperto. — Di ben lieve natura difatti son le  varianti che, senza l'avvertenza dello stesso Apollod.,  separano il suo racconto da quello degli scolii citati. Nella  Bihl. è detto che Polidette ottiene da Perseo la promessa  del capo di Medusa come sQavov ... èitl tovg 'Injtoòa-  f^eìag T^g Oivofidov ydfiovg (IT 36) ; nello scolio (IV 1.515)  si parla bensì àQWMQavog non delle nozze : ma par chiaro  che l'omissione è qui dovuta solo al riassumere , tanto  più che in entrambe le fonti Perseo fa spontaneamente  la promessa mentre gli altri promettono cavalli. Poi  in ApoUodoro (II 39) Ermete dà a Perseo una falce  che non gli dà nello scolio (IV 1515) : evidentemente  chi riassunse omise questo particolare ; e difatti la falce  è menzionata nello scolio medesimo quando l'eroe è per  recidere il capo di Medusa. E lo stesso è da dirsi quando  la Bihl. (II 40) reca i nomi di tutt'e tre le Gorgoni, —  Steno, Euriale e Medusa, — là dove lo scolio (IV 1515)     IL KACCONTO DI FEEECIDE 325   dà sol quello di quest'ultima; quando Apollod. (Il 41)  narra di Atena che guida la mano di Perseo e gl'insegna  a guardar Medusa nello scudo per non esserne impie-  trato, mentre lo scoliaste riferisce solo che gli dèi Er-  mete e Atena insegnano all'eroe Ticàg xqÌ] zìjv KecpaÀìjv  àjioTeftEÌv à^teaTQUftfiévov ; quando in Apollod. (Il 42)  dal capo reciso di Medusa nascono Crisaore e Pegaso,  di cui tace il riassunto da Ferecide ; quando la fonte più  estesa fa rifugiare Danae e Ditti in Serifo su l'altare  (II 45), mentre la pili concisa omette a dirittura ogni  accenno al riguardo; quando infine nella Bibl. la gara  in cui Perseo uccide il nonno Acrisio è indetta da Teu-  tamida (II 47) re di Larisa in onore del padre defunto,  e nello scolio in vece si fa cenno solo a un àyoyv vétov  iv Tfl Aagioar] (IV 1091). Unica più profonda discre-  panza è questa : ApoUodoro dice che Perseo gareggiò nel  pentatlo; lo scolio per contro afferma névvad'Àov o^jio)  ^v. Ma qui evidentemente sussistevano tradizioni un poco  diverse : contro la tradizione che ricordava un pentatlo  polemizza lo scoliaste e la sua recisa negazione fa a suf-  ficienza intravvedere una tesi opposta e taciuta: la quale  dev'essere a punto o la ferecidea accolta da ApoUodoro  altra analoga. Non è questo l'unico caso in cui uno  scoliaste introduca tacitamente una correzione nel testo  che riassume e di cui cita l'autore.   Stabilita pertanto la strettissima attinenza fra Fere-  cide e ApoUodoro è da dedurne che in Ferecide fosse  identico (salvo le insignificanti sfumature de' più piccoli  particolari) alla versione apollodorea anche l'episodio di  Andromeda, del quale gli scolii di Apollonio Rodio tac-  ciono. Ed è adunque legittimo valersi di ApoUodoro per  colmare la lacuna nel racconto ferecideo.   Col possesso in tal modo conseguito di una redazione  comparativamente antica del mito di Perseo e, in par-     326 I. - ANDROMEDA     ticolare, dell'episodio di Andromeda, sono segnate le vie  per cui la critica deve procedere nel suo esame : però  che la natura stessa del racconto orienta l'analisi intorno  a Perseo, prima ; ad Acrisio Preto Polidette e Ditti, poi ;  ad Atena e alla Gorgone Medusa, in séguito ; a Cefeo  Fineo Cassiepea, da ultimo.   IL Perseo. — Le imprese di questo eroe sono nu-  merose e varie nell'apparenza, ma un occhio esperto non  esita a ridurle tutte a un medesimo tipo. Uccide l'avo;  decapita Medusa; abbatte il >t^roj; libera Ditti e la  madre Danae; impietra Polidette e quei di Serifo : compie  in somma parecchi fra i consueti atti degli eroi solari.  Che il sole nascente sia considerato l'assassino del sole,  suo padre, scomparso la sera innanzi : che al sole com-  peta la perenne lotta contro le tenebre, nei paesi del  Nord dell'estremo occidente, e contro i mostri tene-  brosi che ivi abitano : e ormai cosf risaputo che può  esser per criteri soggettivi negato, ma non deve più esser  ribadito con argomenti. Cfr. Beloch Griech. Gesch? I 1,  Absch. VI Mythos und Religion e G. De Sanctis Storia  dei Romani I cap. Vili Religione primitiva dei Romani  e cap. III Gl'Indoeuropei in Italia. Un eroe solare ri-  tiene difatti Perseo, a. e., 0. Gruppe nella sua Griech.  Mythologie{\).   Né sono sufficienti, anzi non sono valevoli , le argo-  mentazioni in contrario di E. Kuhneet, in Roscher Lex.  III 2, 2025: giacché egli dimentica la differenza profonda     (1) A parte (e, secondo noi, insostenibile) sta la teoria  di A. J. Reinach " Rev. de l'hist. d. relig. „ LXI (1910)  219 : * Perseus ' le destructeur ' n'est sans doute qu'un  vocable qu'on donnait à son arme, la harpé, adorée  comme Vakinekés l'était chez les Scythes „.     PERSEO 327   e sensibile che intercede fra i motivi naturalistici e gli  spunti novellistici, cui tutto il mito di Perseo vuol ridotto.  A questo proposito sarà anzi bene osservare che, per  reagire agli eccessi di quegli studiosi che in ogni eroe  videro un dio solare e un fenomeno meteorologico in  ogni episodio dei miti, i recenti indagatori caddero nel-  l'eccesso opposto di negare ogni sostrato o nucleo na-  turalistico e di ridurre ogni episodio a novella. Sintomo  significativo di questo secondo eccesso è l'articolo di  R. Sciava in " Atene e Roma „ XVI (1913) 226 sgg. Assai  equilibrato era in vece il saggio del Comparetti Edipo  e la mitologia comparata Pisa 1867. Ma è notevole che  quest'ultimo autore deve lasciar nel bujo il significato  e l'origine della Sfinge (pag. 71); e quel primo, trattando  di Bellerofonte, non spiega la Chimera: entrambi quindi  appajono per ciò stesso attenti a un aspetto del feno-  meno mitologico non a tutti.   È quindi metodo migliore, credo, far giusta parte nel  mito cosi al naturalismo come alla novellistica (1). Il pro-  blema poi intorno alla priorità dell'uno o dell'altra entro  le singole saghe va, in parte, resoluto caso per caso; in  parte è d'indole generale e vien trattato in questo vo-  lume nel libro I cap. VI. Qui diremo solo, in breve, che  l'intuizione naturalistica suppone una grossolana cono-  scenza della natura e dell'uomo, mentre la novella è già  densa di più larga e più ricca esperienza umana. Co-  munque, procureremo, dopo queste premesse, di sceve-  rare quei due elementi, naturalistico e novellistico, nei  varii nuclei in cui abbiam veduto per sé stesso spez-  zarsi il racconto di Perseo.     (1) È tesi vecchia: cfr. per es. il sennato art. diJ. Ré-  viLLK in " Rev. de l'hist. d. relig. , XllI (1886) 169 sgg.     328 I. - ANDROMEDA     III. Acrisie, Prete, Polidette e Ditti. — Nel rac-  conto Ferecideo, riassunto dallo scoliaste e ricostrutto  dalla critica, attira fortemente l'attenzione il particolare  della fuga di Acrisie re da Argo in Larisa, dal Pelopon-  neso alla Pelasgiodide tessalica: fuga con cui è connessa  la menzione del re pelasgico Teutamida e di un ijQipov  in onore di Acrisie medesimo (Scoi. Apoll. R. IV 1091).  Si son sempre in ciò vedute tracce d'un'influenza tessa-  lica sul mito di Perseo (cfr. Kuhnert o. c. 2023). Ma ben  più sembra che se ne possa dedurre ricordando quanto,  dopo il Busolt e il Beloch, ha dimostrato P. Cauer Grand-  fragen der Homerkritik^ 223, intorno allo scambio fra  Argo peloponnesiaca e Argo tessalica ["Aqyos JleÀaa-  yiKÓv deìVHiad. B 681). Se difatti si danno casi in cui  l'Argo pelasgica dei Tessali s'è potuta identificare con  l'Argo del Peloponneso cosi che gli eroi di quella furono  a questa attribuiti, — è molto probabile che l'Argo di  cui è re quell'Acrisio che la stessa leggenda peloponne-  siaca fa pertinacemente morire in Larisa sia, in origine  al meno, non quella pretesa dai mitografi antichi e cri-  tici moderni, si l'altra di Tessaglia. E si può con pro-  babilità scientifica ritenere che abbiamo in Perseo un  nuovo caso d'un equivoco di cui altri casi furono già  constatati e che si ripresenta con i caratteri consueti.   Da questa constatazione fondamentale traggono rilievo  alcuni particolari, a cosi dire, laterali del mito , il cui  valore era fin qui stato in gran parte misconosciuto;  particolari i quali son pure, a un tempo, riprova della  verità di essa ipotesi. Cosi fatti sono: 1. la discendenza  di Ditti e Polidette da Magnete; di cui dà notizia Apoll.  I 88, in un luogo che non è, come il II 34 sgg., sotto  l'influsso di Ferecide ma rispecchia fonte diversa; 2. la  nascita di Perseo non per opera di Zeus si di Preto fra-  tello di Acrisie : sulla quale informano Apoll. II 34,     ACKISIO, PRETO; POLIDETTE E DITTI 329   che riferisce questa come una tradizione parallela alla  ferecidea, e lo Scoi. A II. S 319, che fa risalir la notizia  a Pindaro. 11 primo di questi particolari lascia chiara-  mente iutravvedere una forma della fiaba in cui i due  salvatori di Perseo e Danae sono personaggi tessalici  della Magnesia: se adunque Acrisie è, in origine, re pe-  lasgico, quella ha da essere la forma primitiva della  fiaba. Onde e assicurato al nucleo originario del mito  l'intervento di quelle due figure. 11 secondo particolare  poi è d'importanza anche maggiore. Per esso noi dob-  biamo di fatti scegliere fra la tradizione che dice Zeus  padre di Perseo e quella che padre afferma Preto : e non  possiamo non propendere a riconoscere carattere argo-  lieo nella prima, ricordando quanto nei miti e nella  vita dell'Argo peloponnesiaca Zeus abbia parte, cosi che  fin " Argo „, l'eponimo del luogo, è figlio di lui (Esiodo  fr. 137 RzACH^ = Paus. Il 26, 2; cfr. Feeec. fr. 22,  MùLLER FHG. I 74). La tradizione pertanto che dice di  Preto sarebbe da ritenersi, in contrapposto, tessalica, e  quindi anteriore a quella su cui gl'influssi peloponne-  siaci son già palesissimi. E poiché col delitto di Preto  si riconnette bene la cacciata di lui per opera di Acrisie  irato, allo strato tessalico appartiene, forse, anche que-  st'altro spunto: su cui vedi Apoll. Il 24 (diverso da Paus.  Il 25, 7 e pili ancora da Ovidio Metani. V 236-41 ; i quali  riproducono una tradizione già alterata da elementi  estranei introdotti dalle genealogie peloponnesiache, per  cui poteva interessare che Preto riuscisse pari ad Acrisie  addirittura lo superasse). Né contro l'ipotesi che Preto  appartenga allo strato tessalico del mito crea ostacoli  il rilievo ch'egli acquistò poi nelle saghe tirinzie : che  potrebbe essere, come riteniamo, posteriore al suo tras-  porto nell'Argolide insieme con Perseo e Acrisie. Anzi  la nostra congettura, ove paja ragionevole, spiega forse     330     ANDROMEDA     anche il valore naturalistico di Prete, ritenendolo ana-  logo a Zeus, e da Zeus sostituito in regioni ov'egli era  poco noto in sul principio e ove potè localizzarsi solo  obliterando il proprio valore. Che però, velatamente, ap-  pare anche nella connessione con i Liei C Luminosi ,)  in cui egli è posto dtiìVIliade Z.   Tuttavia gli elementi cosi sceverati, che appartengono  potrebbero appartenere a uno strato tessalico della  leggenda, non sarebbero di per sé sufficienti a provare  di quello strato l'esistenza, ove accostati l'un l'altro non  dessero modo di trarne un racconto organico e coerente,  che potesse reggere al paragone di altri svolgimenti mi-  tici e novellistici analoghi. Ora è notevole in vece che,  tenendo conto dei materiali tessalici, espungendo le in-  serzioni argoliche, si giunge a ricostruire la trama com-  piuta d'un mito: — serbate le due figure di Acrisio e di  Preto di cui l'una ha avuto culto in Larisa, l'altra è an-  teriore a Zeus peloponnesiaco e ne sarà sostituita; —  serbato l'oracolo delfico (Feeec. in Scol.ApoU. R. IV 1091)  che diviene anche più dicevole per la vicinanza e le at-  tinenze fra Delfi e la Tessaglia; — serbati Ditti e Po-  lidette figli di Magnete, onde si acquista anche sufficiente  notizia del luogo ove trovarono asilo Perseo e Danae;   — serbata in fine l'uccisione di Acrisio a' giuochi larisei:   — ne nasce un racconto che è omogeneo e definito, e  si raccomanda quindi tanto per la sua localizzazione geo-  grafica uniforme quanto per la sua coerenza interiore.   Incerto potrebbe rimanere sol tanto se allo strato tes-  salico a quello peloponnesiaco abbia a farsi risalire  il nome e la figura di Danae : giacché se il secondo caso  fosse il vero bisognerebbe supporre che essa sostituisse  un nome e una figura più antichi. Ora se è certo che  nell'Argo del Peloponneso Danao e le Danaidi, cui Danae  si riconnette senza dubbio, costituiscono un vigoroso e     ACRISIO, PRETO, POLIDETTE E DITTI 33l   caratteristico ceppo mitico; non è però man certa la  presenza di Danaidi in Tessaglia, se si cfr. Scoi. Apoll. R.  I 1212 e Antonino Liberale 32. Va pertanto conchiuso  che Danae può appartenere assai bene allo strato tes-  salico del nostro mito; e che, se non è dicevole ai fini  della ricerca presente il vagliare il problema mitico di  Danao, in questo problema tuttavia la nostra ipotesi in-  torno alla primitiva sede della saga di Perseo s'inquadra  ottimamente.   Restano cosi delimitate a sufficienza le due stratifica-  zioni distinte in cui si spezza quell'episodio del nostro  mito ch'è intorno ad Acrisio e alla sua morte. Né è dif-  ficile stabilire l'epoca approssimativa in cui la seconda  si sovrappone alla prima di esse. Se difatti Zeus è, come  congetturammo, la sostituzione peloponnesiaca del Prete  tessalico, quando Vlliad. S 319 dice Perseo figlio appunto  di Zeus, se ne deve dedurre che come l'età tarda del  passo lascia buon margine alla leggenda tessalica di Prete,  cosi la sua comparativa antichità, — giacché anche le  meno antiche interpolazioni dell'Iliade son certo abba-  stanza vetuste, — fa risalire non poco nei tempi l'inter-  vento del Peloponneso. Non rimane adunque che studiare  partitamente l'uno e l'altro strato.   Affermata una volta l'esistenza dello strato pelopon-  nesiaco come posteriore al tessalico, il problema critico  consiste non tanto nel cercar le cause singole dei sin-  goli nessi instituiti fra il mito di Perseo e il Pelopon-  neso, quanto nel graduarli cronologicamente per seguire  passo passo, fin che è possibile, il processo di penetra-  zione di quel mito in quel territorio. (Le testimonianze  si veggano raccolte dal Kuhnert in Roschee Lex. Ili 2,  2018 sgg. ; cui mi richiamerò volta a volta). Ora non v'ha  dubbio che al complesso di piccole saghe esistenti in  Micene in Tirinto in Lerna in Midea e nella stessa Argo     332 I. - ANDROMEDA     non che in Elo e in Cinuria dev'esser andata innanzi la  diffusione del culto a Perseo e alle figure che a lui si  attengono miticamente. Ed è del pari certo che cotesta  germinazione di miti secondari sul ceppo del principale  dev'essere stata a bastanza tarda se nella trama vera e  propria della leggenda le peculiarità locali non han po-  tuto trovar posto adatto. Ma ben altro è da dirsi riguardo  a Serifo : per cui è a priori possibile cosi che il culto  abbia preceduto la leggenda onde ivi son localizzati Ditti  e Polidette, come che sia avvenuto l'opposto. Nel primo  caso sarebbe però da spiegare perché il culto di Perseo  abbia toccato Serifo, a preferenza di ogni altra dell'isole  vicine. Nel secondo caso in vece rimarrebbe senza risposta  la domanda che chiedesse il motivo onde Serifo fu dai  mitologi preferita ad altre isole, anche pili .vicine all'Ar-  golide, come sede del salvator di Perseo. Né l'esame  della genealogia di Ditti e Polidette conduce ad alcun  che (Febeo, fr. 13 -= Scoi. Apoll. R. IV 1091), come di quella  la quale contiene bensì riferimenti a Danao e all'Argo-  lide, non a Serifo. Nel mito primitivo il luogo donde  Perseo avea da venire per uccidere Acrisie era senza  dubbio indicato, in modo vago s'intende, a oriente. Più  tardi la localizzazione dev'esser divenuta più esplicita,  e sappiamo che nella Magnesia s'era trovato il punto  dicevole, — di cui per altro ignoriamo il nome. E non e  improbabile che questo fosse tale da determinar per ana-  logia a dirittura omonimia la scelta di Serifo fra l'isole  che sono ad oriente e non lontano da Argo peloponne-  siaca. Pure accettabile sembra l'ipotesi che la scelta  avesse un motivo unicamente geografico — l'est — ; ma è  ipotesi non sufficiente a spiegar tutti i fatti se si guarda  all'isole che sono nella stessa giacitura di Serifo; ed ipo-  tesi che dovrebbe, quindi, integrarsi con altra la quale  supponesse un intervento di casualità. Il problema rimane     ACBISIO, PBETO, POLIDETTE E DITTI 333   dunque senza soluzione recisa. A ogni modo Serifo deve  essere entrata assai presto nel mito peloponnesiaco perchè  vi rimase nettamente e saldamente incastrata. E poiché  lo stesso è da dire di Zeus che prende il posto di Preto,  bisogna ritenere che questi due punti fossero ben fissati  già quando il culto di Perseo prese a difiondersi per  tutto il Peloponneso.   Un momento successivo è occupato dalla saga di Ti-  rinto (Apoll. II 48). Questa saga non si sarebbe dovuta  creare se il culto di Perseo non avesse in Tirinto assunto  importanza ben maggiore che nell'Argo medesima, co-  stringendo i mitologi a darne una giustificazione. D'altra  parte se era plausibile che, — come si disse da quelli,  — dopo aver ucciso il nonno i e d'Argo, Perseo si ver-  gognasse sls "Aqyos ènaveÀ&Elv, era facile legittimare  la scelta di Tirinto ch'egli avrebbe fatta in cambio, se  a Tirinto s'era radicato e svolto quel Preto che impor-  tato forse dall'Argo tessalica non aveva trovato favore  nell'Argo peloponnesiaca. Onde i miti tirinzii di Preto  e Bellerofonte e di Perseo e Megapente mostrano en-  trambi che i personaggi della saga tessala attecchirono  assai meglio in Tirinto che in Argo. Seguono poi tutte  l'altre saghe minori e meno importanti (quella di Mi-  cene p. e. : Pads. II 16, 3), che sfuggono al racconto di  Apollodoro, testimoniando per tal modo la loro recen-  ziorità.   La sanzione definitiva però dell'insediarsi nel Pelopon-  neso, specialmente nell'Argolide, il mito di Perseo, i; data  dai genealogisti. Combinando Apollodoro (Il 21. 47 sgg.  con Ferec. fr. 13 e 26 -= Scoi. Ap. R. IV 1091) risulta il  seguente schema che può valere come volgata su questo  punto :     334 I. - ANDROMEDA     DANA.0       Linceo ^    Ipermestra    Lacedemone Abante   1 1    1  Euridice    1   ~ ACRISIO    1  Prkto    Zeus    ~ Danae    Megapente      PERSEO '    ^ Andromeda     Posidone ^- Amimone   Nauplio   I   Damaatore     I . I   I Pericastore   1 I   Peristene -^ Androtoe   I   Alceo Elettrione Stenelo Mestore Ditti Polidette   I III   Anfitrione -^ Alcmene Euristeo Ippotoe  I !   ERACLE Tafio     Poiché è troppo chiaro che di questa genealogia i punti  fermi sono Danao ed Eracle, il Kuhnert o. c. 2023 vi ve-  deva la riprova che Acrisio e Preto sono originarie di-  vinità argive (predoriche) cui si vuol imparentare l'eroe  dorico più recente Eracle, non senza che nel contrasto  fra questo ed Euristeo sussista traccia della diversità dei  ceppi. Ma se al Kuhnert si può concedere che tardo sia  l'intervento di Eracle nei miti argolici, non gli si può  consentire in vece intorno ad Acrisio e Preto. Per vero  il posto che essi occupano nello schema genealogico è  ben motivato, ma da tutt'altre ragioni che la lor origine  peloponnesiaca. Il nome di Danae doveva riportar sìibito  a Danao, cui sarebbe stato da avvicinare per quanto  era possibile; ma due generazioni dovevano necessaria-  mente intercedere: una, quella di Acrisio e Preto; l'altra,  quella delle Danaidi. Più oscura resta la presenza della  terza generazione: di Abante. Ma non mancano elementi  per la congettura. Abante è ritenuto l'eponimo di Abe  in Focide (Stef. Biz. g. v. "Affai; Paus. X 35, 1); capo  degli Abanti di Eubea (Stef. Biz. s. v. 'Affaviig, Scoi. B II.     ACRISIO, PEETO, POLIDETTE E DITTI 335   B 536, Scoi. Pind. FU. Vili 77). Su di lui Strabone 431  ha un luogo che merita comento : oc oh [rò "AQyog tò  IleÀaaytìiòv] oò itóÀiv [óéxovrai] à^Àà tò zojv QerzaÀ&v  7t€Óiov oSrcog òvoiiuTtyiaig Àeyófievov , &ef.tévov zovvofia  ''Aj^avTog, è^ "Agyovg Ssvq àTioixi^aavTog. Qui è, sùbito  evidente, un giuoco di omonimia fra le due Argo; ma  è del pari evidente che un motivo deve aver indotto a  sceglier per l'appunto Abante per attribuirgli l'introdu-  zione del nome Argo in Tessaglia. E il motivo non può  esser altro che il trovarsi come nel Peloponneso cosi  nella Pelasgiotide tessalica tracce o di lui o del suo  culto. La quale ipotesi concorda bene con la presenza  di nomi affini a quello di lui in Eubea e nella Focide :   — territori miticamente affini alla Tessaglia. Ma se ciò  è probabile, ne deriva che Abante potè essere impor- .  tato in Argolide in una con Acrisio e Preto da l'Argo  pelasgica e si spiega in fine la presenza di lui, terzo,  fra Danao e Danae. — Per Ditti e Polidette non si trat-  tava in vece che di porli nella medesima generazione  di Perseo e Andromeda, di imparentarli con essi per  meglio giustificarne l'accoglienza: e a ciò valsero nomi  come quello di Nauplio, — eponimo di Nauplia, — di  Damastore, — padre dell'argivo Tlepolemo in U. 21416,   — di Peristene, — sposo d'una danaide Elettra in Apoll.  II 19.   Or come lo schema genealogico studiato fin qui mostra  Acrisio e Danae innestati fra Danao (già anticamente  peloponnesiaco) ed Eracle (meno anticamente pelopon-  nesiaco.', cosi i matrimonii fra i figli di Perseo e le Sglie  di Pelope (le testimonianze presso Kuhnert o. c. 2033)  rivelano la analoga tendenza a collegar il nuovo venuto  eroe con il pili vetusto. E l'opposto vale per Dioniso che  la leggenda fa superar da Perseo [cfr. Edseb. Chron. II  44 Schone; Cirillo c. lui. X 342; Agost. de Civ. XVIII 13;     336 I. - ANDROMEDA     Scoi. Totr. IL 5" 319. Questa dev'essere la leggenda più an-  tica; l'altra in cui il vinto è Perseo (cfr. Kthnert o. c.  2016-17) dovè nascere allor che Dioniso fu più a fondo  penetrato in Argolide].   Che se però lo strato argohco può esser suddiviso in  parti cronologicamente succedentisi, il tessalico offre  occasione a diverso studio. Il personaggio di Danae serve  a gittar, di fatti, molta luce su elementi che a tutta  prima sfuggirebbero nel mito e che sono tutt'afFatto no-  vellistici. Certo esso è, originariamente, vivo di sostanza  naturalistica ; si riconnette con Danao e, come esso, deve  valere quale divinità del mare (Beloch Gr. G? I 2, 63)  della nuvola nera o di alcun che di simile: e, se bene  forse sia eccessivo precisare di più, in ciascuno di questi  casi è chiarissima la ragione per che Perseo, l'eroe so-  lare, fu detto nato da lei. Tuttavia, sopra questo inne-  gabile strato, nel mito tessalico Danae ci appare già ricca  di un nuovo contenuto. Il motivo invero della figlia o,  più latamente, della vergine che contro un esplicito di-  vieto divien madre e paga il fio di questa sua colpa  insieme con la sua piccola creatura è svolto in larga dif-  fusione nel folk-lore. E non ha nulla in comune con lo  spunto, che si fonda sopra una primitiva bambinesca in-  tuizione del succedersi dei soli, intorno al delitto di  Perseo contro il nonno. — Ugual carattere novellistico  si riscontra poi in Ditti: il cui nome non è se non il  generico appellativo " pescatore , (cosi che è quasi vana  postilla quella di Ferec. fr. 26 òiy.Tvi>) àÀievmv) e la cui  natura è per tanto assimilabile a quella del consueto pa-  store agricoltore che rinviene la derelitta ed il figliolo  abbandonati alla violenza delle forze naturali. Potrebbe  bensì pensarsi anche a una divinità pescatrice (cfr. la  cretese Diktynna, su cui bene giudica Maass presso Wide  Lahonische Kulte 126 e il Gruppe Gr. Myth. 254). Ma il con-     ACRISIO, PRETO, POLIDETTB E DITTI 337   testo della fiaba lo esclude, e al pili concede di supporre  che il caso sia per Ditti analogo a quello di Danae: che  cioè l'indubitabile carattere novellistico offuschi un an-  tico sostrato naturalistico. Certo in ogni modo che per  quel primo carattere non per questo sostrato Ditti entrò  e rimase nel mito di Perseo. — Altro è di Polidette :  questa stessa forma verbale si rintraccia difatti in un  attributo di Plutone-Ade, onde, tra altri, 0. Crusios  " Jbb. Phil. , CXXIII (1881) 302 ha creduto di identitìcar  con Ade appunto anche l'ospite di Danae e Perseo. L'ipo-  tesi ci par ragionevole, a patto che si facciano due re-  strizioni : anzi tutto non è da credere col Crusius che  Ditti fosse epiteto primitivo di questa figura dell'Ade-  Polidette, e da epiteto si trasformasse in fratello; ma  tenendo conto del folk-lore e delle sue forme consuete,  è da pensare invece che originario fosse Polidette, il cui  significato trasparente fa intra vvedere un fondo natura-  listico al suo episodio come a tutto il primo nucleo della  saga, e posteriore Ditti. Inoltre altra è la interpretazione  da darsi, io credo, ai rapporti fra Polidette-Ade e Perseo  con Danae. Il Crusius difatti, col far gravitar tutta l'im-  portanza del mito su questa, la riteneva simbolo del-  l'anima che il re sotterraneo rapisce e Perseo (= Ermes)  libera. Se al contrario è vero che Danae è divinità del  mare o del bujo e Polidette è nume sotterraneo, la spie-  gazione di entrambi esiste rispetto a Perseo in un con-  cetto unico. Nel fatto l'eroe solore Perseo si pretendeva  nato da Danae come il sole dall'ombra; ma poi, soprav-  venuta per Danae la forma novellistica, fu concepito un  doppione di lei m Polidette. per cui Perseo viene ad  uccidere Acrisio non pur dall'onental Magnesia (v. sopra)  si anche dall'ombra, dalla regione sotterranea, onde ogni  mattina il sole emerge. La cattività di Danae presso  Ade-Polidette è dunque giustificata anche dalla affinità  A. Ferrabino, Kalypso. 22     338 I. - ANDROMEDA     sostanziale dei due personaggi. In tal caso, ammettendo  la diversità di Ditti e di Polidette, la tradizione fere-  cidea che li fa fratelli e figli di Magnete par che si debba  spiegare come un atto unico di elaborazione mitologica  per cui dalla Magnesia (per la sua positura astronomica  rispetto ad Argo pelasgica) fu desunto il nome del padre,  e dalla paternità dedotto il rapporto fraterno.   Considerati nel loro insieme lo strato argolico, di cui  vedemmo i successivi momenti, e il tessalico, di cui ten-  tammo scernere gli elementi naturalistici e novellistici,  costituiscono per un lato una fiaba di schema consueto  e di per sé bastevole, ma offrono per altro lato appiglio  a giunte e svolgimenti mitici. L'indagine , continuando,  ce ne darà conferma.   IV. Atena e la Gorgone Medusa. — Gli elementi  che caratterizzano la prima avventura di Perseo in quel-  l'intervallo di azione ch'è compreso fra la sua cacciata  da Argo e il suo ritorno, sono tutti a un tempo elementi  jonici. La Dea che lo protegge è Atena, la quale ci ri-  porta senz'altro ad Atene; il Dio che l'ajuta è Ermes, di  cui in Atene è culto notevolissimo (cfr. p. e. Roscher nel  suo Lex. I 2, 2347 sgg.); il mostro che combatte e vince  è quel medesimo di cui il capo è sullo scudo di Pallade  {Iliade E 740); il luogo onde si muove è Serifo, colonia  di Joni. A questi dati fanno buon riscontro le notizie  che per altra via si posseggono intorno al culto di Perseo  in Serifo (Paus. II 15, 1, per le monete cfr. Head H. N'^  490), in Atene (Kchnert o. c. 2019-20), in Mileto (Strab.  XVII 801 cfr. Erod. II 15, Edrip. Elena 769, Kuhnert  0. e. 2021): — in Mileto, specialmente, tali da risalire  al VII sec. a. C. Da tutto ciò, poiché anche il mito di  Perseo e Medusa non contiene altri elementi all'infuori  di questi né favorevoli né contrarli, è lecito dedurre che     ATENA E LA GORGONE MEDUSA 339   quell'episodio dev'essersi formato in territorio jonico; e  che per conseguenza la sua formazione è posteriore ai  principii dello strato peloponnesiaco, del quale appare un  effetto.   Quanto è probabile questo risultato tanto par certo il  contenuto naturalistico dell'impresa. Le Gorgoni abitano  (presso [Esiodo] Teog. 274 sgg.) néQrjv kÀvtov 'Qxeavoìo  èoxa^tfl TCQÒg vvìCTÓg, tv' 'EajtEQiòsg Àiy^cpcovoi ; sono per-  tanto evidenti mostri delle tenebre e della notte (1) che  dicevolmente si contrappongono all'eroe solare in aperto  contrasto. Là presso si devono ritrovare gli Etiopi che  abitano dove sorge e dove tramonta il Sole {Odissea  a 22-24) (2). A Nord, ma con egual significato tenebroso,  stanno gli Iperborei (cfr. Pind. Pit. X 50 sgg. e SniiA di  Rodi appr. Tzetze Chil. VII 695) (3). Non è dunque dubbio,  anzi tutto che l'avventura contro le Gorgoni si riconnette  pel sostrato naturalistico e con l'uccisione di Acrisie e  con quella del kìjtos (v. sotto) ; in secondo luogo che  quando in territorio jonico il mito di Perseo venne im-  portato e diffuso, il suo valore era ancor a sufficienza  noto e chiaro.   E da origine rintracciabile con probabilità derivano  anche i singoli elementi constitutivi della saga. Che  Atena avesse sul suo scudo il capo di Medusa non è  spunto vano: il suo valore di Dea nata dal cielo e in     (Ij Su le Gorgoni v. Roschee Gorgonen u. Verwandtes  (Leipzig 1879). Un recente lavoro (Berlin 1912) su lo  stesso tema non merita d'esser citato.   (2) Cfr. WiLAMOwiTZ Hom. TJnters. {= " Phil. Unt. „  VII) 17.   (3) Cfr. Knaack " Hermes , XXV (1890) 457. — Su  gl'Iperborei v. 0. Schròder " Archiv f. Religionswiss. „  VIII (1905) 65 sgg., A. KoETE ibid. X (1907) 152 sgg.;  Gruppe in Bubsian-Kroll ' Jahresb. ' CXXXVII (1908) 520..     340 I. - ANDROMEDA     particolar modo di Dea del temporale (Beloch Griech.  Gesch} I 1, 154) dà risalto a quello spunto, cosi che vi fa  trasparire un'antica antitesi fra Pallade e le tenebrose  Gorgoni. Antitesi invero che si serbò sempre, accanto  al mito di Perseo, se Eurip. Jone 991 la ricorda e Apoll.  II 46 è costretto a farne menzione. E, — ultima riprova  di un fatto già a bastanza palese, — anche quando alla  Dea si sottrae il merito della vittoria contro Medusa, a  lei sempre si attribuisce l'ausilio in favor di Perseo  (Ferec. fr. 26 e Apoll. II 41). — Se non che il capo di  Medusa è pure su lo scudo di Agamennone in //. A 36.  Pensando alla natura prima di lui (Beloch Griech. Gesch?  I 1, 162) si potrebbe supporre per lui un'antitesi con Me-  dusa analoga a quella che è fra Atena e la stessa Me-  dusa. Ma bisogna rammentare che su lo scudo il capo  della Gorgone diventò ben presto un costante e diffuso  ornamento senz'altro motivo che di estetica e di tradi-  zione. Dalla medesima Atena è desunta la y.vvi\ ond'è  coperto, e reso invisibile, Perseo: si trova di fatti men-  zionata per lei in //. E 845 ("■^'■^os KvvérJ. — Di natura  diversa, e novellistica, sembrano in vece e i calzari alati  e la Kifiiacg e l'episodio delle Graje. Queste non sono  mostri analoghi alle Gorgoni bensì tipi esagerati della  vecchiaia, di cui la novella suol compiacersi; ma perché  un aspetto mostruoso è in loro innegabile, per ciò bene  [Esiodo] Teog. 270 sgg.; Esch. Promet. 795; Apoll. II 37;  TzETZE a Licofr. 838. 846 fanno le une sorelle delle altre.  Accadde però che la parentela con le Gorgoni e la pa-  ternità di Forco traviasse i critici; che vollero in gran  numero ritener le Graje personaggi naturalistici (Rapp  in RoscHER Lex. 1 2, 1729 sgg.). Ma bisognava prima pro-  vare (e la prova manca) che la parentela e la paternità  sono originarie nel mito, e non indotte dall'essersi nella  fiaba le tre Graje e le tre Gorgoni (di diversa origine)     CEFEO FINEO E CASSIEPEA 341   trovate vicine. Di fatti delle Graje la novella approfittò  per farne i personaggi di una pre-avventura, la quale  trova moltissime analogie, e le depositarie di alcuni ta-  lismani, che ritornano sotto mutati aspetti con frequenza  nelle fiabe. — Ufficio analogo (e analoga origine per con-  seguenza compete al suo intervento) esercita Ermes e la  falce di lui. Mentre però le Graje dovevano contrapporsi  a Perseo, come quelle che la notte ricinge, Ermes do-  veva essergli propizio, come quello che quando si scontrò  con Perseo aveva caratteri di dio della luce esso pure  (Beloch Griech. Gesch}l I, 160) (1). Mentre inoltre le Graje  nel cammino dell'eroe si trovano solo per motivi novel-  listici; Ermes si trovava in vece anche nella real sfera  della diffusione cui andò soggetto il culto di Perseo.   Riassumendo, dunque : l'episodio di Medusa nel mito  di Perseo pare concepito in territorio jonico; è, nel suo  fondamento, senza dubbio naturalistico; ma coi perso-  naggi naturalistici (le Gorgoni, Atena, Ermes) si mischiano  gli elementi novellistici (le Graie, la Kt^iffig, i talari);  e tutto il contesto è per tal modo novellistico che anche  quei personaggi vi intervengono con offici proprii della  novella.   V. Cefeo Fineo e Cassiepea. — Gli elementi onde  è costituita la impresa di Perseo contro il x^roy sono  di natura e origine assai più incerta che quelli raccolti  intorno a Medusa. Tuttavia, anche a prescindere dalla  prima forma del racconto e a limitar l'indagine pur ai     (1) In quanto al valore originario di Ermes lascio qui  intatto il problema e solo rimando a E. Metek G. d. A.  II pag. 97. — Ricordo anche Roscher Heìines der Wind-  gott (Leipzig 1878) (cfr. l'art, nel Lex.); e Siecke Hermes  der Mondgott (Leipzig 1908) che determinò una polemica  appunto col Roscher.     342 I. - ANDROMEDA     dati tardi delle genealogie e delle saghe secondarie, la  diffusione di Cefeo nell'Arcadia e nell'Acaja (v. sotto), la  constatata presenza di Fineo in quei luoghi (v. sotto), in-  ducono a cercar di preferenza nel Peloponneso il terri-  torio forse di formazione e probabilmente di diffusione  di quell'episodio mitico. Molto più deve dire un esame  delle figure singole.   La lotta di Perseo contro il v,f}zog è, — bisogna a pena  osservarlo, — parallela per significato all'impresa av-  verso Medusa. Sarebbe quindi già a priori da attender  notizia intomo a un Nume che in quell'avventura com-  piesse gli uffici i quali nell'altra esercita Atena; e un cosi  fatto nume sarebbe anche, per pura indagine etimolo-  gica, da ravvisar in Andromeda , nel cui nome è non  dubbia la radicale di àvfjQ; se a conferma validissima  non ci fosse serbato un cratere (" Mon. d. Inst. „ X 52 ;  KuNHERT 0. e. 2047) in cui Andromeda appare non legata,  vittima prossima del n^Tog e premio futuro all'eroico  liberatore, ma ritta presso l'eroe nell'atto di ajutarlo a  respinger la belva col lanciar sassi, che sono raccolti in  mucchio li presso. Ivi ella è senza dubbio queir " aju-  tatrice „ che la congettura avrebbe per sé supposta. Né  la comparativamente tarda età del vaso (VI sec.) deve  stupire: è ovvio che la stilizzata tradizione artistica dei  vasai deve aver serbato in anni posteriori, quando il  mito s'era al tutto tramutato, memoria della forma che  esso aveva pia anticamente assunta. — Questa ipotesi  però intorno al primitivo racconto sul x^rof, se è tanto  evidente da indur meraviglia che il cratere possa esser  stato prima non cosi interpretato (Kuhnert o, c. 2020),  pone anche il problema su le cause del passaggio da  quello stadio mitico a quello ch'è in Ferecide. Ora è  chiaro che l'episodio di Medusa e quel del ìtijTog non  potevano, nella veste più arcaica, venir raccontati l'uno     CBFBO FINEO E CASSIEl'KA     343     appresso all'altro senza che se ne dovesse notare, sùbito,  la simiglianza strettissima: quindi il bisogno di dissi-  milarli. Inoltre, a sodisfar quel bisogno giovava il facile  innesto su quella saga naturalistica di uno spunto no-  vellistico : la fanciulla cattiva e liberata, premio al prode  che la salva (si ricordino le epopee cavalleresche). — Se  non che alla medesima forma vetusta e primordiale del-  l'episodio non dovevano mancare gli Etiopi. Fu veduto  dianzi (v. sopra pag. 339) come le sedi loro nella con-  cezione mitica li raccostassero ai mostri tenebrosi. E  tanto più qui il loro ricordo era importante in quanto,  mentre le Gorgoni richiamavano, sole, a sufficienza i  luoghi di lor sede, il nrjTog per sé non sarebbe stato in-  dizio locale bastevole.   È cosi preparato il terreno a giudicar di Cefeo. Le  testimonianze intorno a lui (doricamente Cafeo) sono tali  da non permettere dubbi sul luogo ove il mito lo ha più  a fondo radicato. I testi fondamentali di Apoll. II 144,  di Paus. Vili 4, 8. 23, 3. 47, 5, di Apoll. R. Argoti. I  161 sgg., che tutti lo fanno figlio di Aleo, eponimo di Alea  in Arcadia, e re di Tegea; le monete di Tegea appunto,  in cui abbondanti volte ritorna (cfr. Deexlek in Roschee  Lex. II 1, 1114): fissano in modo esplicito per l'età storica  la sede prevalente del suo essere mitico presso gli Ar-  cadi (1). In particolare poi Paus. Vili 23, 3 asserisce che  da Cafeo avrebbe preso nome la città arcadica di Cafìe. Il  problema, — che non in questo caso solo si presenta  alla critica, — fra le attinenze reciproche de' due nomi  non può esser risolto fin che manchino notizie sul culto  di Cefeo, che solo risolverebbe la quistione col far deri-     (1) Cfr. W. Immerwahr Die Kulte u. Myihen Arkadiens  I (1891) 60. 65 sgg.; che mi sembra però superficiale.     344 I. - ANDROMEDA     vare alla città il nome dal Dio. Ma ad ogni modo quelle  attinenze non sono da negare. — E queste notizie sono  non infirmate, ma consolidate da Licofkone Aless. 586 sgg.  ove Cefeo è àn:' ^QÀevov \ Avfii^£ re BovQaiotoiv ijyef*ù)v  OTQazov : perché nell'Acuja dobbiamo ravvisare uno dei  punti tòcchi dall' irradiarsi di lui fuor dell'Arcadia nel  restante Peloponneso. Analogamente Cefeo fu, fuor del-  l'Arcadia, introdotto nel mito spartano degli Ippocoontidi,  cacciati da Eracle, cui egli avrebbe recalo ajuto otte-  nendone in premio la perenne salvezza del suo dominio  in Tegea: saga, pare, a bastanza antica, se già Alcmane  fr. 72 Bgk.* {^axé ztg audcpevg [Kaq>evs Nelmann] àvda-  où)v) ne aveva sentore : cfr. inoltre Apoll. II 144, Stef.  Biz. s. v. Kacpvai. Ma se eifetto d'una più tosto tarda  irradiazione sono coteste attinenze fra Cefeo e l'Acaja,  fra Cefeo e Sparta, di gran lunga posteriore va ritenuto,  sembra, il trasporto di lui in Beozia: scoi. B a lliad.  B 498 QeaTCEiov zov Ki^q>ews ^ d-vyatéQe^ ^aav v' . 11  TiÌMPEL Kephcus presso Roscher Lex. II 1, 1113 esclude,  — senza peraltro addur motivi, — che queste parole de-  rivino dal facile equivoco tra Cefeo e Cefiso, o da una  combinazione tra le 50 figlie di Tespio e 60 figli di  Cefeo ; e ne deduce, richiamandosi alle sue ipotesi su  Cassiepea, che in Beozia va cercata la sede prima di  Cefeo! Lasciando ora di discutere le asserzioni del Tumpel  su Cassiepea (v. sotto), va qui solo rilevato che non è  difficile chiarire la genesi, — posto che equivoco di nome  non siavi, — della notizia serbata in quello scolio. Le  genealogie (1) che esamineremo più tardi (v. sotto) uni-  scono Cefeo con Fenice e Cadmo, tebani e beoti per     (1) Queste genealogie sono studiate ampiamente, se  non acutamente, da A. W. Gomme " Jour. of Hell. Stud. „  XXXIII (1913) 53 sgg.     CBFKO FINEO B CASSIEPEA 345   eccellenza: con Fenice e Cadmo, tardi quindi, Cefeo  dev'essere pertanto giunto in Beozia. — Tra queste no-  tizie, più meno tarde, che ci riportano all'Acaja a Sparta  alla Beozia, e quelle che ci richiamano all'Arcadia il cri-  terio per scegliere in modo decisivo non manca. 11 Cefeo  arcade è secondo Ellanico (fr. 59 = scoi. Apoll. R. I 162  combinato col fr. senza numero = scoi. MTA a Eurip.  Fenice 150; contro l'opinione del Tumpel a. e. 1109) figlio  di Posidone; e secondo Apoll. Ili 102 fratello di Licurgo  (per contro di Licurgo è figlio presso Apoll. I 67). Questi  dati genealogici, come ci vengono riferiti solo per il Cefeo  dell'Arcadia, cosi concordano del tutto e con il suo ca-  rattere di re degli Etiopi (v. sopra) e con la probabile  etimologia del suo nome. Di fatti sia che vi si voglia  riscontrare la radice kuF- sia che con gli antichi  gramatici lo si riconnetta con ncjcpóg (confr. x^go^f),  sempre vi traspare la natura d'una divinità ctonica e  tenebrosa: la quale in vero viene pensata o abitante  nelle oscure cavità che sono oltre la linea donde sorge  il sole, pure priva della voce. Se ne conclude che la  localizzazione di Cefeo in Arcadia dev'essere la più an-  tica, come quella con cui va tuttavia connesso il ricordo  di quell'essenza naturalistica di lui che mito e nome ri-  velano del pari. — Mentre però il nesso fra Cefeo e gli  Etiopi risulta in tal modo se non primordiale certo an-  tichissimo, non si può dire altrettanto del nesso con An-  dromeda. In vero se questa è sul principio 1' " ajutatrice ,  di Perseo, solo quando, — e fu, come si vide, assai per  tempo (v. sopra), — l'avventura dell'eroe contro il xijvos  fu localizzata fra gli Etiopi, e solo a traverso questa lo-  calizzazione, pervenne a commettersi con Cefeo.   Perseo, Andromeda, Cefeo, gli Etiopi, il x^roj, erano  per tal modo sufficienti a costituire, per sé soli, la trama  di un episodio mitico; onde la presenza di Fineo e Gas-     346 I. - ANDROMEDA     siepea , per non sembrare un' intrusione superflua deve  venir giustificata con l'indagare partitamente il valore di  quelle due figure.   Quanto a Cassiepea, lo stesso nome rende non dubbio  che si tratta del tipo novellistico della " millantatrìce „  (cfr. TùMPEL in Roschek Lex. II 1, 993) che compete in  bellezza con le dee e ne è punita in sé o nella prole. I  luoghi per tanto dove vien fatto di rintracciarla non  hanno attinenza alcuna con la sua natura e solo ella vi  è indotta a traverso i miti in cui penetra. Cosi per esser  stata congiunta (miticamente e genealogicamente) con  Cefeo Fenice e Cadmo, viene sostituita a Memphis come  moglie di Epafo presso Igino Fav. 149 e, altrove (Esiodo  fr. 23 Rz. ^), fatta discendere da Thronie, l'eponima d'un  luogo Thronion della Locride : cfr. scoi. D a, II. B 533.  Si sa difatti che con Epafo ed Egitto han nessi mitici  e genealogici Fenice e Cadmo ; e che con la Beozia (e  quindi con le regioni vicine) han nessi cultuali e geogra-  fici. Fu dunque abbagliato da localizzazioni, che son con-  seguenza d'una erudita elaborazione mitologica, il Tumpel  quando su la fede dei luoghi citati asserì Cassiepea esser  beota [o. e. 988 sgg.). — Ma se la " Millantatrice , è  originariamente estranea a ogni luogo, essa anche con  Andromeda e Cefeo si deve esser connessa non per con-  tiguità di luoghi ma a compimento della trama novelli-  stica che quelli comprendeva. Non è quindi dubbio che  la sua presenza accanto Andromeda risalga a quel mo-  mento in cui la figura di questa viene appunto novelli-  sticamente atteggiata nel tipo della vergine che un prode  libera da prossima morte (v. sopra). Allora di fatti diven-  tava necessario giustificare in qualche modo la cattività  della fanciulla; alla quale il vanto della " Millantatrice ,  potè divenire argomento sufficiente (contro Tumpel o. c.  989-90). E solo a traverso Andromeda si strinse il legame     CBFEO FINEO E CASSIEPEA 347   di lei con Cefeo e gli Etiopi. La riprova di questa ipo-  tesi sta nel non potersi rintracciare nella sua figura e  in quella parte del mito ohe più le attiene alcun indizio  d'un'antica e diversa vita mitica.   Quanto a Fineo, il Sittig in Fault- Wissowa R.-Encr  VII 2417 sgg. ha messo a sufficenza in luce il sostrato  naturalistico del mito, che è più propriamente suo, delle  Arpie di Elios e de' Boreadi; ciò è la lotta dei caldi  venti del Sud, che il Sole suscita apportatori di nuvole  e di danno, contro i venti del Nord , che insorgono a  respinger quelli e a difendere il nume cieco del bujo  settentrione. In questo sostrato però non si vede elemento  alcuno onde possa giustificarsi l'intervento di Fineo nel  mito di Andromeda, all'infuori del contrasto che è fra  la sua figura e l'eroe solare Perseo : contrasto che rendeva  anche dicevole la presenza sua fra gli Etiopi. — Ma se  le sedi mitiche di Fineo si potevano cercare senza con-  traddizione cosi al nord come a l'estremo oriente o a  l'estremo occidente, la sede geografica di lui fu rintrac-  ciata sul Ponto quando divenne pei coloni Greci quello  l'estremo punto settentrionale conosciuto (cfr. le testimo-  nianze raccolte dalJESSEN sul Roscher Lex. Ili 2, 2354 sgg.).  Colà egli divenne l'eponimo della regione vicina e de' po-  poli : onde si commise con Fenice ritenuto l'eponimo dei  Fenici (Bkloch Griech. Gesch} I 2, 71) e con Egitto e Libia.  Di qui appare possibile anche l'ipotesi, — contraddicente  quella cui si pervenne pur ora, — che il nesso fra Fineo e  Perseo si sia stretto non per motivi di sostrato naturalistico  ma traverso Cefeo, considerato re e rappresentante degli  Etiopi in senso geografico. — Senza dubbio però le tracce  che si riscontrano intorno a un Fineo Arcade (presso  Apoll. Ili 97 ove Fineo è figlio dell'arcade Licaone  e presso Servio a Verg, Eneid. Ili 209 ove è rex Ar-  cadiae) debbono ritenersi posteriori al nesso con Cefeo     348 I. - ANDROMEDA     e determinate da questo. Né giova a sostegno del con-  trario addurre l'analogia fra le Stinfalidi e le Arpie ;  perché non è giusto che ci uniformiamo al sincretismo  de' mitografi Greci, onde più figure analoghe di numi  erano unificati in un solo aspetto leggendario ; ma dob-  biamo, giusta i pili savi e moderni concetti critici, rite-  nere che in luoghi diversi esistessero divinità analoghe  parte simili parte dissimili, senza che la località del-  l'una possa illuminarci su quella, probabile, delle altre.  Restano ancóra da indagare le attinenze tra Fineo e  Cassiepea, prima che il problema critico si presenti in  tutta la sua complessità. A tale scopo è necessario rico-  struire lo schema genealogico la cui esistenza sia presu-  mibile presso Tepica esiodea. Il Tììmpel (negli articoli  citi (1) del RoscHER Lex. II 1, 986 sgg. e 1107 sgg.) ha con-  siderati divisi e distinti i due frr. di 'EìSiq-do {Rzach^) 31  e 23. E ha pertanto ritenuto provata l'esistenza mitica  di due Cassiepee, secondo questi due schemi :     I (fr. 23) :   Tronie ~ Ermes   I  Arabo   I  Cassiepea     II (fr. 31) :   Agenore  I  Cassiepea ~ Fenice   I  Fineo     Il testo SU cui si fonda è Strab, I 41-2: — che per vero  egli interpreta male. Strabene sostiene che Erembi ed  Arabi sono nomi diversi d'uno stesso popolo: TteQÌ òì     (1) Che han per fondamento, insieme con l'altro art.  del Lex. II 1, 293, il voluminoso saggio dello stesso  TùMPEL in " Jahbb. Phil. , Supplbnd. XVI (188?) 129 sgg.  II concetto essenziale di questo saggio (che nella più  antica forma del mito la sede dell'episodio di Andro-  meda fosse Rodi) è stato, mi sembra a ragione, confu-  tato dal KuHNERT 0- e. 1021-2.     CEFEO FINEO E CASSIEPEA 349   TÒùv 'EQ£f*pò}v TtoÀÀà fièv s'iQrizai, 7if&avù)raT0t Sé elaiv  ol voui^ovreg zovg "A^afiag Àéyea&ai. Tuttavia nel verso  omerico   Aid-iOTidg '&' ly,ófA,t]v koI Siòovlovg nal 'EQefi^ovg {S 84)   non ritiene dicevole il sostituire con Zenone "AQa^dg te :  perché, — dice, — non v'è corruttela di testo; v'è bensì  mutazione di nome dalla più antica all'età posteriore.  Omero difatti ricorda gli E r e m b i ; Esiodo in vece év  KaiaXóyqj conosce Arabo:   Kal xoijQ'ì]v 'Aqcì^oio ...KTé [fr. 23].   Bisogna dunque dedurre (slad^eiv) che già ai tempi di  Esiodo il nome di Arabia esistesse, e non esistesse an-  cora ai tempi di Omero (aarà tovg rJQcoag). — Di questo  passo l'interpretazione non può essere, pare, che una :  Esiodo faceva fCassiepea] (1) figlia di Arabo, figlio a sua  volta di Tronie ed Ermes. Il Tììmpel in vece si lascia  fuorviare dalla menzione, che quivi è fatta brevemente,  degli Etiopi, e ritiene che per Strabene Arabia sia il  nome esiodeo d'Etiopia e che quindi la KovQri ^Aqu-  fioio sia la regina degli Etiopi moglie di Cefeo ; onde  integra il fr. cosi:   Tronie ^ Ermes   1   Arabo   I  Cassiepea ~- Cefeo  1  Andromeda.   Se non che nel luogo di Strabene gli Etiopi non costi-     li) Il nome si supplisce da Scoi. Apoll. R. II 178 e  Anton. Lib. 40.     350 I. - ANDROÌWEDA     tuiscono che un argomento a mo' di parentesi. — \Ì7tò  yàQ xov elg zìjv ^Qav é/*fiaìvetv toòg 'EQe/*fiovg èzv(ji,oÀo-  yovat, oUvcùg ol tioààoI, ofig fieraÀafióvzeg ol dareQov ènl  TÒ aacpéateQOv TQtùyÀoóviag éndÀeaav ' oìtoi Sé (ol  'E Q e fi fio i) e la IV ^A Qd fi wv olèTcl&dzegov fié-  Qog Tov 'Agafilov kóÀtiov kskÀ i fiévo i , tò TiQÒg  AlyÙ7tx(fi v.a\ AI& ton la. E, — continua, — per tal  motivo appunto questi Erembi son ricordati da Omero:  in causa, ciò è, della lor vicinanza con gli Etiopi, citati  nel verso medesimo : to-ùtoìv (twv 'E^efifi&v) eluòg fie-  fivìja&ai TÒv TioifjTÌjv xal TiQÒg vovTOvg à(pl%d-aL Xéyeiv  TÒv MevéXaov, xad' hv tqótiov sÌQrjxai, xal TtQÒg zovg  Ald'loTiag' zfj yÙQ Orjfiatdt nal odzoi TtÀTjaid^ovoi. E pa-  rimenti {ó/A.ol(og) son rammentati tov fn^aovg zi^g àTioòrj-  filag (xdQLv) y,al zov èvòó^ov. — Come si vede, gli Etiopi  servono a dare un'idea della positura geografica degli  Erembi {^QÒg) e a fornire un motivo dell'averli Omero  ricordati insieme. Ma si è ben lungi da una qual si voglia  identificazione " Erembi = Etiopi „ ! L'unico dato posi-  tivo adunque che dal luogo cit. di Strab. si ricava è la  discendenza di Cassiepea da Arabo. — La qual notizia  spiega un'altra, poco appresso (I 43), da cui è a sua volta  integrata. " Vi sono alcuni ot xal ttjv Al&ioniav elg  TÌjv Kad"' ^f*àg ^otvlTirjv fA.Ezdyovai, nal za nsQÌ ztjv 'Av~  ÒQOftéSav èv 'lÓTZì] avfifiy\val (paai ' oi> ór'jnov xar' ay-  voiav Tonimjv aal zovzcùv Àeyofiévcov, àÀÀ^ èv ^v&ov  fiàÀÀov a^'^fiazi " xad-dyie^ tial zwv Jiaq 'HaióSq) aul  zoìg aÀÀoig à 7tQ0(péQei ó ' AnoXXóòoìQog ... „ Vi erano  adunque alcuni (1) che fondandosi su Esiodo portavano gli     (1) Cfr. Ps.-SciL. GGM. I 79, Stef. Biz. s. v. 'Unti, Eust.  Cotnm. in GGM. II 375- Di questa localizzazione fenicia  del mito non mi sono occupato, che ritengo essa possa  e debba studiarsi e spiegarsi del tutto a parte.     OEFEO FINEO E CASSIBPBA 351   Etiopi fra i F enici. L'ipotesi pili semplice chespieghi  questo fatto è che in Esiodo era moglie di Fenice  (fr. 31 Rz.^) quella Cassiopea che nel mito di Andromeda  è regina degli Etiopi. Non è quindi in nessun modo  lecito dedurre che in Esiodo la figlia di Arabo avesse  ad essere moglie di Cefeo : né si vede a che condurrebbe,  COSI fatta interpretazione, se non a confonder il testo  altrimenti chiaro. — Concludendo, da Strabene, ben letto;  può risultar soltanto: 1) che Cassiopea era figlia di Arabo  in Esiodo ; 2) che era moglie di Fenice. E quindi per-  messo unificare i fr. 23 e 31 Rz.' e costruire il seguente  schema esiodeo :   I-f II (fr. 23 + 31):   Tronie -^ Ermes   I Agenore   Arabo j   I I   Cassiepea -^ Fenice   I  Fineo.   Nel quale schema, analizzando si ravvisano svibito ele-  menti secondari quali Arabo ed Agenore, ed elementi  principali raccolti nei due nessi " Cassiepea-Fineo „ e  "Fenice-Fineo „. Quest'ultimo è senza alcun dubbio da  spiegarsi al modo medesimo del nesso " Arabo-Fenice ,  "Fenice-Egitto, ; come, ciò è, un avvicinamento di numi  eroi creduti eponimi o rappresentanti di popoli stra-  nieri. — Ma il primo di quei nessi non può legittimarsi  se non pensando a possibili analogie mitiche tra Fineo  e Cassiepea (poiché l'ipotesi d'un legame casuale non  servirebbe che ove tutte le altre non fosser riuscibili). E  difatti un'affinità si vede sùbito tra le due figure invise  agli dèi e dagli dèi punite : l'una come " millantatrice „;  l'altra come dio tenebroso vinto dal Sole. Di più poi per-  mette di discernere l'esame dei motivi dalla tradizione     352 I. - ANDROMEDA     addotti a spiegar la pena di Fineo. Tre sono : Fineo  avrebbe preferito una lunga vita alla vista , offendendo  Elios (Esiodo fr. 52 Rz^.); Fineo avrebbe additato la via  a Frisso (ibid.); Fineo avrebbe ajutato nel viaggio fra le  Simplégadi gli Argonauti (Apollod. 1 124; Apoll. R. Il 305  sgg.). Ora è ovvio che il terzo motivo è ricalcato sul se-  condo, e molto tardo ; che il secondo è posteriore alla  localizzazione di Fineo sul Ponto, e quindi recente ; che  il primo è il piìi antico. Ma del pari è ovvio che di  questo motivo si dove cominciar a sentir bisogno quando  il sostrato naturalistico delle Arpie e di Fineo andò  inavvertito ; giacché prima era sufBciente a tutto  legittimare la natura di lui e quella di Elios. Non è  pertanto improbabile che in quell'età comparativamente  non antica in cui si ebbero a cercar gli spunii novelli-  stici a fin di motivare l'antitesi tra Fineo e la luce, come  piacque l'aneddoto dell'offesa al prezioso dono del ve-  dere, COSI piacesse (e forse per una pena analoga ma di-  versa) l'aneddoto del vanto di Cassiepea punito nel figlio (1 ),  Dell'invenzione unica traccia ci rimarrebbe la genealogia  esiodea. In somma, può darsi sia che Cassiepea e Fineo si  connettessero primamente per i motivi or ora supposti,  sia che si connettessero poi, traverso Fenice, al par del  quale Fineo era considerato eponimo di popoli stranieri.  Riassumendo ora in breve i risultati delle singole in-  dagini, veniamo a importanti ipotesi :   a) Cassiepea (1) offre al mito di " Perseo (ll)-Cefeo (III)-  Andromeda (Etiopi) , uno spunto, ed entra in quella trama  (pag. 346sgg.);   b) Fineo si unisce a Cassiepea (I) per lo spunto no-     (1) L'ipotesi è del mio maestro G. De Sanctis; la re-  sponsabilità dell'argomentazione è mia.     CEFEO FINEO E CASSIEPEA 353   vellistico che trova in questa la causa della pena di quello ;  o, in linea secondaria, col marito di Cassiepea (Fenice),  come rappresentante di genti straniere (pag. 352);   e) Fineo si unisce a Perseo (II) come nume del bujo  ad eroe solare ; o, in linea secondaria, a Cefeo (III) come  rappresentante di genti straniere.   Di questo triplice rapporto rimangono le tracce sen-  sibili : a) nel racconto ferecideo del mito di Perseo ;  V nella genealogia esiodea di Fineo; e) in Ferecide e  specie nel duello tra Perseo e Fineo.   Se non che questa è una matassa confusa di cui bi-  sogna sceverare le fila conduttrici. Un gruppo a sé, e  d'importanza minore, è costituito dalle attinenze a sostrato  etnico-geografico (tra Fineo e Fenice; Fineo e Cefeo)  la loro natura evidentemente tarda è tale, che ove ac-  canto a una di esse se ne possa ravvisare un'altra a so-  strato naturalistico o novellistico, a questa è da dar la  preferenza su quella, in via d'ipotesi. Un secondo gruppo  è costituito da questo racconto, coerente e conchiuso :  Cassiepea si vanta e la divinità offesa la punisce nel figlio  Fineo (h); questi è condannato a venir superato in duello  da Perseo (e). Un terzo gruppo infine è costituito da  quest'altro racconto, esso pure coerente e conchiuso ;  Cassiepea si vanta; la figlia Andromeda ne è punita 5  Perseo libera la fanciulla (a). Di questi gruppi il terzo  è testimoniato in Ferecide (■= Apollodoro) ; il pili ipote-  tico è il secondo : esso suppone in vero e una variante  su la causa della pena di Fineo (v. sopra), e una va-  riante su questa pena medesima : vale a dire tutto un  mito parallelo a quel dell'Arpie. Ma come l'esistenza di  coteste varianti non è affatto improbabile nella ricchezza  di produzione mitica originaria, cosi esso gruppo spiega  molto bene, e insieme, tanto la discendenza esiodea di  Fineo da Cassiepea quanto il duello tra Perseo e Fineo;  A. Ferrabino, Kalypso. 23     354 I. - ANDBOMEDA     discendenza e duello che si potrebber bensì giustificare  pensando per l'una a un errore di genealogia, per l'altro  a una tarda aggiunta novellistica; con due ipotesi però  che non ci saprebbero render ragione né della singolarità  per cui l'errore sopravviene appunto tra due nomi che  uno spunto mitico può ottimamente congiungere, né  della preferenza data a Fineo su ogni altro per farne il  protagonista dello spunto novellistico. Poiché invece  l'equivoco si può ammettere solo ove sieno confusi ele-  menti tra sé inconciliabili e discrepanti; e la preferenza  casuale si può concedere solo quando la preferenza lo-  gica sia impossibile; dobbiam conchiudere che l'ipotesi  nostra, — pur non pretendendo di rispondere con esat-  tezza alla verità né di essere perentoria, — spiega al-  meno nel modo che pare pili semplice tutte le testimo-  nianze che sono a noi conosciute. E, — ultimo vantaggio,  non piccolo, — ci fa intendere come il secondo gruppo e il  terzo, in entrambi i quali eran Cassiepea e Perseo, si  fondessero, trasformandosi accanto ad Andromeda la  figura di Fineo, in un racconto unico, in cui Cassiepea  si vanta (a-b), la figlia di Andromeda ne è punita e Perseo  la libera (b) col tradimento di Fineo che è ucciso da  Perseo (e).   Dopo le quali conclusioni, non resta che da determinar  conpid esattezza il valore di alcuni trai personaggi secon-  dari cui la genealogia collega con Cefeo Cassiepea Fineo  e Perseo. L'Egitto e la Libia son già noti all'epopea  omerica : 11. / 381 Od. d 85 i 295; e sono trasparentissimi  simboli di quelle regioni i personaggi delle genealogie.  Ma più oscura è la essenza di Agenore (cfr. Stoll in  RoscHEK Lex I 1, 102-4). Se si prescinde da II. A 467  A 59 M 93 S'425 545-90 ove appare un Agenore figlio  del trojano Antenore, con una non dubbia consistenza  eroica, tutte l'altre testimonianze come son tarde cosi     CEFEO FINEO E CASSIEPEA 355   ci dan una scialba imagine di cotesta persona, senza  attinenze chiare con miti, con alcuni dei quali a mala  pena si collega per nessi insignificanti e punto caratte-  ristici. Tranne la notizia ([Plut.] de fltiv. 9, 4) singolare  di un Agenore padre di Sipilo, la quale potrebbe ricon-  nettersi con l'epopea in qualche modo, i testi su un  Agenore argivo (Pads. II 16, I 14,2; Apoll. II 1, 2; Igino  Fav. 145; Ellan. app. scoi. A II. F 75) o un Agenore avo  di Patreo eponimo di Patre in Acaia (Pads. VII 18, 5)   un Agenore figlio di Fegeo re di Psofide in Ar-  cadia (Apollod. Ili 92) un Agenore etolico figlio di  Pleurone, genero di Calidone, zio di Meleagro (Apoll.   1 58 cfr. Igino fav. 244), se rendono non dubbia una  larga diffusione di quel nome, non son tuttavia sufficienti  a orientar con certezza sul centro onde quella ebbe a  prender inizio. Poiché non può esser qui da discutere  l'Agenore etolico, il problema consiste nel decidere se il   peloponnesiaco siasi introdotto nella genealogia di Cefeo  e Fenice per motivi di contiguità geografica con il primo  d'essi e con Danao ; oppure se la presenza sporadica del  nome di lui negli schemi del Peloponneso sia posteriore  al nesso con Cefeo e con Danao. Ora, tenuto conto del-  l'esser la genealogia di Cefeo e Fineo contesta o sopra  fondamento naturalistico-novellistico o sopra base etnico-  geografica, sembra da preferirsi la congettura che in  quest'ultimo caso rientri anche Agenore, in qualità di  rappresentante dei popoli che abitavano la Troade ,  grossolanamente limitrofi di quei del Ponto, cui Fineo  simboleggia : congettura che è confortata dal nesso di  Agenore con le genealogie ove appajono Cadmo e Fenice  (cfr. DuMMLER in Pauly-Wissowa R.-Encl.^ I 774).   L'indagine laboriosa che ora finisce conferma, secondo  a noi pare, quel che affermammo nell'inizio (pag. 342).     356 I. - ANDROMEDA     11 personaggio fondamentale di questo episodio mitico,  Cefeo, è peloponnesiaco; l'altro personaggio che come  Cefeo ha valore naturalistico, Fineo, nel Peloponneso si  diiFon,de: dunque il Peloponneso è l'area dove s'informa  il mito, se pure non è quella ove si crea. Fuori da quel-  l'area, come fuori da ogni altra stanno, o possono stare.  Cassiopea "millantatrice,, e Andromeda, "maschia „ prima,  in seguito vittima del n^rog : personaggi novellistici  della fiaba. Per quale intreccio di casi e d'influssi poi  la trama cosi si serrasse e cosi si connettessero quelle  quattro figure tentammo di concepire, per ipotesi ; ma il  risultato rimane , è d'uopo convenirne, opinabile. Tale,  credemmo tuttavia di manifestarlo e sostenerlo : sia perché  ci parve tesi rispondente, meglio dell'altre fin qui difese,  a quei criteri! su la mitopeja che riteniamo validi; sia  perché ci parve tesi, se non di per sé probabile, molto  possibile al meno, e dalla probabilità certo non lontana.   VI. I miti etimologici presso Erodoto (VII 61)  ed Ellanico (frr. 159. 160). — Che il nome di Perseo  sia stato a bastanza presto collegato con i Persiani, non  può far meraviglia ad alcuno. Importa solo precisare i  particolari di quel collegamento. A tale scopo si confronti  anzi tutto Erodoto VII 61, 2 : — 'EKaÀéovTO óè ndÀai (1)  ÒJiò [*hv 'EÀÀ^viàv Krjip^veg, vtiò fiévroi. aq>é(Ov atx&v  nal Tù)v 7t£(iioìxù)v ^ AQtaloi. 'Enel oh HeQaevg ó Aavdt^g  Te Kai A log ànineio na^à K'^ifpéa xòv Bì^àov, nal è'aj^e  aitov Tì]v d-vyatéQa ^AvS^OfieS'Tjv, ylverai aUt^ nalg r^  oi!vo/A^a ed'ETO TléQarjVj tovtov óè airov y^avaÀsCnei ' èvóy-  ^ave yÙQ ànaig èòv ò Kt]<pEvg egaevog yóvov. "Eni zovvov  oh TÌ^v éTitovvfiirjv ea^ov : con Ellanico fr. 159: — 'Aliala,     (1) Sogg. : " i Persiani     I MITI ETIMOLOGICI PBESSO ERODOTO ED ELLANICO 357   Ile^aixìj %(JiQO; tiv ènóÀiae Heoaei's, ó Ilegaécag koI ^Av-  ÓQOf*édag [= Stef. Biz. 'AQTala). Le due notizie concor-  dano nel rieonnettere il nome Persiani a un Perse {Usq-'  aevg presso Ellanico è svista) e nel ricordar di quel  popolo un nome anteriore " Artei ,. Questa è forma che  ritorna in nomi persiani frequentemente : tali, Artabazo,  Artaferne, ecc. (cfr. E. Meyee G. d. A.^ l 2, 900. 924.  929) : quindi non v'ha alcuna difficoltà critica a spiegar  la presenza di questo nome nel mito. Ma Erodoto ci dà  di pili un nome di " Cefeni , : con cui gli Artei (= Per-  siani) sarebbero stati noti presso i Greci : — in cui però  non è né pur difficile riconoscer l'invenzione erudita év  ax^fiavi fiv&ov. Popolo di Cefeo eran, — come si vide,  — da principio gli Etiopi ; quando però Perseo e Per-  siani furono avvicinati dalla leggenda, si era già troppo  localizzata geograficamente 1' " Etiopia „ a sud dell'Egitto  perché fosse possibile un'equazione fra Etiopi e Persiani.  Bisognava pertanto, a designar i sudditi di Cefeo, usare  un termine diverso : e da Cefeo si derivò * Cefeni „.  Questi, secondo logica, avrebber dovuto equivalere agli  Etiopi „ : e tale concetto ritroviam difatti presso Stef.  Biz. Aifivrj (Aid'iOTiCa = Kri^pTivli]) e '/otti; (cfr. inoltre  FHG. m 25, 4 e GGM. II 375); in realtà però furon  concepiti come diversi, cosi che la saga la quale loca-  lizzava in Etiopia o in Fenicia l'episodio di Andromeda  non parla di Cefeni, mentre l'altra che l'episodio loca-  lizza fra i Persiani non parla di Etiopi. Solo più tardi  (a e. presso Ovidio), perdutasi coscienza del vario con-  tenuto de' due termini, entrambi si usano indifferente-  mente. (Sui Cefeni v. Tùupel in Roschkr Lex. II 1, 1104,  ov'é il materiale, ma non si trova alcun'ipotesi accetta-  bile). Va pertanto ritenuto che Cefeni eran detti i Per-  siani dai mitografi, dopo che Perseo s'era fra essi per  mito etimologico insediato; e che quel nome non ha     358 I. - ANDROMEDA     quindi alcuna analogia con l'altro , di ben diverso va-  lore, Artei (1).   Parallelo al fr. 159 è il 160 di Ellanico : (= Stef. Biz.  XaÀóaìoi) XaÀóaìoi ol n^órsQov Krjcp^veg ... Krjcpéoìg oi-  nért ^òìVTog, (Xigaievadifievoi ex Ba^vÀòjvog, àvéatt^aav én  zrfg xwQag. y,al tìjv *XoyT]v sa^ov. Oiy.éti ^ X^QV Ki^cpìjvit]  TiaÀserai, oòS" àvd-qoìnoi ol èvoiy.ovvTsg Kijq>rjv£g, àÀÀà  XaÀSaloi. — Il soggetto di àvéoTrjaav qual è? Dev'essere  XaÀòaìoi. Noi sappiamo che esistevan dei Caldei sul Ponto  (cfr. Baumstark in Pauly-Wissowa R-E.^ Ili 2061-62).  L'omonimia con i Semiti di Babilonia non poteva non  indurre gli eruditi antichi a connetter, senza alcun altro  fondamento che verbale, i due popoli lontanissimi. E,  come quei di Babilonia eran di gran lunga più noti, da  questi si fecero derivare gli abitanti sul Ponto. Se non  che tutti i popoli (Tini Mariandini Paflagoni ecc.) che fino  alla Colchide occupavano le rive di quel mare erano  da alcuni supposti sotto il dominio di Fineo (cfr. Jessen  in RoscHER Lex. Ili 2, 2370-1); e da Fineo rappresentati.  Se dunque i Caldei del Ponto venivan dal sud (Babilonia)  e se quindi alla regione ch'essi migrando occuparono  conveniva dare un anteriore nome ; questo si poteva sce-  gliere dal mito di Fineo. Nel mito, Fineo è fratello di  Cefeo: tra i Cefeni, adunque. Ed ecco che Cefenia e Ce-  feni vennero assunti a nomi pristini della regione e del  popolo su cui si sarebbero insediati poi, fuor da Babi-  lonia, i Caldei.   VII. I frammenti dell' " Andromeda „ di Euri-  pide. — Su i framm. che di questa tragedia euripidea  ci son pervenuti e che si trovan raccolti presso Nauck     (1) Su questo punto sono insufficienti cosi il cemento  dello Stein come quello del Macan a Erodoto.     I FRAMMENTI DEtL'" ANDROMEDA , DI ECUll'IDE 359   FTG} 392 sgg. furon tentate piti di una volta ricostru-  zioni della tragedia : cfr. Matthiae Eurip. fragm. (1829),  Wklckek Die Griechische Tragedie II (1839) 644 sgg.,  Hartcng Eurip. restitutus II (1844) 344 sgg., Wagner  fragni. Eurip. (1846) 646 sgg., Fr. Fedde De Perseo et  Andromeda (diss. 1860) 11 sgg., P. Johne Die Andromeda  des Euripidea in * Elfter Jahresbericht des K. K. Staats-  Obergymnasiums zu Landskron in Bòhmen , (1882-1883),  Wernicke Andromeda in Fault- Wissowa R-E.^ I 2156 sgg.,  E. Kuhxert Perseus in Roscher Lex. Ili 2, 1996 sgg.,  Wecklein in * Sitz.-Ber. d. K. Bayr. Akad. d. Wiss.  H.-Phil. Kl. „ 4 febbr. 1888 I 87 sgg., Edwin Mùller Die  Andromeda des Euripides in '' Philologus , LXVI (N. F. XX)  1907 pag. 48 sgg. (1).   Di tutte le trattazioni citate scopo è ricostruire la tra-  gedia frammentaria per modo che ne riescan fissati i  singoli episodi nel loro succedersi, la struttura comples-  siva nel suo organamento tecnico e scenico, le parti dei  varii personaggi. Ma appunto perché tale è il loro fine,  né pur una fra esse riesce a liberarsi da una duplice  inevitabile contraddizione. Anzi tutto mentre è pacifico  oramai che Euripide si deve essere pili o men libera-  mente allontanato dallo schema mitico tradizionale qual  è riprodotto in Ferecide e che deve aver più o men pro-  fondamente rielaborato non pur la trama tutta si anche  le diverse figure, per contro si tende da tutti a far coin-  cidere quanto più e meglio è possibile i frammenti con  il racconto ferecideo, ripugnandosi ad ammettere nei par-  ticolari quella libertà che in generale si concede al poeta     (1) Pel rapporto coi vasi dipinti, cfr. J. H. Hcddilston  Greek Trag. in the tight of vases painting (London 1898)  23. 35; con le antichità sceniche, Engelmann Arch. Stud.  zu den Trag. (Berlin 1900J 63 sgg.     360 I. - ANDROMEDA     tragico. Inoltre laddove riesce a chi che sia impossibile  dar ai ditferenti attori del dramma un contenuto il qual  non derivi dallo studio dei frammenti, i frammenti ap-  punto si distribuiscono poi tra gli attori in armonia a  quel contenuto che in questi avevan fatto pensare essi  medesimi.   Uscire da questi circoli viziosi, — che sono i fonda-  mentali e in cui altri minori si assommano, — non si può,  io credo, se non ponendo alla ricerca un altro scopo: il  raggruppare i frammenti intorno a ciascuno dei motivi  e degli spunti di sentimento e di pensiero onde la tra-  gedia doveva vibrare e onde sembra vibrasse dai pochi  suoi avanzi. Non resta dunque che interpretare e scer-  nere.   I framm. 150-152-153 debbono venir lasciati in disparte  per l'ambiguità della loro interpretazione: giacché se b  innegabile che in essi è asserita la instabilità delle umane  vicende e l'incostanza della fortuna, non è men vero che  tale asserzione può colorire assai bene , cosi l'angoscia  di Andromeda offerta preda al x^zog , come l'ansia di  Perseo, cui Cefeo neghi la figlia in isposa, o Fineo tenda  insidia sùbito dopo l'esultanza pel trionfo. Del pari il 151  si conviene tanto a un discorso di ammonimento rivolto  a Cefeo o a Fineo per distoglierli dall'ó^a^rm; quanto  a uno indirizzato a Cassiepea, il cui vanto deve scontar  la figlia. I framm. 119-122 in vece lasciano trasparire  una situazione di fatto piena di forza tragica, ma non  tale da permetterci di dedurne conseguenze sul resto del  dramma: — debbono pertanto essi pure venire, al nostro  scopo, omessi. E quasi lo stesso è da ripetersi per i fram-  menti 145-148, che tanto svelano in parte l'azione quanto  8on vuoti di contrasto passionale.   n primo gruppo che attira la nostra attenzione è quello  124-132. Perseo giunge volando traverso l'aria a una     I FRAMMENTI DELl' " ANDROMEDA , DI EURIPIDE 361   terra di barbari (124); scorge sùbito, su la riva del mare,  TteQÙQQVTOv à(pQ(p &aÀd(jat]g, una vergine, nag^évov eixo)  riva, Andromeda (125). I versi che seguono (126-132) non  possono non appartenere, com'è concorde giudizio, a un  colloquio fra Perseo e Andromeda. Ora sembra chiaro  che tra la situazione 124-125 e il colloquio 126-32 dev'es-  sere troppo stretta attinenza perché sia possibile pen-  sare tra l'una e l'altro un abboccamento tra Perseo e  Cefeo. Il quale è pertanto da escludere prima del col-  loquio tra il giovine e la fanciulla. Del colloquio, ora,  attirano lo sguardo due frammenti specialmente: 129,  132. Nel primo Perseo chiede ad Andromeda qual com-  penso egli potrà avere dopo la sua vittoria contro la  belva {eiofj ftoi ;ifa()tv/): e avere da lei. Nel secondo An-  dromeda si offre, — ed è questo da ritener il compenso,  — ette riQÓaitoÀov &éÀeig \ elY aÀoy^ov ehe óf^coió'... Da  entrambi risulta chiarissima, sgombra d'ogni possibile  dubbio, l'intuizione artistica di Euripide: per cui da un  lato Perseo chiedendo, in garbato modo, l'amore di An-  dromeda mostra di ritenere ch'ella gli si possa concedere;  dall'altro lato la fanciulla promettendosi mostra di rite-  nersi libera nel disporre della propria persona. Onde,  confrontando questi incontrovertibili risultati con Apoll.  (= Febecide, V. § 1) II 44 (TavTTiV ["AvÓQOftéSav] d'ea-  aduevog ó HeQaevg Kal égaad'elg, àvai^i^asiv vnéa'x^szo  Krjq>st TÒ y.fjTog, el ^ékXei aùì&etaav adtrjv aiz(p ó(óasiv  yvvatxa) appare, in tutta la sua profondità, la discre-  panza tra le due forme del mito: la Euripidea, in cui  il patto si stringe tra i due giovini ; la Ferecidea, per  la quale le nozze si promettono da Cefeo e su Cefeo  grava l'importanza della deliberazione. Per conseguenza  bisogna conchiudere che : o come non prima cosi non  dopo il colloquio tra i due giovini, avesse luogo l'abboc-  camento tra Perseo e Cefeo; o pure, avvenendo, avesse     3G2 I. - ANDROMEDA     esso tutt'altra importanza che presso Ferecide ed Apol-  lodoro, tutt'altro contenuto, forma diversa. Né si obietti  che la tradizione posteriore è concorde nel serbar quel-  l'abboccamento e nel serbarlo com'è presso Ferecide ;  poiché tal fatto deve, di fronte alla logica argomenta-  zione svolta or ora, indurre pili tosto ad affermare la  genialità innovatrice di Euripide non esser stata imitata  che a negar fede a conseguenze logiche di premesse certe.  Un secondo grappo che dev'essere studiato nel suo in-  sieme è costituito dai framm. 134. 135. 137. 138. 142.  143. 149. Essi si dividono sùbito in due serie, contrappo-  nendosi l'una all'altra. La prima (134. 137. 138. 143. 149)  è un vanto del valore, degl'ideali, della nobiltà spirituale,  di tutto che s'origina per un ardimentoso slancio del-  l'animo {d'Qccaog Tov vov) : il fr. 134 e il 149 in partico-  lare esaltano la fama conseguita con fatiche (svKÀeiav  eXa^ov oèn avev noXXòiv nóvcav) e con rigoglio di gio-  vinezza {veózrjg fi' èjiTlQe..); il 137 e 138 contrappongono  alle ricchezze un nobile amore {yevvalov Xé^og ... éa&ÀòJv  èQù}fiév(ùv) ; il 143 afferma il denaro insufficiente alla  felicità. La seconda serie in vece è tutta una dichiara-  zione di preferenza del denaro a ogni altro bene : il po-  vero non solo soffre ma teme di continuo il futuro, che  non gli rechi dolore pili grave del presente (135"); il ricco  anche se schiavo è stimato (taì dovÀog S)v yÙQ tC/Mog  tiXovtGìv àvfiQ 142^ 2) laddove il libero bisognoso otòhv  ad'évei: onde di tutta la serie può esser conchiusione il  verso ultimo del fr. 142 : XQvaov vófii^s aavzòv e^vex'  eìtvxeIv. Fra queste due serie può trovar posto anche  il fr. 154 : ove però venga letto non nella forma in cui  lo dà il Nadck 404, che è inintellegibile, ma nell'emen-  dazione del Hkrwekden Exerc. crii. 35 tò ^ijv àcpévza ae  Kazà yijs r£/*d)ff' l'awg ; e del MnsGBAVE nsvóv y' ' 5vav  yàQ ^fl tig sÌTvx£tv XQ^^^- Cosi letto di fatti esso as-     I FBAMME^TI DELl' " ANDROMEDA , DI EURIPIDE 363   3omma bene in sé il contrasto delle due serie opposte  che furono esaminate : tra l'idealismo che non trascura  la fama la quale dopo morte conforta l'egregie opere ;  e il materialismo gretto che nella vita vuole il godi-  mento e aborre dal morire e non scorge più oltre. —  Ora, se si può questionare, ove si voglia, su l'attribu-  zione di tutti cotesti framm. ai singoli personaggi, non  può in vece dubitarsi su la realtà del contrasto passio-  nale che abbiamo delineato. Su questa certezza si deve  dunque, a mio avviso, costruire una parte della trama  del dramma ; tralasciando del tutto il litigio su quei punti  troppo mal sicuri e fors'anche inutili.  Terzo spunto ci è offerto il fr. 141 :   èyò) Ss TiaìSag oiy. écj vó&ovg ÀaiSetv'  Tù)V yvrjaiitìv yÙQ oiòèv òvieg èvòeelg  vófKp voaovai ' S ae (pvXd^aad-at, yQE<hv.   Del quale due interpretazioni sono filologicamente pos-  sibili: 1. * non voglio che tu Andromeda prenda (= sposi)  de' figli illegittimi „ ; 2. " non voglio che tu Andromeda  prenda (= generi) de' figli illegittimi ,. Il Wecklein 92  sembra preferire questa seconda; il Kdhnert 1999 dom-  maticamente e non senza ironia la respinge, e si attiene  alla prima. Anzi tutto però si osservi ch'è fuor di luogo  avvicinare al fr. 141 il verso 11 del V delle Metam. di  Ovidio :   " Nec mihi te pennae, nec falsum versus in aurum  Juppiter eripiet „.   Giacché in questo v'è un'allusione bensì alla paternità  divina di Perseo ; ma non cosi fatta da equivalere a un  biasimo [vód'og), biasimo che nel fr. è, comunque inteso  e a chi che sia riferito, indubbio ed esplicito: v' è più     364 I. - ANDROMEDA     tosto un'offesa al Dio che generò Perseo e che Fineo  sfida ; v'è, in somma, un riconoscimento a bastanza lusin-  ghiero dell'origine nobilissima onde si vanta l'eroe. Se  il ravvicinamento fatto non vale, per decidere tra le due  possibili interpretazioni non restano che due vie: il porre  il fr. nell'insieme del dramma e del mito ; l'inquadrarlo  nelle condizioni sociali di Atene sul finir del V sec. —  Ora il fr. 141 insiste esplicitamente sul vó[A,og in forza del  quale i vó&oi hanno a soffrire : non una consuetudine  simile, bensì una legge. Non solo. Tal legge san-  cisce l'inferiorità dei vód'OL in confronto con i Tialòeg  yvi'jffioi. È applicabile a Perseo questa sanzione ? al figlio  di Zeus che torna a Serifo e poi ad Argo trionfante, per  regnarvi, senza fratelli, rampollo unico di sua stirpe dopo  la cacciata di Preto ? Certo che no. È applicabile in vece  ai figli di Perseo e di Andromeda? Se si ricorda che  una legge di Pericle nel 451 (De Sanctis 'At&lg'^ 470 e  n. 1 cfr. 215 n. 1) pone i figli di una straniera (Andro-  meda è etiopica) nella condizione di vó&oi; se si ram-  menta che tal legge periclea ne amplia una soloniana,  ch'era il riconoscimento giuridico d'una consuetudine di  cui già in I 202 è traccia e che valse anche e sovra  tutto pei re; si deve rispondere che si: che cioè i nati  a Perseo da Andromeda, avrebbero nel diritto ateniese  potuto trovarsi e come uomini e come principi in con-  dizioni inferiori a petto di altri eventuali nalòeg yvfjatoi,.  Né si dubiti che la legge di Pericle non avesse più tutto  il suo vigore nel 412. Tutt'altro : nel 414 Aristofane fa-  ceva rappresentare gli Uccelli ove al v. 1660 si richiama  il decreto di Solone a proposito a punto di Eracle ìóv ye  ^évrjg yvvaiKÓs (1651):   HPA. èyòì vód-og ; tu Àéyeig ; IIEI. ah fiévroi vrj Ala,  &v ye iévrjg ywamóg     I FKAMMENTI DELL' " ANDROMEDA „ DI EURIPIDE 365   HPA. Ti S\ ìjv ó TtaiìiQ èfwl óió(p xh yqii^axa,   vód-cp ^ ^ano&vfjayiùìv ; IIEI. ó vóf.iog adròv oìk éà ,  odvog ó Iloasióctìv TtQtÒTog, bg èTiaÌQet, ae vvv,  àvd-é^eiaC aov tùìv Tcar^ipcov ')(^Qì]j.vàxùìv  q)d(jno)v àóeÀcpòg atvòg elvai yviqaiog.  èQòJ Se Sì] Kul TÒv 2óÀù)vóg aoi vófA,ov ' ktÀ.   Non è quindi da dubitarsi che Euripide poteva senza  esser frainteso dagli uditori alludere alla legge ateniese  sui figli di straniera. — D'altra parte non mancano ragioni  per ritenere che a quella legge egli doveva alludere più  tosto che all'altra su i vó&oi nel senso più largo. Questa  di fatti era troppo normale e ovvia e antica perché po-  tesse più meritar l'accenno del poeta turbato da' problemi  sociali; quella per contro era e singolare e nociva agli  interessi di molti e alquanto recente. Qui era il ndd'og;  là no.   Riassumendo, gli unici contrasti di passione che dai  framm. risaltano con certezza sono: 1. l'amore di An-  dromeda e Perseo nella sua prepotente e individualistica  libertà; 2. l'urto fra l'idealismo e la grettezza materia-  listica ; 3. il rincalzo che la quistione giuridica e sociale  dà a quell'urto in favore della grettezza pratica e contro  lo slancio spirituale. — I problemi minori : se Fineo sia  parte, e qual parte, del dramma; come differiscano fra  loro Cefeo e Cassiepea: posson risolversi, ma con con-  getture esti-emamente mal certe.   Una quarta, e ultima^ linea del quadro ci dà [Erato-  stene] nei suoi Catasterismi : il contrasto fra l'affetto figliale  e l'amore in Andromeda (cfr. [Eratost.] Catast. 17 'Av-  dQOfiéSa).   Ora, se si tengon presenti i conflitti cosi delineati,  non potrà cader dubbio sul momento cui compete il  fr. 136, che solo, io credo, merita di venir assegnato al-  l'uno più tosto che all'altro punto della tragedia:     366 I. - ANDROMEDA     ai) 6' (ó d'eiàv TVQavvE yiàv&QÓiTiaiv "K^cog,  ^ fA.ri dldaarKe za xaÀà (paCvead'ai HaÀd,  ■^ TOÌg ègùaiv Eizvji^ùg avvenTtóvei  f^ox'd'ovai fióx&ovg &v ah óijfiiovQyòg et.  Kal vavza f*èv ÒQcJv ri/iiog d'vr^TOÌg (1) ?atj,  [lì] Sqwv ò' vk aizov tov óiSdaxea&ai (piÀelv  àq)aiQs&tjafi ydQttag alg rifiùai ae.   In genere il fr. si attribuisce a Perseo, prima del com-  battimento col K^Tog: cfr. Fedde 31, Johne 12, Wecklein  97, Moller 61 e n. 61. I quali intendono i iA,ó%d-oi di cui  Eros è causa in senso del tutto materiale. In vece, a chi  tenga conto della concezione che Euripide ha dell'amore  (cfr. p. e. W. Nestle Euripides pag. 222) appare molto  più dicevole l'interpretarli in senso psicologico e riferirli  ai contrasti che Perseo e Andromeda incontrano dopo  l'uccisione del nfjiog. — Se non che i critici citati sogliono  addurre per loro argomento Luciano de conscr. kist. 1 e  FiLosTRATo im. I 29. Il primo : tììv tov Uegaétùg ^ijatv èv  fiéQsi (2) SiE^f^eaav nal fisavì] i^v -fj TióÀig ò^qìòv àTidvTWv  aal ÀejiTÒJv xùv é^óoftaiiov èKeivoiv zQayqìóòiv " 2v d' (L  d-eòjv liQavve ■x.àvd'Qbìmùv "EQog , Kal rà àÀXa (AeydÀrj  Tfj qxììvf] àva^owvTtav Kzé. Ora, che si recitasse con tanta  frequenza la ^iiaig invocante Eros in una età ch'era  sotto l'influsso alessandrino non dice nulla quanto al  posto che nella tragedia la ^'^aig occupava; ma, se mai  dice qualcosa , è a favore della nostra tesi : perché le  parole di Luciano, lasciano intravvedere una interpreta-  zione, da parte degli Abderiti, tutta intimamente passio-  nale della preghiera all'Amore. Quanto poi a Filostrato     (1) Il testo ha d'eolg; la corr. è proposta dal Dobbeb.   (2) Sogg. " gli Abderiti ,.     I FRAMMENTI DELL' " ANDROMEDA „ DI EURIPIDE 367   l. c, la sua testimonianza è ben più esplicita: xal yàQ  sdx'iv àvE^dÀeio rtp "Egcaii ó HsQasvg tiqò tov è'Qyov.  Ma deve essere rettamente intesa. Sul cratere di Andro-  meda del Beri. Mus. Inv. 2337 (Bethe in " Jahrb. d.  Arch. Inst. , XI 1896), ch'è della fine del V sec. e di poco  posteriore nW Andromeda, è rappresentata Afrodite nel-  l'atto d'incoronare Perseo. Che significa? Par chiaro che  il pittore ha voluto a quel modo esprimere con la figura  il sentimento ch'era il sostrato della tragedia e la com-  mozione più forte per gli spettatori. Di poi, il rappre-  sentare la Dea dell'amore accanto a Perseo e Andromeda  divenne parte de' motivi tradizionali di decorazione. E  Filostrato, ch'e sotto l'influsso di quelli, fa difatti scio-  glier la fanciulla dai legami ond'è avvinta, appunto da  Eros. A questa medesima corrente tradizionale è dovuta  anche la frase riportata dianzi, e ha lo stesso valore:  ciò e non ne ha nessuno per la ricostruzione della tra-  gedia. Probabilmente qualche scena dipinta raffigurava  Amore o, che fa lo stesso, Afrodite benignamente guar-  data da Perseo : Filostrato ne ripete il motivo e ne dà  la sua libera interpretazione imaginando l'eroe che prega  la Dea prima del duello. — Mentre dunque il testo di  Filostrato non ha nessun valore, molto significativo è il  silenzio di Ovidio. Questi segue {Metani. IV 672 sgg.) assai  da vicino Euripide; si trova in oltre sotto l'influsso dell'a-  lessandrinismo che delle scene e situazioni erotiche molto  si compiace; aveva quindi forti impulsi a ripeter l'in-  vocazione ad Eros. Non la ripete. E ciò si spiega, s'essa  apparteneva al conflitto nato dall'opporsi i genitori al  patto dei giovani, perché questo conflitto Ovidio ha  soppresso, cosi che gli venne anche soppressa la ^'^ais-  Non si spiega, se si fa precedere il fr. 136 al duello,  perché in Ovidio il duello è rimasto ed è ampiamente  svolto. Conchiudendo per tanto, è da tener fermo a quella     ■ Bvolt   i     368 I. - ANDROMEDA     attribuzione di esso framm. che fin dal principio par la  più ovvia, a chi conosca la trama sentimentale della  tragedia.   La quale ci sembra cosi ricostruita in quei limiti che  dagli stessi frammenti vengono imposti.   Vili. Euripide nel 412. — Abbiamo tentato (sopra  p. 60 sgg.) di ricostruire le tendenze più spiccate dello  spirito euripideo nel 412 a. C. valendoci deìVEIettra (413)  e àeWElena (412). Naturalmente talune delle affermazioni  intorno a quel problema valgono, o dovrebbero valere,  per la complessiva persona di Euripide. Ma non credo  opportuno né di riferire una bibliografia compiuta né di  impegnar minuta discussione su i singoli punti. Rinvio  soltanto a: Decharme Euripide et V esprit de son théàtre  (Paris 1893); Verrall Euripides the rationalist (Cambridge  1895); Nestle Euripides der Dìchter der griechischen Aiif-  klàrung (Stuttgart 1901) ; Masqueray Euripide et ses idées  (Paris 1905). Questi libri (1) però, notevoli per ampiezza  di trattazione e larga conoscenza del materiale, hanno  il torto, con gli altri numerosi che vi si trovano citati,  di voler ricostruire un presupposto sistema filosofico di  Euripide ; indi la tendenza a catalogarlo, dividendone lo  spirito sotto varie rubriche. Cosi va perduta la vita di  esso spirito, ch'è la sola realtà. Fini osservazioni sono  in Croiset " Journal des Savants , VII (1909) 197-205 e  246 ; acuti rilievi, come sempre, nel Wilamovp'itz Einlei-  tung usw. ed Hera1cles~. Per le allusioni storiche di Eu-  ripide v. E. Bruhn * Jahrbb. f. class. Phil. „ Supplb. XV  (1887) 314 sgg. e L. Radermacheb " Rh. Mus. , LUI (1898)     (1) Per ragione di tempo, non ho potuto vedere i!  recentissimo voi. di G. Murray Eur. and his age.     BUBIPIDB NEL 412 369   508. Il recente libro di H. Steiger Euripides, seine Dich-  tung und seine Personlichkeit (= " das Erbe der Alten ,  Heft. V, Leipzig 1912) rappresenta senza dubbio un buon  tentativo per delineare l'ardua figura euripidea; ma è,  a mio credere, viziato per un lato da poca profondità,  per l'altro dal parallelo costituito fra Euripide ed Ibsen;  parallelo che è di poco rilievo dove può farsi con cer-  tezza (cbé molti altri se ne potrebbero istituire analo-  gamente); e di nessuna utilità è dove l'autore vuol at-  tribuire a Euripide caratteristiche testimoniate solo per  Ibsen (che in ciò è arbitrio). Pregevolissime sono le poche  pagine di E. Schwartz Charakterkopfe a. d. antiken Lite-  ratuì'^ I (1910) 36-46; le sue intuizioni colpiscono, se-  condo a noi sembra, quasi sempre nel segno ; avrebbero  solo bisogno di uno sviluppo, che sarebbe anche appro-  fondimento, maggiore.     A. Fkrkabiko, Kalypso. 24     CAPITOLO IL  Il culto di Demetra in Erma.     I. — Sul notevolissimo culto siciliano di Demetra e Per-  sefone in Enua si combattono due teorie. L'una è soste-  nuta dal HoLM Storia della Sicilia nell'antichità (traduz. ital.)  I 172 sgg. che ritiene preesistente all'influsso greco il  culto della sola Demetra; e dal Fkebmax History of Si-  cily I 169 sgg. 530, il quale preesistente ritiene anche  Persefone. L'altra teoria è sostenuta sovra tutto da  E. CiACERi Culti e miti nella Storia dell'antica Sicilia  (Catania 1911) 3 sgg. 187 sgg. : questi difatti, pur non  negando la verisimiglianza di un culto siculo alla Dea  alle Dee, afferma di non saperne trovare indizio vera-  mente probante, di esser invece costretto a riconoscere  il carattere del tutto ellenico di esso culto nell'età sto-  rica e nelle nostre testimonianze. L'argomento fondamen-  tale addotto dall'una parte, e combattuto dall'altra, è la  non possibile derivazione del culto ennense da Siracusa  da Megara Iblea; là dove il Ciaceri addita nel fiorire  della potenza Agrigentina 'sotto Falaride e Terone la via  per esso a penetrare e radicarsi nell'interno dell'isola.     372 II. - IL CULTO DI DEMETEA IN ENNA   Per lui di fatti da Gela ed Agrigento il mito e il culto  delle Due Dee si sarebbe irradiato, in Enna nel VI sec,  in Siracusa nel V.   Se non che pare che in tal modo il problema sia  posto con poca precisione. Chi difatti nega il culto esser  entrato in Enna per opera di Greci già nei principi! del  V sec, pretende assai più che non sia necessario alla  tesi di un sottostrato cultuale siculo. Chi per contro  traccia possibili vie di penetrazione in epoca compara-  tivamente tarda, dimostra assai meno che non sia ne-  cessario per rifiutare quel sottostrato. Qui pertanto l'e-  same merita di esser ripreso. E poiché le nostre testi-  monianze vertono sopra il culto ennense quand'esso ha  già assunto foggia greca, non resta da prima che esa-  minarne gli elementi e i caratteri interni, per scoprire  s'essi rivelino o neghino la preesistenza d'un culto, del  pari ennense, ma pre-greco. Solo dopo, se la prima ipo-  tesi si avveri, sarà da determinare, dentro limiti ap-  prossimativi, quel vetustissimo sostrato mitico e cultuale.   II. I caratteri del culto ennense nell'età storica.   — Sottoponiamo dunque in primo luogo ad analisi i carat-  teri con cui il culto e il mito ennense si presentano a  noi, traverso le fonti, nell'età storica. Il materiale si  trova raccolto da L. Bloch in Roscher Lex. II 1, 1284 sgg.  e a lui facciamo rinvio.   Scartiamo il giudizio di Zeus che divide l'anno pel  mezzo anziché per terzi come nell'/nno omerico a De-  metra (v.446). Questo particolare, che il Bloch (col. 1319)  dice * siciliano-alessandrino ,, non può riferirsi alle con-  dizioni agricole di Sicilia, in cui anzi il seme (Cora)  men dura sotterra; ma è d'impronta letteraria alessan-  drina, tendendo a rilevare la giustizia del Dio.   Ma quando la tradizione fa rapire Persefone presso     I CARATTEEI DEL CULTO ENNENSE NELl'eTÀ STORICA 373   Enna e solo presso Siracusa, vicino alla fonte Ciane, la  fa scender sotterra (Timeo in Diodobo V 3-4 = Geffcken  Timaios' Geogr. des Westens " Philolog. Unters. , XIII pag.  104-106; cfr. Ovidio Metamorf. V 409 sgg.). è necessario  intender tutto il valore di questo particolare essenziale.  Si sa che Siracusa fu potente centro di diffusione del  culto di Proserpina nell'isola e fuori. Ora l'esempio della  città di Ipponio è utile a dimostrare come si compor-  tasse il mito secondo le esigenze politiche di essa diffu-  sione. A Ipponio era venerata la Dea; in CIL. X 39  8on ricordate statue e arac di lei. D'altra parte Siracusa  vantava antichissimo culto di Demetra. Per conciliare  l'uno con l'altro culto, il mito narrò che ad Ipponio Pro-  serpina si era recata dalla Sicilia per coglier fiori  (Steab. vi 256): conservò tuttavia — quel che importa —  il primato a Siracusa. — Per Enna avviene il contrario:  è (cioè) evidente che il mito siracusano, perché deve ri-  spettare una tradizione autorevole che il ratto pone in  Enna, non osa far rapire presso Siracusa Persefone, ma  deve accontentarsi di farla presso Siracusa discendere  all'inferno.   Al risultato medesimo conduce anche il testo di Timeo  (DioD. V 4 = Geffcken 105) su Atena ed Artemide che  avrebber accompagnata Cora nel raccoglier fiori e con-  seguita rispettivamente la signoria di Imera e dell'isola  Ortigia mentre Demetra conseguiva quella di Enna. La  presenza di Artemide e Atena nell'antologia è motivo  orfico (v. sotto pag. 389). La testimonianza di Diodoro fa  dunque legittimamente supporre che in Siracusa si adat-  tasse alle condizioni politiche e cultuali indigene un parti-  colare non indigeno. Per questo adattamento sembra epoca  assai propizia la seconda metà del V sec, in cui più ef-  fettivamente ebbe valore l'alleanza tra Siracusa ed Imera  contro gli Ateniesi (Beloch Gr. Gesch} Il 1, 322). Checché     374 li. - IL CULTO DI DEMETRA IN ENNA   ne sia, resta certo che, rielaborando l'episodio dell'anto-  logia, Siracusa riconosce, non solo il culto di Atena predo-  minante in Imera, non solo dà rilievo al proprio culto di  Artemide (sui quali v. Ciaceri o. c. 156. 165); ma si ac-  concia a sanzionare la supremazia del culto di Demetra  in Enna. E ciò proprio a un dipresso nell'epoca in cui,  secondo p. e. Ciaceri 193, il culto siracusano doveva su-  perar per fasto quello ennense ; prima cioè che per ef-  fetto della politica di Roma " il culto di Enna assumesse  grande importanza , (Ciacebi 191).   Il valore di questi forzati riconoscimenti del culto en-  nense da parte di Siracusa (fin dal V sec, come sembra)  appare a pieno dopo aver esaminato Ovidio Met. V 462 sgg.  Quivi difatti è narrato come Demetra apprendesse  del ratto : prima la rende accorta la Persephones zona  abbandonata su l'acque della palude siracusana Ciane;  poi Aretusa, fonte dell'Ortigia, le racconta d'aver veduto  Cora nell'Ade. In somma. Ciane e Aretusa tengono presso  Ovidio il luogo che neWInno om. a Demetra hanno Ecate  ed Elios. L. Bloch o. c. 1317, 65 sgg. ritiene "priva di  significato „ questa forma del mito ; L. Malten "Hermes,  XLV (1910) 513 sgg. la spiega come un arbitrio del  poeta pel desiderio di narrare le due metamorfosi di Ciane  e di Aretusa. In realtà essa è molto significativa, se si  ricorda che , ai due personaggi dell' Inno omerico, —  i quali non sono evidentemente che il Sole, l'occhio  che tutto vede nel giorno, e la Luna, che vede nella  notte (cfr. Roschee in Roscheb Lex. I 2 spec. 1888), —  la maggior parte delle saghe, eccettuati in parte i  Fasti ovidiani IV 575 sgg. (v. sotto), sostituiscono nell'uf-  ficio d'informatori presso Demetra figure più concrete  e sopra tutto più attinenti ai singoli luoghi. Cosi Ke-  leos in scoi. Aristid. Panai. 1816 (Frommel), scoi.  Aristof. Cavai. 698, Mit. Vat. 2, 96; Trittolemo in     I CARATTERI DEL CULTO ENNENSE NELL'eTÀ STORICA 375   Paus. I 14, 3, Claud. 0. e. Ili 52, Nonno appr. Mignk  Patr. gr. 36 pag. 1019, Tzetze ad Es. Opp. 33; —  cittadini di Ermione, secondo Apoll. I 29, scoi.  Arisi. Cavai. 785, Zenob. Prov. 17; — Kabarnos,  della famiglia sacerdotale dei Kabarnoi (Hestch. s. v.)  presso Stef. Brz. s.v. IldQog, nell'isola di Paro; — Chry-  santhis figlia di Pelasgo in Argo, giusta Paus. I 14, 2 ;  — cittadini di Fé ne o (Arcadia), Coy. Narr. 15 app.  Fozio Bibl. cod. 186. Di fronte a cosi numerose analogie  è difficile sostenere che Aretusa nelle parvenze d'infor-  matrice sia un'invenzione arbitraria di Ovidio e non più  tosto appartenga alla saga siracusana : a quella medesima  che presso la non lontana Ciane fa avvenire la di-  scesa nell'Ade, e che narra il mito di Aretusa ed Alfeo  (su cui V. anche Ciackei o. c. 246). Né fa ostacolo il fatto  che solo le Metamorfosi narrano quel particolare : ciò  significa solamente ch'esso è di pretta natura locale e  che, in parte per tal motivo, in parte pel predominio del-  l'Inno omerico, non fu accolto con favore in altre tradi-  zioni mitiche (1) e nelle elaborazioni letterarie. Se dunque  si ammette che Ovidio ci riproduce, a proposito di Ciane  e Aretusa informatrici, la saga siracusana, appar chiara  l'insistenza con la quale, accettato per forza il ratto  in Enna, si colorisce poi tutto il resto del racconto in  senso siracusano.   Anzi per capire ancor meglio il valore di questa con-  siderazione va rilevato che un tentativo mitico in anti-  tesi ad Enna dovette esserci: giacché pili fonti narrano  il rapimento di Persefone non presso il lago Pergo di  Enna ma presso l'Etna: cfr. VEpitafio di Pione 33     (1) Nella stessa Sicilia vigeva un'altra forma del rac-  conto, per cui Vayys^og era Ecate, se è valida l'ipotesi  del CiACEEi 0. e. 166 sg.     376 li. - IL CULTO DI DÉMETKA IN ENNA   e G. Knaack "Hermes, XL (1905) 338-3 il quale senna-  tamente dimostra che non può né ivi né in altri testi  simili (Igino fav. 146, scoi. Pind. Nem. I 20, Giovanni Lido  de mens. IV 85, Oppiano Hai. Ili 486 sgg., Val. Flacco  Argon. V 343 sgg., Ausonio Epist. IV 49 sgg.) trattarsi di  uno scambio tra AXtvri ed "Evva. Questo mito secondario  che menziona Etna e sopprime Enna è certo posteriore  a quello che ad Enna dà la precipua importanza perché  su quello è foggiato e perché si vale di una imperfetta  omofonia per ribellarsi ad esso più noto e accettato.  E n'è confermata l'ipotesi che Siracusa dovesse in Enna-  riconoscere una incontestabile priorità initica.   Dopo questo esame dei particolari vien fatto di giungere  a un'ovvia conclusione: il mito di Demetra in Enna,  nell'età storica, ci riporta con ciascuno dei suoi ele-  menti essenziali a Siracusa, la quale sembra essere il  centro dell'elaborazione di esso; — elaborazione che in  Enna presuppone però un culto di Dee agresti cosi ra-  dicato, qual che ne sia la forma, da non poter essere né  taciuto né artificiato favorevolmente.   A cotesta conclusione è propizia la testimonianza più  antica che ci sia pervenuta del culto ennense: una  litra d'argento che reca Demetra sul cocchio (Head H.  N.^ 137). Di fatti : se in Siracusa fu elaborata la saga  del ratto di Cora per cui ebbe valore ufficiale l'antico  mito ennense, ciò dovette avvenire dopo la vittoria di  Imera, nel sec. V. Dopo quella vittoria invero Gelone (Diod.  XI 26, 7) innalzò in Siracusa i templi di Demetra e di Cora,  iniziando il formarsi di quella piattaforma leggendaria  donde il culto delle Dee potè diffondersi in ampia area.  Per conseguenza le testimonianze del culto eimense-sira-  Cusano a Cora non debbono essere anteriori al V sec. ;  e in verità la litra, che è la testimonianza più antica,  è dal HoLif Si. d. tnon. 84 n. 116 riferita, per criterii     I CARATTERI DEL CULTO ENNENSE KELL'eTÀ STORICA 377   numismatici, al periodo fra il 461 e il 430 a. C. e dal Hill  Coins 91 al 480-413. Al sec. V pertanto può farsi di-  cevolmente risalire l'origine di tutta la tradizione e mi-  tica e cultuale che allaccia Enna e Siracusa; — e che  ha per indispensabile antecedente una credenza a divi-  nità agresti in Enna, ignota nella forma, ma salda nella  sostanza.   Le nostre testimonianze tutte rendono quindi inutile  l'ipotesi del Ciaceri 189 sgg. che il culto greco della  greca Demetra penetrasse in Enna per opera di Agri-  gento e Gela durante la tirannide di Falaride e Terone.  Se ogni ipotesi vale in quanto tenta spiegare dei fatti,  questa del Ciaceri non par che spieghi nessun fatto. Né  anticipando rispetto a noi, come fa, di un cinquant'anni  l'influsso dei Greci in Enna, riesce a legittimare l'auten-  tenticità del culto ennense dì cui e menzione presso  Cicerone in Veri: IV 106-110 cfr. V 187. Noi difatti di  quella vantata antichità rendiam piena ragione avendo  dimostrato l'esistenza d'un vetustissimo culto e mito  siculo in Enna e dichiarando che, anche dopo l'in-  tervento di Siracusa nel V sec, se ne dove serbar ri-  spettosa memoria. Il Ciaceri, in vece, non giustifica essa  antichità né meno facendola risalire alla fine del VI sec.  con l'influsso di Agrigento; giacché, come si sarebbe di-  menticato che Enna aveva accolto le due Dee dopo  Agrigento? E si badi che di esse in Agrigento parla  Pindaro Pit. XII 1 sgg. (anno 490 a. C. Schhodek^)  e che quindi nella tradizione letteraria non poteva  essersene perduta la traccia. E si badi, anche, che lo  lo stesso Cicerone {in Verr. IV 99 V 187 : cfr. Lattanz.  div. inst. II 4) sa di un signum vetusto di Cerere esi-  stente in Catania. Quindi il vanto di antichità con-  forta la nostra tesi e rivela impotente quella del Ciaceri.  Ancor meno poi questa è sufficiente a spiegar il rispetto     378 II. - IL CULTO DI DEMETRA IN ENNA   che Siracusa serbò al culto ennense nel mito. Se di fatti,  — come si afferma, — da Gela si fosse partito, a non  molta distanza di tempo, e il culto siracusano e l'ennense,  è chiaro che molto probabilmente quello non avrebbe  esitato, se bene di poco più tardo, a soppiantar questo,  assai meno favorito da ogni sorta di circostanze geogra-  fiche e politiche.   E tutto ciò scriviamo prescindendo affatto, come si vede,  dal problema su la colonizzazione di Enna; di cui si ap-  prende che è colonia di Siracusa da un luogo di Stefano  Bizantino ( s. v, "Evva) ove è senza dubbio un equivoco  di data e forse uno di fatto ; e si apprende l'alleanza  con Siracusa nella guerra di questa contro Camarina da  un frammento di Filisto (fr. 8 = FHG. I pag. 186) che  è impugnato a ragione dal Pais {St. della Sicilia e Magna  Grecia I 560 sgg.). Sembra in somma che nulla si sappia  di positivo su la città onde Enna fu grecizzata e sul  tempo : certo è arrischiato il Ciaceri (o. c. 159) nel dire  Enna colonia di Siracusa ; ed è nel vero il Freeman  {H. of S. I 542) nell'ammettere la nostra ignoranza. Per  ciò preferimmo studiare il problema della Demetra en-  nense movendo da altre basi e usando dati diversi. Con  i quali, concludendo, possiamo supporre nella metà del  V sec. un forte influsso siracusano in Enna, che mantiene  però inalterato il proprio privilegio mitologico. E non  possiamo né provare altri influssi greci anteriori su Enna  né concedere che il supporli giovi a risolvere la que-  stione.   III. Il primitivo probabile nucleo siculo. — Dal-  l'indagine del precedente § è risultato, ci sembra, in modo  esplicito che quando nel V sec. il mito siracusano si  formò dovette tener conto di un precedente e forse molto  più antico nucleo mitico e cultuale di Enna, la cui forma     IL PRIMITIVO PROBABILE NUCLEO SICULO 379   ci è ignota. È risultato inoltre che molto difficilmente  quel nucleo potrebbe esser greco, perché in tal caso la  sua scarsa priorità (di men che cinquant'anni) mal spie-  gherebbe il forzato rispetto di Siracusa.   Ora per altro riguardo i dati delle pili recenti indagini  archeologiche e storiche (cfr. G. De Sanctis Storia dei  Romani I 98 sgg. 312 .sgg.) ci danno un quadro delle  condizioni più vetuste dell'isola assai bene consono a  quei nostri risultati. Ai quali non ripugna davvero la  tesi della italicità dei siculi : giacché presso una stirpe  italica, e perciò molto affine ai greci, è facilissimo esi-  stesse una saga simigliante alla greca di Kora e che  questa saga costituisse il sostrato di quella che Siracusa  foggiò nel sec. V.   Resta solo da determinarne, s'è possibile, la forma veri-  simile.   Il primo criterio ci è dato dall'analizzata saga siracu-  sana. Poiché essa si permette ogni sorta d'invenzioni a  suo favore in tutta la seconda parte del mito, ma ri-  spetta scrupolosamente la localizzazione del ratto in Enna;  conviene ritenere che questo sia il probabile nucleo es-  senziale del culto preesistente.   D'altra parte (è il secondo criterio) l'affinità tra Siculi  (Italici) e Greci deve permettere all'indagatore di cercar  fra questi il piti antico embrione della leggenda e di at-  tribuirlo ipoteticamente e per analogia a quelli. Analogia  che è confortata da piii esempii : sovra tutto da quel  di Caco e da quello di Numa Pico e Fauno (su i quali  V. in questo volume libro I cap. IV e libro II capo III;  cfr. inoltre G. De Sanctis o- c. I 281). Il più antico testo  che racconti in Grecia il ratto di Kora è l'Inno omerico a  Demetra : dal quale parta dunque l'analisi. Ma bisogna  naturalmente prescindere, in esso Inno, da tutti i parti-  colari attinenti ad Eleusi ed al suo culto. E prescindere,     380 II. - IL CULTO DI DEMETRA IN ENNA   inoltre, da tutte le altre divinità messe in relazione con  le due dee : Hermes ed Iris, nelle loro funzioni di mes-  saggeri; Helios ed Hecate come luci del mondo; le  Oceanidi quali compagne di Kora; Rea, perché una tra  le pili notevoli figure divine delle campagne feconde,  al par di Gea. — Rimangono dunque 1° ^Aiòitìvevs (= IIo-  ÀvSéKTTjS, IIoÀvóéyfiojv); 2° Ar]/iii^Ti]Q ; B° IIeQaeq>óv£ia;  4° KÓQu.   Siibito, questa necessaria eliminazione di taluni ele-  menti deìVInno induce una conseguenza : se nel VII sec.  (età probabile della composizione di esso) il mito era  già cosi maturo da poter e accogliere elementi nuovi e  localizzarsi in un determinato centro di culto ; se inoltre  non è probabile che a favor di questo centro appunto  sia stato inventato, come quello il quale nel suo riposto  senso è troppo intimamente connesso con i primordiali  riti delia madre terra; si può senz'altro affermare che  doveva, prima di quell'epoca, aver vissuta oramai una,  certo non molto breve, vita mitologica. E poco quindi  importa che neìV Iliade non appaja (v. le opinioni con-  trastanti del Forster Raiib und Rilckkehr d. Persephone  5 sgg. ; Welcker Griech. Gotterl. I 395 II 474 ; Preller  Griech. Mith} 757 ; L. Bloch o. c 1311, 55 sgg. ; L. Malten  " Archiv. ftìr Religionswiss. , XII (1909) 309): soltanto  significa che mancò l'occasione o non fu colta per intro-  durvelo. — Ora, nell'epopea omerica Persefone non ha  alcun carattere (come fu notato) che l'avvicini, anche di  poco, all'aspetto ch'ella assume, sotto la foggia "Per-  sefone-Kora „, noìVInno om. citato, all'in fuori di questo:  ella è la signora dell'Ade, regina dei morti accanto al  re delle tenebre. Demetra per contro vi appare già col  suo aspetto di Dea campestre {E 500 JV 322 = <P 76  e 125) delle biade. Aidoneo in fine si richiama alla  terra per l'unico attributo HÀvrónoiÀos {E 654 A 445     IL PRIMITIVO PROBABILE NUCLEO SICULO 381   n 625 cfr. Stengel " Archiv. fùr Religionswiss. „ Vili (1905)  203 sgg. ; Maass Orpheus 219 n. 23 e Wilamowitz Reden  und Vortrage^ pag. 71). Dal quale s'è voluto dedurre che  l'epopea conobbe il ratto di Kora : ma si ebbe ragione ad  asserire che la conseguenza troppo supera la premessa  (Prkller Dem. u. Pers. 4 sgg.). Tuttavia non si può né  si deve negare che quell'epiteto si addice assai bene alla  saga di Demetra e Kora. — Riassumendo dunque è le-  cito affermare che nell'epopea (a prescinder d'ogni pos-  sibile ma non pervenuto ampio racconto o aperto rife-  rimento) del ratto appaiono : 1* Ade guidator di cavalli;  2° Demetra dea delle biade ; 3° Persefone regina del-  l'inferno.   Manca sol Kora. Ma Kora non è né può essere se non  la " Figlia , e il suo valore e significato è tutto conte-  nuto nella * Madre „ vale a dire in Demetra. Quindi  anche nel silenzio delle fonti antichissime non è luogo a  dubbio sul suo carattere agreste. Carattere agreste che è  confermato da quello che il mito narra di lei nella sua  forma più compiuta, ossia la vicenda annuale di par-  tenza e di ritomo dalla terra a sotterra. È quindi da  escludere l'ipotesi del Beloch Griech. (?escA.^ I 1, 160 che  vede in Kora una divinità lunare (1); la cui vicenda do-  vrebbe essere, non annuale, ma mensile. Egli non ha  badato (seguendo gli antichi stoici: cfr. Sekv. a Verg.  Georg. I 5, Varr. de l. l. V 68, Plut. de facie in orbe  lunae e. 27 ecc.) che Kora e Persefone si uniscono tardi  (v. sotto) e che pertanto il carattere della seconda non  può essere quel della prima. Mi pare in vece che ben  distingua la natura di Kora in confronto con Demetra il     (1) La stessa opinione difese il Costanzi " Riv. di St.  ant. „ I (1895) 35 sgg.     382 II. - IL CULTO DI DEMETRA IN EKNA   Fkazek The golden Bough^ parte V, Spirits of the corn and  of the wild voi. I 42; se bene egli sia stato un po'  schematico nella separazione delle due figure e lo tem-  perino opportunamente le osservazioni della J. E. Harrison  Prolegotnena to the study of greek Religione 271 sgg. In  breve Kora è il seme nuovo o la biada nascente in  confronto con la biada matura da cui si stacca e a cui  ritorna.   Un riferimento diverso che ci riconduce pure alle fonti  del mito è quel di Esiodo Op. e Gior. 465, ove Zebs  Xd'óvios e Demetra son pregati insieme dall'agricoltore  al tempo della seminagione. Contro Lehrs Pop. Aufs}  298 lo ScHERER (in Roscher Lex. I 2, 1780) sostiene a  ragione che quel nome designa non Zeus ma Ade, lo  Zevg naxa%&óviog àoìVlliade (I 457. 569). Ed è certo  evidente che nell'avvicinamento di Zeus ctonio con  Demetra, si tratta d'uno dei soliti casi di "divinità agri-  cole messe in relazione coi defunti e con la loro sede  solo perché divinità della terra feconda, (De Sanctis  St. d. R. I 305): analogamente ai latini Tellure Conso  Saturno (ibi). Ed è quindi del pari evidente che quel nesso  ' Ade-Demetra ' non dipende da quello ' Ade-Kora ' ma  gli è parallelo e simigliante. — Non bisogna però con-  fondere quest'attinenza tra Ade e Demetra con le scarse  tracce di una At]fti]Ti]Q ■aaxaxd'óvLa che L. Bloch o. c. 1334-5  raccoglie: queste son posteriori, a quel che pare, alla tra-  dizione del ratto e da essa determinate : dopo cioè che  Persefone regina dei morti è divenuta figlia della  dea delle biade , allora questa assume un carattere  nuovo consono all'officio di quella. Al racconto pure del  ratto si deve e agli attinenti misteri Eleusini se in  in processo di tempo si verrà sempre pili accentuando  il carattere agricolo di Dio fecondo in Ade, fino a tras-  formarlo in Plutone (v. i testi in Scherer o. c. 1786).     Ili PKIMITIVO PROBABILE NUCLEO SICULO 383   L'esame adunque delle testimonianze che si avvicinano  di pili ai primordii del mito conduce a costituire due  gruppi: composto l'uno da Demetra e Kora; composto  l'altro daPersefone e Ade: trai quali sussiste visibile nel-  l'arte più arcaica (Esiodo) un nesso soltanto, quello tra  Ade e Demetra. La relazione tra Kora e Persefone non  appare pertanto negl'incunaboli della leggenda. Ciò sta  contro l'ipotesi di R. L. Farnell Theeults ofthe greek States  III (Oxford 1907) 120 che suppone un'antica divinità  Persefone-Kora analoga all'Hera-Tratj e fusa poi con De-  metra. Né più felice mi sembra l'altra ipotesi di lui  (pag. 121-2) che Demetra-Kora costituisse una divinità  unica, madre di Persefone, con cui, staccandosi da De-  metra, si sarebbe unito l'epiteto di Kora. Assai più sem-  plice è la teoria comune che la rapita di Ade, Kora, si  fondesse con la moglie di Ade, Persefone (cfr. anche  Carter in Roscher Lex. Ili 2, 3143). A ogni modo, si  tratta di nesso non originario ma tardo. Che non è  quindi metodico supporre per la saga sicula : giacché  questa non deve mai aver superato i primissimi stadii,  tenuto conto dell'indole dei Siculi e dell'assenza d'una  elaborazione letteraria : e difSciimente pertanto può aver  fatto della " rapita „ la regina dei morti.   A completar le caratteristiche di essa saga sicula, al-  cune altre indagini. Demetra QeafAO(pÓQog ed ''EÀev&ta  CEÀevd-ìa, ^EÀev&oj, 'EÀevffivìa) son certamente figura-  zioni molto antiche in Grecia : anzitutto perché il concetto  della terra ferace richiama sùbito presso gli Arii quel  della maternità (cfr. il denso volumetto del Dif.terich  Milite)- Erde^) ; poi perché la enorme diftùsione del culto  tesmoforio ed eleusinio, che non si può spiegar tutta da  un unico centro (L. Bloch o. c. 1337), trova la sua ra-  gione nell'estrema antichità del rito. La quale del resto  era nota già ai Greci stessi : cfr. Erodoto II 171. — Sotto     384 II. - IL CULTO DI DEMETEA IN ENNA   pertanto l'aspetto cosi di terra che di donna Demetra fe  la " Madre , per eccellenza : checché sia da ritenersi  su la etimologia del. nome (cfr. Maìì^uardt Myth. Forsch.  281 sgg. e Frazer The golden bough^ V part., voi. I pag. 42).  Cosi lumeggiandosi Demetra, assume un valore più  significativo anche Kora, la " Figlia,, giacché entrambe  si presentano sotto l'aspetto di divinità famigliari, ana-  loghe alle " Madri , dei Celti e Siculi (De Sanctis "Boll.  Fil. class.. Vili 1900-1 p. 136) (1) e a Libero e Libera dei  Latini; e rappresentano probabilmente tutt'insieme quella  deificazione dei membri delle famiglie che par consueta  fra gli Indoeuropei (De Sanctis St. d. R. I 278). Cosi si  spiega anche meglio il valor personale di Kora, che come  dea delle biade è assai languida accanto alla madre, ma  come dea filiale riacquista una maggiore consistenza.  E vale in tutto il parallelo con i culti latini, tra i quali  non pur si verifica l'indipendenza di Proserpina e Libera,  unificate sol tardi (cfr. Wissowa Rei. Rom} 310); ma anche  oltre a Libera si venera la Madre Matuta. — In tal caso  si lega strettamente al nucleo primordiale del mito il  particolare del ratto. Si sa difatti che questa è, accanto  alla compera, una delle forme di matrimonio presso gli  Arii, e quindi l'avventura di Kora significherebbe a un  tempo il mistero della vegetazione nel grembo della  terra e la cerimonia nuziale: anzi, questa olirebbe la  forma espressiva a quello. Risultato, questo, che assicu-  rando alla leggenda sicula il rapimento, concorda con  quel che nel principio di questo § notavamo a proposito  del rispetto che al ratto di Enna osserva la saga sira-  cusana. E le due considerazioni si confermano a vicenda.     (1) Cfr. anche G. Gassies ' Rev. d. Étud. anc. , Vili  (1906) 53 sgg.     IL PBIMITIVO PROBABILE NUCLEO SICULO 385   Più in là ci mancano i dati. Basti un'ultima osserva-  zione. Nel mito greco tutta la seconda parte (la mela-  grana e il patto tra Ade e Demetra e Zeus) è intesa a  giustificar la periodicità con cui in ogni inverno il seme  si cela nella terra per lasciar solo nella primavera riap-  parire gli steli del grano. Ora non è punto certo e forse  né meno probabile che anche nella leggenda sicula esi-  stesse una parte a questa simile. Giacché la sua forma-  zione dovrebbe esser non solo molto antica ma assai pili  rudimentale che presso i Greci (a cagione, come dicemmo  dianzi, delle doti intellettuali delle singole stirpi e dell'as-  senza d'una elaborazione letteraria) ; non è permesso per  tanto di pensare, metodicamente, che fosse superato quello  stadio religioso in cui ogni sole nascente è ritenuto di-  verso dal tramontato e non si afferra ancora né continuità  né periodicità di fenomeni (DESA^'CTIs St. d. Rom. I 260-1).  Il superamento è possibile; ma la possibilità non fa  storia.   Concludendo. Per ricostruire la probabile forma dei  primitivo nucleo leggendario dei Siculi in Enna ci siamo  valsi dei soli due mezzi di cui possiamo disporre : la con-  statazione degli elementi che quel nucleo portò con in-  sistenza nella saga siracusana del V sec, e la ricerca  del primitivo nucleo nella leggenda analoga di un popolo  affine, il greco. I risultati sono scarsi, ma non insuffi-  cienti. I Siculi dovettero, sembra, raccontare che una  Dea agreste (delle biade in ispecie) aveva una Figlia  rapita da un Dio sotterraneo dai campi nelle sedi dei  morti. E nel loro racconto si fondeva il fenomeno del  seme che sparisce fra le zolle con il rito consueto del  matrimonio a mezzo del ratto. Di questo, che è poco,  ma è anche molto a confronto con quanto si è osato as-  serire su l'argomento fin qui, ci è forza restare paghi,   A. Ferrabino, Kalypso. 25     386 II. - IL CULTO DI DEMETBA IN ENNA   IV. Le versioni greche del ratto di Kora. — Ofifri-  rebbe materia a larghissimo studio l'indagare tutte le  forme che il ratto di Kora assunse ovunque si sparsero  abitarono Greci; e di ogni forma precisare i motivi.  Qui a noi importa soltanto di fissare quelle versioni del  mito che sulla saga siracusana influirono, cosi contri-  buendo al suo formarsi, come confluendo ad allargarla per  contaminazione ; e fissatele, ci limiteremo, per non uscire  dal nostro tema ristretto in un campo sconfinato, alla  constatazione senza cercare la spiegazione.   L'Inno omerico a Demetra è, come si disse, il testo  più antico in cui il mito di Kora rapita appaja; e come  tale ne costituisce, non già il primo stadio,^ ma la prima  forma capace di influssi e passibile di riferimenti: noi  la chiameremo protoattica per brevità. In essa sono  state distinte due parti, l'una mitologica, l'altra etio-  logica; entrambe furono oggetto di esami attenti: ci  basti il rinvio al cemento di T. W. Allen and E. E. Sikes  The homeric hymns 7 sgg. e al Jevons An introduction to  the history of religion ^ cap. XXIV e Appendice (pp. 358,  377). Solo un punto richiama qui il nostro esame ed  è di facilissimo rilievo : secondo Vlnno gli uomini cono-  scevano già le biade prima del ratto di Cora, tanto che  Demetra del ratto si vendica col privare gli uomini del  seme fecondo. Il rapimento dunque è solo l'occasione in  cui la Dea compie su Demofonte, figlio di Celeo e Me-  tanira re in Eleusi, la magia del foco e insegna i suoi  riti ai principi eleusini fra cui è Trittolemo.   La concezione che predomina nel V secolo è in vece,  com'è noto, ben diversa. Trittolemo, non più principe fra  altri, diviene il giovinetto cui primo la Dea insegna  l'arte del seminare e raccogliere grano (cfr. L. Bloch  in RoscHER Lex. II 1 col. 1317; Malten "Archiv ftìr Re-  ligionswiss. , XII (1909) 441 ; Pringsheim Archdol. Bei-     i     LE VERSIONI GRECHE DEL RATTO DI KORA 387   trdge zur Geschichte cles eleus. Kults 97 n. 3). Ora è anzi  tutto da vedere come questa concezione nuova, — che  contraddice esplicitamente la protoattica in quanto sup-  pone che solo dopo il ratto gli uomini conoscano le biade,  e si può quindi chiamare neoattica, — si comporti con  Demofonte Celeo e Metanira. Una prima risposta ci  dà Apollodoro I 31-32 che conserva Demofonte per la  magia del fuoco, Trittolemo per il dono del seme, e  tutt'e due pone nella famiglia di Celeo e Metanira, so-  vrani in Eleusi, come figlio minore l'uno, primogenito  l'altro. Una seconda risposta ci dà nei Fasti (IV 394-620)  Ovidio : Demofonte non esiste più ; Trittolemo subisce la  magia del fuoco ed è predetto primo aratore ; Celeo e  Metanira gli son genitori, ma non re, si poveri in me-  schina capanna. Di qui due problemi : 1° È anteriore  la versione di Apollodoro o quella di Ovidio ? Notiamo  che Apollodoro è l'unico autore dopo Vlnno da cui Demo-  fonte figlio di Celeo sia ricordato ; notiamo che egli compone  con varii materiali un " testo unico , della leggenda; so-  spetteremo che la sua sia una combinazione di mitologia  erudita fra Vlnno e la saga neoattica di Trittolemo, col  proposito di guastare il meno possibile l'uno e l'altra. In  Ovidio in vece la combinazione appare di mitologia poe-  tica; c'è una sicura mossa fantastica: Trittolemo soprav-  viene, noto nei tempi nuovi, al posto di Demofonte, noto  negli antichi: l'ignoranza del grano e la povertà soprav-  viene, conforme al nuovo concetto, in luogo della cono-  scenza ed opulenza narrate nell' Jm«o. Ora poiché nel V se-  colo e nel santuario eleusinio una innovazione erudita  è meno congetturabile di una fantastica, dobbiam dare  la precedenza cronologica, pur con riserva, alla forma  ovidiana. Ci pare allora che il nome e il concetto di  Trittolemo abbiano acquistato predominio attirando nel-  l'orbita loro Demofonte, che scomparve, Celeo e Meta-     388 II. - IL CULTO DI DEMETBA. IN E»NA   nira, che digradarono a poveri vecchi. — 2° Questa in-  novazione fantastica è d'influsso orfico ? Afferma che si  il Malten loc. cit. 441 sgg. e "Hermes, XLV (1910) 532 :  perché orfico è il personaggio di Dysauìes ch'egli inter-  preta (pag. 431) óvaavÀog " der eine arme Hiirte hat (1) „.  Noi lo neghiamo per due gravi motivi. Anzi tutto, se  dairOrficismo fosse derivato Trittolemo = primo semi-  natore, Dysauìes e Baubo, legati con lui presso gli Orfici  quali genitori, avrebbero scalzato Celeo e Metanira al  pari di Demofonte ; in vece non si capisce come gli  Orfici scegliessero proprio il nome di quel principe, fra  gli altri deir//mo, per innovarlo e per congiungerlo con  nome e personaggi di loro creazione; né come esso solo  acquistasse tanto predominio, mentre Dysauìes, Baubo, e  parecchi motivi orfici, restarono senza eco fuor della  setta. In secondo luogo tutto il brano dei Fasti e estraneo  all'influenza orfica : che il particolare dei majali (v. 464),  non è orfico esclusivamente, come pare al Malten  (pag. 532 n. 2) e già al Forster {R. u. R. pag. 78 sgg.), ma  si riconnette col culto e coi sacrifizii suini, accennati al  V. 414. Dunque in un carme ove dagli Orfici nemmeno  si accetta quella presenza di Atena e Artemide che fin  la saga siracusana aveva fatta sua, la scena centrale  deve essere dimostrata orfica per venir ritenuta tale ;  altrimenti altra spiegazione sarà migliore. Di fatti a noi  par chiaro che lo stesso moto onde Trittolemo = primo se-  minatore fu portato a soppiantare Demofonte e impove-  rire Celeo, recò lui medesimo nel patrimonio orfico e  determinò la nuova paternità di Dysauìes. Onde ci  sembra evidente che la scena eleusinia dei Fasti sia di     (1) Contro l'opinione comune che è in Gruppe Gr. Mi/th.  pag. 57.     LE VEBSIONI GRECHE DEL RATTO DI KORA 389   origine neoattica e di quel gusto alessandrino che ai ri-  vela neWEcale callimachea.   Negata agli Orfici la creazione di Trittolemo = semi-  natore, dobbiamo, nei limiti del nostro tema, rettificare  un'opinione imperfetta degli studiosi. Negli Orfici Ar-  gonauti V. 1193 si legge che Cora è^duacpov avvófiatfiot  "ingannarono le sorelle,. Per sorelle s'intendono dal  Forster o. c. 42 Atena Artemide e Afrodite. Il confronto  con EuKiPiDE Elena 1301 sgg. (cfr. il testo del Wilamowitz  in Comm. gramm. IV 27 e " Sitzb. Beri. Akad., 1902,  871) dimostra però che si deve trattare soltanto di Ar-  temide e Atena. Di queste due parla difatti il Malten  " Archi V, cit. pag. 422; ma le presenta nell'aspetto eu-  ripideo (ripetuto in Claudiano) di difenditrici, non in  quello orfico di ingannatrici. Correggendo da un lato il  Forster dall'altro il Malten (1), mi sembra che l'ipotesi  migliore per superare il contrasto fra gli Argonauti e  VElena e spiegare l'aggiunta di Afrodite che si ritrova  in Igino fav. 147 (non che in Claudiano), sia l'ammet-  tere che Afrodite abbia in un secondo strato orfico so-  stituito nell'inganno, per esser a ciò più adatta, Atena e  Artemide, e queste, in qualità di vergini compagne e di  dee armate, sieno passate alla difesa della rapita.   L'aver precisato cosi le varie forme leggendarie, pro-  toattica neoattica (e orfica), ci ajuta a intendere in primo  luogo il testo di Timeo (cfr. Diodoro V 3 e Geffcken  pag. 103 sgg.). Notammo già (sopra pag. 373) l'uso che ivi è  fatto del motivo orfico su Atena e Artemide. Notiamo ora, a  guisa di premessa, che tutto il racconto del mito vi è estre-  mamente sommario. Ma il puoto essenziale vi appare in     (1) Impreciso è anche A. Olivieri ' Arch. st. per la  Sicilia or. , I (1904) 76. 165.     390 li. - IL CULTO DI DEMETRA IN ENNA   modo non dubbio: vale a dire, secondo Timeo la Sicilia  conobbe tòv tov alrov KaQnóv prima d'ogni altra regione  (pag. 103, 23 6.) ; in Sicilia le due Dee facevano spesso  soggiorno (pag. 104, 17 sgg.); avvenuto poi il ratto,  Demetra fece dono del grano a tutti coloro che durante  la ricerca la accolsero q>iÀavd-Q<j}7t(ag e, fra costoro primi,  agli Ateniesi (pag. 106, 10 sgg.); gli Ateniesi quindi eb-  bero e diffusero la conoscenza del grano primi dopo i  Siciliani (pag. 106, 23), i quali se l'erano avuto dalle  Dee (5tà zì]v Tijg AijfirjtQog koI Kóqtjs TiQÒg aèzovg ol-  KeiÓTi]Ta. Dunque non può rimanere incertezza che Timeo  e la saga siracusana da lui ripetutaci accettavano per  intero la versione neoattica secondo cui l'ateniese (eleu-  sinio) Trittolemo avrebbe appreso primo l'arte del se-  minare e l'avrebbe insegnata agli uomini in luogo del-  l'uso di ghiande ; l'accettavano però con la orgogliosa  premessa che la Sicilia, per la special benevolenza e la  famigliarità delle due Dee, aveva preceduto gli Ateniesi  e l'intero mondo. Ne balza la concezione duplice di una  Sicilia che ha il privilegio del grano, mentre tutti gli  altri lo ignorano , prima del ratto ; e della restante  umanità, che il privilegio si conquista poi col trattar  bene la Madre dolorosa, in occasione del ratto. Cosi i  Siracusani non ebbero bisogno di sostituire Trittolemo  con una figura indigena, — come quei di Sidone con  un Orthopolis figlio del re Plemnaios (cfr. Paus. II 11, 2);  né di farlo entrare in genealogie locali, — come gli  Argivi che gli diedero padre un argivo Trochilos (Paus.  I 14, 2); né di identificarlo con un antico loro iddio,  — come suppone, ma senza convinzione, 0. Rossbach  Castrogiovanni (Leipzig 1912) 23. Essi poterono venerare  Trittolemo (Cicerone in Verr. IV 109. 110) come colui  che per benevolenza della lor Demetra diffuse al mondo  il già loro secreto del seme.     LE VERSIONI GRECHE DEL RATTO DI KORA 391   La conoìcenza del racconto di Timeo deve ajutarci a  comprendere il doppio testo di Ovidio in Fasti IV 394-  620 e in Metamorfosi V 341-661. Si è discusso se si tratti  di un'unica fiaba desunta da un'unica fonte e variamente  ripetuta nelle due opere; o se anche la fonte sia di-  stinta per ciascun racconto. Tennero la prima opinione  alquanti critici citati dall'ultimo di questa teoria L. Malten  'Hermes, XLV (1910) 506 sgg. cfr. 511 n. 1. Tennero la  seconda opinione sovra tutti prima il Forster R. m. R. d,  Pers. 72 sgg. poi Ehwald-Korn Metani, vs. 385. Noi cre-  diamo che il Malten, il quale pure ebbe autorevole  assenso dal Wilamowitz (" Sitzungsber. d. Beri. Akad. „  1912, 1 pag. 535 n. 1), sia in errore.   Nelle Metamorfosi le fasi del ratto sono le seguenti :  1° Persefone vien rapita da Plutone presso Enna ov'è il  lago Pergo durante l'antologia (vv. 385 sgg.) ; 2° Cerere  ne fa ricerca per tutte le terre con due pini accesi su  l'Etna (vv. 438 sgg.); 3° veduta presso la fonte Ciane la  zona di Proserpina, se ne sdegna :   ...terras tamen increpat omnes  Ingratasqiie vocat nec friigum munere dignas,  Trinacriam ante alias...   (vv. 474 sgg.) e distrugge gli aratri e impedisce la vege-  tazione del grano ; 4" Demetra, dopo le indicazioni di  Aretusa, il colloquio con Giove, il giudizio di questo,  ristorata del suo dolore corre medium caeli terraeque per  aera e va in Atene, consegna a Trittolemo i semi e partim  iussit spargere rudi humo partimqiie post tempora longa  recultae (vv. 487 sgg. 646 sgg.). Ora, noi vedemmo sopra  (pag. 374) che la sostituzione di Ciane e Aretusa ad Ecate  ed Elios deir7«no omerico sono pretti elementi della saga  siracusana. E con questo risultato concorda, il ratto in     392 II. - IL CULTO DI DEMETEA IN BNNA   Euna. Ma la concezione espressa nei versi 474 e 646  (già citati) non si copre con la siciliana: è più larga.  Terrae omnes conoscono il frugum muniis, e fra esse è si  la Sicilia, ma non sola, se bene più fertile (v. 476).  E Trittolemo insegna a seminare su la terra post tempora  longa recalta, quindi anche su la Sicilia dopo il danno  subito per vendetta della Dea. Ora, donde viene questa  concezione che accoglie e umilia in sé la saga di Ti-  meo ? Ognun vede che essa contiene : 1° del mito pro-  toattico, la conoscenza del grano anteriore al ratto e la  vendetta divina ; 2° del neoattico, Trittolemo = semina-  tore. Ne rappresenta quindi un tentativo di concilia-  zione (1) in cui s'innesta la leggenda siracusana con  qualche mortificazione. Quanto all'intervallo fra la veduta,  della zona e la supplica di Aretusa che il Malten  (pag. 514) calcola a un anno, è chiaro che non è pre-  ciso nella mente del poeta, come appare dalla frase post  tempora longa. Che sia assurdo lascerem dire al Malten,  che trascura la libertà fantastica dei poeti. Né col Malten  (p. 516) diremo adesso che la metamorfosi di Lineo tra-  scinò con sé in fine del racconto anche Trittolemo ;  dacché vedemmo come questo personaggio stia bene in  quel posto in cui i Fasti lo pongono, data la contami-  nazione proto-neoattica. In fine contatti con la poesia  orfica non vi sono : perché è taciuta la presenza di Atena  e Artemide ; perché Trittolemo spargitore del seme non  è orfico (sopra pag. 388); e perché ha ragione il Malten  (pag. 533-4) di riconnettere con la volgata poetica degli  Alessandrini la parte introduttiva su Plutone colpito da     (1) Cosi mi fece notare il mio maestro G. De Sanctis.  Resto incerto se questa conciliazione si trovasse già in  Carcino junior (cfr. Timeo presso Geffcken pag. 107 =  DiOD. V 5).     LE VEKSIONI GRECHE DEL RATTO DI KORA 393   amore per volere di Afrodite (1). E di modello alessan-  drino essendo tutte le metamorfosi (2), la nostra conclu-  sione è che la fonte di Ovidio fu un testo alessandrino  ove nella trama proto-neoattica con innesto siciliano fu-  rono interpolate favolose trasformazioni di Ciane Ascalafo  Ascalabo Aretusa e l'altre.   Pei Fasti l'esame è anche più pronto : 1" 11 ratto av-  viene in Enna ; ma ivi non è la sede delle due Dee. Di  fatti Aretusa ve le aveva invitate (v. 423 sgg.) e Cerere  vi era giunta da poco (modo venerai Hennam v. 455)  allorché Proserpina fu presa. Sicché quando il poeta dice  della Sicilia Grata doìnus Cereri; multas ea possidet  tirbes ecc. (v. 421), la frase, come vuole il verbo al pre-  sente, si deve riferire ai tempi di Ovidio (contro il Malten  p. 507). E quando Prosei'pina è introdotta vagante per  sua prata (v. 426), si deve intendere " i prati di cui è  dea„, che tutta la vegetazione è in lei compresa nel  tardo concetto poetico (contro il Malten p. 508 n. 1). —  2° Dopo il ratto, Cerere, cominciando dalla Sicilia, vaga  per tutte le terre e pel cielo in affannosa ricerca; della  quale una prima tappa è il soggiorno in Eleusi presso  Celeo e Metanira, al cui figlio Trittolemo essa predice  pi'imus arabit — et seret et eulta praernia tollet humo  (559-60), togliendo cosi la famigliola e gli uomini tutti  dalle condizioni di vita primordiale in che nutrendosi  di bacche duravano (cfr. il proemio vv. 401-2 Ceres,  homine ad meliora alimenta vocato, — mutavit glandes uti-     (1) Nel verso 533 Dixerat, at Cereri certum est educere  natam il Malten fp. 573) vuol vedere un riferimento al-  l'orfica discesa di Demetra sotterra. Non mi par che  basti.   (2) Non ho potuto prender conoscenza di G. Bubbe De  metamorphosibus Graecorum capita selecta " Diss. Phil.  Hai. , XXIV 1 (1912).     394 II. - IL CULTO DI DEMETRA IN ENNA   Uore cibo). — 3° Seconda tappa della ricerca è costituita  dalle informazioni che nel cielo danno sul ratto alla Dea,  Helice ed il Sole (w. 575 sgg.)- — 4» Da ultimo accade  il colloquio con Giove e il verdetto finale (vv. 585 sgg.).  Ermes è il messaggero fra Giove e Proserpina (vv. 605 sgg.).  Cerere si cinge d'una corona di spighe, segno di pace che  ricorda la promessa fatta a Trittolemo ; e larga messe  proventi (non rediit) cessatis in arvis (v. 617), ossia nei  campi " incoltivati „ {cesso = non exerceo). L'interpreta-  zione comune ("nei campi trascurati ,) non può reggersi  confrontando i vv. 559-60 già citati (1). — Ora, dallo schema  cosi tracciato ne' suoi punti cardinali non è difficile trarre  le conclusioni : il concetto fondamentale di una umanità  che prima del ratto si nutre di bacche ed è povera, e dopo  il ratto apprende da Trittolemo la cultura del grano e  si fa prospera, è neoattico ; il luogo del ratto (con cui si  connette l'elenco dei luoghi ove prima avvenne la ricerca)  è desunto dal mito siracusano; la coppia Helice-Sole è  una variante alessandrina della coppia Ecate-Elios del-  Vlnno omerico (cfr. Malten p. 520); l'ordine cronologico  degli episodii non è quello dell'Inno, che la tappa in  Eleusi e le informazioni degli astri sono invertite rispetto  ad esso. Di più: quest'ultima inversione obbedisce all'in-  tento artistico di non rappresentar Cerere nell'indugio  di Eleusi quando, già conoscendo il nome del rapitore,  può sperare di riaverne la figlia ; e la sostituzione di  Helice ad Ecate ha per fine una maggiore perspicuità  in rapporto con la più volgata nozion mitologica; e di  gusto alessandrino è la divisione dell'anno per metà     (1) può reggersi ammettendo un' incongruenza irra-  zionale fra i due luoghi; la quale non sarebbe strana  nel poeta.     LE VERSIONI GRECHE DEL RATTO DI KORA 395   (sopra pag. 372); e col gusto medesimo concorda l'accet-  tazione del concetto neoattico. Adunque possiamo dire  che il racconto dei Fasti è un'alessandrina combinazione  sagace del fondamentale mito neoattico con pochissimi  tratti siciliani e con spunti di recente mitologia.  Siamo pertanto molto lontani dalla trama riprodotta  nelle Metamorfosi e definita sopra (pag. 393): là si ri-  cercava di salvare il concetto dell'/nno contaminandolo  con la saga neoattica; qui deWInno e corretto fin l'unico  particolare non respinto, e predomina una idea aWTnno  contradittoria. Sicché ha torto il Malten di supporre ai  due componimenti unica fonte.   Diversi essi appajono anche negl'intenti. L'uno ha scopi  di compiacimento fra letterario e favoloso con le sue  metamorfosi numerose; l'altro ha scopo etiologico. Tale  constatazione può giovare alla ricerca dei due modelli  alessandrini seguiti da Ovidio; ma noi non ci permette-  remo di esaminare a fondo questo punto, ritenendolo di  spettanza degli storici della letteratura (1), e del tutto  secondario per gli storici del mito. A noi basta l'aver  determinato quelle forme fondamentali del mito di Cora  che, costituitesi in Grecia, intervennero poi sul mito si-  racusano, variamente intrecciandosi in complessi disegni.     (1) Cfr. Cessi ' Arch. stor. per la Sicilia or. , IX (1911)  87 sgg.     CAPITOLO III.  L'abigeato di Caco.     I, Il problema. — Intorno al mito che narra il furto  di Caco ad Ercole e la vendetta di questo, assai pili che  singole ipotesi si combattono opposte teorie. Per l'ima  fra esse, — della quale basti citare rappresentanti il  Peter in Roscher Lexicon I 2, 2270 sgg. e il Binder  Die Plebs 108 sgg. fra i Tedeschi, e fra gl'Italiani il  De Sanctis Storia d. Rom. I 193, — il nucleo primordiale  del mito è italico, intrecciato su i due nomi di Caco e  di Garano (-Recarano), e travestito sol più tardi con le  sembianze di ' Eracle-Ercole ' ; il contenuto di esso è na-  turalistico e consiste nella lotta fra il dio solare e il dio  sotterraneo del fuoco; vive nelle tradizioni mitico-poe-  tiche del popolo che lo perpetua, fino a che gli artisti  lo foggiano secondo la tradizione letteraria e gli sto-  rici lo umanizzano e variamente razionalizzano. — Per  l'altra teoria in vece, — che sostengono fra noi il Pais  Storia critica di Roma I 199 sgg. e all'estero il v. Wi-  LAMowiTZ Euripidea Herakles^ I 25, 1, il Wissowa in  PAtTLy-WissowA Real-Encykl.^ III 1165 sgg. ^non che, ora,  Rei. u. Kult. d. Romer- 282) e J. G. Winter The myth     398 lu - l'abigeato di caco   of Hercules at Rome in " University of Michigan Studies,  Umanistic Series „ voi. IV Roman History and My-  thology edit. by H. A. Sanders (New York 1910), — il  mito è opera dell'influsso letterario greco, pur conceden-  dosi in esso una parte all'elemento indigeno (latino o  italico): sia col riconoscere in Caco un " figlio di Vul-  cano , (Pais) " forse , un'antica divinità del fuoco  (Winter); sia col limitarsi ad ammettere che il nome di  lui è ben radicato nel suolo di Roma e d'Italia. — Il  problema era in questi termini quando fu ripreso recen-  temente da Friedrich Mììnzee Cacus der Rinderdieb (Basel  1911) (1). Questi facendo suoi i risultati del Wilamo-  witz e del Wissowa dichiarava dover "...nicht die Ge-  winnung neuer Resultate das Hauptziel sein ; sondern es  sollen nur die alterprobten Mittel philologischer Methode  — Interpretation, Analyse, Vergleichung — mit moglich-  ster Griindlichkeit, Sorgfalt und Umsicht angewendet  werden , (p. 6). Difatti, dopo una indagine la quale  " vielleicht bisweilen allzu peinlich und kleinlich er-  schienen sein solite , (p. 68), giunge a sostener questa  tesi : Il racconto è forse da far risalire fino ai principii  della letteratura latina (p. 108). I più antichi annalisti  lo concretarono nella forma che ci appare in Livio I 7,  3 sgg.; due generazioni appresso, gli annalisti dell'età  graccana (Cassio Emina, Cn. Gelilo) avevan già raziona-  lizzato la fiaba e vi avevan imaginato un riposto nucleo  di reale istoria; solo la * Romantik „ dell'età augustea     (1) Nello stesso anno 0. Gruppe svolse in breve nella  " Beri. Phil. Woch. „ (XXXI 1911, p. 998 sgg.) una sua  ingegnosissima ma, a nostro avviso, non convincente  teoria sul mito di Caco. Egli si fonda su i testi di Festo,  Diodoro e Cn. Gellio che noi sotto (p. 409. 418) interpre-  tiamo con tutt'altro valore.     IL VALOKE DEL MITO INDIANO 399   riprese la forma originaria : " Livius, indem er die Sage  einfach als Sage erzàhlte und sich im Hinblick auf seinen  allgemeinen Vorbehalt der Kritik des einzelnen enthielt,  Vergi], indem er die schlichte Sage in das glanzende  Kleid der Poesie hullte „ (p. 111-112). Il nome Caco era  diffuso in antiche tradizioni italiche (p. 113); egli era  da prima concepito come semplice uomo, pastore o la-  drone, e da Vergilio solo fu mutato in un mostro tra di-  vino e bestiale (p. 75, 79, 81). 'Eracle-Ercole' era già  nella primitiva forma della narrazione e il nome di Ga-  rano (Recarano) è il prodotto di una rielaborazione eve-  meristica della versione volgata del racconto (p. 95).   A chi pertanto voglia novamente studiare il mito di  Caco corre obbligo di tener conto in particolar modo di  questa che, per esser l'ultima ricerca e per presentarsi  con speciali pretese di saldezza logica e precisione me-  todica, sembra aver eliminato ogni obiezione e distrutto  la teoria del Peter e del De Sanctis. Quanto tal sem-  bianza sia falsa è per apparire.   IL II valore del mito indiano. — Nella mitologia  indiana del Rigveda il Rosen (a Rigveda I 6, 5 p, xxi)  ravvisò primo un racconto che si potrebbe dire senza  esagerazione identico a quello latino di Caco : la lotta  di Indra con Vritra. I particolari più minuti coincidono  dall'una all'altra fiaba: cosi la clava di Ercole e di Indra,  il muggir dei buoi di entrambi, la caverna rocciosa, ecc.  (cfr. Peter o. c. 2279, 25 sgg.). — E ne furono tratte da  più studiosi le conseguenze ovvie: p. e. da Bréal Her-  cule et Cactts, Elude de Myihologie comparée (Paris 1863),  da Fé. Spiegel in " Zeitschr. f. vgl. Spr.-F. , XIII (1864)  386 sgg. — n MuNZER in vece ha creduto di poter tra-  scurare al tutto questa significativa coincidenza tra il  racconto indiano e il latino, appellandosi ai * nvich-     400 III. - l'abigeato di caco   ternen „ giudizii del Wilamowitz e del Wissowa (p. 6 e  n. 8). Commise cosi, secondo a noi pare, (simile in questo  al WiNTER 0. e.) l'errore fondamentale di tutta la sua  ricerca, perché gli sfuggi l'importanza che la suddetta  coincidenza può e deve avere non solo come argomento,  ma come prova " cruciale „ fra due possibilità logiche.  Di fatti, accertato che, in forma quanto più è possi-  bile simigliante, presso i Latini ritorna un mito indiano,  ne consegue da prima che il valore allegorico di questo,  il quale non è dubbio (Bréal o. c. 93 sgg.), dev'essere a  un di presso identico al significato di quello romano :  la lotta cioè fra luce e tenebra, fra la potenza benefica  del sole e quella malefica dell'ombra e del fuoco. —  Inoltre, se la forma latina è, fra le molte che il mito  assunse presso i popoli indo-germani, la piii simigliante  al racconto del Rigveda (Kuhn " Zeitschr. f. deutsch. Al-  terth. , VI (1848) 117 sgg. 128 spec), par metodico con-  chiudere che la fiaba di Caco germoglia in suolo italico  dalle radici arie, — e non è in vece l'imitazione delle  fiabe vigenti presso i popoli affini, quali p. e. i Greci.  Giacche è ozioso e assurdo supporre che imitando un  modello già lontanatosi dal tipo indiano si giungesse a  riprodur questo appunto più fedelmente. In particolare,  prescindendo dalle saghe degli Brani (Ormuzd e Ahriman;  Tistrya e Apaosha) e dei Germani (Siegfried e Fàfnir, ecc.),  — su cui si veggano Bréal o. c. 124 sgg. e 139, Spiegel  0. e. 387 sgg., — i miti greci di Apollo in lotta col Pi-  tone, di Zeus con Tifeo, di Ercole con Gerione, e anche  il racconto dell'abigeato di Ermes in danno di Apollo,  pur ripetendo tutti e tutti travestendo un unico concetto  naturalistico e le sue sfumature e analogie, sono ben  lungi dal riprodurre tanto quanto il mito latino la forma  del Rigveda. Basti a convincersene l'aver letto per Ge-  rione Apollod. II 108, per Ermes l'omerico Inno a Ermes     VEBGILIO E OVIDIO; PROPERZIO 401   68-404, per Tifeo [Esiodo] Teog. 820 e romenco Inno ad  Apollo.   Da ultimo la constatata simiglianza iatima tra l'epi-  sodio di Caco e quel di Vritra serve, nell'indagine, a de-  cidere quale fra le discrepanti redazioni del racconto  latino più si accosti al nucleo italico primordiale, quali  elementi sieno gli originarli rispetto ai posteriori o evo-  lutisi corrottisi: però che sia evidentissimo, tanto mag-  giormente esser antico un particolare e vetusta una fi-  gura quanto meglio collimi con le forme e le linee del  racconto indiano.   Questo non avverti il Mùnzer (e né il Winter), e si  precluse la via a giudicar con metodica * Nùchternheit „  i testi cosi dei poeti come degli storici e degli eruditi  latini.   III. Vergilio e Ovidio; Properzio (1). — Il risultato  della ricerca che il Munzer conduce nel suo I cap. (se  si omettono, com'è bene, le singole osservazioni le quali  non sempre tengono il dovuto conto delle esigenze poe-  tiche e delle poetiche irrazionalità) è che fra il racconto  del furto e la vendetta di Ercole corre nel material nu-  mero dei versi la proporzione di 1:3 presso Vergilio,  1:2 presso Ovidio, 2:1 presso Properzio. "Die Folge-  rung scheint unabweisbar , che appunto nella vendetta  di Ercole Vergilio dev' essersi allontanato dalla tra-  dizione precedente per concedere alla propria fantasia  volo pili libero e più ampia indipendenza (p. 25).   Dopo aver fatte alquante riserve su cotesto metodo di  contar i versi d'un carme per determinarne gli strati  mitici, i dati sembran da disporre in ben altro modo,  ch'è, solo, logico. Poiché in Vergilio e in Ovidio (il quale     (1) Cfr. Eneide Vili 185; Fasti I 543 sgg.; Elegie IV 9.  A. Feebabino, Kalypso. 26     402 111. - l'abigeato di caco   da quello dipende, come risulta evidente dalla semplice  lettura e fin troppo è dimostrato dall'analisi del Munzer)  è dato più grande sviluppo alla lotta fra Ercole e Caco  olle al furto dei buoi, due possibilità logiche son da tener  in pari conto. che lo spirito inventivo di Vergilio ivi  si esercitasse piti liberamente e più profondamente in-  novasse. che invece quello fosse anche nella sua fonte  leggendaria l'episodio meglio notevole e significativo del  racconto, e che nel dargli i colori della sua tavolozza il  poeta assecondasse il modello. Tra queste due possibili  ipotesi è d'uopo scegliere; ma scegliere con argomenti.  E non si vede per contro qual motivo induca il Munzer  a preferir senz'altro la prima e a proclamarla " unab-  vreisbar ,. — Ecco in vece che il mito del Rigveda in-  terviene qual pietra di paragone. In esso la vendetta di  Indra contro Vritra è ampiamente narrata con presso  che tutti i particolari noti da Vergilio ed Ovidio e co-  stituisce, non meno che in questi poeti, un'essenzial  parte della fiaba. Per esso dunque la seconda ipotesi è  da sceglier non la prima, ed è da ritenere che il rac-  conto della lotta fra il dio solare e quel del fuoco te-  nebroso costituisse non pur una rilevante porzione della  leggenda preesistente a Vergilio, ma a dirittura il nucleo  della vetustissima saga italica.   Nella descrizione della grotta di Caco Vergilio è pe-  dissequamente imitato da Ovidio : cfr. En. Vili 190-197,  Fasti I 555-58. Ma perchè V. usa per la spelonca la  frase " solis inaccessum radiis „ là dove 0. preferisce  " vix ipsis invenienda feris „ a esprimere un concetto  affine, il Munzer insiste a lungo (p. 30-36) su la difi'e-  renza. Non ci fermeremo, rispettando i poeti.   Con eguale sottigliezza d'analisi il M. studia le due  parole " semihomo , e " semifer „ che V. usa a designar  Caco accanto a l'altra di " monstrum „. Perché il sem-     TERGILIO E OVIDIO ; PKOPEBZIO 403   biante degli Dei è identico a quello degli ucraini, per  questo " semihomo , equivale ad " halb Gott , (p. 46).  Ma se cotesta è solo una minuzia, grave diviene l'errore  metodico allorquando da essa si traggono le più rigorose  deduzioni logiche : fino a trovare che l'epiteto di " vir ,  da 0. tribuito a Caco (vv. 553 e 576) non si conviene  alla concezione vergiliana del " semihomo „, sebbene 0.  imiti pel resto l'Eneide e ripeta (y. 554) la parola  " monstrum „ e la paternità del ladrone. Per vero il  " vir , ovidiano disdice bensì, ma non al concetto di Ver-  gilio, SI a quello del Mùnzer (p. 52). — Ugual giudizio  deve farsi di una serie d'altre inezie, e in particolare  delle osservazioni su l'uso delle saette e della clava,  presso V. ed 0. (p. 67). Nel mito indiano Indra usa il  fulmine o la clava. Ed è da ricordar pure che cosi le  saette come la clava sono i simboli primordiali dei raggi  solari, e si addicono quindi entrambi all'essenza del rac-  conto. Se quindi la clava o le saette o l'una e l'altre  fossero già nella forma originaria o vi mancassero è im-  possibile dire.   Il M. rileva in fine un'analogia fra l'episodio di Caco  e quel di Polifemo (Odissea t) : dalla quale trae una de-  duzione che gli è fondamentale. A quel modo che nel-  l'Odissea Polifemo invoca contro Odisseo il proprio padre,  cosi, Caco dovendo essere assistito da un Dio, Vergili©  lo avrebbe fatto figlio di Vulcano (p. 49). E questo  è accanto a una serie di altri " monstra , vergiliani  riportati ad analogia (pp. 43-48), l'unico argomento per  asserire che Caco è nell'Eneide " eine freie Schopfung  der dichterischen Phantasie „ (p. 50). Per qual motivo  Vulcano fosse prescelto; perché Caco emettesse fuoco  e fumo ; non è detto ; ma tutto si fa dipendere dalla  " ihn (Vergil) beherrschende Auffassung des Cacus als  eines halb gottlichen, halb tierischen Wesens „ (ibid.).     404 III. - l'abigeato di caco   — Una confutazione ormai non è più necessaria. — Più  ragionevole è la tesi del Winteb o. c. p. 251 sgg.: che  Vergilio risusciti i caratteri dell'antica divinità del fuoco  Caco sul modello di Tifeo ([Esiodo] Teog. 820; Inno ad  Apollo 340-70). Ma in tal caso è ipotesi molto più logica  e semplice che Vergilio si valga dei caratteri i quali la  tradizione letteraria ha fissati per Tifeo (non che, — si  può aggiungere, — per altri consimili mostri), a fine di  colorire artisticamente un personaggio del suo tema, non  già di ricrearlo.   Resta che si dica di Properzio. Intorno al quale pru-  dentissimo diviene il • Mùnzer (p. 65-70) ; e non a torto,  in massima. Le rassomiglianze del suo racconto con quel  dell'Eneide (M. 21. 32) che il PtOTHSTEm (nota a IV 9, 9)  dichiara come riferimenti culti a Vergilio, potrebbero in  vece esser soltanto riferimenti al modello di questo, per  certo assai noto, a cui è dovuta la conservazione poetica  della saga: riferimenti p. e. ad Ennio. — E parimenti  antichissima potrebb'essere la concezione di Caco a tre  teste, la quale è nel Rigveda. Si è anche pensato, in  vero, che essa sia dovuta all'influsso greco traverso Ge-  rione : e può essere. Ma forse si preferirebbe pensare che  il particolare venisse soppresso da Vergilio appunto  per dissimilar Caco da Gerione, entrambi avversarii di  Ercole. — Se poi l'assenza di Evandro, che nel mito ori-  ginario mancava e che fu indotta dall'equazione erudita  Cacus = Jtajtdff (De Sanctis St. rf. i2. I 194 e n. 2; cfr.  sotto § V), sia pur dovuta alla fonte di Properzio o a  una sua brachilogica omissione, non è possibile dire. A  ogni modo nel tutt'insieme il racconto di lui sembra  avere un'impronta arcaica ed è certo un indizio egregio  di quel che il mito potesse essere prima dell'intrusione  di Evandro.     LIVIO E DIONISIO 405     IV. Livio e Dionisio. — Cfr. Liv. I 7, 4-9; Dion. I  39-40. 11 Caco di Livio è " pastor ... ferox viribus , (5) e  prima di venir abbattuto da Ercole " fidem pastorum  nequiquam , invoca. E in somma un uomo: — ben di-  verso dal " monstrum , di Vergilio. Di qui due possibi-  lità si presentano al critico : o la concezione liviana è  prodotto d'un erudito razionalista che ha abbassato la  statura del personaggio; o la concezione vergiliana è  l'effetto d'un volo fantastico del libero poeta. Il Mùnzer  che s'è, — come si vide, — chiusa la via a sceglier con  metodo, si attiene a questa seconda ipotesi senza visibili  ragioni (p. 75). E nello stesso errore cade, per motivi  analoghi, il Winter o. c. Il mito indiano per contrario  decide incontrovertibilmente a favor della prima e induce  ad affermare, con la maggior sicurezza possibile in cosi  fatte ricerche, che Livio riflette una forma razionalizzata  e umanata della saga. La quale serba tuttavia anche  cosi un indubbio color favoloso ma è più lontana assai  dall'origine naturalistica. — E poiché a ragione il Miinzer  afferma (p. 72) Livio indipendente da Vergilio e atti-  nente a una fonte pre-vergiliana, se ne deve conchiudere  che l'età augustea riceva dalle anteriori intorno a Caxìo  ed Ercole almen due versioni, l'una più dell'altra co-  lorita.   A punto perché anche il racconto della fonte di Livio  è coperto di una patina da fiaba, Dionisio (39) scrive :  UoTi óè xGiv i}7iÈQ Tov Sttifiovog Tovóe Àeyoftévojv tà fièv  fiv&iKÓtteQa, za d' àÀij&éais^a; e a lui difatti, se il rac-  conto della fonte vergiliana poteva sembrare degno di  poeti, ma non di uno storico erudito, quello della fonte  liviana doveva apparire a bastanza verisimile per esser  riportato, troppo poco prammatico per non preferirgliene  uno in cui dietro a Ercole e a Caco stessero degli eser-  citi interi. Col che si confuta il Mùnzer (p. 76) quando,     406 III. - l'abigeato di caco   prendendo rigorosamente alla lettera il [iv&iKdjxsQa, af-  ferma che Dionisio intese narrare "die Fassung, der  Sage..., die mit den buntesten Farben geschmùckt war „;  e non si accorge che il comparativo è da riferirsi solo  alla seconda versione, * più vera „ della prima e men  favolosa.   Assai brevi sono Livio e Dionisio nel narrare la lotta  fra Ercole e Caco, — quella su cui si dilunga Vergilio  e il mito del Rigveda. Il motivo è chiaro: quivi appunto  era il perno del mito e il fondo della sua allegoria;  quivi il razionalista più deve sopprimere (contro M. p. 77).  — Mentre però Livio concepisce Caco qual pastore, Dio-  nisio lo dichiara Àrjatrig rtg èjtix(ì>Qios (39, 2). Tal diffe-  renza acquista valore se la si contrappone alla concordia  con cui due poeti indipendenti, Vergilio e Properzio, raf-  figurano Caco sotto la specie del mostro. Gli è che in  questi ritorna l'immutato concetto primordiale; negli  storici in vece si rispecchiano razionalizzazioni, simili non  identiche, dell'unico mito: non identiche, perché è dif-  . fìcile raggiunger l'accordo nel travestir le fiabe : del-  l'unico mito, perchè nel " ferox viribus , come nel  yi^/oTTjj ri j traspare ugualmente il ' monstrum „. (Contro  MùNZER 78-79).   In Dionisio Caco ad Ercole che lo interroga risponde  di non aver visto i buoi (39, 3). Ciò, — fu notato, —  corrisponde a Vergilio (263 " abiuratae rapinae „). In  Livio (e in Ovidio in Properzio) manca il particolare. Se  non che cosi della presenza come dell'omissione è diffi-  cile far giudizio. Cotesta astuzia di Caco è da avvicinare  all'altra di condurre " aversos „ i buoi : ed entrambe ri-  tornano nell'omer. Inno a Ermes (75-78, 211, 220 sgg.;  235-386). Nel quale, ove si narrano le astute imprese  del Dio, son per vero dicevolissime e consuonano al tono  burlesco di tutto il racconto; là dove sembra che la fiaba     I PABTICOLABI ETIOLOGICI DEL CULTO 407   di Caco, che è contesta su la lotta violenta della luce  contro il tenebroso fuoco, male armonizzi con scaltrezze  COSI fatte. Si propenderebbe quindi a ritenere tutt'e due  i particolari più tosto ornamenti introdotti sotto l'influsso  letterario greco che analogie originarie. La quale ipotesi  spiegherebbe anche la brevità degli accenni in Vergilio  e Dionisio. Mentre ben altra è la natura del muggire i  buoi nell'antro di Caco: che è primitivo simbolo del  tuono (Bkéal 0. e. 93 sgg.). (Contro Mììnzer 77). — E  anche sotto l'influsso greco di Polifemo {Odiss. i) può  essersi introdotta l'invocazione di Caco ai pastori vi-  cini a quelli che solevano adz^ avvayQavÀslv : la  quale difatti manca nel Rigveda, e non è intrinseca-  mente connessa con la forma prima del mito. — Né si  erra forse di molto attribuendo a Ennio stesso queste  imitazioni di fonti greche che si ritrovano poi, cosi nei  poeti come negli storici; cosi, cioè, nel mito come nei  suoi travestimenti razionali.   Risulta adunque che la fonte di Livio e, in parte, di  Dionisio conteneva un racconto umanato rispetto a quello  poetico che è fonte di Vergilio, di Ovidio e di Properzio;  ma tale che lascia trasparire a sufficienza la forma pri-  mitiva, in ispecie negli episodii di astuzia. Ma comune  agli storici e ai poeti è anche un'altra parte del mito:  la etiologica, che attende ora il nostro esame.   V. I particolari etiologici del culto.— Quella parte  del racconto, in Vergilio Ovidio Properzio Livio Dionisio,  che narra gli avvenimenti seguiti all'uccisione di Caco  fu presto riconosciuta posteriore alla prima e intessuta  di particolari etiologicamente desunti dal culto di Er-  cole. Ma se non è più possibile questionare su ciò, bi-  sogna ancor discutere su i singoli particolari. A tal pro-  posito il MùNZEE (p. 88) asserisce: " dassin der Tat Cacus     408 III. - l'abigeato di caco   und Euander nichts miteinander zu tun haben; dass zwei  ganz rerschiedene Erzàhlungen, die nur die Persoti des  Hercules als einen Trdger der Handlung gemeinsam haben,  rein àusserlich zusammengeschweisst worden sind... ,. E  anche : " Der Einfluss der Verbindung mit Euander àus-  serte sich am frubesten und am bedeutssamsten da-  durch, dass der Scbauplatz des Cacusabenteuers naher  bestimmt wurde „ (p. 89). A questa concezione si contrap-  pongono le parole del De Sanctis (ìS^^. d. jB. I 154) : " hanno  contribuito a suggerirne [del mito] i particolari l'Ara  Massima di Ercole vincitore nel Foro Boario e le vicine  scale di Caco sul pendio del Palatino (Solino I 18; Diod.  IV 21). Tardo poi e dovuto soprattutto a un giuoco eti-  mologico è il contrapposto fra l'uomo buono e benefico  del Palatino, Evandro (1), e il cattivo ladrone (xaxó^) del-  l'Aventino (su questo punto ha giudicato rettamente  A. Bormann ... Kritik der Sage vom Konige Evandros) ,. La  tesi del De Sanctis si può dimostrare più verisimile.   Due son le figure principali del mito: Caco ed Ercole ;  e l'una d'esse certo latina o italica, l'altra certo, in quella  forma, greca. Se v'è dunque in Roma un luogo cui si at-  tiene il nome di Caco (" scalae Caci „) e uno ove si  rende culto ad Ercole, il metodo e la logica vogliono che  questi due servissero a localizzar il mito e il primo in-  nanzi al secondo. Si potrebbe, è vero, pensare anche che  l'Ara Massima sia stata la causa della localizzazione di  Caco (quando a Recarano-Garano fu sostituito Ercole). Ma  l'ipotesi sarebbe difficile da sostenere perché suppone,  prima della comparativamente tarda intrusione di Ercole,     (1) Euander, che nella sua forma greca sonava -E'^av^^ìo^,  e che era la mitica personificazione della eéavÒQÌa, fu,  — com'è noto, — interpretato " buon uomo „.     I PARTICOLARI ETIOLOGICI DEL CULTO 409   per un lunghissimo lasso di tempo non localizzata la  saga. Là dove l' essersi anche topograficamente Ga-  rano-Recarano ed Ercole trovati vicini giova a spiegarne  la fusione : se difatti l'uno era con Caco fissato presso il  Palatino, l'altro si stabili all'Ara massima, la contiguità  dei luoghi giovò senza dubbio a fondere le due simi-  glianti figure.   Se non che nel Thes. L. L. Suppl. {Nom. propr.) 6, 6 sgg.  a proposito del Kdxiog diodoreo è osservato : " hic per-  peram idem esse putatus est atque Cacus deus ; fuit re  vera auctor gentis Caciae ,. E il Mùnzer accetta, pur  ammettendo (p. 116) che il nome alle scale possa derivar  anche da Cacus (non Cacius): " aber dann bleibt eben  Cacus ein Name, der schon for die Romer ohne Tnhalt  und Bedeutung war ,. — Ora il testo di Diod. IV 21, 2  (che è : èv xavtrj oh twv éTiicpavcóv ò'vreg àv6Qù>v Kamog  xal HivaQiog èòé^avvo tòv 'H^UKÀsa §evcoig àicoÀóyoig  Hai ócàQealg xsxccQiafiévaig étifirjaav ' noi tovtcov tòìv  àvÒQcàv èTCOfiv^fiata ftéxQi t&vòe tù>v KaiQÒiv óiafiévet  Korà xìiv 'PiLfiTjv. TÒJv yàQ vvv eiiysvùv àvÓQwv zò ziàv  UtvaQÙoìv òvofia^o^évcùv yévog òia^évei, nagà zoìg 'Pco-  ftaloig, à)^ vTiccQXov àQ^aLÓzazov, zov óè Kaxiov èv z(p  HaÀazCcj) •/.azd^aalg èaziv ey^ovaa Ài&lvrjv KÀifiaaa zrjv  òvof*a^ofi£vt]v àn èy.eùvov KaKÌav, oiaav nÀrjaiov zfjg  zóve yevofAévrig oiniag zov Kaxiov.) mostra troppo chiara  l'origine del suo contenuto. I dati certi che possiede sono :  1) l'esistenza di scalae Caciae; 2) l'antichità dei Pinarii;  3) le attinenze amichevoli, tradotte nel culto, tra Pinarii  ed Ercole. Da questi dati sono desunti : 1) (per falsa eti-  mologia) il nome KaKtog; 2) il nome Ilivd^tog; 3) (per  analogia) le attinenze amichevoli tra Ercole e Cacio, le  cui scale son prossime a quell'Ara Massima (Joedan-  HuLSEN Topogr. I 8, 41) ove al culto erculeo i Pinarii  partecipavano. Tale costruzione da erudito costringe ad     410 III. - l'abigeato di caco   ammettere l'ignoranza, vera o pretesa, e della lotta fra  Ercole e Caco, e dei Potizii (ignoranza, si badi, che anche  il Miinzer deve presupporre, nella sua ipotesi). E poiché  i Potizii, estinti (Haug in Pauly-Wissowa " R. E. ^ , VITI  1, 563), avevan avuto di fronte ai Pinarii privilegio nel  culto, non è arrischiato pensare che il racconto in cui di  quelli si tace al tutto e si tace del mito ove quelli eran  inevitabilmente da menzionarsi, sia dovuto a questi ap-  punto (cfr. Pais Storia critica di Roma I, 1 200 n.:  contro WiNTER 222 sgg. e 260 sgg.).   A ogni modo le scalae Caci del Palatino derivano, se  la nostra ipotesi è vera, da Cacus, come da esse fu tolto  Kdxiog: e additano per tanto la prima naturai sede della  lotta. E perchè accanto alla menzione di esse va posto  il dato tradizionale su la caverna dell'Aventino (Verg.  En. Vili, 231, Ovidio Fasti I 551), se ne deve concludere:  che la localizzazione di Caco è mossa dall'area piana ch'è  fra Palatino Aventino e Tevere, diffondendosi in un senso  verso il Palatino {scalae: cfr. poi Evandro, sotto), nel-  l'altro verso l'Aventino (caverna).   La seconda sede, non lontana, fu l'Ara maxima la  quale servi a fornire assai più tratti al disegno: ciò sono,  tutti i particolari connessi con il culto romano d'Ercole.  (Cfr. Peter o. c. 2281 sgg.). — Che se il mito di Caco è,  come si vide, italico e vetustissimo, là dove Ercole è  un, comparativamente, tardo travestimento dell'Eracle  greco, si deve ritenere che tutto quanto si attiene solo  alla figura di questo costituisca un secondo strato leg-  gendario. Del quale le diverse derivazioni appajono in  genere concordi nella sostanza : cfr. gli aneddoti sul sa-  crifizio di buoi, su i Potizii e i Pinarii, su la decima, ecc.  In vece maggior discrepanza si presenta intorno all'esclu-  sione delle donne dal culto di Eracle, su cui si danno  tre versioni : da Properzio IV 9, 21 sgg. ; dallo scritto     I PAKTICOLAEI ETIOLOGICI DEL CULTO 411   OìHgo geni. rom. 6; e daPtUTAECo Q. r. 60: tutte dififerenti,  in ispecie la prima rispetto alle due altre. TI che signi-  fica come un unico fatto venisse travestito in almeno  due forme diverse. Lo stesso si può dire dell'ara lovi in-  ventori che è ricordata in Dion. I 39, 4, Solino I 7, Origo  geni. rom. 6. Ovid. l. e. .579-81, e taciuta dagli altri. Il qual  silenzio dimostra, se non più, che il nesso tra quell'al-  tare e YAra maxima non era nel mito etiologico essen-  ziale, e forse anche che v'era entrato tardi. Onde non è  improbabile che il motivo ne vada cercato nella topo-  grafia: giacché secondo Dion. l. e. l'altare lovi inventori  è naqà tfj TQiòifiq) IIvÀrj ov'è un altro tempio d'Ercole  (Cfr. Gilbert Gesch. u. Topogr. d. St. Rom. II 158). —  Ma ha certo ragione il Peter quando ritiene tarda in-  venzione il voto di Ercole per cui presso Solino I 7 l'eroe  erige l'ara a Giove (o. e. 2286, 32 sgg).   Or se la discordia delle fonti giustifica l'ipotesi che  il secondo strato leggendario si sia arricchito parzialmente  per più tarde aggiunte, la medesima discordia conferma  l'asserzione del De Sanctis (nonché del Bormaim) in-  torno ad Evandro. Di fatti la presenza di lui, — che è  essenziale nei racconti di Strab. V 2 30, Veeg. l. e, Lrvio  1. e, Dion. l. e, Ovid. l. e, Solino I 10, Serv. En. VIII  268-9 (= Myth. Vat. I 69 [II 153] III 13, 7) e nello scritto  Origo geni. rom. 7, e manca solo in Propeez. l. e. non si  sa bene perché (v. sopra § III), — è però narrata in fogge  diverse. Mentre p. e. Livio e Dionisio attribuiscono a lui  la instituzione dell'Ara Massima, in Vergilio in Ovidio  in Solino Evandro non è che uno, e sia pur il principale,  fra gli spettatori del primo sacrifizio : e secondo Servio  egli è da prima ostile ad Ercole. D'altra parte la istitu-  zione medesima dell'Ara è attribuita a un vaticinio ora  di Nicostrato (Strab. e Solin.) ora di Carmenta (Liv. e  Ovid.) ora di Temide (Dion.) ora dell'oracolo Delfico     412 III. - l'abigeato di caco   (Myth. Vat.). Ma Carmenta partecipa al mito sol perché  la Porta Carmentalis (a sud-ovest del Campidoglio) è a  nord del Foro Boario ov'è l'Ara Massima. E Nicostrato  e Temide son sue variazioni di sapore greco. E pari-  menti è chiaro che il vaticinio di lei è un accessorio  della leggenda, parallelo bensì a quel di Evandro, però  con una base topografica non pseudo-etimologica. En-  trambi poi vennero fusi col far Carmenta madre di  Evandro. — Se non che tutto cotesto processo semieru-  dito e semifantastico traspare ancora nelle fonti dell'età  Augustea, — in quelle medesime ove non è più incerta  la localizzazione della saga nel Foro boario ed è soli-  damente fissata la figura greca di Eracle-Ereole: e se ne  deve pertanto dedurre che Evandro è rispetto a questo  di gran lunga più tardo. — Rappresenta dunque il terzo  strato leggendario, fuso con quel di Carmenta; e a cui  un'aggiunta è introdotta col far da lui annimziare la ve-  nuta di Ercole a Fauno (Cfr. De Sanctis o. c. 192 su  Fauno ed Evandro, e Origo geni. rom. 7).   Di qui s'iniziò poi una mitografia del tutto secondaria  la quale combattente contro Ercole o introduce Fauno  in luogo di Caco (se non parallelamente a questo) (Der-  CYLUS Italica fr. 6 appr. Mullee IV 387); o di Fauno il  figlio, Latino (Conone Narr. 3 appr. Fozio Bibl. cod. 186;  cfr. anche Schweglee Rom. Gesch. I 374).   In breve, il complesso etiologico inseritosi nel mito è,  a prescinder da tarde superfetazioni, sceverabile in tre  strati: Caco, con le scalae e la caverna (Palatino-Aven-  tino) ; Ercole, con l'Ara Massima ; Evandro, con taluni  episodii mal fissati e fluttuanti. Anche su queste etiologie,  come sul mito vero e proprio, si esercitò il razionalismo  degli eruditi.   VI. Gli eruditi. — Il riscontro degli errori in cui     GLI ERUDITI 413     cade la dimostrazione del Munzer su Caco è offerto dal  suo cap. VI " die antike Forschung ,. Egli si trova di  fatti costretto, dinanzi a due testimonianze che la nostra  tesi spiega traendone a sua volta conforto, a dichiararsi  incapace di chiarirle. Nell'Interpol, di Seev. En. Vili 203  (" Sane de Caco interempto ab Hercule tam Graeci quam  Romani consentiunt : solus Verrius Flaccus dicit Garanum  fuisse, pastorem magnarum virium, qui Cacum adflixit,  omnes autem magnarum virium apud veteres Hercules  dictos ,) e nello scritto (1) Or. gen. rom. 6, 1 (e 2. 3. 5.  7; 8, l=sei volte) (" Recaranus quidam, Graecae ori-  ginis, ingentis corporis et magnarum virium pastor, qui  erat fortuna et virtute ceteris antecellens, Hercules appel-  latus ,) ritoma sotto due forme diverse un nome diffe-  rente da quel di Ercole, nella lotta contro Caco: Garanus  e Recaranus. Qual delle due forme sia da preferirsi è  incerto (con Mukzee 104 contro Peter o. c. 2272, 60 sgg.,  Pais 0. e. 200 n., Winter 205, Bohm in Pault-Wissowa  " R. E.^ „ VII 752). Ma non è incerta, a noi pare, la in-  terpretazione di esse. Sappiamo che il mito di Caco è  antichissimo, che Eracle non divenne Ercole se non più  tardi, che per tanto una figura indigena, latina o italica,  lo deve aver preceduto. Troviamo ora un nome sotto  due forme, che sembra prettamente italico ; troviamo che  gli eruditi si son sforzati di conciliar esso nome (e non  potevan quindi senz'altro eliminarlo) con quel di Ercole  per mezzo dell'asserzione " omnes magnarum virium Her-  cules dictos ,. Riteniamo per conseguenza legittimo at-  tribuire tale nome appunto al personaggio italico il cui     (1) Cfr. H. Peter Die Schrift * Origo gentis romanae „  in " Berichte der K. Sàchsischen Gesell. d. Wiss. zu  Leipzig , Phil.-hist. Kl. LXIV (1912) 71 sgg.     414 III. - l'abigeato di caco   preesistere ad Eracle era a priori pensato. Quando in  vece il Mùnzer (p. 95) deve asserire, giusta la sua tesi,  che un cotal Garano (Recarano) è invenzione di eruditi  (i quali dunque avrebber voluto, essendo Caco un pastore,  dargli avversario un semplice pastore non un eroe fa-  moso) contraddice in parte sé stesso perché, se Caco è  originariamente un pastore, un uomo anzi che un dio,  sin dall'origine non doveva essere un dicevole avversario  di Ercole; e non riesce poi a interpretare il nome Ga-  rano (Recarano) né a dire donde Verrio l'abbia ricavato.  Là dove per noi l'oscuro nome è conferma della natura  del vetusto iddio. Né giova, per questo secondo rispetto,  l'ipotesi dello Schott (che il Pais St. crii. d. R. I 1, 200 n.  e il WiNTER 205 accettano), Garano e Recarano esser  " due forme errate di Karanos l'eroe argivo eraclide,  fondatore della stirpe dei re Macedoni „. Nulla di fatti  può esser addotto a conferma di tale ipotesi, che non  ha per sé se non un'approssimativa simiglianza formale  dei nomi, e ha bisogno a sua volta d'esser spiegata,  giacché sembra assai strana cotesta scelta degli eruditi  latini. Il supporre, in fine, col Mììnzee 95 che Garanus sia  un obliterato epiteto di Ercole è pericoloso per la tesi  di lui : giacché in quel caso diventa di nuovo probabile  che l'epiteto obliteratosi non sia se non il nome stesso  della divinità soppiantata da esso Ercole. In breve l'osta-  colo non si supera bene se non da chi, come noi, abbia  preso le mosse dal mito indiano e creda all'antichissimo  mito latino.   Altra testimonianza che il M. non spiega è quella su  Caca (p. 98-102). Servio En. Vili 190 (= Myth. Vai. [II 153]  III 13, 1) parla d'una sorella di Caco, — Caca, — la  quale lo avrebbe denunziato : ed ivi pure è data notizia  di un " sacellum Cacao ,, e si aggiunge " in quo ei —  per virgines sacrificabatur {cod. Reginensis); — per vir-     GLI ERUDITI 415     gines Vestae sacrificabatur {codd. rei.); — pervigili igne  sicut Vestae sacriflcabatur {cod. Floriacensis) „. L'ultima  lettura è la preferita; la prima sceglie il M. (p. 101).  Ch'egli abbia torto dimostra la seconda: la quale nella  sua concisa oscurità e nella confusione che contiene, è  pili tosto il risultato d'un'amputazione dell'ultima che un  ampliamento della prima. Comunque, lo stesso M. deve  ridursi ad ammettere (pag. 102) l'esistenza del sacellum  a una dea Caca (1). Col che ha già ammesso troppo contro  la sua tesi : perché una dea di quel nome è il riscontro  pili magnifico che si potesse sperare a un supposto dio  Caco. Se poi si aggiunge che all'una si sacrificava " sicut  Vestae , e l'altro emetteva fiamme dalla bocca, la dedu-  zione non può esser che una. — Verissimo tuttavia che  lo spionaggio attribuito a Caca in Servio non le è da  imputare, come quello ch'è una erudita invenzione poco  felice in contrasto con tutto il mito. Che Caca sia poi il  travestimento di queir " una boum , che appresso Ver-  gilio rivela il furto né meno il M. osa sostenere (p. 100).  — E se il " sacellum Cacae „ sia per il M. (p. 102)  oscuro al pari dell' " atrium Caci , e se entrambi oscuri  non sono per la nostra tesi, par che non vi sia più molto  a discuter su gli argomenti dell'una e dell'altra parte.  Due composizioni erudite meritano di esser qui ravvi-  cinate, l'una più compiuta che l'altra. Servio En. Vili  190 si esprime : * Cacus secundum fabulam Vulcani filius  fuit, ore ignem ac fumum vomens, qui vicina omnia  populabatur. veritas tamen secundum philologos et hi-  storicos hoc habet, hunc fuisse Euandri nequissimum  servum ac furem; — ignem autem dictus est vomere,     (1) Cfr. su Caca, G. Giannelli II sacerdozio delle vestali  romane (Firenze 1913) pag. 23. 33.     416 III. - l'abigeato di caco   quod agros igne populabatur; — novimus autem malum  a Graecis kuhóv dici : quem ita ilio tempore Arcades ap-  pellabant. postea translato accentu Cacus dictua est ut  'EÀévi] Helena „. (Cfr. Myth. Vat. I 66 [li 153] III 13, 1).  Poi a En. Vili 269 si danno le notizie sull'Ara Massima i  Potizii e i Pinarii ecc. in una forma non inconsueta, che  qui non c'interessa più (v. sopra § V). Il razionalismo si  è qui dunque limitato: a ridurre a uomo il dio, a spiegar  il fuoco che il poeta gli fa emettere, a interpretar il  nome.   Molto più si permette il racconto che si trova in Origo  gen. rom. (6, 1): " Recaranus quidam, Graecae originis,  ingentis corporis et magnarum virium pastor, qui erat  forma et virtute ceteris antecellens, Hercules appellatus „;   — (6, 2) " Cacus Euandri servus, nequitiae versutus et  praeter caetera furacissimus „ : — tali i due avversarii.  Caco ruba a Recarano i buoi e questi dopo vana ricerca  è per partirsi quando (6, 4) " Enander, excellentissimae  iustitiae vir, postquam rem uti acta erat comperit, servum  noxae dedit bovesque restitui fecit ,. Allora Recarano  dedica " inventori patri ^ un altare e lo chiama Ara  Massima e vi sacrifica la decima parte dei proprii buoi.  Carmenta, invitata, si rifiuta di parteciparvi e le donne  son perciò per sempre escluse dai sacrifizii in quel luogo.   — Cotesto racconto è di gran lunga più finito e parti-  colareggiato di quel ch'è in Servio. L'interpretazione ra-  zionale qui si estende fin là, dove il primo non si dilungava  da Vergilio. L'antico nome Recarano (Garano) l'autore con-  cilia col più noto di Ercole, Ercole mutando in soprannome.  Inoltre, poiché non può giustificar l'intervento d'Evandro  come p. e. Livio, né valersi di vaticinio alcuno ; poiché  d'altra parte il giuoco etimologico ha fatto %aKÓs servo  di EijavÒQos: omette il duello tra Recarano e Caco, ch'era  ricchissimo di particolari mitici (fuoco fumo clava ecc.),     GLI ERUDITI 417     e attribuisce ad Evandro la scoperta del furto, — senza  dircene il modo, nel testo pervenuto almeno, che non  si esclude in un testo piii ampio il muggito indiziale po-  tesse ritornare. E di Carmenta in fine tralascia la pro-  fezia; ma si vale di essa per un mito etiologico. Allo  stesso modo, non potendo l'Ara massima venir instituita  da Ercole ch'è qui soppresso, viene a ragion veduta con-  fusa con l'ara lovi inventori, e la gratitudine basta a  spiegarla.   Tra Servio e il racconto della Origo v'è simiglianza pro-  fonda in taluni punti: cfr. la figura di Caco; dissimi-  glianza in altri. Di questa si comprende il valore com-  parando la sicurezza con cui ixqW Origo si assevera che  Ercole non è se non il soprannome di Recarano, alla  prudenza con cui l'Interp. di Servio {En. Vili 203) oltre i  concordi racconti su Caco nota la tesi di Verrio Fiacco su  l'identità Garano = Ercole. Ciò mostra che Servio ha pre-  sente con altre la fonte medesima àoìVOrigo; ma se ne  vale solo saltuariamente rispettando molto pili il rac-  conto di Vergilio che commenta. Qual fosse poi la fonte  di cui, in vario modo, approfittano e Servio e l'autore  àeWOrigo, è detto quivi al cap. 7, 1 : " haec Cassius  libro primo „. Ossia quasi certamente L. Cassio Emina.  Il Mùnzer (p. 107) a tal proposito suppone che a Cassio  venisse attribuito tutto il racconto per esagerazione, —  in luogo di un solo passo. Di Cassio però abbiamo (Peter  fr. 4) un frammento su Evandro e Fauno. Egli trattò ve-  risimilmente tutta la saga di Evandro e quella di Caco.  Non v'è dunque ragione per negare che nella tradizione  erudita si serbassero (anche e specie mediatamente) di  lui estratti a bastanza ampii intorno a quel mito. Del  resto, se anche un solo suo passo poteva addirsi al rac-  conto dell'Orlerò, si può sostenere che in lui era al mena  assai simile la razionalizzazione del duello fra Ercole e   A. Ferrabino, Kalypso. 27     418 III. - l'abigeato di caco   Caco. Ma poiché questa appare neWOrigo organica e ar-  monica in tutti i particolari, è difficile negare che, cosi  definita, non si trovasse già anche in Cassio. (Contro M.  p. 111).   Di natura opposta alle due testimonianze erudite che  furon or ora discusse sono i racconti di Dion. I 41-2 e  di Cn. Gellio appr. Solino 18 = Peter fr. 7*. Difatti là  dove in quelle la lotta pur umanandosi resta limitata a  due soli personaggi; in queste in vece si allarga ad eser-  citi. Ma se Dion. non ofi"re grandi difficoltà, quando si  conoscano le fiabe degli eruditi latini su gli Arcadi di  Evandro e gli Aborigeni di Fauno (De Sanctis St. d.  Bom. I 173); per contro Gellio è oscurissimo, " hic  [= Cacus], ut Gellius tradidit, cum a Tarchone Tyrrheno,  ad quem legatus venerat missu Marsj'ae regis, socio Me-  gale Phryge, custodiae foret datus, frustratus vincula et  unde venerat redux, praesidiis amplioribus occupato circa  Vulturnum et Campaniam regno... oppressus est. Megalen  Sabini receperunt, disciplinam augurandi ab eo docti „.  — Il carattere che sùbito appare più evidente in tal rac-  conto è il travestimento erudito razionalista; cosi che, se  esso anche avesse a contenere forme ignorate del mito,  le conterrebbe certo sotto un velame. Inoltre vi son  tracce palesi di contaminazione : gli Etruschi difatti, i  Marsi, i Sabini, i Campani sono compresi in queste poche  righe, ed è difficile che una schietta e unica leggenda  originaria accosti per tal modo tanti popoli. — Ora fin  che Gellio fa combattere Ercole contro un Caco insediato  sul Volturno più tosto che contro uno sul Palatino, pos-  siamo intendere ch'egli preferisse foggiarsi il mito a ima-  gine della reale storia e si valesse a ciò p. e. della prima  Sannitica inventandone un precedente; che non si scoste-  rebbe in questo metodo gran che dalla fonte di Dionisio  la quale di Caco crea un antecessore di Fauno ed Evandro.     «LI ERUDITI 419     E non è rigorosa l'ipotesi che costretto egli vi fosse da  un mito cumano o campano (il passo di Festo p. 266 b  26 sgg. s. V. Romam è di lettura troppo mal sicura e  nulla se ne trae). Cosi quando ricorda Megale Frigio e  i Sabini, si ricava dalla " disciplina augurandi , trattarsi  d'una secondaria e piccola leggenda etiologica o etimo-  logica che qui viene inserita per ignoti motivi. Quando  in vece è introdotto l'eponimo di Tarquinii (Tarchone)  che avrebbe usato violenza contro Caco non si sa per  qual modo, sembra tutt'altro che improbabile, vi sia qui  un'elaborazione di quella leggenda istessa la quale è ri-  tratta, sotto forma mutata, in alcuni specchi etruschi  [KòETE Etruskische Spiegel V tav. 127, Rilievi delle tirne  etnische II 2.54 sgg. ; Petersen * Jahr. D. Instituts „  XIV (1899) 43 sgg.; De Sanctis " Elio , lì (1902) 104;  MuNZER 0. e. 113 e " Rhein. Mus. , LUI (1898) 598 sgg.]  e il cui nucleo dovrebbe consistere nell'assalto proditorio  contro un Caco dal benigno aspetto. Ond'è che difficilis-  simo resta, nell'attuali condizioni della scienza, decidere  se anche per i Marsi si debba attribuire la loro pre-  senza al desiderio di foggiar il mito su lo schema della  storia, come ci parve probabile per i Campani; o alla  contaminazione d'una terza leggenda con la latina e  l'etrusca.   Riassumendo adunque, Cassio Emina e Cn. Gelilo rap-  presentano bensì un unico atteggiamento di fronte alla  leggenda di Caco, come vuole il Mùnzer, ma ciascuno ne  esprime una forma diversa. Il primo si serba vicino alla  poesia molto piii che il secondo. Quello par travestire  la fiaba che sarà poi seguita da Vergilio. Questo, il rac-  conto che narrerà Livio. Per ciò Dionisio dopo aver  esposto il mito assai similmente a Livio, dà il suo àAri-  ^éazeQos Myog come un'interpretazione del fiv&ty.óg =  liviano: dà, in somma, il racconto razionale dell'anna-     420 m. - l'abigeato di caco   lista pili tardo come ermeneutica del racconto " favo-  loso „ dell'annalista più antico. Allo stesso modo che  Servio appone la forma cassiana del mito per esegesi al  testo vergiliano, desunto da Ennio.   VII. Conchiusione. — Tra le due teorie che (cóme  vedemmo in principio) si combattono intorno a Caco, è  da preferire quella che crede ad un antico mito latino»  in quanto tien maggior conto di tutte le testimonianze  ed è meglio in grado di spiegarle tutte insieme e coe-  rentemente. La evoluzione letteraria poi del mito, con-  tradicendo il Mùnzer e compiendo il breve disegno del  De Sanctis, va tratteggiata cosi: dopo che in tre strati  (intorno a Caco prima, poi ad Ercole, poi ad Evandro)  si è contesta la leggenda, la parte sostanziale di essa è  elaborata con diversità di tono da un poeta (Ennio) e da un  annalista; l'una e l'altra forma vengono, nell'età succes-  cessiva, razionalizzate in Cassio Emina e Cn, Gellio. L'età  augustea riproduce (con i poeti e Livio da un lato, Dio-  nisio e Verrio Fiacco dall'altro) tutt'e quattro queste ma-  nifestazioni.     CAPITOLO IV.  Cirene mitica (1).     I. Bibliografìa e metodo. — Il complesso dei miti  raccolti attorno alla figura di Cirene fu studiato già da  J. P. Theige Res Cyrenensium etc. (Bafniae 1828) che rac-  colse i materiali e, in comparazion dei tempi, seppe va-  gliarli. Ha trovato poi trattazione minuta ed accurata  per opera di Fbanz Studniczka Kyrene, eine altgriechische  Gottin (Leipzig 1890), che la stessa materia rielaborò  in RoscHER Lexicon III, 1717 sgg. ; e di Lddolp Malten  Kyrene, sagengeschichtliche und historisehe Untersuchungen  in " Philologische Untersuchungen , del Kiessling e Wi-  lamowitz XX (1911) ove è tenuto conto anche delle ipo-  tesi brevemente enunciate da A. Geecke in " Hermes .     (1) Nella sostanza identico e sol nella forma diverso  si vegga questo capitolo negli " Atti della R. Accademia  delle Scienze di Torino , XLVII 17 marzo 1912. Qui ap-  pare con un'ampiezza più dicevole, che lo spazio ora  consente.     422 IV. - CIRENE MITICA   XLI (1906) 447-459. Dopo i quali non si vuol citare che  lo scritto di Vincenzo Costanzi Tradizioni Cirenaiche in  " Ausonia , VII (1911) 27-38 (1). Indipendentemente il  Costanzi ed io abbiamo nel medesimo tempo assunto una  stessa attitudine di fronte ai miti cirenaici, la quale si  contrappone in modo reciso a quella dei nostri prede-  cessori. A prescindere di fatti dalle particolari discre-  panze che ci dividono, noi siamo concordi nel non " voler  cercare un significato recondito nei miti , (Costanzi 32)  0, com'io mi espressi (* Atti „ p. 505 n. 1), nel non volervi  cercare * la chiave delle più antiche vicende greche „ in  Tara e in Libia. Là dove in vero lo Studniczka {Eyrene  45 sgg.) negava di poter spiegare la leggenda di Cirene  senz'ammettere una vetustissima colonizzazione tessalo-  beota in Tera; e il Malten (cfr. spec. p. 209-10) pure  stimava necessaria l'ipotesi che, prima dei Dori, la Libia  fosse stata abitata da un popolo misto tessalico e pelo-  pico direttamente venuto dal Tenaro recando e figure  divine e fogge linguistiche; mi assumo in vece di pro-  vare come le vicende storiche, ben note nell'insieme, tra  cui sorse e visse la Pentapoli cirenaica, sieno sufficienti  a spiegar del mito non pure Toriginarsi si anche, di stadio  in stadio, l'evolversi. Determinato cosi il mio antitetico  punto di veduta, passo ai particolari.   II. La ninfa Cirene. — Dopo che il Malten (spec.  62 sgg.) ebbe dimostrato contro lo Studniczka la natura  libica di Cirene e la vera origine del nome e del suo  essere mitico non avrei che da richiamarmi a lui su  questo punto, se non dovessi rispondere alle obiezioni a  me mosse, avverso tale tesi, privatamente da 0. Geuppe (2).     (1) Cfr. inoltre sotto a p. 448.   (2) Egli, nel permettermi di pubblicare questa sua let-     LA NINFA CIRENE 423     ■* Ich glaube nicht, dass Kyrene nach der libyschen  Lokalbezeichnung einer Quelle (Kyra) genannt und erst  nachtràglich mit Aristaios in Verbindung gesetzt ist...   " Die Kyrene von Abdera und Maroneia ist zwar, wie   " dies bei der Aehnlichkeit der Namen natùrlich ist,  friih mit der Pyrene von Kreston verwechselt worden,   " war aber gewiss ursprùnglich von ihr verschieden, und  es ist zum mindesten unstatthaft, ftìr Kyrene, die Mutter  des Diomedes bei Apollodor, Pyrene einzusetzen. Es   " kommt hinzu, dass eben hier, auf dem benachbarten  Ismaros, auch von Orpheus, Eurydike und Aristaios die  Rede ist, und von dieser Kùste stammt der im Schiffs-  katalog erwàhnte Kikonenkonig Euphemos, der Sohn   " des Troizenos. Nicht weniger als vier Namen der ky-  renaischen Sage, Kyrene Aristaios Euphemos und Dio-  medes, kehren auf ganz engem Raum an der thraki-  schen Kùste wieder. Dass die Verbindung dort eine   " ganz andere ist, beweist gerade dass wir es hier mit  einer sehr alten, den bekannten Epen vorausliegenden  Ueberlieferung zu tun haben „ (Cfr. Malten 63-65. 65   n. 1; Studniczka 134 sgg.). " Aber nicht genug damit.   " Auch in Kroton ist ein^ Kyrene (als Mutter des Laki-   " n[i]os) bezeugt, und dass auch hier Aristaios nicht fehlte  ist aus demPersonennamen des krotoniaten Aristaios (1)   " mit Wahrscheinlichkeit zu schliessen. Diomedes ist   " fùr Kroton bisher, so viel mir bekannt, nicht bezeugt,     tera, esprimeva il dubbio che le sue argomentazioni non  potessero riuscire efficaci a bastanza, per la brevità con  cui ebbe ad esprimermele. Del che ogni lettore intelli-  gente gli terrà, credo, il dovuto conto. Quanto a noi,  manifestiamo l'augurio che l'illustre e dotto studioso  sostenga presto in pubblico con tutta i'ampiezza la propria   (1) Jambl. vii. Pijth. 36 S. 265 (N. d. Gr.).     424 IV, - CIRENE MITICA   " aber doch fùr das benachbarte Thurioi. Aus alledem  " glaube ich entnehmen zu durfen: 1) dass Kyrana und  seine Kurzform Kyra griechischen, nicht libyschen, Ur-  " spruDgs sind, also die Quelle nach der Gòttin heisst oder  " der Quellnamen selbst — aus dem dann, aber wohl  " schon im griechischen Mutterland, eine Gottin oder   * Heroine geschopft sein mùsete — von Griechen tìber-   * tragen wurde ; 2) dass die vier Namen Euphemos, Ari-  " staios, Kyrene und Diomedes in einer ausserordent-  " lich alten Sagenùberlieferung zusammenstanden. Aus  " Grùnden, die ich nicht in der Kurze ent-  " wickeln kann(l), bin ich ùberzeugt, dass die Verknùp-  " fung dieser vier Namen in Troizen erfolgte, das im  " VlII.Jahrh. einbedeutendesKolonialreichbesessenhaben  " muss. Troizenische Kolonisten werden Diomedes Kyrene  " und Aristaios nach Sybaris mitgenommen haben, von  " wo jener nach Thurioi, diese nach Kroton ubernommen  " wurden. Dass Troizenier einst auch in Kyrene sassen,  " will ich nicht behaupten obwohl ich es  "glaube; aber dass diese Bruchstiicke troizenischer  " Sagen den àltesten Bestand der Ueberlieferung von  " Kyrene bilden, balte ich fiif gesichert. ,   Ora, per dimostrare in modo esauriente che da Tre-  zene il complesso mitico di Cirene Aristeo Diomede ed  Eufemo s'irradiò da vero in Tracia, a Crotone, in Libia;  bisogna provare: 1° l'esistenza di questo quadrinomio  a Trezene; 2" il ritorno costante di esso nei luoghi ras-  segnati or ora, e il ritorno non dubbio, scevro da pos-  sibili equivoci; 3° l'insistente ripetersi, nelle forme e nei  luoghi diversi, del perno o nucleo originario, ove il suo  alterarsi non sia ben motivato.     (1) Il carattere spaziato è introdotto solo nella trascri-  zione.     LA NINFA CIRENE 425     1° Sul primo punto il Gruppe si scusa di non insi-  stere " in der Kiirze „ : sorvoleremo noi pure.   2" A Crotone si sarebbero potute raccogliere tracce  di due al meno fra le quattro figure la cui presenza è  riscontrata in Cirenaica; Ariste© e Cirene. Tuttavia farò  sùbito notare quanto sia debole il fondamento su cui si *  basa la supposta esistenza mitica di Aristeo in Crotone:  il nome di un nume notissimo e diffusissimo dato a una  persona non prova assolutamente nulla intorno al culto  locale del nume. Inoltre è ben dubbio se sia veramente  da mantenere la forma Cirene per la madre di La-  cinio, non sia da correggersi in Pirene (Maltes 66;  cfr. Serv. a Verg. Eneid. Ili 552j. Localizzata di fatti  Eritia in Spagna e prese a narrare le lotte di Ercole,  reduce in Grecia, traverso la Campania (De Sanctis Storia  dei Romani I 192-3), non è improbabile che a Crotone  si riprendesse il mito di Eracle contrastante con i figli  di Pirene, solo al nome d'uno fra questi sostituendo l'epo-  nimo del Lacinium promontorium li presso. — Ma se mal  sicure son le tracce di Aristeo e di Cirene in Crotone,  altr' e tanto incerte son quelle che il Gruppe ne riscontra  in Tracia. Si sa che nel testo di Apollodoro il Malten 65  corregge il nome della madre di Diomede da Kvqi^vij in  IIvQr^vrj. Per il Gr. l'equivoco consisterebbe in vece nel-  l'essersi permutato Cirene in Pirene. E poiché pare molto  improbabile che in paesi limitrofi sussistessero due tra-  dizioni diverse, di cui l'una a Crestone facesse moglie di  Ares Pirene con i figli Cieno e Licaone, l'altra in Abdera  e Maronia facesse moglie di Ares Cirene col figlio Diomede;  credo d'interpretar bene il Gruppe attribuendogli la sup-  posizione che, corrottosi Cirene in Pirene, ne derivasse  il nesso con Ares con Cicno e con Licaone. Ma né questa  ipotesi è semplice, perché presuppone un originario nesso  " Cirene-Diomede ,, una corruzione * Pirene-Diomede ,, un     426 IV. - CIRENE MITICA   ampliamento * Ares-Pirene-Diomede-Cicno-Licaone „; né  è in alcun modo giustificata, perché, all'infuori di Apol-  lodoro nessuna fonte accennando a Cirene in Tracia,  nulla ci costringe a supporvela necessariamente ricor-  rendo persino a contorte vicende. Più semplice e giusti-  ficata la supposizione del Malten : in territorio predomi-  nato da Pirene un'unica traccia di Cirene deve attribuirsi  a testo corrotto, non ad altro. Del pari Aristeo in Ma-  ronia è troppo evidentemente introdotto da Chio per  opera de' Chii che la colonizzarono (Malten 80); troppo  vi è congiunto con Dioniso; perché non si debba rite-  nere ch'egli non fu importato insieme con Diomede e la  supposta Cirene, da cui invece rimane colà al tutto indi-  pendente. In fine si resta molto perplessi su le profonde  difi'erenze fra il tracio Eufemo re dei Cleoni (B 486-7),  e il beota Eufemo figlio di Posidone, o il tenario figlio  del Fai^oxog. — Or come né in Crotone né in Tracia Ci-  rene e Aristeo son di sicura esistenza, cosi si può fon-  datamente asserire che in Libia Diomede non ha radici  profonde: su quelle coste di fatti naufraga bensì, a si-  miglianza di Euripilo di Protoo di Guneo tessalici e a  simiglianza degli Argonauti (v. sotto § VII); ma sol tanto  perché quelle coste sono, nella tradizione poetica dei  vóaioi, il luogo tipico delle fortune di mare: in Argo  quindi, sua patria e sede della sua pili elaborata leg-  genda, è probabile fosse foggiato anche quel particolare.  — In breve, Aristeo e Cirene son dubbii in Crotone, dubbii  in Tracia; in Tracia l'Eufemo non è con certezza iden-  tico all'avo dei Battiadi ; in Libia Diomede non esiste.  3" Per di più, oltre ad essere incerta la presenza  di tutt'e quattro i numi in Crotone in Tracia in Libia,  non si capisce, — se, come vuole il Grappe, tra quelli  lin nesso s'era stabilito prima in Trezene e diffuso poi  altrove, — perché a Crotone il perno del mito sia il     APOLLO CARNEO 427     nesso dell'ipotetica Cirene con Lacinio, in Tracia la linea  fondamentale della leggenda sia la discendenza di Dio-  mede da Cirene, mentre in Libia il nucleo è costituito  dalla commessione * Cirene-Aristeo „. E né pure si ca-  pisce perché in Tracia resti indipendente, come forse a  Crotone, Aristeo che in Cirenaica è figura essenziale; e  per converso qui si scemi quasi al tutto la persona di  Diomede, la quale là campeggia. Tutta la fisonomia della  leggenda si distrugge e si trasforma: — senza causa  evidente.   Non posso dunque finora accettare la teoria del Gruppe ;  e resto fermo, per Cirene, alla dimostrazione del Malten.  Passiamo adesso a studiare la seconda figura fondamen-  tale del mito.   III. Apollo Carneo. — Non cade dubbio che Apollo  e Carneo fossero in origine distinti numi (cfr. gli artt. di  Wide e Hofeb in Roscheb Lex. II 1, 961 sgg.). Ma per  il mito di Cirene è di somma importanza il determinare  se la fusione tra di essi fosse avvenuta già in Tara prima  che il VII sec. a. C. finisse, o vero si compiesse soltanto  in Cirenaica (cfr. Malten 61 sgg.).   Ora tenendo conto dell'esser il culto di 'AnóÀXoìv  Kdgvecog diffusissimo non pure fra i Dori ma anche fuor  del Peloponneso {scoi. Teocr. V 83: Tavzriv t{]v éoQvriv...  ol fievocy.i^aavTeg ex nsÀonovvfjaov elg ézé^ag nóXsig  ...èneTÉÀovv : e cfr. gli articc. citt., quello spec. del Hofer),  due ipotesi sono possibili : o che in tutti quei luoghi ove  il culto appare di sufficiente antichità la figura di Apollo,  separatamente, sorvenisse ad assimilare a sé Carneo; o  pure che l'assimilazione fosse vetustissima e si propa-  gasse dal centro originario nelle altre sedi del culto. E  questa ipotesi com'è più verisimile e più semplice cosi  ritengo preferibile all'altra.     428 IV. - CIRENE MITICA   Né offre difficoltà nello special caso di Tera e Cirene,  giacché l'iscrizione di Aglotele (Hilleb v. Gaektringen  Thera III 69) accertando pel VI sec. a. C. il culto teraico  di * Apollo-Carneo „, non è imprudente o arbitrario il  supporlo già sussistente nella seconda metà del sec. an-  teriore. Né a tale ipotesi è contrario il Malten 60; il  il quale scrive : * Gewiss ist die Verbindung ' Apollon-  Kameios ' nicht zum erstenmal um Kyrenes willen oder  erst in der Eoe vorgenommen worden; sie ist alter und  hat sich auf griechischem Boden weit verbreitet „. Se  non che egli non trae da ciò l'unica deduzione che è lo-  gicamente possibile.   Poiché — difatti — tutta Vlliade (prescindendo dai  pili meno antichi strati) dimostra il carattere premi-  nentemente delfico di Apollo; e poiché l'antichità del  santuario delfico e della sua preponderanza famosa è ben  riconosciuta dal Beloch Griech. Gesch.^ 1 1, 319 (cfr. II.  1 405) ; se si ammette che già in Tera Apollo preponde-  rasse su Carneo, si da mutar questo in suo epiteto; si  ammette a un tempo che i coloni dori pervenuti in Ci-  renaica avevano ormai alla loro principale divinità ricono-  sciuto un rilevante carattere delfico. E diviene pertanto  del tutto superflua la opinione che un tal carattere a  quella non venisse attribuito se non neWEea di Ch'ene.  La quale appar quindi non la causa del fondersi in-  sieme i caratteri di Apollo e quei di Carneo, ma un ef-  fetto di esso, cui tengon dietro in proceder di tempo e  per medesimo impulso Pindaro con le sue Pit. IV e IX,  Erodoto IV 158 e Callimaco ad Apollo.   Dove appaja la originalità della Eea ci verrà mostrato,  crediamo, dalla terza figura su cui è costituita la saga:  Aristeo.   IV. Aristeo. — Non è qui opportuno studiarne la dif-     AP.ISTKU 429   fusione: basteranno poche note. (Cfr. il materiale raccolto  dal Malten 77 sgg. e negli * Atti dell'Accad. di Torino „  citt., a p. 510 n. 1).   Il culto di Aristeo in Cirenaica è attestato da scoi.  Aristof. Cavalieri 894, Ititi. Anton. 72, 2, scoi. Pit. IV 4 (ràv  'A^iaraìov, 8v Tia^à KvQrjvaioig ó)g oIklotì^v óià Ttfi^g  dyead-at). Dinanzi a queste testimonianze tra due possi-  bilità si può scegliere : o Aristeo ha culto in Libia dopo  il suo congiungimento con Cirene (avvenuto in Grecia)  e a causa di esso; o pure perviene in Libia prima di  quella connessione e la determina. Tra le due possibili  ipotesi va scelta la seconda. Di fatti Aristeo ha una  vasta area di diffusione, nella quale sono comprese isole  dell'Egeo, — quali Ceo (1) Chic l'Eubea, — e l'Arcadia:  onde non è per nulla strano che o già in Tera qualche  strato della popolazione e qualche famiglia gli rendesse  culto, vero in Libia pervenisse con quei coloni che  nel principio del sec. VI, regnando Batto II, da l'isole e  dal Peloponneso si recarono ad accrescere il primitivo  manipolo di Dori. Contro la prima supposizione non si  può obiettare l'assenza di testimonianze da cui un culto  teraico di Aristeo sia provato: che troppo poco cono-  sciamo in proposito e molto in ogni caso, restando nei  più bassi strati, non emerse alla superficie storica. Contro  la seconda non fa ostacolo la cronologia; già che tra il  principio del VI sec. e il principio del V, cui risale la  Pitia IX di Pindaro resta spazio sufficiente per VEea di  Cirene. Nessuno stupore poi che in Libia Aristeo si com-  mettesse con Apollo (protettore della fonte) e con Ci-  rene (vincitrice del leone); a quel modo che nessuno     (1) Cfr. K. C. Stobck Die dltesten Sagen der Insel Keos  Diss. Giessen 1912, pag. 7 sgg.     430 IV. - CIBENE MITICA   stupore v'è, se in Tracia si connette con Dioniso e con  Zeus in Arcadia: cfr. Malten 77 sgg. (1). L'analogia è  sufficiente motivo.   Stimo in fine inutile discutere se Aristeo sia da vero  originario di Tessaglia. Basti che nel mito nostro egli  è tessalo per eccellenza: segno sicuro che doveva avere  un vivacissimo carattere tessalico allor quando del mito  venne a far parte. Né mi riesce di precisare il luogo  ove potesse connettersi con Gea e le Ore. Ma questi punti  riescono di minore rilievo a confronto con quelli che  riteniamo di aver assodati su la libica Cirene, il delfico  Apollo, e Aristeo : e l'averli assodati giova a ricostruire  nelle sue linee principali il componimento da cui quelle  tre figure vennero collegate in racconto: — l'Eea.   V. La ricostruzione dell'Eea di Cirene. — Con-  vengo col Malten 1 sgg. che le fonti cui dobbiamo at-  tingere più direttamente per la ricostruzione dell'^'ea  di Cirene sono : Pindaro Pit. IX, Esiodo t'r. 128 Rzach^,  Ferecide in scoi. Pit. IX 27, Seiivio a Veeg. Georg. I 14  = Esiodo fr. 129 Rz.', Apoll. Rodio II 500 sgg. : — cui  vengono aggiunti se bene per la loro sommarietà non sieno  di grande valore, Timeo appr. Diod. IV 81. 82, Nonno Pan.  Dionis. V 215 sgg. 292 XIII 300 XIX 225 XXIV 83 sgg.  XXV 180 sgg. XXVII 263 XXIX 179 sgg. XXXVII 198 sgg.  XLV 21 XLVI 238 (Malten 35 sgg.).   Quanto poi al modo di usar cotesti sussidii, mi sono  attenuto a due criterii fondamentali. Il primo è il piti     (1) Il Malten a p. 82 lascia in dubbio * ob der Gott...  schon in der kyrenàischen Lokalsage zum Sohne der  Kjrene v/urde „; ma a pag. 212, per amor della sua tesi,  asserisce quasi il contrario : " Hier [in Thessalien] erregte  sie [Kyrene] das Gefallen des Gottes... Ihr Sohn ward  Aristaios... ,.     LA RICOSTRUZIONE DKLl'eEA DI CIRENE 431   elementare : ritenni originario tutto che ritornasse co-  stantemente nelle diverse forme assunte dal mito e riflet-  tenti, in vario modo, l'Eea. Il secondo criterio è più com-  plesso. Fu dimostrato poc'anzi (§ III) che non può venir  attribuita all'Eea la mischianza de' caratteri proprii di  Apollo Delfico con quelli del Carneo. Altra è, chi ben  guardi, l'essenza di quel carme. Per esso, com'è noto,  Cirene, ninfa e cacciatrice libica, vien trasportata in Tes-  saglia av'era ben radicato il culto di Aristeo. Aristeo  dunque, non Apollo, dev'essere stato il motivo del tra-  sferimento da l'una all'altra regione, l'impulso a trasfor-  mare in tessala la dea libica. Ma se l'Eea, con lo spunto  del giovinetto iddio pastorale, atteggia per il mito cire-  naico uno sfondo tessalico, è legittimo ritenere, ed è  pure ovvio, che essa contenga più propriamente tutti  quei particolari i quali più propriamente sono con Aristeo  connessi. Di questo, nel fatto, meglio che della madre, è  il carme : e lo dimostra anche il rilievo che, com'è pro-  babile, vi aveva la sua ulteriore vicenda Cea e il rac-  conto sul figlio di lui Atteone (1). D'altra parte la figura  di Apollo troppo era di per sé notevole e preponderante  perché traverso essa e per sua causa non dovessero pene-  trare nella favola personaggi ed episodii a lei aderenti :  i quali per ciò è dicevole attribuire meglio che al canne  esiodeo alle sue più tarde propaggini.   Nei particolari i criterii esposti conducono a questi ri-  sultati; — 1. Cirene è figlia di Ipseo re dei Lapiti;  Ipseo è nato da Creusa (una Najade) e dal fiume Peneo:  cfr. Malten 8. Lo storico cirenaico Acesandeo {scoi. Pit.     (1) Cfr. sul mito di Atteone, che per l'economia del  nostro lavoro qui si omette, Malten 16 sgg. — Si vegga  inoltre, Castiglioni Atteone e Artemis nella miscellanea  di • Studi critici offerti a C. Pascal , (Catania 1913).     432 IV. - CIRENE MITICA   IX 27) fa discendere Ipseo da Filira, madre di Chirone.  Se non che questa variante è sospetta, come quella che  tende a giustificare con la parentela l'intervento di Chi-  rone nelle nozze tra Apollo e Cirene: intervento che  spiace a Pindaro pure e Apollonio tace: là dove il cen-  tauro nell'Eea ha parte solo perché già connesso con  Aristeo prima che questo con Cirene. — 2. Apollo scorge  la ninfa nell'atto di lottare con un leone, sul Pelio. La  lotta col leone è ricordata da Pino. Pit. IX 26, da Nonno  loc. cit.; non da Apoll. R. II 500 sgg.: questi l'introduce  nell'officio di pastorella. Il Malten 62 resta per ciò in-  certo su l'esistenza di essa lotta nell'Eea: mi risolvo pel  si. L'esame del racconto di Apollonio, che si fa più sopra  (v. p. 222), mostra come esso si allontani assai dall'ori-  ginaria forma del mito a causa dell'influsso del raziona-  lismo: al quale adunque si deve anche attribuire la sop-  pressione della belva e della lotta che troppo male  consentivano al paese tessalo. — 3. Chirone profèta le  nozze del dio e della fanciulla: cfr. Stddniczka 41. Col  quale ove si ammetta che Pindaro tenti invano di ribel-  larsi all'Eea su questo punto, ne consegue che Apollonio,  allor quando sopprime tutta la scena e induce il Cen-  tauro allevatore sol tanto di Aristeo, non compie se non  la prosecuzione di quel tentativo. Ciò è confermato dal  doppione che ne risulta : Aristeo di fatti sarebbe in Apol-  lonio allevato e da Chirone e dalle Muse: originarii es-  sendo, se non nel nome nell'essenza, questi dèmoni; in-  serto quello. — 4. Apollo trasporta la fanciulla in Libia  sul suo carro (Malten 8-9). — 5. Cirene è accolta da Libia.  Non v'è di fatti differenza sostanziale tra le xd'óviai  vifA,q>ai e la eiQVÀeifioìv nÓTvia Ai^vrj: cfr. Malten 11.  Mi parrebbe quindi sofisticheria l'insistere su la lieve  dissimiglianza. A ogni modo, se una forma fosse da pre-  ferire per antichità sceglierei Libia: giacché le xd-óviai.     LA KICOSTBUZIOXE PELL'eeA DI CIRFNE 433   vófifat sembrano ben proprie di un'epoca più tarda in  cui dal nome di Libia il concetto di persona, sostituito  pili fermamente da quel di regione, si è al tutto ritirato;  mentre se Libia era nella Eea si spiega meglio come  mai Pindaro fosse indotto a raddoppiarla con Afrodite  (v. 9). La quale all'Eea non apparteneva certo; e fu in-  trodotta a causa di quel KvQdvag yÀvy.vg nÙTiog 'AtpQo-  óczag, che era al nostro poeta ben conosciuto {Pit. V 24)  e a cui si può riportare un passo di Erodoto II 181 (cfr.  Malten 207); giacché non trascurabile culto a essa dea  si doveva rendere, se quando fu fondata Evesperide venne  presso il lago Tritonio a lei eretto un tempio (Steabone  XVII 836). — 6. Aristeo è riportato in Tessaglia da Apollo.  Cosi Apoll. R. II 509. Pindaro Pit. IX 59 attribuisce quel-  l'ufficio a Ermes: ma senza dubbio l'innovazione, a scopo  esornativo, è favorita dalle attinenze fra i due dèi : cfr.  l'omerico Inno a Ermes ed Esiodo fr. 153 Rz.^ = Anton.  LiBEB. XXIII. E se un'analogia giova, si ricordi che in  Euripide Ione 10 sgg. Ermes per ordine di Apollo reca  Ione, colatamente, in Delfi. — 7. Aristeo è allevato dalle  Ore e da Gea. Pare qui che il profilo primitivo meglio  si serbi in Pixd. Pit. IX 60 che in Apollon. II 507 sgg.:  però che tre sieno, principalmente, le varianti poetiche  dell'unico fondamentale concetto; l'una Cea che narra di  Bglaai (Aristot. fr. 511 Rose); l'altra pindarica che in-  troduce le Ore; la terza di Apollonio che ricorda le  Muse ; varianti delle quali la prima troppo strettamente  Cea disdirebbe alla general intonazione tessalica del  carme esiodeo, l'ultima traspare sùbito come un'altera-  zione dovuta alla figura di Apollo Musagete (basti ricor-  dare B. A 603); la mediana è pertanto preferibile. (Ciò  contro Malten 14). Da ultimo è forse da notare che  le Ninfe di Timeo presso Diod. IV 81 sono pili un tra-  scorso impreciso dell'autore che una vera e propria va-  A. Fersabi>-o, Kalypso. 28     484 IV. - CIBENE MITICA   riante. — 8. Aristeo ha i nomi di Nomio Agreo Opaone  ed è avvicinato a Zeus {Zevg 'Agiaiatos) e ad Apollo  (cfr. Malten 10 sgg.)-   Nel complesso adunque Pindaro pare, a mal grado  delle due intrusioni di Ermes e di Afrodite, pili vicino  all'Eea che Apollonio; questi più razionalista di quello.  Un confronto opportuno con l'Eea di Cirene (o di Ari-  steo) ci offre l'Eea di Coronide (oltre che quella di  Eufemo su cui v. a p. 440) : cfr. Malten 25. 61 che qui  si combatte. Sappiamo che Asclepio (figlio di Coronide)  è nume salutare di Tessaglia [cfr. M. G. Columba Le origini  tessaliche del culto di Asklepios in " Rassegna di Antichità  classica „ I (1897) 237 sgg. contro Kjellberg Asklepios,  mythologisch-archdologische Studien in " Sàrtr. u. Sprakv.  Sàllsk. forhandl. 1894-97 i Upsala Universitets Arsskrift,].  Apollo gli somiglia nell'aspetto di divinità salutare e sa-  natrice: cfr. Beloch Griech. Gesch} I 1, 156 e Wilamowitz  Isylìoi 93. E bene: prima si congiunge Apollo ad Asclepio;  poi A^jollo si trasporta in Tessaglia. A quel modo che,  secondo crediamo, prima si congiunge Cirene con Aristeo  e poi la si trasporta in Tessaglia.   Riassumendo dunque in breve i risultati di queste  ricerche (§ II- V), abbiamo: che Cirene è nome libio-greco  della ninfa che protegge e abita la fonte dedicata ad  Apollo Carneo; che Aristeo tessalo, pervenuto, durante  il diffondersi del suo culto, in Libia, si accosta a Cirene;  che questa è la causa per cui Cirene passa in Tessaglia ;  che su questi elementi si può ricostruire l'Eea di Cirene  ottenendo un'opera analoga per indirizzo all'Eea di Co-  ronide, tale quindi da potersi ricondurre al medesimo  centro di elaborazione mitopoetica.   VI. Euripilo ed Eufemo. — Le due principali figure  del racconto di Pindaro Pit. IV han dato occasione alle     EURIPILO ED EUFEMO 435   più diverse ipotesi: cfr. Studniczka 111 sgg, e Malten  95 sgg. Il farne oggetto di minuto esame gioverà a pre-  parare risultati atti a spiegare e ricostruire quel mito  cirenaico dei Battiadi che fa riscontro al mito della  ninfa Cirene.   1. Euripilo si rinviene: in Tessaglia, figlio di Eve-  mone B 736; in Cos, figlio di Posidone, B 677; in Misia,  figlio di Telefo e condottiero dei Cetei À 519; in Acaja,  Pads. vii 19. — Ora è probabile che l'Euripilo di Cos  si possa far risalire a quello di Tessaglia: cfr. Wilamo-  wiTz Isyllos 52 e " Hermes „ XLIV (1909) 474 sgg. Ma tutti  gli altri sono indipendenti. — L'Acaico viene bensì da  Pausania identificato con il Tessalico; ma è notevole che  altri già allora combattevano questa teoria: iy^aipav de  i]Srj Tivég od tip OeaaaÀtp av^i^dvza E-ÒQV7tvÀ(p xà siqri-  jtteVa, àXXà EdQVTcvÀov Ae§afievov Ttatda xov èv ^i2Àév(p  PaoiÀevaavTog éd'sÀovai afia 'HQay.Àeì aiQatevaavxa ég  "lÀiov TiaQÙ Tov 'HQw^Aéovs tìjv ÀÙQvay,a ntÀ. Eviden-  temente gli eruditi greci cercavan di precisare l'origine  dell'eroe Euripilo cui si rendeva culto in Acaja; ed era  ipotesi di taluno fra essi che egli fosse il medesimo Eu-  ripilo di Tessaglia. — Il re dei Cetei è dal Malten 118  ricondotto in Arcadia. Ammesso che Keteig possa ricon-  dursi in Arcadia e con lui Telefo; è arbitrario dedurne  senz'altro un Euripilo arcadico : perché questi potrebbe  esser stato connesso con quelli dopo il loro trasporto in  Misia; il che par dimostrare la nessuna traccia da lui  lasciata in Arcadia al contrario di Telefo (1) e Ceteo.  Sarebbe quindi da ritenere probabile l'esistenza indipen-  dente di un Euripilo in Misia. — Alla schiera adunque     (1) Cfr. IiiMEBWAHR Die Kulte und Mythen Arkadiens  I 257. 259.     436 IV. - CIKENB MITICA   di questi tre Euripili (in Tessaglia in Acaja in Misia)  viene ad aggiungersi l'Euripilo della Cirenaica. Contro  i tentativi di ridurre l'uno all'altro i quattro omo-  nimi G. De Sanctis m'insegna a ritener questi manife-  stazione, varia nel tempo e nei luoghi, d'una medesima  unica tendenza mitica; la quale ci è dall'etimologia fa-  cilmente chiarita, Euripilo essendo il dio dell' " ampia  porta „ infernale. Era ovvio che questo comune concetto,  questo, meglio, fantasma venisse volta a volta applicato  presso popoli di stirpe greca. In tal caso poiché egli  appare presso la Ài^vij Tgizoìvlg è legittimo credere che  impulso alla sua localizzazione libica desse la grotta del  Gioh [su cui MiNUTiLLi La Tripolitania (Torino 1912)  308 sgg.] che era ritenuta appunto apertura di Dite  (cfr. Strab, XIV 647 XVII 886; Tolemeo Geog. IV 4, 4, 8;  Plinio V 31).   In Cirenaica Euripilo è congiunto con altri numi da  uno schema genealogico che si ritrova presso Acesandbo  [scoi. Pind. Pit. IV 57) cfr. Malten 116 sgg.:   Atlante  I  PosiDONE ->- Celeno £lios   I I ^^^   Tritone Euripilo —- Sterope Pasifae  LicAONE Lbdcippo   Se non che questo schema ci appare sùbito una com-  binazione accorta di eruditi locali. Pasifae (Wide Lak.  Kul. 249), Tritone {Àìfiv^ TqitcovIs Strab. XVII 836 e  Pind. Pit. IV 20), L i e e o = Zeus Liceo (Eeod. IV 203, 2  eSTUDNiczKA 14 Sgg.) souo accertati in Libia da altre fonti:  elementi arcadici e cretesi la cui presenza non stupisce  (cfr. Maass " Hermes „ XXV 401-2 e Studniczka 126 sgg.).  A Liceo corrispondono, miticamente, Licaone « Lieo. Di  Lieo in altre fonti (Ellan. in Scoi. II. 2 486, Apoll.     EUBIPILO ED EUFEMO 437   Bibl. Ili 111) è padre Posidone e madre Celano, Atlan-  tide. E il nostro erudito ha serbato la genealogia, inse-  rendo però fra Licaone e Celeno-Posidone una genera-  zione : Tritone e Euripilo, il dio della palude e il dio  della grotta, l'una e l'altra vicina. Sorella di Celeno è  Sterope (Apoll. Bibl. Ili 110): e questa offre all'erudito  lo spunto per introdurre Pasifae e con lei Elios.   Sia però questo o altro il procedimento seguito dal-  l'autore dello schema, a ogni modo esso dimostra niilla  più che già non sapessimo : l'influenza grande di Creta  e dell'Arcadia su i miti libici, influenza che le attinenze  commerciali e politiche spiegano senz'altra ipotesi : a  quel modo istesso che Euripilo al Gioh non prova se  non la costanza con cui un unico tipo di nume ctonio  fissa la sua sede in luoghi diversi col favor delle condi-  zioni geografiche.   2. Eufemo è nel mito cirenaico (Pind. Pit. IV) con-  nesso con la Beozia con Lemno con il Tenaro con Tera  con la Libia. La connessione con Lemno è una conse-  guenza della sua qualità di Argonauta: sta e cade con  questa. A Tera non v'è traccia di lui, e anche il mito  vi fa giungere solo i suoi discendenti con Samo o Sesamo  {scoi Pit. V 99, scoi. Apoll. R. IV 1750). Resta adunque  ch'egli sarebbe nato in Beozia, il Tenaro avrebbe per  patria (Pind. l. e. 430 : ol'aoi), i Battiadi di Cirene per  vantati discendenti. — Ora in Beozia v'è traccia della sua  supposta madre Mecionice (Tzetzk Chiliad. II 43) : e non  v'è, ch'io vegga, motivo alcuno per dubitare che, se non  originario di quella regione, egli sia tuttavia caratteri-  sticamente beota. Col che si connette la sua presenza in  Lesbo (EsicH. s. v) che lo fa supporre anche in Tessaglia :  a ognuno invero è nota l'attinenza stretta fra i miti  beotici e tessalici. — Ma perché i Battiadi ne avrebbero  fatto il loro capostipite? Lo Studniczka pensa che i co-     438 IV. - CIRENE MITICA   Ioni recassero quel nome con sé daTera: il Malten 151  che in Libia lo trovassero e che per legittimarsi ne fa-  cessero il proprio avo. Il Costanzi 33 mi par ben più  vicino a una probabile ipotesi: * I Battiadi stanno ad  Eufemo come gli Agiadi di Sparta ad Euristene e gli  Euripontidi a Prode „; come, soggiungo, i dinasti Mo-  lossi ad Achille, i Pisistratidi a Nestore. E queste ana-  logie ultime, a punto, possono lumeggiare il fenomeno  cirenaico: Pisistrato è nome d'uno dei figli di Nestore;  Neottolemo, che ricorre fra i Molossi, è figlio di Achille  nell'epopea: — e similmente ArcesLlao, appellativo di  quattro re di Cirene, è un eroe beota nelVIliade {B 495  329 cfr. Pads. IX 39, 3). E se è errato sostenere col  Mììller Orchomenos ~ 350 che di Beozia fu tratto il nome,  non è però arrischiato l'asserire la possibilità che il nome  beotico abbia attratto l'avo beotico. A ogni modo, quan-  d'anche restasse oscuro il preciso motivo di tale genea-  logia, non sarebbero meno da respingere, com'è ovvio,  le due ipotesi dello Studniczka e del Malten: sproporzio-  nate al fatto che vogliono spiegare. — Non resta da vagliare  che la sede al Tenaro. Colà non è traccia di Eufemo  che sia indipendente da questa leggenda : c'è in vece,  importantissimo, il culto di Posidone Geaoco (S. Wide  Lak. Kulte 33 sgg.). Non solo, ma i caratteri di Eufemo  (si ricordi eicprjfielv, e il suo significato religioso) son più  vicini a quelli di Apollo (Stodniczka 1 14 sgg.) e, in ge-  nere, del dio solare (cfr. Zsòg Eécpiifiog, Esich. s. v.) che  a quelli d'un nume sotterraneo. Nume sotterraneo riten-  nero Eufemo p. es. lo Studniczka (p. 155) e il Maass  (Gòtt. Gel. Anz. 1890, 354; Orpheus 157) (1) solo sulfonda-     (1) Ben altrimenti il Gruppe Gr. Myth. 1149. I rapporti  di un nume o eroe con Posidone non implicano senz'altro  un carattere ctonio di quello: con Posidone difatti ha     EUKIPILO ED EUFEMO 439   mento della sua localizzazione al Tenaro, bocca dell'Ade :  fondamento per cui s'indussero anche a forzare il signi-  ficato di eiiq>r,iA,og, spiegandolo come un epiteto, appunto,  eufemistico in luogo del nome pauroso della divinità ctonia.  Tutto ciò cade, se la localizzazione al Tenaro risulta ar-  tificiosa, e dovuta a tutt'altri motivi che l'affinità fra  Eufemo e l'Ade. Difatti, se tenendo presenti queste osser-  vazioni, si legge la IV Pitia, vien fatto d'interpretarla  nel seguente modo. Ai discendenti di Eufemo quattro  punti si dovevano necessariamente far toccare, tre for-  niti dalla storia, uno dal mito: Lemno, il Peloponneso,  Tera, la Libia. Or bene : a Lemno abbiam già veduto  Eufemo. Ma dopo ciò occorrevano due motivi per spie-  gare il soggiorno nel Peloponneso e quello a Tera. Per  Tera s'inventò lo smarrimento della zolla; per il Pelo-  ponneso, lo si disse patria di Eufemo. E siccome Eufemo  era figlio, in Beozia, di Posidone, e al Tenaro v'era culto  di Posidone Geaoco, Eufemo fu localizzato al Tenaro.  Interpretando in tal modo tutto si spiega: ed è questa  ipotesi molto più semplice che non quella del Malten  95 sgg. (1). Localizzato per tal guisa al Tenaro Eufemo,  e ovvio che i tardi genealogisti si preoccupassero di in-  trodurlo nelle genealogie laconiche ; difatti lo troviamo  nipote dell'Eurota (Tzetze Chil. II 43); o figlio di una  Doride [scoi. Pind. Pit. IV 15); o sposo di una Laonome  sorella di Eracle (scoi. Pind. Pit. IV 76). Ma ha torto il  Malten (p. 134) di dar peso a tali genealogie, e in ispecie  all'ultima: bisognerebbe ch'egli potesse dimostrarle indi-  pendenti dalla localizzazione di Eufemo al Tenaro ; mentre  è arbitraria anche la soppressione di Eracle fra Guneo     attinenze cultuali anche Apollo (Gerhabd ' Abh. Beri.  Akad. Wiss. ' 1850, 174 sgg.).  (1) Su Eufemo re dei Ciconi v. sopra pag. 426.     440 IV. - CIRENE MITICA   e Eufemo nello schema che ci dà il cit. scoi. Pind. Pif.  IV 76.   Ora, al Tenaro Eufemo è localizzato, a quel che pare,  già nell'Eea di lui (fr. 143 Rzach ^): se lo si deve dedurre  dall'epiteto di Fairioyos che vi si trova e che è quello  con cui al Tenaro si venerava Posidone:   fi oirj 'TQitj TtVKLVócpQùìv MrjKiovìiiri   •^ zéxev JEvq)f]fiov yairjóxffi ^Evvoacyaiq)   fieix&ela' èv (ptÀÓTrjzc noÀv^Qvaov 'Aq)QodÌTi]g.   Di li dipenderebbero: Pind. Pit. IV, Apoll. R. I 179-84,  IV 1568. 1575; Igino fav. 14; Acesandro e Teoceesto in  scoi. Apoll. B. IV 1750. Se dunque è vero che la localiz-  zazione .al Tenaro è tutta a favor degli Eufemidi (= Bat-  tiadi), cotesta Eea non può esser che sotto l'influsso cire-  naico. La qual cosa spiega o può spiegare per analogia  anche il formarsi dell'Eea di Cirene o (più propriamente)  di Aristeo, che già abbiamo accennato dianzi. E poiché  l'importanza che in entrambe le Eee ha Apollo è singo-  lare (in quella di Aristeo come padre del fanciullo, in  quella di Eufemo come ecistère), avremmo in esse un  modello del come in Delfi si servissero gl'interessi d'altre  regioni : togliendo p. e. lo spunto da Aristeo per trasportar  Cirene in Tessaglia (v. sopra pag. 429); dagli Argonauti,  per Eufemo in Lemno ; da Posidone per Eufemo al Te-  naro, ecc. ecc. Cfr. in vece Malten 160.   3. Crediamo adunque di aver mostrato e che Euri-  pilo in Libia non ci riporta ad alcuna regione ma solo  a un comune concetto mitico dei Greci, e che Eufemo  beota si connette forse per fiabe etimologiche ai Battiadi,  certo è estraneo al Tenaro. Al Malten 139 pertanto che  afferma Euripilo ed Eufemo costituire " eine Reihe, die  ihre Endpunkte in der Kyrenaika und im sudlichen Thes-  salien hat , e con l'uno d'essi collegarsi intimamente     EUBIPILO ED EUFEMO 441   Atlante e Posidone, " urpeloponnesisch „ (124), possiamo  rispondere di aver troncato a quella " Reihe „, per Eu-  ripilo r " Endpunkt , che sta in Tessaglia, per Eufemo  l'estremità che si fissa in Libia e il centro che si posa  sul Tenaro. Abbiamo in somma, se non c'inganniamo,  reciso i nervi a quella teoria.   Del pari cadono le analogie con cui la rincalza. In  LicoFEONE 901 sgg. naufragano su la costa libica Euri pilo  (ma figlio di Evemone tessalico), Guneo perrebico e Proteo  magnete. Onde il Malten 132 sgg. sostiene che il nau-  fragio in Libia di Guneo e di Proteo è leggenda cire-  naica (LicoFB. 597-99, Apollod. VI 15 e 15 a Wagner) : e  rintraccia poi quegli eroi a Creta e in Tessaglia. Noi  però abbiamo già osservato a proposito di Diomede  (cfr. sopra pag. 426) che nei vóaroi la spiaggia libica  appare il luogo tipico dei naufragi e che quindi tali leg-  gende son da ritenere indipendenti affatto da Cirene. Il  trovare ora che un mito secondario, attinente per conte-  nuto all'epopea dei vóazoi, fa naufragare in Libia un  Euripilo senza avvertire l'esistenza in quei luoghi di un  omonimo, rilevante figura locale, ci conferma nella nostra  opinione, e prova contro il Malten che Guneo e Proteo  non appartennero mai a saghe cirenaiche, se non, al pili,  per molto tardo riflesso. Col che si spezza sin dall'inizio  la " feste Kette von Beziehungen zwischen Libyen und  " Kreta einerseits und Nordthessalien andererseits, die  " in Arkadien ihren Knotenpunkt hat , (Malten 138).   Se non che, secondo il mito cirenaico dei Battiadi,  Eufemo ed Euripilo ebbero attinenze in quanto quegli  era Argonauta, e questi agli Argonauti fece dono di una  zolla libica. A noi quindi, che analizzammo partitamente  le due figure, non resta che studiare la trama narrativa  in cui si accostano e agiscono: ossia il mito degli Argo-  nauti in Libia.     442 IV. - CIRENE MITICA   VII. Gli Argonauti in Libia. — Poiché su questo  punto io profondamente mi allontano dal Malten 126 sgg.  terrò più minuto discorso. A quattro redazioni leggen-  darie dobbiamo por mente: Pindaro Pit. IV 1-63, 251-262;  Erodoto IV 178-9; Licofronk 877 sgg.; Apoll. Rodio IV  1231 segg.; e tutte bisogna esaminare.   Pindaro racconta che gli Argonauti, ritornando con  Medea dall' Oceano sopra VArgo , debbono per dodici  giorni trasportare la loro nave su la terra deserta fino  al lago Tritonio, ove nel punto della partenza appar loro  Euripilo a donare all'eroe Eufemo, compagno di Giasone,  una zolla: fatidico dono (1). In questo racconto non v'è  nulla che non si convenga ai desiderii dei Battiadi; nulla  quindi che non paja inventato per il loro compiacimento;  fuor che il particolare del Iago Tritonio, il quale è  l'unico non indispensabile. Dev'essere difatti questo il  lago, di cui Strab. XVII 836, presso Berenice (Bengasi)  che esiste tuttora (" i laghi salati „). E non si vede bene,  svibito, perché per l'appunto quel lago venisse scelto  per il dono. Né Euripilo poteva esser causa della prefe-  renza; però che paja invece piti probabile il contrario:  Euripilo esser intervenuto a cagione del lago. D'altra  parte difficilmente, sembra, Eufemo, avo mitico dei Bat-  tiadi, sarebbe stato fatto Argonauta, ove con tal mezzo  a punto non lo si fosse potuto far giungere in Libia: il  che lascia supporre che in Libia una leggenda più  antica recasse già gli Argonauti. Per queste due possi-  bilità adunque, nel racconto di Pindaro parrebbe che  l'episodio della palude Tritonide debba risalire a un nucleo  mitico più antico : parvenza bisognosa d'altri suffragi.     (1) Sul valore che tal dono ha nelle leggende cfr. una  interessante nota in Gebckk o. c. 455. Ma gli esempi si  potrebbero moltiplicare.     GLI ARGONAUTI IN LIBIA 443     Ora in Erodoto si narra che presso la minor Sirte esi-  steva una MjAvri f^eydÀrj T^ubìvig: ben lontano dunque  da (Bengasi) Berenice; e ivi Giasone il quale tentava cir-  cumnavigare il Peloponneso avrebbe subito naufragio,  per ciò che una fortuna di mare ve lo avrebbe improv-  visamente trasportato senza possibile uscita fuor dalle  strette del lago. Ma Trìtone apparso trasse di rischio la  nave, dimostrò la via, e ricevette in dono un tripode.  Dopo le quali cose, profetò agli Argonauti che un giomo  presso quel lago i Greci avrebbero fondato cento città:  Taira àytovaavzag rovg è7tix<^QÙovg twv Ai^voìv KQV'kpat,  TÒv zQLJioòa. Qui sono due particolari ben distinti : il  dono del tripode per ottener lo scampo, e la profezia.  Quest'ultima non si avverò perché la piccola Sirte non  ebbe colonie greche ; ed è da vedere in essa (cfr. tra gli  altri CosTANzi 0. e. 29-30) un riflesso del tentativo com-  piuto nel Cinipe fra le due Sirti dallo spartano Dorieo  nel 515 circa. Ma il dono del tripode non è che fittisiia-  mente collegato con la profezia e il tentativo di Dorieo :  suo vero e unico e primo scopo è ottenere da Tritone  la via. Il resto è superfetazione più tarda. Da ultimo è  notevole che ritorna ancor qui il lago Tritonio, localiz-  zato però non pili presso Berenice ma nella piccola Sirte.  Esistono dunque nel breve racconto erodoteo due strati.  L'uno è recente, e non risale più in là della spedizione  infelice di Dorieo: appartengono a questo la profezia di  Tritone e il valore fatidico dato al tripode. L'altro è  assai più antico, e preesiste a Dorieo : gli appartengono  i nomi degli Argonauti e del lago Tritonio e il dono di  Giasone al dio. Ora, quest'ultimo strato assomiglia, gros-  solanamente, al nucleo che ci parve originario in Pindaro.   Esaminiamo pertanto pivi da vicino questi elementi  simili. Identico è il nome della palude ; ma diversi sono  i luoghi: tuttavia più vetusta appare la identificazione     444 IV. - C'IBENE MITICA   con il lago dell'estremo occidente nella minor Sirte  (cfr. RoscHER nel Lex. I 1, 676 e Costanzi o. c. 29). Iden-  tico l'apparire di un nume; ma i nomi differiscono: e  non è dubbio che Tritone, aderente com'è al lago stesso,  risalga a pivi vetusta forma che Euripilo, figura recente  dei nuovi coloni. Identica la circostanza d'un dono, ma  la vicenda è mutata: ed è chiaro come al mito primo  degli Argonauti si convenga il dono che serve a favorire  il viaggio, più tosto che quello il quale prepara, a tutto  vantaggio d'una regnante dinastia, una colonia. Lo strato  adunque più antico di Erodoto appare alla nostra ana-  lisi come la forma su cui vennero foggiate : da un lato  la leggenda cirenaica a prò dei Battiadi, — con alcune  alterazioni dicevoli ; dall'altro la leggenda spartana in  favor di Dorico, — con altri mutamenti opportuni.   Se questo è vero si spiegano facilmente Licofrone e  Apollonio. Licofrone dice dei naufragi di Guneo Proteo  ed Euripilo presso Tauchira (città della Cirenaica non  lungi a l'odierna Bengasi). Quivi (soggiunge) furon già  gli Argonauti, che ad Ausigda seppellirono Mopso (Ausigda  giace fra Tauchira e Cirene). Quivi (insiste) scorre ò Ki-  vv(pEiog ^óog (il Cinipe, cfr. Malten 129, che fluisce, in  vece, fra le due Sirti, molto lontano di li). Agli Argo-  nauti appare Tritone, e a lui dona Medea un cratere,  per compenso del quale egli insegna loro la via, e pro-  fèta che i Greci colonizzeranno quella regione, allorché  riavranno il cratere. Onde gli Asbisti {= i Libii) impau-  riti lo celano. Ora è evidentissimo che, ove si muti il  cratere in tripode, il colorito e l'andamento della scena  son quelli medesimi erodotei. Mutati sono unicamente i  luoghi: i quali, tranne il Cinipe, sono della Cirenaica.  Né il Cinipe turba gran che l'armonia: questa irrazio-  nalità geografica è qui indotta dal ricordo, che tutto il  mito del resto nella sua forma erodotea presuppone, di     GLI ARGONAUTI IN LIBIA 445   Dorieo sbarcato presso quel fiume : ricordo cosi vivo che  in una fonte anche Guneo tessalo al Cinipe fa naufragio  (Apollod. vi 15 a Wagner = scoi, a Licofr. 902) (contro  Malten 130). In breve, Licofrone contamina; mischia in-  sieme, di qui due località cirenaiche, di là il contesto  sirtico-spartano del mito.   Ben più contamina Apollonio. Dal Peloponneso gli Ar-  gonauti naufragano alla Sirte, dove le Eroine gli esortano  a recare per dodici giorni le navi verso oriente. Giun-  gono cosi al lago Tritonio, presso cui a loro impediti  nel viaggio insegna la via Ti-itone: dona a Eufemo una  zolla, riceve da Orfeo il tripode. Sono, ciò è, ravvicinati :  il tripode erodoteo alla zolla pindarica; Eufemo ad Orfeo  (= Giasone, in lieve vai-iante); la Sirte a Bengasi. E il  poeta (o la sua fonte) è cosi conscio della contamina-  zione, che i due distanti luoghi (Sirte-Bengasi) congiunge  con una fittizia marcia di dodici giorni da occidente a  oriente : marcia il cui modello può bene esser in quella,  di cui Pindaro, fra l'Oceano e la palude Tritonia.   Né coteste contaminazioni erano puro effetto dell'ar-  bitrio di poeti. DioD. IV 56, 6, narrando (qual che ne sia  la fonte) c'ne gli abitanti di Evesperide pretendevano  d'aver rinvenuto essi il tripode donato a Tritone, dimostra  come la leggenda sirtico-erodotea, la quale nella piccola  Sirte, dopo l'insuccesso di Dorieo, era spostata, avesse  trovato terreno propizio, anche nella realtà, presso l'altro  lago Tritonio, a Bengasi.   Conchiudiamo. La facilità con cui dalle nostre premesse  furono spiegate le complesse narrazioni di Licofrone e  Apollonio, insieme col loro sostrato reale, par buona con-  ferma delle premesse medesime.   Poche parole bastino dunque, ancóra, sul posto che,  nella complessiva spedizione, occupa l'episodio degli Ar-  gonauti . Pindaro e Licofrone lo collocano dopo la     446 IV. - CIRENE MITICA   conquista del vello : Medea è presente. Apollonio ed Ero-  doto, prima. Anzi tutto va osservato che non bisogna  dar troppo peso a Licofrone, in cui un equivoco è ben  possibile e facile, da poi che non tratta egli esplicita-  mente, ma solo parenteticamente, degli Argonauti. Inoltre  la discrepanza dimostra a pena che il nucleo primitivo  del mito non aveva carattere cronologico preciso: cosi  che ogni poeta poteva tribuirgliene uno, secondo l'esi-  genze poetiche o l'estro dell'ispirazione.   E possiamo finalmente raccogliere in breve i risultati  delle ricerche (§§ VI-VII) sul mito dei Battiadi. A favore  di questi ultimi l'Eea di Eufemo rielaborò un antico mo-  tivo favoloso su gli Argonauti in Libia : conducendo quivi  e a Lemno, e localizzando al Tenaro, il capostipite dei  Battiadi Eufemo, in qualità di Argonauta; trasportando  i suoi discendenti a Tera; e approfittando del nume di  Euripilo, che fra i Greci di Libia vigoreggiava come al-  trove. In tutta l'Eea quindi è, si, un complesso rifacimento  di miti con scopo dinastico e religioso; ma tal rifaci-  mento riflette sol tanto le condizioni storiche a noi note,  non già altre, anteriori e ignote.   Questa Eea di Eufemo poi e quella di Cirene cre-  diamo si possano mostrare contaminate parzialmente in  Callimaco.   Vili. Callimaco e il mito di Cirene. — Il Malten  41 sgg. 58-9, vede nel nesso ' Cirene-Euripilo ' la forma  più antica della leggenda, quella che l'Eea avrebbe adul-  terata. Ora è bensì verissimo che Callimaco, come Ace-  SANDRO {scoi. Apoll. R. II 498) e Filakco (ibid.), storici,  cirenaico l'uno, egizio forse l'altro (III-II sec. a. C), sente  una più viva eco e più genuina della primitiva forma  mitica allorquando fa combattere in Libia, non in Tes-  saglia, Cirene col leone. Ma è altr'e tanto' vero, e intui-     CALLIMACO E IL MITO DI CIRENE 447   tivo, che il nesso con Euripilo è tardo. Se difatti l'Eea  avesse trovato questo nome congiunto, comunque, con  quel di Cirene, non avrebbe omesso di trasportarlo, con  Apollo e Aristeo, in Tessaglia: in Tessaglia era invero  signore di Ormenio un Euripilo (B 736) figlio di Evemone.  Che se dunque il nesso è posteriore all'Eea e a Pindaro,  è pur posteriore alla leggenda dinastica degli Eufemidi,  già riflessa in quest'ultimo poeta, e in cui Euripilo ha  preponderante azione. Par quindi legittimo pensare che  Euripilo si commetta con Cirene, dopo che la sua figura  ha assunto valore e rilievo indigeni nel mito degli Argo-  nauti su la Tquoìvìc Àifivrj. Callimaco pertanto rispecchia  una posteriore forma indigena della leggenda che fu og-  getto del nostro studio; a quel modo che Vergilio (v. so-  pra pag. 223 sgg.) rispecchia una posteriore forma stra-  niera.   A parte bisogna considerare Filarco l. e. per la frase  di lui fievà jiÀeióvùìv : Cirene di fatti sarebbe pervenuta  in Libia non sola ma con molti. Analogo, se bene un po'  diverso, è Giustino XIII 7, 8: mandati dal padre di Ci-  rene, Ipseo re di Tessaglia, i Tessali si sarebbero fer-  mati in Libia con la fanciulla, loci amoenitate capti. Ora,  come Callimaco fa trasparire un mito ove la favola di  Cirene ninfa e la leggenda dei Battiadi si compenetrano  in parte; cosi i due passi or ora citati continuano lo stesso  indirizzo, non più solo col connettere Cirene ed Euripilo,  bensì anche col porre intorno a Cirene coloni tessali, che  vengono imaginati ad analogia dei coloni dori. I gradi  di questo processo mitopeico sono : 1) Euripilo è in Libia  quando Eufemo, capostipite dei Battiadi, vi giunge ;  dunque molto prima di Batto; 2) Cirene è in Libia ra-  pita da Apollo, essa pure prima che vi pervenga Batto;  3) Cirene ed Euripilo ebbero rapporti in Libia in quegli  antichi tempi; 4) con Cirene, che ha il trono da Euri-     448 IV. - OIBENE MITICA   pilo, eran Tessali suoi compatrioti. Lento (ma chiaro)  processo, adunque, le cui forme non si debbon confon-  dere con le primitive quali ci appajono nelle due Eee.   IX. Esegesi novissima. — Storia e indagine su Ci-  vette mitica erano in questo volume già per intero com-  poste quando apparvero di G. Pasquali le Quaestiones  Callimacheae (Gottingae MCMXIII) ove (pag. 93-147) il  mito di Cirene è di nuovo trattato. Ne pubblicheremo  altrove una confutazione (" Atti della R. Accademia delle  Scienze di Torino „ 1914, 17 Maggio).     Torino, Giugno 1914.     FRATELLI BOCCA, EDITORI — TORIXO     Piccola Biblioteca di Scienze Moderne Grice: “Mussolini lacked a classical education – he was obsessed, if we are talking alla hymns, of the modern, not the ancient!” Grice: “Mussolini, who wasn’t from Rome, called Rome the city of prostitutes. Hausmann suggested that he should build the third Rome somewhere in the Lazio”. Aldo Ferrabino. Ferrabino. Keywords: la terza Roma, Mazzini. Una e unica Roma, one and only. Mussolini’s dislike for ruins, Mussolini’s use of ‘modern’ versus ‘ancient’. Calypso. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Ferrabino” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51715356447/in/photolist-2mPKHfm-2mMUHJF-2mMYNu3/

 

Grice e Ferrando – CORIOLIANO, ovvero, la filosofia – filosofia romana – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo. Grice: “I like Ferarndo; for one, he is what I would call an Anglo-Italian – cf. Anglo-Argentine; so he philosophised on Otello, Coroliano, la creazione di Carpenter and the forces of Prentice Mulford; on Byron’s Manfredi, and more beyond!” Si laurea a Pisa. Insegna a Firenze. Direttore della Biblioteca Filosofica. In qualità di filosofo s’interessa a Bergson, il misticismo, il transcendentalism (saggi per L’Annuario Filosofico), come filosofo anglista s'interessa a Shakespeare (“Otello”, “Corolliano”), e S. T. Coleridge, Carpenter (“La creazione”), Coleridge, Byron (“Manfredi”), “Le forze che dormono in noi” (Prichard). dando di alcuni di questi anche delle versioni. Fu inoltre studioso di psicologia e redattore della rivista Psiche. Collabora con Salvemini alla propaganda antifascista e firmò il Manifesto di Benedetto Croce. Espatriò a New York, dove continuò la sua attività antifascista, divenne professore d'italiano e filosofia presso il e sposa Wilhelmina Anieka Leggett, con cui adottò la figlia Vasanti. Contribuì più tardi a fondare la Besant Hill School di Ojai, California, praticandovi l'insegnamento more socratico. L’istruzione è un processo d'indagine dove gli studenti imparano *come* pensare, non *cosa* pensare".  RootsWeb's World Connect Project: LEGGETT of ELY, CAMBRIDGESHIRE, ENGLAND and WEST FARMS (BRONX), NEW YORK  Guido Ferrando appointed Chairman of italian dept. in «Vassar Miscellany News», Besanthill. Opere: Saggi, “La Voce” --  Wikipedia Ricerca Gneo Marcio Coriolano politico e Generale dell'Antica Roma Lingua Segui Modifica Gneo Marcio Coriolano, in latino Gnaeus Marcius Coriolanus (527 a.C.? – ...), generalmente conosciuto come Coriolano, membro dell'antica Gens Marcia, fu uomo politico e valoroso generale al tempo delle guerre contro i Volsci.   Veturia ai piedi di Coriolano di Nicolas Poussin. BiografiaModifica Il giovane Gneo Marcio, non ancora Coriolano, partecipò come semplice soldato alla decisiva battaglia del lago Regillo, distinguendosi per il proprio valore, tanto da meritare la Corona civica per aver salvato da solo in battaglia un altro cittadino romano.[1]  Secondo Tito Livio[2] e Plutarco[3] a Gneo Marcio fu attribuito il cognome a seguito della vittoria di Roma contro i Volsci di Corioli, ottenuta anche grazie al valore del giovane patrizio; secondo altri storici il cognome indica che la sua famiglia fosse originaria della città stessa[senza fonte].  (LA)  «Q. Marcius, dux Romanus, qui Coriolos ceperat, Volscorum civitatem, ad ipsos Volscos contendit iratus et auxilia contra Romanos accepit. Romanos saepe vicit, usque ad quintum miliarium urbis accessit, oppugnaturus etiam patriam suam, legatis qui pacem petebant, repudiatis, nisi ad eum mater Veturia et uxor Volumnia ex urbe venissent, quarum fletu et deprecatione superatus removit exercitum. Atque hic secundus post Tarquinium fuit, qui dux contra patriam suam esset.»  (IT)  «Q. Marcio, comandante romano, che aveva conquistato Corioli, città dei Volsci, accecato dall'ira si recò presso i Volsci e ottenne aiuti contro i Romani. Sconfisse spesso i Romani, arrivando fino a cinque miglia da Roma, pronto a combattere anche contro la sua patria, respinti i legati inviati per chiedere la pace, vinto solamente dal pianto e dalle suppliche della madre Veturia e della moglie Volumnia, andate a lui da Roma, ritirò l'esercito. E questo fu il secondo capo, dopo Tarquinio, ad essersi opposto alla propria patria.»  (Eutropio, Breviarium ab Urbe condita, I,15) L'Eroe della presa di CorioliModifica Nel 493 a.C., consoli Postumio Cominio Aurunco e Spurio Cassio Vecellino, a Roma, per quella che sarebbe stata ricordata come la prima secessione, la plebe si era ritirata sul Monte Sacro.  La situazione era poi resa oltremodo complicata dalla necessità di definire un nuovo trattato (Foedus) con i Latini, compito che fu affidato al console Spurio Cassio, trattato che da lui prese di nome (Foedus Cassianum), e dai preparativi bellici intrapresi dai Volsci, contro cui si decise di intraprendere l'ennesima azione militare, affidandola al console Postumio Cominio.  Postumio Cominio iniziò la campagna militare guidando l'esercito romano contro i Volsci di Antium, città che venne espugnata. Successivamente l'esercito romano marciò contro le città volsche di Longula, Polusca e Corioli, tutte e tre conquistate dai Romani, quest'ultima con l'apporto decisivo di Gneo Marcio, tanto che Tito Livio annota:  «....L'impresa di Marcio eclissò la gloria del console al punto che, se il trattato coi Latini, concluso dal solo Spurio Cassio in assenza del collega, non fosse rimasto inciso a perenne memoria su una colonna di bronzo, nessuno si ricorderebbe che Postumio Cominio combatté contro i Volsci»  (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, lib. II, par. 33) Dai contrasti tra patrizi e plebei all'esilio                                         Modifica Intanto a Roma la prima secessio plebis e la conseguente mancata coltura dei campi aveva provocato un rincaro del grano e la necessità della sua importazione. Sotto il consolato di Marco Minucio Augurino e Aulo Sempronio Atratino, nel 491 a.C., Coriolano si oppose fortemente alla riduzione del prezzo del grano alla plebe, che lo prese in forte odio.  In effetti la contesa non riguardava tanto il prezzo del grano, ma il conflitto tra plebei e patrizi, con questi ultimi che ancora non si erano rassegnati all'istituzione dei tribuni della plebe, e cercavano in tutti i modi di contrastarne l'azione. In un contesto di feroci attacchi politici, Coriolano rappresentava l'ala più oltranzista dei patrizi, che propugnava il ritorno alla situazione antecedente alla concessione del tribunato ai plebei, e per questo motivo era attaccato violentemente da questi. Durante una di queste infuocate assemblee mancò poco che Coriolano fosse mandato a morte, gettato dalla rupe Tarpea.  «...A questo punto Sicinnio, il più impudente dei tribuni, dopo una breve consultazione con i colleghi, proclamò davanti a tutti che Marcio era stato condannato a morte dai tribuni della plebe, e ordinò agli edili di portarlo immediatamente sulla rocca Tarpea e di gettarlo giù nella voragine.»  (Plutarco, Vite parallele, 6. Gneo Marcio Coriolano e Alcibiade, XVIII, 4) Alla fine fu citato in giudizio dai tribuni della plebe, e a questo punto le versioni di Livio e Plutarco divergono. Secondo Livio[4], Gneo Marcio rifiutò di andare in giudizio, scegliendo l'esilio volontario presso i Volsci, e per questo motivo fu condannato in contumacia all'esilio a vita. Invece per Plutarco[5] Gneo Marcio fu sottoposto al giudizio del popolo con l'accusa di essersi opposto al ribasso dei prezzi del grano, e per aver distribuito il tesoro di Anzio tra i commilitoni, invece di consegnarlo all'Erario. Anche per Plutarco, la condanna fu quella dell'esilio a vita.  La guerra contro RomaModifica Gneo Marcio scelse di recarsi in esilio nella città di Anzio[6], ospite di Attio Tullio[7], eminente personalità tra i Volsci. I due, animati da forti sentimenti di rivincita nei confronti di Roma, iniziarono a tramare affinché tra i Volsci, più volte battuti in scontri campali dall'esercito romano, si sviluppassero nuovamente motivi di risentimento contro i Romani, tali da far nascere in questi il desiderio di entrare in guerra contro il potente vicino.[8]  «... Marcio e Tullo discutevano di nascosto in Anzio con i più potenti e li spingevano a scatenare la guerra mentre i Romani si combattevano tra loro. Ma mentre i Volsci erano trattenuti dal pudore perché le due parti avevano concordato una tregua e un armistizio di due anni, e furono i Romani a fornire loro stessi il pretesto, annunziando durante certi spettacoli e giochi, sulla base di qualche sospetto o falsa accusa, che i Volsci dovevano lasciare la città prima del tramonto. ...»  (Plutarco, Vite parallele, 6. Gneo Marcio Coriolano e Alcibiade, XXVI, 1) Alla fine i Volsci decisero per una nuova guerra contro Roma[9], ed affidarono a Coriolano e ad Attio Tullio il comando dell'esercito[10]. Quindi i due comandanti si risolsero a dividersi le forze, rivolgendosi Attio ai territori dei Latini, per impedire che portassero soccorso a Roma, e Coriolano a saccheggiare la campagna romana, evitando però di attaccare le proprietà dei Patrizi, così da fomentare la discordia tra Plebei e Patrizi. L'espediente ebbe successo, tanto da permettere ai due eserciti Volsci, di tornare nel proprio territorio, carichi di bottino e senza aver subito alcun attacco dai Romani[11].  Successivamente, mentre Attio proteggeva con il proprio esercito la città[12], Coriolano volse il proprio esercito contro la colonia romana di Circei che fu presa, mentre Roma non reagiva per il montare della discordia tra i due ordini[13].  Alla fine a Roma si decise di arruolare un esercito, e si permise agli alleati Latini di prepararne uno per proprio conto, in quanto Roma non era in grado di difenderli dalle incursioni dei Volsci[14]. Ai Volsci, che si preparavano alla guerra, si aggiunse poi la rivolta degli Equi[15]. Coriolano, al comando del proprio esercito quindi prese Tolerium[16], Bola[17], Labicum, Corbione, Bovillae e pose l'assedio a Lavinium,[18] senza che i Romani portassero aiuto a queste città.  Quindi Coriolano si accampò a sole cinque miglia dalle mura della città in località Cluvilie[19], dove fu raggiunto da un'ambasceria composta da cinque ambasciatori. Per tutti parlò Marco Minucio Augurino[20], senza però riuscire a far desistere Coriolano dal proprio intento; anzi i Volsci, sempre guidati dal condottiero romano, presero Longula, Satricum, Polusca, le città degli Albieti, Mugillae e vennero a patti con i Coriolani[21].  Leggermente diversa la versione di Tito Livio:  «Quindi conquistò Satrico, Longula, Polusca, Corioli, Mugilla, tutte città recentemente sottomesse dai Romani. Poi riprese Lavinio e di lì, raggiungendo la via Latina tramite delle scorciatoie, catturò una dopo l'altra Corbione, Vetelia, Trebio, Labico, Pedo. Infine da Pedo marciò su Roma e si accampò presso le fosse Cluilie, a cinque miglia dalla città»  (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, lib. II, par. 39) Qui, alle porte dell'Urbe al IV miglio della Via Latina, dove si trovava il confine dell'Ager Romanus Antiquus(nei pressi dell'attuale Via del Quadraro), mentre i consoli del 488 a.C., Spurio Nauzio e Sesto Furio, organizzavano le difese della città, venne fermato dalle implorazioni della madre Veturia e della moglie Volumnia, accorsa con i due figlioletti in braccio, che lo convinsero a desistere dal proprio proposito di distruggere Roma[22].  «....Coriolano saltò giù come una furia dal suo sedile e corse incontro alla madre per abbracciarla. Lei però, passata dalle suppliche alla collera, gli disse: «Fermo lì, prima di abbracciarmi: voglio sapere se qui ci troviamo da un nemico o da un figlio e se nel tuo accampamento devo considerarmi una prigioniera o una madre.»  (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, lib. II, par. 40) MorteModifica Tito Livio[23] riporta come non ci fosse concordanza sulla morte di Coriolano; secondo parte della tradizione, fu ucciso dai Volsci, che lo considerarono un traditore per aver sciolto l'esercito sotto le mura di Roma; secondo Fabio morì di vecchiaia in esilio.  Plutarco e Dionigi di Alicarnasso raccontano come Coriolano fu ucciso da una congiura, capitanata da Attio Tullio, mentre si stava difendendo in un pubblico processo ad Anzio, dove era stato messo sotto accusa dai Volsci per essersi ritirato, senza aver combattuto, da Roma.[24][25] Poi, però, fu dimostrato che l’azione non era affatto condivisa da tutti, sicché fu seppellito con grandi onori e il sepolcro di Coriolano, ornato con armi e spoglie, fu considerato dalla popolazione il sepolcro di un eroe e di un grande generale. I Romani, invece, non gli tributarono onori quando seppero della sua morte, né tuttavia gli serbarono rancore, tant'è vero che alle donne fu consentito portare il lutto fino a un massimo di 10 mesi.[26]  Cicerone, nel Brutus, nel paragonare Coriolano a Temistocle ne accomuna la sorte: si sarebbero entrambi tolti la vita una volta allontanati dalla patria.[27]  Critica storica     Modifica Secondo parte della moderna storiografia Coriolano rappresenta un personaggio leggendario, creato per giustificare le sconfitte dei Romani nelle guerre contro i Volsci nella prima epoca repubblicana, guerre che arrivarono a minacciare l'esistenza stessa di Roma. I Romani trovarono giustificazione delle loro ripetute sconfitte, nella credenza che solo un condottiero romano avrebbe potuto sconfiggere un esercito romano. La circostanza che Coriolano non appaia tra i Fasti consulares aumenta il dubbio che si sia trattato di un personaggio storico.[senza fonte]  Note                                                    Modifica ^ Plutarco, Vite parallele, Vita di Coriolano, III.3, pg. 123 ^ Tito Livo, Ab Urbe condita libri, Lib II, par. 33 ^ Plutarco, Vite parallele, 6. Gneo Marcio Coriolano e Alcibiade, XI, 1 ^ Tito Livio, Ab Urbe condita libri, lib. II, par. 35 ^ Plutarco, Vite parallele, 6. Gneo Marcio Coriolano e Alcibiade, XX, 4 ^ Plutarco, Vite parallele, 6. Gneo Marcio Coriolano e Alcibiade, XXII, 1 ^ Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, VIII, 1. ^ Tito Livio, Ab Urbe condita libri, lib. II, par. 36, 37, 38 ^ Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, VIII, 9. ^ Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, VIII, 11. ^ Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, VIII, 12. ^ Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, VIII, 13. ^ Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, VIII, 14. ^ Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, VIII, 15. ^ Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, VIII, 16. ^ Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, VIII, 17. ^ Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, VIII, 18. ^ Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, VIII, 19-20. ^ Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, VIII, 22. ^ Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, VIII, 23-28. ^ Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, VIII, 36. ^ Appiano, Storia romana, Liber II, 3-5 ^ Tito Livio, Ab Urbe condita libri, lib. II, par. 40 ^ Plutarco, Vite parallele, 6. Gneo Marcio Coriolano e Alcibiade, XXXIX ^ Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, VIII, 58-59. ^ Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, VIII, 62. ^ Cicerone, Laelius de amicitia, XII, 42. Cicerone, Brutus XLIII  Bibliografia                                    Modifica Tito Livio, Ab Urbe condita libri II,33 Plutarco, Vite parallele, Coriolano Eutropio, Breviarium ab Urbe condita, I, 14-15 (che lo chiama Quinto) Ispirata pure alla vicenda di Coriolano è un'ouverture di Beethoven (op. 62, in do min.), composta per la tragedia teatrale omonima di H.J. von Collin.  Voci correlate                    Modifica Gens Marcia Volumnia Veturia Coriolano, tragedia di William Shakespeare Altri progetti                                                 Modifica Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Gneo Marcio Coriolano Collegamenti esterni                  Modifica Coriolano, Gneo Marcio, in Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2010. Modifica su Wikidata Coriolano, Gnèo Màrcio, su sapere.it, De Agostini. Modifica su Wikidata ( EN ) Gneo Marcio Coriolano / Gneo Marcio Coriolano (altra versione), su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su Wikidata Controllo di autorità                    VIAF ( EN ) 60149294309280521736 · BAV495/317465 · CERL cnp00546507 · LCCN( EN ) n85196364 · GND ( DE ) 118522159 ·BNE ( ES ) XX5035782 (data) · BNF( FR ) cb149789004 (data) · J9U( EN ,  HE ) 987007275094605171 (topic) ·WorldCat Identities ( EN ) lccn-n85196364   Portale Antica Roma   Portale Biografie   Portale Guerra   Portale Politica Ultima modifica 3 giorni fa di No2 PAGINE CORRELATE Sesto Furio Medullino Fuso politico romano  Roma e le guerre con Equi e Volsci Attio Tullio Nobile volsco di Antium (le odierne Nettuno ed Anzio)  Wikipedia Il contenutoCORIOLANO Tragedia in 5 atti Traduzione e note di Goffredo Raponi 3  NOTE PRELIMINARI 1) Il testo inglese adottato per la traduzione è quello del prof. Peter Alexander (William Shakespeare - “The complete Works”, Collins., London & Glasgow, 1960), con qualche variante suggerita da altri testi, specialmente quello prodotto dal Furnivall per la “Early English Text Society”, l’“Arden Shakespeare” e l’ultima edizione dell’“Oxford Shakespeare” curata da G. Taylor e G. Wells per la “Claredon Press”, New York (USA), 1994. 2) Alcune didascalie sono state aggiunte dal traduttore di sua iniziativa, per la migliore comprensione dell’azione scenica alla lettura, cui questa traduzione è essenzialmente intesa. 3) All’inizio di ciascuna scena i personaggi sono introdotti con il rituale “Entra” o “Entrano”, che ripete l’“Enter” del testo; giova avvertire però che tale dizione non implica che i personaggi debbano “entrare” in scena al levarsi del sipario; è spesso possibile che essi vi si trovino già, in un qualunque atteggiamento. La reciproca vale per le dizioni “Exit” - “Exeunt”, “Esce”, “Escono”. 4) Il metro è l’endecasillabo sciolto, intercalato da settenari, come l’abbia richiesto al traduttore lo scorrere della verseggiatura. 5) Trattandosi della Roma di Coriolano, la forma del “tu” (i Romani non ne conoscevano altra) è sembrata imperativa, ad onta del dialogante alternarsi dello “you” e del “thou” dell’inglese. 6) La divisione in atti e scene, com’è noto, non si trova nell’in-folio; essa è stata elaborata, spesso anche con l’elenco dei personaggi, da vari curatori nel tempo, a cominciare da Nicolas Rowe (1700). Li si riproduce come figurano nella citata edizione dell’Alexander.  CORIOLANO Nota introduttiva Plutarco, dalle cui “Vite parallele” Shakespeare trae essenzialmente la trama della sua tragedia, associa Coriolano con Alcibiade, come esempio di due grandi condottieri e uomini politici venuti in contrasto con la loro patria e scesi contro di essa in guerra alla testa di eserciti nemici. I due sono contemporanei: Alcibiade vive nell’Atene di Pericle (V sec. a.C.), già matura repubblica demo- aristocratica; Coriolano nella giovane immatura repubblica di una Roma che si è appena liberata della tirannia dei re etruschi. Ma il parallelismo tra i due è per contrasto; perché Alcibiade cerca, contro l’aristocrazia di cui è parte (è il nipote di Pericle), e che gli dà l’ostracismo, il favore del popolo(1); Coriolano, all’opposto, nel suo orgoglio di aristocratico rozzo e impolitico, disprezza la massa plebea ed è da questa prima eletto poi privato del consolato e bandito da Roma. L’orgoglio di Coriolano e il suo conflitto con l’intima nobiltà dell’uomo è il “leitmotiv” del dramma shakespeariano; ad esso fa da sfondo una Roma la cui politica interna è caratterizzata dalle lotte di classe fra patrizi e plebei, quella esterna dalle prime guerre di espansione. I nemici più vicini sono i Volsci, che abitano le terre del sud del Lazio, comprese le città di Anzio e Corioli. La superbia è il peggiore dei vizi, il massimo dei peccati capitali della dottrina cristiana; tradotta nella persona di un eroe della Roma pagana essa acquista la dimensione di un vizio legato ad una virtù: nobiltà e onore. Le parole “nobility” e “honour”, come osserva il Melchiori(2), con i loro derivati nominali e verbali ricorrono ben 137 volte nel testo della tragedia. Questo conflitto, come una fatale condanna, nega a Coriolano la capacità di convivere con gli oppositori, l’inclinazione al possibilismo che è la massima dote del politico, e sarà, nel mondo politico nel quale egli si muove, la sua tragica fine. Il linguaggio di Coriolano, a differenza di quello raffinato e colto di Alcibiade, è sempre rude, quasi urlato, di rissa; e ad accentuarne la rudezza Shakespeare crea, in contrapposto, di sua fantasia, il personaggio di Menenio Agrippa, un modello di scaltrezza politica - questo sì - simile ad Alcibiade, che parla studiando l’avversario(3), per saggiarne i punti deboli e, prima assecondandolo poi demolendolo, averne ragione. Ma Coriolano non è solo questo. All’intolleranza faziosa egli aggiunge l’incostanza del carattere, l’ignoranza di sé. Questo lo porta ad ingannarsi non solo sulla realtà politica che lo circonda, ma sulla sua stessa immagine; si trova così, quasi senza volerlo, sottomesso alla volontà della madre, Volumnia. Questa è la figura di matrona romana nelle cui parole par quasi di sentire un’eco ante litteram del Machiavelli: “Chi diventa principe col favore dei grandi deve anzitutto guadagnarsi il favore del popolo, farsi “gran simulatore e dissimulatore”. Coriolano, a differenza di Alcibiade, è il contrario di tutto questo.  CAIO MARCIO, detto poi “Coriolano” TITO LARZIO COMINIO, generali romani nella guerra contro i Volsci MENENIO AGRIPPA, amico di Coriolano SICINIO VELUTO GIUNIO BRUTO, tribuni della plebe IL PICCOLO MARCIO, figliolo di Coriolano Un araldo romano NICANOR, romano al servizio dei Volsci TULLO AUFIDIO, generale dei Volsci Un luogotenente di Aufidio ADRIANO, volsco Un cittadino di Anzio Due sentinelle volsche VOLUMNIA, madre di Coriolano VIRGINIA, sposa di Coriolano VALERIA, amica di Virginia Una dama di compagnia di Virginia Senatori romani e volsci Patrizi, edili, littori, soldati, cittadini, messaggeri Servi di Aufidio ed altri dei vari seguiti Cospiratori del partito di Aufidio SCENA: parte a Roma e nei dintorni di Roma; parte a Corioli e dintorni; parte ad Anzio. PERSONAGGI  ATTO PRIMO SCENA I - Roma, una strada Entra un gruppo di POPOLANI in rivolta, con mazze, randelli e altri ordigni PRIMO CITTADINO - (Agli altri) Prima d’andare avanti, m’ascoltate! TUTTI - Parla, parla. PRIMO CITT. - Decisi allora: morti, piuttosto che affamati! TUTTI - Decisi sì! - Decisi! PRIMO CITT. - Primo: ciascuno sa che Caio Marcio è il principale nemico del popolo. TUTTI – È Caio Marcio! Lo sappiamo tutti. PRIMO CITT. - Uccidiamolo, allora, e avremo il grano al prezzo nostro! Chiaro? TUTTI - Chiaro. Basta parole. Andiamo ai fatti! SECONDO CITT. - Una parola, buoni cittadini. PRIMO CITT. - “Buoni” dillo ai patrizi! Noi per loro non siamo che gentaccia! Il sovrappiù che avanza a lorsignori già ci procurerebbe alcun sollievo; quello che avanza dalla loro tavola, dico, che fosse appena digeribile; potremmo almeno farci l’illusione che ci aiutino per umanità; ma pensano che già costiamo troppo(4). La macilenza che ci affligge tutti, a specchio della nostra povertà, è per loro un inventario ad uomo per esibire la loro abbondanza. La nostra sofferenza è il lor guadagno. Vendichiamoci con le nostre picche prima che diventiamo dei rastrelli,(5) ché se parlo così, sanno gli dèi ch’è per fame di pane, e non punto per sete di vendetta!  SECONDO CITT. - E vorresti che noi si procedesse prima di tutti contro Caio Marcio? PRIMO CITT. - Contro di lui per primo; è un vero cane, quello, per il popolo. SECONDO CITT. - Hai ben considerato, tuttavia, quali servigi egli ha reso alla patria? PRIMO CITT. - Certamente, e sarei anche contento di dargliene pubblicamente merito; ma di ciò lui si paga da se stesso con la sua boria. SECONDO CITT. - Via, non dirne male. PRIMO CITT. - Io ti dico che tutto che di buono ha fatto è stato per un solo fine; anche se a certe tenere animucce può piacere di dire che l’ha fatto pel suo paese, in verità l’ha fatto per piacere a sua madre, ed anche, in parte, per soddisfare la propria ambizione, ché ce n’ha tanta per quanto ha coraggio. SECONDO CITT. - Tu gli addebiti a colpa qualcosa contro cui lui non può niente, perché fa parte della sua natura. Non puoi dire però che sia corrotto. PRIMO CITT. - Questo no, ma di accuse su di lui ne posso partorire a volontà(6). Di difetti ce n’ha di sopravanzo, da stancare ad enumerarli tutti! (Clamori all’interno) Ma che son queste grida?... L’altra parte della città è in rivolta, e noi ce ne restiamo qui a cianciare? Al Campidoglio, tutti! TUTTI - Andiamo! Andiamo! PRIMO CITT. - Un momento! Chi è che viene qui? Entra MENENIO AGRIPPA SECONDO CITT. - Il buon Menenio Agrippa, un galantuomo, uno che sempre volle bene al popolo.  PRIMO CITT. - Una persona onesta. Fossero tutti gli altri come lui! MENENIO - Ehi, cittadini, che intendete fare, dove volete andare, così armati di mazze e di randelli? PRIMO CITT. - Il motivo lo sa bene il Senato. È da due settimane che sanno quello che vogliamo fare. Ora glielo mostriamo con i fatti. Loro dicono che noi postulanti abbiamo il fiato forte: ora sapranno che abbiamo forti pure mani e braccia(7). MENENIO - Evvia, signori, buoni amici miei, onesti miei concittadini, diamine!, volete rovinarvi? PRIMO CITT. - Rovinati già siamo, amico; più non è possibile. MENENIO - Ed io vi dico invece, brava gente, che i patrizi si curano di voi col più caritatevole riguardo. Quanto a quel che vi manca, ciò che soffrite in questa carestia, alzare contro lo Stato romano le vostre mazze, è come alzarle in aria con l’intenzione di colpire il cielo: esso seguiterà per la sua strada, spezzando mille, diecimila ostacoli più forti che non possa mai sembrare quello di questa vostra opposizione. Quanto alla carestia, sono gli dèi che l’han voluta, non punto i patrizi, e davanti agli dèi sono i ginocchi, non le braccia, che possono soccorrervi. Ahimè, che voi vi fate trascinare dalla disgrazia dove altri malanni v’aspettano, a calunniar così e maledir come nemici gli uomini che reggono il timone dello Stato e di voi son pensosi, come padri. PRIMO CITT. - Di noi pensosi, quelli? Figuriamoci! Mai se ne son curati fino ad oggi. Ecco, ci lasciano morir di fame, e i magazzini son pieni di grano; sfornano editti per punir l’usura e favoriscon solo gli strozzini;  abrogano ogni giorno sane leggi promulgate a suo tempo contro i ricchi ed ogni giorno sfornano decreti sempre più duri per impastoiare ed affamare la povera gente. Se non saran le guerre, saranno loro a sterminarci tutti. Ecco qual è l’amore che ci portano. MENENIO - Dovete ammettere che a dir così siete mostruosamente in malafede, o si dovrà accusarvi di follia. Vi voglio raccontare una storiella su misura(8). L’avrete già sentita, ma poiché ben s’adatta al mio proposito, m’avventuro a ridurla un po’ più trita. PRIMO CITT. - Beh, sentiamola un po’. Ma non pensare di far sparire con un raccontino il nostro obbrobrio. Dilla, se ti piace. MENENIO - Successe un tempo che tutte le membra del corpo si levarono in rivolta contro lo stomaco, così accusandolo: restarsene esso solo, in mezzo al corpo, a ingozzarsi di cibo tutto il tempo come un gorgo, infingardo ed inattivo, senza divider mai con l’altre parti il lavoro comune, mentre quelle eran continuamente ad esso intente, ad udire, a pensare, a impartir ordini, a camminare, a percepir coi sensi, sì che aiutandosi l’una con l’altra, provvedevano insieme agli appetiti e ai bisogni comuni a tutto il corpo. Lo stomaco rispose... PRIMO CITT. - Beh, sentiamo, quale fu la risposta dello stomaco? MENENIO - Stavo appunto per dirtelo. Lo stomaco, mostrando loro un certo sorrisetto che non gli venne affatto dai polmoni(9) ma proprio qui, così...(10) perché, vedete, se posso farlo parlare, lo stomaco, posso ben farlo egualmente sorridere, provocatoriamente replicò alle parti che s’eran ribellate invidiose ch’ei solo ricevesse, esattamente come adesso voi che criticate i nostri senatori  perché non sono quali siete voi. PRIMO CITT. - La risposta del tuo stomaco... Beh? La testa, sede di regal diadema, l’occhio, vigil guardiano, il cuore, consigliere, il braccio, nostro difensore armato, la gamba, nostro caval di battaglia, la lingua, nostro araldo trombettiere, con tutte l’altre nostre munizioni e piccoli ausiliari di difesa di questa nostra fabbrica, se questi, tutti insieme... MENENIO - Ebbene, che?... (Tra sé) Parola mia, costui si parla addosso(11)! (Forte) Ebbene, allora? Avanti, su, che cosa? PRIMO CITT. - ... dovessero venir prevaricati dal cormorano stomaco(12), ch’è la fogna del corpo(13)... MENENIO - Ebbene allora? PRIMO CITT. - Allora, insomma, se questi che ho detto si lamentavano, che mai rispondere poteva il ventre? MENENIO - Te lo dico io, se mi concedi un poco di pazienza, anche se, come vedo, ce n’hai poca. PRIMO CITT. - Eh, quanto la fai lunga! MENENIO - Stammi bene a sentire, buon amico... Dunque lo stomaco, con gran sussiego, pesando le parole, in tutta calma, al contrario dei suoi accusatori, dice: “Miei cari consociati, è vero ch’io ricevo per primo tutto il cibo da cui traete voi sostentamento; ma è giusto e logico che sia così(14) dal momento ch’io sono il magazzino e l’officina di lavorazione di tutto il corpo. E se ci riflettete, io lo rimando poi regolarmente, pei canali del sangue, fino al palazzo della corte, al cuore, al suo trono, il cervello,  e, attraverso i tortuosi labirinti e le diverse stanze di servizio della persona, i più robusti muscoli, e le più capillari delle vene ricevono da me regolarmente la naturale dose d’alimento onde ciascuno trae la propria vita. Ed anche se voi tutti presi insieme...” - attenti, amici, adesso, attenti bene, a ciò che dice il ventre... PRIMO CITT. - Sì, ma sbrigati. MENENIO - “... anche se non potete, lì per lì, vedere ciò che fornisco a ciascuno, cionondimeno alla resa dei conti il mio bilancio è a posto, perché tutti ricevono da me il fior fiore di tutto, laddove a me non resta che la crusca”. Beh, che ne dite? PRIMO CITT. - Una risposta l’era, questa; ma come può adattarsi a noi? MENENIO - Fate conto che siano i senatori di Roma questo stomaco, e voialtri le membra ammutinate. Perché considerate in generale le lor delibere e le lor premure, digerite a dovere entro di voi quanto concerne il pubblico benessere, e troverete che dei benefici che tutti riceviamo dallo Stato non ce n’è che non vengano da loro, e nessuno da voi. (Al Primo Cittadino) Beh, che ne pensi, tu che sei, come mi sembri, l’alluce del piede di codesto assembramento? PRIMO CITT. - Io, alluce? Perché? MENENIO - Perché sei tra i più bassi, i più schifosi, i più morti di fame di codesta saggissima rivolta, e vai avanti a tutti, tu, cagnaccio che sei del peggior sangue quanto a correre, e ti dài arie da caporione sol per trarne vantaggio personale!  Impugnateli pure i vostri arnesi, i nodosi randelli ed i batacchi: Roma ed i sorci della sua cloaca stan per darsi battaglia, chi sa quale dei due avrà la peggio(15)! Entra CAIO MARCIO MENENIO - Salute a te, nobile Marcio. MARCIO - Grazie! (Al popolo) Che vi succede, torpida canaglia, che a furia di grattarvi notte e giorno la scabbia della vostra ostinazione siete ridotti a una putrida rogna? PRIMO CITT. - Sempre buone parole da te, Marcio! MARCIO - Buone parole, ad uno come te, chiunque le dice sse, sarebbe un basso e immondo adulatore. Che volete, cagnacci, cui non va bene né pace, né guerra, perché l’una vi fa tanti conigli(16), l’altra vi fa sfrontati e tracotanti? E a fidarsi di voi, non che scoprir che siete dei leoni, ci si accorge che siete solo lepri, oche, invece di volpi. No, si può far meno fiducia in voi che in un tizzone acceso in mezzo al ghiaccio, che in un granello di grandine al sole. Siete capaci d’innalzare al cielo chi è punito per qualche sua magagna, e insieme maledire la giustizia che l’ha punito. Chi merita onore, non può che meritare l’odio vostro; le vostre simpatie per questo o quello son come l’appetito di un malato che va desiderando soprattutto ciò che può solo peggiorargli il male. Chi dipendesse dal vostro favore è come se nuotasse avendo ai piedi pinne di piombo, o avesse l’illusione di segare una quercia con dei giunchi. Fidare in voi?... Impiccatevi! Voi mutate gabbana ogni minuto. Siete pronti a dir nobile chi poco prima coprivate d’odio, e vile chi era prima il vostro eroe.  E adesso che v’ha preso, d’andare urlando per le vie di Roma contro il Senato che, grazie agli dèi, riesce ancora a mantenervi a freno(17), se no vi sbranereste l’un con l’altro? (A Menenio) Che van cercando? MENENIO - Grano, al loro prezzo, perché sostengono che la città n’è ben fornita. MARCIO - Alla forca! “Sostengono”!... Siedono tutto il tempo accanto al fuoco, e pretendono di sapere loro tutto quel che succede in Campidoglio(18): chi può andare più in alto, chi ci sta con buone prospettive, chi declina; parteggiano or per uno or per un altro, s’inventano alleanze immaginarie, innalzano alle stelle una fazione e sotto le lor scarpe rattoppate calpestano chi non va loro a genio. Dicono che c’è grano in abbondanza! Se i nobili mettessero da parte per una volta la loro pietà e lasciassero a me d’usar la spada, ne farei un tal mucchio, fatti a pezzi, di migliaia di questi miserabili alto quanto gittar può la mia lancia(19). MENENIO - Non c’è bisogno. Quelli che son qui son già quasi convinti tutti quanti(20); perché se pur son largamente privi d’ogni criterio di moderatezza, sono pure abbondantemente vili. Dimmi piuttosto tu, che cosa dice il resto della mandria(21). MARCIO - Si son dissolti. Che crepino tutti! Dicevan d’aver fame, e davan fiato sospirando a sentenze come queste: “La fame fa crepare anche le mura”; “Pure i cani han diritto di mangiare”; “Gli dèi non hanno dato il grano agli uomini soltanto per i ricchi”... ed altre simili. E con questi cascami di saggezza esalavano il loro malcontento; finché han trovato chi gli ha dato retta ed ha esaudito una lor petizione...  una richiesta assurda, da spezzare il più generoso cuore(22), e spegnere sul volto del potere ogni baldanza. E quelli tutti a urlare, gettando i loro cappellacci in aria, come se li volessero appiccare ai corni della luna. MENENIO - E che cos’è ch’è stato lor concesso? MARCIO - Cinque tribuni, di lor propria scelta, a difesa della plebea saggezza. Uno dei cinque è Giunio Bruto, un altro è Sicinio Voluto... e non so più(23). Ma, sangue degli dèi, se stesse a me, questa canaglia, prima di spuntarla doveva scoperchiare tutta Roma! Questi col tempo prenderan la mano sul potere legittimo, e pian pian accamperanno sempre altre pretese come pretesto ad una insurrezione. MENENIO - Certo, la cosa è sconcertante assai. MARCIO - (Alla folla) A casa, a casa, avanti, spazzatura! Entra di corsa un MESSAGGERO MESSAGGERO - Caio Marcio dov’è? MARCIO - Qui. Che succede? MESSAGGERO - Marcio, è giunta notizia che i Volsci sono in armi. MARCIO - Ne ho piacere. Potremo sbarazzarci finalmente di tanto nostro ammuffito superfluo(24). Ma ecco i nostri più nobili anziani. Entrano COMINIO, TITO LARZIO, con altri SENATORI, poi GIUNIO BRUTO e SICINIO VOLUTO PRIMO SENATORE - Marcio, quel che ci hai detto ultimamente è confermato: i Volsci sono in armi. MARCIO - Ed hanno a capitano Tullo Aufidio, uno che vi darà filo da torcere. Peccherò, ma m’invidio il suo valore, e se fossi altro da quello che sono,  vorrei essere lui, e nessun altro. COMINIO - Vi siete già scontrati faccia a faccia. MARCIO - Se la metà del mondo si scontrasse con l’altra, e Tullo Aufidio si venisse a trovar dalla mia parte, io cambierei di fronte per guerreggiar con lui solo. È un leone a cui m’inorgoglisce dar la caccia(25). PRIMO SENAT. - E allora, degno Marcio, unisciti a Cominio in questa guerra. COMINIO - Me l’hai promesso, Marcio. MARCIO - E lo mantengo. E mi vedrai ancora, Tito Larzio, volteggiare la lama in faccia a Aufidio. Che hai? Ti vedo alquanto titubante. Ti tiri fuori? LARZIO - No, Marcio, che dici? Appoggiato magari a una stampella e brandendo quell’altra come un’arma, piuttosto che mancare a quest’impresa. MENENIO - Eh, buon sangue romano... PRIMO SENAT. - Allora tutti insieme in Campidoglio, dove so che si trovano ad attenderci i più degni ed illustri nostri amici. LARZIO - (A Cominio) Tu avanti a tutti. (A Marcio) E tu dopo di lui. Noi seguiremo. A voi la precedenza. COMINIO - (Prendendo sottobraccio Marcio e avviandosi) Nobile Marcio! (Alla folla) A casa, via, sparite! MARCIO - Ma no, lascia che vengano anche loro. I Volsci han molto grano. Portiamoli da loro, questi sorci, a rosicchiare i lor granai, perbacco! Ribelli rispettabili, il valor vostro ha buone prospettive. Seguiteci, vi prego.  (I popolani si disperdono) (Gli altri escono tutti, meno SICINIO e BRUTO) SICINIO - S’è visto mai un uomo più arrogante di questo Marcio? BRUTO - Non ce n’è l’uguale. SICINIO - Quando ci elessero tribuni... BRUTO - Già, notasti pure tu le labbra, gli occhi(26)? SICINIO - No, notai solo le sue insolenze. BRUTO - Oh, quanto a quelle, se perde le staffe non esita ad insolentir gli dèi. SICINIO - O a schernire la vereconda luna(27). BRUTO - Se questa guerra se lo divorasse! È diventato troppo strafottente, per essere altrettanto valoroso. SICINIO - Uno con un carattere così, se il successo gli fa montar la testa, arriverà a sdegnare la sua ombra e pestarla coi piedi a mezzogiorno. Mi sorprende perciò che tanta boria giunga a piegarsi tanto docilmente da farsi comandare da Cominio. BRUTO - La fama, cui palesemente aspira, e che già gli ha concesso i suoi favori, non c’è mezzo migliore per serbarla intatta ed anche accrescerla che operare in un posto dopo il primo; così quando le cose vanno male, sarà colpa del comandante in capo, abbia pur egli fatto tutto il meglio ch’è possibile a un uomo; ed a quel punto gl’immancabili stupidi censori si daranno a gridar di Caio Marcio: “Ah, se l’avesse comandata lui quest’impresa!”. SICINIO - Se invece vanno bene, la voce della pubblica opinione, ch’è già così favorevole a Marcio, defrauderà Cominio d’ogni merito.  BRUTO - E così la metà di tutti i meriti che spettano a Cominio andranno a Marcio, senza che questo li abbia meritati. SICINIO - Ma muoviamoci. Andiamo un po’ a sentire che cosa si decide per la guerra e come intende lui, col suo carattere, avventurarsi in questa impresa. BRUTO - Andiamo. (Escono) SCENA II - Corioli, il Senato Entra TULLO AUFIDIO con alcuni SENATORI PRIMO SENATORE - Così, tu pensi, Aufidio, che quei di Roma siano a conoscenza dei nostri piani e delle nostre mosse? AUFIDIO - E voi non lo pensate? Ci fu mai decisione in questo Stato ch’abbia potuto mandarsi ad effetto prima che Roma se ne impadronisse? Ho notizie di là abbastanza fresche, meno di quattro giorni, che mi dicono... Credo d’aver con me il dispaccio... Eccolo (Legge) “Hanno ammassato un poderoso esercito, “ma non si sa per qual destinazione, “se ad est oppure ad ovest... “Nella città la carestia è grande, “e nel popolo c’è molto fermento. “Si dice che Cominio insieme a Marcio, “il vecchio tuo nemico, odiato a Roma “più che da te, e insieme a Tito Larzio, “un romano di altissimo valore, “saranno i comandanti designati “di quest’azione, dovunque diretta. “Molto probabilmente “essa è contro di voi. State in allarme”. PRIMO SENAT. - La nostra armata è in campo. Eravamo sicuri che da Roma ci sarebbe venuta la risposta(28)... AUFIDIO - ... a giudicar non certo una follia creder che i vostri piani di battaglia  avessero a tenersi sotto chiave finché non fosse proprio necessario ch’essi si rivelassero da soli(29); invece, a quanto pare, erano noti a Roma sin da quando si covavano. Questa brutta scoperta c’impone adesso d’abbassar la mira, ch’era di prendere molte città prima almeno che Roma sapesse ch’eravamo scesi in guerra. SECONDO SENAT. - Nobile Aufidio, assumi tu il comando, raggiungi le tue truppe, e lascia a noi di difender Corioli. Se s’accampasser qui davanti a noi, porta su le tue forze per cacciarli. Ma penso ch’essi, lo vedrai tu stesso, non si preparano contro di noi. AUFIDIO - Ah, su ciò non illuderti. Le mie notizie son di fonte certa. Dirò di più, già alcuni scaglioni del loro esercito stanno marciando, e soltanto per questa direzione. Mi congedo, signori. Se Marcio ed io dovessimo incontrarci, ci siamo già giurati di combattere fin che un non soccomba. TUTTI - Il ciel t’assista! AUFIDIO - E protegga le vostre signorie. PRIMO SENAT. - Addio! SECONDO SENAT. - Addio! TUTTI - Addio! (Escono tutti, i Senatori da una parte, Aufidio dall’altra) SCENA III - Roma, la casa di Caio Marcio VOLUMNIA e VIRGINIA siedono intente a cucire VOLUMNIA - Canta, figlia, ti prego, o almeno mostrati un po’ meno triste! Se Marcio invece d’essere mio figlio fosse mio sposo, sarei più felice di saperlo lontano a farsi onore,  che averlo a letto a gustarne gli amplessi, per quanto amore egli potesse effondere. Quand’era ancora un tenero fanciullo, e l’unico rampollo del mio ventre, e la sua fascinosa giovinezza gli attirava gli sguardi della gente; quando una madre, neppure se un re l’avesse scongiurata un giorno intero, se lo sarebbe fatto allontanare dalla vista nemmeno per un’ora, io, presaga da allora della gloria cui uno come lui era votato (ché se brama d’onor non lo animasse, sarebbe stato nulla più che un quadro da restare appiccato alla parete), ero felice di lasciarlo andare in cerca di pericolo, dovunque egli potesse incontrar fama. E lo mandai ad una cruda guerra, dalla quale però fece ritorno col capo cinto di foglie di quercia(30). Ti dico, figlia, che di tanta gioia non sussultai sentendo il primo annuncio che avevo partorito un figlio maschio, quanta fu a veder la prima volta qual uomo vero egli s’era mostrato. VIRGINIA - E se fosse caduto in quell’impresa, madre, che avreste fatto? VOLUMNIA - Avrei serbato al posto di mio figlio la gloria del suo nome, e in essa avrei ritrovato mio figlio. Senti quel che ti dico, cuore in mano: avessi pur dodici figli maschi, tutti egualmente amati, e nessuno di loro meno caro del tuo e mio buon Marcio, preferirei vederne morir undici nobilmente, in difesa della patria, che saperne uno solo dissipare la vita nei piaceri, lontano dalle fatiche di guerra. Entra un’ANCELLA ANCELLA - Padrona, è qui la nobile Valeria, per farti visita. VIRGINIA - Madre, ti supplico, dammi licenza, vorrei ritirarmi.  VOLUMNIA - Niente affatto, non devi. Mi par già di sentire qui, vicino, il rullo dei tamburi del tuo sposo, e di vederlo che trascina in terra, presolo pei capelli, quell’Aufidio, ed i Volsci fuggire innanzi a lui come bambini alla vista dell’orso(31)... E vederlo che pesta i piedi a terra, così, e gridare: “Avanti, voi, vigliacchi! Figli della paura, e non di Roma(32)!” e asciugarsi la fronte insanguinata con una mano inguantata di ferro, ed avanzar pel campo di battaglia simile a un mietitore che s’imponga di mieter tutto il campo per non perder la paga giornaliera. VIRGINIA - La fronte insanguinata?... Oh, Giove, no! VOLUMNIA - Via, sciocca! Il sangue s’addice ad un uomo meglio dell’oro sopra il suo trofeo(33). I seni d’Ecuba giovane sposa che allattavano Ettore bambino non erano più belli della fronte di lui quando, sprezzante, schizzava sangue per le greche spade. (All’ancella) Va’, di’ a Valeria che siamo qui pronte a darle il benvenuto in casa nostra. (Esce l’ancella) VIRGINIA - Proteggano gli dèi il mio signore dal terribile Aufidio. VOLUMNIA - Sarà lui, che schiaccerà del fero Aufidio il capo col suo ginocchio e il collo col suo piede. Rientra l’Ancella con VALERIA e un servo di questa VALERIA - Buongiorno a voi, mie donne! VOLUMNIA - Cara amica! VIRGINIA - Son lieta di vederti. VALERIA - Come state? Brave massaie, vedo. Un bel lavoro:  che ricamate?... E il bimbo come sta? VIRGINIA - Sta bene, buona amica, ti ringrazio. VOLUMNIA - Preferirebbe stare tutto il giorno a veder spade ed udire tamburi, piuttosto che star dietro al suo maestro. VALERIA - Parola mia, il figlio di suo padre! Un frugoletto stupendo, davvero. Vi dirò, sono stata ad osservarlo mercoledì scorso per una mezz’ora: che piglio risoluto! A un certo punto l’ho visto correr dietro a una farfalla dalle alucce dorate; l’acchiappò, poi la lasciò andar libera di nuovo, e lui di nuovo dietro, ruzzolando su e giù, e rialzandosi, finché riesce ad acchiapparla ancora; e là, o l’avesse urtato il ruzzolone, o che cos’altro, la serra tra i denti, così, e la sbrana. E come l’ha ridotta, non vi dico. VOLUMNIA - Gli scatti di suo padre! VALERIA – È così, vero, un bimbetto di razza. VIRGINIA - Un monello, mia cara. VALERIA - Via, mettete da parte quel ricamo. Vo’ farvi fare, questo pomeriggio con me la parte di massaie oziose. VIRGINIA - No, mi dispiace, non mi va uscire. VALERIA - Non vuoi uscire? VOLUMNIA - Uscirà, uscirà! VIRGINIA - Davvero, no, perdonami, Valeria, ma ho deciso di non varcar quell’uscio finché non sia tornato il mio signore dalla guerra. VALERIA - Ma via, è irragionevole. che tu t’imponga un simile confino. Su, devi pur deciderti a far visita a quell’amica che sta per sgravarsi. VIRGINIA - Le faccio voti d’un felice parto  e le sto accanto con le mie preghiere; ma visitarla, adesso, no, non posso. VOLUMNIA - Perché? VIRGINIA - Non per sottrarmi ad un fastidio, e tanto meno per poca affezione. VALERIA - Vuoi farti proprio una nuova Penelope. Dicon però che tutta quella lana ch’ella filò nell’assenza di Ulisse non servì che a riempir di tarme Itaca. Eh, vorrei tanto che questa tua tela fosse sensibile come il tuo dito, così potresti, almeno per pietà, smettere di bucarla con quell’ago! Su, devi uscir con noi. VIRGINIA - No, cara amica, perdonami, ma io non uscirò. VALERIA - Senti, se vieni, sulla mia parola, ti fornirò eccellenti notizie di tuo marito. VIRGINIA - Ah, mia buona amica, è troppo presto ancora per averne. VALERIA - T’assicuro, non scherzo. Ne abbiamo ricevute ieri sera. VIRGINIA - Parli sul serio? VALERIA - In sacra verità. Ne ho sentito parlare un senatore. Son queste: i Volsci sono scesi in campo, contro di loro è partito Cominio con una parte delle nostre forze. Con l’altra tuo marito e Tito Larzio sono accampati davanti a Corioli, la loro capitale. Son sicuri di prenderla, e concludere presto la campagna. La notizia è sicura, sul mio onore. E dunque avanti, non farti pregare, vieni con noi. VIRGINIA - Ti chiedo ancora scusa, mia cara. Un’altra volta, tutto quello che vuoi, te lo prometto.  VOLUMNIA - Evvia, lasciala stare! Con l’umore che adesso si ritrova non farebbe che rattristar noi pure. VALERIA - Lo penso anch’io. (A Virginia) Allora, arrivederci. (A Volumnia) Andiamo, cara amica. (Volgendosi di nuovo a Virginia) Evvia, ti prego, caccia la mutria, vieni via con noi. VIRGINIA - No, non insistere. Non esco e basta. V’auguro buon divertimento. VALERIA - Addio. (Escono Volumnia e Valeria. Virginia si richina sul ricamo) SCENA IV - L’accampamento romano davanti a Corioli Entrano CAIO MARCIO e TITO LARZIO con un seguito di ufficiali e soldati con tamburi e vessilli. Un MESSAGGERO si fa loro incontro. MARCIO - Arrivano notizie. Scommetto che si sono già scontrati. LARZIO - Il mio cavallo contro il tuo che no. MARCIO - Accettato. LARZIO - D’accordo, affare fatto. MARCIO - (Al Messaggero) Di’, s’è scontrato il nostro generale col nemico? MESSAGGERO - Si trovano già in vista l’un dell’altro, ma scontro ancora niente. LARZIO - Il tuo cavallo è mio! MARCIO - Te lo ricompro. LARZIO - Nient’affatto, né te lo do in regalo. Te lo do in prestito per cinquant’anni. (Al Trombettiere) Appella a parlamento la città.  MARCIO - (Al Messaggero) Quanto distan da qui i due eserciti? MESSAGGERO - Un miglio e mezzo circa, non di più. MARCIO - Allora sentiremo il loro allarme d’inizio della mischia, ed essi il nostro. Ora, Marte, ti prego, facci concludere alla svelta qui(34), sì che da qui possiamo poi marciare, con le daghe di sangue ancor fumanti, in aiuto dei nostri amici in campo. (Al Trombettiere) Avanti, la tua squilla. (Tromba a parlamento. Sugli spalti delle mura di Corioli appaiono due SENATORI con altra gente) (Ai due Senatori volsci) Tullo Aufidio è in città? PRIMO SENATORE - No, né c’è uomo qui che men di lui vi tema: vale a dir meno che niente. (Rullo di tamburi in lontananza) Ecco i nostri tamburi che chiamano a battaglia i nostri giovani. E noi, piuttosto che lasciarci chiudere come in trappola dentro queste mura, le abbatteremo. Queste nostre porte che sembrano sbarrate fortemente, le abbiam fermate appena con dei giunchi. Si apriranno da sé. (Frastuono di carica guerresca in lontananza) Laggiù, sentite? Aufidio è là; potete immaginarlo il bel lavoro ch’egli sta facendo in mezzo al vostro dimezzato esercito(35). MARCIO - Oh, s’azzuffano! LARZIO - Questo lor clamore sia il nostro segnale. Qua le scale! (Soldati volsci escono improvvisamente dalle mura) MARCIO - Non ci temono, questi, anzi, vedete, ci fanno addirittura una sortita! Avanti allora, scudi avanti al cuore, e col cuore più saldo degli scudi,  all’assalto, mio valoroso Tito! Costoro mostrano d’averci a spregio più di quanto potessimo pensare; e ciò mi fa sudare dalla rabbia! All’assalto, all’assalto, miei soldati! Il primo che indietreggia, lo prenderò per un soldato volsco, e gli farò assaggiare la mia spada! (Allarme di battaglia. I Romani sono respinti sulle loro posizioni) (Marcio esce combattendo, poi rientra, infuriato, gridando) Ah, vergogna di Roma! Branco di... Vi s’attacchino addosso tutti i mali più pestilenti d’Africa! Carogne! Vi ricoprano pustole e bubboni, sì che ancor prima di guardarvi in faccia vi possiate infettar l’un con l’altro a un miglio di distanza controvento! Anime d’oca dentro umane forme! Come avete potuto indietreggiare davanti a un’accozzaglia di straccioni che perfino le scimmie sarebbero capaci di sconfiggere? Per Plutone e l’inferno siete feriti tutti nella schiena, con le facce slavate per la fuga e la paura che vi fa tremare! Pensate a riscattarvi, scellerati! Ricacciateli indietro, o, per il cielo, mollo il nemico e vi combatto contro! V’ho avvertiti. Tenete duro! Avanti! E li ricacceremo alle lor tane, in braccio alle lor mogli, così com’essi ci hanno ricacciati alle nostre trincee. Su, dietro a noi! (Altra carica. Questa volta i Romani hanno la meglio, i Volsci sono volti in fuga, e Marcio li insegue da solo fino alle porte della città) Ecco, le porte adesso sono aperte. Dimostratevi buoni inseguitori. A chi insegue le apre la Fortuna, le porte, non a chi se la dà a gambe! Guardate me, e fate come me. (Entra da solo in Corioli) PRIMO SOLDATO - (Arrestandosi cogli altri davanti alla porta ancora aperta) È prodezza da folle, io non lo seguo.  SECONDO SOLD. - E io nemmeno. (Improvvisamente la porta si chiude) Toh, guardalo là! L’han chiuso dentro. TUTTI – È in trappola, sicuro! Entra TITO LARZIO LARZIO - Che succede di Marcio? TUTTI - Ucciso, generale, non c’è dubbio. PRIMO SOLDATO - Stava inseguendo quelli che fuggivano, è entrato insieme a loro, e quelli, subito, gli hanno richiuso la porta alle spalle. È solo, contro tutta la città. LARZIO - Oh, nobile collega! Tu che sensibilmente(36) in audacia superi l’insensibile tua spada, e resisti, se pur essa si piega! Tu sei perduto, Marcio! Un diamante della più pura luce(37) e dello stesso peso del tuo corpo non sarebbe gioiello più prezioso! Tu eri, come nessun altro a Roma, il soldato voluto da Catone(38), fiero e tremendo non solo a colpire, ma cui bastava solo un truce sguardo e un grido della tua voce di tuono, per incuter tal tremito al nemico, come se tutto il mondo fosse preso subitamente da tremor febbrile. Entra MARCIO, sanguinante, inseguito da soldati volsci(39) PRIMO SOLDATO - Oh, generale, guarda, guarda là! Ma quello è Marcio! Corriamo a salvarlo, o qui si muore tutti insieme a lui! (Zuffa. I Romani sopraffanno i Volsci ed entrano tutti in Corioli) SCENA V - Corioli, una strada Entrano alcuni legionari romani recando in mano delle spoglie di guerra PRIMO SOLDATO - (Mostrando un oggetto d’argento) Io questa roba me la porto a Roma.  SECONDO SOLD. - E io con quest’altra. TERZO SOLDATO - (Gettando via il proprio bottino) Accidentaccio!... Questo l’avevo preso per argento! (In lontananza, il fragore di cariche che continuano) Entra CAIO MARCIO, sanguinante, con TITO LARZIO e un trombettiere. Al vederli, i soldati con le spoglie di guerra escono. Marcio si ferma a seguirli con lo sguardo. MARCIO - Eccoli là, questi eroi da strapazzo! L’onore di soldato(40) per costoro non vale più d’una dracma crepata(41). Ferri vecchi, cuscini, cucchiaiacci, giaccacce lise che perfino il boia seppellirebbe con chi le portava(42), saccheggian tutto, questi manigoldi, tutto imballano, per portarlo a casa, prima ancora che cessi la battaglia! Che crepassero tutti!... Senti, senti che chiasso leva di là il generale(43)! A lui adesso! Là c’è un uomo, Aufidio, ch’io odio sovra ogni altra cosa al mondo, e sta facendo strage di Romani! Perciò, trattieniti, mio prode Tito, quanti soldati credi che ti servano per tener la città; io, nel frattempo, con quelli che hanno l’animo di farlo, accorro a dare man forte a Cominio. LARZIO - Ma tu sanguini, mio nobile Marcio. Già troppo dura prova hai sostenuto, per combattere ancora. MARCIO - Niente lodi. Quel che ho fatto non m’ha manco scaldato. Perdere un po’ di sangue, col mio fisico, fa più bene che male. Voglio apparir così davanti a Aufidio, e battermi con lui. LARZIO - Possa allora la bella dea Fortuna innamorarsi di te follemente, e con la forza dei suoi incantesimi sviar da te le spade dei nemici, ed il Successo diventar tuo paggio. MARCIO - E a te non meno sia il Successo amico di quanto l’è a coloro cui Fortuna  decide di portare in alto. Addio. (Esce) LARZIO - Nobile Marcio! (Al trombettiere) Va’, recati al Foro e chiama con la tromba a parlamento tutti i notabili della città: che s’adunino in piazza, per conoscere i nostri intendimenti. (Escono) SCENA VI -Il campo di Cominio Entra COMINIO alla testa di soldati romani in ritirata COMINIO - Alt, riprendete fiato, miei soldati! Vi siete ben battuti! Ne siamo usciti fuori da Romani, senza resistere spavaldamente, senza vigliaccamente ritirarci. Ci attaccheranno ancora, son sicuro. Mentre ci scontravamo, di quando in quando, portate dal vento, si sentivan le cariche dei nostri dall’altra parte. Che gli dèi di Roma li vogliano guidare alla vittoria, come speriamo vogliano con noi, così che al fine entrambi i nostri eserciti, incontrandosi col sorriso in fronte, possano offrirvi, o dèi, i sacrifici di ringraziamento! Entra un MESSAGGERO Che nuove porti? MESSAGGERO - Quelli di Corioli, han fatto all’imprevisto una sortita e hanno dato battaglia a Larzio e Marcio. Ho visto io stesso i nostri che venivano ricacciati indietro nelle loro trincee; e son partito. COMINIO - Sarà come tu dici, ma non mi pare sia proprio così. Da quanto tempo sei venuto via?  MESSAGGERO - Da più di un’ora. COMINIO - Ma da qui a Corioli non c’è nemmeno un miglio di distanza, e da poco si sono uditi qui i lor tamburi. Come hai tu potuto metterci un’ora a percorrere un miglio, e recar così tardi il tuo messaggio? MESSAGGERO - Sulle mie tracce alcune spie dei Volsci m’hanno dato la caccia, e m’ha costretto a fare un giro di tre o quattro miglia, per evitarle; se no, generale, t’avrei recato già mezz’ora fa il mio messaggio. Entra MARCIO dal fondo Ma chi è laggiù, che par come se l’abbian scorticato? O dèi! Dalla figura sembra Marcio! L’ho visto già altre volte in quello stato. MARCIO - (Da lontano) Arrivo troppo tardi? COMINIO – È la sua voce. Saprei distinguerla da altre mille, meglio di quanto non sappia il pastore il fragore di un tuono da un tamburo(44). MARCIO - (Avvicinandosi) Arrivo troppo tardi? COMINIO - Sì, se quel sangue che t’ammanta tutto, è sangue tuo, e non sangue nemico(45). MARCIO - Ah, lascia ch’io ti abbracci forte, Cominio, e con la stessa gioia con la quale abbracciai la mia ragazza al declinar del giorno delle nozze, quando ardenti bruciavano le fiaccole a farmi luce sulla via del talamo! COMINIO - Fior di tutti i guerrieri! E Tito Larzio, che mi dici di lui? MARCIO - Ch’è tutto preso ad emanar decreti di giustizia, chi condannando a morte, chi all’esilio, di chi accettando il prezzo del riscatto,  con chi indulgente, con chi rigoroso; tiene Corioli, nel nome di Roma, al guinzaglio, come un levriero docile da lasciar libero come si voglia. COMINIO - (Volgendosi intorno) Dov’è quel miserabile che poc’anzi è venuto ad annunciarmi che il nemico v’aveva ricacciati nelle vostre trincee?... Dov’è? Chiamatelo! MARCIO - Lascialo stare. T’ha informato bene. A parte i nobili, la bassa forza - peste li colga! E gli han dato i tribuni! - son fuggiti, come da gatto sorcio, davanti a scalcagnati più di loro. COMINIO - E come avete fatto a prevalere? MARCIO - C’è tempo per spiegartelo? Non credo. Ma il nemico dov’è? Siete rimasti, a quanto pare, padroni del campo. Se no, perché cessaste di combattere? COMINIO - Finora, Marcio, abbiamo combattuto in una posizione di svantaggio, e ci siam ritirati di proposito, per poi rifarci e vincerli. MARCIO - Sai com’hanno schierato il loro esercito? E dove han messo gli uomini migliori? COMINIO - Da quel che m’è dato indovinare, in prima linea son quelli di Anzio, che sono i combattenti più affidabili, e li comanda Aufidio, il vero cuore delle lor speranze. MARCIO - Ti supplico, Cominio, per le battaglie combattute insieme, per il sangue che insieme abbiam versato, pei giuramenti che ci siam fatti, fa’ in modo ch’io mi trovi faccia a faccia con Aufidio e con tutti i suoi Anziati, e non tardare ad attaccar battaglia; affrontiamoli subito, riempiamo di frecce l’aria, e di spade brandite. COMINIO - Sarebbe meglio, penso, nel tuo stato, ch’io ti faccia condurre ad un bel bagno e spalmarti d’unguenti le ferite;  ma non saprò giammai negarti nulla. Scegli tu stesso gli uomini più adatti a secondarti nell’azione. MARCIO - Saranno solo quelli che mi diranno d’esservi disposti. (Forte, ai soldati) Se c’è qualcuno qui - e sarebbe peccato dubitarlo - cui piaccia questa tinta ond’io, vedete, sono imbrattato dalla testa ai piedi; se c’è qualcuno che ha meno paura di rischiare la vita che il suo nome, che pensa che una morte valorosa vale più d’una vita senza onore; e che la patria val più che se stesso, egli solo, o quant’altri in mezzo a voi si trovino a pensarla come lui, levino in alto il lor gladio, così, per dir che sono pronti a seguir Marcio. (Tutti, con un grido, agitano in alto i gladii; alcuni sollevano Marcio sulle loro braccia, altri lanciano in aria i berretti) Di me solo, di me fate una spada(46)! Se queste vostre manifestazioni non son soltanto mostra, quale di voi non vale quattro Volsci? Non c’è nessuno che non sia capace d’opporre al grande Aufidio uno scudo robusto come il suo. Io vi ringrazio tutti, ma tra voi debbo scegliere solo un certo numero. Gli altri daranno prova in altra impresa, quando se ne presenti l’occasione. Ora vi piaccia di sfilarmi innanzi in bell’ordine, sì ch’io possa scegliere subito quelli più adatti a seguirmi. COMINIO - In marcia, miei soldati! Date prova d’avere quel coraggio che avete sì altamente proclamato, e ciascuno dividerà con noi la sua parte di rischi e di bottino. (Escono marciando) SCENA VII - Davanti alle porte di Corioli  TITO LARZIO con un tamburino, un trombettiere e una guida è sul punto di partire per recare aiuto a Cominio e Caio Marcio; con lui è anche un LUOGOTENENTE con altri soldati LARZIO - (Al Luogotenente) Dunque, le porte siano ben guardate. Attenetevi agli ordini impartiti. Se lo richiederò, mandate subito quelle centurie(47) in nostro aiuto. Il resto basterà a tenere per poco la città; per poco, sì, ché se perdiamo in campo, la città non potremo più tenerla. LUOGOTENENTE - Va bene, generale, sarà fatto(48). LARZIO - Muoviamo, dunque, e chiudete le porte dietro di noi. (Alla Guida) Andiamo, battistrada, scortaci fino al campo dei Romani. (Escono) SCENA VIII - Il campo di battaglia. Allarme d’assalto Entrano da parti opposte, AUFIDIO e MARCIO MARCIO - Con te e con nessun altro voglio battermi, ché ti porto un odio quale nemmeno al peggiore spergiuro. AUFIDIO - Siamo pari. Non c’è serpente in Africa ch’io aborrisca più della tua fama e della tua rivalità. Difenditi(49)! MARCIO - Il primo che fa un solo passo indietro muoia schiavo dell’altro, e poi gli dèi lo dannino in eterno. AUFIDIO - Se mi vedi fuggire, urlami dietro, Marcio, come un cane corre abbaiando dietro ad una lepre. MARCIO - Tullo, da meno di tre ore, io, da solo ho combattuto contro tutti dentro le mura della tua Corioli, facendo tutto quello che ho voluto. Lo vedi questo sangue di cui sono imbrattato? Non è mio.  Chiama a raccolta tutte le tue forze, adesso, se vuoi farne tu vendetta. AUFIDIO - Fossi tu pure l’Ettore di Troia che della tua altezzosa progenie fu la frusta(50), stavolta non mi scappi. (Si battono. Soldati volsci accorrono in aiuto ad Aufidio, ma Marcio li ricaccia tutti indietro) (Ai suoi soldati) Gente zelante, ma non valorosa, con questo vostro maledetto aiuto m’avete sol coperto di vergogna! (Escono) SCENA IX -Il campo romano Squilli di tromba come segnali di carica. Trambusto e cozzo d’armi all’interno. Poi, segnale di ritirata(51) Entra da una parte COMINIO con l’esercito romano; dall’altra MARCIO con un braccio al collo COMINIO - Marcio, foss’io a raccontare a te quel che t’ho visto fare oggi in battaglia, tu stesso non mi presteresti fede. Ma lo riferirò dove saranno a udirlo senatori che mesceranno lacrime a sospiri ad ascoltarlo: dove grandi nobili ascolteranno, prima spallucciando tra loro increduli, infine ammirati; dove matrone, dapprima atterrite, poi trepidanti d’intimo piacere, vorranno udirmi raccontare ancora; dove gli ottusi, stupidi tribuni, che insieme alla lor plebe puzzolente t’hanno in odio, dovranno a malincuore pur esclamare: “Sien grazie agli dèi che Roma ha un tal soldato!”. Senza dire che tu, ad un tal banchetto sei venuto per dare solo un morso, avendo già mangiato a sazietà(52). Entra TITO LARZIO con l’esercito, di ritorno dall’aver inseguito i Volsci in rotta LARZIO - (A Cominio, indicando Marcio) Generale, il cavallo di battaglia è lui, noi siamo la sua bardatura. Lo avessi visto!...  MARCIO - Evvia, basta, ti prego! Anche mia madre, che pure ha il diritto di vantar con orgoglio il proprio sangue, se si mette ad elogiarmi, mi fa male. Ho fatto ciò che avete fatto tutti, cioè quanto ho potuto, come voi animato da un solo sentimento, l’amor della mia patria. Chiunque abbia operato con nient’altro che con la propria buona volontà, ha fatto esattamente come me. COMINIO - Non sarai tu la tomba dei tuoi meriti(53). Roma deve sapere quanto vali. Tener nascoste al mondo le tue gesta, sarebbe compiere un trafugamento peggior d’un furto; ammantar di silenzio qualcosa che quand’anche proclamata sui vertici più alti dell’elogio apparirebbe ancor ben più modesta della realtà, non è minor delitto d’una calunnia. Perciò ti scongiuro: per quello che tu sei, e non in premio di quello ch’hai fatto, ascoltami davanti al nostro esercito. MARCIO - Le ferite ch’ho addosso mi dolgono a sentirsi ricordare. COMINIO - Potrebbero, se non le ricordassimo, esulcerate dall’ingratitudine, curarsi da se stesse con la morte. Di tutti quei cavalli - e ne abbiam catturati d’assai buoni ed in gran numero - e del bottino conquistato sul campo ed in città, noi ti assegniamo la decima parte, che potrai scegliere liberamente prima che sia spartito tutto il resto. MARCIO - No, generale, grazie, ma non potrei convincere il mio cuore ad accettare un dono sottobanco(54) per pagar la mia spada. Lo rifiuto, e reclamo per me semplicemente la parte che hanno avuto tutti gli altri ch’hanno partecipato alla battaglia. (Lunga fanfara(55). Tutti gridano: “Marcio!”, lanciando in aria i berretti e le lance. Cominio e Larzio restano a capo scoperto)  Questi strumenti che voi profanate(56) non risuonino più così a sproposito! Quando tamburi e trombe son ridotti, sul campo di battaglia, a strumenti per adulare, allora si riempian le corti e le città di genti dalle facce false e ipocrite. Quando l’acciaio si fa così morbido come la seta addosso al parassita, s’elevi questo a simbolo di guerra(57)! Basta, basta, vi dico! Sol perch’io non mi son lavato il naso che sanguinava, sol ch’abbia abbattuto qualche misero scarto di natura - ciò che molti altri han fatto come me senza la minima nota di elogio - ecco che voi mi portate alle stelle con iperboliche acclamazioni, come s’io fossi un uomo che tenesse a vedere la pochezza ch’ei sa di essere alimentata dalle lodi con salsa di menzogne. COMINIO - Tu sei troppo modesto, e più spietato contro la tua fama che grato a noi che te la tributiamo con tutto il cuore. Con tua buona pace, però, se sei irritato con te stesso, ti metteremo le manette ai polsi come ad uno deciso a farsi male, così potremo ragionare insieme senza incorrere in chi sa quali rischi(58). Perciò sia proclamato a tutto il mondo, come a noi tutti qui, che Caio Marcio di questa guerra è il vero vincitore(59), ed io per questa sua benemerenza gli faccio dono del mio bel corsiero, animale famoso in tutto il campo, e della relativa bardatura. E d’ora in poi per quanto egli ha compiuto di valoroso davanti a Corioli, con unanime applauso ed un sol grido, si chiami Caio Marcio “Coriolano”. (A Coriolano(60) ) Di questo titolo sii sempre degno! TUTTI - (Con applausi e suon di trombe e tamburi) Sia gloria a Caio Marcio Coriolano! CORIOLANO - Ora vado a lavarmi, e sul mio viso  poi che l’avrò pulito, osserverete se me l’avrete fatto o no arrossire. Comunque vi ringrazio. (A Cominio) Intendo cavalcare il tuo destriero, ed il bel soprannome che m’hai dato porterò sempre, e nel modo più degno, in cima al mio cimiero. COMINIO - Ora torni ciascuno alla sua tenda: io, nella mia, prima di riposare, scriverò a Roma del nostro successo. Tu, però, Tito Larzio, è necessario che torni a Corioli, e mandi a Roma i loro più autorevoli, coi quali, per il bene loro e nostro, si possa negoziare. LARZIO - Lo farò. CORIOLANO - Gli dèi cominciano a prendermi a gioco: ho appena rifiutato d’accettare doni degni d’un principe, ed eccomi costretto a mendicare qualcosa dal mio comandante in capo. COMINIO - Già concessa, è tua. Di che si tratta? CORIOLANO - Io, a Corioli, più d’una volta fui ospite di un certo pover’uomo che mi si dimostrò molto cortese. L’ho visto adesso qui, tra i prigionieri, che mi gridava aiuto; in quell’istante però m’è apparso innanzi agli occhi Aufidio, e l’ira ha sopraffatto la pietà. Ecco, ti chiedo di lasciare libero quel mio buon ospite. COMINIO - E bene hai chiesto! Fosse pur l’assassino di mio figlio, libero se n’andrebbe, come l’aria. (A Larzio) Rilàsciaglielo, Tito. LARZIO - Il nome, Marcio? CORIOLANO - Per gli dèi, me lo son dimenticato! Sono stanco, ho la mente affaticata(61)... Non avreste del vino? COMINIO - Alla mia tenda, Marcio, andiamo, vieni.  Il sangue sulla faccia ti si secca. Pensiamo intanto a questo, adesso. Vieni. (Escono) SCENA X - Il campo dei Volsci Fanfara di cornette. Entra AUFIDIO tutto coperto di sangue, con dei soldati AUFIDIO - La città è presa. PRIMO SOLDATO - Ce la renderanno a buone condizioni. AUFIDIO - Condizioni!... Romano vorrei essere, ché da volsco non sono più me stesso! Condizioni!... Che buone condizioni può portare una resa a discrezione alla parte ch’è alla mercé dell’altra? O Marcio, ho combattuto cinque volte con te, e cinque volte tu m’hai vinto; e faresti altrettanto, son sicuro, c’incontrassimo pure tante volte quante ogni giorno ci sediamo a mensa. Ma, pel cielo e la terra!, se accadrà ch’io mi trovi un’altra volta faccia a faccia con lui, o io o lui! Il mio spirito di rivalità ha perduto ogni scrupolo d’onore; ché, se prima pensavo di schiacciarlo ad armi pari, spada contro spada, ora, sia l’ira a darmelo o l’astuzia, non più, qualsiasi mezzo sarà buono a spacciarlo. PRIMO SOLDATO – È il diavolo in persona. AUFIDIO - Più ardito, anche, se pur meno furbo. Il mio valore è come avvelenato solo a soffrire d’essere oscurato per colpa sua; e per causa di lui sarà costretto a fuggir da se stesso(62). Non ci sarà né sonno né santuario(63), sia nudo o infermo, non ci sarà tempio né Campidoglio, non sacre preghiere né cerimonia d’offerta agli dèi, - tutti freni al furore scatenato - ad arginare l’odio mio per Marcio in forza del lor marcio privilegio e dell’usanza che ancor li sostiene.  Dovunque me lo trovi innanzi agli occhi, foss’anche a casa mia, pure là, l’avesse pur mio fratello in custodia, contro ogni legge d’ospitalità, laverò la mia mano inferocita nel suo cuore... Tu ora va’ in città(64), informati in che modo è presidiata e chi son quelli ch’essi hanno prescelto per inviarli a Roma come ostaggi. PRIMO SOLDATO - Tu non ti muovi(65)? AUFIDIO - Sì, sono aspettato al bosco dei cipressi. Là, ti prego (è a sud della città, dopo i mulini) fammi sapere come stan le cose, ch’io possa regolarmi su quale corso muovere i miei passi. PRIMO SOLDATO - E così sarà fatto, comandante. (Escono) ATTO SECONDO SCENA I -Roma, una piazza Entrano MENENIO e i tribuni SICINIO e BRUTO, incontrandosi MENENIO - L’augure dice che per questa sera avremo novità. BRUTO - Buone o cattive? MENENIO - Non certo tali da piacere al popolo, che non vuol bene a Marcio. SICINIO - Natura insegna pure agli animali a conoscere chi è loro amico. MENENIO - Già, guarda, infatti: a chi vuol bene il lupo? SICINIO - All’agnello. MENENIO - Sì, appunto: per sbranarselo; come vorrebbero fare con Marcio gli affamati plebei.  BRUTO - Quello è un agnello però che bela come un orso. MENENIO - Un orso, che vive tuttavia come un agnello. Beh, voi siete due uomini maturi, ditemi solo questo. I DUE TRIBUNI - Ossia, che cosa? MENENIO - Che vizi possono imputarsi a Marcio, che voi due non abbiate in abbondanza(66)? BRUTO - Nessuno gliene manca; anzi, di tutti, si può dir che possieda ampia provvista. SICINIO - Specialmente di boria. BRUTO - E di alterigia come nessun altro. MENENIO - Ah, questo sì che è buffo! Lo sapete voi due come vi giudicano in città... Sì, qui, dico, in mezzo a noi della fila di destra(67)? Lo sapete? I DUE TRIBUNI - Ebbene, come siamo giudicati? MENENIO - Voi che parlate tanto d’alterigia... se ve lo dico non andrete in collera? I DUE TRIBUNI - Bene, allora?... MENENIO - Del resto, poco male, tanto si sa che a voi basta un’inezia per farvi uscire dai gangheri(68)... Ma sì, lasciate pur andar la briglia sciolta sul collo ai vostri permalosi umori, e andate in collera quanto vi pare, se ci provate gusto!... Proprio voi, accusar d’alterigia Caio Marcio? BRUTO - Non siamo i soli. MENENIO - Ah, questo lo so bene! Da soli voi sapete far ben poco; ed è perché son tanti ad aiutarvi che riuscite a fare anche quel poco: troppo infantili sono i vostri mezzi perché riusciate a far molto da soli. E venite a parlare d’alterigia!  Ah, poteste rivolger gli occhi in dentro, nei meandri dei vostri cervicali e fare un bell’esame di coscienza! Magari lo poteste! BRUTO - Ebbene, allora? MENENIO - Allora scoprireste un’accoppiata di magistrati scialbi, senza meriti, e tuttavia boriosi, prepotenti, lunatici, bizzosi, e insomma stolidi, come non ce n’è a Roma nessun altro. SICINIO - Va’ là, Menenio, che anche tu sei noto... MENENIO - Sì, lo so, sono noto per essere un patrizio un poco estroso, al quale piace un buon bicchier di vino(69) non annacquato nell’acqua del Tevere; uno di cui si dice che ha il difetto di dar ragione al primo che reclama; uno che prende fuoco facilmente; uno che bazzica più volentieri il nero deretano della notte che non la chiara fronte del mattino. Io quel che ho dentro ce l’ho sulla bocca e la malizia m’esce via col fiato. Se mi trovo con due politici (che non posso dir certo due Licurghi(70) ) come voi, e volete darmi a bere qualcosa ch’è sgradito al mio palato, fo boccacce. Non posso certo dire che le signorie vostre han detto bene una cosa, se in ogni vostra sillaba io trovo tutto un concentrato d’asino(71). E se sopporto con rassegnazione chi mi dice che siete uomini seri e rispettabili, dico ch’è un bugiardo chiunque dica che le vostre facce. son facce oneste. E ammesso che voi due riusciate a legger questo sulla mappa del microcosmo della mia persona, ne segue forse che possiate dire di conoscermi bene? E se pur fosse, qual difetto riescono a discernere le vostre miopi facoltà visive in questa mia natura? BRUTO - Via, Menenio, pensiamo di conoscerti abbastanza!  MENENIO - No, voi non conoscete né Menenio, né voi stessi, né niente! Siete solo ambiziosi di scappellate e inchini dalla parte di misere canaglie. Siete capaci di buttare ai cani il tempo d’una intera mattinata ad ascoltare la banale bega tra un’ortolana(72) e un venditor di zaffi, per rinviare poi ad altra udienza quella controversiuccia da tre soldi. E se, mentre sedete ad ascoltare in una lite l’una e l’altra parte(73), v’accade d’esser colti dalla strizza d’andar di corpo, fate mille smorfie, da somigliare a delle marionette, innalzate bandiera rosso-sangue(74) contro chiunque non voglia aspettare(75), e, bofonchiando in cerca d’un pitale, lasciate lì la causa nel bel mezzo, a sanguinar più imbrogliata di prima(76); col risultato che la conclusione che sarete riusciti ad apportare alla vertenza sarà stata in tutto l’aver chiamato entrambi i litiganti “farabutti”. Che bella coppia, siete! BRUTO - E tu? Va’ là che tu sei meglio noto come un brillante pigliaingiro a tavola che come un altrettanto indispensabile occupante d’un seggio in Campidoglio(77)! MENENIO - Perfino i nostri bravi sacerdoti devono diventar delle linguacce se son costretti ad aver a che fare con tipi della vostra bassa tacca(78). Quel che sapete dire di più acconcio non vale l’agitarsi che nel dirlo fanno le vostre barbe; quelle barbe che non meritan fine più onorata che d’andare a servir da imbottitura al cuscino di qualche tappezziere o d’esser chiuse dentro a un basto d’asino(79). E tuttavia dovete andar dicendo a destra e a manca che Marcio è superbo; lui, che a stimarlo poco, val più di tutti i vostri antecessori presi insieme, da Deucalione in giù(80); anche se casualmente, tra coloro, ci sia stato qualcuno, tra i migliori, col mestiere di boia ereditario. Ma buona sera alle eccellenze vostre;  ché a star ancora a discuter con voi, mandriani del plebeo bestiale armento, c’è rischio d’infettarsi le cervella. Fa per allontanarsi, quando vede arrivare VOLUMNIA, VIRGINIA e VALERIA. Bruto e Sicinio si fanno da parte mentre Menenio va loro incontro Oh, le mie belle e nobili matrone! Non sarebbe più nobile la Luna, se mai fosse terrena creatura. Dov’è che indirizzate in tanta fretta i vostri passi? VOLUMNIA - Nobile Menenio, sta per giungere qui mio figlio Marcio. Lasciaci andare, per Giove e Giunone! MENENIO - Ah, Marcio torna a casa? VOLUMNIA - Sì, Menenio, e accompagnato dal più vivo applauso, e dai migliori auspici. MENENIO - (Gettando in aria il berretto in segno di gioia) Oh allora, Giove, prenditi il mio berretto, e ti ringrazio! Dunque, Marcio ritorna? VIRGINIA E VALERIA - Sì, Menenio. VOLUMNIA - Guarda, ho qui una sua lettera; un’altra l’ha il Senato, una sua moglie; e ce n’è un’altra, credo, anche per te, a casa tua. MENENIO - Per me? Una sua lettera?... Uh, uh, stanotte, per tutti gli dèi, mi metto a far ballar tutta la casa! VIRGINIA - Proprio così, una lettera per te. L’ho vista con i miei occhi. MENENIO - Una sua lettera! Mi regala sette anni di salute! Per sette anni farò boccacce al medico! A fronte d’una tale medicina, la ricetta più eccelsa di Galeno(81) è uno specifico da ciarlatano(82)! Peggio d’un beverone da cavallo! Non è mica ferito?... Perché sempre tornò a casa ferito le altre volte.  VIRGINIA - Oh, no, no, no, no, no! VOLUMNIA - Ferito, sì, ed io di ciò rendo grazie agli dèi. MENENIO - Anch’io, se non lo sia di troppo grave... Le ferite stan bene a chi si porta la vittoria in tasca. VOLUMNIA - Lui se la porta in fronte, la vittoria, ed è la terza volta che mi torna col capo cinto di foglie di quercia! MENENIO - E Aufidio? L’ha sistemato a dovere? VOLUMNIA - Secondo quanto scrive Tito Larzio, si son scontrati, ma quello è scappato. MENENIO - E per fortuna sua, gliel’assicuro! Ché se fosse rimasto, io, al suo posto, non mi sarei voluto “aufidizzare” per tutto l’oro che sta custodito dentro le casseforti di Corioli. Il Senato è informato? VOLUMNIA - (A Virginia e Valeria) Andiamo, donne. VALERIA - Oh, sì, di lui si dicon meraviglie. MENENIO - Meraviglie! Ma certo! E tutte vere(83), garantito! VIRGINIA - Così voglion gli dèi! VOLUMNIA - Che siano vere? Toh, sentite questa! MENENIO - Che siano vere, son pronto a giurarlo. Dov’è ferito?... (S’interrompe vedendo avvicinarsi i due Tribuni) Vostre signorie, che Dio(84) le salvi, Marcio sta tornando, ed ha ancor più ragioni, questa volta, d’esser superbo. (Alle due donne) Dov’è ch’è ferito? VOLUMNIA - Alla spalla ed al braccio, qui, a sinistra. Ce ne saran di belle cicatrici  da scodellare al popolo quando concorrerà per la sua carica! Sette ne ha ricevute per il corpo nel cacciare Tarquinio(85). MENENIO - Un’altra al collo, altre due alla coscia, e fanno nove, ch’io conosca. VOLUMNIA - Ne aveva venticinque quando è iniziata questa spedizione. MENENIO - Sicché con queste fanno ventisette: e ogni tacca la tomba d’un nemico. (Uno squillo di tromba, poi fanfara da dentro, con clamori di popolo) Ecco le trombe. VOLUMNIA - Sono i suoi araldi. Egli si porta innanzi a sé i clamori, dietro si lascia lacrime. Nel suo possente braccio sta di stanza il tenebroso spirito, la Morte. Esso avanza con lui, con lui colpisce, e gli uomini periscono(86). Fanfara. Entrano, in pompa, COMINIO e TITO LARZIO, in mezzo a loro CORIOLANO cinto il capo di foglie di quercia, indi ufficiali, soldati e un ARALDO ARALDO - Sappia Roma che Marcio ha combattuto, lui solo, tra le mura di Corioli, dove s’è guadagnato, con la gloria, un nome: Coriolano, che va aggiunto, quale segno d’onore, d’ora in poi, a quello suo. Sii benvenuto a Roma, illustre Caio Marcio Coriolano! TUTTI - Benvenuto, illustre Coriolano! CORIOLANO - Basta! M’offende l’anima. Vi prego! COMINIO - Guarda, Marcio, tua madre. CORIOLANO - Oh, tu, lo so, hai pregato gli dèi pel mio successo. (S’inginocchia) VOLUMNIA - No, mio bravo soldato, alzati, su! Marcio mio nobile, mio degno Caio...  ora che t’hanno dato un soprannome in onore delle tue grandi gesta, come debbo chiamarti... Coriolano? Mah, oh!, ecco tua moglie! CORIOLANO - (A Virginia) Mio grazioso silenzio(87), ti saluto! Piangi a vedermi tornar vittorioso, perché? Avresti atteso, per sorridere, ch’io ti fossi tornato in una bara? Occhi, mia cara, come questi tuoi hanno a Corioli le madri e le vedove rimaste senza i lor figli e mariti. MENENIO - E ora t’incoronino gli dèi! CORIOLANO - Anche tu qui, Menenio(88)? (A Valeria) Oh, mia gentile signora, perdonami(89). VOLUMNIA - Non so dove voltarmi... (A Cominio) Generale, ben tornato anche a te... ed a voi tutti! MENENIO - Bentornati, sì, centomila volte! Mi vien da piangere, mi vien da ridere, son triste e allegro insieme. (A Coriolano) Bentornato! Un cancro(90) morda il cuore alla radice a chi non è contento di vederti! Siete tre uomini che tutta Roma dovrebbe amare; e invece, guarda un po’(91), abbiamo in casa dei meli selvatici che non si vogliono far innestare al vostro gusto. Ma, a loro dispetto, bentornati guerrieri! Noi l’ortica chiamiamo ortica, e chiamiamo sciocchezza l’errore degli sciocchi. COMINIO - Sempre giusto, Menenio. CORIOLANO - Sempre, sempre. ARALDO - (Alla folla) Largo, largo! CORIOLANO - (A Volumnia e Virginia, prendendole per mano) La tua mano, e la tua. Prima di ritirarmi in casa nostra(92),  debbo rendere omaggio ai senatori(93) dai quali insieme col loro saluto ho ricevuto anche nuovi onori. VOLUMNIA - Sarò vissuta fino a veder oggi realizzati i desideri miei ed avverate le mie fantasie. Manca solo una cosa, ma non dubito che la nostra Roma te la concederà. CORIOLANO - Ricordati, però, mia buona madre, che tuo figlio preferirà comunque d’essere loro servo a modo suo, piuttosto che padrone a modo loro. COMINIO - Avanti, al Campidoglio! (Trombe. Escono tutti in corteo, meno BRUTO e SICINIO) BRUTO - Tutte le lingue parlano di lui, ed anche quelli che han la vista debole si procurano occhiali per vederlo(94). La balia, per pettegolar di lui, lascia il proprio marmocchio a urlare e piangere fino a venirgli il convulso; la sguattera s’appunta attorno al suo bisunto collo la stola più vistosa(95) e per vederlo s’arrampica sul muro per guardarlo; gremiti stalli, banchine, finestre; su i tetti, a cavalcioni sui comignoli gente d’ogni colore e d’ogni risma, tutti presi dall’ansia di vederlo. Persino i flàmini(96) (che raramente è dato di vedere per la via) si pigiano affannati tra la calca per conquistarsi un posto in mezzo a loro. Le matrone le delicate guance solitamente protette da un velo, sulle quali con sfida civettuola lottano il bianco e il rosa damaschino(97), espongon oggi al lascivo saccheggio degli infuocati baci del Dio Sole(98): un’atmosfera così surreale, da far pensar che un dio, per guidarlo, si sia insinuato furtivo nelle sue facoltà umane, e gli abbia dato una forma divina. SICINIO - Io, per me, già lo vedo fatto console.  BRUTO - Allora sì che il nostro tribunato potrà dormire i suoi sonni beati per tutto il suo mandato! SICINIO - Non è uomo capace di tenersi in quella carica fino al termine. Finirà col perderla. BRUTO - Ciò mi conforta. SICINIO - Puoi restarne certo. Il popolo, che noi rappresentiamo, non fosse che per antico rancore, si scorderà, alla minima occasione, di queste nuove sue benemerenze; e l’occasione l’offrirà lui stesso, cosa ch’io tengo altrettanto per certa come la sua superbia nell’offrirglielo. BRUTO - L’ho sentito giurare che se dovesse candidarsi a console, mai lo farebbe scendendo nel Foro, e nemmeno umiliandosi a indossare la lisa tunica dell’umiltà, né mostrando le sue ferite al popolo per mendicarne i puzzolenti voti(99). SICINIO - Bene. BRUTO - Son sue parole. Oh, lui piuttosto vi rinuncerebbe se lo dovesse chiedere altrimenti che per espressa richiesta dei nobili e per unanime loro volere. SICINIO - Per me, io non desidero di meglio: si tenga fermo in un tale proposito, e agisca in conseguenza. BRUTO – È assai probabile che lo farà. SICINIO - E sarà allora, come ci auguriamo, per lui andare a sicura rovina. BRUTO - Così dev’essere; se no, per noi sarà la fine del nostro potere. Perciò sta a noi di ricordare al popolo l’odio ch’egli nutrì sempre per loro; spiegar a tutti che, fosse per lui, avrebbe fatto di ciascun di loro bestia da soma, ridotto al silenzio  i loro difensori; conculcate le loro libertà: perché li stima, quanto alla lor capacità di fare, inferiori per facoltà d’intendere ed attitudine di stare al mondo, ai dromedari usati per la guerra, a cui si somministrano foraggi sol perché possano portare il carico, salvo ad ucciderli a bastonate quando sotto quel carico stramazzano. SICINIO - Sì, appunto, questo, come tu lo dici va ricordato al momento opportuno, quando la tracotante sua burbanza toccherà il colmo sì da urtare il popolo (e l’occasione non potrà mancare se saremo noi stessi a trascinarvelo, cosa altrettanto facile quanto aizzar dei cani contro un gregge); e sarà questa l’esca che d’un colpo accenderà le loro vecchie stoppie; e la loro fiammata l’oscurerà per sempre. Entra un MESSAGGERO BRUTO - (Al Messaggero) Che c’è adesso? MESSAGGERO - Vengo a dirvi di andare in Campidoglio. Sembra che Marcio sarà fatto console. Ho visto fare ressa, per vederlo, pure i muti, ed i ciechi per udirlo; le matrone gettargli i loro guanti mentre passava, e donne e giovinette le loro sciarpe, i loro fazzoletti; i nobili inchinarsi avanti a lui come davanti alla statua di Giove, e il popol tutto fare pioggia e tuono coi lor berretti in aria e i loro strilli... Cose mai viste! BRUTO - Andiamo in Campidoglio. Occhi e orecchi attenti, e cuore pronto a tutto. SICINIO - Eccomi, andiamo. (Escono)  SCENA II -Roma, il Campidoglio Due USCIERI stanno disponendo i cuscini sui seggi dei senatori PRIMO USCIERE - Su, su, sbrighiamoci. Son qui che arrivano. Quanti sono a concorrere per console? SECONDO USC. - Dicono tre, ma tutti son convinti che ad ottenerlo sarà Coriolano. PRIMO USCIERE - Un tipo valoroso, ma superbo come nessuno; e poi non ama il popolo. SECONDO USC. - Oh, quanto a questo se ne son ben visti uomini illustri che te l’han lisciato, e mai gli sono entrati in simpatia; così come altri ch’esso ha benvoluto senza saper perché. II popolo è così: vuol bene o male a questo o a quello senza una ragione. Perciò, dunque, riguardo a Coriolano, il fatto ch’egli non tenga alcun conto s’essi l’abbiano in odio o in simpatia prova solo che li conosce bene, e glielo lascia intendere ben chiaro con la sua signorile indifferenza. PRIMO USCIERE - Mah! Se davvero non gliene importasse ch’essi l’abbiano o no in lor favore, dovrebbe mantenersi in equilibrio, senza far loro né bene né male; invece va cercando il loro odio più che non faccian essi a ricambiarglielo, e non trascura nessuna occasione perch’essi possano scoprire in lui apertamente il loro gran nemico. SECONDO USC. - Ha bene meritato della patria, e va detto altresì che la sua ascesa non è stata per facili gradini come quella di chi, facendo mostra di sorrisi e premure per il popolo, è riverito a inchini e scappellate dallo stesso, senza aver fatto nulla per meritarsene stima e rispetto. Ma lui è riuscito così bene a imprimere nei lor occhi i suoi meriti e in tutti i loro cuori le sue gesta, che s’essi non volessero parlarne e rifiutassero di riconoscerli, si renderebbero certo colpevoli  di una forma di nera ingratitudine. Così come il parlar male di lui sarebbe veramente una malizia destinata a smentirsi da se stessa, perché chiunque si trovasse a udirla, la smentirebbe subito, con sdegno. PRIMO USCIERE - Insomma, è un uomo di tutto rispetto. Basta, facciamo luogo. Ecco che arrivano. Preceduti da squilli di tromba e da littori entrano i SENATORI, i TRIBUNI DELLA PLEBE, poi CORIOLANO, MENENIO, COMINIO. Siedono tutti sui loro scanni, i senatori da una parte, i tribuni dall’altra. Coriolano resta in piedi MENENIO - Dunque, poiché dei Volsci s’è deciso, ed altresì di richiamare in patria Tito Larzio, non resta che decidere in questa nostra coda di seduta come ed in che misura compensare i servigi di chi sì nobilmente ha combattuto per la propria patria. Perciò vi piaccia chiedere, reverendissimi e saggi maggiori(100), a colui che ha la carica di console ed è stato alla testa dell’esercito in questa nostra fortunata impresa, di farci una succinta esposizione dell’encomiabile comportamento di Caio Marcio Coriolano; al quale siamo qui riuniti per dar merito e decretare, in riconoscimento, onori che a tal merito sian pari. (Coriolano si siede) PRIMO SENATORE - Bene, a te la parola, buon Cominio. Non omettere alcun particolare per il timore d’apparir prolisso; dicci anzi cose da farci pensare che sia piuttosto la nostra repubblica a mancare dei mezzi convenienti a sdebitarsi, che l’animo nostro a voler ch’essi sian quanto più alti. (Ai tribuni) A voi, capi del popolo, chiediamo di prestar cortese orecchio, e di voler, dopo aver ascoltato, usar la vostra influenza col popolo, per ottenere ch’esso sia concorde con quanto sarà qui deliberato.  SICINIO - Siamo qui convocati per discutere sopra una materia che trova tutto il nostro gradimento(101); e siam di tutto cuore favorevoli ad onorare e innalzare l’uomo ch’è l’argomento di questa assemblea. BRUTO - E tanto più favorevoli a farlo saremo, s’egli si ricorderà di nutrir per il popolo una stima un poco più benevola di quella che ha finora dimostrato. MENENIO - Questo non c’entra! Non ci azzecca niente! Avresti fatto meglio a stare zitto! Volete compiacervi, sì o no, di ascoltare Cominio? BRUTO - Volentieri. Ma il mio avvertimento di poc’anzi era più pertinente all’argomento di quanto non sia ora il tuo rabbuffo! MENENIO - Coriolano vuol bene al vostro popolo; Ma non puoi obbligarlo fino al punto di diventar suo compagno di letto. Parla, degno Cominio, ti ascoltiamo(102). (Coriolano, a questo punto, s’alza e fa per lasciar la sala) Ehi, che fai?... Fermo là. Resta al tuo posto! PRIMO SENATORE - Sì, siedi, Coriolano. Non dev’esser motivo di vergogna per te ascoltare tutto ciò ch’hai fatto di nobile. CORIOLANO - Le vostre signorie mi scuseranno, ma preferirei vedermi riaperte e doloranti le ferite, che stare ad ascoltare come le ho ricevute... BRUTO - Non siano state le parole mie, voglio sperare, a farti alzar dal seggio. CORIOLANO - No, se pur siano state le parole spesso a farmi scappare anche da luoghi da cui nemmeno dure sciabolate sarebbero riuscite a trattenermi.  Tu non m’hai adulato, tuttavia, e le parole tue non m’han ferito. Quanto però al tuo popolo, gli voglio bene per quel ch’esso vale... MENENIO - Ti prego, avanti, siedi. CORIOLANO - Preferirei restare sotto il sole, in ozio, a farmi grattare la testa quando suonasse l’allarme di guerra(103), che starmene seduto qui, per niente, ad udir magnificare i miei nonnulla. (Esce) MENENIO - (Ai tribuni) Ecco, capi del popolo, ditemi adesso voi come un tal uomo potrebbe mai ridursi ad adulare il prolifico vostro canagliume - ché di buoni ce n’è uno su mille - quando voi stessi l’avete ora visto pronto a tutto rischiare per l’onore, piuttosto che prestare un solo orecchio a sentire esaltare le sue gesta... Parla, avanti, Cominio. COMINIO - Mi mancherà la voce. Troppo flebile è la mia per ridir di Coriolano le gesta(104). Se il valore militare è nell’uomo la massima virtù, che nobilita assai chi la possiede, l’uomo del quale mi accingo a parlare non ha chi possa stargli a pari al mondo. Aveva sedici anni quando Tarquinio mosse contro Roma, e combatteva già meglio di tutti; e il nostro dittatore di quel tempo(105) che voglio ricordar con ogni lode, l’osservava, col suo mento d’Amazzone(106), battersi in armi e ricacciare in fuga avversari con baffi sulle labbra; e lo vide piantarsi a gambe larghe su un Romano caduto, e in quella posa affrontare ed uccider tre nemici. Poi si scontrò con lo stesso Tarquinio e, d’un sol colpo, lo forzò in ginocchio. Tra i fasti di quel dì, quel giovinetto che avrebbe ben potuto recitare una parte di donna sulle scene(107), si dimostrò il miglior soldato in campo  meritandosi, in degna ricompensa, una corona di foglie di quercia(108). Entrato poi dall’età minorile nella virilità, simile al mare quando ingrossa, è venuto su crescendo e in diciassette battaglie, da allora, ha rubato la palma a ogni altra spada. Quanto poi a quest’ultima sua gesta, fuori e dentro le mura di Corioli, devo dire che non ho parole adatte a riferirne come si conviene. Ha fermato i suoi legionari in fuga, e col suo raro esempio ha volto in gioco quella ch’era paura nei codardi. Davanti alla sua prua, come alghe sotto l’urto d’un vascello lanciato a tutto vento, obbedienti, si piegavano gli uomini e cadevano; la sua spada, come mortal sigillo lasciava il segno ovunque s’abbattesse, Era, da capo a piedi, tutto sangue ogni suo gesto essendo punteggiato dal grido dei morenti. Varcò da solo la fatale porta della città, segnandola così col crisma d’un destino inesorabile; poi senza alcun aiuto ne sortì, e, ricevuto un rapido rinforzo, piombò sopra Corioli con la forza d’un fatal pianeta(109). Da quel punto, tutto era in mano sua, quando, di nuovo, il lontano clamor della battaglia ferisce i suoi sempre vigili sensi: allora il suo coraggio, raddoppiato, ravviva subito nella sua carne quel che v’era di stanco e affaticato, e lì torna sul campo di battaglia, dove imperversa, fumante di sangue, sopra i nemici come in una strage che non dovesse avere mai più fine; e fino a che non potemmo dir nostro tutto il terreno e nostra la città, non si concesse un attimo di tregua, anche solo per dare alcun sollievo al respiro affannato. MENENIO - Degno uomo! PRIMO SENATORE - Sicuramente degno degli onori che abbiamo in animo di conferirgli(110).  COMINIO - Ha respinto con sdegno la parte di bottino a lui spettante guardando a quegli oggetti di valore come a vil spazzatura. Per se stesso desidera di meno di quello che la stessa povertà potrebbe dargli, unico compenso alle sue gesta essendo a lui il compierle; ed è contento di spendere il tempo della vita così, a lasciarlo scorrere(111). MENENIO - Animo nobile! Lo si richiami. PRIMO SENATORE - (Ad un ufficiale) Chiamate Coriolano. UFFICIALE - Sta venendo. Rientra CORIOLANO MENENIO - Il Senato altamente si compiace, Coriolano, di nominarti console. CORIOLANO - Son suoi la mia vita e i miei servigi. MENENIO - Rimane solo che tu parli al popolo(112). CORIOLANO - Vi supplico, vogliate dispensarmi da quell’usanza. Io, quella tunica, non me la sento di portarla addosso, d’espormi in piazza, nudo della mia, e pregarli di darmi il lor suffragio solo a cagione delle mie ferite... Esoneratemi da tutto questo. SICINIO - Il popolo dovrà pur dir la sua, né vorrà consentir che si tralasci un solo punto del cerimoniale. MENENIO - (A Coriolano) Non starli a contrastare, ora, ti prego. Confòrmati all’usanza nelle forme da questa stabilite, così come hanno fatto puntualmente tutti quelli che t’hanno preceduto. CORIOLANO – È una parte che mi farà arrossire a recitarla: un “diritto del popolo” che si farebbe bene ad abolire. BRUTO - (A parte, a Sicinio)  Hai sentito? CORIOLANO - ... Sbracarmi avanti a loro a vantarmi che ho fatto questo e quello, mettere in mostra le mie cicatrici ormai indolori, che dovrei nascondere, come chi se le fosse procurate solo per guadagnarsi i loro voti... MENENIO - E via, non farne un caso proprio adesso! (Ai due tribuni) Ed ora a voi, tribuni della plebe, raccomandiamo la nostra delibera perché la sosteniate presso il popolo; e al nostro nobile novello console auguriamo felicità ed onore. TUTTI - Felicità ed onore a Coriolano! (Squilli di tromba. Escono tutti nell’ordine in cui sono entrati, tranne i due tribuni) BRUTO - Ecco, hai sentito con quali intenzioni vuol trattar con il popolo. SICINIO - Ho sentito, e speriamo che il popolo capisca. Andrà a sollecitare il lor suffragio con l’aria d’uno che tenga a disdegno che siano loro a doverglielo dare. BRUTO - Andiamo, adesso. Bisogna informarli di quanto è stato qui deliberato. So che sono nel Foro ad aspettarci. (Escono) Entra un gruppo di CITTADINI SCENA III -Roma, il Foro PRIMO CITTADINO - Insomma, se ci chiede il nostro voto, rifiutarglielo certo non possiamo. SECONDO CITT. - E invece sì; basterà che vogliamo! TERZO CITTADINO - Il potere di farlo ce l’abbiamo: ci manca quello di tradurlo in atto. Perché se mette in mostra le ferite e ci spiattella tutto quel che ha fatto ci tocca cedere la nostra lingua  a quelle, e far che parlino per noi. Così se si presenta avanti a noi a raccontar le sue nobili gesta, come facciamo a non significargli la nostra generosa gratitudine? L’ingratitudine è cosa mostruosa, e per il popolo mostrarsi ingrato vuol dire farsi mostro da se stesso; e noi tutti, che ne facciamo parte, passeremo così per tanti mostri. PRIMO CITTADINO - E ci vuol poco a far ch’essi ci vedano non meglio di così. Quando insorgemmo per il grano, non esitò un istante proprio lui, Coriolano, a definirci “una plebaglia dalle molte teste”. TERZO CITTADINO - Oh, quanti ci chiamavano così! E non perché la testa fra tutti noi c’è chi la tiene grigia, chi castana, corvina e chi pelata, ma son le nostre idee che sono tutte di color diverso. Del resto penso anch’io, per parte mia, che se le idee di ciascuno di noi dovessero uscir tutte da un sol cranio, sciamerebbero in ogni direzione, a est, a ovest, a nord e a sud; e il solo punto su cui accordarsi circa la direzione dove andare, sarebbe di volarsene ciascuna per tutti i quattro punti cardinali(113). SECONDO CITT. - Così pensi? Ed in quale direzione volerebbe la mia, secondo te? TERZO CITTADINO - Beh, intanto non è facile, alla tua, di venirsene fuori come l’altre, chiusa com’è in una zucca di legno; ma direi che, se uscisse in libertà, tirerebbe filato verso sud. SECONDO CITT. - E perché proprio là? TERZO CITTADINO - Per andare a disfarsi nella nebbia; dove si scioglierebbe per tre quarti mischiata con vapori puzzolenti, mentre la quarta, presa dallo scrupolo, ritornerebbe a te, per aiutarti a sceglierti una moglie.  SECONDO CITT. - A te la voglia di sfottere il prossimo non manca mai. Ma fa’ pure, fa’ pure! TERZO CITTADINO - Allora, siete tutti risoluti a dargli il vostro voto? Anche se, poi, sì o no, non cambia niente. La maggioranza è quella che decide. Però se si mostrasse un po’ più incline al popolo, più degno uomo di lui non c’è mai stato. Eccolo che viene, e con la tunica dell’umiltà. Entra CORIOLANO. Ha indosso la “tunica dell’umiltà”. Con lui è MENENIO Stiamo a vedere come si comporta... Ma non restiamo qui tutti ammassati; avviciniamolo, pochi per volta, a uno, a due, a tre, dove si ferma... Deve rivolgere la sua richiesta a ciascuno di noi, singolarmente: perché ciascuno di noi ha diritto di dargli il voto con la propria voce. Perciò statemi dietro, vi mostrerò come dovete fare quando l’avvicinate. TUTTI - Ti seguiamo. (Escono tutti) MENENIO - No, hai torto, mio caro, a far così! Ma non hai mai saputo che persone degnissime l’han fatto, prima di te? CORIOLANO - Che cosa devo fare? “Ti prego, cittadino...”. Dannazione! Non me la sento proprio di forzare la lingua ad un tal passo! “Guarda le mie ferite, cittadino, le ho buscate al servizio della patria, quando non pochi dei compagni vostri se la davano a gambe schiamazzando al primo rullo dei nostri tamburi...”. MENENIO - O dèi, per carità, poveri noi! Non devi tirar fuori tutto questo! Tu non devi far altro che pregarli che si ricordino di te. CORIOLANO - Di me...  Loro!... Che s’impiccassero piuttosto! Di me magari si dimenticassero, invece, come fanno coi precetti di virtù che gli predicano i preti! MENENIO - Tu rischi di mandare tutto all’aria. Ti lascio adesso. Vedi di parlare a quella gente in maniera garbata. CORIOLANO - Sì, chieder loro di lavarsi il viso e di pulirsi i denti. (Esce Menenio) (Entrano il SECONDO e il TERZO CITTADINO) Eccone appunto un paio. (Al Terzo Cittadino) Cittadino, tu sai il motivo per cui io sto qui. TERZO CITTADINO - Già. Ma dicci che cosa ti ci porta. CORIOLANO - I miei meriti. SECONDO CITT. - I tuoi meriti? CORIOLANO - Già, non certo il mio volere personale. TERZO CITTADINO - Ah, non il tuo volere... CORIOLANO - Nossignore; non fu mai voler mio importunare la povera gente chiedendo io l’elemosina a loro. TERZO CITTADINO - Beh, devi pur pensare che se noi plebe ti diamo qualcosa speriamo d’ottener qualcosa in cambio. CORIOLANO - Bene, ditemi allora, per favore, qual è il prezzo che date al consolato. SECONDO CITT. - Che tu ce lo richieda gentilmente. CORIOLANO - E gentilmente, amico, io ti chiedo di farmelo ottenere. Ho qui delle ferite da mostrarti, che puoi vedere, se lo vuoi, in privato. (All’altro) Il tuo buon voto, amico. Che mi dici?  TERZO CITTADINO - Che l’avrai, degno Marcio. CORIOLANO - Affare fatto. Ecco già due magnifici suffragi mendicati. Ho intascato l’elemosina. Statevi bene! (Volta loro le spalle, come per andarsene) TERZO CITTADINO - Ma che strano modo! SECONDO CITT. - Mah, se dovessi darglielo di nuovo, chissà... Comunque, beh, lasciamo stare. (Escono i due cittadini) Entrano il QUARTO e il QUINTO CITTADINO CORIOLANO - (Andando loro incontro) Di grazia, amici, se mai s’accordasse col tono stesso dei vostri suffragi(114) il fatto ch’io sia nominato console, eccomi qua vestito come richiesto dalla consuetudine. QUARTO CITT. - Hai meritato bene della patria, ma hai anche non bene meritato. CORIOLANO - Cos’è, un indovinello? QUARTO CITT. - Pei suoi nemici sei stato un flagello, ma per i suoi amici una tortura(115). Tu, la povera gente, in verità, non l’hai tenuta mai in simpatia. CORIOLANO - Tanto più meritevole per questo dovresti ritenermi, perché “povero” non sono stato nel volerle bene(116). Comunque, cittadino, d’ora in poi l’adulerò il mio grande fratello, il popolo, per conquistar da lui maggiore stima: ché questo per loro vuol dire “esser gentili con il popolo”. E dal momento che la lor saggezza preferisce guardare al mio cappello piuttosto che al mio cuore, d’ora innanzi li tratterò col più ipocrita inchino e con la più leccosa scappellata. Vale a dire che imiterò, brav’uomo, le smancerie di certi capipopolo,  che elargirò con generosità a quanti gradiranno di riceverne. Perciò, vi supplico, fatemi console. QUINTO CITTADINO - Noi speriamo poterti avere amico; perciò ti diamo di buon cuore il voto. QUARTO CITT. - Ti sei buscato un sacco di ferite per la tua patria... CORIOLANO - Non suggellerò col mostrarvele la lor conoscenza, che del resto già avete. Farò gran conto dei vostri suffragi, e così non vi disturberò più(117). I DUE CITTADINI - Gli dèi ti diano felicità, te l’auguriamo molto cordialmente. (Escono i due cittadini) CORIOLANO - Che dolcezza di voti!... Meglio morire, crepare di fame che andare accattonando una mercede che pur ci spetta, perché meritata. Ed io dovrei restarmene qui, fermo, in questa veste da sembrare un lupo, a questuar dal primo Tizio e Caio voti dei quali non c’è alcun bisogno? Dicono che così vuole l’usanza. Ma se dovessimo in tutte le cose far quel che vuol l’usanza, la polvere che copre il tempo andato mai non sarebbe più spazzata via, ed ammucchiando errore sopra errore si formerebbe tale una montagna di tutti errori, che la verità sarebbe poi impedita a sovrastarla. Ah, no! Piuttosto che starmene qui a recitar la parte del buffone, che l’alto ufficio e i relativi onori vadano ad altri, più di me disposto ad eseguire quel che vuol l’usanza. Ma son già a mezza strada... Ho sopportato la prima metà, farò anche l’altra...(118) Entrano il SESTO e SETTIMO CITTADINO Ma ecco altri voti. (Ai due)  I vostri voti, amici. Pei vostri voti io ho combattuto. Pei vostri voti ho vegliato la notte. Pei vostri voti porto su di me almeno due dozzine di ferite. Pei vostri voti ho visto e raccontato(119) diciotto fatti d’arme. Pei vostri voti ho fatto tante cose qual più qual meno, ma tutte importanti. I vostri voti, sì, per esser console. SESTO CITTADINO - S’è ben portato, e non gli può mancare il voto d’ogni cittadino onesto. SETTIMO CITT. - Sia console, perciò. Gli diano gli dèi felicità e faccian ch’egli voglia bene al popolo. SESTO CITTADINO - E così sia! Che gli dèi ti proteggano, nobile console! (Escono) CORIOLANO - Che fior di voti! Entrano MENENIO, SICINIO e BRUTO MENENIO - Sei stato qui per il tempo prescritto, ed i Tribuni, col voto del popolo, ora ti conferiscono il potere. Resta che con le insegne della carica tu ti presenti subito al Senato. CORIOLANO - Allora è fatto? SICINIO - Hai fatto la richiesta secondo il rito: il popolo ti accetta ed è già convocato in assemblea per la ratifica. CORIOLANO - Dove, al Senato? SICINIO - Sì, Coriolano, là. CORIOLANO - Posso togliermi allora questa veste? SICINIO - Certo. CORIOLANO - Allora non esito un istante, così potrò riconoscer me stesso. Poi andrò al Senato.  MENENIO - T’accompagno. (Ai due tribuni) Voi che fate, venite via con noi? BRUTO - Restiamo qui ad attendere il popolo. SICINIO - Ci rivediamo dopo. (Escono Coriolano e Menenio) Ce l’ha fatta. È suo, e a giudicar dagli sguardi ha il cuore in festa. BRUTO - Ma con quale sdegno portava indosso quell’umile veste!... Che facciamo? Lo congediamo il popolo? (Entrano parecchi CITTADINI) SICINIO - Ebbene, miei compagni? Avete dunque preferito lui(120)? PRIMO CITTADINO - Abbiamo dato a lui il nostro voto. BRUTO - Voglia il cielo che sappia meritarla la vostra preferenza. SECONDO CITT. – È quel che dico. Perché a mio povero, modesto avviso, quello mentre ci domandava il voto, si beffava di noi. TERZO CITTADINO - E come no! Ci ha preso pei fondelli a tutto spiano! PRIMO CITTADINO – È il suo modo di fare; quello. No, lui non s’è fatto gioco di nessuno. SECONDO CITT. - Qui non ci sei che tu a dir così, fra tutti noi. Ci doveva mostrare i segni delle sue benemerenze: le ferite buscate per la patria... SICINIO - Ma l’avrà fatto, spero, son sicuro. TUTTI - Niente affatto! Nessuno qui le ha viste. TERZO CITTADINO - Ha detto, sì, che aveva le ferite, ma che poteva mostrarle in privato;  e col berretto in mano, ecco, così, agitandolo in aria come a beffa, “Vorrei - dice - esser console; “e antica usanza senza i vostri voti “me l’impedisce. I vostri voti, dunque”. E quando glieli abbiamo assicurati, lui: “Vi ringrazio del vostro favore, “grazie dei vostri carissimi voti. “Ora che avete espresso i vostri voti, “con voi non ho più nulla da spartire”. Non è questa una beffa? SICINIO - Ma eravate incoscienti a non capirlo? O, avendolo capito, tanto ingenui da dargli il voto come dei bambocci? BRUTO - Eppure v’avevamo ammaestrati - e avreste ben potuto ricordarglielo - che quando non aveva alcun potere, piccolo servitore dello Stato, vi si mostrò nemico e parlò sempre contro i vostri diritti e privilegi di cui godete in seno alla repubblica; e adesso, giunto che fosse al potere e a governar lo Stato, se seguitasse ad essere lo stesso il nemico giurato dei plebei i vostri voti potrebbero essere per tutti voi tante maledizioni. E ancora questo dovevate dirgli: che come le sue gesta valorose gli meritavano una ricompensa non inferiore a quella cui aspira, così la sua generosa natura dovrebbe spingerlo a pensare a voi, che l’avete votato, e volgere in affetto il malvolere, facendolo patrono e amico vostro. SICINIO - A parlargli così, come, del resto, vi fu consigliato, avreste scosso le sue fibre all’intimo e saggiato il suo animo; e strappato gli avreste forse una bella promessa, da vincolarlo alla prima occasione; oppure, al peggio, avreste esasperato quel suo caratteraccio insofferente incapace di assumersi un impegno che lo leghi a qualsiasi adempimento; e, fattegli così perder le staffe, avreste poi potuto trar partito  dalla sua collera, per non eleggerlo. BRUTO - Ma come avete fatto a non vedere con che aria palese di disprezzo vi domandava il voto, mentre gli abbisognava il vostro appoggio? E come avete fatto a non pensare che quel disprezzo vi potrà recare chi sa quale malanno, ora ch’egli ha il potere di schiacciarci? Diamine! Solo corpi e nessun cuore tutti quanti? E avevate sol la lingua per sbraitare, come avete fatto, contro il buonsenso per cacciarlo via? SICINIO - E dire che altre volte, nel passato, avete pur rifiutato il consenso a postulanti in cerca di suffragi; ed ora regalate come niente i vostri voti tanto ricercati ad uno che nemmeno ve li ha chiesti in buona forma, e per di più schernendovi? TERZO CITTADINO - Comunque ancora non è confermato(121). Possiamo sempre revocargli il voto. SECONDO CITT. - E lo revocheremo! Io, per me, posso accordare cinquecento voci su questa nota(122). PRIMO CITTADINO - Ed io due volte tante. E tutti i loro amici in sovrappiù. BRUTO - Presto, allora muovetevi di qui e andate a dire a questi vostri amici che hanno scelto per diventare console uno che torrà loro ogni diritto, e non darà lor voce più che a quei cani bastonati apposta per abbaiare, e a questo mantenuti. SICINIO - Fateli riunire in assemblea, e unanimi, su più serio giudizio, revocate questo inconsulto voto. Battete sul suo orgoglio e sull’antico odio che ha per voi; e non dimenticatevi, per giunta, con quale aria sprezzante egli indossò l’umile veste, e si schernì di voi nell’atto stesso di chiedervi il voto. Dite loro che è stato il vostro affetto,  memore dei servigi da lui resi, a non farvi capire, in quel momento, il suo comportamento provocante, offensivo per voi, indecoroso, volutamente da lui conformato all’odio radicale che vi porta. BRUTO - Gettate su di noi, vostri Tribuni, tutta la colpa: che nulla abbiam fatto - dite - perché non sorgessero ostacoli alla sua elezione presso il popolo. SICINIO - E che l’avete eletto per conformarvi ad un nostro comando più che per vostra vera convinzione; che le vostre coscienze, in conseguenza, preoccupate più di conformarsi a ciò che ad esse era stato ordinato, che a ciò che esse avrebbero dovuto, v’hanno indotto ad esprimere quel voto contro la vostra propria inclinazione. Insomma, date a noi tutta la colpa. BRUTO - Sì, non vi fate scrupolo per noi. Dite che vi abbiam fatto su di lui, per istruirvi sulla sua persona, lunghi discorsi: come, ancora imberbe, abbia iniziato a servire la patria, e seguitato a farlo poi negli anni; da qual nobile stirpe egli discenda, la nobilissima gente “marciana”(123), da cui discese pur quell’Anco Marcio nipote di re Numa, che regnò a Roma dopo il grande Ostilio; donde provennero e Publio e Quinto che con la costruzione di acquedotti ci addussero la nostra acqua migliore; e suo grande avo fu quel Censorino, così meritamente nominato per esser stato due volte censore, per voto popolare. SICINIO - Ed un tal uomo discendente da sì nobile stirpe e onusto per di più di tanti meriti per ricoprire una sì alta carica, siamo stati noi stessi, noi tribuni, a segnalarlo alla vostra attenzione; ma voi, dopo aver bene soppesato il suo comportamento nel presente a confronto con quello del passato,  avete tutti in lui riconosciuto un vostro irriducibile nemico, e gli avete pertanto revocato un gradimento dato troppo in fretta. BRUTO - E non sareste giunti mai a tanto - battete sempre sopra questo tasto - se non vi avessimo incitato noi. TUTTI - Sì, sì, faremo come dite voi. Ormai qui quasi tutti si son pentiti della scelta fatta. (Escono i cittadini) BRUTO - Ora non c’è che da lasciarli fare. Meglio rischiare adesso una sommossa, piuttosto che tirarsi addosso il peggio, che certamente verrà, se aspettiamo. Se lui, per questo loro voltafaccia, si facesse, con quella sua natura, prendere dalla rabbia, attenti noi a saper profittar dell’occasione e trar vantaggio da questa sua collera. SICINIO - Al Campidoglio. Troviamoci là prima che vi affluisca tutto il popolo. Dovrà apparire - come in parte è - tutta e soltanto loro iniziativa, cui noi ci siamo solo limitati a fornire uno sprone dall’esterno. (Escono)  ATTO TERZO SCENA I -Roma, una strada Fanfara. Entrano CORIOLANO, MENENIO, COMINIO, TITO LARZIO e SENATORI CORIOLANO - (A Larzio) Tullo Aufidio sicché è riuscito a rimettere in piedi un nuovo esercito? LARZIO - Sì, Coriolano, ed è questo il motivo che ci ha deciso a negoziar l’accordo. CORIOLANO - I Volsci son lì, dunque, come prima, pronti a saltarci addosso appena s’offra loro l’occasione. COMINIO - Sono sfiancati, Console: è difficile che rivedremo, noi di nostre età, garrire ancora i lor vessilli al vento. CORIOLANO - (A Larzio) Tu Aufidio l’hai visto? LARZIO - Venne da me sotto salvacondotto, solo per dirmi peste e vituperio contro i Volsci, che avevano ceduto così vilmente la loro città. S’è ritirato ad Anzio. CORIOLANO - T’ha parlato di me? LARZIO - Sì, Coriolano. CORIOLANO - In che modo? Che ha detto? LARZIO - Ha ricordato come si sia spesso con te scontrato solo, spada a spada; che per la tua persona nutre un odio come per nessun altro al mondo; e inoltre che sarebbe disposto - ha dichiarato -, ad impegnarsi tutto che possiede, così, senza speranza di riscatto, pur di potersi dir tuo vincitore. CORIOLANO - E vive ad Anzio, adesso? LARZIO - Ad Anzio, sì.  CORIOLANO - Come vorrei che mi s’offrisse il destro d’andare là a scovarlo dove sta, e affrontare il suo odio faccia a faccia! Ma ben tornato, Larzio. Entrano i tribuni SICINIO e BRUTO Ecco, guardate: questi sono i Tribuni della plebe, le lingue della sua volgare bocca. Sento per loro un disprezzo istintivo perché si bardano d’autorità contro ogni nobile sopportazione. SICINIO - (A Coriolano) Fermo! Non andar oltre! CORIOLANO - Che vuol dire? BRUTO - Che è rischioso per te andar oltre. Fèrmati. CORIOLANO - Che diavolo di voltafaccia è questo! MENENIO - Che succede? COMINIO - Non ha forse il consenso dei nobili e del popolo? BRUTO - Del popolo, Cominio, proprio no. CORIOLANO - Son voti di fanciulli allora quelli ch’essi m’hanno dato? UN SENATORE - Tribuni, andiamo, fateci passare. Coriolano deve recarsi al Foro. BRUTO - Il popolo è in fermento. Non lo vuole. SICINIO - Fermi, o qui si finisce in un tumulto. CORIOLANO - Il vostro gregge, eh? E deve dunque questa gentaglia aver diritto al voto, se prima te lo danno, e poi, subito dopo, lo rinnegano? E voi, che state a fare? Voi che siete la loro stessa bocca, perché non governate i loro denti? O siete stati voi ad aizzarli? MENENIO - (A Coriolano) Calma, sta’ calmo!  CORIOLANO - (Ai Senatori) È tutta una manovra, una combutta preparata ad arte, per piegare la volontà dei nobili. Se li lasciate fare, rassegnatevi a vivere con gente incapace così di governare, come d’esser comunque governata. BRUTO - Non parlar di combutta. Il popolo vocifera di rabbia perché ha capito che l’hai preso in giro; e perché quando fu distribuito, ultimamente, a loro il grano gratis, fosti tu solo ad alzare la voce, e a coprire d’insulti e vituperi chiunque fosse dalla loro parte, tacciandolo di basso opportunista, adulatore, nemico dei nobili. CORIOLANO - Ebbene? Questa è cosa risaputa. BRUTO - Non tutti la sapevano, di loro. CORIOLANO - E così hai pensato ad informarli. BRUTO - Informarli, chi, io? CORIOLANO - Non sei tu il tipo ben tagliato per simili faccende? BRUTO - Non meno bene che per far le tue meglio che possa farle tu. CORIOLANO - Ma certo! Perché dovrei io diventare console? Per tutti i fulmini, datemi il tempo di diventare un nulla come te, e fatemi tribuno, tuo collega! SICINIO - Tu porti ancora addosso troppo di quello che dispiace al popolo; se ti preme raggiungere il tuo scopo, devi chieder la strada, che hai smarrita, con uno spirito più malleabile, o non sarai giammai tanto virtuoso da poter esser console, e nemmeno da stare accanto a lui (Indica Bruto) come tribuno.  MENENIO - Calmi, state calmi! COMINIO - Il popolo è ingannato, è subornato. Questo ondeggiare tra il sì e il no non è degno di Roma, e Coriolano non merita davvero un’ostruzione così disonorante posta ad arte lungo il piano cammino del suo merito. CORIOLANO - Venirmi adesso a parlare del grano! Quello che ho detto allora lo ripeto! MENENIO - Non adesso, però, per carità. UN SENATORE - No, Marcio, non in tanta eccitazione. CORIOLANO - Sì, invece, adesso! Sì, per la mia vita! I miei nobili amici mi perdonino; ma la fetida, bassa minuzzaglia voltagabbana s’ha da render conto ch’io non son uomo che sappia adulare, si specchi in me, piuttosto, e in ciò che dico. Lo ripeto: a cercar di assecondarla, noi non facciamo che dare alimento alla malerba della ribellione, dell’insolenza, della sedizione contro il Senato; per la qual zizzania noi stessi abbiamo arato, seminato e consentito che si propagasse mescolandosi a noi, gente d’onore, cui non manca virtù né autorità, salvo quella ceduta a dei pezzenti. MENENIO - Bene, ora basta. UN SENATORE - Basta, ti preghiamo. CORIOLANO - Basta? E perché? Com’io ho sparso sangue per la mia patria senza aver paura, così nessuna forza impedirà ai miei polmoni di coniar parole, fino a diventar marci, contro questi pestiferi miasmi di cui tutti temiamo d’infettarci avendo tuttavia fatto del tutto per buscarceli. BRUTO - Tu parli del popolo né più e né meno che se fossi un dio, che sia pronto a punirlo, e non un uomo  affetto dalle stesse debolezze. SICINIO - Ed è bene che il popolo lo sappia. MENENIO - Sappia che cosa? Questa sua sfuriata? CORIOLANO - Sfuriata!... Foss’io calmo, per Giove!, come il sonno a mezzanotte, sarei sempre di questa stessa idea! SICINIO – È un’idea velenosa che tale deve rimaner dov’è, senza infettare gli altri intorno a sé. CORIOLANO - “Deve”!... Sentitelo questo Tritone dei lattarini(124)! Avete preso nota di codesto suo “deve” perentorio? COMINIO – È contro regola, senz’altro. CORIOLANO - “Deve”! O buoni ma incautissimi patrizi, voi, gravi ed imprudenti Senatori, voi che avete permesso qui a quest’Idra(125) di scegliersi un suo proprio magistrato che con questo suo “deve” perentorio, qual rumoroso corno di quel mostro(126) non si fa scrupolo di minacciare d’esser capace di deviare altrove, entro altra fossa, la vostra corrente, e di far suo l’attuale suo letto! Se è vero ch’ei possiede un tal potere, s’inchini allora a lui la vostra ignavia; ma se non l’ha, svegliate dal suo sonno la vostra mite e rischiosa indulgenza. Se saggezza è in voi, non comportatevi come volgari sprovveduti sciocchi; se saggezza non v’è, fateli pur sedere accanto a voi. Sarete voi la plebe, ed essi i senatori; e tali sono, già ora se, quando le loro voci son mischiate alle vostre, il loro accento è il tono che prevale nell’insieme. Si scelgono il lor proprio magistrato, e questo è uno che sbatte in faccia il suo “deve”, quel suo “deve” plebeo, contro un’assise che nemmen la Grecia ebbe mai di più seria e veneranda. Ma, tutto questo, per il sommo Giove!, riduce i consoli a ben poca cosa!  E mi sanguina il cuore a pensare che quando due poteri sono in sella contemporaneamente, sì che nessun dei due può prevalere, nel loro vuoto può infilarsi il caos, e far che si distruggano a vicenda! COMINIO - Al Foro, dunque, andiamo. CORIOLANO - Chiunque siano ch’abbian consigliato di far distribuir gratuitamente il grano dei depositi statali, come s’è fatto qualche volta in Grecia... MENENIO - Via, via, non ne parliamo più. CORIOLANO - (Seguendo il suo discorso) (... ma in Grecia ben più ampi poteri aveva il popolo...), io dico che costoro, chi essi siano, hanno nutrito la disobbedienza, cibato la rovina dello Stato. BRUTO - E il popolo dovrebbe dare il voto ad uno che si esprime in questi termini? CORIOLANO - Al popolo dirò le mie ragioni, che valgono ben più dei loro voti. Essi sanno benissimo che il grano non doveva servir da ricompensa, essendo noto che per meritarlo nessun servizio avevano essi reso. Chiamati per la guerra, in un momento in cui il cuore stesso dello Stato correva gran pericolo, ricusaron perfino di varcare le porte di città; non si può dire che sia stato codesto un tal servizio da meritare loro il grano a ufo. Né, partiti che furon per la guerra, hanno parlato poi a lor favore le sedizioni e gli ammutinamenti in cui han fatto prova - oh, allora sì! - di tutto il lor valore di guerrieri. Così come plausibile motivo non potevano certamente offrire per così generosa elargizione le assurde accuse da loro lanciate contro il Senato, l’una dopo l’altra. E adesso? Come questo milleteste digerirà nel suo multiplo ventre  la cortesia che gli ha fatto il Senato? Dai fatti si può già pronosticare quali saranno le loro parole: “L’abbiamo chiesto, siamo maggioranza, e ci hanno accontentati, per paura”. Così noi degradiamo i nostri seggi, ed offriamo motivo alla marmaglia di dir che quanto facciamo per loro lo facciamo soltanto per paura; il qual ragionamento, con il tempo, scardinerà le porte del Senato, e allor v’irromperanno le cornacchie a dar di becco all’aquile(127). MENENIO - Via, basta! BRUTO - Basta ed avanza. CORIOLANO - No, ce n’è di più! E sia suggello a quanto sto per dire tutto quello che al mondo c’è d’umano e di divino sopra cui giurare. Questo nostro bicipite potere dove una delle teste, con ragione, disdegna l’altra che, senza ragione insulta, dove nobiltà di nascita e titoli e saggezza di governo non possono decidere un bel niente senza aver ottenuto il “sì” o il “no” dell’ignoranza di un’intera classe(128), è costretto per forza a trascurare i reali interessi dello Stato per dare spazio a fanfaluche inutili; talché, sbarrato qualsiasi proposito, ne vien che nulla è fatto più a proposito. Perciò vi supplico - se la paura non ha offuscato in voi ogni saggezza(129) - voi, cui le fondamenta dello Stato stan troppo a cuore perché dubitiate della necessità di migliorarle; voi che a una vita lunga preferite una vita dignitosa, e siete pronti a medicine estreme per un corpo malato, destinato altrimenti a morte certa, strappate via di colpo, di violenza, questa lingua dal corpo dello Stato(130), ch’essa non abbia più a leccar quel dolce ch’è anche il suo veleno! La vostra indecorosa umiliazione(131) rende monco ogni sano giudicare,  priva lo Stato di quell’unità che dovrebb’essere sempre la sua, rendendolo impotente ad operare, come vorrebbe, pel bene comune, per colpa di un tal male, che lo domina. BRUTO - Ha detto quanto basta(132). SICINIO - Ha parlato da vero traditore, e come tale ne dovrà rispondere. CORIOLANO - Miserabile! La tua stessa bile ti seppellisca!... Che può fare il popolo con queste zucche vuote di tribuni? Finché avranno costoro come guida, si sentiranno tutti esonerati dall’obbedire a maggior dignità. A quella carica li hanno eletti in un momento di piena rivolta, quando non la giustizia ma soltanto la forza era la legge(133). I tempi son cambiati, per fortuna: oggi si dica che dev’esser giusto quello che è giusto, e si getti alle ortiche il lor potere. BRUTO - Questo è tradimento! Flagrante! SICINIO - Console costui? Giammai! BRUTO - Gli Edili(134), oh! Venite! Entra un EDILE (Indicandogli Coriolano) Sia arrestato! SICINIO - (All’Edile) Va’ e riunisci il popolo in comizio. (Esce l’edile) (A Coriolano) Ed in nome del popolo, io qui t’arresto come traditore, sovvertitor di modi e di costumi, e nemico del popolo romano! T’ordino di obbedirmi e di venire subito con me, a risponder di quanto sei accusato. CORIOLANO - (Respingendo con forza Sicinio) Sta’ lontano da me, vecchio caprone!  SENATORI e PATRIZI - Ci facciamo garanti noi per lui. COMINIO - (A Sicinio, che cerca d’impadronirsi di Coriolano) Ehi, vecchio, giù le mani. CORIOLANO - Via, carogna, o ti sparpaglio l’ossa dai tuoi stracci! Entrano i due EDILI con una folla di PLEBEI SICINIO - Aiuto, cittadini! MENENIO - Cittadini, più rispetto, dall’una e l’altra parte! SICINIO - (Indicando alla folla Coriolano) Ecco colui che intende spodestarvi d’ogni potere! BRUTO - Arrestatelo, edili! PLEBEI - Abbasso! A morte! UN SENATORE - L’armi! L’armi! L’armi! (Zuffa generale attorno a Coriolano) TUTTI A VICENDA - Senatori! Patrizi! Cittadini! Sicinio! Bruto! Coriolano!... MENENIO - Pace!!!! Calmatevi un momento!... Che succede? Non ho più fiato... Ma qui si va diritti alla rovina!... Non posso più parlare... Voi, tribuni, parlate voi al popolo. (A Coriolano) Sta’ calmo. Sicinio, parla tu. SICINIO - Ascoltatemi, gente mia... Silenzio! PLEBEI - Udiamo il nostro tribuno. Silenzio! Fate silenzio! Parla, parla, parla!  SICINIO - Le vostre libertà sono in pericolo. Marcio, che avete appena eletto console, vuol togliervele tutte. MENENIO - No così! Ma tu invece di spegnere la fiamma, l’attizzi! UN SENATORE - Demolisci la città, in questo modo, tu la radi al suolo! SICINIO - Che cos’è la città, se non il popolo? PLEBEI - Giusto, Sicinio, la città è il popolo! SICINIO - E noi, per loro unanime consenso, siamo i loro legali difensori. PLEBEI - E tali resterete! MENENIO - Resteranno, sì, certo, resteranno. COMINIO - Questa è la via per demolirla al suolo, la città, e tirarne il tetto giù fino alle fondamenta, seppellendo tra ammassi di rovine tutto quello che ancora ci rimane d’ordinato. SICINIO - Costui merita morte. BRUTO - Qui è in gioco la nostra autorità, o la perdiamo. Ed in nome del popolo, nella cui potestà noi fummo eletti a suoi legittimi rappresentanti, noi dichiariamo qui che Caio Marcio è meritevole di morte, subito. SICINIO - (Agli Edili) Arrestatelo dunque; che aspettate! Lo si conduca alla Rupe Tarpea, e che sia di lassù precipitato, alla sua fine! BRUTO - Prendetelo, Edili! PLEBEI - Marcio, arrenditi! MENENIO - Ancora una parola, Tribuni, ve ne supplico.  EDILI - (Alla folla) Silenzio! MENENIO - (Ai Tribuni) Siate per una volta quelli che sempre volete apparire: sinceri amici della vostra patria; e procedete con ponderazione a ciò che invece con tanta violenza, a quanto vedo, intendete distruggere. BRUTO - Menenio, questi tuoi gelidi modi, che sembrano consigli di prudenza son un veleno pericolosissimo per un male violento come questo. (Agli Edili) Avanti, impadronitevi di lui, ho detto, e conducetelo alla Rupe! CORIOLANO - (Sguainando la daga) No, morirò qui stesso. Ci sarà pur qualcuno in mezzo a voi che m’ha visto combattere. Beh, avanti, venga a provare adesso su di sé quel che m’ha visto fare. MENENIO - Via quell’arma! Tribuni, allontanatevi un momento. BRUTO - (Agli Edili) Afferratelo! MENENIO - Aiuto a Marcio, aiuto! Nobili, giovani, vecchi, aiutatelo! PLEBEI - A morte! A morte! A morte! (Mischia. I tribuni, gli edili e i plebei sono respinti ed escono) MENENIO - (A Coriolano) Va’, torna a casa, presto! Via da qui. Altrimenti sarà rovina piena. UN SENATORE - (A Coriolano) Parti da qui. CORIOLANO - Dobbiamo tener duro! Siamo, amici e nemici, in pari numero.  MENENIO - S’ha da arrivare a questo? UN SENATORE - Gli dèi non vogliano! (A Coriolano) Nobile amico, ti prego, adesso tornatene a casa; lascia a noi di curar questa faccenda. MENENIO - Perché è una piaga che portiamo addosso tutti quanti, e che tu non puoi curare. Va’, ti scongiuro. COMINIO - Vieni via con noi. CORIOLANO - Come vorrei che fossero costoro barbari - come sono in realtà, se pure furono partoriti a Roma - e non Romani, come non lo sono, fossero pure stati partoriti di sotto al portico del Campidoglio!... MENENIO - Va’, va’, non affidare alla tua lingua la tua rabbia, per quanto giusta sia. Lasciamo tempo al tempo(135). CORIOLANO - (Senza ascoltarlo) Ne abbatterei quaranta, in campo aperto! MENENIO - Io pure saprei farne fuori un paio, tra i lor migliori: i tribuni, ad esempio. COMINIO - Ma qui la sproporzione è troppo grande, tra noi e loro, e il coraggio è follia quando pretende di tenere in piedi un edificio che sta per crollare(136). È meglio che tu vada via di qua, prima che ci ritorni la plebaglia. La sua furia oramai è come un fiume cui si sia posto un blocco, che, straripando fuor da tutti gli argini entro i quali scorreva normalmente, travolge e abbatte tutto quel che incontra. MENENIO - Sì, va’ via, te ne supplico... Vedrò io se il mio antico spirito potrà servire a qualcosa di buono con gente che sì poco ne possiede. Questo strappo dev’esser rattoppato con una pezza di qualsiasi tinta.  COMINIO - Sì, Marcio, andiamo via. (Escono Coriolano e Cominio) UN PATRIZIO - Quest’uomo ha danneggiato seriamente le sue fortune di uomo politico. MENENIO – È che la sua natura è troppo nobile per conformarsi alle cose del mondo(137). Mai s’indurrebbe ad adular Nettuno pel suo tridente, o Giove pel suo tuono. Ha in bocca quel che ha in cuore: la sua lingua deve dar fiato a ciò che detta il cuore; e se s’infuria, non ricorda più d’avere udito la parola “morte”. (Rumori da dentro) Eccoli. Qui l’affare s’ingarbuglia! UN PATRIZIO - Come vorrei saperli tutti a letto! MENENIO - Sì, nel letto del Tevere!... Che diamine, però! Che gli costava di parlar loro in modo più civile? Entrano BRUTO e SICINIO con la folla dei plebei SICINIO - Dove sta quella vipera cui piacerebbe di vedere Roma spopolata, per esser tutta lui? MENENIO - Tribuni... SICINIO - Giù dalla Rupe Tarpea merita d’essere precipitato con la forza di mani inesorabili! S’è messo contro la legge, e la legge altro giudizio non dovrà concedergli che la severa giustizia del popolo, da lui costantemente disprezzato. PRIMO CITTADINO - Imparerà così che i nobili Tribuni son la bocca del popolo, e noi siamo le sue mani. PLEBEI - Dovrà impararlo, certo! MENENIO - (A Sicinio) Amico, ascolta... SICINIO - (Alla folla)  Silenzio, olà! MENENIO - Non gridate “Sterminio!”, quando invece dovreste limitare la vostra caccia in modesti confini(138). SICINIO - Di’ piuttosto, Menenio, la ragione perché hai favorito la sua fuga. MENENIO - Sentimi bene: come so a memoria i meriti del Console, so dirti ad uno ad uno i suoi difetti. SICINIO - “Il Console”! Di che console parli? MENENIO - Di Coriolano, diamine! SICINIO - Lui, Console! PLEBEI - No, no, no, no, no, no! MENENIO - (Alla folla) Se, con licenza dei Tribuni e vostra, brava gente, mi si vorrà ascoltare, mi basta dirvi una parola o due: ad ascoltarla non vi costerà più d’una lieve perdita di tempo. SICINIO - Ebbene parla, ma senza lungaggini, perché qui siamo tutti ben decisi a sbarazzarci subito e per sempre di questo velenoso traditore. Esiliarlo sarebbe già rischioso per noi; ma trattenerlo vivo qui, sarebbe morte certa per noi tutti. Perciò s’è decretato in assemblea ch’egli sia messo a morte questa notte. MENENIO - Ahimè, non vogliano gli dèi benigni che la nostra famosa, illustre Roma, la cui riconoscenza verso i figli che d’essa han meritato è registrata nel grande libro dello stesso Giove, divori, come madre snaturata, le proprie creature! SICINIO - È un cancro che dev’essere estirpato! MENENIO - No, Sicinio, se mai è solo un arto, malato, ma è la morte ad amputarlo; curarlo, è facile. Che male ha fatto  egli, a Roma, per esser messo a morte? Il sangue che ha perduto a imperversare sui nostri nemici - e posso dire ch’è assai più di un’oncia di quello che gli scorre nelle vene - l’ha ben versato per il suo paese; che ora, ad opera della sua patria debba perdere quello che gli resta, sarebbe una vergogna per noi tutti, chi lo facesse e chi lo permettesse, una macchia che porteremmo addosso per sempre, fino alla fine del mondo. SICINIO - Questo vuol dir mistificare i fatti! BRUTO - Semplicemente il contrario del vero. Tutte le volte ch’egli ha dato prova di amare il suo paese, il suo paese l’ha ben onorato. SICINIO - Se un piede va in cancrena, non s’esita davvero ad amputarlo per i servizi resi in precedenza(139). BRUTO - Basta con le parole. (Agli Edili) Ricercatelo a casa, ed arrestatelo, ché la sua infezione è contagiosa, e può diffondersi tra l’altra gente. MENENIO - Ancora una parola! Una parola!... Questo vostro furore piè-di-tigre(140) quando vedrà qual danno avrà prodotto tanta precipitosa avventatezza, vorrà legarsi dei pesi di piombo ai calcagni, ma sarà troppo tardi! Processatelo per le vie legali, se volete evitar che le fazioni si scatenino, perché è molto amato, e che alla grande Roma tocchi in sorte d’essere messa a sacco dai Romani. BRUTO - Se così fosse... SICINIO - Ma che vieni a dirci! Non abbiam forse avuto un primo assaggio del suo rispetto per l’autorità? Non ha forse percosso i nostri Edili? Aggredito noi stessi?... Andiamo, via!  MENENIO - Considerate questo che vi dico: egli è uno cresciuto tra le guerre da quando seppe impugnare una spada, e non ha avuto mai chi gli insegnasse ad usare un linguaggio raffinato. Mischia farina e crusca, tutto insieme, senza badarci. Datemi licenza d’andar da lui, ed io ve lo conduco, parola mia, dove potrà rispondere in piena calma ed in forma legale, ad assoluto suo rischio e pericolo. PRIMO SENATORE – È questo il modo, nobili Tribuni, di trattare la cosa umanamente; l’altro sarebbe via troppo cruenta, e di sbocco imprevisto e imprevedibile. SICINIO - Ebbene, allora, nobile Menenio, sii tu il rappresentante della plebe. (Alla folla) Mastri, giù l’armi. BRUTO - Ma senza disperdervi. SICINIO - E radunatevi di nuovo al Foro. (A Menenio) Ti aspetteremo là; e se torni senza condurre Marcio, procederemo come stabilito. MENENIO - Ve lo conduco. (Ai Senatori) Mi sia consentito di chiedere la vostra compagnia. Dovrà venire, o ne seguirà il peggio. PRIMO SENATORE - Sì, vi prego, rechiamoci da lui. (Escono tutti) SCENA II -Roma, in casa di Coriolano Entra CORIOLANO con alcuni PATRIZI CORIOLANO - Mi facciano crollare il mondo addosso(141), mi minaccino morte sulla ruota(142), o trascinato da cavalli bradi, o accatastino l’una sopra l’altra  sulla Rupe Tarpea dieci colline, sì che non sia più manifesto agli occhi il fondo stesso di quel precipizio, io con loro, sarò sempre così! PRIMO PATRIZIO - E ciò ti rende di tanto più nobile. CORIOLANO - Quello che mi stupisce è che mia madre non approvi più questa mia condotta, lei che ha sempre chiamato quella gente servitoracci imbottiti di lana(143), cose fatte per essere comprate e rivendute poi per quattro soldi(144) o per mostrar nelle loro assemblee zucche pelate, bocche spalancate, ferme inchiodate lì, in ammirazione, se solamente alcuno del mio rango si levasse a parlar di pace o guerra. Entra VOLUMNIA Di te parlavo appunto: perché vuoi ch’io mi mostri più tenero? Dovrei tradir la mia vera natura? Dimmi piuttosto che ad agir così non faccio che mostrarmi quel che sono. VOLUMNIA - Ah, figliolo, figliolo, tu, il potere avrei voluto l’avessi indossato(145) prima di consumarlo, come hai fatto... CORIOLANO - Lascia andare. VOLUMNIA - ... e restare pur te stesso senza sforzarti tanto di ostentarlo. E ti saresti posto meno ostacoli ai tuoi fini, se non li avessi esposti così scopertamente agli occhi loro prima ch’essi perdessero il potere di frapporti essi stessi degli ostacoli. CORIOLANO - Vadano tutti quanti ad impiccarsi! VOLUMNIA - Ah, per me, vadano a bruciarsi vivi! Entra MENENIO, coi SENATORI MENENIO - Troppo rude sei stato, su, un po’ troppo! Ora devi ripresentarti a loro, e rimediare.  PRIMO SENATORE – È l’unico rimedio, o la città si spacca e va in rovina. VOLUMNIA - Segui il loro consiglio, te ne prego. Ho un cuore anch’io poco incline alla resa simile al tuo, ma ho pure un cervello che sa sfruttare a suo pro l’ira altrui. MENENIO - Ben detto, nobilissima matrona! Anch’io piuttosto che vederlo prono ad umiliarsi innanzi a questo gregge, se non fosse che il corso degli eventi lo rende necessario come un farmaco per la salute dell’intero Stato, indosserei la mia vecchia armatura, con tutto che ne regga appena il peso. CORIOLANO - Che devo fare? MENENIO - Tornar dai Tribuni. CORIOLANO - Va bene, e poi? MENENIO - Far finta di pentirti di tutto ciò che hai detto. CORIOLANO - Innanzi a loro? Non lo faccio nemmeno con gli dèi, devo farlo con loro? VOLUMNIA - Figlio mio(146), sei troppo altero, troppo distaccato, pur se questo non può mai dirsi troppo per un nobile; salvo che a parlare non siano le esigenze del momento. T’ho udito dire sovente che in guerra onore e astuzia crescon di conserta, da amici inseparabili. È così? Spiegami allora che cosa han da perdere i due dal seguitare quest’accordo anche in tempo di pace. CORIOLANO - Che discorsi! MENENIO - Una domanda pertinente, invece! VOLUMNIA - Se in guerra tu consideri onorevole sembrar quello che non sei, e fai di questo il mezzo per raggiungere i tuoi fini, perché dovrebbe questa tua politica perdere d’efficacia e di valore,  accoppiandosi in pace, come in guerra, all’onore, se d’ambedue le cose si presenti l’egual necessità? CORIOLANO - Perché insisti su questo? VOLUMNIA - Perché è questo per te il momento di parlare al popolo, non seguendo la tua ispirazione(147), o quello che ti suggerisca il cuore, ma con parole mandate a memoria sulla lingua, se pur solo bastarde e sillabate senza alcun rapporto con quella verità che hai nel petto. Ebbene, non c’è nulla in tutto questo che ti possa recare disonore; non più che conquistare una città col mezzo di gentili paroline, in un momento in cui ogni altro mezzo t’avrebbe esposto ai colpi di fortuna o al rischio di far correr molto sangue. Io non avrei alcuna esitazione a nasconder la mia vera natura, se mi fosse richiesto dall’onore essendo in gioco la mia stessa sorte, o quella degli amici. Ebbene, figlio, in tal frangente adesso ci troviamo io, tua moglie, tuo figlio, i senatori, i nobili; e tu stimi che sia meglio mostrare a questa turba di pagliacci come sei bravo a far la faccia dura, invece di sprecare una moina per guadagnarti le lor simpatie e per salvare ciò che, senza questo, può andar perduto. MENENIO - Nobile matrona(148)! (A Coriolano) Vieni dunque con noi, e parla loro con parole acconce. Potrai così non soltanto salvare quel che oggi è in pericolo, ma rimediare alle passate perdite. VOLUMNIA - Sì, figlio mio, ti prego, ti scongiuro, va’ da loro con il cappello in mano(149), e, tesolo così, con largo gesto - perché così devi fare con loro - le tue ginocchia sfiorando le pietre - in certe cose il gesto è più eloquente delle parole, ché degli ignoranti  son più istruiti gli occhi che le orecchie - ed abbassando e rialzando il capo come a correggere, con questo gesto, l’altero cuore, divenuto docile per l’occasione come mora sfatta che si stacca dal rovo al primo tocco, di’ loro che tu sei il lor soldato, e che, cresciuto in mezzo alle battaglie, non hai quel tanto di buone maniere che - lo confesserai - sarebbe giusto per te di usare e per loro di esigere nel momento in cui chiedi il loro voto; ma che, d’ora in avanti, a giuramento, modellerai te stesso a lor talento, per quanto sarà in te e in tuo potere. MENENIO - Una volta che avrai fatto così, esattamente come lei ti dice, ebbene, i loro cuori saran tuoi: perché quelli, se uno glielo chiede, sono altrettanto facili al perdono che a sbraitare per cose da nulla. VOLUMNIA - Ti prego, va’ e riesci a dominarti; anche se so che con un tuo nemico preferiresti magari inseguirlo fin dentro una voragine di fuoco piuttosto che adularlo in un salotto. Entra COMINIO Ecco Cominio. COMINIO - Sono stato al Foro; bisognerà davvero, Coriolano, che tu ci vada bene accompagnato, e che sappi difenderti con calma, o non andarci affatto. È tutto furia. MENENIO - Basta parlare con un po’ di garbo. COMINIO - Sì, basterà, se saprà contenersi. VOLUMNIA - Si deve contenere, e lo farà. Ti prego, dimmi che sei pronto a farlo, e vacci. CORIOLANO - Debbo andare a mostrar loro la mia zucca scoperta(150)? Dare con vile lingua una smentita al mio nobile cuore, e comandargli  di sopportarla?... Bene, lo farò. Sebbene, si trattasse sol di perdere questo pugno di fango, per mio conto questa forma che porta nome Marcio la potrebbero macinare in polvere e disperderla al vento... Andiamo al Foro! Però la parte che m’avete imposta non saprò mai rappresentarla al vivo. COMINIO - Via, via, te la suggeriremo noi. VOLUMNIA - Figlio caro, ti prego, hai sempre detto che le mie lodi furono le prime a far di te un soldato, e questa volta per meritarle recita una parte mai fatta prima. CORIOLANO - Bene, devo farlo. Natura mia, abbandonami, e di me s’impossessi ora lo spirito d’una puttana! La voce di guerra che si fondeva con il mio tamburo si tramuti nell’esile falsetto da sottile cannuccia dell’eunuco e da vocina della verginella che culla i bimbi con la ninna-nanna! Sulle mie guance restino accampati i ghignosi sorrisi dei furfanti, le lacrimucce dello scolaretto m’inondino gli specchi della vista; tra le mie labbra venga ad agitarsi una lingua d’abbietto mendicante, ed i ginocchi che nell’armatura si piegavano solo sulla staffa, si flettan come quelli del pitocco ch’abbia pur mo’ buscato l’elemosina! Non lo farò, non voglio tralignare dal rimanere fedele a me stesso(151), e col comportamento del mio corpo indurmi ad insegnare alla mia anima una bassezza non più cancellabile. VOLUMNIA - Fa’ come credi. Sento più vergogna io a pregare te, che tu non senta a pregar loro. Vada tutto a male! E lascia che tua madre abbia a soffrire del tuo orgoglio, più di quanto tema per questa tua rischiosa ostinazione; perch’io so farmi beffa quanto te della morte. Ma fa’ a tuo talento. Il tuo coraggio è mio: tu l’hai succhiato  da me. Ma la superbia è solo tua. CORIOLANO - Non inquietarti, madre, te ne prego. Vado al Foro. Non farmi più rimbrotti. Farò sfoggio di ciarlataneria per conquistar le loro simpatie, riuscirò a scroccare i loro cuori, e mi vedrai tornare a casa amato da tutte le romane mestieranze. Guarda, sto andando. Saluta mia moglie. Tornerò console, o d’ora in poi non fidarti di quanto saprà fare la mia lingua nell’arte di adulare. VOLUMNIA - Fa’ come vuoi. Addio. (Esce) COMINIO - I Tribuni t’aspettano. Muoviamoci. Preparati a rispondere con calma, ché quelli, a quanto sento, hanno approntato contro di te accuse assai più gravi di quelle che già porti sulle spalle. CORIOLANO - “Con calma”, sì, è la parola d’ordine. Andiamo pure. Risponderò loro come mi detta il cuore,: per quante accuse vorranno inventarsi. MENENIO - Sì, ma garbatamente. CORIOLANO - E come no! Garbatamente, sì, garbatamente! (Escono) Entrano BRUTO e SICINIO SCENA III -Roma, il Foro BRUTO - Su questo punto attacchiamolo a fondo: che la sua mira è il potere assoluto. Se qui ci sfugge, dobbiamo incalzarlo sul suo comportamento ostile al popolo, e sul bottino tolto a quelli di Anzio, che non è stato mai distribuito. Entra un EDILE Allora, viene?  EDILE – È qui che sta arrivando. BRUTO - Chi l’accompagna? EDILE - Il solito Menenio e i patrizi che l’han sempre appoggiato. SICINIO - Hai la lista completa dei voti che gli abbiamo procurato, suddivisi per singoli comizi? EDILE - L’ho qui con me, completa. SICINIO - Per tribù(152)? EDILE - Sì. SICINIO - Convochiamo allora in assemblea la plebe, subito. E quando udranno da me queste parole: “Così sia, per il diritto e il potere del popolo”, o si tratti di condannarlo a morte, o a pagare un’ammenda, o all’esilio, s’io grido: “Ammenda!”, ripetano: “Ammenda!”, se grido: “Morte!”, ripetano: “Morte!”, riaffermando con questa procedura l’antico privilegio ed il potere di giudicare nella giusta causa. EDILE - Li informerò di queste tue istruzioni. BRUTO - E che non cessino più di gridare, ma reclamino, con maggior clamore la pronta ed immediata esecuzione di quanto sarà stato sentenziato. EDILE - Perfettamente. SICINIO - E vengano in gran numero, e siano tutti pronti all’imbeccata che noi daremo loro al punto giusto. BRUTO - Va’, provvedi che tutto ciò sia fatto. (Esce l’Edile) (A Sicinio) Portalo subito a perder la calma. È uso a vincere e s’avvampa subito se contraddetto: una volta scaldato,  non ha più freni alla moderazione, spiattella tutto ciò che tiene in petto; ed è a quel punto che ci porge il destro di farsi rompere l’osso del collo. Entrano CORIOLANO, MENENIO, COMINIO, con senatori e patrizi SICINIO - Bene, arriva. MENENIO - (Piano, a Coriolano) Mi raccomando, calma. CORIOLANO - Sì, calma, calma, come uno stalliere che per i quattro soldi della paga sopporta d’essere chiamato “bestia”! (Forte) Vogliano sempre i venerandi dèi serbar sicura Roma e provvedere che agli alti seggi della sua giustizia seggan uomini degni! Vogliano seminar tra noi l’amore, affollar di pacifici cortei i nostri templi, e non d’interne lotte le nostre strade. PRIMO SENATORE - Amèn. MENENIO - Nobile augurio. Rientra l’EDILE con la folla dei plebei SICINIO - Venite pure avanti, cittadini. EDILE - Ascoltate i Tribuni. Olà, silenzio! CORIOLANO - Prima ascoltate me. I DUE TRIBUNI - Va bene, parla. (Alla folla) Silenzio, voi, laggiù! CORIOLANO - Ci saranno altre accuse aggiunte a queste, oppure tutto si decide qui? SICINIO - Io ti chiedo se intendi sottostare a quel che il popolo andrà a votare, riconoscere i suoi rappresentanti, se accetterai di scontare la pena prevista dalla legge per le colpe che saranno a tuo carico provate.  CORIOLANO - Accetto. MENENIO - Lo sentite, cittadini? Ecco, dice che è pronto ad accettare! A voi di valutare giustamente tutti i servizi da lui resi in guerra; considerate pure le ferite che porta numerose sul suo corpo, come tombe in un santo cimitero. CORIOLANO - Solo graffi di spine, cicatrici da ridere, nient’altro. MENENIO - Considerate poi che nell’esprimersi, se non parla come uno di città, dovete in lui vedere il soldato. Non prendete l’asprezza del suo dire per malagrazia nei riguardi vostri, ma, come dico, lo dovete prendere come il parlare proprio d’un soldato e non già d’uno che vi vuole male. COMINIO - Bene, basta così. CORIOLANO - Per qual motivo, dopo che sono stato eletto console con voto unanime, devo sentirmi leso nell’onore a tal punto, che, dopo appena un’ora, volete ritrattare il vostro voto? SICINIO - Rispondi a noi, piuttosto. CORIOLANO - Già, tocca a me rispondere. Di’ pure. SICINIO - Noi t’accusiamo d’aver macchinato con l’intento di spazzar via da Roma tutte le cariche costituite, e di puntare, per traverse vie, al potere assoluto: onde tu sei traditore del popolo romano. CORIOLANO - Che! Traditore, io? MENENIO - No, no, sta’ calmo. Ricorda la promessa... CORIOLANO - Questo popolo, che se lo inghiotta il più profondo inferno! Io, traditore! Insolente tribuno! Avessi tu stampata nei tuoi occhi  la morte ventimila volte, e in mano ne avessi tu milioni, e ancora il doppio su quella tua linguaccia di bugiardo, ti griderò: “Tu menti!” con quella stessa mia voce dell’animo altrettanto spontanea come quella con cui prego gli dèi: SICINIO - (Alla folla) Lo senti, popolo? PLEBEI - Alla Rupe! Alla Rupe quello là! SICINIO - Basta così, non servono altre accuse! Avete visto tutti quel che ha fatto, udito che ha detto: ha malmenato i vostri delegati, v’ha insultati, ha resistito violento alla legge, ed ha sfidato qui l’alto potere di coloro che devon giudicarlo: tutto questo è delitto capitale, da meritar nient’altro che la morte. BRUTO - Tuttavia, poiché ha ben servito per il bene di Roma... CORIOLANO - Che vuoi cianciare tu di ben servire? BRUTO - Dico ciò che conosco. CORIOLANO - Proprio tu! MENENIO - (A Coriolano) È così che mantieni la promessa fatta a tua madre? COMINIO - Sappi, amico, che... CORIOLANO - Non voglio saper altro! Mi condannino pure come vogliono: ad essere buttato dalla Rupe, ad andare in esilio vagabondo, magari ad essere scuoiato vivo, o a languire di fame in una cella con un granello di frumento al giorno: mai m’indurrò a comprare la pietà al prezzo d’una sola parolina d’adulazione, mai mi s’indurrà a trattenere la mia repulsione dall’ottener da loro qualche cosa,  bastasse pure dir solo “buongiorno”! SICINIO - Attesoché in diverse occasioni ha fatto tutto ch’era in suo potere per mostrare il suo odio contro il popolo, cercando ogni possibile espediente per strappargli il potere; ed anche in questa s’è mostrato ostile non solo contro l’austera giustizia ma contro chi la deve amministrare, noi, in nome del popolo e nella nostra veste di tribuni, lo bandiamo da questo stesso istante dalla nostra città, sotto minaccia d’esser precipitato dalla Rupe, se ancor varcasse le porte di Roma. Così sentenzio, nel nome del popolo. PLEBEI - E così sia! E così sia! Cacciamolo! È bandito da Roma, e così sia! COMINIO - Ch’io vi parli, miei mastri, amici miei... Ascoltatemi. Sono stato console, e sul mio corpo porto le ferite che m’hanno fatto i nemici di Roma. Io di questa mia patria ho caro il bene con più tenero, più sacro rispetto, più profondo della mia stessa vita, dell’onore della mia cara sposa, dei frutti del suo grembo, e prezioso tesoro dei miei lombi. Perciò s’io vi dicessi... SICINIO - Che vuoi dire? Sappiamo già dove vuoi arrivare. BRUTO - Non c’è altro da dire, se non che questi è bandito da Roma, come nemico di Roma e del popolo. E così sia. PLEBEI - E così ha da essere! CORIOLANO - Branco di miserabili cagnacci, il cui fiato fetente io detesto come l’aria d’una palude infetta, i cui favori apprezzo quanto il lezzo ammorbante l’atmosfera delle carcasse d’uomini insepolti, son io che vi bandisco ora da me! E qui restate coi vostri orgasmi!  Che ogni minima voce(153) metta a tutti in cuor la tremarella! Ed i nemici col solo scuotere delle lor piume(154), vi piombino nella disperazione. Tenetevelo stretto un tal potere di dare il bando a chi vi può difendere, finché alla lunga la vostra insipienza, che nulla impara finché non lo prova, non risparmiando nemmeno voi stessi, di voi stessi facendovi nemici, non vi consegni, come prigionieri i più disonorati, a una nazione, che vi avrà vinti senza un solo colpo! Così, sprezzando io la mia città per causa vostra, le volto le spalle. C’è un mondo pure altrove! (Esce con Cominio, Menenio e gli altri patrizi) EDILE - Il nemico del popolo è partito! PLEBEI - Via il nostro nemico! Al bando! Evviva! (Gridano tutti, gettando in aria i berretti) SICINIO - Ora andate a vederlo quand’esce dalla porta di città, e con lo sguardo lo segua ciascuno con lo stesso disprezzo col quale egli ha guardato sempre voi. Dategli la tortura che si merita. Che una guardia ci scorti, nel mentre attraversiamo la città. PLEBEI - Alla porta! Alla porta! Andiamo, andiamo! A vederlo mentre esce di città! Gli dèi proteggano i nostri Tribuni! Andiamo, andiamo tutti! (Escono)  ATTO QUARTO SCENA I -Roma, davanti a una porta della città(155) Entrano CORIOLANO, VOLUMNIA, VIRGINIA, MENENIO, COMINIO e giovani patrizi CORIOLANO - (Alla madre e alla moglie) Basta, via, con le lacrime. Un addio breve. Mi caccia a cornate la mala bestia dalle molte teste(156)... Madre, suvvia, fa’ cuore! Dov’è dunque l’antico tuo coraggio? M’hai sempre detto che gli estremi mali sono le grandi prove dello spirito; che le comuni avversità son cose che anche la gente bassa sa patire; che con calma di mare, ogni naviglio, qual che sia la stazza, si mostra in grado di tenere il mare; che quanto più in profondo si dirigono i colpi della sorte, tanto più nobilmente i nostri sensi devon sopportarne le ferite. M’hai sempre caricato di precetti che dovevano rendere invincibile il cuore che li avesse assimilati(157)... VIRGINIA - O cieli! O cieli! CORIOLANO - No, ti prego, donna... VOLUMNIA - La peste colga tutti i mestieranti di Roma, e muoiano tutti i mestieri! CORIOLANO - Via, via, che assente mi rimpiangeranno. Su, su, madre, ritrova il vecchio spirito di quando non facevi che ripetermi - ricordi?(158) - che se fossi stata tu la moglie d’Ercole, avresti fatto sei delle sue fatiche, risparmiando metà dei suoi sudori a tuo marito... Cominio, non ti contristare. Adieu! Addio, mia sposa, addio, madre mia! Saprò cavarmela, malgrado tutto. E tu, mio vecchio e fedele Menenio, le tue lacrime sono più salate delle lacrime d’occhi giovanili, e son come veleno per i tuoi.  (A Cominio) Mio caro generale, t’ho visto spesso fermo ed impassibile davanti a viste da impietrire il cuore: fa’ tu capire a queste afflitte donne che piangere per colpi inevitabili è tanto stolto quanto è stolto il riderne. Madre, sai bene che per te i miei rischi sono stati la tua consolazione, e sta’ certa che s’anche me ne vado solo, solingo come un drago solitario che fa temibile la sua palude e del quale la gente parla tanto quanto meno lo vede, questo figlio farà qualcosa di straordinario; se non riusciranno a catturarlo col mezzo dell’inganno e dell’astuzia. VOLUMNIA - Ma dove te ne andrai, figliolo mio? Prendi almeno con te, per qualche tempo, il buon Cominio. Decidi che fare, non esporti alla cieca ad ogni evento che ti si possa offrire sul cammino. VIRGINIA - O dèi!... COMINIO - Vengo con te per tutto un mese; così potremo decidere insieme dove fermarti sì che poi di te possiamo aver notizia e tu di noi; così se con il tempo fiorirà l’occasione del tuo richiamo in patria, non dovremo mandare per un uomo alla ricerca in tutto il vasto mondo e perdere il vantaggio del momento, che sempre fatalmente si raffredda nell’assenza di chi deve giovarsene. CORIOLANO - Addio, Cominio. Sei carico d’anni, e pesano ancor troppo su di te le fatiche di guerra, per pensare d’andare alla ventura per il mondo con uno che ce la può far da sé(159). Accompagnami solo per un pezzo fuori le mura. Vieni, dolce sposa, madre amatissima, amici miei di nobil tempra; e appena sarò fuori ditemi tutti addio con un sorriso. Vi prego, andiamo. Avrete mie notizie fintanto che avrò i piedi sulla terra; e non saprete mai nulla di me  se non di quel che sono sempre stato. MENENIO - Questo parlare è quanto di più nobile può udire orecchio. Ebbene, niente lacrime! Potessi scuotermi solo sett’anni da queste stagionate braccia e gambe, ti seguirei, per gli dèi, passo passo! CORIOLANO - Qua la tua mano nella mia. Andiamo. (Escono) SCENA II - Roma, davanti a una porta della città Entrano i due TRIBUNI con un EDILE SICINIO - Rimandiamoli a casa. È andato via. È inutile che procediamo oltre. I nobili non l’han mandata giù. Tutti dalla sua parte, abbiamo visto. BRUTO - Ora, però, che abbiam mostrato i denti(160) ci conviene mostrarci più dimessi di quando tutto questo era da fare. SICINIO - (All’Edile) Mandali a casa. Di’ che il gran nemico se n’è andato, e la loro antica forza è sempre intatta. BRUTO - (All’Edile) Sì, mandali a casa. Esce l’Edile Ecco sua madre. Entrano VOLUMNIA, VIRGINIA e MENENIO SICINIO - Evitiamola. È meglio. BRUTO - Perché? SICINIO - La dicon furibonda pazza. BRUTO - Ci hanno visti. Cammina, tira dritto. VOLUMNIA - Oh, v’incontro a buon punto! Tutte le più schifose pestilenze tenute in serbo dagli dèi per gli uomini  possano ripagare il vostro zelo! MENENIO - Non gridare così! VOLUMNIA - Ancor più forte mi sentiresti, se non fosse il pianto... Anzi, mi sentirai lo stesso, adesso... (A Bruto) Che! Te ne vai? VIRGINIA - (A Sicinio) Resta qui anche tu... Potessi dir lo stesso a mio marito! SICINIO - (A Volumnia) Diamine, siete diventate uomini(161)? VOLUMNIA - Certo, imbecille, è forse una vergogna? Stammi a sentire, pezzo di babbeo: uomo non era forse il padre mio? Tu invece no, tu sei solo la volpe ch’è riuscita a cacciar via da Roma un uomo che per Roma ha dispensato più colpi che parole tu abbia detto. SICINIO - O dèi beati! VOLUMNIA - Sì, colpi più nobili che tu sagge parole, e dispensati per il bene di Roma. Sai che ti dico?... Ma va’, va’... No, invece, no, anzi resta... Vorrei che mio figlio si trovasse in Arabia, spada in pugno, a faccia a faccia con la tua tribù. SICINIO - Ebbene, allora? VIRGINIA - Allora sentiresti! Porrebbe fine a tutta la tua schiatta. VOLUMNIA - A tutta la tua razza di bastardi. Quel gagliardo, con tutte le ferite che si porta per Roma! MENENIO - Via, sta’ calma. SICINIO - Se avesse seguitato a comportarsi verso la patria come da principio, e non avesse spezzato lui stesso il generoso nodo da lui stretto...  BRUTO - Ah, sì, magari avesse... VOLUMNIA - “Ah, sì, magari”! Ma se vi siete dati proprio voi ad infiammar la folla! Voi, gattacci, che siete in grado di stimare i meriti non più di quanto io sappia scrutare i misteri insondabili del cielo! BRUTO - Andiamo, prego. VOLUMNIA - Prego, andate, andate. Avete fatto una bella prodezza. Prima, però, sentite che vi dico: di quanto s’erge in alto il Campidoglio sopra il più misero tetto di Roma, di tanto il figlio mio e di costei sposo - di questa donna qui, vedete? -, da voi bandito, vi sovrasta tutti. BRUTO - Bene, bene, ma adesso vi lasciamo. SICINIO - Perché star qui a sorbirci gli improperi d’una che ha perso chiaramente il senno? (Escono i due Tribuni) VOLUMNIA - E v’accompagnino le mie preghiere. Non avesser gli dèi altro da fare che confermar le mie maledizioni! Ah, potessi incontrarli, questi due, anche una volta al giorno: già basterebbe per sentirmi il cuore sollevato dal peso che l’opprime. MENENIO - Gli hai detto il fatto loro, e, francamente, ne avevi ragione. Non vorreste cenare insieme a me? VOLUMNIA - È la rabbia il mio cibo. La mia cena la farò su me stessa, divorandomi, così mangiando morirò di fame. (A Virginia) Andiamo, cessa di piagnucolare, e lamentati, come faccio io, di rabbia, alla maniera di Giunone(162). Andiamo. (Escono Volumnia e Virginia) MENENIO - Vituperio, vituperio!  (Esce) SCENA III -La strada fra Roma e Anzio Entrano NICANOR, soldato romano, e ADRIANO, soldato volsco, incontrandosi NICANOR - Io ti conosco, amico; ed anche tu devi conoscer me. Se non mi sbaglio, ti chiami Adriano. ADRIANO - Esattamente, amico; ma, in coscienza, di te non mi ricordo. NICANOR - Son romano, ma uno che lavora, come te, contro i Romani. Mi ravvisi adesso? ADRIANO - Nicanor?... NICANOR - Sì, amico, proprio lui. ADRIANO - Più barba avevi, quando t’ho incontrato l’ultima volta, ma la voce è quella. Bene, che novità ci sono a Roma? Ho qui un mandato del governo volsco di ricercarti là; ma adesso tu m’hai risparmiato un giorno di cammino. NICANOR - Ci sono state a Roma insurrezioni mai viste prima(163): il popolo in rivolta contro il Senato, i nobili, i patrizi. ADRIANO - “Ci sono state...”. Perché, son finite? I nostri governanti non lo credono; stanno facendo grandi apprestamenti per la guerra, sperando di sorprenderli nel pieno ardore delle lor discordie. NICANOR - Beh, la grande fiammata ormai è spenta; ma basta una scintilla a ravvivarla, perché i nobili han preso così male la cacciata del prode Coriolano, da ritener matura l’occasione per togliere alla plebe ogni potere e strapparle per sempre i suoi tribuni. C’è fuoco sotto cenere, ti dico, e sta lì lì per divampar di nuovo. ADRIANO - Coriolano bandito!  NICANOR - Sì, bandito. ADRIANO - A Corioli farà molto piacere, Nicanor, questa tua informazione. NICANOR - Lo credo; è un buon momento, ora, per loro. Ho sempre udito che il miglior momento per sedurre la moglie di qualcuno è quando ha litigato col marito. Il vostro valoroso Tullo Aufidio avrà modo di mettersi in gran luce in questa guerra, il suo grande avversario, Coriolano, trovandosi in disgrazia col suo paese. ADRIANO - Per forza di cose. È stata veramente una fortuna per me incontrarti, così, casualmente; hai concluso così la mia missione, e con piacere t’accompagno a casa. NICANOR - Fino all’ora di cena avrò da dirti molte cose stranissime da Roma, e tutte vantaggiose ai suoi nemici. Hai detto che hanno pronto già un esercito? ADRIANO - E che fiore d’esercito! Magnifico! I centurioni, con i loro uomini, già arruolati, al soldo dello Stato, equipaggiati e pronti a entrare in campo in termine di un’ora. NICANOR - Son contento di udire che son pronti, perché ritengo d’esser proprio io quello che li farà mettere in marcia con la massima urgenza. Bene incontrato, dunque, amico mio, e molto lieto della compagnia. ADRIANO - Tu mi rubi di bocca le parole, amico; sono io che ho più ragione di rallegrarmi. NICANOR - Bene, incamminiamoci. (Escono) SCENA IV - Anzio, davanti alla casa di Aufidio  Entra CORIOLANO in abito dimesso, travestito e imbacuccato CORIOLANO - Bella città quest’Anzio! E son io qui, Anzio, che le tue donne ha reso vedove. Ho udito gemere sotto i miei colpi molti eredi di queste tue magioni e cadere. Perciò non riconoscermi, che le tue donne con i loro spiedi ed i ragazzi con le lor sassate non m’uccidano in un puerile scontro. Entra un CITTADINO Salve, amico. CITTADINO - Salute a te. CORIOLANO - Di grazia, sapresti dirmi dove sta di casa il grande Aufidio? Si trova qui ad Anzio? CITTADINO - Sì, e banchetta a casa sua stasera con i notabili della città. CORIOLANO - Qual è la casa sua? CITTADINO - Ce l’hai davanti. CORIOLANO - Grazie, amico, salute. (Esce il Cittadino) O mondo, le tue scivolose curve! Amici uniti da antica affezione, da sembrare un sol cuore entro due petti, da trascorrere insieme tutti i giorni le ore, il letto, la mensa, il lavoro, inseparabili nel loro affetto come fossero stati due gemelli, basta uno screzio, un dissenso da niente per rompere in tremenda inimicizia. Così ugualmente nemici giurati cui l’ira e il furore dell’intrigo tolsero il sonno a forza di pensare come distruggersi l’uno con l’altro, ecco che per un caso, una sciocchezza che vale meno d’una coccia d’uovo, possono diventare grandi amici e unir le loro sorti. Così io: detesto il luogo dove sono nato e guardo con amore a una città  che mi è stata nemica... Beh, io entro. Se m’uccide, si sarà solo preso una giusta rivalsa. Se m’accetta, mi metterò a servire il suo paese. (Esce) Musica da dentro SCENA V - Anzio, l’interno della casa di Aufidio Entra un SERVO, gridando, affaccendato e traversando la scena PRIMO SERVO - Vino, vino!... Che razza di servizio! Qui mi paiono tutti addormentati! (Esce) Entra un altro SERVO SECONDO SERVO - (Chiamando) Coto!... Ma dove s’è cacciato?... Coto! Il padrone lo vuole. Entra CORIOLANO CORIOLANO - Bella casa... Dal banchetto promana un buon odore; ma io non sembro certo un convitato. Rientra il PRIMO SERVO PRIMO SERVO - Che vuoi, amico? Da che parte vieni? Qui per te non c’è posto. Fila, prego. (Esce) CORIOLANO - Essendo Coriolano, non mi merito da questa gente miglior trattamento(164). Rientra il SECONDO SERVO SECONDO SERVO - Da dove spunti, amico?... Ma il portiere ce l’ha gli occhi, che lascia entrare qui figuri come te? Va’ fuori, via! CORIOLANO - Via tu, piuttosto. SECONDO SERVO - Io? Aria, sparisci!  CORIOLANO - Ora cominci a infastidirmi. SECONDO SERVO - Ah! Ci fai pure il gradasso? Ora vedrai: ti faccio dire io due paroline. Entra un TERZO SERVO, insieme con il PRIMO TERZO SERVO - Chi è costui? PRIMO SERVO - Uno strano figuro quale mai m’è caduto sotto gli occhi. Non mi riesce di mandarlo via. Fammi il favore, chiama tu il padrone. TERZO SERVO - (A Coriolano) Che ci fai qui, compare? Su, va’ fuori. CORIOLANO - Lasciami solo starmene qui, in piedi. Non ti farò alcun danno al focolare. TERZO SERVO - Chi sei? CORIOLANO - Un nobile. TERZO SERVO - Sarai un nobile, ma sei meravigliosamente povero. CORIOLANO - È vero. TERZO SERVO - E dunque, nobile spiantato, ti prego, scegliti qualche altro posto. Questo non è per te. Sgombrare, via! CORIOLANO - Seguita pure a far le tue faccende, va’ ad ingozzarti con i loro avanzi. (Gli dà una spinta, mentre il Terzo Servo gli si avvicina) TERZO SERVO - Che! Non vuoi? (Al Secondo Servo) Per favore, di’ al padrone che strano convitato ha dentro casa. SECONDO SERVO - Vado subito. (Esce) TERZO SERVO - (A Coriolano) Dove stai di casa?  CORIOLANO - Sotto il gran baldacchino(165). TERZO SERVO - Il baldacchino? CORIOLANO - Sì. TERZO SERVO - E dov’è codesto baldacchino? CORIOLANO - Nella città dei nibbi e dei corbacchi(166). TERZO SERVO - Nella città dei nibbi e dei corbacchi? Che razza di somaro è mai costui! Allora alloggi pure con le taccole(167)? CORIOLANO - No, questo no: non mi trovo al servizio del tuo padrone. TERZO SERVO - Che vuoi dir, compare? Vuoi avere a che far col mio padrone? CORIOLANO - Certo, e sarebbe più onesto servizio dell’aver a che far con la tua ganza. Tu cianci troppo. Va’ a servir la tavola col tuo tagliere. Lèvati di mezzo! (Lo caccia via percuotendolo) Entra TULLO AUFIDIO col SECONDO SERVO AUFIDIO - Dov’è dunque quest’uomo? SECONDO SERVO - (Indicando Coriolano) È qui, padrone. L’avrei cacciato a calci come un cane; non l’ho fatto per non recar disturbo alle lor signorie che son di là. (Il Primo e Secondo Servo si fanno da parte) AUFIDIO - (A Coriolano) Da dove vieni? Che vuoi? Il tuo nome?... Perché non parli?... Avanti, di’ chi sei. CORIOLANO - (Scoprendosi il volto) Tullo, se ancor non m’hai riconosciuto, e se, a guardarmi, non sai ravvisarmi per quel che sono, ti dirò il mio nome. AUFIDIO - Cioè? CORIOLANO - Un nome che non suona musica  agli orecchi dei Volsci, e soprattutto deve suonar ben aspro a quelli tuoi. AUFIDIO - E dillo, questo nome! Hai l’aria fiera e impresso in faccia il segno del comando. Anche se il tuo sartiame va a brandelli, la struttura completa dello scafo rivela nobiltà. Qual è il tuo nome? CORIOLANO - Prepara la tua fronte ad aggrottarsi. Ancora dunque non mi riconosci? AUFIDIO - No, non ti riconosco. Dimmi il nome. CORIOLANO - Son Caio Marcio: l’uomo che ha procurato a te in particolare e a tutti i Volsci assai malanni e lutti. N’è testimone questo soprannome: Coriolano, che m’hanno dato a Roma(168). Il gravoso servizio militare, i pericoli estremi da me corsi e le gocce di sangue che ho versato per l’irriconoscente patria mia m’hanno fruttato, quale ricompensa, nulla di più che questo soprannome: un bel ricordo, una testimonianza per te di tutto l’odio ed il rancore che dovresti portarmi. Questo nome è però tutto ciò che mi rimane: le crudeltà, l’invidia della plebe secondata da nobili vigliacchi che m’han lasciato a lottare da solo, si sono divorate tutto il resto ed han permesso ch’io fossi cacciato da Roma per i voti degli schiavi. È stato questo estremo di sventura che m’ha portato qui, al tuo focolare; non già con la speranza - non fraintendermi - d’aver salva la vita, ché, se avessi paura della morte, e c’è un uomo da cui dovrei guardarmi, quello sei tu, ma per puro dispetto, e per rifarmi in pieno con coloro che m’han bandito. E son davanti a te. Se tu covi nel cuore una rivincita che ti ripaghi dei torti subiti, se brami cancellare la vergogna delle mutilazioni che si vedono in ogni angolo del tuo paese, non esitare a trarre beneficio dalla mia situazione di disgrazia:  usala in modo da trarre un vantaggio da quanto io possa far per vendicarmi. Perch’io ti dico che combatterò contro l’incancrenito mio paese con la rabbia dei diavoli d’inferno. Ma se di tanto osare non ti senti, e stanco sei di tentar nuove sorti, anch’io sono stanchissimo di vivere, e pronto a presentare la mia gola a te ed all’antico tuo rancore. E se ti rifiutassi di tagliarla, ti mostreresti soltanto uno stolto, perché il mio odio t’ha sempre inseguito, ha fatto correre botti di sangue dalla tua terra, ed io non potrei vivere se non che a tuo completo disonore, salvo che non vivessi per servirti. AUFIDIO - (Dopo un cenno al servo, che si ritira) Oh, Marcio, Marcio! Come ogni parola di queste tue m’ha strappato dal cuore una radice dell’antico odio! Se Giove stesso su da quella nuvola mi rivelasse divini misteri, e mi dicesse: “Questa è verità!” a lui non crederei più che ora a te, nobilissimo Marcio! Ch’io recinga in un abbraccio codesto tuo corpo contro il quale la mia forcuta lancia si spezzò cento volte, e le sue schegge sfregiarono la faccia della luna! E adesso invece stringo fra le braccia la stessa incudine della mia spada, e caldamente quanto nobilmente gareggio col tuo ardore, come prima, con ambiziosa forza, col tuo valore. Sappi solo questo: ho amato molto colei che ho sposato; mai uomo sospirò più lealmente. Ma ora, nel vederti avanti a me, nobilissimo uomo, con più gioia mi sobbalza rapito il cuore in petto di quando vidi per la prima volta la mia sposa varcare la mia soglia. Ebbene, dico a te, come al dio Marte, che abbiamo già un esercito allestito, pronto all’azione, ed ancora una volta m’ero proposto di falciarti via con la mia spada lo scudo dal braccio, o di perdere il mio; dodici volte, l’una dopo l’altra,  tu m’hai piegato, e da allora ogni notte non sogno che di scontri tra noi due: ci vedo tutti e due avvinti a terra, e lì, dopo esserci slacciati gli elmi, afferrarci l’un l’altro per la gola... per poi svegliarmi tutto tramortito, e perché?, per un nulla, solo un sogno. Degno Marcio, se pur altra querela non avessimo che la tua cacciata con Roma, chiameremmo tutti gli uomini alle armi, dai dodici ai settanta, e, rovesciando rivoli di guerra nelle viscere dell’ingrata Roma, strariperemmo su tutto il suo corpo con la violenza d’un torrente in piena. Ma entra, vieni a stringere la mano ai senatori amici qui venuti a salutarmi, poi che mi preparo ad attaccare i vostri territori, se non proprio la stessa Roma. CORIOLANO - O dèi, questa è una vostra benedizione! AUFIDIO - Perciò se vuoi, nobilissimo amico, prender la guida della tua vendetta, prenditi la metà delle mie forze e decidi il da fare, a tuo talento come ti detta meglio l’esperienza; ché tu conosci più di chiunque altro del tuo paese forza e debolezza, se sia meglio, cioè, picchiare d’impeto alle porte di Roma, o se investirli con violenza nella periferia, per spaventarli prima di distruggerli. Ma vieni dentro, ch’io per prima cosa ti presenti a coloro cui compete di secondare i tuoi desiderata. Sii dunque mille volte benvenuto, più amico oggi che nemico ieri (e lo sei stato, Marcio, e che nemico!). Qua la mano. Sii molto benvenuto. (Escono) Il PRIMO e il SECONDO SERVO si fanno avanti(169) PRIMO SERVO - Quale sbalorditiva metamorfosi! SECONDO SERVO - Per questa mano, avevo già pensato, ti giuro, di cacciarlo a bastonate...  Però dentro di me lo sentivo che il suo abito non diceva il vero... PRIMO SERVO - E che braccia!... M’ha fatto fare un giro con la presa del pollice e del medio, come se avesse avviato una trottola. SECONDO SERVO - Eh, l’ho capito subito dal viso che c’era in lui qualcosa; una tal faccia che mi pareva... non so come dire. PRIMO SERVO - Sì, sì, aveva un’aria, quasi fosse... Eh, m’impicchino se non ho capito che quello lì ci aveva qualche cosa in più di quanto potessi pensare. SECONDO SERVO - E io lo stesso, lo potrei giurare. Senz’altro è l’uomo più straordinario che ho visto al mondo. PRIMO SERVO - Penso anch’io così. Però, come soldato, c’è qualcuno di lui più grande, e tu lo sai chi è. SECONDO SERVO - Chi, il padrone? PRIMO SERVO - Non c’è discussione. SECONDO SERVO - Ne vale sei. PRIMO SERVO - No, non esageriamo. Però lo reputo miglior soldato. SECONDO SERVO - Guarda, in coscienza, non so come metterla: nella difesa d’una roccaforte il nostro generale è ineguagliabile. PRIMO SERVO - Certamente, ma pure nell’attacco. Entra il TERZO SERVO TERZO SERVO - Ehi, furfantacci! Ho notizie da darvi, e che notizie, figli di puttana! I DUE - Quali, quali, su, spùtale! TERZO SERVO - Fra tutte le nazioni della terra, non vorrei essere proprio un romano: sarebbe come una condanna a morte. I DUE - Perché, perché?  TERZO SERVO - Perché quel Caio Marcio che le ha suonate non so quante volte al nostro generale, è qui con noi. PRIMO SERVO - “Suonate al nostro generale” hai detto? TERZO SERVO - “Suonate” proprio no, non dico, via, però gli ha dato del filo da torcere. SECONDO SERVO - Ah, per questo, sia detto fra di noi, per lui è stato sempre un osso duro. L’ho udito spesso dirlo da lui stesso. PRIMO SERVO - Un osso troppo duro, sì, per lui, a dire il vero: davanti a Corioli l’ha tagliuzzato come una braciola. SECONDO SERVO - Se avesse avuto gusti da cannibale se lo sarebbe pur cotto e mangiato. PRIMO SERVO - Beh, tutte qui le tue grandi notizie? TERZO SERVO - No, lì dentro lo trattan tutti quanti che pare il figlio e l’erede di Marte: l’hanno fatto sedere a capotavola; e i senatori, per fargli domande, s’alzano in piedi e si scoprono il capo. Il nostro generale, poi, lo tratta come fosse la sua cara morosa: lo sfiora con la mano come un santo, e a sentirlo parlar strabuzza gli occhi. Ma il vero succo sapete qual è? Che il nostro generale è dimezzato rispetto a ieri, perché l’altro mezzo se l’è preso quell’altro, col consenso e le preghiere di tutta la tavola. Andrà, egli dice, a tirare le orecchie a chi sta a guardia delle porte di Roma, che falcerà ogni cosa avanti a sé, per far pulito e sgombro il suo passaggio. SECONDO SERVO - Ed è uomo capace di far questo, quant’altri al mondo. TERZO SERVO - Farlo, lo farà; perché, vedi, avrà, sì, tanti nemici, ma anche tanti amici; i quali amici non hanno avuto, diciamo, il coraggio, di mostrarsi, diciamo, amici suoi mentre lui è in discapito(170)...  PRIMO SERVO - “Discapito”? E che cos’è? TERZO SERVO - ... ma quando lo vedranno con la cresta rialzata e bene in sangue salteran fuori dalle loro tane come conigli dopo l’acquazzone e tutti insieme a fargli grande festa. PRIMO SERVO - Ma quando ciò? TERZO SERVO - Domani, oggi, subito. Potresti sentir battere il tamburo addirittura questo pomeriggio, come se fosse l’ultima portata del lor banchetto, da tradurre in atto prima ch’essi s’asciughino la bocca. SECONDO SERVO - Così riavremo almeno intorno a noi un po’ di movimento. Questa pace serve solo ad arrugginire il ferro, ad accrescere il numero dei sarti e partorire autori di ballate. PRIMO SERVO - Ah, per me, dico, datemi la guerra! È meglio cento volte della pace, come il giorno è migliore della notte; la guerra è cosa viva, movimento, è vispa, ha voce, è piena di sorprese. La pace è apoplessia, è letargia: spenta, sorda, insensibile, assonnata, e fa mettere al mondo più bastardi che non uccida uomini la guerra. SECONDO SERVO - Proprio così. La guerra la puoi dire, per un verso, una grande scopatrice, così come la pace una grande fattrice di cornuti. PRIMO SERVO - Già, e fa odiare gli uomini tra loro. TERZO SERVO - Logico: perché quando sono in pace, hanno meno bisogno l’un dell’altro. Eh, sì, la guerra a me va proprio a genio(171)! E spero che vedremo qui Romani a pochi soldi l’uno, come i Volsci. Si alzano da tavola! Si alzano! PRIMO e SEC. SERVO - Dentro, dentro, sbrighiamoci!  (Escono entrando nella sala da pranzo) SCENA VI -Roma, una piazza Entrano i tribuni SICINIO e BRUTO SICINIO - Di lui non s’è sentito più parlare, né c’è luogo a temerne: le sue armi sono spuntate(172)... Il popolo sta quieto e in pace, la selvaggia agitazione è finita. Che tutto ora vada bene a Roma, grazie a noi, fa arrossire di rabbia i suoi amici, che avrebbero di certo preferito, a costo di soffrirne loro stessi, vedere moltitudini in rivolta per le strade di Roma anziché udire cantare i nostri nelle lor botteghe, serenamente intenti ai lor mestieri. BRUTO - Abbiam puntato i piedi al punto giusto. Entra MENENIO Non è Menenio, questo? SICINIO - È lui, è lui, s’è fatto gentilissimo con noi, da qualche tempo in qua. Salute, amico. MENENIO - Salute a voi. SICINIO - Il vostro Coriolano non sembra essere molto rimpianto, tranne che nella cerchia degli amici. La repubblica regge bene in piedi senza di lui, e reggerebbe sempre, foss’egli ancor più in collera con lei. MENENIO - Sì, tutto bene, infatti. Andrebbe meglio però, se avesse saputo aspettare. SICINIO - Hai notizie di lui? Dove si trova? MENENIO - Non ne so nulla. La madre e la moglie sono anch’esse sprovviste di notizie. Entrano alcuni POPOLANI I POPOLANI - (In coro)  Gli dèi v’assistano sempre, tribuni! SICINIO - Buona sera a voi tutti. BRUTO - Buona sera! PRIMO POPOLANO - Dovremmo stare sempre inginocchiati, noi, con le nostre mogli e i nostri figli, a pregare gli dèi per voi due! SICINIO - Vivete e prosperate, brava gente! BRUTO - Addio, buona salute, cari amici! Avesse avuto per voi Coriolano la premura che vi portiamo noi! I POPOLANI - (In coro) Il cielo vi protegga! I DUE TRIBUNI - State bene. (Escono i popolani) SICINIO - Grazie al cielo, son tempi più felici questi, rispetto a quando questa gente si riversava in massa per le strade urlando e seminando la rivolta. BRUTO - Marcio alla guerra è stato certamente un bravo condottiero, ma altezzoso, ambiziosissimo, pieno di sé... SICINIO - ... e quanto mai smanioso di diventare il padrone assoluto della repubblica, senza collega(173). MENENIO - No, questo non lo credo. SICINIO - Eh, a quest’ora ce lo saremmo ritrovato tale, a nostro gran rimpianto, s’egli fosse salito al consolato. BRUTO - Gli dèi l’hanno impedito, per fortuna; e Roma, lui assente, può viver tranquilla e in sicurezza. Entra un EDILE EDILE - Onorandi tribuni, c’è uno schiavo che abbiam messo in prigione, ch’era in giro spargendo dappertutto la notizia  che i Volsci, da due parti, con due eserciti, son penetrati nei nostri confini in armi, e van con furia micidiale, distruggendo ogni cosa che si para sulla loro avanzata. MENENIO - Questo è Aufidio, che, avendo appreso del bando di Marcio, tira fuori di nuovo ora le corna che ha mantenuto sempre dentro il guscio senza osar di mostrarle, finché per Roma combatteva Marcio. SICINIO - Evvia! Che c’entra tirar fuori Marcio! (All’Edile) Va’, fallo fustigare l’allarmista! Non può esser che i Volsci osino tanto da romperla con noi! MENENIO - Ah, può ben essere! Abbiamo precedenti che può essere. Però interrogatelo quest’uomo prima di castigarlo: che dica da che fonte ha la notizia, se non volete andar incontro al rischio di frustare la vostra informazione e bastonare chi vi mette in guardia contro qualcosa ch’è da far paura. SICINIO - Ma son fandonie. So che non può essere. BRUTO - No, no, non è possibile. Entra un MESSO MESSO - Tutti i patrizi, in grande agitazione, stanno andando al Senato. Ci son notizie che li hanno sconvolti. SICINIO - È tutto questo schiavo... (All’Edile) Va’, fallo fustigare avanti a tutti. L’allarme è suo; nient’altro che fandonie. MESSO - No, onorevole tribuno, no! Il suo racconto è tutto confermato. E c’è dell’altro, ancora più terribile! SICINIO - Ancora più terribile? Che cosa? MESSO - È tutto un dire, da bocche diverse  - quanto ci sia di vero non lo so - che Caio Marcio, unito a Tullo Aufidio, vien marciando alla testa d’un esercito contro Roma, e giurando una vendetta generale, così indiscriminata da includere i più giovani e i più vecchi. SICINIO - Per chi ci crede! BRUTO - Voci sparse ad arte, per ravvivar negli animi più fiacchi l’augurio che il “buon Marcio” torni a casa. SICINIO - Già, questo è il loro gioco. MENENIO - Anch’io ci credo poco. Aufidio e lui son due che possono andare d’accordo non più di quanto può l’acqua col fuoco. Entra un altro MESSO SECONDO MESSO - Siete attesi in Senato. Un grande esercito al comando di Marcio e Aufidio uniti, imperversa sui nostri territori, travolgendo, incendiando, distruggendo tutto quello che incontra avanti a sé. Entra COMINIO COMINIO - (Ai due tribuni) Che bel capolavoro avete fatto! MENENIO - Perché, che sai, che sai? COMINIO - (Come sopra) Non potevate meglio dare mano a farvi violentar le vostre figlie, a far piovere sulle vostre zucche il piombo fuso dai tetti di Roma, a vedervi stuprare sotto gli occhi le vostre mogli... MENENIO - Perché? Che succede? COMINIO - ... a vedervi bruciare, incenerire i vostri templi, e vedervi ridotte sì sottili le vostre guarentigie e poteri, cui tenevate tanto, da entrar nel forellino d’un succhiello! MENENIO - Insomma, che notizie sai? Ti prego!  (Ai due Tribuni) Avete fatto, ho paura, voi due un bel capolavoro... (A Cominio) Di’, ti prego. Che nuove porti? Se davvero Marcio s’è unito ai Volsci... COMINIO - Se? È il loro dio! Li guida come fosse un’entità non generata da madre Natura, da deità diversa, e più capace della Natura stessa a fare un uomo; e quelli là lo seguono contro di noi, mocciosi bamboccioni, con la stessa svagata sicurezza di ragazzi che inseguono farfalle sotto il sole d’estate, o di beccai che si trovino a macellare mosche. MENENIO - (Ai tribuni) Che bel lavoro avete combinato, voi ed i vostri grembiulati amici(174)! Voi, che tanto eravate infatuati del voto della vostra mestieranza e del fiato dei mangiatori d’aglio! COMINIO - Ve la farà crollare sulla testa, la vostra Roma! MENENIO - Come quando Ercole, scrollò le mele mature dall’albero!(175). Avete fatto proprio un bel lavoro! BRUTO - Insomma, è proprio vero? COMINIO - Tanto vero, che prima di scoprire che non l’è, dovrete divenir pallidi morti(176). Tutte le genti gli aprono le porte sorridendo, ed i pochi che resistono, derisi per il lor vano eroismo, periscono da stolidi lealisti. Chi può muovergli biasimo, del resto? Anche i nemici, i vostri come i suoi, riconoscono che c’è in lui qualcosa. MENENIO - Siete tutti spacciati, se quel nobile non avrà pietà. COMINIO - Pietà! Chi dovrà chiederla? I Tribuni?  Almeno per pudore, quelli no! Il popolo? Ma il popolo da lui merita tanta pietà quanto il lupo dai pastori. Chi altro? I suoi seguaci? Ma se costoro gli andassero a dire: “Sii pietoso con Roma”, la lor preghiera avrebbe l’accoglienza di quella di chi merita il suo odio, e cioè di chi fosse suo nemico. MENENIO - È vero. S’anche m’appiccasse fuoco alla casa e me l’incendiasse tutta, io non avrei la faccia di gridargli: “Fermati, ti scongiuro!”. Avete fatto proprio un bel lavoro, voi due, con tutto il vostro artigianume! COMINIO - Per colpa vostra Roma sta tremando, come non ha mai fatto nel passato. I DUE TRIBUNI - Non direte che questo è colpa nostra. MENENIO - Ah, no? Sarebbe dunque colpa nostra? Marcio noi l’amavamo, ma da nobili bestie, quanto vili, abbiam ceduto alla vostra ciurmaglia che urlando l’ha cacciato via da Roma. COMINIO - Ho paura però che questa volta dovranno urlando chiedergli pietà. Tullo Aufidio, il cui nome di soldato è secondo nel mondo, gli obbedisce come un qualunque suo subordinato. Ormai tutta la tattica di guerra tutta la forza, tutte le difese che Roma potrà opporre a questi due sarà solo la sua disperazione. Entra un gruppo di POPOLANI MENENIO - Arriva il branco... E Aufidio è insieme a lui? (Ai popolani) Voi siete quelli che gli avete reso irrespirabile l’aria di Roma, quando gettaste in aria quelle coppole vostre unte e fetenti per acclamare la sua messa al bando! Adesso egli ritorna, e non c’è pelo in testa a un suo soldato che non si farà sferza per voi tutti:  farà cadere a terra tante zucche quanti berretti voi gettaste in aria, e vi salderà il conto dei voti che gli avete ritrattato. E se poi ci mandasse tutti a fuoco, fino a ridurci un unico tizzone, tanto peggio! L’avremo meritato! I POPOLANI - Certo, udiamo terribili notizie. PRIMO POPOLANO - Per parte mia, quando gridai: “Al bando!” aggiunsi pure che mi dispiaceva... SECONDO POPOL. - E così io. TERZO POPOLANO - E io no?... In coscienza, fece così la gran parte di noi. Quel che abbiam fatto è stato a fin di bene; e se pur assentimmo volentieri a bandirlo, fu certo controvoglia. COMINIO - Bravissimi, voi tutti e i vostri voti! MENENIO - Avete combinato un bel lavoro, voi e i vostri schiamazzi! (A Cominio) Che facciamo, saliamo al Campidoglio? COMINIO - Mi pare non ci sia altro da fare. (Escono Cominio e Menenio) SICINIO - (Alla folla) A casa, amici; ma non vi allarmate. Quelli là(177) appartengono a una parte cui farebbe davvero gran piacere se dovesse avverarsi quello che fanno finta di temere. A casa, e che nessuno dia a vedere d’aver paura. PRIMO POPOLANO - Gli dèi ci proteggano! Compagni, a casa!... Io l’ho sempre detto che facevamo male ad esiliarlo. SECONDO POPOL. - Tutti l’abbiamo detto, s’è per questo! Andiamo, andiamo a casa! (Escono i popolani)  BRUTO - Brutte notizie. Proprio non mi piacciono. SICINIO - Nemmeno a me. Darei metà del mio, se servisse a saper che sono false. BRUTO - Saliamo al Campidoglio. SICINIO - Prego, andiamo. (Escono) SCENA VII - Il campo dei Volsci presso Roma Entrano AUFIDIO e il suo LUOGOTENENTE AUFIDIO - Passano ancora molti col Romano(178)? LUOGOTENENTE - Non so quale magia egli abbia addosso ma i tuoi soldati l’hanno sempre in bocca manco fosse il “Signore benedicite” prima dei pasti, il lor discorso a tavola e il lor ringraziamento a fine pasto(179); e tu sei messo in ombra, generale, anche dai tuoi, in questa spedizione. AUFIDIO - Per il momento non ci posso nulla, a men di far ricorso a tali mezzi che finirebbero con l’azzoppare i nostri stessi piani. Anche con me si mostra assai più altero di quanto avessi mai immaginato, il giorno che lo accolsi a braccia aperte. Ma è sua natura, in ciò non si smentisce e io debbo per forza perdonare ciò che non è possibile correggere. LUOGOTENENTE - Avrei desiderato tuttavia - nel tuo stesso interesse, intendo dire - che non lo avessi associato al comando, ma che avessi da solo preso in mano la suprema condotta dell’impresa; o l’avessi lasciata solo a lui. AUFIDIO - Intendo quel che dici, ma sta’ certo, quando verrà che dovrà render conto, non sa quel che saprò tirare in ballo contro di lui. Sebbene in apparenza, come egli stesso crede - e come appare non meno bene agli occhi della gente - ei compia tutto in piena lealtà  e dimostri d’avere buona cura degli interessi dello Stato volsco, che si batta per esso come un drago e che tutto riesca ad ottenere col solo sguainar della sua spada, c’è una cosa però che ha trascurato, e sarà tale da spezzargli il collo, o a mettere il mio a pari rischio, quando verremo alla resa dei conti. LUOGOTENENTE - Che pensi, generale, sarà capace di prendere Roma? AUFIDIO - Ogni località s’arrende a lui, prima ch’egli s’appresti ad assediarla; la nobiltà di Roma è tutta sua: senatori, patrizi fanno a gara a chi più l’ama. I tribuni del popolo non son uomini d’arme, e il loro popolo sarà altrettanto pronto a richiamarlo quanto lo è stato a decretarne il bando. Penso ch’ei sia per Roma e pei Romani quel ch’è la procellaria per il pesce, che lo divora per suprema legge della natura. D’essi è stato prima nobile servitore, ma incapace in seguito di mantener le cariche con tutto l’equilibrio necessario. Sia stato orgoglio - che, con il successo, sempre contagia l’uomo che lo coglie - sia stata assenza di discernimento nel lasciarsi sfuggire le occasioni che pure aveva saldamente in pugno; sia stata pure la sua stessa indole che lo rende istintivamente inabile a mostrarsi diverso da se stesso quando passa dall’elmo del guerriero al cuscino del seggio consolare, e a concepire che non è possibile governare la pace col piglio e la durezza usati in guerra, sta che uno solo di questi difetti - ché in lui di tutti quanti c’è sentore, seppur nessuno ne possieda al massimo, ciò che finora me l’ha fatto assolvere - l’ha reso un uomo da tutti temuto, e così odiato, e così messo al bando. Ha certamente un merito che annulla ogni difetto al solo dirlo(180). Ma le virtù degli uomini, si sa, soggiacciono alla stima del momento;  e il potere, in se stesso pregiatissimo, non ha tomba più certa che lo scanno su cui siede a esaltare ciò che ha fatto. Così il fuoco divora un altro fuoco, e un chiodo scaccia l’altro; così cade un diritto per forza d’un diritto, la forza per la forza d’altra forza. Ma muoviamoci adesso... Caio Marcio, quando tua sarà Roma, tu sarai il più povero di tutti, ed allora sarai subito mio! (Escono)  SCENA I -Roma, una piazza Entrano MENENIO, COMINIO, SICINIO, BRUTO e altri MENENIO - No, non ci vado. Avete tutti udito come ha parlato a colui che fu un tempo suo comandante e ch’era a lui legato dal più tenero affetto. Mi chiamava suo padre. E che con ciò? Andate voi, che l’avete bandito, e prima d’arrivare alla sua tenda(181), un miglio prima cadete in ginocchio e implorate la sua misericordia. No, se s’è dimostrato indifferente a sentire Cominio, io resto a casa. COMINIO - Era come se non mi conoscesse... MENENIO - Ecco, sentite?... COMINIO - Eppure nel passato mi chiamò sempre per nome: Cominio. Gli ho richiamato la vecchia amicizia ed il sangue che abbiam versato insieme; ma a chiamarlo col nome “Coriolano” non rispondeva, e lo stesso con gli altri; come se fosse un nulla, un senza nome, fin quando non si fosse da se stesso forgiato un altro nome, un nome nuovo, nel braciere di Roma messa a fuoco. MENENIO - Addirittura! (Ai Tribuni) Ecco, ora vedete, che bel lavoro avete combinato? Una bella pariglia di tribuni che han fatto il necessario perché a Roma ci fosse del carbone a buon mercato. Che nobile epitaffio(182)! COMINIO - Non ho mancato poi di ricordargli come regale sia il perdonare specie se meno atteso. M’ha risposto. ch’era quella richiesta senza senso da parte di uno Stato a una persona ch’esso stesso aveva castigato. ATTO QUINTO  MENENIO - Benissimo! Poteva dir di meno? COMINIO - Ho cercato di risvegliare in lui l’attaccamento agli amici più cari: m’ha risposto che non poteva certo star lì a sceverarli uno per uno in un mucchio di pula infetta e putrida; e che sarebbe stato da imbecilli, per salvar qualche chicco di frumento in quel putrido ammasso, astenersi dall’appiccarvi il fuoco e seguitare ad annusarne il lezzo. MENENIO - “Per qualche chicco di frumento”, ha detto? Uno son io di quelli, e sua madre, e sua moglie, e il suo figliolo, ed anche questo valoroso amico, (Indica Cominio) siam tutti i granellini ch’egli dice... (Ai Tribuni) ... ma voi siete la lolla imputridita, che spande il suo fetore oltre la luna. E noi, per causa vostra, sarem forzati a farci abbrustolire! SICINIO - Evvia, ti prego, non t’imbestialire! Se ti rifiuti di prestarci aiuto, ora ch’esso ci occorre come mai, non rinfacciarci almeno la disgrazia! Certo, però, se tu fossi disposto ad intercedere presso di lui pel tuo paese, l’abile tua lingua sarebbe ben capace di fermarlo il nostro, come non potrebbe fare qualunque esercito che gli opponessimo. MENENIO - No, non voglio immischiarmi. SICINIO - Ti prego, va’ da lui. MENENIO - A far che cosa? SICINIO - Soltanto un tentativo, quale può fare a favore di Roma il tuo legame d’affetto con Marcio. MENENIO - Beh, mettiamo che mi rimandi indietro, senza ascoltarmi, come pure ha fatto con Cominio... Che cosa ne verrebbe?  Nient’altro che un amico disilluso, ferito dalla sua indifferenza. Non ti pare? SICINIO - Quand’anche così fosse, la tua prova di buona volontà non potrà non ricevere da Roma la gratitudine commisurata alla buona intenzione dimostrata. MENENIO - Bah, mi ci proverò. Chissà che non si degni d’ascoltarmi; sebbene quel suo mordersi le labbra, quell’inarticolato bofonchiare che ci ha detto Cominio, non son cose che m’incoraggino un gran che a tentare... Ma forse non fu colto il buon momento: non aveva pranzato, e il sangue è ancora freddo nelle vene quando queste non son ben riempite, al mattino, imbronciati come siamo, siamo sempre, si sa, poco disposti a dare o a perdonare; quando, invece, abbiamo riempito in abbondanza con vino e cibo queste condutture in cui si canalizza il nostro sangue abbiamo l’animo più disponibile che non nei nostri digiuni da preti. Perciò starò lì attento ad aspettare che sia sazio e disposto ad ascoltarmi, e allora cercherò di avvicinarlo. BRUTO - Tu conosci qual è la strada giusta per giungere alla sua arrendevolezza, e non ti puoi smarrire. MENENIO - Per mia buona coscienza, io ci provo; poi vada come vuole. Non ci sarà poi tanto da aspettare per constatare se sarò riuscito. (Esce) COMINIO - Non sarà mai che voglia dargli ascolto. SICINIO - No? COMINIO - Ve l’ho detto: se ne sta seduto in un seggio dorato(183), l’occhio rosso quasi a volere, col solo suo sguardo, incenerire Roma; e la sua offesa(184)  è il carceriere della sua pietà. Gli son caduto davanti in ginocchio, e lui m’ha detto appena, in un sussurro: “Rialzati”, e d’un gesto della mano in silenzio, così, m’ha congedato. M’ha fatto poi sapere per iscritto quel ch’è disposto a fare e quel che no: impegnato com’è da un giuramento ad osservare certe condizioni. È così; non c’è nulla da sperare, salvoché, come ho udito, la sua nobile madre e la sua sposa non vadano esse stesse a implorargli mercé per la sua patria. Perciò muoviamoci, andiamo a pregarle di recarsi da lui quanto più presto. (Escono) SCENA II - Il campo volsco, davanti a Roma Entra MENENIO, e avanza verso due SENTINELLE 1a SENTINELLA - Alto là! Dove vai? 2a SENTINELLA - Fermati! Indietro! MENENIO - Voi fate buona guardia, e fate bene. Ma, con vostra licenza, io sono qui in veste di ufficiale dello Stato, e vengo per parlare a Coriolano. 1a SENTINELLA - E da dove? MENENIO - Da Roma. 1a SENTINELLA - Non si passa! Devi tornare indietro: il generale da lì non vuol ricevere nessuno. 2a SENTINELLA - Potrai vedere la tua Roma in fiamme prima di colloquiar con Coriolano. MENENIO - Miei buoni amici, se vi sia occorso d’udir parlare il vostro generale di Roma e degli amici ch’egli ha là, c’è da scommetter mille contro uno che il nome mio vi sia giunto all’orecchio: è Menenio.  1a SENTINELLA - Può darsi, ma va’ indietro, perché il tuo nome qua non conta niente. MENENIO - Ti dico, amico, ascolta, ch’io son uno al quale il generale tuo vuol bene, uno che è stato, vedi, in qualche modo il libro delle sue famose imprese, e dove gli uomini han potuto leggere le sue gesta. magari un po’ gonfiate, per via che degli amici (e lui è il primo) ho cercato di dire sempre bene ed in tutta l’ampiezza consentita da verità, senza toglierci un ette. Talvolta posso aver passato il segno, come accade a una boccia, tirata sopra un fondo diseguale; e nel far le sue lodi m’è accaduto quasi di fabbricar moneta falsa... Pertanto, amico, credo d’aver titolo e che tu debba lasciarmi passare. 1a SENTINELLA - Senti, amico, se pure avessi detto in favore di lui tante bugie per quante chiacchiere hai speso per te, di qui non passi; manco se fregare(185) fosse virtù come vivere casti. Perciò indietro. MENENIO - Ma per favore, amico, ricordati che il mio nome è Menenio, e sono sempre stato partigiano del partito del vostro generale. 2a SENTINELLA - Tu potrai essere, come tu dici, il suo bugiardo, quanto ti fa comodo, io son uno che sta sotto di lui e non dico bugie, perciò ti debbo dire che non passi. Avanti, sgombra! MENENIO - Puoi dirmi soltanto se ha già pranzato? Non vorrei parlargli prima ch’abbia mangiato. 1a SENTINELLA - Sei romano? MENENIO - Romano, come il vostro generale. 1a SENTINELLA - Allora tu dovresti odiare Roma né più né meno quanto l’odia lui. Come fate a pensare  che dopo aver cacciato dalle porte colui che era il loro difensore e dopo aver regalato al nemico il vostro scudo, possiate sperare ora di fronteggiar la sua vendetta con i facili piagnistei di vecchie o in virtù delle virginali palme giunte in preghiera delle vostre figlie, o per l’intercessione paralitica d’un vecchio rimbambito come te? Come puoi credere di poter spegnere con un debole fiato come il tuo le fiamme in cui fra poco dovrà ardere la tua città? Ti fai illusioni, vecchio, e perciò fila, tornatene a Roma, e prepàrati per l’esecuzione. Perché là siete tutti condannati; il generale non v’accorderà, l’ha giurato, né tregua né perdono. MENENIO - Stammi a sentire, amico: se il tuo capo fosse informato ch’io mi trovo qui, mi tratterebbe con ogni riguardo. 1a SENTINELLA - Il mio capo? Nemmeno sa chi sei. MENENIO - Volevo intendere il tuo generale. 1a SENTINELLA - Che vuoi che gliene importi, al generale, di uno come te! Va’ indietro, via, se non vuoi che ti faccia spillar fuori quel bicchiere di sangue che ti resta. Sloggiare, via, sloggiare! Via di qua! MENENIO - Eh, ma... amico, un momento(186)! Entra CORIOLANO con AUFIDIO CORIOLANO - Che succede? MENENIO - (Alla sentinella) Oh, adesso, amico, te lo faccio io un bel rapporto col tuo superiore(187)! Così saprai se m’ha riguardo o no. Vedrai se un bischero di sentinella si può permettere di trattenermi dall’incontrarmi col mio Coriolano. Già dal modo con cui mi tratterà potrai immaginare se per te c’è già pronta la forca o altra sorta di più lungo supplizio. Sta’ a guardare  e poi svieni, per quello che t’aspetta! (A Coriolano) Gli dèi gloriosi seggano in consesso ora per ora a conservarti prospero e non t’abbiano essi meno caro del tuo vecchio Menenio. Figlio mio tu ci stai preparando fuoco e fiamme. Guarda: ecco qui l’acqua per estinguerle. A stento hanno cercato di convincermi a venir qui da te; ma quando io stesso alla fine mi sono persuaso che nessun altro all’infuori di me potesse fare tanto da commuoverti, coi lor sospiri sono stato spinto fuor dalle porte della tua città ad implorarti il perdono per Roma e pei supplici tuoi compatrioti. Gli dèi benigni plachino il tuo sdegno e ne faccian cader l’ultima feccia sulla testa di questo manigoldo (Indica la 2a Sentinella) che s’è impuntato, duro come un ciocco, a sbarrarmi l’accesso a te... CORIOLANO - Va’ via! MENENIO - Come! Che dici? CORIOLANO - Moglie, madre, figlio, non li conosco. Tutte le mie cose son sottomesse ad altri. La vendetta è tutto quanto mi resta di mio; il mio perdono è nel cuore dei Volsci. Che un’amicizia sia stata fra noi, sia l’ingrata oblivione suo veleno piuttosto che venirci la pietà a ricordar quant’essa fosse grande. Perciò vattene. A queste vostre suppliche i miei orecchi son più resistenti che le porte di Roma alle mie armi. Tuttavia, per l’affetto che t’ho avuto, prendi questo con te: (Gli consegna una lettera) per te l’ho scritto, e te l’avrei mandato. Altro da te, Menenio, non starò ad ascoltare. (Ad Aufidio) Quest’uomo a Roma m’era molto caro fra tutti: eppure tu lo vedi, Aufidio.  AUFIDIO - Vedo: sei uomo di tempra costante. (Escono Coriolano e Aufidio) 1a SENTINELLA - Sicché, compare, il tuo nome è Menenio? 2a SENTINELLA - Caspita, un nome di molto potere. La via di casa la conosci. Va’. 1a SENTINELLA - Hai sentito che striglia abbiamo preso per aver bloccato Tua Eccellenza? 2° SENTINELLA - Che motivo ci avrei io di svenire, secondo te? MENENIO - Non me ne importa più né del tuo generale, né del mondo! Quanto ad arnesi della vostra specie faccio fatica soltanto a pensare che siete al mondo, tanto vi considero! Chi è deciso a morir di propria mano non teme di morir per mano altrui. Faccia pure quanto di peggio ha in mente, il vostro generale; quanto a voi, restate pure a lungo quel che siete, e vi cresca, cogli anni, la miseria! Dico a voi quel ch’è stato detto a me. (Esce) 1a SENTINELLA - Un brav’uomo, però, non c’è che dire. 2a SENTINELLA - Che tipo in gamba il nostro generale! Una roccia, una quercia che non crolla per quanti venti gli soffino contro. (Escono) SCENA III -La tenda di Coriolano Entrano CORIOLANO, AUFIDIO e Ufficiali. Si siedono CORIOLANO - Accamperemo domani l’esercito proprio davanti alle mura di Roma. Tu, mio collega in questa spedizione, farai sapere ai senatori volsci con quanta lealtà verso di loro io l’ho portata avanti. AUFIDIO - Hai guardato soltanto ai loro fini  e sei rimasto pienamente sordo alle suppliche dell’intera Roma; non hai ammesso a privato colloquio nessuno, no, nemmeno quegli amici ch’eran sicuri di poterlo fare. CORIOLANO - Quest’ultimo venuto, quel vegliardo che ho rinviato con il cuore a pezzi a Roma, mi teneva ancor più caro che se fosse mio padre, ed io per lui ero un dio. Mandarlo ora da me è stata l’ultima loro risorsa; ed io, in nome dell’antico affetto, pur mostrandomi duro anche con lui, ho loro offerto una seconda volta per suo mezzo le prime condizioni, le stesse ch’essi avevan rifiutato e che ora non posson più accettare; e ciò solo per un riguardo a lui che pensava poter fare di più. Ho ceduto ben poco. Non presterò più orecchio, d’ora in poi, a suppliche o altre ambascerie, che vengan dallo Stato o dagli amici... (Grida dall’esterno) Che grida sono queste? Non dovrò mica vedermi tentato a ritrattare una promessa fatta appena adesso?... No, non lo farò(188). Entrano VIRGINIA, VOLUMNIA, VALERIA, il PICCOLO MARCIO e altri del seguito (Tra sé) Prima, davanti a tutti, la mia sposa; poi l’onorato grembo da cui forma prese questo mio tronco, ed in mano a lei il nipotino del suo stesso sangue... Ma via da me la piena degli affetti! Spezzatevi legami di natura e diritti del sangue! La caparbia sia virtù. Che valore ha quell’inchino? Che valgono per me gli sguardi di quegli occhi di colomba che spergiurar farebbero gli dèi?... Ma oh!, m’intenerisco, non son di terra più forte degli altri! Mia madre mi s’inchina... È come se l’Olimpo si curvasse ad implorare una tana di talpa; e il mio ragazzo ha un’aria così supplice  ha un’espressione così supplichevole che par sia la Natura che mi gridi a tutta voce: “Non dire di no!”. Ma passino coi loro aratri i Volsci sopra il suolo che vide eretta Roma, e rompano col vomere l’Italia(189)! Non sarò così insulso da cedere alla forza dell’istinto, ma resterò deciso ed incrollabile come uomo padrone di se stesso ignorando qualsiasi parentela. VIRGINIA - Mio signore e marito!... CORIOLANO - Questi occhi non son più i miei di Roma(190). VIRGINIA - È la grande afflizione che ci fa sì mutate agli occhi tuoi. CORIOLANO - (A parte) Ecco che adesso, da cattivo attore, dimentico la parte, m’impappino fino a un fiasco completo!(191)... (Alzandosi e andando verso la moglie) Tu, della carne mia la miglior parte, perdona la spietata mia durezza, ma non chiedermi in cambio di perdonar “questi nostri Romani”. (Virginia lo abbraccia e lo bacia) Oh, mia diletta, questo lungo bacio, lungo come l’esilio, un bacio dolce come la mia vendetta! Per la gelosa regina del cielo(192), quel tuo bacio d’addio io l’ho portato sempre con me e vergine il mio labbro da quell’istante l’ha serbato... O dèi, io sto lasciando senza il mio saluto la più nobile madre della terra! (S’inginocchia ai piedi di Volumnia) Già, mio ginocchio, affòndati per terra, lasciaci il calco d’una devozione, la più grande che figlio abbia sentito. VOLUMNIA - Oh, rialzati, figlio benedetto! (Coriolano si rialza) Son io che m’inginocchio avanti a te  su questo duro cuscino di pietra, mostrando in un tal gesto per se stesso irriguardoso di civil decoro, come finora mal sia stato inteso il rispetto fra figlio e genitore. (S’inginocchia) CORIOLANO - Che significa questo? Tu inginocchiata qui davanti a me? Davanti a questo figlio tante volte da te rimproverato(193)? Oh, allora volino a punger le stelle anche le ghiaie dell’arida spiaggia! Allora scaglino i venti in rivolta gli alteri cedri contro il sole ardente, spazzando via dal mondo l’impossibile, sì che diventi all’uomo facil opra fare che ciò che non può esser sia. VOLUMNIA - Tu sei il mio guerriero e a farti tale io t’aiutai. Conosci questa donna? (Indica Valeria) CORIOLANO - La nobile sorella di Publicola, luna di Roma, casta come il ghiaccio che da neve purissima s’aggruma col gelo, e pende sul tempio di Diana(194)... Cara Valeria!... VOLUMNIA - (Indicando il piccolo Marcio) Questo è la tua copia, un acerbo compendio di te stesso, che quando il tempo l’avrà maturato potrà essere tutto il tuo ritratto. CORIOLANO - (Carezzando il viso del piccolo Marcio) Possa il dio dei soldati, col consenso di Giove ottimo-massimo, informarti di nobiltà la mente sì da renderti immune al disonore e farti emergere nelle battaglie come un gran promontorio in mezzo al mare, che regge l’impeto delle burrasche e salva tutti quelli che lo vedono! VOLUMNIA - (Al piccolo Marcio) Giù, in ginocchio! CORIOLANO - Il mio bravo figlietto!  (Il piccolo Marcio s’inginocchia, ma il padre lo tira su) VOLUMNIA - Ecco, anche lui, tua moglie, questa donna(195) ed io, tua madre, siamo qui tuoi supplici. CORIOLANO - Ti scongiuro, non domandarmi nulla! O, se qualcosa devi domandarmi, prima di tutto tieni in mente questo: le cose che giurai di non concedere non siano mai da te considerate come rifiuti, se non le concedo. Non chiedermi di rimandare a casa i miei soldati, o di capitolare alla plebe di Roma un’altra volta. Non dirmi snaturato se ricuso non smorzare con più freddi argomenti la mia rabbiosa sete di vendetta. VOLUMNIA - Oh, basta, basta, hai detto: non sei disposto a concedere nulla... e noi qui non abbiamo che da chiedere quello che tu hai detto di negarci. E tuttavia te lo vogliamo chiedere, sì che, se ci fai vana la richiesta se ne possa dar colpa solo alla tua protervia. Perciò ascolta. CORIOLANO - Aufidio, ed anche voi, Volsci, sentite; perché in privato qui nulla da Roma s’ha da sentire. (Si siede) Che cos’hai da chiedere? VOLUMNIA - Quand’anche rimanessimo in silenzio, senza profferir verbo, il nostro aspetto e queste nostre vesti ti direbbero che genere di vita abbiam vissuto da quando sei partito per l’esilio. Considera che donne sventurate noi siamo, come nessun’altra al mondo, nel venir qui da te, se il sol vederti, che ci dovrebbe empir di gioia gli occhi e far danzare di conforto i cuori, li costringe al contrario a lacrimare e tremar di paura e di dolore, e far che madre, sposa e figlioletto vedano il loro figlio, sposo e padre che strappa i visceri alla propria terra. E l’esser tu di questa nostra terra divenuto nemico è più funesto per noi, povere donne, che per gli altri.  Ché almeno agli altri è concesso il conforto di pregare gli dèi, a noi per causa tua proibito. Come possiamo, ahimè, noi le tue donne, pregare il cielo per la nostra patria (come sarebbe pur nostro dovere) e nel contempo per la tua vittoria (come sarebbe pur nostro dovere)? Ahimè, tra dover perdere la patria, nostra cara nutrice, o perder te, che nella patria sei nostro conforto, andiamo incontro a una sciagura certa, qualunque sia la parte, delle due, che possiamo augurarci vittoriosa: ché o dovrem vederti tratto in ceppi come un nemico vinto attraversare le strade di Roma, oppur calcare da trionfatore le rovine di questa tua città con la palma d’aver sparso da eroe il sangue di tua moglie e dei tuoi figli(196). Quanto a me, figlio mio, non ho certo intenzione d’aspettare qual esito la sorte avrà voluto serbare a questa guerra. Se non potrò convincerti a far grazia con nobiltà di cuore alle due parti piuttosto che cercare la rovina d’una sola di esse, non potrai - credimi, tu non potrai! - muovere ad assaltare il tuo paese, figlio, senza aver prima calpestato il ventre di tua madre che t’ha portato al mondo. VIRGINIA - E quello mio che ha partorito a te questo ragazzo per far vivere il nome tuo nel tempo! IL PICCOLO MARCIO - A me, però, non mi calpesterai! Io scapperò finché non sarò grande, ma poi voglio combattere! CORIOLANO - Per non intenerirsi come femmine bisogna non vedere innanzi a sé facce di donne o di fanciulli... Basta, ho già troppo ascoltato. (Si alza dal seggio e fa per andarsene) VOLUMNIA - No, no, Marcio, non lasciarci così! Se il nostro chiedere  mirasse solo a salvare i Romani e a distruggere i Volsci che tu servi, ci potresti accusar d’esser venute come avvelenatrici del tuo onore. No, ti chiediamo di riconciliarli, sì che, da un lato i Volsci possan dire: “Ecco mostrata la nostra clemenza”, e i Romani: “L’abbiamo ricevuta”; e ciascuno ti acclami, da ogni parte, ed esclami: “Che tu sia benedetto, per aver combinato questa pace!”. Tu sai, nobile figlio, come incerte siano sempre le sorti della guerra; ma questo è certo: se conquisti Roma il beneficio che potrai raccoglierne sarà un nome che, appena menzionato, sarà inseguito da maledizioni come cervo da una canea latrante(197), e così d’esso scriverà la storia: “L’uomo fu certo di gran nobiltà, della quale però l’ultima impresa ha spazzato fin l’ultimo vestigio, ha distrutto la patria, ed il suo nome resta esecrato per le età future”. Parlami, figlio. Tu ch’hai sempre amato i generosi slanci dell’onore, tu ch’hai sempre aspirato ad imitar gli dèi nella clemenza, a lacerar col tuono l’ampio spazio, come puoi caricare la tua collera con un fulmine buono appena appena a buttar giù un querciolo... Perché taci? Credi sia degno d’un animo nobile non saper cancellar dalla memoria le offese ricevute? (A Virginia) Parla, figlia, parla anche tu, perché delle tue lacrime lui non si cura. (Al piccolo Marcio) Parla anche tu, piccolo. Forse la tenera tua fanciullezza più che i nostri argomenti può riuscire a dargli un briciolo di commozione. Non c’è uomo che debba più di lui a sua madre, e mi lascia qui a cianciare come una alla gogna... (A Coriolano) Per tua madre non hai avuto mai in vita tua  un tratto di filiale gentilezza; per lei che, invece, da povera chioccia, incurante d’aver altra covata, t’ha sempre accompagnato chiocciolando alla guerra, e t’ha ricondotto a casa felicemente e carico d’onori. Di’ che la mia richiesta non è giusta e respingimi pure con disprezzo; ma se tale non è, non sei onesto, e gli dèi ti faranno ripagare questo tuo rifiutare l’obbedienza che spetta di diritto ad una madre... (Coriolano guarda da un’altra parte) Ah, volge il viso altrove!... Donne, giù! (S’inginocchia, e gli altri la imitano) Ci veda inginocchiati, e si vergogni! Al soprannome suo di Coriolano meglio s’addice la boria proterva che la pietà per le nostre preghiere. Giù, sia finita, per l’ultima volta! Poi torneremo a Roma, e moriremo coi nostri vicini. No, no, devi guardarci! Questo bimbo, che non sa profferir ciò che vorrebbe ma s’inginocchia e ti tende le mani con noi, sostiene la nostra preghiera con più forza di quanto tu ne adoperi nel respingerla. Via, andiamo via! (Si alzano) Quest’uomo ha avuto per madre una Volsca, sua moglie sta a Corioli, e suo figlio somiglia a lui per caso. (A Coriolano) Parla, per dirci almeno “Andate via”! Io, da qui innanzi resterò in silenzio finché la nostra Roma non sia in fiamme; solo allora dirò qualche parola. CORIOLANO - (Prendendole la mano, dopo lungo silenzio) Ah, madre, madre mia che cosa hai fatto!... Guarda, s’aprono i cieli e di lassù irridono gli dèi a questa scena innaturale! Oh, madre, madre, hai vinto! Una felice vittoria per Roma; ma per tuo figlio - credilo, ah, credilo! - hai prevalso su lui, ma esponendolo  a un pericolo estremo, se non proprio alla morte. E così sia! (Ad Aufidio) Aufidio, io non potrò più condurre questa guerra in piena lealtà. Negozierò perciò una congrua pace. Ma dimmi, buon Aufidio, al posto mio, avresti dato tu ad una madre minore ascolto? O concesso di meno? AUFIDIO - Sono commosso anch’io. CORIOLANO - L’avrei giurato! Ché non è poco, Aufidio, che i miei occhi trasudino pietà. Ma dimmi tu, buon collega, che pace vuoi concludere. Per parte mia, non resterò a Roma; torno con te a Corioli e ti prego di darmi il tuo sostegno in questa contingenza. O madre! O moglie! AUFIDIO - (A parte) Godo a veder che ti sei messo dentro questo conflitto tra pietà ed onore; ed è proprio su questo che farò rifiorir la mia fortuna. CORIOLANO - (Alle donne) Subito, sì. Beviamo prima insieme. Ma voi dovete riportare a Roma miglior testimonianza della cosa che non sian le parole: un documento dalle due parti rato e sigillato. Venite, dunque, entrate insieme a noi. Donne, voi meritate a Roma un tempio:(198) tutte le spade che sono in Italia e i suoi eserciti confederati non avrebbero fatto questa pace. (Escono) SCENA IV -Roma, una piazza Entrano MENENIO e SICINIO MENENIO - Lo vedi quello spigolo di pietra lassù sul Campidoglio? SICINIO - Ebbene, allora?  MENENIO - Ebbene allora se tu col tuo mignolo riesci a smuoverlo, qualche speranza vuol dir che c’è che le donne di Roma, soprattutto sua madre, lo convincano. Ma io ti dico che non c’è speranza. Le nostre gole sono condannate, si tratta solo d’aspettare il boia. SICINIO - Possibile che in così poco tempo possa cambiare l’animo di un uomo? MENENIO - Tra un bruco e una farfalla ce ne corre; eppure la farfalla è stata un bruco. Questo Marcio, da uomo ch’era prima s’è tramutato in drago. Ha messo l’ali. Non è più cosa che striscia per terra. SICINIO - A sua madre era molto affezionato. MENENIO - Ah, per questo anche a me; ma di sua madre adesso si ricorda non più che della sua uno stallone partorito da lei ott’anni fa. Porta sul viso i segni di un’asprezza da far inacidir l’uva matura. Quando cammina par né più e né meno che stia muovendosi una catapulta: la terra si raggrinza al suo passare. Ha uno sguardo che fora le corazze, parla rintocchi di campana a morto, e borbotta come una sparatoria(199). A vederlo seduto sul suo scanno pare la statua d’Alessandro Magno. Se dà un ordine, questo è già eseguito prima ch’abbia finito d’impartirlo. Gli manca solo, per essere un dio, l’eternità e un cielo in cui regnare. SICINIO - E la pietà, se è vero il tuo ritratto. MENENIO - Io lo dipingo per quello che è. Vedrai quanta pietà saprà ottenere da lui sua madre. Ce n’è meno in lui pietà, che latte in una tigre maschio. Se ne avvedrà questa povera Roma. SICINIO - N’abbian gli dèi misericordia! MENENIO - No, in questo caso gli dèi non ne avranno! Non avemmo per loro alcun rispetto  quando l’abbiam cacciato e messo al bando; ora che torna a fracassarci il collo, non possiamo dagli dèi rispetto. Entra un MESSO MESSO - (A Sicinio) Se vuoi salva la vita, corri a casa, i plebei hanno preso il tuo collega e lo trascinano di su e di giù, giurando in coro che se le matrone non dovessero riportare a casa qualcosa che dia loro alcun conforto, lo linceranno, lo faranno a pezzi. Entra un SECONDO MESSO SICINIO - Notizie? SECONDO MESSO - Buone! Buone! Le matrone ce l’hanno fatta: i Volsci hanno sloggiato e Marcio è andato via. Roma non salutò più fausto giorno, nemmeno alla cacciata dei Tarquinii. SICINIO - Amico, sei sicuro che sia vero? Proprio sicuro? SECONDO MESSO - Come il sole è fuoco. Ma tu dove sei stato fino ad ora che non ci credi? Mai un fiume in piena irruppe sotto l’arcata d’un ponte, con l’impeto con cui s’è riversata tutta la gente, ormai rassicurata, attraverso le porte. Ecco, li senti? (Frastuono all’interno di trombe, oboi, tamburi, voci, alla rinfusa) Trombe, sambuche, pifferi, salterii, cimbali, tamburelli(200), e tutta Roma urla da far ballare il sole. Senti? (Grida di gioia all’interno) MENENIO - Splendido! Vado incontro alle matrone. Questa Volumnia vale, solo lei, tanti consoli, senatori, nobili da popolare un’intera città; tribuni come te, poi, ce ne vogliono, appetto a lei, un mare, un continente. Oggi dovete aver pregato bene:  stamattina non avrei dato un soldo per diecimila delle vostre teste. Senti come si sgolano di gioia! (Altre voci e grida all’interno) SICINIO - (Al Messo) Prima, ti benedicano gli dèi per la bella notizia che hai portato; e poi accetta i miei ringraziamenti. SECONDO MESSO - Tribuno, qui di far ringraziamenti abbiamo tutti abbondanti ragioni. SICINIO - Son presso la città? SECONDO MESSO - Quasi alle porte. SICINIO - Allora andiamo tutti loro incontro, ad accrescer la gioia della festa. (Escono) SCENA V - Strada presso la porta della città Entrano, attraversando la scena, due SENATORI con VOLUMNIA, VIRGINIA, VALERIA, il PICCOLO MARCIO, seguiti da altri PRIMO SENATORE - Ecco, guardate, la nostra patrona, la salvezza di Roma! Chiamate ad adunata le tribù, innalzate agli dèi ringraziamenti, ed accendete fuochi trionfali! Spargete fiori sul loro cammino, e cancellate con gioiose grida il clamore che mise al bando Marcio; richiamatelo dando il benvenuto a sua madre, gridando tutti in coro: “Benvenute, matrone, benvenute!”. TUTTI - Benvenute, matrone, benvenute! (Fanfara con trombe e tamburi. Escono tutti) SCENA VI -Corioli, una piazza(201) Entra TULLO AUFIDIO con seguito AUFIDIO - Andate ad annunciare ai senatori  ch’io sono qui a Corioli, e consegnate loro questa carta. La leggano e poi vadano nel Foro dove dinanzi a loro e a tutto il popolo io fornirò le prove di tutto quanto v’han trovato scritto. L’uomo che in essa accuso a quest’ora si trova già in città e intende presentarsi avanti al popolo nella speranza che con un discorso riesca a scagionarsi. Fate presto. (Escono alcuni del seguito) Entrano alcuni CONGIURATI del partito di Aufidio Benvenuti! 1° CONGIURATO - Stai bene, generale? AUFIDIO - Come uno ch’è rimasto avvelenato dalle proprie elemosine ed ucciso dalla sua stessa generosità. 2° CONGIURATO - Aufidio nobilissimo, se ancora sei dello stesso proposito del quale ci hai voluto tuoi partecipi, noi siamo pronti a sbarazzarti subito di questo gran pericolo. AUFIDIO - Non so che dirti. Bisognerà agire come troviamo gli umori del popolo. 3° CONGIURATO - Il popolo non si saprà decidere, finché duri il contrasto fra voi due; ma una volta caduto l’uno o l’altro, sarà tutto per quello che rimane. AUFIDIO - Lo so, e il mio pretesto per colpirlo è basato su solidi argomenti. Io l’ho fatto salire, ed ho impegnato sulla sua lealtà l’onore mio; ma, giunto così in alto, egli ha innaffiato i suoi nuovi germogli con la rugiada dell’adulazione, seducendomi tutte le amicizie. Ed a questo ha piegato la sua indole, mai conosciuta prima altro che rude, indomabile, chiusa, indipendente. 3° CONGIURATO - Già, quella sua proterva ostinazione,  quando concorse per il consolato che perdette per non voler piegarsi... AUFIDIO - Stavo per dirlo. Bandito per questo, venne a cercar rifugio a casa mia, presentando la gola al mio coltello. Io l’accolsi, lo feci mio collega nel comando, gli detti aperta via a soddisfare ogni suo desiderio; anzi, gli feci sceglier da lui stesso tra le mie file gli uomini migliori per meglio perseguire i suoi disegni; mi misi io stesso a sua disposizione e l’ho aiutato a mieter quella fama che ha finito per fare tutta sua, al punto da sentirmi io stesso fiero di recare a me stesso questo torto. Ho fatto fino all’ultimo la parte d’un umile e modesto suo seguace, e non già quella d’un suo pari grado, ed egli me l’ha sempre ripagato con ostentata altera sufficienza, manco se fossi stato un mercenario... 1° CONGIURATO - È vero, generale; la truppa n’è rimasta sbalordita. E infine, quando aveva in mano Roma e ci arrideva a tutti un gran bottino, oltre alla gloria... AUFIDIO - Questo è proprio il punto su cui concentrerò contro di lui tutte le fibre; il sangue ed il sudore che ci è costata questa grande impresa egli li ha bassamente barattati per quattro lagrimucce di donnette, che non valgono più delle bugie. Perciò deve morire, ed io risorgerò dal suo tramonto. Ma eccolo, sentite queste grida? (Tamburi e trombe da dentro, fra grida di popolo) 1° CONGIURATO - Tu sei entrato nella tua città come un qualsiasi comune corriere: nessuno t’aspettava a salutarti; ed ecco che lui torna, e il lor clamore spacca l’arco del cielo! 2° CONGIURATO - E questi idioti avvezzi a ogni sopruso ai quali lui ha massacrato i figli  si spellano i lor vili gargarozzi ad osannarlo. 3° CONGIURATO - Tu, al momento giusto, prima che parli e che commuova il popolo, fagli sentir la lama della spada, noi ti daremo mano. Lui caduto, racconta lor la storia a modo tuo: avrai così seppellito per sempre le sue ragioni insieme al suo cadavere. AUFIDIO - Silenzio, i senatori. Entrano i SENATORI della città TUTTI I SENATORI - (Ad Aufidio) Un caldissimo bentornato a casa! AUFIDIO - Non lo merito... Nobili signori avete letto bene quanto ho scritto? TUTTI I SENATORI - Sì, certo. PRIMO SENATORE - E con non poco dispiacere. Perché quali che fossero le colpe da lui commesse prima di quest’ultima avrebbero trovato, a mio giudizio, facile ammenda; ma finire là dove avrebbe dovuto cominciare, gettando via l’indubbio beneficio d’avere nelle mani il nostro esercito con le spese di guerra a nostro carico, e stipulando un trattato di pace con un nemico che s’era già arreso... tutto questo non può presso di noi trovare alcuna giustificazione. AUFIDIO - È qui che viene. Potete ascoltarlo. Entra CORIOLANO, alla testa di soldati in marcia, con tamburi e vessilli; dietro una folla di popolo CORIOLANO - Salute a voi, signori! Ritorno a voi come vostro soldato, non più preso d’amor per la mia patria di quando son partito; e sempre sottomesso ed ossequiente alla vostra suprema autorità. Sappiate che ho condotto questa impresa con successo, e guidato i vostri eserciti attraverso passaggi sanguinosi  fino davanti alle porte di Roma. Il bottino che abbiamo riportato può compensare per almeno un terzo la spesa sostenuta per la guerra. Abbiam fatto una pace altrettanto onorevole pei Volsci(202) quanto disonorevole per Roma; e qui vi consegniamo il documento col testo del trattato stipulato, sottoscritto da consoli e patrizi, munito del sigillo del Senato. AUFIDIO - Non leggetelo, nobili signori! Dite piuttosto a questo traditore ch’egli ha abusato fuor d’ogni misura dei poteri che voi gli avete dato. CORIOLANO - Io, traditore? AUFIDIO - Sì, tu, Marcio! CORIOLANO - Marcio... AUFIDIO - Sì Marcio, Marcio, dico: Caio Marcio! O credi forse ch’io ti faccia bello chiamandoti col tuo nome rubato, Coriolano, a Corioli?... Senatori, voi che sedete a capo dello Stato, costui s’è comportato con perfidia da traditore della vostra causa ed ha ceduto la vostra città, sì, dico, Roma, ch’era già vostra, per poche goccioline d’acqua salsa, alla madre e alla moglie, stracciando via giuramenti e propositi come una stringa di seta tarlata, senza curarsi mai di convocare un consiglio di guerra. Così alle lacrime della sua balia, egli, tra molti gemiti e guaiti ha dato ai cani la nostra vittoria, sì da far arrossire di vergogna perfino le ramazze dell’esercito(203) e costringere gli uomini di tempra a guardarsi in silenzio, sbalorditi. CORIOLANO - O Marte, ascolti? AUFIDIO - Non lo nominare quel dio, piagnucoloso ragazzotto!  CORIOLANO - Eh?... AUFIDIO - Non sei altro! CORIOLANO - Sfacciato bugiardo! Vil carogna, mi fai scoppiare il cuore(204)! “Piagnucoloso ragazzotto”, a me! Signori, perdonatemi, questa è la prima volta in vita mia che mi vedo costretto ad insultare. Questo cane, signori venerandi, sarà smentito dal vostro giudizio; e tutto quanto potrà dir di me - lui, che porta stampati nella carne i segni dei miei colpi, lui, che deve portarsi nella tomba le cicatrici delle mie batoste - dovrà unirsi alla vostra verità per ricacciargli in gola la menzogna. 1° SENATORE - Calmatevi, voi due, ed ascoltatemi. CORIOLANO - Volsci, fatemi a pezzi! Grandi e piccini, uomini e ragazzi, intingete le lame nel mio sangue! “Ragazzotto”!... A me! Cane bastardo! Se nelle cronache in vostro possesso c’è scritto il vero, ci dev’esser scritto ch’io, come un’aquila in un colombaio, ho seminato tra i vostri, a Corioli, il putiferio. E l’ho fatto da solo! “Piagnucoloso ragazzotto”... Eh?! AUFIDIO - E voi, nobili padri, permettete a questo maledetto fanfarone di richiamare alla vostra memoria, innanzi agli occhi vostri, ai vostri orecchi, quello che fu un suo colpo di fortuna, e la vostra vergogna? TUTTI I COSPIRATORI - E per ciò, muoia! TUTTI I POPOLANI - Sì, facciamolo subito! Linciamolo! A me ha ucciso un figlio! A me una figlia! A me il cugino Marco! A me mio padre! 2° SENATORE - Calma, oh! Niente violenze! Calma! È un uomo di valore, ed il suo nome  abbraccia tutto l’orbe della terra. Il suo colpevole comportamento in questa guerra sarà giudicato secondo legge. Aufidio, tu non muoverti, e non turbare la pubblica quiete. CORIOLANO - Ah, se potessi usar contro di lui, contro sei altri Aufidi ed anche più, e tutta la sua razza, questa spada! La farei io la legge! AUFIDIO - Insolente canaglia! (A questo punto, d’improvviso i cospiratori traggono le spade e uccidono Coriolano, che crolla a terra. Aufidio gli mette un piede sopra) I COSPIRATORI - Ammazza! Ammazza! Ammazza! Ammazza! Ammazza! I SENATORI - Fermi! Fermi! Fermatevi! Fermatevi! AUFIDIO - Ascoltatemi, nobili signori! 1° SENATORE - Ah, Tullo, cos’hai fatto! 2° SENATORE - Tullo, ti sei macchiato di un’azione sulla quale il valore piangerà. 3° SENATORE - Togli quel piede da sopra il suo corpo! E voi tutti, silenzio! Via le spade! AUFIDIO - Signori, quando avrete conosciuto (ora non lo potete certamente, nello scompiglio da lui provocato) qual pericolo fosse per voi tutti quest’uomo, vi dovrete rallegrare che sia stato così eliminato. Piaccia alle vostre signorie onorevoli di convocarmi davanti al Senato: mi metterò, da fedel servitore, alla mercé della vostra giustizia, accetterò la più grave condanna. 1° SENATORE - Portate via il cadavere. Si prepari per lui un funerale  con la solennità che si conviene ad onorare la salma più nobile che mai araldo accompagnò alla tomba. 2° SENATORE - L’irruenza di lui libera Aufidio da gran parte di colpa. Ora ciascuno faccia tesoro di quel che è successo. AUFIDIO - La mia collera è, ora, tutta spenta, mi sento sol pervaso da tristezza. Solleviamolo. Diano qua una mano tre dei soldati di più alto grado. Io sarò il quarto. (Al tamburino) Tu, batti il tamburo, voi, voltate le picche, punta a terra. Pur se in questa città molte mogli egli abbia reso vedove e molte madri privato dei figli, s’abbia da noi la degna sepoltura che spetta a un grande cuore. Su, aiutatemi! (Escono portando a spalla il corpo di Coriolano, al rullo prolungato del tamburo) FINE (1) Sapeva, come nessun altro, l’arte di “flatter le peuple” e farsi da esso benvolere, ricorrendo senza scrupoli ad ogni sorta d’intrighi personali (Senofonte, “Memorabili”, I, 2, 24, citato da Jaqueline de Romilly in “Alcibiade”, ed. De Fallois, Parigi, 1995). (2) Giorgio Melchiori, “Shakespeare”, ed. Laterza, Roma/Bari, 1994, pag. 536. (3) “Il préférait l’opportunitè aux principes” (J. de Romilly, op. cit. pag. 62). (4) “But they think we are too dear”: frase d’incerta interpretazione. Qualcuno (D’Agostino) intende: “Ma per loro stiamo bene così come siamo”, cioè magri. (5) “Ere we become rakes”: “rake”, era simbolo di magrezza; si diceva “magro come un rastrello” (“as lean as a rake”). (6) “I need not be barren of...” letteralm.: “Non c’è bisogno ch’io ne sia sterile...”. (7) Il testo gioca sull’aggettivo “strong” che con “breath” ha il significato di “bad smelling”, “fiato che puzza”. (8) “I shall tell you a pretty tale”: qui “pretty” ha il senso di “properly”, “shaperly formed”, “tagliato al caso”, “ben tagliato”. (9) Cioè non con la parola ma col gesto delle labbra. (10) Cioè sulle labbra. (11) “Fore me, this fellow speaks!”: “Parola mia, questo compare ha la lingua sciolta!” Il primo cittadino fa anche il saputo, e Menenio esprime a se stesso la propria stizza. (12) “... the cormorant belly”: il cormorano, vorace uccello dei mari australi, è simbolo dell’insaziabilità (cfr. “Riccardo II”, II, 1, 38: “Light vanity, insatiate cormorant”). (13) Simile immagine dello stomaco è in Dante, “Inferno”, XXVIII, 26-27: “... il tristo sacco/ che merda fa di quel che si trangugia”. (14) “... and fit it is”: “is fit” ha qui valore imperativo di “is duty of...”, “is due to...”; e “and” ha valore avversativo.    (15) “The one side must have the bale”: la frase è ironica, per intendere che si sa bene chi avrà la peggio. È il gesto di scherno con cui Menenio chiude il suo apologo. Cominciato in tono amichevole, quasi sottomesso, questo è venuto man mano crescendo d’enfasi e di efficacia persuasiva, fino all’invettiva finale di Menenio contro il suo interlocutore principale, il Primo cittadino, e al sarcasmo per l’esito della sommossa. L’entrata in scena di Caio Marcio e il tono trionfale con cui Menenio lo saluta sono il suo magistrale coronamento. (16) “The one affrights you”, letteralm.: “L’una vi terrorizza”; ma Coriolano è uno d’arme, e nel suo “affrights you” c’è il disprezzo di chi ha paura di andare a battersi in armi. (17) “Keep you in awe”: “to keep in awe” è espressione colloquiale per “trattenere qualcuno, se necessario, con la forza”. (18) In realtà il Senato romano non si riuniva in Campidoglio, ma nella Curia Hostilia, al Foro, o nella Curia Pompeiana, presso il teatro di Pompeo, dove fu ucciso Cesare. Ma per Shakespeare il Campidoglio è il centro politico della Roma antica. (19) “... as high as I could pick my lance”: “pick”, nell’inglese del ’500 era sinonimo di “throw”, “lanciare (in ogni direzione)”. (20) “Convinti”, cioè, a desistere dalla sommossa. (21) “What says the other troop?”: Marcio proviene da un’altra parte della città, dove - come ha detto prima il Primo cittadino - la plebe è già insorta. (22) Il testo, come spesso in Shakespeare, ha la frase in astratto: “... da spezzare il cuore alla generosità”. (23) Così dice Plutarco; in verità, quanti fossero i “tribuni plebis” nella prima repubblica, non si sa, le fonti si contraddicono. Con certezza si sa che furono dieci dopo il 448 a.C. Qui, per tutto il dramma, ne compaiono soltanto due, Bruto e Sicinio. (24) Per Coriolano, rappresentante della classe guerriera, una guerra è rimedio sicuro per interrompere le lotte interne e, insieme, togliere di mezzo quello che egli chiama “ammuffito superfluo” (“musty superfluity”) negli uomini e nelle istituzioni. (25) È il primo tratto, dopo le sprezzanti invettive alla plebe, che Coriolano fa da se stesso del suo carattere: orgoglioso, fazioso, intollerante; e il primo accenno alla sua rivalità con l’altro grande guerriero del dramma, il volsco Aufidio. (26) “.. his lips and eyes”: boccacce e occhiatacce. (27) La luna come divinità era impersonata da Diana, la dea della castità muliebre. Marcio, quando s’arrabbia, è sboccato anche in senso lubrico. (28) “We never yet made doubt but Roma was ready to aswer us”: letteralm.: “Mai noi finora ponemmo in dubbio che Roma fosse pronta a risponderci”. (29) Cioè al momento della loro messa in atto. (30) Plutarco - ch’è la fonte di Shakespeare per questo dramma - così spiega la ragione per cui i Romani usavano incoronare di fronde di quercia la fronte dell’eroe: “... o perché riverissero sovra l’altre piante la quercia in onore degli Arcadi... o perché tosto e in ogni parte i soldati trovavano fronde di quercia... l’albero sacro a Giove, protettore della città” (“Vita di Coriolano”, III). La guerra cui accennava Volumnia è quella contro Tarquinio il Superbo, che tentava di rientrare a Roma dopo la vittoria del Lago Regillo sui Latini (496 a.C.). (31) Questa immagine nella mente esaltata della madre, che vede il figlio/eroe trascinar nella polvere, presolo pei capelli, il nemico ucciso, e, più sotto, quella di lui che schiaccia al nemico abbattuto la testa col ginocchio, si rivelerà un tragico presagio all’inverso del destino di Marcio. (32) “You were got in fear, though you were born in Rome”: letteralm.: “Voi siete stati concepiti nella paura, sebbene siate nati a Roma”. (33) “It more becomes a man than gilt his trophy”: il “trofeo” era il cumulo delle armi e delle spoglie del nemico vinto, che il vincitore appendeva ad un albero o ammucchiava sul luogo della battaglia, per offrirlo in voto di ringraziamento agli dèi: tanto più bello e prezioso se le armi luccicassero d’oro. (34) Cioè conquistare la città di Corioli assediata. (35) “Amongst your cloven army”: i Volsci sanno che quello che li assedia è metà dell’esercito romano, l’altra metà essendo impegnata a respingere il loro, capitanato da Tullo Aufidio. (36) “Sensibilmente” (“sensibly”) ha qui valore di “con sensi vivi del tuo essere”, in opposto all’inerte materia della tua spada (cfr. in Dante, “Inferno”, II, 13-16: “Tu dici che di Silvio lo parente / Corruttibile ancora, ad immortale / Secolo andò e fu sensibilmente”). (37) “A carbuncle entire”: “entire” è qui nel suo significato di “perfect”, e la perfezione di un diamante si giudica dalla sua luce. (38) In verità, Catone è vissuto 250 anni dopo Coriolano; ma Shakespeare segue pedissequamente Plutarco, e non si cura degli anacronismi. (39) Questa didascalia, che figura in molte fonti, lascia intendere, se ce ne fosse bisogno, che il corso dell’azione scenica ha saltato quel che è successo a Marcio dopo che è rimasto chiuso da solo in Corioli. Lo si saprà dall’elogio che gli farà più sotto Cominio. (40) “... their honours”: si accetta la lezione “honours” dell’“Oxford Shakespeare”, in luogo di quella “... their hours” dell’Alexander (la cui traduzione sarebbe: “Un’ora di battaglia per costoro...”).   (41) “A craked drachma”: le monete crepate hanno un suono fasullo e non valgono più. Ma la dracma era moneta greca. È un’altra prova che Shakespeare copia acriticamente il greco Plutarco. (42) Il boia aveva il diritto di appropriarsi dei vestiti del condannato da lui giustiziato. (43) “The general” è, s’intende, Aufidio, che si sta battendo con Cominio, a meno di un miglio e mezzo di distanza, come ha annunciato prima il Messaggero. (44) La traduzione letterale di queste parole di Cominio sarebbe: “Non distingue il pastore il tuono da un tamburo/ più di quanto io distingua il suono della voce di Marcio da quello di qualsiasi altra”. (45) Cioè: “Arrivi tardi, se sei ferito (se fossi venuto prima non lo saresti stato). Ma se quello che hai addosso è sangue nemico, non sei affatto in ritardo”. (46) “O me alone, make you a sword of me”: è uno dei versi più discussi del dramma. La lezione è incerta. C’è chi lo fa seguire da un punto interrogativo (“Oxford Shakespeare”, cit.), come se Marcio dica ai soldati che lo sollevano in aria: “Povero me, volete fare di me una spada?”; chi ci mette un esclamativo (è la lezione qui adottata); chi addirittura (Brockbanck) l’attribuisce ai soldati. Secondo noi, Shakespeare fa esclamare Marcio con l’espressione massima del condottiero che incita i suoi alla battaglia: “Di me solo, fate la vostra spada!”; che è, tra le altre lezioni, anche la più poetica. (47) “... dispatch those centuries to our aid”: quali centurie intenda Larzio, non si capisce; forse egli accompagna la frase con un gesto ad indicare le truppe rimaste accampate fuori le mura di Corioli; o forse “quelle” vuol indicare “quelle sulle quali ci siamo già intesi che ci avreste mandato”. (48) “Fear not out care, Sir”: letteralm.: “Non aver timori sulla nostra premura, signore”. (49) “Fix thy foot”: letteralm.: “Tienti saldo sui piedi”, espressione che nel gergo cavalleresco significava: “Sta’ in guardia!”. (50) “Wert thou Hector/ That was the hip of your bragged progeny”: Aufidio chiama Ettore “frusta” dei suoi Troiani, dai quali i Romani, da Enea, discendevano, ad intendere che anche Marcio, come Ettore, è per i suoi esempio di virtù guerriera. (51) Per i segnali musicali in tutto il teatro shakespeariano, v. la “Nota preliminare” alla mia traduzione del “Re Lear”. (52) Senso: “Eppure a questo banchetto (l’orgia di sangue della battaglia) al quale tu sei venuto tardi, tu non hai mangiato che un boccone, rispetto al grande banchetto che avevi già fatto (a Corioli)”. (53) Queste battute tra Marcio e Cominio danno un’altra forte pennellata al ritratto dell’eroe. Cominio - per la cui bocca è Shakespeare che parla - non crede alla modestia di Marcio: il suo rifiuto d’ogni lode per l’impresa di Corioli, che gli darà il trionfale soprannome di Coriolano, e di partecipare in forma privilegiata alla divisione del bottino di guerra è solo una manifestazione dell’egocentrismo dell’uomo e della sua smisurata superbia. E Cominio, elegantemente, con moderazione e senza offenderlo, ce lo fa intendere. (54) “But cannot make my heart consent to take e bribe to pay my sword”: in quel “bribe” che vale, più che “mancia”, “compenso dato a qualcuno per corromperlo”, c’è tutto il carattere sdegnoso di Marcio. (55) La didascalia ha “Flourish”, che è uno dei segnali musicali del teatro shakespeariano (per i quali v. nota 51). (56) Perché la loro funzione è quella di strumenti di guerra e non di adulazione. (57) “Let him be made an ovator for th’ wars”: si accetta la lezione “ovator” in luogo di “ouverture” di altri testi, perché, pur nella relativa oscurità della frase, sembra la più pertinente, oltre che la più poetica. “Ovator” è termine creato da Shakespeare forse in derivazione da “ovate”, derivato a sua volta dal latino “vates”, “vate”, “bardo”, “profeta”; sì che il senso ci sembra essere: “Sia ormai il parassita, vestito di morbida seta, e non più il guerriero vestito di duro ferro, il simbolo della guerra”. Pertanto “him” sarebbe riferito a “parasite” del verso precedente. (58) Il testo ha semplicemente: “safety”, che non è tanto “con calma” o “serenamente”, ma “in safety”, “in security” (che giustifica le manette). (59) “... that Caius Marcius wears this war’s garland”: letteralm.: “... che Caio Marcio veste la ghirlanda (di trionfatore) di questa guerra”. (60) D’ora in poi, il personaggio sarà indicato col nome di Coriolano, non più con quello di Caio Marcio. (61) Questo episodio del prigioniero di Corioli che l’aveva ospitato e del quale egli chiede la liberazione, ma non ne ricorda il nome, introduce un magistrale tocco psicologico sulla personalità dell’eroe. L’episodio è in Plutarco, dove però l’ospitante è “un ricco e onesto cittadino”: in Shakespeare diventa “a poor man”, senza nome, del quale nel dramma non si saprà più nulla; nemmeno se è stato liberato. “La magnanimità del condottiero non sa estendersi alla comune umanità, i poveri non hanno nome e perciò sono dimenticati” (G. Melchiori, “Shakespeare”, cit., pag. 540). (62) Ripete, con altre parole, il concetto di prima: è sparito in lui ogni scrupolo d’onore; il suo valore - di cui l’onore è cospicuo componente - è avvelenato. (63) Aufidio enumera qui tutte le situazioni che, secondo le leggi della cavalleria medioevale (ma agli anacronismi di Shakespeare siamo abituati) impedivano di perseguire un avversario: quando dormisse; quando trovasse asilo in un luogo sacro (“sanctuary”); quando assistesse in un tempio a funzioni religiose o sacrificali. (64) A Corioli, occupata dai Romani. Questa scena, che chiude l’atto, chiude anche la serie di avvenimenti incentrati intorno all’impresa di Corioli, dalla quale Marcio ha tratto il suo soprannome. Il quadro è ormai completo: alla figura di guerriero violento e perfidamente machiavellico di Aufidio fa riscontro lo sfrenato orgoglio di Marcio, che disprezza e   insulta la soldataglia romana che pensa più a far bottino che a combattere, la saggezza politica di Cominio, il comportamento smargiasso dei notabili volsci che fanno tentare ai loro una sortita sotto gli occhi degli assedianti. (65) “Will not you go”: è improbabile che il soldato dica ad Aufidio: “Tu non vieni?”, come intendono molti. Aufidio non può andare in una città occupata dai Romani, che sarebbe riconosciuto; e il soldato non può non saperlo. (66) “In what enormity is Martius poor...”: “poor” non ha qui il senso di “povero”, “privo”, “difettoso”, ma di “contemptible”: altrimenti la frase non avrebbe senso. (67) “... I mean of us of the right-hand file...”: solo al tempo di Shakespeare, nelle parate militari, la fila a destra del sovrano era riservata ai nobili. È uno dei soliti anacronismi shakespeariani. (68) “... for a very little tief of occasion will rob you of great deal of patience”: letteralm: “... perché anche un piccolo furtarello d’occasione vi deruba di molta pazienza”. Senso: “A gente come voi basta il minimo pretesto per farla diventare sproporzionatamente irascibile e intollerante”. (69) “One that loves a cup of hot wine”: “hot” sta qui per “generoso”, ma anche, secondo alcuni, proprio per “caldo”, il vino caldo (che però si diceva “mulled wine”) essendo molto in uso in Inghilterra al tempo di Shakespeare. Si legga come si vuole. (70) Licurgo, il grande uomo politico greco, divenuto esempio di saggezza politica. (71) “... I find the ass in compound”: letteralm: “... trovo l’asino in amalgama”, “un concentrato d’asineria”. (72) Il testo ha “an orange-wife”, “una venditrice di arance”. (73) Menenio parla qui come se i tribuni della plebe avessero anche funzioni giurisdizionali; il che non è storicamente esatto. Plutarco parla di loro come “magistrati”, ma nel senso classico di persone investite di pubblica carica. (74) “...(you)... set up the bloody flag...”: la bandiera rossa era la bandiera di guerra, o di resistenza nelle città assediate, in contrapposto alla bandiera bianca della resa. (75) “... against all patience”: cioè non curandovi, o a dispetto di quelli che aspettano giustizia. Ma si può anche intendere: “Contro ogni limite di tolleranza”. (76) Il testo ha: “... the more entangled by your hearing”, letteralm.: “... tanto più imbrogliata dalla vostra udienza”. (77) V. la nota 18. (78) “... such ridiculous subjects as you”: “ridiculous” ha qui il senso di “risibile”, “da poco”, “insignificante”, non quello di “che fa ridere”. (79) Con capelli e crini s’usava imbottire cuscini, sellame per cavalcature e anche palle da tennis. (80) Deucalione è il corrispondente pagano del biblico Noè, progenitore dell’umanità, dopo Adamo. Il suo mito è che quando Zeus, nell’età del bronzo, scatenò sulla terra il diluvio per punire gli uomini, Deucalione costruì un’arca e vi entrò insieme con la moglie Pirra. I due, rimasti gli unici scampati al diluvio, su consiglio di Temi ripopolarono il mondo, gettando sassi alle loro spalle all’uscita del tempio della dea: i sassi scagliati da Deucalione diventarono uomini, donne quelli scagliati da Pirra. (81) Galeno, il padre della medicina greco-romana, soprannominato “principe dei medici”, autore di circa 500 trattati. Solo che Galeno è vissuto nel II secolo dopo Cristo, dunque almeno 600 anni dopo Coriolano! (82) “... is but empiricutic”: “empiricutique” nell’in-folio è, verosimilmente una deformazione, in chiave comico- dispregiativa, di “empirical”. (83) “... and not without his true purchesing”: letteralm.: “... e non senza che egli l’abbia pagate di tasca sua”. Coriolano ha bisogno di “vere” ferite da mostrare al popolo, quando ne chiederà il favore per ottenere il consolato. Perciò s’insiste qui sulla “verità” delle sue ferite. (84) “God save your worships!”: “God” al singolare è nel testo, e così lo si è tradotto. Ma è invocazione cristiana. I pagani di Coriolano invocavano gli dèi (“Gods”). (85) Coriolano aveva partecipato alla cacciata dei Tarquini da Roma (provocata dallo stupro che Tarquinio Sesto, figlio di Tarquinio il Superbo, aveva fatto a Lucrezia) e alla instaurazione della Repubblica. (86) Questa battuta di Volumnia, ritenuta di palese fattura non-shakespeariana, è omessa da molti testi; ma serve teatralmente a preparare l’ingresso in scena del corteo dei vincitori. (87) “My gracious silence, hail!”: questo saluto di Coriolano alla sua sposa contiene una tale carica di poetica tenerezza, che comunque tradotta diversamente dalla sua lettera, si perderebbe. Baldini traduce: “Mia tacita sposa”, altri “mia graziosa taciturna”, “mia bella silenziosa”... ma non è lo stesso! (88) “And live you yet?”: letteralm.: “E sei ancor vivo?”. Ma in italiano un saluto del genere è tutt’altro che un saluto. (89) Si scusa con Valeria per non averla vista prima. (90) “A curse... at very root on’s heart...”: “curse” qui non è “maledizione”, come intendono molti; il vocabolo, nell’inglese del XVI sec. aveva lo stesso significato di “bane”, termine che esprime tutto ciò che distrugge fisicamente, fino a far morire; perciò “cancro”. (91) “By faith of men...”: espressione da intendere non altro che come semplice esclamazione derivata dalla più usata “By my faith”, che riecheggia il francese “ma foi”. Non credo si possa intendere “Per la mia fiducia negli uomini” (Baldini e altri), che non sembra avere molto senso, specie in bocca a Menenio. (92) “Ere in our own house I do shade my head”: “To shade his own’s head” significa “togliersi alla vista degli altri”, “to shade” avendo il senso di “screan”, “mask”, “recess”. (93) “The good patricians must be visited”: qui, come altrove, Shakespeare chiama “patricians” i membri del Senato.   (94) Altro smaccato anacronismo: nella Roma di Coriolano gli occhiali non esistevano (furono inventati intorno al 1300 dopo Cristo!). (95) “... her richest lockram”: il “lockram” era un tipo di stoffa che prendeva il nome dall’omonimo villaggio della Britannia, dove si fabbricava. Qui deve trattarsi di una sciarpa o di una stola, se è indumento da “appuntarsi al collo” (“pins... about her neck”). (96) I Flàmini (“Flamines”) erano sacerdoti incaricati del culto di una singola divinità (per opposto a “pontefici”, sacerdoti del culto di tutti gli dèi). Erano così chiamati perché portavano attorno al capo scoperto, o intorno al berretto sacerdotale, un filo di lana (filamen). (97) “... their nicely gawded cheeks”: si segue la lezione “gawded” in luogo della più corrente “guarded”, perché il termine esprime meglio - come verosimilmente Shakespeare abbia voluto - la civetteria femminile nella circostanza. “Gawded” è sinonimo di “gaudy”, “vistoso”, “sgargiante”. Nell’“Amleto” Polonio raccomanda al figlio Laerte, che va a vivere a Parigi, di vestire “rich, non gaudy”. (98) Le matrone romane, in verità, non avevano la fobia del sole che avevano le dame inglesi del XVI sec., e non andavano velate per proteggere il viso dai raggi solari. (99) Secondo Plutarco (“Vita di Coriolano”, cap. XIV) era consuetudine che un generale romano che aspirasse al consolato dovesse presentarsi al popolo nel Foro, per chiederne il suffragio, indossando solo la “tunica dell’umiltà” (“the vesture of humility”), che era normalmente portata dalla povera gente e dagli schiavi; doveva inoltre mettere in mostra le cicatrici delle ferite riportate nelle guerre. La tunica era il capo di abbigliamento di uso generale; ma da sola la portava solo il popolo minuto e gli schiavi: i patrizi la coprivano con la toga; le matrone con la stola o la “palla”; i cavalieri con l’“angustus clavus”; i senatori col “laticlavio”. (100) “Most reverend and grave elders”: “elders” è il corrispondente del latino “patres” con cui si chiamavano i membri del Senato, ritenuto esser composto tutto di uomini in età venerabile. (101) “We are convented upon a pleasing treaty”: letteralm.: “Siamo qui convocati per una piacevole trattativa”. I due tribuni, si noti, si astengono dal nominare Coriolano: per loro è solo un “aderire a portare a buon esito la discussione su un ordine del giorno (“the theme of our assembly”)”. (102) “Ti ascoltiamo” non è nel testo. (103) “I had rather one scratch my head in th’ sun / When alarum were struck...”: senso: “provo tanta smania di andarmene, per non star qui a sentir esaltare le mie gesta, quanto non ne proverei nemmeno se dovessi restare neghittoso a farmi massaggiare il capo da qualcuno, quando fosse squillato sul campo l’allarme di guerra”. Il che è tutto dire. (104) “I shall lack voice. The deeds of Coriolanus / Should not be uttered feeby”: letteralm.: “Mi mancherà la voce. Le gesta di Coriolano non dovrebbero essere scandite da una voce flebile (come la mia)”. (105) Nella Roma repubblicana il dittatore (“dictator”) era il magistrato investito dal Senato della suprema autorità civile e militare nei momenti difficili della nazione; l’incarico cessava col cessare delle condizioni che l’avevano reso necessario. (106) “... with his Amazonian chin...”, cioè col suo mento ancora imberbe, da donna. Le Amazzoni erano le donne guerriere della mitologia greca, e il viso femmineo di Marcio giovinetto è messo in contrasto con le “baffute labbra” (“bristled lips”) dei nemici che egli batte. (107) Al tempo di Shakespeare le parti femminili nel teatro erano sostenute da giovinetti imberbi, alle donne essendo vietato di far parte di compagnie drammatiche. Non così nella Roma di Coriolano. (108) Vedi la nota 30. (109) “... like a planet”: “planet” in senso figurativo indica vagamente un potere occulto che, come l’influsso d’una maligna stella, s’abbatte fatalmente su uomini e cose. (110) “He cannot but with measure fit the honours which we devise him”: “Egli non può che essere adeguato agli onori che intendiamo decretagli”. “Fit with measure” è appunto “corrispondente”, “adeguato” (a qualcuno o a qualcosa) secondo il senso biblico di “measure” che include il concetto di paragone/contraccambio, come nel titolo della commedia “Measure for Measure”. (111) “... and is content to spend the time to end it”: frase ambigua. L’interpretazione più comune è: “Usa il tempo senza ambizioni, senza pensar di trarne alcun vantaggio”. Qualcuno intende “it” come riferito idealmente al precedente “deeds” e traduce “è contento di spendere il tempo per compierle (le sue gesta)” (Lodovici). Questo racconto di Cominio ha una funzione fondamentale nella impalcatura della tragedia; quasi la prosecuzione della parola di Volumnia nella 3a scena del I atto, a completamento dell’immagine di Coriolano come forza cieca, per quanto nobile, della natura, alla quale immagine il poeta opporrà quella dell’uomo debole e indeciso, privo del tutto di senso politico: contrapposizione che è la ragione e il contrappunto teatrale di tutta la tragedia. (112) Il candidato che chiedeva la carica di console doveva presentarsi al Foro, davanti al popolo e chiederne il suffragio. Roma, al tempo di Coriolano, è una repubblica aristocratica, cioè con il potere nelle mani dei nobili, ma il voto della plebe, per consuetudine non codificata, è necessario. (113) “... to all the point of the compass”: “... per tutti i quattro punti della bussola (“compass”)”;... ma la bussola è stata inventata nel Medioevo!   (114) “If it may stand with the tune of your voices...”: Coriolano gioca sul doppio significato di “voices”, che vale “voti” ma anche “voci”. S’è cercato di rendere il bisticcio alla meglio. (115) “... you have been a rod to her friends”: “rod”, “corda”, “nerbo”, “sferza”, era uno strumento di tortura. (116) Altro bisticcio del testo inglese sul termine “common”. Il cittadino ha detto: “You have not indeed loved the common people”, dove “common” riferito a persone (“people”) ha il senso di “of inferior quality”, “of inferior value”; ma significa anche “comune”, “popolare”. Coriolano dice il suo amore per il popolo essere stato nei due sensi. (117) “... and so trouble you no farther”: c’è chi intende qui: “E così vi tolgo il disturbo”, come se Coriolano stesse per andarsene; ma sono i due che se ne vanno, mentre Coriolano resta; sarebbe inoltre difficile, grammaticalmente, non vedere che quel “trouble” è retto dal precedente “will”. (118) Questo monologo di Coriolano completa il ritratto che Shakespeare vuol fare dell’eroe; all’orgoglio si aggiunge e contrappone l’indecisione. Coriolano aborre il popolo, e la consuetudine che costringe a mendicare da esso il voto, ma alla fine l’accetta, ci si adegua, trovando un alibi al suo impulso a reagire a tale imposizione nel: “Sono ormai a mezza strada, meglio proseguire”. Sarà lo stesso conflitto interno a farlo cedere alle preghiere della madre e della sposa davanti alle mura di Roma. (119) “... battles thrice six I have seen and heard of”: “Heard of” ha qui valore di “called to account for”: “Ho visto diciotto (tre volte sei) battaglie e altrettante volte ne ho riferito”. Il condottiero doveva riferire al Senato sullo svolgimento del fatto d’arme, come ha fatto Cominio qui per la battaglia di Corioli. (120) “... have you chose this man?”: si ricorderà che, come si son detti tra loro gli uscieri del Senato all’inizio della 2a scena del II atto, i candidati al consolato sono tre. (121) Secondo una prescrizione d’allora, introdotta con l’istituzione del tribunato della plebe, il candidato alla carica di console, dopo che avesse ricevuto l’accettazione da parte del popolo, richiesta nella forma della vestizione della “tunica dell’umiltà”, doveva ricevere la conferma, con voto formale, dai “comitia tributa”, l’assemblea, appunto, di cui parla qui Sicinio. (122) Il testo inglese gioca ancora sul doppio senso di “voices” (v.nota 114). (123) Questa genealogia della “gens” marcia, o marzia, è tratta di peso da Plutarco. Ma poiché Plutarco nomina questi personaggi senza datarli, Shakespeare mette qui in bocca a Bruto alcuni anacronismi: Bruto non poteva conoscere tutti i personaggi della “gens” che nomina, perché a lui posteriori, eccetto il primo, Anco Marzio, re di Roma. Il Caio Marcio Rutilio, detto il “Censorino”, è vissuto nel III sec. a.C.; Quinto è il Quinto Marcio costruttore dell’acquedotto dell’acqua detta appunto “marcia”, che è stato pretore nel 144 a.C. (124) “... this Triton of the minnows”: si dice “a Triton of or among the minnows” di uno che appare grande solo grazie all’estrema piccolezza di quelli che gli stanno intorno. Tritone è il dio marino del mito classico; “minnows” è la minuzzaglia ittica. (125) Il mitico serpente dalle molte teste che infestava le paludi di Lerna e le cui teste rinascevano appena tagliate. L’immagine della folla come “mostro dalle molte teste” è frequente in Shakespeare. (126) “... being but the horn and the noise o’ th’ monster”: che l’Idra avesse un corno attraverso il quale diffondere il suo strepito, non sta scritto in nessun luogo, ma l’immagine serve a Shakespeare per designare il tribuno come “portavoce” del mostro. (127) Questo discorso di Coriolano sulla distribuzione del grano alla plebe, come la seguente apostrofe ai senatori, sono tratti quasi di peso dal testo della “Vita di Coriolano” di Plutarco, nella traduzione inglese del North. È quasi un secondo monologo dell’eroe, che sbozza ancor meglio la sua immagine di rappresentante dell’aristocrazia al potere, e getta altra luce sulla lotta delle due classi, la patrizia e la plebea, nella Roma agli albori della repubblica. (128) “... by yea and no of general ignorance...”: “general” è qui da intendere come sinonimo di “common”, che equivale a “belonging to a given community” (“Oxford International Dictionary”). (129) “Therefore beseech you / You that will be less fearful than discreet...”: letteralm.: “Perciò vi supplico / Voi che volete avere in voi meno timore che discernimento...”; frase, in italiano, insopportabilmente artificiosa. (130) “... dal corpo dello Stato...” non è nel testo. (131) “Your dishonour”: “Il vostro disonore”, ma si capisce che è un disonore imposto dall’esterno a gente onorata. In italiano, “il vostro disonore” suonerebbe ambiguo. (132) “Has said enough”: intendi: quanto basta a confermarlo nemico del popolo. (133) “... when what’s not meet, but what must be, was law...”: letteralm.: “... quando era legge non ciò che era lecito fare, ma ciò che si doveva fare per imposizione”. (134) Gli Edili erano magistrati con funzioni amministrative di custodia dei pubblici edifici (“aedes”, donde il nome), oltre che dei templi, e di organizzazione di pubblici spettacoli. Al tempo di Coriolano (VI sec. a.C.) si chiamavano “aediles plebis”, e affiancavano i tribuni nella difesa degli interessi civili della plebe. Donde il loro intervento qui. Come i tribuni, erano due e duravano in carica un anno. Successivamente ad essi se ne aggiunsero due, detti “curuli”, dalla “sedia curule” (“sella curulis”) simbolo di tutte le magistrature dello Stato; questi potevano essere eletti anche tra i patrizi. (135) “One time will owe another”: letteralm.: “Un momento sarà debitore all’altro”. S’è dovuto tradurre a senso. (136) “When it stands against a falling fabric”: s’è reso “stands” con “pretende di tenere in piedi” e non come intendono molti, con “s’oppone”, per evitare l’immagine peregrina data dal “volersi opporre” ad un edificio che sta per crollare.   (137) “His nature is too noble for the world”: “world” ha qui il senso di “interests of the present life” o anche “state of human affairs” (v. “Oxford International Dictionary”, alla voce). (138) “Where you should but hunt with modeste warrant”. Senso: “Laddove dovreste esercitare i vostri poteri con maggior discrezione”. L’immagine è tolta dal linguaggio venatorio, dove “warrant” era il permesso di esercitare la caccia entro un certo raggio e in certi periodi dell’anno. (139) Questa battuta è attribuita da molti, compreso l’autorevole “New Arden”, a Menenio, con il senso d’una interrogazione che questi rivolge a Sicinio a continuazione del suo traslato dell’arto infetto: “E se un piede va in cancrena, vuol dire forse che i servizi resi da esso quand’era sano non si debbano tenere in conto?”; ma m’è sembrato che la battuta, in bocca a Sicinio, s’attagli meglio al contesto. (140) Il testo ha “This tiger-footed rage”, “Questo furore dalle zampe di tigre”, ossia violento, precipitoso e famelico. (141) “Let them pull all about mine ears”: “to pull (something) about one’s ears” è frase idiomatica usata nel senso di provocare una pioggia di oggetti sul capo o il crollo di una casa su qualcuno, e simili. (142) La ruota era uno strumento di tortura: il condannato veniva legato intorno al suo cerchio e dilaniato dai chiodi che essa incontrava girando. (143) “Wollen vassals”: le robe di lana erano la veste dei poveri. I ricchi invece vestivano di seta. “Vassal” è “umile servitore”, col senso di moralmente abbietto. (144) “To buy and sell with groats”: “da comprare e rivendere a pochi soldi”. Il “groat” (dal latino medioev. “grossum”, italiano “grosso”) era una moneta di poco valore (circa 1/8 di oncia d’argento) in circolazione in Inghilterra al tempo di Shakespeare. Era il “soldino” senza valore per eccellenza (cfr. il titolo del pamphlet di Ribert Greene (1592) “A groatsworth of wit bought with a million of repentance”, uno dei rari scritti dell’epoca in cui si può scorgere un accenno alla persona di Shakespeare). (145) “I would had you put your power well on / before you had worn it out”: Volumnia qui paragona la carica di console di suo figlio ad un vestito da indossare (“put on”) e che egli, prima ancora di indossare, ha ridotto liso (“worn out”). (146) “Figlio mio” non è nel testo. (147) “Not by your own instruction”: “instruction” è termine che contiene la nozione di intelletto affinato dall’istruzione - ispirazione raziocinante - per contrapposto al sentimento (“passion”), ispirato dal cuore. “Ispirazione” è piuttosto riduttivo, ma non si è trovato termine più proprio. (148) Queste esclamazioni di Menenio - la prima e la seconda - punteggiano drammaticamente, come un applauso, la grande “tirata” di Volumnia, che dà lezione di politica al figlio riecheggiando sorprendentemente Machiavelli (che Shakespeare non risulta conoscesse). Il principe che, per regnare, deve guadagnarsi il favore del popolo, a costo di essere “gran simulatore e dissimulatore” (“Il Principe”, cap. XVIII); l’arte politica che richiede, in chi la esercita, d’essere ad un tempo leone e volpe, colomba e serpe, sono tra i massimi insegnamenti del grande Segretario fiorentino. Coriolano, uomo d’arme e di cuore, quest’arte non possiede; ne è tragico segno la sua domanda: “Che debbo fare?”, che corona, con l’immagine dell’uomo indeciso e votato ormai al suo destino, lo scontro verbale dell’eroe “too absolute” con la machiavellica e volitiva genitrice. (149) Il “cappello in mano” in segno di ossequio è immagine ed espressione del parlare del tempo di Shakespeare. I Romani non avevano altro copricapo all’infuori dell’elmo. (150) “Must I go show them my unbarbed sconce?”. La frase è volutamente ambigua, perché può anche significare: “Devo andare a mostrar loro la mia fortezza indifesa?”. Perché “sconce” ha il doppio significato di “testa”, “zucca” e di “fortezza”, “roccaforte”; e “unbarbed” significa “senza peli”, “senza capelli”, ma anche “indifesa”. Il significato figurato si attaglia perfettamente al discorso. (151) “I will not do’t lest I surcease to honour mine own truth”: letteralm.: “Non lo farò, almeno ch’io non voglia rinunciare ad onorare la mia intima verità”. (152) Il senso di questa richiesta di Sicinio all’Edile è così spiegato da Plutarco (“Vita di Coriolano”, X): “Congregandosi dunque il popolo, tentarono i tribuni con ogni sforzo in prima che si rendessero i voti non a centurie, ma a tribù, perché in questo modo la turba vile dei poveri e saccenti, che non tien conto d’onore, veniva ad aver più forza nei voti, ciascuno porgendo il suo, di quanta non avessero gli abbienti e conosciuti, che andavano alla guerra”. Le “centurie” erano le 193 divisioni in cui Servio Tullio aveva ripartito i cittadini di Roma secondo il censo. (153) “Every feeble rumour”: ogni voce di pericolo (per la presenza di nemici dall’esterno); si capisce da quel che dice dopo. (154) Le piume dei loro cimieri, s’intende. (155) Di quale porta si tratti, non si sa. I testi non hanno alcuna didascalia per questa scena; si capisce, tuttavia, che essa si svolge presso una porta di Roma. (156) La plebe: Coriolano l’ha chiamata così prima. (157) “... with precepts that would make invincible...”: il “would” è palesemente riferito alle intenzioni della madre nel dare al figlio i precetti; il che giustifica, nella traduzione, il “dovevano”. (158) “Ti ricordi?” non è nel testo. (159) Il testo ha “... with one / that is umbruised”,“... con uno che non è contuso”, e prosegue la metafora del corpo (di Cominio) sopraffatto (“too full”) dalle fatiche della guerra. (160) Il testo ha “Ora che abbiam mostrato il nostro potere” (“Now we have shown our power”).   (161) “Are you mankind?”. C’è chi ha creduto di vedere in questa battuta di Sicinio una sottile intenzione di equivoco, perché la frase significherebbe anche “Siete matte?”. Ma il senso di “matto” in “mankind” non si trova in alcun testo; e del resto la risposta di Volumnia sarebbe diversa, perché la donna avrebbe capito l’allusione. (162) Giunone è il simbolo dell’ira femminile vendicativa. Prese parte alla sommossa degli dèi contro lo stesso suo marito, Zeus (cfr. Virgilio, “Eneide”, I, 4: “saeve memorem Junonis ob iram”). (163) “Strange insurrections”: “strange” qui ha il valore di “abnormal”, “unknown”, “unfamiliar”. (164) “I have deserved no better entertainement / in being Coriolanus”: “Non m’aspettavo miglior trattamento, essendo Coriolano”; ma mi pare grammaticalmente errata (“I would have...” sarebbe stato d’obbligo) e incongrua di senso (il servo non sa di trovarsi di fronte a Coriolano). (165) “Under the canopy”: “canopy” è il baldacchino sospeso su un trono, un letto, un altare, tradizionale segno di regalità; ma in senso figurato vale “cielo”, “firmamento” (il baldacchino del cielo). Coriolano, giocando sul doppio senso, si attribuisce la regalità. (166) Che cosa sia questa città, nella mente di Coriolano, è incerto; forse egli allude all’esilio o al campo di battaglia. È comunque, una figurazione sinistra: l’unico esempio - secondo il Bradley - in tutto il dramma di accostamento della Natura a uno stato d’animo. (167) “Then thou dwells with daws too”. Doppio senso: “Daw”, “taccola” (uccello della famiglia dei corvacei) è usato familiarmente anche per “simpleton”, “sciocco”, “scemo”. (168) “Che m’hanno dato a Roma” non è nel testo inglese. (169) I servi sono introdotti qui quasi in funzione di coro; le loro battute preparano e, alla fine, commentano, quasi fosse uno spettacolo, lo “strano” incontro tra Coriolano e Aufidio. Nel loro dialogo rozzo e ironicamente dissacrante s’avverte la tragica impossibilità di un accordo tra i due grandi guerrieri, la cui cordialità presente nasconde, in Aufidio, l’invidia e il sordo quasi inconscio desiderio di rivalsa, e in Coriolano e nella sua forzata “voglia di servire” il nemico, l’intima debolezza che lo porterà a cedere alle preghiere della madre e della sposa. (170) “Whilst he’s in directitude”: sta verosimilmente per “in discredit”. È uno degli “humourous blunders”, strafalcioni lessicali che Shakespeare si compiace di mettere in bocca ai suoi personaggi minori, per l’ilarità del pubblico. (171) “The wars for my money”: l’espressione colloquiale “for my money” in frasi come “this is for my money” equivale a “this is what I desire”, “this is my choice”, eccetera. (172) “His remedies are tame”: frase di senso ambiguo, che si può intendere diversamente, a seconda del senso che si dia a “his”, “i suoi rimedi”, e cioè: “i rimedi che egli può adottare contro di noi”, oppure “i rimedi che noi abbiamo contro di lui”: s’è preferita la prima, intendendo “remedies” nella sua accezione di “means of counteracting an outward evil” (“Oxford Dictionary”), traducendo a senso. (173) “And affecting one sole throne without assistance”; letteralm.: “E aspirando ad esser solo in trono senza collega”. I consoli, nella Roma repubblicana, erano due. (174) “You and your apron-men”: il grembiule, normalmente di pelle, era, in certo modo, il distintivo di chi esercitava a Roma un mestiere e che, non essendo né nobile né cavaliere, apparteneva alla plebe (cfr. “Giulio Cesare”, II, 1, 7: “Where is thy leather apron?”). (175) Allusione alla leggenda dei pomi d’oro delle Esperidi che Ercole, per ordine di Euristeo, andò a rubare nel giardino di quelle, custodito dal drago Ladone. (176) “... and you’ll look pale before you find it other”. Senso: “Morirete di vecchiaia, prima di poter dimostrare che non è vero”. (177) Si capisce che “quelli” (“these”) si riferisce a Cominio e Menenio testé usciti. (178) “Do they fly to th’ Roman?”. Qui “fly to” ha piuttosto il significato di “to flee from” che contiene l’idea di chi fugge da un luogo ad un altro, oppure “sfugge” ad una certa situazione; ed è l’idea insita nella domanda di Aufidio che vede i suoi soldati abbandonare sempre in maggior numero le sue file attratti dal fascino di Coriolano. È l’inizio del voltafaccia di Aufidio e la svolta del dramma. Tutta la scena sarà lo spiegamento di questo stato d’animo dell’eroe volsco, che verso Coriolano, poco prima amato ed ammirato, cova un odio mortale. Il suo colloquio col luogotenente ne farà risaltare il carattere torbido, ambiguo, tortuoso, teso quasi inconsciamente alla fine dell’avversario, che lo sovrasta. (179) “... as the grace fore meat...”: è ancora Shakespeare che anacronisticamente attribuisce ai tempi di Coriolano un uso, come quello della preghiera di ringraziamento prima e dopo i pasti, tipico della civiltà del suo tempo. (180) La frase è ambigua, come è oscuro il concetto del passo seguente, quasi sicuramente guasto. A quale “merito” di Coriolano si riferisca Aufidio non è chiaro, forse all’unico ch’egli possa apprezzare: quello di aver tradito Roma per venire da lui. (181) Il testo ha: “A mile before his tent, fall down”: “un miglio prima della sua tenda, cadete in ginocchio”; a parte l’anacronismo del miglio, si tratta di un’esagerazione dialettica di Cominio per sottolineare la colpevolezza dei tribuni. (182) “A noble memory!”: è come se Menenio dicesse: “Scriveremo sulle vostre tombe, come epitaffio, quando sarete morti: - Fecero il necessario perché Roma avesse il carbone a buon mercato -”; cioè fosse tutta ridotta a carbone. (183) “He does sits in gold”. Coriolano che siede su un seggio d’oro come un trionfatore circonfuso di gloria poco prima della sua tragica fine: un magistrale espediente del drammaturgo ad accentuare il contrasto delle tinte del dramma. (184) “And his injury / the gaoler to his pity”: “... e l’ingiuria (da lui sofferta ad opera dei Romani) a far da carceriere perché non esca da lui il minimo moto di pietà”.   (185) “Thoug it were as virtuous to lie as to live chastely”: è il solito gioco di doppi sensi sulla parola “lie” che significa “mentire” e “giacersi” (nel senso sessuale). (186) “Nay, but fellow, fellow...”: la battuta lascia intendere che Menenio ha visto arrivare Coriolano. (187) “Col tuo superiore” non è nel testo. (188) È la scena culminante del dramma. Con l’ingresso, in silenzio, della madre e del figlioletto dell’eroe nella tenda di questi, Shakespeare ha bisogno di guardare, in un soliloquio che sarà l’ultimo, nell’animo di Coriolano e scavarne i più intimi sentimenti, suscitati dallo svolgersi fatale dell’azione. È la lotta dell’eroe contro il suo destino, che lo vedrà ineluttabilmente perdente. (189) Si confronti questa esclamazione con quella di Antonio nell’“Antonio e Cleopatra”, I, 1, 33-34: “Let home in Tiber melt, and the wide arch/ of the ranged empire fall...”, che accomunano, nelle due tragedie, la catarsi dell’eroe. (190) Cioè “io ti vedo in una luce diversa da quando ero a Roma”. È l’ultima espressione di irrigidimento dell’eroe. La battuta seguente dirà che la piena degli affetti lo ha già vinto. (191) È uno dei frequenti riferimenti di Shakespeare, uomo di teatro, a immagini del mondo del teatro. (192) La gelosia di Giunone è proverbiale. Shakespeare la ricorda spesso nei suoi drammi. (193) “To your corrected son?”: frase ambigua, che si può intendere “(davanti) al tuo figlio punito (da Roma, col bando)”, oppure “(davanti) al tuo figlio da te rimproverato”. S’è scelta la seconda. (194) Diana è la dea protettrice della castità virginale. Il suo tempio a Roma era stato eretto da Servio Tullio sull’Aventino. Secondo Plutarco, è Valeria che spinge Volumnia e Virginia a recarsi da Coriolano. (195) Indica Valeria. (196) Così nel testo: “thy wife and children’s blood”; una evidente distrazione dell’Autore indotta dal fatto che in Plutarco (“Vita di Coriolano”) i figli di Coriolano sono due, laddove Shakespeare ha assegnato all’eroe solo il piccolo Marcio. (197) Testo: “... will be dogged with curses”: “... sarà inseguito da una canea di maledizioni”. Si è creduto di ampliare, nella traduzione, la bella immagine venatoria. (198) Plutarco, unica fonte di Shakespeare per questo suo dramma, narra che, tornate a Roma, la madre e la moglie di Coriolano, insieme a Valeria furono salutate in Senato come salvatrici della patria e vennero loro offerti dallo stesso Senato onori e ricompense, che esse rifiutarono, solo chiedendo che fosse eretto un tempio alla “Fortuna muliebris”, sulla Via Latina. (199) Sparatorie, al tempo di Coriolano, evidentemente, non ce n’erano, e Menenio non poteva pensare a un siffatto termine di paragone. È un altro dei frequenti anacronismi del poeta. (200) Alcuni di questi strumenti - come la sambuca e il salterio - non esistevano al tempo di Coriolano: è un altro degli scusabili e, per certi versi, suggestivi, anacronismi di Shakespeare. (201) Plutarco (“Vita di Coriolano”, XXXIX) pone questa scena e tutti gli eventi che seguono, fino alla morte di Coriolano, ad Anzio, dove l’eroe è tornato con l’esercito volsco. L’ubicazione della scena a Corioli sembra tuttavia giustificata dalle parole del 1° Congiurato: “Your native town you entered” (v. 50), e da quelle dello stesso Aufidio al v. 151: “Though this city he hath widowed...”. (202) Il testo ha “una pace onorevole per Anzio”; ma vedi, in proposito, la nota 201. (203) “Pages”: il termine sta ad indicare, spesso in senso spregiativo, qualsiasi persona, di sesso maschile, addetta a mansioni umili e subordinate; nel gergo militare le “ramazze” sono gli uomini addetti alle pulizie delle caserme. (204) “... thou has made my heart / too great for what contains it...”; letteralm.: “... m’hai fatto diventare il cuore troppo grosso per quello che lo contiene...”Guido Ferrando. Ferrando. Keywords: CORIOLIANO, ovvero, la filosofia. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Ferrando” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51716947844/in/photolist-2mN4WQf-2mN4Wkh-2mN3SNy-2mPV6V9-2mKDSn5-2mKDQAF

 

Grice e Ferrari – FILOSOFIA della RIVOLVZIONE – filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano). Filosofo. Grice: “Ferrari is important in at least two fronts: as a philosopher, he promotes what has been called a ‘critical illuminism’ – and who but an Italian philosopher can have as a claim to fame a treatise on ‘the philosophy of revolution’? The second front is my proof of the latitudinal unity of philosophy; for Ferrari counts as the best interpreters, with his ‘La strana sorte di Vico,’ of Vico!” essential Italian philosopher. Federalista, repubblicano, di posizioni democratiche e socialiste, fu deputato della Sinistra nel Parlamento italiano per sei legislature e senatore del Regno. Nato da una famiglia borghese il padre era medico -- dopo la morte dei suoi genitori poté godere di una rendita grazie alla quale visse senza particolari problemi economici. Fece i suoi studî nel ginnasio S. Alessandro, fu poi alunno dell'Almo Collegio Borromeo. Si laurea a Pavia. Fu però più interessato dalla filosofia, che coltivò nel cerchio di Romagnosi.  Giunto a posizioni irreligiose e scettiche, nutre per la cultura filosofica, storica e politica francese un'ammirazione che lo porta a Parigi. Si laurea in filosofia alla Sorbona, con “Sull’errore, ossia, De religiosis Campanellae opinionibus. Nella prima parte presenta positivamente la filosofia di Campanella. Nella seconda parte giunge ad una conclusione scettica a proposito dei giudizî. Un giudizio infatti non consente di giungere alla verità oggettiva. Grice: “The problem with Ferrari’s analysis is etymological. For the Romans, indeed the Indo-Europeans – cf. German irren --, to err was to wander FROM THE TRUTH. It’s a metaphor, a figure of speech. Un giudizio è indissolubilmente intrecciato a questo che Ferrari chiama un “errore”. Ferrari define un ‘errore’ come ‘un vero’ – un vero relativo, non assoluto. Similarmente, il vero e un errore relativo – giudizio vero relativo al soggetto – errore intersoggetivo. --  una vero relativo. Speaking of relative/absolute allows you to avoid ‘objective’ and ‘subjective’, but we do want to use ‘subjective’ and inter-subjective. An error can still be inter-subjective, for Ferrari, un ‘vero relativo’ a S1-S2. Introdotto nei circoli intellettuali di Parigi da lettere di presentazione di Peyron e Valerio (due allievi piemontesi di Cattaneo) e di Ballanche, Ferrari frequenta Cousin, Thierry, Fauriel, Michelet e Quinet, come pure gli che si riunivano nel Palazzo Belgiojoso. Insegna a Rochefort-sur-mer e Strasburgo dove, attaccato da Roma per le affermazioni irreligiose e scettiche espresse nel suo corso sulla filosofia del Rinascimento e per la sua presentazione favorevole della Riforma luterana, fu anche accusato di insegnare dottrine atee e socialiste e sospeso dall'insegnamento, e, benché avesse ottenuto la cittazidanza francese e il titolo di "professore di filosofia” che lo abilita ad insegnare  non fu più reintegrato nell'insegnamento, poiché la raccomandazione di Quinet per una sua nomina a professor al Collège de France, benché accettata dalla Facoltà, fu rifiutata dal ministero dell'Educazione.  L'allontanamento di Strasburgo fu all'origine del suo rapporto con Proudhon che, avendo appreso il "caso Ferrari" dalla stampa, s'interessò a lui e ai suoi scritti e dette inizio ad un'amicizia. Ferrari fu tra gli avversari repubblicani della monarchia orleanista, con Schoelcher. Durante il sollevamento delle cinque giornate di Milano contro il governo austriaco fu accanto a Cattaneo ma, deluso dai risultati della rivoluzione, fece rientro in Francia, dove fece un altro tentativo infruttuoso (per l'opposizione di Cousin) di ottenere una cattedra a Strasburgo. Insegna filosofia a Bourges. Divenne il colpo di Stato che mise fine alla repubblica e porta al trono Napoleone III.Ricercato come repubblicano, si rifugia à Bruxelles. Ritorna definitivamente a Milano per partecipare alle vicende che porteranno all'unificazione e alla nascita dello stato italiano. Fu eletto deputato al Parlamento del Regno di Sardegna nel collegio di Luino (elezioni suppletive), confermato nelle elezioni (eletto in secondo scrutinio nello stesso collegio di Luino, nel frattempo allargato a Gavirate). Sedette ala Camera dei deputati sui banchi della sinistra per sei legislature. Fu pure eletto nel primo collegio di Como, ma si mantenne fedele ai suoi primi elettori. Il suo programma politico può essere riassunto nella formula: "irreligione e legge agraria", cioè lotta contro Roma e il clericalismo e riforma della proprietà terriera dei latifondi, con la distribuzione di terre coltivabili ai contadini. Roma e i proprietari terrieri, sostenendosi a vicenda sono i nemici naturali dell’uguaglianza.  Per quel che concerne la forma dello stato italiano, Fdomandava una costituzione federale, con un esercito, delle finanze e delle leggi federali comuni, ma anche con la più ampia de-centralizzazione amministrativa possibile.  Dopo essersi recato sul posto, scrisse una relazione parlamentare sul Massacro di Pontelandolfo e Casalduni. Fu nominato dal re Cavaliere Ufficiale dell'Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro, e rimanda immediatamente il decreto di nomina al ministro della Pubblica Istruzione, che glielo aveva inviato. Ma la nomina era irrevocabile, essendo stata pubblicata nella Gazzetta ufficiale.  Nominato professore di filosofia a Milano, benché non ci fosse a quel tempo nessuna indennità parlamentare e i parlamentari non godessero di nessun beneficio, rinuncia allo stipendio per poter rimanere in Parlamento pur continuando a insegnare. Prese posizione in sede di discussione sull'intitolazione degli atti del governo, contro la denominazione di secondo, e non primo re d'Italia, assunta da Vittorio Emanuele, a più riprese contro uno stato unitario, in favore di una costituzione federale e dell'autonomia delle regioni, in particolare del Mezzogiorno.  Nonostante riconoscesse nell'articolo che l'unità italiana non esiste che nelle regioni della filosofia. In una regione astratta come e la filosofia, non si trova un popolo, non si posse reclutare un esercito, non si può organizzare nessun governo. Esprime l'auspicio che l'Unità Italiana si potesse prima o poi realizzare. L’Italia tutta deve domandare alla libertà. La liberta non ha leggi, né costumi politici, essa non appartiene a se medesima; essa non è né una né confederata; essa non progredirà se non col cominciare a chiedere costituzioni, poi la confederazione, indi la guerra, da ultimo l’Unità, se la fatalità lo permette. Nel Parlamento di Torino sconfessa queste sue parole dicendo. “Io non muto d'avviso.” “Sono stato avversario dell'unità italiana.” “Credo l’unita tragica nell'azione sua, destinata a creare immemorabili martirii e crudelissimi disinganni, benché necessaria come gli scandali alla storia, come i sacrifizi e gli olocausti alle religioni.” Si è pure pronunciato contro la cessione di Nizza e della Savoia alla Francia, contro il trattato di commercio con la Francia e contro gli accordi con il governo francese per la ripartizione del debito già pontificio (lui, "francese al peggiorativo", come ama definirlo il suo irriducibile avversario, Mazzini), in difesa di Garibaldi per i fatti d'Aspromonte in favore della Polonia e dello spostamento della capitale da Torino a Firenze, prese parte attiva ai dibattiti parlamentari sulla proclamazione di Roma capitale, sul brigantaggio, sulla situazione finanziaria del nuovo regno. E fatto senatore.  Assolutamente solitario e totalmente estraneo ad ogni gruppo politico e ad ogni consorteria, non ebbe seguito. è una delle illustrazioni del parlamento, ma non esprime se non che le sue idee individuali. La sua azione parlamentare è stata così caratterizzata e riassunta. Sedeva suo banco della Sinistra difendendo le opinioni liberali, combattendo gli arbitri e gli errori dell'amministrazione, denunciando nel piemontesismo l'indebita preminenza di una consorteria, vagheggiando la demolizione di ogni privilegio romano, e per tutto questo poteva sembrare d'accordo con i suoi colleghi dell'Estrema, anche se talvolta si divertiva a pungerli e sgomentarli con l'indisciplinata libertà dei suoi atteggiamenti; ma intimamente non era con loro. Discorsi: Contro la cessione di Nizza e della Savoia alla Francia. Contro le annessioni incondizionate. Sulla interpellanza del deputato Audinot intorno alla questione romana. Interpellanza relativa alle condizioni delle province meridionali. Il battesimo del Regno. Contro il prestito di 500 milioni, La questione romana e le condizioni delle province meridionali. La ferrovia da Gallarate al Lago Maggiore. Sull'esercizio provvisorio (bilancio, Interpellanza sul proclama del Re (Aspromonte) Interpellanza sugli affari di Roma. Sulla questione della Polonia. Contro il trattato di commercio con la Francia. Intorno al bilancio dell'Interno. Sulla situazione del Tesoro e sulle condizioni finanziarie del Regno. Il trasporto della capitale. sul giuramento politico. sulle giornate di Torino, Interpellanza al Ministero sulla crisi del Ministero Ricasoli. Contro la convenzione col governo francese per l'assunzione del debito pubblico degli ex Stati pontifici. Contro le trattative con Roma e la nomina dei vescovi da parte del Papa. Sulla violazione del diritto del non intervento, Interpellanza su Mentana. Inchiesta sul corso forzoso. Per la guardia nazionale. Legge sul macinato. Sulla sospensione dei professori all'Bologna. Sulla Regia cointeressata dei tabacchi. Sull'assassinio di Monti e Tognetti. Sui disordini per la legge sul macinato. Inchiesta sulla Regia. Sul bilancio dell'Interno. Sul consiglio Superiore d'Istruzione. I fatti di Francia. Contro la convalidazione del decreto di accettazione del plebiscito di Roma. Interpellanza per la pubblicazione del Libro verde. Contro la politica estera. Sulla nomina dei vescovi. Interpellanza intorno al divieto del comizio popolare al Colosseo, Sulla politica estera. Sul ripristinamento dell'appannaggio al principe Amedeo. La soppressione degli ordini religiosi in Roma. Gli arresti di Villa Ruffi.Carriera universitaria, Professore supplente di storia all'Strasburgo. Professore onorario dell'Napoli. Professore di Filosofia della storia all'Accademia scientifico-letteraria di Milano, Professore di Filosofia all'Torino. Professore di Filosofia della storia all'Istituto di studi superiori pratici e di perfezionamento di Firenze. Direttore e fondatore della rivista L'Ateneo. Membro corrispondente dell'Istituto lombardo di scienze e lettere di Milano.Membro ordinario della Società reale di Napoli. Membro effettivo dell'Istituto lombardo di scienze e lettere di Milano. Membro straordinario del Consiglio superiore della pubblica istruzione. Membro ordinario del Consiglio superiore della pubblica istruzione. Socio corrispondente della Deputazione di storia patria per le antiche province modenesi. Socio nazionale dell'Accademia dei Lincei di Roma. Onorificenze Cavaliere dell'Ordine al Merito Civile di Savoianastrino per uniforme ordinaria Cavaliere dell'Ordine al Merito Civile di Savoia, Ufficiale dell'Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaronastrino per uniforme ordinariaUfficiale dell'Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro, Ufficiale dell'Ordine della Corona d'Italia nastrino per uniforme ordinaria Ufficiale dell'Ordine della Corona d'Italia. Come tutti i socialisti italiani, Ferrari è fortemente influenzato dall'Illuminismo e da Proudhon. Il suo socialismo si costituisce come una radicalizzazione del principio di uguaglianza affermato dalla rivoluzione francese. Riconosce come unico fondamento della proprietà il lavoro. Propone quindi un socialismo che, non strettamente in opposizione al liberalismo, fosse fondato sul merito individuale e sul diritto di godere dei frutti del proprio lavoro. Più che con la nascente borghesia, si pone dunque in contrasto con i residui feudali ancora presenti in Italia, e auspica uno sviluppo industriale e una rivoluzione borghese.  Partecipa anche attivamente al dibattito risorgimentale. Contrario all'unificazione della penisola, propone come obiettivo la formazione di una “federazione” di repubbliche, in modo da tutelare le particolarità e l'unicità delle singole regioni. Questo progetto dove essere attuato attraverso un'insurrezione armata, aiutata dall'intervento francese. Al contrario della maggioranza dei teorici risorgimentali (in particolare Mazzini), i quali credevano che l'Italia avesse una missione storica, credeva abbastanza pragmaticamente che fosse necessario l'intervento di uno stato estero per sconfiggere gli eserciti organizzati dei diversi stati italiani.  L'opinione pubblica dove essere preparata alla rivoluzione (che dove avvenire spontaneamente e non guidata da un gruppo di cospiratori) da un partito di stampo democratico, repubblicano, federalista e socialista. La questione sociale era infatti inscindibile da quella istituzionale. Il stato federale dei republiche regionali sarebbe stato gestito da un'assemblea nazionale e da tante assemblee regionali.  Insieme a Pepe elaborò il “neo-guelfismo” -- per sottolineare il carattere re-azionario di restaurare la presenza attiva di Roma nella vita politica d’Italia. Critico verso la formula liberale Libera Chiesa in libero stato, e afferma la superiorità dello stato d’Italia rispetto alla Roma, corrispondente alla superiorità della ragione rispetto alla credenza religiosa, un rapporto Stato-Roma che si riallaccia alla politica ecclesiastica di Giuseppe II in Lombardia e a quella di Leopoldo I di Toscana.  Consta dai registri della Parrocchia di S. Satiro, che Giuseppe Michele Giovanni Francesco dei coniugi Giovanni e Rosalinda Ferrari nacque. Cenno su Giuseppe Ferrari e le sue dottrine", di Luigi Ferri. Altre opere: “Romagnosi” (O. Campa, Milano); “Sulle opinioni religiose di Campanella” (Milano, Franco Angeli); "La fede in Dio è l'ERRORE più primitivo, più NATURALE del genere umano.” “La religione è la pratica della servitù.” “Roma presenta tutti i vizi della ri-velazione sopra-naturale.” “Roma conduce alla dominazione dell'uomo sull'uomo.” “Il romano cè morto, l'uomo deve nascere, è nato, ha già respinto dallo Stato gli apostoli e la Chiesa”. Filosofia della rivoluzione, in: Scritti politici di Giuseppe Ferrari, Silvia Rota Ghibaudi, Torino, POMBA, Camera dei Deputati, Atti del Parlamento Italiano sessione, discussioni della Camera dei Deputati, Torino, Eredi Botta, Atti del parlamento italiano, Le più belle pagine di Scrittori italiani scelte da scrittori viventi. Giuseppe Ferrari, Milano, Garzanti, Altre opere: “Romagnosi”; “Vico”; “La Federazione repubblicana”; “Filosofia della rivoluzione”; “L'Italia dopo il colpo di Stato”; “Opuscoli politici e letterari”; “La mente di Giambattista Vico, Corso sugli scrittori politici italiani, Corso sugli scrittori politici italiani; Il governo a Firenze, “Giannone”; Lettere chinesi sull'Italia, Storia delle Rivoluzioni d'Italia; Teoria dei periodi politici, L'aritmetica nella storia; Proudhon (Andrea Girardi, Napoli, Edizioni Immanenza);La Rivoluzione e i rivoluzionari in Italia, Il genio di Vico, I partiti politici italiani, Le più belle pagine, Opere (Ernesto Sestan); Scritti politici, Silvia Rota Ghibaudi, I filosofi salariati, L. La Puma,  “Scritti di filosofia” e di politica, M. Martirano, Il genio di Vico, Sulle opinioni religiose di Campanella, Epistolario Franco Della Peruta, "Contributo all'epistolario di Giuseppe Ferrari", in: Franco Della Peruta, I democratici e la rivoluzione italiana, Milano, Franco Della Peruta (ed.),"Contributo all'epistolario di Ferrari", Rivista storica del socialismo, Lettere a Proudhon, Annali dell'Istituto Giangiacomo Feltrinelli, C. Lovett, "La Questione Meridionale con lettere inedite", Rassegna storica del Risorgimento”; “Milano e la Convenzione di Settembre dalla corrispondenza inedita di Ferrari", Nuova rivista storica, Lombardia dalla corrispondenza inedita di Ferrari", Nuova rivista storica, Lovett, "Il Secondo Impero, il Papato e la Questione Romana. Lettere inedite di Wallon a Ferrari", Rassegna storica del Risorgimento e la politica interna della Destra. Con un carteggio inedito, Milano. Altro A. Agnelli, "Giuseppe Ferrari e la filosofia della rivoluzione", in: Per conoscere Romagnosi, Robertino Ghiringhelli e F. Invernici. La vita sociale e politica nel collegio di Gavirate-Luino", in: Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, Il nuovo stato italiano, Milano, Luigi Ambrosoli, "Cattaneo e Ferrari: l'edizione di Capolago delle opere di Ferrari", in: Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, Il nuovo stato italiano, Milano, Paolo Bagnoli, "Ferrari e  Montanelli", in: Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, Giuseppe Ferrari e il nuovo stato italiano, Milano, Bruno Barillari, "Ferrari critico di Mazzini", Pensiero mazziniano, Francesco Brancato, Ferrari e i Siciliani, Trapani, Bruno Brunello, Ferrari, Roma, Bruno Brunello, "Ferrari e Proudhon", Rivista internazionale di filosofia del diritto, Michele Cavaleri, Ferrari, Milano, Cosimo Ceccuti, "Ferrari e la Nuova antologia: il destino della Francia repubblicana", in: Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, Ferrari e il nuovo stato italiano, Milano, Arturo Colombo, "Il Ferrari del Corso", in: Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, Ferrari e il nuovo stato italiano, Milano, Luigi Compagna, "Ferrari collaboratore della "Revue des deux mondes", in: Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, Giuseppe Ferrari e il nuovo stato italiano, Milano, Maria Corrias Corona, "Il filosofo "rivoluzionario" visto da Giorgio Asproni", in: Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, [a cura di], Giuseppe Ferrari e il nuovo stato italiano, Milano, Carmelo D'Amato, Ideologia e politica in Giuseppe Ferrari", Studi storici, Carmelo D'Amato, "La formazione di Giuseppe Ferrari e la cultura italiana della prima metà dell'Ottocento", Studi storici, Franco Della Peruta, "Il socialismo risorgimentale di Ferrari, Pisacane e Montanelli", Movimento operaio, Franco Della Peruta, Un capitolo di storia del socialismo risorgimentale: Proudhon e Ferrari", Studi storici, Franco della Peruta, "Ferrari", in: Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, Giuseppe Ferrari e il nuovo stato italiano, Milano, Aldo Ferrari, Giuseppe Ferrari, Saggio critico, Genova, Luigi Ferri, "Cenno su Giuseppe Ferrari e le sue dottrine", in: Ferrari, La mente di G. D. Romagnosi, Milano. Gian Biagio Furiozzi, " Angelo Oliviero Olivetti e Giuseppe Ferrari", in: Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, Giuseppe Ferrari e il nuovo stato italiano, Milano, Paolo Virginio Gastaldi, "Nella galassia dell'Estrema", in: Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, [a cura di], Giuseppe Ferrari e il nuovo stato italiano, Milano, Robertino Ghiringhelli, Robertino Ghiringhelli, "Romagnosi e Ferrari", in: Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, Ferrari e il nuovo stato italiano, Milano, Carlo G. Lacaita, "Il problema della storia in Ferrari", in: Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, Ferrari e il nuovo stato italiano, Milano, Eugenio Guccione, "Il laicismo politico di Ferrari", in: Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, Ferrari e il nuovo stato italiano, Milano, Anna Maria Lazzarino Del Grosso, "Il Medioevo in Ferrari", in: Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, Ferrari e il nuovo stato italiano, Milano, Lovett, "Europa e Cina nell'opera di Giuseppe Ferrari", Rassegna storica del Risorgimento, Maurizio Martirano, “Ferrari, interprete di Vico”. Maurizio Martirano, Filosofia, storia, rivoluzione. Saggio su Ferrari, Napoli, Liguori, Gilda Manganaro Favaretto, Angelo Mazzoleni, Ferrari. Il pensatore, lo storico, lo scrittore politico, Roma, Angelo Mazzoleni, Ferrari. I suoi tempi e le sue opere, Milano, Antonio Monti, "La posizione di Ferrari nel primo Parlamento italiano", Critica politica, Giulio Panizza, L'illuminismo critico di Ferrari, Giulio Panizza, "La teoria della fatalità nell'Histoire de la Raison d'Etat", in: Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, Ferrari e il nuovo stato italiano, Milano, Giacomo Perticone, "La concezione etico-politica di Ferrari", Rivista internazionale di filosofia del diritto, Luigi Polo Friz, "Ferrari e Frapolli: un rapporto di amore e odio tra due interpreti del Risorgimento Italiano", in: Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, Il nuovo stato italiano, Milano, Nello Rosselli, "Italia e Francia in Ferrari", Il Ponte, Silvia Rota Ghibaudi, Ferrari, lFirenze, Silvia Rota Ghibaudi, "Ferrari e la Teoria fatalista dei periodi politici", in: Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, Giuseppe Ferrari e il nuovo stato italiano, Milano, Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, Giuseppe Ferrari e il nuovo stato italiano, Milano, Luciano Russi, "Pisacane e Ferrari: esiti socialisti dopo una rivoluzione fallita", in: Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, Ferrari e il nuovo stato italiano, Milano, M. Schiattone, Alle origini del federalismo italiano, Ferrari, Nicola Tranfaglia, "Ferrari e la storia d'Italia", Belfagor, Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, Giuseppe Ferrari e il nuovo stato italiano, Milano, Luigi Zanzi, "un filosofo"militante", in:Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, Ferrari e il nuovo stato italiano, Milano, Stefano Carraro, "Alcuni aspetti del pensiero politico", BAUM, Venezia. Gian Domenico Romagnosi Carlo Cattaneo Cinque giornate di Milano Lodovico Frapolli Pierre-Joseph Proudhon Giuseppe Mazzini Carlo Pisacane Federalismo. TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Giuseppe Ferrari, su siusa.archivi.beniculturali, Sistema Informativo Unificato per le Soprintendenze Archivistiche.  Opere di Giuseppe Ferrari, su Liber Liber. Il primo radicalsocialista italiano, dal sito del Movimento RadicalSocialista.  Concludiamo. Interrogala sotto ogni aspetto, la filo-  sofia conduce a due inevitabili conseguenze, il regno  della scienza, il regno dell'eguaglianza. Questo era l'in-  tento dei primi filosofi, questo è l'intento della rivo-  luzione. 'I primi filosofi ne furono i precursori: ma  traditi dalla metafisica , sentivansi solitari , impo-  tenti , inviluppati da ostacoli infiniti; e invocando  i demoni, le favole , un artifizio estrinseco , un fe-  lice inganno , cadevano sotto il felicissimo inganno  della chiesa; Socrate non poteva regnare se non sotto     362 PARTE TERZA — SEZIONE TERZA   la protezione di Cristo. Ma la rivoluzione liberò questo  prigioniero delia teologia, ne divulgò la parola, la tras-  mise a tutti gli uomini, e vuol costituire l'umanità sulla  terra colla forza della scienza e con quella del diritto.  Da mezzo secolo la metafisica tende un'ultima insidia  alla rivoluzione trasportando il problema della scienza  nelle antinomie dell'essere, e il problema dell'egua-  glianza nelle antinomie del diritto. Ne consegue, che  abbiamo il regno della scienza fatta astrazione dalla  verità, il regno della libertà falla astrazione dai dogmi,  il regno dell'eguaglianza falla astrazione dal riparlo, il  regno dell'industria fatta astrazione dal capitale: e  s'incoraggiano le nazionalità senza badare all'uma-  nità; si pensava perfino a fondare un impero meno  l'impero, un papato meno il papato, quasi fosse pro-  posito deliberalo di predicare la rivoluzione meno la  rivoluzione, mantenendoci in eterno nel regno dell'im-  possibile. I miseri cavilli della metafisica sarebbero  morti nel vuoto delle scuole, se leggi equivoche a di-  segno non li avessero tratti in piazza per stabilire  una tregua tra la rivoluzione e la controrivoluzione.  Ma la tregua non regge; ad ogni momento vediamo  avvicinarsi il giorno della guerra, e se ad alcuni può  parere lontano, e se altri possono consigliare di dare  tempo al tempo, si ricordino gli uomini di poca fede  che quando la scienza scopre un errore per quanto  sia teorica, lo lascia smascherato per sempre, e chi  lo difende più non regna, e se sì ostina cade scon-  fitto e accusato d'impostura. Si ricordino che la fede  negli avvenimenti imprevisti non è cieca e viene au-  torizzala dalla forza del vero che oggi tradito si ven-  dica domani col corso naturale degli affari , delle     CAPITOLO NONO 363   guerre, delle paci, della ricchezza, e perchè ogni  verità è un valore, chi la scorge se ne impossessa  e la sconta, e tiranno o tribuno giova a lutti sotto le  forme più inaspettate. Si ricordino che non vi fu mai  progresso che non toccasse alla proprietà o alla reli-  gione che non venisse dalla scienza e dall'eguaglianza  e che non si dovesse irnaginare con ardimento scanda-  loso quasi fosse una profanazione. Si ricordino da ultimo  che il dato di Voltaire, di Rousseau, di Weisshaupt  ferve in ogni cuore; e, tolto il velo dell'astrattezza, già  dairso al 93 quattro soli anni bastavano per passare  dalla teoria alla pratica e per sostituire una genera-  zione di tribuni, di generali, di insorgenti, di dittatori,  di uomini d'azione all'inoffensiva generazione dei filo-  sofi mandati alla bastiglia e qualche volta perfino pro-  tetti tanto sembravano lontani dalla realtà. Quanto a  noi figli del passato, discepoli degli stessi maestri  da noi discussi, visto nella critica l'arme che ferma la  metafisica e che ne scaccia le vane larve e gli inutili  tormenti dal campo della rivelazione naturale, visto  che rinchiusi nel fatto, legali alla terra ogni giorno,  ci sottrae alla rivelazione sopranaturale comunque si  gradui il progresso e possa prendere delle forme mo-  struose e talora nemiche, dal momento che sentimmo  compiersi nella nostra mente la filosofia della rivolu-  zione secondo l'inflessibile suo disegno, la linea retta fiparve la migliore e il dissimulare ci parve tradimento. Per sette anni il Ferrari tacque : non pia stu-  di pubblicati sulle riviste francesi per far conosce-  re al mondo T Italia del passato e del preseme,  non più opuscoli politici per tracciare piani d'a-  zione pamphlets violenti contro i suoi avversa-  ri: gli amici lo avrebbero potuto creder morto.     - 8o —   EpIHjre la sua operosità si svolgeva occulta sotter-  ranea silenziosa, tanto più assidua quanto meno  era visibile: abbandonato il campo del giornali-  smo dove le tracce del lavoro sono ben presto  cancellate dall'incalzare di sempre nuovi proble-  mi e dalle richieste di gusti sempre mutati, la-  sciato il tumulto della vita politica, U Ferrari si  era dedicato totalmente alla pura scienza. Il pre-  sente Io affliggeva ed e^i si volgeva al passato ;  l'Italia pareva ricaduta nella schiavitù e nell'abie-  zione, ed egli la volle studiare libera e regina,  quando marciando a capo di tutte le nazioni tra-  smetteva l'urto delle sue continue rivoluzioni al  mondo.   Il Medio Evo italiano, il campo chiuso della sua  attività storica, era sempre stato il suo lavoro e il  suo tormento: grande nell'insieme e nei suoi più  piccoli frammenti pareva che volesse sottrarsi ad  ogni interpretazione razionale e organica, come  se sotto il bel cielo d'Italia l'unica legge che go-  vernava le continue rivoluzioni di cento stati dif-  ferenti gli uni da^i altri come posti agli antipodi  fosse il caso, il capriccio della fornina, l'arbitrio  dell'individuo. Tutte le altre nazioni presentavano  uno svolgimento storico organico, una forma po-  litica costante che le contradistingueva in ogni e-  poca : ai tempi di Ugo Capeto come a quelli di  Napoleone III la Francia era sempre stata la na-  zione della monarchia unitaria; la Germania era  ancora governata dalla Dieta federale, l'Inghilter-  ra dalla Camera dei Lordi come ai tempi di Otto-  ne I e di Guglielmo il Conquistatore. Ma l'Italia     — 8i —   Qon poteva ridursi sotto nessuna categoria politi-  ca; uè al principio della monarchia né a quello  ddla repubblica, né all'Impero né al Papato :  ftemmeno ad un sistema federale che raccoglies-  se in organismo la varietà tumultuosa ed eslege  dei ^uoi stati. {Rivoluzioni d'Italia, Voi. I, pag.   Il):   Da molti anni queste considerazioni si svolgevano  lentamente nel mio spirito, per rendermi enigma-  tiche e impenetrabili le vicessitudini di Milano di Fi-  renze di Roma di Genova di Venezia, di tante città  unite dal suolo e separate da irreduttibili diiTerenze.  Qualunque fosse lo splendore estemo dei fatti, eran  pur sempre vittorie senza scopo, sconfitte senza cau-  sa, rivoluzioni senza idee, guerre senza soluzione.  Le cronache degli Scriptores rerum Italicarum mi  apparivano quasi statue rovesciate, quadri capovolti,  medaglie sparse di un museo che una vandalica igno-  ranza avesse devastato. Tutte le serie, tutte le simme-  trie essendo dissestate da una mano sconosciuta; po-  tevasi dire che TAriosto solo colla noncurante sua  ironia avesse il diritto di sognare liberamente in mez-  zo a questi cenci pomposi. Ma se la fecondità lussu-  reggiante degli avvenimenti si rivoltava contro o-  gni unità imperiale o pontificia; se essa facevasi gio-  co delle repubbliche, delle signorìe, del candore dei  cronisti e degli artifizi della retorica; se essa com-  piacevasi di sconcertare tutti i sentimenti e tutte le  analogie: io vedevo tanta grandezza dell'insieme e  una tal forza nel minimo frammento, da non potermi  arrendere all'idea che la patria di Gregorio VII e  della Divina Commedia ingannasse l'aspettativa de-  stata dal sentimento del bello, .per non essere se  non un cumulo di accidenti eslegi.   n Ferrari volle scoprire il spreto di una cosi   A. PnutUU — Oiit80pp€ FtrrarL •     — 82 —   misteriosa apparenza, la legge vitale di un orga-  nismo così complesso, lo scopo di una coA ab-  bagliante fantasmagoria. Si tuffò nella storia me-  dievale fino agli occhi : senza fermarsi alle com-  pilazioni volle risalire alle fonti originali, meditò  su tutte le pagine degli Scrìptores rerum Italica-  rum, rìsfogliò le cronache, rivisse tra la polvere  erudita coi vescovi e coi consoli coi settari e coi  signori del buon tempo antico: e cosi mentre la  turba degli gnomi, non comprendendo la sua soli-  taria libertà superiore alle borie del nazionalismo  miope e pettegolo, lo accusava di vilipendere la  sua lingua e la sua patria, egli preparava in silen-  zio airitalia uno tra i più bei monumenti di glo-  ria che potessero inalzarle i suoi figli.   Le Rivoluzioni d'Italia furono pubblicate la pri-  ma volta a Parigi in francese nel 1858, ripubbli-  cate in italiano tradotte dell'autore nel 1870-1872 :  in questa seconda edizione, nonostante gli studi  posteriori in seguito ai quali credette di avere  scoperto la filosofia della storia e la legge perio-  dica del movimento storico, guidato da un istin-  to fortunato, non la ritoccò quasi affatto, non osò  guastarla per farla servire alla sua teoria; quin-  di noi terremo sott*occhio pel nostro studio Tedi-  zione italiana, da cui son tolte le citazioni e a  cui si riferiscono i rimandi.   Per quel che già conosciamo della costinizione  intellettuale del Ferrari, possiamo fin d'ora giu-  dicarlo 11 tipo dello storico perfetto, perchè egli  riunisce l'intelligenza artistica alla comprensione  filosofica e al criterio di un sistema formato. Tut-     - 83 -   ti ì grandi storici sono artisti: artisti neil'inter-  pretare gli uomini e i fatti, artisti nel rappresen-  tarli e atteggiarli davanti al lettore in modo che  sembrino attuali e spirino vita. Sono anche filo-  sofi, in quanto hanno una WeUanschaung da cui  traggono i criteri della interpretazione e del giu-  dizio; ma di solito il loro sistema non è che im-  plicito e irrìflesso come quello di qualsiasi indivi-  duo che non si dedichi di proposito alla filoso-  fia; qualche più rara volta c'è, ma preso a presti-  to, non rielaborato né rivissuto individualmente,  rimane estrinseco e astratto. Orbene la grandezza  unica del Ferrari, la sua caratteristica qualità, con-  siste nell'avere a fondamento della sua interpreta-  zione un vero formato originale sistema filoso-  fico.   Non solo. Questo suo sistema, che anche og-  gi è in gran parte vivo perchè rientra nel corso  delle grandi concezioni, è il più adatto a dare u-  na base filosofica all'interpretazione storica; per-  chè considera la reahà come movimento, ed è tut-  to pervaso dalla persuasione della razionalità che  governa la realtà e la storia. Cosicché per quan-  to il Ferrari come politico sia un uomo di parti-  to militante e quanti altri mai fermo nelle sue  idee, amante delle posizioni nette, insofferente  degli equivoci; come storico noi possiamo essere  sicuri che guarderà la storia dall'alto, saprà giu-  dicare libero totalmente dalle preoccupazioni po-  litiche del momento, saprà rispettare la veneran-  da grandezza del passato senza querimonie per  gli eroi mancanti e per le cause sconfitte, non fa-     - 84-   rà ddla narrazione dd passato un pamphlet <x)n-  iro i suoi avversari ddl'oggi. In una parola sarà  imparzude. Questo è il suo significato ragioaevo-  le di una simile rìciiiesta dd senso comune, il  quale esige non che lo storico non abbia un pun-  to di vista a cui è impossibile sottrarsi; ma che  abbia un punto di vista elevato, donde sì giustifi-  chi, non si faccia il processo alla storia.   Riepiloghiamo brevemente il sistema del Fer-  rari, integrando la sua concezione più propriamen-  te filosofica, cioè di valore assoluto, con le deter-  minazioni empiriche onde egli cerca di dare una  formula generale al movimento storico.     II.     Il mondo è alterazione svolgimento rivoluzio-  ne; la storia è la narrazione di questo movimen-  to intemo ed estemo, prodotto dall'antitesi delle  contradizioni critiche insolubili ideali, e dalla lot-  ta delle contradizioni positive reali che si cond-  liano in una specie di equilibrio dinamico. In o-  gni momento nel mare enorme ddl'umanità l'in-  dividuo che ne fa parte come tm'onda o meglio  ancora come una goccia ha suoi interessi parti-  colari su cui nasce una sua rivdazione morale  <1); messo di fronte a nitti gli altri innumerevoli  suoi simili, mossi pure da forze utilitaristiche e  morali varie e a volte contrastanti, lotta per eon-  dUare le contradizioni in tm dstema politico, che     (i) Non è se non la proclamazione del determinismo econo^  micCj che egli applica poi nel coreo della ina storia.     -85-   si attua sopramtto d^tro i confini dello stato.  Ma ogni sistema» per legge ineluttabile di natura^  nutre dentro di sé un sistema opposto destinato  a succedergli (1). La stocianoa è altro se non la  narrazione del succedersi di questi sistemi nati  da^i interessi e dalle rivelazioni morali variabili  dell&'masse» divise tra loro> da una specie di lot-  ta di cla|^e^<:te.r}esce^a. propagare sempre più la  democrazia e a conquistare una più larga egua-  glianza.   Come si attua questo progresso dentro Io star  to? Lo stato è duali^ato in due paniti contra-*)  stanti che polarizzano gli interessi delle moltitur  dini, il pardto rivoluzionario e il partito conser-  vatore. La rivoluzione assale la forma tradizio-  nale dello stato a nome di un nuovo principio, di  una più larga democrazia^ con la forma politica  opposta; monarchk)a negU. stati repubblicani^ fe-  derale negli stati unitari, cattolica contro i pro-  testanti,, erviceyersa. Vince perchè il progresso è  necessità fatale della storia; ma appena il prin^  cipio da essa propugnato è stato accettato essa  viene vinta dal partito conservatore, che traspor-  ta il nuovo principio sulla base politica tradiziona-  le onde lo stato si difende dallo stranilo.   Perchè lo jstaio non è solo sulla terra; ai suoi  confini un altro organismo nemico vive con in-  tere^, cQnidoe, con tendee^o opposte. L'uma-.  nità è quindi una specie di scaochiejra di nazioni  che si prendono vicendevolmente a rovescio, un     (i) Cfr< la notfi teorìa di Marx.     — 86 —   enorme meccanismo di ruote dentate ingranate  runa nell'altra che girano in senso contrario, un  sistema di forze disposte cosi che il partito oppo-  sitore intemo di uno stato i sempre d'accordo col  partito dominante dello stato vicino e rivale. O-  gni stato è quindi straziato da una guerra inter-  na e nello stesso tempo combattuto da una guer-  ra estema : la lotta sociale domina e regge la  lotta politica. Poiché appena dentro uno stato  trionfa un nuovo sistema sociale, vien creata una  nuova forma che allarga sempre più la democra-  zia e Teguaglianza ; il movimento si diffonde a  tutte le altre nazioni come il cerchio sollevato da  una pietra gettata nel lago: e il nuovo sistema  sociale vien trasmesso dal lavoro delle minoranze  oppositrici a tutti gli stati. Guai se uno stato at-  tarda troppo nella strada della rivoluzione socia-  le! Esso vien conquistato da altri stati di civiltà  superiore. Guai se non adotta la forma opposta  dd contrasto I Viene assorbito dal vicino più po-  tente.   Gli stati le nazioni le razze possono quindi de-  cadere e magari spegnersi, ma l'umanità non de-  cade e su una linea di progresso continuo passa  per una scala ascendente di sistemi sempre supe-  riori. Nemmeno nei periodi più oscuri di barba-  rie e più nefandi di cormzione si ha decadenza :  Anche un popolo vive esso è in progresso, pro-  gresso che può essere arrestato solo dal fatto fi-  sico della sua totale disparizione per un catacli-  sma naturale o per un eccidio universale. Rice-  verà l'impulso politico che una volta egli dava al-     - 87 -   le altre nazioni^ accettando le nuove progressive  forme politiche dall'esterno invece di crearle per  sua spontanea originale vitalità; perderà magari  Tindipendenza, ma la compenserà con un miglio-  ramento sociale per cui accetta il vincitore; vedrà  succedere al fiorire delle arti alla ricchezza indu-  striale e commerciale sterilità intellettuale e mi-  seria, ma avrà sempre un progresso sociale che  lo compenserà di questa sua decadenza.   Poiché fra popoli in lotta, come fra più indivi-  dui, è naturale che il più forte vinca. Ed è an-  che razionale. La forza dei grandi aggruppamen-  ti storici non è la forza fisica, non è il peso bru-  to del rinoceronte che schiaccia il fiore o il pu-  gno del facchino che tappa la bocca al tribuno;  ma è ordine, disciplina, saldezza economica, co-  scienza nazionale, è in una parola forza spiritua-  le. Non è la pura forza fisica brutale che vince  nel gran campo di battaglia della storia, ma è la  superiorità intellettuale e morale: la vittoria co-  rona sempre il più degno, fatalmente destinata  come la sconfitta; chi ha perduto se lo merita;  chi è conquistato : o s'è lasciato liberamente con-  quistare per godere di una civiltà superiore che  colle sue forze non poteva raggiungere, o si è  dimostrato nel paragone delle forze inferiore al  suo vincitore che in compenso della libertà per-  duta gli dà i vantaggi di un miglior sistema so-  ciale.   Certo gli uomini e gli stati agiscono spesso sot-  to l'impulso di bisogni materiali e di egoismi per-  sonali, ma la storia li adopera a tm fine che li     - 88 —   trascende; quella che Vico chiamava Pwwedenr  za ed Hegel Astuzia della Ragbne trae dalle azio-  ni egoistiche il bene dell'umanità, usa dei malvar  gi per un'opera buona, della cupidigia delle con-  quiste si serve per spandere la civiltà sulle regioni  selvagge o barbare, di Nerone per iniziare la  gran democratizzazione dell'Impero romano, di  Fernando Cortez per conquistare l'America a u-  na civiltà superiore. Il male nella storia non esi-^  ste come non esiste in natura : esso non è che in  quanto ha in sé il bene, un granello di bene che  solo gli permette di esistere; non è che un con-  cetto dialettico senza realtà (!)• ^ storia è dun-  que razionale. Non stiamo a spargere lacrime su-  gli eroi sconfitti e sui popoli caduti; la storia li  ha sacrificati con diritto a cause superiori : tatto  quello che è avvenuto è avvenuto razionalmente.  La storia dà dunque la vittoria al merito, pro-  gredendo con la legge del minnno sforzo. Date  tali forze in contrasto, la soluzione del sistema in  un fatto sarà rigorosamente quale doveva per il  valore delle forze; a quella maniera che in un  sistema di forze flsiohe il loro rapporto è deter-  minato dalla loro potenza. La storia è dunque ne»  cessarla : la serie degli avvenimenti che dai tem*  pi antichissimi arriva Ano a noi non poteva esse^  re diversa da quella che fu per arrivare a questo  punto. Questa è una necessità a posteriori:  non una necessità metafisica o teologica che     (i) Cfr. B/ Crock: Storiti, cronaca e false storte. — Na-  poli, Giannini, 1912 — pag. 24. — Questioni storiografiche^  Napoli, Giannini, 19:3 — passim.     • - 89 -   obblighi uomini e cose a seguire le linee di  un piano traéciaro in antecedenza» ma una neces^  sita interna che nasce dal gioco delle forze uma-  ne. Gli avvemmenti potevano variare, se le forze  fossero state diverse; e cambiato uno degli anelli,  la catena sarebbe certamente cambiata arrivando  fino a noi : non si sarebbe giunti allora a questa  mèta, ma ad un*altra imprevedibile, non meno  necessaria secondo il valore di quelle forze. Cosi  dalla storia vien cancellata la parola ca^o, che u-  na volta si usava a indicare la ragione ignota co^  me dai geografi ìò spazio bianco a indicare una  regione sconosciuta ; cosi vien cancellata là paro-  la Ubero arbitrio inteso come un misterioso potere  deirindividuo, che con la piccola fòrza della sua  volontà potrebbe alterare il corso degli avveni-  menti determinato dalle forze di volontà delFu^  manità intera. Per quanto un individuo voglia an-  dar contro corrente, egli è sempre Aglio del suo  tempo; per lottare contro esso deve accettarne la  base comune di credenze ^e perflho le parole del-  la discussione e le armi della battaglia; per quan^-  to sia isolato non può mai impedire che la società  lo insegua e lo tocchi per combatterlo o per ac-  clamarlo.   Non lasciamoci impressionare da certe parole e  frasi, che potrebbero far credere a una costruzio-  ne astratta a priori della storia : era nel carattere  del Ferrari di calcare la mano troppo violentemen-  te sopra certe affermazioni, di' mettere troppo in  rilievo i caratteri comuni delle cose, di dare la  forma assiomatica d'una verità assoluta a certb     — QO —   generalizzazioni di cui egli stesso riconosceva la  relatività. Cosi quella storia ideale, che secondo  certe sue parole dovrebbe essere qualche cosa  che rimane sopra ai fatti ad essi indifferente e su-  periore, assoluta sopra essi contingenti, come se  nel blocco unico della storia si potesse tagliar fuo-  ri il necessario dall'accidentale; ha qui perduto  quasi totalmente il significato primitivo e non è  altro se non una generalizzazione e semplificazio-  ne dei fatd storici fatta a posteriori, per poter  raccogliere i tratti caratti^istìci e per espediente  didascalico onde non dover tornare ogni momen-  to a ripetersi. Del resto il Ferrari stesso afferma  che questa sua storia ideale ricade d'appiombo a  coincidere colla positiva; ma una prova ben più  decisiva ce Toffre la sua storia stessa, la quale è  tutt'altro che una storia astratta a priori. Così il  Ferrari si compiace spesso, sforzando al solito  l'espressione, di chiamare geometrici, meccanici  certi movimenti, di dare come perfettamente e-  quivalenti certe rivoluzioni avvenute in forza di  uno stesso principio — viceversa poi nella narra-  zione fa vedere anche come, pur nate dallo stesso  principio, si svolgono con forme individuali.  Spesso pure e volentieri tira fuori la fatalità :  ma questa non è affatto l'opposto di libertà indi-  viduale che leghi con un misterioso potere pro-  veniente dalla natura o da Dio ; non è altro se non  la forza storica dell'ambiente, forza umana e im-  manente dell'umanità, della massa, che soverchia  naturalmente il conato d'un individuo.  Premessi questi chiarimenti, diremo che il suo     — 9» —   sistema storico possiamo accettarlo. Mio Dio, non  è di valore assoluto, non si attua quindi in tutti  i casi colla stessa necessità e precisione con cui  si attua un sistema fllosoflco : nonostante le sue  esagerazioni verbali il Ferrari stesso ne era per-  suaso, lo dimostra la sua opera. Ma perchè vor-  remmo noi interdirci la generalizzazione, che è un  processo necessario del pensiero? Che non si  prendano le generalizzazioni, queste entità astrat-  te, per realtà metafisiche; che non si costringa  nel loro letto di Procuste l'individuo — d'accor-  do. Ma perchè rifiutarle come strumento di ricer-  ca e mezzo di spiegazione e di esposizione? E'  generalizzazione evidentemente la divisione in pe-  riodi storici (sistemi o principi): la storia è un  corso continuo di avvenimenti simile a un fiume ;  ma come il corso del fiume si può dividere in  superiore e inferiore, così si può dividere, cosi  si è sempre divisa la storia. E' generalizzazione  il raccogliere gli innumerevoli partiti di uno sta-  to in regnante e opponente, ma essa semplifica e  spiega la realtà. La legge di opposizione, che or-  ganizza gli stati vicini in senso inverso gli uni de-  gli altri ,è pure una generalizzazione — e guai  se uno volesse applicarla rigorosamente I Pure la  forma politica de^i stati è una generalizzazione,  perchè questa forma un tempo non era cosi e in-  sensibilmente va sempre mutandosi. Lo stesso  movimento dei prìncipi considerati come qualche-  cosa d'assoluto, di perfettamente identico per tut-  ti gli stati che li traducono nelle loro forme poli-  tiche diverse, è una sempHBcazione generalizzata ;     — 92 - -   perchè qui contenuto o principio e forma sono  ruu'uno, non si possono scindere né l'uno dal-  l'altro, ni dagli uomini che li rappresentano, come  fossero delle entità metafisiche.   Di fronte a tanta ricchezza di pensiero non fac-  ciamo dunque i sofistici pesatori di parole, non af-  ferriamoci alla lettera cruda che uccide lo spirito,  sdegniamo un procedimento che distrugge colla  pedanterìa terribile dei cavillatori qualsiasi gran-  d'uomo; e abbandoniamoci con simpatia al nostro  autore cercando di intenderlo.   Vediamo ora come questi prìncipi vengono ap-  plicati airinterpretazione della storìa d'Italia.     UT.     L'enorme devastazione unitarìa di Roma aver  va sottomesso tutti i popoli del mondo antico al  dispotismo imperìale, per eguagliarli in una de-  mocrazia vittoriosa di mtte le aristocrazie nazio-  nali, per trasmettere loro la civiltà del pensiero .  greco e della legge romana. Ma dopoché e$8i eb-  bero conquistati i benefìci della civiltà e della de-  mocrazia; quando i Galli e gli Afrìcani, gli Ibe-  rì e gli Illiri furono tutti romani dinanzi all'ugua-,  gliatrice legge imperiale^ allora l'interesse e il  sentimento di patria li rivoltarono contro il fisca-  lismo micidiale dell'Impero che, flagellato dalle  onde del grati mare barbarìco minacciante ai con-  fini, era costretto per le necessita della difesa a  caricjBre di tasse i suoi cittadini o a maneggiare Je  invasioni cacciandole l'una con l'altra — e un prò-     — 93 ~   cesto di dissolvimento federale decompose la ci-  clopica unità romana. Una invasione barbarica  stabile venne accettata dai popoli per sfuggire al  flagello delle invasioni perpetuamente rinnovanti-  si che moltiplicavano le devastazioni (1); e la ca-  duta dell'Impero romano d'Occidente fu salutata  come una liberazione economica e politica, che  conservava intatto nitto il progresso sociale di Ro-  ma (476).   Odoacre venne dunque accettato dall'Italia co-  me liberatore; Teodorico, spedito contro di lui  per un bieco disegno di reazione dall'Imperatore  d'Oriente, una volta signore della terra doveva  assumere la posizione e continuare la missione  della sua vittima. (Fondazione del regno : 476-512).  Senonchè lo spirito uhiàno nei suoi deside-  ri non si ferma mai sotto la spinta di sempre  nuovi bisogni; e una volta stabilito saldamente  quel regno che li aveva liberati dal fiscalismo im-  periale, gli Italiani vollero conquistare una mag-  gior libertà, e si raccolsero attorno alla Chiesa  cattolica repubblicana e federale per assalire il  regno ariano e unitario dei barbari. Comincia la  Lotta contro il regno barbaro estemo (512-774).  Fulminati dalla potenza invisibile della Chiesd^  erede di Roma cadono gli eroici Goti (555) ; Nar-  sete, che vuole sfruttare la vittoria romano-bizan-  tina per rialzare una specie di regno bastardo,   (i) Cfr. C. Balbo: Della storia if Italia. Bari, Laterza,  1913. Voi. I, pag. 104 : Bisogna dire che parerle una benedi-  zione qnell' invasione stanziata dopo tante momentanee più cmdeli  e più sovvertitrici.     — 94 —   non può rimaner saldo sul terreno malfido. {Riv.  d'it. — Voi. I, pag. 69) :   ... Ecco i Longobardi che giungono [568]. In ap-  parenza marciano casualmente; formano una molti-  tudine densa sozza vorace, che scende lentamente  dai passi delle Alpi, si spande squallida compatta  ardente come la lava, sepellisce sotto di sé le città  che invade, le petriflca colFalito suo; nella sua bru-  talità non infrange nemmeno gli ostacoli ma li cir-  conda oltrepassandoli — ed invade metà della peniso-  la fermandosi subitamente senza ragione alcuna.  La scena è muta e desolata : si direbbe che tutto ce-  de a leggi esclusivamente fìsiche, e che i Longobardi  obbediscono al peso della loro propria materia.   Senonchè questa massa in apparenza bruta  di Longobardi evita a disegno tutti gli errori dei  Goti : non errano come soldati, ma si stabilisco-  no come un popolo di conquistatori nell'Italia del  Nord e nel centro, rinunziando alle inutili vitto-  rie del Mezzogiorno; fondano una rete strategica  di fortezze che sorvegliano e imprigionano le  grandi città romane sempre rivoluzionarie; trat-  tano i vinti da conquistatori, sottomettendoli alla  legge della spada e derubandoli del frutto del lo-  ro lavoro. Inutile: Tltalia romana e cattolica ri-  mane libera, sotto l'egida ufRciale della protezio-  ne di Bisanzio ; e S. Gregorio Magno papa (590-  604) divenuto capo della federazione romana e  rappresentante anche dei vinti del Regno, volta  contro la barbarie longobarda tutti i miracoli del-  la religione e la potenza spirituale del pontefice,  a cui una nuova teologia dà il potere di condan-     — 95 —   nare o assolvere i morti prima del Giudizio uni-  versale.   Le due forze antagoniste rimangono dunque di  fronte a influire Tuna sull'altra vicendevolmente :  ma se i Longobardi eccitano col loro esempio  r Italia romana a conquistarsi Tindipendenza poli-  tica da Bisanzio, sperando cosi di ingoiarsela do-  po; non possono sottrarsi all'influsso della Chie-  sa, che con una rete sotterranea di silenziose co-  spirazioni mina il sottosuolo dell'Italia regia per  mezzo dei suoi cattolici. Prima decompone il re-  gno opponendo al re ariano di Pavia, la capita-  le longobarda, il re cattolico di Milano, la capi-  tale romana ; e infine trionfa coll'avvento del cat-  tolico Liutprando. I Goti avevano commesso l'er-  rore di accettare il principio imperiale, i Longo-  bardi commisero quello di accettare il principio  cattolico : e paralizzati dalla inimicizia intema dei  cattolici, caddero sotto il fuoco incrociato della  rivoluzione romana e della eroica devozione fran-  ca (1). Per quanto più tunani dei mostruosi re  franchi, meno fiscali dei corrotti Bizantini, già  seminazionalizzati da un processo di fusione coi  vinti del regno; non furono mai accettati dall'I-  talia romana, che organizzata antiteticamente li  combattè con la rivoluzione col Papa coi Franchi.  L'Italia romana non voleva il flagello d'un regno     (l) Cfr. G, Volpe. Pisa e i Longobardi in Studi storici,  Pisa, 19Ò1, pag. 412:.. Non il re franco fu il vero vincitore,  ma 1* Italia e Roma, che avevan rotto la natia compagine delle  genti d'Alboino, già predisposte a ciò dall' antica costituzione  del popolo e dai modi della eonquista.     - 96-   .l>arbaro che avrebbe imbrìgliato la rivoluzione so-  dale, legato i gran centri romani nella rete delle  città militari in arretrato, sepellito sotto un'allu-  vione barbarica le reliquie della civiltà romana  conservate dal cattolicismo.   E per impedire che potesse mai formarsi un  regno su questa terra sacra alle rivoluzioni, de-  stinata a spandere il fuoco della libertà su tutta  l'Europa, l'Italia trasportò l'Impero in Occidente  (800). Come rappresentanti del nuovo patto so-  ciale che doveva essere la base del diritto pub-  blico dell'Occidente a loro sottoposto, il Papa e  l'Imperatore si divisero la penisola destinata ad  essere la custode del loro duplice potere euro-  peo : l'Imperatore ebbe l'Italia superiore, il Pa-  pa Ravenna il centro occidentale e tutta l'Italia  meridionale con le isole da conquistarsi ancora  3ui Bizantini. {Trasporto dell'Impero in Ocdden-  te: 774-888).   L'Italia perdeva quindi l'indipendenza naziona-  le, ma acquistava la libertà: e per tutti i domini  del Papa e dell'Imperatore il progresso sociale  migliorava le condizioni dei Romani, non più sot-  tomessi alla legge della spada barbarica, ma alla  giurisdizione dei loro vescovi; rialzava la sorte  delle città dell'industria e del commercio a danno  (dei centri militari; soffiava nelle ceneri calde del-  la coltura romana ad attivarne nuove scintille .So-  lo le terre ancora escluse dal patto papaie-impe-  riale, Venezia, le repubbliche meridionali, la Si-  cilia, scontavano amaramente la loro indipenden-  za politica con una inferiorità sociale, prodotta     — 97 —   dalla confusione bizantina dd potere temporale e  del potere spirituale, la quale impediva la gran  libertà del pensiero.   Intanto Tunità dell'Impero d'Occidente andava  decomponendosi sotto gli inetti successori di Car-  lo Magno, e l'Italia marciava ancora alla testa del-  le nazioni insegnando loro a conquistarsi una li-  bertà federale (888).   Ma poiché da questa risorge lo spettro micidia-  le d'un regno barbaro interno, la rivoluzione pa-  pale e imperiale sempre regnante approfittando  delle rivalità tra i feudatari rende impossibile il  regno d'Italia, lo condanna a non essere che una  lotta di pretendenti, offrendo sempre la corona a  due rivali e rialzando sempre il vinto contro il  vincitore (Lotta contro il regno barbaro interno :  888-962) finché invocato dalle rivoluzioni italia-  ne giunge Ottone I a rinnovare il patto papaie-  imperiale. Egli distrugge per sempre il regno, di-  sorganizza le marche dei discendenti dei barba-  ri, esalta il clero romano, protegge i comuni ita-  liani. La rivoluzione italiana si propaga a tutte  le nazioni europee e modifica al suo esempio an-  che la Chiesa. {Riv. d'Italia — Voi. I, pag. 250) :   L'Europa trovasi disposta come gli intervalli di  «no scacchiere, gli uni bianchi gli altri neri, gli u-  m unitari gli altri federali; presso gli uni la reli-  gione prevale sulla legge, presso gli altri la legge  primeggia sulla religione; i primi progrediscono con  l'eguaglianza, i secondi con la libertà. La necessità  della guerra condanna tutti i popoli a svolgersi al ro-  vescio gli uni degli altri ; la stessa necessità della guer-   A. Fbrrari — Giutéppt Ferrari. 7     - 98 -   ra li obbliga pure ad accettare coll'una o coiraltra delle  due forme la rivoluzione italiana che si propaga. Ci-  gni stato in ritardo, ogni popolo che dimentica sé  stesso che non prende la sua base d'operazione in  opposizione ai suoi vicini, si trova debole impotente  in contradizione con se stesso e soggiogato. Se si  cerca Tinfluenza italiana in .una propaganda diretta»  uniforme, non si scopre e bisogna negarla; se inve-  ce si segue nell'urto delle azioni e delle reazioni che  si estendono opposte le une alle altre.... si vede dap-  pertutto la catastrofe del regno d'Italia riprodotta con  esattezza similare, dappertutto l'antico stato carlo-  vingio o pagano sparisce per cedere il posto ad un  nuovo stato libero colle diete o popolare col re.   IV.   Liberata cosi per sempre dalla tirannia unita-  ria di un re l'Italia può abbandonarsi alla carrìe-  ra magica delle sue rivoluzioni, che sembrano  frantumare in moti individuali variati disordinati  la sua ideale unità di nazione, e a prima vista ci  appaiono refrattarie a qualsiasi principio organi-  co di interpretazione (Riv. d'Italia — Voi. I, pag.  256):   Fin qui noi abbiamo potuto sottomettere tutto al-  l'azione dei principi; e la storia d'Italia si svolgeva  una e logica, dominando i più svariati avvenimen-  ti con una specie di continuità drammatica un tem-  po vasta come il mondo. Odoacre abbraccia l'intera  nazione col fatto unico del regno proclamato contro  gli ultimi imperatori, che accampati da .banditi a  Ravenna abbandonavano Milano ed Aquileia agli Un-  ni e Roma ai Vandali. I Goti continuavano l'opera di  Odoacre, fissando l'invasione unica del re in tutta     — 99 —   l'Italia. Bdisarìo e Narsele lottavano pure quali ca-  pitani dell'unità Imporàde contro il ragno tondKo so  Ravenna; e tutte le città, scacciando i Goti, si ria-  nimavano con un risorgimento quasi repubblicano.  Più tardi i due principi opposti dell'unità imperiale  e dell'invasione regia si spartivano materialmente la  penisola; e la terra, metà romana, metà longobarda,  rimaneva una nella guerra dei popoli cattolici del Mez-  zodì contro la dominazione ariana di Pavia; ancora  una nel doppio slancio che estolleva le repubbliche  cattoliche e il regno longobardo; sempre una nell'in-  fallibile trionfo della religione delle repubbliche, che  consegnava il regno a Carlo Magno per rifare l'Im-  pero d'Occidente. L'unità sopravviveva nel patto di  Carlo Magno esteso a tutta la vera Italia dipendente  da Roma e da Pavia; continuava colla reazione dei  Berengario degli Ugo e dei papi quasi bisantini, tutti  egualmente nemici del Papato e dell'Impero; l'unità  si mostrava di nuovo nelle rivoluzioni posteriori con-  tro la falsa indipendenza dei dogi di Roma e dei re  italiani. Ad onta dell'anarchia e dei rivolgimenti di  quattordici rivoluzioni, noi abbiamo visto la terra or-  dinata nelle sue lotte, uniforme nel suo ultimo trion-  fo, unanime nel disegno che rinnovava il patto della  Chiesa coli 'Impero. Costituendo fin dai primordi t  due principi della rivoluzione cattolica e del regno  nazionale, s'intendeva facilmente il senso di tutte le  lotte; dal momento che una guerra scoppiava dove-  va essere la guerra dei due principi : ci bastava il se-  guire le due correnti, il nostro lavoro era eccezio-  nale senza esser diffìcile, l'unità delle idee suppliva  all'unità materiale dei fatti. Noi avevamo il diritto di  sottomettere ad una unità eccezionale il moto ecce-  zionale del Papato e dell'Impero; Napoli, Venezia,  Bari, la Sicilia, Amalfi, Gaeta si scostavano da se  stesse per lasciare il posto alla geografìa pontifìcia  imperiale; e queste repubbliche ordinate al rovescio  della vera Italia ne confermavano l'unità rivoluzio-  naria, la sola che importava di seguire.     — lOO —   M« dai primi anni del XI secolo cambia la scena;  il moto generale scioglie ^uestltalia che già scon-  certava la critica: o^i città ha il suo eroe, le sue  rivolttzioni, le sue guerre, il suo destino. I comuni  non sembrano punto associati; nesstma federazione,  nessuna lega, nessun' unione generale e apparente:  Milano è straniera ad Ancona qtianto Arles Treverì  o Cambra!. I popoli si combattono, gli avvenimenti  si incrocicchiano in tutti i sensi, gli episodi sono in-  numerevoli. Alcune città fondano delle colonie, altre  si estendono colle conquiste, giungono i Normanni,  la Chiesa si rivolta contro Tlmpero: quanto piti c'i-  noltriamo, tanto più le forze della guerra e della li-  bertà sembrano scatenarsi a caso. Lo spirito si tur-  ba; l'Italia cessa di comprendere se stessa; i suoi  storici non abbracciano più l'insieme della penisola:  Giordanes, Paolo Diacono, Vamefrìdo e Liutprando  non hanno successori; più non si scoprono se non  dei frammenti di cronache, delle scene staccate. Più  tardi ogni città ci presenta la sua biblioteca dì scrit-  tori, i suoi poeti della barbarie municipale, il suo Ci-  merò che canta nuove Iliadi. Eccoci in presenza di  cento storie distinte diverse contradittorie, senza le-  game palese: noi lo domandiamo, dove sarà la sto-  ria d'Italia?   Le nostre proprie idee ci danno il filo che ci gui-  da attraverso il labirinto italiano. I comuni s'impa-  droniscono del suolo per interpretare la vittoria da  essi riportata col Papato e coli 'Impero; essi proseguo-  no la loro guerra contro il regno, combattendo ogni  rimembranza, ogni istituzione che richiama la legge,  la forza, l'aristocrazia, l'esercito, la dominazione dei  re; questo è lo scopo loro; essi marciano contro il  Papa e l'Imperatore per distruggere nell'uno e nel-  l'altro ogni principio che conserva le tracce dei Go-  ti, dei Longobardi, dei barbari dell'Italia o dell'Euro-  pa. La storia dei comuni non è dunque altro che la  storia di una rivoluzione continua, lenta, fatale, e  sempre trascinata dai suoi propri antecedenti a com-     — IDI —   battere il vecchio Papa e il vecchio Imperatore della  barbarie, per creare un Papato, un Impero ideale,  donde spariscano in modo cosmopolita tutte le trac-  eie della dominazione delFuomo sull'uomo.   Un grand 'errore ingombra la storia d'Italia, ne  sconvolge i prìncipi il moto le epoche il progresso,  e snatura il senso di tutti gli avvenimenti: ed è  l'errore che la considera come il racconto di una  guerra continua contro il Papa e l'Imperatore per  conquistare l'indipendenza politica del governo o, co-  me si dice in oggi, per respingere l'invasione dello  straniero. Sotto questo aspetto l'Italia non sarebbe  mai stata, la prima delle nazioni, e la sua storia riu-  scirebbe a questa assurdità inammissibile: che do-  po cinque secoli dì guerra non avrebbe né raggiun-  to, né voluto lo scopo stesso della guerra. No! nac-  que l'Italia pontificia e imperiale contro i Goti, con-  tro i Longobardi, contro i re italiani provenzali e  burgundi; nacque creando e interpretando il gran  patto della Chiesa coli 'Impero; dominò le stesse con-  quiste carlovinge cogli incanti della religione e colla  magia della consacrazione imperiale: fino dai tempi  di Teodorico la Chiesa e l'Impero sono stati i sim-  boli della sua libertà, della sua redenzione, di ogni  sua idea liberatrice sulla terra e nel cielo nel fatto e  nel possibile; e con la costituzione dei due poteri  essa ha organizzato una rivoluzione permanente, uni-  versale, indefinita nelle sue aspirazioni verso l'avve-  nire. Il primo dei suoi capi sotto l'aspetto politico è  l'Imperatore, il più debole il piii legale il piti fede-  rale dei re; il secondo suo capo è il Papa, cioè il  più inerme tra i principi, il meno conquistatore dei  sovrani: non avvi dunque conquista alcuna sul suo-  lo italiano, ed al contrario il regno che era conquista-  tore venne schiantato con una guerra così violenta  che tutti gli stati dell'Europa ne rimasero scossi. Per-  tanto non vi ha, né vi sarà mai guerra alcuna d'indi-  pendenza; Il Pontefice e l'Imperatore non avranno se  non pochissimi soldati, sempre costretti a fondarsi     — I02   sulla forza stessa della terra. Che, ss sono assaliti,  si è perchè sono oltrepassati dagli Italiani che voglio-  no riformare il patto» che chiedono sempre un mi-  glior Papa che non esiste, un Imperatore che dev'es-  sere rifatto: nò punto reclamano una vuota indipen-  denza; ma sostengono una guerra costituzionale in-  tima organica per trasformare le idee le istituzioni  la religione, una guerra dove il principio di respin-  gere gli stranieri è sempre posposto al principio di  distruggere ogni istituzione regia o feudale. E se il  Papa e Tlmperatore resistono, non combattono se  non come conservatori quasi indigeni, sostenuti dalle  reazioni inteme che la libertà provoca e sormonta,  imponendosi loro cosi d'epoca in epoca fino agli ulti-  mi giorni del risorgimento italiano. La storia dei co-  muni, considerata in tutta la sua durata, non è dun-  que la storia di una guerra contro lo straniero, fatto  unico materiale mille volte impotente; ma è la sto-  ria di un fatto ideale organico sempre crescente: e  poiché là dove le idee regnano il caso non può re-  gnare, l'oscurità del labirinto italiano deve sparire - e  qualora restasse la colpa sarebbe nostra. La rivoluzio-  ne è la stessa in tutte le città : da per tutto essa ha lo  stesso punto di partenza — la caduta del regno, lo  stesso punto d'arrivo — il risorgimento italiano; da  per tutto si svolge colle medesime idee rette dalla  medesima logica; lenta o rapida, squallida o splen-  dida, vittoriosa o vinta, le sue fasi sono determina-  te anticipatamente dall'inflessìbile destino che sforza  i principi a generare le loro conseguenze. Che i mil-  le accidenti della guerra turbino adunque l'Italia, es-  si saranno tutti travolti da una sola corrente; e vi  sarà sempre una storia ideale e uniforme, comune  a tutte le città da Ottone I alla flne del risorgi-  mento.   La storia ideale della città italiana si ripete a un  patto di Carlo Magno, che essa interpreta e che tra-  sforma di continuo. Di fatto il Papa e l'Imperatore  noli intendono che a mantenerlo nel senso il pih tar-     — I03 —   do, se ne dichiarano apertamente conservatori; la  loro opera è sempre una restaurazione imperiale e  pontificia. Ma hannovi forse restaurazioni nella sto-  ria? Noi non ne conosciamo: gli antichi poteri che  diconsi ristabiliti si trovano sempre trasformati, e  non trionfano se non accettando Topera del tempo, e  non ricompaiono sulla scena se non alla condizione di  rappresentare i principi che la fatale ignoranza del  governo tradizionale lasciava ai loro nemici. Stessa-  mente il Papa e l'Imperatore compiono 'le loro re-  staurazioni così dette eterne, seguendo passo passo  la storia delle città italiane di cui amnistiano le ri-  bellioni e accolgono le innovazioni. Egli è giusto che  resistano; se non resistessero la rivoluzione non a-  vrebbe nessuna ragione per manifestarsi e nel me-  desimo tempo la storia ideale si fermerebbe. Ma e-  gli è altresì giusto che, una volta sconfitti, si rista-  biliscano, accettando il progresso che si è fatto stra-  da e che passa allo stato di fatto compiuto o di fa-  to ineluttabile; ed è così che tutte le epoche della  storia ideale si riproducono nel patto di Carlo Ma-  gno colla Chiesa. Una volta nel patto, esse si ripeto-  no in tutti gli stati dell'Europa. Non sono forse il  Papa e l'Imperatore i due grandi personaggi dell'Oc-  cidente? bisogna dunque che propaghino da per tut-  to le idee da essi rappresentate: d'altronde tutti gli  stati non si svolgono forse simultaneamente gli uni  contro gli altri? devono quindi accettare ogni pro-  gresso, non foss'altro per combatterlo.   Ecco quindi la trama ideale su cui scorrono tut-  te le rivoluzioni italiane; la legge che ne governa  la varietà a prima vista irreducibile di forme, e  le costringe ad essere incasellate entro il quadro  di due reazioni imperiali e pontificie. E' questo il  periodo storico che il Ferrari ha studiato con più  amore e trattato con più larghezza i la storia an-     — I04 —   t^rìorc al 962 e posteriore al 1530 è rispetdva-  mente conaiderata come imrochizione e come epi-  logo alla epopea di quel che egli chiama risorgi-  mento italiano.   Allontanato per sempre il perìcolo d'una tirai^  nide regia colla rinnovazione del patto papalo-  imperìale e col trasporto dell'Impero in Germa-  nia, r Italia che fln qui era stata l'alleata dd Pa-  pa e dell'Imperatore comincia a combatterli ma  non per distruggerli, bensì per riformarli, tra-  scinata dagli antecedenti aUa lotta senza quartie-  re contro ogni rimembranza del regno.     La rivoluzione dtì Vescovi (962-1122) apre la  serie. Nella città sfuggita ormai all'incubo dd re^  gno ecco si trovano di fronte due poteri : il conte  goto longobardo o franco di discendenza, che vor-  rebbe riprodurre in piccolo dentro la cerchia dd-  le mura cittadine la tinmnide regia, che governa  cdla legge ddla spada il popolo di discendenza ro-  mana; e il vescovo romano di razza e di tradi-  zione che protegge i deboli contro la prepotenza  regia del conte barbaro, aprendo loro le porte del  suo palazzo dove l'esenzione ottenuta da Ottone  impedisce agli sgherri del tiranno di entrare. B.  popolo si serra attorno al suo vescovo, vuol es-  sere giudicato dalla sua giustizia superiore a quel-  la del conte come la ragione alla spada, si appas-  siona per tutte le sup»*stizioni dd cattolicismo  voltandde come armi ideali contro le alabarde de-     — I05 —   gli sgherri comitali^ finché un giorno scoppia im-  prowisame&ie una sollevazione annata. Il conte  si trova espulso, e nella città si comincia a sboz-  zare colla formazione dd primo popolo raccolto  dalla corte del conte e da quella del vescovo Tor-  ganismo comunale italiano, che non è una deriva-  zione germanica o romana ma nasoe adesso oomh  battendo contro le memorie del regno. La rivolu-  zione vescovile irraggiata dal focolare di ribeÌlto>  ne delle città penetra nei feudi, ove sostituisce fa-  miglie pie di tradizione romana e avversa al re-  gtto (Canossa, Savoia, Este) alle famiglie discen-  denti dagli invasori ; conquista il Mezzogiorno pa^  ralizzato dalla confusione bizantina dei due pote-  ri, al seguito delie schiere avventurose dei Nor-  masni; e in RomB trionfa coHa libera elezione  popolare e clericale di Gregorio VI nemico dei  conti e dei patrizi.   Ma i centi espulsi daUe città da un esercito d!  straccicmi capitanati da un prete ricorrono all'au-  torità legale del loro supremo tutore, l'Imperato-  re, che vede oltraggiata la sua legge; e Corrado  II di GebeHno comincia la reazione contro i ve-  scovi. Invano : sconfitto da Eriberto di Milano,  che oppone alla cavalleria feudale le picche dei  popolani raccolti attorno al carroccio novdlamen-  te creato, vede la sua reazione abortire nelle cit-  tà e nei feudi deiritaUa imperiale e in Roma, e  deve legalizzare la rivoluzione. It sovrano dd-  ritalia meridionale è il Papa, che l'ha avuta fai  seguito al ^an patto carolingio: a lui quindi  spetta di guidare la necessaria reazione contro 1     — io6 —   Normanni rappresentanti meridionali del princi-  pio vescovile, i quali dopo averto vinto sforzano  S. Leone IX ad accettare la loro rivoluzione. E  cosi Imperatore e Papa dopo avere ammistiata e  legalizzata la rivoluzione italiana, come poteri eu-  ropei la diffondono in tutta l'Europa; e perfino  ndla Chiesa, la quale si appassiona per la vergi-  nità mistica in odio dei preti ammogliati, che pro-  fanano la sua repubblica immacolata con una spe-  cie di feudalità clericale (1050).   Appena ottenuta la legalizzazione della cacciata  del conte, la rivoluzione entra in una seconda fa-  se (1050-1122), continuando contro i vescovi no-  minati dall'Imperatore che li incarica di sostene-  re la parte dei conti, per strappare la libera ele-  zione dei vescovi stessi — e una volta vittoriosa  vuole la libera elezione del più grande dei vesco-  vi, del Papa, che l'Imperatore si arrogava il di-  ritto di imporre. Il monaco Ildebrando riunisce  tutte le forze della rivoluzione per togliere Roma  ai papi tedeschi, prima con l'elezione di Nicola  II, poi con quella di Alessandro II contro l'anti-  papa Cadaloo; e infine salito lui stesso sul tro-  no pontificio assale per la prima volta la suprema-  zia imperiale, e trasporta nella Chiesa la rivolu-  zione vescovile compita predicando la crociata.   Senonchè l'utopia di Gregorio VII conteneva il  germe d'una reazione pontificia contro la libera  elezione dei vescovi, che si sarebbe voluto tra-  sportare dalle mani dell'Imperatore a quelle del  Papa: cosicché al suo avvento gli uomini della  rivoluzione passano nel campo nemico; dichiara-     - I07 —   no che il Papa non è il padrone della Chiesa ma,  sottoposto al Vangelo alla tradizione ai concili, è  il servitore dei servitori, e può essere deposto se  manca alla sua missione. Ecco cosi la guerra del-  le investiture che è la reazione papaie-imperiale  contro la libera elezione dei vescovi : i due capi  sempre in ritardo si sforzano di rassicurarsi in-  terpretando con mente retograda l'antica tradi-  zione; ma i popoli al seguito dei loro vescovi,  come avevano atterrato il vecchio Impero sotto  1 colpi di Gregorio VII, atterrano il nuovo Pa-  pato sotto quelli del nuovo Cesare rigenerato. Le  città dirigono il Papa e l'Imperatore: sono im-  periali quando il Papa trionfa e pontificie quan-  do l'Imperatore prepondera, e finiscono col se-  guire l'alleanza imperiale sulle terre della dona-  zione e quella papale sulle terre dell'Imperatore.  Roma determina l'azione di Gregorio VII sulla  Germania; le città lombarde decidono Arrigo IV  a resistere e gli danno la vittoria nonostante la  sua sciocca sottomissione di Canossa, ma quan-  do la sua vittoria diventa minacciosa disertano il  suo campo e rialzano il Papa; e continuano in  questo gioco a rimbalzello Anche riescono ad ot-  tenere la libera elezione dei vescovi, che il Papa  e l'Imperatore diffondono al solito — dopo con-  cessa — a tutta l'Europa.   Anche la prima crociata cade sotto la legge del-  la rivoluzione vescovile: costituita coi quattro e-  lementi della città italiana, la moltitudine il popo-  lo i consoli e i vescovi, altro non è se non Te-     — io8 —   spetrìazioae volontaria della feudalità che lascia  libera la terra alla giuriadizion^ dei vescovi.   Abbiamo dato un sunto diffuso di questo perio-  do per offrire un esempio più chiaro del metodo  interpretativo del Ferrari : ora potremo procede-  re più rapidamente.     VI.     Qi stati dell'Europa non avevano ancora com-  pita la prima metà della rivoluzione dei vescovi  che nelle città italiane dov'era nam essa era as-  salila da una nuova rivoluzione, nei principi o-  scura e indecisa, dopo cosi splendida e scandalo-  sa c^ tuid i vescovi della cristiania ne erano  scQS^ nelle loro sedi. La rivoluzione dei Couso^  2i(U22-1184) passava anch'essa per due tesi:  prima sostituiva il governo vescovUe ed governo  consolare (11^1137); poi scatenava le une con-  tro le i|kre città consolari, divise in due campi  per conquistarsi con la guerra una più larga li-  bertà dentro il patto papaie-imperiale (1137-1184).   Nella città vescovile il vescovo essere religiosa  e u-asmondano si trovava a capo della moltitudi-  ne, agitata da tend^ize industriali e commercia-  li completamenie mondane ch'egli non poteva  soddisfare né raffrenare. Dall'opposizione nasce  rifisurrezione : la città si muove prima conser-  vando le apparenze dell'obbedienza, poi rinnova  le sue istituzioni e crea un nuovo popolo più al-  largato e democratico chiamato a legiferare nd  parlamenti che, col tradizionale intervertimento di     aUeanze nemico del Papa negli stati della Chiesa  e nemico dell imperatore nellitalia imperiale, as-  sale il diritto del regno a nome nel risorto di-  ritto romano.   La. immancabile reazione pontificia e imperiale  procedeva questa volta unita : Innocenzo II e il  suo alteato Lotario IH, capo dell'opposizione cat-  tolica tedesca allora vittoriosa nellimpero, secon-  do la formula generale di tutte le reazioni oppo-  nevano il passato sempre vivo in essi al presen-  te da cui erano assaliti ; e combattevano i conso-  li fondandosi sui vescovi liberamente eletti ed al-  tra volta si ardentemente invocati dai popoli, ma  non riuscivano che ad ottenere la fatale sconfitta.   Ed ecco che appena vittoriosi della duplice rea-  zione i consoli spingono le città le une contro le  altre in quella guerra municipale, che fa la ma-  raviglia e lo sdegno degli storici maldicenti con  le lacrime agli occhi a tanto inesplicabile odio fra-  temo. E' questo uno dei misteri più profondi del-  la storia ditalia: la guerra municipale non si  spiega né colla volontà del Papa e dell impera-  tore, nò colla lotta fra i due capi della cristianità,  nò colla duidità geografica di Roma e di Pavia,  nò colle vertenze fra i diversi distretti, né colla  HbeDione dei castelli. (Riv. d'Italia — Voi. I,  pag. 515):   Guardiamo alla terra dove sorgono le città libe-  re : la sua gìeografla é anticipatamente determinata da  una rivoluzione anteriore. La rivoluzione dei vesco-  vi ha disorganizzato il regno, ne ha paralizzata la     — no —   capitale, lìia isolata, ha degradato le città militari  che l'assecondavano, le ha spodestate delle loro fun-  zioni strategiche, ha soppiantato Pavia e i centri se-  condari che erano padroni delle vie dei fiumi del  commercio di tutto. Le città romane sono state rial-  zate, opposte alle città militari; restituite all'impor-  tanza naturale che loro davano il conmiercio, la ric-  chezza, la facilità delle comunicazioni, le circoscrizio-  ni diocesane stabilite dai Romani sotto l'impero del-  la civiltà. Ne nasce che la terra è dualizzata in ogni  parte, la rivoluzione dei vescovi ha voltate tutte le  città le une contro le altre: ogni centro militare si  trova in presenza di un centro romano a lui ostile;  Tuno declina, l'altro s'inalza; l'uno immiserisce, l'al-  tro prospera; l'uno langue, l'altro risorge. Nell'era  dei vescovi la dualizzazione delle città non è ancora  apparente, la legge imperiale e pontificia regna an-  cora, la guerra si dissimula; e se i conti sono con-  gedati, la metà della gerarchia sussiste ancora col ve-  scovo che supplisce al conte, nasconde la guerra - e  non vedonsi che lotte momentanee. Eriberto di Mi-  lano non combatte le città dei dintorni se non per  ordine dell'Imperatore... Ma nel momento dei conso-  li la disorganizzazione vescovile del regno si fa lai-  ca, la dualizzazione delle città diventa economica:  più non trattasi di reclamare precedenze, giurisdizio-  ni ecclesiastiche o feudali; si reclamano la ricchez-  za, i fiumi, le strade, i transiti trasformati in istru-  menti di prosperità o di miseria; il mercante, il fab-  bricante, il ricco si sostituiscono al vescovo; nessu-  na gerarchia, nessuna diplomazia superiore che raf-  freni le rivalità; non i giudici per decidere sulle  vertenze, le città devono giudicarsi da sé. Esse so-  no in contatto immediato; il contatto diventa lotta,  la rivoluzione dei consoli diventa guerra — si po-  trebbe forse evitarla? — Guardiamo sempre la ter-  ra. La rivoluzione dei consoli si sviluppa sul fondo  stesso della prima rivoluzione dei vescovi, per rad-  doppiare la disorganizzazione del regno e la degrada-     — II I —   zione delle città militari. Questa degradazione è fat-  ta dal commercio, dall'industria; diventa la miseria  dei centri regi, la prosperità dei centri commerciali :  i primi son condannati a difendersi sotto pena di mo-  rire, i secondi combattono anche prima di dichiarare  guerra perchè basta loro il vivere il progredire per  spegnere le città dell'antico regno; esse assorbono t  frutti il succo gli umori del suolo italiano, esse ri-  fanno tutte le strade tutte le comunicazioni al rove-  scio del sistema militare, esse sostituiscono alla stra-  tegia regia quella del commercio che procede lenta  sorda implacabile col libero spaccio di tutte le merci.   Come resistere loro se non colle armi? Ecco l'o-  stilità dichiarata: ogni città militare lotta colle armi,  coll'astuzia, con tutti i mezzi della politica; tutti soa  buoni, tutti giusti trattandosi di difendere la patria.  Se occorre si rivolgeranno le forze stesse della li-  bertà e della civiltà contro le città più libere, più  civili; si spingeranno alla ribellione i comuni inter-  mediari promettendo loro l'indipendenza; si tenterà  di smembrare le città romane, di attorniarle con bor-  ghi insorti, di disorganizzare questo centro di disor-  ganizzazione — e ne nascerà l'aff razionamento del-  l'aff razionamento, la guerra della guerra.   Fin qui abbiamo considerata solo la natura del suo-  lo: e l'abbiamo trovato friabile, inconsistente, dispo-  sto alle frane, e dualizzato come se avesse subito in  tutte le sue molecole una doppia polarizzazione sot-  to la pressione del Papato e dell'Impero. Prendiamo  ora il compasso, misuriamolo; e noi vedremo che la  guerra deve raddoppiare d'intensità. Qual'è la circo-  scrizione della terra ove sorgono i consoli? La città  vescovile si ferma ai corpi santi ; pivi oltre tutto è oc-  cupato dai feudatari dell'Impero, la campagna è co-  sa loro, l'irradiazione popolare della prima rivoluzio-  ne ha dovuto soffermarsi nei limiti determinati dal-  l'ombra della cattedrale. Ma i consoli possono forse  rimanere in questi limiti? Essi rappresentano un nuo-  vo popolo, del doppio più potente coll'avvenimento     — 112 —   ddrinéttstrìa e del commercio, due volte più ricco  grazie alla sua attività che moltiplicandosi trabocca  oltre il vecchio recinto delle nmra; quindi si rinno-  vano i bastioni, gli edilizi pubblici, il palazzo del co-  nume, le fortezze, i cimiteri; la città s*adoma, s'in-  grandisce e più non può capire nel proprio territo-  rio, e segue coll'occhio i suoi fiumi le sue strade i  suoi sbocchi: dei pedaggi altre volte insignificanti  intralciano il corso delle merci, dei villaggi un tem-  po inosservati le tagliano le comunicazioni; la città  smania di estendersi, di svincolarsi dalle sue pasto-  ie, di rompere ogni ostacolo. Pisa e Genova, die si  trovano dinanzi delle terre lontane sul mare, fonda-  no delle colonie consolari; ma per le città delFin-  temo non hannovi terre vacue, la campagna appar-  tiene alla feudalità, tutte le giurisdizioni son ar-  mate, i confini sono spietati — e le città si getta-  no sull'unico spazio che sia vuoto, sullo spazio della  rivoluzione consolare. Ogni città che si governa coi  consoli sfugge all'Impero o alla Chiesa nella misura  stessa del consolato, e si presenta come la preda na-  turale del nemico che l'osserva; essa è res nuUius:  9 combattimento è permesso naturale inevitabile; ed  ogni città, ogni borgo aspira a diventare una capita-  le; la guerra deve durare fino alla liquidazione gene-  rale di tutte le pretensioni; l'Italia dev'essere rifatta  per intero. Ora supponete il Papa e l'Imperatore a-  nimati da sentimenti patemi e da benefiche intenzio-  ni; supponeteli sempre pronti a intervenire per pre-  dicare la pace l'unione la concordia; supponeteli ab-  bastanza forti per ottenere innumerevoli conciliazio-  ni ,per riparare mille torti, per render giustizia agli  oppressi; supponeteli protettori, conservatori come  devono essere secondo il dato primo del Papato e  dell'Impero: le città riporteranno vittorie che non sa-  ranno vittorie; le-sconfitte non saranno sconfitte; nes-  suna guerra riuscirà ad alcuna soluzione; tosto otte-  nuto un vantaggio bisognerà rialzare le torri spiana-  te, ricostruire le mura smantellate, riedificare le ciN     — 113 —   tà incendiate, restituire il territorio conquistato; e al-  la partenza del Papa deirimperatore e dei loro de-  legati, le cause della guerra sussistendo ricondurran-  no le città al combattimento; si rimarrà per secoli  a battagliare in una casamatta, ai piedi di un ba-  stione, sull'orlo di un fosso - per riportare mille vit-  torie inutili, per subire mille sconfitte sempre ripa-  rate.   La guerra municipale che rimane dentro i con-  fini della regione viene quindi ridotta al dualismo  delle città militari e delle città romane costrutte  le une a controsenso delle altre : di Milano e di  Pavia la capitale di Alboino, di Mantova e di Ve-  rona la prediletta di Teodorico, di Bologna e di  Ravenna la capitale di Odoacre, di Firenze e di  Fiesole, di Pisa e di Lucca, di Roma e delle cit-  tà latine : anche il regno di Napoli si toglie all'a-  nalogia degli altri regni per seguire la legge del-  le città italiane, funzionando come una gran città  cambattente con Palermo contro i rimasugli fe-  derali dei piccoli stati greco-longobardi. Questa  guerra che oggi si considera come un disordine  odioso era nel secolo XII un progresso, una ri-  voluzione, il primo passo delle città per determi-  nare i loro confini a nome della propria libertà  insultata e disconosciuta dalle vecchie giurisdi-  zioni.   Intanto Fed. Barbarossa ,capo della rivoluzio-  ne vescovile in Germania, si propone di combat-  tere in Italia la seconda fase della rivoluzione con-  solare, sopprimendo la libertà della guerra muni-  cipale che insulta alla sovranità dell'Impero: e   A. PrrraRI — Giuseppa Ferrari. «     — 114 —   la sua reazione subisce vicende diverse secondo  che si muove sulla terra delPantìco regno o su  quella del Papa o del regno normanno. Nell'Al-  ta Italia diventa capitano municipale delle città  romane, manovrante da bandito con l'uniforme  d* Imperatore, e invece di spegnere la guerra  la conferma. Dopo i successi effìmeri dovuti alle  città che lo secondavano nelle prime discese, vin-  to dalla Lega Veronese dalla Lega Lombarda e  dalla fondazione d'Alessandria, accorda il dirit-  to alla guerra sanzionando nel trattato di Costan-  za le due leghe di Pavia e di Milano. La battaglia  di Legnano non è dunque una lotta repubblicana  e nazionale dei liberi comuni contro l'Imperatore  tedesco (1); ma una lotta fra le città romane gui-  date da Milano è le città militari guidate da Pa-  via, per ottenere dentro la gran giurisdizione del-  l'Impero la libertà della guerra.   La nuova rivoluzione, appena legalizzata dalla  duplice repubblica europea del Papa e ddl' Im-  peratore, si diffonde dappertutto dando ad ogni  nazione dei governi con missioni consolari : perfi-  no nella Chiesa, che assalita da ogni parte pren-  de al rovescio i suoi nemici colle creazioni conso-  lari dei cardinali, dei concili, dei nuovi ordini  francescani; e sostituisce la conquista vicina del-  l' Inquisizione alla conquista oltremarina della  Crociata, e la scolastica di S. Tomaso e S. Bo-  naventura all'indisciplina dei Francesi e dei cap-  puccini.   (i) Cfr. J« BRyCF. : lite Holy Roman Empire, London,  Macmillan, 1912 - png. 173. Non si dichiaraTano prìncipi repub-  blicani, né si faceva appello alla nazionalità italiana.     — 115 —  VII.   La terza grande rivoluzione italica prende no*  me dai Cittadini e Concittadini (1184-1250) e pa9-  sa per le fasi della guerra ai castelli (1184-1198)  e della guerra cittadina che provoca la creazione  del podestà (1198-1250).   La città consolare, la quale non è altro se non  un'oasi in mezzo alla foresta feudale del regno  che copre ancora tutta la campagna inceppando il  libero espandersi del commercio, una volta otte-  nuta la libertà della guerra riflette che le città ri-  vali sono troppo radicate alla terra, mentre i no-  bili della campagna si presentano come vittime  facili; e volta contro di loro l'impeto irresistibi-  le della sua espansione economica e politica. Le  città romane specialmente combattono con furore  contro la moltitudine dei feudatari che le accer-  chiano impedendo loro il respiro; e questa ulti-  ma rivoluzione che estende la libertà alle campa-  gne si presenta come la conclusione della gran  guerra contro il regno, distrutto nelle sue soprav-  vivenze campagnole dei castelli. Nella Bassa Ita-  lia, che funziona come un gran municipio, la guer-  ra ai castelli si confonde con la continuata guer-  ra municipale di Palermo contro gli antichi cen-  tri, ultimi nidi di feudatari di sangue longobardo  sognatori di sorpassate franchige aristocratiche.   La soluzione della prima fase, vittoriosa della  reazione, apre una nuova lotta. I castellani, na-  turalizzati e deportati per forza nel cuore della  città che loro impone l'odiosa legge dell'ugua-     — Ilo ^-   glianza, si vendicano costruendo delle fortezze in-  teme, armando i loro servi, conquistandosi coil'o-  ro la moltitudine che voltano contro il popolo —  e ricominciano un combattimento che come quel-  lo fra città e città non può finire ; perchè il denaro  è alle prese col denaro, la borsa colla borsa, la fi-  nanza colla finanza : i proprietari della terra (con-  cittadini) sono almeno forti come i possessori dei-  fabbriche (cittadini). La lotta fra il Papa e l'Im-  peratore si presenta ai cittadini e ai concittadini  per riassumere ed eternizzare il loro combatti-  mento: con la solita interversione d'alleanze i  cittadini dell'Alta Italia seguono il Papa, quelli  di Roma e delle Due Sicilie invocano l'Imperato-  re; al contrario i concittadini dell'Alta Italia se-  guono l'Imperatore, mentre quelli della Bassa I-  talia invocano il Papa contro Palermo.   I torbidi continui, le prese d'armi improvvise,  l'anarchia imperante, conducono alla creazione di  un nuovo governo : i consoli nella loro qualità di  capi dei cittadini come parti in causa non hanno  quell'autorità imparziale che possa giudicare i due  partiti, e lasciano il posto ad un nuovo magistrato  nel tempo stesso giudice e capitano, ad una spe-  cie di dittatore annuale che si chiama podestà.  Preso all'estero e quindi superiore ai partiti egli  stesso giudica e applica la sua legge con potere  discrezionarìo — ma spirato il suo mandato è  sottoposto a giudizio, e se trovato colpevole è con-  dannato a multe a prigonia e talvolta alla morte.   La reazione immancabile questa volta si sem-  plifica. Il Papa è il protettore delle città romane     — 117 —   del Nord, T Imperatore è lui stesso il gran pode-  stà delle Due Sicilie : la reazione imperlale non  opprime quindi che i sudditi diretti dell'Impero,  mentre la reazione pontificia non percuote che i  popoli della Chiesa. Federico II assale qua! con-  sole della Germania i podestà della Lombardia,  diventa capo dei concittadini delle città romane  e dei cittadini delle città militari; ma dentro al  laberinto incrociato delle inimicizie dualizzate si  trova impegnato in un combattimento a cui l'e-  quivalenza delle forze non permette nessuna so-  luzione — ed è costretto a riconoscere col fatta  della guerra interna la nuova rivoluzione. (Riv.  d'ItaUa — Voi. II, pag. 211):   Visto da lungi nella confusione del XIIl secolo,  Federico inganna gli storici col suo doppio prestigio  di console della Germania e di podestà delle Due Si-  cilie, e vien considerato come un essere onnipoten-^  te che avrebbe potuto fare Tltalia come voleva; e  la poesia, che segue le grandi figure della storia per  trasportarvi di pianta i suoi sogni i suoi disegni le  sue utopie le sue speranze o i suoi rimpianti, stende  silenziosamente il dito sul gran Federico, quasi ab-  bia seco perduto non si sa qual misterioso destino  d'Italia. Ma ha perduto le tradizioni solo dei Gebeli-  ni, condannati alla demenza delle reazioni impossi-  bili : il fatto della sua sconfitta non ammette né pen-  timenti né correzioni; egli resta qual'è nel suo tem-  po nel suo giorno nell'ora sua, simile all'uno dei mil-  le geroglifici che la stenografia della storia traccia con  la rapidità del lampo per un'eterna immobilità. Uti-  le al Mezzodì, l'ultimo degli Hohenstauffen non po-  teva né essere il podestà dell'alta Italia, né equilibrar  runa coll'altra le due regioni del Mezzodì e del  Nord, né reggere tutta la penisola con un potere di-     — ii8 —   screzionarìo e profressivo; le nozioni stesse di com-  pensi, di equità giudiziaria, di discrezione politica o  di despotismo beneflco erano anticipatamente elimi-  nate dal progresso dalla vita e dalle rivoluzioni del-  ritalia, che si svolgevano diverse variate affraziona-  te da cento stati contradittori, la cui suprema feli-  cità era di rovesciare il Papa o Tlmperatore. Il male  fatto a Firenze non era compensato dal bene fatto a  Lucca, un'umiliazione di Milano non toglievasi con  alcuna indennità concessa a Pavia... (1) Un pode-  stà unico regnante a Palermo a Roma ed a Milano;  un regno unitario improvvisato ed esteso a tutta la  penisola; una sola dominazione imposta d'un tratto  all'antico regno ed alla donazione, ai conti, ai mar-  chesi, ai cittadini, ai concittadini ed alla Santa Sede  sarebbe stata come una montagna sovrapposta a tut-  te le montagne, una devastazione inaudita di tutte le  libertà, una esagerazione iperbolica del regno dei  Longobardi, un cesariato neroniano che avrebbe d'un  tratto fermata e inaridita la civilizzazione dell'Occi-  dente. E come mai l'uomo che non poteva evitare la  sua sconfitta decretata dai secoli avrebbe potuto ri-  portare una simile vittoria? Dove avrebbe preso le  sue fòrze? I suoi stessi pensieri partivano dal bas-  so come la libertà generale... Al certo l'elevazione  non mancava a Federico; e fissando lo sguardo su  lui, a traverso i delitti della corona, lo spettacolo del-  l'Impero e la commedia estema delle pompe, si sco-  pre quell'irrefrenabile arditezza che si manifesta sem-  pre m tutte le epoche della storia ; nel momento del-  le grandi rivoluzioni, quando gli eroi nello spasimo   (i) Cfr. P. VlLLARi. L Italia da Carlo Magno alia morte di  Arrigo F/Z-MìUbo, HoepU* 1910 • pag. 363:... N*to in un  secoio di disordini e di contradiùoDi le quali spesso in Ini si  pCTSonJlicaroiM>, chiamato a Kovemare regioni cba come hi G^-  mania V lulia meridionale e U aellatttcieiiale avrebbero richiesto  una politica diversa un indirizzo qualche veka addiritura oppo-  sto, più volte egli disfece con una roano ciò che aveva costrui-  to con 1' altra.     — IIQ —   del dolore dimenticavano un istante di essere tribu-  ni re imperatori, per chiedere alla natura e agli  astri se può darsi un esito ragionevole alle pazzie  deirumanità. Egli si rivolge ai sapienti dell'Islami-  smo, per cercare delle verità che la sua religione gli  vieta di conquistare; li turba colle sue orgogliose in-  terrogazioni su Dio, sull'anima, sulla provvidenza,  sulla vita futura. Qualche volta, stomacato dalla fur-  beria dei miracoli cristiani, si direbbe che sogna un  califato d'occidente, col quale la ragione gli rende-  rebbe la metà del potere ceduto da Carlo Magno al-  la Chiesa. La tradizione profana lo segue appassio-  natamente e, guerreggiando con le calunnie cattoli-  che, gli attribuisce confusamente il pensiero di vo-  ler regnare quale podestà delle tre religioni che si  contendono la terra; essa gli fa dire che Mosè Ge-  sù Cristo e Maometto sono i tre grandi impostori  dell'umanità, che ingannano i mortali, che semina-  no sulla terra il furore delle crociate, che bisogna do-  marli e dominarli; e che ci dev'essere qualche cosa  ad essi superiore, non fosse altro un etemo sonno,  per calmare la ragione oltraggiata dai pontefici dagli  ebrei dai cristiani e dai musulmani. Porse, nel suo  disprezzo per i commedianti di Roma, nel suo amo-  re per i Romani e per i castellani minacciati dal fuo-  co della moltitudine e dell'inquisizione, pensava egli  ad una rivoluzione religiosa; nel mentre che nume-  rosi insensati si attendevano a vedere trasformato l'u-  niverso da un incanto che rovescerebbe la tirannia  imperiale. Ma nelle alte regioni del potere il libero  arbitrio del pensiero, che si fa strada in mezzo alle  più astratte possibilità, non serve che a rivelare di  rimbalzo tutta la forza della fatalità. Sciagurati i Ce-  sari che lottano coi pontefici! Essi sono obbligati di  parere ancora più religiosi degli altri; devono im-  porre il silenzio l'obbedienza la cecità, e farsi ipo-  criti impostori e persecutori di ogni filosofia; perchè  la moltitudine adora i suoi preti i suoi ierofanti i  suoi mistificatori, essa si nutre di favole di iperboli     — I20 —   di miracoli — questo è il suo pasto; e non sacrifi-  ca i suoi capi più assurdi se non agli uomini che le  promettono con maggior energia di continuarne gli  errori. Podestà occulto di tre religioni, Federico II-  gemeva sotto il peso occulto di una filosofia che lo  condannava a dissimulare il suo pensiero, a dirsi cat-  tolico, ad abbruciare gli eretici e a disprezzare Tu-  manità.   Viceversa nel regno delle Due Sicilie la reazio-  ne è guidata dal Papa, che come console dei con-  cittadini del Mezzodì assale con le armi della ri-  volta federale e della superstizione cattolica il suo  vassallo (1) Federico 11 supremo podestà, ma è  vinto nel momento stesso in cui trionfa nell'Alta  Italia. E la sua sconfitta si ripetè a Roma, che  organizzata a forma repubblicana lo obbliga a ce-  dere di fronte a Brancaleone dell' Andalo podestà  bolognese. La libertà della democrazia della sedi-  zione e delle battaglie si svolge in tutta l'Italia  proclamando il grande interregno, e si diffonde  per tutta l'Europa e anche nella Chiesa dove i  dottori combattono come cittadini e concittadini  prendendo al rovescio gli stati, finché il Papa di-  venta il giustiziere universale di tutte le dissiden-  ze presenti passate e future come un podestà mi-  triato.   Vili.   Ma nemmeno il podestà poteva durare sulla   (i) Il possesso del regno di Sicilia lo metteva nella falsa  posizione di un vassallo resistente al sno legittimo sovrano. — '  BRyCE : Iloly Roman Empire, pag. 208.     — 121 —   scena un tempo maggiore di quello concessogli  dal fato della rivoluzione^ la quale entrava nella  nuova fase dei Guelfi e Ghibellini che si divide  in periodo delle sette (1250-1280) e dei tiranni  (1280-1313), al momento in cui la guerra civile  straripava al disopra del governo pacificatore e  i combattenti disprezzavano gli ordini del pode-  stà. Chi sono questi furibondi che si scannano a  vicenda proprio adesso che il grande interregno li  libera alle lofo tendenze, permette ai Lombardi  di adorare il loro Papa, ai Meridionali di vene-  rare il loro Imperatore? Essi non derivano dal  Papa e dall'Imperatore (1) non sono altro che le  due sette dei cittadini e dei concittadini che rina-  scono con duplicato furore, per darsi delle sem-  pre nuove battaglie al seguito della quale una me-  tà degli abitanti deve prendere la via dell'esilio.  I cittadini delle città romane sono guelfi, all'oppo-  sto dei cittadini delle città militari di Roma e del  Regno delle Due Sicilie : i concittadini delle città  romane sono ghibellini, mentre quelli delle città  militari di Roma e del regno sono guelfi. Con u-  na guerra tutta sociale» figli di una stessa città,  essi combattono per conquistarla non per distrug-  gerla; riconoscendo per la prima volta l'unità i-     (i) Cfr. G. Volpe : Pisa, Firenze e Impero in Studi  storici. Pisa, 1902, pag. 182: I-e varie cagioni delle lotte inter-  ne ed esteme dei conìuni sono al di fuori di Papi e di Impera-  tori, e indipendenti dalle cagioni che questi aggiungono di pro-  prio quando si mescolano nelle gare dei comuni: quelle preeti-  stono a queste e sono le vere arbitre della storia d' Italia del  Medio Evo, a cui le due podestà servono pur illudendosi di co-  mandare.     — 122 —   deale della nazione si stringono in alleanza coi  settari del loro stesso colore, onde tutta la peni-  sola è corsa come dalla rete di una circolazione  di vene e di arterie moventisi a controsenso. Pa-  ri è la forza degli interessi, pari la forza delle i-  dee; la lotta adunque nel complesso della nazione  è eterna e senza soluzione come una antinomia  metafisica; ma prende possesso delle contradtzio-  ni della guerra municipale, secondo la legge che  dopo una minore o maggiore alternativa di espul-  sioni fa inclinare sempre la vittoria a favore dei  cittadini, del popolo : dei Guelfa quindi nelle cit-  tà romane, dei Ghibellini nelle città militari. Essa  allarga ancora la libertà nazionale dentro il patto  di Carlo Magno, istituisce un nuovo popolo più  numeroso dilatando la democrazia, e mira a crea-  re secondo il tipo ideale formatosi con la genera-  lizzazione delle sue due tendenze una nuova Chie-  sa democratica e un nuovo Impero legale.   Minacciato dalle due sette che fanno traballare  il suo ux)no, il Papa non può regnare a Roma se  non facendo un passo indietro per fermare la ri-  voluzione, chiamando Carlo d'Angiò alla conqui-  sta della Sicilia affinchè domini come un podestà  imparziale sulle sette italiane. Ma Carlo diventa  guelfo prima d'aver visto l'Italia e la reazione pa-  pale è sconfitta. Questo orribile sconvolgimento è  rivoluzionario, cioè benefico e liberatore : dirocca  innumerevoli castelli sfuggiti alla guerra consola-  re, estende la libertà alle arti ai mestieri alla  plebe, compensa il decadimento delle città milita-  ri col fiorire delle città romane arricchite dall'in-     — 123 —   dustria e dal commercio, rivela attraverso il colle-  gamento antitetico delle sette Tunità nazionale, e  dà due linguaggi due poesie due nuove religioni  all'Italia. Il francese, lingua guelfa adottata dal-  l'aristocrazia popolare delle città romane, bilancia  l'italiano coltivato dalla corte ghibellina di Fede-  rico II e di Manfredi, artificiosamente scelto dai  dialetti di tutte le città ; finché viene a trionfare la  nuova lingua guelfa della democrazia di Firenze.   Il periodo dei Guelfi e Ghibellini entra adesso  nella seconda fase dei tiranni (1280-1313). Il ti-  ranno è il capo di una delle due sette che gli con-  cedono un potere dispotico sacrificando la loro  libertà quasi feudale nell'interesse della vittoria :  esso compensa la violazione di tutli i diritti ac-  quisiti coi favori prodigati alla moltitudine e col-  la condotta vittoriosa della guerra estema, e per  la prima volta rappresenta la terra sotto una for-  ma individuale. Ma, capo di un partito destina-  to dall'equilibrio delle forze ad alternare te scon-  fitte con le vittorie, si avvia anch'egli ad una ca-  tastrofe certissima. Le città che non entrano nel-  l'era dei tiranni si contorcono nelle angosce del-  la guerra civile non ancora disciplinata imbriglia-  ta e mitigata, e in ritardo di una generazione nel  corso della civiltà sono sorpassate dalle rivali co-  me Firenze che rifiuta un tiranno guelfo in Gian  della Bella, o son costrette a ricorrere a tiranni  stranieri come Brescia o^ Piacenza fondate sul  tiranno di Napoli.   Bonihido Vili minaeciato tenta la reazione op-  ponendo la guerra pura e semplice all'ordine na-     — Ì24 —   sceme delle tirannie, per suscitare attraverso al-  la penisola un ondulazione guelfa che distrugga  le tirannie ghibelline ; e ricorre a Carlo di Valois.  Lo scaglia Contro la Sicilia ma uivano : in tutte le  città i Guelfi si trovano senza capi senza ripu-  tazione senza potere e disonorati dall'invettiva  immortale della Dmna Commedia.   Invocato da Ghibellini d'Italia arriva infine Ar-  rigo VII, che in ritardo come la sua patria di due  rìvduzioni non vuole essere nò guelfo né ghibel-  iino; e guida quindi una reazione opponendo ai  furori delle tirannie la pacificazione sorpassata del  podestà. Ma appena messo il piede sul suolo fa-  tale ditalia, come i suoi predessori vien preso  nell'ingranaggio politico delle inimicizie, costretto  a diventar ghibellino, e muore sconfitto e si di-  ce avvelenato dall'ostia guelfa dei monaci di Buon-  convento, dopo ruminazione di Roma e l'affron-  to di Roberto di Napoli. La rivoluzione dei ti-  ranni penetra infine nel patto di Carlo Magno col-  le teorie antitetiche di S. Tomaso e di Egidio Co-  lonna, di Tolomeo da Lucca e di Dante, che pro-  pongono come stato modello gli uni la tirannia  guelfa gli altri la tirannia ghibellina. La Divina  Commedia è la grande epopea della tirannia ghi-  bellina trasportata nell'universo soprannaturale,  dove Dio sostiene la parte del tiranno supremo;  Dante è il poeta del terrore, dell'odio, della rab-  bia, dell'esterminio sanzionato dalla necessità su^  prema di salvare il genere umano ; che da per tut-  to immola sacrifica consacra i Guelfi del suo tem-     — 125 —   pò ad una eterna infamia, pur accettando tutta la  democrazia guelfa del passato.   La rivoluzione vittoriosa si diffonde per tutta  l'Europa ; si riproduce nella Chiesa grazie a Bo-  nifacio Vili e ai suoi successori d'Avignone; pe-  netra nei conventi colle esplosioni guelfe e ghi-  belline dei domenicani tomisti e dei francescani  scottisti, nelle scuole coi realisti e nominalisti, e  perfino nell'altro mondo dove si vogliono scacciar  gli angeli dal cielo per ristabilirvi i demoni del-  l'inferno.     IX.     A un certo momento il tiranno s'accorge che  per regnare deve sfuggire alle ondulazioni guelfe  e ghibelline, stabilendo il regno dell'imparzialità  col disarmo colla corruzzione o con la distruzione  dei settari nobili e repubblicani, nell'interesse del-  l'agricoltura dell'industria e del commercio che  vogliono ora la pace. Il reggimento repubblica-  no già compromesso dai tiranni viene quindi abo-  lito dai Signori (1313-1402) che regnano da de-  spoti colla forza della intelligenza, sfuggendo di  traverso al Papato e all'Impero senza prenderli  mai di fronte; finiscono le guerre ai castelli e le  guerre municipali fin qui insolute, dando predo-  minio alle città progressive romane; si estendono  colla forza della necessità, migliorando la sorte  delle città conquistate trattate coll'imparzialità u-  sata verso le due sette; e sempliflcando la geogra-  fia delle due Italie, utilizzano ormai direttamen-     — 126 —   te il Papa nel Sud quasi guelfo e Tlmperatore nel  Nord quasi ghibellino (Avvento dei Signori : 1318-  1336).   Traviati derisi traditi dalla giurisprudenza che  dimostrava in qual modo si poteva vivere nello  stesso tempo nei due campi o passare sapiente-  mente da un campo all'altro; i Guelfi e i Ghibel-  lini non avevano altro mezzo che d'invocare ^  uni il tiranno d'Avignone gli altri il- gran tiranno  dell'Impero, per disfare con una reazione gene-  rale le nuove costruzioni delle signorie imparziali.   Ma la signoria definitivamente vittoriosa di tre  reazioni, una papale una imperiale e una combi-  nata, penetra nel patto di Carlomagno, mentre i  giureconsulti proclamano per la prima volta la so-  vranità popolare di ogni nazione astrazion fatta  dalla Chiesa e dall'Impero.   Nella seconda fase della Prosperità dei Signori  (1336-1378) a regno dei furfanti benefìci si pro-  paga in tutte le città : le terre più timide, i centri  più disgraziati, i villaggi più infelici vogliono cre-  arsi dei capi al di fuori dei vecchi partiti: ogni  città prende definitivamente il posto che le era  stato indicato dai vescovi durante la rivoluzione  del 1000: indi l'importanza di Milano, la petulan-  za di Verona, l'inferiorità della Toscana e del  Mezzodì.   La signoria di Milano era frattanto giunta a  tanta potenza cfie provocò per contraccolpo la  reazione di una federazione repubblicana pontifi-  cia e imperiale, in cui le città minacciate dalla vo-  racità dd Biscione si alleavano coi poteri retrogra-     — 127 —   di per difendersi. Ma Tltalia ben presto lasciava  a sé i suoi capi retrogradi e la reazione finiva col-  la catastrofe dell'Impero, sceso con Carlo IV al-  Timperdonabile bassezza di farsi mercante di di-  jplomi; e col gran scisma della Chiesa divisa fra  Urbano VII quasi ghibellino e Roberto di Savo-  ia, che coi loro vicendevoli anatemi liberavano la  ragione individuale dalle catene della religione.   La terza fase del periodo dei signori è domina-  ta dal dualismo fra Milano e Firenze (1378-1402).  Un nuovo progresso inalza Milano, dove per can-  cellare ogni rimembranza di atrocità tiranniche  Galeazzo tradisce Barnabò suo zio. L'ambizione  illumina i cronisti milanesi e suggerisce al Mussi  Tidea di sopprimere la dominazione temporale  della Chiesa per sottomettere T Italia all'unica si-  gnoria dei Visconti. Ma quest'idea trasforma la  signoria milanese benefica e rivoluzionaria lungo  il suo raggio legittimo in un flagello per il resto  della penisola, ed obbliga Firenze a difendere la  liberta le leggi le tradizioni e le federazioni dei  popoli italiani. Da quest'istante tutti i fenomeni  della nazione si spiegano col contrasto fra Milano  e Firenze, che si riflette nelle due rispettive scuo-  le dei cronisti. Ma la vera Italia si trova superio-  re al contrasto, rappresentata dal Petrarca da Bar-  tolo e da Boccaccio, che tradiscono il Medio Evo  a profitto dei moderni e impersonano l'empietà  del nuovo scisma: l'uno conciliando ogni contra-  dizione col suo classicismo accademico feroce so-  lo contro la Chiesa d'Avignone, l'altro liberando '  le nazioni dal gran patto papaie-imperiale per     — 128 —   mezzo della romanità, il terzo sepelleiido le im-  posture del Medio Evo sotto le risate della sua  novella federale. E* questo il momento in cui la  bisantina Venezia esiliatasi fin dall'era dei vesco-  vi toma nel sistema italiano. (Riv. d'Italia — Voi.  III. pag. 108):   ...Dimenticata fino dalla caduta del regno, appena  frammista qua e là alle battaglie lombarde e friula-  ne come una terra secondaria e affatto straniera, qua-  si sconosciuta al Papa e all'Imperatore non meno  che ai popoli e ai poeti d'Italia; si presenta d'un trat-  tò ancorata a Rialto, carica di prede di ricchezze di  simboli, simile ad una nave d'alta velatura che sa-  rebbe entrata nel porto durante la notte, di ritomo  da un lungo viaggio nelle regioni favolose d'Oriente.   La signoria si propaga in tutta l'Europa, dove  tutti gli stati capovolti dalla rivoluzione anteriore  riprendono il loro atteggiamento naturale; e la  Chiesa rinuncia alle lotte della scolastica fra i so-  stenitori dell'individuo e quelli del genere, per  diventare ciceroniana ed eclettica ad imitazione del  Petrarca.     Le conquiste sociali e politiche della signorìa  vengono adesso minacciate dalla Crisi militare  (1402-1494). I signori avevano composto i loro e-  serciti di mercenari per disarmare i Guelfi e i  Ghibellini e per tranquilizzare i cittadini tradizio-  nalmente antimilitari; ma poiché, affascinati dal     — 129 —   demone della conquista vogliono mantenere eser-  citi superiori alla loro potenzialità economica, fi-  niscono per fallire e per cadere in balia della ple-  be irritata e dei soldati insorti. La crisi si com-  pie in tre tempi : prima la plebe insorgendo con-  tro il flagello della miseria distrugge la signoria,  risuscitando le forme politiche sorpassate della  repubblica o della tirannia ; poi vedendo che quel-  la libertà la ripiomba nelle demenze del passato  accetta una nuova signoria, che limiti le sue am-  bizioni conquistatrici al raggio legittimo consen-  titole dai suoi mezzi finanziari. Il signore cosi  ritemprato da una nuova consacrazione plebea  si trova adesso di fronte al condotdere capo di  una signoria volante di soldati su d'un territorio  che non può sostenerli tutti e due, bisogna che  uno scompaia : ora è il condotdere che diventa  signore come Francesco Sforza, ora è la signorìa  che toglie di mezzo il condottiero come Venezia  fa del Carmagnola.   La garanzia dell'oro, l'unica che resiste ancora  in mezzo alla derisione universale di tutti i prin-  cipi, conserva tutto il lavorio dei secoli preceden-  ti : la federazione italiana si semplifica colla vitto-  rai dei gran centri romani sulle città militari e le  dualità invincibili; detronizzando diciassette dina-  stie e distruggendo diciassette indipendenze inuti-  li, uccise dai poveri e dai plebei secondo la gran  legge che da Carlomagno in poi sacrificava l'or-  goglio della nazionalità alle necessità della demo-  crazia, perchè la fame è superiore all'ambizione  delle monarchie e delle repubbliche. Indipendenti   A. Ferrari — Giuseppe Ferrari. •     — I30 — .   nel fatto dal Papa e dall* Imperatore le signorìe se-  colarizzate si uniscono nella cdebre lega del 1484,  in cui Milano Venezia Firenze Roma e Napoli, di-  chiarando di assoldare un condottiere a spese co-  muni, stabiliscono il principio di tutte le federa-  zioni : di formare uno stato solo contro al nemi-  co benché ogni stato resti distinto e sovrano nel  proprio territorio. Le reazioni di questo periodo  sono appena accennate e non servono che a con-  fermare la rivoluzione flnanziaria.   La quale si riflette nelle lettere, dove si ha pri-  ma la ricerca di tutti i valori, poi il rinascere del-  le opere originali con Lorenzo col Poliziano e col  Pulci, che malizioso come un signore liquida il  Papa e l'Imperatore senza contestare i principi del  Papato e dell'Impero. E penetra inflne nella  Chiesa la quale, assalita dalla ribellione federa-  le del Concilio di Costanza, si rigenera all'imi ta-  zione di tutti gli stati mostrandovi le scintille d'un  incendio universale di democrazia, che presto a-  vrebbe divorato tutti i re e i dottori protettori del-  la libertà e delle riforme; inventa la visione bea-  tificata mettendo d'accordo l'Apocalisse e il pur-  gatorio ; e fa adorare un Dio che vende le indul-  genze per rendersi visibile nei capolavori del-  l'arte.     XI.     L'Italia aveva fin qui squassato la face ideale  della rivoluzione; marciando alla testa della civU-  tà essa creava man mano le nuove forme politiche.     — l$\ —   che diffondeva per mezzo del Papa e dell impe-  ratore a tutte le nazioni d'Europa. Ma ecco che  durante il periodo della Decadenza dei Signori  (1494-1530) la civiltà trasporta i nuovi centri in-  cendiari in un'altra nazione (1); e la Francia chia-  mata da Ludovico il Moro straripa improvvisa-  mente con una espansione militare nellitalia, la  quale sorpresa da questo imprevedibile progres-  so è costretta a difendersi restaurando il Papato  e l'Impero che l'astuzia dei signori aveva quasi  esiliato, e resuscitando le forze indigene delle  sette guelfe e ghibelline che il tradimento dei si-  gnori aveva addormentato. Il meccanismo politico  cosi adesso si rovescia : prima era l'Italia che tra-  smetteva all'Europa l'impulso delle sue sempre  nuove forme politiche per mezzo dei poteri euro-  pei del Papa e dell'Imperatore; adesso è l'Euror  pa che, mossa da un'altra nazione, per mezzo del  Papa e dell'Imperatore trasmette il progresso al-  litalia (1494-1512). Succede un altro passo indie-  tro quando l'Italia è costretta a mettere il Papa e  l'Imperatore sotto la Spagna (1512-1530) per difen-  dersi dall'insurrezione germanica e federale di Lu-  tero contro le sue rivoluzioni, contro la sua ci-  viltà passata attaccata nel Papa ; che rappresenta-  va tutto il suo lavorio religioso, la sua suprema-  zia mondiale e che era pure uno dei due membri  della federazione europea da essa creata (Riv.  d'ItaUa — Voi. III, pag. 381) r   (i) Cfr. C. Balbo: Dciln stona d' Italia - Voi. I., pag.  297: Finiva V età del primato (qualunque fosse) d* Italia; ioco-  minciava quella dei primati occidentali di Spagna, poi Francia,  poi Inghilterra.     ~ 132 —   L'eresia che aveva serpeggiato nel Nord fra le due  patrie di Huss e di Wicleif reclamava anch'essa la  sua espansione; le regioni che avevano respinto il  giogo della centralizzazione dell'antica Roma si le-  vano con nuovi Arminii, per respingere con le for-  ze invisibili del pensiero l'unità pontifìcia che era  sottentrata all'unità conquistatrice dei Romani; i po-  poli la cui antica barbarie aveva imposto le sue fe-  derazioni nomadi ai Cesari, opponevano le nuove fe-  derazioni degli spiriti indipendenti ai demiurgo di  Roma e al Cesare guelfo dell'Austria. II Nord del-  l'Europa sorgeva dunque alla voce di Lutero; ed 0-  gni individuo, diventato libero nel fòro intemo del-  la propria coscienza, formulava cento gravami contro  la monarchia del . Pontefice e contro le rivoluzioni  d'Italia che l'avevano creata. Si sorgeva dunque con-  tro la prima rivoluzione, che in odio del re di Pavia  aveva divinizzato i preti i vescovi e il loro capo ; con-  tro il prestigio magico che essi avevano messo ne-  gli antichi simboli dell'eucaristia, della messa e del-  le reliquie a confusione dei barbari; contro la san-  tificazione dell'antica capitale con una gerarchia mi-  steriosa che aveva umiliate tutte le città regie; e  contro la superstizione incendiaria che aveva dato al-  l'ordalia, all'altare e all'acqua benedetta il potere di  sottrarre i delinquenti ai tribunali ed i popoli ai re.  Non si risparmiò poi alcuna delle creazioni di Car-  lo Magno : né la separazione dei due poteri ; né la  donazione che faceva della Chiesa una potenza poli-  tica; né la penitenza che metteva i suoi giudici al  di sopra di tutti i giudici, le sue sentenze al di sopra  di tutte le sentenze; né la liturgia che propagava il  culto col fascino dei canti, delle pitture, delle scul-  ture sconosciute alla Chiesa primitiva; né il purga-  torio che raddoppiava la distanza fra il cielo e l'in-  ferno, per far luogo agli incanti delle preghiere cle-  ricali; né in una parola il pontefice che arrivava al-  l'anno mille come un Dio fuori di Dio, vera ipostasi     — «33 —   della giustizia divina e proconsole di tutti i procon-  soli istituiti sotto il nome di primati. La devastazione  luterana si estendeva a tutte le rivoluzioni posteriori :  e proscrìveva dell'era dei vescovi il celibato dei  preti e tutte le riforme che fornivano armi  spirituali temporali ali* unità pontifìcia; dell* e>  ra dei consoli gli ordini mendicanti, le feste impo-  nenti, Tesaltazione dei cardinali, Timpostura regnan-  te e rimplacabile inquisizione; delfera delle due  sette i tomisti e gli scottasti, le ecceità, i flatus vocis,  le dotte puerilità che profanavano Dìo trasformando-  lo in tiranno or guelfo e ora ghibeilino; del tempo  dei signori il culto nell'atto stesso capriccioso, ma-  teriale, e abbandonato al despotismo della frase ai  periodi ciceroniani e al pennello di artisti sostituiti al-  rinsegnamento degli apostoli; del tempo della crisi  fìnalmente si assaliva il delitto che riassumeva tutti  i delitti e che consisteva nel vendere le preghiere le  assoluzioni le indulgenze le dispense tutto, per far  denaro con una religione già materiale, e per molti-  plicare cosi i capolavori che sostituivano ai miracoli  di Crìsto quelli delle nove Muse. Non si voleva più  ascoltare l'oracolo di Roma, le coscienze si rivoltavano  contro la sua religione, le intelligenze contro i suoi  dogmi, il pudore contro la sua morale. L'ira generale  denunciava il sacerdote giudice confessore inquisitore  funzionario e papista come un nemico del genere u-  mano. Si chiedeva di vivere in una chiesa dove, ogni  uomo diventato il proprio pontefice, la religione in-  catenata al senso letterale della Bibbia, tutto l'an-  damento divino ridotto alla stessa legalità di questo  documento primitivo - l'opera arbitraria delle rivolu-  zioni italiane sarebbe definitivamente abolita come una  epidemia satanica, e tutta la signoria di Roma ma-  ledetta come un sacrilegio commesso contro la li-  bertà del Vangelo. L'Italia non era mai stata più  violentemente oltraggiata : i Longobardi avevano ri-  spettato la civiltà romana, i Goti di Teodorico l'ave-     — 134 --   vano protetta — Lutero la fulminava; e se prima di  lui si era declamato contro la nuova Babilonia, le si  attribuivano adesso come delitti non solo i suoi vizi  e le sue virtù ma altresì la sua grandezza e magni-  ficenza.   Gli Italiani difendono dunque il Papa e 1* Impe-  ratore che rappresentano le loro rivoluzioni lega-  lizzate, e questi si mettono sotto la protezione del-  la Spagna per resistere al federalismo protestan-  te dei luterani; mentre i signori rinunziano alla  lega del 1484 che aveva congedato silenziosamen-  te il Papa e l'Imperatore, e la nazione rinnova  per un'ultima volta il patto di Carlo Magno col-  la Chiesa. La restaurazione di Cario V non era  una reazione: delle rivoluzioni italiane rispetta-  va nitto il lavorio geografico e sociale, ben diffe-  rente dalle reazioni anteriori che pretendevano  farlo ren*ogradare; essa venne quindi accettata.  Leone X riassume e sviluppa la grandezza dei  suoi predecessori, mentre gl'increduli del suo tem-  po si burlano della Chiesa e dell'Impero. — L'ar-  te e la scienza trasportano nel campo ideale la  rivoluzione di quell'epoca. L'Ariosto ne riBette  l'immagine nella sua poe^a dove nello stesso tem-  po deride ed ammira il Medio Evo, dove sono  ammessi all'onore dell'arte tutti i contrari della  politica e della religione ^uabnente ridicoli e ve-  nerabili, tutto il fantastico pagano e orientale non  meno rispettabile delle favole della Chiesa — e la  sua arte che rappresenta ancora oggi l'indole ita-  liana è imitata da tutta la letteratura. Il Machia-  velli può dirsi l'Ariosto in azione : volendo inse-     — 135 —   gnare le norme della politica rimane vuoto e a-  sirattOy mentre fonda la teorìa che determina le  leggi secondo cui si svolgono tutte le rivoluzioni  possibili. Cosi nella vita è malpratico improvido  senza importanza, ma la sua fama si estende len-  tamente colle rivoluzioni ulteriori contro il patto  di Carlo Magno colla Chiesa, man mano che l'u-  manità si svincola dalle credenze soprannaturali  e si basa sul razionale.     XII.     La nuova era politica della Rivoluzione prote-  stante (1517-1648) propagata dalla Germania con-  siste in un movimento che estende la fraternità  umana oln*e assai la benedizione del Papa e la  memoria di Roma e, conservando la distinzione  dei due poteri che aveva inaugurato il regno del  pensiero puro, la affida ad ogni individuo dive-  nuto papa di se stesso una volta in regola colle  leggi del suo stato. Essa si attua in forma oppo-  sta negli stati germanici e negli stati latini: nei  primi individuale legale federale distrugge il po-  tere di Roma confermando quello dei prìncipi;  nei secondi riforma le antiche dottrine della teo-  crazia romana, opponendo alla rìvoluzione prote-  stante la fraternità e la democrazia, le concentra-  zioni ispaniche e le centralizzazioni francesi. In  Italia produce il trìonfo degli stati ghibellini (Mi-  lano Genova Firenze Napoli) sui loro opponen-  ti guelfi e francesi d'alleanza, e il sacrificio dei  Ghibellini nella minoranza degli stati dove i Guel-     - 136 -   fi devon regnare (Venezia Savoia Roma). La ri-  volizione rinnova la letteratura col Tasso, il poe-  ta della tenerezza che celebra la grande impresa  cattolica della prima crociata; fonda la musica; e  ringiovanisce la Chiesa coi Gesuiti e colle teorie  della fraternità in opposizione alla libertà prote-  stante (1517-1573).   La riforma appena vittoriosa è assalita da una  reazione : cattolica e unitaria nei paesi protestanti,  protestante e federale nei paesi cattolici, essa non  fa che confermarla; sacrificando in Germania  Wallenstein e in Francia gli Ugonotti; negli stati  ghibeliini d'Italia i Guelfi francesi i Guisa i Vac-  chero, e negli stati guelfi i Ghibellini spagnoli  d'alleanza come i 500 cospiratori annegati da Ve-  nezia. La letteratura nazionale sta per soccombe-  re airinsurrezione dei dialetti; mentre che la ra-  gion di stato liquida senza parere la religione e  spegne il senso morale cogli scritti di mille me-  diocrità misteriose; e la filosofia dà Bruno  e T. Campanella : Tuno il martire del panteismo  che afferma Punita della materia e la pluralità dei  mondi; Taltro il rappresentante più grande dei-  Tutopia politica dei popoli latini esagerante al-  Tinfihito la fraternità l'unità e il despotismo, con-  tro l'utopia opposta che si svolge secondo Lutero  colla forza della libertà delle federazioni delle  leggi (1573-1648).   XIII.   Il nuovo periodo storico che va dal 1648 al     — «37 —   1789 e che si potrebbe definire del Despotisma  illuminato è guidato dalla Francia; la quale in-  segna a tutte le nazioni d'Europa l'indifferenza  religiosa che secolarizza lo stato, la semplificazio-  ne del governo colla distruzione dell'indipenden-  za quasi feudale d'una nobiltà costretta a moder-  nizzarsi, l'impostura e la libertà della ragion di  stato nell'interesse delle moltitudini. Esso si at-  tua in senso inverso negli stati monarchici e ne-  gli stati federali colla centralizzazione o colla le-  galità. In Italia la democratizzazione dell'aristo-  crazia viene diffusa negli stati ghibellini dall'Im-  pero d'Austria, nei guelfi dall' imitazione della  Francia. I politici della ragion di stato sospendo-  no le loro cicalate, i poeti dei dialetti cessano dal-  le loro divagazioni, e le pompe dell'opera tradu-  cono il secolo di Luigi XIV nella lingua univer-  sale della musica diffusa dall'Italia a tutta l'Eu-  ropa (Riv. d'Italia — Voi. Ili, pag. 575) :   ... La nazione mantiene ormai la 3ua supremazia  coirestatica inazione dei suoi cantanti. Non si affret-  tano mai : gli eroi si precipitano al combattimento  colla misura dell'andante, il nemico fugge senza po-  tersi staccare dalla scena dove l'incatenano i ritomel-  iì, le tenebrose sorprese si svolgono con cavatine i  cui accenti riempiono le più vaste sale, si danno le  pugnalate in battuta, le vittime cadono colle vibra-  zioni isocrone del trillo - e nessuno s'impazienta per-  chè rartista coll'arco alla mano ha abolite tutte le  leggi delle verosimiglianze.   Ma contro la secolarizzazione d'Europa abbia-  mo l'immancabile reazione (1714-1789) guidata     - 138 -   dal cardinale Alberoni, che cupido di riconquista-  re alla Spagna i domini di Carlo V aiuta in ogni  stato i vecchi partiti per distruggere il nuovo pro-  gresso. Ma il suo bieco disegno è distrutto in  Francia dagli uomini della reggenza e dai filoso-  fi delPenciclopedia, che diffondono in tutta l'Eu-  ropa le idee del despotismo illuminato, mentre la  Massoneria succede ai Gesuiti. In Italia l'Austria  prende l'iniziativa delle riforme, il Regno di Na-  poli diventa indipendente, il Piemonte si ricosti-  tuisce e si estende ; mentre le repubbliche riman-  gono indietro attardate dalla loro retrograda ari-  stocrazia. — La nazione rivela la sua grandezza  nella filosofia con Vico, il quale colle idee del de-  spotismo illuminato mette a livello tutte le società  e tutte le religioni; nella poesia con Metastasio il  più tenero nemico degli dei, e con l'Alfieri il tra-  gico poeta della guerra che vuole tutte le idee  alla altezza dei nuovi tempi {Riv. d'Italia — Voi.  Ili, pag. 595) :   Deliziosamente illusa da queste cantilene rimate  [di Metastasio] che svegliavano gli echi di tutti i  teatri d'Europa, la folla italiana fu un giorno sor-  presa e si direbbe intimorita da un nuovo spettacolo  che portava la sfida alle pompe asiatiche dell'orche-  stra. Senza musica, senza cori, senza strofe, senza  rime, Alfieri fece salire i suoi attori su d'una scena  squallida triste e nuda; e là quattro personaggi dalle  figure astratte, impegnati in una azione unica stincata  rapida, obbligata a giungere alla meta in ventiquat-  tr'ore coli'orologio alla mano con un cadavere in  terra e colla nuova moralità del vizio vittorioso e  della virtù sacrificata — questi miserabili mezzi a     — 139 —   controsenso di tutti i pregiudizi fecero Teffetto di un  drappello dì Spartani che fennassero Tannata di Ser-  se. Il melodramma ne ricevette uno smacco irrepa-  rabile, i suoi pomposi personaggi furono scompigliati,  i loro gemiti sospirosi si fermarono subito; nessun  poeta succedette a Metastasio; i maestri rimasero  soli con taluni poeti pagati, con libretti insignificanti,  con parole vuote di senso che si chiamano ancora in  oggi le parole — e la poesia lasciò per sempre le ri-  me effeminate, le pugnalate fantastiche, le virtiì ri-  dicolmente languide e i cantanti castrati delle cappel-  le principesche. Perchè Alfieri faceva finalmente vi-  brare la corda della guerra, sconosciuta a tutti i  drammaturghi dagli Arlecchini fino ai poeti cesarei.  Più nuovo di Dante, più moderno di Shakespeare, e-  gli inventava dei personaggi poetici per formarne dei  veri; nuovo Orfeo voleva destare la libertà nazio-  nale, che nella sua immobilità secolare non sapeva-  si ornai come intendere. I cicisbei impallidirono, lo  spasimante il patito il cavalier servente ed anche il  signor marito si sentirono ridicoli, le civette si mor-  sero le labbra, gli abbati si accigliarono, i patrizi dal-  le code impdverate si guardarono intomo, e i capi-  tani capirono che si poteva morire alla guerra. Il fuo-  co sacro di Parnaso rendeva la scena inviolabile al  cospetto del governo, la tragedia penetrava nei gabi-  netti, qualche volta esiliata dalle scene investiva il  lettore a casa sua — e i suoi spettri inattesi gli in-  timavano di spogliarsi del vecchio uomo, di levarsi,  di pensare...   XIV.   L'ultimo perìodo storìco, non ancor chiuso  quando il Ferrari scriveva, è quello della Rivolu-  zione francese (1789-1858). Il suo principio con-  siste nella divulgazione dei misteri del despoti-     — I40 —   sir.o illuminato per modo che il razionalismo libe-  ro pensatore trionfi presso tutti i popoli, neiristi-  mzione del codice che uguaglia politicamente tut-  ti i cittadini, nell'avvento della proprietà borghe-  se figlia dell'industria e del commercio. La rivo-  luzione francese ricorre alla forma repubblicana  antipatica alla nazione come a strumento di di-  struzione, finché Napoleone trasporta nella for-  ma tradizionale dell'assolutismo il contenuto nuo-  vo, l'ultimo progresso; e lo diffonde con le ar-  mi a nitta l'Europa dove l'esordio è quindi asso-  lutistico e la conclusione libera. Cosi la Germa-  nia dal despotismo della conquista napoleonica  necessaria per trasmetterle la rivoluzione torna al-  la sua federazione quasi repubblicana, alle specu-  lazioni astratte, aUa libertà della sua arte; 1 Au-  stria ritorna alla patema democrazia e alla bu-  rocrazia meccanicamente esatta; l'Inghilterra ave-  va già avuto nel suo territorio la esplosione che  creava gH Stati Uniti anticipando le idee della ri-  voluzione francese ; ma la Russia copia il progres-  so francese direttamente coli' assolutismo degli  Czar. L*ltalia si volge alla Francia per distruggere  Papato e Impero a Une di acquistare il nuovo pro-  gresso ; e ad una prima tenue succede una secon-  da più radicale trasformazione all'unitaria, Anche  conquistati i principi nuovi ritoma con lavorio  lento alla sua tradizionale federazione (1789-  1815).   Al solito la rivoluzione francese è assalita da  una reazione, che impone alla Francia la liber-  tà costituzionale della dinastia borbonica, e vice-     — 14» —   versa air Europa il despotismo; ma essa si avvi-  ticchia alle forme stesse della reazione per com-  batterla e sconfiggerla nel 1848, in Francia colla  repubblica che conduce al governo assoluto di Na-  poleone III, presso i suoi avversari col ristabili-  mento delle libertà costituzionali. In Italia abbia-  mo pure assolutismo al rovescio della Francia;  ma assolutismo che è costretto a diffondere il  contenuto della rivoluzione, a far riforme ammi-  nistrative, ad appellarsi alla moltitudine che ten-  ta di voltare contro i liberali. Però la nazione  volle scuotere questo odioso giogo dell'assoluti-  smo e alla rivoluzione di febbraio corrispose l'e-  splosione unitaria del Piemonte accettata per ri-  formare il Papa e l'Imperatore; finché la religio-  ne e la politica federalista si volsero contro Car-  lo Alberto, che trasformava la guerra di libertà -  in guerra di conquista interna non legittimata  nemmeno dalla vittoria napoleonica, e da Villa-  franca a Novara si distrusse un regno immagina-  rio a profitto della federazione italiana. Ma il pro-  gresso è richiesto tanto all'Austria costretta alle  riforme e bilanciata dalla Francia, quanto al Pa-  pato compromesso politicamente dalla doppia oc-  cupazione dei due imperi rivali. Tutti i governi  cedono ai principi deir89 per il rumore confuso  delle nuove idee che attaccano la proprietà. E dal-  la lotta fra la religione e la filosofia, fra i preti e  i tribuni scaturisce il progresso; secondo che gli  uni o gli altri, essendo detronizzati, trovansi nel-  la necessità di proporre una più vasta democrazia  per risalire al potere.     142   XV.     Il sunto a bella posta diffuso che noi abbiamo  steso tessendolo spesso di frasi e perìodi dell'au-  tore basterà a dare un'idea adeguata della impor-  tanza unica di quest'opera, in cui il Ferrarì di-  spiega netta la sua incomparabile grandezza di  storico. Per averne la misura paragonate la sua  storia d'Italia, non dirò con uno di quei manuali  in cui i fatti e i personaggi sono infilzati l'uno  dietro all'altro come una corona di nocciole, ma  anche coi libri di coloro che vanno per la maggio-  re fra i moderni : con la voluminosa storia poli-  tica d'Italia pubblicata dal Vallardi, o con la sto-  ria del Villari, che passa per il migliore dei no-  stri storici viventi, in corso di pubblicazione a-  desso presso Hoepli (1).   Anche per una persona di quelle cosidette col-  te che frequentano le società di lettura e fondano  le università popolari la storia, secondo l'idea che  ne ha portato dal liceo, è come una fantasmago-  ria irragionevole, che sarebbe comica se non stil-  lasse il sangue di innumerevoli vittime. II capric-  cio la pazzia il caso sembrano movere questi in-  numerevoli fantocci di un dramma senza processo  e senza scioglimento; dove si vedono degli indi-  vidui che si scannano senza ragione, delle na-  zioni che si combattono senza sapere il perchè,  delle invasioni barbariche piovute dal cielo, e so-  pratutto una incessante lotta intema dei popoli   {ì) Lf' /mvfsi'oni barba rù'hf, Milano, Hoepli, 1907; L' Ita^  Ita da Carlo Magno ad Arrigo VJJy id., 1910,     — 143 —   contro i governi che pare non proporsi mai uno  scopo, fatta per para cattiveria. Pur troppo mol-  ti manuali di storia sembrano scritti da gente che  la pensa cosi! Ma anche molti degli storici più  elevati, più scientifici diciamo, mancano del me-  todo interpretativo in una maniera impressionan-  te. La loro storia, costretta a rimanere attaccata  ai personaggi ufficiali per avere almeno una u-  nità apparente, è un seguito di biografie e di rac-  contini legati gli uni agli altri dalla meccanica  successione cronologica o da metafore vuote. A  quel modo che i letterati seguaci del cosi detto  metodo storico — che è per eccellenza il metodo  antistorico — credevano che la critica avesse e-  saurito il suo compito, una volta dimostrato che  la tal canzone del Petrarca era stata scritta nella  tale occasione per quel tal personaggio; cosi mol-  ti storici credono ancora che il lavoro della sto-  ria si limiti a mettere in sodo se un tal fatto più  o meno particolare è accaduto in quel dato mo-  do, se quella data istituzione politica era costitui-  ta così e non altrimenti. Ma come di fronte a  quei pseudo-letterati la critica afferma la necessi-  tà di completare e integrare il loro lavoro da pu-  ri manuali della letteratura con la ricostruzione  con l'interpretazione col giudizio; cosi contro que-  sta specie di positivismo storico non sarà mai ab-  bastanza forte affermato che la storia non deve  limitarsi alla descrizione estema dei fatti, ma li  deve interpretare spiegare resuscitare, collocare in  una lìnea di sviluppo per cui si veda sotto alle  apparenti fermate o alle parziali decadenze lo     — M4 —   sviluppo continuo e progressivo della civiltil u-  mana. Sta bene la ricerca del documento nuovo:  noi non proclamiamo affatto inutile questo lavoro  che è anzi la base necessaria su cui si deve svol-  gere il lavoro veramente storico, ma affermiamo  che il documento di per sé è inutile se non è u-  sato, che è muto se non vien fatto parlare, che  deve essere bruciato per rischiarare la storia; la  quale non è soltanto, la Dio grazia, scovamen-  to e pubblicazione della nota della lavandaia di  Alessandro Manzoni o degli avvisi di fiere del  comune di Simifonti, ma è narrazione dello svi-  luppo civile dell'umanità. Non basta raccontare  un fatto come è avvenuto; bisogna penetrare al  di sotto della sua superficie squallida o brillante  per ritrovarne l'intima ragione (1); bisogna i fat-  ti singoli sgranati collegarli colKunità d'un prin-  cipio che è il loro motore e la loro spiegazione;  bisogna il succedersi dei diversi principi, dei di-  versi sistemi sociali dimostrarlo dominato da una  legge di continuo sviluppo, di progresso continuo.   Or bene l'opera del Ferrari è un modello in-  comparabile di storia interpretativa, di storia cioè  vera.   Di più, il Ferrari è uno storico completo. La     (i) Cfr. T. B. Macaulay: History in Miscellaneous Wri-  iififTi — Longmans, Green and Co.. London, 1906, pag. 139 :  Nella invenzione sono dati i principi per tro%'are i fatti ,  nella storia sono dati i fatti per trovare ì principi; e lo scritto-  re che non sa spiegare i fenomeni ueualmente bene come li nar-  ra compie solo una metà del suo ufficio. I fatti sono semplice-  cernente la scoria della storia. È dall' astratta verità che li pe-  netra e sta latente fra essi come 1* oro nel minerale che la mas-  sa deriva tutto il suo valore.     — 145 —   Storia vera è la narrazione e interpretazione di  tutta l'attività umana, quindi non semplicemente  della politica ma anche della artistica e della fi-  losofica; perchè l'uomo è uno in nitte le sue mani-  festazioni. Lo storico completo deve dunque dimo-  strare come tutta l'attività umana di uno stesso pe-  riodo abbia unità di caratteri, come arte e filoso-  fia e politica siano tutte dominate da uno stesso  principio storico; questo, come abbiam visto, il  Ferrari fa; giudicando inoltre senza pregiudizi di  aorta l'arte dal puro punto di vista estetico, il  pensiero dal puro punto di vista filosofico.   Ma la sua dote migliore è quella di essere to-  talmente libero dai pregiudizi della morale miope  dei buoni padri di famiglia, che vorrebbero ridur-  re la storia a qualche cosa come un dramma a  fine morale, con l'obbligo del n*ionfo per perso-  naggi dotati di tutte le sette virtù cardinali e teo-  logali. Nulla di più noioso che gli scritti di certi  signori, perpetuamente scandalizzati di fronte al-  la vitalità umana potente nei vizi come nelle vir-  tù, perpetuamente predicanti contro le orge di  Nerone o le crudeltà della Rivoluzione francese,  ridotti alla disperazione di dover ricercare a  forza dentro i fatti ribelli il trionfo della loro mo-  ralità di scomunicare il 90% della storia. (La  Chine, pag. 14) :   ... Non c'è niente di meno storico che Io scopo  morale perseguito sì ostinatamente da certi storici, i  quali trasformano la storia in una specie di catechi-  smo. Essa al contrario ammette tutti gli scioglimenti :   A. Ferrari — Giuseppa Ferrari. 10     — 146 —   ora tragica, ora comica, a volta indulgente e crudele,  non si incarica di punire di ricompensare alcun e-  roe; e domanda senza fine dei tiranni dei condottieri  dei martiri degli stolti delle vittime. Perchè si vor-  rebbe qui ch'essa s'inchinasse davanti a un innocente,  là che s'irritasse contro un malvagio, e che si sosti-  tuisse a Dio per ricompensare gli uomini secondo il  loro merito; che fosse in una parola edificante per  le madri di famiglia e per i bambini poppanti!   Che l'arte debba essere giudicata da! puro pun-  to di vista artistico, la fliosofia dal fllosoflco, si è  finalmente cominciato a capire : pare che non si  sia invece capito ancora che, per intendere e  giudicare la storia, bisogna mettersi da un punto  di vista superiore a quello della propria moralità  individuale e contingente.   La storia è un tessuto di azioni pratiche, che  io posso quindi giudicare sia dal punto di vista eco-  nomico che dal punto di vista morale ; posso cioè  determinare se l'azione di quel dato individuo fu  prodotta puramente da fini individuali, da Ani  universali. Devo ad ogni modo ricordarmi bene  che la moralità è formale, che è morale quello  che l'uomo crede e sente morale; devo quindi ri-  nunziare alla mia rivelazione morale — come di-  rebbe il Ferrari — per rimettermi nei panni del-  l'individuo che pretendo sottomettere al mio tri-  bunale; e non portare le idee del secolo XX nel  secolo V avanti Cristo, e non giudicare il Valen-  tino coi criteri con cui si giudica un onesto im-  piegato municipale padre di numerosa prole.   Ma lo storico non deve limitarsi a mettere in     — 147 —   sodo se Gian Galeazzo Visconti tradì lo zio Bar-  nabò per pura libidine di regno o per beneflcare i  suoi popoli, liberandoli dall'ultimo vestigio della  tirannia a nome di una più completa imparzialità ;  anche nel caso del resto piuttosto raro in cui fa-  zione sia determinata dal solo interesse individua-  le, lo storico vero deve saperci discernere il bene,  quel bene che l'individuo non cerca e non cura  ma che il destino gli impone di compiere, e che  solo permette alla sua azione di essere e le dà un  senso. Cosi si viene veramente a dimostrare che  la storia è il trionfo della moralità, che non è  quella degli storici pudibondi; della moralità che  non esiste senza il vizio perchè appunto è lotta  contro il vizio; della moralità che si vale per i  suoi fini di tutti gli istinti, di tutte le passioni, di  tutte le colpe dell'uomo, condannato dal destino  ad essere sempre e dovunque angelo e bruto.   E veniamo ora a giudicare il valore della inter-  pretazione concreta.   XVI.   Pensate che ai tempi del Ferrari la piti impor-  tante storia d'Italia era il Sommario di C. Bal-  bo (1), il quale in fondo non è molto superiore  ad un manuale scolastico, come del resto ricono-  sceva l'autore stesso:   Finché non avremo un grande e vero corpo dì sto-  ria nazionale, da cui si faccia poi con più facilità   (i) Ediz. definitiva: Firenze, Le Monnier, iS^n,     — 148 —   ed esattezza uno di quei ristretti destinati ad andar  per le mani di tutti, o come si dice un manuale; k>  non so se mi ingannino le mie speranze di scrittore,  ma tal mi pare possa esser questo (1)   e dove lo sguardo dello storico è velato dal pre-  giudizio deirindipendenza. Con le Révolutions  d'ItaUe di E. Quinet (2) l'opera del Ferrari non  ha altro serio punto di contatto che l'identità del  titolo, del resto ormai classico (3). Se qualche va-  ga somiglianza di concezione ci si trova (l'Italia  spiega l'Europa — la sua lotta è per la libertà  non per l'indipendenza — Venezia è estranea al-  la vera Italia) si tratta di osservazioni ormai co-  muni fra gli storici, o già anticipate dal Ferrari  stesso nei suoi saggi sull'Italia anteriori al 1848  (4). Non parliamo degli storici anteriori di cui il  Ferrari stesso mette in luce nella prefazione al-  l'opera sua la deficenza interpretativa, per cui al-  cuni volevano spiegare l'Italia col principio del-  l'Impero (Dante, Mussato) e altri con quello del-  la Chiesa (Baronio, Rajnal, Fleury), alcuni ri-  durla sotto la forma politica dei principati (Guic-  ciardini) e altri sotto quella delle repubbliche (Si-  gjmondi).   Ma chi ha mai ancora oggi sessant'anni dopo  vistq con tanta giustezza e profondità, giudicato  da tanta altezza, narrato con tanta ala di poesia  e forza di rappresentazione la storia d'Italia?   (i) e. Balbo : Della storia tf Italia, — Bari, Laterza,  1913. Voi. I, pag. 6.   (2) Paris, Dagnerre, 1857.   (3) Cfr. Le Rri*oluziom d" Italia di C. Denina (1765).   (4) Cfr. D. LiOV: G, Ferrari ^ Torino, Pomba 1864, pag. 88.     — 149 —   Chi potrebbe oppugnare la scoperta da lui fat-  ta del ststema politico italiano impiantato sulla  gran repubblica papato-imperiale che ha fatto del-  l' Italia una nazione senza confini, perchè possa  diventare U centro d'Europa che irraggia le sue  continuamente nuove creazioni politiche a tutti  gli stati? Solo questa idea può dominare e spie-  gare coU'unità d'una legge la esuberante varietà  delle forme politiche che prende lo spirito italia-  no, scisso nelle due eteme antitesi dei Guelfi e  dei Ghibellini. E solo quando si parta dal concet-  to che gli Italiani lottano non per l'indipenden-  za che sottragga la nazione al patto papaie-im-  periale, ma per la libertà e per il progresso so-  ciale, non per distruggere ma per riformare la  repubblica dualizzata che è la loro franchigia ; di-  ventano intelligibili le innumerevoli battaglie che  ebbero il loro campo fra le Alpi e il mare. Non  contro il Papa e l'Imperatore che proteggono la  sua libertà dal pericolo d'un regno, che danno al-  la nazione la gloria di essere il centro politico di  tutta l'Europa, combattono i suoi Guelfi e i suoi  Ghibellini per conquistare il lustro vano di una  gretta indipendenza chiusa nei suoi confini; ma  per riformare il Papa e l'Imperatore e costrin-  gerli ad ammettere grado a grado nel loro patto  il progresso sociale delle nuove forme politiche  create dalla forza rivoluzionaria ddlitalia. Il po^  polo italiano è il gran protagonista che adopera i  Papi e gli Imperatori, imponendo loro le parti  che devono recitare sulla scena mobile ddla sto-     — I50 —   ria; che distrugge o chiama gii stranieri, sfrutta  tutte le invasioni, maneggia Francesi e Tedeschi  come strumenti per conquistare una sempre più  larga democrazia. Tutta la gran guerra delle ri-  voluzioni italiane si riduce, come per Vico la guer-  ra intema della repubblica romana, a un con-  trasto sociale del popolo con l'aristocrazia; che  diventa anche contrasto di razza perchè il po-  polo è italico e romano, l'aristocrazia è formata  dai Goti dai Longobardi dai Franchi da tutti gli  invasori e dai loro discendenti. Ltt gran guerra  contro il regno barbaro estemo dei Goti e Lon-  gobardi e contro il regno barbaro intemo dei Be-  rengarì e degli Arduini, la rivoluzione dei vescovi  contro i conti sono nello stesso tempo lotte di  classe e di razza; da una parte il popolo romano,  dall'altra i conquistatori barbari. E poiché i bar-  bari hanno piantato piò profonde radici nelle cit-  tà militari da essi colonizzate; la lotta fra le città  romane e le militari si classifica pure sotto que-  sta doppia antitesi; come la lotta ddle città con-  tro i CMtdH, dei Cittadini coatro i Coocttttdini,  dei GQdfi contro i GUbdliiii. Se non che man  mano che si procede nella fusione barbarica, la  lotta attenua il suo carattere di razza per accen-  tuare quello di classe; già ncUt guorra cqmm 1  castelli i feudatari combtttoti daDe città altari  barbare di tendenza si romanizzano facendo ami-  cizia colle città romane; cosicché nell'era seguen-  te noi vediamo la lotta incrociata in modo che  nelle città romane i Cittadini sono romani e i Con-  cittadini barbari, mentre nelle città militari è vice-     — 151 —   versa ; e nel periodo ancora successivo il popolo è  guelfo nelle città romane e ghibellino nelle milita-  ri. E siccome la vittoria è data all'elemento roma-  no e all'elemento popolare insieme uniti : noi ve-  diamo trionfare le grandi città dell'industria e del  commercio; e il progresso della democrazia va  di pari passo col risorgere dei grandi focolari del-  la civiltà romana; finché colla costituzione della  lega federale del 1484 il processo indigeno è com-  piuto e i nuovi progressi della democrazia vengo-  no dall'esterno, trasmessi a noi dal Papa e dal-  l'Impero per mezzo dei Guelfi e dei Ghibellini.  Chi ha mai saputo disegnare con tanta chiarezza  i lineamenti della storia italiana, decomposta cosi  nei suoi fattori e spiegata nelle sue leggi? Il si-  stema papaie-imperiale e la lotta non nazionale  ma democratica per riformarlo non per distrug-  gerlo, rimangono sempre le due idee che ci dan-  no la chiave della storia nostra.   Ma non meno giusta è l'interpretazione che il  Ferrari ci dà dei particolari periodi storici. Alcu-  ni periodi, come quelli dei vescovi, dei cittadmi  e concittadini, dei tiranni sono da lui addirittu-  ra scoperti; ma anche quegli altri che erano già  conoscenza acquisita di qual luce non vengono da  lui illuminati! Egli non usa le partizioni comuni  che hanno il difetto di abbracciare troppo tempo  e di sottomettere la nostra storia a un principio  straniero che mai ebbe fra noi cittadinanza e fu  sempre combattuto dall'espansione originaria no-  stra; per es. l'enorme periodo del feudalismo che  va da Carlo Magno ai Comuni è da lui decompo-     — 152 —   Sto nei due perìodi della lotta contro il regno bar-  baro intemo e dei vescovi. Chi meglio di lui ha  saputo spiegare la gran catastrofe dell* Impero ro-  mano, che percuote di spavento come un mira-  colo — dimostrando che fu rovesciato dai popo-  li irritati dalla sua fiscalità, i quali vollero piut-  tosto una invasione stabile che il continuamente  rìnnovantesi disastro delle invasioni maneggiate  dall'Impero? Chi ha meglio di lui spiegato la lot-  ta delle investiture, condotta non dal Papa e  dall'Imperatore, ma dai popoli italiani che si gio-  vavano dell'uno contro l'altro per modificarli a  vicenda, e costringerli a lasciar penetrare nd pat-  to di Carlo Magno la gran rivoluzione della li-  bera elezione dei vescovi? Chi meglio di lui ha  saputo ritrovare il filo del progresso logico in mez-  zo allo sconvolgimento vertiginoso della crisi mi-  litare ; chi ha meglio di lui definito il periodo del-  la decadenza dei signori come restaurazione pa-  paie-imperiale non conquista, perchè liberamente  invocata e accettata dai popoli che non si difendo-  dono nemmeno con una battaglia? Nella storia  moderna il Ferrari è un po' meno preciso e la  interpretazione in qualche punto è ancora sogget-  ta a completamento e a correzione — come egli  stesso fa piti tardi, quando trasporta dalla Fran-  cia all'Inghilterra il vanto di essere il centro d'ir-  radiazione politica deir Europa, e anticipa il pe-  riodo della Rivoluzione francese alla pace d'Aqui-  sgrana (1748).     — 153 —  XVII.   L'opera del Ferrari è in conclusione la messa  in valore degli Scrìptores rerum Italicarum del  Muratori, è la riabilitazione del Medio Evo; che  anche oggi è comunemente considerato dalla gen-  te cosi detta di cultura, la quale giudica coU'oc-  chio velato dal pregiudizio classicistico del Rina-  scimento, come un periodo di decadenza di bar-  barie di traviamento mistico. I romantici special-  mente stranieri nella loro nostalgia mistica e nel  loro orgoglio nazionale furono i primi a rivendi-  care il Medio Evo, però più dal punto di vista del  sentimento che della ragione, finendo col consi-  derarlo come un territorio di sogno dove la fan-  tasia urtata dalle volgarità del presente potesse ri-  coverarsi, in mezzo allo splendore magico di una  società fantastica in cui un cavaliere poteva col  suo valore conquistarsi un regno. Poi vennero i  cattolici che lo celebrarono come la loro età dei-  Toro ; il perìodo di trionfo delle loro idee; l'età  in cui tutta la terra, popolata di gente che passa-  va come pellegrina cogli occhi fissi al cielo, era  sottoposta all'alta sovranità del Papa, che poteva  imporre agli imperatori l'umiliazione di Canossa.  Questa è per es. la concezione di Gioberti che,  combinando col sentimento cattolico l'orgoglio na-  zionale, celebrò il Papato come la ragjone della  grandezza medievale d'Italia, dominante il mon-  do colla religione come una volta coll'armi (I).   (i) Del primato civile e moraU degli Italiani — Bniael-  Us, 1843.     — 154 —   Adesso per converso, dove lui vedeva la luce e  appunto per la stessa ragione la folla delle perso-  ne colte vede le tenebre; e il Medio Evo è anco-  ra per loro come un enorme deserto di schiavitù  di barbarie di abiezione mistica, in cui fioriscono  non si sa come le oasi dei liberi comuni a un cer-  to punto distrutte dal simoun delle signmie.   Nessuno ha saputo riabilitare con così alta giu-  stizia il Medio Evo come il Ferrari. Esso sfata  l'assurda leggenda della decadenza, dimostrando  come anche nei secoli più bui il progresso sociale  continui sotterraneo; come il popolo d'Italia non  sia mai stato schiavo ma abbia, o accettato libe-  ramente le invasioni perchè gli portavano un pro-  gresso sociale, o lottato contro i conquistatori co-  sì terrìbilmente da distruggerli; come egli solo  protagonista oscuro e possente abbia creato e at-  terrato Papi e Imperatori, invocandoli per distrug-  gere il regno o combattendoli per riformarli. Non  si tenti dunque di far passare per un popolo di  puri mistici questo che, anche nelle epoche più  teocratiche volto alla terra, si giovava della reli-  gione come di un'arma spirituale più terribile del-  le spade gotiche e delle aste longobarde, per raf-  frenare e dominare colla magia di tma supersti-  zione terribile gli enormi bestioni vellosi e trucu-  lenti dei barbari tremanti dinanzi all'invisibile Dio  dei Romani; che poi al tempo dei consoli, riget-  tando l'aiuto della Chiesa ormai inutile, si vol-  tava con una energia meravigliosa alle opere del-  l'industria e del commercio e diventava il banchie-  re dei re dell'Europa ,ritenendo la religione co-     — 155 —   me una tradizione da cui gli artisti potessero e-  vocare un popolo di capolavori — che passò nove  secoli in mezzo alle passioni forse più forti della  vita, quelle della politica, colla spada alla manp.  La decadenza poUtica comincia proprio nel perìo-  do del Rinascimento, quando la civiltà trasporta  altrove i suoi centri incendiari e V impulso vie-  ne dal di fuori. Ma decadenza sociale, civile non  c'è : come non c'è alia caduta dell'Impero roma-  no, come non c'è all'avvento delle signorie sopra  il comune: il gran processo sociale della demo-  crazia aliargantesi continua, anche se non origi-  nario proviene dall'Europa più avanti ormai nel-  la scala storica ; questo progresso sociale della de-  mocrazia si traduce in un continuo aumento di  potenza dei centri romani, delle città industriali e  commerciali. Non c'è salto come non c'è decaden-  za, non si può quindi accettare l'interpretazione  del Rinascimento come di un movimento che pren-  da a rovescio il Medio Evo, di cui è invece la con-  tinuità ideale; anche qui il Ferrari è confermato  dai resultati ultimi dell'investigazione particolare  dei nostri storici:   Si vede dunque come le radici dell 'Umanesimo  siano profondamente penetrate e ramiflcate nel ter-  reno dell'Italia comunale; come esso sia intimamen-  te moderno e nuovo, sia uno, come statua liberata  dal blocco di marmo. (1)     (i) G. Volpe : Bizantinismo e Rinascenza in Critica, —  Bari, Laterza, 1905. Pag. 74.     — 156 —  XVIII.   Ma il Ferrari non è solo un interpretatore ih  nico, è anche un artista di primissimo ordine, che  il buon Cantoni non si peritava di paragonare per  la sua potenza drammatica di rappresentazione a  Shakespeare :   D*uno sguardo psicologico acuto e profondo, d'u-  na mirabile facoltà di ridar vita movimento e colore  agli uomini e ai fatti della storia; egli aveva in ciò  le qualità più difficili che fanno i grandi drammatici,  e avrebbe potuto forse divenire il più grande dei no-  stri se un*altra tendenza più forte non lo avesse  spinto alla filosofia : la tendenza cioè precocissima in  lui ad ascendere ai principi assoluti, ai principi su-  premi ed etemi che regolano la vita degli individui  e delle nazioni (!)   Le abbondanti e frequenti citazioni bastano a  dare una idea della forza artistica con cui sa ca-  ratterizzare uomini e cose, descrivere città, rap-  presentare movimenti politici. Un periodo ampio;  una vivezza calda e mossa di rappresentazione;  un sottile humour tenue come il sorriso d*un uo-  mo superiore che compatisce alle debolezze uma-  ne, e nei tempo stesso un'accensione lirica una  foga d'entusiasmo che gii fa mettere in luce la  grandezza epica della storia in ogni minimo  fatto; la forza dell'immagini che, atteggian-  do come esseri viventi città e stati, vi si piantano  nel cervello senza abbandonarvi più; formano le     (:) G. Cantons: (/. Ferrar/, pag. 87.     — »57 —   doti di questo scrittore che avrebbe potuto anche  nel campo dell'arte pura lasciare un'orma immor-  tale. Con una fecondità versatilità profondità ve-  ramente shakespeariana egli ha saputo creare una  folla di personaggi e rappresentare una serie in-  numerevole di rivolgimenti senza mai ripetersi,  perchè sa colpire nella sua caratteristica la real-  tà che mai si ripete. Per avere un'idea della sua  forza drammatica leggete per esempio la narrazio-  ne della lotta di Milano contro il vescovo papista  Grossolano {Riv. d'Italia — Voi. I, pag. 395) e  delle imprese di Ezelìno da Romano (Voi. II,  pag. 278); per dare ancora un esempio della sua  vivezza rappresentativa eccovi la descrizione di  Genova che pare d'oggi (Voi. I, pag. 480) :   Genova è un magnifico anfiteatro gettato fra il  mare e la montagna, e tale che ì suoi abitanti non  possono fare un passo senza salire sulle rupi o senza  ondeggiare sull'acqua: sono montanari marittimi che  riuniscono tutti gli estremi della miseria e della mu-  nificenza. Nei loro viottoli stretti neri fangosi inac-  cessibili alle carrozze si rizzano immensi palazzi, che  disegnano le linee della loro abbagliante architettura  sulle case piccole e misere che li accerchiano da ogni  lato; le due riviere ci versano i loro marchesi, che  vi si incontrano alla ventura colia moltitudine cen-  ciosa dei marinai. Ad ogni rivoluzione la città on-  deggia dall'aristocrazia alla democrazia come una go-  letta di smisurata alberatura; e i suoi cronisti non  possono dissimulare l'ondulazione dei consoli, specie  di marea tumultuosa che monta a poco a poco fino  a insabbiare il potere del vescovo.   Superiore in questo al De Saiictis in cui il D'A-     - 158 -   nunzio poteva notare tante manchevolezze artisti-  che e stilistiche da presagire a torto la sua dimen-  ticanza, il Ferrari — anche dovesse la sua inter-  pretazione essere dimostrata falsa da una critica  superiore — rimarrebbe ancora immortale in que-  sto capolavoro, che continuerebbe ad essere let-  to come uno dei più bei romanzi storici d* Italia.   XIX.   Eppure con tanto valore artistico e storico que-  sta sua opera non ebbe fortuna, nò nella prima e-  dizione francese fatta per T Europa, né nella se-  conda edizione italiana. Quello che è il suo pre-  gio caratteristico fu appunto la causa del suo in-  successo*, la concezione filosofica cosi profonda  che era a base del suo lavoro di interpretazione  rese quest'opera inintelligibile in un periodo di  barbarie, in cui il positivismo dominante ottun-  deva tutte le menti : la sua altezza cosi serena di  giudizio Io fece trascurare da quegli uomini an-  cor tutti accesi delle passioni politiche dal cui coz-  zo usciva r Italia. Tipica a questo proposito è la  recensione larghissima di G. Rosa alla edizione  del 58; essa univa a qualcuna delle solite imman-  cabili osservazioni di dettaglio la critica di uno  che, irretito ancora nei pregiudizi comuni della  nazionalità e del liberalismo astratto, pare spa-  ventato che si possa refutare l'apologia dei Lon-  gobardi o giustificare l'azione dei Gesuiti; seb-  bene abbia una certa confusa sensazione che in  ciò consiste la grandezza del Ferrari :     — 159 —   Per questa altezza nuova, per Tindipendenza dalle  idee vecchie, per la vastità del concetto specialmente  noi facciamo plauso alla storia del Ferrari. Che se  non possiamo accettare tutte le di lui argomentazio-  ni, se anche tutte le di lui teorie non reggeranno al-  la prova della scienza storica progrediente; egli avrà  prestato prezioso servigio agli studi italiani, avrà e-  ducato a sollevarsi dalle angustie delle idee storiche,  dalle tradizioni tiranniche dei partiti nazionali e sco-  lastici. Per lui i giovani apprenderanno a contem-  plare la storia da un'altezza che la ragguaglia a quel-  la della civiltà, dove non giungono le ire delle pas-  sioni, dove il male parziale appare coordinato a più  vasto bene (1).     Gli accade in piccolo e in breve come a quel  Vico ch'egli venerava col nome di maestro: trop-  po alto per il suo tempo non venne compreso.  Anche coloro fra i moderni che citano questa sua  opera, come per es. il Romano (2) o il Gianani  (3), paiono non comprenderne affatto la terribile  profondità il metodo l'interpretazione — e somi-  gliano un po' a fanciulli che giochino colla cla-  va di Ercole. Solo uno straniero, che amò e stu-  diò ritalia, J. A. Sysmonds, autore di quella  Renaissance in Italy non meno importante del piiji  noto lavoro del Burkardt, ebbe l'esatta percezione  dell'importanza di questo libro. Infatti come nel-  la prefazione del I voi. (L'era dei tiranni) ricor-     (i) Archivio storico italiano, — Firenze, 1858. Nuova se-  rie, tomo 3, pag. III.   (2) Le Invasioni barbariche. — Milano, Vallardi.   (3) / Comuni, — Milano, Vallardi.     — i6o —   dava espressamente (1), nel cap. II {La storia ita-  liana) ne ripete con parole diverse e con qualche  ampliamento o dilucidazione tutte le grandi idee»  però da un punto di vista un pò* meno alto e non  del tutto superiore ai pregiudizi del senso comu-  ne, e nel seguito del volume non ne tiene molto  conto.   Nessuno tra gli storici moderni, tra cui ce ne  sono diversi molto meritevoli per ricerche parti-  colari, è riuscito a sollevarsi all'altezza del Fer-  rari che rimane ancora unico solitario gigante, per  darci un'interpretazione completa della storia d'I-  talia.   O meglio ci fu uno che tentò sebbene con for-  ze inferiori : Alfredo Oriani. Solo in mezzo a u-  na folla di positivisti che abbassavano arte e sto-  ria alla portata dei loro intelletti piccini, Oriani  ben comprese — e l'aveva appreso in gran par-  te dal Ferrari — come la storia sia interpretazio-  ne, spiegazione, visione dall'alto, resurrezione se-  condo la parola di Michelet (2). Non c'è bisogno  di abbassare l 'Oriani per innalzare il Ferrari : la  condotta poco delicata di quello verso quest'ulti-  mo, rammentato con citazioni che nascondono più  che rivelare la derivazione, non deve indurci a  negare il valore storico all'autore della Lotta pò-     (i) J. A. Sysmonds: // Rinascinunto in Italia; Cera dei  tiranni (vcrs. it,). — Torino, Roux e Viarciigo, 1900, pag. XX:  Debbo anche manife&tare speciale gratitudine al Ferrari, del  quale ho fatto miei non pochi {^iudirj nel capitolo sulla storia  italiana scrìtto per la seconda edizione di questo volume,   (2) A. Oriani: Fino a Dogali, - Bologna, Gherardi, 19 1 2  — Pag. 168.     — i6i —   litica. Esso fu il solo degno continuatore di Fer-  rari; continuatore in quanto non propriamente  storico del Medio Evo — i libri I e II della Lotta  politica come è stato dimostrato (1) non sono al-  tro se non un riassunto spesso colle stesse parole  dal suo gran predecessore — ma storico del Ri-  sorgimento italiano. Ad ogni modo, per quanto  sia runico che possa tentare la prova del parago-  ne, Oriani soccombe; come storico per l'inegua-  glianza deirinterpretazione ora indovinata ora su-  perficiale, come artista per la non rada enfatica  esagerazione romagnola inferiore alla potente pre-  cisione lombarda. Oriani si trova inoltre in una  posizione sentimentale un po' meno adatta che  non quella del Ferrari. In questo il senso del su-  blime storico e l'entusiasmo di fronte alla gran-  dezza va accompagnato a una calma serena, a  una specie di fine bonario umorismo che sa tro-  vare l'uomo magari contro il suo volere benefi-  co anche sotto i cenci del mascalzone. Oriani ha  della storia solo il senso tragico; brontola un po'  troppo; troppo spesso va in collera col passato;  non sa mantenersi cabno davanti agli errori dei  suoi personaggi, errori spesso imposti dalla storia  che qualche volta egli vorrebbe correggere. Que-  sti difetti sono più sensibili nei due primi libri  per mancanza di quella conoscenza diretta che è  necessaria alla storia. Dopo si va avanti meglio,  ma anche qui c'è da notare un po' di semplici-  smo e astrattismo, più nelle forme che nel con-     ci) l. Ambrosini : La lotta politica di A, Oriani nella  Voce, 1908, Num. 17, 18, 19.   A. Prrrari — Oimeppe Ferrari, 11     — 102 ^   cetto. Per es. egli dà come ragione dello scacco  delta rivoluzione del 48 la sua forma federale,  mentre poi nell'esposizione fa vedere come fu l'e-  quivoco del popolo e il tradimento dei prìncipi.  Ragionando a questa maniera vedrebbe più giu-  sto il Ferrari che pensa precisamente l'opposto.  Certo qualche po' delle lodi che danno all'Òrìani  storico i crìdci moderni, il Croce (1) e il Borgfte- ^  se (2), spetta di diritto al Ferrari, di cui sono tre  fra le immagini che quello cita per dare un esem-  pio della forza rappresentativa del suo autore  (Venezia — I Condottieri — Silvio Pellico).   Concludiamo. Sare6be un'impossibile pretesa  l'affermare che l'opera del Ferrari sia definitiva,  perchè nulla c'è al mondo di definitivo, né la vi-  ta né la filosofia né l'interpretazione storica. Ma  come una filosofia è viva finché non è sorpassata  e inverata, così una storia. Orbene — prima di  buttare il libro del Ferrari fra le anticaglie — bi-  sogna averlo sorpassato, e finora nessuno non so-  lo non Tha superato ma non si è nemmeno solle-  vato al suo livello. Noi consigliamo quindi a stu-  diarlo: primo per imparare il metodo di Inter*  pretare la storia ; secondo per meditare la sua in-  terpretazione concreta, anche oggi tanto vera che  1 moderni studi particolari la confermano invece  di distruggerla. E non solo in Italia, ma in tutta  l'Europa il Ferrari merita un posto a parte su*  periore ai più famosi : al Macaulay al Mommsen  al Taine, per la stessa ragione che rende il De   (ì) La Critica^ genn. i<)og.   (2) La vita e il libro. Parte I. — Torino, Bocca* 1911.     - 163 —   Sanctis superiore a tutti i critici della letteratura^  per il senso filosofico che gli diresse la potenza  interpretativa a risultati così grandi. Per racchiu-  dere in una frase il resultato di queste mie osser-  vazioni, Ferrari è il De Sanctis della storia poli-  tica, lo storico dell'Italia medievale. Noi non esi-  tiamo a considerarlo come il più gran rappresen-  tante della storiografia romantica (1), sorpassato  nelle sue fisime di filosofo della storia, ma ancor  degno come storico concreto di essere il gran  maestro della nostra generazione. Grice: “I use revolution occasionally – minor ones! --. Grice: “Mussolini kept saying that Ferrari was talking of ‘rivoluzione fascista’ – Garibaldi hardly used ‘rivoluzione’! Grice: “Nothing pleased Mussolini more than the collocation ‘rivoluzione fascista’ – almost as much as Washington did ‘American revolution’, and Cromwell, ‘The Glorious Revolution’!” -- Giuseppe Ferrari. Giuseppe Michele Giovanni Francesco Ferrari. Ferrari. Keywords: FILOSOFIA della RIVOLVZIONE, A. Ferrari on ‘storia d’Italia’ – i rivoluzionarii italiani – Vico, Domenico Romagnosi. L’uso del termine ‘rivoluzione’ nella storia italiana – la rivoluzione dell’unificazione, la rivoluzione fascista – il risorgimento dell’unita hardly qualifies as a revolution.  Refs.: Luigi Speranza, "Grice e Ferrari," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51762131860/in/dateposted-public/

 

Grice e Ferrari – l’anarchici di Mussolini -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Arcola). Filosofo. Grice: “I like Ferrari; he was a philosopher AND a poet – a combo we don’t find too often at Oxford!” --  Ferrari (alias Novatore) Renzo Novatore  «Oggi cerco un'ora sola di furibonda anarchia e per quell'ora darei tutti i miei sogni, tutti i miei amori, tutta la mia vita.»  Refrattario a ogni disciplina fin da giovanissimo, frequenta la scuola soltanto per alcuni mesi prima di abbandonarla definitivamente ed essere costretto dal padre a lavorare nei campi. Il suo profondo desiderio di conoscenza, unito ad una notevole forza di volontà, lo spinse però ad un personalissimo studio da autodidatta che lo portò a leggere Stirner, Nietzsche, Palante, Wilde, Ibsen, Schopenhauer, Baudelaire.  Non rinunciò comunque ad elaborare una visione autonoma, che costruì giorno dopo giorno, come ricorda il suo amico Auro D'Arcola, attraverso una costante attività meditativa.  Si sposa con Emma Rolla e con lei ebbe tre figli, uno dei quali morto in tenera età. Gli altri due, Renzo e Stelio, proseguirono sulle orme paterne una personalissima riflessione esistenzialista che svilupparono nell'ambito della produzione artistica e letteraria. Questo nonostante fosse contrario alla famiglia tradizionale e alla visione idealizzata della donna: «O ciniche prostitute, o espropriatrici audaci, ergetevi sopra la putredine ove il mondo sta immerso e fatelo impallidire sotto la luce perversa dei vostri grandi occhi profondi. Voi siete il sole più bello che oggi il sole bacia. Voi siete di un'altra razza. E l'anima vostra è un canto, un sogno la vostra vita. Scardinate il mondo o libere prostitute, o espropriatrici audaci. Io canterò per voi. Il resto è fango!”  (Le mie sentenze) L'anarchico disertore La prima volta in cui le cronache s'interessarono di lui fu nel 1910, quando un incendio distrusse la chiesa della Madonna degli Angeli nella notte tra il 15 e il 16 maggio: le indagini dei regi carabinieri portarono infatti a identificare i responsabili del gesto in un gruppo di giovani anarchici del posto, tra i quali anche Abele Ferrari.  Contrario alla guerra, nel 1915 venne richiamato sotto le armi ma si rese irreperibile. Venne dunque imputato di diserzione e condannato in contumacia alla pena di morte. Sarà poi arrestato e scarcerato in seguito ad amnistia.  “E le rane partirono... Partirono verso il regno della suprema viltà umana. Partirono verso il fango di tutte le trincee. Partirono.... E la morte venne! Venne ebbra di sangue e danzò macabramente sul mondo. Danzò con piedi di folgore... Danzò e rise... Rise e danzò... Per cinque lunghi anni. Ah, Come è volgare la morte che danza senza avere sul dorso le ali di un'idea... Che cosa idiota morire senza sapere il perché.” (Dal poema Verso il nulla creatore) Anarchico individualista, assunto lo pseudonimo di Renzo Novatore, fu protagonista con i suoi compagni Dante Carnesecchi e Tintino Persio Rasi di alcuni dei più importanti episodi della lotta operaia del biennio rosso nella Provincia della Spezia: episodi la cui importanza non si comprende se non tenendo conto che allora La Spezia era una delle più importanti roccaforti militari italiane, circondata da una serie di forti e polveriere che ne dominavano il golfo, e caratterizzata dalla presenza di un arsenale militare e di alcune delle più importanti industrie belliche. In quel periodo molti lavoratori anelavano a "fare come in Russia", tanto che era in molti anarchici, come Errico Malatesta, la convinzione che la rivoluzione fosse dietro l'angolo e bastasse dare solo una spallata decisa.  L'antifascismo e la morte Coerente fino alla fine nella prima lotta al nascente fascismo, entrò nel mirino delle camicie nere, coadiuvate dalla polizia di Stato, e dovette fuggire per garantirsi l'incolumità; per sopravvivere si unì al bandito piemontese Sante Pollastri che era noto anche per proteggere e finanziare gli anarchici con la sua banda di rapinatori, data la simpatia politica che aveva per loro e il suo odio per il fascismo. Qualche tempo dopo la banda di Pollastri rapinò un importante cassiere di una banca, che portava una borsa piena d'oro: durante la colluttazione il ragionier Achille Casalegno venne colpito da un proiettile e morì; sebbene probabilmente fu Pollastri, che aveva già diversi omicidi di poliziotti e fascisti alle spalle, ad esplodere il colpo, al processo del 1931 costui avrebbe accusato il defunto Novatore.  Le forze dell'ordine, su incarico del governo Mussolini, intensificarono la caccia alla banda Pollastri. Un mezzogiorno, il maresciallo Lupano e i carabinieri Corbella e Marchetti entrarono in abiti civili nell'Osteria della Salute di Teglia, nel genovese, perché avevano individuato Pollastro ed intendevano arrestarlo. Novatore era seduto accanto al celebre bandito e ad un altro componente del gruppo, e probabilmente fu proprio lui il primo a sparare sui carabinieri, scatenando la risposta di quest'ultimi. Nello scontro a fuoco rimasero uccisi il maresciallo Lupano e un amico del bandito, il cui corpo crivellato di colpi si rivelò essere quello dell'anarchico Abele Ricieri Ferrari, noto come Renzo Novatore, ricercato per attività sovversiva e antifascismo, mentre Pollastri e l'altro compagno riuscirono a scappare. Novatore, al momento della morte, aveva con sé una pistola Browning, due caricatori di riserva, una bomba a mano ed un anello con spazio nascosto contenente una dose letale di cianuro, per suicidarsi se fosse caduto vivo nelle mani dei fascisti, oltre ad un documento falso recante il nome di Giovanni Governato.  Si define anarchico individualista. Lotta per la libertà e per i diritti delle masse, ma era anche sicuro, dopo il fallimento delle insurrezioni del 1919, che non si potesse fare affidamento sul popolo:  «Le masse che sembrano adoratrici di Errico Malatesta sono vili e impotenti. Il governo e la borghesia lo sanno e sogghignano.»  «Io so, noi sappiamo, che cento uominidegni di questo nomepotrebbero fare quello che cinquecentomila "organizzati" incoscienti non sono e non saranno mai capaci di fare.»  Il suo pensiero nichilista, anticlericale, anarchico e iconoclasta si caratterizzava soprattutto per il fortissimo individualismo, un individualismo fine a sé stesso che lo pose spesso in conflitto con altri membri del movimento anarchico di quegli anni, come Camillo Berneri (di ispirazione anarco-comunista).  «L'individualismo com'io lo sento, lo comprendo e lo intendo, non ha per fine né il Socialismo, né il Comunismo, né l'Umanità. L'individualismo ha per fine sé stesso.»  (Dallo scritto Il mio individualismo iconoclasta in Iconoclasta!) «L'anarchia è per me un mezzo per giungere alla realizzazione dell'individuo; e non l'individuo un mezzo per la realizzazione di quella. Se così fosse anche l'anarchia sarebbe un fantasma. Se i deboli sognano l'anarchia per un fine sociale; i forti praticano l'anarchia come un mezzo d'individuazione.»  «Nella vita io cerco la gioia dello spirito e la lussuriosa voluttà dell'istinto. E non m'importa sapere se queste abbiano le loro radici perverse entro la caverna del bene o entro i vorticosi abissi del male. Nessun avvenire e nessuna umanità, nessun comunismo e nessuna anarchia valgono il sacrificio della mia vita. Dal giorno che mi sono scoperto ho considerato me stesso come meta suprema.»  Rimaneva salda nel suo pensiero la convinzione che agire e schierarsi fosse una necessità irrinunciabile tanto che di lui si disse che scriveva come un angelo, combatteva come un demonio.  Su di lui restò sempre fortissima l'ispirazione di Max Stirner e di Nietzsche.  Opere scritte Le opere e il ricordo del Novatore sono state in gran parte distrutte dal regime fascista e sostanzialmente a lungo dimenticate anche da alcune parti del movimento anarchico.  Le sue firme compaiono con molti pseudonimi diversi (oltre al già citato "Renzo Novatore", anche "Mario Ferrento", "Andrea Del Ferro", "Sibilla Vane", "Brunetta l'Incendiaria") su svariate pubblicazioni anarchiche dell'epoca, tra cui Il Libertario (pubblicato a La Spezia), Gli Scamiciati (Pegli), Cronaca Libertaria (Milano), Il Proletario (Pontremoli), Pagine Libertarie, Iconoclasta! (Pistoia), L'Avvenire Anarchico, Vertice (La Spezia), Nichilismo, L'Adunata dei Refrattari (New York) e Veglia (Parigi).  Da ricordare inoltre due libri di pubblicazione postuma: "Verso il nulla creatore" e "Al di sopra dell'arco".  Libri ed opuscoli  Renzo Novatore, prefazione de Il figlio dell'Etna, Verso il nulla creatore, Siracusa, "Figli dell'Etna", Renzo Novatore, prefazione biografica di Auro d'Arcola, appendice di Totò Di Mauro, illustrazioni di G. Scaccia, Al di sopra dell'arco, Siracusa, "Figli dell'Etna", Renzo Novatore, prefazioni di Virginio De Martin e Il figlio dell'Etna, Verso il nulla creatore, New York, Renzo Novatore, prefazione di Auro d'Arcola, Il mio individualismo iconoclasta, Firenze, Pistoia, Albatros, Renzo Novatore, Camillo da Lodi [Camillo Berneri], Mario Senigallesi, Polemica, Firenze, Pistoia, Albatros, Renzo Novatore, prefazioni di Totò Di Mauro, Tito Eschini e Lato Latini, illustrazioni di G. Scaccia, Al di sopra dell'arco, Firenze, Pistoia, Albatros, Renzo Novatore, prefazione biografica di Auro d'Arcola, appendice di Totò Di Mauro, illustrazioni di G. Scaccia, Al di sopra dell'arco, Torino, Reprint Assandri, “Verso il nulla creatore, Catania, Centrolibri, RAlberto Ciampi, Un fiore selvaggio. Scritti scelti e note biografiche, Pisa, BFS Edizioni, Renzo Novatore, Toward the Creative Nothing, Portland, Venomous Butterfly Publications, Renzo Novatore, introduzione di Alfredo M. Bonanno, Verso il nulla creatore, Trieste, Edizioni Anarchismo. Renzo Novatore, Novatore, Ardent Press,. Renzo Novatore, Le rose, dove sono le rose?, Gratis Edizioni,. Renzo Novatore, Flores silvestres, Lisbona, Textos Subterraneos. Novatore: una biografia Archiviato iRenzo NovatoreAnarchopedia, su ita.anarchopedia.org. dal personaggio di Sybil Vane, presente nel romanzo Il ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde  Maurizio Antonioli (diretto da), Dizionario biografico degli anarchici italiani, Biblioteca Franco Serantini, Massimo Novelli, La furibonda anarchia. Renzo Novatore poeta, Bra (CN), Araba Fenice, Scritti, citazioni e aforismi di Renzo Novatore Archivio di testi di Renzo Novatore. Wikipedia Ricerca Anarchismo filosofia politica Lingua Segui Modifica L'anarchismo è definito come la filosofia politicaapplicata[1] o il metodo di lotta alla base dei movimenti libertari volti fattualmente già dal XIX secolo al raggiungimento dell'anarchia come organizzazionesocietaria, teorizzante che lo Stato sia indesiderabile, non necessario e dannoso[2][3][4][5][6][7] o in alternativa come la filosofia politica che si oppone all'autorità o all'organizzazione gerarchica nello svolgimento delle relazioni umane.[8][9][10][11][12][13]   La A cerchiata, il più celebre simbolo anarchico I fautori dell'anarchismo, noti come anarchici, propongono società senza Stato basate sulle associazioni volontarie[14][15] e non gerarchiche.[8][16][17] Il termine inteso in senso politico venne inizialmente utilizzato dal girondino Jacques Pierre Brissot nel 1793, definendo negativamente la corrente politica degli enragés o arrabbiati, gruppo rivoluzionario radicale critico di ogni forma d'autorità. Nel 1840 con Pierre-Joseph Proudhon e il suo saggio Che cos'è la proprietà? (Qu'est-ce que la propriété ?) i termini anarchia e anarchismo assumeranno una connotazione positiva.  Ci sono alcune tradizioni di anarchismo e sulla base della storia del movimento transitata attraverso il dibattito fine-ottocentesco dell'anarchismo senza aggettivi. Le scuole di pensiero anarchico possono differire tra loro anche in modo sostanziale, spaziando dall'individualismo estremo al totale collettivismo.[7] Le tipologie di anarchismo sono state suddivise in due categorie, ovvero anarchismo sociale e anarchismo individualista, tuttavia compaiono anche altre suddivisioni basate comunque su classificazioni dualiste simili.[18][19][20]  L'anarchismo in quanto movimento sociale ha registrato regolarmente fluttuazioni di popolarità. La tendenza centrale dell'anarchismo a coniugarsi come movimento sociale di massa si è avuta con l'anarco-comunismo e con l'anarco-sindacalismo mentre l'anarco-individualismo è principalmente un fenomeno letterario,[21] che tuttavia ha avuto un impatto sulle correnti più grandi.[22] La maggior parte degli anarchici sostiene l'autodifesa o la nonviolenza(anarco-pacifismo)[23][24] mentre alcuni anarchici hanno approvato l'uso di alcune misure coercitive, tra le quali la rivoluzione violenta e il terrorismo, per ottenere la società anarchica.[25]  Noam Chomsky descrive l'anarchismo, insieme al marxismo libertario, come "l'ala libertaria del socialismo".[26]  PremessaModifica Come padre fondatore del pensiero anarchico in senso moderno, troviamo William Godwin, politico e filosofo britannico, che, con le sue riflessioni sulla caduta della Rivoluzione francese nella dittatura giacobina, precorrerà e ispirerà il pensiero anarchico dominante del XIX secolo. Abitualmente comunque ci si riferisce a Pierre-Joseph Proudhon, Michail Bakunin, Pëtr Kropotkin e Johann Kaspar Schmidt, alias Max Stirner, come ai quattro principali teorici di questa corrente di pensiero.[27] Per quanto riguarda Stirner, il suo pensiero rimane in ogni caso fino all'inizio del XX secolo praticamente sconosciuto fuori dalla Germania(L'Unico fu tradotto in inglese come The Ego and Its Own nel 1907[28] e tutte le traduzioni delle opere sono novecentesche)[29][30] e totalmente estraneo alla nascita del movimento libertario propriamente detto, ma si inserisce in una corrente di pensiero individualista, estranea ai movimenti più o meno di massa dell'epoca.  Quanto a Proudhon, che può essere considerato giustamente come il padre dell'anarchismo ottocentesco, il suo pensiero ha subito anche lunghi momenti di oblio ed è stato oggetto, in alcuni casi, di grossolane deformazioni derivanti dalla decontestualizzazione di molte asserzioni, prima fra tutte quella relativa alla proprietà. Per quanto riguarda Bakunin, se la sua influenza è diretta e decisiva sul movimento libertario, almeno sotto gli aspetti pratici, se non sotto quelli teorici, questo prende il suo slancio ed assume le sue caratteristiche solamente dopo la morte.  In realtà, molte idee anarchiche sono conosciute essenzialmente attraverso l'opera di Pëtr Kropotkinche non esita su punti importanti a modificare, precisare, allargare l'eredità bakuniniana approdando esplicitamente al comunismo libertario.  Sul piano filosofico e delle idee, l'anarchismo può essere considerato come la manifestazione estrema del processo di laicizzazione del pensiero occidentale che approda al rifiuto di ogni forma d'autorità esterna o superiore agli uomini, sia essa "divina" o umana, e al rifiuto di tutti i principi che, in tempi, forme e con modalità differenti, sono stati utilizzati dalle classi dominanti per giustificare la loro dominazione sul resto della popolazione.  Sul piano politico e sociale, l'anarchismo si ritiene continuatore dell'opera della Rivoluzione francese, depurata dagli errori ad essa immediatamente successivi, attraverso la realizzazione, accanto all'eguaglianza politica, di una vera eguaglianza economica e sociale; eguaglianza che nella società borghese si realizza attraverso la lotta contro il capitalismo e per l'abolizione del salariato.  A questa visione è contrapposta quella dell'anarco-capitalismo che mette invece il diritto di proprietà e il libero scambio come fondamenti di una società in cui lo Stato non è più necessario: qualsiasi limitazione alla proprietà di sé stessi e di ciò che un individuo si procura con il lavoro o il libero scambio è vista come una lesione dei suoi inalienabili diritti naturali e della sua libertà di scelta. Da questo punto di vista è considerato scorretto pensare di poter formare l'anarchia in un'unica ideologia: essa deve semplicemente costituire una cornice dentro la quale ogni individuo può cercare liberamente di realizzare la propria volontà ma senza mai cercare di imporla agli altri (principio di non aggressione). Il comunismo, allora, può diventare una delle opzioni scelte da un gruppo di individui (che ad esempio decidono di investire in una cooperativa), ma mai un'imposizione su altri individui, in quanto con un'imposizione non si avrebbe più un'anarchia.  EtimologiaModifica I termini anarchia e anarchismo derivano dal grecoαναρχία, ovvero senza archè (principio regolatore). La parola anarchia per come è utilizzata dalla maggior parte degli anarchici non ha nulla a che fare con il caos o l'armonia e rappresenta piuttosto una forma egualitaria di relazioni umane stabilite ed effettuate intenzionalmente.  Origini dell'anarchismoModifica Storicamente, il movimento anarchico si è sviluppato in seno al movimento operaio in quanto espressione, al pari delle altre correnti socialiste, della protesta dei lavoratori contro lo sfruttamento moderno. Su questo punto, esso può essere considerato come una reazione radicale alla condizione operaia del XIX secolo, caratterizzata dalla forte gerarchizzazione del salariato e dalla netta divisione in classi della società. Dalla loro nascita, tuttavia le idee anarchiche entrano in conflitto sia con le concezioni riformiste del socialismo (che sostenevano la possibilità di cambiare "progressivamente" le basi inegualitarie della società capitalista) che con le concezioni marxiste, in particolare per quanto riguarda l'uso dello stato come mezzo rivoluzionario.  Specificità della dottrina anarchicaModifica L'obiettivo della teoria anarchica è la nascita di una società di uomini e donne liberi e uguali dal punto di vista dei diritti. Libertà ed eguaglianza dei diritti sono i due concetti chiave attorno ai quali si articolano tutti i progetti libertari. Differenze sorgono sull'interpretazione del concetto di eguaglianza: mentre infatti le correnti che si rifanno al comunismo considerano desiderabile e perseguono l'eguaglianza considerata come uniformità dal punto di vista dei mezzi a disposizione di ogni individuo per perseguire i propri scopi, le correnti che sostengono il libero mercato (i sostenitori del cosiddetto "socialismo di mercato") considerano l'uniformità come un'utopia che oltre ad essere indesiderabile è, a causa della naturale diversità degli individui, irraggiungibile.  In quanto socialisti, tutti gli anarchici sostengono il possesso collettivo dei mezzi di produzione e di distribuzione. In quanto libertari, essi pensano che la libertà dispieghi il suo reale significato in quanto accompagnata dall'eguaglianza. Libertà ed eguaglianza devono essere "concrete", cioè sociali e fondate sul riconoscimento uguale e reciproco della libertà di tutti.  Mentre il pensiero borghese liberale aveva come motto "la mia libertà finisce dove inizia la tua", per gli anarchici (a eccezione degli anarco-individualisti) la libertà dell'individuo non è limitata ma confermata dalla libertà altrui. "Sono partigiano convinto dell'eguaglianza economica e sociale – ha scritto Bakunin – perché so che al di fuori di questa eguaglianza, la libertà, la giustizia, la dignità umana, la moralità e il benessere degli individui così come la prosperità delle nazioni non saranno nient'altro che menzogne; ma, in quanto partigiano della libertà, questa condizione primaria dell'umanità, penso che l'eguaglianza debba stabilirsi attraverso l'organizzazione spontanea del lavoro e della proprietà collettiva delle associazioni dei produttori liberamente organizzate e federate nei comuni, non attraverso l'azione suprema e tutelare dello Stato".  Per realizzare una tale società, gli anarchici ritengono indispensabile combattere non solo le forme di sfruttamento economico ma anche quelle di dominazione politica, ideologica e religiosa. Per gli anarchici, tutti i governi, tutti i poteri statali, quale che sia la loro composizione, origine e legittimità, rendono materialmente possibile la dominazione e lo sfruttamento di una parte della società sull'altra. Secondo Proudhon, lo Stato non è che un parassita della società che la libera organizzazione dei produttori e dei consumatori deve e può rendere inutile. Su questo punto le concezioni anarchiche sono totalmente divergenti dalle concezioni liberali che fanno dello Stato l'arbitro necessario ad assicurare la pace civile.  Per la critica anarchica, il ricorso ad una dittatura, definita proletaria, non ha condotto al deperimento dello Stato (e alla sua "estinzione" in termini marxiani) ma allo sviluppo di una enorme burocrazia fonte di soffocamento della vita sociale e della libera iniziativa individuale. D'altra parte, fino alla sua caduta, proprio a tale burocrazia venivano imputate le ineguaglianze e i privilegi nei paesi dell'Est dove pure avevano abolito la proprietà capitalista. Come già aveva sottolineato Bakunin nella sua polemica con Marx "La libertà senza eguaglianza è una malsana finzione (…) L'eguaglianza, senza libertà, è il dispotismo dello Stato e lo Stato dispotico non potrebbe esistere per un solo giorno senza avere almeno una classe sfruttatrice e privilegiata: la burocrazia".  Al modo di organizzazione della vita sociale governativo e centralizzatore, i libertari oppongono un modo di organizzazione federalista che permetta di sostituire lo Stato, e tutta la sua macchina amministrativa burocratica, attraverso la presa in carico collettiva da parte degli stessi interessati di tutte le funzioni inerenti alla vita sociale che si trovano precedentemente monopolizzate e gestite da organismi statali, posti al di sopra della società.  Il federalismo, in quanto modo di organizzazione, costituisce il punto di riferimento centrale dell'anarchismo, il fondamento e il metodo sul quale si costruisce il socialismo libertario. Il federalismo così inteso ha ovviamente ben poco a che vedere con le forme conosciute di federalismo politico praticato da un buon numero di Stati. Per i libertari non si tratta di una semplice tecnica di governo ma di un principio di organizzazione sociale a sé stante, capace cioè di inglobare tutti gli aspetti della vita di una collettività umana.  Organizzazione anarchicaModifica Il pensiero anarchico è dunque ben lontano dal negare il problema dell'importanza dell'organizzazione, ma esso si pone come obiettivo un'altra forma di organizzazione con la quale rispondere agli imperativi collettivi. Gli uni e le altre si associano per garantirsi vicendevolmente e per provvedere ai bisogni individuali e collettivi. Così, se l'autogestione nelle imprese rende possibile la sostituzione del salariato con la realizzazione del lavoro associato, l'organizzazione federativa dei produttori, delle comuni, delle regioni permette la sostituzione dello Stato.  Essa intende presentarsi come il complemento indispensabile per la realizzazione del socialismo e la migliore garanzia della libertà individuale. Il fondamento di tale organizzazione è il contratto, uguale e reciproco, volontario, non "teorico" ma effettivo, che si può modificare per volontà dei contraenti (associazioni dei produttori e dei consumatori, ecc.) e capace di riconoscere il diritto di iniziativa di tutti i componenti della società.  Così definito, il contratto federativo permette di precisare anche i diritti e i doveri di ciascuno e di sviluppare i principi di un vero diritto sociale in grado di regolamentare gli eventuali conflitti che possono sorgere tra individui, gruppi o collettività, o anche fra regioni, senza per altro rimettere in causa l'autonomia dei suoi componenti, il che permette all'organizzazione federalista di opporsi tanto al centralismo che al "lasciar fare" dell'individualismo liberale.  Secondo gli anarchici tuttavia una tale organizzazione non può pretendere di sopprimere tutti i conflitti ed essi potranno continuare a prodursi a tutti i livelli anche nella società federalista. Tuttavia il federalismo costituisce un metodo per risolvere le questioni sociali nel rispetto della massima libertà di ciascuno senza dar ricorso ad arbitraggi governativi possibili fonti di nuovi privilegi. Inoltre gli anarchici sostengono che i problemi sociali, nell'organizzazione socialista verrebbero affrontati e risolti nell'interesse di tutti, non semplicemente repressi come è solito fare lo Stato (quando addirittura non li favorisce per aumentare nei sottoposti il bisogno di un'autorità regolatrice).  Azione anarchica                           Modifica Per gli anarchici esiste un legame indissolubile tra il fine perseguito e i metodi adoperati per raggiungerlo. Tuttavia essi pensano che il fine non giustifichi i mezzi e che questi ultimi devono sempre, nella misura del possibile, essere in accordo con il fine perseguito.  Lo scopo dell'azione anarchica non vuole essere in alcun caso la "conquista" del potere o la gestione dell'esistente. Nel 1872, il Congresso Internazionale di Saint-Imier, in Svizzera, dette ufficialmente vita alla branca antiautoritaria dell'Associazione internazionale dei lavoratori (AIL) in opposizione alle tesi marxiste. In quella sede si affermò che il primo dovere del proletariato non è la conquista del potere all'interno dello Stato ma la sua distruzione.  L'approccio dei libertari è quello di opporre soluzioni sociali alle soluzioni politiche dimostrandosi con ciò non politici ma antipolitici. D'altra parte, storicamente, i libertari hanno sempre considerato almeno con scetticismo l'idea di poter utilizzare l'arma elettorale o il parlamentarismo per mutare le condizioni di vita in seno alle democrazie borghesi. All'azione politica e parlamentare, tesa alla conquista del potere, essi preferiscono l'azione diretta di massa, vale a dire l'autogestione generalizzata e senza deleghe di potere.  I libertari ritengono che per i lavoratori la pratica dell'azione diretta, e in particolare dello sciopero, sia anche il migliore e più efficace mezzo di lotta. Essi propagandano inoltre l'autorganizzazione e l'azione collettiva e autonoma dei lavoratori.  Gli anarchici non sono e non aspirano a divenire un'avanguardia o a svolgere un ruolo dirigente, poiché ritengono che non esista nessuno che possa occuparsi dei propri affari meglio dell'interessato stesso. Ma perché ciò sia possibile occorre che i lavoratori prendano coscienza di ciò che Proudhon ha definito la "loro capacità politica". I lavoratori rappresentano la forza reale di una società e solo da essi può venire una sua trasformazione profonda. L'azione anarchica ha sempre mirato, prima di ogni altra cosa, alla difesa degli sfruttati e appoggia tutte le rivendicazioni che vanno nel senso di un miglioramento delle condizioni di vita e del progresso sociale.  Numerosi libertari hanno visto nelle organizzazioni sindacali non soltanto degli organismi di difesa degli interessi dei salariati, ma anche una potenziale forza di trasformazione sociale. Da questo punto di vista, il federalismo libertario non può essere realizzato senza il concorso attivo dei sindacati operai poiché, da una parte, questi ultimi sono qualificati ad organizzare la produzione e, dall'altra, essi hanno il vantaggio di raggruppare i lavoratori in quanto produttori. Da un punto di vista libertario, un'organizzazione sindacale deve, nel suo funzionamento come nei suoi principi:  cercare di mantenere la sua autonomia nei riguardi di tutte le organizzazioni politiche che vorrebbero controllarla e nei riguardi dello Stato; praticare il federalismo e una vera democrazia diretta dal basso, sole garanzie solide contro ogni forma di burocratizzazione; darsi contemporaneamente l'obiettivo di ottenere la soddisfazione delle rivendicazioni immediate, materiali, e di preparare i lavoratori ad assicurare la gestione della produzione nel futuro. Quest'ultimo punto è assai importante poiché, per gli anarchici, il sindacato e l'azione sindacale non sono e non possono essere considerati come una finalità in sé. La sua autonomia non deve significare "neutralità" nei riguardi del potere o dei partiti perché ciò significherebbe perdere una gran parte delle sue potenzialità di cambiamento e di rottura. Gli anarchici ritengono che il sindacato, se non vuol cadere nel tradeunionismo, si doti di un programma di trasformazione sociale e di una pratica conseguente.  L'azione sindacale non è tuttavia il solo mezzo di lotta di cui dispongono i lavoratori, che possono e devono, secondo le circostanze dotarsi delle forme organizzative e di resistenza che paiono loro utili e opportune.  Dottrine di carattere libero-mercatista              Modifica Le teorie anarchiche di impronta individualistaamericane, come quelle di Benjamin Tucker, che in un'accezione lievemente differente da quella all'epoca egemone si definiva socialista[31], convergono sulla necessità di una prospettiva di eguaglianza sociale attraverso una redistribuzione delle risorse basata su un mercato libero[32] e non distorto, come mediatore degli impulsi egoistici[33], convergono con il concetto marxista della teoria del valore del lavoro e si distaccano da ipotesi come l'anarco-capitalismointese a giustificare la proprietà privata del capitale. Queste sono dottrine di origine liberale che possono essere considerate come fautrici di un liberismo portato alle estreme conseguenze, cioè alla scomparsa dello Stato. Sia i fautori di queste ultime che quelli dell'anarchismo classico vedono comunque le due dottrine come due corpus teorici distinti senza alcun punto di contatto tra loro.  «Cos'è la proprietà? La proprietà è un furto»  (Pierre-Joseph Proudhon) Proudhon, noto per questa famosa espressione, era fautore del libero scambio tra lavoratori autonomi e/o cooperative autogestionarie e nella "Teoria della proprietà" arrivò ad affermare che "la proprietà è libertà". L'apparente contraddizione è dovuta al fatto che Proudhon intendeva come furto non la proprietà individuale, ma quella proprietà che seppur utilizzata da altri individui è fonte di profitto o rendita per il proprietario mentre come libertà quella proprietà, chiamata "proprietà-possesso", frutto del proprio lavoro, che viene direttamente utilizzata dal proprietario senza determinare sfruttamento del lavoro altrui. Questi concetti rientrano nel mutualismo ed escludono il profitto, inteso nel senso economico di utile, come scopo.  Anarchismo di ieri e di oggi             Modifica Anche se oggi viene trascurata, l'influenza che nel corso del XX secolo il movimento libertario ha esercitato sul movimento operaio è stata notevole. Gli anarchici rappresentano una parte a sé stante del movimento sindacale e operaio internazionale, e la loro presenza si rintraccia in tutti i movimenti rivoluzionari, del XIX e del XX secolo, come la Comune di Parigi del 1871, la rivoluzione russa del 1917 e la guerra civile spagnola del 1936.  L'influenza delle idee anarchiche si è soprattutto manifestata in maniera significativa in seno alle organizzazioni sindacali come la CGT in Francia, l'Unione Sindacale Italiana in Italia, la CNT in Spagna, ma anche la FORA in Argentina, le IWW negli Stati Uniti, la FAU in Germania o la SAC in Svezia. Basti pensare che nel 1922 l'Associazione Internazionale dei Lavoratori (AIT), che raggruppava le organizzazioni anarcosindacaliste che avevano rifiutato di aderire all'Internazionale bolscevica, contava più di un milione di aderenti.  L'anarchismo ha tuttavia conosciuto nel corso degli anni '20 e '30 un periodo di crisi. Se la rivoluzione russa apre in Europa e nel mondo una nuova fase rivoluzionaria, contemporaneamente in molte nazioni, anche in opposizione al bolscevismo, emergono e si affermano movimenti di tipo fascista. In particolare il movimento libertario si trova al centro di un doppio attacco. Eliminato in Russia dalla repressione prima leninista e poi staliniana, esso deve far fronte ai metodi staliniani in seno al movimento operaio e sindacale anche negli altri Paesi.  Il mito della rivoluzione bolscevica e l'atteggiamento dei vari partiti comunisti occidentali provocano una crescente marginalizzazione dell'influenza anarchica. D'altra parte laddove le organizzazioni sono rimaste forti, esse vengono annientate dai governi nazionalisti. In Italia, in Germania, in Argentina, in Bulgaria e in altri paesi governati da regimi autoritari il movimento anarchico è ridotto al silenzio, e i suoi militanti spesso assassinati o costretti all'esilio.  In generale si può dire che gli anarchici si trovano in questo periodo sempre più isolati, anche sul piano internazionale, potendo trovare al loro fianco solo alcuni settori socialisti e comunisti dissidenti.  La rivoluzione di Spagna del luglio 1936 ha rappresentato l'ultima occasione per i lavoratori di rispondere al fascismo e alla guerra attraverso pratiche rivoluzionarie anarchiche. Gli avvenimenti di Spagna, con il ruolo determinante avutovi dalle organizzazioni anarchiche e anarcosindacaliste, sono stati forse l'espressione storica più importante delle idee libertarie. Questo anche per le dimensioni del movimento anarchico nella Spagna di quel periodo.  All'inizio della guerra civile infatti, nel fronte antifascista sono presenti la centrale anarcosindacalista, la Confederazione Nazionale del Lavoro (CNT), che nel maggio 1936, nel suo Congresso di Saragozza, contava su 982 sindacati e 550.595 aderenti, la Federazione Anarchica Iberica(FAI) e la Federazione Iberica delle Gioventù Libertarie(FIJL).  Dopo il 1946, la spartizione del mondo in due blocchi imperialisti contrapposti, la guerra fredda e le minacce atomiche hanno ridotto le possibilità di azione per i libertari. Il radicarsi del legame tra lavoratori da una parte e sindacati e partiti politici dall'altra ha marginalizzato sempre più le correnti anarchiche.  Dopo il Sessantotto, tuttavia, a seguito dell'esplodere della rivolta studentesca e giovanile, le idee libertarie hanno conosciuto un ritorno di vigore, anche all'interno del movimento sociale, con la generalizzazione di concetti come "autogestione" o "gestione diretta". A tutto questo occorre aggiungere la reazione sempre più viva di vasti settori della popolazione contro la burocratizzazione delle società sia del blocco "socialista" (in realtà trattasi di Capitalismo di Stato) che di quello liberale. In Italia, anche all'interno della contestazione, queste idee non sono state appannaggio dei soli gruppi anarchici, ma anzi sono state fatte proprie in modo più o meno coerente, anche dai gruppi che si rifacevano al trotskismo e al maoismo quando non addirittura al marxismo-leninismo.  Oggi il movimento anarchico è ancora vitale in tutto il mondo. Tra la fine degli anni novanta e l'inizio del nuovo secolo il movimento contro la globalizzazione neoliberista (la cui nascita si fa coincidere con le proteste contro la riunione del WTO di Seattle nel novembre 1999) si è giovato del contributo delle analisi libertarie e dell'impegno dei militanti anarchici nelle tante organizzazioni specifiche, nelle strutture popolari di base e nei sindacati autonomi. Degno di nota anche il movimento anarchico greco, uno dei più importanti in Europa, che si è visto protagonista delle grandi rivolte divampate nel paese nel dicembre 2008 (in seguito all'uccisione del quindicenne anarchico Alexandros Grigoropoulos) e nel maggio 2010, in cui sono insorte anche ampie fasce della popolazione greca. L'anarchismo può ancora contare su un consistente patrimonio culturale in grado di rispondere, in un'ottica alternativa e radicale, alle sfide globali del nuovo millennio (guerra permanente, terrorismo internazionale, corsa agli armamenti, fanatismo religioso, involuzione autoritaria delle democrazie, inquinamento, devastazione ambientale, crisi della rappresentanza istituzionale, divario tra paesi ricchi e paesi poveri, precarizzazione del lavoro, ecc.) che sembrano riproporre in chiave postmoderna i tradizionali ambiti di intervento dell'anarchismo e delle sue istanze di uguaglianza e libertà.  Note                          Modifica ^ L'anarchia è l'ideale che potrebbe anche non realizzarsi mai, così come non si raggiunge mai la linea dell'orizzonte, l'anarchismo è il metodo di vita e di lotta e deve essere dagli anarchici praticato oggi e sempre, nei limiti delle possibilità, variabili secondo i tempi e le circostanze. Errico Malatesta, Repubblicanesimo sociale e anarchia, Umanità Nova, Roma, 1922 ^ ( EN ) Siri Agrell, Working for The Man, in The Globe and Mail, 2007. URL consultato il 14 aprile 2012 (archiviato dall' url originale  il 16 maggio 2007). ^ ( EN ) Anarchism, su Encyclopædia Britannica, 2006. URL consultato il 14 aprile 2012. ^ ( EN ) Anarchism, in The Shorter Routledge Encyclopedia of Philosophy, 2005, p. 14. «Anarchism is the view that a society without the state, or government, is both possible and desirable.» ^ ( EN )  Paul Mclaughlin, Anarchism and Authority, Aldershot, Ashgate, 2007, p. 59, ISBN 0-7546-6196-2. ^ ( EN )  R. Johnston, The Dictionary of Human Geography, Cambridge, Blackwell Publishers, 2000, p. 24, ISBN 0-631-20561-6. ^ a b ( EN ) Slevin, Carl. "Anarchism." The Concise Oxford Dictionary of Politics. Ed. Iain McLean and Alistair McMillan. Oxford University Press, 2003 ^ a b «L'Internazionale delle Federazioni Anarchiche lotta per: l'abolizione di ogni forma di autorità, sia essa economica, politica, sociale, religiosa, culturale o sessuale». Vedi: ( EN ) I principi dell'IFA, su iaf-ifa.org. URL consultato il 14 aprile 2012 (archiviato dall' url originale  il 3 aprile 2012). ^ «Anarchism, then, really stands for the liberation of the human mind from the dominion of religion; the liberation of the human body from the dominion of property; liberation from the shackles and restraint of government. Anarchism stands for a social order based on the free grouping of individuals for the purpose of producing real social wealth; an order that will guarantee to every human being free access to the earth and full enjoyment of the necessities of life, according to individual desires, tastes, and inclinations.» Emma Goldman, "What it Really Stands for Anarchy" in Anarchism and Other Essays ^ L'anarco-individualista Benjamin Tucker ha definito l'anarchismo come opposizione all'autorità nel seguente modo: «They found that they must turn either to the right or to the left, — follow either the path of Authority or the path of Liberty. Marx went one way; Warren and Proudhon the other. Thus were born State Socialism and Anarchism...Authority, takes many shapes, but, broadly speaking, her enemies divide themselves into three classes: first, those who abhor her both as a means and as an end of progress, opposing her openly, avowedly, sincerely, consistently, universally; second, those who profess to believe in her as a means of progress, but who accept her only so far as they think she will subserve their own selfish interests, denying her and her blessings to the rest of the world; third, those who distrust her as a means of progress, believing in her only as an end to be obtained by first trampling upon, violating, and outraging her. These three phases of opposition to Liberty are met in almost every sphere of thought and human activity. Good representatives of the first are seen in the Catholic Church and the Russian autocracy; of the second, in the Protestant Church and the Manchester school of politics and political economy; of the third, in the atheism of Gambetta and the socialism of the socialism off Karl Marg». Benjamin Tucker, Individual Liberty, su theanarchistlibrary.org. URL consultato il 29 aprile 2019 (archiviato dall' url originale  il 3 maggio 2012). ^ Colin Ward, Anarchism as a Theory of Organization, su panarchy.org, 1966. URL consultato il 14 aprile 2012. ^ Lo storico anarchico George Woodcockriferisce dell'anti-autoritarismo di Michail Bakunine mostra la sua opposizione alle forme di autorità statali e non statali nel seguente modo: «All anarchists deny authority; many of them fight against it» ... «Bakunin did not convert the League's central committee to his full program, but he did persuade them to accept a remarkably radical recommendation to the Berne Congress of September 1868, demanding economic equality and implicitly attacking authority in both Church and State» ^ città Susan L. Brown, Anarchism as a Political Philosophy of Existential Individualism: Implications for Feminism, in The Politics of Individualism: Liberalism, Liberal Feminism and Anarchism, Black Rose Books Ltd. Publishing, 2002, p. 106. ^ «ANARCHISM, a social philosophy that rejects authoritarian government and maintains that voluntary institutions are best suited to express man's natural social tendencies», George Woodcock, "Anarchism" in The Encyclopedia of Philosophy ^ «In a society developed on these lines, the voluntary associations which already now begin to cover all the fields of human activity would take a still greater extension so as to substitute themselves for the state in all its functions». Pëtr Alekseevič Kropotkin, "Anarchism" in Encyclopædia Britannica ^ «That is why Anarchy, when it works to destroy authority in all its aspects, when it demands the abrogation of laws and the abolition of the mechanism that serves to impose them, when it refuses all hierarchical organization and preaches free agreement — at the same time strives to maintain and enlarge the precious kernel of social customs without which no human or animal society can exist». Pëtr Alekseevič Kropotkin, Anarchism: its philosophy and ideal, su theanarchistlibrary.org. URL consultato il 29 aprile 2019 (archiviato dall' url originale  il 18 marzo 2012). ^ «anarchists are opposed to irrational (e.g., illegitimate) authority, in other words, hierarchy — hierarchy being the institutionalisation of authority within a society». B.1 Why are anarchists against authority and hierarchy?, in An Anarchist FAQ. URL consultato il 29 aprile 2019 (archiviato dall' url originale  il 15 giugno 2012). ^ Geoffrey Ostergaard, Anarchism, in The Blackwell Dictionary of Modern Social Thought, Blackwell Publishing, p. 14. ^ Peter Kropotkin, Anarchism: A Collection of Revolutionary Writings, Courier Dover Publications, 2002, p. 5, ISBN 0-486-41955-X. ^ R. B. Fowler, The Anarchist Tradition of Political Thought, in Western Political Quarterly, vol. 25, n. 4, 1972, pp. 738-752, DOI:10.2307/446800. ^ Alexandre Skirda, Facing the Enemy: A History of Anarchist Organization from Proudhon to May 1968, AK Press, 2002, p. 191, ISBN 9781902593197. ^ Lo storico catalano Xavier Diez riporta che la stampa anarco-individualista spagnola fu ampiamente letta da membri di gruppi anarco-comunisti e da appartenenti al sindacato anarchico CNT. Ci furono anche casi di anarco-individualisti di spicco come Federico Urales e Miguel Gimenez Igualada che furono membri del CNT e come J. Elizalde che fu un membro fondatore e primo segretario della Federazione Anarchica Iberica. Vedi Xavier Diez, El anarquismo individualista en España: 1923-1938, ISBN 978-84-96044-87-6 ^ "Resisting the Nation State, the pacifist and anarchist tradition" by Geoffrey Ostergaard, su ppu.org.uk. URL consultato il 24 aprile 2012(archiviato dall' url originale  il 14 maggio 2011). ^ George Woodcock, Anarchism: A History of Libertarian Ideas and Movements, 1962. ^ R. B Fowler, The Anarchist Tradition of Political Thought, in The Western Political Quarterly, vol. 25, n. 4, dicembre 1972, pp. 743–744. ^ Noam Chomsky, On anarchism, 2014, ISBN 978-0-241-96960-1, OCLC 872702854. URL consultato il 26 luglio 2021. ^ George Woodcock, L'anarchia: storia delle idee e dei movimenti libertari, Feltrinelli Editore, 1966. ^ Max Stirner, trad. Steven Tracy Byington, The Ego and Its Own, 1st engl ed. New York, 1907 ^ Con l'esclusione della prima edizione, incompleta, francese del 1899: Max Stirner, trad. R.L. Reclaire L'Unique et sa propriété, P.V. Stock, Éditeur, 1899, ma riedito l'anno successivo, Max Stirner, Trad. Henri Lasvignes, L'Unique et sa propriété, Éditions de La Revue Blanche, 1900 ^ Prima edizione, incompleta italiana, 1902: Max Stirner, trad. Ettore Zoccoli, l'Unico, f.lli Bocca, 1902 riedito nel 1911 completo per i tipi della Libreria Editrice Sociale ^ Peter Marshall, Demanding the Impossible: A History of Anarchism, PM Press, 2010 ISBN 1-60486-064-2 ^ Benjamin Tucker, State Socialism and Anarchism, su fair-use.org. ^ Brown. Susan Love. 1997. The Free Market as Salvation from Government. In Meanings of the Market: The Free Market in Western Culture. p. 107. Berg Publishers. Voci correlate                                   Modifica Anarchia Economia anarchica Anarcopunk Anarco-capitalismo Anarco-comunismo Anarco-individualismo Anarco-femminismo Anarco-pacifismo Anarco-sindacalismo Anarco-socialismo Bakunin Mutualismo (economia) Pananarchismo Possibilismo libertario FaSinPat (Fabbrica senza padroni) Christiania Stati per forma di governo Radio Libertaire Radio 2000 Blackout Radio Canut Radio Zinzine Radio Klara Radio Primitive Radicali Anarchici Umanità Nova A/Rivista Anarchica Altri progetti           Modifica Collabora a Wikisource Wikisource contiene il testo completo di alcuni canti sull'anarchismo Collabora a Wikizionario Wikizionario contiene il lemma di dizionario «anarchismo» Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su anarchismo Collegamenti esterni                                                         Modifica anarchismo, in Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2010. Modifica su Wikidata anarchismo, in Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2009. Modifica su Wikidata ( IT ,  DE ,  FR ) Anarchismo, su hls-dhs-dss.ch, Dizionario storico della Svizzera. Modifica su Wikidata ( EN ) Anarchismo, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su Wikidata ( EN ) Opere riguardanti Anarchismo, su Open Library, Internet Archive. Modifica su Wikidata Controllo di autorità                                                    LCCN ( EN ) sh85004812 · GND ( DE ) 4001887-8 · BNE ( ES ) XX525074 (data) · BNF( FR ) cb13318443m (data) · J9U( EN ,  HE ) 987007294863105171 (topic)   Portale Anarchia   Portale Filosofia   Portale Politica Ultima modifica 2 mesi fa di InternetArchiveBot PAGINE CORRELATE Socialismo libertario Anarchismo sociale forma di socialismo anti-statalista e libertaria, che vede la libertà individuale interconnessa all'aiuto reciproco e la cooperazione  Scuole di pensiero anarchico correnti di pensiero riguardo l'anarchismo  Wikipedia Il contenuto  BIBLIOTECA    Alessandro Luparini    ANARCHICI  DI MUSSOLINI    > rali vere  SETTIMANALE ANARCHICO INTERVENTISTA Ta” Pisetemenzar © va    Giuseppe Garibaldi       A | assonimion i Ami 13] CRITNTEINTA]  Ù o f= Niue] | Senesi Aia    MILANO - Dc t9rs. | "iSToNIO su oi  RIA | ore       2 Spina ‘sovdrela jattonza, spogli. d'agnt  fiomposità retorien, agli anici ed agli nv-  vornarl not ci presentiamo. >  ‘iper ur Drrepprinsibile dinoziio det  ‘ilmo nostro di affermare ut; colla — Nancics nel campo amrehve vi 20 rie site 1 commi. dl pectore i  dia in questa vigilia d'armi, quello che y pi sai Mi iaia alli  domantpquando vibrabte squillerà Ia diana +  «ho gl chiamerà al elmonto, riaffermeremo ‘ Quatt nurca La  cdl. fuetlo nelle, trincee o sulle barricate, 50° = Medea re pico © per  no vogljamo formulare da queste colorin nt gle 1 Ì  ti romina.    ché ancora non perufptione  iocolieri della politica i    probleini Nindaedi e) hibertari.    ni per l'unità d'Itata € oggi  dia — sarei Mali netta rivolta    "È dicaro ciod'ad alta voce il nostro diritto  << ian cittadinanza. nel ‘campo amerehico — ici iocna ol Gemona € li ls oovre  por ‘sui deliicammo, benché anbor giovani, “per } popoli di Francis, suscità nei eni  di nni le nostre migliori energie ed Hl | ili. commenti ferogi e cati c =  ‘batta: vriilrà È cho4 teotoght dell'a; 1 dì ©mimi del wiorno (scoprirono ì  ni ‘nome di non sappiamo pipì € ita] core, È pattini  ddantonto ef vogliono negs-'! si: manifistsra in talta dr se devanazione; len. 3 dite bed |  ed incitare. all'azione: ta ‘entitoto le oc    DALLA SINISTRA AL FASCISMO  TRA RIVOLUZIONE E REVISIONISMO    M.IL.R.    EDIZIONI          Fenomeno spesso rimosso, quando non del tutto  ignorato, in sede d'indagine storiografica,  l'interventismo di matrice anarchica costituì un filone,  minoritario ma non trascurabile, del variegato  movimento interventista rivoluzionario ed ebbe una  significativa appendice nel dopoguerra, allorché  numerosi anarchici interventisti confluirono nei Fasci  di" combattimento fondati da Benito Mussolini. Tra  questi, Mario Gioda, Edoardo Malusardi e Massimo  Rocca rivestirono un ruolo di primo piano nel fascismo  delle origini. Pur nella sostanziale diversità delle  esperienze e degli approdi politici (dal sindacalismo  integrale e di “sinistra” del repubblicano Malusardi al  revisionismo conservatore e filo-liberale di Rocca), la  loro azione all'interno del fascismo fu caratterizzata da  uno spirito affine, almeno in parte riconducibile alla  comune formazione anarcoindividualista: una residua  eredità “libertaria” inevitabilmente destinata ad  esaurirsi con il consolidarsi al Pptes della   “rivoluzione” fascista.   Questo libro ne ripercorre la. "comlilisa Niiindi  politica, dall'anarchismo al fascismo, ‘attraverso i  decisivi passaggi dell'interventismo e della guerra,  sullo sfondo di uno dei periodi più intensi‘ e più  drammatici della storia d'Italia.                     Mita              Alessandro Luparini è nato a Firenze nel 1967. Si è laureato in  Scienze Politiche presso la Facoltà “Cesare. Alfieri”...  dell'Università di Firenze ed ha conseguito il Dottorato di  Ricerca presso il Dipartimento di Scienze della Politica  dell'Università di Pisa, ove svolge cone la su tività O  didattica e di ricerca. di Lineta               ISBN 88-86873-98-0    © Copyright 2001 by M.I.R. EDIZIONI    Tutti i diritti riservati - Vietata la riproduzione anche parziale di qualsiasi  parte del testo senza autorizzazione.   M.ILR. EDIZIONI - Via Montelupo, 147 — 50025 Montespertoli (Fi) Italy  Tel. 0571 671106 - Fax 0571 675835 — e-mail: info@miredizioni.it    mirediz@logo.it — http://www.miredizioni.it    Finito di stampare dalla Litotipografia SAMBO s.n.c.  nel mese di Dicembre 2001    e    Alessandro Luparini    ANARCHICI DI MUSSOLINI  Dalla sinistra al fascismo, tra  rivoluzione e revisionismo    M.I.R.    EDIZIONI              INTRODUZIONE    Quanto a quello che succederà domani, caro Berneri,  non è a noi, ultimi venuti, senza responsabilità per il  passato e, se non erro, abbastanza coerenti e fermi  sinora, che si possono muovere rimproveri in anticipo  o intentare processi alle intenzioni. Plechanov, teorico  bolscevico, Kropotkin, teorico anarchico, si  pronunciarono in Russia per la guerra nel 1914;  altrettanto fecero il socialista Mussolini e gli anarchici  e sindacalisti Rocca e Corridoni in Italia [...]. E”  consigliabile dunque che nelle discussioni relative al  domani ci mettiamo su piede di parità, con lo stesso  coefficiente di male e di bene, di deviazioni possibili e  di fedeltà irriducibili. Gli uomini passano, le idee e  anche i movimenti restano. (Carlo Rosselli,  Discussione sul federalismo e l’autonomia, «Giustizia  e Libertà», 27 dicembre 1935)    Così, in una garbata polemica a distanza con l’anarchico Camillo Berneri  (che aveva avanzato dubbi sulla possibile tenuta antifascista di Giustizia e  Libertà), Carlo Rosselli poneva l’accento su un principio spesso ignorato:  l’inopportunità in politica (nonché - potremmo aggiungere - nelle vicende  umane in generale), specie in epoche di grande travaglio, di porre ipoteche  sul futuro, semplicemente sulla base di memorie e di tradizioni più o meno  consolidate, di preconcetti ideologici o di appartenenza. L’interventismo di  matrice anarchica, richiamato dallo stesso Rosselli quale esempio di  variabile imprevista, rappresentò senz'altro, considerato nel quadro storico  del movimento libertario italiano, una “deviazione”, ma fu, per l’appunto,  una deviazione “possibile”. Non già, dunque, un’astrusità incomprensibile,  prodotto di frange corrotte e malvissute, a stento collocabili nella famiglia    anarchica, ma un evento - sia pur anomalo e, al cospetto dell’ortodossia  libertaria, scabroso - riconducibile all’anarchismo e, come tale, appartenente  di diritto alla sua storia. Allo stesso modo, per restare in ambito interventista,  la “conversione” di Benito Mussolini nell’ottobre del 1914, tenuto conto  dell’anima volontaristica e sostanzialmente antidogmatica, non solo del  socialismo mussoliniano, ma anche di larga parte del socialismo italiano tout  court, non costituì poi una così grande eresia ed anzi ebbe, in questo senso,  una certa sua coerenza.   Nondimeno, proprio a causa della sua “scabrosità”, l’anarcointerventismo è  stato a lungo trascurato, quando non del tutto rimosso, in sede d’indagine  storica, e solo in anni recenti un ottimo studio di Maurizio Antonioli ha  restituito visibilità e, per così dire, dignità storiografica, ad un fenomeno che,  se non fu certo tale da smuovere grandi masse (ma tutto l’interventismo  rivoluzionario fu, a conti fatti, espressione di una minoranza), ebbe tuttavia,  oltre che una sua specificità, una sua rilevanza, non soltanto in ordine alla  vicenda interna dell’anarchismo. Intento di questo libro vuol essere, perciò,  quello di ricostruire la genesi e gli sviluppi della corrente anarcointerventista  (sia come fatto in sé, sia in rapporto al più vasto schieramento  dell’interventismo rivoluzionario), per poi, in un secondo momento, provare  a rintracciarne l’eredità nell’Italia del dopoguerra, in relazione all’avvento e  all’ascesa del fascismo. Molti anarchici interventisti, infatti, confluirono nei  Fasci di combattimento fondati da Mussolini (altro motivo per cui  l’anarcointerventismo è stato il più delle volte espunto dai trattati di storia  dell’anarchismo), e alcuni di loro, come Massimo Rocca, Edoardo Malusardi  e Mario Gioda, vi ebbero un ruolo tutt’altro che marginale. Questi tre nomi,  pur ricorrendo sovente (soprattutto il primo) negli studi sul fascismo iniziale,  restano tuttavia, a. nostro avviso, ancora avvolti in una coltre  d’indeterminatezza. In queste pagine si cercherà pertanto di ripercorrere la  complessa vicenda postbellica di Rocca, Gioda e Malusardi —  dall’immediato dopoguerra sino alla vigilia del delitto Matteotti -, senza mai  perdere di vista i loro trascorsi anarchici; un’eredità forte, conseguenza di un  altrettanto forte senso d’identità, che - ci sembra di poter dire - sopravvisse  almeno in parte alle radicali trasformazioni indotte dalla guerra, finendo per  condizionare, ancorché in misura e su piani diversi, il grado di adesione al  fascismo di questi uomini. Per questa ragione, ad esempio, ci è parso che il  caso di un altro anarchico interventista passato al fascismo, Leandro  Arpinati, il cui nome è senza dubbio più noto dei tre sopra citati, non potesse  a pieno titolo rientrare nelle finalità e nella ratio di questo volume. In altri  termini, mentre Arpinati (anarchico sì, ma senza alcun peso reale nel  movimento) acquisì una compiuta coscienza politica — sia pur in qualche    maniera caratterizzata in senso anarcoindividualista - con il fascismo e  grazie al fascismo; Rocca, Gioda e Malusardi approdarono al fascismo al  culmine di un’effettiva e sentita militanza libertaria (anche se, nel caso di  Rocca, vissuta in modo decisamente eterodosso), sì che nel fascismo essi  portarono una precisa connotazione ideologica, quantunque, e non avrebbe  potuto essere diversamente, filtrata e rivissuta alla luce delle cruciali  esperienze dell’interventismo e della trincea. .   In definitiva, quindi, un’opera su più livelli, che — così almeno speriamo -  dovrebbe consentire di far luce su una componente poco conosciuta  dell’interventismo rivoluzionario prima, del fascismo poi, sullo sfondo di  uno dei periodi più intensi e più drammatici della storia d’Italia.          INTERVENTISMO    Eretici tra gli eretici: gli anarchici interventisti fra apostasia e presa di  coscienza    Pe    Lo scoppio della guerra europea sorprese il movimento anarchico italiano in  un momento di grande sforzo organizzativo. Il tentativo, avviato già  all'indomani dell’impresa libica, di collegare i diversi gruppi anarchici della  penisola intorno ad un programma comune, allo scopo di frenare le spinte  centrifughe interne al movimento e di non perdere i contatti con le masse  (proprio mentre lo spostamento a sinistra del Partito Socialista e la nascita  dell’Unione Sindacale Italiana rischiavano di ridurre ulteriormente lo spazio  di manovra degli anarchici), fu vanificato dal precipitare della situazione  internazionale. Il progettato congresso nazionale anarchico di Firenze, che  doveva sancire questo nuovo orientamento, non ebbe mai luogo, e il  successivo convegno di Pisa, riunitosi poco tempo dopo l’entrata in guerra  dell’Italia, avrebbe lasciato cadere ogni ipotesi costruttiva per far argine  all’incalzare degli eventi bellici". Sul piano esterno, sul piano, cioè, dei  rapporti con gli altri partiti dell’estrema sinistra, che dopo la settimana rossa  avevano lasciato intravedere la possibilità di un’intesa d’azione con le forze  più autenticamente rivoluzionarie (soprattutto repubblicani e sindacalisti), la  guerra rappresentò, anche per gli anarchici, la caduta delle illusioni.   Ancora il primo agosto, in un articolo pubblicato da «L’Iniziativa», organo  nazionale del PRI, il giovane anarchico Mario Gioda aveva sostenuto la  necessità del “blocco rosso”, ovvero l’unione di tutti i partiti sovversivi”.  Nato a Torino il 7 luglio 1883, operaio tipografo’, Gioda era un autodidatta       ! Su questi punti v. soprattutto MAURIZIO ANTONIOLI, // movimento anarchico italiano nel  1914, in «Storia e Politica», 1976, n. 2, pp. 235-254. Sulle vicende dell’anarchismo italiano  nei mesi precedenti alla settimana rossa v. GINO CERRITO, Dall'insurrezionalismo alla  settimana rossa. Per una storia dell'anarchismo in Italia, Firenze, CP, 1977, p. 142 ss.   2 Cfr. MARIO GIODA, La necessità della repubblica. Io difendo il blocco rosso, «L’Iniziativa»,  1 agosto 1914.   3 Cfr. ARCHIVIO CENTRALE DELLO STATO, CASELLARIO POLITICO CENTRALE [d'ora innanzi  ACS, CPC], Busta 2416 [Gioda Mario].    11       con la passione per le belle lettere e le scienze filosofiche (un «pensatore...  proletario», come sarebbe stato efficacemente definito molti anni dopo) ‘,  poco incline, in verità, all’attività politica-di propaganda. Negli anni prima  della guerra aveva scritto per numerose riviste, non solo di orientamento  libertario, cimentandosi nei campi più disparati, dalla filosofia alla critica  letteraria e di costume, e guadagnandosi una discreta popolarità. Di  temperamento schivo e riflessivo‘, dotato malgrado ciò di una buona vena  polemica, Gioda era in buona sostanza un intellettuale, non riconducibile ad  alcuna specifica corrente del pensiero anarchico, sincreticamente aperto  anche ad altre suggestioni culturali, con in più, sotto il profilo strettamente  politico, una spiccata e mai celata propensione al repubblicanesimo. In ogni  caso, se è vero che Gioda era - per sua stessa ammissione - un “quasi  repubblicano”‘, convinto quanto meno che la rivoluzione dovesse prima di  tutto avvenire sul «terreno istituzionale»”, è altrettanto vero che, specie dopo       4 Così scriveva Domenico Ferrara nel 1923, introducendo la prefazione di Gioda — allora  segretario del Fascio di combattimento torinese - al volume di Enrico Portino Quattro anni di  passione (Torino, Valentino), un'antologia di scritti e di vignette dai giornali satirici fascisti  «Il Pettine» e «Il Sonaglio».  * Poeta dilettante, il giovane anarchico esprimeva nei suoi versi sentimentali una sensibilità  quasi crepuscolare. Ancora in età matura, ormai affermato dirigente fascista, Gioda coltivava  l’ambizione di veder pubblicate le sue poesie. Non visse abbastanza a lungo, ma alcune sue  rime giovanili apparvero postume in Vita di Mario Gioda narrata da Giovanni Croce, a cura  del Gruppo rionale fascista “Mario Gioda”, Torino, Stabilimento grafico Impronta, 1938.  ° Gioda era in rapporti d’amicizia con importanti esponenti del repubblicanesimo italiano, fra  i quali il vecchio garibaldino Ergisto Bezzi, che ne aveva grande stima. Alcune lettere di  Bezzi a Gioda si trovano in ERGISTO BEZZI, /rredentismo e interventismo nelle lettere agli  amici (1903-1920), Trento, Museo trentino del Risorgimento e della lotta per la libertà, 1963.  Per comprendere in cosa consistesse il repubblicanesimo di Gioda se ne vedano gli articoli  Del XXIX luglio e per un cencio di repubblica, e Il mio repubblicanesimo, apparsi sulla rivista  repubblicana torinese «La Ragione della domenica», il 30 luglio e il 6 agosto 1911. Nel primo  di essi, scritto subito dopo l’assassinio di Umberto I, Gioda aveva deplorato il «conformismo  monarchico» dei partiti estremi, che non avevano esitato a commuoversi per la sorte del re, e  aveva affermato l'imperativo morale, per i «rivoluzionari d’ogni scuola o tendenza», di essere  «settariamente repubblicani». Nel secondo, Gioda aveva precisato i contenuti della propria  fede repubblicana, sostenendo di rimanere prima di tutto anarchico, ma di ritenere la  repubblica — la repubblica sociale — un passaggio necessario sulla via della rivoluzione, il solo  mezzo per giungere a trasformazioni più radicali e definitive, «senza il pericolo di sfasciare la  rivoluzione in braccio alle evoluzioni riformistiche della democrazia sociale». Le opinioni  espresse dall’anarchico torinese su «La Ragione della domenica» avevano incontrato la  disapprovazione di molti suoi compagni. Ancora a distanza di tempo, il ferrarese Mario  Poledrelli aveva definito «tisico e spurio» l’anarchismo di Gioda, e bollato come una  «balordaggine politica» l’idea di un fronte unico anarchico/repubblicano (MARIO POLEDRELLI,  In ritardo? Anarchici e repubblicani, «L’Agitatore», 18 febbraio 1912). Qualche anno dopo    Poledrelli avrebbe partecipato alla campagna interventista a fianco proprio dei repubblicani e  dello “scomunicato” Mario Gioda.    12    la settimana rossa, molti anarchici, non escluso Errico Malatesta, LA  con favore crescente all’elemento giovanile e proletario del PRI, e i .  apprezzavano e condividevano  l’intransigentismo Lila emi  diffusione, il. 15 agosto 1914, dell’appello della DE pel 3  repubblicana per la mobilitazione contro gli Imperi i ppi far  quale riaffiorava prepotentemente l’anima mazziniana de Lira sog  riproponevano, attualizzati, temi e suggestioni dell niet seg n  fatto la fine delle aspettative rivoluzionarie . Ad esso sarebi ero segu sa  conferenza milanese di Alceste De Ambris, punto d nuvia di sa + i  decisiva che avrebbe portato alla spaccatura dell’USI e all’adesione di larg;    _/parte del sindacalismo rivoluzionario italiano alla tesi dell’intervento (tanto    Te i ; ; li È  che Renzo De Felice faceva risalire proprio al discorso di De Ambris la -  d’inizio dell’interventismo rivoluzionario) ‘, e una serie di altri i sà  non meno traumatici, fino alla clamorosa “conversione” di Benito Mussolini.       isleri i ’Iniziativa» del 15 agosto e  * Il manifesto, redatto da Arcangelo Ghisleri, fu pubblicato da PL pa Hb  ripreso nei giorni seguenti da tutta la stampa repubblicana. irc: a on si a  anarchici a questo riguardo si veda l’articolo di ri vie [af Aaa %  i Volontà», 29 agosto , nel q r i  repubblicano e la guerra (« 3 Z reti cc A  icani di i lla causa della rivoluzione, per egli  repubblicani di aver abdicato al : izione rp  iti bbri replicò il repubblic: i  sperava definitivamente tramontate. A Fal i ibblicano © Me  Larini del PRI anconetano, a sua volta accusando gli anarchici di siente si Lac i  politica (cfr. Anarchici e socialisti, «Il tig 6 Sene ati ; sai pei pipi  inelli i i più ivi trema sinistr: , que  @ due dei nomi più rappresentativi del es ù £  peri ohba Halo ad Ancona, città simbolo della settimana LA san  5 ) . . . . .  i i i i i i giorni gli ambienti sovversivi. a  del clima di forte tensione agitante in quei gi i : cine par  iù n quanto inattesa, ripropi a  ‘odotta dalla guerra, tanto più dolorosa i I |‘ i  divisioni del srt che la comune battaglia sa coord pa via utili panta  ui is, segretario della Camera  agosto Alceste De Ambris, segi della ( T n  an Sirigenti del sindacalismo rivoluzionario italiano, intervenendo ad peri pe  ema “I sindacalisti e la guerra”, presso la sede milanese dell USI, sostenne coi fn  della erra rivoluzionaria. Fra il 13 e il 14 settembre si riunì il consigl e sn AA  dell'Unione La maggioranza votò un ordine del giorno di AO ERA A  i Cat io alla tesi interventista di De E :  Carrara, nettamente contrario al i A  Di Borghi, principale esponente della corrente ni A su merita re  i o di i i Ambris e i suoi seguaci (il fratello ; otti,  ”USI, in luogo di Tullio Masotti. De b i a ne)  Em " Coni, Cesare Rossi, Michele Bianchi, Edmondo Rossoni) pe prio Di  pia de «L’Internazionale», organo dell’Unione. Dalla successiva LS cppora n  opera della frazione interventista, l'Unione Italiana del artt iaia eri sn di  i i ioni si li repubblicane. , rimas  seguito anche le organizzazioni sindacali ì : i  ufficiale prese a pubblicare «La Guerra di com a sta o se Di > rd  ? i is è ri to in « i; k  conferenza di De Ambris è riprodoti vin internazio: ; sto | .  n sn commento di parte repubblicana, significativo in vista o ge So  dell’interventismo rivoluzionario, si veda l’articolo Una voce sindacalista, «L’Inizia ;    agosto 1914.    13       Li H x )  rs sian Belgio € n Francia ad opera dei tedeschi determinò la  1 posizione a favore dell’Intes i i  Sr a da parte di alcuni degli ini  più rappresentativi dell’anarchi “qualiv iS  chismo, non ‘solo fi i i Pi  Db? 9 10, rancese, tra i quali Piotr  Fnac Jezn n James Guillaume e l’italiano Amilcare ppi il  rio “colonnello” della Com ichi o)  e 1 une. Le loro dich ioni  Poni a Cc € ichiarazioni, che  a i la naturale e antica simpatia dei rivoluzionari europei verso  di E ella Grande Révolution e che, a distanza di un anno e mezzo,  ag ubi espressione definitiva nel cosiddetto “Manifesto dei  » suscitarono polemiche e divisioni i  dici” ni anche tra gli anarchici italiani  primo intervento eterodosso di ico i dia  i 1 segno anarchico in materia di i  neutralità fu opera proprio di io Gi Reit i  io di Mario Gioda. Ad ui i i  ì fu o c i na settimana dal  on \ suo articolo  BIO Gioda, scrivendo per «Volontà» (il principale periodico  go ita iano), rilevò il fallimento improvviso e devastante  He age D sostenne la necessità che, in caso d’invasione austriaca  , anche gli anarchici impu i i i  } >, pugnassero le armi per difendere il  È ici i il suolo  azionale ‘. «La Folla», la rivista di Paolo Valera di cui Gioda era da tempo    Sì »8  assiduo collaboratore li offrì, a breve distanza, I Opportunità di precisare    In i pieni torinese interpretando lo sbigottimento di molti — è  ello e troppo forse si è sognato. La guerra è il ri Wi  Intanto, il fallimento dell’o) izi e A en i  ILL pposizione socialista e democratica ne’paesi  I social esi dell  FEFUIONIA imperiale e delle quadrate organizzazioni operaie [...] ci tone i prebiaia       S  : Ag its do UGO FEDELI, Breve storia dell'Unione Sindacale Italiana. HI, in®  Rec ana ngi ni Vac i due volumi di RENZO DE FELICE Mussolini il  nario, , Einaudi, , p. 235 ss., e Sindacalismo riv N zii i  rig nel heidi; De Ambris-D'Annunzio, Brescia, Morcelliana, 196 19.35. ln si  , per il valore della testimonianza, ARM o di  (1398-1905) NIGOlIEREARAI pp v [ANDO BORGHI, Mezzo secolo di anarchia  dat Psa reo) be fog la luce il 28 febbraio 1916, mentre ottenne il consenso di  sti (cfr. Gli anarchici intelligenti son  “dichiarazione” storica, «L’Internazion: linate  j ale», 25 marzo 1915), fu i  da parte del movimento anarchico itali i i GATE ROMEA  taliano (si veda, in particol: ’arti i  nba } _In particolare, l’articolo di ERRICO  ; governo, «Le Réveil communiste- i i  N g ‘ uniste-anarchiste», 1 maggio 1915  si n arts rie sea Li n. ee della grande guerra, ai pagina a 14.  9 re di Valera, aveva contribuito alla ri; ita di e  1912, e vi scriveva regolarmente, iù so imi ai  12, » per lo più sotto pseudonimi (l’ Amico di Vautrin, i I  torinese). Fondamentali, per capire il raj *anzi sat  rese). mentali, per pporto tra l’anziano scrittore e agitato! iali  Porlinia gli articoli di quest’ultimo Paolo Valera, e Ancora di Paolo Valera, nai  Fa = inni i ll o 1911. Su questo punto v. altresì Miano  i LI, rchici italiani e la prima guerra mondial 1 ici  interventisti (1914-1915), in «Rivista Storica dell’ Anarchismo», 1995, TCA ig    14    di difendere domani la nostra casa da qualsiasi eventuale minaccia contro la integrità  di essa, nel mentre a gran voce, dai nemici di dentro, dalla monarchia [...],  reclamiamo e vigiliamo per la assoluta neutralità"    Gli articoli di Gioda (che pure erano ancora lontani da una netta presa di    posizione in senso interventista) scatenarono una polemica a distanza fra  l’autore, il direttore dell’ «Avanti!» Benito Mussolini e Nella Giacomelli,  una delle voci più autorevoli di «Volontà»! In essa s’inserì ben presto  anche l’anarchico individualista Oberdan Gigli, coetaneo e amico di Gioda,  recandovi nuove e più profonde inquietudini".   In una lettera aperta alla Giacomelli, Gigli prese senz'altro le difese del    compagno.          !* MARIO GIODA, Mentre trionfa la guerra, «La Folla», 9 agosto 1914   U Sul numero di «Volontà» dell’8 agosto era apparso anche un contributo di Petit Jardin  (pseudonimo di Nella Giacomelli), intitolato La più grande mistificazione: da Hervé a  .. Mussolini. In esso, la Giacomelli, traendo spunto da alcuni articoli di Mussolini che  lasciavano intravedere un possibile allontanamento dal neutralismo assoluto, aveva  paragonato il dubbioso direttore dell’«Avanti!» a Gustave Hervé, l’araldo  dell’antipatriottismo estremo, arruolatosi volontario nell’esercito francese subito dopo la  dichiarazione di guerra della Germania alla Francia. Mussolini aveva replicato con una lettera  nella quale, rifacendosi a sua volta all’articolo di Mario Gioda, rimarcava l’incoerenza di  «Volontà», che, nel mentre accusava lui di aver tradito le sue idee internazionaliste, non  aveva esitato a pubblicare una pagina di quel tenore. La replica di Mussolini trovò spazio in  un secondo articolo della Giacomelli (In pieno patriottismo!!! Da Hervé a Mussolini: da  Mario Gioda a Oberdan Gigli, «Volontà», 22 agosto 1914), molto critico nei riguardi di  Gioda e degli altri sovversivi “guerrafondai”. Infine, il 29 agosto, il giornale ospitò una lettera  dello stesso Gioda, che, respingendo l’accusa di patriottismo, affermava però il dovere degli  anarchici, proprio in quanto tali, di difendere la causa della libertà - rappresentata dalla  Francia e dai popoli latini - dalla minaccia del pangermanesimo. In merito a questi  avvenimenti v. MAURIZIO ANTONIOLI, Gli anarchici italiani e la prima guerra mondiale.  Lettere di Luigi Fabbri e di Cesare Agostinelli a Nella Giacomelli (1914-1915), in «Rivista  Storica dell’ Anarchismo», 1994, n.1, pp.7-33.   !5 Il ragioniere Oberdan (in realtà Oberdank) Gigli era nato a Gallarate nel 1883, ma si era  formato a Genova, dove la famiglia Gigli si era trasferita dopo la nascita del figlio. Il carattere  mite e la propensione per gli studi filosofici, che ne facevano più il tipo dell’intellettuale che  dell’uomo d'azione, non gli avevano impedito di farsi strada con sicurezza negli ambienti  anarchici del capoluogo ligure, con i quali era entrato in stretti rapporti ancora giovanissimo.  Nel 1902 la Prefettura genovese ne aveva tracciato questo breve profilo: «Individualista,  professa con ardore i principi extralegali, riuscendo ad avere non poca influenza sui  correligionari, non solo in Genova e Sanpierdarena, ma anche in provincia [sell  instancabile nella propaganda delle teorie da lui con calore professate, esplicando tale  propaganda con buon profitto, specialmente fra la classe operaia». ACS, CPC, Busta 2407    [Gigli Oberdan].    15          I problemi dello spirito — affermava — sono tramontati per ora:  forza e della razza e della nazionalità ritornano a predominare coi  ferocia. I valori sociali hanno subito un'inversione. L’internazion  spezzato [...]. Chi doveva non ha fatto il suo dovere; neppure noi'°    i problemi della  n raccapricciante  alismo operaio è    Agli anarchici - concludeva Gigli - restava da riscoprire la loro «comune  anima umana», non escludendo l’opportunità di combattere gli invasori  austriaci (quantunque, come suggeriva, «in libere schiere non governative»),  il giorno in cui questi avessero minacciato l’integrità territoriale italiana!” i  Ai primi di settembre «Volontà» pubblicò una nuova lettera di Gi li Il  concetto fondamentale espresso dal giovane anarchico era che il crohn  della rivoluzione sociale non potesse.essere posto dove fossero ancora ai rt   le questioni della libertà e dell’indipendenza nazionali. son    L’anarchismo — sosteneva l’autore — non rinnega, ma supera il concetto di patria:  rinnega però il patriottismo, che è concezione perfettamente borghese e sibi la  rivoluzione liberatrice anche contro i connazionali [...]. Ma l’anarchismo curdo  me, è una filiazione della filosofia e delle istituzioni borghesi: perciò esso Fon  presupporre una società borghese dove possa svilupparsi fino alla vittoria. La storia  ela tradizione sono quindi progenitrici non ripudiate. Ritengo quindi che i roblemi  essenziali della borghesia debbano essere risolti per poter liberamente clara    verso sistemi libertari. E fra tali problemi v quello delle nazionali la risolvere  libert: fr: I bi è Ilo dell  pi Il lità, da risol    A Tar n 1   Un eventuale Vittoriosa invasione delle armi austro-tedesche non solo   cn lasciato drammaticamente irrisolta la questione nazionale, ma, sotto  . TEC . . Z   il profilo delle conquiste politiche e sociali, avrebbe altresì determinato un       ' «Volontà», 22 agosto 1914.    un Pot in riferimento all'articolo di Mario Gioda dell’8 agosto, era inserita insieme  que ‘a di Mussolini nel citato articolo di Nella Giacomelli, /n pieno patriottismo!!!  dr parole di Gigli la redazione di «Volontà» (retta allora da Cesare Agostinelli, trovandosi  esu rilusi i fatti della settimana rossa, sia Errico Malatesta che Luigi Fabbri) fece seguire una  de i aperto disappunto. «A noi pare — vi si leggeva — che la situazione di quelli che, come  io x e Gigli, si lasciano trasportare dal sentimento patriottico [...] sia la medesima di quegli  E rici che, tempo addietro, andarono volontari a combattere per le patrie dei greci, dei  cubani, dei boeri, degli albanesi. Il fatto materiale potrebbe anche riuscire simpatico; ma esso    esula dal compito specifico degli anarchici divi ‘on questo incoerente se si arriv:  i anarchici, e può ‘entare c  P qi Incoe; si ‘a    18 Ibidem, 5 settembre 1914    16       regresso: l'avvento, anche in Italia, di un sistema «feudale e militaristico»  sul modello di quello degli Imperi Centrali. Impedire che ciò avvenisse  aveva di per sé un valore rivoluzionario; significava combattere per la causa  anarchica e, allo stesso tempo, salvare l’anarchismo dall’isolamento,  riportarlo a contatto con le masse, ravvivato «alla fiamma dell’umanità  dolorante»!?.   La condanna fatta seguire dalla redazione di «Volontà» alle parole di Gigli  hiuse definitivamente la polemica, almeno per quel che riguardava il  giornale di Ancona. Nondimeno, le “defezioni” di Mario Gioda ed Oberdan  Gigli, considerati fra i migliori giovani ingegni dell’anarchismo italiano”,  segnarono un passaggio doloroso nella storia del movimento libertario.   Maria Rygier, intanto, già paladina dell’antimilitarismo e, in assoluto, una  delle personalità più stimate del campo rivoluzionario”, aveva firmato un  sorprendente ‘articolo per «Il Libertario» di La Spezia”, nel quale,  richiamandosi alle «tradizioni garibaldine del Risorgimento», aveva plaudito  alla fine della Triplice Alleanza, il «patto infame» già vincolante l’Italia agli  Imperi Centrali, auspicando la guerra liberatrice contro gli Asburgo, «i  carnefici di Oberdan»?   La Rygier era da poco rientrata da un giro di conferenze in Francia, dove era  stata sorpresa dallo scoppio della guerra, e dove pare avesse rinsaldato i suoi  legami con i gruppi herveisti e soreliani e con la massoneria francese (con  cui sembra fosse in rapporti già dall’anno precedente), legami comunemente  ritenuti la ragione principale della sua — invero repentina — conversione       !° Ivi.   20 |a stessa Nella Giacomelli, nell’articolo del 22 agosto, li aveva definiti «i nostri migliori  uomini»; mentre Errico Malatesta, nella suà prima affermazione ufficiale contro la guerra  (l’articolo Anarchists have forgotten their principles, pubblicato sul numero di novembre  della rivista londinese «Freedom», poi ripreso dai principali giornali libertari italiani), si  rammaricava che tra gli anarchici interventisti vi fossero dei «compagni che amiamo: €  rispettiamo profondamente».   ?! Maria Rygier, nata a Firenze nel 1885, aveva militato nelle fila del sindacalismo  rivoluzionario. Nel 1907, con Filippo Corridoni, aveva dato vita al giornale antimilitarista  «Rompete le file!». La sua fervida propaganda (culminata, dopo la guerra di Libia, con la  campagna in favore di Augusto Masetti, di cui era stata la principale agitatrice) le era valsa il  carcere e numerosi processi, contribuendo ad accrescerne la fama negli ambienti sovversivi.  Nel 1909 era passata al movimento anarchico. Cfr. FRANCO ANDREUCCI, TOMMASO DETTI, //  movimento operaio italiano. Dizionario biografico (1853-1943), Vol. IV, Roma, Editori    Riuniti, 1975-1979, ad nomen.  22 Per una breve storia de «Il Libertario» v. GINO BIANCO, CLAUDIO COSTANTINI, Per la storia    dell'anarchismo. «Il Libertario» dalla fondazione alla prima guerra mondiale, in  «Movimento Operaio e Socialista in Liguria», 1960, n. 5, pp. 131-154.   2 MARIA RYGIER, La bancarotta della politica monarchica in Italia, «Il Libertario», 13  ngosto 1914,    17    all’interventismo. «Nei mesi che intercorrono tra la settimana rossa e il suo  ritorno in Italia nelle vesti di propagandista dell’intervento — ha scritto a  questo proposito uno storico dell’anarchismo — Maria Rygier trova la sua  strada proprio con l’aiuto dei circoli herveisti parigini e del Grande Oriente  di Francia, che l’accoglie nelle sue logge istruendola nel compito che dovrà  assolvere nei confronti dei vecchi compagni e del direttore dell’ Avanti!”»?,  A sua volta un altro autore, in uno dei rari studi dedicati al fenomeno  dell’anarco-interventismo, riferendosi ai motivi determinanti la svolta della  Rygier e degli altri anarchici favorevoli alla guerra, ha scritto né più né meno  di «tradimento nero, mercanteggiato, prezzolato»”?. In quest’ottica, anche in  considerazione del ruolo che molti anarchici interventisti ebbero nel  fascismo, non è difficile capire il perché, a posteriori, si sia finito  semplicemente per negare loro il diritto di cittadinanza nella storia  dell’anarchismo italiano. Senza dubbio, al di là delle durissime e       2 Gino CERRITO, L'antimilitarismo anarchico nel primo ventennio del secolo, Pistoia, RL,  1968, p. 34. È   Quello dei finanziamenti, più o meno occulti, della massoneria al movimento interventista, fu  uno dei motivi dominanti della polemica che precedette l’entrata in guerra dell’Italia (e basti  pensare alla nota questione dei fondi de «Il Popolo d’Italia»). Nel caso di Maria Rygier, quel  che è certo è che ella era da tempo in stretto contatto con gli ambienti dell’emigrazione  italiana in Francia, specialmente con i gruppi socialisti e anarchici di Marsiglia, città dove la  questione dei rapporti tra le frange interventiste di estrema sinistra e le logge massoniche era  sentita in modo particolare. A Marsiglia, infatti, su iniziativa dell’anarchico Raffaele Nerucci,  si costituì un agguerrito Fascio rivoluzionario interventista italiano, accusato dagli avversari,  fin dal suo apparire, di loschi connubi con la massoneria. Un anonimo articolista  dell’«Avarti!», commentando la pubblicazione ad opera del Fascio di Marsiglia di un numero  unico a sostegno dell’intervento («La nostra guerra», 21 marzo 1915), rimproverò a Nerucci e  agli altri interventisti rivoluzionari marsigliesi d’essersi serviti del denaro dei massoni, nonché  del sostegno del Ministero degli Esteri italiano (cfr. Gli interventisti a Marsiglia, «Avanti!»,  30 marzo 1915). Personaggio ambiguo e contraddittorio, Raffaele (in realtà Raffaello)  Nerucci era nato a Castelfranco di Sotto, in provincia di Firenze (oggi Pisa), nel 1876. A  Marsiglia, dov’era emigrato nell’aprile del 1901 e dove gestiva un ristorante, Nerucci aveva a  lungo esercitato una grande influenza, conseguenza di un carattere che l’ambasciata italiana  aveva definito «audace e pronto», ma anche della sua spregiudicatezza (pare, del resto, che  egli fosse in qualche modo legato alla malavita locale). Negli anni tra il 1906 e il 1910  Nerucci era stato corrispondente da Marsiglia de «La Protesta Umana», de «Il Libertario» e  de «L'Avvenire Anarchico». Nel dopoguerra fu tra i fondatori del Fascio di combattimento  marsigliese, da cui fu tuttavia espulso nel 1927 «per indegnità morale e politica». Condusse il  resto della sua vita sotto l’attenta sorveglianza delle autorità fasciste. ACS, CPC, Busta 3526  [Nerucci Raffaello].  ° PIER CARLO MASINI, Gli anarchici italiani fra interventismo e disfattismo rivoluzionario, in  «Rivista Storica del Socialismo», 1959, n. 5, p. 210.    18    comprensibili polemiche del momento”, che hanno spesso sisi  anche nel tono, i giudizi e le interpretazioni successive, la scelta i campo c  Maria Rygier, per quello che il suo nome evocava nell immaginario  simbolico dell’estrema sinistra italiana, rappresentò un trauma n pe  riassorbito, cui può essere paragonato (ma solo in minima parte) quello a  fece seguito alla professione di fede interventista di un altro protagonis  delle battaglie antimilitariste d’inizio secolo: Antonio Moroni ; Lbatnn  Circa le ragioni ideali, se non devono essere sottovalutati, ne i inire il  mutato atteggiamento della Rygier — che prima di aderire all anaro ismo e  stata sindacalista rivoluzionaria —, i debiti con il sorelismo e con 1 Giga  46he ad ogni modo costituivano un substrato culturale comune a molti  rivoluzionari, non solo del campo interventista), ben più rilevanti, come  emerge dalla febbrile attività propagandistica della stessa Nico vr  precedenti e immediatamente successivi all entrata in guerra o alia,  appaiono i riferimenti al mazzinianesimo. Non è certo un eri pe Pan  veste della Rygier fosse particolarmente apprezzata dai repubblicani n  lei medesima finisse vieppiù per accostarsi al dpi . ni  repubblicano, fino - come vedremo 2a n la confluenza di tutte le  [ *interventismo rivoluzionario ne È  i manifestazione ufficiale dell’interventismo della Rygier Li  lettera di adesione alle tesi di Alceste De Ambris, che ella pn 20  agosto, all’indomani della discussa conferenza milanese del dirige       i i i i i in «Volontà» del 19  2° Basti, al riguardo, ciò che della Rygier preti slo sini  settembre 1914: «Io trovo in te solo un merito: que î i i al tuo  dnerottiio d’occasione, rivelandoti femmina fino alla radice dei capelli per morbosità di   i i; inti i spirito». NOILIA .  sentimenti; per intima debolezza di spiri G i RG  27 Il caso del giovane militare di leva Antonio Moroni, nie su vela di pria   i i impatie anarchiche, eri  San Leo di Romagna a motivo delle sue simp: T i Ma  i imilitari È inistra (battaglia che egli stesso avi   battaglia antimilitarista dell’estrema sinis ‘negre   i ie di l carcere, regolarmente pubblicat   limentare con una lunga serie di lettere dal ere, ) d  ssovveniivafi Sul suo nome, insieme a quello di Augusto Masetti, era sa DRSAATE  campagna da cui ebbe origine la settimana rossa. Congedato il no A vs ci de   i del sovversivismo; il che pu  era stato accolto come un vero e proprio eroe de ) E  i i vecchi compagni allorchè egli, al Ì »  della sorpresa e dello sgomento dei suoi vec T di A E  i i ì tari garibaldini (a ti  dove finì per arruolarsi fra i voloni I  prese la via della Francia, i i $ I IN Arti  i *arti i l'i L’Avvenire Anarchico», 8 g 6   lempio v. l’articolo Moroni l'ingrato, « i  Pulcino) Su Antonio Moroni v. FRANCO ANDREUCCI, TOMMASO DETTI, op. cit., Vol. III, ad  Oltre i Iniziati i ì ropria penna a  28 Oltre che all’organo nazionale del PRI, «L Iniziativa», la Rygier 9 la pi sa pci  molti altri giornali repubblicani, tra cui principalmente «La Libertà» (Ravenna),    Repubblicano» (Roma) e «Il Lucifero» (Ancona).    19       sindacalista Ma la Rygier fu anche i ratrice del Manifesto  yg spirat le ‘anife degli  anarchici Interventisti ; redatto da Oberdan Gigl dietro invito di lei 3  gli di  ‘anifesto ne quale egli VI ‘orma di programma, le  manif riprende a, ordinandole in fi d prog!  8 Si 5) =  1 gia espresse nelle su ue lettere a «Vo lontà» ppello, steso 1  tesi già espresse nell ed Vol ); L’a Il t 120  sette re e diffuso alla fine de (ese, critto da alcuni noti e meno  ne del mese, era sottosi  ettembre e diff Ila f I tt tto d. 1  noti esponenti dell anarchismo italiano Insieme a sindac. I  1 ns d  t tal ; sinda alisti, socialisti  dissidenti e repubblicani , e non fu un caso ch Ve pressi In  e vedesse la luce essoché  contemporanea a un manifesto Intransigentemente neutralista diramato dalla  e: s Quasi ad anticipare la nascita (; C lavi  Direzione del PSI d I anche in chiave anti  nu ista) del primo Fascio rivoluzionario d azione internazionalista’’.  el testo di Gigli, accanto a Immagini e richiami della simbologia libertaria,  SI trovavano, confusi in un unico disegno, concetti apertamente democratici  e mazziniani («noi riteniamo che | Internazionalismo sarà possibile solo  q o nazioni saranno libere, P' iché là dove odio divide l’Irredento  uando le na: i, po là di l’odio divid I ‘eden  dall’o, ressore, ogni altro problema economico e politico no! può trovare  ppi p! P' liti n ti  SO uzione»), romantiche visioni camicie rosse («la ri Li I, è per  mi isioni di camici («l  I neutralità. 088 P'  utti solamente un a ‘0 egoismo nazionale; essa (CISA azioni  lett ‘gO. ional p legazione  tutti solamente ui bbie iazionale; essa è la recisa neg  dello inter nazionalismo mater iato di solidarietà e sacrificio, che ci ha spinto  sui campi della Francia, della Grecia, del Messico, della Serbia») e roboanti  ! p  proclam di stampo roto-mussoliniano («I Inerzia è vigliaccheria e la    neutralità, che ancora disconosce la volontà po olare, è trad mento. E? l’ora  ) pop: , ti 1 I       29 ì n E, n  kia pon fn «L’Internazionale», Edizione Nazionale [d’ora innanzi Ed.Naz.], 12  4. La lettera si trova riprodotta anche in MARIA R soglia  t i i YG ia di  Lana nostra patria, Roma, Libreria Politica, 1915. pp. 19-24 drain  questo scopo ella si era segretamente in ’ n Gigli più di  cre. ils ver ola pae i contrata con Gigli più di una volta. Cfr. ACS,  pi poi Hi RyGIER, Sulla soglia di un'epoca, cit., p.25  e firme apposte al manifesto erano i: e igli i  1 ap al m quelle di: Oberdan Gigli, Maria Rygi i  pe que Paolinelli, Edoardo Malusardi, Gino Tenerani, ta elit  Di i e di ss Sa ua Martello, Emanuele Carletti, Ugo Piermattei, Len  } I ‘asquali, Bruno Bernabei, Giovanni Provinciali, Ezi ? ini  eni Ardisson, Gesualdo Grossi, Otriade Gigliucci, Francesco Sarti. Aigle  63 ai DIE i ese hi p articolo di poco successivo (Dedicato agli anarchici  caiser, Inizi », 10 ottobre 1914), ebbe tuttavi; i 3 ii i  sui intervenzionisti a suo tempo. Lo firmerei den ae6 ia AREA  appello della Direzione socialista, opera prevalentemente di Mussolini, fu pubblicato    dall’«Avanti!» del 22 settembre 1914 i  rivolazionario, ite pp, 250251, colato REbiz0 DE FELICE, Miasolini:1    20    L'invito finale, rivolto a tutti i sovversivi, era quello a mobilitarsi per la  “loro” Francia, la Francia «della libertà e della rivoluzione»**. Gigli, in  verità, avrebbe voluto inserire nel testo almeno un accenno alle terre italiane  Irredente, ma ne fu dissuaso dalla Rygier, convinta che non fosse ancora il  momento per un’esplicita dichiarazione in senso nazionale”.   In calce al manifesto degli anarchici interventisti figurava anche la firma di  Libero Tancredi, pseudonimo di Massimo Rocca. Se i casi di Mario Gioda,  di Oberdan Gigli, di Maria Rygier — e di altri che ne sarebbero seguiti —  destarono lo stupore e il rammarico di molti, il fatto che Rocca si schierasse  per l'intervento non sorprese quasi nessuno: fu visto, anzi, come una logica  cofiseguenza degli atteggiamenti da lui presi in passato, specie in relazione  alla guerra di Libia. Un giudizio di Camillo Berneri del 1924 (mentre  volgeva al termine la parabola di Rocca come dirigente fascista) racchiude in  poche parole il comune sentire degli anarchici italiani e si può dire riassuma  buona parte della successiva riflessione storiografica sul personaggio.  «Massimo Rocca — scriveva Berneri — non è mai stato anarchico. Fu  individualista; il che non è la stessa cosa». Comunque si voglia vedere, è  però indiscutibile che fu nel clima culturale e politico dell’anarchismo       V Per il testo completo del manifesto del 20 settembre v. MARIA RYGIER, Sulle soglie di  un'epoca, cit., pp. 27-29.   Il manifesto, intitolato “Per la Francia e per la libertà”, fu pubblicato a stralci su «Il Resto del  Carlino» del 21 settembre 1914 (Un manifesto di anarchici e di rivoluzionari a favore della  guerra), su «Il Corriere della Sera» del 23 e su «L’Iniziativa» del 26. Eloquente il commento  del quotidiano liberale bolognese: «Oggi gli anarchici ed i rivoluzionari italiani si levano in  piedi a respingere la neutralità e a richiamare il soccorso di tutti gli uomini di libertà, per dar  mano alla Francia, per schiacciare il blocco austro-tedesco, per riportare in Europa il soffio  della rivoluzione. Quale rivoluzione? Quella francese, quella borghese, quella dell’individuo e  della nazione: la nostra!»   Per le ripercussioni del documento in seno al movimento anarchico v. gli articoli / sovversivi  guerrafondai, «Avanti!», 23 settembre 1914 (cui fece seguito una risposta di Gigli a  Mussolini, pubblicata dall’organo nazionale socialista quattro giorni dopo), e // manifesto dei  falliti, «Volontà», 3 ottobre 1914. Sull’intera vicenda v. altresì UGO FEDELI. Note su! 1914-  1915. Gli anarchici e la guerra, in «Volontà», 1950, n. 10, pp. 622-628.   35 Cfr. MARIA RyGIER, Sulla soglia di un'epoca, cit., p.26   36 CAMILLO BERNERI, Uomini e idee. Libero Tancredi, «La Rivoluzione Liberale», 18 marzo  1924.   Il profilo tracciato da Berneri non nasceva unicamente da una valutazione di carattere  personale, ma sinseriva in una lunga consuetudine di pensiero. A proposito della campagna  interventista intrapresa da Rocca, «Volontà» del 5 settembre 1914 lo definiva «un anarchico  che... non è mai stato dei nostri»; e Luigi Molinari, uno dei padri dell’anarchismo italiano, in  suo intervento su «L’ Avvenire Anarchico» del 15 ottobre, gli contestava fermamente il diritto  a dirsi anarchico, almeno «nel senso scientifico della parola». Su Massimo Rocca si veda  anche la voce corrispondente in FRANCO ANDREUCCI, TOMMASO DETTI, op. cit., Vol. IV.    24,             gra n. che si formarono uomini come Massimo Rocca e che questi  Icolare si pone come una delle fi iù  i x i igure più controverse e a tutt’oggi  cin definite della storia politica italiana del Novecento. seal  so n° ‘è fon il 26 ni 1884 da una famiglia di modeste condizioni  , operaio tipografo come il compagno Mario Gi i  i ; io Gioda, Rocca  accostato all’anarchismo agli inizi del ‘ ù ole  ‘ lel ‘900, nel momento in cui, insi  prime suggestioni nietzschiane e all’inqui IRR  € Inquieta poesia di Henrik Ibsen, si  TARA ni nel nostro paese le idee di Johan C Schmidt  mosciuto con lo pseudonimo di M i il fil  ueglicicoa i ‘ax Stirner), il filosofo de  n x Attratto dalle teorie degli individualisti, che a quelle idee e a  iaia i 5 apici Rocca si era contraddistinto per un’intensa  nferenziere, collaborando nel frattem i gi i  ttività d ere, collal po a numerosi giornali  o anarcoindividualista, fra i quali «Il Grido della Folla» di  ip ; Pi 1906 al 1911, con l’amico Alfredo Consalvi”, aveva dato vita  PR lata rino del «Novatore», rivista improntata a un marcato  alismo intellettualistico; esperienza che gli  d | istici e gli era valsa lunghe ed acri  polemiche con gli ambienti dell’anarchismo ufficiale’, Agli eccessi       37 è Pics E ;  a Gipi ear opera di Max Stimer, L'Unico e le sue proprietà, apparve nel  P i Torino, a cura del tipografo modenese Ettore Z. i, già i  gruppi anarchici degli Stati Uniti e l°o, i i ua FR  pera di Max Stirner, una i i i  del Geni met 1a d ner, prima introduzione al pensiero  Ì $ ; pali divulgatori delle teorie individualiste i i  libertario italiano furono - con i i an  eri Nella Giacomelli - Ettore Molinari, Giuseppe Monanni e Leda  Sulle fortune ‘e le diverse correnti dell’indivi i  ell’individualismo anarchico nel nostri  DA A ’ pu  Pena piace alla settimana rossa. Per una storia dell Di.  Italia (1881- , Firenze, 1977, p. 97 ss., e PIER CARLO M. i i ici  vet csi; HRR degli attentati, Milano, Rizzoli, 1981, p. 193 i Vf perg  « rido della Folla» fu il primo giornale ‘a hico italia i  «Il ( fuvil narchico italiano di schietta int i  HR ino acri ni sia del 1902 da Ettore Molinari e Nella Giacomelli cad  i ovanni Gavilli, cessò le pubblicazioni cinque anni più tardi i i  7 Vai toi PIER. . ardi. T  CAS ira din videro la luce in quegli anni, i più Sposi frico  » (Firenze, 5), «La Protesta Umana» (Mil: 3 1 i ire  1907-1908), «Sciarpa Nera» (Milano, 1910 veli Gil INIT A  | , -1911) e «La Rivolta» (Milano, 1910  ueste pubblicazioni ebbero fra i | iù assidui i si i  9 i loro più assidui collaboratori Oberdan Gigli e Mario Gi  i loda.  V a ale a i. nel ve Anarchico individualista, stretto collaboratore  oca, 1 protagonisti dell’anarcointerventismo. Nel do) ì  convinzione al fascismo e nel 1929, anche in virtù ' fottla chi paria  ; i ; rtù della stretta amici  Rossoni, fu radiato dall’elen i ivi Mir gira  gs co dei sovversivi. Cfr. ACS, CPC, Busta 1441 [Consalvi  40 : . 13  Ra SS anni (poi semplicemente «Novatore») uscì in tre serie successive: la  Lr n Pose A psi ottobre 1906; la seconda — dopo che Rocca e Consalvi  ‘alia per gli Stati Uniti — a New York, dal 15 ottobri i  i a i 7 i } e 1910 al 4  de Wperzia di nuovo in Italia (prima a Milano, poi ancora a Roma), dal 29 luglio al  « Nel 1907 il giornale anarchico romano «La Gioventù Libertaria» accusò    22    MRO PEPATE PITT TT ATER RPVOR    polemici, che ne avrebbero segnato tutta la vita, lo spingevano d’altra parte il  carattere irrequieto ed un acceso orgoglio intellettuale, tipico della sua  formazione di autodidatta.  Lo scoppio della guerra libica lo aveva visto a fianco di Arturo Labriola e  degli altri sindacalisti rivoluzionari sostenitori dell'impresa (ai quali si  sentiva affine per vocazione ideale), su posizioni decisamente “tripoline”’'.  Con la sua propaganda a favore dell’avventura coloniale, il solco che già lo  Alivideva dai suoi vecchi compagni si era fatto incolmabile. Nell’estate del  1914, tuttavia, grazie anche all’interessamento di Mario Gioda, aveva tentato  di riavvicinarsi al movimento anarchico, chiedendo, con qualche speranza, di  poter prender parte al progettato - e presto abortito - congresso di Firenze®.  Con ostinazione, cui non era stata estranea una buona dose di  autocompiacimento, e a dispetto dei suoi molti avversari, Rocca aveva  continuato (e, in fondo, sempre avrebbe continuato) a considerarsi anarchico.       Rocca e Consalvi d’essersi appropriati dei fondi raccolti in Italia e all’estero per finanziare la  rivista. Cfr. LEONARDO BETTINI, Bibliografia dell'anarchismo, Firenze, CP, 1972, ad indicem.  dl Sul “Tibicismo” di Rocca v. soprattutto LiBERO TANCREDI, Una conquista rivoluzionaria. In  pro e in contro la guerra di Libia, Napoli, Editrice Partenopea, 1912.   Rocca era in stretti rapporti con gli ambienti del sindacalismo rivoluzionario. Tra il 1909 e il  1911 suoi scritti erano comparsi su «Pagine Libere» di Paolo Orano e Angelo Oliviero  Olivetti e su «La Lupa», la rivista fiorentina fondata da Orano che fu arena d’incontro fra  sindacalisti e nazionalisti (Orano, tra l’altro, scrisse la prefazione al volume di Rocca La  tragedia di Barcellona, pubblicato nel 1911). Quanto al nazionalismo, bisogna dire che Rocca  ne aveva seguito con grande interesse l’avventura politica, come anche testimoniato  dall’articolo. // neo nazionalismo, scritto per il «Novatore» di New York nel dicembre del  1910, all’apertura del congresso nazionalista di Firenze che decretò la trasformazione del  movimento in Associazione. «E’ notevole — aveva scritto Rocca in quell’occasione — che  nell'Italia democratica del presente, tutta piena di pacifisti e di umanitari, vi sia un Corradini  abbastanza coraggioso per inneggiare alla guerra ed alle armi [...]. Certo, il nazionalismo in    Italia è un fenomeno nuovo, che sconvolge molte teorie, ma che comincia ad imporsi e col    quale bisognerà confrontarsi. Bisognerà, se non altro, considerarlo come un’onda di sincerità  lia, e che non manca d’un lato    che avvolge gli ultimi residui virili deila borghesia d’Ital  onorevole e grandioso».   #? Gioda (un intervento del quale —  figurava nel programma congressuale) av    “Gli anarchici di fronte agli altri partiti sovversivi” —  eva accompagnato una nota di raccomandazione alla  lettera indirizzata da Rocca al comitato ordinatore del congresso fiorentino. In quella lettera -  che «Volontà» rifiutò di pubblicare — Rocca aveva auspicato che il congresso potesse servire  «di spiegazione fra compagni e di mezzo di pacificazione» e aveva chiesto d’esservi ammesso  come relatore sul tema “Guerra e militarismo”, al riguardo assicurando che la sua tesi era  «meno eterodossa» di quanto potesse sembrare € di essere in grado di spiegarsi  «fraternamente su Tripoli». Cfr. MAURIZIO ANTONIOLI, Gli anarchici italiani e la prima  guerra mondiale. Lettere di anarchici interventisti (1914-1915), cit., pp. 92-93.    23    Nelli 7 f 4 7  ell’introduzione a un suo libro di quel periodo, che possiamo leggere come    La programmatico del suo modo di interpretare l’anarchismo, aveva  ritto: i    Dal momento ch’io persisto a dichiararmi ed a sentirmi anarchico senza curarmi  dell’altrui divieto o permesso [...], credo e persisto a credere che l’anarchismo  quale energia. critica di pensiero e di temperamento individuale, e le  affermazione ribelle di valori etici nuovi, possa avere una vasta ed îm Bi  funzione da compiere, a lato dei movimenti pratici: credo anzi che dell'anfchismo  ve ne sia molto oggidì — fuori degli anarchici ufficiali — nelle minoranze ch  formano la parte più viva e suscitatrice della vita pubblica odierna i    A ; questa visione concettuale, estetizzante e fortemente  elitaria  dell anarchismo, inteso più come uno stato d’animo che come un corpo certo  di dottrine e di programmi, Rocca restò in definitiva sempre fedele, pur nel  mutare delle esperienze politiche e personali, e ad essa si sarebbe fiheli    richiamato, negli anni della sua adesione al fascismo, a motivare le posizioni  assunte all’inti del ito!  interno del partito".       4 E È n 5 È  RSA ott ; “regni; contro l'anarchia. Studio critico-documentario, Pistoia, Il  Punto focale della riflessione di Rocca era la contrapposizione fra la rigidità formale  dell anarchia, intesa come dottrina politico-filosofica, e l’energia liberatoria dell’anarchism  Se l’anarchia rappresentava il mito elevato a dogma, «una concezione trascendente [ n  superiore e padrona anche di chi vi crede»; l’anarchismo era invece più propriamente 104  disposizione dello spirito «l’eterna sete di progresso, di libertà, di novità», incarnantesi nell:  rivolta, «nel senso più puro ed etico del termine», al punto che «tutte le rivolte passate è  future, tutti gl’ideali nel loro senso dinamico» potevano considerarsi sue mai istazioni AI  libro di Rocca era premessa una breve lettera di Arturo Labriola (a riprova dei legami esistenti  ia individualista torinese e il mondo del sindacalismo rivoluzionario), che  Gol da È ci Sia ammirazione per l’autore, definendolo «uno degli scrittori politici più  Nel 1924, in una lettera/dedica a Mario Gioda premessa ad una raccolta dei suoi articoli  revisionisti sul fascismo, Rocca avrebbe scritto: «Tu, Gioda, sei tra i pochi che mi furono  compagni di spirito anche prima che il fascismo sorgesse: tra quel gruppo di sovversivi che  volevano esser tali per disprezzo delle classi dirigenti autodemolitrici di se medesime e della  nazione, ma che affermavano ereticamente la realtà della patria fra le masse sovversive di  allora. Orbene, io ho ripassato in questi giorni quel mio libro L'anarchismo contro l'anarchia  [..] ein quelle cinquecento pagine, ho ritrovato, esplicito o in nuce, moltissimo di ciò che è  oggi il fascista che ti scrive. Vi ho ritrovato cioè [...] il riconoscimento del sentimento  nazionale quale dato integratore dell’individuo e quale spinta indispensabile al progres  umano [...]; l'immortalità dellò stato e del diritto, pur attraverso le sue trasbordo fol  organo necessario a consolidare e conservare le conquiste operate dalla società su se ‘stess  concretandone la coscienza e selezionando, con la resistenza del potere politico, le Pisi  veramente rivoluzionarie e rinnovatrici dalle irrequietudini dissolventi; il diritto alla libertà    24    «Non mancherà di stupire chi conosce qual sia la concezione politica per la  quale io milito — scriveva Rocca all’esordio della sua campagna interventista  - sebbene sia coerentissimo con ciò che penso da dieci anni e che da tre anni  sostengo apertamente, nella previsione dell’attuale catastrofe». Fulero della  nuova impresa polemica di Massimo Rocca era la rivendicazione, ribadita  fra il settembre e l’ottobre in numerosi altri interventi”, della natura  sostanzialmente anarchica della lotta contro il militarismo e l’espansionismo   desco in difesa dei popoli latini, dal momento che «Ia latinità aveva sempre  rappresentato la libertà, il progresso e la rivoluzione»*”. Alla maggioranza  degli anarchici rimproverava perciò di. aver tradito l’eredità e il messaggio  ideale del vero anarchismo, «quello che combatteva Mazzini per  completarlo, più che per negarlo»'*, e di essersi messi al giogo  dell’opportunismo ministerialista e del complice “teutonismo” dei socialisti  ufficiali”.       interiore per chi è capace di foggiarsi nel proprio spirito una legge, e la legittimità della  coazione su chi non si eleva a tanto» (MASSIMO ROCCA, Idee sul fascismo, Firenze, La Voce,  1924, p. 12).  4 LiBERO TANCREDI, // dovere della guerra, «L’Iniziativa», 29 agosto 1914.  Questo e altri scritti del periodo sono anche contenuti (ma spesso in forma incompleta o  rimaneggiata) nel volume di Rocca, Dieci anni di nazionalismo fra i sovversivi d'Italia,  Milano, Il Rinascimento, 1918.  ‘° Oltre agli articoli direttamente citati v. anche L'accordo che commuove, «L’Iniziativa», 12  settembre 1914, Gli eterni vinti, «Il Resto del Carlino», 3 ottobre 1914, e Gli anarchici, i  sindacalisti e la situazione internazionale, «Il Lavoro», 24 settembre 1914.  4? LiBERO TANCREDI, // dovere della guerra, cit.  4" Ip., Gli anarchici del kaiser, «L’Iniziativa», 19 settembre 1914.  L'organo del PRI pubblicò la seconda parte di quest'articolo il 26 settembre. La controversia  che ne seguì coinvolse soprattutto Ottorino Manni, indicato da Rocca fra gli anarchici  favorevoli alla guerra contro gli Imperi Centrali (insieme ai fiorentini Lato Latini e Giovanni  Canapa), per via di due suoi interventi apparsi su «Il Libertario» del 27 agosto e del 10  settembre (Gli eroi della guerra e Polemica sulla guerra). Manni, che aveva effettivamente  ammesso di trovare «realistiche e più positiviste», rispetto alle astratte prese di posizione  dell'ortodossia anarchica, le considerazioni di Mario Gioda e di Oberdan Gigli a proposito  dell’eventualità della difesa in armi del territorio nazionale, respinse però ogni addebito  Interventista, dapprima con un nuovo articolo su «Il Libertario» del 24 settembre (La guerra  no!), poi con una lettera di poco successiva a «Volontà». A parte il caso di Manni, bisogna  dire che gli esempi portati da Rocca nel suo celebre articolo non erano granché probanti.  Infatti, se Giovanni Canapa (meglio conosciuto con lo pseudonimo Brunetto D’Ambra) era un  nome noto dell’anarchismo italiano, altrettanto non si poteva dire di Lato Latini. Nel giugno  del 1904, il Prefetto di Firenze - dove Latini, nativo della provincia di Arezzo, esercitava il  mestiere di tipografo - aveva informato la Direzione Generale di Pubblica Sicurezza di non  averne fino ad allora segnalato il caso, perché «modestissimo gregario della setta anarchica».  ACS, CPC, Busta 2729 [Latini Lato].  4° Per un giudizio di Rocca sulla politica del Partito Socialista si veda la sua prefazione al  volume di EDMOND LASKINE, / socialisti del kaiser, Milano, Sonzogno, 1916, pp. 5-38.    25             L’ardente propaganda di Rocca per la guerra, propaganda che egli (come del  resto gli altri anarchici interventisti) riteneva potesse indurre la base del  movimento ad abbandonare la ferma pregiudiziale neutralista, contribuì a  esacerbare gli animi, mentre si moltiplicavano le provocazioni e le  intemperanze, da una parte e dall’altra. La sera del 4 ottobre Rocca e Maria  Rygier s’incontrarono alla Società Operaia di Bologna per una conferenza  sulla “Morale della guerra”, ma la decisione non si rivelò molto felice, vuoi  per la sede prescelta — il pubblico essendo costituito per lo più da operai  anarchici e socialisti — vuoi per il momento poco propizio”, e l’annunciata  discussione si concluse in un prevedibile tumulto, con tanto di lancio di  sedie, nel quale i due oratori e le loro improvvisate guardie del corpo (fra cui  il giovane romagnolo Leandro Arpinati) ebbero inevitabilmente la peggio”.       50 Il 28 settembre si era tenuto a Bologna un comizio del deputato belga Lorand — in Italia allo  scopo di sensibilizzare l’opinione pubblica alla causa del proprio paese — in occasione del  quale gli organizzatori avevano fatto circolare un volantino in cui si affermava che «i  repubblicani, i sindacalisti, gli anarchici più colti e intelligenti erano per la guerra  all'Austria». Il Fascio Libertario bolognese e il gruppo del foglio antimilitarista «Rompete le  file!» avevano reagito con sdegno alla pretesa degli interventisti di ascrivere anche gli  anarchici tra i fautori della guerra (una loro lettera di protesta era stata pubblicata  dall’«Avanti!» il 3 ottobre).   ®! Cfr. La conferenza di un anarchico sospesa con una sedia in testa, «Il Secolo», 5 ottobre  1914, e Violenze e tumulti di socialisti ad un comizio di anarchici, «Il Corriere della Sera», 6  ottobre 1914.   Sul periodo anarchico di Leandro Arpinati, 0, meglio, sui legami tra l’azione politica di  Arpinati durante il fascismo e le sue radici anarcoindividualiste, v. STEPHEN B. WHITAKER,  Leandro Arpinati anarcoindividualista, fascista, fascista pentito, in «Italia Contemporanea»,  1994, n. 196, pp. 471-489. Per il resto, le poche notizie sulla formazione politica di Leandro  Arpinati sono mediate dal vecchio volume di TORQUATO NANNI, Leandro Arpinati e il  fascismo bolognese (Bologna, Edizioni Autarchia, 1927), un’opera agiografica, scritta nel  pieno delle fortune politiche dell’Arpinati fascista, alla quale occorre guardare con molta  cautela. A quel primo lavoro, ritirato dal commercio subito dopo la pubblicazione (sembra per  volontà dello stesso Arpinati) e mai più ristampato, hanno attinto tutti i successivi biografi di  Arpinati, da DUILIO SUSMEL (Leandro Arpinati, in «La Domenica del Corriere», 1967, n. 36  pp. 16-20) a AGOSTINO IRACI (Arpinati l'oppositore di Mussolini, Roma, Bulzoni, 1970). Nato  il 29 febbraio 1892 a Civitella di Romagna, in provincia di Forlì, Arpinati si era trasferito a  Torino giovanissimo, lavorando prima come sguattero d’albergo, poi come operaio alla  fabbrica automobilistica Diatto. Di estrazione socialista (suo padre Sante era stato uno dei  maggiori esponenti della sezione socialista di Civitella), il giovane Arpinati si era avvicinato  all’anarchismo intorno al 1910, restando affascinato dalle teorie degli individualisti e  divenendo, a quanto pare, grande ammiratore di Massimo Rocca. Risalirebbe a questo periodo  anche il primo contatto di Arpinati con Mussolini, all’epoca direttore de «La Lotta di Classe»,  chiamato a inaugurare il nuovo mercato coperto di Civitella intitolato ad Andrea Costa.  Nell'occasione, gli anarchici locali, con alla testa Arpinati, avrebbero inscenato una dura  contestazione, suscitando il risentimento di Mussolini (ma non v'è traccia di quest’episodio  nelle pagine dell’organo socialista forlivese). Da quel momento - secondo gli autori sopra    26    PPANTPP 777 VIP PRRPPIA       Le seggiolate rimediate alla Società Operaia bolognese non Fine Rei  effetto che quello di confermare Rocca nella propria capar — -  campo, né gli impedirono in alcun modo di proseguire, E: e n  proselitismo, pur in un clima di sempre maggior tensione”. % si g D i  dopo l’episodio di Bologna — e un momento prima di lasciare sn ia o ;  Francia alla volta delle truppe garibaldine - Rocca, che era da an >  rapporti con Mussolini e l’«Avanti!» , ottenne anzi il suo per più  yritido e importante, firmando i celebri e controversi articoli su « ua  Carlino» che forzarono il futuro “duce” del fascismo ad accelerare i temp:  del suo strappo interventista"‘.       citati Arpinati e Mussolini sarebbero comunque rimasti in seria Fata sunt  î E) ri . . A  icizi è ipazione di Arpinati alla vita politica  amicizia. Quel che è certo è che la partecipazi T a Fi i  ico itali i ionale collaborazione con un giorn: ino,  anarchico italiano, fatta eccezione per un'occasi x DE dpr  arti i i Socialismo e anarchismo («L’ Alleanz ;  che aveva fruttato l’articolo in due parti 4 % nt gent  i he rilevante, e che solo l’intervei  20 e 27 maggio 1910), era stata tutt'altro cl ] ) i re  ) A ità di i notare. Secondo la figlia, autrice anc!  futuro gerarca l’opportunità di farsi noi rice | na  iscutibi i i lo prese parte attivissima ; i  iscutibile biografia, l’anarchico romagno i ima 4  a Fira dopo quello famoso della Società Operaia, in papea RE  incidenti, al punto da assumere un nome falso - Vittorio Neri -, da saga panda  all'oscuro la madre delle sue disavventure» (Oo Cari erinen ‘eigen i  r ittari ttera a firma È  io padre, Roma, Il Sagittario, 1968. p. 37). Una lett O (  Civitella che si proclamava «al fianco» di Mussolini «per la A i verso sa rr,  i i Italia» del 25 novembre . Impiegato ,  comparve in effetti su «Il Popolo d Ita i È | pi  aopinti fu riformato dal servizio militare perché figlio maggiore di madre vedova,  rese parte alla guerra. i iris fi ida A  I} GIà i 6 ottobre, la testa ancora fasciata per le ferite riportate due gio! se i gii  artecipò ad una conferenza, indetta dall’ Unione Repubblicana bolognese Ure SR  ochist e macchinisti, con una relazione sulla Triplice Alleanza. Cfr. «L’Inizi: n  ail il i izioni Librarie Italiane, 1954), Rocca  S In Come il fascismo divenne una dittatura (Milano, Edizioni Librarie » anni cbr  scrisse di aver conosciuto Mussolini nell’estate del 191 pra a pa dr n  del fi i À i lini direttore dell’«Avanti!», Rocc: i ì  del futuro “duce”. Divenuto Musso! ‘ V HAN gie  zi ialista (firmandosi con gli pseudonimi a  collaborazione con l’organo social 1 i i  juidi il l’articolo 4/ rimorchio dei ciechi. , «ve  Guidi), conclusasi 1°8 agosto 1914 con colo i c Sligo soin  isagli i P in Dieci anni di nazionalismo — di ui 2g (  avvisaglia — ricordava l’autore in n eta  A is la censura di Mussolini, allora fe; t  d'interventismo», non aveva passato la cei h IR  M Si i articoli // direttore dell’«Avanti!» smascherato. 9 i  Si tratta degli articoli / » ‘ato. U xa  aperta a Benito Mussolini, e La polemica fra Benito Mussolini e Libero patata ; ed  del socialismo contro la guerra. Un uomo di bronzo, «Il Resto del Carlino», 7 e  sd Ai abissi è. nÎ, , o 9  ‘sì questa vicenda v. RENZO DE FELICE, Mussolini il rivoluzionario, cit, p. 255 ss., €  MASSIMO Rocca, Come il fascismo divenne una dittatura, cit., p. 39 ss.    27    I casi fin qui considerati (ai quali dev'essere senz'altro aggiunto quello del  famoso pubblicista Roberto D’Angiò) 5 sono sicuramente i più noti ed  emblematici, ma l’irrompere del conflitto europeo, lungi dal trovare gli  anarchici tutti risolutamente ostili e impenetrabili ad ogni incanto guerresco,  suscitò anche nel movimento libertario non pochi dubbi e ripensamenti, che,  se non sfociarono tutti in atteggiamenti positivi di sostegno all’intervento,  fermandosi a volte al limite dell’ “eresia”, o non andando oltre un generico -  e del resto largamente condiviso - sentimento di simpatia per la causa  dell’Intesa, testimoniavano di un’incertezza diffusa e sotto molti aspetti  inevitabile, considerata l’asprezza della prova, capace di segnare in modo  indelebile la coscienza di molti. Così, via via che gli eventi bellici  maturavano e si modificava la situazione politica interna, numerosi altri  anarchici (alcuni dei quali, allora semplici gregari - come Arpinati e un altro  giovane romagnolo, Edmondo Mazzucato?” -, si sarebbero fatti le ossa    °° Roberto D’Angiò, nato a Foggia nel 1871, era stato redattore de «Il Libertario». La sua  attività si era dispiegata per la maggior parte all’estero: in Egitto, dove aveva soggiornato per  quattro anni, dal 1902 al 1906, contribuendo, grazie soprattutto a due giornali da lui fondati e  diretti («L’Operaio» e «Lux»), a rinsaldare la già fertile comunità anarchica italo-egiziana; e a  Montevideo, in Uruguay, dove era giunto nell’aprile del 1906 e dove aveva dato vita al foglio  «La Giustizia». A differenza di Rocca e degli altri esponenti di punta  dell’anarcointerventismo, D’Angiò non ebbe un ruolo determinante nella propaganda per  l’intervento, ma le sue dichiarazioni pubbliche a favore della guerra contro gli Imperi Centrali  destarono egualmente sconcerto. Nel dopoguerra - come vedremo - D’Angiò avrebbe  rivendicato con pervicacia la scelta interventista, tentando anche, senza successo, di  raccogliere i superstiti dell’anarcointerventismo intorno ad un progetto politico autonomo.  Cfr. ACS, CPC, Busta 1612 [D°Angiò Roberto]. Sulla figura e l’opera di Roberto D’Angiò v.  altresì LEONARDO BETTINI, op. cit., ad indicem.   5° Il percorso politico di Mazzucato era stato sotto molti aspetti simile a quello di Leandro  Arpinati. Nato a Forlì nel 1887, il repubblicano Edmondo Mazzucato si era trasferito a Milano  appena diciottenne, in cerca di miglior fortuna. Nel capoluogo lombardo aveva trovato  dapprima lavoro nell’ufficio pubblicitario del giornale socialista «Il Tempo», poi, come  tipografo, presso la tipografia Politti e Galimberti, dove si stampava l’anarchico «Il Grido  della Folla». Risalivano dunque a quel periodo i primi contatti di Mazzucato con  l’anarchismo, testimoniati dalla sua collaborazione ai fogli libertari milanesi, «La Protesta  Umana» e «L’Operaio». Nel gennaio del 1906, il giovane anarchico era stato tratto in arresto  per aver preso parte a una manifestazione commemorativa della “domenica di sangue” in  Russia. Tre anni più tardi, militare di leva, era stato condannato a un anno di reclusione per  aver percosso un superiore e internato nel carcere napoletano di Sant'Elmo. Nell'ottobre del  1910 aveva assistito come osservatore al congresso milanese del PSI, durante il quale - come  sembra - conobbe il conterraneo Benito Mussolini. Nove anni dopo, scrivendo per l’organo  dell’Associazione fra gli Arditi d’Italia, Mazzucato avrebbe rievocato quell’episodio con  queste parole: «Lo ricordiamo fin dalle giornate del congresso socialista di Milano nel 1910,  quando con la sua eloquenza incisiva e tagliente sferzò tutto un sistema di obbrobrio, di  patteggiamenti osceni, di volute rinunce della parte cosiddetta intellettuale del Partito  Socialista. Fu una rivelazione» (EDMoNDO MAZZUCATO, Governo di pigmei, «L’ Ardito», 31       28       proprio nella lotta interventista) si lasciarono attrarre dal fascino e dalle  ragioni della guerra. Fra questi dovevano emergere due uomini, diversi per  indole e per esperienze di vita (e ai quali il dopoguerra avrebbe riservato  opposti destini), ma uniti allora nella comune battaglia interventista, nella  quale avrebbero riversato tutte le loro energie. Erano Attilio Paolinelli, di  Grottaferrata?”, e il lodigiano Edoardo Malusardi, entrambi firmatari del  manifesto del 20 settembre.   Lo stuccatore Edoardo Malusardi, che all’epoca dei fatti aveva appena  venticinque anni (era nato il 30 agosto 1889), era poco conosciuto negli  ambienti anarchici nazionali. La sua esperienza di maggior rilievo era stata  la collaborazione con il foglio bolognese «L’Agitatore», per il quale aveva  curato una rubrica di corrispondenze da Lodi, firmandosi con gli pseudonimi  ‘Turbolente e Odroade, e rivelando, già allora, una naturale propensione per  la polemica giornalistica”. Attivo nella propaganda spicciola, specie in  ambito sindacale, e noto alle autorità di Pubblica Sicurezza per l’irruenza dei  comportamenti, il contributo di Malusardi alla vita politica del movimento  libertario era stato comunque limitato (sembra anzi che molti compagni lo  tenessero in conto di buono a nulla) e la sua sola uscita pubblica di una certa  importanza risaliva ad un comizio “pro scioperanti di Piombino e Isola  D'Elba”, il 7 settembre del 1911, a Lodi; comizio durante il quale aveva  avuto il compito d’introdurre l’oratore principale, che nell’occasione era  stato Massimo Rocca”. ; i  Benché influenzato dalle teorie dei sindacalisti rivoluzionari, l’anarchismo  di Malusardi appariva intensamente venato d’individualismo. L’anarchia -       maggio 1919). Allo scoppio della guerra europea Mazzucato seguì dunque Mussolini  nell'avventura interventista e si arruolò volontario, combattendo negli arditi. Nel opoguerra  wi rese protagonista nelle file del fascismo. Cfr. ACS, CPC, Busta 3192 [Mazzucato  Edmondo], e EDMONDO MAZZUCATO, Da anarchico a sansepolcrista, MRO EEgIeTE  1934 (per quanto edulcorata questa breve autobiografia di Mazzucato A si n; “i  rappresentazione significativa non solo ne av politico dell’autore, ma anche del cl   >) a il primo movimento fascista). È È  Matino iaia db nel 1882. Approdato all’anarchismo dopo travagliate esperienze  personali (nel 1898 era stato condannato a 11 anni e otto mesi di carcere per aver a  la matrigna), fu uno dei grandi protagonisti dell’anarcointerventismo. Cfr. ACS, CPC, Busi   Paolinelli Attilio]. 7   liaison che Ho vita, con qualche interruzione, dal maggio 1910 al luglio E nta  stato uno dei più importanti periodici anarchici italiani, potendo contare sul contri uto di  alcuni tra i nomi più rappresentativi dell’anarchismo, da Luigi Fabbri a Domenico Li  da Armando Borghi alla stessa Maria Rygier. Oltre che al settimanale bolognese, Malusari i  aveva occasionalmente collaborato a «Il Grido della Folla», a «L’Avvenire Anarchico» e alla  sindacalista «L'Internazionale», sempre occupandosi-di cronaca locale lodigiana.  Cfr, ACS, CPC, Busta 2964 [Malusardi Edoardo].    29          aveva scritto in polemica con un foglio cattolico di Lodi ai tempi della sua  collaborazione a «L’Agitatore» - «è un sublime Ideale di redenzione  proletaria», avente per seguaci «tutti gli spiriti ribelli delle innumerevoli  nazioni» e per compito quello «di combattere ogni tirannia”.    Noi però — aveva concluso Malusardi — non ci illudiamo, lo sappiamo che la  realizzazione di quest’Ideale è molto lontana, ed ecco perciò che, basandoci sulla  realtà, benché siamo umanitari per eccellenza, giustifichiamo tutti gli atti di violenza  diretti contro l’autorità, le alte personalità e l’ordine costituito, poiché [...]  fintantoché voi adoprerete la violenza per sopprimerci, e fintantoché vi cardio  diseguaglianze, esisteranno sempre individui risoluti, i quali, facendo getto della  propria vita, emergeranno dalle moltitudini belanti per vendicare la propria classe”!    La realtà opposta alla dottrina, la violenza come forza sovvertitrice e  pedagogica, la massa amorfa e, in antitesi, la figura del ribelle, l'individuo  eroicamente consapevole, erano motivi ricorrenti nella simbologia e nella  fraseologia dell’individualismo anarchico e già contenevano, in potenza, il  germe dell’anarcointerventismo. Nel caso specifico di Edoardo Malusardi, si  può affermare che ne avrebbero accompagnato, segnandolo profondamente.  l’intero percorso politico. i  Nella propaganda per l’intervento Malusardi manifestò un’ancor più  spiccata vis polemica e una notevole intraprendenza organizzativa  rendendosi sin dall’inizio protagonista di un vivace dibattito, nientemeno che  con Luigi Molinari®?. La contesa sollevata dal giovane anarchico lombardo.  che investiva proprio la consistenza e la misura dell’adesione anarchica alle  tesi interventiste, finì per coinvolgere il direttore de «Il Libertario», Pasquale  Binazzi. Malusardi, infatti, aveva citato alcuni articoli filo intesisti apparsi  sul giornale spezzino (uno dei più diffusi e autorevoli dell’anarchismo  italiano) come segno dell’orientamento tutt’altro che univoco degli anarchici  in merito alla guerra europea. Binazzi fu costretto a replicare che «il  condannare e disprezzare fatti odiosi compiuti dagli aggressori austro-       °° TURBOLENTE, Buffe denigrazioni. Lettera aperta al direttore del giornale «Il Cittadino» di  sal «L’Agitatore», 28 aprile 1912.  vi.   ° La prima sortita interventista di Malusardi apparve su «L’Iniziativa» del 12 settembre 1914  (i articolo Anarchici per la guerra). Il 3 ottobre, sempre sulle pagine dell’organo nazionale  repubblicano, Malusardi si scagliò contro Luigi Molinari, il quale, sull’ «Avanti!» del 25  settembre, aveva definito «bugiarda ed interessata» l’opinione, diffusa soprattutto negli  ambienti borghesi e democratici, che gli anarchici italiani fossero per lo più favorevoli  all intervento. La polemica fra i due si trascinò per diversi giomi. Molinari aveva conosciuto  Malusardi tre anni prima, in occasione di una commemorazione di Francisco Ferrer avvenuta  a Lodi il 26 ottobre 1911. Cfr. ACS, CPC, Busta 2964 [Malusardi Edoardo].    30          tedeschi contro i serbi, i belgi e i francesi»? era cosa assai diversa dal far  attiva propaganda per l’intervento, con ciò riaffermando l’indirizzo  indiscutibilmente anarchico del suo giornale.   In verità, la condotta de «Il Libertario», improntata, rispetto a quella di  «Volontà» e de «L'Avvenire Anarchico», a una maggiore elasticità,  costituiva di per sé la spia di un non trascurabile disagio. Non si può negare,  infatti, che il foglio di Binazzi — che, come si è visto, aveva pubblicato il  primo articolo “revisionista” di Maria Rygier — concedesse ampio spazio ad  enunciati e proposte che, agli occhi dell’ortodossia anarchica, dovevano  apparire quanto meno discutibili. Negli scritti di Alighiero Tanini, di Marino  Baldassarre e del socialista-anarchico Giacinto Francia (collaboratori di  lunga data del giornale e figure non marginali dell’anarchismo italiano) ci,  scritti ispirati ad un radicale filo-francesismo e intrisi di un odio altrettanto  violento per 1’ Austria e la Germania, non si esitava a parlare di «nuove orde  di Attila» che mettevano a repentaglio la sopravvivenza stessa della civiltà  occidentale; del terribile pericolo rappresentato dal «pangermanesimo  delirante, negatore violento delle razze e del genio latini»; di Francesco  Giuseppe e Guglielmo II come di due «semi umani [...] avvinazzati, due  bruti appestati di grandezza imperialista e di delirio militare»; e si evocava  «il tragico lievito rosso» della guerra, da cui sarebbe dovuta scaturire, sulle  rovine delle antiche tirannie, la palingenesi rivoluzionaria”.   Il fatto che, col passare del tempo, queste posizioni si andassero mitigando*°  è che Binazzi (come anche ebbe modo di chiarire nel dibattito a distanza con       ©! PASQUALE BINAZZI, Non equivochiamo, «Il Libertario», 8 ottobre 1914.   © ‘Tanini, in particolare, in virtù della sua costante attività politica e propagandistica €  nonostante la giovane età (era del 1889), godeva di molta considerazione. Costretto a riparare  In Svizzera per sottrarsi alle ricerche della polizia (da Losanna aveva regolarmente curato una  rubrica per «Il Libertario»), era rientrato in Italia alla vigilia della settimana rossa. Cfr. ACS,  CPC, Busta 5023 [Tanini Alighiero].   © le citazioni sono tratte, nell’ordine, da: ALIGHIERO TANINI, La guerra dei titani, «Il  Libertario», 20 agosto 1914, e La triplice alleanza è morta per il bene del mondo, Ibidem, 27  iigosto 1914; MARINO BALDASSARRE, /mperialismo barbaro, Ivi; GIACINTO FRANCIA,  l.'apocalisse storica, Ivi.   ® Forse per non dar adito ad altre divisioni, Alighiero Tanini e Marino Baldassarre chiarirono  che la loro manifesta simpatia per la Francia e per il Belgio non celava assolutamente il  desiderio di vedere l’Italia in guerra a fianco delle Democrazie, e riaffermarono in più di una  eircostanza la loro fede internazionalista. Tanini s’ingegnò anche a mostrare la via per una  soluzione pacifica della questione nazionale: fare di Trieste una città libera e del Trentino una  provincia indipendente (si vedano, per quanto riguarda Tanini, gli articoli // nostro pensiero  pacifista, La fine del teutonismo e Il nostro ideale pacifista, «Il Libertario», 22 ottobre, 15  novembre, 17 dicembre 1914; e, per quel che attiene a Baldassarre, l'articolo / tocchi    dell'agonia, Ibidem, 22 ottobre 1914).    31       Malusardi) fosse personalmente del tutto contrario al coinvolgimento degli  anarchici nel nascente movimento interventista rivoluzionario, non toglie che  il suo giornale, si consideri o no un segno di «discutibile larghezza»,  rappresentò, almeno sino alla fine del 1914, una tribuna affatto secondaria di  confronto, anche estremo, sui temi della guerra.    Fondamenti ideologici e riferimenti politici dell’interventismo anarchico    Patrimonio di tutti (o di quasi tutti) gli anarchici interventisti era - come si è   già più volte accennato - l’eredità dell’individualismo. Poiché  l’individualismo fu fenomeno complesso e variegato, è indispensabile  cercare di definire i contorni di questa comune matrice dell’interventismo  anarchico e, più in generale, provare ad evidenziarne i tratti caratterizzanti.  A tale proposito, considerata la sua influenza, è il caso di soffermarsi ancora  una volta sul pensiero di Massimo Rocca, per il quale, nonostante l’iniziale  infatuazione per Stirner, l’individualismo non s’identificava - e non si era  mai del tutto identificato - con lo stirnerismo, quanto meno nella sua  accezione più diffusa, velleitaria e amoralistica. Alla volgarizzazione di  Stirner e alle sue conseguenti degenerazioni “metafisiche” (di cui egli  imputava la responsabilità a giornali come «Il Grido della Folla» e che non  riteneva meno dannose per l’anarchismo dell’utopia comunista  kropotkiniana) Rocca opponeva una valutazione storica e “sentimentale”  dello stirnerismo, che sostanzialmente non avrebbe mai abbandonato e che  costituirà il substrato culturale dei suoi futuri approdi politici.       AI contrario di Tanini e Baldassarre, l'avvocato Giacinto Francia (che era nato nel 1869 a  Minervino Murge, in provincia di Bari, e vantava una lunga militanza nelle file dell’estrema  sinistra pugliese) non tornò affatto sui propri passi. Smessa la collaborazione con «Il  Libertario», si schierò senza esitazioni per l’intervento e si arruolò volontario nei reparti  garibaldini impegnati sulle Argonne. Nel dopoguerra aderì al movimento fascista e prese  parte, in rappresentanza dei Fasci di combattimento pugliesi, al primo congresso nazionale  fascista (cfr. «Il Popolo d’Italia», 11 ottobre 1919). Rimasto fedele all’idea socialista-  anarchica, si distaccò dal fascismo non appena questo ebbe assunto una marcata coloritura di  destra. Pur senza mai assumere un atteggiamento di netta opposizione al regime (anche in  virtù di un carattere eccentrico e incline alla misantropia, che lo spingeva all’isolamento)  Francia visse il resto della sua vita sotto la stretta sorveglianza dell’autorità di Pubblica  Sicurezza. Cfr. ACS, CPC, Busta 2155 [Francia Giacinto].   © Gino CERRITO, L 'antimilitarismo anarchico nel primo ventennio del secolo, cit., p.37.  Sull’atteggiamento de «Il Libertario» riguardo alla guerra europea v. anche CLAUDIO  COSTANTINI, Gli anarchici in Liguria durante la prima guerra mondiale, in «Movimento  operaio e socialista in Liguria», 1961, n. 2, p. 101 ss.    32          Egli — aveva scritto di Stirner ai tempi del «Novatore» — non predica il delitto pel  delitto, la forza bruta per la forza bruta, ma le invoca perché nella Germania  profondamente statica ne rappresentavano lo sfasciamento. La sua “potenza”, il suo  “sacrilegio”, il suo egoismo hanno un’intenzione, un significato, una portata non  Individuale, ma sociale [...]. L’individuo di Stirner non è dunque lo scialbo  calcolatore egoistico del giorno per giorno o dei quattro soldi per truffare. E’ l’uomo  che si erge di fronte al sole e al mondo, pieno di tutta l’umanità che il passato gli ha  trasmesso, ma innalzato a questa base di ereditarietà, comune a tutti i suoi simili,  dalla gigantesca statura della sua personalità individuale”    Rocca sottolineava pertanto la grandezza “passionale” della filosofia di  Stirner, di cui intravedeva la forza trainante e rivoluzionaria nell’esaltazione  del sentimento e dell’istinto. Ammettere questo significava riconoscere,  accanto all’individuo, «ogni entità collettiva, dalla famiglia, alla classe, alla  nazione, cementate e fondate da una comunanza sentimentale»; significava,  in una parola, «negare l’astratto a favore del reale». Muovendo da queste  premesse, Rocca era approdato a quello che definiva “liberismo  rivoluzionario” o “novatorismo”, che era poi «l’individualismo anarchico  ampliato e confrontato con la realtà».    Noi — sono ancora sue parole — affermiamo altamente l’importanza dell’individuo  singolo, quale novatore, inventore e ribelle [...] Ma comprendiamo pure le folle che  rovesciano impetuose un ostacolo al progresso dietro la spinta di una minoranza  rivoluzionaria; comprendiamo la classe che si materia soggettivamente  dell’avversità sorda verso la classe opprimente; comprendiamo la nazione che si  forma per lunga eredità storica e si afferma contro lo straniero o contro lo stato suo  Interno che la sfrutta e la trascina alla vergogna. Comprendiamo insomma tutte le  rivolte [...]; comprendiamo tutte le volontà di affermazione e di dominio e le  esaltiamo quando sono sorrette da una fede sincera d’entusiasmo che le innalza al di  sopra del meschino determinismo quotidiano. Per noi gli statisti che tiranneggiano in  nome di un principio confessato e francamente servito sono infinitamente più nobili  e rivoluzionariamente più fecondi dei Giolitti che inaugurano l’accordo delle classi  corrompendole nella generale mangiatoia”       °" LiBERO TANCREDI, Liberismo rivoluzionario o individualismo democratico, «Novatore»,  New York, 16 febbraio 1911.  69 Ivi   Ivi,  "Ivi,  A proposito dell’individualismo di Rocca si veda anche il lungo articolo auto-apologetico,  Una difesa postuma (agli ex amici della «Vir»), in «Quand-meme» (un numero unico  pubblicato a Parigi nel luglio del 1908 su interessamento di Alfredo Consalvi), articolo nel  quale Rocca difendeva la propria interpretazione dello stirnerismo dall’accusa di «morbosità»    33          Solo tenendo presente questo punto di vista è possibile comprendere i  presupposti teorici dell’interventismo di segno anarchico-novatoriano  (quanto meno nei suoi artefici più consapevoli, come Oberdan Gigli) e le  ragioni profonde della successiva adesione al fascismo di molti dei suoi  protagonisti.   Quantunque il “novatorismo” fosse il tratto saliente dell’interventismo  anarchico, pure quest’ultimo non può non esser considerato nell’ambito di  quella vera e propria esperienza di sincretismo politico e ideologico che fu  l’interventismo rivoluzionario. Mentre il riaffiorare delle passioni  risorgimentali e dell’utopia garibaldina fece da ponte tra le forze  dell’estrema sinistra sindacalista e anarchica ed il Partito Repubblicano”, i  miti dell’azione e della violenza rivoluzionaria, incarnati nel sorelismo,  rimandavano a un linguaggio e a una simbologia noti tanto ai sindacalisti  quanto ai discepoli di Massimo Rocca”, Lo stesso individualismo, per la sua  carica eversiva e iconoclasta, servi da punto d'incontro fra gli anarchici  propugnatori della guerra e le correnti più radicali della cultura italiana del  tempo, in primo luogo le avanguardie futuriste, che ebbero una parte non  trascurabile nella campagna interventista”.       mossagli dalla rivista fiorentina di Giuseppe Monanni e Leda Rafanelli (cfr. Per  l individualismo, «Vir», marzo 1908, n. 3).   Fondamentali, per una testimonianza diretta a questo riguardo (prescindendo dagli   inevitabili accenti propagandistici e agiografici), le pagine dell’allora segretario del PRI  Oliviero Zuccarini, Storia della vigilia. Il Partito Repubblicano e la guerra d'Italia, Roma,  Edizioni de «L’Iniziativa», 1916.  ?° Circa i legami fra il mondo anarchico italiano e le dottrine di Georges Sorel — e, in senso  più ampio, l’ideologia e la prassi politica sindacalista — v. GIAN BIAGIO FURIOZZI, Socialismo,  anarchismo e sindacalismo rivoluzionario, Rimini, Maggioli, 1981. Sul nesso tra anarchismo  e sindacalismo rivoluzionario, specie in relazione alla nascita e all’attività dell’USI, v. anche  l’introduzione di Maurizio Antonioli a ARTHUR LEHNING, L'anarcosindacalismo. Scritti  scelti, Pisa, BFS, 1994, pp. 11-27, e EMiLIo DE FALCO, Armando Borghi e gli anarchici  italiani (1900-1922), Urbino, QuattroVenti, 1992, p. ll ss.   A partire dal numero del 15 agosto 1914, la rivista fiorentina «Lacerba», fondata l’anno  precedente da Giovanni Papini, assunse un contenuto esclusivamente politico, dando un  appoggio incondizionato alla propaganda per l’intervento. Nel quadro di un indirizzo  sostanzialmente nazionalista, le pagine di «Lacerba» non disdegnarono di accogliere posizioni  di segno rivoluzionario. Valga per tutti un articolo di Ardengo Soffici del primo settembre,  Per la guerra, nel quale l’artista sposava la tesi della guerra rivoluzionaria e tesseva l’elogio  di Gustave Hervé.   Sui rapporti tra anarchici e futuristi v. soprattutto ALBERTO CIAMPI, Futuristi e anarchici.  Quali rapporti? Dal primo manifesto alla prima guerra mondiale e dintorni (1909-191 7),  Pistoia, Archivio famiglia Berneri, 1989,    34       Le differenti impostazioni ideologiche, cui però sottostava una molteplicità  di riferimenti culturali comuni, s’intrecciavano dunque nella complessa  trama dell’interventismo rivoluzionario, del quale gli anarchici novatoriani  andarono a costituire uno degli elementi formanti. “Guerra e Germinal”  (ovvero guerra e rivoluzione sociale, guerra come mezzo per l’abbattimento  violento del militarismo e delle strutture politiche ed economiche borghesi),  la meta additata da Ottavio Dinale ai sovversivi italiani in un’intervista a «Il  Resto del Carlino», divenne il tema dominante della campagna interventista  dei partiti estremi”; e il “mito” della guerra rivoluzionaria - come lo ha  chiamato Renzo De Felice - s'impadronì anche dell’interventismo anarchico.  Massimo Rocca firmò il famoso “appello ai lavoratori italiani”, lanciato a  Milano il 5 ottobre 1914, per la costituzione di un Fascio rivoluzionario  d’azione internazionalista, punto d’inizio di un movimento che, di lì a pochi  mesi, avrebbe messo radici in tutta l’Italia centro-settentrionale”?. Da quel       " L'intervista a Ottavio Dinale (Ottavio Dinale dice «guerra e germinal») si trova in «Il  Resto del Carlino» del 25 settembre 1914.   La biografia politica di Dinale (1871-1958) offre un esempio emblematico del clima culturale  nel quale prese forma e maturò la corrente interventista rivoluzionaria. Inizialmente ‘socialista,  organizzatore e agitatore sindacale nella bassa modenese, Ottavio Dinale era stato tra i  promotori del sindacalismo rivoluzionario in Italia e fondatore, nel 1905, del primo giornale  ufficialmente sindacalista, il settimanale «La Lotta proletaria». Quattro anni più tardi aveva  Iniziato la pubblicazione — prima a Nizza, poi a Milano — del periodico «La Demolizione»,  caratterizzato da un’impostazione marcatamente antilegalitaria e da frequenti richiami sia  all'individualismo stirneriano, sia al nascente movimento futurista. Interventista, attivo  collaboratore del mussoliniano «Il Popolo d’Italia», nel dopoguerra sostenitore dell’impresa  fiumana e candidato repubblicano alle elezioni del 1921, Dinale si avvicinò infine al  fascismo, diventando amico intimo (e poi persino biografo) di Mussolini. Nel 1928 fu  nominato Prefetto del Regno. Cfr. FRANCO ANDREUCCI, TOMMASO DETTI, op. cit., Vol. II, ad  nomen, € ALBERTO CIAMPI, op. cit., ad indicem.   "3 11 manifesto/appello del Fascio Rivoluzionario (sottoscritto, oltre che da Massimo Rocca,  da Decio Bacchi, Michele Bianchi, Ugo Clerici, Filippo Corridoni, Amilcare De Ambris,  Attilio Deffenu, Aurelio Galassi, Angelo Oliviero Olivetti, Decio Papa, Cesare Rossi, Silvio  Rossi, Sincero Rugarli) fu edito in prima battuta da «La Folla» del 4 ottobre 1914, quindi, sei  giorni dopo, dal primo numero della nuova serie di «Pagine Libere» (la rivista quindicinale di  Olivetti, che si stampava a Lugano), contemporaneamente a un lungo articolo, Inchiesta sulla  guerra europea, contenente i pareri, tra gli altri, di Massimo Rocca e di Maria Rygier.   Sulla nascita, la diffusione e il significato politico dei Fasci Rivoluzionari v. in particolare il  classico BRUNELLO VIGEZZI, L'Italia di fronte alla prima guerra mondiale, Vol. 1, L'Italia  neutrale, Milano-Napoli, Ricciardi, 1966, p. 860 ss., e RENZO DE FELICE, Mussolini il  rivoluzionario, cit., p. 305 ss. Di quest’ultimo autore v. altresì il breve saggio L 'interventismo  rivoluzionario, in Il trauma dell'intervento, Firenze Vallecchi, 1968, pp. 271-291. Infine, per  una riflessione sui primi giorni dell’interventismo rivoluzionario v. UGO SERENI, Luglio-  agosto 1914: alle origini dell’interventismo rivoluzionario, in «Ricerche Storiche», 1981, nn.    2-3, pp. 525-574.    35       momento gli anarchici interventisti furono parte integrante dei Fasci,  collaborando attivamente ad essi e intensificando i rapporti con le testate  dell’interventismo rivoluzionario. Nondimeno, essi avrebbero sempre  conservato una loro specificità. Alla fine di ottobre Attilio Paolinelli, con  Rocca, la Rygier, Antonio Agresti” e Torquato Malagola””, pubblicò «La  Sfida», “giornale di polemica anarchica”, un numero unico che, se  testimoniava dell’organicità del manipolo anarcointerventista in grembo al  neonato movimento dei Fasci, voleva anche dar prova di una peculiarità  ideologica rivendicata con fierezza e destinata, più tardi, a trovare eco nelle  pagine de «La Guerra Sociale»”*. Poco dopo la nascita de «Il Popolo  d’Italia», Paolinelli (che peraltro auspicava per il nuovo giornale di  Mussolini il ruolo di portavoce ufficiale dell’interventismo rivoluzionario)  scrisse al direttore dell'organo milanese di sentirsene, in un certo qual modo,  addirittura un precursore ‘°.       7 Il fiorentino Antonio Agresti (1864-1926), incisore, anarchico vicino al sindacalismo  rivoluzionario, collaboratore de «La Lupa» di Paolo Orano, fu autore di uno dei pochissimi  contributi di parte anarcointerventista sul conflitto mondiale, il pamphlet Perché sono  interventista. Risposta all’opuscolo “La guerra europea e gli anarchici”, Roma, L’Agave,  1917 (l’opuscolo citato nel titolo era quello di Luigi Fabbri, pubblicato a Torino nel 1916 per  la Tipografica Editrice). Nel corso della campagna interventista, come altri suoi compagni, a  cominciare dalla Rygier, Agresti finì per accostarsi al mazzinianesimo (esemplare, a questo  proposito, una sua lettera pubblicata da «La Libertà», organo del PRI ravennate, il 5 dicembre  1914). Nel dopoguerra, pur mostrando simpatia per il fascismo, si ritirò sostanzialmente dalla  vita politica. «Da molti anni- annotava nel marzo del 1925 la Prefettura di Roma,  proponendone la radiazione dal registro dei sovversivi — si è allontanato dai compagni di fede  e non professa più principi anarchici. E’ un valoroso pubblicista, redattore de “La Tribuna”,  uomo d'ordine». ACS, CPC, Busta 31 [Agresti Antonio].   7 Il sarto Torquato Malagola, di S.Alberto in provincia di Ravenna, era nato nel 1876. Come  Agresti, anch’egli nel dopoguerra si allontanò dall’impegno politico, rompendo i ponti con  l’anarchismo. /bidem, Busta 2946 [Malagola Torquato].   7 «La Sfida» si apriva con una dichiarazione programmatica — a .firma «gli anarchici  indipendenti d’Italia» - e si componeva di cinque articoli (ATTILIO PAOLINELLI, Comunismo e  individualismo.  Ideologie metafisiche e realtà anarchiche; LIBERO TANCREDI,  Dell’anarchismo; ANTONIO AGRESTI, Oggi e domani; MARIA RYGIER, Per la civiltà contro la  barbarie; TORQUATO MALAGOLA, Alle armi!), più alcuni estratti da Lectres à un francais sur  la crise actuelle, un testo di Bakunin del 1870 sulla guerra franco-prussiana (dal quale  trasparivano le simpatie del vecchio cospiratore per la patria dell’ “Ottantanove”),  comunemente citato dagli anarchici interventisti a sostegno delle loro posizioni filo-intesiste.  Per le reazioni in campo anarchico ufficiale all’iniziativa di Paolinelli v. Accettando «La  Sfida». Ritratto del grafomane pseudo-anarchico Libero Tancredi, «L’ Avvenire Anarchico»,  12 novembre 1914, e Luigi BERTONI, Agli “sfidatori”, «Volontà», 28 novembre 1914.   ?° «Caro Mussolini — scriveva Paolinelli noi ci conosciamo: io mi ti presento a traverso un  foglio «La Sfida», del quale ti mando alcune copie [...]. Il nostro numero unico di Roma,  come vedi, precorre il tuo bel quotidiano» («Il Popolo d’Italia», 19 novembre 1914).    36 ,          Inesorabilmente, più gli schieramenti si andavano definendo e più  l’accanimento col quale il gruppo degli anarchici interventisti reclamava il  diritto alla qualifica anarchica doveva destare scompiglio ed imbarazzo. La  sera del primo novembre, al Teatro Garibaldi del Testaccio, a Roma, ebbe  luogo un comizio dei Fasci, cui presero parte i redattori de «La Sfida» ed  altri anarchici dissidenti. «A proposito di questi ultimi — commentava quasi  divertito un quotidiano liberale — occorre notare che essi sono invasati  dall’idea che la guerra si debba fare; il che desta alquanta meraviglia e  stupore»®°. Le reazioni degli ambienti anarchici ufficiali non si fecero  attendere”, mentre già da tempo, nel fluire ininterrotto delle questioni di  principio e delle polemiche verbali, il movimento libertario si trovava di  fronte alla spinosa e assai più concreta questione dei volontari.    Anarchici o garibaldini?    ]    Errico Malatesta, pur riconoscendo a Garibaldi e ai patrioti del Risorgimento  la nobiltà dell’ispirazione e alla loro opera disinteressata il merito di aver  educato le future schiere rivoluzionarie allo spirito di sacrificio, non nutriva  però gran simpatia per il garibaldinismo. Nella definizione del celebre capo  anarchico, che pure da giovane, come quasi tutti i protagonisti del primo  internazionalismo italiano, aveva pagato il suo tributo di affetti al  mazzinianesimo, lo spirito garibaldino era la “malattia infantile”  dell’estrema sinistra italiana, retaggio di un’epoca ‘lontana, sentimento  generoso ma sterile, tanto più pernicioso in quanto distoglieva i partiti  popolari da quello che avrebbe dovuto essere il loro solo scopo, la  rivoluzione sociale”.   Certo è che, come il patrimonio storico e ideale del pensiero democratico  risorgimentale continuò ad esercitare un forte ascendente anche sui più       0° Un comizio al Testaccio in favore della guerra. Gli anarchici vogliono diventare soldati,  «Il Giornale d’Italia», 2 novembre 1914.   Alla fine di novembre si costituì anche a Roma un Fascio rivoluzionario d’azione  Internazionalista, che ebbe proprio in Attilio Paolinelli e Torquato Malagola due dei più attivi  propugnatori (cfr. «L’Internazionale», Ed.Naz., 28 novembre 1914). dal i   ' Al riguardo v. soprattutto OTTAVIO TONIETTI, Alienazione mentale o mistificazione,  «L'Avvenire Anarchico», 5 novembre 1914, e la lettera di protesta del gruppo libertario  romano “Martiri di Chicago”, pubblicata dall’ «Avanti!» del 7 novembre.   "? Per l'opinione di Malatesta su Garibaldi e le forze della Democrazia risorgimentale se ne  veda la prefazione a MAx NETTLAU, Bakunin e l'Internazionale in Italia, Ginevra, Il  Risveglio, 1928, pp. XV-XXXI.    37          accesi internazionalisti, che non di rado su di esso si erano formati, così il  garibaldinismo costituì, almeno sino al giro di boa impresso dalla prima  guerra mondiale, l’anima avventurosa, romantica e un po’ ingenua, del  sovversivismo italiano. Se ciò non sorprende affatto per i repubblicani, i  quali, nonostante la sempre maggior attenzione posta alle questioni di  politica sociale, non avevano mai abbandonato le idealità mazziniane, non  deve del pari sorprendere per quel che riguarda il Partito Socialista, quanto  meno in alcune sue correnti, quelle più vicine al socialismo delle origini.  Allo stesso modo, sebbene gli anarchici indulgessero assai meno alle  suggestioni della camicia rossa, anche in seno al movimento libertario  sopravviveva, qua e là, un residuo di mentalità risorgimentale, in cui - com’è  stato scritto - «libertà dei singoli e libertà dei popoli si intrecciavano e si  confondevano e in cui la pianta dell’internazionalismo affondava le sue  radici in un terreno impregnato più del volontarismo mazziniano che del  determinismo del socialismo scientifico».   L’esempio più noto e certamente più suggestivo di questo modo di  concepire l’anarchismo è senz'altro quello di Amilcare Cipriani; ma egli era,  in fin dei conti, un uomo d’altri tempi, di quell’epoca di mezzo che aveva  visto germogliare l’idea internazionalista dal tronco del mazzinianesimo,  sotto il pungolo della predicazione di Bakunin®'. Quel medesimo clima  ideale che aveva generato uomini come il romagnolo Pietro Cesare  Ceccarelli, compagno di Carlo Cafiero e Malatesta nella cosiddetta banda del       8 MAURIZIO ANTONIOLI, Gli anarchici italiani e la prima guerra mondiale. Lettere di  anarchici interventisti (1914-1915), cit., p.82.   Su «L’Internazionale» del 5 dicembre 1914, per la rubrica “Lettere dalla Francia in guerra”  - inaugurata il 21 novembre — comparve un'intervista di Alceste De Ambris ad Amilcare  Cipriani. In essa, che ebbe larga risonanza in tutto il campo dell’interventismo rivoluzionario  (fu ripresa anche da «Il Popolo d’Italia»), Cipriani ribadiva le ragioni del proprio filo-  intesismo. Commentando le dichiarazioni di Cipriani, il sindacalista anarchico Guglielmo  Boldrini tracciò un acuto profilo del vecchio rivoluzionario. «Cipriani — scrisse Boldrini — è  l’uomo che sintetizza l’avvenire, ma con sistemi e con emotività passate. Non siamo feticisti:  Amilcare Cipriani è dominato da quella psicologia da cui furono dominati tutti i grandi  uomini del risorgimento italiano; il suo socialismo d’oggi, come il suo anarchismo del  processo di Roma, è infarcito di repubblicanesimo e la sua rivoluzione sociale è la rivoluzione  dell’indipendenza italiana, che, con l’idealità umana di Mazzini, fu prima del °70 come oggi,  per gli uomini d’azione repubblicana, la conquista per l'indipendenza e per la libertà di tutti i  popoli oppressi, al di fuori d’ogni preconcetto, sotto però qualunque forma di stato»  (GUGLIELMO BOLDRINI, A proposito di un'intervista di De Ambris a Cipriani, «L’ Avvenire  Anarchico», 17 dicembre 1914).    38 ,    ibdiaibbici.       Matese (di cui era stato l’ideologo militare), un anarchico che aveva vestito  la camicia rossa dei Mille, combattendo a Bezzecca e a Digione®.   Ma qui è più che altro importante ricordare come giovani volontari  anarchici, senza legami diretti con il garibaldinismo delle origini, non  avevano esitato a seguire Cipriani sui campi di Grecia, nel 1897 (e  all’anarchico Filippo Troja, caduto a Zaverda durante quella campagna,  sarebbe stato persino intitolato un circolo libertario della capitale, proprio  com’era nel costume e nella tradizione del martirologio repubblicano) ‘, e  poi di nuovo, nel 1912, non ancora spentasi l’eco per le agitazioni  antimilitariste contro la guerra di Libia, a riprendere le armi contro i turchi!”  Sulla scelta di questi giovani, accanto alle memorie risorgimentali, aveva  pesato in modo determinante la concezione (tipica, come si è visto,       ‘* Sulla figura di Pietro Cesare Ceccarelli v. FRANCO ANDREUCCI, TOMMASO DETTI, 0p. cit.,  Vol. II, ad nomen. In merito alla sua importanza quale teorico militare dell’anarchismo v.  FRANCO DELLA PERUTA, Democrazia e socialismo nel risorgimento, Roma, Editori Riuniti,  1973, ad indicem.   “© Cfr. «L’ Alleanza Libertaria», 27 luglio 1911.   Per il rientro in Italia delle spoglie di Filippo Troja, alla fine di agosto del 1912, i gruppi  libertari romani, riuniti in un apposito comitato, avevano addirittura organizzato solenni  onoranze funebri. Il funerale dell’anarchico garibaldino era stato motivo di gravi incidenti fra  gli anarchici e gruppi di nazionalisti che manifestavano a favore della guerra libica. Il  racconto che di quell’episodio aveva dato «L’Agitatore» di Bologna è sintòmatico del favore  e del rispetto con i quali, anche in taluni ambienti dell’estrema sinistra libertaria, si guardava  al garibaldinismo. «Cosa non può aspettarsi —aveva scritto l’anonimo articolista de  «L'Agitatore» - il buon pubblico italiano in questo quarto d’ora di solenne e malefica sbornia  di fesso patriottardume poliziesco? Tutto. Anche l'impossibile. Infatti si piglia qualunque  pretesto [...] per inscenare della manifestazioni nazionalistoidi [...]. La canaglia studentesca  del nazionalismo da vedova allegra pretende d’impossessarsi dei resti mortali d’un nostro  eroico compagno, Filippo Troia, caduto gloriosamente a Zaverda, insieme ai suoi commilitoni  della leggendaria camicia rossa, per l’indipendenza del popolo ellenico oppresso dalla  dominazione turca. Ma il generoso popolo di Roma [...] non à permesso una profanazione e  violazione mostruosa. Ha gridato alto e forte che i resti del cittadino romano, cittadino del  mondo, appartenevano al popolo, perché egli aveva combattuto, si era volontariamente  sacrificato, per la libertà e l'indipendenza del popolo [ A Zaverda, in Grecia, un idealista,  un propugnatore dell’idea anarchica, indossa la rossa divisa dei liberatori di popoli oppressi, e  cade colpito da una palla [...] contento di aver fatto del suo meglio per donare la tanto desiata  libertà a quel popolo torturato dalla barbarie turca. Quel giovane è nato in Italia, a Roma.  l'ornando le sue ceneri nella terra di nascita, dei falsi patrioti [...] pretendono di servirsi del  ricordo terreno di chi per la libertà morìa, per dimostrare alla Turchia, da loro oggi  combattuta, che anche uno di quelli odiatori di guerre e di qualsiasi forma di governo  combatté contro di loro» (SPARTACO, // caso Troja, «L’Agitatore», 15 settembre 1912).   N Le insegne rosso-nere dell’anarchia si erano levate anche nella lontana Cuba, per la guerra  d'indipendenza cubana, cui aveva preso parte come volontario l’anarchico napoletano Oreste  Ferrara. Cfr. FRANCESCO TAMBURINI, L'indipendenza di Cuba nella coscienza dell'estrema  sinistra italiana (1895-1898), in «Spagna Contemporanea», 1995, n. 7, p. 67.       39       PROPONI PORN I A    dell’anarchismo individualista) dell’azione anarchica anzitutto come  ribellione istintiva: una concezione assai poco dogmatica ed anzi intrisa di  spontaneismo, che ben si sposava, per questa via, con l’epica del  garibaldinismo.   Pochi giorni dopo l’inizio della guerra, mentre prendevano corpo i primi  confusi progetti di una spedizione garibaldina in Francia e si preparavano le  infuocate polemiche dell’autunno, sette giovani italiani, raccolto l’appello di  Ricciotti Garibaldi a mobilitarsi per la Serbia, si erano imbarcati alla volta  della Grecia e avevano raggiunto il comando serbo di Salonicco*. «Erano  repubblicani? Erano anarchici? — commentò un foglio repubblicano qualche  tempo dopo — Non importa sapere: erano italiani e seguivano una tradizione  che è gloria d’Italia: quella garibaldina»*”. Con loro, tutti militanti del PRI, si  trovava in effetti anche l’anarchico Cesare Colizza, di Marino Laziale, un  veterano della camicia rossa (aveva preso parte come ufficiale alla seconda  spedizione garibaldina in Grecia, nel 1912, combattendo a Drisko). Cinque  dei sette volontari, fra i quali lo stesso Cesare Colizza, erano caduti nello  scontro di Babina Glava, presso Visegrad, il 20 agosto 1914”.   «Era anarchico — scrisse di Colizza l’organo romano del PRI — il suo ideale  muoveva verso l’ universalità, ma la sua anima ribelle sentiva la protesta  contro ogni ingiustizia»”'. Molti anni dopo il repubblicano Aldo Spallicci,  che lo aveva avuto compagno a Drisko, ne avrebbe tracciato un breve profilo  ideale che merita di esser ricordato perché rivelatore del modo d’intendere  l’anarchismo cui si è più volte accennato. «Il suo dio — ricordava Spallicci —  era Max Stirner e sulla sua opera, L'Unico e le sue proprietà, aveva fondato  il suo credo [...]. Essere in guerra contro tutto e contro tutti, in pace e sul  campo di battaglia, era la sua divisa. Contro le ingiustizie sociali come  contro le infamie nazionali. Contro il capitalismo sfruttatore, come contro il       88 L'appello di Ricciotti Garibaldi, incitante «la gioventù italiana a prendere posizione di  difesa e, in caso, di offesa», fu diffuso a mezzo stampa dal giornalista ed ex garibaldino Mario  Ravasini. Lo si veda in «Il Fascio Repubblicano», 2 agosto 1914. Su tutta la vicenda v.  ASTERIO MANNUCCI, Volontarismo garibaldino in Serbia nel 1914: nel solco della prima  guerra mondiale, Roma, Associazione nazionale veterani e reduci garibaldini, [s.d.].   * AUGUSTO MENEGHETTI, La Serbia bagnata dal sangue italiano, «La Libertà», 12 settembre  1914.   °° Gli altri membri della spedizione erano Ugo Colizza, fratello di Cesare, Nicola Goretti,  Arturo Reali, Vincenzo Bucca, Marino Corvisieri e Francesco Conforti. Nella sostanza, la  loro fu un’iniziativa personale, priva di referenti politici veri e propri. Ricciotti Garibaldi,  infatti, dopo aver inizialmente accarezzato l’idea di una spedizione di camicie rosse in Serbia  (e dopo aver preso contatti, a questo fine, con l'ambasciata serba a Roma tramite Ravasini),  già il 9 agosto aveva diffuso una nota, pubblicata da «Il Fascio Repubblicano», con la quale  sconsigliava apertamente l’invio di volontari.   °! Eroi italiani caduti in Serbia, «Il Fascio Repubblicano», 6 settembre 1914.    40          turco che aggrediva la Grecia e, come nell’ultima sua trincea, contro  l’austriaco che aggrediva la Serbia»?   La morte dei volontari italiani aveva offerto il destro agli interventisti  rivoluzionari per una delle loro prime uscite pubbliche. Il 14 settembre i  garibaldini caduti in Serbia erano stati commemorati alla Casa del Popolo di  Roma, in via Capo d’Africa, su proposta della locale sezione del Partito  Repubblicano”. A quella celebrazione, che fu la prima manifestazione di un  certo rilievo dell’interventismo di sinistra (anticipante, non solo sul piano  simbolico e iconografico, ma anche su quello più strettamente politico, le  assemblee dei Fasci rivoluzionari), avevano preso parte anche alcuni  anarchici, fra i quali Maria Rygier e Attilio Paolinelli”. E’ indice ulteriore  delle incertezze e delle ambiguità di quel momento il fatto che la Rygier  avesse il giorno innanzi presieduto a una riunione indetta dai gruppi  anarchici capitolini, conclusasi con la votazione di un ordine del giorno  nettamente contrario all’iniziativa repubblicana” , e che, ciononostante, ella  fosse convinta di poter avere con sé la maggior parte del movimento. «I miei  compagni — aveva detto anzi nel suo applauditissimo discorso alla Casa del  Popolo — saranno ove occorra, ‘ al fianco di quanti soffrono e gemono sotto le  percosse di secolari violenze».   L’episodio aveva profondamente turbato l’ambiente anarchico della  capitale, suscitando in particolare la dura reazione di Aristide Ceccarelli,  personalità di spicco dell’anarchismo romano”, e la risposta non meno  infuocata di Paolinelli. A Ceccarelli, che in una lettera a «Il Giornale  d’Italia» aveva affermato essere ormai la Rygier lontanissima dai suoi  trascorsi anarchici e antimilitaristi’”, Paolinelli aveva replicatà, in questo  modo:       ® In ASTERIO MANNUCCI, op. cit., pp. 8-9.   " Cfr. «Azione Socialista», 12 settembre 1914 e «Il Fascio Repubblicano», 13 settembre  1914.   I due soli superstiti della spedizione, Ugo Colizza e Arturo Reali, erano rientrati in Italia da  ochi giorni. Cfr. «Il Corriere della Sera», 5 settembre 1914 e «Il Lavoro», 9 settembre 1914.  “ «Il Giornale d’Italia» del 15 settembre e «Il Fascio Repubblicano» del 20, nel riportare la   cronaca della commemorazione, sostenevano essere presenti anche i gruppi anarchici   “Arganti”, “Salucci” e “Martiri di Chicago”.   * Cfr. «Volontà», 19 settembre 1914.   % «L’Iniziativa», 14 settembre 1914.   ®? Ceccarelli era il fondatore del gruppo libertario “Martiri di Chicago”, operante nel rione  Esquilino, gruppo che alcuni giornali avevano indicato tra gli aderenti alla commemorazione   del 14 settembre   " Polemiche fra anarchici, «Il Giornale d’Italia», 17 settembre 1914.    4l       In quanto [...] alla scomunica lanciata dal Ceccarelli pontificalmente contro  l'atteggiamento di Maria Rygier e nostro di fronte alla realtà della guerra, si  convinca il Ceccarelli che la essa scomunica non ha valore maggiore di quelle che  possono lanciare i papi veri. L’anarchismo non è disciplinato, interpretato e letto da  alcun dittatore, né il Ceccarelli può arrogarsi il diritto di parlare a nome di tutti gli  anarchici, come se egli fosse l’unico depositario della verità e della coerenza?”    Se la spedizione in Serbia di un pugno di giovani avventurosi aveva destato  clamore e suscitato accesi dibattiti, ancor più ne sollevò quella in Francia,  ben più consistente e organizzata. Essa fu il definitivo canto del cigno della  camicia rossa (che peraltro non venne nemmeno utilizzata), ultimo bagliore  di utopie ottocentesche prima che la moderna guerra tecnologica e le mutate  condizioni della lotta politica facessero piazza pulita d’ogni residuo  romanticismo.   Già ai primi d’agosto del 1914, mentre i figli di Ricciotti Garibaldi si  ritrovavano a Parigi per discutere sul da farsi, «diversi, fra anarchici,  sindacalisti, socialisti e repubblicani [...] inclinavano a partire per la Francia,  ad agire per loro conto, o a riprendere senz'altro la camicia rossa, magari con  organizzazioni proprie»', Dalla metà di settembre, operanti in molte  località del centro nord dei comitati di arruolamento repubblicani, erano  cominciate le prime partenze di volontari italiani per la Francia. L'indirizzo  all’impresa, tanto sul piano militare quanto su quello politico vero e proprio,  era dato dal Partito Repubblicano, il quale, sopravvalutando l'appoggio  inizialmente ricevuto dalle autorità francesi, mirava ad organizzare una  spedizione per la liberazione di Trento e Trieste, nonché a strappare  l’iniziativa dalle mani della diplomazia sabauda, così accelerando la  formazione di un vasto moto insurrezionale all’interno del Paese e la caduta  della monarchia'. All’intransigenza dei dirigenti repubblicani (soprattutto  di Eugenio Chiesa, il più risoluto sostenitore della spedizione adriatica,  mentre il segretario del partito Oliviero Zuccarini si sarebbe dimostrato più  possibilista) '°°, avrebbe fatto da contraltare la disinvolta malleabilità di  Peppino Garibaldi, il maggiore dei figli di Ricciotti, al quale, non senza  perpiessità (legate più che altro alle ambiguità ideologiche del personaggio),  in molti riconoscevano il diritto a comandare la spedizione. Peppino       °° Ibidem, 19 settembre 1914.   1°° BRUNELLO VIGEZZI, op. cit., p. 236.   10! A questo riguardo v. OLIVIERO ZUCCARINI, Storia della vigilia, cit.   12 Per quanto attiene al ruolo e alla centralità del PRI nelle vicende descritte v. anche  VITTORIO DE CAPRARIIS, Partiti ed opinione pubblica durante la Grande Guerra, in Atti del  XLI Congresso di storia del Risorgimento Italiano, Roma, Istituto per la storia del  Risorgimento Italiano, 1965, p. 86 ss.    42       Garibaldi, di fronte alle resistenze opposte dal governo francese alla  costituzione di un corpo franco di camicie rosse, aveva finito per accettare il  semplice inquadramento dei volontari italiani nella Legione Straniera. Era  dunque nata la Legione Italiana, composta di tre battaglioni, con sede a  Montélimar e a Nimes (poi ricongiuntisi al campo di Mailly all’inizio di  novembre), mentre una compagnia “Mazzini”, di netto orientamento  repubblicano, costituitasi a Nizza ai primi di settembre e forte di trecento  uomini, era stata sciolta già il 14 ottobre dietro una precisa disposizione del  Comitato Centrale del PRI". La maggior parte dei suoi membri aveva fatto  ritorno in Italia; altri, come Massimo Rocca (che aveva raggiunto la  compagnia il giorno stesso del suo scioglimento) 104. si erano aggregati alla  Legione Italiana di Peppino Garibaldi, in tempo per aver parte ai sanguinosi  combattimenti delle Argonne nel dicembre-gennaio.   Oltre a Rocca (che, a quanto risulta dalla carte di Zuccarini, fu tra coloro  che più si adoperarono perché la Legione fosse inviata al fronte) !%,  facevano parte di quel corpo di volontari altri anarchici, fra i quali sono certi  il veneto Gino Coletti, autore fra l’altro di una breve storia della  spedizione", i romagnoli Agostino Masetti, di Ravenna!°”, Domenico Pezzi       !0 Su tutti questi punti v. BRUNELLO VIGEZZI, op. cit., p. 828 ss.   La fine della compagnia “Mazzini” non significò solamente il tramonto del progetto politico  repubblicano, ma fu, in un certo senso, la. dimostrazione dell’impossibilità, per  l'interventismo rivoluzionario, di costituire un movimento davvero autonomo, in grado  d’influire in modo determinante sulle scelte del Governo. Mario Gioda, in un commento  all'episodio, sostenne che, essendo venuti a mancare i presupposti per i quali molti sovversivi  erano partiti volontari, quelli di loro che avevano scelto di rientrare in Italia avevano agito  correttamente (cfr. MARIO GioDA, A proposito del battaglione Mazzini, «La Folla», 15  novembre 1914).   104 |a data del 14 ottobre è sicura. A quel giorno, infatti, risale una nota (sottoscritta anche da  Libero Tancredi) con la quale i volontari raccolti a Nizza, preso atto della comunicazione  ufficiale del PRI, dichiaravano sciolta la compagnia. Cfr. ARCHIVIO DELLA DOMUS  MAZZINIANA DI Pisa (d’ora innanzi ADM), Fondo Zuccarini, FI e 3/18.   08 La Legione Italiana lasciò il campo di Mailly solo il 17 dicembre, dopo un lungo  temporeggiamento, dovuto ai molti contrasti che dividevano il Comando francese da Peppino  Garibaldi e quest’ultimo dalla dirigenza repubblicana. Zuccarini riferiva di aver raggiunto un  accordo con gli uomini a lui più vicini (fra i quali citava Libero Tancredi) «per partire al  fonte da soli», qualora l’ordine di partenza non fosse giunto per la fine dell’anno, V.  OLIVIERO ZUCCARINI, La missione a Parigi, i Garibaldi e il corpo volontari, ADM, Fondo  Zuccarini, FI e 1/3. + ì   10 Si tratta di Peppino Garibaldi e la Legione Garibaldina, Bologna, Stabilimento Poligrafico  Emiliano, 1915.   Sulla figura di Gino Coletti (che nel dopoguerra assurse a breve fama come segretario  dell’Associazione Nazionale fra gli Arditi d’Italia) ci permettiamo di rimandare a  ALESSANDRO LUPARINI, Gli anarchici interventisti e il fascismo. Il caso di Gino Coletti in una  lettera a Mussolini, in «Nuova Storia Contemporanea», 1998, n. 3, pp. 95-104.    43       e Agostino Panzavolta, di Faenza (ma entrambi da tempo residenti a Parigi)   » e un certo Mario Perati, descritto proprio da Coletti come «anarchico  romagnolo profugo della settimana rossa», che perse la vita nel secondo  scontro delle Argonne, il 5 gennaio 1915". A tal episodio partecipò anche  Massimo Rocca, che pare vi rimanesse ferito!!°. Di sicuro egli si trovava  ricoverato in un ospedale francese il 24 gennaio, quando «La Folla»  pubblicò un suo articolo presentandolo quale «eminente anarchico [...]  disilluso, [...] andato in Francia coi garibaldini [...], ora in un ospedale       !0” Cfr. «Il Resto del Carlino», 16 ottobre 1914 (recante una lettera di Masetti dalla Francia,  nella quale l’anarchico romagnolo si lamentava del trattamento al quale i volontari italiani  erano sottoposti dalle autorità militari francesi e, in particolare, del fatto che la Legione  Italiana fosse stata inquadrata nella Legione Straniera). Agostino “Tino” Masetti era nato a  Ravenna nel 1880. Tra i rappresentanti più in vista dell’anarchismo ravennate d’inizio secolo,  collaboratore assiduo de «L’Agitatore», amico di Fabbri, di Zavattero e di Borghi, Masetti,  già prima della guerra, aveva avuto motivi di forte attrito con i suoi compagni di fede politica.  All’epoca dell’aspro conflitto per il possesso delle macchine trebbiatrici, che aveva a lungo  insanguinato la Romagna mettendo gli uni contro gli altri lavoratori socialisti e lavoratori  repubblicani (i “rossi” e i “gialli”, secondo la terminologia del tempo), Masetti, pur  parteggiando per la causa dei primi, era stato contrario a un impegno diretto degli anarchici in  quella lotta, temendo che ciò potesse significare la compromissione dell’anarchismo con il  riformismo socialista, che egli detestava. Il dissenso con gli anarchici ravennati (alimentato  dalle simpatie di Masetti per certo repubblicanesimo intransigente) si era spinto fino a indurre  Masetti a dichiarare di non aver «più nulla in comune» con loro («L’Agitatore» 21 agosto  1910). In realtà, la separazione era stata di breve durata e Masetti era rientrato a pieno titolo  nel movimento. Direttamente coinvolto nei tumulti della settimana rossa, e accusato di  omicidio, Masetti si era rifugiato a Marsiglia, ospite di Domenico Zavattero. Terminata  l’esperienza nella Legione Italiana, poté far ritorno a Ravenna, dove, nel febbraio 1915, fu tra  i promotori del locale Fascio rivoluzionario d’azione internazionalista (cfr. «La Libertà»,  Ravenna, 20 febbraio 1915). Richiamato alle armi il 5 maggio 1916, cadde in battaglia nel  luglio del 1917. Cfr. ACS, CPC, Busta 3125 [Masetti Agostino].   ‘°8 Cfr. «Il Popolo d’Italia», 12 febbraio 1915.   Panzavolta e Pezzi militavano da anni nel movimento anarchico, all’interno del quale  godevano di buona fama. Agostino Panzavolta era nato a Faenza nel 1879. Nel 1901 era  espatriato in Francia, da dove non avrebbe più fatto ritorno e dove, almeno sino all’inizio del  conflitto mondiale, aveva mantenuto i contatti con gli ambienti anarchici romagnoli. Tenuto  costantemente sotto controllo dalle autorità di Pubblica Sicurezza, nonostante avesse, dopo la  guerra, progressivamente abbandonato l’impegno politico, nel 1937 — dietro sua esplicita  istanza — fu cancellato dal registro dei sovversivi, per avere, fra le altre cose, dimostrato  «buoni sentimenti patriottici». ACS, CPC, Busta 3704 [Panzavolta Agostino]. Domenico  Pezzi, al contrario del vecchio compagno, non avrebbe mai rinnegato le proprie origini,  segnalandosi anzi per l’impegno antifascista, sia pur modesto. Dalle informazioni della  polizia doveva risultare iscritto alla loggia massonica “Italia” (nota come focolaio di  opposizione al regime), sostenitore della Concentrazione antifascista nonché regolarmente  abbonato a «Giustizia e Libertà». Cfr. /bidem, Busta 3919 [Pezzi Domenico].   !°° Cfr. «L’Internazionale», 27 gennaio 1915.   !!° Cfr. «L’Iniziativa», 30 gennaio 1915.       gravemente ferito». Intorno a questa vicenda si scatenarono in realtà le  ipotese e le illazioni più svariate. L’episodio aveva invero del misterioso, se  le stesse autorità - come sembra - non erano in grado di far piena luce  sull'accaduto. Il 5 febbraio 1915, in una nota indirizzata alla Direzione  Generale di Pubblica Sicurezza del Ministero degli Interni, la Regia  Ambasciata d’Italia a Parigi segnalava Rocca tra i feriti nei combattimenti  delle Argonne, salvo comunicare, dieci giorni dopo, che egli si trovava  ricoverato perché «ammalato di febbri»!!?. Il nuovo caso legato al nome di  Massimo Rocca trovò eco sulle pagine della stampa anarchica italiana.  Ancora a distanza di due mesi dall’episodio, scrivendo sotto pseudonimo  (Dyali) per la milanese «La Libertà», la nota scrittrice e propagandista  libertaria Leda Rafanelli negò che Rocca fosse stato ferito in battaglia e  affermò trovarsi egli in ospedale vittima di una angina pectoris, non avendo  preso parte ad alcuno scontro ed essendosi limitato a prestare servizio nella  Croce Rossa. «Libero Tancredi — ironizzava Dyali — fino a oggi ha portato  alla Francia un aiuto un po” discutibile: ha occupato un letto che poteva  servire a un ferito di guerra; a un francese»!!?. A Leda Rafanelli, prima  ancora del diretto interessato, replicò Edoardo Malusardi sul foglio  anarcointerventista «La Guerra Sociale», sostenendo che, se effettivamente  Rocca si trovava ricoverato per l’acuirsi di una malattia respiratoria che da  tempo lo tormentava, pure egli aveva combattuto negli scontri del 26  dicembre e del 5 gennaio, restando ferito a una mano!"*. Fu lo stesso Rocca,  in una lettera da Parigi del 15 marzo, a chiarire definitivamente la questione.  Egli — raccontava - ammalato realmente di angina pectoris, cui in Francia si  era aggiunta una «stupidissima» bronchite, era stato ricoverato per motivi di       ll L'articolo, intitolato La rejetta, un’accorata difesa di Maria Rygier, sortì come effetto di  far nascere nuove discussioni. In risposta alle parole di Rocca, Aristide Ceccarelli serisse fra  l'altro: «Costoro [gli individualisti] — hanno arrecato danno al nostro movimento più di  quanto non gliene abbiano fatto tutte le polizie del mondo messe insieme» (ARISTIDE  CRCCARELLI, 4/ garibaldino ferito in Francia, «La Folla», 31 gennaio 1915).   !!? ACS, CPC, Busta 4362 [Rocca Massimo].   !!! «La Libertà», Milano, 1 marzo 1915.   Il «La Guerra Sociale», 10 marzo 1915. Il trafiletto di Malusardi era firmato con uno  pseudonimo (Emme). ]   La polemica tra Malusardi e la Rafanelli aveva avuto un prologo qualche tempo prima,  rincora a proposito di Massimo Rocca e del suo ruolo nella campagna per la guerra. Ad un  intervento della Rafanelli sul giornale milanese «Il Ribelle», nel quale l’autrice aveva  riconosciuto la «figura morale» di Rocca, «il babau dei pontificanti dell’anarchismo»,  sostenendo però essersi egli, mercé il suo acceso interventismo, del tutto isolato dal resto del  movimento anarchico, Malusardi aveva replicato con sdegno, rivendicando al compagno — e  quindi a sé stesso e a tutti gli altri anarchici interventisti — il diritto a dirsi anarchico (cfr.  EipoARDO MALUSARDI, Per la verità, «L’Iniziativa», 23 gennaio 1915).    45       MA A A Ai    salute il 9 gennaio. Non era dunque mai stato ferito sul campo, ma aveva  nondimeno preso parte ai primi tre combattimenti sulle Argonne ed era anzi  stato proposto per il grado di sergente'!. La lettera di Rocca precedette di  poco il suo rientro in Italia, a Milano, il 18 marzo 1915"!9,   Durante il soggiorno nella clinica militare di Chatel Guyon, Rocca aveva  inviato a «Il Resto del Carlino» una lunga corrispondenza. In essa,  prendendo a pretesto la propria esperienza come volontario garibaldino, era  giunto, in mezzo a reminiscenze ed abusate affermazioni di sapore “libico”  (per le quali il garibaldinismo era «l’espressione più genuina e più profonda  del rinascente imperialismo italiano» e quest’ultimo altro non era che  «l’esuberanza delle forze vitali») !!”, ad evocare una sorta di sovversivismo  nazionale permanente e, per così dire, istituzionalizzato, di cui vedeva il  modello proprio nel garibaldinismo e che avrebbe dovuto costituire, perfetta  combinazione tra libertà del singolo ed esigenze nazionali, lo spirito di una  nuova Italia.    Il fenomeno garibaldino — aveva scritto, in questo modo definendo le coordinate  del proprio “anarco-nazionalismo” — è un egoismo intimo, perché lungi d’imporsi  collettivamente dalla nazione all’individuo, trova l’origine e la spinta nell’individuo  singolo che sente, da solo, tutta la propria nazione!"    E ancora:    Io sogno ed io scorgo una nuova Italia [...]; una più grande e consapevole Italia  garibaldina, ove la sintesi squisitamente italiana del pensiero e dell’azione, della  disciplina e della libertà, raggiunga la sua massima espressione di forza nella  nazione interamente padrona de’suoi destini [...], nell’individuo eternamente libero,  pur nei limiti della compresa e voluta, perché necessaria, disciplina"!       15 Una rettifica di Libero Tancredi, «La Guerra Sociale», 20 marzo 1915.   16 Fatto rientro a Milano, dove — come si affrettava a comunicare la Prefettura — era  «convenientemente vigilato», Rocca riprese subito la sua propaganda interventista. Il 30  marzo era alle scuole comunali di via Circo per una conferenza sul tema “Classe e nazione”.  ACS, CPC, Busta 4362 [Rocca Massimo].   !” LiBeRO TANCREDI, L'imperialismo garibaldino, «Il Resto del Carlino», 10 marzo 1915.  L’articolo recava la data del 15 febbraio.   18 Ivi,   19 Ivi.   In questo stesso periodo la rinnovata collaborazione con il quotidiano di Filippo Naldi fruttò  a Rocca altri tre articoli, dedicati a questioni di politica internazionale. Il rapporto fra Rocca e  «Il'Resto del Carlino» si nutriva evidentemente di stima reciproca. Poco tempo prima della  pubblicazione di detti articoli, l’autorevole quotidiano bolognese aveva favorevolmente  recensito l’ultimo libro di Rocca, Dopo Tripoli e la guerra balcanica: appunti storici per    46          Sono parole, quest'ultime, nelle quali si può ragionevolmente cogliere  un’anticipazione delle future battaglie revisioniste condotte dal Rocca in  seno al fascismo.   Le vicende dei volontari italiani caduti in Francia ebbero larga eco in patria,  destando anche a sinistra un’ondata di commozione (non si deve dimenticare  che sulle Argonne persero la vita Bruno e Sante Garibaldi, nomi ancora in  grado di risvegliare palpiti di entusiasmo nazionale). Così, un foglio  anarchico di Senigallia che si definiva «giornale razionalista» indirizzava «ai  volontari italiani caduti nelle Argonne per un Ideale di Libertà, il saluto di  tutti i militi di un’Idea»'°°, mentre il segretario della Camera del Lavoro di  Carrara Alberto Meschi, d’indiscusso credo neutralista, pur non approvando  «le idee guerraiole di parecchi suoi amici e compagni», non si sentiva per  questo di ritenerli dei «rinnegati e dei venduti», e si augurava comunque la  sconfitta degli Imperi Centrali, «causa di tanti mali e di tanto danno»!?!.  Persino «Volontà», nel momento in cui ribadiva la propria totale avversione  alla guerra, non poté evitare di esprimere simpatia e financo «ammirazione  sincera» per quei sovversivi, pure anarchici, andati a morire sui campi di  Francia'”°. Sono esempi importanti, che attestano di un malessere vero, a  riprova che spesso, anche tra gli anarchici più intransigenti, le posizioni  erano ben più sfumate e problematiche di quanto già allora si volesse far  credere.    La conquista di uno spazio politico    Quando si esuli dai casi più noti, la diffusione delle idee e degli argomenti  interventisti in seno al movimento anarchico, per le caratteristiche stesse di       fissarne le responsabilità (Lugano, Rinascimento, 1914), lodandone i caratteri di originalità e  di onestà intellettuale (cfr. ALDO VALORI, Un volume di Libero Tancredi sulle due guerre  della vigilia, «Il Resto del Carlino», 9 febbraio 1915). «Il Resto del Carlino» occupò un posto  di primo piano tanto nella “direzione” della campagna per l’intervento, quanto nel dibattito  politico del dopoguerra, seguendo con interesse il processo di ridefinizione in senso nazionale  dell'estrema sinistra interventista (a cominciare dal “caso” Mussolini). A tale riguardo (in  merito, soprattutto, al ruolo di Naldi) v. MARIA MALATESTA, Il Resto del Carlino: potere  politico ed economico a Bologna dal 1885 al 1922, Milano, Guanda, 1978, p. 301 ss.   120 «Il Solco», 17 gennaio 1915.   «Il Solco» era diretto da Ottorino Manni.   !:! ALBERTO MESCHI, Contro la guerra, «Il Cavatore», 9 gennaio 1915.   «Il Cavatore» era l’organo della USI carrarese.   12 Ancora dei volontari e la guerra, «Volontà», 30 gennaio 1915.    47          quella corrente politica, in genere refrattaria a precise regole  d’inquadramento e di organizzazione, è difficilmente quantificabile. Un  aiuto ci viene senz'altro dalle pagine dei giornali"? e soprattutto dalla  rubrica “Adesioni” de «Il Popolo d’Italia», che ci offre uno spaccato  significativo delle divisioni in atto nel campo libertario. In appena dieci  giorni il nuovo organo socialista mussoliniano, che aveva iniziato le  pubblicazioni il 10 novembre del 1914, riportava le adesioni di quattordici  anarchici!”, svelando una realtà altrimenti destinata all’oblio e aprendo uno  scorcio su alcune realtà locali particolarmente interessanti!”’.       ‘2? A titolo di esempio si considerino i casi degli anarchici interventisti toscani Duilio Lotti, di  Fucecchio, al centro di un’accesa polemica con il gruppo libertario di Santa Croce sull’ Arno  (cfr. Ad un emerito girella, «L’ Avvenire Anarchico», 28 gennaio 1915), e Gino Baronti, di  Firenze. In una lettera a un foglio liberale fiorentino, Baronti si dissociò peraltro  dall’anarchismo, dichiarandosi di «idee nazionaliste» (Una lettera significante, «L’ Alfiere»,  20 febbraio 1915). L’individualista Gino Baronti, un violento con numerosi precedenti penali  (e senza «alcuna influenza nel partito», secondo quanto scriveva di lui la Questura fiorentina  nel settembre del 1914) si fece strada nel fascismo. Nel 1921 s’iscrisse al Fascio di  combattimento di Bettolle, in provincia di Siena, dove si era trasferito alla fine della guerra,  divenendo capo squadra della milizia. Nel 1926 fu addirittura chiamato alla segreteria dei  sindacati fascisti di Sinalunga e l’anno successivo, descritto ormai nelle carte della Pubblica  Sicurezza come «un puro fascista», venne radiato dal registro dei sovversivi. ACS, CPC,  Busta 356 [Baronti Gino].    ‘124 Nell’ordine: Pietro Battaglino, «anarchico liberista» milanese (19 novembre); Bernardo    Pieraccini, «anarchico individualista» di Genova (22 novembre); L. Navacchio, «operaio  anarchico individualista» di Pisa (23 novembre); Enrico Farè e Aldo Franceschelli «anarchici  novatori» di Milano (24 novembre); Pietro Rossi, Balilla Petrocchi, Alessandro Clelotti,  Lorenzo e Torquato Pasquinelli, Amerigo Lodenzetti e Edoardo Monaci, tutti piombinesi (25  novembre); Arturo Ferrari, «anarchico non fossilizzato» milanese (27 novembre); Leopoldo  Facchini, del «gruppo anarchico bresciano» (29 novembre). Sfortunatamente, con l’eccezione  di Pietro Battaglino, la sommaria testimonianza de «Il Popolo d’Italia» è tutto ciò che ci è  stato tramandato di questi uomini. Battaglino, nato a Novara nel 1890, di professione  venditore ambulante, aveva collaborato a «La Protesta Umana». Operoso nel campo  dell’organizzazione sindacale, nel febbraio del 1914 aveva dato vita a una “lega di  miglioramento fra venditori ambulanti”, aderente alla Camera del Lavoro di Milano, e n’era  stato eletto segretario. Nel dopoguerra Battaglino fu tra i primi ad iscriversi al Fascio di  combattimento milanese, dal quale venne tuttavia espulso nel 1923. Cfr. ACS, CPC, Busta  407 [Battaglino Pietro].   125 E? il caso di Piombino, città a forte presenza operaia, dove lo scontro a sinistra tra  neutralisti e interventisti fu molto acceso. Del gruppo di anarcointerventisti piombinesi citati  da «Il Popolo d’Italia» il più conosciuto era senz’altro Edoardo Monaci. Nativo di Castel del  Piano in provincia di Grosseto, era stato membro del gruppo giovanile anarchico “L’Alba dei  liberi” e si era guadagnato una certa notorietà grazie all’intensa partecipazione agli imponenti  scioperi siderurgici del 1910-1911. Fu quindi tra gli iniziatori del fascismo piombinese, ma  venne allontanato dal Fascio nel marzo del 1923 perché iscritto alla massoneria. Cfr. ACS,  CPC, Busta 3343 [Monaci Edoardo].    48          Che le dimensioni e i termini del fenomeno e delle controversie ad esso  legate fossero niente affatto marginali (pur non potendosi certo sostenere;  come fece ad esempio l’organo del partito Social Riformista con chiaro  intento provocatore, che la maggior parte degli anarchici italiani fosse per  l’intervento) 126. lo dimostrano anche il rinfocolarsi delle polemiche nei  primi mesi del 1915 e il fatto che i nomi più autorevoli dell’anarchismo  italiano sentissero la necessità d’intervenire personalmente nel dibattito. In  particolare, prima con una vibrante lettera pubblicata su un numero unico dei  sindacalisti parmensi!””, poi con una serie di articoli su «Volontà», Luigi  Fabbri dovette ribadire le motivazioni ideali e politiche dell’opposizione  anarchica al conflitto in corso, contestando una ad una le affermazioni degli  anarcointerventisti, ai quali di volta in volta si rivolgeva, con allarmata  puntigliosità'?8.   Il protrarsi ininterrotto dello scontro tra fautori e detrattori dell’intervento,  l’accanimento della lotta, non di rado alimentata da amarezze e da rancori  personali, contribuivano del resto a tener alta la tensione!”?. E’ in questo    10 «Egli [I «Avanti!»] — scrisse il 3 ottobre 1914 «Azione Socialista»- ci accusa di malafede  |...] perché abbiamo contato gli anarchici e i sindacalisti tra gli antineutralisti e porta in  campo il deliberato dell’Unione Sindacale. La metà più uno! E” questa la norma valutatrice di  questi rivoluzionari dell’età della pietra! Noi invece, con buona pace dell’organo milanese,  crediamo di non commettere un falso annoverando tra i nostri vicini in questo momento i  sindacalisti e gli anarchici; quando tali si vogliono considerare quasi tutti coloro che  rappresentano un pensiero e che a queste correnti d’idee danno importanza nella vita  nazionale». ; Ù  127 Si tratta di «Contro la guerra!», edito a Parma il 6 febbraio 1915 «a cura di un gruppo di  sindacalisti», in aperta contrapposizione alla linea politica di De Ambris.   28 Si veda in particolare l’articolo in cinque parti Le idee anarchiche e la guerra («Volontà»,  20 febbraio, 6 e 20 marzo, 3 e 24 aprile 1915).   Gli scritti di Fabbri, pubblicati in contemporanea con l’uscita de «La Guerra Sociale», furono  bersaglio di molte e appassionate repliche da parte della redazione del nuovo giornale  anarcointerventista (nell’ordine: MARIA RYGIER, Coerenza verbale o azione liberatrice, «La  Guerra Sociale», 27 febbraio 1915; MARIO POLEDRELLI, A guisa di risposta, Ivi; MARIO  Giona, Contro una stupida speculazione, Ibidem, 10 marzo 1915; OBERDAN GIGLI,  Anarchismo: concezione storica e concezione razionale, Ibidem, 20 marzo 1915, e Nella vita  e nella teoria, Ibidem, 10 aprile 1915; MARIA RYGIER, Le idee anarchiche e la guerra, Ivi;  LIBERO TANCREDI, Chiusura: per finire con Luigi Fabbri, Ivi, e Per finire con Don Abbondio  e c., Ibidem, 24 aprile 1915). ubi,  Circa la posizione di Luigi Fabbri v. altresì MAURIZIO ANTONIOLI, Gli anarchici italiani e la  prima guerra mondiale. Il diario di Luigi Fabbri (maggio-settembre 1915), in «Rivista  Storica dell’ Anarchismo», 1999, n. 1, pp. 71-89.   !° Un ulteriore motivo di contrasto fra le opposte tendenze scaturì dalla diffusione di un  manifesto anarchico contro la guerra, redatto da Libero Merlino, nel quale si affermava: «Che  ben vengano i tedeschi in Italia. O essi sono più civili di noi e che vengano a portarci questa  civiltà, o sono più barbari e che vengano a civilizzarsi». Mario Gioda lo definì un «documento    49          clima e su questo sfondo di passioni che dev’essere inquadrata la violenta  aggressione subita da Oberdan Gigli il 24 gennaio 1915 a Massa Finalese,  una frazione di Finale Emilia, nella provincia di Modena, dove l’anarchico  genovese risiedeva ormai da undici anni e dove era conosciutissimo, per  avere tra l’altro a lungo diretto la locale Camera del Lavoro!” Il fatto,  condannato dalla redazione di «Volontà»!!, fu invece accolto con  soddisfazione sia da «Il Libertario», che anzi deplorava il “buon cuore” del  foglio anconetano", sia da «L'Avvenire Anarchico», che laconicamente  commentava: «Di fronte a tanto strazio di vite non ci debbono essere rispetti  umani»,   Nel frattempo il processo di organizzazione  dell’interventismo  rivoluzionario e della sua frazione anarchica non aveva subito rallentamenti.  Tra il 25 e il 26 gennaio 1915 si era riunito a Milano il primo convegno  nazionale dei Fasci rivoluzionari d’azione internazionalista, al ipa avevano  preso parte, applauditi protagonisti, la Rygier e Paolinelli. L'impegno          penoso», esortando gli anarchici «più consapevoli» - fra i quali annoverava lo stesso Luigi  Fabbri, che infatti non aveva esitato a manifestare le proprie perplessità al riguardo - a non  farsene complici con un «ancor più penosissimo silenzio» (MARIO GIODA, Ben vengano?, «Il  Popolo d’Italia», 22 febbraio 1915).   150 Per la cronaca degli avvenimenti v. Oberdan Gigli ferito da’ neutralisti, «Il Popolo  d’Italia», 27 gennaio 1915, e Argomenti neutralisti, «L’Internazionale», 30 gennaio 1915.   Il 28 gennaio il giornale di Mussolini pubblicò una «lettera aperta» di Gigli al deputato  socialista Gregorio Agnini, nel cui collegio elettorale si era verificata l’aggressione. In tale  missiva, scritta all’indomani dell’infelice episodio, Gigli contestava ai suoi assalitori, in  maggioranza operai, il diritto a chiamarsi socialisti. «In questa folla feroce — scriveva — non vi  è più, se mai v’è stata, l’anima socialista». In conseguenza di questi fatti la maggioranza  socialista al Consiglio Comunale della piccola cittadina emiliana fu indotta alle dimissioni  (cfr. Crisi comunale a Finale Emilia per una conferenza intervenzionista, «Il Resto del  Carlino», 2 febbraio 1915).   13! Cfr. «Volontà», 6 febbraio 1915. Alla riprovazione per la manifestazione d’intolleranza da  parte degli irruenti neutralisti finalesi, «Volontà» aggiunse comunque un commento  significativo. «Oberdan Gigli — sostenne l’organo anconetano — che è persona di cuore e  ragionevole [...] deve pure rendersi conto dei moventi più intimi del fatto lamentato. Pensi  egli all’impressione che deve fare nelle anime primitive e nelle menti incolte questo  fenomeno, di vedere proprio uno che fino a ieri consideravano loro amico, patrocinatore dei  loro interessi, avversario del militarismo e della guerra, esaltatore della massima libertà  individuale, cambiare di un tratto atteggiamento e mettersi a fare una propaganda che, se  ascoltato, avrà per risultato l’abdicazione d’ogni libertà individuale nelle mani dello stato, la  guerra e la chiamata sotto le armi per forza di tanta parte di operai».   12 L’UoMO CHE RIDE, Tenerezze fuori posto, «Il Libertario», 11 febbraio 1915.   153 GIUSEPPE CHELOTTI, Giuste argomentazioni, «L’ Avvenire Anarchico», 12 febbraio 1915.  134 A questo riguardo v. RENZO DE FELICE, Mussolini il rivoluzionario, cit., pp. 305-306.   Per il resoconto del congresso si vedano principalmente «Il Popolo d’Italia» del 25 gennaio e  «L’Internazionale» del 30 (ma anche gli articoli di «Azione Socialista» e de «L’Idea    50       degli anarchici nella campagna a sostegno dell’intervento italiano trovò la  definitiva consacrazione circa un mese dopo, con la pubblicazione de «La  Guerra Sociale». Il primo numero del nuovo «settimanale anarchico  interventista» uscì il 20 febbraio". Il nome rimandava esplicitamente a «La  Guerre Sociale», il noto foglio antimilitarista di Gustave Hervé!*, mentre il  motto, rubato a Giuseppe Garibaldi («E’ inutile sperar alustizia se non  dall'anima di una carabina»), testimoniava una volta di più della  commistione, in seno all’interventismo anarchico, di elementi eterogenei,  tratti tanto dalla tradizione libertaria quanto da quella democratica e  risorgimentale.    Il compito nostro — recitava l’articolo di fondo della redazione — è ben preciso:  rivendicare cioè ad alta voce il nostro diritto di cittadinanza nel campo anarchico  [...] che i teologhi dell’anarchismo, in nome di non sappiamo quale “sacro  comandamento” ci vogliono negare; prepararci ad incitare all’azione la parte  migliore degli anarchici d’Italia: quegli anarchici cioè che non sono infarciti di  femmineo sentimentalismo, ma che bensì son convinti che l’umanità non può  camminare verso la civiltà se non attraverso a lotte aspre e sanguinose. “La Guerra  Sociale” dunque sarà anarchica, prettamente anarchica"    In prima pagina, Oberdan Gigli riassumeva a titolo programmatico i  fondamenti ideali e le giustificazioni storiche e politiche dell’anarcointer-  ventismo.       Nazionale», organo ufficiale dell’Associazione Nazionalista). Si ricordi che, quasi  contemporaneamente all’assise degli interventisti rivoluzionari nel capoluogo lombardo, il 24  fignnaio, si era riunito il congresso nazionale anarchico di Pisa.   «Il Popolo d’Italia» del 10 febbraio 1915 fornì la cronaca di una riunione degli anarchici  interventisti milanesi, avvenuta la sera prima al circolo repubblicano Carlo Cattaneo di via  Sala (che era sede del Fascio). Nel corso di quell’incontro era stata decisa la pubblicazione di  un giornale di segno anarcointerventista, che, «oltre che propugnare le tesi dell’intervento dal  punto di vista anarchico», proponesse anche «di iniziare una sana ed audace discussione  d'idee nel campo stesso, onde salvarlo dall’ondata di ridicolo in cui l'avevano trascinato i  pontificanti dell’anarchismo ufficiale». NES Rui   Gustave Hervé (1871-1944) era stato il simbolo stesso dell’antimilitarismo e  dell'antipatriottismo. Per anni, sulle pagine del «La Guerre Sociale», aveva condotto una  feroce battaglia contro le istituzioni militari. E” singolare che gli anarcointerventisti italiani si  richiamassero a quella storica testata dell’estremismo antimilitarista (che aveva avuto  un'inconcludente edizione italiana nel 1908), proprio nel momento in cui Hervé, passato alla  causa dell’Intesa, l’abbandonava per dar vita a «La Victoire», organo del nuovo Movimento  Socialista Nazionale da lui fondato. Sulla diffusione e la fortuna dell’herveismo nel nostro  pnese v. RUGGERO GIACOMINI, Antimilitarismo e pacifismo nel primo novecento. Alfredo  Bartalini e «La Pace», 1903-1915, Milano, Angeli, 1990.   !!? «La Guerra Sociale», 20 febbraio 1915.    SI             Vi sono guerre e rivoluzioni liberatrici — scriveva — [...] e accettiamo la guerra per  evitare una oppressione [...]. Noi vediamo l’anima anarchica in ogni rivolta  liberatrice. Noi siamo gli eterni rèvoltes, e nel secolo scorso avremmo cospirato con  Mazzini per l’unità d’Italia e oggi, nell’India, saremmo coi nazionalisti nella rivolta  contro gli inglesi [...]. Noi riteniamo che la vittoria degli Imperi Centrali sarebbe un  enorme male per la civiltà nostra. Sarebbero prevalenti i focolai dell’autoritarismo  cattolico più inflessibile, dell’imperialismo più pazzesco, del militarismo più  prepotente: sarebbe rimandato di anni e anni il problema rivoluzionario nostro pel  riaffacciarsi dei problemi democratici e nazionali [...]. Noi vogliamo al contrario  che tutti i nostri sforzi siano volti a preparare le basi storiche della rivoluzione  proletaria [...]. Noi manteniamo integro e purissimo il nostro ideale anarchico!»    Più oltre, in una lettera indirizzata al direttore Edoardo Malusardi, lettera  che esprimeva il comune sentire di tutti gli anarchici interventisti, Mario  Poledrelli negava di sentirsi un revisionista dell’anarchismo per il fatto  d’essere favorevole alla guerra, ritenendo anzi di pensare e di agire nel solco  della migliore tradizione libertaria!”.   «La Guerra Sociale», che uscì in sei numeri, fino al 24 aprile 1915, con una  discreta diffusione‘, compendiava quindi, per la prima volta in forma  unitaria e immediatamente riconoscibile, tutti i motivi, le tematiche e le  passioni proprie dell’interventismo anarchico. Molto importante, sotto  questo profilo, la rubrica “Dagli amici”, dalla quale apparivano nitidamente,  nelle varie coloriture, gli umori della “base”. Così, fianco a fianco  all’anziano «anarchico rivoluzionario» Alfeo Davoli, già garibaldino, che da  Milano esortava alla guerra rivoluzionaria che abbattesse per sempre  «qualunque sia forma di governo»"‘', si schieravano il maestro elementare       138 OBERDAN GIGLI, Perché siamo interventisti, Ivi.   13° Cfr. MARIO POLEDRELLI, Revisione?, Ivi.   Poledrelli si era formato negli ambienti anarchici di Ferrara. Nell’aprile del 1912 si era  trasferito a Milano, entrando a far parte del locale Fascio libertario. A Milano aveva anche  progettato la pubblicazione di un periodico, che avrebbe dovuto intitolarsi «L’ Adunata», ma  era stato fatto rimpatriare a Ferrara su ordine della Questura milanese, perché disoccupato.  Arruolatosi volontario, cadde in combattimento il 3 giugno 1917. Cfr. ACS, CPC, Busta 4053  [Poledrelli Mario].   10 Nell’arco dei suoi due mesi di vita il giornale vendette 28 abbonamenti, di cui dieci a  Milano, e beneficiò di 157 sottoscrizioni (la maggior parte provenienti dal capoluogo  lombardo, fra le quali due a nome di Mussolini), per un totale di 251, 56 lire. Non erano  grandi cifre — tanto che il 10 aprile, in un trafiletto indirizzato «ai compagni», la redazione  invitava apertamente i lettori ad essere più generosi, pena la sospensione delle pubblicazioni —  ma in linea con la media degli altri fogli anarchici editi nello stesso periodo (fatta ovviamente  eccezione per le tre grandi testate a diffusione nazionale).   14! «La Guerra Sociale», 27 febbraio 1915.    52       Alceste Salvadori, ammiratore delle teorie di Francisco Ferrer, che si  dichiarava per l’intervento, a dispetto dello «slombato anarchismo  menefreghista»!!, e l’anarchico individualista Adolfo Costa, di Verona, il  quale affermava di desiderare la guerra semplicemente in virtù dei propri  «convincimenti catastrofici»; mentre il genovese Tomaso Dal Ciotto  chiamava a fondamento del proprio interventismo entrambe le eredità del  bakuninismo e del mazzinianesimo!‘*.   Sulle pagine de «La Guerra Sociale» si avvicendarono dunque i principali  portavoce della corrente anarcointerventista, da Rocca alla Rygier, da  Paolinelli a Malusardi, e una serie di nomi minori, la cui testimonianza resta  però non meno significativa. Non di tutti, purtroppo, ci è stato possibile  ricostruire la biografia politica. Dalle informazioni raccolte emergono  comunque alcune caratteristiche ricorrenti: l’origine proletaria, la cultura  approssimativa, la fede individualista, il “ribellismo”, vissuto talvolta nelle  sue manifestazioni più eccessive (requisiti, questi, comuni del resto alla  maggioranza dei semplici militanti del movimento anarchico), ma anche il  valore successivamente dimostrato sui campi di battaglia. Quanto  all’adesione al fascismo di alcuni di tali uomini, essa fu conseguenza, non  automatica né tanto meno ineluttabile, di scelte personali, diverse caso per  caso. Ciò a conferma che la semplicistica equazione anarcointerventisti    prima-fascisti poi, non è motivo sufficiente - e d’altronde nemmeno       Davoli era nato a Reggio Emilia nel 1849. Morì nel 1918. Cfr. ACS, CPC, Busta 1630  Davoli Alfeo].   4° «La Guerra Sociale», 20 febbraio 1915.   Alceste Salvadori, nato a Palaia, un piccolo borgo in provincia di Pisa, nel 1884, insegnava a  Castelfiorentino, dove risiedeva dal 1905. Per le sue idee libertarie, antimilitariste e  radicalmente anticlericali (era membro di un’ “Associazione Razionalista”), e in virtù del suo  ruolo di educatore, era dalle autorità considerato «estremamente pericoloso in linea politica».  Dopo la guerra (cui prese parte come volontario, congedandosi col grado di sottotenente)  Salvadori vestì la camicia nera del fascismo. Nell’aprile del 1921 s’iscrisse infatti al Fascio di  Castelfiorentino (del quale, per breve tempo, fu anche segretario), per giungere, qualche anno  più tardi, alla direzione della locale organizzazione sindacale fascista. ACS, CPC, Busta 4543  {Salvadori Alceste].   4 «La Guerra Sociale», 27 febbraio 1915.   14 Cfr. /bidem, 10 marzo 1915.   Qualche tempo dopo, alla vigilia di arruolarsi volontario in fanteria, Dal Ciotto si disse  persuaso che la divisa non avrebbe intaccato i suoi convincimenti rivoluzionari e manifestò la  speranza di tornare, un giorno, a fianco dei «compagni in buona fede contro la guerra» per  combattere insieme «le future battaglie» (// saluto di un anarchico interventista, «Il Popolo  d'Italia», 5 luglio 1915).    53       ragionevole. - per disconoscere l’appartenenza all’anarchismo degli  interventisti di estrazione libertaria!”       145 Scrissero per «La Guerra Sociale»: Alfredo Consalvi, Giovanni Canapa (Brunetto  D’Ambra), Carlo Rivellini, G.Fraschini, M.Benedetti, Effebo Scaramelli, Armando  Senigallia, Sabatino Di Loreto, Silvio Colla e Raffaele De Rango.   Giovanni Canapa, che di mestiere era rilegatore di libri, era nato a Firenze nel 1875. La sua  partecipazione alla vita del movimento anarchico era stata contrassegnata da numerose  disavventure giudiziarie. Nel giugno del 1907 la Prefettura fiorentina lo aveva dipinto «tra i  più entusiasti seguaci delle dottrine libertarie a Firenze [...], assiduo a tutte le riunioni e  manifestazioni proletari», ma privo di un ruolo di rilievo in seno ai circoli anarchici, «attesa  la sua scarsa intelligenza e la niuna cultura». In realtà, Canapa aveva collaborato a numerosi  fogli anarchici, specie d’indirizzo individualista, celandosi dietro la maschera di Brunetto  D’Ambra. Nella campagna interventista l’anarchico fiorentino — che fu membro del Fascio  rivoluzionario del capoluogo toscano — dimostrò un particolare accanimento, per lo più  ricorrendo al consueto pseudonimo e solo occasionalmente servendosi del suo vero nome  (come nel caso del lungo articolo polemico Anime di fango, «L’Iniziativa», 20 febbraio e 6  marzo 1915). Canapa si arruolò volontario (cfr. «Il Popolo d’Italia», 20 giugno 1915) e cadde  sul Carso il 12 aprile 1916. ACS, CPC, Busta 992 [Canapa Giovanni]. Edoardo Malusardi ne  celebrò la figura di «eterodosso dell’anarchismo [...], eretico impenitente [...], scomunicato  del “Santo Sinodo”» (ODROADE, Ricordi di un amico su Giovanni Canapa, «L’Iniziativa», 6  maggio 1916); mentre Massimo Rocca, che gli era particolarmente legato, ne avrebbe  richiamato il nome nell’introduzione al suo Dieci anni di nazionalismo.   Carlo Rivellini era nato a Milano nel 1895, da famiglia poverissima. Carattere «fra i più  irrequieti e impulsivi» - come scriveva di lui la Prefettura milanese nel dicembre del 1912 -,  Rivellini, nonostante la giovanissima età, era assai noto negli ambienti libertari del capoluogo  lombardo e aveva subito già numerosi arresti per attività sovversive. Allo scoppio della guerra  fece da subito lega con gli interventisti, ritenendo, com’ebbe a scrivere a Mussolini, di  difendere così «i supremi interessi del proletariato di tutto il mondo» («Il Popolo d’Italia», 25  novembre 1914). Si arruolò volontario nel giugno 1915 (nel 68° reggimento fanteria, lo stesso  di Malusardi) e combatté valorosamente, guadagnandosi una medaglia di bronzo e un  encomio solenne. Si congedò con il grado di tenente degli arditi. Nel dopoguerra prese parte  all’impresa di Fiume (e come delegato fiumano presenziò al secondo congresso nazionale  fascista, nel maggio del 1920), conclusasi la quale si ritirò sostanzialmente dalla lotta politica.  Nel 1930 risultava iscritto al PNF. Cfr. ACS, CPC, Busta 4348 [Rivellini Carlo].   Effebo Scaramelli, bracciante, era nato a Casciavola, una frazione di Cascina, provincia di  Pisa, nel 1880. Legatissimo al noto pubblicista e propagandista anarchico Giovanni Gavilli,  che spesso ebbe modo di accompagnare e di assistere nei suoi giri di conferenze (Gavilli era  non vedente), Scaramelli aveva collaborato saltuariamente a «Il Grido della Folla». Nel  dicembre del 1906 aveva preso parte al congresso regionale anarchico di Pontedera.  Volontario di guerra nel 1915, il suo Comando lo segnalava come un soldato «disciplinato,  rispettoso e contento della vita militare». Dismessa la divisa, lasciò l'impegno politico e morì,  ancora giovane, nel 1927. /bidem, Busta 4662 [Scaramelli Effebo].   Armando Senigallia era nato ad Ancona nel 1883. Ritenuto anarchico «molto pericoloso»,  Senigallia, pur senza mai abbandonare la professione di venditore ambulante, aveva  collaborato assiduamente a «Il Grido della Folla», a «La Protesta Umana» e al romano «Il  Pensiero Anarchico», subendo, in virtù della sua prosa infuocata, numerose condanne per  «istigazione a delinquere». Attivo nel campo dell’organizzazione di partito, Senigallia aveva    pPAT TEST PRIA TRRE PROT OTITEAPTETI VIRATA STUPITO PROP VOR. VIRA VPI ROTTO MIPPAPMPERPERERABE RIFPI BE 1177171777       Grazie a «La Guerra Sociale», per un periodo di tempo tanto breve quanto  decisivo, gli anarchici interventisti poterono dunque disporre di uno spazio  autonomo ed ebbero modo di precisare, una volta per sempre, il proprio  particolare punto di vista all’interno della multiforme realtà  dell’interventismo rivoluzionario.   La partecipazione anarchica alla vita dei Fasci risultò comunque assai  intensa, specie là dove il movimento era più forte. A Parma gli anarchici  collaborarono fattivamente al quindicinale «Guerra alla guerra» (24 gennaio-  I maggio 1915), edito a cura del Fascio locale, roccaforte della politica  deambrisiana e fra i principali centri propulsivi dell’interventismo  rivoluzionario. All’incirca nello stesso periodo in cui vedeva la luce il  giornale di Malusardi, era anche degno di nota (vuoi per il rilievo dei  protagonisti, vuoi perché Pisa era una delle città italiane dove il movimento  anarchico era maggiormente radicato) il contributo degli anarchici Alberto  Fontana e Ruffo Sarti alla nascita e alla diffusione de «La Guerra del  Popolo», organo del Fascio rivoluzionario pisano!‘.       preso parte al congresso interprovinciale anarchico di Ancona (gennaio 1910) e al convegno  anarchico umbro-marchigiano di Fabriano (febbraio 1913), discutendo temi relativi alla  struttura interna del movimento e ai rapporti con le altre forze operaie. Nel gennaio del 1914  la Prefettura di Ancona annotava sul suo conto: «E’ sempre uno dei più ferventi anarchici di  Ancona, prende parte a tutte le riunioni del partito ed è iscritto al Circolo anarchico “Studi  Sociali”». Nell'agosto del 1916, «avendo fatta dichiarazione scritta dalla quale si rilevava la  mitezza delle sue idee politiche e la completa adesione alla guerra», fu inviato al fronte con  una squadra di lavoro. Richiamato alle armi nel luglio 1917, si comportò coraggiosamente,  finché non cadde prigioniero degli austriaci. Aderì al fascismo e, nel gennaio del 1935,  divenne membro e fiduciario del sindacato provinciale fascista dei venditori ambulanti.  Ibidem, Busta 4746 [Senigallia Armando].   Silvio Colla, nato a Parma nel 1896, era assai noto negli ambienti dell’estrema sinistra  parmense, in quanto segretario di un “Circolo socialista antimilitarista rivoluzionario”  intitolato ad Amilcare Cipriani. Divenuto interventista, Colla si arruolò volontario,  combattendo negli arditi ed ottenendo ben due medaglie al valore. Cfr. Ibidem, Busta 1406  [Colla Silvio].   Di Raffaele De Rango, nato a Rende in provincia di Cosenza nel 1888, sappiamo ben poco,  se non che egli, dopo la parentesi interventista, che lo aveva visto magnificare la guerra come  mezzo per far piazza pulita di tutti «i rivoluzionari di carta e da comizio» (Liquidazione di  rivoluzionari, «La Guerra Sociale», 10 marzo 1915), riallacciò i rapporti col movimento  libertario. Nel dopoguerra, De Rango emigrò negli Stati Uniti (prima a Chicago, poi a  Oakland in California), dove prese parte attiva alla vita della numerosa comunità anarchica  italiana, collaborando al foglio di San Francisco «L’Emancipazione». Da oltre oceano  l'anarchico calabrese mantenne regolari contatti con i compagni italiani, non escluso Errico  Malatesta, col quale era anzi in amichevole corrispondenza. Cfr. ACS, CPC, Busta 1739 [De  Rango Raffaele].   14% 1] primo numero de «La Guerra del Popolo» uscì il 18 marzo 1915. L’iniziativa di Ruffo  Sarti e Alberto Fontana fu contestatissima dai gruppi anarchici di Pisa (si veda in particolare    55       D'altra parte, proprio nella primavera del 1915 i Fasci compivano il  massimo sforzo di coordinamento. Pur nella diversità di vedute, la  preoccupazione principale di tutte le forze che componevano lo  schieramento interventista rivoluzionario era allora quella di affrettare  l’ingresso dell’Italia nel conflitto europeo, anche a costo di dover  accantonare le pregiudiziali ideologiche e di scendere a patti col Governo. Il  10 aprile «L’Internazionale» pubblicò una “Dichiarazione”, con la quale il  gruppo dirigente dei Fasci s’împegnava ad una tregua “rivoluzionaria” se la  monarchia si fosse alfine decisa a dichiarare la guerra. Tra i firmatari di quel  documento. figuravano anche la Rygier e Mario Poledrelli (il 24 aprile  l’organo sindacalista ricevette le adesioni di Rocca e Malusardi) !”.   Commentando lo sciopero generale indetto a Milano il 14 aprile per  protestare contro l’uccisione del giovane operaio elettricista Innocente  Marcora - avvenuta tre giorni avanti ad opera della polizia durante una  manifestazione contro la guerra'* -, sciopero al quale avevano aderito anche  i Fasci interventisti (Alceste De Ambris fu tra gli oratori principali),  Massimo Rocca auspicava che non si verificassero più simili episodi,  temendo altrimenti ch’essi potessero trasformarsi in «un pretesto per una  manifestazione neutralista, comunque un tentativo per intimidire il Governo       l’articolo in tre parti di OTTAVIO TONIETTI, Aberrazione mentale collettiva, «L'Avvenire  Anarchico», 1, 8 e 16 aprile 1915), che tenevano soprattutto ad affermare la sostanziale  estraneità dei due interessati alla vita del movimento libertario pisano. Quello di negare ai  compagni passati all’interventismo ogni parentela, anche trascorsa, con l’anarchismo era una  delle scappatoie di cui gli anarchici si avvalevano con più frequenza. Del pari, la storiografia  ha sostanzialmente accolto quest’indirizzo, che potremmo definire “negazionista”. Così, nel  caso specifico di Sarti e Fontana, è stato scritto che i due rappresentavano «poca cosa,  politicamente e quantitativamente, nei confronti del vasto movimento cittadino» (GIORGIO  SACCHETTI, Sovversivi in Toscana, 1900-1919, Todi, Altre Edizioni, 1983, p.88). In realtà,  Sarti e Fontana erano entrambi conosciutissimi ed entrambi - come ci ha lasciato scritto la  Prefettura di Pisa - risultavano avere nel movimento molta influenza. Fontana (1868-1942)  era stato redattore de «L’Avvenire Anarchico» per quasi tre anni, fra il 1910 e il 1913. Cfr.  ACS, CPC, Busta 2105 [Fontana Alberto]. Sarti (1879-1943) era noto anche a livello  nazionale, avendo collaborato a «Il Libertario» e al milanese «Il Grido della Folla» e potendo  vantare, come sembra, stretti rapporti di amicizia col celebre avvocato anarchico Pietro Gori.  Nell'ottobre del 1904 Sarti si era reso protagonista di un attentato a un brigadiere dei  carabinieri, avvenimento che aveva messo in subbuglio l’intero l’ambiente anarchico e che gli  era costato lunghe disavventure giudiziarie e due mesi di carcere. «Durante la detenzione —  annotava la Questura — fu largamente aiutato dagli anarchici di qui, i quali sopportarono  anche le spese occorrenti per la sua difesa». /bidem, Busta 4614 [Sarti Ruffo].   14” Il testo completo della “Dichiarazione” si trova in appendice a RENZO DE FELICE,  Mussolini il rivoluzionario, cit., pp. 695-697.   ‘® Cfr. Un giovane ucciso da una bastonata durante le dimostrazioni dell'altra sera, «Il  Corriere della Sera», 13 aprile 1915.    56       con disordini interni e farlo tentennare nella risoluzione di decidere la  guerra»; ed esortava gli interventisti rivoluzionari a «tutto subordinare»    all’eventualità del conflitto!‘    Il periodo bellico    A poco più di un mese dalla proposta de «L’Internazionale» per la tregua  “rivoluzionaria”, la dichiarazione di guerra dell’Italia all’ Austria realizzò gli  auspici di tutti gli interventisti. La partenza per il fronte dei principali  esponenti dell’interventismo rivoluzionario e la situazione di eccitazione e di  generale incertezza determinata dagli avvenimenti bellici, situazione non  certo propizia al normale dispiegarsi dell’attività politica, contribuirono  peraltro a sfaldare progressivamente il movimento dei Fasci. ua  Tra il luglio e l’agosto del 1915 anche Rocca, Gigli e Malusardi, si  arruolarono volontari". L'altro grande protagonista dell’anarcointerven-  tismo, Mario Gioda, che a suo tempo era stato riformato, partì per il fronte  soltanto nell’estate del 1916". Prima di allora, incalzato dalle accuse  d’imboscamento, Gioda (che era membro del “Gruppo di Azione Civile” di  Torino, avente lo scopo di assistere i combattenti e di svolgere propaganda a       4° LiBERO TANCREDI, A proposito di sciopero generale, «La Guerra Sociale», 24 aprile 1915.  150 Massimo Rocca si arruolò volontario ai primi di luglio del 1915, prestò giuramento in una  caserma milanese il giorno 11 (cfr. / volontari del 7° reggimento fanteria prestano  giuramento, «Il Corriere della Sera», 12 luglio 1915) e fu inviato al fronte alla fine del mese.  Cfr. ACS, CPC, Busta 4362 [Rocca Massimo]. Oberdan Gigli, ammesso al corso ufficiali di  complemento nel 2° reggimento artiglieria campale pesante di Modena, partì per la zona di  guerra il giorno 26 luglio. Cfr. Ibidem, Busta 2407 [Gigli Oberdan]. Edoardo Malusardi si  arruolò nel 68° reggimento fanteria il 12 agosto. Cfr. Ibidem, Busta 2964 [Malusardi  Edoardo]. mia i o  Mentre l’esperienza di guerra di Rocca fu limitata, Gigli e Malusardi presero parte all intero  svolgimento del conflitto. Da notare che un estratto del diario di guerra di Malusardi - un  memoriale di un certo interesse, anche se, con tutta probabilità, rielaborato ad arte dall autore  - si trova in EDOARDO MALUSARDI, Filippo Corridoni. Commemorazione tenuta in Parma il  23 ottobre 1929-VII, Torino, Druetto, 1930, pp. 51-62. £  !5! Per l'esattezza, Gioda fu richiamato alle armi il giorno 21 luglio e destinato al 7°  reggimento bersaglieri di Brescia (cfr. «Il Popolo d’Italia», 22 luglio 1916, e «L’Iniziativa»,  12 agosto 1916). Per le sue cattive condizioni di salute, tuttavia, Gioda rimase al fronte solo  pochi mesi.    57    favore della guerra) ‘°° si batté con passione, che non c’è motivo di non  ritenere sincera, per la revisione dei riformati!”,   Insieme ai nomi più celebri dell’anarcointerventismo, partirono,  volontariamente o perché richiamati alle armi, la maggior parte degli altri  anarchici interventisti. In taluni casi la frenesia delle armi raggiunse livelli  quasi parossistici. L’anarchico romagnolo Domenico Ghetti, ad esempio,  riformato per evidenti questioni di salute, passò gli anni di guerra  nell’estenuante tentativo di farsi arruolare.    Cosa c'entra la visita — scrisse ad un periodico fiorentino alla fine del 1917 —  l’abilità o l’inabilità, quando uno vuol sacrificare volontariamente, noncurante dei  difetti organici, tutto sé stesso nei campi di battaglia contro il pericolo che oggi  minaccia più che mai l’intera umanità? Per la mia libertà, che è la libertà di un  popolo, dell’umanità [...], voglio dare il mio sangue, la mia vita contro  l’oppressione e la prepotenza militaristica prussiana. Senza far sfoggio di coraggio,  così è il mio sentimento di libertario!5*    Qualche giorno dopo Ghetti si presentò in zona operativa vestito da  bersagliere, ottenendo soltanto di essere arrestato!*5.       !5? Il “Gruppo di Azione Civile” si era costituito ad opera del tipografo mazziniano Terenzio    Grandi e di altri esponenti del repubblicanesimo torinese e restò in vita sino all’agosto del  1917, quando confluì nella ricostituita “Fratellanza Artigiana” di Torino (cfr. «L’Iniziativa», 1  settembre 1917). Come si desume da alcune lettere di Gioda a Grandi (pubblicate in Vita di  Mario Gioda narrata da Giovanni Croce, cit.), i due si conoscevano da tempo ed erano in  ottimi rapporti.   153 In una lettera al giornale di Mussolini, Gioda respinse l’accusa d’essersi imboscato e  spiegò la propria intenzione d’impegnarsi affinché fosse al più presto riconsiderata la  posizione di tutti i riformati. «Io poi — scrisse — prima categoria della classe 1883, sono stato  [...] riformato...per deficienza toracica! Ragione che mi fa oggi invocare, d’accordo con gli  amici del “Popolo d’Italia”, la revisione dei riformati» (Per /a revisione dei riformati, «Il  Popolo d’Italia», 23 giugno 1915). In autunno, dopo che il Governo ebbe annunciato  l’intenzione di varare una tassa sui riformati, Gioda tornò decisamente sull’argomento. «E  un’umiliazione — affermò — inflitta a tutti i cittadini che sono stati scartati alla leva militare, è  quasi un bollo, che contrassegnerà, agli occhi di qualcuno, una deficienza umiliante e  discutibile [...]. Noi avremmo capito la revisione dei riformati — da noi ardentemente  sollecitata — e poscia magari — se necessità assoluta l’avesse richiesta — la tassa applicata ai  veri riformati, a quelli cioè che non potendo offrire alla patria tributo di sangue avrebbero  rassegnatamente accolto l’imposta, onde contribuire in qualche modo per la salvezza  nazionale» (MARIO GIODA, A proposito della tassa dei riformati. La revisione doveva avere la  precedenza, Ibidem, 16 ottobre 1915).   154 «Il Nuovo Giornale», 21 novembre 1917.   !55 Domenico Ghetti era nato a Dovadola, nel forlivese, hel 1891. A sedici anni era emigrato  in Germania, poi in Svizzera, cambiando più volte residenza, e stabilendosi infine a Berna. In  quella città Ghetti aveva svolto un’intensa propaganda anarchica, facendosi anche promotore    58       D'altra parte, anche al di fuori della corrente anarcointerventista vera e  propria, l’entrata in guerra dell’Italia provocò, in seno al movimento  libertario italiano, reazioni emotive contrastanti. Ai primi di giugno del  1915, amplificata dal quotidiano romano «Il Messaggero», si diffuse la  notizia (parallelamente alla voce, subito smentita, di contatti segreti tra  anarchici ed emissari degli Imperi Centrali a Villa Malta) che i gruppi  libertari capitolini “Sante Caserio” e “Francisco Ferrer” avrebbero invitato i  propri aderenti ad arruolarsi volontari nella Croce Rossa. In una cartolina  riportata da «L’ Avvenire Anarchico» del 10 giugno 1915 (Gli anarchici non  si corrompono), Aristide Ceccarelli condannò senza mezzi termini  quell’iniziativa, negando l’esistenza di un circolo anarchico intitolato a  Francisco Ferrer. Ciononostante, il 24 giugno, il foglio pisano pubblicò una  dichiarazione degli anarchici Luigi Pallotta, Ettore Piattini e Giuseppe Frate,  a nome dei gruppi “Caserio” e “Ferrer”, nella quale si affermava che «il  comunicato apparso su “Il Messaggero”, invitante gli anarchici a inscriversi  nella Croce Rossa, doveva interpretarsi nel senso che i compagni soggetti al  richiamo avrebbero dovuto scegliere, indossando la divisa del soldato, quella  della suddetta istituzione, sempre umanitaria, per quanto militarista»; e  dunque ch’era «erroneo il commento dei compagni che avevano creduto  sottolineare tale invito come addirittura un reclutamento anarchico ced  adesione di anarchici alla Croce Rossa». Sebbene rimasto senza seguito,  quest’episodio è a nostro avviso indicativo dell’incertezza che colse parte  degli anarchici all'indomani del 24 maggio 1915. i   Nonostante il clima di eccezionalità seguito allo stato di guerra, la ténsione  tra gli opposti schieramenti della vigilia non diminuì che in minima parte (ed  è significativo che persino l’arruolamento di Rocca, il cui nome bastava  evidentemente ad evocare malumori e risentimenti, suscitasse una coda di       di un “Comitato di difesa sociale pro Masetti” (ma pare che i suoi rapporti con la comunità  anarchica italo-svizzera, e in particolare con Luigi Bertoni, fossero tempestosi). Nell’ottobre  del 1914 un suo articolo violentemente antimilitarista (Cos'è /a caserma?, «L'Avvenire  anarchico», 22 ottobre 1914) gli era valso un’incriminazione per istigazione a delinquere. Due  mesi più tardi Ghetti era rientrato in Italia, a Milano, ed era stato arrestato perché trovato in  possesso di numerosi ordigni esplosivi. Condannato a dieci mesi di carcere, beneficiò  dell’amnistia concessa la momento dell’entrata in guerra dell’Italia. Non si hanno notizie di  un suo coinvolgimento nella campagna interventista, ma sappiamo che egli fu di nuovo  arrestato (questa volta a Torino, il 4 giugno 1916) per aver causato gravi incidenti durante un  comizio di Maria Rygier. Nell’aprile 1918 Ghetti riuscì infine ad arruolarsi in fanteria. Cfr.  ACS, CPC, Busta 2355 [Ghetti Domenico].    59       è 156 dea SPERO da 9  polemiche) ‘°°. La verità è che la frattura tra neutralisti e interventisti non si    sarebbe mai più ricomposta, protraendosi anzi, come noto, ben oltre la fine  delle ostilità.   La crisi dei Fasci, seguita all’entrata in guerra dell’Italia, non valse affatto a  rasserenare gli animi, aggravando semmai i motivi di attrito, dentro e fuori il  movimento. L’involuzione subita dall’interventismo rivoluzionario,  d’altronde, prima ancora che la sua capacità di sopravvivenza politica, in  ogni caso compromessa (i Fasci, come tali, si sarebbero compiutamente  ricostituiti solo alla fine del 1915) '5”, investiva la sua stessa ragion d’essere.  Così, lungo tutto l’arco della guerra, si assistette al tentativo (non sempre  fruttuoso) da parte degli interventisti rivoluzionari, di ricompattare le proprie  fila e, soprattutto, di non smarrire, in mezzo al divenire convulso degli  avvenimenti, la propria specificità ideale.   In questo senso, anche la morte in battaglia, il 23 ottobre 1915, di Filippo  Corridoni, una delle figure più carismatiche di tutto l’interventismo  rivoluzionario, acquistò un significato che trascendeva l’episodio in sé, per  assumere una valenza quasi meta-storica. Il giovane milanese assurse a eroe-  simbolo dell’interventismo rivoluzionario, che al nome dell’”’arcangelo”  sindacalista si sarebbe più volte richiamato, nel prosieguo della guerra, come  a un monito di coerenza ideale. Vale la pena, a questo proposito, di ricordare  le parole di Mario Gioda, scritte immediatamente a ridosso del 23 ottobre,  perché specchio di quella concezione volontaristica dell’azione politica che       ich questo riguardo, si veda l’articolo // giuramento di “managgia” («Il Risveglio  Comunista-Anarchico», Ginevra, 24 luglio 1915), nel quale il giuramento di Massimo Rocca  era fatto oggetto di commenti particolarmente malevoli.   Sull’altro versante, un ottimo esempio di questo stato d’animo è rappresentato da un  volumetto di Raffaele Nerucci, pubblicato all’inizio del 1916 su interessamento di Alberto  Fontana e con prefazione di Charles Malato (Da/ di là del Rubicone, Pisa, Tipografia  Mariotti, 1916). In quelle pagine, Nerucci riprendeva i temi abituali della propaganda  anarcointerventista (la contrapposizione fra anarchismo “reale” e anarchismo “ideale”, la  necessità di difendere la civiltà latina, culla della rivoluzione, dalla minaccia del  pangermanesimo ecc.) e si scagliava violentemente contro gli avversari. L’apologia  interventista di Nerucci, scritta in una prosa magniloquente infarcita di citazioni latine,  appariva ancor più incongrua in quanto giungeva a quasi un anno dall’entrata in guerra  dell’Italia. In ogni caso, pochi mesi dopo la pubblicazione di Da/ di là del Rubicone, Nerucci  abiurò all’anarchismo, e, in una lettera ad un settimanale italiano di Marsiglia, annunziò di  aver preso la tessera del Partito Repubblicano (cfr. «L’Eco d’Italia», 27 agosto 1916).  Nonostante la conclamata fede interventista, Nerucci fece di tutto per evitare la trincea,  ottenendo di essere chiamato sotto le armi a guerra quasi conclusa. Cfr. ACS, CPC, Busta  3526 [Nerucci Raffaello].   !57 Per un quadro complessivo delle traversie dell’interventismo rivoluzionario negli anni  della guerra, v. soprattutto RENZO DE FELICE, Mussolini il rivoluzionario, cit., p. 288 ss., al  quale si rimanda per tutte le vicende qui sommariamente descritte.    60       aveva animato la condotta degli interventisti rivoluzionari nell’ora della  vigilia, e che pareva attuarsi, e come prendere corpo, nella vita e nella  tragica sorte di Corridoni.    Egli era — scriveva Gioda ricordando il compagno scomparso - la nostra gioventù,  tutta la nostra vagabonda, ardente gioventù balzata fuori tra gli sterpi d’una bassa  politica e il dissolvimento de’partiti, tra l'impotenza de’dogmatici e la ribalderia  de’mercanti !5    AI combattimento che costò la vita a Filippo Corridoni prese parte anche  Edoardo Malusardi. Il racconto di quell’episodio che l’anarchico lombardo  inviò all’organo mussoliniano è interessante sia come esempio di  autorappresentazione politica (l’interventista rivoluzionario che, ricolmo di  fede nelle proprie idee, combatte con grande sprezzo del pericolo), sia come  prima elaborazione del mito “corridoniano” (Corridoni che cade  eroicamente, intonando un canto patriottico), un mito destinato a crescere in  breve tempo', e al quale avrebbe attinto anche il sindacalismo fascista,    Malusardi in testa.    Mi trovo degente in un ospedale da campo — riferiva dunque Malusardi — ferito in  quattro parti del corpo, per fortuna non gravemente. Sono caduto in un assalto alla  baionetta, in primissima fila; fui fatto prigioniero dagli austriaci perché  impossibilitato a fuggire. Fuggii da questi attraverso a peripezie che hanno del  romanzesco ed a torture inenarrabili [...]. Tra i morti si conta anche Filippo  Corridoni, comportatosi da prode. Quest’ultimo, anzi, è caduto vicino a me cantando  l’inno d’Oberdan'°    158 «Il Popolo d’Italia», 30 ottobre 1915. i 3 ni  Sulla figura di Filippo “Pippo” Corridoni v. il contributo di MARCO MELOTTO, Filippo  Corridoni fra sindacalismo e interventismo, in «Storia in Lombardia», 1994, n. 1, pp. 107-  19 Gia pochi giorni dopo la morte di Corridoni, «Il Popolo d’Italia» avviò una sottoscrizione  er l'erezione di un “ricordo marmoreo” dell’eroe.   © «Il Popolo d’Italia», 29 ottobre 1915. i  La battaglia del 23 ottobre, detta della “trincea delle frasche”, fu fatale anche ad un anarchico  interventista toscano di nome Adino Contini. «Egli era - scrisse di lui Edoardo Malusardi - un  anarchico novatore. Un eretico su cui gravava l’anatema del “Sinedrio Anarchista” [...]. Il  suo anarchismo, come il mio, non era la fronzuta elucubrazione di qualche sofista a spasso  [...], ma bensi la teoria di tutte le libertà e sintesi di ribellione fattiva contr’ogni oppressione. I  suoi precursori, come i nostri, erano due eroi: Filippo Troja, caduto per 1 indipendenza  ellenica, e Cesare Colizza, la maschia figura di spartano, caduto sotto gli spalti di Seraievo in  difesa della Serbia aggredita» («L’Iniziativa», 11 marzo 1916).    61    RI VATTIRP PARO VERI PURI] VAT POV FOVGPRATA IMRE 97 RG "N    Sul piano della concreta riorganizzazione dei Fasci, una delle iniziative più  interessanti fu la proposta - lanciata proprio dagli anarchici interventisti - di  far confluire tutte le forze dell’interventismo rivoluzionario nel Partito  Repubblicano. Nel novembre del 1915 Maria Rygier (che dallo scoppio della  guerra era andata sempre più accentuando la sua vicinanza al  mazzinianesimo) '°, reputando fondamentale — anche in vista delle sfide  politiche del dopoguerra — rinsaldare l’unità del fronte interventista  rivoluzionario, propose apertamente che gli interventisti rivoluzionari, di  ogni scuola e partito, s’iscrivessero al PRI!9. L’invito della Rygier fu  raccolto da Edoardo Malusardi. In una lettera inviata a «L’Iniziativa»  l’anarchico lodigiano si disse persuaso della necessità di unificare tutti i  partiti della sinistra interventista e d’accordo con la Rygier nel ritenere che  ciò potesse concretamente realizzarsi nel segno dell’ ’’ Edera”, a condizione,  però, che questo non significasse un appiattimento sui programmi  repubblicani.    Gli unici che potrebbero trovarsi a disagio — notava a questo proposito Malusardi —  saremmo noi anarchici novatori: per quanto anche noi, non essendo degli  impenitenti utopisti della società paradisiaca, coi repubblicani ci troviamo molto  d’accordo [...]. Noi siamo degli esaltatori dell’individuo, non nel senso  esageratamente Zaratustriano, ma audace e cosciente, che sa imporsi in mezzo al  falso ed imbelle umanesimo grettamente egoista della folla misoneista e dei suoi  codardi capeggiatori [...]. Mentre i repubblicani subordinano la volontà individuale  a quella collettiva, quella delle minoranze a quella delle maggioranze, noi anarchici,       !©! Il definitivo approdo di Maria Rygier al mazzinianesimo era avvenuto con l’articolo  L'ombra sua ritorna ch'era dipartita («L’Internazionale», 1 gennaio 1915), una lunga e  sentita celebrazione di Giuseppe Mazzini. La svolta della Rygier aveva trovato consensi e  destato speranze negli ambienti repubblicani. «Si auspica che l’esempio della Rygier — aveva  scritto Alfredo Poggiali sull’organo del Partito Mazziniano Italiano — ch’era partita, ne’suoi  primordi, da premesse non esatte, possa far breccia anche fra gli altri anarchici» (Lettera  politica dalla Romagna, «La Terza Italia», 15 gennaio 1915). Dopo lo scoppio della guerra,  Maria Rygier, la cui opera di propaganda non conobbe soste, intensificò, se possibile, la  collaborazione con la stampa repubblicana, massime con «L’Iniziativa». L’infatuazione della  Rygier per Mazzini e il mazzinianesimo trovava del resto concordi numerosi altri interventisti  rivoluzionari (a cominciare da Alceste De Ambris) e anarcointerventisti. Mario Gioda, in  particolare, il quale - come si è visto - nutriva già una viva simpatia per le idee e per i  programmi repubblicani (si veda, a titolo di esempio, l’articolo Mazzini e l'ora storica, «Il  Popolo d’Italia», 11 marzo 1915, in cui Gioda aveva tra l’altro sostenuto che tutti i sovversivi,  «non schiavi dello sterile dogmatismo, non avvelenati dalle secche teorie tedesche o  intedescate», avrebbero dovuto riconoscere la grandezza di Mazzini), rafforzò negli anni di  guerra il proprio filo-repubblicanesimo.   " Cfr. MARIA RyGIER, / partiti di domani. Prepariamoci per le lotte future, «L’Iniziativa»,  27 novembre e 4 dicembre 1915.    62          pur coadiuvando in tutte le contingenze l’azione collettiva, non intendiamo che si  È RA ERI F 16  debba tarpare le ali alle iniziative individuali e le minoranze    Il rispetto delle minoranze e delle singole individualità era stato a  fondamento dell’azione dei Fasci interventisti: qualora il Partito  Repubblicano avesse offerto le stesse garanzie politiche, nulla - concludeva  Malusardi - avrebbe potuto impedire il confluire in esso di tutte le forze  dell’interventismo rivoluzionario, anarchici compresi'‘. Il progetto avanzato  dalla Rygier rimase lettera morta, ma il problema dell’unità tra le forze della  sinistra interventista si sarebbe ripresentato più volte, durante come dopo la  guerra. In ogni caso, quale che fu l’esito della sua proposta, il cammino  personale di Maria Rygier verso le “idealità nazionali” non subì inversioni di  rotta. Il 27 e 28 febbraio 1916 ella fu al congresso nazionale repubblicano di  Roma!95.    Non ho ancora la tessera — disse in mezzo agli applausi dei congressisti — ma  voglio confermare che la guerra ha fatto maturare in me, come in altri, una coscienza  nuova, perché ha disvelato effetti deleteri d’una propaganda basata sul determinismo  economico più gretto. E noi torneremo al vostro Mazzini"    L’ex madrina dell’antipatriottismo “tornò” in effetti a Mazzini, e quella  tessera che ancora non poteva esibire al Congresso romano l’ebbe in realtà  pochissimo tempo dopo!.   Il prolungarsi oltre ogni previsione delle ostilità, il malumore ognora  crescente delle masse e il conseguente, nuovo slancio assunto dalla  propaganda neutralista, aumentarono il senso di smarrimento degli  interventisti rivoluzionari. L’esigenza di opporsi alla presunta opera  disgregatrice del neutralismo “socialista-cattolico-giolittiano”, un'esigenza  molto spesso tracimante in vera e propria ossessione, fu all’origine della  nascita e della diffusione, un po” in tutta Italia, di leghe e di comitati per la  “resistenza interna”. Nell’ambito di queste iniziative, tuttavia, gli  interventisti rivoluzionari - o comunque di sinistra - si sarebbero ritrovati il       !0% Ibidem, 20 dicembre 1915.   !% Cfr. Ibidem. e su   !55 AI congresso giunsero anche i saluti di Mario Gioda, che diceva di seguire «con vivissima  simpatia il lavoro dell’unico partito che la guerra e le rivendicazioni nazionali non avevano  sconvolto»; di Massimo Rocca, il quale auspicava che l’assise repubblicana potesse porre le  basi «per un sovversivismo nazionale, meno settario, più serio, più vasto d’idee e profondo di  sentimento»; e di Duilio Lotti. /bidem, 4 marzo 1916.   106 Ivi,   !0? Cfr. Ibidem, 25 marzo 1916.    63             più delle volte in minoranza (tipico il caso del “Fronte Interno”, costituitosi a  Roma nel giugno del 1916 ad opera di forze prevalentemente democratiche,  che finì assai presto per essere egemonizzato dalle destre). L’interventismo  di destra, infatti, e in particolare quello estremo dei nazionalisti, aiutato dalla  radicalizzazione delle prospettive politiche indotta dallo sforzo bellico, prese  senz'altro il sopravvento, finendo per condizionare la stessa azione delle  sinistre, ed aprendo, in questo modo, nuovi e imprevisti scenari.   La preoccupazione di frenare la propaganda neutralista e quella, più o meno  consapevolmente avvertita, di salvaguardare la “purezza” dei propri ideali,  dominarono il convegno nazionale dei Fasci rivoluzionari, che si riunì a  Milano il 21 e 22 maggio 1916". Pochi giorni prima dell’inizio di quel  congresso, Mario Gioda si era fatto interprete dello stato d’animo di grande  perplessità che attanagliava l’interventismo rivoluzionario. Prendendo  spunto dalle agitazioni contro il caro-viveri scoppiate in Germania e Austria,  agitazioni che i neutralisti italiani avevano portato a esempio  dell’insofferenza popolare verso il protrarsi delle ostilità, Gioda si era  augurato che l’Italia rimanesse al di fuori dell’ondata di malcontento che  stava attraversando gli altri paesi belligeranti e s’era detto convinto del buon  senso e delle virtù patriottiche del popolo italiano. Malgrado ciò, l’anarchico  torinese aveva avvertito la necessità di ribadire la ragionevolezza della  guerra in atto. La guerra - aveva affermato Gioda - era giusta perché  «risolutiva» e perché avrebbe schiuso la via «per maggiori conquiste, in un  ambiente europeo non più accidentato da agguati tedeschi e da barbarie  prussiana»!       !6* Per la cronaca del convegno v. «Il Popolo d’Italia», 21, 22 e 23 maggio 1916. V. altresì Le  dichiarazioni del Congresso dei Fasci, «L’Iniziativa», 27 maggio 1916, e La grande adunata  di Milano e la parola dei nostri compagni, «L’Internazionale», 17 giugno 1916.   '5° MARIO GIODA, Perché questa guerra è giusta, «Il Popolo d’Italia», 17 maggio 1916.  Qualche giorno prima, in occasione della festa del lavoro, Gioda aveva manifestato a chiare  lettere quale fosse ormai il proprio pensiero riguardo alle questioni economiche. «Mentre il  mondo — aveva scritto - si dibatte nella tragica convulsione d’una rivoluzione decisiva per  l’avvenire dei popoli, è per lo meno fatuo il voler cianciare ancora di garofani rossi e di feste  di primo maggio per quella ascensione economica di classe che il proletariato non conquisterà  se non a condizione di essersi reso degno di rimanere libero entro libere nazioni» (MARIO  GIODA, / socialneutralisti industrializzano il primo di maggio, «L’Iniziativa», 1 maggio  1916). Del resto, in un articolo intitolato Valori e limiti della lotta di classe, pubblicato da «Il  Popolo d’Italia» del 22 febbraio 1915, Gioda aveva sostenuto che il materialismo non avrebbe  mai potuto offrire una chiave interpretativa univoca dei grandi fenomeni storici e che lo stesso  socialismo, se avesse voluto mantenere la sua primigenia forza morale, non avrebbe dovuto  risolversi, edonisticamente, in una mera questione economica. La lotta di classe, perciò, non  avrebbe dovuto porsi come fine del socialismo, ma come semplice mezzo, da valutare  secondo le circostanze. Nel caso contrario, «l’organizzazione di classe sarebbe diventata fine    64       AI convegno milanese presero parte Maria Rygier, che vi svolse una  relazione sul tema “Neutralismo e neutralisti”!’°, e Massimo Rocca, in  licenza dal fronte!”. Proprio Rocca si fece portavoce di una convinzione che,  in forma più o meno velata, cominciava a circolare anche tra gli interventisti  di sinistra: la convinzione, cioè, che il Governo dovesse adottare dei  provvedimenti, i più severi possibili, per eliminare il pericolo neutralista.  L’azione contro i neutralisti - sostenne Rocca - doveva essere di due tipi:  «positiva» e «negativa». Positiva, nel senso che gli interventisti avrebbero  dovuto intensificare l’opera di propaganda tra le masse, negativa, perché era  giunto il momento, nell’interesse del Paese, di rispondere con misure  energiche alle provocazioni dei “nemici di dentro”.    Noi — affermò Rocca - dobbiamo avere il coraggio di dire: contro i neutralisti  abbiamo fatto tutto quello che si poteva fare. Noi dobbiamo avere il coraggio di  domandare che il Governo faccia un’opera che sia di repressione, che sia capace di  porre un freno!”    La posizione di Rocca, per quanto radicale, era coerente con quanto da lui  sostenuto alla vigilia della guerra in merito all’opportunità di una condotta  realmente unitaria della crisi bellica. Non per niente, in risposta a quanti, in       a se stessa, e nessun alito di umanità e di generosità avrebbe animato il popolo, rinchiuso  nelle sue ghilde, nelle sue fratellanze, nelle sue leghe». La classe - aveva concluso Gioda -  non doveva considerarsi un semplice agglomerato di uomini «economici», ma un insieme  complesso di individui, formanti una comunità con più alte e profonde aspirazioni; ed era  pertanto «inutile, sciocco e disonesto il ripetere [...] al popolo che solo la lotta di classe lo  avrebbe dovuto interessare», ogni altro problema essendo problema «borghese». Questi î  passaggi sono — a nostro avviso — di capitale importanza. E” infatti in questa visione dei  rapporti sociali, intrisa tanto di misticismo mazziniano quanto di elitarismo individualista, che  deve rintracciarsi il motivo dell’adesione di Mario Gioda e di tanti anarcointerventisti alle  ideologie del sindacalismo nazionale e del produttivismo fascista, nonché, per successive  corruzioni dell’impostazione originaria, la ragione del passaggio di molti di loro  dall’antisocialismo all’antioperaismo tout court.   !7° In «Il Popolo d’Italia» 19 maggio 1916. sati   !! «Il Popolo d’Italia» del 22 maggio riportava le adesioni al convegno di altri due  anarcointerventisti: Adolfo Fanelli e Tomaso Dal Ciotto. Il nome di Fanelli, che incontriamo  qui per la prima volta, può esser preso a simbolo degli anarchici interventisti dei quali non ci è  giunta notizia. Il panettiere Adolfo Fanelli era nato a La Spezia nel 1889. «Anarchico  convinto, che prendeva parte a tutte le riunioni e manifestazioni del partito» (come lo aveva  descritto un funzionario della Prefettura di Genova in un rapporto del 1912), Fanelli era stato  gerente responsabile de «Il Libertario» dal dicembre 1912 al gennaio 1913. Divenuto  interventista, fu membro del Comitato Esecutivo del Fascio d’azione internazionalista di La  Spezia. Nel dopoguerra aderì al fascismo, iscrivendosi al PNF nell’agosto del 1922. ACS,  CPC, Busta 1943 [Fanelli Adolfo].   172 «Il Popolo d’Italia», 23 maggio 1916.    65                sede di discussione, avevano affermato l’opportunità di scindere nettamente  l’operato dei Fasci da quello di casa Savoia, Rocca (dimostrando maggiore  realismo politico) sostenne che l’interventismo rivoluzionario doveva  assumersi per intero le proprie responsabilità riguardo alla monarchia, con la  quale, e non contro la quale, la guerra era stata decisa!”?.   Nei restanti due anni di guerra Massimo Rocca fu, insieme alla Rygier, il  più attivo del gruppo degli originari anarchici interventisti. D'altronde, già  nel settembre del 1916 egli venne ricoverato all’ospedale militare di Milano  per una grave forma d’ipertrofia tonsillare, ottenendo così una licenza di sei  mesi (rinnovata nel marzo dell’anno successivo) !” che gli consentì di  dedicarsi a pieno ritmo all’opera di propaganda e di organizzazione  politica’. Il 1916 vide altresì la ripresa, da parte di Rocca, della sua antica  predilezione per i grandi problemi di ordine internazionale, come attestato  dalla pubblicazione - per la casa editrice Sonzogno - del libro // Mare  Adriatico, volume nel quale l’autore sposava le rivendicazioni dei  nazionalisti sull’Istria e la Dalmazia. Non si trattava di un interesse  passeggero, visto che la questione adriatica, destinata a segnare in modo  drammatico il dopoguerra italiano, sarebbe stata - insieme ai temi di politica  economica. - la nota predominante dell’attività di Massimo Rocca nel  biennio 1918-1920. Nel febbraio del 1918, del resto, Rocca entrò nella  redazione del quotidiano milanese «La Perseveranza», avviando, sulle  pagine di quel giornale, una serrata campagna a sostegno dell’italianità della  Dalmazia, campagna che gli attirò gli strali polemici di Gaetano  Salvemini!”       173 Cfr. Ibidem.   !74 Cfr. ACS, CPC, Busta 4362, [Rocca Massimo].   !75 L’operato di Rocca in questo periodo fu caratterizzato da un attivismo capillare che non  disdegnava la propaganda spicciola (lo troviamo, ad esempio, oratore principale alla riunione  indetta dal Fascio interventista milanese, per salutare i “fascisti” della classe 1897 in procinto  di partire per il fronte. Cfr. «Il Popolo d’Italia», 23 settembre 1916). Ancora nell’aprile del  1918 la Prefettura romana annotava che Rocca, «pur conservando le sue idee sovversive»,  continuava a svolgere attiva propaganda a favore della guerra. ACS, CPC, Busta 4362 [Rocca  Massimo].   !7 La posizione di Salvemini (espressa a chiare lettere nel volume La questione  dell'Adriatico, pubblicato all’inizio del 1918), che si rifaceva a Mazzini e al principio di  nazionalità, e che gli avversari bollavano come rinunciataria, e quella annessionista di  Massimo Rocca erano diametralmente opposte. Sulle pagine della sua rivista settimanale,  «L’Unità», Salvemini accusò Rocca di essersi appiattito sulle tesi dei nazionalisti. Rocca, dal  canto suo, non risparmiò le critiche a Salvemini (si vedano, in particolare, gli articoli Per  l'onestà politica e la Dalmazia italiana, e Operai, libertari, Dalmazia e nazionalismo, «La  Perseveranza», 5 e 17 marzo 1918).    66       L’approdo di Rocca al giornale del conte Giangaleazzo Arrivabene, un  foglio di chiaro orientamento conservatore, non deve sorprendere. Infatti,  sebbene Rocca avesse già in passato manifestato simpatie per la destra, fu in  questo arco di tempo, compreso tra il congedo dalle armi e la fine della  guerra, che si consumò la sua definitiva trasformazione politica; fu allora,  per meglio dire, che l’ex anarchico maturò un completo distacco, non tanto  dal movimento libertario, ormai del tutto abbandonato, quanto da ogni  residuo sinistrismo. A conclusione di un lungo cammino umano e ideale,  passando attraverso le decisive esperienze dell’interventismo e della guerra,  Massimo Rocca finì dunque per virare decisamente a destra, verso posizioni  che — semplificando - potremmo definire di conservatorismo “illuminato” sul  piano politico; di liberismo radicale, con forti inflessioni produttiviste, sul  piano economico. In entrambi i casi, però, i legami con il fondo elitario del  novatorismo restavano evidenti. L’individualismo di Rocca, rafforzato dalla .  sua personale convinzione di appartenere a un’ “aristocrazia”, alla parte  nobile - più meritevole perché più capace - del popolo italiano (proprio in  quegli anni, d’altra parte, l’ex tipografo autodidatta compiva con successo il  suo ciclo di studi) '”, giunse in pratica al suo esito naturale. In questo  passaggio era già compreso, in potenza, tutto il futuro politico di Massimo  Rocca, dalla riscoperta della Destra storica alla rivalutazione dell’istituto  monarchico, dal programma economico del 1922 ai Gruppi di Competenza,  fino alla “trincea” revisionista. In ultima analisi, infatti, il fascismo di Rocca  non fu mai, nella sostanza, granché diverso dal suo liberalismo del 1918.   Nel maggio del 1917 Rocca aderì al “Comitato d’azione per la resistenza  interna”, sorto a Milano su iniziativa di Ottavio Dinale allo scopo di  coordinare tutte le forze interventiste e d’infondere nuovo vigore alla loro  opera'??. In qualità di delegato di quell’organizzazione, Rocca partecipò al  secondo convegno nazionale dei Fasci d’azione internazionalista, convocato  a Roma all’inizio di luglio, il quale si concluse con l’approvazione di una       !?? Rocca conseguì la licenza tecnica superiore subito dopo la guerra, iscrivendosi quindi alla  facoltà d’ingegneria del Regio Politecnico di Milano.   17% Quale fosse lo scopo principale di questa nuova associazione patriottica, bene lo illustrava  un ordine del giorno votato a una riunione del Comitato il 7 maggio 1917: «Reclamare dal.  Governo provvedimenti immediati contro i troppi tedeschi, turchi, bulgari e austriaci che  infestano il nostro Paese» («Il Popolo d’Italia», 8 maggio 1917). Alla fine del mese il  Comitato inviò un memoriale al Presidente del Consiglio, nel quale, dipinta a tinte fosche  l’azione destabilizzatrice del neutralismo disfattista, s'invocava un’azione draconiana contro  tutti i “nemici di dentro”. Il memoriale, pubblicato in parte anche da «Il Popolo d’Italia» del  27 maggio, si trova in ACS, PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI. GUERRA EUROPEA,  Fascicolo 19.9.2 [Movimento interventista].    67       sorta di documento programmatico dell’interventismo rivoluzionario!”?.  Nonostante il tentativo d’imprimere all’azione dei Fasci un indirizzo certo,  tanto sul piano politico quanto su quello delle rivendicazioni sociali, le  grandi questioni delineatesi nel corso dei due anni precedenti, quella delle  misure da opporre alla ripresa del neutralismo, e quella (per così dire relativa  all’indole stessa del movimento) della salvaguardia della propria identità  rivoluzionaria, rimanevano, complice l’inasprirsi delle tensioni interne al  Paese, più che mai aperte!*°. La tragedia di Caporetto, con ciò che ne seguì, a  livello politico-militare come a livello emotivo, e la conseguente  demonizzazione dei cosiddetti disfattisti, avrebbe contribuito non poco a  mischiare le carte in tavola, spostando decisamente a destra l’asse della  politica interventista. Le divergenze tra le diverse forze dell’interventismo  finirono per appianarsi, a tutto vantaggio della destra nazionalista, salvo poi  riproporsi, ma in un contesto nel frattempo profondamente mutato, alla fine  della guerra.       19° V. «Il Popolo d’Italia», 2 e 3 luglio 1917, e l’articolo // Congresso Interventista di Roma in  difesa degli operai e della pace giusta, «L’Internazionale», 21 luglio 1917 (l’organo  sindacalista parmense riprese le pubblicazioni proprio il 21 di luglio, dopo una sospensione di  quasi un anno).   10 E° molto difficile, per l’assoluta mancanza d'informazioni, sapere cosa gli  anarcointerventisti pensassero riguardo a queste due tematiche, ma è ragionevole credere che  la loro opinione non differisse da quella degli altri protagonisti dell’interventismo  rivoluzionario, sempre più orientati verso una linea di ferma intransigenza. Una testimonianza  importante, anche per l’estremismo del linguaggio usato, è quella di Edoardo Malusardi, il  quale, prendendo le mosse dalla proposta di dimissioni generali avanzata ai sindaci e agli  ‘amministratori socialisti da Costantino Lazzari (un gesto che, nell’opinione del segretario del  Partito Socialista, si sarebbe rivelato un utile strumento di pressione sul Governo e avrebbe  potuto accelerare l’uscita dell’Italia dalla guerra), si appellava direttamente al popolo italiano  perché facesse alfine giustizia «di un così ributtante fenomeno di perfidia e di vigliaccheria»  (EMME, Son purl..., Ibidem, 22 settembre 1917).    68       I    FASCISMO    L’anarcointerventismo alla prova della “nuova” Italia    Ripercorrere le tracce dell’anarcointerventismo nel caos del dopoguerra non  è impresa facile. Già nei mesi successivi all’armistizio, il blocco  dell’interventismo rivoluzionario cessò di esistere come un tutt'uno, per  disperdersi e riaggregarsi in mille rivoli, mentre la nascita di nuove  formazioni, che pure ad esso si richiamavano (fra tutte i Fasci di  combattimento), aggiungeva imprevedibilità a un’atmosfera politica di per sé  già molto fluida. L’anarcointerventismo, che non aveva mai posseduto, per  sua stessa natura, una rigidità organizzativa e ideologica, non sfuggì a questo  processo dissolutivo. Nondimeno, se non ha più molto senso, dopo Vittorio  Veneto, parlare di interventismo anarchico come corrente politica in sé, è  tuttavia possibile — come si accennava nell’introduzione -, attraverso la  vicenda personale dei suoi maggiori rappresentanti, provare a ritrovarne i  segni nella politica italiana del dopoguerra. Dei /eaders anarcointerventisti,  alcuni, come Oberdan Gigli e Maria Rygier, finirono per isolarsi  progressivamente dal gioco politico e per non avere che una parte di secondo  piano nella tormentata stagione del prefascismo'; altri, come Attilio  Paolinelli, riallacciarono, sebbene a fatica, i legami con il movimento  anarchico, rientrando a pieno titolo nell’ “ortodossia”. Altri ancora, infine,       ' Nel caso di Gigli, si può affermare che, con la partecipazione alla guerra, ebbe del tutto  termine la sua militanza pubblica. Nel dopoguerra, infatti, egli abbandonò la politica,  tornando a dedicarsi ai suoi studi. Cfr. MAURIZIO ANTONIOLI, Gli anarchici italiani e la prima  guerra mondiale. Lettere di anarchici interventisti (1914-1915), cit., p. 84.   Più complesso l’iter politico di Maria Rygier. Negli anni successivi alla guerra la Rygier si  ivvicinò all’Associazione Nazionalista, maturando, nei confronti del fascismo, un  atteggiamento sostanzialmente ambiguo. Nel 1926 fu comunque costretta ad espatriare in  Francia, dove rimase sino alla caduta del regime. Rientrata in Italia, concluse la sua  travagliata milizia politica nelle file del Partito Liberale. Morì a Roma nel febbraio del 1953.  (fr. FRANCO ANDREUCCI, TOMMASO DETTI, op. cit., Vol. IV, ad nomen.   ? Nel luglio del 1919 Paolinelli fu arrestato con l’accusa di aver preso parte al complotto di  Pietralata, allorché un gruppo di anarchici, insieme a repubblicani e arditi, tentò  d'impadronirsi dell'omonimo forte militare. Amnistiato, aderì poi - in rappresentanza degli  anarchici individualisti - a un comitato romano “di difesa proletaria” in funzione antifascista.    69          come Mario Gioda, Edoardo Malusardi e Massimo Rocca, si guadagnarono  un posto di rilievo nel nascente movimento fascista, del quale divennero,  quantunque in ambiti diversi, indiscussi protagonisti. La loro vicenda  all’interno del fascismo (che appunto ci proponiamo di ricostruire nel  prosieguo di questo lavoro) può, a nostro giudizio, essere considerata in  relazione ai loro precedenti anarchici; e infatti, se è arbitrario ricercare in  essa un medesimo filo conduttore, immediatamente e coerentemente    riconducibile alla doppia e complessa eredità dell’individualismo anarchico ©  riconoscervi, pur |  nell’eterogeneità delle esperienze e delle posizioni ideali e politiche, non |    e dell’anarcointerventismo, è però possibile  pochi punti di contatto con quel pensiero e con quella tradizione. Nel  valutare l’apporto della cultura anarcointerventista al movimento  mussoliniano (un contributo minoritario, ma non per questo trascurabile),    occorre poi tener presente che il fascismo iniziale, lungi dal formare un |    monolito impenetrabile, orbitante attorno alla tetragona figura di Mussolini,    si distingueva piuttosto - come lucidamente notava Renzo De Felice ©    nell’introduzione al primo volume della sua biografia mussoliniana - per  essere una «serie di stratificazioni»ì, un accumulo di passioni e d’idee    diverse, non di rado in contrasto tra loro. Di questo multiforme e |  contraddittorio universo che fu il primo fascismo, la vena.    anarcointerventista, proprio in ragione della sua disorganicità — evidente nei  diversi orientamenti di Gioda, Rocca e Malusardi -, costituisce inoltre, per  così dire, un modello in scala ridotta.   La storia dell’anarcointerventismo nel dopoguerra (la si consideri o meno in  ordine al fascismo) fu dunque, essenzialmente, storia d’individualità, anche  se, ancora per qualche tempo, nei mesi successivi all’armistizio, si  verificarono, qua e là, sporadici tentativi di raccogliere i superstiti della  corrente anarcointerventista intorno a un progetto politico ben definito, in  grado di misurarsi autonomamente con le forze nuove emerse dal    rivolgimento bellico. A prescindere da alcune iniziative isolate, come quella |  partita da Domenico Ghetti‘, l'esperimento di maggior sostanza in questa |       Nel 1927 fu condannato a quattro anni di confino. Il secondo dopoguerra lo vide ancora attivo  nelle fila del movimento libertario. Cfr. ACS, CPC, Busta 3711 [Paolinelli Attilio].   i RENZO DE FELICE, Mussolini il rivoluzionario, cit., p. XXII.   4 Il 17 maggio 1919, sulle colonne de «Il Popolo d’Italia», apparve un appello di Domenico  Ghetti agli «anarchici interventisti milanesi» perché facessero giungere la loro adesione alla  nuova iniziativa patrocinata da Mussolini. Ghetti era un mussoliniano convinto (nel giugno  del 1919 la Prefettura di Milano, città nella quale l’anarchico romagnolo si era trasferito alla  fine del conflitto, lo segnalava tra i più accesi propagandisti dei «principi mussoliniani» in  seno al «partito» anarchico). ACS, CPC, Busta 2355 [Ghetti Domenico].    70       direzione fu quello tentato da Roberto D’Angiò. Nella primavera del 1919,  gli ambienti anarchici liguri (D’Angiò si era trasferito a La Spezia a guerra  in corso) furono messi in subbuglio da una circolare, firmata appunto dal  noto propagandista, nella quale si dava per imminente la pubblicazione di un  nuovo giornale anarchico d’ispirazione interventista.    Le concezioni di D’Angiò sull’anarchia — annotava il 31 marzo il Prefetto di  Genova — non collimano con quelle del Binazzi Pasquale, direttore e gerente del  periodico anarchico “Il Libertario” che si pubblica a La Spezia, ed ha pertanto  deciso di fare uscire prossimamente colà un nuovo giornale anarchico intitolato «La  Protesta», che vorrebbe pubblicato quindicinalmente. Tale nuova pubblicazione  avrebbe come programma l’illustrazione del principio anarchico adattato ai nuovi  tempi sortiti in seguito all’opera di rivoluzione fatta dalla guerra”    Il prestigio che ancora ispirava il nome di D’Angiò e il ricordo, sempre vivo,  delle dure polemiche d’anteguerra, indussero «Il Libertario» a prendere  nettamente le distanze da quell’iniziativa.    Parecchi compagni da varie località — ammoniva il foglio di Binazzi - ci chiedono  spiegazioni circa una circolare diramata da Roberto D’Angiò, colla quale si  annunzia la pubblicazione di un nuovo giornale anarchico a Spezia. Rispondiamo in  blocco ai compagni: da tempo il suddetto individuo non ha più nulla di comune cogli  anarchici di Spezia e tanto meno con noi del «Libertario»®    Alla fine di maggio, «Il Popolo d’Italia» - ormai organo ufficioso dei nuovi  Fasci mussoliniani - ospitò un accorato appello di D’Angiò a tutti i «libertari  interventisti», affinché dessero il loro contributo, anche economico, alla  realizzazione de «La Protesta».    Ciò che io desidero — scriveva D’Angiò, precisando il proprio punto di vista — è che  tutti gli anarchici d’Italia, i quali si dichiararono contro il militarismo prussiano,  abbiano il coraggio civile di affrontare la situazione da noi creata. Non è lecito star  zitti quando ci definiscono ex anarchici, volta gabbana, rinnegati, ecc. Noi dobbiamo  reagire, dobbiamo esprimere le nostre idee [...]. Dobbiamo esprimere ed esporre le  nostre idee per snebbiare le menti, per fare viva luce, per dimostrare che noi, che ci  opponemmo con la violenza alla violenza teutonica, fummo e rimaniamo i veri  anarchici”       + Ibidem, Busta 1612 [D'Angiò Roberto].  ® «Il Libertario», 22 maggio 1919.  ? «Il Popolo d’Italia», 29 maggio 1919    71       IPO VRE PERI PRIOTOI VIVONO TT Pet POVIOA    Il primo numero de «La Protesta» uscì il 16 luglio. «Noi — si affermava  nell’editoriale — facciamo qui una pubblicazione anarchica, né più né  meno». Come prima della guerra, dunque, obiettivo principale degli  anarchici interventisti era quello di rivendicare la propria appartenenza alla  famiglia anarchica, nella convinzione, semmai, che i tempi fossero più che  mai propizi per una riforma radicale dell’anarchismo; riforma che doveva  passare attraverso una “selezione” delle migliori energie rivoluzionarie.    Lo sconvolgimento europeo — sosteneva un anonimo articolista de «La Protesta» -  ha insegnato qualche cosa all’operaio. Noi anarchici, che a costui predichiamo di  emanciparsi, dobbiamo, come abbiamo fatto nel passato, non seguire il sistema del  socialismo ufficiale, per il quale il numero, o meglio una somma di numeri, è tutto  [...]. Noi, nel rivolgerci alla massa, dobbiamo parlare all’individuo”    Nonostante l’iniziale sostegno di Mussolini, e nonostante i favori raccolti in  ambito anarcointerventista'’, il giornale di Roberto D’Angiò non sopravvisse    al secondo numero, e il suo fallimento convinse lo stesso D’Angiò a ritirarsi _    a vita privata".  Lo sforzo, tentato da D’Angiò con «La Protesta», di connettere gli anarchici    interventisti, come entità politica autonoma, alla più vasta corrente |  “rinnovatrice” del dopoguerra, restò un caso isolato, ma il contatto tra gli .    anarchici e le forze superstiti dell’interventismo rivoluzionario fu fecondo    anche di altre esperienze, che, pur non avendo un nesso diretto con |    l’anarcointerventismo, è doveroso richiamare brevemente. E’ nota, ad  esempio, l’attenzione con la quale, nel confuso biennio 1919-1920, gli    interventisti rivoluzionari - e in parte gli stessi Fasci di combattimento - _    guardavano al movimento libertario. D'altronde, se le divisioni tra i due  schieramenti erano molte e insanabili, non mancavano tuttavia i motivi    d’incontro, particolarmente la comune ostilità nei confronti dei socialisti    “bolscevizzati” e del loro inconcludente rivoluzionarismo, demagogico e  “parolaio” (Errico Malatesta manifestò a più riprese le sue riserve nei  confronti dell’esperimento leninista) '’. Sul piano puramente strategico non       8 «La Protesta», 16 luglio 1919.   ? Le coscienze volitive, Ibidem, 14 agosto 1919.   0 Dopo il numero saggio del 16 luglio, il giornale di D’Angiò raccolse oltre 30 sottoscrizioni  - per un totale di 240,45 lire - e 28 abbonamenti. Tra gli entusiasti sostenitori de «La Protesta»  ritroviamo alcuni dei nomi più noti dell’anarcointerventismo, da Oberdan Gigli a Ruffo Sarti,  da Alberto Fontana ad Alberto Senigallia. Cfr. /bidem.   È D’Angiò morì a Milano nel 1923. Cfr. ACS, CPC, Busta 1612 [D'Angiò Roberto].   © L’iniziale cautela con cui Malatesta accolse le notizie provenienti dalla Russia lasciò  gradualmente - ma inesorabilmente - il posto a una condanna senza appello del comunismo    72          era quindi irragionevole pensare, da entrambe le parti, ad un’intesa d’azione  in chiave rivoluzionaria; e basti qui ricordare la vicenda del progettato  tentativo insurrezionale che, auspice Alceste De Ambris, avrebbe dovuto  estendersi da Fiume, occupata dai legionari di Gabriele D’ Annunzio, a tutta  la Penisola. Il piano, che vide direttamente coinvolto Malatesta (rientrato in  Italia nel dicembre 1919, grazie all’interesse del segretario della Federazione  dei lavoratori del mare, il capitano Giuseppe Giulietti, e accolto  favorevolmente dalla stampa filo-fiumana) '*, fallì, a quanto pare, solo per la  ferma opposizione dei socialisti a dare un appoggio anche solo indiretto  all’impresa'‘.   La presenza anarchica nel nebuloso quadro politico del dopoguerra si  manifestò anche per altre vie e in altri modi, che, sebbene inconsueti, non  devono però meravigliare più di tanto, quando si tenga conto. della  multiformità delle posizioni all’interno del mondo anarchico. D’altra parte, il  processo di ridefinizione degli spazi politici si prestava a favorire la nascita  di connubi apparentemente improbabili'. Tipico, in questo senso, il caso de       autoritario e soprattutto della dottrina della dittatura del proletariato. Per valutare la posizione  di Malatesta riguardo al bolscevismo è essenziale la lettura dei molti articoli da lui dedicati  all’argomento tra il 1919 e il 1924. Una scelta significativa di questi scritti (originariamente  apparsi su «Umanità Nova» e «Pensiero e Volontà») si trova in ERRICO MALATESTA,  Individuo, società, anarchia. La scelta del volontarismo etico, a cura di Nico Berti, Roma,  Edizioni e/o, 1998.   ! Il 27 dicembre, «Il Popolo d’Italia», che seguì con simpatia e partecipazione il rimpatrio di  Malatesta, rilevò, a proposito dei rapporti di questi con l’interventista Giulietti, ch’egli era  forse «meno intransigente dei tenenti idioti e nefandi del PUS». Gli apprezzamenti  dell’organo mussoliniano, in verità, non piacquero a Malatesta, consapevole del loro valore  strumentale (al riguardo v. ARMANDO BORGHI, op. cit., pp. 203-204). Del resto, l’infatuazione  del fascismo per il vecchio capo anarchico fu di breve durata (a questo riguardo si veda il  duro articolo Una leggenda che si sfata, in «Il Fascio», 6 marzo 1920), e tuttavia, ancora per  tutto il 1920, l’antibolscevismo di Malatesta fu spesso opportunisticamente richiamato, dai   iornali fascisti, in aperta polemica con i “pussisti”.   4 Su questi fatti v. RENZO DE FELICE, Sindacalismo rivoluzionario e fiumanesimo nel  carteggio De Ambris — D'Annunzio, cit., p77 ss.   !5 Tra gli esempi più significativi di questa sorta di diaspora anarchica dev’essere ricordato  quello degli anarchici triestini Luigi Marcello Andriani e Carlo Ukmar. Nell’ottobre del 1918,  dopo il crollo della monarchia asburgica, Andriani e Ukmar (che erano membri di riguardo  del gruppo libertario “Germinal”, il più importante di Trieste) entrarono nel Fascio Nazionale,  costituito dalle forze politiche italiane allo scopo di garantire l’unione della città irredenta alla  madrepatria. «Dimentichi di ogni divergenza di programmi — recitava il manifesto del Fascio  Nazionale -, fusi nel grande amore di sentirci italiani, noi, uomini di tutti i ceti, ci siamo  costituiti in Fascio Nazionale, sintesi ed espressione di quanti consentono ad un’unione con la  Patria [...], che ogni altro ideale comprende ed ammette» (/taliani!, «La Nazione», 1  novembre 1918). Su Andriani e Ukmar v. ENNIO MASERATI, Gli anarchici a Trieste durante il  dominio asburgico, Milano, Giuffrè, 1977, ad indicem.    73          «La Testa di Ferro», l’organo dei legionari fiumani diretto dall’ardito e  futurista Mario Carli!’, che fu, per circa un anno, luogo d’incontro e di  confronto tra le frange estreme del combattentismo e del futurismo politico e  certo anarchismo violentemente individualista, gravitante attorno a riviste  dal titolo emblematico, come «Nichilismo» e «L’Iconoclasta»!”. Attraverso  la rubrica “Polemiche d’anarchismo”, il giornale di Carli, che iniziava le       !6 Mario Carli, nato in provincia di Foggia nel 1889 ma fiorentino d’adozione, era stato uno  dei protagonisti delle avanguardie futuriste. Verso la fine della guerra, Carli, con il gruppo del  giornale «Roma Futurista» (Emilio Settimelli, Filippo Tommaso Marinetti, Enrico Rocca,  Giuseppe Bottai, ecc.) fu tra i fondatori del Partito Politico Futurista. Il futurismo politico, al  quale dettero un apporto considerevole gli ex-combattenti (lo stesso Carli, che era capitano  degli arditi, si fece promotore, nel gennaio 1919, dell’Associazione fra gli Arditi d’Italia), era  decisamente orientato a sinistra e costituì una delle assi portanti dei primi Fasci mussoliniani,  contribuendo altresì ad influenzarne gli orientamenti. «Il programma dei Fasci di  Combattimento creati da Mussolini — commentava «Roma Futurista» nell’aprile del 1919 - è  sostanzialmente identico al programma del Partito Politico Futurista. Forse, le due istituzioni  finiranno per fondersi. Lo spirito che le anima è uno. E” lo spirito dell’Italia nuova: l’Italia dei  combattenti».   Sulla figura e l’opera di Carli v. Dizionario biografico degli italiani, Vol. 20, Roma, Istituto  della Enciclopedia Italiana, 1960-1997, ad nomen, nonché il contributo di ANNA SCARANTINO,  L'Impero. Un quotidiano reazionario-futurista degli anni Venti, Milano, Guanda, 1978, p. 12  ss. Sul futurismo politico e i suoi rapporti col primo fascismo v. RENZO DE FELICE, Mussolini  il rivoluzionario, cit., p. 474 ss., EMILIO GENTILE, Le origini dell'ideologia fascista (1918-  1925), Bari, Laterza, 1975, p. 109 ss., e, con una particolare attenzione alla personalità e al  ruolo di Filippo Tommaso Marinetti, MicHEL OSTENC, Intellettuali e fascismo in Italia,  Ravenna, Longo, 1989, pp. 107 ss.   Li «Nichilismo», diretta da Carlo Molaschi, uscì a Milano tra l’aprile del 1920 e il marzo  1921; «L’Iconoclasta», fondata da Virginio Gozzoli, vide la luce a Pistoia in due periodi  distinti, lungo un arco di tempo compreso tra il maggio del 1919 e l’aprile del 1921. Cfr.  LEONARDO BETTINI, op. cit., ad indicem.   Per capire di quale tipo di idee fossero portavoce queste riviste, si veda l’articolo // mio  individualismo, a firma Enzo di Villafiore (Enzo Martucci), comparso su «L’Iconoclasta» del  15 maggio 1920 (ma se ne potrebbero citare molti altri). «Quale differenza — vi si leggeva -  corre tra il fanatico che si lascia castrare per i suoi dei, il patriotta che si fa uccidere pel suo  paese, e il sovversivo che cade evocando la redenzione collettiva? Nessuna! [...] Nella stessa  guisa han perduto la coscienza del proprio io, e perseguono un fantasma irraggiungibile [...].  Sono dei deboli [...]. Essi non sentono la propria individualità che vuole affermarsi, godere,  vivere [...]. E vorrebbero che io li seguissi. Io scettico, iconoclasta, cinico [...]. Vorrebbero  che mi sacrificassi per la plebe stupida, grossolana e volgare [...]. Io che voglio bere il  profumo della Vita e inebriarmi di Bellezza, che voglio aspirare l’aere della Libertà  sconfinata, per ricevere infine il bacio della Morte. Io tanto superiore alla mediocrità [...]. Io  lotto per me, unicamente per me [...]. Sono al di la del Bene e del Male». In ogni caso,  posizioni di questo tenore suscitarono critiche all’interno della stessa rivista di Gozzoli (che -  come recitava il sottotitolo - era «aperta a chiunque»). In un articolo significativamente  intitolato /ndividualismo o futurismo?, Camillo Berneri definì «deliri letterari», «prose pazze  e vuote», gli scritti di Villafiore e compagni, e «pazzoidi» e «megalomani» i loro autori,    74       pubblicazioni nel febbraio del 1920, si aprì ai contributi di quegli anarchici  individualisti, per lo più molto giovani, che, suggestionati dalla retorica  “demolitrice” e anticonformista del futurismo, vi scorgevano un’arma  potente di rinnovamento della società e, allo stesso tempo, un mezzo di  realizzazione personale"8.   In polemica con «Umanità Nova» (il primo quotidiano del movimento  anarchico italiano, fondato da Malatesta all’inizio del 1920), che guardava  con naturale diffidenza alla “rivoluzione” fiumana e alle velleità sovversive  dei futuristi”, Mario Carli affermava recisamente il carattere proletario e  progressista del futurismo e definiva in questo modo il proprio rapporto con  l’anarchismo:    Tutti sanno quanta dose di anarchismo sia nella nostra concezione futurista del  mondo, che vorrebbe abolire tutte le cose inutili ed ingiuste; le dinastie e i carceri, il  papato e i tribunali, il parlamento e i privilegi, l’archeologia e i corrieri della sera, E°  per questo che, non potendo più accettare il dominio dell’attuale classe dirigente, né  avendo fiducia in quello avvenire delle altre classi, io mi sento assai vicino alla  concezione anarchica, cioè individualista, che vuol preparare un tipo di uomo libero  e forte, unico e indiscusso arbitro dei propri destini”    A sua volta, Filippo Tommaso Marinetti, rispondendo a un anarchico che,  pur plaudendo all’opera novatrice dei futuristi, rimproverava loro il sostegno  dato alla causa fiumana e il loro sentimentalismo patriottico”!, invitava gli  anarchici a lasciarsi dietro le spalle «il pessimismo vano», per aderire alla  lotta propositiva del futurismo. Il punto era - secondo Marinetti - che, mentre  gli anarchici erano «tutti più o meno dei futuristi antipratici, platonici e  pessimisti», i futuristi erano «degli anarchici pratici, fattivi, ottimisti, con un  campo determinato per le Zoro demolizioni e bonifiche, cioè la patria»??.       ! Tra gli anarchici collaboratori de «La Testa di Ferro» si contava anche Domenico Ghetti,  responsabile dell’ufficio di corrispondenza del giornale a La Spezia.   !9 Si veda, in modo particolare, l’articolo Con /a lenza, a firma Simplicio (Gigi Damiani), in  «Umanità Nova», 28 settembre 1920.   20 MARIO CARLI, Replica a un avversario ultra-rosso, «La Testa di Ferro», 3 ottobre 1920.   ?! Cfr. BrUTNO, Patria, Ibidem, 10 ottobre 1920.   22 Ivi.   In quegli stessi giorni, Marinetti pubblicava, per le edizioni de «La Testa di Ferro»,  l'opuscolo A/ di là del comunismo, che può considerarsi il manifesto del suo “sinistrismo”. In  esso, il poeta passava in rassegna, criticandole, tutte le incarnazioni, vecchie e nuove, della  sinistra, e definiva le coordinate del suo individualismo futurista rivoluzionario. «Vogliamo —  affermava tra l’altro - l'abolizione degli eserciti permanenti, dei tribunali, delle polizie e dei  carceri, perché la nostra razza di geniali possa sviluppare la maggior quantità possibile di  individui liberissimi, forti, laboriosi, novatori, veloci».    75       K }  Sisonialitga al quale facevano riferimento Carli, Marinetti e  u uristi de «La Testa di Ferro» era il medesimo c  in l’individualista Abele Ricieri Ferrari  ov. o ETTARI FRI 3  atore, descriveva come «agilità volitiva,  poesia»    i gli altri  he, in quello stesso  meglio noto come Renzo  violenza creatrice [  dl . »_ x . O . uo: 4  ca di ei o minoritario, puramente concettuale, pio  Ismo nietzschiano, che niente a 6  $ d F Veva a che veder  il movimentismo malatesti ì sconti  stiano, così pervaso di i È  i mala umanesimo, né con il  comunismo libertario di «Umanità x i  ità Nova» (col qual i, si i  munism i i quale, anzi, si poneva in netta  antitesi) ‘’, ma che era, innegabilmente, frutto di quel periodo storico    I primi contatti col fascismo    Chiusa questa parentesi, è dunque il momento di tornare alle vicende dei  protagonisti dell’anarcointerventismo in procinto di vestire la cami ta nese  di seguirne il cammino nell’immediato dopoguerra, a Jomiigii re di  Massimo Rocca. i vandi.  In questo periodo - come si accennava - l’interesse di Rocca era per lo più  rivolto alla bruciante questione adriatica. In essa, allora al pui di sd  dibattiti, egli riversò tutto il suo virtuosismo polemico e la sua abilità di  propagandista, con il puntiglio e la caparbietà che gli erano propri” Sebb  Vicino ai nazionalisti, alla cui Associazione aderì subito dopo la vera.  Rocca non ne condivideva le smodate mire imperialiste. Come si cilea dai       23  MANTRA TORE: Oltre ogni confine, «La Testa di Ferro», 7 novembre 1920.  Bocea È, pag Leni Nazi i tra i più assidui collaboratori de «L’Iconoclasta».  sponenti della corrente anarcoindividualist: i È  Una raccolta dei suoi scritti si trova i Vila ae eri;  va in RENZO NOVATORE, Un fiore selvaggio, Pi  A pr E; beds  seal con una breve nota biografica e bibliografica a cura di Alberto Cimmii o ui  fr vm Testa di Ferro» del 12 dicembre 1920, un certo Atomon ribadiva che i futuristi  Ri nino ma sh individualisti, bollando come «antianarchica» l'Unione Anarchica  ‘a Malatesta, che, come le organizzazioni social- i i limi  e À comuniste, si limitava a fare della  a , la vera anarchia non doveva dare al i  «fattore economico dell’esistenza», ma rici i FI nat  ) ; ercare «la perfezione dell’individuo nella vi i  sopra di ogni pregiudizio o di ogni do, Ò ITA a  opr ] gma». Al contempo, però, l’anonimo futuri  distinguere il gruppo di «Umanità Ni i pic ae a  s ova» dal Partito Socialista, mostrando di ire i  primo al secondo, e definiva Errico Malatesta, d i quaglie  do, lel I  morale», un «agitatore e apostolo». - AE  Rocca era membro del “Fascio delle iazioni iotti  2€1 ro. dels associazioni patriottiche” e del “Comitat i  L'ing irredente” di Milano. Cfr. ACS, CPC, Busta 4362 [Rocca Massimo] Faggi  Cfr. Massimo Rocca, Come il fascismo divenne una dittatura, cit., p. 98.    76       suoi numerosi articoli per «La Perseveranza», a cui continuò a collaborare  fino al luglio del 1919 (quando il mutamento della linea editoriale,  sopravvenuto a un cambio di proprietà, gli consigliò l’abbandono), la sua  posizione non andava oltre la rivendicazione dell’Istria e della Dalmazia, che  egli non dubitava essere geograficamente, culturalmente e politicamente  italiane. Una certa moderazione, che pur gli va riconosciuta, non gli impedì  di attaccare violentemente i cosiddetti rinunciatari, a cominciare da Leonida  Bissolati, sia dopo l’intervista da questi rilasciata al «Morning Post», sia  dopo il suo celebre discorso alla Scala?”. Il 17 gennaio 1919 Rocca prese  parte all’imponente comizio milanese “pro Fiume e Dalmazia italiana”, che  fu la risposta data dai “dalmatofili” all’iniziativa del Zeader socialriformista,  comizio nel quale - secondo Renzo De Felice - ebbe il compito di sostituire  Mussolini, che preferì non intervenire «per evitare incidenti»”8. Ai primi di  marzo, Rocca intraprese un viaggio di studio lungo la costa orientale italiana,  da Venezia a Brindisi, giungendo quindi a Spalato, sulla sponda opposta  dell’ Adriatico. Dalla cittadina dalmata, dove si trattenne qualche giorno, fece  pervenire al suo giornale un esteso reportage, nel quale si prodigava, con la  consueta e un po’ pedante ricchezza di argomentazioni, a dimostrare  l'italianità della Dalmazia”. AI suo rientro in Italia fu protagonista di due  nuove manifestazioni patriottiche, a Milano e Torino”; quindi, all’inizio di  aprile, partì per Parigi, inviato speciale de «La Perseveranza», a seguire da  vicino i lavori del congresso di pace”. Dopo il messaggio di Wilson agli  italiani e il conseguente ritiro della nostra delegazione dalla capitale  francese, Rocca, che fino ad allora aveva tenuto, nei confronti del  “wilsonismo”, un atteggiamento prudente e non del tutto ostile*”, abbandonò       7 A questo riguardo v. LIBERO TANCREDI, // ministro della piccola Italia, «La Perseveranza»,  11 gennaio 1919, e Una pace di menzogna per un nuovo giolittismo, Ibidem, 13 gennaio  1919.   28 Renzo DE FELICE, Mussolini il rivoluzionario, cit., p.491.   Per la cronaca del congresso v. «Il Popolo d’Italia», 18 gennaio 1919.   29 Cfr. LiBERO TANCREDI, La passione di Spalato, «La Perseveranza», 12, 14 e 17 marzo  1919.   30 Cfr. «Il Popolo d’Italia», 13 marzo 1919, e «La Perseveranza», 17 marzo 1919.   3! Cfr. MassIMO ROCCA, Come il fascismo divenne una dittatura; cit., p. 77.   32 In occasione del viaggio di Wilson in Italia, Rocca, pur vagheggiando una sorta di lega  latina, fondata sull’alleanza Italia/Francia, che facesse da contraltare al nuovo “imperialismo”  anglo-statunitense, aveva manifestato interesse per le tesi del presidente americano, dicendosi  favorevole ad una partecipazione italiana alla Società delle Nazioni. Essa sola — scrisse -  avrebbe potuto garantire «giustizia per i vincitori come per i vinti: giustizia per gli italiani  dell'Istria e della Dalmazia, per gli albanesi, per i romeni, per gli stessi tedeschi» (LIBERO  TANCREDI, L'Italia e la Società delle Nazioni, «La Perseveranza», 5 gennaio 1919).    77                ogni remora, schierandosi senza riserve con il partito dell’annessione, ormai  - a suo dire - «l’unica via percorribile». AI congresso “per l'annessione di  Fiume e della Dalmazia”, che si tenne a Milano, su iniziativa del “Fascio  delle associazioni patriottiche”, il 28 aprile 1919, Rocca non lesinò le accuse  a Wilson, denunciando il torbido «retroscena bancario internazionale che si  nascondeva dietro la figura del presidente filosofo».   Da questo momento i toni della propaganda estera di Massimo Rocca si  fecero sempre più intransigenti. In un fondo per l’organo torinese  dell’Associazione Nazionalista, egli giunse addirittura a prefigurare «la  necessità di un imperialismo senza confini», qualora la crescente ostilità  internazionale e «Ia fantastica corsa allo sciopero» all’interno del paese, con  i suoi effetti negativi sul livello di produzione, avessero a tal punto  danneggiato le esportazioni e fiaccato la ricchezza nazionale da impedire di  provvedere pacificamente all’acquisto delle materie prime indispensabili”.  Questi ultimi accenni alla situazione interna dell’Italia ci consentono di  soffermarci sugli aspetti più propriamente economici del pensiero di  Massimo Rocca. La sua visione economica, infatti, che rimarrà pressoché  inalterata negli anni a venire, si veniva proprio allora configurando come una  mistura di liberismo, sindacalismo e produttivismo di stampo mussoliniano.  Così, a proposito della ventilata introduzione delle otto ore lavorative, Rocca  esprimeva l’esigenza che ad essa si accompagnasse «tutto un sistema  otganico di educazione ed istruzione professionale che accrescesse il  rendimento degli operai»; i quali operai, a loro volta, pena il tracollo  economico della nazione, avrebbero dovuto prendere coscienza delle loro  accresciute responsabilità”. Ciò presupponeva una matura collaborazione tra  capitale e lavoro, dal momento che - secondo Rocca - l’emancipazione dei  lavoratori non si sarebbe mai realizzata tramite. «l’estraniarsi dalla storia e  dal divenire sociale [...], dai problemi, dai doveri e dalla responsabilità  ch’essi comportano»””, ma solo attraverso la piena compartecipazione al  ciclo produttivo, secondo il modello del sindacalismo nazionale. Quanto alla  borghesia industriale, suo compito doveva essere, da un lato quello di  comprendere il cambiamento introdotto dalla guerra, ossia di prendere  consapevolezza dell’ormai inscindibile legame tra politica ed economia;  dall’altro, quello di dimostrarsi autentica classe dirigente, in grado sia di       33 Ip., Audacia (appunti per l'On. Orlando), Ibidem, 29 aprile 1919.  34 «Il Popolo d’Italia», 29 aprile 1919.    3° LiseRO TANCREDI, Per il nazionalismo proletario. Un fenomeno d ‘impotenza, «La Riscossa  Nazionale», 8 giugno 1919.    ID., Le otto ore internazionali di lavoro, «La Perseveranza», 26 gennaio 1919,  2 ID., Assenteismo e collaborazione di operai e di industriali, Ibidem, 2 febbraio 1919,    78       opporsi con fermezza al bolscevismo dilagante, sia di provvedere  all’integrazione e all’educazione del proletariato”. «Occorre che la classe  dirigente - scriveva Rocca - od almeno i suoi elementi migliori,  comprendano che il loro ufficio non è solo di “resistere” o di “concedere”,  ma di persuadere e di guidare»??. o  Questo modo di pensare era senz'altro condivisibile da Mussolini, il quale,  nel frattempo, aveva ribattezzato il suo quotidiano “giornale dei combattenti  e dei produttori” e promosso, con i Fasci di combattimento, una formazione  che aveva, tra i suoi primi obiettivi, quello di contrastare la “demagogia  bolscevica”. Rocca, del resto, ricordava di aver aderito ai «Fasci di  combattimento fin dal 1919, poco tempo dopo la loro nascita”. Questa  affermazione, con tutta probabilità rispondente al vero, non è però altrimenti  accertabile; quel che è sicuro è che Rocca - almeno per tutto il 1919 - non  dimostrò, a differenza di molti suoi compagni, un grande interesse per  l’iniziativa di Mussolini. Di  Fin dai primi di marzo del 1919 «Il Popolo d’Italia» aveva lanciato un invito  per la costituzione di un nuovo movimento politico d'avanguardia. Tra le  molte adesioni pervenute al giornale prima della data fatidica del 23 marzo,  ritroviamo i nomi di alcuni anarchici interventisti: il «vecchio anarchico»  Vittorio Boattini (che si diceva «toto corde» con Mussolini, «per le sante  bastonature interventiste ed anti-bolsceviche») 4 Carlo Rivellini e  Domenico Ghetti. «Gli anarchici coscienti — scriveva quest’ultimo al suo  conterraneo Mussolini — non potranno che aderire al vostro appello» “. i  Alla riunione milanese di Piazza san Sepolcro fu senz'altro presente Mario  Gioda, che aveva da subito aderito all’appello di Mussolini i Secondo Mario  Giampaoli (che peraltro, pur essendo stato testimone diretto dell’accaduto, fa  riferimento alla cronaca de «Il Popolo d’Italia»), vi avrebbe preso parte       3 Cfr. Ip., Un po' di cannibalismo economico dopo la guerra, Ibidem, 18 febbraio 1919.   sig In., La svalutazione sociale della vittoria, Ibidem, 2 aprile 1919. 7   4° Cfr. Massimo Rocca, Come il fascismo divenne una dittatura, cit., p. 31.   "i olo d’Italia», 9 marzo 1919. SIAT  i era nato a Meldola, nei pressi di Forlì, nel 1862. Fin da giovanissimo aveva  manifestato idee anarchiche. Nel 1903 si era trasferito a Milano, dove aveva a Li  collaborato a «Il Grido della Folla». Nell'ottobre del 1919 la Prefettura milanese scriveva che,  avendo egli, durante la guerra, «militato [...] nel campo interventista», si dimostrava «un  fervente nazionalista», in tal senso svolgendo «attiva propaganda». Il figlio di Boattini, pe  fu per qualche tempo segretario politico del PNF per la provincia di Milano. ACS,CPC, Busta  679 [Boattini Vittorio].   #2 Il Popolo d’Italia», 21 marzo 1919.   4 Cfr. Ibidem, 7 marzo 1919.    79          anche Edoardo Malusardi*, ma il fatto non è certo. Malusardi stesso, in un  telegramma di adesione a «Il Popolo d’Italia», si era detto dispiaciuto,  trovandosi ancora sotto le armi, di non poter partecipare personalmente,  limitandosi a garantire la sua presenza «in ispirito», per «riaffermare  recisamente il suo interventismo e la sua apostasia»‘* - Il fatto che, anni dopo,  Malusardi rivendicasse la patente di “sansepolcrista”‘, non è affatto  probante, vista la tendenza di molti fascisti, anche della prima ora, a  retrodatare il più possibile il momento della loro “presa di coscienza”””.       4 Cfr. MARIO GIAMPAOLI, /9/9, Roma, Libreria del Littorio, 1920, pp. 97-98.   In base alla ricostruzione di Giampaoli (che, in ogni caso, si limita a citare «Il Popolo  d’Italia» del 24 marzo 1919), Malusardi sarebbe stato presente in rappresentanza di Milano e  di Bologna. *   4 «Il Popolo d’Italia», 9 marzo 1919.  4 Si vedano gli articoli di Malusardi Cose a posto e Commiato, in «Audacia», 28 maggio e 18   iugno 1921.   D Degli anarchici interventisti che sposarono la causa fascista, uno fra i più intraprendenti fu  Leandro Arpinati. Il futuro gerarca, peraltro, aderì al Fascio di Bologna soltanto nel settembre  del 1919, a più di sei mesi dalla sua costituzione. Nel primo Fascio bolognese - nato  nell’aprile ad opera del repubblicano Pietro Nenni e di altri interventisti di parte democratica -  Arpinati ebbe sempre, a quanto pare, un ruolo del tutto marginale, nonostante la notorietà  conquistata nel novembre 1919, allorché un comizio elettorale fascista al Teatro Gaffurio di  Lodi si concluse in un violento scontro con i socialisti ed egli, che faceva parte del servizio  d’ordine, fu arrestato insieme ad altri cinquanta “camerati” (cfr. «Il Popolo d’Italia», 14  novembre e 20 dicembre 1919). Fu a partire dalla primavera del 1920, in parallelo con  l’involuzione reazionaria del fascismo e la conseguente crisi del Fascio bolognese (culminata  con la fuoriuscita degli elementi democratici e di sinistra), che Arpinati iniziò una  spregiudicata ascesa politica. L’11 aprile, il Comitato Centrale dei Fasci di combattimento gli  affidò la responsabilità per l’Emilia centrale; quindi, in occasione del congresso fascista di  Milano, nel maggio, entrò a far parte dello stesso organo direttivo del movimento (cfr. «Il  Popolo d’Italia», 29 maggio 1920). Tra il settembre e l’ottobre successivi, Arpinati, complice  il subbuglio seguito all’occupazione delle fabbriche, si fece promotore di una vera e propria  riorganizzazione del fascismo bolognese, in senso marcatamente antipopolare, guadagnandosi  il sostegno, anche finanziario, degli ambienti più conservatori. Il Fascio di Bologna, così  ricostituito, accrebbe enormemente i propri effettivi, e, forte di una struttura militare di primo  piano, divenne una delle centrali dello squadrismo emiliano-romagnolo, rendendosi  protagonista di un’impressionante escalation di violenze, culminate il 21 novembre (dopo le  elezioni amministrative vinte dai socialcomunisti) nel famigerato assalto a Palazzo  D’Accursio, che consegnò il Comune di Bologna nelle mani dei fascisti. Su tutti questi punti  v. FIORENZA TAROZZI, Dal primo al secondo Fascio di combattimento: note sulle origini del  fascismo a Bologna (1919-1920), in Bologna 1920. Le origini del fascismo, a cura di Luciano  Casali, Bologna, Cappelli, 1982, pp. 93-114, e NAZARIO SAURO ONOFRI, La strage di Palazzo  D'Accursio. Origine e nascita del fascismo bolognese, Milano, Feltrinelli, 1980,    80       Mario Gioda: il difficile equilibrio tra reazione e operaismo    A differenza di Massimo Rocca, che si avvicinò al fascismo gradualmente e  con un certo distacco‘, Mario Gioda si gettò anima e corpo nella nuova  avventura. Il 25 marzo 1919, due giorni dopo l’adunanza di Piazza San  Sepolcro, Gioda, con l’ex sindacalista rivoluzionario Attilio Longoni, fu tra i  promotori del Fascio di combattimento torinese, del quale assunse la  segreteria‘. Gli intervenuti a quella prima riunione erano pochi, e Gioda -  come avrebbe ricordato molti anni dopo un testimone - appariva «un ometto  dalle grosse lenti e dall’eloquenza inesperta, vestito con un inelegante abito  marrone»; piuttosto il tipo dell’intellettuale - si direbbe - che quello del  tribuno in camicia nera. Il Fascio, costituitosi ufficialmente il 28 marzo,  prese sede nei locali della “Lega d’azione antitedesca”, un’associazione  patriottica di destra sorta nel 1916 ad opera del nazionalista Vittorio Cian” .  Il fascismo torinese - al cui sviluppo iniziale contribuirono in misura  notevole gli ex combattenti (Gioda cercò in ogni modo di venire incontro  alle esigenze e alle richieste dei “trinceristi”, sforzandosi di far apparire il  fascismo come il legittimo rappresentante dei loro interessi) 5°. nacque  dunque con il concorso e sotto gli auspici della destra, distinguendosi da       4 Secondo un biografo mussoliniano, la ritrosia di Rocca nell’accostarsi al fascismo fu  dovuta anche ai non ottimi rapporti tra quest’ultimo e Mussolini, il quale non avrebbe avuto  granché in simpatia «colui [Rocca] che lo aveva violentemente attaccato nell’estate del 1914,  obbligandolo, nei confronti dell’intervento, ad una presa di posizione che egli avrebbe  preferito assumere senza sollecitazioni esterne» (YvoN DE BEGNAC, Palazzo Venezia. Storia  di un regime, Roma, Editrice La Rocca, 1959, p. 339).   49 Cfr. «Il Popolo d’Italia», 27 marzo 1919.   50 CARLO ANTONIO AVENATI, Dodici anni dopo. Com'è nato il Fascio di Torino, «La  Stampa», 25 marzo 1931. : :   5 In seguito il Fascio si trasferì nei locali della “Pro Torino”, in Galleria Nazionale,  un'associazione patriottica di stampo sabaudo presieduta dal conte Barbavara di Gravellona.  Contemporaneamente al lavoro di organizzazione nel capoluogo, i fascisti torinesi iniziarono  un’opera di penetrazione nella provincia. In una delle primissime riunioni del Fascio, il 29  marzo, l’anarchico “trincerista” Vincenzo Boario recò le adesioni dei gruppi fascisti del  Canavese, di Ciriè, di San Maurizio e di Caselle. Cfr. MARIO GIODA, Il fervido lavoro dei  fascisti a Torino, «Il Popolo d’Italia», 30 marzo 1919. i )   5? La coscienza combattentistica di Gioda, benché inevitabilmente ammantata di retorica,  appariva sincera. Già prima della nascita dei Fasci di combattimento, l’anarchico torinese si  era fatto promotore di una campagna per il pieno riconoscimento dell’indennità di congedo  agli smobilitati, rappresentanti «l’Italia più vera e coraggiosa, quella in grigio verde» (ID.,  Sino all'ultimo sussidio militare e l'indennità di congedo non viene, Ibidem, 16 marzo 1919).    81       PORT PI CTPTPM PIO VT PERE RIVER PT ETTI IPPONI OPA REATO O TORRI O PRETE PAPPA PAPA       subito per le forti venature non solo antisocialiste”*, ma, spesso, antipopolari  tout court. Ciò divenne ancor più evidente dopo l’avvento di Cesare Maria  De Vecchi, un tipico esponente della borghesia conservatrice piemontese  («cattolico militante e monarchico senza riserve», secondo la definizione che  egli dava di se stesso) ‘, il quale, entrato nel Fascio alla metà di aprile, ne  divenne in breve, a dispetto di Gioda, il vero deus ex machina. La  convivenza tra i due uomini forti del fascismo torinese, così diversi per  indole, per estrazione sociale e per esperienze politiche, si rivelò subito  molto difficile. Emblematico, a questo riguardo, il giudizio, sospeso tra  l’ironia e la commiserazione, che De Vecchi, nella sua autobiografia, ci ha  lasciato di Gioda: «un povero diavolo dalle molte vicende».   Il giovane Fascio torinese fu quindi immediatamente attorniato dalla  simpatia e dalla complicità dei ceti più tradizionalisti. Se Torino - come  rimarcava l’organo del nazionalismo piemontese - era «stanca di essere  diffamata da chi voleva farla credere bolscevica e giolittiana»*, allora il  fascismo poteva segnarne la definitiva rinascita, poteva rivelarsi un elemento  d’ordine, «più che mai indispensabile» a svolgere una decisa azione «di  vigilanza e di controbatteria»’”. Così, già alla fine di aprile, il Fascio di  combattimento poteva vantare l’adesione di ben 31 associazioni liberali  torinesi”, e non v'è dubbio che, nonostante gli impedimenti inizialmente  frapposti dall’autorità prefettizia”, l’apporto delle destre valse a favorire la  graduale espansione del fascismo nel capoluogo piemontese. «Il lavoro —       53 Sul piano della stretta organizzazione antisocialista i fascisti torinesi si dimostrarono molto  efficienti. In un telegramma del 22 maggio al Ministero degli Interni, il Prefetto di Torino  riferiva dell'avvenuta costituzione, in seno al Fascio, di un «ufficio [...] con mandato di  seguire e segnalare le manifestazioni ed il movimento nel campo socialista ed anarchico»,  vale a dire di un vero e proprio apparato di spionaggio. ACS, MINISTERO DEGLI INTERNI,  Direzione Generale di Pubblica Sicurezza (d’ora innanzi Dir. Gen. PS), Affari generali e  riservati (d’ora innanzi Affari gen.e ris.), 1921, Busta 112 [Fascio di Torino].  Wp DE VECCHI, // quadrumviro scomodo, a cura di Luigi Romersa, Milano, Mursia,  »p.I/.   Sulla figura di De Vecchi v. Dizionario biografico degli italiani, cit., Vol. 39, ad nomen.  3 CESARE M. DE VECCHI, op. cit., p. 15.   «La Riscossa Nazionale», 20 aprile 1919.  57 Ibidem, 11 maggio 1919.  58 Cf. «Il Popolo d’Italia», 24 aprile 1919.  Al Fascio aderì anche il comitato “madri dei combattenti”, presieduto dalla contessa Eleonora  Contini di Castelseprio.   Nei primi mesi di vita del Fascio Gioda ebbe a lamentarsi in più di un’occasione, sulle  pagine de «Il Popolo d’Italia» (per il quale curava la cronaca di Torino), del trattamento  riservato ai fascisti torinesi dalle autorità cittadine, nonché della presunta campagna  diffamatoria della giolittiana «La Stampa» nei confronti del Fascio di combattimento.    82          scriveva Gioda a Michele Bianchi a un mese dall’entrata in funzione del  Fascio - procede benissimo e tra molto entusiasmo». «Il Fascio si è  imposto — confermava di lì a poco a Mussolini — e se noi non ci lasciamo  sfuggire il momento opportuno, otterremo risultati incalcolabili»®!.   Ma qual era, in tutto questo, il vero ruolo di Mario Gioda? Se egli era  senz'altro consapevole dei vantaggi che potevano venire al Fascio di Torino  dall’accordo con l’oligarchia conservatrice piemontese, ci sembra però  scorretto affermare - com’è stato fatto - che egli ritenesse quella della  reazione antipopolare «l’unica strada da battere». In realtà, l'approccio  dell’ex tipografo alla questione delle alleanze politiche, così come a quella,  più complessa, dell’orientamento generale del fascismo, era - e sempre  sarebbe rimasto - ben più problematico. Gioda, infatti, pur difendendo il  carattere antibolscevico del Fascio torinese e pur desiderando che ad esso  accorressero tutte le forze «sane, giovani, italiane», senza distinzione di parte  o di colore politico (perché il fascismo doveva essere — anarchicamente -  l’”antipartito”) 4, teneva comunque a distinguere tra antibolscevismo e  antioperaismo e ribadiva che i fascisti non dovevano passare per «dei nemici  del proletariato». Questa stessa esigenza fu da lui espressa al primo  convegno regionale dei Fasci piemontesi, all’inizio del giugno 1919%, e       a ACS, MOSTRA DELLA RIVOLUZIONE FASCISTA (d’ora innanzi MRF), Carte del Partito  Nazionale Fascista, Adesione ai Fasci Italiani di Combattimento, Busta 17, Lettera di Mario  Gioda a Michele Bianchi, 29 aprile 1919.  ©! Ibidem, Lettera di Mario Gioda a Mussolini, 2 maggio 1919.  © EMMA MANA, Origini del fascismo a Torino, in Torino fra liberalismo e fascismo, a cura di  Nicola Tranfaglia e Ugo Levra, Milano, Angeli, 1987, p.246.  9 L'idea di antipartito era già da tempo al centro della riflessione politica di Mario Gioda.  L’avversione alle forme tradizionali di organizzazione politica, già tipica dell’anarchismo  individualista, trovava del resto un corrispettivo nelle nuove tensioni antipartitiche e  antiparlamentari del dopoguerra. «L’antipartito — aveva scritto Gioda nel febbraio del 1919 —  vuol essere il sunto della nausea che in Italia nutrono combattenti e produttori verso i  politicanti». Contro il «feticcio partito», ormai incapace di conciliarsi «coll’elettamente  dinamica modernità civile» (la nuova società scaturita dalla guerra), occorreva suscitare  «l’idea sovvertitrice dell’antipartito», un'iniziativa «iconoclasta e squisitamente anarchica»,  in grado di restituire dignità e centralità ai singoli individui (MARIO GIODA, L'antipartito, «Il  Popolo d’Italia», 10 febbraio 1919). AI di là dei riferimenti ai temi del reducismo e del  produttivismo, tipici dell’aumus del periodo e dai quali il “trincerista” e prossimo fascista  Mario Gioda non poteva prescindere, la radice libertaria e individualista di una simile  impostazione di pensiero appare comunque evidente (non a caso Gioda indicava in Henrik  Ibsen uno dei padri spirituali dell’antipartito).   Sul concetto di antipartito nel primo fascismo v. EMILIO GENTILE, Le origini dell'ideologia  fascista, cit., p. 70 ss.   © MARIO GIODA, Aspetti del fascismo torinese, «Il Fascio», 15 agosto 1919.   95 Cfr, «Il Popolo d’Italia», 3 giugno 1919.    83       riaffermata poi in più di un frangente. Il 19 giugno, ad esempio, «Il Popolo  d’Italia» riportava un’intervista di Gioda al sindacalista Angelo Scalzotto,  che l’autore stesso definiva «un saldo e vigoroso lottatore, ben noto nel  campo dell’organizzazione e del socialismo italiano». L’intervista verteva  sulla situazione dei ferrovieri italiani (in particolare sulla questione delle otto  ore lavorative) e Gioda non esitava a dichiarare che «l’approvazione, da  parte del Governo, di concedere altre migliorie ai ferrovieri» non poteva non  destare «un senso di legittima soddisfazione», dal momento che vedeva  tutelati «i sacrosanti diritti dei lavoratori». Il fatto che poi, in occasione dello  “scioperissimo” del 20 e 21 luglio, il Fascio di Torino assumesse, nei  confronti degli scioperanti, una posizione di aperta sfida‘, non muta i  termini del problema, in quanto l’iniziativa dei fascisti era ancora indirizzata  contro la politica “irresponsabile” dei bolscevichi (ed era pienamente  condivisa da tutti i partiti della sinistra interventista) e non contro la totalità  dei lavoratori!”.   E’ però vero che, di fronte al primo programma fascista, fortemente  sbilanciato a sinistra‘î, Gioda - come ricorda Renzo De Felice - espresse  qualche perplessità, soprattutto, lui repubblicano, in merito alla cosiddetta  pregiudiziale istituzionale. «Qualcuno -- scriveva il 6 giugno ad Attilio  Longoni —- è rimasto male poiché ha intravisto tra le riforme anche quella  definitiva della monarchia. Forse è necessario mettere i puntini sugli “i” e       5 Un manifesto, fatto circolare dal Fascio torinese in quell’occasione, faceva intendere senza  mezzi termini che i fascisti, qualora fosse stato necessario, sarebbero intervenuti a tutela  dell’ordine, onde salvare il paese dal «tragico caos bolscevico». Allo stesso tempo, il  manifesto ricordava ai lavoratori che «nessun partito socialista ufficiale aveva scopi  violentemente innovatori come i Fasci di combattimento, e di immediata attuazione». /bidem,  17 luglio 1919.   Sullo “scioperissimo” a Torino, che si concluse senza incidenti degni di rilievo, v. «La  Stampa» del 2., 22 e 23 luglio 1919.   9 L’atteggiamento dei fascisti nei confronti dello “scioperissimo” è ben rappresentato dalle  lettere di due anarcointerventisti, entrambi operai. Edmondo Mazzucato, che lavorava alla  redazione de «L’Ardito», il giornale dell’Associazione fra gli arditi d’Italia, scrisse a  Mussolini (che ne definì la lettera «un gesto di fierezza e di dignità») di non aver alcuna  intenzione di «subire supinamente» le imposizioni della Federazione del libro, il sindacato a  cui aderiva, e che si sarebbe recato come di consueto sul posto di lavoro («Il Popolo d’Italia»,  20 luglio 1919). Su «Il Giornale del mattino» del 30 luglio (organo ufficioso del Fascio  bolognese, diretto da Pietro Nenni) comparve una lettera non meno polemica del ferroviere  Leandro Arpinati. Secondo il suo primo biografo, Arpinati ricomparve sulla scena politica  proprio in occasione dell’assemblea generale dei ferrovieri del compartimento di Bologna, il  20 luglio, allorché si sarebbe scontrato duramente con i colleghi favorevoli all’astensione dal  lavoro (cfr. TORQUATO NANNI, op. cit., p. 44).   67] programma, elaborato da Agostino Lanzillo e intitolato / postulati dei Fasci. Per la  rappresentanza integrale, fu reso noto da «Il Popolo d’Italia» del 13 maggio 1919,    84       chiarire i nostri rapporti coi fascisti “monarchici”. La preoccupazione di  Gioda era dunque, innanzi tutto, quella di non spezzare i delicati equilibri  interni del fascismo torinese, dove gli elementi monarchici erano in netta  preminenza, e non è difficile leggere nel qualcuno della sua lettera a Longoni  un esplicito riferimento a De Vecchi. Ma Gioda, come avrebbero dimostrato  le vicende successive alle elezioni politiche del 1921, non aveva rinnegato il  proprio repubblicanesimo. Le sue cautele erano quindi dettate da  considerazioni di ordine strategico e in questo senso, piuttosto che in quello  di un suo personale mutamento di rotta, devono essere interpretate le sue pur  numerose concessioni alla destra.   La questione delle alleanze, la questione, in particolare del rapporto con la  sinistra interventista (repubblicani, sindacalisti della USI, socialisti  riformisti), si presentò con sempre maggior forza in previsione delle elezioni  politiche dell’autunno. Si trattava di un problema che coinvolgeva tutto il  movimento fascista (e basti pensare al travaglio che colse il fascismo romano  a ridosso del voto) ”, ma che, a Torino, prendeva un significato particolare.  Già il primo agosto 1919, in una nuova lettera all’amico Longoni, Gioda  definì l’eventualità che si addivenisse a un blocco elettorale di tutto  l’interventismo di sinistra — la soluzione preferita da Mussolini - «una sterile  palla di piombo»”!. E’ chiaro che Gioda pensava a salvaguardare l’unità del  Fascio da lui guidato, dove le forze di destra, che erano preponderanti, non  avrebbero mai condiviso una piattaforma programmatica che ponesse tra i  propri obiettivi quello della costituente. Non a caso il direttore de «La  Riscossa Nazionale» espresse il proprio rammarico per le ripetute  dichiarazioni di Mussolini in senso repubblicano, chiedendosi se anche i  fascisti torinesi intendessero seguire il loro “duce” in quella china”. Gioda,  consapevole di doversi misurare con le ubbie monarchiche di De Vecchi,  intervenne a dissipare le perplessità dei “destri”. Mussolini — sostenne -  esprimeva una posizione del tutto personale, che tale sarebbe rimasta,  almeno sino alla convocazione del primo congresso nazionale fascista.  Quanto al Fascio di Torino, esso non aveva, e non poteva avere, pregiudiziali  di sorta.       © In RENZO DE FELICE, Mussolini il rivoluzionario, cit., p. 518.    7° A Roma, la sinistra futurista guidata da Enrico Rocca e Giuseppe Bottai si oppose alla  decisione, votata il 22 ottobre dalla Giunta Esecutiva del Fascio capitolino, di aderire alla  “Alleanza Nazionale”, l’intesa elettorale promossa dai liberali di destra e dai nazionalisti (cfr.  Dichiarazioni futuriste sulla situazione elettorale romana, «Roma Futurista», 2 novembre    "! In Renzo DE FELICE, Mussolini il rivoluzionario, p. 541.  7? Massimo RAVA, Posizione di battaglia, «La Riscossa Nazionale», 3 agosto 1919.    85          Se fuori dal Fascio — affermava Gioda - stimo politicamente certi nazionalisti di  indubbio valore e intelligenza, al Fascio io non ne conosco nessuno. Così come  ignoro repubblicani, monarchici, socialisti, radicali, anarchici e sindacalisti. AI  Fascio, che non può essere un partito, io conosco solo dei fascisti concordanti su un  dato programma di realizzazione immediata [...]. Tra parentesi, sono stato proprio  io, anarchico, a proporre a suo tempo di includere [Angelo] Cavalli, nazionalista, e  De Vecchi, monarchico, nel Comitato Esecutivo del Fascio”    Ora, ciò che queste parole mettevano in evidenza non era soltanto uno  scrupolo elettoralistico, ma la fermezza di Gioda nel difendere il carattere  antidogmatico dell’idea fascista; una presa di posizione tipica della  vocazione movimentista del primo fascismo, ma nella quale, nel caso  specifico di Mario Gioda, è possibile scorgere (almeno in qualche misura)  anche il retaggio dell’anarcoindividualismo. Non è privo di significato,  d’altronde, che il fascista Gioda, consapevole della novità rappresentata dal  fascismo rispetto alle categorie politiche d’anteguerra, richiamasse tuttavia la  propria identità di anarchico, e non già come semplice attitudine o abitudine  mentale, ma come un dato di fatto politico. In ogni caso, chiarito che il  fascismo, quanto meno in Piemonte, non nutriva propositi sovversivi, Gioda  poté confermare che il Fascio di Torino avrebbe davvero costituito «l’asse  per una grande intesa degli interventisti» in vista delle elezioni; ma che  questa. sarebbe appunto avvenuta «fascisticamente», fuori dagli schemi  destra-sinistra, ormai superati, astraendo dal «colore della tessera di  partito».   La “marcia di Ronchi” e l’occupazione militare di Fiume da parte di  Gabriele. D’Annunzio parvero poter accelerare questo processo di  unificazione. Il 30 settembre, infatti, il Fascio di Torino si fece promotore di  in “comitato pro Fiume” (ne sorsero di analoghi un po’ in tutta Italia), nel  quale erano rappresentate tutte le forze “nazionali”, di sinistra e di destra, dai  repubblicani ai nazionalisti”. Ma si trattava di un entusiasmo passeggero,  che avrebbe ben presto ceduto il passo a una più grande incertezza.       73 MARIO GIODA, / nazionalisti e l'intesa di sinistra, Ibidem, 10 agosto 1919.  tai Ip., Gli aspetti del fascismo torinese, cit.   Il 2 settembre, nel corso di un’adunata del Fascio torinese alla presenza del segretario politico  generale del movimento Umberto Pasella, Gioda ribadì che a Torino i fascisti si sarebbero  battuti per un’intesa elettorale degli interventisti di tutti i partiti. Cfr. «Il Popolo d’Italia», 4  settembre 1919.   ?° Cfr. Ibidem, 3 ottobre 1919, e «Il Fascio», 4 ottobre 1919.    86       Dal congresso fascista di Firenze non venne affatto, contrariamente alle  aspettative del segretario del Fascio torinese (che vi ebbe peraltro un ruolo  defilato), un’indicazione univoca in senso elettorale. Alla relazione di  Michele Bianchi, fautore di una linea politica possibilista (la politica del  “caso per caso”), fece da contraltare quella di Mussolini, che, quantunque in  modo non esplicito, lasciò però trasparire l’intenzione di perseguire  l’accordo con le sinistre interventiste”’. Quel che ne uscì fu un ordine del  giorno compromissorio, che, di fatto, lasciava libertà di azione ai singoli  Fasci. Questa libertà, venuta meno ogni possibilità di accordo a sinistra, finì  per concretarsi nell’alleanza con la destra liberal-nazionale (nella sola  Milano, infatti, il fascismo riuscì nell’intento di presentare una lista  autonoma) 7”.   I deliberati del congresso di Firenze, nella loro elasticità, andavano  sostanzialmente nella direzione auspicata da Gioda, il quale, libero da  condizionamenti di sorta, poté rivolgersi alle forze politiche torinesi con  l’invito ad abbandonare «le fazioni» e a dar corpo ad «un potente fascio di  energie», in funzione antibolscevica e antigiolittiana”. Per questa via si  addivenne infine alla costituzione di un “Blocco della Vittoria”, peraltro  chiaramente orientato a destra, quanto meno nella sua composizione. Ne  facevano parte, infatti, radicali, liberali di destra e antigiolittiani, tra i quali  alcuni membri del disciolto “Fascio Parlamentare” (Edoardo Daneo,       Sull’occupazione di Fiume e le sue ripercussioni sul movimento fascista v. ROBERTO  VIVARELLI, /! dopoguerra in Italia e l'avvento del fascismo (1918-1922), Vol. I, Dalla fine  della guerra all'impresa di Fiume, Napoli, Istituto italiano per gli studi storici, 1967, p. 503  ss., MICHAEL ARTHUR LEDEEN, D'Annunzio a Fiume, Bari, Laterza, 1975, FRANCESCO  PERFETTI, Fiumanesimo, sindacalismo e fascismo, Roma, Bonacci, 1988, e MICHEL OSTENC,  op. cit, pp. 131 ss. Si veda inoltre l’introduzione di Renzo De Felice a GABRIELE  D'ANNUNZIO, La penultima ventura: scritti e discorsi fiumani, Milano, Mondadori, 1974, pp.  VII-LXXVIIL   7% Cfr. Renzo DE FELICE, Mussolini il rivoluzionario, cit., p. 568 ss.   Il congresso ebbe luogo al Teatro Nazionale, in via dei Cimatori, nei giorni 9 e 10 ottobre  1919 (per la cronaca v. «Il Popolo d’Italia», 10, 11 e 12 ottobre 1919). Cesare Maria De  Vecchi entrò a far parte del nuovo Comitato Centrale del movimento, in rappresentanza dei  Fasci piemontesi.   Di tale lista faceva parte Edmondo Mazzucato. Questi aveva aderito al Fascio di  combattimento di Milano al momento della sua costituzione ed era stato tra gli assaltatori  della sede dell’ «Avanti!», il 15 aprile 1919. «La sua candidatura — scriveva «Il Popolo  d’Italia» del 16 novembre 1919 — significa elevazione delle classi lavoratrici, lo sforzo per  formare tra gli operai una aristocrazia di pensiero e di azione [...]. Nella lista dei Fasci egli  rappresenta l’operaio onesto e che non usurpa il nome di lavoratore». Mazzucato risultò 14°,  su un novero di 19 candidati, con 56 voti di preferenza.   78 MARIO GIODA, La piattaforma elettorale piemontese, «Il Popolo d’Italia», 24 ottobre 1919,  e «Il Fascio», 1 novembre 1919    87          Giuseppe Bevione e l’ex Presidente del Consiglio Paolo Boselli), mentre il  Fascio vi era rappresentato da quattro combattenti: De Vecchi, il generale  Donato Etna, già comandante del corpo d’armata di Torino (deposto su  ordine di Nitti nel settembre), il maggiore degli alpini Giovan Battista  Garino e il capitano Luigi Revelli”. L’Unione Socialista Italiana, che in un  primo momento sembrò poter entrare nel “Blocco”, se ne tirò fuori quasi  subito, per far causa comune con i repubblicani nella “Alleanza Elettorale”®°.  A questo punto, Mario Gioda parve rendersi conto di aver imboccato una  strada a rischio. Si nota infatti, nella sua attività politica prima delle elezioni,  la preoccupazione ricorrente di non far apparire la lista del “Blocco della  Vittoria” troppo sbilanciata a destra. Essa - sottolineava Gioda in un articolo  illustrativo per «Il Popolo d’Italia» - era «la più organica», la più  rappresentativa anche delle esigenze popolari, e il suo programma aveva un  contenuto sociale «notevolissimo»? In particolare, egli rimarcava ancora  una volta che il fascismo intendeva combattere il bolscevismo, non i  lavoratori nel loro insieme, ed operava altresì una netta distinzione tra  “pussisti” e socialisti rivoluzionari.    Un accenno alla lotta contro il bolscevismo — scriveva Gioda a commento di un  passo della piattaforma elettorale del “Blocco” - non è troppo felice. Si confuse, da       9 Cfr. «Il Popolo d’Italia», 25 ottobre 1919.   AI “Blocco della vittoria” non aderì la sezione torinese dell’ Associazione Nazionale  Combattenti, che si pronunciò a favore dell’astensione. Nel corso di un'assemblea del Fascio,  il 29 ottobre, Gioda criticò duramente la scelta dei combattenti, non tanto perché non ne  condividesse le ragioni ideali (la volontà, cioè, di non compromettersi nella lotta  parlamentare), quanto, piuttosto, perché la riteneva controproducente sul piano tattico. «I  fascisti — disse Gioda — hanno accettato anche la lotta schedaiuola per rintuzzare, ovunque e  comunque, la sfida dei giolittiani, dei clericali dei socialisti ufficiali». Si noti che, nel testo  originale autografo del discorso di Gioda, la parola anche è sottolineata, a evidenziare il  carattere strumentale attribuito dallo stesso Gioda alla battaglia elettorale fascista. ACS, MRF,  Esposizione, Busta 111 [Documenti].   ° «Il Fascio — commentava a questo riguardo Gioda — non ha potuto far blocco con l’Unione  Socialista Italiana, cioè con i bissolatiani, non tanto per divergenze programmatiche, quanto  per la diffidenza di questi ultimi verso i nazionalisti ed anche perché la USI vorrebbe  impostare la campagna elettorale “prescindendo” dall’interventismo e dal neutralismo»  (MARIO GIODA, /nsinuazioni gesuitiche dei socialisti rinunciatari contro i fascisti, «Il Popolo  d’Italia», 6 novembre 1919).   8 Ip, // programma elettorale del Blocco della Vittoria, Ibidem, 1 novembre 1919.   Tra i postulati del programma elettorale del “Blocco della Vittoria” figuravano:  l’introduzione di una tassa sui sovraprofitti di guerra, la riforma scolastica, quella del sistema  doganale (per abbattere «parassitismi e monopoli») e della burocrazia, l’assicurazione  obbligatoria contro l’invalidità, la vecchiaia e la disoccupazione, una riforma degli organi  legislativi che garantisse «alla classe lavoratrice [...] una diretta e specifica rappresentanza».    nisticntiititnm       parte dei redattori del programma, “socialismo rivoluzionario” e “bolscevismo”.  Ora, i maggiori e migliori esponenti internazionali del socialismo rivoluzionario  sono antibolscevichi per eccellenza. Gli interventisti italiani della prima ora, da  Cipriani a Corridoni a De Ambris, sorsero appunto dalle file del socialismo  rivoluzionario*”    Le elezioni del 16 novembre videro, come noto, la sonora sconfitta dei  fascisti. A Torino risultarono eletti nelle file del “Blocco della Vittoria” i soli  Bevione e Boselli; primo dei fascisti in ordine di preferenze riuscì De  Vecchi, seguito da Etna, Revelli e Garino 83. Rispetto alla vera e propria  débacle registrata dal fascismo in altre parti d’Italia, non si trattava di un  esito disastroso, ma occorre tener presente che i fascisti in quanto tali non  ottennero alcunché (Bevione e Boselli, anzi, finirono per entrare nel gruppo  parlamentare giolittiano!). Gioda, commentando il responso delle urne,  sottolineava il rovescio subito dalla lista giolittiana e scriveva di «brillante  risultato»**, ma si trattava di un mero artificio tattico, 0, se vogliamo, di una  ben magra consolazione . su   In verità, la sconfitta bruciava e fu anzi l’occasione per un chiarimento  all’interno del Fascio di Torino. Il 13 dicembre 1919 si riunì l'assemblea  generale dei fascisti torinesi. Gli operai sindacalisti Umberto Lelli e Pilo  Ruggeri, spalleggiati da Gioda, criticarono l’involuzione conservatrice del  Fascio, sostenendo la necessità di un più stretto rapporto con i lavoratori  delle fabbriche??. Riguardo all’alleanza con le destre, Gioda dichiarò:       8 Ivi. pri  83 Per l’esattezza, il “Blocco della Vittoria” riportò 23.321 voti, contro i 116.409 dei socialisti  unitari, i 38.008 dei popolari, i 21.402 della lista giolittiana dell’Aratro, i 10.093 del Partito  Economico, i 6.547 dell’Alleanza Elettorale, e i 1.642 del Partito Agrario. Per un quadro  esauriente dei risultati elettorali nel capoluogo piemontese v. «La Stampa», 21, 24 e 25  novembre 1919. I   84 MARIO GIODA, / risultati elettorali ottenuti dal Fascio di Torino, «Il Popolo d’Italia», 28  novembre 1919.   #5 Cfr. «Il Fascio», 20 dicembre 1919. Mi l  Pilo Ruggeri, che aveva militato nelle file della USI, era un tipico rappresentante dell ala  operaista del fascismo. Quali fossero le sue convinzioni è ben testimoniato da un suo discorso  del 29 settembre 1919 al Teatro di Pinerolo, innanzi a una platea composta per lo più di  socialisti. Nel suo intervento Ruggeri si era prodigato a illustrare l'essenza rivoluzionaria e  proletaria del programma fascista, evidenziandone le differenze ma anche le affinità con  quello socialista, in ciò rivelando il timore — comune anche a molti altri fascisti - che una  troppo accentuata politica antisocialista potesse condurre all’isolamento del movimento  fascista dalle masse. E’ significativo del clima politico di quei giorni che, nonostante le  aperture di Ruggeri agli avversari, il comizio si fosse concluso con gravi incidenti tra fascisti    89          Io stesso propugnai i blocchi a larga base, ma credo che oggidì occorra molta, ma  molta circospezione prima di avventurarsi ancora in altri blocchi, se non vogliamo  [...] negare sempre la nostra giovinezza d’idee e la nostra combattività a beneficio  dei vecchi partiti e dei vecchi loro rappresentanti*”    Nella nuova Commissione Esecutiva del Fascio, eletta subito dopo,  entrarono quattro operai (oltre a Lelli e Ruggeri, Antonio Cantinetto e Pietro  Giraudo) ®. L’allargamento della base del Fascio - come auspicava Gioda  (che fu riconfermato segretario politico) - avrebbe dovuto favorire la  ripresa, in vista di «nuovi cimenti» e di «più gagliarde lotte politiche e  sociali»**. Tuttavia, la decisione di recuperare spazio e credibilità a sinistra  restò senza seguito. L’assenza di una base reale tra i lavoratori (a fronte di un  movimento operaio forte e, a Torino più che altrove, schierato su posizioni  di avanguardia), le irrisolte contraddizioni della politica fascista - rese ancor  più stridenti dalla nascita e dalla diffusione del fascismo agrario - e le  resistenze della destra interna, determinarono la sconfitta (ma sarebbe più  opportuno parlare di mancata realizzazione) di questo progetto. Nella prima  metà del 1920 il fascismo torinese attraversò quindi una fase di ristagno, per  non dire di vera e propria crisi, che parve poterne compromettere le sorti”,  tanto che l’unico successo ottenuto da Gioda in questi mesi fu la  costituzione, accanto al Fascio, di una “Avanguardia Studentesca”, In  occasione di una nuova assemblea generale dei fascisti torinesi, nel maggio,  Gioda pronunziò un importante discorso, che, sebbene non si discostasse  granché da quanto egli professava fin dal 1915, lasciava presagire un nuovo  mutamento di prospettiva politica, nel senso di un’attenuazione delle velleità  operaiste. L’insuccesso della linea di sinistra propugnata da Gioda e il  prevalere, in seno al movimento fascista nazionale, di un indirizzo       e socialisti. Cfr. ACS, MINISTERO DEGLI INTERNI, Dir. Gen. PS, Affari gen. e ris., 1921, Busta  112 [Fascio di Torino].  80 «Il Fascio», cit.  n Cfr. «Il Popolo d’Italia», 25 dicembre 1919.  di MARIO GiODA, Un appello ai fascisti torinesi, Ivi.   AI riguardo v. EMMA MANA, op. cit., p. 251 ss.  2 bt “Avanguardia Studentesca” torinese, nata alla fine di aprile del 1920, era presieduta  dallo studente d’ingegneria e mutilato di guerra Carmelo Cimino, già membro della nuova  Commissione Esecutiva del Fascio. Cfr. «Il Fascio», 8 maggio 1920.  Sul fenomeno delle avanguardie studentesche e, in generale, sui rapporti tra fascismo e  associazionismo giovanile, l’opera più circostanziata rimane quella di PAOLO NELLO,  L'avanguardismo giovanile alle origini del fascismo, Roma-Bari, Laterza, 1978,    90       marcatamente reazionario, limitavano del resto i margini di manovra del  fascismo torinese. Ancora nell’aprile, in risposta della grande agitazione dei  metallurgici (il cosiddetto “sciopero delle lancette”), un manifestino del  Fascio, vergato a mano da Gioda, invitava gli operai torinesi a rinnegare il  bolscevismo - che aveva corrotto «l’idea socialista di giustizia e di libertà» -,  per stringersi fiduciosi intorno ai fascisti, i quali «erano per le più ardite  riforme e le più audaci rivendicazioni dei lavoratori», purché queste non  significassero «la rovina e il sabotaggio degli interessi della Nazione»?!. Nel  discorso del maggio l’accento si spostò (mazzinianamente, potremmo dire)  dal piano dei diritti a quello dei doveri del proletariato, con un’accentuazione  dei temi più strettamente produttivistici.    I fascisti — disse Gioda — sono delle volontà e delle capacità che seguono direttive  senza dogmi e senza battesimi politici. Per questo sono, all’occorrenza, rivoluzionari  e conservatori [...]. Vogliamo tutti i diritti rivendicati al popolo lavoratore, se questo  sa assolvere tutti i suoi doveri. Un proletariato educato solo al culto del bel vivere è  una bestia da soma che qualsiasi governo o classe capitalistica o chiesa politica  possono asservire. La questione del proletariato, invece, è un altra cosa. E’ una  questione innanzitutto di capacità, all’infuori delle ciance rivoluzionarie e  parlamentari. E” una questione di volontà superiori maturate attraverso l’esperienza  produttiva di tutte le energie nazionali”?    Gioda prese parte al secondo congresso nazionale fascista, che si riunì a  Milano il 25 e 26 maggio 1920, quello della svolta a destra e della       °! ACS, MRF, Esposizione, Busta 111 [Documenti].   92 «Il Fascio», cit.   Il dissidio tra la sua concezione del fascismo, derivante in parte dal suo passato anarchico e  repubblicano, e le ragioni del compromesso (senza però tralasciare di considerare che la  disinvoltura programmatica era un aspetto non secondario del cosiddetto problemismo  fascista), accompagnò tutta l’opera di Gioda. Durante l’adunata provinciale dei Fasci  piemontesi, ch’ebbe luogo a Torino il 27 febbraio 1921, Gioda, commentando la relazione di  Umberto Pasella sulla questione sindacale, difese il principio, in essa affermato, della  legittimità dello sciopero economico anche nei servizi pubblici, essendo lo Stato, molte volte,  «un cattivo padrone e un pessimo amministratore». 1 Fasci di combattimento, per Gioda, non  dovevano essere «organizzazioni di guardie bianche o comitati di difesa civile» e avevano il  dovere di battersi per qualsivoglia riforma, «sia pur audace», quando essa avesse arrecato  beneficio ai lavoratori, nel rispetto degli interessi generali. Riprendendo un concetto caro  all’ala sindacalista del fascismo, il segretario del Fascio torinese auspicò la trasformazione del  movimento politico e sindacale fascista in un unico “partito del lavoro”. ACS, MRF,  Esposizione, Busta 125 [Documenti]. Sui presupposti ideologici del “partito del lavoro”, €,  più in generale, sugli orientamenti “laburisti” all’interno del fascismo, v. EMILIO GENTILE, op.  cit,, p. 76 ss., e soprattutto PAOLO NELLO, Dino Grandi: la formazione di un leader fascista,  Bologna, Il Mulino, 1987, pp. 73 ss.    91             conseguente trasformazione del movimento”. D’altro canto, l’ingresso di  Gioda nel Comitato Centrale dei Fasci, in sostituzione di De Vecchi,  rappresentò - come ha sottolineato Renzo De Felice - l’unico successo  dell’ala sinistra del fascismo”. Al riconoscimento di Gioda sul piano  nazionale non corrispose però il rafforzamento della sua leadership  nell’ambito del fascismo torinese. Alla fine di luglio, anzi, le elezioni per il  rinnovo della Commissione Esecutiva del Fascio videro la netta  affermazione della destra’””. De Vecchi, chiamato a presiedere la  Commissione, accrebbe sensibilmente il proprio prestigio e la propria  influenza, mentre i primi sintomi di una grave malattia costringevano Gioda  a forzati periodi di assenza dalla scena politica cittadina. Da questo  momento, insieme al progressivo dilagare dello squadrismo, di cui De  Vecchi seppe essere un abile manovratore, il Fascio di Torino riprese la sua  espansione’. Gioda, dal canto suo, recuperò il proprio ruolo soltanto a       I nuovi “Postulati” programmatici del movimento fascista, approvati a Milano,  modificavano radicalmente — in senso conservatore - il programma fascista del 1919.  Cadevano, tra le altre cose, la pregiudiziale antimonarchica e la richiesta dell’assemblea  costituente (l’anarchico Domenico Ghetti, rappresentante del Fascio di La Spezia, fu tra i  pochi a pronunciarsi per la repubblica). In polemica con il nuovo corso del fascismo,  Marinetti e il gruppo dei futuristi abbandonarono il movimento.   Per il resoconto del congresso v. «Il Popolo d’Italia», 25 e 26 maggio 1920, e «Il Fascio», 29  maggio 1920. Sull’intera vicenda v. RENZO DE FELICE, Mussolini il rivoluzionario, cit., pp.  594 ss.   % Cfr. Ibidem, p. 594.   95 Cfr. «Il Fascio», 31 luglio e 7 agosto 1920.   Il ritorno in auge di De Vecchi fu senz'altro favorito dalla nuova crisi che colse il fascismo  torinese nella tarda primavera del 1920. Il 12 giugno si era riunita un’assemblea straordinaria  del Fascio per decidere circa l’atteggiamento da assumere di fronte alla crisi di governo.  Caduto il secondo gabinetto Nitti, si prospettava infatti l’eventualità di un esecutivo affidato a  Giovanni Giolitti: una soluzione che trovava il pieno consenso di Mussolini. Nel corso  dell’assemblea, che raggiunse toni drammatici, Gioda si disse assolutamente contrario a ogni  intesa con i giolittiani, definendo «un’ingiuria alla nazione vittoriosa» il rientro sulla scena  nazionale dell’uomo politico di Dronero, e minacciando addirittura di dimettersi qualora i  fascisti di Torino avessero dato il loro assenso alla linea mussoliniana (cfr. Movimentata  assemblea generale del Fascio di Combattimento di Torino Un ordine del giorno contro  Giolitti, «Il Fascio», 26 giugno 1920). Di fronte alle resistenze incontrate all’interno del  Fascio e, soprattutto, di froni. alla risolutezza dei vertici del movimento, decisi a perseguire  l’accordo con Giolitti, Gioda si rese conto che la sua posizione non aveva alcuna possibilità di  affermarsi. Quindi, dietro sollecitazione di Umberto Pasella, si decise a convocare la nuova  assemblea generale che avrebbe portato al rinnovo della Commissione Esecutiva. Su questi  avvenimenti v. EMMA MANA, op. cit., p 254 ss.   % Con l’occupazione delle fabbriche, che ebbe il suo epicentro proprio a Torino, le violenze  fasciste si moltiplicarono. Le imponenti agitazioni operaie del settembre contribuirono a  legare il fascismo torinese agli ambienti del grande capitale (che si erano visti minacciare nei    92    setter cirrretricdatietnttittztt sac       partire dal febbraio del 1921, allorché assunse la direzione del nuovo  settimanale del fascismo torinese: «Il Maglio»””.    Massimo Rocca: il fascismo come nuova élite    AI congresso fascista di Milano assistette anche Massimo Rocca. Le sue  conclusioni non dovettero dispiacergli, se è vero - come ha lasciato scritto -  che egli non si era entusiasmato all’originario programma sansepolcrista,  giudicandolo troppo «impeciato di socialismo». Ma Rocca, sia pur attento  osservatore delle traversie del fascismo, era ancora prevalentemente un  giornalista. Il 25 marzo 1920 aveva iniziato le pubblicazioni la rivista  settimanale «Il Risorgimento». L’intendimento della redazione, guidata dal  conte Arrivabene, ex direttore de «La Perseveranza», era chiaro: occupare lo  spazio lasciato vuoto dal vecchio quotidiano milanese dopo la sua  conversione al “nittismo”, fare un giornale che riflettesse le idee e le  aspirazioni della borghesia conservatrice. Poiché Rocca ne divenne uno dei  più continui e più stimati collaboratori, le credenziali dell’ex novatore  anarchico quale neofita del liberalismo ne uscirono senz'altro irrobustite.   Sulle pagine de «Il Risorgimento» Rocca riprese la polemica adriatica. E’  indispensabile ritornare sull’argomento, perché fu proprio su tale delicata  questione che si venne realizzando l’incontro definitivo tra Rocca e  Mussolini. Inizialmente, Rocca parve non recedere dalla sua intransigenza,  scagliandosi contro la «Lissa diplomatica», cui, a suo parere, la politica dei  rinunciatari avrebbe condotto il Paese”. Quasi nello stesso tempo, tuttavia,  prese ad emergere, dai suoi scritti, una posizione diversa, più conciliante e  realistica. Di fronte alle mille difficoltà frapposte dagli Alleati e dalla  Jugoslavia alle rivendicazioni italiane, Rocca si persuase che la sola via       loro interessi e non si sentivano adeguatamente tutelati dal Governo), con ovvi benefici sul  iano dei finanziamenti e del sostegno politico e organizzativo. Cfr. /bidem, p. 258 ss. srng   7 «Il Maglio», fondato dal capitano Pietro Gorgolini, aveva iniziato le pubblicazioni nel   gennaio, evolvendo dal quotidiano «La Patria», un foglio interventista vicino ai nazionalisti.   Per l’esattezza, Gioda ne ereditò la direzione a partire dal sesto numero, inaugurando la   rubrica “Senza guanti” (che usava firmare con il vecchio pseudonimo l’Amico di Vautrin),   una finestra polemica sulla realtà nazionale e cittadina che lo vide impegnato in schermaglie a   distanza con la stampa avversaria, in particolare con «Ordine Nuovo», organo del PCdI   torinese.   9 Massimo Rocca, Come il ‘fascismo divenne una dittatura, cit., p. 82.   °° LIBERO TANCREDI, La lingua nostra, «Il Risorgimento», Milano, 6 maggio 1920.    93       d’uscita fosse quella dell’applicazione integrale del patto di Londra del 1915.  Consapevole che ciò sarebbe equivalso a rinunciare a Fiume, Rocca (che  pure aveva avuto una breve esperienza come legionario dannunziano) !° si  disse convinto che la città, «confinante con un'Italia signora del Carso, delle  Alpi Giulie, dell’Istria e dell’ Adriatico», si sarebbe sentita «infinitamente più  forte», che se fosse stata abbandonata, senza continuità territoriale, «ad una  larva di sovranità italiana»'”. Dopo l’avvenuta autoproclamazione di Fiume  in stato indipendente, Rocca si rafforzò nella convinzione che l’Italia non  dovesse legare i propri destini a quelli della città “martire”. In un articolo del  26 agosto gli elogi di prammatica al coraggio e alla “fede” della popolazione  fiumana non bastavano a celare il disappunto per il colpo' di mano di  D’ Annunzio.    Noi - scrisse Rocca - rimaniamo convinti e tenaci fautori dell’annessione di Fiume  all’Italia [...]. Ma non abbiamo mai nascosto ai fiumani che, oggi, l’Italia non può  contemporaneamente annettere la città del Quarnaro e realizzare il Patto di Londra:  anzi, che nella nostra lotta diplomatica in difesa dell’ Adriatico e contro gli Alleati,  l’eroica passione di Fiume è più d’impaccio che d’aiuto!°?    Il giudizio lusinghiero riservato da Rocca alla Carta del Carnaro  (contemplante in effetti alcune delle soluzioni da lui stesso auspicate sul  piano dell’ordinamento politico) '°?, non ne scalfiva l’opinione che la  reggenza dannunziana costituisse un serio ostacolo alle aspirazioni  internazionali dell’Italia. L’ambizioso esperimento fiumano era, in ogni  caso, votato al fallimento. Il Trattato di Rapallo, stipulato il 12 novembre       100 a i d n sudo Hi Hi 6 u Pi  Rocca, giunto a Fiume subito dopo la “marcia di Ronchi”, vi era rimasto per circa tre mesi,    durante i quali aveva gestito l’ufficio di propaganda estera di D’Annunzio. A Fiume si erano  ritrovati anche altri anarchici interventisti, fra i quali Edmondo Mazzucato e — come vedremo  - Edoardo Malusardi.   !°! LiBeRO TANCREDI, La sfîda di Nitti, «Il Risorgimento», 20 maggio 1920.   !°2 Ip., L'Adriatico e l'Europa, Ibidem, 26 agosto 1920.   193 In particolare, Rocca disse di apprezzare che nella carta dannunziana (redatta da Alceste  De Ambris e messa in “bello stile” da D’Annunzio) fosse sancito «il dovere di produrre»,  quale requisito fondamentale per il godimento dei diritti politici. A parte questo, egli  condivideva l’abolizione del Senato e l’istituzione di un camera tecnica, espressione delle  diverse corporazioni professionali. Le corporazioni, secondo Rocca, erano «l'istituto  fondamentale», il solo in grado di «raccogliere e disciplinare» le masse e di dar loro «una  norma e un’idea». (ID., La costituzione di Fiume, Ibidem, 9 settembre 1920). Nondimeno, al  di là delle convergenze formali, il produttivismo meritocratico e sostanzialmente conservatore  di Massimo Rocca differiva in modo profondo dal sindacalismo integrale deambrisiano. Sulla  costituzione fiumana si veda La Carta del Carnaro nei testi di Alceste De Ambris e di  Gabriele D'Annunzio, a cura di Renzo De Felice, Bologna, Il Mulino, 1973.    94    eli ita       1920 tra l’Italia e la Jugoslavia auspice il governo Giolitti, inflisse un duro  colpo alle velleità indipendentiste del “comandante”. In due suoi interventi  su «Il Popolo d’Italia», scritti a ridosso dell’accordo italo-jugoslavo,  Mussolini mostrò di accettare sostanzialmente l’esito dei negoziati!”. Si  trattava di una mossa a sorpresa, spregiudicata, frutto di un preciso calcolo  politico (in questo modo il “duce” avrebbe realizzato «il suo inserimento nel  gioco politico-parlamentare a livello nazionale») ', che disorientò la  maggior parte dei fascisti ma trovò consenziente Massimo Rocca.   Il giorno 15 novembre, il Comitato Centrale dei Fasci di combattimento si  riunì per discutere della questione. Rocca, presente come semplice  osservatore (e perciò senza diritto di voto), si schierò apertamente dalla parte  di Mussolini, imitato dal solo Cesare Rossi!°. Il Trattato di Rapallo - disse  Rocca - risolveva il problema adriatico «dal lato di terra», mentre lasciava  insoluta la questione dell’ Adriatico centrale e meridionale. Riguardo a  quest’ultimo punto, il suo parere era che i fascisti dovessero far buon viso a  cattiva sorte, senza perdersi in uno sterile massimalismo e soprattutto senza  assecondare improbabili disegni di sedizione militare. Non si trattava -  sostenne ancora Rocca riecheggiando le tesi espresse negli articoli di  Mussolini!” - solo di una ragione di opportunità, in quanto «il problema  marittimo per l’Italia [...] non si fermava all’ Adriatico», ed era quindi uno  sbaglio ostinarsi a considerare Fiume e la costa Dalmata come l’unico  obiettivo. Occorreva guardare oltre, avere una visione più ampia dei  problemi di politica estera.    O noi — concluse Rocca con una provocazione - riusciamo ad essere i padroni  d’Italia e facciamo la politica interna ed esterna che ci piace, oppure persuadiamoci  che impiantare una politica estera armata accanto a quella ufficiale, senza essere  capaci di annullare quella ufficiale, potrebbe forse essere un male gravissimo       1% Cfr. BENITO MuSSOLINI, L'accordo di Rapallo, «Il Popolo d’Italia», 12 novembre 1920, e  Ciò che rimane e ciò che verrà, Ibidem, 13 novembre 1920.   Su questi fatti v. RENZO DE FELICE, Mussolini il rivoluzionario, cit. p..645 ss.   !°5 Ibidem, p. 662.   !° Mario Gioda, che avrebbe dovuto rappresentare Torino, era assente in quanto ammalato e  fu sostituito da De Vecchi. Cfr. La discussione e il voto dei Fasci italiani di combattimento. Il  Fascismo innalza la bandiera della Dalmazia Italiana, «Il Popolo d’Italia», 16 novembre  1920.   107 «Gli italiani — aveva scritto Mussolini nel suo fondo del 13 novembre — non devono  ipnotizzarsi sull’Adriatico. C'è anche — se non ci inganniamo — un vasto mare” di cui  l'Adriatico è un modesto golfo e che si chiama Mediterraneo, nel quale le possibilità vive  dell’espansione italiana sono fortissime».   108 La discussione e il voto dei Fasci italiani di combattimento, cit.    95       Dopo accese discussioni, la riunione terminò con l’approvazione di un  ordine del giorno unitario, largamente compromissorio, che, se «snaturava  completamente la primitiva mozione di Mussolini»! apparendo come un  successo della corrente filo-dannunziana'!, in realtà non andava oltre una  generica dichiarazione di solidarietà a D'Annunzio e non comprometteva  affatto la strategia del “duce”, come gli avvenimenti delle settimane  successive, culminati con il non intervento fascista in occasione del “Natale  di sangue”, avrebbero ampiamente dimostrato. Il giorno dopo la riunione del  Comitato Centrale, Rocca scrisse a Mussolini di non aver votato contro  l’ordine del giorno (come aveva fatto Cesare Rossi) solo in quanto non ne  aveva «legalmente» diritto, riconfermando la propria solidarietà al “duce”!!!,  Da quel giorno Rocca entrò a pieno titolo nei ranghi del fascismo. Non  soltanto, infatti, riprese la collaborazione con «Il Popolo d’Italia» (per il  momento continuando ad occuparsi del problema adriatico, sempre  nell’ottica mussoliniana) !'?, ma iniziò l’ascesa politica che, nel giro di pochi  mesi, lo avrebbe portato ai vertici del movimento. D'altronde, le idee di  Rocca si rispecchiavano ormai in gran parte nella nuova fisionomia assunta  dal fascismo all’indomani del congresso di Milano. Col tempo, infatti, egli  era andato sviluppando posizioni sempre più conservatrici. Nella sua  riflessione, le ragioni immediate del difficile momento politico ed  economico attraversato dall’Italia andavano rintracciate, oltre che  nell’ignavia e nell’incapacità dei suoi governanti, nell’irresponsabilità delle  classi operaie. Queste, incapaci di assolvere ai propri doveri e dedite allo  sperpero, erano schiave di un socialismo degenere, alfiere di un  «gaudentismo sfarzoso e gastronomico»"!. Da qui - secondo Rocca - il  dilagare degli scioperi, quasi sempre ingiustificati; subdole manovre  politiche che mettevano a repentaglio l’integrità della produzione. A fronte  di tutto questo, una borghesia laboriosa, avente «il dovere di resistere e di       1°° RENZO DE FELICE, Mussolini il rivoluzionario, cit., p. 647.    110 1 ’intesa italo-jugoslava - recitava l’ordine del giorno ispirato dalla destra fascista (Pietro  Marsich, De Vecchi, ecc.) - era «insufficiente per Fiume», nonché «deficiente ed inaccettabile  per la Dalmazia».   !!! «Il Popolo d’Italia», 17 novembre 1920.   !2 gi vedano, in modo particolare, gli articoli Dopo Rapallo. Il problema terrestre e quello  marittimo, e Il trattato di Rapallo, pubblicati dal giornale di Mussolini il 18 e il 25 novembre  1920. Questi e altri scritti di analogo contenuto furono raccolti da Rocca in un volume dal  titolo // trattato di Rapallo: una pagina di storia ancora aperta, stampato a Milano nell’estate  del 1921 per le edizioni de «Il Popolo d’Italia».   !!3 Massimo Rocca, La crisi maggiore, «Il Risorgimento», 20 maggio 1920.   Gli articoli citati facevano parte delle rubrica “Pagine economiche”, di cui Rocca era il  principale curatore.    96       vincere»"!, ma troppo spesso paralizzata dalla bassezza dei ceti dirigenti,  burocratici e parassitari, assolutamente non in grado di comprendere «i  fenomeni sociali ed economici del regime capitalistico industriale»!!5. Il  nodo ultimo della crisi italiana risiedeva pertanto, a detta di Rocca, «nella  perdurante e anacronistica separazione netta fra la casta burocratica e la  classe borghese, e nella sopraffazione della prima sulla seconda, mentre  l’economia andava sempre più controllando la politica, fino ad imprimerle le  sue necessità e direttive» '!°. A questo stato di cose occorreva rispondere con  la «rivoluzione della competenza»: la rivoluzione della classe borghese. La  borghesia produttiva, la sola capace di gestire «con criteri tecnico-  produttivi» tanto il potere economico quanto il potere politico, aveva  l’obbligo morale di realizzare «un rivolgimento aristocratico» della società  italiana. Solo così, contro ogni utopia egalitaria, le leve del comando  effettivo sarebbero tornate in mano «ai migliori, anziché ai molti, ai capaci e  ai competenti». Alla borghesia, finalmente consapevole della propria  autorità, sarebbe spettato il compito, altrettanto impegnativo, di cooptare in  questo processo la parte migliore e più responsabile del proletariato”. In  attesa che ciò avvenisse, Rocca suggeriva una serie di provvedimenti che, a  suo modo di vedere, avrebbero dovuto correggere le storture del sistema  economico, a cominciare dalla privatizzazione dei servizi essenziali. «Se si  vuole che si lavori — scriveva Rocca - bisogna tornare allo stimolo  dell’interesse e del puntiglio individuale, alla precisione ed all’accrescimento  delle responsabilità singole, a misura che i diritti e gli stipendi aumentano;  all’abolizione radicale dei privilegi [...] di cui godono i funzionari  pubblici»!!8,   Dopo l’occupazione delle fabbriche, Rocca giunse a invocare ferree misure  “draconiane” contro gli eccessi del bolscevismo!"°. Il primo obiettivo di un  governo che avesse a cuore le sorti della nazione doveva essere quello di  reintegrare «il pieno dominio della legge», senza indulgere a pietismi       !!4 LIBERO TANCREDI, Scioperi politici, Ibidem, 22 aprile 1920.    L'articolo in questione fu scritto da Rocca a seguito della vertenza dei metallurgici torinesi.  !!5 MAssIMO ROCCA, La crisi maggiore, cit.    Ivi.   ID., La disperazione dei servizi pubblici, Ibidem, 10 giugno 1920. si  In seguito, Rocca tornò più di una volta sulla convenienza di restituire ai privati l’esercizio  dei servizi essenziali (si veda, a titolo di esempio, l’articolo / servizi che non servono il  pubblico, in Ibidem, 20 gennaio 1921). La privatizzazione avrebbe costituito uno dei cardini  del programma economico fascista del 1922, elaborato da Rocca con Ottavio Corgini.   !!° Cfr, ID., La vertenza dei metallurgici, Ibidem, 2 settembre 1920.    118    97          democratici. Come si rileva da un articolo del 21 ottobre, Rocca pensava a  una qualche forma di “dittatura”; a «un uomo nuovo», che avesse già fornito  prova di «volontà e di giustizia», il quale avrebbe potuto far cessare «l’orgia  di tutti i disordini»'?°. Non è chiaro se egli si riferisse direttamente a  Mussolini, ma è molto probabile. E’ comunque significativo - come si evince  da quello stesso articolo - che Rocca ritenesse l’assunzione dei pieni poteri  una soluzione eccezionale, destinata a rientrare una volta passata  l’emergenza bolscevica. Allo stesso modo egli giustificava lo squadrismo,  ma solo in quanto strumento temporaneo dell’azione politica fascista, utile a  frenare le prepotenze e le intemperanze dei “rossi”!’, Quando la violenza  fosse diventata la consuetudine, erigendosi a sistema, Rocca non avrebbe  indugiato - come fece - nello schierarsi anche contro l’estremismo  squadristico, in difesa della legalità. Non riteniamo esservi contraddizione  nel diverso atteggiamento - di legittimazione e di condanna - assunto da  Rocca nei confronti dello squadrismo prima e dopo la “marcia su Roma”.  Certamente, egli non seppe o non volle vedere la gratuità e la scelleratezza  delle violenze fasciste del periodo “eroico”, e, in senso più ampio, che quelle  violenze erano il frutto di una visione totalitaria della lotta politica, visione  connaturata all’essenza stessa del fascismo, che nello squadrismo (e prima  ancora nella mentalità squadristica, esprimente non soltanto un disegno  rivoluzionario ma, spesso, un ri verso la vita in generale) aveva  il proprio stile politico qualificante‘; ma occorre tener presente che Rocca  si poneva, appunto, dall’angolo visuale del fascismo, vale a dire da una  prospettiva di parte, prigioniero di quella che potremmo definire sindrome da  guerra civile. Da uomo di parte, Rocca riteneva che la violenza delle camicie  nere fosse la risposta più che legittima alla violenza antinazionale dei       120    i Ip., Per una via d'uscita (0 reagire 0 abdicare), Ibidem, 21 ottobre 1920.  121    In un commento a margine dell’assalto a Palazzo D’Accursio guidato dalla sua ex guardia  del corpo Leandro Arpinati, Rocca espresse chiaramente il proprio punto di vista sullo  squadrismo. «I fascisti — scrisse — costituiscono oggi un comodo paravento per scusare alle  masse l’inanità anche della violenza [...]. E costituiscono anche un pietoso alibi per  giustificare, di fronte alla borghesia non morta ed al codice penale non ancora abolito, una  propaganda ed un’azione da veri delinquenti. Ma è troppo noto che, senza i fascisti, la  violenza delle masse abbrutite ad arte si scatenerebbe più indisturbata e non meno atroce»  (Ip., Bologna, Ibidem, 2 dicembre 1920).   122 Sulla violenza come aspetto caratterizzante della cultura e dell’azione politica fascista v. il  fascicolo n. 6, 1982, di «Storia Contemporanea», per la maggior parte dedicato all’argomento,  particolarmente il saggio di PAOLO NELLO, La violenza fascista ovvero dello squadrismo  nazionalrivoluzionario, pp. 1008-1025. Dello stesso autore v. anche le riflessioni in merito  contenute in L'avanguardismo giovanile alle origini del fascismo, cit., e Liberalismo,  democrazia e fascismo. Il caso di Pisa (1919-1925), Pisa, Giardini, 1995,    980       “pussisti”. Ciò non toglie che egli, dopo l’ascesa al potere di Mussolini,  reputando esser venute meno, con la sconfitta dei socialcomunisti, le ragioni  dello squadrismo, fosse in buona fede nel denunciare il perdurare  dell’illegalità fascista.   Nel corso del 1921 Massimo Rocca consolidò la sua già rilevante posizione  all’interno del movimento fascista. Nel febbraio, un suo articolo in difesa  della monarchia, scritto sotto pseudonimo per il giornale di Mussolini,  contribuì a rinfocolare il dibattito circa l’orientamento istituzionale del  fascismo. I fascisti - sostenne Rocca - dovevano schierarsi a tutela  dell’istituto monarchico, non solo per motivi di opportunità strategica (una  rivoluzione repubblicana avrebbe infatti rimesso in gioco le forze del  sovversivismo, a tutto danno degli equilibri interni del Paese e del fascismo  stesso), ma anche in ossequio a più complesse valutazioni politiche  (monarchico «di ragionamento», si autodefinì Rocca molti anni dopo) 1a,  che investivano l’intero assetto della realtà nazionale.    La società economica e politica che va sotto l’appellativo convenzionale di  “borghese” - scriveva Rocca - si è capovolta nel suo contenuto produttivo ed  ideologico [...]. Economicamente essa è sindacalista e non più individualista: tanto  che l’economia tende ad assorbire la politica, compresa quella estera [...]. Se una  rivoluzione è matura oggigiorno, nel senso di rinnovamento urgente e non di rissa da  arena diurna, è quella che sostituisca, in tutto o in parte, con un colpo di forza se  divenisse indispensabile, la tecnica e i tecnici, borghesi ed operai, e gli organismi  sindacali e tecnici, alla burocrazia, ai politicanti, ai demagoghi [...]. La funzione dei  Parlamenti è oggi totalmente diversa da quella di cent'anni or sono. Allora essi  erano le rappresentanze genuine, non ancora corrotte [...], di nuove é/ites in cui il  popolo rispecchiava se stesso [...]. Oggi il Parlamento [...] è diventato pur esso una  casta chiusa [...] non meno delle più diffamate monarchie [...]. E allora resta da  chiedersi se alle minoranze giovani e volitive della Nazione convenga meglio aver di  fronte una sola casta, quella parlamentare, o non sia meglio averne due, cioè anche  quella monarchica, per usare dell’una qual mezzo di controllo e di pressione  sull'altra !°*       !23 MAssIMO ROCCA, La realtà italiana, «ABC», 1 luglio 1958.   24 ALTAVILLA, Repubblica e monarchia, «Il Popolo d’Italia», 19 febbraio 1921 (anche in  Massimo ROCCA, /dee sul fascismo, cit., pp. 3:11).   L'articolo di Rocca, scritto in forma di lettera a Mussolini, faceva parte della rubrica  “Orientamenti e discussioni”, inaugurata da «Il Popolo d’Italia» in previsione delle adunate  regionali dei Fasci. Le adunate, convocate dal Comitato Centrale del movimento nel gennaio,  avrebbero dovuto fare il punto sullo stato del fascismo nelle diverse regioni e dettare le linee  orientative dell’azione politica fascista per il nuovo anno. La questione istituzionale, su cui  era incentrata una relazione introduttiva di Cesare Rossi (le altre, curate rispettivamente da  Gaetano Polverelli, Pietro Marsich, Mussolini e Pasella, concernevano il problema agrario, i    99          A prescindere dai cenni di natura tecnico-politica, ciò che ancora una volta  emergeva da queste frasi era il contenuto fortemente elitario della riflessione  di Rocca. Non deve perciò stupire più di tanto il fatto che egli, dopo aver  rivalutato il ruolo della borghesia produttiva come classe dirigente,  riscoprisse il carattere “esclusivo” della tradizione monarchica (così come,  più tardi, avrebbe riscoperto ‘l’importanza etica” del cattolicesimo) '°5. Del  resto, in un articolo dello stesso periodo, ricco d’implicazioni psicologiche e  di riferimenti autobiografici più o meno espliciti, Rocca espresse il  convincimento che «l'elevazione umana fosse sempre un fenomeno parziale,  d’individui singoli o di piccoli gruppi», e che «l’ascesa e l'emancipazione,  come la istruzione, fossero sempre, e per nove decimi, un’auto-ascesa,  un’auto-emancipazione, un auto-insegnamento»"°°. Era dunque necessario -  chiudeva Rocca (con parole dalle quali traluceva in modo inequivocabile la  matrice individualista della sua cultura politica) - “tornare agli individui” e  farla finita una volta per sempre con il culto demagogico della massa.    Edoardo Malusardi: il mito del fascismo libertario”    Il 1921 vide inoltre l’ingresso nelle fila fasciste di Edoardo Malusardi.  Conclusa una breve militanza nell’ Associazione Nazionale Combattenti!?”,       rapporti con lo stato, la politica estera e il movimento sindacale), costituiva uno dei punti  chiave del dibattito interno. La riunione dei Fasci lombardi, cui prese parte anche Rocca, ebbe  luogo al Teatro Lirico di Milano il 20 febbraio (cfr. La grandiosa adunata lombarda dei Fasci  “ i combattimento, «Il Popolo d’Italia», 22 febbraio 1921).   25 Cfr. MASSIMO ROCCA, Una questione da non risolvere, «Il Risorgimento», 14 luglio 1921.   La questione menzionata nel titolo era quella “romana”, che Rocca riteneva non dovesse  essere risolta, nell’interesse d’Italia e dello stesso papato, altrimenti destinato a smarrire il  proprio carattere di universalità. L’articolo conteneva un giudizio altamente positivo della  «funzione storica e persino politica» del cattolicesimo. L'attenzione di Rocca per la Chiesa e  la dottrina cattolica crebbe notevolmente negli anni a venire. E’ probabile che quest’interesse  fosse da attribuirsi ad un’autentica conversione personale; tuttavia, come vedremo meglio in  seguito, Rocca pareva interessato al cattolicesimo più e altro come a un elemento di autorità  e di disciplina interiore.  te ID., Quarto e quinto stato, Ibidem, 24 febbraio 1921.  La seconda parte di questo lungo articolo comparve sul numero successivo della rivista, il 3  marzo. In esso Rocca ribadiva l’idea che fosse doveroso, oltre che utile, “educare” il  proletariato, così da poterne estrarre un nucleo scelto, un’é/ite responsabile in grado di  cooperare con la borghesia alla gestione della produzione.   ? Spintovi dalla passione “trincerista”, Malusardi aveva aderito entusiasticamente all’ ANC  (per qualche tempo ricoprendo la carica di redattore capo de «L'Eco della Vittoria», organo  della sezione monzese di quella organizzazione), salvo abbandonarla in margine al Congresso  nazionale di Napoli, nell’agosto 1920, perché contrario ai ventilati propositi di trasformazione          Malusardi aveva intrapreso una saltuaria collaborazione con «Il Fascio» e  (come si ricava dalle cronache di quello stesso giornale) una altrettanto  frammentaria attività di propagandista per conto del Comitato Centrale  fascista, prima di partire alla volta di Fiume, dove, nell’ottobre del 1920, era  stato designato a dirigere la Camera del Lavoro dannunziana'*. Chiusa  anche quell’esperienza, all’inizio del 1921 Malusardi giunse a Verona,  chiamatovi da Italo Bresciani, segretario politico del locale Fascio di  combattimento (nonché ex anarcointerventista) '’’, noto per rappresentare  l’ala di estrema sinistra del fascismo veneto. Bresciani, che conosceva e  apprezzava le doti di organizzatore di Malusardi, gli affidò l’incarico di  segretario propagandista del Fascio. La scelta si rivelò azzeccata, poichè  l’anarchico lodigiano riuscì ad imprimere al fascismo veronese non solo un  maggior dinamismo, ma anche una maggior visibilità politica. Come prima  cosa Malusardi dette vita a un giornale («Audacia»), che doveva  immediatamente segnalarsi per il carattere battagliero, contribuendo al  graduale inserimento del Fascio nella realtà scaligera. Egli, in particolare, vi  affinò le proprie qualità giornalistiche, rispolverando tra l’altro una rubrica  dei tempi de «La Guerra Sociale» (“Foglie d’ortica”), che divenne un punto  di riferimento importante nella dialettica politica cittadina. Come si è detto,  Malusardi proveniva da Fiume: tra i suoi valori di riferimento, accanto alla  fede repubblicana e a confuse (ma autentiche e mai rinnegate) aspirazioni  libertarie, retaggio della sua militanza anarchica, si trovavano dunque la  Carta del Carnaro e il sindacalismo nazionale di Filippo Corridoni — il “suo”  compagno di trincea - e Alceste De Ambris'’°. Nel Fascio veronese,       dell’Associazione in partito. A parte i suoi articoli per «L’Eco della Vittoria», per lo più  improntati al tema dell’apoliticità del movimento combattentistico, l’attività di Malusardi in  seno all’ ANC non è agevolmente documentabile.   28 Anche sulle date dell’arrivo e della permanenza di Malusardi a Fiume vi è incertezza. «Il  Fascio» del 30 ottobre 1920 riportava un «avviso ai Segretari e Fiduciari dei Fasci e delle  Avanguardie e a tutti coloro che avevano occasione di corrispondere con la Segreteria  Politica», annunciando che Malusardi non ricopriva più l’incarico di segretario propagandista  del Comitato Centrale, in quanto, già da qualche giorno, si trovava a Fiume. Nella città  “olocausta” Malusardi diresse altresì il foglio sindacalista «La Conquista», del quale non ci è  stato possibile reperire una collezione (lo stesso Renzo De Felice, dal cui Sindacalismo  rivoluzionario e fiumanesimo nel carteggio De Ambris-D'Annunzio traiamo questa  informazione, cita da fonte indiretta).   n Bresciani, classe 1890, già convinto militante anarchico, era stato fra i promotori del  Fascio veronese di azione internazionalista. Cfr. ACS, CPC, Busta 833 [Bresciani Italo].   15° Cenni alla formazione sindacalista di Malusardi si trovano in EDOARDO MALUSARDI,  Elementi di storia del sindacalismo fascista, Torino, Stabilimento Tipografico Artistico  Commerciale, 1930,    101    PIPTREIPPRRA \PPPTPOT” VOTO PIPE PP PPIPT OP. POPRPOTTI TO RPPARE PP    decisamente orientato a sinistra, Malusardi trovò l’ambiente ideale per  portare avanti le proprie idee.   Il 13 febbraio 1921 si riunì a Venezia l’adunata regionale dei Fasci del  Veneto". Alla presenza, tra gli altri, del segretario generale del movimento  Umberto Pasella e del vecchio compagno Massimo Rocca, Malusardi ebbe  modo di esporre il proprio programma. Riguardo alla controversia  repubblica/monarchia, egli formulò l’auspicio che i fascisti si facessero  portavoce di un «fiero atteggiamento antimonarchico». La monarchia  sabauda — affermò - aveva tradito in più di un’occasione: prima della guerra  perché favorevole al “parecchio” giolittiano, durante perché colpevolmente  “latitante”, dopo perché sostenitrice della politica rinunciataria di “Cagoja”  Nitti, a Fiume perché’ complice della repressione sanguinosa    dell’insurrezione dannunziana'”.    Noi, che siamo repubblicani e libertari — concluse Malusardi - in determinati  momenti avremmo, quando il governo non agiva e l’Italia sembrava essere gettata  nel caos, accettata anche una dittatura monarchica [...]. Ma quando una monarchia  esiste solo di nome ed avalla tutte le infamie che si commettono nel suo nome, non è  per noi che un anacronismo inutile e ingombrante!    AI termine della discussione, Malusardi e Bresciani presentarono un ordine    del giorno repubblicano, che raccolse però soltanto nove voti (quanti erano i |    delegati del Fascio veronese), contro gli oltre venti ottenuti da una mozione  Pasella, rivendicante il carattere «antidogmatico e antipregiudiziale del  fascismo» in materia di regime!”*.   Fu sulla questione sindacale, cui egli era particolarmente sensibile, che  Malusardi ottenne i maggiori riconoscimenti. In quei mesi il problema  dell’organizzazione sindacale era oggetto delle preoccupazioni della  dirigenza fascista. Nel novembre del 1920 era sorta infatti la Confederazione  Italiana dei Sindacati Economici” (CISE), che raccoglieva i piccoli sindacati  autonomi, d’ispirazione fascista più o meno accentuata, operanti - come si  usava dire - sul terreno nazionale!*. Il nodo gordiano dell’intera vicenda,       131 Per Ja cronaca v. La grande adunata fascista di Venezia, «Audacia», 19 febbraio 1921.    326:  Ivi.  133.1,  Ivi.  Si noti la determinazione con cui Malusardi teneva a precisare l’essenza libertaria del proprio   fascismo.  134 yi  Ivi.    135 Pi n toda re: 4 det H rado   In occasione delle grandi agitazioni dei postelegrafonici e dei ferrovieri, nel gennaio del  1 920, il fascismo aveva assunto un atteggiamento decisamente antioperaio. Poiché la UIL, il  sindacato interventista, aveva invece appoggiato gli scioperi, i fascisti ritennero giunto il    102          che avrebbe a lungo condizionato gli sviluppi del sindacalismo fascista, era  se l’azione sindacale dovesse avere natura politica oppure apolitica, vale a  dire se i Sindacati Economici dovessero agire in stretto accordo con i Fasci  di combattimento, seguendone i programmi e le direttive; 0, al contrario, se  dovessero essere svincolati dalla tutela del fascismo, liberi, perciò, di agire  nel campo delle rivendicazioni del lavoro con la più ampia autonomia. Nel  suo intervento al convegno veneziano, Pasella affermò che i Fasci dovevano  ostacolare con ogni mezzo gli scioperi nei servizi pubblici. Malusardi -  facendo così intendere quale fosse il proprio pensiero riguardo ai Sindacati  Economici - gli oppose che le lotte del lavoro andavano valutate “caso per  caso”. Infatti — rilevò -, se i fascisti avevano il dovere di contrastare gli  scioperi dichiaratamente politici, non dovevano però opporsi alle legittime  richieste dei lavoratori, quando questi reclamavano «un più ampio diritto alla  vita», e quando le loro aspirazioni potevano essere armonizzate con «gli  interessi superiori della Nazione». Le preoccupazioni operaiste di Malusardi  si rivelarono ancor più manifestamente allorché egli dichiarò che, «quando i  lavoratori avessero saputo dimostrare una capacità tecnica intellettuale ed  una preparazione morale superiore agli attuali dirigenti delle fabbriche e  delle officine», i fascisti (che non dovevano essere «la guardia bianca di una  classe, ma i difensori della Nazione») avrebbero dovuto riconoscere loro «il  diritto di gestire direttamente il frutto del proprio lavoro»!°. L'ordine del  giorno votato dall’adunata accolse le tesi di Malusardi, anche nella parte  relativa agli scioperi nel pubblico impiego, riguardo ai quali — recitava - i  fascisti, pur non condividendoli in linea di principio, si sarebbero riservati di  prendere posizione “volta per volta”, in base alle circostanze.   Anche in materia di politica estera, Malusardi prese nettamente le distanze  dalla linea ufficiale del movimento. Egli, che era stato testimone del “Natale  di sangue”, non poteva ammettere che i fascisti avessero abbandonato  D'Annunzio al suo destino. Perciò, pur dichiarando -la propria stima a  Mussolini, Malusardi tenne a precisare di non indulgere ad alcuna forma di       momento di misurarsi direttamente nel campo dell’organizzazione del lavoro. I nuclei  sindacali fascisti trovarono il loro modello in quelle formazioni indipendenti, per lo più di  modeste dimensioni, che, sorte numerose dopo la guerra, si proclamavano apolitiche. Il primo  sindacato autonomo di marca fascista, il Sindacato Economico Ferrovieri, si formò a Roma il  16 febbraio, dalla fusione dell’ Associazione Movimentisti e del Fascio Ferrovieri. In ordine a  questi argomenti v. principalmente FERDINANDO CORDOVA, Le origini dei sindacati fascisti  (1918-1926), Roma-Bari, Laterza, 1974, e FRANCESCO PERFETTI, // sindacalismo fascista.  Dalle origini alla vigilia dello stato corporativo (1919-1930), Roma, Bonacci, 1988.   196 La grande adunata fascista di Venezia, cit.    103       «feticismo» e non esitò a rimproverare al “duce” di aver ingiustamente  sacrificato Fiume sull’altare della ragion di stato”.   Le prese di posizione di Malusardi all’adunata di Venezia gli valsero severe  critiche da parte sia di Umberto Pasella, sia di Luigi Freddi (il segretario  generale delle Avanguardie studentesche), che gli rimproverarono di fare  della demagogia. In un fondo per «Audacia» Malusardi, quasi lusingato di  aver suscitato tanta apprensione nei “piani alti” del fascismo, replicò ai suoi  detrattori con queste parole:    Freddi e Pasella hanno chiamato il mio discorso demagogico. E’ un aggettivo che _    non mi spaventa, quando penso poi che dai su citati è prodigalmente distribuito a  tutti coloro che si permettono di pensare con la propria testa'**    Riaffiorava - come si può notare - lo spirito polemico che aveva    contraddistinto il giovane anarchico nei giorni dell’interventismo;    riaffiorava, soprattutto, l’orgoglio individualista, la presunzione di sentirsi |    fuori dal “gregge”, senza curarsi (ma anzi compiacendosi) di essere tacciato  come “eretico”.    Pochi giorni dopo le sue dichiarazioni su «Audacia», Malusardi fu |    comunque indotto a dimettersi dalla carica di segretario propagandista del  Fascio di Verona. L'assemblea generale dei soci, tuttavia, riunitasi d’urgenza    lunedì 21 febbraio, respinse all’unanimità le sue dimissioni". I fascisti |    veronesi apparivano compatti intorno a Malusardi, e non avrebbero mancato  di dimostrarlo, già in occasione dell’appuntamento elettorale del maggio.       157 Cfr. /bidem.    Queste affermazioni di Malusardi sul “feticcio” Mussolini rimandano significativamente a  quanto Massimo Rocca ebbe a scrivere sul rapporto tra gli anarchici interventisti e il  fascismo. «Per provare poi — annotava Rocca - che [...] non tutti i primi fascisti erano  mussoliniani, basta ricordare gli anarchici che entrarono nel movimento, quasi tutti nel 1919,  e che non furono pochi; io solo ne conosco una trentina. La maggior parte si dedicò  all’organizzazione operaia, come [...] Edoardo Malusardi ed altri. [...] Degli anarchici di cui  mi ricordo nessuno è stato squadrista, nessuno entrò nel partito dopo la marcia su Roma,    parecchi anzi si ritirarono prima o subito dopo il delitto Matteotti. Si trattava di gente disposta    a servire la Patria o un’idea, ma non ad incensare un uomo; la mentalità di questi anarchici era  l’antitesi di quella dei socialisti passati al fascismo. I primi non conoscevano l’intransigenza  settaria dei secondi: ma possedevano una coscienza morale [...] solida e indipendente»  (MASSIMO, Rocca, Come il fascismo divenne una dittatura, cit., p. 108).  i EDOARDO MALUSARDI, /n margine all’adunata, «Audacia», cit.   L'Assemblea generale del fascio Veronese. Una manifestazione di simpatia al nostro  direttore, Ibidem, 26 febbraio 1921.       Dalle elezioni del 1921 alla “marcia su Roma”    Le consultazioni generali del 17 maggio 1921, mercé l’inclusione dei Fasci  di combattimento nei cosiddetti Blocchi Nazionali, realizzarono l’ingresso  del fascismo nel cuore della vita politica e parlamentare italiana. Il 7 aprile,  una riunione straordinaria del Comitato Centrale dei Fasci (presente anche  Mario Gioda) ratificò la decisione — che Mussolini aveva preso già da tempo  - di dar corpo ad un'intesa elettorale con le altre forze “nazionali”!‘°. Il  giorno successivo, a un’assemblea del Fascio milanese, Massimo Rocca    difese la legittimità di quella scelta.    Non è colpa nostra — disse — se quei perfetti reazionari che sono i socialisti e i  comunisti malgrado il rosso di cui s’incipriano, ci hanno imposto di scegliere fra  l’Italia com’è, con certe sue caste dirigenti e le incapacità e le brutture che ne  derivano [...], e la rovina completa della Nazione, sul tipo di quella toccata alla  Russia. La nostra scelta è dunque doverosa, anche se non lieta: salvare ad ogni  costo, in qualunque modo l’Italia. Però sia ben chiaro con questo che noi non  rinunciamo a nulla delle nostre idee e del nostro programma conservatore e  rinnovatore nello stesso tempo [...]. Soprattutto non rinunciamo alla nostra lotta  contro la proprietà e il capitale improduttivo, quando è tale veramente e non secondo  le ciarle dei demagoghi, mentre rendiamo giustizia a tutte le forze produttive della  Nazione. Non rinunciamo alla lotta contro la burocrazia parassitaria [...] né contro  lo Stato a tipo puramente parlamentare-burocratico, incapace di adempiere le  funzioni di cui s’incarica, mentre lega le mani alle energie private, individuali e  collettive, capaci di esercitarle con utilità e convenienza!‘    Del pari, a Torino, Gioda acconsentì a sostenere la politica bloccarda,  giustificando l’intesa elettorale tra fascismo e liberalismo con l’esigenza di  salvare l’Italia dal pericolo bolscevico'‘”. Nondimeno, la formazione del       0 Cfr. / Fasci di Combattimento per la costituzione dei Blocchi Nazionali, «Il Popolo  d’Italia», 8 aprile 1921.  Su questi punti v. soprattutto RENZO DE FELICE, Mussolini il fascista. La conquista del potere  (1921-1925), Torino, Einaudi, 1966, p 64 e ss.  1! «n Popolo d’Italia», 9 aprile 1921 (Rocca riprese questi concetti in un articolo del 16  aprile per «Il Maglio», intitolato Arrestare la dissoluzione).  La decisione del Fascio milanese fu salutata con soddisfazione dalle forze liberali (cfr. //  programma dei fascisti e l'adesione al Blocco, «Il Corriere della Sera», 9 aprile 1921).   Cfr. Movimentata Assemblea del Fascio di Torino per i Blocchi Nazionali, «Il Popolo  d'Italia», 10 aprile 1921.  Nel corso dell'assemblea generale dei soci del Fascio, riunitasi sabato 9 aprile, Gioda faticò a  imporre la linea della collaborazione elettorale. Alle perplessità della sinistra interna — che    105             (Ai li A A ici    Blocco Nazionale nel capoluogo piemontese si rivelò tutt'altro che agevole.  Il 15 aprile (il giorno prima i fascisti torinesi avevano inaugurato la  campagna elettorale con un comizio di Massimo Rocca) "4, Gioda annunciò  l’avvenuto raggiungimento di un accordo di massima - sulla base di alcune  condizioni poste dai fascisti!" - tra il Fascio di combattimento,  l'Associazione  Nazionalista, 1’ Associazione Radicale, il Partito  Socialriformista, 1’ Associazione Arditi, il Sindacato Economico Ferrovieri e  l'Associazione Nazionale dei Combattenti. Il segretario del Fascio lasciò  trapelare la possibilità che il Blocco comprendesse anche l'Associazione  Liberale Democratica, tenendo però a sottolineare come la fermezza  antigiolittiana dovesse rimanere il criterio orientativo dell’azione politica  fascista. Ora, era evidente che trattare con i giolittiani dell’ Associazione  Liberale. Democratica e, contemporaneamente, pretendere di fare  dell’antigiolittismo, era un controsenso, tanto più a Torino, dove un Blocco  che prescindesse dal sostegno di Giolitti aveva scarse probabilità di  affermarsi ed era perciò nell’interesse dei fascisti non tirare troppo la corda.  Il 21 aprile, a conclusione di un negoziato che lo stesso Gioda definì  “penoso” e “difficile”, si giunse alla costituzione del Blocco, con    l’inclusione dell’ Associazione Liberale Democratica. Così, non soltanto i |    fascisti accantonarono ogni remora antigiolittiana, ma, nonostante Gioda  lamentasse l’ingerenza «immorale» da parte del Governo, il Fascio accolse il    veto imposto dal Presidente del Consiglio alla candidatura dell’ex  parlamentare radicale Edoardo Giretti in favore del responsabile dell’Ufficio i       egli personalmente condivideva — riguardo all’opportunità di far blocco anche con gli odiati    giolittiani, il segretario oppose la necessità di far fronte all’avanzata delle forze antinazionali i    e, riprendendo un concetto proprio dell’impostazione antidogmatica del fascismo, rivendicò il    carattere aperto del Fascio, che non doveva conoscere «né radicali, né liberali, né anarchici», |    ma solo fascisti, uniti nell’interesse del Paese (// Fascio di Torino prende posizione nella lotta  elettorale, «Il Maglio», 16 aprile 1921).   143 Cfr. ] Fascisti iniziano la lotta elettorale a Torino, «Il Popolo d’Italia«, 15 aprile 1921, e  Un poderoso discorso di Libero Tancredi, «Il Maglio», 16 aprile 1921.   Rocca si dimostrò, come di consueto, un instancabile propagandista. Il giorno dopo  l’apparizione torinese fu infatti a Milano, tra i principali oratori al comizio inaugurale della  campagna elettorale fascista (cfr. // primo comizio elettorale a Milano, «Il Popolo d’Italia»,  16 aprile 1921).   14 Queste prevedevano: «schede elettorali con il Fascio dei Littori; un programma che  comprendesse la valorizzazione della guerra e della vittoria, l’assistenza ai combattenti, la  tutela dell’italianità all’estero; il riconoscimento dell’opera di salvamento nazionale compiuta  [...] dai Fasci di Combattimento; uomini nuovi e di fede per le candidature; la difesa e la  valorizzazione dell’impresa fiumana e dalmata; la lista bloccata» (MARIO GIODA, Un primo    accordo fra i vari partiti a Torino. Sarà possibile il “blocchissimo"? Trattative e moniti,  Ibidem, 15 aprile 1921).          Stampa presidenziale, Luigi Ambrosini". Nel Blocco erano compresi —    unici candidati fascisti — Cesare Maria De Vecchi e Massimo Rocca, che  faceva così il suo ingresso nella lotta elettorale!‘°.   Dove la linea bloccarda incontrò fortissime resistenze fu a Verona. Il 10  aprile, nel corso della prima riunione dei Fasci e dei Nuclei fascisti della  provincia, Edoardo Malusardi fece intendere che i fascisti veronesi non  avrebbero rinnegato le loro origini rivoluzionarie e non si sarebbero  compromessi in un’alleanza elettorale con le forze della borghesia moderata  e monarchica". Nonostante i ripetuti inviti al dialogo da parte dello  schieramento governativo (l’organo del liberalismo veronese, arrivò a  definire l'eventuale accordo con i fascisti una «necessità sacra») ‘’, il Fascio  di Verona si attenne alla linea indicata da Malusardi e disertò il Blocco.  Così, unico caso in Italia, nel collegio Verona/Vicenza i fascisti presentarono  una lista autonoma!‘’. Va detto che Mussolini non negò il proprio assenso  all’operazione e che anzi, in una lettera aperta ai fascisti di quel collegio, si  congratulò con loro per aver agito «fascisticamente», giacché, ove  mancavano «certe elementari condizioni di probità politica», occorreva «non    50  bloccare [...] ma sbloccare»!5°.       45 Cfr. Ibidem. pl so  Giretti fu costretto a rinunziare al suo posto in lista per non compromettere la formazione e  Blocco (cfr. MARIO GIODA, Una nobile rinuncia dell'On. Giretti, Ibidem, 23 aprile 1921). i  146 la candidatura di Rocca fu particolarmente spinta da Gioda. «Rocca — scrisse  quest’ultimo, presentando l’amico agli elettori torinesi — è stato un novatore e un divinatore.  Ha veduto chiaramente il futuro quando tutti brancicavano nel buio. Per questo è Stato  scomunicato quale eretico dai pontefici rivoluzionari» (ID., Il Blocco Nazionale a Torino. I  candidati fascisti, Ibidem, 12 maggio 1921).   147 . “   Cfr. «Audacia», 30 aprile 1921. i sb   A questo proposito v. anche / fascisti veronesi lotteranno da soli, «Il Popolo d’Italia», 20  aprile 1921. I DTA  148 La costituzione del Blocco Nazionale raggiunta a Verona. Contro il comune nemico:  fascisti a voi!, «Arena», 24 aprile 1921. : i  fo La composizione della lista appariva comunque nettamente orientata a destra. Eccezion  fatta per Italo Bresciani e il ferroviere Michele Costantini, ne facevano parte il generale  Umberto Zamboni, gli agrari conte Giuseppe Serenelli e Cesare Piovene, l’ex parlamentare  Giberto Arrivabene (uno dei fondatori del Fascio Parlamentare del 1917) e il professor  Alberto De Stefani (che risultò l’unico eletto). Cfr. «Audacia», 3 maggio 1921. i   150 «11 Popolo d’Italia», 3 maggio 1921 (la lettera di Mussolini, datata 29 aprile, si trova anche  in BENITO MussoLINI, Opera omnia, a cura di Edoardo e Duilio Susmel, Vol. XVI, Firenze,  La Fenice, 1956, p. 455). î   Il 13 maggio Mussolini si recò a Verona per la campagna elettorale e riconfermò  l'apprezzamento per la decisione dei fascisti veronesi di affrontare da soli il cimento delle  urne. Cfr. «Il Popolo d’Italia», 15 maggio 1921.    107          Massimo Rocca figurava dunque candidato fascista a Torino. Il 21 aprile, la  Giunta Esecutiva del Blocco Nazionale per la circoscrizione Milano/Pavia  decise di candidarlo anche in quel collegio", in quanto egli - come scrisse    «Il Popolo d’Italia» - conferiva «un tono e un colore patriottico e passionale  alla listay!°*.    Rocca espose le linee del suo programma elettorale a cavallo tra l’aprile e il  maggio, in una serie di articoli per “Il Risorgimento”. Nel primo di essi  (importante soprattutto alla luce di ciò che sarebbero stati i Gruppi di  Competenza) Rocca riprendeva un’idea a lui cara: quella della riforma  tecnocratica della rappresentanza parlamentare.    Una riforma seria e duratura — scriveva - dovrebbe consistere nel riconoscere  l’impossibilità della politica astratta [...], l’immoralità parassitaria dei politicanti  puri, e nel sostituire loro i valori fondamentali che l’economia addita attraverso le  sue organizzazioni, di ceto, di mestiere. Distinguere gli uomini per quello che fanno  e non per quello che dicono; e quindi togliere alle mandrie elettorali l’incarico di  eleggere chi sa parlare, mentire e intrigare di più, per affidarlo alle collettività ed ai  nuclei organizzati sulla base di un’attività specifica a profitto della vita sociale,  attività alla quale soltanto i veramente capaci possono eccellere. Sarebbe possibile  allora che industriali e operai e scienziati e artisti autentici prendessero parte alla  Vita pubblica, occupandosi ciascuno delle questioni in cui è competente: e i  Parlamenti tecnici così formati conoscerebbero meglio il lavoro fecondo e pratico e  meno le disquisizioni politiche mascheranti i settarismi e i puntigli!5*    A questo intervento ne seguirono altri, più specifici (una sorta di vera e  propria piattaforma elettorale in tre parti), nei quali Rocca suggellava i  princìpi fondanti del suo rinnovato credo politico: libertà economica,  decentramento, rispetto della legge. L’economia liberista - argomentava  Rocca nel primo di questi articoli programmatici - veniva accusata di essere  «caotica, anarchica, antisociale ed egoista», ma ciò non rispondeva a verità,  poiché il vero liberismo non si risolveva nell’individualismo fine a se stesso.  Esso, infatti, “trascendeva” e “comprendeva” tanto l’individualismo quanto  il collettivismo; racchiudeva, cioè, tutti i «sistemi di vita», tutte le forme  economiche (tranne le improduttive), di volta in volta selezionate e messe in  atto dalla società umana. In altri termini, il liberismo era «l'economia  spontanea di per se stessa». Per questo motivo, tornare al liberismo  significava, né più né meno, tornare all'economia «naturale della vita       15! Cir. / candidati per il Blocco, «Il Corriere della Sera», 22 aprile 1921,    ne «Il Popolo d’Italia», 23 aprile 1921.  MASSIMO ROCCA, La riforma fondamentale, «Il Risorgimento», 14 aprile 1921.       sociale», al libero dispiegarsi di tutte le energie economiche!'”. Le  affermazioni di Rocca in materia economica, come del resto l’intero suo  pensiero, avevano ormai un evidente contenuto conservatore, e, in questo  senso, non v’è dubbio che la sua propaganda contribuisse a rassicurare i ceti  moderati sulle buone intenzioni del fascismo. E’ però interessante vedere  quanto anche la concezione liberista di Massimo Rocca (soprattutto Ja  definizione del liberismo come organizzazione spontanea della vita  economica) discendesse almeno in parte dalla formazione anarco-  individualista del suo ideatore. Del pari, la naturale ostilità anarchica verso  lo stato e, in generale, verso ogni potere accentratore, pareva emergere là  dove Rocca, nella seconda parte del suo “manifesto” elettorale, additava la  necessità del decentramento amministrativo e politico quale condizione  essenziale per una maggiore libertà e una miglior gestione delle risorse  nazionali'?°. -  Nel terzo ed ultimo articolo, infine, Rocca affrontava la questione della  legalità. La legalità — scriveva - era requisito imprescindibile per un corretto  esercizio della libertà, la quale, se svincolata da regole e da limiti  preordinati, si risolveva in «un non senso, una negazione di se medesima,  attraverso l’arbitrio individuale e il disordine generale». L’Italia, quindi, non  sarebbe stata realmente libera fintanto che non fosse stata restaurata la  disciplina, in tutti i settori della vita civile e politica: «disciplina di governo,  di vita pubblica, di nazione, di vita privata». Disciplina era anche sinonimo  di gerarchia; infatti - sosteneva Rocca - bisognava ripristinare «Ia gerarchia  in ogni campo», affinché il «valore cosciente» tornasse a primeggiare sul  numero. L’articolo terminava con l’auspicio che finalmente, in Italia, fosse  ristabilita la legge «contro tutti !59, i  Simili affermazioni imponevano equanimità di giudizio; imponevano, in  altre parole, che quella stessa legge che egli pretendeva applicata contro gli  scioperanti socialcomunisti, valesse anche nei confronti delle camicie nere.  In futuro - come si accennava - Rocca non avrebbe esitato a prendere  posizione contro la perdurante illegalità fascista; ma allora, nella prima metà  del 1921, anch’egli riteneva che lo squadrismo fosse uno strumento più che  legittimo di lotta politica. Così, ad appena due giorni di distanza dal suo  articolo su «Il Risorgimento», commentando un gravissimo episodio di       1% Ib., Ritorno all'economia, Ibidem, 21 aprile 1921. i ) y  “Tornare al liberalismo” era anche il titolo di una conferenza tenuta da Rocca il 6 maggio nei  locali dell’Associazione Commercianti Industriali Esercenti di Milano (cfr. «Il Popolo  d'Italia», 7 maggio 1921). y   155 Cfr, MassIMO ROCCA, Ritorno alla semplicità, «Il Risorgimento», 28 aprile 1921.   156 Ip,, Ritorno alla disciplina, Ibidem, S maggio 1921.    109    a A mm PPTIPONI    violenza fascista a Torino (l’assalto e la devastazione della Casa del Popolo),  Rocca lo definì una sacrosanta «vendetta» contro il dispotismo comunista,  «dopo mesi e mesi di longanimità»!?.   La sera del 25 aprile, in circostanze misteriose, l’operaio fascista Cesare  Odone fu assassinato da un militante comunista!*. All’alba del giorno  seguente, bande armate di fascisti presero d’assalto la Casa del Popolo. Nel  terribile conflitto che ne seguì restarono gravemente feriti tre comunisti e un  giovane studente fascista di Reggio Emilia, Amos Maramotti, che morì poco  dopo in ospedale. La Casa del Popolo e i locali annessi, invasi dai fascisti,  furono prima completamente devastati, poi incendiati. Gli squadristi -  riportava «La Stampa» - impedirono ai vigili del fuoco di avvicinarsi alle  fiamme e gli edifici andarono quasi del tutto distrutti. I danni provocati  dall’assalto fascista furono stimati intorno ad un milione di lire!°. Nei giorni  successivi, l’autorità giudiziaria ordinò il fermo di nove fascisti, tra i quali il  segretario della sezione torinese dell’ Associazione Arditi, Bruno Ricolfi,  mentre gli stessi Gioda e De Vecchi furono denunciati con l’accusa  «d’istigazione e complicità morale»!° (senza peraltro che la denuncia  sortisse alcun effetto). Non è affatto chiaro se Gioda fosse coinvolto nella  decisione di assaltare la Casa del Popolo (la spedizione - a quanto riferiva il  Prefetto di Torino Taddei al Ministero il 29 aprile - era stata organizzata  «prontamente e nel massimo riserbo») ', ma appare evidente dal suo  comportamento di quei giorni come anch'egli, al pari di Rocca, fosse  prigioniero di un equivoco di fondo: quello di considerare la violenza un       157  ll    ID., Che cosa è “già” il controllo operaio a Torino, «Il Popolo d’Italia», 7 maggio 1921.  ® Cfr. Operaio fascista e mutilato di guerra ucciso da un comunista, “La Stampa”, 26 aprile   1921.   Per le versioni di parte fascista e comunista v. rispettivamente MARIO Giona, Un fascista  mutilato di guerra assassinato da un comunista a Torino, «Il Popolo d’Italia», 27 aprile 1921,  e Tragico epilogo di una rappresaglia fascista, «L'Ordine Nuovo», 26 aprile 1921.   Cfr. La funesta notte e le sue conseguenze, «La Stampa», 28 aprile 1921.   L'organo del PCdI torinese riferì che le guardie regie di presidio alla Casa del Popolo  (quaranta, secondo i documenti di PS), non solo non avevano ostacolato gli assalitori, ma gli  avevano persino assecondati (cfr. Come è stata incendiata e saccheggiata la Casa del Lavoro  di Torino, «L'Ordine Nuovo», 28 aprile 1921). Il comportamento delle guardie regie fu  oggetto, nei mesi seguenti all'episodio, di una lunga polemica. Un'apposita inchiesta, voluta  dall’energico Prefetto Paolo Taddei, escluse che i militari avessero preso le parti degli  squadristi, ma accertò altresì - come lo stesso Taddei scrisse al Ministro in data 6 luglio - la  «deplorevole negligenza» degli ufficiali preposti al servizio d’ordine, dimostratisi incapaci di  fronteggiare adeguatamente e con fermezza d’animo l’offensiva fascista. ACS, MINISTERO  DEGLI INTERNI, Dir. Gen. PS, Affari gen. e ris., 1921, Busta 112 [Fascio di Torino].   ‘9? Cfr. «Il Popolo d’Italia», 30 aprile 1921.    !0! ACS, MINISTERO DEGLI INTERNI, Dir. Gen. PS, Affari gen. e ris., cit,    110          aspetto importante ma tutto sommato transitorio (quindi, in un certo senso,  accessorio) del fascismo, mentre essa ne era un elemento coessenziale  imprescindibile, oltre che difficilmente addomesticabile. Un esempio di  questo ambivalente stato d’animo si trae da un articolo di Gioda di poco  precedente ai fatti narrati. In esso, commentando l'aggressione subita da  Antonio Gramsci ad opera di alcuni squadristi’, il segretario del Fascio  torinese aveva definito «sacrosante» le ritorsioni fasciste contro «le vili  imboscate» e «la violenza liberticida dei pussisti», ma, al contempo, aveva  vivamente deplorato quell’episodio, del quale non comprendeva la  necessità'. Nel caso poi della drammatica rappresaglia alla Casa del  Popolo, Gioda mostrò, almeno all’apparenza, di non averne intesa la reale  portata politica, allorché ebbe a dichiarare, contro l’evidenza dei fatti, che  essa aveva avuto natura anticomunista ma non antiproletaria tout couri n  Fino a che punto Gioda fosse consapevole della contraddittorietà della  propria posizione non è dato sapere, ma è certo che egli non aveva la forza  sufficiente per opporsi ad uno stato di cose che sfuggiva ormai al suo  controllo, costringendolo ad improbabili equilibrismi. i ;   All’indomani della prova elettorale (che vide il fascismo conquistare 35  seggi alla Camera) 16, un quotidiano romano pubblicò una lunga intervista a  Mussolini. Alla domanda se i neo deputati fascisti avrebbero o no preso parte  alla seduta inaugurale della XXVI Legislatura alla presenza di re Vittorio    Emanuele III, il “duce” rispose:    Il fascismo non ha pregiudiziali monarchiche o repubblicane, ma è tendenzialmente  repubblicano. In ciò differenziandosi nettamente dai nazionalisti, che sono       !62 Gramsci era stato aggredito il pomeriggio del 20 aprile, all’uscita dalla sede di «one   Nuovo». Il leader comunista non subì in realtà alcuna violenza, mentre il giovane ‘ardito del  polo” Giovanni Torrero, accorso in suo aiuto, restò gravemente ferito. Cfr. Ibidem.   5 MARIO GIODA, /n tema di violenza, «Il Popolo d’Italia», 22 aprile 1921. E   Che Gioda non nutrisse molta simpatia per gli eccessi degli squadristi è me provato   dall’impegno che egli mise-nel cercare di frenarne le intemperanze nel pesi c pipa Lo   recrudescenza dello squadrismo torinese, ossia nei mesi immediatamente precedenti i pe fo   pacificazione. Alla fine di giugno, ad esempio, dopo un ennesimo cruento scontro i fascis   e comunisti, Gioda, rivolgendosi direttamente alle camicie nere, rilevò ! urgenza li ata  fine una buona volta» a quella fosca teoria di violenze, destinata «ad attizzare MEA ‘odio  olitico» (ID., Un monito opportuno dopo una lotta sanguinosa, Ibidem, ! luglio 1921).   to Ip., Un rilievo opportuno dopo l'incendio vendicativo, Ibidem, 31 aprile 1921. |   165 Rocca non fu eletto. Soltanto 18° su 28 candidati a Milano, con 5.897 voti di preferenza  (cfr. «Il Corriere della Sera», 24 maggio 1921), ottenne un miglior risultato in FERIRE  35,282 voti a Torino città e 88.670 nell’intera circoscrizione (cfr. «La Stampa», 18 e  maggio 1921).    111       pregiudizialmente e semplicemente monarchici. Il gruppo fascista si asterrà  ufficialmente dal prendere parte alla seduta reale!$    Le dichiarazioni filo repubblicane di Mussolini scossero profondamente  tutto l’ambiente fascista. Dinanzi al putiferio da esse suscitato in molti Fasci,  fu stabilito di rimandare ogni decisione in merito a una riunione congiunta  dei deputati fascisti, dei membri del Comitato Centrale e dei segretari delle  Federazioni regionali, fissata per giovedì 2 giugno al Teatro Lirico di  Milano'!. Tra i Fasci dove la questione ebbe un'eco maggiore vi furono  quello di Verona e quello di Torino. Un editoriale di «Audacia» (poi  rivendicato da Malusardi) fece giungere a Mussolini il consenso dei fascisti  veronesi. L’originario programma fascista - vi si leggeva - quello di piazza  San Sepolcro, intransigentemente repubblicano, era stato purtroppo messo in  disparte, mentre era giunto il momento di rinverdire lo spirito rivoluzionario  del fascismo! Le dure apostrofi dell’organo fascista destarono viva  apprensione negli ambienti moderati di Verona, al punto che, rispondendo  all’articolo di «Audacia», il liberale Gaetano De Carli lasciò addirittura  intendere che la borghesia veronese non avrebbe esitato a difendersi con le  armi da un’eventuale insurrezione repubblicana fascista!. Il 29 maggio  l’assemblea generale del Fascio si chiuse con l’unanime approvazione di un  ordine del giorno Malusardi.    Il Fascio Veronese di Combattimento — recitava il documento - richiamandosi alle  origini eterodosse del fascismo, qui nel veronese mai smentite, dichiara la propria  incondizionata solidarietà con Mussolini nella tanto dibattuta questione della  tendenzialità repubblicana e riafferma essere inconcepibile che i fascisti facciano  parte anche di altri partiti!” i    Dopo che la riunione milanese del 2 giugno, protrattasi fino al giorno  successivo, si fu risolta in un nuovo compromesso (una «soluzione molto  confusa e contraddittoria», secondo la definizione di Renzo De Felice) !”!       !6© «Il Giornale d’Italia», 21 maggio 1921.    L'intervista a Mussolini fu riprodotta anche da «Il Popolo d’Italia» del 22 maggio.  !57 Cfr. Ibidem, 24 aprile 1921.    Sulle conseguenze dell’intervista di Mussolini v. RENZO DE FELICE, Mussolini il ‘fascista, cit.,  . 95 ss.    » Cfr. NOI, Cose a posto, «Audacia», 28 maggio 1921.  GAETANO DE CARLI, Difendo il Re, «Arena», 1 giugno 1921.  170 . .  «Audacia», 4 giugno 1921.  !7! Renzo DE FELICE, Mussolini il fascista, cit., p.97.    \    112       che eludeva l’essenza del problema, Malusardi non nascose il proprio  malumore e manifestò la speranza che il prossimo congresso nazionale  sciogliesse definitivamente il nodo dell’indirizzo istituzionale del fascismo.  «E? ora di finirla — scrisse tra l’altro — di vedere e liberaloni e nazionalisti e  rancidi conservatori insinuarsi nelle nostre file coll’unico scopo di  rimorchiare al loro partito il nostro movimento. Ed è ora di finirla anche con  questi Fasci Agrari o d’Ordine, che snaturano il nostro programma e  mascherano gretti interessi individuali o di classe»!”?.   La vicenda ebbe conseguenze assai più traumatiche a Torino, dove portò a  un nuovo aspro scontro tra Gioda e De Vecchi. Quest'ultimo, infatti, in  un’intervista rilasciata a un quotidiano locale, dichiarò che i deputati fascisti  del Piemonte avrebbero senz'altro presenziato alla seduta reale'”. Il 24  maggio, per testimoniare il proprio dissenso da De Vecchi, Mario Gioda si  dimise dalla carica di segretario politico del Fascio di Torino e dalla  direzione de «Il Maglio»'”. La Commissione Esecutiva del Fascio, riunitasi  il giorno seguente, ne rigettò tuttavia le dimissioni, inviando altresì un voto  «di piena, assoluta solidarietà» al “duce”. In un articolo di commento alla  vicenda, Gioda, rinfrancato dalle risoluzioni della Commissione Esecutiva, si  lasciò andare a valutazioni ottimistiche. Nessuno — scrisse - aveva il diritto di  meravigliarsi per la professione di fede repubblicana fatta da Mussolini. Ben  più strano, infatti, sarebbe stato se «il fascismo, il giorno dopo le elezioni,  fosse diventato tanto opportunista da velare, o tacere, o sorvolare su una  delle sue principali caratteristiche»; quella, cioè, di essere un movimento  tendenzialmente repubblicano. L'intervista del “duce” - secondo Gioda - era  giunta a proposito, così da smontare una volta per sempre «la favola di un  fascismo antiproletario e incatenato al servizio della borghesia agraria e          L’ordine del giorno approvava l’operato di Mussolini e decretava la nascita del gruppo  parlamentare fascista, riproponendo in sostanza la tesi della non partecipazione alla seduta  reale, ma non faceva menzione della questione istituzionale.   !72 EDOARDO MALUSARDI, Vogliamo il congresso nazionale!, «Audacia», 11 giugno 1921.   !73 Cfr. «La Gazzetta del popolo», 23 maggio 1921.   Il 24 maggio, nel corso di un comizio al teatro Trianon per la ricorrenza dell’entrata in guerra  dell’Italia, il futuro quadrumviro riconfermò quanto dichiarato il giorno prima al quotidiano  torinese (cfr. «Il Popolo d’Italia», 25 maggio 1921). Nelle sue memorie, De Vecchi si  compiacerà di ricordare che Gioda, nell’ascoltarne il discorso, era diventato sempre più  pallido, finché, esasperato, aveva abbandonato anzitempo il teatro (cfr. CESARE M. DE  VECCHI, op. cit., p. 42).   !74 Cfr. «Il Popolo d’Italia», cit.   In conseguenza dell’abbandono di Gioda «Il Maglio» sospese le pubblicazioni per quasi un  mese.   !75 Cfr. «Il Popolo d’Italia», 26 maggio 1921.    113          industriale»'”°, Tornava dunque a mostrarsi la vecchia anima repubblicana e  libertaria di Mario Gioda, e non v’è dubbio che egli fosse in buona fede.  Ciononostante, le sue posizioni non trovavano corrispondenza nella  situazione generale del fascismo, sul piano locale come su quello nazionale,  ed erano, perciò, fatalmente destinate a soccombere.   Il giorno prima della prevista riunione di Milano ebbe luogo l’assemblea del  Fascio di Torino. Essa - riferiva la cronaca, stranamente non edulcorata, de  «Il Popolo d’Italia» - si risolse in un duello personale tra Gioda e De Vecchi.  Soltanto al termine di un affannoso dibattito fu licenziato un ordine del  giorno anodino (sottolineante il carattere unitario del programma politico  fascista) che, in definitiva, suonava come un’attenuazione della linea  intransigente sostenuta da Gioda'”. La riunione al Teatro Lirico, nel corso  del quale De Vecchi non mancò di fare «una manifestazione di fede  monarchica»!?8, confermò la vittoria dell’indirizzo moderato.   A distanza di pochi giorni De Vecchi prese l’iniziativa - del tutto personale -  di convocare un vertice dei segretari dei Fasci piemontesi. Gioda non rispose  all’invito e non si recò all’incontro. Fu invece presente Umberto Pasella, che  riuscì a far passare una mozione rivendicante il più assoluto agnosticismo in  materia di regime. L'assemblea conferì a De Vecchi l’incarico di designare il    nuovo direttore de «Il Maglio» e la scelta, com’era logico, cadde su un uomo    di sua fiducia, l’avv. Ruella'”, Il 12 giugno tornò a riunirsi la Commissione  Esecutiva del Fascio torinese. Gioda si dimise per la seconda volta, lasciando  capire di non aver intenzione di recedere dalla propria decisione'*°. Dieci    giorni più tardi, un’ennesima assemblea straordinaria dei soci del Fascio ‘|  provvide all’insediamento di una nuova Commissione Esecutiva'*, che a sua |    volta, riunitasi il 4 luglio, designò segretario politico un altro fedelissimo di  De Vecchi, il capitano Aurelio, di Novara, già comandante della legione  82    dalmata a Fiume **. Gioda appariva sconfitto su tutti fronti. Nel giro di un |       176    la disciplina fascista, Ivi.   17? Ibidem, 2 giugno 1921.   All’assemblea del Fascio torinese prese parte anche Massimo Rocca, senza tuttavia  intervenire nella discussione.   LOI ‘imponente convegno fascista di ieri a Milano, Ibidem, 3 giugno 1921.   17° Cfr. «Il Maglio», 18 giugno 1921.   180 Cfr. «Il Popolo d’Italia», 14 giugno 1921.   La segreteria del Fascio di Torino fu assunta in via provvisoria dal capitano degli arditi Mario  Gobbi.   18! Cfr. «Il Maglio», 25 giugno 1921, e «Il Popolo d’Italia», 26 giugno 1921,   I membri della Commissione Esecutiva furono portati da cinque a sei.   182 Cfr. «Il Maglio», 9 luglio 1921.    114    MARIO GIODA, Le dichiarazioni di Mussolini e la speculazione idiota degli avversari. Per       mese, tuttavia, mercé i contrasti suscitati dal patto di pacificazione nel  frattempo stipulato con i socialisti, la situazione mutò ancora una volta. Il 6  agosto, a riprova della gravità della crisi, «Il Maglio» interruppe nuovamente  le pubblicazioni (le avrebbe riprese soltanto il 26 novembre). Trascorsa una  settimana, Gioda fu richiamato alla segreteria del Fascio, quindi, il 25  agosto, l’assemblea generale fascisti torinesi votò la nomina di un’altra  Commissione Esecutiva".   La sterzata a destra coinvolse, almeno in parte, anche Edoardo Malusardi. Il  13 giugno si svolse un’adunata provinciale straordinaria dei Fasci e dei  Nuclei fascisti del veronese. Al centro del dibattito, una volta ancora, il tema  dei Sindacati Economici. Alla tesi facente capo a Giuseppe Serenelli,  contraria alla costituzione di detti sindacati, e a quella di Alessandro  Melchiori, favorevole alla formazione di organizzazioni sindacali ad  autonomia “ridotta”, si oppose l’idea di Malusardi, per il quale, mentre la  prima rivelava chiaramente la «qualità di agrario» del suo suggeritore, la  seconda era troppo generica e parimenti inaccettabile. Secondo Malusardi, il  fascismo doveva adottare il programma di sindacalismo integrale contenuto  nel “testamento politico” di Filippo Corridoni". Ma la grande novità  dell’adunata furono le dimissioni di Malusardi dal suo doppio incarico  all’interno del Fascio veronese, «per motivi di salute e non politici»'*°. Al  riguardo mancano purtroppo notizie certe, ma non è da escludere che la sua  decisione, anziché a ragioni contingenti, fosse dovuta a pressioni esterne, più  o meno indirette. D’altra parte, leggendo il saluto indirizzato da Malusardi ai  suoi lettori, l'impressione che se ne trae è quella di un uomo tutt’altro che  dimesso; un uomo che si sentiva ingiustamente messo da parte e che,  persuaso della bontà dei propri convincimenti, riaffermava la propria  indipendenza di giudizio.       183  184    Su tutta questa vicenda v. EMMA MANA, op. cit., p. 270 ss.  Melchiori (a lungo segretario politico del Fascio di Brescia) aveva già espresso il proprio  punto di vista in un precedente intervento su «Audacia». I sindacati - aveva rilevato -  dovevano mantenersi il più possibile indipendenti, ma, al tempo. stesso, non potevano  rinunciare al sostegno e alla protezione del fascismo, se necessario anche contro gli stessi  interessi padronali. «Come fino ad oggi — aveva scritto Melchiori - i nostri camions sono  serviti per punire i calunniatori del fascismo, essi serviranno [...] per prelevare a domicilio  quei proprietari che volessero ad ogni costo andare contro corrente» (ALESSANDRO  MELCHIORI, Costituiamo i Sindacati Economici, «Audacia», 11 giugno 1921).  185 Alla fine dei lavori l’adunata approvò un ordine del giorno, formulato da Italo Bresciani  d’intesa con il presidente dell’assemblea Salvatore Stefanini (membro del Comitato Centrale),  per la costituzione, anche nel veronese, di Sindacati Economici «nazionali», aventi autonomia  «finanziaria e politica» (/bidem, 16 giungo 1921).   Ivi.    115             Ho sempre pensato — scriveva Malusardi - come meglio mi è parso. Non ho mai  avuto alcun feticcio. Ho sempre preso il bello ed il buono da qualunque parte  venissero. Perché io non sono di quelli che marciano sulle rotaie dell’anchilosi  cerebrale che i partiti e le chiesuole hanno portato su tutte le contrade. Sempre ho    irriso, anzi, a tutte le botteghe multicori politiche che pretendono d’aver la privativa  dell’infallibilità!”    E interessante, in questa lunga “confessione” di Malusardi, il modo in cui  egli tornava ad illustrare la propria concezione sindacalista. Il tono e i    contenuti - come si può vedere - non erano granché mutati dai tempi de  «L’Agitatore».    «Benché sono [sic] orgogliosamente individualista — affermava - fui tra le masse  lavoratrici e per esse lottai, pugnai di persona. Non perché io credessi o creda nella  elevazione collettiva della massa [...], ma per staccare da essa delle individualità e  delle minoranze intelligenti e volitive, capaci d’innalzarsi realmente ad un più alto  livello di comprendonio e di personalità. Poiché io non dimentico che la storia è  sempre stata scritta dagli individui e dalle minoranze [...]. Il sindacalismo, quale io  lo intendo [...] è individualista ed è una realtà avveniristica nella quale predomina il  “mito” della singola responsabilità. Il sindacalismo è logicamente per un continuo  superamento e per il massimo imborghesimento; il socialismo ed il comunismo  statali rappresentano invece il livellamento e la massima proletarizzazione di tutti!8*    Infine, Malusardi rilasciava una dichiarazione dall’evidente sapore  programmatico.    lo non sarò mai per il conservatorume rancido e vilissimo che, passata la bufera  bolscevica, spazzata via dal salutare vento fascista, si è riverniciato a nuovo e  pretende rimerchiare la nostra gagliarda giovinezza. Io sono orgoglioso, anzi, di aver  molto contribuito a mantenere al fascismo veronese la sua caratteristica sbarazzina e  ardita, tanto da essere chiamato la punta estrema del movimento fascista!*”    In definitiva, l’allontanamento di Malusardi da Verona - cui fece seguito il  suo temporaneo “esilio” in provincia - pareva dettato, più che da cattive  condizioni di salute, da valutazioni di opportunità “ambientale”. Egli, del  resto, non abbandonò affatto l’attività politica. Al congresso provinciale       87 s  187 EpoARDO MALUSARDI, Commiato, cit.    8  Ivi.  189    Ivi.  A seguito delle dimissioni di Malusardi la direzione di «Audacia» fu ereditata da Luigi  Grancelli.    116          fascista del 7 agosto, Malusardi era infatti presente in rappresentanza dei  piccoli Fasci di Legnago e di Cologna Veneta, figurando altresì quale  segretario generale della Federazione fascista intermandamentale del basso  veronese. In quel frangente egli si fece promotore di una mozione favorevole  al patto di pacificazione, da poco stipulato con i socialisti, «per ragioni di  ordine nazionale»'”°. L'ordine del giorno Malusardi fu approvato con 14 voti  a favore, il doppio di quelli ottenuti da una proposta di Giuseppe Bernini, del  Fascio di Verona, per l’accettazione condizionata del patto del 3 agosto!”.  Ci sembra significativo che, proprio nel momento in cui il Fascio veronese  manifestava al riguardo molte perplessità, Malusardi appoggiasse la strategia  distensiva di Mussolini. Senz'altro, com’è anche possibile desumere dalle  sue future prese di posizione in tema di violenza, Malusardi riconosceva il  bisogno di una “tregua d’armi” con le sinistre (la sua intransigenza sui  principi non dev'essere confusa con l’estremismo squadristico), ma è anche  presumibile che egli mirasse in parte a recuperare credito agli occhi delle  gerarchie!”, Tra l’agosto e il settembre, Malusardi s’impegnò in un’intensa  opera di propaganda a sostegno del patto di pacificazione, girando tutta la  provincia di Verona, con esiti confortanti. Contemporaneamente riprese a  collaborare con «Audacia», di cui riassunse la direzione il 29 ottobre, poco    tempo prima del III congresso nazionale fascista!”       19° Favorevole alla tregua con i socialisti si era detto anche Massimo Rocca, benché, in un    articolo di poco precedente alla firma del patto, egli avesse espresso forti dubbi circa la tenuta  di un eventuale accordo, soprattutto nelle zone, come l'Emilia Romagna, dove la lotta politica  aveva raggiunto la massima asprezza (cfr. Massimo Rocca, Per la pace interna, «Il  Risorgimento», 21 luglio 1921). Dopo che l’accordo fu denunciato - in conseguenza dei gravi  incidenti scoppiati al margine de! III congresso nazionale fascista -, Rocca attribuì la  responsabilità del suo fallimento ai socialcomunisti (cfr. Ip., La commedia di una  pacificazione, Ibidem, 24 novembre 1921).   Su tutte le questioni connesse al patto di pacificazione v. RENZO DE FELICE, Mussolini il  fascista, cit., p. 100 ss.   19! Cfr. «Audacia», 13 agosto 1921.   192 A questo proposito, il responsabile per la propaganda del Comitato Centrale, mentre  rimproverava a Luigi Grancelli e agli altri dirigenti del Fascio di Verona, il loro «semplicismo  politico», si disse piacevolmente sorpreso che «l'ex anarchico Malusardi» condividesse  l’iniziativa di Mussolini per la pacificazione (OTTAVIO MARINONI, Dopo il Congresso  Provinciale, Ivi).   18. 11.30 ottobre, in preparazione dell’assise nazionale di Roma, i Fasci del veronese si  radunarono a congresso. Tra i temi dibattuti, oltre a quello dell’annunciata trasformazione del  movimento in partito (che avrebbe dominato i lavori dell’ Augusteo ), vi fu nuovamente quello  dei Sindacati Economici. Infatti, dopo la nascita e la diffusione dei “Gruppi dei ferrovieri  fascisti”, organismi di categoria dipendenti dai Fasci, che lasciavano intravedere la possibilità  di un sindacalismo integralmente fascista, si andava vieppiù riconsiderando la funzione dei  Sindacati Economici, la cui pretesa apoliticità era ormai oggetto delle critiche di autorevoli    117          Il congresso fascista, che si riunì al Teatro Augusteo di Roma tra il 7 e il 10  novembre 1921, ebbe tra i suoi maggiori protagonisti Massimo Rocca.  Questi si preparò all’appuntamento con una serie di articoli d’indubbio  interesse, nei quali — per la prima volta in modo compiuto - formulò la sua  proposta per un fascismo “liberale”. Nell’opinione di Rocca, i Fasci  avrebbero dovuto essere un movimento di élite, di avanguardia politica e  ideale, come lo era stata la Destra storica cavouriana. La vita politica  italiana, costretta in avvilenti compromessi, aveva bisogno di «un eccesso di  spiritualità», tale da bilanciare l’eccesso «di politicantismo mercantile» che  la sommergeva; e solo una destra rinnovata, che avesse saputo riappropriarsi  della cultura e dello spirito del vecchio liberalismo piemontese, avrebbe  potuto svolgere questo «compito di equilibrio e di correzione». In quella  tradizione risiedeva del resto un «grande insegnamento realistico e morale»  dal quale il fascismo non avrebbe potuto prescindere, vale a dire che «non le  masse, ma le minoranze rinnovavano il mondo» e che il progresso  consisteva nel «succedersi di aristocrazie libere»'. I fascisti - Rocca non ne  dubitava - avevano le carte in regola per guidare quest'opera di  rinnovamento della destra italiana, ma dovevano prima definirsi come forza  politica. Il fascismo, infatti, era nato prevalentemente ad opera di sovversivi,  alcuni dei quali non avevano mai del tutto rotto i ponti con il proprio passato.  Erano coloro che difendevano la pregiudiziale repubblicana e i Sindacati  Economici (forse Rocca pensava agli amici Gioda e Malusardi) e  rappresentavano la tendenza «filoproletaria» del movimento: una tendenza,  sia pur degna del massimo rispetto, che rischiava di ripetere gli errori storici  della sinistra, plasmando una sorta di «demagogia fascista», non meno  deprecabile di quella socialcomunista. Sul versante contrario, Rocca poneva       esponenti della gerarchia fascista, da Michele Bianchi a Dino Grandi, da Massimo Rocca allo  stesso Mussolini (su questi punti v. FERDINANDO CORDOVA, op. cit., p. 45 ss.). Al congresso  veronese Malusardi si pronunciò contro la costituzione di sindacati «prettamente fascisti» e  difese il principio dell’apoliticità dell’azione sindacale (la tesi patrocinata a livello nazionale  da Edmondo Rossoni). I sindacati “di partito”, rilevò Malusardi, avrebbero ostacolato l’unità  di tutte le forze sindacali nazionali, ch'egli riteneva indispensabile, anche per contrastare il  monopolio dei sindacati socialcomunisti. «Se in politica — affermò — le divergenze son  profonde, sul terreno economico son facilmente colmabili. Il lavoratore credente e quello  miscredente, il monarchico ed il repubblicano sono tutti d’accordo nel volere il proprio  miglioramento economico e morale». Di concerto con Italo Bresciani, Malusardi presentò  dunque un ordine del giorno, sanzionato a larga maggioranza, affinché sorgesse, «all’infuori  dello stesso Partito Fascista», un «forte organismo sindacale che raccogliesse sotto il suo  vessillo di battaglia tutti i lavoratori che non rinnegavano la realtà Nazione» («Audacia», 4  novembre 1921).   “ Massimo ROCCA, Pér una nuova destra, «Il Popolo d’Italia», 29 ottobre 1921 (anche in  Ip., /dee sul fascismo, cit., pp. 44-51).       la destra reazionaria, «formata da certa borghesia, specialmente terriera, e da  residui d’aristocrazia decaduta», che vedeva nel fascismo «l’arma di difesa e  di offesa da sfruttare al minor prezzo possibile», ed era responsabile del  carattere «offensivo e violento» assunto dai Fasci in talune zone del Paese,  Tra le due ali estreme del fascismo si situava tuttavia un folto centro  moderatore, che Rocca riteneva essere il legittimo erede del primo  nazionalismo, come questo lo era stato del primo liberalismo di destra, del  liberalismo, cioè, non ancora “inquinato” dall’utopia demo-sociale. Una  zona media del fascismo, dunque, fondata sulla «disciplina verso la Nazione,  al di sopra degli esclusivismi ideologici e degli interessi particolari», che  Rocca confidava sarebbe infine prevalsa sugli opposti estremismi, fino a  costituire il perno della “nuova destra” di governo!” Nel suo intervento al  congresso di Roma Rocca riprese uno ad uno questi temi. Il fascismo — disse  - doveva innanzi tutto svolgere «un’opera di educazione sulle masse», per  volgersi infine alla trasformazione degli organi legislativi, in quanto la crisi  italiana era una «crisi d’incompetenza» e le questioni economiche e  amministrative, per le quali lo stato politico non era adatto, dovevano essere  demandate ai tecnici. In quest'opera di riforma, le organizzazioni sindacali  avrebbero potuto giocare un ruolo importante, a condizione che i sindacati  divenissero strumento «di selezione delle élites proletarie»'?”.   L’assise dell’ Augusteo decretò la nascita del Partito Nazionale Fascista. Sia  Rocca (che a Roma rappresentava il piccolo Fascio lombardo di Castellanza)  198. sia gli altri ex anarcointerventisti Malusardi e Gioda, presenti anch’essi al       193 Ip., Un neo liberalismo?, “Il Risorgimento”, 22 settembre 1921 (anche in Ip., /dee sul  fascismo, cit., pp. 31-43).   196 Su questo aspetto del pensiero politico di Massimo Rocca v. altresì EMILIO GENTILE, Le  origini dell'ideologia fascista, cit., pp. 227-228.   19? «Il Popolo d’Italia», 10 novembre 1921.  L'intervento di Rocca al congresso dell’ Augusteo fu per la maggior parte incentrato sui  problemi di ordine internazionale. A questo riguardo Rocca confermò la convinzione che  l’Italia dovesse avere una politica estera «rettilinea e chiara», senza le incertezze del passato,  e che spettasse al fascismo far sì che ciò avvenisse. Il discorso, con i suoi richiami alle  “glorie” e alla “potenza” d’Italia, vibrava di forti acc>nti nazionalistici e non fu un caso che  l'organo dell’Associazione Nazionalista ne facesse l'elogio (cfr. /! discorso polemico di  Massimo Rocca, «L’Idea Nazionale», 10 novembre 1921).   !°8 Cfr. «Il popolo d’Italia», 10 novembre 1921.   Il Fascio di Castellanza, un piccolo centro in provincia di Milano (oggi Varese), era stato  inaugurato nel luglio del 1921 alla presenza di Massimo Rocca, che aveva fatto da padrino.  Ne era segretario Giulio Schejola e contava 67 soci, in prevalenza operai e impiegati.  L'assemblea generale dei soci designò Rocca a rappresentare il Fascio al congresso nazionale  di Roma. Cfr. ACS, MRF, Carteggio politico e amministrativo del Comitato Centrale con i  Fasci di combattimento, Busta 25 [Castellanza].    119       congresso, votarono a favore della trasformazione del movimento in  partito!” Dal congresso scaturì inoltre il nuovo organigramma fascista:  Massimo Rocca entrò a far parte della Commissione Esecutiva del PNF°%,  mentre De Vecchi, a testimoniare la definitiva virata a destra del fascismo,  rilevò Gioda nel Comitato Centrale?”   Le conclusioni del congresso furono esaltate da Rocca in un lungo articolo  celebrativo, significativo per i numerosi richiami al problema  dell’organizzazione sindacale e, soprattutto, per gli accenni ai Consigli       199 ; A Errante "  Il 17 ottobre si era radunata l’assemblea generale dei fascisti torinesi. Nella sua relazione    Mario Gioda si era pronunciato a favore del partito, sebbene - come aveva tenuto a precisare -  la stessa parola partito gli ripugnasse «istintivamente». Il fatto era - aveva sostenuto - che il  movimento fascista era ormai un partito de facto e si trattava, perciò, soltanto di ratificarne  ufficialmente l’esistenza. La creazione di un partito fascista era altresì indispensabile per  imprimere un carattere nazionale al fascismo, di per sé troppo frammentato, troppo legato alle  singole realtà provinciali; e per porre un freno alle «lotte infeconde» tra le sue diverse  correnti, espressione, nella maggior parte dei casi, d’interessi localistici o addirittura  personali. Si noti, a questo proposito, la concordanza tra la posizione di Gioda e quella di  Rocca (L'assemblea dei fascisti torinesi favorevole al Partito Fascista Italiano, «Il Popolo  d’Italia», 18 ottobre 1921).   Anche Malusardi, in occasione del già menzionato congresso provinciale veronese del 30  ottobre, si era detto favorevole alla trasformazione del movimento fascista in partito, a patto  che la nuova compagine politica ereditasse «il patrimonio ideale del vecchio partito d’azione  mazziniano, plasmandolo, con la concezione sindacalista della Costituzione Fiumana, alle  esigenze della vita moderna» («Audacia», 4 novembre 1921).   In seguito, Rocca riferì che De Vecchi, «a nome di amici nazionalisti e sindacalisti», gli  aveva offerto la segreteria del partito, da egli rifiutata, «malgrado le insistenze», per non  venirsi a trovare in una situazione difficilmente gestibile. «Qualunque segretario del partito —  scrisse Rocca ricordando l’episodio — avrebbe dovuto scegliere fra il ritirarsi in un compito  amministrativo e di adulatore, o diventare dopo qualche settimana il rivale e poi il nemico del  Duce» (Massimo Rocca, Come il fascismo divenne una dittatura, cit., p. 98). Segretario del  PNF fu quindi nominato Michele Bianchi.   Per la cronaca del congresso dell’Augusteo v. «Il Popolo d’Italia» del 7, 8, 9 e 10   novembre 1921. Sulle vicende legate a questa importante tappa della storia del fascismo v.  RENZO DE FELICE, Mussolini il fascista, cit., p. 182 ss.  Stando al resoconto de «Il Popolo d’Italia» del 10 novembre, al momento del voto pro 0  contro il partito Rocca manifestò l’intenzione di dimettersi dall’ Associazione Nazionalista. In  base a quanto da lui stesso riferito anni dopo, pare invece ch'egli avrebbe conservato la  doppia tessera (cfr. Massimo Rocca, Come il fascismo divenne una dittatura, cit., p. 98). Il  tema dei rapporti col nazionalismo dominò a lungo il dibattito interno fascista all’indomani  del congresso di Roma. In un'intervista concessa all’organo dell’ANI, Rocca, dopo aver  sottolineato lo «spirito aristocratico» che animava il nuovo Partito Fascista, si disse «convinto  che il fascismo, il nazionalismo e il risorgente liberalismo di Destra stessero preparando  qualcosa che, un giorno o l’altro, li avrebbe compresi e li avrebbe trascesi», ed auspicò la  formazione di un unico «partito nazionale» (// fascismo e la crisi italiana in una nostra  intervista con Libero Tancredi, «L’Idea Nazionale», 23 novembre 1921),             Tecnici. Rispetto ai sindacati - rilevava il neo dirigente fascista -, il partito  poteva scegliere di prevalere «aristocraticamente» su di essi (come egli si  augurava), oppure di farsene soggiogare, soccombendo a una visione  demagogica della lotta sindacale. Alla necessità di delineare gli orientamenti  sindacali del fascismo si accompagnava quella di riformare gli organi  elettivi, «in armonia con la economia sindacale moderna». Secondo Rocca,  un primo passo verso questa riforma era rappresentato dalla decisione, presa  in ambito congressuale, di dar vita a organismi professionali ristretti - i  Consigli tecnici appunto -, da affiancare ai «Parlamenti generici e politici»,  inadatti per loro stessa natura a decidere su argomenti che richiedessero  competenze tecniche specifiche °°°.   Chi, a differenza di Rocca, si disse insoddisfatto dei deliberati del congresso  nazionale fu Edoardo Malusardi. In primo luogo - com’ebbe a scrivere su  «Audacia» - egli dissentiva da Mussolini in merito alla «concezione statale».  Il ritorno al liberismo e l’accantonamento della Carta del Carnaro, sanciti a  Roma, gli apparivano difatti come la negazione dello spirito originario del  fascismo.    Quando egli [Mussolini] — rilevò Malusardi - giustamente dice che vuol inserire,  superando la vecchia concezione della lotta di classe, le classi lavoratrici nella vita  della Nazione, ecco che viene ad ammettere che [...] dalla Carta del Carnaro  possiamo trarre non solo lo spirito, ma anche qualcosa di più, poiché appunto nella  Carta del Carnaro vi è moltissimo di quella ideologia mazziniana che il fascismo,  secondo lo stesso Mussolini, non deve ignorare ma integrare    Quanto all’annosa questione istituzionale, Malusardi ribadì il proprio  repubblicanesimo, solo in parte stemperato da considerazioni di opportunità    politica.       202 Massimo Rocca, Un congresso di vivi, «Il Risorgimento», 17 novembre 1921 (anche in  ‘cismo, cit., pp. 52-61). DIE   n prete anre ie del PNE, approvato nel dicembre del 1921, accolse le indicazioni del  congresso circa l’opportunità di dar vita a dei Consigli Tecnici (o Gruppi di Compare).  Questi, che venivano al terzo posto nella struttura gerarchica del partito, subito dopo gli  organi dirigenti (Consiglio Nazionale, Comitato Centrale, Direzione e Segreteria Generale) ei  Fasci, avrebbero dovuto raccogliere tutti gli iscritti che avessero dimestichezza in materia di  servizi pubblici, o in questioni attinenti alla vita economica ed amministrativa, tanto sul piano  nazionale che su quello locale, in modo tale da rendere possibile ! analisi di ogni problema  politico, economico e sociale secondo criteri di competenza professionale. Cfr. Programma e  Statuti del Partito Nazionale Fascista, Roma, Stabilimento Tipografico Berlutti, 1922, pp. 24-  25 (lo statuto/regolamento del partito fu pubblicato in prima battuta da «Ii Popolo d’Italia» del  27 dicembre 1921).   29 EDOARDO MALUSARDI, /n margine al congresso, «Audacia», 19 novembre 1921,    121          Anche Mazzini — scrisse - pur mantenendo intatta la sua fede repubblicana, per  raggiungere l’unità d’Italia, scrisse la famosa lettera al Carignano e non ostacolò di  salire al trono Vittorio Emanuele II. Ma il veggente ligure, però, mai si adattò a  servilismi o incensamenti cortigianeschi. Così, pure noi fascisti, pur riconoscendo  inopportuno attualmente qualsiasi tentativo repubblicano, perché verrebbe sfruttato  dagli elementi antinazionali, dovremmo riaffermare chiaramente la nostra originaria  tendenzialità repubblicana?    Infine, Malusardi deplorò la scarsa attenzione volta dai congressisti ai  problemi sindacali e alla questione agraria, attribuendo la ragione di questa  grave lacuna programmatica alla presenza, in seno al fascismo, di «agrari  dalla mentalità antiquata». Per contro, egli affermò la necessità di  combattere il latifondo, per giungere alla «sproletarizzazione» delle  campagne, incrementando la piccola proprietà e la cooperazione”,   L'ultimo atto pubblico di Malusardi a Verona fu la partecipazione al  congresso provinciale fascista del 22 gennaio 1922. Anche in quella  circostanza egli non tralasciò di riaffermare la propria fede sindacalista e di  celebrare il «sindacalismo/corporativismo dannunziano [...] genialmente  dettato nella Carta di Fiume». Due giorni dopo, il congresso nazionale  delle organizzazioni sindacali fasciste, riunitosi a Bologna, sancì la fine dei  Sindacati Economici, aprendo la via, con la nascita della Confederazione  Nazionale delle Corporazioni, a un modello sindacale fortemente  ideologizzato’”. Il sindacalismo “puro”, nella tradizione corridoniana e       204  205  206    Ivi.  Ivi.  Ibidem, 28 gennaio 1922.   Il 21 gennaio Malusardi abbandonò la direzione del giornale (che fu rilevata da Luigi  Grancelli).   ? Intorno a questi avvenimenti v. FERDINANDO CORDOVA, op. cit., p. 53 ss.   AI congresso di Bologna, punto d’arrivo di un lungo e tortuoso dibattito, si scontrarono tre  posizioni: quella di Edmondo Rossoni, sostenitore della tesi autonomista (cui era propenso  Malusardi), quella del neo segretario del PNF, Michele Bianchi, per l’istituzione dei sindacati  “di partito”, e quella, mediana, di Dino Grandi e Massimo Rocca, a favore di un’autonomia  “controllata”, che finì per prevalere (a questo riguardo si veda PAOLO NELLO, Dino Grandi: la  formazione di un leader fascista, Bologna, cit.). Nel corso della discussione Rocca sostenne  che il sindacalismo apolitico avrebbe avuto senso solo dopo l’entrata in funzione dei Gruppi  di Competenza. Prima di allora - data «l’immaturità delle masse» -, era vano sperare di  sottrarre i lavoratori al controllo pervasivo dei socialcomunisti, semplicemente lasciando loro  la facoltà di organizzarsi in modo autonomo. D’altro canto, creare dei sindacati fascisti, come  proponeva Bianchi, avrebbe esposto anche il PNF al rischio della demagogia. Per questi  motivi Rocca si espresse - con Grandi - per l'istituzione di «sindacati semplicemente    122,          deambrisiana, usciva dunque dall’orizzonte programmatico del fascismo, ma  Malusardi parve non rendersene conto. Lasciata Verona per Brescia, dove  rilevò la direzione del locale organo fascista?”*, Malusardi si presentò ai  “camerati” bresciani con queste parole:    Se noi dichiariamo senza indugi che, come nel passato, siamo contro a qualsiasi  dittatura bolscevica [...], ciò non significa che siamo dei conservatori e dei  reazionari. Noi siamo, invece, profondamente novatori”°”    Se Malusardi si considerava ancora e sempre un novatore, Massimo Rocca,  ch’era stato l’iniziatore e il “maestro” del novatorismo anarchico, era ormai  un integerrimo conservatore. Nel suo cammino di riscoperta delle radici del  liberalismo si spinse anzi sempre più a fondo, giungendo, in un articolo dei  primi di febbraio carico di reminiscenze “sonniniane”, ad invocare la  restaurazione di tutte le prerogative della corona (usurpate dal Parlamento),  secondo la lettera dello Statuto albertino?!°. Di pari passo con la maturazione  conservatrice di Rocca crescevano le sue responsabilità politiche e  organizzative all’interno del Partito Fascista e aumentavano, con esse, il suo  prestigio e la sua influenza, come l’esplosione, in marzo, del caso legato a  Pietro Marsich, avrebbe pienamente rivelato.   A ridosso del drammatico colpo di mano fascista a Fiume?"!, un giornale  vicino a Marsich, (che nel fascismo rappresentava la destra oltranzista e  rivoluzionaria), rese nota una lettera di quest’ultimo alla Segreteria del  partito, nella quale egli lamentava la “degenerazione” parlamentarista del       nazionali, [...] guidati da fascisti e da uomini della cui fede patriottica non fosse possibile  dubitare» («Il Popolo d’Italia», 26 gennaio 1922).   Massimo Rocca prese parte anche al primo congresso nazionale delle Corporazioni (Milano,  4-6 giugno 1922), durante il quale svolse una relazione sull’emigrazione italiana all’estero  (cfr. «Il Lavoro d’Italia», 8 giugno 1922).   208 Malusardi arrivò a Brescia, dopo un breve soggiorno a Milano, nei primi giorni di  febbraio. In origine il suo compito avrebbe dovuto limitarsi all’organizzazione del locale  sindacato fascista postelegrafonici. A questo scopo, infatti, la segreteria del partito  (rispondendo alle richieste che già da due mesi giungevano dal Fascio bresciano) ne aveva  sollecitato il trasferimento da Verona. Cfr. ACS, MRF, Carteggio politico e amministrativo  del Comitato Centrale con i Fasci di combattimento, Busta 24 [Brescia].   20° EDOARDO MALUSARDI, A guisa di presentazione, «Fiamma», 18 febbraio 1922,   210 Cfr. Massimo ROCCA, La più grande crisi, «Il Risorgimento», 9 febbraio 1922.   2!! 11 3 marzo 1922, col pretesto di vendicare l’assassinio del fascista ed ex legionario Alfredo  Fontana, le camicie nere di Fiume, guidate da Francesco Giunta, rovesciarono il governo  autonomista di Riccardo Zanella e presero possesso della città. La nuova crisi fiumana si  concluse dopo dieci giorni di trattative, con la nomina di un fascista, Giovanni Giurati, a capo  provvisorio dell’esecutivo.    123       fascismo e si scagliava contro l’«infausta egemonia» di Mussolini,  contrapponendogli la figura incorruttibile di Gabriele D’Annunzio?!. Il  “duce”, a sua volta, in una secca replica al suo censore, ne definì lo sfogo  nient’altro che una «tragicommedia»?!, Lo scontro tra Marsich e Mussolini,  che, ben lungi dall’esaurirsi in un contrasto personale, concerneva l’indirizzo  politico del partito, innestò una lunga serie di polemiche, a tutti i livelli (a  Brescia, ad esempio, contrappose Malusardi al segretario provinciale  uscente, Giuseppe Minniti) °!*. Dei dirigenti del PNF, Rocca fu tra i primi a  prendere posizione. Quella della presunta egemonia mussoliniana - scrisse in  una lettera a «Il Popolo d’Italia» - era una leggenda priva di fondamento.  Quanto alla “deriva” legalitaria che negli ultimi tempi, secondo Marsich, si  sarebbe venuta a creare nel fascismo (una situazione che Rocca si vantava di  aver contribuito a determinare), essa era destinata a durare ancora a lungo,  dal momento che l’Italia stava attraversando una fase di assestamento e non  aveva, perciò, alcun bisogno di rivoluzioni. A che pro, inoltre - si  domandava Rocca -, levare la bandiera dell’antiparlamentarismo una volta       12 } RIENEII 3 SIRO Gebo a :  21 Il fascismo nel giudizio di un fascista. Una lettera inedita di Piero Marsich, «La Riscossa    dei legionari fiumani», 5 marzo 1922 (la lettera fu ripresa anche dall’«Avanti!» del giorno  seguente).   La filippica di Marsich, già da tempo molto critico nei confronti dell’orientamento politico  del fascismo, fu originata da un’intervista rilasciata da Mussolini (I! pensiero di Mussolini  sulla crisi ministeriale, «Il Resto del Carlino», 3 febbraio 1922), nella quale il “duce”,  commentando la caduta del governo Bonomi, si era detto ben disposto verso un eventuale  rientro in scena di Giovanni Giolitti.   Sul caso Marsich v. RENZO DE FELICE, Mussolini il fascista, cit., p. 197 ss.  us «Il Popolo d’Italia», 7 marzo 1922.    214 Nel corso di un convegno straordinario dei Fasci del bresciano, il 15 marzo, Malusardi  prese le difese di Marsich, attaccato invece duramente da Minniti. Secondo Malusardi,  tuttavia, il vero problema del fascismo non stava tanto nell’essersi colpevolmente adeguato  alle regole e ai “sotterfugi” del parlamentarismo, quanto nell’assenza di un orientamento  politico univoco; una lacuna grave, in ragione della quale «in alcune zone i fascisti erano  elementi novatori e, senza cadere nella demagogia, difendevano mirabilmente i diritti del  lavoro; mentre in alcune altre diventavano instrumenti inconsci di reazione e di corruzione».  Il dibattito di Brescia riveste un’importanza notevole, soprattutto perché la discussione  intorno alla vicenda Marsich toccò anche il tema della violenza. Augusto Turati affermò che i  rilievi contro il parlamentarismo potevano essere condivisi, a condizione che ciò, soprattutto  dopo il dilagare dello squadrismo fascista in talune zone del Veneto, notoriamente “feudo” di  Marsich, non conducesse all’apologia dei metodi extralegali. Il ricorso indiscriminato al  “manganello”, affermò il futuro segretario del PNF con il consenso di Malusardi, avrebbe  fatalmente condotto all’isolamento politico. Il convegno si chiuse con l’approvazione di un  ordine del giorno unitario, col quale i fascisti della provincia di Brescia, «non riconoscendo  nelle critiche contenute nella lettera di Marsich le vere ragioni del proprio dissenso»,  reclamavano la «purificazione» del fascismo e facevano auspicio che alla lotta politica fosse  «restituita la forma di un civile contrasto» («Fiamma», 18 marzo 1922).    1124          entrati in Parlamento con ben 35 deputati? Il sistema rappresentativo,  semmai, avrebbe potuto essere migliorato, e ciò sarebbe senz’altro avvenuto,  grazie al fascismo e all’istituzione di parlamenti tecnici. Riguardo a Gabriele  D’Annunzio - proseguiva Rocca - l’atteggiamento di Marsich era poi del  tutto irragionevole: non solo perché, dopo le infinite vicissitudini dei  legionari dannunziani, nessuno era in grado di dire quali fossero le idee  politiche del “comandante”, ma anche, e soprattutto, perché era privo di  senso attaccare Mussolini per poi smarrire ogni senso critico dinanzi alle  seduzioni del dannunzianesimo. «Il fascismo — concludeva Rocca —  dev'essere anzitutto un’accolta di uomini liberi, sia pur disciplinato ad una  causa ed un’azione liberamente scelte: non un plotone di soldati al servizio  di un uomo»?"9.   Il 20 marzo la Direzione del partito votò una mozione di biasimo a Pietro  Marsich°!°, poi riconfermata - su iniziativa proprio di Rocca - dal Consiglio  Nazionale del fascismo del 3 aprile”.   Nel lasso di tempo compreso tra il luglio e l’ottobre del 1922, Massimo  Rocca conobbe forse il suo periodo di maggior popolarità come dirigente  fascista?!8. In quei mesi, che prepararono l’ascesa al potere di Mussolini,  sembrò per molti versi che le idee di Rocca potessero concretizzarsi in un  progetto politico di ampio respiro. Parve, cioè, che il fascismo (com'era  nelle aspirazioni dell’ex anarchico) potesse davvero configurarsi come élite       215 MASSIMO ROCCA, Chiarificazioni, «Il Popolo d’Italia», 17 marzo 1922. nonna  Poco tempo dopo, ancora in riferimento alla vicenda Marsich, Edoardo Malusardi ge  «lo in politica non concepisco la disciplina cieca e inconsapevole alla militare, ma quella  intelligente e consapevole che viene accettata dagli uomini liberi» (EDOARDO MALUSARDI,  Sincerità delle sincerità, «Fiamma», 1 aprile 1922). Lo spirito individualista di Rocca e  Malusardi — se così si può dire - era rimasto fondamentalmente intatto, anche se le nn  politiche dei due ex anarcointerventisti erano ormai divergenti. Per Malusardi, infatti, È;  fascismo non doveva trasformarsi in una riedizione più o meno aggiornata del tiberalismo i  destra (come appunto credeva Rocca), ma doveva provare a recuperare l’ispirazione  i ionaria e i programmi del Partito d’ Azione mazziniano.  una pr direzione del partito. L'On. Piero Marsich deplorato, «Il Popolo  "Italia», 21 marzo 1922). ù  dI Of La prima pra del Consiglio Nazionale Fascista, Ibidem, 4 aprile 1922. ;  Il Consiglio, riunitosi a Milano, si protrasse per tre giorni, durante i quali furono Pv  temi importanti, dalla vicenda di Fiume all’indirizzo politico del partito. SNA lo a  quest’ultimo punto, Rocca si schierò una volta ancora tra i moderati. Si poteva (miti cdi -  affermò provocatoriamente - che alcuni fascisti i invocassero 1 azione. extra] lega "  rivoluzionaria, ma in tal caso, pena la perdita della credibilità, si doveva avere il coraggio di  fare la rivoluzione sul serio, non limitandosi ad “adorarla” (cfr. La seconda giornata del  Consiglio Nazionale Fascista, Ibidem, 5 aprile 1922). % $  2!8 Per un breve periodo, tra la fine di marzo e il maggio del 1922, Rocca diresse anche la  Federazione provinciale fascista torinese. Cfr. ACS, CPC, Busta 4362 [Rocca Massimo].    125       PARETI RIE IPP IRT OT PIPPO TOT REP TO PITT DPR POP ANY PETIT       dirigente, capace di raccogliere il testimone del vecchio liberalismo di destra  e di guidare una riforma delle istituzioni in senso tecnocratico. All’inizio di  luglio Rocca ricevette dalla Direzione del partito l’incarico di procedere alla  costituzione dei Gruppi di Competenza (che, sebbene contemplati dallo  statuto/regolamento del dicembre 1921, erano rimasti sulla carta) ‘!; quindi  nel settembre, fu chiamato a presiedere un apposito Segretariato nazionale.  Quest'ultimo, che aveva sede a Roma, doveva «coordinare l’opera dei  singoli Gruppi di Competenza, locali o provinciali», in modo tale ch’essi  servissero «da legame e da organi d’informazione fra il Partito Nazionale  Fascista e le Corporazioni sindacali», e facessero da punto di raccolta dei  «nuovi valori intellettuali e tecnici» destinati a formare la classe dirigente del  futuro - Per l’ex operaio tipografo, orgoglioso e tenace autodidatta, che da  anni andava predicando l’urgenza di una rivoluzione dei competenti, si  trattava di un riconoscimento personale importantissimo e di una grande  occasione politica. Anche per questa ragione, il fallimento dei Gruppi di  Competenza (al quale dovevano contribuire le resistenze opposte dalla  “oligarchia” fascista e dai «capi locali più ignoranti») ?”, rappresentò, per    Rocca, una cocente delusione, che ebbe un peso non secondario nel definirne |    il mutato atteggiamento riguardo al fascismo.   A fine agosto «Il Popolo d’Italia» rese noto un programma in due parti “per  il risanamento finanziario” dello Stato e degli Enti Locali”, Il documento,  che doveva dettare le linee orientative della propaganda fascista in materia  economica, era redatto da Massimo Rocca e dall’on. Ottavio Corgini, ed era,  in massima parte, ricalcato sui postulati della scuola liberista. Proprio a  motivo della sua “classicità”, il programma Rocca/Corgini suscitò commenti  benevoli nel mondo borghese e imprenditoriale italiano”? e valse, insieme       21° Cfr. «Il Popolo d’Italia», 7 luglio 1922.    Gli unici due Gruppi di Competenza operanti nei mesi successivi all’entrata in vigore dello  statuto risultavano essere quello degli “ingegneri fascisti” e quello degli “assicuratori fascisti  triestini” (cfr. FERDINANDO CORDOVA, op. cit., p. 101).   «Il Popolo d’Italia», 29 agosto 1922.   Su tutti questi punti V. principalmente ALBERTO AQUARONE, Aspirazioni tecnocratiche del  primo fascismo, in «Nord e Sud», 1964, n. 52, pp. 109-127, nonché FERDINANDO CORDOVA,  Ka cit., p. 101 ss.  si Massimo Rocca, Come il fascismo divenne una dittatura, cit., p. 132.   pì Detto programma aveva avuto un’anticipazione nell’articolo di Rocca Disavanzo cronico,  pubblicato dall’organo mussoliniano il 18 luglio.   «Il Corriere della Sera», in un fondo del 6 settembre dal titolo Riabbeverarsi alla sorgente  (senza firma, ma opera di Luigi Einaudi), formulò un giudizio addirittura entusiasta sul  programma economico fascista. Esso - osservò Einaudi - aveva il merito di risalire alle  «sorgenti liberali dell'economia classica», senza niente concedere alla facile demagogia          alle rassicuranti dichiarazioni di Mussolini in tema di regime?”4, a spazzar  via le residue diffidenze dell’opinione pubblica moderata nei confronti del  fascismo, nel momento in cui esso si candidava scopertamente a forza di  governo.   AI centro della riflessione di Rocca e Corgini era l’idea che il Parlamento  italiano fosse ormai diventato un «organo di sperpero», in balia di gruppi  parlamentari «irresponsabili», e che occorresse per questo abolire l’iniziativa  parlamentare «a proporre nuove spese». Tra i provvedimenti atti a risanare  l’erario, il programma annoverava: la riforma della burocrazia (affinché gli  uffici pubblici cessassero di essere un ricettacolo di tutti «i vinti anticipati  nella lotta per l’esistenza e l’elevazione»); la cessione ai privati delle  industrie di stato; lo smantellamento degli organi statali “inutili”; la  soppressione dei sussidi - ferroviari e in denaro - ai funzionari pubblici, ai  privati, alle cooperative e agli Enti Locali; la riduzione all’essenziale dei  lavori pubblici; la revisione delle leggi sociali che “inceppavano” la  produzione; e, soprattutto, la ridefinizione dell’intero sistema tributario, nel  senso di una riduzione delle imposte dirette, le quali andavano a detrimento  della produzione, e di un corrispondente aumento di quelle dirette, che,  colpendo il consumo interno, lasciavano ampio margine alle esportazioni”,  La seconda parte del programma, dedicata alla situazione degli Enti Locali,  era senz'altro molto più “politica”. La responsabilità prima del dissesto dei  Comuni e delle Province italiane - affermavano infatti gli estensori del       “socialistoide”. Rocca stesso, riandando con la memoria agli avvenimenti di quell’estate,  scrisse che il programma «incontrò un successo rilevante», sebbene esso «andasse oltre  l’ideologia liberale» (MASSIMO Rocca, Come il fascismo divenne una dittatura, cit., p. 103).  224 1 20 settembre 1922, nell’ambito di un intervento al Teatro Sociale di Udine, Mussolini  affermò che la “rivoluzione fascista” non avrebbe insidiato il trono dei Savoia. «Lasceremo in  disparte — disse —, fuori del nostro gioco, che avrà altri bersagli visibilissimi e formidabili,  l’istituto monarchico, anche perché pensiamo che la gran parte dell’Italia vedrebbe con  sospetto una trasformazione del regime che andasse fino a quel punto» (Un forte e chiaro  discorso ammonitore di Mussolini su l'azione e la dottrina fascista dinanzi alle necessità  storiche della Nazione, «Il Popolo d’Italia», 21 settembre 1922). Il discorso di Mussolini fu  molto apprezzato — e non avrebbe potuto essere altrimenti — da Massimo Rocca, che, in un  telegramma al “duce”, dichiarò di condividerne «entusiasticamente» ogni parola (/bidem, 22  settembre 1922). Più sfumata la reazione di Mario Gioda. Le considerazioni di Mussolini in  ordine alla questione istituzionale - scrisse il segretario del Fascio torinese - dovevano essere  «valutate serenamente». Dopo tutto, osservava Gioda, anche repubblicani intransigenti come  Giuseppe Mazzini e Francesco Crispi si erano piegati, nell’interesse d’Italia, ad “accettare” la  monarchia. (MARIO GIODA, // discorso di Udine, «Il Maglio», 23 settembre 1922).   225 MASSIMO ROCCA, OTTAVIO CORGINI, Pel risanamento finanziario dello Stato italiano.  Relazione per i comizi di propaganda del Partito Nazionale Fascista, «Il Popolo d’Italia», 29  agosto 1922,    Ae 127                                           documento - era delle amministrazioni di sinistra, socialiste e popolari  dell’azione «immorale, disordinata e dilapidatrice dei sovversivi». Un  rimedio poteva consistere nell’obbligare gli amministratori “rossi” «a  preparare e fare approvare i bilanci comunali e provinciali nei modi e nei  tempi stabiliti dalla legge» (a costo di agire «fascisticamente, senza mezzi  termini ed eufemismi»), ma, ancora una volta, la soluzione vera del  problema doveva passare attraverso la riforma tributaria, in attesa della quale  Rocca e Corgini auspicavano la costituzione, in ogni capoluogo di provincia,  di un «comitato centrale di difesa dei contribuenti»?5,   Dalla metà di settembre sino alla vigilia del congresso fascista di Napoli del  24 ottobre Rocca fu impegnato a dirigere la campagna di comizi per il  risanamento finanziario, che attraversò tutta l’Italia??”. Quattro giorni prima  dell’inaugurazione del congresso partenopeo «Il Popolo d’Italia» pubblicò lo  statuto/regolamento dei Gruppi di Competenza. Lo statuto (che possiamo a  ragione considerare il maggior contributo di Rocca ai programmi del primo  fascismo) era preceduto da una lunga relazione introduttiva, nella quale  l’autore esponeva in modo lineare la propria “dottrina della competenza”.  Per prima cosa Rocca sottolineava la differenza tra i Gruppi appena costituiti  e i sindacati nazionali corporativi. Infatti, mentre i secondi erano, a tutti gli  effetti, «formazioni di massa», all’interno delle quali «i produttori restavano  raggruppati più con riguardo al numero che alle capacità singole», al fine di  salvaguardare «interessi particolari e soprattutto economici»; i primi  dovevano configurarsi come «nuclei esigui di persone», le quali, in quanto  «partecipanti ai gruppi medesimi», non dovevano avere «alcun interesse  specifico [...], né personale né di classe» da tutelare. Ai Gruppi doveva    quindi competere una funzione eminentemente «consultiva e di studio», ma    anche una funzione, per così dire, di “armonizzazione” dei diversi interessi,  un’opera «il cui precipuo carattere spirituale» fosse quello di favorire «la  concordia fra le diverse classi e categorie produttive», così come fra il partito  e le corporazioni. Poiché, secondo Rocca, tutte queste caratteristiche non  erano compatibili «né col numero né con i metodi democratici di elezioni e       226 i Lo (1g ARA  ID., Pel risanamento finanziario degli Enti Locali. Relazione per i comizi di propaganda    del Partito Nazionale Fascista, Ibidem, 30 agosto 1922.   Entrambi i programmi furono in seguito pubblicati in PNF, Pe/ risanamento della finanza  pubblica. Relazioni di Massimo Rocca e dell'On. Ottavio Corgini sulla situazione finanziaria  dello Stato e degli Enti Locali, Roma, [s.i.t.], 1922.   Rocca era a capo di una commissione finanziaria, incaricata di organizzare i comizi.  Questi si articolarono in tre serie successive: la prima ebbe inizio il 12 settembre, la seconda il  24 settembre, la terza il 14 ottobre. Rocca fu l’oratore principale a Genova, Livorno, Savona,  Alba - dov’era previsto un suo contraddittorio con Don Sturzo, saltato all’ultimo momento  (cfr. «Il Popolo d’Italia», 17 ottobre 1922) - e Palermo.    128       di discussioni», i Gruppi di Competenza dovevano essere posti sotto «la  diretta sorveglianza degli organi direttivi del partito»?”*.   Nella sua relazione al congresso fascista di Napoli, ufficialmente convocato  per discutere i problemi del Mezzogiorno, Rocca illustrò dettagliatamente il  progetto di statuto/regolamento, dicendosi altresì convinto che i Gruppi di  Competenza avrebbero recato un contributo alla soluzione della questione  meridionale?””. Sul “meridionalismo” di Massimo Rocca, che egli avrebbe in  seguito rivendicato come un titolo di merito, è necessario aprire una  parentesi. Già da qualche tempo prima del congresso napoletano, il fascismo,  che al sud mancava di una robusta struttura organizzativa, mirava a mettere  radici nel meridione. D’altronde, l’ipotesi - ormai sempre più concreta - di  una “marcia su Roma” presupponeva, per la sua attuazione, una penetrazione  politica e militare anche nei territori a sud della capitale. Il 6 e 7 settembre  1922 si era riunita la Direzione del PNF, «per studiare l’organizzazione  fascista in rapporto ai bisogni delle regioni meridionali e delle isole», e  definire l’ordine del giorno della prevista adunata partenopea. Nel corso  della discussione Rocca si era mostrato scettico sull’opportunità di  considerare la questione meridionale — anche in relazione alle tematiche  riguardanti l’ordinamento del partito — un problema a se stante, slegato dalla  più complessa realtà nazionale, e aveva espresso il timore che il congresso  del 24 ottobre potesse risolversi in una contrapposizione artificiosa tra nord e       228 «Il Popolo d’Italia», 24 ottobre 1924.   A norma dello statuto, che ottenne l'approvazione della Direzione del PNF nel dicembre, i  Gruppi di Competenza (ripartiti in sette «rami» principali: industria, commercio, agricoltura,  trasporti, amministrazione pubblica, scuola e difesa) si dividevano in locali, provinciali e  nazionali, nominati rispettivamente dai Fasci, dalle Federazioni provinciali e dal Segretariato  nazionale. Il numero dei componenti i singoli gruppi non doveva eccedere i venti elementi,  scelti, secondo il criterio della capacità professionale, in tutte le classi sociali, e, in ogni caso,  iscritti al Partito Fascista. Compito precipuo di tali gruppi doveva essere quello di offrire un  sostegno tecnico qualificato agli organismi dirigenti del fascismo; e, a tal fine, di «compiere  indagini, raccogliere materiale di studio, emettere pareri, compilare proposte e relazioni», che  servissero «di guida» al partito e ai sindacati. Ai Direttori fascisti dei capoluoghi di  circondario e a quelli provinciali era fatto obbligo di richiedere il parere dei Gruppi ogni qual  volta avessero dovuto assumere decisioni «su problemi anche solo in parte tecnici», e quando  si fosse trattato di dirimere eventuali vertenze sociali. In questo caso lo statuto prevedeva che  i Gruppi, o parte di essi, potessero essere costituiti in apposite commissioni arbitrali, atte a  comporre i conflitti tra capitale e lavoro.   Lo statuto/regolamento dei Gruppi di Competenza, con l’annessa relazione, si trova anche in  Massimo Rocca, Relazione al Gran Consiglio Fascista del marzo 1923 sui Gruppi di  Competenza. Relazione introduttiva e statuto/regolamento. I Gruppi di Competenza nella  nuova vita nazionale. Discorso pronunciato all’adunata di Napoli: vigilia della Marcia su  Roma, Milano, Imperia, 1923.   229 Cfr. «Il Popolo d’Italia», 27 ottobre 1922,    129                sud del Paese, o, peggio, in una guerra «di frazione o di campanile» tra le  diverse regioni del Mezzogiorno””°, Nell’insieme, si può dire che il torinese  Rocca non manifestasse una particolare sensibilità verso i problemi del  Meridione; eppure, nei mesi che seguirono la nomina di Mussolini a capo del  Governo, egli fu uno dei dirigenti fascisti maggiormente presenti al sud. Alla  fine di marzo del 1923 Rocca compì un viaggio di studio in Sicilia per conto  della Direzione del partito, e ne riferì al Gran Consiglio del 30 aprile?  Sembra peraltro che nel corso delle sue frequentazioni siciliane egli  rimanesse invischiato in affari torbidi (connessi alla gestione del consorzio  zolfifero), che ne avrebbero in qualche misura condizionato il futuro  politico. Il punto è oscuro, ma deve essere richiamato, dal momento che, tra  le accuse mosse a Rocca da Farinacci e dagli altri ras provinciali nel pieno  della polemica revisionista, quelle di corruzione avrebbero avuto un peso  non secondario. Stando a quanto ammesso dallo stesso Rocca nel novembre  del 1922 al segretario del Fascio di Londra (dove Rocca si trovava per  seguire i negoziati in atto tra i produttori di zolfo italiani e nordamericani),  egli avrebbe avuto i primi contatti con i responsabili del consorzio zolfifero  siciliano alla vigilia del congresso di Napoli, in occasione di un suo comizio  palermitano nell’ambito della campagna fascista per il risanamento  finanziario”? Il Governo Mussolini - dichiarò Rocca al suo intervistatore -  doveva impegnarsi a fondo per risollevare le sorti dell’industria zolfifera  siciliana, da tempo alle prese con una grave crisi, anche «attenuando» il  proprio intervento «nelle faccende del Consorzio». Ora, a quanto risulta da    un documento conservato nelle carte di PS (un dattiloscritto anonimo datato |    26 agosto 1924), alla sollecitudine dimostrata da Rocca verso le sorti    dell’industria zolfifera sarebbe in realtà corrisposta una ricca contropartita. A.    cavallo tra l’agosto e il settembre 1922, i produttori di zolfo, riuniti in  consorzio, avevano dato vita a un “comitato di agitazione”, allo scopo di  esercitare pressioni sul Governo e di ottenerne provvedimenti a favore del    settore. Trovandosi a corto di liquidi, detto comitato aveva prelevato       2) Importante convegno a Roma della Direzione del PNF, «Il Popolo d’Italia», 7 settembre  1922.  23 Cfr. PNF , Il Gran Consiglio nei primi dieci anni dell'era fascista, Roma, Editrice Nuova  Europa, 1933, p. 61.  Secondo quanto riferito dallo stesso Rocca, egli avrebbe individuato nella «regolazione delle  acque e nel miglioramento delle vie di comunicazione» la «misura immediata e necessaria,  sebbene non sufficiente» per attenuare i disagi delle popolazioni meridionali (MASSIMO  Rocca, Come il fascismo divenne una dittatura, cit., p. 130).  ? Cfr. CAMILLO PELIZZI, La questione degli zolfî e altre cose. Un'intervista con Massimo  Rocca, «Il Popolo d’Italia», 15 novembre 1922.   Ivi.    130       arbitrariamente la somma di 25.000 lire dal fondo assicurazioni del sindacato  zolfatari, senza farne menzione nell’obbligo di rendiconto. La decisione,  chiaramente illegale, aveva incontrato l’opposizione tanto del Ministro del  Lavoro del Governo Facta, quanto del suo successore nel nuovo esecutivo a  guida fascista, il popolare Stefano Cavazzoni. A questo punto - secondo la  medesima fonte -, sarebbe entrato in gioco Massimo Rocca, il quale, dietro  adeguata “ricompensa”, avrebbe fatto valere il proprio peso politico,  intercedendo con successo a favore del consorzio zolfifero??’. Le  informazioni contenute nella relazione citata rispondevano probabilmente al  vero, ma non è da escludere, tenuto conto del momento in cui il documento  in questione vide la luce (al termine, cioè, della seconda “ondata”  revisionista), che esse fossero montate ad arte nel tentativo di screditare  Massimo Rocca, divenuto nel frattempo un oppositore dichiarato del  Governo.   AI di là dei proclami ufficiali, l’assise napoletana del 24 ottobre 1922 servì  quale adunata generale in vista della “marcia su Roma”. Già da tempo, e  precisamente dopo la prova di forza offerta dalle camicie nere in occasione  dello sciopero “legalitario” indetto dall’ Alleanza del Lavoro alla fine di  luglio, molti capi fascisti meditavano il colpo a sorpresa. Gli stati maggiori  del fascismo, riunitisi a Milano il 13 e 14 agosto, a pochi giorni dalla  conclusione dello sciopero, avevano discusso a lungo sull’eventualità o  meno di un'insurrezione armata”. Insieme a Dino Grandi, Rocca era stato il  più convinto fautore della via legalitaria, mentre la linea insurrezionale  aveva trovato i suoi propugnatori soprattutto in Roberto Farinacci, Italo    Balbo e lo stesso segretario del partito Michele Bianchi”. Dopo la “marcia       234  235    Cfr. ACS, CPC, Busta 4362 [Rocca Massimo].   L’importante vertice romano (erano presenti i membri della Direzione, del Gruppo  parlamentare, del Comitato Centrale e la segreteria della Confederazione delle Corporazioni)  era stato dominato dalla relazione di Michele Bianchi sulla situazione politica. Il segretario  del PNF aveva chiaramente lasciato intendere che il fascismo, dopo la dimostrazione di forza  offerta nei giorni dello sciopero “legalitario”, non era più disposto a tollerare lo sfacelo del  Paese e si sarebbe impadronito del potere con le buone o con le cattive. Rispetto alle due  tendenze, la legalitaria e l’insurrezionale, delineatesi nel corso della discussione intorno alla  relazione Bianchi, Mussolini, come suo costume, si era tenuto a mezza via, e i due ordini del  giorno votati il 13 agosto (il primo, per l’istituzione di un comitato militare ristretto; il  secondo, firmato anche da Massimo Rocca, reclamante lo scioglimento anticipato della  Camera e l’indizione di nuove elezioni) rispecchiavano la posizione ambivalente del “duce”.  Cfr. / lavori del Comitato Centrale del Partito Nazionale Fascista, «Il Popolo d’Italia», 15  agosto 1922.   2 Cfr. ANTONINO REPACI, La marcia su Roma, Milano, Rizzoli, 1972, p. 331 ss.    131       su Roma” (a cui egli non prese parte) e la nomina di Mussolini alla  Presidenza del Consiglio, Rocca si convinse sempre più che l’ascesa al  potere del fascismo, con l’assunzione di responsabilità ch’essa comportava,  dovesse chiudere per sempre la fase “eroica” della rivoluzione e inaugurare  quella della ricostruzione, in spirito di concordia nazionale, e — soprattutto -  nell’assoluto rispetto della legalità.   L’esigenza di porre un freno alle intemperanze dello squadrismo era del  resto avvertita, oltre che dallo stesso Mussolini, da molti fascisti della “prima  ora”, tra i quali Edoardo Malusardi. Nelle sue continue peregrinazioni (egli  stesso amava definirsi un “nomade”), dopo aver retto per qualche tempo la  Federazione Sindacale padovana??”, Malusardi era giunto a Sestri Ponente, in  provincia di Genova, dove aveva assunto il duplice incarico di segretario  politico del Fascio e di direttore del locale organo fascista”, Il 21 novembre  1922 i fascisti di Sestri Ponente si radunarono in assemblea straordinaria.  Era in discussione il tema della violenza, reso scottante a motivo dei reiterati  episodi di squadrismo verificatisi dopo il 28 ottobre in molte zone del  genovese. Malusardi, secondo l’impostazione cara anche a Rocca, a Gioda e  ai fascisti più moderati (una forma mentis di cui abbiamo già rimarcato i  limiti intrinseci), rilevò che la violenza squadrista, utile e legittima  fintantoché si manteneva «chirurgica e cavalleresca», non era giustificabile    quando assumeva i caratteri della prevaricazione. Inoltre, dopo l’ascesa al |    governo del fascismo, le camicie nere avevano l’obbligo, insieme morale e  politico, di essere disciplinate.       Su questo punto di grande importanza v. altresì GIORGIO ALBERTO CHIURGO, Storia della    Rivoluzione fascista, Vol. IV, Firenze, Vallecchi, 1929, pp. 257 ss., e PAOLO NELLO, Dino 4    Grandi: la formazione di un leader fascista, cit., pp. 168 ss.   297 Cfr. ACS, CPC, Busta 2964 [Malusardi Edoardo].   Malusardi era stato chiamato a Padova nella seconda metà di maggio del 1922 e vi si era  trattenuto fino a settembre, contribuendo, grazie alle sue capacità di organizzatore e di  propagandista, e alla vena “popolare” del suo fascismo, alla rinascita del Fascio padovano. Il  suo maggior successo era stato il raggiungimento di un concordato con la locale Associazione  Agraria, alla fine di giugno. L'accordo era tendenzialmente favorevole ai lavoratori  (prevedeva, tra le altre cose, le otto ore lavorative, l’imponibile di mano d’opera e la  creazione di commissioni paritetiche per dirimere i conflitti d’interesse), e Malusardi, ligio ai  propri convincimenti sindacalisti, si era adoperato per imporne il rispetto agli agrari, anche i  più riottosi. Di fronte ai numerosi tentativi di boicottaggio da parte dell’associazione  padronale, il congresso sindacale provinciale del 20 agosto si era concluso con un ordine del  giorno molto duro, nel quale s’invocava un’«opera decisa ed inesorabile, per far piegare,  innanzi al giusto ed unanime diritto del lavoratore, i [...] datori di lavoro» («Il Lavoro  d’Italia», 24 agosto 1922).   228 Malusardi rimase a Sestri Ponente sino alla fine di dicembre. Cfr. ACS, CPC, Busta 2964  [Malusardi Edoardo].    132             Noi non possiamo più — sostenne Malusardi a proposito dell’autorità politica I  scavalcarla ed esautorarla, bensì la dobbiamo coadiuvare e vigilare perché applichi  inflessibilmente lo imperio della legge”*°    E concluse:    Lasciate stare, dunque, o amici, il manganello, l’olio di ricino, la gradassata inutile,  e chiedete invece [...] delle biblioteche e delle scuole di cultura    Aspettative e delusioni    Nonostante gli auspici di molti la nomina di Mussolini alla Presidenza del  Consiglio non attenuò affatto le brutalità fasciste, che anzi subirono  un’impennata, culminando nella strage di Torino del dicembre 1922.  L'episodio è fin troppo noto e costituisce una delle pagine più fosche nella  storia del fascismo, che qui giova rievocare soprattutto per le conseguenze  che ebbe sulle sorti politiche di Mario Gioda e di Massimo Rocca. Dal 18 al  20 dicembre (accampando come d’abitudine il pretesto di vendicare  l'uccisione di due camerati”), gli squadristi torinesi, capeggiati da Piero  Brandimarte, scatenarono una sanguinosa rappresaglia contro le  organizzazioni socialcomuniste””. In quella che Gaetano Salvemini definì  «una vera orgia di sangue»? trovarono la morte una ventina di persone, tra  le quali l’ex anarchico Carlo Berruti, consigliere comunale comunista e noto       239 L'assemblea straordinaria del Fascio, «Giovinezza», 25 novembre 1922.   240 Ivi sn  «i pa del dicembre fu solo l’apice di una lunga teoria di fatti di sangue, iniziata  nell’estate e proseguita per tutto l’autunno del 1922. In un telegramma al Ministro Di  Interni del 13 agosto, il Prefetto di Torino mostrava di aver perfettamente compreso la  situazione («Articoli comparsi su ultimi numeri del giornale fascista «Il Maglio» - O  rivelano chiaramente intenzione riprendere atti violenza contro organizzazioni comuniste  accendono rancori di parte che potranno esplodere in forma violenta ed improvvisa») e  chiedeva l’invio di rinforzi. ACS, MINISTERO DEGLI INTERNI, Dir. gen. PS, Affari gen. e ris.,    1922, Busta 157 [Fascio di Torino]. : It i  La ricostruzione più accurata di questi drammatici avvenimenti si trova in RENZO DE FELICE,    I fani di Torino del dicembre 1922, in «Studi Storici», n. 1, 1963, pp. 51-122.  22 GAETANO SALVEMINI, Scritti sul fascismo, Milano, Feltrinelli, 1961, p. 103.    133                      esponente del Sindacato Ferrovieri”*. Mario Gioda, il cui potere effettivo  all’interno del Fascio torinese era andato vieppiù scemando (tanto che, negli  ultimi mesi, la sua attività si era limitata a curare le corrispondenze per «Il  Popolo d’Italia»), non ebbe alcuna responsabilità nell’accaduto?‘* ed anzi, al  pari di Rocca, non si fece scrupolo di biasimare la ferocia degli squadristi.  De Vecchi, al contrario, sebbene egli stesso personalmente estraneo ai fatti,  se ne attribuì la paternità”, a nessun altro scopo - come sembra - se non    quello di riaffermare, ad onta di Gioda e dello stesso Mussolini (che aveva    incaricato una commissione d’inchiesta di far luce sull’accaduto), «la sua |    figura di ras di Torino e del Piemonte»? Con una mossa a effetto, carica  però di significati politici - e non solo per quanto atteneva agli equilibri    interni del fascismo torinese -, Rocca e Gioda fecero giungere una corona di    fiori sul feretro di Carlo Berruti, loro amico di gioventù ‘‘?. Gli squadristi -    notava Rocca a distanza di trent'anni - non gli avrebbero mai perdonato quel  gesto”.    Episodi come quello di Torino contrastavano drammaticamente con la |  necessità - posta in evidenza da Rocca e non da lui soltanto - di una |  normalizzazione del fascismo. I primi mesi di vita del governo Mussolini |       243 Sulla figura di Carlo Berruti v. FRANCO ANDREUCCI, TOMMASO DETTI, op. cit., Vol. I, ad |    nomen.  244  Gioda scrisse che la mobilitazione fascista era stata ordinata a sua completa insaputa. Cfr.    RENZO DE FELICE, / fatti di Torino del dicembre 1922, cit., p. 78.    Popolo», 1 gennaio 1923.  RENZO DE FELICE, / fatti di Torino del dicembre 1922, cit., p. 82.    % Cfr. MARIO GIODA, Un nobile gesto fascista in morte del comunista Berruti, «Il Popolo  d’Italia», 28 dicembre 1922.    Gioda scrisse di Berruti ch’egli era «indubbiamente un uomo in buona fede e dotato di    qualità intellettuali non comuni».   248 Cfr. MASSIMO Rocca, Come il fascismo divenne una dittatura, cit., p. 148.   L’inchiesta ordinata da Mussolini, affidata a Francesco Giunta e Giovanni Gasti, accertò le  gravissime responsabilità degli squadristi torinesi. Nonostante le risultanze delle indagini, il  Gran Consiglio del 13 gennaio 1923 si limitò a statuire lo scioglimento del Fascio di Torino,  delegando l’incarico della sua ricostruzione allo stesso De Vecchi, nominato fiduciario con  pieni poteri, mentre Pietro Gorgolini e Mario Gobbi (due dei più stretti collaboratori di Mario  Gioda), autori di un memoriale contro il quadrumviro, furono addirittura espulsi dal PNF, per  esservi riammessi solo nel dicembre. Il deliberato del supremo organo fascista, chiaramente  compromissorio, non significava che Mussolini avesse perdonato a De Vecchi la sua  indisciplina. Di lì a pochi mesi, infatti, il quadrunviro fu dapprima allontanato dal Governo,  ove ricopriva il ruolo di sottosegretario alle pensioni e all’assistenza militare, quindi, dopo la  sua nomina a governatore della Somalia, costretto a lasciare l’Italia.    134    In una vibrante lettera del 27 dicembre a Mussolini, poi allegata agli atti dell’inchiesta, |    In un discorso al Teatro Ambrosiano, il 31 dicembre, il quadrumviro difese l’operato di |  Brandimarte e si assunse la responsabilità politica e morale della strage. Cfr. «La Gazzetta del |       furono segnati da questa stridente contraddizione, in un difficilissimo  equilibrio tra disordine e legalità, spinte eversive e propositi riformatori,  ricerca del consenso e violenza indiscriminata. Sebbene funzionale agli  interessi del partito, il dibattito sulla legge elettorale, che monopolizzò la vita  politico/parlamentare italiana nella primavera del 1923, fu uno dei pochi  momenti realmente costruttivi del fascismo. Rocca, già da tempo schierato  per il ritorno al sistema maggioritario”, entrò nella speciale commissione  per la riforma elettorale nominata dal Gran Consiglio il 16 marzo, primo  passo verso quella che sarebbe diventata la legge Acerbo”. Per un certo       MITA] riguardo si veda l’articolo // processo alla proporzionale, in «Il Risorgimento», 2    giugno 1921.   Sulla delicata questione del sistema elettorale Rocca ebbe un vivace scambio di vedute con  Roberto Farinacci, fautore di un ripristino dell’uninominale puro. In una lettera a Farinacci,  Rocca definì un passo indietro, anche rispetto al deprecato sistema proporzionale vigente (che  se non altro aveva avuto il merito di immettere «sangue nuovo» nell’asfittica vita  parlamentare italiana), un’eventuale reintegrazione del collegio uninominale; una formula  dominata «dalle aderenze, dalle amicizie, dalle clientele personali, coltivate non sempre con  mezzi leciti ed onorevoli», e che per di più aveva il difetto di acutizzare «Io spirito  campanilistico» (La discussione sul sistema uninominale. Una lettera di Massimo Rocca  all'on. Roberto Farinacci, «Cremona Nuova», 10 febbraio 1923). Nella sua pronta replica,  Farinacci obiettò che la “rivoluzione” fascista aveva a tal punto innovato i costumi politici  degli italiani che il ristabilimento dell’uninominale non poteva considerarsi un semplice  ritorno al passato. «Se allora, nel passato — sosteneva Farinacci — erano le clientele [...] che  decidevano, adesso sarebbero da una parte il criterio e il giudizio della Federazione  provinciale fascista [...] e dall’altra la conoscenza personale del corpo elettorale e il suo  giudizio, non più formulato in virtù della potenza della clientela, ma in forza del valore del  candidato, facilmente apprezzabile dagli elettori per la loro educazione fascista». Quanto al  problema del campanilismo — questione niente affatto trascurabile, soprattutto qualora la si  consideri alla luce delle future polemiche tra Rocca e Farinacci in merito al fascismo  provinciale -, il ras di Cremona fu ancora più esplicito. «Tu [...] — rimproverò infatti a Rocca  — prescindi dall’efficacia del nostro movimento, che ha allargato la visione dei singoli i quali  sono inclinati, mercé l’opera nostra, a conciliare l’interesse della provincia con quello della  nazione, subordinando l’uno all’altro» (ROBERTO FARINACCI, // perché del ritorno al collegio  uninominale, Ibidem, 11 febbraio 1923).   250 116 aprile, a conclusione dei suoi lavori, la commissione (di cui facevano parte, oltre a  Rocca, Michele Bianchi, Roberto Farinacci, Cesare Rossi, Maurizio Maraviglia, Giuseppe  Bastianini e Nicola Sansanelli) si pronunciò ufficialmente per il sistema maggioritario —  secondo uno schema elaborato da Bianchi — e contro l’uninominale. Rocca, che si trovava in  Sicilia e non poté esser presente alla riunione, inviò una lettera di piena adesione, di cui diede  conto lo stesso Bianchi (cfr. «Il Popolo d’Italia», 7 aprile 1923). Il Gran Consiglio del 25  aprile accettò le decisioni della commissione (il progetto Bianchi raccolse 21 voti a favore,  contro i 2 ottenuti da Farinacci. Cfr. PNF, // Gran Consiglio nei primi dieci anni dell'era  fascista, pp. 55-56), dopodiché il sottosegretario alla presidenza del consiglio, Giacomo  Acerbo, fu incaricato di stendere il relativo disegno di legge. Questo, sottoposto all’esame  preventivo di una commissione parlamentare interpartitica (la cosiddetta commissione dei    135    VIT       PATTI VENI "TV ZO E TOPO VOTO VI VITTI E PP TI    periodo, parve che alla riforma elettorale — com'era negli auspici di Michele  Bianchi e dello stesso Rocca - potesse accompagnarsi una più ampia azione  di rinnovamento istituzionale. Nell’ultima seduta della sessione di aprile il  Gran Consiglio deliberò la creazione di un Gruppo di Competenza per la  riforma costituzionale, affidandone la presidenza proprio a Rocca?!. Dinanzi  all’allarme suscitato negli ambienti liberali da queste manovre Rocca si  affrettò ad «assicurare ogni patriota [...] in buona fede» che né l’istituto  monarchico, né i principi informatori dello Statuto sarebbero stati messi in  discussione”. In realtà, proprio la diffidenza manifestata dagli altri partiti  della maggioranza e il timore che essa potesse incidere negativamente sul  cammino della legge elettorale, indussero Mussolini a lasciar cadere ogni  velleità riformatrice?5*. Rocca, che aveva finalmente intravisto la possibilità  di legare il proprio nome - e la funzione stessa del fascismo - ad un’opera  propositiva di riforma”, ne restò amareggiato.    Questa volta — scrisse a distanza di tempo — la delusione fu profonda [...]. Il  movimento fascista, che da quattro anni parlava senza tregua di rivoluzione e già ne  invocava i pretesi e illimitati diritti contro ogni critica, non osava intraprendere la  più modesta riforma, meno radicale di quella “corporativa” attuata da D’ Annunzio a  Fiume; una riforma capace di giustificare, dinanzi ai contemporanei e ai posteri, le  gesta passate del fascismo, il dominio presente, la chiara intenzione di prolungarlo  nel futuro, la retorica sulla nuova era dischiusa al Paese, le eccessive intemperanze  verbali e le violenze illegali. La sua rivoluzione si riduceva dunque ad un'etichetta,  dal significato puramente negativo, comodo pretesto per trascurare la legalità |  vigente, senza però curarsi di foggiarne un’altra qualsiasi. Mussolini trascurava    diciotto) - che lo approvò il giorno 16 giugno -, fu ratificato dalla Camera il 21 luglio, dopo   una lunga discussione. Su tutti questi punti v. RENZO DE FELICE, Mussolini il fascista, cit., p.  518 ss.   251 Cfr. PNF, I! Gran Consiglio nei primi dieci anni dell'era fascista, cit., pp. 60-61.   Il Gruppo comprendeva anche: Michele Bianchi (presidente), Carlo Costamagna (segretario),  Enrico Corradini, Maurizio Maraviglia, Giulio Casalini, Edmondo Rossoni, Attilio Tamaro,  Sergio Panunzio, Ettore Lolini, Salvatore Gatti e Giorgio Del Vecchio.   252 «Il Popolo d’Italia», 3 maggio 1923.   253 Cfr. RENZO DE FELICE, Mussolini il fascista, cit., p. 524.   254 Fedele a una visione tecnocratica della politica, Rocca si apprestava a presentare uno  schema di riforma i cui punti chiave erano: il riconoscimento giuridico dei sindacati «d’ogni  categoria e d’ogni classe»; l’elezione, da parte dei dirigenti e delle federazioni sindacali, di    consigli tecnici dell'economia, «comprendenti tre classi», a livello locale, provinciale e —    nazionale; il divieto di sciopero nei servizi pubblici; il passaggio automatico al Senato  vitalizio dei presidenti del Consiglio uscenti, «per togliere loro ogni preoccupazione elettorale  ed assicurare il contributo dei migliori uomini agli affari pubblici»; il divieto al Parlamento di    proporre nuove spese; l’approvazione in blocco dei singoli bilanci (MASSIMO ROCCA, Come il  fascismo divenne una dittatura, cit., p. 138).    136              un'occasione unica di mostrarsi grande e d’imporsi, col suo prestigio di riformatore,  ai capi locali che cercavano di scimmiottarlo nei suoi atteggiamenti esteriori    La delusione di Rocca fu tanto più grande in quanto all’accantonamento dei  disegni di riforma costituzionale si aggiunse il concomitante naufragio dei  Gruppi di Competenza, l’iniziativa nella quale egli aveva riposto le maggiori  speranze. Il 15 marzo 1923, in un’intervista a un quotidiano romano  (riprodotta in parte anche da «Il Popolo d’Italia»), Rocca, pur ribadendo che  i Gruppi di Competenza, «nati da un’idea prettamente aristocratica»,  rappresentavano la maggior novità del fascismo, riconobbe che la loro  attuazione dipendeva «dalla volontà del Governo di utilizzarli»?9°. Dietro  questa semplice constatazione si nascondeva l’amara consapevolezza delle  grandi difficoltà fin lì incontrate dai Gruppi all’interno stesso del fascismo  (si tenga presente che, a quasi quattro mesi dall’entrata in vigore dello  statuto/regolamento, i soli due Gruppi realmente funzionanti erano quello  per la pubblica amministrazione e quello per l’educazione, quest’ultimo,  peraltro, in pessimi rapporti con il ministro Gentile) 257, AI Gran Consiglio  del 17 marzo, Rocca, dopo aver riferito sulla situazione generale dei Gruppi,  affermò la necessità di riconoscere loro una «franca autonomia», sola  condizione per garantirne un'effettiva operatività”. Nei mesi successivi  qualcosa parve smuoversi, al punto che, al Gran Consiglio del 28 luglio,  Rocca poté annunciare l'avvenuta costituzione di 178 Gruppi di Competenza  provinciali, ottenendo l’assicurazione che gli organi direttivi del partito  avrebbero fatto il possibile per promuoverne lo sviluppo”. Nonostante le  apparenze, tuttavia, i Gruppi di Competenza conducevano un’esistenza  stentata, senza un reale collegamento gli uni con gli altri e con la segreteria  nazionale, mal visti e spesso dichiaratamente osteggiati dai fiduciari del  partito e dalle stesse corporazioni”! L’insorgere della prima crisi  revisionista, conclusasi con l’insuccesso di Rocca, diede loro il definitivo       255 Ibidem, pp. 140-141.   256 NicoLA Pascazio, /l Gran Consiglio, i Gruppi di Competenza, la burocrazia, la scuola,  l'Istituto delle Assicurazioni. Intervista con Massimo Rocca, «Il Giornale d’Italia», 15 marzo  1923.   257 A questo riguardo v. FERDINANDO CORDOVA, op. cit., pp. 166-167.   258 PIF, /l Gran Consiglio nei primi dieci anni dell'era fascista, cit., p. 47.   V. altresì / gruppi di competenza e la riforma della scuola nella relazione di Massimo Rocca  al Gran Consiglio Fascista, «Il Popolo d’Italia», 24 marzo 1923.   259 Cfr. PNF, /l Gran Consiglio nei primi dieci anni dell'era fascista, cit., pp. 98-99.   260 E? estremamente significativo, ad esempio, che il primo consiglio nazionale delle  Corporazioni, riunitosi a Roma il 30 giugno 1923, non avesse minimamente affrontato il tema  dei Gruppi di Competenza. Cfr. FERDINANDO CORDOVA, op. cit., p. 164.    137       colpo di grazia”. Complessivamente, quindi, il primo anno di vita del  governo Mussolini non rispose alle aspettative, personali e politiche, di  Massimo Rocca e non v’è dubbio che fu proprio la disillusione a indurre l'ex  anarchico alla sua ultima battaglia polemica.   Fatale alle aspirazioni rinnovatrici di Rocca, mentre Mario Gioda tornava  faticosamente alla vita politica (il Fascio di Torino, sciolto in conseguenza  dei fatti del dicembre, fu ricostituito soltanto nel maggio del 1923) °°°, il  biennio 1923/1924 vide la consacrazione di Edoardo Malusardi come  dirigente sindacale; e tuttavia — non sembri un paradosso -, proprio nel 1924  la carriera dell’ex stuccatore rischiò di spezzarsi per sempre. AI pari dei suoi  vecchi compagni — sebbene su un piano diverso -, anche Malusardi si trovò a  dover fare i conti con la trasformazione del fascismo in regime.   All’inizio del 1923 Malusardi lasciò Sestri Ponente, per dirigere la  Federazione sindacale di Firenze”. In pochi mesi egli seppe conferire  all’organizzazione corporativa dell’area fiorentina maggiore stabilità ed  efficienza”. Nell'agosto, a coronamento dei suoi successi, Malusardi fu    nominato segretario della Corporazione nazionale del vetro, da poco  costituita”95,    Quali fossero gli orientamenti generali del fascismo in materia sindacale e  quanto essi si discostassero dalla concezione operaista di Malusardi,  alimentata dai miti corridoniano e dannunziano, lo mostrò chiaramente il    cosiddetto patto di Palazzo Chigi, stipulato il 19 dicembre del 1923 tra la |    Confederazione delle Corporazioni e la Confindustria, un accordo che segnò  «il fallimento, almeno nell’industria e in quel momento, dell’ipotesi di       20 In seguito alla sua sospensione per tre mesi da ogni attività di partito, il 12 ottobre 1923,    Rocca lasciò la segreteria dei Gruppi di Competenza al suo vice Carlo Costamagna, che la  assunse a titolo definitivo nel marzo del 1924. Nel frattempo, il Gran Consiglio del 16  novembre 1923 aveva disposto la trasformazione dei Gruppi in Consigli Tecnici nazionali,  organismi ancor più evanescenti, dei quali ben presto non sarebbe rimasta traccia. Cfr.  ALBERTO AQUARONE, op. cit., p.  26251195 maggio, al Teatro Scribe, ebbe luogo l'assemblea del Fascio per l’elezione del nuovo  Direttorio. Questo, radunatosi quattro giorni dopo, riconfermò segretario politico Mario  Gioda. Cfr. «Il Maglio», 2 giugno 1924, e «Il Popolo d’Italia», 5 giugno 1923,  253. Cfr. EDOARDO MALUSARDI, Elementi di storia del sindacalismo fascista, cit., p. 75.  264 E A n past p   In base alla relazione presentata da Malusardi al primo consiglio nazionale delle  Corporazioni, le corporazioni operanti nella provincia di Firenze al 30 giugno 1924 — sei mesi  dopo il suo arrivo a Firenze - erano 14 (agricoltura, commercio, industria, impiego,  professioni intellettuali, scuola, sanità, dipendenti monopoli e aziende statali, stampa, teatro,  trasporti e comunicazioni, ospitalità nazionale, industrie artistiche, belle arti), per un totale di  circa 50.000 iscritti. Cfr. «Il Lavoro d’Italia», 7 luglio 1923.  255 Ctr. Ibidem, 1 settembre 1923.    138    /          sindacalismo integrale»’’. L’intesa, fondata sul principio della  collaborazione e raggiunta grazie alla mediazione decisiva del governo,  sollevò tensioni e contrasti all’interno del sindacalismo fascista. Il 22 maggio  1924 si riunì a Roma il secondo consiglio nazionale delle Corporazioni, nel  corso del quale si manifestarono due tendenze: la prima (più conciliante e  che finì per prevalere) facente capo a Sergio Panunzio e sostenuta dal  segretario generale Rossoni, per il sindacato unico obbligatorio e il  riconoscimento giuridico dei contratti collettivi di lavoro; la seconda,  rappresentata da Domenico Bagnasco e Malusardi, a favore dell’azione  diretta contro gli industriali”, Il 19 luglio, nel clima di confusione seguito al  rapimento e all’assassinio di Giacomo Matteotti, Malusardi si dimise dalla  segreteria dei sindacati fascisti fiorentini (dove fu sostituito da Aldo  Lusignoli) 2°. Fu un primo atto di ribellione, al quale fece seguito, ai primi  di settembre, la costituzione - con Virginio Galbiati (segretario della  Corporazione nazionale dell’arte bianca) e altri dirigenti sindacali milanesi -  di un “Comitato d’azione per rigenerare le Corporazioni”?99, Nell’ordine del  giorno diramato a mezzo stampa dal Comitato si denunciavano la debolezza,  l’incertezza programmatica e l’autoritarismo che contraddistinguevano  l’opera delle Corporazioni fasciste, e s’invocava «un totale revisionismo»,  nei metodi, nei programmi e nel gruppo dirigente. Le Corporazioni —  proseguiva il documento - dovevano agire «in senso nettamente  sindacalista», avendo presenti gli «interessi effettivi della classe produttiva»,  senza lasciarsi condizionare da pregiudizi ideologici («di lotta di classe e di  collaborazione aprioristica») e politici, ma anzi ricercando l'intesa «con le  masse e le organizzazioni che si muovevano sul terreno nazionale». Quanto  ai rapporti con il Partito Fascista, questi dovevano essere fissati «in forma di  libera e consapevole alleanza»?”°. Pochi giorni dopo, il 18 settembre, il       266 FRANCESCO PERFETTI, /l sindacalismo fascista, cit., p. 57.   267 Su questi punti v. FERDINANDO CORDOVA, op. cit., p. 265 ss., € FRANCESCO PERFETTI, Il   sindacalismo fascista, cit.. p. 90 ss. Per la cronaca del congresso v. «Il Popolo d’Italia», 23  maggio 1924, e «Il Lavoro d’Italia», 31 maggio 1924. i   268 Cfr. La crisi del fascismo fiorentino, «La Giustizia», 26 luglio 1924.   269 Cfr. Un sintomatico pronunciamento fra i dirigenti delle Corporazioni milanesi, «La Voce  Repubblicana», 10 settembre 1924. AEREI ; i i  Dal 13 settembre il Comitato iniziò le pubblicazioni di un proprio settimanale: «L’Idea  Sindacalista». Jai   270 Un sintomatico pronunciamento fra i dirigenti delle Corporazioni milanesi, cit. («La Voce  Repubblicana», che, da sempre ferocemente critica nei confronti degli orientamenti sindacali  del fascismo, seguì con grande attenzione gli sviluppi della crisi, definì una «diagnosi [...]  perfetta» quella contenuta nell’ordine del giorno del Comitato milanese).    139       Direttorio nazionale delle Corporazioni sanzionò l’allontanamento «dal |    movimento sindacale fascista» di Galbiati e Malusardi?”!, il quale però,  all’inizio di ottobre, dette le dimissioni dal Comitato, ottenendo il ritiro del  decreto di espulsione”. Non è chiaro per quale motivo Malusardi si decise a  quella mossa, ma è certo che, così facendo, egli salvaguardò la propria  carriera politica. Pertanto, pur senza mai rinnegare del tutto le proprie radici  anarcosindacaliste (si può dire infatti che la sua azione nell’ambito del    sindacalismo fascista continuò a vivere di velleità operaiste) ?”?, Malusardi — —  la cui fedeltà al fascismo non fu comunque mai in discussione - rientrò |    disciplinatamente nei ranghi, adeguandosi sempre più ai modelli imposti dal  regime. Nell'autunno del 1924, preludio all’avvento di una lunga dittatura, si  concluse quindi — almeno formalmente — la vicenda “libertaria” di Edoardo  Malusardi: un’uscita di scena meno appariscente di quella toccata in sorte a  Massimo Rocca e a Mario Gioda, ma egualmente emblematica.       Negli stessi giorni, 8 e 9 settembre, si riunì a Roma il Direttorio nazionale delle  Corporazioni. L'iniziativa di Malusardi e Galbiati fu liquidata come l’atto «di quattro persone  che non avevano alcuna autorità e alcun seguito». Cfr. «Il Popolo d’Italia», 9 settembre 1924.   Hi Provvedimenti del Direttorio delle Corporazioni, Ibidem, 19 settembre 1924.   Sull’intera vicenda v. FERDINANDO CORDOVA, op. cit., p. 283 ss.  2a Dimissioni!, «L’Idea Sindacalista», 18 ottobre 1924.    Un mese dopo Malusardi presenziò regolarmente al secondo congresso nazionale delle    Corporazioni (Roma, 23-25 novembre). Cfr. «Il Popolo d’Italia», 25 novembre 1924.  Esemplare, a questo proposito, l’esperienza di Malusardi come segretario dell’Unione  provinciale dei sindacati fascisti di Torino (carica che detenne dalla fine del 1927 a tutto il  1931), segnata dai continui contrasti con l'Unione industriale fascista, e la FIAT in particolare  (al riguardo v. GIULIO SAPELLI, Fascismo, grande industria e sindacato. Il caso di Torino,  1929-1935, Milano, Feltrinelli, 1975). Le aspirazioni “libertarie” di Malusardi trovarono un    ultimo rifugio nelle utopie socializzatrici della Repubblica Sociale, nella quale egli ebbe —    comunque un ruolo defilato e la cui funesta parabola non gli risparmiò dolori e amarezze (uno  dei suoi figli, divenuto partigiano, fu fatto prigioniero dai fascisti e condannato a morte,  Malusardi si rivolse a Mussolini, il quale intervenne personalmente affinché al giovane  “ribelle” fosse risparmiata la vita. Cfr. ACS, REPUBBLICA SOCIALE ITALIANA, Segreteria  particolare del duce, Busta 25, Fascicolo 188). Nel dopoguerra, nonostante la non più verde  età, Malusardi partecipò attivamente alla vita politica e sindacale nelle file della CISNAL. Il  suo approccio alle questioni del lavoro restò di fatto immutato, sentimentalmente ancorato  alle memorie di Corridoni e D’Annunzio (a titolo di esempio si vedano gli articoli Filippo  Corridoni e Socialità di D'Annunzio, pubblicati da Malusardi su una risorta edizione de «Il  Maglio», 23 ottobre e 15 marzo 1960). Morì a Torino il 29 giugno 1978. Sulla figura e l’opera  di Edoardo Malusardi, quale rappresentante dell’ala sinistra del fascismo, v. infine GIUSEPPE    PARLATO, La sinistra fascista. Storia di un progetto mancato, Bologna, Il Mulino, 2000, ad  indicem.    140          II    REVISIONISMO    La prima campagna revisionista    L’inizio della polemica revisionista è giustamente fatto coincidere # L  pubblicazione su «Critica Fascista», il 15 settembre 1923, dell articolo  Massimo Rocca Fascismo e paese . Già da qualche mese, tuttavia, dinanzi al  protrarsi delle illegalità fasciste, i settori più lungimiranti del PNF -e I  ambienti ad essi vicini - avvertivano con crescente inquietudine l urgenza di  un cambio di rotta, di una nuova fase che segnasse il definitivo inserimento  del fascismo nell’ordine statutario. Il 29 maggio, intervenendo alla Camera,  l’on. Alfredo Misuri, già parlamentare fascista”, aveva anticipato, di fatto,  alcuni dei temi poi sollevati da Rocca nel suo celebre articolo. In RT  Misuri aveva chiesto la smobilitazione delle squadre e | inclusione le ;  MVSN nell’esercito regolare; la cessazione, da parte del segretario si  Partito Fascista e dei responsabili dei singoli Fasci, d ogni ingerenza srt; i  affari di competenza dell’esecutivo e delle prefetture; ! allargamento va  base del Governo a tutte le «sane correnti nazionali». Il discorso kr  deputato perugino, al quale si sarebbe associato Ottavio i Lee Di  breve stagione del dissidentismo fascista (almeno di quello mo lerato, ché Di  furono altri tipi di dissidentismo) ‘, fenomeno parallelo — e in un certo sen       ! L’articolo uscì simultaneamente anche sulle pagine de «Il Giornale d’Italia», che lo definì  «notevole». Lira : Epi  ? Alfredo Misuri, di estrazione monarchico liberale, SE tra " n n pn  i fasciste, dovette abbandonai  Perugia. Eletto al Parlamento nelle file f , d a r i ua  ito di duri i ltri maggiorenti del fascismo u Li  1922 a seguito di duri contrasti personali con al sa 1 di  i P ta nel PNF rientrò per bre  i ismo, dopo la fusione deli Associazione Nazional is NF rientr |  lst ferighi del fascismo, per esserne definitivamente espulso ai primi di a del  1923 Cfr. ALFREDO MISURI, Rivolta morale: confessioni, esperienze e documenti di un  uinquennio di vita italiana, Milano, Edizioni vana 1924.  i i i 95-122.  | testo completo del discorso v. /bidem, pp. ar È ‘ ,  hà vira ore dalla conclusione del suo intervento, Misuri fu aggredito da alcuni sgherri  fascisti, guidati dall’ufficiale della Milizia Arconovaldo Bonaccorsi, e malmenato Cs  sull’episodio v. Per l'aggressione all’on. Misuri, «Il Giornale d Italia», 31 maggio 1 i  ) Il dissidentismo conservatore di Alfredo Misuri e Ottavio Corgini trovò lun pun  concreta nel gennaio 1924, con la nascita dell’associazione “Patria e Libertà”, evocante, gi:    141          speculare = a quello del revisionismo. Nondimeno, a parte le riserve espresse  dai dissidenti - e da Misuri in particolare — sul revisionismo e su Massimo  Rocca , tra le due “eresie” fasciste correva una differenza sostanziale. Come  già notava acutamente Giacomo Lumbroso nel 1925, mentre i dissidenti non  nutrivano grandi speranze circa la capacità del fascismo di autoriformarsi  (tant'è che finirono per distaccarsene quasi subito), Rocca s’illudeva di far  trionfare la propria idea “da dentro” il partito”; credeva, in altri termini di  poter cambiare il fascismo dal suo interno, nella convinzione - per dirla con  le sue parole - che esso potesse realmente diventare «l’ala marciante e  riformatrice del liberalismo»”. In questo “vizio d’origine”, prima ancora che  nei mutevoli umori di Mussolini e nella protervia di Roberto Farinacci e  «degli altri ras, in questa valutazione errata della vera essenza del fascismo  (che avrebbe fatto della battaglia revisionista un’estenuante e infruttuosa  «lotta di posizione») *, devono essere ricercate le ragioni ultime della  sconfitta di Massimo Rocca.   Come detto, l’articolo di Rocca vide la luce su «Critica Fascista», la nuova  rivista di Giuseppe Bottai, che aveva iniziato le pubblicazioni il 15 giugno       nel nome, taluni circoli monarchici piemontesi di fine Ottocento. Dopo il delitto Matteotti  I associazione prese a pubblicare il settimanale «Campane a stormo» (poi riesumato da Misuri  nell’immediato secondo dopoguerra). n  Sul dissidentismo fascista, la sua complessa vicenda politica e le sue diverse coloriture e  ramificazioni, v. principalmente PIERANGELO LOMBARDI, Per le patrie libertà: la dissidenza  fascista tra mussolinismo e Aventino (1923-1925), Milano, Angeli, 1990, ma anche con più  esplicito riferimento all’operato di Misuri e Corgini, LUCIANO ZANI, L'Apsocio4iali    costituzionale “Patria e Libertà” (1923-1925), in «Storia Contemporanea», 1974, n. 3 PI  393-429. 1 05-00.  ‘ondamento delle loro critiche al revisionismo i dissidenti di “Patria e Libertà” ponevano  la considerazione che fosse ormai necessaria «la liquidazione, non la revisione del fascismo».  Pisi «caotici costruttori di teorie», in quanto convinti di poter salvare qualcosa del  ‘ascismo, lavoravano «inconsciamente» per esso (Revisionismo, «Campane  dicembre 1924), PSR A E e  Cfr. Giacomo LUMBRO050, La crisi del fascismo, Firenze, Vallecchi, 1925, p. 107 ss.  Giacomo Lumbroso (già nella fiorentina “Banda dello sgombero”, una delle prime  manifestazioni del dissidentismo fascista) era stato tra i promotori in Toscana dei Fasci  Nazi nali, formazioni autonome che pretendevano riallacciarsi al fascismo “puro” delle  origini. «Fascista di animo e di azione sin dalla vigilia — scriveva Lumbroso nelle pagine  ug se suo da Ta sono rimasto tale perché non credo che la dottrina e lo spirito del  cismo debbano confondersi collo scempio che ne è stato compi i inetti i  f ì iu  indegni» (Ibidem, pp. 8-9). RIA: dae Re) 2a  ” Massimo Rocca, Come il fascismo divenne una dittatura, cit., p. 107.  LUCIANO ZANI, op. cit., p. 402.    142          1923”. Fin dai primi numeri, il periodico romano si era fatto interprete di una  concezione legalitaria, costituzionale del fascismo. Sebbene muovendo da  premesse culturali e politiche molto diverse, anche Bottai - come Rocca -  riteneva finito il tempo della “rivoluzione” e chiedeva il rinnovamento del  partito, la sostituzione del vecchio ceto dirigente fascista «con una nuova  élite» che fosse in grado di guidare la ricostruzione del Paese!°. Un mese e  mezzo prima che Rocca aprisse ufficialmente il fronte revisionista, un altro  collaboratore di Bottai, l’ex sindacalista corridoniano Augusto De  Marsanich, aveva chiarito in modo inequivocabile l’orientamento della  rivista.    Noi — aveva scritto De Marsanich - diciamo che il nostro partito deve iniziare  subito un’opera di revisione, anzi di liquidazione, di certi suoi precetti e di certi suoi  metodi, che se furono utili prima, oggi non servono più, se non ad intorbidire le fonti  della nostra forza ideale e politica. Intanto dobbiamo dire alto e forte che proprio  uno dei nostri compiti necessari, in quanto l’Italia è nata dal liberalismo e cresciuta  nel parlamentarismo, è quello di ridonare al Parlamento il suo valore di massimo  istituto storico e politico dell’età nostra, di riconciliare insomma la Nazione col  Parlamento [...]. Il Partito Fascista dovrebbe ormai sentire la necessità di  *smobilitare” e di proporsi nettamente, con un superiore obiettivo di sintesi  nazionale, l'eventualità di avvicinarsi a molti, se non a tutti, i suoi nemici di ieri"!    Essendo queste le premesse, era quasi inevitabile che Rocca, il quale da  tempo andava esortando alla “normalizzazione”, trovasse in Bottai e nella  redazione di «Critica Fascista» degli interlocutori attenti e ben disposti. Ma       ? Sul ruolo avuto da Giuseppe Bottai e da «Critica Fascista» nel dibattito interno al fascismo  durante il primo scorcio degli anni venti (con particolare riferimento al revisionismo) v.  soprattutto LUISA MANGONI, L ‘interventismo della cultura. Intellettuali e riviste del fascismo,  Bari, Laterza, 1974, p. 65 ss., EMILIO GENTILE, op. cit., p. 295 ss., © GIORDANO BRUNO  GUERRI, Giuseppe Bottai fascista critico, Milano, Feltrinelli, 1976, p. 49 ss.   10 GiusEPPE BOTTAI, Disciplina, «Critica Fascista», 15 luglio 1923.   Che il fascismo, compiuta la sua “rivoluzione” e conquistate le leve del potere, dovesse por  mano alla ricostruzione morale e materiale della Nazione, secondo un programma  propositivo, era opinione largamente condivisa tra i fascisti più “politici”. Lo stesso  Mussolini, in una lettera a Bottai pubblicata sul secondo numero di «Critica Fascista» (e  riprodotta anche da «Il Popolo d’Italia» del 30 giugno), aveva scritto: «Caro Bottai, prima  ancora che il programma, mi piace il titolo della tua rivista, titolo che mi appare come un  gesto di consapevole orgoglio e come un privilegio del nostro movimento. Il quale, raggiunto  il suo secondo tempo costruttivo, deve affinare le sue capacità di controllo e di critica».   !! Augusto DE MARSANICH, Revisione, Ibidem, 1 agosto 1923.   Su De Marsanich, figura di rilievo del regime mussoliniano e quindi, nel secondo  dopoguerra, uno dei protagonisti del movimento neofascista, v. Dizionario biografico degli  italiani, cit., Vol, 38, ad nomen.    143       cosa scrisse Rocca che destò tanto clamore? La “rivoluzione” fascista —  questo in sintesi il suo pensiero — aveva avuto il merito di strappare l’Italia al  baratro del bolscevismo, ma una rivoluzione aveva ragion d’essere soltanto  se finalizzata al bene della Nazione, di “tutta” la Nazione, e non alla propria  autoconservazione. Il fascismo - spiegava Rocca - doveva servire il Paese e  non viceversa, come preteso dai capi provinciali, i quali, interessati solo a  perpetuare il loro piccolo potere, erano i primi responsabili del perdurare  dell’illegalità e del clima di tensione, da guerra civile permanente, che  ancora dominava in certe regioni"’. Ora, nella battaglia intrapresa per la  sprovincializzazione” del fascismo, Rocca era convinto di trovare in  Mussolini un alleato naturale, ma quest’opinione, se non mancava di  riferimenti nella realtà, non teneva nel dovuto conto la spregiudicatezza  tipica del modus operandi del “duce”, ed era perciò, in definitiva, frutto di  una valutazione decisamente ottimistica. Scorrendo l’articolo di Rocca si ha  I impressione che l’autore tendesse a sopravvalutare certe prese di posizione  di Mussolini é che, più o meno inconsapevolmente, finisse per attribuire al  duce” la propria personale visione del fascismo. I segni più evidenti della    volontà conciliatrice del Presidente del Consiglio - scriveva Rocca - erano  stati:    la promessa, lanciata nel primo discorso in Parlamento, di utilizzare a servizio del  Paese tutti gli elementi di valore [...], persino se provenissero dall’estrema sinistra:  [.. ] l’appoggio dato alle Corporazioni fasciste, fino a riconoscerle di fatto, se non di  diritto, sebbene ospitassero nel loro seno vaste masse di non tesserati; [...]  I incoraggiamento ai Gruppi di Competenza, destinati a completare e correggere  l’opera sindacalista compiuta nei ceti proletari; [...] la costituzione di un governo  non esclusivamente fascista; [...] l'immissione di ufficiali dell’esercito nei quadri  della Milizia, per maturarne la futura fusione con l’esercito medesimo; [...] il rifiuto  ostinato, intelligente ed onesto, di soddisfare alle pretese d’impiegati e di favori da  parte di troppi procaccianti in veste fascista, specie dell’ultima pes;    Se pensiamo alla sorte ingloriosa che, complice proprio la caduta in  disgrazia del loro mentore, sarebbe spettata di lì a poco ai Gruppi di  Competenza; all’effettivo strapotere della Milizia e, soprattutto, al vero e  proprio esercito di profittatori, d’intriganti e d’incapaci che affollava  l’entourage di Mussolini (uno stato di cose a cui egli, forse per effetto della       12  » Cfr. MassIMo Rocca, Fascismo e paese, «Critica Fascista», 15 settembre 1923.  Ivi.    L’articolo, con altri due dello stesso periodo, si trova ri ilti i  STE , con , prodotto — sotto il titolo //  l'Italia - anche in ID., /dee sul fascismo, cit., pp. 63-70. pan    144          sua sfiducia negli uomini, trovò sempre inutile opporsi) 4, abbiamo la  misura di quanto Rocca s’ingannasse. In ogni caso, il suo articolo fu bene  accolto da «Il Popolo d’Italia», che anzi ne fece pubblicamente l'elogio", e  nel complesso, lungo tutta la durata della prima crisi revisionista, il giornale  diretto dal fratello del “duce”, Arnaldo, ne incoraggiò apertamente le fatiche.  Mussolini stesso, del resto, sebbene senza mai esporsi in prima persona,  dette una mano alla campagna revisionista, ma la ragione di questo suo  favore non derivava tanto, come credeva Rocca, da un’intima convinzione  ideale, bensì - come ha ben sottolineato Renzo De Felice (e com'era,  d’altronde, nel carattere del “duce”) - da considerazioni di opportunità  politica. L'obiettivo allora perseguito da Mussolini, infatti, era quello di una  graduale apertura verso le forze costituzionali (liberali, cattolici, ma anche  socialisti riformisti), che consentisse un ampliamento — e dunque un  consolidamento — della sua maggioranza. A questo progetto si opponevano  scopertamente gli intransigenti alla Farinacci, ed ecco, perciò, che l’esistenza  di una corrente revisionista, moderata, all’interno del fascismo, poteva  servire a un duplice scopo: a rassicurare gli altri partiti e l'opinione pubblica  sulle “buone intenzioni” del Governo e a tenere a freno i ras, in vista di un  possibile compromesso!   Fu quindi grazie a Mussolini che il dibattito inaugurato da Massimo Rocca  sulle pagine di «Critica Fascista» poté uscire «dall’ambito piuttosto limitato»  della rivista di Bottai per diventare, grazie al coinvolgimento di altri organi  di stampa, «un fatto politico di portata nazionale»'”. Per rimanere all’ambito  strettamente fascista, i giornali che più degli altri si fecero carico di  assecondare i disegni dei revisionisti furono tre: «Il Corriere Italiano» di  Filippo Filippelli, «L'Impero» di Mario Carli ed Emilio Settimelli, e,  inizialmente in misura più sfumata, «Il Nuovo Paese» di Carlo Bazzi. Si  trattava di fogli dalla linea editoriale incerta e contraddittoria e - ciò che più  conta - legati a interessi equivoci'5; così, se è innegabile che il loro sostegno       14 Su questo aspetto non secondario della personalità mussoliniana v. RENZO DE FELICE,  Mussolini il fascista, cit., p. 461 ss.   !5 Cfr. IL FROMBOLIERE, Un monito fascista: basta con gli pseudo-Mussolini!, «Il Popolo  d’Italia», 18 settembre 1923.   !6 Cfr. Renzo DE FELICE, Mussolini il fascista, cit., p. 457 ss.   !7 Ibidem, p. 456.   18 «Il Corriere Italiano» era sorto alla fine di luglio del 1923 grazie a finanziamenti di origine  imprecisata ed era, a ragione, considerato l'organo ufficioso del Governo, essendone diretti  ispiratori due uomini molto vicini a Mussolini: Aldo Finzi, sottosegretario al Ministero degli  Interni, e Cesare Rossi, capo dell’ufficio stampa del “duce” e membro del Gran Consiglio del  fascismo. «L'Impero» aveva anch'esso iniziato le pubblicazioni nel 1923 e si distingueva per  l'accento smaccatamente reazionario, spesso addirittura delirante, dei suoi articoli. I motivi    145          dette a Rocca l’opportunità di far giungere la propria voce a un pubblico più  vasto, è altrettanto fuor di dubbio che, a lungo andare, esso non giovò affatto  alla serietà della campagna revisionista, e che anzi, l’essersi trovato Rocca  anche solo indirettamente coinvolto in certe mene affaristiche, offrì a suoi  avversari il destro per muovergli accuse, più o meno esplicite e motivate, di  corruzione.    Il Rocca — rilevava al riguardo Giacomo Lumbroso — poteva ridersi di certe accuse  poiché la sua probità privata era inattaccabile; ma sta di fatto [...] che i giornali di  cui egli si serviva e anche taluni degli uomini che lo incoraggiavano nella sua  campagna non erano certo i più indicati a parlare di epurazione del Partito; ed è  innegabile che certo fascismo provinciale [...], illegalista, dispotico e violento, in       del sostegno offerto da Carli e Settimelli alla campagna revisionista, oltre che nei vincoli  strettissimi con Filippelli e il suo giornale («L’Impero» apparteneva alla stessa cordata  economico/finanziaria editrice de «Il Corriere Italiano», la società “La vita d’Italia”, di cui  Filippelli era amministratore delegato), andavano ricercati nel loro esasperato    “mussolinismo”, nell’ammirazione, certo non disinteressata, per il “duce”, verso il quale i due |    reduci del futurismo, un tempo cantori dell’anticonformismo e dell’individualismo anarchico,  tenevano un atteggiamento adulatorio, sconfinante nel ridicolo, che più di una volta mise in  imbarazzo lo stesso Mussolini. A riprova dell’incostanza e dell’opportunismo che  caratterizzava la redazione de «L’Impero» si ricordi che, nel corso della crisi Matteotti, il  giornale, già revisionista, sarebbe stato in prima linea nel chiedere il “giro di vite” e la  soppressione violenta delle opposizioni; e che, a conclusione di quella dolorosa vicenda,  Mario Carli avrebbe pubblicato un libro, con la prefazione di Roberto Farinacci, (Fascismo  intransigente. Contributo alla fondazione di un regime, Firenze, Bemporad, 1926), che era  tutto un panegirico del ras di Cremona e dei suoi epigoni. «Il Nuovo Paese» aveva aperto i  battenti nel dicembre del 1922, su iniziativa di Carlo Bazzi. Questi, che era stato compagno di  Massimo Rocca nelle Argonne, proveniva dal PRI ed apparteneva a quelle frange del  movimento repubblicano che, in polemica con l’orientamento antifascista prevalso in seno al  partito d’origine, se n'erano staccate per dar corpo a formazioni autonome fiancheggiatrici del  fascismo (lo stesso Bazzi si era fatto promotore, all’inizio del 1923, di una Unione  Mazziniana Nazionale). Anche «Il Nuovo Paese» non era al di fuori di loschi giri d’affari,    essendo legato «a quel vasto ed equivoco mondo affaristico che subito dopo la “marcia su |    Roma” si era annidato ai margini del fascismo al governo»; una lobby multiforme «che aveva  tutto l’interesse che il fascismo rimanesse al potere» e mirava, per questo motivo, a «una  normalizzazione che rafforzasse la situazione», da cui il contributo recato dal giornale di  Bazzi alla causa del revisionismo (RENZO DE FELICE, Mussolini il fascista, cit., pp. 450-452).  Su «Il Nuovo Paese» e «Il Corriere Italiano» si veda MAURO CANALI, Cesare Rossi: da  rivoluzionario a eminenza grigia del fascismo, Bologna, Il Mulino, 1991 (rispettivamente p  218 ss., e p. 255 ss.). Il medesimo autore ha efficacemente ricostruito l'intreccio affaristico  sottostante al primo esecutivo a guida fascista, in // Delitto Matteotti: affarismo e politica nel  primo governo Mussolini, Bologna, Il Mulino, 1997, pp. 87-303. Su Mario Bazzi in  particolare v. GUGLIELMO SALOTTI, Affarismo e politica intorno alla liquidazione dei residuati  bellici (1920-1924), in «Storia Contemporanea», n. 5, 1990, pp. 805-891. Infine, a proposito  de «L’Impero», v. ANNA SCARANTINO, op. cit., p. 49 ss.    Ì       complesso si era mantenuto puro dalla piaga dell’affarismo, e non vi ha dubbio che  ci erano dei ras, tipo Farinacci, persuasi in buona fede di giovare alla causa del  fascismo e dell’Italia, dominando nelle loro provincie come despoti incontrollati ed  incontrollabili e riducendo a zero l’autorità dei funzionari governativi"?    Il giorno dopo la comparsa dell’articolo di Rocca su «Critica Fascista», «Il  Corriere Italiano» prese di petto la questione e, in un fondo che avrebbe  sollevato l’indignazione di Farinacci, si scagliò senza mezzi termini contro  «l’arbitrio capriccioso e tirannico» dei capi provinciali, arrivando a  prospettare, neanche troppo velatamente, la possibilità di uno scioglimento  del PNF, il quale, vivendo ormai «di rendita» alle spalle di Mussolini,  costituiva «l’inciampo più grave» all’azione del Governo”. L’ipotesi  insinuata dal quotidiano di Filippelli destò, com’era prevedibile, un nugolo  di polemiche. «L'Impero», per tramite dei suoi condirettori, affermò che il  «feticismo ostinato» nei confronti del partito non aveva più alcuna  giustificazione e che, essendosi chiuso il «periodo eroico» della  “rivoluzione” fascista ed essendo stati «lo spirito e [...] la mentalità» del  fascismo «gradualmente ma rapidamente assorbiti dall’intera Nazione», non  vi era più ragione di conservare in vita il partito?!. l i i  Nel frattempo, Massimo Rocca non aveva perso occasione per riaffermare il  proprio punto di vista??. Personalmente contrario, almeno nel breve periodo,  allo scioglimento del PNF°, il /eader revisionista proseguì imperterrito  lungo la via intrapresa il 15 settembre. I problemi più gravi del fascismo -  insisteva Rocca - consistevano nell’equivoco perdurante tra partito e  Governo, vale. a dire nell’identificazione del primo col i secondo;  nell’irresponsabilità e nella prepotenza dei fiduciari provinciali; nella       !° Giacomo LUMBRO50, op. cit., p 122.   20 Cfr. Governo e fascismo, «Il Corriere Italiano», 16 settembre 1923.   2! MARIO CARLI, EMILIO SETTIMELLI, L'ultima svolta del fascismo, «L'Impero», 20 settembre  1923. i i i 7 ut  2 Così, ad esempio, il 17 settembre a Torino, in sede d’inaugurazione dei nuovi locali dei  Gruppi di Competenza. Nel suo discorso, che ricevette il plauso di. Mario Gioda, Rocca non  tralasciò di accennare alle controversie in atto nel fascismo, ribadendo le proprie critiche agli  intransigenti (cfr. // discorso di Massimo Rocca sulle funzioni dei Gruppi di Competenza, «Il  Piemonte», 18 settembre 1923). \ i   23 In una lettera pubblicata da «L'Impero» del 22 settembre (Partito e Governo fascista),  Rocca scrisse non essere ancora giunto il momento in cui l’Italia, pienamente e  consapevolmente fascista, si sarebbe potuta sostituire al partito. Con questo egli non escluse  che, «in un futuro più o meno prossimo», ciò sarebbe potuto accadere, e indicò nei Gruppi di  Competenza e nei «sindacati d’ogni ceto produttivo» gli strumenti. necessati di questa  trasformazione. Il giorno seguente Rocca ribadì i medesimi concetti in un’intervista a «Il  Corriere Italiano»,    147       «parodia d’una disciplina formale senza norme né garanzia»; nel predominio  «degli organi esclusivamente politici di partito» su tutto ciò che. «pur  rientrando nella vita corrente del fascismo», non era strettamente ulivo (ad  esempio i Gruppi di Competenza) e che, per questa ragione, il partito  ostacolava in ogni modo. Tutto ciò - secondo Rocca - conduceva ad una  «vera forma di nuovo bolscevismo [...], dissolvitrice dello Stato e  dell’Italia», cui si doveva assolutamente porre rimedio”.   Contro la campagna revisionista, che raccolse i favori dell’opinione  pubblica moderata variamente  filo-fascista””, insorsero invece gli  intransigenti. Già il 17 settembre, nell’ambito di una riunione del Consiglio  Provinciale di Cremona, Farinacci difese il principio dell’intransigenza, si  disse contrario all'inserimento della Milizia nell’esercito regolare e minacciò  una «seconda ondata» rivoluzionaria contro i falsi fascisti, profittatori «senza  fede» che si servivano del fascismo per i loro maneggi affaristici’”, Più  avanti, in un editoriale per il suo giornale, il ras cremonese replicò  seccamente alle accuse dei revisionisti. Non era affatto vero — scrisse - che  Mussolini non dovesse niente al fascismo provinciale, il quale, al contrario.   costituiva la vera forza, il fondamento del partito e aveva contribuito in  modo schiacciante al trionfo del 28 ottobre 1922.    Se si distrugge il fascismo delle Provincie — si domandava Farinacci — che cosa  resterebbe del fascismo? [...]. Io non ho l’acume di Massimo Rocca, ma come  caffoncello” di Provincia mi permetto di fare uno sforzo mentale — pari a quello di    he pero della terza elementare — calcolando che Provincia più Provincia fa  ‘azione!          ” MASSIMO ROCCA, Partito e Governo fascista, cit.   Tra gli organi “indipendenti” che offrirono spazio e considerazione alla campagna  revisionista, oltre a «Il Giornale d’Italia», tradizionalmente vicino alla destra liberale, si  segnalarono soprattutto «La Tribuna», l’autorevole quotidiano romano diretto da Olindo  Malagodi, «Il Corriere d’Italia», organo ufficioso della destra cattolica ex popolare, e  «L’Epoca», un giornale d’ispirazione combattentistica sorto nel 1917. Proprio «L’Epoca», il  23 settembre, pubblicò un’intervista di Domenico Montalto a Massimo Rocca (// momentà  attuale e il fascismo), dando modo all’ex anarchico di esporre le proprie idee revisioniste a un  pubblico non strettamente fascista.   di Un forte discorso dell'on. Farinacci, «Cremona Nuova», 18 settembre 1923.   ROBERTO FARINACCI, /n difesa dei cafoni di provincia, Ibidem, 23 settembre 1923.   Il giorno avanti, il quotidiano farinacciano aveva ospitato un intervento del bolognese Gino  Baroncini, membro del Comitato Centrale, una delle figure più note del fascismo  emiliano/romagnolo (su di lui v. PAOLO NELLO, Dino Grandi: la formazione di un leader  fascista, cit, ad indicem). L’articolo (intitolato Evviva il Fascismo e pubblicato in  contemporanea anche da «La Scure» di Piacenza e, naturalmente, dal bolognese «L’ Assalto»)  era una difesa appassionata del fascismo di provincia contro il fascismo “spurio”, interessato e    148       Il ragionamento di Farinacci, nella sua schematicità, non mancava di logica  e di veridicità e coglieva un aspetto essenziale del problema, andando al  cuore delle contraddizioni della politica revisionista. Il fascismo delle  provincie, caotico, brutale e intimamente sovversivo, costituiva davvero,  assai più del fascismo “addomesticato”, costituzionale e legalitario di Roma  e di Milano, l’anima del movimento”. Mussolini ne era ben consapevole,  tant'è vero ch’egli non pensava affatto, come Rocca avrebbe voluto, ad una  liquidazione in tronco del “rassismo”, ma, casomai, ad un suo opportuno  ridimensionamento, che lo svuotasse dei contenuti più radicali e più  difficilmente gestibili; alla qual cosa, come già si è detto, la propaganda       senza anima, propagandato dai revisionisti. Di analogo tenore - e spesso ben più sbrigative e  violente - le reazioni degli altri fogli intransigenti. L'organo del fascismo trevigiano, per  mano del suo direttore, lasciò intendere che Rocca avrebbe meritato lo stesso trattamento  riservato ad Alfredo Misuri, in quanto il suo l’articolo su «Critica Fascista» era degno «di far  pari col famigerato discorso» dell’ex deputato fascista (PIERO PEDRAZZA, Polemica fascista.  Rispondiamo a Massimo Rocca, «Camicia Nera», 22 settembre 1923). A Piacenza, il conte  Barbiellini puntò l’indice contro le trame affaristiche sottostanti alla campagna revisionista.  «Per quali anonimi lestofanti — tuonava il ras piacentino - fate voi da agenti provocatori di  torbidi nel fascismo?!? Vi secca la attività fascista di provincia? Vi secca che dai ras  provinciali si siano mandati all’aria diversi grossi affari che gruppi capitalisti avevano qui  realizzato ai danni dell’Erario Nazionale?» (BERNARDO BARBIELLINI, Perché non molliamo,  «La Scure», 25 settembre 1923). Circa le radici e le ragioni culturali e politiche  dell’estremismo provinciale fascista — con particolare riguardo a Roberto Farinacci — v.  EMILIO GENTILE, op. cit., p. 263 ss.   28 E” interessante, a questo riguardo, ricordare il giudizio di un esponente della cultura  antifascista, Piero Gobetti, secondo il quale non già i revisionisti ma Farinacci e gli altri ras  del suo stampo erano gli autentici e più genuini rappresentanti del fascismo. In due articoli  non certo teneri nei confronti di Rocca, definito un parvenu e un arrivista, Gobetti scrisse di  preferire la rozzezza degli intransigenti, non priva di «senso di dignità» e di spirito di  sacrificio, al «politicantismo senza pudore» e al «trasformismo, senza decoro e senza  intransigenza» dei vari Rocca, Bottai e Grandi, «professionisti della politica» il cui  revisionismo era nato in mezzo alle «mollezze romane», confortato «da ricche prebende». A  parte gli aspetti volutamente paradossali delle sue considerazioni (e a parte la predilezione,  tipicamente gobettiana, per la categoria politico/morale dell’intransigenza), l’intellettuale  torinese coglieva nel segno allorché metteva in risalto la maggior rappresentatività sociale - e  culturale in senso antropologico - del fascismo provinciale, il quale si faceva portavoce di  sentimenti reali, di sincere, per quanto confuse e primitive, aspirazioni palingenetiche, e  godeva di un seguito che mancava invece completamente alle fredde teorie dei revisionisti.  Dietro ai vari ras di provincia - notava lucidamente Gobetti - vi erano «centomila giovani, che  al fascismo non avevano chiesto di guadagnare o di risolvere il problema della propria  disoccupazione, ma vi avevano portato la loro disperata aberrazione, la repugnanza per i  compromessi e gli opportunismi» (la prima citazione è tratta da Elogio di Farinacci, «La  Rivoluzione Liberale», 9 ottobre 1923; le restanti da Secondo elogio di Farinacci, Ibidem, 19  febbraio 1924. Anche in Piero GOBETTI, Scritti politici, a cura di Paolo Spriano, Torino,  Einaudi, 1960, pp. 526-529, e 606-610)    149       revisionista (anche attraverso il ricatto rappresentato dalla ventilata minaccia  di scioglimento del partito) poteva servire in modo egregio.   Queste considerazioni parevano sfuggire a Massimo Rocca, il quale, vittima  forse anche della propria presunzione, era invece convinto di avere al suo  arco più frecce di quante non ne avesse in realtà. Per niente intimorito dalla  reazione di Farinacci, ma anzi, data la propria innata vena di polemista,  perfettamente a proprio agio nel clima di roventi discussioni da lui stesso  suscitato, Rocca alzò il tiro delle sue accuse.    Non ci si è ancora accorti, evidentemente — scrisse in un nuovo articolo per  «Critica Fascista» — che oggi governa Mussolini in nome di una monarchia più salda  che mai; che i nostri antenati e noi abbiamo combattuto per creare e rafforzare e  ingrandire un’Italia unitaria, ove la forza armata, anche solo di manganello,  dev'essere una sola e uno il Governo che ne dispone, e uno solo il Governo che fa le  leggi e le applica attraverso i prefetti, dando a questi ultimi il diritto di mettere in  galera anche i più autorevoli fascisti locali se contravvengono alla legge. Non si  adattano ad essere cittadini pur essi come tutti gli altri, nella loro provincia? Ebbene,  facciano essi i prefetti, e pongano nella legalità il loro dominio personale e  continuino pure l’opera meritoria compiuta nel fascismo [...]. Ma quest’opera è  indipendente dalla loro prepotenza personale nelle cose che il partito non  riguardano; ma per continuare tale funzione non è necessario instaurare repubbliche  dittatoriali o vicereami con feudi annessi o diarchie lillipuziane. Non basta federare  degli staterelli autonomi, ove l’augusto signore sentenzia “qui comando io” e  fabbrica una legge speciale per lui, senza controllo; non basta federarli  platonicamente sotto l’egida di Mussolini, sopportata col platonico omaggio di un  alalà. Bisogna disfarli [...]. Tutto ciò per la Fronda fascista, nuova specie di  sovversivismo autentico imbellettato di tricolore: unico sovversivismo attivo e  ingombrante oggigiorno [...] ‘Tutto ciò per la Fronda insorta personalmente contro  una mia tesi impersonale, a minacciare col seguito dei suoi vassalli un  modestissimo, ma convinto pensiero individuale, che non riconosce altro ordine se  non quello del Duce, né altra legge se non quella raccolta nel codice e applicabile  dal procuratore del Re [...]. Ma la Fronda si piegherà?”    La “fronda” non si piegò. A distanza di soli tre giorni dalla pubblicazione di  questo articolo, il pomeriggio del 27 settembre, la Giunta Esecutiva del PNF  - istigata da Farinacci - decretò l’espulsione di Rocca dal partito «per grave       ?° Massimo Rocca, Diciotto brumaio, «Critica Fascista», 24 settembre 1923 (anche in ID.,  Idee sul fascismo, cit., pp. 71-78).   Questo articolo di Rocca era preceduto da una significativa postilla della redazione. «Siamo  perfettamente solidali con l’autore — vi si leggeva - [...] e con gli scopi altissimi della sua  battaglia, che è anche la nostra battaglia».    VIPATTTTRA VENTO ile A       indisciplina e indegnità politica»?°. La mattina del 28 Mussolini ricevette  Rocca, in qualità di vicepresidente  dell’Istituto Nazionale delle  Assicurazioni”, ufficialmente «per trattare di questioni riguardanti l'Ente» 4  ma in realtà per aver modo di esprimergli la propria solidarietà. La sortita del  “duce”, da cui egli si aspettava le dimissioni dell’intera Giunta Esecutiva,  ebbe invece come effetto di provocare quelle della Segreteria Generale (cioè  di una parte soltanto della Giunta), il che — rilevava prontamente «Il Popolo  d’Italia» - «non risolveva affatto la questione». Era in atto, come ben  notava «Il Giornale d’Italia», un vero e proprio regolamento di conti.    Ora — si domandava il quotidiano romano — è per le espressioni crude ed aspre  adoperate da Rocca, o per la tesi generale da lui sostenuta che la espulsione è dn  stabilita? [...]. Se è vero che [...] il “Cremona Nuova” di Farinacci [...] sarebbe  dalla Giunta Esecutiva considerato come giornale ufficioso del partito, sarebbe da  dedurre che le lamentate tendenze, diremmo così, provinciali, localistiche [...]  avrebbero prevalso?”    E proseguiva:    La lotta è precisamente tra i “revisionisti” tipo Rocca e gli ioni ono  Farinacci, tra i politici e i “selvaggi”, tra i “romani” e i “provinciali IRPROI Crisi i  coscienza del Partito Fascista, questa, crisi per la lotta di due opposti elementi: quelli  che vogliono avvicinare il fascismo all’anima, del Paese e quelli che vogliono  mantenerne la formazione chiusa e intransigente       30 La Giunta Esecutiva del Partito Nazionale Fascista riafferma la necessità della manetta  compattezza nell'interesse della Nazione ed a sostegno del Governo, «Il Popolo d’Italia», 28  settembre 1923. tif, side Hib:   La Giunta Esecutiva del PNF, istituita nel maggio in luogo della disciolta Direzione, sa  composta da: Roberto Farinacci, Ferruccio Lantini, Michele Bianchi, Giovanni Marinelli,  Nicola Sansanelli, Attilio Teruzzi, Piero Bolzon, Giuseppe Bastianini, Maurizio Maraviglia,  Antonello Caprino, Alessandro Dudan, Michelangelo Zimolo e Achille Starace. La decisione  contro Massimo Rocca fu presa all’unanimità. i i   31 Rocca ricopriva la carica di vicepresidente dell’INA dalla fine di febbraio del 1923 (cfr.  Ibidem, 3 marzo 1923).   3° Ibidem, 29 settembre 1923.   33 ;   Cfr. Ibidem. TSI VII j ;  La Segreteria Generale era formata da Bianchi, Marinelli, Bastianini, Sansanelli, Teruzzi,  Starace e Bolzon. bri Bata  3 La Giunta esecutiva del PNF espelle Massimo Rocca il “revisionista”. Mussolini inten le  che tale decisione sia riesaminata. La Segreteria Generale del partito presenta le dimissioni  al Duce, «Il Giornale d’Italia», 29 settembre 1923.   35 .  gii vl    151          Nell’insieme, l’espulsione di Massimo Rocca sollevò un’ondata di sdegno  Si scrisse di «procedimento sommario», di decisione «grottesca» che aveva  il sapore della «rappresaglia»?”, mentre anche il Consiglio Nazionale dei  Gruppi di Competenza fece sentire la sua voce, votando un ordine del giorno  di pieno sostegno al proprio segretario”. A Torino, Mario Gioda, che fin  dall’esordio della polemica revisionista aveva preso le parti di Rocca” si  dimise dalla segreteria del Fascio in segno di solidarietà con il suo vecchio  compagno. Fu un atto coraggioso, che, tenuto conto dei passati contrasti tra  Gioda e De Vecchi (quest’ultimo simpatizzante degli intransigenti) e delle    mai sopite tensioni in seno al fascismo torinese, si colorava di un forte  significato politico.    Non è la prima volta — riconosceva a questo proposito l’organo mussoliniano — che,  durante clamorose polemiche, Mario Gioda si schiera apertamente per la corrente  temperata [...] del Partito Nazionale Fascista, ed è ancora ricordato a Torino  l’omaggio di fiori che, unitamente al comm. Massimo Rocca, tributò al comunista  Berruti, consigliere comunale, ucciso durante i fatti dello scorso dicembre‘'    Qualche giorno dopo, nel dare l’annuncio delle proprie dimissioni anche  dalla direzione de «Il Maglio», Gioda fu al proposito più che esplicito, con  parole che non lasciavano spazio a fraintendimenti.       Li «L’Epoca», 29 settembre 1923.   «L'Impero», 29 settembre 1923.   _ Cfr. «Il Giornale d’Italia», 30 settembre 1923.   In un fondo del 24 settembre per il nuovo quotidiano torinese «Il Piemonte» (Papà buon  senso), Gioda aveva definito gli articoli revisionisti di Rocca un «meraviglioso,  poderosissimo quanto ardito e coraggioso studio sul fascismo». In un articolo di poco  successivo, il segretario del Fascio torinese chiarì il proprio punto di vista, perfettamente in  linea con gli assunti dei revisionisti. «I Fasci — scrisse tra l’altro Gioda — non sono sorti per  soddisfare le ambizioni militari o politiche di Tizio, Caio o Sempronio, ma per l’Italia,  unicamente per la salvezza e le fortune d’Italia» (MARIO GIODA, Corfù, Roma e il Fascismo,  dl Maglio», 29 settembre 1923).   Cfr. «Il Popolo d’Italia», 30 settembre 1923.   Gioda aveva riassunto la carica di segretario del Fascio e la direzione de «Il Maglio» da  pochi giorni, dopo essersene allontanato per qualche mese a seguito del riacutizzarsi della sua  grave malattia. Il posto di Gioda, dopo le sue dimissioni, fu rilevato dall’avvocato Giorgio  Bardanzellu, già presidente della sezione torinese dell’ Associazione Nazionale Combattenti.  Insieme a Gioda si dimise anche il segretario federale Pino Mongini, un suo fedelissimo,    ufficialmente «per ragioni di carattere famigliare» («Il Maglio», 6 ottobre 1923). Mongini fu  sostituito dal milanese Claudio Colisi Rossi.    4! «Il Popolo d’Italia», 30 settembre 1923.    152       Le polemiche de’ passati giorni — scrisse - mi hanno trovato pienamente,  apertamente, risolutamente favorevole alla corrente cosiddetta revisionista  capeggiata da quella catapulta cerebrale di grande anarchico che è Massimo Rocca  [...]. Mi sono dimesso dalle cariche [...] perché mi parve inconcepibile che si  potesse appartenere ancora un minuto ad un partito ridotto a defenestrare i suoi  uomini più formidabili [...], mentre nell'ombra prosperava e vivacchiava alquanta  gramigna ‘    Il 29 settembre Mussolini convocò Michele Bianchi a Palazzo Venezia.  Questa volta Il “duce” richiese espressamente le dimissioni della Giunta  Esecutiva, decise il rinvio del convegno dei Fiduciari provinciali (previsto  per il 2 ottobre) e decretò la prossima convocazione del Gran Consiglio del  fascismo‘. Di fronte alla precisa intimazione di Mussolini, ai membri della  Giunta non restò altro da fare che obbedire‘.   Massimo Rocca, dal canto suo, non aveva disarmato. Colto di sorpresa (così  almeno rivelava «Il Giornale d’Italia» del 29 settembre) dal provvedimento  disciplinare comminato nei suoi confronti, era subito passato al contrattacco,  dichiarando in un’intervista che la Giunta, essendo parte in causa, non aveva  diritto alcuno di decidere della sua espulsione e che, in ogni caso, egli non  sarebbe indietreggiato «di un millimetro». A primi di ottobre Rocca si ritirò  nella sua Torino" e lì, accanto alla moglie (si era sposato da pochi mesi) e  ai familiari, attese la pronuncia del Gran Consiglio. Dal suo ritiro torinese  l’ex anarchico inviò a Critica Fascista un nuovo articolo, dai toni fortemente  retorici, col quale auspicava una ricomposizione dei contrasti in nome e in  ossequio alla «grandezza» d’Italia.       4 MagriO Giona, Commiato, «Il Maglio», 6 ottobre 1923.   L'articolo di Gioda uscì accompagnato da una nota redazionale, opera probabilmente di  Colisi Rossi, che definiva “inopportune” e ”intempestive” le parole del direttore uscente.   4? Cfr. «Il Giornale d’Italia», 30 settembre 1923.   In un editoriale del 30 settembre (/ncoscienza?) «Il Popolo d’Italia» plaudì alla richiesta di  dimissioni avanzata da Mussolini alla Giunta Esecutiva. Quest'ultima - secondo l’organo  milanese - aveva mancato di rispetto al “duce”, il quale, oltre a non esser stato messo al  corrente del proposito di mettere fuori gioco Massimo Rocca, era allora interamente assorbito  da impellenti questioni di ordine internazionale e non doveva essere trascinato in polemiche  artificiose. «Egli — scriveva il giornale diretto da Arnaldo Mussolini — ha altro da fare. I capi  fascisti delle provincie devono finalmente intenderlo [...]. Se i fascisti locali non intendono  ciò, essi non capiscono nulla del Fascismo e sono indegni di appartenervi».   4 La Giunta Esecutiva si dimise infatti il primo ottobre. Cfr. «Il Popolo d’Italia», 2 ottobre  1923.   % «L’Epoca», 30 settembre 1923.   4 Cfr. «Il Piemonte», 4 ottobre 1923.   4? Cfr. ACS, CPC, Busta 4362 [Rocca Massimo].    153    AI cospetto di un fatto così grandioso — scriveva - [...], noi, uomini che alla nuova  creazione abbiamo con devota umiltà collaborato, dobbiamo sentire la nostra  pochezza individuale al confronto con la creatura che non è soltanto nostra e ci  sovrasta nello spazio e nel tempo [...]; dobbiamo comprendere che nulla sarebbe più  folle, più sterile del voler monopolizzare l’Italia nuova per noi [...]. Dobbiamo  sentire che anche il Fascismo è una parte, certo la migliore, ma non il tutto del  fenomeno storico di cui siamo propulsori e trascinati assieme: che la grandezza del    ai è possibile solo in quanto s’inquadra nella grandezza d’Italia e le serve di  ase    Nelle intenzioni dell’autore queste parole avrebbero dovuto «placare ogni  dissenso personale». In realtà, trascinato dal suo temperamento, Rocca si  era ormai invischiato in una fitta ragnatela di polemiche. Tipica, in questo  senso, la controversia che lo oppose in quei giorni a Ferruccio Lantini, uno  dei maggiori esponenti del fascismo ligure. Sulle colonne del suo giornale  Lantini — ch’era membro della Giunta Esecutiva - aveva duramente attaccato  Rocca, definendo la campagna revisionista «denigratrice, svalorizzatrice ed  offensiva», e denunciandone la «ben meschina» origine, «di carattere  prematuramente e comicamente elettorale». In una lettera di poco  successiva, Rocca replicò al suo detrattore con una serie di accuse  minuziose, in particolare rinfacciandogli di «aver disertato la battaglia  fascista» nei giorni infuocati dello sciopero “legalitario””, salvo poi       4 MAssIMO ROCCA, L ‘intangibile grandezza, «Critica Fascista», 8 ottobre 1923 (anche in ID.  Idee sul fascismo, cit., pp. 79-86). f  L'articolo in questione fu pubblicato nei giorni successivi anche da «Il Piemonte» (10  ottobre) e «L’Impero» (11 ottobre).  di ID., /dee sul fascismo, cit., p. 86.   FERRUCCIO LANTINI, Dichiarazione, «Il Giornale di Genova», 29 settembre 1923.   AI breve editoriale di Lantini faceva seguito una chiosa di Giovanni Pala, il Fiduciario  provinciale per la Liguria (nonché condirettore del giornale), che si professava  «completamente solidale» con l’autore. Fin dal suo apparire, nell’estate del 1923, «Il Giornale  di Genova» aveva suscitato sospetti circa i suoi finanziamenti. In polemica con «Il  Messaggero», che in un articolo del 26 luglio aveva svelato i legami esistenti tra il nuovo  quotidiano fascista genovese e la Banca Commerciale, Pala aveva smentito seccamente,  dichiarando che la proprietà del giornale apparteneva alla società anonima “Compagnia  Editrice”, di cui egli era presidente (cfr. «Il Popolo d’Italia», 29 luglio 1923).   A Genova, tradizionale roccaforte del socialismo riformista, lo sciopero “legalitario” del  luglio/agosto 1922 aveva avuto pesanti conseguenze. Subito dopo la proclamazione delle  agitazioni, il 31 luglio, il Fascio genovese aveva dato corpo a un “comitato d'azione”, del  quale facevano parte, tra gli altri, Ferruccio Lantini, gli onorevoli Edoardo Torre e Alberto De  Stefani, e Massimo Rocca, il cui nome è però del tutto assente dalle dettagliatissime cronache  de «Il Popolo d’Italia», la qual cosa farebbe pensare ad un coinvolgimento minimo del futuro    154    isetitett fritti tti vu eten ida PP PIPPIOS             servirsene, accampando benemerenze inesistenti, per farsi eleggere  Consigliere Comunale”. La diatriba Rocca/Lantini si trascinò a lungo, in un  intreccio di querele e cavalleresche quanto stucchevoli sfide a duello  (peraltro sempre “onorevolmente” risolte, senza bisogno d’incrociare le  armi) *, a tutto scapito della credibilità complessiva della campagna  revisionista”*.   Il 12 ottobre, come previsto, si riunì il Gran Consiglio del Fascismo. Al  termine di una lunga seduta fu votato un ordine del giorno che tramutava  l’espulsione di Massimo Rocca in una ben più blanda sospensione di tre       leader revisionista nei disordini di quei giorni. Al termine di una settimana di aspri scontri, i  fascisti si erano ritrovati padroni del capoluogo ligure. Obiettivo principale della violenta  offensiva fascista era stato il Consorzio autonomo portuario, cuore del potere socialista a  Genova, che riuniva le cooperative portuarie “rosse” e aveva di fatto il controllo del porto.  Nel pomeriggio del 5 agosto, dopo che nella mattinata i capi fascisti avevano lanciato un  manifesto contro «la camorra portuaria dei vigliacchissimi socialisti» («Il Popolo d’Italia», 6  agosto 1923), le camicie nere genovesi, con il concorso di squadre giunte da Carrara, da  Alessandria e da Torino, avevano assaltato Palazzo San Giorgio, sede del Consorzio  (nell’attacco, che fece numerose vittime, era rimasto ucciso lo squadrista carrarese Primo  Martini, poi entrato trionfalmente nel martirologio fascista). Il senatore Nino Ronco,  presidente del Consorzio autonomo, era stato costretto a firmare una dichiarazione capestro,  con la quale si era impegnato a revocare le concessioni di lavoro alle cooperative socialiste.  Per la versione di parte fascista, v. La cronaca delle giornate di Genova, «Il Popolo d’Italia»,  8 agosto 1922. Su questi avvenimenti v. altresì ANTONINO REPACI, op. cit., pp. 45-49.   5 La crisi del fascismo in Liguria documentata in una gravissima lettera di Massimo Rocca a  Ferruccio Lantini, «Il Secolo XIX», 3 ottobre 1923 (anche in «Il Giornale d’Italia», 4 ottobre  1923).   «Il Secolo XIX» seguì con partecipazione le polemiche tra revisionisti e intransigenti,  mostrando di parteggiare chiaramente per i primi. Nondimeno, Rocca si risentì dell’avvenuta  pubblicazione della sua lettera a Lantini - a suo dire «non destinata alla pubblicità» - e ne  chiese “soddisfazione” al direttore del quotidiano genovese, Mario Fantozzi (cfr. Vertenza  cavalleresca, «Il Secolo XIX», 5 ottobre 1923).   5 A un certo punto, come riferiva il 6 ottobre «Il Giornale d’Italia», la vicenda assunse i  contorni di un vero e proprio «torneo».   5 Si aggiunga che anche il dissidio tra Rocca e Lantini celava un più vasto conflitto  d’interessi (di cui la vicenda dei finanziamenti a «Il Giornale di Genova» costituiva un  risvolto), riguardante i grandi gruppi economico/finanziari che si contendevano il controllo di  Genova: da una parte il trust formato dall’Ansaldo, dai fratelli Perrone e dalla Banca di  Sconto (allora in via di liquidazione), sostenuto dalla corrente del fascismo cittadino facente  capo a Giuseppe Mastromattei, amico ‘di Rocca; dall’altra la potente azienda armatoriale  Odero (e, dietro di essa, la Banca Commerciale), che aveva l’appoggio di Lantini e dei suoi  (su questi punti v. ADRIAN LYTTELTON, La conquista del potere. Il fascismo dal 1919 al 1929,  Bari, Laterza, 1974, pp. 300-301). Tale contrapposizione travagliò a lungo il fascismo  genovese, ‘dando luogo a laceranti lotte intestine. Il primo atto della crisi, il 29 settembre, fu il  pestaggio, ad opera di alcuni squadristi, del segretario delle locali Corporazioni fasciste, il  professor Luigi Loiacono, di cui erano note le simpatie revisioniste (cfr. «Il Giornale d’Italia»,  2 ottobre 1923),    155          +55 de i fee .  mesi”. Tutto, dunque, com’era nella volontà di Mussolini, si risolveva in un    accomodamento, e bene rimarcava «Il Giornale d’Italia» allorché scriveva  che:    Senza esaminare il merito delle polemiche da questi [Rocca] sollevate, è certo che  tra la prima condanna all’espulsione per indegnità politica e la sospensione per tre  mesi inflittagli ieri sera troppo ci corre, tanto almeno da far credere all’intervento di  un compromesso. Ma appunto fra i tumulti della politica e le variabili contingenze  che essa impone, i compromessi diventano non di rado inevitabili    Il Gran Consiglio decretò altresì un vero e proprio riordinamento del  partito””, nonché la nomina di Cesare Maria De Vecchi a governatore della  Somalia. L’allontanamento del futuro conte di Val Cismon dall’Italia (un  provvedimento ispirato da Mussolini, stanco di doversi misurare con le  irrequietezze del quadrunviro), fu una grande vittoria di Mario Gioda, il  quale - come si è visto - aveva avuto il coraggio di esporsi personalmente nel  dibattito sul revisionismo e poteva ora, mercé la messa in disparte del suo  rivale, aspirare a recuperare credito all’interno del fascismo subalpino. Ai  primi di dicembre, con la rielezione a segretario politico del Fascio di  Torino”, ebbe inizio l’ultima fase della sua vicenda politica.   In un'intervista di quel periodo, Gioda espose il suo progetto per la  “normalizzazione”. Occorreva — dichiarò - puntare sullo sviluppo dei  sindacati e delle cooperative, in modo da allargare la base effettiva del  fascismo e porre le condizioni per una piena collaborazione con le altre forze  sociali (al riguardo Gioda si disse convinto della possibilità di realizzare una  federazione di cooperative «di tutti i colori e di tutte le tinte politiche»).  Come a livello sindacale, così anche sul piano politico i fascisti avrebbero  dovuto ricercare «un insieme di aperta, onesta, equilibrata concordia» con       55 Per l’esattezza, il testo dell’ordine del giorno recitava: «Il Gran Consiglio prende atto delle  dimissioni della Giunta Esecutiva, revoca l’espulsione di Massimo Rocca e, per le  degenerazioni polemiche alle quali il Rocca stesso ha contribuito, lo sospende per tre mesi da  ogni attività di partito a cominciare dalla seduta odierna» («Il Popolo d’Italia», 13 ottobre  1923).   5 Una nuova fase, «Il Giornale d’Italia», 14 ottobre 1923.   V. anche Le importanti deliberazioni del Gran Consiglio fascista, «Il Nuovo Paese», 13  ottobre 1923, e l’articolo di Mario Carli // pa/ladio della rivoluzione, «L’Impero», 14 ottobre  1923.   5? La Giunta Esecutiva fu sostituita da un Direttorio di nove membri, cinque con funzioni    politiche e quattro con funzioni amministrative. Francesco Giunta divenne il nuovo segretario  generale del PNF.    8 Cfr. «Il Piemonte», 5 dicembre 1923.  Gioda non riassunse la direzione de «Il Maglio», che restò a Claudio Colisi Rossi,    156          «tutti gli elementi politici nazionali». Relativamente ai temi della violenza e  del rassismo, Gioda fu perentorio.    E’ oggi doveroso per i fascisti — affermò - orientarsi verso un'attività più Sa  ai tempi. A tutelare l’ordine bastano le disciplinatissime forze della milizia a  Fascio può svolgere la più intensa e doverosa attività per il suo Caveta nie cli È  è rappresentato unicamente [...] dal Prefetto [...1. Essendo paladini le 1A ri  fascisti sono e devono essere i primi a dare luminoso esempio [...]. De n ci br  grande partito moderno come il nostro non può [...] reggersi unicamente sulle Vi  o qualità politiche suggestive e trascinatrici di Tizio 0 di Caio. I ngi  vitali e poter operare fecondamente, non hanno bisogno del : divo’ DE  Mussolini in sessantaquattresimo, ma piuttosto di coltivare una ferrea  organizzazione che possa esprimere suna élite di dirigenti. Non dunque nu  compagnia di guitti attorno all’attore di cartello, ma un insieme di squisite cap:  che troveranno tutte [...] una dura parte da reggere    Il programma illustrato da Gioda nella sua intervista fu in seguito sottoposto  al giudizio del nuovo Direttorio del Fascio e approvato a voti unanimi.    Oltre il fascismo    La sospensione di Massimo Rocca attenuò ma non pose fine alla poni  revisionista, che, rimasta latente e come addomesticata nel tempo presse: Ha   le elezioni politiche del 6 aprile 1924, esplose nuovamente ad pi c iosa  per soccombere infine, una volta per sempre, nell arco di meno i un ie sà  Il fascismo, del resto (in ciò davvero svelando l’anima dinamica Hd  decantata dai suoi ideologi), era un corpo in continua trasformazione e le  circostanze che, nell’autunno del 1923, avevano reso possibile 1 pr  delle teorie revisioniste e l’affermarsi intorno ad esse di un intenso i % Ù n  — per quanto funzionale e condizionato -, non si sarebbero più simonos e pel  mesi successivi. Mutata la situazione politica, venuta meno, res me  ma inesorabilmente, la “benevolenza” di Mussolini, i sostenitori di suse  defilarono (chi per calcolo, chi — come Bottai — perché ormai persua       i i i i itico  59 Leo GALETTO, Problemi e propositi del fascismo torinese. Intervista col segretario pol    io Gioda, «La Gazzetta del popolo», 12 dicembre 1923. È o ;  ca parzialmente anche su «Il Maglio» del 15 dicembre) fu rilasciata da    Gioda all’ospedale San Giovanni, durante una delle sue ormai abituali degenze.    60 ; 3  Cfr. Ibidem, 22 dicembre 1923. | )  Il Direttorio era entrato in carica il 2 dicembre (cfr. /bidem, 8 dicembre 1923).    157       IRE SRPORT TE VINTO VE NIV APRO VO SPTOOT TOT PVA VIRPPOI PITT    dell’inanità della lotta), mentre i giornali che gli avevano dato man forte  manifestarono tutta la propria ambiguità, dapprima servendosi della  copertura revisionista nella logorante campagna diffamatoria contro il  ministro De Stefani, quindi, girato il vento, non esitando a passare dall’altra  parte della barricata. Così, quasi senza rendersene conto (e forse, come al  solito, presumendo troppo da se stesso), Rocca s’infilò in un cu/ de sac  vittima di un gioco che trascendeva ormai le sue forze, in poco tempo  mandando a rotoli la sua intera carriera politica. Oltre che a fattori esterni  certo, la sua disfatta fu senz'altro dovuta anche gravi errori personali.  Intrappolato nel vortice della polemica, compiaciuto della propria cultura,  Rocca conferì un tono sempre più concettuale e filosofico al suo  revisionismo e i suoi articoli si fecero vieppiù cervellotici, colmi di citazioni  libresche, in uno sfoggio di erudizione spesso fine a se stesso, con la  conseguenza — inevitabile - di distogliere il grande pubblico dal cuore del  problema e di stancare anche gli osservatori più benevoli, facendo apparire  la polemica revisionista — in confronto alle concrete argomentazioni di un  Farinacci - poco più che una bizzarria intellettuale.   Scontato il provvedimento di sospensione, Rocca riprese - inizialmente con  cautela — l’ordito dei suoi disegni. In una sequenza di nuovi articoli,  pressoché concomitanti, per «Il Nuovo Paese», per «Il Popolo d’Italia» e per  «Critica Fascista», l’ex anarchico tornò sul tema della legalità. Sebbene  “paretianamente” convinto che «l’indifferenza e la diffidenza nel Paese  verso il Parlamento fossero opera del Parlamento medesimo» (in virtù della  “degenerazione” dell’istituto parlamentare) ‘e dunque che la responsabilità  della crisi sistemica non potesse essere imputata unicamente alla  “rivoluzione” delle camicie nere, ma, semmai, ad un processo storico  irreversibile di cui detta rivoluzione era stata un fattore accelerante, Rocca  non cullava sogni palingenetici e restava assertore di un liberalismo  restaurato, restituito dalla cura fascista alla sua forza originaria. Dai ripetuti  episodi di squadrismo, e in particolare dall’aggressione del 26 dicembre a  Giovanni Amendola, Rocca trasse motivo per ribadire l’urgenza di ristabilire  il confronto politico entro i confini della normale dialettica costituzionale, e  l’obbligo, per il fascismo, di abbandonare le pratiche extralegali*”. Solo così  si sarebbe giunti «ad una nuova e più alta normalità», fondata sull’imperio  della legge, di cui il Governo a guida fascista avrebbe dovuto farsi garante       6 >  MassIMO Rocca, Fascismo e Costituzione, «Il Popolo d’Italia», 4 gennaio 1924 (anche in  In., /dee sul Fascismo, cit., pp. 96-103).    © Cfr. «Il Nuovo Paese», 3 gennaio 1924 (anche in ID., /dee sul Fascismo, cit,, pp. 87-95),    158          nel suo stesso interesse. Il primo segnale che i rilievi critici di Rocca  cominciavano ad esser mal tollerati, oltre che dagli irriducibili del  manganello, anche dai suoi alleati di settembre, si ebbe dal dietrofront de  «L’Impero». In un editoriale ispirato dagli articoli di Rocca, Emilio  Settimelli si chiese se, alla luce delle sue più recenti affermazioni, egli  potesse ancora esser considerato un fascista o non, piuttosto, un liberale a  tutti gli effetti. Nella sua replica, che non si fece attendere, Rocca non  dissimulò affatto il proprio filo-liberalismo. Il fascismo — scrisse - era un  «superatore» più che un «negatore assoluto» dei principi liberali. Infatti,  fatto salvo «il dogma della Nazione», la cui accettazione era il requisito  essenziale per potersi dire fascisti, tutte le libertà che non avessero  minacciato quel dogma e che non si fossero risolte «in una negazione della  Patria», dovevano essere rispettate. Sul piano strettamente politico, il torto  maggiore del liberalismo era - secondo Rocca - quello «di voler ancora  comprendere da solo tutta la società moderna», assai più complessa e  articolata che in passato, così come il difetto di fondo del parlamentarismo  era quello di voler fare del Parlamento, «un puro organo politico €  generico», uno strumento tuttofare. Era dunque necessaria un’inversione di  rotta e l’esecutivo fascista ne possedeva i mezzi nei Consigli Tecnici,  «l’unico proposito veramente rivoluzionario» scaturito dal fascismo, la pietra  angolare di ogni autentica riforma in senso tecnocratico””. A parte l'enfasi  posta sui Consigli Tecnici (quasi una sorta di compensazione psicologica a  fronte del naufragio dei “suoi” Gruppi di Competenza, dei quali essi  avrebbero dovuto raccogliere l’infruttuosa eredità), l’essenza delle  considerazioni di Rocca non si discostava da quanto egli aveva più volte  sostenuto in passato, con la differenza che nel fascismo pareva non esservi  più posto per simili posizioni. Non a caso, in contemporanea alla       s Ip., Tornare alla normalità, «Il Nuovo Paese», 5 gennaio 1924 (anche in ID., /dee sul  Fascismo, cit., pp. 115-124).   5 EMILIO SETTIMELLI, Fascista o liberale energico? (Risposta a Massimo Rocca),  «L’Impero», 19 gennaio 1924.   Più tardi, conclusasi la polemica revisionista con la definitiva espulsione di Massimo Rocca  dal PNF, Settimelli, in risposta all’accusa di doppiogiochismo lanciatagli da parte socialista  (cfr. La ritirata dell'Impero, «Avanti!», 17 maggio 1924), avrebbe rievocato proprio  quest'articolo quale prova della coerenza del suo giornale (cfr. “L'Impero e Massimo Rocca ”,  «L'Impero», 20 maggio 1924). Ciò non toglie che, nel giro di poco più di tre mesi,  dall’ottobre del 1923 al gennaio del 1924, l’organo romano avesse completamente mutato la  propria linea editoriale riguardo al revisionismo, passando dall’iniziale sostegno alla decisa  ostilità.   65 Massimo Rocca, Fascismo e liberalismo, Ibidem, 22 gennaio 1924 (anche in ID., /dee sul  Fascismo, cit., pp. 125-132).    159    a i idee    pubblicazione della risposta di Rocca a Settimelli, l'Ufficio Stampa del  Partito Fascista diramò un comunicato nel quale s’informava che il  Direttorio Nazionale aveva inviato «una lettera di deplorazione» a Rocca a  motivo dei suoi ultimi articoli’. Forse per evitare altri inconvenienti, il testo  di un discorso che Rocca avrebbe dovuto pronunciare il primo febbraio al  Teatro Scribe di Torino fu sottoposto alla preventiva approvazione del  “duce”, Ciò che colpiva nel lungo intervento torinese di Rocca (un vero e  proprio compendio della sua “dottrina dello stato”, quale era andata  formandosi negli anni) era l’assenza - certo non casuale - di qualsiasi  riferimento al Partito Fascista. Perciò, nonostante il discorso dello Scribe  non contenesse cenni al revisionismo, pure, in un certo senso, ne costituiva  lo “scheletro”, il fondamento concettuale. Nella filosofia di Massimo Rocca,  sintesi delle tre grandi direttive della sua esperienza politica, individualismo,  liberal/nazionalismo e fascismo, non c’era più spazio per la mediazione del  partito. Lo Stato, vertice della piramide, era il «dogma intangibile e  indiscutibile, superiore ad ogni temporanea formazione e vicissitudine  partigiana», superiore, quindi, allo stesso fascismo”.  Il discorso del primo febbraio fu l’ultima uscita pubblica di Rocca prima  dell’appuntamento elettorale del 6 aprile. Egli, tuttavia, non disarmò affatto e  anzi lavorò ad un volume antologico dei suoi scritti “revisionisti” (il più  volte citato Idee sul fascismo), che avrebbe visto la luce dopo le elezioni,  nell’ambito della collana “I problemi del Fascismo” diretta da Curzio  Suckert. Il libro, significativamente dedicato a Mario Gioda («un fratello che  sapeva valutare e comprendere la testimonianza d’un travaglio spirituale»)  » conteneva anche due inediti di grande importanza. Nel primo di essi,    intitolato Una legge agli italiani e recante la data del 15 marzo, Rocca ,    invocava l’avvento di una legge che fosse «inattaccabile nella sua  imparzialità serena, amministrata da uno Stato capace di farne sostanza della       86 «Il Nuovo Paese», 22 gennaio 1924.   9? Cfr. JI discorso di stasera del comm. Massimo Rocca, «Il Piemonte», 1 febbraio 1924.   8 11 testo completo del discorso si trova in /bidem, 2/3 febbraio 1924. (anche in MAssIiMO  Rocca, /dee sul Fascismo, cit., come La ricostruzione morale della Nazione, pp. 135-161).  Le considerazioni di Rocca ricevettero commenti benevoli da «La Stampa» (// discorso di  Massimo Rocca, 2 febbraio 1924), da «Il Nuovo Paese» (// discorso di Massimo Rocca a  Torino, 2 febbraio 1924) e financo da «Il Maglio», che ne definì l’intervento «un mezzo di  lento riavvicinamento all’anima del fascismo» (// discorso di Massimo Rocca, 9 febbraio  1924).   °° Massimo ROCCA, Idee sul Fascismo, cit,, p. IX.    160          sua eternità, al di sopra degli uomini e dei governi e dei partiti e delle  classiy”.   Il secondo inedito, // Fascismo nel pensiero moderno, rivelava pienamente i  segni dell’involuzione concettualistica che avrebbe contraddistinto la ripresa  della campagna revisionista. Perno di questa lunga e spesso contorta  digressione storico-politico-filosofica era la condanna della modernità, di cui  Rocca — come altri antimodernisti - individuava l’origine nella Riforma  protestante e di cui seguiva le successive incarnazioni, dal razionalismo allo  scientismo, per giungere, sul terreno politico, alle astrazioni della  democrazia demagogica e del socialismo. Contro la decadenza e la  dissoluzione d’ogni gerarchia innestate dalla critica moderna, s’era levata, in  passato, la rivolta isolata di alcuni spiriti liberi (Stirner, Bergson e Sorel), ma -  era in Italia - proseguiva Rocca - che la reazione “anti-intellettuale”’ aveva  dato i frutti migliori e più durevoli, generando prima la riscossa nazionalista,  poi quella futurista e infine, nello sfacelo generale del dopoguerra, quella  fascista. Ma il fascismo, pur nella sua grandezza, era ancora, per il teorico  del revisionismo, «una energia formidabile ma grezza, contenente i germi  d’una creazione grandiosa, ma solo abbozzata nelle linee principali»”. La  pienezza restauratrice del fascismo - concludeva Rocca - doveva passare  attraverso la riscoperta della centralità e della missione della Chiesa  Cattolica Romana, unica depositaria della certezza del “dogma”. Negli ultimi  due paragrafi del suo libro - I/ valore del Cattolicesimo e Fascismo e  religione -, Rocca immaginava un ritorno al dogmatismo cattolico (un altro  ritorno, dunque, dopo quello al liberalismo), prefigurando addirittura, quale  approdo ultimo del fascismo, una sorta di nazional-cattolicesimo sotto  l’egida della Chiesa”. La critica di Rocca al moderno e la sua rivalutazione  della tradizione mostravano non pochi nessi con la contemporanea  riflessione del Suckert, senza tuttavia possederne né l’originalità, né tanto  meno l’anima romantica e sostanzialmente “rivoluzionaria””?. Puramente e       7° Ibidem, p. 220.   ?! Ibidem, p. 348.   ?° Il riconoscimento del cattolicesimo romano come base fondante dell’unità nazionale e, più  in generale, della religione come elemento di disciplina, non solo morale ma politica, sarebbe  stato al centro della riflessione di Rocca anche nel secondo dopoguerra. Sulle pagine di  «ABC», la rivista fondata da Giuseppe Bottai nel 1953, Rocca avrebbe ampiamente trattato  questi temi, sia sotto un’angolatura puramente storico-filosofica, sia in riferimento alla nuova  situazione politica italiana, indicando nell’autorità e nella dottrina della Chiesa cattolica  l’unico vero antidoto alla “degenerazione partitocratica” caratterizzante l’Italia repubblicana.  DA proposito dell’antimodernismo quale componente dell’ideologia fascista e della sua  centralità nella riflessione di Curzio Suckert, v. EMILIO GENTILE, op. cit., p. 276 ss., € MICHEL    161       deliberatamente conservatrice, la concezione politica dell'ex anarchico lo  faceva dunque assomigliare più a De Maistre che a Mazzini. AI di là di  queste considerazioni, era ormai chiaro che Rocca esprimeva posizioni  personali, che difficilmente, con l’eccezione di pochi intellettuali, avrebbero  trovato nel fascismo persone disposte a confrontarvisi (non a caso Roberto  Farinacci, il genuino rappresentante della base fascista, non avrebbe esitato a  farsi beffe degli scrupoli cattolici del suo avversario) ?*    Le elezioni del 1924 e la crisi del fascismo torinese    Massimo Rocca e Mario Gioda parteciparono alle elezioni nelle file del  “listone” governativo”. La candidatura di Rocca incontrò invero moltissime  difficoltà. Apertamente osteggiato dagli intransigenti, il /eader revisionista  dovette rinunciare a “correre” nel sicuro collegio di Torino (dove fu invece  candidato Gioda) ‘°, per accontentarsi di un posto in 1 quello di Milano/Pavia,  non senza incontrare le forti resistenze di Farinacci”. Sembra, peraltro, che  Gioda avesse condizionato la propria candidatura alla presenza nel “listone”  dell’amico Rocca. «Avendo'il Rocca — rilevava infatti un giornale torinese -,  con cui Gioda è pienamente solidale, accettato la candidatura in Lombardia,       OSTENC, op. cit., pp. 165 ss. Sul pensiero politico dell’intellettuale toscano v. la monografia di  GIUSEPPE PARDINI, Curzio Malaparte. Una biografia politica, Milano, Luni, 1998.   4 Non solo Farinacci, a dire il vero. E’ singolare che, proprio nel 1924, quasi a voler  rinverdire le polemiche d’anteguerra, la comunità anarchica di New York, gravitante attorno  al giornale «Il Martello» (uno degli organi più autorevoli dell’anarchismo italiano all’estero),  desse alle stampe un libretto, intitolato Dio e patria nel pensiero dei rinnegati, che, accanto a  vecchi scritti anticlericali di Mussolini e di Hervé, riproduceva il testo di una conferenza  tenuta da Rocca a Providence nel dicembre del 1910, allo scopo di dimostrare che il  mangiapreti d’un tempo era in realtà un “voltagabbana”. Due anni dopo, peraltro, il foglio  anarchico italo/americano non si sarebbe peritato di dar spazio ad un articolo dello stesso  Rocca (ormai un fuoruscito politico), violentemente critico nei confronti di Mussolini (cfr.  Massimo Rocca, La verità su Mussolini, «Il Martello», 14 agosto 1926).   75 Su tutte le vicende legate alla decisiva consultazione elettorale del 6 aprile 1924 v. RENZO  DE FELICE, Mussolini il fascista, cit., p. 518 ss.   1 Cfr. «Il Piemonte», 19/20 febbraio 1924.   ? Il ras di Cremona non fece mistero di non condividere la candidatura Rocca. Solo dopo la  diramazione della lista ufficiale dei candidati, avvenuta il 18 febbraio, Farinacci si rassegnò  ad accettare il fatto compiuto. «Ora che le liste sono approvate, col sigillo del Duce e del PNF  - scrisse con evidente disappunto - , dev’essere bandita ogni discussione, anche se nel listone  [...] V'è qualcosa d’indigesto; vi è il nome di qualcuno che credevamo che la rivoluzione  nostra avesse sepolto per sempre» (ROBERTO FARINACCI, Ora basta!, «Cremona Nuova», 19  febbraio 1924).    162       il Segretario politico del Fascio di Torino rimane candidato nella lista  nazionale*».   Quella di Rocca fu, necessariamente, una campagna elettorale in tono  minore”, né molto diversa — a causa della salute malferma — fu quella di  Mario Gioda*°; ciononostante, entrambi risultarono eletti alla Camera®'. Il  dopo elezioni aprì un’ennesima deflagrante crisi all’interno del fascismo  subalpino; crisi significativa perché, a prescindere dai fattori di ordine  ambientale, s’inscriveva nel più generale contrasto tra revisionisti e  intransigenti. Già all’inizio di febbraio «La Stampa» aveva posto l’accento  sui contrasti tra la «tendenza transigente [...] “filo-liberale’”» del fascismo  locale, «rappresentata da Massimo Rocca», e l’ala più, giottosa e ribelle,  nostalgica dei metodi squadristici, arroccata in provincia*. Come effetto di  queste lacerazioni intestine, la formazione della lista nazionale era stata  difficoltosa e, complessivamente, la percentuale di voti ottenuta; in Piemonte  da tale schieramento era risultata la più bassa d’Italia (il 43 12%) 8   A una settimana dalle votazioni, domenica 13 aprile, si riunì a Torino  l’assise dei Fasci provinciali. In un’atmosfera satura di tensione (il discorso    78 «Il Piemonte», cit.   ?° «Io — rinfacciò più tardi Rocca a Farinacci -, per disciplina verso il Duce, ho accettato di  abbandonare Torino, ove riempio i teatri con le mie conferenze a pagamento; e in Lombardia,  quando ho visto che i tuoi amici boicottavano la mia propaganda per farti piacere, me ne sono  andato, infischiandomi dei voti» (MASSIMO ROCCA, All'onorevole Roberto Farinacci despota  e censore, «Il Nuovo Paese», 15 maggio 1924).   ® La propaganda elettorale fascista fu inaugurata domenica 2 marzo con una serie di comizi  per la proclamazione dei candidati. Gioda non era presente al comizio torinese, ch’ebbe luogo  al Teatro Regio il martedì successivo, ma fece giungere all’assemblea una lettera  “programmatica”, nella quale si augurava che il confronto elettorale in Piemonte si  mantenesse nell’ambito della correttezza, come si conveniva ad una «lotta d’idee e non di  uomini», e professava «disciplina e fedeltà assoluta a Benito Mussolini» (// messaggio di  Mario Gioda ai fascisti torinesi, «Il Popolo d’Italia», 5 marzo 1924. Anche in «Il Piemonte»,  3/4 marzo 1924). Il segretario del Fascio torinese ebbe modo di illustrare direttamente il  proprio pensiero il 30 marzo, in un lungo intervento al Teatro Alfieri, che fu l’unica sua uscita  pubblica durante tutta la campagna elettorale (cfr. // forte discorso di Mario Gioda al Teatro  Alfieri, «Il Maglio», 5 aprile 1924).   8! Nelle 328 sezioni di Milano/città Rocca raccolse appena 413 voti di preferenza. Miglior  risultato ottenne in provincia, con 1.071 suffragi (cfr. «Il Popolo d’Italia», 10 e 11 aprile  1924). Di gran lunga più cospicuo il “bottino” elettorale di Mario Gioda: 5.694 preferenze in  Torino/città, 10.439 in provincia (cfr. «La Stampa», 8 e 11 aprile 1924).   82 Posizioni politiche e questioni di uomini in tema elettorale, Ibidem, 2 febbraio 1924.   83 A confondere ulteriormente le acque, accanto alla lista ufficiale si era presentato anche un  raggruppamento di fascisti “dissidenti”, guidato da Cesare Forni e Raimondo Sala, che  vantava un largo seguito tra gli agrari e gli squadristi più facinorosi e che pare godesse delle  simpatie di De Vecchi. Su tutti questi punti v. EMMA MANA, op. cit., p. 303 ss.       del segretario federale, Claudio Colisi Rossi, fu interrotto più volte), il  congresso si risolse in un tumulto generale, con violenti scontri tra i membri  del Fascio del capoluogo e i rappresentanti delle province”. Il punto era -  come ancora evidenziava «La Stampa» - che, dopo l’entrata in carica del  nuovo Direttorio, all’inizio di dicembre, e la svolta “normalizzatrice” avviata    da Gioda, 1 margini per una ricomposizione fra le due anime del fascismo  subalpino si erano definitivamente assottigliati.    di fascismo nella provincia — registrava l’organo giolittiano - tende ad avere una  Cuggino diversa da quella dell’attuale Direttorio [...], un carattere,  cioè, legalitario ma rude, antidemocratico ma ossequente delle gerarchie, quasi    intransigente, del tipo, insomma, che fu gi. è i  L de , È già ed è ancora definito coi i  schiettamente piemontese st GR    Nonostante da parte fascista si cercasse di minimizzare®, la gravità della  situazione era sotto gli occhi di tutti. Gioda, che non aveva preso parte alla  concitata assemblea provinciale, fu convocato a Roma dalla Direzione del  partito, «per chiarire la vicenda di Torino»®”. Le decisioni più importanti, in  realtà, erano già state prese, indipendentemente dalle valutazioni di Gioda  Sabato 19 aprile, Colisi Rossi annunziò lo scioglimento del Direttorio del  Fascio torinese e la nomina, in sua vece, di un triunvirato composto da Piero  Brandimarte, Alessandro Orsi e Pietro Gorgolini. Il provvedimento colse di  sorpresa Gioda, il quale, in un’accorata lettera a «Il Popolo d’Italia», lo  definì un «atto inconsulto e provocatore» e dichiarò di non riconoscere «nel  modo più assoluto [...] lo scioglimento del Direttorio del glorioso e  laborioso Fascio di Torino». La Segreteria Federale, forte  dell’approvazione dei vertici nazionali del partito, non si curò minimamente       84 pie È  si “a Incidenti ad un convegno fascista. Qualche contuso, «La Stampa», 15 aprile 1924.  86 x tt n   : In una lettera della Segreteria del Fascio di Torino al Prefetto (riportata da «Il Popolo  d Italia» del 16 aprile) l’organo giolittiano veniva accusato di «subdole esagerazioni». «Il  Maglio» del 19 aprile attribuì la responsabilità dell’«indegna gazzarra» a misteriosi  provocatori esterni, «elementi incoscienti, operanti per conto terzi».   «Il Popolo d’Italia», 18 aprile 1924,  Rs; situazione del fascismo torinese. Una vivace lettera dell'On. Gioda, Ibidem, 23 aprile  La lettera di Gioda era datata 21 aprile. Il giorno prima il segretario del Fascio torinese aveva  inviato un telegramma ancor più duro a Mussolini, definendo lo scioglimento del Direttorio  un «imbecillesco provocatore colpo di mano» e chiedendo la nomina di un «commissario    avente pieni poteri» che facesse piena luce su ;  pasa na $ quanto accaduto a Torino. ACS, MIN/S7%  DEGLI INTERNI, Dir. Gen. PS, Affari gen. e ris., 1924, Busta 73. e          delle rimostranze di Gioda ed anzi ne riprovò la lettera come una  manifestazione di «deplorevole indisciplina»”. Alla fine di aprile giunse a  Torino Achille Starace, in qualità di “supervisore””, Su decisione di Starace  il decreto di scioglimento del Direttorio cittadino fu esteso all’intero  Fascio”!, la cui ricostituzione venne in seguito demandata a un commissario  straordinario, nella persona del ras Ferruccio Lantini”. La nomina  dell’intransigente Lantini, uno dei più accaniti avversari del revisionismo, ad  arbitro delle sorti del fascismo torinese aveva un evidente significato  ammonitore”. Gioda, ormai sfinito dalla lotta contro la malattia, uscì  definitivamente di scena, assistendo impotente alla rovina politica dell’amico  Massimo Rocca”. Minato dalla leucemia, il quarantunenne ex tipografo si  spense in un ospedale torinese il 28 settembre 1924.   Quale che sia il giudizio sulle sue idee e sulla sua azione (che avrebbe forse  potuto essere più incisiva ed influente, se le tortuosità programmatiche del  fascismo, le difficoltà incontrate nella gestione del Fascio di Torino - in  particolare l’annosa contrapposizione con De Vecchi — e le sue stesse  esitazioni e insicurezze non lo avessero impedito), e sorvolando sulle  celebrazioni postume dell’oleografia fascista”, è certo che con Mario Gioda       89 «Il Piemonte», 23/24 aprile 1924.   90 Cfr. Ibidem, 25/26 aprile 1924.   ?! Cfr. «La Stampa», 6 maggio 1924, e «Il Piemonte», 6/7 maggio 1924.   °° Cfr. «La Stampa», 14 maggio 1924, e «Il Piemonte», 14/15 maggio 1924.   9 Non a caso, l’arrivo di Lantini a Torino fu salutato con soddisfazione da «Il Maglio» del 17  maggio. In un precedente fondo, l’organo fascista - che significativamente non aveva dato  spazio alla nuova crisi del Fascio torinese - aveva aspramente criticato i revisionisti,  affermando di non credere «alla utilità di mutamenti programmatici nei postulati fondamentali  del partito» e negando addirittura l’esistenza del fenomeno “rassismo” (Rassismo,  revisionismo e speculazioni avversarie, Ibidem, 10 maggio 1924).   Sull’intera vicenda v. anche EMMA MANA, cit., p. 306-308.   % Il 17 maggio, dopo l’espulsione di Rocca dal PNF, l° «Avanti!» s’interrogò su quali  sarebbero state le reazioni di Gioda, ipotizzandone le dimissioni, come già avvenuto in  occasione della prima crisi revisionista (cfr. Le ripercussioni a Torino per l'espulsione di  Rocca). In realtà, come riferì ad Aldo Finzi il Prefetto di Torino dopo un colloquio con lo  stesso Gioda, questi reagì «serenamente», ormai rassegnato, consapevole forse di non poter  cambiare il corso degli avvenimenti. ACS, MINISTERO DEGLI INTERNI, Gabinetto Finzi, 1924,  Busta 13.   si Esemplare, a questo proposito (oltre agli articoli commemorativi de «Il Popolo d’Italia», de  «Ii Piemonte» e de «Il Maglio», pubblicati all’indomani della sua morte), il già citato  volumetto La vita di Mario Gioda narrata da Giovanni Croce. Nel secondo dopoguerra, la  memoria di Gioda fu recuperata nella cerchia del sindacalismo di estrazione fascista (più  propriamente salodina), organizzato nella CISNAL. «Fondatore Mario Gioda» campeggiava  sul frontespizio della nuova serie de «Il Maglio», nel 1959, come “periodico del sindacalismo  nazionale”, In uno dei suoi primi numeri comparve un sentito ricordo di Gioda, firmato da    siii. ef .1.}       scompariva un protagonista appassionato di una fase cruciale della storia  politica italiana, una figura complessa e contraddittoria, in un certo senso    simbolo dell’irriducibilità del fenomeno fascismo ad un unico criterio  interpretativo.    Pa seconda campagna revisionista e la definitiva sconfitta di Massimo  occa    Alla fine di aprile, mentre si consumava la crisi del fascismo torinese.  Massimo Rocca riaprì formalmente il fronte revisionista, con l’intenzione 2  come confessò più tardi - «di giungere ad un risultato pratico di epurazione e  di chiarificazione»®. In una lucida intervista a “L’Epoca”, che riattizzò  immediatamente il fuoco delle polemiche, il neo-deputato ribadì uno ad uno  i capisaldi del revisionismo. Di nuovo, Rocca aggiunse un esplicito attacco  contro quelle «classi industriali». che, «prive d’ogni idea generale  nobilitante», s’illudevano «di assolvere ogni loro dovere verso la patria e la  civiltà» foraggiando i vari “capetti” fascisti, «in cambio di utili tranquilli»?”?.  Alla domanda, conseguente, se egli ritenesse possibile e opportuno un  «orientamento verso sinistra» del fascismo, Rocca replicò: «Verso una  sinistra politica, democratica o liberale d’idee, no. Verso una democrazia di  fatto, nel senso di appoggiarci su larghi strati di popolazione [...], si».   Il governo fascista - osservò Rocca -, uscito rafforzato dalle consultazioni  politiche, aveva il dovere, e insieme la necessità, di ampliare la propria base  favorendo, a tal scopo, «una profonda collaborazione» tra le diverse  componenti della società civile e del mondo del lavoro. Una collaborazione       Edoardo Malusardi, che di quel giornale fu usuale collaboratore (cfr. MALUS, Ricordando  Mario Gioda, «Il Maglio», 15 marzo 1959).  a MAassIMO Rocca, A Roberto Farinacci despota e censore, cit.   Il nuovo orientamento del fascismo. Intervista dell ‘«Epoca» con l'on. Massimo Rocca,  «L’Epoca», 27 aprile 1924. j  Rocca riprese questi concetti in un articolo del 10 maggio su «Il Nuovo Paese» (//  bolscevismo degli industriali). Il fascismo - scrisse in quella circostanza - non era nato per  tutelare gli interessi delle «cricche industriali/finanziarie». AI contrario, «troppi nuovi e  vecchi imprenditori vedevano nell’Italia un paese di conquista economica, proprio come certi  “ducini” pseudo-fascisti vedevano nelle città e nelle provincie un terreno di conquista politica  e militare». Tra i due deprecabili fenomeni - aggiunse Rocca — vi era un nesso profondo, in  quanto gli squadristi «dell’ultima ora» erano sovente finanziati da industriali e proprietari  «senza scrupoli».    Il nuovo orientamento del fascismo. Intervista dell ‘«Epoca» all'on. Massimo Rocca, cit,    166          di questo tipo, fondata sulla «solidarietà nazionale» e non «isterilita da pure  considerazioni economiche o da un’opera di gendarmeria a favore di una  classe sola», poteva darsi soltanto a condizione che il Partito Fascista  abbandonasse ogni residuo settarismo per divenire finalmente parte  integrante della Nazione”.   A queste considerazioni Rocca, incurante dell’invito alla prudenza fattogli  pervenire dallo stesso Mussolini!” fece seguire altri interventi - soprattutto  su «Il Nuovo Paese»! -, ogni volta tornando sugli stessi concetti. In un  articolo particolarmente duro per il giornale di Carlo Bazzi (una sferzante  requisitoria contro le «camarille locali» fasciste), Rocca, quasi presentendo  la resa dei conti finale, sostenne che la normalizzazione non poteva più esser  rimandata. «Dopo le elezioni — scrisse - , il Paese ha diritto di pretendere un  assetto “definitivo” del Fascismo [...]. Il 1924 dovrà assolutamente assistere  all’inquadramento completo [...] del partito nella Nazione»!®?,   Com’era lecito attendersi, le rinnovate accuse di Rocca destarono una  pronta levata di scudi da parte del fascismo provinciale. Questa volta, però,  Farinacci e gli altri ras trovarono un insperato alleato nel ministro delle  Finanze Alberto De Stefani, una delle figure di maggior prestigio del  governo Mussolini!?. E’ noto, infatti, che la seconda “ondata” revisionista       9 Ivi.   «L’Epoca», diretta allora da Titta Madia (subentrato a Italo Carlo Falbo), dedicò — almeno  inizialmente — molta attenzione alla seconda fase della polemica revisionista. Pochi giorni  dopo la pubblicazione dell’intervista a Massimo Rocca, il quotidiano romano ne ospitò  un’altra, anch'essa molto importante, a Giuseppe Bottai (cfr. Le origini e le finalità del  revisionismo. Intervista dell'«Epoca» con l'on. Bottai, Ibidem, 7 maggio 1924).   100 «Mussolini — ricordava Rocca a questo proposito - mi fece pregare, da Paolucci de’Calboli  Barone, di abbandonare la polemica; rifiutai qualsiasi impegno in merito, perché volevo [...]  giungere ad una chiarificazione definitiva» (MASSIMO Rocca, Come il fascismo divenne una  dittatura, cit., p. 170).   101 «Il Nuovo Paese» prese, di fatto, il posto che, nel settembre/ottobre 1923, era stato de  «L'Impero» e de «Il Corriere Italiano». Il favore accordato dal giornale di Bazzi al  revisionismo era però caratterizzato da un’ambivalenza di fondo. Tipico, sotto questo profilo,  un editoriale del 7 maggio (Polemica revisionista), in cui, agli elogi a Massimo Rocca si  accompagnavano critiche all’eccessiva «astrattezza filosofica» delle sue tesi, il tutto in una  cornice di disinvolta celebrazione mussoliniana. Fin dalle prime battute, dunque, apparve  chiaro che «Il Nuovo Paese» mirava a garantirsi una via di fuga, nell’ipotesi, rivelatasi realtà,  che i revisionisti finissero per soccombere.   102 MassIMO ROCCA, Politica interna e disciplina nazionale, Ibidem, 9 maggio 1924.   Questo articolo apparve nel contesto di una rubrica dal titolo programmatico di “Mezzi per  normalizzare”.   193 I] veronese Alberto De Stefani, deputato dal 1921 (era stato eletto - come si è visto -  nell’ambito della lista fascista patrocinata da Edoardo Malusardi), era entrato nel governo  Mussolini come ministro delle Finanze, ereditando, dopo la morte del popolare Vincenzo    167    s’intrecciò con la violenta campagna scatenata contro De Stefani da «Il  Nuovo Paese» nel tentativo di sottrarre i propri equivoci giri d’affari alla  temuta opera moralizzatrice del ministro'. Secondo Renzo De Felice, il  coinvolgimento di Rocca in quelle oscure - e mai del tutto chiarite - manovre  fu probabilmente il prezzo che egli dovette pagare per conservare il sostegno  di Bazzi”, ma è certo, in ogni caso, che il leader revisionista ebbe in tutta  quella vicenda una parte solo marginale. Rocca, del resto, negò sempre di  esser sceso in polemica personale con De Stefani'%; e in effetti, sfogliando i  suoi articoli di quel periodo, non vi troviamo che sporadici accenni a  questioni economico/finanziarie e mai un riferimento diretto al ministro!””.  E’ bensì vero che Rocca (il quale era convinto che il programma elaborato  con Corgini nel 1922 fosse il migliore possibile e non aveva mai digerito il  suo accantonamento da parte di Mussolini) '°° pubblicò un intero volume  contro la politica economica di De Stefani, ma è anche vero che il libro uscì  nell’estate del 1925, quando della polemica montata da «Il Nuovo Paese»  non restava che l’eco!?. D'altra parte, il discredito derivante a quel giornale       Tangorra, avvenuta nel dicembre 1922, anche il Dicastero del Tesoro. La sua azione di  governo, sostanzialmente improntata ai postulati del liberismo classico, si articolò lungo tre  direttive principali: raggiungimento del pareggio (grazie soprattutto al taglio drastico della  spesa pubblica e all’introduzione di nuove imposte); contenimento della dinamica salariale;  ripresa di un liberismo doganale “controllato”. Cfr. Dizionario biografico degli italiani, cit i  Vol. 39, ad nomen. 4 fe   Su questi punti v. RENZO DE FELICE, Mussolini il fascista, p. 451 ss.   «Il Nuovo Paese» rimproverava al ministro l’ostinazione nel voler perseguire a tutti i costi  l’equilibrio del bilancio, una politica definita esiziale per le risorse economiche della Nazione;  ma questa era - per così dire - l’accusa nobile, “di facciata”, essendo ben altri, in realtà, i  motivi dell’ostilità del giornale nei confronti di De Stefani. Tra le principali imputazioni  mosse al ministro, la più importante - perché più strettamente connessa agli interessi della  lobby sottostante all’iniziativa editoriale di Bazzi - riguardava i suoi presunti favori alla  potente Banca Commerciale (accusata di mirare al monopolio di tutte le attività industriali,  bancarie e finanziarie), a discapito soprattutto della Banca di Sconto, già in via di liquidazione  (ofr. Per gli uomini di buona fede, «Il Nuovo Paese», 14 maggio 1924).   si Cfr. Renzo DE FELICE, Mussolini il fascista, cit., p. 597.   In una lettera successiva alla sua espulsione dal Partito Fascista (pubblicata il 27 maggio  1924 da «Il Corriere della Sera»), Rocca si sarebbe detto amareggiato del fatto che il suo  nome fosse stato collegato alla diatriba «Nuovo Paese»/De Stefani, sottolineando di non aver  «mai attaccato» il ministro.  1°? Una sola volta, con l’articolo La tirannide finanziaria (pubblicato da «Il Nuovo Paese» il  14 maggio), Rocca prese ufficialmente posizione nella polemica contro la Banca  Commerciale.   Ra Cfr. MAssIMO Rocca, Come il fascismo divenne una dittatura, cit., p. 103.   Si tratta di Fascismo e Finanza (Napoli, Ceccoli, 1925). Il libro, che faceva parte della   collana “Pagine Politiche” diretta da Renato Massimo Angiolillo, raccoglieva il testo di un          dai suoi ripetuti e spesso triviali attacchi a De Stefani ebbe un riflesso del  tutto negativo sull’azione di Rocca. Se per i fascisti delle province  l’integerrimo uomo di governo divenne un simbolo e uno strumento nella  lotta contro gli “affaristi” romani"!°, all'opinione pubblica moderata, che  aveva accompagnato con simpatia la campagna a favore della  normalizzazione del fascismo, le accuse di quello che veniva considerato il  principale organo revisionista ad un conservatore come De Stefani (il quale  godeva, tra l’altro, della stima di eminenti personalità del mondo politico ed  economico liberale, come Luigi Einaudi) apparvero incomprensibili e  gratuite!!!, mentre fu subito chiaro che Mussolini non avrebbe mai    accondisceso a liquidare uno dei suoi più validi collaboratori.       discorso pronunciato da Rocca alla Camera dei Deputati il 19 dicembre 1924 (anch'esso,  dunque, posteriore alla sua radiazione dal PNF) e una serie di “note”, datate maggio 1925,  nelle quali l’autore illustrava dettagliatamente i motivi del suo dissenso dalla linea politica di  De Stefani, ribadendo peraltro la propria estraneità alla polemica tra il ministro e «Il Nuovo  Paese», e definendo una leggenda l’opinione in base alla quale egli sarebbe stato espulso dal  Partito Fascista a motivo di essa (cfr. /bidem, p. 4). Quanto alla sostanza delle sue critiche a  De Stefani, il punto di partenza di Rocca consisteva nell’imputare al responsabile delle  Finanze il suo «economismo» professorale - troppo legato all’arida teoria e perciò fine a se  stesso - e la sua incapacità, per converso, di valutare l’evoluzione «sindacalista» della  produzione, colta invece dal programma economico fascista del 1922. «Per un economista di  tal razza — argomentava Rocca — esisteva soltanto la libertà economica, cioè della classe  borghese, ma non la libertà politica, cioè delle altre classi», con la conseguenza di favorire il  dominio della «plutocrazia bancaria e affaristica», la quale rappresentava «l’applicazione  quotidiana, esagerata e unilaterale [...] della scienza economica classica e borghese» (Ibidem,    . 9-10).   Pi «La lotta contro De Stefani — scrisse Farinacci in tono minaccioso - deve cessare. Il  Direttorio del Partito deve intervenire e sconfessare ancora una volta il “Nuovo Paese” e i  suoi collaboratori fascisti. Un ministro fascista come l’on. De Stefani non può essere lasciato  aggredire da chi è privo di ogni diritto e autorità morale» (ROBERTO FARINACCI, Solidali con  De Stefani, «Cremona Nuova», 11 maggio 1924).   !!! palla giolittiana «La Stampa» (ATTILIO CABIATI, // ministro De Stefani, 14 maggio 1924)  ai filo-fascisti «Il Giornale d’Italia» (Polemiche interfasciste sul “revisionismo” e pro 0  contro De Stefani, 14 maggio 1924) e «Il Resto del Carlino» (FEDERICO FLORA, Per  l'onorevole De Stefani, 15 maggio 1924), la stampa liberale prese, compatta, le difese  dell’uomo di governo veronese, l’energico restauratore delle finanze pubbliche. Il commento  di Flora per il quotidiano bolognese è forse il più indicativo di questo comune sentire. «Nulla  di più enigmatico e di più doloroso per il pubblico italiano — scrisse l’articolista de «Il Resto  del Carlino» — della campagna ostile contro il ministro De Stefani, riuscito in soli due anni  con una politica finanziaria coraggiosa e sapiente, che ricorda quella eroica di Quintino Sella,  a salvare le finanze italiane dal fallimento e il credito della Nazione dall’estrema rovina». I  revisionisti, complice la campagna de «Il Nuovo Paese» contro De Stefani, apparivano  dunque, alla maggioranza degli osservatori liberali, per sostenitori della finanza “allegra”, al  punto che tutti gli altri argomenti (la costituzionalizzazione del fascismo, il ripristino della  legalità ecc.), che costituivano la vera essenza del revisionismo, finirono per passare in    169    fe TE avitbicee    In un’atmosfera carica di equivoci e di tensioni, Massimo Rocca si avviò  incontro alla sua fine politica. Le diverse posizioni, ancora incerte al  momento della sua intervista a «L’Epoca», si andavano d’altronde sempre  più definendo. «L’Impero», dopo un lungo silenzio, scese in campo a dar  manforte a Farinacci. In un editoriale del 10 maggio - J/ pugno e la  biblioteca -, Emilio Settimelli prese le difese dei “selvaggi” delle province  (il “pugno”), accusando i revisionisti (la “biblioteca”) di filosofare  vanamente sui massimi sistemi, tradendo l’anima “guerriera” del  fascismo". A parte la disinvoltura dei suoi ex alleati, è però indiscutibile  che Rocca si compiacesse troppo di se stesso, abbandonandosi sovente a  virtuosismi da erudito (come testimoniato da scritti del tipo di La rivoluzione  e le fonti del Fascismo, uscito su «L’Epoca» in contemporanea all’articolo di  Settimelli), col risultato — come si diceva - di togliere mordente e  immediatezza alla polemica revisionista, facendola apparire, appunto, uno  sterile e noioso esercizio di critica filosofica.   A strappare definitivamente Rocca alle sue speculazioni provvide il 13  maggio Arnaldo Mussolini con un fondo durissimo per «Il Popolo d’Italia».    Gli onorevoli Massimo Rocca e Giuseppe Bottai — scrisse il fratello del “duce” -, ai  quali non si può negare perspicacia nello studio di grandi problemi, si sono dati a  demolire, a precipitare ciò che andava semplicemente attenuato [...]. I patriarchi non  si mettono a fare la boxe coi capi di provincia [...]. Se non ci fossero stati gli  squadristi, se non ci fosse stata la violenza [...], l'ordine, la disciplina, la ripresa di  tutta la nazione italiana sarebbero lontano o lettera morta, e nemmeno i facili critici       secondo piano e che la liquidazione di Rocca sembrò infine un mezzo necessario per salvare  l’integrità dei bilanci. Persino «Il Mondo», l’organo dell’opposizione costituzionale  amendoliana, che pure precisava di non tenere per nessuna delle parti in causa e che, in ogni  caso, non aveva mai risparmiato critiche all’operato di De Stefani, convenne  sull’inopportunità della campagna contro il ministro. «Indifferenti come noi siamo a qualsiasi  esito - scrisse infatti il giornale diretto da Alberto Cianca — [...] di una cosa sola possiamo  rallegrarci: che non abbia vinto una campagna che appariva troppo minata da rancori e da  vendette di uomini o di gruppi che si erano trovati in contrasto con le ragioni dell’erario, ed  avevano sferrato contro l'ostacolo De Stefani attacchi di stile inusitato perfino nell’attuale  depressione del costume politico» (// caso De Stefani, 17 maggio 1924).   2 La logica del «pugno in opposizione alla biblioteca» - replicò Rocca a Settimelli -,  l’esaltazione cieca della forza, il mito della «giovinezza», avrebbero condotto il fascismo alla  dissoluzione morale (Massimo Rocca, // problema morale del fascismo, «L’Epoca», 15  maggio 1924). Il problema di educare — e quindi di responsabilizzare — i quadri fascisti era  avvertito dai dirigenti più accorti. Dopo la “marcia su Roma”, nel pieno delle polemiche sullo  squadrismo, Edoardo Malusardi - allora a Sestri Ponente - si era battuto per l’apertura, nei  locali del Fascio, di una biblioteca di cultura varia, in modo da offrire ai giovani fascisti  un'opportunità di crescita “etica” e “intellettuale” (cfr. «Giovinezza», 11 novembre 1922).    170             di oggi potrebbero parlare da Roma, sprofondati su le buone piazze, col gesto ed il  tono ieratico degli eunuchi"!    Le brusche parole di Arnaldo Mussolini, in perfetto stile “farinacciano”,  colsero di sorpresa Rocca. Posto dinanzi anche all’improvviso - ancorché  non imprevedibile — voltafaccia de «Il Nuovo Paese» ‘, Rocca provò  dapprima a parare il colpo con una dichiarazione nella quale precisava di  non aver mai inteso offendere le “eroiche” camicie nere; quindi, di fronte  agli insistenti affondo di Farinacci, si decise a pubblicare una lettera aperta al  proprio rivale. Benché traboccante di retorica, la lettera di Rocca era un fiero  atto d’accusa a Farinacci (il «viceré spagnolesco di Cremona») e al fascismo  provinciale che egli rappresentava, degenerante nella «volgare brutalità del  cazzotto o del randello»!!°. E” stato scritto, molto suggestivamente, che in  questo modo Rocca «ridiventava l’anarchico Libero Tancredi esi preparava  a riprendere la via dell’esilio»!!”. Non sembra, tuttavia, che Rocca si fosse  del tutto reso conto d’esser giunto al capolinea della sua avventura  fascista!'*, sebbene non fosse difficile prevedere, come riuscì a un giornale       !!3 ARNALDO MUSSOLINI, La Fronda, «Il Popolo d’Italia», 13 maggio 1924.  Lo stesso giorno, con grande tempismo, «L'Impero» titolava: «Gridiamolo ancora: il  Fascismo ha fatto la rivoluzione per avere uno Stato fascista, non per appuntellare lo Stato  iberale». 3 ‘gu i i  ni «C'è una fronda in giro? — si chiedeva il 14 maggio il giornale di Bazzi, riecheggiando il  titolo dell'articolo di Arnaldo Mussolini — Non ci riguarda. Noi chiediamo anzi che sia  spezzata». ; ;  115 [a dichiarazione di Rocca fu pubblicata il 14 maggio da «Il Nuovo Paese» e ripresa, il  giorno seguente, anche da «Il Popolo d’Italia» e da «Il Giornale d'Italia». Farinacci, sul suo  giornale, si disse indignato per quella che considerava un’autentica «virata di bordo» da parte  del suo avversario («Cremona Nuova», 15 maggio 1924). In realtà, Rocca si era DERER a  esprimere il proprio apprezzamento per gli squadristi della “vecchia guardia” (come sO resto  aveva sempre fatto), senza giustificare in alcun modo le violenze dei «teppisti pc  quelli «di tutte le seste giornate», ma anzi sottolineando che egli avrebbe continuato a attersi  per l’«epurazione all’interno del panic affinché questo potesse realizzare «il suo genuino  di disciplina legale e materiale». } {   Ne Masino i A Gale Farinacci despota e censore, cit. (la lettera si trova riprodotta  anche in ID., Come il fascismo divenne una dittatura, cit, pp. 175-184). j li  Contemporaneamente alla lettera a Farinacci, Rocca diffuse un comunicato con il cbr no  notizia delle proprie dimissioni da vicepresidente dell’INA, nonché da membro del consiglio  di amministrazione della Società Anonima per le raffinerie petrolifere di Fiume, una carica  che ricopriva da qualche mese (cfr. «Il Giornale d’Italia», 16 maggio 1924, e «Il Nuovo  Paese», 17 maggio 1924).   !!7 Yvon DE BEGNAC, op. cit., p. 341. è ti  18 In. effetti, ancora dopo che il Direttorio fascista ne ebbe sanzionato il definitivo  allontanamento dal PNF, Rocca nutriva la speranza che il suo caso fosse riesaminato, come  già era avvenuto in occasione della sua precedente espulsione. «Ed ora — avrebbe dichiarato il    171    dell’opposizione, che la sua lettera a Farinacci ne avrebbe «con tutta  probabilità» determinato l’espulsione dal partito!!?.   La sera stessa del 15 maggio il Direttorio fascista, riunito a Palazzo Chigi  alla presenza di Mussolini (precipitosamente rientrato da una visita ufficiale  in Sicilia), decretò l’espulsione di Rocca dal PNF!°°, Essa, commentava «Il  Popolo d’Italia», non era solo: i    la punizione ad un sedizioso, ma [...] un monito severo e una minaccia solenne a  tutti quegli pseudo fascisti o falsi fascisti che rinnegavano la Fede, offendendo la  Patria e turbavano colla smania e la follia dell’arrivismo quel che era il dovere  fascista più grande: [...] la ricostruzione nazionale"?!    Il Direttorio decise altresì l’espulsione di Giuseppe Bottai, ma questi, grazie  all’intercessione di Giovanni Marinelli («non si sa a quali eéindizioni»  probabilmente la promessa «di rientrare nei ranghi») '’?, ottenne la revoca  del provvedimento, cosicché Rocca si trovò, di fatto, a sostenere da solo il  peso dell’epurazione.   Nel giro di pochi mesi, dunque, il revisionismo passò da una concreta,  benché ingannevole, speranza di successo al più cocente fallimento, mentre       18 maggio a «Il Giornale d’Italia» — più fascista che mai, se il fascismo è legge statale e  disciplina spirituale, non mi resta che tornare ad attendere [...] un po’ di giustizia, non  Importa se più tardiva che nello scorso settembre».   «Avanti!», 16 maggio 1924.  120 :   Cfr. «Il Popolo d’Italia», 16 maggio 1924.  221 Ivi.   «Ogni commento da parte nostra - rilevava Farinacci trionfalmente — è superfluo. Costui  [Rocca], da noi, era considerato fuori del fascismo già da un anno» (ROBERTO FARINACCI  Virando di bordo, «Cremona Nuova», 17 maggio 1924). i   GIORDANO BRUNO GUERRI, op. cit., cit., p. 75.   La marcia indietro di Giuseppe Bottai addolorò Rocca, che ne attribuì la ragione alle  preoccupazioni carrieristiche del giovane intellettuale fascista. «Bottai — avrebbe scritto  Rocca trent'anni dopo -, allora giovanissimo, temette di veder spezzata per sempre la sua  carriera» (Massimo Rocca, Come il fascismo divenne una dittatura, cit., p. 171). Il punto è  che il revisionismo di Rocca e quello di Bottai, sebbene concomitanti, muovevano da  premesse culturali e ideologiche sostanzialmente diverse. Al contrario di Rocca, infatti, che  vantava una militanza politica prefascista di tutto rispetto, Bottai, fatta eccezione per la sua  breve stagione futurista, si era formato politicamente con il fascismo, al quale aveva dedicato  tutto se stesso, e di cui — se così si può dire - poteva considerarsi l’unico vero “intellettuale  organico”. Nonostante l’approccio critico, quindi, la fedeltà fascista di Bottai non era  assolutamente in discussione. Fu così — come sottolinea efficacemente Guerri - che Bottai, il  quale «credeva nel fascismo come teoria politica», non volle rinunciarvi «sempre  ripromettendosi di migliorarne la prassi», mentre Rocca, «assai meno fascista e anebra molto  anarchico, piuttosto che accettare la disciplina di un partito che considerava irrimediabilmente  marcio, preferì rinunciarvi del tutto» (GIORDANO BRUNO GUERRI, op. cit., p. 76).          Rocca veniva abbandonato al proprio destino”. Perché Mussolini abbia  deciso di sacrificare Rocca, di cui aveva personalmente preso le difese meno  di un anno prima, è questione di non facile interpretazione. La risposta può  essere ancora una volta ricercata nella duttilità strategica del “duce”.  Mussolini, infatti, coltivava ancora il disegno di un allargamento della  maggioranza, da realizzarsi soprattutto grazie a un’intesa con la CGL; un  progetto a cui il capo del fascismo teneva in modo particolare e che, se non  fosse sopraggiunta la vicenda Matteotti, sarebbe probabilmente andato in  porto.    Un'operazione tanto importante — ha scritto Renzo De Felice — doveva essere  realizzata con le minime possibili scosse interne. Gli intransigenti dovevano essere  convinti ad accettarla [...]. Se il prezzo o una parte del prezzo da pagar loro era la  fine del revisionismo e la testa di Rocca, Mussolini non poteva certo esimersi dal    Rocca fu quindi vittima d’intricate manovre politiche, ma è giusto ripetere  che egli scontò anche gravi errori personali. Con la sua definitiva espulsione       123 | commenti della stampa italiana furono variamente ma unanimemente favorevoli alla  decisione del Direttorio. Emilio Settimelli, su «L'Impero» del 17 maggio, ebbe parole di  stima per Farinacci («il suo programma semplice e schietto, energico e fiducioso, è il nostro  programma») e di riprovazione per Rocca («Massimo Rocca non ha una visione chiara e  sintetica della situazione. E’ farraginoso e analitico»). «Il Resto del Carlino», che aveva visto  con favore la battaglia per la legalizzazione del fascismo, rimarcò la degenerazione  personalistica della polemica revisionista — concretatasi negli attacchi a De Stefani -  augurandosi che «il Rocca si convincesse dell’opportunità di rientrare in un completo  silenzio» (// provvedimento contro l'on. Rocca, 17 maggio 1924). Con argomenti simili, «Il  Giornale d’Italia», pur riconoscendo la validità del revisionismo «degli inizi», ne criticò  l’involuzione dottrinale («non si capiva quale fosse la meta, per quali vie concrete  raggiungibile, che i nuovi San Paolo si proponevano») ed espresse soddisfazione per  l'avvenuta risoluzione della crisi (Nube risolta, 18 maggio 1924).   124 Renzo DE FELICE, Mussolini il fascista, cit., p. 597.   A una successiva riunione del Gran Consiglio del fascismo, il 22 luglio 1924 (in piena crisi  Matteotti), Mussolini si mostrò ancora moderatamente ben disposto verso certe tematiche  revisioniste. «Dichiaro — disse il “duce” - che io non ho ben capito ancora dove i revisionisti  vogliono andare a parare. Bisognerebbe che questi nostri amici specificassero. Si tratta di una  ricaduta nello Stato democratico/liberale con tutti gli annessi e connessi? Si vuole invece  rivedere i quadri ed i gregari? O si vuole — come sembrerebbe logico — rivedere le posizioni  morali e politiche del Fascismo per adeguarle alla nuova realtà, cioè al possesso del potere  politico? In quest’ultimo caso, il revisionismo avrebbe una reale utilità. E evidente che,  assunto il potere, bisogna diventare dei legalitari e non continuare ad essere dei “ribellisti”.  Oppure il revisionismo vuole condurci ad un riesame delle nostre posizioni programmatiche?  Il revisionismo, insomma, è una porta sul futuro, o è un ritorno al passato?» (PNF, // Gran  Consiglio nei primi dieci anni dell'era fascista, cit., p. 146).    173    dal PNF, Massimo Rocca (che non si dimise da deputato e presenziò  regolarmente alla seduta inaugurale della nuova Camera, il 24 maggio 1924)  ©’ concluse la propria militanza politica. Senza mai sviluppare una precisa  coscienza antifascista, per tutto il resto della sua vita Rocca mantenne,  riguardo al fascismo, un atteggiamento ambivalente (potremmo dire di  odio/amore), di cui è testimonianza il suo libro del 1954, Come il fascismo  divenne una dittatura. Fatto segno a minacce e persecuzioni", in un primo  momento Rocca - in accordo con altri dissidenti - tentò la via  dell’opposizione interna'””; quindi, alla fine del 1925, lasciò l’Italia per la  Francia, dove visse a lungo come appartato (in rapporti di reciproca  diffidenza con la concentrazione antifascista) e in ristrettezze economiche,  scrivendo saltuariamente per «Il Pungolo», il giornale diretto dal socialista  Dandolo Lemmi che raccoglieva anche molti ex fascisti espatriati in seguito  alla vicenda Matteotti (fra i quali Cesare Rossi e lo stesso Carlo Bazzi) !°8,  Dalla Francia Rocca passò in Belgio, proseguendo la sua collaborazione a       15 Cfr. «Il Giornale d’Italia», 25 maggio 1924.    Rocca, privato della cittadinanza italiana dopo l’espatrio in Francia, fu dichiarato decaduto  dal mandato parlamentare nel novembre del 1926. Cfr. Atti Parlamentari, Camera dei  Deputati, XXVII Legislatura, Discussioni, 9/11/1926.   126 Rocca fu aggredito più volte: le più gravi a Roma, tre giorni dopo la sua espulsione, ad  opera di Gerardo Bonelli, Gigetto Masini e Gaio De Nardo (rispettivamente il segretario del  Fascio di Genova e i comandanti delle squadre d’azione genovesi), indignati per i riferimenti  contenuti nella lettera di Rocca a Farinacci circa i legami tra il fascismo genovese e i gruppi  armatoriali liguri (cfr. «La Tribuna», 20 maggio 1924); e in Galleria a Milano, il 13 luglio, da  parte di alcuni facinorosi squadristi milanesi. Cfr. ACS, MINISTERO DEGLI INTERNI, Dir. Gen.  PS, Affari gen. e ris., 1923-1924, Busta 7 [Rocca comm. Massimo].   127 Un telegramma del Prefetto di Verona al Ministero degli Interni informava di una riunione  - avvenuta il 24 luglio 1924 in una trattoria di Peschiera -, nel corso della quale Rocca,  illustrando «il programma revisionista», propugnò «la formazione di fasci autonomi», che  avrebbero dovuto raccogliere tutti gli «elementi dissidenti degni di militare nel fascismo» (a  questo proposito Rocca lesse le adesioni di Cesare Forni, Aurelio Padovani, Raimondo Sala e  Pietro Marsich) e ricercare «la collaborazione dei combattenti e dei mutilati». Ivi.   Il progetto, caldeggiato da Rocca, di radunare tutte le diverse espressioni del dissidentismo  fascista intorno a un programma e a degli obiettivi comuni, prese corpo nella Lega Italica,  sorta su iniziativa del gruppo di Patria e Libertà — e sotto l’egida del poeta e drammaturgo  Sem Benelli, figura, se possibile, politicamente ancor più contraddittoria di Gabriele  D'Annunzio — a cavallo tra l’agosto e il settembre 1924. La Lega Italica, che avrebbe dovuto  costituire l’embrione di un vero e proprio partito dei dissidenti, si dissolse però nel giro di  pochi mesi, vittima dell’eccessiva eterogeneità e della fumosità dei programmi. Cfr. LUCIANO  ZANI, op. cit., p.420 ss.   ‘8 Cfr. ACS, CPC, Busta 4362 [Rocca Massimo].   Nel 1930, per l'editore parigino Alcan, Rocca pubblicò il libro in francese Le fascisme e  l'antifascisme en Italie, anticipante molti dei temi da lui in seguito sviluppati in Come il  fascismo divenne una dittatura.    174             ci 129  giornali e riviste — soprattutto di lingua francese’ - e sempre mantenendo,    nei confronti del regime, un contegno altalenante (nel 1935 lex anarchico  approvò pubblicamente l’impresa d’Etiopia, ma non ebbe esitazioni, in  seguito, a prendere posizione contro le leggi razziali). Rientrò in patria  soltanto nel giugno del 1948, dopo un periodo di detenzione nelle carceri  belghe", riprendendo a pieno ritmo la sua attività di pubblicista. Morì a  Salò, ormai novantenne, il 22 maggio 1973.       129 Tra questi spiccavano il settimanale «Cassandre» e il quotidiano «Le manna  entrambi editi a Bruxelles. Gli articoli di Rocca, per lo più firmati con pseu toni   il più ricorrente), vertevano principalmente su questioni di politica RENO È RAT:  136, Rocca fu arrestato subito dopo la sesta di sg Ù tgp ° so ta I È  Nel luglio del 1946 il suo nome apparve nella lista egl de ni   iale». L'ex anarchico negò sempre di aver avuto a che fare con nig   ela aa e nel maggio del 1948, su ricorso del figlio, St  cancellato dall’elenco (al riguardo v. MASSIMO Rocca, Come il dae pri, i  dittatura, cit, pp. 191-192). Ciononostante — a quanto i; a un FOA È  documentatissimo studio (MIMMO FRANZINELLI, / tentacoli dell OVRA. Seen co ADEN  e viftime della polizia politica fascista, Torino, Bollati Boringhieri, 19' ta pare ani  Rocca avesse fatto effettivamente parte dei quadri dell OVRA, celato sotto il nome    di Omero.    175    CONCLUSIONI    Le battaglie perdute sono generalmente dimenticate,  poiché i vincitori non sentono alcun interesse a ricordarle,  almeno quando si sono svolte entro uno stesso partito o una  stessa Nazione. Ciò non toglie che, se non gli uomini,  almeno le cose e le verità sconfitte alla lunga si vendichino,  attraverso le conseguenze del loro disconoscimento. Nulla è  più facile, ad esempio, che deridere e sopprimere certi  valori spirituali, quando si dispone della forza sufficiente  per impedirne la affermazione e persino il ricordo; nei  giorni della sventura tuttavia, cioè quando la forza vien  meno, si misura l’importanza negativa della loro assenza, e  meglio ancora la misureranno coloro che, più tardi,  cercheranno una spiegazione obiettiva agli avvenimenti  (Massimo Rocca, Una battaglia perduta: il revisionismo  del 1923, «ABC», 1 marzo 1959)    Con l’uscita di scena di Massimo Rocca, coincidente con il fallimento della  linea revisionista, ha termine questo libro. La caduta in disgrazia di Rocca  (cui si accompagnarono, pressoché contemporaneamente, la scomparsa di  Mario Gioda — e, prima ancora, la sua sconfitta politica - e il brusco  ridimensionamento delle residue velleità “libertarie” di Edoardo Malusardi),  può infatti essere assunta a limite cronologico della parabola storica  dell’anarcointerventismo, quanto meno di quella parte dell’anarcointerven-  tismo, qui presa in esame attraverso le vicende incrociate dei suoi principali  esponenti, che confluì nel movimento fascista. Se infatti, come giova  ripetere, sarebbe improprio, dal punto di vista della correttezza storiografica,  considerare l’anarchismo e il fascismo di Rocca, Gioda e Malusardi come  fenomeni correlati, quasi in relazione di causa ed effetto (perché il conflitto  mondiale comportò un’effettiva trasformazione della società italiana,  contribuendo a ridisegnare le tradizionali categorie politiche prebelliche; e  perché il fascismo, al di là delle sue molte anime, fu comunque un fatto  nuovo, impensabile senza la svolta epocale della guerra), pure, come  crediamo di aver illustrato, l’atteggiamento di fondo con cui questi  personaggi si accostarono al fascismo può in qualche modo esser ricondotto    177       alla loro formazione anarcoindividualista. In questo senso, riteniamo si possa  parlare della presenza, nel fascismo delle origini, di una piccola vena  anarchica, che, innestatasi in esso tramite l’interventismo, si esaurì,    progressivamente ma in modo inesorabile, con il consolidarsi al potere della  rivoluzione” fascista.  ‘Renzo Novatore’ -- Abele Ricieri Ferrari (Arcola) filosofo. Ferrari. Keywords: implicatura, l’anarchismo di Humpty Dumpty, la scusa anarchista dei fascisti, I anarchici di Mussolini. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Ferrari” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51761244808/in/dateposted-public/

 

Grice e Ferraris – filosofia italiana – Luigi Speranza (Galatone). Filosofo. Grice: “I like Ferraris – he analyses all the implicata of The Lord’s Prayer – pretty complicated – my favourite is his excursus on the implicatum of ‘thy will be done’” Figlio Pietro De Ferraris e Giovanna d'Alessandro. Studia a Nardò. Passa quindi a Napoli. Molte sono le conoscenze che fa all'Accademia. Entra in contatto con Gareth detto il Chariteo, Attaldi, Pontano, Gaza, Caracciolo, Pardo, Lecce, Sannazaro. Si laurea a Ferrara, dove soggiorna. Si trasferì poi a Venezia per poi ritornare a Napoli ed entrare nel giro della reggia partenopea, nella corte di Ferdinando I.  Si adatta a Gallipoli, dove si sposa Maria Lubelli dei baroni di Sanarica. La serenità della sua vita fu turbata dall'invasione di Otranto da parte dei Turchi. Cerca rifugio a Lecce annotando gli eventi drammatici che in seguito sarebbero stati il canovaccio per un'opera composta in latino. Si sposta ripetutamente fra Napoli, apprezzato dottore al servizio della corte aragonese, e la Puglia, sua zona d'origine e di residenza. Inizia anche a scrivere, inizialmente in forma epistolare. Manda i ringraziamenti a Ermolao Barbaro per la dedica ricevuta; è seguente la redazione di Altilio Galateus εὐ πράττειν e Ad M. Antonium Lupiensem episcopum de distinctione humani generis et nobilitate; e una seconda epistola a Barbaro e il saggio Ad Marinum Pancratium de dignitate disciplinarum.  Dopo la morte di Ferdinando e Alfonso II, abbandona Napoli non prima di avere composto l’Antonius Galateus medicus in Alphonsum regem epitaphium. Torna a Lecce dove forma assieme L’Accademia dei lupiensi. Scrisse Ad Chrysostomum De villae incendio, per celebrare la propria villa di Trepuzzi che era andata distrutta dal fuoco. Fu a Napoli, convocato dal re Federico d’Aragona che lo volle con sé, ma l'inasprimento del conflitto con Francia lo spinse a ritornare nella provincia salentina. Godette dell'ospitalità di Isabella d’Aragona, presso cui ebbe modo di comporre in latino lavori di filosofia, filosofici. Una delle pochissime trasferte dal Salento fu quella che effettuò a Roma presso Giulio II, a cui offrì una copia dell'atto di Donazione di Costantino, che era conservata nella biblioteca di Casole. Fu uno studioso che, come gli intellettuali suoi contemporanei, riuscì a coniugare una vasta erudizione umanistica con nozioni scientifiche. Le sue conoscenze erano di ampio respire. Il suo bagaglio filosofico include la cultura classica di Aristotele, Platone ed Euclide. Considera che la filosofia classica era stata traviata dai filosofi come Alberto Magno e Duns Scoto, e dei filosofi dei secoli bui salvò solo Boezio e la sua Consolatio philosophiae. Prediligeva la civiltà classica e autori come Omero, Senofonte e Plutarco; Terenzio, Catullo, Ovidio, Seneca, Svetonio, Virgilio e Orazio; e insieme il mondo del volgare, con letture di Dante, Petrarca, il Morgante e Sannazaro fra i tanti. Si interessa anche delle opere di Strabone, Tolomeo e Plinio. A questo patrimonio di conoscenze associò Ippocrate e Galeno.Non trascurò gli usi e i costumi della sua terra d'origine, e descrisse in termini molto particolareggiati le zone del salentino, illustrando con realismo Gallipoli ed esaltando uno stile di vita meditativo in alcune sue opere. Ma non sfuggì a Ferraris il quadro generale della società dei suoi tempi e della corruzione morale e politica che la attanagliava; e che fu anch'essa soggetto degli scritti di De Ferraris nei quali criticò la diffusione delle cattive consuetudini.  Il suo De Situ Japygiae e un autorevole trattato storico-geografico sul Salento.  Mentre era a Bari ha notizia della "Disfida di Barletta" e ne narrò per primo la storia nel suo De pugna tredecim equitum.  Altre opere: Oltre a saggi e trattatelli, compose le seguenti epistole: Ad Accium Sincerum de inconstantia humani animi, Ad Accium Sincerum de villa Laurentii Vallae, Ad Franciscum Caracciolum de beneficio indignis collato, Marco Antonio Ptolomaeo Lupiensi episcopus, Antonio Ptolomaeo Lupiensi episcopo, De Heremita, De podagral, Ad Chrysostomum, suo salutem de nobilitate, Ad Chrysostomum de morte fratris, Ad illustrem comitem Potentiae, Ad comitem potentiarum, Ad Maramontium de pugna singulari veterani et tyronis militis Ad Belisarium Aquevivum marchionem Neritonorum Federico Aragonio regi Apuliae, Ad Chrysostomum de morte Lucii Pontani Ad Ferdinandum ducem Calabriae,  ad Chrysostomum de pugna tredecim equitum, Ad Hieronymum Carbonem de morte Pontani, Ad Prosperum Columnam, ad Chrysostomum de Prospero Columna, phiilosophi praestantissimi de situ elementorum ad Accium Syncerum Sannazarium, Esposizione del Pater noster De educatione Ad illustrem dominam Bonam Sforciam, ad Antonium de Caris Neritinum episcopum, regem Ferdinandum, Beatissimo  Iulio II pontifici maximo; philosophi epraestantissimi De situ Japigiae ad clarissimum virum Ioannem Baptistam Spinellum, comitem Choriati, Ad Nicolaum Leonicenum medicum, Petro Summontio De suo scribendi genere, Summontio suo bonam valetudinem Callipolis description, Pyrrum Castriotam, Illustri viro Belisario Aquevivo, (Vituperatio litterarum), Ad Ioannem et Alfonsum Castriotas, Ugoni Martello episcopo Lupiensi B. V. La Iapigia. Itinerari e luoghi dell'antico Salento (Lecce, Messapica Editrice), “Gallipoli” (Lecce, Messapica Editrice). Galatone, che ha una strada "Antonio Galateo", onorato il poeta nel marzo con l’apposizione in Piazza Crocefisso di una lapide dedicata alla sua memoria. Dizionario biografico degli italiani, Treccani Enciclopedie, Galatone, in Treccani Enciclopedie.PULITEZZA SPECIALE, •tifi' m CONVERSAZIONI, ' r Or^ne delle eatwersmUmi e specie. M AUorohè, dopo il IX -secdb, ff mase sciolto quasi  ogni  vincolo  governativo  in  Europa,  ciascun  uomo,  secondo le  sue  forz6%  procurò  di  rapire  o distrug*  gerot  £Dibbmar  fortezze  per  difendersi^  o adonar  prmi  per  assalire.   Tra  gli  oggetti  rapiti  prìpieggiavano  le  donne  ragguardevoli  per  bellèzzà.   I  cavalieri^  o  sia  gli  uomini  a  cavallOy  che  più  de*  fanti  erano  anticamente  pregiati  alla  guèrra,  spinti  da  avidità  e  da  amore,  da  vanità  e  da  gloria»  ^i  assunsero  il  carico  di  difendere  il  bel  sesso  »  come  vedremo nèlF articolo seguente.Quindi 8i uoiiODD in croecbi talora ne' ciiBSteUi de'feudatari, talora nelle corti de' principi i cavalieri per fare  pompa  delle  loro  lAiprese,  le doniM/ per  onorare  i  loro  difensori  e  trarne vanto,  i  poeti  pec  cantare  il  valore  degli  uni  e  la  bellezza  delle  altrer  ^   «Le  donne,  i  cavalier,  ràrme,  gli  aniiori.   ,     »  Ile  cortesie,  le  audaci  imprese  io  canto  ».   •  Siccome  le  dame  e  le  principesse  «  l'oggetto  e-  »  rano  della  ^  poesia,  così  ne*  furono  le  sovrane  in  '  M  giudizio  e  prò  tribunali.  Imperocché  tenevano  »  nelle  lor  Corti  e  castella  corte  W  amore  o  par"  »  lamentoi  oyè  trattai^nsi  i  problemi^  le  cause,  le  »  liti  amorose  e  cavalleresche;  concorrendovi  gen-  »  iiluomini  e  dame  dappresso  e  da  lungi,  e  sopra-  »  tutto  poeti e cantori, quasi avvocati e giurisprudenti primarii a quel foro. Che  se  contenti  non  »  erano  {  litiganti. (kyUa  sentenza  de'{>ai:lamenti  »  »  allora  sorgevano  le  Tenzoni  o  sfide  poetiche,  eolle  j>  quali  r  un  contra  T  altro  scrivevano  i  trobadori  »  a  difesa  dìJoi^  eauÉT'e  di  lor  belle»  onde  erano  »  sempre  in  giro  messagi  e  proposte  e  risposte,  e  ^  *  lamenti  e  disQde  novelle  d'^inore  e  di  poesia  ^  Cresciuti  in  fom  i Governi ne*  suasegnenti se*  coli,  e  cessati  i  pericoli  delle  belle,  non  fu  più  necessario,,  per  ^ere  ammesso  in  queste  conver-  sazioni, Taver  rotto-  più  lancia  in  onore  d-ona  prin*  eipessa  o  d' una  ^lama,  ma  bastò  Q^ie  vi  scendesse    ^1)  BeUifiellf.   «      j  ^  oj  by  Google    vmmztA:  sfigxale  30&   «  >  Per  lungo   \  )>  pi  magoanimi  lombi  ordine  il  sangue  »  Purissimo  celeste  »;   per  appriezz^re  meglio  i  sentiBientì  del  poeta  e  salire  air  origine  degli  usi,  il  lettore  può  consultare  la  nota  (I).  .     *  ,    (4)  Xe  ài  Londra  del  28  maggio  4820  dicono:   Le  péU^ni  presentate  .alla  carte  dei  rUelami  nella  circo»  stanza  dell'incofonazione   delFattufide.re  d*  InghQterra),  cofi^   tengono  pretensioni  singolarissime,  e  che  ricordano  usi  antl-  .  chissimi.  il  conte  d'Abergaf enny,  come  signore  della  cascina  '  di  Sculton,  riclama  l'uffizio  di  capo  deUe  dispense^  cl:àedetìàa  .  .  di  farne  il  servizio  sia  personalmente,  sia  .col  mezzo  del  sup  deputato,  e  riclama  per  suo  emolumento  tutti  gli  avanzi  deUe  pietanze  e  delle  carni  dt^o  il  pranzo.   Due  petizioni  furono  presentale  dal  duca  di  Norfolck.  Colla  prima,  nella  sua  qualità  di  conte  maresciallo  ereditario,  egli  chiede  di  compiere  personalmente  o  col  mezzo  d'un  deputato  gli  idficii  di  primo  boUiqUm'e  d'Inghilterra,  e  di  ricevere  perciò  la  migitor  coppa. d'oro  con  «Q[M$relìio,  tp  rimarranno  sotto,  il  inezzule,  e  tutti  gii  orciuoll  e  coppe,  ec-  cetto quelli  d'oro  e  d'argento  che  resteranno  nel  celliere  dopo  il  pranzo.  Colla  seconda  petizione  li  nobile  duca  dimanda ,  come  signore  della  cascina  di  Workoop ,  di  presentare  al  r^  un  guaoto  di  mano  destra,  f»'di  soistoiieife  il  destro- liran^lo  dei  re  nel  menti»  ch'e^  tiene  lo  scettro  reale.   n  duca  di  Montrose,  grande  scui^ere;  dimanda  di  fare  il  servizio  di  sargente  di  lavatoio  dell'argenteria,  e  di  ricevere  tutti  i  piatti  e  tondi  d'argento  serviti  sulla  mensa  del  re  il  giorno  dell'incoronazione,  e  cogli  emolumenti  che  ne  dipen-  dono, ^e  di  portare  eziandio  gli  speroni  del  re  dinanzi  S..M.   n  8lg^  CampbeU ,  come  signore  della  cascina  fi  Lyston  ,  reclama  il  diritto  di  fiir  d^e  cialde  pel  re ,  e  d' imbandirle  jsulla  mensa  reale  al  banchetto  dell'incoronazione. Rimasero  quindi  a  poco  a  poco  e  dovettero  ri-  manere esclusi  i  poeti;  giacché,  se  nello  stato  pri-  mitivo delle  conversazioni,  mentre  il  poeta  si  mo-  strava ricco  d'idee,  vantavano  i  cavalieri  destrezza^  e  le  donne  pericoli^  nel  seguente  stato  il  poeta  ^  solo  sarebbe  rimaso  oggetto  degli  astanti,  quindi  ne  avrebbe  sofferto  la  vanità  degli  altri.   Muniti  di  privilegi  reali  ed  onoriQci  che  dalle  altre  classi  li  separavano,  facendo,  principalmente  in  Francia,  professione  d'ignoranza,  i  nobili  chiusero  ad  esse  la  loro  conversazione,  e  avrebbero  creduto  di  degradarsi,  se  alla  loro  confidenza  avessero  am-  messo chi  soltanto  di  talenti  o  d'altre  abilità  per-  •  sonali  si  fosse  potuto  dar  vanto  (1).    Appena  comparvero  leprime  scintille  delle  scienze,  i  pochi  spiriti  gentili  che  non  rimanevano  impa-  niati nelle  sensazioni  materiali  del  volgo,  provarono  il  bisogno  di  unirsi,  per  fare  acquisto  delle  altrui  cognizioni  e  dare  in  cambio  le  proprie.  Questo  bisogno  era  tanto  più  forte,  quanto  che  prima  della  stampa  altissimo  era  il  prezzo  de'  libri,  come  tutti  sanno;  nacquero  cosi  le  conversazioni  letterarie  od  accademie,  le  quali  da  principi  illustri  vennero  pro-    li) Esistono  scritture  del  XVH  secolo,  sulle  quali  persone  d*alto  rango  fecero  la  croce  perchè  non  sapevano  scrivere.   Nello  stesso  secolo  parecchi  parenti  del  celebre  Cartesio  si  sforzavano  di  cancellarlo  dalla  loro  memoria,  i)ersuasi  che  la  filosofia,  di  cui  egli  era  il  corifeo,  fosse  macchia  alla  loro  schiatta  (  V.  Thomas,  Eloge  de  Décartes  ).    Digitized  by  GoogI    PUL1tBZZ4  SPB€ULE  307   tette,  giacché  i  principi  illustri  non  temono  le  sciepze  è  sanno  che  degli  Stati  il  principale  pregio  son  MSe  e  lo  splendore.   Per  consimili  motivi  sors^  eonvecsi^ioni  di  pit»  tori,  di  musìei,  e  con  maggiore  coneorrenza,  giae*  €bè  la  capacità  d' apprezzare  le  bellezze  di  questo,  «ti  egregie  è  men  rara  di  qa$Ua  che  per  appres*  2are  le  scienze  richiedesi*   III.   Lo  spirito  di  commercio  svegliatosi  dopo  I."  un*  decimo  secolo  in  Itatta^  pisogfessivattiente  4)reseii|U>  ne' susseguenti,  fu  larga  fonte  di  ricchezze.   Si  vide  allora  che  si  poteva  essere  ricco  e  con-  siderato senza  essere  nobile  o  possessore  di  fondi.   Il  desiderio  di  far  pompa  di  ricchezze,  unito  al  bisogno  di  conoscersi  peraccrescere  le  relazioni  com-  merciali, formò  le  adunanze  de' commercianti.   La  ricchezza  de' mercanti  cozzò  colla  ricchezza  de*possidenti,  e  nette  città  libere  ottenne  quegli  o*  maggi  che  altrove  si  era  riservati  la  nobiltà.   IV.   La  classe  direttrice  de' lavori  nieccanlci  si  diviso  in  altrettante  masse  quante  sono  le  specie  di  essi.   L'analogia  de'lavorit  il  desiderio  d'imporre  legge  ai  lavoranti ,  la  necessità  di  conoscersi  per  ripar-^  tire  le  imposte  che  i  principi  esigevano  dall'  indu-  stria, rkniirono  i  direttoli  delle  varie  arti,  o  sia  i  fabbricatori,  in  altrettante  compagnie  o  cow/rafer-  nite  che  ebbero  te  loro  regole^  e  tennwo  le  loro  Mssioni  in  gicrni  determinati» Le'ricebezze  perdute  ddia  iiobiUàyer  ie  ragimif  ehe  diremo  ,  furono  raccolte  da  persone' intelligenti  e  attive,  che,  senza  appartenere  al  ceto  de'commer-  cianti  o  de'fabbrieatori,  sepp  ero  farle. vafere.  I<on  contente  delle  nuòve  ricchezz  e,  aspimono  tfUa  siderazione,  e -giunsero  ad  otxeaerla  colf  affluenza  de'commengali:  si  fòrmaronò  così  de'nuovi  erocebi  composti  d'ogni  specie  di  per  wne;  vi  si  vide  il  fit-  taittolo  che  viene  sovente  alla  città  per  ta  vendita  de'  prodotti  agrarii;  il  sensale  i  ^he  propone  de'oon-  tratti  prontamente  lucrosi  ;  il  basso  impiegato,  il  eol^  zelo  è  neoesBarìo  al  itadronc  )  nelle  sue  relazioni  col  Governo;  il  nobile  decaduto  »  cke  ha  semjj^re   '  «  4  \  '  ' .  prontf   :  1^  E  sali  e  frizzi  e  lepijdi  racconti  il  militare  che  più  d' ogni  altro,  abbisogna,  di  pia-  ceri rumorosi;  il  parassito  che   «   •  il  naso   »  Air  odor  dell'arrosto  arri  ccia  in  alto  »  e  ia  cambio,  dell'  arrosto  vende     le  novelle  della  ^ittà  ai  commensali,  e  del  padre  ne   «  Le  signorili  stupidezze  in  dora  ».   La  plebe  che  eseguisce  i  lavori  materiali,  non  rsi  cedeva  per  r  addietro  fuorché  .  «  pubblici  spet-  tacoli sulle  piazze,  o  per  bisogni  momentanei  alle  «osterie,  o  p^r  pratiche  religiose  nt.  Ue  chiese.^  Oc*  c  cupata  più  a  gozzovigliare  che  a  di.  «correre,  si  tro-  ìsava  inoltre  separata  dalle  altre  clas:  li  pel  sucidume  uii<cui  era  involta..    I  >   P  VI.   cause  per  cui    aprjiréao  eotmiaicaìiioDi  tra  .  le  varie  adunanize  sociali,  e  dalPana  aU^altta  Horo- membri  trasaugrai'ono,  sono  le  segueati:  li  La  passione  del  gioooa ,  Jartìssima  io  tutti  i  ^  tempi  e  per  faddietro  di  più,  come  vedremo  nel-  .  r  articolo  aegueote,  rappe  la  barriera  ciie  separava  la  nobiltà  dal  eomtnereio  :  alenai  n(*ili  noli'  ere-  .  d^ero  ài  avvitire  i  loro  stemmi  awicinandosi  ai  commercianti  col  non  troppo  nobile  desiderio  d'ot-  tener parte  del  loro  denaro  giuncando.  \   Molte  famiglie  nobili^  rimaste  rovinate  dalle  carte  dai,  dadiy  sen  tirono  pèr  csperieuza  ebe  tati  i  di*  filomi  gentilizi  non  bastavano  per  comprare  un  .  "Jbraceio  di  panno  o  una  libbra  di  caroe^  La  plebe  :Che  ne  era  stata  insultata,  cessò  dì  rispellartedacehè^  •'BOQ  le  vide  più  in  carrozza;  quindi  divenne  popo-  lare proverbio  i^e  nobiità  sema  ricf^M&ia  è  fimo  ■^enza  arrosto,   II.  Il  celiiba'oo  cui  erano  condannati  per  l' addic:  tro  i  AobiH  cadetti,  mentre  le  nobili,  fanciiille  sì-  •senti  .vano  tutte  chiamate  al  chiostro^  gli  spinse  non  -di  r jado  ìft  traccia  di  beUezse  plebee.  Usciti  dal  •  p»'iazzo  pàtrizio  ,  non  isdegnarona d*  ei^ar  nella»  1?  asaccia  del  calzolaio,  del  falegname,  del  parruc-  '  chiare,  ecc.,  e  talora  .   ^<   airaer  bruno   ,  . .  *  Seguir  fanciulle  che  espugnò  U  digiuno   fn  questa  caccia  la  nobiltà  contrasse  un  poMi  fango,  e,  quel  che  è  peggio,  si  lasciò  rapire  molto  sostanze;  quindi  per  doppia  ragione  scemò  di  credilo.    u   .1^ -o  Google    310  '  c     UBaO  TEMO   III.  I  principU  a  eui  Jiegli  scorsi  seeoli  a?éa  fatta   paura  la  nobiltà  potente,  colsero  tutte  le  occasioui  di  dìmìnùinie  i  privilegi^  fonte  di  copiose  riccbezze  e  maggtadri  angherìe;  qtuiidì  il  coectiio  chiB«ra  ti-  rato da  otto  cavalli,  non  ne  ebbe  che  quattro,  poi  due,  e  talvolta  rimase  polveroso  nella  rimessa;  audà  per  óonseguensa  diradandosi  la  nebbia  ehe  eòprìva  gli  alberi  genealogi  e  li  rendeva,  grandi  agii  occhi  del  volgo.  /     '  '   !V«  I^a  filosofia,  i  cui  delitti  som  precisamente  misurati  dalle  perdite  subite  dal  feudalismo  e  dalla  superstbUone ,  vantando  i  diritti  dei  meiito»  personale,  non  volle  riconoscere  alcun  valore  nelle  vecchie  pergameqe,  e  disse  ehe  nao  zoppo  «ansava  4'  essere  eoppo  perohe  sao  nóniio  aveva  avuto  le  gambe  diritte,  e  che  quiodi  doveva  essere  |RÙ  Stimato  -m  artista  che  con  indmtria  mmhit»  accresceva il suo peculio,  di  quello  che uni  nobile  .che  co^suoi  vizi  daya fondo  al suo  patrimonio. La  poesia,  più  coraggiosa  della  fttosefia  «  arA  supporre,  ridendo,  che  le  nobili  matrone  non  erano  siale  tutte  Luccesie,  e  che  talvolta  la  moglie  £^  eompaefréde'figli  men  patriasii  M attrito; iati soumi»  la  purità  del sangue  soggiacque  a  molti  dubbi  an-  che neU'opteione  dei  volgo*  il  quale  dà  sempre  ragione  a  chi  riesce  e  farlo  ridere  fP^.  l  pometti  dell'  inimitabile  Parini)  (1).  ,    (  I  )  la  onta  di  tutto  ciò  vi  sono  tuttora  pAreeehie  petsone  ebe  appresEiaiD  gli  stemmi  geiitittzii  ed  «scludono  dalla  lem  eon^   yersazione  clii  non  n'  è  fornito  ,  per  la  stessa  ideutica  ragione  per  cui  i  pacftUtici  apprezzano  le  stampelle.    Digitized  by    *FUI.mftM  SCftCIÀIii^  L'aumento  de'teatrì  dimiouì  il  concorso  alle  eonversaziODi  particolari;  quindi  restando  istesso  il  bisogno  di  conversare,  fu  forza  essere  meno  ritrosi  fieir  ammettere  nuovi  membri:  dapprima  Tetichetta  voleva  un  diploma,  posdà  sì  eratenlò  un  abito  di  seta.   VL  Le  invenzioni  teoriche  e  pratiche  mis^D  in  contatto  f  dotti  «  gii  artisti;  «iaseanaf  di  queste  elassi  *  seuA  il  bisogno  di  consultare  Faltra;  la  prima  per conoscere  de'£atti,  la  seconda  per averne  la  spiegazione: il  dotto  imparò  a  rispettar  Tartista;  Tar*  tista  s' accorse  che  i  consigli  del  dQtto  gli  potevano  essere  utili. Crescendo  i  punti  di  comunicazione  ed  i  contatti  sociali,  crebbero  i  bisogni  del  lusso  e  si  estesero;  quindi  ì  lavoranti  ottennero  meqo  scarsa  mercede  che  negli  scorsi  secoli;  disparve  così  a  poco  a  poco  «  almeno  in  parte  «il  sucidume  dalla  plebe,  ed  ella  potè  conseguire  un  abitof  ebe  sebbene  inferiore  nella  ùiìQZZà  a  quello  del  ricco,  ne  imitò  l'apparenza.   Vili.  In  questo  stalo  di  cose,  dissipato  il  fumo  géntìlizio,  si  vide  qtioli  persane  concorrevano  al^  fMienda  sociale^  e  quaU  na;  ciascuno  ottenne  un  valor  d'opinione  corrispondente  alla  ricchezza  (ca-  raitto  reale),  o  air  abilità  (caratto  pemnale)  di  cui  era  fornitQuindi  fu  concesso  un  grado  di  stima  alla  bassa  plebe,  fu  tolto  un  grado  .di  stinia  alla  nobiltà^  fu  diviso  il  restante  con  proporzione  graduale.   Lo  aprezzo  rimase  a  quelli  che  volevano  vivere  a  apese  aitnri,  questumuUh    '  i;  ^J9ibami^  a  quatti  dtie,  volevo   vivere  a  spese  altra«  TiAa^do*  '  "tkmf^^   lAi  pubblica  beneficenza  s'interessò  per  quelli  €he  erano  impotenti  al  lavoro  9  cioè  noa  eiano  caratìtisti  per  'maacanga  di  volontà»  ma  (fi  potere.   L'idea  che  tutti  i  carattisti  coDCorrevano  all'a-  mada  iMeiale^  e  ohe  ciaseuso  a?^  bisogno  degli  altri,  fece  allargare  le  porte  delle  conversazioiii  con  miituO'  vantaggio  de'  concorreati ,  come ,  v^^mo  i|iel  seguente  gitolo.  ^  : UtUità  e  nemtìtài  delle  coiwersaziQni*   •   Le  conversazioni,  questo  mezzo  di  felipità  sociale,  sì  pronto,  sì  innocente,  sì  facile  a  tatti  gli  uomini,  sì  convenevole  a  tutte  le  condizioni,  sì  necessario  a  ttttte  le  etsu  la  conversazk^ni  non  "potevano  sfug-  gire al  morso  della  censura;  giacché,  essendo  «w-  scettive  di  varii  aspetti^  offeivano  campo  ai  poeti  di  farne  delle  caricatore;  esseialo /cm^i  di  piaceri^  dovevano  essere  scopo  alle  declamazioni  de'.mora-  listi  pedanti.  Gli  uni  e  gli  aitiri  imitarono  le  due  donne  ddia  favola,  Tuna  delle  quali,  un  pp^  vec-  chia, strappa  al  marito  i  capelli  neri,  V  altra,  un  po'^ome^  gli  strappa  i  bianchi,  tantoché  il  po-  ver'uomo  finisce  per  restar  calvo.  Infatti^  siccome  chi  non  esagera,  non  djesta  che  lie^e  impressione,  perciò  ai  difettnedi  reali,  ddla  conv^aziòni.ne  fu-  rono aggiunti  de' fittizi!,  e,  secondo  il  solito,  si  bearono  degli  spetri  a  spavento  de'  fanciulli  e    Digilizeci  by  Google    .  '  '  'pulitezza  speciale-  313  •<  delle  irnmaginazioni  deboli  :  con  eguale  logica  si  'screditerebbe  il  sonuo ,  perchè  talvolta  i  sogni  ci  conturbano.  '  ^  *   §  1.  Influenza  delle  convérsaziàni  .  '  sulla  felicità  sociale.:'^     ^l,-   V.^J^  ?o^l  miseri  mortali  a  cui  sì  spesso   /      Il  tesoro  del  tempo  è  incarco  e  noia  »,   trovano  nelle  conversazioni  un  mezzo  d'innocuo  e  piacevole  trattenimento.  Qualunque  in  fatti  sia  l'origine  del  bisogno  di  sentire,  egli  esiste.  Questo  bisogno  ^>  -  ,  Ot '^vs.' .  >  i     •  ^  ,   i*;  ,   1.  È  forte  in  tutti  gli  uomini  dopo  il  lavoro,  lO;  studio,  gli  affari;  yi^^  .    *  .  .p       t  *  *  vr.rf   2.  È  più  forte  ne*  ricchi  sciolti  dall' obbligo  del  lavoro,  dello  studio,  degli  affari;  È  fortissimo  nelle  donne,  sì  perchè  dotate  di  maggiore  sensibilità,  sì  perchè  a  maggiore  mono-  tonìa di  vita  condannate  (1).     '   -y.  ^ . .  -7^   :  'Questo  bisognò  viene  alimentato  dall'istinto  della  sociabilità  che  induce  gli  uomini  a  raccogliersi  in-  sieme per  comunicarsi  a  vicenda  le  loro  speranze  o  i  loro  timori,  le  loro  pene  o  i  loro  piaceri;  quindi  vediamo  formarsi  unioni  sociali  sì  tra  le  orde  sel-  vaggie de*  deserti  come  tra  le  persone  più  urbane  delle  nostre  città.  Questo  bisogno,  a  guisa  di  ca-  lamita, attrae  spesso  e  lega  insieme  anche  le  per-  sone più  indifferenti,  e  perfino   »I   v^^^*  VI '•••i.'.-   ^  '  (I)  'Che  amabile  città  si  è  mai  Venezia,  mi  dicòva  una  signora  !  —  E  che  cosa  vi  avete  voi  trovato  di  sì  seducente?  Vi  parlavo  lutto  il  giorno.   ^    ,  18   Digitized    .  -  »  Siiiipatizzaat|r,c|oaìe  g&u^    cani  ».  ;   .  f  ■/  '       •  -  *  ...(..  ^   Le  converisaziooi  considerate  come  m^zo^  diaria*  nimsffe'lefoi^jHanguidife,  od^né^^  sensasibbi  plccaoti  sul!'  intervallo  che .  ì  bisogni  BOddisfatti  disgiiioée/'da!  bisogni  da  soddi^fàrsi^  fiume  parte  degfi  altri  trastulli,  e  sì  liiaocenti  sono  in  sé  stesse  come  un  passeggio  in  aoieap  giardino.  '   jL  1  piisicerf  die  gustiàoio  mila  «oUtodine^  ec-  cettuato il  caso  di  speciale  affezione,  illar^uidiscooo  pcesto  e  perdono  -parte  delle  lóro  attrattale.  AU'op*^  postò  "Àé^ii  GonAunicbiamo  agli  altri ,  sembra  ebò  si  riofolrzjao  e  si  estendano;  s^  polli  gustiaipo  in  loi^  '  oòqspàgnia ,  dnréno  di  «più  ^ .  ci;  «ièà^M  frià  cari /e  per  tutto  T  animo  si  diffondono,   >*  Ctf ombra  è  piacerj^se  noi  condisce  affetto  »  (I)..   -        '    '..   :  III.  In  un  crocichio  di*  p'ei'sone  che  si  stimano  e  si  amano,  cresce  il  senti  mento  delia  fór;ca  phe^inijoezaa  Bile  vicende'  sociali  ci  abbisogna.  Ciascuno,  oà^  noscendo  le  disposizioni  coniuaì,  appliea;,nella  sua  jAiente  le  foi^e  altrui  ai  b^ogni  [tfopri.  La  ooqt  yersazioiléio  accerta  che  in  caso  di  calunnia  tror  .'.Vei^^^U  apologisti;  di  rovescio,  de' protettori }  -iil^^^Qì^v  die^oonsigUen;  dWaoQK^t  delle,  perr   (I)  Possiamo  dunque  t^ccUre^  di  mansogna,!!  nolissinHi^  misaritropo  Timone:  pcanzàva  costui  lin  giorno  con  Apenuuito,  «Itr^  ihisaotrapo,  eelébnttido  ii»ienie  la  festa  delle  libazioni  •   fttfiebri.  Dopo  lungo  silenzio  Apemarilo  disse  :  Fa  d'  uopo  convenire,  o  Timone,  «he  il  nostro  pramo  è  molto  allegro:  e  questi  rispose  :  Lo  sarebbe  di  più  senza  la  tua  presenza.   sone  pronte  a  scemarlo  partecipandovi.  Questa  persuasione  abituale  reagisce  contro  i  vaghi  timori  che  o  nascono  neir  immaginazione  naturahnente,  6  dalle  mosse  de'  nemici  vengònb  prodotti;.  Bror  babilmente  egli  è  questo  il  motivo  per  cui,  he^po-  poli  che  concedorto  n^iplto  tempo  alla  conversazione,  non  suole  essere-"^ sovèrchia  T  inquietudine  sul  fu-  turo j  se  ne  potrebbero  trovare  esempi  a  Venezia  ed  a'  Parigi,  ^i-  't'^^-  ^'^^   S  if  J'Wflwnza  delle  conversazioni  u  ii.  V,.  ,  \^  sull'  istruzione.  v;   ì.  Alcuor  !eggoB(>  (>er  spacciare  le  loro  idee  nelle  conversaziobi^altri  per  non  mostrarsi  digiuni  delle  notizia  più  triviali.  .  i   /  ,  .   La  lettura  cominciata  per  vànìtà,  continuata  per  abitudirte,  talvòlta  in  passione  si  cambia,  e  i  fri-  voli gusti  tìghoreggia  o  discaccia. Chi  léggCi  o  per  istruirsi  o  innocentemente  in-  trattenersi, toglie  sempre  degli  istanti  alla  covi^  ruzione,  e  talvolta  le  toglie  de'  capitali^  per  la  compra  de' libri di cui  abbisogna.  "  .  I  gabinetti  di  lettura  sono  una  conseguenza  dello  spirito  socievole  dello  scorso  secolo;  si  procura  a  tutti  un  mezzo  d' istruzione  con  pochi  soldi.  '  Non  tutti  possono  leggere  tutti  i  libri;  ciascuno  è  costretto  a  ristringersi  nella  sua  sfera;  ma  nella  conTersazione  i  libri  letti  da  uno,  divengono  mezzi  d'istruzione  per  gli  altri;  in  caso  di  bisogno  egli  vi  dà  in  UQ  quarto  d'ora  il  frutto  di  dieci  ore  di'  lettura.   II.  Se  nelle  dispute  che  sogliona  nascere  nelle  conversazioni,  i  due  contendenti  restano  per  la  più  dèi  loro  parere,  l'influenza  delle  dispute  sulle  opi-  nioai  non  lascia  d'essere  reale,  giacché  V  i.  Gli  spettatori  disinteressati  formano  il  loro  giudizio  sulle  ragioni  allegate  prò  e  contra  dai  di-  sputanti. La  voce,  il  gesto,  il  tuono  di  essi  ren-  dono, per  così  dire,  più  acuti  i  tratti  del  loro  spirito  e  più  profondamente  neir  altrui  memoria  gli  imprimono;   :',  ilé.  Quegli  tra  i  contendenti  che  ha  torto,  e  che  nella  disputa  chiuse  gli  occhi  alla  verità,  non  con-  serva questa  ostinazione,  allorché  riflette  poscia  di  sangue  fredddo,  e  sovente  s'accosta  al  sentimento,  che  aveva  combattuto  (1);  •  ^  :/:if   IH.  In  una  conversazione  generale,  quegli  che  parla,  si  vede  cinto  d'una  specie  d'uditorio  che  lo  ^nima  e  lo  sostiene  :  questa  circostanza  da  allo  spirito  maggiore  attività,  alla  memoria  maggior   . fermezza,  al  giudizio  maggior  penetrazione,  alla  fantasia  de'  limiti  che'  non  gli  permettono  di  diva-  gare. I)  bisogno  di  parlar  con  chiarezza,  lo  sforza  a  dar  qualche  attenzione  allo  stile  e  ad  esporre  con  qualche  ordine  le  sue  idee;  il  desiderio  d'es-  sere ascoltato favorevolmente, gli suggerisce tutti I mezzi d'eloquenza di cui la conversazione famigliare é capace. Quindi la  conversazione  è  la  prima  . Intendo  qui  di  parlare  delle  persone  di  spirito  e  di  buonafede;  giacché  gli  spiriti  falsi  e  vani,  o  gli  uomini  di  parUto,  pe'  quali  la  conversazione  è  un'  areùa  óve  combat-  tono da  gladiatori,  non  aspirando  di  giungere  alla  verità,  ma  di  conseguire  un'  apparente  vittoria,  quesU  non  riescono  nelle  loro  dispute  che  a  raddoppiare  il  velo  che  ingombra  il  loro  intelletto,  e  a  vie  più  nelle  loro  opinioni  smarrirsi.    Google    e  la  migliore  scuola  per  gli  uQmini  che  ^  {tarlar  ia  pubblico  si  dispongono.         ;  -  '  Sj:  f   Air  opposto  un  uomo  che  vìve  solitario  nel  suo  gabjìiettOr  noD  stimolato  a  farpas^re.le  sue  idee  tìjrii'Mtrui'anittio,  noin^eriteiidosr'itvymffiairii  a  fronte^  non  avendo  obbie;{.ioni  da  combattere,  non  impà-  rérà.  fót^  gìàmàm  qiiest'acle  delicata  ebe  ^  coa^  vincere  gli  spiriti  senza  offenderV  amor  proprio,  ^•€0Dà  bel  garbo  costringe  l'altrui  inerzia  airesame  «j^ttì  prègiuritzie^  pungèndota  con  x^iche  tmjU*  piccante^  Altronde  sempre  solo  con  sè  stesso,  e  ^imsM  aggeUi^^L^4xm/twitoi  disposto  a  niguardmi  x^iascuna  4rfea-  che  gli  si  pcesèdtay.came^una  sco»>  perta  ;  non  mai  esposto  a  queste  piccole  lotte  di  ^cietà  che  danno*  si  prontamente  a  tiascufiei. la  •  misura  delle  sue  forze,  egli  inclinerà  a  formarsi  mt  ppinione  esagerata  de'  supL  talenti  e  ad  e-  Bpone  le  ^nierìdee  con  atìsi  fmpfariosa  edoffenshra.  Si  può  dire  delle  conversazioni  ciò  che  Alfieri^ dice  dei.  vhiggi;.v  •  '^^•^^^■j      'r<^  ^    *  '    Y|  sì  impara^  più  assai  che  in  su  le  cartCi   tH\  ^        ^'^^     ^  stimare  o  spregiar  l'uomo^  ^^^j  »;Ma  a.cònoscer  sè  stesso  e  gli  altri  jn  parte  v.   ^^i^ìLo  studio  ia£atti  de'libri  rie^oe  ua  mol^  languido  é.  ddN)le^  che  esercitai  non  agita!^  non  riseaMa  la  mente  come  la  conversazione.  S'io  discorpo  con  CdbustO/  ragionatore,  dicis  Montaigne^,  egli  mi  ein|[e e  iB.Incalza  da  tulteie  parti;  lé^sa$  fdee  ri^egllaiio  le  umi  la^^osàia,  la  gloria,  .la  QQnte^ziQpe  mi  spin-  .gena,  mi  riali^aho  sopra  di  me,  e  non  diradortni  presentano  nuove  combinazioni  ideali.   •  ;  -    Digitizeò  by  Google    S18  ^  LWM  tBBÌÙ.  "   4   §  3.  Influenza  delle  conversuA^ioni  .  sfil  costume*    U  de6Àderio  4i  piacere  a^i  atoi  vaddoldsee  ia  pale  mseefen  dèir  mm^i  ìnra  questo  Aderto  si  svolge,  ci  aDiina  nelle  conversazioni^  e  l' abitudiM  d!eq^ijmerl€t  forma  J'abìMdiBe  di  aeotirlo. Dacché  le  conversazioni  divennero  comuni, nac-  q[iie  ^  fiorì  «/quell'eleganza  di  tratto. e  quella  non  9  80  quale  gra^ìa^-d*  urbanità^  quel  ^Aresentorsi  plà  9.  disinvolto,  quel  più  leggiadro  atteggiarsi,  e  quei  n  versatili  modi  e  politi  cbe.  imlla  sentano  V  ioatr  titudiiie  6  TimbaMaso;  quindi  quel  wiàsm  wtm  u  più  dilicato,  e  que'  mutui  riguardi  e  qua'  molti*  »  pliei  uffieii  di  olviltàt  johe  quaai  ad  egiH  .ubante  »Ja  vanità  e  l'amor  proprio  dona  e  riceve.  Le  »  passioni  .medesinia  c)ie  erano  prima  iutratta*  ».iMtt'.,  Mnreggendo  in  pfttte  la  toc  nafitf  wtm^  i>  biaoza  ,  sonosi  anch'  esse  ,  dirò  così,  incivilite.  ^  L'oigo^iosa  superbia  si  è  maaobei^ata  sotto  la  »  spoglia  d'  doa  finta  modestia  ;  T  invìdia  siesta  »  sa  pronunciar  delle  lodi,  e  il  puntiglioso  e  caldo  ».  risentimento  V  obe  quasi  ad  ogni  parola  aveva  »  li  fuoco  negli  occhi  e  la  mano  sull'elsa,  ha  ».tesBiperato.  queir  indole  sua  ferqee  »;  si  è  im«  parato  a  dissimulare  un'offesa,  a  Dasedndelw  tipatìa,  a  rispondere  pacatamente;  e  benché  questa    re   P   if   M   lusinghiera,  gradita  e  di  realissimi  vantaggi  sociali  /ecandq,  ^jper-^^la.^[y&lio  ostacolo  a  mali gravU-. Finalmente  sogliono  non  pochi  giudicare  del  me-  nto 4'  uoa  pecfiona  dalla  sua  maniera  di  caavMr*  sare^'  nè,  si  eiitano  di  porre  al  vaglio  sue  buone  0  cattive  qualità^,  ma  ue^  formailo  giudizio  dalle  i-  dfie  cb'ella  .presenta:  Bé^ordeobi  sociali  ;  qoiadi  £0^  forza  entrare  nelle  società,  giacché  le  abitudini  del  -  ^eatil  couversare  aoit  possooo  in  soUngo  gabinetto  aljgnistarsi. Influenza  delle  conversazioni  ,  ^  '         sulla,  morale.   •   ^  h  AUotcfaè  gli  uomini  s'uniscono  in  conversevole  ecMohior^  49orge  tea  di' essi  un'  opinione  la  quale  condanna  gli  atti  che  riescono  nocivi  a  tutti  od  a  qualcuno  deglj  uniti:  ciascuno  ò  costretto  a  nascosi*  dere  1  eentiméQti  criminosi  che  per  avventura  cova  neiranimp.     .         *     -  \  ^   £  aiccMie.  anche  ci»  maàqa  éi  virtù,  vuole  mo-  strarne almeno  l'apparenza  ,  quindi,  se  qualcuno  d^li  uniU dà mentore  di  vì^i, la van^à  degli  altri .  si  uniseè  to6t»  pericaeeierlo  dal  loro  imo,  ae^  non  corra  voce  «che  lo  tollerano  o  f  approvano.  ^   Dnn^e  quanto  {mù.  erescé  lar  bc^ma  di  parteci»  pare  ai  piaceri  delle  conversazioni,  tanto  più  cre-  sQono  i.  motivi  per  isciogli^sii  dai  vizii  che  esse  ooodamiaiiD.  .   «  1  ref  mordendo  a  lungo  gioco,  è  d'uopo  »  Che  r  oprare  al  gridar  conforme  eqch^ggi  )\   II;  Screditando  gli  altrui  vizii  ciascuno  si  lusinga  ^  iter  provn  di  .contiaria  virtù;  quindi  neUe  con^  versazioni  cìascuoo  cbiSuna  a  ^indicato  la  riprove- r  vole  condotta  degli  estranei  od  assenti:  ciascuno  ride  delle  umiliazioni  cui  è  condannato  un  lecca-  zampe; ciascun  parla  con  orrore  d'un  tradimento;  ciascuno  sviluppa  le  circostanze  che  aggravano  un  delitto  ecc.  Escono  dalle  conversazioni  de'  gridi  che  chiamano  gli  sguardi  del  pubbblico  sul  ma-  gistrato corrotto,  sul  giudice  venale,  sull' ammi-  nistratore infedele  ecc.  ^  .         v'.  ;>;i^.\;.   Allorché  la  condotta  di  qualche  persona  potente  non  è  ben  nota,  ciascuno  degli  astanti  comunica  agli  altri  le  sue  viste  ;  si  mettono  al  vaglio  i  fatti  e  le  congetture,  si  confrontano  le  realtà  e  le  ap-  parenze; si  richiamano  le  notizie  anteriori  e  con-  comitanti ,  e  dualmente  si  giunge  a  smascherar  l'impostura.  •       .  *»;  v' Viii  ci/v^raKUi-   L'opinione  pubblica  va  ad  attingere  alle  conver-  sazioni i  documénti  che  giustificano  i  suoi  decreti  di  onore  o  d'infamia.  .  \  -  -i.  /  •  Le  conversazioni  sono  come  le  sentinelle  not-  turne che  ad  ogni  ora  si  comunicano  il  grido  di  sorveglianza,  onde  reprimere  ne' pubblici  pertur-  batori il  desiderio  di  far  del  male.  •  •  •>  •  ^.Le  conversazioni  offrono  il  destro  di  pronte  be-  nefiche soscrizioni  a  vantaggio  dei  poveri.  L'inte-  resse che  la  padrona  di  casa  sa  destare  neiranimo  de'suoi  amici  a  favore  d'una  famiglia  o  d'una  classe  sventurata  ,  il  desiderio  comune  di  dare  prova  di  generosità ,  l'altrui  esempio  che  fa  forza  anche  ai  più  renitenti,  tutto  concórre  a  far  riuscire  imme-  diatamente un  progetto  generoso,  che  senza  le  con-  versazioni resterebbe  sventato  o  verrebbe  troppo  t^rdi  ;  quindi  con  piccolo  incomodo  degli  astanti si  raccoglie  ia  più  orocebi  una-samiQil  ragguai:de*  -  voìfi  e  safficieate  ^1  Jbisoguo  (1).    §     Influenzji  delle  eonverisazioni  sulte  càrtL   Le  conversioni  avviemando  giornalmente^  uomini ,  e  ciascuno  bramando  di  comparire  ricco  e4  legaste,  €i:e5C0ifo  i  compratori  dette  merci  4^.e  adornaao  le  persone  e  le  case  ;  quindi  si  eslesero  toi^amei^te  l^.arti  così  dette,  di  lusso.  Il  popolo  firàneese ,  "^tmiò  H  quale,  è  massimo  il  bisogno"  di  conversare,  è  divenuto  il  dominatore  della  moda.   JBari'addietrqi  etmano  scarsissime  le  conversazioni,  e  moltissimi  gli  obbriachi  ;  ti  capitale  che  ora  si  spende  in  abiti  ,. allora  sj  spendeva  in  bagordi.  .  Quelii  cbe  ftnaot rimprovero  alla  filpsofia  d'avere  esteso  lo  spirito  di  socievolezza ,  son^  costretti  a  dire  cAte-  un  uomo  ubbriaco  jè  preferibile  ad  ,un  nomo  legante.  *  -   Per  disgrazia  dell'  umanità  questi  Ostrogoti  sitrovano  talvolta  alla  testa  degli  St^i ,  e  con  ottime    (4)  A  Verona,  trovandomi  unà  sétat  alla  convetsadon'e  •  d^iHia  signora  che  non  soleva  andare  al  teatro  ,  ma  univa*  nella  sua^eas£i  vaeii  amici,  ella  ci  disse  :  Signori  :  dimani  a  sera  no^  qi  vedremo,  perchè  uadcò  A  teatro,  t  t:ome  al  teatro  t  ^  Si,  gbusehè  la  serata  va avaatagato  ^ povecL^-  .  Dunque  ci  vedremo,  risposero  tulli..  fiaÉattì'  la  ««ra.  susse-  guente non  solo  ciascuno  degli  astanjti  andò' ài -tealro ,  ma",  condusse  seco  quattro  o  cinque  amici  ^  cosicché  il  palco  déUa  signora  fu  un  andirivieni  continuo,  ed  una  specie  di  goecrà  a  ÌMdamà  V  ini4$mt0  >  la  ^àte  si  fonava  neUa  sua  sconfitta.  —  Beco  la  ^àvOlz^adone  :  beaefioenònt  ìuoit^  alpia^.  cerei  onore  al  bel  sesso  cbe  la  proinoveiL   intenzioni  li  rovinano.  Pio  IV,  declamando  contro  l'uso  delle  carrozze,  indusse  i  cardinali  a  caval-  care le  mule  ;  si  moltiplicarono  le  mule  in  ragione  de'capitali  che  non  erano  più  impiegati  nelle  car-  rozze^  cioè  le  ìnule  presero  il  posto  degli  artisti.  Non  vi  par  bella  e  sensata  questa  trasformazione?  Andate  avanti,  beatissimo  Padre,  e,  giusta  le  mas-  sime predicate  da  altri  moralisti  (1),  induceteci  a  privarci  del  cappello ,  della  giubba,  delle  calze,  delle  scarpe  ;  e  così  dopo  d'  aver  fatto  sparire  gli  artisti ,  se  pur  questi  vorranno  sparire  senza  ca-  gionarvi qualche  timore,  venderete  le  vostre  der-  rate agli  uccelli.  *  .  r  <  V.:m!v:ì1|ì;*>>  :\  .  Torniamo  al  fatto  :  in  forza  delle  conversazioni  si  sono  cambiate  le  abitudini  economiche,  e  Tele-  ganza  è  sottentrata  all'ubbriachezza-  Quella  massa  di  liquori  che  per  Taddietro  consumavasi  da  un  solo  con  danno  della  salute  e  della  ragione,  ora  sopra  dieci  innocuamente  si  distribuisce,  cioè  sopra  gli  artisti  che  fabbricano  cose  comode  ed  eleganti.   Dunque  nell'aumento  delle  conversazioni  hanno  guadagnato  le  arti  e  la  morale.  r  II  lettore  che  non  fosse  abbastanza  persuaso  de'  vantaggi  che  ho  attribuito  alle  conversazioni  ed  in  generale  allo  spirito  di  socievolezza,  è  pregato  a sospendere il suo giudizio sino all'articolo secondo,  ove  esaminerò  gli  usi  e  i  costumi  de'tempi  barbari  e  semibarbari  ,  ne'quali  di , socievolezza  non  v'  era  quasi  traccia.    ,  (^)  Accennate  nel  Tranató  del  Inerito  e  ^elìt  KieomfitnUe,  toro.  II,  pag.  8087.    1   «  Gli  oMPOstt  Oggetti   V  Rende  più  chiaro  il  paragoo.  Distìngua  ,  »  Meglio  ciascun  di  noi  ;   .»  .       ic.i»    :  .  .n  NeimalehegIiattnopprm««4lb9A€   -  . Scelta  deHe  tantféfsaatcni:    r  .f'/.v;r   li  Cki  .vcdesgft  sfogare  il  coosoitia  di  tutti  f   reprobi,  correrebbe  pericolo  di  viver  solo.   Pupi  restare  ia  casa  nfm  ioKdarti  kfijoarp^t  ma  restando  in  casa  ti  privi  d'una  passeggiata  utile  e  4^Uzio9a«   Dpnque  non  potendosi  p^r  noi  crear  uoniiiil   perfetti,  sarà  sempre  miglior  consiglio  accrescere  la  forza  della  j[M*opria  virtìi5  di  quello  che  i'irrita-  ^  biKtà  agli  altrui  vizi;  ^  ^  .   Dire  che  aoa  dobbiamo  essere  cestii  a  lordarci  ^  le  weqMi  pi^  jurooucarci  una  buona  passeggiiitaii  nm  è  dire  che  dobbiamo  innoitrarci  nel  fango  sìao  agli  occhi  e  con  pericolo  di  spezzarci  una  gamba  :  per  anpdogìa  dite  lo  stesso  delle  conversazioni.   Adombrati  gh'  estremi,  dirò  al  giovine  che  nella  soelta  delle  conversazioni ,  più  ctie  gli  adulti  ed^  i  veoohi  egli  debb' essere  riservato  ;  giacché ,  man-  candogli la  loro  esperienza»  può  facilmente  .restare  tra  queMaeei  che  essi  spezzerebb^o..   Inoltre  il  credito  degli  adulti  e  de'  vecchi  è  già-  formato  ;  le  loro  buone  qualità,  sona  note ,  un'abì-  .  tudine  provaUi  da  più      "risponde  ad  ogni  dub*  bia  apparenza.  All'opposto  il  giovine  dee  tuttora  £ar  nascere  questa  b|io)ML, opinione  neir^ltrui  animo^    Digitized  by  Google    *  "^à4   -  è  di  hidd^oi^eail  giadhao  ebe  gU/a^  dì  noi,  quando  dalie  persone  che  fréquentiamo  ci  giudicano  ;  e  fa  d' uopo  osservare  che  la  yafiitÀ  vieta  lo«o  di  cambiare  j&KitiAièDte  h  ptàtàà  opi-  nione che  di  noi  concepirono,  vera  o  falsa  che  ella  sia,  Dun(]ue,  beii|^è  ^^iva  Aacora  molto  istrutto ,  otterrà  il  giovine  più  gradi  di  stima  se  correrà  voce  eh'  egli  conversa  . spes$p.^^£on  parsone  di  me-  rito e  gode  fa  loro  confidenza.  Là  conversazione  colle  ballerine,  colle  persóne  di  dubbia  fede,  o  p^leseqiente  scelleraté,  macchia  la  riputazione  di  clrinncpie:  i  càm  'lodtì  insudiciano  queUi  tui  ft^no  maggiori  carezze.  '      '  '   IL  Tutti  .consigliano  ai  giovani  di  non  trovarsi  nelle  conversazioni  bve  s!  tengono  giuócW  d'at^  zardo;  giacdiè,  quaiunqué:  sia  la  lóro  risoluzione ,  ossi  finiscokio  peir  teàdere  e  rovinarsi;  Essi  cedono,  alte  suggestioni  ed  all' esempio  altrui,  al  timore  d'essere  dichiarati'  spilorci,  paurosi,  vili  o  schiavi  d^e^voiéiri  patemi  ;  essi  cedono  «1  defsiderlo  di  ìdlve*  .  nire  prontamente  ricchi,  desiderio  che  prontaménte  SI  a<^de  e  divamìm.  aUa  Tista  deU'oro.^"    T  '  tia  passione  del  giuoco  ,  principalmente  sé  è  {giuoco  d^azzardo,  produce  i  seguenti  danni. Perdita deità feliùità  ifolividuale.  Le^^- òende  del  giuoco  *  quand' anche  siano  favorevoli,  -  CHceitano  scosse  si  rapide  e  sì  gagliarde  che  confi-  ììano  ^co)  dolore;  Ora  queste  scossè  ^gliono  por  :  "lo  più  essere  sinistre  ,  giacché  la  massima  parte    D'altra  parte  la  brama  dell'oro  che,  in  vece  di  restare  sazia,  cresce  colie  vincite ,  ed  è- tormentata  dalie  >peràite,  'la  brama  aìzsata'dell'oro  è  i|tra  caiH    crena  ciie  rode  l'animo  del  giuoeatore,  è  una  sot-  tile fiamma  che  lo  consuma.  Ommetto  di  parlare  de' suicidi  prodotti  dalle  perdite  nel  giuoco.   2.  Perdita  della  salute.  È  questa  una  conse-  ^  guenza  dell'accennato  stato  dell'animo.  Infatti  sotto   razione  ripetuta  del  giuoco  si  sviluppa  un  carattere  irascibile  ed  una  viziosa  energìa  di  sensibilità  che  alla  macchina  corporea  riesce  sommamente  nociva  ;  perciò  la  massima  parte  de'giuocatori  sono  decre-  piti a  40  anni.  '  *  *      r  -v  -^^   3.  Perdita  delle  sostanze.  Per  un  giuoeatore  arricchito  dal  giuoco  ne  conterete  cento  rovinati.   4.  Perdila  delta  fama.  Cicerone,  per  iscreditare  i  giudici  di  Clodio ,  li  paragona  a  quelli  che  fre-  quentano le  case  di  giuoco.  —  Benché  tutti  i  gio-  catori non  siano  persone  infami ,  ciò  non  ostante  la  massima  parte  non  lasciano  d'essere  riprensibili  perchè  si  espongono  al  pericolo  di  divenir  tali.  .   Nissuno  dà  la  sua  figlia  per  isposa  ad  un  gioca^  tore  ;  nissuno  lo  accetta  per  compagno  in  uh'  in-  trapresa; nissuno  lo  vanta  per  amico  ;  nissuno  lo  vorrebbe  per  padrone  ;  ogni  padre  vieta  a'suoi  figli  la  di  lui  compagnia  come  la  peste.   5.  Perdita  della  sensibilità  ai  piaceri  intellet-  tuali e  morali.  Siccome  le  persone  abituate  all'uso  del  più  acuto  rapè  divengono  insensibili  ai  soavi  effluvii  del  garofano  e  della  rosa,  così  le  persone  abituate  alle  scosse  gagliarde  del  giuoco  rimangono  insensibili  ai  piaceri  della  commedia ,  della  trage-;  dia,  della  pittura  e  delle  altre  arti  belle;  quindi  1*  momenti  che  i  giocatori  non  impiegano  nel  giuoco,  sono  occupati  dalla  noia.  Il  giuoco  accresce  il   bisogno  di  sentire,  e  diminuisce  il  potere  di  sod-  disfarlo. Il  giuocatore  s'espone  al  pericolo  di  perdere,  e  perde  talvolta  quell'unico  denaro  che  è  necessario  alla  sussistenza  de'  figli  e  della  moglie  ;  la  sorte  infelice  di  questi  fa  dunque  minor  impressione  so-  pra di  lui  che  il  bisogno  di  giuocare:  in  quale  punto  sarà  sensibile  il  di  lui  animo  alle  loro  carezze  ?   Un  giovine  dedito  al  giuoco  sfugge  la  compagnia  de'  suoi  genitori ,  sdegna  i  loro  innocenti  piaceri ,  sprezza  i  loro  consigli ,  amareggia  i  pochi  istanti  della  loro  vita,  diviene  ladro  domestico,  e  talora  i  disonora  con  azioni  che  gli  fruttano  la  prigionia  0  il  capestro.   6.  Perdita  del  senso  comune.  Ogni  giocatore  sragiona  cosi  come  sragiona  il  volgo ,  allorché  dai  sogni  deduce  ì  futuri  numeri  del  lotto.   L' abitudine  di  prendere  per  norma  a'  suoi  giu-  dizi i  rapporti  fantastici  delle  cose  distrugge  l'abi-  tudine di  consultarne  i  rapporti  reali ,  costanti  e  ragionevoli.  Un  giocatore  non  avrà  vergogna  d'at-  tribuire la  sua  perdita  alla  sua  scatola;  un  altro  alla  presenza  d'un  nemico  ecc.  ;  alcuni  non  gio-  cano che  denaro  tolto  a  prestito ,  quasi  preserva-  tivo contro  la  sorte  ;  altri  destinano  parte  delle  yincite  ad  opere  pie,  quasi  pegno  di  vincita,  ecc.  !!   L' idea  del  guadagno  allorché  soggiorna  lungo  tempo  in  una  testa  debole,  ardente,  soggiogata  da  ;  vane,  combinazioni,  converte  il  dubbio  in  certezza,  e  fa  riguardare  come  infallibile  ciò  che  fervida-  mente desidera.  L'illusione  è  sì  forte,  che  non  è  distrutta  dall'esperienza  delle  perdite,  e  in  onta  di  esse  rinasce  e  si  rinforza. Gli  animi  fórtenfienté  agitati,  dice  Tacito,  incli-  nano alla  superstizione,  cioè  la  causa  delle  loro  sventure  riconoscono  in  cose  o  parole  incapaci  di  produrle  ;  quindi  le  invocano  o  le  maledicono,  ne  sperano  o  ne  temono.  La  fortuna^  nome  vuoto  di  senso,  agisce  sull'animo  de'giocatori  cóme  se  fosse  un  ente  reale  :  a  lei  attribuiscono  le  vincite  e  le  perdite.  La  fortuna  è  un  concorso  di  cause  ignote  ove  la  temerità  fa  tutto  y  e  la  prudenza  nulla. I selvaggi dell'America ,  dice  il  padre  Lafiteau,  si  preparano  al  giuoco  con  austeri  digiuni ,  quasi  volendo  interessare  la  Divinità  al  successo  de'loro  stolti  e  ingiusti  desideri.        '""'^  *  ^   Dopò  ^li  antecedenti  riflessi  è  quasi  inutile  l'os-  servare che  nel  giuoco  ogni  sentimento  di  decenza  si  perde  e  di  gentil  costume  ;  si  diviene  rozzo ,  villano  ,  grossiere,  caustico,  mordace:  non  si  ha  riguardo  nè  alle  qualità  altrui  nè  ai  diritti  ;  si  of-  fende l'altrui  amor  proprio,  si  tradiscono  ì  sentì-'  menti  del  proprio  animo,  ecc.   III.  Dopo  la  fama  di  decenti  ed  oneste  il  giovine  '  preferirà  quelle  conversazioni  ove  è  maggiore  la  libertà.  Siccome  il  piacere  è  d'indole  sì  schizzinosa  che  non  sempre  apparisce  ai  cenni  del  desiderio';  e  fugge  rapidamente  allorché  vede  un  laccio,  fosse  anche  tessuto  di  rose ,  riè  di  tempo  serba  regola  nè  di  luogo ,  riè  a  tutti  i  discorsi  sorride  ;  quindi  dirò  al  giovine:  allontanati  da  que'crocchi  ove  devi  rendere  ragione  perchè  non  venisti  a  tal  ora,  per-  chè ti  parti  pria  del  consueto,  e  t'è  forza  al  posto  assiderti  che  non  t'aggrada ,  e  con  tale  foggia  d'a-  bito comparire  che  non  ti  conviene,  e  sulle  altrui  maniere  irremissibilmente  atteggiarti  e  deporre  sulla   *»  bigitized    328  -  Libro  TEBzo  4   soglia  il  tuo  carattere  originale  per  rivestirtene  al-  lorché n'esci.  Fuggi  pure,  perchè  il  rituale  esat-"  tissimo  delle  cerimonie,  i  complimenti,  gli  inchini,  i  baciamani  si  .frappongono  ai  cuori  che  corrono  a  contatto  ,  e  i  sentimenti  ora  rispinti  dall'  altrui  •  orgoglio ,  qui  umiliati  dai  titoli ,  là  repressi  dal-  l'aria di  comando,  e  tra  imperiosi  e  inetti  doveri  allacciati,  non  possono  scorrere  rapidamente  qual  elettrica  scintilla  e  propagarsi  per  tutta  1'  assem-  blea; quindi  l'allegrezza  sfuma  ed  ilpiacere,  e  al  loro  posto  va  assidersi  mortai  tiranna  la  noia.   "     «  Taccio  il  civile  barbaro-bugiardo  -  .  ^;     V  Frasario  urbano  d'inurbani  petti,^  t  w  Figlio  di  ratte  labbra  e  sentir  tardo.  »   iVs.   k  IV.  Il  giovine  non  fuggirà  la  conversazione  delle  donne  oneste,  giacché  solamente  in  loro  compagnia  imparerà  a  rattemprare  l'effervescenza  dell'età,  a  ingentilire  colla  grazia  le  maniere,  a  piegare  i  mo-  vimenti a leggiadria, la placidezza  del  discorso  senza  viltà,  la  modestia  senza  timidezza  ,  il  co-  raggio senza  impeto,  il  brio  che  sa  rispettar  la  de,  cénza,  l'allegrezza  che  non  diviene  smodata,  quelle  fine  attenzioni  che  prevengono  i  desiderii  senza  mostrar  d'occuparsene,  e  quel  conversare  libero  e  cordiale  che  non  degenera  in  confidenza  temeraria  e  plebea.  v  ^   Swift  attribuisce  la  decadenza  della  conversazione  in Inghilterra  all'esclusione delle  donne;  da  ciò  nacque  una  famigliarità  grossolana  che  porta  il  ti-  tolo d'allegrezza  e  libertà  innocente,  «  abitudine  »  dannosa  ,  egli  dice,  ne'  nostri  climi  del  Nord^  i)  ove  la  poca  pulitezza  e  decenza  che  abbiamo  sì    r    DM.è  introdotta,  per  così  dire,  dì  contrabbando  e  ^  contro  la  naturale  inclinazione  che  ci  spinge  »  continuamente  verso  la  barbarie,  ^e  non  si  man-  fi-T  tiene  che  per  artifizio.Soggetto  delle  conversazioni.   .  'Qualunque  argomento  frivolo  o  grave  ^  basso  o  sublime,  lepido  o  serio,  p^rcAè  piaccia  agli  astanti,  €  noìi  offenda  la  morale^  può  essere  argomento  di  conversazione  :  qui  più  che  altrove  debb'essere   .    é   ragione  e  legge  «  Ciò  che  il  consenso  universale  elegge.  »   ytl  poeti  satirici  hanno  voluto  ristringerci  in  più  angusti  confini  ;  quindi   1.  Pongono  in  ridicolo  le  dimande  relative  alla  salute^  quasi  che  la  salute  non  fosse  l'oggetto  più  interessante  per  gli  uomini,  e  una  buona  digestione  non  valesse  cento  anni  d'immortalità;  r  2.  Non  vogliono  che  parliamo  del  tempo.,  quasi  che  le  vicende  delle  stagioni  sullo  stato  tìsico  e  morale  della  specie  umana,  sui  prodotti  delle  cam-  pagne, sul  corso  del  commercio,  e  non  di  rado  sui  pensieri  degli  uomini  grandi  e  piccoli  aon  influis-  sero ;  c  giornalmente  non  fossero  occupati  i  fisici  ad  osservarne  Tandamento  progressivo,  retrogrado,  irregolare.        ^  -  -'^7'  •      •    .  -  ^  -  y   3.  Qualche  poeta  ci  deride  quando  nelle  conver-  sazioni parliamo  d'arti  e  di  commercio,  di  pace  e  di  guerra  ,  di  governa  e  di  politica ,  é  vuole  poi     x   che  ci  occupiamo  dé'satelliti  di  Giove  é  dell'anello;  di  Saturno.  Certamente  che  anche  Giove  e  Saturno  possono  essere  ogpjetto  delie  nostre  conversazioni,  ^  ed  è  cosa  desiderabile  che  Io  sieno,  sì  perchè  pa-  scono l'animo  di  idee  sublimi,  sì  perchè  servono  di  guida  al  nocchiero  che  va.  errando  sulP  immensa  superficie  de'  mari  ,  ecc.  Ma  avreste  voi  vietato  ai  Romani  di  parlare  quando  Cesare  ottenne  dal  Se-  nato il  diritto  sopra  tutte  le  mogli  ?  Quando  Ve-  spasiano ,  che  si  mostrava  sì  tenero  pel  bene  del  popolo,  pose  un'imposta  sulle  orine  ?  Vi  sono  delle  cose  che  ci  toccano  sì  dappresso ,  che  è  assai  dif-  .ficile  di  non  tenerne  discorso,  come  è  difficile  di  non  gridare  ahi  !  quando  il  fuoco  ci  scotta.  Se  poi,  per  opposta  ragione,  si  riflette  che  lo  scopo  prin-  cipale di  quelli  che  s'uniscono  in  conversevole  crocchio,  si  è  d'intrattenersi  e  ridere,  si  scorgerà  che  è  quasi  impossibile  d'allontanarne  gli  argo-  menti ridicoli,  da  qualunque  sorgente  provengano.  I  Romani  non  potevano  contenere  le  risa  allorché  parlavano  dell'imperatore  Costanzo,  perchè  costui,  quand'  era  in  pubblico  non  osava  movere  il  capo,  né  fare  un  gesto  ,  né  tossire  ,  né  sputare,  lusin-  gandosi in  tale  guisa  di  rendere  più  imponente  la  dignità  imperiale.  .  Il  retore  Temistlo,  il  quale  era  stato  fatto  senatore  da  Costanzo,  trasformò  l'im-  peratore ,  che  non  *  sapeva  sputare  ,  nel  più  gran  filosofo  dell'universo  ;  avreste  voi  voluto  che  i  Ro-  mani non  ridessero  né  dell'  impeiratore  né  del  re-  tore ?  /   Si  può  parlare,  senza  cognizione,  della  pace  e  della  guerra  come  delle  zucche  e  dei  ravanelli  ;  dunque  il  limite  da  fissarsi  ai  discorsi  nelle  con-    versazioni ,  rispettata  la  mòralé,  come  si  disse  di  sopra  ^  non  dalia  qualità-  dell' argomeiita  8i-d«U)e  ildsomere  ,  ma  dalh'giioliàiiza.di  ^  parla  o  dalla  noia  di  chi  ascolta,  '  '  /   4.  Dopo  4^  avere  eseldso  dalle  cQiiVèi^sjùtidid^l  discorsi  più  interessanti,  si  è  fatto  loro  rimprovero  perchè  spasso  non  s'occupano  che  di  coseJrivoJes  eoitià  jfoalè  èènsbra  si  dà  a  divedere  d^aver  diinìen^  ticato  che  il  principale  oggetto  delle  coi>versazioni  •«  si' è  il  piacere:  Se  il  caippo  in  cui  il  piacerò  ap^  l^^cev  è  di  già  anche  troppo  ristretto,  per  quale  motivo  vorrete  voi  ristringerlo  dì  più?.  Vi  furono*  de' grand' iiòinini  che  ridévanó  di  cuore  alle  tlSt^  tezze  di  Pulcinella,  vorrete  voi  condannarli?  Più  lò  spirito  è  3tato  avvolto  in  cose  serie ,  più  assav\*  porà  il  contrasto  delle'frfvolezze'  Ne'momenti^'ózia  non  vergognava  Esopo  di  giuocare  alle  noci ,  Ca*  tbfifó  alla  pafla  nel  eàmpo  Mairzio  ;  Pascal  facevi  delle  scarpe,  Malebranche  cucinava  delle  vivande^  di  Scipione  e  di  Lelio  dice  Cicerone,  che,  ritiràti  alla  esfiìpagna,  non  isdegnavano  di  bamboleggiare,  incredibiliter  repuescere.  Queste  frivolezze  .offrono  uni  trastullo  necessai^io,  senza  che  lascino  neil' a»  ttimo  alcuna  traccia  da  che  sono  svanite.  ;\  ^  '   «  Rispettiam  dunque  la  follia  gradita  '  -.V  .  •  -  l^.QWBe  balsamo  dolce  d«Ua  vita.  »  ^ .  >   Cbesterfield  dice  che  le  frivolezze  delle  conver-  €l^0B&  tòné  ti  compénso  delie  àliiine  piccole ,  ebé  neri  pensano  e  non  amano  di  pensare.  —  Avrei  '  •  «fimyandatQ  volontieri  a  questo  scrittore  s' 6|^i  ad-  dlìjMMMte      per  pensare^  Le  frivolezze  defle  con-  '  versazioni,  simili  alle  immagini  scucite  4el  sonno,    ^   .1^ -o  Google    332  .  i-lBBO  TÈRZO        .  *   servono  a  farci  ridere  e  nulla  più.  Io  sono  stanooc  a  segno  che  non  mi  reggo  in  piedi,  e  voi  mi'con-À  sigliate  di  passeggiare?  Che  cosa  direste  d'un  uomo  che  per  sgombrarvi  dall'animo  la  melanconia  ,  vi-  ponesse  tra  le  mani  le  Notti  di  Yòung  ?  —  Si  de-  vono ammirare  quelli  che  dopo  d'essersi  occupati  di  studio  0  d' affari  nel  gabinetto ,  possono  ritor-"  nare  agli  affari  o  allo  studio  nelle  conversazioni;.  .  hna  non  si  possono  spregiar  quelli  che  dopo  avere  eseguito  il  loro  dovere,  abbisognano  di  riposo.  Sic,  .come  i  pranzi  non  sono  eccellenti  se  non  quando  possono  soddisfare  tutti  i  gusti,  così  non  sono,  eccellenti  le  conversazioni  se  una  varietà  di  sog-^.  getti  corrispondenti  ai  bisogni  di  ciascuno, non  pre-  sentano.   Generalmente  parlando ,  i  discorsi  serii  non  pos-  sono piacere  alla  maggior  parte  degli  astanti,  giac^  ;chè  la  maggior  parte  vanno  a  ricercare  nelle  con^  versazioni  riposo  alla  riflessione  e  pascolo  alla  fan-  tasia. Non  si  può  quindi  approvare  la  condotta  dì  Locke,  il  quale,  mentre  tre  milordi,  Hallifax ,  An-^  glesey.,  Shaftesbury,  jgiocavano  tra  di- loro  ,  egli  '  occupaVasi  a  scrivere  ie  parole  che  uscivano  loro  '  di  bocca.  Per  quale  motivo  ridete  voi,  gli  disse  Ànglesey  ?  Perchè  nou  perdo  nulla  di  quanto  voi  dite,  rispose  il  filosofo,  e  gli  mostrò  la  nota  delle  parole  poco  assennate  che  ciascun  giocatore  aveva  detto  Questa  censura  era  fuori  di  proposito,  giac-  ché da  persone  die  giocano ,  e  giocano  per  diver-  tirsi, non.  si  deve  aspettare  che  argomentino  in  barbara  o  in  baralipton.  Quando  prendiamo  una  medicina ,  dobbiamo  noi  osservare  se  è  bianca  o  nera,  leggiera  o  pesante,  bella  o  brutta,  graziosa    Google    0  no  alia  visita,  di  qualche  astante  ?  £Ua  ci  ridona  la  salute,,  e  bastai  *   •  «  Airincontro,  dice  Gozzi,  certi  Catoni  vorreb-  »  bero  che  oca  si  uscisse  mai  dal  malinconica  e  »  dal  ^rave,  come  se  gli  uomiiri  fossero  d'aeciaio  »  e  non  di  carne.  Questi  tali  ci , vorrebbero  affo.-  »  gati  nella  noia.  £  quando  Fanioio  ò  kifastfdilOt  »  non  è  buono  nè  per  sè  nè  per  altrui.  Il  meglio  è  un  bocconcello  colla  salsa  di  tempo  in  tempo,  »  e  poscia  un  grosso  boccone  delle  vivandé  usuaK.   La  misura  ne' passatempi  è  rimedio  della  vita  ;  »  ed  io  jtanto  ve^  magri  sparati  è  disossati  quelli  V  che  non  pensano  ad  altro  che  al  sollazzo,  quanto  >»  queUi  che  tirano  continuamente  quella  benedetta  li  carretta  delle  fecceade.  »   §  3.  Soggetti  ge^ieralni^nte  noiosi    Sogliono  essere  soggetti  noiosi  ed  opposti  allo  scopo  della  conversazione  i  seguenti  :   L  Gli  incessanti  lamenti  sopirà  viali  a  cui  non  si  può  opporre  rimedio..  Talvolta  la  conversazione  in  vette  d'essere  un  tessuto  di  piacevoli .  discorsi  e  ameni,  è  un  vero  piangisteo  ,  o,  per  dir  meglio,  un  miserere.  Se  qualcuno  riesce  a  dìipenticare  i  Riali  eomuni,  T  unó  o  l'ailro  degli  astanti  glieli  rammenta  con  circostanze  nuove,  e  il  sentimento  dolorosa  ne  aggrava  colla  prospettiva  «d'un  avvenne  peggiore.  —  Che  cosa  direste  di  schiavi  che  per .  divertirsi  parlassero  delle  loro  catene. É  questo  up  difetto  de'  veccM  che  non  sànm  aprir  l'animo  alla  speranza  ;  degli  ignoranti ,  inca-  paci di  riguardare  le  cose  da  più  aspetti;  delle menti  deboli  che  ad ogni lotta  succumbono. Alcuni  velano  questa  incivile  abitudine  col  sentimento  di  compassione  pe'mali  altrui,  cioè  per  mostrarsi  com-  passionevoli verso  gli  assenti  tormentano  gli  astanti. Pietro  è  morto  improvvisamente;  Paolo  si  è  ammazzato;  il  pane  è  troppo  caro;  la  tempesta  ha  distrutto  la  vendemmia ;  le  imposte  sono  eccessive;  la  guerra  è  imminente;  la  peste  s'avvicina,  ecc.  Poco  manca  che  non  ci  predicano  la  flne  del  mondo,  come  si usava negli scorsi secoli, idea che tuttora  s' insinua  ne'  discorsi  della  plebe  quando è  afflitta  da  qualche  calamità.,  Sarebbe  pazzia  il  pretendere  di  non  sentire  i  mali  della  vita  ,  ma  è  pazzia  maggiore  il  non  sforzarsi  di  dimenticarli;  sarebbe  imprudenza  l'andare  verso  il  futuro  colle  spalle  indietro  ,  ma  è  imprudenza  maggiore  il  riguardare  i  mali  futuri  come  successi  e  non  distrarne  lo  sguardo.  La  novità  della  cosa  può  qualche  rara  volta  sciorre  da  inciviltà  1'  an-  nunzio d'una  trista  novella;  ma  richiamare  conti-  nuamente r  idea  di  mali  che  tutti  conoscono  ,  è  l'eccesso  deirinurbauità,  giacché  questa  ricordanza,  oltre  d' essere  dolorosa  per  se  stessa  ,  conturba  e  piega  a  melanconia  i  sentimenti  degli  astanti.  In  questa  situazione  degli  animi  non  osa  spuntare  sul  labbro  il  sorriso  ;  cento  detti  spiritosi ,  pronti  a  ravvivare  la  conversazione ,  tornano  indietro  :  ora  rinunziare  a  cento  piaceri  per  procacciarsi  un  do-  lore è  un  calcolo  da  matto.   Si  può  procurare  agli  spiriti  de' momenti  di  di-',  strazione  fissandoli  sopra  oggetti  diversi  dagli  abituali. Sì  pùo  'Yìntiizzare  la  sensazione  4el  dolore  ri-  guardando le  cose  dal  lato  ridicolo  (1)»   CìasGuno^  può  cogliere  de'jnoti?!  dì  eoasolaaàone  paragonandosi  con  quelli  che  in  più  tristo  statoci  trovano.   «  Chi  vuol  viver  tranquillo  i  giorni  sui,  »  Kon  conti  quanti  son  di  lui  più  lieti,  '   1»  Ma  gitanti  sod  più  miseri  di  lui.  »   Si  può  innalzare  Tanimo  aHa  speranza,  mei]itre   il  volgo  s'abbandona  al  timore,  considerando  tutta  Festeosione  delle  eventualità  possiinli  (2)*    {\)  Mentre ,  aeU'  ulUmo  assedio  di  Genova,  i  soldati  ca?   scanti  (li  fame  facevano  la  guardia  seduti ,  uno  di  essi  disse:  Ma^séna  non  voiTà  arrendersi  iìnchè  non  ci  ha  fatto  mangiare  i  «udì  stivali.  — -Questa  facezia  induce  gli  astanti  a  dioie  ai-^  tre,  e  intanto  U  sentimento  deUa  fame  fa  tr^;ua.   Un  generale  francese,  ferito  in  battaglia^  sta  per  far^ta-*.  gliarc  una  ^aniba  ;  il  suo  servo  piange  in  un  angolo  della  stanza:  Meglio  per  te^  <t*\idìce  il  paziente;  non  vedi  tu  che  quando  avrà  una  gamba  di  meno^  non  ti  resterà  più  da  lur  sitare  che  un  solo  stivale  ?  Quindi  ritrova  forza  per  subire  r  operatone.   Io  ammiro  la  notissima  donna  spartana,  che  dice  al  fi^io  tornato  zoppo  dalla  battaglia:  Ad  ogni  passo  rammenterai  U  iuo  valore  e  la  tua  gloria,  Gbe -bella  idea,  che  idea  in-  gegoosa,  si  é  quella  obe  ia  tacere  U  senUmento  spia((Kev<^  un'jmpedeilone  fisica  090  un  sentimento  miòrale  »^  desca  V  amor  proprio,  e  a  sublime  sfera  lo  innalza  1^   Si  clìiama  leggerezza  1'  abitudine  di  considerare  le  cose  dal  lato  ridicolo  :  preziosa  leggerezza  che  ci  fa  sorrìdere  in  mezzo  al  dolore ,  tratto  caratteristico  che  distingue  i'  uoma  dai  bruti.   (2)  n  seniimenio  della  speranza  si  cambia  ki  finrza  lMee^,  qualunque  sia  U  modo  misterioso  con  cui  siffatta  4ra8torma-    Una  bella  imipagmazioQe,  un' iinaiagiiiazioiie  ri-  deate  sa  creare  delle  róse  anehe  ia  mezzo  ai  deserti.  S'ella  è  in  parte  dono  della  natura,  si  può  aecresceria  coirabitudine  e  migliorarla  coirarte  (  l).   IL  Le  insipide  sottigliezze.      ^  '   Profondere  sfarzi  di  spirito  suHe  parole,  sulle  cosev  solfe  idee  senza  trarne  alcun  vantaggio  o  le-  pore,  è  eccitare  nelF  animo  degli  astanti  il  senti-  ménto penoso  della  fatica,  è  indisporne  ramon  proprio  coir  idea  della  pretensione  ,  è  rendersi*  ri-  dicolo pel  non  successo.  Un' uomo  cbd  tenta  di   ziODé  «tkseede.  emrva  questo  fenomeno  negli  stesKi  ani*  mali:  il  cavatto,  statico  dal  viaggio,  aeeorgendoiii  d'essere   vicino  all'  albergo,  trova  forza  per  accelerare  il  passo.   il  Destrier  che  air  albergo  é  vicino ,  )»  Più  veloce  s'  affretta  nel  corso  ;  »  Non  l'  arresta  1*  angustia  del  morso,  .  »  Non  la  voce  che  legge  gli  diu  >»  .   '  '  (1)  l'n  imbecille  non  crede  che  T  innesto  possa  costrin-  gere r  albero  selvaggio  a  produrre  de'  fruin  domestici  e  sa-  .  porlti  :  le  anime  deboli  non  credono  che  possa  lo  spirito  in-  nalzarsi sul  senthnento  d^I  dolore  e  dominarlo  :  tanto  peggio  per  esse.  Al  contrarlo  lo  ho  conosdiito  m  nomo  di  tempra   '    forte ,  che,  detenuto  per  opinioni  politiche,  non  sog^^iacciue  •  che  un  giorno  alla  melanconia  in  quattordici  mesi ,  benché  gli  fosse  negato  il  conforto  de*  libri.   Far  r  elogio  della  melanconia ,  come  i^ero  alcuni  scrit-  tori detti  sentimentali,  è  fere  F  elogio  delle  nubi  che  f\  tol-  gonp  la  vista  diìl  lìriuaniento.  In  mezzo  a  tante  forze  die*  tendono  a  dislrng^<»rci,  vanteremo  noi  i  pregi  d' uu  seati-   ;    meato  che  accelera  la  distrusdone  /Itìtt   saltare  al  di  là  della  sua  ombra,  rapi^resMM  Udi**  fetto  che  ho  io  animo  di  censurare  :  eccone  degli   1  Far  contrapposti  ad  ogni  paroluccja  t   »  Stirar  con  le  tanaglie  5  concettwzzi ,  •  »  Attaceonar  le  i^ime  con  Ja  eer^i  '  V  Aé  ogni  aetento  far  éegìi  eqntvociasm  ;   É    Lodsi^  le  inoscbe,  f  grilli  e  il  raTanello\  »  Ed  altre  scioccherìe  c'hanno  corliposto  ^  li  Bernì,  il  Maiire,  il  Lasca  ed  ii  Burcbiellò.»   Le  tante  quistìoni  di  metafisica  che  si  facevano  per  Faddietro  sopra  cose  ehe  la  ragione  non  intese  giammai,  dovevano  generalmente  fruttar  noia  agli  ascoltanti.se  non  erano  interessati  nella  disputa  pef  amor  proprio.  Di  sottili  insipidezze  ei.  diede  un  esempio  d'altra  specie  Uvezio,  allorché  esaminando  dottamente  quale  è  la  positura  naturale  diell'uomo  tra  lo  stare  in  piedi ,  «edato  ^  coricate,  genuflesso  0  passeggiare,  dopo  d'avere  discusso  a  lungo  gl'in-  convenienti cai  andremmo  ìncdntro  tenendoci  con-  tinuamente nell'una  o  nell'altra  di  queste  posizioni,  conehiude  clie  lo  astato  naturale  dell'uomo  si  è  di  panenderle  tutte  sticces^mmente.  Era  forse  neete-^  serio  che  l'erudito  vescovo  d'Avranches  si  stillasse  il  cérvello  per  provarci  questa  verità?  Perciò  ma*  dama  Geoffrin,  parlando  d'iino  di  questi  stucclie-  voli  Ciceroni ,  diceva  :  «  Allorché  egli  mi  parla ,  »  vorrei  che  Dìo  mi  facesse  la  grazia  di  rèndermi  n  sorda  senza  che  questi  se  ne  accorgesse  \  egli     n  sarddbe  perisuasa  eh'  io  T  ,ascolUi$si ,  e  s^reòiflio  »  contanti  ambidUie.  ».    xii  ^n       k^-m^  ♦  ?   Cresce  ri  motivo  di  censuràre  le>  insipide^  6Mi«»  gliezze  allorché  ,  divenute  triviali  affatto ,  da  uq  Iato  si  ripetono  eoo  pretensione  di  novità,  con  che  si  dà -segno  dignopàhza,  daU'aUra  riescono  ofhn^  sive  alfuno  o  all'altro  degli  astanti.  Il  poeta  Des-  préaiix^  che  iioa  eika^ dotate  della  pazienza  di  ncia^  daina  €reoffriti  ^  se^ténde'^un  giorno  Bordaloue  a  rìpeteìre  le  vaghe  analogie  sulla  pretesa  follia  dei  poeti^  gU  dis9eH»xi(  pp^€auslieanlellte  :  «  Io  so,  mio  »  Caro  padre,  quanto  si  dice  d'ingegnoso  su  questo  »  9fg0jQsento  ;  se  v^i  y/»lete  venir  meco  aU'o-  »  spedate  de'matti ,  io  son  pronto  a  mostrarvi  dieci  «  predicatori  per  i^u  poeta  ^  e^roi  vedrete  a  tutte   lo  4(>ggb  deUdjiàaal  «he  dividanp  il  loto  dteooiso^   in  ti;e  punti.-'   r^Uriaql^oedenti  riiles^iiaioa  condanaano  Fuso  dir  propÌMie  quistioofdligegncile^  le  quali,  rispondendo  ciascuno  a  capriccio,  servono  di  piacevole  esercizio  ag^fipiiNiti  ^'^liti  iNToiy^ e  vivaci  che  sci^piana  impftlìiéisamente  y  -e  talvélta  a  lode  di  qualche  a«  8ti^t(^  v.|ieUa  mwì^m^lkm^  della  duchessa  del  MaifMVféei^lìiB»^^  a  dar  risalto  alle   pili  sfuggevoli  differènze  tra  i  diversi  oggetti  pro^  ||9^iM^>^^  dis$A,Ma  giorno  ai  cardinale  di  p4>)igw%]^IÌnatot^difi6ie^  passa  tra  me  e  il  mio  oralogio? —  Il  vostro  orologio,  rispose  il  cardi*  nia^e  ^  ($tliirieor4a(^/<w:ftViJ^  ee  le  iate  dimenticafei   IIL  Tutti  i  di^corsir^ehe  escono-  dal  limiti  della   conmmens,a^  j§^S^tk^<^^  si^o  alla  98.   BiitArà  qui  aàmmi?^  il  earattère  degli  astanti  è  Ufi  limite  ^pwa^iii^iqQfP 'ir^iacchè  per  quanto  siano generalit  per  es.,  le  vostre  iodi  ad.  toia  vjrtà  e  le   vostre  censure  ad  un  vizio,  vi  si  attribuirà  non  di  rado  l'intenzione  di  far  rimprovero  quello  degli  aistanti  ebe  manca  della  prima  q  è  allaceiato  dal  secondo.   IV.  Finalmente  il  saggetto  della  conversazione  diviene  noioso  allorché  Tidea  della  nostra  per*  sona  e  delle  cose  nostre  presentiamo  per  lungo  tempo  agli  altrui  sguardi  j  .  come  Aireìùo  nel  e9«  pitolo  VII.   «   $  3.  Soggetti  aggrademli^  *   »   Se  una  parte  della  civiltà*  consiste  nel  dire  a  ciascuno  ciò  che  gli  conviene»  è  chiaro  che,  acpiò  non  manchi  soggetto  alla  conversazione,  devi  par-  lare ad  ognuno  delle  cose  che  più  roccupano  o  più  gli  aggradano,  della  sua  arte  o  professione,  de' suoi  gusti  o  *  delle  sue  avventore ,  de' figliuoli  o  della  moglie,  ecc.   .  «  Acgomento  al  nocchier  son  le  procelle  «  1»  I  bovi  airarator  :  le  sue  ferite  ^  Conta  il  guerrier»  conta  il  pastorale  agneHe.  »   Chiederai  dunque  al  giovine  galante    '  /   a  ......  .  A  qual  cantore   9  Nel  vicin  verno  si  darà  la  palma  *>  Sopra  le  scene;  e  s'egli  è  ver  che  rieda  »  L'astuta  Frine  che  ben  cento  folli  »  Milordi  rimandò  nudi  al  Tamigi  ;  »  O  se  il  brillante  danzator  IXarciso  9  Tornerà  pure  ad  agghiacciare  i  petti  »  De'  palpitsgoiti  italici  mariti.    Ai  vécrthfo  dfititafidefai  conto  degli  u^i  eivlii,  po*'  litici,  religiosi  clie  negli  anui  di  sua  gioventù  si  costuinarona,  onde .  procurarti  il  piacere  d!  con*   frontarli  cogli  attuali.  Preparati  però  a  sentire  ec-  cessive lodi  dei  passato  ;  quindi  avrai  Tavvertenza  ^di  separare  i  f alti  dal  giudizio  di  chi  "gli  e^one.  Spingerai  anco  con  bel  garbo  il  di  lui  animo  verso   l- piaceri  che  più  Tadescarono   ».  '  .  '  "   .      «  Onde     misero  cor,  che  il  ben  p^dtita   .  »  Non  ha  più  di  goder  speranza  alcuna  ,  ,  »  Kesii  il  conforto  stiinen  d'aver  goduto.  »   ,  Colle  donne  volgari   Or  di  polii  ragiona,  or  di  bucato*  »   Colle  donne  galanti  parla   «  Di  veli  e  enfile  e  femminili  arredi.  »  .   .  Colle  donne  gentili  che  uniscono  ii  bel  costiime   airistruzione,  porrai  sul  tappeto  le  arti  belle,  e  a  norma  del  loro  genio  particolare  proporrai  quaiclie  problema,  acdocohè  al  piacere  di  discorrere  um-  scano  il  piacere  di  soddisfare  la  tua  curiosità.  Ad  una  giovinetta  ohe.  occupa  vasi  a  dipingere,  chiese  un  giovine,  se  provava  più  diletto  nel  ritrarre  gli  uomini  o  le  donne  ^  i  giovani  o  i  vecchi.  —  Sono  indififerente  a  tutti.  —  Eppure?  —  Pre/e^  risco  le  fisonomie  sensibili  senza  riguardo  al  sesso.  —  £  quali  sono  i  segni  fisionomici  che  caratterizzano  la  sensibilità?  ^  Qui  cominciò  un  discorso  che  durò  due  ore,  la  giovine  facendo  pompa,  di  sentimento ,  il  giovine  di  metafisica.  —  Le  letture,  cui  talvolta  sono  occupate  le  signore,  Yf  jfffft^mo  U  ctesbro  di  jebi«der«  loro  ^ii^li  f^m  le  colpiscano  di  più,  e  quali  autori  in  tale  ò  tal  altro  ramo  di  letteratura  preferiscano,  e  se  avrete  l'av»  mieuM  proporrà  loro  qualche  obbiezione  pet  dimostrare  che  non  vi  sfuggono  le  loro  idee^  prò*  curerete  ad  e^  il  diritto  di  pmlan^  à  lun^iit^  mmBM  ^^nimm/^:èe9lL  mUoMi  poesn  Uteek^lé  d*  inciviltà  y  poiché  ciascuno  ba  diritto,  di  difen^  dflisi:  e  giustìicare  cìòl  cbe  dm*-  '  Della  fanciulla  vorrai  yedere  i  dis!^,  i  ricàini,  la  scrittura,  ecc.        '  -  •  "   Chtederstt  «drifcaamom»  ohe  ms»  w^ò  ^^IpM^   che  brillano  neH*azzurra  volta  del  cielo.  Per  quaH  €ag4QiiLalciij|^i:sfiH>iB(^^  altri  cambiarono. di   MlOfe.  D' oode.  amnga  che  i  pidi^  si  <  inafapo  nello  stesso  senso  da  occidente  in  oriente.  Perchà  mail  eaegaiscjoao  i  laro  fioti  ia,,)ioa  ^iBl|a  s^oa»V  mentre  te  comete  vanno  errando  liberamente  per  latte  le  r^ipai  del  cìe^o.  Ove  v^aono  e  d'onde  veór  gono  questi  astri  che.  spa^epteeo  11  wlgo-  éoUli  fatarba  .e  colla  coda. Delle  erranti  stelle   »  Segai  il  cammino,  e  le  eagion  disveli  ^   »  Degli  aerei  portènti  ;  onde  Je  nufci,  v   »  Onde  il  tuono  e  la  pioggia,  e  di  qual  fuoco-   »  Aceendesi  il  balen;  perchè  sì.  lenti  .  .   »  I  caldi  soli  estivi,  e  qua!  ritardo    :  '   »  Le  fredde  notti  deirinverno^allQpghi.  ».   Inviterai  T  economista  ad  esporti  le  cagioni  del-  l'alto  0  basso  prtìsìo  de'generi,  dell'abbondanza  o  scarsezza  d'una  specie  di  monete  ;  l'influsso  delle  imposte  suiragricoitura  e  sai  mestieri;  se  convengft  dare  la  preferenza  alle  manifatture  nazionali;  ia  quali  casi  e  con  quali  mezzi  debba  il  Governo  pro-  moverle  ecc.   Parlerai  al  filosofo  di  leggi,  all'av-  vocato di  liti ,  al  medico  delle  malattie  dominanti  ecc.  Ma  guardati  bene  di  decidere  tu  stessQ,  prin-  cipalmente avanti  queste  persone  sugli  accennati  ^  argomenti,  giacché,  non  appartenendo  essi  alla  tua  professione,  ti  esporresti  facilmente  al  ridicolo  cui  si  espose  un  sarto ,  il  quale  avendo  composto  e  ^presentato  ad  Enrico  IV  un  libro  di  regolamenti  .•^civili,  sentì  il  re  a  dire  agli  ^stanti  :  Chiamatemi  dunque  il  cancelliere,  perchè  mi  prenda  la  misura  d'un  abito  (1).   f  ^  Allorché  ti  trovi  in  una  compagnia  di  stolti,  non  mostrare  né  la  distrazione  né  lo  spregio  eh'  ei  meritar  si  potrebbero.  Lascia  alla  fatuità  libero   '  Campo  di  far  pompa  delle  sue  scempiaggini  senza  farle  giammai  temere  d'essere  repressa  e  né  anche  giudicata.  La  Motte,  persuaso  del  proverbio  spa-   .  gnuolo,  che  non  havvi  stolto  da  cui  non  possa  trarre  qualche  profitto  il  saggio,  applicavasi  a   ;  ricercare  negli  uomini sprovvisti di spirito il lato favorevole dal quale poteva, sia per propria istruzione,sia  a  conforto  della  loro  vanità^  riguardarli.  Facendo  cadere  destramente  il  discorso  sopra  quanto  avevano  veduto  o  sapevano  di  meglio,  procurava    {{)  Convengo  non  essere  impossibile  che  un  uomo  si  formi  in  mente  idee  ragionevoli  anche  sopra  oggetti  estranei  alla  sua  professione;  ma,  essendo  la  cosa  alquanto  impro-  babile,è  necessaria  in  simili  casi  somma  riservatezza  e  dif-  idenza  speciale  nel  proporle.'   tolto,  senza  il  piacere  di  smérthi^  il  poco  bene  che  possedevano  ;  «  mentre  non  annoiavasi  con  es^  vH  wodeite  ^mtentr  4I  di  14  delle  lo»^   speranze.  •  'Sargenti  di  ridicolo  sociale.]   Tu  mi  dirai  che  ti  porti  alia  conversazione  non  .p«r  esenatare  la  pazienza^,  me  per  andare  a  ^écia  d(  piaceri  innocenti,  e  vorresti  poterli  córre  0  tra  i.  fiori  del  discorso,  0  ndie  maniere  delle  persione^  0  tra.  ameni  sentiiilenti  e  gentili.  ;   Ti  ricorderò  dunque  la  massima  raccomandata  di  sopra,  cioè  avvezzati  a  riguardare  le  cose  dal  fatto,  ridicolo  :  eéecotene  aicniie  fonti*  suceinla*  mente.  TI  porgeranno  grato  spettacolo.  "   ù  Le  variazioni  deile  passioni  pet  em  io  jrteaso  uomo  passe  facilmente  dal  giardini  d' Epicuro  ai  portici  di  Zenone^  ed  è  a  ticenda  di  vota,  e  fiv>n*  dano  per  trimestre,  e  per  cai  non  di'  rad^  *  ^   *  Osan  profoni  e  fetidi  servacci   »  Di  libertà  mentire  il  nobil  fuoco.   »  Quanti  ancor  ne  veggiam  d'animo  incerto  1^  E  di  dottrina 5  in  cui  fondarsi,  ignudr,  '     Che  quel  clie  sol  mattino  era  lor  Aoia,  *  »  Chiaman  perfetto  al  tramontar  del  sole  ?  ^.  »  A  vicenda  gli  scorgi  ora  del  véro     '  .  ^  :  '  '»  Difensori,  or  del  falso:  ora  baciarti  9  In  fronte  amici,  or  affrontarti  infesti,   »  Tanto  che  sotto  a  due  stendardi  e  volti   •  •   >»  A  due  partiti  un  dì  solo  li  yede.  ^   m  •  :}/  Le  qifMate^  ripugnanze.  Più  Qti  gusto^  um  aUbsrimfó  ,  wi  senliflliefite  'è'  tsemofie ,  piò  :AigMé  alcuni  dì  mostrarsene^  alieni.  Così  adoperando  ,  i^etnbrà  loro  di  «tacearsì  dalla  massa  volgare,  e,   collocatisi  in  alto ,  divjenire  r  oggetto  degli  altrui  sguacdi.'  n   .   •   .   •    Essi  contrasto- eternò  \  *  i.  Fanno  a  ragion,  per  voler  esser  sempre  \  P,  Singolari  dagli  altri  ;  e  picca  occulta  »  Hanno  in  sè  .d'esser  dì  buon  gusto  soli/  !»  Jton  d'altri  àppresse,  e  veder  soli  il  vero;  ;; V  I  più  di  quQSti  incaputendo  avvezzi  Son  del  sénno  a  c^rcpr ,  lontani  ognoi^ Dalle  profane  popolari  turbe.  Onde  se  ayvjen-che  il  popolo  par  caso Dia  pur  nel  segno,  e  ragiohevoi  pènsi,  Sc£i.nt.onan  essi^  e  mal  pensano  e  a  torto;.  \  Perchè  purificate  eceèlse  menti  .  »  Non  seguan  mai  popolaresche  teste.  »'   ISome  vi  sareste  voi  contenuto  con  Euripide,  il  quale  assicbrava  di  non  amare  le  donne,  dopo4'es-  sersi  amìtaogliato  tre  volte  ?  Seguendo  i  precetti  sinora  esposti,  voi  avreste  dovuto,  senza  lasciar  {scorgere  dubbio  sulla  sua  sinceritià^^avreste  dovuto  ^  c^tedérgli  la  storia  di  questi  tre^esseri  tatfto  odiati,  e  con  cui  egli  strinse,  alie^inz^  forse,  ad  esercizio  di  sua  pazienza.   3.  Gli  sforzi  della  vanità  per  cui  ciascuno  tenta  d*  associare  V  idea  delia  propria  persona  aWidéa  delle  cose  pregiate  o  delle  persane  il*  lustri.  Se  taluno  vanta  un  bel  libro,  un  letterato  yi  accerterà  tosto  che  lo  possiede,  benché  forse    OdÉflii  ahbia  and'  vodafe  fiè  i^die  pti^iAMii  r''^  si  tratta  d'un  grand'uotno  ,  questi  vuo!  essere  suo  parente^  e  qu^i  ^la  ^ide  a  Parigi  .0  a  Londra  ^  o  viaggiò  còn'lai  tstXto  ^ièséo  meeilòV  e  wd  tm  vanto  come  l'asino  della  favola ,  il  quale  portando  delle  reliquie,  slnun^gmava  d'éèsere  adorato»- Orasio  si  vantava  d'urtare  impulitamente  chiunque  inco»»'  '  trava  per  if^rada^  purché  potesse  giungere  presto  .^"^M^eeniib  i^irefdete  l'asMKia  o  aia  il  eàttraito  dieK*  ^i'àinclr  proprio  :  egli  vi  dà  una  parte  della  sua  ri-  -piitai^we^^  cieè  ti  concede  d'  essere-  impulHo,  af«  finché  Io  crediate  in  lega  col  ministro' d'AiagteMU  in  somma  quatti  .ad  ogni  istante  si  scorge  che  ^  ttMàini  iielle  loro  pretensioni  sohcf  pìù^  iirragione*  voli  di  que'facchini  che  seqtendo  a  lodare  le  belle  sonate  d'un  organista,  si  gloriane  d'avere  levato  i  mantici.      '  '        ^ A^'^Aeciocchè  i  giovani  non  prendano  abbaglio,  farò  >dHervare  ebe  il  vantarsi  d'essere  i'amioo  di  qiiid(die  persona  virtuosa  od  altrimenti  stintiablle ,  qtiando   10  si  è  veramente  V  non  è  un  vanto  irsagtonevole  èoftie  gli  anteeedenti  -,  giaeeliè  le  petiOfle  Y«MMia^  le  stimabili  non  concedono  la  loro  amicizia^se  non   11  persone  eh' elle  stimano.  »  >r  /  •*^4.  /  pregiudizi  comuni.  QuéSIft  torgenté^^i  ri*  dicolo  non  ti  può  mancare  se  ti  trovi  in  compa-  gnia di  donnìeeiuole;  giaeehè  ae  pe)r  ea. 'favai  og-  getto del  discorso  un  male  0  l'altro,  esseti  spac-  ^i^attno  tosto  de'rimedii  simili  a  quelli  del  medico  Quinto  Sereno,  il  quale,  per  guarire  tó  quatìwia»   '  j^neva  sotto  il  capo  del  febbricitante  il  quarto  li-  %fo  éeir  Ilìade.  Contìnua  tu  la  storia  dellegaia*   lattier  ed  «fisa  Mtttiiuieraiiil^  dei  recale   che  ti  farebbero  ridere,  fossi  anche  moribondof/   Mi  è  stato  di^and^to  se  e  come  si  può  iotrat*  teimrsi  e  ridere  eofievj^aeecherew   yeramente  il  problema  è  un  po'difflcile,  ma  se  il'tettora  premelte  di  noa  tradisuii)  gli  affiderò  il   '  '  Le  pinzochere  chiamano  chiunque  al  loro  con-  toitton^e;  e  il.  loro  eootoi^  cresce  in  ragione  delle  persole  ehé  eoodamano;  ^  Quando  adunque  mi  .tcp vo  in  compagnia  d'  una  di  queste  signore,  le  em^to  avioti  '  una  ventina  di  peccatori  per  te  meno,  e  tutti  colle  loro  colpe  sulla  fronte  :  qui  si;iegge  rnode^  ik  ieàtfo^  più  Jungi  pas^eggiy  smmii   "La  vista  di  questi  piaceri,  a  cui  per  motivi  ri-  spettabili, madama  ha  rinunziato ,  riscalda  la  sua  bHe;  quindi  eceolar assisa  prò  tribunali,  e  scrivendo  sentenze  da  Radiunante,  colle  mani  e  co'{»icdi  eac*  «la  tìPotw*  filpifi  poveri  profiud.   -Appunto  perchè  so  che  la  pinzochera  è  ineso-.  rabitef  io  mi  interpongo  e  chieggo  pietà  ora  per  Vhi^.  ora  per  rsAtro  :  tento  Tapologia  della  moda  ;  dimando  qualche  tolleranza  pel  teatro  ;  il  concerto  dèlie  (Sfere  mi  serve  ja  difendere  i  ^oni,  gli  au«  gelli  vengono-  in  soccorso  de'  canti  ecc.  ;  succede  dunque  una  contesa  tra  il  giudice  e  V  oratore,  e  coi  {a  siessioné.  criminale  continua^  giàcohò  ie,  ob*  bieziofifi  ragionevoli  ed  a  proposito  sohq  uhq  sti"-  molante  della  conversaùow.   E  eieoofm  lo  zelo  di  madama  è  . scevro  di  mallaia  ,  quindi  riscaldandosi  ella  facilmente ,  ini  permette  di  i^ere  n$l/wdo  delsuo  euHmofÀ ravviso  allora  sotto  tinte  superstiziose  quelle  false  idee  che  leggo  in  alcuni  libri  sotto  tinte  poetiche,  ed  imparo  a  stimarne  profondamente  gli  autori  !   Crescendo  il  calore  di  madama ,  io  diminuisco  ;  l'opposizione,  e  le  lascio  assaporare  il  piacere  d'a-  vermi persuaso e vinto  :  in  questo  modo  usciamo  dalla  conversazione  soddisfattissimi  entrambi,  ella  di  me, ed  io  di  lei.   »  -  ìv  .,  5.  Gli  sforzi  per  comparire  ricchi  ;  del  che  vedi  un  cenno  alla  pag.  89  ,  §  4.Basterà   qui  il  dire  che  il  ridicolo  in  questi  casi  cresce  in  ragione  della  differenza  che  passa  tra  l'apparenza  e  la  realtà,  sicché  il  massimo  ridicolo  ci  verrebbe  offerto  da.  colóro  che  imitassero  i  comici  di  campagna,  i  quali,  dopo  d'avere  rappresentato  Cesare  e  Pompeo,  muoiono di  fame.  La  saccenteria^  la  quale  si  è  di  due  specie:),  appartengono  alla  prima  quelle  persone  che  ,  non»^  facendo  mai  uso  del  loro  giudizio,  spacciano  le  idee  altrui  senza  discernimento  e  come  proprie.   Molti  vedrai  che  proferir  non  sanno  ^  \%  '     »  Mai  sentenza  da  sè  ;  corrono  in  gìra'^   »  Per  la  cittade  di  pareri  a  caccia  ;      ,  1 Intendimento  è  in  casa  lor,  da  cantò  3»  Mobile  disusato  e  inutil  ciarpa.  L'opinioni  più  travolte  e  false  »  Succian  avidamente,  e  a  grande  onore.  /  ^'  '      »  Premon  la  spugna  ad  opportuno  tempo,  E  fan  lago  d'umor  sorbito  altrove.  »   La  seconda  specie  di  saccenti  contiene  que*  cer-  retani che,  forniti  d'un  capitale  scientifico  come  10,  fanno  pompa  d'un  capitale  come  100,  e  otten-    '  .   ,gono  facile  credenza  prineipalmeate  presso  le  don-  nicciuole  che  pizzicano  di  letteratura.   Non  basta,  dice  Gozzi,  l'aver  buone  merci  V»  nella  bottega;  ma  il  saperle  mostrare  è  di  grande   utilità.  Succede  a'ietteral,  quando  sanno  acqui-  »  starsi  l'opinione  degli  uomini,  quello  che  accade  >  a  qualche  benestante  o  giocatore,  che  se  il  primo  »  ha  tremila  ducati  d'entrata,  si  dice  cinquemila;  »  e  se  il  secondo  ne  vince  cinquanta,  corre  la  voce  '»^di  cento.  Così  se  l'uomo  di  lettere  avrà  buona  V maniera  d'insinuarsi  nell'animo  altrui,  non  vi  »  sarà  cosa  al  mondo  che  non  si  creda  eh'  egli  i^intenda.  Una  così  fatta  avvertenza  fu  buona  in  »  ogni  tempo.  È  vero  che  secondo  i  costumi  del-  >»  l'età  e  delle  nazioni  la  fu  anche  diversamente  »  posta  in  opera.  Ma  che  credete  che  fosse  quella  »  ruvidezza  d'Antistene?  Che  quel  mantellaccio, quella  valigia,  quel  bere  con  le  giumelle,  e  la   casa  nella  botte ,  e  le  altre  poltronerie  di  quei  »  malcreato  di  Diogene?  Non  altro  che  un  saper  »  vendere  le  sue  mercanzie.  Perchè  quando  uno  »  f a  con  una  certa  signoria  d'animo  quello  che  gli  »^altri  non  usano  di  fare,  tira  gli  occhi  di  tutti  a   *  sè,  e  a  poco  a  poco  la  maraviglia.  Aristofane  V  che  intendeva  le  cose  pel  buon  verso,  e  diceva  "  al  pane  pane,  per  aprire  gli  occhi  agli  Ateniesi,  »,  volendo  far  conoscere  l'artifizio  di  certi  studianti,  »  li  fece  comparire  sulla  scena  magri,  smunti  e  ^  del  colore  della  terra,  che  pareva  che  si  fossero  »  distrutti  a  studiare  ;  poi  le  loro  dottrine  erano,   •  quanto  spazio  salta  una  pulci,  e  se  la  zenzala  »  ha  la  tromba  nella  gola,  o,  con  riverenza  vo-  »  stra,  di  sotto.  Le  industrie  d'oggidì  non  istanno V  più  nelle  goffaggini  di  Diogene,  o  nel  colorito  »  della  faccia  che  gialleggi.  Non  importa  più  che  '  »  i  letterati  siano  magri  o  scoloriti,  no  ;  chè  ce  »  ne  può  essere  d'ogni  corpo  e  d'ogni  colore  ;  so-  »  lamente  è  necessario  un  poco  di  baldanza  per  »  dar  cognizione  di  sè  al  mondo.  È  vero  che  per  »  rendersi  baldanzoso  bisognerà  prima  invaghirsi.^  »  del  suo  fare  e  del  suo  dire;  e  a  forza  di  dare  »  ad  intendere  a  sè  medesimo,  che  si  sa,  comin-  >»  fciare  a  crederlo  finché  la  coscienza  noi  nega  più,  »  e  allora  poi  darlo  ad  intendere  anche  ad  altrui.  »  Poi  entrare  in  ogni  ragionamento  tanto  animati,  »  e  tanto  a  bandiera  spiegata  da  far  credere  che  quello  che  si  dice  abbia  proprio  la  radice  nel-  »  rintelletto,  e  sia  studio  di  tutta  la  sua  vita.'  »  Qualche  picchiata  agli  autori  può  ancora  giovare,  M  Verbigrazia ,  se  un  dice  :  Come  vi  piace  l'opera'  '  »  del  tale     Non  ho  avuto  pazienza  di  leggerla.  »  Dante .J*  È  rancido.  Il  Petrarca?  Troppo  lavorato;>  »  «  poi  malgrado  gli  so,  perchè  ha  fatti  tanti  Pe-  »  trarchisti  che  sono  una  noia.  L'Ariosto?  Divino;  »  ma  molte  volte  dà  nel  basso  che  m'uccide.  Il  »  Tasso?  Semper  corda  oberrat  eadem.  Insomma  »  eirè  come  disse  il  Leopardi:   ^   a  Vuoi  tu  parere  un'  arca  di'  scienza  ?   Biasima  sempre ,  e  vedrai  la  brigata  »  Starti  d' intorno  con  gran  riverenza.  »   »  Un  grand'uomo ,  un  grand'uomo  è  costui ,  dirà  la  brigata,  che  conosce  dove  sono  difettivi  gli  »  autori.  Proviamolo.  Si  ragiona  di  questo  mondo  »  e  dell'altro.  Su  due  piedi  l'uomo  ha  da  saper  »  rispondere  tanto  del  corso  de' pianeti,  quanto sentenziare  deiinitivamente  delio  arricciare  ca-  »  pelli  ;  e  s'egli  ha  grande  animo ,  sempre  termi*  »  nera  col  dire  :  In  un  mio  Trattato  spero  di  far  •  vedere  al  mondo  eh'  è  goffo.  Le  signorie  loro  »  tra  poco  vedranno  l'opinione  ch'io  tengo  sopra  »  ciò  in  un  libro  che  quasi  ho  terminato:  per  modo  »  che  empiendo  il  capo  de' circostanti  di  sentenze,  »  di  libri  e  di  simili  abbondanze  letterarie,  egli  è  »  impossibile  che  quando  prende  licenza  dalla  com-  »  pagnia  non  si  bisbigli  :  Oh  che  uomo  !  Oh  che  »  profondo  sapere  !  Costui  è  una  libreria  che  cam-  »  mina.  Una  stamperia  che  tira  il  fiato.  »   Ma  se  ti  è  permesso  di  ridere  delle  stoltezze  degli  uomini,  come  gli  altri  ridono  delle  tue  ,  la  pulitezza  vuole  che  il  tuo  sorriso  al  loro  guardo  s'asconda,  e  che,  d'ogni  malizia  spoglio,  non  sia  diverso  dal  sentimento  che  eccitano  in  te  due  puU.  Cini  che  vengono  a  contesa.   /   ,  giuochi  di  società.   Classificazione  dé*giuochi  e  vantaggi.   Da  un  lato  non  è  sempre  possibile  nelle  lunghe  sere  iemali  alimentare  la  conversazione  con  sog-  getti nuovi  e  interessanti  ;  dall  '  altro  il  discorso  pende  naturalmente  alla  satira.  .  Ora  è  meglio  giocare  che  annoiarsi ,  è  meglio  giocare  che  maledire  «  purché  regola  si  serbi  e  misura. Le  jeu  fùt  de  tout  temps  permis  p9ur  s'àmuser  ;  Oh  ne  peut  pas  t^mjours  travailler^  prier ,  lire  ;  //  vaut,  ìnieux  s'óccuper  à  jouer  qiià  médire.   1  giaoehi  poksoAo  esheré  indotti  a  cpiattro-elattf:   La  1.*  esercita  le  forze  corporee  (per  es. ,  il  «orso,  la  lotta,  il  pigiato  eec^«.  )•   La  2.^  esercita  le  forze  intellettuali  (  per  es.  gli  teaochif  vari!  giuochi  colle  carte;  eec}«  ^   La  S.*  lascia  Inerti  le  fonie  corporee  e  intrilel»  tuali  (per  es.  i  dadi  e  tutti  i  giuochi  d'azzardo)^   La  .  4**  esercita  coDtemporaoeaoieDte  le  forze  fi»  siche  e  tntellettualf  in  diversi  gradi  ,-  e  In  parte  anco  dipende  dall'azzardo  (  per  es.  il  giuoco  della  palla  «  cavallo^  del  pallMe.eo'piedi  ecc.).  I*«r?{^  volanti  divertono  nel  verno  tutte  le  corti  d'oriente:  vi  si  appendono  de'  fuochi  che  seml^rano  astri  in  mezeo  al  cielo.  Quello  del  i«  di  Stam^  sèmpre  in  aria  ciascuna  notte ,  e  i  mandarini  ne  tengono  alternatìvamente  il  cordone.  In  Itàlia  querto  diiier^  timento  è  rimasto  ai  ragazzi  ne'giorni  festivi  d'e-  state e  nelle  ore  pomeridiane,  e  unisce  il  piacere  deHa  vista  airesercizio  delle  membra  (t).   *  L' opinione  comune  vuole  (  ed  io  l'aveva  se-  gnita  Bell0  antecedenti  edizioni  di  questo  scritto  )  che  Fuso  delle  carte  da  giuoco  fosse  ignoto  pria  del  XV  secolo ,  e  che  ne  sia  stato  inventore  Già*  cornino  Crtn^nneur,  pittore  di  Parigi,  verso  la  fine  dei  secolo  XIV.  Pare  che  non  si  possa  dubitare  della    (!)  I  cervl-volanU  meritavano  una  menidone  pnrtlcoIw?c ,  |H9cchè  la  loro  storia  è  unita  a  quatta  deU'  el^tlrieitè.    falsità  di  questa  opinione  allorché  si  legge  il  mano-  scritto italiano  del  1295,  citato  dal  Tiraboschi  e  dal  Dizionario  della  Crusca,  nel  quale  si  parla  del  giuoco  delle  carte,  come  già  largamente  diffuso  in  quel-  Tepoca.  Forse  ella  è  questa  un'invenzione  asiatica  come  il  giuoco  degli  scacchi.  Che  che  però  sia  della  sua  origine,  egli  è  certo  che  le  carte,  ugualmente  che  altri  piaceri  innocenti  ,  censurate  caldamente  da'  predicatori ,  proscrìtte  con  pene  rigorose  dai  governi,  resistettero  a  tanti  nemici  potenti  congiu-  rati contro  di  esse.  Dopo  che  l'esperienza  e  i  pro-  gressi dell'economia  politica  hanno  insegnato  ai  governi  a  trarre  un  partito  flscale  da  ciò  che  ave-  vano inutilmente  proibito,  le  carte  da  giuoco  go-  dono, per  così  dire,  d'un  esistenza  legale,  impin-  guano il  pubblico  tesoro,  occupano  alcuni  fabbri-  catori,  e  il  piacere  deglr  uni  diviene  sorgente  di  lavoro  per  gli  altri.  Le  carte  formano  parte  de'  divertimenti  delle  quattro  parti  del  mondo.   Le  prime  carte  differivano  dalle  attuali  nell'ap-  parenza e  nel  prezzo  ;  esse  erano  dorate,  e  le  loro  figure  dipinte  e  alluminate,  sicché  la  fabbricazione  richiedeva  talento e lavoro  particolare;  quindi  ne  era  alto  il  prezzo,  in  conseguenza  raro  Tuso.   L'invenzione  delle  carte  introdusse  de' cambia-  menti ne'modi  di  divertirsi.  I  differenti  giuochi  a'  quali  esse  aprirono  il  campo,  costarono  più  tempo  che  dertaro  ;  quindi  anche  nel  loro  abuso  furono  meno  fatali  de'  dadi.   In  generale  i  giuochi  d'industria ,  ì  quali  appar-  tengono alla  seconda  classe,  possono  essere  utile  e  innocente  esercizio  allo  spirito  di  combinazione  •  ed  io  dirò  francamente  alle  madri:  Se  il  vostro    Digitized  by  Googl    ligliuoio  è  stupido  i  inspirategli  qualche  gusto  pe^  fuochi  d'industria;  k  vanità  punta  ed  aaiouAa  ^Ue  vìaende  delle  pmlile  a  deHe  Tioctto  risyeglìà  Tattenzione  e  dà  qualche  iittività  allo  spirito.  -  Aggiungete  che  una  persom  ohe  UM  sa  gioem^   costringe  altre  due  o  tre  a  rimanere  oziose  come  eis^  in  una  coaversazione.  :■■  :  r  o:  Additando  i  iWDtaggi  det  giooéo  tmè  paioob  al  bisogno  d'intrattenersi,  non  intendo  di  vantarne  la  passioiie^  «amo  ehi  addita  i  pragl4el  vino,  io-  lande  di  gkistifioare  rubbriaebeeza..  :  vi  .v>iJE  che  dite  dei  degli  scacchi?   «  Quello  earia  è  mutile  JiilfatteDHMBta  ai  kh   »  gegnoso  (risponde  il  Castiglione);  ma  parmfebe  »  un  sol  difetto  vi  si  trovi  ;  e  questo  è  che  si  può  »  saperaé^  troppo,  di  modo  che  a  cui  vuol  ^ssaere  »  eccellente  nel  giuoco  degli  scacchi,  credo  bisogni  »  consumarvi  molto  tempo,  e  mettervi  tanto  studio  9  quanto  ii^  vatésse^iiiiparar  qoaiehe  wbil  aefeaza,  »  o  far  qual  si  voglia  altra  cosa  ben  d'importauiia  ;  »  e  pu;  ìd  utolme^  etn  tanta  letica,  non  w  altep  »  che  un  giuoco.  GU^^fOiiiAi^gi^o^i  qtiai  eh' essi  siwa^  purché  noi!  eseatiè 'dal  liaMi  .  della  deeema^  s$ao  imta  pià  pregiabiUy  quca^o  maggiore  esercizio  offrono  ^iifoftj%roei;iq»ipHfi^^  alU/0rze^is»tellet'  tuali;  quindi  tra  tutti  i  giuochi  t  meno  pregiabiii  e  i  più^daiinoat  aooo  i  giuochi  d'azzardo.:  ^   '     '  §  2.  Regote  di  civiltà  neL giuoco.   iVoti  mQSif4Ue  mal  umore  se  vi.  toccano  cat'  ièbe  coorte  o  se  perdete  ;  giacebè ,  altvimenli  fa-  cendo, dareste  a  divedere  che  la  vostra  tranquilK può  essere  turbata  da  un'inezia,  e  cte  apprezzate  WfmhiiaMnlle  una  pieeola  niQneta«  -  .  If  •  Nm  siate  troppo  fento  nel  giocare,  sia  per  non  dar  prova  d'inerzia  intetlettpale,  sia  per  non   Se  il  vostra  compagno  commette  degli  ^r-  rorif  ó&rreggetelo  €on  gwbo^  iberna  fare  schia-  iNMS^  6  dar  wgM  4t  troppo  dispidoere  R  che  violerebbe  la  prima  regola;  d' altra  parte  dovete  fiewdarvi  di  ^fuiatli  %ìt»  eonunetlete      steasò. Se  giocate  con  persone  schizzinose,  difen-  deté  il  vostro  diritto  seaza  riscaldarvi  e  soprattutto  «iiM  paiéfo  «iSniiiKe  ;  #^  Ae^po  é'a?^  sposto  }e  vpstre  ragiooi)  cedete  con  beila  maniera.   «  Io  giòco  per  diletto  e  per  conforto;  .  »     chi  vuol  far  quistion vada  aila^guerr^  E  giuochi  ad  ammazzare  o  ad  essèr  morto. Non  moxtrMe  ecee$sÌoa  é^ili^rwsa  fpumdo  vincete  ,  sì  percbò  Waii^prez»  maggiore  dell  im-  pmtattca  éeila  Msa  t  dtnot»  picooiMza  di  apicito sì  perchè  la  vostra  allegrezza  produce  nel  perdente  im  (dispiacere  più  sensibiie  d^a  perdita,. ed  è  ri-  guardato cornai  m  prìmo''gmb  d'iMuttOk  Infetti  nissuno  ama  di  perd^e  a  nissun  giuoco,  non  tanto  per  h^resse  guanto  «par  amair  propria  ;  giaacbè  dalla  perdita  risultane  idee  umiliamli  eeonlrarie  aii/opinione  abituale  die ci3scuno  arasi  formata  in  mente  della  stia  destrazza  e  della  sua  fortuna.  Vod*  taire,  benché  uomo  di  spirito,  o  perchè  uomo  di  .  troppo  spirito,  non  poteva  tollerare  il  padre  Adam,  quando  guasti  lo  vinceta  agli  scaccili  oé  al  tò*  ie;lìardo.  Un  principe  assiro  uccise  il  Aglio  di  ^>o-    Jbyas  alla  i:accia,  perebè  quel  giovine  era  riuscito  a  ferire  un  orso  ed  pn  (ione,  contro  tsni  il  pnriiicipe  aveva  slanciate  le  sue  freccie  inutilmente. Un  uomo  probo  non  si  permette  la  minima  sùperchieria  nel  giuoco  ;  egli  vuole  poter  dire»  io  non  ho  fraudato  giammai,  senza  che  la  coscienza  Io  smenta  :  egli  temè  che  V  abitudioe  d' ingannare  neHe  cose  piccole  diminuisca  la  sua  delicatezza  nelle  grandi.  '   Ogni  frode  dovrebbe  essere  punita- còlla  perdita  una ,  due  o  tre  partite ,  secondo  la  sua  impor*  tanza ,  ed  a  giudico  inappellabile  d^gli  astanti.La  somma  giocala  deve  essere  tenuissìiha  e  sempre  inferiore  alle  finanze  del  men  ricco  tra  i  giuocatori  ;  altrimenti  alcuni  non  giocheranno  per  non  resbré  esposti  a  gravi  perditè ,  altri  gio-  cheranno con  grave  lo^ro  daqoo  per  non  comparire  spilorci  :  Tono  e  l'altro  caso  annuUa  il  piacere  delibi  conversazione  e  lo  deprava.  Il  prodotto  delle  vincite  debb' essere  m-  pSeguito  4Z  vasutaggio  tornirne  ;  questa  regola  dimt-  i)uisce  il  dispiacere  delle  perdite^  e  neutralizza  l'a-  vidi del  guadagno. Il  tempo  destinato  al  giuoco  non  deve  su-  perare i  due  terzi  del  tempo  consecFato  alla  cw^  ireflsasione  i  e  questa  non  deve  succedere  a  ^e»e  'de' doveri  e  degli  affari  di  maggiore  importanza.  .    X»  Jiton  ai  deve  costringere  con  importuniià  sèsamo  a  giocasi ,  come  non  ti  deve  èoatriogere  . jaissuno  a  bere.  Non  si  devono  accoppiare  mi  friwM  >er*  sos^ie  nemiche  o  reciprocamente  odiose.  Egli  è  quf$ta  un  probienia  teìvoita  dilGcile  per  la  padrora iiratO  TÉMÙ   di  casa,  e  a  scioglierlo  beae  ci  vuole  occhio  Qao  e  pratica  di  aioDdo.   .  «  Lieto  così  tra  ramichevol  turbai  »  L'  ore  dividi  delle  amene  sere,  )*  E  n'abbiao  parte  gli  eruditi  detti,  «  £  parte  ancora  al  genial  oe  dona  »  Breve  «ommercio  di  piacevol  gioco,  »  Cui  mutua  gioia  e  scarsa  speme  avvivi,  •>  Ma  sete  d'oro  non  corrompa,  o  il  renda  '  »  Torbido  e  taciturno,  e  tal  che  dopo  »  Al  vìnto  Insieme  e  al  vincitore  incresca.   Doveri  nella  conversazione.   >   .4  1.  Attenzione.  '  '   L'attenzione  ne' crocchi  sociali  si  divide  in  doe  rami  distintisdmi*  *  '   Il  prim^  coDuprenda  quatf  a^ttnsa  sansibiiilà  che  immagina  i  bisogni  degli  astanti ,  li  previene  od  asseconda;   Il  secondo  oom|ltettde  le  affetftudini  «steHori  di-  mostranti che  Taitrui  discorso  occupa  interamente  il  nostro  anunob*   L  Supponiamo  una  signora,  che,  animata  dal-,  raoeenaata  sensibilità  ^  dirige  ufia  conversazione ,  0d  «serviaoMMie  ^v%ibM^  La  ptontezza  -era  mii  ella  risponde  alle  dimande,  vi  fa  supporre  che  la  sua  attenzione  sia  tutta  ooeupata  nelle  risposte  ;  V ingannate;  ella  si  diiFÌd6, si  moltiplica  ,  ed  è  presente  a  tutti  i  pensieri  degli  astanti  ;  non  vi   S&7   sfogge  uno  sguardo  eh' ella  noi  vegga  ;  non  {or-  inate- tto  degiderk)  ch'elici  non  conosca}  noa  pfo^  ferite  una  pàroia  eh'  ella  non  ascolti  ;  non  v'  ha  individuo  nella  conversazioae  eh'  ella  dimentichi  iQ&tti  ella  vede  là  Ja  un  angola  ehi  wa  paria  per  timidezza,  6  gh  dirige  con  sorriso  di  confidenza  una  dimanda."  Ella  s'accofge^  che  U  discorso  d  ;qualcuQó  eomiaeiab  ad annoiar  la brigala,  e  gli  .  cambia  cofx  bel.  garbo  il  soggetto tra  le  mani.  Il  vosl^  ^vvtirsacio  vi  stringe»eoa  afgomenti.iQeal»Dtì  a  segno  che  siete  vicino  succumbere;  ella  viene  in  ip(ra  soccorro,  con  una  celia.  . Vi  jsf uggì  di  bocca  dna  parola  a  cui  sh  dà  sinistro  senso,?  ella  spiega  la  vostra  intenzione  e  la  presenta  in  beir  aspetto.  Cadeste  per  inavvertenza  iiv  uno  sbaglio  che  può  divenirvi  nocive  ?  ella  vi  trae  d'imbarazzo  colla  sua  presenza  di  spirito  Uh  Voi  non  ardite  leggere  una  iatteira  che  vi  viene  pre^eotida/netta  ewiversaziaiie  ;  ella  dimanda  per.  voi. il  permesso  agli  astanti,  pro-  ^testando  che  ne  conosce  Timportan^a.  Voi  vorreste  .partire  e  non  osate  ;  elja  vi  &  rimprovero  che  4ih   1  '   (I)  Ferdinando  VI  re  di  Spagna,  benché  di  carattere  buono  jed  amano,  era  alquanto  severo  contro-  quelli  che  facevano  uso  di  tabacco  proy[>ito.  -  tJn  gìomò  in  sua  presenza  un  grande  di  Spagna  trasse  di  tasca  una  scatola  piena  della  polve  proscritta.  Il  re  slanciò  sopra  di  lui  uno  sguardo  mi-  naccioso. L' ambasciatore  di  Francia  (  M.r  di  Duras  ) ,  ac-  cortosi della  faccenda,  s' avvicinò  alio  Spaludo  e  gli  disse:  Ohi  ecco  la  ndaia|iaocbierache  V.E.,  per  prenderai  giuoco  di  me,  mi  aveva  tolta.  Questo  felice  espediente  trasse  d^ im-  paccio il  reo  6  disarmò  il  monarca.  (NB.  I  membri  del  corpo  diplomatico  non  erano  soggelU  alla  legge  della  proibizione  ).   menrichiate  i  vostri  affari  pe'vostri  amici,  e  v'or-  dina di  partire  sotto  pena  della  sua  disgrazia.  Vinse  ella ,  è  vero,  al  giuoco,  ma  se  la  destrezza  del  suo  compagno  non  avesse  corretto  i  suoi  er-  rori, sarebbe  rimasta  succumbente.  Quest'oggi  ella  è  libera  dalla  sua  emicrania  e  ne  furono  medicina  i  bei  motti  della  scorsa  sera.  Osservate  con  quale  compiacenza  arresta  di  quando  in  quando  il  suo  .  sguardo  sopra  uu  astante,  e  pare  che  la  sua  fiso-  nomia  s'animi  e  s'abbellisca  :  ne  volete  conoscere  il  motivo?  Questi  le  presentò  l'occasione  d'essere  utile  ad  un  infelice.  Senza  pretendere  dominio  nella  conversazione,  sa  dirigerla  con  destrezza ,  e  quasi  direi  fa  comparire  sul  palco  i  personaggi ,  restando  essa  tra  le  scene.  Ella  sa  far  valere  cia-  scuno senz'aria  di  protezione,  perchè  sa  distribuire  le  parti  secondo  V  abilità,  il  genio  e  i  talenti  di  ciascuno.  Voi  avete  fatta  una  bella  azione,  e  non  ne  parlate  per  modestia;  credete  voi  ch'ella  non  la  conosca  ?  che  l'abbia  dimenticata?  Aspettate  che  la  conversazione  sia  piena,  ed  ella  verrà,  per  così  dire,  a  prendervi  per  la  mano  e  vi  presenterà  agli  sguardi  di  tutti  in  mezzo  ai  raggi  della  vostra  gloria  (1).    Parecchi  scrittori  che  frequentarono  i  bordelli  ,  hanno  fatto  la  satira  del  bel  sesso  :  essi  avevano    (f  )  Nel  testo  ho  abbozzato  con  lievi  tinte  il  carattere  d'una  signora,  la  cui  amara  perdita  lasciò  profonda  sensazione  nel-  r  animo  di  quelli  che  ne  ammirarono  le  virù  :  parlo  della  si-  gnora Marianna  Morigi  Réina.    ragione  :  il  primo  dovere  d' un  viaggiatore  si  è  d' essere  esatto.  A. chi  ha  conosciuta  deile  dooae  che  il  flore  delia  gentilezza  uDivana  aHe  fià- ama-  bili virtù,  iocumbe  l'obbligo  d'esattew  eguale.   IL  Mostrare  che  degli  altrui  discorsi  nóu  f«t»  dete  una  parola,  e  che  le  affezioni  risentite  che  il  parlante  tende  ad  eccitare,  è  dovere  si  evidente,  che.  d' ulteriori  schiarimenti  non  abbisogna  dopo  quanto  è  stato  detto  nel  libro  primo.   «  Se  npn  mostra  che  il  turbi  o  che  il  conforti  •   »  Ciò  che  sente  chi  ascolta ,  non  dirai  '   f  O  ch'egli  è  sordo  o  che  poco  gt'  importi  ?  »  Con  somma  attenzìon  dunque  dovrai   »  Ascoltar  ehi  proponga  o  chi  risponda,  ,  n  Se  avrai  iuteìrrogato  o  se  il  sarai*  »  £.se  avversa  al  tuo  genio  o  pur  seconda  Sarà' la  eosa  iM^t  dèi  mei  visito. Mostrare  impressione  aspra  o  glo<M)ndd. Conviene  assistere  ai  discorso  di  chi  parla  come  si  assiste  In  teatro  ad  una  seeua  nuova  ;   n  E  però  sii  disposto  ad  ascoltarlo  »  Come  di  tutto  ignorante  tu  fossi ,   »  E  n^suoi  vari!  sensi  a  seguitarlo.  »   ^  ^   «  .  •   È  quindi  grave  inurbanità,  allón^è  qualcuno  parla,  trastullarsi  ooHentaglio,  col  cane,  coi  guanti,  colla  td^oduera,  eoi  cappello,  ovvero  Volgere  qua  ^.  là  il  capo,  e  far  gesti  con  questo  e  sorridere  a  qucHo ,  ioBomma  mostrare  un'  aria  di  volto  che ,  alla  sensazione  comune  eccitata  dai  dkeeni.  del  pariante  non  eorri^poada.  In  forza  di  queste  distrazioni,  quando  il  discorsa  è  innoltrato  e  diviene  interessante,  siamo  costrettJ  ^  a  confessare  che  ce  ne  sfuggì  il  filo,  e  con  altrui  .  noia  preghiamo  chi  parla  a  rannodarlo  nella  nostra  mente.   «  Egle  distratta  intanto Torna,  disse,  a  ridir,  ch'io  nulla  intesi. L'altrui  distrazione,  oltre  d'essere  un  affronto  .  a  chi  parla,  giunge  a  turbare  le  di  lui  idee ,  mentre  all'opposto  l'altrui  attenzione  le  raccoglie.   '  «  E  se  ascoltando  astratto  o  per  stanchezza  «  Volgi  l'occhio  ,  si  ferma  chi  favella  ;  »  Ma  guardalo,  e  il  discorso  raccapezza.  »  ^   La  distrazione  poi  è  dannosa  a  noi  stessi  in  tre  modi  nella  conversazione  A  ,<vr  riv  i/,   1'.  Ci  fa  ripetei^e  le  stesse  dbnande  ^  ^^^prova  labilità  di  memoria,   •  (  Una  principessa  volendo  dire  qualche  cosa  gra-  ziosa ad  una  giovine  dama,  le  dimandò  quanti  figli  aveva:  tre,  rispose  la  dama.  Un  quarto  d'ora  dopo ,  la  principessa  ,  la  cui  attenzione  era  stra-  niera a  questo  trattenimento ,  dimandò  di  nuovo  alla  dama  quanti  figli  aveva.  —  Siccome  non  ho  partorito  dopo  la  prima  dimanda  che  aveste  la  bontà  di  farmi,  replicò  la  dama  ,  così  i  miei  figli   ,  restano  tuttora  tre  ) Ci  fa  commettere  sbagli  e  contrassensi  che  ci  rendono  ridicoli.  (  Un  negoziante  cui  fu  esibito  da  sottoscrivere  •    l'estratto  battesimale  d'uno  de'suoi  figliuoli,  scrisse  :  Pietro  ....  6  compagni.  Egli  non  s'accorse  della sua  stoltezza  se  non  se  dopo  la  risata  generale  che  eccitò.  )   3.  Ci  fa  si^elare  i  sentimenti  del  nostro  animo  contro  nostra  voglia.  .  ^  ^  .  (  Una  dama  alla  presenza  di  suo  marito  parlava  4ella  destrezza, di  cui  si  era  servito  un  galante  per  introdursi  nella  casa  d'una  signora  ch'egli  amava,  in  assenza  di  suo  marito.  Ma  nel  mentre,  disse  ella,  se  la  intendevano  tra  di  loro,  eccoti  il  marito  che  batte  alla  porta  :  Ora  immaginatevi  V  imba-  razzo in  cui  allora  io  mi  trovai.  La  verità  sfuggita  alla  moglie  pose  il  marito  in  altro  imba-  razzo maggiore. Sogliono  essere  causa  di  distrazione   1.  La  noia  prodotta  da  discorso  poco  interes-  santeo  già  notoy  e  il  poco  concetto  che  si  ha  di  chi  parla  ;  quindi  dell'altrui  distrazione,  siamo  non   di  rado  cagione  noi  stessi        '  -   2.  V  abituale  irriflessione  che  lascia  errare  sbrigliatamente  la  fantasia  senza  riguardo  alla  realtà  delle  cose  da  cui  siamo  circondati  ;   3.  La  voglia  di  rispondere  per  vanità  od  altr,  simile  sentimento.  Allorché  qualcuno  parla,  alcuni  concentrano  il  pensiero  sopra  ciò  che  devono  ri-  spondere. Tutto  occupati  nella  risposta,  non  resta  loro  alcun  grado  d'attenzione  per  ciò  che  ascol-  tano. Temendo  che  sfugga  loro  l'idea  che  vogliono  esporvì ,  il  loro  spirito  s' occupa  a  conservarla,  e  ad  impedire  che  altre  al  di  lei  posto  sottentrino.   4.  L'astratto  è  una  testa  debole  che  si  lascia  predominare  dalle  idee  che  gli  vanno  per  la  fan-  tasia ,  0  un  uomo  vano  che  si  finge  occupato  in  grandi  pensieri. In  atto  -^4.^^  -   ^\ /   *  ^^'^  Di  pensator  profondo,  altero  sembra     ^  vl?  *  kr'Ét^  '>  Quasi  seder  della  ragion  sul  trono ,  }         E  il  semi-chiuso  ciglio  abbassa  appena  .ijfilt-  V      »  Sul  non  pensante  vegetabil  volgo.  »  ^   Pretendere  di  mostrarsi  filosofi  mostrandosi  stratti  e  sgarbati,  è  pretendere  di  mostrar  ricchezze  con  un  tabarro  rattoppato.  Chi  alla  coltura  delle  scienze  accoppia  gentil  costume,  dà  segno  di  forza  d'animo  come  due;  chi  alla  coltura  delle  scienze  rozzo  costume  unisce,  dimostra  forza  d'animo  come  uno:  poiché  se  la  rozzezza  è  naturale,  la  genti-  lezza  è  figlia  dell'educazione;  dunque,  rigorosa*'  *  mente  parlando,  in  vece  d'innalzarsi,  l'astratto  si  degrada,  giacché  la  sua  condotta  prova  o  può  pro-  vare ch'egli  basta  a  coltivare  le  scienze,'  non  basta  a  coltivare  le  scienze  e  sé  stesso.  Si  possono  dun-  que coltivare  le  scienze  senza  essere  villano.  Le  scienze  vogliono  che  dalla  solitudine  passiamo  alla  società,  più  amabili,  perchè  vogliono  de' seguaci^'  non  degli  stupidi  ammiratori  o  de' nemici. È  quasi  straniera  sulla  fronte  dell'  uomo  buono  la  severità,  mentre  non  di  rado  comparisce  sul  suo  labbro  un  dignitoso  e  piacevole  sorriso,  f.^^   L'uomo  buono  non  s'offende  d'uno  sgarbo,  non  '  fa  rumore  per  un'altrui  svista  ;  dissimula  le  man-  canze d'ossequio  e  di  rispetto  che  a  prava  inten-  '  zione  non  si  possono  attribuire.   Non  isdegna  d'occuparsi  di  cose  frivole,  se  pia-  cevoli agli  altri  :  e  nelle  partite  di  piacere  più  l'al-  trui genio  consulta  che  il  proprio.    iìlLìmaii   Di  contrasti  ignara  »  Condiscendenza  che  alle  propri  voglie  »  Cede  coàì,  che  delle  altrui  s'indonna.  »,  ^   liwiisilegoa  di  prestare  orecchio  agli  imbecilli  che  non  gli  dicono  BuUa,  e  Ji  toUwa,  lofitaoissiuKi   4   i    .  «  •  •  «  Gli  altrui  detti  e  qualche  »  Sbaglio  sfuggito  e  naturai  difetto   AiranouDcfo  d' un  vizio  egli  inc^inà  a  porlo  in  ,  dubbio  ;  e  se  il  vizio  è  certo,  ricorda  il  pentimento  «^he  potrà  cancellarlo.  Quindi  egli  prende  spesso  ta-  liKesa  degli  assenti,  e  conchiude,  quando  può,  Hi  modo  analogo  a  quello  che  usò  Boiingroke^  ai-  Jorchè  intése  a  laccfriiré  la  riputsbsions  éi  Maftou-  ,  Tough  :  Egli  ayeva  .tante  virtù,  che  ho  dimenticato  I  suo»  mi.  .    \  , ,  t  .   Egli  scusa  gli  altrui  difetti  anche  a  spese  della   P.erità  allorché  non  ne  viene  danno  ad  altri  ^1).    (I)  IMusladin  Saadì  nel  suo  Mosarium  poUticwm  riferisce  «che  un  cèrto  re  condannò  a  morte  naa  de*  tuoi  sehiavi  ,  e  ^lie  quesU}  non  vedendk»  speranza  ^  grazia,  ^ede  sfogo  al  .  suo  dolore  con  nalèdieloini  e  ìmpreeaslofxl  d'ogni  genere  '   -  contro  il  re.  Questi  non  intendendo  ciò  che  diceva  lo  schiavo,  \  ne  chiese  la  spiegazione  ad  uno  de'  suoi  cortigiani  :  il  corti-   .  ji^iono ,  il  quale,  per  rara  sorte  aveva  il  cuor  buonore  desi^  ^   •  derava  salvare  la  vita  al  colpevolé^  riiposè:  fflgilore,  questo  povero  diavolo  dfeè,  che  U  parafo  srta  preparato  perqueUi   (  c:{]c  moderano  la  loro  collpra ,  e  che  perdonano  i  difetti  \  ed           ;  ,   Egli  è  il  primo  a  sottoscriversi  ad  un  progetto  di  beDeficeneà  ;  non  è  loataiio  dall'  imj^rtunare  per  ottenere  ^  un  beneficio  a  vantaggio  di  'qoalchè   bisognoso.  ;  '   Egli  ha  la  delicatezfsa  dare  ad  un  brae&iio  l  apparenza  d\un  obbligo ,  e  conta  pel  massinno  ptqioere  il  piacer  di  beD6fic9re  (1).  È  inotile  rag-    iH  quésto  tfodo  egli  Implora  la  tostrà  d^iDenza.  AUora  ir  '    re  perdond  éló  woìàmo,  e  gU  aiscordà  dinuovi»  A  sua  gmìi.   Cn  altro  cortigiano  iniquo  per  carattere ,  facendo  rlmpro'  veri  al  primo,  gli  disse  che  non  cpnveniva  ad  un  uomo  del   ,8U0  «Ugo  il  mentire  alla  presenza:  del  re;  quindi  rivoltosi  al  ,  principe ,  te  vi  svelerò  la  verità ,  gli  disse  :  i^ppiale  che  lo  «eMavo  fak  proferito  gouIbo  di  véf  1^  pUi;  «BecraUMi/in^  "  rioni ,  e  questo  signore  vi  vende  una  merizegna.       •  ;  .   M  re,  offeso  da  questa  graluila  e  inopportuna  malvagìtìu  •  -     dò  può  ben  essere^  replicò;  Kta  la  menzlogna  che  voi  gU  r  ^cimbroverate,      eliè  la  vostra  ^^ìk  è  pregevole  ;  giac-  1»  cbè  con  questo  mé^  egli  procacciò  dfc>a)vare  la  vitàad  «  un  uomo ,  mèùtre  voi  tentale  di  togliergliela  :  ignorate  vo^  »  questa  massima?  La  menzogna  die  frutta  un  bene,  vale  »  più  della  verità  che  produce  un  danno.  »   (4)  Turenne  avendo  veduto  nella  sua  armala  un  olBciale  imesto  ma  povero,  fornito. di  cattivo  cavallo,  lo  invitta  pranzo ,  e  dopo  pranzo  gii  disse  in  disparte  con  speciale  bontà  d'animo:  io  devo  farvi  una  preghiera  che  forse  voi  troverete  un  poco  ardila  ;  ma  spero  che  non  vorrete  rica-  li lìtillà  al-  vostro  generale,  lo  sono  vecchio  ed  anemie  ma-  laticcio }  i  cavalli  Uroppo  vivaci  mi  ca^^ianano  disagio  e  pena;  voi  ne  avete'  uno  sol  quale  starei  còmodissimo.  Se  non  te-  messi di  domandarvi  un  sacrifizio  troppo  grande ,  vi  preghe-  rei di  cedermelo.    L'  officiale  non  rispose  che  con  profonda   .  riverenza,  andò  ^  pifendero  il  suo  .cavallo  e  lo  condusse  nella  «cudfHriA  di  Turenne.  ^  Questo  generali^  gii  spedì  il  giorno  ap-  presso uno  de*  più  belli  e  migliori  cavalli  dell*  acq^ta.  ^    Digitizec  Ly  v^oogle    gfO^re  ch'egei  si  astiene  dalle  commi  ^UHaipai  a  iBer  di  labbro^  no»  aeeompagnaté  èA  desiéeria   d'eseguire^  e  che  si  debbono  chiamai'e  r   «  YeiMi  iógafinì  in  mmzognere  offerte,  r  -   fissare  sei^ro  co'  suoi  simili  è  dtmenticare  di   quante  qualità  siamo  sprovvisti ,  da  quanti  difetti  funifflio  lur^ervati  dai  solo  azzardo,  quanti  oggetti,  qpante  circostanze  sulle  debolezze  degli  uomini  influiscano.  *  ^  *   ;    *  >  -   Ma  per  e^eré  buono  non  siate  imprudente  }  e  ricordatevi  che  la  bontà  inclina  naturalmente  a  giu-  dicare gli  uomini  no^  quali  som^  ma  quali  do*  vrebbero  essere;  la  quale  illusione  se  riesce.pia^  cevole,  perchè  ci  libera  dalle  spine  della  difliden^a,  spesso  di  molti,  e  gravi  sbagli  è  fonte.   §  8.  Modestia^.   Per  Qiodéscià  inteiAlesi  quella,  virtù,  die  si  a-  stiene  dal  prevalersi  de'  proprii  talenti  e  della  prò*  pria  abilità  In  modo  spiacevole  a^  j^uèlli  con  cui  viviamo.   Ella  è  veramente  una  virtù  ^  gi^hè  riesce  a  reprimere  la  nittùrale  tendenza  che  spinge  ciascuno  ad  esagerare  i  proprii  pregi  e  farli  sentire  agli  altri.   ^  Io  non  credo  ch'uom  sia  sotto  la  luna,  »  Ch'il  suo  ingegno  cambi^^e  con  Platone,  »  Quantui^ue  egli  non  skppia  cosa  aìcuna.  Perche  a  ciascun  par  esser  Salomone,  ,  »  £  ui  essenza^si  giudica  da  tanto  «  Che  meriti  ogni  onor  da  le  persone.  ^   Quindi  Timmodestia  cresce  in  ragione  dell'ign^^  .  ranza ,  o  per  dir  meglio  del  falso  sapere  ;  perciò   »    Digi vi,'   la  Bruyère  dice  :  //  vanaglorlosOy  misto  di  sciocco  e  di  petulante^  sta  tra  questi  due  estremi.   Un  giudizio  troppo  favorevole  di  noi  stessi  of-  fende i  nostri  simili ,  ì  quali ,  volendo  giudicare  liberamente  le  nostre  azioni ,  veggono  con  dispia-  cere che  si  assegni  a  se  stesso  nella  loro  opinione  un  rango  o  delle  ricompense  che  essi  non  ci  as-  segnarono.   L'uomo  modesto  somiglia  a  que' fiori  che  umili  steli  tolgono  all'altrui  vista,  e  che  solo  il  loro  pro-  fumo fa  conoscere.   La  modestia  dà  ai  talenti,  alle  virtù,  alle  abi-  lità quell'incanto  che  il  pudore  aggiunge  alla  bel-  lezza (1).  '   «  Ippolito,  che  sài  più  in  là  A\  tanti    '"^  "  *^  •  .  »  Fra  lor  che  sanno,  e  di  saper  dan  mostra,  Mentre  a  te  ignaro  de'  tuoi  proprii  vanti  -   .*   ^  Schietto  pudor  Tonesta  guancfa  inostra.  »   "  "'  '   «  LaseianK),  dice  Gozzi,  il  commendarsi  da  se  »  medesimi  a  coloro  i  quali,  temendo  di  sè  e  delle  y>  opere  loro  ,  tentano  di  sostenerle  coi  puntelli ,  »  come  gli  edifizi  vecchi  e  cadenti.  Non  sia  di-  »  sgiunta  da  noi  giammai  queir  onorata  modestia  »  che  è  condimento  e  grazia  di  tutte  le  virtù ,  e  ^>  le  rende  più  care  e  pregiate.  Qual  baldanza,  vi    (I)  L*  umiltà,  differente  dalta'  modestia,  è  una  qualità  cha  brama  mostrarsi  agli  occtii  altrui ,  perchè ,  mostrandosi ,  In  vece  d' offendere  la  loro  vanità ,  X  adesca  \  ella  suppone  per  lo  più  in  quelli  che  la  ostentano ,  un  sentimento  segreto  d'amor  proprio  od  anche  d'orgoglio  ch'ella  si  sforza  di  re-  prmiere ,  desiderando  che  le  si  sappia  grado  della  sua  vittoria.    prego,  sarebbe  la  nostra  se  volessimo  privar  le  »  genti  della  facoltà  di  dare  il  proprio  giudizio  »  sopra  di  noi  ?  Perchè  vorremo  noi  essere  niae-^  »  stri  a  tutti  coloro  i  quali  ci  ascoltano,  e  conian-  »  dare  ad  ognuno  che  a  nostro  modo  favelli  ?  E  »  se  per  avventura  V  intendessero  altrimenti  da  »  quello  che  andiamo  noi  vociferando  di  noi  me-  »  desimi ,  che  sarebbe  allora  ?  Le  nostre  voci  si  »  rimarrebbero  offuscate  nelP  immensa  furia  delle  »  contrarie ,  e  noi  verremmo  giudicati  senza  cer-  »  vello.  Quanto  è  a  me ,  così  penso  e  tengo  per  »  fermo,  che  farà  sempre  inutile  opera  colui  il  »  quale  a  dispetto  di  mare  e  di  vento  vorrà  essere  »  d'assai  con  la  sola  forza  delle  sue  ciance.  »  r  Giusta  gli  esposti  principii ,  l'uso  ha  introdotto  nel  conversare  socievole  certi  modi  di  dire  che  ,  lungi  dal  dare  segno  di  confidenza  eccessiva  nel  nostro  giudizio,  lasciano  scorgere  dubbio  e  difll-  denzà.  Franklin  ci  dice  che  conservò  T  abitudine  di  non  impiegare  giammai  nelle  quistioni  contro-  verse le  parole  certamente,  sicuramente^  indubi-  tatamente^ od  altre  simili  che  il  dimostrassero  ir-  removibile nella  sua  opinione.  Io  diceva  piuttosto,  egli  soggiunge  i  fo  credo^  io  suppongOy  a  me  pare  che  la  cosa  sia  così,  per  tate  a  tale  ragione:  ov-  vero la  cosa  è  così,  se  non  m'inganno  (l)'.  •    {\)  Prima  di  Franklin,  aveva  detto  Monsignor  Della  Casa  :  «  Bisogna  che  tu  ti  avvezzi  ad  usare  le  parole  gentili  e  rao*  »  deste  ,  e  dolci  sì ,  che  ninno  amaro  sapore  abbiano*  e  in-  »  nanzi  dirai  :  Io  non  seppi  dire,  che  Voi  non  m' intendete ,  j»  e  Pensiamo  un  poco,  se  così  è,  come  noi  diciamo;  pint:  »  tosto  che  dire:  Voi  errate,  o  E' non  vero,  o  Voi  non  la Poiché  gli  scopi  della  conversazione  sono  d'i-  Vr^struirsi  o  d'istruire  gli  altri,  di  piacere  o  di  per-  »  siiadere,  è  cosa  desiderabile  che  gli  uomini  in--  »  telligenti  e  ben  intenzionati  non  diminuiscano  n^vjl  potere  che  hanno  d'essere  utili,  affettando  »  d'esprimersi  in  modo  positivo'^  presuntuoso  che  »  vi|i9n  lascia  di  spiacere  a  quelli  che  ascoltano,, e  »  non  è  proprio  che  ad  eccitare  delle  opposizioni'  »  e  prevenire  gli  effetti  pe' quali  fu  concesso  al-   . uomo  Jl.s dono  della  favella*/ ,  «tr  .   .  r  «  Se  volete  istruire,  ricordatevi  che  un  tono  af-  ^, fejrmativo ^fi-  dogmatico,  proponendo  la  vostra   .    .        -Ili  sapete  ;  perciocché  cortese  é  amabile  usanza  è  lo  Incolpare   M  altrui,  eziandio  in  quello  che  tù  intendi  d'incolpaclo;^  anzi<^   »  si  dee  far  comune  Terrore  proprio  dell' amico, prenderne prima una  parte  per sè,  e  poi  biasimarlo  e  ripren-   i>  derlo. Noi  errammo  la  via  :  e  Noi  non  ci .  ricordammo   À  ieri  di  così  fare*  ^ome  che  lo  smemorato  sia  pur  colui   A  solo  e  non  tu  :  e  quello  che  Restatone  disse  ai  suoi  com-   »  pagni  non  istette  bene:  «  Foij  se  le  vostre  parole  moìi  men'   M  lono  n  ;  perché  non  si  deve  recare  ili  dubbio  la  fede  al-   »>  tmi:  anzi,  se  alcuno  U  promise  alcuna  cosa/e  non  tela   »  attende,  non  istà  bene  che  tu  dica:  Voi  mi  mancaste  della   •)  vostra  fede  ;  salvo  se  tu  non  fossi  costretto  da  alcuna  ne-   »♦  cessiti ,  p«r  salvezza  del  tuo  onore ,  a  così  dire  :  ma  se   n  egli  ti  avrà  ingannato,  dirai  :  Voi  non  vi  ricordaste  di  così  fare  :  e  se  egli  non  se  ne  ricordò,  dirai  piuttosto  :  Voi  non   »  poteste  ;  o  Non  vi  ritornò  a  mente  ;  che  Voi  dimenUcastc,   »  o  Voi  non  vi  curaste  d'attenermi  la  promessa:  perciocché   »  queste  sì  fatte  parole  hanno  alcuna  puntura  e  alcun  ve-   »  neno  di  doglianza  e  di  villania  ;  sicché  coloro  che  costu-   »  mano  di  spesse  volte  dire  colali  motU ,  sono  ripulaU  per-   »  sone  aspre  e  ruvide  ;  e  cosi  é  fuggito  il  loro  consorzio   M  conie  si  fugge  di  rimescolarsi  Ira'  pruni  e  tra'  triboli.   S6ft   »  proposizione  ^  è  sempre  causa  per  cui  si  cerca  di  eontraddìpvi'^  e  p«r  non  si^  aicoltato  1»  con  attenzione.  Da  un  altro  Iato  se,  desiderando  »  d'essere  istruito ,  e  di  profittare  delle  coignizteiii  »  «degli  altri  ^  toì  ti  esprimete  eooie  pensona  for<-  )>  temente  ostinata  nei  suo  modo  di  pensare,  gli  9  MouNAt  modesti  e  sensibiii  che  nm  amane  la  H  disputa ,  vi  lasceranno  tranquillamente  in  pos-  »  sesso  de' vostri  errori.  Seguenda  un  metodo  or-»  y>  goglioso,  raire  volt»  potete  speme,  di  piaeefs  af  »  vostri  uditori,  di  conciliarvi  la  loro  benevolenza,  »  e  di  convincer  quelli  cui  voi  eravate  vago  di  £a9  »  aggradire  i  vostri  pensieri  (1).  »  *   La  ragione  non  lia  giammai  maggiore  impero  che  quaodo  alla  si  presenta  non  come  una  legge  che  si  deve  seguire,  ma  come  un'opinione  che  può  meritare  d'essere  esaminata  ;  perciò  ne'  crocchi  di  Filadelfia  pagavasi  un'ammenda  tutte  le  volte  die  facciasi  uso  d'un'  espressione  decisiva.e  dogmatica.  Gli  liQmini  piià  intrepidi'  nella  loro  c^rtsasa  4^rano  obbligati  d'impiegare  le  formole  del  dubbio,  e  pren-  dere nel  loro  linguaggio  l'abitudine  della  modestia^  la  quale,  quand'anclie  s*|uerestasse  alle  sete  parole,  •    (I)  L*  abate  Polignae  sapava  presedtave  le  ime  Idee  i^a   aria  sì  modesta  e  gentile,  clieil  Pontefice  Alessandro  VIU  gli  diceva:  Voi  sembrate  sempre  essere  del  mio  parerei  ma  alla  line  de'  conti  é  sempre  il  vostro  che  prevale.   Luigi  XIV,  dopo  d*avere  ascoltato  U  suddetto  abate  sulla  ìiegoziazkme  Intrapresa  à  Boma  per  le  celebri  proposiztoid  idei  clero  Oallleano,  disse  :  R!l  sono  Inlratlenuto  con  un  nomo,  e  glovìre  uomo,  U  quale  mi  ha  sempre  controddetUi  c  mi  e  smifte  piaciuto,  /   ai*    Digitized  by  Google    390  '  uno  xiMa    ^  *   avrebbe  già  il  vantaggio  di  non  offendere  1'  altrui  amor  proj^io,  ma  che^  per  rinfluenza  delle  i^aaroie  MHe  idee  y  ém  fiiialMefite  etftfindent  4mU6  fltetse  opkìioai.   .Ii6  pmone  gemili  sapendo  die  ralttni  wiità   soffre  allorché  si  vede  convinta,  sogliono  terminare  la  contesa  con  una  lepidezza, a fine di mostrare che mii forepo  icrtet»  dall'oppoeisimd,  eh0  El-  lero offendere  il  loro  antagoniata,.  che  non  si,  van-  tano 4Mla  vktona»   .  §  4.  C&a^imazi(me  dello  stésso  argomento.   ■   Siccome  T  ombra  sola  della  pretensione  offende  Faltmi  amor  proprio,  perciò  i  titoli  di  vano,  su-  IUrbò,  anrogantef  tallita  si  regalane  a  tollo^  a  torto  si  dichiarano  offensive  le  giuste  ragioni  con  cai  l'Qinocenza  e  il  nierito  rivendicano  i  loro. diritti.  Costretto  non  di  rado  Tuomo  grande  ad  imporre  silenzio  air  orgoglio  soperchialore ,  £a  conoscere  dè  di* egli  è,  sbalza  nella  tua  possa  e  torreggia  dinanzi  alla  mediocrità  impertinente  che  vorrebbe  avvilirlo.   a  Di  modestia  »  Tempo  or  non  è,  voce  d*oner  n'appella.  »   Infatti  la  vera  modestia  è  eome  la  vera  bravura,   ÌJ  quale  non  oltraggia  giammai,  ma  sa  rispingere  gli  oltraggi  y  fuorché  quelli  che.  li  fa  non  sia  vile  à  segno  da  non  meritare  che  disprezzo.  Chi  avrebbe  potuto  tacciare  d'arroganza  Cicerone,  allorché,  tot-  nato  dall'esilio,  pregiavasi  d'avere  salvato  gli  Dei  del  Campidoglio,  il  Senato  dalla  vendetta  di  Ca-  tilina,  il  popolo  dal  giogo  e  dalla  schiavitù  ?  Non    era  egli  giusto  che  mostrasse  a'suoi  nemici  il  suo  Dome  cancellato ,  i  suoi,  monumenti  distrutti,  la,  sua  casa  demolita,  e  c6l  peso  della  sua  gloria  gli  opprimesse?  I^aseiando  da.  banda  il  caso  assai  rara  di  Cice*«-  ronC)  e  consultando  la  giornaliera  esperienza,  ve-  dremo  che  ì^Uoìtdi..  l'esternare  giusto  sprezzo  per  gUr  aUH  e  giusta  sHtim  pctsé^  è  gittstij^ato,  ^al-  r altrui insolenza (1).  •  .  .  Gbe  cesa  dite  di  quelH  ohe  scrivono  la  propria  vita? Il  severo  Tacito  non  ha  osato  fare  rimprovero  a  parecchi'  famosi  ingegni  dell'  antichità,  che  le  loro  gesta  pubblicarono,  non  per  ostentazione  e    ({)  Un  prelato  cortigiano,  il  cui  merito  consisteva  ne'suoi  avi,  ccedevasi  disonorato  vedendo  in  Flechier  un  confratello,  che  Dio  aveva  fatto  eIoqu$inte,  caritatevole,  virtuoso,  ma  non  gentiluomo  :  egli  era  ^sorpreso  che  Fléchier  fosse  passato  dalla  bottega  de*  snoi  paventi  affa  ^e  tescovfle ,  ed  èMie  r  impertinenza  di  dirglielo  :  Con  questo  modo  di  jwmare^  ri-  spose il  vescovo  di  Nìmes,  temo  assai  che  se  voi  foste  nolo  f  ai  posto  m  cui  io  aono^  rum  ne  feski  disceso  far  delle  eandéU»   Anche  H  «lareseiallò  de  la  Feuììtàde,  tanto  più  soper-   cliialore  con  quelli  che  credeva  inferiori  a  sè  ,  quanto  più  era  vile  alla  Corte,  disse  al  sullodato  Flechier,  eh'  egli  non'  era  a'  suoi  ocelli  che  un  meschino  borgliigilino  di  Nimes,  e  SQg^nset  Gmmdt»  ehs  vostro  padre  sarebbe  6m  sér^  preso  nei  vedérvi  dà  che  voi  siete.  Forse  men  sorpreso  che  non  vi  sembra^  rispose  il  prelato,  giacché  non  il  figlio  di  mio  padre^  ma  io^  fui  fatto  vescovo.  —  Il  diritto  di  difesa  giustificava  questa  risposta; poiché  l'  alta  opinione  che  U  buon  vescovo  mctetiava  di  sè,  oltre  d' essere  fondata  sul  veiO}  ten«  deva  a  reprimere  un  ioigjusto  8pcegio« arroganza ma  p«r  quella  tonfideasa  the  .la  'pvobità  inspira. Alfieri*  che  ci  ha  lasciato. la  sua  vita confessa candidamente  che  il  parlare  e  molto  più  lo  scrivere  ^.^i  se  sl^esso  nasce  da  molto  amor,  di se stessa.  '^ìkipo  questa  ingenua  confessione  rautece  giustifica  *  la  sua  condotta  nel  modo  seguènte:  '^-Avendo  ia  oramai  scritto  naolto,  e  troppo  pià  »  forse  che  non  avrei  dovuto  ^  è  cosa  assai  nàtu-  *  »  rate  che  alcuni  di  quei  pochi  a  chi  non  saranno  »  dispiaciute  le  mie  Opere  (  ée  non  tra'  miei  con^,  »  temporanei,  tra  quelli  almeno  che  vivran  dopo  ),  »  avranno  qualche  curiosità  di  sapere  qlial  i<^  mi  »  fossi.  Io  ben  posso  ciò  credere ,  senza  neppor  »  troppo  lusingarmi ,  poiché  di  ogni  altro  autore  1»  andie  minimo  quanto  ad  valore ,  ma  voluofiinoso  »  quanto  alle  opere ,  si  vede  ogni  giorno  e  seri-  n  ver^^e  leggere^  q  vendere  almeno  la  vita.  Ondo^  »  quand'anche  nessun' altra  ragione  Vf  fosse ^ è  )».jQ^^pur  sempre  che,  morto  io,  un  qualche  »  lyÉsJo  peir  càyaore  alcuni  più  soidi  da  una  nuova  edizione  delie  mie  opere,  ci  farà  premettere  una  »  qualunque  mia  vita»  £  quella  verrà  verisimil<*  »  mente  scritta  da  uno  che  non  mi  aveva  o  niente  »  0  mal  conosciuto,  che  avrà  radunato  le  materie  »  di  essa  da  fonti  o  dubbi  o  parziali;  onde  co*  »  desta  vita  per  certo  verrà  ad  essere,  se  non  »  altro,  alquanto  meno  verace  di  quella  che  possa  dare  io  «team;  E  ciò  tanto  più,  perchè  lo  scrit«  »  t<(^  a  soldo  dell'editore  suol  sempre  fare  uno  »|,smto  panegirico  dell'autore  che  si  ristampa^  sti^  »  mando  amendue  di  dare  così  pià  ampio  snriercio  »  alla  loro  comune  m^canzia.; L'illustre  Alfieri  adunque,  a  ragione  persuaso  che  il  suo  iiome  sarebbe  grande  ^ucbè  restasse  scintilla  di  ;gusto  sul  nostro  globo  ^  scrisse  la  sua  vita,  acciò  Aa  stolta  e  mercantile  adulazione  non  venisse  presantata  ai  postai  sotto  falso  aspato.  '   Questa  difesa  è  modesta  nel  tempo  stesso  e  sa«  gace.  L' auto  re  avrebbe  dovuto  aggiungere  «  che  anche  lo  spirit  o  psfrtitp  s'accinge  spesso  a  scri-  vere delle  vite  o  de'romanzi,  e  di  censure  è  largo  o  di  lodi  ugualmente  contrarie  al  vero  (1).   ^  Ossian,  diòe  Cesarotti,  non  ha  difBcoItà  di  far  Assentire  la  goista  estimazione  ch'ei  possedeva  V  presso  la  sua  nazione.  L'uomo  grande  è  sincero;  »  parla  di  se  stesso  come  degli  altri,  ed  è  giusto  3»  Ugualmente  con  tutti.  La  decenza  moderna  è    (I)  È  compftrsaìn  Franeia  ima  cosi  delU  SiUtoteca  de-   gli  uomini  viventi  ecc.  GU  ignoti  autori  di  questa  misera-  bile rapsodìa  mettono  i  vivi  nel  sepolcro ,  contaoo  i  morti  tra  i  vivi ,  di  più  individui  ne  fanno  un  solo ,  squartano  un  Individuo  10  tre,  C8nd>iano  U  medica  in  «rrocato^  lo  stam-  patore in  consigliere,  ll^canieiioe  in  arlecchino:  raccontano  fatti  che  l' opinione  locale  smentisce ,  citano  libri  di  cui  non  conoscono  il  frontispizio  ,  alterano  le  date  per  creare  odio-  sità od  affezione ,  censurano  quelli  che  non  li  pagano ,  ven-  dono le  lodi  a  tre  centesimi  per  jMigina,  gindicano  ^  af-*  lui  coir  acume  della  stupidezza,  parlano  degH  uomini  come  ne  parlerebbe  un  Ourangoulangh,  ecc.  ecc.  :  speculazione  libraria che  né  dà,  ne  toglie  riputazione,  perchè  nissuno  gua-  rentisce nè  i  fatti,  né  i  giudizii,  ma  che  può  far  ridere  sin-  ceramente le  persóne  di  éenno,  giacché  le  persone  di  senno  hanno  diritto  di  ridere,  quando  veggono  lin'  impòsta  «icfAi  credulità^  sidV invidia  e  tuUo  $pitii0  di  fmrUio  ^  affezioni  tanto  più  pronte  a  pagare  quanto  più. goffe  son  le  menzogne  die  lor  $i  vendono»   molto  schizzinosa  su  questo  punto:  gli  uomini,  »  non  osando  lodarsi  in  pubblico,  si  adulano  più  »  liberamente  in  segreto,  e  sì  credono  in  diritto^  »  di  risarcirsi  della  loro  Onta  modestia  col  detrarre'  »  alla  fama  degli  altri.  Così  non  abbiamo  guada-*  »  gnato  che  virtù  apparenti  e  vizi  reali.  »   Eccettuati  i  casi  di  difesa  accennati  di  sopra,'  a  me  pare  che  il  giudizio  di  Cesarotti  dia  in  falso;  giacché  chi  vanta  i  proprii  meriti,  in  vece  di  far^  parlare  gli  altri  a  suo  favore,  li  fa  tacere;  In  vece  di  farsi  degli  ammiratori,  si  fa  de'nemici  ;  quindi  il  dignitoso  silenzio  della  modestia  sarà  sempre  preferibile:       •  •  -   .  ;  .ft  II  merito  più  grande  è  il  più  modesto.  »  )   Se  facesse  d'uopo  confermare  questa  idea  popolare  con  autorità ,  sceglierei  tra  gli  antichi  Catone ,  il  quale ,  a  detta  di  Sallustio ,  faceva  grandi  cose  senza  menarne  rumore,  e  avrebbe  potuto  dire  :   a  Cedo  a  tutti  in  parole,  a  nullo  in  fatti.  »   Tra  i  moderni  v'  additerei  il  poeta  Despréaux ,  il  quale,  eccitato  da  un  incisore  a  far  qualche  verso  pel  suo  ritratto  :  Io  non  sono  sì  malaccorto  ,  ri-  spose ,  da  dir  bene  di  me ,  nè  sì  stolto  da  dirne  male.   §  6.  Rispetto  ai  pregiudizi.   I  giovani  non  conoscendo  ancora  per  esperienza  quante  passioni  vegliano  alla  conservazione  degli  errori ,  ignorando  che  tra  gli  errori  v'  è  una  for-  tissima lega,  e  tale  che  scotendone  uno,  gli  altri  si  risentono  e  CQjrrono  in  difesa:  i  giovani,  dissi,    Digitized  by  GoogL    si  danno  a  credere  che  ogni  verità  potssa  essere ,  sRa- presenza  di  chiunque  proclamata ,  e  fanno  le  maraviglie  se  più  ostacoli  le  si  oppongono.  Come  inafi  ha  (iNDlnto  il  sensate  Bandi  riguardare  il  ri*  spetto  ai  pregiudizi  come  un  legame  inventato  dai  eapriccio  e  dalla  moda?  Se  qualcuno,  entrato  in  una  moschea  zeppa  di  adoratori  di  Maometto,  grl->  classe  ad  altissinia  voce  che  Maometto  era  un  im*  postorcr  credete  voi.  che  farebbe  HK>lti  proseliti,  e  che  non  verreUe  in  pezzi  dagli  astanti?  Ma  senza  anco  voler  calcolare  i  danni  cui  si  espone  ehi  spaccia  una  verità  imprudente,  fa  d'uopo  con-f  venire  che,  offendendo  i  pregiudizi  contrarii,  non  le  rende  più  agevole  la  strada^  ma  più  scabrosa.  Ella  è  infatti  cosa  difficilissima  il  convincere  un'  uomo  dopo  che  abbiamo  offeso  ilsuo  an^or  proprio,  '  Se  il -sole,  dice  d'Alembert,  ^lene  ad  illuminare  in  un  istante  gli  abitanti  d'una  caverna  oscura,  e  dardeggia  impetuosamente  i  suoi  raggi  &m  loro  occhi  non  anco  disposti  e  preparati ,  e  quindi  gli  irrita  soverchiamente  ,  renderà  loro  per  sempre  odioso  lo  splendore  dei  giorno ,  di  cui  non  cono-  scono ancora  i  vantaggi,  mentre  sentono  il  dolore  che  loro  cagiona.  Se  ai  contrario  introducesi  in  questa  inverna  un  debole  raggio  che  per  insensi-  bili gradi  vada  crescendo,  si  riuscirà  a  dimostrare  il  pregio  della  luce ,  e  gli  abitanti  stessi  ne  bra*  nieranno  l'aumento.  Per  la  medesima  ragione  con-  viene rattemprare  la  luce  dei  vero  ,  ed  aspettare  che  rintelletto  a  poco  a  poco  si  sciolga  dalle  false  idee  che  l'ingombrano ,  divenga  gradatamente  più  forte.  I  s' abitui  e  s' addomestichi  cpl  nuovo  ospite  f^he  non  conosceva  per  anco.  >^   Pretendere  che  tutti  gli  intelletti  ammettano  tosto  le  stesse  verità,  è  pretendere  che  tutti  gli  stomachi  digeriscano  egualmente  le  stesse  vivande.   La  pulitezza  vi  fa  dunque  un  dovere  di  cono-  scere il  carattere  personale  e  la  situazione  sociale  delle  persone  che  al  solito  crocchio  concorrono ,  acciò  le  vostre  idee  ed  affezioni  non  vadano  a  dar  di  cozzo  contro  quelle  degli  astanti ,  e  con  reci-  proco risentimento  rimbalzino.   §  6.  F'élo  alle  antipatie.  Lo  sprezzo  che  merita  la  vile  adulazione  ha  in-  ,  dotto  a  fare  distinto  elogio  della  franchezza ,  e  come  virtù  assoluta  raccomandarla.  , .   La  massima  di  velare  le  proprie  antipatie ,  come  quella  di  rispettare  i  pregiudizi,  è  stata  riguardata  qual  legame  inventato  dal  capriccio  e  dalla  moda  da  più  scrittori.  Si  dice  che  dassì  prova  d'integrità  allorché  la  lingua  ed  il  cuore  essendo  d'accordo,  le  parole  rappresentano  i  sentimenti.   Ciascuno  per  altro  s'  accorge  ,  o  sente  almeno  confusamente,  che  se  merita  sprezzo  un  cortigiano  che  ci  protesta  stima,  affezione,  amicizia ,  mentre  nell'interno  dell'  animo  egli  si  ride  di  noi ,  merita  disprezzo  maggiore  un  cinico,  che  senza  necessità  viene  a  dirci:  Io  v'abbomino  e  vi  detesto.  .  Dunque  tra  la  menzognera  adulazione  e  la  fran-  i  chezza  eccessiva  vi  debb'essere  un  mezzo.   La  necessità  di  questo  mezzo  è  dimostrata  da  tre  ragioni.   f  i.  L'amor  proprio  di  ciascuno  ,  costantemente  avido  di  farsi  degli  amici  e  degli  ammiratori,  age-  volmente  lusingasi  di  ritrovarne  dappertutto ,  e  sente  in  lui  sorgere  e  crescere  il  dispiacere  in  ra-  gione delle  persone  da  cui  si  vede  sprezzato.  ^2.  Il  dispiacere  risultante  dallo  sprezzo  è  copiosa  fonte  d'antipatie,  animosità,  odii ,  e  perciò  di  gra-  vissimi danni  sociali.-Noi  c'inganniamo  sovente  nell'opinione  che  concepiamo  degli  altri ,  e  più  volte  siamo  costretti  a  ritrattarla  V  senza  riuscir  sempre  a  giudicare  più  sanamente. Laonde  quando  alcuno,  giusta  l'interno  suo  sen-  timento, dice  ad  un  altro,  Vi  sprezzo,  è  sempre  certo  che  gli  cagiona  un  dolore  ,  non  è  sempre^  certo  se  colpisce  nel  vero,  -^y,   *  Ora,  escluso  il  caso  di  necessità,  fa  d'uopo  essere  0  crudele  ò  pazzo  per  cagionare  ad  altri  un  dolore'  che  ppò  essere  ingiusto,  e  farci  un  nemico  che  può  riuscirci  funesto.  •  ^>^^i^V'-Alcuni  dicono:  Da  un  lato  v' è  sèmpre  piacére  neir  esprimere i sentimenti  quali  nascono  nel  no-  stro animo,  mentre  si  prova  pena  nel  reprimerli  ;  dall'altro  noi  non  abbiamo  bisogno  di  nessuno*f^i   .  Di  questo  raziocinio  la  prima  parte  è  sempre  vera,  ma  la  seconda  è  sempre  falsa,  finché  re^*  stiamo  nella  società.  Voi  non  avete  bisogno  di  Pietro,  e  forse  senza  danno  presente  o  futuro  po-  tete dirgli  :  Ti  disprezzo  ;  ma  la  faccenda  non  va  così  con  tutti  gli  altri  uomini.  £ntrate  in  una  conversazione  con  quella  franchezza  encomiata  da  alcuni  scrittori,  e  presentandovi  successivamente  a  ciascuno  ,  dite  a  questo  :  Voi  pretendete  di  piacere  a  tutti,  e  tutti  si  ridono  di  voi  ;  —  a  quello  :  Voi  siete  sì  sciocco che m'eccitate compassione;  —  a  un  terzo  :  Non  saprei  dirvi  il  motivo ,  ma  sento    ars  avversiófte  Contro  di  voi,  ecc.  Se  voi  così  operate^  'mi  par  certo  che  tutti  s'alzeranno  per  cacciarvi'   .  /  fuori  della  conversazione  a  ceffate  ;  e  vi  succederà  lo  stesso  in  tutte  le  altré.  ^^'o^mii  '  •  ^  •   '  La  franchezza  non  consfete  nell'  offendere  inu^  tilmente  l'altrui  amor  proprio  ,  ma  nel  difendere  con  coraggio  i  dirìtti  deWinnanità  contro  r  or-  ■^goglio  che  li  calpesta^  e  nel  convenire  de'prqpri  difetti  ed  emendarsene.  '  •/ ^  ,»iliisidu6m;2  In  vece  dunque  di  dire  al  giovine  :  Alza  il  vélo  che  copre  il  tuo  animo  e  mostra  a  tutti  Podio/  lo  sprezzo,  la  noia,  il  dispiacére  che  in  te  produ-  cono le  loro  debolezze  e  i  loro  difetti  ;  gli  dirò  piuttosto  :;  Jpl^;  Uflf' lato  sii  pronto  a  compatire  le  loro  debolezze,  dall'altro  non  crederti  infallibile  j  ne'juoi  giudizi.  L'uomo  franco  può  conservare.  il  j  suo  sentimento  senza  offendere  l'altrui  amor  prò  =5  prio  ;  non  si  deve  offendere  l'altrui  amor  proprio  se  non  in  vista  d'un  vantaggio  maggiore,  come  nònr  si  taglia  una  gamba  se  non  per  salvare  la  vita.  Mi spiegherò meglio  con  un  esempio:  ^ Uno  de'confratelli  di  Guettard  lo  ringraziava  un  giorno  perchè  questi  gli  aveva  dato  il  suo  voto  4  allorché  quegli  fu  accettato  membro  dell'accadenriia  delle  scienze,  roi  non  mi  dovete  nulla,  rispose  il   '  Botanico  :  s'io  non  avessi  creduto  che  era  giusto  it  darvelo  ^  non  r  avreste  avuto  ^  giacché  io  non  v'  amo.  ».   Questa  risposta  ,  benché  lodata  da  Condorcet  mi  sembra  riprensibile  ,  perchè  gratuitamente  of^  fensiva.  Per  quale  motivo  cagionare  un  disgusto  e  dire,  non  v'amo^  a  chi  viene  a  protestarvi  un  sentimento  di  riconoscenza.^  Se  Guettard. avesse    ,SW'   *   d(^V  Nèl^ire  tt  'mi§^i^  te  eoasultù  te  giù-  sUzìa  e  niente  altro;  non  ringraziate  ddnqiié  me^.  ina  voi  stessè,  giicebè  se  nra  avessi  creduto  cto  lo  meritaste^  ndw  ?ir«fcMè  »v«to  ;<catìh  riq^^mileaddi^  Gtiettard  sarebbe  stato^^  franco  senza  essere  offea-  siw  é  «liand.      *  ;    -  -        ^  ^  ;  ^     :  ;   •  *       •  -  ■  '   L'abAté  S.  ae«l  (Aragofift*  la  indotta  4egH4t9^   mini  nel  mondo  a  quella  de' ciechi  in  uiìà  casa*  vàs|sì  è  ^nregoiare  :  rj^^iH^^  I  più  sensati  a  tentone. Quelita  irregolarità  di  condotta  non  succede  per   Tapplicarle.  Non  uscendo  dai  limiti  deirargomento  che jdiscitto^  dirò  aduncfue,  che  in  mezzo  a  tanti  earattefi  diversi,  tr«*te-vtóc  pMftéser^Ue  ^pasaitini^*  neK'aod^giQjnento  costante  de' gusti  e  de*  pareri ,  tiatf 'si  eMre  'pericoiè  di  sbaglio,  «dlforicbè  attenlèii-  dòsi  allo  scopo  della  conversazione^  che  è  il  rfi*  ^rtimento,  si  ha  riguarda  alla  vanità  di tia^  scuìw,  che talvolta  è-il  prineifmte\08tàiiUù^  fatti, se; nelle  botteglie  predomina  l'interesse,  nelle  cooversaÈtoni  prevale  la  vanità,  e  I  bkdgtii -deila  vanità  sono  anteriori  al  bisogno  di  trastullarsi.  '  "La  vanità  è  più  o  meno  maneggiaste  secondo  iindole  delle  altre  qualità  eiA  f&  trova  uffitt  ;  Mvl^  viene  dunque, tener  queste  presenti  al  pensiero  per  rttrovkre  i  bieztl  onde  adescai  qaè)la  {  o  dmetio   iVon  irritarla.  •  -  '  '       •  .  '    .  -  -  ^   1.  Vanità  e  ignoranza.  AUorisliè  la  vanità  è  Hìnalgamatà  coH'ignoranza,  apre  foreccbio  aHé  più  sciocche  menzogne,  e  delle  più  improbabili  illusioni  si  pasce.  L'uomo  vano  ed  ignorante,  per  es.,  gongola  di  piacere  alle  Iodi  che  voi  date  al  suo  eappello,  alla  sua  giubba  ,  al  suo  abito,:  mentre  un  uomo  di  spirito  ne  rimane  offeso.  .^•  2.  f^anità  e  riflessione.  In  questa  combinazione  le  lodi  impudenti,  anche  desiderandole  per  altri  fini, dispiacciono: i Romani  non  sapevano  come  contenersi  con  Tiberio,  il  quale  non  voleva  la  li;  berta  e  odiava  la  schiavitù.  A  Traiano  éfie  aveva  Io  spirito  sodo  ,  non  andavano  a  sangue  le  basse  maniere  e  servili  che  usava  seco  lui  Adriano.  Carlo»  ^.V  disse  ad  un  adulatore:  IVF  accorgo  che  pensate  a  me  ne'  vostri  sogni.   ,  .  ,3.  Fanità  e  viisantropia.  In  questa  combina-   .'zlone  la  vanità  è  sì  schizzinosa  e  bizzarra,  che  una  |  lode,  benché  veridica,  e  ravvolta  in  gentile  scorzi  V  la  offende ,  amando  essa  meglio  ^ssere  contrad-   idetta  che  encomiata.  Infatti  egli  è  un  mezzo  quasi  infaUibile  per  conciliarsi  l'animo  del  misantropo  il somministrargli  occasioni  di  esercitare  la  sua  bile  contro  quanto  succede,  e  procurarsi  così  una  specie   ^di  celebrità,  essendo  ohe  nessuno  maltratta  il  ge-  nere umano  se  non  per  occupare  di  se  stesso  il  genere  umano.   4.  Fanità  e  sesso  debole.  Benché  le  lodi  alla  bellezza  non  siano  vere  lodi ,  ciò  non  ostante  suo-  nano piacevolmente  all'orecchio  delle  donne  co-  muni, ed  anche  degli  uomini.  Osley,  famoso  men-  dicante a  Londra,  fece  fortuna  servendosi  del  se-   ,guente  stratagemma.  Quando  era  permesso  di  men-  dicare in  Inghilterra  ,  egli  si  appostava  ove  era  maggiore  la  concorrenza  delle  persone  di  buon  tuono;  e  allorché  vedeva  delle  donne  eleganti,  cercava  loro  la  limosina.  Se  esse  gliela  ricusavano ,  Madama  ,  diceva  egli  all'  una ,  In  nome  di  questi  begli  occhi  neri  ;  all'altra,  In  nome  di  questa  bella  capellatura  ;  a  quella,  In  nome  di  questo  bel  taglio  incantatore  ;  a  questa ,  In  nome  di  que' labbri  di  rosa;  finalmente  venivano  le  gambe  divine,  i  piedi  leggiadrt,  il  portamento  da  regina:  nulla  era  di-  menticato :  ed  egli  andava  a  casa  colla  borsa  piena.,  inanità  combinata  con  qualunque  sorta  di  carattere.  La  qualità  più  costante  della  vanità  in  qualunque  combinazione  di  cose,  o  sia  considerata  nell'uomo  in  generale,  si  è  il  piacere  crescente  in  ragione  delle  persone  che  parlano  di  lui  senza  svantaggio.  Un  principio  d'involontaria  allegrezza  scorgerete  sul  volto  di  chiunque ,  appena  gli  dite  che  avete  fatta  menzione  di  lui  in  tale  conversa-  zione;  che  Pietro  ne  ha  parlato  in  tal  altra,  ecc.  È  successo  un  piccolo  urto  nell'amor  proprio  di  due  famiglie,  il  cui  rumore  non  è  giunto  alla  fine  della  contrada  ?  Gli  individui  di  esse  vi  diranno  che  ne  ha  parlato  tutta  la  città  ;  e  se  voi  mostrate qualche dubbio ivyi^ si dimanderà se siete caduto  dalle  nubi:  tanto  è  vero  che  là  brama  d' essere  r  oggetto  degli  altrui  pensieri  c'  induce  a  credere  d'esserlo  realmente,  e  la  supposta  esistenza  nell'ai:  trui  opinione  è  centupla  dell'  esistenza  reale  :  in  somma  gli  uomini  in  generale  somigliano  quel  miserabile  principe  dominante  sulle  coste  della  Gui-  nea ,  il  quale  seduto  a'  piedi  d' un  albero  ,  avente  per  trono  una  grossa  pietra  ,  per  guardie  quattro  ISegri  armati  di  picche  dì  legno,  diceva  ad  alcuni  -francesi  :  Si  parla  molto  di  me  in  Francia  ?  —  Atteso  questa  forza  estensiva  della  vanità,  ciascuno,    Digitizei.    ^2  5«rr».?tlBR0  TERZO  'W'    /  '   spesso  di  buona  fede^  rappresenta  la  sua  opinione^  privata  comè  opinione  pubblica,  di  modo  che  nel  ^progresso  del  discorso  vengon  affibbiate  al  pub-  blico cinque  o  sei  opinioni  talvolta  contraddittorie  sullo  stesso  argomento.   Conoscendo  le  principali  combinazioni  della  va-  ;ìiità ,  e  i  prodotti  sentimentali  che  i^'e  risultano  >  saprà  il  giovine  adescarla  con  garbo  senza  com-  promettere la  dignità  dell'uomo  ;  ritroverà  il  limite  che  separa  la  dissimulazione  dalla  simulazione,  e  idalla  vile  falsità  si  terrà  lungi  ugualmente  che  ridalla  sincerità  gratuitamente  offensiva.  -  Dapprima,  in  vece  di  mostrarsi  stupido  e  silen-  zioso alla  vista  dell'altrui  nierito,,  il  giovine  ne  sar  \  pronto  encomiatore,  esternando  gradi  di  sti?nu  proporzionati  alle  qualità  utili  e  lodevoli,  asso-  ciando alla  stima  gradi  di  rispetto,  se  di  partico-  lari virtù  si  tratti  e  di  grandezza  d'animo;  in  tulli  i  casi  egli  procurerà  che  il  sentimento  rappresen-  tato da' suol  atti  e  dalle  sue  parole  s'avvicini  ìi  quello  che  gli  altri  vogliono  ritrovare  in  lui,  non  dimenticando  che  quando  sì  tratta  di  riguardi;  e  men  male  peccar  per  eccesso  che  per  difetto.   «  Sta  dunque  attento  nel  passar  del  guado,  ^jji?,.K cerca d'evitare li due scogli,   »  Da cui  scampano  pochi, o  almen  di  rado.  »  ft  ben  che  in  questo  mar  la  nave  sciogliCol  rischio  a  destra  ed  a  sinistra,  ancora  :^  »  Salvar  ti  puoi,  se  il  mio  consiglio  accogli.  .  ^  Va  per  la  via  di  mezzo,  e  se  pur  fuora  ^.;»vDel  relto  calle  fantasia  li  mena  ,  .»  AH  pilo,  e  non  al  basso  tien  la  prora.  »  '    PULIIBUA  MAQUIS  .  383   d'avvilirsi^  isostràndosi  indulgente  alle  umane  de-  ^lez29e,  aUoìr«][iè  nmaa  dmm  ne  risulta^*  EUa^Mftì  isdegna  A  tendere  agli  altri  tachè  dì  più  di  quel,c^e  hanno  diritto  d'esìgere,  sapendo  ejie  nel  com* smercia  <  deUa  vita  cU  ai  ostinàsae^  a  coVmmr^  gli  uonuni  nel  loro  vero  posto,  correrebbe  pericob  di  ppjRsi  ia  coi^esa  eoja  tutti.  >Le  aote  anima  ficoole^  jpqttìtfe aidle iaM pretemttoi, speaae^ sospette jti guardando  come  furto  fatto  a  se  stesse  lutto  ciò  (^p  c(NM«doiif^  figli  aitai  >  Ungotìé  goolàùiaf^^  là  tfiiancia  in  mano  per  pesare  a  rigore  ciò  che  4«!^oiiq|  fat^f^iiidaie  o  musare  :  é  sg^s^  sotto  pr^  testo  di  non  degradarai,  si  im»lmiio*iiliiv^tlaeif|i  .(^io^Q  usfmli  eà  inferiori  (1).     ^  ^  ;   (I)  I  Lacedemoni,  che- neri  peccavano  per  eccesso  di  bas-  sezza,  hanno  lasciato  un  beli'  esempio  dell'  indulgenza  che  si  debba  alla  follìa  de'  grandi.  41e^s^"^^o  ^^^^  piccolis-  ^iiaio,  qMlido  péélèadava  drenare  figUo  4i  Giove,  e  JHo  egli  stessè,  ^ireeheper  Melo  rieooosotaeiDo  tutti  gU  8ta(l.éella  Grecia  :  in  occasione  dì  queste  pretensioni  i  Lacedemoni  fe-  cero il  «eguente  decreto,  veramente  laconico  ~  Poiché  Ales-  saneÉto  vuol  essere  Dio^  che  lo  sia.  '  .  Attai  meao  ladolgeiito  si  moslflò  FilosseiMr  een  Dioiiigi  fttotteo.  Questo  ttasniio,  peidiè  era  vètf  laceva  de*very,  pre*  tendeva  al  vanto  di  pòela.  Ef^li  prff^ò  un  giorno  Filoss^ne  a  correggere  una  sua  opera  teatrale;  e  questi,  avendola  rap-  pezzata e  rifatta  4al  primo  verso  air^Himp,  il  re  lo  con-  dannò  alla  lettere, ^acciò- fi  Imipamse  a  rispeltase  ia  regia  pc^la.  li  giómò  sussegnèiYte^  tra(toìòdi  cacGasKe,^K>'amiiiis8  alla  sua  mensa,  e  liniio  il  pranzo,  dopo  avergli  fettOfaleciDl  versi  ,  gli  domandò  il  suo  parere.  Il  ponila ,  senza  rispon-    384  iV?^  Raccomanderò  finalmente  ai  giovani  di  non  imi-  tare la  vile  e  perfida  condotta  di  coloro  che  lo-  dano  alcuni  collo  scopo  di  denigrarè  altri.  Ih  ciascuna  carriera  alcuni  personaggi  distinti  occu-  pano gli  sguardi  del  pubblico  :  cbe  cosa  fa  V  in-  vidia per  defraudarli  ?  Suscita  loro  de'rivali,  colma  di  lode  degli  imbecilli  che  appena  hanno  il  senso  comune,  e  si  sforza  di  ripeterne  i  nomi,  acciocché  il  pubblico  s'induca  ad  occuparsi  di  essi  e  dimen-   ,/tichi  i  primii   -^^Nel  corso  della  giornata  si  riproducono  ad  ogni  vistante  de'  casi ,  ne'  quali  alla  sola  azioiie  d'inno-  cente  lode  si  può  ricorrere  per  conseguire  l'assenso  di  alcune  volontà  ,  e  diminuire  la  resistenza  di  altre  ;  perciò  ad  esercizio  de'  giovani  soggiungo  i  seguenti  problemi,  ciascuno  de'quali  ammette,  col    dere,  si  rivolse  alle  guardie  e  disse  loro:  Riconducetemi  in  ctarcere.  •  ^'  ^f**^ -^u  ^.  •>  i   Un  uomo  ^11  «pirilo  nel  case  di  Fllossene  sarebbe  uscito  d*  impaccio  con  una  celia.  Infatti  la  condotta  di  questo  poeta  sarebbe  ammirabile,  se  si  fosse  trattalo  d'una  cattiva  legge  od  alli-a  operazione  daivàosa  al  pubblico  ;  ma  scegliete  jl  carcere  pcrclié  un  Uranno  vuol  essere  poeta,  é  paizrja.   '  Maggiore  imprudenza  commise  rarchitelto  Apollodoro ,  il  quale,  sapendo  quanti>  l' imperatore  Adriano  era  avido  dì  lodi,  criticò  un  di  lui  tempio  in  modo-  un  po' burlesco ,  os-  servando cbe  se  gli  Dei  e  le  Dee  si  fossero  alzale  in  piedi ,  si  sarebbero  rotta  la  testa  nel  soffitto.  Questo  scherzo  gli  costò  lii  .vita.  11  quale  fatto  Ù  dice  che  i  coltivatori  dozzi-  nali delle  belle  arti  hanno  una  vanità  atraordinaria,  supe-  riore a  qualunque  sentimento^  e  capace  di  sacrificoì'c  la  slessa  amicizia, mezzo  della  lode  ,  soluzioni  indefinite  nelle  varie  circostanze  sociali.  '  -  ^   1.  Disarmare  la  collera.    .  ...   .^.(  Aureliano  faceva  rimprovero  a  Zenobia  ,  per-  chè non  aveva  riconosciuto  gli  imperatori  romani  ;  la  principessa  lo  calmò,  dicendogli  :  Io  riconosco  voi  per  imperatore ,  voi  che  sapete  vìncere  :  Ga-  lieno  e  i  suoi  pari  non  mi  sembravano  degni  di  questo  nome.)  (1)  .  ,   2.  Addolcire  l'amarezza  d'uri  rifiuto.  '^  ^   (  11  gran  Condè,  pregato  dalle  dame  di  lasciarle  uscire  da  Vezel  ch'egli  assediava ,  prevedendo  che  Ja  loro  uscita  ritarderebbe  la  resa  della  piazza,  ri-  spose che  non  poteva  acconsentire  ad  una  dimanda  che  del  più  bel  frutto  del  suo  trionfo  lo  prive*,  rebbe.  )        .     •  ,  * Accrescere  pregio  ad  un  favore.'   (  Luigi  XIV  nominando  al  vescovato  di  Lavaur  Flechier,  che  predicava  alla  corte,  gli  disse:  Vi  ho  fatto  aspettare  alcun  poco  un  posto  che  meritavate  da  lungo  tempo,  ma  non  voleva  privarmi  così  presto  del  piacere  d'ascoltarvi.  )  "  '   4.  elare  il  lato  offensivo  d'una  verità.   (  Despréaux  interrogato  da  Luigi  XIV  sopra  alcuni  versi  da  lui  composti:  Sire,  rispose,  nulla  è  impossibile  a  Vostra  Maestà  :  ella  ha  voluto  fare  de' cattivi  versi,  e  vi  è  riuscita.  )     .  ^  ,  /    (I)  Un  soldato  francese  si  faceva  chiamare  col  nome  d|  Turenne,  celebre  maresciallo  di  Francia:  quesU  mostrò  d'es-  serne ofifèso:  il  soldato  rispose:  Generale,  io  sono  invaso  dalla  gloria  de*nomi:  se  ne  avessi  conosciuto  uno  più  bello  del  vostro,  l' avrei  preso.  .  /  .   22    1    386  ZiIBBa  ISBZO   *   •  .   §  8.  Continuazione  dello  stesso  argomento.   '  L'uso  della  lode  è  ragionevole  finché,  fondato   *  sul  vero  o  verisimile  ,  è  stimolo  o  ricompensa  ai  talenti,  all'industria,  alla  virtù.   i  L'uso  della  lode  è  riprensibile  quando  o  fondasi   sul  falso  ,  0  di  gran  lunga  oltrepassa  la  misura  del  merito  encomiato,  e  allora  dicesì  adulazioìiél   *  Vi  sono  de'Iodatorì  eterni,  i  quali  non  vi  danno  una  lode  fuggiasca  e  dilicata  ,  ma  vi  inondano  e   opprimono  d'elogi;  e  ciò  per  ogni  inezia,  ad  ogni  istante,  alla  presenza  di  qualunque  persona  ;   •  cosicché  se  non  rispingete  le  loro  lodi  smodate, acquistate taccia di vanità ;  e  se  le  rispingete,  essi   '.  le  replicano  con  usura  ,  e  per  così  dire  non  vi  in-  censano, ma  vi  danno  il  turibolo  nel  naso.  ^   *  Tre  caratteri  distinguono  l'adulazione  dalla  lode  '      '    ragionevole  0  meritata:   !  I.  L'adulazione  cambia  i  vostri  vizi  in  virtù;  ^   m||||(  2.  Ella  vanta  in  voi  delle  qualità  che  non  avete  ;  3.  Ella  innalza  eccessivamente  quelle  che  avete  ;   «  ....  Nel  mentire  esperto,   *  »  Maestro  in  adulare ,  egli  senz'  onta   V  Chiama  faconda  indotta  lingua  ,  e  bella  I  *  "  »  Schifosa  faccia  ;  un  sottil  collo  e  lungo  I  ))  Agguaglia  a  quello  d'Ercole,  che  innalza   I  .    »  Di  terra  Anteo;  magnifica. una  voce   )  •  »  Stridula  e  chioccia  qual  d'irato  gallo   »  Che  alla  mogliera  sua  morde  la  cresta.    •  »   L'adulatore  adunque  -   I   I   Digitized  by  Google    È  un  ipocrita  che  finge  &entimeoti  c^^ptmru  a   qutìlìi  ohe  cg^  ffi^U' animo  ;  ^  Z  m  vile   -  «  Buffon  ,  perpetao  l^ioMM'  di  eaptf  «,   *  »  *   die  trama  ai  cenni  del  rìccOf  e  Ib.ecQ  ai  detti  deUd   persgy|;iefiu  viziose  i   %  wó  soroccatore  cl)e.)dà  .menzogne  per  fitleoi^rj;  vantaggi  personali  (1)  ;   É  un  ladro  che  toglie  alla  virtù  r.eiicomio  ehe  profonde  al  vizio;   £  un  infame  che  »  io^i^^^^i^te  ali'  onore  »  non  teme  il  pubblico  disprezzo;   L  infamia  delPadulazione  cresce  in  ragione  della  pubblieU^  ddta  aUe  lodi  menzognere.   Pera  colai  che  sa  malnati  fogli  «  Famelfto  eerifter  vende  sue  lodi,  »  E  d'aura  popolar  Talme  rigonfia.  »  Sid  labbro  a  lai  le  venenate  tazze  »  Vota  menzogna  ,  e  Favvilito  incenso  »  Onde  frodonne  di  virtù  gli  altari ,  »  La  lusinga  vénal  pria^nde  a  Itti  ;  »  Che  col  prestigio  d'un  error  che  piace  19  Cangia  il  ?izio  in  virtù,  traiforma  in  mmie  »  T»  Ignoranza ,  follia  ,  viltade,  e  mira  »  Sorger  Tersità  emulator  d'Achille  ^  »  E  nn  Sfida  infame  in  an  Traian  rivolto.  »    (i)  Allorché  Filippo  di  Macedonia  divenne  guercio,  il  cor-  tigiano Clisofo  usciva  di  casa  con  un  empiastro  sulF  occbjo,  e  si  traeva  dietro  una  gamba  allorché  il  re  zoppicava  per  una  lecita. Sono  arcìpochissimì  quelli  che  facciano  sforzi  per  acquistare  le  qualità  che  loro  mancano  allorché  vengono  accertati  che  le  posseggono  ;  e  meno  sen-  tono stimolila  salire  ad  alto  grado  di  gloria  se  quelli  che  li  circondano  dicono  loro  ad  ogni  istante  che  sono  giunti  alla  cima.  Si  può  asserir  anco  che  più  personaggi  potenti  non  divennero  tiranni  se  non  perchè  fu  fatto  lor  credere  che  tutto  era  loro  dovuto ,  e  che  il  loro  rango  scusava  qualunque  colpa  potessero  commettere.        ,  y^-   Da  un  lato  essendo  utile  l'uso  moderato  e  ragio-  nevole della  lode ,  dall'  altro  non  essendo  difficile  d'essere  tacciati  d'adulazione  ,  perciò  ricordecò  la  regola  dì  Montaigne,  il  quale ,  nel  lodare  le  virtù  e  i  pregi  reali  de'  suoi  amici ,  compiacevasi  bensì  d'esagerare  alcun  poco,  ma  limitavasi  a  cambiare  un  piede  in  un  piede  e  mezzo  :  secondo  Montaigne  adunque  il  rapporto  tra  il  merito  e  la  lode  che  possiamo  tributargli,  non  deve  oltrepassare  il  rap-  porto di  uno  ad  uno  e  mezzo.   Quindi  pria  di  profondere  lodi  dobbiamo  esami-  nare le  qualità  delle  ji^rsone  ;  e  se  ci  accade  d'es-  serci per  bontà  o  generosità  d'animo  ingannati,  non  essere  restii  a  ritrattarci.   —  ^   Squadra  ben  ben  Tuom  che  commendi,  ond'onta  »  De'  falli  altrui  non  ti  rifletta  in  viso,  w  Diam  talor  nella  ragna  ,*  e  ottien  l'indegno  M  Da  noi  favor;  dunque  la  man  delusa  «  Sottrai  da  chi  va  di  sua  colpa  onusto.  »    ;  GOO    Delicatezza animo. Si'  dic0  delicato  oa  fiim  aUovcbè  al  ooniatto  '   d'aurà  un  po'  pungente  s'attrista,  e  al  raggio  me-  ridiano piega  ti  capo  suUo  stelo.   Pèr  drantMre  quanto  è  dUiaiad  r  onora  dette  donne,  lo  parago;iiaDao  a  terso  cristallo,    i,  '  *  «   :A  debìl  canna  y  »  Ch'ogn'aur9  mchina,  ogni  respiro  appanna   Si  ,ah)ai;pa  animo  dilicató  quello  che  alle  tnioime  seai^kKÌon|,m&raUj^iK^  od  a  vanjia^o  aly   4rui  si  risente.   \\.  pi^Q  4^,  essere  bontà  d'animo  senza  de.  Rcatezzas  ^  uoma  ìytiòno  vi  &rà  tosto  il  piae^  ^ebcgli  domandate  :  un  uomo  dilicato  farà  dì  più;'  egli  Vif  risparmierà  la  peqa  41  domandare,,  e  éa^rà  tenere  segreto  il  beneficio.   Vi  può  essere  giustim  Sj^nza^  delicatezza  :  un  uomo  giusto  difenderà  con  calore  i  vostri  diritti  nel consiglio: un uomo dilicato difenderà anco le vostre convenien^, e s' affiretterà  a  .spedirvi  la  Booi^  del  felice  enccesso.   La  delicatez^  d'animo  è  un  misto  di  speciali  qni^ità  e'si  manifesta  coi  caratteri  di  esse,  ^esie   .qualità  sono  le  seguenti. Finissima  sensibilità.  1  generali  Ateniesi  a  '  Maratona,  ecc^itati  dall'esempio  d*ArÌ9tide  ,  cedet-  tero intero  a  Milziade  quel  comando  che  gionial-  mmte^ed  a  vicenda  toccava  a  dascuno*  Milziade,  acciò  la  vittoria  che  lusingavasi  di  conseguire  non  fosse  cagione  di  rincrescimento  a  qualcuno  de'ge-  9erali,  spinse  la  delicatezza  al  segno  da  non  dare   la  faiOtagli^  che  giorno  ia  cui  gli  dpparlBomirjeoinandd.  «iW^^^^h-T^   %  Cemdido  disinteresse.  Nelle  cose  di.seasibite  vitloree  boa  hm^wYv^laà^fe^^^^  kk^eosa  offerta  e  Ja  cosa  (zccettata.  serve  à  misurare  la'  delicatez;uhi  [wgìio  àir^  che  è  t^Qto  <  aiaggMtr^  Jid  dftlieatez»  quanto  è  mifiore  raccettazione  a  fronW  deirofi^rta^  Neirampiezza  del  terreno  che  i  Mitl-  l^nesi  offerserb  a  Pfttaco«  loro  cooeittadiao»  la  ri^'  compensa''  averiò  per  la  repubblica  acquistato,  non  accetto  egli  fuorché  io  spazio  che  perocMrsa  un  dardo  per  esso  lanciato.  E  tra  ta  iikunifiteàza  de*  doni  che  il  console  Postumio  mise  avanti  a  Marzio  per  ncojfj^seiaieiUo  del  sjao  vatoré,  idtro  non  volle  il  generoso  romano  ch0  un  prigionièro  col  quale  ebbe  comune  l'albergo,  ed  un  eavallo  da  guerra  di  cui  potesse  natile -biittaglie  ^sl^irvirsi. ÀU'opposto  non  si  vedé  ombra  di  ^éélloiieas  net  ée^   guente  fatto.  Il  sopranlcnclente  delle  finanze  francesi  BuUion  ,  nel  ^640  fece  battere  a  Parigi  i  primi  luigi  che  comparvero  in  JPrancia;  e  avendo  invitato  a  pranzo  cinque  nobilissinù  •signori/  fecfe  postare  A  deueré  .^6  badll'  pieni  di  i|uesle  wm,  specie,  e  diése  loro  di  pMnd^è  quanto  ne  VolévatfO;  Clàacun  signore  si  gettò  avidamente  sopra  questo  nuovo  fruito,  ne  riempì  le  sue  tasche  e  fuggì  colla  sua  preda,  senza  aspettar  la  sua  carrozza,  di  modo  che  11  soprantendente  rideva  di  cuore  dell'imbarazzo  che  ciascun  signore  mostràva  eànoninando.  Io  vece  di  delioateàa  qoà  vedAwM^  vmssimo' interesse^  e  liiffà  y.  IndiacSMzione,  giacché  ciaseano,  di  cosa  non  bisognevole,  accetta  quanto  gli  viene  ofiferto  e  se  ne  carica  in  ragione  della  capacità  delle  sue  tasche.  V   Ne' casi  comuni  V indiscrezione  cr^^e  a  misura  che  è  ptà  '^keoìù  U  vafitaggiù  chei'eonkBgue  accettante  y^ejiiù grande  it  danno  che  re$ta  alt  offerente. Vo6ite  fierezza.  Il  tratto  più  hello  che  som-  ministri la  3to];i^-)re]^tijKaiiiaate  airargpmeittP^  si  è  il  wgaeaté,  se  la  memprìa  noii  m*in*  gauna.  Roberto,  duca  di  Normandia,  padre  di  Gu^  gUelmo  ll^^tmgttistatore  ^  trovaadasi  a  Xgfitif|tìDQr  poli  diretto  per  Terra  Santa  ,  erft  eéldbre  p#  tt  fiv^cità  del  suo  spirito  ^  per  la  sua  a£fai^iUtà  t,  fi*  WaMlÀ  sd  altre 'vir^^^^^  L^jQipera|M)ré  ^  ^ogHo  farne  prova^  Io  invito  co'  suoi  nobili  a  pranzo  nella  «graiijsàla  del.palazz^  iniperial^i  quindi^or^inò  che  tutte  lè^  tavd^v  é  tutti  gli  seaniii  £MSerd':bQé^patt  dagli  altri  commensali  pria  deU'ajr^iì^Q  de*  quali  prescrisse*  clie  nissunà  A  prendlésse  >  stero.  Giunto  >  il  duca  co'suoi  nobili,  tutti  riccar  m^te  vestiti,;  avendo  os^rvato  che  gli  scandi  erano  oecopati,  «  die  nissano  rispondeva  alle  sue  gen*  .  tilezze,  si  diresse,  senza  mostrare  la  minima  sor-  p^^.  joè  II  4iiniQiO  turbamento.,  veysp  jl'una  delle  estremità  della  sala  che  rimaneva  vuota,  si  levò  il  mantello,  lo  piegò  con  bel  garbo,  lo  pose  sul  pa-  ▼imento  e  vi  si  assise  sopra,  nel  che  fa  imitato  dal  suo  seguito.  Pranzò  in  questa  posizione  colle  vivande  cl^e  gli  vennero  polite,  dando  segno  d^lla .  più  fèrfetta  soddis&zione.  Finito  ìi  pranzo,  il  iw»  e  i  suoljaobìli  s' alzarono  ,  presero  congedo  dalla  ^mpagàrai  nel moda più  grasìoso ed uaeiroao  dalia  sala  colle  loro  giubbe ,  lasciando  sul  pavi-  mento i  mantelli  che  erano  di  gran  valore.  L'im-  peratore che  ^y^Va  ammirato  b  tòro  condòtta,  fa  sorpreso  da  quest^^ul)imo  tratto,  e  spedì  .upo  de'  suoi  còrtigìani.jal  sappUcare  U  dqcft  iiA  il  sao.  se^  guito  a  riprendere  i  loro  mantelli.  Andate  ,  a  dire  al  vostro  padrone,  rispose  il  duca,  che  i  ]!>{ormannì    non  usano  portar  via  gli  scanni  di  cui  si  servirono  a  pranzo.  —  "Questo  rifiuto  era  delicato,  nobile,  convenevole  e  fiero  nel  tempo  stesso.^  r*-  vi—*--^^  "'4.  Gentili  sorprese.  Il  czar  Pietro,  che  viag-  giava in  Europa  per  istruirsi  nelle  manifatture  eu-  .    ropee ,  si  fermò  alcuni  giorni  a  Parigi ,  e  tra  gli  altri  stabilimenti  visitò  quello  della  zecca.  Si  co-  niarono molte  monete  alla  sua  presenza  :  una  di  queste  essendo  caduta  a'suoi  piedi,  egli  la  raccolse  e  vi  vide  da  un  lato  II  suo  ritratto  in  busto,  dal-  raltro  una  faRia  appoggiata  col  piede  sul  globo,  e  questa  leggenda  :  Fires  acquirit  eundo^  felice  al-  .  Iasione  ai  viaggi  ed  alla  gloria  di  Pietro  il  Grande.  ;  D(  queste  monete  ne  furono  presentate  a  lui  ed  'alla  sua  comitiva.  Il  czar  non  potè  ritenersi  dal  dire  :  I  soli  francesi  sono  capaci  di  simili  genti-  lezze (o.*^'*;2'!!C  -^..rT.'^''   Dopo  d'avere^  adombrati  i  quattro  principali  elementi  che  caratterizzano  la  delicatezza  dell'  a-  nimo,  passiamo  ad  osservarne' qualche  combina-  zione.'  *        \  *vV  v.  "v-;-*   -  r    (I)  Lo  spirito  vivace  e  la  pronta  sensibilità  di  questa  na-  zione rendono  T  uso  delle  sorprese  gentili  men  raro  che  al-  trove, anche  nelle  basse  classi  sociali.  Dopo  la  battaglia  della  Marsalte,  vinta  da  CaUnat,  egli  passò  la  notte  sotto  la  sua  tenda  alla  testa  delle  truppe»  Trovavasi  egli  in  mezzo  alla  gendarmerìa  e  dormiva  inviluppato  nel  suo  mantello.  I  gen-  darmi, che  avevan  presi  ai  nemici  28  stendardi ,  immaginarono  di  circondarlo  di  quesU  trofei:  gli  altri  reggimenti  portarono  essi  pure  gli  stendardi  conquistali.  11  giorno  comparisce  :  Catinai  si  sveglia  circondato  dai  trofei  della  sua  vittoria ,  e  salutato  dalie  acclamazioni  dell' esercito.     * .    V%Mm  Waniniù  diHcata  sa  mggeHrìs  de*  vtm*  sigli  senza  mortificare  V altrui  vanità  y  ad  imitew  zione  di  Livia ,  la  quale  gettava ,  per  così  dire ,  a  e^w  nella  convèrsazione  delle  fdee  trtlK  ad  Aogostò  senza  che  egli  s'accorgesse  ch'ella  aveva  più  spirito  di  lui.  .  #   .  Non  suole  offrire  alta  per  rinfacciare  penuria^  contento  di  mostrare  la  sua  disposizione  a  chi  volesse  approfUtqme*  Nelle  poe«e  d'Ossian^  men*  tre  Gaulo  viene  circondato  da  Svarano,  Fingal  s'alza  ma  non  si  dà  fretta  d'accorrere;  egli  non  vude  rapire  a  Gaulo  l'onore  di  rimettersi  e  liberarsi  dal  nemico  ;  troppa  sollecitudine  sarebbe  stata  un'  of-  fesa alfa  sua  gelosa  delicatézza  su*  questo  pùnto.  '  Egli  sa  coprire  il  soccorso  con  qualche  p7 etesto  plausibite^  e  all'idea  sì  mortificante  della  Kmosìnà  sostituisce  quella  d'un  credito,  d' un  compenso,  d'un' indennizzazione,  d'un  onorario  (1).  '   *  (1)  Eccone  alcani  esempi: Un  sigDoi»!  per  mr  'eampd  di  benefleare  un  aVvooatò  miserabfle,  ed  aUonlanare  dal  suo  animo  l'idea  umiliante  del  soccorjK),  lo  consultava  $opra  cause  immagiaarie,  e  pagava  largamente  i  consulti.   2.  AJCcesUao  visitando  il  suo  amico  Ctesibio  ammalato,  e  vista  la  sua  Indigenza,  trovò  modo  di  cacciargli  destramente  sotto  II  capeuftle  U  denarb  che  abbisognavagll.   5.  Il  signor  Dubois  all'  epoca  del  terrorismo  in  Francia,  essendo  stato  destituito  dalia  sua  carica  e  rinchiuso  in  pri-  ^one,  il  botanico  (^ll^ei^t  portò  ciascun  mese,  e  finché  durò  Uk  detenzione,. alla  fl^posa  dell'  amico  detenuto^  la  metà  del  proprio  onocario ,  acclorcb',  ella  non  sospettasse  la  desti-  tuzione del  marito  ,  e  non  iscoigesse  tutto  il  pericolo  cui  rimaneva  esposto.  Facendo  de' benefica ,  egli  si  guarda  dal  ram-  mentarli sì perchè  aspira  al  piacere  delle  belle  anime  ,  non  a  quello  dei  despoti  ;  sì  perchè  sa  che  la  ricordanza  de'beneiizi  riesce  gravosa  al  be-  neficato.   CiLstode  deW  altrui  gloria  y  e  quasi  dimentico  della  propria  y  si  trova  infinitamente  lontano  dal  più  vile  di  tutti  i  sentimenti ,  F  Invidia Che  d'altrui  ben,  quasi  suo  mal,  si  duole.  »   Allorché  Ulisse  e  Diomede  ritornano  dal  campo  troiano,  conducendo  i  cavalli  di  Reso  e  riportando  le  spoglie  di  Dolone,  Ulisse,  che  poteva  dividere  col  suo  amico  la  gloria  di  questa  spedizione,  si  fa  un  dovere  di  lasciargliela  intera  :  egli  racconta  minutamente  tutto  ciò  che  fece  Diomede,  e  nulla  dice  di  se  stesso.   Dimenticando  ch'egli  ha  dello  spirito ,  sa  far  valere  quello  degli  altri,  ed  incoraggiare  il  merito  nascente  talvolta  timido,  si  perchè  non  crede  che  possa  essere  offuscata  la  sua  gloria ,  sì  perchè  si  regola  coll'idea  del  pubblico  vantaggio.   Apre  r animo  a  tutti  i  sentimenti  che  ingrana  discono  la  natura  umana ,  e  vorrebbe  pur  chiu-  derlo a  quelli  che  la  degradano.  Egli  sarebbe  slato  buon  credente  in  Grecia  ove  si  divinizzavano  gli  eroi,  miscredente  in  Egitto  ove  si  divinizzavano  gli  animali.   Riceve  con  riconoscenza  gli  altrui  avvertimenti  anchè  quando  offendono  il  suo  amor  proprio,  e  ne  profitta,  mentre  le  anime  piccole  e  grossiere  ingrognano  e  riguardano  come  nemici  quelli  che  additano  loro  i  mezzi  per  divenire  raigliori.      S#S   buisce  a  virtìt,  collo  scopo  di  ravvivarne  l'imagioe  e  promoverne  resecozione  (!)•   Ltmgi  dal  brigare  sotta  mano  là  carica  del  sm  amico  i  egli  è  disposto  a  rinunziare  ad  una  pen^  sione  a  vantaggio  di  chi  la  merita  più  di  lui  (2).   Proporziona  la  riconoscenza  non  al  beneficìoy  ma  air  intenzione  di  chi  V  eseguì,  nè  crede  che  cessino  i  suoi  obblighi  se  ìì  benefattore  cKvièhe  sventurato.   Egli  è  penuaso  che  la  rottura  deW  amiditAa  non  Vautorizza  a  manifestare  i  segreti  che  furono  affidati  alla  sua  onoratezza,  e  non  vuole  screditare   la  sua  causa  con  un  tradimento,  come  fu  detto  a  suo  luogo.   *  Costretto  a  correggere  qualcuno,  egli  nùn  lo  fa  alla  prssenza  di  estranei,  e  quando  può  ^  il  fa  a  quattr'occhi  ;  sa  anco  condire  la  correzione   con  lodi.  che  animano,  in  vece  di  ricorrere  a    {i)  Dopd  Ta  tn?6«n  dèUa  fertem  di  SoltneU'riainiflt,  nid  4657 ,  ì  primi  soldati  che  entrarono  nella  piazza  avendovi   ritrovato  una  bellissima  donna ,  la  condussero  al  celebre  maresciaUo  di  Turenne  come  la  parie  più  preziosa  del  bol-  lino. U  maresciallo,  fingendo  di  credere  che  essi  altro  scopo  non  s'avessero  proposto  che  di  sottrarla  alla  brutalità  de'  loro  compagni, il colmò  di  lodi  per  si  onesta  condotta ,  fece  quindi  ricercare  il  di  lei  marito ,  e  gli  disse  alla  loro  pre-  senza: Voi  dovete  alla  morigeratezza  de'  miei  soldaU  l'onore  della  vostra  sposa.   (2)  Dugnay  Trouin ,  dopo  una  campagna  gloriosa  nel  1707,  ricusò  una  pensione  che  II  ministro  voleva  dargli,  ma  la  dimandò  e  V  ottenne  per  Saint- Auban,  ^uo  aiutante,  ciie  aveva  perduto  una  coscia  nella  steslsa  campagna.    t  è    f4i.   villanie  che  avviliscono.  Egli  procura  di  scemare  la  colpa  attribuendone  parte  alle  circostanze  ;  e  per  eccitare  la  voglia  del  ravvedimento^  ne  lascia  intravedere  la  speranza.  Egli  dice,  per  esempio  :  .<(.  Nissuno  di  quelli  che  vi  conoscono  e  vi  stimano  ')  vi  credeva  capace  di  tal  errore,  ed  io  meno  degli  »  altri.  È  vero  che  i  compagni  sorpresero  la  vo-  »  stra  buona  fede,  o  l'impeto  della  passione  v'ac-  »  ceco,  ma  io  sperava  di  più  da  quella  perspicacia  »  e  forza  d' animo  di  cui  ci  deste  tante  prove,  e  ^>  che  certamente  non  è  estinta  ;  in  somma  Y  er-  »  rore  è  indegno  di  voi.  Come  mai  non  vi  cadde  »  in  mente  che  esponevate  i  vostri  genitori  alla  w  taccia  d' avervi  istillato  cattive  massime  ?  Do-  »  vranno  essi  cogliere  disdoro  dove  speravano  lode  »  ed  onore?  I  vostri  amici  che  tentano  di  nascondere  il  vostro  fallo ,  accertano  che  ne  sentite  w  profondo  rammarico  :  Vorrete  voi  smentirli  ?  »  Dovrò  io  accertarli  che  s' ingannano  ?  >^  ecc.   Vuomo  dilicato^  nelle  contese  co^nemici  sdegna  le  vie  segrete ,  le  quali ,  essendo  favorevoli  alla  calunnia  e  alla  frode  ,  sono  preferite  dalle  anime  vili  Non  abusa  della  vittoria perchè  non  v'è  me-  rito  neW  abusar  del  potere^  e  v' è  viltà  nell'in-  sidtare  i  cadaveri.    li Son  frmvde  ncque  occuUis^  sed  palam  et  armatum  populiim  romanum  hostes  suos  vlcisci ,  diceva  Io  stesso  Tiberio.  Achille,  che  fu  da  Omero  divinizzato ,  insulta  Ettore  moribondo,  e  gli  protesta  che,  in  vece  d  onorata  sepoltura  ,  Io  farà  pasto  de' cani.   Dopo  che  Achille  ha  attaccato  egli    Digitized  by  Google  i    /V  fl  sentimento  della  vendetta  confondendoci  coi  bruti,  egli  si  sforza  sempre  di  reprimerlo,  perché,  ^  .ogniqualvolta  il  può,  vuole  distinguersi  da  essi.   Egli  tenta  quindi  di  soggiogare  il  nemico  più  ^  colla  generosità  che  colla  /orsa  i'  pffl  '<H)f  menti  nobili  che  con  atti  freddamente  feroci  ;  é  .  neri  può  reprimere  il  sorriso  dello  sprezzo  alla  vista  di  chi  aspira  alla  gloria  del  carnefitcefi  — r  S varano  nelle  poesie  d'Ossian  è  vinto  da  Fingal:  ^  la  condotta  e  i  discorsi  di  questo  ,  l'  artifizio  cgrtV  cui  s'insinua  nell'animo  del  suo  nemico,  sono  e-r  qualmente  ammirabili.  «  Poteva  Svarano  esser  esa-   cerbato  verso  di  Fingal  per  quattro  motivi  :  per  '  »  l'inimicizia  nazionale  degli  Scozzesi  e  dei  Da-..,  ;»~'nesi;  per  l'inimicizia  personale  tra  lui  e  fingal  »  per  la  vergogna  della  sua  sconfitta;  e  per  desi-   derio  di  risarcirsi.  Fingal  prende  a  superare  tutti  -^^  0»  unesìi  ostacoli  colla  nobiltà  de'  suoi  sentimenti./  ^»  Comincia  dal  primo,  e  mostra  che  le  guerre  delle  loro  famiglie  non  venivano  da  un  odio  ereditario,  »  ma  da  una  gara  di  gloria  ,  e  che  anzi  esse  da  »  principio  erano  amiche  e  congiunte.  Passa  indi  »  ad  allontanargli  dall'animo  l'idea  della  vergogn ch'era  il  punto  più  delicato  e  più  necessario  ;  e  .»  f^ì\iì  grande  elogio  del  valore  di  Svarano,  |n-   V   '■■rslesso  il  cadavere  d'Ellorc  al  suo  carro,  dopo  die  Io  ha  strascinalo  tra  i  sassi  e  il  fango,  sferzando  a  più  non  posso  .1  suoi  cavalli^  dopo  che  ne  ha  fatto  il  più  feroce  strazio  ,  il  poeta  viene  a  dirci'   »  Ch'ei  non  è  ^lollo,  nò  villan,  né  iniquo   il  suo  eroe  11  !  ;  *  j^v,    •  •  •    ^  198.  v  dicando  che  nel  suo  spirito  egli  non  ha  perduto  V^Al^iuUa  dell'antica  sua  gloria.  La  lode  non  è  mai  \  «  più  lusinghiera  quanto  in  bocca  d'un  nemico,  i  ^  f  Riconfortalo  l'amor  proprio  di  Svaranp  con  que-  •:^.filo  calmante,  Fingal  mette  in  uso  ì  modi  più  *^  >>  blandi.  Lo  chiama  delicatanriente  fratello  d'Aga-  nadeca,  per  destar  in  lui  Sentimenti  teneri  ed  amichevoli  coll'imagine  d  una  sorella  amala  non  ij^rjf^^^no  da  lui  che  da  Fingal.  Mostra  che  sin  dal  ^  »  tempo  di  quella,  egli  avea  concepita  molta  pro-  ))  pensione  per  lui,  e  gli  rammemora  la  prova  sen-  /^h  sibile  che  glie  ne  diede  in  quella  occasione.  Con   •  >  ciò  égli  induce  Svarano  a  vergognarsi  di  con-  .  .^^^seryar  odio  e  rahcore  con  una  persona  che  già  ;s;3i;:da  gran  tempo  1*  avea  provocato  in  affetto  e  in  ..p  benevolenza.  Finalmente  mette  in  opera  un  tratto   di  generosità  singolare  che  doveva  espugnare  l'a-  .:;t4.oimo  il  più  indomabile. Svarano  era  vinto  :  Fin-  gal  era  padrone  della  sua  vita  e  della  sua  libertà.   •  >»^«  questi  si  scorda  della  sua  vittoria  ?  suppone  ^,>)  (:he  Svarano  sia  libero  come  innanzi  la  battaglia,  jfc)»/^- propone,  per  soddisfarlo,  un  nuovo  cimento   personale,  come  se  il  passato  non  dovesse  deci-  -jf^'  dere.  Svarano  non  è  un  nemico  vinto  ,  ma  un   ospite  nobile  a  cui  si  desidera  di  far  onore^  A  ;d  tanta  generosità  Svarano  s'ingentilisce,  e  la  sua  V  ferocia  si  va  cambiando  in  grandezza. Svaran,  disse  Fìnga],  nelle  mie  vene   »  Scorre  il  tuo  sangue  :  le  famiglie  nostre ,   »  Sitibonde  d*onor,  vaghe  di  pugne ,  jj   w  Più  volle  s*aCfronlàr,  ma  più  volte  anco   -  W^iti  n^^l^  cqnv.ersa:;>ioni .   §  1.  Cohcorrenza  superiore  alla  capacità  "  .  y'^^  :  'del  locale,   '  *JL.  '        \  *      '  j    I  •  <   Invitare  più  persone  dl  qiiel  che  possa  compreu  dere  il  locale ,  è  invitarle  ad  essere  soffocate  dal  ^  (ialore ,  a  restare  in  piedi  con  sommo  disagio ,  a  i  non  i^ssere  servite  se  h<innQ^  sete ,  ecc.  Quest'\jsQ   *  .'X  Festeggiarono  fnsiéme  ,  e  Tona  hU' altta  .  '  *  .  W  "  •  V  i  • ospitai  cortese  dono.        ^^^À  ^   '^l^^j^  Ti  rasserena  dunque ,  e  tiel  tuo  voltò'  -  '^f  »  .f^-V  ^'  »  Splenda  letizia,  e  alla  piacevol  arpa-Apri  rorecchio  e  '1  cor.  Terribil  fosti  ^  ^  iij  »  Qual  tempesta,  o  guerrier  ;  de'  flutU  tuoi  '  .  i>  Tu  sgorgasti  valor;  l'alta  tua  voce  »  Quella  valea  di  mille  duci  e  mille.  •  »  'Sciogli  doman  le  biancheggianli  velCj;'  'Pt^lu^'^w   Fratel  d*  Aganadeca  ;  ella  sovente  •*  ^   »  Viene  all'anima  mia  per  lei  dogliosà  '     /J^  '  . Qual  sole  in* sul  merìggio:  io  mi  rammento. Quelle  lagrime  lue  ;  vidi  il  tuo  pianto. Nelle  sale  di  Starno ,  e  la  mia  spada      òt^   »  Ti  rispettò  mentr'  io  volgeala  a  tondo     •  -   «  Rosseggiante  di  sangue,  e  colmi  avea   »  Gli  occhi  di  pianto,  e  '1  cor  ruggìa  di  sdegnò^J  ^   »>  Che  se  pago  non  sei,  scegli  e  combatti  :       \x  '   »  Quell'aringo  d'onor,  che  i  padri  tuoi       '  ^   »>  Diero  a  Tremmor,  l'avrai  da  me  :  gioioso    ...^  (;   »  Vo'  che  tu  parta,  e  rinomato  e  chiaro Siccome  Sol  che  al  tramontar  sfavilla,  n    regna  in  Inghilterra  ne'  così  detti  routs  0  grandi   conversazioni.  —  Una  signora  sceglie  una  giornata  ^  .  "  in  cui  terrà  un  rout.  Ella  spedisce  de'biglietti  d'in-;. ,   -  .-^vìto  a  più  centinaia  di  persone,  non  perchè  sono  suoi  parenti,  suoi  amici,  suoi  conoscenti,  ma  per^,  chè  le  ha  vedute,  e.  perchè  la  loro  presenza  acqui»  •   •    sterà  credito  alla  sua  assemblea.    ,  .   «    .  .un  vano   *       »  Secreto  genio  femminil  che  gode   >»  Di  un  numero  maggior,  non  sceglie  i  buoni,  Ma  tutti  accoglie, e popolando il foco. D'un incomodo stuol, cresce la turba. Minorando  li  piacer. Pria  delle  11  ore  della  sera  (il clie si  chiama  il  momento  dell'alta  marea  )^  la  casa  brulica  di  persone  d'ogni  rango  e  d'ogni  sesso.  Si  pongono  \  i  tavolini  da  giuoco  in  tutti  gli  angoli  della  casay  e  tanti  in  ciascuno  quanti  ifc  può  contenere,  la-  ,  sciando  appena  spazio  bastante  onde  i  giocatori  possano  passare  o  sedersi.  Il  caffè,  il  tè,  la  limo*  nèa  circolano  negli  appartamenti.  ^   La  confusione  è  la  vera  essenza  d'un  rout.  Una  dama  che  tiene  queste  assemblee  non  consulta  la  capacità  delle  sue  sale,  ma  la  lista  delle  persone  ..  di  buon  tuono.  Elia  invita  sempre  più  persone  di  quel  che  possa  ricevere  ;  ella  si  compiace  degl'in*  convenienti  della  stanchezza,  del  rumore,  del  ca-  lore con  tanta  soddisfazione,  con  quanta  un  attore  '  ascolta  i  gridi  e  il  fracasso  degli  spettatori  che  assistono  ad  una  scenica  rappresentazione  destinata  a  suo  beneficio.  Gli  sbagli  de' servi,  la  perdita  di  qualche  gioiello,  le  ripetute  esclamazioni  buon  Diot   come  fa  caldo!  sono  vicino  a  svenire!  riescono  estremamente  piacevoli  alla  padrona  di  casa.  Non  manca  nulla  alla  sua  felicità  s'ella  viene  a  sapere  \  che  v'ha  tumulto  nella  strada,  che  I  servi  d'alcuni  Pari  si  sono  battuti^  che  de' cocchi  si  sono  spezzaiì  j  e  che  qualcuno  della  compagnia  è  stato  de-  rubato  alla  porta  ecc.  ;  giacché  tutti  questi  acci-denti  romoreggiando  per  la  città  porteranno  il  nome  di  madama  da  una  estremità  all'altra.   Il  giuoco  è  il  solo  piacere  che  vi  si  trovi  :  delle  perdite  considerabili  procurano  rinomanza  ad  un  róut,  e  se  un  giovine  erede  vi  resta  rovinato,  la  celebrità  della  casa  è  sicura  per  sempre.  Talvolta  si  .danza  nei  rowte, e  il  ballo  è  seguito  da  un^|;,gran  cena;  ma  vi  manca  sempre  ciò  che  fa  la  delizia  della  danza,  la  grazia  e  l'allegrezza. Il  locale  destinato  ad  una  conversazione  è  semM  '  pre  difettoso  quando  i  concorrenti ,  atteso  la  situa-^ .  *\  1  zione  de' canapè,  non  possono  unirsi  in  linea  ciri  ^  colare,  o  stare  a  fronte  gli  uni  degli  altri. Allorché  restano  seduti  in  linea  retta  da  una  sola  banda,  la conversazione  si  spezza,  e  da  generale  diviene  pa^^  ;  tìcolare.,  il  che  va  soggetto  a  più  inconvenienti^  come     vede  nel  seguente  paragrafar  Conversa&ioìie  particolare  sostituita  v.'^T  alla  conversazione  generale.  >  *  *    La  conversazione  è  gehèVatè  allorché  ciascuno  defili  astantì  vi  contribuisce  come  attore  o  spettatore;  ;   La  conversazione  é  particolare  quando  gli  astanti  *  si  dividono  in  più  crocchi,  stranieri^  per  così  dire,  j  gli  uni  agli  altrii  benché  riuniti  nella  stessa  stanza.  Supponiamo,  a  cagione  d'esempio,  una  conver-  ,,  sazione  di  dodici  persone  ;  è  facile  cosa  Io  scorgere  che  se  esse  restano  unite  in  un  solo  crocchio  '  !      '  conseguiranno  maggior  effetto  con  minore  sforzo;   dì  quello  che  se  in  quattro  si  dividessero.  ;  .  .      Infatti  nel      caso  per  intrattenere  dodici  persone  ne  basta  una  ;  nel  2.o  per  intrattenere  dodici  persone  se  ne  richieggono  tre.  !'    Nel  1.^  caso  una  celia  fa  ridere  dodici  persone;*  I   •  ^  ngl2.«  s'arresta  nel  circolo  di  quattro.   VAllorché  la  conversazioni  è  generale  ,  un'idea  vera  ma  inesalta  annunziata  da  un'individuo,  viene  rettificata  da  un  secondo,  commentata  da  un  terzo,  dimostrata  da  un  quarto,  ecc.,  sicché  alla  fine del  discorso  si  ha per prodotto  una verità  lampante. All'opposto  separate  in  quattro  crocchi  questi'  contribuenti,  e  vedrete  che  in  vece  di  quella  verità  penduta  comune  a  dodici  teste,  restano  in  ciascuna  '  delle  semi-idee,  delle  nozioni  inconc^Iudenti,  delle  \  notizie  qui  inesatte,  là  false,  e  dalle  quali  nulla  si  può  dedurre.  Succede  nella  produzione  del  piacere  •  nelle  conversazioni  ciò  che  succede  nella  produ-  '  .  ^lone  delle  ricchezze  neìragricoltura  o  nelle  arti  :  Pietro  possedè  l'aratro.  Paolo  i  buoi,  Giovanni  ra))llitó  tì' arare  ;  se  questi  individui  s'associano,  ^  Taratura  $\  leffetliia,  non  si  effettua  se  restano  di-  :  sgiunti.   Allorché  dunque  qualcuno  trae  a  se  due  o  tra  /  astanti ,  commette  una  specie  di  furto  verso  gli  altri,  poiché  li  priva  del  piacere  che  produrreb-  bero in  essi  le  persone  spiritose  e  gioviali  ch'egli  '  bà  rapito.  Egli  stesso  debb'essere  riguardato  come  ^  un  disertore  od  un  contribuente  moróso.  È  un  fatto  dimostrato  dall'  esperienza ,  che  le  scosse  sensibili  s'accrescono  comunicandosi,  atteso  la  forza  sussidiaria  che  loro  presta  l'immaginazione  degli  astanti;  quindi  una  celia  che  fa  ridere  quat-  tro persone  in  un  grado  come  quattro ,  ne  fa  ri-  dere dodici  in  un  grado  come  cinque  o  sei..   Inoltre,  se  assistono  dodici  persone  al  discorso  del  parlante,  con  maggior  cura  ed  attenzione  egli  svolgerà le  sue  idee^  di  quello  che  se  assistessero  quattro  solamente. Allorché la conversazione è generale, un fatto qualunque, esposto da chi parla, va ad agitare dodici immaginazioni, nelle quali sì trovano associate altri fatti e diversi in ciascuna;  dunque  si  deve  sperare  maggior movimento  nelle  idee  che  alimentano  la  conversazione  e  maggior  varietà. Se  in  vece  di  dodici  persone  (numero  preso  per  ipotesi),  gli  astanti  fossero  di  più,  i  crocchi  a  parte  sarebbero  meno  condannevoli;  giacché  ammettendo  gli  accennati  vantaggi  della  conversazione  generale,  bisogna  anche  ammettere  che  in  molti la voglia di parlare è  vivissima  :  e  che  questa  meno  nella  conversazione  generale  resta  soddisfatta  ,  che  ne'  ,  crocchi  parziali.  D'altra  parte,  quando  la  conVfet-^  sazione  è  troppo  numerosa,  scema  in  alcuni  l'al-  legrezza, perchè  scema  la  confidenza.   È  cosa  rara  che  la  conversazione  resti  generale,  i  allorché  in  dodici  concorrenti  si  trova  più  d' una  donna;  giacché  ciascuna  diviene  centro  particolare,  intorno  al  quale  parte  degli  astanti  naturalmente  si  unisce.  Ho  detto  è  cosa  rara ,  poiché  non  é  cer-  tamente impossibile  che  una  speciale  gentilezza  nelle  donne  si  sforzi  di  prevenire  la  divisione.    V  *  \    %  Z/parlare  motti  insieme^  '   «  •  V  v  '  ^  IMa  lsto^^      idi  tàiite  :  ^  .   '  »,'Vòcr  distordf  e  gareggianti  iiisiéme    -  '  -   •  »  Pur,  ua  senso  accoppiar?  Tutti  ad  un  tén^o;   »  VoglioB  la  boeèa  aprire'  é  n^n^  i^/^  ^  "  Affastelfano  insieme.  Quanti  argomenti. Ad  ua  sol  puQtot  AKri  di  cuCQe  ed.  «tiri  «failli  ragiona:  Qui  ài  iMe;;  Là  ^si  contrasta^  e  la  quisti^ja  si  .  cribra  '  r-^»  Con  oàikktò  ttpljcàre  altertm  '   v  vf  .  r"  ^     Di  sì  e  dì  no.  Di  trenta  voci  acutaV/f  -Stridule,,  rauche,  reboanti  e  gravi,  ;  '^^  *  ^  V  DIssoiiaQti  tra  ior  odi  lin  eóiifiise  :  .  ì  ».  Frastuono  ingrato  di  parole  e  d'^rK ,  '  .1»  fìi.  tumulto  e  di  «tiMa^^nde  Jà  T^ta  *  ;  Concava  echeggia  e  riinbombahdò  à&sorda ,  »  Là  civile  modestia  ed  il  ,  buon  senso    i^  v  /  y>  Lèi  ift'iifi  àngolo  stringono  le  labbta E  Storditi  ai  tarano  gli  wecchl  ».  /^^^^^  "^^^   f^iimando  ii^Iti^fBirJdiio  Jnsiemip  i  Yh9^wf»à'  d'M^ .   gara  per  superarsi  a  yieè(ida,  «.tpro^\irii^^^  4'a8sor49tffe:^gli  ^istanti^   >     A  >  ?  '      ^  •     :ì *  /  .  Ili  alcuni  SI  uniscono  tré _d[i|etti  '  ,   1 .  La  sfnania,  di  int^rrpmp^e  glt  alt^i^  ; jlk  X'impazkiDza  di  seiitìr  Hiténrétii  .m  stessi  ;  '   a.  La  pretensione  che  gli  alJLrì  uoa  siano 4istratti>  «lontre  es^i  li  aiuioiaiiò. Allorebò  iiHrfli  parlano  insieme  .  *  '   L  Si .  stancano  i  iK>liuoni  f  gli  iBSofi^  d0'  par-!  istori'}'- V.  \  ^  V t'O'V.  \-   I  &i  annoiano  gii  astanti  con  un  fraatiMno  in*-   intelligibile;   8.  Si  è  costretti  a  ripetere  più  volte  la  stessa  cosa;   4.  Si  afferrano  male  le  idee  altrui. Si  oonsuma  tempo  e  fasica  a  combattere  delie  eliimére.   Siccome  poi  si  parla  per  piacere  o  istruire,  non  j)er  fajr  pompa,  4i  cognizioni»  quindi  allorché  Tal-  trui  impazienza  ci  interrompe,  è  miglior  consiglio  lasciarle  libero  il  campo,  e  tacere,  di  quello  che  battere  inutilmente  gli  orecchi  di  chi  non  vuole  ascoltarci  CO*    (1)  L*imp^iua  e  la  vivacità  che  domìDano  mi  carattere  della  Jiazlone  francese  r  assoggettanó  al  difetU  accenùaU:  mi  testo.   Cornino^,  riportaiado  B  Trattato  di  Vercelli  segnato  ft  40  oUobi^  4495  tra  Carlo  Vili  e  gli  Ualiani,  osserva  come  un  tratto  caratteristico  dello  spirito  francese  la  suania  di  pae-  lare  ,  per.  cui  molte  («rsone  parlando  insieme  ed  alzando  a  vicenda  la  voce  ^  nesaùna  é  realmen^  inte^.  AH*  opposto,  egli  aggiunge,  degli  Italiani  nessuno  parlava, 'ftioréhè  il  duca  .  Lodovico ,  il  quale  perciò  diceva  ai  francesi  :  Gii  I  ad  uno  ad  uno.   le  memorie  dell*  Accademia  francese  hanno  conservato  per  IradlikHQé  no  moUirdI  If^ miran,  R  quale ,/oireso: piò  d'ogni  aHeo  dell'aeeennato  difetto,  disse  un  giorno  seriamente  a' suoi  confratelli:  Signori,  io  vi  propongo  di  decretare  che  non  parleranno  qui  più  di  quattro  persone  Insieme  \  forse  così  riusciremo  ad  intenderci  1  !  *  '   Un  francese  diceva  a  numel,  vescovo  di  SaUsboiy/  oMe  il  fàesi  eei^Uisini  eea  stola  cosa' molto  merìtosia  per  cjH'Imglfeaf)^  non  potendo  essi  die  difficilmente  rinunziare  ad  un  pezxo  di  manzo.  Al  che  iiurnet  mpo.se  :  Non  è  men.  meritoria  per  voi  altfi  francesi,  atteso  la  legge  del  silenzio.         .  ,   23*    «   y  .i^co  L.Allegrezza  clamorosa.   Un  grado  moderato  di  sale  rende  lè  vivande  gradite  a  tutti!  palati  :  i  gradi'  maggiori ,  1  quali  non  riescono  piacevoli  che  a  poeliissimi,  estinguono  Tappetito  negli  altri*   L'allegrezza  moderata  nelle  conversazioni  passa  facilmente  d' animo  In  animo  >  ed  è  accolta  con  lieta  fronte  da  tutti.  L'allegrezza  clamorosa  si  co-  munica a  pochi,  e  spesso  muore  sul  labbro  di  chi  Tolle  eccitarla*   Del  quale  fenomeno  tre  sono  le  cagioni.   1 .  I  caratteri  freddi  non  essendo  suscettivi  d'aU  legrezza  clamorosa ,  s'armano  contro  di  essa  e  le  oppongono  la  reazione  deirindifferenza.  '  2.<>  allegrezza  clamorosa  dipendendo/ da  un  ino4o  particolare  dì  vedere  le  cose,  alquanto  strano,  6  spesso*  da  ^ccolezza  di  spirito,  i  ^'arett^  ragio*  nevoli  e  sensati  non  possono  approvarla.  •  '  3«  L'jiUegrezza  moderata  più  facilmente  che  la  clamorosa  si  coniiunica  agli  ^stariti,  perchè  dista  meno  dallo  stato  abituale  degli  spiriti.   Qualunque  sieaa  te  dause  deli'  accennale  fono*  meno,  egli  è  fuori  di  dtfbbio  che  se  V  allegrezza  moderata  fopienta  ta  conversazione,  l'allegrezza  clamorosa  tènde  ad  estinguerla,  e  la  cosa  non  può  ^essere  altrimenti;  infatti,  •  .   U  Durairte  lo  scoppio  dfille  risa  smodate  ma  potendosi  comunicare  agli  animi  i  moti  d'  un  aU  legrezza  piti  mite,  tutti  quelli  che  non.  parteoi|iane  aHe  prime  ,  si  veggono  'ditfraudaft  de'  secondi  ;  quindi  mentre  alcuni  ridono  a  piena  gofà,  restano gli  altri  atteggiati  a  sprezzo  o  sbadigliano  ;  essi  pro-  vano quell'ingrata  sensazione  che  prova  chi  attento  al  dolce  suono  dell'arpa  viene  im;«rovvisainente  as-  sordato dal  rumore  delle  campane.  ,   2.  Dopo  lo  scoppio  di  risa  smodate  succede  una  serietà  agghiacciata,  come  dopo  un  fuoco  d'artifizio  ci  sembra  T oscurità  più  profonda.  Un'allegrezza  clamorosa  ci  balza  improvvisamente  fuori  di  strada,  e ,  per  così  dire ,  sopra  un'eminenza  ,  ove  non  sap-  piamo d'  onde  siamo  venuti  ,  nè  dove  dobbiamo  andare  ;  da  ciò  poi  la  serietà,  il  silenzio,  qualche  esclamazione,  e  la  difficoltà  di  riprendere  il  filo  di  ameni  discorsi.   L' allegrezza  clamorosa  non  comunicandosi  agii  altri,  ed  assai  pochi  essendo  capaci  di  rianimarla,  quegli  che  la  eccita  si  trova  nella  necessità  di  farne  tutta  la  spesa;  quindi  se  vuole  restare  sulla  scena  è  costretto  a  rappresentare  il  personaggio  del,  buffone. L'  allegrezza  moderata  ,  figlia  d' una  buona  coscienza,  animata  da  un'  immaginazione  ridente,  trova  facilmente  motivi  d'innocente  trastullo  e  di-  gnitoso sorriso  nelle  scene  morali  esposte  dalla  pag«  343  -  350.  /4   L'allegrezza  clamorosa,  figlia  talvolta  dello  stravizzo, talvolta  d'un  immaginazione  irregolare,  per lo più d'una sensibilità ottusa e piccolezza di spirito, quasi sempre accompagnata dalla sgarbatezza,  trova pascolo nella goffa derisione degli astanti o degli assenti, e nella rappresentazione d'atti  sguaiati,  plebei,  vHlanì. Loquacità eccessiva. La conversazione è come un’azienda commerciale; ciascuno dee pèrvi il suo caratlo e  ciascuno  partecipare  al  prodotto. I^'uomo  che  tace  sempre  in  una  conversazione è  uomo  che  vuole  essere  a  parte  del  prodotto  senza  essere  carattista.  '   L^uomo  che  parla  sempre  è*  un  jearattista  che  vuole  tutti  i  prodotti  deirazienda.   In  generale  nelle  conversazioal  ciascuno  ama  meglio  spacciare  la  propria  mercanzia  di  quello  che  acquistare  V  altrui  ;  e ,  in  vece  di  formarsi  giusta  idea  degli  altri ,  aspira  a  darla  di  sé  stesso:   Agitati  dalla  smania  di  parlare,  non  pochi  bra-  mano di  comparire  sempre  alla  tribuna  ,  senza  vo-  lerne mai  discendere  :  quindi  vi  tengono  discorso  su  di  tutto,  d'  un  libro  nuovo  dopo  la.  lettura  di  quattro  ò  cinque  pagine  a  salti ,  d*una  nuova  mac*  china  dopo  d'averne  veduto  un  pezzo,  d*un  quadro  dopo  d'averne  ammirata  là  cornice  ccCm  e  decidono  e  sentenziano  senza  interruzione,  simili  al  giudice  d'Aristofane,  che,  chiuso  in  casa  dai  parenti^  vuole  almeno  dar  sentenza  tra  due  cani  (I)*    (I)  Il  Go7.2i  fa  il  seguente  carattere  dell'imperlerrito  par*  latore.   <  «  SIgpor  jS.  N.  y  a  penai  la  algaoria;  vostra  «ente  un  cct-  »  stailo,  un  luteo,  o  un  ebfeo  a  oomlnclaM  uara^hmar  »  mento,  eh'  ella  si  scaglia  ìà^  e  glielo  rompe  a  mezzo  col   »  dire  :  La  non  é  così  :  io  so  l' ordine  delle  cose ,  e  ve  la  D  iUcò  lo  ;  e  dàlie  dàlie  dàlie,  non  la  finite  più ,  tornando  Gir  irteoiiTenienti  a  coi  va  incontro  uu  uomo  che  paria  troppo,  sono  i  seguenti:    •  molte  volle  da  capo,  con  molle  cosette  di  mezzo,  clje  sono  »  uno  sfinimento,  come  sono,  per  esempio,  que'vostri  colori  »  r^ttorici  :  E  dov'  era  io  oca?  Ah  sì.  E»  toeno  due  passi  «  indietro:  e  la  fu  da  rìdere,  e  verbi^eazlai  ecceleira,  tanto   •  ohe  mm  lasciate  più  tirare  il  fiato  a*  poveri  drcaslanti.   •  Così  quando  avele  assassinali  e  ammazzati  ì  primi  a  uno  »  a  uno,  eccovi  a  volar  via  di  là  in  qualche  cerchio  d'amici  «  -o  di  patenti,  clie  cagionana  de'fatU  lorO|  e  piombate  sopra  »  que*  povereUi  come  un  uccello  di  rapina,  sbaragUandogliì  »  e  facendogli  andare  qua  e  colà  per  paura  della  furia  vostra.  »  M'  ha  dello  un  certo  maestro,  che  qualche  volta  andate  al  »  suo  collegio,  e  che,  appena  entratovi,  stornate  i  discepoli  n  dallo  studio,  e  i  maestri  dall' insegnare ,  parlando  di  dot*   •  tftoe ,  di  scienze-,  d'armeggiare ,  di  salière  U  cavallo,  e  di  »  tutto  quelló  che  volete  e  potete,  si  che  nessuno  si  può  «  salvare  dalla  furia  vostra.  Se  un  pover*  uomo  prende  U-  »  cenza  da  voi  per  andare  a  casa  sua,  e  voi  subito  volete  »  accompagnarlo  per  forza  come  se  foste  V  ombra  di  lui ,   petseguitandoto  fino  In  sali' nscìo  e  sulle  scale,  e  nette  »  stante  ancoia.  Se  per  caso  si  narra  qualche  novella  per  la  »  citt;i ,  voi  slète  come,  ma  rondine ,  ora  qua ,  ora  colà  a  »  dirla  e  ridirla  a  tulli  quanti.  Nè  giova  punto  eh'  altri  vi   •  iaficìsL  intendere  che  la  sa:  perche  voi  volete  cominciarla  »  a  dispetto  di  ttUU,  aggMtigendevi  anche  Im  proemio.  Par-  li late  di  predicatori,  dlmiàinoranenli,  di  battaglie,  del  vostro  »  servo,  e  delle  fmestre  di  casa  vostra  con  tanfo  tedio  di  chi  »  v'ascolta  ,  che ,  appena  avele  favellato ,  Tuno  si  dimentica   •  tutto,  Taibro  sbadiglia  sonniferando ,  e  c'è  chi  vi  pianta  là  »  nel  meo»  Aet  ragionamehto.  Siccliò  se  vi  trovato  con  uno  »  ch*ahliis  '4a  sedere  .a  un  magistnito ,  a  una  predica,  a  »  mensa,  a  una  commedia,  siete  cagione  che  slede  mezz'ora  A  dopo  il  bisogno  alla  sua  faccenda.  E  credo  che  piuttosto  »  vi  contentereste  di  morire,  che  di  non  superare  il  cicala-  t'  mento  delle  gasze,  de'  pi^papHii  delle  rondini,  e  di  quanto    Digitized  by    ,     4Ìd  IMBO  TBBXO   1 .  Egli  affatica  i  suoi  polmoni  ;   8.  É  spesso  costrétto  a  ripetere^  le  stesse  cose  il  che  cagiona  noia  agli  altri  e  svela  i  limiti  del  suo  «pirUo  ;        .  .   3.  S'espone  a  dire  degli  spropositi  vc^ndo  par^  .  tare  di  cose  che  non  gli  sono  familiari^,  e  dimostra  di  non  saperne  alenna ,  giacché  quelli  che  sisinno  una  cosa  bene  si  astengono  dal  parlare  di  quelle  che  ignorano  (1)  ;   '  4.  Offende  quelli  che  vorrebbero  parlare  in  vece  di  lui  (2>  ;    ^  ^    «  bestie  Gidiio, schiamaizo.  Oh  |^  é  puie  un  eraii  peccato  »  a  non  aver  (ante  gole  quante  canne  hd  l'organo,  da  poter  »»  cavar  fuori  le  parole  da  tutte  1  Basta  cbe  siete  i^unto  a  Il  tale,  che  non  v*  Imporla  più  che  ciascheduno  si  fugga  da  »  vqL  cpme  da  un  can  guasto,  e  cbe  fino  i  fanciulli  di  casa  »  vostra  si  ridano  di  voi:  petcliè-  quando  la  sera  il  sónno  »  comincia  ad  aggravarli ,  vi  pregano  a  contar  lo;*o  qualche  i)  cosa  per  dormire  più  presto.  •   (1)  Saggio  e  cauto  ad  un  tempo j  e  spesse. voHe  Timido  un  poco ,  lentanijenle  sffgno  . .   Dà  di  stia  decisloa  uom  che  ben  vede,  E  in  brevi  detti  ognor  spiegarsi  agogna^  Clii  ragiona  a  proposito ,  di  rado  ,    S'allarga  ragioiUMiKlo >  ma  la  folle  .   ^.   SupecUa  )  che  a  scloe&bezza  si  cong^mge  Si  diffonde  In  loquela  ^  e  s^gue  solo  ,  I.  suoi  fantasmi  ^  e  a  sè  paria  e  risponde.   (2)  «  E  alcuni  altri  tanta  ingordigia  hanno  di  parlare,  che  »  non  lascian  dire  altrui.  E  come  noi  veggiamo  taUolki  su  »  per  r  aie  de*  contadini  X  un  pollo  torre  la  spLca  di  becco  %  atf  allvo;  ^^osl  cavano  costoro  i  EagtonaoieiiU  di  bocca  a   .  colui. che  li  cominciò,  e  dicono  essi..  E  sicuramente  che  »  eglino  fanno  venir  voglia  altrui  d'azzuffarsi  con  esso  loro.    5,  Rende  gli  altri  più  severi  nel  giudicarlo  ;  \  6.  Impedire  la  diffusione  di  idee  migliori  delle  sue  ;   ?•  Svela  talvolta,  per  procurare  alimento  al  dì-  scorso,  ^11  altrui  segreti  ;  quindi  si  mostra  indegno  e  si  "pfwù  deirallrui  confidenza;  *  8.  Dimentica  spesso  la  convenienza ,  non  ha  ri-  guardo al  caratterie  delle  persone  con  cui  i^rla,  al  luogo  In  cui  si  trova  »  alla  situazione  degli  animi.  Per  concentrare  in  sò  viémmargiormente  gli  altrui  sguardi ,  balza  in  piedi  (1),  molti  gesti  facendo  colle  mani  e  col  capo;  e  se  qualcuno  ardisce  non  di  t»orre  in  dubbio  la  di  lui  infallibiUtà,  che  verar  mente  la  sarebbe  un'impertinenza  senzjj  pari ,  nia    »  perciocché  «e  tu  guardi  bene ,  ninna  cosa  muove  Y  uomo  9  piuttosto  ad  ira,  die  quando  d' improvviso  gli  è  guasta la sua.  voglia  e  U  suo  piacere ,  eziandio  minimo  ;  siccome  »  (|umd0  i^  avrai  aperto  la  bocca  per  isbadii^re,  e  alcuno  !>'  té  la  Cura  con'  mano,  ò  quando  tu  liai  alzato  il  braccio  «  per  trarre  fa  pietra,  e  egli  l' è  sùliitamente  tenutò  da  colui, che  V  è  di  dietro. Ecco  l'origine  del  pedanlimo:  quegli  è  pedante  che,  s(M*gendo  io  .piedi  ed  alzando  una  voce  magnale  e  dura  »  detta  le  sue  opinioni  e  pronuncia  l&  sue  sentenze  eoi  tuono  che  adopera  il  maestro  di  scuola  co' suoi  scolari. Pedantìfimo  si  dice  anche  rusò  troppo  frequente  e  inopportune delle cognizioni tecniche pella conversazione  ordi-  iiìarte,  e  la-  presunzione  ebe  ravvisa  in  esse  importanza  ec-  cedènte ;  quindi  i  seni-détll  Geminano  ^ppertutlo  H  lor6  .falso  sapere,  allegano  Platone  e  S.  Tommteo  in  eosii  ebe  ai  accertarle  ba«ta  Tasserzione  d'un  facchino.   Pedantismo  finalmente  s'appella  un'  eccessiva  severità  ed  uu^ndeféssa  affettazione  nella  scelta  delie  parole  e  delle  frasL    solo  di  fargli  qualche  obbiezione  ,  esso gli volta gentilmente le spalle sorridendo tra sè dell'altrui dabbenaggine, o gli risponde alla maniera della Pitia la quale furiosa mostravasi allorché non sapeva come sottrarsi  ad  una  dimanda  importuna.   Questi  eterni  parlatori,  per  lo  più  teste  super-  ficiali,  e  talvolta  prive  dì  senso  comune,  affettano  di  sapere  ciò  che  non  sanno,  d'intendere  ciò  che  è  superiore  alle  loro  cognizioni  ,  di  possedere  ciò  che  loro  realmente  manca.  Si  tratta  egli  d'una  notizia?  essi  la  sapevano  ;  —d'una  scienza? Thanno  studiata; d'un  fatto  straordinario  ?  ne  sono  stati  testimoni  ; d'  un  giuoco  ?  i'  hanno  insegnato  al  loro  nonno ,  ecc.  :  e  per  voglia  di  comparire  i-  strutti,  allontanano  da  essi  l'istruzione.  Chi  ha  poco  senno e  dovrìa  starsi  ignoto,  Vuol  far  tutte  le  carte  in  compagnia  :  »  In  simile  maniera  un  carro  vuoto   '   )'  Fa  il  fracasso  più  grande  per  la  via  ».   '  La  loquacità  presuntuosa  de'giovani  è  una  con-  seguenza necessaria. Della  vanità  generale  comune  a  tutti  gli  uo-  mini. Dell'educazione  particolare,  supposta  scientifica,e  veramente  insensata  che  ne'prim'annì  della  loro  giovinezza  ricevettero.   Siccome  ciascuno  procura  di  mostrare  ricchezza  collo  sfoggio  degli  abiti,  così  molti  procurano  di  .  mostrare  spirito  collo  sfoggio  delle  cognizioni.  Essi  crederebbero  d'aver  perduto  tempo  e  fatica  se  apris-  serola  bocca  senza  aver  detto  qualche  cosa  spiri-  t,.cT    Volendo  presentare  tratti  ingegnosi  e  superare  T altrui  aspettazione^  fanno  degli  sforzi  che  tormentano  gli  astanti,  e  ad  essi  fruttano  ridicolo.  Presumer  vanto  di  sagacé,  arguto,  .      .»  E  senza  aver  punto  di  sale  in  zucca  ,  .      Imprudente  mostrarsi  e  linguacciuto  v.   Rendere  eunuco  V intelletto  e  feconda  V  imma-  ginazione^  tale  era  il  problema  che  si  propóne-  \  vano  grinstitutori  nello  scorso  secolo.  Un  sonet- ,  tino,  una  canzoncina,  un  po' di  latino,  uno  sche-T*  letro  cronologico  detto  storia,  un  elenco  dei  nomi  '  delie  città  e  de'fiumi,  chiamato  geografìa,  ecc.,  in  •  somma  parole  e  poi  parole,  e  non  mai  cose,  èò*v,.^.  stituivano  il  capitale  intellettuale ,  l'immenso  fo-  gliame sen?a  frutti  che  i  giovani  compravano  s  caro  prezzo.   Abituati  ad  accettare  parole  senza'  conoscerne  il  significato. nelle  prime  scuole,  accet-  tarono parole  in  filosofia  senza  corrispondenti  idee;  ;  fi  pronunciando per es., le parole mistiche di Kant, redetterjo di essersi innoltrati nella scienza dell'uomo;  e così  dite  di  tanti  altri  sistemi  cui  la sola  magìa  delle  parole  e  Tbitudine  di  ammetterle  r'^  senza  esame  acquistarono  rinomanza.  Quindi  le  conversazioni  brulicarono  di  cianciarelli,  che, essendo verbosi, credevano d'essere eloquenti, e solleticando l'orecchio, di persuadere si lusingarono e d' istruire  }Ma  fatai  cosa  eli'  è  ch'ove  più  abbond)a  Un  bel  parlare,  ivi  la  specie  umana    Sia  seccatrice  almen  quaut'  è  faconda  ti  dono  di  parlare  con  facilità  e  prontezza  è  cosa  '  .  ;  }  pregevolissima,  e.  non  può  essere  Irascui'alo     doq  da  chi  -    \Pìtagorà  ,  ìper reprìmere ne*  giovani  I  '  eccessrvà'^  loquacità,  esigeva  da' suoi  discepoli  un  assoluto.  .  silenzio  ne'cinque  primi  anni  delle  sue  lezioni;  il  che  era  spingere  le  cose  all'  estremo  opposto,  e  spezzare  il  ramo  per  raddrizzarlo.  Più  saggia  Tao-tìca  cavalleria  diceva  a'  suoi  seguaci  :  Siate  semjore  rultimo  a  parlare  in  mezzo  agli  uomini  che  vi,  superano  in  età^  e  il  primo  a  battervi  alla  guerra.  Non  arrogarti  dunque  il  diritto  d'eterno  parla-  tore ,  ma   «  Solo  i  tuoi  detti  nel  comun  discorso  »  Ifitreccia  a  tempo,  e  in  un  civile  e  cauto  »  Le  tue  parole  e  il  tuo  silenzio  alterna.  >♦   Colui  che- si  finge  dotato  di  cogm*zioni  che  non  ha  ,  perdi»  ì|  ,  diritto  d' essere  creduto  negli  affari   sociali.  Volendo  mostrare  troppo  spirito,  si  resta  caricati  di  tutto  il  peso  della  conversazione,  e  si  perdé  in  •  affetto  ciò  che  si  acquista  in  ammirazione  ;  gidoo  ^    ignora  che,  per  convìncere  lò  spirilo,  spesso  é  forza  sedurre  le  passioni  che  gli  fan  siepe:  ma  questo  dono  per  se  stesso  ilion  è  sicuro  indizio  di  profondo  pensare.  Parecchi  buoni  spiriti  non  riescono  a  svolgere  le  loro  idee  fuorché  col  mezzo  .  della  meditazione;  ed  è  stato  osservato  che  gli  scrittori  di  professione  non  sono  quelli  che  brillano  di  più  ne'  crocchi  sociali.  Ne'  discorsi  di  Rousseau  neppur  V  ombra  scorgevasi  di  quello  stile  che  ne'  suoi  scritti  si  ammira.   Nicole ,  uno  de'  primi  scrittori  del  XVn  secolo,  stancava  quelli  che  Tascol-  tavano;  perciò  egli  diceva  del  sig.  Treville,  U  quale  parlava  .  con  facilità  :  Egli  mi  batte  rulla  camera  :  ma  egli  non  è  g^cora  in  fondo  deHa^caìa  eh*  io  V ho  confuso,  t    4t&l   chè,  generalmente  parlando,  gli  uomini  non  amanq '  quelli  che  li  offuscano.  >   -^pm  >  ^Allorché  non  avete  argomento  interessante  da  .  proporre,  la  civillà  vuole  che  vi  astenìate  dal  par*  lare,  in  vece  di  mettere  alla  tortura  l'altrui  pa-  zienza con  puerili  e  non  gradite  scempiaggini.  Perciò  r  abate  S.  Pierre ,  il  quale  non  discorreva  gran  fatto  nella  conversazione ,  non  per  sterilità  nè  per  disprezzo,  ma  per  tema  d'infastidire  i  suoi  ascoltanti,  diceva  :  Quando  io  scrivo,  nissuno  è  ob-  bligato a  leggermi  ;  ma  quelli  ch'io  vorrei  costrin-  gere ad  ascoltarmi  si  darebbero  la  pena  dì  farne  almeno  le  viste,  ed  io  la  risparmio  loro  per  quanto,  posso.  Inoltre  chi  vuol  parlare  di  ciò  che  non  in-  tende ,  al  quasi  certo  rischio  si  espone  di  guada-  gnarsi il  titolo  d'ignorante.  Quindi  l'abate  Choisj',  il  quale  non  era  dotto,  ma  lontanissimo  dal  volerlo  comparire  ,  scrivendo  ad  un  suo  amico  sulle  sue  conversazioni  o  sul  suo  silenzio  coi  dotti  missio-*.  narii  che  nella  sua  ambascerìa  egli  aveva  ritrovati  a  Siam  ,  si  esprime  così.ii^^  Io  occupo  un  posto  »  d' ascoltante  nelle  loro  assemblee ,  e  mi  servo  .  »  .  sempre  del  vostro  metodo  :  una  gran  modestia  »  e  nissun  prurìto  di  parlare.  Quando  la  palla  mi  »  viene  naturalmente  ,  e  ch'io  mi  sento  istrutto  a   fondo  della  cosa  di  cui  si  tratta,  allora  mi  lascio  »v forzare,  e  parlo  piano,  modesto  egualmente  nei  D  fono  della  voce  che  nelle  espressioni.  Questo   metodo  fa  un  effetto  mirabile,  e  sovente,  quando  »  non  apro  bocca ,  si  crede  ch'io  non  voglia  par-  li lare,  mentre  la  vera  ragione  del  mio  silenzio  si   è  un'ignoranza  profonda  ch'egli  è  pur  bene  di nascondere  agli  occhi  altrui.   tjttl^  ^ Da  qiiesta  modesta  confessione,  soggiunge  d^A^^.  lembert ,  si  raccoglie  che  l'abate  Choisy  non  ras-  somigliava  certi  ciarlieri,  i  quali,  presi  dalla  manìa  di  parlare  di  quanto  ignorano,  meriterebbero  la  risposta  che  un  artista  greco  fece  nel  suo  labora-  .  .       torio  ai  ridicoli  sragionamenti  d'un  dilettante:,.  Guardatevi  dal  farvi  sentire  da' miei  scolari.  *^  Infatti  parlano  costoro  con  leggerezza  tale,  che  spesso  l'uomo  pulito  si  astiene  dal  far  loro  un'ob*  i  biezione  per  tema  di  vederli  ammutolire.  I  chiacchieroni  si  fanno  tacere  col  non  dar   .  retta  ai  loro  discorsi,  come  appunto  un  suonator  di  violino  ferma  i  danzatori  cessando  di  sonare.   »   '    ♦       6.  Co?itimcazione  dello  stesso  argomento.   ;  La  loquacità  eccessiva  è  un  difetto  che  i  mora-   .  listi  sogliono  rimproverare  al  bel  sesso.  Quindi  essi  dicono,  che  mostrare  molto  spirito  *      colle  donne  non  è  il  miglior  mezzo  per  conciliarsi,  ,  ,         il  loro  animo.  Una  dama  d'alto  tono  che  si  era;  I  '    ,     scelto  per  amico  un  giovine  di  beli'  aspetto  e  di  '  •  ^    molto  spirito  ,  gli  disse  un  giorno  che  poteva  ri-  i  tirarsi,  perchè  ella  non  amava  le  persone  che  par^   lavano  troppo.  .    vFin  dal  pergamo  fu  rimproverato  alle  donne  '  •  .    -  l'accennato  difetto  :  un  predicatore  parlando  avanti  I  UA  consesso  dì  monache  nel  giorno  di  Pasqua/   I  diede  loro  ad  intendere  che  Cristo  risuscitato  coin-   '  parve  alle  donne  prima  che  ai  discépoli ,  acciò  la   nuova  della  sua  risurrezione  più  rapidamente  si  diffondesse.   i  11  suddetto  difetta  potrebbe  essere  confermato   }  dall'uso  delle  donne  negre  della  riviera. di  Qs^m-    d  j    tot.  le  ^uaH  essendo  applio^tisshne  ai  labori  ;  glioBO ,  a  fina  ^'^fitace  hi  maldicdiusa  0  i  diseoiti  inutili  ,  empirsi  la  bocca  d'acqua  mentre  lavorano..   La  leqoacità  dette,  domiet  seoondo  che  io  ne  giu«  dieé,  a  due  Ani  d^lta  fimportanzia*  éorridi^nde.   L'uno  si  è  che,  essendo  é$$e. te  prime  educa-triei  éé  faneiiilll')  detona  esiereltttfe  te  fero  .tenere^  orecchie  con  un  cicaleccio  continuo,  e  imprimere  Ìb  ^ue'édb^li  cernili  oiolte  tracce  ideali,  che  senza,^  questo  soccorso- diffleHmente  Vi  «gioirebbero.  '  .'1)  seeogdq  si,  è  .  che,  essendo  esse  destipate  a  «ìMi^iEnfel^ra  aspra  la  vita  airaomo,.  dover*   vano  essere  dotate  d'una  sensibilità  squisita  che  a  lotti  ì  di  lui  affetti  prontamente  si  risentisse,  e  della  facoltà  d'  insiniìàVs^  gqrbo  nqf  di  l«i   allibo,  ìi|jtrattenerlo  oaa  sentimentale  colloquio  ed  àHeirtariiét  té  pene:  tton  saprei  ben  dire  se  questo  sia  il  motivo  per  cui  generalmente  le  donne  supe-  rbie gli  n^minLoella  gra^^ia  della  voce  e  del  canto.   Giovenale,  come  tanti  altri  poeti  dopo  di  lui  v  ha  eensurato  la  loquacità  deUe  donne  letterate  ne',  segufati^'veirn:   «   /  *  .  .  .  .  .  SI  tosto  ,   ^  '  i>  T'assidi  a  mensa,  essa  1^  mensa  in  scuola^.  »  EcQO  ti  cangia  ^  é  dà  sentenze  e.-npr|Be,  /  »  Loda  il  cantor  d'Enea,  s'intenerisce. Per  la  pQv.era  Elisa  ^  i  due  poeti  '  '  »  Mette  al  paraggio;  a  ima  bitaneia  appende ,  »  In  un,  gùscio  Maron,  neir  altro  Òmero.  »  Orammatici  ,  rettorìd,  seolastiei  «.^  .  '     i>  Ite  a  rfporvi  :  i  convittor  son  muti PiissuQ  fisponde;  e  chi  tentar  latria  .    s    ;    »  D'arresUrue  la  foga?  Un  avvócatd,     y  -   . B'altre  donne  uno  stuol  ;  tal  dalla  bocca  <  Vei^  (NTi^vio  ^  parote^  e  tale        ^  r-Stridor  mòtesto;  e  tintinnìo  di  voei^ Che  un  picchiai  di  patini  e  cauipaneU.!  '  »  D'udir  ti  sembra  i  »rrà  piHtrìa  sot-  ;  .)i  Senz' altra  aggiunta^  di  caldaie  o  trorobe. Recar  ^eoisso  ^ti!  ii^iHuitata  inaa  «^t»    -  -   .  Qnestà  gairrulita  è  condannabile  n^lle.dQnàè  gualmente  che  iiegli  uoinini  i.  e  ciò  che  Aiolièjre  ba  detto  nella  sua  commedia  cóntro  le  donm  sac^  cenli^  ai  saccenti  in  generale  sì  applica.  La  noia  che-  viene  prodotta  dalla  loquacità  noq. scema  in  milione  della  barba  di  chi  parla,  meatre  air  op-  posto un  bel  detto  cresce  di  |^regio  se  esce  da  bel  labbro. TaciturnUà.  ,   lia  storia  d' Atene  e  di  Sparta  due  estremi  -ci  piTe^nta  nel  modo  di  parlare.  Gli  ^Ateniesi  érana  talmente  invasi  dalla  manìa  ciarliera  ^  cbia  lunghe  dissertazióni  dicevano  so|tfa  Inezie,  vi  spiavano  dottamente  in  quanti  modi  può  eseguirsi  una  CA-  vriola,  parlavano  ad  alta  vo((e  in  pub|ilic0|  dispu-  tavano per  le'  strade,  si  fermavano  eui  mereati,  e  ricoveravansi  sotto  d'un  portico  per  risolvervi  dQ*  problemi  nel  modo  più  rumoroso.  Plauto  li  de-   scrive  in  atto  di  portare  sotto  le  pieghe  del  loro  manto  pateechi  libri  per  convincere  i  loro  avver-»  Mrii  eon  assiomi  e  sentenze  decisive.  Gli  SpUrtUfir-all'opposto  erano  più  silenziosi  delle  pietrcr    Disapprovando  la  verbosità  degli  Alenicsì  e  la  V  taciturnità  degli  Spart.an?,  condannerò  con  maggior  y  ragione  il  laconismo  degli  ultimi,  i  quali  non  ri-  |  >^'1^pondendo  che  con  monosillabi,  lasciavi^no  scor-  ^  '^gere  un  orgoglio  offensivo..  Filippo  re  di  Mace-  '  donia  avendo  scrìtto  agli  Spartani  che  avrebbe  fatto  i   le  sue  vendette  se  entrava  nel  loro  territorio,  que-  ^  Bti  aljro  non  risposero  se  non  che  Se.  Gli  stessi Spartani  scrivevano  lettere  molto  laconiche,  cioè  H  impertinenti  ;  ma  dacché  furono  compiutamente.    'i.    i    battuti  a  Leutre  ,  cominciarono  ad  allungar loro frasi.  Son  io,  diceva  Epaminopda,  che  ho  inse-  ^  guato  loro  questa  civiltà.  La  taccia  d'inurbana  data  alla  tacilurnilà  è  dun^  'ì'  ì  que  molto  antica,  e  con  ragione  /  principalmente  i  quando  son  le  persone  adulte  che  tacciono;  giacchè  se  è  necessaria  la  riservatezza  per  non  esporre  pensieri  che  poscia  si  vorrebbe  invano  rivocare,  '  non  fa  d'uòpo  spingerla  al  punto  da  rendersi  muto.  Una  persona  taciturna  nella  conversazione  è  una  persona  che  vuole  entrare  in  teatro  senza  biglietto  d'ingresso;  è  una  persona  che  vuole  godere  senza  contribuire.    Una  persona  taciturna  diviene  incomoda  per  più ragioni. Ella  arresta  la  comunicazione  de'sentimenti ,  i  quali  sogliono  acquistar  forza  diffondendosi. Presenta  l'idea  d'un  censore  severo  che  sem-  r  brà  accusare  gli  astanti  di  frivolezza. Eccita  una  diffldenza  non  favorevole  alla  giovlalità. Una  persona  chè  parla  ci  dà,  per  cosi  dire,  la  -  misura  delle  sue  forze  :  le  sue  idee,  i  suoi  sentimenti ,  i  suoi  gusti ,  i  moli  della  sua  fisonomia ,  \a  qualità  de'  suoi  gesti  la  palesano  al  nostro  sguardo  :  noi  sappiamo  come  fa  d'uopo  regolarsi  con  essa.  All'opposto  una  persona  che  tace,  in-  spira difUdenza,  perchè  si  diffida  di  tutto  ciò  che  non  si  conosce.   D'altra  parte  non  si  sa  che  cosa   'possa  piacerle  o  spiacerle:  questa  incertezza  diviene  un  limite  illegittimo  alla  facoltà  d'agire  e  di  par-  lare ,  quindi  è  penosa.  Finalmente  ,  siccome  nel   i^commercio  V  amor  proprio  d'  un  negoziante  resta  offeso  allorché  vede  rigettate  1^  sue  cambiali,  cosi  nella  conversazione  spiace  all'  amor  proprio  degli  astanti  la  vista  d'una  persona  che  non  corrisponde  alla  loro  allegrezza  ,  e  ricusa  d' accomunarsi  con  essi;  perciò  più  facilmente  viene  perdonata  la  frivolezza che  la  taciturnità. La taciturnità può essere prodotta da cinque cause. Mancanza  d'idee  o  stupidezza.  In  questo  •  caso  è  certamente  miglior  consiglio  tacere  qhe  par-  lare;  giacché  parlando  si  procurerebbe  spregio  a  se  stesso  e  noia  agli  altri.  Le  persone  taciturne  che  appartengono  a  questa  classe  sono  tollerate  "nelle  conversazioni  come  si  tollerano  nella  società  '^1  bisognosi  impotenti  :  la  pubblica  beneficenza  gli   alimenta.  Non  potendo  contribuire  alla  conrersa-  izione,  esse  devono  rappresentare  il  personaggio  '  dèlia  scimmia  ,  cioè  atteggiarsi  a  norma  de'seuti-  :  menti  che  si  dimostrano  dagli  altri. Diffidenza eccessiva di se stesso. Questa qualità si trova talvolta anche nelle persone di carattere amabile, e proviene da mancanza d' educazione e  di  pratica:  è  una  debolezza  che  merita  Indulgenza,  almeno  sul  principio,  benché  faccia  torlo  alla  società  privandola  di  molte  idee  utili  ;  dico  almeno  sul  principio  ,  giacché  un  po'  d'esperienza  dandoci  la  misura  delle  altrui  forze  e  delle  nostre,  questa  diffidenza  deve  sparire  se  non  é  unita  a  stupidezza,  ii» Scarsa  scienza  è  molta  vanità.  Alcuni  non  osano  di  contraddire  perchè  non  soffrono  d'essere  contraddetti  ;  la  loro  pazienza  non  é  che  un  timido  orgoglio;  il  loro  silenzio  é  un  mezzo  di  sicurezza;  essi  tacciono  per  non  esporsi  alla  censura.  /4.  Stolto  orgoglio.  L'amor  proprio  raffinato  e  tronfio  sdegna  di  prendere  parte  alle  frivolezze  della  conversazione,  e  di  comunicare  agli  altri  i  suoi  più  che  sublimi  concetti.  Si  danno  anche  uditori  disdegnosi  che,  per  non  accordare  legger-  mente la  loro  ammirazione,  ricusano  l'approva-  zione più  meritata. Malizia.  L'orgoglio  va  spesso  unito  a  cattivo  carattere  ;  quindi  il  silenzio  é  non  di  rado  effetto  della  malizia.  Ritornando  dalla  conversazione,  in  cui  non  proferirono  una  parola,  alcuni  passano  a  rivista  tutto  ciò  che  vi  fu  detto,  con  intenzione  di  censurare  i  discorsi  più  indifferenti  ;  osservatori  malevoli  ,  il  silenzio  de*  quali  é  uno  spionaggio  sempre  pronto  ad  abusare  del  vantaggio  che  le  anime  false  e  fredde  sulla  franchezza  e  la  veracità  agevolmente  ottengono.  Fu  dimandato  a  M.r  Fontanes  9  celebre  matematico,  che cosa  faceva  nelle  conversazioni  ove  slava  sovente  taciturno  :  Sto  osservando^  diss'egli,  la  vanità degli uomini per ferirla all'occasione. Bel mestiere per un filosofo! Alcuni  finalmente  non  sono  taciturni  nelle  con-  versazioni, ma  misteriosi  :  essi  dicono  alcune  cose^  e  poscia  troncano  il  discorso  con  aria  d'impor^^  *  tanza  e  mistero.  Questa  condotta  è  doppiamente  censurabile  ;  giacché  da  un  lato  eccita  una  curio-  sità che  non  resta  soddisfatta  ,  dall'altro  fa  sup-  porre che  crede  gli  astanti  inoapaci  di  silenzio  o  capaci  di  tradimento.  Egoismo.  #   r  ir   Se  alla  loquacità  s' unisce  V  egoismo,  cioè  se  parliamo  sempre  di  noi  ste&i ,  de*  nostri  gusti ,  delle  cose  nostre ,  in  somma  di  quanto  ci  appar-  .tiene ,  siamo  certi  d'annoiari»  gli  astanti  oltre  mi-  sura. È  difficile  di  ritrovare  un  viaggiatore  che  sia  sobrio  nel  racconto  de'suoi  viaggi  ;  un  cliente  delle  sue  liti  ;  un*galante  delle  sue  avventare»  ecc.,  .  senza  aspettare  che  l'analogia  delle  idee  guidi  il  discorso  ove  essi  vogliono  ,  taluni  parlano  della  loro  moglie  che  è  un'ottima  creatura,  de'loro  figli  cJiie  hanno  sortita  ìndole  divina  ,  de'  loro  maestri  che  sono  altrettanti  Socrati,  de'loro  affari  che  tutti  vanno  a  maravigliai  de'  loro  nemici  che  sono  il  fior  de'  birbanti ,  ecc.  :   u  Di  sé,  de' suoi  pernierà  de'  sogni  suoi  »  Perpetuo  citator,  storia  e  giornale  »•  *   Invasi  da  questa  manìa  si  mostrano  spesso  i  gip-  vàni  poeti,  perchè  lusipgandf^i  facilmente  d'avere  composto  sublimi  versi,  vogliono  recitarli  anche  ai  sordi. inedtartoir  acerbo  »  In  fuga  volge  e  ignorante  è  1  dotto  ;  '  »  Se  poi  ne  abbranchi  alcunOf  il  tìen,  l'uccsMIe*  1»  Leggendo  ognor  ;  mignatta,  che  la  cute  »  Non.  lascia  pria  che  ae  rilK)cchi  ii  saague. La  stoUem  e  la  vanità  giungono  talvolta  a  segno^  che  non  potendo  far  oggetto  dell' altrui  attenzione  te  nostre  heUe  qualità,  le  presentiamo  i  nostri  in-  comodi^ lenostre  .  debolezze  9  la  nostra  pusillani-  mità, e  talora  que'raali  che,  essendo  comuni,  non  meritano  speciale  riflesso.   «  i'  A  che  lai  lezzi,   »  Schizzinoso  mortai ,  e  con  qual  dritto  '  i>  Pretender  puoi  d' esser  tu  solo  esente  )»  Da  la  sorte  comnn,  come  se  fossi  r>  Il  figliuolin  della  gallina  bianca,  1»  Moi  vili  polli  e  di  vii  uovo  usciti  ?  »   Cresee  r impertinenza,  se  alla  voglia  di  ptflmre  sempre  di  sè,  si  unisce  la  pretensione  di  superare  in  tutto  gli  altri.  A  sentire  qualche  stolto,  i  suoi  cavalli  ilono  più  veloci  di  quelli  d' Achille,  i  suoi  jiervi  più  avveduti  di  Ulisse,  il  suo  cuoco  più  sagace  d'Apicio,  ecc.  Il  sole  comprimi  ed  ultimi  raggi  saluta  il  suo  palazzo  ;  l'aria  non  è  pura  fuor-  ché nelle  sue  campagne  ;  in  nessun  gianlino  olez-  zano sì  soavemente  i  fiori  come  nel  suo.  Chi  si  move  in  una  danza  con  maggior > garbo  di  lui?  Al  paragone  della  beHesza  non  potrebbe  egli  con-  tendere il  ponto  alle  tre  Dee?  ecc.  Quindi  ora  pretende  al  sublime  onore  di  passare  prima  degli altri  (I)  ;  ora  si  lagna  ,  perchè  non  pieghi  sino  a  terra  la  fronte  chi  gli  fa  di  cappello  ecc.   I  suoi  vanti  giungono  sempre  alla  menzogna  quando  parla  con  persone  che  non  lo  conescono.  !•  •  a  E  sei  miglia  lontan  dal  suo  paese  »  Tal  faceva  il  signor,  barone  o  conte.Ch'ivi  guardava  i  porci  per  le  spese  ».  f  ^  Siccome  gli  uomini  vogliono  più  applausi  die  istruzione  ,  inclinano  più  a  censurare  che  ad  ap-  plaudire;  perciò  comparir  nelle  conversazioni  più  di  sè  occupali  che  degli  altri  ,  voler  primeggiare  sopra  tutti  ,  pretendere  di  singolarizzarsi  a  spese  altrui,  è  il  più  sicuro  mezzo  per  rendersi  sprege-  vole e  ridicolo,  /j/vj   .  La  smania  di  rappresentare  un  personaggio  di-  stinto nella  conversazione  e  rendersi  lo  scopo  di  tutti  gli  sguardi ,  è  il  difetto  principale  degli  uo-  mini di  spirito  ^  i  quali  perciò  amano  meglio  tal-  volta di  conversare  con  persone  di  poca  levata  cui  possono  dar  legge  coloro  discorsi  ,  di  quello  che  ritrovarsi  in  crocchio  coloro  simili,  da  cui  temono  di  .riceverla  ;  cioè  preferiscono  d'essere  re  in  una  cattiva  compagnia,  alPessere  sudditi  in  una  buona.  Ma  solamente  una  vanità  puerile  può  compiacersi  dell'omaggio  di  quelli  ch'ella  disprezza  (2).   *  (I)  Due  donne  di  primo  rango  ti  movevano  querela^  pre-  tendendo runa  suir  altra  il  passo  in  una  chiesa  y  e  assorda-  vano colle  loro  dispute  i  tribunali.  Carlo  V,  per  impedire  le  cabale  .cui  poteva  dar  luogo  questa  sì  seria  contesa,  stimò  a  proposito  di  farsene  arbitro  ,  e  decise  che  11  diritto  d'  an-  dare avanU  apparteneva  alla  più  stolta  delle  contendenti.   (2)  L'abate  Testu  ,  dice  d'Alembeit ,  dominava  principal-  nieDte  all'  Hòlel-Richelieu,  ovo  era  l'oracolo  e  l'amico  intimo    ^iqitif L'amore  disordinato  di  noi  stessi  ténehdoci  fissa  avanti  lo  spirito  V  idea  delle  nostre  qualità  ,  V  in-  grandisce snrìisuratamente,  come  il  sol  eadente  in-  grandisce l'ombra  del  nostro  corpo  e  la  fa  com-  parir gigantesca.   Può  essere  citato  sotto  questo  articolo  il  difetto  4i  coloro  che  la  loro  arte  o  professione  innalzano  '  sopra  tutte ,  e  vi  mostrano  i  beni  immensi  di  cui  è  fonte;  e  vi  provano  con  cento  argomjenti,  che  se  sparissero  tutte  le  altre,  essa  sola  sosterrebbe  la,  società  cadente  e  le  darebbe  lustro.  Da  ciò  nasce  una  serie  indefinita  di  sgarbi,  di>spregi,  di  censure  alle  volte  ingiuste,  spesso  false  ,  sempre  ìmpulit;e.  Un  buon  prete   cui  confessavasi  Despréaux  ,  gU  dimandò  Qual  era  la  sua  professione.  —  Io  sono  poeta ,  rispose  il  penitente.  —  Cattivo  mestiere,  replicò  il  prete  :  e  poeta  in  qual  genere  ?  —  Poeta  satirico.  —  Amora  peggio  ;  e  contro  chi-  fate  voi  delle  satire  ?  —  Contro  i  compositori  difxommedie  e  di  romanzC  '^^Òh  !  per  questo aggiunse  il  prete,  alla  buon'  orix  ;  e  gli  diede  fas-  soluzione  immediatamente.  In  conseguenza  delPac-  cennata  impulitissima  pretensione  Alcibiade  diede  uno  schiaffo  ad  un  maestro  di  rettorica,  perchè  non  aveva  un  esemplare  delle  poesie  d'Omero  ;  ed  un  altro  adoratore  di  questo  poeta  fece  voto  di  .   della  duchessa  di  questó  nome,  ^lìceome  egli  non  amava  d'essere  contraddello,  ma  molto  di  essere  ammirato ,  perciò  gli  andava  poco  a  sangue  il  commercio  degli  uomini ,  più  conlenlo  di  brillare  in  un  circolo  di  donne  che  talora  col  suo  dir  sorprendeva ,  talora  adescava,  secondo  che  meno  o  più  gli  piacevano.  ^  ^  ,   t   leggere  Ogni  giorno  mille  versi  di  esso»  a  ripara-  zione     tarli      gli  venivano  iattL  -  ^  .   \Irritabilità  e  ruvidezza.   Lo  spirito  stizMso  è  ii  flagello  deH^^Niéi^tà'i  come  il  carattere  dolc«  ne  è  il  ba)san(M),       ^  ^  .»Iiiriitàbilità  rende  deeuplo-'il.fientìmjeiito.ctolAh  supposta  offesa:  e  spesso  ha  fonte  neir ìntima  p^sijasiooe  di  non  meritare  alcun  riguardo.  Quindi  le*  peiisMe  più  ^irtilei)Ui  smé'  per  lo  fiià4e? teste  più  piccole,  più  vuote,  più  prive  di  qualità  reati."  Gcnìvinte  dqlla  ..kro  .BiiUftà.>  iMiinam  a-  mdenl  scopo  dell'altrui  spre^?o,  e  si  confermano  in  questa  idea  ad  j^oi/miaima  eerknoma  che  per  ioavverf  lénaa  vengà  cdii  «ssè  traseuràta.^  Uina  parole  eftig«  gita  in  un  momento  di  calprCi- di  vivacità,  d'àlle^  grezza,  viene  da  ^se  esaotlnata  con  tutto  il  rigorè,  non  dico  della  logica,  ma  del  puntiglio,  staccata  da  quelle  circostanze  che  se  non  la  giostificanò  pienain6iite<  la^dimò^tranO'  figlia  pintlMto''4eH'  ,  riflessióne  che  delio  malizia.       '  r^-r  I    L-esser  tenera  e  vezzo6CKaBìci»*(it  ditdiee  aseai;"  »:dicc  monsignor  della  Casa,  e  massimamente  agli  M.  i^omioi;  iNsreiocchè  l'osare  con  si  &tta  maniera  «:  di  pet*s0Be  non  pme  eompagnia-me  servitù  re  »  certo  alcuni  se  ne  trovano  ohe  sono  tanta  tenerr  '>  e  fragili  4,  che  il  viv.ere  e  dimorar  con  «asdoìfo,  »  ninna  altra  cosa  è,  che  impacciarsi  fra  tanti  •  »  sottilissimi  vetri;  così  temono  essi  ogni  leggier   '^ercosisé,  e  così  conviene  trattargli  e  riguardar*  »•  gli  :  1  qijali  così  si  crucciano,  se  voi  non  foste  1*  così  pronto  ^  fioUeeìto  a  sduladii  a  visitarli ,  a  »  riverirli ,  ed  a  risponder  loro,  come  un  altro*.     farebbe  d'un'  ingiuria  mortale;  e  se  voi  non  dato  »  loro  così  ogni  titolo  appunto,  le  querele  aspris-  »  sime  e  le  inimicizie  mortali  nascono  di  presente.  »  l^oi  mi  diceste  messere^  e  non  signore.  E  per-  »  chè  non  mi  dite  voi  S.  ?  Io  chiamo  pur  »  voi  il  signor^  tale.  Ed  anco  non  ebbi  il  mio  »  luogo  a  tamia  !  E  ieri  non  vi  degnaste  di  »  venire  per  me  a  casa,  come  io  venni  a  trovar  i^voi  Valtr*  ieri.  Questi  non  sono  mòdi  da  tener  con  un  mio  pari.  Costoro  veramente  recano  le  »  persone^a  tale,  che  non  è  chi,  li  possa  patir  di  »  vedere ,  perciocché  troppo  amano  se  medesimi  »  fuor  di  misura;  ed  in  ciò  occupati ,  poco  di  »  spazio  avanza  loro  di  poter  amare  altrui;  senza  »  che  gli  uomini  richieggono  che  nelle  maniere  di  w  coloro  co'  quali  usano ,  sia  quel  piacere  che  può  »  in  cotale  atto  essere  ;  ma  il  dimorare  con  sì  ì>  fatte  persone  fastidiose ,  l'amicizia  delle  quali  sì  )^  leggiermente ,  a  guisa  di  sottilissimo  velo  ,  si  w  squarcia,  non  è  usare  ma  servire,  e  perciò  non  *  solo  norf  diletta ,  ma  ella  spiace  sommamente.   »  Altri  a  nissuno  mai  fanno  buon  viso;  e  vo-~  »  lonlieri  ad  ogni  cosa  dicono  di  no;  e  hòh  prèri-   dono  in  grado  nè  onore  nè  carezze  che  loro  sf  >i  faccia,  a  guisa  di  gente  straniera  é '^barbara  ;  non  »  sostengono  d'essere  visitati  ed  accompagnati  ;  e  »  non  si  rallegrano  de'motti  nè  delle  piacevolezze;  »  ^  tutte  le  proferté  rifiutano.  Messér  tale  m*im-  »  pose  dinanzi  ch'io  vi  salutassi  per  parte  sua.  »  —  Che  ho  io  a  fare  dei  suoi  saluti  ?  ^  E-  >l  messer  cotale  mi  dimandò  come  voi  stavate.^  »  —  Fenga ,  e  sì  mi  cerchi  il  polso  »  La  naturale  rozzezza  dell'  uomo ,  fa  mancanza  d^educazione  ,  una  stolta  vanità  ,  la  piccolezza  di  spirito  ,  talvolta  dei  risentimenti  amari ,  talvolta  Fimpossibilità  di  partecipare  ai  piaceri  sociali ,  ba-  stano a  spiegare  in  generale  gli  accennati  difetti.   Una  causa  speciale  d' irritabilità  e  ruvidezza  si  era  per  Taddietro  uno  stolto  orgoglio  di  famiglia,  per  cui  alcuni,  persuasi  d'essere  vasi  d'oro,  e  cre-  dendo tutti  gli  altri  di  fango,  sfuggivano  ogni  con-  tatto con  essi ,  si  mostravano  alieni  da  ogni  con-  fidenza,  s'atteggiavano  a  sprezzo  abituale  come  queir  Omberto  Aldobrandeschi  a  cui  Dante  fa  dire,   «  L'antico  sangue  e  l'opere  leggiadre  »  De'miei  maggior  mi  fèro  sì  arrogante,  »  Cbe  non  pensando  alla  comune  madre  ,  »  Ogni  uomo  ebbi  in  dispetto  tant*avante  ,  ^  Cb'  io  ne  morii   »   Finalmente  vi  è  una  irritabilità  e  una  ruvidezza  che  è  figlia  di  timori  immaginarii.  —  Un  asino  sta  mangiando  il  suo  fieno  ;  voi  gli  passate  a  fianco  senza  pensare  a  lui  ;  egli  si  volge  e  vi  mostra  i  denti,  temendo  cbe  vogliate  rapirgli  parte  del  suo  pasto  o  tulio.  —  In  questo  stalo  d'allarme  si  trovano non  di  rado  alcuni,  percbè  credono  d'avere  sempre  qualche  nemico  a  fronte  ;  quindi  stanno  continuamente  sulle  ditese,  pronti  anche  ad  assa-  lire chi  non  ha  giammai  pensato  ad  essi.  Uno  sguardo  incerto,  una  parola  dubbia  ,  un  atto  che  non  sanno  spiegare,  eccita  tosto  il  loro  mal  umore;  quindi  succedono  degli  sgarbi,  parecchie  amicizie  cessano ,  delle  nimistà  sottentrano  ,  e  l' allegrezza  dalla  conversazione  sparisce.    Contro  i  quali  difetti .  vatgpna  i  seguenti  ri-  flessi.   I.  La  società  è  una  piazza  di  commercia,  ove  8i  dà  amor  per  amore  «  .stima  per  stima,  odio  per  odio,  sprezzo  per  sprezzo.   Jn.q«iesto  camliia  d'affetti  ciascuno  procura  di  non  essere  ingannato,  e  rieiisa  é}  dar  più  di  quel  ctie  riQeve.   L'orgoglioso  vorrebbe  violare  queste  due  lef^i  ;   egli  dà  sprezzo,  e  vorrebbe  ammirazione  :  egli  dà  poco  o  nulla ,  e  vorrebbe  motto  ;  quindi  s' irrita  non  rfeevendo  !n  proporzione  delle  sue  pretensioni  ;  egli  è  irragionevole  come  colui  che  con  pochi  cen-  tesimi volesse  eomprar  delle  gemme.   Il  tempo  che  perdete  in  lagnarvi  inutilmente,  in  prepararvi  a  difese ,  in  mulinare  contro  chi  non  pensa  a  voi ,  occupatelo  a  rendervi  stimabile  in  qualche  cosa,  e  coglierete  rispetto  e  contentezza  >  mentre  attualmente  cogliete  sprezzo  e  rammarico.   II.  É  ottima  cosa  la  sensibilità  airopinione  pub-  blica, perchè  è  stimolo  alla  virtù  e  ritegno  ai  vizi  ;  ma  è  pazzia  il  far  dipendere  la  propria  felicità  dairopinione  eventuale  di  questo  o  di  quello.  «   *  «  Brami  invan  d'esentarti  alle  punture  ,  »  Se  fòf  d' A  pelle  infin  Topre  Immortali  »  D'un  ciabatti Q  soggette  alle  censure  ».   Pretendere  che  la  nostra  condotta  ottenga  Tappro-  vazione  di  tutti,  è  nretendere  che  a  tutti  piacciano  le  stesse  vivande,  i  falsi  giudi%i  del  volgo  non  tolgono  pregio  alle  nostre  azioni,  come  le  nubi  non  tolgono  pregio  alla  hice  del  sole.    Chiama  in  Roma  più  gente  alla  sua  udlenea  »  L'arpa  d'aoa  Ucisca  cantatrice^  »  Che  la  eampafia  della  Sapienaa.   »  Laseino  omai>  le  dispute  e  i  litìgi   »  Il  Portico  e  il  Liceo,  poiché' et  MllM  •  »  Più  di  Talete  un  aarto  di  Parigi.  »   *i^ì  sono  delle  persone  dalle  quali  essere  lo4a(p  sa-  rebbe infamia,  e  lo  sprezzo  delle  quali  è  segnò  4|  merito.  $iate  dunque  sensibile  air  opinione  pub-  blica^ e  sordo  alle  yoci  .p^rtioolari  cbe  da  es^   discordano^  ricercate  l'approvazione  delle  per-   som  assennata 2;iV^2^o5e,^e  ridetevL4f)U§  dpgli  sciocchi  e  de'yiziosL      \  *t   Uq  .vi^giatore,  dice  Boccalini,  era  importunato  dal  rumore  delle  cicale  ;  egli  yolle  ucciderle,  e  sì  allontanò  dalla  strada;  egli  doveva  continuare  quie-  tatneate  il  suo  viaggio,  e  le  Qical^  sarebbero  wprJje  4a  se  9|M8e  alla  fiue  di  otto  giomL  .   I   •lE  fo  come  il  villan,  che,  posto  in  mez^  '  r  i  V  Al  romor  delle  stridule  cicale,  -  "   •  *  »  Semai  eurare  H  fimeo  strido  toro  D  Segue  traa^uìUamente  il  suo  lavoro.  »   III.  Se  avete  qualche  difetto  fisico,  siate  il  primo  a  riderne  voi  stesso  ;  in  questa  maniera  sfuggirete  airaltrui  motteggio  :  facendo  altrimenti,  mostran*  dovi  tenera  da  questo  lato ,  ognuno  si  procurerà  il  piacere  di  pungervi.  Alfieri,  costretto  a  portare  la  parrucca  nella  $ua  gioventù,  allorché  trovavasi  in  collegio,  divenne  iminediataBiente  lo  scherno  di  tutti  i  suoi  compagni.  «  Da  prima ,  egli  dice,  io    m'era  messo  a  pigliarne  apertamente  le  parti;  »  ma  vedendo  poi  ch'io  non  poteva  a  nisBua  patto  »  salvar  la  parrucca  mia  da  qaello  sfrenato  tor»  »  rente  che  da  ogni  parte  assaltavala ,  e  ch'io  ao-  »  dava  i  rischio  di  perdere  anche  con  essa  me  »  stesso,  tosto  mutai  di  bandiera,  e  presi  il  partito  »  più  disinvolto,  che  era  di  sparruccarmi  da  me  »  prima  che  mi  venisse  fatto  quell'affronto,  e  di  »  palleggiare  io  stesso  la  mia  infelice  parrucca  per  D  l'aria,  facendone  ogni  titapero.  E  io  fatti,  dopo  »  alcuni  giorni,  sfogatasi  Tira  pubblica  in  tal  guisa,  »  io  rimasi  poi  la  meno  perseguitata,  e  dirci  quasi  v  ìa  più'  risj[léttàta  parroeca  fira  le  due  o  tre  altre  »  cb^  ve  n'erano  in  quella  stessa  galleria.  Allora  »  imparai  che  bisognava  sempre  parere  di  dare.  »  spontaneamente  quello  ebe  non  si  potea  impedire  »  d'esserci  tolto.  »  ;  >^  Benedetto  XIV  fece  di  più:  un  cattivo  poeta  aveva  stampata  una  satira  contro  di  lui:  il  Pontc-  0è9%^jBsaminò ,  la*  corresse ,  la  .  rimandò  air  au-  tore, accertandolo  che  cosi  corretta  la  venderebbe   iV.  (%esterfi0ld  aggiunge:  «  IVon  mostìrate  iriai  »  il  più  piccolo  segno  di  risentimento  se  non  potete  i  in  qualche  maniera  soddisfarlo:  ma- sorridete^  »  sempre  quando  non  potete  punire.  Non  si  po:  »  trebbe  viver  nel  mondo  se  non  si  pocesserana^  »  scondere  o  almeno  dissimulare  i  giusti  motivi  di  »  risentimento  che  incontrano  ogni  giorno  in  »  un'attiva  vita  e  affaccendata.  Chi  non^è  padrone  »  di  se  stesso  in  tali  occasioni,  dovrebbe  lasciare   ilmondo  e  ritirarsi  iu  qualche  romitaggio  o  de«  »  serto.  Mostrando  m  inutile  e  cupo  risentimento^,    Digitized  by    4^  LIMQ^EUO  ,   »  autorizzate  quello  di  coloro  che  vi  possono.  of«*  3»  fendere,  e  oh/f  voi  olCeodigre  aoa  potete}  porgete  1»  loro  quel  pretesto  eoa  cui  forse  desiderano  di  ».  Komperla  cop  voi  e  d'iugiuriarvi,  mentre  un  op-  »  pqsto  coQtegBO  li  forzerebbe  a  star  ae'liiniti  delia  »  decenza  almeno,  e  sconcerterebbe  o  farebbe  pa-  »  lese  la  loro  otalfgoità  V  *  J  ^.^  ^ii^'  In  somnia^  sodo  le  deboli  canne  che  si  lasciano  turbare  da  ogni  soffio  di  vej^o ,  pentrj^  le  alte  gtt€pr0e  réslstoiK)  agli  aquiioni. Finché  dunque  si  tratta  d'ingiurie  lievi,  la  mi-  glior^ risposta,  si  è  il  sorxiso  del  dispre^ui^o;  ma  Quando  iti  tratta  d' ingiurie  gravi  ché  offendano  l'onorey  chi  le  soffre  le  merita;  il  risentimento  in  'questi  casK  è  cosi  jiusto  come  è  giusta^lsi  legge  che  le  punisce.  .  .  ^à^l   \  i  10.  Curiosità  degli  affari  altrui.   >   Non  può  abbastanza  censurarsi,  perchè  contraria  alla  confidenza  e  quindi. all'allegrezza,  la  smania  di  eeloro  che  vogliono  conoscere  tutti  gli  affari  altrui^  saperne  le  più  minute  circostanze,  e  dei  nomi  chieg-  gono notìzia  a  de' luoghi ,  e ,  per  trarvi  di  bocca  qualche  cosa  di  più ,  pria  fingono  di  non  avere  bea  intesot  poi  vi  dimandano  schiarimento  ad  un  dub-  biti^  orarvi  piantano  avanti  un  sospetto  come  in*  fallibile,  e,  vedendo  che  lo  respingete,  mostrano  di  riciedersì  passando  al  sospetto  opposto,  e  dalla  nuova  vostra  negativa  o  maraviglia  fatti  accorti  si  ripiegano  aopra  se  stessi  per  ritornare  airattacco  ;  e  0  non  gran  pompa  «di  tolleranza  v'  invitano  ad  aprir  V  animo ,  o  con  improvvisa  ed  isolata  interrrogazione  vi  sorprendono  :  e  tenendo  gli  occhi  fissi  sopra  di  voi ,  cercano  di  leggervi  nel  volto  V  im-  pressione che  fanno  i  loro  discorsi  ,  la  quale,  pav  - ragonata  e  unita  alla  vostra  risposta  ,  serve  loro  di  via  per  giungere  al  vero.  Questa  curiosità  conduce  -i  ciarlieri,  i  parabolani,  gli  invidiosi,  i  tristi  per  tutte  le  case ,  i  palchi ,  i  caffè,  onde  raccogliere  e.   raccontare  i^.^^   •  •      •  >  '  it   ......      ie  vicende  ascose       :  '  .   w  Degli  instabilì  amor,  le  cagion  lievi  ^^   X         »  Dei  frequenti  disgusti,  i  varii  casi   »  Del  dì  già  scorso,  le  gelose  risse,       \  ^   »  Le  illanguidite  e  le  nascenti  fiamme Le  forzate  costaiize  e  le  sofferte.*'  '   »  Con  mutua  pace  infedeltà  segrete,  •   »  Dolci  argomenti  a  feraminii  bisbiglio  »^  .   Questo  prurito  d'indagare  le  faccende  altruf  è  tanto  più  attivo,  quanto  più  si  manca  di  idee  e  di  sentimenti  proprii;  giacché  il  nostro  animo  volendo  ^un  continuo  pascolo,  se  non  ne  trova  in  se  stesso*  .  va  per  le  altrui  case  a  questuarne  (1).  v  •  ^  Senìbra  che  anco  la  vanità  concorra  a  rendere  il  pungolo  della  curiosità  più attivo.  Si  crede  acqui-  "    —   *i  '  ir   (I)  L'Imperatore  Claudio  sarel)be  morto  di  noia  se  noi)  •  si  fosse  occupalo  ad  ascoltare  tutte  le  cause  che  si  agitavano  :nel  foro,  ed  a  conoscere  tutti  i  segreti,  gli  accidcnU,  le  sven-  ture,i  piccoli  odii,  gli  intrighi,  i  pelegolezzi  delle  famiglie.  Gli  avvocati,  cui  era  nota  questa  sua  debolezza,  lo  prende-  vano alle  volte  per  i  piedi  e  lo  trattenevano  in  tribunale  al-  lorché egli  voleva  partirne.  Le  dimande  inopportune,  le  ri-  spostestolte,  i  riflessi  ridicoli  di  qlieslo  preteso  giudice  mei  \  levano  in  tale  evidenza  la  sua  stupidezza,  che  un  avvocato  *    :      ,v.'  ,   .Starsi  qualche  grado  di  gloria  nel  poter  dire  lo^lo  io  l'ho  veduto  :  infatti  gli  stolti  e  gli  scioperati  •  amniirano  queste  notìzie,  e  credono  uom  d'acuto  e  ;  perspicace  ingegno  colui  che  le  spaccia;  mentre  tutto  :  il  suo  ingegno  si  riduce  a  prestare  le  sue  orecchie  ai  discorsi  degli  altrui  servi  e  nio;izi  di  stalla.  >^  Siccome  in  tutte  le  classi  sociali  sta  la  realtà  all'apparenza  come  la  grossezza  della  rana  alla  grossezza  del  bue  ;  siccome  ciascuno  si  sforza  di  coprire  con  color  lusinghiero  le  proprie  debolezze,  quindi  il  curioso  che  vuole  spingere  lo  sguardo  /sotto  al  velo  delle  cose,  offende  sensibilmente  l'al-  trui amor  proprio,  e  tanto  più ,  quanto  che  da  un  lato  si  temono  maligni  commenti,  dall'altro  si  vede  minacciata  pubblicità  alle  proprie  miserie  ed  ai  difetti,  sapendosi  da  ciascuno  che  il  curioso  è  in-  discreto  e  ciarliero.  Sarebbe  desiderabile  che  i  ^  curiosi  venissero  a  scoprire  nelle  loro  impulite  ri-  cerche ora  un'azione  virtuosa  che  la  modestia  vo-  leva sottrarre  agli  altrui  sguardi,  ora  qualche  ac-  cidente che  offendesse  il  loro  amor  proprio,  come  •successe  a  Catone,  il  quale  stimolando  Cesare  a  mostrare  una  littera  che  questi  ricevette  in  pien  senato,  e  di  cui  faceva  mistero  ,  Catone  ,  dissi,  vide  con  sua  sorpresa  una  lettera  galante  scritta  i"di  pugno  di  sua  sorella.   Allorché  sì  tratta  di  cose  alcun  poco  ragguarde-  voli,  il  curioso  corre  pericolo  d'assicurarsi  Tono-  ratissimo  titolo  di  spia  (I).  »    (I)  U  Gozzi  dipinge  nel  modo  seguente  la  comune  curio-  sità de'  faUi  altrui  e  i  suoi  ridicoli  commenti.   («  Sarà  uno  nella  sua  slanza  cheto ,  solitario  ;  penserà ,    Franklin  ci  dà  un  metodo,  se  non  per  liberarci  dai  curiosi ,  almeno  per  troncarne  Y  importunità  ;   1   ^-.v.  .  —  —    •  Jegc;erà,  scriverà,  o  farà  qualche  altra  opera  onorala  :  »  uscirà  di  casa,  anderà  un  poco  inlorno  a  ricrearsi  all'aria  ;  »  saluterà  due  o  tre  amici,  perché  pochi  più  ne  avrà  voluti^  »  sapendo  che  di  rado  se  ne  trova  anche  uno  che  sia  vero:  »  e  appresso  rientrerà  come  prima  a  fare  i  falli  suoi.  Che  »  uccellaccio  è  questo  ?  diranno  alcuni  :  non  è  possihile  che  )»  un  uomo  sia  fallo  a  questo  modo.  Si  comincia  ad  inter-  »  prelare  ogni  suo  atto,  ogni  parola.  Sapete  voi  che  ha  voluto   •  dire  quando  alzò  le  spalle  ?  quello  che  significò  queir  oc*,  »>  chìala?  e  quella  parola  tronca  ch'egli  ha  proferito?  Sicché  il   pover  uomo,  senza  punto  avvedersene,  ha  dietro  il  notaio   »  e  Io  strologo,  e  chi  nota,  chi  indovina,  chi  fa  commenU   »  alla  sua  lingua,  e  a  quante  membra  egli  ha  indosso.  Vo-   »  lete  voi  più?  Tanti  sono  i  sospetU  del  fallo  suo,  che  egli   »  avrà  fatto  nell'  opinione  d'  alcuni  quello  che  non  ha  fatto»  mai,  o  che  non  avrà  sognato  di  fare. Le  cose  di  questo mondo  sono  come  una  matassa  di  filo  ;  chi  non  sa  trovarne  il  capo ,  la  lasci  stare ,  perchè  s' impiglierà  sempre   »  più.  A  me  pare  che  quando  s'  ode  a  raccontare  qualche   »  cosa  d'uno,  si  dotesse  prendere  questa  matassa,  metterla   »  sull'arcolaio,  come  fanno  le  femmine  appunto  del  filo,  scio-   »»  gliere  con  accortezza  il  primo  nodo,  e  preso  il  bandolo  in   »  mano,  cominciar  a  dipanare  con  diligenza,  e,  secondo  che   »  si  trovano  gli  intrighi  e  i  viluppi,  tentare  se  col  candore dell'animo  e  con  la  verità  si  possono  sciogliere.  Se  non  si   H  può,  buttisi  via  la  matassa,  ma  quasi  sempre  credo  che sì  potrebbe  da  chi  non  corresse  troppo  in  furia,  per  vo^   H  lontà  d'ingarbugliare  piuttosto  che  di  snodare.  Questa  u-^   r  ganza  è  quasi  comune.  Benché  la  logica  insegni  in  qual   »  forma  s' abbia  a  fare  per  venir  in  chiaro  di  certe  faccende incredibili  o  inviluppate,  pochi  se  ne  vagliono,  e  menasi  il   n  basloie  alla  cieca,  e  suo  danno  a  cui  tocca.  Quando  il   »  capo  é  principalmente  alteralo  da  sospetti  o  dal  mal  volere   »  contro  una  persona,  si  può  dire  che  questa  sia  una  specie    ivi-    4Sfl  umm  tmM   e  . questo  n^do  coo»ste  nel  precisare  il  disMMio  e  limitame  H  soggetto  in  nòde^  da  'Weliidero  quai^-  lunque  eventuale  dimanda.  Allorché  questo  filosofo    ni   1   0   *  che  doveva  prenderei  sapendo  quanto  erano  curiosi  ^  kiterrogatorì  gli  Americani,  usava  dire  alle  per-  soAe  cui  dnrigevasi:  11  mionome  è.Franklm,  staoH'  patore  di  professione  ;  io  vengo  da  tale  luogo ,  voglio  andare  a  tal  altro  :  quale  strada  devo  tenere?   Dichiarando  impulita  l'eccessiva  curiosità ,  av-^  verto  i  giovani ,  che  in  molti  casi  la  curiosità  è  ;  vinù  ;  perchè  Tindifferenza,  la  non  curiinza^  Tin^  sensibilità  sono  la  massima  offesa  per  Tamor  pro-  prio x^he  vuple  occupare  gU  ititn  ili  S9  atpsso  V  é  ^  conservare  le  apparenze  della  modestia.  La  puli-  tezza v'  impioiie  adunque  dt  chiedere  frequenti  ap-  tfeàief  di  mostrarvi  inquieto  suH' . altra!  aorte  ^  «d  esternar  piacere  o  dolore  alle  altrui  foi  tnne  o  di-  sgrazie. L'infelice,  come  è  stato  detto  altrove ^\  sente  alleviarsi  il  peso  de'  suoi  mali  allorché  gli  4j^e^  al  suo  simile;  ma  q^olte  volte  temendo  d'im-  v  ^tf^unaito ,  si  pasce  di  cordoglio  in  segreto ,  al-  lora fa  d'uopo  che  una  tenera  sensibilità  gli  faccia  una  dolce  vio^enzaf  e  "versi  il  balsamo  della  eon«  ^  solazione  sulle  piaghe  del  suo  animo:  la  curiosità  de' superiori  o  degli  amici  in  questi  casi  diviene  imlesto  rugiada.  •  Parimente,  «ccome  II  timore  dV  equistarsi  la  taccia  di  vani,  consiglia  alcuni  a  ve*  lara  le  loro  fortune  ed  onori  :  qòindi  la  pulitezza^   ,    _    9  •*   y  d'ubbriache/za ,  per  la  cui  forzii  l' uomo  non  vede ,  né  sa  »  più  quello  che  si  dica  o  faccia ,  e  appena  coiX)sce  più  sé  »  medesimo    4Sr   eome. attrai»  ai  àìm  ^  vgoto^ehe  éiiigtaM  il  di*   scorso  da  questa  banda  ,  ma  con  destrezza  e  tale  eanfeaiaQsa  di  parole ,  dm  la  congratulazione  e  l'elogio  seovri  é'adiilaamie  si  mostrino  e  di  men^   «   20goa.  V   In  «oMkia  > Ja  cnriofiità  ò  ripronslbile  qomdo  mi-  naccia pubblicità  alle  altrui  debolezze  e  imperfé«  zioni  ;  è  lodevole  quando  tende .  a  dare  risalto  al  merito  o  porger  aoeeorsò  al  bisogno. Burrasche  delle  conversazioni  i  o  dispute.   'I  glardiAf  de'iilosofi  d'Atene  si  estendevano  dalla   rive  deirillisso  sino  a  quelle  del  Cefìso.  Gli  Epi-  curei sì  erano  stabiliti  al  centro,  i  discepoli  di  Piatone  vèrso  il  Nord,  e  quelli  d^Aristotite  al  Sud.  Non  si  videro  giammai  vicini  men  turbolenti  nè  man  geloìsi:  un  sentiero  d*  ulivo  ^  un  boscbetto  di  mirto,  una  siepe  di  rose  separava  i  sistemi  e  ser-  viva di  limite  al  regno  dell'opinione.  Le  conver*  sazioni  non  «ono  sempre  ugualmente  paciliche;  la  diversità  delle  idee  apre  il  campo  a  lotte  rumorose  accompagnato  e  seguite  da  parecchi  inconvenienti.   §  1.  Idea  della  personalità.   Discutere  è  allegare  le  ragioni  e  gli  argomenti  cui  due  opposta  opinioni  si  '    0   sione  degenera  in  disputa  al  momento  che  qualche  personalità  vi  si  frammischia.   Per  personalità  non  si  intèndono  qui  quelle  pa-  tenti ingiurie  che  la  buona  compagnia  interdice ,  ma  quelle  che,  sebbene  meno  gravi,  non  lasciana  d'essere  nel  tempo  stesso  pungenti  per  Taltrui  amor  proprio,  ed  estranee  alla  cosa.  .  Due  specie  di  personalità  sogliono  per  lo  più  introdursi  nella  discussione,  e  le  fanno  degenerare  in  disputa.  •  >   Colla  1.3  spede  si  fa  rimprovero  air  avversario  ch'egli  parla  per  motivi  particolari,  d'interesse  per  se  stesso,  d'affezione  pe'suoi  amici  o  per  la  sua  classe,  d'odio  contro  i  suoi  nemici,  ecc.  «  Voi  »  parlate  così  perchè  siete  militare  ;  e  voi  negate  »  perchè  siete  prete,  ecc.  »  Ognun  vede  che  queste  non  sono  ragioni  ;  e  quanto  è  facile  di  farne  uso  ad  uno,  altrettanto  riesce  spedito  all'altro  il  ribatterle.   Colla  2.3  specie  sì  dice  all'avversario  ch'egli  non  conosce  la  materia  di  cui  si  parla  ;  ch'ella  suppone  cognizioni  superiori  alle  sue;  eh* ella  è  estranea  alla  sua  professione.  Anche  questo  modo  d'argo-  mentare tende  bensì  a  deprimere  la  persona  del-  l'avversario, ma  non  scioglie  i  dubbi  eh'  egli  pro-  ipove.  Inoltre,  senza  essere,  per  es.,  giureconsulto,  non  è  impossibile  d'avere  delle  idee  giuste  e  nuove  sulla  giurisprudenza. Cause  delle  dispute.   Si  direbbe  che  gli  uomini  inciviliti  amano  le  di-  spute, come  i  selvaggi  i  combattimenti.  Sono  cause  di  dispute  :   I.  //  desiderio  di  conservare  la  propria  libertà.  In  parità  di  circostanze  ciascuno  preferisce  all'ai'*.   litti^ Ja«ia  »9§iMm^  «ppunto  perahà  ò  sm  ^ jqumdi  siamo  tanto  più  resti!  ad  ammettere  l'opinione  altri,  quanto  è  maggiore  13aria  di  epmaoido  con  om  ei  viene  proposta,  fiiif  sottopond  al  nostro  giudizio  un'idea  sotto  le  forme  del  dubbio,  riesce  fià  ,f«eibiimt0  a  eonYtnemi.  dr  ^oello  ^  ehi  >  senza  produrre  argomenti  maggiori,  nfH>stra  di  vo*  ler  dogmatizzare  e  vietarci  ogni  obbiazioiie*  L'uoma  ò  ai  geloso  detta  sua  libertà  intellettuale,  eoitae  la  è. della  «ua  libertà  civile  e  politica.  ^   «  Dopo  molti  acutissimi  argomenti   1»  E  molte  riflessioni  pellegrine   »  E  belle  cose  détte  da^taienti   »  Sì  grandi,  la  questione  ebbe  quél  firó  v  '\l   .  »  Che  soglion  tutte  le  quistioni  avere  v  "  '  •  Cioè  ^estò  ci€iscun,4el,  mo  parere  ».   IL  La  vanUé^^eàe^  uaa  apecie  d'avvilimento^  tìst  sommettere  la  propria  alF  altrui  opinione  ,  percKè'  lo  crede  segno  4'iaferiorità  intellettuale.  Il  dispia-  ,  cere  dì  questa  supposta  infèricirità,  sensibile  in  ttìtì^  cresce  in  ragione  dell'alta  idea  che  ci  formiam  di  noi  stessi,  e  può  (  tant'  è  la.  debolezza  umana  j  )  .  giungere  al  plinto  da  cagionare  la  morte,  come  successe  ad  un  filosofo  dell'antichità  detto  Dìodoro.  Erano  state  fatte  a  questo  sedicente  filosofo  alcune,  obbiezioni,  alle  quali  egli  non  seppe  rispondere  :  lo  sgraaiato  .fu  punto  da  sì  vivo  malincuore  e  di*  spetto,  perchè  il  suo  spilli to  lo  aveva  tradito,  tìm  spirò  air  istante.   è  si  ver4  die*  la.  vanità  è  cavia  di  dispute^  che  il  silenzio  d'uno  de' disputanti  che  resta  nella  propria  opinifma diviene  offensivo  ;per  Taitro.  Il silenzio  in  questo  caso  sembra  provare  che  si  ha  sì  basso  concetto  dell'antagonista,  che  qualunque  ragione  non  basterebbe  per  convincerlo;  quindi  si  risparmia  la  pena  di  parlare.  Costui  vede  dunque  che  mentre  egli  si  sfiata,  il  nemico  sorride,  e  lo  lascia  abbaiare  come  i  cani  alla  luna;  e  che  quindi  egli  non  ottiene  lo  scopo  che  si  aveva  proposto,  cioè  la  superiorità  sul  suo  avversario.  La  Mothe  aveva  detto  male  d'Omero  ;  il  poeta  Gacon  pretese  di  vendicarlo;  la  Mothe  non  rispose]:  roi  non  vo-  -  lete  dunque  rispondere  al  mio  Omero  vendicato'?  gli  disse  il  poeta,  f'^oi  temete  la  mia  replicai  Ebbene ,  voi  non  V  evltet^ete  ;  io  pubblicherò  un  libro  che  avrà  per  titolo  :  Risposta  al  silenzio  di  la  Mothe.  Lo  spirito  di  contraddizione.  Alcuni  par  che  non  godano  d'altro  che  d'essere  molesti  e  fa-  stidiosi a  guisa  di  mosche ,  è  fanno  professione  di.. contraddire  dispettosamente  ad  ognuno  senza  riguardo.   «  Pria  che  tu  parli ,   M  Nega  quel  che  vuoi  dir,  e  se  consenti  .   »  Pur  d'aver  torto,  Non  è  yero^  ei  grida^^^"  É  vuol  ch'abbi  raglotii"»/-'  ^  *   *   E  siccome  taluni  si  mostrano  terribili  nelle  dispute  per  la  forza  e  capacità  de'  polmoni,  perciò  sembra  che  lo  spirito  di  contraddizione  si  debba  primiera-  mente a  stolto  orgoglio  attribuire,  o  sia  indistinto  bisogno  di  dominare.  Lo  fomenta  fors'anche  una  causa  fisica  non  ben  nota,  chiamata  temperamento,  quella  causa  per  cui  il  can  rosso  dell'  abate  Casti  neinilustre  adunanza  degli  animali  parlanti. Di  petto  Instancabile  e  di  voce  »  Ringhia  ;  con  tutti  ognor  brontola  e  sbuffa ,  »  Pronto  con  tutti  ad  attaccar  baruffa. Le  inimicìzie  sogliono  essere  una  delle  pri-  marie ragioni  per  cui  si  rigettano  le  idee  altrui  ;  giacché  all'odio  sembrano  vere  e  reali  vittorie  le  mortificazioni  alla  vanità  dell'odiato.  Secondo  che  racconta  il  Castiglioni ,  trovandosi  due  nemici  nel  consiglio  di  Fiorenza ,  V  uno  di  essi ,  il  quale  era  di  casa  Altoviti ,  dormiva;  l'altro  che  gli  sedeva  vicino ,  e  che  era  di  casa  Alamanni ,  per  ridere  ;  toccandolo  col  cubito ,  lo  risvegliò  e  disse  :  Non  odi  tu  ciò  che  il  tal  dice  ?  rispondi,  chè  i  signori  dimandano  del  tuo  parere.  Allor  TAltoviti  ,  tutto  sonnacchioso,  e  senza  pensar  altro,  si  levò  in  piedi  e  disse  :  Signori,  io  dico  tulio  il  contrario  di  quello  che  ha  detto  T Alamanni.  Rispose  rAlaiiianni:  Oh!  10  non  ho  detto  nulla.  Subito  disse  rAllovitì:  Di  quello  che  tu  dirai  !  !  i   V.  V  imperfezione  inerente  a  qualunque  cosa  umana  apre  il  campo  a  rinascenti  dispute.  Questa  imperfezione  risulta  :         . Dagli  oggetti  che  hanno  molti  lati,  e  de'quali  ciascuno  considera  quello  che  più  gli  piace  ;   2.  Dalle  persone  che  non  hanno  gli  stessi  occhi,  gli  stessi  interessi ,  gli  stessi  principi!,  le  stesse   *    cognizioni,  gli  slessi  gusti  (1).   1*4.  ^  •   (I)  Petrarca  parla  iV  un  uomo,  il  gusto  del  quale  era  si  depravato,  che  non  poteva  tollerare  il  dolce  canto  degl'usi-  l^nuoli,  e  gongolava  di  piacere  al  crocidar  delle  rane.   Dalie  parole  che  non  sono  abbastanza  molti-  plicate ne  abbastanza  particolari  per  essere  sempre  esatte  ^  e  corrispondere  ali^  varie  modiGcazioni  de'  sentìment!.   Quindi  tutto  ciò  che  si  dice  e  si  scrive  essendo  SQfi^ettfvo.  di  «varietà  indefiaila^  non  deve  recare  maraviglia  se  a  costanti  opposizioni  va  soggetto,  ^»1ra  le  eansa  delle  dìApntei  e  sotta  questo  arti*  colli  fa  d'uopo»  ace^nram-  ia  monto  di  spiegm^  i  futti  prima  d'esserBi  accertati  della  loro  esistenza ^  e  .per  col  si  dispala  con- taMd  maggioi*  calwes  quanto  che  ciascuno  parla  y  ccilne  si  dice ,  in  aria  ,  e  M  batte  con  strali  di  nebbia. Nel  lì>05  corse  rumore  elio  essenilo  caduU  ideali  ad  qiì  faiìciailo  df  sette  anni  nella  Slesia,  gUe.tté  era  sorlo  uno  d'drd  al  poslo  d*tino  de'ipollftri  eadutt.  HorsHus ,  professore  di  meileina  mellf  università  ^i  ffelmaMftd,  sf  rìsse  nel  ^595  la  storia  di  questo  dente ,  e  pretese  ch'egli  era  in  parte  natu-  rale, in  parte  nìiracoloso  ,  e. che  era  stato  spedito  da  Dio  a  questo  fanciullo^  a  fine  di  consolare  i  Cristiani  afflitti  per  le  vittorie  de'Turéhi.  t^lguratévt  quale  consolazione  poteva  re-  care al  cristiani  tm  dente  d' oro ,  e  quale  rapporto  poteva  unire  un  dente  e  i  Turchi.  Nello  stesso  anno,  attìnchè  questo  dente  noB-manoasse  di  storici,  RuUandtui  ne  diede  una  nuova  storia  con  VMOvI  cijmiDelitIt  SuaUnni  dopo  ^  IngloBlerns  ^  altro,  dpU^  tedesco,  scdsse  contrq  II  sistema  esposto  da  iW-  landus^  W  quale  rispose  cpn  una  pix)fonda  arcihelllssima  re-  plica, come  è  ben  naturale  di  supporre.  Un  altro  dotto  d'e-  guale calibro  raccolse  tutta  ciò  i^ìha  era  stato  detto  sopra  questo  dente  maravtgliosOi  e  vi  aggiunse  i!  suo  parere*  A  tante  béHe  òperé  aitro  non  mancava  se  non  che  la  cosa  fosse  vera,  doè  òhe  II  dente  fosse  d'oro.  Onando  un  orefice  Tebbe  esaminato ,  risultò  che  questo  preleso  dente  d'oro  era  umi    Incmvementi  delle  disputé/-     •  >   1,  L'imn  araltya  éelle  sopraece&nate  peirsonalità   suole  inacerbire  gli  animi  nelle  discute  :  Ordiìia-  riamente  ricorre  piò  spesso  aite  personalità  chi  più  scarseggia  di  ragioni,   3.  Nel  calore  delia  disputa  ^li  animi  perdano  di  vista  rargomento'  primitivo^  'e  vanno  divagando  fra  idee  accidentali  Tuno  all'oriente,  Taltro  all' occi-  dente ,  questi  in  >Icò  ;  quello  al  bassé  ^  èDsicchè  dopo  lungo  alternare  di  sì  e  di  no,  dopo  un'ora  di  tempesta ,  dopo  d'ayere  perduto  la  voce  e  i  pol-  moni ,  i  conteodeati  più  cbe  pria  trovansi  lootàn!  dalla  meta* ,  , .  .  .  ]^fiMii0  di  4U08|ta  dUpQsizione  d^   loro  che  la  decisione  della  disputa  temono  con-  traria alle  lor  viste  ;  quindi  s'arrestano  sopra  «oa  parola,  contendono  sopra  una  slhfiìfrtudine ,  scÌMa-  inazzano  sopra  un'idea  accessoria  ecc.;  il  perchè  .talvolta-  /a  cdlwosa  i^ntesa  sopra  circoif^s^nze  ac'  cideìitali  potrà  smprirpi  la  dubbia,  fede  di  lai  uno  da'*  coniendentL   foglia  d'oro  destramente  applicata  al  dente  ma  sì  cominciò  «A  disputale  e  aompprre  de'libn,  posd^  ^  consultò  l'oreiice.   foMaeeademfeo  A  Seeliao ,  me^ibro  d' altre  acc«deoUe ,  in  vm  giOg^Mti  |MdÉb1k»ta  ael  4821,  j^ailmdb  deUa  pcovinda  Lodigiana,  dice  che  ivi  si  fabbrica  .iV- celebre  formaggio  deUo  parmigiano  ;  nel  che  ha  ragione  :  ma  il  bello  si  v  che  ag  *  .  SiWgB  cbe  questo  ((nrmaggio  si  fabhi:ie^  col  latte  di  asina.   '  Se  quaala  gcariaso  M^ddoM>  ò  oneduto ,  possiamo  aspi^tacci  uoa  feoiioa  di  dissertazioni  sui  nostri  formaggi  ffasipati    Digitized  by  Google    3.  Dal  riscaldameato  contro  le  ragioni  si  passa  al  risealdtmeiiio  Mnlro  Je  feraipei»;  e  :i  disputanti  dimpslrano   «  Negli  occhi  il  fuoco  e  sulle  labbra  il  tosco   In  somma  dalla  disputa  sì  pass^  alle  ingiurie ,  gen-  tilissiiue  ed  edificanti  ragipni  degli  eroi  di  Omero.  Iqfatt^  Giove  non  parla  mal  a  .Giunoné  .senza  dirle  molti  improperi!,  e  Giunone  non  risponde  che  sullo  stesso  tonOì.  Dopo  sì  npbiU  esenipip  figuratevi  come  dovevano  parlare  gli  Dei  minori  (i).  '   4*  In  forza  di  questo  riscaldamento,  o  in,  mezzo  a  questa  lotta  di  vanità  ,  ciascuno  a'osti^ia  nel  pri-   (i)  jF^ra  i  IraUi  caratterisUci.degli  awpcaU  iligìéiil,  1   an'impudeittà.  *  Que*  <sai^dìet.  à  permettoBÒ  I  sarcasmi  'più  indecenti,  le  personalità  più  ingiuriose  contro  la  parte  avver-  saria;^ essi  apostcatapp  A|¥rt^^  i  iestimoDii  nel  mado  più  vil-  lano ed  .offeosivo,  colio  scopo  di  turbarne  ranimo  e  indebo-  liroe  te  deposizioni/ EMI  per  attro  Urano  Ulv<^  addosso  delle  repliche  che  gli  espongono  àlle  risate  deir  udienza.  In  una  causa  che  discutcvasi  avanti  il  banco  del  re,  fu  prodotto  un  testimonio  che  aveva  il  naso  estremamente  rosso:  l' av-  vocato avversario  volendo  intimidirlo,  gli  disse,  dopo  che  11  testimonio  ebbe  préstato  il  fjlufaiiiento  :  Vediamo  ciò  che   r   avete  da  dirci  col  vostro  naso  di  rame.  Pel  giuramento  che  ho  prestato,  repricò  il  testimonio,  io  non  vorrei  cambiare  il  mio  naso  di  rame  còlla  vostra  fronte  di  broDso*  .^  Ua  paesano  det  Berkslìire  andava  a  ^tepoMre  isT  una  oauM  che  dteutevad  ^  GnMinH  «  Cdmo  dàVMUÈ  ét  ^lle/  gH  «disrie  »  V  avvoi^alb  '  Wallace  /  quanto  guadagnate  voi  ^  giurare  ?  1»  —  Signor  avvocato  onoratlssimo,  rispose  il  paesano  ,  se  voi  non  guadagnaste  ad  abbaiare  ed  a  mentire  più  di  quel  che  '  lo  a  giurare,  voi  portereste  ben  prèìrtn^m  abllo  di^ili9;€0iiie  lo  porto  io^   mitivo  parere,  benché  il  discorso  il  dimostri  per-  suaso del  contrario. Gli  amici  delFabate  Regnier  gli  davano  il  titolo  di  abate  pertinax,  perchè   ''^<'*V?'Pìù*duro  ed  òslinato  degli  incudi  »  ,  »   egli  aveva  l'abitudine  dì  disputare '^fehacemente  ne^  crocchi,  lìnché  i  suoi  avversari!,  più  per  stanchezza  che  per  convincimento,  fossero  costretti  a  sotto-  *  mettersi  al  suo  parere.  Tra  cento  contendenti  forse  se  ne  trova  un  solo  che  finisca  col  dire  ,   et  lo  parlo  per  dir  vero,  r.  f  ».  '  •'^'*  \y\  .^jil»  Non  per  invidia  altrui  nè  per  disprezzo  ».  .   r4^oi)>;.Mia  gloria  non  ripongo  in  ostinarmi,,  i  <:Iì;»  Nel  mio  pensier.  lia  debolezza  è  questa  ri    »  Delle  piccole  menti,  ed  io  mi  credo  oii^(ffiiGrande  abbastanza  per  lasciarti  tutto  ^  iMi^P  L'onpr  d'avermi  persuaso  e  vinto    Regole  per  impedire  o  diminuire  .  gli  iìiconvenienli  ielle  dispule.  ,   i  .  ...   1.  Nelle  assemblee  numerose  astenersi  dalFindi-  care  col  nome  proprio  l'individuo  cui  si  risponde^    '  *  «(4)  «  Quando  un  uomo  s'è  ostinato  a  dire:  La  non  ha  »  ad  essere  allrtmenii,  io  Intendo  che  la  cosa  vada  così,  o  )»  così  ;  va,  picchialo,  spingilo,  dagli  d'urto,  tu  cozzi  con  una  >».  torre,  hai  a  fai*e  con  un  greppo,  e  non  ti  riesce  altro  se  »  non  ché  tu  medesimo  t' induri,  e  a  poco  a  poco  senza  *»)  avved<^rtene,  come  chi  é  tocco  dalla  pestilenza,  che  dall'uno  »>  s'  appicca  air  altro,  tanto  sei  tu  ostinato  e  duro  nella  tua  n  opinione,  quanto  egli  nella  sua,  e  non  c'è  più  verso,  che  »  né  l'uno  nè  Taltro  si  creda  d'avere  il  torto.  Nella  camera  de'comuni  d'Inghilterra,  chi  discute  r  altrui  mozione  o  risponde  ad  un  argomento ,  in  vece  di  'designarne  l'autore  col  di  lui  nome  indivi-  duale, ricorre  a  qualcuna  delle  seguenti  circonlo-  cuzioni  :  l'onorevole  membro  alla  mia  destra  o  si*  nistra  ,  il  gentiluomo  dal  cordone  bleu,  il  nobile  lord,  il  mio  dotto  amico  (parlando  d'un  avvocato)*  ecc.,  ovvero  semplicemente  il  preopinante.   La  ragione  di  questa  regola  si  che  la  specifi-  <;azione  del  nome  è  un  appello  più  vivo  all'amor  proprio  che  qualunque  altra  designazione.  Col  primo  modo  di  parlare  si  dimentica,  per  così  dire,  la  persona  individuale,  e  non  si  considera  che  il  di  lei  carattere  politico.  Si  scorge  Tutilità  di  questa  regola  ,  se  si  riflette  che  nel  calore  della  dìsputa  i  contendenti  durano  fatica  a  sottomettervisi ,  e  la  passione  tende  a  violarla.  Allorché  Tex^ministro  Decazes  montò  alla  tribuna  della  camera  dei  depu-  tati per  rispondere  al  notissimo  segreto  di  Rignon,  e  cominciò  per  chiamare  a  nome  il  Bignon ,  mo-  strò tutta  l'amarezza  del  risentimento,  e  dimenticò  le  regole  della  pulitezza  francese  c  delle  assemblee  numerose.  ^  t.fn  .  Non  attribuire  giammai  a  pravi  motivi  od  intenzioni  perverse  V  altrui  opinione.   Anehe  questa  regola  è  osservata  rigorosamente  ne'dibattimenti  brittanici.  Voi  potete  con  tutta  li-  bertà rimproverare  al  preopinante  la  sua  ignoranza,  i  suoi  errori,  le  sue  false  interpretazioni  d*un  fatto,  ma  fa  d'uopo  che  v'asteniate  dall'accusare  i  motivi  che  riaducono  a  proporre  od  a  rispondere.  Esten-  detevi sopra  tutte  le  conseguenze  nocive  della  mi-    Sttm  poopoata  o  doiropinioQe  «h'egli- dtf&nde  ;  di-  ìnositraie  ehe  saifann^  fenestè  atta  Sl^,  ehe.-la?»^  riranno la lirannia o l'anardua;  ma  non  fate  giam*f  mei  siipporrèch'egH  abbia  iiMvediite  a  ¥ol«teqìieslfi   conseguenze.  -    ,  f^-^^oi'^ii   .vRigorasamente  parlando,,V  aocennata  regola  è  fondata  nella  giustisia  ;  potùhè  se  è  dfffidto  U  conoscf^re  i  mi  e  segreti  motivi  che  agiscono  sul  no^tta  aiilmo  «  è  edsa  taneruria  il  preMiém  di  ravvisare  quelli  che  movono  Faltrui  ;  e  ciascuno  sa.  per  pisoptfia  «sperienra  quante  volte  i  nostri  .409  spetti  diano  in  fate»  in  queste  ricerche. La  risérta^  tMZza  imposta  d^UA  suddetta  regola  è  olile  a  tutti,  perchè  è  scM»tegiia>  aOa  libertà  delle  opitueitì  é  schermo  contro  le  ingiuste  accuse.  Nei  dibattimenti  pplitieìii  com(9  HeUa^gju^rra^'  ciascuna  deve.  asteneESì  da  que'  mezzi  che  ragjionevoitnente  non  yorrcèbe  Msati  opntro  di  sè.  »  *)  ?  ^  1  >  -Ma  sQi^rirttutto  poid'Memoata^^liegek  ètepiiliMr^  alla  prudenza.  Infatti  ,  voi  credete  che  il  vostrb   a^jta^aui^  «'apfiig^  al.  torto^^  oi^.  egli  ummrk  torse  restìo  ad  abbracciale  là  vostra  opinimie*  sé  gliela  presentate  nella  sua  nudezza  scortata  sold  dagli  argofwoti  elM  la  dinioetiaadv  Me<  se  eontet   ciate  dal  rendere  sospette  le  sue  inten2ionì ,  voi  Toffendete ,  voi  lo  provocate ,  voi  Mn  igH  toseiete  la  calma  neeessaria  per  ascoltafvi  con  atteKione.  Egli  diviene  parte  contro  di  voi.  Il  calore  Sì  oem  munied  dairun^idraltro  ;  i  suoi  amici  sMotereasMit  per  lui;  e  tfiiindi  nascono  non  di  rado  de'risenti-  ^   associano  alV opposizione  politica  tutta l'aqj^retua  4e;gB- od&if^iia»opti|b.  Un  uomo  di  carattere  benevolo  ^  modesto  nella  superiorità ,  generóso  4iieHa  siDei  for2a ,  *  confida  solo  ne'  suoi  argomenti,  e  sdegnerebbe  di  dovere  la  vittoeNiv  alla  Intenwopi  siiippioste  prave  del  rao  nemico.      '  ^        •     .  -   %  8;  Gmrd(VFU- dal  perdere  tempo  e  parole  nel  eùnfuiar^  èùse  pafpàbttmenl^  fake.  '   In  questi  casi  è  meglio  troncare  il  discorso  e  fkàMatA  allTopiniaiie  degli  astantì  )  giiBicehè  la  di-  scussione recherebbe  noia  ad  essi ,  senza  riuscire  a  persuader  ravver^ariou  Zenone  negava,  l'esistenza  *  M NfnMo  Diogene ,  -senza  spendere  parole  V  sì  mise  a  passeggiare  :  Zenone  persistette  nel  suo  pnadoiw  y  '  e  Dìo^e  eontÌlm6  il  sùo  passeggio;  Allorché  Didone  s' incontra  negli  Elisi  con  Enea  ,   da  €w  «ra  stata  si  ingiustamente  e  là  barbaramente  abbandonata,  s'airesta  ella  per  argonventare  con  lui  e  convincerlo  ?  Enea  cerca  di  riacquistare  il  di  lei  aflhMt  dia  gK  tolge  spregevolmente  le  sptflè  senza   dir  verbo.     *       *     -    ,  •    ^    ?  »  •   Badale  bene  elle  nel  -caso  pratico  rorgéglio  potrà  ingaummled  ff^durvi  a  sopporre  palpabilmente  false  le  >altnù  idee ,  o  palpabilmente  vere  le  vostre.  La  mAt  0»  r^ppfovairtmi»  'che  4wdrete  sut<vdlto  degli  sitanti,  v*r  servirà  di  norma  per  troncare  la  discus*  skma  o  oantiomrla.   4.  NoH  rispondere  alle  ingiurie  thè  net  co*  lùT  della  disputa  fuggono  di  bocca  aWaivver*   Battiy  ma  ascolta ,  dicf^va  Temistocle  ad  Euri-  biade  «  il.qsale  alzava  il  bastone  per  provar  la  sua  tesl^  Questa  fermezza  d'pnimo  in  un  uomo  che  era  tutt'altro  che  vile  i  ci  dice  cbe  si  devono  lasoiat    uigiii^LCi  Ly  Google    4^ &è  sentite,   e*  difendere  le  proprie  idee  con  tutto  il  sangue  freddo  deJla  ragione.  '  IitfAtti  ib^  in^lalfi^l   della  disputa  sfuggon  di  bocca  parole  che  si  ritrat-  talo appena  cessata  ;  dialiaitro  l 'altriii  (?;4iit»'*ftifi^  .  giustiflcberebbe  la  nostMi.  '  •  -  -^^^^   la  questi  casi,  una  risposta  urbana  che  dimos^i.   torrente  di  villanie.  Perchè  mi  dite  voi  delle  in-  gmiy^  in  luogo  M  rg^ionVf  Avreste  voi  preso  if  niie  ragiónt  per  ingftif^^iN^w  ion.  all'impetuoso^B^^j^^  BQiUiOW^.as:  salilo  da  ^if^jT  Menai^ev^^' ùiia  dlà^wiéy  ''   ne  raccolse  un  centinaio  delle  più  villane  ,  quindi  vi.  aer4s^^Mtl,Q  qi^e^te  {K^cha  psirol^  :  ìuAi^z^^i^r   polito. jiv '';^''^"'^'ì'^'^'^^T''-^òJ    (4)  La  fissa  concilio  degli  Dei  tra  Gipve  e  Ciunone,  relativamcnle  alla  causii  de'  Greci  e  dtMroiabi  .  fa  assopita  dalla  deitrem^dl  Vincano.  - .  ,       j  ;  ;.       ^  *    «  Vulcano  ^soM'^  .  e  i  sereMi»  ìa  spirto  »  Retta  ìnadre  abbat|u(o;  Oh,  dfssé,  ìnrvéto  /  »  Strana  fia  questa  e  memoranda  istoria^  .  »  Che  per  la  dispregevole  e  meschina  "  »  ^a2ià  idectri  v&da  a  soqnjaadro  H  clélo.  '  »  brande  è  fl  perigito  : 'addiovconittt  e  èè^^e,  •  Se  preval  la  discordia;  addio  retema  »)  Gioia  che  ne  fa  Dei  :  sei  saggia ,  o  madre ,  »  Né  d'uopo  hai  tu  de' miei  consigli;  ah  cedi  »  (U  pur  dirò  ) ,  VolgiU  a  Giove,  e .paìià  »  CompiacenUi  *,  sòmniessa,  onde  dal'ciglia  -  »  Sgombri  quel  cupo  nuvolo  cbe  offusca^  '    f  >    Digitized  by  Google    40^  -  nSMI'iBltM^'^  I   me  ii^KmMà^  cAft»  ee^Hunà^  Urisùt  faecia  ces-  \   queista  me:&2;o  già  iicceooato  di  sopra.  Chi  ael  eà<«   -,        •  '  \à   ».  .  *  .   n  ^éiien  d^lfa  leste^^  - '*   ' .>.  Qqanlo  forte  e  pòsseote  :  e  sì  dicendo ,  .    '  -  v\    *  Prende  capace  coppa ,  e  a  lei  con  questa,  .   ;  *  .    »;  Presentandosi  innanzi  :  Ah  soflri,  o, .madre  ^   .  '  ^       n  SommessameotéJ^lgllando  a^unse'^     ,    .  \  "  -,    ^  i  $Qnrif  èiiie'yoòH^^        Impiinem^EHtftlei  *  *  *  .     *  9  N<m'''SI  còzza 'con  Giove;  ab  se  noi  tutti'*  -  ^    '  »  »  Ei  vuol  cacciar  da' nostri  seggi  ,  il  sai  j  -  4    Sì  sei  potrebbe;  q  4Uor  che  fora  (ip  tf^igio):  .      , »  pel  tuo  VulcaD»,sé'8i  ioateoricio  atioor^   '  V  fio^mi  dal  «^n^i^  >  '      *  '  '   r  Stramassaf  Bulla  teìrra  ?  A  coUi  detti  »  L' afflitta  Dea  V  annuvolata  faccia  /•  '  «  Rallegrò  d'un  sorriso.  Or  che  ^i  tarda ,  i(  .Gridò  'lesali  già  vineitor;;  a*  Assaggi  -i  là  tazza  della  gioia  :  el  ff  alt»  tefaa  "     '  *  •  '   V  Neltarè  afiMfWanre,  e  posto  a  fronte,      .  '  *    »♦  Alza  il  nappo  alla  Diva.   Ella  lo  prese      .  ,  \  Dalle  mani  del  figlio  :  e|  poscia  Jo  giro  »  N'andò  agli  fdhi  .m^sceBdoV  id  volto  ^  agli  atti,-  ,  ;  •  .  All' qfDr^ttar  ddlModampante  passo,  '.  »•  IJn  ìIso  sollazzevole  si  sparse      "      *  '  «  Fra  la  turba  dei  Numi,  ognun  applause  •  t  Al  vivace  coppiere  ,  ed  ogni  fronte  '  9  Basscjreoossi  :  fra  letizili  e  festa  ^  .  <ft  /Pràscorre  II  ^rno ,  ^  hon  vi  nùiDca  i^^o*  ». Cpnla  dorata  cetra,  e  non  le  Muse  »  Con  rarmonìca  voce  e  l  canti  alterni  ,  '  »  E      tutto  di  gioia  esulta  Olimpo  »  '    hJre  (Sella  disputa  scappa  fuori  con  una  celia  ai»*  gaia,  sembra  direi  dlie  rimo^a.alla  vìltaria^^^  vi  rìhuDzfa  spontaneàmente,  e  die  mfoìe  iestarei  amico  liei  tenipo  stesso  chejn  iuìla  nQ$tra  vanità  iir  ftiigeira  W  nemleio.  t^óeslo  tirAtfa-^g^AeiféM^  sorprende  piacevolmente;  e  quella  vanità  che  vo-  lea  vineere  n:0lia  .dìapQta>  non  vuole  mtate-fiirta'  in  generosità;  quindi  gli  animi  si  acquietano.  Lo  spiritoso  Voiture  aveva  punto  e  ìnareeiNto  un  cor*  ^hHoi  queétf  vt)léva  èomingerlo  a 'battersi*  in  duello.  La  partita  non  è  uguale,  rispose  il  poeta;   siete  grande  io  soa  piceola;  \voi  siete  bravo-  ed  io  poltrone:  voi  volete  uccidermi?  ebbene,  ec-  comi morto.  £gU  dissirmò  il  suo  nemico  facendéM   Quando  i  contèndenti  non  la  finiscono ,  e  kt  disputa  è  '  alquanto  loalorom  y  pànM  dàvèf^  degli  astanti  d'interromperla  con  suoni,  cantij  giuochi^  soniniinistraziani  di  Jiqwri  o  «ifn|li.   V  "  "      ■      «  Al  suon  {piacevole   .»  D'arpe  trèniafitr    ,  »  Mescete,  o  vergini,  '  '  '  /  »  Mescete  i  canti    '  \  '     Satira  itréanà.   t   I.  UtilHà  della  satira  urbana.   ,  '  *   Condannando  come  inurbane  le  villanie  e  le  ìn-  giuriC)  non  intendo  di  vietar  Tusa  savio  ed  op^    pòrttino  deli'  ironfa  o  idetta  a^ttn  eh»  flUt^  pregiU'*    -  tifiao  tElujO  »   volta  giunge  a  porre  sul  trono  il  vero,  )ridendo«  .  -  Jà'amor  pri^Mifo,  che  non  ahbaadana  uomini  m  aoQ  qiiMd^  ,9m  abtoodoiiwo  la,  vk»;  iìi  toi^  temere  sópra  ogni  altro  male  la  derìsione,  e  scuote  Jovb  dì  dos89  .r  uidolenza  ,  e  daUe^  i^j^  cai^  feUìe  gir  spoglia  per  non  rimanere  esposto  ai  frizzi  del  ridicolo^:  i)  che  jpes^.  non , ottime  la  piìi  l^mpaoti^  Térìià  6d  ligguerrìta  >ragiònir./$e  Aristo&iie  avelie  dato  agli  Ateniensi  In  una  concione  quegli  ani*  ma^brameoti.  etie  died^.loro  .aeU^  cooiniedie,  l'a-  vrebbero lagnato  a  pezzi;  laddove  in  teatro  ride-  vano smasc^llatamente  e  di^vaiio  eh' egli,  aveya  vagioiie.  Bèi^chè  i  Geniti  aTesaerc^  veduto  CiaerOQe  assalire  Tedificio  dellldolatrìa  con  armi  prestategli  dalla,  filosofia V.  poro  iiea.  aapavafio  lodimi  .ad  ab-  bandonarnei  tempii.  Comparve  in  mezzo  d'essi  Ladano,  il  ^uàiQ  fece  la  guerra  al  gentilesimi.  doI  .«lotteggio,  fi  se  non  ne  distrMse  gli  altari,  ne  d^  sperse  in  gran  parte  gli  adoratori.  Il  buon  senso  aveva  {iròseritte.  la^  mz^ia  cavallefescfae  in  fspagna,  pria  che  nasces^è  d^rvanfes  ;C  mà  quella  nazione  non  riuscì  a  spogliarsene  se  non  dopo  ^'tgii  abbe  preÉcutato  al  ptibbli^,  11  suo  ridico*  Kssimo  Dpn  Chisciotte.  Tanto  è  , véro  ciò  che  dice  Orazio:  .        '      -  .   «  fPnoa  graVf  sèstenza  ottieB  più  spesso  »  II  desiato  Cne  arguta  celia  ».   Si  deve  adunque  riguardare  la  satira  come  una  apecia  d'ammenda  censoria  che  aerve  a  corriere  quei  difetti  i  quali,  senza  cessare  d'esser  molesti  e  talora  4muk)sì  alla  aociatìb  non  triy^Qsijaei  codici    ,    St   inosservati  dalio  stesso  colpevole  seoza  la  -  caule  àmmo9lmùe  della  satira  \  del  an^tteg^  ;  «  dello  scherzo.  Il  suo  pungolo  viva  e  leggiero,  vi-  brato a  tempo ,  può  divenire  suppUmento  alla  le*  <  gìslazioue,  più  ef&eaée  dei  gravi  sèrmoni,  più  acutd  di  qualche  pena  afflittiva,  e  il  rimedio  blando  e  specifica  dei  morbi  lìpn  ^ilcerosi  fleiranljsgo,  e  f^ec  così  dire  cutanei:        /    .        .  ^    V  \   «  Seguasi  il  Venosin ,  che  ride  e  taglia     _    . .  ..^  »  Chi  sfugge  a)  Fpro.  IJ  satiresco  uffizio  -   f  »  .Piiif  die  II  fratesco  può  levarti  il  pelo  ^  '   ».  P%chè  il  frizzo  piii  scotta  che  il  y^j^^^^^^  L'ironia  però  e  la  satira  sono  armi  pericolosissitne  di  cui  egli  è^estMmametite  foeìle  di  alm^  sare ,  sia  perchè  questo  genere  di  discorso  non  è  il  più  difficile  (1)^  sia  perchià  la  sottra,  .presenta  UM  .  fat^B  sembi^^^  sia  perche^   deprimendo  gli  altri,  sembra  airaniòr  proprio  d'io-  nateaiÀ  80  stesso:,  perciò  riesce  iiiiripido  11^k»gio%  •  e  il  motteggio  piacevolissimo  (3);  ed  Ennio  sog-*  gittiige^  ch'egli  è  più  facile  ad  uà  uomo  di  spiriló  il  wlbeare  ««Ha  bocctt*  de'  carboni^  àeeeal ,  di  quello,  che  riteoere  .un  iiiottti  s^tipco  che  gli  corra   {i)  Un  giovine  gloriandosi  d' avece  composto  una  satira^  CiebiUoD^gU  disse  :  lUcón^spele  cpsnfo  è  JMle  qiiesl^  niera  di  scrivere,  giaccbiè  ij  siete  riusdto  aUa^^vesbrft  et^u   (2)  Maliffnilad  falsa  species  liberiate  inesL  Xacit. ,  Hist.,  I.  ^.    •  *  .  '  * OblrectaU<K  et  Uvor  prouU  wiuihm  accifiuntuTn  Idem,  m  ^^  r         '  .    Digitized  by  Google    '  '-^fi*   tiimo  s'assoèia  spesso  l'invìdia,  la  quale  stiilerf>ià  mtnvte  azioiii'  altrui  ^l»U&ee  severa  inquisizione,  A  fiiie  ét  iìtùywfì  qualche»  «aeGateBa^  e  ;.coii  wAì^  gni  >ep]orì.  adoaibrarla:    -  .  r  •       '  •   €  Di  tutti  invidioso  diceà  malQ   ■ Sénisa  rispetto,  e  pretendi^vii  ardito  '  .  »  Piovra  i  costumi  altrui  far  da  fiscale   Quindi  suUe  cose  ,  sulle  follìe  ^  sui  pregiudizi ,  sulle  |ti*€itensi(^ai  d^lj'aiuor  proprio,  '  sui  vizi  in  ge-  nerale àevc  H  'jmotteggit)  più  spesso  cadere  che  .non  suiruomo  particolare,  àccioecbè  alpri,  vo^ndo  eedtaré  iH  .rteOi  non  apra  una  piaga  mortale  mei-  4'altrui  animo,  e  non  s'esponga  all^d^o  delle  per-   SOM  emeste  se  la /SMira  dà  in  ialso,  .  ^   -,  •  •  •   ' .    FqItio  che<  per  diletto  o  per  malignò   V  Animo  Valtrui  fama  è  a  morder  presto^    '  *  . .  »  Ch'infin  giunge  a  sp^ieqiar  pef*  corbe  un  cigQps  '  »  IQ  ebt^nt'odio  vìen^  eh' ogn'uoin  ené^^^^  i  Lo  d^nna  con  ragion,  l'abborre  e  fugge  \VÌ»:Con9e  mostrò  all'umah  éóusdrzio  inlissto   Meii  voglioT^f  '  ommettere  d'és8èrvà?e,  ehe  ai   rinvèi^iore  di  falsa  maldicenza  o  d'ingiusta  sdittra  è  ripr^sibiie ,  lo  à  pure  quello  ebe  la  difiba^e:  lAi-'appiceando  il  fuoco  all'altrui  casa  si  scusasse  dicendo,  che  ha  ricevuto  il  fuqco  da  altri,  non  oV  Mrrebbcf  cotnpatimento  ;  per  he  stessà  ragioné  t>t-.  tenerlo  non  debbe  chi  spargendo  false  maldicenze  e  ingiuste  satire,  dice  d'averle  intese  da.  Pietro  a  d9  Martino,  io  un  caffè  o  in  un'osteria,  enones^  i^ne  egli  rinventore^  '  »   SenCilor  W  raceontar,      fti  un  trombe]^   *    »  Preso  una  volta  da'nemici  in  campo  /  *  '  r  »  Mentre  stava  sonando  alla  veletta:  '   V  \\  qiial,  per  ritrovar  riparo  o  scampo/  »  Dicea  che  solamente  egli  sonava,   '  "  »  Ma  eoi  stio  fèrro  mai  non  tinse  il  campq.  Gli  fu  rispo$to  allor,  ch'ei  meritava  •  Maggior  iien^  pero;  poichò  sonando^  >  Alle  stragi,  al.  furor  gli  altri  irritava  ».   Dopo  (Tavere  stabilita  la  legge  generale ,  fa  d'  uqpo  aggiungere  le  ecceziotU,  -  le.  qvali  per  lo  piiij  dall' e$amé  delle  ragi«ni  w  cut  fondMli  là  4lessa  legge^  risultano.  • .  ,     .    .  -   y  url^nità  jno!»  coBdaQQa  ne  nel  convenar  ab*  eiale  nè  nella  repubblica  letteraria  i  modi  satìrici  più.  0  .iDeoo  .piccanti,  ma  veri,  contro  gìi  indk^i^,  dui  tÈ^  seguenti  casi  e  pe'  seguenti  motivi:  /   ,  1^  Rispingere  m  impertinente  aggressore»  ^  jMtiasiiiio  Oacier^  entuaiasta  della  àeiMza  ^digb'  antichi ,  ascoltando  un  giorno  una  dama  che  non  ne  parlava  Qon  troppo  rispetto ,  e  prioiHpdknj^qt*  del  divino  Platone  ,  le  .disse  con  tatta  la  genti-  lezza degli  eroi  d'Omero:  Certdment;^  madama  non  degnasi  di  leggete  dtro  Sèrittere  anticò  che  Petronio  (ciascun  sa  che  Petronio  è  ràutore  pre-  diletta de'  dissoluti^;  Perdojiate^,  replicò  ellat  fò  aspetto ,  per  leggerlo  \  che  voi  fie  abbiate  Jatto  un  santo.  Chi  vorrejìèe  dare  al  {rizao  di  quella  dama  ia  ttisoiii  dimpulito  (i)?   .  •"  »  «   (i)  Un  principe  volendo  divertirsi  a  spese  d'  un  suo  cor-  tigiano I  eli'  egli  avm  impiegido  ip  diversè  amb^^ecie ,  lo    Mendicar  la  ragione  degli  attentati  d*  uno  stolto  o  d'un  impostore.  Socrate  adoprava  l'ironia  colle  persone  presuntuose  ,  con  que'  pretesi  dotti  universali  che,  non  sapendo  nulla,  davano  ad  in-  tendere al  popolo  di  saper  tutto,  e  pronti  mo-  stravansi  a  rispondere  sopra  qualunque  argomento.  Luciano  smascherò  il  celebre  Peregrino,  il  quale  profittando  della  dabbenaggine  popolare  ,  e  fa-  cendo false  predizioni  ,  aveva  aperta  una  bottega  d'impostura  nella  Grecia  e  s'era  arricchito  a  danno  del  senso  comune  e  del  pubblico  costume.   Mendicare  i  diritti  del  giustOy  delVonestóy  .della  patria  dagli  attentati  de*  malvagi ,  per  falsa  opinione  potenti  o  per  forza'  reale.  Chi  avrebbe  potuto  condannare  Cicerone,  allorché  met-  teva in  evidenza  i  vizi  di  Catilina  e  i  suoi  atr  tentati  cóntro  la  Repubblica?  Il  giudice  che  espone  un  delinquente  alla  berlina  con  un  cartello  sul  .  pettOj  ove  t\  leggono  i  suoi  delitti,  è  senza  dub-  bio un  maldicente;  ma  questa  maldicenza  perso-  nale è  necessaria  a  scorno  del  delitto  ed  a  fine  ;di  prevenirlo-  '    rassomigliava  ad  un  barbagianni.  Io  non ,  so  bene  a  obi  mi  ral^omlgli ,  rispose  il  cortigiano  :  tutto  ciò  cb'io  so  si  é,  che  ho  avuto  l'onore  di  rappresentare  molte  volte  vostra  maestà.   '  Anche  nel  «eguente  madrigale  il  frizzo  è  giustilìcato  dal  diritto  di  difesa:  -  .    -   \.\  .  •  ...  •   •ov  '        «  D'un  ponte  al  passo  stretto^  •   »  Stando  sopra  d' un  carro  Tommasetto  y  '      •  *  »  hicontrossl  In  due  fraU  zoccolanti  ^  -,      n  Che  disser  :  Villanaccio ,  Ur*  avanU.  —      " •  •  V      •  *  Ed  egli  :  Aspetto  che  passiate  voi  ;  •^   »  Non  to'  mettere  11  carro  innanzi  t*  buoi  ».     >  -    Digitized  by  Google   a..  m   f-Il  pdjdrone  che,  interrogato  sulle  qualità  d'un  servo  licenziato ,  dietro  la  sua  esperianza  lo  dì-  chiara  ladro,  è  senza  fallo  un  maldicente;  rna  que*  sta  maldicenza  o  diffamazione  è  utile,  giacche  è  meno  male  che  resti  senza  padrone  un  ladro,  di  quello  che  vengano  derubati  più  innocenti.  •  '   ChesterOeld  non  distinse  con  precisione  i  con*  fini  che  la  satira ,  la  derisione ,  la  maldicenza  utile  e  necessaria  separano  dalla  maldicenza  inu-  tile 0  ingiusta,  nel.  seguente  paragrafo:  ,  .   a  La  privata  maldicenza  non  deve  giammai  es-  *^  sere  accolta  e  divulgata  volontariamente,  perchè  »  sebbene  la  diffamazione  possa  al  presente  ap-  »  pagar  la  malignità  e  Torgoglio  de'nostri  cuori,  i>  pure  la  fredda  riflessione  trarrà  da  sì  fatta  in*  »  clinazione  conseguenze  sfavorevolissime  per  noi.  »  In  fatto  di  maldicenza,  come  di  ruberia,  chi  la  »  raccoglie  è  sempre  creduto  colpevole  quanto  il   ladro  stesso  ».  '      *  /  .   Distinguete  la  maldicenza  che  svela  le  altrui  innocue  debolezze  per  sola  voglia  di  denigrare,  dalla  maldicenza  che  svela  i  vizj  veri  e  i  delitti  reali  che  possono  essere  dannosi  al  prossimo.  La  prima  è  ingiusta  e  riprensibile,  la  seconda  utile  e  necessaria.  L'uomo  cui  siete  per  affidare  la  direzione  della  vostra  cassa ,  è  un  truffatore  ,  xxn  giocatore,  un  dissoluto:  mi  farete  voi  rimpro-  vero se  ve  ne  avvertisco?  Qualcuno  vi  imputa  dei  vizi  e  dei  delitti  falsi:  vi  lagnerete  voi  di  me,  se  gli  strappo  dal  volto  la  maschera  ,  e  Io  dimostro  bugiardo  ed  impostore?  È  giunto  in  città  un  ca-  valiere d'industria  che  co'  suoi  ingegnosi  stratta*  gemmi  scrocca  l'altrui  denaro:  vorrete  voi  che    noR  ne  dia  avviso  a'  miei  amici  ,  acciò  la  loro  jomoaa  fede, non  cada  in  laccio?  AU^  corte;  sevo]  -  amate  il  gregge,  darete  la  caccia  ai  lupi;  e  se  gli  uoiiiiali.  accennerete  loro  i  cani  arrabbiati. Jieyole  ^er  V  uso^  della  satira. Tre  sono  le  fegole  che  debonsi  osservare   motteggiatore ,  acciocché  il  motteggio  riesca  one-  sto e  Jegittiibo,  cioè  non  offenda  nè  la  giusti^à^  ijè  Yumanitày  nè  la  convenienza.   Il  motteggio  è  ingiusto  in  due  modi:  1^  quando  t>un^e  (^ersóne  esent!  dal  vizio  ìniputato;'  2^  qMando  cade  su  difetti  che  non  possono  ascri-  '  versi  a  colpa,  come  le  imperfezioni  fisiche  ^  òv-   *  vero  le  sventure  accidentali.  •  L',  umanità  rimane  offesa  quando  il  motteggio  ^  nialigno  ò  acerbo.  Dà  segno  dì  malignità  chi  mostrasi  avido  del  male  altrui  y  M  si  delizici^  e  còn^piaep  neirinsuJtare  e  nel  nuocerer^$idà  segno  d'acerbità,  qualora  il  motteggio  è  sproporzionato  alla  jcolpat  .e  flagella  a  sangue  chi  ^on  merita  che  un  lieve  colpo  di  stafile  (I).  ,     *  '    ;  '  (\\  V  itotàh'      SoMÉe  m  rattopprata  .^iHn'^Mee»  delle  sue  maniere  ^  dairameDìià  abituale  de'suoi  sguttdi,  dal  tiorriso  dì  bonlA  ^  sempre  pronto  a  Dc^cere  sui  suoi  labbri,  di  modo  che  4'icoDia  cessava  d'essere  aiuara,  e  diveniva,  per  oqsì  dite ,  ua  agro-dolce  eondile  dalle  'grazia. Cresceva  or  '  t*inK>, or  riiRro  di  ifuéstt  due  efemeiilt,  secondo  cbe  11  difeifò  Tdie  Socrate  voleva  correggere,  era         amb  nodfO.  -  '  .    '    Voltaire  dice,  che  volendo  censurare  Cornelio,  imiterebbe   '  iioid4>  Il  Quatoy  nellA poomi^edl»  del  Uakiouuto  pet  ior^a  >   »  •   .  y  .i.Lo  u   -  Si  Tìola  la  convenienza,  quando  i  motteggi  di-  '  sconvengono  al  motteggiato  o  al  motteggiatore  éHa  «iveostanza  di  ioogo  e*  di  tmf^  ;  qrówto  sono  sconci  o  villani,  quando  si  scialacquano  senza  '  misara^  e  :  se  ne  fa  professione  aperta  «  perpetnà»  L'ingiustìzia  nel  motteggiatore  o  è  maliziosa  o  '  irriflessiva^  la  prima  nasce  dal  bisogno  di  umiliar  PMtrttì  merito  ptat  inoftlnorsi  sulle  f«^tie  deli"  ftb^*  battuto  rivale:  la  seconda  proviene  da  un  errore  d3iiteUetto  originalo  de  rislielftesie  di  idee^  siste*  mi  esclusivi,  rigidezza  dì  carattere,  tenacità  d'opì*  nìoni.  Da  quesi^a  causa  derida  j^e  tal,Y9|ts^  l'aicer*  Utà  prodotta  p*^ii  spesso  umor  eausticeié.  etra-  biUariqi^  JLi|i  causticità  è  sovente  figlia  4/  ^  <^uor  depravato  i  ebbro  d' orgoglio  malefico,  e  pasciuto  del  fiele  deirinvidia;  talora  una  cattiva  organizzazione,  o  le  persecuzioni  ostinate  deUa  Tortutia  giungòtiò  e  guastare  aiidie  unendole  Me^'-e  ad  avvelenarne  Io  spìrito.  '  •  /  r.  '  Le:  e^  ke  peir  'sóei  pìriii-   dpii  0  una  natura  grossolana,  0  la  mancanza  d'e-  ducazioney  o  una  vita  isolata  e  lontana  dalla  so^  eietà,  0  il  pocò  studio  dell'uomo,  o  le  compagnie  yolgi^p^^  ioQne  T  abitudine;  di  parlare  spensier^-   taméirter;■  '^t  -  ^'   '  '  *        ■  .  >  «  ji  ■    non  dà  giottliBat  ma<>  bailaalata  a'  Sganardio'w  non  previo  un  eoDipUmento  rispeUoso,  e  colla  protesta  d'essere  disperalo  per  essere  caj[tr41o  di  Cario.  Questo  inpdo.di^ceosarareiM»ja  debb'  esjsere  escluso  dai  croccili.  sociaB  *,  se  ma  cb0  in  vece  di  porre  in  m&no  al  censore  uh  bastone  j  fa  d*  uopo  dàrgfr  un  fltigeRò  di  jNMe.  '        Jl}ìm^  li6)Ia  ùimwènms^h  satira  appoggiate  al  falso  va  mordendo  lievemente  i  costumi  degli  assenU  ,  non  ta  99vero  cepsore  aggrotterai  tosto  ki  eiglia,  uè  tomi  icon  mano  ardita  qoeatò  tenoe  piiiBere  alla  mediocrità  che  si  consola  della  prò-!  |lrìa  batwzza  sfoirmndosi4i4«pcimi^V  J'alte^^^  n»e-  rito  V  ma  a  condiscendenza  atteggiato  più  che  ad  a88.ei)8p9  .ammirerai  lo  spirito  di  ehi  censura,  e^ter^  modo  dabbii  mU'applicaaioQa.  Sa  *poi  U  piacere  di  satireggiale  gua4dgi]ia  gj[i  9Staim  al  puntp,,(^e  'aQi;ga  qwlcha*  ».  ^  ;vt.-(:;-^;  .  ^^r^y-^M^^   ^    «  Tewité  et6lrti0  nrò?atord^^  f''::  ^   ^    »  Motti  protervi,  onde  a  maligno  riso  ^^^  V  »  Mover  la  dorma  e  la  virtù  schernire  ^  '   ti  sarà  permesso  di.  troncare  em  jdigailà  V  altrui  aiscorso,  e  assumere  la  difesa  degli  assenti;  ma,  per  non  scemar  fede  alle  tue  parole  ^  non  devi  mostrare  alterazione  di  spirito;  giacché,  altrinieriti  operando ,  al  piacere  di  satireggiare  si  assoeierà  ,  nell'animo  .del  satìrico  il,  piacere  di  conturbarti,  e  gl}  assenti  verranno  ad  essere  danneggiati  dalla  tua  stessa  apologia.  L' e^peri^jdza  dimostra  infatti  che  il  calare  della  difesa  rendè  ,  tahotta  gli  assa-  litori più  feroci,  e  allora  la  conversazione  rasso»  miglia  i^ue'aiigrifizi  sbarbarì  ne' quali  immola vansi  ijjttime  omaiie.  '  Lascia  dunque  qualche  pascerlo  .alla  malignità,  se  vuoi  ch'ella  ti  permetta  un  elo-  .gìo;  MBt  per  prosare  la.  itiocei^ità  del,  4iio  ttlo,>  allorché  tu  stesso  produrrai  in  mezzo  le  azioni  di  qualcuno,  in  cui  siano  difetti  frammisti  a  vir^,  userai  la  dèstrézza  di  quel  pittore  che,  dovendo  ritrarreAntigono  guercio,  lo  pins^  di  profile. Facezie.   Un  discorso  che  inaspettotanieiile  e  contro  JTap-  paranza  caoibid  il  rimpjTovero  in.  lode,  it  male. in  .tiene,  il  lisGMHre  iO;  sqi^exanza,  lo  spmzo  iii  istinni^  e  talora  anche  ali'oppostcs  si  chiamai  face zùa  La  facezia  si  divide  in  due.  specie;  La  l>  ^  un  hréYé  raceoitto  che  fa  passare  IV  nimo  tra  alcune  d\Tenture,  e  dopo  d'  averne  ali-  mentota  la  curiorttà ,  ikiisce  con  iin  sentimento  non  preveduto.  ^.    (I)  Dionigi  il  tiranno  avendo  sapulo  che  una  sua  coni-'  me^Ua^  dajui  spedita. 4l: concorso  in  Atene,  era^t^ta  eoro-  oata^  ne  injpti  «r«lleg)nem.  ^  CiH  Ateniesi  dissesn  cbe^ise  *av«flh  aero  preveduta' questa  tdaf^t^jotià  i  vsu^hf^eio  cèronatQ.Dlou^  venti  anni  prima.  *  *  '   in  qiieslo  caso  la  iode  copre  un  vero  disprezzo,  e  mmì-  testa  la  Viziosa  compiacenza  ct^e  dovevano  provare  que'  repubb|i^|AMr  la  moi>t€i  d'un  tiranno  tanto  abbòminato;  Sorge^^fftiBrmo  piaqèvolissitna  sorpeesa  nel  vedere  etie  «gli  Ateniesi  potevano  liberar  Siracusa  onorando  Dioniiii  in  Atenei*  Jjl.  padre  Le  'i'cìlier,  che  mentre  era  confessurti  di  Luigi  XÌV,*  teneva  il  protocollo  de'  beneticii  ecclesiastici,  diceva  ad  uti  giovine  abate  :  Yoi  altri  esitanti  agli  impieglil  sièle  oost^  amfei'  finché  aVeté,  bisoerio  di  noi  ;  'ma  qìiéaida  siete  saziati^  ci  dimenticate.  —  Ah ,  non  temete  nulla,  rispose  ridendo  Tabate:  io  iK>n  vi  dimcoUciierò  giuiumai,  giaccliè  solip  iosa^   In  questo  ciùo  tt  timore  si  cambia  in  speranza^  e  nel  -tempo  slesso  éi  si  pres^ta  improvvisamenfe  nùi^  upa  brama   I  •   che  con  somma  gelosia  suol  tenei:sì  nascosta.  ,  i,  ^  Eia      è  un  semplice  detto  pronto,  rnaspettàtoi  opportuno t  un  vivo  ^^apidgi£ripo  che  vellica  e'  punge  piaeevoimente.   *  Con  maggiore  chiarezza  e  precisione  di  ter^  Quni>-  giusta  il  suo  costume,  spiega  la  cosa  il  dot-  tissimo Gberardffil  dksemkK. La  giocondità  delle  lacezie  par  che  nasca  ordinariamente  da  un  ingé^  gIMMt»'  ed  iroproiovlM  'aecoppiftiBentcr  W  d«ie  idee  disparatCL tra  loro  e  disconv^jiienti  (1).  '    '   lì  riso,  semjira  il  prodotto  4i  due  sensai&ioni  u-  iike,  sorpresa  e  piacere  ,  eccitate  da  Jien  elitra»-,  stì  0  da  finissime  analogie.   L'impressione  oagionata  nel  nostro  animo  da  un  oggetto  nuovo  o  inaspettato  sidsiiania  sorpfesia.  La  sorpresa  è  maggiore  quando  T  oggetto  .coni-  0  la'  eosa  *  raeectea'  è  eonivìirìa  a/  qiiai^  suole  comuneipente  succedere.        ♦  *  '  •   Quindi  la  aorptesa.  è  massiin»  allorché  è  mas-  sióio  il  contrasto  tra  il  fatto  ^pcaditio  .eJa-Hft:  stifi.jaspettazione*  Ciò  posto:       1.  v  '     •  v  .  I.  jChie  éel  jtUo  abbia:  kmga  la  sorpresa^  è  di^  mostrato  dai  seguenti  notissimi  fatti:  •  '  '   Ridono  frtù  spe&so  gli  ignoranti  che  gli  o^-,  mini  cotti,  poiché  ì  primi  nón  conosGéndo  i  rap-  porti die  uniscftpo,  ie  cas.e,  9,  WAggiori  sorprese  soggiacciono. 11  saggio  appena  sorride  mentre  lo  sciocco  •  t'abbandona  a^  riso  sgangherato,  ^acchè  il  sagg^ìo  ^   .  r  -t's,        ♦  •  >       •   " .      \  .   •   \{)  EIcmonti  *  peesla  ad  uso  delle  scuole.    Digitized  by  Google    trava  presto  le  idee  intermedie  che  imi»sip>pi^jlor^  liuie'  afeiluate.  ddto  «òse  .«col  fi^  k»q^«if^ì^^  successo  e  che  sembra  smentirlo.  ^  r  "  ^^^  >  a<«  fy.  mette*  «bea  fUe^  Ue9ggiOt4t^^l<^  f^eioe-  co  non  ride;  e  questo  accade  quando  il  contrago'  ma  è  immediatamente  espresso  »  ma  dietro  rap-*  porti  pBBfiìm.ài  idee  s'asconde  «  e  quaìdie  mé^  noento  di  riflessione  per  essere  EientUp  o  ricono-   4.0  '6H  uomini  faceti  e  lepidi  dicono  e  sanno  rHl^yar  jOOi^e  che  lanno  ridere  gli  altri,  ^senza  die  .  «et  irfdeno^tesifi.  Man  vidptin*  esa  perchè  veggenti*  ril  nodo/cUe^unisce  le  idee  in  apparenza  contrastanli;  ^Qao*.  ridwe  gli.  altri.  4^rehè  hfinBQ  T  artiiisio.  di.  ^asconderlo  ai  loro  occhi.  >'  *   r^r?  II  riso  die  ecdta  .una  facezia^  sentila  la  fush  ma  yoitai  è'«moltn  pjéore  alte  sead^a,  e  posbin  diviene  millo,  perdiè  le  cose  note  fioii  lasciano  Ittoga^^liia  ijorp»^.  /  ^    sw*.  v  >^        ,    >à>^I^*  ,   IL  Che  a/  riso  non  basti  una  sorpresa  q^it^*'^  limqu^f  ma  si  riohicgga  Vaggiìmla^i  sensaziaue  piacevole,  seop^ira  rieattare  -dat  ft^^fuenti  ietti:  .< ^   1.  "  Noi  ridiamo  ricordando  le  nostre  passate  fi^lÀ^  Qv^j^m^  aUoiaOia  annessa   jd^a  del  .disi^-  nore,  perchè  questa  Vicordanxa  dà  risalta  al  sen^  limentOc:4^4.;POSti;a  #Utuaj|^e  .saggezza  »  e!,  quasi  «  dissi,  le  accresce  piregio;  .       .  t  ,  ^      evi^  rvjV/.   2.  <>  Noi  ridiamo  aH'udire  le  altrui  goffaggini  ;  il,*  cl\e  fiorse  d^riiui  dairamor  (HPQpriOr  il  qmlei  gica-f,  see  nello  scoprire  in  altii  de'difetti  de'quali  egU  ait  crede  esente.  -  .  i n  %  /?  ;       >  c^^  ^f  i  ^j  "^'   ^.^^  Koi  rìdiamo  alle  sveMure^dei  ncNMvl^nemicti.  allorché  non  sono  sì  forti  da  interessare  la  nostra compassione  ;  poiché  le  accennate  sventure  adé^  scano  piacevolmente  il  sentimento  dell'  inimicizia  e  della  vendetta.  ,i^>>i  -^^t^^fi  r/Ji^U\p>y'4,i ^j'^Mip^i  -  4.«  I  beffardi  ridono  nello  scliernìre  questò  o  quello,  giacché  il  loro  orgoglio  coglie  tanti  gradi  di  piacere,  quanti  gradi  di  depressione  ed  avvili-  mento fa  subire  agli  altri  co'suoi  motteggi.   •  ^fi.p  Noi  ridiamo  nello  scoprire  somiglianze  tra  oggetti  che  credevamo  non  ne  serbassero  alcuna,  come  rìdiamo  in  generale  sentendo  ingegnosi  tratti  di  spirito;  perchè  il  facile  esercizio  della  no-  stra intelligenza  nel  rapido  passaggio  da  un'  idea  dtf  un'altra,  ì  cui  rapporti  lontani  non  erano  ben  noti  e  distinti ,  é  per  se  stesso  piacevole ,  com'  è  piacevole  un  moderato  passeggio,  il  respirare  aria  nuova,  la  comparsa  d' un  lume  neiroscurità  e  si-  mili; 2.0  perchè  quella  cognizione  diviene  argo-  mento della  sagacità  nostra^  la  quale  ha  saputo  cogliere  un  elemento  che,  i:estìo  all'analisi,  al  co-  mun  guardo  ascondevasi*  V  .  ^  "4(^j»*   ,  .'     .'«'  «..V,  .   III.  j4cciò  la  sorpresa  e  il  piacere  cagionino  riso,  vogliono  essere  prodotti  da  lievi  contrasti  0  da  finissime  analogìe;  ecco  qualche  fatto:   •  1.°  Alla  vista,  per  es.  d'un  bel  quadro,  all'udire  una  bella  musica,  noi  proviamo  sorpresa  e  pia-»  cere,  ma  non  rìdiamo;  dite  lo  stesso  allorché  al'  vostro  occhio  sì  presenta  l'arcobaleno  od  altro  si-  mile grandioso  ed  innocente  fenomeno.   "i.^  Vi  cagionerà  sorpresa  e  piacere  senza  farvi  ridere  la  vista  d'un  animale  selvaggio  non  mai  veduto  prima,  per  es.  la  grossa  scimia  chiamata  Qurang-outang.   Ma  se  la  scimia  vi  si  presenta con  berretto  da  cardinale  in  testa,  voi  non  po-  trete comprimere  il  riso:  v'è  qui  un'  contrasto.   Osservate  bene  che  non  tutti  i  contrasti  fanno  ridere^  ma  solamente  i  contrasti  lievi,  e  son  quelli  che  escludono  la  compassione  e  l'orrore.  Se  un  uomo  millantandosi  di  poter  saltare  un  fosso  vi  cade  in  mezzo  come  un  animale,  voi  ridete  sgan-  gheratamente; ma  se,  cadendo  si  rompe  una  gam-  ba od  altro,  voi  non  ridete  più;  qui  il  riso  è  com-  presso dalla  compassione.   Dire  con  Aristotile,  che  il  riso  è  prodotto  da  una  deformità  senza  dolore^  è  ristringere  di  troppo,  secondo  che  io  ne  giudico,  il  campo  del  ridicolo;  poiché  spesso  noi  ridiamo  saporitamente  senza  che  alcuna  ombra  di  deformità  al  nostro  spirito  si  appresemi.  Infatti  ci  fa  ridere  la  sco-  perta di  finissima  analogìa  non  prima  supposta  (p.  471,  nota  i),  l'unione  di  qualità  che  sogliono  essere  disgiunte  (p.  461,  nota  i),  la  disgiunzione  di  qualità  che  vanno  ordinariamente  unite  insieme  (i).   fj*       ,J   m  ....  .  ,  .   "  (I)  TI  rasllf^'lìone  raccoma  come  un  dottore  vedendo  uno  che  per  giusti/.a  era  frustato  intorno  alla  piazza,  e  avendone  compassione,  perchè  'I  meschino,  henchè  le  spalle  lìeramente  gli  sanguinassero,  andava  così  lentamente,  come  se  avesse  passeggiato  a  piacere  per  passar  tempo,  gli  disse  :  Cammina,  poveretto,  ed  esci  presto  di  questo  affanna  Allora  il  luion  uomo,  rivolto,  guardandolo  quasi  per  maraviglia,  stette  un  poco  senza  parlare ,  poi  disse  :  Quando  sarai  frustato  tu,  an-  derai  a  modo  tuo  \  eh'  io  adesso  voglio  andar  al  mio.   Vediamo  in  questo  caso  disgiunte  due  quaìilù  che  sogliono  essere  unite;  cioè,  sotto  Fazione  delle  percosse,  non  scor-  giamo né  I  segni  del  dolore  ,  nè  lo  sforzo  a  liberarsene.  Abbiamo  dunque  da  un  lato  una  forte  sorpresa,  daU'  altro Fonti  4ija0ezie€^^  *   Le  numerose  fonti  dà  cui  s^possoikl  tram  ìetà^   cezie,  vogliono  esser  ridotte  a  cinque  capi  generali. Deformità  logiche;  Deformità  morali;  Deformità  fisiche;   Opposizione  artifiziale  tra  tó  iHile  e  il  sog-getto. Somigh'aoze  e  contrarietà  lontane  o  latenti  ed  miprovvisamente  svelate.  Sono  deformità  logiche  le  deviazioni  dal  retta  raziocinare;  e  ì  gradi  di  esse  saranno  sempre  maggiori,  quanto  più  peccheranno  coatra  le  regole  del  ginsto  raziocinio.  «  L'rghpranza  quindi  delle  1)  pili  facili  combinazioni,  la  credulità  soverchia,,  i>  la  scimunitaggine  sono  fonti  sicurissimi  dia'qiiali  »  emerge  quella  deformità  logica  che  provoca  il  »  riso  senza  eccitare  nè  rodjQ  nèla  compassione:  »  quindi  le  parole^  o  prive  di  senso  o  storpiate,  »  le  interrogazioni,  le  risposte  fuor  di  proposito,  M  le  incoerenze,  la  pertinacia  negli  errori  evidenti,   e  quella  abitudine  che  i  goffi  hanno  dì  dir  seni*»  »  pre  e.  credere  le  cose  a  rovescio  dei  logici  detr  »  tand  ».    un  sospettò  dié  quel  padeiité  o  non  gòffrissC}  il  che  fa  ta-  cére n  denttinéoto  penóso  della  compassioné  ^  o  ituscisae  a  deoilnare  11  dplòre  ^  il  che  dà  luogo  ad  anudirazione  scevra  d'invìdia.   lo  non  saprei  come  innesLire  sulle  azioni  e  sul  discorso  di  quest'uomo  Videa  della  deformità^  mentre  vi  veggo  cbia-  rrsslmo  un  bel  contrasto  con  qùanto  succede  'comunemente;    DUn  esemplo  di  ^&r^giooaaieuto  logico  cagionato  aà  '  bijióna  dó^e  d'òirgotglia  sì  vede  nel  discorsa 'die  l'Alfieri  meite  in  bocca  al  suo  conte,  allorché  co-  stui viene  a  contrasto  eoU'abate,  futuro  mae^a  .de'suo]  pglì^  sup'ofiiararto  che  gli  vuol  dare..    '    «  Ora,  venendo  al  sodo,  '  .S.  ^'"  »  Del  salario  parliamo.  V  do  tre  scudi;  ^'  ;   »  Che  tutti  in  casa  far  star  bene  io  godo.  —   Ma,  signor,  le, par  egli?  a  me  tre  scudi?   "  S  Al  cocchier  ne  dà  sei.  —Clie  impertinenza?  ^  >  »  Mancan  forse  i  maestri  anco  a  du'scudi? Ch'è  ella  in  somma  poi  vostra  scienza  ?  '^r%  Chi  siete^D  somma  voi,  che  al  mi' cocchiere   *  Veniaté  a  cootrastar  la  precedenza?   ^  l  ìK  GU  è  nato  in  casa,  e  d'un  mi'cameriere:  i  i>  Mentre  tu  sei  di  padre  contadino, E  lavorano  i  tucti  r/altrui  podere^  H   »  Compitar,  senza  intenderlo,  il  latino;  '  >     Una  zimarra,  un  mantello n  tallare,  ^^  i  »  rCn>  coUaru^cia  sudi-rcelestrino ,  >  *  - Vaglion  iòrse  a  natura  in  voi  cangiare     r  .  Poche  paròle:  io  p^go^ereibeiiissimo:   C  .  u  '    >»  Se  a  lei  npn  quadra^  ella  è  padron  d'andare  ».   Atteso  una  grata  sorpresa  sono  parìmente  ma-  te)*ie  di  riso  le  imle^  intelligenze^  "  come'  allorché  un  discorso  vien  preso  ih  un  senso  opposto  a  quello  che  gli  fu  dato  da  chi.  Jo  pronunciò  ;  d' onde  na-  sce una  contrarietà  fra  la  dimanda  e  la  risposta,  ed  una  sensibilissima  divergenza  :  per  es.,  Pietro  dhnanda  a  Paolo  dove  va^  Paolo  ^rispofìde  jparfii  pesci.  '  V    .  *    ij,.i^L.o  i_.Appartengono  a  questa  ètasse  té  ISu'tle^^^^  contengono  un  certo  inganno  inaspettato,  per  cui  nasce  molestia  ad  alcuno  senza  dolore  però  e  senza  grave  incomodo.   IL  Per  deformità  morale  intendesi  quella  che  non  è  consona  all'  usata  maniera  con  cui  conver-  sano gli  uomini,  ma  sì  però  che  non  turbi  o  funesti  Tordine  socievole,  poiché  allora  questa  de-  ^formità  andria  congiunta  con  la  scelleratezza,  e  ingenererebbe  odio,  non  riso.  Quindi  fanno  ridere   1.  V  incongruenza  de'caratteri  :  perciò  sem-  brano piacevolmente  assurde  le  millanterijs  in  bocca  d'un  vile,  e  le  gravi  sentenze  sul  labbro  d'una  me-  retrice e  simili. Tutti  i  caratteri  e  tutte  le  azioni  che  hanno  l'aria  di  singolarità^  cioè  che  si  scostano  dalle  ri-  cevute costumanze;   3.  *>  La  discordanza  tra  i  mezzi  e  il  fine  prò-  postosi^  0  le  pretensioni  maggiori  delle  forze. Le  passioni  gagliarde  svegliate  da  lievi  cagioni;  talvolta  per  es.,  resta  annullato  un  pro-  getto di  matrimonio,  di  commercio,  od  altra  as-  sociazione, per  contesa  sui  titoli  de'contraenti  da  inserirsi  nella  carta  di  contratto;  e  le  reciproche  vanità  rimbalzano  come  rimbalzano  e  retrocedono  due  palle  elastiche  che,  moventisi  in  opposte  dire-  zioni, vengono  ad  urtarsi  in  mezzo  al  bigliardo  (?)•    '  (I)  *  Allorché  il  Cardinale  Mazarino,  miuistro  francese,  e  dòn  Luigi  di  HarO)  nìinislro  spagnuolo,  convennero  neirisola  de'  FaggianI  (  in  mezzo  alla  Bidassoa  sul  contine  de'  due  regni),  per  concertare  tra  le  altre  cose  il  malrimonio  d'una    »  S. Gli  sforzi  per  attribuire  agli  altri  la  col-  po, de  nostri  sbagli  (1).   *r  A  scanso  dì  ripetizioni  vedi  la  pag.  343  eseg.  f  HI.  Deformità  Jìsica  si  è  quella  che  emerge  dalle  deformità  visibili,  corporee,  naturali.  «  Va-  M  stissimo  campo  di  ridicolo  si  è  questo,  poiché  »  iufinite  sono  le  aberrazioni  che  notar  si  pos-  »  sono  nel  regno  della  natura,  e  nell'uom  princi-  w  palmente,  che  per  eccellenza  fu  detto  re  della  »  natura  medesima.  Quante  mai  numerar  si  pos-  »  sono  deformità  corporali,  sia  nei  membri,  sia*  »  nel  portamento,  tutte  sono  giocondissima  fonte  »  di  ridicolo,  purché  le  deformità  che  prendonsi  D  per  oggetto  di  scherzo  non  siano  indecenti  o  »  col  dolore  congiunte,  poiché  allora  non  riso,  ma  .  »  ecciterebbero  di  leggieri  odio  o  compassione. Un  uomo  urbano  per  altro  non  farà  mai  og-  getto di  scherzo  quelle  fisiche  deformità  che  non  si  possono  attribuire  a  colpa,  come  ho  già  detto  più  volte.   Ito  f  '    Infante  di  Spagna  (Maria  d'Auslda  )  con  Luigi  XIV  re  di  Francia,  furono  tante  le  recìproche  pretensioni,  sorsero  si  gravi  difficoltà  sul  cerimoniale  e  V  etichetta,  che  trascorsero  due  mesi  prima  clie  i  ministri  potessero  accordarsi.   (I)  Un  ingegnere  mezzo  ul)briaco  e  barcollante  prende  a   .  misurare  un  terreno,  e  commette:  ercoli  tali  die  gli  astanti  ne  fanno  le  maraviglie.  11  buon  uomo  in  vece  di  rendere   ,  giustizia  a  sè  stesso,  se  la  prende  col  suo  strumento,  e  dice  balbetttUìdo:  Ehi  ma  il  difetto  é  nella  mia  pertica:  ora  ella  lia  otto  piedi,  ora  non  ne  ha  (|uattrOj  e  la  getta  sul  fuoco.  In  questo  esempio  primeggia  la  deformità  logica  sulla  defor>  niifà  moràlo.  Ceretti.  .j^  xxl  i^\.^r  Jife  àctoi^  v    ti.    "'llr,   11  ridicolo  nasce  alle  volte  dal  veder  trattali  con  uno  stile  lepido  e  scherzevole  gli  argomenti  gravi  e  severi,  il  che  vellica  piacevolmente  la  ma-  lignità del  cuore  umano,  il  quale  gode  nel  veder  posti  a  livello  gli  oggetti  eminenti  coi  più  comu-  iif,  ed  è  questo  il  copioso  fonte  delie  parodie.  Talvolta  all'incontro  s'induce  riso  col  ragionar  di  ^  oggetti  bassi  e  plebei  in  un  tono  grandioso  ed  eie-,  vato,  dal  che  vengono  essi  a  ricevere  un'aria  co^^  mica  e  faceta,  mentre  sotto  aspetto  di  lode  son  fatti  ridicoli,  e  la  critica  riesce  tanto  più  salsa,  qiianto  più  è  dissimulata.   Senza  alcuna  specie  di  discorso  si  può  eccitare  'ridicolo  con  una  lode  apparente  smentita  dal  fatto.  Batru,  che  aveva  motivo  di  lagnarsi  del  duca  d'E-  pernon,  fece  un  libro  che  aveva  per  titolo:  Le  grandi  imprese  del  duca  d'Epernon:  ma  tutti  i  fogli  del  libro  erano  bianchi.   tt   Debbono  essere  collocati  sotto  questo  titolo  »  que'concetti  d'ambiguo  significato,  onde  può  »  trarsene  una  grave  sentenza  ed  una  arguta  fa-  ì)  cezia.  Così  a  dire  d'un  uomo  liberale,  che  quello  •»  che  ha,  non  è  suo,  può  divenir  salso  ove  si  V  torca  a  biasimo  d'un  ladro:  e  salso  riesce  per  D  non  dissimil  ragione  quel  motto  citato  da  Tullio,  .  )i  a  proposito  d'  un  servo  infedele,  lui  essere  il  y>  solo,  per  cui  mdla  vha  in  casa  disuggellato  «  e  di  chiuso;  il  che  a  lode  d'un  servo  leale  po-  »  irebbe  dirsi  ugualmente.   Se  non  che  sì  fatti  >p  scherzi  vengono  commendati  più  per  ingegnosi  .?>>  che  per  festivi,  essendo  manifesto  indizio  d'a-  •»  cuto  ingegno  il  tor  le  parole  in  altra  signiUca-  w  zione  da  quella  in  che  sogliono  esser  usate. ^^Ordinariamente  questi  scherzi  riescono  insipidi,  perchè  per  Io  più  da  un  lato  lasciano  scorgere  la  voglia  di  scherzare  e  l'impotenza  di  riuscire,  dal-  l'altro  non  producono  effetto  sensibile  sull'animo  per  mancanza  d'acume.  -   V.^'  <t  Tra  tutte  la  maniere  onde  si  perviene  a  movere  riso,  piacevoli  senza  fine  riescono,  tanto  il  torcere  contro  d'altrui  quel  frizzo  che  a  farci  ridicoli  era  stato  proferito,  a  quel  modo  che  Ca-  tullo, interrogato  da  Filippo  perché  abbaiasse,.  Perchè  vedo  il  ladro,  rispose;  quanto  dal  conce*^  dere  argutamente  all'avversario  ciò  stesso  con  che  ti  morde,  trarne  appunto  occasione  di  vituperarlo,  siccome  usò  avvedutamente  L.  Celio,  al  quale  es-  sendo da  taluno  di  bassi  natali  rimproverato  che  egli  fosse  indegno  de* suoi  maggiori:  Affé,  ripi-  gliò, che  tu  se' degno  de' tuoi  »  (i).   In  questi  e  simili  casi  il  piacere  risulta  da  dop-*  pia  fonte:  l.*»  dalla  depressione  d'un  impertinente,  aggressore,  o  sia  dalla  cessazione  d'un  dolore;  il  che,  quando  succede  rapidamente  nelle  cose  mo-.^  fall,  equivale  a  piacere;  2.o  dagli  improvvisi  rap-  porti di  somiglianza  tra  la  proposta  e  la  risposta.  ^*  '  11  ridicolo  risultante  dalla  scoperta  improvvisa  di  somiglianze  o  contrarietà  non  comuni,  non  si    "  '  (()  •  Luigi  XV  disse  un  giorno  al  conte  Eric  di  Sparre,  jche  fu  due  volle  ambasciatore  in  Francia  pel  re  di  Svezia  :   ./SigfioF  di  Sparre,  provo  dispiacere  vivissimo  in  pensando  che  voi  non  siete  della  mia  religione;  un  giorno  o  lallro  io  an<  derò  in  cielo,  e  non  vi  troverò.  —  Perdonatemi,  Sire,  rispose  f  '  ambasciatore  :  il  mio  padrone  m'  ha  ordinato  di  seguirvi  dappertutto.  "    . •  *  •    472  ,  f  può  assolatamaote  attribuis^  alia  iiialigQilà|ii»Ma,  come  si  dovrebbe,  se  in  queste  indagini  si  preip*'  (fesse  peK  gttidé  la  ^ola  teoria  d' Asistoteteì  il  che  multerà  meglio  dall'analisi  del  seguente  fiattóv;Un  contadino,  yenuto  a  dolersi  pon  un  podestà  perchè  gli  era  stato  rubatali  sto  «ino^  dopo  d'a-  erare; parlato  della. Sfla  povertà  e  deiringanno  fat-  tégH  dal  ladro,  per.  fine  pjè  grave  la  perdita  sua,  disse;  Messere,  se  voi  aveste  veduto  il  «lio  asioo^  ,aiio0r,fiitt  riconoscereste  quanto  io  ho  ragion  di  dolermi;  chè  quandi ^veva  il  suo  basto  a^osiSiH   f iHraa  :f  sopriam^iM^  *ii8^^i^hevci  cagiona  qiipste  4i8Cor^^  non  n^sce   dal  vedere  depresso  TulHo  a  livello  delPasino,  ma  DèVoiedei^x^^^^  s£orz;aur  dosi  d'ingrandirne  Videa,  scappa  &ori  improvTl^  ^saQiente  con  un  confronto  nuovo,  e  si  Insinga  ^   t^^ré  sowiigliaiwa.tra  Basilio  e  TiilfiQ^r   lù  ttóte-  le  cose  vi  sono  certi  limiti  che  non  si  éebboào  oltrepassare,  certe,  condizioni  alle  qu^lì  jEa  d'uopo  sottomettersi;  altrimenti  facendo,- si  va  lungi,  dalla  meta  cui  si  proponeva  di  giungere,  non  si  consegue  Io  scopo  che  si  vagheggiava.   Lo  ^opo  cui  miriamo,  i  mezzi  che  possiamo  porre  m  <>pera,  servond  a  farci  ricondscere  quelle  condizioni  e  que'limiti.  '  '   Le  facèzie  x)  celie  che  teodono  a  rendere  festiva  a  brigata,  sì  possono  considerare  \  \   Nella  persona  che  le  dice;.   i.o  Ifelia  persona  che  m  è  l'oggetto;r3«.^  Migli  «auuiti  eh»  ,  le  aseetbp^i'   < Persiona  che^  celia*   .  1^*0  uomo  geutila  nè  ride  nè  fa  ridere  aUa  foggin  de'pazzi^  degU  seioeioliii  id^IL  iilériichif   degli  inetti,  de'buffoni,  Fenelon  non  ischerza  come   arleccliioo:  uè  Xmsm  4ì  §M8to  eaft£<)iìde.il  «mono  de^G^'.  dfiH' a||ia  C9I  fracaaso  assordante  ddle  campane.  .  Vupmo  dmiene^  bttffime,  Mihrchà  Mace^   altri  a  ridere  per  le  sue  sciùcchezzey  allorché  ai4eiU  axgiuti  smtilm$c$  de'mUi  arJecJmetehif  ed  a  misura  che  si  fa  attore  in  vece,  «fi  restare  semplice  narrale;  perciò  alquanto  buffonesca,  aeeottdo  <die  10  Be.^iiuiieo,  fa.  la  wnéatta  iK  IMo*-  gene  nella  seguente  occasione.  Ne'  giuochi  pub-  blici d'Ateoe  si  distribuivano  uu  giorno  de'piemii  a  quelli  che  davano  saggio  di  maggior  destrezza  neg^l  esercizi  dell'arco,  .della  Jotta  e.  delia  €om«  «  Ira  qnoUi  v^Ae  ^tiravmo  Tareo,.  prìmèggiaìFa  4100  per  la  sua  gofiferìa.  Diogene  andò  a  collocarsi  pre-  cisamente alla  meta  cui  mirava  Tarciere;  gli  si  di«  mandò  perchè  sceglieva  quel  posto:  Per  non  es-  ser ferito,  rispose  il  cìnico.  Il  motto  è  arguto,  ma  la  condotta  era  bu£fonesèa  per  un  filosofo;  ed  oltre  a  ciò  troppo  acerba  p^r  Tarciere  ^.  .    (I)  Minore  taccia,  perché  accompagnata  da  minore  pub-  blicità ,  merita  *  la  condotta  di  SoeriOe ,  «norcHè  Alcibiade  rKoniò  da  Olimpia  vincitore  di  tre  premi  al  cdi*8o  deH^tìt  Tutta  la  Grecia  lo  aveva  celebrato  per  questa  sua  vittoria.  Al  suo  arrivo  tutta  Atene  andò  a  ritrovarlo.  Socrate  solo  non    Digitized  by    i.^  iloiiici 'ébe  fiol^iioi  detti  argutt  impirtii  ad  eccitare  negli  altri  il  riso,  nofì^debb'igssere  il  priino  a  rideriie;,iina  facezia. detta  cojxsei^età  riei^eepiù  piccante;     -     '  ^   .  Egii  si  tenderebbe  ridieak)  m  per  si  fatte   ^ver ti  questa  0  quella  brigata  coi»  tale  o  tal  altra  ciUa^  <  6  vJd^iJpÉltaatf '  0MÉ  i^ipateMa  di-  vanto;   .         Non  conviene  fare  oggetto  di  celia  mordace   Gli  uomini  generalmente  stimati^  e  non  taiiitave  JiliisMfiMM^  al  qlMpte'dól^  tanfiNBeoolt  rifèane  an-  cora la  macchia  d'aver  messo  in  deriso  Socrate;  '  .  La  peiaM»  troppo  atolido«'  pat«hè  nott  v*è  glo^  im'nel  venire  a  contesa  con  esse;  *   .1  miaer»  ed- ìi^ìcÌy  perchè  sarebbe  (grude^;  eÓMtMatd  a ^isaÉo  cbe  immé^  mmaMMori;  GU  ttomini  troppo  sensitivii  peròhè  motteg*^  gio  ^  alvvilifiM;  I  vendicativi,  perché  ci  esponiamo  a  pagarne  ii  ioo  lo  «tesso*  si  diea^  degli  igMraQtl«^|K)l^tf9  ai  1pllaI^^tlri  strale  acutis8i«M  €be  ai   pianta  nel  loro  animo*    -  •  1    comparve  che  il  giorno  appresso

,  e ,  in  vece  di  domandare  il  vincitore,  dimandò  i  vincitori,  (ili  schiavi  non  comprendendo  il  suo  pensiero,  egli  ordinò  loro  di  conduco  alta  stalla.  Ejf^li  vi  étitrò  col  suo  seguito^  ed  essendosi  fatto  mosiràre  iisavalli  iIMNmati  da  Olimpia,  si  avvicinò  ad  essi,  li  salutò  con  rispetto,  fece  loro  de'gran  complimenti  sulla  loro  agilità  e  sulla  gloria  che  si  erano  acquistala.  Alcuni  del  suo  seguito  recitarono  loro  l'oite  cl^e  Euripide  i^veva  composto  in  onore  d'Alcibiade,  Dopo  questa  scen^  i^oiffonesqa^  Socrate  si  ritirò  senza  doman-  dar di  vedere  il  Iripoiiilbre.    Digitized  by  Google    m    ,  la  calimi»  «W»  si  4^  iii^o^teggiare  alj[a  cìepa;   It.'  Persona  cui  è  diretta  la  eeiia.   it^  .  l^aiwlla  è.pegUa  4^i9r  cadere, una  eelia  senza  disposta,  di  quello -  elie^  ifnpegnar<A  hi  im  4Kmi}^atUi|i^to  con  p^r$pua  che  forsp  non .  mirò  1^  yvWWfH;  (»Hr«4|^  «l  wilapfi  dagU  scbiarimenti  che,  ìoi  vj^  d'^vj^icio^r^  g^lj  ajoÀmU,  gli  allontaDano   ifi  QMfidla  BOB  Vi  è  pcmHHle  dUsimulare,  e  vedete  gli  altri  a  ridere  a  vostre  spese,  ridete  voi  iwret  e  topralMiO'  hm  imetiste-  lAsMtbneDto  dispiacere,  come  è  stato  detto  di  sopra.  Si  veg-^  goao  ogai  giorno  persooe  incivili  che  non  sanao  rispondere  ad-mi  ìnnoceote  scherso  fncMrchè  con  >  ingiurie  e  viHapì^  pgiKJiq  pgpi,  ((erflQpa  prudepte  cli^  qQ|i,.vi|ote  {s^ii^Qin^    8filg(;e  il  loro  in-  •  contip»      ^  •  '   a.*  Se  nQg.èyfk^m^  dirìiy^  -  ^   to,  è  penDcsso  re4argi|ìre,  e  ripnandare  la  palla  a  chi  la  gettò;  è  que||9  |i  dii^itto  dal  ^iit^cp^.  ob^   Le  facezie  che  piacciono  al  volgo,  riescono  il  .  #iii  d«U«  y9H&.  tPWH^      (Ursone  aeasat^.  !  <P^(^'lwmle  p9S9<wkQ  sembrai^  tra  gravi  matrone  qpelie  ce|'^  cbie,  proiferite  in  un  croccilo  d  up-   .  Altronde  Ya?iaipo  4»^Qto  i  giudizi  degli  no-  li jnini  interno  4, n^P^T^^i^  $SO)hra  qnasj  iip-  »  Dosaihile  il  iiSBarae  11  véro  ed  essenzial  caratatère;  conciossiacliè  a  taluno  parrà  lepido  e  gen-  »  tile  un  molto  che  ad  altri  riescirà  dispiacevole  e  »  rozzo^  Sappiamo  in  sfatti  che  a  Cicerone,  ricco   »  altronde  del  talento  della  facezia,  ivano  a  san-   'fi''   »  gue  gli  scherzi  di  Plauto,  mentre  Orazio  li  ri-  »  prova  siccome  illepidi  ed  inurbani   Ed  ecco  buovi  motivi  per  conoscere  intimamente  il  carattere  e  il  gusto  delle  persone  con  cui  si  con-  versa, acciocché  ì  nostri  detti  non  facciano  nascere  nel  loro  animo  la  noia,  mentre  aspiriamo  ad  ecci-  tarvi il  diletto.  ^   'ik'  IV,  Qualità  delle  celie.  ^   È  necessario  iin"^tìsto  fino  e  delicato  per  di-  Stinsuere  ...ì,j*»«u«u^        y-mm-^: ,   l.«   Ciò  che  adesca  da  ciò  che  punge. Ciò  che  punge  da  ciò'ché  è  insipido  3.0   Ciò  che  è  insipido  da  ciò  che  è  triviale;  ^  4.0   Basta  il  senso  comune  per  discerncré  ciò  che  è  triviale  da  ciò  che  è  ributtante.  -    •  '  -   Questi  quattro  gradi  servono,  a  i^oèì  dire,  di  scala  per  apprezzare  le  celie. La finezza del gusto è il risultato di certa facilità d'immogrnazione, volubilità  di  spirito,  feeoudità  di  idee,  rapidità  di  confronti,  acutezza  di  giudizio,  delicatezza  di  sentimento.    •  '  •  •   Colla  scorta  di  queste  facoltà  si  riesce  a  coii4-  porre  un  misto  felice  di  serio  e  di  giovfale,  a  ve-  stiredi  forme  leggiadre  le  idee  piò  astratte,  a  ri-  trovare una  massima  che  corregge  piacendo,  uri  pungolo  che  scuote  senza  irritare,  una  censura  che  nè  il  rispetto  offende  nè  ramìcizia. Allorché  dunque  muniti  di  queste  fàcòltà  Vac^  cagete  che  gli  asMatì  fiono  disposti  ad  éseoltarvì;  che  n  soggetto  vale  la  pena  che  parliate;  che  tutte  le  circostaii^e  vi  sono  favorevolij  se  ^udebe  idea  festiva  e  cap^  di  irallegrare  una  società  amabile  si  presenta  al  vostro  spirito,  commettereste  una  ispeéfe  d'ingiustizia  se  ne  la  privaste^  qualunque.'  sia  n  vostro  carattere^  qualunque  carica  occupiate  nello  Stato.      '  •»  -y:-    •    '  ■  ^^i'-r'-^^ti   ^  Le  celie  fehe  si  possono  chiamare  il  fiore  dello  sphrito,  vogliono  essere  dilicate.  D' Alembert  rK  .  portando  il  deita*M  padre  Bourdaloué  relativo  à  Despréaux  —  Se  Despréaux  mi  mette  in  ridicolo  netà  sue  satire,  ìq  gli  rènderò  ta^rigtia  Mite  mie  prediche  —  D'Alembert  con  tutta  la  delica-  tezza attica  soggiunge:  V'ha,  apparenza  che  que-  sto non  sarebbe  sueeesso  nella  predica  del  perdono  delle  ingiurie. .  ♦  '  .Per  non  ripetere  ciò  che  è  stato  detto  iòtaTear  pttolò  antecedente,  mi  ristringerò  ad  accennare  alcuni  difetti  che  si  debbono  sft^ire:nel  maneg-  gia delle  celTe.^    .   v  .^  -  /     *  :  :   1.®  Le  celie  non  vogliono  essere  insipide.  Sono  ,  sempre  insipide  le  celie  che  si  risolvono  in  èqui*  voci,  iperboli  esagerate,  giuochi  di  parole,  verbi  a  doppio  senso,  cui  la  vera  significazione  si  toglie  per  sostituirle  un'altra  che  non  l'è.  Ssseudo  più  facile  il  ripetere  delle  parole,  dei  suoni,  delle  sii-  labe^  di  Quello  che  awiéihare  le  qualità  lontane  delle  cose  o  scoprirne  le  latenti;  perciò  le  suddette  ,  celie  piacciono  al  volgo,  mentre  danno  noia  alle  persoa#  seiiHAe»  I  fanciulli  confondono  le  carte  nel  mezzo  della^  partita  quando  non  hanno  buoa giuoco  :  gli  scìoli  non  potendo  alimentare  la  con-  ,  versazione  coiramenità  dei  sentimenti  e  delle  idee,  •  le  interrompono  con  bischizzi  (1),  calembonrg^  discorsi  che  sembrano  dire  qualche  cosa,  mentre  non  dicono  nulla,  e  sono  il  tormento  di  chiunque  è  dotato  di  qualche  spirito,  ij  2.0  Le  celie  non  devono  essere  scurrili.  Esse  sono  tali  allorché  versano  sopra  cose  la  cui  im-  magine offende  il  gusto,  come  la  loro  realtà  of-  fende i  sensi  (2).  Si  chiamano  anche  scurrili  quelle  \  celie  che  fanno  arrossire  il  pudore.  .  Le  celie  non  de  vono  peccare  per  eccessiva   '  .  ìiìalignità. Le  celie  non  devono  peccare  per  eccessiva  acerbità^  dovendosi  bensì  far  uso  del  sale,  ma   .  •  con  moderazione  (4).    (f)  I  bischizzi  consistono  nel  mutare  ^ ovvero accrescere o minuire una lettera o sillaba  d'  una  parola  ;  cóme  colui  che  disse  :  Tu  dèi  essere  più  xlollo  nella  lingua  latrina  cUe  nelia  lìngua  greca. Pecca  pec  bassa  e  villana  scurrilità  il  seguente  epitaffio  che  il  Lasca  fece  ad  un  Grasso  :  .  ,  .   .  •        «  Qui  giace  il  Grasso  (  noli  ben  chi  legge)  ,  .  •       »  Che  avendo  il  viso  simile  al  cui  molto  ,        L'alma,  non  discernendo  il  cui  dal  volto,  »  Se  n'  uscì  per  la  via  dette  coregge.  »  .       -  '  .  (5)  Alla  consccrazione  d  up'  abadessa,  le  magnifiche  tap-  pezzerie, i  vestimenti  ricamaU,  i  diamanti,  ì  profumi,  Ianni-  sica,  i  molli  vescovi  esecutori  delle  ecclesìasliche  cerimonie  ^     sorpresero  una  buona  donfia  in  modo  che  ella  disse:  Ecco  il  paradiso.  Qualcuno  rispose  malignamente  :  Non  vi  sarebbero  tanti  vescovi.   (4)  Una  vecchia  contessa  assai  ricca  avendo  sposato'un  giovine  marchese  malagiato ,  e  nel  contratto  di  matrimonio. Le  celie,  allorché  il  soggetto  lo  comporta^  de»ono  richiamare  gli  spiriti  alla  morale. Non  si  deve  cambiare  il  mezzo  in  fine,  cioè  non  conviene  consecrare  alle  celie  quel  tempo  che  è  dovuto  alle  cose  più  gravi.  Da  tale  pas-  sione pe'combaltimenti  di  spirito  o  duelli  di  mot-,  leggi  e  di  celie  erano  invasi  i  Normanni,  che  anche  neir  ardore  d'  un  assedio  i  nemici  sospendevano  talvolta  le  ostilità  per  abbandonarsi  ad  una  guerra  meno  dannosa,  guerra  di  motti,  di  redarguziom,  d^'  buffonerie.   Allorché  qualcuno  dei  due  partiti,  era  preso  da  questa  vaghezza,  si  mostrava  all'al-  tro in  abito  bianco,  il  che  era  riconosciuto  ed  ac-  cettato come  una  sfida  di  celie.  La  qual  cosa  cer-  tamente non  era  riprensibile  in  tempo  di  guerra,  giacche Non  distrugge  città  guerra  di  lingue  avendogli  falla  la  donazione  di  luUi  i  suoi  beni,  lemelle,  dopo  molte  infedeltà,  che  il  marito  volesse  disfarsi  di  lei,  e  un  giorno  sentendosi  male,  credette  e  disse  d'essere  avvele-  nata,—  Avvelenata  ?  rispose  il  marchese  alla  presenza  di  più  persone.  E  chi  accusate  voi  di  questo  delilto?  —  Voi,  replicò  la  dama.  —  Ah  Signori,  nulla  di  più  falso,  esclamò  il  marito.  Sventralela  subito,  e  toccherete  con  mano  la  calunnia..Qui  l'acerbità  e  la  malignità  vanno  insieme.  .  •  (I)  Si  faceva  rimprovero  ad  una  giovine  perchè  accon-  sentiva a  sposare  un  uomo  che  urtava  di  fronte  gli  usi  e  le  mode  del  suo  tempo,  un  orUjinale  in  una  parola;  ma  la  sin-  golarità di  quest'uomo  non  era  che  un  vizio  dello  spirilo,  e  nissuno  aveva  V  animo  più  onesto  di  lui.  Quindi  la  giovine  che  lo  conosceva,  rispose  con  finezza  :  lo  acconsento  a  spo-  sarlo^ perchè  spero  che  sarà  buon  marito  per  singolarità.    ed  è  meàe  male  dileggiarsi  che  iieoidev9Ì; ma  6ao^   vafìiìi  di  Salisbury rimprovera ai  detti  popoli  quel-  l'eccedente p^issiona  aoebe  ia  tempo  di  pace. Kantagqi  che  si  possono  trarre  .        .        . dalle /ae^ie.   Benché  le  celie  sì  riducano  a  momentanei  tratti  di  npirito^  i^e,  ^imiU^alle  sciatillc,  jcoin|^ariscooo  -e  eeìssano  m  un  utante^  Don  segue  pero  che  dì  grandi  eventi  non  possano  esser  cagione.  Infatti,  alloiìch^  ei  tvatta  di  coscT  mòrali,  gli  effetti  dipeo*  dono  dalia  determinazione  della  volontà;  ora  a  de^  terminarle  la  volontà  i  più  frivoli  motivi  bastano,  sì  .quando  mancano  motivi  più  gravi,  sì  quandi  questi  sj  trovano  in  opposizione/  come  una  sein-  pliee  dramma  basta  per'&r  traboccare  la  bìlaacta<t  allo^hè  i  più  gravi  pesi  là  tengono  in  equilibrio.-  L'aftlisi  de' fatti  porrà  in  maggior  luce  il  mìo  pensiero.^  -      .  .   Coloro  che  nel  calcolo  degli  effetti  consi-  derano solo  le  ma^se,. apparenti,  inarcherapnò  le  ciglia  se  dirò  loro  che  tma  celia  può  in  forza  essere  uguale  ad  t^ailamato;  eppure  bisogna  ri-  gorosamente ammettere  questa  eqtiaasione,  aile^cbè si osserva che un'armata atterrita da maggior numero di  nemici,  può. da  uoa  celia  ricevere  tanta  torza  coraggiosa  da  riuscire  a  vincerli,  come  lo*  ba  provato  più  volte  r^^sperieoza  (i}^.^    .  ^.   (I)  Prima  della  battaglia  successa  a!  Trasknene,  I  Cartaginesi erano  ì»pa\  untati  dai  iìuuiux^g  esi^rcilu  rumano  ^uppi   m   .  2.*^  È  noto  che  l'orgoglio  de' tiranni  non  sof-  fre indugi;  che  le  loro  volontà  si  eseguiscono  in  ragione  del  loro  potere;  che,  sordi  alla  clemenza,  alla  giustizia,  alla  ragione,  mandano  a  morte  chi  fa  loro  rimostranze,  sicché  per  fare  equilibrio  ai,  loro  desideri!,  converrebbe  avere  un  potere  uguale  al  loro.  Questo  potere  si  trova  in  una  celia:  una  celia  può  cambiare  le  più  risolute  voglie  del  più  feroce  tiranno  (1). del  loro.  Glscon  ne  esternò  la  sua  sorpresa  ad  Annibale:  V*  ha  una  cosa,  rispose  questo  generale,  che  mi  sorprende  ancora  di  più,  ed  è  che  in  questo  gran  numero  di  nemici  non  v' ha  un  solo  che  si  chiami  Giscon.  La  storia  dice  che  questo'  sangue  freddo  animò  U  coraggio  de' Cartaginesi;  giacché  non  potevano  essi  persuadersi  che  il  loro  generale  fosse  disposto  a  scherzare  in  un  momento  sì  importante,  $cn/a  essere  sicurp  di  battere  i  nemici,  come  infatU  li  battè  éJi  vinse.  1^   In  caso  simile  un  altro,  generale  veniva  sollecitato  a  far  riconoscere  i  nemici  che  s'avanzavano  in  gran  copia:  Noi  li  conteremo,  diss'egli,  quando  gli  avremo  disfatti.  Queste  pa-  role bastarono  per  far  passare  i  suoi  soldati  dal  timore  alla  speranza,  dall' avvilimento  al  coraggio,  e  renderli  vincitori  di  quelli  da' quali  temevano  pochi  momenU  avanti  d'essere  vinti.   (I)  Tutti  sanno  quanto  era  dispotico  e  feroce  Enrico  Vili  re  d'Inghilterra.  Avendo  egli  de'moUvi  di  scontentezza  contro  Francesco  I  re  di  Francia,  gli  spedì  per  aipbasciatore  un  ve-  scovo inglese  eh'  ci  volle  incaricare  d'un  discorso  pieno  di  fiele,  d'orgoglio  e  di  minacele.  Questo  prelato  scorgendo  tutto  il  pericolo  della  sua  missione  ,  cercò  di  farsene  dispensare.  Non  temete  niente ,  gli  disse  Enrico,  poiché  se  il  re  di  Francia  vi  facesse  morire,  io  farei  abbattere  la  testa  a  molU  francesi  che  sono  in  mio  potere.  Va  benissimo,  replicò  il  vescovo,  ma  di  tutte  queste  teste  nissuna  s'adatterebbe  sì  bene  al  mio    49S    -         '      LIBBO  Tomo   SiTO  MnMwto  dàlPidea  impoiiml»  Moveri  dTitn   mioistroi  «lalla  gravità  de'  moti?!  che  devono  de«-  ternmarlOt  dai  dami  tnm  aeea.  demaail»  chiamato^  atle  pubbliche  cariche,  si  dora  fatica  a  comprenda  <die  una  ceiia  si  possa  j^om^  pén-  queiMmpiego  «fttr*^  em  ^tefe  mepatù  pér  demerito;  e  pure  gueata  posaihUità  ceaUuata  fili  Mita  tOv  ^  /  •  %    fyìsìo  come  quella  che  vi  é.  ^  ^^ta  celia,  «heloee.Bidéee.  Bnlriè^  idasci  a  fario  candMàre.'df  rlsolufeimiie  ;  senza  di  etto   .'forse  l'Inghilterra  e  la  Francia  conlecebbero  una  guerra  di  più.   IVouchirevan,  re  di  Perula,  aveva  condannato  a  morte  uno  de'suoi  paggi  per  aver  ^uesU  kia)i{vertéDteaiea(e:8pas8a  sopra  lui*  della  salla  ^intti)dèii>  a  mensa  i  il|Mi||0Q>Mm*vadaDdo  ^mmà  di  perdono/ 'ifMò  tutto  II  piatto  sopra  tjùèll'liii||lah  cabile  re.  Nouchlrevan,  più  sorpreso  che  sdegnalo,  volle  sa-  peri la  ragione  di  siffalta  temerità.   «  Prìncipe,  gli  disse  i(   .•  paggio,  io  desidero  die  te  laia  morte  non  rechi  niacclìia  .  1»  alia  «ofiiii»  Hplitazioiia;  com  vóe^   .  •  de'moffiirehi,  ma-  voi  perdereste  quello  bel  tìtolo  se  là  po»  »  slerìtfi  "sapesse  che  per  lievissima  colpa  condannaste  a  morie  •  ano  de'  vostri  sudditi  ;  perciò  ho  versalo  tu  Ito  il  piatto. Nouchirevan  rientrato  lo  se  stesso  ^  vergogpò  della  sua.  col-  lera, e  gli  f(?ce  grazia.  11  Marelìesé  dì  Andrea  tnristeva  pressò  Lòuvóis  ministro  della  guerra  in  Francia,  onde  ottenere  una  carica^  il  ministro  die  aveva  ricevute  parecchie  lagnanze  contro  questo  officiale^  gliela  ricusava.  S  io  eoiniociassi  a  servire^  so.  ben  io  ciò  ^he  faéel,  ri8|Mstf  roffieii|le  un  po^  eómmosso;  fi  che  fareste  vd  ?  gli  disse  fl  mli^stro  con  un  tono  risentila  Regolerei  sì  bene  la  mia  coikloUa,  replicò  l'officiale,  che  non  vi  trovereste  nulla  da  ridire.  Il ministro  sorpreso  plaeevol-  lafDte  da  questa  òsposia,  ac<;ordò  dò  che  aveva  ne|{alo.    Digitized  by  Googlj    4.0   Una  celia  può  ottenere  quel  premio  che  ,  non  ottenne  la  ragione^  che  non  attenne  C  im^  portunità^  talvolta  più  valevolé  detta  fazione  (I).   Non  v'ha  cosa  nè  più  comune  pè  più  no-  iosa idè'n^lHantatork  nàOB  votte  odirotia  «si  le  ra-  gioni <die  condannano  la  loto  condotta,  e  mille  Tòlte  toroano  iii  oamjio.  eolie  toorn  celia  può  agevolmente  ridérre'  à  '^  'Hlimzio  titt  wiWantoioìre;  giacché,  in  genejrale  riesce  più  dif-  ficile il  rispondere  ad  unà:  ieHai  chà  ad  ma  tuona  ragione. Gli  poeta  aspettava  tutu  i  giorni  Augusto  a  certo  pas-  saggio còn  un  epigramma'  alta  mano  :  eglli' sperava  qualche  ricompensa,  mai  la  ricompensa  nòn '^Éttritic  Blair  Un  giorno  l' impilatore,  per  divertirsi  a  spese  del  poèta  è  IrastuHarlò  ^cevolmcnle).gli.pi;sBsentò  deVyéssi  eh' egli  aveva  composti  10^41  Ijoi'.oiiore.  Il  poeia  degpo4*«ieiji  Mtt  ti(Ui|  trasse  (U  tasca  dèi  deuaiO)  e  lò  diede  ad  Augusto,  dicéndo^lt  ch'io  v*ò£fro  non  è  degno  del  vostro^  merito,  ma  iò  nórt  poss^  fere  di  più.  Augusto  incantato  da  questa  risposta  nuovia«  piccante,  gli  fece  dare  fOO,(HW sesterzi  (circa  ^ 30,000  fr.)  —  Ecco  und  ttiolui  ì&àst»-^  oiprale  suttor  u  ^elo  d'una  facezia.  '  V  (2)  Iki  gie«iDe  a^'A  vantava  CU/Sapare  Hutto e  d'aveifo  imparato  in  poco  tempo  ,  aggiungeva  ^  à-avere  speso  grosse  somme  per  pagare  i  suoi  maestri.  Uno  degli  uditori  non  po-  tendo più  contenersi  a  tali  iat(tanze,  gii  disse  freddamenté:  Affé  ,  se  V  voi  trovato  cento  scudi  per  tutto  ciò  ebe  sapete  >  ef«dètefni,  Mn  fiidagteite>*a* pABderiL-    *   ,  .   n  detto  era  eccellente,  ma  pùngeva  un  poHroppo  fUA'iM.   Uno  spiantato  lagnavasi  in  un  crocchio  di  molte  perscibè  •pel  gK^asto  che  la  grandine  aveva  fatto  nel  suo  paese  e  mas-  irimanento  Re;siR>l  pcNlerl.-  tin  ii|le  >cl)e  a  fondo  conosceva  qitel-  mQlantaiofe^  è  che  sapea^  qaaiilk>^  tasse  povero  in  ràiim;  non  potendo  più  contènersi  a  laìl  .iattanze ,  gii  inosse  soìbi^ Grice: “Ferraris’s Galateo was so famous that, unlike Vico with his ‘new science’, a few philosophers cared to consider seriously a ‘nuovo Galateo’. Antonio De Ferraris, Antonio De Ferrariis. Galateo. Ferraris. Keywords: il Galateo, il nuovo Galateo. Refs.: Luigi Speranza, “Ferraris e Grice” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51689504373/in/photolist-2mLQ1Vx-2mLGwVU-2mKKMt4-2mPtp3t-2mPV6V9-2mKHtgX-2mPsh7f-2mKT4G5-2mKCdPg-2mKEftR-2mKRu2r-2mKC3nj-2mPvmTf-2mKbpiZ-2mKk6t5-2mKbkhx-2mKiTu1-2mKJXuD-GWQbEe-GWQbE4-25edKkz-23QXPsh-GWQbP2-23QXPTN-23QXPqU-23QXPAJ-25vgDZG-25vgDYu-GWQbEV-23QXPP9-GWQbEp-26Aotmx-26AotYK-DndBhH-23QrfQy-GWQbNR-23QXPKm-BNWJaB-BK5mza-BmcDUi-BFQviK-BDuNmW-AEEHqM-rrjLo5-o8fd2A-oa4qxd-nBU5Co-nSmehQ-nUgagC-nUiDq1

 

Grice e Ferraris – supercazzola -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Torino). Filosofo. Grice: “Ferraris is what the in the Renaissance used to be called a ‘Renaissance man.’ My favourite of his essays is “La svolta testuale” – he is into Derrida and Yale, but I’m into Grice and Harvard, and I still connect!” Si laurea a Torino sotto Vattimo. Insegna a Macerata, Trieste, Torino al Laboratorio di Ontologia dal  Centro interdipartimentale di ontologia. Studiato a Torino.In ambito teorico, ha legato il suo nome al rilancio dell'estetica come teoria della “sensibilità” a un'ontologia sociale intesa come ontologia dei documenti (documentalità) e a un superamento del postmodernismo attraverso la proposta di un nuovo realismo. Centro interuniversitario di Ontologia Teorica e Applicata.I primi interessi di Ferraris si rivolgono alla filosofia post-strutturalista (“Differenze”; “Tracce” e “La svolta testuale”). Specificamente a Derrida, Ferraris ha dedicato: Postille a Derrida, Honoris causa a Derrida Introduzione a Derrida, Il gusto del segreto e, infine, Jackie Derrida. Ritratto a memoria.Lavorando invece a contatto con Gadamer, a partire dai primi anni Ottanta si rivolge all'ermeneutica, scrivendo: Aspetti dell'ermeneutica, Ermeneutica di Proust, Nietzsche e la filosofia del Novecento, e soprattutto Storia dell'ermeneutica.Ferraris sviluppa un'articolata critica alla tradizione heideggeriana e gadameriana (si veda in particolare Cronistoria di una svolta, dpostfazione alla conferenza di Heidegger La svolta), che fa valere, in particolare, l'apporto del post-strutturalismo come contestazione del retaggio romantico e idealistico che condiziona tale tradizione. La conclusione di questo percorso critico sfocia nella riconsiderazione del rapporto tra lo spirito e la lettera e in un ribaltamento della loro contrapposizione tradizionale. Spesso i filosofi e gli uomini comuni disprezzano la letterale norme e i vincoli che sono istituiti attraverso documenti e iscrizioni di vario genere anteponendole lo spirito il pensiero e la volontà e riconoscendo la libera creatività del secondo rispetto alla prima. Per Ferraris è la lettera a precedere e fondare lo spirito.Abbandona il relativismo ermeneutico e la decostruzione di Derrida per abbracciare una forma di oggettivismo realistico secondo cui l'oggettività e realtà, considerate dall'ermeneutica radicale come principi di violenza e di sopraffazione, sono di fatto e proprio in conseguenza della contrapposizione tra spirito e lettera di cui si è dettola sola tutela nei confronti dell'arbitrio.Questo principio, valido in ambito morale, ha nel riconoscimento di una sfera di realtà indipendente dalle interpretazioni il suo fondamento teorico.Il mondo esterno, riconosciuto come inemendabile, e il rapporto tra schemi concettuali ed esperienza sensibile (l'estetica, riportata al suo significato etimologico di “scienza della percezione sensibile”, acquisisce una rilevanza primaria si vedano, in particolare, Analogon rationis, Estetica (con altri autori), L'immaginazione, ed Estetica razionale sono temi dominant.Rilegge Kant attraverso la fisica ingenua del percettologo triestino Paolo Bozzi (Il mondo esterno e Goodbye Kant!La “ontologia critica” ferrarisiana riconosce il mondo della vita quotidiana come largamente impenetrabile rispetto agli schemi concettuali. Il mancato riconoscimento di questo principio risale alla confusione tra ontologia (la sfera dell'essere) ed epistemologia (la sfera del sapere), di cui Ferraris articola una tematizzazione critica fondata sulcarattere di inemendabilità che è proprio dell'essere rispetto al sapere (si vedano in particolare: Ontologia e Storia dell'ontologia.La sua riflessione sul realismo sfocia nell'elaborazione del Manifesto del New Realism.  L'esito naturale dell'ontologia critica è il riconoscimento accanto al mondo inemendabile di un dominio di oggetti in cui la filosofia trascendentale kantiana trova la sua adeguata applicazione: gli oggetti sociali, l’intersoggetivo (Dove sei? Ontologia del telefonino,  Babbo Natale, Gesù adulto, Sans Papier, La fidanzata automatic, Il tunnel delle multe.La tesi di fondo è che la distinzione tra ontologia ed epistemologia, unita al riconoscimento dell'autonomia ontologica dell’intersoggetivo, della sfera degli oggetti sociali (regolata dalla legge costitutiva “oggetto = atto iscritto”), consente di correggere la tesi derridiana secondo cui "nulla esiste al di fuori del testo" (letteralmente, e a-semanticamente, “non c'è fuori testo”) per teorizzare che “niente di sociale esiste fuori del testo”.  Documentalità. Perché è necessario lasciar tracce.In seguito la sua  si arricchisce di piccole ma significative metafisiche dei costumi artistici e scritturalifin anche ultratecnologici con Piangere e ridere davvero e Filosofia per dame, vere e proprie grammatologies, insomma, ma ri-viste, e robustamente visionarie, oltre che re-visionate, come del resto tutti gli articoli di intervento culturale (si cfr. esemplarmente quelli per Alfabeta e Alfabeta).  La svolta realista compiuta da partire dalla formulazione dell'estetica non come filosofia dell'arte, ma come ontologia della percezione e dell'esperienza sensibile trova un'ulteriore declinazione nel Manifesto del nuovo realism. Il Nuovo realismo, i cui principi sono anticipati da Ferraris in un articolo uscito su Repubblica l'8 agosto  e che avvia un imponente dibattito, è in primo luogo un consuntivo di alcuni fenomeni storici, culturali, politici (l'analisi del postmoderno sino al suo deteriorarsi in populismo mediatico). Da queste considerazioni consegue la messa in chiaro degli esiti prodotti dalle derive del postmoderno nel pensiero contemporaneo (l'interpretazione dei realismi filosofici e delle “teorie della verità” che si sviluppano a partire dalla fine del secolo scorso come reazione a una devianza del rapporto tra individuo e realtà).Da questo scaturisce la proposta di un antidoto alla degenerazione dell'ideologia postmodernista, alla prassi degradata e mendace della relazione con il mondo che questa ha indotto.Il Nuovo Realismo si identifica infatti nell'azione sinergica di tre parole-chiave, Ontologia, Critica, Illuminismo. Il Nuovo Realismo è stato oggetto di discussioni e convegni nazionali e internazionali e ha sollecitato una serie di pubblicazioni che implicano il concetto di realtà come paradigma anche in ambiti extrafilosofici.  In effetti, il dibattito sul nuovo realismo, per quantità di contributi e media implicati, non ha equivalenti nella storia culturale recente, tanto da essere stato assunto 'case study' per analisi di sociologia della comunicazione e linguistica. Il nuovo realismo ha sollecitato una serie di pubblicazioni che ne discutono le tesi, a cominciare da Della realtà: fini della filosofia, Milano, Garzanti  di Vattimo e Inattualità del pensiero debole, Udine, Forum,  di Rovatti sino a Il senso dell'esistenza. Per un nuovo realismo ontologico, Roma, Carocci,, di Markus Gabriel, Bentornata Realtà. Il nuovo realismo in discussione (M. De Caro e M. Ferraris), Torino, Einaudi,  e a Sociologia e nuovo realismo, Milano-Udine, Mimesis,  di Luca Martignani (che fa parte della collana “Nuovo Realismo” diretta da Ferraris e De Caro, che conta numerose pubblicazioni).  Al Nuovo Realismo di Ferraris hanno aderito sia filosofi di formazione analitica, come Mario De Caro (cfr. Bentornata Realtà, a c. di De Caro e Ferraris), sia filosofi di formazione continentale, come Mauricio Beuchot (Manifesto del realismo analogico, ), Luca Taddio (Verso un nuovo realismo) e Markus Gabriel (Campi di senso. Un'ontologia neo-realista), che ha raccolto il sostegno di pensatori come Umberto Eco, Hilary Putnam e John Searle, e che si incrocia con altri movimenti realisti sorti in modo indipendente ma rispondendo a esigenze affini, come il “realismo speculativo” di Meillassoux e di Harman. Per il nuovo realismo, il fatto che sia sempre più evidente che la scienza non è sistematicamente la misura ultima della verità e della realtà non comporta che si debba dire addio alla realtà, alla verità o alla oggettività, come aveva concluso molta filosofia del secolo scorso.  Significa piuttosto che anche la filosofia, così come la giurisprudenza, la linguistica o la storia, ha qualcosa di importante e di vero da dirci a proposito del mondo. In questo quadro, il nuovo realismo si presenta anzitutto come un realismo negativo: la resistenza che il mondo esterno oppone ai nostri schemi concettuali non va considerata come uno scacco, ma come una risorsa, come una prova dell'esistenza di un mondo solido e indipendente. Se le cose stanno in questi termini, però, il realismo negativo si trasforma in un realismo positivo (Cfr. M. Ferraris, Realismo Positivo, Rosenber e Sellier ): nella sua resistenza la realtà non costituisce soltanto un limite, ma offre anche delle possibilità e delle risorse, il che spiega come, nel mondo naturale, forme di vita differenti possano interagire nello stesso ambiente senza condividere alcuno schema concettuale; e come, nel mondo sociale, le intenzioni e i comportamenti umani siano resi possibili da una realtà che è anzitutto data, e che solo in un secondo momento potrà essere interpretata e, se necessario, trasformata. Esauritasi la stagione del postmoderno, il nuovo realismo ha intercettato un diffuso bisogno di rinnovamento in ambiti extradisciplinari come l'architettura, la letteratura, la pedagogia, la medicina.  L'ultima corrente filosofica inaugurata ha provocato resistenze e critiche da parte dei sostenitori del postmodernismo e del pensiero debole.  Altre opere: “Differenze. La filosofia dopo lo strutturalismo” Milano: Multhipla); “Tracce. Nichilismo moderno postmoderno, Milano: Multhipla); Mimesis, La svolta testuale. Il decostruzionismo in Derrida, Lyotard, gli “Yale Critics”, Pavia: Cluep); L’ermeneutica (Genova: Marietti); Proust, Milano: Guerini e associati,  Storia dell'ermeneutica, Milano: Bompiani);Nietzsche (Milano: Bompiani; Cronistoria di una svolta, in Martin Heidegger, La svolta, Genova: il Melangolo (traduzione e conclusione,  Postille a Derrida, Torino: Rosenberg & Sellier); La filosofia e lo spirito vivente, Roma-Bari: Laterza); Mimica. Lutto e autobiografia da Agostino a Heidegger, Milano: Bompiani); “Storia della volontà di potenza, Milano: Bompiani) Analogon rationis, Milano: Pratica filosofica,  1nterpretazione ed emancipazione. Milano: Raffaello Cortina); L'immaginazione, Bologna: il Mulino); Estetica, (con altri autori), Torino: Pomba); Il gusto del segreto, con Jacques Derrida, Roma-Bari: Laterza); Estetica razionale, Milano: Raffaello Cortina); Honoris causa a Derrida, Torino: Rosenberg & Sellier); Una Ikea di università, Milano: Raffaello Cortina); Il mondo esterno, Milano: Bompiani); L'altra estetica, (con altri autori), Torino: Einaudi); Derrida, Roma-Bari: Laterza); Ontologia, Napoli: Guida); Goodbye Kant!, Milano: Bompiani); “Dove sei? Ontologia del telefonino, Milano: Bompiani); “Babbo Natale, Gesù adulto. In cosa crede chi crede?, Milano: Bompiani); Sans papier. Ontologia dell'attualità, Castelvecchi: Roma); La fidanzata automatica, Milano: Bompiani); Il tunnel delle multe. Ontologia degli oggetti quotidiani, Torino: Einaudi); Storia dell'ontologia, Milano: Bompiani,  Una Ikea di università. Alla prova dei fatti, nuova edizione, Milano: Raffaello Cortina; “Piangere e ridere davvero. Feuilleton, Genova: Il melangolo); Documentalità. Perché è necessario lasciar tracce, Roma-Bari: Laterza); Ricostruire la decostruzione. Cinque saggi a partire da Jacques Derrida, Milano: Bompiani); Filosofia per dame, Parma: Guanda); Anima e iPad, Parma: Guanda); Manifesto del nuovo realismo, Roma-Bari: Laterza,  Bentornata Realtà. Il nuovo realismo in discussione, con Mario De Caro, Torino: Einaudi); Lasciar tracce: documentalità e architettura, F. Visconti e R. Capozzi, Milano: Mimesis); Filosofia Globalizzata, con Leonardo Caffo, Milano: Mimesis); Realismo Positivo, Torino: Rosenberg & Sellier); Spettri di Nietzsche, Guanda: Parma); Mobilitazione Totale, Roma-Bari: Laterza); I modi dell'amicizia, con Achille Varzi, Napoli-Salerno: Orthothes); Emergenza, Torino: Einaudi); L'imbecillità è una cosa seria, Bologna: il Mulino); Filosofia teoretica, con Enrico Terrone, Bologna: il Mulino,  Postverità e altri enigmi, Bologna: il Mulino); Il denaro e i suoi inganni, con John R. Searle, Torino: Einaudi); Intorno agli unicorni. Supercazzole, ornitorinchi, ircocervi, Bologna: il Mulino); Il capitale documediale. Prolegomeni, in Scienza Nuova. Ontologia della trasformazione digitale, Torino: Rosenberg&Sellier. Responsabile scientifico di "Pensiero in movimento", Pearson Libri in collana di quotidiani: Oltre che diverse curatele e interventi per il "Caffè Filosofico" del settimanale l'Espresso e la collana "Capire la Filosofia" de la Repubblica si segnalano:   "Felicità. Cos'è la ricerca della felicità?", Roma, la Repubblica,  "Libertà. Quando si è davvero liberi?", Roma, la Repubblica,  "Arte. Perché certe cose sono opere d'arte?", Roma, la Repubblica,  "Male. È possibile vivere senza il male?", Roma, la Repubblica,   "Uguaglianza. C'è qualcuno più uguale degli altri?", Roma, la Repubblica,   "Bellezza. C'è una regola del bello?", Roma, la Repubblica, s  "Mente. La mente è soltanto il cervello?", Roma, la Repubblica,  "Morale. C'è un solo modo giusto di vivere?", Roma, la Repubblica,   "Potere. Perché si lotta per il potere?", Roma, la Repubblica,  "Pensiero. Che cosa significa pensare?", Roma, la Repubblica,  "Violenza: La violenza è inevitabile?", Roma, la Repubblica,   "Passione: Chi decide, la ragione o la passione?", Roma, la Repubblica,  "Senso: Che cosa ci manca quando diciamo che la vita non ha senso?", Roma, la Repubblica,   "Linguaggio: Si può pensare senza parole", Roma, la Repubblica, s"Scienza: Che cosa sanno gli scienziati?", Roma, la Repubblica, v "Filosofia: A cosa servono i filosofi?", Roma, la Repubblica, sha curato, oltre a partecipare con singoli interventi, la seconda serie del "Caffè Filosofico" di Repubblica curandone gli epiloghi.  Nel biennio - ha diretto e condotto tre serie del programma televisivo Zettel Filosofia in movimento in onda su Rai Scuola. Nel  e nel  ha continuato tale lavoro nel programma televisivo "Lo stato dell'arte", in onda su RAI5. Ha condotto la rubrica di Rai cultura "Opera aperta", in onda sullo stesso canale.  "Maurizio Ferraris", in D. Antiseri e S. Tagliagambe, Filosofi italiani contemporanei, Milano: Bompiani,   "Maurizio Ferraris", la Repubblica,  Per una rassegna completa del dibattito sorto intorno al "Manifesto del New Realism" si veda Copia archiviata, su labont. Nuovo Realismo | Il sito ufficiale della rassegna nuovo realismo  R. Scarpa, Ilcaso Nuovo Realismo. La lingua del dibattito filosofico contemporaneo, Milano-Udine, Mimesis,Reperibileonline, fascicolo di Giugno. Questi ealtri riferimenti, con resoconti e presentazioni degli incontri, sono quireperibili: nuovorealismo Si vedano ancora, tra gli altri, Emiliano Bazzanella, La filosofia e il suo consumo. Il nuovo New Realism, Trieste, Asterios,; Perché essere realisti? Una sfida filosofica, Andrea Lavazza e Vittorio Possenti, Milano-Udine, Mimesis,; L. Somigli (a curadi), Negli archivi e per le strade. Il ritorno alla realtà nella narrativa di terzo millennio, Roma, Aracne,; Architettura e realismo, Milano Maggioli,  Il Caffè Filosofico. La filosofia raccontata dai filosofi  Lo stato dell`arteIl  di RAI Cultura dedicato alla filosofia, in Il  di RAI Cultura dedicato alla filosofia.  "Maurizio Ferraris", in D. Antiseri e S. Tagliagambe, Filosofi italiani contemporanei, Milano: Bompiani,  "Ontologia analitica e ontologie continentali: Maurizio Ferraris e i filosofi italiani di impostazione analitica", in C. Esposito ePorro, Filosofia contemporanea, Roma-Bari: Laterza,  dal  Rassegna Stampa Nuovo Realismo, sul sito del Labont: raccolta estesa di tutti gli interventi a proposito della proposta teorica sul realism. Documentalità Ontologia Ermeneutica Realismo. Treccani. CTAOCentro Interuniversitario di Ontologia Teoretica ed Applicata, LABONT Laboratorio di Ontologia, su labont. Il «questionario Proust» a Maurizio Ferraris, su elapsus. Maurizio Ferraris, il Nuovo Realismo, sul  RAI Filosofia, su filosofia.rai.  Wikipedia Ricerca Talcott Parsons sociologo statunitense Lingua Segui Modifica Talcott Parsons (Colorado Springs, 13 dicembre 1902– Monaco di Baviera, 8 maggio 1979) è stato un sociologo statunitense.  Parsons produsse una teoria generale per l'analisi della società chiamata "struttural-funzionalista", nella quale sono evidenti i richiami a Durkheim, Weber, all'antropologia culturale nonché all'etnologia. Cercò di combinare "azione sociale" e "struttura" in un'unica teoria non limitata al solo funzionalismo.  Il suo lavoro ha avuto grande influenza negli anni cinquanta e sessanta, particolarmente in America (dove la ricerca era quasi solamente empirica) proponendo una visione delle scienze sociali più raffinata. Pur essendo un riferimento per sociologi contemporanei importanti come Habermas e Luhmann, il suo favore si è gradualmente ridotto nel tempo e il più importante tentativo di far rivivere il pensiero di Parsons, sotto l'etichetta di "neofunzionalismo", si deve al sociologo Jeffrey C. Alexander.  BiografiaModifica Talcott Edgar Frederick Parsons nasce a Colorado Springs il 13 dicembre 1902.  Frequenta l'università all'Amherst College del Massachusetts, ed è orientato allo studio della biologia e alla medicina, ma già nel 1923 si interessa progressivamente all'economia e alle scienze sociali, anche grazie alle opere di Durkheim e Max Weber.  Dopo Amherst, Parsons si reca alla London School of Economics, dove subisce l'influenza dei lavori di economisti quale H. Laski e R. H. Tawney, gli antropologi culturali Malinowski e Radcliffe-Brown, e i sociologi Ginsberg e Hobhouse. Nel 1925, grazie ad una borsa di studio in Sociologia ed Economia, si trasferisce all'Università di Heidelberg, dove consegue il dottorato con una tesi sull'origine del capitalismo in Weber e Sombart.  Tornato negli Stati Uniti Parsons insegna presso l'Università di Harvard dal 1927 al 1973. Entra a far parte del Dipartimento di Sociologia (diretto da Pitirim Sorokin, con il quale Parsons è in disaccordo) e successivamente presso il Dipartimento di Relazioni Sociali (diretto dallo stesso Parsons). Nel 1949 viene eletto presidente dell'American Sociological Association.  Muore a Monaco di Baviera l'8 maggio 1979.  Lo struttural-funzionalismoModifica L'approccio di Parsons è definito struttural-funzionalismo, poiché si propone di individuare la struttura di fondo della società e di comprenderla mostrando le funzioni assolte dalle sue parti. Si riallaccia al funzionalismo di Durkheim, il quale riconduce ogni fenomeno alla funzione che esso ha all'interno dell'insieme di cui è parte, la società. Alcuni hanno proposto per la sociologia di Parsons il termine "approccio sistemico". Comunque, in linea di massima, ciò che Parsons si propone di fare è di integrare i due approcci opposti di Weber e Durkheim; il primo infatti pone l'accento sul ruolo dell'individuo, il secondo sul ruolo della società.  L'azione socialeModifica In La struttura dell'azione sociale, Parsons afferma che l'azione (o atto) è l'unità elementare di cui si occupa la sociologia. L'atto richiede i seguenti elementi:  L'attore, colui che compie l'atto; Un fine verso cui è orientato l'atto; Una situazione di partenza da cui si sviluppano nuove linee d'azione e in cui vi sono le condizioniambientali, sulle quali l'attore non ha possibilità di controllo, e i mezzi che invece l'attore controlla e utilizza; Un orientamento normativo dell'azione, che porta l'attore a preferire certi mezzi ad altri e certe vie ad altre, tuttavia basandosi sul sistema morale vigente nella sua società. Si nota come Parsons si sforzasse in questa visione di contrastare da un lato il comportamentismo, la tendenza cioè a ridurre l'azione umana a mero meccanismo di risposta a stimoli, togliendo ogni ruolo alla volontà; dall'altro l'utilitarismo, che spiega tutte le azioni in base a un interesse eliminando il ruolo dell'orientamento normativo. Le norme collegano l'individuo alla società di cui è parte, il che in parte riduce il libero arbitrio umano: l'uomo nel suo comportamento è vincolato da queste norme sociali (se non le segue è sottoposto a sanzioni), e queste norme sono espressione dei valori di fondo di una cultura. Mostrando dunque come l'azione individuale vada ricollegata alla società nel suo insieme - tramite le norme - Parsons ha già in parte trovato un punto di congiunzione nella dicotomia individuo/società. Un successivo passo avanti è compiuto con la definizione del concetto di sistema.  Il concetto di sistemaModifica Ne Il sistema sociale Parsons definisce il sistema come un insieme interrelato di parti che è capace di autoregolazione e in cui ogni parte svolge una funzione necessaria alla riproduzione dell'intero sistema. Ogni sistema dev'essere in grado di svolgere almeno quattro funzioni (secondo il celebre schema AGIL). Parson applicò questo concetto teorico anche alla famiglia nucleare, nel suo caso quella americana degli anni 70, per giustificare i ruoli:  Adattamento all'ambiente; (Adaptation) il sottosistema che svolge questa funzione è il sottosistema economico. Nella famiglia ad occuparsi di questo ruolo era il padre, il quale attraverso il lavoro (l'economia) manteneva la famiglia, garantendone la sopravvivenza. Definizione dei propri obiettivi; (Goal attainment) il sottosistema che svolge questa funzione è il sottosistema politico. Nella famiglia a guidare i vari membri verso gli obiettivi e scopi precisi era il padre. Integrazione delle parti componenti; (Integration) il sottosistema che svolge questa funzione è il sottosistema giuridico e il sottosistema religioso. Nella famiglia, a regolare i conflitti interni, era il padre. Conservazione della propria organizzazione; (Latency pattern maintenance) i sottosistemi che svolgono questa funzione sono il sottosistema della famiglia e il sottosistema della scuola. Nella famiglia, ad insegnare, promuovere e mantenere i modelli (latenti) di comportamento su cui, all'epoca, si reggeva la società, era la madre. In realtà nella visione di Parsons gli individui non sono singole persone ma persone che svolgono dei ruolispecifici, modelli di comportamento regolati da norme ed orientati all'espletamento di una funzione: Parsons non tratta dei signori X e Y, ma dell'insegnante e del meccanico. Il sistema sociale è dunque un sistema di ruoli: nell'ambito del proprio ruolo ogni individuo entra in relazione con gli altri e contribuisce alla riproduzione del sistema nel suo complesso. I ruoli fanno anche parte delle istituzioni, sottounità del sistema sociale che implicano più ruoli interagenti tra loro: la scuola, ad esempio (fatta dei ruoli di insegnante, studente, bidello, ecc.), la famiglia (padre, madre, figli).  Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: AGIL. Famiglia e socializzazioneModifica Si è già detto che in pratica il congiungimento tra l'individuo e la società avviene tramite le norme. Ma in che modo le norme diventano parte dell'individuo? Parsons riprende da Freud il concetto di interiorizzazione (in Freud chiamato introiezione): ogni individuo impara a seguire certe norme e a vivere in società attraverso la formazione di un'istanza psichica (il “Super-Io”) che riproduce l'autorità inizialmente al di fuori di noi ma che poi noi interiorizziamo. Questa interiorizzazione delle norme e dei valori avviene nel corso del processo di socializzazione, che si realizza nell'infanzia grazie alla famiglia. Il ruolo della famiglia nell'ambito del sistema sociale è quello di educare i figli e socializzarli. La famiglia in Parsons è nucleare, composta cioè solo dai due genitori e dai figli, residente in un'abitazione indipendente mononucleare. All'interno della famiglia avviene una differenziazione di funzioni e ruoli: la moglie/madre assume il ruolo di casalinga che cura i figli e la casa; il padre/marito è il bread-winner, colui che porta il pane a casa, cioè che si procura di che da vivere, e il leader strumentale che si occupa dell'interazione tra famiglia e società. Questi due ruoli sono complementari, l'uno non esiste senza l'altro. I figli e le figlie svilupperanno una personalità che farà propri i valori dei genitori e la differenziazione dei ruoli tra i due genitori.  Variabili strutturali e universali evolutiviModifica Parsons definisce un insieme di parametri sulla base dei quali è possibile classificare società e culture diverse: sono le variabili strutturali (pattern variables). Esse sono scelte binarie di fondo compiute da una cultura nel corso della sua esistenza:  Particolarismo/universalismo. È la differenza tra il comportamento di un genitore e quello di un giudice. Il primo è ispirato a criteri particolaristici, che magari avvantaggiano il figlio ma non un altro individuo. Il secondo è ispirato a criteri universalistici, le regole che applica valgono per tutti indifferentemente ("la legge è uguale per tutti"). Diffusione/specificità. Nel primo caso l'azione è orientata a tener conto di tutti gli aspetti della personalità di chi mi sta davanti, nel secondo l'azione si basa sul ruolo: quando interagisco con un amico tengo conto dell'insieme della sua personalità; quando un commesso interagisce con un cliente tiene conto solo dell'aspetto "cliente" di quell'uomo. Ascrizione/acquisizione. È l'importanza che una società attribuisce a chi ha tratti derivatigli dalla nascita quali colore della pelle o famiglia di provenienza (ascrittivi), oppure per ciò che quell'individuo è stato capace di realizzare nel corso della sua esistenza (tratti acquisitivi). Affettività/neutralità affettiva. La differenza tra sistemi d'azione nei quali vi è una gratificazione affettiva (madre/figlio) o dove le relazioni si basano sul distacco affettivo (funzionario/cliente). Interessi collettivi/interessi privati. Il diverso orientamento nell'agire degli individui; il medico è orientato verso interessi collettivi, l'imprenditore verso interessi privati (il proprio utile). In Il sistema sociale Parsons afferma che le società moderne sono caratterizzate da azioni universalistiche e danno importanza ai tratti acquisitivi; le società tradizionali si basano su azioni particolaristiche e tratti ascrittivi.  Per universali evolutivi, invece, Parsons intende dei modelli organizzativi che emergono in una società nel corso della sua storia e che ne permettono l'adattamento all'ambiente ed il suo successo rispetto a società che ne sono prive. Nel corso dell'evoluzione umana, le società primitive hanno visto l'affermazione di universali evolutivi quali i concetti di linguaggio, religione, parentela (incentrata sul tabù dell'incesto), tecnologia (tecniche che portano l'uomo a controllare la natura). Nella rivoluzione neolitica diventano universali evolutivi i concetti di sistema di stratificazione sociale e di organizzazione politica. La società moderna è caratterizzata da quattro universali evolutivi: la burocrazia, il mercato, le norme universalistiche, la democrazia. In pratica solo quelle società che nel corso della loro evoluzione hanno sviluppato questi concetti, questi universali, hanno raggiunto la maturità, la modernità.  Parsons effettua una classificazione delle società, basandosi sul criterio secondo il quale la classificazione va redatta riconoscendo che una società è più avanzata nella misura in cui la sua organizzazione sociale può essere adattabile per tutti. Questo concetto fa parte delle sue teorie evoluzionistiche e neo evoluzionistiche. Abbiamo quindi 3 stadi di società:  - società primitive: dove la parentela è l'elemento principale e dove vi sono meno differenze tra gli individui - società intermedie: dove vi è la scoperta della scrittura come passo fondamentale e dove è presente più stabilità sociale - società moderne: dove abbiamo una maggiore autonomia delle persone grazie al diritto universalistico e dove la cultura ha un ruolo preponderante  L'evoluzionismo non è mai lineare, poiché nell'evoluzione umana c'è molta varietà. Parsons procede quindi all'analisi specifica delle società seguendo la loro evoluzione:  - Organizzazioni legate al Sacro: società antiche dove è forte l'influenza della mitologia e della religione e dove vi è uno stato di chiusura mentale che non dà spazio all'innovazione. - Società tradizionale: l'organizzazione sociale è divisa per parentela e per gruppi di età mentre l'economia è semplice e si utilizzano risorse date dalla terra - Società tecnologiche: l'ambiente tecnologico si frappone tra le persone e natura grazie ai macchinari, vi è una forte divisione del lavoro e una distinzione tra proprietari e consumatori che lottano per soddisfare i propri bisogni. Vi è quindi un'alienazione dell'uomo e una larga diffusione della burocrazia. - Società urbana: dove la città è il simbolo più evidente e dove le classi sociali assumono un ruolo dominante, esse sono divise in "élite" ovvero gruppi di persone che grazie alla loro influenza contribuiscono all'agire storico di una collettività. Abbiamo sei tipi di élite: tradizionali, tecnocratiche, proprietarie, carismatiche, ideologiche, simboliche.  Ulteriore sviluppoModifica Le teorie di Parsons sono state sviluppate ulteriormente da Robert K. Merton, Niklas Luhmann e Pierpaolo Donati.  CriticheModifica Ulteriori informazioni Questa sezione sull'argomento sociologia è solo un abbozzo. Contribuisci a migliorarla secondo le convenzioni di Wikipedia. Segui i suggerimenti del progetto di riferimento. L'opera di Parsons apparve a lungo isolata ed astratta, e come tale fu derisa, per esempio dai sociologi Pitirim Sorokin e da Charles Mills, che ne indicava efficacemente anche le implicazioni sociologiche conservatrici.  Il pensiero di Parsons è stato spesso accusato di etnocentrismo per il fatto di aver assunto le società occidentali come il modello a cui tutte le altre società dovevano tendere e conformarsi. Egli vedeva infatti il processo di modernizzazione come un processo unilineare. L'etnocentrismo di Parsons è presente anche negli studi sulla trasformazione della famiglia, facendo riferimento soprattutto alla famiglia nordamericana bianca, appartenente al ceto medio. In questo senso poi le critiche sono venute soprattutto dai movimenti femministi che non hanno accettato la tendenza di Parsons a ratificare la subordinazione di fatto della donna a partire dalla tesi di complementarità dei ruoli dei coniugi.  Parsons viene criticato anche da Merton. Attribuendo a Parsons una valenza sempre positiva all'ordine sociale, Merton ritiene che quest'ultimo è anche fonte di disordine. Per Parsons tutte le istituzioni sono funzionali per la società, mentre Merton rileva l'esistenza di disfunzioni.  L'attore di Parsons sarebbe un over-socialized man, cioè un uomo iper socializzato ai valori, che ha un comportamento del tipo conformistico e che si comporta come la gente vorrebbe che egli si comportasse.  OpereModifica Ulteriori informazioni Questa sezione sull'argomento sociologia è solo un abbozzo. Contribuisci a migliorarla secondo le convenzioni di Wikipedia. Segui i suggerimenti del progetto di riferimento. Elenco delle principali opere:  La struttura dell'azione sociale, 1937 Il sistema sociale, 1951 Toward a General Theory of Action (con E.A. Shils et alii), 1951 Working Papers in the Theory of Action (con Robert F. Bales, E.A. Shils et alii), 1953 Saggi di teoria sociologica, 1954 Famiglia e socializzazione, 1955 Structure and Process in Modern Societies, 1959 Sociological Theory and Modern Society, 1968 Politics and Social Structure, 1969 BibliografiaModifica Peter Hamilton, Talcott Parsons, Bologna, il Mulino, 1983. Alberto Marinelli, Struttura dell'ordine e funzione del diritto. Saggio su Parsons, Milano, Angeli, 1988 Riccardo Prandini, a cura di, Talcott Parsons, Milano, Bruno Mondadori, 1998. Uta Gerhardt, Talcott Parsons. An Intellectual Biography, Cambridge, Cambridge University Press, 2002;. Realino Marra, Talcott Parsons. Valori, norme, comportamento deviante, in «Materiali per una storia della cultura giuridica», XXXIV-2, dicembre 2004, pp. 315–27. Sandro Segre, Talcott Parsons: un'introduzione, Roma, Carocci, 2009. Matteo Bortolini, L'immunità necessaria. Talcott Parsons e la sociologia della modernità, Roma, Meltemi, 2005. Christopher Hart (ed.), Talcott Parsons. A Collection of Essays in Honour of Talcott Parsons, Chester, Midrash, 2009. Voci correlateModifica Ruolo di genere Anthony Giddens Niklas Luhmann Ralf Dahrendorf Jürgen Habermas Alain Touraine Altri progettiModifica Collabora a Wikisource Wikisource contiene una pagina in lingua inglese dedicata a Talcott Parsons Collabora a Wikiquote Wikiquote contiene citazioni di o su Talcott Parsons Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Talcott Parsons Collegamenti esterniModifica Parsons, Talcott, in Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2009. Modifica su Wikidata Parsons, Talcott, su sapere.it, De Agostini. Modifica su Wikidata ( EN ) Talcott Parsons, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su Wikidata ( EN ) Talcott Parsons, su Mathematics Genealogy Project, North Dakota State University. Modifica su Wikidata ( EN ) Opere di Talcott Parsons, su Open Library, Internet Archive. Modifica su Wikidata Controllo di autoritàVIAF ( EN ) 29546994 · ISNI ( EN ) 0000 0001 2125 8615 · LCCN ( EN ) n80015395 · GND( DE ) 118591835 · BNE ( ES ) XX1061404(data) · BNF ( FR ) cb120227306 (data) ·J9U ( EN ,  HE ) 987007298292605171 (topic) ·NSK ( HR ) 000036537 · NDL( EN ,  JA ) 00452203 · WorldCat Identities( EN ) lccn-n80015395   Portale Biografie   Portale Sociologia Ultima modifica 2 mesi fa di 151.43.84.5 PAGINE CORRELATE Anomia assenza o mancanza di norme  Funzionalismo (sociologia) posizione dominante tra le teorie sociologiche contemporanee  Robert K. Merton sociologo statunitense  Wikipedia Il contenutoGrice: “There is a big difference between ‘inter-subjective’ and ‘inter-personal’ – and then there’s inter-active, co-active, and shared – intenzionalita condivisa --. Subject applies to object, so inter-subjective should be used when a neutral common ground (the object that both subjects perceive) matters. Usually, this is not the case, since our focus is communication or psi-transfer. However, ‘interpersonal’ is too vague because we never know what a person is. Co-active and inter-active seem better, alla Parsons. The dyad or interpersonal or interactional unit, where A orientates his action towards B and reciprocally or mutually so does B. Co-operation.” Maurizio Ferraris. Ferraris. Keywords: the ontology of the intersubjective – intersoggetivo – a functionalist approach to the inter-subjective – Grice as an ‘intersubjectivist’ – Grice as a meta-theorist of the inter-subjective. The intersubjective conditions for the understanding of pretty subjective utterances like, “That pillar-box seems red to me.” Collective intentionality, shared intentionality, and the inter-subjective – inter-subjective and inter-personal. ‘conversational’ as short for ‘inter-subjective’ and ‘inter-personal’. Grice’s definition of ‘implicature’ as relying on utterer AND addressee. Grice’s definition of communication as relying, obviously, on utterer and addressee. Ferraris reccognises the rhapsodies of Austin needed some systematization, and while Ferraris refers to Grice, he does so very superficially -- and more. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Ferraris” – The Swimming-Pool Library.  https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51761852955/in/dateposted-public/

 

Grice e Ferrero – implicatura arimmetica – filosofia italiana – Luigi Speranza (Torino). Filosofo. Grice: “Just for having written on the influence of Pythagoras on the Roman world, Ferrero is highly commendable! Pythagoras is crucial for Plato; and Pythagoras taught of course at what would be a Roman cives, ‘Croto.’ So it all relates!” -- Italian philosopher, author of “Pigatorismo nel mondo romano.” La Storia del Pitagorismo nel mondo romano vide la luce grazie al contributo della Fondazione Parini-Chirio e della Facoltà di Lettere dell’Torino e rappresenta ancora oggi uno dei contributi più alti alla Storia della Filosofia Romana. Animato da uno spirito che potrebbe senza dubbio definirsi per mezzo del sentimento dell’importanza maggiore, nella storia delle idee dell’Antichità, di coloro che Aristotele chiamava “i filosofi italiani”, di coloro che hanno fatto fiorire sulla terra d’Italia uno dei rami più vigorosi del pensiero filosofico occidentale. Ricco di elementi ed agile nella prosa, il libro è uno dei più importanti, se non l’unico, contributo che rende ragione della relazione tra filosofia romana e  pitagorica, rinvenendo l’importanza del pensiero speculativo alla base della cultura romana classica.  Su questa base l’a. arriva a sostenere l’idea nuova ed originale dell’ideale che l’organizzazione pitagorica ha, in ogni tempo, proposto alla classe dirigente romana che l’accolto e realizzato, non dimenticando che il fine della filosofia pitagorica è la formazione del politico.  Il piano dell’opera è semplice e chiaro. Due parti e cinque capitoli solamente permettonodi abbracciare una storia che si estende sui secoli storici della Roma antica, arricchite da un’ampia consultazione delle fonti e da un indice analitico che ne facilita la consultazione.  Si laurea con Rostagni, a Torino. Insegna a Trieste.  Ferrero is not the first to claim Italianita and Romanita for Pythagoras. After all Pythagoras’s father was an Etruscan! Numa learned from him! Cicero corrects here – it’s the tradition that counts – Livio also notes that a book by Numa was destroyed: by that time, the republic had an official religion and Pythagorianism was not part of it! The Cusano thought that the Holy Trinity is Pythagorean. Ficino claims Plato is Pythagorean via his tutor who was Pythagoras’s tutee – Pico asks Ficino for advice on these maters. Caparelli thinks it’s all Pythagoreian. The important bit is politic, and ethnic. Pythagoreanism became popular in the rest of Europe via Italy, that always showed more of an interest for ancient history than the Germanic peoples – perhaps because runes do not give so easily to history! ARISTOSSENO ('Αριστόξενος, Aristoxĕnus) di Taranto. - Filosofo peripatetico, scolaro di Aristotele, della prima generazione che seguì a quella del maestro. È il più grande teorico greco di ritmica e di musica. Prima seguace del pitagorismo, sviluppò poi in seno alla scuola peripatetica la sua tendenza alla ricerca naturalistica. I suoi Elementi di armonia eccellono per l'esattezza della ricerca e della elaborazione teoretica, condotta non in base agli astratti presupposti aritmetici dei pitagorici, ma all'osservazione diretta dei fenomeni del suono (v. Grecia: musica). Tuttavia, egli continuò ad apprezzare nella musica l'elemento etico e l'efficacia di educazione spirituale. Col suo temperamento di studioso di musica è in accordo la sua dottrina dell'anima come armonia, che già doveva essere stata propugnata dal più antico pitagorismo, trovandosi pure ricordata e combattuta nel Fedone platonico. Egli si occupò, del resto, anche di altre questioni (di scienza naturale, psicologia, morale, politica, aritmetica) e compose narrazioni storiche, che non ci sono peraltro messe in troppo buona luce dai frammenti rimastici, in cui le notizie su Socrate e su Platone o sono inattendibili o rivelano troppo pertinace intento di svalutazione polemica.  Pei frammeriti degli 'Αρμονικά vedi le edizioni moderne di P. Marquard (con commento e versione tedesca, Berlino 1868), di R. Westphal (A. v. Tarent, Melik und Rhytmik des Klassischen Hellenentums, versione e commento in due voll., Lipsia 1883-93) e di H.S. Macran (The Harmonics of Aristox. ed. with transl., notes, introd. and index of words, Oxford 1903).  ADVERTISING  Bibl.: von Jan, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl. d. class. Altertumswis., II, coll. 1057-65, che contiene ulteriori indicazioni bibliografiche, per cui cfr. anche Ueberweg, Grundriss d. Gsch. d. Philos., I, 12ª ed., Berlino 1926, pp. 402 del testo e 123-24 dell'appendice bibliografica; L. Laloy, A. de Tarente, disciple d'A., et la musique dans l'antiquité, Parigi 1924.  La restituzione della Geometria Pitagorica Il teorema dei due retti – Il teorema di Pitagora Il Pentalfa – I Poliedri regolari Il simbolo dell'universo Dimostrazione del "postulato" di Euclide 6  PREMESSE 1. Proclo, capo della Scuola d'Atene (V secolo d.C.), ci ha lasciato un prezioso commento sul Primo Libro di Euclide, dal quale commento si traggono le più precise ed importanti notizie che i moderni posseggano sui ri- sultati conseguiti e le scoperte fatte in geometria da Pi- tagora e dalla sua scuola. Secondo Proclo «Pitagora trasformò questo studio e ne fece un insegnamento liberale; perché rimontò ai principi superiori e ricercò i teoremi astrattamente e con l'intelligenza pura; è a lui che si deve la scoperta degli irrazionali e la costruzione delle figure del cosmo (po- liedri regolari)».1 1 PROCLO, Com. in Euclidem, ediz. Teubner, 65, 15-21: la tra- duzione su riportata è quella del Tannery (PAUL TANNERY, La Géo- métrie grecque; comment son histoire nous est parvenue et ce que nous en savons, Gauthier-Villars, Paris, 1877, pag. 57). Non è una traduzione alla lettera; e non per pedanteria, ma per fedeltà al pensiero pitagorico, notiamo che il testo greco non dice che Pita- gora rimontò ai principi superiori della geometria, ma ἄνωθεν τὰς ἀρχὰς αὐτῆς ἐπισλοπούμενος, che significa: considerando dall'al- to i principi della geometria. Anche il Loria (GINO LORIA, Le scienze esatte nell'antica Grecia, 1914, pag. 9), riporta il passo con una traduzione analoga a quella del Tannery. 7   Proclo ci attesta inoltre2 che: a) Eudèmo, il peripatetico3, attribuisce ai pitagorici la scoperta del teorema dei due retti (in un triangolo qua- lunque la somma degli angoli è eguale a due retti), ed asserisce che ne davano la dimostrazione che consiste (fig. 1) nel condurre per uno dei vertici A la parallela al lato opposto e nell'osservare che, essendo eguali gli an- goli alterni interni formati da una trasversale con due rette parallele, la somma dei tre angoli del triangolo è eguale a quella di tre angoli consecutivi formanti un an- golo piatto. Questa, dice Proclo, è la dimostrazione dei pitagorici. b) «Sei triangoli equilateri riuniti per il vertice riem- piono esattamente i quattro angoli retti, lo stesso tre esa- goni e quattro quadrati. Ogni altro poligono qualunque di cui si moltiplichi l'angolo darà più o meno di quattro retti; questa somma non è data esattamente che dai soli 2 Cfr. P. TANNERY, Le Géométrie Grecque, pag. 102. PROCLO, ediz. Teubner, pag. 379. ALDO MIELI riporta il passo nel testo gre- co a pag. 273 della sua opera: Le scuole ionica, pythagorica ed eleatica, Firenze 1916. 3 Eudemo da Rodi, l'eminente discepolo di Aristotele. Aristo- tele è morto nel 322 a.C.; Euclide fiorì verso il 300 a.C. 8    poligoni precitati, riuniti secondo i numeri dati. È un teorema pitagorico».4 c) Pitagora scoprì il teorema sul quadrato dell'ipote- nusa di un triangolo rettangolo: «Se si ascoltano coloro che vogliono raccontare la storia dei vecchi tempi, se ne possono trovare che attribuiscono questo teorema a Pita- gora, e gli fanno sacrificare un bue dopo la scoperta»5. d) «Secondo Eudemo (οἱ περὶ τὸν Εὔδημον) la para- bola delle aree, la loro iperbole e la loro ellisse, sono scoperte dovute alla musa dei pitagorici». Con questa nomenclatura, classica dopo Euclide, ed oggi non più usata, Proclo designa i problemi dell'appli- cazione semplice, dell'applicazione in eccesso e di quel- la in difetto, ossia attribuisce ai pitagorici la costruzione geometrica, dell'incognita delle tre equazioni6: ax=b2; x(x+a)=b2; x(a – x)=b2 e) L'impiego del pentagono stellato, o pentagramma, o pentalfa, come segno di riconoscimento. f) La costruzione dei poliedri regolari, ed in particola- re l'inscrizione del dodecaedro (regolare) nella sfera7. 4 PROCLO, ediz. Teubner, pag. 304. 5 PROCLO, ediz. Teubner, pag. 426. Questo teorema è attribuito a Pitagora anche da DIOGENE LAERZIO, VIII, 12, da PLUTARCO, da VITRUVIO (De Architectura), IX, cap. II, e da ATENEO. 6 PROCLO, ediz. Teubner, pag. 419. 7 PROCLO, ediz. Teubner, pag. 65. Per quest'ultimo punto vedi anche GIAMBLICO – De Vita Pythagorae, 18. 9   2. Queste, insieme a poche altre che avremo occasio- ne di vedere in seguito, sono le scarse notizie che oggi si possiedono sulle scoperte geometriche dei pitagorici; le dobbiamo a Proclo che a sua volta le ha tratte dalla fon- te attendibile di Eudemo. Bisogna però notare che il Tannery, nel magnifico studio sopra citato, non solo condivide il punto unanimemente concesso che Proclo non ha conosciuto personalmente nessuna opera geome- trica anteriore ad Euclide, ma sostiene anche la tesi che Proclo non ha neppure utilizzato direttamente la storia geometrica composta anteriormente ad Euclide da Eude- mo, quantunque lo citi assai spesso8, e che conosce e cita Eudemo solo di seconda mano, e precisamente at- traverso Gemino, autore del I secolo a.C., un greco, pro- babilmente, nonostante il nome latino. Quanto ad Eudemo, per spiegare l'origine delle indi- cazioni passabilmente numerose e circostanziate perve- nuteci per suo mezzo relative ai lavori della scuola pita- gorica, il Tannery sostiene9 che deve essere esistita un'o- pera di geometria, relativamente considerevole, che Eu- demo deve avere avuto tra le mani, opera composta dopo la morte di Pitagora, approssimativamente verso la metà del V secolo. È forse l'opera che Giamblico desi- gna come: la tradizione circa Pitagora. Osserva il Tan- nery10 che, in base al riassunto storico di Proclo, nel trat- tato di geometria greca di cui si può sospettare l'esisten- 8 P. TANNERY, La Géom. gr., pag. 14 e 15. 9 P. TANNERY, La Géom. gr., pag. 82 ed 86. 10 P. TANNERY, La Géom. gr., pag. 87. 10   za, il quadro era già quello che riempiono gli «Elementi» di Euclide, dal I libro (teorema dei due retti), al 10o (scoperta degli incommensurabili), al 13o (costruzione dei poliedri regolari). Questo è il corona- mento dell'uno e dell'altro; cioè del riassunto di Proclo e degli Elementi di Euclide. «Toute la Géométrie élémen- taire nous apparait ici, comme sortie brusquement de la tête de Pythagore, de même que Minerve du cerveau de Jupiter»11. Nulla però sappiamo circa le dimostrazioni dei teore- mi, le risoluzioni dei problemi ed in generale la tratta- zione delle questioni riportate da Proclo – Gemino – Eu- demo; nulla, all'infuori della dimostrazione del teorema dei due retti cui a prima vista non manca niente. La dimostrazione su riportata, ed attribuita da Eude- mo ai pitagorici, non coincide con quella che si trova nel testo di Euclide (prop. 32) ma ne differisce di poco. Euclide dimostra prima che un angolo esterno di un triangolo è eguale alla somma dei due interni non adia- centi, basandosi sopra la proposizione 29, a sua volta basata sul V postulato, o postulato delle parallele o po- stulato di Euclide. Il passaggio al teorema sopra la som- ma dei tre angoli di un triangolo è immediato ed è effet- tuato da Euclide nella proposizione stessa. Teorema e dimostrazione sono però, come osserva il Vacca12, anteriori ad Euclide; perché, come è stato osser- 11 P. TANNERY, La Géom. gr., pag. 88. 12 VACCA GIOVANNI, Euclide – Il primo libro degli elementi, Te- sto greco, versione italiana e note, Firenze, 1916, pag. 78. 11   vato da Heiberg, Aristotele in un passo della Metafisica (Metaph., 1051 a 24) si riferisce non solo a questo teore- ma ma a questa stessa dimostrazione di Eudemo. A questo punto dobbiamo sollevare una questione im- portante dal duplice punto di vista storico e teorico. La dimostrazione cui si riferisce Aristotele, e che è quella stessa che Eudemo attribuisce ai pitagorici, si basava anche essa come quella di Euclide, sopra un postulato equivalente a quello posteriormente ammesso e formu- lato da Euclide? Proclo si serve nel passo che riporta da Eudemo del termine di parallela, dice anzi: παράλληλος ἠ, la parallela; faceva lo stesso anche Eudemo, e faceva- no lo stesso anche i pitagorici di cui parla Eudemo? Ed in tal caso quale era l'accezione e la definizione, per loro, della parola: parallela? Ed in relazione a questa questione di ordine storico si presenta l'altra di ordine teorico: per dimostrare il teorema dei due retti, è neces- sario basarsi sopra il famoso postulato di Euclide, o so- pra un postulato equivalente? Possiamo rispondere che il postulato di Euclide non è necessario per poter dimostrare il teorema dei due retti; non solo, ma anche la dimostrazione cui si riferisce Ari- stotele, e che è secondo Eudemo quella stessa dei pita- gorici, si può fare senza ammettere o premettere il V po- stulato, o, ciò che è equivalente, senza ammettere o pre- mettere la unicità della non secante una retta data pas- sante per un punto assegnato. 12  Se infatti si ammette, per esempio come fa il Severi13, il postulato che: in un piano il luogo dei punti situati da una parte di una retta ed aventi da questa una data di- stanza, è ancora una retta, si può osservare: 1o – che tale retta è unica14; 2o – che per poter dimostrare come que- sta retta, cioè l'unica equidistante dalla retta data passan- te per il punto assegnato, è anche l'unica non secante della retta data, il Severi ricorre al postulato di Archime- de15, il che prova che il postulato ammesso dal Severi non è equivalente al postulato di Euclide; 3o – che la di- mostrazione data dal Severi del teorema dell'angolo esterno, e del teorema sopra la somma degli angoli di un triangolo16 (e che è quella di Euclide), si basa in realtà sopra le sole proprietà della equidistante (la parallela del Severi), e, sebbene nel testo ne sia preceduta, non si basa sulla proprietà formulata dal postulato di Euclide. Basta condurre per il vertice la equidistante dal lato op- posto ed applicare la proprietà degli angoli alterni inter- ni17, ossia basta basarsi sul postulato del Severi e non su quello di Euclide. 13 FRANCESCO SEVERI, Elementi di Geometria, Firenze, 1926: vol. I, pag. 113. È l'edizione non ridotta. 14 F. SEVERI, Elem. di Geom., I, 114. 15 F. SEVERI, Elem. di Geom., I, 119-20. Vedremo in seguito come se ne possa fare a meno, occorre però sempre ricorrere ad un postulato. 16 F. SEVERI, Elem. di Geom., I, pag. 123. 17 F. SEVERI, Elem. di Geom., I, pag. 117. 13   Ne segue che la dimostrazione cui si riferisce Aristo- tele può benissimo sussistere sulla base di un postulato come quello del Severi o di un postulato ad esso equiva- lente, e che è legittimo sollevare la questione di ordine storico sopra esposta. Ma noi la lasceremo per il mo- mento da parte, perché per quanto riguarda gli antichi pitagorici essa appare in un certo senso oziosa. Infatti, anche questo unico dato che sembrava acquisito circa le dimostrazioni dei pitagorici viene a mancare, essendo certo che gli antichi pitagorici non dimostravano il teo- rema dei due retti per questa via, ma in altro modo affat- to diverso e d'altronde anche affatto ignoto. Avverte infatti giustamente il Loria18: «Una sola cosa bisogna notare a questo proposito, ed è che i pitagorici ai quali si deve la scoperta di questo teorema non sono per fermo gli stessi che inventarono questo ragionamen- to, ché altrimenti non si saprebbe comprendere come Eutocio, in un passo del commento al 1o libro delle Co- niche di Apollonio (Apollonio – ed. Heiberg, II Vol., Lipsiae, 1893, p. 170) dica: «Similmente gli antichi di- mostrarono il teorema dei due retti a parte per ogni spe- cie di triangolo, prima per l'equilatero, poi per l'isoscele e finalmente per lo scaleno, mentre quelli che vennero dopo dimostrarono il teorema in generale: i tre angoli 18 GINO LORIA, Le scienze esatte nell'antica Grecia, II edizio- ne, Hoepli, 1914, pag. 47. 14   interni di un triangolo sono eguali a due retti». «E» con- tinua Eutocio, «chi dice questo è Gemino»19. In conclusione anche questo dato viene a mancare, e sappiamo solo che la proprietà sopra la somma degli an- goli interni di un triangolo non era ammessa, ma bensì dimostrata dagli antichi; e che inoltre tale dimostrazione era suddivisa in tre parti; particolare importante perché induce a ritenere quasi per certo che la dimostrazione non dipendeva dalla teoria delle parallele o da quella af- fine delle rette equidistanti. «Ai pitagorici» scrive ancora il Loria20, «era noto il valore della somma degli angoli di qualunque triangolo rettilineo e sapevano dimostrare [come?] il relativo teo- rema; ad essi per universale consenso viene attribuita la scoperta e la dimostrazione [quale?] della proprietà ca- ratteristica del triangolo rettangolo». Siamo dunque costretti, tanto per l'uno quanto per l'altro teorema a fare delle congetture; tenendo presente che per il primo bisogna escludere la teoria delle paral- lele, e per il secondo bisogna escludere la dimostrazione contenuta nel testo di Euclide (dipendente anche essa dal postulato di Euclide), perché Proclo attesta formal- mente che tale dimostrazione del teorema di Pitagora non è di Pitagora ma di Euclide, dicendo: «per conto 19 Cfr. ALDO MIELI, Le scuole jonica, pythagorica ed eleatica, Firenze, 1916, pag. 273; ivi è riportato il testo greco di Eutocio. Il LORIA riporta tutto il passo a pagina 154 delle «Scienze esatte...». 20 GINO LORIA, Storia delle matematiche, Torino, 1929-33, vol. 1, pag. 67. 15   mio ammiro coloro che per primi investigarono la verità di questo teorema; ma ammiro ancor più l'autore degli Elementi, perché non solo lo ha assicurato con una di- mostrazione evidente, ma perché lo ha ridotto ad un teo- rema molto più generale nel suo sesto libro con stretto ragionamento»21. 3. Non è noto quale fosse la dimostrazione data da Pi- tagora al suo teorema; però possiamo affermare, ci sem- bra, che Pitagora non si serva a tale scopo della proprie- tà enunciata dal postulato delle rette parallele. Altrimen- ti gli antichi pitagorici, che per quanto antichi erano po- steriori a Pitagora, ne avrebbero fatto uso già ed anche per il teorema dei due retti, mentre sappiamo da Euto- cio-Gemino, che solo quelli che vennero dopo dettero tale sbrigativa dimostrazione. L'Allman ha indicato come gli antichi possano essere giunti al teorema dei due retti, che egli propende ad at- tribuire a Talete. Osserva l'Allman22 che nel caso dei sei triangoli equilateri congruenti attorno ad un vertice co- mune, essendo la somma dei sei angoli eguale a quattro retti, ciascuno risulta eguale ad un terzo di due retti, e quindi i tre angoli di un triangolo hanno per somma due retti. Questa spiegazione, per quanto ingegnosa, non può essere la buona, perché presuppone il riconoscimento 21 Il Mieli a pag. 266 dell'opera citata riporta il testo greco di Proclo. 22 ALLMAN GEORGE JOHNSTON, Greek Geometry from Thales to Euclid, Dublin, 1889, pag. 12. 16   necessariamente empirico che sei triangoli equilateri (di cui si ammette l'esistenza implicitamente e così pure che siano anche equiangoli) si possano effettivamente di- sporre nella maniera indicata; mentre Proclo afferma nettamente che questo terzo punto costituiva un teorema pitagorico, il che, a meno di sofisticare sul senso preciso attribuito alla parola teorema da Proclo, indica che que- sto era il punto di arrivo e non quello di partenza. Dal caso del triangolo equilatero l'Allman passa age- volmente al caso del triangolo rettangolo particolare che se ne ottiene abbassando l'altezza. Nel caso poi del triangolo rettangolo qualunque (fig. 2), egli completa il rettangolo (di cui si presuppone così l'esistenza) e dice che: «he (Talete) could easily (empiricamente?) see that the diagonals are equal and bisect each other». Il trian- golo rettangolo è così decomposto in due triangoli iso- sceli cogli angoli alla base eguali, e siccome si sa che i due consecutivi di vertice A hanno per somma un retto, lo stesso accade per la coppia degli altri due angoli ad 17   essi rispettivamente eguali, e quindi ne deriva che la somma dei tre angoli di un triangolo rettangolo qualun- que è eguale a due retti. Di qui il teorema si estende agevolmente, sebbene l'Allman si dimentichi di dirlo, al triangolo isoscele, e da questo ad un triangolo qualun- que. Il Tannery riconosce esplicitamente che dal teorema dei due retti deriva logicamente la proprietà relativa alla possibilità di disporre attorno ad un vertice comune i sei triangoli equilateri, i quattro quadrati ed i tre esagoni; ciò nonostante anche egli inverte l'ordine23 dicendo: «È anche molto possibile che sia stato il riconoscimento empirico della proprietà dei triangoli equilateri riuniti attorno ad un vertice comune, che abbia condotto alla scoperta della eguaglianza a due retti della somma degli angoli di ciascuno di questi triangoli; si sarà passati in seguito, secondo la testimonianza di Gemino, prima al triangolo isoscele ed infine allo scaleno». Abbiamo ve- duto che, seguendo la via tracciata dall'Allman, si passa solo invece ad un caso particolare del triangolo rettan- golo, e che poi occorre fare un nuovo appello all'empiri- smo per passare al caso del triangolo rettangolo qualun- que, soltanto dopo si passa finalmente al triangolo iso- scele ed a quello scaleno. Non pare dunque che il punto di partenza indicato dal Tannery e dall'Allman sia quello adoperato dagli antichi. Occorre trovarne un altro, che conduca ai risultati nel- 23 P. TANNERY, La Géom. gr., pag. 104. 18   l'ordine indicato da Gemino, e che faccia appello all'in- tuizione in modo più semplice. 4. Quanto al teorema sul quadrato dell'ipotenusa «tut- to sembra indicare», scrive il Tannery24, «che se non l'ha presa in prestito dagli egiziani, questa proposizione fu una delle prime che egli incontrò, ed affatto il corona- mento delle ricerche», come invece è nel testo del primo libro di Euclide. Perfettamente d'accordo; ed appunto per questa ragio- ne la dimostrazione pitagorica del teorema di Pitagora non solo non può essere la coda e la conseguenza di altri teoremi sull'equivalenza, ma deve essere indipendente dalla teoria della similitudine, da quella delle proporzio- ni, nonché dai postulati di Euclide e di Archimede. D'al- tra parte, se è noto e certo che gli egiziani conoscevano particolari triangoli rettangoli aventi per misura dei lati numeri interi, tra questi il triangolo detto appunto trian- golo egizio, non risulta però affatto che conoscessero il teorema generale sul quadrato dell'ipotenusa, e se la scoperta di Pitagora si fosse ridotta ad un semplice pre- levamento si spiegherebbero male gli osanna, i peana ed i sacrifici agli Dei. Ricercando quale possa essere stata la dimostrazione, il Tannery, dopo avere detto25 che «i greci introducevano il più tardi possibile la nozione di similitudine (VI di Euclide)», afferma poco dopo che Pitagora deve essersi 24 P. TANNERY, La Géom. gr., pag. 105. 25 P. TANNERY, La Géom. gr., pag. 97. 19   servito della similitudine, il cui impiego si dovette in se- guito restringere a causa della scoperta della incommen- surabilità. Il principio di similitudine si dimostra impie- gando il postulato delle parallele; «inversamente26 am- mettendolo a priori se ne potrebbe ricavare il postulato delle parallele». Ora, a parte il fatto che si tratta di una semplice ipotesi non suffragata da alcun elemento, biso- gna notare come sia ben vero che ammettendo questo postulato della similitudine se ne potrebbero ricavare il postulato delle parallele, il teorema dei due retti, la no- zione e le proprietà dei rettangoli e dei quadrati, la teo- ria delle proporzioni e la dimostrazione del teorema di Pitagora mediante i triangoli simili, ma non si spieghe- rebbe allora la preesistenza dell'antica dimostrazione del teorema dei due retti menzionata da Eutocio-Gemino. Anche secondo il Loria27 «la dimostrazione che pre- senta il massimo di verisimiglianza è quella basata sulla similitudine di un triangolo rettangolo coi due che na- scono abbassando la perpendicolare dal vertice dell'an- golo retto sull'ipotenusa. Con una agevole metamorfosi essa diviene quella stessa che leggesi negli elementi di Euclide». Questa possibilità di ridurre questa dimostra- zione a quella di Euclide sembra a noi che provi proprio l'opposto, e cioè che la dimostrazione accennata dal Lo- ria e dal Tannery, la quale conduce infatti al così detto primo teorema di Euclide, da cui si trae poi il teorema di 26 P. TANNERY, La Géom. gr., pag. 105. 27 GINO LORIA, Storia delle Matematiche, vol. I, pag. 67 in nota. 20   Pitagora, non sia affatto quella originale; senza contare che, se così fosse, sotto la denominazione di teorema di Pitagora dovrebbe trovarsi designato un altro teorema, e precisamente il teorema sopra il quadrato di un cateto (il primo così detto di Euclide). Molto più felicemente os- serva l'Allman28 che sebbene Pitagora «possa averlo scoperto come una conseguenza del teorema sulla pro- porzionalità dei lati dei triangoli equiangoli, manca qualsiasi indizio che egli vi sia giunto in tale maniera deduttiva», e dopo avere ricordato che sappiamo, grazie a Prodo, che Pitagora tenne una via che non è quella te- nuta da Euclide, riconosce che «la maniera più semplice e naturale di arrivare al teorema è la seguente come è suggerito da Bretschneider» (fig. 3)29. Questa è una dimostrazione di cui gli storici moderni ignorano l'autore; ma si sa però che essa è antica. Per essa occorrono solo le nozioni di triangolo rettangolo e di quadrato, le proprietà delle rette perpendicolari e, come vedremo, occorre conoscere il teorema dei due 28 ALLMAN, Greek Geometry, pag. 35. 29 BRETSCHNEIDER C. C., Die Geometrie und die Geometer vor Euklides, Leipsig, 1870. 21    retti; ed è invece, come vedremo, indipendente dalla teoria delle parallele. Se non che, continua l'Allman30, l'Hankel31 nel citare questa dimostrazione da Bretschneider dice che «si può obiettare che essa non presenta affatto un colorito speci- ficamente greco, ma ricorda i metodi indiani. Questa ipotesi circa l'origine orientale del teorema mi sembra ben fondata; io attribuirei pertanto la scoperta agli egi- ziani...», da cui poi Pitagora lo avrebbe tratto. Indiani od egiziani pare che sia la stessa cosa, pur di togliere ogni merito a Pitagora! Ad ogni modo, sia pure derivandolo dall'India, dall'Egitto o dalla civiltà minoi- ca, questa sarebbe, secondo l'Allman ed il Bretschnei- der, la dimostrazione data da Pitagora; si vorrà almeno ammettere che, pure inspirandosi alla via suggerita dalla figura, la dimostrazione logica gli appartenga; altrimenti dove sarebbe il merito che Proclo e tutta l'antichità han- no riconosciuto in proposito a Pitagora? Del resto l'ap- prezzamento sul carattere più o meno indiano od egizia- no della dimostrazione non ci sembra abbastanza sicuro ed impersonale, ed applicando codesto criterio è proba- bile che si dovrebbe assegnare una provenienza orienta- le anche ad altri teoremi che invece sono sicuramente greci. Noi mostreremo come una dimostrazione del teorema basata sopra questa figura si ottenga molto semplice- 30 ALLMAN, Greek Geometry, pag. 37. 31 HANKEL H., Zur Geschichte der Mathematik in Alterthum und mittel-Alter, Leipsig, 1874. 22   mente usufruendo del teorema dei due retti e delle sue immediate conseguenze. Ed, anticipando, notiamo subi- to che in tale dimostrazione ci serviremo degli stessi cri- teri di composizione e decomposizione delle figure di cui Platone fa uso nel Timeo e nel Menone32, e che in conseguenza tale dimostrazione non soltanto ha colorito greco, ma ha il colorito pitagorico della dimostrazione del Menone.  32 PLATONE, Timeo, XX; Menone, XIX. 23  CAPITOLO I IL TEOREMA DEI DUE RETTI 1. Da quanto precede risulta che occorre risolvere questa questione essenziale e preliminare: Trovare in qual modo gli antichi pitagorici dimostravano il teorema dei due retti. Noi sappiamo soltanto che essi ne davano una dimo- strazione che non era quella basata sopra il postulato delle parallele; e questo porta con una certa sicurezza a concludere che non ammettevano tale postulato. Questa prova indiretta, per altro, trova conferma nel fatto che non soltanto il postulato, ma il concetto stesso di rette parallele, definite almeno con Euclide come ret- te che prolungate all'infinito non si incontrano mai, do- veva apparire particolarmente ripugnante alla mentalità pitagorica per la quale il finito, il limitato era il compiu- to e perfetto mentre l'infinito, l'illimitato era l'imperfet- to. D'altra parte, escludendo il V postulato, e facendo uso solamente di quanto precede la 29a proposizione del li- bro primo di Euclide, non è possibile, crediamo, di per- venire allo scopo; e bisogna supporre quindi che gli an- tichi pitagorici dovevano ammettere qualche altra sem- plice proprietà che permetteva di dimostrare il teorema. 24  Nulla di strano che ciò avvenisse; dice infatti il Tannery che al tempo di Pitagora «il numero delle verità ammes- se come primordiali era, senza dubbio, molto più consi- derevole; ed il progresso... deve essere consistito più che altro nella riduzione degli assiomi». Abbiamo vedu- to che tra queste verità primordiali ammesse dagli anti- chi pitagorici il Tannery propende a ritenere figurasse un postulato della similitudine; ma se questo può servire per giungere alla dimostrazione del teorema di Pitagora non serve per quello dei due retti, perché conduce alla dimostrazione ordinaria di questo teorema e non a quel- la arcaica, ignota, ma di cui conosciamo la esistenza e la indipendenza dal postulato di Euclide. Per la stessa ra- gione ed anche per la sua relativa complessità bisogna escludere che i pitagorici ricorressero ad un postulato come quello enunciato dal Severi e che abbiamo riporta- to in principio. Queste considerazioni di carattere razionale permetto- no di escludere che si debba ricorrere a simili postulati; ma con sole considerazioni razionali non è sperabile di afferrare quale possa essere il postulato cui ricorrere; possiamo soltanto aggiungere che deve trattarsi di qual- che proprietà che seguitò naturalmente a sussistere dopo l'adozione del postulato delle parallele e dopo l'assetto dato da Euclide alla geometria, ma che disparve in se- guito dal numero delle proprietà primordiali, divenendo probabilmente una ovvia conseguenza del nuovo postu- lato. Determinare quale fosse è questione di inspirazione piuttosto che di ragionamento; diciamo inspirazione e 25  non capriccio o fantasia, ed aggiungiamo che dovremo sottoporla ad ogni possibile controllo, esaminare se ar- monizza con la mentalità pitagorica e se consente uno sviluppo pari allo sviluppo effettivamente raggiunto dai pitagorici e capace di condurre ai risultati conseguiti da essi, quali Proclo ci ha tramandati. Ben inteso poi, e lo diciamo esplicitamente a scanso di equivoci e per precisione, che per necessità e per bre- vità noi presupponiamo ed ammettiamo accettato o di- mostrato dai pitagorici il contenuto delle prime 28 pro- posizioni di Euclide; ossia quanto precede il postulato delle parallele e la teoria delle parallele; in quanto che a noi interessa ed occorre indagare come si possano dimo- strare le proposizioni nelle quali la geometria pitagorica sappiamo che differiva da quella euclidea. Sostanzial- mente ammettiamo e supponiamo che i pitagorici (espli- citamente o no) ammettessero: 1o – i postulati di deter- minazione e appartenenza; 2o – i postulati relativi alla divisione in parti della retta e del piano (riferiti se si vuole a rette finite e piani finiti); 3o – i postulati della congruenza o del movimento. E riteniamo dimostrate e note ai pitagorici le proprie- tà che cogli ordinarii procedimenti se ne ricavano, e cioè: 1) i criteri ordinari di eguaglianza dei triangoli; 2) le relazioni tra gli elementi di uno stesso triangolo; i teoremi sopra i triangoli isosceli, equilateri ed a lati di- suguali; il teorema dell'angolo esterno (maggiore di cia- 26  scuno degli interni non adiacenti), il teorema sopra un lato e la somma degli altri due... 3) l'unicità della perpendicolare per un punto ad una retta, la proprietà delle perpendicolari ad una stessa ret- ta, le proprietà delle perpendicolari e delle oblique, del- l'asse di un segmento... ossia quanto si ottiene in sostan- za con gli ordinari postulati e procedimenti e senza il postulato di Euclide. 2. Adoperando il linguaggio moderno, abbiamo detto che occorre introdurre un nuovo postulato, ossia ritrova- re l'antico postulato, per poter dimostrare il teorema dei due retti. Ma non sappiamo con quale termine gli antichi designassero le verità primordiali da cui traevano logi- camente le altre proposizioni della geometria. La parola postulatum, in cui è trasparente il carattere di esigenza logica attribuito al concetto così designato, corrisponde al greco αἴτημα ed al medio latino petitio, ed appare come termine matematico nell'edizione latina di Euclide del Commandino del 1619, e come termine filosofico nella versione latina della Reth. ad Alexan. del Philel- phus (morto nel 1489). La distinzione in ipotesi, assiomi e postulati è di Aristotele; ed Euclide, naturalmente, fa uso del termine αἴτημα. Nell'edificio geometrico logico degli antichi figurava- no necessariamente delle verità primordiali ammesse senza dimostrazione, ma non è detto che questo avve- nisse per pura necessità logica, per dare al ragionamento il necessario punto di partenza; né è detto che venissero 27  scelte e stabilite avendo riguardo unicamente all'intui- zione ed all'esperienza sensibili ordinarie. Occorre tene- re presente che la mentalità geometrica dei pitagorici era ben diversa dalla mentalità moderna che ha per ideale una geometria pura, astratta, esistente unicamente nel mondo della logica. Al contrario, osserva il Rostagni33, «Religione, morale, politica, scienze matematiche non rappresentavano per i pitagorici materie separate; o ve- ramente si individuarono in progresso di tempo ma non cessarono mai di essere emanazioni e dipendenze della cosmologia... Lo spirito cosmologico, ch'è insito nella filosofia pitagorica, sta al di sopra di quelle specifica- zioni, e le domina tutte, indifferentemente». Archita, il pitagorico amico di Platone, in un frammento riportato da Nicomaco ed in un altro riportato da Porfirio,34 dice che la geometria, l'aritmetica, la sferica (l'astronomia sferica), e la musica sono delle scienze che sembrano sorelle. La geometria non era per essi una disciplina esclusi- vamente logica, fatta dall'uomo e per l'uomo, indipen- dente della realtà cosmica, come potrebbe essere il gio- co degli scacchi; era la scienza che ha oggetto di studio il cosmo sotto l'aspetto della posizione e dell'estensione. L'aritmetica era la scienza del ritmo, ῥυθμός, ἀριθμός, del numero, del tempo, dell'intervallo; ed Archita distin- 33 A. ROSTAGNI, Il verbo di Pitagora, ed. Bocca, Torino 1924, pag. 71 34 Cfr. A. ED. CHAIGNET, Pythagore et la philosophie pythago- ricienne; Paris, 1874, vol. I pag. 279. 28   gueva inoltre un tempo fisico ed un tempo psichico. Ed è evidente il nesso che con queste due scienze ancor oggi sorelle avevano le altre due, la astronomia sferica e la musica. Inoltre occorre ricordare che questa visione sintetica che legava tra di loro le varie scienze non era presumibilmente basata sopra la sola intuizione ed espe- rienza sensibile umana ordinaria e non aveva per ogget- to soltanto la φύσις, la natura, il mondo dell'ἄλλο, del- l'alterazione, del divenire; ma anche l'eterna ed olimpi- camente inalterabile ἐστὼ τῶν πραγμάτον, l'essenza del- le cose, l'al di là del περιέχον, della fascia cosmica, che avvolge il mondo dei quattro elementi e dei dieci corpi celesti. Dieci secoli dopo Pitagora, Proclo assegna anco- ra all'intelligibile e non al sensibile gli oggetti della geo- metria. Tenuto conto di tutto questo, la verità primordiale che introduciamo, e che riteniamo ammessa dai pitagorici è la seguente, che chiameremo: Postulato pitagorico della rotazione: se un piano ruo- ta rigidamente sopra se stesso in un verso assegnato at- torno ad un suo punto fisso (centro di rotazione) di un angolo (convesso) assegnato, ogni retta situata nel piano si muove anche essa, e le posizioni iniziale e finale della retta (orientata), se si incontrano, formano un angolo eguale a quello di cui ha ruotato il piano. Questa verità primordiale dal punto di vista moderno è innegabilmente un semplice dato dell'intuizione, del- l'osservazione e dell'esperienza. Quando una ruota gira, un segmento qualunque, giacente e rigidamente connes- 29  so con il piano della ruota, si muove anche esso, e gira sempre in un verso se la ruota fa altrettanto, e gira più o meno a seconda che più o meno gira la ruota; e l'intui- zione e l'osservazione dicono che la rotazione del seg- mento è eguale alla rotazione del raggio vettore. D'altra parte la capacità di confrontare fra loro gli angoli non poteva fare difetto ai pitagorici; giacché, secondo Eude- mo, il problema, un poco più arduo, di costruire un an- golo eguale ad un angolo assegnato, dato il vertice ed un lato dell'angolo da costruire, è una invenzione piuttosto di Oinopide da Chio che di Euclide; ed Oinopide (500 a.C. circa) è forse un pitagorico. All'adozione di questo postulato parte dei moderni obbietterà che esso non prescinde dal movimento; ma occorre osservare che non si tratta qui di discutere le questioni teoriche del movimento e della congruenza, si tratta di giudicare se questo postulato possa essere stato una delle verità primordiali ammesse dai pitagorici, ed il fatto che esso si basa sul movimento, anzi sulla rotazio- ne, non porta in proposito nessun pregiudizio. Il movi- mento, ed in particolare il movimento di rotazione, si presentava come aspetto saliente e caratteristico della vita cosmica, e perciò non solo poteva ma doveva pita- goricamente avere la sua funzione anche nella geome- tria. La tendenza a fare a meno per quanto è possibile del movimento è una tendenza di Euclide, e questa sua antipatia ha forse contribuito alla sua grande innovazio- ne, alla teoria delle rette che prolungate all'infinito non si incontrano mai. Sono rette di cui nessuno ha mai po- 30  tuto procurarsi l'esperienza sensibile e nemmeno quella intelligibile, ma Euclide non era un pitagorico e gli ba- stava che la definizione delle parallele ed il relativo po- stulato gli dessero il mezzo necessario per procedere nella sua via. 3. Il postulato pitagorico della rotazione non coincide, naturalmente, con l'ordinario postulato della rotazione. Il postulato ordinario della rotazione ci dice che quan- do un piano ruota intorno ad un suo punto fisso O (fig. 4) di un certo angolo α, tutti i punti di una retta qualun- que AB del piano ruotano intorno ad O, in modo che due raggi vettori qualunque OA, OB vanno rispettiva- mente in OA', OB' tali che ^AOA' = ̂BOB' = α, e la retta AB va in A'B' ed ogni altro punto C della AB va in un punto C' di A'B' disposto rispetto ai pûnti A' e B' come C è disposto rispetto ad Ae B, ed è COC' = α. Ogni punto della AB ruota dunque di α. Il postulato pi- tagorico della rotazione afferma che inoltre tutta la retta AB, con tale rotazione, se incontra la A'B', forma con essa l'angolo α. Nel caso di un raggio vettore OA la so- vrapposizione ad OA' si ottiene con la semplice rotazio- ne intorno ad un suo punto O, nel caso di una retta qua- lunque AB la sovrapposizione si ottiene con una rota- zione eguale intorno ad un punto esterno O, oppure con una rotazione eguale attorno al punto di intersezione (se esiste) delle AB ed A'B' seguita da una opportuna trasla- zione. Il postulato afferma l'eguaglianza di queste due rotazioni; e, se ogni punto della AB ruota di α, non era 31  naturale affermare che l'insieme di tali punti, ossia la AB, ruotava anche esso di α? Dal postulato segue poi immediatamente che se la ret- ta r con due rotazioni consecutive nello stesso senso si portaprimainr1epoidar1inr2,l'angolo r̂r2 èegua- le alla somma r̂ r 1+ ̂r1 r 2 . Perciò la proprietà si esten- de subito al caso dell'angolo concavo e dell'angolo giro. Nel caso della rotazione di mezzo giro, condotta dal centro di rotazione la perpendicolare OH alla AB, il rag- gio vettore OH si porta sul prolungamento OH', la AB si porta sulla perpendicolare ad OH' per H', ed il postulato pitagorico ci dice che se essa incontrasse la AB forme- rebbe con essa un angolo piatto. Ma siccome è noto che 32   due rette perpendicolari in punti diversi H, H' ad una stessa retta non si incontrano, ci si limita a riconoscere che in questo caso le posizioni iniziale e finale della ret- ta non si incontrano. Naturalmente non ne segue affatto che per ogni altra rotazione esse debbano incontrarsi. Notiamo infine come il postulato si potrebbe anche enunciare sotto forma diversa. Per esempio: Se il piano ruota sopra se stesso in un certo senso intorno ad un punto fisso l'angolo formato da una retta qualunque del piano con la sua posizione finale è costante; oppure: se il piano compie due rotazioni consecutive nello stesso senso con le quali la r va prima in r1 e poi in r2 allora r̂r2=̂rr1+̂r1r2 .Macisembrachelaformacheabbia- mo prescelto aderisca in modo più immediato alla osser- vazione ed abbia quindi maggiore probabilità di coinci- dere con la verità primordiale ammessa dai pitagorici. 4. Con l'aiuto di questo postulato il teorema dei due retti nel caso del triangolo equilatero si dimostra imme- diatamente. Naturalmente ciò presuppone che esistano dei trian- goli equilateri e che si sappia costruire un triangolo equilatero di lato assegnato. La considerazione del trian- golo equilatero doveva comparire molto presto nella geometria pitagorica, per la corrispondenza che essi scorgevano tra i primi quattro numeri, ed il punto, la ret- ta (individuata e limitata da due punti), il piano ed il triangolo individuato da tre, e lo spazio o il volume indi- viduato da quattro punti. Non è forse un caso se anche 33  in Euclide la prima proposizione del primo libro ha ap- punto per oggetto il triangolo equilatero. E giacché se ne presenta l'occasione notiamo che in essa Euclide am- mette tacitamente ed implicitamente il postulato che se una circonferenza ha il centro su di un'altra circonferen- za ed un punto interno ad essa, la taglia. Così pure del resto è ammesso tacitamente in Euclide l'altro caso par- ticolare del postulato di continuità, e cioè che il segmen- to congiungente due punti situati da parte opposta di una retta è tagliato da essa. Posto ciò, per dimostrare il nostro teorema basta co- noscere il 1o e 2o criterio di eguaglianza dei triangoli con i loro corollari sul triangolo isoscele e sul triangolo equilatero, ed applicare il postulato pitagorico della ro- tazione. Dimostriamo dunque il TEOREMA: La somma degli angoli di un triangolo equilatero è eguale a due retti. Sia ABC il triangolo equilatero (fig. 5), e quindi equiangolo. 34   La bisettrice dell'angolo ̂CAB incontra il lato op- posto in un punto D interno ad esso, e poiché i due punti A e D si trovano da parte opposta della bisettrice di ^ACB, le due bisettrici si tagliano in un punto O inter- no al triangolo dato. Gli angoli ̂OAC ,̂OCA sono egua- li perché metà di angoli eguali, e quindi OAC è isoscele ed OA = OC. I triangoli ACO, BCO sono eguali per il 1o criterio, e perciò OB = OA = OC e ^OBC=^OAC; e perciò OB è bisettrice dell'angolo ^ABC. I tre triangoli isosceli OAB, OBC, OAC sono quindi eguali (2o o 3o criterio) e gli angoli al vertice ̂AOC,̂COB,̂BOA sono eguali. Facendo ruotare la figura attorno ad O dell'angolo ^COB, ilverticeCvainB,BinA,edAinC,laCBsi porta sul̂la BA e l'angolo da esse formato, cioè l'angolo esterno CBE è eguale per postulato all'angolo ̂COB. Proseguendo nella rotazione, con due altre ro- tazioni eguali, la figura si sovrappone a se stessa; e la somma dei tre angoli di rotazione, ossia dei tre angoli esterni del triangolo dato, è eguale ad un angolo giro, ossia a quattro retti. D'altra parte ogni angolo interno di ABC è supple- mentare dell'angolo esterno; perciò la loro somma sarà eguale a sei retti meno la somma degli angoli esterni, ossia a sei retti meno quattro retti: ossia a due retti. c. d. d. 35  5. La verità del teorema nel primo caso, secondo Eu- tocio e Gemino, dimostrato dai pitagorici è dunque una conseguenza immediata del postulato pitagorico della rotazione. Dimostrato il teorema agevolmente in questo caso particolare, era naturale che gli antichi si chiedes- sero cosa avveniva in generale, ed era naturale che pri- ma del caso generale essi studiassero l'altro caso parti- colare del triangolo isoscele. In questo secondo caso la dimostrazione non è così immediata; occorre premettere parecchie altre proposi- zioni tutte dimostrabili con una certa facilità e senza bi- sogno del postulato di Euclide, come del resto si trovano in Euclide stesso e nei testi moderni. Ad essi rimandia- mo per le dimostrazioni e ci limitiamo a ricordare que- ste proprietà, che sono del resto comprese tra quelle in- dicate innanzi: a) La bisettrice dell'angolo al vertice di tal triangolo isoscele è anche mediana ed altezza. b) Esistenza, unicità e determinazione del punto me- dio di un segmento. c) Teorema dell'angolo esterno di un triangolo. d) La somma di due angoli interni di un triangolo è sempre minore di due retti. e) Se un angolo di un triangolo è maggiore od eguale ad un retto gli altri due sono acuti. f) Se in un triangolo un lato a è corrispondentemente maggiore eguale o minore di un secondo lato b, l'angolo ̂A opposto ad a è corrispondentemente 36  maggiore, eguale o minore dell'angolo B̂ oppo- sto a b; e viceversa. g) Se un triangolo ha un angolo ottuso o retto, il lato opposto ad esso è il maggiore. h) In un triangolo un lato è minore della somma degli altri due. i) Definizione, esistenza, unicità della perpendicolare ad una retta per un punto. k) Teoremi inversi sopra la mediana e l'altezza del triangolo isoscele. l) Teoremi sull'asse di un segmento e sulle bisettrici degli angoli formati da due rette concorrenti. Premesso questo dimostriamo il TEOREMA: La somma degli angoli interni di un triangolo isoscele è eguale a due retti. Sia ABC il triangolo isoscele (fig. 6) e sia AB = AC e quindi ^ABC=^ACB; sia AH la bisettrice, mediana ed altezza del triangolo isoscele. Si dimostra come nê l caso precedente che la bisettrice dell'angolo alla base ABC incontra la AH in un punto O interno, e congiunto O con C dall'eguaglianza (1o criterio) dei triangoli BAO, CAO 37   segue che OB = OC e perciò ^OBC=^OCB, e perciò CO è la bisettrice di ^ACB. D'altra parte, essendo BC < AB + AC sarà la metà BH < AB = AC; e presi allora sui lati BK = CL = BH i punti K ed L risultano interni rispettivamente ad AB ed AC. Congiunto O con K e con L, i triangoli OKB, OHB, OHC, OLC risultano eguali per il 1o criterio, e perciò OH = OK = OL, e le AB, AC rispettivamente perpendi- colari ad OK ed OL. Facciamo adesso ruotare la figura intorno ad O, in modo che OH ruota in OK, la BC per- pendicolare ad OH si porta sulla retta BA perpendicola- re alla OK in K, e per il postulato della rotazione l'ango- lo esterno ̂VBA del triangolo dato risulta eguale all'an- golodirotazione ^HOK. Continuandolarotazionenel- lo stesso verso OK va su OL, la AB perpendicolare ad OK va su CA perpendicolare ad OL e l'angolo esterno ^BAT è eguale a ^KOL. Proseguendo la rotazione e portando OL sopra OH la figura ritorna, dopo un giro completo, sopra se stessa, ed ^ACS=^LOH . La somma dei tre angoli esterni è eguale all'intera ro- tazione di quattro retti; ed anche questa volta, essendo i tre angoli del triangolo dato rispettivamente supplemen- tari degli angoli esterni adiacenti, la loro somma sarà eguale a sei retti meno la somma degli angoli esterni, ossia a sei retti meno quattro retti, ossia a due retti c. d. d. 6. Passiamo al caso generale. 38  Occorre solo premettere i seguenti teoremi, che si di- mostrano agevolmente per assurdo, e che per brevità ci limitiamo ad enunciare: a) In un triangolo acutangolo i piedi delle tre altezze sono interni ai lati. b) In un triangolo ottusangolo o rettangolo il piede dell'altezza relativa al lato maggiore è interno al lato. Basta questo per dimostrare che: TEOREMA: In un triangolo qualunque la somma dei tre angoli è eguale a due retti. Sia A (fig. 7) il vertice dell'eventuale angolo retto od ottuso del triangolo qualunque ABC. Abbassata l'altezza AH, il piede H è interno a BC e l'angolo ^BAC è divi-  so in due parti dalla AH. Sul prolungamento di AH prendiamo HA' = AH e congiungiamo A con B e con C. I triangoli rettangoli AHB, A'HB sono eguali per il lo criterio, quindi BA = BA' e ^BAH=^BA'H; analoga- mente ^CAH=^CA'H. 39  Per il teorema precedente applicato ai due triangoli isosceli BAA', CAA' si ha: ̂ABA '+ ̂BAA '+ ̂BA ' A=due retti ed, essendo BH bisettrice del triangolo isoscele BAA', si ha: Analogamente e sommando ossia ^ACH+^CAA '=un retto, ^ABH+^BAA '=un retto . ^ABH+^ACH+^BA ' A+^CAA '=due retti, ^ABC+^ACB+^BAC=due retti. Il teorema è così dimostrato in generale. 7. La dimostrazione si è presentata immediata nel pri- mo caso menzionato da Eutocio-Gemino, e poi ordinata- mente per gli altri due casi da essi menzionati. Occorre però osservare: 1o che la dimostrazione del primo caso è, da un punto di vista moderno, superflua, perché il secondo caso include il primo; 2o che il caso generale si può anche dimostrare direttamente in modo da includere gli altri due. Per ottenere questa dimostrazione generale occorre solo premettere due teoremi, che sono i seguenti: TEOREMA: Due triangoli rettangoli aventi l'ipote- nusa eguale ed un angolo acuto eguale sono eguali. Sia (fig. 8) ̂A=̂A' = 90°; a=a'; B^=^B'. 40   Se BA = B'A' il teorema è dimostrato; se fosse invece ad esempio B'A'>BA, preso B'D'=BA, il triangolo B'D'C' risulta per il 1o criterio eguale al triangolo BAC; quindi C'D' perpendicolare a B'A', e questo non può ac- cadere perché da C non si può condurre che una sola perpendicolare alla B'A'. L'altro teorema che occorre premettere è il seguente. TEOREMA: Due triangoli rettangoli aventi le ipote- nuse eguali ed un cateto eguali sono eguali. Siano (fig. 9) BAC, B'A'C' i due triangoli, ^A=^A '=90° , BC=B'C', CA= CA'. Preso A'B''=AB il triangolo rettangolo C'A'B'' è egua- le a CAB, C'B"=CB=CB', e nel triangolo isoscele 41   B'C'B'' l'altezza è anche mediana, quindi B'A'=A'B''=AB. Premesso questo si ottiene la seguente dimostrazione generale del teorema fondamentale: Sia A (fig. 10) il vertice dell'eventuale angolo retto od ottuso del triangolo ABC; e conduciamo le bisettrici de- gli angoli ^BAC , ^ABC . Si dimostra al solito che esse si incontrano in un punto O interno al triangolo ABC. Gli angoli ^ABO, ^BAO metà di angoli convessi sono acuti, dimodoché nel triangolo OAB l'eventuale angolo non acuto è quello di vertice O, e perciò in tutti i casi, abbassando da O la perpendicolare OH ad AB il piede H è̂interno ad AB. Congiunto O con C l'angolo acuto ACB è diviso in due angoli acuti, dimodoché anche nei triangoli AOC, BOC l'eventuale angolo non acuto è quello di vertice O, ed anche in essi i piedi L e K delle perpendicolari abbassate da O sopra AC e BC sono in tutti i casi rispettivamente interni ad AC e BC. I triangoli rettangoli OBK, OBH hanno l'ipotenusa eguale ed un angolo acuto eguale; perciò sono eguali, ed 42   OK=OH. Analogamente sono eguali i triangoli OAH, OAL e quindi OH=OL. Ma allora i triangoli rettangoli OLC, OKC hanno l'ipotenusa in comune, il cateto OL=OK, sono quindi eguali e perciò OC è bisettrice di ^ACB. Si ha dunque che le tre bisettrici degli angoli interni di un triangolo qualunque si incontrano in un punto interno al triangolo, tale che, abbassando da esso le perpendicolari ai lati i tre piedi H, L, K sono interni ai tre lati, e si ha: OH=OK=OL. Non resta adesso che fare ruotare la figura attorno ad O, portando successivamente OK su OH, OL, OK e la retta BC andrà successivamente sulla AB, CA, BC; gli angoli esterni del triangolo ABC per il postulato pitago- rico della rotazione risulteranno rispettivamente eguali ai tre angoli ^KOH, ^HOL, ^LOK; la loro somma sarà quattro retti, e quella degli angoli interni sarà due retti. 8. Questa dimostrazione rende dunque superflue le due precedenti; ed in ogni caso la dimostrazione nel caso del triangolo isoscele include quella del triangolo equilatero. Se ne deve concludere che non è questa la dimostrazione in tre tappe degli antichi pitagorici, men- zionata da Eutocio e Gemino? Concludere in questo senso equivarrebbe ad attribuire agli antichi la tendenza e l'abitudine moderna alla gene- ralizzazione, ossia significherebbe giudicare alla stregua della nostra mentalità. Per obbedire alle nostre norme avrebbero dovuto rinunziare a dimostrare subito il teore- 43  ma nel primo e semplice caso ed attendere (e perché mai?) di avere trovato il modo di dimostrarlo nel secon- do e nel terzo caso. Non va dimenticato inoltre che essi scoprirono il teorema; ed è probabile che la scoperta sia avvenuta per il caso del triangolo equilatero; soltanto dopo ed in conseguenza sarà sorto il dubbio se il teore- ma valesse in generale, e solo dopo e con ben altra fati- ca saranno giunti a dimostrarlo negli altri due casi; quin- di il passo di Eutocio si può riferire non soltanto all'ordi- ne dell'esposizione pitagorica del teorema ma all'ordine cronologico, storico delle loro scoperte. Perciò, a meno che si riesca a dedurre ed in modo ab- bastanza semplice il secondo caso dal primo, siamo con- vinti che le nostre dimostrazioni sono proprio quelle de- gli antichi, e quasi quasi riteniamo che anche nel terzo caso essi non dedussero la dimostrazione dal secondo caso, ma preferirono per analogia di dimostrazione ri- correre ancora al postulato della rotazione. Si tenga pre- sente ad ogni modo quanto scriveva il Tannery35: «credo inutile insistere sulla difficoltà che sembrano avere tro- vato i primi geometri ad elevarsi alle generalizzazioni più semplici», citando ad esempio proprio il caso del teorema dei due retti. Comunque siamo giunti a questo risultato: Abbiamo dimostrato il teorema fondamentale sopra la somma de- gli angoli di un triangolo senza fare uso del postulato e del concetto delle rette parallele. È un risultato di una 35 P. TANNERY, La Géom. gr., pag. 101, nota 2. 44   certa importanza se il postulato pitagorico della rotazio- ne non equivale al postulato di Euclide. 9. Effettivamente il postulato pitagorico della rotazio- ne non è equivalente al postulato dì Euclide. Ed ecco perché. Abbiamo veduto che dal postulato pitagorico della ro- tazione se ne deduce il teorema dei due retti. Viceversa, ammettendo che la somma degli angoli di un triangolo sia una costante, se ne deduce il nostro postulato. Sia, infatti (fig. 4), O il centro di rotazione ed S il punto d'incontro della posizione iniziale e finale della retta r. Prendiamo sulla r un punto A situato rispetto alla r' dalla parte di O, ed uno B da parte opposta; la r' taglia in un punto T il segmento OB. La rotazione che porta r in r' porta il punto A in un punto A' e B in un punto B' ed è ̂AOA '=̂BOB ' l'angolo di rotazione. I triangoli AOB, A'OB' sono eguali, quindi B^=^B'. I triangoli OTB', STB hanno dunque gli angoli B^ = ^B ' , ^OTB'=^STB; e, se ammettiamo che la somma degli angoli di un triangolo qualunque sia costante, il terzo angolo ̂TSB r̂isulterà eguale al terzo angolo ^B ' OB ; ossia l'angolo rr ' eguale all'angolo di rotazione, come dovevasi dimostrare. Dunque il postulato pitagorico del- la rotazione e la proposizione sopra la costanza della somma degli angoli di un triangolo si equivalgono come postulati. 45  Ammettendo quindi la costanza della somma degli angoli di un triangolo si potrebbe dedurne il nostro po- stulato della rotazione, ed applicandolo al caso del trian- golo equilatero, si troverebbe subito che la quantità di cui si è ammessa la costanza è eguale a due retti. Girolamo Saccheri propose, come è noto, la nozione che la somma degli angoli di un triangolo è eguale a due retti in sostituzione del postulato di Euclide, ed il Le- gendre ha dimostrato che, se si ammette anche il postu- lato di Archimede, la proposizione Saccheri equivale ef- fettivamente al postulato di Euclide. Ne segue immedia- tamente che se oltre al postulato pitagorico della rota- zione ammettessimo anche quello di Archimede esso equivarrebbe a quello di Euclide. Se non si ammette altro, esso non equivale al postula- to di Euclide. Infatti il Dehn (1900) ha dimostrato36 che l'ipotesi del Saccheri è compatibile non solo con l'ordi- naria geometria elementare, ma anche con una nuova geometria, necessariamente non archimedea, dove non vale il V postulato, ed in cui per un punto passano infi- nite non secanti rispetto ad una retta data37. 36 Math. Ann., B. 53, pag. 405-439, Die Legendre'schen Sätze über die Winkelsumme in Dreieck; cfr. ROBERTO BONOLA, Sulla teo- ria delle parallele e sulle Geometrie non euclidee, in ENRIQUEZ, Questioni riguardanti le Matematiche elementari, 3 ediz., vol. II, pag. 333. 37 Il Dehn chiama questa geometria: geometria semieuclidea. 46   Lo stesso vale senz'altro per il nostro postulato. Una volta ammessa la proposizione Saccheri o l'equivalente postulato pitagorico della rotazione, si può: 1o – ammettere il postulato di Archimede, ed allora ne risulta dimostrato quello di Euclide; e si ottiene l'ordina- ria geometria euclidea ed archimedea. 2o – negare quello di Euclide, e quindi necessaria- mente anche quello di Archimede; e si ottiene la geome- tria semieuclidea del Dehn. 3o – ignorare completamente i due postulati di Eucli- de e di Archimede e le questioni relative, e sviluppare una geometria più generale, indipendente dalla loro ac- cettazione o negazione (e valevole quindi nei due casi), come conseguenza del teorema dei due retti oramai otte- nuto. Gli antichi pitagorici ignoravano quasi certamente il postulato di Archimede38, ed avevano ottenuto la dimo- strazione del teorema dei due retti con un procedimento indipendente dalla teoria delle parallele. Non introducendo il postulato di Archimede noi ve- niamo a trovarci esattamente nella stessa posizione. Se i pitagorici antichi non hanno fatto uso del concetto di pa- 38 La proposizione 1a del libro X di Euclide equivale all'assio- ma di Archimede. Da alcuni passi di Archimede, risulta che, pri- ma ancora, Eudosso aveva fatto uso di questo «lemma»; ed il Lo- ria ritiene che l'origine di questo lemma debba farsi risalire ad Ip- pocrate da Chio (cfr. LORIA, Le scienze esatte nell'antica Grecia, pag. 143-145 e 224). Comunque gli antichi pitagorici dovevano ignorare il postulato di Archimede. 47   rallela, deve essere possibile adesso, dal teorema dei due retti, sempre senza ricorrere al postulato di Euclide ed a quello di Archimede, dedurre una dopo l'altra tutte le scoperte attribuite da Proclo ai pitagorici. Se questo ac- cade questa geometria più generale concorderà o coinci- derà con la geometria della Scuola Italica. 10. Prima di proseguire vogliamo però esporre una via più rapida per dedurre dal postulato pitagorico della rotazione il teorema dei due retti.  Dal vertice A dell'angolo retto (fig. 11) di un triango- lo rettangolo qualunque OAS conduciamo la perpendi- colare AH all'ipotenusa, e sul prolungamento prendiamo HA'=AH. Sappiamo che H è interno ad OS; congiunto A' con O e con S, i triangoli rettangoli OHA', SHA' ri- sultano rispettivamente eguali ai due OAH, SHA; e quindi OA=OA', SA=SA', ^OAH=^OA'H, ̂SAH=̂SA'H ed ̂SA'O=̂SA'H+̂OA'H = 48  ^SAH+^OAH=unretto. Perciò, facendo ruotare intor- no ad O dell'angolo ^AOA', la AS va sopra la perpen- dicolare in A' ad OA', ossia sulla A'S, e perciò per il po- stulato della rotazione ^AOA '=^A ' ST . Ne segue che ^AOA ' ed ^ASA ' sono quadrilatero AOA'S si ha: supplementari, e quindi nel ^SAO + ^AOA ' + ^OA ' S + ^A ' SA = 4 retti . E siccome le altezze SH, OH dei triangoli isosceli SAA', OAA' bisecano gli angoli al vertice la somma ̂HSA + ̂SAO+ ̂AOH è la metà della precedente, ossia abbiamo il teorema: In un triangolo rettangolo qualun- que la somma degli angoli è eguale a due retti. Dal triangolo rettangolo qualunque si passa a quello isoscele (ed in particolare a quello equilatero), condu- cendo la bisettrice dell'angolo al vertice che è anche l'al- tezza; ed essendo oramai complementari gli angoli acuti di un triangolo rettangolo qualunque, la somma degli angoli acuti dei due triangoli rettangoli in cui è decom- posto il triangolo isoscele risulta eguale a due retti. Dal caso del triangolo isoscele si passa a quello generale nel modo già visto. La via tenuta, passando per le tre tappe menzionate da Gemino, è quella probabilmente tenuta dagli scopritori della proprietà; oggi, a scoperta fatta, è più speditivo procedere nel modo ora indicato. 49  CAPITOLO II IL TEOREMA DI PITAGORA 1. Abbiamo avuto bisogno del postulato pitagorico della rotazione per dimostrare il teorema dei due retti. Da ora in poi, in tutto quanto segue, non ne avremo più bisogno, perché ci basta il teorema dei due retti ad esso, come sappiamo, equivalente. E, siccome sappiamo39 che i pitagorici conoscevano il teorema dei due retti perché lo dimostravano, la restituzione della geometria pitago- rica procede da ora in poi partendo da questa loro sicura conoscenza, comunque ottenuta, ma senza il postulato delle parallele. Anche se la via tenuta per ottenere il teo- rema dei due retti fosse stata un'altra, sempre però indi- pendentemente dal postulato di Euclide, ci troveremmo sempre nella medesima situazione di fronte al problema della restituzione della geometria pitagorica, come svi- luppo e conseguenza del teorema dei due retti. Limiteremo la nostra indagine a quanto occorre per ottenere i risultati attribuiti da Proclo ai pitagorici, 39 La testimonianza di Eutocio, pur essendo Eutocio posterio- re anche a Proclo, è attendibile. Dice il LORIA (Le scienze esatte, pag. 721) che Eutocio, di mediocrissimo ingegno, era però assai diligente, accurato e coscienzioso; è difficile d'altra parte inventa- re una notizia così precisa e circostanziata. 50   omettendo spesso le dimostrazioni quando coincidono con quelle a tutti note. E per prima cosa vediamo come il teorema dei due retti consenta immediatamente la costruzione e la consi- derazione del quadrato e del rettangolo e la dimostrazio- ne del teorema di Pitagora. E notiamo come dal teorema dei due retti discendano subito, tra le altre, le seguenti conseguenze: a) Gli angoli acuti di un triangolo rettangolo sono complementari; ed in quello rettangolo isoscele sono eguali a mezzo retto. b) L'angolo del triangolo equilatero è eguale ad un terzo di due retti. c) L'angolo esterno di un triangolo qualunque è egua- le alla somma dei due interni non adiacenti. 2. Passando ai quadrilateri, osserviamo subito che Eu- clide ne distingue, nelle sue definizioni, cinque: il qua- drato, il rettangolo, il rombo, il romboide, e tutti gli al- tri. Essi sono definiti e distinti da Euclide in base alla eguaglianza dei lati e degli angoli, e la definizione di rette parallele viene subito dopo; mentre invece nel testo la costruzione del quadrato si basa sulle parallele e com- pare alla fine del primo libro. Definito il quadrato come un quadrilatero con tutti i lati eguali e tutti gli angoli retti, la costruzione di un quadrato di lato assegnato AB, e quindi la sua esistenza, 51  discendono invece dal teorema dei due retti e da esso soltanto. Condotto (fig. 12) AC eguale e perpendicolare ad AB, i due angoli alla base del triangolo rettangolo iso- scele ABC sono eguali a mezzo retto. Conduciamo per B la semiretta40 perpendicolare ad AB dalla parte di C, e prendiamô su essa BD = AB = AC; la BC divide l'ango- lo retto ABC in due parti eguali; A e D stanno da parti opposte rispetto a CB, e quindi la CB divide l'an- 40 Adoperiamo il termine: semiretta per brevità di elocuzione; ma il concetto di rette e semirette prolungate all'infinito non pote- va, ci sembra, essere condiviso dai pitagorici. Effettivamente del resto la 2a, 3a e 4a definizione di Euclide si riferiscono alla linea ed alla retta limitata, cioè al nostro segmento; ed il postulato se- condo di Euclide ammette solo che la retta, cioè il segmento, si può prolungare κατὰ τὸ συνεχές. Bisognerebbe dunque dire: da B si conduca dalla parte di C rispetto a D un segmento perpendico- lare ad AB, e su esso convenientemente prolungato se occorre, si prenda il segmento BD = AC... La definizione 23a di Euclide ed il postulato V introducono il concetto di rette infinite. Si tratta dun- que di un'aggiunta non conforme allo spirito dell'antica geometria e che male si adatta alle altre definizioni dell'elenco stesso che precede il testo di Euclide. 52    golo ^ACD. I triangoli ABC, DBC risultano eguali per il 1o criterio, quindi CD = AC, e ̂DCB=̂ACB, ̂CDB=̂CAB. Il quadrilatero ABCD ha dunque tutti i lati eguali e tutti gli angoli retti; è dunque, per definizio- ne, un quadrato. La diagonale BC lo divide in due trian- goli rettangoli isosceli eguali. Si dimostra facilmente che AD = BC e che le due diagonali si tagliano nel pun- to medio e sono perpendicolari tra loro. 3. Definizione, esistenza, costruzione e proprietà del rettangolo. Prendiamo la seguente definizione: Rettangolo è un quadrilatero con tutti gli angoli retti. Sia ABD (fig. 13) un triangolo rettangolo qualunque ed A il vertice dell'an- golo retto. Condotta per B la semiretta perpendicolare ad AB dalla parte di D rispetto ad AB, e preso su di essa BC = AD, C ed A rimangono da parti opposte rispetto a BD perché, essendo ̂ABD acuto ed ̂ABC retto la BD divide l'angolo retto ^ABC. Congiunto C con D, i triangoli ABD, CBD sono eguali per il 1o criterio, e quindi DC=AB, ^DCB=^DAB=unretto, 53   ^CDB=^ABD; e ̂ siccome sappiamo che ̂ABD è complemento di ADB anche CDB sarà comple- mento di ^ADB, ossia anche il quarto angolo ̂ADC del quadrilatero ABCD è retto; esso è dunque un rettan- golo. I lati opposti sono eguali ed i loro prolungamenti non si possono incontrare perché sono perpendicolari ad una stessa retta; si dimostra facilmente che la diagonale AC è eguale a BD e che esse si tagliano per metà. Viceversa se ABCD è un rettangolo, si osserva per principiare che i vertici C e D debbono stare da una stessa parte rispetto ad AB, perché altrimenti la CD sa- rebbe tagliata in un punto M dalla AB, e dai triangoli rettangoli ADM, CBM risulterebbe che gli angoli non potrebbero essere retti. Sia dun- ^ADC , ̂DCB que ABCD un rettangolo; la BD determina i due trian- goli rettangoli ABD, CBD, ed essendo in entrambi acuti gli angoli adiacenti all'ipotenusa, la BD divide i due an- goli retti di vertici B e D del rettangolo, e lascia A e C da parti opposte; inoltre ̂CBD è complemento di ^ABD, e quindi ^CBD=^ADB; similmente ^CDB=^ABD, ed i due triangoli rettangoli ABD, CBD sono eguali, e CD = AB, BC = AD ecc. Per costruire il rettangolo di lati eguali ad AB ed AD, si prendono a partire dal vertice A di un angolo retto so- pra i due lati i segmenti AB, AD; si conduce per B la perpendicolare ad AB, e su di essa dalla parte di D si 54  prende BC = AD, si unisce C con D ed ABCD è il ret- tangolo richiesto. Il teorema dei due retti con le conseguenti proprietà del triangolo rettangolo assicurava dunque immediata- mente ai pitagorici l'effettiva esistenza dei quadrati e dei rettangoli, ne permetteva la costruzione, e ne dava le proprietà fondamentali. Per dimostrare adesso la proprietà relativa ai poligoni regolari congruenti attorno ad un vertice comune, biso- gnerebbe passare alla considerazione dei poligoni qua- lunque; ma, siccome per dimostrare il teorema di Pita- gora non abbiamo bisogno di altro, passiamo senz'altro alla dimostrazione di questo teorema fondamentale. 4. TEOREMA DI PITAGORA: In un triangolo ret- tangolo qualunque il quadrato costruito sull'ipotenusa è eguale alla somma dei quadrati costruiti sopra i cateti. Adoperiamo l'antica espressione: eguale, invece della moderna equivalente, anche perché nella dimostrazione ci serviremo (come fa Euclide nella sua) della «nozione comune» di eguaglianza per differenza, e non della no- zione di eguaglianza additiva che sola conduce al con- cetto di equivalenza (Duhamel) o di equicomposizione (Severi). Nel caso particolare del triangolo rettangolo isoscele, Platone dà nel Menone la seguente dimostrazione41: pre- 41 PLATONE, Menone, XIX – Una traduzione corretta e comple- ta del passo di Platone trovasi nelle «Scienze esatte nell'antica Grecia» del LORIA a pag. 115-20. Platone conosceva la validità 55   so un quadrato ABCD (fig. 14) e riunitine altri tre eguali congruenti in un vertice come è indicato in figura si ot- tiene un quadrato quadruplo del dato. Dividendo poi ciascuno di quei quattro quadrati con la diagonale si ot- tiene un quadrato che è doppio del quadrato dato, perché composto di quattro triangoli eguali ad ABC, mentre il quadrato dato lo è di due. Passando al caso generale, tra le settanta ed oltre di- mostrazioni conosciute, le più semplici sono: 1o – quella suggerita dal Bretschneider, il cui autore è ignoto ai moderni, ma di cui si sa che è antica; 2o – quella ideata da Abu'l Hasan Tabit (morto nel 901 d.C.) e di cui ci ha serbato memoria Anarizio42; 3o – quella di Baskara posteriore a Tabit di circa tre secoli43. La prima, sia perché non si sa a chi vada attribuita, sia per la sua del teorema nel caso del triangolo rettangolo che ha l'ipotenusa doppia del cateto minore; risulta dal Timeo, XX. 42 Cfr. G. LORIA, Storia delle Matematiche, vol. I, pag. 341. 43 Cfr. G. LORIA, Storia delle Matematiche, vol. 1, pag. 315. 56    grande semplicità, può darsi benissimo, e noi ne siamo convinti, che sia quella di Pitagora. Vediamo come questa dimostrazione si possa fare senza il postulato delle parallele. Supponiamo che nel triangolo rettangolo ABC (fig. 15) sia  l'angolo retto ed AC il cateto maggiore. Sul prolungamento del cateto AC prendiamo CD = AB e sul prolungamento di AB prendiamo BE = AC. Ne segue AE = AD. Per C e per D conduciamo dalla parte di B ri- spetto ad AD le semirette perpendicolari alla AD e pren- diamo su esse DP = CK = AB; e congiungiamo K con P e con B. I due quadrilateri ABKC, CKPD risultano per costruzione rispettivamente un rettangolo ed un quadra- to; e precisamente il rettangolo è eguale al doppio del triangolo rettangolo dato, ed il quadrato ha per lato un segmento eguale al cateto AB del triangolo dato. Essi sono separati e situati da parti opposte del lato comune CK, perché le tre semirette AB, CK, DP perpendicolari ad una stessa retta AD non si incontrano due a due, e 57   siccome C è compreso tra A e D, la DP e la AB stanno da parti opposte della CK. Essendo poi retti gli angoli di vertice K del rettangolo e del quadrato la loro somma è un angolo piatto, e quindi i punti P, K, B risultano alli- neati sopra una perpendicolare comune alle rette DP, CK, AB. Sui prolungamenti delle DP e CK dalla parte opposta alla AD prendiamo i segmenti PF = KM = BE = AC, e congiungiamo M con F e con E. Il quadrilatero PKMF risulta un rettangolo per costruzione ed anche esso è il doppio del triangolo dato ABC; KMBE risulta un qua- drato che ha per lato un segmento eguale al cateto AC del triangolo dato; ed anche i tre punti F, M, E risultano allineati sopra una perpendicolare comune alle tre rette AB, CK, DP. Si riconosce subito che il quadrilatero AEFD ha tutti gli angoli retti e tutti i lati eguali e quindi è un quadrato. La terna delle tre rette AB, CK, DP e la terna delle tre rette AD, BP, EF sono tra loro perpendicolari, e poiché K è compreso tra C ed M, e tra B e P, CM e BP dividono il quadrato AEFD in quattro parti. Esso è quindi eguale alla loro somma. Il quadrato AEFD è dunque eguale alla somma del quadrato costruito sul cateto AB, del quadra- to costruito sul cateto AC, e di quattro triangoli rettan- goli eguali al dato. Prendiamo ora sopra DF ed FE i segmenti DG = FH = AC e congiungiamo C con G, G con H ed H con B. I triangoli rettangoli ABC, DCG, FGH, EHB risultano eguali per il 1o criterio e perciò il quadrilatero CGHB ha 58  tutti i lati eguali. Inoltre siccome le semirette GC e GH stanno da una stessa parte rispetto alla DF e gli angoli DGC, FGH sono acuti e complementari (perché ^FGH=^DCG ) l'angolo ̂CGH che si ottiene toglien- do dall'angolo piatto i due angoli ^DGC , ̂FGH risul- ta retto; in modo analogo si dimostrano retti gli altri an- goli del quadrilatero CGHB, il quale dunque è il quadra- to costruito sull'ipotenusa BC del triangolo dato. Siccome poi ̂DCG è acuto e ̂DCM retto, il trian- golo CGD ed il quadrilatero CGFM stanno da parti op- poste rispetto a CG. CG divide dunque l'intero quadrato in due parti e cioè il triangolo CDG ed il poligono CGFEA. E poiché ̂CGF è ottuso e ̂CGH retto, il po- ligono precedente è diviso da GH in due parti e cioè il triangolo GFH ed il poligono CGHEA; questo a sua vol- ta è diviso dalla HB in due parti e cioè il triangolo HBE ed il poligono CGHBA, il quale finalmente è diviso dal- la BC nel triangolo ABC e nel quadrato CGHB. Il quadrato CGHB si ottiene dunque dal quadrato ADFE togliendone quattro triangoli rettangoli eguali ad ABC. Ma togliendo dal quadrato ADFE i due rettangoli ABKC, KMFB, ossia quattro triangoli eguali al dato, si ottiene la somma dei quadrati costruiti sui cateti AB ed AC, e siccome la seconda nozione euclidea (che si trova però già in Aristotele) dice che «togliendo da cose egua- li cose eguali si ottengono cose eguali»; così il quadrato costruito sull'ipotenusa è eguale alla somma dei quadrati costruiti sui cateti. 59  5. Ammettendo il postulato pitagorico della rotazione ed ignorando i due postulati di Euclide e di Archimede, abbiamo così ottenuto subito i due teoremi fondamentali della geometria: il teorema dei due retti, e da questo il teorema di Pitagora. Essi sono validi entrambi tanto nel- la ordinaria geometria euclidea ed archimedea quanto nella geometria più generale che ammette il postulato pitagorico della rotazione e prescinde dai postulati di Euclide e di Archimede. Il teorema di Pitagora si presenta così come primo teorema nella teoria dell'equivalenza; precisamente come, secondo il Tannery, avveniva coi pitagorici. Esso sta alla base di questa teoria e non alla fine. La dimo- strazione che ne abbiamo dato dipende unicamente dal teorema dei due retti, noto agli antichi pitagorici, e dalle sue conseguenze immediate. Si sa che una dimostrazio- ne basata sulla figura che abbiamo adoperato esisteva, è antica, ed il suo autore non è noto agli storici moderni della matematica. Noi non abbiamo fatto altro che ren- derla indipendente dal postulato di Euclide, di cui i pita- gorici non si servivano per dimostrare il teorema dei due retti e che diventa perciò superfluo anche per il teorema di Pitagora. Tutto sommato, non ci sembra affatto improbabile che questa sia proprio la dimostrazione che il fondatore della «Scuola Italica» scoprì e dette venticinque secoli fa. Con essa il teorema è valido nel senso di eguaglianza per differenza in una geometria che ignora od anche che nega i postulati di Euclide e di Archimede. La dimostra- 60  zione del testo di Euclide prova la validità del teorema di Pitagora sempre nel senso di eguaglianza per diffe- renza se ed anche se si ammette il postulato delle paral- lele e nulla si dice di quello di Archimede; le dimostra- zioni moderne ne provano la validità nel senso di egua- glianza addittiva (Duhamel), equivalenza od equicom- posizione (Severi), se ed anche se si ammette insieme al postulato di Euclide anche quello di Archimede. 6. Dalla dimostrazione che abbiamo dato del teorema di Pitagora si traggono subito, e con la massima sempli- cità, i tre importanti teoremi espressi con le notazioni moderne dalle formule: (a+ b)2=a2+ 2ab+ b2 (a–b)2=a2 –2ab+b2 (a+b)(a–b)=a2 –b2 Quanto al primo basta semplicemente osservare la fi- gura 15 per riconoscere che: TEOREMA: Il quadrato che ha per lato la somma di due segmenti (AB e BE) è eguale alla somma del qua- drato (CKPD) costruito sul primo segmento, del qua- drato (BEMK) costruito sul secondo segmento e di due rettangoli aventi i lati eguali ai segmenti dati. Nel caso che i due segmenti siano eguali il teorema diventa: il quadrato che ha il lato doppio del lato di un quadrato dato è quadruplo di questo44. Premessi i seguenti teoremi: 44 PLATONE, Menone, XVII. 61   am+bm=(a+b)m am–bm=(a–b)m di immediata dimostrazione, dalla fig. 15, ponendo AE=a, AB=b si ha BE=a – b, e (BE)2 =quad. ED + quad. DK – 2 rett. ABDP ossia (a – b)2=a2+ b2 –2ab cioè il TEOREMA: Se un segmento è eguale alla differenza di due segmenti il quadrato costruito su di esso è eguale alla somma dei quadrati costruiti sui due segmenti di- minuita di due volte il rettangolo che ha per lati i due segmenti. Ponendo poi AE=a, BE=b e AB=d dalla fig. 15 si ha: la differenza dei quadrati costruiti su AE e BE è data dallo gnomone ADFMKB; ossia: e quindi: a2 – b2 – ad + bd=(a+ b)d a 2 – b 2 =( a + b ) ( a – b ) ossia il TEOREMA: La differenza di due quadrati è eguale al rettangolo che ha per lati la somma e la differenza dei due segmenti. Questo gnomone non è altro che la squadra dei mura- tori; e nel caso in cui a sia l'ipotenusa e b un cateto di un triangolo rettangolo, lo gnomone è eguale al quadrato costruito sull'altro cateto. I tre teoremi inversi si possono dimostrare facilmente; così pure il 62  TEOREMA INVERSO DI PITAGORA: Se il qua- drato costruito sopra un lato di un triangolo è eguale alla somma dei quadrati costruiti sugli altri due, il triangolo è rettangolo ed il primo lato è l'ipotenusa. Usando per brevità le notazioni moderne supponiamo che tra i lati a, b, c di un triangolo sussista la relazione: a2=b2+c2. Costruitoiltriangolorettangolodicatetib e c, e chiamandone a1 l'ipotenusa, si ha per il teorema di Pitagora: a12=b2 +c2 , e supponendo ad esempio a>a1, si ha sottraendo: e quindi: a 2 – a 12 = ( b 2 + c 2 ) – ( b 2 + c 2 ) (a+ a1)(a – a1)=0 Questo può accadere solo se a=a1; ma allora i due triangoli sono eguali, e quindi il triangolo dato è rettan- golo, come volevasi dimostrare. 7. Altri due importanti teoremi che si deducono im- mediatamente sono i due così detti teoremi di Euclide. 63   TEOREMA: Il quadrato costruito sopra l'altezza di un triangolo rettangolo è eguale al rettangolo avente per lati le proiezioni dei cateti sopra l'ipotenusa. Sia AH (fig. 16) l'altezza del triangolo rettangolo ABC. E siano m, n le proiezioni CH, HB dei due cateti. Indicando per comodità, rettangoli e quadrati con le no- tazioni moderne (ma senza introdurre con questo i con- cetti di proporzione e di misura), dal triangolo rettango- lo ABC si ha: e perciò: D'altra parte quindi: ma quindi anche: m2+ h2=b2 m2+ h2+ c2=b2+ c2 a=m+ n m2+n2+2mn=a2 b2+ c2=a2 m2+h2+c2=m2+n2+2mn e per la seconda nozione comune: [α] ma e quindi: e h2+ c2=n2+ 2 mn c2=h2+ n2 h2+ c2=2h2+ n2 2h2+n2=n2+2mn; 2h2=2mn 64  [β] h2=mn Dimostrato questo teorema, osserviamo che il secon- do membro della [α] è la somma di due rettangoli aventi la medesima altezza n e le basi n e 2m; esso è quindi eguale al rettangolo di base n + 2m, ed altezza n, ossia: n2+ 2mn=n(n+ 2m)=h2+ c2 n(n+ m)+ nm=h2+ c2 n(n+ m)=c2 na=c2 Si ha dunque il teorema: TEOREMA: Il quadrato costruito sopra un cateto di un triangolo rettangolo è uguale al rettangolo che ha per lati l'ipotenusa e la proiezione del cateto sopra l'i- potenusa. Questo è il così detto primo teorema di Euclide. Ri- cordiamo che Proclo ci attesta che il teorema non è do- vuto ad Euclide e che ad Euclide appartiene solo la di- mostrazione che si trova nel testo degli Elementi (Libro I, 47). In Euclide la dimostrazione si basa sopra il postu- lato delle parallele; da essa poi si ottiene il teorema di Pitagora, e dai due l'altro teorema così detto di Euclide. Da questo teorema segue immediatamente il seguente corollario. COROLLARIO: Se due triangoli rettangoli sono tra loro equiangoli ed un cateto di uno di essi è eguale all'i- 65 od anche: e per la [β] ossia  potenusa dell'altro, il quadrato costruito sul cateto del primo è eguale al rettangolo che ha per lati l'ipotenusa del primo ed il cateto omologo del secondo. Siano (fig. 17) i triangoli rettangoli ABC, A'B'C e sia Ĉ =Ĉ ed AC = B'C' = b. Si ha allora, abbassando l'altezza AH del primo trian- golo, c. d. d. b2=(AC)2 –BC·HC=ab'  Di questo corollario ci serviremo in seguito. Tra le conseguenze del teorema di Pitagora ha massi- ma importanza la scoperta delle grandezze incommen- surabili, che sorge dall'applicazione del teorema ad un triangolo rettangolo isoscele. Ma ciò non rientra nel no- stro tema; così pure non ci occuperemo dei metodi attri- buiti a Pitagora per la formazione dei triangoli rettangoli aventi per misura dei lati dei numeri interi45. 8. Dallo studio dei rettangoli dobbiamo ora passare a quello dei quadrilateri e dei poligoni in generale. Dal 45 P. TANNERY, La Géom. gr., pag. 48. 66   triangolo rettangolo isoscele e dal triangolo rettangolo qualunque abbiamo ottenuto quadrato e rettangolo e le loro proprietà. In modo simile, partendo dal triangolo isoscele e dallo scaleno, si ottiene il rombo ed il romboi- de. Rombo, secondo la definizione che si trova in Eucli- de, è il quadrilatero equilatero ma non rettangolo (per- ché in tal caso si chiama quadrato). Sia ABD (fig. 18) un triangolo isoscele non rettango- lo, e dal vertice B della base BD conduciamo la semiret- ta BC da parte opposta di A rispetto alla BD, formante con la BD un angolo ^DBC=^ABD, e prendiamo BC = BA. Siccome ̂ABD è acuto, sarà ̂ABC convesso; e quindi C e D stanno dalla stessa parte rispetto ad AB, mentre C ed A sono da parti opposte rispetto a BD. Uniamo C con D: i due triangoli ABD, CBD risulteran- no eguali per il 1o criterio e quindi i quattro lati del qua- drilatero ABCD sono eguali. Esso è dunque un rombo. Gli angoli  e Ĉ sono eguali, e si riconosce subito che anche ^ADC=^ABC; la diagonale BD biseca gli angoli del rombo; l'asse di BD passa per A e per C; 67   quindi anche l'altra diagonale biseca gli angoli, è per- pendicolare alla prima ed il loro punto d'intersezione è il loro punto medio. Viceversa se il quadrilatero ABCD è un rombo, se cioè AB = BC = CD = DA (supponendo i vertici ordina- ti), osserviamo prima di tutto che i vertici B e C non possono trovarsi da parti opposte rispetto ad AD. Sup- posto infatti che ciò accada, il vertice C non può trovarsi rispetto alla BD dalla stessa parte di A, perché i due triangoli isosceli ABD, CBD con la base in comune ed eguali per il 3o criterio coinciderebbero e C coincidereb- be con A. Ma neppure può accadere che il vertice C stia da parte opposta di A rispetto a BD e di B rispetto ad AD, perché l'asse della base comune BD dei due trian- goli isosceli deve passare per A, per C e per il punto medio di BD, e quindi la semiretta AC sta tutta rispetto ad AD dalla parte di B. Dunque se un quadrilatero ha i quattro lati eguali due vertici consecutivi sono situati dalla stessa parte della congiungente gli altri due vertici. Essendo poi A e C da parti opposte di BD questa diago- nale divide il rombo in due triangoli isosceli eguali e di- vide per metà i due angoli B^ e ^D del rombo; l'altra diagonale AC non è che l'asse di BD; le due diagonali si tagliano dunque internamente, nel loro punto medio, sono perpendicolari tra loro, e bisecano gli angoli del rombo. 9. La definizione di romboide data dagli Elementi di Euclide è la seguente: Romboide è il quadrilatero che ha 68  i lati e gli angoli opposti eguali tra loro, ma non è né equilatero (ossia rombo), né eteromeco (ossia un rettan- golo). Euclide chiama poi trapezii tutti gli altri quadrila- teri. Subito dopo compare, in Euclide, la definizione di rette parallele, e manca invece completamente, sia tra le definizioni, sia nel testo, la definizione di parallelo- grammo; mancanza sensibile anche per il fatto che sap- piamo da Proclo che la locuzione parallelogrammo è una invenzione di Euclide46. Abbiamo già osservato che la definizione euclidea di rette parallele, che è la 23a ed ultima, come il postulato delle parallele è l'ultimo nell'e- lenco dei postulati, non va troppo d'accordo con le defi- nizioni 2a, 3a e 4a per le quali la retta è sempre finita; ora troviamo che la definizione dei quadrilateri precede e fa astrazione dal concetto di parallele e che manca in con- seguenza la definizione di parallelogrammo. Si ha l'im- pressione che l'elenco delle definizioni a noi giunte in- sieme al testo di Euclide sia l'antico o più antico, e che la classificazione dei quadrilateri ivi contenuta sia la classificazione antica, con appiccicata a guisa di coda la 23a ed ultima definizione, come il postulato delle paral- lele è appiccicato in fondo all'elenco degli altri postulati. Questa classificazione dei quadrilateri è più conforme ad una geometria come quella che stiamo ricostruendo che non alla geometria euclidea, basata sul V postulato; 46 PROCLO, ed. Teubner, 354. II-15. Cfr. ALLMAN G. J., Greek Geometry, pag. 114. 69   e si spiega con il fatto che i quattro quadrilateri: quadra- to, rettangolo, rombo e romboide si ottengono operando in modo assolutamente identico sopra il triangolo rettan- golo isoscele, il triangolo rettangolo qualunque, il trian- golo isoscele e, come vedremo, il triangolo scaleno (non rettangolo). Anche il romboide, infatti, si ottiene con questo pro- cedimento. Sia, infatti (fig. 19), ABD un triangolo qua- lunque. Condotta da B la semiretta BC dalla parte oppo- sta ad A rispetto a BD e formante l'angolo ^DBC=^ADB, e preso su essa BC = AD, si unisca C con D. Sarà ̂ABC=̂ABD+̂ADB e quindi minore di due retti; la BC sta dunque insieme a D dalla stessa par- te rispetto ad AB. I triangoli DBC ed ABD sono eguali per il 1o criterio; quindi CD = ̂AB, ^CDB=^ABD; e, poiché la BD divide l’angolo ABC e quindi anche ^ADC, si ha anche ^ABC=^ADC.  Abbiamo dunque costruito un quadrilatero ABCD coi lati opposti eguali e gli angoli opposti eguali, ossia un romboide. Unito ora il punto medio M di BD con A e con C, i triangoli ADM, CBM risultano eguali per il 1o criterio; 70  quindi ̂DMA=̂CMB e perciò i tre punti A, M, C sono allineati; MA = MC. Le diagonali del romboide si ta- gliano dunque per metà. Ognuna delle due diagonali di- vide il romboide in due triangoli eguali, la somma degli angoli del romboide è conseguentemente eguale a quat- tro retti (il che vale anche per il rombo), e poiché gli an- goli opposti sono eguali quelli consecutivi sono supple- mentari. Viceversa, se si escludono dalle nostre considerazioni i poligoni intrecciati e quelli non convessi, si dimostra che se un quadrilatero ABCD ha i lati opposti eguali esso è un romboide. Con tale ipotesi gli angoli del qua- drilatero debbono essere tutti convessi; se fosse infatti ̂DAB un angolo concavo il vertice C dovrebbe stare rispetto a BD dalla stessa parte di A ed essere esterno al triangolo BDA e così pure dovrebbe essere A esterno al triangolo BCD, perché, se fosse p.e. A interno al trian- golo DCB, sarebbe, come si può dimostrare, la somma di AD ed AB minore della somma di CD e CB, mentre con l'ipotesi fatta le due somme devono essere eguali. Ma se A è esterno a BCD, e C è esterno a ABD, ed A e C stanno da una stessa parte di BD il quadrilatero ABCD viene intrecciato. Ne segue che il quadrilatero ABCD ha gli angoli convessi. Essendo DAB convesso il vertice C sta rispetto a BD da parte opposta di A, perché se stesse dalla stessa parte il quadrilatero sarebbe intrecciato oppure avrebbe con- cavo l'angolo C^ . Il quadrilatero ABCD, allora, è divi- 71  so dalla diagonale BD in due triangoli eguali per il 3o criterio, e gli angoli opposti risultano eguali; avendo quindi lati opposti ed angoli opposti eguali esso è un romboide. Così pure si dimostra che se un quadrilatero convesso ha gli angoli opposti eguali, esso è un romboide. Anche in questo caso A e C non possono stare dalla stessa parte rispetto a BD, perché essendo eguali gli angoli ^A e C^ il vertice C non può stare dentro il triangolo DAB, né il vertice A dentro il triangolo DCB, e perché se A è ester- no a DCB e C a DBA, ed A e C stanno dalla stessa parte di BD, il quadrilatero ABCD risulta intrecciato contro la ipotesi. Stando dunque A e C da parte opposta di BD la BD divide il quadrilatero in due triangoli, e perciò la somma dei quattro angoli del quadrilatero viene eguale a quattro retti. Essendo eguali le coppie di angoli opposti si avrà al- lora ^CDA+^DAB=due retti; e quindi ̂CDB = due ret- ti meno la somma di ̂BDA e ^DAB. Ma per il teore- ma dei due retti questa somma ha per supplemento l'an- golo ^ABD, e perciò ^CDB=^ADB. Analogamente ^DBC=^ADB, e quindi i due triangoli ABD, DBC sono eguali per il secondo criterio, ed è AB = DC e AD = BC, ed il quadrilatero ABCD è un romboide. 72  Si vede poi facilmente, riconducendosi al primo caso che se un quadrilatero ha le diagonali che si tagliano per metà, esso è un romboide47. 10. Abbiamo veduto così, senza neppure parlare di rette parallele, come si possono definire quadrato, ret- tangolo, rombo e romboide, e riconoscere le loro pro- prietà caratteristiche. Si può dimostrare facilmente che il punto d'incontro delle diagonali nel romboide (e quindi anche negli altri tre quadrilateri) è un centro di figura, e che le perpendi- colari condotte da esso ai lati opposti sono per diritto. Facendo ruotare allora la figura intorno a questo punto, nel caso del quadrato, un lato si porta successivamente sopra gli altri ed ogni vertice sul consecutivo, e la figura si sovrappone a se stessa con ogni rotazione di un ango- lo retto; nel caso del rombo la retta di un lato si sovrap- 47 Non ignoriamo che per soddisfare l'esigenza moderna della generalizzazione avremmo dovuto trattare subito il caso generale dei romboidi e dedurne poi le proprietà nei casi particolari del rombo, del rettangolo e del quadrato. Ma il nostro scopo non è quello di fare una nuova geometria, al contrario è quello di resti- tuire l'antica geometria pitagorica, quale verisimilmente e proba- bilmente era; e riteniamo che per riuscirvi convenga, se non ne- cessita, rifarsi una mentalitità pitagorica, pre-euclidea, senza ec- cessivi ossequii per le abitudini e le esigenze moderne. L'ordine cui ci siamo attenuti è quello della classificazione dei quadrilateri nelle «definizioni di Euclide», e siamo persuasi che questo ordine risponde all'ordine cronologico di scoperta ed a quello espositivo della trattazione dei quadrilateri da parte dei pitagorici. 73   pone successivamente alla retta degli altri lati, e nel caso del rettangolo e del romboide ciò accade solo per la ro- tazione di mezzo giro. Il rombo gode dunque della stessa proprietà di cui gode un triangolo qualunque quando ruota intorno al punto d'incontro delle tre bisettrici, ed il quadrato si comporta come il triangolo equilatero sovrapponendosi a se stesso quattro volte in un giro completo come quel- lo tre volte. Se facciamo queste considerazioni è perché il nome stesso del rombo e quindi anche quello del romboide ci pare legato ad esse. In greco, infatti, dicono i dizionari, ῥόμβος (da ῥέμβω) designa ogni corpo di figura circola- re o mosso in giro. Anticamente era il nome del fuso, e nel funzionamento del fuso le fila tessute prendevano la forma del rombo. Rimase poi il nome di rombo al rom- bo di bronzo di cui è menzione nei misteri di Rea, la madre frigia presso i greci, ed uno scoliaste alle Argo- nautiche di Apollonio dice che il rombo è un rocchetto che vien fatto girare battendolo con delle striscie di lat- ta.48 Archita pitagorico parla in un suo frammento di questi «rombi magici che si fanno girare nei misteri».49 48 Apollonio, Argonautiche, L. I, v. 1139. In OMERO (Iliade, XIV, 413) sono chiamati anche στρόμβοι. Anche Proclo (ed. Teubner, 171. 25) dice che «sembra che anche il nome sia venuto al rombo dal movimento». 49 Il Il Mieli che riporta il testo greco di Archita traduce ῥόμβοι in tamburi (MIELI – Le scuole jonica, pythagorica... pag. 349) e lo CHAIGNET (vol. I, pag. 281) traduce: les toupies magi- 74   Cosicché la classificazione dei quadrilateri che si trova negli Elementi di Euclide, non solamente è indipendente dal concetto di parallele, ed ha tutta l'aria di essere pre- euclidea, ma nella terminologia sembra riconnettersi al postulato della rotazione pitagorica, ed alle proprietà dei triangoli che vi si riferiscono. 11. La proprietà riscontrata per il triangolo equilatero e per il quadrato sussiste per ogni poligono convesso equilatero ed equiangolo, inscritto in una circonferenza. Supposto diviso l'angolo giro, od una circonferenza, in n parti eguali, e presi a partire dal centro sopra i raggi n segmenti eguali, riunendone consecutivamente gli estre- mi si ottiene un poligono regolare, decomposto in n triangoli isosceli eguali tra loro e di eguale altezza (apo- tema del poligono). Facendo ruotare la figura intorno al centro di un 1n di angolo giro il poligono si sovrappo- ne a se stesso; e quindi in un giro completo si sovrappo- ne n volte su se stesso. Per il postulato della rotazione l'angolo esterno risulta 1n di quattro retti, e quello in- terno il suo supplemento. Aumentando n, l'angolo inter- no va crescendo e si può calcolarne il valore per n = 5, 6, ...  ques. 75  Siamo ora in grado di occuparci della scoperta pitago- rica dei poligoni regolari congruenti attorno ad un verti- ce che riempiono il piano. I poligoni debbono essere almeno tre, ed occorre che l'angolo del poligono sia contenuto esattamente nell'an- golo giro. Questo accade con il triangolo equilatero il cui angolo è la sesta parte di quattro retti; con il quadra- to il cui angolo è la quarta parte di quattro retti, non si verifica con il pentagono regolare, si verifica con l'esa- gono il cui angolo è un terzo di giro; e non può verifi- carsi con altri poligoni regolari perché se il numero dei lati supera il sei l'angolo interno supera il terzo di giro. Questa scoperta è dunque una conseguenza del teore- ma dei due retti; risulta cioè da una dimostrazione, come Proclo ci ha riferito, e non è affatto un dato empirico che ha servito a dedurre il teoremi dei due retti come il Tannery e l'Allman vorrebbero, malgrado l'esplicita as- serzione di Proclo che della proprietà dei poligoni rego- lari congruenti attorno ad un vertice fa un teorema pita- gorico. 76  CAPITOLO III IL PENTALFA 1. La divisione della circonferenza in 2, 3, 4, 6, 8, ... parti eguali ed il problema relativo della inscrizione in essa dei poligoni regolari di 3, 4, 6, 8, ... lati non presen- tava difficoltà per i pitagorici; occorre appena osservare che dalla riunione di sei triangoli congruenti attorno ad un vertice comune si ottiene appunto l'esagono regolare il cui lato risulta eguale al raggio della circonferenza circoscritta. Più difficile invece si presenta il problema della divi- sione della circonferenza in 5, 10 parti eguali e della in- scrizione in essa del pentagono e del decagono regolari; problema che doveva destare nei pitagorici speciale in- teresse perché l'arco sotteso dal lato del decagono stava nell'intera circonferenza come l'unità nella decade. Essi hanno certamente risolto questo problema, perché altri- menti non avrebbero potuto costruire l'icosaedro ed il dodecaedro regolare come invece sappiamo hanno fatto. Vediamo come possono aver fatto, sempre prescin- dendo dalla teoria delle parallele, della similitudine, del- le proporzioni e dai due postulati di Euclide ed Archi- mede. 77  2. Il problema dell'applicazione semplice, che Euclide risolve dopo avere dimostrato il teorema sopra i paralle- logrammi complementari (parapleromi) si può risolvere, in un caso particolare, anche senza ammettere il postula- to delle parallele. Il problema si può enunciare così: Co- struire un rettangolo di base data ed eguale ad un rettan- golo od un quadrato assegnato; problema che corrispon- de alla determinazione della soluzione dell'equazione di primo grado: oppure: ax=bc ax=b2 Se a > b oppure a > c, il problema è risolubile anche nella nostra geometria. Sia (fig. 20), per esempio, a > b e sia HBCK il rettangolo dato con HB = b e BC = c. Preso sopra la BH a partire da B e dalla parte di H il segmento BA = a, completiamo il rettangolo ABCD. Poiché H è compreso tra A e B, questi punti restano da parti opposte di HK, e così pure i punti C e D; perciò la HK taglia in un punto P interno la diagonale AC. Con- duciamo infine per P la MN perpendicolare alle AD, HK, BC. Per l'eguaglianza delle coppie di triangoli ABC, ADC; PNC, PKC; AHP e AMP, risulta sottraendo che il rettangolo HBNP è eguale (in estensione) al ret- tangolo MPKD, ed aggiungendo ad entrambi il rettango- lo PNCK si ha che il rettangolo MNCD è eguale al ret- tangolo dato HBCK. Il segmento CN è dunque l'inco- gnito x dell'equazione. 78   Se invece a è minore tanto di b che di c, ossia se H è esterno al segmento BA, non si ha più la certezza che la AC prolungata incontri in un punto P il prolungamento del lato HK. Tale certezza si ottiene solo con la proposi- zione che costituisce il postulato di Euclide. Ora vale la pena di notare in proposito che Proclo nel commento ad Euclide I, 43 (teorema dello gnomone) dice che i tre problemi dell'applicazione sono scoperte dovute alla musa dei pitagorici secondo οἷ περὶ τὸν Εὔδημον, e non dice come in tutti gli altri casi che quan- to afferma è basato sopra l'autorità di Eudemo. La testi- monianza non è questa volta quella personale di Eude- mo, ed a questa indeterminazione nella testimonianza corrisponde il fatto che gli antichi pitagorici, senza la teoria delle parallele, potevano risolvere il problema solo nel caso ora veduto. Esso è del resto quello che ci interessa, perché per- mette di risolvere le questioni che ci si presenteranno in seguito. 79  Per risolvere, dopo quello dell'applicazione semplice (parabola), gli altri due problemi dell'applicazione, dob- biamo premettere il seguente teorema ed il suo inverso: TEOREMA: Il punto medio dell'ipotenusa di un triangolo rettangolo è equidistante dai tre vertici, ed in- versamente se in un triangolo il punto medio di un lato è equidistante dai tre vertici esso è rettangolo. Sia ABC il triangolo rettangolo (fig. 21), ed A il verti- ce dell'angolo retto. Conduciamo per A dalla parte di C rispetto ad AB la semiretta che forma con AB un angolo eguale all'angolo (acuto) ^ABC. Essa è interna all'an- golo retto ^CAB, sega quindi l'ipotenusa BC in un pun- to O interno, formando due triangoli isosceli OAB, OAC (il secondo ha gli angoli alla base complementari di angoli eguali); quindi O, punto medio dell'ipotenusa, è equidistante dai tre vertici.  Viceversa, se nel triangolo ABC è O il punto medio di BC ed è OA = OB = OC, risulta ^OAC=^OCA; ^OAB=^OBA, , siccome per il teorema dei due retti la 80  somma di questi quattro angoli è eguale a due retti si avrà: ^OAC+^OAB=unretto. Notiamo che le due altezze dei triangoli isosceli li suddividono in triangoli rettangoli eguali e si ha: OM=12AC; ON=12AB 3. Passiamo agli altri due problemi dell'applicazione. Il problema dell'applicazione in difetto (ellissi) si può enunciare così: Costruire un rettangolo di area data b2 e tale che la differenza tra il rettangolo di eguale altezza e base assegnata ed esso sia un quadrato. Più moderna- mente e più chiaramente: costruire un rettangolo di data area b2, conoscendo la somma dei lati a. Si tratta cioè di risolvere l'equazione di secondo gra- do: x (a – x)=b2 Sia ABCD (fig. 22) il quadrato di lato AB = b. Preso sulla AB dalla parte di A il punto O tale che DO sia eguale alla metà di a, si determinano sulla AB i punti E ed F tali che OE = OD = OF; per il teorema precedente il triangolo EDF è rettangolo; e quindi il quadrato co- struito sull'altezza AD è eguale al rettangolo di lati AF, AE. Costruito il rettangolo EKGF, con EK = AE, se da esso si toglie il rettangolo AHGF ossia il quadrato ABCD, la differenza AEKH è appunto un quadrato. Il rettangolo AHGF risolve dunque il problema, ed è EA la 81  x dell'equazione data. Affinché il problema ammetta so- luzione reale occorre che sia a>2b. Il problema dell'applicazione in eccesso (iperbole) si può enunciare così: costruire un rettangolo di area data b2 e tale che la differenza tra di esso ed il rettangolo di eguale altezza e base assegnata a sia un quadrato. Il pro- blema equivale a costruire un rettangolo conoscendone l'area e la differenza dei lati, ossia corrisponde alla riso- luzione dell'equazione: x(a+ x)=b2 ed ammette sempre soluzione. Sia ABCD (fig. 22) il quadrato di lato b, e prendiamo dalla parte di B sulla AB il segmento AF'=a. Sia O il punto medio di AF'; e prendiamo sulla AB i segmenti OE = OD = OF. Il triangolo EDF è rettangolo, ed il qua- drato dell'altezza ABCD è eguale al rettangolo che ha per lati le proiezioni EA = EK, ed AF = EF' dei cateti. 82   Se da questo rettangolo si toglie il rettangolo AHL'F' di eguale altezza e base assegnata AF'= a, si ottiene ap- punto un quadrato EKHA. Il rettangolo EKL'F' risolve dunque il problema, ed EA è la x dell'equazione. 4. PROBLEMA: Determinare la parte aurea di un segmento; ossia dividere un segmento in modo che il quadrato avente per lato la parte maggiore (parte aurea) sia eguale al rettangolo avente per lati l'intero segmento e la parte rimanente. Questo problema è un caso particolare del problema dell'applicazione in eccesso; e precisamente il caso in cui a = b. Costruiamo (fig. 23) il quadrato ABCD sul segmento assegnato AD. Sia O il punto medio di AD, e prendiamo su AD i segmenti OE = OF = OC. Il triangolo ECF è rettangolo, quindi il quadrato che ha per lato CD è eguale al rettan- golo EHKD che ha per lati DK = DF ed ED. 83   Siccome OC e quindi OF è minore di OD + DC, ri- sulta DF e quindi DK minore di DC; l'altezza del rettan- golo EHDK è dunque minore del lato AB del quadrato dato mentre la base ED ne è evidentemente maggiore; perciò la HK divide il quadrato in due parti, e togliendo dal rettangolo EHKD e dal quadrato ABCD la parte co- mune AGDK si ha che il quadrato EHGA è eguale al rettangolo BGKC, che ha per lati il segmento assegnato BC ed il segmento BG, che è quanto resta del lato AB = BC quando se ne toglie AG, ossia il lato del quadrato EHGA. Il punto G divide dunque il segmento AB nel modo richiesto, ossia è AG = EA la parte aurea di AB. Dalla figura risulta che AD è la parte aurea di ED, mentre la parte rimanente EA è la parte aurea della parte aurea AD; similmente BG è la parte aurea di AG ecc. L'unicità della parte aurea di un segmento si dimostra per assurdo. Sia per esempio AS < AG un'altra soluzio- ne; ossia, con le notazioni moderne: sia: (AS)2 = AB BS Per l'ipotesi fatta si ha: AG =AS+SG e BG=BS-SG e quindi (AS)2 + (SG)2 + 2AS SG = (AG)2 ma (AG)2 = AB BG = AB BS – AB SG e quindi (AS)2 + (SG)2 + 2AS SG = AB BS – AB SG e (AS)2 + (SG)2 + 2AS SG + AB SG = AB BS 84  dalla quale, togliendone la prima (SG)2 + 2AS SG + AB SG = 0 ossia SG (SG + 2AS + AB) = 0 Questo rettangolo dovrebbe essere nullo; e ciò può accadere solo se SG = 0, ossia se S coincide con G. 5 TEOREMA: La base di un triangolo isoscele aven- te l'angolo al vertice eguale alla quinta parte di due ret- ti è la parte aurea del lato. Un triangolo isoscele VAB (fig. 24) che abbia l'ango- lo al vertice di 36° e quindi quelli alla base di 72°, è di- viso dalla bisettrice di uno degli angoli alla base in due triangoli isosceli CAV, ACB ed i tre segmenti VC, AC, AB risultano eguali. Il triangolo VAB e il triangolo ACB risultano inoltre equiangoli tra loro. 85   Abbassando le altezze VH ed AM, e conducendo da H l'altezza HN del triangolo isoscele AHM, si ha NH=12 BM – 14 BC I triangoli rettangoli VAH, AHN hanno gli angoli eguali, ed il cateto AH del primo è l'ipotenusa del se- condo; perciò per un corollario del capitolo precedente si ha: rett. (VA, NH) = quad. (AH) e quindi: 4 rett. (VA, NH) = 4 quad. (AH) rett. (VA, 4 NH) = quad. (AB) rett. (VA, BC) = quad. (VC) Dunque VC, ossia AB è la parte aurea di VB; c.d.d. Si dimostra, per assurdo, il teorema inverso: Se un triangolo isoscele ha la base che è parte aurea del lato, esso ha l'angolo al vertice eguale alla quinta parte di due retti. Sia V'A'B' il triangolo dato e la base A'B' parte aurea del lato V'A'. Costruito il triangolo isoscele VAB con VA = VB = V'A' e l'angolo al vertice un quinto di due retti, sarà per il teorema precedente AB parte aurea di VA ossia di V'A'; e per l'unicità della parte aurea sarà AB = A'B' e quindi i due triangoli eguali c.d.d.50 50 Il LORIA (Scienze esatte, pag. 41) attribuisce a Pitagora la costruzione del triangolo isoscele con l'angolo al vertice metà di quello della base, riportandola alla costruzione della parte aurea; ma per dimostrare che la base è la parte aurea del lato ricorre alla similitudine dei triangoli VAB, ABC (fig. 24), e sembra che in- 86   6. Per costruire un triangolo isoscele con l'angolo al vertice metà di quello alla base, ossia per costruire un angolo eguale ad un quinto di due retti od a un decimo dell'angolo giro, basta prendere per lato un segmento qualunque, e per base la sua parte aurea. Facendo com- piere a tale triangolo 10 rotazioni attorno al vertice eguali all'angolo al vertice, si viene a riempire il piano attorno al vertice e si ottiene un decagono regolare. Viceversa se una circonferenza è divisa in 10 parti eguali, il lato del decagono regolare inscritto è la parte aurea del raggio. Siamo dunque in grado di risolvere il PROBLEMA: Dividere una circonferenza in dieci parti eguali. Uniamo (fig. 25) il punto medio C del raggio OA con l'estremo B del raggio perpendicolare ad OA, e prendia- mo dalla parte di A il segmento CD sulla OA eguale a CB; AD è la parte aurea del raggio. Essendo AD minore di OA la circonferenza di centro A e raggio AD taglia in due punti E, P la circonferenza di centro O e raggio OA. Questo accade, naturalmente, ammettendo tacitamente (come Euclide ha fatto ancora, due secoli dopo Pitago- ra) il postulato della continuità in un caso particolare, ammettendo cioè che se un circolo ha il centro A sopra una circonferenza di centro O e passa per un punto D tenda significare che tale via fu tenuta anche da Pitagora. Lo svi- luppo che abbiamo mostrato parte, invece, dal teorema di Pitago- ra, ed utilizza soltanto conseguenze di questo teorema, in partico- lare il corollario di pag. 53, ed i problemi dell'applicazione che sappiamo erano stati risolti dai pitagorici. 87   esterno ed uno interno a tale circonferenza le due cir- conferenze si tagliano. Questa proprietà talmente assio- matica che Euclide non ha sentito il bisogno di postular- la, per i pitagorici doveva costituire un dato di fatto, una verità primordiale. Gli archi AE, AP sono dunque un decimo della intera circonferenza. Facendo centro successivamente in E ed in P ecc. con il medesimo raggio si determinano gli altri punti di divisione, due a due diametralmente opposti es- sendo 10 un numero pari. Riunendoli successivamente si ottiene il decagono regolare inscritto; riunendo il pri- mo con il terzo, il terzo con il quinto ecc. si ottiene il pentagono regolare inscritto. Si vede dunque come par- tendo dal teorema di Pitagora, e con i semplici procedi- menti esposti, i pitagorici erano in grado di dividere la 88   circonferenza in 5 e 10 parti eguali, e di inscrivere in essa il decagono ed il pentagono regolari. Il pentagono stellato o pentalfa (o pentagramma) si ottiene pure im- mediatamente conducendo le cinque diagonali del pen- tagono; e poiché il pentalfa era il simbolo del sodalizio pitagorico, la scoperta della divisione della circonferen- za in 10 e 5 parti eguali e la costruzione del decagono regolare, del pentagono regolare e del pentalfa, vanno attribuite senz'altro a Pitagora. 7. Le ragioni per le quali il pentalfa fu prescelto come simbolo dalla nostra Scuola non sono tutte di natura geometrica. Cosa naturale, data la connessione tra la geometria, le altre scienze e la cosmologia pitagorica. Ma le proprietà geometriche che legano tra loro il rag- gio della circonferenza, i lati del pentagono e del deca- gono regolari inscritti, e quelli del pentalfa e del decago- no stellato o decalfa, sono tante e così semplici e belle da avere indubbiamente suscitato l'ammirazione dei pi- tagorici e da avere contribuito a determinare od a giusti- ficare la scelta del pentalfa a simbolo della Scuola ed a segno di riconoscimento tra gli appartenenti all'Ordine. Vediamone ordinatamente una parte. Congiungendo (fig. 26) successivamente i punti di di- visione A, B, C,... della circonferenza in 10 parti eguali si ha il decagono regolare ABCDEFGHIL, di cui indi- cheremo il lato con l10. Esso è la parte aurea del raggio. 89   Congiungendo A con C, C con E ecc., si ha il penta- gono regolare ACEGI di cui indicheremo il lato AC con l5; congiungendo A con D, D con G ecc., si ha il decago- no stellato ADGLCFIBEH oppure AA'BB'CC'... LL' o decalfa di cui indicheremo il lato con s10; congiungendo A con E, E con I ecc. si ha il pentalfa AEICG oppure ANCN1EN2GN3IN4 di cui indicheremo il lato con s5. Congiungendo A con F si ottiene il diametro, e tiran- do da A le corde AG, AH... degli archi sestuplo ecc. del- l'arco AB si riottengono in ordine inverso i poligoni re- golari già ottenuti. I poligoni regolari e stellati inscritti 90  nella circonferenza, e che si ottengono mediante la sua suddivisione in 10 parti eguali, sono quattro e solo quat- tro. Il pentalfa deve evidentemente il suo nome ai cinque α (A dell'alfabeto greco) come quello formato dai tratti AE, AG, NN4 della figura. Il nome è adoperato dal P. Kircher nella sua Aritmetica (1665)51; siamo però con- vinti che questa è la denominazione originale pitagorica, e che analogamente decalfa è la denominazione origina- le del decagono stellato. Abbiamo già veduto che riportando 10 volte successi- vamente l'arco AB sulla circonferenza si esaurisce la circonferenza, come la somma di dieci unità esaurisce l'intera decade. E come gli elementi della geometria: il punto, la linea (retta o segmento determinato da due punti), la superficie (piano, triangolo determinato da tre punti), il volume (tetraedro, determinato da quattro pun- ti) riempiono ed esauriscono lo spazio (tridimensionale), corrispondentemente la somma dei primi quattro numeri interi dà la decade, relazione pitagorica fondamentale che dall'unità attraverso la sacra tetractis conduce alla decade. Altrettanto, naturalmente, succede nella nostra figura dove l'arco AB sommato con il suo doppio BD, con il triplo DG e con il quadruplo GA dà per somma la intera circonferenza. 51 Cfr. G. LORIA, Storia delle Matematiche, vol. I, pag. 66. 91   Il quadrilatero ABDG che ha per lati l10, l5, s10, s5 e per diagonali AD = s10 e BG = 2r, è diviso dalla diago- nale BG in due triangoli rettangoli, e quindi si ha: [1] l2+s2=4r2 10 5 [2] l2+s2 =4r2 5 10 dalle quali [3] l2+l2+s2+s2=8r2 5 10 5 10 relazione che lega il raggio della circonferenza ed i lati dei quattro poligoni, che si enuncia con il TEOREMA: La somma dei quadrati costruiti sopra il lato del decagono regolare, del pentagono regolare, del pentalfa e decalfa inscritti in una circonferenza è eguale ad otto volte il quadrato costruito sul raggio. Si riconosce facilmente che il diametro AOF è per- pendicolare al lato EG del pentagono ed al lato CI del pentalfa, ed essendo l'angolo ̂EOF di 36° ed il trian- golo EOA isoscele l'angolo ̂EAF risulta di 18° e quin- di ̂EAG di 36°. Ne segue il TEOREMA: La somma dei cinque angoli del pental- fa è eguale a due retti, che si dimostra facilmente vero per qualunque pentagono intrecciato. I triangoli isosceli AEG, ANN4 avendo l'angolo al vertice di 36° hanno la base parte aurea del lato. Dunque il lato del pentagono regolare inscritto è la parte aurea del lato del pentalfa; ed NN è parte aurea di AN. ̂ ̂1 Essendo DOF di 72° DAO viene di 36°; simil- mente si riconosce che ̂CAO è di 54° e ̂BAO di 72°; ossia che la perpendicolare per A al diametro AF e 92  le congiungenti A cogli altri punti di divisione in 10 par- ti eguali della circonferenza dividono l'angolo piatto at- torno ad A in 10 parti eguali; ed analogamente per gli altri vertici. Se ne trae che AN = NC = CN1 = N1E ecc. Il triangolo ECN avendo i due angoli alla base CN eguali e di 72° è isoscele; perciò EN è eguale al lato l5 del pentagono, il quadrilatero NEGI è un rombo, le dia- gonali del pentagono regolare ossia i lati del pentalfa si dividono in parti corrispondenti eguali, di cui la mag- giore è eguale al lato del pentagono. Nel lato AE del pentalfa, NE = EG = l5 è la parte aurea di AE, quindi N1E = AN è la parte aurea di EN; ed NN1 la parte aurea di AN. Naturalmente NN1N2N3N4 è un pentagono rego- lare. Notiamo infine che l'apotema del pentagono regolare è la metà del lato del decalfa, come si ottiene dal trian- golo rettangolo ACF. Altre proprietà avremo occasione di riconoscerle in seguito. 8. Dobbiamo ora stabilire un'altra importante relazio- ne che si presenta nella costruzione dell'icosaedro, e che i pitagorici debbono quindi aver conosciuto. Ammettendo che ogni retta passante per un punto in- terno ad una circonferenza è una secante, si dimostra che la perpendicolare al raggio nel suo estremo è la tan- gente in quel punto alla circonferenza. E siccome sap- piamo che il luogo geometrico dei vertici dei triangoli rettangoli di data ipotenusa è la circonferenza che ha per diametro l'ipotenusa, si è anche in grado di condurre le 93  tangenti ad una circonferenza da un punto assegnato. Conduciamo allora (fig. 27) da un punto P esterno ad una circonferenza la tangente PN, il diametro PO ed una secante qualunque PCD. La mediana del triangolo isoscele OCD è perpendico- lare alla base CD, ed il rettangolo che ha per lati PD e PC ossia PM + CM e PM – CM è eguale come sappia- mo alla differenza dei quadrati costruiti su PM e su MC. Si ha: PC · PD = (PM + MC) (PM – MC)= = (PM)2 – (MC)2 = = (PM)2 + (OM)2 – [(OM)2 + (MC)2]= = (PO)2 – (OC)2 = (PO)2 – (ON)2 = = (PN)2. Prendiamo allora nella figura 26 sulla AB a partire da A il segmento AS = OA: i triangoli isosceli OAC, ASO, avendo il lato eguale e l'angolo al vertice eguale sono eguali, e quindi OS = AC = l3; e siccome in questi trian- goli l'angolo al vertice supera quello alla base, la base 94   OS è maggiore del lato OA ed il punto S è esterno alla circonferenza. Condotta da S la tangente ST, sarà per il teorema ora dimostrato: (ST)2 = SA · SB e, siccome AB è il lato del decagono regolare, esso è la parte aurea di AS, ossia: (AB)2 = SA · SB quindi ST = AB = l10 Dal triangolo rettangolo OST si ha allora: (ST)2 + (OT)2 = (OS)2 ossia la relazione: [4] l2 +r2=l2 10 5 che si enuncia così: TEOREMA: Il lato del pentagono inscritto è l'ipote- nusa di un triangolo rettangolo che ha per cateti il rag- gio ed il lato del decagono regolare inscritto. 9. Nella figura 26 i segmenti OC ed AD si tagliano in un punto V e risulta ^AVO=^DCV=72°. Dai triangoli isosceli AVO, DCV con l'angolo al ver- tice di 36° si ha VO = VD = DC = l10, ed AV = OA = r; quindi VD è la parte aurea di AV ossia di r ed AV è la parte aurea di AD. Il raggio è dunque la parte aurea del lato del decalfa, e si ha la semplice relazione: [5] r+ l10=s10 95  Da questa relazione e dalle altre ottenute si deducono geometricamente le seguenti, che scriviamo per brevità con le solite notazioni: s2 +r2=s2 +l2–l2 =4r2–l2 =s2 10 10510 105 [6] s2 +r2=s2 e sostituendo nella [1] [7] s2 +r2+l2 =4r2 e s2 +l2 =3r2 1010 1010 e perciò dalla [3]52 [8] s25+ l25=5r2 Si ha inoltre: r2=(s –l )2=s2 +l2 –2s l quindi [9] 10 10 10 10 1010 r2=3r2 –2s10l10 e s10l10=r2 (s l )2=s2 +l2 +2s l =3r2+2r2=5r2 10 10 10 10 10 10 e quindi 10 5 (s10 l10)2=s25+ l52 [10] Prendiamo adesso il triangolo rettangolo ABC (fig. 28) coi cateti AB = l10 ed AC = r; l'ipotenusa è BC = l5, e prendendo sui prolungamenti dei cateti BD = r e CF = l10 sihaAD=AF=s10;CD=s5.PresoAM=s10 +l10,e 52 La relazione s52+ l25=r2 si trova (cfr. LORIA, Scienze esat- te, pag. 271) nel XIV libro di Euclide (che è di Ipsicle, II secolo a.C.), e così pure l'altra: a5=r+l10 . 2 Ma ciò non prova che fossero sconosciute prima di lui. Ipsicle, infatti, dimostra anche che l'apotema del triangolo equilatero è la metà del raggio, proprietà nota certamente molto prima. 96    sulla perpendicolare alla AM il segmento ML = r anche BL = s5; ed il triangolo CBL risulta rettangolo, perché CL = AM = s10 + l10. In questo triangolo rettangolo compaiono gli stessi cinque elementi che comparivano nella formula [3]. Esso ha per cateti il lato del pentagono regolare inscritto e quello del pentalfa, ha per altezza il raggio del cerchio circoscritto, e le due proiezioni dei cateti sull'ipotenusa sono eguali rispettivamente al lato del decagono regola- re inscritto ed a quello del decalfa; la proiezione del ca- teto minore è parte aurea dell'altezza e l'altezza è parte 97   aurea della proiezione del cateto maggiore. Il cateto mi- nore è parte aurea di quello maggiore, e la somma dei quadrati costruiti sopra i tre lati è eguale a dieci volte il quadrato costruito sopra l'altezza, ossia sul raggio della circonferenza circoscritta a quei poligoni regolari. Inoltre, poiché i rettangoli ABKC, BMLK sono divisi per metà dalle diagonali BC, BL, il triangolo rettangolo CBL è la metà tanto del rettangolo di lati CB e BL quan- to del rettangolo di lati CA ed AM; si ha quindi una ter- za relazione tra quei cinque elementi: [11] l5·s5=r(s10+l10) indicando con a5 l'apotema del pentagono e con a10 l'a- potema del decagono, aggiungiamo alle precedenti an- che le relazioni: [12] 2a5=s10=r+l10 [13] 2a10=s5 Vedremo in seguito le relazioni che legano questi ele- menti ai vari elementi del dodecaedro regolare. 10. Il pentalfa era il simbolo del sodalizio pitagorico. Si disegnava, (fig. 29) con la punta in alto scrivendo in corrispondenza dei vertici le lettere componenti la paro- la ὑγίεια, latino salus, da intendere nel duplice senso che ha la parola «salute» in Dante e nei «Fedeli d'Amore», ossia nel senso di quella salvezza o sopravvivenza privi- legiata indicata alla fine dei «Versi d'oro». 98   Questo antico simbolo pitagorico riappare qua e là nella tradizione esoterica occidentale, designato di solito come «la figura di Pitagora». Talora al centro si trova scritta la lettera G, iniziale di Geometria, come ad esem- pio nella «flaming Star» di un noto Ordine Occidentale avente per scopo il perfezionamento dell'uomo, ossia alla lettera, la teleté dei misteri. Ma non è ora il caso di fare la storia della sua trasmissione sino a divenire il fa- tidico «stellone» d'Italia. Diremo soltanto, per chiuder questo capitolo, che il pentalfa ed il fascio littorio (tra i quali passa più di un legame) sono i soli importanti sim- boli spirituali veramente occidentali. Il resto, buono o cattivo che sia, vien dall'Oriente. 99  CAPITOLO IV I POLIEDRI REGOLARI I. Per vedere in quale modo Pitagora pervenne alla costruzione dei poliedri regolari ed alla loro inscrizione nella sfera occorrerebbe fare per lo spazio quel che ab- biamo fatto, in parte, per il piano. Ossia ricostruire la geometria pitagorica dello spazio senza introdurre i con- cetti di rette parallele, di rette e piani paralleli, di piani paralleli, e mostrare come si possa egualmente pervenire ai risultati che Eudemo attraverso Proclo ci tramanda come conseguiti da Pitagora. Ma per non allungare trop- po questo nostro studio ci limiteremo ad indicare per sommi capi la via da tenere, o una delle vie da seguire, tralasciando in generale le dimostrazioni che ognuno può trovare da sé. Perciò, ammettendo che un piano divida lo spazio in due semispazii, ammettiamo anche il postulato del semi- spazio: Il segmento congiungente due punti situati da parti opposte rispetto ad un piano è tagliato in un suo punto dal piano. Può darsi che anche questo caso parti- colare del postulato di continuità fosse ammesso tacita- mente come una verità primordiale. Si dimostra poi nel modo ordinario che: 100  a) Una retta non giacente in un piano e che abbia con esso un punto comune è divisa da esso in due semi- rette situate da parti opposte rispetto a quel piano. b) Se due piani hanno un punto in comune la loro in- tersezione è una retta passante per quel punto; uno qualunque dei due piani è diviso dalla comune in- tersezione in due semipiani situati da parti opposte rispetto all'altro. c) Se per un punto H di una retta m si conducono ad essa in piani diversi due perpendicolari a e b, ogni altra retta del piano ab passante per H è perpendi- colare alla m, e viceversa ogni perpendicolare alla m per H giace nel piano ab. Il piano ab dicesi per- pendicolare alla retta m in H; e la retta perpendico- lare m al piano ab in H. d) Per un punto A appartenente o no ad una retta pas- sa un piano ed uno solo perpendicolare ad essa. e) Teorema delle tre normali: Se una retta m è perpen- dicolare ad un piano α e dal piede H esce nel piano una retta a perpendicolare ad una retta r di α (pas- sante o no per il piede H), la terza retta r è perpen- dicolare al piano am delle prime due. f) Due piani che si intersecano dividono lo spazio in quattro parti (diedri). Seguono le definizioni di die- dro convesso, piatto e concavo. 101  g) Sia β (fig. 30) un piano perpendicolare ad una retta a e sia H il suo piede. Conduciamo per a un piano qualunque α, e sia r la αβ; e conduciamo per H in β  la bb' perpendicolare alla r. Per il teorema delle tre normali la b è perpendicolare al piano α e quindi ad a; i due angoli ^bHa, ^aHb' risultano retti. Facendo ruotare il piano ab intorno ad H su se stes- so esso rimane perpendicolare alla r e quando la semiretta b va sulla a e la a sulla b', il semipiano β vasulsemipianoαedαsuβ'.Iduediedri β̂α e ̂αβ ' si sovrappongono, sono quindi eguali; il se- mipiano α biseca dunque il diedro piatto ^βrβ'. Ogni altro semipiano per r è interno all'uno od al- l'altrodeidiedriα̂βe^αβ';quindiperunarettar del piano β si può condurre uno ed un solo piano α che bisechi il diedro piatto ^β r β ' . Il piano α dicesi 102  perpendicolare al piano β; l'angolo ^a H b dicesi ^ sezione normale di αβ, ed è retto. Se per un punto P di α si conduce la perpendicolare a' alla r dal piede e la c in β perpendicolare alla r, anche il piano a'c è perpendicolare alla r; facendo ruotare attorno alla r il semipiano β va in α ed α in β', la semiretta c va sulla a', e la a' sulla c'; dunque ĉ a =̂a ' c ' = un retto, e quindi a' risulta p̂erpendi- colare anche a β e la sezione normale a ' c del ̂^ diedro αβ risulta eguale all'altra ab . h) Retta perpendicolare ad un piano per un punto. Sia H un punto di un piano β (fig. 30), e si conduca per H in β una retta b qualunque, e per H il piano α ^ Se poi il punto dato fosse P esterno al piano β, con- dotta in β una retta b qualunque e per P il piano α perpendicolare alla b, esso interseca la b e quindi il piano β secondo una retta r. Da P in α si conduca la PH' perpendicolare alla r e per il teorema delle tre normali risulta PH' perpendicolare a β. Per assurdo se ne dimostra subito la unicità. i) I piani passanti per una retta perpendicolare ad un piano sono perpendicolari ad esso. 103 perpendicolare alla b; sia r la αβ. Per H condu- ciamo nel piano α la perpendicolare a alla r; per il teorema delle tre normali risulta a perpendicolare a β. La unicità della perpendicolare a β per H si di- mostra per assurdo.  k) Se i piani α e β sono tra loro perpendicolari, la per- pendicolare PH' alla intersezione abbiamo veduto che è perpendicolare a β. Viceversa, per l'unicità della perpendicolare ad un piano, se due piani α e β sono perpendicolari, e da un punto P di α si condu- ce la perpendicolare a β essa giace in α. l) Sezione normale di un diedro qualunque. Per due punti A e B (fig. 31) della costola r di un diedro α̂β conduciamonellafacciaαleperpendicolari a, a' alla r, e nella faccia β le perpendicolari b, b' alla r. Chiameremo sezioni normali del diedro ̂^^ αβ gli angoli ab, a'b'. Essi sono eguali. Presi infatti su α AC = BD e su β AE = BF i qua- drilateri ACDB, ABFE sono dei rettangoli e quindi CD = AB = EF. La r è perpendicolare ai piani ab ed a'b'; quindi il piano α è perpendicolare ai piani ab ed a'b', la CD che è perpendicolare alla interse- zione a dei due piani α ed ab risulta perpendicolare al piano ab e perciò anche alla CE; analogamente risulta perpendicolare alla DF; ed analogamente la EF risulta perpendicolare alle CE ed FD. Inoltre, essendo CD perpendicolare al piano ACE, il piano CDE è perpendicolare al piano ACE, e la EF, per- pendicolare anche essa al piano ACE, giace nel piano CDE; perciò il quadrilatero CDEF è un qua- drilatero piano cogli angoli retti, ossia è un rettan- golo. I triangoli ACE e BDF risultano quindi eguali per il terzo criterio, e gli angoli ^CAE e ^DBF 104  sono eguali. Le sezioni normali di un diedro qua- lunque sono dunque eguali. m) Se due piani α e β sono perpendicolari ad un terzo γ la loro intersezione è perpendicolare a γ. n) Due piani perpendicolari ad una retta non si incon- trano. o) Definizione di piano assiale di un segmento. Si dimostra che esso è il luogo geometrico dei pun- ti equidistanti dagli estremi del segmento. p) Distanza di un punto da un piano; e luogo geome- trico dei punti del piano aventi distanza assegnata da un punto esterno. Corollario: Dato un poligono regolare inscritto in una circonferenza, un punto qualunque della per- pendicolare al piano del poligono condotta per il centro è equidistante dai vertici del poligono. q) Piano bisettore di un diedro e sue proprietà. Per un punto P del piano γ bisettore del diedro  α̂ β si conduca il piano δ perpendicolare allo spi- golo r. I tre piani α, β, γ sono perpendicolari a δ; 105  condotte da P le perpendicolari PH e PK ad α e β esse giacciono in δ; ed unendo il punto M di inter- sezione della r e di δ con H, P, K, i triangoli rettan- goli PHM, PKM sono eguali per avere l'ipotenusa PM in comune e gli angoli ^HMP , ^KMP eguali perchéγèbisettoredi α̂β efacendoruotareat- torno alla r, quando γ va su β, α va su γ ed i due an- goli si sovrappongono. Viceversa si dimostra che se un punto P interno ad α̂β èequidistantedaαedaβ,essoappartieneal ^ Si dimostra nel solito modo, e si estende all'ango- loide. t) TEOREMA: La somma delle facce di un triedro è minore di quattro retti. Si dimostra nel solito modo e si estende all'ango- loide convesso. v) Definizione degli angoloidi regolari. Hanno tutte le facce eguali, ed eguali i diedri for- mati da due facce consecutive. x) Definizione di poliedro. Il poliedro si dice regolare quando tutte le facce sono poligoni regolari eguali e gli angoloidi sono regolari eguali. z) Possono esistere al massimo cinque poliedri rego- lari, uno con tre, uno con quattro ed uno con cin- 106 piano γ bisettore del diedro αβ. r) Definizione di triedro e di angoloide convesso. s) TEOREMA: In un triedro una faccia è minore del- la somma delle altre due.  que facce congruenti in un vertice eguali a dei triangoli equilateri; uno con tre quadrati congruenti in un vertice, ed uno con tre pentagoni regolari congruenti in un vertice. Questa possibilità si dimostra nel solito modo. 2. Costruzione del tetraedro regolare. Dimostrata la possibilità dell'esistenza dei cinque po- liedri regolari passiamo alla loro effettiva costruzione. La proprietà del baricentro di un triangolo qualunque si può riconoscere valida anche nella nostra geometria pitagorica indipendentemente dal postulato di Euclide; nel caso del triangolo equilatero è poi facilissimo rico- noscere che il baricentro è anche centro delle due cir- conferenze circoscritta ed inscritta e che il raggio della prima è doppio di quello della seconda. Per il centro H di un triangolo (fig. 32) equilatero ABC si condurrà la perpendicolare h al piano ABC, e siccome AH è minore di AB si determina nel piano Ah l'intersezione di h con la circonferenza di centro A e rag- gio AB. Si unisce questo punto D con A, B, C; e si ha DA = DB = DC = AB. Il tetraedro DABC ha per facce quattro triangoli equilateri eguali; gli angoloidi sono dei triedri a facce eguali; ed i diedri sono pure eguali, per- ché il ̂diedro di spigolo AC ha per sezione normale l'an- golo DKB del triangolo isoscele KDB che ha per lato l'altezza della faccia e per base lo spigolo, ed è quindi lo stesso per tutti i diedri. Esiste dunque un tetraedro rego- lare di dato spigolo AB. 107   Chiamando l4 lo spigolo, con il teorema di Pitagora si ha: (BK )2= 34 l24 e quindi (BH )2= 49 · 34 l 24 (BH)2=13 l24 e (DH)2=23 l24 Il centro della sfera circoscritta sta sulla h che è il luogo dei punti equidistanti da A, B, C; quindi se D' è l'altro estremo del diametro OD, il piano ADD' è diame- trale, il triangolo ADD' è rettangolo perché il punto me- dio di DD' è equidistante dai vertici, AH è l'altezza di questo triangolo rettangolo e quindi si ha: (AD)2=2r·DH e 32 ·(DH)2=2r·DH; 3(DH)2=4r·DH; 3DH=4r; DH=43r e OH=13r Ne segue la regola per la Inscrizione del tetraedro regolare nella sfera di rag- gio r. 108  Preso OD = r e da parte opposta OH = 13 r si ha in DH l'altezza. Si conduce una circonferenza di diametro DD' = 2r, e per H la perpendicolare al diame- tro; la sua intersezione con la circonferenza sia il vertice B del tetraedro. Condotto infine il piano passante per HB e perpendicolare al diametro DD', si descrive in esso la circonferenza di raggio HB ed in essa si inscrive il triangolo equilatero ABC. Il tetraedro ABCD è il tetrae- dro regolare inscritto. 3. Esistenza e costruzione dell'esaedro regolare. Sia ABCD (fig. 33) un quadrato. Conduciamo per i vertici le perpendicolari al piano del quadrato ABCD da una stessa parte del piano, e prendiamo su esse i seg- menti AE, BF, CH, DG eguali al lato AB. I piani EAB, EAD risultano perpendicolari al piano α del quadrato ABCD; e le perpendicolari BF e DG al piano ABCD giacciono rispettivamente nei piani EAB, EAD, dimo- doché ABFE e ADGE sono due quadrati eguali al dato. 109   Analogamente la CH coincide con la intersezione dei piani FBC e GDC perpendicolari ad α, e quindi anche FBCH e CDGH sono dei quadrati. Perciò CH è perpen- dicolare al piano FHG; CD è perpendicolare a CB e CH, quindi anche al piano BCHF; il piano CDGH è perpen- dicolare al piano BCHF e la GH perpendicolare all'inter- sezione CH risulta perpendicolare anche al piano BCHF, e quindi alla HF. Quindi ̂FHG = un retto. La FH è quindi perpendicolare al piano CDGH. D'altra parte la DG è perpendicolare al piano HGE, i piani HGD, HGE sono perpendicolari tra loro e quindi la FH perpendicolare al primo di essi appartiene al se- condo. Il quadrilatero FHGE è dunque un quadrilatero piano coi lati tutti eguali ed un angolo retto e perciò è un quadrato. Le sei facce dell'esaedro ABCDEFGH sono dei quadrati; le tre facce congruenti in ogni vertice sono dei quadrati ed i diedri son tutti retti; l'esaedro regolare è costruito. EA ed HC sono perpendicolari ad AC ed EH, e il pia- no EAC è perpendicolare ad ABCD, la CH pure e per- ciò giace in AEC, quindi EACH è un quadrilatero piano con gli angoli retti, ossia è un rettangolo, quindi le due diagonali del cubo CE, AH sono eguali e si tagliano per metà. In simil modo EF e CD risultano perpendicolari a FC ed ED, EFCD risulta un rettangolo, e la diagonale FD è eguale alle altre due ed è tagliata per metà dal loro punto medio; lo stesso per la BG. Le quattro diagonali sono eguali, e si incontrano in un medesimo punto O 110  che le biseca, quindi O è equidistante da tutti i vertici ed è centro della sfera circoscritta. Si ha poi (EC)2=(EA)2+(AB)2+(BC)2 e quindi 4R2=3l26 ed l26=34R2. Condotta OM perpendicolare ad EH e quindi alla fac- cia EFHG, il segmento OM, che è la metà dello spigolo 2 R2 è eguale all'apotema del cubo, e a6 =3 . D'altra parte si riconosce facilmente che il quadrato costruito sopra il lato del triangolo equilatero inscritto in una circonferenza di raggio R è triplo del quadrato del raggio (ossia il lato del triangolo equilatero è R √ 3 e si ha quindi il TEOREMA: L'apotema del cubo inscritto nella sfera di raggio R è 13 del lato del triangolo equilatero in- scritto nella circonferenza di raggio R; e lo spigolo del cubo è i 23 di tale lato (l6=32 R √3) Dopo ciò per risolvere il problema della inscrizione del cubo nella sfera di raggio dato, occorre sapere divi- dere un segmento assegnato in n (nel nostro caso 3) par- ti eguali. Il problema, indipendentemente dalla teoria delle parallele, è sempre risolubile grazie al seguente LEMMA: Se l'ipotenusa di un triangolo rettangolo è divisa in n parti eguali e per i punti di divisione si con- 111  ducono le perpendicolari ad uno dei cateti esse lo divi- dono in n parti eguali. Sia ABC un triangolo rettangolo (fig. 34), e sia l'ipo- tenusa BC divisa in n (5) parti eguali; per i punti di divi- sione D, E, F, G conduciamo le perpendicolari ai cateti AC e AB. Si riconosce facilmente che DMAL, ENAK, EPLK ecc. sono dei rettangoli e che essendo ^^^ ^^ EDM=DMB+DBM è pure EDP=DBM; quindi i triangoli rettangoli EDP, DBM sono eguali, e EP = DM e perciò AL = LK. Analogamente LK = KI = HI = HC.  Viceversa, per l'unicità del sottomultiplo di un seg- mento dato, se ipotenusa e cateto sono divisi in un me- desimo numero di parti eguali, le congiungenti i punti di divisione corrispondenti LD, KE... risultano perpendico- lari al cateto. Vedremo nel capitolo ultimo come si possa sempre, indipendentemente dalla teoria delle rette parallele, ri- solvere il problema di dividere un segmento in un nu- mero assegnato di parti eguali. Frattanto per il caso di n = 5 il problema si risolve così: Preso un segmento tale che il suo quintuplo sia maggiore del segmento dato 112  (per esempio riportando cinque volte consecutivamente la quarta parte del segmento assegnato), si descrive so- pra di esso come diametro la circonferenza, e poi con centro in uno degli estremi del diametro e raggio eguale al segmento assegnato si descrive un'altra circonferenza; il punto di intersezione delle due circonferenze è vertice di un triangolo rettangolo che ha per ipotenusa il diame- tro della prima circonferenza, e conducendo per i punti di divisione del diametro le perpendicolari al cateto esso viene diviso in cinque parti eguali. In modo analogo si risolve il problema della divisione di un segmento in tre parti eguali. Risolviamo adesso il problema della Iscrizione del cubo nella sfera di raggio R: si costruisce il triangolo equilatero inscritto nella cir- conferenza di raggio R, e se ne divide il lato in 3 parti eguali. Per un diametro CE della sfera (fig. 33) si con- duce un piano, ed in esso si costruisce il triangolo ret- tangolo di ipotenusa CE e cateto CH=32 del lato del triangolo equilatero costruito. Per il punto medio O di CE (centro della sfera) si conduce la perpendicolare MN al cateto EH; OM = ON è l'apotema. Per M e per N si conducono i piani perpendicolari alla MN, e nel primo di essi si costruisce il quadrato che ha EH per diagonale. Esso è una faccia del cubo; i simmetrici dei quattro ver- tici rispetto ad O danno gli altri quattro vertici del cubo. 113   4. Inscrizione dell'ottaedro regolare nella sfera di raggio dato. Condotto per il centro della sfera il piano perpendico- lare al diametro EF, sia ABCD (fig. 35) un quadrato in- scritto nel cerchio sezione. Unendo gli estremi del dia- metro EF con A, B, C, D si ha l'ottaedro regolare inscrit- to. Infatti le otto facce sono dei triangoli equilateri, gli angoloidi sono eguali ed i diedri pure, essendo angoli al vertice di triangoli isosceli aventi il lato eguale all'altez- za della faccia e la base eguale al diametro della sfera. Si dimostra facilmente che l'ottaedro che ha per verti- ci i centri delle sei facce del cubo è regolare, e che il te- traedro che ha per vertice un vertice del cubo ed i tre vertici opposti delle tre facce ivi congruenti è regolare. 114  5. L'icosaedro regolare. Divisa una circonferenza (fig. 36) di centro V e rag- gio qualunque in 10 parti eguali si inscriva in essa il de- cagono regolare A1B1A2B2A3B3A4B4A5B5 ed i due penta- goni regolari A1A2A3A4A5 e B1B2B3B4B5. Per i vertici A del primo pentagono si conducano le perpendicolari al piano α della circonferenza, e si pren- 115   dano su di esse i segmenti A1C1 = A2C2 = A3C3 = A4C4 = A5C5 = VA1. Il piano C2A2A3 è perpendicolare al piano α, quindi la A3C3 giace in esso, il quadrilatero piano C2A2A3C3 è un rettangolo e C2C3 = A2A3. Analogamente A4C4 giace nel piano C3A3A4, il quadrilatero piano C3A3A4C4 è un rettangolo e C3C4 = A3A4. E così prose- guendo i lati del pentagono C1C2C3C4C5 risultano tutti eguali a A1A2. Esso è inoltre un poligono piano. Infatti la C2A2 è per- pendicolare al piano α ed al piano C1C2C3; il piano C2A2A4 è perpendicolare al piano α e quindi la A4C4 per- pendicolare al piano α giace nel piano C2A2A4; quindi C2A2A4C4 è un rettangolo, e C2C4 è perpendicolare a C2A2 e perciò C4 giace nel piano C1C2C3; analogamente C5 giace nel piano C2C3C4; quindi il poligono C1C2C3C4- C5 è un pentagono piano coi lati tutti eguali. Il suo ango- ̂̂ lo C1 C2 C3 è eguale all'angolo A1 A 2 A3 perché sono entrambi sezioni normali dello stesso diedro, analoga- mente per gli altri angoli; e quindi C1C2C3C4C5 è un pen- tagono regolare piano eguale ai due pentagoni inscritti nella circonferenza del piano α. Condotta per il centro V la perpendicolare al piano α, essa giace nel piano C2A2V, e, preso su essa dalla parte di C2 il segmento VQ = VA2 = A2C2, la C2Q sta nel pia- no del pentagono C1C2C3C4C5, ed è QC2 = VA2, e C2A2- VQ è un quadrato. Analogamente QC1 = VA2, ecc., e quindi Q è il centro della circonferenza circoscritta al 116  pentagono regolare C1C2C3C4C5 ed eguale alla circonfe- renza del piano α. Essendo poi C1A1 perpendicolare ad A1B5 si ha: (C1 B5)2=(C1 A1)2+ (A1 B5)2 e poiché C1A1 è eguale al raggio della circonferenza V ed A1B5 è il lato del decagono regolare inscritto in essa, sarà C1B5 il lato del pentagono regolare, cioè CB5 = B1B5 = C1C5 = ... Analogamente dai triangoli rettangoli C1A1B1, C5A5- B5... si ottiene C1B1 = B1B5, C5B5 = B5B4... quindi i trian- goli C1B1C5, C1B5C5 sono equilateri, e così proseguendo si riconosce che i dieci triangoli C1C2B4, C2B4B2, C2C3- B2, C3B2B3... che si ottengono unendo ordinatamente i vertici del pentagono C1C2C3C4C5 a quelli del pentagono B1B2B3B4B5 sono equilateri. Sia O il punto medio di VQ; si vede subito che esso equidista dai vertici C e dai vertici B. Prendiamo allora sulla VQ i segmenti OD = CE = OC1 = OB1; confrontan- do con la fig. 23 si riconosce che i segmenti QD e VE sono la parte aurea di QV ossia del raggio delle due cir- conferenze di centro V e centro Q. Uniamo D coi vertici del pentagono C1C2C3C4C5 e E con quelli del pentagono B1B2B3B4B5. Dal triangolo rettangolo DQC2 risulta: (DC2)2 = (QC2)2 + (QD)2, e quindi anche DC2 è eguale al lato del pentagono. Analogamente per DC1, DC3, DC4, DC5; quindi anche i triangoli aventi il vertice in D e per lati opposti i lati del pentagono C1C2C3C4C5 sono equila- teri. E lo stesso naturalmente per i triangoli di vertice E 117  aventi per lati opposti i lati del pentagono B1B2B3B4B5. Abbiamo così ottenuto un icosaedro avente per vertici i punti D ed E ed i dieci vertici dei due pentagoni C1C2C3- C4C5 e B1B2B3B4B5; esso ha per facce dei triangoli equi- lateri, ed è inscritto nella sfera di centro O e raggio OD. Poiché O equidista da D, C2, B2 e così pure C3 equidi- sta dagli stessi punti, i piani assiali degli spigoli C2DC2B2 si tagliano sicuramente, e la loro intersezione OC3 risulta perpendicolare al piano DC2B2 e lo interse- ca, in un punto F equidistante da D, C2, B2. D'altra parte i triangoli DC2O, C3C2O hanno OC2 in comune, OD = OC3, DC2 = C2C3 e sono perciò eguali; l'altezza C2Q del- l'uno è eguale alla C2F dell'altro, ed è F interno a OC3 ed OF = OQ e FC3 = QD. I triangoli isosceli OC3D, OC3C4 hanno per lato il rag- gio della sfera circoscritta e per base lo spigolo dell'ico- saedro quindi sono eguali. E, poiché OQ = OF, anche i triangoli OC Q, OC F risultano eguali per il primo crite- 3̂4̂ rio, ed essendo OQC3 = un retto anche OFC4 = un retto; FC4 è dunque perpendicolare ad OC3 e giace quin- di nel piano DC2B2; ossia C4 sta in questo piano. Analo- gamente si dimostra che anche B3 sta in questo piano; e si ha: FB3 = FC4 = FD = FC2 = FB2. Perciò il pentagono DC2B2B3C4 è un pentagono piano equilatero inscritto nella circonferenza di centro F e raggio FD, ossia è un pentagono piano regolare ed è base della piramide pen- tagonale regolare di vertice C3. Analogamente si dimo- 118  stra che ogni vertice dell'icosaedro è vertice di una pira- mide pentagonale regolare eguale. La sezione normale del diedro di spigolo DC3 si ottie- ne congiungendo il suo punto medio con i punti C2 e C4. Quest'angolo è quindi l'angolo al vertice di un triangolo isoscele che ha per lato l'altezza della faccia e per base la diagonale del pentagono di base; quindi la sezione normale è la stessa per ogni diedro di ogni angoloide dell'icosaedro. L'icosaedro costruito è dunque un icosaedro regolare. Per costruire l'icosaedro regolare di dato spigolo C1C2 si può dunque procedere nel modo seguente: 1o – si de- termina (fig. 23) il segmento C1C4 di cui C1C2 è la parte aurea. 2o – si determina il centro Q della circonferenza circoscritta al triangolo isoscele di lato C1C4 e base C1C2, e si descrive la circonferenza di centro Q e raggio QC1. 3o – si inscrive in questa circonferenza il pentago- no regolare C1C2C3C4C5. 4o – si conduce per il centro Q la perpendicolare al piano del pentagono e si prende QV eguale al raggio della circonferenza, e si ha nel punto medio O di QV il centro della sfera circoscritta ed in OC1 il raggio. 5o – si prendono sul diametro QV i seg- menti OD = OE eguali ad OC1. 6o – si conduce per V il piano perpendicolare al diametro DE. 7o – si abbassa dal vertice C1 la perpendicolare al piano condotto per V, il suo piede A1 appartiene alla circonferenza di centro V e raggio eguale a VQ. 8o – si abbassa da C2 la perpendico- lare a questo piano ed anche il suo piede A2 appartiene alla circonferenza di centro V. 9o – si prende il punto 119  medio B1 dell'arco A1A2 e si inscrive nella circonferenza di centro V il pentagono regolare che ha questo punto medio per uno dei suoi vertici, ossia, il pentagono B1B2- B3B4B5. 10o – si unisce D ai punti C1, C2, C3, C4, C5 ed E aipuntiB1,B2,B3,B4,B5;siuniscepoiB1 aC2,C2 aB2 ecc., e si ha l'icosaedro. 6. Inscrizione dell'icosaedro regolare nella sfera di raggio R. Il triangolo DC2E della fig. 36 è rettangolo in C2 per- ché i suoi vertici equidistano da O centro della sfera. In esso l'altezza C2Q = r, raggio del pentagono C1C2C3C4- C5;DQ=l10;C2D=l5;QE=QV+VE=r+l10 =s10,e quindi C2E = s5; perciò per la [8] (C2D)2 + (C2E1)2 = 5r2 ma per il teorema di Pitagora si ha: (C2D)2 + (C2E)2 = (DE)2 = 4R2 e perciò 5r2 = 4R2. ossia si ha il TEOREMA: Il quintuplo del quadrato che ha per lato il lato del pentagono di base è eguale al quadruplo del quadrato del raggio della sfera circoscritta. Premesso questo teorema, prendiamo (fig. 36) DE = 2R, e dividiamo DE in cinque parti eguali. Preso DG eguale ad un quinto di DE, si conduca per G la perpen- dicolare a DE sino ad incontrare in H la circonferenza di diametro DE. Si ha: (DH)2 = DE · DG ossia (DH)2=2R·25 R=54 R2 120  DH è dunque eguale al raggio r della circonferenza circoscritta al pentagono. Si determina allora il lato del decagono regolare in- scritto nella circonferenza di raggio r, e si toglie da OD e da OE, in modo da ottenere i segmenti OQ ed OV. Si conducono per Q e per V i piani perpendicolari al dia- metro DE, e con centri Q e V e raggio r si descrivono in essi due circonferenze. In queste si inscrivono opportu- namente i pentagoni regolari di vertici A, di vertici B e di vertici C; ed unendo il vertice D coi vertici C, il verti- ce E coi vertici B, i cinque vertici C tra loro consecuti- vamente, i cinque B tra loro ed i vertici C opportuna- mente ai vertici B si ha l'icosaedro regolare inscritto. Chiamando con R il raggio della sfera circoscritta, con a l'apotema dell'icosaedro, con l5 lo spigolo, con r il raggio della circonferenza circoscritta al pentagono di lato l5, con l10 la parte aurea di r, con s5 e s10 i lati del pentalfa e del decalfa inscritti in questa circonferenza, con R' il raggio della sfera tangente agli spigoli dell'ico- saedro nei loro punti medii, con a5 l'apotema del penta- gono di lato l5 e con a10 l'apotema del decagono di lato l10, si hanno le seguenti relazioni: 5r2=4R2 2R=r+ 2l10=s10+ l10 e quindi, dal triangolo rettangolo DC2E si ricava: R '=12 s5a10 121  cioè: il raggio della sfera tangente agli spigoli dell'ico- saedro è eguale alla metà del lato del pentalfa inscritto nella circonferenza di raggio r, oppure è eguale all'apo- tema del decagono inscritto in questa circonferenza. Il raggio della sfera inscritta od apotema a è cateto di un triangolo rettangolo ON5K6 che ha per ipotenusa R' e per altro cateto la terza parte dell'altezza della faccia; quindi: 2 2 l52 12 l52 1 2 2 a=R' –12=4s5–12=12(3s5–l5) e per la [2] e la [6]: a2= 1 (3s2 –4r2+s2 )= 1 (3s2 –r2+s2 )= 125 101210 10 = 1 (4s2 –4r2)= 1 (2s +r)+(2s −r)= 12 10 12 10 10 = 1 (s10+l10+r+r)(s10+s10–r)= 12 = 1 (2R+2r)(s10+l10)=(R+r)·R 12 3 ossia: il quadrato che ha per lato l'apotema dell'icosae- dro è eguale alla terza parte del rettangolo che ha per lati il raggio della sfera circoscritta, e questo raggio R au- mentato del raggio r della circonferenza circoscritta al pentagono. La relazione si può anche scrivere sotto la forma Rr = 3a2–R2.53 53 Dal triangolo ON5D si ha invece: l2 l2 a2=R2 –(2 5 √3)=R2 – 5 323 122    Si può riconoscere infine che il piano diametrale pas- sante per i vertici D, B2, E sega l'icosaedro secondo un esagono che ha due lati opposti eguali allo spigolo del- l'icosaedro e gli altri quattro eguali all'altezza della fac- cia, e si può dimostrare geometricamente che questo esagono ha la stessa estensione del rettangolo che ha per lati s10 e R + a5. Tagliando invece l'icosaedro con un piano diametrale perpendicolare al diametro DE si ottiene per sezione un decagono regolare che ha il lato eguale alla metà dello spigolo dell'icosaedro ed è inscritto in una circonferenza di raggio R', da cui risulta che la metà di l5 è la parte au- rea di R'; che risulta anche dalla formula: R '= 12 s5 . 7. Costruzione del dodecaedro regolare.  e e quindi e Si ha pure: ossia Si ha inoltre geometricamente dalla figura: l 25= 2R · l 10 ; s52=2R · s10 123 3a2=3R2 –l25 3 R 2 – l 25 = R r + R 2 2R2=l52+Rr; l52=R(2R–r) s 52 + l 52 = 4 R 2 l2 a2 +(5)=R2 10 2  Consideriamo nella fig. 36 la piramide pentagonale di vertice C3 e base DC2B2B3C4. I punti medi K1, K2, K3, K4, K5 dei lati della base sono alla loro volta vertici di un pentagono regolare di centro F che è base di un'altra piramide di vertice C3 e spigoli C3K1 = C3K2 = C3K3 = C3K4 = C3K5. I centri N1, N2, N3, N4,N5 delle facce late- rali della prima piramide stanno sugli spigoli della se- conda e si ha: C N =C N =C N =C N =C N =2C K 3 1 ̂3 2 3̂3 3 4 3 5 3 3 1 Siccome K1 C3 K2=K2C3 K3=... i triangoli isosceli N1C3N2, N2C3N3... sono eguali per il primo criterio e quindi N1N2 = N2N3 = N3N4 = N4N5 = N5N1. Siccome il triangolo C3FK1 è rettangolo in F ed N1K1 è un terzo dell'ipotenusa, la perpendicolare al cateto C3F condotta da N1 incontra il cateto C3F in un punto L tale che FL è un terzo di C3F. Lo stesso accade per gli altri punti N2, N3, N4, N5; e quindi N1N2N3N4N5 è un pentagono piano equilatero in- scritto nella circonferenza di centro L e raggio LN1; os- sia è un pentagono piano che ha per vertici i centri delle facce dell'icosaedro congruenti in C3. Analogamente prendendo i centri delle facce laterali della piramide di vertice D e base C1C2C3C4C5, essi sono i vertici di un altro pentagono piano regolare ed eguale al precedente ed avente in comune con esso il lato N5N1; e prendendo i centri delle facce laterali della piramide di vertice C4 e base DC3B3B4C5 si ottiene un terzo pentago- 124  no piano regolare eguale ai precedenti ed avente un lato in comune con il primo ed uno in comune con il secon- do in modo che il vertice N1 è comune ai tre pentagoni. Operando in modo consimile con ciascuno dei dodici vertici dell'icosaedro si ottiene un dodecaedro che ha per facce dei pentagoni regolari eguali a N1N2N3N4N5, e per angoloidi dei triedri a facce eguali. Il vertice C3 ed il centro L della base sono equidistanti dai vertici della base N1N2N3N4N5 e quindi anche il cen- tro O della sfera circoscritta all'icosaedro è equidistante da tutti i vertici dei pentagoni come N1N2N3N4N5; quindi il dodecaedro che abbiamo costruito è inscritto nella sfe- ra di raggio ON1. Preso allora il punto medio M dello spigolo del dode- caedro comune alle facce ̂adiacenti di centri L1 e L2 ed unitolo con essi, l'angolo L1 ML2 è la sezione normale di tale diedro; ed è angolo al vertice di un triangolo iso- scele che ha per lati gli apotemi delle facce L1M e L2M e per base il segmento L1L2 che unisce i centri delle due facce. Ma OL1 ed OL2 sono eguali perché cateti dei triangoli rettangoli ON1L1, ON1L2 aventi l'ipotenusa ON1 in comune ed i cateti L1N1, L2N1 eguali; quindi il segmento L1L2 è base di un triangolo isoscele che ha per lati OL1 = OL2 e l'angolo al vertice in comune con il triangolo isoscele che ha per lati i raggi OD, OC4 della sfera e per base lo spigolo DC4 dell'icosaedro. Tali ele- menti restano dunque gli stessi se si prende la sezione normale di un altro diedro del dodecaedro; quindi questi 125  diedri son tutti eguali, e possiamo concludere che il do- decaedro costruito è regolare, è inscritto nella sfera di raggio ON1 ed ha per apotema OL1. Vedremo più oltre la costruzione del dodecaedro di dato spigolo. 8. Inscrizione del dodecaedro regolare nella sfera di raggio R. Sia ABCD... UV (fig. 37) un dodecaedro regolare. In esso si può inscrivere un cubo avente per vertici dei vertici del dodecaedro e per spigoli delle diagonali delle facce del dodecaedro. Preso infatti il vertice A, e nelle tre facce congruenti in A i vertici G, C, P; e presi i quattro vertici U, M, S, K, del dodecaedro ad essi diametralmente opposti, que- sti otto punti sono vertici di una figura i cui spigoli sono tutti eguali alle diagonali delle facce del dodecaedro, os- sia al lato del pentalfa inscritto nella faccia. Dimostria- mo che i triedri aventi per vertici i vertici e per spigoli gli spigoli di questa figura ivi concorrenti sono trirettan- goli; basterà dimostrare che ad esempio il triedo di ver- tice A è trirettangolo, e per esempio che AG è perpendi- colare ad AC. Tornando per un momento alla figura 26, osserviamo che se dai vertici C ed I del pentagono regolare ACEGI si abbassano le perpendicolari CP, IQ al lato EG i trian- goli rettangoli CPE, IQG, avendo l'ipotenusa ed un an- golo acuto eguali sono eguali e si ha CP = IQ; quindi il quadrilatero PQIC è per costruzione un rettangolo di 126  base PQ ed altezza CP = QI. Esso si ottiene anche ripor- tando a partire dal punto medio M di EG i due segmenti MP=MQ=12 CI, ed unendo P con C e Q con I. Preso allora (fig. 37) il punto medio M' dello spigolo HB del dodecaedro, e presi M'P'=M'Q'=12 AG=12 CK, i quadrilateri GP'Q'A, KP'Q'C sono dei rettangoli; e perciò la P'Q' è perpendi- 127   colare alle Q'A e Q'C ed al loro piano AQ'C, e così pure è perpendicolare alle P'G e P'K ed al loro piano GP'K. Il piano ABH che passa per P'Q' risulta perpendicolare al piano AQ'C ed al piano GP'K, e la retta GA di questo piano essendo perpendicolare alla intersezione AQ', come pure alla GP', è perpendicolare anche al piano AQ'C come pure al piano GP'K; e quindi è perpendico- lare alla AC ed alla GK. Quindi il quadrilatero AGKC, che ha tutti i lati eguali ha due angoli retti; e siccome lo stesso discorso si ripete per la KC e la KC è perpendico- lare al piano Q'CA in un punto C della sua intersezione AC con il piano GAC ad esso perpendicolare la CK sta nel piano GAC, e GACK è un quadrato. Analogamente si dimostra che sono dei quadrati le altre due facce ACMP e AGSP. Operando in simil modo coi triedri di vertici G, S, P, K, U, M, C, gli spigoli GK, SU, PM, AC si dimostrano perpendicolari al piano del quadrato AGSP ed eguali tra loro ed al lato AP di questo quadrato; quindi AGSPCKUM è effettivamente un cubo, inscritto nel do- decaedro, e tutti e due sono inscritti nella sfera che ha per diametro la diagonale del cubo. Dalla fig. 36 risulta che i centri di due facce opposte del dodecaedro come L1 e L3 stanno sul diametro DE e sono equidistanti dal centro O della sfera circoscritta al dodecaedro; perciò la congiungente i centri di due facce opposte del dodecaedro è perpendicolare ad esse. Con- giunti dunque nella fig. 37 i centri O1 ed O2, di due facce opposte la O1O2 passi per il centro O ed è O1O – O2O 128  l'apotema del dodecaedro. Esso è cateto del triangolo OAO1, avente per ipotenusa il raggio OA = R e per altro cateto il raggio O1A = r della circonferenza circoscritta al pentagono AEPQF. Questo raggio non è che l'altezza del triangolo rettangolo che ha per cateti l5 ed s5 ossia AE ed AP. Ma AP è lo spigolo del cubo inscritto e sap- piamo che il triplo del quadrato dello spigolo è eguale al quadrato della diagonale; abbiamo quindi: 3(AP)2=2R2 ossia [14] 3s52=4R2 e siccome il quadrato che ha per lato il lato del triangolo equilatero inscritto nella circonferenza di raggio R è il triplo del quadrato del raggio, mentre il quadrato di s5 è i quattro terzi di questo quadrato, ne segue che il quadrato di s5 è i quattro noni del quadrato del lato del triangolo equilatero inscritto, e perciò lo spigolo del cubo inscrit- to, che è anche il lato del pentalfa inscritto nella faccia del dodecaedro, è i due terzi del lato del triangolo rego- lare inscritto nella circonferenza di raggio R. Perciò per costruire il dodecaedro regolare inscritto nella sfera di raggio OA = R si può procedere così: 1o – Si inscrive il triangolo equilatero nella circonferenza di raggio R, e si prende i due terzi del lato. Si ha così lo spigolo del cubo inscritto ed il lato AP = s5 del pentalfa inscritto nella faccia. 2o – Si determina la parte aurea di questo spigolo e si ha così AE = l5. 3o – Si costruisce il triangolo rettangolo di cateti s5 ed l5; l'altezza di questo 129  triangolo rettangolo è il raggio r della circonferenza circoscritta alla faccia del dodecaedro. 4o – Si costruisce il triangolo rettangolo di ipotenusa R e cateto r, l'altro cateto è l'apotema OO1 del dodecaedro. 5o – Preso un segmento O1O2 eguale al doppio dell'apotema si conducono per O1 ed O2 i piani perpendicolari ad esso, si descrivono in questi piani le circonferenze di raggio r e centri O1 ed O2 e si inscrivono in esse i pentagoni regolari AEPQF, UVKIL dove U è simmetrico di A rispetto ad O punto medio di O1O2. I punti A, P, K, U sono quattro vertici del cubo inscritto. 6o – Si conducono per A e per P i piani perpendicolari ad AP. 7o – Nel primo di questi piani si costruisce il quadrato che ha per diagonale AK e nel secondo il quadrato PSUM che ha per diagonale PU; si hanno così gli altri quattro vertici del cubo. 8o – Nel piano AFG si completa il pentagono regolare AFGHB, e poi nel piano EAB si completa il pentagono ABCDE, e poi HBCIK ecc. 9. Relazioni tra gli elementi del dodecaedro ed altra soluzione del problema della sua inscrizione nella sfera di raggio R. Nella figura 26 i triangoli AVO, CΘO, DOZ, EVO... sono isosceli con il lato eguale al raggio OA della cir- conferenza e la base eguale al lato del decagono regola- re inscritto, quindi la circonferenza di centro O e raggio eguale al lato AB del decagono passa per Θ, V, Y, Z...; il suo raggio è parte aurea di quello della circonferenza di raggio OA. I triangoli isosceli CΘY, OCA sono eguali 130  perché hanno il lato eguale e l'angolo al vertice eguale, quindi il lato ΘY del pentalfa inscritto nella minore è eguale al lato del pentagono inscritto nella maggiore ed è quindi parte aurea del lato del pentalfa inscritto nella maggiore: e quindi ΘV lato del pentagono inscritto nella minore è parte aurea del lato del pentagono inscritto nel- la maggiore. I triangoli isosceli BCV e OYZ sono eguali perché hanno il lato eguale e l'angolo al vertice eguale e quindi il lato del decagono inscritto nella minore è parte aurea del lato del decagono inscritto nella maggiore; ed il lato del decalfa inscritto nella minore, essendo eguale al raggio della minore aumentato del lato del decagono inscritto, è eguale al raggio della maggiore. Viceversa, data la circonferenza di centro O e raggio OV e descritta la circonferenza concentrica che ha per raggio il lato VZ del decalfa si ottiene la circonferenza di raggio OC e sussistono le relazioni ora vedute, ed in particolare il lato del pentagono regolare inscritto nella maggiore è eguale al lato del pentalfa inscritto nella mi- nore. Consideriamo ora le facce opposte (fig. 37) AEPQF, KILUV del dodecaedro, e siano O1 ed O2 i centri delle rispettive circonferenze circoscritte ed r il loro raggio O1A = O2K. Sappiamo che O1O2 è perpendicolare alle due facce e quindi anche il piano O1AO2 è perpendicolare a queste due facce; esso coincide con il piano DEN5 della figura 36, passa per il punto K6 di questa figura ed è perpendi- colare allo spigolo C2C3 perché anche K6Q è perpendi- 131  colare a questo spigolo, e quindi taglia il piano della faccia C2C3B2 secondo la K6B2 perpendicolare allo spi- golo C2C3, e passa quindi per N4 ossia per il vertice B della figura 37; e siccome questo piano O1AO2 passa an- che per il vertice U opposto al vertice A interseca la fac- cia inferiore KILUV secondo la O2U e quindi lo spigolo KI nel suo punto medio B1; quindi il pentagono O1AB- B1O2 è un pentagono piano. Analogamente è un penta- gono piano O1O2UTT1; ed il piano O1OA sega il dode- caedro secondo l'esagono ABB1UTT1. Analogamente è piano il pentagono O1O2D1DE ed i due pentagoni hanno i lati ordinatamente eguali, gli angoli di vertice O1 ed O2 retti, gli angoli di vertice B1 e D1 eguali perché sezioni normali del dodecaedro; e si riconosce facilmente che anche gli angoli di vertice A e B del primo pentagono sono rispettivamente eguali a quelli di vertice E e D del secondo. I due pentagoni O1ABB1O2, O1EDD1O2 sono dunque eguali; perciò conducendo da B e D le perpendi- colari al lato comune O1O2 i loro piedi coincidono in un punto Θ e ΘB = ΘD. Così pure ΘN, ΘS, ΘG risultano eguali a ΘB e perpendicolari ad O1O2,; insomma Θ è il centro di una circonferenza di raggio ΘB situata in un piano perpendicolare a O1O2, nella quale è inscritto il pentagono piano regolare BDNSG. Analogamente conducendo da C la perpendicolare Cη ad O1O2 si dimostra che η è centro di una circonferenza (situata in un piano perpendicolare ad O1O2) nella quale è inscritto il pentagono piano regolare CMTRH. 132  Siccome AE spigolo del dodecaedro è parte aurea di AP e quindi di BD, troviamo che il lato del pentagono inscritto nella circonferenza di raggio r è parte aurea del lato del pentagono inscritto in quella di centro Θ e rag- gio ΘB; ne segue che il raggio r è parte aurea del raggio ΘB ossia, che questo raggio è eguale al lato s10 del de- calfa inscritto nella faccia del dodecaedro. Preso ora su BΘ il segmento Θλ, eguale ad r il seg- mento Bλ, sarà eguale ad l10, e poiché O1AλΘ è un ret- tangolo per costruzione il triangolo ABλ è rettangolo. La sua ipotenusa è l5, il cateto Bλ, è l10, l'altro cateto è quindi eguale ad r. Il rettangolo O1AλΘ è dunque un quadrato ed i piani delle due circonferenze di centri O1 e Θ hanno una distanza eguale ad r. D'altra parte essendo l'apotema O2B1 della faccia eguale alla metà di BΘ = s10, B1 è il punto medio del segmento O2μ preso eguale a s10, e quindi BΘO2μ è un rettangolo, e BμB1 è un triangolo rettangolo di cui l'ipo- tenusaèegualeadr+a5,ilcatetoμB1 èegualeaa5 e quindi: ma perciò (Bμ)2 = (r+a5)2–a25=r2+2ra5 r=s10 –l10 ed a5=s10 e siccome 10 10 10 10 10 10 r2=s10 ·l10 133 2 (Bμ)2 = r2+s (s –l )=r2+s2 –l s  si ottiene quindi ossia (Bμ)2 = s2 10 Bμ = s10 Bμ=O2Θ=BΘ = s10. Quindi anche BμO2Θ è un quadrato; e la distanza tra il piano dei vertici BDNSG e la faccia inferiore KILUV è eguale ad s10. Analogamente preso il punto η sopra O1O2 tale che O2η = O1Θ = r esso è il centro della circonferenza di raggio s10 passante per CMTRH. NeseguecheΘη=ΘO2 –O2η=s10 –r=l10.Dunque la distanza tra i piani dei vertici BDNSG e CMTRH è eguale a l10, lato del decagono regolare inscritto nella faccia del dodecaedro. La distanza tra le due facce opposte del dodecaedro AEPQF e KILUV è eguale a 2a; e si ha: [15] 2a=2r+l10=s10+r ed a = 2 r + l 10 = r + s 10 = r + a 5 . 222 Dai triangoli rettangoli AO1η e BΘO1 che hanno per cateti r ed s10 si trae che le ipotenuse Aη e BO1 sono eguali a s5. Siccome poi r è la parte aurea di s10, s10 a sua volta è la parte aurea di O1O2; dunque la distanza 2a tra le due facce opposte del dodecaedro è divisa dai piani degli al- 134    triverticiinduepuntiΘedηtalicheηO1 =O2Θèla parte aurea di 2a, la parte rimanente O1Θ = O2η è eguale alla parte aurea r di s10 e la parte intermedia è la parte aurea di r ossia è il lato del decagono inscritto nella fac- cia del dodecaedro. Riassumendo, le due circonferenze di centri Θ ed η hanno il raggio eguale al doppio dell'apotema della fac- cia del dodecaedro, hanno dalle due facce ad esse pros- sime distanza eguale al raggio della faccia e dalle altre due facce distanza eguale al loro raggio ossia al lato del decalfa inscritto nella faccia del dodecaedro. Nella figura 28 è disegnata nel suo piano la sezione ABB1 UTT1 del dodecaedro ed è costituita dall'esagono PFQP'F'Q'. I punti N e D corrispondono ai centri O1 e O2 delle facce della figura 37. I lati PF e P'F' sono quelli eguali allo spigolo l5 del dodecaedro. BD e PN sono eguali al raggio r della fac- cia; O punto medio di ND è il centro della sfera ed OB = OF = OP è il raggio R della sfera circoscritta, DH è eguale ad s10. Completando il quadrato ADHF ed il ret- tangolo ADNV, risulta AB eguale ad l10. Preso sopra PB il punto K tale che PK = s10 sarà BK = r; condotta per K la perpendicolare a PD essa taglia AV in C e DN in E tali che AC = DE = r e BC = AK = l5: preso poi KL = BM = s10 i triangoli rettangoli KBL, KPNsonoegualiequindiKN=BL=s e ̂̂̂̂ 5 PKN=KLB=ACB=AKB quindi i punti A, K, N sono allineati, e la diagonale AN è divisa da K in due 135  parti, AK eguale ad l5 e KN eguale a s5, dimodoché AN è eguale a l5 + s5. AD è eguale ad s10; preso allora il pun- to medio Q di AD sarà DQ l'apotema a5 della faccia ed OQ il raggio R' della sfera tangente agli spigoli del do- decaedro nei loro punti medii. E siccome OQ è la metà di AN si ha la semplice relazione: [16] R'=l5+s5 2 Nella figura 28 FN e CD sono eguali ad s5. Dalla fi- gura risulta che il rettangolo BDNP è eguale alla somma del rettangolo BDHG e del quadrato GHNP e quindi si ha:  2a·r=r·s +r2=r·s +s ·l =s (r+l )=s2 Dunque [17] 10 10 10 10 10 10 10 2a·r=s2 10 od anche [18] a·r=2a25 Nella figura 28 la diagonale AN, e gli assi di AD e DN si incontrano nel punto medio di AN ed il rettangolo di base AQ = a ed altezza a è diviso dalle BP e CE in modo che il rettangolo di base AB = l10 ed altezza a è eguale in estensione al rettangolo di base AQ = a5 ed al- tezza r. Si ha dunque: [19] a·l10=r·a5 od anche [19'] 2a·l10=r·s10 Dai triangoli OBD ed OQD della fig. 28 si trae: 136  [20] R2=a2+r2 [21] R 2=a 2+ a25 e da queste od anche dalla figura l2 [22] R2=R2+r2 – a25 R '2+(25 ) L'esagono ABB1UTT1 sezione del dodecaedro è egua- le al rettangolo di lati 2s10 e 2a, diminuito dei rettangoli di lati r ed l10 e a5 ed s10. Si ha dunque: 2 s10 · 2 a – rl10 – a5 s10=4 a5 · 2 a – r (s10 – r) – 2 a52 = 4a5(s10+r)–r·s10+r2–2a25=8a52+4a5r–2a5r+r2–2a52 = 6a25+2a5(s10–l10)+r2=6a52+4a25–s10l10+r2=10a25 Dunque la sezione fatta nel dodecaedro con il piano passante per i centri di due facce opposte ed il vertice di una di queste facce è il decuplo del quadrato che ha per lato l'apotema della faccia. Nell'esagono PFQP'F'Q' le diagonali PP' ed FF' sono eguali a 2R e siccome si bisecano in O ne segue che PFP'F' è un rettangolo; e quindi i triangoli isosceli PQ'F' e FQP' che hanno il lato eguale hanno eguali anche le basi PF' ed FP' e sono eguali. Queste basi sono eguali a 2R'. ̂̂ Gli angoli Q'PF' e QFP' alla base dei due trian- goli isosceli precedenti sono eguali; e quindi sono eguali anche gli angoli ̂Q ' PF e ^PFQ ; quindi i triangoli 137  PFQ' e PFQ sono eguali per il primo criterio e perciò le due diagonali dell'esagono PQ e FQ' sono eguali. Que- st'ultima è ipotenusa del triangolo FQ'T' e perciò il qua- drato costruito sopra di essa è dato da 9a25+r2 : e se ne possono trovare anche altre espressioni. Dopo avere trovato l'espressione delle tre diagonali dell'esagono PFQP'F'Q' si può trovare che la sua area è anche espressa da R'(2l5 +s5) od anche da R'(2R' + l5), che si possono dimostrare identicamente eguali a 1 0 a 25 . In base alle proprietà che abbiamo trovato si può dare la seguente soluzione al problema di inscrivere il dode- caedro regolare nella sfera di raggio dato, soluzione pre- feribile alla prima e che presumiamo collimi con quella data dai pitagorici: 1o – Dato R si determina come nel- l'altro procedimento lo spigolo AP del cubo inscritto che è anche eguale ad s5, lato del pentalfa inscritto nella fac- cia del dodecaedro. 2o – Si determina la parte aurea di questo spigolo del cubo e si ha in essa lo spigolo del do- decaedro. 3o – L'altezza del triangolo rettangolo che ha per cateti s5 ed l5 ossia gli spigoli del cubo e del dode- caedro inscritti è eguale ad r, raggio della circonferenza, circoscritta alla faccia del dodecaedro. 4o – Le proiezio- ni dei cateti di questo triangolo sono l10 e s10, ossia il lato del decagono regolare ed il lato del decalfa inscritti nel- la circonferenza circoscritta alla faccia. 5o – Si prende un segmento Θη = l10 lato del decagono e parte aurea del raggio r, e se ne prendono i prolungamenti ΘO1 = ηO2 = 138  r. Il punto medio O dei segmenti Θη e O1O2 è il centro della sfera inscritta, ed i segmenti OO1 = OO2 = a sono eguali all'apotema del dodecaedro. 6o – Per i punti O1, Θ, η, O2 si conducono i piani perpendicolari ad O1O2; in questi piani si descrivono le circonferenze di centri O1 e O2 eraggiorequelledicentriΘeηeraggios10 =lato del decalfa, e si inscrivono in esse i pentagoni regolari AEPQF, KILUV, BDNSG, CMTRH in modo che i verti- ci A e B stiano in uno stesso piano OO1AB ed i vertici I, C in uno stesso piano OO2IC e che questi due piani for- mino un angolo di 36°. Si hanno così tutti i vertici del dodecaedro. 7o – Si tira AB, ED, PN, QS, FG, IC, LM, UT, VR, KH; e poi si uniscono successivamente i punti B, C, D, M, N, T, S, R, G, H, B ed il dodecaedro è co- struito. Il problema di costruire il dodecaedro circoscritto alla sfera di raggio a, si risolve immediatamente. Basta pren- dere la parte aurea del diametro 2a, e la parte rimanente è r, la differenza tra 2a ed r è s10; e la differenza fra s10 ed r è l10; e ora si prosegue come nel caso precedente. Il problema di costruire il dodecaedro regolare di dato spigolo l5, si risolve costruendo prima (fig. 23) il seg- mento s5 di cui lo spigolo assegnato è la parte aurea; poi costruito il triangolo rettangolo di cateti s5 ed l5, la figu- ra 28 fornisce successivamente r, l10, s10, a, a5, R, ed R'. 139  Ipsicle e prima di lui Aristeo54 han dimostrato che i circoli circoscritti al pentagono del dodecaedro ed alla faccia dell'icosaedro inscritti nella stessa sfera hanno lo stesso raggio. La dimostrazione si può fare così: nella fig. 36 si ha: ON5 – R > OL1. Sugli apotemi OL, OL1, OL2 ... prendo OL' = OL'1 = OL'2 = ... = R. Questi punti sono vertici dell'icosaedro inscritto nella sfera di raggio R. Infatti, 1o – L'L'1 = L'L'2 = L'1L'2 = ... perché basi di triangoli iso- sceli di lato ed angolo al vertice eguale; 2o – Il triangolo equilatero L'L'1L'2 ha il centro sull'asse ON1 equidistante da essi: questo centro X è il piede delle altezze di vertici L', L'1, L'2 dei triangoli eguali ON1L, ON1L'1, ON1L'2; 3o – Il triangolo rettangolo OXL'1 = ON1L1 perché l'ipote- nusa OL'1 = ON1 ed un angolo acuto è in comune; quin- di XL'1 = L1N1; ma XL'1 è il raggio della circonferenza circoscritta alla faccia dell'icosaedro, ed L1N1 è il raggio di quella circoscritta al pentagono del dodecaedro; e quindi la proprietà è dimostrata geometricamente.  54 Cfr. G. LORIA – Le scienze esatte nell'antica Grecia, pagg. 159 e 271. 140  CAPITOLO V IL SIMBOLO DELL'UNIVERSO 1. In relazione ai poliedri regolari e specialmente al dodecaedro regolare dobbiamo ora soffermarci alquanto a considerare le tre medie considerate anche dai pitago- rici, ossia la media aritmetica, la media geometrica e la media armonica. Nicomaco di Gerasa, scrittore del primo secolo dell'e- ra volgare, attesta che Pitagora conosceva le tre propor- zioni aritmetica, geometrica ed armonica; e Giamblico attesta che nella sua scuola si consideravano le tre me- die aritmetica, geometrica ed armonica55. Si ha proporzione aritmetica tra quattro numeri a, b, c, d quando a – b = c – d; la proporzione è continua se b = c; ed in tal caso b è il medio aritmetico o la media aritmetica di a e d e si ha: b=a+d . 2 Se si tratta di tre segmenti in proporzione aritmetica, la definizione è la stessa ed il segmento b semisomma dei due segmenti a e d è la loro media aritmetica. 55Cfr. NICOMACO DI GERASA, ed. Teubner, pag. 122; e JAMBLICHI, Nicomachi Arith. introd., ed. Teubner, pag. 100. Cfr. anche G. LORIA, Le scienze esatte, pag. 36. 141    Si ha proporzione geometrica tra quattro numeri a, b, c, d quando a : b = c : d, e per i segmenti quando il ret- tangolo dei medi è eguale al rettangolo degli estremi. Con questa definizione non vi è bisogno della teoria del- le parallele e della similitudine, non si considera il rap- porto di due segmenti e non si sbatte nella questione della incommensurabilità. Abbiamo veduto inoltre che i pitagorici erano in grado di risolvere il problema dell'ap- plicazione semplice, ossia di costruire il segmento quar- to proporzionale dopo tre segmenti assegnati a, b, c, nel caso in cui il primo segmento era maggiore di uno alme- no degli altri due, sempre s'intende senza bisogno di pa- rallele. Se b è eguale a c, la proporzione è continua e b è il medio geometrico tra a e d; la media geometrica di due segmenti è dunque il lato del quadrato eguale al ret- tangolo degli altri due; ed abbiamo visto che i pitagorici erano sempre in grado, come applicazione del teorema di Pitagora, di costruire tale media geometrica. Quanto alla proporzione armonica e alla media armo- nica, si dirà che quattro numeri a, b, c, d sono in propor- zione armonica quando i loro inversi sono in proporzio- ne aritmetica, ossia quando 1a – 1b = 1c – d1 ; e conse- guentemente b è medio armonico tra a e d quando l'in- verso di b è eguale alla media aritmetica degli inversi degli altri due. Archita in un suo frammento ci ha tramandato le defi- nizioni pitagoriche nel caso della proporzione continua 142  di tre termini; le definizioni antiche coincidono con le moderne nel caso della media aritmetica e della geome- trica, la definizione della media armonica è invece di- versa. Riportiamo il frammento di Archita,56 inserendo per chiarezza gli esempi numerici: «La media è aritmetica quando i tre termini sono in un rapporto analogo di eccedente, vale a dire tali che la quantità di cui il primo sorpassa il secondo è precisa- mente quella di cui il secondo sorpassa il terzo; in que- sta proporzione si trova che il rapporto dei termini più grandi è più piccolo, ed il rapporto dei più piccoli è più grande (esempio: 12, 9 e 6 sono in proporzione aritmeti- ca perché 12 – 9 = 9 – 6; il rapporto dei termini più grandi cioè il rapporto di 12 e di 9 è uguale a 1+13, il rapporto dei più piccoli, cioè di 9 e di 6 è eguale 1+ 12 , ed 13 è minore di 12 )». «Si ha media geometrica, continua Archita, quando il primo termine sta al secondo come il secondo sta al ter- zo, ed in questo caso il rapporto dei più grandi è eguale al rapporto dei più piccoli (esempio: 6 è la media geo- metrica di 9 e 4 perché 9 : 6 = 6 : 4); il medio subcontra- rio che noi [Archita] chiamiamo armonico esiste quando 56 Cfr. H. DIELS, Die Fragmente der Vorsokratiker, ed. Berlin 1912; fr. 2o. Il frammento di Archita è riportato nel testo greco dal Mieli a pag. 251 dell'opera più volte citata. Lo Chaignet (A. Ed. CHAIGNET – Pythagore et la philosophie pythagoricienne, 2a ed., vol. I, pag. 282-83) ne dà la traduzione. 143   il primo termine passa il secondo di una frazione di se stesso, identica alla frazione del terzo di cui il secondo passa il terzo; in questa proporzione il rapporto dei ter- mini più grandi è il più grande ed il rapporto dei più pic- coli il più piccolo (esempio: 8 è la media aritmetica di 12 e di 6, perché 12=8+13 di 12; ed 8=6+13 di 6; il rapporto di 12 ad 8 è eguale a 1+12, quellodi8a6èegualea 1+13, e 12 èmag- giore di 13 )». Prima di Archita (o dei pitagorici?) questa proporzio- ne era chiamata ὑπεναντία tradotto con sub-contraria an- che dal Loria, perché secondo la definizione che abbia- mo riportato, in questo caso succede il contrario che nel primo57. Da questa definizione si può trarre con opera- zioni aritmetiche semplici la definizione moderna. Di- fatti se a, b, c, formano proporzione armonica, ciò signi- fica secondo Archita che a=b+ 1na e b=c+1nc; ;dalle quali si deduce facilmente: n=a:(a–b)=c:(b–c) a(b–c)=c(a–b); ab–ac=ac–bc; 2ac=ab+bc; 57 Cfr. JAMBLICHI, Nicomachi Arith., ed Teubner, pag. 100; e NICOMACO, ed. Teubner, pag. 135. 144 e quindi:   2ac=b(a+c); b=2ac ; 1=1(1+1). a+c b 2 a c Si può anche scrivere: b(a+ c)=a·c 2 Si ha quindi la proporzione numerica: a : a + c = 2 ac : c 2 a+c che, secondo quanto attesta Nicomaco di Gerasa, Pita- gora trasportò da Babilonia in Grecia.58 In questa impor- tantissima proporzione geometrica gli estremi sono due numeri (o grandezze) qualunque, i medii sono ordinata- mente la loro media aritmetica e la loro media armonica. Nel caso di segmenti, dalla penultima relazione risulta la presumibile definizione geometrica della media armo- nica: la media armonica b di due segmenti a e c è l'altez- za di un rettangolo avente per base la media aritmetica dei due segmenti ed eguale al rettangolo che ha per lati i due segmenti, ossia eguale anche al quadrato che ha per lato la media geometrica dei due segmenti. E poiché la media aritmetica di due segmenti a e c è maggiore del più piccolo di questi segmenti, ne segue che dati i due segmenti a e c, costruita geometricamente la loro media aritmetica, per determinare geometrica- mente anche la media armonica bastava risolvere il pro- blema dell'applicazione semplice, in questo caso risolu- 58 La testimonianza è di Giamblico, cfr. G. LORIA, Le scienze esatte ecc., pag. 36. 145       bile sicuramente (anche senza la teoria delle parallele); ed abbiamo così trovato anche la relazione geometrica tra le tre medie. L'esempio di media armonica che abbiamo addotto (8 media armonica tra 12 e 6) fa comprendere il perché Ar- chita od i pitagorici dettero il nome di armonica alla me- dia sub-contraria. Questi numeri infatti esprimono ri- spettivamente le lunghezze della prima, terza e quarta (ed ultima) corda del tetracordo greco (la lira di Orfeo); ossia in termini moderni le lunghezze rispettive delle corde (che a parità di tensione, di diametro ecc.) danno la nota fondamentale, la quinta e l'ottava59; e questo tan- to nella scala pitagorica, quanto anche nella scala natu- rale maggiore e minore. Questo conduce a vedere le relazioni che i pitagorici hanno scoperto (o stabilito) tra le corde del tetracordo, e così pure dell'ottava (chiamata in greco armonia). Ce lo dice, in parte, Filolao in un suo frammento60. Dice Filolao: «L'estensione dell'armonia è una quarta più una quinta [adoperiamo i termini moderni di quarta e quinta per chiarezza]; la quinta è più forte della quarta di nove ottavi». Il che significa: presa una corda, e presa la corda che ne dia il suono primo armonico, ossia la corda che dà l'ottava, ed avute in questo modo le due corde estreme del tetracordo, l'armonia ossia l'ottava si 59 I termini di quarta, quinta ed ottava si trovano già in NICOMACO, ed. Teubner, pag. 122. 60 Cfr. CHAIGNET, Pythagore etc., che riporta il frammento; vol. I, pag. 230. 146   estende mediante l'aggiunta di due corde intermedie che sono la nostra quarta e quinta. Si ha così il tetracordo composto di quattro corde che sono (per noi) ordinata- mente quelle del do, del fa, del sol e del do superiore (la corda intermedia nel doppio tetracordo)61. Considerando le lunghezze di queste corde, invece delle frequenze od altezze dei suoni emessi come oggi si usa, frequenze che sono le inverse delle lunghezze, è noto come Pitagora abbia trovato sperimentalmente le lunghezze di queste corde. Egli trovò che la lunghezza dell'ultima corda era la metà di quella della prima, e che la lunghezza della seconda, cioè del fa era semplicemente la media aritme- tica delle lunghezze di queste due corde estreme. Quan- to alla corda del sol, il cui suono dà all'orecchio la sen- sazione di un intervallo rispetto al do inferiore eguale 61 Questo tetracordo non è altro che la lira di Orfeo, strumento con il quale si accompagnava la recitazione ed anche il canto. Os- serva A. TACCHINARDI nella sua Acustica musicale (1912, Hoepli, pag. 175), che è «notevole che il tetracordo contiene gli intervalli più caratteristici della voce nella declamazione. Infatti, interro- gando, la voce sale di una quarta; rinforzando, cresce ancora di un grado; ed infine, concludendo, ridiscende di una quinta». Occorre anche tener presente che «l'accento dell'indo-europeo era un ac- cento di altezza; la vocale tonica era caratterizzata, non da un rin- forzo della voce, come in tedesco ed in inglese, ma da una eleva- zione. Il «tono» greco antico consisteva in una elevazione della voce, la vocale tonica era una vocale più acuta delle vocali atone; l'intervallo è dato da Dionigi di Alicarnasso come un intervallo di una quinta» (A. MEILLET, Aperçu d'une histoire de la langue grec- que, Paris 1912, pag. 22; vedi anche pag. 296). 147   all'intervallo del do superiore a quello del fa, aveva una lunghezza tale che le quattro lunghezze nel loro ordine formavano una proporzione geometrica. Queste lun- ghezze sono infatti espresse rispettivamente da 1, 34 , 23 , 12 ; od in numeri interi, prendendo eguale a 12 la lunghezza della prima corda, sono espresse dai nume- ri 12, 9, 8, 6; ed essendo 9 maggiore di 6 la lunghezza della corda del sol si poteva sempre determinare con il metodo dell'applicazione semplice. La lunghezza della terza corda è dunque 8, ossia la media sub-contraria di 12 e di 6; ed ecco perché Archita dà il nome di armonica a questa media. In conclusione le quattro corde del tetracordo hanno lunghezze che si stabiliscono semplicemente così: l'ulti- ma corda è lunga la metà della prima, la seconda ha per lunghezza la semi-somma delle lunghezze delle corde estreme; e la terza corda ha per lunghezza la media ar- monica delle lunghezze delle corde estreme. Tutte que- ste lunghezze si costruiscono geometricamente. Se inve- ce delle lunghezze si prendessero le frequenze si trove- rebbe che la quinta ha per frequenza la media aritmetica delle frequenze delle corde estreme, e la quarta la media armonica62. 62 In molti testi di fisica e di matematica si trova detto che la media armonica deve il suo nome al fatto che le tre note dell'ac- cordo maggiore do, mi, sol formano una progressione armonica in cui la lunghezza della corda del mi è la media armonica delle lun- ghezze delle altre due. Quest'affermazione è errata, quantunque 148   2. Vediamo ora quali medie aritmetiche, geometriche ed armoniche si presentino considerando gli elementi dei poliedri regolari. Per il cubo la cosa è immediata. Il cubo ha 12 spigoli, 8 vertici e 6 facce; sono proprio i numeri che danno le lunghezze della prima, della terza e dell'ultima corda del sia vero che nella scala naturale la lunghezza della corda del mi sia la media armonica delle lunghezze del do e del sol. Ma ciò non accade nella scala pitagorica. Nella scala naturale gli intervalli sono basati sopra la legge dei rapporti semplici, e la media armonica delle lunghezze 1, 23 del do e del sol è 45 = lunghezza del mi; come quella del re = 89 è la media armonica di quelle del do e del mi. La scala pitagorica di Filolao, invece, si impernia sul tetracordo; in esso la lunghezza della terza corda (sol) è la media armonica delle lunghezze delle corde estreme; la sua elevazione rispetto alla prima corda è la stessa di quella dell'ultima corda rispetto alla seconda, ed è la stessa elevazione che nel greco parlato si verificava secondo Dio- nigi di Alicarnasso per la vocale su cui cadeva l'accento tonico. E la denominazione di media armonica introdotta da Archita deriva dalla proprietà della corda del sol nel tetracordo greco, e non dal- la proprietà del mi nell'accordo maggiore della scala naturale, al- lora inesistente. Filolao ci dice come venivano stabiliti gli intervalli nella scala pitagorica. Si prendeva l'intervallo 23 : 34 =89 tra le due corde medie del tetracordo (sol e fa); e con esso, partendo dal do e dal sol si determinavano le lunghezze delle altre corde. Si ottenevano cosìlelunghezze:do=1,re= 8, mi= 64, fa= 3, sol= 9 81 4 149   tetracordo. Inoltre 8 è il primo cubo, è il cubo del primo numero dopo l'unità. Per questa ragione Filolao chiama il cubo armonia geometrica.63 I numeri dei suoi elementi presentano la stessa relazione che presentano le tre cor- de prima, terza e quarta del tetracordo. La stessa cosa, naturalmente potrebbe dirsi per l'ot- taedro regolare che ha 12 spigoli, 8 facce e 6 vertici. Nell'icosaedro regolare, indicando con R il raggio della sfera circoscritta, con r quello della circonferenza circoscritta alla base pentagonale di ogni angoloide e con l10 e s10 i lati del decagono regolare e del decalfa in 2 , la = 16 . Nella scala naturale, invece, la lunghezza del 3 27 mi è 4=64 con una differenza di circa 1 dalla lunghezza 5 80 100 del mi pitagorico. Nella scala pitagorica, quindi, il mi non è la media armonica tra il do ed il sol. Ed è invece la terza corda del tetracordo (la quinta della nostra ottava) che per le sue proprietà suggerisce ad Archita il termine di media armonica per designare la media aritmetica delle inverse. Così, e soltanto così, si può comprendere l'importanza che i pitagorici dovevano attribuire a questa media armonica, che con identica legge matematica si pre- sentava nella musica, nella lingua, e nel dodecaedro, simbolo del- l'universo. Naturalmente quest'errore si ripresenta nei testi di filo- sofia. Il Robin, p.e., (LÉON ROBIN, La pensée grecque, Paris 1923, pag. 75) prende per le quattro corde della lira la bassa, la terza, la media e la alta rappresentate (dice lui) dai numeri interi 6, 8, 9, 12; e commette così il doppio errore di sostituire la terza alla quarta, e di invertire l'ordine delle lunghezze delle corde. 63 Cfr. NICOMACO, ed. Teubner, pag. 125. 150   essa inscritti, abbiamo trovato che: s10 + l10 = 2R. La me- dia aritmetica tra s10 e l10 è dunque R, mentre per la [9] la media geometrica è r. Si può dunque costruire la me- dia armonica; indicandola con M si avrà: (s10+l10)·M=2s10l10 e sostituendo e siccome si ha: M · R = 45 R 2 ed infine M = 45 R Così pure, considerando il raggio R e la somma R + r dei due raggi, abbiamo trovato che la loro media geome- trica è (R + r) · r = 3a2, dove a indica l'apotema dell'ico- saedro. E quindi, indicando con M la media armonica si ha: e poiché si avrà: (2R+r)·M=6a2 2R=s10+l10 2R·M=2r2 r 2 = 45 R 2 2s10·M=6a2; s10·M=3a2 sfera circoscritta all'icosaedro con il raggio della circon- 151 ossia la media armonica tra la somma del raggio della  ferenza circoscritta al pentagono base ed il raggio della sfera, è l'altezza di un rettangolo che ha per base il lato del decalfa inscritto in questa circonferenza ed è eguale al triplo del quadrato che ha per lato l'apotema dell'ico- saedro. Venendo a considerare gli elementi del dodecaedro regolare e della sua faccia, osserviamo innanzi tutto la presenza di due quaterne: la prima costituita dalle di- stanze 2a, s10, r, l10 tra i piani di due facce opposte, tra i piani contenenti gli altri vertici dalle due facce, e tra loro; la seconda dal lato del pentalfa e dai segmenti de- terminati sopra di esso dai due lati del pentalfa che lo intersecano, cioè dai segmenti AE = s5, AN1 = EN = l5, AN = EN1, NN, della fig. 26. In ambedue queste quater- ne di segmenti, ognuno di essi è la parte aurea di quello che lo precede. Ora, se indichiamo con a, b, c, d quattro segmenti consecutivi della successione che si ottiene prendendo come segmento consecutivo di un segmento la sua parte aurea, si ha: a=b+c b=c+d e quindi a + d = 2b; dunque: il secondo termine della successione è la media aritmetica degli estremi. Si ha poi: b2=ac; c2=bd bc=(a – c)c=ac – c2=b2 – c2=(b+ c)(b – c)=ad 152 quindi  D'altra parte, indicando con M la media armonica de- gli estremi a, d, essa è tale che: ad=a+d ·M 2 ossia sostituendo, che: bc=b·M dunque essa non è altro che il terzo segmento c. Possia- mo perciò enunciare la proprietà che, se quattro seg- menti sono segmenti consecutivi di una successione tale che ogni segmento è seguito dalla sua parte aurea, acca- de che il secondo segmento ed il terzo sono rispettiva- mente la media aritmetica e la media armonica degli estremi. Esattamente la stessa cosa accade per le lunghezze della seconda e terza corda del tetracordo rispetto alle lunghezze delle corde estreme. Considerando allora la quaterna 2a, s10, r, l10 dei seg- menti determinati sopra la congiungente i vertici di due facce opposte del dodecaedro dai piani delle facce e dai piani contenenti gli altri vertici si ha: 1o – la distanza s10, (ossia il lato del decalfa inscritto nella faccia) è la parte aurea del doppio dell'apotema ed è la media aritmetica tra il doppio dell'apotema ed il lato l10 del decagono in- scritto nella faccia (ossia la distanza tra i piani conte- nenti i vertici intermedi); 2o – La distanza tra uno di questi piani e la faccia più vicina, ossia il raggio r della circonferenza circoscritta alla faccia, è la media armoni- ca tra 2a ed l10. 153   Analogamente il lato l5 del pentagono regolare in- scritto è la parte aurea del lato s5 del pentalfa, ed è la media aritmetica tra il lato del pentalfa ed il lato del pentagono NN1N2N3N4 della fig. 26; mentre il lato AN della punta del pentalfa è la media armonica tra il lato del pentalfa ed il lato del pentagono NN1N2N3N4. Nel dodecaedro la distanza 2a delle facce opposte, e nella faccia il lato del pentalfa, sono così suddivisi in modo da costituire due quaterne di segmenti, tali che i segmenti medii si ottengono dagli estremi prendendone la media aritmetica e quella armonica, esattamente come le due corde medie del tetracordo si ottengono da quelle estreme. Prendendo come segmenti estremi s10 ed r si trova per media aritmetica a [15]; e per la media armonica M si ha: a·M=rs =(s –l )s =s2 –s l 10 10 10 10 10 10 10 e per la [9] a·M=s2 –r2=(s +r)(s –r)=2al 10 10 10 10 ed infine M = 2l10 Così pure la media aritmetica tra s5 ed l5 è R' [16], e la media armonica è data da 2 (s5 – l5), che equivale a 4 (s5 – R') ed a 4 (R' – l5), ed è il doppio del lato AN della punta del pentalfa. In queste due quaterne il quarto segmento è la parte aurea del primo, ed i due segmenti intermedi la media aritmetica e la media armonica degli estremi. Si ha infine, indicando con M la media armonica di 2a ed s10: 154  (2a+s )·M=4a·s =2(s +r)·s =2s2 +2s ·r 10 10 10 10 10 10 e per la [17] (2a+s10)·M=4ar+2s10 ·r=2r·(2a+s10) e quindi la media armonica tra 2a ed s10 è eguale al dia- metro della circonferenza circoscritta alla faccia. L'esistenza di queste medie armoniche, e di queste specie di tetracordi costituiti dagli elementi del dodecae- dro e della sua faccia non deve esser sfuggita ai pitago- rici (almeno a quelli posteriori), e specialmente il tetra- cordo formato dagli elementi 2a, s10, r ed l10 deve avere costituito ai loro occhi una conferma significativa delle ragioni simboliche che facevano del dodecaedro regola- re il simbolo geometrico dell'universo; diciamo confer- ma in quanto questa corrispondenza tra il dodecaedro e l'universo si basa sopra altre ragioni ancora. 3. I cinque poliedri regolari erano chiamati figure co- smiche perché erano considerati come simboli dei quat- tro elementi e dell'universo. II dodecaedro era il simbolo dell'universo. Se vogliamo vederne il perché non vi è che da leggere alcune pagine del «Timeo» di Platone. Riassumiamo servendoci della versione dell'Acri64. Ti- meo osserva che «ogni specie di corpo ha profondità ogni profondità deve avere il piano, e un diritto piano è fatto di triangoli», in altri termini ogni superficie piana poligonale è composta di triangoli e corrispondentemen- 64 PLATONE, I dialoghi, volgarizzati da FRANCESCO ACRI, Milano 1915, vol. III, pag. 142-45. 155   te ogni poliedro si decompone in tetraedri: dimodoché il piano corrisponde al numero tre dei vertici determinanti il triangolo ed il quattro al numero dei vertici che deter- minano il tetraedro. Il due, come è noto, corrisponde a una retta che è individuata da due punti. Il punto, la ret- ta, il piano o triangolo ed il tetraedro sono gli elementi della geometria, come i numeri: uno, due, tre e quattro sono i numeri il cui insieme dà l'intera decade. Per il fat- to che ogni poligono è composto di triangoli, i pitagorici dicevano che il triangolo è il principio della generazio- ne65. «I triangoli, prosegue Timeo, nascono poi da due spe- cie di triangoli, il triangolo rettangolo isoscele ed il triangolo rettangolo scaleno. Questi vengono posti come principii del fuoco e degli altri corpi [elementi]; e con essi si compongono i quattro corpi [i quattro elementi, ossia le superfici dei poliedri simboli dei quattro ele- menti]».66 Siccome di triangoli rettangoli scaleni ve ne sono in- numerevoli (distinti per la forma), Timeo sceglie quello «bellissimo» avente le seguenti proprietà: 1o – con due di essi si compone un triangolo equilatero; 2o – l'ipote- nusa doppia del cateto minore; 3o – il quadrato del cate- to maggiore è triplo di quello del minore. Con sei di questi triangoli si forma un triangolo equilatero (o vice- 65 Cfr. PROCLO, ed. Teubner, pag. 166, 15. Per altre fonti cfr. lo CHAIGNET, vol. II, pag. III. 66 Quanto si trova entro le parentesi è stato aggiunto da noi per chiarimento. 156   versa, preso un triangolo equilatero i diametri della cir- conferenza circoscritta passanti per i suoi vertici lo de- compongono in sei di tali triangoli), e con quattro di questi triangoli equilateri si ottiene il tetraedro regolare, «per mezzo del quale può essere compartita una sfera in parti simili [di forma] ed eguali [di volume] in numero di ventiquattro». Con otto di tali triangoli equilateri si ottiene l'ottaedro (composto dunque di 48 di tali triango- li); il terzo corpo, l'icosaedro, ha venti facce triangolari ed equilatere, e quindi due volte sessanta di tali triangoli elementari. Altri poliedri regolari con facce triangolari non vi sono67. Con il triangolo rettangolo isoscele si ge- nera il cubo; perché quattro triangoli isosceli formano un quadrato (od anche, il quadrato è diviso dai diametri passanti per i vertici in quattro triangoli rettangoli iso- sceli), e con sei quadrati si forma il cubo che consta così di ventiquattro triangoli rettangoli isosceli. Rimane così, dice Timeo, ancora una forma di composizione che è la quinta, «di quella si fu giovato Iddio per lo disegno del- l'universo». 67 Timeo sembra proprio sicuro del fatto. Il Mieli (pag. 262 della sua opera) esclude assolutamente che i pitagorici fossero ar- rivati a riconoscere la impossibilità dell'esistenza di sei poliedri regolari, e riporta in nota, non dice se a sostegno di questa sua esclusione ma così pare, la dimostrazione di Euclide (XIII, 18) nel suo testo greco. A noi sembra che i pitagorici potevano benis- simo pervenirvi; ad ogni modo è certo che essi conoscevano i cin- que poliedri che effettivamente esistono. 157   A questo punto Platone fa tacere Timeo, forse per ri- serva68 forse perché nel caso del dodecaedro vi è qual- che differenza. Ma applicando il medesimo metodo di decomposizione in triangoli alle facce del dodecaedro, il pentagono con le sue diagonali dà il pentalfa, e la figura è divisa in trenta triangoli rettangoli dai diametri passan- ti per i dieci vertici del pentalfa. La superficie del dode- caedro viene perciò decomposta in 30×12 = 360 triango- li rettangoli, i quali però questa volta non sono di quelli «bellissimi» cari a Timeo. Ora il numero dodici (che compare anche negli altri poliedri) aveva già per conto suo un carattere sacro ed universale; dodici era il nume- ro delle divisioni zodiacali e dodici in Grecia, Etruria e Roma, era il numero degli Dei consenti, dodici era il nu- mero delle verghe del fascio etrusco e romano, ed un dodecaedro etrusco e molti dodecaedri celtici pervenuti- ci stanno ad indicare l'importanza del numero dodici e del dodecaedro69. Il numero 360 era poi il numero delle divisioni dello zodiaco caldeo, ed il numero dei giorni dell'anno egizio, fatti presumibilmente noti a Pitagora. Per queste ragioni il dodecaedro si presentava natural- mente come il simbolo dell'universo. 68 Il silenzio di Platone in proposito ha dato nell'occhio anche al Robin, il quale dice (LÉON ROBIN, La pensée grecque, Paris, 1923, pag. 273) che «au sujet du cinquième polyèdre regulier, le dodécaedre... Platon est très mysterieux». Il Robin non prospetta alcuna ragione di tanto mistero. 69 Cfr. ARTURO REGHINI, Il fascio littorio, nella rivista «DOCENS» 1934-XIII, numeri 10-11. 158   La cosa è pienamente confermata da quanto dicono due antichi scrittori. Alcinoo70 dopo avere spiegato la natura dei primi quattro poliedri, dice che il quinto ha dodici facce come lo zodiaco ha dodici segni, ed ag- giunge che ogni faccia è composta di cinque triangoli (con il centro della faccia per vertice comune) di cui cia- scuno è composto di altri sei. In totale 360 triangoli. Plutarco71, dopo avere constatato che ognuna delle dodi- ci facce pentagonali del dodecaedro consta di trenta triangoli rettangoli scaleni, aggiunge che questo mostra che il dodecaedro rappresenta tanto lo zodiaco che l'an- no poiché si suddivide nel medesimo numero di parti di essi. E come l'universo contiene in sé e consta dei quattro elementi, fuoco, aria, acqua, terra, così il dodecaedro, inscritto nella sfera come il cosmo nella fascia (il περιέχον), contiene i quattro poliedri regolari che li rap- presentano. Abbiamo veduto infatti come si possa in- scrivere in esso e nella sfera l'esaedro regolare; si può mostrare poi facilmente che l'icosaedro avente per verti- ci i centri delle facce del dodecaedro è regolare; così pure si ottiene un ottaedro regolare prendendone come vertici i centri delle facce del cubo; ed unendo un verti- ce del cubo con quelli opposti delle facce ivi congruenti 70 ALCINOO, De doctrina Platonis, Parigi 1567, cap. II. Cfr. an- che l'opera di H. MARTIN – Études sur le Timée de Platon, Paris 1841, II, 246. 71 PLUTARCO, Questioni platoniche, v. I. Naturalmente si tratta dell'anno egizio quantunque Plutarco si dimentichi di precisarlo. 159   e questi tre fra loro si dimostra che si ottiene un tetrae- dro regolare. La tetrade dei quattro elementi è contenuta nell'uni- verso, il κόσμος, e questo nella fascia, come i quattro poliedri nel quinto e nella sfera circoscritta. Così la te- trade dei punti, delle linee rette, dei piani e dei corpi è contenuta nello spazio e lo costituisce; e quattro punti individuano il poliedro con il minimo numero di facce ed individuano una sfera; così la somma dei primi quat- tro numeri interi dà l'unità e totalità della decade (nume- ro che appartiene tanto ai numeri lineari della serie natu- rale, quanto ai numeri triangolari, quanto ai numeri pira- midali, e questo indipendentemente dal fatto di assume- re il dieci come base del sistema di numerazione); così le quattro note del tetracordo costituiscono l'armonia. Il tetraedro, la tetrade dei quattro elementi, la tetractis dei quattro numeri, ed il tetracordo sono così intimamente legati tra loro, ed ai quattro elementi del dodecaedro 2a, s10, r, l10 di cui ciascuno ha per parte aurea quello che lo segue, e di cui i medii hanno rispetto agli estremi esatta- mente la stessa relazione delle corde medie alle estreme del tetracordo, e che individuano i quattro piani conte- nenti i vertici del dodecaedro. E si comprende perché il catechismo degli Acusmatici identifichi l'oracolo di Del- fi (l'ombelico del mondo) alla tetractis ed all'armonia.72 La parte aurea ha grandissima importanza nella strut- tura del pentalfa ed in quella del dodecaedro simbolo 72 Cfr. LÉON ROBIN, La pensée grecque, Paris 1923, pag. 78. 160   dell'universo. Si comprende quindi anche perché la parte aurea abbia tanta importanza nell'architettura pre-peri- clea73; e molte altre cose vi sarebbero da dire circa l'in- fluenza ed i rapporti tra la geometria pitagorica, la co- smologia, l'architettura e le varie arti.74 La digressione sarebbe però troppo lunga. Ci limitere- mo ad osservare che in questo modo lo sviluppo della geometria pitagorica ha per fine (nei due sensi della pa- rola) la inscrizione del dodecaedro nella sfera ed il rico- noscimento delle sue proprietà, come sappiamo che ac- cadeva effettivamente. Anche Euclide, secondo l'attestazione di Proclo75, pose per scopo finale dei suoi elementi la costruzione delle figure platoniche (poliedri regolari); e forse dal tempo di Pitagora a quello di Euclide questo scopo fina- le si mantenne tradizionalmente lo stesso; ma mentre in Euclide l'intento era puramente geometrico, in Pitagora invece le proprietà del dodecaedro mostravano, se non dimostravano, l'esistenza nel cosmo di quella stessa ar- monia che l'orecchio e l'esperienza scoprivano nelle note del tetracordo. Questo era, riteniamo, il legame profondo che univa la geometria alla cosmologia, e forniva la base e l'impul- 73 M. CANTOR, Vorlesungen über Geschichte der Mathematik, 2a ed. I, 178. 74 Alla considerazione della media armonica si connette, inve- ce, il canone della statuaria di Polycleto; cfr. L. ROBIN, La pensée grecque, pag. 74. 75 Cfr. LORIA, Le scienze esatte ecc., pag. 189. 161   so anche all'ascesi pitagorica; e si comprende ora con una certa precisione, e non più vagamente, come Plato- ne potesse scrivere che «la geometria è un metodo per dirigere l'anima verso l'essere eterno, una scuola prepa- ratoria per una mente scientifica, capace di rivolgere le attività dell'anima verso le cose sovrumane», e che «è perfino impossibile arrivare a una vera fede in Dio se non si conosce la matematica e l'intimo legame di que- st'ultima con la musica»76. Per i pitagorici e per Platone la geometria era dunque una scienza sacra, ossia esote- rica, mentre la geometria euclidea, spezzando tutti i con- tatti e divenendo fine a se stessa, degenerò in una ma- gnifica scienza profana. Di questo particolare legame della cosmologia con la musica, percepibile nel tetracordo formato dagli ele- menti costitutivi del dodecaedro, non è rimasta traccia, ma in questo caso riteniamo che l'assenza di ogni traccia materiale non sia casuale, perché questo doveva costi- tuire uno degli insegnamenti segreti della nostra scuola; ed un indizio del fatto è fornito dalla subita riserva di Timeo nel dialogo platonico omonimo appena giunge a parlare del dodecaedro. Così possiamo presumere di avere fatto un passo ab- bastanza importante per la restituzione della geometria pitagorica, non soltanto dal punto di vista moderno di restituzione dell'edificio geometrico puro, ma dal punto di vista pitagorico inteso a studiare il cosmo per scoprire 76 Cfr. LORIA, Le scienze esatte ecc., pag. 110. 162   le connessioni tra la geometria e le altre scienze e disci- pline. Altre cose si potrebbero aggiungere in proposito, ma anche noi dobbiamo pitagoricamente tener presente: μὴ εἶναι πρὸς πάντας πάντα ῥητά. 163  CAPITOLO VI DIMOSTRAZIONE DEL "POSTULATO" DI EUCLIDE 1. Partendo dal teorema dei due retti, e con l'aiuto del conseguente teorema di Pitagora, ma senza ricorrere alla teoria delle parallele, della similitudine e della propor- zione, è dunque possibile pervenire a tutte le scoperte dei pitagorici menzionate da Proclo, con l'unica restri- zione che il problema dell'applicazione semplice (para- bola) non si può risolvere in tutti i casi, ma solo in un caso speciale, per quanto importante e sufficiente a con- sentire il pieno sviluppo della geometria pitagorica pia- na e solida come la abbiamo potuta restituire sin qui. Ed abbiamo notato il fatto eloquente che per i problemi del- l'applicazione la testimonianza addotta da Proclo non è quella autorevole di Eudemo, ma soltanto quella di co- loro che stavano attorno ad Eudemo. Si obbietterà che questo non basta a dimostrare con assoluta certezza che effettivamente quella che abbiamo ricostituito sia tale e quale la geometria pitagorica. Lo sappiamo perfettamente, ma sappiamo anche che, data la assoluta mancanza di ogni documento diretto, del quale avremmo del resto dovuto tener conto come ele- 164  mento per la restituzione e non come documento di pro- va, non era possibile fare di più; e sappiamo che in que- sta circostanza anche le prove indirette, che abbiamo raccolto per via, hanno il loro valore a favore della no- stra tesi. Nello sviluppo della geometria pitagorica ci siamo li- mitati a quanto occorreva per poter raggiungere i risulta- ti menzionati da Proclo; ma si possono raggiungere altri risultati ancora; ed una parte di essi li dovremo premet- tere per trattare l'importante questione del «postulato» delle parallele. Il problema dell'applicazione semplice, corrisponden- te alla risoluzione dell'equazione ax = bc o ax = b2, si può risolvere nel caso in cui a sia maggiore di b o di c. Nel caso che ciò non avvenga la certezza dell'esistenza della soluzione si può avere solo quando si disponga della proprietà postulata da Euclide con il suo V postu- lato. Una difficoltà analoga si incontra in altre importan- ti questioni. Così, dati tre punti di una circonferenza, si dimostra che gli assi delle tre corde passano per il cen- tro; ma non si può dimostrare in generale che per tre punti non allineati passa sempre una circonferenza. Ora, di fronte a questo ostacolo che sbarra la strada all'ulteriore sviluppo della geometria, come potevano comportarsi i pitagorici? Abbiamo veduto quali ragioni importanti fanno ritenere che essi non hanno ammesso il postulato delle parallele e nemmeno il concetto di paral- lele quale è definito da Euclide; ci proponiamo adesso 165  di mostrare come potevano, egualmente, superare la dif- ficoltà. Osserviamo anzi tutto come sia noto come, conoscen- do comunque il teorema dei due retti (proposizione Sac- cheri), si può, ammettendo il postulato di Archimede, dimostrare con il Legendre77 la unicità della non secante una retta data passante per un punto assegnato (proprietà equivalente al postulato delle parallele); e così pure os- serviamo come il Severi, ammesso il suo postulato delle parallele78, dimostri, sempre con l'aiuto del postulato di Archimede, la unicità della non secante. La cosa è dun- que possibile servendosi del postulato di Archimede; se non che, non possiamo pensare a ricorrere a questo po- stulato perché Archimede è posteriore persino ad Eucli- de, e non è verosimile che i Pitagorici abbiano ammesso un postulato come quello di Archimede. D'altra parte, è vero che il postulato di Archimede ba- sta per permettere di raggiungere il risultato; ma è anche necessario ricorrere ad esso? E se non è necessario, po- tevano i pitagorici, senza di esso ed in modo più sempli- ce, raggiungere il risultato, dimostrare cioè la unicità della non secante una retta data passante per un punto assegnato? 77 Cr. R. BONOLA in ENRIQUEZ, Questioni riguardanti etc., pag. 323. 78 Cfr. SEVERI, Elementi di Geometria, Firenze 1926, vol. I, pag. 119. 166   Vedremo di sì, e vedremo come; ma ci è necessario per far questo premettere ancora altre proposizioni che si deducono da quelle già viste. 2. TEOREMA: Se due rette a e b sono perpendicolari entrambe ad una stessa retta AB, ogni altra perpendico- lare ad una di esse incontra anche l'altra ed è ad essa perpendicolare. Siano le due rette a e b (fig. 38) perpendicolari alla AB; e da un punto P della a conduciamo la perpendico- lare alla b. Il suo piede Q è necessariamente distinto da B, perché altrimenti da B uscirebbero due perpendicola- ri alla b. E siccome la AB e la PQ perpendicolari in pun- ti diversi ad una stessa retta non possono incontrarsi, i punti P e Q devono stare da una stessa parte rispetto ad AB. Unendo A con Q il triangolo ABQ è rettangolo, e quindi ̂AQB è minore dell'angolo retto ^PQB; la QA divide quindi in due parti quest'angolo retto, e siccome sappiamo che i due angoli acuti del triangolo rettangolo sono complementari, i due angoli ̂AQP e ̂QAB risul- ta^no eguali perché complementari di uno stesso angolo AQB. I due triangoli ABQ, QPA, avendo inoltre 167   eguali gli angoli ̂AQB e ̂QAP perché entrambi com- plementari dello stesso angolo ^BAQ, risultano eguali per il secondo criterio; e quindi l'angolo ̂APQ è retto, c.d.d. D'altra parte essendo unica la perpendicolare per P alla a essa coincide con la PQ, ossia la perpendicolare PQ alla a incontra la b ed è ad essa perpendicolare. Osservazione: Un punto qualunque P o Q di una delle due rette a o b ha dall'altra distanza costante. Infatti, es- sendo ABPQ un rettangolo il lato PQ è eguale al lato opposto AB. Perciò due rette perpendicolari ad una ter- za sono tra loro equidistanti. Viceversa, se un punto P situato nel piano dalla parte di A rispetto alla b ha dalla b una distanza PQ = AB, al- lora diciamo che questo punto P appartiene alla perpen- dicolare alla AB condotta per A ossia sta sulla a. Supponiamo infatti che i due punti A e P situati dalla stessa parte della b abbiano dalla b distanze eguali tra loro AB, PQ. Il punto P non può naturalmente apparte- nere alla AB, altrimenti Q coinciderebbe con B e quindi P con A; allora anche Q e B sono distinti. Uniamo A con Q; l'angolo ̂AQB del triangolo rettangolo AQB è acuto e complementare di ^BAQ; la QA divide quindi ^BQP, ed ̂AQB è complemento di ^AQP; perciò i due triangoli ABQ, QPA hanno AQ in comune, AB = PQ e l'angolo compreso eguale e sono perciò eguali; l'angolo ̂PAQ è dunque eguale al complemento ̂AQB di ̂BAQ e perciò l'angolo ̂BAP=̂BAQ+ ̂QAP 168  è eguale ad un retto. Il punto P sta dunque sulla a per- pendicolare alla AB per A. Ne segue che ogni altra retta passante per a non può essere tale che i suoi punti abbiano distanza costante dalla b; si ha dunque la unicità della retta equidistante; cioè il TEOREMA: Per un punto passa una ed una sola ret- ta equidistante da una retta data. Il problema di condurre per un punto A la retta equi- distante da una retta data b, si risolve immediatamente. Basta da A abbassare la perpendicolare alla b; e poi da A la perpendicolare a questa. Abbiamo visto che tutti i punti della a e soltanto essi hanno dalla b la distanza costante AB. Questo si esprime con il TEOREMA: Il luogo geometrico dei punti del piano situati da una stessa parte rispetto ad una retta data ed aventi da essa una distanza costante assegnata è una retta. Questa proposizione è quella che il Severi assume come postulato, chiamandolo il postulato delle parallele. Per noi è un teorema conseguenza del teorema dei due retti e quindi del postulato pitagorico della rotazione. Queste tre proposizioni sono tali che ognuna di esse porta per conseguenza le altre due; vedremo infatti tra breve che dalla proposizione ora stabilita si può dedurre il teorema dei due retti. Osserviamo finalmente che l'aver dimostrato l'unicità della equidistante da una retta b passante per un punto 169  assegnato A, non dice affatto che ogni altra retta passan- te per A debba secare la b; possiamo soltanto dire che, se vi sono altre rette passanti per A non secanti la b, esse non sono equidistanti dalla b: ossia per ora abbiamo di- mostrato la unicità della retta equidistante; e nulla sap- piamo della unicità della non secante. 3. Valgono per le rette equidistanti alcuni teoremi analoghi a quelli valevoli per le rette parallele di Eucli- de. TEOREMA: Se una retta ne incontra altre due e for- ma con esse angoli alterni interni eguali esse sono equi- distanti.  Siano a e b (fig. 39) le due rette incontrate dalla tra- sversale AB, e siano gli angoli alterni interni eguali. Ne segue che gli angoli coniugati interni sono supplementa- ri. Se questi angoli sono anche eguali, ossia se sono ret- ti, le a e b sono perpendicolari entrambe alla AB, e per il teorema precedente sono equidistanti. Se i due angoli sono diseguali ed è per esempio ^DAB>^ABC, sarà ̂DAB un angolo ottuso ed ̂ABC acuto. Abbassando da A la perpendicolare AH alla b, il piede H è situato ri- 170  spetto a B dalla parte dell'angolo acuto perché un trian- golo non può avere più di un angolo retto od ottuso, e, siccome anche l'altro angolo ̂BAH del triangolo ret- tangolo ABH è acuto, ne segue che la AH divide l'ango- lo ottuso ̂BAD in due parti. Si ha per ipotesi: ^ABH+^BAD=2 retti e quindi: ^ABH+^BAH+^HAD=2 retti ma ^ABH+^BAH=un retto per il teorema dei due retti: quindi ^HAD=un retto; e le a e b perpendicolari alla AH sono due rette equidistanti. Nota: lo stesso accade se la AB forma con le a e b an- goli corrispondenti eguali, angoli alterni esterni eguali ecc. TEOREMA INVERSO: Se una trasversale seca due rette equidistanti, forma con esse angoli alterni interni eguali, angoli alterni esterni eguali, ecc. Supponiamo che la AB (fig. 39) tagli le due rette equidistanti a e b. Se fosse perpendicolare ad una di esse sappiamo che lo sarebbe anche all'altra ed il teore- ma sussisterebbe. Se non lo ̂è formerà con la a angoli adiacenti diseguali; sia p.e. BAD ottuso. Condotta da A la perpendicolare comune alle due rette a, b essa divi- de BAD, e nel triangolo rettangolo BAH l'angolo ̂ABH risulta complementare di ^BAH ; e quindi e ^HBA+^BAH=un retto ̂HBA+ ̂BAH+ ̂HAD=2 retti 171  ̂HBA+ ̂BAD=2 retti I due angoli coniugati interni sono dunque supple- mentari; e quindi gli alterni interni sono eguali ecc. Nota: non è però dimostrato che se due rette sono equidistanti ogni secante della prima deve secare anche la seconda; perciò non si può ancora risolvere p.e. il problema dell'applicazione semplice nel caso generale. 4. Diventa ora possibile la dimostrazione del teorema dei due retti attribuita da Eudemo ai pitagorici, dimo- strazione alla quale si riferisce il passo della Metafisica di Aristotele. Condotta per il vertice A di un triangolo ABC (fig. 1) la equidistante dal lato opposto BC, per l'eguaglianza degli angoli alterni interni di vertici A e B, ed A e C il teorema si dimostra nel modo ben noto. Naturalmente questa semplice dimostrazione è per noi un cavallo di ritorno. Lo era anche per i pitagorici cui Eudemo attribuisce la dimostrazione? Lo era anche per Aristotele? Se non lo era, ossia se non si basava so- pra il teorema delle rette equidistanti, derivante dal teo- rema dei due retti, doveva necessariamente basarsi sopra questa proprietà delle rette equidistanti ammessa per po- stulato o dedotta da un postulato equivalente; ma rimar- rebbe con ciò inesplicabile la esistenza dell'antica dimo- strazione del teorema dei due retti menzionata da Euto- cio. Comunque questa dimostrazione si basa sopra le proprietà delle rette equidistanti, e vale quindi sia che si accetti o non si accetti o non si usi il postulato di Eucli- 172  de. La equidistante è una non secante, che a differenza delle altre eventuali non secanti (o parallele secondo la definizione di Euclide) gode delle proprietà vedute, e consente perciò la dimostrazione del teorema dei due retti. I pitagorici antichi, per le ragioni che abbiamo vedu- to, non ammettevano né il postulato di Euclide né un postulato sopra le rette equidistanti come quello del Se- veri. Se, come crediamo, pervennero al concetto delle rette equidistanti, si fu come conseguenza del teorema dei due retti da essi dimostrato con la ignota dimostra- zione in tre tempi, e non viceversa. A meno che non si voglia supporre che in un certo momento una parte dei pitagorici abbia creduto di poter prendere come punto di partenza il concetto delle rette equidistanti, e di trarne la dimostrazione del teorema dei due retti al posto dell'an- tica dimostrazione. Dopo Euclide, ricorsero al concetto delle rette equidi- stanti Poseidonio e Gemino con lo scopo di eliminare il postulato di Euclide; ed altri tentativi furono fatti come è noto in seguito, ma sempre in modo non rigoroso, per- ché, come il Saccheri ha dimostrato, l'ammettere che delle rette equidistanti esistano effettivamente è da con- siderare come un nuovo postulato79. Esso è il postulato del Severi, equivalente alla proposizione Saccheri, ed al nostro postulato pitagorico della rotazione. 79 GIOVANNI VAILATI, Di un'opera dimenticata del P. Girolamo Saccheri, in Scritti, 1911, pag. 481. 173   Per noi è un teorema perché è conseguenza del teore- ma dei due retti, a sua volta conseguenza del postulato della rotazione. Per le ragioni vedute è certo che gli antichi pitagorici non ammettevano, ma dimostravano, la proposizione Saccheri, e la dimostravano in un modo che non è vero- simile derivi da un postulato delle rette equidistanti o dal concetto stesso di rette equidistanti; mentre è per lo meno possibile che la dimostrazione si basasse sopra un postulato come quello della rotazione. Se ammettevano questo postulato, non solo ne pote- van dedurre il teorema dei due retti, e quello di Pitagora, ma anche tutte le scoperte loro attribuite da Proclo-Eu- demo, ed inoltre la teoria delle equidistanti e, di riman- do, la dimostrazione del teorema dei due retti attribuita ad essi da Eudemo. 5. TEOREMA: Se una trasversale incontra due rette equidistanti e da un punto di una di esse si conduce la retta equidistante dalla trasversale, essa incontra anche l'altra. Sia m la trasversale delle due rette equidistanti a e b (fig. 40), e sia P il punto assegnato sopra la a. Congiun- giamo B con P, e prendiamo sulla b il segmento BQ = AP situato rispetto alla m dalla parte di P. La BP forma con le a e b angoli alterni interni eguali; quindi i trian- goli APB, QBP vengono eguali per il 1o criterio; perciò anche ̂APB=̂BPQ e la m e la PQ risultano equidistan- ti. E siccome sappiamo che per P passa una sola retta 174  equidistante dalla m, essa coincide con la PQ; dunque la equidistante dalla m condotta per P punto della a incon- tra anche la b nel punto Q. Osservazione: il quadrilatero ABQP è un romboide. Viceversa, se ABPQ è un romboide, siccome una diago- nale fa coi lati opposti angoli alterni interni eguali, essi sono equidistanti. Dunque nel romboide e nel rombo i lati opposti sono equidistanti. Questa distanza costante si chiama altezza del rom- boide. TEOREMA: Se per il punto medio di un lato di un triangolo si conduce la retta equidistante da uno degli altri due lati essa incontra il terzo lato nel suo punto medio. Per il punto medio M del lato AB (fig. 41) del trian- golo ABC conduciamo la retta equidistante dalla BC. Tutti i punti della BC stanno da una stessa parte rispetto ad essa; i punti A e B stanno da parte opposta rispetto ad essa, e quindi anche i punti A e C stanno da parte oppo- sta, e quindi il segmento AC è tagliato in un suo punto N da questa retta. Completiamo il romboide che ha per 175   lati consecutivi MN, MB; il lato NP di questo romboide è equidistante dalla AB e lascia, il punto C e la AB da parti opposte; quindi il vertice P compreso tra B e C. Siccome PN = BM = AM, ed è ̂MAN=̂PNC perché corrispondenti rispetto alle equidistanti AB, PN, e ̂AMN=̂NPC per ragione analoga, i triangoli AMN, NPC risultano eguali e quindi AN = NC, ossia N è il punto medio di AC. Naturalmente per la stessa ragione P è il punto medio di BC e si ha MN=BP=PC=12BC TEOREMA INVERSO: La congiungente i punti me- dii di due lati di un triangolo è equidistante dal terzo lato ed è eguale alla metà di esso. Si dimostra per assurdo, come conseguenza della uni- cità della equidistante dalla BC passante per M, e della unicità del punto medio M. 176   Come conseguenza di questi teoremi se ne possono dimostrare degli altri sul fascio delle rette equidistanti, sul trapezio, ecc.; si può risolvere il problema della divi- sione di un segmento in un numero assegnato di parti eguali; si può dimostrare che le tre mediane di un trian- golo si incontrano in un unico punto ecc.80 Ci limiteremo al seguente teorema di cui abbiamo bi- sogno. TEOREMA: Se sul prolungamento di un lato di un triangolo si prende un segmento eguale al lato, e per l’estremo del segmento si conduce la retta equidistante da uno degli altri due lati essa incontra il prolungamen- to del terzo lato. Sia AMN il triangolo dato; prendiamo sul prolunga- mento di AM il segmento MB = AM; e sul prolunga- mento di AN il segmento NC = AN. Uniamo B con C. Per il teorema precedente la MN e la BC sono equidi- stanti. Dunque la equidistante dalla MN passante per B incontra il prolungamento della AN nel punto C. 6. Vogliamo ora dimostrare la proprietà, fondamenta- le che per un punto assegnato A esterno ad una retta data b si può condurre una sola retta che non la seca. 80 In modo simile a questo si può sviluppare la teoria delle ret- te e dei piani equidistanti e la teoria dei piani equidistanti. Avrem- mo potuto premettere questi sviluppi, ottenendo poi con il loro sussidio molte semplificazioni in varie questioni che abbiamo trattato, ma con un po' di pazienza si è potuto fare a meno anche di essi. 177   178   Dal punto A (fig. 42) conduciamo la perpendicolare alla b e sia B il piede; e dal punto A conduciamo la a perpendicolare alla AB. Sappiamo che la a e la b en- trambi perpendicolari alla AB non si possono incontra- re. Si tratta di dimostrare che ogni altra retta passante per A e distinta dalla a è una secante della b. Supponiamo se è possibile che ciò non accada. Vi sarà allora, oltre alla a, almeno un'altra retta m che passa per A e non incontra la b. Il punto A divide la m in due semirette situate da parti opposte della a; conside- riamo la semiretta m che rispetto alla a è situata dalla parte del punto B, ossia della b, ossia della striscia di lati a e b. E consideriamo le semirette a e b situate ri- spetto alla AB dalla stessa parte della semiretta m. La m è una delle semirette di origine A e comprese nell'ango- lo ^B A a delle semirette AB ed a, la quale per ipotesi non incontra la b. Oltre a questa semiretta ve ne possono essere altre di origine A che non incontrano la semiretta 179  b; anzi ve ne sono di sicuro e sono tutte le semirette di origine A e comprese nell'angolo m^a , perché se una di esse p.e. la n incontrasse la b in un punto N, siccome la semiretta m sarebbe interna all'angolo ̂BAN del trian- golo ABN e lascerebbe quindi i punti B ed N da parti opposte dovrebbe segare il segmento BN contrariamente alla ipotesi fatta sulla m. Perciò ogni retta n, interna al- l'angolo ^mAa, , è dunque una non secante se la m è una non secante. D'altra parte, dall'origine A escono sicuramente oltre alla AB delle semirette comprese in ^B A a e secanti la b. Una di queste è ad esempio quella che forma con la AB l'angolo di 60° e con la a quello di 30°; preso, infat- ti, a partire da A su questa semiretta il segmento AC = 2AB, e congiunto B con C e con il punto medio M di BC, il triangolo isoscele BAM avendo l'angolo al verti- ce ̂BAM di 60° è equilatero; quindi il triangolo MBC è isoscele e l'angolo ̂ABC è retto, il che significa che il punto C della AM sta sulla b, ossia che la AM è una se- cante della b. Naturalmente tutte le semirette per A in- terne a ̂BAC sono delle secanti della semiretta b. D'altra parte, le semirette del fascio di centro A com- prese tra la semiretta AB e la semiretta a o sono secanti della semiretta b oppure sono non secanti della b. Alla classe delle secanti appartiene la AB, la AC e tutte le se- mirette comprese entro l'angolo ^BAC; e vi apparten- gono inoltre certamente anche una p^arte delle semirette di origine A ed interne all'angolo C A a ; basta infatti 180  prendere un punto S qualunque sul prolungamento del segmento BC dalla parte di C, e la semiretta di origine A, passante per S, è compresa nell'angolo ^C A a ed è una secante della semiretta b. Alla classe delle non se- canti appartiene la a di sicuro, la m per ipotesi, e come abbiamo ve^duto anche tutte le semirette di origine A ed interne ad m A a . La classe delle semirette di origine A e secanti la se- miretta b costituisce un insieme ordinabile, perché è in corrispondenza biunivoca con l'insieme dei punti della semiretta b. Ordinandole effettivamente in corrispon- denza sarà la AB la prima semiretta secante seguita or- dinatamente dalle altre; e poiché non esiste l'ultimo pun- to della semiretta b così non esiste l'ultima semiretta di origine A secante della b; ossia dopo una secante qua- lunque della b nel fascio ordinato delle semirette di cen- tro A ve ne sono delle altre. Premesse queste considerazioni, conduciamo dal pun- to C la perpendicolare comune alle rette a e b. Le semi- rette di origine A che seguono la AB e precedono la AC sono in corrispondenza biunivoca con punti del segmen- to BC; le semirette che seguono la AC analogamente sono in corrispondenza biunivoca con i punti del seg- mento CD, dimodoché le semirette del fascio di centro A comprese tra la AB e la a sono in corrispondenza biu- nivoca con i punti della spezzata ortogonale ABC, estre- mi compresi. La AB è la prima delle semirette secanti, la a l'ultima delle non secanti la b. 181  Facciamo a questo punto una osservazione: La corri- spondenza biunivoca tra i punti del segmento BC e le semirette dell'angolo convesso ̂BAC che proietta il segmento da un punto A fuori della retta BC, permette di ordinare l'insieme delle semirette dell'angolo ^BAC . Per dedurre dalla ordinabilità della retta la possibilità di ordinare le semirette di un fascio, il Severi81 nota che occorre prima introdurre il postulato delle parallele, e poi nella corrispondenza escludere dal fascio una delle semirette. Tale duplice necessità scompare se, invece di ordinare le semirette in corrispondenza con i punti di una retta, si può ordinare le semirette in corrispondenza con i punti del perimetro di un rettangolo le cui diagona- li passino per A, e la corrispondenza è completa, nessu- na semiretta esclusa. Naturalmente per fare questo bisogna conoscere i ret- tangoli indipendentemente dal postulato delle parallele, cosa che si verifica appunto nello sviluppo di questa no- stra geometria pitagorica. Stabilita in questo modo la ordinabilità dell'insieme delle semirette del fascio di centro A comprese tra la AB e la AD, e stabilito il verso di tale ordine; ed osservato che tali semirette sono necessariamente secanti o non secanti della semiretta b, che ogni semiretta che precede una secante è anche essa una secante ed ogni semiretta che segue una non secante è anche essa una non secante, osserviamo ancora che come non esiste l'ultima delle se- 81 SEVERI, Elementi di geometria, vol. I, pag. 177. 182   mirette secanti la b così da un punto di vista puramente logico si potrebbe pensare che non esista o possa non esistere la prima delle semirette non secanti la b; ossia che data una semiretta qualunque non secante la b se ne possano sempre trovare delle altre pure non secanti le quali la precedano. L'intuizione però osserva che partendo dalla posizio- ne iniziale AB, od anche AC, e girando intorno ad A sino ad arrivare alla posizione finale a, la semiretta che era una secante è divenuta alla fine una non secante. Se la metamorfosi non si è verificata proprio al momento finale per la semiretta a, dovrà essersi verificata ad un certo momento per una posizione intermedia, prima del- la quale la semiretta si era mantenuta sempre ancora se- cante e dopo la quale si è mantenuta sempre ancora non secante. Insomma è intuitivamente evidente che esiste una ed una sola semiretta che è la prima delle non se- canti; e tutto si riduce a mostrare che tale prima non se- cante non è altro che la a. Da un punto di vista logico si presenta corrisponden- temente la necessità di ricorrere ad un postulato; ed era naturale e prevedibile che questo dovesse accadere, al- trimenti il postulato della rotazione pitagorica (o l'equi- valente proposizione Saccheri) sarebbe stato equivalente al postulato di Euclide; soltanto che non si tratta del po- stulato di Archimede ma di un caso assai più semplice del postulato di continuità. Bisogna ammettere come po- stulato la esistenza di una semiretta di separazione delle due classi di semirette secanti e non secanti la b; verità 183  talmente evidente all'intuizione da presumere che agli occhi degli antichi dovesse costituire un dato di fatto, una verità primordiale tanto assiomatica da non sentire neppure il bisogno di postularla esplicitamente. Invero, se Euclide non ha sentito il bisogno di postulare il po- stulato di continuità nei due casi che abbiamo a suo tem- po espressamente notato, sarebbe strano credere o pre- tendere che ciò sia o debba essere avvenuto in un caso perfettamente analogo, e questo due secoli prima di Eu- clide quando Pitagora per primo faceva della geometria una scienza liberale. 7. Ammettiamo dunque esplicitamente il postulato che vi è almeno una semiretta di origine A che separa le semirette di origine A e secanti la b da quelle non secan- ti la b. Sappiamo che non può essere una secante quindi sarà necessariamente una non secante. Inoltre si riconosce subito, per assurdo, la sua unicità. Essa è dunque la pri- ma non secante. Noi intendiamo mostrare che nessuna semiretta del fascio A distinta dalla a può essere la pri- ma non secante, dimodoché la a è come sappiamo non secante, ed è la prima e l'unica. Premettiamo un'osservazione: se per il punto medio H di AB (fig. 42) si conduce la perpendicolare h ad AB (asse di AB ed equidistante dal- la a e dalla b), ogni semiretta per A che sega la h sega anche la b. Se infatti la r sega la h in R, essendo HB eguale ad AH la b equidistante dalla HR sega come sap- 184  piamo la r, perciò una semiretta per A che non seghi la b non può segare neppure la h; in particolare la prima se- miretta che non sega la b non può segare la h ed è quin- di contenuta nella striscia ah. Dimostriamo adesso il TEOREMA FONDAMENTALE: Per un punto non appartenente ad una retta data passa una ed una sola retta che non la seca. Sia (fig. 43) A il punto dato e b la retta data. Si con- duce da A la perpendicolare AB alla retta data, e sia B il piede. Poi da A la semiretta a perpendicolare alla AB dalla stessa parte della semiretta b e per il punto medio H di AB la semiretta h perpendicolare ad AB sempre dalla stessa parte delle a e b. Supponiamo se è possibile che la semiretta r che for- ma con la semiretta a un certo angolo δ (con δ ≠ 0) sia una non secante qualunque della b (eventualmente an- che la prima). Allora la prima non secante, ossia la se- miretta di separazione delle secanti dalle non secanti di cui abbiamo ammessa l'esistenza, non può seguire la r, e perciò o coincide con la r o precede la r, ossia la semi- retta di separazione deve formare con la a un angolo ε≥δ dove per altro è certamente ε < 30°. Sia essa la s. Condotta allora per A la semiretta che forma con la semiretta a l'angolo 2ε essa sega la b in un punto C. Conduciamo per B la perpendicolarê alla s e sia H il pie- de. Dovendo essere acuto l'angolo HAB del triangolo 185  rettangolo AHB, il piede H sta sulla semiretta s, e l'an- golo ̂ABH = ε. Siccome la BH fa con la BA un angolo ε 30° e quindi anche minore di 60°, essa incontra certamente la semi- retta a in un punto D. Ciò risulta anche dal fatto che la s è tutta compresa nella striscia ha, perché la s non incon- trando la b non incontra neppure la h, quindi B ed H sono da parti opposte della h, BH incontra la h, e quindi anche la a. Si ha subito: BD > BA > BH. Preso perciò BK eguale a BA, sarà il punto K com- preso tra H e D. Facendo ruotare la figura intorno a B dell'angolo ε in modo che A vada su K, BA va su BK e la a, perpendicolare alla BA in A, va sulla a' perpendi- colare alla BK in K. La a' e la s, perpendicolari entrambi alla BD sono equidistanti, e poiché K è compreso tra H e D, D e la s stanno da parti opposte rispetto alla a', e quindi anche D 186   e A; perciò il segmento AD è tagliato in un suo punto E dalla a'. Con la rotazione la s va sulla s' che passa per K e for- ma con a' l'angolo ε penetrando perciò nell'angolo retto ^EKD ed incontrando il segmento ED in un punto L. La DA forma con le rette equidistanti a' ed s angoli corrispondenti ^DEK , ̂DAH eguali; quindi ^DEK=ε, il triangolo LEK è isoscele e perciò l'angolo esterno ^DLK=2ε. Prendiamo ora sul prolungamento di BC il segmento CP = AL, ed uniamo P con L. I triangoli ALC, PCL han- no LC in comune, AL = CP e l'angolo compreso eguale perché la trasversale CL forma con le due rette equidi- stanti a e b angoli alterni interni eguali; perciò ^ALP=^ACP, e quindi ^PLD=^ACB=2ε. Dunque tanto la PL come KL formano con la AD un angolo eguale a 2ε; perciò le semirette LK ed LP coincidono, ossia i tre punti L, K, P sono allineati, ossia la s' incontra la b. Il triangolo PBK è isoscele avendo gli angoli alla base complementari di ε, il suo vertice P sta quindi sul- l'asse di BK. Facendo ruotare tale triangolo intorno a B di E in modo da riportare la base BK su BA, il suo asse va sulla h, la s' torna sopra la s, ed il punto P della s' va sopra la h. La s incontra dunque la h in un punto T. Pre- so ora sul prolungamento di AT un segmento TV = AT il punto V della s appartiene alla b. Dunque la s è una secante della b. 187  Conclusione: la prima non secante s non può formare con la a un angolo ε≥δ; ma abbiamo veduto che non può formare con la a neppure un angolo minore di δ; quindi se esistesse una prima non secante la b distinta dalla a dovrebbe soddisfare alla condizione di formare con la a un angolo che non dovrebbe esser né maggiore, né eguale né minore dell'angolo S formato con la a da una non secante qualunque r. Ne segue che, essendo impos- sibile soddisfare tali condizioni, tale prima non secante distinta dalla a non esiste; e quindi la a è una non secan- te della b, è la prima ed è l'unica tra tutte le semirette di origine A e comprese tra la AB e la a, che non seca la b. Questa dimostrazione si può facilmente trasformare in modo da fare a meno del movimento di rotazione at- torno al punto B. Concludiamo che, ammettendo il postulato pitagorico della rotazione, o l'equivalente teorema dei due retti (proposizione Saccheri) o l'equivalente postulato del Se- veri sopra le rette equidistanti, si può dimostrare il po- stulato di Euclide, sia ricorrendo al postulato di Archi- mede, sia facendo a meno di ricorrere al postulato di Ar- chimede, ed ammettendo soltanto la esistenza di quella semiretta di separazione delle secanti dalle non secanti che alla intuizione degli antichi doveva apparire indi- scutibile. 8. Dimostrato il postulato di Euclide si rientra natu- ralmente nell'alveo della geometria euclidea non archi- medea; ed il nostro compito è finito. 188  A noi interessava difatti la restituzione della geome- tria pitagorica, non in quanto collimava con la geome- tria euclidea, ma in quanto ne differiva. Che ne differis- se sostanzialmente lo prova la esistenza di quella arcaica dimostrazione del teorema dei due retti che non poteva essere basata sopra le proprietà degli angoli alterni inter- ni. Per ottenere questa dimostrazione abbiamo ricorso alla supposizione che i pitagorici ammettessero il postu- lato pitagorico della rotazione che abbiamo enunciato, ed abbiamo veduto che ne segue immediatamente il teo- rema dei due retti nel primo caso particolare menzionato da Eutocio, poi negli altri casi, ed abbiamo veduto che di lì si trae senz'altro il teorema di Pitagora, e si può con successivi sviluppi arrivare a tutte le scoperte attribuite ai Pitagorici. Fatto questo, e sempre senza introdurre il concetto di parallele e il relativo postulato, abbiamo po- tuto pervenire alla teoria delle rette equidistanti, la quale consente da sola la più recente dimostrazione del teore- ma dei due retti riportata da Aristotele ed attribuita da Eudemo ai pitagorici. Sappiamo bene quali obbiezioni si possono sollevare all'adozione del postulato pitagorico della rotazione, che presuppone il concetto di movimento rigido del piano, e la capacità di riconoscere l'eguaglianza delle figure per sovrapposizione. Ma questo è un problema teorico del quale non ci interessiamo; a noi interessa invece vedere se i pitagorici possono avere adottato esplicitamente o no questo postulato della rotazione. 189  Come riprova del fatto che essi non ammettevano il postulato delle parallele, definite come in Euclide, ab- biamo addotto la ragione che per i pitagorici il concetto di infinito si identificava con quello di imperfetto. Ora, per una ragione analoga, da un punto di vista pitagorico, si potrebbe obbiettare che essi non potevano accettare o basarsi neppure sopra il concetto di movimento. Infatti nella serie delle opposizioni pitagoriche, come il concet- to di finito e perfetto si oppone al concetto di infinito ed imperfetto, così, corrispondentemente, il concetto di im- mobilità si oppone a quello di movimento. Questa è per noi una obbiezione assai più seria dell'altra. Seguendo una pura norma di coerenza schematica, sia il concetto di infinito sia quello di movimento avrebbero dovuto essere banditi. Ma dobbiamo tenere presenti i le- gami che avvincevano le concezioni geometriche dei pi- tagorici a quelle cosmologiche; e se «nessuno ha mai veduto due rette parallele nel senso anzi detto, due rette cioè che prolungate indefinitamente non si incontrano mai»82, viceversa chiunque vede e sa per esperienza che il movimento è un carattere essenziale della vita umana ed universale. Gli astri, ossia gli Dei, si movevano eter- namente nelle loro danze celesti. E secondo i pitagorici, il movimento circolare era quello perfetto, forse non soltanto per la sua regolarità e semplicità, ma anche per il fatto che il centro e l'asse di rotazione restavano im- 82 GIUSEPPE VERONESE, Appendice agli elementi di geometria, Padova, 1898, pag. 23. 190   mobili e partecipi della perfezione. L'ammettere dunque che una retta del piano situata ad una qualsiasi distanza finita dal centro di rotazione ruotasse anche essa, era ammettere quanto sembrava verificarsi nell'universo con la rotazione intorno alla terra od al fuoco centrale od al sole (Aristarco di Samo), ed ammettere che l'angolo del raggio vettore iniziale con la sua posizione finale fosse eguale all'angolo delle posizioni iniziale e finale della retta, era ammettere un fatto conforme alla intuizione e verificato dalla esperienza nel campo raggiungibile dalla nostra osservazione. Dice il Veronese83 «che fa veramente onore ad Eucli- de di avere fatto senza del movimento dove ha potuto, poiché nei suoi elementi è chiara la tendenza di evitarlo per quanto gli è stato possibile». Se dunque Euclide, pur reluttante, fa uso del movimento, prima di lui se ne do- veva fare uso ancora maggiore, ed abbiamo così una ri- prova che i pitagorici ne facevano uso senza tanti scru- poli e che quindi potevano benissimo anche servirsi di un postulato relativo al movimento di rotazione come quello che abbiamo enunciato. Con il tempo il punto di vista pitagorico che legava intimamente tra loro le varie scienze venne tenuto sempre meno presente, accentuan- dosi la tendenza a fare della geometria una scienza sepa- rata, puramente logica; ed Euclide, ammettendo il suo postulato, raggiungeva il doppio scopo di liberarsi sem- pre più dal concetto di movimento e di procurarsi un 83 G. VERONESE, Appendice agli elementi etc., pag. 38. 191   mezzo comodo e rapido per risolvere difficoltà che altri- menti si possono superare solo con molto maggiore pa- zienza e lavoro. In compenso introdusse il suo postulato che non ha mai soddisfatto nessuno e che D'Alembert chiamava «lo scoglio e lo scandalo della geometria». 9. Ricapitolando, consideriamo due semirette a e b perpendicolari da una stessa parte in due punti A e B ad una stessa retta AB. Esse non si incontrano; e ciò risulta dal solo fatto che da un punto qualunque del piano si può condurre una sola perpendicolare ad una retta data. In secondo luogo, se si ammette il postulato pitagori- co della rotazione o la proposizione Saccheri, si ha che queste rette sono anche equidistanti84. In terzo luogo, se si ammette anche il postulato di Ar- chimede oppure il caso particolare del postulato di con- 84 In precedenza, supponendo noto che due rette perpendico- lari in punti distinti ad una stessa retta non possono incontrarsi, ne abbiamo dedotto che una retta r con una rotazione di mezzo giro intorno ad un punto O esterno ad essa prende una posizione tale che la r ed r' non si incontrano. Questo fatto, per altro, non è che una conseguenza del postulato pitagorico della rotazione. Di fatti, con tale rotazione un punto A della r va sul simmetrico A' di A ri- spetto ad O; ed A' non appartiene alla r perché altrimenti anche O dovrebbe appartenere alla r. D'altra parte, se le r ed r' avessero in comune un punto P, dovrebbero per il postulato pitagorico forma- re un angolo di 180°, ossia coincidere, e questo non può accadere perché A' della r' non appartiene alla r: quindi esse non si incon- trano. 192   tinuità che noi abbiamo adoperato, si ha che la semiretta a è l'unica semiretta di origine A che non seca la b. Torniamo dopo ciò ad esaminare la questione della seconda dimostrazione pitagorica del teorema dei due retti. Secondo Proclo, Eudemo direbbe testualmente così: «Sia il triangolo αβγ e si conduca per α la parallela alla βγ... (καὶ ἤθω διὰ τοῦ ᾶ τῇ βγ παράλληλος ἡ)». Qui appare il termine parallela e l'articolo determina- tivo ἡ ne implica la riconosciuta unicità; ma, anche am- mettendo che Proclo abbia riportato di peso la dizione usata da Eudemo, resta a vedere se Eudemo adoperava il termine parallela nella accezione attribuita ad esso dalla posteriore definizione di Euclide, e resta a vedere se la nozione della unicità di questa retta proveniva anche in Eudemo dall'accettazione di un postulato come quello ammesso poi da Euclide. Aristotele nel passo della Metafisica in cui si riferisce a questa stessa dimostrazione conduce anche lui per il vertice α la retta che serve alla dimostrazione, ma non la chiama né parallela, né equidistante, né non secante; egli dice semplicemente: εἰ οὖν ἀνῆκτω ἡ παρὰ τὴν πλευράν, ossia: se si conduce la [retta] di fianco [o di fronte] al lato... Anche in questo passo l'articolo ἡ mostra che tale ret- ta è ritenuta unica, ma anche qui non è definita in nes- sun modo e non si sa di dove derivi questa sua unicità. L'etimologia evidente della parola parallela non dà in proposito nessuna luce; il termine è adoperato in astro- nomia per i paralleli della sfera celeste; ed è usato nel 193  linguaggio ordinario da Aristotele, come poi ad esempio da Plutarco nelle "vite parallele". Dal linguaggio ordinario è passato poi al linguaggio geometrico, ma quando e con quale precisazione non ri- sulta. Aristotele lo usa tre volte nella Analitica, come termine geometrico, e sentenzia che coloro i quali si sforzano di descrivere le parallele commettono una peti- zione di principio. Così come stanno le cose il passo di Eudemo e quello del suo maestro Aristotele non provano affatto che la di- mostrazione posteriore dei pitagorici si basasse sopra una definizione delle parallele e sopra un relativo postu- lato eguali alla definizione ed al postulato di Euclide. E non è da escludere che questa retta fosse la equidistante, e fosse chiamata la parallela, e fosse ritenuta unica non secante semplicemente per non essere ancora sorto il dubbio che oltre alla equidistante vi potessero essere an- che altre rette non secanti. In tal caso il dubbio sarebbe sorto dopo, ed Euclide lo avrebbe eliminato d'autorità introducendo il suo postulato. In tal caso la dimostrazio- ne di Aristotele sarebbe corretta se quella tal retta con- dotta per il vertice del triangolo si intende che sia equi- distante, e sarebbe scorretta se concepita come parallela ne fosse supposta senza base la unicità; mentre invece quella di Eudemo sarebbe corretta se con il termine di parallela si intende la equidistante (la cui unicità e le cui proprietà i pitagorici potevano desumere dal teorema dei due retti) e sarebbe scorretta se designasse una parallela 194  nel senso euclideo e non si fosse ammesso o dimostrato il postulato di Euclide. Comunque i due passi, di Aristotele e di Eudemo, non provano che i pitagorici posteriori dessero del teorema dei due retti una dimostrazione identica a quella di Eu- clide. Se, come ci sembra, questa dimostrazione pitago- rica posteriore si basava sopra le proprietà delle rette equidistanti, sia pure chiamandole parallele, anche que- sta dimostrazione era indipendente da quel concetto di rette che prolungate all'infinito non si incontrano mai e da quel postulato di Euclide, che vanno così poco d'ac- cordo con la concezione pitagorica. Notiamo in fine che nella dimostrazione che abbiamo dato della unicità della non secante non si presenta la necessità di prolungare la retta all'infinito e quindi anche essa quadra con la concezione pitagorica. E notiamo an- cora che, anche se non si vuole accordare che la geome- tria pitagorica si basasse sopra il nostro postulato pita- gorico della rotazione, la dimostrazione del «postulato» di Euclide che abbiamo esposto si può fare egualmente, se si ammette la proposizione Saccheri od il postulato del Severi. E siccome i pitagorici conoscevano certa- mente il teorema dei due retti indipendentemente dal po- stulato delle parallele, risulta così manifesto che essi po- tevano dal teorema dei due retti e senza postulato di Ar- chimede arrivare a dimostrare la unicità della non secan- te. La questione non trascendeva i loro mezzi, né certa- mente l'intelligenza di quei così detti «primitivi». 195  10. La trasformazione del postulato di Euclide in teo- rema è un risultato secondario di questo nostro studio. Ed esula dal carattere di questo studio, né ci presumia- mo da tanto, il giudicare se l'assetto euclideo della geo- metria sia, da un punto di vista teorico moderno, preferi- bile all'antico assetto che abbiamo cercato di ricostituire. Naturalmente tutti i postulati sono comodi; e, tagliando il nodo gordiano delle parallele con la spada del postula- to di Euclide, le cose si semplificano. Ma dovendo sce- gliere tra il V postulato ed il postulato pitagorico della rotazione quale dei due è meno ostico? Quale dei due è meno restrittivo? L'apprezzamento in queste cose è an- che un po' personale, e noi lasciamo che ognuno scelga secondo i suoi gusti. A noi interessa constatare che il postulato pitagorico della rotazione consente di dimostrare il teorema dei due retti e quello di Pitagora indipendentemente dal postula- to e dalla teoria delle parallele in un modo che ha tutta l'aria di essere l'antico, e consente da solo di ottenere tutto lo sviluppo della geometria pitagorica; e non ci consta che sinora si sia trovato un modo, non soltanto più soddisfacente, ma un modo qualunque, di raggiun- gere lo stesso risultato. Il postulato di continuità al quale abbiamo ricorso è servito soltanto per risolvere l'ultima questione, quella di dimostrare il «postulato» di Euclide in modo non trascendente le possibilità dei pitagorici. 11. Una volta introdotto, come postulato, il V postula- to di Euclide, la proprietà enunciata dal postulato pita- 196  gorico della rotazione viene a perdere ogni importanza. Non meraviglia quindi il non trovarne alcuna traccia su- perstite. Sarebbe strano che fosse accaduto diversamen- te quando ogni traccia di dimostrazione pitagorica si è perduta ad eccezione della tarda dimostrazione del teo- rema dei due retti. Se la nostra ricostruzione corrisponde al vero, la in- troduzione del postulato di Euclide dovette sconvolgere profondamente l'assetto della geometria; ed anche que- sto è conforme alle notizie che abbiamo in proposito, poiché sappiamo che Euclide cambiò l'ordine e le dimo- strazioni ed in generale alterò tutto l'assetto della geo- metria, sicché ad esempio il teorema di Pitagora divenne l'ultimo e ricevette un'altra dimostrazione. Il favore quasi incontrastato di cui hanno goduto per oltre venti secoli gli «elementi di Euclide», aggiungen- dosi a queste condizioni sfavorevoli alla trasmissione della geometria pitagorica, ha portato alla esaltazione della scuola greco-alessandrina, a tutto scapito della glo- ria della «Scuola Italica». Della scuola greca tutto o quasi ci è pervenuto; della nostra scuola, della scuola che aveva creato dalle fonda- menta, nulla si è salvato. Un destino avverso sembra es- sersi accanito contro l'opera vasta ed ardita del grande filosofo. Abbattuto, ad opera della democrazia, il regime pitagorico in Cotrone; disperso l'Ordine e la scuola, le scoperte e le conoscenze vennero combattute, miscono- sciute, derise e dimenticate. Aristotele, con la sua auto- rità messa poi al servizio di pregiudizi di altra natura, 197  impedì l'accettazione delle teorie cosmologiche pitagori- che, assicurando per venti secoli il trionfo dell'errata teoria geocentrica; la filosofia, intesa nel senso etimolo- gico e pitagorico della parola, venne occultata nel dila- gare delle speculazioni, dei sistemi, delle credenze, del moralismo e del feticismo; e persino l'opera geometrica, che pur doveva avere salde basi, si è perduta a tutto be- neficio della scuola greca posteriore. Per quanto arduo il compito, era, dopo venticinque secoli, l'ora di fare qualche cosa a favore della nostra scuola, riparando per quanto è possibile alla funesta azione del tempo e delle contingenze. Cercare di resti- tuire l'opera geometrica della «Scuola Italica» è stato per noi non soltanto un importante argomento di studio, ma è anche un gradito compito di rivendicazione. Nel terminare, vogliamo esplicitamente dichiarare che siamo perfettamente coscienti di quanto le nostre modestissime forze siano state inferiori all'impresa ed all'ardire. Vengano quindi altri, facciano di più e meglio, e saremo i primi a rallegrarcene. E così pure, ben inteso, sappiamo benissimo quale rapporto intercede tra noi e Pitagora. Perciò è naturale imputare a noi, e solo a noi, gli errori e le manchevolezze di queste pagine; ma, se vi sono dei meriti, preghiamo i lettori di ascriverli, non no- bis, ma all'immortale fondatore della nostra scuola. Αὑτὸς ἔφα. Unico nostro merito, se mai, è l'avere saputo prendere direttamente da lui l'inspirazione. ΤΕΛΟΣ Leonardo Ferrero. Ferrero. Keywords: implicature arimmetica, pitagorismo romano. Cf. uomo, scuola pitagorica, filosofia italiana, filosofia italica, il pitagorismo comparato con altri scuole, aristosseno e pitagora – crotone – crotona – Taranto – metaponto, aristosseno, prima seguace del pitagorismo, reghini, massoneria, esoterico, numeri sacri. Cf. Luigi Ferri, L’interpretazione dei filosofi italiani sull’origine del pitagorismo.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Ferrero” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51760965851/in/dateposted-public/

 

Grice e Ferretti – l’intersoggetivo – filosofia italiana – Luigi Speranza (Brusasco). Filosofo. Grice: “I like Ferretti, for one, he wrote on intersubjectivity which is a problem for Husserl: cogitamus; nobody speaks of ‘cogitamus --; one has to distinguish between my favoured –‘inter-subjectivity’ and ‘alterity’!” – Grice: “Ferretti has also philosophised on the infinite, which poses a problem to my principle of conversational helpfulness.” Si laurea a Milano. Insegna a Milano, Torino, Macerata. Altre opere: Persona (Milano). Storia della filosofia romana (SEI, Torino), “L’ntersoggettivo (Macerata); “L’ontologia di Kant” (Rosenberg & Sellier, Torino).   Wikipedia Ricerca Soggetto (filosofia) termine Lingua Segui Modifica (LA)  «Noli foras ire, in te ipsum redi, in interiore homine habitat veritas.»  (IT)  «Non uscire da te stesso, rientra in te: nell'intimo dell'uomo risiede la verità.»  (da La vera religione di Sant'Agostino) Il termine soggetto che deriva dal latino subiectus(participio passato di subicere, composto da sub, sotto e iacere gettare, quindi assoggettare) letteralmente significa "quello posto sotto", "ciò che sta sotto".  Nella speculazione filosofica il termine ha assunto una varietà di significati:  un essere, sostrato[1] sostanziale di qualità che lo configurano particolarmente e accidentalmente; elemento soggettivo che determina una data sostanza nella sua singolare peculiarità; termine che, in età moderna, viene riferito alla coscienza individuale e all'autocoscienza intesa come attività consapevole dell'io. Il ribaltamento di significato nella storia del concettoModifica In filosofia il concetto di soggetto ha subito un ribaltamento del suo significato originario. Inizialmente il termine si riferisce a un concetto di essenzialità immutabile, ad una "oggettività" ben determinata e certa. Successivamente il significato si capovolge assumendo il valore di ciò che è apparentemente vero nell'ambito della soggettività individuale. Il termine latino infatti traduce l'originario greco ὑποκείμενον(hypokeimenon), che vuol dire appunto "ciò che sta sotto", ciò che secondo il pensiero antico è nascosto all'interno della cosa sensibile come suo fondamento ontologico.  Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Guido Calogero § La teoria sul pensiero greco arcaico. Quindi soggetto (ὑποκείμενον/subiectus) è la sostanza (sub stantia), ciò che di un ente non muta mai, ciò che propriamente e primariamente è inteso come elemento ineliminabile, costitutivo di ogni cosa per cui lo si distingue da ciò che è accessorio, contingente, e che Aristotele chiama "accidente": anzi, è proprio la sostanza che sorregge gli accidenti rappresentati da quelle qualità sensibili che mutano la loro apparenza nel tempo e nello spazio.  Sempre in Aristotele, poi, il soggetto assume anche una funzione sul piano logico-linguistico che corrisponde al piano del soggetto nella sua realtà: il soggetto nel giudizio è il punto di partenza, la base a cui viene attribuito, affermativamente o negativamente, il predicato mutevole.  «[...] E sostanza è il sostrato, il quale, in un senso, significa la materia (dico materia ciò che non è un alcunché di determinato in atto, ma un alcunché di determinato solo in potenza), in un secondo senso significa l'essenza e la forma (la quale, essendo un alcunché di determinato, può essere separata con il pensiero), e, in un terzo senso, significa il composto di materia e di forma[...][2]»  Un terzo aspetto particolare del soggetto in Aristotele è che questi non è soltanto sostanza, il sostrato materiale delle cose ma poiché ad ogni materia è inevitabilmente connessa una forma, il soggetto-sostanza è "sinolo" (synolon), unione indissolubile di materia e forma: «Questo primo sostrato suole essere identificato in primo luogo con la materia, in secondo luogo con la forma e in terzo luogo con il composto di entrambe»[3].  Il ribaltamento soggetto-oggetto inizia con Cartesioche pure mantiene una realtà sostanziale al pensiero soggettivo che definisca res cogitans, sostanza pensante. Ma poiché l'attività senziente viene concepita inizialmente come attributo del soggetto corporeo cui inerisce, «il termine soggetto è adoperato per designare, in genere, la coscienza e il pensiero, mentre il suo opposto passa a indicare la realtà che esiste in sé e che quindi è il termine cui il pensiero deve adeguarsi. Di conseguenza, nella stessa realtà si presenta come soggetto ciò che non si può pensare esistente se non in funzione del pensiero, e come oggettivo ciò che invece sussiste in sé indipendentemente dal suo essere conosciuto.»[4]  Nel lessico moderno, allora, "soggetto" fa coppia con "oggetto": da una parte c'è qualcuno che pensa, vuole, accetta, respinge, desidera, teme, ecc. (soggetto); dall'altra, necessariamente, c'è qualcosa che è pensato, voluto, accettato, respinto, desiderato, temuto, ecc. (oggetto). Nell'Ottocento, "soggetto" assume una serie di nuovi significati come "interiorità", "libertà" o anche "umanità", in quanto contrapposte alla Natura ed alla cieca materia. Dualismi come libertà/necessità, Spirito/Materia, Uomo/Natura, si possono ricondurre a quello fondamentale soggetto/oggetto. Questo insieme di significati è relativamente recente. Oggi si potrebbe meglio parlare di "autocoscienza" o anche "mente" contrapposta a "realtà esterna".  Gli antichiModifica Nel pensiero antico, almeno tra i presocratici, l'interiorità come già accennato non viene contrapposta alla "realtà esterna": uomo e cosmosono concepiti in stretta unità. Pertanto il primo pensiero greco non tematizza il soggetto. Il primo concetto filosofico, archè, indica il fondamento della legge naturale e di quella umana. Eraclito vede un'unica legge, un'armonia generale, operante nella natura e nella mente umana, il Lògos. Parmenideafferma che «lo stesso è pensare ed essere», ed «è necessario che il dire ed il pensare siano essere».[5]  Per Anassagora il Noùs è l'intelletto che governa il cosmo e che, a livello umano, pensa ed agisce. In tutti questi casi non si ha una chiara distinzione tra soggetto ed oggetto.  I Sofisti occupano un posto a parte: essi rifiutano in generale il concetto di "realtà", verso la quale ostentano uno scetticismo o un relativismo che è la loro caratteristica peculiare, per concentrarsi sul mondo umano. Socrate prosegue con il suo celebre "so di non sapere" al quale viene riportata l'autocoscienza. La Natura è inconoscibile, ed il compito proprio del filosofo diventa: «conosci te stesso». La ricerca si orienta verso l'interiorità dove troviamo il concetto universale di bene e male, virtù e vizio, giusto ed ingiusto, ecc.  Con Platone il concetto diventa Idea, da sempre presente nell'Iperuranio, mondo trascendente eterno e divino. Platone afferma la separazione tra pensiero (le Idee) e materia (le loro copie sensibili), ma attribuisce realtà oggettiva solo alle Idee: viene confermata l'unità tra soggetto ed oggetto, tra pensiero e realtà, ma tale unità viene sottratta alla sfera propriamente umana. La vita individuale è sede della dòxa, apparenza ed errore, mentre solo l'anamnesi, ovvero la visione dell'essere ideale, porta alla Verità. Così la filosofia, dal punto di vista della dòxa, si presenta come "fuga dal mondo" ed "esercizio di morte"[6].  Aristotele elabora un'ampia teoria sul soggetto, che coincide appunto con l'upo-kéimenon: è il substrato, il fondamento su cui "poggiano" le qualità accidentali (soggetto metafisico); è il soggetto grammaticale, di cui si dicono i vari predicati (soggetto logico). Aristotele afferma che «la sostanza pare che sia in primo luogo il soggetto di ogni cosa».[7] Alla sostanza competono numerosi altri aspetti (potenza, atto, materia, forma, entelechia ecc.), a seconda del contesto; ma tutti questi aspetti o significati afferiscono a quello fondamentale, che è la sostanza come soggetto. Perciò il soggetto umano, nel senso moderno, è solo un caso particolare di sostanza e di soggetto.  Riassumendo la posizione greca: con l'eccezione dei Sofisti, si riteneva che nella realtà del Cosmo l'Uomo e la Natura costituissero una unità o un'armonìa, o un rapporto di tensione, dove un principio unico (arché) li univa, e dove in ogni caso la sostanza (ciò che è esterno alla nostra mente) prevale ontologicamente sul soggetto (la mente).  Dal Neoplatonismo al RinascimentoModifica Con il Neoplatonismo la coppia soggetto/oggetto si presenta a livello cosmico, dove il polo soggettivo della realtà (che si manifesta ovunque, dall'Uomo al mondo divino) è unito a quello oggettivo (Essere), ma sono entrambi subordinati al Principio unico o Uno, anzi sono derivati da esso per emanazione. L'autocoscienza umana, il «so di esistere» non è che un riflesso, una manifestazione particolare dell'autocoscienza dell'Uno, che anche Plotino chiama Noùs (Intelletto). Si ha di nuovo la coincidenza tra soggetto e oggetto e l'"assorbimento" dell'intelletto umano in una dimensione intellettiva universale.  Sulla scorta di Aristotele, nel Medioevo il soggetto assume un significato ‘oggettivo’: il soggetto del discorso, l'argomento di cui si parla. Questo uso è corrente nel mondo anglosassone (subject, sinonimo di matter). Nonostante le apparenze, nemmeno Agostino si oppone al realismo filosofico: il suo protagonista è sì l'anima, l'interiorità; ma, come per Platone, l'anima vive e pensa grazie all'illuminazionedivina: il soggetto umano dipende in tutto da una Verità che lo trascende.  Col Cristianesimo si ha comunque ad una nuova concezione di Dio rispetto a quella greca: non più come entità impersonale, o semplice fondamento oggettivo della natura, ma come Soggetto vivo e pensante, di cui l'uomo è immagine e somiglianza. Nella disputa sugli universali, Tommaso d'Aquinoprende posizione a favore del realismo, nel contesto tuttavia di un'autocoscienza del soggetto ricondotta alla trascendenza divina.[8]  Su questa strada anche il Rinascimento descrive variamente l'interiorità come contatto con l'universale che si riflette nell'umano. Anima mundi (Ficino), Mens insita omnibus (Bruno), Intelletto (Cusano), sono espressioni e dottrine che esprimono quest'adesione del soggetto umano alla dimensione cosmica del Soggetto assoluto: l'uomo è un microcosmo che contiene in sé gli estremi opposti dell'universo, in quanto specchio dell'Uno dal quale proviene tutta la realtà. La natura partecipa di questa soggettività universale, essendo tutta viva e animata, non un meccanismo automatizzato ma abitata da forze e presenze nascoste.[9]  La filosofia modernaModifica Nel '600 si verificano due processi paralleli: con Galileo Galilei si inaugura la visione scientifico-matematica della Natura; con Cartesio viene inaugurata la visione moderna del soggetto. Questo duplice processo costituisce la base del dualismosoggetto/oggetto, e riflette la nuova consapevolezza da parte dell'uomo europeo del proprio potere sulla Natura.  Cartesio parte dall'evidenza che nella mia mente vi sono molteplici Idee, di varia natura (il significato cartesiano è differente da quello platonico: esse sono solo nella mia mente). Io non posso essere sicuro che a queste Idee corrisponda una realtà esterna al mio pensiero. Nel rapporto tra il mio pensiero e le Idee spesso l'oggetto (di cui l'idea è la mia rappresentazione mentale) non esiste materialmente: esso può essere immaginato, inventato, anticipato, ecc. Ma vi è soprattutto l'errore, ovvero la non-esistenza reale dell'oggetto pensato come reale. Quindi si può esercitare un costante dubbio circa la esistenza reale dell'oggetto, ma non si può mai dubitare della presenza delle Idee nella mente né dell'esistenza dell'io che dubita. Cartesio ha fortemente sbilanciato la coppia soggetto/oggetto a favore del primo termine. La celebre proposizione del "Cogito, ergo sum" riassume un lungo ragionamento che si può esprimere così:   Posso dubitare di essere ingannato riguardo qualunque verità (dubbio iperbolico), ma non posso ingannarmi sul fatto di essere io il soggetto ingannato; Se sto dubitando e ponendomi queste domande è necessario che io esista almeno quando me le pongo; Poiché infatti posso liberamente dubitare di tutto, non posso invece dubitare del mio libero atto del dubitare, di essere un pensiero che dubita; L'attributo necessario alla mia sostanza è il pensiero, poiché non sono in grado di concepirmi distinto da esso. Su questa base Cartesio costruisce un prototipo di quella che si può definire "metafisica del soggetto", dove l'io individuale diventa la prima sostanza, in ordine logico, e l'unica che possa costituire il fondamento dell'esistenza di tutte le altre. Determinante per la successiva elaborazione sul soggetto è il dualismo res cogitans/res extensa. Il pensiero è contrapposto alla Natura ed alla materia, che Cartesio identifica con l'estensione spaziale degli oggetti. Dal dualismo res cogitans/res extensa si svilupperà il meccanicismo come visione matematica e deterministica della Natura. Dopo Cartesio restano alcuni punti fermi:  L'autocoscienza umana non si aggiunge alla coscienza delle altre cose, ma è, per definizione, antecedente ad esse (Kant dirà: a priori) poiché soltanto nell'autocoscienza si manifesta tutto il resto; Le "cose", che il senso comune vuole esistenti di per sé, esistono anzitutto nella coscienza; la loro esistenza indipendente come sostanze va invece dimostrata; L'autocoscienza è perciò il sub-iectum delle altre cose, poiché mi viene data preliminarmente rispetto ad esse ed è capace di interrogarsi sulla loro esistenza. Anzi, la sostanza vera diviene la sostanza che si interroga sulla Verità. Con Leibniz tuttavia si ha una nuova metafisica del soggetto, più complessa del semplice dualismo cartesiano, basata sulla pluralità delle sostanze, che torna a riunificare la dimensione del pensiero con quella dell'essere secondo l'ottica platonico-aristotelica;[10] le idee, vere e proprie realtà pensanti che si esprimono nel soggetto metafisico (la monade, corrispondente nell'uomo alla sua mente) hanno di nuovo il ruolo di fondamento della verità. Infatti il giudizio, nella sua forma logica “S è P”, è vero quando il predicato è già contenuto nel soggetto, che è la sua causa o, per dirla con Leibniz, la sua ragion sufficiente. Il soggetto logico S esprime la sostanza reale o monade, che quindi è la causa della verità, sia in senso logico (come soggetto del giudizio), che ontologico (come ragion sufficiente del predicato). Se è vero che «Colombo scoprì l'America» (nel celebre esempio di Leibniz), la ragione di tale scoperta risiede nel soggetto, cioè in Colombo stesso. Leibniz descrive un soggetto già simile all'uomo moderno, come individuo indipendente dagli altri («la monade non ha porte né finestre»), dotato di una sua energia vitale (appetitus) e di una libertà e finalità sua propria (l'entelechiaaristotelica), ma inserendolo entro un quadro organico d'insieme, fondato sul concetto scolastico di «armonia prestabilita».  L'empirismo inglese, prima con John Locke e poi più decisamente con David Hume, reagisce a questa "sostanzializzazione" del soggetto criticando sia la nozione di "sostanza" (Locke), che poi quella stessa di “soggetto“ (Hume). Ma in tal modo l'empirismo perviene allo scetticismo, all'impossibilità di poggiare la concordanza tra soggetto e predicato su solide basi: ne va di mezzo la possibilità della conoscenza scientifica. Come in Cartesio, seppur partendo da una prospettiva opposta, gli empiristi giungono così a un dualismo, ad una frattura tra la dimensione soggettiva dell'esperienza, e quella oggettiva della realtà esterna.[11] Questa frattura tra la realtà e le sue rappresentazioni soggettive derivanti dall'esperienza verrà radicalizzata da Kant come opposizione tra fenomeno e cosa in sé (vedi oltre).  Concludendo sul pensiero moderno: all'opposto di quello antico, ora è il soggetto a prevalere sull'oggetto esterno, fino a diventare esso stesso un'entità metafisica autonoma (Cartesio), generando per reazione la negazione della sostanza (empirismo).  Kant e l'IdealismoModifica Con Kant si ha la "rivoluzione copernicana" che mette il soggetto al centro del sistema della conoscenza, facendo ruotare gli oggetti intorno alle sue forme a priori (quelle sensibili, cioè spazio e tempo, e le dodici categorie dell'intelletto). Il soggetto da individuo si fa soggetto trascendentale o puro: l'Io penso. Le forme a priori, infatti, su cui si fonda l'oggettività delle conoscenze empiriche, a loro volta poggiano su una forma universale, che è appunto il soggetto puro. Scrive Kant: «L'Io penso (…) deve poter accompagnare tutte le mie rappresentazioni, poiché altrimenti in me verrebbe rappresentato qualcosa che non potrebbe affatto venir pensato».[12] Il pensare dunque è un atto originario dell'io puro. Scrive ancora Kant: «La chiamo (...) originaria, poiché essa è quella autocoscienza che, col produrre la rappresentazione "Io penso", non può essere preceduta da nessun'altra rappresentazione, poiché condizione a priori di tutte le altre rappresentazioni».[13] Il soggetto empirico, l'io in carne ed ossa, deve la sua stessa identità (per cui io so di essere io) alla forma preesistente dell'Io penso, che è la medesima per tutti i soggetti empirici. L'Io penso kantiano non ha però un carattere sostanziale o metafisico come quello cartesiano, poiché è soltanto una forma, un contenitore: mentre i suoi contenuti sono i pensieri che i singoli soggetti empirici costruiscono sulla realtà fenomenica, ben distinta dalla cosa-in-sé; quest'ultima sussiste indipendentemente e al di fuori del soggetto, ed è pertanto inconoscibile. In questo limite conoscitivo del soggetto si manifestano il criticismo e l'avversione di Kant per la metafisica razionalistica. In Kant non abbiamo una metafisica del soggetto vera e propria, ma piuttosto una visione antropocentrica della Natura, in cui i nessi (logici e fisici) tra gli oggetti naturali non valgono di per sé, ma solo in relazione ad un soggetto generale, generico. La Natura è tale in relazione all'Uomo.  Da Kant all'idealismo il passo è breve: è sufficiente rimuovere la cosa-in-sé. Avremo così un soggetto trascendentale dotato di forma e contenuto, principio metafisico della realtà, sia di quella del soggetto (libertà, conoscenza) sia di quella dell'oggetto (Natura, materia). Così in Fichte e Schelling l'Ioassoluto è l'origine non solo dell'autocoscienza umana ma anche del non-io o Natura: l'identità di questi due termini è un'unione "immediata", attingibile solo al di là dell'opera mediatrice della ragione, tramite intuizione. Veniva perciò ripristinata l'unità indissolubile di soggetto e oggetto tipica della metafisica neoplatonica.  La dialettica soggetto/oggetto Soggetto e oggetto, pensiero ed essere, vengono unificati secondo Hegel nel momento in cui la ragioneprende coscienza che l'uno non può esistere senza l'altro, che un oggetto è tale solo in rapporto a un soggetto, e viceversa. A differenza di Schelling e delle filosofie precedenti, che pure ben conoscevano una tale dialettica soggetto/oggetto, nel sistema hegeliano è la ragione stessa che opera quest'unificazione, via via che ne prende coscienza, mentre nella metafisica tradizionale si trattava di un'unità già data a priori, sin dall'inizio, che la ragione si limitava a riconoscere, non a costruire da sola. Ne consegue in Hegel un'identità composita, non più immediata, dei due termini contrapposti.  Hegel identifica esplicitamente il soggetto con l'Assoluto, ed infine con il Dio cristiano, ma diversamente dai suoi predecessori li congiunge in forma "mediata", generando quindi nuovamente un dualismo. Secondo Hegel, «che la sostanza sia essenzialmente Soggetto, ciò è espresso nell'enunciazione dell'Assoluto come Spirito»,[14] ma quel che ancora mancava al soggetto puro era la concretezza dello svolgersi della vita umana nella dimensione storico-culturale, sociale, politica. Così egli elabora la nozione di "Spirito" (Geist) come soggetto unico ed assoluto che però inizialmente non sa di esserlo, per cui tutta la storia umana consiste in un progressivo prendere coscienza di sé da parte dello Spirito, proprio attraverso le vicende (politiche, culturali, religiose) degli uomini e dei popoli. Le diverse figure attraverso cui lo Spirito si autoconosce sono narrate nella Fenomenologia dello spirito, che è una sorta di storia romanzata della autocoscienza: essa inizia come semplice io empirico (certezza sensibile), ma poi attraverso numerosi passaggi dialettici diviene sempre più universale. Infine Hegel identifica lo Spirito con la stessa filosofia, che è l'autocoscienza dell'intera umanità e dove forma e contenuto coincidono, grazie all'opera mediatrice della razionalità; così Hegel si ritiene colui che ha dato alla Ragione illuministica il suo significato più pieno. Il successivo "sistema filosofico" dell'Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio (1817), basato sulla "dialettica" e suddiviso in Idea, Natura e Spirito, descrive le forme, progressivamente più vere e concrete, attraverso cui la realtà (o Idea, che Hegel definisce classicamente come "i pensieri di Dio")[15]viene pensata e diviene così contenuto dell'autocoscienza universale o Spirito.  Dallo Spirito hegeliano all'uomo concreto, sociale, storico, economico, il passo è di nuovo breve. La sinistra hegeliana e soprattutto Marx traducono l'idealismo in materialismo storico. Se per l'idealismo il soggetto è l'origine dell'autocoscienza e della Natura, per Marx il soggetto della storia è la classe sociale, ovvero un'autocoscienza collettiva costituita dalla sua dimensione economica, dalla sua posizione nel sistema produttivo. Marx traduce in forma consapevole il dominio dell'uomo sulla Natura ed infine sulla società, ovvero su sé stesso. I suoi strumenti non sono più (o non solo) il puro pensiero e la "scienza" newtoniana, ma piuttosto il lavoro e la tecnica come forme di umanizzazione della Natura. Il Progresso è il destino inevitabile del soggetto umano e storico. Il soggetto si lega inestricabilmente alla dimensione della tecnica, cosa non certo priva di significato. Heidegger rileva lo stretto legame tra l'affermarsi del dominio filosofico del soggetto e l'affermarsi della tecnica come orizzonte esistenziale dell'uomo moderno.  Il soggetto oggiModifica La filosofia già da un secolo va annunciando in varie forme la "morte del soggetto". Il soggetto ha fatto da supporto alla Rivoluzione scientifica e poi all'Illuminismo ed in generale al periodo storico in cui l'Europa è stata (e si è messa) al centro del mondo. La Rivoluzione Copernicana esprime un ottimismo della ragione che oggi per molti aspetti è entrato in crisi. La filosofia e l'epistemologia contemporanee hanno in vari modi portato oltre la relazione soggetto/oggetto quale unico fondamento della conoscenza della Natura.  NoteModifica ^ Secondo Aristotele costituito da una materialità informe, originaria e primitiva, pura potenza priva di atto. ^ Aristotele, Metafisica, VII, 1042a ^ Aristotele, Op. cit., VII, 1029a 2-5 ^ Enciclopedia Treccani, Dizionario di filosofia ^ Parmenide, Perì Phýseos (Sulla natura), fr. 3. ^ Platone, Fedone, 64a. ^ Aristotele, Metafisica, VII, 3. ^ Giorgia Salatiello, L'autocoscienza come riflessione originaria del soggetto su di sé in san Tommaso d'Aquino, Pontificia Università Gregoriana, Roma 1996 ^ Ad esempio Paracelso nel suo Liber de nymphis, sylphis, pygmaeis et salamandris et de caeteris spiritibus (1566) parlava apertamente di entità spirituali responsabili di ogni legge e avvenimento di natura. ^ Francesco Piro, Spontaneità e ragion sufficiente. Determinismo e filosofia dell'azione in Leibniz, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2002. ^ HomoLaicus: George Berkeley. ^ Kant, Critica della Ragion pura, par. 16. ^ Ibid. ^ Hegel, Fenomenologia dello spirito, introduzione (1807). ^ Vedere introduzione alla Scienza della Logica(1812). BibliografiaModifica (FR) Olivier Boulnois (a cura di), Généalogies du sujet. De saint Anselme à Malebranche, Parigi, Vrin, 2007. (FR) Alain de Libera, Naissance du Sujet (Archéologie du Sujet I), Parigi, Vrin, 2007. (FR) Alain de Libera, La quête de l'identité (Archéologie du Sujet II), Parigi, Vrin, 2008. (FR) Alain de Libera, La double révolution. L'acte de penser I (Archéologie du Sujet III), Parigi, Vrin, 2014. Rodolfo Mondolfo, La comprensione del soggetto umano nella cultura antica La Nuova Italia, 1967 (nuova edizione Milano, Bompiani 2012). Luca Parisoli (a cura di), Il soggetto e la sua identità. Mente e norma, Medioevo e Modernità, Palermo, Officina di Studi Medievali, 2010. Giorgia Salatiello, Il soggetto religioso. Introduzione alla ricerca fenomenologico-filosofica, Roma, Pontificia Università Gregoriana, 1999. (EN) Udo Thiel, The Early Modern Subject. Self-Consciousness and Personal Identity from Descartes to Hume, New York, Oxford University Press, 2011. Voci correlateModifica Individuo Oggetto (filosofia) Controllo di autoritàThesaurus BNCF 21561 · LCCN( EN ) sh85129424 · J9U( EN ,  HE ) 987007543742405171 (topic)   Portale Filosofia: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di filosofia Ultima modifica 3 mesi fa di 151.77.188.214 PAGINE CORRELATE Idealismo corrente filosofica che nega la realtà al di fuori del pensiero  Autocoscienza Appercezione l’atto riflessivo attraverso cui l’uomo diviene consapevole delle proprie percezioni (coscienza, io)  Wikipedia Il contenutoGiovanni Ferretti. Ferretti. While subjectivity and objectivity are pompous, intersubjectivity seems fine, only that it can always be replaced by the Italian ‘l’intersoggetivo’. “The inter-subjective” sounds Butlerian in English! Keywords: ‘l’intersoggetivo’, I soggetti, soggetto e oggeto, inter soggetti – la questione dell’oggetto nell’intersoggetivo – ‘the common ground’  -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Ferretti” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51761159508/in/dateposted-public/

 

Grice e Ferri – filosofia italiana – Luigi Speranza (Bologna). Filosofo. Grice: “I love Ferri; for one, he wrote on Ficino’s ‘dottrina dell’amore,’ which is of course Plato’s – and which I may call the most complicated philosophical doctrine of love ever conceived!” Insegna a Firenze e Roma. Linceo.  Discusse in tre lettere le “Confessioni di un metafisico” di Mamiani ed elabora in tre memorie le sue concezioni.  Pubblica la “Rivista italiana di filosofia.”    La filosofia platonica poggia su due basi: cioè sulla dottrina dell’idea e sulla dottrina dell'amore. Da esse provengono le teoria del vero e del bene, l'ordine dialettico e l'ordine morale in ogni sistema che accolga i principii e il metodo di Platone o della sua scuola. Ne segue che per conoscere in modo sufficientemente esatto la dottrina dell’amore di Ficino, non basta di esaminare la sua dottrina delle idee e dell'intelletto; conviene eziandio studiare i suoi pensieri sull'amore. Consideriamone adunque con lui la natura, l'oggetto, il fine, le specie, gli effetti, le attinenze coll'uomo, col mondo e con Dio; osserviamolo o immaginiamolo, com' egli fa, in se stesso e nei varii ordini degli enti; seguiamo rapidamente sulle sue traccie la splendore del bello e l'efficacia dell'amore nell'Antropologia, nella Cosmologia, nella Teologia, cioè nell'intera enciclopedia filosofica da lui percorsa nel suo Commento al Simposio platonico. (v. il fascicolo preceden to  Conf. La Dottrina dell'amore secondo Platone, lezione e note,  questa Rivista. Questa esposizione Firenze. Dopo d'allora fu pubblicata da Giovanni. L'amore generalmente considerato è desiderio del corpo bello, e il bello è una grazia che risulta da corrispondenza delle parti del corpo o da unità.  Questa corrispondenza delle parti o unità del corpo bello è di tre specie; o è affatto spirituale e consiste nell'armonia delle virtù interiori dell'animo, o è percettibile mediante li sensi ed è composto di una forma corporea o di voci. Dal che segue che il bello, non essendo riferibile se non ai sensi, altra facoltà e esclusa dal privilegio di conseguir e di goder il bello, e quindi che l'amore non ha altri strumenti da applicare.  Grato è a noi, dice Ficino, il vero e ottimo costume dell'animo; grata è la speziosa figura del corpo bello. E perchè queste tre cose, l'animo  Università di Palermo un'analisi accurata del Commento di Ficino sul Simposio platonico. Il lettore la troverà nelle sue Lezione di Filosofia (Palermo). Di questo Commento che è unito alla traduzione romana e italiana delle opere di Platone si hanno tre edizioni in toscano. Due sono del medesimo anno, delle quali una fatta in Venezia senza nome di stampatore: “Il Commento di Marsilio Ficino sopra il Convito di Platone e il esso Convito tradotlo in lingua toscana per Hercole BARBARASA da Terni con dedica al maguifico messer Gio. Battista Grimaldi”. Il Convito platonico vi è effettivamente tradotto in toscano ed unito al Commento. Un'altra è di Firenze, per Neri DORTELATA con dedica di un Bartoli al Duca Cosimo de' Medici. La terza è pure di Firenze e dovuta a GIUNTI. Entrambe queste ultime hanno per titolo “Sopra lo Amore ouver Convito di Platone”. Vi è premessa una dedica di Marsilio Ficino a Bernardo del Vero, cad Antonio Manetti, da cui risulta che la versione in lingua Toscana del Commento edito a Firenze dal Dortelata e riprodotto dal Giunti è opera propria di Ficino.  Le citazioni fatte in questa esposizione come gli estratti dati nell'appendice sono tolti da essa.  « come a lui accomodate e quasi incorporali di più prezzo « assai stima che l'altre tre, però è conveniente che egli più avidamente queste ricerchi, con più ardore abbracci, con più veemenza si maravigli. E questa grazia di virtù, figura o voce che chiama l'animo a sè e rapisce per mezzo della ragione, viso e udito, rettamente si chiama il bello (pulchrum, to kalon). Se si vuole conoscere la vera natura d'amore occorre, secondo Ficino, formarsi un giusto concetto del suo oggetto. I ragionamenti di Ficino su questo punto meritano di essere riferiti.  Trovandosi il bello nella forma del corpo bello, è mestieri che il bello sia una essenza comune. Non sarà dunque corporea, altrimenti non converrebbe agli animi; anzi tanto manca che il bello possa dirsi corporeo, che il bello da noi ammirato in una ‘forma’ non procede dalla ‘materia’, ma da un principio diverso ed è esso pure incorporale.  Difatto, il corpo puo perdere il suo bello. Quantunque, la ‘materia’ del corpo sostanzialmente non cambi, e può conservaro la stessa grandezza o la stessa piccolezza diventando brutto. La condizione del bello non corrisponde alla condizione della quantità e dell'estensione. Il bello e le sue vicende non dipendono punto dalla natura corporea e dai suoi più essenziali attributi. Nè si dica come fanno alcuni, che il bello è una certa posizione di tutti i membri del corpo o veramente commisurazione – simmetria -- e proporzione “pro portione” – portio cognate with Greek parao, to divide in parts --– analogia -- con qualche soavità di colori.  [ocr errors] ("). Objectum placitum res piacere Oggetti e piaceri del gusto, dell'odorato e del tatto relativi alla nutrizione, conservazione e generazione. Questa opinione non è ammissibile, imperocchè essendo  questa disposizione delle parti solo nell’organismo o cosa o corpo composto, nessuna cosa semplice sarebbe speciosa. Ma noi veggiamo « i puri colori, i lumi, una voce, un fulgor d'oro, il candor « dell'argento, la scienza, l'anima, la mente e Dio, le quali « cose sono semplici, esser belle. (bello naso romano) --. Il bello pue dunque esser in un composto, ma non s'anifica col composto, può essere nella pro-porzione, ma non s'identifica con essa. Avviene che stando ferma la medesima proporzione e misura della membra, un corpo non piace quanto prima. Certamente oggi nel corpo bello è la figura medesima che l'anno passato e non la medesima  “grazia” – non genera il medisimo gratitudo -- Nessuna cosa più tardi invecchia che la figura, nesssuna più tosto invecchia che la grazia. E per questo è manifesto non essere tutt'uno figura e il pulcro. E ancora spesso veggiamo essere in alcuno più retta disposizione di una parte e misura che in un altro; l'altro nondimeno non sappiamo per che cagione si giudica più “formoso” e più ardentemente si ama. E questo ci ammonisce che dobbiamo  stimare la forma bella essere qualche altra cosa, oltre alla disposizione de' membri. La medesima ragione ci ammae stra che noi non sospettiamo il pulcro essere soavità di colori: perchè spesse volte il colore in Socrate è « più chiaro, e in un giovane Alcibidiade è maggior grazia. E negli  uguali di età alcuna volta accade che quello che supera l'altro di colore è superato di grazia e di bellezza. Il bello non è dunque nè mistione di figure e colori, nè proporzione di parti, nè materia, nè quantità, e quantunque apparisca in un corpo bello, non ne risulta come da sua causa; il bello si conferma ancora considerando le condizioni del suo conoscimento nell’amante; imperocchè cid che piace, ciò che desta il senso della grazia è la specie o immagine dell’amato accolta nell'animo; e questa specie è incorporale poichè è dentro allo spirito; essa è una similitudine di un corpo bello – una statua --, non il corpo bello stesso, dal suo concorso o forma proviene il sentimento estetico di piacere e non dalla materia incapace di conferircelo fintantochè la sua forma non e posta in relazione con noi mediante li sensi. Infinita è la differenza fra la piccolezza della pupilla e l'ampiezza del cielo, ma in un punto solo lo spirito ne accoglie l'immagine e l'ammira. Finalmente mentre l’istinto corporali si acquietano e soddisfano mediante un determinato conseguimento del loro fine (l’orgasmo mistico), l'amore è insaziabile, e il suo andamento ci prova che havvi qualche cosa di superiore al corpo bello e al finito in lui stesso e nel suo oggetto. Difatto in che guisa si genera l'amore? In che modo commossi dal bello ne ammiriamo lo splendore? Eccolo. L'animo porta come impresse nel segreto di sua sostanza le ragioni delle cose; quivi sono le primitive idea del vero, del bello, dell'onesto, dell' utile: quivi le cause più profonde di nostro desiderio, le norme universali e spontanee che guidano il giudizio degli incolti, e formano di verità il senno naturale e istintivo dell' uomo. Se l'immagine di una persona passando nell' animo concorda con quella figura dell'uomo che l'animo porta in sè stampata come un sigillo, subito piace, e come bello si ama. Per  a qual cosa accade che alcuni scontrandosi in noi, subito ci piacciono, benchè « noi non sappiamo la cagione di tale effetto. Perchè l'animo « impedito dal ministerio del corpo, non riguarda le forme « che sono per natura dentro a lui, ma per la naturale e « occulta sconvenienza o convenienza, seguita che la forma della cosa esteriore, con la immagine sua pulsando la forma della cosa medesima, che è dipinta nell'animo consuona, e da questa occulta offensione, ovpero allettamento, 'l'animo commosso, la detta cosa ama. Il bello è dunque corrispondenza di un corpo alle loro idea, e quella eziandio che risplende nel corpo bello è un certo atlo di vivacità e di grazia che dipende dal loro influsso. Poichè ordine. modo e specie, cioè distanza commisurata di parti, debita grandezza di membri, conveniente qualità di linee e di colori concorrono ad abbellire la figura umana, quando convengono fra loro e nella unità del suo tipo, quando concordano con le ragioni di ciascuna parto e con quella del tutto. L'amore osservato in noi è dunque rivolto a un oggetto intelligibile; il bello che egli ricerca è cosa spirituale; l'idea, la verità, a cui si riferisce la sua più profonda inclinazione tende a separarlo dal corpo bello, a innalzarlo sopra gli enti sensibili, a trasportarlo sulle ali della mente fra gli oggetti divini e immutabili. Ma che cosa è adunque allora l'ainore in sè, l'amore come principio di tutti gli amori; è egli dunque un Dio, è egli perfetto e beato, felice, ricco, virtuoso, bastante a se stesso? Ovyero continuando a rappresentarlo sotto la forma del mito, dobbiamo figurarcelo, secondo il Convito di Platone, come un “demone”, cioè sotto la specie di un ente imperfetto, di un genio tramezzante il divino e l'umano, bello e brutto, ricco e povero, sapiente e ignorante, felice e infelice, nato dalla povertà e dall’abbondanza il giorno che i celesti celebravano i natali di Venere? Ficino ammette l'uno e l'altro concetto, ma dà più importanza al primo che al secondo e quest'ordine è conforme allo spirito generale del suo sistema. Mentre Platone nel Convito lasciando l'amore nel punto della sfera del finito che tocca l'infinito, ne fa soltanto un “demone” che aspira alla perfezione, ma che non giunge a conseguirla, Ficino, unendo il demiurgo del Timeo all'amore del convito, ravvisa in lui un demone e un dio, e più spesso il secondo che il primo, anzi egli attribuisce positivamente l'amore all'essere infinito. Il Dio del Timeo, che non ha invidia, mentre vuole il mondo perchè ne ama l'idea; il Dio di Filone e per Ficino il vero Dio, il suo Dio è come quello di Aligheri un amore infinito che spande la bellezza nell' uni  verso.  Ma prima di salire con lui alla regione più alta in cui possa recarsi la filosofia dell'amore, rimaniamo per qualche tempo ancora in terra e rendiamoci conto della sua vera natura nell'uomo.  A malgrado della tendenza mistica che distingue tutta la dottrina di Ficino ed era profondamente radicata nelle sue abitudini e nel suo carattere, a malgrado dell'indirizzo spirituale e religioso che in tutto il suo commento al Convito platonico egli si sforza di dare all' amore, è per altro ben costretto di confessare che oltre al desiderio della verità e di quell bello che si attiene alla mente, un'altra inclinazione l'accompagna, un altro istinto e un altro fine ne determina nell' uomo le fasi e lo svolgimento. Cosicchè dopo averlo definito semplicemente “desiderio del bello”, corregge con Platone l’analissi quando si tratta di applicarla all’amante e ammette che è “appetito – cupido -- di generare nel subbietto bello, per conservare vita perpetua nelle cose mortali. Questo è il fine del nostro amore, questo è l'amore degli uomini viventi in terra.  Ne segue che egli pure debba con Socrate distinguere i due influssi di Venere celeste o urania e di Venere volgare (sub-lunary), dividere fra esse l'attività umana; le nostre aspirazioni e i nostri bisogni; che debba attribuire all’amore volgare o sub-lunare la tendenza alla generazione e al godimento materiale, all'amore celestial il desiderio della contemplazione e dei piacere virtuoso, e che congiungendo questa doppia direzione dell' amore con la triplice forma della vita sensibile, attiva e contemplativa di cui l'uomo è capace, egli ravvisi nell'uva delle due Veneri la causa che ci innalza dalla voluttà al godimento della virtù e della scienza, nell'altra la cagione che ci abbassa dalla scienza e dalla virtù al piacere materiale; in quella la forza che ci fa salire per gli ordini della perfezione, in questa l'impulso che ci fa discendere i gradi della decadenza morale. Ficino svolge con compiacenza il concetto di questa opposizione e insiste lungamente sulla superiorità dell'amore celestiale; il sentimento cho lo guida, la qualità del suo carattere, l'indole stessa della sua filosofia, i fini che egli si propone scrivendo dell'amore, gliene ne fanno per così dire una legge. E per fermo nella sua filosofia lo spirito signoreggia talmente che il corpo (soma) bello diventa una sua creazione, che l'anima dimora nella materia come ospite e prigioniera, finchè ne abbia infranto per così dire i cancelli e sia tornata nella regione sopra-celeste (non sub-lunare) fra le anime beate. Immensa è la catena degli spiriti che Ficino, guidato dalla mistica, stende fra la terra e il cielo, e come ce ne convinceremo fra poco, l'Angelologia non è meno connessa presso di lui con la dialettica dell' amore che con quella dell'intelletto.  Inoltre il sentimento religioso e l'onestà della coscienza lo spinsero a combattere la scostumatezza dei contemporanei, a portare l'amore verso la meta più alta, a sollevarlo dal fango delle passioni epicuree. Difatto, sogliono i mortali,   quelle cose che generalmente o spesso fanno, dopo lungo uso, farle bene, e quanto più le frequentano farle meglio. Questo per la  nostra stoltiza falla in amore. Tutti continuamente amiamo in qualche modo, tutti quasi amiamo *male*, e quanto più amiamo, tanto peggio amiamo e cid avviene perchè entriamo in questo faticoso viaggio d'amore, senza conoscer ne il termine e i passi. È dunque nella cognizione di questo termine che si travaglia la sua filosofia. Trasmessa da Socrate a Platone essa viene significata da Ficino ai suoi concittadini per innalzare la loro mente al vero fine della vita. Ed egli è talmente persuaso della importanza della sua missione che l'insegnamento platonico su questo soggetto è per lui l'effetto d'un decreto della provvidenza, una vera rivelazione dello Spirito divino, un mezzo onde l'amore infinito riduce a sè gli amori erranti dei mortali, e li guida al godimento della bellezza assoluta. E così in questa coine nelle altro  parti della sua filosofia si ritrova quel miscuglio entusiastico di Platonismo e di Cristianesimo indefinito e largo che senza dubbio era frutto dei tempi, ma forse più ancora si atteneva al suo intelletto e a un'indole ondeggiante fra i dogmi alquanto incerti di una erudizione non sempre ben coordinata e precisa. Ma prima di giudicare la dottrina di Ficino sull'amore e di additare la causa dei suoi pregi e dei suoi difetti, facciamo di esporla il più completamente possibile.  Arriviamo con lui al termine della dialettica e prima vediamo che via convien tenere per conseguirlo. È quella medesimá che Platone insegnò nel Convito sotto il nome di Diotima, mostrando come l'animo nostro dai vestigii esteriori della bellezza sparsa nei corpi di una medesima specie, raccolga l'idea di uno bello solo e limitato, poi come delle bellezze distinte e coordinate delle specie corporee formi la bellezza più estesa di un solo genere; poscia in che guisa passando dall'ordine fisico allo spirituale, dalle bellezze visibili alle invisibili, componga le specie, poi il genere del bello intellettuale e morale sparso nelle virtù, nelle scienze, nelle facoltà e doti tutte dell'essere spirituale, fintantochè accorgendosi che i due ordini partecipano a una medesima idea di perfezione e beltà infinita, sciolta da ogni limitazione, superiore ad ogni genere e specie, la mente si riposi nell'assoluta unità, e quella ami senza modo e misura. Tale è finalmente il termine della salita d'amore, tale è la fonte in cui si appaga la sua sete inestinguibile. « Bi« sogna, dice Ficino, cercarla altrove che nel fiume della ma« teria, e nei rivoli della quantità, figura e colori. O miseri « amanti in che luogo vi volgerete voi? Chi fu quello che  [ocr errors][ocr errors] « accese l'ardentissima fiamma nei vostri cuori? Qui è la « grande opera, qui è la fatica. Io ve lo dirò, ma attendete. La divina potenza superiormente allo universo, agli « angeli, e agli animi da lei creati, clementemente infonde, « siccome a suoi figliuoli, quel suo raggio, nel quale è virtù « feconda a qualunque cosa creare. Questo raggio divino in « questi, como più propinqui a Dio, dipinge l'ordine di « tutto il mondo, molto più espressamente che nella materia « mondana. Per la qnal cosa questa pittura del mondo, la « quale noi veggiamo tutta, negli angeli e negli animi è più « espressa che innanzi agli occhi. In quella è la figura di « qualunque specie, del sole, luna, stelle, degli elementi, « pietre, alberi e animali. Queste pitture si chiamano negli « angeli esemplari e idee, negli animi ragioni e notizie, nella « materia del mondo immagini e forme. Queste pitture son « chiare nel mondo, più chiare nell'animo e chiarissime sono « nell'angelo. Adunque un medesimo volto di Dio riluce in « tre specchi posti per ordine nell'angelo, nell'animo e nel « corpo mondano. Così Ficino congiunge la sua dottrina degli enti con quella dell'amore, la sua Angelologia con la sua Estetica; così egli unisce il suo dogmatismo mistico con le belle osservazioni e i profondi concetti che ha ricavati da Platone e dalla scuola d’Alessandria; così egli varia gli aspetti della filosofia dell'amore, non senza dilettare o abbagliare l'immaginazione e fornire all'animo poetico e religioso un pascolo dilettevole quantunque non sempre con uguale profitto per la so da scienza.  Di tre simboli si serve principalmente Ficino per espri  mere la relazione della bellezza divina colle bellezze create e la sua diffusione nel mondo; il lume, lo specchio e il cerchio. Ora seguendo le traccie di Platone egli ci rappresenta Dio come un sole intelligibile che non diversamente dal sole sensibile produce un lume universale, crea colle forze fecondate dal suo calore l'occhio e la facoltà di vedere, suscita e rende visibili nella materia le forme che l'adornano; ora volgendosi a considerare l'idealità delle cose mondane e a significarne l'origine, ce la rappresenta come un raggio che uscito dalla mente divina accende l'intelletto puro degli angeli, vi produce come in ispecchio gli esemplari degli enti, e di là si ripercuote come in altro specchio nei corpi, per giungere così riflesso all'animo nostro ed unirsi con quello che ci viene direttamente da Dio. Ora finalmente ci figura Dio come un centro posto in mezzo ai quattro cerchi concentrici della mente, dell'anima, della natura e della materia, ce lo dipinge come una forza infinita che da un punto solo raggia a tutti i punti delle circonferenze l'essere e la verità, il bene e la bellezza. Unità assoluta Dio penetra per tutto senza dividersi, proroca e regola il moto senza muoversi, produce il multiplo e il vario senza uscire di sua perfetta semplicità. Con un medesimo lume con una medesima efficacia egli raggia nel cerchio delle menti angeliche le idee o verità, in quello delle anime le ragioni o pensieri; nel cerchio della natura i semi; in quello della materia le forme.  In questi cerchi sono tre mondi che mediante la divina virtù passano dal nulla all'essere, dal caos all'ordine, dall'ordine alla perfezione; i mondi cioè della mente, delle anime e dei corpi. Ciascuno di essi è creato, attratto e perfezionato da Dio, il quale come fattore è principio, come perfezionatore è fine, come potenza attrattiva è mezzo universale degli enti. E il ternario della vita universale, mentre si manifesta nel ritmo cosmico della creazione, attrazione, e perfeziono delle cose, si palesa eziandio nella sostanza dei tre mondi della mente, dell'anima e della materia, e più alto ancora nel triplice attributo di Dio: Bontà, il bello e Giustizia. La Bontà crea, la Bellezza attrae, la Giustizia consuma l'opera dell'una e dell'altra. Cosicchè per ultimo tutto procede fontalmente da Dio, tutto è a Dio rapito e in lui tutto ritorna e consiste per atto terminativo o perfetto; tutto viene dall'unità e all'unità si riduce; e la causa principale di questo movimento è la bellezza, l'atto per così dire centrale di questa circolazione della vita è l'amore, amore perfetto e pieno possessore del bello in Dio, amore imperfetto e ricettore meno ampio del suo splendore nel mondo e nell'uomo, nell'angelo, nell'anima e nel corpo.  « Con essa (bellezza) dice Ficino, Dio rapisce a se il mondo « e il mondo è rapito da lui; un certo continuo attraimento è « tra Dio e il mondo; che da Dio comincia e nel mondo « trapassa, e finalmente in Dio termina, e come per un « certo cerchio, d'onde si ripartì, ritorna. Sicchè un cerchio « solo è quel medesimo da Dio nel mondo, e dal mondo in « Dio, e in tre modi si chiama. In quanto ei comincia in « Dio o alletta, Bellezza; in quanto ei passa nel mondo o « quel rapisce, Amore; in quanto, mentre che ei ritorna nello « autore, a lui congiunge l'opera sua, dilettazione. Lo amore « adunque cominciando dalla bellezza, termina in dilettazione».  Egli è a questa dilettazione o beatitudine che Ficino ci chiama, facendosi interprete della religione che suol chiamarsi  naturale, del Cristianesimo e del Platonismo; egli ce la promette nella vita sopramondana; in quell' Iperuranio che Platone da sublime poeta dipinge nel Fedro, in quel Cielo che il genio di Dante sparge di luce e letizia crescente di sfera in sfera fino alla bellezza sfolgorante dell'Empireo e alla maestà del trono divino. Nella sua immaginazione, riscaldata dal misticismo, i due concetti si fondono, i due cieli si unificano, le due religioni si mescolano in una essenza comune, e la intuizione poetica guida e signoreggia la mente del filosofo. Il linguaggio di Dante e di Platone viene successivamente e promiscuamente sulle sue labbra; poichè ora egli vede l'amor divino menar gli animi alla mensa dei celesti abbondante di ambrosia e di nettare, ora contempla l'ordine in cui il medesimo amore dispone per così dire i loro scanni, e la distribuzione con cui li rende quieti e beati. Ficino ammira la perenne effusione e letizia di un affetto che sempre si rinnova e si bea nella sua fonte eterna; congiungendo la terra al cielo, la vita mondana alla celeste, egli ravvisa nell'amore il vincolo dell'una e dell'altra, una medesima forza che si svolge e si perfeziona e quasi un medesimo dramma che s'inizia nella prigione del corpo e si compie in una esistenza pienamente libera e spirituale. Imperocchè i gradi di quelli che seggono nel convito celeste, dice Ficino, seguitano i gradi degli amanti; quelli che più eccellentemente Dio amarono, di più eccellenti vivande quivi si pascono. Ciascuno lo göde sotto un aspetto, e cioè sotto quel medesimo che più amd e imitd sulla terra; in lui la giustizia, la fortezza, la temperanza contempla il beato e fruisce secondo la virtù che lo distinse, secondo il mezzo onde il suo amore si sublimo, e l'idea onde la sua mente fu più inva  ghita. Ma qualunque sia il principio che informa la beatitudine di ciascun'anima, esso è sempre un aspetto di Dio, e per così dire uno splendore del suo volto; cosicchè la gerarchia delle idee divine costituisce i gradi della beatitudine e la medesimezza della divina natura ne forma l'unità.  Ecco ora spiegato l'enigma dell'amore secondo Marsilio Ficino; nell'ultima parte di questa dottrina voi ravvisate un predominio del sentimento religioso e dell'intuizione poetica sulla ragione filosofica, un'abitudine di dogmatizzare che si sostituisce all'atto schietto dell'osservare e del ragionare, o nondimeno una sintesi di concetti e di rappresentazioni che formano un tutt'insieme elevato e degno della nostra ponderata considerazione; sopratutto per le sue attinenze coi fini che Marsilio si proponeva, colla causa della religione allora cosi decaduta nei costumi e nelle credenze, e alla quale ogli si consacrava; colla poesia pazionale che mercè do'suoi commenti si ricongiungera all'Estetica di Platone; finalmente coll'arte che nella patria di Giotto e del Beato Angelico conseguira, mediante i suoi lavori, una coscienza più piena della propria idealità, e una spiegazione più compiuta delle sue inspirazioni.  Grau differenza certo è fra Platone c colui che volle essere suo schietto discepolo, ma non vi riuscì, nè poteva impedito dal suo proposito di conciliare la dottrina del filosofo Atoniese col Neoplatonismo degli Alessandrini e l'uno e l'altro col Cristianesimo. Platone avera bensì additato all'anima umana la bellezza incrcata e perfetta como termino supremo della sua contemplazione; aveva egli detto veramente che il corpo è una prigione per essa, e che la sua vita comincia colla morte corporeil; aveva insegnato como un sublime do  [ocr errors] vere la fuga dalle cose sensibili alle intelligibili, dai fenomeni alle idee, e qualche altro pronunciato si troverebbe ancora nelle sue opere che divenne pei posteri germe prolifico di dottrine mistiche ed esclusive. Ma egli aveva pure fatto dell'amore un demone, e come un mediatore fra l'uomo e Dio, una sintesi dei contrarii, un misto di perfezione e d'imperfezione; per cui innalzandolo al cielo non lo separava dalla terra, rendendogli le ali non lo dividera dalle passioni e dagli istinti che nei suoi miti stupendi sono rappresentati dai cavalli del cocchio dell'anima e si connettono con le necessità, i fini e le vicende della vita terrena. Egli definisce 'propriamente l'amore il desiderio di generare nella bellezza, e dividendo questa generazione in materiale e spirituale, egli vede soggiacere all'impero e al connubio fecondo dell'amore e del bello la vita filosofica, religiosa, morale artistica e fisica dell'umanità; per lui le opere belle e buone provengono tutte dall'idea e dall'amore, e la unione e fecondità di entrambi si scorgono nella vita dei grandi poeti, dei fondatori della religione, dei legislatori più sapienti, dei filosofi più sublimi, come nelle leggi secrete che astringono la vita del mondo al mantenimento dell'ordine universale e nei moti istintivi che portano gli animali all'accoppiamento e alla perpetuazione della specie.  Così è, Platone, a malgrado della tendenza profondamente idealistica della sua filosofia, non separa l'amore dalla realtà, e anzi talvolta lo lascia cosiffattamente errare fra gli scogli dei costumi e della società greca, che vi rompe spesso e perde le penne leggiere che debbono volgerlo all' alto e portarlo dalla terra al cielo.  Nella dottrina platonica il carattere religioso dell'amore  si fondava sul razionale, rimaneva dialettico e non si tramutava in un processo mistico. Sotto la guida dell'intelletto saliva dall'umano al divino per ricongiunger questo a quello, benchè i due termini non vi fossero uniti in quella intimità profonda che la trascendenza delle idee platoniche non poteva ammettere. La separazione originaria dell'intelligibile dal sensibile vi apriva bensì un adito al misticismo, come un mezzo di supplire alla insufficienza speculativa della metessi o partecipazione, ma non l'introduceva se non accessoriamente col mito e la immaginazione, chiamati a simboleggiare i misteri dell'oltretomba e a rappresentare artisticamente concetti scientifici sulle attinenze dell'anima col corpo e sulla produzione del mondo. Ma la dialettica ontologica di Ficino foggiata su quella di Proclo non poteva mantenersi in questi confini.  Presso di lui l'amore sembra non avere altr'ufficio sulla terra che di indirizzarci al cielo, i suoi ministerii antropologici, sociali, artistici, scientifici non valere che a rispetto della sua meta suprema. Era questi mezzi Ficino ne distingue principalmente quattro, la poesia, la religione, la divinazione o dono profetico e l'amor divino, e, nel suo modo di vedere, l'opera del sentimento predomina in essi talmente sulla ragione che dilatando il concetto attribuito dal Socrate platonico nel Fedro a Stesicoro e applicato nello Jone specialmente alla facoltà poetica, egli chiama furori gli affetti dai quali dipendono e misura i loro pregi dall'impulso entusiastico col quale concorrono ad unificar l'animo, toglierlo all'agitazione e al moto, accostarlo all'immobilità dell'angelo, e finalmente rapirlo in estasi sopra la moltitudine delle cose mondane fino all'essenza e unità divina (').  M) A conferma del carattere mistico del Commento di f'icino si aggiunga che nell'orazione quarta detta dal Landino il grazioso mito. In Platone l'amore collegandosi colle simpatie naturali e colle tendenze ideali nobilitava gli istinti, stendeva un velo di bontà morale sulla passione, rendeva gli amanti intenti al reciproco, perfezionamento, desiderosi della vicendevole felicità, ammiratori di una comune bellezza; di guisa che in forza della efficacia ideale, dell' amore, un raggio di poesia e di virtù si stendeva sulle sue condizioni reali, ne purificava le funzioni e i fini, ne connetteva i' risultamenti col bene dell'individuo e della società.  Questo aspetto stupendo dell'affetto umano in cui risplende il bene pratico e civile, che si connette con l'eroismo e la gloria, con le virtù operative e feconde, o è stato trascurato o almeno non ha ricevuto il necessario srolgimento nella dottrina di Marsilio. Egli ci ammonisce per vero che dobbiamo, amar Dio in tutte le cose, e tutte le cose in Dio, e che per gịungere a questa purificazione dell'amore ci è mestieri di contemplare la pura essenza delle cose nella luce dei loro tipi ideali, che sono il raggio immediato della Verità e Bontà divina. Là noi troveremo il vero uomo, là vedremo la natura e il fine degli enti, il vero oggetto di tutti i nostri ufficii. Ma in che modo questi bei precetti possono essi applicarsi alla vita? Ficino non ce lo dice; Ficino non discende da quest'altezza. Mentre Platone segue l'amore nelle sue fatiche e nelle sue ansie, mentre abbracciando con ardore il doppio ordine della  degli Androgini esposto da Aristofane nel Convito platonico è nel Commentu di Ficino trasportato dalla integrità e divisione dell'uomo alla integrità o divisione delle relazioni della conoscenza o attività psichica col lume sopranaturale e naturale. Separata. da Dio e aflidata al solo lame ingenito l'anima è come ridotta alla metà di se stessa, frutto della sua superbia. Essa non ritrova l'altra sua metà e non si reintegra che ritrovando il lume sopranaturale.  vita attiva e contemplativa lo conduce di grado in grado ad ammirare le bellezze del mondo ideale per farne penetrare la luce nelle operazioni e nelle forme del mondo reale, Ficino si contenta d'allontanarlo il più possibile dal corpo e dai suoi piaceri, di persuaderlo che la vista, l'udito e l'intelletto sono i soli mezzi di cui possa giovarsi al suo vero scopo. Ottimi intendimenti, eccellenti consigli, e certamente efficaci sugli animi ben naturati, quando vadano congiunti a due importanti condizioni, e cioè 1° di non dimezzare la natura umana dimenticandone gli imperiosi bisogni, gl' istinti e i fini provvidenziali, e 2o d'aprire all'umana attività una carriera in cui le sue passioni abbiano sfogo regolandosi colle norme della scienza della virtù. No, le idee non son fatte soltanto per essere vagheggiate da solitarii ed egoisti contemplativi, ma eziandio per essere recate all'atto, e sposate per così dire al mondo con fecondo connubio. L'idealismo non può essere la guida della umanità senza l'appoggio del realismo; l'uno e l'altro presi isolatamente sono esclusivi; la loro unione soltanto è vera e feconda. Invano Ficino rapito dalla idea della bellezza assoluta e vedendola scaturire dall'unità divina, mi traccia la via d'amare e mi consiglia di cercarne l'oggetto nell'unità degli enti spirituali, salendo dal corpo (forma) all'anima, dall'anima all'angelo, dall'angelo a Dio; in questa salita in cui la scienza gli rimprovera di realizzare l'astratto, separando la mente dall'anima per crear l'angelo, e di trasportare le tradizioni religiose nelle dottrine filosofiche, il cuore umano separato dalla realtà gli domanda imperiosamente di far ritorno alle sue vere condizioni; egli vuol essere innalzato, ma al patto di riportar tosto dalle sue peregrinazioni celesti, e, per cosi dire dal convito dei beati,  [ocr errors][ocr errors][merged small] quel nettare e quell' ambrosia che spargono di giustizia e bellezza le relazioni della vita, che pascono lo spirito di verità ideale per renderlo efficace operatore di beni e di virtù reali. Invano Ficino conforta i suoi contemporanei a contentarsi, nell'amore, degli atti della vita contemplativa; inutilmente egli deplora i corrotti costumi di una società scettica e dimentica del dovere. La baldanza trionfante dei sensi e della materia resiste alla sua voce come a quella del Savonarola. Lorenzo il magnifico non si distoglie dal suo epicureismo, e la gioventù fiorentina concorre avida e frequente a crescere il numero dei suoi imitatori. L'ascetismo del frate riformatore e il misticismo del sacerdote filosofo sono rimedii troppo superiori alle abitudini della società contemporanea. Essi sarebbero insufficienti a ricondurre qualunque altra società a quelle virtù che rampollando dalle nostre relazioni colla famiglia, colla patria e coll'umanità, innalzano l'amore pei gradi di una gerarchia disposta dalla natura fra l'individuo e l'autore del mondo morale. In questo ordine non bene apprezzato dall'idealismo stesso di Platone, consiste la vera salita d'amore; in queste sfere egli pud essere ad un tempo divino e umano, religioso e civile; egli pud diventar sublime senza cessare di essere pratico, prender per guida l'idea senza perdere di vista la realtà; in esse può spiegarsi la sua forza dal modesto affetto che nudrisce e veglia la vita infante delle mortali generazioni fino all'eroismo che rapito dalla bellezza della giustizia sacra e immola se stesso al trionfo della libertà e del diritto.  A questo segno aveva mestieri di essere condotta Firenze, a questa meta avrebbe dovuto rivolgersi l'Italia sulla fine del 400, per rifare le proprie convinzioni, per correggere  i  suoi costumi, per dare alla forza materiale un fondamento incrollabile nella forza morale.  In questo modo essa avrebbe dovuto provvedere per tempo a se medesima, e opporre l'usbergo della virtù e del coraggio allo straniero che stava per immergerle il ferro nel seno. Egli venne attratto dalla sua bellezza; la trovò mal difesa, la vinse e se ne insignor). Videro i sapienti di quel tempo lo strazio ch'egli ne fece schernendo la sua debole resistenza, e Ficino era fra essi.  Lagrimò il pio sacerdote su tanto male, ricordd agli uomini i loro trascorsi e i segni del cielo forieri di punizione; gl'invitd a rassegnarsi e a pentirsi. Un altro conforto egli porse a Firenze afflitta, interponendosi fra essa e Carlo VIII, e con orazione più informata a carità che a fermezza, si sforzo di volgere l'animo di lui a miti e clementi consigli. Cristiane intenzioni, pietosi ufficii! Ma altri aiuti, altri difensori richiedevano i tempi, e l'energia di Capponi mostrd di che tempra sono gli animi da cui dipende la salvezza dei popoli. Il libro di Ficino sopra l'Amore consta di Orazioni che espongono e commentano con indirizzo neoplatonico, quelle che sono contenute nel Convito di Platone. Ficino stesso narra nel capitolo primo l'origine e lo scopo del suo lavoro.  Platone spird (secondo la tradizione) in un convito nell'ottantunesimo anno di sua età il 7 di ottobre, giorno anniversario della sua nascita, cosicchè gli antichi platonici, ogni. anno, celebravano cotesto giorno in un convito. Abbandonato per mille e dugento anni da Porfirio in poi il rito solenne, fu restaurato con regale apparato per ordine di Lorenzo il Magnifico nella villa di Caregri, sotto la direzione di Francesco Bandini che ne fu costituito Architriclino.  I convitati furono 9, pari cioè al numero delle muse. Sette figuransi le orazioni dette e corrispondono a quelle che sono contenute nel Convito platonico. Si trassero a sorte le parti da sostenersi e la sorto presaga dell'intenzione del vero commentatore le distribui precisamente nel modo più conveniente alle qualità dei personaggi del nuovo Simposio. Cosicchè la orazione di Fedro, bello e giovane retore, tocca a Giovanni Cavalcanti, che per virtù e nobiltà di animo come per bellezza esteriore fu chiamato l'eroe del Convito; la seconda detta da Pausania ad Antonio degli Agli vescovo di Fiesole, la terza di Erissimaco medico a Ficino; la quarta di Aristofane a Cristoforo Landino; la quinta di Agatone a Carlo Marsuppini, la sesta di Socrate a Tommaso Benci, la settima di Alcibiade a *Cristoforo* Marsuppini. Ma il vescovo e il medico debbono partire per la cura delle anime e dei corpi e commettono le loro disputazioni a Giovanni Cavalcanti. Ficino non poteva essere più cortese coi suoi discepoli e amici platonici. In questo banchetto reale la cui fatica ideale e commemorativa è tutta sua egli si è ecclissato. Anche il Nuti e il Bandini che insieme cogli oratori compiono il numero sacro delle nove muse non sono da lui dimenticati. Al Bandini ordinatore del banchetto non aveva bisogno di attribuire altra parte che quella assegnatagli da Lorenzo. Dal Nuti suppose fatta la lettura del Simposio platonico premessa ai commentarii. Secondo Bandini sarebbe Cavalcanti che avrebbe persuaso Ficino a scrivere il dialogo dell’amore per invogliare la gioventù del celeste bello.  La versione toscana del Commento di Ficino al Convito essendo divenuta ziuttosto rara, e desiderando far conoscere con qualche particolarità le speculazioni del filosofo fiorentino sull'Amore, stimo opportuno di aggiungere alcuni estratti alle citazioni contenute nel testo. Definizione della Bellezza e dell' Amore.  Il bello è una certa grazia, la quale massimamente e il più delle volte nasce dalla corrispondenza di più cose; la quale corrispondenza è di tre ragioni. Il perchè la grazia che è negli animi è per la corrispondenza di più virtù. Quella che è nei corpi, nasce per la concordia di più colori e linee. È ancora grazia grandissima ne' suoni, per la consonanza di più voçi. Adunque di tre ragioni è la bellezza; cioè degli animi, de' corpi e delle voci. Quella dell'animo con la mente sola si conosce: quella de' corpi con gli occhi; quella delle voci non con altro che con gli oreochi si comprende. Considerato adunque che la mente e il vedere e lo udire son quelle cose, con le quali sole noi possiamo fruiro essa bellezza; e lo amore di fruire la bellezza desiderio sia; bo. Amore sempre della mente, occhi è orecchi é contento. Lo appetito che gli altri sensi seguita, non amore, ma piuttosto libidine o rabbia si chiama.  Finalmente che cosa è un corpo bello? Certamente è un certo atto, vivacità e grazia, che risplende nel corpo. Questo splendore con discende nella materia, s' ella non è prima attissimamente preparata. E la preparazione del corpo vivente in tre cose s'adempie, ordine, modo e specie. L'ordine significa la distanza delle parti, il modo significa la quantità, la specie significa lincamenti e colori. Perchè in prima bisogna che ciascuni membri del corpo abbino il sito naturale, e questo è che li orecchi, li occhi, il naso e. gli altri membri siano ne' luoghi loro, e che gli orecchi" 'amendoi egualmente sieno discosti dagli occhi. E questa parità di distanza che s'appartiene all'ordine, ancora non basta, se non vi s'aggiunge il modo delle parti: il quale attribuisce a qualunque membro la grandezza debita, attendendo alla proporzione di tutto il corpo. E questo è che tre nasi posti per lungo adempino la lunghezza d'un volto; e ancora li due mezzi cerchi delli orecchi insieme congiunti, faccino il cerchio della bocca aperta: e questo medesimo faccino le ciglia se 1222, me si congiungono. La lunghezza del naso ragguagli la lunghezza del labbro e similmente dello orecchio: e i due tondi degli occhi, ragguaglino l' apertura della bocca, otto capi faccino la lunghezza di tutto il corpo: c similmente le braccia distese per lato e le gambe distese faccino l' altozza del corpo. Oltre a questo stimiamo essere necessaria la spezie; acciocchè li “artificiosi” tratti delle linee e le crespe, e lo splendore degli occhi adornino l'ordine e modo delle parti. Queste tre cose benchè nella materia siano, nientedimeno parte alcuna del corpo essere non possono. L'ordine de'membri, non è membro alcuno: perchè lo ordine è in tatti. i membri, o nessun membro in tutti i membri si ritrova. Aggiugnesi che lo ordine non è altro che conveniente distanza delle parti; e la distanza ė o nulla, o vacuo,  o un tratto di lince. Ma chi dirà le linee essere corpo? Conciossinchè manchino di latitudine, e di profondità, necessarie al corpo. Oltre a questo il modo non è quantità, ma è termine di quantità. I termini sono superficie, linee, punti, le quali cose non avendo profondità non si debbono corpi chiamare. Collochiamo ancora la spezio non nella materia, ma nella gioconda concordia di lumi, ombre e linee. Per questa ragione si mostra essere il bello dalla materia corporale tanto discosto, che non si comunica a essa materia, se non è disposta con quelle tre preparazioni incorporali, le quali abbiamo narrate. Tre mondi pongono (i Platonici): tre ancora saranno i caos. Prima che tutte le cose è Iddio autore di tutto, il quale noi esso Bene chiamiamo. Iddio prima crea la mente angelica: dipoi l'anima del mondo come vuole Platone: ultimamente il corpo dell' Universo. Esso sonimo Iddio non si chiama mondo, perchè il mondo significa ornamento di molte cose composto: ed cgli al tutto semplice intendere si debbe. M:: esso Iddio affermiamo essere di tutti i mondi principio e fine. La mente angelica è il primo mondo fatto da Dio; il secondo è l'anima dell'universo, il terzo è tutto questo edifizio che noi veggiamo. Certamente in questi tre mondi, ancora tre caos si considerano. In principio Iddio creò la sostanza della mente angelica, la quale ancora noi essenza nominiamo. Questa nel primo momento della sua creazione è senza forme e tenebrosa: ma perchè ella è nata da Dio, per un certo appetito innato, a Dio suo principio si rivolge: voltandosi a Dio, dal suo raggio è illustrata, e, per lo splendor di quel raggio, s'accende l'appetito suo. Acceso tatto a Dio si accosta; 'accostandosi piglia le forme; imperocchè Iddio che tutto può, nella mente che a lui si accosta, scolpisce la natura di tutte le cose, che si creano. In quella adunque spiritalmente si dipingono tutte le cose che in questo mondo sono. Quivi le spere de' cieli, e degli elementi, quivi le stelle, quivi la natura de' vapori, le forme delle pietre, de' metalli, delle piante, e degli animali si generano. Queste spezie di tutte le cose, da divino aiuto, in quella superna mente concepute, essere le idee non dubitiamo; e quella forma e idea de' cieli, spesse volte Iddio cielo chiamiamo; e la forma del primo pianeta Saturno, e del secondo Giove, e similmente si procede ne' pianeti che seguitano. Ancora quella idea di questo elemento del fuoco si chiama Iddio Vulcano, quella dell'aria Junone, e dell'acqua Nettuno, e della terra Plutone; per la qual cosa, tutti gli dei assegnati a certe parti del mondo inferiore, sono le idee di queste parti in quella superna mente adunate. Ma innanzi che la mente angelica da Dio perfettamente ricevesse le idee, a lui si accostò; e prima che a lui si accostasse, era già di accostarsi acceso lo appetito suo; e prima che il suo appetito si accendesse, aveva il divino raggio ricevuto: e prima che di tale splendore fosse capace, lo appetito suo naturale a Dio suo principio già si era rivolto  E il suo primo voltamento a Dio è il nascimento d'amore; la infusione del raggio, il nutrimento d'amore, e lo incendio che ne seguita, crescimento d'amore si chiama. Lo accostarsi a Dio è lo impeto d'amore;  [ocr errors] la sua formazione è formazione d'amore, e lo adunamento di tutte le forme e idee i latini chiamano Mondo, e i greci Cosmo, che ornamento significa. La grazia di questo mondo e di questo ornamento è la bellezza alla quale subitamente che quello amore fu nato, tirò e condusse la mente angelica, la quale essendo brutta (caos) per suo mezzo bella divenne. Però tale è la condizione di amore che egli rapisce le cose alla bellezza, e le brutte alle belle aggiugne. Amore legame universale.  Secondo che mostrammo, questo desiderio di amplificare la propria perfezione, che in tutti è infuso, spiega la nascosta e implicata fecondità di ciascuno, mentre che costringe germinare fuori i semi: e le forze di ciascheduno trae fuori: concepe i parti, e quasi con chiave apre i concetti e produce in luce. Per la qual cosii, tutte le parti del mondo, perchè sono opera di uno artefice, e membri di una medesima macchina, tri se in essere e vivere simili, per una scambievole caritii insieme si legano. In modo che meritamente si può dire lo Amore nodo perpetuo, e legaine del mondo, e delle parti sue immobile sostegno, e della universa macchina primo fondameuto. Bonghi ha intrapreso sino dalla sua giovinezza il convito. Le implicature di Bonghi non valgono solo per lo sforzo quasi sempre felice di rendere i pregi mirabili del convito, segnatamente di quelli che si distinguono maggiormente per la forma arguta, agile e briosa del conversare, ma ben anco per gli studi profondi che da ellenista consumato e da pensatore acuto e vigoroso, egli ha compiuti sul testo e sulla dottrina del grande filosofo, e che in varia maniera e intento diverso di scritti, allargano la sua pubblicazione alle proporzioni di un commento filologico e filosofico, nonché di una illustrazione storica della dottrina dell’amore. L'erudizione di cui Bonghi dispone e a cui non isfugge nulla delle letterature straniere che risguardi l’Ellenismo in generale e particolarmente la filosofia romana, gli permette di trattar il soggetto in guisa da abbracciare i risultati delle ullime ricerche e della critica più recente. La distribuzione di questo volume, che è il sesto pubblicato, benchè porti la cifra IX e tale debba esser il suo posto nell'intera versione dei Dialoghi, può dare un'idea del modo di procedere in questi lavori. Bonghi apre il convito con un messagio ad un ignoto in cui si discorre con quello spirito arguto e vivace e veramente romano che tutti riconoscono nel Bonghi, dell'amore che, nonstante un titolo diverso, forma veramente la sostanza del convito, non senza toccare lo scabroso argomento degli amori greci e far intendere con delicatezza perchè la dedica di un tal dialogo non potesse rivolgersi ad un ignore, ma dovesse, per così dire, farsi in petto e rimanere misteriosa. Non possiamo trattenerci sulla rapida scorsa data da Bonghi in questa prefazione alla storia della dottrina dell’amore, ovveramente sugli accenni ch'egli fornisce a chi vorrà intraprenderla. Ci basti rilevarne queto tratto che, a suo avviso, la dottrina dell'amore assai probabilmente non sarebbe nata senza la depravazione del bisogno e del sentimento che ha spinto l'animo di Socrate a sublimare tanto l'amore, quanto nei costumi romani, era divenuto basso e turpe; congettura suggerita certamente da un fatto storico e dalla sua connessione con una grande filosofia, ma che può parere soverchia considerando che la dialettica romana eleva lo spirito dal finito all'infinito per le due vie unite del pensiero e dell'amore, il cui oggetto comune è l'idea. Non v'ha dubbio che il vizio dell’amore ‘volgare’ combattuto da Socrate porse un'occasione e una forma particolare allo svolgimeno e sopratutto alla esposizione di questa dialettica. Ma essa è talmente connaturata all'intero corpo della dottrina dell’amore e e penetra del suo influsso talmente la psicologia filosofica, da permettere di vedere nella salita dell'amore in dio una parte della su’essenza. Anche senza gli amori cosi detti romani, il sentimento umano avrebbe sempre offerto nelle sue inevitabili deviazioni qualche altra occasione a questa dottrina. Dopo la prefazione anzidetta viene nel volume un proemio nei quali si tratta successivamente del convito di Senofonte, del convito di Platone, del paragone dei due conviti, della dottrina esposta nel convito di Platone, poi della storia della dottrina dell’amore affini in Aristotele (amore del amico, amicizia, l’aporia dell’amicizia), negli Stoici e negli Epicurei, e nel Paganesimo rinascimentale. Seguono copiose ed erudite note alla prefazione ed al proemio, poi il Convito platonico e il convito di Senofonte, ugualmente accompagnate da note e commenti. Con molta acuratezza ed analisi finissima, si espone il soggetto e l'ordito del convito senofonteo mostrando come bensi l'arte non vi sia estranea, ma come anche vi si ritragga un fatto realmente avvenuto coi personaggi che vi presero parte. Senofonte può avere abbellito o modificato in qualche parte i discorsi che vi furono tenuti, ma egli ne ha, senza dubbio, riferita la sostanza e conservato il carattere. Callia, Autolico, Antistene, Socrate e gli altri vi assistettero e vi presero la parola e doveltero farlo in modo conforme all'indole nota di ciascuno. Inducono tanto più a crederlo il modo, il soggetto e l'ordine vario dei discorsi di questo Convito. Ciascuno dei convitati parla di ciò di cui più si tiene, di guisa che se la relazione di Callia col giovane Autolico porge occasione a discorrere dell'amore, e l'amore ne diventa tanta parte, ognuno peraltro loda ciò che è più conforme al suo gusto e gli pare più degno. Il vero scopo del convito senofonteo è di mostrare uno degli aspetti molteplici della personalità di Socrate e precisamente di dipingerla quale era in una allegra brigata fra amici che si ricambiano piacevolmente lo scherzo. E difatto Socrate vi è chiamato ruffiano, ed egli stesso accetta e si piace di essere chiamato cosi e si tiene del suo ruffianesimo più che di ogni altra cosa, ma la sua arte di mezzano è altamente morale e civile. Essa intende a mettere ciascuno in relazione col proprio spirito, e gl'individui che meritano le sue premure in relazione gli uni cogli altri in modo da porre concordia di virtù e d'amore fra i cittadini, amicandoli con sè stessi e rendendoli utili alla patria. Essa è ben più ri-formatrice dei costumi romane relativi all'amore, e tale appare negli atti e nei discorsi di Socrate riferiti in questo convito, poichè egli, olre allo insegnare il modo di volgere al  bene intellettuale e civile l'amore pei fanciulli spiritualizzandolo, per cosi dire, mostra chiaramente di condannarlo nella sua parte materiale coll'additare la legittima via segnata dalla natura alla passione amorosa. Il convito di Platone deve essere succeduto al convito del suo con-discepolo Senofonte. I personaggi non sono i medesimi che quelli del convito senofonteo. L'ordine dei discorsi non è libero come in quello, nè il soggetto loro vario e a scelta, ma l'uno e l'altro sono prestabiliti secondo il disegno di svolgere nei suoi vari aspetti l'argomento filosofico sull’amore; il quale successivamente da Fedro, da Pausania, da Erissimaco, da Aristofane, da Agatone e da Socrate -- che riferisce un altro dialogo -- è considerato, descritto e lodato come un dio e come un sentimento, un simbolo mitico e un fatto fra l’amante e l’amato, ora come forza cosmica e funzione essenziale della vita universale, principio della generazione e della perpetuità delle specie, ora nel mito festevolmente inventato da Aristofane come mezzo di completare la nostra imperfetta natura mediante l'unione delle facoltà e delle attitudini che ci mancano e il cui complesso si trova in origine fuso nella unità della essenza umana primitiva, finalmente come mezzo d'innalzarsi, dietro la scorta delle idee, dal bello individuale o particolare alla unità di sua specie e di suo genero. Noi non possiamo riprodurre dalla dotta e particolareggiata esposizione del Bonghi questi discorsi. Ci limiteremo a riferire i gradi della scala dialettica segnati, nel discorso Socrate per salire all'ultimo oggetto dell'amore. La corpo bello è il primo scalino. Ma in questo primo passo è un singolo corpo bello quello a che muove l'amante. Un secondo gradino consiď ste nel distaccarsi dal corpo bello singolare, considerando il bello che splende nel singolo corpo. C’e un genero del corpo bello. Questo fatto ha occasione di montare un terzo gradino. Questo e la comparazione generale e superior di una multitudine di corpi belli singolari. Il quarto gradino e l’orgasmo mistico dell’amante altre il singolare corpo bello iniziale dell’amato. L'azione ch'egli esercita su questa, intrattenendola con ragionamenti adatti a renderla migliore e ricercandone di tali, gli è motivo a riconoscere che v'ha un genero del bello, il quale irraggia del pari (ogni condotta di vita e ogni prescrizione di legge. Questo e il quinto gradino. Dal quale l'ascensione prossima è alla contemplazione del bellissimo, ch'è sesto gradino. A questo punto egli ha già contemplate molte corpi belli; s'è già distaccato da ogni corpo bello singolo; si ha già liberato da ogni attaccamento particolare; sicchè è già in grado di contemplare un bello, che su tutte « tal bello s' elevi e tutto le raduni, e acquistarne scienza. Questo è il gradino settimo. Ma v'ha ancora più in su di quea sto, un bello, in cui ogni molteciplità o differenza si consuma e spira. Dal bello di cui vi ha scienza, vi s'ascende, (e colla contemplazione di esso si giunge al sommo della « scala. Che natura ha questo bello supremo? Perenne, immutabile, perfetto, senza principio nè fine, sovrasensia bile inaccessibile a ragionamento o a scienza, comuni cabile a ogni cosa integro sempre e  non accresciuto (nè scemato mai. Qui è il fine e la beatitudine della vita, qui è la fonte d'ogni virtù vera. Nella contemplazione di questo bello si a raggiunge la maggiore intrinsichezza col divino, e si diventa davvero immortali. Prima di giungere a tanta altezza di pensiero e di esporre il processo dialettico di Socrate e servendosi del suo metodo, tratteggia un'analisi di psicologia filosofica sull’amore che s’inizia con la percezione dell’amante del corpo bello dell’amato -- in due modi e cioè in termini concettuale e sotto i colori del mito giungendo col primo alla definizione o concetto che ‘amore’ e ‘desiderio’ – ma un desiderio specifico: di generare nel corpo bello. Questo concetto e simbolizzato nel mito che representa l’amore come partorito dalla povertà unita al Dio Poro (Acquisto) nel giorno in cui gli dei celebravano il natalizio di Venere. Quindi la natura dell’amore: demone e non dio. Ma di tramezzante fra l’amante e l’amato sempre povero e ricco insieme, pel bisogno che soddisfatto rinasce e si perpetua nella vita perenne della specie dell’uomo. Il mito suddetto fece credere a parecchi interpreti e critici che Platone quivi, come in altri luoghi, ricorresse a invenzioni poetiche, quasi per nascondere la sua impotenza di arrivare coll’analissi concettuale la perfezione espositiva delle parti più astruse delle sue dottrina dell’amore. Ma al Bonghi sembra, e secondo noi con ragione, che la spiegazione si trovi nel doppio aspetto dell'ingegno tutt'insieme concettuale e figurative di lui. Questo e per esporre sotto forma di iniziazione una dottrina esistente ancora allo stato di intuizione e non sviluppata. Lo spazio ci manca per seguire l'autore nelle vicende dottrinali subite dal concetto dell'amore nelle scuole sopraenumerate che il Bonghi conduce colla sua solita perizia ed erudizione fino agli ultimi tempi del Paganesimo rinascimentale di Ficino. Altre opere:  Il genio di Aristotele. Discorso, Tip. delle Muse, Firenze, Stato e relazioni della volontà, della coscienza e della personalità nel sonno, «Il Cimento», Della filosofia e del metodo di Rosmini, «Il Cimento», Della filosofia del diritto presso Aristotele, «Il Cimento», Estr.: Tip. Franco, Torino, Intorno alla filosofia esposta nelle Confessioni del Mamiani e alle dottrine platoniche, «Riv. cont.», Sulle dottrine platoniche e sulla loro conciliazione colle aristoteliche. Lettera a T. Mamiani, «Riv. cont.», Estr.: Torino, Sulle attinenze della filosofia e sua storia colla libertà e coll'incivilimento. Prolusione a un corso di storia della filosofia, Tip. Niccolai, Firenze, Ciò che possa la Filosofia per l'istituzione civile dei popoli. Discorso inaugurale per la riapertura del R. Istituto di Studi Superiore di Firenze, Firenze, Rec. di P. L. da Savigliano, La filosofia di Bossuet; di S. Turbiglio, Storia della filosofia; di C. Cantoni, G. B. Vico, NA, La libertà del pensiero e la filosofia nelle università italiane, NA, L’epicureismo e l’atomismo. Considerazioni storico-critiche a proposito di un libro recente, FSI, IEstr.: Cellini, Firenze, Le Meditazioni cartesiane rinnovate nel sec XIX da T. Mamiani, NA, L'arte della rinascenza e i suoi recenti critici, NA, Il materialismo e la scienza moderna, NA, Rec. di Sesto Empirico, Delle istituzioni pirroniane. Libri tre, tradotti da S. Bissolati, Imola, Anassagora e la filosofia greca prima di Socrate, Polemica contro il materialismo, FSI,  Rec. di R. Bobba, La protologia di Ermengildo Pini, Torino, FSI, Vico e la filosofia della storia [Rec. di C. Cantoni, Studi critici e comparativi; P. Siciliani, Sul rinnovamento della filosofia positiva in Italia; T. Mamiani, Principii di cosmologia (Teorica del progresso), FS, Vinci e la filosofia dell'Arte. Discorso, Unione tipogr. editr., Torino, Rec. di F. Fiorentino, Pietro Pomponazzi. Studi storici su la scuola bolognese e padovana del sec. XVI con molti documenti inediti, Firenze, ASI, sEstr.: Cellini, Firenze, Niccolò di Cusa e la filosofia della religione, NA, Le forme del pensiero filosofico o il metodo, FSI, IIl senso comune nella filosofia e sua storia, FSI, IEstr.: Bernabei, Roma, Dei giudizi sintetici a priori nelle dottrine italiane, FSI, Rec. di G. E. Kirchmann, La teorica del sapere, FSI, Filosofia della Religione. Sulle attinenze della religione e della filosofia e sulla incomprensibilità divina. Lettera al Conte Mamiani, FSI, Rec. di F. Fiorentino, La filosofia della natura e le dottrine di Bernardino Telesio, Firenze, FSI, Estr.: Paravia, Torino Del principio e concetto di ‘causa’ nella scuola di Herbart, FSI, Vinci filosofo. Vita e scritti secondo nuovi documenti, NA, Vinci e l'idea del mondo nella Rinascenza, NA, L'ultimo libro di Strauss e i suoi critici, La forma del pensiero filosofico e l'ideale platonico della filosofia, FSI, Janet, La dottrina dell'amore secondo Platone, FSI, Estr.: Tip. Paravia, Roma, L'evoluzione storica dell'idea dell'anima e i sistemi filosofici, NA, Importanza della psicologia nella filosofia moderna, FSI, La coscienza. Studio psicologico e storico, FSI, L’Avvenire, Herbart, NA, Sulle vicende della filosofia in Roma. Discorso, Tip. Civelli, Roma, Il metodo psicologico e lo studio della coscienza, FSI, Cenni biografici su Giuseppe Ferrari, «Acc. Lincei. Memorie», Estr.: Tip. Salviucci, Roma, La psicologia di Pietro Pomponazzi, secondo un manoscritto della Biblioteca Angelica di Roma, T, 3, 8, intitolato: Pomponatius in libros de anima. Memoria del prof. Luigi Ferri,  «Acc. Lincei. Memorie», Estr.: Salviucci, Roma, Sulle vicende della fìlosofia in Roma. Discorso per la inaugurazione degli studi nella Università di Roma «Annuario Univ. di Roma». Estr.: Civelli, Roma, La questione dell'anima nel Pomponazzi, FSI,  Estr.: Tip. dell'Opinione, Roma, “L'io e la coscienza di sé”, (Grice’s “The I”), FSI,  L’epicureismo, Firenze, NA,I Limiti dell'idealismo, FSI, L'Idea, FSI, Sulla dottrina psicologica dell'associazione considerata nelle sue attinenze colla genesi delle cognizioni. Saggio storico critico, «Acc. Lincei. Memorie», Estr.: Tip. Salviucci, Roma, La psicologia dell'associazione dall'Hobbes ai nostri giorni, Bocca, Roma, Rec. di G. Allievo, Il problema metafisico studiato nella storia della filosofia dalla scuola ionica a Giordano Bruno(«Acc. Scienze Torino. Memorie»,  FSI, “L'assoluto”, FSI, Cicerone sui Doveri. Conferenza, FSI,Rec. di A. Conti e G. Rossi, Esame della filosofia epicurea nelle sue fonti e nella storia, Firenze, FSI, L’Accademia Platonica fondata in Firenze dai Medici. «Acc. Lincei. Transunti», FSI, Helmholtz sulla percezione, FSI, Delle Idee e propriamente della loro natura, classificazione e relazione,  FSI, Il Positivismo e la Metafisica (L'essenza delle cose), Estr.: Salviucci, Roma, Mamiani sulla religione, NA, L'Accademia romana di S. Tommaso d'Aquino e l'istruzione filosofica del clero, NA, s. II, vol. XXIV, 1880, pp. 613-Sulla recente restaurazione della filosofia scolastica e tomistica considerata in ordine ai metodi degli studi ed alle attinenze dei sistemi colla scienza e colla storia, «Acc. Lincei. Transunti», Vera, «Acc. Lincei. Transunti», Sulla percezione esteriore e sul fenomeno sensibile, «Acc. Lincei. Transunti», Rec. di Documenti intorno a Giordano Bruno, a cura di D. Berti, Roma, FSI, La filosofia d’Aquino, FSI, Petrarca e il suo influsso sulla filosofia del Rinascimento FSI,  316-340. Estr.: Salviucci, Roma, FSI,  Zanotti, La filosofia morale di Aristotele. Compendio. Con note e passi scelti dell'Etica Nicomachea per cura di L. Ferri e F. Zambaldi, G. B. Paravia e Comp., Torino, Dottrina aristotelica del bene e sue attinenze colla civiltà greca e italiana, FSI, Spaventa, «Acc. Lincei. Transunti», Relazione sul concorso al premio reale per le Scienze filosofiche, «Acc. Lincei. Transunti», Il fenomeno nelle sue relazioni con la sensazione, la percezione e l'oggetto, FSI, Ficino e la ‘causa’ della rinascenza del platonismo nel quattrocento [unita longitudinale della filosofia – la struttura delle revoluzione filosofiche] FSI, Vinci, NA, Il concetto di sostanza e sue relazioni coi concetti di essenza, di causa e di forza. Come contributo al dinamismo filosofico, «Acc. Lincei. Memorie», s«Acc. Lincei. Rendiconti», Estr.: Salviucci, Roma, Il platonismo del Ficino, FSI, La dottrina dell’amore del Ficino, Una lezione elementare di psicologia. Fatti psichici e fatti fisici, FSI, La giustizia nella repubblica utopica di Platone. A proposito di recenti pubblicazioni, Storia della filosofia. Il platonismo di Marsilio Ficino. Le idee e la dialettica. La dottrina dell'amore, FSI, Estr.: Salviucci, Roma, Le malattie della memoria e la sostanzialità dell'anima, FSI, Psicologia. I fatti psichici e i fatti fisici, Ercole, «Acc. Lincei. Rendiconti», Conti, «Acc. Lincei. Rendiconti», sVera, «Acc. Lincei. Rendiconti», “Il concetto di sostanza e sue relazioni coi concetti di essenza, di ‘causa’ e di forza. Contributi al dinamismo filosofico. Memoria, Salviucci, Roma - Di alcuni uffici della filosofia nelle condizioni morali del nostro tempo, FSI, La psicofisiologia dell’ipnotismo), FSI, Il concetto di persona [cf. person and personality – Grice’s transubstantiation], FSI, Rec. di A. Chiappelli, Del suicidio nei dialoghi di Platone, FSI,  Mamiani, Lincei,  «Acc. Lincei. Rendiconti», Estr.: Tip. della R. Accademia dei Lincei, Roma, Delle condizioni del sistema filosofico nel nostro tempo, «Acc. Lincei. Rendiconti», Mamiani, RIF, I, Il fenomeno sensibile e la percezione esteriore, ossia i fondamenti del realismo, «Acc. Lincei. Memorie», Estr.: Tip. Acc. Lincei, Roma, Il monismo filosofico, RIF, Rec. di A. Chiappelli, La cultura storica e il rinnovamento della filosofia, RIF, ILettera a Pennisi-Mauro, RIF, Rec. di D. Levi, Giordano Bruno o la Religione del pensiero. L'uomo, l'Apostolo e il martire, RIF,  «Acc. Lincei. Rendiconti», Rec. di E. Dal Pozzo di Mombello, L'evoluzione geologica inorganica animale ed umana, RIF, Le lauree in filosofia, RIF, Della idea del vero e sua relazione colla idea dell'essere, «Acc. Lincei. Rendiconti», «Acc. Lincei. Memorie», Estr.: Tip. Salviucci, Roma, La filosofia politica in Aristotele, RIF, Rec. di M. Panizza, La fisiologia del sistema nervoso e i fatti psichici, Roma, RIF, La definizione del concetto, RIF, Rosmini e il decreto del Sant'Uffizio, Il Convito di Platone tradotto da R. Bonghi, Roma, RIF, Della idea dell'essere, «Acc. Lincei. Memorie», Estr.: Tip. Acc. Lincei, Roma, Berti, «Acc. Lincei. Rendiconti», Benzoni, «Acc. Lincei. Rendiconti», La psicologia fisiologica e l'origine dei fatti psichici, NA, sFranchi, NA, La dottrina della cognizione nell’hegelianismo secondo Spaventa, RIF, La dottrina della conoscenza nell'Hegelianismo, RIF, Rec. di E. Colini, Mamiani, Jesi, RIF, Rec. di D. Berti, Giordano Bruno da Nola, sua vita e sue dottrine. Nuova edizione riveduta e notabilmente accresciuta, Torino, RIF, Rec. di L. Credaro, Lo scetticismo degli Accademici, Le fonti - la storia esterna - la dottrina fondamentale, Roma, RIF, Iordani Bruno Nolani Opera inedita, manu propria scripta, RIF, Sui sistemi unitario e trinitario dell'essere, RIF, Cenni bibliografici di pubblicazioni filosofiche di Tocco, «Acc. Lincei. Rendiconti»,  - F. Cicchitti-Suriani, Della dottrina degli affetti e delle passioni secondo la filosofia stoica: saggio storico di psicologia morale con prefazione di L. Ferri, Tip. Aternina, Aquila,Intorno al Pitagorismo in Italia, Nota, «Acc. Lincei. Rendiconti», Estr.: Roma, Il problema della coscienza divina in ‘Esperienza e metafisica’ di Spaventa, RIF, Rec. di C. Lessona, Elementi di Morale Sociale ad uso dei Licei (3° corso) e degli Istituti Tecnici, compilati secondo gli ultimi programmi, RIF, L'Accademia Platonica di Firenze e le sue vicende, NA, Estr.: Roma, Carle, «Acc. Lincei. Rendiconti», Della conoscenza sensitiva, RIF, Alcune considerazioni sull’eclettismo, RIF, VAlcune considerazioni sulle categorie, «Acc. Lincei. Rendiconti»,  Il Teeteto, tradotto da Bonghi, Roma NA, La percezione intellettiva e il concetto, «Acc. Lincei. Rendiconti», Rec. di G. Zuccante, Saggi filosofici, Renan, «Acc. Lincei. Rendiconti», Taine, «Acc. Lincei. Rendiconti», La percezione intellettiva e il concetto,     Taine, RIF, Moleschott, RIF, Il carattere dello spirito italiano nella storia della filosofia, NA, La psicologia dell'associazione da Hobbes ai nostri giorni, Bocca, Roma); Estr.: Tip. Balbi, Roma); “Il carattere nazionale e il classicismo nell’etica degli italiani, NA, Estr.: Tip. Forzani e C., Roma, Rec. di F. Maltese, Socialismo, RIF, “L'evoluzione filosofica dell'idea dell'anima e i sistemi filosofici” RIF; Cenno su Giuseppe Ferrari e le sue dottrine, in G. Ferrari, La mente di G. D. Romagnosi, Libreria Editoriale Milanese, Milano, a cura di O. Campa, La Voce, Firenze  19243.  Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Treccani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Grice: “Ferri is obsessed with Bonghi’s Convito. The dialogues of love by Plato are four: Carmide, Licide, Convito, and Fedro. Fedro is subtitled by Diogenes Laertius as being ‘about eros’ (peri erotes) – but it was translated as ‘o vero del bello’ – Convito is so obvious about eros that Plato didn’t care. As for Carmide and Licide, Ferri dedicates little attention. Luigi Ferri. Ferri. Keywords: fisiologia dell’amore come desiderio – psicologia filosofica dell’amore – l’amore e una specie di desiderio – con relazione alla percezione dell’amante del corpo bello dell’amato --. il convito di Platone nella traduzione di Bonghi ‘’ “Il convito di platone tradotto da R. Bonghi” RIF,  il dialogo dell’amore di Platone come sub-genere: “I dialoghi dell’amore di Platone” (Rizzoli): sono quattro: Convito, Fedro, Liside, Carmide. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Ferri” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51689395171/in/photolist-2mRCLwu-2mPY4jk-2mN1R8H-2mLLBQT-2mLGwFD-2mLP3hz-2mKBEmt-2mKT6cK-2mPvmTf-2mJd7nN-o1cZ1Z-nYkP5S-mujhJF-muktXS-mukt4N-mujkJt-mujmJz-muiPJa-muiFjz-mukwpq-mujjcR-mujo6x

 

Grice e Ficino – amore – filosofia italiana – Luigi Speranza (Figline Valdarno). Filosofo. Grice: “If Ficino had JUST commented on Plato’s symposium that would be already a magnificient achievement! So Renaissance – it taught the Romans and the Italians, and us, that the dialogue IS the philosophical form per tradition, whatever Cicero tried!” Figlio di Diotifeci d'Agnolo e da Alessandra di Nanoccio, studia a Firenze sotto Bernardi, Comandi, Castiglione e Tignosi – filosofo aristotelico autore di “De anima” e di “De ideis”. Conseguenza di questo è la “Summa philosophiae”, dedicata a Mercati in cui tratta di fisica, di logica, di Dio e di aliae multae quaestiones. Nella dedica a Mercati, scrive di volerlo introdurre “a quegli studi che devono impegnare la nostra età, secondo la regola del nostro Platone.” Studia Epicuro e Lucrezio, scrivendo i Commentariola in Lucretium, il De voluptate ad Antonium Calisianum, il De virtutibus moralibus e il De quattuor sectis philosophorum, dove tratta di questioni morali e dell'anima riportando opinioni platoniche, aristoteliche, epicuree e stoiche, e l'exercendae memoriae gratia, come esercitazione mnemonica e senza pretese sistematiche. Scrive vari libri di Institutionum ad platonicam disciplinam, tratti da fonti latine e per questo motivo trascurati per la sentita esigenza di abbeverarsi alla diretta fonte greca. Sembra che il suo interesse al platonismo abbia indotto Pierozzi, preoccupato di possibili deviazioni del Ficino verso eresie platoniche, a consigliargli di studiare l'opera d’Aquino a Bologna. Ma la permanenza a Bologna non è documentata e resta certo l'ininterrotto interesse per la filosofia platonica. Traduce Alcinoo, Speusippo, i versi attribuiti a Pitagora e l'Assioco attribuito a Senocrate. Tradotti gli inni di Orfeo, di Omero, di Proclo e la Teogonìa di Esiodo, riceve in dono da Cosimo de' Medici un codice platonico e una villa a Careggi, che divienne sede del circolo dei “Platonisti”, fondato dallo stesso Ficino per volere di Cosimo, con il compito di studiare la filosofia di Platone e dei platonici, al fine di promuoverne la diffusione. Qui inizia la traduzione dei Libri ermetici, portati in Italia da da Leonardo da Pistoia. La sua opera di traduzione avrà un notevole influsso nella filosofia rinascimentale. Vede in quella sapienza antica la presenza di una rivelazione, di una pia philosophia che si è attuata nel Cristianesimo ma della quale l'umanità di tutti i tempi era sempre stata partecipe. Nella dedica a Cosimo, scrive che Ermete Trismegisto per primo disputò con grandissima sapienza della maestà divina, della gerarchia degli spiriti (daemonum ordine) della trasmigrazione delle anime. Per primo fu chiamato teologo. Lo seguì, secondo teologo, Orfeo, poi Aglaofemo, Pitagora e Filolao, maestro del nostro divino Platone. Esiste dunque, una concorde e antica tradizione teologica, una priscae theologiae undique sibi consona secta, che nasce con Ermete e culmina con Platone. La «pia filosofia», antitetica alle correnti di pensiero atee e materialiste, si propone di sottrarre l'anima dagli inganni dei sensi e della fantasia per elevarla alla mente; questa percepisce la verità, l'ordine di tutte le cose, sia esistenti in Dio che emanate da Lui, grazie all'illuminazione divina, affinché l'uomo, tornato fra i suoi simili, possa renderli partecipi delle verità rivelategli dalla fonte divina (divino numine revelata).  La sua traduzione latina del Corpus hermeticum, già tradotto in volgare da Benci, viene stampata. Inizia la traduzione latina dei dialoghi platonici, e vi aggiunge i suoi commenti, al Filebo, al Fedro e al Convivio (tradotto anche in italiano), al Timeo, e al Parmenide. Stende l'opera più importante, i diciotto libri della Theologia platonica de immortalitate animarum, dedicata a Lorenzo de' Medici. Compone la Religione cristiana, in italiano, di cui darà poi la versione latina nella De christiana religione. Scrive la Disputatio contra iudicium astrologorum e viene dato alle stampe il suo Consiglio contro la pestilenza, dopo il flagello dell'epidemia. Inizia la traduzione delle Enneadi di Plotino e traduce le opere di Giamblico, Proclo, Prisciano, Porfirio, Sinesio, Teofrasto, Psello, la Mistica teologia e i Nomi divini dello Pseudo-Dionigi, e i frammenti di Atenagora. Con questo ampio corpus platonico persegue la sua teorizzazione della continuità della tradizione teologica da Ermete ai platonici prolungatasi attraverso Dionigi Areopagita, Agostino, Apuleio, Boezio, Macrobio, e Bessarione. I tre libri del De vita gli procurano accuse di magia dalle quali si difende con un'Apologia. Pubblica dodici libri di Epistulae che comprendono anche opuscoli come il De furore divino, la Laus philosophiae, il De raptu Pauli, le Quinque claves Platonicae sapientiae, il De vita Platonis, i De laudibus philosophiae, l'Orphica comparatio Solis ad Deum, la Concordia Mosis et Platonis, gli Apologi de voluptate quattuor. Scrisse un Commento a San Paolo. È noto come Aristotele concepisca l'essere umano come sinolo, unità ordinata e indissolubile di materia e forma, di corpo e anima, cosicché il suo principale commentatore dell'antichità Alessandro di Afrodisia poteva ben dedurne esplicitamente la mortalità dell'anima contemporanea a quella del corpo. Al contrario, Platone ha già distinto le due sostanze, concedendo all'anima una vita separata e indipendente dal destino del corpo.  A questa concezione aderisce Ficino, che in polemica contro Aristotele esalta la dottrina platonica, al punto da interpretarla come una forma di religiosità propedeutica alla fede cristiana. La sua Theologia platonica o De immortalitate animarum si apre dunque con un  «Soluamus obsecro caelestes animi caelestis patriae cupidi, soluamus quamprimum uincula compedum terrenarum ut alis sublati Platonicis, ac Deo duce, in sedem aetheream liberius peruolemus, ubi statim nostri generis excellentiam feliciter contemplabimur. Liberiamoci in fretta, spiriti celesti desiderosi della patria celeste, dai lacci delle cose terrene, per volare con ali platoniche e con la guida di Dio, alla sede celeste dove contempleremo beati l'eccellenza del genere nostro” (Ficino, Theologia Platonica). Per comprendere la sostanza dell'anima è necessario comprendere la struttura dell'universo, composto da cinque livelli gerarchici:  Dio; gli angeli; le anime; le qualità; la materia. Al grado inferiore sta la materia, concepita come pura quantità. La materia non ha di per sé nessuna forza che possa produrre le forme», diversamente da chi la concepisce come «sostanza produttrice di forme, fonte piuttosto che soggetto delle forme. È la qualità il principio formale che dà sostanza alle realtà corporee, grazie a «una sostanza incorporea che penetra attraverso i corpi, della quale sono strumento le qualità corporee»: questa sostanza incorporea nell'uomo si eleva al rango di anima «che genera la vita e il senso della vita anche dal fango non vivente. Al di sopra delle anime sono gli angeli. Sopra quelli intelletti che alli corpi s'accostano, cioè l'anime ragionevoli, non è dubbio che sono assai menti, dal commercio dei corpi al tutto divise. E se l'intelletto dell'anima è mobile e parte interrotto e dubbio, l'intelletto angelico è stabile tutto, continuo e certissimo. Al di sopra del tutto è Dio, che è unità, bontà e verità assoluta, fonte di ogni verità e di ogni vita, è atto e vita assoluta. Dove un continuo atto e una continua vita dura, quivi è un immenso lume d'una assolutissima intelligenza» che è luce per gli uomini perché si riflette in tutte le cose. Attraverso Dio «tutte le cose son fatte, e però Iddio si trova in tutte le cose e tutte le cose si veggono in lui... Iddio è principio, perché da lui ogni cosa procede; Iddio è fine, perché a lui ogni cosa ritorna, Iddio è vita e intelligenza, perché per lui vivono le anime e le menti intendono. Dio e materia rappresentano i due estremi della natura, e la funzione dell'anima, che è considerata, diversamente da Aristotele e da Tommaso, realtà in sé e non solamente forma del corpo, è quella di incarnarsi per riunire lo spirito e la corporeità:   Amore sacro e amor profano (Tiziano): eros come mediatore dei contrary. L'anima è tale da cogliere le cose superiori senza trascurare le inferiori per istinto naturale, sale in alto e scende in basso. E quando sale, non lascia ciò che sta in basso e quando scende, non abbandona le cose sublimi; infatti, se abbandonasse un estremo, scivolerebbe verso l'altro e non sarebbe più la copula del mondo Theologia Platonica. La "copula mundi" è l'anima razionale che ha sede nella terza essenza, possiede la regione mediana della natura» (obtinet naturae mediam regionem) «e tutto connette in unità». La sua opera unificatrice è resa possibile dall'amore, inteso come movimento circolare attraverso il quale Dio si disperde nel mondo a causa della sua bontà infinita, per poi produrre nuovamente negli uomini il desiderio di ricongiungersi a Lui. L'amore di cui parla Ficino è l'eros di Platone, che per l'antico filosofo greco svolgeva appunto la funzione di tramite fra il mondo sensibile e quello intelligibile, ma Ficino lo intende anche in un senso cristiano perché, a differenza di quello platonico, l'amore per lui non è solo attributo dell'uomo ma anche di Dio. Lo stesso Platone viene interpretato in una chiave di lettura che oggi definiamo piuttosto neoplatonica, sebbene Ficino non faccia distinzione tra platonismo e neoplatonismo. Per lui esiste una sola filosofia, che consiste nella riflessione su quelle verità eterne, le Idee, che in quanto tali restano inalterate nel tempo e trascendono la storia. Congiungendo tutti i campi del reale secondo una concezione propria peraltro dell'astrologia e della magia, a cui Ficino rivolge notevoli interessi in virtù dell'unione vitale del mondo da essi presupposta, filosofia e religione si fondono così in una visione d'insieme di reciproca complementarità, sottolineata anche nell'accostamento di termini come «pia philosophia», o «teologia platonica». Strumento dell'amore nel suo farsi portavoce dell'uno è il bello. Nel pensiero di Marsilio Ficino, Gesù Cristo è considerato un maestro spirituale spirito-guida, inviato da Dio per il bene dell'umanità. Cos'altro era Cristo se non una specie di manuale di etica, cioè di filosofia divina, il quale visse come un inviato dal cielo, essendo lui stesso una divina Idea di virtù, manifestata agli occhi degli uomini. De Christiana religione. Elevando il cristianesimo a religione suprema, Ficino asserì che l'Incarnazione del Cristo era avvenuta anche perché Dio si potesse riunire «a tutti gli aspetti della creazione». Pur esercitando un fortissimo impulso al rinnovamento del panorama filosofico dell'Europa, in cui da diversi paesi si faceva costante richiesta delle sue opere, dopo la fine del Rinascimento venne commentato sempre meno, fino ad essere accusato, immeritatamente, di un ritorno al paganesimo. In Italia, dove è riconosciuta la sua influenza sull'ermetismo cinquecentesco, e in particolare su Bruno, e Vico a raccogliere nel Settecento l'eredità platonica di Ficino, di cui lesse l'opera di traduzione, rammaricandosi del fatto che la filosofia moderna si fosse allontanata da lui, rinchiudendosi nelle angustie mentali di Cartesio. Sottoposto ad attacchi nel corso del Novecento che giudicarono retorici e privi di valore» i suoi scritti, è stato rivalutato como uno «psicologo del profondo» e «precursore della psicologia junghiana», per il suo incitamento a leggere e interpretare ogni affermazione proveniente dai campi più disparati, sia della scienza che della teologia, nell'ottica dell'esperienza psicologica dell'anima, la quale viene vista cioè come mediazione e compendio» dell'universo. La conoscenza dell'anima è infatti la quintessenza del neoplatonismo italiano, in cui giacciono sepolte le fantasie mistiche di questo strano uomo che suonava inni orfici sul liuto, che studiava la magia e componeva canti astrologici, quest'uomo gobbo, bleso, politicamente timido, senza amore, malinconico traduttore di Platone, Plotino, Proclo, Esiodo, dei Libri Ermetici, autore lui stesso di alcuni tra gli scritti più diffusi e influenti (Commento al Simposio) e scandalosamente pericolosi (Liber de vita) del suo tempo. La centralità attribuita da Ficino all'anima, per la quale, ancora ragazzo, Cosimo de' Medici lo considerava prescelto alla cura delle anime come suo padre medico lo era dei corpi, convinse che egli ebbe un impatto paragonabile per estensione ed intensità solo a quello prodotto oggi dalla psicoanalisi. Notevole è ad esempio l'intuizione di Ficino del potere psicosomatico nella cura delle malattie, e in quello che la medicina moderna considera un effetto placebo. Io sono del parere che l'intenzione dell'immaginazione abbia il suo peso su immagini e medicine, non tanto al momento della preparazione, quanto in quello dell'applicazione: ad esempio, se un tale, a quel che si dice, porta indosso un'immagine fatta nei modi debiti, o certamente, se facendo uso analogo di una medicina, desidera intensamente soccorso da quella e crede senza ombra di dubbio e spera con incrollabile fermezza, da questo atteggiamento deriva certo il massimo di incremento all'aiuto che essa può dare. De vita. Altre opere: “De Voluptate; De Amore o Commentarium in Convivium Platonis; De religione Christiana et fidei pietate; Theologia Platonica de immortalitate animarum; Compendium in Timaeum; De triplici vita; De lumine; In Epistolas Pauli commentaria (Venezia) El libro dell'amore De vita Teologia platonica; Sopra lo amore ovvero Convito di Platone La religione cristiana Epistolarum familiarum, liber I. R. Zerilli, Marsilio Ficino: alla lente dell'astrologia, Edizioni Capone, Ove non diversamente riportato, le notizie sulla vita e la dottrina ono tratte da Garin, Storia della filosofia italiana,  I, Einaudi, Giuseppe Saitta, Marsilio Ficino e la filosofia dell'umanesimo, Fiammenghi & Nanni, Giornale storico della letteratura italiana, Francesco Novati, Egidio Gorra, Vittorio Cian, Giulio Bertoni, Carlo Calcaterra, Loescher, Giorgio Bàrberi Squarotti, Storia della civiltà letteraria italiana: Umanesimo e Rinascimento,  POMBA, Giovanni Semprini, I platonici italiani, Edizioni Athena, La Letteratura italiana: Storia e testi,  E. Garin, Riccardo Ricciardi Editore, A. Della Torre, Storia dell'Accademia Platonica di Firenze, Istituto di Studi Superiori Pratici e di Perfezionamento in Firenze, Eugenio Garin, Ermetismo del Rinascimento, Ed. Riuniti,  «Primus de maiestate Dei, daemonum ordine, animarum mutationibus sapientissime disputavit. Primus igitur theologiae appellatus est autor. Eum secutus Orpheus, secundas antiquae theologiae partes obtinuit. Orphei sacris initiatus est Aglaophemo successit in theologia Pythagoras, quem Philolaus sectatus est, divi Platonis nostri praeceptor. Andrea Cusimano, Storia del pensiero occidentale, Lulu.com,.  L'immenso lavoro di traduzione compiuto da Marsilio Ficino è stato documentato in particolare da Paul Oskar Kristeller, in Supplementum ficinianum: Marsilii Ficini florentini philosophi platonici Opuscula inedita et dispersa, Firenze, Leo S. Olschki, Cfr. anche: Arnaldo Della Torre, Storia dell'Accademia Platonica di Firenze, Istituto di Studi Superiori Pratici e di Perfezionamento in Firenze, Alessandro di Afrodisia, L'animaAccattino eDonini, Roma-Bari, Laterza, Parodos.  I sentieri della ragione, Le divine lettere del gran Marsilio Ficino, S. Gentile, Edizioni di storia e letteratura, Sopra lo amore o ver' Convito di Platone, G. Ottaviano, S. Gentile, Trad. in Storia sociale e culturale d'Italia: La cultura filosofica e scientifica, Guido Ceriotti,  Bramante, IoanCouliano, Eros and the Magic in the Reinassance, University of Chicago Press,Il termine "neoplatonismo" è stato coniato solo nel XIX secolo per indicare le interpretazioni platoniche che si erano andate via via sovrapponendo a partire dall'età ellenistica, ma che erano sempre state identificate col pensiero stesso di Platone, ritenuto quasi un loro capostipite (cfr. Cenni sulla tradizione platonica). Sebastiano Gentile, Il ritorno di Platone, dei platonici e del "corpus" ermetico. Filosofia, teologia e astrologia nell'opera di Marsilio Ficino, in C. Vasoli, Le filosofie del Rinascimento, P.C. Pissavino, Milano, Bruno Mondadori, La prospettiva storiografica, di E. Lo Presti, Università degli Studi di Bologna.  Battista Mondin, Storia della teologia: epoca moderna, Edizioni Studio Domenicano, Citazione da A. C. Grayling, Una storia del bene. Alla riscoperta di un'etica laica, Storia e civiltà, Bari, Edizioni Dedalo,  Cesare Vasoli, Quasi sit deus: studi su Marsilio Ficino,  Cfr. anche A. Jugegno, Bruno e l'influenza, in «Rivista critica di storia della filosofia. Hillman, Plotino, Ficino e Vico, precursori della psicologia junghiana, J. Hillman13, ivi.  Aneddoto rintracciabile in Coenobium,  Casa Editrice del Coenobium. De vita, trad it, Edizioni Biblioteca dell'Immagine, Pordenone. Marsilio Ficino, Commentarius in Convivium Platonis, in Venetia, Giovanni Farri e fratelli, De christiana religione, Firenze, Nicolò di Lorenzo, Marsilio Ficino, De triplici vita, Lugduni, apud Gulielmum Rouillium sub scuto Veneto, Theologia Platonica De immortalitate animorum, Gilles Gourbin, apud Aegidium Gorbinum, Opera omnia, Torino, Bottega d’Erasmo, Marsilio Ficino, Opere. Lettere e carteggi, in Vinegia, appresso Gabriel Giolito de' Ferrari, Marsilio Ficino, Opere. Lettere e carteggi, in Vinegia, appresso Gabriel Giolito de' Ferrari, De vita libri tres, Albano Biondi e Giuliano Pisani, Biblioteca dell'Immagine, Pordenone, Scritti sull'astrologia, Ornella Pompeo Faracovi, Milano, Il neoplatonismo nel Rinascimento, Roma. Il ritorno a Platone, Firenze, con  ficiniana). Tamara Albertini, Marsilio Ficino. Das Problem der Vermittlung von Denken und Welt in einer Metaphysik der Einfachheit, Monaco, Cesare Catà, Il Rinascimento sulla via di Damasco. Il ruolo della teologia di San Paolo in Marsilio Ficino e Nicola Cusano, in “Bruniana & Campanelliana”, Cesare Catà, L'idea di “anima stellata” nel Quattrocento fiorentino. Andrea da Barberino e la teoria psico-astrologica in Marsilio Ficino, in “Bruniana & Campanelliana” Gian Carlo Garfagnini, Marsilio Ficino e il ritorno di Platone. Studi e documenti, Olschki, Garin, Storia della filosofia italiana, I, Einaudi, James Hankins, Plato in the Italian Renaissance, Leida,  Paul Oskar Kristeller, Il pensiero filosofico, Firenze,Paul Oskar Kristeller, Il pensiero filosofico, Le Lettere, T. Moore, Pianeti interiori. L'astrologia psicologica, Moretti & Vitali, Erwin Panofsky, Il movimento neoplatonico a Firenze e nell'Italia settentrionale, in Studi di iconologia, Einaudi, Torino), A. Polcri, L'etica del perfetto cittadino: la magnificenza a Firenze tra Cosimo de' Medici, Timoteo Maffei e Marsilio Ficino, in "Interpres: rivista di studi quattrocenteschi" Roma–Salerno, Michele Schiavone, Problemi filosofici, Milano, Zerilli, Alla lente dell'astrologia, Edizioni Federico Capone, Torino. Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.openMLOL, Horizons Unlimited srl. Progetto Gutenberg.  di Marsilio Ficino, su Internet Speculative Fiction Database, Al von Ruff. Marsilio Ficino, in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton Company.  Sito della società ficiniana, su ficino. Marsilio Ficino: dalla cristianizzazione della magia alla "magicizzazione" del cristianesimo, su aispes.net. Eugenio Garin, Una sintetica presentazione del pensiero di Ficino, RAI. James Hillman, Plotino, Ficino e Vico precursori della psicologia Junghiana, su rivista psicologi analitica. Il mito greco alla corte dei Medici. IL CONVITE (traduzione al toscano di Hectore Barrabasa).  Apollodoro: Credo proprio di essere ben preparato per soddisfare la vostra curiosità. L'altro giorno, infatti, venivo in città da casa mia, al Falero, quando uno che conosco, dietro di me, mi chiama da lontano in tono scherzoso. Ehi tu, del Falero, Apollodoro, mi aspetti un momento? Mi fermo e l'aspetto. E quello: Apollodoro, t'ho cercato ovunque. Volevo domandarti dell'incontro di Agatone, di Socrate, di Alcibiade e degli altri che erano con loro al simposio, e così sapere quali discorsi lì si sono fatti sull'amore. Mi ha già raccontato qualcosa un altro, che ne aveva sentito parlare da Fenice, il figlio di Filippo; mi ha detto che tu eri al corrente di tutto, ma lui, purtroppo, non poteva dir niente di preciso. E quindi ti prego, racconta: nessuno meglio di te può riportare i discorsi del tuo amico. Ma dimmi, per cominciare. Eri presente a quella riunione o no? Si vede bene, rispondo io, che quel tizio non ti ha raccontato niente di preciso, se credi che la riunione che ti interessa sia avvenuta da poco, e io abbia potuto parteciparvi. Io credevo così. Ma com'è possibile, Glaucone? Sono molti anni. Non lo sai? -che Agatone manca da Atene. E poi sono passati meno di tre anni da quando io frequento Socrate e sto attento tutti i giorni a quello che dice e che fa. Prima me ne andavo di qua e di là, credendo di fare chissà che cosa, ed ero invece l'essere più vuoto che ci sia, come te adesso, che credi che qualsiasi occupazione sia meglio della filosofia. Non mi prendere in giro, disse, e dimmi piuttosto quando c'è stata quella riunione. Noi eravamo ancora dei ragazzini, gli rispondo. Fu quando Agatone vinse il premio con la sua prima tragedia, il giorno successivo a quello in cui offrì, con i coreuti, il sacrificio in onore della sua vittoria. Ma allora son passati molti anni. E a te chi ne ha parlato? Socrate stesso? No, per Zeus, dico io, ma la stessa persona che l'ha raccontato a Fenice, un certo Aristodemo, del demo Cidateneo, uno mingherlino, sempre scalzo. C'era anche lui alla riunione: era uno degli ammiratori più appassionati di Socrate, allora, a quel che sembra. Io poi non ho certo mancato di chiedere a Socrate su ciò che avevo sentito da Aristodemo. E lui stesso mi ha confermato che il suo racconto era esatto. E allora racconta, presto. La strada per la città sembra fatta apposta per chiacchierare, mentre andiamo. Ed eccoci dunque in cammino, parlando di queste cose. è per questo che sono così preparato, come v'ho detto all'inizio, per parlarne adesso. Se dunque questo racconto deve essere fatto anche a voi, son ben felice di farlo. Del resto, quando parlo io di filosofia, o altri ne parlano in mia presenza, provo la gioia più grande. Al contrario, quando sento parlare certe persone, e soprattutto i ricchi, gli uomini d'affari, la gente come voi, allora mi annoio e ho anche un po' pena per voi, che credete di fare chissà cosa e invece fate cose che non valgono niente. Da parte vostra, del resto, mi giudicate un poveretto, e forse lo sono davvero. Ma che siate voi dei poveretti, questo non lo sapete affatto, e io invece lo so.Amico di Apollodoro: Sei sempre lo stesso, Apollodoro. Dici sempre male di te e degli altri. Tu hai l'aria di pensare che, Socrate a parte, tutti gli altri siano dei poveretti, a cominciare da te stesso. Da dove ti viene il soprannome di Tranquillo, proprio non si sa. Tu non cambi proprio mai. Ce l'hai sempre con te stesso e con tutti gli altri, a parte Socrate. Ma carissimo, non è evidente? Questa opinione che ho di me e degli altri non prova forse quanto sia folle, quanto deliri? Dai, Apollodoro, non val la pena adesso di star qui a litigare. Fa' piuttosto quel che ti abbiamo chiesto e raccontaci: che discorsi si fecero quella notte? E va bene, ti racconterò più o meno cosa si disse. Ma forse è meglio che parta dall'inizio e cerchi di rifare per voi, a mia volta, il racconto di Aristodemo. Incontrai Socrate, mi disse, che usciva dal bagno e si era messo dei sandali, contro le sue abitudini. Gli domandai, dove andasse, visto che si era fatto così bello. E lui mi rispose, Vado a cena da Agatone. Ieri alla festa in onore della sua vittoria me ne son venuto via, perché mi dava fastidio tutta quella gente. Ma ho accettato di andar da lui oggi e così mi son fatto bello. Voglio esser bello per andare da un bel giovane. E tu? Che ne pensi di venire anche se non sei stato invitato? Io risposi, Ai tuoi ordini. Allora seguimi, mi disse. Per questa volta faremo una piccola modifica al proverbio e diremo che le persone per bene vanno a cena senza invito dalle persone per bene. Del resto anche Omero non solo l'ha modificato questo proverbio, ma ha quasi rischiato di capovolgerlo. Rappresenta Agamennone come un guerriero di prim'ordine e Menelao come un guerriero senza coraggio. Ma poi al pranzo offerto da Agamennone dopo un sacrificio ci fa vedere che arriva anche Menelao, che viene alla festa senza esser stato invitato. L’uomo che val poco che va al festino di un uomo valoroso. E a questo Aristodemo mi disse di aver risposto così. Allora corro proprio un bel rischio, ma non per quel che dici tu, Socrate; credo piuttosto di essere, come in Omero, il pover'uomo che si presenta senza invito dal grand'uomo. Vedrai tu che mi ci porti quali scuse trovare, perché io non dirò certo di non essere stato invitato, dirò che mi hai invitato tu. Due che vanno insieme, mi rispose, l'uno provvede all'altro. E allora andiamo, che per via penseremo a cosa dire. E con questo proposito, mi disse, ci mettemmo in cammino. Ma Socrate, concentrato nei suoi pensieri, rimaneva indietro. Quando l'aspettavo, mi diceva di andar pure avanti. Arrivo da Agatone, la porta è aperta e mi trovo subito in una situazione un po' comica. Uno schiavo mi viene incontro dalla casa e mi porta nella sala dove gli altri avevano già preso posto, già pronti per la cena. Mi vede Agatone e mi dice. Aristodemo, arrivi al momento gusto per cenare con noi. Se sei venuto per qualcos'altro, rimanda tutto a più tardi, perché ieri ho cercato di invitarti ma non t'ho trovato. E Socrate? non è con te?Allora mi volto, mi disse Aristodemo, e non lo vedo più. Non mi era dietro. Spiego dunque di essere venuto con Socrate, e che era stato lui ad invitarmi alla cena. Ben fatto, disse Agatone. Ma lui dov'è? Era dietro a me sino ad un istante fa. Dove può essere finite? Ragazzo, disse allora Agatone ad un servo, va ben a vedere dov'è Socrate e portalo da noi. Tu Aristodemo intanto prendi posto su questo divano a fianco d'Erissimaco. E raccontava che mentre un domestico gli lava i piedi per potersi stendere sul divano, un altro arriva dicendone una nuova. Questo Socrate di cui parlate s'è rintanato nel vestibolo dei vicini, ed è fermo là. Ho avuto un bel chiamarlo, non è voluto venire. Certo che è ben strano, disse Agatone. Ritorna subito a chiamarlo e non lasciarlo lì. Non fate niente, dissi io, lasciatelo là piuttosto. E' un'abitudine che ha quella di mettersi in un angolo, non importa dove, e di restare là dov'è. Verrà presto, penso; non disturbatelo, lasciatelo tranquillo. E va bene, facciamo così, disse Agatone, se lo dici tu. Quanto a noi, ragazzi portateci da mangiare. Voi portate sempre da mangiare quel che vi pare, quando non c'è nessuno a controllare - cosa che io peraltro non ho mai fatto nella mia vita. Ma oggi, fate finta che io e i miei amici siamo vostri invitati e portateci il meglio, tanto da meritare i nostri complimenti. E così, disse Aristodemo, eccoci a tavola, ma Socrate non veniva. Agatone insisteva tutti i momenti per mandarlo a chiamare, ma io lo fermavo. Alla fine arrivò, diciamo verso la metà del pranzo, senza essersi poi fatto troppo aspettare, come spesso faceva. Allora Agatone, che si trovava da solo sull'ultimo divano, gli disse subito. Vieni qui, Socrate, mettiti accanto a me, che io possa apprendere subito per contatto diretto i tuoi pensieri là nel vestibolo. A qualcosa devono pure aver condotto le tue riflessioni, se no saresti ancora là. Socrate si siede e fa. Sarebbe una buona cosa, Agatone, se i pensieri potessero scivolare da chi ne ha più a chi ne ha meno per contatto diretto, quando siamo accanto, tu ed io. Come l'acqua che, attraverso un filo di lana, passa dalla coppa più piena alla più vuota. Se è così, voglio subito mettermi al tuo fianco, perché la tua grande e bella saggezza possa riempire la mia coppa. Che per la verità è un po' così, incerta come un sogno, mentre la tua sapienza è limpida e può sfavillare ancora di più, lei che ha brillato con lo splendore della tua giovinezza e ier l'altro ha fatto faville davanti a più di trentamila greci, che prendo tutti a miei testimony. Che fai, mi prendi in giro, Socrate?, disse Agatone. Sulla saggezza faremo i conti più tardi, te ed io, e prenderemo Dioniso a nostro giudice. Ma intanto pensiamo a cenare. E così, disse Aristodemo, Socrate prese posto sul divano. Dopo aver cenato, e gli altri con lui, e dopo aver fatto le libagioni, i canti in onore del dio e le cerimonie d'uso, ci si preparò a bere. Fu Pausania, allora, a prendere la parola per dire più o meno così. Carissimi, come si fa adesso a bere senza star male? Io, ve lo dico subito, non mi sento troppo bene dopo la festa di ieri, perché ho bevuto un po' troppo e vorrei andarci piano stasera. Del resto voi dovreste essere più o meno tutti nelle mie condizioni, perché c'eravate anche voi ieri. Allora, come possiamo fare per bere senza star male? Intervenne Aristofane. Ben detto, Pausania. Ti do proprio ragione, anch'io vorrei andarci piano a bere perché sono di quelli che ieri sera hanno forse un po' esagerato. A queste parole, disse Aristodemo, intervenne Erissimaco, il figlio di Acumeno. Avete ragione, disse, ma sentiamo gli altri: tu che ne dici, Agatone, hai ancora la forza di bere? Per nulla, rispose, non ce la faccio proprio. A quanto sembra, disse Erissimaco, è proprio una fortuna per tutti - per me, per Aristodemo, per Fedro, per tutti quanti - che voi, i migliori bevitori, dobbiate adesso rinunciare, perché noi non ce la faremmo a starvi dietro. Farei un'eccezione per Socrate. è tanto bravo a bere che a non bere, per lui andrà sempre bene, qualunque cosa decidiamo. E, visto che nessuno qui mi sembra disposto a bere del gran vino, forse riuscirò a non essere sgradito a nessuno dicendovi la verità sull'ubriachezza. Come medico devo subito dirvi che è evidente che ubriacarsi fa male. Del resto io non mi sento portato a bere fuori misura, né a consigliare ad un altro di farlo, soprattutto se ha la testa ancora pesante per il giorno prima. Poi intervenne Fedro, quello di Mirrinunte. Quanto a me, io ti credo sempre se parli di medicina, ma oggi ti crederanno tutti, se non sono matti. Queste parole furono ascoltate e all'unanimità si decise che non si sarebbe passata la serata ad ubriacarsi e che ciascuno avrebbe bevuto quanto si sentiva. E dunque, riprese Erissimaco, visto che siamo d'accordo che ciascuno beva quanto vuole, senza nessun obbligo, io proporrei adesso di congedare la nostra giovane flautista che è appena entrata: per stasera suoni da sola o, se lo desidera, per le donne di casa. Noi, invece, passeremo la serata chiacchierando. Di cosa possiamo parlare? Io quasi quasi un'idea ce l'avrei, se volete ve la dico. Tutti furono d'accordo, disse Aristodemo, e chiesero a Erissimaco di fare la sua proposta. Questi riprese dicendo. Parlerò, per cominciare, alla maniera della Melanippe di Euripide, perché non son mie queste parole, che adesso vi dirò, ma di Fedro, che è lì. Lui mi dice sempre, tutto indignato. Non è strano, Erissimaco, che per tutti gli altri dèi vi siano inni e peana composti dai poeti e che in onore dell’amore, un dio così potente, così grande, non vi sia stato ancora un solo poeta, tra tutti, che abbia composto il più piccolo elogio? Prendi, se vuoi, i sofisti di fama. Scrivono in prosa l'elogio di Eracle, e d'altri ancora, come ha fatto l'ottimo Prodico. Ma c'è di peggio. Non mi è capitato l'altro giorno di vedere il libro di un sapiente che faceva l'elogio del sale, per la sua utilità? Ed altre cose dello stesso genere, lo sappiamo, sono state fatte oggetto di elogio. Ci si è data molta pena di trattare di parecchi argomenti, ma l'amore, lui non ha trovato ancora nessuno sino ad ora che abbia avuto il coraggio di onorarlo come merita. Ecco come ci si dimentica di un grande dio. Ebbene, io credo che su questo Fedro abbia ragione. Desidero dunque, da parte mia, portare il mio contributo onorandolo, facendo qualcosa che gli sia gradito. Adesso quindi potremmo fare tutti un elogio di questo dio. Se siete d'accordo, avremmo così un argomento senza alcun dubbio davvero assai interessante con cui passare il nostro tempo. Potremmo, cominciando da sinistra verso destra, fare un elogio dell'amore, il più bell'elogio di cui siamo capaci. Fedro parla per primo, perché è al primo posto ed è allo stesso tempo il padre di quest'idea. Nessuno, mio caro Erissimaco, disse Socrate, voterà contro la tua proposta. Non sarò io ad oppormi, che dichiaro subito di non saper nulla di nulla, ma dell'amore son proprio esperto. Non Agatone o Pausania, e certo neppure Aristofane, che trascorre tutto il suo tempo fra Dioniso e Afrodite, né gli altri che vedo qui stasera. Certo il compito è più difficile per noi che occupiamo gli ultimi posti. Ma se quelli che parlano prima di noi lo faranno davvero bene, ne saremo soddisfatti. Che Fedro cominci, con i nostri auguri. che faccia l'elogio dell'amore. Furono subito tutti d'accordo e tutti si unirono all'invito di Socrate. Aristodemo non si ricordava più esattamente ciò che ciascuno disse e io stesso non ricordo più bene ciò che lui mi raccontò. Le cose più importanti, o quel che a me è sembrato più degno di essere ricordato, adesso ve lo riporterò nella forma in cui ciascuno l'ha detto. E così, secondo Aristodemo, il primo a parlare fu Fedro, cominciando il suo discorso più o meno in questi termini. E' un gran dio l'amore, un dio che merita tutta l'ammirazione degli uomini e degli dèi per diverse ragioni, non ultima la sua origine. E' annoverato tra i più antichi dèi, e questo, aggiunse, è un onore. Di questa antichità abbiamo una prova. L’amore non ha né padre né madre, e nessuno, né in poesia né in prosa, glielo ha mai attribuito. Esiodo ci dice che innanzitutto vi fu il Caos, e la Terra dall'ampio seno, sicura sede per tutti i viventi e l'amore. E, in accordo con Esiodo, anche Acusilao dice che dopo il Caos sono nati questi due esseri, la Terra e l'amore. Quanto a Parmenide, parlando della generazione dice che di tutti gli dèi, l’amore fu il primo che la dea partorì. Così c'è ampio accordo nel dire che l'amore è uno degli dèi più antichi. Essendo così antico, è per noi la sorgente dei più grandi beni. Per me, io lo affermo, non c'è più grande bene nella giovinezza che avere un amante virtuoso e, se si ama, trovare eguale amore in chi si ama. Infatti i sentimenti che devono guidare per tutta la vita gli uomini destinati a vivere nel bene non possono ispirarsi né alla nobiltà della nascita né agli onori né alla ricchezza, né a null'altro: devono ispirarsi all’amore. Ora, mi chiedo, quali sono questi sentimenti? La vergogna per l’azione cattiva, l'attrazione per l’azione bella. Senza questo, nessuna città, nessun individuo potranno far mai nulla di grande e di buono. Così, io lo dichiaro, un amante, un uomo che ama, se sorpreso in flagrante a commettere un'azione malvagia o a subire per vigliaccheria, senza difendersi, una grave offesa, soffre certamente se a scoprirlo saranno suo padre o i suoi amici o chiunque altro. Ma soffrirà molto di più se a scoprirlo sarà il suo amante, il suo amato. Ed è lo stesso per l'amato. è davanti al suo amante, noi lo sappiamo bene, che l’amato sente la più grande vergogna, quando sarà sorpreso a fare qualcosa di cui vergognarsi. Se esistesse un mezzo per mettere insieme una città o un esercito fatti solo da amanti e dai loro amati, essi si darebbero certamente il miglior governo che ci sia. Allontanerebbero infatti da loro tutto ciò che è cattivo e rivaleggerebbero sulla via dell'onore. E se questi amanti combattessero l'uno di fianco all'altro potrebbero vincere, per così dire, il mondo intero, anche se fossero soltanto un piccolo gruppo, perché sarebbero molto uniti tra loro. Infatti per un amante innamorato sarebbe più intollerabile abbandonare i ranghi o gettare le armi sotto gli occhi del suo amato che sotto gli occhi del resto dell'esercito. Preferirebbe piuttosto morire cento volte. Quanto ad abbandonare l’amato chi si ama, a non aiutarlo in caso di pericolo, nessuno è così vigliacco che l'amore non riesca a ispirargli una forza divina rendendolo eguale a quelli che per natura hanno grande coraggio. Esattamente come in Omero l’amore viene a ispirare l'ardore per la battaglia a certi eroi, così l'amorefa questo dono agli amanti innamorati, ed essi lo accettano da lui. Meglio ancora: morire per l'altro. Soltanto l’amante accetta questo. La figlia di Pelia, Alcesti, ha dato un esempio chiarissimo di ciò che dico. Soltanto essa acconsentì a morire per il suo sposo, che pure aveva un padre e una madre. La sua figura si eleva così in alto su di loro per la forza nata dal suo amore da farli apparire estranei al loro stesso figlio, senza altro legame con lui che il nome. Avendo agito in questo modo, il suo gesto è sembrato bellissimo, non solo agli uomini ma anche agli dèi. Essi concedono davvero a pochi il privilegio di richiamare in vita la loro anima dal fondo dell'Ade, una volta morti. Ebbene fra tanti eroi, autori delle più belle azioni, concessero questo privilegio proprio ad Alcesti ricordandosi del suo gesto che avevano tanto ammirato. A tal punto gli dèi onorano la dedizione e il coraggio al servizio dell'amore. Al contrario essi mandarono via dall'Ade Orfeo, figlio di Eagro, senza ottenere nulla. Gli mostrarono soltanto un'immagine della donna per la quale era venuto, senza concedergliela. La sua anima, infatti, sembrava loro debole, perché altri non era che un suonatore di cetra; non aveva avuto il coraggio di morire, come Alcesti, per il suo amore, ma aveva cercato con tutti i mezzi di penetrare da vivo nel regno dei morti. E' certamente per questa ragione che essi gli hanno inflitto questa punizione e hanno fatto in modo che morisse per mano delle donne. Non hanno agito nello stesso modo con Achille, il figlio di Teti. L’hanno trattato con onore, aprendogli la via per le isole dei beati. Achille infatti, avvertito dalla madre che sarebbe morto se avesse ucciso Ettore, e sarebbe invece tornato a casa finendo i suoi giorni da vecchio se non lo avesse fatto, scelse con coraggio di restare al fianco di Patroclo, il suo amante, vendicandolo: scelse non di morire per salvarlo, perché era già stato ucciso, ma di seguirlo sulla via della morte. Così gli dèi, pieni di ammirazione, gli hanno tributato onori eccezionali, per aver posto così in alto il suo amante. Eschilo scherza quando pretende che Achille sia l'amante di Patroclo. Achille era più bello non soltanto di Patroclo, ma anche di tutti gli altri eroi messi insieme. Era un ragazzo, non aveva ancora la barba, ed era quindi assai più giovane di Patroclo, come dice Omero. Così se gli dèi onorano soprattutto questo particolare tipo di coraggio che si mette al servizio dell'amore, essi ammirano, stimano, ricompensano ancor di più la tenerezza dell'amato per l'amante che quella dell'amante per i suoi amati. L'amante, infatti, è più vicino al dio dell'amato, perché un dio lo possiede. Ecco perché gli dèi hanno onorato Achille, aprendogli la via per le isole dei beati. Ecco dunque, io lo dichiaro, l'amore è tra gli dèi il più antico e il più degno, ha i maggiori titoli per guidare l'uomo sulla via della virtù e della felicità, sia in vita che nel regno dell'aldilà. Fu questo pressappoco, secondo Aristodemo, il discorso di Fedro. Dopo Fedro parlarono altri, ma lui non si ricordava bene. Non me ne ha parlato e invece mi ha riportato il discorso di Pausania, che si espresse in questi termini. Io credo, Fedro, che l'argomento sia mal posto quando ci si domanda semplicemente di fare l'elogio dell'amore. Se dell’amore ve ne fosse uno solo, potrebbe anche andar bene. Ma non è così. Non ce n'è uno soltanto, e allora è bene prima spiegare di quale amore dobbiamo tessere l'elogio. Cercherò dunque, da parte mia, di chiarire le cose su questo punto, di precisare innanzitutto quale amore si debba lodare e quindi pronuncerò un elogio che sia degno di questo amore. Tutti sappiamo che non c'è Venere senza amore. Se dunque non vi fosse che una Venere, non vi sarebbe che un solo amore. Ma Venere è duplice, e quindi, necessariamente, abbiamo due amori. Come negare che esistano due Venere? Una Venere, senza dubbio la più antica, non ha madre: è figlia di Urano, e la chiamiamo quindi la dea del cielo, Venere Urania. L'altra Venere, la più giovane, è figlia di Zeus e di Dione, e la chiamiamo quindi la dea popolare, Venere Pandemia. E allora necessariamente l'amore che serve Venere Pandemia dovrà chiamarsi Amore Popolare (o volgare) Pandemio. Quell’amore che serve Venere Urania Amore Uranio. Certo, bisogna lodare tutti gli dèi. Ma, detto questo, qual è il dominio dei due amori? E' questo che dobbiamo provare a dire. Ogni azione si caratterizza per questo, che in sé non è né bella né brutta. In quello che adesso facciamo, bere, cantare, chiacchierare, non c'è nulla di bello in sé. è piuttosto il modo in cui si compie un'azione a dar questo o quel risultato, e così seguendo la regola del bello e della rettitudine un'azione con rettitudine diventa bella, al contrario senza rettitudine l’azione diventa brutta. E lo stesso avviene per l'atto o l’azione dell’amore (l’amore). Non tutto l'amore è bello e degno di elogio: lo è soltanto quello che porta all’azione di “amare bene”, la azione dell’amore e bella. Ora l'amore volgare, compagno di Venere popolare, certo è volgare e opera a casaccio: è proprio degli uomini da poco. Questi uomo si innamora di un ragazzo. Poi, l’amante ama il corpo bello. Voglie arrivare dritto al loro scopo. Capita quindi che si imbattano nel bene, e capita anche il contrario. Come è ovvio, quest’amore volgare, dell’uomo volgare, si unisce alla più giovane delle due dee, che sin dal suo concepimento partecipa sia del maschile che del femminile. L'altro Eros, invece, partecipa dell'Afrodite Urania che da sempre è estranea all'elemento femminile e partecipa soltanto del maschile; e poi è la più antica e non conosce alcun impulso brutale. Per questa ragione, l’uomo che e ispirato dall’amore volgare Eros e attrato dall'elemento maschile. Ama teneramente il sesso per natura più forte. E proprio da questa inclinazione ad innamorarsi di un ragazzo si posse riconoscere quanto e posseduto con purezza da quest’amore volgare, perché l’uomo volgare non ama i giovani prima che abbiano dato prova d'intelligenza. Ora, questo è impossibile che accada prima che il giovane sia abbastanza grande da avere la prima barba. E' questa l'età dell’efebo in cui è bene cominciare a rivolgere ad essi attenzioni d'amore, per restare poi con loro per tutta la vita, per legare le proprie esistenze, piuttosto che abusare della credulità di un giovane sciocco, farsi gioco di lui e piantarlo poi per correre dietro ad un altro. Ci vorrebbe una legge che proibisse di amare un ragazzo troppo giovane. Così non si sprecherebbero tante cure per un risultato imprevedibile. Non è infatti possibile prevedere che cosa ne sarà di un ragazzino, se avrà vizi o virtù nel corpo efebo. L'uomo che vale si pone senza dubbio da sé, e di buon grado, questa legge. Ma bisognerebbe anche che chi coltiva l’amore volgare abbia un limite. E proprio quest’ amante volgare, infatti, che hanno screditato l'amore e dato a certuni il coraggio di dire che è una vergogna cedere ad un amante. Chi dice questo, lo fa perché ha davanti agli occhi la mancanza di tatto e di onestà di quest’amante volgari, mentre nessun gesto al mondo merita d'essere criticato quando la convenienza e la legge sono rispettate. Ancora di più. La regola di condotta, per quel che concerne l'amore, è facile da comprendere nelle altre città, perché la sua definizione è semplice. Nell'Elide, presso i Beoti, e nelle altre città in cui gl’uomini non sono abili nel far grandi discorsi, la regola ammessa è semplice. è un bene cedere all’amante e nessuno dirà mai che c'è da vergognarsi. Il fine è di evitare l'imbarazzo di dover convincere il giovane con la parola, perché non e gran parlatore. Nella Ionia, al contrario, e in diverse altre zone, la regola dice che questo non va bene.Sono paesi dominati dai barbari. Presso i barbari, infatti, a causa dei loro regimi tirannici, il giudizio comune è che ci sia da vergognarsi a cedere a un amante. Lo stesso giudizio si dà per l'amore per l'esercizio fisico. Senza dubbio, ai loro capi non conviene che nascano grandi intelligenze tra i sudditi, e neppure una grande amicizia saldamente unita, come in effetti l'amore, più di ogni altra cosa al mondo, sa produrre. Di questo hanno fatto esperienza anche i tiranni qui da noi. L’amore di Aristogitone e l'amicizia di Armodio, sentimenti solidi, hanno distrutto il loro potere. Così là dove si ritiene che ci sia da vergognarsi a cedere a un amante, questa convinzione è nata dalla debolezza morale dell’uomo: desiderio di dominio presso i capi, vigliaccheria presso i sudditi. Là invece dove la regola ammette in tutta semplicità che è cosa buona, essa è nata per la pigrizia dell'animo di quell’uomo. Presso di noi la regola è molto più bella e, come ho detto, non è facile da comprendere. C'è da rifletterci, in effetti. è più bello, si dice, amare apertamente piuttosto che in segreto, e soprattutto amare il giovane di nascita migliore e di meriti più alti, anche se meno belli di altri; di più, chi è innamorato è straordinariamente incoraggiato da tutti, e nessuno pensa che faccia qualcosa di cui vergognarsi: il successo è il suo onore, lo scacco è la sua vergogna. E nei tentativi di conquista la regola elogia l’amante per delle stravaganze che esporrebbero alle critiche più severe chiunque osasse comportarsi così per altri scopi. Supponiamo infatti che uno voglia ottenere del denaro da qualcuno, che voglia esercitare una magistratura, o una qualsiasi funzione importante. Se accetta di fare ciò che fanno l’amante per il suo amato - assillarli con preghiere e suppliche, pronunciare grandi giuramenti, dormire dietro le loro porte, abbassarsi volontariamente ad ogni sorta di schiavitù che nessuno schiavo accetterebbe di buon grado - ebbene tutto questo gli e impedito sia dai suoi amici che dai suoi nemici. L’amico gli rimprovera la sua adulazione e la sua bassezza; il nemico lo fa ragionare e arrossiranno per lui. Queste cose, invece, sono ben viste per l'innamorato e la nostra regola non le critica affatto. E qualcosa che si sta ad ammirare. E la cosa più strana è, secondo il detto popolare, che lui solo può giurare e ottenere grazia davanti agli dèi se tradisce i suoi giuramenti. Dinanzi a Venere, a quanto si dice, nessun giuramento vale. Così l’uomini danno all’innamorato una libertà totale: lo dice la nostra regola. E questo porta a pensare che la regola nella nostra città giudichi cose perfette il bello e l'amore, e l'amicizia che ricompensa l’amante.  Ma quando d'altra parte un padri fa sorvegliare da un pedagogho il suo figliolo innamorato, in modo che non possa parlar d'amore con il suo amante. Quando i giovani della loro età, i loro amici, li rimproverano per il loro amore. Quando gli adulti non si oppongono a queste critiche e non le biasimano come fuori luogo. Allora se si considera tutto questo si potrebbe credere, al contrario, che questo tipo di amore goda presso di noi di cattiva fama. Ecco, io credo, come stanno le cose. La faccenda non è per nulla semplice, come ho già detto all'inizio. In se stessa non è né bella né brutta. E' bella se l’azione d’amar bene rettamente e bella, è brutta se l’azione d’amare male sono brutte. E' cosa brutta cedere ad un uomo cattivo e per un cattivo motivo. è cosa bella cedere ad un uomo di valore e per un bel motivo. Ora chi si comporta male è, come prima dicevo, l'amante volgare, che ama il corpo bello. Non ha costanza, perché l'oggetto del suo amore – il corpo bello -- è incostante. All'affievolirsi del  bello del corpo che ama, "s'invola e va via", e tradisce senza vergogna alcuna tante belle parole, tante promesse. Ma l’uomo chi ama il carattere di una persona per le sue alte qualità, resta fedele tutta la vita perché il suo amore riposa su qualcosa di costante. La nostra regola si propone di mettere l’uomo alla prova della serietà e dell'onestà, perché si ceda al’uomo che valgono e si fuggano gli altri. Incoraggiano quindi a sceglier bene tra il cedere e il fuggire, creando delle prove che permettano di riconoscere di che natura sia l'amante. Su questo si fonda evidentemente la massima: «a cedere subito c'è da vergognarsi». Più tempo passa, infatti, più si ha la prova, sembra, della serietà dell'amore. Una seconda massima, poi, dice che c'è da vergognarsi a cedere per denaro o per averne vantaggi politici, sia che ci si intimorisca di fronte ad un'azione decisa, che rende incapaci di reagire, sia che non si respingano con sdegno le lusinghe della ricchezza e del successo politico: niente di tutto ciò ha l'aria d'essere solido e stabile, e dunque non può venirne alcuna generosa amicizia. Non resta dunque, secondo la nostra regola, che una sola via onesta perché l'amato possa cedere all'amante. Presso di noi la regola è la seguente. Come tra gli amanti non c'è nulla di umiliante nel far di se stessi degli schiavi consenzienti, secondo quella forma di schiavitù che prima dicevo, e non c'è il rischio di essere criticati, nello stesso modo rimane una sola altra forma di schiavitù volontaria che sfugga a ogni critica: quella che ha la virtù come proprio oggetto. La nostra regola infatti dice questo, che se si accetta di essere al servizio di un altro pensando di diventare migliori grazie a lui, in la virtù, questa servitù liberamente accolta non ha niente di cattivo e non è umiliante. Bisogna dunque riunire in una sola regola, che riguarda l'amore dell’uomo verso i ragazzo. Vogliamo che si abbia un bene dal fatto che l'amato ceda all'amante. Infatti quando le vie dell'amante e dell'amato si incontrano, ed essi insieme seguono la stessa regola, il primo di rendere al suo amato tutti i servizi compatibili con la giustizia, il secondo di dare all'uomo che cerca di farlo diventare buono tutte le forme di assistenza compatibili con la giustizia. L’uno potendo contribuire a dare la virtù, l'altro avendo bisogno di progredire nell'educazione, allora in verità quando queste regole convergono, e in questo caso solamente, questa coincidenza fa sì che sia cosa bella che l'amato ceda all'amante. Altrimenti, è da escludere. Nel bene, anche se chi cede è completamente vittima della situazione, non c'è alcun disonore, ma in tutti gli altri casi, che si sia vittime o meno, c'è di che vergognarsi. Infatti se c'è qualcuno che per arricchirsi ha ceduto a un'amante che crede ricco, e viene poi ingannato e non ottiene nulla, perché il suo amante si rivela povero, la cosa rimane riprovevole anche se si è una vittima. Un simile uomo sembra mostrare il fondo della sua anima: per denaro si presta a tutto verso il primo venuto, e questo non è affatto bello. Secondo lo stesso ragionamento, se si cede a qualcuno credendolo pieno di qualità e pensando di diventare migliori legandosi a questo amante, e se in seguito ci si trova ingannati scoprendo la sua malvagità, quanto sia povero nella virtù, ebbene chi è stato ingannato non ha nulla di cui vergognarsi. Anche in questo caso, infatti, sembra rivelarsi la qualità dell'anima. La virtù e il progresso morale, in tutto e per tutto, sono l'oggetto della propria passione - e questa è la cosa più bella che ci sia. Quindi è bellissimo cedere, quando si cede per la virtù. Quest’amore viene da Venere Urania, ed è davvero divino e prezioso per la città come per l’uomo, perché esige dall'amante e dall'amato che entrambi veglino su se stessi, per essere ricchi di virtù. Quanto agli altri, essi rivelano il legame con l'altra dea, la Venere volgare. Ecco, mio caro Fedro: io non ho fatto che improvvisare; è questo il mio tributo per l’amore. Dopo la pausa di Pausania - uso questo gioco di parole sullo stile dei maestri della parola - era venuto il turno di Aristofane. Ma caso volle che, o per la cena troppo abbondante o per qualche altra ragione, avesse il singhiozzo e non riuscisse a parlare. Chiese allora a Erissimaco di parlare lui al posto suo. Bisogna, Erissimaco, o che tu fermi il mio singhiozzo, o che tu parli al mio posto in attesa che mi passi. E va bene, rispose Erissimaco, farò l'uno e l'altro. Parlerò al tuo posto e tu parlerai al mio quanto ti sarà passato il singhiozzo. Mentre parlo, se trattieni a lungo il respiro il tuo singhiozzo si deciderà ad andarsene. Se non se ne va, fai dei gargarismi con dell'acqua. E se non se ne va ancora, cerca qualcosa per solleticarti il naso e starnutire. Se lo farai una o due volte, per quanto tenace sia il tuo singhiozzo, se ne andrà. A te parlare, dunque, disse Aristofane, io seguirò i tuoi consigli. Allora Erissimaco prese la parola. "Io credo che dopo un buon inizio tu non abbia risposto del tutto alle esigenze del soggetto trattato, ed è quindi necessario che io cerchi, da parte mia, di completare il suo discorso. La tua distinzione tra i due tipi di amore mi sembra eccellente. Ma essa non riguarda soltanto l’uomini nei loro rapporti con le persone belle. Riguarda anche i rapporti tra altri oggetti d'amore, tra altri esseri, che si tratti dei corpi degli animali o delle piante che la terra nutre: in una parola, riguarda tutti gli esseri viventi. La medicina, la nostra arte, credo mi consenta questa osservazione. Essa permette di vedere che l’amore è un grande dio, un dio meraviglioso, e che la sua azione si estende su tutto, sia nell'ordine dell'umano che del divino. Comincerò dalla medicina, per fare onore alla mia arte. La natura dei corpi comporta un duplice amore. Ciò che è sano nel corpo è ben diverso e dissimile da ciò che è malato, questo lo ammettono tutti. Ora, il dissimile ama e desidera il dissimile. L'amore che è proprio della parte sana è dunque diverso dall'amore che è proprio della parte malata. Dunque, proprio come Pausania diceva che è cosa bella accordare i propri favori agli uomini che se lo meritano ed è cosa brutta cedere ai dissoluti, così quando si tratta dei corpi stessi favorire ciò che vi è di buono e di sano in ciascuno è cosa bella e necessaria, ed è questo che chiamiamo medicina, mentre bisogna rifiutarsi di favorire ciò che è malvagio e malsano, se si vogliono seguire le regole dell'arte. La medicina infatti, se vogliamo definirla in una parola, è la scienza dei fenomeni d'amore propri dei corpi, nei loro rapporti con il riempirsi e il vuotarsi, e chi da questi fenomeni sa diagnosticare il buono e il cattivo amore, ebbene questi è il miglior medico. Chi sa operare dei cambiamenti grazie ai quali si acquista un amore al posto dell'altro; chi sa far nascere l'amore nei corpi in cui manca e sa eliminarlo quando è di troppo; ebbene costui è davvero padrone di quest'arte. Senza alcun dubbio. Il medico deve essere capace di ristabilire l'amicizia e il mutuo amore tra gli elementi del corpo che più si odiano. Ora, gli elementi che più si odiano sono quelli contrari: il freddo e il caldo, l'amaro e il dolce, il secco e l'umido, e così via. E' per avere saputo mettere l'amore e la concordia tra questi elementi che il nostro antico padre Asclepio - a quel che dicono i nostri poeti, e io lo credo - è il fondatore della nostra arte. La medicina è dunque, come dicevo, tutta quanta governata da questo dio. E questo vale anche per la ginnastica e per l'agricoltura. Quanto alla musica, non occorre una grande riflessione per vedere che è la stessa cosa. Senza dubbio è questo che vuol dire Eraclito, benché la sua espressione non sia felice. Egli dichiara infatti che l’uno «in sé discorde con se stesso si accorda, come l'armonia dell'arco e della lira56».Ora, è molto illogico affermare che l'armonia consiste in una opposizione o che essa è composta da elementi che si oppongono ancora. Ma egli voleva forse dire che a partire da una opposizione originaria, tra l'acuto e il grave, i due elementi in seguito si accordano e l'armonia si realizza grazie alla musica. Infatti, se veramente l'acuto e il grave si opponessero ancora, non si vede come potrebbe nascere l'armonia. L'armonia infatti è una consonanza, e una consonanza è una sorta di accordo. Ora, l'accordo di elementi opposti, se permangono opposti, è impossibile, e d'altro canto non può esserci armonia tra ciò che si oppone e non si accorda: nello stesso modo il ritmo nasce dal rapido e dal lento, cioè da elementi all'inizio opposti che in seguito si accordano. E come prima la medicina, adesso è la musica che introduce l'accordo tra tutti questi elementi, creando amore reciproco e accordo. E dunque la musica è essa stessa, nell'ordine dell'armonia e del ritmo, una scienza dei fenomeni dell'amore. Ora, se nella costituzione dell'armonia e del ritmo i fenomeni dell'amore possono essere osservati facilmente, questo accade perché non vi sono due specie d'amore. Ma quando per il pubblico si eseguono ritmi e armonie, sia componendole (in quella che si chiama composizione musicale) sia servendosi a seconda dei casi di composizioni melodiche o metriche composte da altri (in quella che si chiama educazione musicale), allora la cosa diventa difficile e si ha bisogno di un uomo del mestiere, che sia abile. Ecco allora tornare il discorso di prima: se bisogna cedere, è bene farlo con uomini dai costumi ben regolati, proprio per migliorarsi quando ancora non si hanno le stesse qualità; l'amore di questi uomini deve essere ben difeso e bisogna quindi rivolgersi all'Eros bello, all'Eros Uranio, quello della Musa Urania. L'altro è quello di Polimnia, l'Eros Pandemio57, che bisogna offrire con prudenza a chi viene ad offrirlo a noi, in modo da trarne piacere senza strafare; è come nella nostra arte, la medicina, che deve saper ben dosare il gusto per la buona cucina, per imparare a goderne senza ammalarsi. Così dunque in musica, in medicina, in tutto l'ordine delle cose divine e umane, è necessario proteggere nella misura del possibile l'uno e l'altro amore, poiché vi si trovano entrambi. Anche l'ordine delle stagioni dell'anno è riempito da questi due amori, e quando gli elementi di cui parlavo prima - il caldo e il freddo, il secco e l'umido - incontrano nei loro reciproci rapporti l'amore ben regolato, essi si armonizzano combinandosi nella giusta misura, allora portano l'abbondanza e la sanità agli uomini, agli animali, alle piante, senza causare alcun danno58. Ma quando nelle stagioni dell'anno prevale l'amore senza misura, rovina ogni cosa ed è causa di grandi disastri. La pestilenza, infatti, ha origine da questi fenomeni e così le più varie malattie che aggrediscono animali e piante: gelo, grandine, i mali delle piante, provengono dal desiderio senza limiti e misura nelle relazioni reciproche fra questi fenomeni, governate dall'amore. C'è una scienza che tratta nello stesso tempo del movimento degli astri e delle stagioni dell'anno: si chiama astronomia. Tutti i sacrifici, poi, e tutto ciò che ha a che fare con la divinazione (cioè tutto ciò che mette in comunicazione gli dèi e gli uomini) non hanno altro scopo che quello di proteggere l'amore e di guarirlo. L'empietà nasce abitualmente dal non cedere all'amore ben regolato, dal non onorarlo, dal non riverirlo con ogni propria azione, ma dall'onorare l'altro amore, nei rapporti sia con i propri genitori, viventi o morti, sia con gli dèi. Questo è il compito assegnato alla divinazione: sorvegliare coloro che amano e guarirli. Ed è ancora lei, la divinazione, che permette l'amicizia tra gli dèi e gli uomini, perché essa conosce, nell'ordine degli umani, quei fenomeni d'amore che tendono al rispetto degli dèi e alla pietà.Questa è la molteplice, l'immensa o piuttosto l'universale potenza che è propria dell'Eros. E' lui ad agire, con moderazione e giustizia, per produrre delle opere buone, sia tra noi che tra gli dèi, con la più grande potenza: ci procura ogni felicità e ci rende capaci di vivere in società, di legare con vincoli di amicizia gli uni con gli altri ed anche con quegli esseri a noi superiori, gli dèi. Anch'io, senza dubbio, ho tralasciato alcune cose nel mio elogio dell'Eros, ma non l'ho fatto apposta. Se ho dimenticato qualche punto, spetta a te, Aristofane, di colmare la lacuna. Però, se ti proponi di lodare il dio in un altro modo, fai pure, visto che il tuo singhiozzo se n'è andato."Allora, disse Aristodemo, Aristofane prese la parola. Il fatto è che se n'è sì andato, ma ho dovuto proprio applicare il tuo rimedio e starnutire. Non è strano che il buon ordine del mio corpo abbia bisogno di rumori e di solletico per starnutire? Sta di fatto, però, che il singhiozzo è passato appena ho starnutito. Aristofane, amico mio, che dici?, riprese Erissimaco. Ci fai ridere prendendomi in giro un attimo prima di fare il tuo discorso? Così mi costringi a sorvegliare bene le tue parole, che tu non abbia ad esser comico proprio quando puoi parlare in tutta tranquillità. Aristofane si mise a ridere e disse. Hai ragione Erissimaco, ritiro tutto. Ma non mi sorvegliare. Nel discorso che farò, infatti, dovrò dire non poche cose che faranno un po' ridere - e questo è un vantaggio, perché così la mia Musa si troverà su un terreno familiare -, ma ho proprio paura di essere un po' preso in giro! Eh, Aristofane, tu prima lanci una frecciatina, poi te ne vuoi scappare, non è vero? Ma t'avverto, parla piuttosto come un uomo che deve rendere conto di quel che dice! Sta' tranquillo, però, da parte mia ti farò grazia, ma solo se vorrò!"Discorso di Aristofane "A dir la verità, Erissimaco - disse Aristofane -, ho intenzione di parlare diversamente da te e da Pausania. Infatti mi sembra che gli uomini non si rendano assolutamente conto della potenza dell'amore. Se se ne rendessero conto, certamente avrebbero elevato templi e altari a questo dio, e dei più magnifici, e gli offrirebbero i più splendidi sacrifici. Non sarebbe affatto come è oggi,quando nessuno di questi omaggi gli viene reso. E invece niente sarebbe più importante, perché è il dio più amico degli uomini: viene in loro soccorso, porta rimedio ai mali la cui guarigione è forse per gli uomini la più grande felicità. Dunque cercherò di mostrarvi la sua potenza, così potrete essere maestri a vostra volta. Ma innanzitutto bisogna che conosciate la natura della specie umana e quali prove essa ha dovuto attraversare. Nei tempi andati62, infatti, la nostra natura non era quella che è oggi, ma molto differente. Allora c'erano tra gli uomini tre generi, e non due come adesso, il maschio e la femmine. Ne esisteva un terzo, che aveva entrambi i caratteri degli altri. Il nome si è conservato sino a noi, ma il genere, quello è scomparso. Era l'ermafrodito, un essere che per la forma e il nome aveva caratteristiche sia del maschio che della femmina. Oggi non ci sono più persone di questo genere.Quanto al nome, ha tra noi un significato poco onorevole.Questi ermafroditi erano molto compatti a vedersi, e il dorso e i fianchi formavano un insieme molto arrotondato. Avevano quattro mani, quattro gambe, due volti su un collo perfettamente rotondo, ai due lati dell'unica testa. [190] Avevano quattro orecchie, due organi per la generazione, e il resto come potete immaginare. Si muovevano camminando in posizione eretta, come noi63, nel senso che volevano. E quando si mettevano a correre, facevano un po' come gli acrobati che gettano in aria le gambe e fan le capriole: avendo otto arti su cui far leva, avanzavano rapidamente facendo la ruota. La ragione per cui c'erano tre generi è questa, che il maschio aveva la sua origine dal Sole, la femmina dalla Terra e il genere che aveva i caratteri d'entrambi dalla Luna, visto che la Luna ha i caratteri sia del Sole che della Terra64. La loro forma e il loro modo di muoversi era circolare, proprio perché somigliavano ai loro genitori. Per questo finivano con l'essere terribilmente forti e vigorosi e il loro orgoglio era immenso. Così attaccarono gli dèi e quel che narra Omero di Efialte e di Oto, riguarda anche gli uomini di quei tempi: tentarono di dar la scalata al cielo, per combattere gli dèi.Allora Zeus e gli altri dèi si domandarono quale partito prendere. Erano infatti in grave imbarazzo: non potevano certo ucciderli tutti e distruggerne la specie con i fulmini come avevano fatto con i Giganti, perché questo avrebbe significato perdere completamente gli onori e le offerte che venivano loro dagli uomini; ma neppure potevano tollerare oltre la loro arroganza. Dopo aver laboriosamente riflettuto, Zeus ebbe un'idea. «lo credo - disse - che abbiamo un mezzo per far sì che la specie umana sopravviva e allo stesso tempo che rinunci alla propria arroganza: dobbiamo renderli più deboli. Adesso - disse - io taglierò ciascuno di essi in due, così ciascuna delle due parti sarà più debole. Ne avremo anche un altro vantaggio, che il loro numero sarà più grande. Essi si muoveranno dritti su due gambe, ma se si mostreranno ancora arroganti e non vorranno stare tranquilli, ebbene io li taglierò ancora in due, in modo che andranno su una gamba sola, come nel gioco degli otri65». Detto questo, si mise a tagliare gli uomini in due, come si tagliano le sorbe per conservarle, o come si taglia un uovo con un filo. Quando ne aveva tagliato uno, chiedeva ad Apollo di voltargli il viso e la metà del collo dalla parte del taglio, in modo che gli uomini, avendo sempre sotto gli occhi la ferita che avevano dovuto subire, fossero più tranquilli, e gli chiedeva anche di guarire il resto66. Apollo voltava allora il viso e, raccogliendo d'ogni parte la pelle verso quello che oggi chiamiamo ventre, come si fa con i cordoni delle borse, faceva un nodo al centro del ventre non lasciando che un'apertura - quella che adesso chiamiamo ombelico.  Quanto alle pieghe che si formavano, il dio modellava con esattezza il petto con uno strumento simile a quello che usano i sellai per spianare le grinze del cuoio. Lasciava però qualche piega, soprattutto nella regione del ventre e dell'ombelico, come ricordo della punizione subita.Quando dunque gli uomini primitivi furono così tagliati in due, ciascuna delle due parti desiderava ricongiungersi all'altra. Si abbracciavano, si stringevano l'un l'altra, desiderando null'altro che di formare un solo essere. E così morivano di fame e d'inazione, perché ciascuna parte non voleva far nulla senza l'altra. E quando una delle due metà moriva, e l'altra sopravviveva, quest'ultima ne cercava un'altra e le si stringeva addosso - sia che incontrasse l'altra metà di genere femminile, cioè quella che noi oggi chiamiamo una donna, sia che ne incontrasse una di genere maschile. E così la specie si stava estinguendo. Ma Zeus, mosso da pietà, ricorse a un nuovo espediente. Spostò sul davanti gli organi della generazione. Fino ad allora infatti gli uomini li avevano sulla parte esterna, e generavano e si riproducevano non unendosi tra loro, ma con la terra, come le cicale. Zeus trasportò dunque questi organi nel posto in cui noi li vediamo, sul davanti, e fece in modo che gli uomini potessero generare accoppiandosi tra loro, l'uomo con la donna. Il suo scopo era il seguente: nel formare la coppia, se un uomo avesse incontrato una donna, essi avrebbero avuto un bambino e la specie si sarebbe così riprodotta; ma se un maschio avesse incontrato un maschio, essi avrebbero raggiunto presto la sazietà nel loro rapporto, si sarebbero calmati e sarebbero tornati alle loro occupazioni, provvedendo così ai bisogni della loro esistenza. E così evidentemente sin da quei tempi lontani in noi uomini è innato il desiderio d'amore gli uni per gli altri, per riformare l'unità della nostra antica natura, facendo di due esseri uno solo: così potrà guarire la natura dell'uomo. Dunque ciascuno di noi è una frazione68 dell'essere umano completo originario. Per ciascuna persona ne esiste dunque un'altra che le è complementare, perché quell'unico essere è stato tagliato in due, come le sogliole69. E' per questo che ciascuno è alla ricerca continua della sua parte complementare. Stando così le cose, tutti quei maschi che derivano da quel composto dei sessi che abbiamo chiamato ermafrodito si innamorano delle donne, e tra loro ci sono la maggior parte degli adulteri; nello stesso modo, le donne che si innamorano dei maschi e le adultere provengono da questa specie; ma le donne che derivano dall'essere completo di sesso femminile, ebbene queste non si interessano affatto dei maschi: la loro inclinazione le porta piuttosto verso le altre donne ed è da questa specie che derivano le lesbiche. I maschi, infine, che provengono da un uomo di sesso soltanto maschile cercano i maschi. Sin da giovani, poiché sono una frazione del maschio primitivo, si innamorano degli uomini e prendono piacere a stare con loro, tra le loro braccia. Si tratta dei migliori tra i bambini e i ragazzi, perché per natura sono più virili. Alcuni dicono, certo, che sono degli spudorati, ma è falso. Non si tratta infatti per niente di mancanza di pudore: no, è i loro ardore, la loro virilità, il loro valore che li spinge a cercare i loro simili. Ed eccone una prova: una volta cresciuti, i ragazzi di questo tipo sono i soli a mostrarsi davvero molto bravi nell’occuparsi di politica. Da adulto, ama il ragazzo. Il matrimonio e la paternità non li interessano affatto - è la loro natura; solo che le consuetudini li costringono a sposarsi ma, quanto a loro, sarebbero ben lieti di passare la loro vita fianco a fianco, da celibi. In una parola, l'uomo cosi ffatto desidera un ragazzo e li ama teneramente, perché è attratto sempre dalla specie di cui è parte. Quest’uomo - ma lo stesso, per la verità, possiamo dire di chiunque - quando incontrano l'altra metà di se stesse da cui sono state separate, allora sono prese da una straordinaria emozione, colpite dal sentimento di amicizia che provano, dall'affinità con l'altra persona, se ne innamorano e non sanno più vivere senza di lei - per così dire - nemmeno un istante. E queste persone che passano la loro vita gli uni accanto agli altri non saprebbero nemmeno dire cosa desiderano l'uno dall'altro. Non è possibile pensare che si tratti solo delle gioie del far l'amore: non possiamo immaginare che l'attrazione sessuale sia la sola ragione della loro felicità e la sola forza che li spinge a vivere fianco a fianco. C'è qualcos'altro: evidentemente la loro anima cerca nell'altro qualcosa che non sa esprimere, ma che intuisce con immediatezza. Se, mentre sono insieme, Efesto si presentasse davanti a loro con i suoi strumenti di lavoro e chiedesse: "Che cosa volete l'uno dall'altro?", e se, vedendoli in imbarazzo, domandasse ancora: «Il vostro desiderio non è forse di essere una sola persona, tanto quanto è possibile, in modo da non essere costretti a separarvi né di giorno né di notte? Se questo è il vostro desiderio, io posso ben unirvi e fondervi in un solo essere, in modo che da due non siate che uno solo e viviate entrambi come una persona sola. Anche dopo la vostra morte, laggiù nell'Ade, voi non sarete più due, ma uno, e la morte sarà comune. Ecco: è questo che desiderate? è questo che può rendervi felici?» A queste parole nessuno di loro - noi lo sappiamo - dirà di no e nessuno mostrerà di volere qualcos'altro. Ciascuno pensa semplicemente che il dio ha espresso ciò che da lungo tempo senza dubbio desiderava: riunirsi e fondersi con l'amato. Non più due, ma un essere solo. La ragione è questa, che la nostra natura originaria è come l’ho descritta. Noi formiamo un tutto: il desiderio di questo tutto e la sua ricerca ha il nome di amore. Allora, come ho detto, eravamo una persona sola; ma adesso, per la nostra colpa, il dio ci ha separati in due persone, come gli Arcadi lo sono stati dagli Spartani77. Dobbiamo dunque temere, se non rispettiamo i nostri doveri verso gli dèi, di essere ancora una volta dimezzati, e costretti poi a camminare come i personaggi che si vedono raffigurati nei bassorilievi delle steli, tagliati in due lungo la linea del naso, ridotti come dadi a metà. Ecco perché dobbiamo sempre esortare gli uomini al rispetto degli dèi: non solo per fuggire quest'ultimo male, ma anche per ottenere le gioie dell'amore che ci promette Eros, nostra guida e nostro capo. A lui nessuno resista - perché chi resiste all'amore è inviso agli dèi. Se diverremo amici di questo dio, se saremo in pace con lui, allora riusciremo a incontrare e a scoprire l'anima nostra metà, cosa che adesso capita a ben pochi. E che Erissimaco non insinui, giocando sulle mie parole, che intendo riferirmi a Pausania e Agatone: loro due ci sono riusciti, probabilmente, ed entrambi sono di natura virile. Io però parlo in generale degli uomini dichiaro che la nostra specie può essere felice se segue Eros sino al suo fine, così che ciascuno incontri l'anima sua metà, recuperando l'integrale natura di un tempo. Se questo stato è il più perfetto, allora per forza nella situazione in cui ci troviamo oggi la cosa migliore è tentare di avvicinarci il più possibile alla perfezione: incontrare l'anima a noi più affine, e innamorarcene. Se dunque vogliamo elogiare con un inno il dio che ci può far felici, è ad Eros che dobbiamo elevare il nostro canto: ad Eros, che nella nostra infelicità attuale ci viene in aiuto facendoci innamorare della persona che ci è più affine; ad Eros, che per l'avvenire può aprirci alle più grandi speranze. Sarà lui che, se seguiremo gli dèi, ci riporterà alla nostra natura d'un tempo: egli promette di guarire la nostra ferita, di darci gioia e felicità. Ecco, Erissimaco, questo è il mio discorso in onore di Eros. T'ho già pregato, non prendermi in giro per quel che ho detto. Dobbiamo ancora ascoltare, non dimenticarlo, i discorsi degli altri, di quelli che restano, Agatone e Socrate."Erissimaco, riferì Aristodemo, rispose così:"Sì sì, farò proprio come dici tu, perché il tuo discorso mi è piaciuto molto e anzi, se non sapessi che Socrate e Agatone sono gran maestri nelle cose d'amore, penserei quasi quasi che siano a corto di argomenti, tante sono le cose che sono state dette. Ma ho piena fiducia in loro".E Socrate allora disse. Dici così perché hai già fatto la tua parte, Erissimaco. Ma se fossi al mio posto, ora o peggio ancora dopo il discorso di Agatone - che ti figuri se non sarà bellissimo -, avresti una gran paura e saresti proprio in imbarazzo, come me in questo momento"."Non mi fido mica di te Socrate, disse Agatone, tu vuoi farmi tremare all'idea che il nostro pubblico sarà attentissimo e si aspetta da me un discorso stupendo. Ma Agatone, rispose Socrate, vuoi che mi dimentichi di tutte le volte che ti ho visto sul palco coi tuoi attori, sicuro di te, mentre ti rivolgevi ad un gran pubblico per presentare una tua opera? Non eri per niente emozionato, affatto,e adesso dovrei credere che lo sei davanti a noi, che siamo così pochi?""Come, Socrate? disse Agatone. Non mi crederai, spero, così innamorato del teatro da non capire che agli occhi di un uomo di buon senso poche persone intelligenti sono più da temere di una folla ignorante?""Farei molto male se lo credessi, mio buon Agatone, rispose Socrate, una simile mancanza di stile non ti si addice. Io so bene, invece, che se trovi gente che ritieni saggia, dai loro molta più importanza che alla folla. Però non credo affatto che noi siamo saggi. Perché c'eravamo anche noi tra il pubblico, là tra la folla. Ma se trovassi altra gente, dei saggi veri, ti vergogneresti,senza dubbio, davanti a loro al pensiero di far qualcosa di cui ci sia da vergognarsi. Che ne dici?""E' vero", rispose."Ma davanti alla folla non ti vergogneresti se pensassi di fare qualcosa di cui ci sia da vergognarsi?"Fedro a questo punto prese la parola e disse:"Mio caro Agatone, se rispondi, a Socrate non importerà proprio nulla se la conversazione prenderà una piega o l'altra, perché a lui basta avere qualcuno con cui chiacchierare, soprattutto se è un bel ragazzo. Ora, a me piace moltissimo ascoltare Socrate quando discute, ma adesso dobbiamo proprio occuparci dell'Eros, dobbiamo raccogliere il tributo da ciascuno di noi: i nostri discorsi in suo onore. Pagate il vostro debito verso il dio, poi tornerete a chiacchierare tra voi". Discorso di Agatone"Hai proprio ragione, Fedro, disse Agatone, e in effetti niente mi impedisce di rimandare la risposta perché avrò ancora ben l'occasione di chiacchierare con Socrate! C'è tempo.Voglio dirvi subito come intendo condurre il mio discorso, prima di cominciare. Tutti coloro che hanno già parlato non hanno per nulla, mi sembra, fatto l'elogio del dio. Hanno chiamato felici gli uomini per i beni che gli devono, ma chi egli sia esattamente, per aver fatto loro questi doni, ecco questo nessuno l'ha detto. Ora, il solo modo corretto per fare un elogio, qualunque sia l'argomento, è quello di spiegare la natura dell'oggetto del discorso e la natura di ciò di cui è responsabile. E così dobbiamo procedere anche noi nell'elogio dell'Eros: mostrando innanzitutto la sua natura e quindi i doni che ci ha fatto.Dichiaro dunque che tra tutti gli dèi, esseri felici, Eros - mi sia permesso dirlo senza risvegliare la loro gelosia - è il più felice, perché è il più bello e il migliore. E' il più bello perché questa è la sua natura. Infatti, mio caro Fedro, è il più giovane tra gli dèi. Una grande prova dimostra che quel che dico è vero, e ce la offre lui stesso: Eros fugge la vecchiaia, che è rapida, si sa, e ci sorprende prima di quanto dovrebbe. L'Eros, è chiaro, la odia e non le si avvicina nemmeno da lontano. Ma è sempre in compagnia della giovinezza, le resta vicino. Ha ragione il vecchio detto: "Il simile cerca il simile". Io sono spesso d'accordo con Fedro, ma non trovo giusto dire che Eros sia più antico di Cronos e di Giapeto. Io dichiaro, al contrario, che è il più giovane tra gli dèi, che è sempre giovane e che le vecchie lotte tra gli dèi di cui parlano Esiodo e Parmenide sono figlie della Necessità, ma non di Eros, se questi poeti hanno detto il vero. Infatti gli dèi non si sarebbero mutilati l'un l'altro, non si sarebbero messi in ceppi né fatto tanta violenza se l'Eros fosse stato tra loro. Avrebbero conosciuto invece l'amicizia e la pace, come adesso, nel tempo in cui sugli dèi l'Eros stende il suo dominio. Dunque, l'Eros è giovane, e non soltanto è giovane ma anche delicato. A lui è mancato un poeta, un Omero, che ne sapesse far vedere la delicatezza. Omero dice di Ate che essa è una dea e allo stesso tempo che è delicata, o almeno che lo sono i suoi piedi. Dice: "Son delicati i suoi piedi e non sfiorano il suolo, ella avanza sfiorando le teste degli uomini". Un chiaro indice della sua delicatezza, ai miei occhi: la dea non posa i piedi sul duro, ma sul morbido. Utilizzeremo anche noi a proposito dell'Eros lo stesso indizio per affermare che è delicato: non cammina infatti sulla terra, né sulle teste, che poi tanto morbide non sono, ma si muove e abita in ciò che è più tenero al mondo. Eros infatti ha stabilito la sua dimora nel cuore e nell'anima degli uomini e degli dèi. Ma non senza distinzione in tutte le anime. Se ne incontra una che abbia un carattere duro, fugge via e va ad abitare in quelle in cui trova dolcezza. E' sempre a contatto, coi piedi e con tutto il suo essere, con ciò che tra tutte le cose tenere è più tenero, ed è quindi assai delicato, necessariamente. Ecco dunque, l'Eros è il più giovane e il più delicato degli esseri. E inoltre dobbiamo ricordare la flessibilità della sua forma, perché non potrebbe andare dappertutto né passare inosservato quando penetra nelle anime e quando ne esce, se fosse rigido. Dell'armonia, della duttilità della sua natura, ebbene di questo la sua grazia ne dà una prova eclatante, quella grazia che l'Eros possiede in massimo grado perché tra l'aspetto sgraziato e l'Eros la reciproca ostilità c'è da sempre. E che dire della bellezza della sua carnagione? Eros indugia tra i fiori. Su ciò che non fiorisce, sul fiore appassito, nel corpo o nell'anima o in ogni altra cosa, Eros non si posa: ma là dove i fiori e i profumi abbondano, là si posa, là sceglie la sua casa. Sulla bellezza del dio basta così, anche se davvero resta ancora molto da dire. Vorrei adesso parlare delle sue virtù. Ecco la più importante: Eros non fa né subisce ingiustizia, non fa torto a nessuno, uomo o dio, e non ne subisce da nessuno, né uomo né dio. La violenza non ha alcuna parte in ciò che subisce, ammesso che subisca qualcosa, perché la violenza non ha presa sull'Eros; non ne ha bisogno in tutto quel che fa perché tutti in tutto si mettono di buon grado al suo servizio. E gli accordi che si fanno di buon grado sono chiamati giusti dalle «leggi, le regine della città86».E con la giustizia ecco la più grande temperanza. La temperanza, si sa, è dominare piaceri e desideri. Ora, non c'è piacere più grande dell'Eros: gli altri piaceri sono più deboli e possono essere dominati dall'Eros; dominando piaceri e desideri, allora l'Eros deve essere temperante in massimo grado.Quanto al coraggio, «Ares stesso non può lottare contro Eros87». Infatti non è Ares che domina su Eros, ma Eros possiede Ares, se è vero che è innamorato di Afrodite, come dicono. Ora colui che si impadronisce di qualcuno, è più forte di lui e chi riesce a possedere un altro che è pieno di coraggio deve avere ancora più coraggio di lui89.Fin qui ho parlato della giustizia, della temperanza e del coraggio del dio. Rimane la sua scienza e, nella misura della mie forze, devo proprio completare il mio elogio. Innanzitutto, poiché desidero onorare la mia arte come Erissimaco ha fatto con la sua, dirò che il dio è poeta così sapiente che rende poeti gli altri, a sua volta. Ogni uomo infatti diventa poeta quando l’Eros lo possiede, «anche se prima non conosceva le Muse». Questo fatto, è chiaro, deve essere per noi una prova che Eros è abilissimo in tutte le arti governate dalle Muse. Infatti ciò che non si ha, o non si sa, non lo si può certo dare o insegnare agli altri. Meglio ancora, nella creazione degli esseri viventi, di tutti, chi oserà negare che l'Eros possiede una scienza grazie a cui nascono e crescono tutti i viventi? Osserviamo d'altra parte la pratica delle arti: non sappiamo forse che l'uomo che ha avuto questo dio come maestro diviene celebre e illustre mentre quello che Eros non ha nemmeno sfiorato non ha alcun successo? E certo: il tiro con l'arco, la medicina, la divinazione sono delle abilità che Apollo deve al desiderio e all'amore che lo guida; così questo dio può dirsi discepolo dell'Eros, come le Muse lo sono per le arti che portano il loro nome, Efesto per l'arte di forgiare i metalli, Atena per la tessitura e Zeus infine «per il governo degli dèi e degli uomini». Così tutti i conflitti tra gli dèi si sono appianati all'apparire di Eros tra loro, dell'amore per il bello, certo, perché Eros non si lega mai a ciò che è brutto. Ma prima di questo, come ho detto all'inizio, ogni specie di orribili eventi erano accaduti tra gli dèi, secondo quanto narrano le antiche storie, perché regnava la Necessità. Quando poi nacque questo dio, dall'amore per le cose belle nacque ogni bene, per gli dèi come per gli uomini. Ecco perché, mio caro Fedro, posso dire che l'Eros è pieno del bello, e bontà al più alto grado ed è quindi, per tutti gli esseri, la fonte dei più alti beni. Vorrei dirlo in versi, questo: Eros è il dio che dà «la pace agli uomini, la calma al mare, la tregua ai venti, il riposo al dolore». E' lui a liberarci dall'odio, lui a donarci l'amicizia; di tutti i conviti, come il nostro adesso, è il fondatore; nelle feste, nei cori, nei sacrifici, è lui a farci da guida; vi porta la dolcezza, allontana ogni rancore, generosissimo di ogni bene, non sa cosa sia la malvagità, propizio ai buoni, esempio ai saggi, ammirato dagli dèi, è cercato da chi non ha amore, prezioso per chi lo possiede. Il Lusso, la Delicatezza, la Voluttà, le Grazie, la Passione, il Desiderio sono i suoi figli. E' pieno di attenzione verso i buoni ma si allontana dai malvagi, e nel dolore, nella paura, nel desiderio, nel discorso, egli è sempre lì, pronto a combattere. E' il nostro sostegno, la nostra salvezza per eccellenza. E' l'onore di tutti gli dèi, di tutti gli uomini; è la guida più bella, la migliore, e ogni uomo deve seguirlo, celebrare la sua gloria con splendidi inni e cantare con lui quel canto con cui conquista i cuori di tutti gli dèi e di tutti gli uomini.Ecco il mio discorso, carissimo Fedro: che sia la mia offerta al dio! La lieta fantasia e la grave serietà vi hanno avuto ciascuna la sua parte94, bilanciate come meglio è stato in mio potere fare. Quando Agatone ebbe finito di parlare tutti applaudirono perché si era espresso da par suo, in modo davvero degno del dio Eros. Allora Socrate si voltò verso Erissimaco e gli disse. Erissimaco, figlio d'Acumeno, non avevo forse ragione? Non ho parlato in modo profetico prima, quando ho detto che Agatone avrebbe parlato divinamente e io, dopo, sarei stato in imbarazzo?""Sul primo punto - rispose Erissimaco - sei stato buon profeta, io credo, dicendo che Agatone avrebbe parlato bene. Ma che tu sia in imbarazzo adesso, questo non lo credo proprio.""E come si potrebbe non esserlo, carissimo Erissimaco, - riprese Socrate - dovendo parlare dopo un discorso così bello, così seducente! Non è stato tutto perfetto, questo è vero; ma nella conclusione chi può non esser stato preso dall'incanto delle parole e delle frasi? Io mi riconosco subito incapace di avvicinarmi a tanta bellezza con le mie parole, e per un po' ho anche pensato di sgattaiolare via senza dir nulla. Ma non è possibile farlo. Il discorso di Agatone mi ha ricordato Gorgia, al punto da farmi temere quel che dice Omero: ho quasi creduto che Agatone alla fine del suo discorso gettasse sulla mia la testa di Gorgia, il terribile oratore, e mi trasformasse in pietra, facendomi diventare muto95. Ho capito allora di esser stato proprio un ingenuo quando vi ho promesso di fare anch'io, al mio turno, l’elogio di Eros, e quando ho detto di essere ben esperto delle cose d'amore: in effetti, devo confessare di non sapere affatto fare un elogio. Credevo, nella mia piena ignoranza, che si dovesse dire la verità sull'oggetto del proprio elogio, che questo fosse fondamentale: che bisognasse scegliere le verità più belle e disporle nell'ordine più elegante. Ero, naturalmente, tutto fiero al pensiero che avrei parlato bene: non conoscevo forse la vera maniera di fare un elogio? Ma, stando a quanto ho sentito, il metodo corretto di fare un elogio non è questo: bisogna piuttosto attribuire all'oggetto del proprio discorso le più grandi e le più belle qualità - che le abbia davvero o non le abbia non importa affatto. A quanto sembra il nostro accordo era di giocare a far le lodi di Eros, non di lodarlo veramente per quel che è. Ecco perché, io penso, voi muovete cielo e terra per attribuire ad Eros ogni cosa bella e proclamare l'eccellenza della sua natura come la grandezza delle sue opere: voi volete così farlo apparire il più bello e il più buono possibile - ma non si ingannano coloro che sanno. E certo è una bella cosa un elogio simile. Ma io ignoravo evidentemente questo modo di far le lodi, e siccome lo ignoravo, promisi anch'io di pronunciare un elogio al mio turno: «ma la lingua promise, non certo il mio cuore97». Dunque, addio alla mia promessa! Io un elogio così non ve lo faccio, non ne sono capace. Però, a condizione di dir solo la verità, se lo desiderate io accetto di prendere la parola, alla mia maniera e senza rivaleggiare con l'eleganza dei vostri discorsi, perché non ho nessuna intenzione di diventare ridicolo. Vedi tu, Fedro, se c'è ancora bisogno di un discorso di questo genere, che lasci intendere la verità su Eros - ma con le parole e lo stile che mi verranno al momento.Allora - disse Aristodemo - Fedro e gli altri lo pregarono di parlare come riteneva di dover fare."Ancora un momento, Fedro, - disse Socrate -: lasciami porre alcune piccole domande ad Agatone, in modo che possa mettermi d'accordo con lui prima di cominciare il mio discorso.""Ti lascio fare - disse Fedro -; domanda pure."E così - disse Aristodemo - Socrate cominciò pressappoco con queste parole:"Per la verità, mio buon Agatone, io dico che tu hai aperto bene la via dichiarando che bisognava innanzitutto mostrare qual è la natura dell'amore e come agisce: io trovo questo inizio davvero eccellente. Andiamo avanti, però, ti prego; dopo tutto quello che hai detto di bello e di buono sulla natura di Eros, rispondi a questa domanda: è nella natura dell'Eros essere amore di qualche cosa, oppure di niente? Io non ti domando se la sua natura è di essere amore per una madre o un padre, perché sarebbe comico domandare se l'Eros è una forma d'amore che si rivolge a una madre o a un padre. Ma se, a proposito del padre in quanto padre io domandassi: il padre è padre di qualcuno o no?,tu mi risponderesti senza dubbio - se volessi darmi una buona risposta - che il padre è padre di un figlio, o di una figlia. Non è vero?""Certo", disse Agatone."E non dirai la stessa cosa della madre?" - Agatone ne convenne."Rispondi ancora - disse Socrate - ad alcune domande, per meglio comprendere dove voglio arrivare. Se io domandassi: «Il fratello, in quanto fratello, è fratello di qualcuno o no?»Rispose che lo era."Dunque è fratello di un fratello o di una sorella?" - Agatone fu d'accordo."Prova allora - riprese Socrate - a far la stessa domanda per l'Eros: Eros è amore di niente o di qualcosa?""Di qualcosa, evidentemente".[200] "Tieni bene a mente questo carattere dell'Eros, allora, e dimmi ancora se egli desidera ciò che ama". "Lo desidera certamente", disse."Quando possiede ciò che desidera, è allora che l'ama, o quando non lo possiede?""Quando non lo possiede: è probabile che sia così" - disse. "Ma pensa bene - disse Socrate - se invece che probabile non è una certezza: non dobbiamo forse dire che desidera ciò che non possiede, e che non desidera affatto ciò che possiede già? Per me, mio caro Agatone, questo è chiarissimo. Tu che ne pensi?""Sono dello stesso avviso", disse."E fai bene ad esserlo. Dunque un uomo che è grande potrà forse desiderare di esser grande? O di esser forte se è forte?""E impossibile, visto quel che abbiamo detto.""Non potrebbe infatti mancare di queste qualità, poiché ce le ha.""E così.""Però supponiamo - disse Socrate - che un uomo forte voglia esser forte, che un uomo agile voglia esser agile, che un uomo in buona salute voglia essere in buona salute. Si potrebbe forse pensare, per quel che riguarda queste qualità e tutte quelle dello stesso genere, che gli uomini che le hanno desiderano averle ancora. Lo dico per difenderci contro questo possibile errore. Se ci pensi, Agatone, è necessario che essi abbiano, al momento, ciascuna delle qualità che hanno, che le vogliano o meno: com'è possibile desiderare ciò che si ha già? Ma se qualcuno ci dicesse «Io sono adesso in buona salute, e desidero esserlo; io sono ricco, e desidero esserlo, desidero possedere quel che già possiedo», allora noi gli risponderemmo: «Tu hai la ricchezza, la salute, la forza; quel che desideri, è di averle ancora in futuro, perché per il presente, che tu lo voglia o no, le hai già. Dunque quando dici: io desidero ciò che adesso ho già, queste parole significano semplicemente: ciò che io ho adesso, desidero averlo anche per l'avvenire». Sei d'accordo, non è vero?Agatone - disse Aristodemo - lo riconobbe, e Socrate proseguì: "Se tutto questo è vero, desiderare le cose che non si hanno ancora, che non si possiedono, non è forse volere per l'avvenire che queste cose ci siano conservate?""Certo", disse. "Quindi l'uomo che si trova in questa situazione, e cioè chiunque provi un desiderio, desidera ciò che non ha ancora e che non è nel presente. E ciò che egli non ha, ciò che egli stesso non è, quel che gli manca, insomma, ecco l'oggetto del suo desiderio e del suo amore." "Sicuramente è così" - disse."Andiamo avanti, allora - disse Socrate. Ricapitoliamo i punti su cui siamo d’accordo. Non è forse vero, innanzitutto, che l'Eros si indirizza verso certe cose e, in secondo luogo, che queste cose sono quelle di cui sente la mancanza?""Sì", disse. "E adesso, Agatone, ricordati cosa hai detto nel tuo discorso sulle cose verso cui si indirizza l'Eros. Se vuoi, te lo ricordo io stesso: più o meno, tu ci hai detto, credo, che gli dèi hanno risolto i loro conflitti grazie all'amore per la bellezza, perché non ci può essere amore verso quel che è brutto. Son più o meno le tue parole, non è vero?""Certo", disse Agatone."Tu rispondi come si deve, mio caro - disse Socrate -, e se le cose stanno come tu ci hai detto, l'Eros dovrebbe amare il bello, non certo la bruttezza, non è vero?"Agatone fu d'accordo."Ma non ci siamo trovati d'accordo anche su questo, che si ama ciò di cui si sente la mancanza e che non si possiede?""Sì", ammise."L'Eros manca quindi della bellezza e non la possiede?""Per forza", disse."Ma come? Chi manca della bellezza e non la possiede affatto, tu lo chiami bello?""No di certo.""E allora, se le cose stanno così, sei ancora dell'avviso che Eros sia bello? Temo proprio - disse Agatone - di aver parlato senza sapere quel che dicevo"."Però il tuo discorso era molto elegante, Agatone. Ma ancora una piccola domanda: le cose buone sono allo stesso tempo belle, secondo te?""Lo sono, a mio avviso"."Allora se all'Eros manca la bellezza e se le cose buone sono anche belle, all'Eros deve per forza mancare anche la bontà"."Di sicuro, Socrate - disse Agatone -, io non sono in grado di contraddirti: ammetto quel che tu dici"."No, carissimo Agatone - disse Socrate -, non me, ma la verità tu non puoi contraddire: Socrate, lui sì che è facile contraddirlo. Adesso ti lascerò un po' in pace. Ecco il discorso su Eros che ho ascoltato un giorno da una donna di Mantinea, Diotima, molto competente su questo come su tanti altri argomenti. Fu lei che una volta, prima della peste, fece fare agli Ateniesi quei sacrifici che ritardarono di dieci anni l'epidemia. Proprio lei mi ha fatto capire molte cose su Eros. Adesso cercherò di fare del mio meglio per riportarvi le sue parole, partendo da tutto quello su cui Agatone ed io ci siamo trovati d'accordo. Come tu stesso hai detto, Agatone, bisogna innanzitutto chiarire la natura dell'Eros, i suoi attributi e le sue azioni. Forse la cosa più semplice è seguire nella mia esposizione lo stesso ordine che seguì la straniera nell'esame che mi fece. Io, infatti, le rispondevo un po' come adesso ha fatto Agatone con me: io dichiaravo che Eros è un grande dio e che ama le cose belle. Lei mi dimostrava che ero in errore con le stesse argomentazioni di cui mi sono servito discutendo con Agatone: Diotima diceva che Eros non è né bello, per usare le mie parole, né buono. E io le dicevo: «Ma come Diotima? Allora Eros è cattivo e brutto?»«Che dici? Questa è una bestemmia! - mi rispose -. Credi forse che tutto ciò che non è bello debba essere per forza brutto?»«Ma certo!»[202] "E perché mai? Chi non è sapiente deve per forza essere ignorante? Non ti sei mai accorto che c'è una via di mezzo tra la sapienza e l'ignoranza102?» «E qual è?»«Avere un'opinione giusta, senza però saperla giustificare. Questo non è vero sapere: come posso parlare di scienza, se non so dimostrare che è vero quello che penso? Ma non è neppure piena ignoranza, perché per caso la mia opinione potrebbe corrispondere ai fatti. L'opinione giusta è quindi, suppongo, simile a quel che dicevo: sta a metà strada tra la piena conoscenza e l'ignoranza103».«E' vero», risposi.«Dunque chi non è bello non per questo è per forza brutto, né chi non è buono deve essere cattivo. E così è per l'Eros: poiché tu sei d'accordo con me che non può essere né buono né bello, non devi per questo credere che sia necessariamente cattivo e brutto. Eros - così mi disse Diotima - è a metà tra questi estremi».«Però - ripresi io - tutti concordano nel pensare che Eros sia un dio potente».«Dicendo tutti, parli degli ignoranti o di coloro che parlano sapendo cosa dicono?»«Io parlo proprio di tutti».Diotima si mise a ridere. «Come possono dire di lui che è un dio potente se dicono che non è affatto un dio?» «Ma chi dice questo?» dissi io.«Tu per esempio - disse - ed anch'io!»Ed io: "Ma cosa dici?»«E' tutto semplice - rispose -. Dimmi: non sei forse convinto che tutti gli dèi sono felici e belli? o oseresti sostenere che qualcuno degli dèi non è né bello né felice?»«lo non oserei proprio», risposi.«Ma chi è felice? non è chi possiede cose buone e belle?»«Certo».«Ma tu hai riconosciuto che Eros, mancando delle cose buone e belle, le desidera proprio perché gli mancano».«È vero, ero d'accordo con te su questo».«E allora come può essere un dio se le cose buone e belle gli mancano?»«Sembra impossibile, in effetti».«Come vedi - disse -, anche tu ritieni che Eros non sia un dio».«Chi sarà dunque Eros? un mortale?»«No di certo».«E allora?»«E come negli esempi precedenti, la sua natura è a mezza via tra il mortale e l'immortale».«Che vuoi dire, Diotima?»«E' un dèmone potente, Socrate. I demoni, infatti, hanno una natura intermedia tra quella dei mortali e quella degli dèi. Ma qual è il suo potere», chiesi.«Eros interpreta e trasmette agli dèi tutto ciò che viene dagli uomini, e agli uomini ciò che viene dagli dèi: da un lato le preghiere e i sacrifici degli uomini, dall'altro gli ordini degli dèi e i loro premi per i sacrifici compiuti; e in quanto è a mezza via tra gli uni e gli altri, contribuisce a superare la distanza tra loro, in modo che il Tutto sia in se stesso ordinato e unito. Da lui viene l'arte divinatoria107, ed anche il sapere dei sacerdoti sui sacrifici, le iniziazioni, gli incantesimi, tutto quel che è divinazione e magia. Il divino non si mescola con ciò che è umano, ma, grazie ai dèmoni, in qualche modo gli dèi entrano in rapporto con gli uomini, parlano loro, sia nella veglia che nel sonno. L'uomo che sa queste cose è vicino al potere dei dèmoni, mentre chi sa altre cose - chi possiede un'arte, o un mestiere manuale - resta un artigiano qualsiasi o un operaio. Questi dèmoni sono numerosi e d'ogni tipo: uno di essi è Eros».«Chi è suo padre - domandai - e chi sua madre? E' una lunga storia - mi disse -. Adesso te la racconto. Il giorno in cui nacque Afrodite, gli dèi si radunarono per una festa in suo onore. Tra loro c'era Poros110, il figlio di Metis. Dopo il banchetto, Penìa era venuta a mendicare, com'è naturale in un giorno di allegra abbondanza, e stava vicino alla porta. Poros aveva bevuto molto nettare (il vino, infatti, non esisteva ancora) e, un po' ubriaco, se ne andò nel giardino di Zeus e si addormentò. Penìa, nella sua povertà, ebbe l'idea di avere un figlio da Poros: così si sdraiò al suo fianco e restò incinta di Eros. Ecco perché Eros è compagno di Afrodite e suo servitore: concepito durante la festa per la nascita della dea, Eros è per natura amante della bellezza - e Afrodite è bella.Proprio perché figlio di Poros e di Penìa, Eros si trova nella condizione che dicevo: innanzitutto è sempre povero e non è affatto delicato e bello come si dice di solito, ma al contrario è rude, va a piedi nudi, è un senza-casa, dorme sempre sulla nuda terra, sotto le stelle, per strada davanti alle porte, perché ha la natura della madre e il bisogno l'accompagna sempre. D'altra parte, come suo padre, cerca sempre ciò che è bello e buono, è virile, risoluto, ardente, è un cacciatore di prim'ordine, sempre pronto a tramare inganni; desidera il sapere e sa trovare le strade per arrivare dove vuole, e così impiega nella filosofia tutto il tempo della sua vita, è un meraviglioso indovino, e ne sa di magie e di sofismi. E poi, per natura, non è né immortale né mortale. Nella stessa giornata sboccia rigoglioso alla vita e muore, poi ritorna alla vita grazie alle mille risorse che deve a suo padre, ma presto tutte le risorse fuggono via: e così non è mai povero e non è mai ricco. Vive inoltre tra la saggezza e l'ignoranza, ed ecco come accade: nessun dio si occupa di filosofia e nessuno desidera diventare sapiente, perché tutti lo sono già. Chiunque possieda davvero il sapere, infatti, non fa filosofia; ma anche chi è del tutto ignorante non si occupa di filosofia e non desidera affatto il sapere. E questo è proprio quel che non va nell'essere ignoranti: non si è né belli, né buoni, né intelligenti, ma si crede di essere tutte queste cose. Non si desidera qualcosa se non si sente la sua mancanza».«Ma allora chi sono i filosofi, se non sono né i sapienti né gli ignoranti?»«E' chiaro chi sono: anche un bambino può capirlo. Sono quelli che vivono a metà tra sapienza ed ignoranza, ed Eros è uno di questi esseri. La scienza, in effetti, è tra le cose più belle, e quindi Eros ama la bellezza: è quindi necessario che sia filosofo e, come tutti i filosofi, è in posizione intermedia tra i sapienti e gli ignoranti. La causa di questo è nella sua origine, perché è nato da un padre sapiente e pieno di risorse e da una madre povera tanto di conoscenze quanto di risorse. Così, mio caro Socrate, è fatta la natura di questo dèmone. L'idea, però, che tu ti eri fatta dell'Eros non mi sorprende per nulla: da quel che capisco dalle tue parole, tu credevi che Eros fosse l'amato, non l'amante. Per questa ragione, senza dubbio, ti sembrava che fosse pieno di ogni bellezza. Infatti l'oggetto dell'amore è sempre bello, delicato, perfetto, sa dare ogni felicità. Ma l'essenza di chi ama è differente: è quella che ti ho prima descritto117». Io allora ripresi:«E sia, straniera: tu hai proprio ragione. Ma se questa è la natura dell'Eros, a cosa può esser utile a noi uomini? Adesso cercherò di spiegartelo, Socrate. Eros ha dunque questo carattere e questa origine: ama il bello, come tu ben sai. Ora, prova a domandarti: che cos'è l'amore per le cose belle? o più chiaramente: chi ama le cose belle, le desidera; ma in che cosa consiste esattamente il desiderio che si prova quando si ama? Noi desideriamo che l'oggetto del nostro amore ci  appartenga, risposi io. Questa tua risposta - disse - apre un nuovo problema: che cosa accade all'uomo che possiede le cose belle? Io dichiarai che non ero affatto capace di rispondere a una domanda simile. E allora - disse lei - parliamo del bene invece che del bello. Cosa mi dici se ti domando: chi ama le cose buone, le desidera: ma cosa desidera? Che siano sue», risposi.«E cosa accade all'uomo che le possiede? In questo caso posso rispondere più facilmente - dissi -: sarà felice. In effetti proprio possedere ciò che è buono fa la felicità delle persone. Così non abbiamo più bisogno di domandarci che cosa vuole chi vuole essere felice, perché parlando della felicità abbiamo già toccato il fine ultimo del desiderio».«E' vero», dissi."Ma questa volontà, questo desiderio, tu pensi sia comune a tutti gli uomini? Tutti vogliono sempre possedere ciò che è buono? Dimmi cosa ne pensi»,«E' così, questa volontà è comune a tutti».«Ma allora, Socrate - riprese -, perché non diciamo che tutti gli uomini amano, se tutti desiderano sempre le stesse cose? Come mai, al contrario, diciamo che alcuni uomini amano ed altri non amano affatto?"«Sono stupito anch'io di questo», risposi.«Non devi stupirti, però - disse -. Il fatto è che l'amore ha molte forme, ma noi prendiamo una sola di queste forme e le diamo il nome generico di amore come se fosse l'unica. Questo nome andrebbe dato a tutte, ma per le altre forme usiamo nomi diversi».«Mi fai un esempio?», chiesi.«Certo. Tu sai che la capacità creativa delle persone può manifestarsi in molti campi. La creatività entra in gioco tutte le volte che qualche cosa viene prodotta, perché prima non c'era e poi c'è; così le opere degli artigiani, in tutti i campi, sono frutto della creatività e gli uomini che le fanno sono tutti dei creativi, degli artisti."«E' vero».«Però - continuò - tu sai che non li chiamiamo tutti artisti, ma diamo loro altri nomi. Tra tutti quelli che svolgono attività che hanno a che fare con la creatività, soltanto ad alcuni diamo il nome di artisti, di poeti: solo a quelli che compongono musica e versi. In realtà tutti lo sono. Solo i versi in musica chiamiamo arte, e soltanto questo è il dominio che riconosciamo agli artisti».«E' vero», dissi.«Ed è lo stesso per l'amore. In generale, ogni desiderio di ciò che è buono, che è bello, è per tutti "amore possente, Eros ingannevole. Il desiderio umano ha mille forme diverse: alcune persone hanno la passione del denaro, o dello sport, o dello studio, ma noi non diciamo che amano, che sono innamorati. Altri, che seguono una particolare forma d'amore, ebbene solo per loro usiamo le parole che dovremmo usare per tutti: amore, amare, innamorati. Sei proprio convincente», risposi.«Molti dicono, però, che “amare” significa cercare la propria metà. Io non sono d'accordo, perché non c'è affatto amore né per la metà né per l'intero, mio buon amico, se l'oggetto del nostro desiderio non è buono: le persone accettano di farsi tagliare anche i piedi o le mani, se sono convinte che queste parti possono portare dei mali. Io non credo affatto che ciascuno si affezioni a ciò che gli appartiene, a meno che non sia convinto che ciò che è suo sia buono e ciò che gli è estraneo sia cattivo. Gli uomini, infatti, non desiderano altro che il bene. Non la pensi così anche tu?» «Certo, per Zeus», risposi.«Allora possiamo dire semplicemente che gli uomini desiderano ciò che è buono?»«Sì».«E non dobbiamo forse aggiungere che essi desiderano possedere ciò che è buono?»«Certo che dobbiamo».«E non soltanto possederlo, ma possederlo sempre». «Dobbiamo aggiungere anche questo».«Quindi - disse - l'amore è il desiderio di possedere sempre ciò che è buono? E' così», dissi.Se è dunque chiaro - disse - che l'amore è questo, dimmi in quale forma, in quale genere di attività, l'ardore, la tensione estrema che accompagna lo sforzo di raggiungere questo fine, deve ricevere il nome di amore. Di quale tipo d'azione si tratta? Me lo sai dire? » «Certamente no - risposi -. Se lo sapessi, non sarei così pieno d'ammirazione davanti al tuo sapere e non verrei da te come allievo per imparare quel che sai».«Allora - riprese -, te lo dirò io: amare, per il corpo, significa creare nella bellezza». «Bisognerebbe essere degli indovini per capire cosa vuoi dire con queste parole, e io non lo sono affatto». «Mi esprimerò più chiaramente. Tutti gli uomini, mio caro Socrate, hanno capacità creative sia nel corpo che nell'anima. Tutti noi, quando abbiamo raggiunto una certa età, per natura proviamo il desiderio di generare, ma non si può generare nulla nella bruttezza: si può solo nella bellezza. Nell'unione dell'uomo e della donna c'è qualcosa di creativo, qualcosa di divino. Tutte le creature viventi sono mortali, ma in loro c'è una scintilla d'immortalità: è la fecondità dei sessi, la capacità di generare nuovi esseri viventi. Ma questo non può avvenire se non c'è armonia123: e non c'è armonia tra la bruttezza e tutto ciò che è divino, perché solo la bellezza è in armonia con gli dèi. Dunque nel concepire una nuova vita, la dea della Bellezza fa da Moira e da Ilitia124, la dea della nascita. Per questo, chi ha dentro di sé qualcosa di creativo, quando si avvicina a ciò che è bello prova gioia nel suo cuore, si apre al fascino della bellezza. E' il momento della generazione: egli crea. Ma quando si avvicina a ciò che è brutto, allora si chiude in se stesso scuro in volto e triste, cerca di allontanarsi, e così non crea affatto, anche se porta ancora dentro il suo seme fecondo,e ne soffre. Per questo chi sente la propria creatività pronta alla vita, è fortemente attratto dalla bellezza: soltanto chi possiede la bellezza è libero dalle sofferenze che ogni atto creativo comporta. E dunque Eros - concluse - non desidera affatto la bellezza, mio caro Socrate, come tu credi. E cosa allora?»«Desidera creare e far nascere nuova vita nella bellezza. Ammettiamolo», dissi.«E proprio così - ripeté -. Ma perché creare nuova vita? Perché per qualsiasi essere mortale l'eternità e l'immortalità possono consistere solo in questo: nel creare nuova vita. [Ora, il desiderio d'immortalità accompagna necessariamente quello del bene - lo sappiamo, ormai - se è vero che l'amore è desiderio di possedere per sempre il bene. E così da tutto quello che abbiamo detto segue questo, che l'amore ha come proprio oggetto l'immortalità126».Ecco quello che Diotima mi insegnava, parlando delle cose d'amore. Un giorno mi chiese:«Quale pensi che sia, Socrate, la causa dell'amore e del desiderio? Non vedi in che strano stato sono gli animali, quando il loro istinto li spinge a procreare? Tutti gli animali - che si muovano sulla terra o volino nell'aria - sembrano impazziti, l'amore li tormenta, e li spinge ad accoppiarsi. Poi quando viene il momento di nutrire i loro piccoli, sono sempre pronti a combattere per difenderli: anche i più deboli affrontano animali più forti di loro e sono pronti a sacrificarsi per amore dei loro piccoli. Soffrono loro le torture della fame, pur di sfamare i figli e far tutte le altre cose necessarie. Presso gli uomini si può pensare che tutto questo sia il frutto di una riflessione razionale. Ma presso gli animali, da dove proviene questo amore che li mette in tale stato? Puoi dirmelo?»Ancora una volta risposi che non ne sapevo nulla. E allora riprese:«E tu pensi di diventare un giorno davvero esperto nelle cose d'amore senza sapere questo? Ma è ben per quello, Diotima, come ti dico sempre, che ti sto vicino, perché so di avere bisogno di una guida. Allora dimmi perché accade tutto questo e quant'altro riguarda l'amore». «Se sei convinto - disse - che l'oggetto naturale dell'amore è quello sul quale abbiamo più volte discusso, non devi certo meravigliarti. Infatti su questo punto la natura mortale segue sempre lo stesso principio quando cerca, nella misura dei suoi mezzi, di perpetuare la vita e divenire immortale. E non può farlo che in questo modo, attraverso l'amore, che fa sì che un nuovo essere prenda il posto del vecchio. Riflettiamo:quando si dice che ciascun essere vivente rimane se stesso (per esempio che dalla nascita alla vecchiaia permane la sua identità), ebbene questo essere non ha mai in sé le stesse cose. Diciamo sì che è sempre lo stesso, ma in realtà non cessa mai di rinnovarsi ogni momento in certe parti, come i capelli, le ossa, il sangue, insomma in tutto il suo corpo. E questo non è vero soltanto per il suo corpo, ma anche per la sua anima: i sentimenti, il carattere, le opinioni, i desideri, i piaceri, i dolori, i timori, niente di tutto questo rimane costante per ciascuno di noi, ma tutto in noi nasce e muore. E accadono cose più strane ancora. Non solo in generale certe conoscenze nascono in noi mentre altre spariscono - e quindi nel campo della conoscenza noi non rimaniamo mai gli stessi -, ma ciascuna conoscenza in particolare subisce la stessa sorte.Infatti noi dobbiamo esercitarci nello studio proprio perché alcune conoscenze ci sfuggono continuamente: le dimentichiamo, tendono ad andare via, e con lo studio, inversamente, fissando nella memoria ciò che vogliamo ricordare, le conserviamo. E' per questo che sembrano le stesse: in realtà le conserviamo rinnovandole. E' così che tutti gli esseri mortali si conservano: non sono sempre esattamente se stessi, come l'essere divino. Sembrano conservare la loro identità perché ciò che invecchia e va via è subito sostituito da qualcosa di nuovo, molto simile. Ecco in che modo - Socrate - ciò che è mortale partecipa dell'immortalità, nel suo corpo e in tutto il resto; l’immortale vi partecipa in modo del tutto diverso128. Non meravigliarti dunque se ciascun essere è dominato dall'amore e si preoccupa tanto dei propri figli, perché questo è nella natura dei viventi: è al servizio dell'immortalità129». Queste parole mi riempirono di stupore e glielo dissi: «Ma come, saggia Diotima, le cose stanno veramente così?»Ella mi rispose col tono serio di chi insegna:«Devi esserne certo, Socrate. Pensa alle ambizioni che hanno molte persone e ti meraviglierai senza dubbio della loro assurdità; se rifletti, meditando sulle mie parole, ti accorgerai di quanto è strano lo stato di coloro che desiderano diventare celebri e acquistare gloria immortale per l'eternità: sono disposti per questo a correre ogni rischio, più ancora che per difendere i loro figli. Sono pronti a mettere in gioco il loro denaro, ad affrontare tutti i disagi, a rischiare la loro stessa vita. Pensi forse che Alcesti sarebbe morta per Admeto, che Achille avrebbe seguito Patroclo sulla via della morte, che il vostro re Codro avrebbe affrontato la morte per conservare il regno ai suoi figli, se essi non avessero creduto di lasciare l'immortale ricordo del loro valore, che è giunto sino a noi? E' così, disse. A mio avviso, è per rendere immortale il loro valore, per acquisire un nome glorioso, che gli uomini fanno quel che fanno, e questo tanto più se le loro qualità personali sono alte - perché è l'immortalità che essi desiderano. Allora, disse, gli uomini fecondi nel corpo pensano soprattutto alle donne: il loro modo d'amare è tutto nel cercare di generare dei figli e così assicurare alla loro persona l'immortalità - questo essi credono - e la memoria di sé e la felicità per tutto il tempo a venire. Altre persone, però, sono feconde nell'anima: c'è infatti una fecondità propria del nostro spirito che a volte è superiore a quella del corpo. Ecco qual è: è la forza creativa della saggezza e delle altre virtù in cui il nostro spirito eccelle. Questa fecondità eccelle nei poeti e in tutte le altre persone che per il loro mestiere devono usare la creatività. Ma dove la saggezza tocca le vette più alte e più belle è nell'ordinamento e nell'amministrazione della città attraverso la prudenza e la giustizia. Quando un uomo fecondo nel suo animo, simile agli dèi, coltiva sin da giovane il proprio spirito, e divenuto adulto sente il desiderio di mettere a frutto le sue capacità, allora cerca in ogni modo la bellezza - perché mai potrà essere creativo nella bruttezza. I suoi sentimenti si dirigono allora verso le cose belle piuttosto che verso le brutte, proprio perché la sua anima è feconda. Se incontra un'anima bella e generosa e sensibile, allora le dà tutto il suo cuore: davanti a lei saprà trovare le parole giuste per esprimere la sua forza interiore, per esaltare i doveri e le azioni di un uomo che vale: così potrà guidarla educandola. E secondo me, attraverso il contatto con la bellezza dell'anima dell'altro, con la sua costante presenza, potrà venire alla luce quanto di meglio portava in sé da tempo: in questo senso la sua anima crea, genera nuova vita. Che sia presente o assente, il suo pensiero va sempre all'altro che ama e così nutre ciò che nel rapporto con lui in sé ha generato. Tra gli esseri di questa natura si crea così una comunione più intima di quella che si ha con una donna quando si hanno dei bambini, un affetto più solido. Sono più belle, in effetti, ed assicurano meglio l'immortalità, le creature che nascono dalla loro unione. Chiunque vorrà senza dubbio mettere al mondo simili creature piuttosto che bambini, se si pensa ad Omero, ad Esiodo e agli altri grandi poeti. Si osserverà con invidia quale discendenza essi hanno lasciato, capace di assicurare loro l'immortalità della gloria e della memoria, perché anche i figli spirituali di quei grandi sono immortali. O ancora, se vuoi - disse -, puoi pensare quale eredità Licurgo abbia lasciato agli Spartani per la salvezza della loro città e, si può dire, della Grecia intera. Per le stesse ragioni voi onorate Solone il padre delle vostre leggi, e in tutti i paesi - greci e barbari - sono onorati gli uomini che hanno prodotto grandi opere, mettendo a frutto le più alte capacità del loro spirito. In onore di quello che queste persone hanno saputo creare si sono già innalzati molti templi135, mentre questo non è mai accaduto fino ad oggi, per i figli nati dall'amore di un uomo e di una donna. Ecco, Socrate, le verità sull'amore alle quali tu puoi certamente essere iniziato. Ma le rivelazioni più profonde e la loro contemplazione - il fine ultimo della ricerca su Eros - non so se sono alla tua portata. Voglio però parlartene egualmente, senza diminuire il mio sforzo. Cerca di seguirmi, almeno finché puoi. Chi inizia il cammino che può portarlo al fine ultimo, sin da giovane deve essere attento al bel corpo. In primo luogo, se chi lo dirige sa indirizzarlo sulla giusta strada, si innamorerà di una sola persona e troverà con lei le parole per i dialoghi più belli. Poi si accorgerà che la bellezza sensibile della persona che ama è sorella della bellezza di tutte le altre persone: se si deve ricercare la bellezza che è propria delle forme sensibili, non si può non capire che essa è una sola, identica per tutti. Capito questo, imparerà a innamorarsi del bello di tutte le persone belle e a frenare il suo amore per una sola: dovrà imparare a non valutare molto questa prima forma dell'amore, a giudicarla di minor valore. Poi, imparerà a innamorarsi della bellezza delle anime piuttosto che della bellezza sensibile: a desiderare una persona per la sua anima bella, anche se non è fisicamente attraente. Con lei nasceranno discorsi così belli che potranno elevare i giovani che li ascoltano. E giunto a questo punto, potrà imparare a riconoscere la bellezza in quel che fanno gli uomini e nelle leggi: scoprirà che essa è sempre simile a se stessa, e così la bellezza dei corpi gli apparirà ben piccola al confronto. Dalle azioni degli uomini, poi, sarà portato allo studio delle scienze, per coglierne la bellezza, gli occhi fissi sull'immenso spazio su cui essa domina. Cesserà allora di innamorarsi della bellezza di un solo genere, d'una sola persona o di una sola azione - una forma d'amore che lo lascia ancora schiavo - e rinuncerà così alle limitazioni che lo avviliscono e lo impoveriscono. Orientato ormai verso l'oceano infinito della bellezza142, che ha imparato a contemplare, le sue parole e i suoi pensieri saranno pieni del fascino che dà l'amore per il sapere143. Finché, reso forte e grande per il cammino compiuto, giungerà al punto da fissare i suoi occhi sulla scienza stessa della bellezza perfetta, di cui adesso ti parlerò. Sforzati - mi disse Diotima - di dedicarti alle mie parole con tutta l'attenzione di cui sei capace. Guidato fino a questo punto sul cammino dell'amore, il nostro uomo contemplerà le cose belle nella loro successione e nel loro esatto ordine; raggiungerà il vertice supremo dell'amore e allora improvvisamente gli apparirà il bello nella sua meravigliosa natura, quella stessa, Socrate, che era il fine di tutti i suoi sforzi: eterna, senza nascita né morte145. Essa non si accresce né diminuisce, né è più o meno bella se vista da un lato o dall'altro. Essa è senza tempo, sempre egualmente bella, da qualsiasi punto di vista la si osservi. E tutti comprendono che è bella. Il bello non ha forme definite: non ha volto, non ha mani, non ha nulla delle immagini sensibili o delle parole. Non è una teoria astratta. Non è uno dei caratteri di qualcosa di esteriore, per esempio di un essere vivente, o della Terra o del cielo, o non importa di cos'altro. No, essa apparirà all'uomo che è giunto sino a lei nella sua perfetta natura, eternamente identica a se stessa per l'unicità della sua forma. Tutte le cose belle sono belle perché partecipano della sua bellezza, ma esse nascono e muoiono - divenendo quindi più o meno belle - senza che questo abbia alcuna influenza su di lei. Iniziando il proprio cammino dal primo gradino della bellezza sensibile, l'uomo si eleva coltivando il suo fecondo amore per i giovani e così impara a percepire in loro i segni della pura e perfetta bellezza: allora potrà dire di non essere lontano dalla meta. Così, da soli o sotto la guida di un altro, la perfetta via dell'amore ha inizio con la bellezza sensibile ed ha per fine la contemplazione della Bellezza pura: l'uomo deve salire come su una scala, da una sola persona bella a due, poi a tutte, poi dalla bellezza sensibile alle azioni ben fatte e alla scienza, fino alla pura conoscenza del bello, e ancora avanti sino alla contemplazione del bello in sé. Questo, mio caro Socrate - mi disse la straniera di Mantinea -, è il momento più alto nella vita di una persona: l'attimo in cui si contempla la Bellezza pura. Se la vedrai un giorno, al suo confronto sfioriranno le ricchezze, i bei vestiti, i bei ragazzi che ti fanno girare la testa: eppure tu e tanti altri accettereste di non mangiare né bere, per così dire, pur di poterli ammirare e poter stare con loro148. Cosa proverà l'anima allora nel fissare la Bellezza pura, semplice, senza alcuna impurità, del tutto estranea all'imperfezione umana, ai colori, alle vanità sensibili? Cosa proverà il nostro spirito nel contemplare la Bellezza divina nell'unicità della sua forma? Credi forse che possa ancora essere vuota la vita di un uomo che abbia fissato sulla Bellezza il suo sguardo, contemplandola pur nei limiti dei mezzi che possiede, ed abbia vissuto in unione con essa? Non pensi, disse, che solamente allora, quando vedrà la bellezza con gli occhi dello spirito ai quali essa è visibile, quest'uomo potrà esprimere il meglio di se stesso? Non una falsa immagine149 egli contempla, infatti, ma la virtù più autentica, in piena verità150. Egli coltiva in sé la vera virtù e la nutre: non sarà forse per questo amato dagli dèi? non diverrà tra gli uomini immortale?» Ecco, Fedro, e voi tutti che mi ascoltate, quel che mi disse Diotima. Ed è riuscita a convincermi, così come io - a mia volta - cerco di convincere gli altri: per dare alla natura umana il possesso di ciò che è bene, non si troverà miglior aiuto dell'Eros. Così - io lo dichiaro - ogni uomo deve onorare Eros; io onoro l'amore che è in me, io mi consacro all'Eros ed esorto gli altri a fare altrettanto. Per quanto è in mio potere fare, ora e sempre voglio esaltare la forza dell'Eros, e il suo valore. Ecco il mio discorso, Fedro. Consideralo, se vuoi, un elogio dell'Eros, altrimenti dagli il nome che vorrai". Questo disse Socrate. Mentre tutti si complimentavano con lui e Aristofane cercava di dirgli qualcosa perché Socrate di sfuggita aveva fatto una allusione al suo discorso151, ecco che si sentì bussare alla porta dell'atrio, e un gran vociare di gente allegra, e la voce di una suonatrice di flauto. "Ragazzi - disse Agatone - andate a vedere, presto. Se è uno dei miei amici, invitatelo ad entrare. Altrimenti dite che abbiamo già finito di bere e che stiamo andando a dormire." Un istante più tardi si sentì nell'atrio la voce di Alcibiade, non più molto in sé per il vino, che urlava a squarciagola. Domandava dove fosse Agatone, voleva essere accompagnato da lui. E così lo accompagnarono nella sala e stava in piedi solo perché una flautista e qualcun altro dei suoi compagni lo sostenevano. Fermo sulla soglia, portava in capo una corona di edera e di viole, la testa avvolta nei nastri. "Signori - disse - buona sera! Accettereste un uomo completamente ubriaco per bere con voi? oppure dobbiamo limitarci a mettere questa corona in testa ad Agatone e andar via subito? Siamo venuti per questo, infatti. Ieri, in effetti non sono potuto venire. Vengo adesso con i nastri sulla testa per passarli dalla mia alla testa dell'uomo che - nessuno si offenda - è il più sapiente e il più bello: voglio proprio incoronarlo. Ah, ridete di me perché sono ubriaco! Ridete, ridete, tanto lo so che è vero. Allora, mi volete rispondere? posso entrare o no? volete o no bere con me?" Allora tutti si misero ad applaudirlo, e gli dissero di entrare e prendere posto in mezzo a loro. Agatone lo chiamò, Alcibiade si diresse verso di lui, aiutato dai suoi compagni, e cominciò a togliersi i nastri dalla fronte per incoronare Agatone. Anche se ce l'aveva sotto gli occhi non si accorse di Socrate e andò a sedersi accanto ad Agatone, quasi addosso a Socrate che dovette fargli posto. Si sedette dunque in mezzo a loro, abbracciò Agatone e gli mise la corona sulla testa. "Ragazzi - disse Agatone - slacciate i sandali ad Alcibiade, che sia terzo in mezzo a noi.""Benissimo - disse Alcibiade -, ma chi è terzo con noi?" Dicendo così si voltò e c'era Socrate. Appena lo vide fece un balzo indietro e disse: "Per Eracle, chi c'è qui? Socrate? Che tiro mi hai teso! sdraiato accanto a me! Ti par questa la maniera di comparire quando uno meno se l'aspetta? E che ci vieni a fare qui? Potevi metterti accanto ad Aristofane o a un altro che voglia far lo spiritoso! E' che tu hai trovato il modo di sdraiarti accanto al più bello della compagnia!" "Agatone, per favore difendimi tu - dice Socrate -. Essere in amore per quest'uomo non mi costa certo poco. Dal giorno in cui mi sono invaghito di lui non ho più il diritto di guardare un solo bel ragazzo, nemmeno di rivolgergli la parola. E' geloso, invidioso, mi fa delle scene, me ne dice di tutti i colori e poco manca che me le dia. Dunque, attenzione, che non faccia adesso una scenata! Tenta di riconciliarci tu o, se tenta di picchiarmi, difendimi perché la sua ira e la sua follia d'amore mi fanno una paura terribile." "No - disse Alcibiade -, è impossibile: tra te e me nessuna riconciliazione. E per quel che hai detto faremo i conti un'altra volta. Per il momento, Agatone, passami qualcuno di quei nastri, che cinga la sua testa, questa testa meravigliosa. Voglio evitare che poi si lamenti che ho incoronato te mentre ho lasciato senza corona lui, che per i suoi discorsi vince tutti sempre, e non solamente una volta come te ieri." Dicendo questo prese dei nastri, incoronò Socrate e poi si sdraiò. Si mise comodo e disse:"Amici miei, avete proprio l'aria di voler far gli astemi. Ma questo non vi è permesso: bisogna bere, l’abbiamo convenuto tra noi! Sarò io il re del simposio, finché voi non avrete bevuto a sufficienza. Allora, Agatone, fammi portare una coppa, una grande, se c'è. No, no, non c'è bisogno. Ragazzo dice - portami quel vaso per tenere il vino in fresco." Ne aveva appena visto uno, che teneva otto cotili153 abbondanti. Lo fece riempire e bevve per primo. Poi ordinò di servire Socrate, dicendo: "Con Socrate, amici miei, non c'è niente da fare: quanto vorrà bere berrà, e non ci sarà verso di farlo ubriacare."Il servo allora portò il vino a Socrate che si mise a bere, mentre Erissimaco chiedeva:"E poi cosa facciamo, Alcibiade? Restiamo così, senza parlare di niente, la coppa in mano, senza cantare niente? beviamo soltanto, come degli assetati?" "Erissimaco - gli fa Alcibiade -, grande figlio di un padre grande e saggio, io ti saluto.""Ti saluto anch'io - dice Erissimaco -. E adesso cosa dobbiamo fare?""Siamo tutti ai tuoi ordini perché un medico, da solo, vale molti uomini. Obbediremo dunque ai tuoi desideri.""E allora ascoltami - dice Erissimaco -. Prima che tu arrivassi, avevamo deciso che ciascuno al suo turno, andando da sinistra verso destra, avrebbe fatto un discorso sull'Eros, il più bel discorso d'elogio. Noi l'abbiamo già fatto, adesso tocca a te, perché hai bevuto ed è giusto che anche tu faccia il tuo discorso. Poi ordina a Socrate quel che vuoi, e lui farà lo stesso con chi sta alla sua destra e così via.""Ben detto, Erissimaco - risponde Alcibiade -. Solo che se uno ha bevuto troppo, non può dire cose che stanno alla pari con chi è sobrio. E poi c'è Socrate: credi forse una sola parola di quel che ha appena detto? non lo sai che è tutto il contrario? Perché lui, se in sua presenza faccio l'elogio di qualcuno, d'un dio o di un'altra persona che non sia lui, non ci pensa due volte a menarmi.""Ma che dici!", gli fa Socrate."Per Poseidone - dice Alcibiade -, è inutile che protesti, perché in tua presenza io non posso fare l'elogio di nessuno, se non di te.""E allora fa così - dice Erissimaco -, se vuoi: fa un elogio di Socrate."Che dici? - riprese Alcibiade - tu credi che dovrei... Vuoi che me la prenda con un tipo così e mi vendichi davanti a voi?""Ma ragazzo, che ti passa per la testa? - dice Socrate. Perché mai vuoi fare il mio elogio? per prendermi in giro?""Voglio solo dire la verità: a te accettare o meno.""La verità? Benissimo, allora accetto. Anzi ti chiedo io di dirla." "Presto fatto - dice Alcibiade -. Quando a te, ti assegno un compito: se dico qualche cosa che non è vera, tronca a metà le mie parole, se vuoi, e dimmi che su quella cosa lì io mento, perché io volontariamente non racconterò certo delle balle. Però mescolerò un po' tutto nel mio discorso, e tu non meravigliarti, perché tu sei proprio un bel tipo e non è certo facile, nello stato in cui sono, ricordare con ordine proprio tutto. Discorso di Alcibiade: Per fare l'elogio di Socrate, amici, ricorrerò a delle immagini. Sono sicuro che lui penserà che voglia scherzare, e invece sono serissimo, perché voglio dire la verità. Io dichiaro dunque che Socrate è in tutto simile a quelle statuette dei Sileni che si vedono nelle botteghe degli scultori, con in mano zampogne e flauti. Se si aprono, dentro si vede che c'è l’immagine di un dio. E aggiungo che ha tutta l'aria di Marsia155, il satiro: eh sì, Socrate, gli somigli proprio, non vorrai negarlo! E non solo nell'aspetto! Ascoltami bene: non sei forse sempre tracotante? Se lo neghi, io produrrò dei testimoni. Ma, si dirà, Socrate è forse un suonatore di flauto? Sì, e ben più bravo di Marsia. Lui incantava tutti con quel che riusciva a fare col flauto, tanto che ancora oggi chi vuol suonare le sue arie deve imitarlo. Anche le musiche di Olimpo, io dico che erano di Marsia, il suo maestro. Le sue arie, suonate da un grande artista o da una ragazzina alle prime armi, sono sempre le sole capaci di incantarci, di farci sentire quanto bisogno abbiamo degli dèi: ci vien voglia di essere iniziati ai misteri, perché quelle musiche sono divine. Tu, Socrate, sei diverso da Marsia solo in questo, che non hai affatto bisogno di strumenti musicali per ottenere gli stessi risultati: ti bastano le parole. Una cosa è certa e dobbiamo dirla: quando ascoltiamo un altro oratore, il suo discorso non interessa quasi nessuno. Ma ascoltando te, o un altro - per mediocre che sia - che riporta le tue parole, tutti, ma proprio tutti, uomini, donne, ragazzi, siamo colpiti al cuore: qualcosa che non ci fa star tranquilli si impadronisce di noi. Quanto a me, amici, non vorrei sembrarvi del tutto ubriaco, ma bisogna che vi dica - come se fossi sotto giuramento - quale impressione ho avuto nel passato, ed ho ancora, ad ascoltare i suoi discorsi. Quando lo sento parlare, il mio cuore si mette a battere più forte di quello dei Coribanti158 in delirio e mi emoziono sino alle lacrime: e ne ho vista di gente provare le stesse emozioni. Ora, ascoltando Pericle ed altri grandi oratori, mi accorgevo certo che parlavano bene, ma non provavo niente di simile: la mia anima non era travolta, non sentiva il peso della schiavitù in cui era ridotta. Ma lui, questo Marsia, mi ha spesso messo in un tale stato da farmi sembrare impossibile vivere la mia vita normale - e questo, Socrate, non dirai che non è vero. E ancora adesso - lo so benissimo - se accettassi di prestar ascolto alle sue parole, non potrei farne a meno: proverei le stesse emozioni. Socrate con i suoi discorsi mi obbliga a riconoscere i miei limiti: io non cerco di migliorare me stesso, e continuo lo stesso ad occuparmi degli affari degli Ateniesi160. Devo quindi fare violenza a me stesso, tapparmi le orecchie come se dovessi fuggire dalle Sirene, devo andar via per evitare di passare con lui il resto dei miei giorni. Soltanto davanti a lui ho provato un sentimento che nessuno si aspetterebbe di trovare in me: io ho avuto vergogna di me stesso. Socrate è il solo uomo davanti al quale io mi sia vergognato. E questo perché mi è impossibile - ne sono perfettamente cosciente - andargli contro, dire che non devo fare quello che mi ordina; ma appena mi allontano, cedo al richiamo degli onori della folla intorno a me161. Allora mi nascondo, come uno schiavo scappo via, ma quando lo rivedo mi vergogno per quel che prima ero stato costretto ad ammettere. Ci sono volte che non vorrei più vederlo al mondo, ma se questo accadesse so che sarei infelicissimo. Così, io non so proprio che cosa fare con quest'uomo. Ecco l'effetto delle sue arie da flauto, su di me e su tanti altri: ecco cosa questo satiro ci fa subire. Ma ascoltate ancora: voglio proprio mostrarvi come somigli alle statuette a cui l'ho già paragonato, e come il suo potere sia straordinario. Sappiatelo per certo: nessuno di voi lo conosce davvero e io, siccome ho già cominciato, voglio mostrarvelo sino in fondo. Guardatelo: Socrate ha un debole per i bei ragazzi, non smette mai di girar loro attorno, perde la testa per loro. D'altra parte lui ignora tutto, non sa mai niente - questa almeno è l'immagine che vuol dare. Non è questa la maniera di fare di un Sileno? Sì certo, perché questa è l'immagine esterna, come quella della statuetta di Sileno. Ma all'interno? Una volta aperta la statuetta, avete idea della saggezza che nasconde? Amici miei, sappiatelo: che uno sia bello, a lui non interessa affatto, non se ne accorge neppure - da non credersi - e lo stesso accade se uno è ricco o ha tutto quello che la gente ritiene invidiabile avere. Per lui, tutto questo non ha alcun valore, e noi non siamo niente ai suoi occhi163, ve lo assicuro. Passa tutta la sua giornata a fare il sornione, trattando con ironia un po' tutti. Ma quando diventa serio e la statuetta si apre, io non so se avete mai visto che immagini affascinanti contiene. Io le ho viste, simili agli dèi, preziose, perfette e belle, straordinarie: e così mi son sentito schiavo della sua volontà. Ero giovane, e credevo seriamente che lui fosse preso dalla mia bellezza; ho creduto fosse una fortuna per me, e un'occasione da non lasciar scappare. Ero veramente fiero della mia bellezza e così speravo che, ricambiando il suo interesse, avrei potuto aver parte della sua saggezza. Convinto di questo, una volta allontanai il mio servitore - di solito ce n'era sempre qualcuno quando vedevo Socrate, e non eravamo mai soli - e così restai da solo con lui. Devo proprio dirvi tutta la verità: ascoltatemi bene, e tu Socrate, se non dico bene correggimi. Eccomi dunque con lui, amici, da soli. Io credevo che avrebbe ben presto cominciato a parlare come si parla fra innamorati, e ne ero felice. Invece non fa assolutamente niente. Parla con me come sempre, restiamo tutto il giorno insieme, poi se ne va. Allora lo invitai a far esercizi di ginnastica con me, e così ci esercitavamo insieme: io speravo proprio di concludere qualcosa. Facemmo ginnastica insieme per un certo tempo, e spesso facevamo la lotta, ed eravamo soli. Che dirvi? Nessun passo avanti. Non riuscendo a niente con questi sistemi, pensai allora di puntar dritto al mio scopo. Non volevo affatto lasciar perdere, dopo essermi lanciato in questa impresa: dovevo subito vederci chiaro. Lo invito dunque a cena, come un innamorato che tende una trappola al suo amato167. Ma non accettò subito, anzi ci mise un po' di tempo a convincersi. La prima volta che venne, volle andar via subito dopo cena. Io, che mi vergognavo un po', lo lasciai andare. Ma feci un secondo tentativo: e in quell'occasione dopo cena io prolungai la conversazione, senza tregua, fino a notte fonda. Così quando lui volle andarsene, con la scusa che era tardi lo convinsi a restare. Era dunque coricato sul letto accanto al mio, là dove avevamo cenato, e nessun altro dormiva con noi. Fin qui, quel che ho raccontato potrei dirlo davanti a tutti. Ma quel che segue voi non me lo sentireste affatto dire se, come dice il proverbio, nel vino (bisogna o no parlare con la bocca dell'infanzia?) non ci fosse la verità. Del resto non mi par giusto lasciare in ombra quel che di meraviglioso fece Socrate, proprio adesso che ne sto facendo l'elogio. E poi io sono come uno morso da una vipera: queste persone, si dice, non raccontano affatto quel che han passato, se non ad altri che sono stati anch'essi morsi, perché solo loro possono comprendere, e scusare tutto ciò che si è osato fare o dire per l'angoscia del dolore.  E io son stato morso da un dente più crudele, e in una parte della persona che aumenta la crudeltà: nel cuore, nell'anima (poco importa il nome). La filosofia con i suoi discorsi mi ha trafitto col suo morso, che penetra più a fondo del dente della vipera168 quando si impadronisce dell'anima di un giovane non privo di talento e gli fa fare e dire ogni sorta di stravaganze - ed eccomi qua con Fedro, con Agatone, con Erissimaco, con Pausania, con Aristodemo, ed anche con Aristofane, senza parlare di Socrate, e con tanti altri, tutti attenti come me al delirio filosofico e alla sua forza dionisiaca. Vi chiedo dunque d'ascoltarmi perché certo mi perdonerete per quel che ho fatto allora e per quel che dico oggi. E voi servitori, voi tutti che siete profani, se state ascoltando, tappatevi le orecchie con le porte più spesse. E allora, miei amici, quando la lampada fu spenta e i servi se ne furono andati, io pensai che non dovevo più giocare d'astuzia con lui, ma dire francamente il mio pensiero. Gli dissi allora, scuotendolo: "Dormi, Socrate?" "Per nulla", rispose. "Sai cosa penso?" "Che cosa?" "Penso che tu saresti un amante degno di me, il solo che lo sia, e vedo che esiti a parlarne. Quanto ai miei sentimenti, mi son convinto di questo: che è stupido, io credo, non cedere ai tuoi desideri in questo, come in ogni cosa in cui tu avessi bisogno, la mia fortuna o i miei amici. Niente, infatti, è più importante ai miei occhi che migliorare il più possibile me stesso, e io penso che su questa strada nessuno mi può aiutare più di te. Quindi mi vergognerei dinanzi alle persone sagge di non cedere ad un uomo come te più di quanto mi vergognerei dinanzi alla massa degli ignoranti di cedere." Mi ascolta, prende la sua solita aria ironica e mi dice: "Mio caro Alcibiade, se quel che dici sul mio conto è vero, se ho davvero il potere di renderti migliore, devo dire che ci sai proprio fare. Tu vedi senza dubbio in me una bellezza fuori del comune e ben differente dalla tua. Se l'aver visto questo ti spinge a legarti a me e a scambiare il bello con il bello, il guadagno che tu pensi di fare alle mie spalle non è affatto piccolo. Tu non vuoi più possedere l'apparenza della bellezza, ma la bellezza reale, e quindi sogni di scambiare - non c'è dubbio - il bronzo con l'oro. Eh no, mio bell'amico, guarda meglio! T'illudi sul mio conto: io non sono niente171. Lo sguardo della mente comincia davvero a esser penetrante quando gli occhi cominciano a veder meno: e tu sei ancora molto lontano da quel momento." Al che io rispondo: "Per quel che mi riguarda, sia ben chiaro, io non ho detto niente che non penso. A te, adesso, decidere ciò che è meglio per te e per me." "Hai ragione - mi fa -. Nei prossimi giorni noi ci chiariremo, e agiremo nella maniera che sembrerà migliore ad entrambi, su questo punto come su tutto il resto." Dopo questo dialogo, io credevo di aver lanciato un dardo che l'avesse trafitto. Mi alzai e, senza permettergli di reagire, stesi su di lui il mio mantello - era inverno - e mi allungai sotto il suo, ormai vecchio, e presi tra le mie braccia quest'essere veramente meraviglioso, demonico173, e restai con lui tutta la notte. Adesso non dirai che mento, Socrate. Ma tutto questo dimostra quanto lui fosse più forte: non degnò di uno sguardo la mia bellezza, non se ne curò affatto, fu quasi offensivo in questo. E dire che credevo di non essere affatto male, miei giudici (sì, giudici della superiorità di Socrate). Ebbene sappiatelo - ve lo giuro sugli dèi e sulle dee - io mi alzai dopo aver dormito a fianco di Socrate senza che nulla fosse accaduto, come se avessi dormito con mio padre o con mio fratello maggiore. Immaginate il mio stato d'animo! Certo, mi ero quasi offeso, ma apprezzavo il suo carattere, la sua saggezza, la sua forza d'animo. Avevo trovato un essere dotato di un'intelligenza e di una fermezza che avrei credute introvabili: e così non potevo prendermela con lui e privarmi della sua compagnia, né d'altra parte vedevo come attirarlo dove volevo io. Sapevo bene che era totalmente invulnerabile al denaro, più di Aiace davanti alle armi. Sul solo punto in cui credevo si sarebbe lasciato catturare, ecco, era appena fuggito175. Insomma, completamente schiavo di quest'uomo, come mai nessuno lo è stato d'altri, gli giravo vanamente attorno. Tutto questo accadde prima della spedizione di Potidea. Entrambi vi partecipammo, e prendemmo anche i pasti insieme. Quel che è certo, è che resisteva alle fatiche non solo meglio di me, ma di tutti gli altri. Quando capitava che le comunicazioni fossero interrotte in qualche punto, e in guerra succede, e noi restavamo senza mangiare, nessun altro aveva tanta resistenza alla fame. Al contrario, se eravamo ben riforniti, sapeva approfittarne meglio degli altri, in particolare per bere; non che ci fosse portato, ma se lo si forzava un po', lui poi superava tutti e - cosa assai strana - nessuno ha mai visto Socrate ubriaco. E credo che questa notte stessa avrete la prova di quanto dico. Quanto al freddo - e nella zona di Potidea gli inverni sono terribili - Socrate è del tutto straordinario. Vi racconto un episodio. Era un giorno di terribile gelo, quanto di peggio potete immaginare, uno di quei giorni in cui tutti evitano di uscire e se lo fanno si infagottano tutti, i piedi avvolti in panni di feltro o in pelli di agnello. Socrate se ne uscì coperto solo dal mantello che porta sempre andando a piedi nudi sul ghiaccio con più tranquillità di quelli che avevano le scarpe: e così i soldati lo guardavano di traverso, perché pensavano li volesse umiliare. E c'è dell'altro da dire. "E' straordinario ciò che fece e sopportò il forte eroe", laggiù in guerra: vale veramente la pena di sentire la storia che ho da raccontare. Un giorno si mise a meditare sin dal primo mattino, e restava fermo a seguire le sue idee. Non riusciva a venire a capo dei suoi problemi, e così stava lì, in piedi, a riflettere. Era già mezzogiorno e gli altri soldati l'osservavano, stupiti, e la voce che Socrate era in piedi a riflettere sin dal mattino presto cominciò a circolare; finché, venuta la sera, alcuni soldati della Ionia dopo cena portarono fuori i loro letti da campo - era estate - e si sdraiarono al fresco, a guardar Socrate, per vedere se avrebbe passato la notte in piedi. E così fece, sino alle prime luci del mattino. Solo allora se ne andò, dopo aver elevato una preghiera al Sole. Adesso, se volete, dobbiamo dir qualcosa della sua condotta in combattimento - perché anche su questo punto bisogna rendergli giustizia. Quando ci fu lo scontro per il quale i generali mi assegnarono un premio per il mio coraggio, riuscii a salvarmi proprio per merito suo. Ero ferito, lui si rifiutò di abbandonarmi e riuscì a salvare sia me che le mie armi. Allora io chiesi ai generali di assegnare il premio a te: non potrai certo, Socrate, dire adesso che io mento, e neppure rimproverarmi per quel che dico. Ma i generali, considerando la posizione in cui ero, volevano dare a me il premio, e tu hai personalmente insistito più di loro perché il premio invece andasse a me. Ricordo un'altra occasione, amici, in cui valeva la pena di vedere Socrate: fu quando il nostro esercito a Delio179 fu messo in rotta. In quell'occasione fu il caso a farmelo incontrare.  Io ero a cavallo, e lui era oplita. Stava ripiegando insieme a Lachete180, tra le truppe sbandate, quando io capito lì per caso, li vedo e per incoraggiarli dico loro che non li avrei abbandonati. In quell'occasione ho potuto osservare Socrate ancora meglio che a Potidea, perché avevo meno da temere, essendo a cavallo. Aveva più sangue freddo di Lachete - e quanto! - e dava l'impressione (uso le tue parole, Aristofane) di avanzare come se si trovasse in una strada d'Atene "sicuro di sé, gettando occhiate di fianco", osservando con occhio tranquillo amici e nemici e facendo vedere chiaramente, e da lontano, che si sarebbe difeso sino in fondo se qualcuno avesse voluto attaccarlo. E così andava senza mostrare alcuna inquietudine, insieme con il suo compagno: gli opliti che, in simili situazioni, si comportano in questa maniera di solito non vengono affatto attaccati dai nemici, che invece inseguono chi scappa in disordine. Molti altri aspetti del carattere di Socrate potrebbero essere oggetti di un elogio, perché sono veramente ammirevoli. Riguardo a queste cose, però, anche altri uomini probabilmente meritano gli stessi elogi. C'è qualcosa in Socrate, invece, che lo rende meravigliosamente unico, assolutamente diverso da tutti gli altri uomini del passato e del presente. Infatti, volendo, si può trovare l'immagine di Achille in Brasida e in altri, Pericle può ricordare Nestore o Antenore, e questi casi non sono isolati: si possono fare paragoni simili a proposito di tanti altri. Ma l'incredibile di quest'uomo è che lui e i suoi discorsi non hanno paragoni né nel passato né oggi, per quanto si cerchi con attenzione, a meno che non lo si voglia paragonare come facevo io prima: non ad altri uomini, ma ai Sileni e ai Satiri - che si tratti di lui o delle sue parole. Sì, perché c'è una cosa che ho dimenticato di precisare: anche i suoi discorsi sono simili alle statuette dei Sileni che si aprono. Infatti, se si ascolta quel che dice Socrate, a prima vista le sue parole possono sembrare quasi comiche, tutte intrecciate con strani discorsi: esteriormente ricordano proprio gli intrecci della pelle di un satiro insolente. Parla di asini da soma, di fabbri, di sellai, di conciatori di pelli, ed ha sempre l'aria di dire le stesse cose con le stesse parole. Chi non sa o è poco attento, c'è caso che rida dei suoi discorsi. Ma se li apri e li osservi bene, penetrandone il senso, scopri che solo le sue parole hanno un loro senso profondo: parla come un dio, e la folla delle immagini che usa, affascinanti, rimandano sempre alla virtù. Chi lo ascolta è portato verso le cose più alte; anzi, meglio, è guidato a tenere sempre davanti gli occhi tutto quel che è necessario per diventare un uomo che vale. Ecco, amici, il mio elogio di Socrate. Quanto ai rimproveri che ho da fargli, li ho mescolati al racconto di quel che mi ha combinato. Del resto non sono il solo che ha trattato in questo modo: ha fatto lo stesso con Carmide, il figlio di Glaucone, con Eutidemo, il figlio di Dioele, tutta gente che ha ingannato con la sua aria da innamorato, con la conseguenza che furono loro ad innamorarsi di lui. Io ti avverto, Agatone: non farti ingannare da quell'uomo! Che la nostra esperienza ti sia di monito! Che non accada come dice il proverbio: "l'ingenuo fanciullo non impara che soffrendo." Quando Alcibiade ebbe parlato così, l'ilarità fu generale, anche perché s'era capito ch'era ancora innamorato di Socrate. E così Socrate gli disse: "Tu non hai affatto l'aria d'aver bevuto, Alcibiade. Altrimenti non avresti fatto un discorso così sottile, tutto fatto per nascondere il tuo vero obiettivo, che è venuto fuori solo alla fine: ne hai parlato come se fosse una cosa secondaria, e invece tu hai fatto tutto un lungo discorso solo per cercare di guastare l'amicizia tra Agatone e me. E tutto perché sei convinto che io debba amare solo te, nessun altro che te, e che Agatone debba essere amato soltanto da te, da nessun altro che da te. Ma non t'è andata bene: il tuo dramma satiresco, la tua storia di Sileni, abbiamo capito tutti cosa significhi. E allora, mio caro Agatone, bisogna che lui non vinca a questo gioco: sta ben attento che nessuno possa mettersi tra me e te." E Agatone di rimando:"Hai detto proprio la verità, Socrate. E ne ho le prove: si è venuto a sdraiare proprio tra te e me, per separarci. Ma non ci guadagnerà niente a far così, perché io torno proprio a mettermi accanto a te." "Oh, bene, - disse Socrate - ti voglio proprio vicino! Per Zeus, - disse Alcibiade - quante me ne fa passare quest'uomo! Pensa sempre come fare per aver l'ultima parola con me. Socrate, sei proprio straordinario! Ma lascia almeno che Agatone stia tra noi due. E' impossibile - disse Socrate -. Perché tu hai appena fatto il mio elogio, e io devo a mia volta far quello della persona che sta alla mia destra. Quindi, se Agatone si mette al tuo fianco, alla tua destra, dovrà mettersi a fare il mio elogio prima che io abbia fatto il suo. Lascialo piuttosto stare dov'è, mio divino amico, e non essere geloso se faccio il suo elogio, perché desidero proprio cantare le sue lodi. Bravo! - disse Agatone -. Lo vedi tu stesso, Alcibiade: non è proprio possibile che resti qui. Voglio a tutti i costi cambiar posto, e ascoltare il mio elogio da Socrate". "Ecco - disse Alcibiade -, finisce sempre così. Quando c'è Socrate, non c'è posto che per lui accanto ai bei ragazzi. Guarda che razza di ragione ha saputo trovare adesso per farselo stare vicino!" Agatone si era alzato per andarsi a mettere accanto a Socrate, quando all'improvviso tutta una banda di gente allegra spuntò dalla porta. Qualcuno era uscito e l'avevano trovata aperta, e così erano entrati e s'erano uniti alla compagnia. Gran baccano in tutta la sala: senza più alcuna regola, si bevve allegramente un sacco di vino. Allora, mi disse Aristodemo, Erissimaco, Fedro e qualcun altro andò via. Lui, Aristodemo, fu preso dal sonno e dormì tanto, perché le notti erano lunghe. Si svegliò ch'era giorno e i galli già cantavano. Alzatosi, vide che gli altri dormivano o erano andati via. Solo Agatone, Aristofane e Socrate erano ancora svegli e bevevano da una gran coppa che si passavano da sinistra a destra. Socrate chiacchierava con loro. Aristodemo non ricordava, mi disse, il resto della conversazione, perché non aveva potuto seguire l'inizio e dormicchiava ancora un po'. Ma in sostanza, disse, Socrate stava cercando di convincere gli altri a riconoscere che un uomo può riuscire egualmente bene a comporre commedie e tragedie, e che l'arte del poeta tragico non è diversa da quella del poeta comico. Loro furono costretti a dargli ragione, ma non è proprio che lo seguissero del tutto: stavano cominciando a dormicchiare. Il primo ad addormentarsi fu Aristofane, poi, ormai in pieno giorno, s'addormentò anche Agatone. Allora Socrate, visto che si erano addormentati, si alzò e andò via. Aristodemo lo seguì, come sempre faceva. Socrate andò al Liceo, si lavò e passò il resto della giornata come sempre faceva. Dopo, verso sera, se ne andò a casa a riposare.  Platone Carmide  Edizione Acrobat a cura di Patrizio Sanasi (patsa@tin.it)   Platone Carmide  Platone CARMIDE Arrivammo (1) il giorno prima, di sera, dall'accampamento di Potidea, (2) e poiché tornavo che era passato del tempo, mi recai pieno di gioia nei consueti luoghi di conversazione. E in particolare entrai nella palestra di Taurea,(3) dirimpetto al santuario della Regina,(4) e qui incontrai molte persone, alcune delle quali a me sconosciute, ma la maggior parte note. E quando mi videro entrare inaspettato, subito da lontano si diedero a salutarmi, chi da una parte chi dall'altra; Cherefonte (5) invece, da quella natura bizzarra quale egli era, balzato fuori dal gruppo, correva verso di me, e afferratami la mano: «O Socrate», diceva, «come ti sei salvato dalla battaglia?». Poco prima che noi arrivassimo c'era stata una battaglia a Potidea, della quale lì si era avuta notizia da poco. E io rispondendo: «Così come mi vedi », dissi. «Eppure qui è arrivata la notizia che la battaglia è stata molto dura», disse lui, «e che vi sono morte molte persone note». «Le notizie riportate sono esatte», risposi io. «Eri presente alla battaglia?» chiese lui. «C'ero». «Allora siediti qui», disse, «e raccontaci, perché non abbiamo saputo ogni cosa in maniera chiara». E intanto, guidandomi, mi fa sedere accanto a Crizia figlio di Callescro.(6) Nel sedermi dunque accanto, salutavo Crizia e gli altri, ed esponevo loro le notizie dal campo, qualsiasi cosa mi venisse chiesta: e mi chiedevano chi una cosa chi un'altra. Quando però fummo sazi di questi discorsi, io allora, a mia volta, interrogai loro sulla situazione di qui, sulla filosofia, come andassero le cose al momento, sui giovani, se ne fossero sorti tra loro che si distinguessero per saggezza, per bellezza o per entrambe le cose. E Crizia, fissando lo sguardo verso la porta, perché aveva visto alcuni giovanetti entrare che si insultavano tra loro e altra folla alle spalle che li seguiva, «dei belli», disse, «o Socrate, credo che tu saprai subito: infatti eccoli che per caso stanno entrando e sono i preannunciatori e gli amanti di colui che ha fama di essere il più bello in questo momento, e mi sembra che anche lui sia ormai prossimo ad entrare». «E chi è», chiesi io, «e di chi è figlio?» «Forse lo conosci anche tu», mi rispose, «ma non era ancora adulto prima che tu partissi; èCarmide figlio di nostro zio Glaucone, mio cugino».(7) «Lo conosco, per Zeus!», esclamai. «Neppure allora, quando era ancora un fanciullo, era uno da poco, ma ora, credo, dovrebbe ormai essere decisamente un giovanetto». «Presto saprai», rispose, «la sua età e che tipo egli sia diventato», e mentre stava dicendo queste cose entra Carmide. Ebbene, per quello che riguarda me, amico mio, non si può misurare nulla: infatti io sono semplicemente una cordicella bianca con i belli (8) - infatti li vedo in qualche modo quasi tutti belli i giovani nel fiore degli anni -, tuttavia indubbiamente anche allora quello mi parve meraviglioso per la statura e la bellezza e d'altra parte tutti gli altri, per lo meno mi sembrava, erano innamorati di lui - a tal punto erano storditi e turbati al suo entrare -, molti altri innamorati invece lo seguivano tra coloro che erano alle sue spalle. Il nostro caso, di noi adulti, non destava certo meraviglia, ma io feci caso in particolare ai fanciulli, e notai come nessuno di loro, neppure il più piccolo rivolgesse gli occhi altrove, ma tutti guardavano ammirati lui come se fosse una statua. E Cherefonte, dopo avermi chiamato: «Che te ne pare del ragazzetto, o Socrate?», disse. «Non ha un bel volto?» «Straordinariamente bello», risposi io. «Ebbene», aggiunse, «egli, se volesse spogliarsi, ti sembrerà privo di volto, a tal punto è bellissimo di forme». Furono dunque d'accordo anche gli altri con le parole di Cherefonte; e io: «Per Eracle», dissi, «di quale imbattibile persona voi parlate, se soltanto si trova ad essere in possesso di una piccola cosa in aggiunta». «Quale?», chiese Crizia. «Se si trova ad essere ben disposto per natura nell'anima», risposi, «e in qualche modo è scontato, o Crizia, che egli sia tale, dal momento che è del vostro casato». «Ma sì», rispose, «è bellissimo e virtuoso anche in questo». «Perché dunque», esclamai, «non spogliare di lui proprio questa cosa ed ammirarla prima dell'aspetto? Dal momento che ha ormai questa età, desidera certamente dialogare». «Senza alcun dubbio», rispose Crizia, «sia perché è appunto un filosofo sia, come pensano gli altri e lui stesso, anche un poeta». «Questa bellezza», dissi io, «caro Crizia, voi l'avete, è lungo tempo, dalla vostra consanguineità con Solone.(9) Ma perché non hai chiamato qui il giovane e non me lo hai presentato? Infatti neppure se per caso fosse stato ancora più giovane, sarebbe stato disonorevole parlare con noi davanti a te, tu che sei insieme suo tutore e cugino». «Certo tu hai ragione», disse, «chiamiamolo». E intanto al servo: «Ragazzo», disse, «chiama Carmide e digli che voglio presentarlo a un medico per quella mancanza di forze dalla quale poco fa mi diceva di essere affetto». Rivolgendosi quindi a me, Crizia disse: «Poco fa diceva dì sentire come un peso alla testa, quando si è alzato di buon mattino; ebbene, cosa ti impedisce di fingere che conosci un rimedio per la testa?» «Nulla», risposi, «purché venga». «Certo, verrà», assicurò. E la cosa in effetti andò così. Infatti venne e suscitò gran riso, perché ognuno di noi che eravamo seduti, nel far posto, spingeva con foga il vicino, per far sedere lui accanto a sé, finché di quelli seduti all'estremità uno lo facemmo alzare, mentre l'altro lo gettammo a terra di lato. Egli, una volta arrivato, prese posto tra me e Crizia. A questo punto, mio caro, io mi sentivo confuso e la mia precedente arditezza, che avevo perché pensavo che gli avrei parlato con molta scioltezza, era andata distrutta; ma quando, avendo Crizia detto che io ero colui che conosceva il rimedio, mi fissò con 2  Platone Carmide  occhi quali è impossibile descrivere e si muoveva a interrogarmi, e tutti quanti in palestra corsero intorno a noi in cerchio da ogni parte, allora davvero, o nobile amico, vidi ciò che nascondeva il mantello e mi infiammai e non ero più in me e pensai che il più sapiente in cose d'amore è Cidia, (10) il quale disse, parlando di un fanciullo bello, consigliando qualcun altro, «di stare attento, cerbiatto, di fronte a un leone, a non prendere una parte della preda»; mi sembrava infatti di essere stato catturato io stesso da un simile animale. Tuttavia, quando mi chiese se conoscessi il rimedio per la testa, risposi a fatica che lo conoscevo. «Qual è allora?» chiese. E io risposi che era una certa pianta, ma che, oltre al farmaco, c'era una formula magica; e se veniva cantata mentre si faceva uso del farmaco, il farmaco faceva guarire completamente; senza la formula magica la pianta non era di nessuna utilità. E quello di rimando: «Allora trascriverò la formula da te». «Se mi persuaderai o anche se non mi persuaderai?», dissi io. Scoppiato a ridere dunque disse: «Se ti persuaderò, o Socrate». «E sia», conclusi; «e tu conosci bene il mio nome?» «Sarei colpevole, se non lo conoscessi», disse, «si fa non poco parlare di te tra i giovani della mia età, ma io poi mi ricordo che quando ero ancora un fanciullo eri in compagnia di Crizia qui presente». «Ben fatto», dissi io, «ti parlerò così più liberamente della formula magica, di cosa si tratti: poco fa non sapevo in che modo avrei potuto spiegarti la potenza di questa formula. Infatti, o Carmide, la sua natura e tale per cui non è in grado di guarire soltanto la testa, ma, come forse hai già sentito da bravi medici, quando uno va da loro perché è malato agli occhi, dicono che non è possibile cercare di guarire gli occhi soltanto, ma che sarebbe necessario guarire insieme anche la testa, se si vuole che sia buona la condizione degli occhi; e quindi pensare di guarire la testa per se stessa senza il corpo intero è una follia totale. In base a questo discorso, applicando a tutto il corpo un regime, cercano di curare e di sanare con il tutto la parte; (11) o forse non ti sei accorto che dicono questo e che le cose stanno così?» «Certo», rispose. «E pensi che parlano bene e accetti questo ragionamento?» «Assolutamente», rispose. E io, al sentire che approvava, ripresi coraggio e a poco a poco si risvegliò di nuovo in me l'arditezza, mi ravvivai e dissi: «Tale dunque, o Carmide, è anche il caso di questa formula magica. Io l'imparai laggiù, nell'esercito, da uno dei medici traci di Zalmoxis,(12) dei quali si dice che sanno rendere immortali. Questo Trace diceva che i Greci facevano bene a dire quel che io dicevo poco fa, ma Zalmoxis, continuava, il nostro re, che è un dio, dice che non bisogna cercare dì guarire gli occhi senza la testa né la testa senza il corpo, allo stesso modo il corpo senza l'anima, ma questa sarebbe anche la causa del fatto che molte malattie sfuggono ai medici greci, perché trascurano il tutto, di cui bisognerebbe aver cura; e se il tutto non sta bene, è impossibile che la parte stia bene. Disse che infatti dall'anima muove ogni cosa, sia i beni sia i mali, al corpo e all'uomo intero, e da qui fluiscono come dalla testa agli occhi: bisogna dunque curare l'anima in primo luogo e in massimo grado, se vuoi che anche le condizioni della testa e del resto del corpo siano buone. Disse che l'anima, mio caro, va curata con certi incantamenti: questi incantamenti sono i bei discorsi; in seguito a tali discorsi appare nell'anima la assennatezza,(13) per la comparsa e la presenza della quale è ormai più facile procurare la salute e alla testa e al resto del corpo. Nell'insegnarmi dunque il rimedio e gli incantamenti, aggiunse "Che nessuno ti persuada a curare la propria testa con questo rimedio, nessuno che non abbia prima consentito a far curare l'anima da te con questa formula magica. E infatti ora", continuò, "è diffuso questo errore tra gli uomini: alcuni cercano di essere medici separatamente dell'una e dell'altra, della assennatezza e della salute". E mi comandò con molta decisione che non dovesse esserci nessuno così ricco né nobile né bello, che mi persuadesse a fare diversamente. Io allora - infatti gli ho prestato un giuramento e devo necessariamente obbedirgli - obbedirò dunque, e a te, se, seguendo gli ordini dello straniero, vorrai consentire in prima istanza a che l'anima venga incantata dalle formule magiche del Trace, fornirò il rimedio per la testa; altrimenti non sapremmo cosa fare per te, caro Carmide». Dopo aver ascoltato le mie parole, Crizia disse: «Sarebbe un colpo di fortuna per il giovanetto, o Socrate, il mal di testa, se sarà costretto a diventare migliore anche nel pensiero per via della testa. Ti dico tuttavia che Carmide ha fama di eccellere tra i giovani della sua età non soltanto per la bellezza, ma anche per questa stessa cosa per la quale dici di possedere la formula magica: tu intendi l'assennatezza, o no?» «Certamente», dissi io. «Dunque sappi bene», continuò, «che ha fama di essere di gran lunga il più assennato di quelli di adesso, e in tutto il resto, per l'età che ha raggiunto, non è inferiore a nessuno». «E infatti», dissi io, «è anche giusto, o Carmide, che tu emerga tra gli altri per tutte queste cose; perché credo che nessun altro tra coloro che si trovano qui potrebbe con facilità esibire due famiglie, riunitesi in una stessa, tra quelle di Atene, che abbiano generato da progenitori simili una discendenza più bella e più nobile rispetto a quelle dalle quali sei nato tu.(14) Infatti la vostra famiglia paterna, quella di Crizia figlio di Dropide, (15) ci è stata tramandata come oggetto di encomio da parte di Anacreonte,(16) di Solone (17) e di molti altri poeti, poiché eccelle per bellezza, per virtù e per tutto ciò che è detto felicità; e allo stesso modo poi la famiglia per parte di madre: infatti rispetto a Pirilampe, (18) tuo zio, nessuno tra gli uomini del continente si dice avesse la fama di essere più bello e più prestante, tutte le volte che si recò come ambasciatore o presso il Gran Re o presso qualcun altro personaggio nel continente, ma tutta quanta questa famiglia non fu mai inferiore all'altra. Nato dunque da siffatti antenati, è naturale che tu fossi il primo in tutto. Per quel che concerne gli aspetti visibili della bellezza, caro figlio di Glaucone, mi sembra che non sei inferiore in nulla a nessuno di coloro che sono vissuti prima di te, ma se davvero tu sei dotato per natura di buone capacità sia per assennatezza sia per tutto il resto, come afferma costui, beato, caro Carmide, ti ha generato tua madre», conclusi. «La 3  Platone Carmide  cosa dunque sta così. Se davvero c'è già nel tuo animo, come dice Crizia qui presente, assennatezza, e se sei sufficientemente assennato, non hai nessun bisogno né degli incantamenti di Zalmoxis né di Abari l'Iperboreo, (19) ma a questo punto bisognerebbe darti proprio il rimedio per la testa. Se invece pensi di avere ancora bisogno di queste formule magiche, bisogna fare l'incantamento prima di somministrare il rimedio. Dimmi tu dunque, sei d'accordo su questo punto e affermi di partecipare in modo sufficiente della assennatezza oppure ne avverti la mancanza?». Carmide dunque, essendo in un primo momento arrossito, apparve ancora più bello - e difatti la modestia si addiceva alla sua età - poi con animo non certo vile rispose: disse infatti che non sarebbe stato più facile, lì sul momento, né approvare né negare ciò che gli veniva chiesto. «Se infatti», spiegò, «non dicessi che sono assennato, non solo sarebbe strano che uno dica cose simili di se stesso, ma nel contempo farei passare per bugiardo Crizia qui presente e molti altri ai quali sembro assennato, in base al suo discorso; se poi dicessi che lo sono e lodassi me stesso, forse apparirei insopportabile; sicché non so che cosa risponderti». E io risposi: «Mi sembra che tu dica cose ragionevoli, Carmide. E penso», dissi, «che bisognerebbe cercare insieme se tu possieda o non possieda la cosa che ti sto domandando, affinché tu non sia costretto a dire cio che non vuoi e d'altro canto io non mi volga alla scienza medica in maniera sconsiderata. Se dunque ti è cosa gradita, voglio fare questa ricerca con te, altrimenti lasciar perdere». «Ma tra tutte è la cosa che mi fa più piacere», disse lui, «quindi proprio per questo, conduci la ricerca nel modo che tu ritieni il migliore». «Ecco allora», dissi io, «quale mi sembra il miglior metodo di ricerca su questo argomento. è chiaro infatti che se tu possiedi l'assennatezza, su questa puoi formulare un qualche giudizio. è d'altra parte necessario, quando essa è presente, se davvero c'è, che se ne abbia una qualche sensazione, grazie alla quale potresti avere su questa una qualche opinione, che cosa sia e di quale natura l'assennatezza; o non la pensi così?» «Certo, lo penso», disse. «Ebbene, questa cosa che pensi», dissi, «dal momento che sai parlar greco, potresti senza dubbio dire cosa ti sembra che sia?» «Forse», rispose. «E allora affinché possiamo congetturare se tu l'hai in te oppure no, dimmi», continuai, «che cosa affermi che sia l'assennatezza secondo la tua opinione?». Egli in un primo momento esitava e non voleva assolutamente rispondere, poi però disse che assennatezza a suo parere è fare tutto con ordine e con calma, camminare per le strade e conversare, e tutte le altre azioni allo stesso modo. «E penso», concluse, «in una parola che ciò che mi chiedi sia una certa calma». «è forse giusto ciò che dici?», dissi. «Certo, Carmide, dicono che le persone calme sono assennate. Vediamo se c'è del vero in quello che dicono. Dimmi: l'assennatezza non è tra le cose belle?» «Certo», rispose. «E qual è la cosa più bella nelle lezioni del maestro: scrivere le lettere simili in fretta o con calma?» «In fretta». «E nel leggere? Velocemente o lentamente?» «Velocemente». «E suonare la cetra con velocità e lottare con ritmo serrato non è molto più da virtuosi che farlo con tranquillità e lentamente?» «Sì». «E allora? Nel pugilato e nel pancrazio (20) non avviene la stessa cosa?» «Certo». «Nella corsa, nel salto e in tutti gli altri esercizi del corpo i movimenti fatti con prontezza e rapidità non si addicono al virtuoso, mentre all'inetto quelli fatti a fatica e con tranquillità?» «è evidente». «Dunque ci pare evidente», dissi io, «per quel che concerne il corpo, che non è la calma, ma la massima rapidità e prontezza ad essere la cosa migliore. Non è così?» «Certamente». «Ma l'assennatezza era una cosa bella?» «Sì». «Allora per il corpo non la calma, ma la rapidità sarebbe cosa più assennata, dal momento che l'assennatezza è una cosa bella». «Così sembra », rispose. «E allora?» continuai io. «è più bella la facilità di apprendere o la difficoltà di apprendere?» «La facilità di apprendere». «Ma la facilità di apprendere», chiesi, «significa apprendere rapidamente? E la difficoltà di apprendere significa farlo con calma e lentezza?» «Sì». «Non è più bello insegnare a un altro velocemente e con decisione piuttosto che con calma e lentamente?» «Sì» «E poi? Richiamare alla memoria e ricordare con calma e lentamente è più bello che farlo con decisione e rapidità?» «Con decisione e rapidità», rispose. «La perspicacia non è una certa acutezza dell'animo, e non la calma?» «è vero». «Non è forse vero che se si tratta di comprendere ciò che viene detto, sia a scuola di scrittura sia di cetra e in qualsiasi altro luogo, la cosa più bella non è farlo con la maggior calma possibile, bensì con la maggior rapidità?» «Sì». «Ma certo, nelle ricerche dell'anima e quando essa prende delle decisioni, a sembrare degno di lode non è il più lento nel prendere una decisione e nel trovare una soluzione, a quanto io credo, ma colui che lo fa con la massima facilità e rapidità». «è così», disse. «E in tutte le cose», aggiunsi io, «o Carmide, sia in quelle che riguardano l'anima sia in quelle che riguardano il corpo, le azioni di velocità e prontezza non appaiono più belle rispetto a quelle di lentezza e di calma?» «è possibile», rispose. «Dunque l'assennatezza non è una certa calma né la vita assennata è calma, in base a questo ragionamento, dal 4  Platone Carmide  momento che deve essere bella, se è assennata. Delle due infatti o l'una o l'altra: o mai o assai raramente le azioni calme ci apparvero nella vita più belle di quelle rapide e forti. Se dunque, amico mio, le azioni calme, neppure le più insignificanti, capita che siano più belle di quelle decise e rapide, così neppure l'assennatezza potrebbe essere l'agire con calma piuttosto che in modo forte e rapido, né nell'andatura né nell'eloquio né in nessun'altra situazione, né la vita calma potrebbe essere più assennata di una vita non tranquilla, dal momento che nel discorso l'assennatezza è stata da noi posta tra le cose belle, ma belle sono apparse quelle rapide non meno di quelle tranquille». «Mi sembra ben detto, o Socrate», disse. «E allora», ripresi io, «di nuovo, ponendo più attenzione, o Carmide, dopo aver guardato in te stesso e aver riflettuto su quali effetti la presenza della assennatezza possa avere su di te, e quale debba essere la sua natura per produrre tale effetto, dopo aver dunque riflettuto su tutte queste cose, dimmi con precisione e senza timore, cosa ti sembra che sia?». Ed egli rimase in attesa e, dopo aver riflettuto in se stesso con atteggiamento decisamente virile, «ebbene, mi sembra», disse, «che l'assennatezza faccia vergognare e renda timido l'uomo, e che l'assennatezza sia ciò che di fatto è pudore». «E sia», dissi io, «ma poco fa non ammettevi che l'assennatezza è una cosa bella?» «Certamente», disse. «E che gli assennati sono anche uomini buoni?» «Sì». «Potrebbe allora essere buona una cosa che non rende buoni?» «No, certo». «Non è solo dunque una cosa bella, ma anche una cosa buona». «Per lo meno mi sembra». «E allora?» ripresi io. «Non pensi che Omero aveva ragione quando diceva: "Il pudore non è un buon compagno per l'uomo bisognoso"?» (21) «Sì». «Dunque, parrebbe, il pudore non è un bene ed è un bene». «è evidente». «L'assennatezza è un bene se davvero rende coloro nei quali sia presente buoni, ma non cattivi». «Ma certo, le cose mi sembra che stiano come tu dici». «Dunque assennatezza non potrebbe essere pudore, se davvero la prima si trova ad essere un bene, mentre il pudore non è un bene più di quanto sia un male». «A me, o Socrate, sembra», disse, «che questo sia detto bene: ma prendi in esame questa definizione della assennatezza, come ti sembra che sia. Poco fa infatti mi sono ricordato - è una cosa che sentii già dire da un tale - che assennatezza consisterebbe nel fare ciascuno le proprie cose.(22) Considera dunque se pensi che abbia ragione chi dice questa cosa». E io: «Ah furfante», dissi, «tu hai sentito da Crizia qui presente questa cosa o da qualche altro sapiente!». «Probabilmente da un altro», disse Crizia, «non certo da me». «Ma che differenza fa, o Socrate», disse l'altro, Carmide, «da chi l'ho sentito?» «Nessuna differenza», dissi io, «perché in ogni caso bisogna indagare non chi disse questa cosa, ma se sia detta bene oppure no». «Ora parli bene», disse. «Per Zeus», dissi io, «ma se anche troveremo come sta la cosa, mi meraviglierei, perché somiglia a un enigma». «E perché?» «Perché sicuramente», continuai, «le parole non erano espresse nel senso in cui andava il suo pensiero, quando diceva che assennatezza è "fare le proprie cose". Oppure tu ritieni che il maestro di scrittura non fa niente quando scrive o quando legge?» «Si, certo, lo penso», disse. «Dunque tu pensi che il maestro di scrittura scrive e legge solo il suo proprio nome, o questo insegnava a voi ragazzi; o forse voi non scrivevate i nomi dei nemici non meno dei vostri e dei nomi degli amici?» «Per nulla meno». «Forse che vi impicciavate degli affari altrui e non eravate assennati nel fare questo?» «Assolutamente no». «E certamente non facevate i vostri propri affari, se davvero scrivere e leggere sono fare qualcosa». «Ma certo lo sono». «E infatti il guarire, caro compagno, il costruire case, il tessere e l'eseguire qualsiasi lavoro di tecnica con qualsivoglia arte significa sicuramente fare qualcosa». «Certo». «E allora?» dissi io, «pensi forse che una città sarebbe ben governata da quella legge che impone di tessere e di lavare ciascuno il proprio mantello, di realizzare le scarpe, l'ampolla, lo strigile (23) e tutto il resto in base a questo stesso discorso, senza toccare le cose altrui, ma di lavorare e realizzare ciascuno le proprie?» «Non lo penso», disse lui. «Tuttavia», replicai, «se è governata con assennatezza, dovrebbe essere ben governata». «Come no?», disse. «Dunque assennatezza non potrebbe essere il fare cose di tal genere e fare le proprie cose in questo modo». «Non sembra». «Parlava dunque per enigmi, a quel che sembra, cosa che appunto io dicevo poco fa, colui che diceva che fare le proprie cose è assennatezza; altrimenti era un ingenuo. L'hai sentita dire da uno sciocco dunque questa cosa, o Carmide?» «Minimamente», rispose, «perché anzi aveva fama di essere molto sapiente». «Soprattutto, a quel che penso, proponeva un enigma perché è difficile capire che cosa mai significhi fare le proprie cose». «Forse», disse. «E che cosa sarebbe mai, dunque, il fare le proprie cose? Puoi dirlo?» «Io non lo so, per Zeus», rispose lui, «ma forse nulla impedisce che neppure colui che lo diceva conoscesse ciò che pensava». E mentre diceva queste cose 5  Platone Carmide  sorrideva e guardava a Crizia. Ed era evidente che già da tempo Crizia era agitato e desideroso di farsi valere agli occhi di Carmide e dei presenti: fino a quel momento si era trattenuto, allora non ne fu più capace: mi sembra infatti più che vero, cosa che sospettai, che Carmide avesse sentito da Crizia questa risposta riguardo all'assennatezza. Carmide dunque, poiché non voleva render conto lui della risposta, ma voleva lo facesse l'altro, lo provocava e faceva notare che era stato confutato. L'altro non lo tollerò, ma mi sembrò adirato con lui come un poeta con un attore che recita male i suoi versi. Per cui lo guardò fisso e poi disse: «Sicché, Carmide, pensi che se non sai tu che cosa avesse in mente colui che disse che l'assennatezza è fare le proprie cose, allora neppure lui lo sa?» «Ma, eccellente Crizia», dissi io, «non è affatto una cosa che desta meraviglia, data la sua età, che ignori questa cosa; invece è naturale che tu la sappia, sia per via della tua età sia per i tuoi studi. Se dunque ammetti che l'assennatezza è appunto ciò che costui dice e accogli questo ragionamento, tanto più volentieri io indagherei insieme a te se la definizione è vera oppure no». «Ebbene lo ammetto senz'altro», rispose, «e lo accetto». «E fai bene», dissi io, «ammetti anche ciò che chiedevo poco fa: tutti gli artigiani fanno qualcosa?» «Sì». «E ti sembra che facciano solo le loro cose o anche quelle degli altri?» «Anche quelle degli altri». «Dunque sono assennati, pur non facendo solo le loro cose?» «Infatti, che cosa lo impedisce?» chiese. «Niente, per me almeno», replicai io, «ma bada che l'impedimento non ci sia per colui che, avendo ipotizzato che l'assennatezza è il fare le proprie cose, dice poi che nulla impedisce che anche coloro che fanno le cose degli altri siano assennati». «Io infatti, in un certo senso», disse, «questo l'ho ammesso, che sono assennati coloro che fanno le cose degli altri, se ho ammesso che sono assennati coloro che realizzano le cose degli altri».(24) «Dimmi, tu non chiami con la stessa parola il realizzare e il fare?» «No davvero», disse, «e neppure il lavorare e il realizzare. Ho imparato infatti da Esiodo,(25) il quale diceva che il lavoro non è affatto vergogna. Pensi dunque che egli, se usava, per le occupazioni del genere di cui parlavi poco fa, i termini "lavorare" e "fare", avrebbe detto che non è una vergogna per nessuno fare il calzolaio o il venditore di pesci salati o stare in un bordello? Non bisogna crederlo, Socrate, ma anche lui, a mio parere, pensava che altro è la realizzazione di un'azione, altro la realizzazione di un lavoro, e che mentre un'opera realizzata è a volte motivo di vergogna, quando non è accompagnata dal bello, il lavoro invece non è mai motivo di vergogna: infatti chiamava lavori le cose realizzate in modo bello e utile e le realizzazioni di tal genere le chiamava lavori e azioni. Bisogna dire che riteneva solo tali azioni proprie di ciascuno, mentre riteneva estranee tutte quelle dannose; quindi bisogna pensare che anche Esiodo, come qualsiasi altro uomo di buon senso, definisce assennato chi si occupa delle sue cose». «O Crizia», dissi io, «non appena cominciasti a parlare io capivo, credo, il tuo ragionamento, che chiami buone le cose proprie e personali e azioni le creazioni di tal genere: e infatti ho sentito infinite volte Prodico (26) fare delle distinzioni riguardo ai nomi. Ma io ti concedo di assegnare ogni nome come vuoi; soltanto chiarisci a cosa dài il nome che stai pronunciando. Dunque, ora dài daccapo una definizione più chiara: l'azione o la realizzazione, o come tu vuoi chiamarla, delle cose buone, tu dici che questa è assennatezza?» «Sì», rispose. «Dunque non è assennato colui che compie azioni cattive, bensì colui che compie azioni buone?» «E a te, nobile Socrate», disse, «non sembra così?» «Lascia perdere», dissi, «non indaghiamo su ciò che penso io, ma su ciò che stai dicendo ora tu». «Ebbene», disse, «io affermo che colui che realizza cose non buone ma cattive non è assennato, mentre è assennato colui che realizza cose buone ma non cattive: infatti il compimento di cose buone io te la definisco chiaramente assennatezza». «E certo nulla impedisce che tu abbia forse ragione; tuttavia mi fa meraviglia», dissi io, «il fatto che a tuo parere gli uomini che sono assennati ignorano di essere assennati». «Ma non lo penso», replicò. «Poco prima non è stato detto da te che nulla vieta che gli artigiani, anche quando fanno le cose degli altri, siano assennati?» «è stato detto, certo», disse, «ma che vuol dire questo?» «Niente; ma dimmi se secondo te un medico, quando guarisce qualcuno, fa qualcosa di utile sia per se stesso sia per colui che guarisce». «Sì». «Colui che agisce così non fa forse il suo dovere?» «Sì». «E colui che fa il suo dovere non è assennato?» «è assennato, certo». «Non è allora necessario che il medico sappia quando guarisce in modo utile e quando no? E che ogni artigiano sappia quando può trarre profitto dal lavoro che sta facendo e quando no?» «Forse no». «A volte», dissi io, «dopo aver agito in modo utile o dannoso, il medico non sa egli stesso in che modo abbia agito; eppure, se ha operato in modo utile, secondo il tuo discorso, ha agito in modo assennato. O non è così che dicevi?» «Sì». «Dunque, a quel che sembra, se ha operato in modo utile, agisce assennatamente ed è assennato, ma ignora di se stesso che sia assennato?» «In realtà, o Socrate», ribatté, «questo non potrebbe mai avvenire. Tuttavia se tu pensi, dalle mie precedenti ammissioni, che è inevitabile che ci si accordi su questo, io preferirei ritirare qualcuna di quelle ammissioni, e non mi vergognerei di dire che non ho detto cose esatte, piuttosto di ammettere che un uomo ignori di se stesso che è assennato. Io, per me, infatti, più o meno affermo che assennatezza è proprio questo, conoscere se stessi e sono d'accordo con colui che ha dedicato a Delfi tale iscrizione. 6  Platone Carmide  Penso infatti che questa iscrizione sia posta in modo da rappresentare un saluto del dio a chi entra, in luogo del "Salve", perché questa forma di saluto non è giusta, augurare di star bene, e non bisogna farsi questa esortazione gli uni con gli altri, ma augurarsi dì essere assennati. In qu esto modo dunque il dio rivolge a coloro che entrano nel santuario un saluto differente da quello che usano gli uomini: con questo pensiero fece la dedica colui che la offrì, a mio parere; e dice, a colui che di volta in volta entra nel tempio, nient'altro che "Sii saggio". Certo, parla in una maniera piuttosto enigmatica, come fa un indovino; e infatti "Conosci te stesso" e "Sii saggio" sono la stessa cosa, come indica l'iscrizione (27) e come sostengo anch'io, ma forse qualcuno potrebbe pensarla diversamente, cosa che appunto, a mio avviso, è capitato a coloro che in seguito dedicarono le iscrizioni "Nulla di troppo" (28) e "Garanzia porta guai".(29) Costoro infatti pensarono che "Conosci te stesso" fosse un consiglio, ma non un saluto rivolto dal dio a coloro che entrano; quindi anche loro, per offrire consigli non meno utili, scrissero e dedicarono queste parole. Il fine per cui io dico tutto questo dunque, o Socrate, è il seguente: ti lascio cadere tutto ciò che ho detto prima - in effetti forse su quei punti avevi più ragione tu in qualcosa, forse invece avevo più ragione io, ma nulla di ciò che dicevamo era chiaro -; ora voglio renderti conto di questo, se non ammetti che assennatezza è conoscere se stessi». «Ebbene, Crizia», dissi, «tu con me ti comporti come se io sostenessi di sapere le cose sulle quali pongo delle domande e potessi essere d'accordo con te, solo che lo desiderassi; ma non è così, al contrario, infatti io indago assieme con te di volta in volta il problema che si presenta, perché io stesso non so. Dopo aver indagato, dunque, voglio dire se sono d'accordo o se non lo sono. Suvvia, aspetta finché io non abbia fatto il mio esame». «Fai dunque il tuo esame», disse. «Difatti lo sto facendo», replicai io, «se infatti assennatezza fosse conoscere qualcosa, è chiaro che sarebbe una scienza e una scienza di qualcosa o no?» «Lo è di se stessi», rispose. «Dunque anche la medicina», chiesi, «è scienza della salute?» «Certamente». «Se allora tu mi chiedessi», continuai «"Essendo la medicina scienza di ciò che è sano, in cosa è per noi utile e che cosa procura?", risponderei che è di non poca utilità, perché ci procura un bel risultato, la salute, se accetti questa idea». «Sono d'accordo». «E se poi tu mi domandassi dell'architettura, che è la scienza del costruire, quale risultato a mio dire produca, risponderei che produce le abitazioni; e allo stesso modo anche per le altre arti. Bisogna dunque che anche tu risponda a proposito della assennatezza, dal momento che affermi che essa è conoscenza di se stessi, se ti si chiede: "O Crizia, l'assennatezza, essendo conoscenza di se stessi, quale bel risultato ci procura, e degno del suo nome?". Via, rispondi». «Ma, Socrate», replicò, «la tua ricerca la stai conducendo male: essa infatti non è simile alle altre scienze né le altre scienze si somigliano tra loro. Tu stai invece conducendo la tua ricerca come se esse fossero simili. Perché, dimmi», continuò, «quale risultato del calcolo o della geometria è simile alla casa dell'architettura o al mantello prodotto della tessitura o ad altre opere di tal genere che in gran numero si potrebbero indicare come prodotti di molte arti? Ebbene, puoi mostrarmi anche tu qualche prodotto di queste arti che sia di tal genere? Ma non potrai». E io risposi: «Dici il vero; ma posso mostrarti questo, di cosa sia scienza ciascuna di queste scienze, che si trovi ad essere distinto dalla scienza stessa. Per esempio, il calcolo è la scienza del pari e del dispari, della quantità, come sia rispetto ai pari e ai dispari e tra i pari e i dispari tra loro; (30) o no?» «Certamente», rispose. «Il dispari e il pari, non sono diversi rispetto al calcolo stesso?» «Come no?» «E a sua volta la statica è arte del pesare il peso più pesante e il peso più leggero; tuttavia il pesante e il leggero sono diversi dalla statica stessa. Sei d'accordo?» «Sì». «Di' allora, anche l'assennatezza, di cosa è scienza, che si trovi ad essere diverso dall'assennatezza stessa?» «Questo è il punto», replicò, «o Socrate: tu arrivi allo stesso risultato, cercando in che cosa differisce da tutte le scienze l'assennatezza; ma continui a cercare una certa qual somiglianza di questa con le altre. La cosa però non sta così, al contrario, tutte le altre sono scienze di qualcos'altro, non di se stesse, quella sola invece è scienza delle altre scienze e anche di se stessa. E queste cose certo non ti sono sfuggite; ma, penso, ciò che poco fa affermavi di non fare, lo stai facendo, perché cerchi di confutare, dopo aver lasciato andare l'argomento su cui verte il discorso». «Quale errore fai», dissi, «a pensare che se ti confuto quanto più è possibile, lo faccio per qualche altra ragione che non sia appunto quella per cui esaminerei cosa io stesso stia dicendo, nel timore che, senza avvedermene, io pensi di sapere, mentre non so. E quindi io, per parte mia, dichiaro adesso di fare questo: di esaminare il ragionamento soprattutto nel mio stesso interesse, ma forse anche nell'interesse degli altri amici; o forse non pensi che sia un bene comune per quasi tutti gli uomini che ognuna delle cose che esistono diventi evidente nel suo modo di essere?» «è proprio ciò che penso anch'io, o Socrate», rispose. «Coraggio, dunque», ripresi, «carissimo, rispondendo alla domanda nel modo in cui ti sembra, lascia perdere se sia Crizia o Socrate colui che viene confutato; ponendo invece attenzione al ragionamento stesso esamina in che modo ne verrà fuori, se viene confutato». «Ebbene», concluse, «farò così: le tue parole mi sembrano misurate». «Parla allora», ripresi io, «riguardo all'assennatezza cosa dici?» «Affermo allora», rispose, «che sola tra le altre scienze essa è scienza di se stessa e delle altre scienze». «Ma non sarebbe anche scienza dell'ignoranza», chiesi io, «se lo è anche della scienza?» «Certamente», rispose. «Dunque soltanto l'assennato conoscerà se stesso e sarà in grado di esaminare che cosa egli si dà il caso che sappia e 7  Platone Carmide  che cosa non sa, e sarà capace allo stesso modo di esaminare anche gli altri, che cosa uno sappia o pensi di sapere, se davvero sa, e che cosa poi pensi di sapere ma non sa; lui solo può farlo, nessun altro. Questo significa dunque essere assennati e l'assennatezza: conoscere se stessi e sapere cosa si sa e cosa non si sa. Non è questo ciò che vuoi dire?» «Sì», rispose. «E ancora», ripresi, «con la terza coppa al salvatore, (31) come all'inizio esaminiamo in prima istanza se questa cosa sia possibile oppure no - sapere che si sanno e che non si sanno le cose che si sanno e quelle che non si sanno -; in seconda istanza, se è possibile nel modo più assoluto, quale utilità ne potremmo ricavare noi a saperlo». «Certo, bisogna fare un'indagine», disse. «Via, Crizia», incalzai, «esamina se riguardo a questi argomenti tu non possa apparire in qualcosa più pieno dì risorse di me, perché io sono in difficoltà; ma devo dirti in cosa sono in difficoltà?» «Certo», rispose. «Tutto questo», dissi io, «non sarebbe forse, se davvero è come tu dicevi poco fa, una sola scienza, la quale non è scienza di nient'altro se non di se stessa e delle altre scienze e nello stesso tempo anche della mancanza di scienza?» «Certo». «Vedi dunque in che modo assurdo, caro compagno, ci accingiamo a fare questo ragionamento: infatti se esamini questo stesso punto in altri contesti, ti sembrerà, com'io credo, impossibile». «Come e in quali contesti?» «In questi. Rifletti se a tuo parere esiste una vista che non sia la vista di quelle cose delle quali ci sono altre viste, ma che sia la vista di se stessa e delle altre viste e allo stesso modo delle assenze di vista, e, pur essendo una vista, non veda nessun colore, ma solo se stessa e le altre viste: ti sembra che possa esistere una vista di tal genere?» «Per Zeus, no». «E un udito che non oda nessuna voce, ma che senta invece se stesso e gli altri uditi e le assenze di udito?» «Neppure questo». «Insomma esamina tutte le percezioni, ti sembra che qualcuna sia percezione delle percezioni e di se stessa, ma che delle cose delle quali hanno percezione le altre sensazioni, non abbia nessuna percezione?» «Non lo penso». «Ma ti sembra che esista un desiderio che non sia desiderio di nessun piacere, ma di se stesso e degli altri desideri?» «No davvero». «Neppure una volontà, com'io credo, che non voglia nessun bene, ma voglia solo se stessa e le altre volontà». «No, certo». «Potresti affermare che esista un amore tale che si trovi ad essere amore di nessuna bellezza, ma di se stesso e degli altri amori?» «No», rispose. «E hai già osservato una qualche paura che tema se stessa e le altre paure, ma non tema neppure una sola delle cose terribili?» «Non l'ho notata», rispose. «Un'opinione che sia opinione di opinioni e di se stessa, ma che sulle cose sulla quali opinano le altre opinioni non opini?» «In nessun modo». «Ma, a quel che sembra, affermiamo che esiste una scienza di tal genere che non è scienza di nessuna disciplina: non è scienza di nulla, ma è scienza di se stessa e delle altre scienze?» «Lo affermiamo infatti». «Non è assurdo, se davvero esiste? Dunque non affermiamo ancora con fermezza che non esiste, esaminiamo piuttosto ancora se esiste». «Dici bene». «Vediamo dunque: questa scienza è scienza di qualcosa e ha un potere tale da esserlo di qualcosa, o no?» «Certamente». «E difatti noi affermiamo che ciò che è maggiore ha un potere tale da essere maggiore di qualcosa?» «Difatti lo ha». «E di qualcosa che è minore, se davvero è maggiore?» «Necessariamente». «Se dunque trovassimo qualcosa di maggiore che fosse maggiore delle cose maggiori e di se stesso, ma che non fosse maggiore di nessuna di quelle cose rispetto alle quali le altre sono maggiori, certamente gli toccherebbe, se davvero è maggiore di se stesso, di essere anche minore di se stesso; o no?» «Assolutamente inevitabile, o Socrate», rispose. «Ancora, se qualcosa è doppio delle altre cose doppie e di se stesso, sarebbe dunque il doppio di una metà che è sia se stesso sia gli altri doppi: (32) e difatti non c'è doppio di altro che della metà». « è vero». «Essendo dunque più di se stesso, non sarà anche meno? Ed essendo più pesante più leggero, ed essendo più anziano più giovane e in tutto il resto allo stesso modo? La cosa che abbia la propria potenza in rapporto a se stessa, non avrà anche quella essenza con la quale era in rapporto la sua potenza? Voglio dire questo: per esempio l'udito, diciamo, non era udito di altro se non del suono, o no?» «Sì». «Se dunque sentirà se stesso, sentirà se stesso perché provvisto di suono, altrimenti non si udrebbe». «Decisamente inevitabile». «E la vista, nobile uomo, se davvero essa vedrà se stessa, deve necessariamente avere essa stessa un colore, perché una vista non potrebbe mai vedere niente che sia incolore». «No, certo». «Vedi dunque, o Crizia, che quante cose abbiamo esposto, alcune ci sono parse assolutamente impossibili, su altre ci sono forti dubbi che possano avere su loro stesse il loro stesso potere? Infatti per le grandezze, le quantità e altre cose di tal genere è assolutamente impossibile; o no?» «Certamente». «L'udito poi e la vista e ancora lo stesso movimento che possa muovere se stesso e il calore bruciare e tutte le altre 8  Platone Carmide  cose del genere in alcuni potrebbero provocare incredulità, in altri forse no. C'è bisogno, mio caro, di un grande uomo che distinguerà adeguatamente, per tutti i casi, se nessuna delle cose esistenti abbia per natura il suo potere essa su se stessa, ma su altro alcune sì e altre no; e s e poi esistono alcune cose che hanno potere su se stesse, se tra queste c'è la scienza che noi diciamo essere appunto l'assennatezza. Io non mi credo capace di fare queste distinzioni: perciò non posso sostenere fermamente ne se sia possibile che avvenga questo, che esista una scienza della scienza, né, nel caso sia precisamente così, accetto che questa stessa cosa sia l'assennatezza, prima che io abbia esaminato se, essendo di tale natura, possa esserci utile o no. Infatti che l'assennatezza sia qualcosa di utile e di buono lo indovino. E tu dunque, figlio di Callescro - giacché stabilisci che l'assennatezza è questo, scienza di una scienza e quindi anche di una mancanza di scienza - per prima cosa mostra che è possibile ciò che poco fa io dicevo, in secondo luogo che oltre ad essere possibile è anche utile; e forse potresti anche soddisfare me, con l'idea che sia giusta la definizione che dài dell'assennatezza». E Crizia, udite queste parole e avendomi visto in difficoltà, come accade a coloro che, nel vedere delle persone sbadigliare, ne condividono il bisogno, anche lui mi sembrò costretto dal mio essere in difficoltà e preso egli stesso dall'imbarazzo. Poiché dunque in ogni occasione si faceva onore, provava vergogna davanti ai presenti, e non voleva concedermi di non essere capace di distinguere le cose sulle quali io lo avevo chiamato a fare distinzioni, e non diceva nulla di preciso, cercando di nascondere l'imbarazzo. E io, per far proseguire il nostro ragionamento, dissi: «Ma se è opportuno, o Crizia, ammettiamo pure ora questo dato, che è possibile che esista una scienza della scienza; esamineremo di nuovo se è così o no. Suvvia, posto che questo sia assolutamente possibile, in cosa allora è maggiormente possibile sapere quel che uno sa o quale che non sa? Dicevamo (33) infatti che questo è appunto conoscere se stessi ed essere assennati; o no?» «Certo», rispose, «e in certo qual modo ne consegue, Socrate; infatti se uno possiede una scienza che conosce se stessa, sarebbe della stessa natura della cosa che possiede: come per esempio quando uno ha la velocità, veloce, quando ha la bellezza, è bello, e quando ha la conoscenza, è uno che conosce; quando però uno abbia una conoscenza che conosca se stessa, in certo qual modo sarà allora egli stesso conoscitore di se stesso». «Non discuto questo», ribattei io, «che quando un uomo possieda una cosa che conosce se stessa, non conoscerà egli stesso se stesso, ma che necessità c'è che colui che abbia questa cosa sappia ciò che sa e ciò che non sa?» «Perché queste due cose sono identiche, Socrate». «Forse», ribattei, «ma ho paura di essere sempre allo stesso punto, perché non capisco come possa essere lo stesso il sapere ciò che si sa e il sapere ciò che non si sa».(34) «Come dici?», chiese. «Dico questo», risposi, «una scienza che in qualche modo è scienza di scienza sarà in grado di distinguere di più rispetto al dire: di queste cose l'una è scienza, mentre l'altra non è scienza?» «No, ma solo questo». «Dunque vale lo stesso per la scienza e per l'ignoranza del sano, e per la scienza e l'ignoranza del giusto?» «In nessun modo». «Ma l'una, credo, è la medicina, l'altra la politica, mentre quest'altra non è nient'altro che scienza». «Come no, infatti». «Se dunque uno non aggiunge il sano e il giusto, ma conosce solo la scienza, dal momento che ha soltanto la scienza di questo, potrebbe ragionevolmente conoscere, riguardo a se stesso e riguardo agli altri, che sa una cosa e possiede una scienza, o no?» «Sì». «Ciò che conosce grazie a questa scienza come lo saprà? Infatti conosce ciò che è sano grazie alla medicina, ma non grazie all'assennatezza, ciò che è armonico grazie alla musica, ma non grazie all'assennatezza, ciò che riguarda le costruzioni grazie all'architettura, ma non grazie all'assennatezza, e così via, o no ?» «è evidente». «Ma grazie all'assennatezza, se davvero è soltanto scienza delle scienze, come saprà che conosce ciò che è sano o ciò che riguarda le costruzioni?» «In nessun modo». «Dunque colui che ignora queste cose non saprà ciò che sa, ma saprà soltanto che sa». «Sembra». «Né l'essere assennati né l'assennatezza sarebbero dunque questo: sapere le cose che si sanno e le cose che non si sanno, ma, come sembra, soltanto che si sa e che non si sa». «è probabile». «Né costui sarà capace di esaminare se un altro, che va dicendo di conoscere qualcosa, sa ciò che dice di sapere o non lo sa; ma conoscerà questo soltanto, a quanto sembra, che possiede una scienza, di cosa però l'assennatezza non glielo farà conoscere». «Non pare». «Non sarà in grado di distinguere colui che si spaccia per medico ma non lo è e chi invece lo è realmente, né nessun altro di coloro che sanno e non sanno. Esaminiamo dunque da qui: se l'assennato, o chiunque altro voglia riconoscere il vero medico e colui che non lo è, non si comporterà dunque in questo modo. Non gli parlerà certo di medicina- perché il medico, come dicevamo, non si intende di nient'altro che non sia la salute e la malattia - o no?» «Sì, è così». «Di scienza invece non sa nulla, questa la attribuimmo infatti all'assennatezza soltanto». «Sì». «Né di medicina sa nulla il medico, dal momento che la medicina si dà il caso che sia appunto una scienza». «è vero». «Che dunque il medico possiede una scienza, l'assennato lo comprenderà; poiché tuttavia bisogna sperimentare quale sia, non esaminerà forse di quali cose sia scienza? O non è forse vero che, grazie a questo, di ogni scienza viene 9  Platone Carmide  stabilito non soltanto che sia scienza ma anche uale scienza sia, grazie cioè al fatto che è scienza di qualcosa?» «Grazie a questo, certo». «E la medicina viene definita diversa dalle altre scienze, per il fatto che è scienza del sano e del malato». «Sì». «Dunque colui che voglia indagare sulla medicina non deve forse ricercare all'interno di quelle situazioni nelle quali la medicina sia presente e certo non in quelle esterne alla medicina o nelle quali questa non sia contemplata?» «Certo non in queste». «In ciò che è sano e in ciò che è malato dunque colui che fa un'indagine corretta esaminerà il medico, in quanto medico». «è naturale». «Indagando dunque nelle parole dette e nelle azioni compiute in questo modo: le parole, per vedere se sono ben dette, le azioni, per vedere se sono ben fatte?» «Necessariamente». «Senza la medicina potrebbe qualcuno prestare attenzione all'una o all'altra di queste due cose?» «No davvero». «Nessun altro potrebbe farlo, com'è naturale, tranne un medico, neppure un assennato, perché dovrebbe essere un medico in aggiunta all'assennatezza». «è così». «Soprattutto, se l'assennatezza è soltanto la scienza della scienza e dell'ignoranza, non sarà in grado di distinguere né un medico che conosce i princìpi della sua arte o colui che non li conosce ma pretende di conoscerli o pensa di conoscerli, né nessun altro di coloro che conoscono una scienza e qualsiasi cosa sappiano, a meno che non si tratti di una persona che condivida la sua arte, come gli altri artigiani». «è evidente», disse. «Quale vantaggio dunque», dissi, «Crizia, potremmo ancora ricavare da una assennatezza che sia di tal fatta? Se infatti, ipotesi che facevamo all'inizio, l'assennato sapesse ciò che sa e ciò che non sa, e sapesse queste cose di saperle e queste altre di non saperle, e fosse in grado di esaminare un altro che si trovi in questa stessa situazione, ci sarebbe di grandissima utilità, diciamo, essere assennati: vivremmo esenti da errore noi stessi che possediamo l'assennatezza e tutti gli altri quanti fossero governati da noi. E difatti non ci metteremmo a fare cose che non conosciamo, ma, cercando persone che sappiano, le affideremmo a loro, né permetteremmo agli altri, sui quali esercitiamo un comando, di fare nient'altro se non ciò che potrebbero fare bene: e questo sarebbe ciò di cui abbiano scienza; e così, una casa amministrata dall'assennatezza sarebbe ben amministrata, una città ben governata e ogni altra cosa sulla quale eserciti un potere l'assennatezza: rimosso l'errore, e facendo d'altra parte da guida la correttezza, in ogni azione è necessario che coloro che si trovano in queste condizioni abbiano buona fortuna e d'altra parte, avendo buona fortuna, siano felici. Non è questo», dissi, «Crizia, che intendevamo a proposito dell'assennatezza, dicendo quale grande bene sarebbe conoscere ciò che si sa e ciò che non si sa?» «Certamente», rispose: «è così». «Ora», ripresi io, «vedi che non è apparsa in nessun luogo nessuna scienza di questo tipo». «Lo vedo», disse. «Non ha forse questo di buono», continuai, «la scienza che ora stiamo cercando, l'assennatezza, il conoscere la scienza e l'ignoranza: che quando uno la possiede, qualsiasi altra cosa apprenda, la apprenderà più facilmente e tutto gli apparirà più chiaro, dato che, in aggiunta a ogni cosa che apprenda, (35) avrà la visione della scienza, ed esaminerà meglio gli altri sulle cose che egli stesso abbia appreso, mentre gli altri, conducendo l'esame senza la scienza, lo faranno in maniera più debole e mediocre? Sono questi, caro amico, i tipi di vantaggi che otterremo dall'assennatezza, mentre noi miriamo a qualcosa di più grande e desideriamo che questo stesso qualcosa sia maggiore di quanto sia?» «Forse è così», rispose. «Forse», dissi io, «forse però noi non cercammo niente di utile. Faccio questa congettura perché mi appaiono certi strani fatti riguardo all'assennatezza, se è di tal fatta. Vediamo, dunque, se vuoi: avendo ammesso che è possibile conoscere la scienza e ciò che all'inizio ponevamo essere l'assennatezza, cioè conoscere ciò che si sa e ciò che non si sa, non neghiamolo, ma concediamolo; e dopo aver accettato tutte queste cose, esaminiamo ancora meglio se, essendo tale, ci porterà anche qualche vantaggio. Infatti non mi sembra, o Crizia, che abbiamo fatto bene ad ammettere ciò che dicevamo poco fa, che l'assennatezza, se fosse tale, sarebbe un gran bene, facendo da guida all'amministrazione sia della casa sia della città». «Come mai?» domandò. «Perché», risposi, «ammettemmo con facilità che è un grande bene per gli uomini se ognuno di noi facesse le cose che sa, mentre quelle che non sa le affidasse ad altri che le conoscano». «Dunque non facemmo bene ad ammetterlo?» «No, non mi sembra», risposi io. «Dici cose strane veramente, o Socrate», commentò. «Per il cane!», (36) esclamai. «Anche a me sembra così, e avendo rivolto là lo sguardo anche poco fa, dicevo che mi si mostravano davanti alcune cose strane e che temevo che la nostra ricerca non fosse esatta. Infatti veramente, se l'assennatezza è esattamente tale, non mi sembra per nulla chiaro quale vantaggio essa ci arrechi». «E come mai?», disse lui. «Parla, affinché sappiamo anche noi ciò che vuoi dire». «Penso», dissi io, «di star sragionando; bisogna tuttavia esaminare l'idea che mi si presentava e non rifiutarla con leggerezza, se uno si preoccupa almeno un po' di se stesso». «Parli bene», disse. 10  Platone Carmide  «Ascolta dunque», continuai, «il mio sogno, sia esso venuto attraverso la porta di corno o attraverso quella di avorio.(37) Se infatti l'assennatezza esercitasse su di noi il massimo potere, essendo quale ora la definiamo, forse tutto verrebbe fatto in base alle scienze, e nessun nocchiero, che affermi di essere tale senza esserlo, potrebbe ingannarci, né medico né stratego né nessun altro che finga di sapere qualcosa che non sa, potrebbe farla franca; dal momento che le cose stanno così, potrebbe accaderci qualcos'altro se non che saremo fisicamente più sani di ora e ci salveremo nei pericoli, sia in mare sia in guerra e avremo gli utensili, la veste, tutti i tipi di calzature e ogni oggetto fabbricato con arte e molte altre cose, dal momento che ci serviamo di abili artigiani? Se vuoi, ammettiamo che anche la mantica sia la scienza di ciò che deve avvenire e l'assennatezza, che è ad essa preposta, tolga di mezzo i ciarlatani, e invece stabilisca i veri indovini quali profeti del futuro. Che così disposto il genere umano potrebbe agire e vivere sapientemente, lo capisco - infatti l'assennatezza, stando di guardia, non permetterebbe che l'ignoranza, sopravvenendo, fosse nostra collaboratrice -, ma che agendo sapientemente avremmo fortuna e saremmo felici, questo invece non siamo ancora in grado di capirlo chiaramente, caro Crizia». «Tuttavia», riprese, «non troverai facilmente un altro fine (38) dell'avere fortuna, se rifiuti l'agire secondo la scienza». «Insegnami allora ancora una piccola cosa», dissi io, «secondo la scienza di cosa intendi? Forse del taglio del cuoio?» «Per Zeus, no». «Allora della lavorazione del bronzo?» «Niente affatto». «Allora della lana, del legno o di altro materiale del genere?» «No davvero». «Dunque non rimaniamo fermi al ragionamento secondo cui chi vive secondo la scienza è felice. Infatti costoro, nonostante che vivano secondo la scienza, tu non ammetti che siano felici, ma mi sembra che tu limiti l'uomo felice a colui che vive secondo la scienza di determinate cose. E forse ti riferisci a colui che menzionavo poco fa, colui che conosce tutto ciò che sta per avvenire, l'indovino. Ti riferisci a lui o a qualcun altro?» «A lui», rispose, «e a un altro». «Chi?», domandai. «Forse un uomo del genere, se oltre a conoscere il futuro conoscesse anche tutte le cose passate e quelle presenti e non ignorasse nulla? Poniamo che un tal uomo esista. Non potresti infatti, penso, dire che ci sia al mondo qualcuno che vive con più scienza di lui». «No, certo». «Desidero inoltre sapere questo, quale tra le scienze lo rende felice? O forse tutte nella stessa misura?» «Nient'affatto nella stessa misura», rispose. «Ma quale più di tutte? Grazie alla quale, cosa sa tra le cose presenti, quelle passate e quelle future? Forse quella grazie alla quale conosce il gioco degli scacchi?» (39) «Ma quale gioco degli scacchi?», esclamò. «Allora quella grazie alla quale conosca il calcolo?» «Nient'affatto». «Allora quella per cui conosce ciò che è sano?» «Piuttosto», rispose. «Ma qual è quella scienza alla quale faccio particolare riferimento», continuai, «grazie alla quale, cosa può conoscere?» «Quella per cui conosce il bene e il male». «Ah furfante», esclamai, «da tempo mi porti in giro, nascondendomi che non era il vivere secondo scienza a fare la fortuna e la felicità, né è prerogativa di tutte le altre scienze insieme, ma di una sola, che è soltanto quella che tocca il bene e il male. Perché, Crizia, se toglierai questa scienza dalle altre scienze, forse la medicina farà guarire un po' meno, l'arte del calzolaio farà calzare meno scarpe, la tessitura vestire meno, l'arte del nocchiero impediràmeno di morire in mare e quella dello stratego in guerra?» «Non meno», rispose. «Ma, caro Crizia, che ognuna di queste cose avvenga bene e in modo utile ci verrà a mancare, se questa scienza è assente». «Quel che dici è vero». «Questa scienza dunque, a quel che sembra, non è l'assennatezza, ma quella la cui funzione è di esserci utile. Infatti non è la scienza delle scienze e delle non scienze, ma del bene e del male: cosicché, se dunque la scienza utile è quest'ultima, l'assennatezza per noi sarebbe qualcosa di diverso». «Perché», chiese, «non potrebbe esserci utile? Infatti se l'assennatezza è in modo particolare scienza delle scienze, presiede anche le altre scienze, e, avendo potere anche su questa, cioè la scienza del bene, dovrebbe esserci utile». «Quale fa guarire?», chiesi. «Questa? E non la scienza medica? E le altre opere delle arti le compie questa e non le altre arti, ciascuna la propria? Non abbiamo invece stabilito da tempo che essa è unicamente scienza della scienza e della mancanza di scienza e di nient'altro, non è così?» «Almeno pare». «Non sarà dunque artefice di salute?» «No, certo». «La salute era infatti opera di un'altra arte, o no?» «Si, di un'altra». «Né dunque sarà artefice di utilità, caro compagno: perché poco fa attribuimmo a un'altra arte questo compito, è vero?» «Certo». «In che modo sarà dunque utile l'assennatezza, se non è artefice di nessuna utilità?» «In nessun modo, o Socrate, almeno sembra». «Vedi dunque, o Crizia, come a ragione tempo fa io temessi e a buon diritto mi rimproveravo di non aver condotto un'indagine utile sull'assennatezza? (40) Infatti la cosa che per generale ammissione è tra tutte la più bella non ci sarebbe apparsa priva di utilità, se io fossi stato di qualche utilità alla realizzazione di una buona ricerca. Ora siamo invece battuti su tutti i fronti e non siamo in grado di scoprire per quale delle realtà esistenti il legislatore (41) pose questo nome, l'assennatezza. Eppure abbiamo ammesso molte cose che non conseguivano al nostro ragionamento. 11  Platone Carmide  Infatti ammettemmo che è scienza della scienza, nonostante che il ragionamento non lo permettesse e affermasse che non è così; concedemmo poi a questa scienza di conoscere anche i compiti delle altre scienze, nonostante che neppure questo ammettesse il ragionamento, affinché l'assennato potesse diventare per noi uno che sa di sapere quello che sa e di non sapere quello che non sa. E questo lo ammettemmo con grande generosità, senza riflettere sul fatto che è impossibile che uno possa in qualsiasi modo sapere cose che non sa assolutamente; la nostra ammissione infatti dice che si sa ciò che non si sa. Eppure, com'io credo, non c'è nulla rispetto a cui questo non potrebbe apparire più assurdo. Tuttavia la ricerca, che ci ha trovati così disponibili e non inflessibili, n on è maggiormente in grado di trovare la verità, anzi tanto l'ha derisa che ciò che noi da tempo, cercando un accordo ed elaborando insieme, stabilimmo essere l'assennatezza ci appariva manifestamente, con grande insolenza, inutile. Dunque io, per parte mia, mi indigno meno; ma per te», continuai, «o Carmide, sono molto indignato, se tu, che sei tale per aspetto e oltre a ciò molto assennato nell'animo, non trarrai nessuna utilità da questa assennatezza, né ti sarà di alcuna utilità la sua presenza nella vtia. Ma ancora di più mi indigno per la formula magica che imparai dal Trace, (42) se, mentre è di nessun valore pratico, ci misi tanto zelo ad impararla. Ebbene, non credo che le cose stiano così, ma che io sono un ricercatore mediocre; perché, penso, l'assennatezza è un gran bene e se davvero la possiedi, sei un uomo beato. Via, guarda se l'hai e non hai nessun bisogno della formula magica, perché se la possiedi, io ti consiglierei piuttosto di ritenere me un chiacchierone, incapace di ricercare col ragionamento alcunché, te invece quanto più assennato tanto più felice». E Carmide, «Ma per Zeus», disse, «io non so né se la possiedo né se non la possiedo: come potrei sapere ciò che neppure voi siete capaci di trovare cosa mai sia, come tu affermi? Io non sono tuttavia molto persuaso da te, e per parte mia, o Socrate, credo di avere molto bisogno della formula magica e per quel che concerne me nulla impedisce che venga incantato da te tanti giorni finché tu dica che è sufficiente». «E sia: tuttavia, o Carmide», disse Crizia, «se lo farai, questa sarà per me la prova che sei assennato, nel caso tu ti sottoponga all'incantamento di Socrate e non ti allontani da lui né molto né poco». «Stai sicuro che lo seguirò e non lo lascerò», rispose, «perché mi comporterei in modo terribile, se non obbedissi a te, il tutore, e non facessi ciò che mi ordini». «Ebbene», ribatté l'altro, «io te lo ordino». «Lo farò», rispose, «a partire da questo stesso giorno». «Voi due», intervenni io, «che cosa state decidendo di fare?» «Nulla», rispose Carmide, «abbiamo già deciso». «Allora mi costringerai», esclamai, «e non mi concederai la possibilità di un'inchiesta?» (43) «Stai sicuro che ti costringerò, dal momento che costui me lo ordina; in considerazione di ciò decidi tu cosa farai». «Ma non resta nessuna decisione», dissi io, «infatti se tu ti metti a fare qualsiasi cosa e usi la forza, nessun uomo sarà capace di contrastarti». «No, certo», ribatté: «non opporti neppure tu». «Allora non mi opporrò», dissi io. 12  Platone Carmide  NOTE: 1) è la lezione "ecomen" adottata dall'editore Burnet (altri editori leggono, al singolare, "econ men"). 2) Colonia corinzia, entrata nella Lega navale delio-attica. Atene le impose di rinunciare ai suoi legami con la madrepatria Corinto, la quale annualmente inviava a Potidea un magistrato (epidamiurgo), incaricato di partecipare al governo della città. Il rifiuto di Potidea alle richieste ateniesi costituisce uno dei casus belli che porteranno allo scoppio della guerra del Peloponneso. L'assedio di Potidea, da parte del contingente ateniese guidato da Callia, durò dal 432 al 429 a.C. (cfr. Tucidide, 1, 56-66). Nell'Apologia (28e) Socrate ricorda agli Ateniesi la sua fedeltà, da lui dimostrata sul campo a Potidea, appunto, ad Anfipoli e a Delio. 3) Si tratta evidentemente di un istruttore, di cui non sappiamo altro. 4) Antica divinità ateniese, nel cui santuario venivano onorati anche Codro e Neleo. Il santuario si trovava probabilmente a sud dell'Acropoli. 5) Cherefonte, del demo attico di Sfetto, è ricordato come amico di Socrate già da Aristofane (Nubes 104) e da Senofonte (Memorabilia primo 2, 48). Compare come interlocutore anche nel Gorgia. Esponente politico di parte democratica, viene esiliato dai Trenta Tiranni nel 404 a.C., rientra ad Atene nel 403, con Trasibulo. Nel 399, anno dei processo e della morte di Socrate, Cherefonte era già morto (cfr. Apologia Socratis 21a). A lui la Pizia diede il famoso responso che indicava in Socrate il più saggio degli uomini. La Suida accenna a presunte opere di Cherefonte, perdute tuttavia già nell'antichità. 6) Callescro era fratello di Glaucone, nonno materno di Platone. 7) Carmide era infatti figlio di Glaucone, a sua volta fratello di Callescro, il padre di Crizia (cfr. la nota precedente). Figlia di Glaucone era Perictione, madre di Platone. Platone era pertanto nipote di Carmide, e figlio della cugina di Crizia. 8) Cfr. Sofocle, frammento 330 Radt: «su pietra bianca cordicella bianca». I carpentieri che normalmente usano per le misurazioni una cordicella rossa considerano la cordicella bianca strumento non funzionale per la misurazione e pertanto inutilizzabile. Socrate si definisce dunque "cordicella bianca", giudice non funzionale, per questa sua tendenza a considerare tutti belli i giovani nel fiore degli anni. Ma Carmide, come dimostreranno già le prime battute sul suo arrivo, smantellerà completamente questa convinzione del maestro. 9) La discendenza di Carmide e di Crizia da Solone passa attraverso Dropide, padre di Crizia il vecchio, che era nonno di Carmide e del nostro Crizia (cfr. 157e; Timaeus 20e). Secondo Diogene Laerzio, Volume 3, 1, e Proclo, In Platonis Timaeum 26b, Dropide era fratello di Solone. Solone fu arconte ad Atene nel 594/593 a.C. (Diogene Laerzio, Volume 1, 62) o nel 592/591 a.C. (Aristotele, Respublica Atheniensium 14, 1). Abolì i debiti e liberò dalle ipoteche i beni dei debitori, restituendo la libertà a coloro che, insolventi, avevano acceso ipoteche sulla propria persona. Riformò il sistema dei pesi e delle misure e introdusse una moneta più leggera, con una svalutazione che favoriva in modo particolare i debitori. Nella vecchia ripartizione in classi dei cittadini ateniesi aggiunse la classe dei pentacosiomedimni. Fu scrittore di elegie (5.000 versi, secondo Diogene Laerzio, Volume 1, 61), poesie giambiche ed epodi. 10) Poeta lirico forse da identificare col Cidia, accostato da Plutarco nei Moralia a Mimnermo e Archiloco (De facie in orbe lunae 19, 931e). 11) Il principio qui esposto, della corrispondenza della parte e delle parti col tutto nell'organismo umano, è alla base della terapia della medicina ippocratica. Nel Corpus Hippocraticum è compreso un trattato (Sul regime di vita). 12) Divinità dei Traci, identificato da Mnasea (in Fozio, s.v. "Zalmoxis") con il dio greco Crono. Erodoto (quarto, 94-96) racconta che prima di essere dio fu uomo, schiavo di Pitagora a Samo. Acquistata la libertà, tornò in Tracia, dove annunciò ai cittadini eminenti che tutti i loro discendenti sarebbero vissuti in eterno e avrebbero avuto ogni bene. Queste notizie, che Erodoto ha raccolto tra i Greci dell'Ellesponto, servivano forse a sottolineare le analogie tra sciamanismo e pitagorismo. Erodoto tuttavia si mostra scettico e ristabilisce la giusta cronologia, dichiarando che Zalmoxis è in realtà vissuto prima di Pitagora. Cfr. E.R. Dodds, I Greci e l'irrazionale, Firenze, 1959, pagine 159-209. 13) Per il senso più ampio da attribuire al termine greco "sophrosúne" cfr. quanto osservato nella premessa al dialogo. 14) Cfr. le note 7 e 8. 15) Cfr. la nota 9. 16) Anacreonte nacque a Teo, in Asia Minore, intorno al 570 a.C., e morì nel 485 a.C. Visse alla corte di Policrate dì Samo (tiranno dal 533 al 522 circa) e, dopo la morte di questi, in Tessaglia e ad Atene. Fu autore di componimenti in metro elegiaco, giambico e in metri lirici quali l'anacreontico, il gliconeo, il ferecrateo. 17) Del Crizia antenato del Crizia del quinto secolo parlano in effetti due versi di Solone (frammento 22 Gentili- Prato). 18) Pirilampe, figlio di Antifonte, fu amico di Pericle (Plutarco, Pericles 13). Era famoso per i suoi allevamenti di pavoni che probabilmente aveva portato dalla Persia. Viene inoltre ricordato dalle fonti come secondo marito di Perictione, madre di Platone. 19) Abari è sciamano e taumaturgo, che Erodoto (4, 36) definisce sacerdote di Apollo. Pindaro (frammento 283 Bowra) lo assegna all'età di Creso (560-546 a.C.). Di lui si raccontava che viaggiasse senza mai mangiare e che portasse con sé una freccia donatagli da Apollo. Secondo il lessico Suida(s.v.) venne in delegazione ufficiale dal paese degli 13  Platone Carmide  Iperborei ad Atene al tempo della terza Olimpiade. Abari, come Zalmoxis e Pitagora, è un altro esempio di ponte gettato, nell'immaginario antico, tra Oriente e Occidente. 20) Combattimento combinato di lotta ("pále"), e pugilato ("pugme"). Gara particolarmente pericolosa, ammetteva praticamente ogni genere di colpo; era tuttavia proibito mordere ed accecare l'avversario. Cfr. Platone, Euthydemus 271c-272a. 21) Cfr. Odyssea libro 17, verso 347. 22. Cfr. frammento Diels-Kranz 88B 41a. Che la definizione sia di Crizia è confermato dalla reazione indispettita che Platone gii attribuisce in 162c. Si tratta di una formula che Platone considerava evidentemente momento essenziale del percorso di ricerca della definizione ultima di "sophrosúne". In Crizia la definizione doveva avere una valenza specificamente politica e riflettere il «settarismo esclusivista di una concezione di vita che sprofondava le sue radici nell'antica etica aristocratica» (A. Battegazzore, in Sofisti. Testimonianze e frammenti, volume 4, a cura di M. Untersteiner e A. Battegazzore, Firenze 1962, pagina 339). 23) Lo strigile era uno strumento impiegato nella palestra per raschiare dal corpo l'olio e la sabbia. Probabilmente c'è qui un riferimento polemico a Ippia di Elide (cfr. Hippias minor 368b-d), il quale si faceva sostenitore dell'autarchia e ad Olimpia esibì un anello, un sigillo, uno strigile, un'ampolla, calzari, un mantello, e perfino una tunica e una cintura di foggia persiana, interamente realizzati da lui. 24) Ai verbi "pratto" e "poieo" va dato il diverso significato di 'fare' e di 'realizzare', essendo il primo non necessariamente collegato con una realizzazione di oggetti che è invece implicita nel verbo "poieo", come anche nel verbo "érgazestai" 'lavorare', che Platone impiega qualche riga più in basso (A. Braun, I verbi del «fare» nel greco, in «Studi italiani di filologia classica» 15, 1939, pagine 260-261). 25) Esiodo, Opera et dies 311. La formulazione anticipa uno dei princìpi del l'etica attivistica periclea, nel "manifesto" della democrazia ateniese riportato da Tucidide, 2,40,; cfr. D. Musti, Storia greca. Linee di sviluppo dall'età micenea all'età romana, Bari-Roma 1994, pagina 208; Idem Demokratia. Origini di un'idea. Bari-Roma 1995, pagine 104-105. 26) Prodico dì Ceo, sofista contemporaneo di Socrate, nato probabilmente nel 465 e morto nel 400 a.C., scrisse le "Orai" (Ore o Stagioni), e un'opera "Sulla natura". Viaggiò in molte città greche come ambasciatore e spesso ad Atene, dove offriva ai giovani che seguivano il suo insegnamento la possibilità di optare tra lezioni da una dracma e lezioni da cinquanta dracme. Le sue ricerche, tra le altre cose, vertevano sulla definizione dei sinonimi. Cfr. Platone, Hippias maior 282c. 27) L'iscrizione sull'architrave del santuario di Apollo a Delfi aveva probabilmente un significato religioso, di ammonimento al visitatore affinché ricordasse la sua condizione mortale. 28) Cfr. Teognide, 335 e 401. 29) Proverbio cui fa riferimento in un frammento anche il commediografo Cratino. 30) Cfr. Platone, Gorgias 451b-c. 31) Espressione proverbiale, usuale nei banchetti. Si invoca questo terzo brindisi (a Zeus Salvatore), il decisivo, perché decisivo ci si augura che sia il terzo tentativo di definizione della "sophrosúne". 32) Passo di difficile interpretazione, per cui il tutto suonerebbe: «se qualcosa è doppio di altri doppi e di se stesso, sarebbe doppio essendo quindi metà sia di se stesso sia degli altri doppi», oppure come proposto nel testo. 33) Cfr. 167a. «Dunque soltanto l'assennato conoscerà se stesso...». 34) Non è a mio parere necessario aggiungere al testo «con il conoscere se stessi», coma propone Diano, né espungere, come fanno vari filologi, la parte finale della frase «il sapere ciò che si sa e il sapere ciò che non si sa». 35) Cfr. Platone, Laches 182b-c. 36) Esclamazione che Socrate usa frequentemente (cfr. per esempio Apologia Socratis 22a). 37) Cfr. Omero, Odyssea libro 19, 560-567: attraverso la porta di corno passano i sogni veritieri inviati agli uomini dagli dèi, attraverso la porta di avorio passano invece i sogni falsi. 38) "Telos" significa 'compimento', 'realizzazione', 'fine'. 39. I "pessoi" erano 'pedine' usate in un gioco simile alla dama o agli scacchi (cfr. Platone, Leges 739a). I "pessoi" sono da distinguere dai dadi da gioco, chiamati "cuboi". 40) Cfr. 172c. (I tipi di vantaggi che otterremo dall'assennatezza...). 41) L'idea che i nomi siano stabiliti da un legislatore o da una legge divina è ampiamente sviluppata nel Cratilo. 42) Cfr. 156d. (E io, al sentire che approvava, ripresi coraggio...). 43. Il termine "anácrisis" appartiene al lessico giuridico e indica l'istruttoria preliminare. Platone Liside  Edizione Acrobat a cura di Patrizio Sanasi (patsa@tin.it)   Platone Liside  Platone LISIDE Percorrevo la strada esterna alle mura, sotto le mura stesse, dall'Accademia (1) direttamente al Liceo. (2) Quando fui all'altezza della porticella dove si trovava la fontana di Panopo, lì incontrai Ippotale, (3) figlio di Ieronimo, Ctesippo (4) del demo di Peania e altri giovani fermi in gruppo insieme a costoro. Ippotale, appena mi vide avvicinarmi, disse: «Socrate, dove vai e da dove vieni?» «Dall'Accademia vado direttamente al Liceo», risposi io. «Ma vieni qui, direttamente da noi. Perché non cambi strada? Ne vale la pena»~ disse egli. «Dove mi inviti e da chi di voi?», domandai io. «Qui», rispose, mostrandomi un recinto davanti al muro e una porta aperta: «qui passiamo il tempo noi e molti altri bei giovani». «Cos'è questo luogo e come passate il tempo?» «è una palestra costruita da poco. Per lo più passiamo il tempo in discussioni, di cui ti renderemmo volentieri partecipe», rispose. «E fate bene: ma chi insegna qui?», domandai. «Un tuo amico e ammiratore: Micco», (5) rispose. «Per Zeus, non è certo un uomo da poco, ma un valente sofista», osservai. «Vuoi seguirci per vedere chi c'è dentro?», chiese Ippotale. «Prima ascolterei volentieri per quale motivo devo entrare e chi è il bello», chiesi a mia volta. «Ognuno di noi la pensa diversamente, Socrate», rispose egli. «Per te chi è, Ippotale? Dimmelo». Interrogato su questo arrossì e io dissi: «Ippotale, figlio di Ieronimo, non dirmi più se ami qualcuno o no: so che non solo sei innamorato, ma ti sei spinto molto oltre nell'amore. Nelle altre cose io non valgo e non servo a molto, ma questo dono ho ricevuto dal dio, la capacità di capire subito chi ama e chi è amato». Udendo queste parole egli arrossì ancora di più e Ctesippo disse: «è bello che tu arrossisca, Ippotale, ed esiti a dire a Socrate quel nome; ma se egli si intrattiene anche poco con te, sarà sfinito sentendotelo ripetere un numero infinito di volte. Socrate, egli ha intronato e riempito le nostre orecchie con il nome di Liside: e se poi beve ci è facile, quando ci svegliamo dal sonno, credere di sentire il nome di Liside. E quanto dice a parole, anche se terribile, non è così terribile come quando tenta di rovesciare su di noi poesie e prose. E ciò che è ancora più terribile è il fatto che canti al suo amato con voce incredibile che noi dobbiamo ascoltare e sopportare. Ora invece, interrogato da te, arrossisce». «Liside è un giovane, a quanto pare: lo intuisco dal fatto che sentendone il nome, non lo conosco», osservai. «Infatti non lo chiamano molto con il suo nome ma è ancora chiamato con il nome del padre che è molto conosciuto, perciò so bene che non puoi ignorare l'aspetto di quel ragazzo, poiché è in grado di farsi notare solo per questo», disse. «Mi si dica di chi è figlio», chiesi. «è il figlio maggiore di Democrate del demo di Aissone» disse. «Bene, Ippotale, che amore nobile e giovane da ogni punto di vista hai trovato! Su, mostra anche a me ciò che mostrerai a costoro, perché io veda se sai ciò che un innamorato deve dire del suo amato di fronte a lui stesso e agli altri», osservai. «Ma Socrate, perché dai peso a come parla costui?», chiese Ippotale. «Neghi di amare il giovane di cui costui parla?», domandai. «No, ma nego di comporre poesie e prose per l'amato», rispose. «Non sta bene, ma farnetica e delira», disse Ctesippo. Io chiesi: «Ippotale, non ti chiedo di ascoltare qualche verso o qualche canto, se ne hai composti per il giovinetto, ma il tuo pensiero, per vedere in quale modo ti comporti con l'amato». «Te lo dirà costui: infatti lo sa bene e se ne ricorda se, come afferma, è rimasto assordato a furia di ascoltarmi». «Per gli dèi, me ne ricordo bene, poiché sono cose ridicole, Socrate. Infatti esser innamorato e dedicare le proprie attenzioni a un giovane in particolare senza sapergli dire nulla di ciò che anche un bimbo non saprebbe dirgli, non è ridicolo? Ciò che la città tutta canta di Democrate e di Liside, nonno del ragazzo, e di tutti i suoi antenati, le loro ricchezze, i loro allevamenti di cavalli, le vittorie pitiche, istmiche e nemee (6) con quadrighe e cavalli da corsa, questo egli compone e declama, e cose ancora più antiche di queste. Ultimamente infatti ci raccontava in un poema l'ospitalità data a Eracle, cioè che un loro antenato aveva accolto Eracle per la sua parentela con lui, giacché anche lui era nato da Zeus e dalla figlia del capostipite del demo, racconti, questi e molti altri simili, che fanno le donne anziane, Socrate. Questo è ciò che costui, dicendo e cantando, ci costringe ad ascoltare». Tali furono le parole di Ctesippo. E dopo aver udito ciò, così dissi: «Ridicolo Ippotale, componi e canti un encomio indirizzato a te prima di aver vinto?» «Ma non è per me, Socrate, che io compongo e canto», ribatté. «Tu credi di no», incalzai. «Come stanno le cose?», chiese. «Questi canti sono indirizzati a te più che a tutti gli altri perché, se conquisti un tale amato, le tue parole e i tuoi canti saranno per te un onore e saranno realmente encomi per un vincitore, poiché hai conquistato un tale amato; se invece ti sfugge, quanto più ampi sono stati i tuoi elogi dell'amato, tanto più apparirai ridicolo, privato di una conquista tanto importante. Dunque, amico, chi è sapiente in amore non loda l'amato prima di averlo conquistato, poiché teme il futuro 2  Platone Liside  e come andrà a finire. Nel contempo i bellì , quando qualcuno li loda e li esalta, si colmano di superbia e di orgoglio. O non credi sia così ?» «Sì », disse. «E più sono orgogliosi, non sono più difficili da conquistare?» «è naturale». «Come ti sembrerebbe un cacciatore se, cacciando, spaventasse e rendesse più difficile da catturare la selvaggina?» «Evidentemente un inetto». «Ed è una grande rozzezza servirsi di parole e canti non per ammansire ma per inselvatichire: non è così ?» «Mi pare di sì ». «Bada allora di non procurarti tutti questi rimproveri per la tua poesia, Ippotale. Eppure io credo che tu non ammetteresti che un uomo che danneggi se stesso con la poesia sia un buon poeta, dal momento che arreca danno a se stesso». «No, per Zeus, perché sarebbe del tutto privo di logica. Ma è per questo, Socrate, che ti consulto, e se puoi, consigliami quali parole si devono dire o cosa si deve fare per diventare gradito all'amato», così mi pregò. «Non è facile dirlo: ma se tu volessi farlo venire a discutere con me, forse potrei dimostrarti ciò che bisogna dirgli al posto delle parole e dei canti che costoro dicono tu gli rivolgi», dissi io. «Ma non è difficile. Infatti se entri con Ctesippo e ti siedi a discutere, credo che egli si avvicinerà a te - d'altronde è molto amante delle discussioni, Socrate, e inoltre, poiché si celebra la festa di Ermes, (7) si sono riuniti nel medesimo luogo i giovinetti e i bambini -, dunque ti si avvicinerà. E se ciò non si verifica, egli è amico di Ctesippo per via del cugino di costui, Menesseno, (8) di cui è il più caro amico. Dunque che Ctesippo lo chiami, se non si avvicina da sé», ribatté Ippotale. «Bisogna fare così », dissi. E nel contempo, preso Ctesippo, entrai nella palestra e gli altri ci seguirono. Entrati, trovammo lì che i bambini avevano terminato i sacrifici, giocavano agli astragali, (9) poiché la cerimonia era quasi finita, ed erano tutti ben vestiti. Dunque i più giocavano fuori nel cortile, alcuni in un angolo dello spogliatoio giocavano a pari e dispari con moltissimi astragali che tiravano fuori da alcuni cestini; altri invece stavano loro attorno osservandoli. Tra di essi c'era anche Liside: incoronato, stava in piedi tra i bambini e i giovinetti e si segnalava per il suo aspetto, degno non solo della sua fama di bel ragazzo, ma anche di eccellente. E noi ci mettemmo in disparte sedendoci all'angolo opposto - infatti lì c'era tranquillità - e ci mettemmo a discutere tra noi. Pertanto, voltandosi spesso, Liside ci guardava ed era chiaro che desiderava avvicinarsi, ma intanto era imbarazzato e non osava avvicinarsi da solo; poi dal cortile entrò Menesseno in una pausa dal gioco e, non appena vide me e Ctesippo, venne a sedersi vicino a noi. Dunque, vistolo, Liside lo seguì e sedette vicino a lui. Allora anche gli altri si avvicinarono e Ippotale, quando vide che molti ci stavano intorno, si nascose in piedi dietro di loro, là dove pensava che Liside non potesse vederlo, temendo di infastidirlo, e restò così ad ascoltare. Io allora guardai Menesseno e gli chiesi: «Figlio di Demofonte, chi di voi è più grande d'età?» «Possiamo discuterne», rispose. «E dunque si dovrebbe discutere anche su chi dei due è più nobile», dissi io. «Certo» rispose. «E allo stesso modo su chi è più bello», continuai. Entrambi risero. Io continuavo: «Non domanderò chi di voi due è più ricco perché siete amici. O no?» «E molto», dissero. «Dunque si dice che le cose degli amici siano comuni, sicché in questo non sarete differenti, se dite la verità sulla vostra amicizia», dissi. Assentirono. Dopo questo scambio di battute cercavo di chiedere chi dei due fosse più giusto e più sapiente; quindi nel frattempo giunse uno che fece alzare Menesseno, dicendo che il maestro di ginnastica lo chiamava: credo che stesse celebrando un rito. Egli pertanto se ne andò e io domandai a Liside: «Liside, ti amano molto tuo padre e tua madre?» «Certo», rispose. «Non vorrebbero dunque che tu fossi quanto mai felice?» «E come no?» «E ti sembra che sia felice un uomo che sia schiavo e non possa fare ciò che desidera?» «Per Zeus, non mi sembra proprio», disse. «Allora se tuo padre e tua madre ti amano e desiderano che tu sia felice, è chiaro che si danno premura in ogni modo perché tu sia felice». «Come no?», disse. «Dunque ti permettono di fare ciò che vuoi senza rimproverarti e impedirti di fare ciò che desideri?» «No per Zeus, Socrate, mi impediscono moltissime cose». «Come dici? Pur volendo che tu sia felice ti impediscono di fare ciò che vuoi? Dimmi questo: se tu desiderassi salire su uno dei carri di tuo padre prendendo le briglie, quando c'è una gara, non te lo permetterebbero, anzi te lo impedirebbero?», domandai. «Per Zeus, no che non lo permetterebbero», rispose. «E a chi lo permetterebbero?», chiesi. «C'è un auriga che riceve da mio padre un compenso», fu la sua risposta. «Come dici? Permettono a uno prezzolato di fare quello che vuole con i cavalli più che a te, e per giunta lo pagano per questo?» «E allora?», domandò. «Ma, credo, affidano a te di guidare la coppia di muli e, se volessi prendere la frusta per batterli, lo permetterebbero». «E come potrebbero mai permetterlo?», disse. «E allora? Nessuno può batterli?», obiettai. 3  Platone Liside  «Può farlo il mulattiere», disse. «è uno schiavo o un uomo libero?» «Uno schiavo», rispose. «A quanto pare tengono dunque in maggior conto uno schiavo rispetto a te che sei loro figlio, preferiscono affidare più a lui che a te le loro cose e gli lasciano fare quel che vuole mentre a te lo impediscono? Dimmi ancora questo: ti lasciano almeno guidare te stesso o neppure questo ti affidano?» «Come, affidarmelo?» chiese. «Allora qualcuno ti guida?» «Sì , il pedagogo», (10) rispose. «è forse uno schiavo?» «E allora? è nostro», disse. «è strano che, pur essendo libero, tu sia guidato da uno schiavo. Ma in quali azioni questo pedagogo ti guida?», chiesi. «Senza dubbio conducendomi dal maestro», rispose. «E non è forse vero che anche i maestri ti comandano?» «Certo». «Allora tuo padre vuole importi moltissimi padroni e comandanti. E dunque, quando arrivi a casa da tua madre ella, perché tu sia felice, ti lascia fare ciò che vuoi della lana e del telaio, quando tesse? Non ti impedisce certo di toccare la spatola, o la spola o qualche altro strumento per la lavorazione della lana». Ed egli ridendo disse: «Per Zeus, Socrate, non solo me lo impedirebbe, ma mi picchierebbe anche, se li toccassi». «Per Eracle, hai forse fatto un torto a tuo padre o a tua madre?» «No, per Zeus», rispose. «Ma in cambio di che ti impediscono in modo così terribile di essere felice e di fare quello che vuoi e ti fanno crescere per tutto il giorno sempre schiavo di qualcuno e, in una parola, senza che tu possa fare nulla di ciò che desideri? Sicché, a quanto pare, tu non trai vantaggio alcuno dalle tue ricchezze che sono così cospicue, ma tutti le governano più di te, né tu governi il tuo corpo così nobile, ma anche questo lo governa e lo cura un altro. Tu, invece, Liside, non comandi su nessuno e non fai nulla di ciò che desideri». «No, perché non ne ho ancora l'età, Socrate», disse. «Figlio di Democrate, non è questo a impedirlo, perché c'è almeno una cosa, come credo, che tuo padre e tua madre ti affidano e non aspettano che tu ne abbia l'età. Infatti quando vogliono che sia letta loro o scritta per loro qualche lettera, sei tu, credo, il primo in casa cui commissionano questo compito. O no?» «Certo», rispose. «Dunque in questo caso tu puoi cominciare a scrivere la lettera che vuoi, e così pure capita per la lettura. E se prendi la lira, come credo, né tuo padre né tua madre ti impediscono di tendere e allentare la corda che vuoi e di toccarla e di farla vibrare con il plettro. O te lo impediscono?» « No di certo». «Dunque, Liside, quale mai sarebbe il motivo per cui in questi casi non ti pongono impedimenti mentre lo fanno nei casi di cui parlavamo poco fa?» «Credo perché queste cose le conosco e quelle no», disse. «Bene, carissimo: dunque tuo padre non aspetta l'età per affidarti tutti i suoi beni, ma nel giorno in cui ti considererà più saggio di lui, allora ti affiderà se stesso e quanto possiede», osservai. «Lo credo», disse. «E sia: allora? Il tuo vicino non seguirà nei tuoi confronti la stessa regola di tuo padre? Credi che ti affiderà la propria casa da amministrare quando ti riterrà più saggio di lui nell'amministrazione di una casa o la dirigerà lui stesso?», continuai. «Credo che l'affiderà a me». «E allora? Credi che gli Ateniesi non ti affideranno le proprie cose quando si renderanno conto che sei abbastanza saggio?» «Sì ». «Per Zeus, e il Gran Re? (11) Preferirebbe affidare al proprio figlio maggiore, a cui spetta il regno dell'Asia, l'incarico di mettere quello che vuole nel brodo, mentre la carne cuoce, o a noi se, recatici da lui, gli mostrassimo di essere più bravi di suo figlio nella preparazione del cibo?» «A noi, è chiaro», rispose. «E a suo figlio non permetterebbe di fare neppure una piccola aggiunta mentre a noi, anche se volessimo aggiungere sale a manciate, lo permetterebbe». «E come no?» «E se suo figlio avesse male agli occhi, glieli lascerebbe toccare, se non lo ritenesse un medico, o glielo impedirebbe?» «Glielo impedirebbe». «Se invece ritenesse noi esperti di medicina, anche se volessimo aprirgli gli occhi e cospargerli di cenere, credo non lo impedirebbe, considerandoci competenti». «Dici il vero». «E allora non affiderebbe anche a noi più che a se stesso e al proprio figlio tutto il resto in cui noi apparissimo ai suoi occhi più sapienti di loro?» «Necessariamente, Socrate», rispose. «Dunque è così , caro Liside: le cose in cui siamo saggi tutti ce le affidano, Elleni e barbari, uomini e donne, e in esse faremo ciò che vogliamo e nessuno deliberatamente ce lo impedirà, ma in esse saremo liberi, comanderemo sugli altri, saranno cose nostre e quindi ne trarremo vantaggi. Invece le cose nelle quali non saremo abili nessuno ce le affiderà per farne quel che ci pare, ma tutti ce lo impediranno per quanto possono, non solo gli estranei ma anche nostro padre, nostra madre e coloro che ci sono ancora più vicini, e in esse dipenderemo dagli altri e ci saranno estranee, poiché non ne trarremo guadagno alcuno. Sei d'accordo che la questione stia in questi termini?» «Sono d'accordo». «Dunque allora saremo amici di qualcuno e qualcuno ci amerà in relazione a ciò in cui non potremo essere di utilità alcuna?» «No di certo», rispose. «Dunque ora né tuo padre ama te, né un altro amerà chi è inutile». «Così pare», disse. «Se dunque diventi sapiente, ragazzo, tutti ti saranno amici e intimi - perché sarai utile e buono - altrimenti nessun altro, 4  Platone Liside  nemmeno tuo padre, tua madre e i parenti ti saranno amici. Pertanto, Liside, è possibile essere orgogliosi di sé nelle cose in cui non si sa ancora pensare?» «E come potrebbe essere?», chiese. «E se dunque hai bisogno di un maestro non sai ancora pensare». «Dici il vero». «Quindi non puoi essere capace di grandi pensieri, se sei ancora privo di pensiero». «Per Zeus, Socrate, non mi sembra», disse. Io, dopo averlo ascoltato, mi voltai verso Ippotale e poco mancò che non commettessi un grande errore, poiché mi venne da dire: «Così , Ippotale, bisogna parlare all'amato, umiliandolo e sminuendolo e non, come fai tu, insuperbendolo e blandendolo». Però, vedendolo in ansia e turbato da ciò che si diceva, mi ricotdai che voleva assistere senza che Liside se ne accorgesse, quindi mi ripresi e mi trattenni dal rivolgergli la parola. A questo punto ritornò Menesseno e si sedette accanto a Liside, nel posto da cui si era alzato. Liside allora, in modo molto fanciullesco e amichevole, di nascosto a Menesseno mi disse a voce bassa: «Socrate, di' anche a Menesseno ciò che dicevi a me poco fa». E io risposi: «Glielo dirai tu, Liside, giacché hai prestato molta attenzione». «Certo», disse. «Dunque prova a ricordartelo nel modo migliore possibile, per riferirgli tutto per filo e per segno. Ma se qualcosa ti sfugge, me lo richiederai la prima volta che mi incontri» continuai io. «Lo farò, Socrate, con molto impegno, sappilo bene. Ma digli qualcos'altro, perché io possa ascoltare fino a quando non arriva l'ora di tornare a casa», disse. «Bisogna farlo, dal momento che me lo ordini. Ma bada di venirmi in aiuto, se Menesseno cerca di confutarmi; o non sai che è un eristico?», (12) chiesi io. «Sì , per Zeus, e anche abile: per questo voglio che tu discuta con lui», rispose. «Per rendermi ridicolo?», domandai. «No, per Zeus, ma per dargli una lezione», rispose. «E come? Non è facile, poiché è un uomo abile, allievo di Ctesippo. Ma c'è anche lui - non lo vedi? -, Ctesippo», notai. «Non preoccuparti di nessuno, Socrate, ma su, discuti con lui», disse. «Bisogna discutere», così dissi. Dunque, mentre parlavamo tra noi, Ctesippo chiese: «Perché conversate soltanto voi due e non ci coinvolgete nella discussione?» «Ma certo, partecipate pure. Costui infatti non comprende nulla di ciò che dico, ma afferma che Menesseno crede di saperlo e mi ordina di interrogare lui», dissi io. «E allora perché non lo interroghi?», chiese Ctesippo. Io risposi: «Lo interrogherò. Menesseno, rispondi a ciò che ti chiedo. Fin da ragazzo io desidero una cosa come un altro ne desidera un'altra; uno desidera avere dei cavalli, un altro dei cani, uno dell'oro, un altro onori. Io invece non smanio per queste cose, mentre desidero ardentemente avere degli amici e preferirei avere un buon amico piuttosto che la quaglia e il gallo (13) più belli che ci siano e, per Zeus, piuttosto che un cavallo o un cane - e credo proprio che preferirei di gran lunga avere un amico piuttosto che l'oro di Dario, (14) anzi piuttosto che Dario stesso - a tal punto amo l'amicizia. Quindi vedendo voi, te e Liside, sono rimasto colpito e vi considero felici perché, pur essendo così giovani, siete in grado di ottenere velocemente e con facilità questo bene e tu hai trovato molto rapidamente questo amico e lui te. E dimmi: quando uno ama un altro, chi dei due diventa amico dell'altro, chi ama di colui che è amato o chi è amato di colui che ama? O non c'è alcuna differenza?» «A me pare che non ci sia nessuna differenza», rispose. «Come dici? Dunque se uno solo ama l'altro, diventano entrambi amici uno dell'altro?», chiesi io. «Io la penso così », rispose. «E allora? Non è possibile che chi ama non venga ricambiato da colui che egli ama?» «è possibile». «E allora? è dunque possibile che chi ama sia odiato? Talvolta, ad esempio, gli innamorati credono di subire questo dai loro amati: infatti, pur amando quanto di più non potrebbero, alcuni credono di non essere ricambiati, altri addirittura di essere odiati. Non ti sembra che sia vero?» «è del tutto vero», rispose. «Dunque in questo caso uno ama e l'altro è amato?», chiesi. «Sì ». «Chi dei due quindi è amico dell'altro? Chi ama di colui che è amato, sia nel caso in cui sia ricambiato sia in quello in cui sia odiato, o chi è amato di colui che ama? O in tal caso nessuno dei due è amico dell'altro, dato che entrambi non si amano a vicenda?» «Sembra proprio così ». «Dunque ciò che pensiamo ora è diverso da quanto pensavamo in precedenza: allora pensavamo che se uno dei due prova amore, entrambi sono amici, ora invece pensiamo che nessuno dei due sia amico dell'altro, se non sono entrambi a provare amore». «è probabile», disse. «Dunque per chi ama non c'è amicizia se non è ricambiato». «No, pare». «Quindi non sono amanti dei cavalli quelli che non sono amati dai cavalli, né amici delle quaglie, dei cani o del vino o 5  Platone Liside  della ginnastica o della sapienza, se la sapienza non li ama. O ciascuno ama comunque queste cose che non gli sono amiche e allora il poeta che disse: "Fortunato chi ha per amici dei fanciulli e cavalli solidunguli e cani da caccia e un ospite di terra lontana" (15) mentiva?» «Non mi sembra», rispose. «Ti sembra che il poeta dica il vero?» «Sì ». «Allora, a quanto pare, ciò che è amato è amico di ciò che lo ama, Menesseno, sia nel caso in cui ami sia in quello in cui odi; per esempio, anche tra i bambini piccoli, alcuni non amano ancora, altri già odiano, quando vengono puniti dalla madre o dal padre; tuttavia, anche nel caso in cui provino odio, sono quanto di più caro i loro genitori hanno». «A me pare che sta così », disse. «Dunque ne consegue da questo ragionamento che amico non è chi ama ma chi è amato». «Sembra». «è dunque nemico chi è odiato e non chi odia». «Così pare». «Quindi molti sono amati dai nemici e odiati dagli amici e sono amici dei nemici e nemici degli amici, se amico è ciò che è amato e non ciò che ama. Eppure, caro amico, è del tutto privo di logica, anzi credo che sia impossibile essere nemico dell'amico e amico del nemico». «Mi sembra che tu dica la verità, Socrate», disse. «Dunque se questo è impossibile, ciò che ama sarebbe amico di ciò che è amato». «Così sembra», disse. «E quindi ciò che odia sarebbe nemico di ciò che è odiato». «Di necessità». «Pertanto risulterà necessario arrivare alle stesse conclusioni di prima, cioè che spesso si è amici di coloro che non lo sono e spesso addirittura di coloro che sono nemici, quando si ama senza essere ricambiati o quando si ama chi invece nutre odio, e che spesso si è nemici di coloro che non lo sono o addirittura di coloro che sono amici, quando si odia chi a sua volta non odia o addirittura nutre amore». «è probabile», disse. «Dunque come ci comporteremo se amici non saranno né quelli che amano né quelli che sono amati né quelli che nel contempo amano e sono amati? Diremo che oltre a questi casi vi sono ancora persone amiche tra loro?», domandai. «No, per Zeus, Socrate, non è affatto facile risolvere bene la questione», disse. «Forse allora non abbiamo condotto la ricerca in modo del tutto corretto?», chiesi. «Non mi pare, Socrate», disse Liside, e mentre parlava arrossì , infatti mi sembrò che quelle parole gli fossero sfuggite involontariamente, per la grande attenzione prestata alla discussione, ed era chiaro che ascoltava con grande interesse. Dunque io, volendo concedere una tregua a Menesseno e compiaciuto per l'amore del sapere mostrato da Liside, mi volsi a discutere con lui e dissi: «Liside, mi sembra che tu dica il vero quando affermi che, se avessimo indagato correttamente, non avremmo mai sbagliato in questo modo. Allora non procediamo più per questa via - quello della ricerca mi sembra un percorso difficile -; mi pare invece che dobbiamo proseguire per la via lungo la quale ci eravamo avviati esaminando i poeti. Costoro per noi, come padri e guide della sapienza, dicono cose non da poco quando parlano degli amici, quelli che sono tali: anzi dicono che il dio stesso li rende amici, avvicinandoli gli uni agli altri. Dicono all'incirca così , credo: "il dio conduce sempre il simile verso il simile" (16) e li fa conoscere. Non hai mai letto questi versi?» «Sì », rispose. «E non hai letto gli scritti dei più sapienti che dicono le stesse cose, cioè che è giocoforza che il simile sia sempre amico del simile? Costoro sono quelli che scrivono sulla natura e sul tutto». «Dici il vero». «Dunque dicono bene?», chiesi. «Probabilmente», rispose. Continuai: «Probabilmente a metà o forse del tutto, ma noi non li capiamo, infatti ci sembra che il malvagio, quanto più si avvicina e frequenta il malvagio, tanto più ne diventi nemico, poiché commette ingiustizia, ed è impossibile che chi commette ingiustizia e chi la subisce siano amici. Non è così ?» «Sì », rispose. «In questo modo, dunque, la metà di quel detto non sarebbe vera, se i malvagi sono simili tra loro». «Dici il vero». «Ma credo che essi vogliano dire che i buoni sono simili tra loro e amici, mentre i cattivi, cosa che appunto si dice di loro, non sono mai simili neppure a se stessi, ma sono incostanti e instabili, e ciò che è dissimile e diverso da se stesso, difficilmente potrebbe essere simile o amico di altro. O non ti sembra così ?» «Sì », disse. «Quindi, mi pare, a questo alludono, amico, coloro che affermano che il simile è amico del simile, cioè che solo il buono è amico unicamente del buono, mentre il cattivo non è mai veramente amico né del buono né del cattivo. Sei d'accordo?». Annuì . «Dunque ormai sappiamo chi sono gli amici: il ragionamento ci indica che sono i buoni». «Mi sembra che sia proprio così », disse. Continuai: «Anche a me. Eppure qualcosa non mi soddisfa: su, per Zeus, vediamo in cosa consiste il mio sospetto. Il simile, in quanto simile, è amico del simile, e come tale è utile all'altro che è tale? O meglio: una qualunque cosa simile quale utilità o quale danno comporta a una qualunque cosa a essa simile che anche questa non possa comportare a se stessa? O cosa potrebbe subire che non possa subire anche per opera propria? Cose simili come potrebbero amarsi reciprocamente, se non ricevono alcun vantaggio l'una dall'altra? è possibile?» «Non lo è». «E ciò che non è amato, come può essere amico?» «In nessun modo». «Allora il simile non è amico del simile e il buono, in quanto buono, non in quanto simile, sarebbe amico del buono?» «Forse». 6  Platone Liside  «E allora? Il buono in quanto buono non sarebbe sufficiente in quanto tale a se stesso?» «Sì ». «E chi è autosufficiente, nella misura della propria autosufficienza, non ha bisogno di nulla». «E come no?» «E chi non ha bisogno di nulla, a nulla aspira». «Certo che no». «E colui che non desidera nulla, neppure ama». «No». «E chi non ama non è un amico». «Pare di no». «Dunque i buoni come saranno fin da principio amici dei buoni, se quando sono lontani non si desiderano a vicenda - infatti anche quando sono separati sono autosufficienti - e quando sono vicini non hanno un'utilità reciproca? Quale stratagemma potrebbe farli apprezzare vicendevolmente?» «Nessuno», rispose. «E non potrebbero essere amici se non si apprezzano a vicenda». «Dici il vero». «Guarda, Liside, dove siamo andati a cozzare. Dunque ci siamo completamente ingannati?» «Come?», chiese. «Ho già sentito dire una volta da uno, e adesso me ne ricordo, che il simile è assai ostile al simile e i buoni ai buoni e chiamava a testimone Esiodo, dicendo: "il vasaio odia il vasaio, l'aedo odia l'aedo e il mendicante odia il mendicante".(17) E quanto al resto diceva che giocoforza le cose più simili sono piene di invidia, rivalità e ostilità reciproca, mentre quelle più dissimili sono le più propense all'amicizia: infatti il povero è costretto a essere amico del ricco, il debole del forte per averne aiuto, il malato del medico e chiunque non sa cerca e ama chi sa. E proseguiva nel ragionamento in modo ancora più convincente, dicendo che il simile è assai lontano dall'essere amico del simile, anzi sarebbe proprio il contrario, dal momento che l'opposto è amico soprattutto del suo opposto, poiché ogni cosa desidera il suo contrario, non il simile. Il secco desidera l'umido, il freddo il caldo, l'amaro il dolce, l'acuto l'ottuso, il vuoto il pieno, il pieno il vuoto e così via, secondo il medesimo rapporto. Il contrario infatti è nutrimento per il contrario, mentre il simile non trae vantaggio alcuno dal simile. E certo, amico mio, dicendo questo sembrava un tipo raffinato, tanto bene parlava. Ma a voi come sembra che parli?», chiesi. «Bene, almeno a sentirlo così », rispose Menesseno. «Dunque dobbiamo dire che il contrario è soprattutto amico di ciò che a lui contrario?» «Certo». «Bene: ma non è strano, Menesseno? E soddisfatti ci assaliranno subito questi pozzi di sapienza, gli antilogici, (18) e ci domanderanno se l'odio non sia quanto di più contrario rispetto all'amicizia. Cosa risponderemo loro? Non dobbiamo per forza ammettere che dicono la verità?», chiesi. «Per forza». «E dunque, diranno, ciò che è nemico è amico di ciò che è amico o amico di ciò che è nemico?» «Né l'una né l'altra cosa» rispose. «Ciò che è giusto di ciò che è ingiusto, ciò che è saggio di ciò che è intemperante, ciò che è buono di ciò che è cattivo?» «Non credo che le cose stiano così ». Io dissi: «E tuttavia se una cosa è amica di un'altra in base alla contrarietà, è necessario che anche queste cose siano amiche». «Di necessità». «Dunque né il simile è amico del simile né il contrario è amico del contrario». «Pare di no». «Esaminiamo ancora questo punto: a noi non sfugge più il fatto che l'amicizia non è veramente nulla di tutto questo, ma è ciò che non è né buono né cattivo che diventa così amico del buono». «Come dici?», chiese. «Per Zeus, non so, ma veramente ho io stesso le vertigini per la difficoltà del ragionamento e forse, secondo l'antico proverbio, ciò che è amico è il bello. Il bello assomiglia a qualcosa di morbido, liscio e lucente e per questo forse ci sfugge e scivola via facilmente, poiché è tale. Dico infatti che il buono è bello. Non credi?» «Sì ». «Dico dunque, divinandolo, che amico del bello e del buono è ciò che non è né buono nè cattivo. Ascolta in rapporto a cosa lo divino. A me sembra che ci siano come tre categorie: il buono, il cattivo e ciò che non è né buono né cattivo. E a te?» «Anche a me», disse. «E che né il buono sia amico del buono né il cattivo del cattivo nè il buono del cattivo, come neppure il ragionamento precedente consente. Resta allora che, se una cosa è amica di un'altra, ciò che non è né buono né cattivo sta amico o del buono o di ciò che è tale quale esso è, cioè né buono né cattivo, perché una cosa non potrebbe essere amica del cattivo». «Dici il vero». «Né il simile del simile, dicevamo poco fa: non è così ?» «Sì ». «Dunque ciò che è tale e quale ad esso non sarà amico né del buono né del cattivo». «Pare di no». «Quindi ne risulta che solo al buono è amico unicamente ciò che non è né buono né cattivo». «Pare debba essere così ». «Ragazzi», dissi, «ci guida bene ciò che si è detto ora? Se vogliamo considerare il corpo sano, esso non ha affatto bisogno della medicina né di un aiuto, infatti è autosufficiente, sicché nessuno, quando sta bene, è amico del medico, considerata la sua buona salute. O non è così ?» «Sì , nessuno». «Invece il malato, credo, lo è a causa della malattia». 7  Platone Liside  «E come no?» «Dunque la malattia è un male, mentre la medicina è cosa utile e buona». «Sì ». «E il corpo in quanto corpo non è né buono né cattivo». «è così ». «Il corpo è costretto dalla malattia ad accettare e amare la medicina». «Così la penso». «Quindi ciò che non è né cattivo né buono diviene amico del buono per la presenza di un male?» «A quanto pare». «Ma è chiaro che ciò avviene prima che esso diventi cattivo a causa del male che ha, perché una volta diventato cattivo non potrebbe desiderare ancora il bene ed esserne amico, dato che dicevamo che è impossibile che il cattivo sia amico del buono». «Infatti è impossibile». «Esaminate ciò che dico: dico infatti che alcune cose sono determinate da ciò che è presente in esse e altre no: per esempio, se qualcuno volesse spalmare di colore una cosa qualsiasi, ciò che è spalmato è presente su ciò su cui è spalmato». «Certo». «E allora ciò su cui è spalmato è tale nel colore quale ciò che vi si trova sopra?» «Non capisco», disse. «Pensala così », dissi: «se qualcuno spalmasse di biacca i tuoi capelli che sono biondi, allora essi sarebbero o apparirebbero bianchi?» «Lo sembrerebbero», rispose. «Eppure in essi sarebbe presente la bianchezza». «Sì ». «E tuttavia non sarebbero più bianchi, anzi, pur essendo presente in essi la bianchezza, non sarebbero né bianchi nè neri». «è vero». «Ma quando, amico mio, la vecchiaia porta ad essi questo medesimo colore, allora diventerebbero come ciò che è presente in essi, cioè bianchi per la presenza del bianco». «E come potrebbe non essere così ?» «Ora dunque questo ti chiedo: se in una cosa ne è presente un'altra, quella che la possiede sarà come quella che vi è presente o lo sarà se quella è presente in un certo modo, altrimenti no?» «è così , piuttosto», rispose. «E dunque ciò che non è né cattivo né buono, quando è presente un male, talvolta non è ancora cattivo, ma lo è quando ormai è diventato tale». «Certo». «Dunque, quando pur essendo presente un male, esso non è ancora cattivo, questa presenza gli fa desiderare il bene, quando invece lo rende cattivo, lo priva anche del desiderio e dell'amore per il bene. Infatti non è più né cattivo né buono, ma cattivo, e il cattivo non è amico del buono, dicevamo». «No, infatti». «Per questo potremmo dire che anche quelli che sono già sapienti non amano più la sapienza, siano essi dèi o uomini. Né d'altra parte amano la sapienza coloro che hanno un'ignoranza tale che li rende cattivi: infatti nessuno che sia cattivo e ignorante ama la sapienza. Restano quelli che hanno questo male, l'ignoranza, ma non sono ancora diventati privi di senno e ignoranti per opera sua e ammettono ancora di non sapere ciò che non sanno. Perciò sono amanti della sapienza quelli che non sono ancora né buoni né cattivi, in quanto i cattivi non amano la sapienza né lo fanno i buoni, infatti nei ragionamenti precedenti ci è apparso che né il contrario è amico del contrario, né il simile del simile. O non ricordate?» «Certo», risposero. «Ora dunque, Liside e Menesseno», dissi, «abbiamo trovato fra tutte le cose ciò che è amico e ciò che non lo è. Infatti diciamo che sia che si tratti dell'anima, sia che si tratti del corpo o di qualunque altra cosa, ciò che non è né buono né cattivo è amico del bene per la presenza del male». Entrambi furono assoluta- mente d'accordo e ammisero che fosse così . Anch'io ero molto contento, come un cacciatore che è felice di ciò che ha cacciato, ma poi, non so come, mi venne lo stranissimo sospetto che non fossero vere le nostre conclusioni e subito dissi crucciato: «Ahimè, Liside e Menesseno, forse è un sogno il fatto che ci siamo arricchiti di conoscenza». «Perché?», chiese Menesseno. «Temo», dissi io, «che a proposito dell'amicizia siamo incorsi in ragionamenti come quelli che fanno i ciarlatani». «Come?», chiese. «Procediamo così nel ragionamento», dissi io: «chi è amico è amico di qualcuno o no?» «Per forza», rispose. «Dunque lo è senza nessuno scopo e senza nessuna causa o per qualche scopo e per qualche causa?» «Per qualche scopo e a causa di qualcosa». «E quella cosa in vista della quale l'amico è amico dell'amico, è amica anch'essa o non è né amica né nemica?» «Non ti seguo del tutto», rispose. «è naturale», dissi, «ma forse così mi seguirai e, credo, anche io saprò meglio ciò che dico. Il malato, dicevamo poco fa, è amico del medico; non è così ?» «Sì ». «E dunque è amico del medico a causa della malattia e in vista della salute da riacquistare?» «Sì ». «E la malattia è un male?» «E come potrebbe non esserlo?» «E la salute», chiedevo, «è un bene o un male o non è nessuna delle due cose?» «è un bene», rispose. 8  Platone Liside  «Dicevamo dunque che, a quanto sembra, il corpo che non è né buono né cattivo, a causa della malattia, cioè a causa del male, è amico della medicina, e la medicina è un bene; e la medicina ottiene l'amicizia in vista della salute, e la salute è un bene. Non è così ?» «Sì ». «E la salute è una cosa amica o no?» «è una cosa amica». «E la malattia è una cosa nemica». «Certo». «Dunque ciò che non è né cattivo né buono, a causa di ciò che è cattivo e nemico, è amico del bene in vista di ciò che è buono e amico». «Sembra». «Dunque ciò che è amico è amico in vista di ciò che è amico e a causa di ciò che è nemico». «Così pare». «Bene», dissi: «dal momento che siamo arrivati a questo, ragazzi, facciamo attenzione a non ingannarci. Infatti lascio stare il fatto che ciò che è amico sia diventato amico di ciò che è amico e che il simile sia amico del simile - cosa, questa, che abbiamo detto essere impossibile -, tuttavia badiamo a questo, che non ci inganni ciò che ora è stato detto. La medicina, diciamo, è una cosa amica in vista della salute». «Sì ». «Dunque anche la salute è cosa amica?» «Certo». «Se dunque è amica, lo è in vista di qualcosa». «Sì ». «Di una cosa amica, se sarà la conseguenza dell'ammissione precedente». «Certo». «Dunque anche ciò sarà cosa a sua volta amica in vista di una cosa amica?» «Sì ». «Quindi non è necessario che rinunciamo a procedere così o arriviamo a un principio che non si riferirà più a un'altra cosa amica, ma giungerà a quella che è la prima cosa amica in vista della quale diciamo che anche tutte le altre cose sono amiche?» «è necessario». «Questo è ciò che voglio dire: badiamo al fatto che non ci ingannino tutte le altre cose che abbiamo detto essere amiche in vista di quella e che sono come sue immagini e facciamo attenzione che si tratti di quella prima cosa che è veramente amica. Infatti riflettiamo in questo modo: quando qualcuno tiene qualcosa in grande considerazione, ad esempio in taluni casi un padre che antepone suo figlio a tutti gli altri beni, egli che è tale da considerare suo figlio più importante di tutto, non apprezzerà forse molto anche qualche altra cosa? Per esempio, se si rendesse conto che il figlio ha bevuto la cicuta, non terrebbe in grande considerazione il vino, se lo ritenesse utile per salvare il figlio?» «Sì , certo. E allora?», domandò. «Dunque apprezzerebbe anche il recipiente in cui ci fosse quel vino?» «Certo». «E allora non tiene forse in maggior considerazione una tazza d'argilla rispetto a suo figlio o tre cotile (19) di vino più di suo figlio? O le cose forse stanno così : tutta la sua attenzione non è rivolta a questi oggetti predisposti in vista di qualcos'altro, ma a quel fine in vista del quale sono tutti predisposti. Nonché spesso diciamo di apprezzare molto l'oro e l'ar gento, ma forse la verità non è per niente questa, e ciò che teniamo in grande considerazione è quello che appare come ciò in vista del quale si predispongono l'oro e ogni altro oggetto. Diremo dunque così ?» «Certo». «E dunque lo stesso ragionamento non vale anche per ciò che è amico? Infatti quando definiamo cose amiche quelle che per noi lo sono in vista di un'altra cosa amica, ci riferiamo a esse evidentemente con una parola sola; ma è probabile che veramente amica sia proprio quella mèta alla quale tendono tutte le cosiddette amicizie». «Probabilmente è così », disse. «Dunque ciò che è realmente amico non lo è in vista di un'altra cosa?» «è vero». «Ci siamo sbarazzati anche di questo problema: l'amico è amico ma non in vista di una cosa amica. Ma dunque il bene è ciò che è amico?» «A me pare di sì ». «Quindi allora il bene è amato a causa del male, e le cose stanno così : se delle tre categorie che enumeravamo poco fa, cioè il buono, il cattivo e ciò che non è né buono né cattivo ne fossero conservate due, mentre il male si togliesse di mezzo e non si attaccasse a nulla, né al corpo, né all'anima né alle altre cose che diciamo non essere in sé né cattive né buone, allora il bene non ci sarebbe per niente utile ma sarebbe diventato inutile? Se infatti nulla ci potesse più danneggiare, non avremmo bisogno di alcun aiuto e così diventerebbe chiaro che accoglievamo e amavamo il bene a causa del male, pensando che il bene fosse un rimedio al male e il male una malattia: ma se non c'è la malattia, non c'è nemmeno bisogno di una medicina. Dunque il bene è così per sua natura e a causa del male esso è amato da noi, che siamo a metà tra il male e il bene, mentre esso per se stesso non ha alcuna utilità?» «Sembra che sia così », rispose. «Dunque quella mèta per noi amica, alla quale tutte le altre sono finalizzate - dicevamo che quelle erano amiche in vista di un'altra cosa amica - non assomiglia a queste. Infatti queste sono chiamate amiche in vista di una cosa amica, mentre la vera amicizia sembra essere per natura tutto il contrario di questo, poiché ci è parso che ciò che è amico lo sia a causa di ciò che è nemico, ma se ciò che è nemico si allontana, non ci è più amico, a quanto pare». «Mi pare di no, in base a quello che ora si è detto», rispose. «Per Zeus!», dissi io. «Se il male sparisce, non ci sarà né fame né sete né altri mali simili? O la fame ci sarà, se ci sono gli uomini e gli altri esseri viventi, ma non sarà dannosa? E la sete e gli altri desideri ci saranno, ma non saranno cattivi, 9  Platone Liside  poiché il male è scomparso? O è ridicolo chiedersi cosa ci sarà o non ci sarà allora? Infatti chi può saperlo? Ma questo dunque sappiamo, che avere fame può essere ora dannoso, ora utile, o no?» «Certo». «Dunque avere sete e tutti gli altri desideri di questo genere talvolta possono essere utili, talvolta dannosi e talvolta né l'uno né l'altro?» «Certo». «Pertanto se i mali spariscono, perché devono scomparire con essi anche le cose che non sono mali?» «Per nessun motivo». «Dunque se i mali spariscono, ci saranno i desideri che non sono né buoni nè cattivi». «Sembra». «E dunque possibile che chi desidera e ama non sia amico di chi desidera e ama?» «Non mi sembra». «Dunque, a quanto pare, ci saranno alcune cose amiche, anche se i mali spariscono». «Sì ». «E se il male fosse causa dell'amicizia, sparito questo, una cosa non potrebbe certo essere amica di un'altra: infatti, venuta meno la causa, sarebbe impossibile che esistesse ancora ciò di cui questa era la causa». «Dici bene». «Dunque noi avevamo convenuto che ciò che è amico ama qualcosa e a causa di qualcosa: e allora non avevamo creduto che ciò che non è né buono né cattivo amasse il bene a causa del male?» «è vero». «Ora, invece, a quanto pare, sembra essere altra la causa dell'amare e dell'essere amato». «A quanto pare». «Dunque realmente, come dicevamo poco fa, il desiderio è causa dell'amicizia, e ciò che desidera è amico di ciò che è desiderato, quando lo desidera, mentre ciò che prima dicevamo essere amico era una chiacchiera o una sorta di un lungo elaborato poema?» «Forse», disse. «Tuttavia», dissi, «ciò che desidera desidera ciò di cui è privo, o non è così ?» «Sì ». «E quindi ciò che è mancante è amico dì ciò che manca?» «Così credo». «Ed è privo di ciò che gli è stato eventualmente sottratto». «E come no?» «Allora, a quanto pare, l'amore, l'amicizia e il desiderio lo sono di ciò che è proprio, come sembra, Menesseno e Liside». Assentirono. «Se voi dunque siete amici uno dell'altro, per natura siete in un certo qual modo affini l'uno all'altro». «Esattamente», dissero. «E se pertanto uno desidera o ama l'altro, ragazzi miei, non potrebbe mai desiderarlo né amarlo né essergli amico, se non fosse affine all'oggetto del suo amore o nell'anima o in qualche altra altra attitudine dell'anima o nei comportamenti o nell'aspetto», dissi io. «Certo», disse Menesseno, mentre Liside taceva. «Bene!», dissi: «a noi è parso che sia necessario amare ciò che è affine per natura». «A quanto pare», disse. «Dunque è necessario per l'amante reale e non fittizio essere ricambiato dal suo amato». Liside e Menesseno assentirono anche se a stento, mentre Ippotale diventava dì tutti i colori per il piacere. E io, volendo esaminare il ragionamento, dissi: «Se ciò che è affine è differente in qualcosa da ciò che è simile, a quanto pare, Liside e Menesseno, potremmo dire dell'amicizia ciò che essa è; se invece simile e affine sono identici, non sarà facile respingere il precedente ragionamento in base al quale il simile è inutile al simile in virtù della somiglianza: ma è assurdo ammettere che l'inutile sia amico. Dunque», dissi, «dato che siamo come ubriachi per il ragionamento, volete che diamo per scontato e ammettiamo che l'affine è diverso dal simile?» «Certo». «Quindi stabiliremo che il bene è affine a ogni cosa e il male è estraneo a tutto? O che il male è affine al male, il bene al bene e ciò che non è né bene né male a ciò che non è né bene né male?». Risposero che secondo loro ogni cosa è affine a ciò che le è corrispondente. «Dunque, ragazzi», dissi, «siamo caduti dì nuovo nei ragionamenti sull'amicizia che prima abbiamo respinto: infatti l'ingiusto sarà amico dell'ingiusto, il cattivo del cattivo non meno che il buono del buono». «Pare di sì », rispose. «E allora? Diciamo che il buono e l'affine sono la stessa cosa; non diciamo forse che solo il buono è amico del buono?» «Certo». «Ma anche su questo punto credevamo di poter essere confutati; o non ricordate?» «Ricordiamo». «Dunque cosa ricaveremo ancora dalla discussione? O è evidente che non ricaveremo nulla? Dunque vi prego, come fanno gli esperti nei tribunali, di riflettere su tutto ciò che si è detto. Se infatti né gli amati né gli amanti, né i simili né i dissimili, né i buoni, né gli affini, né tutte le altre condizioni che abbiamo enumerato - io infatti non me le ricordo, dato il loro gran numero - se nulla di ciò è amico, non so più cosa dire». Dopo aver detto queste parole, avevo in mente di coinvolgere nella discussione qualcun altro dei più anziani, ma allora, come démoni, si avvicinarono i pedagoghi di Menesseno e di Liside con i loro fratelli, li chiamarono e ordinarono loro di tornare a casa, poiché era già tardi. Dapprima noi e i presenti cercammo di allontanarli, ma poiché non si curavano affatto di noi, anzi si irritavano nel loro parlare barbaro e nondimeno li chiamavano e ci pareva che avessero bevuto alla festa di Ermes e quindi fossero difficili da avvicinare, vinti da essi sciogliemmo la riunione. Tuttavia, mentre essi si allontanavano, io dissi: «Ora, Liside e Menesseno, siamo diventati ridicoli io, un vecchio, e voi. Infatti costoro andandosene diranno che noi crediamo di 10  Platone Liside  essere amici uno dell'altro - mi pongo anch'io tra voi - e non siamo stati ancora capaci di trovare cos'è l'amico». 11  Platone Liside  NOTE: 1) Giardino a nord di Atene, dove Platone avrebbe poi fondato la sua scuola. 2) Ginnasio presso il tempio di Apollo, a nord-est di Atene. 3) Sembra assai improbabile che sia il discepolo di Platone nominato da Diogene Laerzio, Libro 3,45. 4) Ctesippo, che non è l'omonimo figlio di Critone, era un discepolo di Socrate presente alla morte del maestro, è uno degli interlocutori dell'Eutidemo. 5) Di costui nulla si sa. 6) Le Pitiche erano feste in onore di Apollo, celebrate a Delfi ogni quattro anni; le Istmiche ricorrevano invece a Corinto ogni due anni ed erano in onore di Poseidone; le Nemee, infine, si tenevano ogni due anni in onore di Zeus: prima ebbero come luogo deputato la valle di Nemea, poi Argo. 7) Ermes era il dio patrono dei ginnasi e delle palestre. 8) è il protagonista dell'omonimo dialogo platonico. 9) Gli astragali sono una sorta di dadi. 10) Il pedagogo era uno schiavo che aveva il compito di sorvegliare i figli del padrone. 11) Il re dei Persiani, secondo l'abituale denominazione greca. 12) L'eristica era la tecnica finalizzata a confutare con ogni mezzo le tesi avversarie per far prevalere le proprie, anche se per fare questo poteva raggiungere risultati contraddittori tra loro. 13) Entrambi uccelli addestrati per il combattimento. 14) Dario, il ricchissimo re dei Persiani, aveva regnato dal 521 al 485 a.C: aveva tentato l'invasione della Grecia, ma venne bloccato e sconfitto a Maratona nel 490. 15) Si tratta di un frammento di Solone (17 Gentili-Prato). 16) Omero, Odyssea libro 17,218. 17) Esiodo, Opera et dies 25-26. 18. Gli antilogici erano coloro che teorizzavano e praticavano la possibilità di contraddire ogni argomentazione e ogni ragionamento. 19) La cotila è un'unità di misura che equivale all'incirca a un quarto di litro.Marsilio Ficino. Ficino. Keywords: desire, love, beauty, il bello, amore, cupido, desiderio, platonismo, walter pater – Plathegel e Ariskant, sensibile, percezione, “I platonisti” fisiologia dell’amore, convito di Platone, amore platonico, amore socratico, dottrina dell’amore, I dialoghi dell’amore di Platone: Fedro, Convito -- --. Refs.: Ficino’s “Commentaries on Plato,” Tatti -- Luigi Speranza, "Grice e Ficino," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51692400360/in/photolist-2mRRHVK-2mRkgtK-2mQifgs-2mPF8UJ-2mN8Hgb-2mLLZRD-2mKCQBD-2mKT4G5-2mKFnvf-2mKBsEN-2mKHqkS-2mKth3c-2mKjsJY-2mKiPND-2mGnP2f-BvUfSB-nuoDVU-nsj5ZA-ncSabS-nnvnLQ-nr43e9

 

Grice e Fidanza – filosofia italiana – Luigi Speranza (Bagnoregio). Filosofo. Grice: “Italians call Fidanza an ‘anti-dialectician’ but then they have Aquinas, who is an hypoer-dialectiician!” essential Italian philosopher. Figlio di Giovanni di Fidanza, medico, e di Rita.  Inizia i suoi studi al convento di San Francesco "vecchio". Si recò a Parigi a studiare nella facoltà delle Arti. Ddvenne maestro e ottiene la licenza d'insegnare. Francesco predica agli uccelli.   Intervenne nelle lotte contro l'aristotelismo. Attacca quelli che erano a suo parere gli errori dell'aristotelismo. Morì a causa di un avvelenamento. è considerato uno dei filosofi maggiori, che anche grazie a lui si avviò a diventare una vera e propria scuola di filosofia. Combatté apertamente l'aristotelismo, anche se ne acquisì alcuni concetti, fondamentali. Inoltre valorizza alcune tesi del platonismo. La distinzione della filosofia in ‘filosofia naturale’ (res) (fisica, matematica, meccanica), filosofia razionale (signa, segni) (logica, retorica, grammatica) e filosofia morale (azione) (politica, monastica, economica) riflette la distinzione di res, signa ed actiones -- la cui verticalità non è altro che cammino iniziatico per gradi di perfezione verso l'unione mistica. La parzialità delle arti è non altro che il rifrangersi della luce con la quale Dio illumina il mondo. Nel paradiso, Adamo sapeva leggere indirettamente Dio nel Liber Naturae (nel creato), ma la caduta è stata anche perdita di questa capacità.  Per aiutare l'uomo nel recupero della contemplazione della somma verità, Dio ha inviato all'uomo il Liber Scripturae, conoscenza supplementare che unifica ed orienta la conoscenza umana, che altrimenti smarrirebbe se stessa nell'auto-referenzialità. L’intelletto agente è capace di comprendere la verità inviata dall'intelletto passivo. Nel “Itinerario della mente" spiega che la filosofia serve a dare aiuto alla ricerca umana, e può farlo riportando l'uomo all'anima. La "scala" dei 3 gradi e un “primo grado” esteriore, è necessario prima considerare il corpo. L’anima ha anche tre diverse direzioni. La prima direzione si riferisce al corpo, e la sensibilità o animalita. La seconda direzione dell’anima ha per oggetto lo spirito, rivolto in sé e a sé. La terza direzione ha per oggetto la “mente” -- che si eleva spiritualmente sopra di sé. Tre indirizzi che devono disporre l'uomo a elevarsi a Dio, perché ami Dio con tutto il corpo, l’anima, e la mente. La sinderesi è la disposizione pratica al bene. Cf. Moore – ‘external world’ – mondo del corpore. Tre modi. Il primo modo e il vestigium (vestigio) o improntum. Il secondo modo e l’immagine, che si trova solo nell’uomo, l’unica creatura dotata d'intelletto, in cui risplendono la memoria, l’intelligenza e la volontà. Il terzo modo e la “similitudine”, che è qualità propria di una buona persona, una creature giusta, animata di benevolenza e carità. La natura e un segno sensibile. «Vi dico che, se questi taceranno, grideranno le pietre.»»  (Lc, 19,38-40). The stones will shout. The shout of the stone MEANS that thou shalt be benevolent. Una creatura, dunque,  e una impronta o vestigio, una immagine, una similitudine (Per Lombardo, ‘imago e similitude’ is redundant). La pietra "grida" – la pietra e una impronta – la pietra significa – la pietra segna che p.  Altre opere: “Breviloquio; Raccolte su dieci precetti; Raccolte sui sette doni dello Spirito Santo; Raccolte nei Sei Giorni della Creazione, Commentari in quattro libri delle sentenze del maestro Pietro Lombardo, Il mistero della Trinità; questione disputata, La perfezione della vita alle sorelle, La riduzione della arti alla teologia), Il Regno di Dio descritto nelle parabole evangeliche, La conoscenza di Cristo ed il mistero della Trinità, Le sei ali dei Serafini, La triplice via, Itinerario della mente verso Dio, La leggenda maggiore di San Francesco, La leggenda minore di San Francesco, L'Albero della vita, L'Ufficio della passione del Signore, Questioni sopra la perfezione evangelica, Soliloquio, Complesso di teologia, La vite mistica. Eletto Ramacci, S. Bonaventura e il Santo Braccio, Bagnoregio, Associazione Organum, Oggi del convento restano solo i ruderi.  Grado Giovanni Merlo, Storia di frate Francesco e dell'Ordine dei Minori, in Francesco d'Assisi e il primo secolo di storia francescana, Torino, Einaudi, G. Bosco, Storia ecclesiastica ad uso della gioventù utile ad ogni grado di persone” (Torino, Libreria Salesiana Editore, con l'approvazione di Lorenzo Gastaldi, arcivescovo di Torino, Cesare Pinzi,Storia della Città di Viterbo,Tip.Camera dei Deputati, Roma, Pinzi parla dettagliatamente degli interventi di Bonaventura a Viterbo in occasione del Conclave e dell'amicizia con Gregorio X.  Testi: Bonaventura da Bagnorea presunto, Meditationes vitae Christi, Venezia, Nicolaus Jenson, Legenda maior, Milano, Ulrich Scinzenzeler, Opera omnia, Lyon, Borde, Philippe; Borde, Pierre; Arnaud, Laurent, Bonaventura da Bagnorea, Expositiones in Testamentum novum, Lyon, Borde, Philippe; Borde, Pierre; Arnaud, Laurent, Bonaventura da Bagnorea, Sermones de tempore ac de sanctis, Lyon, Borde, Philippe; Borde, Pierre; Arnaud, Laurent, Bonaventura da Bagnorea, Opuscula, Lyon, Borde, Philippe; Borde, Pierre; Arnaud, Laurent, Opuscula, Lyon, Borde, Philippe; Borde, Pierre; Arnaud, Laurent, Bonaventura da Bagnorea, Commentaria in libros sententiarum, Lyon, Borde, Philippe; Borde, Pierre; Arnaud, Laurent, Commentaria in libros sententiarum,  Lyon, Borde, Philippe; Borde, Pierre; Arnaud, Laurent, 1668. Studi Bettoni E., S. Vita e Pensiero, Milano, Bougerol J.G., Introduzione a S. Bonaventura, trad. it. di A. Calufetti, L.I.E.F., Vicenza, Corvino F., Bonaventura da Bagnoregio francescano e filosofia, Città Nuova, Roma, Cuttini E., Ritorno a Dio. Filosofia, teologia, etica della “mens” in Fidanza. Rubbettino, Soveria Mannelli, Di Maio A., Piccolo glossario bonaventuriano. Prima introduzione al pensiero e al lessico di Bonaventura da Bagnoregio, Aracne, Roma, Barbara Faes, da Bagnoregio, Biblioteca Francescana, Milano, Mathieu V., La Trinità creatrice secondo san Bonaventura, Biblioteca francescana, Milano 1994. Moretti Costanzi T., San Bonaventura, Armando, Roma, Ramacci Eletto, S. Bonaventura e il Santo Braccio, Associazione Organum, Bagnoregio, Todisco O., Le creature e le parole in sant'Agostino e san Bonaventura, Anicia, Roma, Vanni Rovighi S., Vita e Pensiero, Milano); Raoul Manselli,  Dizionario biografico degli italiani,  11, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Emiliano Ramacci, Un Inno, Associazione Organum, Bagnoregio, Emiliano Ramacci. TreccaniEnciclopedie, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Bonaventura da Bagnoregio, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Bonaventura da Bagnoregio, su BeWeb, Conferenza Episcopale Italiana.  (DE) Bonaventura da Bagnoregio, su ALCUIN, Ratisbona. Opere. Audiolibri di Bonaventura da Bagnoregio, su LibriVox. Bonaventura da Bagnoregio, su Santi, beati e testimoni, santiebeati. Biografia di San Francesco d'Assisi, su assisiofm. scritta da San Bonaventura da Bagnoregio Itinerario della mente in Dio, su lamelagrana.net.  Itinerarium mentis in Deum, Peltiero Edente, su documentacatholicaomnia.eu.  San Bonaventura online, su dionysiana.wordpress.com. L'Opera omnia nell'edizione dei padri francescani di QuaracchiSalvador Miranda.  Wikipedia Ricerca Trinità (cristianesimo) dottrina centrale delle più diffuse Chiese cristiane Lingua Segui Modifica Nota disambigua.svg Disambiguazione – "Santissima Trinità" rimanda qui. Se stai cercando altri significati, vedi Santissima Trinità (disambigua). Santissima Trinità Masaccio 003.jpg La Trinità di Masaccio   Dio, uno e trino    AttributiDio Padre, Dio Figlio, Dio Spirito Santo La Trinità è la dottrina fondamentale e più importante[Nota 1] delle chiese cristiane, quali la cattolica[Nota 2] e quelle ortodosse, oltre che delle Chiese riformate storiche come quella luterana, quella calvinista e quella anglicana. Tale dottrina non viene comunque presentata in modo univoco.[1]   Icona rappresentante i tre angeli ospitati da Abramo a Mambre, allegoria della Trinità. Dipinta dal monaco-pittore russo Andrej Rublëv (1360-1427) e conservata a Mosca, Galleria Tret'jakov.  Schema della relazione trinitaria fra Padre, Figlio e Spirito Santo secondo le chiese cristiane di origine latina come la Chiesa cattolica. DescrizioneModifica La dottrina si è precisata nell'ambito del Cristianesimo antico: prima nel credo del primo concilio di Nicea(325), poi nel Simbolo niceno-costantinopolitano(381), dove venne affermato come primo articolo di fede l'unicità di Dio e, come secondo, la divinità di Gesù Cristo figlio di Dio e Signore,[Nota 3] a seguito, tra le altre, della controversia suscitata dal teologo Ario, che negava quest'ultima.  Il dogma della "trinità" è in relazione alla natura divina: esso afferma che Dio è uno solo, unica e assolutamente semplice è la sua "sostanza", ma comune a tre "persone" (o "ipòstasi") della stessa numerica sostanza (consustanziali) e distinte. Ciò è stato anche interpretato come se esistessero tre divinità (politeismo) o come se le tre "persone" fossero solo tre aspetti di una medesima divinità (per il modalismo semplici energie o modi di apparire della Divinità). Le tre "persone" (o, secondo il linguaggiomutuato dalla tradizione greca, "ipòstasi") vengono d'altra parte tradizionalmente intese come distinte ma della stessa sostanza di Dio:  Dio Padre, creatore del cielo e della terra, Padre trascendente e celeste del mondo. il Figlio: generato dal Padre prima di tutti i secoli, fatto uomo come Gesù Cristo nel seno della Vergine Maria, il Redentore del mondo. lo Spirito Santo che il Padre e il Figlio mandano ai discepoli di Gesù per far loro comprendere e testimoniare le verità rivelate. Nella dottrina trinitaria il Dio di Israele Yahwehracchiude tutta la Trinità ed è quindi Padre Figlio e Spirito Santo.   Al mistero della SS. Trinità[Nota 4] è dedicata, nella Chiesa cattolica, la Solennità della Santissima Trinità, che ricorre ogni anno, la domenica successiva alla Pentecoste.  La dottrina trinitaria è stata accolta dalla maggior parte dei Protestanti, particolarmente dal protestantesimo storico (di cui fanno parte fra gli altri il luteranesimo e il calvinismo).  Origine del termine e della nozioneModifica Il termine "trinità" deriva dal latino trīnĭtas-ātis (a sua volta da trīnus = di tre, aggettivo distributivo di trēs, tre) e fu utilizzato per la prima volta da Tertulliano nel II secolo, ad esempio nel suo De pudicitia (XXI). Occorre ricordare che prima di lui già Teofilo di Antiochia (II secolo), apologeta cristiano di lingua greca, utilizzò nel suo Apologia ad Autolycum (II,15) il termine analogo greco di τριας (triás).  Se il termine "trinità" non è certamente antecedente al II secolo, la nozione che rappresenta sembrerebbe invece apparire già a partire dal Vangelo di Matteo (I sec.):  (GRC)  «πορευθέντες οὖν μαθητεύσατε πάντα τὰ ἔθνη, βαπτίζοντες αὐτοὺς εἰς τὸ ὄνομα τοῦ πατρὸς καὶ τοῦ υἱοῦ καὶ τοῦ ἁγίου πνεύματος[Nota 5]»  (IT)  «Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo»  (Vangelo di Matteo XXVIII, 19) A tal proposito lo studioso e teologo cattolico francese Joseph Doré[2] nota come l'espressione al singolare eis to onoma (εἰς τὸ ὄνομα) ovvero "nel nome" unitamente alle due ricorrenze della congiunzione kai(καὶ), "e", quindi nel significato di "del Padre 'e' del Figlio 'e' dello Spirito Santo" evidenzierebbe la presenza di un credo già trinitario.  Allo stesso modo e in tale senso possono essere letti alcuni altri passi dei Vangeli canonici, ad esempio:  (GRC)  «βαπτισθεὶς δὲ ὁ Ἰησοῦς εὐθὺς ἀνέβη ἀπὸ τοῦ ὕδατος καὶ ἰδοὺ ἠνεῴχθησαν οὶ οὐρανοί, καὶ εἶδεν πνεῦμα θεοῦ καταβαῖνον ὡσεὶ περιστερὰν ἐρχόμενον ἐπ' αὐτόν[Nota 6]»  (IT)  «Appena battezzato, Gesù uscì dall'acqua: ed ecco, si aprirono i cieli ed egli vide lo Spirito di Dio scendere come una colomba e venire su di lui.»  (Vangelo di Matteo III, 16) (GRC)  «καὶ ἀποκριθεὶς ὁ ἄγγελος εἶπεν αὐτῇ, πνεῦμα ἅγιον ἐπελεύσεται ἐπὶ σέ, καὶ δύναμις ὑψίστου ἐπισκιάσει σοι· διὸ καὶ τὸ γεννώμενον ἅγιον κληθήσεται, υἱὸς θεοῦ[Nota 7]»  (IT)  «Le rispose l'angelo: "Lo Spirito Santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra la potenza dell'Altissimo. Colui che nascerà sarà dunque santo e chiamato Figlio di Dio»  (Vangelo di Luca I, 35) e in particolar modo in alcuni passi del "discorso dopo la cena" riportato nel Vangelo di Giovanni:  (GRC)  «πιστεύετέ μοι ὅτι ἐγὼ ἐν τῷ πατρὶ καὶ ὁ πατὴρ ἐν ἐμοί· εἰ δὲ μή διὰ τὰ ἔργα αὐτὰ πιστεύετε μοι[Nota 8]»  (IT)  «Credetemi: io sono nel Padre e il Padre è in me; se non altro, credetelo per le opere stesse.»  (Vangelo di Giovanni XIV, 11) (GRC)  «καγὼ ἐρωτήσω τὸν πατέρα καὶ ἄλλον παράκλητον δώσει ὑμῖν, ἵνα ᾖ μεθ' ὑμῶν εἰς τὸν αἰῶνα τὸ πνεῦμα τῆς ἀληθείας, ὃ ὁ κόσμος οὐ δύναται λαβεῖν, ὅτι οὐ θεωρεῖ αὐτὸ οὐδὲ γινώσκει· ὑμεῖς γινώσκετε αὐτό, ὅτι παρ' ὑμῖν μένει καὶ ἐν ὑμῖν ἔστιν[Nota 9]»  (IT)  «Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Consolatore perché rimanga con voi per sempre, lo Spirito di verità che il mondo non può ricevere, perché non lo vede e non lo conosce. Voi lo conoscete, perché egli dimora presso di voi e sarà in voi.»  (Vangelo di Giovanni XIV, 16-7) (GRC)  «ὁ δὲ παράκλητος τὸ πνεῦμα τὸ ἅγιον, ὃ πέμψει ὁ πατὴρ ἐν τῷ ὀνόματι μου ἐκεῖνος ὑμᾶς διδάξει πάντα καὶ ὑπομνήσει ὑμᾶς πάντα ἃ εἶπον ὑμῖν ἐγώ.[Nota 10]»  (IT)  «Ma il Consolatore, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, egli v'insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto.»  (Vangelo di Giovanni XIV, 26) (GRC)  «εἰ οὐ ποιῶ τὰ ἔργα τοῦ πατρός μου, μὴ πιστεύετέ μοι· εἰ δὲ ποιῶ, κἂν ἐμοὶ μὴ πιστεύητε τοῖς ἔργοις πιστεύετε, ἵνα γνῶτε καὶ γινώσκητε ὅτι ἐν ἐμοὶ ὁ πατὴρ κἀγὼ ἐν τῷ πατρί .[Nota 11]»  (IT)  «Se non compio le opere del Padre mio non credetemi, ma se le compio anche se non volete credere a me credete almeno alle opere, perché sappiate e conosciate che il Padre è in me e io nel Padre.»  (Vangelo di Giovanni X, 37-38) Joseph Doré[2] nota anche qui che se il termine greco πνεῦμα (pneúma, "spirito", "soffio") è certamente neutro esso viene indicato con il pronome relativo al maschile come ad evidenziarne la personificazione.  Lo storico delle religioni italiano Pier Cesare Borispiega al riguardo:  «La teologia degli scritti di Giovanni è diversa negli strumenti concettuali: nel Prologo del Vangelo, per comprendere la natura e il ruolo della funzione messianica di Gesù, diventa fondamentale la categoria del Lógos, la parola creatrice che "è con Dio, ed è Dio" (stessa idea di preesistenza in Colossesi I,15 ed Ebrei I,6). Un ruolo importante in questi sviluppi dottrinali dovette avere, più che la filosofia ellenistica, la speculazione giudaica del tempo, che attribuiva un grande ruolo a potenze intermedie tra Dio e l'uomo, prime fra tutte il Lógos e la Sapienza divina, tendenzialmente ipostatizzate. Il risultato complessivo è l'affermazione della divinità di Gesù, e dello Spirito, uniti nell'invito finale di Matteo, 28,18, a battezzare "nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo". Una formula trinitaria che presiede all'evoluzione che porterà alle formulazioni trinitarie e cristologiche dei concili del IV e V secolo. Al termine il monoteismo biblico riceve una enunciazione completamente nuova: la sostanza, o natura unica divina, contiene tre ipostasi o tre persone; la seconda ipostasi unisce in sé nell'incarnazione due nature, quella divina e quella umana.»  (Pier Cesare Bori. Dio (ebraismo e cristianesimo), in Dizionario delle religioni (a cura di Giovanni Filoramo) Torino, Einaudi, 1993, pag.205) Allo stesso modo vi sono dei richiami alle tre figure divine nelle lettere attribuite agli apostoli:  (GRC)  «Ἡ χάρις τοῦ κυρίου Ἰησοῦ [Χριστοῦ] καὶ ἡ ἀγάπη τοῦ θεοῦ καὶ ἡ κοινωνία τοῦ ἁγίου πνεύματος μετὰ πάντων ὑμῶν[Nota 12]»  (IT)  «La grazia del Signore Gesù Cristo, l'amore di Dio e la comunione dello Spirito Santo siano con tutti voi»  (Seconda lettera ai Corinzi XIII, 14) (GRC)  «κατὰ πρόγνωσιν θεοῦ πατρὸς ἐν ἁγιασμῷ πνεύματος εἰς ὑπακοὴν καὶ ῥαντισμὸν αἵματος Ἰησοῦ Χριστοῦ, χάρις ὑμῖν καὶ εἰρήνη πληθυνθείη.[Nota 13]»  (IT)  «Secondo la prescienza di Dio Padre, mediante la santificazione dello Spirito, per obbedire a Gesù Cristo e per essere aspersi del suo sangue: grazia e pace a voi in abbondanza.»  (Prima lettera di Pietro I, 2) Uno studio approfondito sulla presenza della Trinità nel Nuovo Testamento giunge a questa conclusione:   É ora possibile rispondere alla domanda, "La dottrina delle Trinità è presente nella Bibbia?" La risposta è che non c'è un'affermazione formale della dottrina, ma una risposta al problema della Trinità. Almeno tre autori neotestamentari, Paolo, Giovanni e l'autore della Lettera agli Ebrei sono consapevoli dell'esistenza di un problema. Paolo e l'autore della Lettera agli Ebrei si concentrano sulla relazione tra Cristo e Dio, ma Giovanni era conscio del problema della mutua relazione tra Padre, Figlio e Spirito Santo.[3]  Nonostante questo anche la teologa cattolica statunitense Catherine Mowry Lacugna ricorda che sia gli esegeti sia i teologi concordano sul fatto che il Nuovo Testamento non contenga un'esplicita dottrina della Trinità[Nota 14]. Del tutto assente è invece, sempre per gli esegeti e per i teologi, qualsivoglia riferimento alla dottrina della Trinità nell'Antico testamento[Nota 15].  Nel II secolo, san Melitone di Sardi affermò che Dio Padre aveva un corpo umano e divino come quello del Figlio Dio, e un'anima distinta da quella del Figlio Dio, unita al proprio corpo. Di fatto, si affermava la consustanzialità del Padre e del Figlio nella duplice natura umana e divina del corpo e dell'anima. In tale dottrina, la distinzione fra anima e spirito descritta in 5.23[4] portava a identificare lo Spirito Santo Dio con l'unico spirito comune alle due anime e ai due corpi di Dio Padre e di Dio Figlio, in modo tale da unire due persone distinte in anima e corpo in un solo Dio tripersonale la cui sostanza è Spirito.   Lo studioso cattolico statunitense William J. Hill nota comunque come questo "trinitarismo elementare" sia presente anche nell'opera di Clemente di Roma (I secolo) il quale nella Prima lettera di Clemente (cfr. 58 e 46) si richiama espressamente a Dio Padre, al Figlio, allo Spirito, menzionando tutti e tre insieme. Allo stesso modo Ignazio di Antiochia (inizi II secolo) nella sua Lettera agli Efesini (cfr. 9) chiama il cristiano a "incorporarsi" nel tempio divino come per diventare uno con Cristo, nello Spirito fino alla filiazione del Padre. Ciononostante, anche per lo studioso statunitense, la soluzione trinitaria, per come successivamente verrà proposta, era ancora ben lontana[Nota 16].  Sviluppo della nozione nei teologi e nei confronti conciliari del IV e V secoloModifica Ulteriori informazioni Questa voce o sezione sull'argomento Cristianesimo non cita le fonti necessarie o quelle presenti sono insufficienti. Come è possibile affermare che Dio è "uno e trino"? Secondo la fede cristiana la natura divina è al di là della conoscenza scientifica, ed è incomprensibile e non conoscibile se non fosse per quanto è dato sapere attraverso la rivelazione divina. Quindi la dottrina trinitaria non è una conoscenza, come quella dell'esistenza di Dio, a cui si potrebbe pervenire attraverso la ragione umana o la speculazione filosofica, sebbene anch'essa non sia dimostrabile. Tuttavia molti teologi e filosofi cristiani (cfr. Agostino d'Ippona) hanno scritto innumerevoli trattati per spiegare la paradossale identità unica e trina di Dio, che è un mistero della fede, un dogma (cioè una verità irrinunciabile anche se non compiutamente dimostrabile) in cui ogni cristiano-cattolico è tenuto a credere (dal Concilio di Nicea del 325 E.V. in poi) se vuol essere tale.  Unicità, Unità e Trinità di DioModifica  Completa rappresentazione Teo-cristologica Dio è uno solo, e la divinità unica. La Bibbia ebraicapone questo articolo di fede sopra tutti gli altri, e lo circonda di numerosi ammonimenti a non abbandonare questo fondamento della fede, mantenendo la fedeltà al patto che Dio ha fatto con gli ebrei: "Ascolta Israele, il Signore nostro Dio è uno solo", "tu non avrai altri dei di fronte a me" e anche "Questo ha detto il Signore re d'Israele e suo redentore, il Signore delle schiere: io sono il primo e l'ultimo, e oltre a me non c'è alcun Dio". Ogni formula di fede che non insista sull'unicità di Dio, o che associ nell'adorazione un altro essere diverso da Dio, oppure che ritenga che Dio possa venire all'esistenza nel tempo anziché essere Dio dall'eternità, è contraria alla conoscenza di Dio, secondo la comprensione trinitaria dell'Antico Testamento. Lo stesso tipo di comprensione è presente nel Nuovo Testamento: Non c'è altro Dio se non uno. Gli "altri dei" di cui parla San Paolo non sono affatto dei, ma sostituti di Dio, cioè esseri mitologici o demoni.  Secondo la visione trinitaria, è scorretto dire che il Padre o il Figlio, in quanto alla divinità, siano due esseri. L'affermazione centrale e cruciale della fede cristiano-cattolica è che esiste un solo salvatore, Dio, e la salvezza è manifestata in Gesù Cristo, attraverso lo Spirito Santo. Lo stesso concetto può essere espresso in quest'altra forma:  Soltanto Dio può salvare Gesù Cristo salva Gesù Cristo è Dio In parole semplici è possibile esprimere il mistero della Trinità nell'Unità dicendo che il solo Dio si conosce (nel suo Figlio, Verbo, Pensiero, Sapienza) e si ama in esso (Spirito Santo, Amore). Il Padre è trascendente e nessun vivente poté vederlo, attraverso il corpo di uomo di Gesù poté rivelarsi ed essere visto e creduto dagli uomini.  La Trinità e AgostinoModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Pensiero di Agostino d'Ippona § Il problema trinitario e De Trinitate (Agostino d'Ippona).  La Coronazione della Vergine, di Diego Velázquez (1645), Museo del Prado A tale proposito è interessante leggere quanto scritto da sant'Agostino nel De Trinitate e in altre opere per tentare una chiarificazione del concetto di unica Sostanza e tre Persone. Nell'uomo, ragiona Agostino, si può distinguere la sua realtà corporale (esse), la sua intelligenza (nosse) e la sua volontà (velle). Se Dio ha creato l'uomo a propria immagine e somiglianza è allora necessario che questi tre aspetti appartengano anche alla Divinità, anche se in modo perfetto e divino, non imperfetto e umano: così Dio è Essere (Padre), Verità (Figlio) e Amore (Spirito Santo). Ecco alcune citazioni bibliche al riguardo:  «  Dio disse a Mosè: «Io sono colui che sono!». Poi disse: «Dirai agli Israeliti: Io-Sono mi ha mandato a voi». »   ( Es 3, 14, su laparola.net.)«  Gli disse Gesù: "Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me". »   ( Gv 14, 6, su laparola.net.) «  Dio è amore; chi sta nell'amore dimora in Dio e Dio dimora in lui. »   ( 1Gv 4, 16, su laparola.net.)Creazione dell'UniversoModifica La creazione dell'universo viene attribuita alla Trinità tutta intera; Dio Padre crea l'universo per mezzo del Figlio ("il Verbo","la Parola") e "donando" o "riempiendolo" di Spirito Santo.  Il credo recita infatti:   «Per mezzo di lui [il Figlio] tutte le cose sono state create»  (Credo) La fonte di questa interpretazione è in Genesi, al primo capitolo, Dio crea il mondo attraverso la Parola, espresso con la duplice formula: "Dio disse..." e "Dio chiamò ...". Questo è appunto il "Verbo di Dio", ossia nella visione cristiana proprio la seconda persona della Trinità, ovvero il Cristo. Valga, a titolo di esempio il racconto della creazione:  Primo giorno:  « Dio disse: «Sia la luce!». E la luce fu »  ( Genesi 1, 3, su laparola.net.) « e chiamò la luce giorno e le tenebre notte »   ( Genesi 1, 5, su laparola.net.)Secondo giorno:  « Dio disse: «Sia il firmamento in mezzo alle acque... »   ( Genesi 1, 6, su laparola.net.)« Dio chiamò il firmamento cielo. »   (Genesi 1,6, su laparola.net.) e così prosegue nei "giorni" successivi con lo stesso schema, fino alla creazione dell'Uomo:  « E Dio disse: «Facciamo l'uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza, »   ( Genesi 1, 26, su laparola.net.)Anche lo Spirito Santo, che è la relazione d'amore fra il Dio Padre e il Figlio, terza persona della Trinità, partecipa alla creazione:  « La terra era informe e vuota, le tenebre coprivano la faccia dell'abisso e lo Spirito Santo aleggiava sulla superficie delle acque »   ( Genesi 1, 2, su laparola.net.)Natura e ruolo di GesùModifica  La Santísima Trinidad, di Francesco Cairo(1630), Museo del Prado In ambito teologico trinitario viene fatta una distinzione fra la Trinità da un punto di vista "ontologico" (ciò che Dio è) e da un punto di vista "ergonomico" (ciò che Dio fa). Secondo il primo punto di vista le persone della Trinità sono uguali, mentre non lo sono dall'altro punto di vista, cioè hanno ruoli e funzioni differenti.  L'affermazione "figlio di", "Padre di" e anche "spirito di" implica una dipendenza, cioè una subordinazione delle persone. Il trinitarismo ortodosso rifiuta il "subordinazionismo ontologico", esso afferma che il Padre, essendo la fonte di tutto, ha una relazione monarchica con il Figlio e lo Spirito. Ireneo di Lione, il più importante teologo del II secolo, scrive: "Il Padre è Dio, e il Figlio è Dio, poiché tutto ciò che è nato da Dio è Dio."  Simili affermazioni sono presenti in altri scrittori pre-niceni,[5] cioè prima dello scoppio della controversia ariana:  «vediamo ciò che avviene nel caso del fuoco, che non è diminuito se serve per accenderne un altro, ma rimane invariato; e ugualmente ciò che è stato acceso esiste per se stesso, senza inferiorità rispetto a ciò che è servito per comunicare il fuoco. La Parola di Sapienza è in sé lo stesso Dio generato dal Padre di tutto.»  (Giustino) Immagine ripresa anche da scrittori successivi:  «Noi non togliamo al Padre la sua Unicità divina, quando affermiamo che anche il Figlio è Dio. Poiché egli è Dio da Dio, uno da uno; perciò un Dio perché Dio è da Se stesso. D'altro lato il Figlio non è meno Dio perché il Padre è Dio uno. Poiché l'Unigenito Figlio non è senza nascita, così da privare il Padre della Sua unicità divina, né è diverso da Dio, ma poiché Egli è nato da Dio.»  (Ilario di Poitiers, De Trinitate) Se Gesù Cristo nel vangelo di Giovanni viene chiamato l'"unigenito" Figlio di Dio, evidenziando con questa affermazione il suo essere ontologicamente in Dio, secondo la dottrina ortodossa Gesù è anche diventato una creatura con l'incarnazione, svolgendo un ruolo "ministeriale", e in un certo senso subordinato in relazione a Dio, nei confronti dell'umanità. Viene pertanto chiamato "primogenito" in altri passi, in riferimento alla creazione e redenzione, ad esempio è detto "immagine del Dio invisibile, primogenito di tutta la creazione... egli è principio, primogenito dei risuscitati". La distinzione è ripresa nell'affermazione che Gesù fa quando dice che dovrà "ascendere al Padre mio e Padre vostro, Iddio mio e Iddio vostro", distinguendo così fra l'essere figlio di Dio in senso proprio (caratteristico di Gesù) e in senso figurato (caratteristico degli uomini).  Atanasio di Alessandria sviluppa questa distinzione commentando il passo evangelico in cui Gesù dichiara di non conoscere il giorno e l'ora della fine del mondo:  «Ancora un altro passo che è detto bene, viene interpretato male dagli ariani: Voglio dire che "Quanto a quel giorno e a quell'ora, nessuno li conosce, neppure gli angeli, neppure il figlio." Ma essi ritengono che avendo detto "neppure il figlio", egli, in quanto ignorante, abbia rivelato di essere creatura. Ma la cosa non sta così, non sia mai! Come infatti dicendo: "Mi ha creato", lo ha detto in riferimento all'umanità, così, anche, dicendo: "neppure il Figlio", si è riferito alla sua umanità. ... Poiché infatti è diventato uomo, ed è proprio dell'uomo ignorare, come l'aver fame e il resto (infatti l'uomo non sa se non ascolta e apprende) egli, in quanto uomo, ha dato a vedere anche l'ignoranza propria degli uomini per questo motivo: in primo luogo per dimostrare di avere veramente un corpo umano, poi anche perché, avendo nel corpo l'ignoranza propria dell'uomo, dopo aver mondato e purificato tutta l'umanità, la presentasse al Padre perfetta e santa. ..... quando dice: "Io e il Padre siamo una cosa sola e Chi ha visto me ha visto il Padre e Io nel Padre e il Padre in me", dimostra la sua eternità e la consustanzialità col Padre. .... Nel vangelo di Giovanni i discepoli dicono al Signore: Ora sappiamo che tu sai tutto...»  (Atanasio, Seconda Lettera a Serapione, trad. M. Simonetti) Origine e sviluppo della dottrinaModifica La nozione dell'unicità di Dio e di Gesù Cristo come "Dio da Dio" e consunstanziale al Padre è stata affermata come articolo di fede al primo concilio di Nicea (325) e sviluppata nei successivi concili ecumenici. Il termine "trinità" non è utilizzato nel credo niceno, ma il termine è precedente e rintracciabile già in scrittori ecclesiastici come Tertulliano.  Nel Nuovo Testamento il termine non compare, tuttavia la cristologia di Giovanni, che presenta Cristo come Logos di Dio, (cioè verbo e ragione), assieme ad alcune affermazioni di Paolo di Tarso, sono stati considerate dai Cristiani come le basi per lo sviluppo della dottrina trinitaria. Per la Chiesa in più punti del Nuovo Testamento si ravviserebbe il carattere trinitario di Dio, ad esempio quando Gesù dice: "Il Padre ed io siamo una cosa sola" od ancora nel Prologo del Vangelo di Giovanni: " In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio."  In un saggio sulla divinità di Gesù nel Nuovo Testamento il biblista americano Raymond E. Brownipotizza che Gesù sia chiamato Dio nel Nuovo Testamento, ma lo sviluppo sarebbe stato graduale e non sarebbe emerso fino a un'epoca tarda nella tradizione neotestamentaria:  «... nella fase più antica del cristianesimo prevale l'eredità dell'Antico Testamento nell'utilizzo del termine Dio, per cui Dio era un titolo troppo ristretto per essere applicato a Gesù. Esso si riferisce strettamente al Padre di Gesù, al Dio da lui pregato. Gradualmente, (negli anni 50 e 60 d.C. ?), con lo sviluppo del pensiero cristiano Dio venne compreso in un'accezione più ampia. Si vide che Dio rivelò così tanto di sé stesso in Gesù al punto che Dio includeva sia Padre che il Figlio."»  (Does the New Testament call Jesus God?) Il primo teologo cristiano a discutere sistematicamente la dottrina della Trinità fu forse Prassea (II secolo),[6] la cui opera ci è nota solo attraverso la confutazione che ne fece Tertulliano nel suo Adversus Praxean (dopo il 213), opera in cui è esposta per la prima volta la formula del rapporto tra una sola sostanza e tre Persone.[7]  Lo sviluppo completo della dottrina si ebbe in seguito, anche in reazione alle dottrine di Ario che introdusse le sue interpretazioni subordinazioniste di Gesù come essere semidivino (vedi arianesimo).  Molti termini che si impiegano per esplicitare questo insegnamento sono stati mutuati dalla filosofia greca e ulteriormente approfonditi per evitare di esprimere concetti erronei. Tra questi si possono citare: sostanza, ipostasi e relazione. La Trinità viene così definita in teologia come tre ipostasi individuali, cioè tre Persone o sussistenze, che hanno e vivono in un'unica essenza o sostanza comune.  Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Ipostasi § Nel cristianesimo. La controversia arianaModifica Magnifying glass icon mgx2.svg          Lo stesso argomento in dettaglio: Arianesimo e Ario. La causa che portò alla convocazione del primo concilio di Nicea fu la disputa ariana, che giunse a una svolta all'inizio del IV secolo d.C. I protagonisti furono tre teologi-filosofi provenienti da Alessandria d'Egitto. Da una parte c'era Ario, e dall'altra gli ortodossiAlessandro e Atanasio. Ario affermava che il Figlio non fosse della stessa essenza, o sostanza, del Padre e che lo Spirito Santo fosse una persona ma inferiore a entrambi. Parlava di una "triade" o "Trinità", pur considerandola formata di persone ineguali, delle quali solo il Padre non era stato creato.  D'altra parte Alessandro e Atanasio sostenevano che le tre persone della Divinità fossero della stessa sostanza e che pertanto non fossero tre Dei, ma uno solo, sebbene il Padre fosse il "primo" e la causa delle altre due.  Ario, "volendo difendere il monoteismo più rigoroso, secondo cui Dio è trascendente"[8] accusò Atanasio di reintrodurre il politeismo. In effetti l'arianesimo viene considerato da molti studiosi moderni[senza fonte] come il ramo più rigoroso del subordinazionismo cristologico dei primi padri della Chiesa (Giustino, Ireneo di Lione ecc.) e scrittori cristiani (Origene, Tertulliano ecc.) i quali ancora non si interrogavano sul rapporto fra le persone della divinità. Atanasio accusò Ario di reintrodurre il politeismo, dal momento che distingueva la natura divina delle tre persone.  Accanto a Dio, Ario poneva infatti una creatura "che può essere chiamata dio in modo improprio"[9], considerato il Figlio di Dio, ma ritenuto da lui semplicemente "la prima creatura di cui il Padre si era servito per compiere la creazione", incarnatosi in Gesù, simile ma non uguale a Dio, che avrebbe avuto esistenza dal nulla, affermando che "generare" e "creare" fossero sinonimi. Gli ortodossi invece ribadivano l'assoluta unità di Dio, e se il Logos era divino, (come era affermato nel prologo di Giovanni "il Logos era Dio"), ciò non comportava una suddivisione o una moltiplicazione di dei, ma Dio era sempre uno solo. In questo senso il termine "generazione" indicava l'unità della natura e non andava inteso in senso temporale e umano, con un "prima" e un "dopo", ma il Figlio era eternamente generato, cioè era sempre stato insito in Dio. Al tempo opportuno il Verbo si sarebbe incarnato in Gesù, in un processo di abbassamento e annichilimento, e l'unione della natura divina e di quella umana nella persona di Gesù diede origine ad un'altra serie di controversie nei secoli successivi.  La controversia ariana non terminò a Nicea. L'arianesimo ebbe grande fortuna nell'Impero romano e in certi momenti presso la corte imperiale. Molte tribù germaniche che invasero l'impero romano professavano un cristianesimo ariano e lo diffusero in gran parte dell'Europa e dell'Africa settentrionale, dove continuò a prosperare fino a gran parte del VI secolo, e in alcune zone anche più a lungo.  La Trinità nei primi scritti cristianiModifica  Santissima Trinità, di Hendrick van Balen (anni 20 del XVII secolo), Sint-Jacobskerk, Anversa I primi scrittori cristiani così si esprimono al riguardo:[10]  «Noi non togliamo al Padre la sua Unicità divina, quando affermiamo che anche il Figlio è Dio. Poiché egli è Dio da Dio, uno da uno; perciò un Dio perché Dio è da Se stesso. D'altro lato il Figlio non è meno Dio perché il Padre è Dio uno. Poiché l'Unigenito Figlio non è senza nascita, così da privare il Padre della Sua unicità divina, né è diverso da Dio, ma poiché Egli è nato da Dio.»  (Ilario di Poitiers De Trinitate) «Quando affermo che il Figlio è distinto dal padre, non mi riferisco a due dèi, ma intendo, per così dire, luce da luce, la corrente dalla fonte, ed un raggio dal sole»  (Ippolito di Roma) «Il carattere distintivo della fede in Cristo è questo: il figlio di Dio, ch'è Logos Dio in principio infatti era il Logos, e il Logos era Dio - che è sapienza e potenza del Padre Cristo infatti è potenza di Dio e sapienza di Dio - alla fine dei tempi si è fatto uomo per la nostra salvezza. Infatti Giovanni, dopo aver detto: In principio era il Logos, poco dopo ha aggiunto e il logos si fece carne, che è come dire: diventò uomo. E il Signore dice di sé: perché cercate di uccidere me, un uomo che ha detto la verità? e Paolo, che aveva appreso da lui, scrive: Un solo Dio, un solo mediatore fra Dio e gli uomini, Cristo Gesù uomo»  (Atanasio di Alessandria, Seconda lettera a Serapione) Teologia delle Chiese orientali e della Chiesa latinaModifica L'interpretazione trinitaria nella Chiesa latina si differenzia da quella greca. Se entrambe le Chiese, infatti, riconoscono l'unità delle tre Persone divine nell'unica natura indivisa, per cui ciascuna di esse è pienamente Dio secondo gli attributi (eternità, onnipotenza, onniscienza ecc.), ma ciascuna è a sua volta distinta e inconfondibile rispetto alle altre due, è altresì vero che nasce il problema di comprendere le relazioni che intercorrono fra di esse.  Con il simbolo niceno-costantinopolitano, approvato nel primo concilio di Costantinopoli (381 d.C.), si afferma che il Figlio è generato dal Padre, mentre lo Spirito Santo è spirato dal Padre. Il Padre è dunque l'unica origine della Trinità. Col Concilio di Toledo, però, e con i suoi successivi sviluppi, la Chiesa latina, usando una terminologia diversa, stabiliva unilateralmente che lo Spirito Santo procede anche dal Figlio (la questione del cosiddetto Filioque), cioè che è la terza persona. Gli ortodossi rifiutano tuttora tale sviluppo, temendo che essa renda il Figlio concausa dello Spirito Santo; per questo preferiscono parlare, secondo la teologia greca, di "spirazione dal Padre attraverso il Figlio" (proposta da grandi teologi come san Gregorio di Nissa, san Massimo il Confessore e san Giovanni Damasceno), pur non introducendo questa specificazione nel Credo. La Chiesa cattolicaritiene valide entrambe le versioni, infatti le chiese cattoliche orientali utilizzano nella liturgia la versione priva del Filioque.  Anche altri gruppi cristiani hanno rifiutato il Filioque; in particolare bisogna citare il caso dei vetero-cattolici, che accettano la validità dei primi sette concili ecumenici, rifiutando le dottrine cattoliche successive. Invece le Chiese nate dalla riforma hanno generalmente accettato questo dogma nella versione occidentale (comprensivo, cioè, del Filioque).  Simboli di fede                  Modifica Magnifying glass icon mgx2.svg                         Lo stesso argomento in dettaglio: Simbolo di fede. La dottrina della Trinità è espressa in alcuni Simboli di fede, cioè proposizioni il più possibile chiare e prive di ambiguità che si riferiscono a punti controversi della dottrina. Ad esempio al primo concilio di Nicea venne approvato il seguente paragrafo (dal cosiddetto credo di Nicea) relativo al significato di Figlio di Dio riferito a Gesù Cristo:  «...nato dal Padre prima di tutti i secoli: Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero, generato, non creato, della stessa sostanza del Padre; per mezzo di lui tutte le cose sono state create.»  Tale proposizione deriva dal passo del primo capitolo della lettera agli Ebrei:  «...il Figlio, che Dio ha costituito erede di tutte le cose e per mezzo del quale ha fatto anche il mondo. Questo Figlio, che è irradiazione della gloria (di Dio) e impronta della sua sostanza e sostiene tutto con la potenza della sua parola....»  Il simbolo atanasiano (detto anche Quicunque vultdalle parole iniziali) è invece un'esposizione sintetica della dottrina della Trinità secondo la tradizione latina, probabilmente composto in Gallia verso la fine del V secolo, ed usato nelle chiese occidentali:  «...veneriamo un unico Dio nella Trinità e la Trinità nell'unità. Senza confondere le persone e senza separare la sostanza. Una è infatti la persona del Padre, altra quella del Figlio ed altra quella dello Spirito Santo. Ma Padre, Figlio e Spirito Santo hanno una sola divinità, uguale gloria, coeterna maestà. ...Similmente è onnipotente il Padre, onnipotente il Figlio, onnipotente lo Spirito Santo. Tuttavia non vi sono tre onnipotenti, ma un solo onnipotente... Il Padre è Dio, il Figlio è Dio, lo Spirito Santo è Dio. E tuttavia non vi sono tre Dei, ma un solo Dio. (...) Poiché come la verità cristiana ci obbliga a confessare che ciascuna persona è singolarmente Dio e Signore, così pure la religione cattolica ci proibisce di parlare di tre Dei o Signori. ... E in questa Trinità non v'è nulla che sia prima o poi, nulla di maggiore o di minore: ma tutte e tre le persone sono l'una all'altra coeterne e coeguali. (...) Il Padre non è stato fatto da alcuno: né creato, né generato. Il Figlio è dal solo Padre: non fatto, né creato, ma generato. Lo Spirito Santo è dal Padre e dal Figlio: non fatto, né creato, né generato, ma da essi procedente.(...) ... il Signore nostro Gesù Cristo, Figlio di Dio, è Dio e uomo. È Dio, perché generato dalla sostanza del Padre fin dall'eternità; è uomo, perché nato nel tempo dalla sostanza della madre. Perfetto Dio, perfetto uomo: sussistente dall'anima razionale e dalla carne umana. Uguale al Padre nella divinità, inferiore al Padre nell'umanità.»  In seguito vennero elaborati altri simboli di fede in cui si riassumevano le dottrine precedenti e si trattavano altri punti controversi, ad esempio al XI Sinodo di Toledo (675) venne elaborata un'altra "confessione" attribuita in passato ad Eusebio di Vercelli, di cui si riporta solo l'inizio:  «Professiamo e crediamo che la santa ed ineffabile Trinità, il Padre e il Figlio e lo Spirito Santo, secondo la sua natura è un solo Dio di una sola sostanza, di una sola natura, anche di una sola maestà e forza. E professiamo che il Padre non (è) generato, non creato, ma ingenerato. Egli infatti non prende origine da nessuno, egli dal quale ebbe sia il Figlio la nascita, come lo Spirito Santo il procedere. Egli è dunque la fonte e l'origine dell'intera divinità.»  Posizioni antitrinitarie                                                  Modifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Antitrinitarismo, Gesù nell'ebraismo e Gesù nell'islam. La dottrina del Dio Uno e Trino non è accettata al di fuori del cristianesimo, dato che afferma la divinità di Gesù Cristo, che è caratteristica delle maggiori confessioni di questa religione. Ebraismo ed Islamrifiutano questo aspetto, e nel Corano in particolare questo punto dottrinale viene esplicitamente negato[Nota 17].  Anche nell'ambito del cristianesimo vi sono movimenti religiosi e diramazioni anti-trinitarie; fra queste le più note a partire dall'età moderna e contemporanea sono i testimoni di Geova[11], la House of Yahweh, i cristadelfiani, gli antoinisti, i mormoni, la Chiesa del Regno di Dio, la Chiesa cristiana millenarista, il cristianesimo scientista, la Chiesa dell'unificazione e le chiese odierne che si rifanno all'unitarianismo.  Ordini e congregazioni della Santissima TrinitàModifica Numerosi istituti religiosi condividono la devozione alla Trinità e sono a essa intitolata: l'Ordine della Santissima Trinità, con il ramo delle monache e le congregazioni delle suore di Madrid, Roma, Valence, Valencia e delle Montalve; le statunitensi congregazioni dei Missionari Servi e delle Ancelle Missionarie della Santissima Trinità; le canadesi Domenicane della Santissima Trinità; le spagnole Giuseppine della Santissima Trinità; le messicane Serve della Santissima Trinità e dei Poveri e le italiane Adoratrici della Santissima Trinità.  NoteModifica ^ (EN)  «Trinitarian doctrine touches on virtually every aspect of Christian faith, theology, and piety, including Christology and pneumatology, theological epistemology (faith, revelation, theological methodology), spirituality and mystical theology, and ecclesial life (sacraments, community, ethics).»  (IT)  «La dottrina Trinitaria tocca virtualmente ogni aspetto della fede cristiana, della teologia e della devozione, comprese la Cristologia e la pneumatologia, l'epistemologiateologica (fede, rivelazione, metodologia teologica), la teologia mistica e la spiritualità e la vita ecclesiale (sacramenti, comunità, etica)»  (Catherine Mowry Lacugna. Trinity, in Encyclopedia of Religion, vol.14. NY, Macmillan, 2005, pp. 9360 e segg.) ^ «non è esatto dire che i cristiani credono in Dio! Per lo meno non è esatto rispetto al fatto che essi non si contentano di affermare l'esistenza di quell'Essere supremo, onnipotente, creatore del cielo e della terra che gli "uomini chiamano Dio" (Tommaso d'Aquino) e che, nel vasto mondo e nella storia, anche tanti altri credenti riconoscono. La sola cosa che, in realtà, si possa dire se si vuole usare un linguaggio preciso, è che i cristiani credono nel Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo; o ancora nella Trinità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, che insieme costituiscono l'unico Dio vivo e vero.»  (Joseph Doré. Trinità in Dictionnaire des Religions (a cura di Paul Poupard). Parigi, Presses universitaires de France, 1984. In italiano: Dizionario delle religioni. Milano, Mondadori, 2007, pp. 1918 e segg.) Cfr. ad esempio il Catechismo della Chiesa Cattolica che al n. 232 riportando l'Expositio symboli (sermo 9) CCL 103,48 di Cesario d'Arlessostiene «La fede di tutti i cristiani si fonda sulla Trinità». ^ Il "simbolo niceno-costantinopolitano" rispetto al credo di Nicea, amplia gli aspetti cristologici e pneumatologici: Gesù Cristo figlio di Dio è generato da sempre dal Padre, è increato, è homoúsioncioè della "stessa sostanza" del Padre e per mezzo di lui si è realizzata la creazione; egli è dunque Dio vero da Dio vero, luce da luce. Lo Spirito Santo ha parlato per mezzo dei profeti, egli è Signore e da lui proviene la vita, procede dal Padre ed è elemento di culto come il Padre e il Figlio. Cfr., ad esempio, Pier Cesare Bori. Dio (ebraismo e cristianesimo), in Dizionario delle religioni (a cura di Giovanni Filoramo) Torino, Einaudi, 1993, pagg. 203 e segg. ^ Per la Chiesa cattolica la "trinità" è un mistero della fede ovvero uno dei «misteri nascosti in Dio, che non possono essere conosciuti se non sono divinamente rivelati» (Concilio Vaticano I, DS 3015; FCC 1.080). ^ «poreuthentes oun mathēteusate panta ta ethnē baptizontes autous eis to onoma tou patros kai tou uiou kai tou agiou pneumatos» ^ «baptistheis de o iēsous euthus anebē apo tou udatos kai idou ēneōchthēsan oi ouranoi kai eiden pneuma theou katabainon ōsei peristeran erchomenon ep auton» ^ «kai apokritheis o angelos eipen autē pneuma agion epeleusetai epi se kai dunamis upsistou episkiasei soi dio kai to gennōmenon agion klēthēsetai uios theou» ^ «pisteuete moi oti egō en tō patri kai o patēr en emoi ei de mē dia ta erga auta pisteuete» ^ «kagō erōtēsō ton patera kai allon paraklēton dōsei umin ina ē meth umōn eis ton aiōna to pneuma tēs alētheias o o kosmos ou dunatai labein oti ou theōrei auto oude ginōskei umeis ginōskete auto oti par umin menei kai en umin estin» ^ «o de paraklētos to pneuma to agion o pempsei o patēr en tō onomati mou ekeinos umas didaxei panta kai upomnēsei umas panta a eipon umin egō» ^ «ei ou poiō ta erga tu patròs mou, pistèuete moi; ei dè poiō, kan emoì mē pistèuēte tòis ergòis pistèuete, ìna gnōte kai ginōskēte oti en emoi o patēr kagō en tō patrì.» ^ «ē charis tou kuriou iēsou [christou] kai ē agapē tou theou kai ē koinōnia tou agiou pneumatos meta pantōn umōn» ^ «kata prognōsin theou patros en agiasmō pneumatos eis upakoēn kai rantismon aimatos iēsou christou charis umin kai eirēnē plēthuntheiē» ^ (EN)  «Further, exegetes and theologians agree that the New Testament also does not contain an explicit doctrine of the Trinity. God the Father is source of all that is (Pantokrator) and also the father of Jesus Christ; "Father" is not a title for the first person of the Trinity but a synonym for God.»  (IT)  «Inoltre, esegeti e teologi sono d'accordo che anche il Nuovo Testamento non contiene un'esplicita dottrina della Trinità. Dio Padre è fonte di tutto ciò che è (Pantokrator) e anche il padre di Gesù Cristo; "Padre" non è un titolo per la prima persona della Trinità ma un sinonimo per Dio.»  (Catherine Mowry Lacugna. Trinity, in Encyclopedia of Religion, vol. 14. NY, Macmillan, 2006, p. 9360) ^ (EN)  «Exegetes and theologians today are in agreement that the Hebrew Bible does not contain a doctrine of the Trinity, even though it was customary in past dogmatic tracts on the Trinity to cite texts like Genesis 1:26, "Let us make humanity in our image, after our likeness" (see also Gn. 3:22, 11:7; Is. 6:2–3) as proof of plurality in God. Although the Hebrew Bible depicts God as the father of Israel and employs personifications of God such as Word (davar), Spirit (ruah: ), Wisdom (h: okhmah), and Presence (shekhinah), it would go beyond the intention and spirit of the Old Testament to correlate these notions with later trinitarian doctrine.»  (IT)  «Esegeti e teologi oggi sono d'accordo che la Bibbia ebraicanon contenga la dottrina della Trinità, anche se era abituale nei trattati dogmatici della Trinità citare testi come la Genesi, "Facciamo l'uomo a nostra immagine e somiglianza" (vedi anche Gn. 3:22, 11:7; Is. 6:2–3) come prova di pluralità in Dio. Sebbene la Bibbia ebraica descriva Dio come padre di Israele e usi personificazioni di Dio come Parola (davar), Spirito (ruah: ), Saggezza (h: okhmah) e Presenza (shekhinah), andrebbe oltre le intenzioni e lo spirito del Vecchio Testamento correlare queste nozioni con la successiva dottrina trinitaria.»  (Catherine Mowry Lacugna. Trinity, in Encyclopedia of Religion, vo.14. NY, Macmillan, 2006, p. 9360) ^ (EN)  «In the last analysis, the 2d century theological achievement was limited. The Trinitarian problem may have been clear: the relation of the Son and (at least nebulously) Spirit to the Godhead. But a Trinitarian solution was still in the future. The apologists spoke too haltingly of the Spirit; with a measure of anticipation, one might say too impersonally.»  (IT)  «In ultima analisi i risultati teologici del II secolo furono limitati. Il problema Trinitario poteva essere stato chiaro: la relazione fra il Figlio e (almeno nebulosamente), lo Spirito alla Divinità. Ma una soluzione Trinitaria era ancora futura. Gli apologisti parlano con troppa esitazione dello Spirito; con il valore di un'anticipazione, si potrebbe dire in modo troppo impersonale.»  (R.L. Richard e William J. Hill. Trinity, Holy. The New Catholic Encyclopedia, vol.14. NY, Gale, 2006, p. 191) ^ «O Gente della Scrittura, non eccedete nella vostra religione e non dite su Allah altro che la verità. Il Messia Gesù, figlio di Maria non è altro che un messaggero di Allah, una Sua parola che Egli pose in Maria, uno spirito da Lui [proveniente]. Credete dunque in Allah e nei Suoi Messaggeri. Non dite “Tre”, smettete! Sarà meglio per voi. Invero Allah è un dio unico. Avrebbe un figlio? Gloria a Lui! A Lui appartiene tutto quello che è nei cieli e tutto quello che è sulla terra. Allah è sufficiente come garante» (Cor., IV:171). RiferimentiModifica ^ Catherine Mowry Lacugna, "Trinity", in Encyclopedia of Religion, vol. 14. NY, Macmillan, 2006, p. 9360 ^ a b Trinità in Dictionnaire des Religions, pag.1923 ^ Arthur W. Wainwright, The Trinity in the New Testament, Londra, SPCK 1962, pp. 265-266. ^ Ts 5.23, su laparola.net. ^ Philippe Bobichon, "Filiation divine du Christ et filiation divine des chrétiens dans les écrits de Justin Martyr" in P. de Navascués Benlloch, M. Crespo Losada, A. Sáez Gutiérrez (dir.), Filiación. Cultura pagana, religión de Israel, orígenes del cristianismo, vol. III, Madrid, pp. 337-378 online ^ Roger E. Olson, The Story of Christian Theology: Twenty Centuries of Tradition & Reform, Downers Grove (IL), InterVarsity Press 1999, p. 92. ^ Tertulliano, Contro Prassea, ed. critica e trad. italiana di Giuseppe Scarpat, Torino, S.E.I. 1985. ^ "Terzo millennio Cristiano", paragrafo: "Eresie cristologiche" ^ "Dizionario Mondadori di Storia Universale" ^ John Henry Newman, Gli Ariani del IV secolo, Milano, Jaca Book 1981. ^ Com’è nata la dottrina della Trinità? JW.org BibliografiaModifica Arthur W. Wainwright, The Trinity in the New Testament, Londra, SPCK, 1962. Voci correlateModifica Corpus Domini Cristologia Dio (cristianesimo) Dio (ebraismo) Dio Padre Dio Figlio Diofisismo Figlio dell'uomo Figlio di Dio Gesù di Nazareth Gesù nel cristianesimo Iconografia della Trinità Inabitazione trinitaria Pericoresi Prosopon Spirito Santo Solennità della Santissima Trinità Triade (religione) Trinità (araldica) Unione ipostatica Verbo (cristianesimo) Altri progettiModifica Collabora a Wikiquote Wikiquote contiene citazioni sulla Trinità Collabora a Wikizionario Wikizionario contiene il lemma di dizionario «Trinità» Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file sulla Trinità Collegamenti esterniModifica Trinità, su Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su Wikidata Enrico Rosa e Umberto Gnoli, TRINITÀ, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1937. Modifica su Wikidata trinità, su sapere.it, De Agostini. Modifica su Wikidata ( EN ) Trinità, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su Wikidata ( EN ) Trinità, in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton Company. Modifica su Wikidata ( EN ) Dale Tuggy, Trinity, in Edward N. Zalta (a cura di), Stanford Encyclopedia of Philosophy, Center for the Study of Language and Information (CSLI), Università di Stanford. ( EN ) H.E. Baber, The Trinity, su Internet Encyclopedia of Philosophy. URL consultato il 29 luglio 2019. ( EN ) Anne Hunt, The Development of Trinitarian Theology in the Patristic and Medieval Periods( PDF ), su TRINITY - Nexus of the Mysteries of Christian Faith, google.it. URL consultato il 26 aprile 2018. La Trinità secondo le Sacre Scritture, sito evangelico pentecostale Controllo di autoritàThesaurus BNCF 30177 · LCCN( EN ) sh85137555 · GND ( DE ) 4060909-1 ·BNF ( FR ) cb11933629k (data) · J9U( EN ,  HE ) 987007548874505171 (topic) ·NDL ( EN ,  JA ) 00570172   Portale Gesù: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di Gesù Ultima modifica 27 giorni fa di Lorenzo Longo PAGINE CORRELATE Antitrinitarismo Cristologia studio su chi è e cos'è Gesù Cristo  Dio (cristianesimo) concetto di Dio nel Cristianesimo  Wikipedia Il contenuto  Contenutisticamente l'ascesa a Dio si scandisce in tre tappe (ognuna delle quali a sua volta divisa in due):  il mondo sensibile, vestigium Dei l'anima, in quanto realtà naturale, imago Dei l'anima, in quanto abitata soprannaturalmente dal Mistero trinitario, in Cristo, similitudo Dei Il mondo, vestigium Dei la predica di S.Francesco agli uccelli nel pensiero di Bonaventura vibra la nuova percezione francescana della natura.  L'importanza data alla prima tappa, il mondo sensibile è ciò che differenzia Bonaventura da Agostino, in forza dell'eredità francescana, che gli consente di recuperare qualcosa della impostazione aristotelica, più valorizzatrice del livello corporeo. Il mondo può essere letto come un segno, un simbolo del Trascendente: tutto parla di Dio, e permette perciò di risalire a Lui. Non occorre fuggire dalla realtà, ma è nella realtà, anzitutto materiale, che l'uomo trova la testimonianza del Creatore invisibile.  Secondo Bonaventura la realtà ci parla di Dio non solo nella unità della Sua natura, ma ne annuncia anche il Mistero trinitario: ad esempio la conoscenza delle cose corporee è simbolo della processione del Figlio dal Padre. Come dalla cosa si stacca una immagine, così dal Padre è generato il Figlio, e come l'immagine della cosa si unisce all'organo sensoriale corporeo, così il Verbo si è unito alla carne, facendosi Uomo.   L'anima creata, imago Dei Tuttavia è soprattutto nell'anima che Dio si rivela: il mondo è solo un vestigium, mentre l'anima è imago Dei. Tra l'altro testimonia e parla del Mistero trinitario, come già per S.Agostino, la tripartizione dell'anima in memoria (che rimanda in particolare al Padre), intelletto (che rimanda al Verbo) e volontà (che rimanda allo Spirito Santo, come Amore del Padre e del Figlio).  L'anima redenta, similitudo Dei Più di tutto ci dice chi è Dio l'anima in stato di grazia, l'anima abitata da Cristo: nessuno più del santo ci mostra il volto di Dio. Non basta perciò uno spiritualismo generico. L'uomo non è solo corpo e anima: ma l'anima stessa deve superarsi, dilatarsi, accettando una misura più grande: l'Ospite che ci inabita e chiede di crescere in noi.Dire- zione e gradi del cammino si presentano anche nelle forme di rapporto, tra cui vengono analizzati la realtà nel suo insieme e l'uomo in particolare: traccia (vestigium) del Creatore nel sensibile, sua immagine (imago) trinitariamente sviluppata, nelle facoltà o attività dello Spirito e massima somi- glianza possibile (similitudo) con Lui nello stato della contemplazione perfezionatrice o unione con Lui.  Vestigium o speculum, traccia o specchio come primo grado della «contemplazione riflettente» di Dio indica la forma di essere e di movimento del mondo sensibile che rinvia il pensiero alla sua origine; imago, immagine, cone caratterizzazione della mens conduce il pensiero che si accerta di se stesso al suo archetipo trinitario; similitudo, somiglianza, in- dica lo stato di colui-che-supera-se-stesso nel suo massimo avvicinamento possibile o nella connes- 26 sione con la meta dell'ascesa.  Itinerarium c. 1 e 2: per vestigia e in vestigiis. 3 e 4: per imaginem - in imaginem. All'agire della mens come o   nella similitudo (It. III 2 [303 b], VI 7 [312 a], corrispondono i gradi descritti nei capitoli 5 e 6. Un'interpretazione del rapporto tra vestigium e imago nell'Itinerarium è stata presentata da L. Hodl: Die Zeichen-Gegenwart Gottes und das Gott-Ebenbild-Sein des Menschen in des hl. Bonaventura Itinerarium mentis in Deum, cc. 1-3, in: «Miscellanea Media- evalia» 8, Berlin 1971, pp. 94-112. Sulla differenziazione di vestigium-imago-similitudo ulteriormente: De scientia Christi q. 4 concl. (V 24 a). Orizzonte neoplatonico di «traccia» = ἴχνος: il male stesso ha ancora una «traccia del Bene (ἴχνος ἀγαθοῦ, Proclo, In Remp. I 38, 26). «Essere» come «traccia dell'Uno», in Plotino, vedi sopra pp. 80 ss., ss. e la relazione con la dottrina dell'immagine. Nel contesto oggettivo e storico di questa dottrina vi è Agostino: il creato, l'ente molteplice e temporale nel suo insieme è «traccia dell'unità e atemporalità (divina)» (unitatis e aeternitatis vestigium: Vera rel. 32, 60. Gen. ad litt. imp. lib. 13, 38. Anche Eriugena segue questo concetto di «traccia», che vede nel sensibile la traccia o la manifestazione dell'Essere divino in sé nascosto, come punto di partenza della summitas theoriae: omnis creatura corporalis atque visibilis sensibusque succumbens extremum divinae naturae vestigium non incongrue solet in Scripturis appellari: Periphyseon III 25; 186, 26-28. Sulla «teofania» cfr. Beierwaltes, Negati affirmatio, pp. 241 ss.; sull'aspetto della metafisica della luce: sopra p. 310.Grice: “Bonaventura is generally more liked than Aquinas at Oxford. More platonic, less dogmatic sort of type!” -- Findanza. Fidanza. Keywords: Lc. 19:38-40 ‘grideranno le pietre’ ‘la pietra grida’ – i segni trinitari -  primo grado: vestigio o impronta; secondo grado: immagine; terzo grado: similitudine --. Refs.: Luigi Speranza, "Grice e Fidanza," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51691361846/in/photolist-2mRGVwA-2mPGkBm-2mMQbzj-2mLznXk-2mKNM4g-2mKMJYE-2mKC3nj-2mKCnei-2mKjR8g

 

Grice e Figliucci – Giove e Ganimede – filosofia italiana – Luigi Speranza (Siena). Filosofo. Grice: “Of course I love Figliucci, who doeesn’t? Of course, there is Figliucci and [Vincenzo] Figliucci, both moralists at Siena; what I love about Figliucci is that he championed the big ones: Plato’s Fedro – with the charismatic metaphor of the winged warrior; and then Fedro is an interesting character for maieutica; and Aristotle’s ethical ‘books,’ which we hope he instilled on Alexander!” – Studia a Padova. Dopo aver vissuto le piacevolezze mondane della corte, entrò nel convento domenicano di Firenze. Altre opere: “Del bello” (Roma); “Ficino” (Venezia); “Le undici Filippiche di Demostene con una Lettera di Filippo agli Ateniesi. Dichiarate in lingua Toscana” (Roma, Appresso Vincenzo Valgrisi); “Della Filosofia morale d'Aristotile” (Roma); “Della Politica, ovvero Scienza civile secondo la dottrina d'Aristotile, libri VIII scritti in modo di dialogo” (Venezia, Gio. Battista Somascho); “Catechismo, cioè istruzione secondo il decreto del Concilio di Trento”; Treccani Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. FIGLIUCCI, “IL FEDRO O VERO IL DIALOGO DEL Bello di Platone, Tradotto in lìngua Toscanà per Felice Figliucci Sense.  IN ROMA Con priuilegio del Sommo Ponstefice per anni X.IL FEDRO. Ó VERO il D/4iWa id Bello di Telatone. TRADOTTO in lingua Tofcana» Perfone del Dialogo, SOCRATE, ET FEDRO. O Fedro mio caro,doue uai tu,ac Soc. donde uieni ^ F E D. Socratc,io uego da cafa di Lifia figliuolo di Cefalo,flC hora me ne uh un poco à fpafTo fuor della città: per ciò che buona peza feco à ragionar fedendo, da quefta mattina per tempo, per fino à hora fon dimorato. Et hora,c(rendo à ciò ftato perfuafo,da Acumeno tuo amico, fiC mio,fò caminando efTercitio: il qual modo di efTercitarfi, egli affai più facile, CC molto più gjoueuole giu:sdica, che laftaticarfi nel correre, come molti fanirsno. SOCR. Certamente Fedro mio, eh* egli ti configlia bene^ma fecondo il tuo dirc,Lifu dee elTere nella città, è uero ^ F E D, Ve^sro,fi£ alloggia infieme con Epicrate nella cafa di Morico,uicino al Tempio di GioueOlimpiót SOCR. rimali di gratia,clie faceuate uoi quiui f Inuitouui forfè Lifia al parto delle fuc orationii' FE D. Tu lo fapra!,par clic tu babbi tempo di uenire i(ifieme coumeco^fin che io te l habbia narrato. SOCR. Che dici tu.^ Hor Don penfi tu, che io proponga à ogni mia facen <ìa (come di^Te Pindaro) il ragionamento di Li:s fia,fl£iltuo? FED, Seguitami adunque S 0,C R. Di pure^ F E D. Et fappi Socra;^ tc.che quella difputa, che nacque fra Lifia^a ine.è {lata à punto degna delle tue orecchie. Per ciò che il parlare,che Ci\ ùilto,(ìx in un cers; to modo tutto intorno alle cofe d'amore;.pcr ciò che Lifia haueua fcritto una oratioue doftiG:: fima,fi£eIegantiflima,manoDÌn fauore d'uno 'amante,anzi pier quello era artificiofa.fi: Icggias: dra,che egli in quella prouaua,che più toftofi dee far ccfa grata à chi non ama, che à chi ama» S O C. O huomo certamente digniffuno; uo:s lefTe lddio,che egli haueffe fcritto,che fi hauefe fe à fave bene più tofto à unpoueio.che à un ricco, ftàunuecchio, che à un giouane,aà moltialtrijiquali in molte altre cofe fono mal condotti, come me: per ciò che fe tale fufTe fta^ ta la fua oratione.all' bora fi poteua degnametc ^nc ce piaccuole.a utile. Non di meno anchora che ella non fia (lata cefi, egli m'è foptags giunta una fi gran uogliad' udirla, che (e tu cdis minando te ne andaflj perfino à Mcgara,flC fc (comeècoftume di Hcrodico ) tofto che alle mura della città fiifli giunto.indietro te ne tornaflì,io per queflo fon difpofto di non ti aK? bandonarmai. FED, Che dici tu Socrate^' Penfi turche io giouane inefperto poffa hora narrarti, flC ramentarti quelle cofe,chc Lifia moi te più dotto di quanti Sìcrittori hoggi fi troua:^ no, in molto tempo à fua commodità compofe/ Sappi,che io fono affai lontano da quello ti uoglio dire,chc iouorrei più prefto fimil cofa faper fare, che effer d' infinite riccheze poffeffo? re. SOCR. Fedro cparrebbe.cheip non fi conofcefL, non fai tu, che tanto à me farebbe il non fapere chi tu fei, quanto lo fcordarmi di me medefimo.^ Delle quali^ofe neffuna è uera: per ciò che io fo beniflimo,che tu non udirti una uolta fola quefta Oratione di Lina,ma te U facefli replicare affai uolte. Et Lifia fo io, che uo lentieri ti ubidiua: ne quefto anchora ti fu affair ma fattoti al fine dare m mano il libro. doue eri fcritta,confiderafti ineffo tutte quelle cofe,U quali maggiormente defideraui fapere: il che come hauedi fatto, fianco di hauere in quel Iugo fi fungamciife fedufo,(i partifti per andare tene a fpafTo. Et io giiiraréi,che bora tela mefe teui alla memoria, fé gii non fufTeftata troppo lunga, te neandaui fuor della città^perconi fiderare date ftefloà quello, che haueui letto» Ma poi che tu ti fei abbatuto ì un'huomo pazo di udire fimili ragjonamèti,come fono io,toflo che iMiaiucduto, ti fei oltra modo rallegrato, quafi che tu fufli certo di hauerc uno, che dei niederimo,che tu,tecori hauefli à rallfgrare,flc fare feft^,flC cofi mi bai commefTo.che io uenea teco. Quindi pregato da me defiderofiflimo di ud/rti, che à dir cominciaflj, bai finto ciò efTerti difficile, come fe tu non hauefli bauto uoglia di raccontarmi quefta cofa: flC io fon certo, che. al fine, quando alcuno qui non fuffe ftato,che ti haueffe per fe fteflo uoluto udire, tu haueui tan ta uoglia di dire quello, che haueui udito, che tu cri per sforzare qualunque fi fuffe.à udirti à fuo mal grado. Et però Fedro mio caro, non tt fare pregare à mia fòdisfatione di fare queU lo, che eri ogni modo per fare fenza che alcuno te ne ricercaffe^ FED. Sarà adunque me;s gbo dirti quefla cofa, come jo faprò,purcbc io la dica; per ciò che e mi pare, che tu non fia per abbandonarmi mai, fin che non Thabbia fentita. <^ Sccr. I o S O C R. Certamcnfe che tu hai^buon credtere* F E Cofi adunque faro: ma per dirti il uero Socrate, io non ho imparate le parole tutte à mente, ma io mi ricordo bene quafi di tutte le ragioni, flC argomenti: per li quali egli dimcftra un'amante efferdifTimile da chi no ama, fiC cofirdì fon deliberato nan-artele tutte ordinatamen:? te. SOC Moftrami di gratia prima quel, che tu hai nella man fiftiftra fotto il mantello, che à dirti il uero, io dubito che tu non habbia quel libro proprio: il che fe è uero, pen(à che io ti ftimo afTai; non di meno fe io poffo udire jLifia,non uoglio ftarc à udir te. Ma che fai tu, che ncn me' 1 moftrif F E D • Deh fta fermo: tu m'hai leuato d'una grande fperanza o Socrais te, che io haueua di efercitait hoggi il mio ingc^ gno con teco: ma poi che io non poffo farlo, po niamcd à federe, per leggere doue più fi piace • S O C Aridiamocene, prima che à leggere. cominciamo,dj U dal fìume Iliffo, ftquiui ci porremo à federe, doue più ci parrà FED. A tempo mi truouo difcalzo,ma fu non uai mai altrimenti: & però ci farà ageuole paiTare quefta piccola acqua, ne anchora ci douerà difpiaccre, tnaflimamente in quefta ftagionc,&à quefta hcra. SOCR. Va uia adunque, ft in tanto confiderà, doue po(&amo federe » F £ Vedi tu quel Platano cofi alto S O G R. Si ueggo. F E D. Qoiui è una piaceuolc ombra, •fiC un uentolino fcaue.flC l'herba tenera in ogni parte: fi che pofTjamo porci à federe,© à giacere, doue più ci piacerà. SOCR. Va Ij^adaquc. F E D, Dimmi un pooc Socrate, non fi dice egli, che già in quefto luogo Borea rapì Oriss fhia,uicinoaI fiume Iliffoi' SOCR, Col; fi dice» F E D. Non ti pare egh, che qui fi uegga una acquetta grata, pura, fiC chiara, nella quale commodatamcte pofTano le fanciulle fcher zarci' SOCR» Non é quefto il luogo, ma po co più di fotto, lontano due ò uero tre ftadi,do:s ue habbiamo trouato il Tempio di Diana, flc in quel medefimo luogo è un certo altare fatto ad honore di Borea. F E D. Io non fq bene quc ftacofa. Ma dimmi per tua fe Socrate, penfi tu che quefta fauola fia ftata uera t S O C R. Se -io non penfafli^che fuffc uera, come fanno an^s chora tutte le perfone fauie.non per quefto farei da elTere ftimato fcioccho: ma non uolendola in tutto negare, potrei fingermi quefta cofa,fiC dire, che il uento Borea ulcito da quefte pietre ui:s cine à (chcrzare.flC foUazarfi con Farmacia, fi ina; contro in Onthia,cCla fecegrauemente à terra cadere, della qual cola ella ne. mori: OC di qui hanno finto, che ella fò rapita da Borea, non già da qiiefto luogo, ma dallo Ariopago.doue bora fi giudicano le caufe: per ciò che è /ama affai da quefta diuerfa^che ella non fu rapita da quello^. ma da quel luogo. Hora io Fedro mio, giudico certamente quelle cofe molto diletteuoli, ma da huomini troppo curiofi, & folkcjti di quello» che poco importa, fiC da perfone anzi poco fortunate, che non: le quali fe per altro non hauefs fimo à chiamare infelici, quefta però farebbe cas:gione giuftf/Tima^che eglino tégono cofa neceffarla, che bifogni interpretale la forma de i Centauri, delle Chimere, flC di molte altre fintioni inutili. Et non folo fi truouano quefte fi fatte figure, ma à chi fi intrica in fimili cofe.gli pio^ uonoà doffo.k turbe de i Serpenti, delle Gorgoni,fiC la bugia del cauallo Pegafo,& di moU te altre forme contrafatte; onde fe alcuno di quefti cofi diligenti non crederà, che quefte co^ fe fienò flate nel modo, che fi narrano, ma uorrà Qgni cofa ridurre alla fua allegoria, & al fenfo più, fecondo lui,conuenienfe,coftui certo bara otio d'auanzo,flf fi fiderà di elTér ricordato per uia d'una fcientia roza,flc di poco memento» Maio,à dirti il uero,non ho tempo à cercare (i^ mili ccfe; perche non anchora pc/To ccnofcerc me fl:e(ro,ri come ci infegna clie dobbiamo fare 1 oracolo Delfico. Et per qnefto à me pare cofa da ridere, il uoler cercare di fapere le cofe d altri,' Don conofcendblhcTìora quelle, che à me fi ap35 partengono,flf che fono in me ftefTo. Per il che laiciate andar quefte cofe.ft crededo paramene» te à quello, che credono gli altri intorno à qucfto,non perdo il tempo nella cqnfidcrafione Io ro,malo metto à confiderare me {lefTo. ft^cofi ^ taì'hora fra me dico. Sono io una beftia più (u^ riofa,flC più rabbiofa,che non fu il gigante det^ to Tifone,© pure (come è uero ) fono nato ani^ m^ile più placabile, fiC humano,fiC più femplice; participc per natura della mente diu{na,fiC nato per godere al fine uno ftafo.ft una forte felicif^s fimar Ma non è egli quefl:o,al quale ragionado, fiamoarriuati, quello albero, doue tu mimenas ui^ FED, Quefto é d elfo. SOCR. Cerato che quefto è flato un viaggio degno: per ciò che quefto Platano hai rami larghifTimi.fiC è molto alto,£(la alteza di qpcllo Agnol cafto; infieme con l'ombra che fa, è bella oltra modo,' ficpiaceuole: fichoraè il tempo, nel quale più che mai,fiorifce: per il che il luogo tutto intorbi noe ripieno di foauiflìmo odore. Oltra ciò, è quefto fonte,che fotlo il Platano la terra riganjs s ^ do. (io bagna, cliiariflìmo, CC di acqua frefca puc afrai,comeripaoconofcerenel metterci dren^ to un piede. Et le fanciullesche quiui fcolpitc j] ueggono.&lealfre belle imagini.dimoftra:? no chiaramente, che il fonte c ftatofagratoak le Ninfe.&ad Acheloo. Non ti accorgi olfra di quefto, quanto gioconda, écfoanefia Taura^ (che quiui fpjrar fi lente r Oltra ciò/i ode una moifitu'crine di cicale: ìe quali, fecondo il temrs po cantando, ne fanno fentiie un concento non fo come fcaue.fiC piaceiiole. ma più dbgni altra 'Cofa,mj pare degna deffcr lodata quefta tenera herbetta,Iaquale.4 mirarla, pare che ella beni:s griamenteafpetfi, che altri ripofiil capo fopra 4/ lei perriceuerlo.tìcfoftenerlo commodiffima mente. Per il che Fedro mio caro, fu mi hai me nato hcggi qui, doue io fono come foreftiero, per farmia ftare più uolenfierijl che hai fatto prudentemente. FED. Chi ti.fentifre.crede:^ rebbe che tu fufli huomo da pochiTIimo: flC cer:s tamente a quel. che tu dici, tu pari più prefto un foreftiero.che uno del paefe: talmente di^ moftn non hauer mai pafTato i noftri confini, ne effer mai ufcito delle noftre porte, S OCR, Perdonamf Fedro mio da bene,|) ciò che io, coxnc (u fai^foiamente defidero imparare:& fu bea falche gli alberi, fiele unie,& li campì, non ttìì pofTono ifegnare cofa alcuna, ma fi bene gli huo >mini, che habitano la città. Ma tu, fecondo me> hai truouato un modo da allettarmi all'ufcircì qualche uolta: per ciò che fi come coloro, che à *gli animali moftrano frondi,ac porgono frutti, li menano doue uogliono: cofi tii,moftrando5 mi queftolibro,mi menareftiper tuttq il contar no d' Atene, doue tu uoleffj. Hora poi che fias mo giunti qui, mi pare di pormi à federe: fiC tu acconciatoti in quel n(iodo,che più commodo ti parrà, comincerai à leggere, F E D * Odi adunque» • I N Q^V E S T O (lato certamente fi trubuano le cofe mie: flC quefto.comc fai,p0:s co fì intefo da me,penfo che m' babbi à gioua:^ re affai. Hora io uoglio che fappi, che io ftimp, ce giudico, fecoia alcuna io ti domanderò, dos: uerla da te per quefta cagione impetrare, per ciò che io non fon prefo del tuo amore • Et che ciò Ca il aero, tu fai che gl'amanti, come prima han no la lor libidine fatiata,fi pentono de i benefiis cii,che ti hanno mai fatti: ma quelli, che dall'ai mor legati non fono, non fi pentono per tempo alcuno, la ragione è quefta, Che eglino fanno li bcneficii per fe fteflì penfatamente, fiC fecondo che pofTono.fif che le facalfà loro compocifanot & non fono à ciò sforzati, còme gli amanti. Ob tra cib,gli amanti alle uolte tra fe ftcflj penfand quanto negligentemente dall'amore impediti J habbino le lor faccende condotte à fine,ft quaa li beneficii habbino con troppo danno loro à gli amati fatto.flC quanti affanni,» quante fati^ che habbino fofferto: fif per quefta cagione mai hanno da gli amati bene alcuno,tengonù per certo non glie n'effere obligati.mahauera gliene per J'addietro dato degno guiderdone^ Ma coloro, che dall'amore non fi truouanoinii ' - gannafi,nonfi lamentano di effere ftati pccd accorti nelle faccende lóro: non gli duol delle paffate' fatiche, non fi rammaricano, per cagion deiramato,hauer con li parenti fatte grauiHime nimicitie,come fpeffe uolte fuol auuenire. Onai k de tolti uia tanti mali, che à gli amati fòlamenie interuengono, refta folo,che quelli, che non amano, come fo io. fieno fempre pronti,» para^ tiffimi à fare tutte quelle cofe,che penfano potergli arrecare giouamento. Sono molti che dicono,che per quefta cagione fi douerebbond affai gli amanti appiezare: per ciò che grandif^ fima è la carità, che uerfo gli amati loro hanno « tutte le bore, flC che fempre apparecchiati fi truo «ano à ubbidire air amato, ec a fargli cofagri!* fa ce con le parole, & con le opere, anchora che perqucfto ceruffimi fuffcro, doucre offendere pgni altra perfona. il qual parere di qui faciU xncnfe fi può confidcrare non edcr uero.chè Ic^s uafa alle uoltc la beneuolentia da uno,* in ua^ litro portala, affai più confo de i nuoui amanti 0inno,chc di quelli, che prima haucuano: fiC che pm,fequefti amanti più frcfchi gli el com mette/fero, diuentarieno c^udeh/Tjmi inimici de Ipaffati. Etin qual modo pofTjamo noi dirc^ che ne gli amanti fia cofi ardente amore, efTenj: do à quella infelicità, & calamità fottopofii, dals: la quale perfona alcuna quantunque fauia,& acs: corta, mai potrebbe rimuouerhV Et quefto è, che codoro ccnfeffano per loro fleffi effere anzi fuor di loro, che non^ft dicono conofcere la loro fcioccheza,a: pazia,ft non di meno non poa» tjfrfene rifenere,o i;ifliuouerc. Et pero gli huoismini faui, come potranno approuare,& giudicar hiioai i configli,fiC i pareri di perfone da tal mancamento macchiate.'' Olfra CIO, fe tu uorrai fciogliere un'huomo in ogni parte perfetto tra gli amanti, bifognerà che tu faccia quella fcelfà tra pochi, che pochi fono quelli, che amantifi poffano dircma fe tu uorrai procacciarti ungami tò.ì)totnpagfio,recòr)(5ofl Mi^ctio tuo,^acl t^nicofa atto;&accommodato^tra quelli, chè non amano Jo potrai più fàcilmente fare:pct tiòchc tra molte petfone ti ùd toncefTo fctrglict lo:^ più debbi fpcrare di bauere un buono ami co tra molti, cHc tra pochi, à trotianc- Et fe al fi* ne tu temi,» fuggi, come debbi fjre,l'in6mf* publica.i8C il biafimo unuierfale, quale per òrdi ration delle leggi fi può ffTet dato.ti & bifos^ gno ramf n(arti,che gli amanti\li quali per quel la cagione uoriebbono tfTer^ amati ^ per \m quale amanoilogliono poi che al defiderato fint fi ueggono giunti, gloriarfi, OC uantarfi alla fco3f perta,che eglino non hanno m uano ncHorol «more confumato il tempo. Ma quelli,che noft tìmano, con ciò fvache facilmente pofTano taccsi re,a: tenerfi di due quel, che hanno fatto, han^a no coftume di cercar più toilo quel, che penfa^j no eflérottim.o per loro.fiì per lamico^che Tefa fer dalla moUitudine,fiC dal nolgo ricordati,^! portati per bocca. Aggiugnc anchora à que^s fto.che acccrgendofi la plebe, che un'aman:^ te fegua un' amatorie afliduaménte in ogni cofa Mclcntierrgli ubbidifca,^< fimilmente gif compiace a, fubito entra in fofpùlto^ che tr* loro non fu flato, o nori fia càttiuo defidcdQ^ ma non ha già ardire di bafitnarc le amicitie dr coloro, che non amano: per ciò che ben fa, che à gli huomini fa di bifogno ben fpelfo infieme ritroiiarfi.ò uero per cagione di amicitia,ò uera per qualche lorocommodità. Etfe forfè tu teis fnefTì di quelli, che non amano, fic penfaffi, che fuffecofa diffìcile, che con quei tali Tamicitia durafTe, anzi nata qualche guerra, ò nimicitia, du^jitafTe che ne ne fu(Te per uenire danno deU r uno, ài deir altro: CC (e poi tu, concedendo i un, che non t'ama, quello che più d'ogni altra Éofa apprezi,ne uenifli per quello non poco ofss fefo,fiC faccfTì non piccola perdita, facendo cofa grata à chi poco, ò niente ti appreza, ti dico^^che per quefta cagione barai maggiormente da te^s mere gli amanti.per ciò che molte cofe fon quel le, che gli offendono, CC fenipre penfano che ciò the fi fa, per danno loro fia fatto» Et per quefto uietano à gli amanti loro il conuerfare tra gli aU fri, temendo fempre che quel l'i, che di loro più ricchi fono, non li fuperino de benefici!, ò uero che gli huomini dotti non li uincano di fape:^^ re. Et in fomma fe perfona conofcono. che in fc babbi cofa alcuna di buono, quàto più poffono, fi sforzano da coftui rimuouere gli amici, flC cofi perfuadendoli, che da fimil pratiche fi guardi^ no. no,à poco à poco li prfuanó di tutti gli amfciv^ ^ Hora le tu penlerai bene à te, « a quelJo,chc>i fi conuiene,flC Te farai miglior deliberafione di loro, non fi appiglierai al parer loro, ma te ne difcofterai quanto potrai. AlT incontro coloro^ che del tuo amore non fon preri,ma fanno quei le cofe,che ueggonoefTer conuenienti,& fi fcr^ uono ne i bifogni,folo per operare uirtuofameij te,(5f efortati à ciò da una mrtù,a: bontà d'ani:? mo, non ti haranno inuidia,fe ti ucdranno prassticar con altrui, ma piu tofto quelli harani>ojp odio, che à te non fi uor ranno accoftare,penfando (come è uero ) che coftoro li fprczino,£Ì gli amici ti giuouino,à; aiutino: flC per qucftp^ molto maggiore fperanzafi dee hauerc,che da quefta praticane uengano amicitic,che inimù citie.Aqueftecofe fi può aggiugnere,che la maggior parte de gli aitanti, prima defiderano pofrcdere,flC godere il corpo dell amato.che hab biano conofciuti li coftumi fuoi,ò l'altre cofe^ che debbono in un'amato ritrouarfi. Et di quì uiene.che fi dubita,fe latiatala uoglia loro,dei bano nella amicitia perleuerare. Ma traquelli^^ che non amano, li quali efTcndo per T addietro flati amici, non laceuano quelle fimihcofe in bf neficio dell' amico, per che eglino fuffero trop:? po afFcttionatl urrfo Ai hì^t cofa ragicneuolc, che l amieitia fia minore: ima bifogna ben cons; fefEire,chc i beneficii, che Tannargli facciano, accio che per quel mezo habbiano à efier iicor:s ciati daqnelli,che dopo loro iierranno,doue gli amanti ad altro, che al prefente,no attendono. ©Ifra di quefto(credi à nfie)diuenterai affai nusj gliore,fc afcolterai un che non ti ama, che fe à un amante prederai le orecchie: per ciò che gli amanti con lodi infinite inalzano oltra modo tutte le cofe,che fu fai, odici: parte per che te:J tnono,fecendo altrimenti di non ti offendere: parte per che dallo ardente defiderio loroacce:^ catione! giudicare fi ingannano: per ciò che la^ more fa, che coloro, che ne i cafi d'amore poco fortunati Ci ritruouano, fono sforzati à giudicare quelle cofe trjfte.ft infelici, chea gli altri non darebbono moleflia alcuna ^ Et per il contrario quelli^che hanno buona fortuna^flf che dtll'as worlofo fi godono, a mal ior grado fonconrx dotti a lodar quelle co(è, come fauoieuoli.fiC gioconde, che non meritano, ne poffono fare ftar contento huomo alcuno: ££ però più toflo farebbe di b/fogno di quelli tali hauer compaf? fione. che fegui tarli ♦ Hora fe tu uorrai credere. alle ter alle mie parole, io primieramente uoglio effe* tuo amico,ac darti apprcfro,non per il piac^re^t che di te al prefente potrei haiiere, ma per la utf lifà,che la mia amicitja per Io auuenire ti potrà dare. Et non farò quefto, legato, òuinto.ò fog^ gietto all' amore, ma uorrò effer patrone di mcs ftefTo: a non douerai temere, che io per cagiost ne alcuna, ben che leggiera, habbia fra noi à (xt nafcerc grauiffime nimicifie,anzi fc pure alle- uolfe mi altererò alquanto, non lo farò fenza grandiflìma cagione. Et non di menoqnclli er:s rori che inauuertentemente mi uetran fatti, al fine liconofcerò: ft quelh,nelii quali uolontariamente incorrerò, mi sforzerò emendare, AC»- fchifare.flCquefli fono ucri fegni d'unaami^ dtia,che habbia lungamente à durare. Etfe for fé tu pcnfi,che non pofla truouarfi una ueia^CC ' durabile amfcitia,fe dall'amore non è cagtona^. fa, debbi confiderare,che per quefta medefinia cagione noi non appiezeremo gli figliuoli, ne ameremo li padri, ne terremo cari, flC fedeli co:s, loro.che per buoni ufficii,a: beneficii fattici, d fuffero diuentati amici, fe da quefto ardore amo rofo non haueflcro hauto principio ♦ Potrecs ftr dirmi. Si dee fempre fare bene à queU li huomini^ che ne hanno più di bifogno; ft però è cofa conucnientc.non cercar di giouars rcàglihuonnini,chepcr fe fteflì hanno, mai quelli, che fono più bifognofi: per ciò che co:^ ftoro^fe da me ne i maggior bifogni loro farani; no aiutati, mi renderanno Tempre infinite gra:^ tie. Aqueftofirifpondo,chefe ciò fuffe uero, nelle fpefe^che priuatamcte facciamo,fiC ne i do ©eftici conuiti, non haremo à inai tare gli amis; Ci.ma più torto gli affamati, fiC li mendichi: per che coftoro molto più apprezeranno un tal bcis,neficio,ti feguiteranno,ti corteggieranno, ti fanno fefl:a,ti ringratieranno infinitamente, fiC pregherano iddio per te. Onde tu puoi uedere, che fi conuiene non compiacere à i bifognofi principalmente, ma fi bene à quelli, che ti pof:^ fono riftorare. Et per quefto non à gli amanti^ comeà bifognofi, ma à quelli, che mentano, debbi far piacere: & non debbi fodisfare à quei lische della tua belleza fi delettano,maà queU lische anchora quando farai uccchio,ti fono per dare utile: ft non debbi giouare à quelli, i quali hauendo il defideno loro adempiuto, fcoperta^: mente fe ne uanteranno^ ma a quelli, che uer:^ gognofi taceranno. Et non debbi far cofa gra^s ta à coloro, che per ifpafio di breue tempo ti ho BorerAoao.ma a quelli^che tutto il tempo dell* uifa tua ugualmente ti ameranno: 6C non debb accarezare coloro,! quali, fpeto l'ardore del loro sfrenato defiderio,cercherano Tempre cagioni di far nafcere nimicitie^ma quelli,! quali (anchora che la belleza manchi ) Tempre moftrano la fcrj: meza^flCla conftantialoro. Ricorderatì aduns: que di quelle cofe, che io ti ho dette, flC penfej: rai che gli amanti fono da i loro amici riprefi,fiC accufati,per chc.ramoreècofa brutta, OC inde^ gna,ma nenuno uitupera,ò biafima quelle, che non ama, dicendogli, che egli fi gouerni male, come fi può dire à gl'amanti. Foife mi domane: derai.fe io fi uoglioconfegliare.che tu debbia ubidire à tutti quelli, che non tramano. Al che io ti rifpondo,di nò: perciò che io focerto^chc iimilmentc un tuo amante con ti comandereb be.chc tu à un medefimo modo amafli tutti quelli che ti amanorper ciò che quelli, che han no da hauere gli benefici! da te, non meritano tutti ugualmete.nc à te farebbe cofa facile coms: piacere à tutti, fe uolefll che uno non s'accorgef fi dell'altro;&bifogna che di quefto feruirc nonne uenga danno alcuno, ma fi bene/che r uno a l'altro ne cauì qualche utilità. Hora io penfo hauer detto à baftanza: fe à te pare, che io ci debbi aggiugnere qualche coU,Aor.uujgi da,ch^ io ti fodisfarò. Cloe ti pare di quefla Ora fione Socrate r' Non é ella fiC nelle altre cofe,& nelle parole comporta mirabilmen ter S O C R* Ella è tanto marauigliofa, che mi ha fatto ft(i:s pire,fif tutto, per tua cagione Fedro mio, mi (os no fentito commouere, mentre che io guardauj gli attrae i gefti,chc nel leggere quefta Oratio^: ne faceui. Et però penfando che tu meglio, che io, conofca^flC intenda fimili cofe,ho hautoad ufcir di me per troppa allegreza infieme con tes: co^ F E D. Inqueftomodo mi uuoi burss lare? S O C R. Adunque parti, che io ti burhf' Non penfi tu,ch'io dica da aero/ F E D., Non certo: Ma dimmi un poco per tua fe^penss fi tn,che altro Greco intorno à fimil materia po fede dire più cofe,« pia d9ttes* S O C R, Pen fiamonoi.chcfia da effer lodato uno Scrittore folamente per che gh babbi detto quelle cofe, che fono ftate necefTarier'òpure diremo, che me^: riti lode, per che egli babbia tutte le fue paroledifpcfl:e,£(ordniate chiaramente, numeroiamen te, a elcgantementes' Se à te pare, che bifogni lodare Lifia per la inuentione, IO per farti pia^: cere, tei concederò ma io per la mia fciocche^: za,(S(ignorantia,non Tho in luì conofciuta.pcr ciò che folamente ho attefo alla eloquentia dei • pariate: al che poter perfettamente fare, io non penfo che Ljfia fteffo hc'^bbia penfato d' efier fla fo bafteuole. Et cerfainenfe à irìeè parfo(fé già '^tu non uolefh dire il contrario) che egli habbia leph'cato dne,flC tre uolte le medefime cofe.co^ me fe gli fufTe fnacata copta di faper dire diuerfe cofe fopra una mcdefima materia.ò uero uoglia^ 'imo dire, che egli no babbi hauto Ibcchio à quc fto. A me certo, fe tu uuoi,cheio ti dica la mia cpintone,è parfo che egli habbia uolufo parere •^di faper moftrare elegantemente in ogni modo, *cKe à lui pareua quella cofa,che fi metteua à dl^ chiarare, dicendola bora in uno,& hora in un' al tro modo. F E D. Socrate tu no dici niente: per ciò che quella Oratione h*a in fe quefto,chc neffuna cofa ha lafciato in dietro di quelle, che intorno à tal fuggietto accomodar fi poteuano: "onde io giudico, che neffuno poffa di quefto me defimo più cofe dire.tt phi uerifimili di quelle, che egli ha dette. S O CR. Quefta cofa non 'fi poffo io hormai più concedere, per ciò che gì' huomini raui,chc ne tempi paffafi furono, flC le donne, che di queflo hanno parfato.ficfcritto mi riprenderebbono,* mi arguirebbono con:? 1ra,fe io per la tua fodisfàttionc tei concedeffi ^ J £ D. Chi fono eglino quefti huomini, flC qiicftc donne Et douchai tu udite migliori cofc diqueftes' SOCR. Al prcfente io non me ne ricordo cofi bene, ma fappia cerfo,che io non fo in che luogo ho letto,flC udito quel, che io ti dico, & potrebbe efTere.che fufTe ò nelle opere della^èlla Saffo. buero ne libri del fa:5 aio Anacreonte,ò uero d'altri Scrittori: fiC faps; pi, che non per altra cagione fo ioquefta coniet 4ura,cheper fentirmi pieno d'altri argomenti non forfè peggiori de fuoi,che intorno à ciò fi potrebbonp addurre, Et per che io conofco be^ ni/Timo la mia ignoranza, fiC confcfTo che io non fo cofa alcuna, fenon per hauerla ueduta in aU tri^fiCnonperhauerla imparata da me, hi fogna che io confeffi di hauere attinte quefte cofe daU le fonti d'altrui à guifa di un uafo: ma per U piia rQizeza,mi fono fcordato da chi io le habbù.iaiparate,flCinche modo. F E D. O Socrate da bene, tu fai bene à dir cofi.ne uoglio che tu,dica anchor che io te'l.comanda(ri.dachi,fi(eoa?.me babbi quefte cofe apprefe: ma uaglio benc^ che tu mi moftri (come confeffi di poter fare.).quelle ragioni, che dici, che fai più efficaci, OC più dì quelle che Lifia intorno a ciò fcriffe.ll che fe farai, non dicendo le cofe, che diffe Lifu^ ti prometto confegrare in Delfo una ftatuadcl mcdefimo pefo,chc fci tu j1 che fcgliono fare i none noftri Magiflrati,come fai» SOCR* Tu mi uuoi Fedro caro un gran bene,& fei uc^^ ramente d'oro,fe tupenfi che io poffa dirti, che Lifia habbia errato, ftche fi pofTano fcriuerc cofe migliori di quelle, che egli ha fcritto. Io uo glio che tu fappia,che io non direi, che ciò po:5 tefTe accadere à un uiliflTimo Scrittore, non che i lui. Ma per dirti anchora quelle cofe,che io fo, non già per riprendere lui, primieramente parlando folo di quello. che fi appartiene à quc ftonoftro ragionamento, penfi tu che colui, che uorra prouarc.che fi habbia più tofto à fare pia:^ cere à chi non ama, che à chi ama.fe prima^nbh prouerà,chechi non ama,fia fauio,flf pruden:? te,ft l'amante infano, flC fe quello non loderà, flC queflo non biafimerà (le Squali cofe fenza dù bio alcuno, ne uengono di neceffità ) poffi nel proceder fuo dir cofa alcuna, che alle prime fia corrifpondente (Non di meno io giudico, che quefte fimili cofe, che di neceflìtà ne fegucno, fi habbiano à rimettere nella uolòta de gli Scrit tori,ficfe non le dicono, gli fi pofTa perdonare: per ciò che di queftj tali non fi dee lodare la in:^ uentione,man bene la difpofitfone.Ma di quel le cofe,che neceffanamente non fi concedono, flCcIie difficilmente firitruouano,non foìo pèfì55 fo io, che fi babbi à lodare la difpofitione^niala muentione anchora. F E D. Ti concedo che fu uero quello, che tu dici: per che mi pare, che tu habbia detto apprcfTo che bene, OC ioanchora intendo non indugiare k fare quefto.che hai detto: « però ti concedo^che tu prefupponga, che un' amante fia peggio trattato, che uno che Jima. Hora fe tu nelle altre cofe,che dirai, mi fass rai fentire p/u dotte ragioni, flC più degne parole che egli nò fece, ti prometto, che ti farò una ftass tua d'oro nella Olimpia apprcfTo alle ftatue de gli fucceffori diCipfelo. SOCR. Tu liai Fedro forfè hauto per male, eh' io habbia ripres: fo un'huomo tantoàtecaro,ma io mi burlaua teco. E penfi forfè tu, che io fia per pigliare(la:i fciamo andar le baic)un imprefa di hauere à di^ recofa alcuna più elegantemente di Iui,che.c fauifrimo,C£dottiffimorF ÈD. Tu fei ritor* nato Socrate mio in un medeftmo, dicendo que fte parole. Tu hai da dire in ogni modo quel, che tu fai;ft eoe potrai: flcfopra tutto auuertifct^ che in quefto noftro ragionamento non ci con:» uenga fare quel, che fanno coloro, che recitano le Comedie.ciÒTè rifponderci troppo fpeiTo T un 1 altro;il che é.fccondo me.mokftjflimo. E non far fi, che io fja sforzato à dire, come tiJ,pòco fi dicefti. Se ici no fapefli chi fufle Socrate, potrei dire dj non conofcere anchora me ftefTotperchc certamente fo,che tu hai defidcrio di fodisfarmi: ma tu uuoi fingere, che quefta cofa ti fia difficii k,'Et per dirtela, finalmente tu hai da penfare, che tu non Tei per partirti di qui ^ prima che tu non mi habbi dette tutte quelle cofe,che tu dirs ceui fapere migliori di quelle, che hai udite: pei! ciò che tu uedi,che nei fiamo foli,(3C in luogo re moto.fiC regreto,fiC io fon più giouane,(!f più ga gliardo di te. Si che per quefte cofe tu puoi ìn^ tendere per difcrctione quel, che io uoglia infes? rire: ne uoler più tofto hauere i ragionare sfor^> zatOjChe di tua uolontà.. S O C Io lo fo mal uolentieri.-perche io conorco,chc io farò degno delTer beffato, fe io, che fon rozo flC fciòc co al poflibIle,uorrò coptcdere con uno cofi per fetto Scrittore, flC fe io uorròalla fprouifta difpu tare di quel mcdefimo,di che eglipenfafamentc ha ragionato. F E D, Sai tu f^gmc la co(a ua^ Lafcia andar quefte cofe meco: per che io credo quafi hauer trouato una uia,|) la quale io ti con durrò.flC sforzerò à dir quel, ch'io defidero, Soc. Non mei dire di gratia. Fed.Come no mei diref anzi Io uoglio dire, io mi uolterò alli giurameff^ poi che alfro non mi naie. Io ti giuro per qatW iddio clie tu uuoi, flC anchora,fe ti pare, per quc fto Platano, che fe tu non dici quel, che tu fai al la fua prefentia,fiC fotto quefta fua ombra, io da qui innanzi non ti moftrerò.ne ti manifefterò mai più oratìone di perfona alcuna. S O C R. OfceIerato,chehaitudettor'Ocomc bene hai ritrouato il modo di sforzare un'huomo defide» rofo di udire orationi,come fono io,à fare queU lo,che ti fuffe in piacere, FE D. Hora fe tu ne fei, come dici,cori defiderofo,che indugi tu più? S O C R. Io nonindugierò più lunga^ mente, poi che tu4iai fatto un fimil giuramen:? to: per che come potrei io uiuere.fe io fuffe pri uo di cofi dolce cibo? FED. Hor dì aduns: que. SOCR, Saituqucl,cheiouogliofa5: re? F E Che cofa t' S O C R. Io dirò quel,che io intendo dire, col uolto.fiCcol capo coperto, per dire più pretto: per che fe io mirafs fi a te, farei impedito dalla uergogna. F E Di Pur che tu dica, fa quello, che fi piace. S O C R; Hor fu dunque ò Mufe dolci, il qual cognome ui fi dà perii modo del uóftro cantare, ò uero perladolceza della Mufica uoftra,la quale fi dolcemente fuona,fauoritc ui prego,& aiutate quello mio ragionamento, il quale mi sforzai éitt quefto huòino da bene: accio che poi che mi harà udito^giudichi anchora molto più pru^ dente il fuo caro amico Lina, che prima cefi uìó gli pareua* T V haicla fapere,chefik già un fanciullo^anzi pure un giouane di gen:i tiliflìmoafpetto:coftui haueua molti amanti^ tra li quali un'huomo certamente allato gli diede ad intendere, che non Tamaua^nc per ciò punto meno de gli altri il fencua caro, fif gli uo leuabenc.Hora auucnne.che un giorno egli lo pregò, che al fuo defideno compiacer doucli fe,flC per impetrare quello, che egli domanda» ' ua,gliprouò che maggiormente fi doueuafare cofa grata à colui, che non amaua,che à colui^ che amaua • Et per farglielo intendere, gliCi moflrò con quefte ragioni » In tutte le còfe fall v^>^^> ciuUo mio à coloro, che confultar bene,ò difpuf-^'^-^\ tar uorranno,fa di bifogno hauere un folo.qjìj roedefimo principio, quale è il conofcere,flC insK ^ ^/ tendere che cofa fu quella, intorno alla quale fl'^;:^ ^o' confulta, ce difputa: altrimenti è neceffario in tutto errare» E fonomolti,chenonfi accorga:» no di non conofcere, ne fapcre la fuftantia della cofa, della quale ragionano; fif cofi come fc egli» nolafapeffero^nel principio della difputaloro ' altrimenti non la dichiarano: tal chenel lor pioi^ cedere ne feguc,come è hccefTario che inferuerii: ga.che eglino dicano cofe fuor del loro propos: fito^adagli altri male intefe. Adunque acciò che ne à me, ne à tc interiienga quei, che in al:: ^rui biaCimiamo,pofcia che egli è hora differctiìi tra noi, Te fi dee più tofto pigliare Tamicitiadi colui, che non ama, che di colui, che ama, farà buono che uediamo, che cofa fia amore, & che forza egli habbia, dandogli qualche difFinifio^ ne, alla quale l'uno, fif l altro di noi acconfenta» tt cofi dipoi, hauendo fcmpre 1 occhio, flC ogni. fìoftio argomento drizandoà quella dijffinitio:: ne, confideraremo fé egli dannoso utile near^ reca. E adunque ccfa manifefta a ciafcuno,che l'amore altro non è, che un certo defiderio. Sap piamo anchora,che fimilmente queni,che non ainano, hanno queflo defiderio di cofe belle, fiC buone. Per intendere aduBque in che fia diffe^ rente l'amante da quel, che non ama, tu dei fa:5 pere, che in ogni perfona fono due idee, le quali ci fignoreggiano,ó: doue più li piacerci uolta^ no Je quali noi fumo à feguitare sforzati ouunis que elle ci conducono. Vna delle quali infiemc con noi è nata.fiCqucftaè j1 defiderio de i piacer ri, L altra T-habbiamodopo il nafcimento noftro acquiftata; fiC quella è quella opinionc,che ne gli ììiiomfni (5el fonimo Wne fi ut je,per fa qn* ic tanto afìetfuofamc'jntc lò defider/arho. Qaeftft: alle uoltefono in noi fra loro amiche, alle uoltèi' in difcordia fi truouano,& bora quefla uince^ feor fupera quella Quando adunque quella opf fìione del fortìmo bene, cÌ>e difopra hò detto^ dalla ragione guidafa,à qrfel'lo ciie è nero b^nc^; •ci conduce, uincendo il defideriode i.piacen\ quefto'nTodo di uiirere fi domanda femperanfiaS ma quando quello sfrenato defiderio, lontano al tutto dalla ragione, ci fpingc.flf sforza à feguià tare ipiaceri,& amai grado noftro fi fa di nof ^padrone, quello fuo imperio fi domanda libidi^si w: ài efTcndo h libidine di moìu fòrti, £(ha^j uendo molte parti, anchorà è nominata in molss li modi. Et di quelle molte forti di libidine, chfi io dico, quella cbe più ch'altra T alc'unb fi ritrud ua,dj à colui quel nome,col quale ella é chiais mata me può à coloro, li quali ella fignoregà già, nome alcun dare bonefto,ò buono- per chè quel defiderio, che intorno alli cibi uince &Ia ragione, fiC ogni altra uoglia,fi domanda golo^s fità: 8C colui;che ha in fe quefto alt pigi ian:^ do il.nome medcfimo, fi chiama golo(o, Anà chora quel deficlcno, che intorno al bere,d'ù'à no fi impadronifcc^è co(a chiara, flC maiiifefta^donic fi douerà chiamare, fiC anchora che nome liauerà colui, che da tal noglia fi lafcerà uincere: àfimilmentc pofTono cfTer chiarina manifefti. ì nomtde gli altri defiderii congiunti à quefti. Hora io penfo,che quafi fia fcoperto.perqual ca gionc 10 ti habbia dette quefte cofc, ma uoglio io tacerlo. òuoglio dirlo.'' Io lo dirò pure, per elle più fi intende una cofa à dirla, che à non dirla. Et pero dicp,che quel defiderio priuo di ragione, il qual fupera,&: uince quella opinion: ne, che è Tempre al giufto,fiC all' honefto indirirs zata,a ci rapifce à cercare il piacer della belles: za, quindi col moftrarci quei diletti, che dalìa bellezadiun corpo fi cauano, pigliando non piccole forze. fiC rinfrancandofi, ci uincealtutrs to>flC ^^^p^t^aquel defiderio, dico é detto ^§cù9» ciòèamore,daf 6J/^K?,che uuol dire gagliardia. Parti egli, tedio mio caro,comc ì me, eh' io habbia détto diuinamente T F E D » Certamente ò Socrate che fuor del tuo folito,ti fei non fo co:5 me più ampiamente allargato. S O C R. Taci adunque,^ odimi; per ciò che qucfto luogo è certamente diuino,flC pero non ti marauigliare, fe nel parlare farò dalle Ninfe di quefto luogo iafpirato à dire cofe diuinc: fif tu puoi hauer co fiofciuto,chequci]o,che iopocofa,diceua,non fono Tono (late molto difllmili da i uerfi Ditirambi ' che fogliono dire le facerdoti di Bacco all'horaj^, che dal loro iddio fono ripiene di diuinità^ FED. Tudiciiluero. SOCR. Di que? (le cofe ne fei cagion tu fenza dubio alcunormk odi quelle cofe, che reftano, accio che io non nji fcordi di quello, che hora me fouuenuto,al che fo certo io che iddio mi aiuterà, ft no mi ufciran no di mente. Et pero ritorniamo, feguitando il ragionamcto noftro,al fanciullo,col quale. diao zi parlaua.Hora fanciullo mio, noi habbiamo detto flC dichiarato che cofa fia quella, della quacs le noi ragioniamo. Adunque hauendo feraprc- I occhio à quefto.confideriamo.lora quel, che nercftaà dire,flCquefto è,Chegiouamento,Ó: che danno fia per uenirc per cagion di un aman te,ò di un che non ami,à colui, che gli ubidirà. E adunque neceffario.chc un' huomo uinto dal la libidine, Sedato alli piaceri, cerchi femprc con ogni fuo sforzo, che ramato più che altra cofa,gli babbi da piacere. Sai àhchora che ad uno che é infermo,gli piacciono, flC gli fon gra^ te tutte quelle cofe, che alla uolontà fua non re:^ pugnano, f5C quelle gli fonomo(efte,fi£ difpia^ ceuoli^che fono di lui migliori, ò feno migliori, ugualmente buone /£t pero efTendo T amante \t)fcmo,fìon potrà mai pafifc,clìe uno amato jpaà lui uguale, ò da pia, anzi cercherà femprc- ^^uanto potrà, fìflo da manco di lui.a più bifors ' ^^nofo. Et per che tu fai, che un ignorante è d:a^ manco che un dct(o,8C d'un forte un'timìdo,* 'id'un oratore,© olequente uno inelegante. fi(po^ co atto adire,» d'uno acuto, «uiuo ingegna kinofcmplice,er fcioccho.fe qaefti,»: molti ali. |ri mancamenti dell' animose per natura conofcè; Ìitfóuar(ì,ò per ufo in un'amato efTcr nati, ali Thora godeva fi rallegra lamantetS: non gli bi ìftando quello, fi sforza anchor de gli altii pro^:^ cacciargliene;altrimenti non gli pare poter ca^ Ilare dell' amor fuo piacer alcuno. E adunque- HeccfTario, che un amante habbia Tempre inui* ^laall'amato & rimoucndolo da ogni amicitia,^ ite da ogni efercitio^per il quale "pò te (Te diuenà tare eccellente, bifogna che grandemente glii inuoca; a k non gli nocelle per altro, per quei, ■fio al meno gli è dannofc,che lo prfua di queli |a co6,che ne fa prudentflimr. Per cièche la di iiina fìlofofia è quella.per la quale ueniamo pru^ "déntiffimi'dalla ì]*tiafc lamanfe e sforzato rfmua ll^rc quanto può ì' amato, temendo Tempre di' •pon effcre'fprezato da lui, fé pm prudente chft; V?li nQO è.diuentaiTe,.CC in fomnia fi sforza f?r« ogni cofa,'pèr la qaale egli al fu((o ignorate dh uenga.&fimaraiiigli folo di quelle parti, che ramante pofTiede. Qriando adunque farà tale la niato,airhora farà ali amante carilIìmo,ma dans: nofiffimo a fe ftefTo: fiC cofi puoi uedere,che in torno à quelle cofc,che al fapere fi appartengo:?. no,è lamicitia con un'amante nocina. Debbia^ mo bora confiderare in che modo colui, che c sforzato à anteporre il dilefteuole al buono, hab bia da hauer cura di quel corpo, che egli ama,ca fo che a lui fuffe una tal cura commefTa. Certas: mente che egli defiderà che quel corpo non fia fchietto,fiC duro, ma delicato. & molle, non nus:, trito.aauuezo al Sole nelle fatiche, ma fottò - l'ombra nelle dchcateze. Vorrà che fiaalleuato lontano da futri Ij pericoli,» fatiche, che non habbia mai prouato fudore,» lo farà uiuere con cibi feminili.ac delicati. Lo auezerà à crnarfi di colorila fàccia,» di ftranieri,fiC nuoui ucftimeti la perfona,» à fimili altre cofe,le quali tutte eù fendo dishonefte,» brutte à raccontare pia lun gamente,perpafrare ad altro le lafciercmo an:? dare.Vn corpo adunque fi fattamente allcuato^ nelle guerre,» in ogni altra pericolofa necefll^ ta,incmicì ficuramente uincono; onde li faci amici,» gli amanti hanno femprc più paura, che à coftui qualche male n5 interuenga^che ad *ltri: ma qiicftacofa.efTcndo per fc fteffa cliias ra.lapoflTiamolafciarc andare. Hora habbiama da dire che dannoso che giouamcnto nelle co^ fesche di fuor uengonojaamicitia.flC laguar^: dia d* un amante ci arrechi, Qnefto adunque è chiaro à tutti, flC nnafiime à un amante, che egli ' defidera.che il fuo amato fia priuato di tutte quelle cofe.che egli pofTjcdeJe quali amiciflì^ lfte»gratiffime,tì:peift:ttiffimegli fono: perciò che egli defidera, che gh fieno tolti li parenti,, Ce gli amici, penfan do che quelli gli dieno gran df impedimento à goder la dolceza della ami^ citia dell'amato, Ol tra ciò penfa,che un fanciul lo ricco dbro.o di qual fi uogli altra cofa,non poffi cofi facilmente effere prefo d'amore: flC fe pure è prefo.uede che troppo lungamente in quello amore non può durare. Et pero bifogna che un'amante^comejnuidiofo,fi dolga della felicità dell' amato, flC fi rallegri della miferia del medefimo, Defidera anchora,che lungo tempo uiua fenw moglie, fenza figliuoh\OC fenza cala^ bramando goderfi quel pucere,che quando co:^ (Ifi ritruouano,foIamente e/fj fentono. Sono ^^n(;hora molti altri mali in quefto amore, ma nel ia maggior parte di quefti mali, come prima (i comincia i amar qualche fpirita diuino,mefco5i. la fubifo un certo piacere, come ha fatto à uno adulatore, il quale è certamente una dannofifljs: ma fiera, fiC una grandifljma calamità: non di meno la natura ha mefcolato con quefta adulai tione un non foche di piacere non al tutto da fprezare. Oltra di quefto farà alcuno, che biafi:s mera le meretrici, come cofa noceuole^fiC altri fimili animali, ò uero fi fatti ftudi, quali foglio:? no al prefente deiettarci, douc 1 amante non fo^ lamente è noceuole^ma anchora nel praticarlo c moleftifTimo • Per ciò che tu fai, che il prouerbio antico è. Che li pari facilmente con li pari s*a^ nifconorper ciò che la ugualità dei tempo, della età di due(con ciòfiache per lalomiglian za de gli anni conduca gh huomini à delet^ tarfi de i medefimi piacerijpartorifce facilmente 1 amicitia.Ma ne gli amanti la età non pure non genera amicitia.ma arreca un faftidio troppo grande: per che la neceflìtà in ogni cofa à cia^. fcuno è mole{la,la quale più che ogni altra cofa è in uno amante uerfo T amato, accompagnata dalla difTomiglianza de gli anni, Et che fia il uc ro,tu fai, che amando una perfona attempata qualche giouane,mai ne il dì, ne la notte per fc ftcffo da Uh partir fi uorrebbe,ma è coftretto dal la necefljtà.à; dalla pafFionc amorofa^tt è fcm^prc dalle carcze de i piaceri allctfato.lc quali nel ucdcre, l'amato gufta, ft pruoua nell' udirlo, ne! toccarlo. fiC in fomma nel goderlo con qual fi uogli fciitimento: tale che con grandifTimo fuo piacere fempre fi ftudia compiacergli. Ma r amato da qual forte di piacere, ò da qual follai zo potrà effer trattenuto, che in ogni modo egli non fu da grandilTima molcftia oppreiTo.^ Eflcn do fempre sforzato mirare una feccia d' un huos ino di tempo,flCbrutto.<5C molte altre cofe.che Don folo à colui fono molcfte.à chi elle intera ncngono,maanchoraà chi l'ode.tiouatc folo per una certa neceflità.che ha l'amante di farfi r amato bèneuolo: flC qucfto è l'effer fempre disf lìgentemcnte guardato quanti pafll faccia, l'udì re ogn' hora quelle faftidiofe lodi.tt quelle ima portune riprcnfioni, delle quali fempre gl'aman* ti abbondano, flC con le quali ogni giorno li ma ' Iettano: le quali cofe accafcandoà uno, che fia padron di fe.fono però intollerabili: ma à uno, the è fuor di fe,come uno amante, non folo fos no intollerabili.ma anchora per la troppa licerla tia,chefj pigliano di dire apertamente quel, che- gli' pare, fono brutttffime. Oltra di quefto men» tre che uno ama, è fempre dannofo.flC importa* no: ina quando poi ha l'aujor fine.diuenta perI auuenirc contra dj quello poco fedele, quale.,.con molti giuramenti, flc preghi, & promcflc ^ pena potè condurre. che egli dalla fpeme di pre mioàciòperfuafo.fidifponcflj à Apportare la moIeftafuaamicitia.Ai fine quandòpur glie concelTo ritornare in fe.fi rifolucà pigliare un nuouo padrone,ac ubidire ad altro fignore: £C cofi in uece dell'amore.a: della pazia.feguita lo intcllctto.a la ragione.* la temperanza; onde ùtto un altro,cerca fempre dall' amato fuggire, <f afcondcrfi. All'hora l'amato ricordandofi del* le cofc die tra loro fi fono dette flC fatte, de i dati beneficii la mercede domanda, penfando che la mate habbia feco à ufar le mcdefime parole,chc prima ufaua. Ma l'uno per la ucrgogna non ar* difce confe/Tare d'elTer mutato,ne fa tronarc in ' che modo egli fodis6cci alli giuramenti, A pro:^ mefle,che mentre fotto la crudel fignoria d'amo refi ffouaua.inconfideratamenfc fece: « teme, «flendo già diuentato temperato. & nhidictc alli ragione, facendo le medefime cofe che prima.di non diuétare il medefimo.che dianzi era. £t di qui nafce.che colui. che poco fa. amaua, bora ua da fuggcndo.ac fchifando l'amato.ft mutatofi di fantafu.fi allontani da lui.come fe un di coloro |u|fc,a cui il gittato uafo fw cafcato à contrailo. tome ben fai.clic nel giuoco infcrutène, elici noftri fanciulli foglion fare. L altro all'incontro è sforzato à feguifare T amante. flC parendogli pur mal ageuclc cfler lafciato/j uolta al fine alle ma* le parole. Ne ciò gli accade contra ragione.per ciò che nel principio quefto tale no fapeuaquan tomai fi conuenifle, ce quanto poco lecito.» honefto fufTe à un'amante far cofa grata. quale è di neceffità fuor di mente.» quanto ben fatto fu (Te compiacere à un'huomo dall'amor libero, che fuor di fe non fi ritrouaffe. Ne tonofccns dofimilmente.che fidandofi di un'amante.G fida d'un huomo fttano.inuidiofo, moleflo, dannofo.a inutile, prima alla roba. «poi ai corpo.ma molto più noceuole alla fcientia del* ■ l'aoimo.della quale nefTuna cofa è certamente. pia oenerabile a appreffo Dio,» apprelTo gii huomini. Qucfte cofe adunque douiamo fans ciullo mio confiderare.CC oltra di quefto fi ha da luuertirc.chc l'aroicitia d' uno amante da bene» uolcntia alcuna non nafce, ma da una certa aui» diùdi faturfi.comc gli a ffamati: & però ben diffe colui in quelli uet6, fe^omeillupo l'agnello. Cefi un giouin l' amante ardendo brama. Qiiefte fono ò Fedro quelle cofc.che io h Uf ua promcffo narrarti: flC però non uoglio pa bora dire altro, ma farò fine al mio ragionamens: to,anchòra che io penfaua d efTer folamcff giun toalmezodcl mio parlare, flC ci reflaffe à dire altrettanto di quelle, che non ama,&piouarc che più torto fi haiièffi ad ubbidire i un tale: oltra di quefto penfaua hauere i raccontare di quanti beni, flC di quante utilità uno, che non ama,fia ripieno, F E D, Perche adunque fi reftii' SOCR. Non hai tu confiderato,chc io non fo più quei uerfi Ditirambi, che dianzi m'ufciuano di bocca,quantuque il mio ragiona:? meto fin qui fia flato nel uituperarei* Hoia le io feguitado uolefli lodare quel, che n6ama,quan tohobiafimato l'amante, che penfi turche io dice/Iìf' Non ti accorgi tu, che io fono aiutato,, flC ripieno di fpirito dalle Ninfe di quefto iuos^ go,fiCper tuagratia,fiC per aiuto diurno l'Per la qualcofaio concluderò breuemente,che tanti beni fono in quello, che non ama, quanti mali ti ho moftrato truouarfi in un'amante; ft però iion ci bifogna far più lungo ragionamento, ha:? uendo già dell' uno, fiC deiTaltrò a bailaiiza ra^ gionato. Et pare à me, che la noftra fauola hab^ bla hauto quel fine, che era conuenientc & pcs^ " ròpaffando d fiunic^mi uoglio partire, prima D i i i the fu mi %(orz\ atìirc quatcKc altra cofa piuvfm portante, F E D • Non ti partire anchora So^ crate, prima che il caldo non fe ne uada:n6 uedi tu,chehoraè à punto il mezo giorno, nel qual tempo è il caldo grandiflimoi^ Et peròafpettani: <Joqui^ 6C ragionando infieme delle cofe, che habbiamo dette, come prima il caldo farà mcinrs cato, ci partiremo. SOCR. Certamente Fe^ dro, che nelle tue parole tu (ci diuino,fiC uerais mente mirabile: flC però io penfo certo^che dcU JeOrationi.qualialtuoìtempo fonoftafe fatte, nefTuno ne habbia dato più cagione, che tu,flC neiTuno altro à più Thabbi potuto pcrfuadere.ò aero conletue efoifationii quello conducenrs |Cloli,ò uero in qualche altro modo sforzandoli • Et certamente m quefto(cauatonc SimiaTebac no)tu auanzi tutti gli altrirJC bora 'fecondo me) tu folo fei (lato cagione, che io habbia à dire di nuouo,non fo checofe,che nella mente mi fo^ no fopraggiunte. Il che facendo tu, pollo dire, che tu mi facci una guerra. FED, Etinche modo ti fo io guerra flC che cofe fon quefte.chc tu mi uuoi.dire^ SOCR. In quel, che io uo leua paffare il fiume, quel mio fpìnto fohto,chc tu faì,paiuc che mi faccffe lufato cenno: il che ogni uol tacche mi accade^ nò è uietato fare quel lo.cJic fogia farpeniaua,Quindi mi paruc udi:^ re una uocejaquafe mi liietana il partire. prima che io non lùuefTe placato gli dei,cofl:ie fe con^: fradiIoroIiaueflìconiiiìe(To qualche errore. Io adunque fono fcnzadubiohoggi indouino,fiC flC fe io non fono cofi de buoni, fono al meno di forte^che forfè à me farà affai, come battano, anchora le poche lettere a coloro, che male le hanno apprefe, Lt però Fedro mio, hormai ip chiammente concfco il mio fallo: per ciò che c,mi pare hauer neiranimo un no fo che, che mi indouini r erfor,che,^ ho fatto. Et quefta cofa dianzi,mentre che ioragionaua,mi turbò tnt^ to: per il che io cominciai in un certo modo à temere di non acquiftarmi gloria apprefFo gli huomini del mcndo^all'hora che io contra gli iddìi grauemente erraua (fecondo che già dilTe Ibico nella fua opera )flc bora al fine conofco, come t'ho detto T error mjp. f £ D, Qnale er^ rorc è quefto/ S O C R, Ò Fedro.un trillo ra:^ gionamento.un tritio ragionamento edro hai hoggi mcfTo in carapo.fic sforzatomi i ragiona|C ne. FED. In che modqj' S O C R. E (lata cofa ftoIta.dC empia, della quale che fi può egli più tpfto.a: noccuolc ritrouarcs' FED. N is cnte.fc tu dici iJ uero. SOCR. Ohimè, non fai tu quel, che fia amore i Non è egli fi^ gliuolodi Venerei Non penfi tu,che^gli fu uno iddio 1^ F ED. Cofi fi tiene per certo. S O C R. Et non di meno Lifia non ha detto.quefto^nc manco il tuo ragionamento, il quale non io, ma tu hai fatto: per ciò che tu me T hai à forza canato di bocca, come per incanto, Hora fc [amore è Dio, come e certamente, ò uero qual che cofa diuina.non può efler cattiuo,& non di meno noi habbiamo parlato di lui, come fe fuÉ: fe cattiuo. In quefta cofa adunque habbiamo peccato contra amore. Et certamente quefte no ftre qùeflioni fono moho fuor di propofito,an^ chora che forfè paiano piaceuoli: le quali non ritenendo in fe cofa alcuna di fincero,ò di uero, nondi meno fc per cafo faranno approuate da qualche huomiciuolo di poco fapere, quelli, che le fanno, fe ne gloriano, come fe fulTero di granrs de importanza. Hcraàme fa di bifcgno per quefto errore, placare gli iddii: & hai da fapere^ che a quelli, che nel ragionare, ò nello fcriuerc errano,è ordinato un certo modo di placare gli iddii antico, il quale Homeronon feppe cono^ fcert.mafi bene Steficoro: per ciò che efTendo (lato priuato de gli occhi, per che haueua uituis perata Helena, conobbe come huomo amico del le Mufe.pfrqual cagione cieco fu/Te diuentafo, il che non fece Homero; per il che fubito fece quei uerfi,>^Non fu uer quel parlarne in l'alfe naui Fuggendo, andafle alle troiane mura. Et cofi fatto un'altro poema di nuouo al conai trario di quello, che prima comporto haueua,fu bitoglifurendutoil uedere.Ma io in quefto farò più fauio d'ambe due loro, per ciò che in^ ^ nanzi che male alcuno mi interuenga per il hh fimo, che all'amore ho dato, mi sforzerò dire il contrario di quello, che tu hai udito r il che fa^ ' cendo mi uogli fcoprire il capo, flC non uoglio tenerlo per uergogna afcofo,come ho fatto nel mio primo ragionamento. F E D. Tu non mi puoi fare ò Socrate il maggior piacer di ques fto. SOCR. Telcredo,perchetu tidebbi ricordare con quanta poca uergogna habbiamo letto quelle cofe.che il libretto di Lifu contess "^Tieua,fiC quanto anchora fciocchamente io hab^ bia ragionato di amore. Per che fe qualche huo mo di generofo animo, modello, che al pre:s fente ama(Te qualche fuo uguale, ò uero per lo addietro l'hauede amato, ci haueffe fentito dire, che gli amanti fanno per Iteui cagioni nafcerc grandiiTime nimicitie^flc che fono huomini in^ niàìofi^a noccuolia gli amati, certo clic egli harebbc pcnfato udire tanti huomini auuezi fo Io,flCalIeuati dentro alle naui,liquali nonco:s nobbero mai un uero,fiC gentile ancore: CC unaperfonafauia non ci concederà in modo alcuno, che quelle cofe fieno Licre, che in biafmio d'sts: more habbiamo ritrouate. F E D. Certo che,io crcdo^chc tu dicail ueio per mia fe. S O C R. Et però temendo, che qualche huomo cofi fat^i lo, non rhabbia à fapcre, fichauendo anchorz paura d' amore, defidero lauare^fli nettarela mea tc.ÓL le orecchie noftrc di quello amaro, flC no^, ceuole ragionamento, cbe habbiamo fatto, con qualche altro più foaue parlare, & al gufto no:2 ^ftro più giocondo. Lo fo anchora pergiouare à lifia,perfuadèdogli che cglifubito debbia fcri:^ ucre.che più toftofi habbia da fodisfarc à unoamante,che à uno che non ama, quando l'amor re è tra li fimili. F E D. Sappi certo, che egli lo farà, per ciò che dipoi che ti barò fenti to lo;:.dare l'amante, farà necefrario,che io lo sforzi à criuereanch egliii medefimo. S O C So certo, che ti uerrà 6tto fin che durerai dVfferc co mefei alprefente, F E D. Hor dì adunque arditamente. S O C R. Hor fu; douc è egli quel fanciullo, col quale dianzi ragionaua,ac:s ito clic egh oofi ancìiora cfue^o mio nuouo pire lare, che fe forfè non infendelTe altro cIa me^ cercarcbbe anch' egli lemerariamente fare pia:: éere a.chi non Tama, F E D. QLieftofaticiulis lohauendotelo finto,tì è femprcappreflo: gni uolti^che louuoif SOGR. Fa aduns: quc conto fanciullo mio gentilesche il mio pr^ mo ragionamento Cu flato detto dà Fedro Mirjs rinefe,figh(ioIo di Pitoclc,ÒC queflo che hora di ro^da Steficoro.figkuolo di Eufemio,fauomo degno d' eiTere daciaiciino amato.il qual ragio namcnto in quefto modo cominceifemo. Q^V E L ragionamento non è uero,ìneI ^uale fi è detto, che per edere l'anì^inte pieno di fiiWc^À quello, che non ama da tal furore lifae^s ro,fi debba mjggriormente fare cofa grata m pri feotia d^i un'amante, à chi non ama, che per iì contrario: per ciò che fe fuflè in tutto uero^che il furoretuifecattiuo,haremo per certo ragioncj» uolmente parlato. Ma io ti uoglio dife,,ch^mol tì.ac grandiffimi beni ci intcraengonoper mcjs zo del furore, concefTo certamente folo iptxbt^ neficiodiuino.Etchcfia il uero^ucdiche pri-? ma quella Sacerdote, che in Delfo predice il futuro, fiC qudla altra apprefTo Gioae Dodosc nco. fono cefliflimamente ripiène di furóre^non di meno hanno Tempre date molte, C(gran diflimc commodità i gli huomini di Grecia flC priuataniente,flf publicamcnte: ma mentre che da tal furore fon libererei fanno o poco, ouero nefTuno giouamento. Et fc io uoleflì horara^s gionare delle Sibille, &dituttiquegli altri^chc hanno per uirtù diuina indouinato il futuro, flC feiotiuolefli dire cjuanfo eglino predicendo molte cofe da uenirc,habbino giouafo, troppo farei nel mio parlare lungo, ol tra che io direi co fa chiara à ciafcuno. Non di meno par cofagiu^ (la dimofl:rare,che li noftri antichi, li quali pos: fcròi nomi alle cofc.uiddero.fif conobbero, che il furore non era cofa brutta, o uituperofa.che fc gli haue(Tero altrimenti penfato,non harebbo:^ ^ noqucfta arte perfettiflima^con la quale il fu:s turo fi conofce, chiamata ^àyiKHv » che tanto uuol dire, quanto furore diurno: per eie che il furore uiene à gli huomini peruolontà diuina, & pero parendo k coftoro,chc fufle come è quers. fto furore, un gran bene,à quefta fi honcfta arte uolfero mettere un fi honorato norhe. Ma hogs gi quefti pia moderni interponendo i quella uoce un poco confideratamentc hanno qn erto furore chiamato fuy-v7JH«f, che uuot ^ire arte di ifadouinare.d: non furore. Et hai da fapcrc,chc il modo dello indoufnarc il /ufuro^' che hanno gli huomini priui di quel furore dis aino,pcr uiadegh* uccelh^flf delle conietturc, parendo à efli,chc procedere da difcorfo huma^ nojl domandarono oÌovohsìkh: ma quelli, che fon uenuti dipoi, mutando Io piccolo nel Io6)grande,]' hanno con più honefta uocc chiamato oiqvisihm • Et pero quanto è più perfetto,a: più nobile lo indouinare per uirtù dinina,chc per coieffure,flC per uccelli, tt qiun fo il nome diuino,chc è /xocvmK?, c più de^ gnocheThumano^cheè fMy^Kug, ftpiuun opera, che l'altra perfetta, tanto i noftri antichi hanno detto, che il furore, che uiene dal ciclopc più degno, che la prudentia^flC l'arte humana. Tu debhi purfapere,che già per riparare alle grandi infirmiti. che ueniuano,flC per liberarci da qualche auuerfità troppo grande, che alle uolte per gli antichi errori li popoli minacciai uano,ueniua à una certaforted'huominique^ (lo furore diuino non fo donde. Et da quellconfigliati,queirimedii ritrouauano,che erano alla falute loro neceffarii^facendoli quel furore ricorrere alli uoti.& alli preghi, al raccoman^ darfi à Dio: per quefla uia impetrando mife^ f icordia/i rendeuano da ogni infirmità.dCpe^ rìccio fahii CT per quel te nripo,* pcrquc1To,chc haueua da uenifc: K cofi acquiftauano.fiC rice:^ iieuancpfrmczodi qucfto furore dal' cielo la sflblutione del II errori loro, pur che di furore de gno,&: buono fuffeflo ripieni. Il terzo furore è quello,che uien? dalie Mufe, il quale rapifcc.J'i^nima altrui, anchor dafimile forza non più of fefa,a cefi la fjfiieglia.flC k infpira. Per il che è per uu di cantico facccdo qualche t^pbile poe fia, ornando con Ufuoi numeri, fiffcriucndouirs finiti ùtti òc gli antichi, per tal uiainfegnaà colorii, che dopo Ihì uerranno. #Jf quello, che fenzail furc^l■ delle Muk ha ardire di accoftarfi pure alla porta delb poefia,fidajndofi per quaU che fuaingfgnofà arte haiieicà diuentar buoi^ poeta^ti d'jco,che qiicfto tale 4 fine farà tenu:^ to fciocco: a lapoefia di un'hUdmoda que:s furore hbero, «i^fce finalmente uana, fit, fenza fugo alcuno, i couipararione d/ quella^ che da un' huorao funofo è ritruouata. Tut:^ quefli, a molti altri' nobilj/Timi effetti del. furor djuifìo tipofloio raccontare: per la qual cofà noi non hsbbiamo hoimai più da temersi rè ua furiofo.Ne aTgomento-^ò neramente ra:?- gioac alQU<w.CJllM da fpau.Gntarc^moftrandoci clìepiu foflo fi Iiabbfa ad eleggere un'amico prudente, & fano,che uno incitato, flC furiofo*. Ma lafciamo andare quefto.jMoftiimi coIlui,fc può, flC in quefto uincami, che i' ancore non fia da Dio (lato truouato per utilità dell' aman^s le.flC dell'amato. Doae io hora per il contrae rìogli uog!iomoflTare,chequcflo tal furore e flato dato da Dio à gli huomini per una gran^ difllma (cìicità.LsL qual mia dimoflratione à quelli, chehtigiofi fono, & che ogni cofa tropss po minutamente uogliono' fapere,tt che ogni cofa uituperano,fiCà ogni cofa appongofièf.fàà rà forfè incredibile: ma afii faui farà il con^ frario. Ma prima che à quefto ucnga,ci fa di bifogno,confiderando bene le operationi,fiC gli affetti dell'anima humana, fiC diuina, troitare la uerità di quello, che intorno à lei fi può ra^ gionare,flC difputarc. Sari adunque il princi:? pio di queda mia dimoftratione cofi fatto. OGNI anima c immortale, per ciò che quella cofa, che fcmpre da fe fi muoue^queU. la douiamo direefTere immortale: ma quella co^ fa,che altri muouc,tì: da altro è mofra,con ciò fia che ilfuomoto fia terminato, ha anchora il termine, 6: il fine della fua uita. Et pe:sr rò folamente quella cofa^ che fe (leda muoue/ per ciò che mai non fi abbanclona.nonfi rcfta mai di muouere^anzi quella e fonte, ££ principi pio del moto di tutte le altre cofe.che fi muos: iiono.Ettufai,cheil principio è fenzanakis: mento alcuno; per ciò che egli è neceffario, che tutte le cofe^che fi generano, nafchino da un principio, flC quel pnncipio non ha altro prin^s cipio: per ciò che sci principio nafceffe da qual che altra cofa, non potrebbe gii nafceredaun principio, cfTendo il principio egli • Ma cfTendo il principio fenza nafcimento.è necffTario che;inchorafia fenza mancamento, o fine alcuno; per ciò che fe il principio mancaffe,© morilTc^ non potrebbe più ne egli nafcere da un'altro,, tie un'altro rifufcitare da lui, con ciò fia che fu neceffario, che tutte le cofe nafchino da un pria cipio. Se adunque il principio è un moto,chc inuoue fe ftefro,queflo principio non può ne mancarcene nafcere da un'altro* & fe altrimenti fuffe, farebbe neceffario, che tutto il cielo man:s caffè, a fi diftruggeffe,flC ogni altra cofa creata» ^oltra di quello non fi potrebbe mai fapere on^ de quefte cofe nafchino, & da chi fieno moffe^ Adunque effendo chiaro, che quella cpfa^che fc flefla muoue^è immortale, non harà da temere di due il falfo.chi affermerà che la fuftantia del l'anima è cofi fatta;Ia ragione è quefi:a,chc ogiiìi corpo, che ha il nìoto da altri,è corpo inanima:^ to. Ma quel corpo, che ha il moto in fe ileffo^. & per (e fi miioue, quello è animato: fimilc» adunque puoi penfare,che fia la natura dell'ara nima. Et però (e gli è uero.che altra cofa non fi truoui,che in fe fle/Tafi muoua, fuor che Tanis: ma,di neceflìta ne fegue, che I anima Tia fenzi principio, fiC immortale. Dell' immortahtà dela l'anima habbiamo detto affai. Voglio bora u:: gionare della fua ideà;ò aero della fua forma,» ìmagine in quefta guifa. Se io uolefli narrarti tutte le Tue qnalità,CJ particularità,bifognareb:à becheio (i\([ì un'huomo diuino, fiC poi farei troppo lungo. Ma può bene un'huomo motà tale,comcfonio,defcriuere una certa fimilitua dine,flC figura di quefta anima, flC quella porre dauanti à gli occhi; & à far quefto,fari cofa pia breue,che à entrare nelle altre diffic ulta, che nel ragionar di lei fi ritruouano. Et però diremo per bora cofi, Facciamola per quefta uolta fimi^i le à un carro alato, che habbia il fuo rettore: la qua! figura ci è affai nota, flf (a intendiamo be:s nifijmo. Hai adunque dafapere.che tutti li cast:Ualh\flC li rettori de i carri de^li iddii fon buo^ ni,tt nati df buoni •De gli altri^che non fona fddii, parte fono buoni, & parte non. Primierajf. mente colui, che dell'anima. della mente norx j ftra tiene il gouerno, raffrena, guida, flf corrfg:^ geli duecaualli,cbe il carro noftro tirano con. le briglie in mano.Oltra diquefl:o,un di quefti duecaualliè buono.fiC bello,flC nato di ftmilfó Taltro è il contrario, & nato di contrarii. Per ii che accade, che quefta noftra moderatione,flf reggimento di caualli fia di ncceflifà difficile • Horamiuoglio sforzare moftrarti breuementc. perqual cagione fia detto un'animale mortale, 6: uno immortale, Ogni anima ha cura di tuts?: i to il corpo inanimato, flc difcorre per tutto il cielo bora pigliando una forma, bora un' aU fra; fiC mentre che ella è anchora perfetta, « riaij tiene le fue ale intere inalza in alto,fiC gouer:P na air bora tutto il mondo. Ma quella anima, alla quale fieno per qualche cafo, come ti dirò^ cafcatc le 3lc,rouiDa al bado, ne mai fi ferma, fin che non fi intoppi in qualche corpo fohdo,clic la ritenga. Quando poi quella anima ha trouas^ to doue habitare,* ha per fua ftanza prefo qual che corpo (errenp (il qual corpo fabitp che ha, in fe quefta anima, par che comincia à muo^^ ucrfi,macpera lapotentia della anima, che lomuoue} muoue) ali 'bora tatto qucfto fi chiama ani? male: & qucfta anima unita infieme con un cor po terreno (come ho detto ) U un'animale.il quale fi domanda mortale. Ma il corpo immorj: tale fi conofce non per ragione alcuna per ora' didifcorfo ritruouafa.ma quel, che fi dices'd fingono gli huomini da fe ftefli; perciò che quefto corpo non lo habbiamo mai ueduto. ne à baftanza ci è maj flato dato ad intendere, Ids dio adunque è un certo animale immortale il quale fenzadubioha ranima.flcfimilmentc il corpo,flCquefte due cole fono liate per natura in fempiterno infieme congiunte. Ma queflc cofé bifogna dire che fieno, come piace i Id* dio, a ragionandone, à lui bifogna' riferirfcne. Hora ci rcfta à dire per qual cagione le ale caa (chino all'anima. Tu ha» da fapere,che la nas tura.ef il proprio delle ale di quefta anima.é il- leuare il graue in alto uerfo quella parte del'cics lo, la doue habilano gli iddiU Sappi anchos ra, che di tutte le cofe.chc in un corpo fi nst truouano, ranima,piu d'ogni altra cofa.della diurna cognitione è participe. Qiiefta diuinità tengo io che fi pofli dire, che fia cofa bella.iaa uia, bHona,flC ciò che i tali cofe c fimilc.Da quc* (lo adunque prindpaimclìfc fc ale dell'anima fono nutrite,* per quefto più che per altro crc:s fcono,flC mchora per le cofe brutte, flC trifte>ac per le altre à quelle'contrarie, che di fopra ti ho dette, mancano, fl£ uengono à niente. Oltra di quefto hai da intendere, che in cielo è un gran Principe^il quale fi chiama Gioue. Coftui pd^ mo à tutti gli altri, guida con uelocità un fuo carro alato, ornando, fiC affettando ciafcuna cofa,. ce con fomma diHgentia al tutto procurandoé Dopo coftui feguita lefercito de gli altri iddiì^ femidei,fiC fpiriti diuini, diuifo, flC ordinato in undici parti, 6C folamènte nella cafa de gli iddii f cfta la Dea Vefta. Ma gli altri iddii (dico fola^ mente quelli, li quali fono poftì nel numero de j dodici ) fe ne uanno ordinatamente, fecondò che fono difpofti,& ordinati. Et hai da fapere^ che dentro al cielo fono molti fpettacoli,fiC mol ti uiaggi,difcorrendo Intorno fi fanno diuinifTì^ mi,& beatifTjmi: alli quali i beati iddii femprc ftanno intenti, & ciafcuno fa quello ufficiosa! quale è fl:ato pofto,CC che gli fi conuiene.fiC cofi ua feguitando ciafcuno iddio fempre potendo ugualmente,* uolendo: per ciò che dal diuin choro è femprc ogni inuidia,* ogni maleuolen tia lontana, Quando poi fe ne uanno al celeftc cofluifo, ce à guflarc le diuinc uiuande, all'ho:: ra inalzate, & già in alfo afcendendo^caminano per la circunfèrentiade i cieli. Li carri delli do5 dici iddìi bene accónci, flC aflettati, con le briglie de i caualli uguali, flf parimente da ogni banda pefando, fàcilmente caminano. Ma gli altri carri che cofì no fi truouano.à fatica fi poflono muo uere: per cicche quel caualio trifto è dalli uitii aggrauato,6C cofi uerfo la terra fi p^^ga, & feco il carro, & il rettore à forza tira.fiC quefto à quelsj li rettori interuiene,che j1 caualio non buono, hanno troppo ingraflato,fiC alThora patifcono le anime una fatica eftrema^fic fono in un graridifs fimo combattimento. Per ciò che quelle anime; che fon chiamate immortali, ciò è quelle, che no fono dal trifto caualio sforzate, quando allafom miti giunte fono,allontanatefi dalle altre, fi fer mano nel dorfo del cielo, fiC quiui pofatc,fono dalla circunferentia attorno rotate: ft quefte fos: no quelle anime, che ueggono quelle cofe,chc fuor del cielo fono pofte, Et quel diuino luogo (opra tutti li cieli non è anchorada alcuno dei noftri Poeti flato fin qui lodato: ne alcuno fi tro uerà,che mai quanta egli menta, lodar lo pofla. Quefto luogo è fatto in un tal modc(& mi met^: to i dire quefto; per che parlando della uerità, pofTo tiene hiuctt ardire di dire il acro ) è adun que fcnza colore, fenza figtira alcuna. non fi può toccare.è una cfTcntia; la quale fola fi può dire.chc ucramcntc fiaft qucfta effentia fola» mente li Icrue dello intelletto, guida, flf gouer^ Inadore dell'anima, il quale intelletto femprc fta in continoua contemplatione del (omwo bello^Etla uera fcientia, flCil perfetto fapere altro luogo non ha, che quello, che c pofto ins: torno i quefta effentia ucra,£c nella fuacognfc ttònc. Come adunque il penficro^a: la contems plationc diuina è poftafolo intornò i un'ina tellettopuro,fiCà una fcicntia immaculata, cefi il penfiero, flc la contemplatione d'ogni ani^: ' ìna,che habbia i pigliare che corpo, ò forma fi uoglia (pur che à lei fia conuenientc ) rifguarp dando per qualche tempo in quella efienfia, che io dico, che fola fi può dire che fia contea!? ta della contemplatione della uerità,di quella fi nutrifcc,a: di quella fi con tenta, fin che un'aia: tra uolta la circa nfercntia aggirandola, non la ritorni in quclmedefimo luogo.Et in quefto fuo aggiramento uede la giuftitia, con tempia la temperanza, fcorgc la fciehtia, K non uedc (jueftc uirlù come generate/flCpoftein uno,ò^in un'alfrc (Ti comé potiamo dire ) che fiend quelle. che noi qua giù confiderandaci paio^ nouirtù,ft cofi le chiamiamo, ma uede quella iiera fcientia, che è in colui, che folamcntcfi può dire che fia.-flCinquefto medefimo mo:s do ucde, flC contempla tutte le altre uirtù,chc fono uirtù ueranente. Quindi di quefti cibi nutrita, a fatia. ritornando di nuouo dentro al cielo, fc ne ritorna à cafa, dalla quale dianzi fi parti: flC dipoi che è ritornata, il Rettore mets: fendo li cauallr nella ftalla à ripofarc.gli da:per cibo T Ambrofia. (JC gli fa bere il Nettati:rc,fif quefta è la uità de gli iddii/te altre ani^.-jne poi, alcuna che dirittamente ha gli iddìi feguitato,6tta che è à lorofimile, fa tanto, che:4inchora ella inalza il capo del fuo Rettore à ^uedere quel bellifllmo luogo, che iotihodet^: oefTer fopra li cieli rftcofi ancho ellainfies» me con gli iddii è dalla circunferentia de i cicjs li aggirata, a portata, ma à T ultimo dalli cauals: li e trafportata fuor della uia: talmente che à grandiflìma fatica può mirare quelle cofe, che in quelli Iuoghj,di uentà piene fi ritruouais no* Alcuna altra anima hora il capo del Ret^ Jore in alto leua^tt hora la abbafTa: onde daU £ ini Ifcaiialli sforzata, parfe ucde quel bcne,flf parte non. Et le altre anime tutte ugualmente defiderando ftar di fopra.feguitano quefte tutte ins, fj fiemc confufamente: a non potendo in alto le:: I uarfi,premendofi tra loro, fono à torno portate: ! fCcalcandofi^ficrunaialtra fpingendo,ft ciafcu i:na quanto più può di pafTare innanzi sfor7an5; dofi, fanno tra loro grandiffima contefa:.onde j ne nafce un romore,un. combattimento, una fafica grandiffjma: nella qual con(éfa,per uitio, ce difetto de i rettori, molte fi azoppano, molte delle altre rompono le penne delle ale,a al fin tutte dopo un;i lunga, flC gran fatica, fen za p 0:5 ter pur uedcre quella effentia diuina.che io di:^, co, che è ueramente,fi partono, flC dopo quefta lor partita fi pafcono folo d'opinione, non potendo quel fommo bene per altra uia conofcerc: a ciafcuna fi sforza, quanto può, di poter haue:5 re quefto cibo,defiderando conofcere doue fia il bel campo della uerità. Per ciò che di quefto prato la natura dell'anima per fe fteffa ottima, xaua conucniente cibo,Cf di quefto fi nutrifcc la natura delle ale,con le quali in alto fi leua^ La potentia diuina poi (la qual non può in al:^ <un modo fallire ) tiene quefta regola, che cia:^ felina animaja quale mentre che gli iddii ac:$compagnaua.C6mpagnaua,puotc ucdèrc qualche fcintiTIa del la uerità,quefta tale dico, uuolc che per fin che un'altra uolta non fia dalla circunferentia aggi^ rata (come ho detto difopra ) fia fuor del perb xólo di perder le ale, òdi riceuere danno alcu» no:fiC fe Tempre potefle girando quella uerità uc •dere,non farebbe mai in parte alcuna offefa,Ma fe non potendogli iddii Seguitare, non fi fuffc potuta condurre i uedere quel fommo bene,flC per qualche cafo contrario ripiena d' ebliuione, ce di malignità fuffe dalli uitii al baffo aggraua:^ ta,flC in queftoabbaffarfi.a deprimcrfi rompete fi le ale, fiC cefi rouinando in terra cafcafre,al2s rhora la diuina legge uieta,che quefta tale anb ma la prima uolta, che qua giù à forma alcuna -s accoda, fi uada ad accompagnare con la natus ra di beftia alcuna fenza ragione, ma uuolc, che •quella anima, che molte cole fa in cielo habbia uedute^uadaà trouare lageneratione d'un huo tno,che habbia da effer Filofofo,ò uero defiders rofo di belleza,ò uero Mufico,ò uero d' un huo modato alle ccfe d'amore. C^ell'altra, che non ^quanto la prima habbia ueduto, ma nel fecon:5 do luogo fu pofta, comanda quefta legge, che difcendainuncorpo,chehabbia da effereRc per legge, fiC ragioneuolmete.ò uero in un bua iao dato alle guerre, flC atto ad efferc Impera^s <lore,ò Capitano ♦Quelle poi, che nel terzo Iuoj: go fi fruouano.ordjna che fi mettino jn un huomo.chc habbia da efTere gouernatore d'una Rcpubhca^òuero in uno, che debba difpenfa^ re,ft diftribuire la robba.ft hauer cura della fajs miglia, ò in uno,chefia dato al guadagno. Quel k.chcpiugiu tengono il quarto luogo, fe ne uarino in un huov(}o,Ql}€ hsihbìà da durar ùth.ca,òaeroin uno, che fi habbia daefercitare in^: torno alla Medicina, fif alla cura de i corpi.Quel Ic,che più di foltonel quinto luogo fon pofte, é s'accoftanoà coloro, che debbono fare l'arte di indouinarc,òuero di augurare per uia di facrb jficii,ò d'altri mifteri, Quelle, che la fefta fede tengono,defcendono in un'huomo,che hab:s bia da diuentare pQeta,ò ucro in uno di coloro, che fono nati ad imitare altrui. Quelle, che fono le feftime dalle prime, uanno;fn uno.che habs biada efTere òartefii^e^ò agricoltore. Le ottauc in un fofifta,òucro in una perfona plebea.flC iiile. Quelle finalmente, che nel nono, flfultis: mo luogo fi ritruouano.fc ne uanno a diuentare uno, che debbia efTer tiranno. Et in tutti quefli •fiati di Ulta qualunque giuftamente haràmes». -fiato i giorni fuoi.dopo la morte harà miglior forte, clic quelli, che friftamcnte fono uirtuH: flf quelli, che ingiufti fono flafi,uannOÌ pcg:^ |fóré fl'a(o,che colore), che fono ftafi buòni: pei d'oche non ritoma Tiinimatn quel medefimo luogo,dcnde prima fi partì. più preflo che ih fpatio di dieci hhirlia anni.Per ciò che auanti i queftofpatiodifefnponon può racquiflare le àie, fuor che l'anima di coluj,che uitiendo hà fenzauitio alcuno atfefo alla Filofofia,òuer«5: mcnfeha amato la helleza^fiC infieme grande^ ifnente defiderafo la fapienfia: per ciò che quei ftefali arfime/enza dubio alcuno, dipoi che ^treuolte fono paiTate mille anni (purché efs Icno^ uoglino dopo la prima morte, tre uolte tornare in quefta uita ) all' bora hauendo rac» quiftate le ale dopo tre milia anni,al cicl uo^ landò fi partono. MoHé altre aniine, morte che fono, la prima uolta fono da Iddio gJu^ dicate, a dannate r ttcofi giudicate, altre an^- dando fh^un'iù'ògo,il qaaTé ne! cèntro dcU la terra è porta per punit»one delle anime cgitti tiue.quiui patono del fallir loro meritcnoli pe:» he. Altre pòi dal giudicio dìuino innalzai te, in certo luogo del cielo forio in quel modo trattate, che fi hannoqnagiu in terra uiucns do meritato: flf poi tra mille anni qucfte due- forti d'anime, ritornando al mondo fi eleggono una feconda uita,ec ciafcuna può pigli^rfi queU la forma, che uuole. Quindi uienc, che l'anima humaha pafTa alla uita d'una beftia^flC dipoi dunabeftiadiuenta di nuouo huomo,pur che quella anima fia (lata un'altra iiolta in un'huo mo. Per ciò che quella anima, che non harà mai ucdutaìauerità,òpoco,b a(rai,non potrà mai pigliare la humana figura: per che bifogna che quello, che l'huomo mtende, l'intenda per me:s zo delle fpetie delle cofe,che dauanti gli ii ap:5 prefentano.a quefte fpetie per uia di molte, ÒC uarie cognitioni nella mente noftra raccolte, fo^ ijoalfine con difcorfo infieme pofte,eCc9m5s prefe. Et quefta cofa altro non è, che la rimems: branza di quelle cofe,che già Y anima noftra in C4elouidde,air bora che infieme con iddio era perfetta.-a quando ella fprezaua quelle cofe,che noi fcioccamente diciamo che fono,riuolta fola:? mente allcontemplatione di colui, che è uera^ mente. Per la qual cofa l'anima folo del Filofoss fo meritamente racquifta le ale.per ciòchequan to p-r un'huomo è poflibile,fempre con la mera móna fi riflringe,flC fi accofta à quelle cofe^allc quali accoftandofi,(5f riftrfngendofi iddio, è di^ uino» Colui adunque, che farà quefta confide^, ratione din'ttamenfe,& ragioneuoImente,flC cefe cherà fempre di nempirfi la mente di qucfti cofi pcrfet(i,fi£ fanti mifteri, quefto folo diucnterà perfetto. Et cefi diiiifo dalli ftu di, che fanno gli altri huomini,flf accoftandofi alla diuinità,è th prcfo,flC morfo dal uolgo,comc fe egli fufle ufci to di fe. Ma egli ripieno, flC ebbro della contem plationc di Dio, non fi lafcia cònofcere alla mol titudine. Per quefto adunque ho fatto io qùc^ fto mio ragionamento, il quale è porto intorno alla quarta forte di furore-peri! qual furore quan do alle uolte uno di quefti tali nel uederequa giù qualche belleza, fi ricorda di quella uera, che gii uìde in cielo,rimettc fubito ralc,fiC cofi rimelTe che V ha, fi sforza,quanto puo,uolando al cielo inalzarfi. Ma non potendo ciò fare^coje me gli uccelli po(rono,guarda,flC confiderà pur uerfo il cielo, fprezando qucfte cofe bade «onde ne è biafimato fiC ne riporta uergogna,dicendo:j gli ciafcuno,che egli è poco fauio,flC ripieno di furore. Per la qual cofa quefta diuina feparatio:^ • ne dell'anima dal corpo è fopra tutte le altre, che interuehire ne poffano migliori, Et da ca:^ gioni ottime nata,d: non folo è gioueuole à chi in tuttolapo(riede,ma à chi qualche poco ne participa. Et coiui,che di quefto iurore fanto.tt |>uotio è ripiano, con ciò fia clic egli afmrla bel:? ilcxa.quefìo ueramente fi può dire arhantc. Per ciò che, fi come ho difbpra detto.ogni anis ma huroana già ha iieduto quelle cofe, che ue^ ramente fono: per ciò che fe non le haueffe uc jàiite, non farebbe difcefa in quefto animale hu mano: & non, è f^c^le i tutte le anime ricor:i darfidclfecòfedilàfù.per uedere quelle/cbc qui fono. Et prima lo poflono mal fare quelle; che per breue fpatto di tempo fù in ciclo gli fu conceffo uederic: dipoi non è conccfTo anchora ^ quelle, che nel mondo uenendofono fiate ina felici, ce Ila nno hauto mala fortuna: di modo che corrotte da alcuni coftumi cattiui.che qui pjgliano/ifccrdano in tutto di molte cofe (st^ gre,©: buone, nelle quali in cielo erano gii ammacftrate. Perii che poche anime fi ritruor? uano,che àbaflan2a delle cofe celefti fi ricors dino. Ma quelle poche quando tal'hora qua giù- fcorgono qualche iomiglianza di quelle cofe^^ che in cielo gii urdderò, fi ftupifcono, ftquafi cfcono di fe. Et non di meno non fanno don^ de quefto lor mouimcnto proceda; per ciò che non conofcono in tutto la uerità.ne a baftanza fe ne ricordano. Ne pct/amonoi fcorgere,menp tKchcqyagiàftiaDoioin quelle fi^ure,« imaa gini,fplrndòrucro alcuno di giuflitia, di tfmp< ranza, fiC delle altre uirtù,che gl'animi npftji J)<^ norano.flC amano. Ma per certi inftruirenti,fiC fxìczi imperfetti ofcuri à pena pochiflimi huomini accoftandofi pure alle imagi ni> di iq^cl le uirtùcelefti,che nel mondo fi ritruQuano, tifguardanoin qaelle imagini quella forte, di uirtù,che fimile imagine gli. rapprefej?ta. ali' hora ci era lecitc,<X conceffo uedere una chi^ riflima^flC pmiflìma belleza, quando con quel beato choro fegiutando noi quella felice uìGq:» ne, 6: quella fanti/Tjma contemplatione. della quale dianzi fi ragionai, noi infiemc conGio:^ ut,& ìt aìttc 2nitrìc inficmecon qualche altro iddio, fecodo che era ordinato, pQtcmo con teni:^ piare la diuiniti: flC quando à quelli miftcri,fl£ cofc fagre dauamo opera, li quali potiamo ragio iicuolmentc dire efTer più di tutti gli altri miftc ri fagri,flC beati, alli quali all'hora noi poteuamq attendere, quando anchora immaculati. flC nò of fefi da mille mali efauamo,che poi habbianio in quefto modo prouati.Onde confiderando all'ho ra quelli celeftì fpcttacoli cafti,femplici,durabi li^tt beafi^poteuamo beniflìmoà tal fanto efcr^l tic fcruirc ftado noiin una luce pura pun^ttfen M machia alcuaa,Iib^ri,&fciolti da c^uedo^chcWtor chiamiamo <;orpo,il qiul crbifogna ì torno portarci noftro mal grado, efTendo à quello le:5 gati,6f in quello rinchmfi à guifa d'oftnchej ce quefte cofc non fi fanno, feno per uia di mc^: nicria,per che noi ci ueniamo à ricordare delle cofe padatecdallaqual ricordaza hora io fon fpin to: ce efortato perii defiderio) che ho di quelle xofe.che già ho altre uolteuedute, ti ho fàtto queflo ragionamento, Hora la belleza(come ti ho detto ) quando già erano le anime in cielo,^ Infieme con loro caminando rifplcndeua,fiC di poi, chequi fumouenuti.rhahbiamo riconos fciuta, per ciò che ella chiariffimamente rifplen:? de,& fi moftraà quel fenfo dellj noftri,che più •di tutii gli altri ha in noi forza, flC quefto é il feri fo del uedere: per ciò che quello é il più acuto di tutti gl'altri noftri fenfi^che permezo del tòVpo fon cagionati, col qual corpo, flC con li quali fenfi non fi può cognofcere.nc uedcria fapientia: per ciò che ella farebbe nafcere in noi ìun'ardentiffimp amore di po(rcderla,fe un qual chcfimulachro,òimagine di ki dauanti à gli occhi manjfefìamcnte ci fi pofgefTe: fiC il medefi mò potiamo dire di tutte l'altre cofe,che fono degne de/Tere amate. Non dimenolabellezsi fok ha jpiu dellaltre haute quella preminentfa^^ che ella più;d- ogni altra ci fi fa uederc,& piu che ogni altra cofa ad amarla ci muoue. Et però colui, che dianzi non atteie à quelli fagri miftc;? ri, ch'io ti difli,anzi più tofto e, dando qua gm^ corrotto da quefte cofe bafle^non cofi preftofi inuoue,fiC leua ranimo all' amor di quella bels: Ieza,anchor che qui uegga una certa fc^iglian za di quella, che da quella eterna il^ nome pi:^ ghando.pur belleza fi chiama. £t per quello nel uederla non l'ha in ueneratione,flC non l'ha nora,maà guifa d' una beftia.dato folamente al piacere, uorrebbe pure à quella belleza acco:5 ftarfi, flC generare, & produrre figliuoli: fiC cofi importunamente afTaltandola, non teme punto fargli difpiacere.ne.fi ucrgogna dandofi in prc:? dai quel fuo difordinato appetito, pafTar gli or^s dini della natura, Ma colui, che alli detti mifte;^ ri poco fa diede opera, fiC che già in ciclo con^ tempio, molte cofe degne, flC (ante, quando egli uede un uolto ben fatto,ft di belleza diuina ot^ nato, il quale perfettamente quella diuina, & uc ra belleza rapprefenta,ò uero quando contems? pia nò pure il uolto, ma qualche altra parte ben fatta del corpo, primieramente fi empie dihorrs rore,fiC tofto teme di lui, come fe fufleunacofa (ckfte già dalui pa altri tempi u^duta: quindi più minutamente rifguarclandolò come Iddio lifaonora.flC fé egli non temefTc di edere accuiaj«; to per matto, ti dico che egli non altrimenti aUj l amato fuo facrifìcarebbe^chc farebbe à una fta^r tua di iddio. Et mentre che egli pure il contem pla/ifentequcU'hprrore. del quale era pieno, in fudore,fl(in ardore conuertire, dal quale in brcuc tempo tutto fi truoua occupato. Per ciqr che air hora,che egli per gli occhi beue quclU bcllcia Cubito tutto dentro fi riicalda: dal qual caldo la natura delle penne della lua anima é co me matfiata,a dipoi che egli è bene infuocai^ to,fi intcncnkono quelle parti delle ale,clic pullular doueuano.ac che dalla dureza riftrctte, metano alle penne il poter gernpogliare. Qjiianp do poi per gli occhi e ben penetrato il nutrìs; nicnto di queftc alenali' hora il germoghar delle penne, che prima comincia dalla radice i ingrof (àfC,ìmpetuo{amente per tutta 1 anima moftrarfi (i sterza per ciò che Tcinima era già tutta dalle pcnne copcita.fif da quelle io alto foftenuta} tak^^ in quello tempo ci anima tutta in grao dèiiìmo leiuore^tt uonebbe pure inaizarii: flC non aitranrti che làccino ifanciuUt. quali allW u che pruni mcttoiìo i depti^t^no da on certo iociOiC iMfitfi, aiiiciué dà un dolore delie gicQ gfc moleftatì.cofi l anima iicl meffere le penne tutta fi commuoucflffi riempie in un tempo dj piacere,» di moleftia. Per il che mentre che eia la uede un giouane bello, beucndo per gli ocs chi quel piacere, «quel defiderio.chc da lu|'t uiene,airhora inaflìata.come ho detto, fi rifcalr da,flC all'hora nó fi duole. ma fi rallegra cifra mo do. Ma quando poi egli s allontana.flC che quefcl li meati fi rifeccano.per li quali l'ala uoleua ufcir fuon.allliora andi.fif riftretti.uiefano il gcrmoa gliare delleale: di modo che quefta ala infieme2i con quello amorofo defiderio, parendogli elTcr dentro rinchiufa, uolendo pur' "faltar fuori dai (e flcfTa, richiude quei meati.donde ufcìr po* trcbbe.fif fa che di nuouo ne nafce ali anirra nó poco dolore. Et pe^quéfto è tutta l'anima da ogni banda oii'efa,fiC grandemente dimoiata,» mal trattata Ma ricordandofi poi di nuouo del? la ueduta belleza,in quello fi diletta.» di quel Io folo fi rallegra. Et cofi da ambe due queftc paffioni infiemc mefcolate.ciò è da quello sfor* zamento.ec impeto di rimettere le ale. & dalU maraiiiglia della piacciuta belleza è in un fems po moleftata.Onde piena di anfietà,<urio(à d/» licnfa flCè daqucftofuror in tal modo condotta, che ne la notfc può dormire, ne il giorno in lue go alcuno fermarfi, ma quinci, 6f quindi fi ags gira,fiC fi fbatte,mofra pure dal defidcrio di riue dcre quella bcUeza, la quale di nuououedcn^ tìo,& beuendoquel defiderioamorofo per gli occhi, CQmc ti ho detto, all' hora di nuouo apre, & ageuola quelle parti delle fue penne, che prtp ma erano infieme riftrette.fic chiù fé: fiC cefi àh poiché ella ha cominciato à rifpirare,fiCriha2: uerfi,à poco à poco fi hbera da quelli ftimoli'i ft da quelli dolori, dalli quali prùr^a era offef^é Tale che da quefto foaui/Tjmo piacere 6nto è in quei tempo uinta,che mai per fe da quelli allet^: tamenti non fi partirebbe, ne altra perfona più appreza,chc l'amato, ma fi fcorda del padre, CC della madre, de i fratelli, fif di tutti gli amici ' fuoirttfe tal' bora (come interuiene ) manda in quefto amoremale.ft confuma il fuo,non fe ne cura punto. Oltra di quefto fpreza tutte le '.amicitie,flC dignità, che haueua fuo padre, delle quali gli fi farebbe tra gli altri gloriato,^ fole fi contenta di feruire^fiC diefler foggietto àogni ''«olontà dell' amato, pur cbe egli pofTa efferaps: prefTo al fuo fuoco • Per ciò che non folo honoi^ ra,ficha in ueneratione quefto b^llo,chc tgli ama^ma anchora Io truoua ottimo medico d' gni fiu grauifTima paflionc. Quefto afFetto adun qac,2(quefl:o mouimento,b giouane gentile, gìihuomini l'hanno chiamafc ef^SiDC cioè amore. Et fe io ti dicelTe in che modo quefto amore è chiamato fu in cielo dalli dei, certamen te,che per cfTer tu giouane, harefli ragione di ridere. Et che fi^il uero, certi imitatori d' Hos: fnero compofero già due iierfi fopra quefto amo re.cauati (come penfo ) dalli fecreti.flC mifteri diuini,delliquali unoèin uenti affai goffo,flC poco elega n te, flC dicono cofi, Chiamano amor uolatore i mortali. Li dei alato, per che à forza uola., ^ A quefti uerfi in ^arte fi può credere, in parte non: ma fia come (ì uoglia,un tratto quefta^ che io di fopra ho detta, è la aera cagione damo rc,fiC lo affetto, flC la paffione de gli amanti; Ci però tutti quelli, che ameranno, h quali già fe^ guitarono Gioue,po(fono più fauiaméte,fiC più conftanfemente portare il pefodi quello alato, che io ti ho detto. Ma coloro, che già honoraro^ no Marte, Ce fu in cielo infieme con lui andoro^ no intorno, poi che dall' amore allacciati fi truo^ uano,fe mai penfano di riceuere dall' amato in^ giuria alcuna, facilmente corrono à far dei ma^ lc,fi£ à uccidere; cefi furiofamente ò fe ftefli, è gTi amati loro priuano uifa/SimìImfnfc eia fcuno honoraquel roedefimo iddio, col quale già andò in fchicra: flC quello cerca fcmprc quan to più può, in Ulta fua di imitare, fin che egli non fi lafda da i uifii corrompere. & in quefto modo mena i giorni della prima fua uita,t3C cofi fafto a gli amati fuoi^flC à gli altri Tempre fi mos: ftra, Et però cfaicu nò, fecondo i coltumi fuci.fi elegge à amare uno, che à lui paia bello. Qujns: di,comc fé quello fufTe il fuo iddio, fe ne labri^ ca una imagine.fiC quellaorna & fa bella in quel modp,che fe à quclla,flC non ad altro idolo ha:? uedeà dare honcri,flCà facrificare» Onde co:5 loro.che di GiòUe furono feguaci,flf che quello honorarono, cercano d'amare uno. che Simiù mente habbia T animo giouiale: fiC per quefto / confiderano, prima che l'amino, molto bc5: nc,fe quefto tale è atto per naturatila FìIoì: fofia, òueramente al regnare, alle quali cofe Gioue inclina. Et poi che conofcmto(o,fiC ri:^ truouatolo tale, lo amano, fi sforzano con ogni ftudiodi farlo diuentare fimile al fuo iddio. Et fe forfè eglino non fapeffero per loro quel, che à gli altri uogliono inregnare,airhora ol:? tra modo fi sforzano, flC cercano di imparar fem:5 pre qualche co(à per qualunque uia gli è con:s cef?o: flf coli infiemtf con gli amati à queftrf coli honcfta.flclodeuole opera fi mettono, (alt che diligentemente ricercando, fif in fc fteffi inue^ ftjgando la natura di quello iddiojl quale ad honorarc fono inclinati tanto fanno. che al fu: re pur uengono a capo di quefto loro honc;^ ftodcfiderio. Etnon'c ciòmarauiglia,per ciò che eglino fono dall' angore sforzati à dirizarc la mente, ftconfiderare con intentione gran^ dilTjnia à quel fuo iddio: di modo che pur al fine ricordandofene, fono fubito di undiuino fpiiito ripieni: il quale fpirito fa, che eglino pt^.glino coftumi, fif ftudi tali, che in brcuc tem^s pofi fanno participi della cognitione di Dio, tanto però, quanto à un'huomo è lecito. Et per che di tutte quefte cofe fanno che ne è cas: gione l'amato, ogni giorno più ardentemente nel fuo amore fi accendono. Et fe cclloro th ceuono quefta diuinità da Giouc (come anchoss ra le Sacerdoti di Baccho,cheda lui di furor fono ripiene ) infondendola tutta ncir animo dell'amante, in breuefpatio di tempo, quanto poffono.à Gioue lor proprio iddio, fimilifTimo Io rendono. Tutti quelli poi, che già in cielo feguitarono Giunone, cercano per amato loro un giouane d'animo regio: ilqual poi che han^ ìfìo frbuato.dfucntano Cmili à *q!iclli\che di fos prati ho detto.fiC uerfo di quello operano in quel mcdefimo modo» Oltra di quefto, quelli, che honorano Apollo, ò qualunque altro iddio, ciafcuno il fuo proprio iddio, imitando, cercano ' tutti un giouanc.che per natura habbi il medcsi fimoanimq^chc loro: il quale poi che hanno trouato, prima il lor proprio iddio imitando, poi alli giouani pcrfuadendo,che li medehmo faccino,flC moderandogli in ogni loro cperatio:? ne, fecondo il lor fine, quanto le forze loro com portano, di condurlo fi sforzano alla imitatione del proprio loro iddio, fiC alle loro fimili operai troni «Non portano coftoro alli fuoi giouani ìnis uidia,òmaleuolentia alcuna, ma con ogniftu^ dio fi sforzano di conformarli alla loro perfetta Ulta, ùmilmente a quella di quello iddio^ che ambe due naturalmente honorano. La cura ' adunque, & il fine di quelli, che ueramente fo5 no amanti (pur che eglino fi conducano à poÉs federe quel,che io ti ho detto, che defidcrano ) fenza dubio alcuno altra non è, che qucftachc io ti ho defcritta. Et è quefto fine per cagion del Tamtete per amor furiofo in ultimo all'amato lodeuole, 2C feliciflìmo.fe quefto amato farifi^ inamente prefo d'amore, £t per che tu fappu irCome un amafo fi conofce dallamor uinto.te Io;:dirò. In quefto inodo adunque qualunque ama ^(ofarà d'amor prelo,fi conolceri. Nel prii ci pio di quefta noftr^. fintione diuidemmo ogni anima in tre parti, flfdimoftrammo li caualli di;due lorti.ò: cofi ppncmo^fpiDjC due parti dell'ai fili ma, li Rettore fu poi la terza parte. Quefte me;defime cofe ci fa di bifogno cònfiderare al pre:? rfente,Già tu fai, che di quelli caualli uno ne è buono, flc uno trjrto; ma qual.uirtù habbia quel ivjibuon cauallo,fi(qual fia la malignità del trifto non Thabbiamo ar)chor detto^flf però bora deb biamo dirlo. Il caual buono è di perfonapiu ^ j.grande,(Sf più ben formato, ben compofto,flCà »^artei parte tutto ben fatto, con la tefta alta, le narici affai bene aperte, come quelle dell' Aqui^ 'la, di color bianchifTimo.coJi gli occhi negri,. defiderofo folamente di honore, fiC ripieno di temperantia,fiC di uergcgna, & amiciffimo del { aero; non ha bifogno di ftimulc^òdifprone al:» ccuno^ma folamente fi regge, fl£ guida con l' efor.Catione, & con la ragione. L'altro poi è torto, uario,CC malifTimo fatto, di una oftinata "oglia, }{b col collo bado, ha il modaccio fpàanato,^^ fchiaciato di color fuko,cò gl'occhi brutti,flC di color fanguigno macchiatile garofo^bcftiale, con le orecchie pelofe OC forde^flf à pena ubedi> fcc alle battiture, fiCalli ftimoli.Oliando adun^ quc il Rettore uede un uolfo degno defTer ama to.fiC infiamma tutta I anima del piacere, che ne fente,è fubito da una certa allegreza commofc fo, flC da certi ftimoli di defiderio. all'hora quel cauallo, che delìi due è al rettore ubedienfe,co me è fuo coftume, dalla uergogna raffrenato da fe fte/To indietro fi ritin per non andar' ali amac (oàd doflo. Ma l'altro non fi può far reftare ne con gli ftimoli.ne con le battiture, anzi auanti fi fcaglia,ft per forza il cauailo,che è feco con^s giunto, ac il rettore infiemc rcompigIia,flCà/cit mal grado li tira à uoler fentire il piacere, che da Venere fi caua. Ma quelli due nel principio no l'ubidifcono,fdegnati che dal rio cauallo à cofc indegne & ingiufte fieno à forza tratti.finalmefc lìoncefTando quello importuno diùxcil peg^: g/o, che j può, sforzati purfilafciano portare, flC cofi gli cedono, & Io contentano di fare quello^ che à lui piace; (ale che in qucfto modo fi ucn^i gono ad accodare al piaciuto bello, flC uaghegs.giano tutti infiemc il charo afpetto di quella, Ilqualpoiche ha bene il Rettorconfiderato, a poco à poco della uera natura di quella bclleza Ti uien ricordando^& cofi un' altra uolta^come già in del fece, col pènderò riiiede.mà u^clc quella nera dalla temper^ntia accompagnata, fiC ftabilita nel fermo fondamenfo della caftjia: però parendogli pur iiedcre quella uera,& diui na t'elfeza, comincia di lei riucrentcmente à tc^r mere; flc dairhonoiT.che gli porta uintojn tcx^ ra hufnilmente fi lalcia andare.-fiC facèdo qucfto, c sforzato di tal forfè tirare le briglie delli due ca ual!(,che bifogna che k forra dieno dellegropsc pe in ferrala uno di quelli per fe flelfc,ptf ciò che non fa ali' incontro sforzo alcuno, ft l' altro, che è tiif(o,fiC beftiale,C! na al tatto contrafua fcogliartì ariojifanandod poi da quella belleza^ iìV dì quelli per la uergogna,d marauiglia grafi che hahauta,tuttaranifnadi fudor lafcial^a gnatafiC laltro libero da quel' dolore, di che il tia rar del freno,5C il cafcar in terra Thaiiea ripieno,i fatica può tr^it* il fiato.-ma poi eli e tn fe r itornaK)', tutto da fdtgno comoffo il Rettore, & il cauallo feco congiunto riprede, che per paura, fiC da po^ cagine di là fi fieno pattiti, doue egli tirati gl'ha ue*i.Quindi non uolcdo però eglino ritornargli, di nuouo sforzadcglf,pur al fine à fatica gli con cede, che con preghi da lui impetrino, che per fino all'altro giorno fi indugi à ntornare!il quale ordinato tempo'uentndo, fingono di non (e nt ricordare;.ma egli con tutto cicgh el rammcna ta,ftdi nuouo sforzandoli, 2f gridandoli, flf df nuouo à forza feco tiradoli, pur li conduce à uo Icr dire all'amato le medefime parole, che hieri gli differo. Ma dipoi che più appre/Tati fi fono, egli torcendofi.flCabbafTandofi (tendendo la co da,ftringeil freno, flCcofi furiofamcntc feco li tira. Ma il Rettore. che l'altra uolta affai mags giormentehaueua lemedefimc forze fofFerto. pur in altra parìe uoltandofi, molto più forte,. che dianzi, le briglie ritirala: cofi sforza la dura bocca del triftocaiiallo, flC bagnandoli in que^s fto modo la brutta linguacce le mafcelle di fan^i gue,lo butta al fuo difpetto di nuouo à ferra, fiC còfi del fuo errore gli fa patir le pene, il che poi the più uolte hail trifto cauallo fofFerto,lafcia pur al fine la fua pazia,fif cofi horamai diuenu:^ to piaceuoIe,ubidifce alla prouidentia del Ret^ tore.flCinfiemecon lui, quando l'amato bello rifguarda, tutto per la paura trema: di modo che affai fpeffoauuienc, che egli feguiti le pe:^ date dell'amante con reuerentia, flC honorc.flC quelle dell'amato con timore. L amato aduns que connfcendo efTer dall'amante fuo, come fe à iddio fufTc uguale, ubbedito, flCofreruatò,fl£ ucdendo che egli no finge, ma è à ciò fare dalla inore sfor2ato(ac maffime che ogni perfona ho^ fiorata, per natura pare che fia amica di colui,' che r honora ) al fine fi diTpone hauer la mcdc^ fima uoiontà,che l'amante. Et ben che pnipai tt dalli amici fuoi,CC da quelli, che infieme feco ftudiauano,flC da gli altri, forfè per dargli biafis ino,fufli flato ingannato, elTendcgli da quei tali detto efTercofa brutta, che un giouane appreffo al fuo amante fia ueduto, fl£ per quefto forfè habbia già l'amante da fe fcacciato,non di me^ no air ultimo per fpatio di tempo &' la età, fiC r ordine debito delia natura del fuo amante lo rendono amico: per ciò che non fi trouò mai, che un trifto non fufTe amico d' un trifto,flC un buono d' un buono. Et però poi che un gioua-* ne comincia à praticare col fuo amante, & afcoU ta i fuoi ragionamenti, airhora facendo lamanar te ogni giorno più il fuo amore conofcere,sfor:j za ramato à marauigliarfenc nel confiderare: che fe la beneuolentia de i parenti, flC di tutti gli altri amici à paragon fi metterà di quella di un' amante ripieno di furore, a di fpirito diui:? no, farà per certo di pochifTimo,© di nefTuno momento. Et fe quello huomo di più età, che (ara amante, feguiterà in queftaguifa per quaU che tempora: fempre « nelle fchuole,ft in fijs miìi altri luoghi apprefTo all' amato cercherà ri^ frcnaifi,alI*hora il fonte di quel liquore f quale già G ione, quando dall'amor di Ganimede fu prefo, dicono che chiamò inf]ufroarDororo)qua le nell amante dall'amato belìo. più abbondanti temente, che nell'amafo è infufo, parte nelTarJ mante fi uùz^Ct parte di fuor traboccndo fi fpar ge.flC cofi in quel modo,che fapiamo fare laerc. ^ flC quella ucce,ché chiamiamo Eccho,qua!e da qualche corpo c)heue,òfòIfdo percoda/tn quel luogo, donde prjma fi partì, ritorna: cofi quello influffo amcrcfo ritornando per uia de gli rechi i in quel bello. donde già fi lcuò,p€r li quah egli hacoftume di penetrare alTanima noftra,di tali) forte inaffia,& bagna i meati delle penne della anima delTamafo/che facilmente po/Tono.fiC co minciano à germcgliare: flc cofi T amante lanist model fuo amato ikmpie d'un corntpondentc ^ amore. Et di qui uiene, che egli ama, ma non fa certo quel,che egli ami, ne conofce quefta fua paflicne.ne la può, ò (a dire. Ma;ion altrimenti che fe perlagiiaLdafLU-i d'uno, che hauc/Tegli cechi mal fàni, fi fei] ti ffe hmiimcnte gli occhi fuoiguafti, cofi non fa.dire ia cagione di quella Uia infirmiti, ne fi accorge, che egli uede.a ua4 gbeggia fe ftcfTo nell'amante. come in uno fpec «hia*Oi:ide cientre.che gli ci amante prcfente^ fcnfc anch' egli mancare il dolore: fic quan dog, poi r ha lontano, in quel modo, che egli é defi^ dèrato, altrui defidera: flC cofi in fe haiiendo unt ìmaginfe ucra d' un cortifpon dente amore, non- più amore, ma amicitia la chiama, flc cofi penfa^ chefia* Defidera adunque quafi quanto Ta^ mante (hen che alquanto più moderatamente) uederlo, goder (empre deirefTer con lui,fiC femprechegli è concelTo» cerca, flcfj sforza di farlo. Per jl che durando quella pratica tra co:$ ftoro,iI cauallo trifto dell'amante al Rettore ri* uolto, domanda per tante fue fatiche un breue, flCinhonefto piacere. Il cauallo all'incontro del giouane non fa quello,che fi habbia à dire, ma tutto anfio^fiC nell'amor commoflo,ama raman te tanto,quanto egli é amato.à: fi gode di luti uer uno ritruouato^che tanto lo ami,£C di qucU io con lui fa fefta,&fi rallegra. Et ftando iti quefta conuerfatione.è paratiiTimo quanto à lui è poiTibile à ogni defideno dell' amante fcdif^ fare: ma l'altro cauallo col Rettore inficroe.dalis la uergogna,à: dalla ragione ammaefiirati/ems pre in fimili cofe gli tono contrani. Per la qual cofa fe coftoro, fecondo un giuftomodo di uiuerc, fi: fecondo li ftudi della Filofofia^ fi empieranno di buom^belii^ft Unti pcijiien^^.meneranno la uita loro feliciffima, flcbeata^con concordia grandiffima.di loro fteflì padronf;^K in ogni loro affare modefti. Hauendo quella parte foggiogata, OC uinta, nella quale fta tutto il ultio dell anima noftra,a: per il contrario quel là altra libera, alla quale la prudentia,& la bon^ tà fi appartiene. Et cofi al fine di quefla uita ha^s '^uejidogià le ale racquifl.ate,ueloci al cielo uo^ landò fe n'anderanno, con ciò fia che habbino uinto un combattimento delli tre, nelli quali fi fono ri{rouatì,come hai innanzi udito, quale bc ne fi può dire efTere della maniera, che fon quel li, che olimpici fi domandano; del quale bene nefTuno più degno può à gli huomini arrecare l'humana temperantia,ò uero quel diuino furo^ re,chehabbiamo detto. MafeqMeftì tali fegui^; fcranno nell'amor loro una uita brutta. fiC in tut lo di Filofofia priua,& non di meno piena d am bitione,gli potrà auuenire,che li intemperati cauallj asfalteranno le poco auucrtite anime lo^: ro,nnientre che ò à qualche difordinato defideno fodisfaranno,ò mentre che in qualche altra ma:: -niera licentiolamente perderanno tempo:& con ^ducendoli pure à delettarfi di quelli piaceri^ nel liquali gli hanno troaati (ommerfi^lj sforzerano ri fejguitare qudk forte di follazo^chc è dal uoU go perfettifTimo giudicato. Tale che poi femprc fi daranno inuol(i,flf occupati nella fantafia fodjsfare à quel trifto defidcrio. Ma haranno queftafodisfattione,che cercano di rado: per ciò che il penfiero deir animo non confente tutto à far qucfto, & però quefti fimili amici anchora f ben che manco amicitia fia la loro che quella, che di fopra ho detto) fiC mentre che 1 amor loro bolle, fiC poi che egli è eftinto infieme amrche^ uolmente uiuono; per ciò che tengono per cer^j to di hauerfi lun 1 altro data una ftabiliffima ks de: flC però giudicano eder cpfa ingiufta quel^ la fede rompere, flc doue già erano amici, inimiss ci diuenìre. Finalmente quando poi alla natura cedono, fiC dal mondo fi partono, non hauendo anchor mefTe le ale, ma folo hauendo cominciai to à mettere le penne, non riportano poco pre^t.mio del loro amorofo furore. P^r, ciò. che la diui^ na legge non uuole,che coloro, che già haueua no cominciato à caminare per quel uiaggio,chc al ciel può condurre,difcendino nelle tenebre fottola terra.Ma quelli, che qualche lodeuolc uita fanno, mentre che infiemc uiuono amore^ uolmente, ac infieme rimettono le ale.comanda (}ue(U legge.che fieno beati: di queflo ne c folo cagione amoVe. Tante adunquc^fl: fi fatte utilità giouancmio gentile, dall' amicitia d'u^» fio amante, come da cofa diuina ti faranno dars t2,Ma la compagnia di coluiche non ama,con:s / giunta folamente con la temperantia del mons: do,fiC non con la diuina, come è lamicitia d uno amante, & data in tutto ad atti,ft operationi mortali, fiC uili, genererà nell'animo del fuo ami co quella licentia di parlare, che pare al uolgo uirtù:fiC farà fi che dopo la fua morte preftamens: teanderànoue miliaanni intorno allaterra,fiC fotto aggirandon,& errando. Quefta nuoua can zona,ò amatiflimo amore, flc contraria in tutto à quella, che prima detta haueua. quanto più dottamente, fif in quel migliore modo, che ho U puto,con paroIe,flC figure poetiche, pereforta:/ (ione di Fedro in tuo honore ho cantato; per il che perdona à quelle parole,che prima diffu, Etqqefte cofc afcoltan do, dette da me con gra^s to ànimo^ benigno, flcfauoreuole mi ti moftra^ fiC non mi priuare per qualche fdegno dell' arte damare, la quale già m'hai conceffa, ne manco punto fcemar la uogli.anzi più tofto fammi gra tia,che per Tauuenire io fia per que(la cofa più apprezato^chc per 1 adictro ftato non fono.oUra eli qucflo fe io.ò Fedro co/à alcuna foco degna del tue bel nome habbiamo det(o,accofa di ciò lifia.il quale fu primo autore del noftro ragios namento.acfa.che egli per lo auueiiire più di fimili cofc non patii: JC riuoltalo alla Filorofia, ' ^ome il fuo fratello Polemarco.acciò che Fes dro.chcfommamentc io ama, non habbia da tenere bora una opinione, fic bora un' altra, co* me fino à hoggi ha fatfo,ma più torto nello ftu dio dell'amore. & della Filofofia meni / giorni della Ulta fua. F E£>. Ioanchora.fe gh è il •meglio, prego Iddio, che ciò mi conceda. Ma io ti dico benejl uero. che io flupifco del ragios Bar, che hai fatto, ucdendo di quanto babbiauanzato quel di piima: tale che io comincio à dubitare.che il parlare di Xifia non mi babbi à parer ba(ro,«humile.fe forfè un nuouo ragios mmento facendo, à qucfto tuo lo uorrà aiToes oiigliare, Et uoglio che tu fappi,che pochiffB mi giorni fono, che un certo noftro cittadino lo uituperò grandemente, folamente per qucs fto fuo fcriuere.* in tutu la fua accufationc lo chiamaua, per largii ingiuria. Scrittore d'oratio* ili. Tale che per qucfto potrebbe forfe,fe egli c punto defidcrqib di. hpnore.per lo aiuenire •fteocriidircriucrc, $ 0 C R. Fedro que» Ha tua opinione c degna certamente di rifo, ficfarcftimolto lontano dalla fàn(afia, & dals la mente di Lifia.fe tu pcnfafli. chc eglifufs fc cofi timido. Ma forfè che tu credi, che quel fuo accufatore dicefli il nero in tutte quelleco* fe;checon(raLifiadiflc. FED. Certamente Socrate che à me parue cofi.ne anchora à te è oc culto, che gl'huomini grandi, flC nobili delia no (Ira Republica temono, fiC fi guardano di coms porre orationi.flC no uogliono.chc fieno uedutc fcritte,per non moftrarc à quelli, che uerranno, dcÀTcr flati fofifti.effcndocofa facile lo fcriuerc ttnaOratione. SOCR. A quefto modo ò Fedro tu non intendi il prouerbio del gombito dolce, ilqual prouerbioc tratto dal lungo, fiC trifto gombito del Nilo.flC debbi pen fare, che ^, dicendofi dolce, fia facile, come pare che tu cress da, anchora che il fare Orationi fia di poca fiti* ca.eiTtndo però di grandi (Ti ma. Et ne folamens te iiò fai quefta cofa.ma anchora penfo che non ti fia noto.che quelli cittadini. li quali per pruss dcntia fono eccellenti, attendono grandemente à fcriuerc Orationi.CC à fare che quelli, che uers ranno,le po/Tino uedere. Etqueftì tali di mo* do amano quelle perfone, che lodano le compo iitioni loro,che la prima cofa di quelli fanno mentione.meutione.che hano ufanza dir bene delli fcrifs ti daltrui.douc 11 truouano. F E D. Come dici tu queftoJ'Io non ti intendo a mio modo •r. SOCR, Non fai tu,chc nel principio d'un libro, che da qualche huomociuile fia corapo^ fto.fi fa fempre mentione di colui, che l'ha lo^ dato? FED, Inchcmodof* SOCR* La primacofa,che,dicono,cquefta. La opinione noftra,òuerolanofl:rafcrittura fu appruouafa dal Senato, ò dal popolo, ò da ambe duerquindi con una certa ambitiofa ricordatone di loro ftef fi, mettono per ordine tutte quelle parole, che quei tali in fauor loro hanno dette, fempre dando colui, à cui è il lor parere piaciuto.Dopo quefto dicono quello, che intendono di fcriucj^ re; fempre faccendo moftra del lor faperc à cos^ loro, che li lodano, flC quefto lo fanno affai uol^s te: ce non folo nel principio, ma anchora dipoi che una lunghiffima Orationc haranno detta. Parti egli quefto altro, che uno fcriuerc Oratici ni? FED. Ccrtamentcnon. SOGR. Ho rafe queftò dir loro è approuato,fubitOj d' allc:s greza ripieni, fi partono dal Senato,comc fareb bc un Poeta dal Teatro, fe la fua Comedia fuffe ^ piaciuta. Ma fe per forte fuffe riprouato,ò rifiu^s Wo^ac il lor configlio non fuffe ammeffo, ne ri:s pìlfafo dfgfiò di cffere fcritfò con gTi àlfrf /non foJofi cnvpfono di triftitìaqufi tali, ma li loro amici anchora. F E D. Sitrattnftano certa:* in rn te non pòco. SOCR. In queflo mo^ do adunque dimcftrànò,chc eglino non fanno poco conto di qnefto efercitio di fcriuerc,anzi diapprczirloafTai. FED. Grandemente cer toloftimano. S OC Dimmi un poco, Se qualche grande Oratore, ò ucro uu Re/i haueCs feacquiftata t^nta facultà,a: tanta fcientia nel dire, che come Ligurgo, Solonc.o Dario, pote& fe degnamente nella fna città efTer tenuto Scritii tore perfettifllmo^flC immortale, non gli parria f/Tcre, mentre che anchor qua giù uinefTe quafl fimile^ò uguale à Iddio / Et quelli, che dopo luiuengono,conriderandoIeccfe,che egli ha lafciato Tcritto, non hanno di lui quel medefi^ mocrcderer' FED. CertifTimo. SOCR. Pcnfi tu adunque, che alcuno (fia pur quanto fi lioglia trillo, ft inuidicfo) Uituperi quefto flu dio dì fcriuerc? E E D. Per quelle core,chc tu hai dette, non par conucniente: per che eia:» {cuno,pare à me,uituperarcbbc quelle cofe,del le quah egli fi diletta. SO CR. Etperòque^ fto può efferc à ciafcuno chiaro, che alcuno non c daelTerc uituperato folamentc per che egli i • fciiua. fcriua. F E D. Per che adunque f SOCR. Ma quello c bene, come io penfo, brutto, par:^ lare, a fcriuere cofe brutte, ftcattìuc. T E D. Quefto è ccrtiflimo. S O C R, Qual farà adun qtie la ragione dj fciiuerc benc,tt male f Non penfi tu Fedro, che ci facci di bifogno di firoili cofe domandarne Lifia^ò qualunque altri, che ò nero habbia à qualche tempo fcritto qualche cofa.ò uerohabbiada fcriueie ò qualche fatto publico d una citta, ò qualche faccéda priuata, quefto lo facci in uerfi, come Pceia,ò uero in profa come perfona priuata f E E D. Mi doman di fe io penfo,chc facci di bifogno domandare, & cercar di fapere quefla Cofaf' Dimmi un pocd, nó fono alcuni, che uiucndo ad altri piaceri non, attcdono,che à quelli di domandare K di uoler da ciafcuno fapere la ragioe delle cofef Et quefti tali come faui, nò attendono nella loruitaà quel li piaceri,]^ quali di ncceflltà hanno prima quaU chedifpiacere,altrimeti il piacere no fi potrebbe godere.il quale effetto interuiene quafi à tutti li piaceri del corpciflfp quello ragioneuolmetc fo no chiamati piaceri uili H di poco momcio. Soc. Noi habbiamo tepo ÓC cfio aliai, & ancora mi par ueder,che quefte cicaie,<:he fopr'il Capo noftro,.cantano^com'è ufan«Joio:ncl caJdo,att^ndar^o à quefta noftra difputa. Se adunque elleno ci uedefTcro addormentati, come fpeffo molti altri fanno, li quali nel mezo giorno non difputan:: do, ma più prefto dormendo, fono al fonno per poca anuertenza loro da quelle allettati, merita^ mente fi potrebbono ridere di noi,confideran2: do,fl£uedendo che dal fonno uinti fuffimo. Ma fe elleno ci uedranno difputare,fiC conofce^: tanno, che noi non fiamo flati uinti dà loro(co:5 me fono alcuni dalle Serene, per il che non pof fono pigliar porto ) forfè che uolentieri ci donc fanno quel premio, del quale per gratia de gli iddii poffono à gli huomini fare dono. F E Chedonoèquefto? A me non pare hauerlo mai intefo. SOCR. Non fi conuiene,che uno huomoftudiofo,flC amico delle Mufe, come fci tu, non fappi una fimil cqfa. Si narra che quc^: (le cicale inanzi che fuffero le mufe, crono huo mini: ma nate che furono le Mufe,fiC poi che il canto hebbero moftrafo,fi dice che ad alcuni di quelli tanto quel canto piacque, che per cantare non fi curauano di mangiare, ne di bere: £C cofi imprudentemente fi lafciarono mancare la uita: delti quali nacque la fpetie delle cicale, le quali hanno dalle Mufe quefta gratia,che non han bi fogno di nutrimento alcuno.ma mentre che ui iooà uono, foci lO'lOOf IfìOt Sì nono, ftmprc cantando fi mantengono fcnza mangiare,flC fenza bere, Dipoi finiti i lor gior^ ni, (e ne uanno à trouar le U iife per dargli no^ titia,fl: informare quali fieno quegli huoniini^ che qua giù amano più una Mufa,che un'altra» Per il che dimoftrando. à^.Tcrficore quelli, che ^iu che in altro, ne i canti, flC nelle fefte femprc fi ritruouano, gliela rendono propitia, OC fauo^ reuole, A Erato poi moftrano tutti coloro, che ne i càfi amorofi Vitrouandofi, hanno il fuo ftu:: dio&ìmitato,6Chonorato.Et cofi fimilraentc fanno con le altre Mufe,flC gli mettono in gratia coloro, che più che h altri lamano.Rapportano anchoraà Calliope, OC à Vrania,che fippreflogli ua,la uita.flC i fitti di coh)ro,che nella Filofofia fi efercitano;fiC honorano la loro fcientia.Lc qua li oltra tutte le altre Mufe*hanno cura della cojs - gnitione del cielo, ficfi efercitano in ragionai menti cofi diuini, come humani con uocifoa^ uiflime* Et però per molte cagioni dobbiamo dir qualche cofa,ne in modo alcuno habbiamo nel mezo dì a dormire. F E D, Habbiamo à dire per certo. S.O C R. E adunque hormai tempo di dichiarare quello, di che poco fa ordisi nammo di difputare,ciò è in che modo un'huo inofcriua,ò parli bene, fiC non bene, £ £ Qocfto c propfo quello, fopra il qnalf ha da eù: fere il noflro ragionamento. S O C R. Non pcnfi turche fia neceffario^chc colui, che habx^ fcia da dire qualche cofa/e ne uorrà ragionare a pieno, fiC bene, habbiapiena^flCuera cognitio:: ne^flCintelIigcntia di quella coia, della quale pirlaf' F ED. Io c Socrate, ho udito dire, che a uno, che debbi diuentare Oratore, non e nes: ceflario il fapcre quali fieno quelle cofe.che ue^s ramentc fieno giufte, ma debba folamente quel le conofcerc,che al giudicio del uolgo parran:: no cofi: ne manco debba fapere quelle cofe^ che ueramente fono buone, « hcnefte,nia quel Ie,chc compaiono. Perciò che dicono quefti tali, che per uia di quefte cofe non uere^fi può più facilmente perfuadere.che ccn la uerità, ^. OCR. Mai òf fdromio,non fi hanno da iprezare li detti de gli huomini faui,anzi fi deedil/gentemente considerare quel, che fignifichi:?:iio. Et però à me non pare di iafciar pacare quel le parole,che hai poco fa dette, F E D. Tu parli bene, S o C R. Confideriamo adunque quefta cola in quefte modo • T ED. Cowtf S O C R. Cefi, Se io per cafo fi uolefFi perfuasi dcre,che tu fuffiper uinceregli tuoi inimici.;quando tu haueffi un buon cauallo,nc alcuno Ai noi f^ipein che coA Me quefto cauallo,m4'tb fohtfìtnìt tkpm:chc kù ndtì fai gii come uh tJiaalfo fia fatto, ma che tu penfi,ch'C egli fià ti*» ànimale domefì/co con gì Wcxhi gridi. F E Dv Sequeftofu/fe/ceftameinte farebbe cofa da rr* <ìere. S O C R, N òn ^t^u cfto non bafta. Ma quando io con ogni sforzo nìi?ngegfìaffi di pet fuaderti (non f^pendo nt tu^nfc io àltfC ) chè quello anÌTTidefurti^ un cauàlJo/a per quefto iò liaue^S compóflÀ nna Òrationeìn lode dell'Afiis no, chiamando quello anrm^lè càuàilo, afferà mando efTere animale pérfètdfTinìo, utile per ca fa, perle facccnde/tSc prontiiTimo/fiiore aib battaglia, atto à p citar fome.'fiC à molte altre cofe tommodiffiiT>o> f ED. CJi^^efto fi /che farebì be fuòrd^* pfopofitóalpònTjble. S |0 C K. Kon è egli meglio, che un'amico fia ficetó,fit piaceuò!e,5Cche faccia ridere, che ftrano,ttdi malanimof F '£ O.Cofi par à me. S OG.Qnan do adunque un oratore ignorate del male,tt deì bene perfuade i una città fimilmenre ignoranti non con una oratione compofta in lodxr d'uno Afino, penfando che fia un Caudillo, ma ragion Dando. flC difputado del male,cr€dedo che quel lo fia bcnetflC cofi tirando à Tua diiiotionc le opf n oni del uolgo, metta in quella citta tìn'ufanzà dì far male in cambio dì b'efie,che ricolta pcnfi tu che un fimile oratore facci della fua (cmtiìUi FED. Non troppo buona. SOCR. Non confeffihoratu,chc noi habbiamo uitupcrato l'arte dell'orare un. poco più fcioccamcnte.chc non fi conueniuai' Et fc per cafo ella ci haucfle fentifo, flf bora fiuoltafTc à noi, «ci dicertr* Seteuoiimpazati Socrate, fiC Fedro mici cari^ 10 n5 sforzo alcuno à orare, che prima non hab bia cognitione del uero: ma fé gli huomini fa;? ranno à mio modo,airhora mi imparerano quan do la ueriti haranno cpnofciufa.fiC io ui pofTo af fermare quefto con uerifà (il che è certamente gran co(à)che anchor fenza l'aiuto mio, pur che uno fappi render ragione delle cofe.flC le cono:? fca,harà in fe ogni modo l'arte del perfuadcre 5, Se coftei dicerte cofi,non harebbe ella ragione-^ F ED. Io te'lconfertb^purche molte ragion ni, che io ho intefo, faccino teftimonio,che il fa per folamente fia arte; per che è mi pare hauer^ udito certe ragioni, che prouano^che l'arte del dfre fenza il fapere dicendo d'eflèr l'arte, nò dice 11 uero: per cièche altro non è, che un' ufo fen za arte. Et Lacone difre,che la uera arte del dire fenza la uerità trouar non fi può, ne mai fi tro^s uerà. Qtjefte ragioni ò Socrate fanno hor di bi? fogno, flC però adducendole moftrami un po^ coqucl,checoftoro dicano, flCin qual modot^ S O C R, Soccorrlnmi adunque, ft ucngano -in mio faiiore tutti gli animali generofi.fiC pcrsx iiiadinoà Fedro, che fc egli non attenderà alla Filofofia^non faperà mai di cofa alcuna à baftan ■ za ragionare, flC Fedro mi rifponda ogniuolta, che io lo domanderò. F E D. Domandami adunque • S O C Dimmi un poco,la Ret^ torica non diremo noi, che (la una arte, che per mezo delle parole alletti gli animi de gli huos mini^ Et queflo lo fa non folamcnte dauanti al li giudici, flC nelk altre publiche raunate di huo mini.maanchoraquefta medefima arte difpu^.terà nelli priuati ragionamenti Mi ciafcunacofa cofi d'importantia,comc non. Per ciò che nien^ te è più honoreuoie,ò più degno il parlare con arte nelle materie grandi,che fia nelle piccole* Hai tu mai udito dire quefto.^ F E D. Non io certamente,anzi ho intefo,che quefta arte fola^ mente (ì efercita nelli giudicii,flC nelle Orationi al populo,ne ho mai udito, che ella fi di^lenda più in la. S O C R • Hai tu mai intefo ragion tiare della grande arte del dire, che Neftore,fiC VlifTe efercitauano, mentre che erano à Troia? Hai intefo quella di Palamede 1* F E D. Non io,fe gii tu nò uoleffe dire che Gorgia fuffe Nes ilore,£C Kimilmente che Trafimaco^ Teodoro fttfléio \Wc. $ O C R. forfè che io !o pos» ♦rei dire. Ma Ufciamo andate ccfloro.fiC rifpon» aiini à quefto, ISe i gindicii gliauuerfani^cb* liàtaftcìoi «gUno r Non cercheranno feinprc dt cònfradire à tutto quello ^che dice la parfc con;* frariac Puoi tu dire,che.faccino altro;' F E I>. Quefto ianno.ft non altro. SOCR. Non contendono, & djfputano fempre cjual fia il giù ftoi,« qua! fu k) iingiiifto f f E D. Cofi è, j^P C R. Colui.che faprà fare quefta cofa con jirtc,i.ion potrà fare anchora che a quelli mede» fin^i pai» uni cola ficflahora giufta.fthora in;s giufta,.^ f E I>. lo potrà fare per certa» / S O C R.. Ijtfuwlmeute egli orerà in pu*» l>ljco,potrà fàre,cheaHi fuoi cittadini le medes fitBCCQf? parranno Upra buone, <SC hora triftc;* F E, Cerfaaiente. SOCR. Et quefta nonèsnarauigliofo.perchc noi habbiamo rn* tefo.ehe.i^aUiBede Eleaf€,eol fuo artificio del dire era fclito far fi che à chi,!f)..udÀua.pareflero ie noe defw«.<pfe bora fimili.Sf bofa'diuerfe,ho ta una c.o{a,iibU,ft hor» wp] te-, bora che ogni cq. fafufreiaiwobile.&hora che i'ufliuerfa fcms: pre fteffe i,n moto, f E D. l' ho intefo ans ^' io pei certQ. S Q C R, Adunque quefta jppteftUa, di confradiKiik fiofe d^tte innanzi^. non folo è porta nélli giud/di, ft nelle pubfi^' che radunate, ma anchora^come ti ho moflratoj fi truoua in ogni ragionamenfo,che fi fa: per ciò che dò che fi dice tutto è un'arte, con la qui le ciafcuno potrà fingere, flc dare ad intendere à ogni perfona, che tutte le cofe fieno fimih'^ac faperi trouare i nìodi di moftrare quefta cofa,fl(intenderà come habbia a fare, chiare quefte. fo:*. miglianze. F E D. In che modouuoi tu,' che fi facci quefto.^ S O C R. In quefto* Dimmi un poco,rngannanfi gii huomini in quelle cofe, che fono tra loró molto differenti, ò in quelle. che fono poco? F E D. Inquelle^ che poco fono diffimili, S Ò C R, Bene ha(rifpofto. Hora fe tua poco i poco pafferaida un fimile all' altro, più facilmente potrai inganni naregli auditori,che fe in un tratto dfalterai^* F E D. Chi dubita di queftof' S O C.Adunquc bifogna.che ogniuno,che uorrà ingannare un* altro, facci prima in modo, che no fia ingannata egli. Et però farà necefrario,'che conofca beijiJ(fi ino le fomigliaze flf le diffomigllanze delle cofe* F E D, Quefto è neceffario, S O C R. Potrà adunque uno che fia ignorate della uerftà di eia fcuna cofa dar giuditio della fimilif udine ò gran de^ò piccola di quella cofa eh egli non cooofcc/ FED. Qnéftocimpofribile. SOCR. Et però c cofa chiara, che coloro, che hanno qual^s che opinione fuor del naturale, ò credono il fal^ fó di qualunche 'cofa, non per altra cagione fo^ no in quella fantafia, flCin quel falfo parere, che per qualche finiilitudine,che gif ha ingan^ mti. FED. Cofi interuiene. SOCR. Potrai tu dire adunque che alcuno, fé farà di quellocheuorriadifputare ignorante, pofTa con con arte,flC aftutamente à poco à poco rimuoue^ re uno dal uero,fiC fargli credere il falfo per uia di qualche firnilitudinej'ò crederai, che quefto tale poffa fardi non cafcarc nell'errore, nel qua^? Ic'cerca gli altri condurre FED. Certo che io noi crederò mai. SOCR. Et per quefta cagione qùàlutìque perfona farà ignorante della uerità dolina cofa, & folo dairopinione fi lafirie* rà guidare, coftui dimoftrerà di hauere un'arte di dire fciocca.flC più da fare altrui ridere, che buona ad altro, FED. Cefi mi pare certe. S D C R. V noi tu hora uedere, ft confiderare flC neiroratione di Ljfia,che hai in mano,& nel feritire il mio ragionamento, douc fi parli artifi^t. ciofamentc,a: doue fénza arte^" FED. Que^i fto uorrei io più che altra cofa ♦ Per ciò che al prefcnU noi ragioniamo troppo feccamcnte.no potendo pofendo dimoftrarc ercnopi chiari di quelle co* fc. che diciamo. SOCR. Si.ma ionogho, che tu fappia.chc la maggior parte delle Ora* tioni fon dette à cafo.come è manifefto: le quaxs li ci moftrano chiaramente, che un' huomo.chc appia bene.flc conofca la uerità delle cofe.men tre che egli con parole fcherza, ec fenza punto penfarci.ragiona.conduce l'audifore à quello, che uuole. Et io certamente Fedro, penfo che gliiddìi di quello luogo habbiano hoggi cagio nato in me quefto effetto di perfuaderti.ft forfè potrei anchor dire.che le cicale interpreti delle Mufe.le quali fopra di noi cantano,mi habbias no fatto quefta gratia. per che in foma in me nó è arte alcuna di dire. F E D. Sia come tu uuoi. pur che tu mi moftri qucl.che mi hai promelfo. SOCR. Leggi adunque il proemio dell' Os catione di Lifia. FED. «■ IN Q^V E S T O (lato certamente fi truouano le cofe mierflC quefto.come hai poco fa intefo da me, penfo che mi babbi à gjouarc affai. Hcra io uoglio che fappia.chc io ftimo,a: giudico, fe cofa alcuna io ti domanderò.doucrs la da te per quefta cagione impetrare: per ciò che 10 nó fon prefo del tuo amore. Et che ciò fu iluero,tu fai che gli amanti, come prima han*; 1)0 la !or libidine faflata/i pentono de i benefis ci.che t'hanno mai fatti. S O C R. Non legge/ pili. Bifogna bora dire in che cofa coftm erri.flC quel, che dica fenza artt. Nò ti par cofi:' F E D. Certamente. SOCR. Dimmi un poco, non è quefto chiaro à ciafcuno.che in molte cofe ne i ragionamenti noftri tutti crediamo à un modo, fi(in molte altre non habbiamo il medefimo ere derei? F E D. Ben che mi paia intendere quel, che tu dici, però io uorrei che lo diceffi più chia ro. SOCR. Quando unofa mentione del fer ro,ò dell' argento, tutti fubito intendiamo una incdefima cofa. F E D. Certo. SOCR. Inter uiene egli cofi.quado fentiamo il nome del giù fto.ò del buono, nò crede all' bora ciafcuno dis uerfamente? Et non pure non ci accordiamo con l'opinione de gli altri.ma anchora fiamo in dubio della noflra. F E D. Cofi ua. S O C R. tt però in molte cofe acconfentiamo tutti à un inedefimo.flC in molte fiamo di uarie opinioni. 5 E D. Cofi è., S 0 C R. Doue potiamo noi più facilméte effere ingannati. « in qual d,i que ftc cofe ha la Rettorica più forza:* F E D. E cofa chiara, che in. quelle. delle quali più dubis(iamo.piu ha forza l'arte del dire. S O C R, Et per quefto fa di bifognoi colui, che uuolc ini*. parare. jwirare, R atrquiflare la Retorica, prima di uederc quefte cofe tutte ordinatamente, & feparare Tuss na dair altra, & gli è neccflàrio ccnofcere di quaf forte fieno le cofe tatte,intorno alle quali fi può. ragionare, ò uero della forte delle dubitò pero delle certe:fiC fapere doue maggiormete il uolgo poffi elTere ingannato,fiC doue nà, J^Jf. U. Ccf tamente Socrate che colui, che col penfiero ^ja^ piffe quefta cofa,che tu dici,harel)l>c una bella cognitione. SOCR» Dipoi io penfo, che quc fto tale debbia fapere la natura diciafcunacofa, acciò che dj quella quado gh' farà bifognOjpofFa render ragione: fiC uoglioche ingegnofamente intenda di qual forte, fiC di che genere fia quella cofa, intorno alla quale fi debba ragionare ò delle dùbie,Q delle certe. F E D. Perche noni S O C R. Diremo noi, che 1 amore fia poftq tra le cofe certe, ò tra le dubiei' F E D.Trale dùbiecertamente. S O C, Penfi tu ch'egli fi conceda.maliche tu dica di lui quelle cofe, che poco, fa.hai dettecelo è eh egli fia noceuole all' amato, flC ali amante Et dipoi ch'egli fia il maggior bene chefitruoui:'' F ED, Tu parli bene. SOC, (Ma dimmi un poco anchora quefta cofa, per cheÀdirti il uerojo non mene ricordo troppo bene Ì>er effer ^ato io nel ragionamcto mioi occupato a uinto da quella diuinifà,clic fu (af. Ho io nel principio della mia difpufa difBnifo^chc cofa fia amore? F E D. Si hai,flC beniflimo. S O C O quanto tu dimoftri (dicendo che io fi bene rho diffinito ) che le Ninfe d' Acheloo.flC Pan figliuolo di Mercurio, fono più ingegnofi al comporre Orationi, che no fu Lifu,per ciò che quefti mi hanno fatto dire. Non ti pare egli, che iodica il ueroi' Ma Lifiaanchora nel principio della fua Oratione ci sforzò ad intendere, che la more (come egli uoleua ) era un non fo che po fto fra le cofe dubbie, flC incerte; flC cefi accom:^ modando a quefta cofa tutto il feguente fuo ra^ gionamento,fini la fua Oratione • Vuoi tu, che un'altra uolta leggiamo il fuo principio.'' F ED. Come tu uuoi,ben che quel,che tu cerchi, ih efTo non ci fia • S O C R. Leggi, acciò che io loda. F ED^ I N Q^V E S T O flato certamente fi truouano le cofe mie: ft quefto,come hai po:s co fa intefoda me^penfo che mi babbi à gioua^ re affai. Hora io uoglio, che fappi,che io iiimo, ce giudico, fe cofa alcuna io ti domanderò, do:s uerla da te per quefta cagione impetrarerper ciò che io non fon prefo del tuo amore ♦ Et che ciò fu il uero^tu fai che gì' amanti^come prima haa DO la lor libidine fatiata,fì pentono de i bcnes: fìci, che ti hanno mai fatti. S O C R • Egli c molto lontano, fecondo me, da quello, che noi cerchiamo r perciò che egli pare, che fi sforza di ordinare il fuo ragionamento, non cominciando dal principio, ma dal fine, con un certo modo à contrari0,ac fotto fopra» Et che fu il ucro,uedi che comincia da quelle cofe,che l'amante rin^j fàccia al l' amato, dipoi che T ancore è eftinto, "N 5 tifare egli.che 10 habbia detto il uero^ F E D. Senza dubio che quello, di che egli nel princirs pio ragiona,è.il fine. SOCR. Che diremo noi delle altre cofer Non ti pare egli, che tutte le parti di qiiefla Oratione fieno fparfe confufa:? mente Pcnfi tu che quello, ch^ egli nel fecon;? do luogo ha detto della fua Oratione, egli V hab bia congiunto con la prima parte, conofcendo cheneceffariamentegli bifognaffefàrlor Et fi:: milmentc le altre cofe,che^egIi ha dette, credi tu, che le habbia con ordinc,flC con modo difpo fte^ Per ciò chea me, che fono dbgp.i cofa igne rante.pare che tutte le cofe,che da uno fcrittore fono dette, non debbano cfler dette, flC ordinate fenza cagione. £ t però uedi, fe tu fapefli truo;? uare qualche cagione nectffaria^per la quale noi potiamo.dirc,che egli fi fia mcflo à ordinare,flC H ili djTporrc il fuo ragionamento nel moclo,chc hib biamo ucdiifo. FED, Troppofareblfc ò So crafe,fe io cefi fcttilmente fapeffi dare giudicio dellifcritti d'altrui* SOCR. Io penfopu:^ rechebjTogneri,che al meno tu dica,a:con5: fe/Tj quefio^cbe tutta un'Orationc debbia ciictc come Ufi animale, fiC debbia bauete il fuo corpo, i\ quale non fia fenza capone non gli manchi:^ no li piedi, ma che gli babb/a ciafcuna fua parJe conuemente,a: coirifpondente al tutto. F ED. Che uuoitu dire per qucfto?' SOCR. Cons: fiderà ti prego, fc TOratione del tuo amico Ga fatta cofi,c) altrimcnte,truouerai che ella none punto difterenfe da quello Epigramma Jl^ua^s le alcuni dicono,che fu fatto (opra il fepolcro diMida Frigio. F E Che Epigramma è ques fto,ftdicheforte/ SOCR, Odilo,egli di^ ccuacofi, Son fu' 1 fepolcro una Vergìn di Mida/ Fin ch'andran T acque, & fien le piante ucrdi. Qui dando, ammonirò cialcun che pafTj, Che nel mefto fepolcro Mida giace. tìora 10 penfo, che per te fteffo beniffimo co nofca, che non importa qua! parte di quello •ponghi prima^flC qual dopo^ ^F E D. A ques: fto modo ò Socrate^ tu bufimi,fi£ mordi la no^ ftra Oràtiòìiè S O C R. Lafciamo adunque àhdare.acciòche tu non (i corrucci meco, ben che in efTa fi potrebberotroirarcmolti efempi, li qaali confidcrati^ci uerrebbe quefta utilità, che non imitafiTimofinrili modìdi dire. Ma pafe fiamo alle Orationi di certi altri, le quali certa:^ irierife hanno in fe qualche ccfa degna d' cfTerc offeruata da coloro, che di quefta arte fono fturs dioG. F E D. Che cofa è quella, che in que:s fte Orafionifj pnoofTeruarer S D C R. Queftc' Oratfoni erano tra loro contrarie, per c òchc una irfFernnaua,cbe un giouane aniato fi douefle ac:? coftare alTamante: <3C un'altra à uno, che non amafTe. F E D. Beniflimo certamefc. S O C R: Io penraua,chc tu rifpondeflj con più uerità,flC che tu diceffi non bcniflimo^ma pazamente,flC furiofamenfe certifTimo/non di meno quel, che 10 uoglio dire flC che io cercaua,che tu diccffi nò può efTerc alfritnenti^come fi ixìoftrerò. Nò hab biamo noi detto che lanDore abro non è, che un certo furerei' ÌF E D.Cofl hàbbiam detto. Soc; Horaio pogo due forti di furore J'una delle qua 11 èda mancamèto humano cagionata, lai tra prò cede da una diuina alienatone dr menfe^per la quale è l'huomo rapifoflC leuato d^lla fu a ordina Ila uita. F BD. Cofi è per certo. Soc. le parti adunque di qucfto furor diuino fon quattro, aU le quali anchora quattro iddii fono propoftjrpcr dò che noi diciamo, che Apollo fia di quella inrs fpiratione cagione, che à quelli Sacerdoti uiene, che poi indouinano quel, che debbe efTere nel tempo auuenire, Dionifio della cognitione di quelli mifteri,che fono più occulti, flC delle co^ fe, che s appartengono al culto diuino. Le Mu fc della Poefia, Venere, & Amore dell'amorofo furore affai migliore di tutti gli altri, £C io non fo in che modo,metre che dianzi uolfi con imagi^ fìijflC fimilitudini moftrar l'effetto d' amore /orfc può cffcre che io habbia detto qualche uerità,flC forfè anchora ho trapaffati li termini del uero. Et perqueflomefcolandocofi quelle cofe,chc hora ho dette, quel mioragionamento, il quale non fu al tutto da efler biafimato,tu fai, ch'io or dinai,flC compofi quella mia fabulofa diceria, flC quafi fcherzando,fiC per giuoco, modeflamentc lodai il tuo, ce mio Signore Amore, protettore de giouani gentil* & belli, come fei tu, F E D. Qiiefle cofc l'odo molto uolentieri. S O C Et però bora da quella mia Oratione potremmo cauare,fiCfapereinchemodo la noftra difputa uenifTe dal biafimo,onde la cominciamo, alle iodi* F E Etcomeuuoitu fare queflof SÒCR, A mccertamchff pare, che fin qui habbiamo parlato per burla. Ma fe farà alcuno, che artificiofamente conofca la forza delle due forti, flc delli due modi di difpufare, nelle quali bora fiamo à cafo incorfi,coftui certo harà fatto un'opera degna. & bella* F E D. Che forti, fiC che modi di dire fono qriefl:i,che tu dkii S O C La prima è qucfta. Che colui, che uuol dirputare,facendofi nella mVnte un'idea di tutte le cofe,che uuol dire:& hauendo à quel [a folamente l'occhio, metta infieme tutte le co^ fe,che fono fparfe fif diuife, acciò che uedendole tutte raccolte, dando poi la uera dìffinitione di ciafcuna.quello facci chiaro,& manifeftp,intor:3 no al quale fi difputerà: come al prefente hab:* biamo fatto noi, che habbiamo diffinito che cofa fia amore, flC ò bene, ò male, che Thabbiamo fat^ to,hai pure hauuto la noftra difputa,per quefta cagione una chiareza, flC una concordanza in tutte le cofe,che dipoi fi fono dette. F E Le altre forti di direnò modi, quali iiuoi tu che Heno ò Socrate.'' S O C R. L altro modo é quc fto. Che come egli ha tutte le cofe raunatein uno, di nuouo parte per parte, fecondo la natu^ ra loro, le diuida,flC parta, flf non fpezi,ògua{|ti membro alcuno del fuo ragionamento, come farhora li cuocKi mài pratichi fogliono farc,rna faccia quel medefimo.che habbiamo fatto noi ne i ragionamenti pafTati; nelli quali habbiamo tntefo quella mutati6e,ò alienatione della mtrte generalmente, ac con parola commane, anchora che fia buona,& cattiua, Ma fi come in un cot^ po quelle membra, che fono doppie, fi chiama:? nocol medefimo nome. ma uno é detto dcftro; raltrofiniftro",ccfi qiicfta forma della aliena:: tione deliamente noftra,la quale è dall'amor cagionata, è per natura fua in noi una foIa;flC cefi babbiamo detto nel ragionamento noftro. Et pero quel pripio parlare,che facemmo, diuij dendola parte finiftra di quella alienatione, ò mouimento della mente, fiC di nuouo poi pars: fèndola,non fi reftò,fin che egli ritruouò unais mor finiflro.il quale conofciuto come cofa non conueneuolfe, uìtuperò. L'altro ragionamene: fo/he dipoi habbiamo fatto, ci con du (Te à co:s nofcere la deftra parte di qucfto furore, doue un amor ritruouando inquanto al nome fimile al fJrimo, inquanto à gh effetti diuinojo lodò, & ingrandì con parole, come cagione di gran^s diffimi noftri beni. F ED. Tu dici il uero. SiÒGR. Io certamente o Fedro fon molfo. imito di quefle dmifioni, fiC diquefti raccogli:?* tendere quel, che io ucgl/o più facilmente;Ò[ meglio ne polfa ragionare. Et fé mai io ueggo alcuno, che fo penfi^ che egh* fia atto a confide^ ' fare bene prima quella idea unfueifale,chc io fi ho detto, pei particolarmente la moltrfudinc delle cofe fecondo la Datura tero di coftai io feguito le. pedate, ftgli uo dietm mn altrias menti, che fi fuffe diuino: & colcrO;che tal eoa: fa fono atti à fare, io gli cKiiimo Dialettici, fc io li chiamoo bene,o male. Iddio lo fa lui.. Ho:* ra dimmi tu di grafia in che modo /fecondo il parer tuo, ò di Lifia,tu chiamavcfti coftoro. pare à te quefta q^iella'^arte del dire, che ufb Trafi^ maco,'flC molti altri faui, li quali per il dir lo? ìfo furono fenzadubio fiut,coiiìeho detto, flC anchora fecero gli altris" Talmente che q^ielli^ che da loro impaiono, uorrehbero o'fterirgli do:? *)i,come fi fuol fare à grvndifTimi Re • F E t), Certamente che cometudici.qucUi tali huo* mini fonodiqncllo honore meriteucli,chealli Re darfi uediamo,ma non per qaeflo fon dotti in quelle cofe, delle quali hoxa tu domandi. Ma à me pare, che qnefto fìuouo modo di ragiò nare,tt di difputare^che hai truccato, il quale tu chiami Dialettica Jo chiami cofi r^ioneuob mcntc.manon per qucdo fappiamo anchora;' ihccofafialaRettorica.ma fi bene la Dialets fica. S O C R. Come dici tu quefto !" Penfi tu che cofa alcuna bella,ò ben detta pofli efTerc giudicata, che quefti miei ordini non feguitf, quantunque con arte fi impari i Hora per ciò che queftofolononbafta.non uoglio che noi lafciamo à dietro quello.che oltra ciò nella Ret torica faccia di bifogno. F E D. Molte cofe ò Socrate fonoftate lafciafe fcritte ne i libri, che dell'arte del dire fono flati compofti. S O C R. Hai detto beniflimo, Pcnfo aduque.che il proc mio fi debbi dire la prima parte della Oratione^ Non domandi tu quefte fimili cofe gli orna* menti iieri di quefta arte;' F E D. Senza diibs tio. S O C R. Seguita nel fecondo luogo la fiarrationé.flC infieme il produrre de i teftimos ni, nel terzo ucngono le conietture.flC nel quar to gli argomenti, cauati da cofe uerifimili. Et pa re à mecche un gran compofitor d'Orationi.chc fu da Bizantio,ci mettelTe anchora le pruoue,CC le ragioni, che faceuanoper colui, chcoraua. F E D; Tu uuoi dire Teodoro, che fu fi eccels lente, è ucro;" S O G R. Si certamente. Coftui anchora trojiò nella accufatione,fiC nella difens fione^i argomèti raddoppiati, £t per che non faciamo fìoi ricordanza di Euano Parìo? il qùàfc prima à tuffigli altri frouò le dichiarafioni: flC cifra di quefto fu inucntorc delle Oratiohi.chc in lode d'altrui fi fanno, fiC non mancano molti che dicano, che egli per meglio à memoria ntc^ nerlc,tramezaua le fuc Orationi con certe uifua pcrationi fatte in uerfi. Et di ciò non è da mara^ uigliarfi^per che egli è un huomo fauio.Lafcia^ mo pur andare Tifia,flC Gorgia, li quali propone gonoil uerifiHiile al aero, flc con la forza delle Orationi fanno le cofe grandi parer piccole, flC le piccole grandi,* fimilmcnte che le cofe uec:s chic moftrino effcr nuoue,& le nuouc uecchie, hanno trouato una breuità di parlare moza, ft poi per il contrario una infinita lunghcza di parole ♦ Le quali cofe gii fentendomi raccontare Prodico,fe ne rife,a moftromi.chc egli folo ha:^ ucua trouafo, quali parole à quella arte (àceffe;* ro di bifogno; & mi difTe^chc ella 'non haucua di bifogno di molte, ne di pochc^ma fi gouer^ naua in quel mezo. F E D. Sauiamentc difTcProdico. SO CR. Non fa di bifogno ricor^s dare Hippia,per che io penfo,chc con lui s'ac* cordi anchora il noftro hoftc Helienfe. F E Non bifogna per certo ♦ SOCR, Che dirc^ mo noi della confonante concordanza.che ha rif rollato Toh? il q irate In qu arte introcìufjs le repllcationi delle parole Je fent?tie,le com paratìoni Je fi m i li fri di ni, & Tufo de i nomi con. elegantia in quel n5odo,che egli da Lidmnionc l'apprefTe.F D D. Dimmi un poco Socrate^ li (critti di Protcìgora non erano quafi fimilià Èjuefti.^ S O C R. f^edro mio, il parlar di Pros rtagora è buono, fif propio,££ nel luo ftilc fi truo uaJiomoltecofcnurauigliofe.tTia nel niuouerc à pietà, fiC a milericordia^ccl ricorJfe41i iiecchie za^ò la pouerfà lorafore di Calccdonia fù cccel:r Jente, & aiicliora ikH' incitare,fl£ mitigare l' ira ^cra potentifiìnio^fii non altrimenti placaua una.ifato^che fe egli liane/Te adoperato li incanti: fa anchcra fopia tutti gl'altri nel difendeifri,fif pur garfi dalle calumnie dateli, & nel darle ad aU tri ogni uolta,che gli bilognaua. Ip forno al fi:? ne delloratione pare a mecche tutti s accordino infieme^ma-ino^ti chiamano quello fìne,Repe;{ titione,5(molti Ju altro modo. F F D. Voi tU che li fine fu il ridurre nella memoria alli audi:^ toribrtuemente tutte k cofe^che difopra fono fiate detter S O C R. Q^ieflo uoglio che fia^, Ci fe tu inforno à ciò fapeifi qualche altra ccfa; dillà,cheiouolentieri ti. afcolfo» F ED. Io certamente non fo fenoa cofe di poco moipens! to,ac non degne d'efTer rfcordafe. SO CR.^ le cofe di poca importanza lafciamole andare;' flC pm predo attendiamo à dichiarare che forza habbia qiiefta arte quando quefta arte fi pot ficonofccre. F E Grande certamente, fes; condo me,è.la forza della oratoria apprefTo alla moltitudine, flf al uolgo, S O C R. Grande per certo. Ma confiderà un poco di gratia,co^ me fo io, come queftì Oratori, uanno con tutu quefta loroarte.non di meno male in ordine, flC mefchinamente, FED. Dimmi un poco^ quefta cofacome uaf' S O C R. Stammià udì:: te, Se fuffe unoxhe trouando il tuo amico Lifi:^ inaco,gli djccfli in quefto modo (o uero a fuo padre Acumeno ) Io ui dico, che io fo beniffi;: 8ìo,flC conofco quelle cofe, che accoftate à nn corposo uero da un corpo adoperate ufate,fa rò chea mio fenno quel corpo fi rifcalderà^flC raffredderà.oltra di quefto io fo prouocare il uo mito,fo fare reuacuatione,fo ordinare lepurga^. tioni,& intedo molte altre cofe funili: per il che io fo profeffione di Medico, flC dico di poter fare diuetare Medico ciafcuno che uprrà. Se uno gli parlalTi cofi,che penfi tu che gli rifpondeffero^ •Ped.Che uuoi tu ch'io dica altro, fenó ch'eglino i'^auefferoàdomadareje anco egli fa à quali per fonc.in che fempi.ft fin quanto queftc tali co* fe.chc egli dice fapere.fic conofcere/i hauefles ro à operare, fif ordinare. SOC'R. Seaduns quc colui gli rifpondeflé.che egli di qucfto nó (àpe/Tj render ragione. ma che faccfTc di bifos gno.che colui che hauelTe imparato da lui quel le cofe che egli fa/apeffe per fe fteflo.fiC potcfle fare il rcfto.fiC conofcefle i tempi, £t le perfonc, uerfo di chi.fic quando fi haucfTerà à mandare à effetto. Se quefto tale gli dicelTe cofi.che penfi tu.che eglino gli rifpondelTero.'' FED. Cers tamente che altro non potrebbono dire.fenon che quefto (al'huomo fiifTe fuor di fe, con ciò fia.che hauendo folamente da qualche libro di Medicina udito una pocp cofa.ft elfendogli nel leggere uenutoalle mani qualche modo di mes dicare, & non di meno non intendendo di quel la arte cofa alcuna, penfi per quefto effere diuen tato Medico. S O C R. Ma che diretti tu.fe fulfe uno,che.andaffe à dite a Sofocle, flf à Èus ripide.che egli fa i -una piccola cofa fare un lungo parlamento, ec per il contrario fopra una grande parlar breuemeute.'' Oltra di quefto che ogni yolta.ehe uuole.fa commouerc gli audis tori à mifericordia; flC fimilmentc all'ira.che è fua centuria, fa far nafcere horrore.ec fpauento/ fa minacciarci fa fare fimili altre còfc, fiCchc fieli' infegnarle egli penia faper moftrare Tartc, ce la Poefia Tragica • F E D. Io penfo, che co ftoro fimilmcnte fi riderebbero di lui,uedendo che egli teneffe per fernìO,che la Tragedia folas niente fi conteneffe nel far quelle cofc^chc egli dice fapere.CC non peniaffe^chc la uera Trage:? dia uuole tutte quefte cofe bene infieme compo fte,a ordinate, fic uuole hauere tutte le parti tra loro corrifpondenti.flC conuenicnti alla materia, CCalfubiettodellacofa* SOCR. Etnopea fo io, che per quefto eglino lo riprendeffero uiU lanefcamentc, ma farebbero come un Mufico, che fi abbatteffe in un'huomo,che fi pcnfafTe d'efTer Mufico folo per fapere in che modo le corde fi faccino fonare, hor bafre,hor alte.Que^ fto Mufico, che fi deffe in coftui,non gli direb^: be con un mal uolto, O pouero \ te, tu impazi (iome ogn' altro forfè farebbe ) ma come Mu^i fico.h quali fono tutti piaceuoli.cofi più amo$ reuolmente lo ammonirebbe. O huomo da be^ ne,colui che debba effer Mufico, bifogna che fappia quelle cofe, che fo io: £C colui, che fa deU la Mufica quello^che fai tu/i può dire, che non ne fappia cofa alcuna: per ciò che tu folamente conofci quelle cofe, che dauanti all'armonìa fof^ no nfceffaric^ma della armonia ne fefignoranfc; F E D, Beniflimo, S O C R. Similmcnfe potrebbe Sofocle dire à colui, che gli fi facciTe incontro, come io ti ho detto, ciò è, che egli più predo fapcfTe quelle cofe,che uanno innanzi alla Tragedia, che eghconofceffe, che cofa fuflc Tragedia. Et fimilmente Acunieno Medico po trebbe dire à quello altro, che egli fapcffe queU le cofe,che uanno innanzi alia Medicina, ma che la Medicina non la intendere • F E Cofièper certo. SOCR, Ma fe lo clegans: tifljmo Adraflo,flC Pericle udifTero quelle parole fcelte, ftartificiofe, quelli parlari mozi, quelle fimilitudini,fi£ quelle altre cofe,chepocol'arac contauamo,fiC narrandole giudicauamo effer da confiderare^ penfiamo noi, che eglino (come forfè faremo noi ) fi adiraffero con coloro, che tal cofc infegnando,penfafrero infegnare l'arte ora^ toria,òpure uogliamo dire, che eglino, come più faui di noi,in quefto modo dicendo ci ris: prendefferoi'O Socrate, Fedro Je fonoalcu:? tti.che elTendo ignoranti dell' arte della Diale t^ tica non pofrono,ne fanno diffinireche cofafia Rcttorica,con coftoronon dobbiamo adirarci, ma più tofto hauergh compaflione, ££ perdos: nargli • Et fono aUuni^chc ftandofi in quella lo ro fgnorantia, mentre ch'eglino folamenfepof^s^^ggono,fiCfanno gli amniacftramcnfi, che quel lecofe inlegnano, che uanno innanzi all'arte della Rettorica,fi uantano,fiC gloriano di hauer troua(a,ec di faper perfettanìente la Rettorica! ce infegnando folamente quelle cofe che fanno, ^penfano,tt dicono di infegnare l'arte dell'orai fc perfettamente. Ma poi il modo di teffeie in^j Cerne, 6f commettere tutte quelle cofe in un cor po,in tal modo, che à chi rafcoIta,po(rano per:? fuadere, dicono che fa di bifogno,che lo fcho;s lare fe lo guadagni, fiC per fe ftelTo Timpari^cois me le à ciò non fi facelle di bifogno il maeftro, F £ D. Tale certamente, fecondo me,èquellaarte, che coftoro in cambio di Rettorica infegna no,a: fcriuono; & mi pare, che tu habbia detto il uero. Ma dirami un poco in che modo,flC per che uia potremmo noi acquiftare l'arte d'uno Oratore.flCd'unperfuaforeuero S O C Egh è cofa conueniente Fedro, & forfè neceffa^ ria, che fi come in ogni altra cofa,cori in quefta un'huomochclauuole acquifl:are,fia in ogni parte perfetto. Per ciò che fe la natura ti incih nera à effere oratore, fc poi ci aggiugnerai la dot trina,a la efercitatione,diuenterai un'oratore ec celiente, Ma fe una di quelle due cofe,prarte,ò la natura tì nianclicri.noii farai perfetto. Hora quanto quefta arte fia grande, non fi puojecod do me, per quella uia fapere,chc Gorgia.A Tra:s fimaco feguifarono.ma per altra. F E D. Per qualef' SOCR, Non fenza cagione Pericle è flato giudicato il più perfetto Oratore,che mai fufTe/FED. Perches' SOCR. Tutte le arti granxij hanno di bifogno della efercitatione nella Dialettica, & della contemplatione delle cofe celefti,fiC della cognitione della natura del le cofe: per ciò che quella alfeza^che nella men te noftra fi uede,flC quella efficace forza di po^: tereciafcunaimprefa cominciata condurre à ne, pare che nafchi in noi per Io ftimolo^chc quefte cofe baffe^fiC terrene ci danno, il che Pe^^ ride congiunfe con la fottiglieza del fuo inge^ gno: per ciò che fidatofi nella domefticheza,CC amicitia di AnafCigora ritrouafore di fimili cofe, n de in tutto alla contemplatione,tt cofi com^ prefe^^ imparò la natura della mente noflra^flC anchora del mancamento di quella, il quale •Anaffagora copiofamente dichiarò,flC di quiui ca uò tutto quello, che à lui parue,che fuffe al prp porito,flC utile per l'arte della Rettorica. F E D. Come andò queftacofa^ SOCR. 'Tu fai, <he il modo di medicafe^flC di orare è quafi il medefimo» Hiedefimo. FED. ìnchcmodo^ SÒCR. In ambe due ijfticftc arti fcifogha diuidcrc la na tura, ma in una fi parte la naturi del corpo, nek l'altra quella della anima. Pur che non fole per uia di efercitio^flC di far buona, & moderata ui^ fa.maanchora con Tarte habbia un Medico à dare à un corpo & medicine, ÓCcibi, di forte che Io faccia fano, ac rcbufto diuentare.Et fimik niente,pur che fi habbia à metteré in una anà ma la urrtii.flf la perfùafione per ragioni, flC per giufte,fiC legittime ordinatiorri. F E Cofi ò Socrate fi dee credere che fia. S O C R • Uo^ ra penfi tn,chefi pòfll conofcere la natura di djuefta stnitn^t bafteuolmente,fenza là cognitiòij ne di tutto quefto noftro compofto.il quald chiamiamo huomor F E t). Se fi debba crcs^ dcre a Hippocratc fucceffore di AfcIepo,non fo lamenfe diremo che non fi pofla conofcere la n* turi! della a'tìima fenza quella cognittónc,che ta dici,maalnchorache non fi poffa fapcre queib del corpo. S O G R. Dottamente parlò Hip:^ pocrate. Hòra è bifògria^ eòrifiderare,fe quefta cofa,ché io t'ho detto, fa al propofito della no^ ftradifputa. FED. Faccificome tu uuoi. S O C R. Attendi adunque qitello,che non iblo Hipjpocrate^i^ia anchora la uera ragione di^cario di qucftainucftfgationc della na(uta,cli€ IO t'ho detto. Cofi adunque la natura di ciafcurs nacofa fi ha da confiderare* Principalmentehabbiamo da uederc.fe quella cora,,della quale noi uorremmo fapere 1 attera: ad altri ifegnarla, èYcn)plice,flC d'una loia natura, ò pure di molte forti. Dipoi cafo che fia fempUce,fi ha da confi derare, che natura fia la Tua neiradoperarri,ac nel fare, conìe anchora nell'effere adcperata,fiC nel patire.Mafequefta cola harà più capi,diui dendoh* prima tutti;& raccontandoh ordinata^ mente, in ciafcuno habbiamo à cercare particors larmcnte quella fua natura, & intorno al farc,flC intorno al patire. F E D. Cofi pare, che s'hab bia da fare. S O C Et fenza far quefto fasi fi il procedere di colui, come il caminó d' un cieco. Ma colui, che qualche cofa tratta con ar^, non fi harà adafTomigliare à un decorò à un Tordo, anzi bifognerà dire, che qualunque farà, che con arte parli à un altro, prima cercherà chia ramente moftrarc la natura di colui, al quale parlerà, flC quefto altro no è che lanima. F E D,; Senza dubbio* S O C R, Dimmi un poco, • Vno che parli ccaarte ad un' altro, non fi sforss za egli fopra ogni altra cofa perfuadergli tutto ^ fluello,che auolei* F E D. Certamente, S O C.'Et péro c cola chiara.che Trafimaco.Cf qualuns que altro attende à infegnare la Reftorica, prima donerà con (omnia dilic;entia defcriuere.ìBC di^ chiarare fe l'anima è per natura Tua una cofi fo^ la^ficfimile tutta afe fl:e(Ta,òuero fe à fimilitu^ dine del corpo, fia di pia forti. Per ciò che qtian do 10 dico, che fi debba moftrare la natura della anima, non uogiio intendere altro, che quefto# F E U. Cofi douerà fare certamente. S O C Patto che farà quello, bifognerà che egli dimo^: ftri che potentia fia la fua,fiCuerfo che cofc la polTi ufare,C(à che paffioni ella fia fottopofta^ r E D. Certamente. S O C R. Dipoi ha:^ ucndo già diftinte,CC diuife tutte le forti degli affetti dell'animala de li difcorfi, & ragionai menti fuoi,gli farà di bifogno raccontare tutte le cagioni, per le quali tali affretti in lei nafcono, accommodando fempre le cagioni a gli affetti fuoi,& infegnando le qualità dell'anima, Cf che difcorfi fiano I fuoi,fiCper che cagione qucfta ftia fcmprcin confideratione,flC in nioto,flC quel la mal à contemplatione alcuna ne fi leui,flC fem pre fi ftia ferma. F E D • Quefta farebbe una cofa ingegnofiHima.Soc.Et perciò ti dico, che no fi potrìmai dire, che uno fratti, ò ragioni bene di cofa alcuna, non pur di quefta, di che t'ho ragio mtòjc alfrimcti procccJèrà.Ma li fcritfbri Ai qut fta arte de i noftri tepidi quali tu anchora puoi haucre uditi, fono aftuti.flC conofccndo beniffi^: mo quefta natura deiranima,chc io dico, non di meno ce la afcondono,flC non ce la uoglionomoftrare. Et io ti dico, che fé eglino non parler ranno^flCnon fcriueranno.feguitando il modo mio, non dirò maliche con arte, ò bene fcriua^ no. FED Qual modo dici tu SOCR. Io non ti potrei cofi facilmente dire le parole, che ci uanno,ma in che modo ci bifognaffe feri ucre,fe l'hauefTemo à fare,te'l dichiareiò in quel miglior modo, che mi farà poffibile. FED* Dillódì grafia, SOCR. Poi che noi hab:s biamo ueduto^che la fcientia del dire altro non è, che un tirare à fegP animi, flC un dikttarfi,bi^ fogna che colui, che debba effere Oratore, cono^j (ca quante parti habbia quefto animo. Hora quc fte fono affai, flC di molte, flC uarie qualità, fiC for^ ti,per le quali gli huomini uengono anch' efli diucrfi.ft di molte qualità. Confiderate quefte cofCiCjpuiamo dire, che fieno tante forti di Oras: ' tioni,fl(di parlari, di quante forti fono le qua:: • liti delle anime noftre.Etperò quelli animi, che peir le qualità loro fono à qualche lor parti:? «olar dcfiderio difpofti/fàcilmente con quellimodi di dire fi perfuadono, che alla natura loro fieno fimili: doue che fe tu in un modo parler rai,a; 1 anime di chi ti ode, fia altrimenti difpo:? fto,non lo perfuaderai mai. Et però à colui, che harà bene quefte cofc confiderato,poi che hariueduto,flf conofciuto la natura d'uno, flC le ope:: re,fif le attioni comprefe.farà di bifogno potere in un fubito nel Tuo ragionamento a{regnare,flC dimoftrare ijuefte Tue attieni, flc dimeftrare di conofcerle: ft fe altrimenti farà, potrà dire di no Tapere altro che quelle core,che già dalli maeftri gli furono infegnafe. Ma colui, che può con uc rità dire,flCconofcecon qual forte di parole fi può ciafcuno huomo perruadere,flC ingegnofa^ mente auuertifce,checolui,che gli è dauanti,c di quello ingegno, flc di quella natura, della qua le egli ha dimoftrato,flC fapendo fimilmentc, che un tale huomo ha bifogno di parole tali^ quale egli è ^per uolerlo condurre à far quelle co fe,alle quali egli è dalla fua natura inchnato^co^ ftui dico, che cefi farà ammae (Irato, all' hora po trà u erame n te affermare di poffedere qneftaarte del dire. Quando aggiugneràà quefte cofe,che iotihodettedifopra,ilfapere quando fi habs bia à tacere, ce quando à parlare, quando fi habsj bia à effer breue nel direna quando non^Oltca di qucfto quando conofccrà, quando fi haràda -uCire una Commiferatione, & qciando una uehe mcntia di parlare più afpra, quando s'habbia da fare una Amplificaticnc,flC qtiando in fomma fa, prà in quefto fimil modo uiarc tutte le altre par ti della Oratione,che fono dalli maeftn (late in:5 degnate: flf prima che tal cofa non fappia^non potrà in modo alcuno e(Ter detto Oratore. flC co^ lui^al quale una di quelle cofe.qual fi fia^mans; cheràònel dire,ò nello rcriucrè.òhello infe:? gnare,flC non di meno affermerà parlare con ar:? tc.airiioraquel tale, che tenia eller perfuafo fi partirà da lui, fi potrà dire uincitore. Ma forfè qualcuno di queftì Sciittoridi Rcttorica ci po^ trebbe direnò Socrate, & Fedro. peniate uoi che l'arte del dire fi habbiaa imparare in quefto mo do.flC non in altroi' FED. Socrate à me pare impoffibiìe/he fi pcffi intendere altiimcnti, quantunque quefta dimodri eflere una opera, & una fatica gianiffima, SOCR. Tu dici il acro, per ciò che ella è, come tu dici.dilfi:: Cile. bifogna parlando, & ri£arlando di quefta. cala più uolte,ceicare,tt confiderare fe forfè po teffjmo ntrouare una uia,che più facilmente, fl£ in più breue tempo iui ci pofc/Ie menare, acciò che noi noli ^iidiaaioinconfideratamente er;i rando ' ranJo per ufa lunga, d: difficile, pofendo noi ca minare per una piana, & breue: per il che fé a qucfta cofa tu mi pcteffi dare qualche aiuto coiji quelle cofe^che hai ò da Iifia,ò da altri imparai te,uedi di ricordartene, & dichiaramele» F ED. Potrei forre, per prnnare k mi riufcifle/arquci; che tu dici, ma non in queflo tempo. S O C Vuoi adunque,che io ti racconti un ragionai irento^che io gii non fo quando, udì intorno a queftacofaf FÉD, Digratia, SOCR. E fi dice.che egh ègiufto iddio quello, che uno ha neir animo, come coloro, che pagano quelli danari alla fiatuii di Lupo, come (ai, F E D. Cefi uoglio che ^cci, S O C R. Dicono ^diin qne coftoro,clie non fa di bilbgno tanfo con pa role inalzare (e cofe,che un dice, ne con lunga Oratione ingrandirle, come fare fi fuole: perciò che uogliono quefti tali (come habbiamo det^s to nel pnijcipio del ncftfo ragionam.ento)chc à uno,che habbia da eHere Oratori, non faccia di bifogno ccncfcere la uerifà delle ccfe giufte, & buone A dicendo quefto, intendono cofi/dcl le cofe,come de gli hucmini òper naturalo pcf ufo giudi. Et allegganoquefla ragione à prora uare che non bifognjfapere,che cofa Ca il gitH &o: per che ueJii gmcUcu h Oiatori nò fogliono hauer cura dimoftrarc la uerità,ma pia prefto at fendono à pcrfuaderc l'opinioni Io. C£ pero dico. Ilo, che è cofa uerifimile à credere che ia perfuac iìone fola fia quella, alla quale debba indrizar la mete colui, che con arte uorrà faper dire. Et che» fii il ucro, dicono cofloro che nefTuna cofa fi ere àttì mai che fia (lata fatta, fé prima non farà mo ftrato effer cofa probabile fiC aerifimile,che pcfTì <ffercaccaduta. Ma pure uogliono coftoro,chc -jpiu tofto fi habbino à addurre le cofe uerifimili neiraccufare.che nel difendere: flC cofi afferma- no, che un' Oratore fa poco conto della uerità, & che folo feguita il uerifimile^flC uogliono che fe quello loro Oratore feruerà in tutte le fue Ora tioni quefto ordine di moftrare il uerifimile,fi pofli dire, che egli moftri di faperc l' arte orato^ ria beniflimo • F £ D. Socrate tu hai raccon^ fato quelle cofe, che fogliono dire coloro, che fanno profeffione di infegnare la Rettorica.Et io mi ricordo.che nel ragionamento noftro po^ co fa toccammo un poco di quella cofa*& quel, che haidetto,foche debba parere cofa troppo grande à coloro, che in quella arte fi efercitano. Ma io ti fo dire, che tu hai dato una buona ba^ donata à Tifia. S O C R • Poi che tu mi hai ticordatoTifia^uorrei che egli mi dice/Te, fe e pcnfa.chcii probabile, flC il ucrifimilc fia alfro;^ che quello, che pare al uolgo. F ED, Che uuoi fu che riaaltrof* S O C R. Trono olxra di quefto, fecondo me, Tifia qucfta altra cofabeU la,& degna di lui, & la fcrifle anchora. Et que:* fto è, che fé per cafo un'huomo debole, ma au^ dace.che hauc/Te battuto, flC fpogiiatouD'huoi^ mo forte, flC timido^fafTe menato in giudicio,, uiiole TiTia che nefTuno dicoftoro habbia à con fefTare il uero,ma uuole che il timido dica.chc egli non è (lato battuto folamente dall'audace, & 1 audace l'ha à negare,* moftrare d effer ft^ (0 folo,flC pigliare quefto argomento. Come uo^ leteuoi,chcio,chefon debole, habbia aflalita coftni,che è gagliardo^Ma quel timido no coraj fefTerà per quefto la fua timidità, ma penfando, ritruouando qualche falfità,cercherà di accu^ fare Tanuerfario, Et cofi fimilmcntc in molte altre cofe accafcono fimili cafi, nclli quali(dicc^ ua Tifia ) bifogna haucrc quella arte. Non ti p;i re egli cofi FedroJ' F E D, Cofi certo. S O O quanto aftutamente dimoftra TifiadihauejCieritruouata un'arte afcofa,* diffìcile, ò ueroqua^ lunche altro (ìa (lato, che habbia tenuta quefta Tua opinione, ft habbia nonfe^comc £i uoglU»! Ma uuoi tu, ch'io dica quefta coiàio od^ JF £ p« ' Chccofaèqucfla.clicfu uuofdìre^ SOCR. 'Io uoglio parlare un pcco con Tifia.O Tifia ih» «anzi che tu ueniffi con quefta tua atte, noi tes ncuamo per certo, che quefto probabile,fiC ucris fimile.nonfipotefii al uolgo per altro iTiodo moftrarc.checonlafomiglianza della ucrità.fiC pcnfauamo.che quelle fomiglianie del uero fos lo da colui potefTero cfTer trouate,chc peifettas niente la uerif a ccnofceffi. Per il che fé tu cidi'raiintorno àqiicfta arte qualche altra cofa.uo* lentieri ti afcol faremo: ma Te non dirai altro, noi ci ftarenso à quello, che poco fa habbiamo defcs to.ft^ 9^*^^*^ crederemo. Et quefto è.chc fe • uno non conofcerà bene gli ingegni delli audfe tori.ft fe quelli l'un da l'ahro non. diftinguerà, a fe non diuiderà le cofe.di che egli ha da pars lare nelle fue parti fe quindi di tutte un'idea fola facendo, in quel modo non le comprendes rà auefto tale nó potri mai acqui{lar*e quella ars te del dire. che può hauere un'huonrto. Etques > fta cofa non la può imparare fenza,un lungo uu, dio. Nella qua! cofa un' huomo prudente nófo lamentc fi affaticherà per poter dùe.a orare in modo, che piaccia a gi'huomini, ma anchora ut cherà di poter djre.a tare quelle cofc.chc habs jj^j^jano da e(ftr gxate a Dio. Per cièche io uoglioche tu fappia Tifia/he quelli Iiuomini,chc fors no flati più faui di noi, bino detto che un'huo mo fauio non debba follmente penfare di (om^ piacere à tutte le bore à quelli, che feco fono fa un niedefimo fcruitio, ma fi ha da cercar di ubi dire à buoni Signori. Per il che non ti maraui^: gliarc.fe io ufoquefta lunghcza di parole, per ciò che gh è neceffario che io fia lungo^efTcndo le cofc,che io tratto, di importanza, il che forfè tu non credi.Etfappi,che (come fi fuol dire ) che dalle cofe buone ne nafcono le buone, cofi anchor dalle uere pofTono uenirne le uerifimili. F E D. Qyefta cofa pare à me che fia beniffimo detta. SOCR. Egli è certo difficile, ma egl'è anchora cofa hoaorata,flf degna lo sforzaifi (em predi aitiuare air acquifto di cofe eccellenti, fl(degnerà patire tutti quelli difagi,che in tale sforzo ne interuengcno. F E Tu hai ragio ne. SOCR, Habbiamo horaà baftanza ra^ gionato della arte j ce del trifto modo del comrs porre Orationi. F E D • A baftanza per certo* SOCR. Ci refla bora à ragionare intorno alla bclleza dello fcnuere^flC à dire onde nafca labru teza dell'orare, F E D. Quefto ci refla. S O C. Sai tu in che modo ò ragionandolo orando lì f offa nelle parole piacere a Iddio f' F £ D, Non ccrfo^ft tu? Spc. Io ho udito dire no fo che cog. fc, le quali già furono infegnate dalli noflri anti chiamala uerità di qucfta cofa la fanno cffi^fif ilo io. Hora fe noi ritrouaffemo modo di piacer nel parlate a iddio, pefi tu che ci bifognafTe più haucre cura di quello,che gl'hucmini intorno a ciò fciocamente pcnfanor F E D. Qnefla tua do ìiiada è da ridere. Ma raccontami un poco quellecofe^chc tu dici hauere udite • S O C lo - ho udito, che là prefTo al Naucrato di Egitto; fu già un certo iddio de gli antichi. al quale e dedicato quello uccello, che chiamano Ibin^flC quefto iddio é detto Theute. Quefto dicono, che fu il primo^che trouòii numerosa la com:? putatione,flf raccpglimento de i numeri, non folo uogliono che fuffi ritrouatore di quefta co::^ fa, ma anchora della Geometria, & della Aftrono miarritrouò anchora- fecondo loro, Tufo de i das di.fiCil mododi fare le forti, flC finalmente fu inuenfore delle lettere. Era in quel tempo Re di tutto r Egitto Tamo,2C ftaua in quella granr: di/Tima, CL nobilifTima Città, che chiamano li Greci Thebe di'Egitto; flC queftì popoli hannp po(]:o nome à Iddio Ammone. A quello Reue nendo Theute, gli moflrb le fue arti, flf gli diC^ (e.che farebbe flato buono, che egli à poco à pp co le diftribuifcc à tuffi li popoli dì Egitto. Ma egli domandò a Thcute,che utilità ciafcuna di quelle arti à gli huomini apportai » Il che di^ chiarandoli Thcute,Tamo approuaua quello,) che gli pareua ben detto: quello poi, che non gli piaceua.lo biafimaua.fiC all' hora fi dice.che Tamo dichiarò^a moftrò à Theute intorno à eia fcuna arte molte cofe,flC per una parte^ & per la altra; le quali fe io tutte uolcffi nan-arti/arei trop po lungo. Ma poi che uennero al ragionar dcU le lettere^ di/Te Theute, Sappi Re.chequeftadifciphnafaràdiuentaregli Egitfii più faui^flC di maggior memoria: per ciò che ella è ftata tro:j uata per rimedio della fapientia^ft della memo:^ riamai che egli rifpofe, Aftutiflimo Theute uo:s glio che (àppia,che fono alcuni^che fono atti k ^ fabricare gli inftrumentijchc per una arte fono neceflarii,ac buoni; alcuni altri faranno poi più pronti à giudicare che dannoso che utile quelli arte debba an:ecare. Matu,chefci padre delle lettere, forfè perla troppa bcneuoIcntia,che gli porti,haidimofl:ratodi conofcer poco la forza loro,hauendo affermato che elle cagionano in noi quello efFetto,del quale niente é uero,anzi fanno il contrario. Per ciò che T ufo delle lettere facendo che noi poco ci curiamo di tenere à me moria co(aa!cuna,pàrtoriTcfnciram eli chi fe impara^obliaionc di ciafcuna cofa • Et qiìefto ne auuicne,pcr db che confidati nelli fcritti dal tri,non uogliamo cercare di rauuoUarci troppo ncir animo le cofe: per il che tu non puoi dire d'haucr troiiato il rimedio della memoria, tna più tofto d' un rammentarfi delle cofe già fapuis (e.Oltra di quefto à me pare, che tu più preda infegni alli tuoi fcholari una opinioe della Icien ha, che la uerità: per ciò che hauendo quelli fen za la dottrina del maeftro lette, flC imparate mol:^ te cofe^parràal uolgo.anchor che fieno ignors ranfi,che non di meno molte cofe fappiano,oU fra di queflo diueterànno nel praticarli più mos: lefti,flcfafl;idiofi,ne ciòauuerrà fenza cagione: per ciò che efFi non pofTederanno la ucra fapien tiajfhapiutofto feranno ripieni d' un" opiniors ne di hauerla. ¥ ED. O Socrate, tu con po^ ca fatica fingi, che li Egittii parlano, ft qualunis que altro più ti piace, pur che ti uenga bene^ S O C Qaefta non è gran cofa, per che an:^ chora quelli, che ftanno nel Tempio di Giouc Dodoneo, affermano che le prime parole del fufuro indouine, che effi udirtera,ufcirono d'una Querele: li che à quelli popoli del tempo anti^ co (per CIÒ che eghno non erano cofi faui.co^ TOC fetc uot del dì d'^hoggi ) baftaua pci fr disfare alla loro fcioccheza udire ie^.pktrf ^i) k Qucrcie.pur che elle gli diceflero il uero* Ma (i5 peni! che importi qualche cofa chi fia.ò d'onde lia qucllo,ckc parlj. Et ciò ti auuiene,pcr >ch^ tu non confideri folo fe qucUo.che parla, dice il uero,ò non, ma uuoi udire parlare i p^erfone à tuo modo, F E P. Ragion^uolmcntc finii h«ii riprefo • fif à me certamente pare, che nelle letiP tere interaenga quello, che fecondo il tuo dire, diceua Tama;chc à coloro accadeua.chc U (ape tiano* S O C R.- Et pero qualunque perfona penfa fcriuendo intorno à quefta arte, 6 quelle cofc imparando. che da gli altri di lei fono itatc fcritte, per queftoche dalli fuoi fcritti fi habs» bla certeza alcuna i cauare.ò uero per il fuo im^ parare,douer faper cofa ucra.coftui certamente c fciocco,a: di poco ceruello.flc fi può dire, che egli fia in tutto ignorante dello Oracu lo di Gìq ue Ammonio, con ciò fia che egli penfi^che le Orationi fcritte pifi poffuio,che non potrà uno chcdafe fteffo fappia quelle cole, delle quali Quelle Orationi ragionano. F £ BeùiSì^, tno. S O C Queftoo Fedro ha la fcnttura piena di grauità,& dignità, che ella è fimihdl^ ina alla pittura: per ciò cIk ie^opere della pittUiP ra pare clic fìcno ufue^ma fc tu gli domanderai qualche cofa, uergognofam ente fi taceranno. Hon altrinienti delle Orationi potrai dire,fif ti parrà, che elleno intendendo qualche cola, U polfano anchora dire,ft moftrarc. Ma fe poi for^ (e di laperdefiderofo, gli domanderai di quaU che fuo detto la cagione^ femprc ti diranno una cofa, & ^<^»^pre ti lignificheranno il medefimo: <3CogniOratione,comeellaè feritta una uolta, Tempre. flf in ogni luogo la medéfima lì ritruo^ ua,fiC moftra le cofe fue à quelli, che fanno,* à gh' altri,'alli quali forfè niente importa, flC non faella,o puo dire à chi bifogni manifeftarfi, 6 àchi nonb]fogni,2(fe mai gh è ingiulla:^ mente fatto ingiuria,© detto mal di lei,femprc ha bifogno dell'aiuto di fuo padre, ciò è di chi rha fcritta,per ciò che ella al.nemico non rcpu? gna,ne à fe fteffa può dare aiuto. • F E D.Quc Ite còfc anchora pare à me, che fieno ueriffimc,. S O C R. Ma che dirai tu à quello? Credi tu, che fi polU uedere un'altra forte di parlare fras: tello di i^ueftof Et che fi polfa concfcere come quello, che io ti dico,fia legittimo, fiC quello del quale habbumo ragionato badando, & quanto migliore, flC più potente nafcai' F E D. Che parlare è queltof CC come uuoi tu che fi facciaf^ tu' ' Soc* S O G R. Qucfto parlare è queIIo,chc fi kwt ncir animo di chi impara per mezo della fcipnjs tia,flC è migliore, per che quefto può aiutare à fc flefro,fif conofce co qua] forte di p<rfonc fi bia a parlare., flC con quale à tacere. F E D. Xji uuoi dire il parlare d' un dotto, che fia uiuo,flC che habbia fpirito,deI quale una Oratione fcri(» ta ragioneuolmente potremo chiamare un fimu^s lacro. S O C R. Quefto dico fenza dubbio. Ma dimmi anchora quefta altra cofa, Vno agr(^ culflcre che fia fauio^ credi tu che uorrà fpargerc^ ft gettare nel tempo della ftate quelli femi.chc egli bara più cari.ft delti quali egli afpetta con defiderioil frutto, ne gli horti d'Adone, cor» ogni ftudio,fiC diligentia,acciòche perfpatio di otto giorni ne pQ)[fi uedcre i fiorii (comelai^chc miracolofamenfe in quel terreno ìnteruiene) ò nero dirai, che fe egli pure il farà, Io farà per pat fac tempo in qualche giorno di fefta.fif per darfi piacere, fiC no per cauarne utile alcuno^Ma quan do egli farà da uero, ce che uorrà "attendere alla agricuItura,non li feminerà in quelli horti,ma in terreni conueneuoli,flC gli parrà hauere affair fc con interuallo di otto meli, flC non d otto gior ni la fuafementafi maturerà. F E D. Certas mente Socrate, che come tu dici, quel tale femi;? fi^^è gfi WrH (!• AcJdftc pft btirla.ft per foU lazt),^ nel terreno buono da uero^ S O C R. t>^jf nfaremo noi, che un^huomo. ch^ (appia xke toù'fu il giudo, Ce il buono, ft« rhonefl-o, fi^ iiello fj^argere la fua fementa pia fciocco d u fio-agricultorer F B In neffuno modo, O C R Ef pero egli no femmerà i (noi detti ftudiòfamente con la penna nell'acqua negra, ^órtmietten doli alle fcritturc,fapendo egli che ft'mai poi portaflero pericolo alcuno non gli po tra dare aiuto: flC conofcendo anchora^che con lèfcriuere non fi può moftrare à pieno la ueri:? ti. F E D. Certo ch^ il feminare^come hai dctfe,è fuor di propofifo. S O C R^ Certo, ma prahìerà beh coilui gli horti delle lettere per darfi in quella follazo,fiC per pafTarc il tempo/ ce in quelli feminerà^ftcofi fcriuerà qualche co Éi^t'Af pofcia che fi uederà hauerc fcritto,terrà qùéli fuoi (catti per mcmoria,&' gli harà cari, come fe fu (fero tefori atti à fargli fcordaie gli afi^ tìnni/che gli ha da arrecare la futura uecchieza. Etnonfelopenferà,chcgli habbino à cagioni rtàrecjUefto in lui^ma in tutti coloro'^che feguis teranno le fue pedate, ecinfieme fi rallegrerà di tiedere già nati i fuoi teneri frutti: fif mentre che Ili altri huomini uanno pur altri piaceri fegui» tando. tando,cclebràndo conuit?,& fimili altri cU;:»*ti% egli lafciate quefte cofe folamcntc attenderà a ui nere nclli piaceri^ che danno li piaceuolj,& "dotti ragionamenti* FED, Socrate tu mi nioftli un trattenimento molto più degno di molti altri,cheà me paiono nili, narrandomi quei di co^ lui, che può Tempre hauer piacere ne i ragionamenti, a disputare della giuftitia,«di quelle altre cofe, che tu dici • SO CR* Cofièccrtamente Fedro mie caro, ma molto più degno ftio c quello di quefti tali (fecondo me ) quan^ do alcuno, poi che ha ritrouata un animala quel locheegh intende infegnarli afta, ufaudo Tarlc della Dialettica, piantala: femina in quella ani^; male fue parole con la fcienfia: le quali parol^c fonobafteuoliàgiouarà fe ftefre,& à colui, che le pianta: per ciò che non folamentc portano fc co grandilTinìO frutto, ma anchoia il if me doa^s de nuoui frutti pedano nalcetc.Onclt^ pafTando poi quefte paroÌe,6: quefte fcientie <A]ixn hixf:^ mo in un' altro, mantengono qucftft.gtiecic^ dono immortale: colui, che Ila in fe tal do:? no, pongono in qdello ftato di beatitudine, che è ^oflibile à un'huomo. F E D, Qaxtlh è an^ chora molto più degno, & honoreuole* S o Hormaio Fedro hauendg noi le cofe^ che Labe L un biamo dette diTopra conceflc, potiamo beniflirs- ino confiderarc quelle cofe,che^tu fai. F E D. Quali S O C Qijelle, che per conofccrlc fin giù habbiamo ragionato, ilqual ragionamen tb non habbianìo per altro fatto, che per poter ^ confxderare il modo di uitupcrare Lifia tuo in^ quanto all'arte dello fcriuere: non folamcte Liria,ma anchora tutte quelle Orationi.che con arte.ò fenza arte fi fcriuono.Età me pare, che già à baftanza habbiamo dichiarato, chi fia colui,cheartificiofofipofli dire, ficchi quello, che fia priuo d' arte • F E D. Cofi pare à me • SOC R. Et però bifogna di nuouo ricor^ darfi,che alcuno non può perfettamente faperc l'arte del dire,ò uoglila faperc per perfuaderc Viltrni,òper infegnarla (fi come le ragioni di fo |)ra ci hanno dichiarato )fc prima non conors fcerà la uerità di quelle cofe.ch' egli dice,òfcri^: uc t ce fe non faprà diffinire tutta la materia deU la cofa,che tratta: fl£ fatta qùeftà diffinitione,di nuouó diuidere tutte le parti, tenendo alle co:s fc particolari, ftindiuidue,fl£cofi contemplanti do,flC confiderando in quefto modo un'anima, alla quale habbia da perfuadere qual fi uogli co • fa,ac haucdo quelle cofc ritrouate,che con ogni forte di ingegni fi accompagnano, flC fono con:: ' uenienti. 'ucjjJenti.cofi fopra fu«o ordini^ fi: acconci il fuo parlare, che co un' anima uaria.fi: di diuerle fantafie.accommodi parole, & modi di dire uas rii.flC di molte forti.flt con una anima femplice, fi£ di un fol uolere ufi parole femplici.fl£ pure. FED. Cofifièdetto. SOCR. Chedires mo hora noi di quella queftionc, che di fopra habbiamotocco.ciòè feegli è cofa honefta.ò bratta il comporre Orationi.fi: in che modo qucfto ftudio fi poffi ragioneuolmente uituperarc, a in che modo non. Non ti pare egli,che le ras gioni dette di fopra ci habbiano dichiarato ques fto paHb i baftanza ^ P E D. QjaaU ragioni? SOCR. Quefte.che fe Lifia.ò altri.Ccfiachi uuole ignorante della uerità fcyfTe mai.ò ucro ■fcnue al prefente.ò fcriuerà cofa alcuna priuatas rmcnte.ò ucro che fi appartenga al publico.cos me farebbeno certe ordinationi ciuili.ó fimili cofe,flC che coftui penfi.che di quefti fuoi fcritti fe ne poffa cauare unacerteza.flC una fermiflima ftabilità.quefta tal cofa T uno fcrittore fe fi ha da giudicare che fia^brutta.Dichinlo le perfonc.ò noi dichino.chequefto imparta poco:|> ciò che il non fapere,che cofa fia il uero.ne il falfo intot no alle cofe giufte.fiC ingiufte, buone, CCtriftc, (anchora che il uolgo tutto lodoiTe quefta igno.twifia}non può pero effefc.che confidcrarK^o il uero non fu bruttiflima. F E D. Bruftiflima pcrccrfo. SOCR. Perii contrario poi. colui che penfa che fu neceflàrio qualche uolta per trattenimento, fif per fcherzo fcriuere^at nó giù <ljca che Oratione alcuna oin profa.o iq ucrfi mcrti^che fi perdi un gran tempo nel comporta '{come fanno quelh. che fenza confidcratione al tuna.CC fcnza dottrina, folamentc per daxad ins tendere una cola.fogliono alle uolte recitare ucr fi)ma terrà per certo.chc li fcritti,che buoni fi poflono dirc.fieno flaticompofti folo à quelli, chefanno.ma faprà che nelli ragionamenti, che fi &nno per cagione di imparare.fif di infegnarc adaltri.fifchc jicrauientc fi fcriuono.fiCimpria: ^tnono nell'animo d' uno.li quali trattano delle cofe gi"uftc,hcnefte.abuone,in quelli folas mente è ia uera chiareza flC la pcrfettione. A quc ragionamenti foli tienc^che mcntino ftudio, ttquefti/olifuoi figliuoli legittimi chiama.dt di queftl ragionamenti primieramente appr/za quello.chc m fe ftefTo efler conofcc(pur che in fe h ntroui}dipoi tutti quelji,che di quel fuo parto.comc %lmoli,Cf fratelli,© nel fuo ania wo.ó nell'altrui menti fono nati: fic. tutti gl'als tri difpreza, a difcaccia, quefto tale, dico, pare 4 me mt telile fia tale,qualc <3a noi fi potrcì>fyé^8drK!*« rare. F E D. lo acmi ò S cerate, efièr conife t:olui,cIic ttì ilici di queflo ne priego Aìhàtas mente Iddio. SOCR. Ma fia detto aflai^cl r^rte del dire per qaefta uolta^iiauendo noiparr lato più per{ratteiiimtnto,-clTe per altra cagioine. E t però tu potrarf dire à Lifia, ciré ncrtlTenfi do andati doue è il fonte delle Ninfe, ideile Mufe,habi>iaino uditi certi ragion ameti, li cpali hanno comandato, che noi dtcfatno A à itif » ^(à tutti gli altri Scrittori d' Orat foni: ol tra dì quefto à Honicro,ò;fe altri è (lato che c qualche ftuda,CC bada Poefia babbi compofl:o,ó pùre or nata, fiC niimerofa,ul{irnaoien(e à Solone/fiCi tutti gii altri^che delle ordinationi tiiiili hanno fcritto,che fe eglino tali<cofe <:onìpofero con faji peucli della ue<ità,flC col difputarc, pofTono dì: difendere le cofe^cbe eglino hanno trattato,iÓC con ragioni fa^r fi,chc li fcritti dinioftrano c{{ctc dainanco,ft pia uili delle parole loio,fif dclU noce uiua,fe quefto che io dico, faranno • Farei ine,<he habbiano à pigliare il nome ne da quel le cofe,che con la penna fcrifTero^twa pio prcftat da quello, che doftamete ccnfiderarono.F E U. Etchc cognome lata quefto, <££ in the modelli lo darai tui' S O C il gran ccgncMM ài piente folo à iddio/ccondo me, fi conufener flC pero à qucfti tali huomi ni, ch'io tlio difopradc^ fcritti,gli porrci più conucnicntemete il cogno:: medi Filofofo,ò di qualche altra uoce fimile. F E D, Certo che quefto no fi difconuerrebbc. S OCR. Et pero dimmi un poco, chiamerai tu ragioneuolmcnte Poeta, ò vero fcritfore d'Os: rationi.òdi leggi colui, che in fé cofa alcuna no habbia migliore di quelle, che ha fcrittof' Et che lungo tempo rauuollendofi, fiC aggirandofi il ceruelIo,con una affidua emendafione finalmen te habbia fatto una compofitionef F E D. Che uuoitudircperquefto? SOCR. Voglio di re,chetudica tutte quefte cofe al tuoLifia. F ED^ Et tu non farai il medefimo col tua amico. ^ per che in uero non mi pare da lafciarlo andare. SOCR. Q^ale amico dici tu^ F E Dico Tfocratcgiouanc perfetto. Che dirai tu à coftui Socrate Chi diremo noi, che egli fia (SOCR. Ifocrate ò Fedro, è anchora giouanetto^ma io non uoglio lafciarc di dire quek lo,cheioindouinodilui, FED. Che cofa f S O C R. A me pare, che egli fia di migliore ingegno,chenon dimoftra d'eflcrLifia per li fuoi Sritti, & oltra di quello di più gencrcfi cofiumi ornato» Per il che io non mi marauigliarci punto. punto,fccrcfcendoinIuigIi anni, egli diuens tafTc più eccellente nelTarte del dire, nella qua le hora fi efercita di quànti mai à quella fi fono dati: flC credo, che egli non contento di queftc cofe per un certoinftintodiuino,cheè in lui, fi inalzerà ad imprefe maggiori; per ciò che io uo glio che fappi,che nel fuo ingegno è (lata daU la natura poftain un' certo modo la Filofofia, Quefte cofe adunque, che da quefti iddìi hofa^ pute,manife(leròal mio amicilTimo irocrate,& tu dirai al tuo cariffimo Lifia quelle altre cofe. F E D. Cofì farò. Ma partiamoci di qui,con ciò fia che il caldo fu hormai calatto à fatto* S O C« InnanziportajrCjò trarre feco,fen6colui,che fia t» perato, Penfi tu che fi debba domandare altro ò Fedro ^ A me par hauerc con preghi domandato uclfo,cbefaceuadi fxifognó, F E Pieg afichoia,che quel trcdcfmio conccdinoa me: pei* ciò che tra gli amici cani cola è conh SOCR* Partiamoci Adunque.  Ricerca Ganimede (mitologia) personaggio della mitologia greca, figlio di Troo, coppiere degli dei Lingua Segui Modifica Ganimede Ganymede eagle Chiaramonti Inv1376.jpg Ganimede e l’aquila, III secolo d.C.(?) Nome orig.Γανυμήδης SessoMaschio Luogo di nascitaDardania Professionedio dell'amore omosessuale e Principe dei Troiani Ganimede (in greco antico: Γανυμήδης, Ganymḕdēs) è un personaggio della mitologia greca. Fu un principe dei Troiani. Omero lo descrive come il più bello di tutti i mortali del suo tempo.  «La vicenda mitologica di Ganimede servì da emblema significante per la natura dell'amore tra uomini, un amore filosoficamente più elevato rispetto a quello rivolto alle donne: la vicenda dell'aquila divina si assicurò così un posto d'onore tra i riferimenti artistici al desiderio omoerotico[1].»  In una versione del mito viene rapito da Zeus in forma di aquila divina per poter servire come coppiere sull'Olimpo: la storia che lo riguarda è stata un modello per il costume sociale della pederastia greca, visto il rapporto, di natura anche erotica, istituzionalmente accettato tra un uomo adulto e un ragazzo. La forma latina del nome era Catamitus, da cui deriva il termine catamite,[2] indicante un giovane che assume il ruolo di partner sessuale passivo-ricettivo.  Genealogia                                          Modifica Figlio di Troo[3][4][5] e di Calliroe[3] (o di Acallaride[6]).  Le varianti della sua ascendenza sono molte, Marco Tullio Cicerone scrive che sia figlio di Laomedonte[7], Tzetzes che sia figlio di Ilo[8], per Clemente Alessandrino è figlio di Dardano[9] e secondo Igino suo padre fu Erittonio[10] oppure Assarco[11].  Non risulta aver avuto spose o progenie.  Mitologia             Modifica  Bassorilievo di epoca romana raffigurante l'aquila, Ganimede che indossa il suo berretto frigio e una terza figura, forse il padre in lutto Il tema mitico fondante di Ganimede è costituito dalla sua bellezza, di cui si invaghirono sia il re di CretaMinosse sia Tantalo ed Eos, come infine il re degli dei Zeus, così come si racconta nelle varie versioni della stessa leggenda.  Nell'Iliade di Omero, Diomede racconta che il Signore degli Dei, affascinato dalla sublime beltà rappresentata dal ragazzo, lo volle rapire nei pressi di Troia in Frigia, offrendo in cambio al padre una coppia di cavalli divini e un tralcio di vite d'oro[12]: il padre si consolò pensando che suo figlio era ormai divenuto immortale e sarebbe stato d'ora in avanti il coppiere degli Dei, una posizione che era considerata di gran distinzione.  Zeus per sottrarre Ganimede alla vita terrena si sarebbe camuffato da enorme aquila; sotto tale aspetto si avventò sul giovanetto mentre questi stava pascolando il suo gregge sulle pendici del monte Ida, nelle vicinanze della città iliaca, se lo portò quindi sull'Olimpo dove ne fece il suo amato. Per questo motivo nelle opere d'arte antiche Ganimede è spesso raffigurato accanto a un'aquila, abbracciato a essa, o in volo su di essa, e, in varie opere d'arte, è quindi raffigurato con la coppa in mano.  Walter Burkert ha trovato un precedente riguardante il mito di Ganimede in un sigillo in lingua accadicaraffigurante l'eroe-re Etana di Kish volare verso il cielo a cavalcioni proprio di un'aquila[13]. Da alcuni viene anche associato con la genesi della sacra bevanda inebriante dell'idromele, la cui origine tradizionale è proprio la terra di Frigia[14].  Tutti gli dei erano riempiti di gioia nel vedere il bel giovane in mezzo a loro, con l'eccezione di Era; la consorte di Zeus considerava difatti Ganimede come un rivale più che mai pericoloso nell'affetto del marito. Il padre degli Dei ha successivamente messo Ganimede nel cielo come costellazione dell'Acquariola quale è strettamente associata con quella dell'Aquila e da cui deriva il segno zodiacaledell'Acquario.   Busto di Ganimede, opera romana d'epoca imperiale (sec. II d.C.) (Parigi, Museo del Louvre) Mito iniziaticoModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Pederastia § Origini iniziatiche. La coppia Zeus-Ganimede costituisce il modello mitico del rapporto omoerotico tra maschio adulto e giovinetto, relazione colorantesi spesso di un significato iniziatico (vedi la pederastia cretese) in quanto finalizzata - anche attraverso il legame sessuale - all'inserimento del giovane nella comunità dei maschi adulti. Questi amori "paidici" di un adulto amante-erastès che rapiva simbolicamente un giovinetto passivo-eromenos potevano venir praticati attraverso schemi rituali imitanti i veri e propri rapporti matrimoniali e dove, in un luogo appartato, avveniva la sua iniziazione sessuale.[15]  Zeus e Ganimede, rappresentando la perfetta coppia di amanti maschili, sono stati come tali cantati dai poeti. Il cosiddetto "tema di Ganimede" era adottato durante il simposio a modello dell'amore efebico: se anche il Signore degli dei fu incapace di resistere alle grazie di un fanciullo, come avrebbe potuto farlo un mortale e poter rimanerne immune? Certamente nella mitologia greca si riscontra la grande voglia di Zeus nel sedurre le Dee, ninfe, ecc.; per questo a volte si considera il padre degli dei strettamente d'accordo all'eterosessualità. [16]  FilosofiaModifica Platone rappresenta l'aspetto pederastico del mito attribuendo la sua origine a Creta e ponendo, quindi, il rapimento sull'omonimo monte Ida dell'isola: la sua è una critica dell'usanza della pederastia cretese che aveva oramai perduto quasi completamente la sua funzione originaria, accusando quindi i Cretesi di essersi inventati il mito di Zeus e Ganimede per giustificare i loro comportamenti[17].  Nel dialogo platonico poi Socrate nega che il bel giovane possa mai esser stato l'amante carnale del padre degli Dei, proponendone, invece, un'interpretazione del tutto spirituale: Zeus avrebbe amato l'anima e la mente o psiche del ragazzo, non certo il suo corpo[18][19].  Il neoplatonismo ci offre una rappresentazione mistica del rapimento di Ganimede; esso sta a significare il rapimento dell'anima a Dio, e in questo senso è stato usato, anche in opere d'arte funerarie e anche durante il Neoclassicismo, sia nell'arte figurativa sia in letteratura. Si veda, per un esempio, il Ganymed di Johann Wolfgang von Goethe del 1774.   Damiano Mazza (attribuzione), Ratto di Ganimede, sec. XVI (National Gallery, Londra) PoesiaModifica In poesia Ganimede divenne un simbolo dell'attrazione e del desiderio omosessuale rivolto verso la bellezza giovanile dell'adolescenza. La leggenda fu menzionata per la prima volta da Teognide, poeta del VI secolo a.C., anche se la tradizione potrebbe essere più antica; di essa parla anche il poeta latino Publio Ovidio Nasone nella sua opera Le metamorfosi[20], poi Publio Virgilio Marone nell'Eneide all'interno del proemio, Apuleio[21] e infine anche Nonno di Panopoli nel suo poema epico intitolato Dionysiaca narrante la vita e le gesta del dio Dioniso.  Virgilio ritrae con pathos la scena del rapimento: il ragazzo che lo accompagna tenta invano di trattenerlo con i piedi sulla terra, mentre i suoi cani abbaiano inutilmente contro il cielo[22]. I cani fedeli che continuano a chiamarlo con latrati disperati anche dopo che il loro padrone è sparito nell'alto dei cieli è un motivo frequente nelle rappresentazioni visive e vi fa riferimento anche Stazio[23].  Ma egli non è sempre raffigurato come acquiescente: ne Le Argonautiche di Apollonio Rodio ad esempio Ganimede risulta essere furibondo contro Eros per averlo truffato nel gioco d'azzardo con gli astragali, Afrodite si trova così costretta a rimproverare il figlio di barare come un principiante.  Nell'opera Come vi pare di William Shakespeare il personaggio di Rosalind si traveste da uomo quando deve andare nella foresta di Arden, scegliendo il nome di Ganimede: ciò ha portato ad approfondire lo studio del rapporto che si era creato tra Rosalind e sua cugina Celia, il quale andava ben oltre la semplice amicizia, avendo dei tratti molto simili all'amore, in questo caso omosessuale.   Statuina di Zeus-Aquila e Ganimede di epoca paleocristiana AstronomiaModifica Per il rapporto esistente fra Giove e Ganimede, il maggiore satellite naturale del pianeta Giove - il pianeta più grande del sistema solare e per questo chiamato per omologia come la versione latina di Zeus, ovvero Giove - è stato battezzato appunto Ganimede da Simon Marius[24]. Gli è inoltre stato dedicato l'asteroide scoperto nel 1925, 1036 Ganymed.  Nelle artiModifica Nella scultura una delle immagini più famose di Ganimede è il gruppo scultoreo di Leocare del IV secolo a.C. (lo stesso a cui viene attribuito anche l'Apollo del Belvedere) e tanto ammirato da Plinio il Vecchio: «Leocare [ha realizzato] un'aquila che trattiene con forza Ganimede; innalza il fanciullo piantandogli gli artigli nella sua veste.» Questo particolare del rapimento tramite l'aquila è stato spesso elogiato anche in seguito. Stratone di Sardi lo evoca in uno dei suoi epigrammi, così come fa anche Marco Valerio Marziale.  La leggenda di Ganimede ha ispirato anche un gruppo in terracotta, probabilmente originario di Corinto e oggi conservato nel Museo Archeologico di Olimpia: questo è uno dei pochi esempi di grande scultura in terracotta, e una rappresentazione scultorea molto rara della coppia in cui Zeus si mantiene in forma umana.  Nella ceramica il tema di Ganimede si ripete spesso, di solito raffigurato nei crateri, quei particolari grandi vasi entro cui venivano mescolati acqua e vino durante i banchetti (o simposi) che si svolgevano solo tra uomini, in cui gli ospiti gareggiavano in immaginazione poetica e filosofica per celebrare i meriti dei loro rispettivi eromenos. Tra i più famosi è incluso il craterea figure rosse che ritrae da un lato Zeus in pieno esercizio, dall'altro Ganimede mentre sta giocando con un grande cerchio, il simbolo della sua giovinezza: il ragazzo è completamente nudo, così come vuole la tradizione antica sportiva di origine in parte pederastica (vedi nudità atletica).   Il ratto di Ganimede (circa 1650), di Eustache Le Sueur Il Rinascimento ha visto riapparire innumerevoli rappresentazioni di questo mito, con artisti quali Michelangelo Buonarroti, Benvenuto Cellini e Antonio Allegri tra tutti. In questo periodo è anche uno dei temi con più forte significato omoerotico, divenendo una sorta di icona gay ante litteram almeno fino al XIX secolo inoltrato.  Quando il pittore-architetto Baldassarre Peruzziinclude un pannello riguardante il rapimento di Ganimede in uno dei soffitti di Villa Farnesina a Roma(1509-1514 circa), i lunghi capelli biondi del ragazzo e l'aspetto effeminato contribuiscono a farlo rendere identificabile a prima vista: si lascia difatti catturare verso l'alto senza opporre la minima resistenza.  Nel Ratto di Ganimede di Antonio Allegri detto Il Correggio la sua figura e l'intera scena è più contestualizzata intimamente. La versione del Ratto di Ganimede di Pieter Paul Rubens ritrae invece un giovane uomo. Ma quando Rembrandt dipinse il suo Ratto di Ganimede per un mecenate calvinista olandese nel 1635, ecco che un'aquila scura porta in alto un bambino paffuto in stile putto, che strilla e si fa la pipì addosso per lo spavento.   Ratto di Ganimede (1700), di Anton Domenico Gabbiani Gli esempi di Ganimede nel XVIII secolo in Francia sono stati studiati da Michael Preston Worley[25]. L'immagine raffigurata era invariabilmente quella di un adolescente ingenuo accompagnato da un'aquila, mentre gli aspetti più omoerotici della leggenda sono stati raramente affrontati: in realtà, la storia è stata spesso "eterosessualizzata". Inoltre, l'interpretazione del mito data dal Neoplatonismo, così comune nel Rinascimento italiano, in cui lo stupro di Ganimede ha rappresentato la salita alla condizione di perfezione spirituale, sembrava non essere di alcun interesse per i filosofi e i mitografi dell'Illuminismo.  Jean-Baptiste Marie Pierre, Charles-Joseph Natoire, Guillaume II Coustou, Pierre Julien, Jean-Baptiste Regnault e altri hanno contribuito ad arricchire le immagini di Ganimede nell'arte francese tra fine XVIII e inizio XIX secolo.  La scultura che ritrae Ganimede e l'aquila di José Álvarez Cubero, eseguita a Parigi nel 1804, ha portato all'immediato riconoscimento dell'artista spagnolo come uno degli scultori più importanti del suo tempo[26].  L'artista danese Bertel Thorvaldsen, di gran lunga il più notevole degli scultori danesi, ha scolpito nel 1817 una scultura dedicata alla scena di Ganimede e l'aquila.   Particolare di una scultura della seconda metà del II secolo d.C., da un modello tardo ellenistico a sua volta derivato dall'ambito figurativo greco del IV secolo a.C. Conservato al Museo archeologico nazionale di Napoli. AltroModifica Nel linguaggio corrente il nome di Ganimede è passato a indicare un bellimbusto, un damerino o anche un giovane amante omosessuale.   Pittore di Berlino, Ganimede gioca con il cerchio, tenendo in mano un gallo, dono di corteggiamento di Zeus. Cratere attico a figure rosse, ca. 500-490 a.C. (Parigi, museo del Louvre).   Ganimede e Zeus, e Apollo e Ciparisso, illustrazione di due miti a carattere omosessuale per le Metamorfosi di Ovidio (Venezia, 1522)   Illustrazione gli Emblemata di Andrea Alciati del 1534. Ganimede rappresenta allegoricamente l'anima che si "rallegra" in Dio.   Raffaello da Montelupo (1505-1566), Giove bacia Ganimede (1550 ca.) (Ashmolean Museum, Oxford)   Cherubino Alberti, Copia rovesciata da originale di Polidoro da Caravaggio, Giove bacia Ganimede (sec. XVII). La borsa di denaro in mano al giovane allude alla prostituzione, in spregio al mito pagano.   Il Ganimede di Antonio Canova  "Ganimede" (1804), di José Álvarez Cubero  Ganimede abbevera l'Aquila divina (1817), di Bertel Thorvaldsen Albero genealogico                          ModificaAtlantePleioneScamandroIdeaElettraZeusTeucroDardanoBatea ErittonioIlo TrooCalliroe Euridice IloAssarco IeromneneGanimedeLaomedonte Strimo(o"Leukyppe")TemisteCapi PriamoEcubaAnchiseAfroditeLatino EttoreParideCreusaEnea Lavinia AscanioSilvio SilviusEnea Silvio Bruto di TroiaLatino Silvio Alba Atys Capys Capeto Tiberino Silvio Agrippa Romolo Silvio Aventino Proca NumitoreAmulio MarteRea Silvia ErsiliaRomoloRemo Età regia di RomaShe-wolf suckles Romulus and Remus.jpg NoteModifica ^ Paolo Zanotti Il gay, dove si raccnta come è stata inventata l'identità omosessuale Fazi editore 2005, pag. 25 ^ Secondo l'AMHER ("The American Heritage Dictionary of the English Language", 2000), catamite, p. 291. ^ a b ( EN ) Apollodoro, Biblioteca III, 12.2, su theoi.com. URL consultato l'8 giugno 2019. ^ ( EN ) Omero, Iliade XX, 213 e seguenti, su theoi.com. URL consultato l'8 giugno 2019. ^ ( EN ) Diodoro Siculo, Biblioteca Historica IV, 75.3 e 4 e 5, su theoi.com. URL consultato il 10 giugno 2019. ^ ( EN ) Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane I, 62, su penelope.uchicago.edu. URL consultato l'8 giugno 2019. ^ Marco Tullio Cicerone, Tusculanae disputationes, 1. 26 ^ Tzetzes a Licofrone 34 ^ ( EN ) Clemente Alessandrino, 22, su theoi.com. URL consultato il 3 giugno 2019. ^ Igino, Fabulae 224 ^ Igino, Fabulae 227 ^ Iliade, 5.265ff. ^ Burkert, p. 122; Burkert fa purtuttavia notare che non esiste un nesso diretto con l'iconografia. ^ Veckenstedt. ^ Guidorizzi, Il mito greco Volume primo - Gli dèi 2009, p. 835. ^ Guidorizzi, Il mito greco Volume primo - Gli dèi 2009, p. 836. ^ Platone, Leggi, 636D. ^ Platone, Fedro, 255. ^ Platone, Simposio, 8,29-3. ^ Ovidio, Metamorfosi, 10,152. ^ Apuleio, L'asino d'oro, 6,15; 6,24. ^ Publio Virgilio Marone, Eneide, V 256-7. ^ Stazio, Tebaide, 1.549. ^ Marius/Schlör, Mundus Iovialis, p. 78 f. ^ Worley, The Image of Ganymede in France, 1730-1820: The Survival of a Homoerotic Myth, in Art Bulletin, n. 76, dicembre 1994, pp. 630-643. ^ ( EN ) Hugh Chisholm (a cura di), Alvarez, Don José, in Enciclopedia Britannica, XI, Cambridge University Press, 1911. BibliografiaModifica  "Ganimede" (1874), di Gabriel Ferrier Fonti antiche Apollonio Rodio, Le Argonautiche. Apuleio, L'asino d'oro. Cicerone, De natura deorum. Diodoro Siculo, Bibliotheca historica. Euripide, Ifigenia in Tauride. Nonno di Panopoli, Dionisiache. Omero, Iliade. Omerico, Piccola Iliade. Ovidio, Le metamorfosi. Pausania, Periegesi della Grecia. Pindaro, Olimpiche, 1821. Platone, Fedro. Platone, Leggi. Platone, Simposio. Pseudo-Apollodoro, Biblioteca. Strabone, Geografia. Teognide, Frammenti. Virgilio, Eneide. AA.VV., Suda.  Christian Wilhelm Allers (1857-1915), Giove rapisce Ganimede Fonti moderne ( DE ) Edmund Veckenstedt, Ganymedes, Libau, 1881. ( EN ) James Saslow, Ganymede in the Renaissance: Homosexuality in Art and Society, New Haven (Connecticut), Yale University Press, 1986, ISBN 0-300-04199-3. ( EN ) Walter Burkert, The Orientalizing Revolution: Near Eastern Influence on Greek Culture in the Early Archaic Age, Cambridge (Massachusetts), Harvard University Press, 1992, ISBN 0-674-64364-X. Robert Graves e Elisa Morpurgo, I miti greci, Milano, Longanesi, 1995, ISBN 88-304-0923-5. Anna Maria Carassiti, Dizionario di mitologia greca e romana, Roma, Newton & Compton, 1996, ISBN 88-8183-262-3. Angela Cerinotti, Miti greci e di Roma antica, Firenze-Milano, Giunti, 2005, ISBN 88-09-04194-1. Anna Ferrari, Dizionario di mitologia, Torino, UTET, 2006, ISBN 88-02-07481-X. ( EN ) Eva C. Keuls, The Reign of the Phallus. Sexual Politics in Ancient Athens, Berkeley, University of California Press, 1985, pp. 285-287, ISBN 0-520-07929-9. ( FR ) Bernard Sergent, Homosexualité et initiation chez les peuples indo-européens, coll. « Histoire », Parigi, Payot, 1996, ISBN 2-228-89052-9. ( FR ) Véronique Gély (a cura di), Ganymède ou l'échanson. Rapt, ravissement et ivresse poétique, Presses Universitaires de Paris 10, 2008, ISBN 2-84016-010-2. Giulio Guidorizzi (a cura di), Il mito greco, 1 (Gli dèi), 2009, ISBN 978-88-04-58347-9, SBN IT\ICCU\URB\0846664.  Particolare di Zeus accanto a Ganimede (1878), di Christian Griepenkerl Voci correlateModifica Icona gay Mito di Etana Omoerotismo Pederastia Re latini Re di Troia Temi LGBT nella mitologia Altri progettiModifica Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Ganimede Collegamenti esterniModifica (EN)  The Androphile Project, The myth of Zeus and Ganymede. (EN)  Peter R. Griffith, Visual arts: Gaymede. ( DE ,  IT )  "Ganymed" (testo, in tedesco e italiano). (EN) Circa 200 immagini di Ganimede nel Warburg Institute Iconographic Database Archiviato il 4 marzo 2016 in Internet Archive.. Controllo di autoritàVIAF ( EN ) 3262256 · CERL cnp00549963 ·LCCN ( EN ) sh85053046 · GND( DE ) 118537520 · BNF ( FR ) cb11941971x(data) · WorldCat Identities ( EN ) viaf-3262256   Portale LGBT   Portale Mitologia greca Ultima modifica 22 giorni fa di Ptolemaios PAGINE CORRELATE Troo re di Troia nella mitologia greca, figlio di Erittonio  Leda personaggio della mitologia greca, figlia di Testio e moglie di Tindaro  Laomedonte re di Troia nella mitologia greca, figlio di Ilo  Wikipedia Il contenuto è disponibile. Grice: “While some Englishmen would use euphemysms when subtitling Phaedrus, “a dialogue on love and beauty”, Figliucci contradicts Diogenes for whom Phaidros is ‘peri ton erotes’ – and has it as ‘il fedro o vero dialogo del bello’ – del bello is neuter in Italian (kalon), but also masculine – hence Figliucci’s reference to Giove and Ganimede. Felice Figliucci. Figliucci. Keywords: Giove e Ganimede, il bello, bei, kalos, kaloi, kaloskagathos, kalon, eros, to kalon, to kalos, eros.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Figliucci” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51760037737/in/photolist-2mRRHVK

 

Grice e Filangieri – lo stato secondo ragione – filosofia italiana – Luigi Speranza (San Sebastiano). Filosofo. Grice: “The importance of Filangieri is in the concept of ‘ragione retorica;’ indeed, on the footsteps of Vico, Filangeri ‘posseduto della ragione,’ shows that illuminism is incompatible with the ancien regime!” Dei principi di Arianello, figlio di Cesare, principe di Arianiello, e di Marianna Montalto, figlia del duca di Fragnito, nacque in Villa Filangieri, nel Casale di San Sebastiano di Napoli. Nella medesima villa Filangeri morì Giovan Gaetano Filangieri: il nonno dell'illuminista. Da una delle famiglie più antiche della nobiltà partenopea: lo zio arcivescovo era Serafino Filangieri.  Riceve un'educazione severa che si svolse privatamente nel Palazzo Filangieri di Largo Arianello. Se ne occuparono lo zio Serafino, e soprattutto Luca. Si dedica alla filosofia. Si laurea. A seguito della carica di gentiluomo di camera presso Ferdinando IV, si dedica al progetto della riforma di giustizia e divenne ufficiale di marina.  Il suo illuminismo è considerato napoletano in quanto non assimilato dall'esterno. Si tratta di un illuminismo prodotto nella Napoli. La città partenopea si era dimostrata sì come uno dei maggiori laboratori di idee d'Italia, ma in essa allo stesso tempo esistevano sempre i privilegi feudali e il lusso sfrenato di nobiltà, mentre la massa plebea continua a vivere nell'ignoranza.  Si parla a questo proposito di "questione meridionale" in quanto vi si impediva non solo il progresso, ma si metteva in discussione anche l'esistenza di una civiltà, dato che il tessuto sociale era ridotto a brandelli. In tale contesto rappresenta la voce riformatrice, la cui efficacia e tuttavia limitata dalla precoce morte, prima delle vicende rivoluzionarie. Scrisse un saggio, “Morale de' legislatori”, nel quale dichiara di essere favorevole alla pena di morte, mettendo in discussione le tesi di Beccaria. Afferma infatti che nello “stato di natura” – non lo stato civile -- ciascuno ha il diritto di togliere la vita a tutti per proteggere la propria ingiustamente minacciata". Tali temi vengono poi ripresi e trattati ne “La scienza della legislazione”. Stampa a Napoli le riflessioni politiche su l'ultima legge del sovrano. Le riflessioni riguardano la riforma dell'amministrazione della giustizia. In particolare afferma la necessità, per il magistrato, di motivare la propria sentenza in base alla legislazione scritta nel regno, permettendo in questo modo di eliminare gli abusi e i privilegi per il  giudice.  L'Illuminismo napoletano di Filangieri emerge in particolar modo in “La Scienza della Legislazione”.  Analizza le linee sistematiche di una scienza pratica destinata a essere guida delle riforme legislative e basata sulla *felicità individuale* del cittadino come premessa *utilitaristica* allo stato buono. Filosofi come d'Alembert e Montesquieu, con il loro spirito di classici dell'Illuminismo, contribuirono a influenzare Filangieri.  Ottenuta la dispensa dal servizio di corte, si trasferì a La Cava, poco lontano da Napoli. Qui si dedica interamente alla filosofia. Arrivano le prime condanne da parte dell'Inquisizione, anche se la Chiesa romana non contesta la legittimità dei provvedimenti assunti dal governo borbonico sulla scorta delle proposte contenute in “La scienza della legislazione”. Divene capitano di fanteria. Consigliere del Supremo Consiglio delle Finanze e, preso dagli impegni politici, non riusce “La Scienza”.  Si ritira a Vico Equense. Essendo stato iniziato in massoneria in una loggia napoletana, ebbe solenni funerali massonici, ai quali parteciparono delegazioni di tutte le logge napoletane. A Filangieri e intitolato il carcere minorile di Napoli. A Milano è intitolata la piazza antistante il carcere di San Vittore. Composta da otto libri, “La Scienza della legislazione” è un'opera di alto e innovativo valore in materia di filosofia. E così apprezzata per la sobrietà della critica e per la concreta esposizione sul piano giuridico. Espose una filosofia frutto della grande cultura napoletana antecedente all'Unità d'Italia, rappresentata in particolare da Vico e  Giannone, che interpola con Montesquieu e Rousseau.  Porta alla luce le ingiustizie sociali che affliggevano Napoli, pervasa dal lusso sfrenato dei privilegi feudali di aristocrazia, sfruttatori del popolo. Al tempo stesso essa chiede alla Corona di farsi portatrice di una rivoluzione pacifica, una sorta di modello di monarchia illuminata, secondo i canoni illuministici, da conseguire attraverso una seria azione riformatrice da attuarsi sugli strumenti giuridici.  Importanti l'affermazione dell'esigenza di attuare una codificazione delle leggi e di una riforma progressiva dalla procedura penale, la necessità di operare un'equa ripartizione delle proprietà terriere e anche un miglioramento qualitativo dell'educazione pubblica oltre ad un suo rafforzamento su quella privata.    Per ciò che attiene al diritto criminale dà un'innovativa definizione di delitto. Una azione A puo essere contraria alla legge L ma non un ‘delitto’. Un agente che commette A (non delitto) non e un ‘delinquente’. Un’azione A disgiunta dalla volontà V non è imputabile dallo stato civile. La volontà V disgiunta dall'azione A non è punibile dallo stato civile. Un delitto consiste dunque in una azione che viola la legge L, accompagnata dalla *volontà* dell’agente ‘delinquente’ di violar la legge L. Tratta le principali proposte di riforma, nel campo politico-economico (abolizione del privilegio feudale, ecc.), penale, dei rapporti tra religione e legislazione, e, in modo particolare, nel campo educativo. Essa comprende il Libro I, dedicato a  “Le regole generali” della scienza legislativa, il Libro II a “Leggi politiche ed economiche”; Libro III, “Leggi criminali (procedura; delitto e  pena), Libro IV, “Leggi che riguardano l'educazione, i costumi – Kant ‘zitte’ Varrone, mos, ethos --  e l'opinione pubblica), Libro V, “Leggi che riguardano la religione”; Libro VI, “Leggi relative alla proprietà, rimase abbozzato (ne fu steso soltanto il sommario), e Libro VII, (Leggi sulla famiglia). Tra le varie tesi esposte in questo libro emerge la considerazione che ha dell'agricoltura. Sotto l'influenza di Genovesi, di Verri e dei fisiocratici, la considera un settore importante del sistema economico e propose la rimozione di ogni ostacolo giuridico, fiscale ed economico al suo sviluppo e alla libertà del commercio dei suoi prodotti, sostenendo altresì l'imposta unica sul prodotto della terra.  Il trattato fu messa all'Indice dalla Chiesa romana per le sue idee giacobine. Infatti critica l'atteggiamento di Roma, ritenendo appunto che questa pesasse sulla società e si avvalesse di privilegi. Ha messo in campo proposte (giustizia sociale e giuridica, uguaglianza, pubblica istruzione, espropriazione dei beni ecclesiastici donati dai fedeli, ecc.) miranti al progresso in senso rivoluzionario attraverso un'azione legislativa fondata sulla ragione (non la fede) e rivolta ad un altrettanto presunto sviluppo della realtà di Napoli, ma con i metodi tipicamente giacobini basato su coercizione e sentimento massonico e anti-romano.  Stampa altri due saggi, i quali ebbero grande successo, con elogi entusiastici rivolti all'autore, come quello di Franklin, il quale avviò una corrispondenza con Filangieri e lo tenne presente per la stesura della Costituzione.  Suscita interesse e discussioni anche grazie all'attenzione dedicatagli da Constant. Altre opere: “Riflessioni politiche su l'ultima legge del sovrano, che riguarda la riforma dell'amministrazione della giustizia” (Napoli); “La scienza della legislazione” (Napoli); “Il mondo nuovo e le virtù civili: l'epistolario” (Napoli. Ricca); “Discorso genealogico dei Filangieri estratto dall'istoria del feudo di Lapio” (Napoli, Bernardo Cozzolino); “San Sebastiano: un itinerario storico artistico e un ricordo” (Poseidon Editore, Napoli); “Signore di Lapio, Rogliano e Arianello, Patrizio Napoletano aggregato al Seggio di Capuana, fu decorato con diploma imperiale di Carlo VI d'Asburgo, col titolo di principe di Arianello. Vittorio Gnocchini, “L'Italia dei liberi muratori. Brevi biografie di massoni famosi” (Roma-Milano, Erasmo Editore-Mimesis); Giampiero Buonomo, Quei lumi accesi nel Mezzogiorno, in Avanti!, BECCHI, PAOLO. De Luca, S. Il Pensiero Politico di Gaetano Filangieri. Un'Analisi Critica. Il Pensiero Politico; Firenze, Seelmann, Kurt. La proporzionalità fra reato e pena. Imputazione e prevenzione nella filosofia penale dell'Illuminismo” (Società editrice il Mulino); Trampus, Antonio, Diritti e costituzione” (n.p.: Soc. Ed. Il Mulino,  Domenico Valente,"Poliorama Pittoresco", Conferenza tenuta dal comm. Giovanni Masucci al Circolo giuridico di Napoli, n.p.: Napoli, Tip. gazz. Diritto e giurisprudenza,  Gerardo Ruggiero, Un uomo, una famiglia, un amore nella Napoli del Settecento, Alfredo Guida Editore Pecora Gaetano, Il pensiero politico. Una analisi critica, Rubbettino Editore, Ferrone Vincenzo, La società giusta ed equa. Repubblicanesimo e diritti dell'uomo, Roma-Bari, Laterza, Cozzolino Bernardo, San Sebastiano: Un itinerario storico artistico e un ricordo” (Edizioni Poseidon, Napoli Giancarlo Piccolo, “Cappella Filangieri. Indagini sulla Parrocchia Immacolata e Sant'Antonio, Cercola (NA), IeS Edizioni, Cercola  F.S. Salfi, Franco Crispini, Elogio, Cosenza, Pellegrini, "Frontiera d'Europa" (Rivista storica semestrale, Esi editore Istituto Italiano per gli Studi Filosofici), intitolato “Studi filangieriani” Berti, F., Il repubblicanesimo, Pensiero politico Mongardini, C., Politica e sociologia, Giuffrè, Trampus, A. e Scola, M., Diritti e costituzione. Pensiero politico. Ascione Gina Carla e Cozzolino Bernardo, Cappella di San Vito Martire a San Domenico: Il restauro del dipinto della Madonna del Carmelo di Giovanni Antonio d’Amato, Pref. S.E. Card. Crescenzio Sepe, San Sebastiano. Filangieri Illuminismo in Italia. Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Open MLOL, Horizons Unlimited srl. Il pensiero politico di.Una analisi critica, su politica magazine.  Fu detto, e ^giustamente, che G. F.  I lerbarth è stato il creatore della Pedagogia scien-  tifica, (i) perchè alla costruzione empirica delle  teorie educative sostituisce « un sistema organi-  co di proposizioni derivanti le une dalle altre, co-  me conseguenze da verità fondamentali e come veri-  tà fondamentali da principi, laddove prima era piut-  tosto una raccolta di ammaestramenti per le di-  verse contingenze che si presentavano nella pra-  tica educativa, (juasi una raccolta di ricette pe-     li) X. ¥()RXK\ JA - La Peda^^oo^ìa secondo Herharth  r la sua scuola - liologna, 1890. Pag". 3.     lOI     dagogiche; (i) e perchè pone a fondamento del-  la nuova scienza educativa la conoscenza dell'e-  ducando e delle leggi del suo sviluppo psichico,  oftrendo, come bene scrive il Romano, (2) i ger-  mi preziosissimi e fecondi di ogni ulteriore svi-  luppo della psicologia pedagogica.   Ma non si deve dimenticare che, prima del-  l'Herbarth, il nostro Filangieri, pur non essendo  un pedagogista sistematico, né preoccupandosi,  come il primo, di organizzare un sistema scien-  tifico di Pedagogia, abbia studiato il fatto del-  l'educazione umana come acquisto lento e gra-  duato della psiche, svolgentesi e sviluppantesi  per gradi, sino alla consapevolezza e libertà del  volere.   Tanto l'Herbarth (|uanto il Filangieri parto-  no dal principio Lockiano della tabula rasa, che  con le masse apperccpicnti del primo, e la pci'-  ce^ione e la inenioria del secondo si svolge in in-  telligenza operante; e dall'amoralità del neonato,  per via dell'istruzione educativa e delle casuali  contingenze della vita, all'acquisto del carattere  morale e della felicità.   Ottimisti entrambi, come tutti i filosofi e  pedagogisti del secolo XVIII, . all'istruzione asse-     (i) L. CREUARO - A<7 Pedagogia di (r. F. Ilcrbarth  -Torino, 1909. Pag. 293.   (2) r. ROMAXO - Psicologia Pedagogica - T(^rino.   1900. Pag. xvm. ' ' .,     I02     Limano un pou^rr illimitato, essendo a l'uno e a l'al-  tro ii^note le \e\:^\J!;'i dell'eredità psicologica   Come vedremo in seguito, più d'un princi-  pio fondamentale della pedagogia Herbartiana  troveremo, in germe, in i|uella del Filangieri; e ciò  varrà anche a convincerci che le leggi del vero non  sono il prod(ìtto geniale di un solo intelletto,  ma per via di lenta elaborazione e di successi-  ve integrazioni, si vanno svolgendo e rivelando; (i)  se pure non ci farà sospettare che l'Herbarth abbia  letta anche lui, come i pedagogisti della Rivolu-  zione, la Scienza della Legislazione.   Il Filangieri non è psicologo, nel senso che i  l)roblemi della psiche lo abbiano spinto a ricer-  che, a critiche, alla formulazione di teorie pro-  jjrie; egli segue le idee sensistiche dominanti al-  lora, e diffuse in Napoli, specialmente per opera  del Genovesi, che ebbe una forte schiera di se-  guaci, tanto e maggiormente nel campo degli  studi economici, quanto in quello dei filosofici. (2)   Così il Nostro si ricongiunge al Locke, da  cui il Genovesi trasse il suo criticismo, che con-  fina spesso coU'agnosticismo; e al Rousseau che,  come tutti i pubblicisti francesi del secolo, si rifa  dal filosofo inglese.     (i) V. G. A. COLOZZA - L'immaginazione nella Scien-  za -'Yoùno, 1900. Spcc. pag. 65 e S^&g"-   (2) /'. (t. Gentile- Z>a/ Genovesi al Galliippi-y,-^.-  poli, 1903. Pag. i6     I03     L'uomo non ha idee innate, nasce nell'igno-  ranza di tutto, non é né buono né cattivo: le  circostanze fortuite, o deliberate mercè l'educa-  zione intenzionale e metodica, lo piegheranno al  bene o al male, lo renderanno colto o incapace  di guidarsi nelle vicende della vita. L'errore è  acquisito; e poiché l'infanzia é l'età della curio-  sità e della imperfezione della ragione, é ordi-  nariamente l'epoca di questo fatale acquisto. 11  Filangieri segue la teoria delle facoltà, efificace-  mente combattuta dall' Herbart, (i) e dalla psi-  cologia contemporanea, che vede in essa il mas-  simo grado d'imperfezione della scienza e il se-  polcro della ricerca. (2)   Ma, pur affermando che le facoltà di scn'irc,  di pensare, di z'olcrc, sono nell'uomo appena na-  to, non le considera <; entità reali, personifica-  zioni di tante e diverse forze a sé e trascenden-  ti, » (3) ma semplicemente attitudini, potenze  della mente, che trovano fuori dell'uomo le cau-  se del loro sviluppo. Queste cause sono le cir-  costanze nelle quali viene a trovarsi l'uomo; e  l'oggetto dell'educazione é appunto di sommini-  strare un concorso di circostanze il più atto a  sviluppare queste facoltà, secondo la destinazio-     (1) V. CREDARO - Op: cit. Pag. 46-47.   (2) G. DANDOLO - Appunti di filosofia - Messina,  1903. Voi. I. Pag. 37.   (3) COLOZZA - Op. cit. - Pag. 1 79.     — I04 —   ne dell'individuo e gl'interessi della società del-  la (juale è membro. {\)   Poiché l'anima è una talutla rasa, senza pen-  sieri e senza desiderii, come acquisterà essa le  conoscenze e perverrà agli atti volontari?   La prima operazione dell'intelletto è la per-  cezione, ossia l'impressione che si fa nell'animo  all'occasione di un oggetto che agisce sui sensi.  Come e perchè si produce questa impressione,  l'autore non dice, forse perche accoglie le idee  critiche del Genovesi, il (juale, come fa vedere  il Gentile, (2) confessava d'ignorare la natura e  l'origine della percezione e delle idee e la natu-  ra dell'anima: conoscenze inaccessibili alla capa-  cità degli uomini.   Anche il Locke aveva affermato che noi  non possiamo niente sapere di certo né sul cor-  po né sullo spirito; (3) e, riducendo alla sensa-  zione (da cui derivano le idee semplici) e alla  riflessione (idee composte) l'origine di tutte le o-  perazioni intellettuali, non indaga, neanche lui,  il come e il perchè. (4)   Per lo stesso Rousseau, benché egli abbia.     (1) FILANGIERI - A/7;r^ IV. Cap. XXIV.   (2) GENTILE - Op. cit. Pag. I - 2 - I I.   (3) LOCkE - Saggio siiirintendimcìito nmano - IV. 3,  26 e segg. Citato da G. M. Ferrari in Locke - Roma,  1906 - Pag. 69.   (4) FERRARI - LocA-c - Cit. Pag. 70 - I IO.     — I05 —   come il nostro Filang-ieri, intuizione d'una nuo-  va psicologia da porre a fondamento dell'educazio-  ne, le funzioni psicologiche, come scrive lo Stop-  poloni, (i) sono sempre quelle immaginate dagli  aristotelici medioevali, tutte belle e formate, inca-  stonate l'una dopo l'altra, l'una sopra l'altra.   Il Filangieri però riconosce che le facoltà  intellettMali, quattro, secondo lui, si annunziano  sollecitamente e contemporaneamente, e si svilup-  pano gradatamente. V Non confondiamo l'annunzio  delle facoltà intellettuali, col loro sviluppo. Il pri-  mo é sollecito e quasi contemporaneo, ma l'ul-  timo è lento e progressivo. > (2)   Ripudiate le idee innate, ammesse le facol-  tà che si svolgono gradatamente, secondo l'età  del bambino e le speciali circostanze in cui que-  sti sarà posto, deriva che l'opera educativa non  potrà che seguire il processo naturale, offrendo  a queste potenze intellettuali i mezzi per isvolger-  si e svilupparsi. Ed ecco la Psicologia in ser-  vigio della Pedagogia.   Il Filangieri ammette dunque quattro facoltà,  che si annunziano quasi contemporaneamente,  ma progressivamente si sviluppano: percezione,  memoria, immagimizione, raziocinio.   \jò. percezione è «l'impressione che si fa nel-     (i) STOPPOLONI- Rousseau -Roma, 1906 -Pag. 163.  (2) FILANGIERI - Libro IV. Gap. XXIV.     — io6 —   l'animo all'occasione di un oggetto che agisce  sui sensi. Senza di essa gli oggetti agirebbero  inutilmente sui nostri sensi, e l'anima non ne  acquisterebbe cognizione alcuna.   Per mezzo della mciuoria, le cognizioni  accjuistate per via delle percezioni, si conservano,  si riproducono, si riconoscono. Adoperata ap-  pena è annunziata sarebbe l'istesso che impedirne  lo sviluppo.   Bisogna aspettare che sia nel suo vigore  per profittarne, e nel suo vigore non é prima  che il bambino abbia nove anni, dopo che la sua  intelligenza, per via dell'istruzione fornita con le  percezioni, abbia acquistato vigore.   Si potrebbe domandare al Filangieri come  potrà essere nel suo vigore una facoltà che non  sia stata esercitata; ma ai suoi tempi erano igno-  te le leggi dello sviluppo sincrono delle attività  psichiche, che in Herbart, con la teoria della  imiltilarità dell'interesse e della concentrazione del-  ristrìLzione, trovarono il genio precursore.   Avute le immagini e le rappresentazioni de-  gli oggetti reali per mezzo deWa. />ercezione e del-  ia memoria, l'uomo le compone e le combina  per mezzo deW immaginazione (terza facoltà), la  ([uale, per isvilupparsi richiede un lungo lavoro  intellettuale percettivo e memorativo.   L'ultima a svilupparsi é la facoltà di ragio-  nare, che combina e compone, non già le idee  degli esseri reali, opera questa dell'immaginazio-     IO'     ne, ma le idee di già generalizzate, cioè quelle  delle qualità, delle proprietà, dei rapporti di esseri  che non hanno cosa alcuna di reale, e non sono  altro che nostri modi di vedere e di pensare, e  pure astrazioni.   La divisione Lockiana in idee semplici, pro-  dotte dalle sensazioni, e in complesse, prodotte  dalla riflessione, è in Filangieri ancora più com-  plessa. Tutte le idee semplici sono anche astrat-  te; ma alcune si acquistano immediatamente, per  mezzo dei sensi (colore, freddo, caldo) e sono  quindi idee astratte e semplici ma dirette; altre  non riconoscono nei sensi la loro remota origi-  ne, e si formano per successive e combinate o-  perazioni dell'intelletto (idea dell'esistenza, del-  l'essere) e sono astratte e semplici ma indirette.  Altre idee, in line, hanno, come le seconde, la  loro remota origine dai sensi, si formano per  combinate e successive operazioni dell'intelletto,  ma si rendono quindi di nuovo sensibili coi mez-  zi immaginati dall'uomo. Tali, per esempio, in  geometria le idee di linea retta, di superhcie  piana, che costituiscono una terza specie di idee:  le astratte e semplici ma indirette e figurate.  Queste tre specie di idee semplici si acquistano:  le prime, coU'associare la parola che esprime  l'idea (es. rosso) con la sensazione del colore; le  seconde, con operazioni successive dell'intelletto  di astrazioni e di sintesi; le terze, col primo  procedimento e col secondo.     iO(S     Altre idee sono composte, (costituite da idee  semplici) (juali: corpo, sostanza, albero, animale,  ecc., che hanno subita una considerevole progres-  sione di operazioni intellettuali.   Il Filan^-ieri offre un saggio del procedimento  mentale per l'actiuisto dell'idea astratta di ciuer-  cia, albero, vegetale, corpo, sostanza, che è una  bellissima pagina di psicologia, giudicata dal Ni-  sio il più bel tratto che abbiamo nella letteratu-  ra filosofica, (i)   Stabilito che le facoltà intellettuali si svilup-  pano progressivamente, consegue che il savio e-  ducatore debba saper con quali esercizi comin-  ciare e dove pervenire; e il periodo educativo  sappia dividere in tanti gradi, quanti sono quel-  li dello sviluppo intellettuale.   Così, nella prima età, quando padroneggia-  no le sensazioni che ci ventrono dal mondo e-  sterno, devesi secondare tale disposizione natura-  le, offrendo per pascolo all'intelligenza materie  di studio che trovino nella percezione sensibile  il loro fondamento. Tali sono, oltre della lettura,  della scrittura, dall'aritmetica, l'osservazione sul-  le produzioni e sui fenomeni della natura, il di-  segno e l'esercizio diretto dei sensi.   L'uso della seconda facoltà, la nienioria, é as-     (i) Filangieri- Libro IV. Cap. XXV; cirt. VII;  Kisio - Op. cit. - Pag. 3 1 5.     — I09 —   segnato al quinto anno d'istruzioni. Di questa  facoltà non bisogna abusare, (i) perchè é un  pregiudizio considerare la memoria una macchi-  na « le ruote della quale diventano altrettanto  più facili, quanto più sono state usate e le di  cui molle acquistano maggior vigore, a misura  che vengono con maggior forza e con minore  intermissione compresse; > (2) ed é assurdo il  metodo <v che imprime nella memoria vocaboli  e nomi invece d'idee, che riduce il sapere dei fan-  ciulli ad efimeri sforzi, che produce l'abito di  apprendere e d'obliare colla stessa celerità, e che  favorisce tanto la vanità dei fanciulli. »   Per conservare ed aumentare il vig-ore di  questa facoltà é necessario non impegnare la me-  moria in sforzi inutili; facilitare il lerame fra le  idee, in maniera che la riproduzione d'una, ri-  svegli immediatamente l'altra (3); rinfrescare soven-  te le tracce delle idee. (4)   In questo secondo periodo di sviluppo in-     (i) Cfr. Credaro - (9/. r//. -Pag. 109.   (2) Filangieri - Libro IV. Gap. XXV.   (3) ^f^- HERBART, che per via AqXY appercezione,  vuole che ogni nuova serie di cognizioni trovi nell'in-  terno del fanciullo una serie vecchia appercepiente,  ossia che il nuovo s'innesti organicamente sul vecchio,  e che Y appercezione segua con facilità e piacere e sod-  disfi un bisogno interiore fortemente sentito (credaro-  Op. cit. - Pag. 108 - 109.)   (4) C/r. DE BOMINICIS - Lince di Pedagogia, cit.  Pag. 133. Parte prima^     I IO     tellettuale, che dura tre anni, vanno continuati  ;^li esercizi di osservazione dei prodotti e dei  fenomeni naturali; il disegno, esteso allo studio  della i^eoo^ratìa, cominciato lo studio della sto-  ria e della lingua latina.   All'ottavo anno d'istruzione e tredicesimo  d'età, il bambino ha acquistato quel grado di  sviluppo e quella quantità necessaria di cogni-  zioni atte a fornirgli l'elemento per l'esercizio  della terza facoltà, r immaginazione, che si edu-  cherà senza precetti e regole, e solo che il vero,  il bello, il grande, il sublime sia nello spirito  del fanciullo, nei suoi occhi, nelle sue orecchie  e nella sua memoria, (i)   Dopo un anno, il Filangieri avvia l'alunno  x\q\V ai'ic di ragionare, coltivando la corrisponden-  te quarta facoltà, ed avviandolo allo studio della  geometria, dell'aritmetica e dell'algebra, della  grammatica e della legislazione, che apprestano  ampio materiale per l'esercizio e lo sviluppo del  raziocinio.   Questi principii di psicologia pedagogica il  nostro Autore applica quindi nell'educazione spe-  ciale di avviamento alle varie professioni, con la  certezza che, con tale sistema, gli allievi « non     (i) FILANGIERI - A/<^/-^ //', Cap. XXV.- l'. il bel  lavoro del COLOZZA.- L'Immaginazione nella Scienza -  cit; concordante in parecchi punti con le idee del  nostro Autore.     1 1 1     si lasceranno imporre dagli immensi volumi che  si sono scritti sopra ciascheduna scienza, ricono-  sceranno il vero stato dei progressi che in essa  si son fatti, (i) e invece di cominciare da dove  han cominciato i loro predecessori, essi comin-  ceranno da dove quelli han fmito, seguendo nel-  l'ordine progressivo delle istituzioni il disegno  indicato dalla natura nel progressivo sviluppo  delle facoltà intellettuali.   Il sistema proposto non regge certo alla  critica della psicologia contemporanea, né ai po-  stulati più accettati della pedagogia scientifica,  specialmente quando, oltre allo stabilire delle>-  coltà preesistenti all'attività psichica, artihziosa-  mente, seguendo l'indirizzo allora comune e dif-  fuso, conseguenza necessaria, come bene afferma  il De Dominicis, della teoria delle facoltà, asse-  o-na date età, con nette demarcazioni, per il lo-  ro sviluppo e la loro educazione. Nell'istesso er-  rore era caduto il Rousseau.   Oggi si farebbe compiangere il pedagogista  che vofesse scindere così l'unità della psiche, e che  credesse incapaci i bambini di ragionamenti e di  astrazioni, prima che fossero passati attraverso  all'educazione speciale della percezione e della  memoria; poiché, come scrive l' Angiulli, una del-     (lUl Filangieri vuole pervenire 2\X autonomia men-  tale, che dev'essere il fine ultimo di ogni educazione  intellettuale.     I I 2     le conquiste più importanti dei moderni studi  psicologici consiste nella scoperta dell'unità di  composizione della mente. Le operazioni più al-  te dell'analisi e della sintesi, della astrazione,  del raziocinio, ci chiariscon modi difìerenti e più  complessi di ([uel processo della discriminazione  e dell'assimilazione che si rivela anche nella for-  ma più bassa dell'esperienza e della sensazione :>(i)   Anche tra gli Herbartiani, il Lindner (2)  distingue tre gradi o periodi di sviluppo intellet-  tivo, che sono: i quello à^VC accoglimento (pcì'cc-  zione)- periodo dell'infanzia, periodo dell'impara-  re; 2 (juello del raccogliere ed ordinare - perio-  do dell'adoloscenza- periodo dell'imparare; 3 quel-  lo déW elaborazione (apercctio)i) - periodo della gio-  ventù - periodo della formazione dei pensieri.   Anche la Pedagogia scientifica ammette dif-  ferenze relative alle diverse età del discente; ep-  però vuole che i gradi dello sviluppo psichico si  corrispondano con quelli dello sviluppo fisiologi-  co, e distingue l'infanzia dall'adolescenza; e que-  ste, dalla gioventù e dalla maturità: periodo in     (i) AXGIULLI - La Filosofia e la Scuola - Nap>oli,  1888. Pag. 180. V. ORESTANO - An^irùilli - Roma,  1907. Pag. 60 - 74; COLOZZA - Ani^iiiìli - Diz. di Pe-  dag. cit; DE DOMlNiCIS, che in - IJnce di Pedagogia.  cit. Pag. 180 - I, formula la legge della simultaneità  della cultura psichica.   {2) FORNELLI- La Pedagogia secondo Herbart, ecc.  cit. Pag. 16.     I I     cui sensazioni e percezioni sono prevalenti, l'im-  pulsività vince il potere d'inibizione; e periodo  dell'attività memorativa e immaginativa, dei sen-  timenti sociali ed estetici, e via; e appresta va-  ria coltura, tendente a rispettare la legge del  tempo educativo, così formulata dal De Dominicis.(i)  Però, mentre il sistema del Filangieri e del-  la vecchia Pedagogia empirica delle facoltà si e-  saurisce in una serie di educazioni parziali, quel-  lo dei pedagogisti contemporanei, pur riconoscen-  do delle prevalen^-e nei gradi dello sviluppo, non  circoscrive l'azione educativa, ora alla sola perce-  zione, o alla sola memoria, o alla sola immagi-  nazione; ma, accettando il principio Herbartiano  della tmUtilarità deir interesse, anche nella più ele-  mentare lezione cerca di sviluppare, tanto l'attività  percettiva, quanto l'appercettiva, e pervenire,  dalle più semplici impressioni , al sentimento  estetico e morale. (2)   2 — Come si è più volte accennato, il  Filangieri, tanto nell'esplicazione del suo si-     (i) DE DOMINICIS - IJ)iee di Pedagogia - cit. Par-  te I. Pag. 177 e segg.   (2) Per gli stadi dello sviluppo intellettuale del  bambino, V. CESCA - Principii di Pedagogia Generale -  cit. Pag. 74-79; DE DOMINICIS - Zz;ì(?(? di Pedagogia -  cit. Pag. 117 e seg. - Antropologia Pedagogica - cit;  VY.^y:l -\.2l Psycologie de t'en/a?ii -Paris, 1882-86; SULLY  - Etudes sur Venfance -Vtxx'x's,, igoo; T\\\£X - Psicologia  deir infanzia - Trad. it. Messina, 1903.     — 114 —   stema sociologico e giuridico, (juanto in quello  educativo, è ottimista; e assegna all'educazione  un potere illimitato, sia perchè parte dal princi-  pio della bontà originaria della natura umana,  come dalla convinzione che la buona educazione  e i buoni costumi tutto possano. È ottimista, co-  me lo erano stati Leibniz e Locke, Rousseau e  Pestalozzi, e quasi tutti i grandi filosofi antichi e  moderni, (i)   Per far vedere i prodigi dell'educazione, il  Filangieri ricorda i Greci e i Romani, che egli però  non intende imitare quando non rispettano le  leggi di natura.   « Se il fiero Licurgo, col soccorso dell'edu-  cazione, potè formare un popolo di guerrieri  fanatici, insuperabili nella destrezza, nella forza  e nel coraggio, per qual motivo un legislatore  più uma.no e più saggio, non potrebbe egli for-  mare un popolo di cittadini guerrieri, virtuosi e ra-  gionevoli? » (2)   L'istruzione diminuisce i tristi effetti della  corruzione e si oppone ai progressi del dispoti-  smo e della tirannide: ecco il principio direttivo  del Filangieri; ed ecco l'aiuto che l'educazione  porge alle altre parti della legislazione, perchè si     (i) V. DE DOSnKlClS - Soc/o/ogi a Pedagogica - cit.  Pag. 1,59- 172/ C¥.^CK - Aniinowic psicologiche e socia-  li delV Educazione -W.Q^s\wai, igoò. Pag. 1-37.   (2) FILANGIERI - Z.//^;-^ IV Cap. I.     1 i.S     raggiunga il fine supremo di essa: la felicità, col  benessere di tutti e la libertà.   E come la mano dell'uomo ha soggiogato la  natura, creando anche nuove specie di vegetali e  di animali, cosi può trasformare, mercè l'educa-  zione, anche il mondo morale; e, dirigendo il  corso dello spirito umano, distraendolo dalle  vane speculazioni, richiamandolo agli oggetti che  interessano la prosperità dei popoli, perpetuare  il benessere e la virtiì.   Dalla suprema importanza del problema  educativo, deriva la necessità che lo Stato, co-  me nel campo degli interessi economici e giuri-  dici esercita il proprio potere, dirigendo ed  integrando l'azione dei singoli, così in quello edu-  cativo, che offre maggiori difficoltà, si sostituisca  senz'altro all'opera della famiglia, per più rispet-  ti disadatta ad apprestare le occasioni utili e  necessarie per la formazione del cittadino ope-  roso e morale.   La teoria socialista del Filangieri si oppone  recisamente alla individualista del Rousseau, e in  parte, dell' Herbart, il quale però, come bene fan-  no notare il Credaro, il Fornelli e l'istesso Ora-  no, (i) tende al fine etico- sociale, apprestando  una somma di cognizioni che diventano attività     (l) CREDARO- Op. cit. - Pag. 69-277; FORNELLI Op.  d'i. 6-13; ORANO - Herbarl -l^oxn-A., IQ06, Pag. 46 - 48.  62, 120 e seg.     - - 1 1 f) —   operanti e concorrenti al benessere della col-  lettività.   Il socialismo del Filangieri e l'individualismo  dell' Herbart, (che è tutt'altra cosa di quello del  Locke e del Rousseau, tendenti a formare, il  primo il gcntilnovio; l'altro, riiovid) divergenti  nei mezzi, si congiungono nel fine, che è di for-  mare l'uomo socievole morale, (i)   Partendo il Rousseau dal principio: tutto  ciò che è in natura é buono e diventa cattivo nel  le mani dell'uomo, perviene alla negazione di  qualsiasi azione positiva dell'educatore sull'edu-  cando, cosi che il suo é piuttosto nichilismo peda-  gogico, che individualismo: né famiglia, né socie-  tà debbono intervenire nell'educazione umana; se  mai l'educatore, anzi il pedagogo, nel significato  greco, non deve che seguire, vigilare attivamente,  mai sostituirsi all'opera educatrice, progressiva  della natura, al lavoro spontaneo dei germi in-  tellettuali e morali latenti nella personalità del-  l'educando.   L' Herbart ammette l'opera dell'uomo sull'uo-  mo; e della scuola, per assoluta necessità, essendo  impossibile assegnare un maestro per ogni edu-  cando; ma, potendosi per la prima educazio-  ne farne a meno, la famiglia lo sostituisce;     (i) Sulle questioni dell'indirizzo individualista e  socialista in Educazione V. CESCA -Antinomie, ecc. - cit.  Pag. 11 -71; STRATICÒ - Pedagogia socia/e - Pag. 63 - 95.     — 117 —   e crede nulla l'ingerenza dello vStato nella pub-  blica educazione, perchè esso « non si prende  cura della massa dei cittadini, che svolgono la  loro esistenza senza compiere alcuna importante  e pubblica funzione. Esso bisogna di soldati, a-  gricoltori, operai, impiegati, professionisti, eccle-  siastici. Allo Stato importa ciò che fanno tutti  costoro, ma non ciò che sono, (i) Esso non ha  modo di conoscere né di migliorare l'intimo del-  l'animo. (2)   Cosi l'Herbert sconosce, ne prevede quale  alta funzione educativa lo Stato potrà e dovrà,  direttamente e indirettamente esercitare (3); e  stabilendo un'opposizione tra l'opera dello Stato  e quella della famiglia, che mal risponde alla  realtà delle cose, sconfessa quasi, come scrive il  Credaro, l'alto concetto che informa tutta la sua  pedagogia.   Il Filangieri copre le lacune, completa le  deticienze del Rousseau e dell'Herbart, con una  visione precisa delle esigenze della personalità  dell'alunno, dei diritti e dei doveri della famio-Ha  e dello Stato, dell'efìficacia e della necessità del-     (i) É facile l'obiezione: Se allo Stato importa  ciò che fanno i cittadini, deve parimenti, anzi primie-  ramente importargli ciò che sono, poiché l'uomo agi-  sce, opera secondo che è.   (2) CREDARO - Op. cit. - Pag. 264   (3) STRATICÙ Pedagogia sociale. OV. -Pag. 161 - 235.     1 i<S     l'educazione sociale.   <•. Per formare un uomo io preferisco la do-  mestica educazione; per formare un popolo io  preferisco la pubblica. L'allievo del magistrato  e della legge non sarà mai un lunilio; ma sen-  za l'educazione del magistrato e della legge, vi  sarà forse un Emilio, ma non vi saranno citta-  dini. -- (i)   E poiché il nostro Autore si propone di  formare individui sociidi, cittadini operanti per  il proprio benessere e per quello della collettivi-  tà, educazione famigliare e sociale s'integrano e  si armonizzano ed operano di conserva per la.  conformazione psichica e morale del bambino,,  sino alla piena consapevolezza degli atti ed al-  l'autonomia.   Vero è che allo Stato il Filangieri assegna  un'azione di gran lunga superiore a quella delia-  famiglia; ma bisogna esaminare la questione sen-  za preconcetti sentimentali o politici per convin-  cersi che, dove le famiglie, come purtroppo ai  nostri giorni, e più ai tempi dell'Autore, sono  in gran parte, anzi nella (juasi totalità, incapaci  ad apprestare ai piccoli una conveniente educa-  zione, è necessario che la scuola, organo dello  Stato, si sostituisca a quelle, per la conservazio-  ne del patrimonio di coltura tramandatoci dalle     (i) FILANGIERI- Libro IV Caf). II.     — 119 —   generazioni passate, per la diffusione della mo-  ralità e per la difesa contro i nemici interni ed  esterni.   L'Autore enumera i motivi che lo determi-  nano per l'educazione pubblica, fra cui l'ignoran-  za e la miseria del popolo, la perdita dei paren-  ti e l'abbandono dei genitori negli orfani e negli  esposti, la mancanza di tempo, le dissipazioni e  i piaceri negl'industriali e nei ricchi, i pregiudi-  zi e gli errori diffusi; l'effetto dell'amor male in-  teso e della debolezza così frequente nei genito-  ri; la cura eccessiva della conservazione fisica,  che produce pusillanimità e debolezza d'animo  e che distrugge la confidenza nelle proprie for-  ze; e sopra tutto la corruzione dei costumi in  tutte le classi sociali.   Anche l'Herbart, pur essendo fautore del-  l'educazione famigliare, riconosce che « in pra-  tica le condizioni della massima parte delle fa-  miglie sono tutt'altro che propizie per l'esecu-  zione del programma educativo » e riconosce  pure che la spinta dell'emulazione si trova nelle  scuole pubbliche; ma crede che le nature gagliar-  de non abbiano bisogno dell'impulso dell'emula-  zione; e per esse, in difetto dell'educazione fa-  migliare, consiglia gl'istituti privati, dove l'istru-  zione può svolgersi rapidamente e meglio adat-  tarsi all'individualità dell'alunno, (i)     (l) CREDARO- Op. cit. Pag. 265     I 2     Si potrebbe domandare all'I lerbart quali e  (juante sono le nature gagliarde, che non abbia-  no bisogno della spinta dell'emulazione; e se non  sia in vece nel vero il Filangieri, il quale é con-  vinto che l'educazione sia quasi interamente fon-  data sull'imitazione.   Tra i vantaggi dell'educazione pubblica, il  Filangieri dà grandissima importanza al fatto che,  solo per mezzo di essa può formarsi il carattere  nazionale, appunto per effetto dell'imitazione, (i)   I fattori dell'educazione sono la natura, Var-  ie, le circostanze . Così il nostro pedagogista mo-  stra di avere una visione precisa della natura del  fatto educativo, che involge tre fondamentali  (questioni: eredità psico-fìsica, azione dell'ambien-  te sociale, azione deliberata del docente sul di-  scente. Lo stesso triplice fattore nel processo e-  ducativo rileva il De Dominicis: (i) <; E indu-     (i) Cfr. THOMAS -(9/. «V. - Pag. 33 « Nella ma-  niera di parlare, di camminare, di ragionare, proprio  di ognuno di noi, facilmente si ritroverebbe tracce delle  influenze che abbiamo subite, perchè insensibilmen-  te ci modelliamo su quelli che ci circondano, come in-  sensibilmente essi si modellano su noi. In tal modo si  spiega in parte quel che si é giustamente chiamato carat-  tere ìiazioìiate, le somiglianze generali cioè che esistono  fra i cittadini di uno stesso Stato, come le rassomiglian-  ze che esistono fra gli uomini di una stessa epoca e  d'una medesima civiltà » V. anche: LEVY - Op. cit.  Pag. 66 - 80. Per V educazione nazionate: FORNELLI - E-  ducazione Moderna - Napoli, 1905. Pa^. 319 - 327.   ( I ) DE DOMINICIS - Sociotogia Ped. cìt. Pag. 1336 seg.     I 21     bitato quindi nel processo educativo umano un  triplice fattore: il fattore fisiologico o dell'eredi-  tà dello sviluppo organico e dell'azione estrinse-  ca della natura fisica; il fattore sociologico e sto-  rico, o dell'azione dell'ambiente sociale e delle  sue varie forme; il fattore dell'azione diretta, de-  liberata, voluta della g-enerazione adulta sulla  generazione adolescente »   Il Filangieri non ci ha lasciato una sua de-  finizione dell'educazione, considerata in senso  largo; ma da quello che s'è detto si comprende  com'egli, prima d'ogni altro pedagogista anterio-  re a lui e dei posteriori, fino al De Dominicis e  al Cesca, (i) che presentano definizioni eccellen-     ( I ) DE DOMINICIS - O/». cit. Pag. 154; «L'Educa-  zione é fatto universale di necessiiria e naturale soli-  darietà tra esseri formati ed esseri in formazione, per  cui l'uomo sul fondamento della sua spontaneità e  dei suoi bisogni, nel periodo di suo sviluppo, perfe-  ziona se stesso secondo l'azione dell'ambiente fisico  sociale e l'azione diretta e deliberata degli adulti, in  ordine al fine individuale e collettivo della lotta per  l'esistenza, alle idealità d'un popolo e della specie  umana e alla propria personalità e vocazione. » CESCA  - Principii di Pedagogia Generale - cit. Pag. 26; «L'e-  ducazione è l'insieme delle azioni che si esercitano su  un individuo ancora immaturo per affrettare e miglio-  rare il suo sviluppo organico e psichico e per render-  lo meglio atto a vivere nell'ambiente fisico in cui si  trova e della società di cui fa parte. » Chi abbia va-  ghezza di conoscer le varie definizioni A>è\V Educazione ,  date dai più noti filosofi e pedagogisti antichi e mo-  derni, veda: G. TAURO - Introduzione alla Pédagogia Ge-  nerale - ^oma., igo6. Pag. 226-235.     I 22     ti, si sia di più avvicinato al più completo con-  cetto del fatto dell'educazione; e più chiaramen-  te manifesta il suo acume quando determina che  « l'oggetto dell'educazione morale è di sommi-  nistrare un concorso di circostanze il più atto a  sviluppare le facoltà di sentire, di pensare, di vo-  lere, a seconda della destinazione dell'individuo  e degl'interessi della società. :> (i)   Confrontando questa definizione con quelle  del De Dominicis e del Cesca, si osservano delle  somiglianze, specialmente per ciò che si rife-  risce alla coordinazione dei mezzi tendenti a  integrare le esigenze individuali con le sociali.   Bisogna anche considerare che la definizio-  ne del Filangieri si riferisce alla sola Educazio-  ne inorale, e perciò trascura gli elementi tenden-  ti a porre in luce altri fattori, che l'Autore va  rivelando quando si occupa particolarmente di  istruzione, educazione fisica, ecc.   E importante notare che il Filangieri, anche  per l'educazione morale, vuole lo sviluppo della  facoltà di sentire, di pensare, cioè Xistritzione,  propriamente detta, che per ciò è istruzione edu-  cativa; cosa che, per altro, egli fa vedere in tut-  ta l'opera, e specialmente dove si occupa dell'i-  struzione pubblica.   Egli é il primo a porre in rilievo Xeduca-     (i) Filangieri - Libro IV. Cap. X.     — 123 —   zione delle circostanze; (i) e afferma giustamente  che un sol uomo malvagio e stupido, a contatto  col fanciullo, può distruggere il lavoro di più an-  ni; e vuole che egli viva in un ambiente di at-  tività e di moralità, qual'è la casa à^\ custode.   Il Filangieri divide l'educazione in fisica,  morale, scientifica (intellettuale): tripartizione re-  spinta dagli Herbartiani, i quali escludono dal cam-  po educativo le leggi dello sviluppo fisico, che  assegnano alla Medicina e all'Igiene; (2) ma ge-  neralmente adottata, se non per significare tre  ordini di fatti irriducibili, che l'unità psicofisica  è ormai dimostrata ed accettata dalla Pedagogia  positiva, (3) per comodità di trattazione, e per  porre in rilievo i tre aspetti o momenti del fatto  educativo, inteso nella sua più larga significa-  zione.   L'una di queste tre educazioni deve preva-  lere sull'altra, secondo la destinazione sociale del  bambino; perchè, mentre per la classe degli ar-  tigiani dev'esser prevalente l'educazione fisica,  come quella che pone l'operaio in condizione di  affrontare le fatiche e i disagi del lavoro mate-  riale, per la classe dei cittadini che saranno av-     (i) V. CESCA- Op. cit. Pag. 56-58.   (2) V. CREDARO - op. cit. Pag. 197 - 8; CESCA- Op.  Ht. - Gap. I - II; BAIN - La Scienza de//' Educazione - To-  rino igog. Cap. IL   ,(2) F. MARTIXAZZOLI - Educazione - in Dizionario  di Pedagogia Martinazzo/i e Credaro - Cit.     — 124 —   viati alle professioni, sarà mai^o-iormente curata  l'educazione scientilica; e parimenti sarà appre-  stata una speciale educazione morale, giustificata  dall'ambiente sociale in cui gli educandi verran-  no a trovarsi.   E, a mio avviso, se è vero che l'uomo è  e fa, in massima parte, ciò che le persone con  cui si trova più spesso a contatto, le proprie oc-  cupazioni, le impressioni della fanciullezza rela-  tive all'ambiente famigliare, lo fanno essere e  gli fanno fare, l'educazione uniforme, date le at-  tuali differenze sociali, intellettuali, morali, non  è soltanto un'utopia, ma anche un principio non  rispondente alle leggi di evoluzione. Per perve-  nire all'uguaglianza ideale degli uomini, dato che  ciò possa costituire un bene, é necessario par-  tire dalle disuguaglianze attuali, e adattare istitu-  zioni legislative, economiche, educative ai vari  gruppi o classi che costituiscono gli strati socia-  li. Considerare il figlio del contadino, dell'ope-  raio, del minatore, suscettibile della stessa edu-  cazione da apprestare al bambino ricco e, in ge-  nerale, più sviluppato fisicamente, intellettualmen-  te, moralmente, (i) è un'illusione, retaggio d'un  falso concetto di democrazia.   La pedagogia scientifica, come rispetta l'in-     (i) y. A. 'ìilCEFO'RO - Afdropologia delie c/assi pove-  re - Milano. Spec. pag. 57 - 119; M. MONTESSORI - A)i~  tropologia Pedagogica - Milano.     12=;     dividualità del bambino, tende alla divisione del-  le scolaresche in gruppi, che presentano varia-  zioni fisiopsichiche e morali, (i) in armonia coi  principii della psicologia collettiva. Come bene  scrive il Ferri: « Ogni maestro che abbia  qualche attitudine all' osservazione psicologica,  distingue sempre in tre categorie la sua scola-  resca. Quella dei discepoli volenterosi e diligen-  ti, che lavorano per propria iniziativa e senza  bisogno di rigori disciplinari; quella dei disco-  li ignoranti e svogliati (nevrastenici o degenera-  ti) dai quali né la dolcezza né i castighi possono  ottenere qualche cosa di buono; quella infine dì  coloro, che non sono né troppo volenterosi, né del  tutto discoli, e pei quali può riuscire veramente effi-  cace una disciplina fondata sulle leggi psicologi-  che. Così avviene delle soldatesche, così dei pri-  gionieri, così di ogni associazione d'uomini e co-  sì anche dell'intera società. I gruppi d'individui,  stretti da relazioni costanti, che ne fanno altret-  tanti organismi parziali nell'organismo collettivo  della società, riproducono in questo la società  stessa, come un frammento di cristallo riprodu-  ce i caratteri mineralogici del cristallo intero. »  Ed in Nota : <; Vi é tuttavia qualche differen-  za nelle manifestazioni dell'attività di un gruppo  di uomini e di tutta una società. Per questo io     (i) V. VSyìslK^O - Psicologìa Podagogica - cit. pag.  ^43 - 285: MONTESSORI- Antropologia Pedagogica - cit.     12 6   credo che tra la psicologia, che studia l'indivi-  duo, e la sociologia, che studia una società in-  tera, vi debba essere un anello di congiunzione  in ciò che si potrebbe chìamdLve psi'co/oo-m collet-  tiva. I fenomeni propri di certi aggruppamenti  d'individui, sono regolati da leggi analoghe, ma  non identiche a quelle della sociologia, e varia-  no a seconda che i gruppi stessi sono una riu-  nione accidentale o permanente d'individui. Co-  sì la psicologia collettiva ha il suo campo d'os-  servazione in tutte le riunioni di uomini, più o  meno avventizie: le vie pubbliche, i mercati, le  borse, gli opifici, i teatri, i comizi, le assemblee,  i collegi, le scuole, le caserme, le prigioni, ecc. (i)  La tesi del Filangieri si riassume dunque  in questo concetto: educazione universale, ma  non uniforme; pubblica, ma non comune. Egli fon-  da questo principio sulla divisione dei cittadini in  due grandi classi: in quella di coloro che servono o  potrebbero servire la società colle loro braccia, ed  in ([uella di coloro che la servono o potrebbero ser-  virla con l'intelletto; a ciascuna di esse intende for-  nire una speciale educazione. Il nostro Autore     (i) FERRI- Op. cit.-Fcig. 374. Il Ferri espresse  questo concetto geniale nella prima edizione (1881)  della sua forte opera. - Soa'o/o£-ia Cri»! ifia/e - Quindi se-  guirono gli studi speciali pregevolissimi di:SlGHELE-  Lm. folla delinquente -boxino, 1895: LE BON - Z,a Psyco-  logie des foules - Paris, 1895; ROSSI - L'animo della folla  -Cosenza, 1898; 'àTlWTlCÒ - Psicologia Collettiva, -Paler-  mo, 1905.     127 —   non propone la ferrea distinzione delle classi in-  diane; ma una pratica, utile, necessaria distinzio-  ne educativa, che avvii, senza perturbamenti e  spostamenti, allo sviluppo graduale ed armonico,  fisico, intellettuale e morale, delle varie classi di  cittadini che speciali circostanze e attitudini de-  terminano a seguire una via piuttosto che un'al-  tra. Il Filangieri parte poi dal concetto, forse  non errato, che il figlio del contadino, il quale  abbandona la zappa per correre alle Università  o alle Accademie, priva la classe produttiva d'un  individuo, per aggiungerlo alla classe sterile, la  quale è utile sia meno numerosa che sia pos-  sibile. Lo Stato perde un colono per acquistare  per lo più un infelice architetto, un pessimo pit^  tore o un semidotto, (i)   3 — La preparazione del cittadino, sia che  debba attendere a un mestiere o a professione libe-  rale, è opera dello Stato, per le ragioni già esposte.  (2) A tal fine in ogni provincia è un magistrato     (i) FILANGIERI - Libro IV Gap. XVII.   (2) Su l'ingerenza dello Stato in materia di pub-  blica istruzione, vedi l'importante volume di G. M. de  FRANCESCO - Rapporti tra to Stato, Comune ed altri enti  locali in materia di Pubblica Istruzione - Athenaeum. Ro-  ma MCMXII. Spec. Gap. I: « Posto, tra i fini dello  Stato, quello dell'istruzione, si presenta logicamente  il problema se, per il raggiungimento di tale fine, sia  necessaria l'azione della pubblica amministrazione, in-  tesa come una forma di attività statuale, e precisamen-     -- 128 —   supremo, rappresentante del governo, incaricato  della pubblica educazione, e in ogni comune 7ìia-  j^i^i>-atì iìifcìiori e custodi.   Poiché sarebbe impossibile fondare tanti  colles^i quanti fossero necessari per contenere  tutti i fanciulli della prima classe, dai cinque ai  diciotto anni, l'Autore vuole solo per i fanciulli  della seconda classe, gli agiati (plebei o nobili  non importa, anzi tanto meglio per l'educazione  sociale) la fondazione di collegi; e aftìda i bam-  bini poveri, a gruppi di quindici o meno, ai ai-  stodi, scelti dal magistrato comunale fra gli ar-  tigiani più probi e virtuosi del Comune, i qua-  li vengono istruiti e vigilati dal magistrato co-  munale. Ciascun custode veglia sui fanciulli a  lui affidati, li dirige, li nutrisce, li veste, secon-  do le istruzioni del magistrato comunale; li ac-  compagna alla scuola, che dura due ore e mez-  zo, e li tiene quindi con se per avviarli nell'ap-  j)rendimento del suo mestiere.   Il piano di educazione generale, riguardan-     te come quell'attività concreta e pratica, con cui lo  Stato, nei limiti del diritto obbiettivo, persegue i pro-  pri scopi: problema che lo Stato moderno ha risoluto  nel senso affermativo non solo, ma anche in modo  cosi ampio, così comprensivo ed efficace, e, sopratut-  to così uniforme « da fiir arguire l'esistenza di una  legge storica, che ottiene nel secolo nostro il suo  esplicamento » Lo Stato i)uò dirsi oggi, presso tutte  le nazioni civili, il più grande e poderoso organo per  lo sviluppo della vita intellettuale del popolo. »     129 —   te lo sviluppo fisico, il morale, l'intellettuale è  stabilito dalla legge. Il padre, appena il figliuo-  lo ha compiuto cinque anni lo affida al magistra-  to comunale d'educazione pubblica.   Il Filangieri discute due gravi questioni, che  risolve con fine accorgimento: l'istruzione è ob-  bligatoria? come rispettare la vocazione indivi-  duale e il diritto del padre nella scelta del me-  stiere?   L'Autore, come poi i pedagogisti della Ri-  voluzione, non vuole l'obbligo dell'istruzione; per-  chè è inutile obbligare le famiglie quando i van-  taggi sono tali che nessun padre é possibile pos-  sa volontariamente rinunziarvi. E' anche mia con-  vinzione che quando noi sapessimo attuare, con  le necessarie difierenze volute dal tempo, un'or-  ganizzazione scolastica rispondente all'ideale del  Filangieri, apprestando ai piccoli il pane e la  cultura dello spirito ed avviandoli ai mestieri,  e le famiglie cosi vedessero i vantaggi, anzi la  necessità della scuola, sarebbe superfluo ogni  costringimento, (i)   Nelle nostre istituzioni scolastiche si va ora  afìermando il principio dell'operosità, con la pre-  parazione manuale alle arti ed ai mestieri, prin-  cipio fattivo genialmente intuito dal Pestalozzi     ( I ) V. G. SERGI - Come la scuola può educare - Nuo-  va Antologia - i marzo i g i o.     — I30 —   perchè l'istruzione sia educativa (i)   Il movimento, partito dalla Svezia, si è pro-  pagato rapidamente negli Stati civili; ma, in Ita-  lia specialmente, la tendenza conservatrice si é  opposta fortemente alla innovatrice, e l'idea del-  la scuola operativa e fattiva incontra ostacoli in  coloro che ne credono assolto il compito con l'inse-  gnamento e l'educazione morale. (2)   Di pedagogisti anteriori al Filangieri, nes-  suno aveva proposto, come il Nostro, un ordi-  namento scolastico che fosse suftìciente a se stesso,  dando modo di provvedersi all'avvenire dei fan-  ciulli. Che se Rabelais vuole che Gargantua spac-  chi le legna nei giorni piovosi e sappia costrui-  re strumenti e figure geometriche; (3) se il geyi-  tiluoiuo del Montaigne dev'essere esperto nel ca-  valcare, nel danzare, correre, maneggiare le ar-  mi, e deve aver muscoli di acciaio; (4) se quel-     (i) PESTALOZZI - Come Geltriide istruisce i suoi figli  -Milano, 1886. Spec. pag. 127 e seg.   (2) V. SERGI- Ar/ico/o citato in N. Antologia: ElAh.  e DI ROSA - Coordinazione della scuola Popolare alla Me-  dia - Roma, 1907.   (3) V. STOPPOLONr - Francesco Rabelais - cit. Pag.  98 - 106.   {4) MONTAIGNE - Essais-Tovi\Q premier- Paris. Pag.  187. E' nota la frase del Montaigne: « Ce n'est pas  une ame, ce n'est pas un corps qu'on dresse, c'est  un hommc, il n'en faut pas faire à deux. Et comme  dit Platon, il ne faut pas les exercer l'un sans l'au-  tre, mais les conduire ègallement, comme un couple  de chevaux attelez à un mesme timon > (pag. 187).     — 131 —   lo del Locke è addestrato al lavoro; (i) se Emi-  lio apprende un mestiere; (2) se Pestalozzi vuo-  le l' attività e la fattività; (3) sono tutti ben lon-  tani dalla concezione del Filangieri; perché i  pedagogisti citati, ed altri, che attingono nei pri-  mi, quali Basedow, Salzmann, Froebel, Herbart  « avevano vagheggiato il lavoro, come scrive il  De Dominicis, (4) come mezzo adatto per tem-  perare il lavoro della mente; come utile eserci-  zio per temperare l'irrequietezza dell'età giova-  nile; come atto a rendere utili alle moltitudini  le scuole e a dar loro sembianze democratiche;  come mezzo per offrire a tutti, in certe evenien-  ze, modo di vivere esercitando un mestiere; e  anche per rendere sotto alcuni aspetti, attivo e     (1) V. FERRARI - Zc^/(-<? - cit. Pag. 185.   (2) ROUSSEAU - Èmile - cit. Pag. 136-158- 172.  Rousseau proclama che l'uomo veramente libero è  l'artigiano: «Or, de toutes les occupations qui peuvent  fornir la substance à Thomme, celle qui le rapproche  le plus de l'ètat de nature est le travail des mains;  de toutes les conditions la plus indèpendente de la  fortune et des hommes est celle de l'artisan.   {3) PESTALOZZI- Op. «V. -Pag. 127 e seg. F. an-  che: S. RACCUGLIA - Il lavoro manuale secondo Rabelais,  Montaigne, Locke - e II lavoro mammle nel sistema edu-  cativo di G. G. Rousseau- ^2i\Q.rvao. 1907. \n- Risveglio  Magistrale - Nello studio del Raccuglia, come da altri  per altre questioni, il nostro Filangieri non vien ricor-  dato.   (4) DE DOMINICIS - La Vita Interna della Scuola in  Scienza Comparata delV Educazione - Cit. Pag. 245.     — 132 —   concreto l'esercizio del pensiero, (i)   Quello che nei citati pedagogisti è, o può  essere, espediente educativo, o anche necessità in-  dividuale, come in Rousseau; in Filangieri è ne-  cessità, istituzione sociale, diritto e dovere di o-  jjni cittadino e dello Stato.     (i) Anche oggi i nostri pedagogisti, accettando  il lavoro manuale nelle scuole, lo fanno più, anzi  quasi esclusixamente, per esigenze didattiche, che per  utilità pratiche. Lo stesso De Dominicis lo crede sussi-  diario di altri insegnamenti, che miri a rendere sen-  sibili idee ed applicazioni scientifiche e sia mezzo d'in-  tuizione e di fattività; {Vi'/a /n/ema.Pa.g. 245) e pensa  che il lavoro industriale nelle scuole non debba esse-  re la preparazione a questo o a quel mestiere; le scuo-  le altrimenti creerebbero delle vocazioni forzate; (pag.  251) sì che, prendendo la scuola aspetto di un picco-  lo laboratorio, d'una piccola officina, dovrebbe anche  variare da luogo a luogo, (pag. 249)   Il Sergi invece, in un lucidissimo e importante  articolo (A'^. Antologia, i marzo 1910, cit.) vuole una  scuola di cultura mentale per coloro che sono desti-  nati a professioni liberali, e una scuola « per la ini-  ziale cultura mentale e per alcune cognizioni utili ele-  mentari pratiche per la vita e nel tempo stesso scuo-  la di lavoro, di lavoro elementare che avvii al lavoro  completo delle arti e dei mestieri » . Chiama giusta-  mente il lavoro manuale, com'è introdotto nelle scuo-  le « un simbolo o giuoco rappresentativo » . Invece di un  simbolo di lavoro bisogna introdurre il lavoro reale; ver-  rebbero così assicurate le sorti della scuola e dell'educazio-  ne, poiché, fra l'altro, il lavoro educa incosciamente,  sviluppa e affina il sentimento dell'ordine. « A mio av-  viso — scrive — la scuola di questo tipo, che io deno-  mino attivo, dovrebbe aver circa una metà di ore, siano  due o tre, consacrate all'insegnamento della lingua e  o delle cognizioni utili elementari; le altre dovrebbero     — ^33 —   Il Filangieri discute e risolve così la seconda  questione, cioè — se la scelta del mestiere debba  essere fatta dal padre — : < Limitare l'arbitrio  del magistrato e del padre, dare all'uno e all'al-  tro una parte nella scelta. Il padre aver dovreb-  be il solo diritto di pretendere che il tìglio fos-  se iniziato nella stessa sua professione. Il magi-  strato dovrebbe aver quello d'indicare il custo-  de o della stessa professione del padre, quando  questi volesse far uso del suo diritto, o di quella  professione che vuole, quando il padre rinunziar  volesse a questo diritto » (i)   Come rispettare la vocazione dei fanciulli? (2)  « Una delle cure del magistrato particola-  re di ciascheduna comunità esser dovrebbe di  osservare nel corso dell'educazione, se tra' fan-  ciulli per le classi secondarie ripartiti, ve ne sia-  no alcuni che sembrano negati a quell'arte alla     essere consacrate al lavoro, chiamiamolo pure manuale,  di mestiere e secondo la tendenza di ciascun fanciul-  lo. Proclama la scuola col lavoro scuola dclV avvenire e  afferma che i nostri ordinamenti scolastici sono invec-  chiati e in essi facciamo invecchiare i nostri figliuoli,  mentre si attenta alla loro salute e si dà loro un'abi-  tudine di pigrizia e di passività che nuoce a loro e  a tutta la vita della nazione. Ecco l'ideale del Filan-  gieri rivivere in uno dei più illustri scienziati con-  temporanei.   (1) FILANGIERI - Z,/«5;-^ IV Cap. Vili   (2) V. in proposito un interessante studio del CO-  LOZZA - Errori e pericoli degli studi elettivi - in Questio-  ni di Pedao^gia- ~R.orm., 191 1. Pag. 119- 155.     — 134 —   «jualc sono stati destinati, e ve ne siano degli  altri, che manifestino le più sicure disposizioni  o per riuscire in un'altr'arte, o per risplendere  nella classe di coloro che si destinano per ser-  vir la società coi loro talenti :> (i)   Ma come può lo Stato sopperire alle spese  ingenti pel mantenimento di tutti i fanciulli, me-  no degli agiati ?   Bisogna destinare alla pubblica educazione  gl'immensi tesori che lo Stato spende pel man-  tenimento delle truppe perpetue. Quando il pro-  posto provvedimento non fosse sufficiente, si do-  vrebbero impiegare i capitali ottenuti dalla ven-  dita dei demani, destinarvi le rendite del sacer-  dozio, sopprimere le casse di misericordia e de-  stinare le maggiori entrate del pubblico erario,  secondo il sistema tributario proposto nel Li-  bro li. (2)   Per la seconda classe, le spese dell'educa-  zione e del mantenimento sono sostenute dalle  famiglie. Che se si oppone: son poche le fami-  glie che possono andare incontro a tali spese,  il Filangieri risponde che anche ciò è un bene,  perchè « se uno mi domandasse qual'è il pae-  se che più abbonda in errori, io gli risponderei  che è quello ove costa meno l'avviarsi nella car-  riera delle lettere. L'uomo che ha minori errori     (1) FILANGIERI - /./<5r^ /V. Cap. Vili.   (2) FILANGIERI - Libro IV Cap. XVI, XVII.     — 135 —   è il vero dotto. Ma la i^ran sede detrli errori  non è in colui che non sa, ma in colui che sa  male Il paese più culto, a creder mio, sareb-  be quello ove vi fossero meno errori e più ve-  rità diffuse nel volgo e meno semidotti tra gli  scienziati. »   Col sistema proposto si libera il pubblico  da un peso che dev'essere portato da quelli che  profittano ; e s'ottiene, senza escludere nessuna  condizione dal diritto di poter partecipare alla  educazione superiore, che il numero sia giusto  e moderato.   Bisogna notare che gli studi generali, tan-  to dei futuri magistrati, come dei futuri artisti,  guerrieri, o letterati, ecc, sono gli stessi, meno  opportune e necessarie istruzioni speciali.   Il nostro Autore vagheggia un tipo di scuo-  la unica, che è tuttavia problema insoluto, e to-  glie alle Università il carattere professionale,  per darlo agli istituti d'istruzione media.   La vita in collegio e la relativa istruzione  dura 14 anni, dai 5 ai 19. Al 19° anno il gio-  vane, con le solennità stabilite anche per gli ar-  tigiani, è emancipato, e può, a suo agio, frequen-  tare l'Università o darsi all'esercizio della pro-  fessione.   Le Università sono di coltura generale e  speciale superiore, di ricerca scientifica e filoso-  fica, destinate per i pochi che hanno doti spe-  ciali per eccellere nei più alti rami del sapere.     — 136 —   Così costituite esse non possono essere che  libere.   4 — Quello che in Rabelais, Locke, Kant,  (i) costituiva un insieme di consigli sul nutri-  mento, sul sonno, sulle vesti, ecc, nel Libro IV  della Scienza della Legislazione, diventa Educazio-  ne fisica, cioè parte ed importantissima dell'Edu-  cazione Generale.   Dopo il Filangieri, le (juestioni dello svi-  luppo fisico dell'educando, o più propriamente,  •dell'educazione fisiologica, andarono abbraccian-  do molti altri problemi, sì da costituire una scien-  za a parte, derivata dalla Medicina e dalla Pe-  dagogia : l'Igiene Pedagogica o Scolastica. (2)   Le vecchie leggi empiriche sullo sviluppo  fisico, sono andate, man mano, trasformandosi  quando non sono state del tutto abbandonate,  in principii scientifici, che partono dallo studio  anatomico e fisiologico del bambino, involgendo  anche questioni speciali relative al periodo ute-  rino e dei primi giorni della nascita (3)   Si é venuto anche affermando un diritto sa-     li) V. STOPrOLONI - Rabelais - cit.; FERRARI - Lo-  cke - cit.;VALDARNlNI - La Pedagogia di E. Kant, - Trad.  it. Torino. 1887.   (2) V .\. LUSTIG - Igiene della Scuola - Milano, 1907.   (3) V. V. DALLA DEA - La Guida della madre - Mi-  lano, 1907.     — 137 —   nitario scolastico, che abbraccia le c[uestioni re-  lative all'editicio scolastico, alle malattie della  scuola, all'orario e ai programmi, al materiale di-  dattico, agli esami, alle vacanze, ecc. (i)   In Gaetano Filangieri l'educazione fisica, co-  me poi nello Spencer, (2) è questione capitale  per la felicità degli uomini.   Partendo dal principio generale : — come  l'uomo ha perfezionato tutto e si è reso padro-  ne della natura, così può migliorare e perfezio-  nare la propria specie — l'Autore presenta un  piano di educazione fisica che, se naturalmente  è stato sorpassato dalle regole mediche ed igie-  niche moderne, pure rivela la maturità dei suoi  studi e della sua intelligenza.   ì^éX Educazione fisica il Filangieri compren-  de cinque oggetti principali: nutrimento, sonno,  vestimenta e nettezza, esercizi, vaccinazio7ie. Egli  si rifa dal Montaigne, dal Locke, dal Rousseau;  ma correggendo e migliorando dove crede sia  più consono ai dettami della scienza e alla pra-  tica della vita. Propone certe differenze di edu-  cazione fisica tra i fanciulli della prima e quelli  della seconda classe. Segue la dottrina greco - ro-     (i) F. DE DOMINICIS - Linee di Pedagogia- cit. p. i*  pag. 87-105; e- Sociologia Pedagogica - cìt. pag. 485-   (2) SPENCER - Dell'educazione int. mor. e fisica  Cap. IV.     — i3« —   mana, fatta propria dal Locke, ^q\X indurimento^  Dà grande importanza agli esercizi, (ginnastica)  attribuendo ad essi, non la sola azione tendente  a fortificare ed abbellire il corpo, con la conseguen-  te vigoria intellettuale, ma anche un'utilità pra-  tica, specialmente col nuoto e con le passeggia-  te notturne ;ed un'utilità nazionale, con gli eser-  cizi militari.   E' compreso ormai da tutti, come bene scri-  ve il Colozza, (i) che « la ginnastica, se non ò  la disciplina migliore per promuovere il funziona-  mento organico, è senza dubbio utilissima pel  perfezionamento morale > specialmente per i  giuochi, con cui si educa il non volere, che è  gran parte della disciplina morale. (2)   Ormai la ginnastica, nel piano delle disci-  pline scolastiche é assurta a materia importan-  tissima, specialmente in Francia, dove é anche  preparazione pel futuro soldato, e dove, svolgen-  dosi e perfezionandosi, potrà avviare, secondo  l'ideale del Filangieri, la nazione alla diminuzio-  ne rilevante, se non alla scomparsa deiresercito-  permanente.   Il Filangieri, in relazione alle proposte del  Libro II Cap. XII, sull'abolizione delle truppe  perpetue, ha interesse che i giovani si rendano     (i) COl^OZZK - Del potere d' inibizione - Q\\.. Pag. 80.  (2) COLOZZA - Il giuoco nella Psicologia e nella Peda--  gogia - Cit. Pag. 268.     — 139 —   forti per sopportare le fatiche degli esercizi mi-  litari proposti negli ultimi anni d'istruzione, e  quelli della guerra, qualora la patria richiedesse  l'aiuto dei cittadini per la propria difesa.   Il Filangieri segue l'indirizzo di cjuella che  ora va sotto il nome di ginnastica inglese, (i)   Come il Locke e il Rousseau, consiglia il  nuoto, oltre che per utilità pratica, per la net-  tezza e la vigoria del corpo. Suggerisce le escur-  sioni notturne, attingendo l'idea rxeWEinilio. Lo  -abituare i fanciulli all'oscurità, egli dice, signi-  fica frenare la loro immaginazione, estirpare mol-  ti errori ed abituarli ad essere coraggiosi.   Io credo gli esercizi notturni utilissimi anche  per l'educazione del potere inibitorio, e per lo  -sviluppo della riflessione e dello spirito critico ;  poiché i fanciulli, alle eccitazioni del mondo ester-  no, che l'abitudine dell'osserv^azione dimostra lo-  ro non sempre prodotte dalle apparenti cause,  ma effetto d'illusioni, specialmente ottiche ed acu-  stiche, non reagiranno prima che tra percezione  •e deliberazione non sia intervenuta una sosta,  un periodo di concentrazione, per quanto fuga-  cissimo. L'attenzione, da involontaria si trasfor-  ma in volontaria ad ogni nuova immagine, met-  tendo in moto l'osservazione attenta e la rifles-  sione. Li credo altresì utili per l'educazione dei     (i) DE DOMINICIS - La Vita Interna della Scuola- Cit.  Pag. 237 -242.     — I40 —   sentimenti sociali, perché l'uomo, e specialmen-  te il bambino, mai é tanto proclive alla simpa-  tia, quanto allorché teme. Allora si sentono più  forti i vincoli di solidarietà fra l'uomo e la spe-  cie. Il Filangieri propone che a siffatti esercizi  sieno dedicate tutte le sere delle vigilie delle  feste; io credo più opportune, per ovvie ragio-  ni igieniche ed educative, le ultime ore della  notte, prima dell'alba.   11 Filangieri fa rientrare r\é\V Ediicazione fi-  sica l'innesto del vaiuolo ; ed è merito suo aver-  ne proposto l'obbligo per tutti i fanciulli, quan-  do esso era contrastato da diffidenze molte e da  pregiudizi popolari, (i)   5 — Come abbiamo avuto agio di vedere^  il sistema educativo del Filangieri differisce essen-  zialmente da quello dei pedagogisti anteriori a  lui, co' (juali abbiamo spesso stabilito dei con-  fronti, e da cui egli deriva qualche principio ge-     (i) Rousseau, dominato dall'idea di lasciar fare la  natura in tutto (si notino i versi di vSeneca, posti in  principio dell'Emilio « Sanabilibus aegrotavius malis\  ipsaqnc nos in rectum Goiitos natura, si cmeìidari veli-  ìuus, Jiival > (De Ira, lib. Il, cap. XIII) è contrario  all'innesto; o meglio <' Il sera inoculò, ou il ne le se-  ra pas, sclon les temps, les lieux, les circonstances:  cela est presque indifFérent pour lui. Si on lui donne  la petite vérole, on aura l'avantage de prévoir et con-  noìtre son mal d'avance: c'est quelque chose: mais s'il  la prend naturellement, nous l'auron preservò du mé-^  docili » {Op. cii. Pag. loi.)     — 141 —   nerale : Locke e Rousseau.   La morale del gentihwmo e quella di Emi-  lio non può certamente esser quella del cittadi-  no del Filangieri. Per Rousseau la morale è un  acquisto fatale nel fanciullo : solo la società de-  gli uomini potrebbe renderlo tristo, pervertirlo.  Niente azione deliberata, metodica, per promuo-  verla : il bambino farà da sé, e saprà com-  portarsi nella vita perchè saprà giudicare, e di-  scernere il vero dal falso, il bene dal male.   Locke mette avanti la disciplina dell'esem-  pio e la molla potente del sentimento di digni-  tà personale. Ma quali i mezzi ? La sola azio-  ne della famiglia e del precettore.   La morale del Filangieri nasce dalla fusio-  ne delle disposizioni e degli acquisti individua-  li con l'azione sociale.   Il sistema del Locke si esaurisce in un in-  sieme di precetti e di esempi, e nella convin-  zione che il sentimento dell'onore tutto può;  quello del Rousseau, nel sentimento egoistico  dell'utile personale : - ad bono ? - ', il sistema del  Filangieri è la coordinazione del bene individua-  le e del collettivo, nasce dai rapporti tra indivi-  duo e società, e si sviluppa con e per la socie-  tà, in mezzo a cui e per cui si vive.   La morale diventa cosi sociale, non è più  individuale; e i mezzi per lo svolgimento di es-  sa non possono essere forniti che dalla società,  tenuta presente la natura dell'educando, la sua     — 142 —   destinazione, il line cui si tende.   Come la psicologia metafisica, individualista,  si evolve in psicologia collettiva e sociale, sban-  dite le facoltà e i sentimenti innati, così la mo-  rale singola, individuale, effetto spontaneo della  moralità innata, si trasforma in morale sociale,  derivante dalle contingenze e dai rapporti sociali.  Giustamente il Ferri afferma che « dicesi coscien-  za vioi'ii/c, ma dovrebbe più esattamente chia-  marsi coscienza sociale » (i)   L'intervento dello Stato diventa necessario  perchè la famiglia non può, per le sue condizio-  ni morali, intellettuali, economiche, apprestare  quel concorso di circostanze atte allo sviluppo  della moralità; e perchè, per se stesso, l'ambien-  te famigliare é insufficiente, mancando in esso  gli stimoli: l'azione cioè dell'imitazione e del-  l'esempio, che sono condizioni essenziali.   Il Rousseau, come nega l'azione della socie-  tà e il non intervento di essa in educazione, ne-  ga conseguentemente che lo Stato possa o deb-  ba intervenire nell'educazione morale del cittadi-  no, nella sua conformazione ad un dato ideale eti-  co. Questo principio è accettato dal Tolstòi, il  (luale, come abbiamo accennato, é seguace del-  la dottrina del Ginevrino ; e l'intervento in edu-  cazione morale contesta anche alla scuola, per-     (i) - FERRI - Op. cit. - Pag. 543. V. G, VIDARI - Ele-  menti di Etica -ÌA\\,\x\o, 1902. Pag. 119- 139.     — 143 —   che: « i" Essa non deve intervenire nella forma-  zione del carattere e delle credenze di colui che  viene istruito, al quale si deve lasciare assoluta  libertà di ricevere, secondo meglio gli aggrada,  l'insegnamento che pare meglio corrisponda ai  suoi principii ; 2° Non si può teoricamente prova-  re la possibilità del non intervento della scuola in  educazione. La sola cosa che lo conferma è l'os-  servazione che dimostra come le persone che  non hanno ricevuto educazione alcuna, (i) cioè  che sono state esposte alle sole influenze istrut-  tive libere, le persone del popolo, sono più fre-  sche, più potenti, più indipendenti, più giudizio-  se, più umane, più necessarie delle altre. 3° La  scuola deve avere un solo scopo: la trasmissio-  ne del sapere, dell'istruzione, senza cercare pe-  rò dì penetrare nel dominio morale delle con-  vinzioni, della fede, del carattere. » (2)   Io credo che la ragione dei principii nega-  tivi del Tolstòi sull'ingerenza dello Stato e della  -scuola in educazione morale, va trovata nel sen-  timento di ribellione ch'egli intende trasfondere  contro il governo del suo paese, che esercita sul  popolo una doppia oppressione, politico -religio-  sa, anche per mezzo della scuola. La scuola di  Jasnaia Poliana non vuol essere dunque conside-     ( I ) Qui la parola educazione il Tolstòi adopera nel  senso ristretto di ammaestramento.   (2) G. POLITO - Il pensiero pedagogico di Leone  Tolstòi - CU. Pag. 64-75     — 144 —   rata che quale aperta ribellione a ogni domma  politico, religioso e anche pedagogico, ma sopra-  tutto religioso, (i)   La Key, altra illustre seguace della dottri-  na del Rousseau, proclama il principio della pie-  na libertà in educazione morale, perchè : « les-  interventions de l'éducateur d 'aujourd'hui, qu'el-  les soient tendres ou rudes, détournent ces efFets  (gli efìetti dell'evoluzione naturale e dell'adatta-  mento) au lieu de les laisser agir avec toute  leur rigueur » (2); per modo che « le plus grand  crime que commette contre l'enfant l'éducation  actuelle, c'est de ne pas le laisser en paix. Le  but de l'èducation future sera, au contraire, de  creer un monde de beaut^, au sens propre et  au sens figure, dans lequel laisserait l'enfant se  dévellopper et se mouvoir librement jusqu'au  moment ou il se heurterait à la frontière iné-  branlable du droit des autres » . (3) Cosi che  « Laisser la nature elle méme agir tranquillement  et lentement, et veiller soulement à ce que les  conditions envirronnantes soutiennent le travail  de la nature; Voila réducation » (4)   Che lo Stato e la scuola debbano interve-     ( I ) V. CESCA - Religiosità e Pedagogia moderna - CU.  Pag. 143 -4; e -Religione morale deW umanità - Bologna,.  1902. Pag. 204 - 6.   (2) KEY - Op. cit. Trad. frane. Pag. 96.   (3) Ivi -Pag. 87.   (4) Ivi - Pag. 84.     — H5 —   nire nell'educazione morale, meno le esagerazio-  ni individualistiche di pochi, ora non è chi con-  trasti. Giustamente osserva il De Dominicis che,  sopprimere nell'educazione l'ambiente é quanto  sopprimerlo in biologia, (i)   Stabilita la natura dell'educazione morale,  la sua necessità, quale il fine ? « La destinazio-  ne degli individui della prima classe è di servi-  re la società colle loro braccia. Gl'interessi della  società sono di trovare in essi tanti cittadini la-  boriosi ed industfiosi in tempo di pace, e tanti  difensori intrepidi in tempo di guerra ; buoni  coniugi e migliori padri, istruiti dei loro doveri,  come dei loro diritti ; dominati da quelle passio-  ni che alla virtù conducono, penetrati dal rispet-  to per le leggi e dall'idea della propria digni-  tà. -•> (2) Per i fanciulli della seconda classe, al-  cuni fini speciali debbono adattarsi alla diversa  loro destinazione sociale, e quindi variare i mez-  zi educativi.   Nel piano del Filangieri l'educazione mo-  rale, specialmente per i fanciulli della prima  classe, ha il primo posto.   Essendo riservata al custode la cura di av-  viare i fanciulli al mestiere; dlV istruttore quella  di fornire le cognizioni elementari indispensabi-     ( I ) DE DO:minicis - Antropologia Pedagogica - Cìt.  Pag. 173-4.   (2) FILANGIERI- Libro IV, Cap. X.     — I4<^^ —   li anche all'esercizio dell'arte, l'ufticio più impor-  tante nelTeducazione pubblica non poteva esser  che quello deW /sù'ué/orc viorale, che il Filan-  gieri, con ra<^ionc, vuole affidato a chi possa e-  sercitare un'azione «grande nell'animo dei fanciulli,  ,sia per la sua posizione sociale, come per le do-  ti intellettuali e morali: cioè al viagistrato che  presiede all'educazione del comune.   11 Filani^ieri distingue le istruzioìii dai di-  scorsi morali. Le istruzioni durano un anno; i  discorsi vanno continuati per tutto il tempo del-  l'educazione. Le prime hanno un ordine stabili-  to dal legislatore e si ripetono ogni anno, le se-  conde sono ad arbitrio del magistrato.   Le istruzioni costituiscono un corso di mo-  rale umana e civile che si svolge in un anno;  però il Filangieri propone che sia ripetuto un  ^secondo anno, in maniera che, ogni giorno, ter-  minata la lezione, il magistrato proponga dei  dubbi da risolvere (problemi morali e sociali)  specialmente agli alunni del secondo anno.   Terminato il secondo corso delle istruzioni  morali, i fanciulli sono ammessi ai discorsi ino-  rali, tenuti dallo stesso magistrato. Vi assistono  tutti i fanciulli lino al termine della loro edu-  cazione.   La legge, mentre stabilisce gli oggetti ge-  nerali delle istruzioni, che sono le due massime  le fjuali contengono tutti i principii di giustizia  -e di virtù umana: <; — non fare agli altri ciò che     — 147 —   non vuoi si faccia a te; — « — procura di fare  agli altri tutto quel bene che puoi >, lascia a  discrezione del ma_yistrato la forma, lo svolgimen-  to, la materia dei discorsi. Stabilisce però alcu-  ni oggetti da svolgersi, riguardanti: la virtù, la  patria, la verità opposta agli errori della pub-  blica opinione, la dignità umana, il lavoro, il ma-  trimonio, (i)   Ma le istnizioni e i discorsi debbono essere  vivificati dall'esempio, fornito specialmente dal  ^magistrato e dal custode.   Il nostro Autore propone la lettura di ro-  mansi per i fanciulli che possono assistere ai  discorsi morali; cioè specie di biografie di uomi-  ni eccellenti nei rami dell'attività umana e del  sapere: dalla storia del fabbro, del marinaio, del  contadino, che si sono distinti, a ciucila del ma-  gistrato, del filosofo, ecc.   Il desiderio del Filangieri, in tanto fiorire  di letteratura scolastica, ò rimasto inascoltato.  Meno qualche lavoro eccellente, di azione poten-  temente educativa, nei nostri libri per i fanciulli  facilmente si scorgono contrasti vivi e stridenti  tra il mondo vissuto dai piccoli, e che vedono  vivere, e quello che loro si presenta; tra i loro  bisogni, e la pesante, contorta mole di morale  e di scienza che s'intende loro apprestare, senz'or-  dine e senza misura. Diventano maggiori i con-     (l) FILANGIERI - Z/^rd7 IV Cap. X Art. I.     14^     trasti, più sciocche le pretese nei libri di lettura,  \ (inali, perchè siano, come si vuole, il punto  di concentrazione dell'insegnamento etico ed ar-  tistico, dovrebbero guadagnar subito l'interesse  e la benevolenza dei piccoli. L'arte di scrivere  codesti libri è divenuta facile occupazione, sì  che la lettura, noiosa ed arida per il maestro,  è per il discente, vuota, tediosa, nociva.   La nostra coltura ed educazione scientifica  non si rispecchia affatto nell'educazione scolasti-  ca pel tramite del libro di lettura, come se la  scienza si svolgesse per esigenze dialettiche e  vivesse lontana dalla vita, nelle aule delle Uni-  versità e nelle riviste. Mentre, specialmente ne-  gli Stati Uniti e in Francia, la scienza pedago-  gica ha una profonda ripercussione nei sistemi  l)ratici educativi, e i libri scolastici tendono a  rispecchiare le nuove tendenze, da noi trionfa  ancora il catechismo rimodernato e la filosofia  del buon Candido del \'oltaire.   E allora? Bisogna creare una nuova lettera-  tura scolastica infantile, il contenuto della quale  trovi fondamento nella scienza contemporanea e  si espanda nei contrasti, nelle lotte, nei dolori,  nelle gioie vere della vita che i piccoli vivono  e che vivranno adulti, e nell'etica nuova attinga  ispirazione e materia, (i)     (i) Sui libri di lettura è un volumetto di L. \^5•  C\TTlKl- / t/óri sco/as/ùi - San Remo, 1909; il quale     — 149 —   Oltre i ro7na7iz{, il Filangieri consiglia la  compilazione di un notiziario di avvenimenti che  possano esercitare azione educativa.   In questi ultimi tempi, s'è venuta afferman-  do l'idea, credo manifestata primieramente dal  Ciralli, (ispettore scolastico, perito nel disastro  di Messina) d'introdurre nelle scuole la lettura  del giornale, che il De Dominicis reputa effica-  ce, specialmente per l'educazione del sentimen-  to di nazionalità e per i progressi della cultura (i)   Si debbono premiare le buone azioni, la  buona condotta, la diligenza, lo studio, le buo-  ne maniere? Gli antichi, legislatori e scrittori,  ammettevano, senza restrizioni e limitazioni, tan-  to i premi, quanto i castighi; e i Gesuiti spe-  cialmente, ne fecero poi mezzo esclusivo per il  governo della scuola: sistema al quale s'informò  in gran parte la pedagogia moderna.   Lo stesso Locke, il quale ammette i pub-  blici premi, (2) e, in certi casi, cioè per ostiìia-  zione o ribellione, anche la fnista, a somiglianza     svolge una critica ricca di richiami psicologici e ma-  teriata di fatti, sulla forma, sul contenuto, sul fine dei  nostri libri scolastici, pervenendo alla stessa mia con-  clusione, cioè che manca ancora da noi il libro adatto  alla psiche del bambino e alle esigenze della morale  sociale.   (i) DE DOMINICIS - Z« Vita Interna della Scuola -  -CU. Pag. 172.   (2) V. G. M. FERRARI - A(?c/r - OV. Pag. 174.     — I50 —   di (juanto praticavano i Gesuiti, (i) consiglia che  il frustatore (corrector mormn dei Gesuiti) sia un  servo. Locke vuole così perchè il figlio non sen-  ta avversione verso il padre. (2)   Locke sconsiglia le ricompense materiali. I  fanciulli mostrano viva compiacenza per una pa-  rola d'incitamento, per un semplice sguardo di  approvazione, e si rattristano e soffrono all'in-  differenza della madre, ad uno sguardo severo del  padre. (3) I fanciulli debbono essere trattati da  uomini: ecco il principio direttivo della pedago-  ofia morale del Locke.   Mentre così la dottrina del governo del fan-  ciullo è fondata per il Locke sull'esercizio e sul-  l'abitudine; per il Rousseau, il quale vuole che  « la seule habitude qu'on doit laisser prendre  à l'enfant est de n'en contracter aucune » , tan-  to che consiglia « qu'on ne la porte pas plus  sur un « bras que sur l'autre » (4)^ il governo, cioè  l'azione deliberata del docente sul discente per  avviare questi secondo un fine, è assolutamente  nulla. Bisogna lasciar completamente libero il  fanciullo, perché il solo che sia padrone della sua  volontà é colui che non ha bisogno di stendere  le sue braccia verso quelle di un altro: niente     ( I ) V. COMPAYRÉ - Op. cii. - Pag. I 1 6   (2) P'ERRARI - Op. cit. Pag. 175 - 177.   (3) FERRARI - Ivi -   (4) ROUSSEAU - Émile - Cit. Pag. 31     151     premi, niente castighi: le ingiunzioni e i constrin-  gimenti sono contrari alla formazione del carat-  tere. Questi sono i capisaldi della dottrina delle  conseguenze naturali, che lo Spencer dovrà quin-  di maggiormente illustrare e diffondere.   Il Pestalozzi trascura di dare speciali sug-  gerimenti sull'educazione morale, cui crede di  poter pervenire con l'amore alla madre e Vistm-  zione religiosa, (i) Sono il Filangieri prima, l'Her-  bart poi che ne fanno speciale ed importante og-  getto, indipendentemente dall'azione dell'insegna-  mento religioso. E la pedagogia del governo del-  l'Herbart ha molti punti di somiglianza con la  disciplina morale del Filangieri, specialmente per  ciò che riguarda i castighi.   L'Herbart, seguendo il Pestalozzi e il Kant  nella teoria del bene per il bene, non ammette  premi; e segue anche, facendola propria, la dot-  trina delle punizioni del Kant. (2)   Cosa curiosa, scrive il De Dominicis, (3)  « molti vorrebbero nelle scuole castighi e non  premi. Ma perchè si dovrebbe prescindere nel-  l'educare l'uomo in formazione, l'uomo piccolo,  da quello da cui non sanno fare a meno gli uo-  mini formati, gli uomini adulti? Scopo supremo     (i) PESTALOZZI - Come Gdtìude istruisce i suoi figli  Cit. Pag. 141 - 149.   (2) KANT-ZdT Pedagogia -TxzA. it. Torino, 1887.   (3) DE DOMINICIS -Za vita Interna- Cit. Pag. 291.     — 152 —   dell'educazione ó di certo, il condurre gli alun-  ni ad amare il bene per sé. Ma se nessuna socie-  tà ha saputo finora prescindere da distinzioni, da  ricompense e da lodi, se uno sterminato numero  di uomini adulti vi è stato e vi é tanto sensibi-  le, perchè si dovrebbe rinunciare alle distinzio-  ni, alle lodi e ai premi nella società scolastica?  Non è anche il premio un mezzo adatto, non  solo per punir meno, ma per guidare, colle lu-  singhe di soddisfazioni immediate, gli alunni de-  boli a potersi compiacere in seguito del bene e  della virtù per se? >> E il Filangieri: (i) « Due  passioni, l'una piccola, l'altra grande; l'una per-  niciosa, l'altra utile; l'una incompatibile colla  grandezza dell'animo e l'altra a questa costan-  temente associata, procedono entrambe dall'istes-  sa origine. La vanità e l'amor della gloì'ia sono  queste due passioni, e il desiderio di distinguersi  ne è la madre comune. Questo desiderio di di-  stinguersi, indizio ed effetto della sociabilità; que-  sto desiderio che si manifesta nel barbaro e nel  civile, nello stolto e nel saggio, nell'empio e  nell'eroe, questo desiderio che si annuncia fin  dall'adoloscenza, e che accompagna l'uomo fino  alla tomba; questo desiderio, io dico, produce  l'una e l'altra passione, a seconda che é male o  bene maneggiato e diretto. Egli diviene vanità  negli uni, amor della (gloria neofli altri, »     (i) FILANGIERI- Libro IV Cap. X Art. IV.     — 153 —   Ammessi i premi, fondati sulla pubblica o-  pinione, vuole siano assegnati con solennità, e  che il giudizio sia dato dagli stessi fanciulli, (i)   Il Filangieri proscrive l'uso del bastone. Non  bisogna mai battere i fanciulli, per nessun mo-  tivo, perchè non si deve permettere che i mezzi  ■destinati a risvegliare l'idea della dignità, ven-  gano combinati con quelli che avviliscono e che  degradano. (2)   I fanciulli abituati alle pene corporali, per-  dono la sensibilità e diventano vili, ipocriti, ven-  dicativi, crudeli. Tanto il magistrato, quanto il  custode, così nel correggere, come nel punire,  dovrebbero serbare quella freddezza che dipen-  de dalla ragione, e mai abbandonarsi a quel ca-     (i) Per tutto quanto ha rapporto con la discipli-  na scolastica e la formazione del carattere, benché af-  fidi alla religiosità, come la più parte dei- pedagogisti  tedeschi, un'azione preponderante, vedi: FORSTER- Se leo/a  € Carattere - Tvdid. it. Torino, igo8; spec. pag. 183-208,  dove riferisce il sistema americano e svizzero del self-  governeìiimeìit e dello school - city - system, che affida ap-  punto d\\di public - opinion l'assegnazione dei premi e  delle ricompense. F. anche: BAIN - C^/>. f/V- Pag. 119,  il quale scrive: « Il principio di Bentham del giurì  della scolaresca, benché non riconosciuto formalmente  nei metodi moderni, vige sempre tacitamente. L'opi-  nione della scuola, nel massimo suo d'efficienza, é il  giudizio riunito del capo e dei membri, del maestro  e della massa; ogni qualunque altro stato di cose è  guerra, benché anche questa non si possa evitare. »   (2) FILANGIERI - Libro IV Gap. X Art. V.     — 154 —   lore e a (luei trasporti che indicano passione, (i)  Nel piano di educazione morale tracciato  dal Filangieri, entra poco l'insegnamento reli-  gioso, ed entra in quanto costituisce un omag-  gio al Creatore, al di fuori di qualsiasi credo  religioso, perché i princii)ii di morale non deri-     (i) Dal Locke, al Kant, all'IIerbart, al Filangieri,  tutti in ciò sono d'accordo, ma in pratica non riesce  molto facile.   Sul sistema punitivo scolastico, come sul sociale,  non può certo essere detta ancora l'ultima parola; è  necessario prima determinare con certa precisione gli  impulsi, i moventi psicologici e sociali dell'azione, de-  finire le basi della responsabilità, sfrondare la mente  di legislatori e di maestri da molti pregiudizi psico-  logici, religiosi, sociali. La questione del libero arbìtrio  é d'importanza primaria; e il Ferri giustamente scri-  ve: « La negazione del libero arbitrio può soltanto e  deve avere influenza nel sentimento che accompagna  questa reazione difensiva; poiché così nelle punizioni  famigliari, come in quelle scolastiche, come in quelle  sociali, chi crede al libero arbitrio reprime gli autori  di un atto sconveniente o dannoso con sentimenti di  rancore, o per lo meno con ciò che dicesi <' risentimen-  to » in quanto attribuisce il fatto alla malvagia volon-  tà (anche nei bambini!). Il determinista invece si di-  fende o reprime per quanto è necessario, ma senza  rancore e colla persuasione, togliendo le occasioni al  mal fare o distraendo per vie meno dannose le ten-  denze individuali. Piuttosto che abbandonare i bambi-  ni o gli scolari alla propria espansività fisio - psicolo-  gica per reprimere gl'inevitabili eccessi, limitandosi  tutt'al più all'inutile tentativo di prevenirli con le mi-  sure o le imposizioni, vai meglio incanalare la loro  attività per vie utili, distraendola con occupazioni a-  datte e sopratutto togliendole gl'incentivi degli urti  e quindi delle .sopraffazioni » (C^/>. cit. Pag. 583.)     -- I.S5 —   vano dalle pratiche del culto.   Il Filangieri affida la cura dell'istruzione re-  ligiosa allo stesso magistrato. '-^ Se mi si oppor-  rà che questa cura dovrebbe essere affidata ai  ministri dell'altare, piuttosto che al magistrato  educatore, io risponderò che, siccome niuna re-  ligione proibisce ai padri d'istruire nei loro dommi  i figli, molto meno potrà proibirlo al magistrato  che dalla pubblica autorità viene scelto per far-  ne le veci; dirò che non si deve mai inutilmen-  te moltiplicare il numero degli istruttori, dirò  che il magistrato si dee supporre più istruito  nell'arte d'istruire i fanciulli, di quello che lo  può essere un uomo, che a tutt'altro oggetto ha  rivolte le sue cure, dirò finalmente che, finché  non si combinino perfettamente gl'interessi del  sacerdozio con quelli della società e dell'impero,  è sempre pericoloso il metterlo a parte della  pubblica educazione :> (i)   Egli assegna alla religione l'ultimo posto nel  suo piano di educazione morale, e vi spende po-  che parole, sperando che il lettore non lo accu-  si per ciò di riconoscervi poca importanza. Gli  è che, si giustifica l'Autore, se non scrivesse per  tutti i paesi, per tutti i popoli, per tutti i tem-  pi; se l'universale e il perenne non fossero l'og-  getto della scienza; o pure se uno fosse il tem-     (i) FILANGIERI- Libro IV Gap. X Art. VI.     — 156 —   pio, una l'ara ed uno il nume; se comune fosse  il culto, uniformi i dogmi e la fede uniforme  presso tutti i popoli ed in tutti i tempi, (i) po-  trebbe entrare in dettagli che allo stato delle co-  se è conveniente evitare.   La ragione dell'esclusione dell'elemento re-  ligioso in educazione morale va anche ricercata  nell'intima convinzione dell'Autore che la morale  é al di sopra di (jualunque religione. Però, nel-  la preoccupazione costante di rendere accetto a  tutti il suo piano educativo, egli tempera con  certa forma il suo pensiero ardito, e, (questa vol-  ta eretico.   Ecco perchè non accoglie l'idea del Rous-  seau, che non vuol si parli di religione ad Emi-  lio, se non quando sarà in grado di comprende-  re la divinità, senza farne oggetto d'idolatria. (2)  Il nostro Autore dichiara che non ammette né  contrasta tale teoria; però, pur suggerendo che  l'insegnamento religioso cominci quando i bam-  bini sono ammessi ai discorsi morali, (9- 10 an-  ni) scrive che « se non si vogliono fare dei fanciul-  li tanti idolatri, o almeno tanti antroponiorfiti, il  magistrato non risparmierà alcuno dei mezzi at-  ti a comunicar loro la più semplice e la più au-  gusta idea della Divinità, allontanando dalle sue     (i) FILANGIERI - Libro IV Gap. X Art. VI.  (2) ROUSSEAU - Èmi/e - CiL Pag. 228 e seg.     — 157 —   espressioni tutto ciò che potrebbe associarla alle  materiali immagini, alle quali l'uomo è purtroppo  inclinato a rappresentarla, (i)   Mira del magistrato, nell'educazione del sen-  timento religioso, dev'esser di prevenire il fa-  natismo e le false massime di morale; pernicio-  se, specialmente nel popolo. Poche preghiere,  semplici e brevi, ma piene di luminosi principii  di morale universale. (2) Epperò nessuna diffe-  renza tra le istruzioni morali dei fanciulli della  prima e della seconda classe. Qualche difierenza  solo nei discorsi morali.   Poiché i fanciulli della prima classe sono  più esposti alla viltà, e quelli della seconda al-  l'orgoglio, per la loro diversa condizione sociale,  bisogna fare in modo che tali due opposti sen-  timenti scompaiano negli uni e negli altri, espo-     (i) Sulla tendenza antropomorfa del bambino e su  quello che il Cesca chiama secondo momento del compi-  to negativo deW istruzione , cioè lo sradicamento della  tendenza antropomorfa, vedi lo stesso - Coltura e Istru-  zione - Cit. Pag. 125-132. V. anche: SPENXER - /*;-/;/-  cipii di Sociologia - Cit. Pag. 87 - 92; e a pag. 306 il  curioso brano di poesia in francese arcaico, narrante  come Domeneddio sia andato in Arras, ad imparare  le canzoni del paese, come vi cadde malato e come  fa curato da un trovatore, che lo fece ridere. Si ri-  cordi che tutta la poesia prov^enzale e la prcvenzaleg-  giante italiana, fino alla scuola del dolce stil novo, sog-  giace alla tendenza animistica, con la personificazione  del sentimento dell'amore.   (2) FILANGIERI - Libro IV Cap. X Art. VI.     — 158 —   nendo loro i principii « deirumana eguaglianza,  del rispetto che si deve all'uomo; dell'ingiusti-  zia di quello che si cerca nella sola condizione;  dell'insania, dell'orgoglio e della piccolezza della  vanità. » (i) Nei bambini della seconda classe  bisogna specialmente sviluppare il sentimento del-  l'umanità e della compassione. « Per divenir com-  passionevole un fanciullo, bisogna ch'egli sappia  •che ci son degli esseri simili a lui, che soffrono  ciò che egli ha sofferto, che sentono i dolori  ch'egli ha intesi e ch'egli sa di poter sentire ;  bisogna finalmente che la sua immaginazione sia  attiva a segno da potergli presentare e compor-  re queste dolorose immagini, allorché vede sof-  frire, e da trasportarlo, per così dire, fuori di se  medesimo per identificarlo coU'essere che sof-  fre. » (2)   E sopratutto bisogna rinvigorire, stringere i  vincoli sociali, che l'inevitabile disuguaglianza  delle condizioni tende purtroppo a indebolire; e  promuovere la civiltà delle maniere, con l'esem-  pio fornito da tutti coloro che circondano il bam-  bino. Per i fanciulli della seconda classe il Fi-  langieri consiglia la lettura de Le Vite di Plu-  tarco, seguendo il consiglio del Montaigne, ac-  colto dal Rousseau. (3)     (i) FILANGIERI- Libro IV Gap. XXIII Art. I   (2) Ivi.   (3) MONTAIGNE - i^^^a/V - OV. Pag. 176; ROUSSEAU  Evi il e - Cit. Pag. 211.     — 159 —   In conclusione, il sistema morale del Filan-  o-ieri, partendo dal principio dell'utilità sociale,  principio tanto combattuto dal Rousseau, tende  a coordinare gl'interessi dell'individuo con quelli  della collettività, per raggiungere il fine della  diffusione della morale sociale: é l'azione armo-  nica di tutti i cittadini onde raggiungersi il trion-  fo della giustizia, con la libertà, l'uguaglianza,  la fratellanza.   Credo inutile aggiungere che l'educazione  morale del Filangieri, educazione della scuola e  della vita, è essenzialmente laica, umana, tanto  nel contenuto, quanto nella forma.   E' questo uno dei meriti grandissimi del  filosofo napoletano, che ha potentemente contri-  buito a indirizzare le istituzioni scolastiche ver-  so il tipo ancor tanto contrastato dai fautori della  vecchia filosofia della vita, in opposizione recisa  coi fautori della filosofia della scienza, (i)     (i) V. l'aureo libro del CESCA -/.a filosofia della  i///a - Messina, 1903. L'Autore, sul contrasto da noi ac-  cennato scrive: « La perduranza della lotta si deve a  parecchie ragioni, non soltanto intellettuali, ma anche  morali e più specialmente sociali. La concezione teo-  logica é sempre viva, non solo perchè è il prodotto  dell'eredità di una lunga serie di secoli e perché sod-  disfa il bisogno di quiete e la tendenza misoneistica  cotanto diffusa in tutte le classi, ma anche perchè è  legata tenacemente lA principio di autoritcà, e quindi  è sì il riflesso che la base dello spirito di conservazio-  ne del passato nell'ordine economico e nell'ordine po-  litico. Tutti coloro che temono di perdere qualche cos Ci è differenza tra una nazione  che nasce, ed una nazione adulta.  Romolo e Ninna seppero trovar la  moneta onde comprar l’opinione  dal popolo nascente , e i loro suc¬  cessori seppero mutarla, allorché si  doveva comprare da un popolo a-  didto . Ed in fatti ne’ tempi più  illuminati fu stabilito tra i Ro¬  mani che j consoli, i tribuni del    (i) EJiano Far. Histor. lift. a. c. 37. e /. ij.  ctp. 24*   (*) Plut. nella vita di Licurgo. DEL PRIMO TOMO.    Introduzione -   Piano ragionato dell'Opera.    \   Libro P ri ih o .    P* 7   2J0    Belle regole generali della Scienza  della Legislazione.    Cjp. I. Oggetto unico ed univer¬  sale della Legislazione } dedot¬  to dall ’ origine delle società ci¬  vili . 19   Cap. IL. Di ciò che si comprende  sotto il principio generale della  tranquillità e della conservazio¬  ne^ e dei risultati che ne deri¬  vano. $9   Cap. III. La Legislazione , non al¬  tramente che tutte ie altre fa¬  coltà j deve avere le sue rego¬  le, e i suol errori sono sempre            34 * ^   i più gravi flagelli delle na¬  zioni .   Cat. IV. Della bontà assoluta delle   Leggi •   Cat. V. Della bontà relativa delle   ; Leggi . j   Op. FI. Della decadenza dei Co¬  dici . j^   Cat. VII. Degli ostacoli che s’ in¬  contrano nel cambiamento della  Legislazione d un popolo, e dei-  mezzi per superarli. jg.o   Cat. Vili. Della necessita d’ un  Censore delle Leggi , e dei do¬  veri di questa nuova magistra¬  tura . ^ j-jj   Cat IX Della bontà relativa del-  le Leggi considerata riguardo  agli oggetti che costituiscono  questo rapporto. jfij   X Primo oggetto di questo  rapporto : la natura del Go¬  verno . y 6~2   Cat XL Proseguimento dell istes-  so oggetto , su d ’una specie di  Governo che chiamatisi misto .   J9°   Cat. XII. Secondo oggetto del rap -                          343 '   porto delle Leggi : il principio  che fa agire il cittadino nei  diversi Governi .   Cap. XIIL Terzo oggetto del rap¬  porto delle Leggi.- il genio , e  l'indole dei popoli. £>5l   Cap. XIV. Quarto oggetto del rap¬  porto delle Leggi : il clima. 2>19  Cap. XV. Quinta oggetto del rap¬  porto delle Leggi : la fertilità  o la- sterilita del terreno, gfo  Cap. XVI. Sesto oggetto del rap¬  porto delle Leggi: la situazio¬  ne e V estensione del paese. 3?3  Cap. XVII. Settimo oggetto del  rapporto delle Leggi: la religio¬  ne del paese.   Cap. XVIII. Ultimo oggetto del  rapporto delle Leggi : la matu¬  rità del popolo. 33& 

 INDICE   °EI  CAPITOLI   Compresi  nel  IH.  Volume.   libro  ih.   VELIE  LEGGI  CRI  MIN  All   PARTE  PRIMA   Bella  Procedura .    Cap.  I.  Introduzione .  pag  2  Cap.  IT  Prima  parte  della  criminale  procedura .   Dell1  accusa  giudiziaria  presso  gli  antichi.   Cap.  IH,  Dell ’  accusa  giudiziaria  presso  i  moderni .  r)f   Cap.  IV.  Nuovo  sistema  da  tenersi  ri‘  guardo  alV  accusa  giudizio  ria .  ^3  Cap,  V:  informa  da  farsi  nel  sistema  ^  della  procedura  inquisitoria .  %  Cap.  VI.  Seconda  parte  della  proce¬  dura  criminale.    5or   V  intimazione  all' accusalo,  eia  sicurézza  della  suapersona .  jog  Cap.  VII .  informa  da  farsi  in  que¬  sta  parte  della  criminale  proce¬  dura  .  ^9   Cap.  FUI.  Delle  condanne  per  con¬  tumacia  .  /5^   Cap.  IX  Terza  parte  della  crimi¬  nale  procedura .   Delle  pruove  c  degli  indizj  del   delitti .   Cap.  X  Trosegiiimenio  dell  istesso  soggetto .  Sulla  confessione  libera  ed  estorta .   Cap.  Xf.  Parallelo  tra r  Giudizi  di  Dio  de’  tempi  barbari  ,  e  la  tortu¬  ra.  -  .   Cap.  XII*  Principj  fondamentali,  dal  quali  dee  dipendere  la  teorìa  delle  pruo've  giudiziarie.  &39   Cap.  XIII-  Della  certezza  morale.  3>$5  Cap.  XIV.  Risultati  de  principj  che  si  sono  premessi .   Cap.Xv .  Canoni  di  giudicatura  che  determinar  dovrebbero  iZ  criterio  legale.   Cap.XVL  Quarta  parte  della  crimi¬  nale  procedura  ,    $01   'Bella  ripartizione  delle  Mudi,  zie  ne  funzioni,  e  della  shltadd  giudict  del  fatto.   "aP‘  XVIT.  Della  viziosa  ripartizio¬  ne  della  giudiziaria  autorità  in  una  gran  parte  delle  nazìoniàì   „  Eurol’a  •  m   <up.  XVIII.  Appendice  aW antece-  dente  capo  sulla  feudalità.  357  Cap.  XIX*  Piano  della  nuova  ripar¬  tizione  da  farsi  delle  giudiziarie  j  funzioni  per  gli  affavi  crimina¬  li'/  388   Articolo  y.  Divisione  dello  Stato,  ggs  Articolo  %  Scelta  de 9  presidi .  5041  Articolo  5,  Funzioni  di  questama-  gistratura .  '  '   Articolo  Durata  di  questa  Magi-  straiura e  suo  salario .  59#   -Articolo fj.  Be’  giudici  del  fatto.  «?oa  Articolo  6.  Requisiti  legali  che  ri-  cercar  si  dovrebbero  in  questi  giudici.  ^3   Articolo  7.  lunzìoni  di  questi  giu-   *  00 g   Articolo  Fumerò  di  questi  giudi¬  ci  in  ciascheduna  provincia ?  ed  in  ciaschedun  giudizio.  0o8    5°3   Artìcolo  9.  Delie  ripulse  di  questi  giudici  •  4°9   Articolo  xo.  De’  giudici  del  drit -   -  io .   Articolo  ir .  Numero  di  questi  giudi¬  ci  in  ciascheduna  provincia.  4/4  Artìcolo  tm  Funzioni  di  questi  giù*  dici ,  ‘  ;  475   Articolo  T5-  Delle  sessioni  ordinarie  di  giustizia .  4 2)0   Articolo  14.  Delle  sessioni  straordi¬  narie.  4%3   Articolo  j 5.  Magistratura  per  ogni  comunità .  437   Cap .  XX.  Quinta  parte  delia  crimi¬  nale  procedura.   La  difesa .  44$   Cap .  XXL  Sesta  parte  delia  crimi¬  nale  procedura.   La  sentenza *  4 58   Cap.XXIL  Appendici  della  senten¬  za  che  assolve  ,  0  5 i tr  cle/7a-  ripa¬  razione  del  danno ,  e  del  giudi¬  zio  di  calunnia .  473   Cap .  XXIIL  Altra  appendice  della  sentenza  che  assolve ,  edellasen -  zensa  che  sospende  il  giudi¬  zio.  -  480    aJ  R  |l  '   V'f  *   i  1    p  4  -  t  >.  *  r — ^  l  '   ilPM'   1  V 1   'tr\\  f   ,y  ■  .‘iv*.  *■  *  •{  -x  l   tlM'il#.:   tliS.::'  i'?”'   Hi,   kv.!r-  ■;  *   tiSi   '►L  v,  ***    XXIV.  Appendice  detta  seri*  tcnza  che  condanna ,  e  corichili-  5Ìone  del  piano  geii era Ze  diri/or-  nia  c'fre  si  è  proposta.  ^    léZmL   k'ù':   t   zì2  ^  La  Scienza  distoglierlo  dal  provvedersi  de    Legislazione,  215  del  destino  .  Per    Della    colorchecker    MSCCPPCC0613    ►I«x-rite 

Grice: “There are many references, but unsystematic, to the Romans, or to Roman Law, -- but not a systematic chronological thing. Romolo is cited twice, and there are passing comments on the Twelve Tables and its corrections, how the Romans were disallowed to sell their own children. There’s a critique to the dislike for the frugality that the Roman law enjoined. Also a praise for the ‘dittaura’ – there are references to Cicerone – but he just as well comments on the Greek law, and modern law from France and other European countries. His illuminism is based after all on Montesquieu! But the references to the Roman and the Roman law have been systematically studied. He refers to an ‘emering nation’ as Rome was under Romolo – and he makes passing comments on aristocracy, monarchy, mixed government, republic, and the question of citizenship – how the Romans bestowed Roman citizenship on habitants of cities other than Rome! Etc. -- Gaetano Filangieri. Filangieri. Keywords: lo stato secondo ragione,  ‘stato naturale’ ‘stato civile’ – costume – il romano – le costume dei romani – devere e volonta – implicatura deontica – passione e ragione – illuminismo – anti-clericalism – anti-Roman – Grice: “Catholicism gives a bad name to ‘Roman’!” -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Filangieri” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51716123341/in/photolist-2mRjtgo-2mQjVch-2mN35cA-2mMYDGZ-2mN113U-2mLQc9e-2mKEPgR

 

Grice e Filippis – implicatura metafisica – filosofia italiana – Luigi Speranza (Tiriolo). Filosofo. Grice: “Fillippis is an interesting one, for one there is a Palazzo De Fillippis; for another he was into the philosophy of mathematics; he was executed, but not for this.”  Martire della Repubblica Napoletana. Nato in una famiglia di piccoli proprietari terrieri, studia al Real Collegio di Catanzaro. Si recò a Napoli dove fu allievo del grande economista Genovesi. Ebbe modo di frequentare gli ambienti illuministici entrando in contatto fra gli altri Pagano. Proseguì in seguito gli studi in filosofia a Bologna sotto Canterzani. Insegna a Catanzaro. Fu fra i principali artefici della Repubblica Napoletana. Entra nel governo come ministro degli Interni. Con la caduta della Repubblica, venne messo a morte per impiccagione in Piazza Mercato. Scrisse importanti opere di filosofia, quali “Etica”; “Metafisica”, Vite degl'Italiani benemeriti della libertà e della patria, Torino, Bocca); Albo illustrativo della Rivoluzione Napoletana; B. Croce, G. Ceci, M. D'Ayala, S. Di Giacomo, Napoli, Morano); La Repubblica napoletana” Roma, Newton), Dizionario biografico degli italiani,  Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  L. Carini, V. De Filippis, Commutators with power central values on a Lie ideal, Pacific Journal of Mathematics 193(2) (2000), 296-278. 2. V. De Filippis, Left annihilators of commutators with derivation on right ideals, Communica- tions in Algebra 31(10) (2003), 5003-5010. 3. V. De Filippis, O.M. Di Vincenzo, Posner’s second theorem, multilinear polynomials and vanishing derivations, Journal of Australian Mathematical Society 76 (2004), 357-368. 4. V. De Filippis, An Engel condition with generalized derivations on multilinear polynomials, Israel Journal of Mathematics 162 (2007), 93-108 5. E. Albas, N. Argac, V. De Filippis, Generalized derivations with Engel conditions on one-sided ideals, Communications in Algebra 36(6) (2008), 2063-2071. 3  6. V. De Filippis, O.M. Di Vincenzo, C.Y. Pan, Quadratic central differential identities on a multilinear polynomial, Communications in Algebra 36(10) (2008), 3671-3681. 7. V. De Filippis,Generalized derivations with Engel condition on multilinear polynomials, Israel Journal of Mathematics 171(1) (2009), 325-348. 8. V. De Filippis, Annihilators of power values of generalized derivations on multilinear polyno- mials, Bulletin Australian Math. Soc. 80 (2009), 217-232. 9. V. De Filippis, Generalized Derivations as Jordan Homomorphisms on Lie Ideals and Right Ideals, Acta Mathematica Sinica 25(12) (2009), 1965-1974. 10. V. De Filippis, Product of generalized derivations on polynomials in prime rings, Collectanea Mathematica 61(3) (2010), 303-322. 11. B. Dhara, V. De Filippis, R.K. Sharma, Generalized derivations and left multipliers on Lie ideals, Aequationes Mathematicae 81 (2011), 251-261. 12. A. Ali, S. Ali, V. De Filippis, Nilpotent and invertible values in semiprime rings with Gener- alized Derivations, Aequationes Mathematicae 82 (2011), 123-134. 13. V. De Filippis, O.M. Di Vincenzo, Vanishing derivations and centralizers of generalized deriva- tions on multilinear polynomials, Communications in Algebra 40(6) (2012), 1918-1932. 14. V. De Filippis, F. Wei, Posner’s second theorem for skew derivations on multilinear polynomials on left ideals, Houston Journal of Mathematics 38(2) (2012), 373-395. 15. E. Albas, N. Argac, V. De Filippis, C. Demir, Generalized skew derivations with invertible values on multilinear polynomials, Communications in Algebra 40(11) (2012), 4042-4059. 16. V. De Filippis, G. Scudo, Strong commutativity and Engel condition preserving maps in prime and semiprime rings, Linear and Multilinear Algebra 61(7) (2013), 917-938. 17. V. De Filippis, A. Fosner, F. Wei, Identities with Generalized Skew Derivations on Lie Ideals, Algebras and Representations Theory 16(4) (2103), 1017-1038. 18. A. Ali, V. De Filippis, F. Shujat, On One Sided Ideals of a Semiprime Ring with Generalized Derivations, Aequationes Mathematicae 85(3) (2013), 529-537. 19. V. De Filippis, G. Scudo, Hypercommuting values in associative rings with unity, Journal of the Australian Math. Society 94(2) (2013), 181-188. 20. A. Ali, S. Ali, V. De Filippis, Generalized skew derivations with nilpotent values in prime rings, Communications in Algebra 42(4) (2014), 1606-1618. 21. V. De Filippis, O.M. Di Vincenzo, Hypercentralizing generalized skew derivations on left ideals in prime rings, Monatshefte fur Mathematik 173(3) (2014), 315-341. 22. A. Ali, V. De Filippis, F. Shujat, Commuting Values of Generalized Derivations on Multilinear Polynomials, Communications in Algebra 42(9) (2014), 3699-3707. 23. V. De Filippis, Generalized skew derivations as Jordan homomorphisms on multilinear poly- nomials, Journal of Korean Math. Soc. 52/1 (2015), 191-207. 24. V. De Filippis, O.M. Di Vincenzo, Generalized Skew Derivations on Semiprime Rings, Linear Multilinear Algebra 63/5 (2015), 927-939. 25. V. De Filippis, S. Huang, Power-commuting skew derivations on Lie ideals, Monatshefte fur Mathematik 177/3 (2015), 363-372. 4  26. V. De Filippis, L. Oukhtite, Generalized Jordan semiderivations in prime rings, Canadian Math. Bulletin 58 (2015), 263-270. 27. V. De Filippis, Annihilators and power values of generalized skew derivations on Lie ideals, Canadian Math. Bulletin 59/2 (2016), 258-270. 28. A. Ali, V. De Filippis and S. Khan, Power Values of Generalized derivations with annihilator conditions in prime rings, Communications in Algebra 44/7 (2016), 2887-2897. 29. L. Carini, V. De Filippis, G. Scudo, Identities with product of generalized skew derivations on multilinear polynomials, Communications Algebra 44/7 (2016), 3122-3138. 30. V. De Filippis, Engel-type conditions involving two generalized skew derivations in prime rings, Communications in Algebra 44/7 (2016), 3139-3152. 31. V. De Filippis, G. Scudo, Subsets with generalized derivations having nilpotent values on Lie ideals, Communications in Algebra 44/9 (2016), 4073-4087. 32. V. De Filippis, Rather large subsets and vanishing generalized derivations on multilinear poly- nomials, Communications in Algebra 45/6 (2017), 2377-2393. 33. L. Carini, V. De Filippis, F. Wei, Annihilating Co-commutators with Generalized Skew Deriva- tions on Multilinear Polynomials, Communications Algebra 45/12 (2017), 5384-5406. 34. N. Baydar Yarbil, V. De Filippis, A quadratic differential identity with skew derivations, Communications Algebra 46/1 (2018), 205-216. 35. L. Carini, V. De Filippis, G. Scudo, Vanishing and cocentralizing generalized derivations on Lie ideals, Communications Algebra 46/10 (2018), 4292-4316. 36. E. Albas, N. Argac, V. De Filippis and C. Demir, An Engel condition with generalized skew derivations on multilinear polynomials, Linear Multilinear Algebra 66/10 (2018), 1925-1938. 37. V. De Filippis, F. Wei, An Engel condition with X-Generalized Skew Derivations on Lie ideals, Communications Algebra 46(12) (2018), 5433-5446. 38. R. K. Sharma, B. Dhara, V. De Filippis, C. Garg, A result concerning nilpotent values with generalized skew derivations on Lie ideals, Communications Algebra 46/12 (2018), 5330-5341. 39. V. De Filippis, F. Wei, b-generalized skew derivations on Lie ideals, Mediterr. Journal of Math. 15/2 (2018), article number 65 (https://doi.org/10.1007/s00009-018-1103-2). 40. M. Ashraf, V. De Filippis, S.A. Pary, S.K. Tiwari, Derivations vanishing on commutator identity involving generalized derivation on multilinear polynomials in prime rings, Commu- nications Algebra 47/2 (2019), 800-813. 41. V. De Filippis, B. Dhara, Generalized Skew-Derivations and Generalization of Homomorphism Maps in Prime Rings, Comm. Algebra 47/8 (2019), 3154-3169. 42. V. De Filippis, F. Shujat, S. Khan, Generalized derivations with nilpotent, power-central and invertible values in prime and semiprime rings, Communications in Algebra 47/8 (2019), 3025- 3039. 43. B. Dhara, V. De Filippis, Engel conditions of generalized derivations on left ideals and Lie ideals in prime rings, Comm. Algebra 48/1 (2020), 154-167. 44. C. Demir, N. Argac, V. De Filippis, A quadratic generalized differential identity on Lie ideals in prime rings, Linear Multilinear Algebra 68(9) (2020), 1835-1847. 5  45. N. Argac, V. De Filippis, Power-central values and Engel conditions in prime rings with gen- eralized skew derivations, Mediterranean Journal of Math. 18/3 (2021), article number 82. 46. V. De Flippis, G. Scudo, F. Wei, b-Generalized Skew Derivations on multilinear polynomials in prime rings, Proceedings of INdAM Workshop ”Polynomial Identities in Algebras” Roma 16-20 settembre 2019, Springer Indam Series 44 (2021), 109-138.Vincenzo De Filippis. Filippis. Keywords: implicatura metafisica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Filippis” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51761688145/in/dateposted-public/

 

Grice e Filolao – l’arciere di Taranto – filosofia italiana – Luigi Speranza -- Italian philosopher from Crotone in southern Italy, the first Pythagorean to write a book. The surviving fragments of it are the earliest primary texts for Pythagoreanism, but numerous spurious fragments have also been preserved. Philolaus’s book begins with a cosmogony and includes astronomical, medical, and psychological doctrines. His major innovation was to argue that the cosmos and everything in it is a combination not just of unlimiteds what is structured and ordered, e.g. material elements but also of limiters structural and ordering elements, e.g. shapes. These elements are held together in a harmonia fitting together, which comes to be in accord with perspicuous mathematical relationships, such as the whole number ratios that correspond to the harmonic intervals e.g. octave % phenotext Philolaus 1: 2. He argued that secure knowledge is possible insofar as we grasp the number in accordance with which things are put together. His astronomical system is famous as the first to make the earth a planet. Along with the sun, moon, fixed stars, five planets, and counter-earth thus making the perfect number ten, the earth circles the central fire a combination of the limiter “center” and the unlimited “fire”. Philolaus’s influence is seen in Plato’s Philebus; he is the primary source for Aristotle’s account of Pythagoreanism.  DELI A DIALETTICA CONSIDERATA NELLE TRE SCUOLE  DI CROTONA, DI ELEA, E DI ALESSANDRIA.   Cousin avvertiva che la dialettica è lo strumento della  filosofia di Platone, ed ancora che la dialettica platonica  sta tutta nella definizione. Imperocché definire vuol dire  ricondurre una cosa particolare qualunque sotto un ge-  nere più o meno esteso (1). Ma egli non risaliva alle vere • •'  scaturigini della dialettica , le quali si trovano soltanto  nella scuola d'Italia, secondochè aveva osservato il Reid,  attribuendo a questa scuola la dottrina della definizio-  ne (2), nella quale la Dialettica si riduce e si assomma.   E valga il vero: definire vuol dire porre limiti , e non si  può limitare nessuna cosa senza il concetto del diastema  o dell’ intervallo, eh’ è peculiare della scuola pitagorica.   Il limite suppone qualche cosa di comune , e qual-  che altra di differente ; onde f una e f altra ricerca co-  stituiscono il vero ufficio della dialettica , la quale fu  .detta così da due parole greche ( Ai *— Uyu > ) , che si-  gnificano raccogliere attraverso , come se si dicesse tro-  vare l’uno per dentro il moltiplice. Da qui venne che  due concetti fondamentali costituissero il perno della  scuola italica, il conflitto dei contrari cioè, ed il loro ac-   (1) La dialectique est 1’instrument de la pliilosophie de Platon , et la  dialectique de Platon est loul entière dans la délìnition.Or, definir, c’e.st  généraliser, c’est à dire ramener à un genre quelconque, plus ou moins  olendo, Ielle ou Ielle cliose parliculière. Cousin Frag. Pini. Tom. /. Pla-  ton, I angue ile la théorie tlesiiléex.   (2) Telle est.., la doctrine d’ Aristote sur la définition , et probable-  mcnt l’invention de cette doctrine appartieni à Fècole pythagoricienne.   ( Reid , Analgxe de la log. d’ Ami. cliap. Il sect. I.)    Digitized by Google     — 18 —   coi do. Aristotile ci tramandò nella tavola delle dieci ca-  tegorie gli opposti riluttanti, che sono : il limile c l’ il-  limitato, l’ impari e il pari, il destro e il sinistro, il ma-  stino e la femmina, Io stabile c il mobile , il retto ed il  curvo, la luce e le tenebre, il bene ed il male, il quadra-  to e il rettangolo. Ei ci avvertì inoltre , che da un lato  stessero gli elementi positivi , dall’ altro i negativi. Il  numero poi che non era nè pensiero puro , nè cosa sen-  sibile, ma qualche cosa di mediano tra 1’ uno e 1' altra ,  serviva a stringere il moltiplice con l’uno, ed in questo  accordo appunto consisteva 1’ armonia (1).   Nella bella architettura del sistema pitagorico si pos-  sono però notare due gravi inconvenienti , che viziano  ed infermano la solidità della base. L’ infinito allogalo  tra i concetti negativi è il primo. In questo modo dibatti  al vero e saldo concetto dell’infinito se ne sostituisce un  altro tutto diverso, che n’è appena 1’ ombra, vale a dire  quello d’indefinito. Con ciò l’iiifmito si pareggia a tutti  gli altri opposti , che si debbono accordare, e però sup-  pongono un concetto superiore. La compiutezza dell’ in-  finito scompare totalmente.   L’ altro vizio , nè meno pregiudizievole del primo è ,  che il numero risultando dalla molliplicità delle Monadi,  le quali erano distinte dal diastema o dall’ intervallo ,  intanto avea consistenza c realtà , in quanto esso inter-  vallo avea capacità bastevole di discernerlo. Una volta,  però che l’ intervallo era il vuoto ; la realtà del molti-  plice tornava un bel nulla. L’ apeiron ed il renon, l’ in-  finito ed il vuoto adunque guastavano e magagnavano  l’ interna orditura del sistema pitagorico; apparecchia-  vano nuovi errori da scopi ire e da aggiungeie ai pensa-  tori susseguenti.   Ma vuoisi rendere una giustizia al filosofo di Samo ,    (1) Armonia viene da ap^os, che propriamente prima significava un te-  game materiale, commessura, compagine , articolo , e che poi si volse a  significare un accordo qualunque.    Digitized by Google    — 19 —    la quale consiste nel notare , eh’ egli non aveva confuso  la Monade con questo infinito, che attribuì esclusivamente  alla Diade. Plutarco esponendo il sistema di lui, dice (lj:  « Dei principi disse la Unità Dio, ed anco il bene , eh’ è  di natura un solo, e lo stesso intelletto : il due infinito,  e genio tristo , d’ intorno al qual due si sta la quantità  della materia ». Ora la Diade in mentre ch’era f inde-  finito, veniva detta eziandìo la ripetizione della Unità ,  onde forse posteriormente la sua natura si confuse con  quella della Monade. Sesto Empirico difatti espone cosi:  Dalla prima unità nasce 1’ uno: dall' unità, e dallo inter-  minato binario, il due; perchè due volte uno fa due (2):  Ma il binario è veramente la ripetizione della Monade ?  No; perchè 1' uno ripetendo sè medesimo dà sempre uno;  egli viene ad inlinitarsi , non a moltiplicarsi. Nella du-  plicazione ci è un altro elemento, che non era nell’Uno;  ci è la finitezza , e la successione. Venghiamo all’ inter-  vallo. Aristotile assevera, ch’esso non fosse altro nel si-  stema pitagorico che il vuoto , e però una semplice ne-  gazione. Codesta sua chiosa viene impugnala da altri, i  quali tengono che la parola vacuo fosse stata pigliata dai  Pitagorici in senso metaforico , dimodoché non signifi-  cava un semplice concetto negativo; ma una distinzione  reale (3). Accenno qui delle osservazioni , che mi sono  sforzato di rincalzare in un lavoro apposito su la storia  della nostra filosofia, la quale mi pare che sia stata più  pura nelle sorgive, e che nel corso siasi di poi rimesco-  lata, e falla torbida.   La scuola di Elea trasse i corollari dei principi o vi-  ziosi o viziati della scuola pitagorica. L'infinito era stato    (1) Delle cose naturali, lib. 1. cap. VII.   (2) Adv. Matlicra. lib. 10. « A prima quidem unitale , unum : ab uni-  tate autem, et interminato binario, duo. Bis enim unum, duo ».   (3) Il P. Silvestro Mauro commentando il cap 8. dui IV. lib. della Fisica  di Aristotile, osserva così : « Aliqui cum Phiiopono pulant Pjtbagoricos  locutos metaphorice, ac nomine vacui inlellcxisse distinctionem,_qua rcs  inviccm separantur, ac distinguuntur ».    Digìtìzed by Google     — 20 —    allogato fra i (ermini oppositi della serie alla quale so-  vrastava l’Unità, però ragionevolmente Senofane inferì,  die 1' Essere non fosse nè finito nè infinito, il qual con-  cetto vedremo rinnovato ed ampliato in Plotino (1). Il  diastema era stato chiamato il vacuo, però, ripigliò Par-  menide, la moltiplicità delle cose non è reale; è una vana  apparenza, è un nulla. II vero essere è l’Uno. Imperoc-  ché leva dal moltiplice l’intervallo, che discerne l’uria  cosa dall’altra, quel che ti rimarrà, è soltanto l’Uno.  Così la scuola elealica è intimamente e logicamente con-  nessa con la italica ; se non che ella ne continua la parte  negativa , ed in ultimo costrutto riesce nella sofistica ,  che rampollò da lei, e che chiuse il periodo della nostra  filosofia sì bene avviata da principio. La filosofia nostra  incominciò con la vera Dialettica, con 1’ armonia , e de-  generò nella medesimezza, che non era più accordo, ma  annullamento di un termine in grazia dell’ altro. Se odi  l’Hcgel, cotesto fu vero progresso, egli Eleati toccarono  il colmo della speculazione. Ognuno ha il suo modo di  vedere, o meglio di foggiarsi la storia. Gli Ionici, ei ti di-  ce, concepirono l’Assoluto sotto una forma naturale; i Pi-  tagorici come numero , che non è nè pensiero puro nè  cosa sensibile, e tramezza tra l’uno e l’altra, studiandosi  di accordarli insieme. Gli Elcaliei da ultimo sceverarono  il pensiero non che dalla forma sensibile degli Ionici, ma  eziandio dal numero dei Pitagorici, e lo considerarono  nella sua purezza, affermando che tuttoè Uno. Per quanto  slrana paia colesta medesimezza del pensiero e dell’ Es-  sere, ella è deduzione cavata a martello di logica daPar-  menidc. Ei difatti dice recisamente: Se 1’ Essere è uno,  il pensiero e la cosa pensata sono la medesima cosa , o  bisognerebbe dire che il pensiero non è. Ma per qual ra-  ti) Il (Xenophane) enseignait que Dicu n’est ni infini ni fini, puisque  l'infini n'est que la uon-existence, ear rimìni est ce qui n’a ni commen-  cement, ni milieu, ni fin, et que le fini est l’un par rapport à l’autre;  caractère de la nmltiplicité des clioses». Ritter, Ilist. de la phil. ancien.  T. I liv. V. eh 2.      — 21 —    gione l’Essere è uno, ed il nòn-enle è impossibile? Fin-  giamo Parmenide che mediti sui principi della scuola  pitagorica, e seguitiamone il processo.   Tutte cose si fanno dall’Uno; ma ciò che si fa dall'Uno  è Uno; adunque tutte le cose sono uno. Ma perchè si fanno  dall’ Uno ? Perchè la Monade è 1’ Essere; e dal non-ente  non si fa nulla. Se il non-ente non è , e l’ intervallo dei  Pitagorici è il non-ente; esso adunque non è. Ma il tempo  e lo spazio si fondano su l’ intervallo; adunque essi nem-  meno esistono. Ma il moto è la sintesi del discreto spa-  ziale e temporaneo ; adunque il movimento non esiste.  Ma i cangiamenti della natura sensibile si fanno per mo-  to, adunque le mutazioni non esistono, e sono illusorie.  Qui si vede una logica intrepida e franca. 11 mondo sen-  sibile se n’ è ito, ed il pensiero solo rimane , immedesi-  mato con 1’ Essere. Il pieno è il pensiero, conchiude in-  fine il rigoroso pensatore di Elea. ( Tò yAf «uà» «ari  vowx.) Pitagora avea chiamato il mondo ordine , Cos-  mo , facendo trovar luogo a tutto (1) ; Parmenide per  contra lo stremò ad una metà. Ma eglino si ponno dire  di aver tracciata fin da tempi remotissimi ogni via di fi-  losofare; nè di altre mi pare che se ne siano aperte, nè  che forse se ne possano aprire. Noi con tutta la nostra  ostinata insistenza non siamo usciti di Crotona e di Elea;  e le lotte che stanno agitando ora l’Italia e la Germania,  la filosofia della creazione e quella della identità , sono  rinnovazioni più o meno profonde di quegli antichi si-  stemi. Mi si dirà forse che la Germania abbia aggiunto  dippiù il movimento medesimo del pensiero , e che ne  abbia disegnato 1’ ordine ed il processo ; e questo pure  voglio vedere se sia schiettamente originale, o non anzi  accattalo d’ altronde. Nel provarmi a cercare coteste re-  lazioni, io non voglio detrarre nulla alla profondità dei  pensatori odierni, ma lo faccio con l'intendimento di ren-   (1) Pitagora primo di tutti nominò il mondo 1’ Unione di tutte le cose,  rispetto all’ ordine che si trova in lui. Plut. Delle cose nat. lib. II. c. 1.      — Digitized by Google     — 22 —    dere a me stesso ragione del cammino che ha percorso il  pensiero umano, e delle orme che passando ha lasciato.  Agli uomini mi giova anteporre la verità.   Se la filosofia eleatica aveva nelle sue sottili e spe-  ciose investigazioni raggiunto il concetto della medesi-  mezza, o l’Uno convertito in Tutto, ella avea trovato il  bandolo della scienza , ma non ne avea dipanato la ma-  tassa. « Ritrovare il punto di riunione non è il più gran-  de secreto ; ma sviluppare fuori dello stesso anche il suo  contrario, questo è proprio del più profondo secreto del-  l’arte (1) ». Come il Tutto rampolla dall’Uno, ecco quel-  lo che si sforzò di spiegare la scuola di Alessandria, che  toccò il colmo di sua perfezione in Plotino. L’Infinito  negativo dei Pitagorici , consideralo immobile da Par-  menide, piglia movimento in Plotino. Ed io credo far cosa  grata al lettore ponendogliene sott’ occhio la descrizione  che ne fa il famoso Ncoplatonico, allegando le sue mede-  sime parole. « E la infinità medesima , ei dice , in che  modo si può trovare colà (nell’ Uno;? Imperocché se ella  ha 1’ essere, già esiste in un ordine determinato di enti:  o certo se non sarà determinata, non vuoisi allogare nel  genere degli enti, ma forse parrà da noverare nell’ordine  di quelle cose, che diventano , siccome interviene altresì  nel tempo. Forse ancora se ella si definisce , per cote-  sto medesimo ella è infinita ; perocché non il termi-  ne , ma l' infinito è che si determina. Nè v’ è locata  nessun’altra cosa mediana tra l' infinito ed il termi-  ne , la quale subisca la natura di termine. Certamente  cotesto infinito sfugge all’idea di termine, ma viene com-  preso ed attorniato esteriormente. Sì che nel fuggire  non va da un luogo in un altro , chè luogo alcuno non  ha ; ma allorché ei v iene compreso, eccoti allora la pri-  ma volta aver esistenza il luogo. Il perchè non si ha da  stimare che il movimento, che nel parlare si attribuisce   \   (1) Platone nel Piloto cit. nel Dialogo dello Schelling intitolato il  Giordano bruno. Trad. della Florenzi p. 103.     — 23 —    all’ infinità , sia locale, nè che gliene avvenga alcun al-  tro di quelli che soglionsi nominare. Sicché non mai si  muove, nè mai permane. E dove volete che stia, se co-  testo medesimo che si chiama dove, nasce dopo? Pare  però che all’infinità si attribuisca il moto, perchè ella  non sta ferma. Forse che adunque ella sta così come se  fosse nel medesimo luogo sospesa in alto, e che si aggi-'  rasse? Od anzi, che là stia levata, e qua pure si agiti ?  no , che in nessun modo è così. Imperocché ambedue  queste cose sono giudicate al medesimo luogo , sì per-  chè s’innalza senza declinare dove appartiene allo stesso  luogo, sì ancora perché declina. Adunque altri andrà  pensando che cosa sia l’ infinità? Egli allora per fermo  la penserà, quando avrà separato la specie dalla intelli-  genza. Adunque che intenderà allora ? Forse intenderà  insieme i contrari, e i non contrari: perocché là inten-  derà il grande ed il parvo ; perché diviene l’ uno e 1’ al-  tro ; il permanente ed il mosso , perché queste cose  ivi diventano. Ma prima di diventare , è chiaro eh’ ella  non sia determinatamente nessuna delle due , chè al-  trimenti tu l'avresti già determinata. Se adunque quella  natura è infinita, e queste cose, come io diceva, infinita-  mente ed indeterminatamente sono ivi, così certamente  vi appariranno. Che se yi ti accosterai più da vicino, ed  adoprerai alcun termine, onde volessi irretirla , tosto ti  sfuggirà, nè vi troverai nulla, chè altrimenti già l’avre-  sti definita. Ed anzi se t’ imbatterai in alcuna , siccome  una, incontanente ti si porge come moltiplice. Se tu di-  rai: sei moltiplico, mentirai di nuovo; chè dove ciascuna  cosa non è una , nemmanco molte sono tutte. E questa  medesima è la natura della infinità, che secondo una im-  maginazione è movimento; e sin dove si aggiunge la fan-  tasia è stato. Inoltre cotesto medesimo , perchè tu non  puoi vederla per sé stessa, è un colai movimento, e caso  dalla mente. In quanto poi non può sfuggire , ma viene  costretta attorno esteriormente , tanto che non può pre-  terire i limiti , dee giudicarsi un certo stato. Di che si      Digitized by Google     — 24 —   pare, che non pure di Jei si possa affermare il movimento,  ma eziandio lo stato (1) ». La dottrina di Plotino si ri-  duce adunque in questi capi: 1. L’ infinito non è un es-  sere in atto; se fosse tale, sarebbe in un dato ordine, sa-  rebbe perciò medesimo finito. 2. L’ infìniludine si oc-  culta nel .termine che finisce qualche cosa. 3. Togli di  mezzo tutte le forme, tutt’i termini, tutl’ i fini, ed avrai  l’ infinitudine. 4. Quando l'apprendi, ella svanisce, per-  chè già l'hai terminata. 5. Ella non appartiene a nessun  genere di oppositi ; se avesse un contrario , sarebbe da  questo limitata. 6. Ma ella è o uno, o l’altro degli oppo-  sili, in quanto uno di essi nega 1’ altro.   Dalle quali cose conseguita che l'Infinito dei Neopla-  tonici non è nemmeno l’Essere, inteso come qualche cosa  di sussistente e di definito, ma è l’uno considerato come  principio dell’ Ente medesimo. Plotino assegna la ragio-  ne di ciò dicendo, che se l’Ente non fosse nell’ Uno, in-  contanente si dissiperebbe. Per contra l’Uno non si fon-  da nell'Ente, perchè altrimenti l’Uno sarebbe prima di  essere Uno (2). Or questo Uno diventa Primo nel pro-  durre il Secondo , o la Ragione , la quale è inferiore al  suo principio , perchè nella serie delle emanazioni pen-  savano gli Alessandrini, che il prodotto di tanto scemas-  se, di quanto dal principio si discostasse come lume va-  niente per l'aere, che ai più lontani giunge più pallido.  In ciò sta forse uno dei principali divari che corrono tra  la triade alessandrina, e la tricotomia hegelliana, perchè  dove in quella la perfezione si va scemando, e l’essere si  va dissipando , in questa al contrario la smilza e magra  natura dell’ Idea si va rimpolpando e rinsanguinando per  via, finché tocca in fine quel colmo di perfezione, in cui  la forma adegua perfettamente il contenuto. Il che mi  pare assai più logico del processo alessandrino, dove Tes-    ti) Plotino, Enneade VI. lib. VI. cap. III.  (2) Plotino, Enneade VI. lib. VI. cap. IV.    Digitized by Google    — 25 —    sere nè ti si porge molto dovizioso da principio, nè se ne  rifa più che tanto in ultimo.   Comunque però dal seno del Primo erompa la Ragio-  ne, egli rimane nondimeno immutato. Ciò perchè la ne-  cessità di cotesta manifestazione non gli è estrinseca ;  s’ egli non può rimanere solo, è perchè tale è la sua na-  tura, la quale rimane pur sempre libera. Il Secondo per  essere rampollato dal Primo abbiamo visto che gli deve  sottostare ; sicché 1’ unità e la semplicità del Primo non  si travasa intera nella Ragione. Questa però partecipa  alla moltiplicità. Ma v’ha dippiù. In che modo la Ra-  gione rassomiglia al Primo, postochè questo non sia Ra-  gione ? Plotino risponde alla difficoltà osservando, esser  proprio della natura del Secondo di rivolgersi verso il  Primo; però di vederlo, però di diventar Ragione, anco-  raché il Primo non sia tale. La Ragione non vede quindi  sè medesima ; e la cosa non dee parere strana , quando  si consideri , come fa il Ficino, eh’ ella opera nel movi-  mento, ed ogni moto tende verso un altro posto fuori di  sè (1).   La Ragione rassomiglia al Primo nell’inchiudere il du-  plice concetto di essere permanente e di moto; sicché in  essa si può distinguere l’energia e la facoltà, o, che tor-  na il medesimo , la possibilità e 1’ atto , la materia e la  forma. In quanto ella può diventare, contiene la materia  del mondo sovrasensibile; ed in quanto è, ne contiene la  specie o la forma. Yi ha dunque nel sistema di Plotino  una materia nel mondo sovrasensibile , come nel sensi-  bile , e noi vedremo che Giordano Bruno ha spiritualiz-  zalo ancora la materia sino a questo segno. La Ragione  è una perchè guarda al Principio, al Bene ; è moltiplice  perchè è forma delle cose.   Nel modo medesimo che 1’ Uno produce la Ragione ,   (1) Ficino sopra il 3." lib. della V. Enneade di Plotino dice: « Cum ra-  tionis proprium sii in molu agere, et motus tendat in aliud, merito ratio  communiter circa alia potius, quam circa seipsam se volutat, ideo non est  eius proprium se cognoscere # .    Digitized by Google     - 26 —    questa alla sua volta liglia e partorisce l’Anima, la  quale operosa com'ò, e resa feconda dalla Ragione estrin-  seca il mondo sensibile. E qui nota che la Ragione da  sè non opera nulla , ma contiene soltanto il germe del-  1‘ operazione , il quale diventa pratico nell’ Anima del  mondo. Plotino adunque concepisce cotesti tre termini  in un modo che si potrebbe rendere più chiaro, e quasi  sensato, rappresentandocelo così. Nel centro sta l’ Uno ,  attorno a cui la Ragione descrive quasi un cerchio immo-  bile, ed attorno a questo cerchio immobile 1’ Anima del  mondo circoscrive un nuovo cerchio, i! quale movendosi  produce i! mondo sensibile. Quest’ ultimo mondo , fat-  tura dell’Anima mondiale, è l’opposto dell'Uno; perocché  esiste nello stato di dissipamento , di disterminazione ,  di esteriorità. Onde la sua esistenza è apparente , non  vera, consistendo la verità in quello che nelle cose vi ha  di più intimo; e la Triade delle emanazioni, che si pos-  sono chiamare sovrasensibili, ha compimento con l’Ani-  ma. In questa avviene la cognizione di sè medesima, per-  chè il suo movimento è circolare , e però dee tornare al  punto medesimo onde si mosse. « Perchèil cielo si muove  rincirculando ? » Domanda Plotino ; « Perchè imita la  mente (1) ». Onde si può dire eh’ egli consideri prima  il pensiero in sè stesso, poi lo stesso pensiero come ob-  bietto ; finalmente l’ identità dell’ uno e dell’ altro , o la  compenetrazione nella quale sta il pensiero propriamente  detto, o il pensiero riflesso (2).   La nomenclatura medesima , non che la tripartizione   (1) Ennead. II. lib. 2.   (2) L’ itléc fondamentale de ce qu’on appelle philosophie néoplatoni-  cienne ou philosophie d’Alexandrie, était celle du vo’j? ayant pour objet  lui-méme. C’est d’abord la pensée comme Ielle , puis la pensée cornine  objet (vonrov), et enfin 1’idcntité de l'une et de l’autre: c’cst, selon He-  gel, la trinité chrétienne, et cette idée est Tètre en soi et pour soi. Dieu,  T esprit absolu et pur et son action en soi, le Dieu vivant, actif cn soi ,  tei est T objet de cette philosophie. WiUm. Hist. de la phil. Alleni.  Tom . 4, Phil. de Hegel, chap. 17.    Digitized by Google     — 27 —    dello sviluppamento posto dai Neoplatonici nell' Infinito,  ci dà subito a divedere eh’ eglino abbiano voluto immi-  schiare alle speculazioni greche ed orientali le tradizioni  cristiane intorno al dogma della Trinità. Hegel medesi-  mo P ha avvertito, ma il profondo pensatore di Germa-  nia non ha osservalo che la Scuola Neoplatonica aveva  non copiato, ma sformato e travisato il sublime concetto  cristiano. Imperocché nella nostra Trinità ci è gerarchia  ed uguaglianza ad un tempo, dove quel continuo digra-  dare delle emanazioni aggiunto dagli Alessandrini appaia  cose dell’ intutto contrarie. Plotino medesimo non sapea  come cavarsi d' impaccio nello spiegare in qual modo la  Ragione potesse rampollare da ciò che non era Ragione.  Nella Trinità cristiana l’Infinito compenetra sé medesi-  mo , ma sempre infinitamente , dove negli Alessandrini  tal compenetrazione diventa possibile soltanto a costo  di smettere la propria natura , e di diventare finito e  moltiplice. Nella Trinità degli Alessandrini il Principio  , o 1' Uno non ha notizia di sé medesimo , in mentre che  secondo i pronunziati cristiani il Padre , conoscendo sé  medesimo, genera il Verbo. K molte altre differenze si  potrebbero trovare, per le quali le due Trinità si riscon-  trano soltanto nel nome, che gli Alessandrini accattarono  dai Padri della Chiesa; ma nel fondo rimangono sempre  cose onninamente disparate. Di qualche cosa però la fi-  losofia si era avvantaggiata , riconoscendo un processo  nella Dialettica, per lo quale le esistenze non erano cose  morte , ma viventi. Imperocché nelle relazioni intime  dell’Infinito con sé medesimo si trova il concetto primi-  tivo e perfettissimo della Dialettica. L’ altra della crea-  zione non è , se non una copia finita di quella prima ed  interna. Onde se nella prima l’ Infinito si trova in rela-  zione con sé stesso , considerato sempre come attuale ;  nella seconda egli si trova in relazione , ma considerato  una volta come attuale , ed un’ altra volta come poten-  ziale.   Nella prima però ha luogo un processo estemporaneo.    Digitized by Google     — 28 —    nella seconda vi ha progresso effettivo, ed acquisto vera-  ce. Le due dialettiche confuse ed immischiate l’una con  P altra dagli Alessandrini, passarono in retaggio a tutt'i  panteisti. Se noi adunque ci siamo fermati a tratteggiare  per sommi capi il loro sistema , come venne fornito da  Plotino, non è stato senza motivo; che da Pitagora a Pio-  tino la scienza fece passi giganteschi, comunque spesso  sviandosi dal diritto sentiero. Il Conte Mamiani mede-  simo notò nella leggiadra prefazione al dialogo citato  dello Schelling , che le massime e le tradizioni dei filo-  sofi della Magna Grecia, e i libri dei Neoplatonici furo-  no al Bruno il semenzajo usuale e continuo onde trasse  i germi delle idee di maggior momento. Nella esposizio-  ne che faremo delle dottrine del Nolano cotesto riscontro  si parrà più chiaro. Filolao. Keywords: Crotona, Crotone, Metaponto, Aristoxenus of Tarentum. H. P. Grice, “Pythagoras: the written and the unwritten doctrines,” Luigi Speranza, “Grice e Filolao” -- “Grice a Crotone, ovvero, Filolao,” per il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51760343533/in/dateposted-public/

 

Grice e Fineschi – eroticologico, filologico – l’amore – filosofia italiana – Luigi Speranza (Siena). Filosofo. Grice: “Fineschi shows how COMPLEX Marx’s theory of cooperation is!” --  Grice: “I like Fineschi; when at Harvard I played with ‘cooperation’ I didn’t really know what I was talking about! Fineschi does! He calls me a Marxist – and that’s why I dubbed my ontological occam’s razor as ‘ontological marxism’!” Studia a Siena sotto Mazzone con “Marx rivisitato”. Per il suo dottorato, svoltosi sotto Domanico a Palermo, si occupa del rapporto Marx-Hegel. Ha vinto la prima edizione del premio David-Rjazanov-Preises. Altre opere: “Ripartire da Marx. Processo storico ed economia politica nella teoria del “capitale”, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici La Città del Sole, Napoli); “Marx: rivisitazioni e prospettive, Mimesis, Milano (Itinerari filosofici) “Marx e Hegel. Contributi a una relectura” (Carocci editore, Roma); “Un nuovo Marx. Filologia e interpretazione dopo la nuova edizione storico critica” Carocci editore, Roma).  Wikipedia Ricerca Al di là del principio di piacere saggio di Sigmund Freud Lingua Segui Modifica Al di là del principio di piacere Titolo originale                                                      Jenseits des Lustprinzips Freud 1921 Jenseits des Lustprinzips.djvu AutoreSigmund Freud 1ª ed. originale1920 GenereSaggio SottogenerePsicoanalisi Lingua originaletedesco Al di là del principio di piacere (tedesco: Jenseits des Lustprinzips)[2] è un saggio di Sigmund Freudpubblicato nel 1920, incentrato sui temi dell'Eros e del Thanatos, ovvero rispettivamente la "pulsione di vita" e la "pulsione di morte" (Todestrieb[e]).   Giuditta II di Gustav Klimt, 1909, Venezia, Galleria internazionale d'arte moderna.[1]  Achille sorregge Pentesilea dopo averla colpita a morte, una delle leggende fiorite sull'episodio vuole che l'eroe se ne innamori proprio in questo momento. Bassorilievo dal tempio di Afrodite a Afrodisia Il dualismo di EmpedocleModifica Freud formula il conflitto psicologico in termini dualistici fin dai suoi primi scritti, ma è solo in questo testo che egli presenta un simile conflitto mediante concetti desunti dal pensiero di Empedocle, il quale parla d'un dissidio cosmico fra i princìpi o forze di Amore (o Amicizia) e Odio (o Discordia).  «Empedocle di Agrigento, nato all'incirca nel 495 a.C., si presenta come una figura fra le più eminenti e singolari della storia della civiltà greca [...] Il nostro interesse si accentra su quella dottrina di Empedocle che si avvicina talmente alla dottrina psicoanalitica delle pulsioni, da indurci nella tentazione di affermare che le due dottrine sarebbero identiche se non fosse per un'unica differenza: quella del filosofo greco è una fantasia cosmica, la nostra aspira più modestamente a una validità biologica. [...] I due principi fondamentali di Empedocle – philìa (amore, amicizia) e neikos(discordia, odio) – sia per il nome che per la funzione che assolvono, sono la stessa cosa delle nostre due pulsioni originarie Eros e Distruzione.»[3]  Il nome di Eros deriva da quello della divinità greca dell'amore, e «tende a creare organizzazioni della realtà sempre più complesse o armonizzate, [mentre] Thanatos tende a far tornare il vivente a una forma d'esistenza inorganica. Queste sono pulsioni. Eros rappresenta per Freud la pulsione alla vita, mentre Thanatos quella della distruzione. Qualora l'autodistruzione diventasse oggetto di malattia però Thanatos diviene il nome del conflitto che si crea tra energia negativa (autodistruzione) e positiva (la rabbia del Thanatos viene utilizzata per distruggere la malattia stessa).»[4] Freud riscontra anche in un altro filosofo, questa volta contemporaneo, un'anticipazione della sua scoperta: "E ora le pulsioni nelle quali crediamo si dividono in due gruppi: quelle erotiche, che vogliono convogliare la sostanza vivente in unità sempre più grandi, e le pulsioni di morte, che si oppongono a questa tendenza e riconducono ciò che è vivente allo stato inorganico. Dall'azione congiunta e opposta di entrambe scaturiscono i fenomeni della vita, ai quali mette fine la morte. Forse scrollerete le spalle: 'Questa non è scienza della natura, è filosofia, la filosofia di Schopenhauer'. E perché mai, Signore e Signori, un audace pensatore non dovrebbe aver intuito ciò che una spassionata, faticosa e dettagliata ricerca è in grado di convalidare?"[5]  «Thanatos non compare negli scritti di Freud, ma egli, a quanto riferisce Jones,[6] l'avrebbe talvolta usato nella conversazione. L'uso nel linguaggio psicoanalitico è probabilmente dovuto a Federn.»[7]  Sabina Spielrein e Barbara LowModifica Su esplicita influenza di Sabina Nikolaevna Špil'rejn, citata in nota nel libro del 1920,[8] per Freud Thanatos segnala il desiderio di concludere la sofferenza della vita e tornare al riposo, alla tomba. Concetto che non deve essere confuso con quello di destrudo, vale a dire con l'energia della distruzione (che si oppone alla libido).  Thanatos è il principio di costanza,[9] accennato fin dal capitolo sette de L'interpretazione dei sogni (1899) e che adesso, sotto l'influsso del pensiero di Schopenhauer,[10] diventa identico al principio del Nirvana proposto da Barbara Low:[11] le eccitazioni della mente, del cervello, dell'"apparato psichico" non vengono più solo sgomberate, tenute costanti al più basso livello possibile, bensì estinte, eliminate sino al grado zero della realtà inanimata.[12][13][14]  La coazione a ripetereModifica Nel testo del '20 Freud sostiene che «nella vita psichica esiste davvero una coazione a ripetere la quale si afferma anche a prescindere dal principio di piacere.»[15][16] Sulla falsariga del motto errare humanum est, perseverare autem diabolicum, essa viene definita per quattro volte «demoniaca»:[17] "Vi sono individui che nella loro vita ripetono sempre, senza correggersi, le medesime reazioni a loro danno, o che sembrano addirittura perseguitati da un destino inesorabile, mentre un più attento esame rivela che essi stessi si creano inconsapevolmente con le loro mani questo destino. In tal caso attribuiamo alla coazione a ripetere un carattere "demoniaco".[18] La coazione a ripetere è riscontrabile anche nella nevrosi traumatica dei reduci della prima guerra mondialeoppure di chi tende a rivivere o reinterpretare gli eventi più violenti.  Freud collocò la coazione a ripetere fra i sintomi della nevrosi: si ripete il sintomo nevrotico invece di ricordare, si ripete per non ricordare, con quello che Freud chiama «l'eterno ritorno dell'uguale».[19] Per la relazione tra pulsione e coazione a ripetere, Freud notò che le coazioni tendono come la pulsione a una ripetizione assoluta e atemporale, mai definitivamente appagata, e che tendono a sparire quando un fatto viene riportato a conoscenza del paziente. Dalla rimozione di una pulsione (a muoversi ovvero a ricordare un fatto doloroso o traumatico), la coazione a ripetere trae l'energia per imporsi sulla volontà cosciente dell'Io. La coazione a ripetere diventa il punto di partenza della terapia psicoanalitica. Occorre ricordare per non ripetere gli errori del passato, gli stessi dubbi e conflitti per tutta la vita, in amore, in amicizia, nel lavoro.  Freud rileva questa coazione anche nelle circostanze più ordinarie e naturali, persino nel gioco dei bambini come quello con il rocchetto usato dal suo piccolo nipote di diciotto mesi. Il bimbo, lanciando il rocchetto lontano da sé, simboleggia la perdita della madre e, ritraendo il rocchetto a sé, rappresenta il ritorno della madre. Imparerebbe così a padroneggiare l'assenza materna attraverso un duplice movimento, che è sempre seguito dalla vocalizzazione di un "oooo..." (ted. fort, «via!»), quando il rocchetto è lontano, e da un "da" (ted. da, «Eccolo!»), quando il rocchetto è di nuovo vicino.[20]  Dopo l'esposizione d'una serie di ipotesi (in particolare l'idea che ogni individuo ripete le esperienze traumatiche per riprendere il controllo e limitarne l'effetto dopo il fatto), Freud considera l'esistenza di un essenziale desiderio o pulsione di morte, riferendosi al bisogno intrinseco di morire che ha ogni essere vivente. Gli organismi, secondo quest'idea, tendono a tornare a uno stato preorganico, inanimato – ma vogliono farlo in un modo personale, intimo.  Conclusione Modifica In definitiva, «sembrerebbe proprio che il principio di piacere si ponga al servizio delle pulsioni di morte [...]. A questo punto sorgono innumerevoli altri quesiti cui non siamo in grado attualmente di dare una risposta. Dobbiamo aver pazienza e attendere che si presentino nuovi strumenti e nuove occasioni di ricerca. E dobbiamo esser disposti altresì ad abbandonare una strada che abbiamo seguito per un certo periodo se essa, a quanto pare, non porta a nulla di buono. Solo quei credenti che pretendono che la scienza sostituisca il catechismo a cui hanno rinunciato se la prenderanno con il ricercatore che sviluppa o addirittura muta le proprie opinioni.»[21]  ImplicazioniModifica Uno psicoanalista con competenze pure di antropologia filosofica come Sciacchitano sostiene che «la vera psic[o]analisi fu il frutto tardivo dell'attività teoretica di Freud. Bisogna aspettare la svolta degli anni Venti, con l'invenzione della pulsione di morte, per parlare di vera e propria psic[o]analisi. [...] [Essa] comincia con la rinuncia alle pretese e alle finalità mediche della psicoterapia. [...] Il nuovo modello freudiano [...] individuava nello psichico un nucleo patogeno fisso, qualcosa che non si scarica mai, ma continua a ripetersi identicamente a se stesso e insensatamente, cioè fuori da ogni intenzionalità soggettivistica e contro ogni teleologia vitalistica. Ce n'era abbastanza per far crollare ogni illusione terapeutica. Parecchi allievi a questo punto abbandonarono il maestro che toglieva avvenire, come si dice terreno sotto i piedi, alle loro illusioni umanitarie».[22]  Dal 1920 sino al 1939, anno della sua morte, Freud non cambierà più idea. Ciò significa che il fondatore della psicoanalisi asserirà la sostanziale "inguaribilità'" del disagio psichico per lo stesso arco di tempo, un ventennio, in cui egli precedentemente aveva affermato l'esatto contrario.  Wilhelm Reich, in La funzione dell'orgasmo (1927) e Analisi del carattere (1925), propose una propria ipotesi di confutazione alla teoria della pulsione di morte.   La madre morta (1910), Egon Schiele, Vienna, Leopold Museum. Nell'arte: SchieleModifica «Egon Schiele sa che tutto ciò che vive è anche morto, porta in sé il suo esistenziale compimento, fin dall'istante del concepimento, come attesta il funesto dipinto del 1910: La madre morta, in cui il grembo appare come un lugubre mantello, un involucro mortuario che racchiude il Sein zum Tode [Essere-per-la-morte] del nascituro, ne circoscrive la parabola esistenziale.»  (Marco Vozza[23])  Agonia (1912), Egon Schiele, Monaco di Baviera, Neue Pinakothek.  Madre con i due bambini(1915-1917), Vienna, Österreichische Galerie Belvedere. «Schiele introduce un evento di grande rilievo nell'iconografia della malinconia e della vanitas, operandone una trasfigurazione tragica: l'uomo non [...] medita più sulla morte raffigurata in un teschio posto nel suo studiolo come altro da sé, ma assume sul proprio volto l'icona funebre, diventa morte incarnata, esibita nel gesto d'esistere, nel godimento del sesso e nella prostrazione della sofferenza. Nessuna iconoclastìa sopravvive nel gesto pittorico di Schiele: si pensi all'Agonia del 1912 [...], sacra rappresentazione di stupefacente intensità cromatica, allegoria del dolore immedicabile, emblema di una eterna e impietosa Passione, sublime omaggio a quell'incomparabile maestro di sofferenza che è stato Grünewald.»  (Marco Vozza[24]) «La Madre con i due bambini [...] esibisce un volto già visibilmente cadaverico, mentre un infante osserva sgomento il deliquio orizzontale del fratellino. [...] Nessuno meglio di Schiele ha saputo render visibile quella che l'analitica esistenziale ha chiamato Geworfenheit, l'indifeso essere gettati in un mondo ostile. Insieme a lui soltanto Kokoschka, in seguito Dubuffet e Bacon.»  (Marco Vozza[25]) Note                            Modifica ^ Quadro che Sabina Nikolaevna Špil'rejn sceglie come modello rappresentativo del connubio Eros-Thanatos nel film biografico Prendimi l'anima (Roberto Faenza, 2002): Perché Giuditta uccide Oloferne, estratto dal film su YouTube(vedi screenshot). ^ Sigmund Freud, Al di là del principio di piacere(1920), in Opere di Sigmund Freud (OSF) vol. 9. L'Io e l'Es e altri scritti 1917-1923, Torino, Bollati Boringhieri, 1986. ISBN 978-88-339-0059-9. Ed. paperback 2006. ISBN 978-88-339-0479-5. ^ Sigmund Freud, Analisi terminabile e interminabile (1937), in OSF vol. 11. L'uomo Mosè e la religione monoteistica e altri scritti 1930-1938, Torino, Bollati Boringhieri, 2008, pp. 527-529. ISBN 978-88-339-0115-2. Ed. paperback2009. ISBN 978-88-339-0481-8. ^ Umberto Galimberti, Enciclopedia di psicologia, Garzanti, Torino, 2001, p. 802. ISBN 88-115-0479-1. ^ S. Freud Introduzione alla psicoanalisi, Edizioni Boringhieri 1978, p.509. ^ Ernest Jones, Vita e opere di Freud, vol. 3: L'ultima fase (1919-1939), Milano, Garzanti, 1977. ISBN non esistente. ^ Jean Laplanche, Jean-Bertrand Pontalis, a cura di Luciano Mecacci e Cyhthia Puca, Enciclopedia della psicoanalisi, vol. 2, Bari-Roma, Laterza, voce Thanatos, 8ª ed. 2008. ISBN 978-88-420-4259-4. ( EN )  The language of psycho-analysis, Karnac, Paperbacks, 1988. ISBN 0-946439-49-4; ISBN 978-0-946439-49-2. Anteprima disponibile, p. 447, su books.google.it. ^ Sigmund Freud, Al di là del principio del piacere, op. cit., p. 240. ^ Sigmund Freud, op. cit., p. 195. ^ Sigmund Freud, op. cit., p. 235. ^ Sigmund Freud, op. cit., p. 241. ^ Matteo Mugnani, Analisi del testo di S. Freud: "Il problema economico del masochismo". URL consultato il 6 febbraio 2011. ^ Leonardo Della Pasqua, Al di là del principio di piacere: sul principio di Piacere e la Coscienza.URL consultato il 26 agosto 2009. ^ Jean Laplanche, Jean Bertrand Pontalis, op. cit., voce Principio di piacere. ( EN ) Op. cit., Anteprima disponibile, pp. 272-3, su books.google.it. ^ Sigmund Freud, op. cit., p. 209. ^ Jean Laplanche, Jean Bertrand Pontalis, op. cit., voce Coazione a ripetere. ( EN ) Op. cit., Anteprima disponibile, pp. 78-80, su Google Libri. ^ Sigmund Freud, op. cit., pp. 207, 221-2. Cf. anche Il perturbante (1919), OSF vol. 9, p. 99. ^ S. Freud Introduzione alla psicoanalisi, Edizioni Boringhieri 1978, p.508. ^ Sigmund Freud, Al di là del principio di piacere, Torino, Bollati Boringhieri, 1975, p. 39, ISBN 978-88-339-0055-1. ^ Cf. Sigmund Freud, Al di là del principio di piacere, op. cit., pp. 200-1. ^ Sigmund Freud, op. cit., pp. 248-9. ^ Antonello Sciacchitano, Il demone del godimento, in AA.VV., Godimento e desiderio, aut aut 315 (2003), pp. 134-6. ^ Marco Vozza, Il senso della fine nell'arte contemporanea, in L'Apocalisse nella storia, Humanitas 54 (5/1999), p. 884. ^ Marco Vozza, op. cit., p. 885. ^ Marco Vozza, ibidem. Voci correlate                                                 Modifica Psicoanalisi Empedocle Eros (filosofia) Eros Il disagio della civiltà Libido Destrudo Morte Sabina Nikolaevna Špil'rejn Tanato Collegamenti esterni       Modifica ( EN ) Edizioni e traduzioni di Al di là del principio di piacere, su Open Library, Internet Archive. Modifica su Wikidata ( EN ) Edizioni e traduzioni di Al di là del principio di piacere, su Progetto Gutenberg. Modifica su Wikidata (EN) Jean Laplanche, Jean-Bertrand Pontalis, The language of psycho-analysis, Karnac, Paperbacks, 1988. ISBN 0-946439-49-4; ISBN 978-0-946439-49-2. Thanatos, p. 447, Nirvana Principle, pp. 272-3 e Compulsion to Repeat, pp. 78-80. Controllo di autorità                                                  Thesaurus BNCF 6768 · LCCN( EN ) sh98005003 · BNF ( FR ) cb12125623j(data)   Portale Letteratura   Portale Psicologia Ultima modifica 1 anno fa di 79.52.113.137 PAGINE CORRELATE Psicoanalisi teoria dell'inconscio e relativa prassi psicoterapeutica che hanno preso l'avvio dal lavoro di Sigmund Freud  Differimento Resistenza (psicologia) ciò che negli atti e nel discorso, si oppone all'accesso dei contenuti inconsci alla coscienza  Wikipedia Il contenuto. Grice: “The problem with erotico-logy is that eros allows for myth as much as it does for logos!” – Grice: “Philology can mean love for word as much as word for love, as philosophy can go from love of wisdom and wisdom of love. If we have eros instead we have erotosophia and erotologia, erotology, erotosophy – so there!” Grice: “It always irritated me that at Oxford a philologist was supposed to be a sort of scientist whereas the logist is what he loves (philein) – it’s a passion – unretrained even – for words!” – unfettered – loose --. Roberto Fineschi. Fineschi. Keywords: eroticologico, filologico, amore, Grice’s ontological Marxism, implicatura filologica – Kantotle, Plathegel, eros e Thanatos. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Fineschi” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51760720949/in/dateposted-public/

 

Grice e Fioramonti – implicature economica – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo. Grice: “Fioramonti, like Hart, and myself, has philosophised on human right, legal right, moral right.” Frequenta il liceo a Roma, situato nel quartiere di Tor Bella Monaca. Si laurea a Roma con una tesi in Storia della economia filosofica, incentrata sul ruolo dei diritti di proprietà ed individuali. Studia Politica comparata a Siena.  Insegna a Pretoria, ed è direttore del Centro per lo studio dell'innovazione Governance (GovInn) dello stesso ateneo. È inoltre membro del Center for Social Investment dell'Heidelberg, della Hertie School of Governance e dell'Università delle Nazioni Unite.  Si occupa di economia e integrazione economica europea. Per il Financial Times, sostiene che il PIL è "non solo uno specchio distorto in cui vedere le nostre economie sempre più complesse, ma anche un impedimento a costruire società migliori".  I suoi articoli sono inoltre apparsi su The New York Times, The Guardian, Harvard Business Review, Die Presse, Das Parlament, Der Freitag, Mail & Guardian, Foreign Policy e open democracy.net. Ha una rubrica mensile nel Business Day. È stato co-direttore della rivista scientifica The Journal of Common Market Studies. è inoltre coautore e co-editore di diversi libri. Oltre ai best seller Gross Domestic Problem: “La politica dietro il numero più potente del mondo e Il modo in cui i numeri governano il mondo: l'uso e l'abuso delle statistiche nella politica globale, pubblica “Economia del benessere: successo in un mondo senza crescita, Presi per il PIL. Tutta la verità sul numero più potente del mondo e Il mondo dopo il PIL: economia, politica e relazioni internazionali nell'era post-crescita.  Ha avuto un'esperienza come assistente parlamentare, collaborando a titolo gratuito con Antonio Di Pietro (IdV) a sviluppare politiche per i giovani nelle periferie.  Viene resa nota la sua candidatura col Movimento 5 Stelle alle imminenti elezioni politiche di marzo, risultando eletto alla Camera dei deputati nel collegio uninominale di Roma-Torre Angela con il 36,65% dei voti.  è stato nominato sottosegretario presso il Ministero dell’istruzione, dell'università e della ricerca nel Governo Conte I. Nominato Dino Giarrusso suo segretario particolare, affidandogli l'incarico di coordinare la comunicazione del suo ufficio e curare le relazioni istituzionali. L'onorevole ha inoltre aggiunto di aver chiesto a Giarrusso di aiutarlo anche ad evadere le segnalazioni inviate al Ministero sulle presunte irregolarità che si verificano all'interno dei concorsi universitari.  Il 13 settembre  il Consiglio dei ministri, su proposta di Bussetti, lo ha nominato vice ministro all'istruzione, università e ricerca.  Proposto il 4 settembre  come ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca nel Governo Conte II, viene nominato ufficialmente. All'inizio del suo mandato ha istituito un comitato scientifico di consulenza, composto tra gli altri da Shiva.  Nel mese di ottobre  intervenendo ai microfoni della trasmissione radiofonica Un giorno da pecora ha affermato di "credere in una scuola laica" e di essere favorevole alla rimozione del crocifisso nelle scuole, per sostituirlo piuttosto con una mappa del mondo. In seguito, e criticato dalla Conferenza Episcopale Italiana. Annuncia l'introduzione in Italia, primo Paese al mondo, dello studio del cambiamento climatico e dello sviluppo sostenibile come materia scolastica.  Dichiara di essere pronto a rassegnare le proprie dimissioni qualora nella Legge di bilancio  non fossero stati trovati fondi per 3 miliardi di euro da destinare all'istruzione. Invia al Presidente del Consiglio Giuseppe Conte una lettera in cui annuncia le proprie dimissioni e dichiara che, a proprio avviso, sarebbe opportuno rivedere l'IVA al fine di incassare i fondi che chiedeva per il proprio ministero.  Comunica la propria uscita dal Movimento 5 Stelle e la propria adesione al Gruppo Misto alla Camera.  Annunciato la fondazione del nuovo partito politico Eco. Eco rappresenta un'ipotesi, un'idea guidata dalla volontà di costituire una entità in collaborazione tra società civile e parlamentari, ma la cui concretizzazione in una nuova realtà non è ancora certa.  Entra a far parte di Green Italia, insieme all'onorevole Rossella Muroni e Elly Schlein, vicepresidente dell'Emilia Romagna.  Dopo che il quotidiano il Giornale ha pubblicato alcune dichiarazioni fatte nel passato su Twitter da Fioramonti, ritenute inappropriate per la carica da ministro, diversi partiti (tra cui Lega, FI e FdI) chiedono le sue dimissioni dal dicastero, annunciando il deposito in Parlamento di una mozione di sfiducia È stata effettivamente depositata? Che ne è stato? Il ministro ha quindi dichiarato sui social che tali opinioni erano state scritte di getto e si è quindi scusato.  Nello stesso periodo suscita polemica il fatto che, secondo quanto riportato dalle chat di alcuni genitori, il ministro avrebbe scelto di iscrivere il figlio alla scuola inglese e di non fargli fare l'esame di italiano. A seguito di tale notizia, scrive un post sui social in cui si definisce turbato come padre e cittadino ed annuncia di voler presentare un esposto al garante della privacy.  Altre opere: Diritti umani 50 anni dopo. Aracne); “Fuori. Fermento,. Poteri emergenti nell'economia politica e internazionale. Il caso di India, Brasile e Sudafrica. ETS,. Presi per il PIL. Tutta la verità sul numero più potente del mondo. L’Asino d’oro edizioni,. Il mondo dopo il Pil. Economia e politica nell'era della post-crescita. Edizioni Ambiente,. Un'economia per stare bene. Dalla pandemia del Coronavirus alla salute delle persone e dell'ambiente. Chiarelettere. Vincenzo Bisbiglia, chi è il candidato M5S: dalla laurea in Filosofia alla critica al pil. Con tappa alla Rockefeller foundationIl Fatto Quotidiano, in Il Fatto Quotidiano, Professor Lorenzo Fioramonti, su up.ac.za. Has GDP become an impediment to a better society?, su Financial Times. 1World needs a new Bretton Woods with Africa in the lead, su bdlive.co.za, Business Day. Eligendo: Camera [Scrutini] Collegio uninominale 05 ROMA ZONA TORRE ANGELA (Italia) Camera dei Deputati Ministero dell'Interno, su Eligendo. F.Q., Governo, nominati 45 tra viceministri e sottosegretari: Castelli e Garavaglia al Mef. Crimi all'Editoria. Dentro anche SiriIl Fatto Quotidiano, in Il Fatto Quotidiano, Università, dietrofront su Giarrusso. Fioramonti: "è solo il mio segretario, non un controllore", in Repubblica, Governo: Galli, Rixi e Fioramonti nominati viceministriTgcom24, in Tgcom24, Crocifisso a scuola, la Chiesa contro il ministro Fioramonti che vorrebbe toglierlo dalle classi, su Repubblica, Fioramonti: da settembre il clima sarà materia di studio a scuola  Fioramonti: 3 miliardi per l'istruzione o confermo le mie dimissioni -, su Orizzonte Scuola, Il ministro dell’Istruzione Fioramonti ha dato le dimissioni, Corriere della sera, Fioramonti lascia il gruppo M5S: «C'è diffuso sentimento di delusione», Il Messaggero, 30 L’ex ministro Fioramonti: «Un altro governo non è un tabù. Ora un’area civica progressista», su Il Manifesto. Bufera su Fioramonti per alcuni tweet. Meloni chiede le dimissioni, per Lega e Pd deve chiarire, su L'HuffPost, Bufera su Fioramonti per offese web, ministro si scusa Politica, su Agenzia ANSA, Chi è Lorenzo Fioramonti, nuovo ministro del MIUR, su theitaliantimes, Governo Conte II Ministri dell'istruzione, dell'università e della ricerca della Repubblica Italiana. Treccani Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Openpolis, Associazione Openpolis.  Radio Radicale.  PredecessoreMinistro dell'istruzione, dell'università e della ricerca della Repubblica Italiana Successore MinisteroIstruzione. png Marco Bussett, Giuseppe Conte (ad interim) PredecessoreViceministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca della Repubblica Italiana Successore MinisteroIstruzione. Anna Ascani.  Quarterly gross domestic product William Petty came up with a basic concept of GDP to attack landlords against unfair taxation during warfare between the Dutch and the English between 1654 and 1676.[10] Charles Davenant developed the method further in 1695.[11] The modern concept of GDP was first developed by Simon Kuznets for a 1934 US Congress report, where he warned against its use as a measure of welfare (see below under limitations and criticisms).[12] After the Bretton Woods conference in 1944, GDP became the main tool for measuring a country's economy.[13] At that time gross national product (GNP) was the preferred estimate, which differed from GDP in that it measured production by a country's citizens at home and abroad rather than its 'resident institutional units' (see OECD definition above). The switch from GNP to GDP in the US was in 1991, trailing behind most other nations. The role that measurements of GDP played in World War II was crucial to the subsequent political acceptance of GDP values as indicators of national development and progress.[14] A crucial role was played here by the US Department of Commerce under Milton Gilbert where ideas from Kuznets were embedded into institutions.  Wikipedia Ricerca Economico (Aristotele) opera attribuita ad Aristotele Lingua Segui Modifica Economico Titolo originale                                                      Οἰκονομικά Oikonomiká Aristotelesarp.jpg Autore                       Pseudo-Aristotele 1ª ed. originale                                   Genere                                                     trattato Sottogenere                                            economia Lingua originale                                       greco antico L'Economico (in greco antico: Οἰκονομικά, Oikonomiká; in latino: Oeconomica) è un'opera attribuita ad Aristotele. La maggior parte degli studiosi moderni lo attribuisce a un allievo di Aristotele o del suo successore Teofrasto.  Struttura       Modifica Il libro I è suddiviso in sei capitoli che iniziano a definire l'economia[1].   Esso, quindi, è un'introduzione che mostra la formazione di base di un'economia, ossia la famiglia. Il testo inizia affermando che l'economia e la politica differiscono in due modi principali, ossia nei soggetti con cui trattano e nel numero di governanti coinvolti. Come un proprietario di una casa, c'è solo una sentenza in un'economia, mentre la politica coinvolge molti sovrani. I praticanti di entrambe le scienze cercano di sfruttare al meglio ciò che hanno per prosperare.  Una famiglia è composta da un uomo e dalle sue proprietà e l'agricoltura è la forma più naturale di buon uso per questa proprietà. L'uomo dovrebbe quindi trovare una moglie, mentre i bambini dovrebbero venire dopo, perché saranno in grado di prendersi cura della casa man mano che l'uomo invecchia. Questi sono i capisaldi dell'argomento economico.  Il secondo libro[2] si sviluppa con l'idea che ci sono quattro diversi tipi di economieː l'economia reale, l'economia satrapica, l'economia politica e l'economia personale. Chiunque intenda partecipare con successo e solidarietà a un'economia deve conoscere ogni caratteristica della parte dell'economia in cui è coinvolto. Tutte le economie hanno un principio in comuneː indipendentemente da ciò che viene fatto, le spese non possono superare le entrate. Questa è una questione importante, fondamentale per la nozione di "economia". Il resto del secondo libro riguarda eventi storici che hanno creato importanti modi in cui le economie hanno iniziato a funzionare in modo più efficiente e danno le origini di alcuni termini ancora in uso all'epoca e l'argomento principale è il flusso di denaro attraverso qualsiasi economia ed eventi particolari.  Il terzo libro è noto solo dalle versioni latine dell'originale greco e tratta del rapporto tra marito e moglie. Il classicista tedesco Valentin Rose, nella sua classica edizione dei frammenti aristotelici del 1886, ha ipotizzato che questo libro non fosse altro che il Περὶ συμϐιώσεως ανδρὸς καὶ γυναικός e i Νόμοι ανδρὸς καὶ γαμετῆς indicati nel catalogo di opere di Aristotele che compaiono nella biografia attribuita a Esichio di Mileto, tradizionalmente chiamata Vita Menagiana.  Note                Modifica ^ 1343a-1345b. ^ 1345b-1353b. Bibliografia                    Modifica Aristote, Économique. Testo greco a cura di B. A. van Groningen e André Wartelle, traduzione e note di A. Wartelle, Paris, Les Belles Lettres, 2002 (edizione critica) Aristotele, Opere, vol. 8, Politica. Trattato sull'Economia, trad. di R. Laurenti, Roma-Bari, Laterza, 2019. Voci correlate                                    Modifica Aristotele Pseudo-Aristotele Controllo di autorità                VIAF ( EN ) 4465159521639733070006 · BAV492/10544 · LCCN ( EN ) n79099715 · GND( DE ) 4345428-8 · BNE ( ES ) XX2053358(data) · BNF ( FR ) cb12322850m (data) ·J9U ( EN ,  HE ) 987007520683505171 (topic)   Portale Antica Grecia   Portale Filosofia Ultima modifica 8 mesi fa di Valepert PAGINE CORRELATE Pseudo-Aristotele autori sconosciuti di diverse opere antiche  Parva naturalia Topici opera di Aristotele  Wikipedia Il contenuto L'espressione filosofia dell'economia può riferirsi alla branca della filosofia che studia le questioni relative all'economia o, in alternativa, il settore dell'economia che si occupa delle proprie fondamenta e del proprio status di scienza umana[1].  Note                            Modifica ^ D. Wade Hands, philosophy and economics, in The New Palgrave Dictionary of Economics, 2ª ed., 2008. Controllo di autorità                        LCCN ( EN ) sh2008102562 · GND( DE ) 4066489-2 · J9U( EN ,  HE ) 987007561739805171 (topic)   Portale Filosofia: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di filosofia Ultima modifica 12 mesi fa di Nima Tayebian PAGINE CORRELATE Kenneth Boulding economista, pacifista e poeta inglese  Richard Bradley (filosofo)   PARTITO NAZIONALE FASCISTA   TESTI PER I CORSI Dl  PREPARAZIONE POLÍTICA   L’ECONOMIA  FASCISTA     Mod. 347    LA LIBRERIA DELLO STATO  AN NO XIV E. F.                        CONTENUTO    I. Concetti fondamentali * ♦ ♦ * * Pag* 7   II* Política economica e monetaria * * » 23   IIL V agricoltura italiana e la política   rurale dei Regime ****** 81   IV* Industria e artigianato * * ♦ * » 101   V* La política dei lavori pubblici * * » 1x9                        CONCETTI FONDAMENTALI                         I L PROFONDO, sostanziale contrasto che separa il Fascismo  dal liberalismo si riflette in forma vigorosa e tipica nel  campo economico.   In economia difatti lo Stato fascista si oppone nettamente  alio Stato liberale, perchè mentre questo non interviene nella  vita economica e si limita generalmente alia funzione di difesa  e di istruzione («Stato carabiniere » e «pedagogo »), quello  considera suo compito preciso il regolare e determinare lo  sviluppo materiale e spirituale delia collettività, negando che  dal libero e incomposto cozzo delle forze individuali possa  prendere origine la forma piú perfetta e piú alta di vita civile.  Lo Stato fascista non crede alie armonie economiche realiz-  zantisi con il totale assenteismo di uno Stato abúlico che si  limita a prendere atto dei risultati raggiunti dai singoli indi-  vidui; lo Stato fascista è Stato etico appunto perchè ha una sua  consapevolezza e una sua volontà da realizzare. È Stato che non  si estrania dai problemi deH’economia, ma li studia, li incita,  li guida, li frena, perchè non concepisce il divorzio fra politica  ed economia ma considera che questa discenda da quella.   Gli economisti e i politici che affermarono in maniera recisa  e perentória che lo Stato è specialmente utile quando si astiene  da qualsiasi intervento nel campo economico, — e furono  numerosissimi nel secolo scorso — oggi vanno scomparendo.  In tutti i paesi lo Stato giganteggia. Soltanto esso può risolvere  le drammatiche contraddizioni dei capitalismo; soltanto esso  può awiare verso una soluzione quel complesso di fenomeni  materiali e spirituali che si chiamano crisi e che possono essere  superati e vinti entro lo Stato.   Questo particolarissimo stato d'animo di fronte al libera¬  lismo disfatto fu definito dal Duce con la seguente domanda:  « Che cosa direbbe dinanzi ai continui, sollecitati, inevitabili  interventi dello Stato nelle vicende economiche, 1 ’inglese    9            Bentham, secondo il quale T industria avrebbe dovuto chiedere  alio Stato soltanto di essere lasciata in pace, o il tedesco  Humboldt, secondo il quale lo Stato ocioso doveva essere  considerato il migliore? »♦   Ma se anche la seconda ondata degli economisti liberali  fu meno estremista delia prima, perchè apriva già la porta agli  interventi dello Stato neireconomia, rimane pur sempre un  incolmabile abisso tra Stato liberale, anche, diremo cosí,  corretto, meno intransigente di quello concepito un tempo,  e lo Stato fascista*   Bisogna ricordare che chi dice liberalismo dice pur sempre  indivíduo; chi dice Fascismo dice Stato*   Con questo però lo Stato fascista non intende di solito  ingerirsi direttamente nel fatto economico, ma sopraintendervi,  affinchè esso si svolga secondo gli interessi delia collettività*  È da questa concecione política dello Stato che deriva la  concezione economica delia corporacione*   Lo Stato fascista che in política non è reacionário ma rivo-  lucionario, in quanto anticipa le solucioni di problemi comuni  a tutti i popoli, in economia dimostra in maniera inequivo-  cabile il suo carattere morale e storico perchè è proprio nella  disciplina dei fatti economici che si rivela la maturità di una  collettività organiccata e si dimostra la capacità creativa di  una nuova dottrina, che, come quella dei Fascismo, è pensiero  ed acione*   II Duce, il 16 ottobre deiranno X, innanci a migliaia di  gerarchi convenuti a Roma per la celebracione dei decennale  si domandò: « Questa crisi che ci attenaglia da quattro anni  è una crisi dei sistema o nel sistema?»* II 14 novembre XII,  data che segna Tinicio delia fase risolutiva delia politxca corpo¬  rativa dei Fascismo, il Capo rispose a quella grave domanda    10    con un fondamentale discorso al Consiglio Nazionale delle  Corporazioni, nel quale sono precisati i caratteri particolari  deli' Economia corporativa.   Egli in quella storica assemblea affermò in maniera recisa  che la crisi è penetrata cosi profondamente nel sistema da  diventare una crisi dei sistema . Non è piú un trauma, e una  malattia costituzionale, Egli disse.   Se meditiamo intorno aH'affermazione dei Capo per com-  prendere i motivi storici che 1'hanno determinata, riconosciamo  súbito che una profonda rivoluzione si è operata tanto nel  sistema di produzione quanto nelle organizzazioni politi-  che che hanno retto sino a pochi anni or sono i diversi  paesi civili.   Egli ha definito il capitalismo e ne ha tracciato la storia che  ha vissuto nel secolo scorso: la nascita, il culmine, il declino.   L/analisi che il Duce ne fece in quello storico discorso è cosi  perfetta che se ne trascrivono qui di seguito concetti e parole,  sostanza e forma.   «Giunto alia sua piü perfetta espressione — ha detto il  Duce — ü capitalismo è un modo di produzione di massa per un  consumo di massa, finanziato in massa attraverso Temissione  dei capitale anonimo nazionale e internazionale. II capitalismo  è quindi industriale e non ha avuto nel campo agricolo manife-  stazioni di grande portata ».   Nella storia dei capitalismo tre periodi si distinguono: il  periodo dell’ascesa; il periodo delia massima potenza; il per iodo  delia decadenza.   II primo periodo è quello che va dal 1830 al 1870. Coincide  con la introduzione dei telaio meccanico e con 1'apparire delia  locomotiva. Sorge la fabbrica. La fabbrica è la tipica manife-  stazione dei capitalismo industriale. È 1'epoca dei grandi mar-  gini e quindi la legge delia libera concorrenza e la lotta di tutti    ir      contro tutti può giuocare in pieno. È il período in cui un grande  fervore di attività pratica awince i popoli e in cui la scienza  che aveva saputo carpire alia natura i suoi gelosi segreti offre  aU'uomo mezzi formidabili di conquista e di dominio. In  Inghilterra, in Francia, in America, si disfrenano concorrenze  acerbe e si tentano imprese ardite.   In questi 40 anni vi sono dei caduti e dei morti, ma in  questo periodo le crisi sono crisi cicliche che si ripetono ad  intervalli di tempo, non sono nè lunghe nè universali.   II capitalismo è nel periodo migliore delia sua vita.   Ha ancora tale vitalità e tale forza di recupero che può  superare brillantemente e rapidamente le awersità delia con-  giuntura economica.   L'attività imprenditrice trova facilmente le condizioni favo-  revoli per il suo sviluppo, poichè grandi sono le possibilità dei  mercati di consumo mentre limitate sono ancora le capacità  delia produzione.   È 1'epoca in cui Turbanesimo si sviluppa e si inizia 1'esodo  rurale. Le città che divengono centro delia produzione capi-  talistica si accrescono vertiginosamente.   In questo primo periodo dei capitalismo — awerte il  Duce — la selezione è veramente operante. Ci sono anche  delle guerre, ma sono guerre brevi che non possono essere  paragonate alia guerra mondiale. Esse eccitano anzi, in un certo  senso, 1 ’economia delia Nazione.   In America comincia la faticosa e dura conquista delle  sterminate campagne dell'ovest, che ha avuto i suoi rischi ed i  suoi caduti come ogni grande conquista. Mentre si vengono  organizzando le formidabili aziende agricole degli Stati dei  sud, le città deli’Atlântico raggiungono un enorme sviluppo.   II ricordato periodo dei capitalismo che dura 40 anni e  potrebbe essere compreso tra 1'apparire delia macchina a    xa     vapore e il taglio deiristmo di Suez, è certamente tra i piü  dinamici che la storia ricordi* Esso è caratterizzato daSassenza  dello Stato nella vita economica*   II Duce ha detto che durante questi 40 anni lo Stato si limita  ad osservare* Esso è assente, e i teorici dei liberalismo dicono:  ((voi, Stato, avete un solo dovere, di far si che la vostra esi-  stenza non sia nemmeno awertita nel settore deireconomia*  Meglio governerete, quanto meno vi occuperete dei problemi  di ordine economico »♦   Con il 1870 ha inizio il secondo período* II Duce ha dimo-  strato che da quel momento si awertono i primi sintomi delia  stanchez^a e delia deviazione dei mondo capitalistico* La fer¬  vida e sana lotta per la vita, la libera concorrenza, la selezione  dei piú forte, non si esplicano piü col primitivo vigore, con  quella energia e anche con queirentusiasmo che si è riscontrato  nel período precedente*   Lo documentano i numerosi cartelli, sindacati, consorzh  Si inizia Tèra dei trust.   Si può dire che ormai non ci sia settore delia vita economica  dei paesi di Europa e di America dove queste forze che carat-  terizsano il capitalismo non si siano formate*   La conseguenza di questo stato di cose, che gli economisti  liberali, ossequienti ai dogmi fondamentali dei classici, non  awertirono, fu di una importanza grandíssima: la fine delia  libera concorrenza * Essa rimase una parola morta*   La capacità di assorbimento dei mercato non corre paralle-  lamente alia crescente capacità produttiva; il saggio desinte¬  resse e dei profitto, cioè il rapporto tra il guadagno ricavato e  la quantità di capitale impiegato neirimpresa, si riduce forte¬  mente* Essendosi ristretti i margini, Timpresa capitalistica  trova che anzichè lottare è piú conveniente accordarsi, fon-  dersi, dividersi i mercati ripartendo i profitti*    13           La stessa legge delia domanda e deirofferta sulla quale è  stata costruita la teoria economica dalla quale dipende il  sistema scientifico elaborato dai classici deireconomia, non può  piü agire con libertà nella nuova realtà economica che si è  venuta formando* Attraverso i cartelli e i trusts si può agire  sulla domanda di merci e specialmente suirofferta che di  queste può essere fatta in un determinato mercato*   Questa economia capitalistica coalizzata, trustizzata, sempre  meno idônea a vivere di vita própria, cerca di agire sullo Stato  onde ottenere favori leciti o illeciti* Essa chiede anzitutto la  protezione doganale*   II liberalismo viene colpito a morte, ma gli economisti non  se ne accorgono: continuano imperterriti la loro costruzione  astratta, avulsa dalla realtà economica, come se il mondo eco-  nomico da cui avevano pur tratto gli elementi delia loro costru¬  zione scientifica non li riguardasse piü* La dottrina economica  che aveva esaltata la libertà in ogni forma di attività e Tassen-  teismo dello Stato, viene ad essere colpita proprio da quelle  forze che erano cresciute nel periodo dei trionfo*   Gli Stati Uniti d'America, fra i primi, elevarono delle barriere  doganali quasi insormontabili; essi si giustificarono con 1'afferma-  zione che le loro industrie erano giovani e avevano bisogno di pro-  tezione e di difesa per poter crescere e prosperare* Come TAme-  rica, altri paesi hanno via via elevato barriere sempre piü estese  e piü alte: oggi la stessa Inghilterra, che per tanto tempo aveva  predicato e sostenuto il liberalismo economico, perchè tornava  tanto utile alia sua organizzazione economica, e agli interessi dei-  T Impero britannico, ha abbandonato il liberalismo, rinnegando  tutto ciò che ormai sembrava tradizionale nella sua vita polí¬  tica, economica, sociale, rinnegando una dottrina scientifica delia  quale si era fatta banditrice e tutrice* Ad Ottava fu varata la costi-  tuzione di un'economia chiusa fra la Madre Patria e i dominions*    14      i    Í 1 período che il Duce ha definito período statico e che  inizia col 1870, finisce con la guerra*   Dopo la guerra, e in conseguenza delia guerra, Fimpresa  capitalistica si inflaziona* Incomincia la decadenza* « L/ordine  di grandezza delFimpresa — ha detto il Duce — passa dal  milione al miliardo* Le cosidette costruzioni verticali, a vederle  da lontano, danno Fidea dei mostruoso e dei babelico* Le stesse  dimensioni delFimpresa superano la possibilità delFuomo.  Prima era lo spirito che ave va domina to la matéria, ora è la  matéria che piega e soggioga lo spirito* Quello che era fisio¬  logia diventa patologia, tutto diventa abnorme »*   II capitalismo giunto al parossismo, non sapendo piú come  giustificare la sua esistenza e trovare i mezzi di vita indispen-  sabili alFazione, non volendo riconoscere la nuova realtà delle  cose, crea una utopia: Futopia dei consumi illimitati* II Capo  ci ha detto che Fideale dei supercapitalismo sarebbe la stan-  dardizzazione dei genere umano dalla culla alia bara*  Questa esigenza è la lógica conseguenza delle cose, perchè sol-  tanto con la standardizzazione dei gusti il supercapitalismo pensa  di poter fare i suoi piani* L f impresa capitalistica cessa di essere  -*un fatto meramente economico per divenire un fatto sociale*  È questo il momento preciso nel quale F impresa capitalistica,  quando si trova in difficoltà, si getta nelle braccia dello Stato*  È questo il momento storico in cui nasce e si rende sempre  piú necessário Fintervento dello Stato*   Lo Stato ha il dovere di intervenire appunto perchè Fim¬  presa capitalistica di cui si discorre non è soltanto un # impresa  economica: essa interessa direttamente la collettività* Lo Stato  ha il diritto di intervenire per evitare che le sane energie delia  Nazione si disperdano e che la sacra forza dei lavoro dei popolo  si prodighi in forme che possono essere nocive alia stessa  vita e potenza delia Nazione*    15          Ormai il maggior numero di imprese economiche si vale  degli aiuti dello Stato; coloro che ignoravano il suo intervento  lo cercano affannosamente* II Duce ha detto che oggi siamo al  punto in cui se in tutte le Na^ioni di Europa lo Stato si addor-  mentasse per 24 ore, basterebbe tale parentesi per determinar e  un disastro.   « Questa è la crisi dei sistema capitalistico preso nel suo  significato universale »♦   Quanto alia Nasione italiana, che fonda la própria economia  prevalentemente sulFagricoltura e sulFartigianato, sulla piccola  e media industria, la vicenda capitalistica non ha avuto che  aspetti e conseguenze limitatu   II supercapitalismo degenerato e pernicioso da noi non esiste  e laddove esso è nato, già è moribondo: esiste invece una nume¬  rosíssima schiera di piccoli e medi produttori che vivono dei  quotidiano lavoro, che ignorano le awenture dei sedicenti  industriali e dei pseudo banchieri; i quali, sorti in numero  impressionante durante e dopo la conflagra^ione europea,  avrebbero preteso di continuare a pescare nel torbido che essi  avevano provocato e che poi tendevano a mantenere* Questi  awenturieri, che ebbero assicurati dalFinfla^ione e dalFau-  mento dei pressi elevati profitti, non furono, almeno nel nostro  Paese, che una sparuta minoran^a, la quale è stata duramente  punita dalle stesse vicende delFeconomia.   L/Italia non è una Nazione capitalistica nel senso or ora  ricordato* L/essenza delFeconomia italiana è stata precisamente  definita dal Duce nei termini seguenti: Fltalia deve rimanere  una Nazione ad economia mista, con una forte agricoltura  che è la base di tutto, una piccola o media industria sana, una  banca che non faceia delle speculasioni, un commercio che  adempia al suo insostituibile compito che è quello di portare  rapidamente e razionalmente le merci al consumatore*   16          Esaminato lo svolgimento attraverso il quale si è compiuto  il ciclo di vita dei liberalismo economico e dei supercapita-  lismo, sepolto ufficialmente il 14 novembre 1933, con lo storico  discorso dei Duce per lo Stato corporativo; dimostrata fallace  la creden^a neiruniversalità dei liberalismo a torto giudicato  e ritenuto método storico ed universale, è opportuno soffer-  marsi sulle profonde antitesi che differen^iano Fascismo e  socialismo*   La dottrina fascista nega quel materialismo storico sul quale  si imperniano la conce^ione política e quella economica dei  socialismo*   Secondo la dottrina marxiana le vicende delia società umana  si spiegano soltanto con la lotta d'interessi fra i diversi gruppi  sociali* Sono soltanto i fatti economici che hanno importan^a  nella vita delbuorno; soltanto essi sono capaci di promuovere  nuove forme di vita civile, di determinare aspetti e configura-  zioni diversi nella società* Nessun peso hanno invece i motivi  ideali, nessuna importanza la tradi^ione, il culto delia Patria  e degli Eroi, il desiderio di portare sempre piú in alto i destini  delia Na^ione*   In questo senso liberalismo e socialismo tradiscono una  comune origine dottrinale* Tanto che non è per mero caso  — come ha rilevato il Duce — che il tramonto delFuno  coincida col tramonto delFaltro*   Non è certo il Fascismo, che ha instaurato nella vita política  e sociale un senso virile delia realtà, che possa negare Timpor-  tanza delheconomia, come fattore delia vita dei popoli* Ma  il Fascismo crede ancora e sempre nella santità e nelheroismo,  cioè in atti nei quali nessun motivo economico lontano o vicino  agisce*   La lotta degli interessi è stata ed è un agente principale delle  trasformazioni sociali, ma non può essere concepita come    3-4    17         movente esclusivo delbevoluzione delia società. La fallacia dei  materialismo storico e dei determinismo economico sta appunto  in questa concezione, per cui gli uomini non sarebbero che com-  parse nella storia, incapaci di dirigerla o crearla, quasi fantocci  in balia dei flutti, mentre nel profondo si agitano e lavorano  le vere forze direttrici, che sarebbero le forze dell’economia.   Accettare una simile concezione delia vita significa annullare  qualsiasi forza morale e riconoscere 1'incapacità dell’uomo a  creare la sua storia.   II socialismo che si basa sul materialismo storico e sul con-  cetto delia lotta di classe e che mira attraverso questa a creare  forme di convivenza sociale nelle quali siano alleviate le sof-  ferenze degli umili, dimostra una singolare ingenuità dottri-  nale e una paurosa sterilità politica.   Esso voleva raggiungere un ideale, materialistico, massimo  benessere per tutti i componenti la collettività, credendo che  in siffatta maniera si sarebbe ottenuta la felicità. E la mèta  era da conquistare attraverso la socializzazione di tutti i mezzi  di produzione, l'annullamento dei diritto di proprietà, la  spersonalizzazione di ogni attività economica, il sacrifício delia  iniziativa individuale, la negazione di una funzione produttiva  al capitale. II difficile compito delia produzione dei beni eco-  nomici sarebbe stato lasciato ad un mastodontico Stato mate¬  rialistico, le cui delicate funzioni sarebbero esercitate da un  esercito di burocrati. A questo Stato socialista, accentratore e  déspota, padrone di ogni bene economico, si sarebbe dovuti  giungere, secondo la profezia di Cario Marx profezia  mancata — attraverso un processo di graduale e continuo  accentramento delia produzione industriale e dei capitale in  mano di pochi, a cui sarebbe stato assai facile il toglierlo per  trasferirlo in seno alio Stato e creare cosi, con 1’usurpazione,  la nuova realtà economica dei socialismo.    18    Le previsioni di Cario Marx non si sono verificate:  fra tutte la caduta dei saggio di interesse e dei profitto,  rappresenta il punto cruciale delia dottrina socialista* II saggio  d'interesse, che costituisce la retribuzione che si deve al capi-  tale, cioè il prezzo che si paga per Fuso dei medesimo, è un  dato di fatto che non si può smentire; le recenti esperienze  di economia socialista dimostrano che laddove ufficialmente il  saggio d'interesse si nega, si uccide anzitutto ogni stimolo  al risparmio e poi nella realtà delia vita economica esso risorge  per infinite vie diverse, e con estrema frequenza assume la  vecchia forma delFusura*   II socialismo come sistema economico e anche come sistema  politico-sociale ha quindi peccato di ingenuità per non dire  di viltà: esso non ha saputo guardare con occhio sereno e pene¬  trante nella realtà dei fatti economici per distinguere ciò che  era contingente e relativo a determinate situazioni di tempo  e d'ambiente, da ciò che è eterno e connaturato con lo spirito  deiruomo*   Al contrario il Fascismo, che ignora le snervanti logomachie  e gli oziosi e raffinati ragionamenti intessuti su premesse  metafisiche, e che invece ama Tosservazione delia realtà per  costruire su solide basi non solo la dottrina ma le opere  e gli istituti, ha da tempo affermata la sua fede nella inizia-  tiva privata, come fattore insopprimibile delia produzione  economica*    Ma questa iniziativa privata non è libera di svolgersi nelle  maniere piú diverse per dominare il campo economico; si  tratta di una iniziativa privata la quale deve essere regolata,  controllata, disciplinata dallo Stato che la ospita e la difende,  la tutela e Tincoraggia, non perchè essa formi solo la fortuna  personale di colui che la esercita, ma in quanto lo scopo  raggiunto coincida con le necessità e le finalità dello Stato*             La dottrina economica dei Fascismo riconosce inoltre una  funzione al capitale, il quale costituisce il frutto dei lavoro  deiruomo, risparmiato e impiegato nei nuovi processi produt-  tivi. In tal modo essa esalta la virtú dei risparmio, come mezzo  per aumentare la potenza economica delia Nazione e quindi  per dare vigore e sostanza all’azione política.   Riconosce la fondamentale funzione delia proprietà privata,  la quale non è piú intesa nel senso liberale, di diritto di godere  e disporre delle cose nella maniera piú assoluta, ma e intesa  come dovere sociale. II suo esercizio e quindi limitato da leggi  le quali subordinano 1'interesse deli’indivíduo a quello dello  Stato. In ogni caso però lo Stato fascista, pur giungendo anche  alia espropriazione, fa si che non si creino sperequa£ÍonÍ a  danno dí particolarí individui, poiche in esso il senso romano  dei diritto e delia equità è sempre vigile e operante,   Dovere sociale è anche Fesercizio delFimpresa, cioè 1 espli-  ca^ione delFini^iativa privata, II Fascismo, pero, se pur rifugge  dal concetto esclusivo di impresa statale, proprio dei socialismo,  non ripudia, come fa il liberalismo, la possibilita, anzi ammette  la necessita, che certe imprese che eserciscono pubblici servizi o  che rivestono generalissimi interessi, sieno esercitate dallo Stato,  Nel campo dei lavoro, poi, il Fascismo è Stato rivoluzionario  in maniera veramente superba, Esso, che ha sempre intesa  la storia, cioè il passato, come base dei presente dal quale si  diparte Fawenire, non ha mai sacrificato con leggetezzz e  superficialità, per amore di novità, quello che era il frutto delia  tradizione e la conquista delle passate generaçioni, II Fascismo  ha inserito sul tronco delia storia italiana le sue audaci inno-  vazioni rivolusionarie, Tra queste, principalissime quelle nel  campo dei lavoro.   Durante tutto Í 1 secolo XIX la posicione dei lavoratore  rispetto alF impresa, era in condizioni di soggezione, II lavoratore    20      era alia mercê deirimprenditore, il quale, avendo una netta  superiorità economica, poteva imporre le condizioni e gover-  nare il cosidetto mercato dei lavoro*   II Fascismo, superando il concetto delia lotta di classe,  dimostrando fallaci le dottrine che ad essa si ispirano, ha  anche posto in evidenza che il connubio tra il liberalismo e il  socialismo, proprio dei periodo storico in cui vi era il libero  sindacato degli operai che cocava contro il libero sindacato  dei datori di lavoro, poteva causare perdite gravissime per la  Nazione, la quale non otteneva da questa forma di libera con-  correnza tra sindacati quel massimo di utilità che le dottrine  dei classici delheconomia pronosticavano*   Inserendo il sindacato nello Stato, non ha attuato una forma  di socialismo di Stato, come era preconizzato dagli osservatori  superficiali e dai nemici irriducibili delia nuova Idea, ma ha  realizzato in maniera giuridica le vere e giuste aspirazioni dei  popolo senza sacrificare Timpresa, superando la lotta di classe,  sostituendo al diritto di sciopero e di serrata, il dovere nazionale  dei lavoratori e degli imprenditori*   Ha raggiunto un nuovo sistema di equilibrio senza cadere  in grossolane contraddizioni e senza fare una dolorosa espe-  rienza piena di inenarrabili sacrifici per le classi operaie,  quale hanno fatto coloro che vollero applicati gli schemi  marxisti*   II lavoro non è piú considerato una merce che si vende sul  mercato e il salario non è piú un prezso che si forma nel con¬  trasto fra merce offerta e merce domandata*   II lavoro è un diritto e non una concessione*   II Duce, infatti, ci ha detto che in tutte le società nazionali  c'è la miséria inevitabile; però quella che deve angustiare il  nostro spirito è la miséria degli uomini sani e validi che cer-  cano affannosamente e invano il lavoro*    21             Per questo il Fascismo considera il lavoro come un diritto.  E il Regime ha creato a questo scopo, come vedremo, Istituti  nuovi, non per dare forma ai suoi schemi dottrinali ma per  dare risultati positivi, concreti, tangibili alia sua azione: per  far si che il diritto al lavoro dei popolo italiano non rimanga  una mera affermazione dogmatica, ma possa estrinsecarsi nella  nuova realtà economica dei nostro Paese.     política economica e monetaria                            LA POLÍTICA DEL LAVORO   L A política dei lavoro ha le sue tavole fondamentali nella  Carta dei Lavoro*   Questa costituisce una dichiarasione política di basilare  importanza; insorge contro la concezione liberale che considera  il lavoro come merce, e afferma che «il lavoro sotto tutte le  sue forme, organizzative ed esecutive, intellettuali, tecniche,  manuali, è un dovere sociale »♦   Lo strumento creato dal Fascismo per regolare le condidoni  di lavoro è il contratto collettivo, nel quale trova la sua espres-  sione concreta la solidarietà dei vari fattori delia produ zione,  mediante la conciliasáone degli opposti interessi dei datori  di lavoro e dei lavoratori e la loro subordinazione agli interessi  superiori delia produzione*   La solidarietà fra tutti i fattori delia produzione, e non  soltanto tra imprenditori e lavoratori delia stessa categoria, è  proclamata nella dichiarasione 4 a , la quale assegna al contratto  collettivo di lavoro la delicata e difficile funzione di concretarla*  La Carta dei Lavoro (dichiarazione 3 a ) afferma che la orga-  nizzasione professionale e sindacale è unica* II solo Sindacato  legalmente riconosciuto e sottoposto al controllo dello Stato  ha il diritto di rappresentare legalmente tutta la categoria di  datori di lavoro e di lavoratori per cui è costituito, di tutelarne  di fronte alio Stato o alie altre associazioni professionali gli  interessi, di stipulare contratti collettivi di lavoro obbligatori  per tutti gli appartenenti alia categoria, di imporre loro contri-  buti ed esercitare rispetto ad essi funsioni delegate d'interesse  pubblico*   II Sindacato ha il compito di tutelare gli interessi delle  categorie, ma nello stesso tempo ha Fobbligo di promuovere    25             in tutti i modi Taumento e il perfezionamento delia produ-  zione e la riduzione dei costi; esso deve anche adoperarsi per  il conseguimento dei íini morali deirordinamento corporativo*   Nella Carta dei Lavoro come si reagisce alia concesione dei  lavoro come merce, si introduce il concetto di salario giusto ed  equo, che sarebbe il salario corporativo, in quanto esso deve  uniformarsi « alie esigenze normali di vita, alie possibilità delia  produzione e al rendimento dei lavoro»*   Aggettivi e condizioni, quelli e queste, che equivalgono ad  eresie per gli economisti classici, pei quali non esiste altra  giustizia in economia se non quella stabilita dal ptezzo di equi¬  líbrio, determinato dairincontro delhoíferta e delia domanda  di lavoro* Poichè — essi hanno sentenziato — il fatto econo-  mico è un fatto naturale, meccanico e perciò non può essere  nè giusto nè ingiusto, come una reazione chimica o la caduta  di un grave*   La Carta dei Lavoro risolve felicemente il problema delia  determinazione dei salario giusto, cioè di un salario che garan-  tisca al lavoratore un minimo di tenore di vita sen2;a che esso  incida sul giusto profitto delhimprenditore* E siccome questa  determinazione non è suscettibile di una solucione di carat-  tere generale, essa lascia un grado sufficiente di elasticità, che  permette al salario di essere il risultato di un accordo contrat-  tuale convenuto fra sindacati* Le ragioni economiche sono  perciò mirabilmente armoni^ate con quelle sociali e politiche;  il senso di alta umanità, cui si ispira il fondamentale docu¬  mento politico in matéria di lavoro, viene confermato nella  dichiara^ione 18 a , la quale assicura al lavoratore la continuità  dei salario anche in seguito al verificarsi di determinate  evenien2;e*   «Nelhimpresa a lavoro continuo, il trapasso delhazienda  non risolve il contratto di lavoro e il personale ad essa addetto    36     conserva i suoi diritti nei confronti dei nuovo titolare. Egual-  mente la malattia dei lavoratore, che non ecceda una deter-  minata durata, non risolve il contratto di lavoro. II richiamo  alie armi o il servizio delia M. V. S. N. non è causa di licen¬  ciamento ».   Ispirata alia stessa preoccupazione di tutelare il lavoratore è  la dichiaracione 14 a , la quale stabilisce che la retribucione deve  essere corrisposta nella forma piú consentânea alie esigence  dei lavoratore e dell'impresa.   Quando la retribucione sia stabilita a cottimo, e la liquida-  zione di cottimo sia fatta a periodi superiori alia quindicina,  sono dovuti adeguati acconti quindicinali o settimanali. II  lavoro notturno, non compreso in regolari turni periodici,  viene retribuito con una percentuale in piü rispetto al lavoro  diurno.   Ma la parte fondamentale relativa alia determinacione dei  salario, merita qualche consideracione.   Ancitutto va osservato che le condicioni di vita, a cui deve  uniformarsi il salario, non sono qualche cosa di astratto e di  costante, ma, essendo in stretta relacione con le condicioni  dell’economia nacionale, subiscono continue variacioni col  progresso generale di questa. Per esse non bisogna intendere  il minimo necessário per la vita fisica dell'individuo, ma un  livello sufficiente a consentire 1'elevacione dei lavoratore.   Questa concecione morale delia vita persegue anche finalità  di carattere economico. Le cattive condicioni dei lavoratori  non solo riducono la capacità di consumo dei mercato interno,  per il quale gran parte degli imprenditori producono, ma  ne menomano anche il rendimento, ostacolando il progresso  economico e civile.   II secondo elemento che bisogna tener presente nella deter-  minacione dei salario è dato dalle possibilità delia producione.    27              í   Si è detto che la Carta dei Lavoro ha sempre presente il rag-  giungimento di una finalità di carattere superiore e cioè quella  di aumentare la potenza política ed economica delia Nazione.  Si comprende, quindi, come sia stata sua preoccupazione  costante quella di far si che il salario venga stabilito in maniera  tale da non causare 1'annullamento dei giusto profitto che deve  percepire 1'imprenditore, perchè in tal caso si annullerebbe lo  spirito d'intrapresa, lo stimolo al risparmio e quindi si inaridi-  rebbero le fonti delia ricchezza, che sono le fonti dei lavoro.  Tale disposizíone non deve essere perciò interpretata soltanto  come difesa delPimpresa, perchè con 1’aumento delia potenza  economica si creano nuove fonti di lavoro.   È anche per questo motivo che la Carta dei Lavoro affida la  concreta determinazione dei salario ai liberi accordi contrattuali;  essa ha perfettamente inteso che questa matéria deve essere  disciplinata seguendo con grande accortezza le contingenze  economiche. Qualora non fosse consentita la indispensabile  elasticità, le ricordate disposizioni si risolverebbero in un danno  altrettanto grave per i lavoratori quanto per gli imprenditori.   I ricordati criteri non devono essere mai dimenticati nè dalle  associazioni sindacali nè dalla Magistratura dei Lavoro.   L’ultimo elemento fissato dalla Carta dei Lavoro per proce-  dere alia determinazione dei salario è il rendimento dei lavoro.  Con questa disposizione la Carta dei Lavoro ha voluto ricono-  scere in maniera esplicita che anche tra i lavoratori il concetto  di differenziamento, in relazione alie singole capacità, deve  essere tenuto presente onde evitare di agguagliare i singoli ed  eliminare le naturali diversità nelle attitudini e nella capacità  di lavoro. Ciò costituisce anche un vantaggio sociale che non  poteva essere trascurato dal Fascismo il quale cerca sopratutto  di ottenere che i singoli elevino loro stessi servendo la causa  dei Paese.    28      II salario non deve quindi essere necessariamente eguale per  tutti gli operai, nè per tutti i generi di lavoro* Esso varia inoltre  in relacione al luogo e al tempo*   II comune, piü generale e forse piü antico sistema di retri-  buzione è quello dei salario a tempo, corrisposto in base al  numero di ore o di giorni di lavoro prestato: forma che pre-  scinde dal rendimento perchè fa astrazione dalla quantità di  lavoro compiuto* Accanto a questo vecchio sistema, che alio  svantaggio di richiedere una assidua sorveglianza unisce quello  di mancare di sufficiente stimolo, si sono venute affermando  forme di retribuzione che vanno sotto il nome di salario a  incentivo * Questo va esente dai ricordati inconvenienti, ma anzi  stimola Tattività delboperaio e quindi la produttività dei lavoro*  Questi indiscutibili vantaggi possono però essere accompa-  gnati da svantaggi considerevoli, specie se considerati dal  punto di vista nazionale* E consistono appunto nella qualità  piú corrente o ordinaria delia produzione e specialmente nel  periodo di uno sforzo eccessivo dei lavoratore che, se lunga-  mente protratto, può essere nocivo per la salute deiroperaio.   I vantaggi che con questo sistema si conseguono sono però  tanto importanti da renderlo preferibile ogni qual volta sia  opportunamente regolato* Come fa la Carta dei Lavoro quando  si preoccupa delle conseguenze dei sistema a cottimo nei  riguardi dei lavoratori meno capaci, che non arrivano ad otte-  nere un reddito corrispondente alia paga base* Per la loro  tutela la Carta dei Lavoro dichiara che « quando il lavoro sia  retribuito a cottimo le tariffe di cottimo devono essere deter-  minate in modo che alPoperaio laborioso, di normale capacità  produttiva, sia consentito di conseguire un guadagno minimo  oltre la paga base»*   Lo scopo dei legislatore fascista, regolando questa matéria  dei salario a cottimo nel modo indicato, è stato quello di sti-                  molare attraverso di esso, nel lavoratore, la convenienza ad  incrementare la produzione, legandolo alia rnedesima, assi-  curando altresi un trattamento che non determini grandi  disparità di retribuzione tra i singoli lavoratori e nello stesso  tempo non sia motivo di logorio fisico delPoperaio.   Obbligando il lavoratore a una fatica superiore alie sue medie  possibilità, si crea un sistema di lavoro privo dei requisiti fon-  damentali dei lavoro fascista, che deve essere gioia creatrice  e non grigia fatica che stanca e non piace. Per questo il Fasci¬  smo non è mai stato molto entusiasta dei sistemi di paga  che hanno avuto tanto furore e cosi estesa applicazione nei  Paesi dei supercapitalismo e specialmente negli Stati Uniti  d’America. I sistemi basati sulla cosidetta organizzazione  scientifica dei lavoro e che fanno capo al taylorismo, spesso  fiaccano la fibra delPoperaio costringendolo ad un lavoro mec-  canico monotono e sempre eguale senza varietà e diversioni  capaci di sollevare lo spirito dei lavoratore.   I vari sistemi — Rowan, Halsey e Bedeaux — si ispi-  rano tutti in sostanza al concetto di fissare la paga in  relazione al rendimento dei singolo e indipendentemente o  quasi da certi minimi, che diremmo di carattere umanitario.  Lo Stato corporativo, pur stimolando la nobile e generosa  gara dei lavoratore non vuole che questo si trasformi in  una parte di macchina; questi razionalissimi sistemi, frutto  esclusivo delia ragione e dei calcolo, che fanno astrazione  da qualsiasi caratteristica individuale, trasformano invece il  lavoratore in una parte delia macchina di cui egli. diventa  il servo.   II problema non va quindi impostato da un punto di vista  meramente e prettamente economico e materiale, ma va con-  siderato anche da un punto di vista etico, sociale e político,  come lo ha considerato lo Stato corporativo che non opera    30     guardando solo il presente, ma con gli occhi e 1’anima tesi  sopratutto verso 1'awenire.   La determinazione dei salario rappresenta la parte piú  importante e delicata dei contratti di lavoro e va affrontata  con animo mondo da qualsiasi preoccupazione partigiana e  demagógica; va affrontata, cioè, con spirito fascista, con spirito  che armonizza in una perfetta unità i due maggiori fattori delia  produzione: il lavoro e il capitale.    LA CORPORAZIONE   L'idea centrale e fondamentale che caratterizza nel terreno  economico e sociale la Rivoluzione delle Camicie Nere, è la  Corporazione . II Corporativismo è espressione essenziale dei  Fascismo,   Che cosa siano le Corporazioni lo ha definito il Duce nello  storico discorso dei novembre XII, al Consiglio Nazionale  delle Corporazioni.   Le Corporazioni, secondo la definizione datane dal Duce,  sono «lo strumento che, sotto 1 'egida dello Stato, attua la  disciplina integrale, organica e unitaria delle forze produttive,  in vista dello sviluppo delia ricchezza, delia potenza política  e dei benessere dei popolo italiano». II corporativismo — ha  ancora affermato il Duce — «è Teconomia disciplinata, e  quindi anche controllata, perchè non si può pensare ad una  disciplina che non abbia un controllo: il corporativismo supera  il socialismo e supera il liberalismo, crea una nuova sintesi».  È cioè la sintesi dei contrastanti interessi di categoria e di gruppo  nel supremo interesse delia società nazionale.   II corporativismo implica quindi anzitutto una perfetta e  completa conoscenza dei vari settori deireconomia nazionale;    31                delia loro portata economica assoluta e relativa. Implica un  indirizzo di política economica conforme a certe finalità sociali  che lo Stato ritiene piú vantaggiose per la collettività nazionale.   Diciamo portata assoluta e relativa delle diverse attività  economiche delia Nazione, perchè non tutte hanno la stessa  importanza per gli interessi che rappresentano o per i fini che  lo Stato fascista persegue. Non mancano, nel campo agricolo  come in quello industriale, modeste attività in confronto di  larghi generali interessi economici. II liberalismo può atten-  dere dal cozzo la soluzione che pel solo suo trionfo ritiene  socialmente piú vantaggiosa; il corporativismo no. Deve appro-  fondire 1'importanza relativa di ogni branca dell'attività  economica e con una visione nazionale, organica quindi e inte-  grale, evítare che limitati interessi, anche se potenti, deprimano  interessi ben piú larghi anche se meno agguerriti o protetti.   Discende da ciò che lo Stato corporativo non può difendere  egualmente ogni settore economico, grande e piccolo. Vi sono  settori, attività, branche che ai fini nazionali vanno tutelati  e difesi, in confronto di altri che non meritano eguale tutela.  Una política economica corporativa non può non fare questa  cernita di interessi in armonia ai fini sociali che intende  raggiungere.   Questa è Tessenza dell'economia corporativa.   Vediamoun po' il suo sviluppo storico.   II Duce sin dall’anno I, parlando il 2 giugno ai lavoratori  dei Polesine, affermò il concetto fondamentale delia collabora-  zione: « La lotta di classe — Egli disse — può essere un epi¬  sódio nella vita di un popolo; non può essere sistema quoti¬  diano, perchè significherebbe la distruzione delia ricchezza  e quindi la miséria universale».   « Collaborazione, fra chi lavora e chi dà lavoro, fra chi dà  le braccia e chi dà il cervello — tutti gli elementi delia    32    produzione hanno le loro gerarchie inevitabili e necessarie_*   attraverso a questo prpgramma voi arriverete al benessere, la  Nâsione arriverà alia prosperità e alia grandeza».   E il 32 maggio deiranno II, al Consiglio Nazionale dei  bmdacati fasdsti, il Duce rivolgeva alFassemblea il seguente  richiamo: « La collaborazione di classe deve essere praticata  m due; 1 datori di lavoro non deVono approfittare dello stato  attuale restaurato dal Fascismo, che ha dato un senso di  disciplina alia Nazione, per soddisfare i loro egoismi; essi  devono considerare gli operai come elementi essenziali delia  produzione; devono fare il loro interesse in quanto coin¬  cida con quello delia Nazione e non invece il contrario.  Solo in questo modo si potrà avere una massa realmente   disciplinata, laboriosa, fiera di contribuire alie fortune delia  Patria »*   Nello stesso anno, mviando un messaggio al Congresso delle  Corporazioni Smdacali Fasciste, rilevava che in molte zone la  mtelligente collaborazione di classe era stata realizzata e la  pace era mantenuta. Ciò dimostrava che quando le due parti  sanno mettersi sul concreto terreno delia produzione, la colla-  bora2;ione di classe è possibile*   Nd maggio dell'anno III il Duce, pubblicando in Gerarchia  un articolo su «Fascismo e Sindacalismo» ricordava che sin  al dicembre dei 1921 il programma dei Partito affermava  clie le Corporazioni vanno promosse secondo due obiettivi  rondamentali: e cioè come espressione delia solidarietà nazio-  nale e come mezzo di sviluppo delia produzione.   Le Corporazioni non debbono tendere ad annegare l'indi-  yiduo nella collettività, e a livellare arbitrariamente la capacità e  le torze dei singoli, ma debbono anzi valorizzarle e svilupparle.   In questa schematica dichiarazione vi sono i fondamenti  delia nuova dottrina corporativa*           II Fascismo, conquistato il potere, si dedico con rara energia  a consolidare le istituzioni, a risolvere gli impellenti problemi  posti dalla vita economica dei Paese, senza però dimenticàre  lo sviluppo orgânico delia legislazione corporativa che doveva  portare alia legge fondamentale dei 5 febbraio 1934.   Da un punto di vista dottrinale, e se si vuole anche storico,  lo sviluppo delia Corporazione è contrassegnato da tre fasi o  momenti di importanza fondamentale: la legge dei 3 aprile  1926, sulla disciplina giuridica dei rapporti collettivi di la-  voro; la legge 20 marzo 1930 sul Consiglio Nazionale delle  Corporazioni; la legge 5 febbraio 1934 sulla costituzione e sulle  funzioni delle Corporazioni.   II legislatore fascista già nella legge dei 1926 forni i primi  elementi giuridici dei nuovo istituto delia Corporazione, e si  può anzi affermare che tutte le disposizioni di quel documento  fossero ispirate a questo concetto fondamentale.   Era 1’idea nuoVa che animava e giustificava Tordinamento  instaurato dalla legge.   Secondo la legge ricordata, 1 * Istituto delia Corporazione  aveva anzitutto lo scopo di attuare la completa collaborazione  tra le categorie, collegando le rappresentanze sindacali dei  lavoratori e dei datori di laVoro dei ramo di produzioni per  cui la corporazione è costituita; di rappresentare in maniera  unitaria gli interessi economici dei proprio settore produttivo  di fronte alie altre categorie.   La delicatissima funzione dei collegamento era esercitata  dallo Stato.   La legge dei 1926 prevedeva, accanto alia organizzazione  sindacale a carattere verticale, una organizzazione corporativa  a carattere orizzontale: la prima serviva per tutelare gli interessi  dei singoli elementi delia produzione, la seconda per la difesa  degli interessi comuni a ogni singolo ramo delia produzione.       Già in questa legge agli organi corporativi fu attribuita la  facoltà di emanare norme generali sulle condizioni di lavor o,  di conciliare le controversie collettive tra le associazioni colle-  gate,di promuovere, incoraggiare e sussidiare tutte le inizia-  tive intese a coordinare e meglio organizzare la produzione,  di istituire uffici di collocamento, di regolare il tirocínio e Í1  garzonato con norme obbligatorie.   II secondo passo di carattere fondamentale sulla via che  doveva condurre alia Corporazione fu fatto con la legge  20 tnarzo 1930, sul Consigho Nazionale délle Corporazioni , la  quale non solo forniva un nuovo strumento giuridico per disci-  plmare i rapporti economici collettivi, ma attribuiva nuovi  compiti e funzioni alie associazioni sindacali. Queste estesero  il loro campo di attività dalla disciplina dei rapporti di lavoro,  al regolamento collettivo dei rapporti economici tra le diverse  categorie delia produzione.   Ma è con la legge dei 5 febbraio 1934 che si dovevano realiz-  sare in maniera definitiva le Corporazioni.   Sin dal 22 aprile delFanno VIII il Capo aveva detto: «il  sindacalismo non può essere fine a se stesso: o si esaurisce nel  socialismo político, o nella corporazione fascista. È solo nella  corporazione che si realizza 1 idea economica nei suoi diversi  elementi: capitale, lavoro, técnica; è solo attraverso la corpo¬  razione, cioe attraverso la collaborazione di tutte le forze conver-  genti ad un solo fine, che la vitalità dei sindacalismo è assi-  curata. È solo, cioe, con un aumento delia produzione e quindi  delia ricchezza, che il contratto collettivo può garantire condi-  zioni sempre migliori alie categorie lavorative. In altri termini,  sindacalismo e corporazione sono indipendenti e si condizio-  nano a vicenda; senza sindacalismo non è pensabile la corpora¬  zione; ma senza corporazione il sindacalismo stesso viene, dopo  le prime fasi, a esaurirsi in un*azione di dettaglio, estranea al    35             processo produttivo; spettatrice non attrice; statica e non  dinamica».   Parlando al popolo di Bari il Duce disse come 1 'obiettivo dei  Regime nel campo economico fosse la realizzazione di una piú  alta giustizia sociale per tutto il popolo italiano. La quale  cosa significa lavoro garantito, salario equo, casa decorosa:  significa la possibilità di evolversi e di migliorarsi incessante¬  mente: significa che gli operai, i lavoratori debbono entrare  sempre piú intimamente a conoscere il processo produttivo  e a partecipare alia sua necessária disciplina.   La fusione di tutte le energie economiche e spirituali  delia Patria doveva awenire in maniera definitiva con la  promulgazione delia legge dei 5 febbraio 1934, che crea su di  un piano orgânico le Corporazioni.   Insediando i Consigli delle Corporazioni, il Capo ne poneva  in rilievo il carattere rivoluzionano, perchè il suo compito  è quello di determinare negli istituti, nelle leggi e nei costumi,  le trasformazioni politiche e sociali che sono necessarie alia  vita di un popolo.   In quell’occasione il Capo si domandava: « occorre ripetere  ancora una volta che le Corporazioni non sono fine a se stesse  ma strumenti di determinati scopi? Ormai questo è un dato  comune.   « Quali sono gli scopi?   « Airinterno una organizzazione che raccorci con gradua-  lità ed inflessibilità le distanze tra le possibilità massime e  quelle minime o nulle delia vita. È ciò che io chiamo una piú  alta giustizia sociale. In questo secolo non si può ammettere  la inevitabilità delia miséria materiale, si può accettare sol-  tanto la triste fatalità di quella fisiológica. Non può durare  l’assurdo delle carestie artificiosamente provocate. Esse denun-  ciano la clamorosa deficienza dei sistema. II secolo scorso    36         proclamo Tuguaglian^a dei cittadini davanti alia legge — e fu  conquista di portata formidabile — il secolo fascista mantiene,  an2;i consolida, questo principio, ma ve ne aggiunge un altro,  non meno fondamentale: Teguaglianza degli uomini dinan^i  al lavoro, inteso come dovere e come diritto, come gioia crea-  trice che deve dilatare e nobilitare Tesisten^a, non mortificaria  o deprimerla.   « Di fronte alhesterno la corpora^ione ha lo scopo di aumen-  tare senza sosta la poten^a globale delia na^ione per i fini  delia sua espansione nel mondo »♦   Col io novembre delbanno XII la grande macchina creata  dal genio dei Duce doveva mettersi in moto. II Capo ammoniva  che non bisogna attendersi immediati miracolL Anzi i miracoli  non bisogna attenderli affatto, perchè il miracolo non appar-  tiene alPeconomia.   La legge attribuisce alie Corporadoni funzioni normative  in matéria economica. Inoltre esse sono chiamate a dar pareri  (compito consultivo) su tutte le questioni che interessano il  ramo di attività per cui sono costituite, tutte le volte sia richie-  sto da organi competenti, nonchè a esercitare la concilia^ione  delle controversie collettive di lavoro.   L'attività delle Corpora^ioni è incominciata neiranno XIII  e molte di esse hanno già lavorato con successo.   Le ventidue corporazioni istituite dal Capo dei Governo  sono elencate qui di seguito e per ciascuna riportiamo la compo-  sizione numérica delle categorie economiche.   Si ricorda che nelle Corporazioni vi è sempre rappresen-  tato il Partito, il quale porta in seno a questo nuovo organismo  la continuità dello spirito rivolu^ionario e la voce delia massa  dei consumatori.    37           PRIMO GRUPPO Dl CORPORAZIONI   (Istituite con decreto dei Capo dei Governo dei 29 maggio 1934-XII)   1* - CORPORAZIONE DEI CEREALI i>   Produzione dei cereali ♦ * * ♦ * ♦ 7 datori di lavoro e 7 lavoratori   Industria delia trebbiatura ♦ ♦ . * 1 » » » 1 »   Industria molitoria, risiera, dolciaria  e delle paste » » » 3 »   Panificazione ♦ ♦ ..* 1 » » » 1 »   Commercio dei cereali e degli altri  prodotti sopra indica ti ♦ ♦ ♦ ♦ ♦ 3 » » » 3 »   Cooperative di consumo ♦ * • * « 1 rappresentante   Tecnici agricoli ..♦ 1 »   Artigianato * ♦.♦ ♦ ♦ ♦ 1 »   2. - CORPORAZIONE  DELLA ORTO-FLORO-FRUTTICOLTURA   Orto-floro-frutticoltura ♦♦♦♦♦♦ 6 datori di lavoro e 6 lavoratori   Industria delle conserve aümentari  vegetali ♦*♦.♦♦♦♦♦♦♦ 2 » » » 2 »   Industria dei derivati agrumari e  delle essenze . ♦ * * ♦ ♦ * ♦ ♦ 2 » » » 2 »   Commercio dei prodotti orto-floro-  frutticoli e loro derivati ♦ ♦ ♦ ♦ * 3 » » » 3 »   Tecnici agricoli 1 rappresentante   Chimici ♦ ♦ * ♦ ♦.♦ i »   Cooperative di esportatori orto-floro-  frutticoli * ^ ♦ ♦♦♦*♦♦. ♦ i »   3. - CORPORAZIONE VITIVINICOLA   Viticoltura ♦ * ♦ ♦..♦♦♦♦ * 6 datori di lavoro e 6 lavoratori   Industrie enologiche (vini, aceto,  liquori) ♦ ♦♦♦♦♦♦.♦♦♦ 2 » » » 2 »   1) Ogni Corporazione ha tre rappresentanti dei Partito.    38        Industrie delia birra ed affrni ♦ * ♦ 3 datori di lavoro e 3 lavoratori   Produzione delPalcool di seconda   categoria » » » 1 »   Commercio dei prodotti sopra eien-   cati ♦ ♦.. * ♦ ♦ ♦ 3 » » » 3 »   Tecniciagricoli ♦ ♦♦♦♦♦♦♦♦ 1 rappresentante   Chimici ....i »   Cantine sociali ♦ ♦♦♦*♦♦♦♦ 1 . »   4- - CORPORAZIONE OLEARIA   Coltura delPolivo e di altre piante da  olio ♦.♦♦♦♦♦♦♦**♦♦ 5 datori di lavoro e 5 lavoratori   Industria delia spremitura e delia  rafíinazione delPolio di oliva ♦ ♦ 2 » » » 2 »   Industria delia spremitura e delia  raffinasione delPolio di semi ♦ ♦ 1 » » » 1 »   Industria delPolio al solfuro ♦ ♦ ♦ 1 » » » 1 »   Commercio dei prodotti oleari ♦ ♦ ♦ 1 » » » 1 »   Tecnici agricoli ♦ ♦♦♦♦♦♦♦♦ 1 rappresentante   Chimici ♦ ♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦ i »   5. - CORPORAZIONE DELLE BIETOLE  E DELLO ZUCCHERO   Bieticoltura ♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦ 2 datori di lavoro e 2 lavoratori   Industria dello zucchero.1 » » » 1 »   Industria delPalcool di prima cate¬  goria ♦ » » )> i »   Commercio dei prodotti sopra indi-   cati » » » i »   Tecnici agricoli ♦ ♦♦♦♦*♦♦♦ 1 rappresentante   Chimici ♦ ♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦ i »    39                 6 * - CORPORAZIONE DELLA ZOOTECNIA  E DELLA PESCA    Praticoltura e allevamento dei be-  stiame e delia selvaggina . * * ♦  Industria delia pesca marittima e di  acque interne e delia lavorazione  dei pesce * * ♦ * * * * * * * *  Industria dei latte per consumo  diretto **♦♦**♦*♦***  Industria dei derivati dei latte * * ♦  Industria delle carni insaccate e delle  conserve aümentari animali * ♦ *  Commercio dei bestiame * * ♦ ♦  Commercio dei latte e dei derivati *  Tecnici agricoli ***♦♦.*.*  Mediei veterinari *♦♦♦♦*♦*   Latterie sociali.* * ♦   Cooperative di pescatori* *****    8 datori di lavoro e 8 lavoratori    2    2 »    1 » » »   2 » » »    1   2    2 » » » 2   1 » » » I   2 » » » 2   i rappresentante   i )>   i »   i »    »   D    ))    7 * - CORPORAZIONE DEL LEGNO    Produzione dei legno, industria fore-  stale e prima lavorazione dei legno    Fabbricazione dei mobiíio e di oggetti  vari di arredamento domestico * ♦  Produzione degli infissi e dei pavi-  menti ♦******♦**.♦  Produzione dei sughero *****  Lavorazioni varie ********  Commercio dei prodotti sopraelen-  cati *************  Tecnici agricoli e forestali * * * *  Artisti *************  Artigianato * * * *.    2 datori di lavoro agricolo e 2  lavoratori agricoli  2 datori di lavoro industriale e  2 lavoratori industriali   2 datori di lavoro e 2 lavoratori   i )> » » i »   1 » » » i »   2 » » » 2 »   3 » » » 3 »   i rappresentante   i »   i »    40      8 * - CORPORAZIONE DEI PRODOTTI TESSILI    Industria dei cotone ******* 3 datori di lavoro e 3 lavoratori   Produzione delia lana ****** 1 » » » 1 »   Industria delia lana* .*♦♦*♦♦* 2 » » » 2 »   Industria dei seme-bachi ***** 1 » » » 1 »   Gelsi-bachicoltura *♦*.***♦ 1 » » » 1 »   Industria delia trattura e delia torci-  tura delia seta ********* 1 datore di lavoro e 1 lavoratore   Industria dei rayon ♦*♦♦♦♦* 2 » » » 2 »   Industria delia tessitura delia seta e  dei rayon **♦*♦♦♦♦♦♦* 2 » » » 2 »   Coltivazione dei lino e delia canapa 2 » » » 2 »   Industria dei lino e delia canapa * * 1 » » » 1 »   Industria delia juta * ******* 1 » » »' 1 »   Industria delia tintoria e delia stampa   dei tessuti. ***** 2 » » » 2 »   Industrie tessili varie * * * * * * * 2 » » » 2 »   Commercio dei cotone, delia lana,  delia seta, dei rayon e degli altri  prodotti tessili; commercio al   dettaglio dei prodotti stessi * * * 3 » » » 3 »   Tecnici agricoli ♦♦*♦*.*** 1 rappresentante   Chimici ♦♦**♦♦*♦**** i »   Periti industriali ********* 1 »   Artisti *♦♦*♦***♦♦♦** i »   Artigiani *♦♦♦***.**** 1 »   Essiccatoi cooperativi ******* 1 »    41    ir           SECONDO GRUPPO Dl CORPORAZIONI   (Istituite con Decreto dei Capo dei Governo dei 9 giugno 1934-XII)   9. - CORPORAZIONE DELLA METALLURGIA  E DELLA MECCANICA   Industria siderúrgica ♦ ♦♦♦♦♦* 3 datori di lavoro e 3 lavoratori   Altre industrie metallurgiche ♦ ♦ * 2 » » » 2 »   Industria delia costruzione di mezzi  di trasporto (automobili, moto-  cicli, aeroplani, materiale ferro-   tranviario, costruzioni navali) ♦ . 5 » » » 5 »   Industria delia costruzione delle  macchine ed apparecchi per la  radio e per la generazione, tra-  sformazione e utilizzazione dell f e-   nergia elet trica ♦ 2 » » » 2 »   Industria delia costruzione di mac¬  chine ed apparecchi per uso indu-   striale e agricolo ♦♦♦.♦♦♦* 3 » » » 3 »   Industria delle costruzioni e lavo-  razioni metal liche, fonderie e   impianti » » » 4 »   Industria delia costruzione di stru-  menti ottici e di misura e delia   meccanica di precisione e di armi 2 » » » 2 »   Industria dei prodotti di gomma per   uso industriale ♦ ♦ * * ♦ * * ♦ 1 » » » 1 »   Industria dei cavi e cordoni isolanti 1 » » » 1 »   Oraíi e argentieri » » » 1 »   Commercio dei prodotti sopra indi-   cati ♦♦♦♦*♦♦,♦**.♦5 » » » 5 »   Ingegneri ♦ ♦♦*♦♦♦♦♦♦♦♦ 1 rappresentante   Artigianato ♦ ♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦ 1 »   Consorzi agrari cooperativi * ♦ ♦ ♦ 1 »    42     lo* - CORPORAZIONE DELLA CHIMICA    Industrie degli acidi inorganici,  degli alcali, dei cloro, dei gas  compressi e degli altri prodotti   chimici inorganici ♦ ♦♦♦♦♦♦ 3 datori di lavoro e 3 lavoratori   Industria dei prodotti chimici per  Tagricoltura * ♦ * * * ♦ * * * * 3 » » » 3 »   Industria degli acidi organici e dei  prodotti chimici organici ♦ ♦ ♦ * 3 » » » 3 »   Industria degli esplosivi ♦ ♦ 1 » - » » 1 »   Industria dei fosforo e dei fiammiferi 1 » » » 1 »   Industria dei materiali plastici ♦ **!»»» 1 »   Industria dei coloranti sintetici e dei  prodotti sensibili per fotografie * 2 » » » 2 »   Industrie dei colori mineraH, delle  vernici, delle creme e dei lucidi   per calzature e pellami ♦ * * * * 2 » » » 2 »   Industria saponiera e dei detersivi  in genere, industria stearica e delia   glicerina ♦**♦♦♦♦ ♦ * * ♦ 2 » » » 2 »   Industria degli estratti concianti * 1 » » » x »   Industria conciaria 1 » » » 1 »   Industria degli olii essenziali e sinte¬  tici e delle profumerie . * ♦ * ♦ 2 » » » 2 »   Industria degli olii minerali *.4*2» » » 2 »   Industria delia distillazione dei car-  bone e dei catrame; industria delle   emulsioni bituminose ♦ ♦ ♦ * ♦ * 1 » » » 1 »   Industrie farmaceutiche ♦ ♦ * ♦ ♦ 2 » » » 2 »   Commercio dei prodotti delle indu¬  strie sopra indicate * ♦ ♦ * * ♦ ♦ 4 » » » 4 »   Chimici * ♦ * * * • ♦ ♦ ♦ ♦ * * i rappresentante  Farmacisti *♦♦***♦♦♦♦♦ 1 »   Consorzi agrari cooperativi * ♦ ♦ ♦ 1 »    43             ii. - CORPORAZIONE DELL'ABBXGLIAMENTO    Industria deirabbigliamento (con-  fezioni d*abiti, biancheria, ecc.) *  Industria delia pellicceria * * * *  Industria dei cappello ******  Industria delle calzature e di altri  oggetti di pelle per uso personale*  Industria dei guanti *******  Produzione di oggetti vari di gomma  per uso di abbigliamento . * * *  Magliíici e calzifici ********  Produzione di pizzi, ricami, nastri,  tessuti elastici e passamanerie * *  Industria dei bottoni *******  Produsioni varie per Tabbigliamento  Ombrellifici ***********  Commercio dei prodotti delle indu¬  strie sopra indicate *******   Artigianato *. *****   Artisti *************    3 datori di lavoro e 3 lavoratori   1 » » » i »   2 » » » 2 , »    2 » » »   I » )) ))    2 »   I »    1 » » )>   2 » » »    1 »   2 »    2 » )) ))   I » » »   I » » ))   I » » »    2 »   I »   I »   I »    4 » » » 4 »   i rappresentante   i »    12* - CORPORAZIONE DELLA CARTA E DELLA STAMPA    Industria delia carta *******  Cartotecnica **********  Industrie poligrafiche ed affini * * *   Industrie editoriali.* *   Industrie editoriali giornalistiche .   Commercio dei prodotti delle indu¬  strie sopra elencate ******  Artisti (autori e scrittori, musicisti,  belle arti, giornalisti) ******  Artigianato ***********    2 datori di lavoro e 2 lavoratori   1 » » » i »   2 » » )> 2 »   2 » » » 2 »   2 » » » 2 »   di cui uno giornalista    2 » » » 2 »   4 rappresentanti   i »    44                 13* - CORPORAZIONE DELLE COSTRUZIONI EDILI    Industrie delle costruzioni (costru¬  zioni edilizie e opere pubbliche) ♦  Industria dei laterizi ♦.♦♦♦♦♦  Industria dei manufatti di cemento*  Industria dei cementi, delia calce e  dei gesso ♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦.  Industria dei materiali refrattari ♦  Commercio dei materiali da costru-  zione ************  Proprietà edilizia ♦ ♦♦♦♦.♦♦  Ingegneri ♦   Architetti ♦ ♦♦♦♦♦♦ .   Geometri ♦♦*♦♦♦♦♦♦♦♦♦  Periti industriali edili ♦ *.♦♦♦  Artigianato ♦   Cooperative edili ♦♦♦♦♦♦♦.„    4   datori di lavoro   e 4   lavoratori   i   » )> »   ■i   »   i   )> » »   i   »   i   » » »   i   »   i   » » »   i   »   2   » » ))   2   »   I   » M »   i   y>   I   rappresentante     I   »     I      I   »     I   »     I   »      14* - CORPORAZIONE DELL'ACQUA, DEL GAS  E DELLA ELETTRICITÀ    Industria degli acquedotti * * * * 3 datori di lavoro, dei quali un   rappresentante delle aziende mu-  nicipali e 3 lavoratori, dei quali  un rappresentante dei dipendenti  delle aziende municipalú   Industria dei gas ♦♦♦♦♦♦•♦ 3 datori di lavoro, dei quali un   rappresentante delle aziende mu-  nicipali, e 3 lavoratori dei quali  un rappresentante dei dipendenti  delle aziende municipalú   Industrie elettriche.4 datori di lavoro, dei quali un rap¬   presentante delle aziende munici-  palizzate e 4 lavoratori dei quali  un rappresentante dei dipendenti  delle aziende municipalizzate»  Ingegneri 1 rappresentante   Consorzi e cooperative ♦*♦♦♦♦! »         45                15 * - CORPORAZIONE DELLE INDUSTRIE ESTRATTIVE    Industria dei mínerali metaílici * . 2 datori di lavoro e 2 lavoratori   Industria dello zolfo e delle piriti * 2 » » » 2 »   Industria dei combustibili fossili * * 1 » » » 1 »   Industria delle cave (marmo, granito,  pietre ed affini) *♦♦♦♦♦♦♦ 2 » » » 2 »   Lavora^ione dei marmo e delia pietra 1 » » » 1 »   Commercio dei prodotti delle indu¬  strie sopraelencate * 2 » » » 2 »   Ingegneri minerari ♦♦♦♦♦♦♦♦ 1 rappresentante   Periti industriali minerari . ♦ * * 1 »   Artigianato 1 »   16* - CORPORAZIONE DEL VETRO E DELLA CERAMICA   Industrie delle ceramiche artistiche,  porcellane, terraglie forti, semi-   forti, e dolci, grès, abrasivi . • ♦ 4 datori di lavoro e 4 lavoratori   Industrie delle bottiglie * * * . * * 1 » » » 1 »   Industria dei vetro bianco * ♦ * , 1 » » » 1 »   Industria delle lastre ♦*,■*..* 1 » » » 1 »   Industria degli specchi e cristalli ♦ * 1 » » » 1 »   Industria dei vetro scientifico (com-  preso quello di ottica) * ♦ * «. * * 1 » » » 1 »   Industria dei vetro artistico e con-  terie ♦ ♦♦♦♦♦♦♦♦***♦ 1 » » » 1 »   Industria delle lampade elettriche ♦ 1 » » » 1 »   Commercio dei prodotti delle indu¬  strie elencate ♦♦*♦♦♦*,, 2 » » » 2 »   Artigianato ♦ 2 rappresentanti   Cooperative 1 »   Artisti ♦ i »    46        TERZO GRUPPO Dl CORPORAZIONI   (Istituite con Decreto dei Capo dei Governo dei 23 giugno 1934-XII)   17. - CORPORAZIONE  DELLE PROFESSIONI E DELLE ARTI   Sezione dei Professionisti legali:   Awocati e Procuratori ****** 3 rappresentanti (due per gli   awocati e uno per i procuratori)  Dottori in economia ******* 1 rappresentante   Notai ************* i »   Patrocinatori legali ******** 1 »   Periti commerciali ♦ ♦***♦♦* 1 »   Ragionieri ***** .* 1 »   Sezione delle professioni sanitarie:   Mediei ************* 3 rappresentanti   Farmacisti *********** 1 »   Veterinari *********** 1 »   Xnfermiere diplomate ******* 1 »   Levatrici ************ 1 »   Sezione delle professioni tecniche:   Ingegneri ************ 2 rappresentanti   Architetti ************ 2 »   Tecnici agricoli ********* 3 » (uno per i dot¬   tori in agraria e uno per i periti  agrari)   Geometri * * * *.* * * 1 rappresentante   Periti industriali ********* 1 »   Chimici ************ i »   Sezione delle arti:    Autori e scrittori ********* 2 rappresentanti   Belle arti * . *.* * 2 »   Architetti *.♦*•♦****♦♦ 1 »    47                    Giornalisti ♦♦♦♦♦*♦♦♦♦*   Musicisti..   Istituti privati di educazione e istru-  Zione ♦♦♦44»* + *****   Insegnanti privati * ..   Attività industriali ed artigiane di  arte applicata 4444***44   Commercio delParte antica e mo¬  derna ..    i rappresentante   i »   i »   i »   i datore di lavoro e 1 lavoratore  delPindustria; 2 artigiani   i datore di lavoro e 1 lavoratore    i8* - CORPORAZIONE  DELLA PREVIDENZA E DEL CREDITO   Sezione delle Banche:   II Governatore delia Banca dTtalia*   II Presidente delPAssociazione tra le Società Italiane per azioni*  II Presidente dellTstituto di ricostruzione industriale*   II Presidente dellTstituto mobiüare italiano*    Istituti di credito ordinário ♦ ♦ * ♦ 2 rappresentanti   Banche di provincia .. 1 »   Istituti finanziari ♦ *. 1 »   Banchieri privati ♦ * ♦ ♦ * * ♦ , * 1 »   Agenti di cambio 44*4444*1 »   Ditte commissionarie di borsa e   cambiavalute 4444.44** 1 »   Dirigenti di aziende bancarie * * * 1 »   Dipendenti delle aziende bancarie * 7 »   Dipendenti da agenti di cambio * * 1 »    Sezione degli Istituti di diritto pubblico:   I membri di diritto delia Sezione delle Banche  Casse di Risparmio ordinarie» * ♦ * 4 rappresentanti   Istituti di credito di diritto pubblico  soggetti alia vigilanza dei Ministero  delle Finanze ♦ ♦ ♦ ♦ * * ♦ ♦ ♦ 2 »    48            Istituti speciali di credito agrario * i rappresentante   Monti di Pietà ♦ ♦.♦♦♦♦♦♦ 2 rappresentanti dei quali uno   per i Monti di Pietà di I a cat* ed  uno per quelli di 2 a cat*   Istituti di credito di diritto pubblico 3 rappresentanti  Banche popolari cooperative ♦ ♦ * ♦ 1 rappresentante   Casse rurali ♦ 1 »   Dipendenti da Banche popolari e da   Casse rurali *♦.♦♦♦♦♦♦♦ 2 rappresentanti   Sezione deile assicurazioni:   II Presidente deiristituto Nazionale delle Assicurazioni,   II Presidente dellTstituto Nazionale Fascista delle Assicurazioni contro  gli Infortuni*   II Presidente deiristituto Nazionale Fascista delia Previdenza Sociale,  Imprese private autorizzate alPeser-  cizio delle assicurazioni ♦ * ♦ ♦ * 2 rappresentanti   Dirigenti delle imprese di assicura-   210116 ♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦ X )>   Dipendenti delle imprese di assicu-   razione * ♦ ♦ * *.3 »   Agenzie di assicurazione ♦ ♦♦,♦! »   Dipendenti da agenzie di assicura¬  zione *** + *•»*. + + , + + i )>   Dipendenti da istituti di assicura-  zione di diritto pubblico ♦ ♦ ♦ ♦ x »   Mutue di assicurazione ♦ »    19, - CORPORAZIONE  DELLE COMUNICAZIONI INTERNE   Sezione delle ferrovie, delle tramvie e delia navigazione interna:   Ferrovie e tramvie extra-urbane * 3 datori di lavoro e 3 lavoratori   Tramvie urbane.. ♦ ♦ ♦ 1 » » » 1 »   Funivie, funicolari, ascensori e íilovie 2 » » » 2 »   Navigazione interna 2 » » » 2 »    4 ~ 4    49          Sezione dei trasporti automobilistici;    Autoservizi di linea ♦ ♦♦♦*♦*   2 datori di lavoro e 2   lavoratori   Servizi di noleggio .♦♦♦♦*♦♦   i » » » i   »   Servizio taxistico ♦ ♦♦♦♦♦♦♦   i » » » i   »   Servizio camionistico ♦.   i » » » i   »   Sezione degli ausiliari dei traffico:     Spedizionieri ♦   2 datori di lavoro e 2   lavoratori   Attività portuali ♦ ♦♦.♦♦♦♦♦   i » » » i   »   Trasporti ippici ♦ ♦.♦♦♦♦♦♦  Attività complementari dei traffico   i » » » i   )>   su rotaia e su strada *♦♦♦*♦   2 » » » 2   »   Sezione delle comunicazioni telefoniche, radiotelefoniche   e cablo-   grafiche:     Comunicazioni telefoniche, radiote-    lavoratori   lefoniche e cablografiche ♦ ♦ ♦ ♦   2 datori di lavoro e 2   20. - CORPORAZIONE DEL MARE E DELL’ARIA   Marina da passeggeri ♦   4 datori di lavoro e 4   lavoratori   Marina da carico ♦ ♦.♦♦♦♦♦♦   3 » » » 3   »   Marina velica   i » » » i   »   Trasporti aerei   2 , » » » 2   »   Cooperative ♦   i rappresentante     2 i. - CORPORAZIONE DELLO SPETTACOLO   Imprese di gestione dei teatri e dei   cinematografi . ♦.. . 2 datori di lavoro e 2 lavoratori   Teatri gestiti da enti pubblici, im¬  prese liriche (artisti di canto, artisti  di prosa, concertisti, orchestrali,  registi e scenotecnici) e di operette,  enti di concerti, capocomici, radio-   trasmissioni 5 * yy )} 5 »    50            Industrie affini (scenografia, case di  costumi e di attr ezzi teatrali, edi-   zioni fotomeccaniche).i datore di lavoro e i lavoratore   Imprese di produzione cinemato¬  gráfica *♦♦•♦♦*♦**** I )) )) » J) X »   Case di noleggio, di films . .... i » » » » j »   Imprese di spettacoli sportivi * * * i » » » » x »   Editori ♦ .♦♦♦*♦♦♦**** 2 rappresentanti   Musicisti ♦ * * * * * *. 3 »   Autori dei teatro drammatico e dei  cinematógrafo ♦ ♦♦.♦♦ ♦ ♦ ♦ 2 rappresentanti   II Presidente delia Società Italiana Autori ed Editori ♦  lí Presidente delPIstituto Nasionale L* U, C. E.   II Presidente delPO* N. D«    22. - CORPORAZIONE   Alberghi e pensioni ♦ * * * * * . „   Uffici ed agensie di viaggi.   Esercizi pubblici in genere (risto-  ranti, caffè, bar) ♦ * * * * * * *  Attività artigiane connesse con 1 'ospi-  talità *♦♦♦*,****.,„  Stabilimenti idroclimatici e termali  Case private di cura *******  Mediei ♦♦♦♦♦*****,,,    DELL/OSPITAUTÀ  2 datori di lavoro e 2 lavoratori   1 » » » i »   2 » » » 2 »   I » » » I »   I » » » I »   I » » » X »   i rappresentante               II vigente ordinamento strutturale delle organizzazioni sinda-  cali è il frutto di una graduale evoluzione. Recentemente è stato  rivedutoispirandosiacriteri dimaggiore semplicità. Anche le de-  nominazioni sono State cambiate con una piü precisa indica-  Zione degli esercenti 1'attività che l’organizzazione rappresenta.   La struttura organizzativa delle associazioni di vario grado si  presenta nel seguente modo:     Associazioni nazionali  giuridicamente riconosciute    Confed.   Federaz.   Sindac. |   Totale   i - Confederazione Fascista agricoltori   I   4   —   5   2 - Confederazione Fascista industriali   I   45   —   46   3 - Confederazione Fascista commer-  cianti •   I   37   -   s?   4 - Confederazione Fascista delle aziende  dei credito e deirassicurazione * * 4   I   13   —   14    4   99   —   103   i - Confederazione Fascista dei lavoratori  deiragricoltura ♦ ♦♦♦♦♦♦♦•♦   i   4   —   5   2 - Confederazione Fascista dei lavoratori  deirindustria * * ♦ ♦ ♦ ♦ * * ♦ * ♦   i   20   9   30   3 - Confederazione Fascista dei lavoratori  dei commercio ♦♦♦♦♦♦•*♦♦   i   5   —   6   4 - Confederazione Fascista dei lavoratori  dei credito e deirassicurazione ♦ * *   i   4   —   5    4   33   9   46   Confederazione Fascista deiprofessionisti  e artisti ♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦*   X   22   1028   1051    53    política finanziaria e monetaria    U Italia, uscita stremata da una guerra costosissima, entrò  in una grave crisi economica e sociale, che ne esauri ancor piü  le sue capacità economiche e quindi ridusse enormemente le  entrate di bilancio, mentre le spese subivano un continuo  aumento*   Ma in pochissimi anni il Governo fascista riedificava su  nuove salde basi la finança, eliminando ogni disavanzo*   II piano delia restaura^ione concepito e voluto fermamente  dal Duce si basa sopra queste colonne fondamentali che costi-  tuiscono il saldo edifício delia finança fascista:   X o Pareggio dei bilancio;   2 o Risanamento delia circolazione monetaria;   3 o Regola^ione dei debiti di guerra;   4 o Sistema^ione dei debito interno;   5 o Sistemasione delFasienda ferroviária;   6 o Abolidone dei corso formoso e ritorno alhoro*   L'esercizio finan^iario 1921-22, ultimo delFantico regime,  segnava un disavanso di circa 16 miliardi di lire; il successivo   10 riduceva a soli 3 miliardi e Feserci^io finansiario seguente,   11 primo interamente gestito dal Fascismo (1923-24), vedeva  scendere il disavamjo a solo 418 milioni di lire* Praticamente  era il pareggio*   Con Fanno finan^iario 1924-25 comincia la magnifica  serie degli anni con bilanci attivi che termina soltanto nel  3:930-31 a causa delia contrazione delle entrate, dovuta alia  crisi e alia nuova situa^ione che si Veniva creando nella econo¬  mia mondiale*   A dare, in breve sintesi, un quadro abbastansja completo dei  bilancio dei nostro Paese dopo il 1913-14, possono giovare i  dati raccolti nella tabella sottoriportata:    53             ENTRATE E SPESE EFFETTIVE RISULTANTI  DAI RENDICONTI CONSUNTIVI     (in milioni di lire correnti)    Esercizio finanziario   Entrate effettive   Spcse effettive   Avanzi 0 disavanzi   I913-I4   2.524   2.688   _   164   1914-15   2.560   5-395   —   2.835   1915-16   3-734   10.625   —   6.891   I916-I7   5-345   17-595   —   12.250   1917-18   7-533   25-299   —   17.766   1918-19   9.676   32.452   —   22.776   I919-3O   15-207   23.093   —   7.886   1930-21   I8.83O   36.229   —   17.409   1921-22   19.701   35.461   —   15.760   1922-23   i 8.803   21.832   —   3.029   1923-24   20.582   21.000   —   418   1924-25   2O.44O   20.023   +   417   1925-26   21.043   20.575   +   468   1926-27   2I.45O   21.014   +   436   1927-28   20.072   19-575   +   497   1928-29   30.201   19.646   +   555   1929-30   19.838   19.668   4-   170   193O-3I   20.387   20.891   —   503   1931-32   19.324   23.191   —   3.867   1932 33   i8.2I7   21.766   —   3-549    Ciò che colpisce è il fatto che appena il Regime fascista ha  preso le redini dello Stato le cose sono mutate profonda-  mente.    54          L/ordine neiramministraçione, la giustizia degli accerta-  menti, il rígido controllo delle spese, la lotta sistemática contro  il triste costume dell'evasione tributaria, hanno compiuto il  prodígio. II primo atino di avanço si ha nel 1924-25, di  417 milioni.   Soltanto successivamente, quando la crisi mondiale sconVolse  definitivamente 1'organismo economico di tutti i paesi civili,  apparve il disavanço, che il Governo fascista ha afffontato con  severe misure di economia.   Ma per meglio comprendere la struttura finançiaria dei nostro  bilancio, e per dare una nozione intorno all'ammontare delle  principali voei di entrata, è bene riportare per 1'undicennio  1922-33, i dati relativi alie imposte dirette, alie imposte  sullo scambio delia riccheçça e sui consumi, ai monopoli  di Stato e al lotto: tali dati consentono di cogliere le varia-  çioni subite da queste singole Voei di entrata, nel periodo delia  ricostruçione e delia depressione economica mondiale.    LE IMPOSTE  (in milioni di lire)    Anni   Imposte   dirette   Imposte  sullo scambio  delia ricchezza   Imposte  indiretfe  sui consumi   Monopoli   di   Stato   Lotto   1922-23   4.604   2.289   3.965   2.II2   372   1923-24   5.616   2.8o8   3.976   2.312   402   1924-25   5-569   3-239   4.485   2.276   429   X 925-26   5-956   3.718   5.340   2.351   475   1926-27   6.186   3-792   5.263   2.581   481   1927-28   5-595   3.152   5.082   2.740   527   1928-29 1   5.308   3.321   5.781 í   2.797   525   1929-30   5.192   3.I68   5-321   2.939   554   1930-31   5.004   3.674   5-593   3.088   526   193I-32   4.897   3.726   5.074   3.023   515   1932-33   4.644   i   3.582   4.644   2.989   483    \    55          Sempre neH'ordine delia política financiaria il Regime ha  proweduto ad unificare gli istituti di emissione.   In omaggio al fondamentale principio delia unità storica e  política dei Paese, contrario ad ogni residuo regionale, il  Governo concentrò la facoltà di emissione nella sola Banca  d'Italia, togliendola al Banco di Napoli e al Banco di Sicilia,  che insieme alia prima ancora godevano di questo particolare  privilegio.   A questa disposicione legislativa segui 1 'altra che attribuiva  alia Banca d’Italia le funcioni di vigilanca su tutte le aciende  bancarie che raccolgono depositi, In tal modo anche l’esercicio  dei credito veniva direttamente sorvegliato.   È poi noto che le banche di deposito si sono dedicate anche  al financiamento di imprese industriali, compromettendo la  loro liquidità e legando strettamente le loro vicende economiche  a quelle delle aciende financiarie.   La crisi economica e il cataclisma financiario dei 1931, con  la caduta delia sterlina, aVevano aggravata la delicata situacione  di quegli Istituti.   II Governo fascista diede loro Tantica liquidità acquistando  in blocco il portafoglio titoli: cioè tutte le acioni delle aciende  dagli stessi financiate.   Queste banche, che si diedero a volte anche ad una ingiusti-  ficabile speculacione, furono salvate dallo Stato, il quale prov-  vide ad istituire due grandi istituti financiari, prowisti di  adeguati mecci e specialiccati nelle operacioni a medio e a  lungo termine: 1 'Istituto Mobiliare Italiano (I.M. I.) e 1 'Isti-  tuto per la Ricostrucione Industriale (I. R. L).   Questi due enti di diritto pubblico hanno facoltà di  emettere obbligacioni, ammesse di diritto alie quotacioni di  borsa. In matéria fiscale i due istituti godono di trattamento  di favore.    56     La portata di questi prowedimenti, emanati alio scopo di  stimolare e sorreggere Tattività economica, può però essere  valutata nella sua vera ampiecca soltanto quando essa venga  considerata in armonia a tutte le altre prowidence che il  Governo fascista ha adottato nel campo delia política crediticia,  in relacione specialmente al poderoso programma di financia¬  mento e di credito per le opere di pubblica utilità e per quelle  specifiche di miglioramento fondiario e agrario*   Un settore nel quale Tacione dello Stato si esplica in pieno è  quello monetário*   Ovunque la moneta è emessa direttamente dallo Stato  oppure da istituti bancari ai quali lo Stato ha concesso tale  facoltà* Quindi lo Stato in sostanca è arbitro quasi assoluto nel  campo monetário; da esso dipende Femissione, che deve esser  contenuta entro i limiti implicitamente stabiliti dalle necessità  economiche e financiarie di ciascun paese*   Strettamente congiunta con la política monetaria è, per owie  ragioni, quella dei credito*   Basta pensare al fatto che lo Stato in maniera diretta o  indiretta determina le variacioni dei saggio dello sconto, per  comprendere quale enorme importanca abbia il suo intervento  sia nello stimolare gli affári, sia nel frenarli*   Estremamente delicata è Tacione dello Stato in questa diffi-  cile matéria; essa non influisce soltanto sulla attività produt-  tiva, ma può provocare sperequacioni nel campo distributivo  e quindi favorire alcune categorie sociali col sacrifício di altre*  II Governo fascista anche in questo settore delFeconomia,  come nel piü complesso quadro delia vita economica nacio-  nale, ha armoniccato e coordinato i particolari interessi con  una política ispirata ai generali interessi dei Paese* Per questo  la sua política monetaria ha mirato a resistere in ogni istante    57             alie pressioni delia speculazione per proteggere, difendere,  tutelare il grande esercito dei risparmiatori, che costituisce  il presidio sicuro delia potensa economica delia Nasione*   La recente storia monetaria dei Fascismo sta a documentare  la tenacia dei propositi e delle direttive seguite*   Quando il Fascismo conquisto il potere la situasione mone¬  taria dei nostro Paese era assai difficile* La nostra lira negli  anni delia guerra e deirimmediato dopoguerra aveva súbito  una forte svalutasione come dimostra il corso delPoro espresso  in lire correnti:    Valore delia lira carta in lire (oro) attuali = gr. 0,07919113 di oro fino   Rapporto tra lira prebellica e lira attuale 3,6661135   Anni   Corso delToro   Anni   Corso delToro   1909-1914   100, 9   1925   484,2   1915   120, 5   1926   496,3   1916   127,4   1927   380,3   1917   148, 2   1928   366, 9   1918   143,9   1929   368, 4   1919   192,3   1930   368,3   1930   400,0   1931   370, i   1921   454,5   1932   378,7   1922   408,2   1933   371,2   1923   416,7   1934   378, i   1924   434,8      Negli anni 1921 e 1922 la lira italiana era in balia delia spe-  culazione, che la faceva oscillare nella maniera piü disordinata;  Tinstabilità dei cambio si manifestava anche sul potere di  acquisto delia moneta; i prezai delle merci subivano continue  variazioni e il costo delia vita ne risentiva le conseguense*    58         Dopo rawento dei Governo fascista le forti oscillasioni  monetarie dei período precedente erano quasi scomparse anche  per effetto delia immediata distensione psicológica e delia  mano possente che reggeva il timone dello Stato, come dimo-  strano i dati seguenti:   Andamento dei corso dei dollaro:   4° trimestre 1932 = 22   I o » 1923 = 20,6   2° » 1923 = 20,9   3 o » 1923 = 23   4 o » 1923 = 22,8   I o » 1924 = 23,2   2 o » 1924 = 22,7   3 o » 1924 = 22,9   4 o » 1924 = 23,1   II Governo aveva iniziato, súbito dopo il 1922, un'energica  política di risanamento finansàario: pareggio dei bilancio e rifor-  ma tributaria che eliminava il caleidoscopio dei dopoguerra per  riportare le fonti principali delia finança ai tributi fondamentali*   Ciononostante nel primo semestre dei 1925 la speculazione  internazionale prese di mira la lira italiana e iniziò durante Testate  quella grande offensiva — a sfondo antifascista — che durò fino  alia estate delPanno successivo: fu nelPestate dei 1926 che la quo-  ta^ione dei dollaro sali a 31,60 e quella delia sterlina a 153,68.   II Duce, compresa la grande importanza política ed econó¬  mica che pote va avere Tulteriore svaluta^ione, pronuncio a  Pesaro il 18 agosto delPanno IV un memorabile discorso nel  quale affermò in maniera solenne e decisiva la strenua volontà  dei Governo fascista di difendere la lira: fu il discorso dei Duce  che stroncò in maniera definitiva la speculazione al ribasso che  era stata organissata dal capitalismo interna^ionale.    59          L/effetto psicologico fu immenso* Quello político ed econo-  mico fu ancora maggiore: alia fine dello stesso anno, deiranno  1936, il dollaro scese a 22 lire e la sterlina a 108: un anno  dopo il discorso di Pesaro il dollaro era quotato poco piú di  18 lire e la sterlina 88*   II Governo fascista aveva vinto* Anche in questo campo,  nel quale le forse interna^ionali si erano scatenate nella  maniera piú insidiosa, P acione decisiva e ferma dei Duce aveva  avuto il soprawento*   II Capo aveva detto: « Non infliggerò mai a questo popolo  meraviglioso d'Italia, che da quattro anni lavora come un eroe  e soffre come un santo, Ponta morale e la catástrofe economica  dei fallimento delia lira* II Regime fascista resisterà con tutte  le sue for^e ai tentativi di jugulazione delle forse finan^iarie  awerse, deciso a stroncarle quando siano individuate alPin-  terno* II Regime fascista è disposto dal suo Capo alPultimo  suo gregário, ad imporsi tutti i sacrifici necessari; ma la nostra  lira che rappresenta il simbolo delia Na^ione, il segno delia  nostra ricche^a, il frutto delle nostre fatiche, dei nostri sfor^i,  dei nostri sacrifici, dei nostro sangue, va difesa e sarà difesa »*  E cosi come aveva promesso fu*   Nel secondo semestre delPanno 1927 la situazione monetaria  risulta completamente cambiata e il Governo fascista si prepara  a compiere la profonda riforma monetaria, effettuata alia fine  dei 1927, con la stabiliz^a^ione delia lira al valore di cambio  che essa aveva raggiunto dopo la strenua lotta combattuta* La  lira venne cosi stabilh;2;ata alia cosidetta « quota novanta »♦  Fedele al suo programma il Governo affrontò i rischi e i  sacrifici che imponeVa la stabiliz^a^ione a quota 90, pur di  recare vantaggio ai risparmiatori, ai portatori di titoli di Stato  e alia grande massa dei lavoratori che almeno in un primo  tempo si sarebbe certamente aWantaggiata dal minor costo     60      delia vita. Rifiutò la stabilizzazione a quota 120; questa si presen-  tava piü facile e comoda, sia per il tesoro, sia per radattamento  al nuovo metro monetário deireconomia dei Paese, ma avrebbe  colpito duramente i risparmiatori e i laVoratori: cioè la Nazione.   La stabilizzazione fu quindi decisa sulla base di 19 lire per  dollaro che equivalevano a circa 90 per la sterlina, con una  rivalutazione, rispetto alia media dei 1924, che raggiungeva  quasi il 20 % dei valore. E fu mantenuta con tenacia impensata ed  impensabile. Tanto è vero che cadde la sterlina — awenimento  di portata economica enorme — trascinando in breve volgere di  tempo la moneta di tutti i Paesi finanziariamente vassalli dellTn-  ghilterra; cadde il dollaro: non cadde la lira italiana nonostante i  furiosi attacchi delia speculazione d’oltre Alpe e d'oltre oceano.   È Veramente unico nella storia monetaria dei Paesi civili  questo fatto: mentre in tutto il mondo aweniva il tracollo  monetário, lTtalia fascista, in grazia delia sua economia solida  e armonica e delia sua meravigliosa unità politica, sapeva  resistere contro ogni assalto.   II 2 ottobre 1931, súbito dopo la caduta delia sterlina, il  Gran Consiglio dei Fascismo fece una solenne dichiarazione  nella quale, mentre prendeva atto delia continuità delia poli¬  tica monetaria dei Governo e delle direttive date per mantenerla  immutata anche nella eccezionale situazione internazionale,  riaffermava che la stabilità delia valuta era necessária e conforme  ai reali interessi economici delia Nazione.   II Gran Consiglio ricordava che la stabilità delia valuta,  basata sulhequilibrio delia bilancia dei pagamenti e garantita  dalla awenuta deflazione delia circolazione, dalle precosti-  tuite riserve e dalhadeguamento dei prezzi delle merci e dei  servizi al livello delia nostra moneta, evitava nuovi dannosi  perturbamenti nei rapporti di distribuzione che avrebbero  gravato sul popolo italiano laVoratore e risparmiatore.    61           Al nuovo valore monetário furono adeguati salari e prezzi,  attraverso un f a^ione oculata, decisa e precisa che ha costituito  — in periodo di cosi awersa congiuntura economica — il  superbo vaglio delia for^a unitaria dei Regime e delia salde^a  ed efficacia delle organi^a^ioni sindacali e corporative*   In questo campo Topera svolta dal Partito fascista è stata  meravigliosa, ineguagliabile: il popolo italiano si è comportato  in maniera magnifica, sacrificando — secondo le norme dei  vivere fascista — particolari interessi di categoria per raggiun-  gere i piú alti fini na^ionalh La política economica dei Regime  è riuscita a contemperare vantaggi e danni con un cosi alto  senso di giusti^ia, che soltanto un periodo di alta tensione  ideale con una massa permeata dalla cosciensa corporativa  poteva consentire di raggiungere*   POLÍTICA commerciale   Gli economisti liberali hanno esaltato la funcione dei commer-  cio interna^ionale come una delle maggiori conquiste civilh  Nessuno può disconoscere che le grandi correnti di traffico  hanno distribuito su tutta la superfície dei globo i prodotti dei  Paesi piú diversi contribuendo ad elevare il tenore di vita dei  popoli e portando a quelli quasi primitivi il frutto delia civiltà,  Ma nelPesaltasione non è mancata la solita costru^ione  astratta e dogmatica che il tempo va inesorabilmente dissol¬  vendo con le dure lezioni delia realtà.   Per dare una precisa idea delhimportan^a dei commercio  internasionale e delia funcione che- esso esercita nelFeconomia  dei nostro Paese è opportuno esaminare il complessivo valore  delle importa^ioni e delle esportasioni, formanti la cosidetta  bilancia dei commercio interna^ionale (bilancia commerciale) ♦      A nn i   Valore (in migliaia di lire)   Importazione   Esportazione   Differenza   1913   3.645.639   2.511.639   I.I34.OOO   1914   2.923-348   2.210.404   712.944   1926   25.878.857   18.664.520   7 . 214-337   1927   20.374.800   15.633.986   4.740.814   1928   22 . 313 .II 3   14.998.982   7.314.I3I   1929   2i.664.760   15 . 235.977   6.428.783   1930   17.346.624   12.119.l8l   5 . 227.443   I93I   n.643.059   IO.209.503   1.433.556   1932   8.267.562   6.811.913   1.455.649   1933   7.431.792   5.99O.553   1.441.239    I dati sopra ricordati dimostrano che il volume delle impor-  ta^ioni e delle esportasioni si è anda to notevolmente contraendo  dopo il 1926*   La differen^a tra il valore delle merci importate e quello delle  merci esportate supera i 7 miliardi di lire, tanto nelhanno 1926  quanto nel 1928* Dopo il 1930 e precisamente nel triennio 1931-33  esso si stabili^sa intorno a un miliardo e 400 milioni di lire»   La passività delia bilancia commerciale non avrebbe una  grande importan^a qualora la cosidetta bilancia dei pagamenti,  chiamata anche bilancia dei dare e delPavere internazionale,  potesse ancora contare sulle cospicue rimesse degli emigranti,  sulForo dei forestieri e sui noli marittimi» Purtroppo però,  date le continue restri^ioni che si sono avute nei rapporti  internazionali, e dato che quelle partite non hanno carattere  di stabilità, il debito commerciale va attentamente osservato,  poichè altrimenti per colmarlo, in difetto di quelle partite  compensative alie quali accennavamo (rimesse degli emigranti,  noli, ecc»), non esiste che il trasferimento di oro»   Per dare un quadro preciso dei nostro commercio con Pestero,  riportiamo una serie di dati riguardanti Timporta^ione e 1'espor-  tazione per le principali categorie di beni oggetto di scambio  internazionale»    63               STATISTICA DEL COMMERCIO  Dl IMPORTAZIONE ED ESPORTAZIONE   Esporiazione     Valore (Lire)   Catcgoric   1930 |   1931   1932   1933 |   1934    Milioni |   Milioni |   Milioni   Milioni |   Milioni   Animali vivi - carni, brodi, mi-  nestre e uova - latte e pro-  dotti dei caseificio - prodotti  delia pesca *   662   766   402   394   253   Coloniali e loro succedanei, zuc-  cheri e prodotti zuccherati *   78   65   57   41   32   Cereali, legumi, tuberi e loro de-  rivati alimentari   505   376   376   408   281   Ortaggi e frutta ♦   1563   1313   IO91   IOO7   879   Bevande ♦ *♦♦♦♦♦•♦♦♦*   234   225   127   138   156   Sali e tabacchi.   70   70   50   52   50   Semi e frutti oleosi e loro residui  - olii e grassi animali e vege-  tali e cere - olii mineral i, di  resina e di catrame, gomme e  resine - saponi e candele * . ♦   536   385   252   178   12©   Canapa, lino, juta e altri vegetali  íilamentosi, compreso il co-  tone - lana, crino e peli -  seta e fibre artificiali - vesti¬  menta, biancheria e altri og-  getti cuciti   4805   3559   2282   1984   1760   Minerali metallici, ceneri e sco-  rie - ghisa, ferro e acciaio -  rame e sue leghe - altri me-  talli comuni e loro leghe -  lavori diversi di metalli co¬  muni ♦ ..   241   679   152   190   210    64               ÈÊmÊMÈÊÈÈmm     Valore (Lire)   Categorie   1930 | 1931 | 1932   1933 1 1934    Milioni J Milioni | Milioni   Milioni | Milioni    Macchine e apparecchi - uten-  sili e strumenti per arti e me-  stieri e per 1'agricoltura -  strumenti scientifici e orologi  - strumenti musicali * * * *  Armi e munizioni ♦ *♦..♦   Veicoli * * ♦ ♦ ..   Pietre, terre e minerali non me-  tallici - laterizi e materiale ce-  mentizio - prodotti delle indu¬  strie ceramiche- vetri e cristalli  Amianto, grafite e mica * ♦ ♦ ♦  Legni e sughero ~ carta, cartoni  e prodotti delle arti grafiche ♦  Paglia ed altre materie da intrec-  cio - materie da intaglio e da   intarsio ♦ ... * ♦   Pelli e pellicce ♦ ♦*♦♦♦♦♦  Prodotti chimici inorganici, orga-  nici e concimi - generi medici-  nali e prodotti farmaceutici -  generi per tinta e per concia -  gomma elas* e guttaperca  Pietre preziose, argento, platino  e lavori di metalli preziosi -  oro e monete d'oro e d'argento  Oggetti di moda, calzature ed  effetti d'uso personale non  compresi in altre categorie -  mercerie, balocchi e spazsole  Materie vegetali non comprese in   altre categorie.* *   Materie animali non comprese in   altre categorie.   Prodotti diversi *******    362 328 210   44 12 29   567 280 281    386 313 251   14 5 5   185 135 124    45 33 29   305 166 157    444 323 277   222 79 125   365 256 190   100 64 58   765  80 40 31     5-4    65                          Importazione      Valore (Lire)    Categorie   1930   1931   1932   1933   1934    Milioni   Milioni   Milioni   Milioni   Milioni   Animali vivi - carni, brodi, mi-  nestre e uova - latte e prodotti  dei caseificio - prodotti delia  pesca* ******♦♦♦.   1364   1026   656   466   486   Coloniali e loro succedanei, zuc- j  cheri e prodotti zuccherati * * '   433   316   249   230   202   Cereali, legumi, tuberi e loro de-  rivati alimentari ******   2093   X264   848   3II   324   Ortaggi e frutta ********   58   69   57   46   55   Bevande * * * *. . ♦   27   24   12   16   13   Sali e tabacchi ********   IOI   49   75   44   43   Semi e frutti oleosi e loro residui  - olíi e grassi animali e vege-  tali e cere - olii minerali, di  resina e di catrame, gomme e  resine - saponi e candele * ♦   1736   1466   925   785   764   Canapa, lino, juta e altri yege-  tali filamentosi, compreso il co~  tone - lana, crino e peli - seta  e fibre artificiali, vestimenta,  biancheria e altri oggetti cu-  citi *.♦..♦ .   3337   1971   1672   1771   1667   Minerali metallici, ceneri e sco-  rie - ghisa, ferro e acciaio -  rame e sue leghe - altri me-  talii comuni e loro leghe -  lavori diversi di metalli co-  muni * . .* ♦   1498   897   586   627   678   Macchine e apparecchi - utensili  e strumenti per arti e mestieri  e per ragricoltura - strumenti  scientifici e orologi - stru¬  menti musicali *******   1236   802   1   557   532   556    66            Valore (Lire)   Categorie   1930   1931   | 1932   | 1933   | 1934    Milioni   | Milioni   J Milioni   | Milioni   j Milioni   Armi e munisioni.* *   16   17   13   3   6   Veicoli , * * * *.-   190   82   84   84   86   Pietre, terre e minerali non me-  tallici - laterisi e materiale ce-  mentizio - prodotti delle indu¬  strie ceramiche - vetri e cristalli   1713   1336   891   911   1085   Amianto, grafite e mica * * . *   33   28   l8   15   22   Legni e sughero - carta, cartoni  e prodotti delle arti grafiche .   1134   789   541   519   543   Pagíia ed altre materie da intrec-  cio - materie da intaglio e da  intarsio ********,,   69   45   26   25   29   Pelli e pellicce.* * *   646   436   297   326   319   Prodotti chimici inorganici, orga-  nici e concimi - generi medici-  nali e prodotti farmaceutici -  generi per tinta e per concia -  gomma elast* e guttaperca   791   491   362   379   415   Pietre preziose, argento, platino  e lavori di metalli preziosi -  oro e monete d'oro e d # argento   568   608   225   1479   215   Oggetti di moda, calzature ed ef-  fetti d'uso personale non com-  presi in altre categorie - mer-  cerie, balocchi e spazsole* . ♦   127   9 i   84   73   61   Materie vegetali non comprese  in altre categorie ******   145   107   121   81   98   Materie animali non comprese in  altre categorie *******   21   14   12   9   n   Prodotti diversi ********   97 1   1   63   1   37   44   57           È opportuno esaminare con attenzione le voei piü impor-  tanti deir importazione e delFesportazione di merci*   Un primo rilievo di fondamentale importanza riguarda il   frumento*   Mentre nel decennio prebellico 1 importazione era di 13 mi-  lioni di quintali circa, dal 1919 al 1927 ha oscillato dai 21  ai 27 milioni di quintali* II prodigioso risultato delia battaglia  dei grano si è manifestato in pieno nel 1934, quando l'impor-  tazione netta di grano raggiunge un milione e mezzo circa  di quintali*   Pressochè costante si è mantenuta invece la importazione  dei granturco, la quale nelPultimo sessennio, se si fa astra-  2;ione dal 1 1933, ha oscillato da 6 a 8 milioni di quintali annui*  Le importazioni di carbon fossile, di ferro e di legno, hanno  segnato specialmente nel periodo 1925-30 un grande^ incre¬  mento, nei confronti dei periodo prebellico* NelTultimo  biennio sono diminuite notevolmente*   II migliorato tenore di vita delia popolazione italiana e il  conseguente aumento dei consumo delle carni, ha determinato  un incremento nella importazione dei bestiame vivo e delia  carne, rispetto al periodo prebellico*   h* importazione di cotone è ferma sulle posizioni prebelliche*  II grande sviluppo che ha avuto 1* industria automobilistica e  Timpiego sempre crescente dei motore a scoppio nell industria  e nei trasporti è stata la causa dei decuplicarsi deli importa¬  zione di benzina*   Anche la importazione di lana ha segnato fortissimi aumenti*  Cosi pure quella dei semi oleosi*   Questi sono i caratteri fondamentali che presenta il com-  mercio di importazione nel nostro Paese*   La nostra esportazione si può caratterizzare distinguendo i  prodotti secondo la forma di attività che li produce* Forti    68    contrazioni segnano le nostre esportazioni di latticini e di  canapa* Alte si mantengono le nostre esportazioni ortofrut-  ticole*   L'esportazione dei tessuti di cotone si può considerare  stazionaria* Forte incremento segna invece Tesportazione di  tessuti e filati di lana e dei manufatti di seta e di rayon*   II Fascismo, per sottrarre il Paese dalla dipendenza estera,  specie per certi consumi fondamentali, per tener viva ed effi-  ciente la corrente esportatrice e anche per conquistare nuovi  mercati onde poter trovare sbocchi adeguati alia crescente  produzione agricola e industriale, ha svolto una complessa  attività economica e politica, ha durato uno sforzo tenace nono-  stante i mille ostacoli non sempre giustificati che si ponevano  sul suo cammino*   E ciò è veramente meraviglioso quando si pensi che tali  posizioni sono State mantenute, malgrado Fimperversare di una  crisi che ha sconvolto la economia di tutti i Paesi civiln  Per avere una nozione precisa intorno alia natura ed alia  direzione delle nostre correnti commerciali con Festero biso-  gna esaminare la provenienza delle nostre importazioni e la  destinazione delle esportazioni, Sopratutto — nella crescente  anemia dei traffici, causata dalle misure di autarchia economica  che hanno instaurato tutti i Paesi, dai contingenti ai divieti ed  alie limitazioni valutarie — è necessário guardare ai singoli  saldi delia bilancia commerciale, per agire adeguatamente  nel sistema delle compensazioni o degli scambi bilanciati, che  il Governo fascista ha effettuato,   La nostra bilancia commerciale è notevolmente passiva con  la Jugoslávia e la Romania nel Bacino Danubiano, con la Ger-  mania nelF Europa Centrale, con gli Stati Uniti nelle Americhe,  con Tlndia Britannica in Asia* Ma anche la Rússia, il Brasile,  il Canadá, la Tunisia, il Belgio, il Lussemburgo e F África    69         ■    Meridionale britannica hanno una bilancia commerciale per  noi sfavorevole*   Le nostre esportazioni hanno superato le importazioni nel  commercio con l'Egitto, con la Grécia, la Turchia, la Polonia  e la Cecoslovacchia; a noi molto favorevole è stata la bilancia  commerciale con la Svizzera, con la Francia e nel 1933 con  1 'Argentina*   L' Italia importa bovini dalla Jugoslávia, dairUngheria e  dalla Romania; carni fresche e congelate dali'África Meridio¬  nale britannica, dali'Argentina, dal Brasile e dalFUruguay*  Pollame specialmente dalla Jugoslávia, uova dalla Jugoslávia,  Polonia e Turchia*   II frumento viene specialmente dagli Stati Uniti, dall'Au-  stralia, dalla Rússia, dall'Argentina e dal Canadá; il granturco  dalla Romania e dalPArgentina*   II cotone è acquistato specialmente dagli Stati Uniti e in  secondo luogo dali'índia Britannica e dall'Egitto* II ferro  proviene dalla Francia e dalFUnione Belga-Lussemburghese;  il carbone dalla Gran Bretagna e dalla Germania, dalla  Polonia e dalla Rússia; la benzina dalla Rússia, dalla Pérsia,  dalla Romania e dagli Stati Uniti*   La lana dall'Australia, dall'Argentina e dalPAfrica Meri¬  dionale Britannica*   II legno dalla Jugoslávia, dall'Australia, dalla Rússia e dagli  Stati Uniti*   L'osserVazione dei fatti dimostra che con V Impero britannico  nel suo complesso abbiamo una bilancia nettamente sfavo-  revole* D'altro lato la politica doganale iniziata dal detto  impero — dopo la conferenza di Ottava — tende a contenere  1 'importazione straniera ad un limite minimo* Cosi pure  awiene per molti altri Paesi con i quali abbiamo relazioni  commerciali* Cosi dicasi per gli Stati Uniti che hanno chiuso    70       le porte alia nostra emigrazione ed hanno innalzato barriere  doganali elevatissime.   La stessa osservazione delia realtà pone spontaneamente le  seguenti domande: è proprio indispensabile acquistare le  merci di cui noi abbiamo bisogno dai Paesi che si chiudono  ermeticamente airesportazione dei nostri prodotti? Per miglio-  rare la nostra bilancia commerciale non è possibile agire sopra  queste correnti dei traffico onde renderle a noi piú favorevoli?   Anche in questo campo, e specialmente in questo campo,  il tramonto dei liberismo economico si è già manifestato sotto  forme e aspetti inequivocabili. Le lezioni che ci ha dato la  storia economica di questi ultimi anni, sono al riguardo sug-  gestive e definitive. La fine dei liberismo economico interno  è seguita inesorabilmente da quello estero.   Pochi Paesi, forse nessun Paese, può rinchiudersi in un piú  o meno beato isolamento e svolgere tutte le sue attività nello  âmbito dei propri confini. L' Italia poi che non è stata certa¬  mente favorita dalla natura come lo sono stati altri Paesi,  può forse meno di quelli chiudersi in un’autarchia economica.  Necessita quindi esportare prodotti agricoli e industriali propri  per potere prowedere specialmente le materie indispensabili  di cui il nostro suolo manca.   Da ciò la política delle compensazioni, la quale si armonizza  perfettamente coi postulati dello Stato corporativo. Uno Stato  nel quale la produzione è disciplinata e controllata, nel quale  1 ’iniziativa privata non è libera di svolgersi come vuole e dove  vuole, deve anche regolare le correnti dei traffico, discipli¬  nando anche il commercio internazionale.   II Capo, infatti, ha piú volte affermato che la politica eco¬  nomica estera non può ancora svolgersi sulla falsariga di  sistemi piú o meno liberistici, eredttati da un mondo superato.  Un'economia corporativa in fatto di scambi internazionali non    7i        può rimanere schiava delia clausola delia Nazione piú favorita,  ultimo feticcio liberale, riaffermata in teoria in ogni consesso  economico internazionale, per essere súbito dopo negata in  pratica, attraverso una serie di limitazioni che la svuotano  di ogni contenuto reale o Tannullano addirittura.   Questa figlia legittima dei liberismo non tutti i Paesi Thanno  applicata nella sua forma piú liberale (illimitata, incondizio-  nata, reciproca). Ha avuto i colpi maggiori non tanto dalPinnal-  zarsi delle barriere doganali, quanto dai divieti di importa-  zione e dai contingentamenti. Le intese preferenziali, come  quella di Ottava, le limitazioni al commercio delle divise,  gli accordi di compensazione, le hanno recato durissimi colpi*  I Paesi che Vennero meno per primi al libero scambio sono  stati proprio quelli che ne avevano meno la ragione, perche  favoriti dalla natura, ricchi di materie prime e di capitali:  quelli stessi che Pavevano allevato e Pavevano teorizzato, anche  perchè si adattava egregiamente ai loro particolari interessi*  D'altra parte, a proposito delia concezione liberistica nella  organiz^azione degli scambi internazionali, deve essere ben  tenuto presente che lo sviluppo industriale va profondamente  mutando le tradizionali correnti di traffico*   La distinzione tra Paesi agricoli e industriali va perdendo  gran parte dei motivi sostanziali che la giustificano* Ogni Paese  tende a rendersi piú indipendente anche per ragioni di sicu-  rezza* La scoperta scientifica ed il progresso técnico spostano  continuamente i termini dei complesso problema: materie  prime ritenute un tempo insostituibili, oggi si sostituiscono;  monopoli naturali per certi prodotti, cadono di fronte ad  impensate produzioni sintetiche* La scienza, col suo inces¬  sante progresso, ha contribuito a rendere economicamente  possibili processi produttivi in Paesi in cui pochi anni or sono  era follia sperarlh    72      Si assiste veramente ad una profonda rivoluzione técnica,  economica e sociale.   Dato il tradizionale attaccamento alia clausola delia Nazione  piú favorita, il sistema degli scambi bilanciati o scambi con-  trattati o scambi compensati, come si dice oggi, non ha trovato  in principio favore. È stato osservato che questo sistema non  si poteva attuare, perchè il commercio con 1'estero non può  chiudersi con un pareggio aritmético, in quanto nei traffici  internazionali non si possono sopprimere le compensazioni  indirette; è stato ripetuto che esso avrebbe complicato 1 organiz-  zazione dei traffici e resa necessária una mastodontica burocrazia;  che in certi casi sarebbe stato inapplicabile.   Tali critiche erano specialmente il frutto di una profonda  incomprensione degli scopi e delle finalità cui mirava il sistema  degli scambi bilanciati; nessuno aveva mai pensato che questo  potesse essere un sistema eterno; nè che mirasse al pareggio  aritmético: si trattava soltanto di un accorgimento di politica  economica di carattere contingente, che però poteva recare  notevoli benefici al nostro Paese, data la situazione economica  specifica in cui si trova.   È evidente che il sistema delle compensazioni non supera  il problema dei prezzi: questo rimane, cosi come il Duce   10 ha posto e nei limiti dei negoziati fra Paesi che abbiano   11 reciproco bisogno di esportare.   Si può quindi concludere che, specialmente nelbattuale  momento economico, la cui durata è di difficile previsione,  acquistano grande importanza le compensazioni degli scambi,  le quali, basandosi sulla nostra posizione di acquirenti di  materie prime, consentano il maggior possibile collocamento  ai nostri prodotti.    73         IL COMMERCIO    Nel passato esistevano soltanto dei commercianti: oggi  esiste il commercio italiano, perchè il Regime, attraverso la  organi£2;a2;ione, ha dato una personalità unitaria ed organica  anche a questa forma insostituibile di attività economica*   II Duce ha detto che la funcione dei commercio è quella di  portare rapidamente e rasionalmente le merci al consumatore:  questo è il suo compito essensiale*   II commercio al minuto costituisce gran parte delia vita  dei centri urbani* II commercio alhingrosso, che comprende  anche il commercio di esportasione, dà lavoro a migliaia di per-  sone e costituisce una delle espressioni piú alte delia vita civile*  È stato osservato che nel commercio la técnica diventa  vita* In tal senso il commercio è lotta: lotta che comincia nella  piccola bottega familiare e si estende al grande magassino,  che si esplica nella borsa, nella banca e può dare le armi per  formidabili conquiste* Se Tagricoltura e T industria si risolvono  nella produzione di nuovi beni economici e cioè nella trasfor-  mazione delia matéria, il commercio opera trasformazioni che  awengono nello spazio, perchè le merci sono recate dai centri  di produ^ione ai centri di consumo*   L/Italia fascista che non ignora nessun settore deirattività  economica, che fa tesoro delle grandi tradizioni patrie, che ha  il culto dei titoli di nobiltà conquistati dal nostro popolo  nelle guerre e nelle ar ti, neir industria e nel commercio, che  non dimentica la gloria di Venezia e quella di Gênova, come  di Pisa e di Amalíi, non poteva non dedicare anche a questa  forma di attività tutte le cure, contemperandole con le prowi-  denze portate alie altre branche di attività economica dei regime*  L/Italia ha bisogno di espandersi, e quindi deve conqui-  stare anche attraverso i pacifici commerci le grandi vie dei    74      #?/ ^7\sA   continenti e degli oceani; cosi i commercianti possono espliça^ o 1   una magnifica opera di penetracione che porti con le mèrçc^' /  scambiate il nome e la potenca d'Italia nei piú lontani Paesap^ oÇ Vy  Le force commerciali d' Italia si sono già addimostrate alPal- ^  tec£a dei compito, anche perchè il Governo fascista ha saputo  liberare il commercio da quei preconcetti ostili che tanto lo  hanno demoraliczato e awilito* Risanare, dare nuova vita  alie correnti mercantili, ridare nuova consideracione alia fun¬  cione dei commerciante che non è egoistica ed esosa ma è,  come quella degli altri produttori, elemento indispensabile  delia organiczacione economica*   Di solito quando si discorre di commercio alhingrosso ci si  riferisce alie correnti internacionali* Lo dimostra il fatto che  le statistiche ufficiali di quasi tutti i Paesi comprendono sotto  il titolo ricordato le cifre relative alhesportacione e alhim-  portacione* Quei dati dimenticano completamente le importan-  tissime correnti che si muovono alh interno dei singoli Paesi  per alimentarne i mercati*   II Duce, parlando ai commercianti il 26 ottobre delhanno X,  a Milano, affermò che la funcione dei commercio è insosti-  tuibile, rappresentando essa un fattore storico* Questa affer-  macione vale tanto per il commercio alhingrosso come per  quello al minuto* II grossista è infatti un efficace collaboratore  e un precioso consigliere dei produttore* Esso è in grado di  valutare la capacità di consumo dei singoli mercati rispetto  alie diverse merci; esso meglio di ogni altro può stabilire le  attrecsature che occorrono per distribuire le merci al piccolo  consumo* In questo senso la sana attività economica svolta  dal grande commerciante è quanto mai benefica, sia perchè  esso possiede una competenca specifica ed integrale dei mer-  cato di quella data merce in un dato luogo, sia perchè esso    75       adempie alia insopprimibile funcione di intermediário ed è  quindi elemento fondamentale delbeconomia nacionale.   Nei riguardi delFeconomia corporativa il commercio alio  ingrosso può facilitare il raggiungimento rápido ed economico  di particolari forme di disciplina delia producione. II funcio¬  namento dei magaccini ai fini delia conservacione dei prodotti,  specie di quelli di facile deperibilità, l'organiccacione dei proce-  dimenti tecnici per il rápido riassorbimento delle giacence  invendute o invendibili e per il racionale rinnovamento delle  partite di scorta, possono essere affrontati con successo dai  commercianti all' ingrosso organiccati corporativamente.   In tal modo il grande commercio adempie perfettamente ad  un'alta funcione corporativa.   Ma il sistema attraverso il quale si effettua la distribucione  delle merci comprende centinaia di migliaia di piccole aciende.  È per opera dei bottegai che i prodotti deiragricoltura e delia  industria giungono sino alie piu remote valli montane, ai piü  discosti casolari.   L' importanca e T influenca che il commercio al minuto può  esercitare sulla vita sociale giustifica la vigilanca a cui esso è sog-  getto, i controlli che su di esso si esercitano e la disciplina che ad  esso si impone; appunto per questa sua funcione di vivificare  ogni piu remota contrada, di consentire che ogni prodotto sia  accessibile in ogni luogo al piú modesto consumatore, il com¬  mercio al minuto appare meritevole di particolare consideracione.   Le aciende di commercio al minuto ammontano a circa  550.000 con 1.500.000 persone addette, delle quali il 60 %  è formato da proprietari, dirigenti e dai loro famigliari, e il  40 % da veri e propri dipendenti.   La maggioranca quindi è formata da imprese a carattere  famigliare, neiresercicio delle quali le donne partecipano in  proporcioni noteVolissime.    76      Una nozione piú precisa intorno alia natura degli esercúi  commerciali e alia loro importanza si può avere dalla tabella  sotto riportata:   ESERCIZI COMMERCIALI SECONDO IL NUMERO  DEGLI ADDETTI    (cifre per ioo esercizi di ogni categoria)    Cat ego fie   i   addetto   Da 3 a 5  addetti   Da 6 a 10   addetti   Okre  ii addetti   Commercio in grosso:    1     Animali vivi ♦'.   6l, 4   33,5   3 , 1   2, 0   Generi alimentari ♦ . * .   49,2   42,0   5,4   3,4   Filati, tessuti, ecc.   18, 6   47 , 0   18,3   16, i   Commercio al minuto :       Metalli, macchine, ecc* * *   43,8   47 , i   5,6   3,5   Generi alimentari . * * *   60,5   38,8   o,6   0, i   Filati, tessuti, ecc.   59.4   38,2   1,8   0, 6   Mobili, vetreríe, ecc* * * *   52.9   42,0   3,6   1, 6   Oggetti d f arte.   57.5   39,4   2,2   o, 9   Prodotti chimici .   58,8   38,3   1,9   1,0   Misto * . . *.   64, i   33,6   i ,3   1, 0    Nel nostro Paese il numero dei negozi al minuto non sembra  proporzionato ai bisogni delia distribuzione dei prodottn II  rapporto fra la popolazione servita e il numero dei negozi  è leggermente inferiore a quello che si riscontra in altri Paesi*  Mentre in Italia il numero dei negozi è di uno ogni 75 abitanti,  nella Svizzera 11 rapporto sale ad 80, nell* Inghilterra risulta  di 77, negli Stati Uniti d'America di 79, nella Germania di 78*  Attraverso questa rete di distribuzione al consumatore,  nella quale troVano la loro fonte di attività e quindi i loro mezzi  di vita quasi 4 milioni di abitanti, passa il consumo nazionale  e grandissima parte dei denaro necessário alia produzione*    77         Se è incontestabile la utilíssima funcione esercitata da questi  piccoli commercianti è da ritenere che il loro numero sia supe-  nore a quello che tecnicamente sarebbe necessário ed economi¬  camente utile per la distribuzione dei prodotti* In molti medi  e piccoli centri urbani si sono andati moltiplicando in maniera  eccessiva questi piccoli esercizi; Timprenditore pretende di  trarre i mtzzi di vita per Tintera famiglia con un modestíssimo  capitale e servendo uno sparuto numero di clienti* Questo orien-  tamento che si è accentuato in maniera particolare nel periodo  postbellico e durante V inflasione, favorito anche dall'esodo  rurale che allora awenne in maniera intensa, è stato stigmatis-  Zito dal Governo fascista \ il quale intende ridurre al necessário  il costo di ogni servisio e sopprimere gli organismi superflui*  Con lo scopo di ridurre il costo delia distribusione dei beni  dalla produ^ione al consumo e di adattare il piú sollecitamente  possibile i prezzi al dettaglio al livello di quelli alhingrosso — evi¬  tando le conseguenze delia cosidetta vischiosità, cara agli adora-  tori dei «laisse* faire, laisse* passer » — Tordinamento cor¬  porativo dello Stato fascista ha agito e agisce incessantemente*  Come pure compito importantíssimo dell'a£ione corpora¬  tiva in fatto di moralizsa^ione dei commercio e di tutela dei  consumatore è la difesa dalle adulterazioni e dalle frodi*  L'economialiberale può anche attendere che il consumatore o il  tempo facciano da loro giusti^ia dei prodotti non genuini: 1'eco-  nomia corporativa no* Non solo, ma nella lotta economica fra pro¬  dotti genuini e surrogati, fra produ^ioni genuine e sofistica^ioni,  fedele al suo principio deve ispirare Ta^ione all* interesse pre-  valente col quale coincide quello delia collettività nasjionale*   Nel discorso pronunciato dal Duce in Campidoglio, il  33 marso XIV, alhAssemblea delle Corpora^ioni, sono stati  tracciati gli sviluppi delFeconomia fascista*      I    «L/assedio economico — Egli ha detto — ha sollevato  una serie numerosa di problemi, che tutti si riassumono in  questa proposi^ione: r autonomia política, cioè la possibilità  di una política estera indipendente, non si può piü concepire  sen^a una correlativa capacità di autonomia economica* Ecco  la lecione che nessuno di noi dimenticherà!   « Coloro i quali pensano che finito Fassedio si ritornerà alia  situasione dei 17 novembre, shngannano* II 18 novembre 1935  è ormai una data che segna V inicio di una nuova fase delia  storia italiana* II 18 novembre reca in sè qualche cosa di defi¬  nitivo, vorrei dire di irreparabile* La nuova fase delia storia  italiana sarà dominata da questo postulato: realÍ2£are nel  piú breve termine possibile il massimo possibile di autonomia  nella vita economica delia Na^ione »♦   E passando alFanalisi il Capo ha dato il panorama futuro  delFeconomia italiana, che poggerà sopra questi caposaldi*  Nessuna innova^ione sostansiale nelFeconomia agrícola,  che rimane a base privata, disciplinata e aiutata dallo Stato  e armoni%2:ata, attraverso le Corpora^ioni, colle altre attività  economiche nacionali*   Nei riguardi dei commercio estero ha ribadito la sua fisio¬  nomia di funcione diretta o indiretta dello Stato con carattere  duraturo e non contingente; mentre il commercio interno  rimane affidato alFiniziativa individuale o di associa^ioni, come  pure la media e la piccola industria*   II credito è già porta to, con recenti prowedimenti, sotto il  controllo dello Stato* E cosi pure, sen^a precipita^ioni ma con  decisione fascista, lo sarà la grande industria, la quale assu-  merà un carattere speciale, nelForbita dello Stato, con gestione  diretta, o indiretta, ovvero con un efficiente controllo*    79                         ÍIL   VAGRICOLTura italianà  E LA POLÍTICA RURALE DEL REGIME    6-4                    CARATTERI DELL'AGRICOLTURA ITALIANA   L ITALIA ha una superfície territoriale di 310.107 kmq.,  costituita per 4 / 3 da montagna e collina e sol tanto per 1 j s  da pianura,   Su questa limitata superfície, in data 21 aprile 1931-XI,  viveva una popolazione di oltre 41 milioni di abitanti, con una  densità media di 133 persone per ktnq.; oggi siamo oltre 43  milioni (140 per kmq,).   La popolazione dedita all'agricoltura si aggira sui 20 mi¬  lioni di individui raccolti in 4 milioni di famiglie rurali circa,  aventi una media di 5 componenti.   È noto che le condizioni di fertilità dei suolo italiano non  sono le piú felici. Si è ricordato come esso sia prevalentemente  montuoso e collinoso: la pianura si estende soltanto a 6.446.238  ettari. Ma parte di questa pianura è formata da terreni che si  trovano in difficili condizioni per la produzione agrícola, data  la péssima distribuzione delle piogge che li rende eccessiva-  mente aridi per potervi esercitare una ricca agricoltura: ricor-  diamo in particolare il Tavoliere di Puglia e i Campidani di  Cagliari e di Oristano in Sardegna.   Spessissimo poi la pianura era malarica per il disordine  idraulico conseguente al regime torrentizio dei fiumi e al  disboscamento montano.   Nonostante queste infelici condizioni naturali il popolo ita¬  liano è stato costretto ad adibire alie coltivazioni quasi tutta la  superfície, per la forte densità delia popolazione su un terri¬  tório naturalmente povero, a limitato e localizzato sviluppo  industriale, in assenza di colonie redditizie. Tanto che solo  1’8 % delia superfície territoriale è improduttiva: il resto è  a coltura e la massima percentuale di utilizzazione si ha nei  terreni di collina.    83         Anche laddove ammiriamo un'agricoltura particolarmente  intensiva, come nella pianura padana, questa è il risultato di  ingenti opere di miglioramento compiute attraverso i secoli,  che con 1’acqua o contro Tacqua, mediante 1’irrigazione, il  prosciugamento o la colmata, hanno formato una nuova  natura.   Altrettanto dicasi delia meravigliosa sistemazione colunai e  deiritalia centrale, meridionale e insulare, che costituisce una  costruzione dei lavoro dei contadino italiano, che spesso ha  portato a spalle la terra che doveva accogliere nel suo grembo  e alimentare la pianta.   Ma per meglio comprendere la natura e la portata dei pro-  blemi di politica agraria affrontati dal Governo fascista è  opportuno approfondire ulteriormente le condizioni di am¬  biente nelle quali essa si esplica.    RIPARTIZIONE AGRARIA DEL TERRITÓRIO    Ripartizioni geografiche   Seminativi   Coliure   I e g no s e  specializzate   Terreni  saldi I)   Superfície   improduttiva   Superfície   territoriale   Italia settentrionale   4-577   421   6.310   1.563   12.871   Italia centrale * .   2.834   229   2-443   325   5.831   Italia meridionale ♦   3.260   1.068   2.619   382   7.329   Italia insulare ♦ *   2.164   514   2.080   222   4.980   Regno* • .   12.835   2.232   13.452   2.492   31.OII    x) Prati e pascoli permanenti, boschi e castagneti, incolti produttivi.    84         La superfície agraria forestale misura 28*519*000 ettari  dei quali oltre 15 milioni sono costituiti dai terreni agrari  propriamente detti* Di questi, 12*835*000 sono rappresentati  da seminativi semplici e arborati e 2*232*000 da culture  legnose specializzate*   I prati e i pascoli permanenti figurano soltanto con circa 6  milioni di ettari* I boschi compresi i castagneti, si estendono  per 5*561*000 ettari* Gli incolti produttivi, frequenti special-  mente nella dorsale appenninica, raggiungono 1*700*000 ettari*   Nel complesso quindi i seminativi dominano le altre qualità  di coltura con il 45 % delia superfície agraria e forestale*   Ad essi seguono i prati e i pascoli permanenti con il 21/7 %,  i boschi con il 7,8 %♦   In questo ambiente si allevano 7 milioni di bovini, 10 milioni  di ovini, 3*300*000 suini, 1*900*000 caprini* I cavalli raggiun¬  gono quasi il milione, gli asini, i muli e i bardotti raggiungono  circa 1*400*000* Si allevano anche circa 15*000 bufali*   II popolo italiano è un popolo in mareia* Un secolo fa  entro gli stessi confini dei Regno vivevano circa 21 milioni  di abitanti; oggi abbiamo superato i 43* Nelhultimo de-  cennio la popolarione ha avuto un incremento di circa tre  milioni e me^o* Lo Stato fascista, consapevole dei problemi  che una cosi alta densità delia popolarione viene a determi-  nare, si è decisamente orientato verso una política rurale*  E ciò perchè la popolarione rurale possiede nel piú alto grado  la virtü dei risparmio e la tenacia nei propositi, la probità  di vita e il senso delia continuità, Tamore per la terra e per il  lavoro: qualità che invece si attenuano sempre piú nelle popo-  larioni delle grandi città, dove si cerca di vivere la vita « co-  moda », dove si disfrenano gli egoismi piú acerbi, dove il  senso delia solidarietà umana sostanriale e non solo apparente,  ha súbito i colpi piú duri*    85             w-    Bisogna ruralizzare 1 'Italia anche se occorrono railiardi e  mezzo secolo, ha affermato il Capo. Poichè la ruralità non  solo assicura lo sviluppo demográfico, che costituisce una  delle maggiori espressioni delia potenza di un popolo (i rurali  sono i piú prolifici), ma assicura anche la sanità fisica e  morale delia razza, custodisce i grandi ideali delia vita, si  compendia nella famiglia, sente tutta la bellezza dei lavoro  creativo, stimola la virtú dei risparmio. Perchè la mèta agognata  da ogni lavoratore è quella di raggiungere il possesso terriero,  trasformandosi da bracciante in colono, da colono in piccolo  affittuario o in piccolo proprietário/per attaccarsi alia sua terra  che ama e che ha desiderata come aspirazione massima.   Perciò il Regime nella sua política di ruralizzazione tende  a fissare il contadino alia terra, combattendo il bracciantato  anonimo e quasi nômade e stimolando la diffusione delle  forme di colonia e di compartecipazione, nonchè incitando,  come vedremo, 1'estendersi delia piccola proprietà.   «L/anima delia nostra razza, che ha storicamente vissuto  il passaggio dalla vita agreste a quella dell'urbe e che ha tratto  mirabili espressioni di arte, di vita sociale e religiosa, ben sa  come sull'agricoltura sia costruito 1'intero edifício delia pro-  sperità sociale ».   Cosi il Duce si esprimeva in un discorso pronunciato alia  7 a assemblea dell’Istituto internazionale di agricoltura il  2 maggio 1924. II Capo awertiva che altre attività produttive  possono essere piú impressionanti nella grandiosità localiz-  zata delle loro manifestazioni, piú facili apportatrici di gua-  dagno, ma nessuna altrettanto augusta ed essenziale. Poichè,  infine, tutto potrebbe immaginarsi ritolto albumanità delle  sue superbe espressioni di forza e di conquista, ma non mai,  finchè la razza umana esista, non mai 1’arte di trarre dalla  terra madre quanto è necessário a sostenere la vita.     86       È pensando alie virtü rurali dei popolo italiano che il Duce,  al primo congresso di agricoltura coloniale di Tripoli, affer-  mava che in Italia sta sorgendo una nuova generaçione, la  generaçione modellata dal Fascismo: poche parole e molti  fatti* La tenacia, la perseverança, il método, tutte le virtü  alie quali Pitaliano sembrava negato dovranno diventare  domani, e sono già in parte, virtü fondamentali dei carattere  italiano*   Per questi motivi fondamentali il Fascismo ha dedicato le  sue piú solerti cure alio sviluppo delPagricoltura*   II Capo in moltissime occasioni ebbe ad esprimere in  maniera inequivocabile la sua fede negli sviluppi delPagri-  coltura italiana, base delia economia, baluardo contro Tur-  banesimo*   Paralleíamente alia politica agrícola, il Fascismo ha svilup-  pato la politica forestale e montana, di quelle montagne « che  salvaguardano la nostra piú grande pianura e costituiscono  la spina dorsale delia Penisola: la politica dei Regime è diretta  a sostenere la popolaçione delia montagna ai fini pacifici e a  quelli militari »♦   « Tra il mare e le montagne, si stendono valli e piani:  la terra nostra, bellissima, ma angusta, trenta milioni di ettari  per 42 milioni di uomini* Un imperativo assoluto si pone:  bisogna dare la massima fecondità ad ogni çolla di terreno*  II Fascismo rivendica in pieno il suo carattere contadino* Di  qui la politica rurale dei Regime nei suoi diversi aspetti:  il credito agrario, la bonifica integrale, la elevaçione politica  e morale delle genti dei campi e dei villaggi* Solo con il  Fascismo i contadini sono entrati di pieno diritto nella storia  delia Patria* Volgete gli occhi sulPAgro Romano e avrete la  testimoniança delia profonda trasformaçione agraria in via di  esecuçione »♦    87         Con questo inimitabile stile il Duce definiva, airAssemblea  Quinquennale dei Regime, il io marzo deiranno VII, i motivi  fondamentali che spiegano perchè il Regime attui una polí¬  tica rurale*   La nuova política agraria inizia in pieno la sua attività  neiranno 1925.   II Duce, negli anni precedenti diede la sua prodigiosa atti¬  vità a un lavoro di ordinamento, di revisione e di sistema-  zione, perchè Egli, anzichè precipitarsi sulla macchina statale  per frantumarla come ha fatto la rivolmâone russa, ha voluto  « armoniszare il vecchio col nuovo; cio che di sacro e di forte  sta nel passato, cio che di sacro e di forte ci reca, nel suo  inesauribile grembo, 1'awenire »♦   In tutta Tazione política dei Regime, ma in particolare in  quella rurale, giganteggia il nome di Arnaldo Mussolini,  grande anima e grande mente, strappata alia Nazione da una  tragédia che solo possono comprendere appieno coloro — come  ha scritto il Duce — che sono « continuati »♦   La ricostru^ione forestale d'Italia fu un suo preciso fine;  fondò e presiedette il Comitato forestale italiano, organo pro-  pulsore delia rinascita silvana*   Due grandi cimenti contraddistinguono la parte centrale  delia política rurale dei Regime:  la battaglia dei grano,  la bonifica integrale*   Entrambe pensate, volute, guidate dal Duce*   Çominciamo dalla prima*    88           LA BATTAGLIA DEL GRANO    latino, non è soltanto Capo e con    II Duce, puríssimo genio  dottiero, ma anche Poeta:   Amate il pane  cuore delia casa  profumo delia mensa  gioia dei focolari   Rispettate il pane  sudore delia fronte  orgoglio dei lavoro  poema di sacrifício    Onorate il pane  gloria dei campi  fragranza delia terra  festa delia vita   Non sciupate il pane  ricchezza delia Patria  il piú soave dono di Dio  il piú santo prêmio  alia fatica umana.    Rileggendo queste parole di saggez^a e di amore, nelle quali  si trasfonde con un religioso senso delia vita il rispetto per le  cose eterne donateci da Dio, non si può non provare una  profonda commozione,   Esse esprimono Panima con la quale fu dichiarata la bat-  taglia dei grano; non si tratta di raggiungere finalità soltanto  economiche, ma di appagare un bisogno pátrio che supera  il fatto economico per divenire integrale fatto político,   II Capo a Palato Chigi, il 4 luglio delPanno III, inse-  diando il Comitato permanente dei grano, affermava che  Pannuncio delia battaglia dei grano aveva avuto una ripercus-  sione profonda in tutto il Paese, Segno certo che rispondeva  ad una necessità universalmente sentita, Egli ricordava le  conseguenze finanziarie dello scarso raccolto delPanno 1924,  le quali ammonivano severamente a fare tutto il possibile  per conquistare Pindipendenza per il fondamentale alimento  dei popolo italiano*    89          II Capo stesso fissava le direttive delfasione:   I o non è strettamente necessário aumentare la super¬  fície coltivata a grano in Italia* Non bisogna togliere il terreno  alie altre colture che possono essere piú redditizie e che co-  munque sono necessarie al complesso deireconomia nazionale*  È da evitare quindi ogni aumento delia superfície coltivata a  grano* A parere unanime la cifra di ettari raggiunta con le  semine dei 1924 può bastare;   2 o è necessário invece aumentare il rendimento annuo  di grano per ettaro* L/aumento medio anche modesto dà  risultati globali notevolissimi*   Posti questi capisaldi, il Comitato permanente doveva  affrontare:   a) il problema selettivo dei semi;   b) il problema dei concimi e in genere dei perfezionamenti  tecnici;   c) il problema dei prezai*   Per reali2£are tutte le possibilita di miglioramento delle  nostre colture granarie bisognava arrivare alie grandi masse  rurali, veramente silen^iose e operanti, al grosso cioè delfeser-  cito disseminato nelle campagne italiane*   II popolo italiano era perfettamente convinto delia san-  tità di questa battaglia e delia possibilità di vincerla; Egli  sentiva che si lottava per la vera libertà cioè per la libe-  razione delia Nasione dalla maggiore servitü economica  straniera*   Ventisei giorni dopo il Duce parlando ai capi delle orga-  niç2;a2;ioni agricole, pronunciava parole fatidiche che oggi  sono scolpite nel cuore di ogni agricoltore d'Italia: « Battaglia  dei grano significa liberare il popolo italiano dalla schiavitü  dei pane straniero* La battaglia delia palude significa libe¬  rare la salute di milioni d^taliani dalle insidie letali delia     malaria e delia miséria* II Governo fascista ha ridato al  popolo italiano le essenziali libertà che erano compromesse  o perdute: quella di lavorare, quella di possedere, quella di  circolare, quella di onorare pubblicamente Dio, quella di  esaltare la vittoria e i sacrifici che ha imposto, quella di aver  la coscien^a di se stessi e dei proprio destino, quella di sentirsi  un popolo forte non già un semplice satellite delia cupidigia  e delia demagogia altrui*   «Voi, agricoltori d'Italia, che sapete per la dura espe-  riensa dei vostro lavoro come le leggí delbuniverso siano  inflessibili, voi siete i piú indicati ad intendere questo mio  discorso*   « Recate a tutti i piú lontani casolari, a tutti i vostri camerati  disseminati per i campi delia nostra terra adorabile, il mio  saluto e dite loro che, se la mia tenace volontà sarà sorretta  dalla loro collaborazione, Tagricoltura italiana verrà incontro  ad un'epoca di grande splendore »♦   E cosi, infatti, è stato*   La battaglia dei grano è stata Tindice piú eloquente delbin-  dirÍ2;2;o delia politica agraria dei Regime*   Con la battaglia dei grano si è voluto poten^iare tutta 1 'agri-  coltura italiana, sospingerla a reali^are il massimo delia produ-  zione ottenibile in tutti i settori* Sia nel campo viticolo come  in quello ortofrutticolo, nelbolivicoltura come nel campo delle  colture industriali, sono State prese una serie di prowidenze  intese ad ottenere il miglioramento delle coltivazioni ed il  collocamento dei prodotti*   Attraverso Topera vigile e continua delblstituto Na2;ionale  per TEsportazione nuovi sbocchi sono stati aperti al commercio  estero delia frutta, degli agrumi, degli ortaggi; sono stati  attentamente studiati i centri esteri di consumo; è stato disci-  plinato Tafflusso dei prodotti ortofrutticoli; sono State imposte   9x         agli esportatori norme rigide per garantire la qualità dei pro-  dotti venduti.   Nè Topera di difesa deiragricoltura poteva estraniarsi dalla  tutela dei rurale di fronte airinsidia delia speculazione.   Uorgãnizzazione degli ammassi granari, intesi a sottrarre  Tagricoltore alia vendita formata dei frumento nel periodo  dei raccolto, ha disciplinato il mercato, costituito una riserva,  evitato che ai contadini, come frutto deíla loro fatica, fosse  riservato il piú basso prezzo raggiunto súbito dopo la trebbia-  tura. II favore sempre crescente che tale istitusione ha incon-  trato presso gli agricoltori sta a dimostrare la sua efficacia  e la radicata fiducia che essi hanno in questa come in tutte le  altre prowidensje dei Regime.   Se nel vasto quadro delia politica economica fascista la  battaglia dei grano costituisce un episodio, esso è però tal¬  mente grandioso e suggestivo, acquista tanta importanza spiri-  tuale ed economica, da prestarsi magnificamente per dare  unhdea dei clima nel quale il popolo italiano ha lavorato in  questi ultimi anni*   Nel quadriennio 1931-1924, prima cioè che il Duce chia-  masse gli agricoltori a raccolta per ini^iare la battaglia, la  produzione granaria oscillava intorno ai 50 milioni di quintali  con un rendimento per ettaro di qL 10,9, cioè poco superiore  alia media di qh 10,5 segnata nel quinquennio prebellico  1909-13.   II raccolto na^ionale era assolutamente inadeguato al con¬  sumo. Questo era fortemente aumentato per la migliorata  alimentasàone dei popolo italiano, il quale aveva sostituito  il frumento al granturco, alie castagne ed agli altri alimenti  che, specie nelle zone di montagna, erano usati largamente.  Si doveva quindi ricorrere in misura crescente ai grani stra-  nieri: Timportazione media che nel decennio 1905-1914 era    92         di 13 milioni, era salita alia cifra di 26 milioni di quintali nel  quadriennio 1921 -1924*   Considera2;ioni meramente economiche si univano a quelle  di carattere spirituale*   E i risultati non si fecero attendere*   Mentre la media produzione dei quadriennio bellico fu di  qL 9,99 per ettaro, eguale a quella dei quadriennio prebellico,  la media produ^ione dei primo quinquennio delia battaglia  dei grano fu di qL 12,5 cioè di 2 quintali superiore a quella  bellica e di 2,5 superiore a quella dei primo quadriennio  postbellico*   Sono oltre 10 inilioni di quintali di aumento assicurati alia  produ^ione frumentaria nasionale, pur con anni, come il  1927 e il 1930, le cui condizioni climatiche furono assai  sfavorevolL   La media produzione dei secondo quinquennio delia bat¬  taglia fu di qL 14,65 per ettàro*   II progresso si è verificato in ogni parte dei Paese: nelLItalia  settentrionale come in quella meridionale e insulare; nelle  zone di collina come in quelle di pianura*   Se dalle cifre medie passiamo a considerare le punte piú  elevate, colpiscono le produ^ioni altissime che si sono rag-  giunte, non in ristrette particelle di pochi metri quadrati,  ma su ettari di terreno in pieno campo; produzioni che una  volta sembrava follia sperare, e che sono State ottenute per  virtú di una técnica moderna che solo la battaglia dei grano  poteva stimolare*   Le punte di qL 40 che un tempo sembravano insupera-  bili sono salite a qL 74 nel 1932, a 82 per ettaro nel 1933*  I metodi tecnici di coltivazione si diffondono: la schiera dei  concorrenti alia vittoria dei grano è passata da poche centi-  naia a migliaia*    93           Le produ^ioni medie hanno segnato un continuo aumento  come dimostrano i dati seguenti in quintali per ettaro di super¬  fície coltivata a grano:    Anno   Quintali   Anno   Quintali   1915   9,2   1926   12, 2   I916   IO, 2   1927   10, 7   1917   8,9   1928   12, 5   1918   II, 4   1929   14, 8   1919   10,8   I93O   11,9   I92O   8, 4   1931   13,8   1921   11, 0   1932   15,3   1922   9 , 5   1933   16, 0   1923   13 , i   1934   12, 8   1924   IO, I   1935   15,3   1925   13,9      Le medie di ql* 15,3 nel 1932, di ql* 16,0 nel 1933 e di 15,3  nel 1935, sono di un'eloquen£a suggestiva*   Si hanno fondatissimi motivi per ritenere che Tattuale  media nazionale di 14-15 quintali per ettaro possa essere supe-  rata nel prossimo awenire, anche se i capricci dei clima  potranno provocare qualche regresso occasionale*   Oggi Tltalia è in grado di poter produrre tutto il pane che  occorre per i suoi figli: nel 1933 il raccolto è stato di 8r milioni  di quintali, nel 1934, annata particolarmente awersa per fat-  tori climatici eccedonali, la produzione è riuscita a mante-  nersi al livello di 63 milioni di quintali con una media di 12,8  ad ettaro* II raccolto dei 1935, di 77 milioni di quintali,  dimostra che la produ^ione si è ormai stabili^ata intorno a  cifre le quali possono oscillare solo nel campo di varia^ione  segnato dalle influente insopprimibili delle vicende stágionalú    94          r    A n n o   Produzione totale  in milíoni di quintali   1931 ******************   66, 52   1932 .* ♦.   75,37   1933 * * * . .* .   81, IO   1934 . *****   63, 43   1935 .*.   77 , 14    La battaglia dei grano, prima che un insieme di prowe-  dimenti economici e tecnici per Tincremento delia produzione  granaria, è stata un grido di fede e un segno di volontà*  Quando il Duce con il suo intuito infallibile, la proclamò,  compi anche in questa contingenza un grande atto rivoluzio-  nario, técnico ed economico*   Técnico, perchè reagi contro un # opinione diffusissima, che  cioè lTtalia non avrebbe mai potuto produrre tutto il grano  occorrente alia sua popolazione* Economico, perchè reagi  contro la passiva rassegnazione di una nostra immodificabile  insufficienza granaria e distrusse quel mito liberista per cui  si riteneva preferibile che lTtalia tendesse alia produzione di  frutta ed ortaggi da scambiare col frumento, anzichè si per¬  desse dietro allTllusione deli'indipendenza granaria*   11 successo si deve anzitutto a quella grande forza che si  chiama volontà umana, che ha armato la técnica e che il Duce  ha trasfuso nello spirito di tutti gli italiani e nelFazione alacre  dei popolo rurale*    95                     LA BONIFICA INTEGRALE    II Capo, il 28 ottobre delhanno VI, inviando un messaggio  alie Camicie Nere di tutta Italia, ricordava: «in quest'ora di  esultanza e di propositi, tre fondamentali avvemmenti: la  riforma monetaria, la legge sul Gran Consiglio, la bonifica  integrale. Sono tre date fondamentali nella storia dei Regime  che rendono particolarmente significativo 1 ’anno VI.   « La riforma monetaria ha coronato la strenua difesa delia  lira, la quale presidiata dalForo non teme manovre o sorprese.  La legge dei Gran Consiglio stabilisce la stabilità e la durata  dello Stato fascista. La bonifica integrale darà terra e pane   ai milioni di italiani che verranno ». .   II Capo ha voluto che Tagricoltura andasse al primo piano  deireconomia italiana perchè i popoli che abbandonano a  terra sono condannati alia decadenza; ed è mutile, Egli am-  moniva, quando la terra è stata abbandonata, dire che bisogna  ritornarvi. La terra è una madre che respinge inesorabilmente  i figli che 1'hanno abbandonata.   Bonifica integrale significa graduale trasformazione de a  terra a forme di vita agricola piü intense e civili; significa  processo di adattamento delia terra, che si attua attraverso  1'immobilizzazione di grandi capitali e con 1'esecuzione 1  grandi lavori. ’   In un primo tempo per bonifica si intese semplicemente  il prosciugamento di paludi, per difendere le popolaziom  dalla malaria. L’esiguità dei risultati ottenuti con la semphce  eliminazione delle acque sovrabbondanti, non seguita od mte-  grata dalla trasformazione delhordinamento delia produzione  agricola, convinse gli organi responsabih circa l’insufficienza  delia sola sistemazione idraulica delle terre. S impose qum 1  1’integrazione delle opere idrauliche con altre opere volte a    96      dotare di viabilità, di fabbricati e di piantagioni legnose, le  Zone redente, affinchè la popola^ione che ivi già risiedeva o  che vi sarebbe immigrata potesse trovare adeguate condi^ioni  di vita* Tale indirh&o fu anche dovuto al fatto che Tespe-  rien^a insegnava come la malaria fosse non soltanto dovuta  alia palude ma anche alia mancan^a di coltiva^ione* Fu  messa cosi in chiara eviden^a Fimportan^a enorme che ha  la intensificadone delle colture, per higiene dei territori  prosciugati*   Troppo spesso prima dei Fascismo era accaduto che le  costose opere di prosciugamento e di canalÍ££a2;ione compiute  dallo Stato non fossero seguite dal necessário completamento  e dalla valori^^a^ione delle terre da parte dei privati* L/ini~  Cativa di questi rimaneva torpida e si estraniava quasi da  quella statale mancando il necessário collegamento; il quale,  se deve essere provocato da una saggia legislasione, deve  essere pure frutto di una cosciente volontà capace di imporre,  occorrendo, la trasformasione agraria*   Questa conce2;ione però non potè affermarsi in maniera  decisa e sicura se non dopo Favvento dei Fascismo che pose  il problema delia bonifica integrale tra quelli fondamentali  dello Stato, riconoscendone Timportan^a política e sociale*   II continuo incremento delia popola^ione che impone il  piü alto grado di intensità produttiva e le differen^e di densità  demográfica che si notano fra regione e regione, richiede-  vano una política rurale che potenziasse la produzione ed  attenuasse i piu stridenti squilibri demografici*   II concetto di bonifica integrale non si esaurisce quindi in  un solo fatto técnico ed economico, ma ha anche un valore  demográfico altissimo; la bonifica va congiunta con una polí¬  tica mirante a portare la vita nella terra redenta e a radicarvi  huomo rendendolo partecipe alia produsione*    7-4    97           Solo cosí si compie una grande rivoluzione terriera e si  attua una grande conquista sociale.   II Fascismo quindi non considera la bonifica una semplice  opera di prosciugamento di terre palustri, o anche un’opera  atta a trasformare terre mal coltivate o incolte, ma consi¬  dera la bonifica una iniziativa assai piú complessa e lungi-  mirante, intesa a creare nuove fonti di lavoro e di ricchezza,  nuovi aggregati civili, a restituire alia vita rurale il suo fascino  e la sua sanità, a porre un argine al dilegante urbanesimo.   Nel quadro delia bonifica integrale rientra, perciò, il pro¬  blema importantíssimo delia casa rurale, che il Duce per primo  ha visto e súbito imposta to.   II Capo in occasione delia premiazione dei concorso nazio-  nale dei grano, il 14 ottobre delbanno VI, affermava che la  bonifica integrale dei território nazionale è un'iniziativa il  cui compimento basterà da solo a rendere gloriosa, nei secoli,  la Rivoluzione delle Camicie Nere.   Questa iniziativa è 1 ’indice di un orientamento dei Regime  fascista che il Duce ha espresso in questa forma: il tempo  delia política prevalentemente urbana è passato: ora è il tempo  di dedicare i miliardi alie campagne, se si vogliono evitare  quei fenomeni di crisi economica e di decadenza demográfica  che già angosciano paurosamente altri popoli.   Per raggiungere queste finalità il Governo fascista ha prov-  veduto a riordinare, perfezionare, completare, la legislazione  sulla bonifica.   Sono stati distinti i terreni compresi nei comprensori di  bonifica propriamente detti, nei quali bisogna procedere ad  una radicale trasformazione delbordinamento delia produ-  zione agraria, dai terreni che richiedono soltanto migliora-  menti fondiari, onde perfezionare 1 'attuale ordinamento. Mentre  per Tesecuzione dei miglioramenti fondiari da compiersi sui    98           terreni che non sono compresi nei comprensori di bonifica, lo  Stato concede contributi per stimolare 1 'iniziativa; nei com¬  prensori di bonifica lo Stato esercita pienamente la sua attività  pubblica.   È esso che fissa i caratteri fondamentali dei nuovo ordina-  mento produttivo da instaurare nei terreni bonificati: è esso che  sostiene interamente o in gran parte la spesa per Tesecuzione  di quelle opere di carattere pubblico, che sono indispensabili  per creare le condizioni ambientali adatte ad accogliere le  nuove forme di agricoltura che si vogliono introdurre.   In questi terreni di bonifica i proprietari sono tenuti, per  espressa norma di legge, ad eseguire tutte quelle opere di  carattere privato atte a far si che la bonifica compiuta si  svolga nel senso che lo Stato ha stabilito. I privati possono  giovarsi dell’aiuto finanziario statale, sia richiedendo contri¬  buti per 1'esecuzione delle opere o concorsi governativi per  il pagamento degli interessi sui mutui contratti per compierle.   La legge fondamentale delia bonifica è la legge Mussolini  dei 1928. L'applicazione di essa ha esteso i territori di  bonifica ad oltre 4 milioni di ettari, cosi distribuiti per  compartimento:    SUPERFÍCIE DEI COMPRENSORI DI BONIFICA    Piemonte . ♦   ♦ . ha. 73.476   Lazio ♦ . . . .   ha. 219.338   Liguria . ♦   . ♦ » 60.300   Abruszo e Molise   »   51.188   Lombardia ♦   ♦ . » 206.539   Campania ♦ . ♦   »   331.490   Tre Venezie   . ♦ » 808.053   Puglia ♦ . . . .   »   778.208   Emilia... . ♦   . . » 889.741   Lucania * ♦ ♦ .   »   1 23 -573   Toscana ♦ ♦   • ♦ » 457.660   Calabria ....   »   329.417   Marche . .   . ♦ » 217.431   Sicilia.   »   129.653   Umbria ♦ ♦   . ♦ » I.IIO   Sardegna ....   »   166.815    Regno ha. 4.736.983    99          Anche V irriga^ione è entrata nel domínio delia bonifica*  Essa costituisce un formidabile tntzzo per aumentare la capa-  cità produttiva dei terreni che, specie nel nostro Paese, soffrono  per Peccessiva siccità*   Le piü grandi reali^azioni dei Regime nel campo delia  bonifica sono segnate dalla redensione delPAgro Pontino* Dove  una volta regnava lo spettro delia perniciosa oggi sorridono  al sole laziale tre gemme: Littoria, Sabaudia e Pontinia*  Altre seguiranno ad attestare la mareia trionfale delPEra  fascista in cui «si rinnovano gli Istituti, si redime la terra,  si fondano le città »♦   A fianco delle prowiden^e per la battaglia dei grano e per  la bonifica integrale, numerosissime sono le altre prese per  tutte le svariate branche agricole in tredici anni di Regime*  Particolari provvedimenti negli anni di awersa congiun-  tura e per stimolare Popera miglioratrice, furono presi in  matéria di credito agrario e per sowensioni agli agricoltori  dissestati*    ioo             IV.    INDUSTRIA E ARTIGIANATO                  L' INDUSTRIA    L UTALIA sino al 1860 è stata un Paese quasi esclusiva-  f mente rurale*   Anche nella Valle Padana, nella prima metà dei secolo scorso,  le industrie raramente presero largo sviluppo e mai riuscirono  a superare per importanza Tagricoltura che assunse invece,  specie nella zona irrigua, un carattere spiccatamente industriale*  Soltanto alia fine dei secolo scorso, specie nelFAlta Lom-  bardia, le industrie acquistarono notevole importanza; tale  sviluppo si intensifico nel primo decennio di questo secolo*  L* industria tessile si affermò per prima battendo progres¬  sivamente Tartigianato e i numerosi telai domestici* Tra il  1880 e il 1890, sorsero i primi grandi stabilimenti di filatura;  quindi le prime installazioni di alti forni a cok e di forni Martin  per V industria siderúrgica, cui seguirono le industrie meccaniche*  NelPultimo decennio dei secolo scorso si svilupparono anche  numerose medie industrie che costituiscono la parte piú solida  delia industria italiana: fabbriche di vetri, di ceramiche, con-  cerie, fabbriche per la carta e per produzioni alimentari*  Nello stesso tempo hanno vita le prime industrie delia gomma,  si diffondono nuove fabbriche per la tessitura dei lino, delia  seta e delia canapa*   AlPalba dei secolo XX comincia lo sviluppo delh industria  idroelettrica, che doveva raggiungere un alto grado di potenza  nel periodo fascista, e cominciano ad affermarsi cospicue  industrie chimiche* II decennio che precede la conflagrazione  europea vede sorgere i primi grandi zuccherifici e vede molti-  plicarsi le fabbriche di cemento per adeguarsi al crescente  bisogno delhedilizia* Nello stesso periodo la industria che si  era localiz^ata nelle provinde settentrionali, comincia ad  estendersi anche nelh Italia centrale e meridionale*    103        Nel trentennio anteriore alia guerra, perciò, Y Italia si tra-  sforma da Paese quasi esclusivamente agricolo, in Paese nel  quale, pur restando Tagricoltura la base economica, esiste già  un complesso di attività industriali che soddisfano in gran parte  ai bisogni interni e si accingono alhesportazione*   Durante il periodo bellico Tattività industriale si è molti-  plicata, per sostenere lo sforzo immane a cui era soggetto il  Paese; però Y industria crebbe in maniera disordinata, accen-  tuando i vizi di disarmonia che già esistevano*   L' immediato dopoguerra che va dal 1919 al 1922, caratte-  ri^ato da un periodo di crescente disintegradone delia com-  pagine economica dei Paese, non poteva certamente migliorare  la situazione* Anche P industria italiana — come ogni altra attività  — ha largamente beneficiato dei nuovo clima político, nonchè  dei nuovi ordinamenti creati dal Fascismo* In questa nuova  atmosfera psicológica, política ed economica, Tindustria italiana  si lanciò con fede ed audacia verso nuove conquiste*   L/autorità dello Stato non solo dava le garan^ie indispensabili,  ma prowedeva a creare quel complesso di condi^ioni favorevoli  per la ripresa economica, che da tempo mancavano e che sono  necessarie per aiutare, coordinare e completare Fattività privata*  Neir industria, importan^a capitale ha avuto il nuovo ordine  sindacale corporativo, con la creazione di organi adatti a risol-  Vere in sede di collabora^ione i contrasti inevitabili tra capi¬  tale e lavoro*   Numerosi sono i prowedimenti presi dal Governo fascista  per difendere ed aiutare lo sviluppo industriale*   I prowedimenti investono tanti settori delPattività indu¬  striale italiana*   Citiamo ad esempio le prowiden^e per Y industria ^olfifera  duramente colpita dalla concorrenza americana; quelle per  T industria marmifera, che ha pure larghi riflessi sociali*    104            Con particolare riguardo airagricoltura e alie necessità bel-  liche, di speciali prowidenze hanno goduto le industrie dei  prodotti atotati, fondate sulle superbe inventioni dei nostri  tecnici, che hanno consentito di produrre in Paese, utilit-  £ando Patoto delParia, i nitrati necessari airagricoltura e alie  industrie di guerra, liberandoci dalla servitü straniera*   IP industria delia seta naturale un giorno fiorentissima,  nonostante la crescente concorrenza delia fibra artificiale, è  stata ripetutamente sorretta, direttamente e indirettamente  attraverso i premi alia bachicoltura*   Di speciali previdente dei Governo fascista ha anche goduto  la giovane industria cinematográfica*   II tracollo dei prezei che continuo con un crescendo pauroso  e che mise moltissime industrie in condizioni di estrema diffi-  coltà, consigliò il Governo ad applicare una disciplina siste¬  mática nella produzione, capace di ridurre la disordinata con¬  correnza che recava anche pregiudizio al complesso delia  economia nazionale* Con disposizioni legislative dei dicembre  1931 il Ministro delle Corporazioni fu autorizcato a costituire  consorzi obbligatori fra gli esercenti V industria siderúrgica*  Successivamente con legge dei giugno 1932, furono stabilite  le norme generali per la costituzione ed il funcionamento dei  consorzi tra esercenti uno stesso ramo di attività, e con la legge  dei gennaio 1933 si diede al Governo il potere eccezionale di  sottoporre ad autoriz^azione i nuovi impianti industriali e gli  ampliamenti di impianti preesistenti*   In tal modo la nuova realtà corporativa cominciava ad  esplicare in pieno la sua delicata funcione anche nel campo  deir industria* Cosicchè non soltanto fu evitato il pericolo di  lasciare costituire nelP interno dei Paese formidabili monopoli  di carattere supercapitalistico, ma venne indiriz^ata la produ-  tione industriale verso queirarmonica costituzione a carattere    105       nazicnale che sollanto lo Stato può veramente effettuare. II  concetto privato di azierda industriale, viene permeato da un  concetto nuovo, il corporativo, nel quale Pelemento pubblidsta,  se non acquista prevalenza assoluta, costituisce certamente la  finalità.   Larga applicazione ha avuto la ancidetta legge dei 1933:  il Ministero delle Corporacioni esamina periodicamente le  domande presentate e prowede o meno alia loro approvazione  compiendo un lavoro salutare per Tequilibrio delP industria  nadonale.   Nel campo delia navigadone Topera dei Governo, in armonia  alio spirito legislativo or ora ricordato, è stata intesa a promuo-  vere e ad agevolare concentracioni e fusioni, evitando cosi  Taggravarsi di alcune situadoni di disagio che si erano venute  determinando con la crisi dei noli.   Le società Citra e Florio sono State fuse nella Tirrenia;  La S* Marco, P Anônima Industrie Marittime, la Puglia, la  Costiera, la Zaratina e Nautica, si sono fuse nelPAdriatica.  Questa, con il suo blocco di 48.000 tonnellate, esercita il  traffico nelhAdriatico e nelPEgeo, mentre la Tirrenia, con le  sue 128.000 tonnellate, effettua i suoi servici nel Tirreno e  per le Colonie.   La Marittima e la Sitmar si sono fuse nel Lloyd Triestino  costituendo un blocco di 210.000 tonnellate destinato ai servici  dei Mediterrâneo Orientale, dei Mar Nero, delP índia e dello  Estremo Oriente.   II Lloyd Sabaudo e la Navigadone Generale Italiana si sono  fuse nelPItalia, che è la piú potente adenda marittima italiana,  formata da un blocco di 360.000 tonnellate adibita ai servici  delle Americhe, delP África e delPAustralia.   Già discorrendo delia politica financiaria avemmo occasione  di ricordare lTstituto per la Ricostrucione Industriale (I. R. L)    106          creato dal Governo fascista nel gennaio dei 1932, dopo avere  dato vi ta, nel novembre dei 1931, airistituto Mobiliare Italiano  (I. M* L)* Entrambi questi Istituti hanno avuto una influenza  notevolissima suir industria italiana»   L* I* M* I* ha lo scopo di accordare prestiti ad imprese pri-  vate italiane e di assumere eventualmente partecipazioni azio-  nali* Gli impegni non possono in ogni caso estendersi ad un  período superiore ai 10 anni*   L* L R* L comprende una sezione che si occupa delle sov-  venzioni e dei crediti alP industria, e una seconda che ha il  compito di liquidare alcune imprese in passato gestite dalPIsti-  tuto di liquidazione*   II Governo fascista con la sua política industriale ha dato  ancora una volta la dimostrazione dei suo equilíbrio, delia sua  saggezza e di una grande tempestività ed energia» Esso non  solo non è caduto nel consueto errore di paralizzare Tinizia-  tiva privata, ma ne ha potenziato invece e favorito lo sviluppo  in armonia con quella disciplina e con quello spirito di mutua  comprensione e di collaborazione che sanciscono i basilari  principii delia Carta dei Lavoro»   Una visione sintética e nello stesso tempo precisa delia  struttura industriale di cui è dotato il nostro Paese si può  avere dal censimento industriale e commerciale compiuto il  15 ottobre 1927*   Da esso appare chiaramente che in Italia predominano le  piccole aziende con un modesto numero di addetti; su 732*109  aziende ben 692*313 hanno meno di n addetti* In queste  piccole aziende trovano occupazione 1*510*304 persone, cioè  piü di un terzo di tutti gli addetti alie industrie censite, che  ammontano a 4*005*790* L/esame analítico fatto in base alie  classi di industrie, dimostra che il numero maggiore di addetti    107       è impiegato nelle industrie tessili le quali, nel nostro Paese,  si sono sviluppate in maniera imponente e sono raggruppate  in un numero relativamente piccolo di stabilimenti.   In ordine d' importansa, secondo il numero delle persone  impiegate, segue V industria dei trasporti e delle comunica-  sioni, cui attendono poco piü di mezzo milione di persone  (518,983).   Le industrie meccaniche e quelle dei vestiário raggruppano  un numero di addetti pressochè uguale: rispettivamente 478.896  e 491.793. Esse differiscono per il numero degli esercizi che  risulta di 80.705 per le industrie meccaniche e di 108.470 per  quelle dei vestiário.   Le industrie alimentari ed affini assorbono il lavoro di circa  340,000 addetti; un numero di poco minore ne occupa Tindu-  stria delle costru^ioni; 286.115 persone, distribuite in 103.015  adende, si dedicano alh industria dei legno.   È opportuno rilevare che le a^iende con un numero di addetti  superiore al migliaio sono frequenti specialmente nel gruppo  delle industrie tessili (71) e meccaniche (46), seguono quelle  siderurgiche e metallurgiche (24) e, infine, quelle dei trasporti  e delle comunica^ioni (23),    108            ...-i    In complesso   Sino a   10 addetti    Esercizi   Addetti   Esercizi   Addetti .   Industrie connesse con Ta-  gricoltura ♦ ♦♦♦♦♦♦   IO.419   45.842   9.699   - \   20.219   Pesca   13.578   43.051   13.2H   35.907   Miniere e cave ♦ ♦ ♦ ♦ ♦   5-124   98.778   3.842   12.606   Industria dei legno ed affinL   103.015   286.II5   100.367   2I2.2 o 8   Industrie alimentari ed afíini   81.973   343.081   78.835   201.6l6   Industria delle pelli, cuoi,  ecc. .♦♦♦♦♦♦♦♦   7-950   53*373   7.142   16.020   Industria delia carta ♦ . .   2.267   45.749   1-539   5-525   Industrie polígrafiche • ♦   8.002   57.508   6.894   19.701   Industrie siderurgiche e me-  tallurgiche   2.102   122.519   1-259   5.097   Industrie meccaniche * * ♦   80.705   478.896   76.560   I7O.746   Lavorazione dei minerali,  esclusi i metalli ♦ ♦ ♦ *   17.401   171.922   14.452   44.824   Industria delle costrusioni.   38.537   332.562   32.925   88.648   Industrie tessili ♦ ♦ ♦ *   10.408   642.887   6.24O   16.824   Industria dei vestiário, ecc*   191.274   491.973   m   00   t>   00   M   352.978   Servizi igienici, sanitari,ecc*   38.286   95-497   37.804   75-839   Industrie chimiche * ♦ . ♦   5.154   99-475   3 927   12.971   Distribusione di forza mo-  trice, luce, ecc* * * * *   5.910   60.463   4-923   I4.27O   Trasporti e comunicazioni*   108.470   518.983   IO3.477   2OO.854   Combinadoni di industrie  di diverse classi ♦ ♦ ♦ ♦   | 1-534   17.116   1.363   3-451   Totale ♦ * ♦   732.109   4.005.790   692.313   i.510.304                     L'industria mineraria, esplicantesi specialmente nel settore  dei ferro, dei piombo e dello zinco, delia pirite e dei combusti-  bili fossili, ha segnato un forte incremento nel periodo che  corre dal 1925 airinisio delia crisi economica mondiale*  Mentre nel 1921 e anche nel biennio 1923-24 la produ-  sione di minerali di ferro oscillò intorno a 300*000 tonnellate,  negli anni seguenti ebbe forti incrementi tanto che nel 1930  supero nettamente le 700*000* Anche i minerali di piombo  e zinco, che nel 1922 erano prodotti in una quantità di poco  superiore a 120*000 tonnellate, nel sessennio 1925-30 raggiun-  sero una produzione media di oltre 250*000* I combustibili  fossili, nel rigoglioso periodo delheconomia fascista, supera-  rono la produ^ione di un milione di tonnellate e nel 1929  raggiunsero la cospicua cifra di 1*400*000*   La produzione di piriti di ferro, che nel periodo pre-bellico  raggiunse faticosamente le 300*000 tonnellate annue, nel  sessennio 1925-30 raggiunse una produzione media di oltre  600*000 e nel 1930 supero le 700*000*   I prodotti delhindustria metallurgica hanno segnato graduali  aumenti nel periodo fascista.   I dati sottoriportati, riferentisi alia ghisa di alto forno, al  ferro e alhacciaio, lo dimostrano chiaramente;    Anni   Ghisa cTalto forno   Ferro e acciaio 1   Anni   Ghisa d'a!to forno Ferro e acciaio    in migliaia di tonnellate   jn migliaia di tonnellate    489 1721                             È rilevante il fatto che nel biennio 1938-29 si sia superata  la produzione di oltre due milioni di tonnellate di ferro e di  acciaio e che la ghisa d'alto forno neiranno 1929 abbia raggiunto  la produzione di 670*000 tonnellate*   La produzione di piombo è salita, da circa 12*000 tonnellate  prodotte nel 1921, a una produzione media di 20*000 e nel 1932  ha raggiunto la cospicua cifra di 31*470 tonnellate* Anche la  produzione di mercúrio, che nel 1921 superava appena le 1000  tonnellate, nel triennio 1927-29 è quasi raddoppiata*   Forte incremento ha pure avuto la produzione di zolfo  grezzo, la quale mentre nel triennio precedente Tawento dei  Fascismo si era mantenuta assai inferiore alie 300*000 tonnel¬  late, nel triennio 1931-33, nonostante le difficoltà create dalla  crisi, supero la media produzione di 350*000 tonnellate, come  dimostrano i dati seguenti:    A n n i   Z 0 1 f 0    in migliaia di tonnellate   x 92 X *****************   274   1926 *****************   271   1927 *****************   306   1931 ********.* * * *   354   1932 * * *.*****   350    Speciale importanza hanno i prodotti chimici, i quali,  specie nel campo dei concimi, hanno ricevuto, per Timpulso  dato dal Fascismo airagricoltura, un insperato incremento*  Tra questi va ricordato il perfosfato che, mentre nel período  prebellico era prodotto in una misura poco superiore alie  900*000 tonnellate, nel 1925 ha superato il milione e mezzo,  di tonnellate* Importantissima è stata pure la produzione di              concimi azotati, segnatamente delia calciocianamide e dei nitrato  di soda, ottenuti con processo sintético valendosi delbazoto del-  1 'aria. In virtú di ciò 1 'agricoltura italiana si può dire oggi com¬  pletamente emancipata dalhimportazione straniera di azotati.   La produzione di solfato di rame ha pure segnato un note-  vole aumento. Nel triennio 1926-28 essa ha superato sensibil-  mente le 100.000 tonnellate, mentre nel periodo prebellico  raggiunse faticosamente le 50.000.   II Governo fascista non mancò di stimolare e aiutare 1 ’atti-  vità di quelle industrie che potevano dare matéria prima per  attivare il commercio di esportazione. A tale scopo, come già  abbiamo ricordato, esso aiutò in varie maniere 1’industria  serica, la quale riusci a raggiungere e a superare, durante i  primi otto anni dei Governo fascista, la produzione media di  oltre 5000 tonnellate di seta greggia. Mentre nel biennio 1921-  1922 essa risultò di sole 3700, nell’anno 1924 e nel 1928 la  seta greggia venne prodotta nella misura di quasi 5600, cifra  appena raggiunta nel 1909 e superata nel 1906-1907, quando  1’industria delia seta attingeva i vertici dei suo splendore.   In molti altri campi 1 'attività industriale italiana si è espli-  cata con raro vigore; cosi è avvenuto nel campo elettrico e dei  gas; ma essa ha raggiunto speciale importanza specialmente  nel campo dello zucchero e anche nella produzione delhalcool.    Anni   Zucchero J   Álcool   in migliaia di quintali   ..   3056   372   1922 . ...   2703   443   1923 . ♦♦♦*♦*♦♦   3190   444   1924 .   3822   506   1930 . ♦♦♦♦♦♦•♦♦   3877   489   1931 •♦♦♦♦♦♦*♦♦♦♦♦♦♦   3414   420    112    L                    I 2 milioni di quintali di zucchero prodotti nel 1921 sono  stati superati negli anni seguenti; la produzione di questa  importantíssima derrata ha segnato, attraverso inevitabili  oscillazioni, una netta tendenza alPaumento.   La produzione dei gas-luce è andata crescendo con ritmo  costante: dai 291 milioni di metri cubi prodotti nel 1922 si  sono quasi toccati i 2000 milioni nel 1932.   Particolare attenzione merita 1 'impulso dato dal Governo  fascista alia produzione delbenergia elettrica, di cui già si  tenne discorso. Perfezionando ed ampliando i vecchi impianti,  costruendone di nuovi e creando bacini artificiali di grande  capacità, il consumo è passato da meno di 5.000 milioni di  kwh. dei 1922, a 8.450 milioni di kwh. nel 1932 e a circa  10 miliardi di kilowatt-ora nel 1933. Ovunque si cerca di sosti-  tuire il carbone di importazione con energia elettrica prodotta  in Paese: un esempio luminoso è offerto dal Governo fascista  con Tintensa elettrificazione delle ferrovie.   Fra le industrie tessili ha specialmente importanza quella dei  rayon, che si è sviluppata in modo veramente rigoglioso  specialmente negli anni delhera fascista, come attestano i  dati che seguono:    Anni   Rayon   in milioni di kg.   1924 ♦ ♦ ♦ ♦ *...   xo, 45   1928 . ♦ . ..*.   26 , 00   1929 . 44.44,4   32 , 34   1930 . 4 4 4 4 .   30 , 14   1931 4 4 4 4 4 4 4 . 4 4 4 4 4   34, 59   1932 444 .   32 , 07   1933 .   37,15    113    8-4            I cantieri navali hanno pure svolto un’ attività che è carat-  terizzata da un continuo aumento sino al 1926, anno in  cui sono State varate navi per 250.000 tonnellate di stazza  lorda. In seguito, a motivo delia crisi, si è avuta nella  produzione navale una sensibile riduzione che va anche vista  come effetto delia forte contrazione dei commercio interna-  zionale.   Nonostante gli awenimenti di carattere eccezionale ai  quali abbiamo assistito in questi ultimi anni e che hanno  sconvolta 1’ economia dei mondo, 1' industria italiana non  soltanto ha resistito validamente sulle posizioni conquistate,  ma è riuscita, specie in alcuni settori, a conseguire notevoli  progressi.   L'indice delia produzione industriale italiana, posto uguale  a xoo 1’anno 1922, preso come anno di base, in tutti gli anni  successivi non ha mai segnato le depressioni registrate per altri  Paesi, bensi un incremento sensibilíssimo anche negli anni di  crisi.   INDICI DELLA PRODUZIONE INDUSTRIALE                L'ARTIGIANATO    L/incateante fenomeno deirurbanesimo e la decrescente  natalità si sono manifestati in maniera piü acuta laddove piú  intensa è Torgani^azione di tipo industriale, cioè laddove le  donne sono impiegate nelle fabbriche e nelle manifatture,  dove il mondo capitalistico domina con le sue tragiche contrad-  di^ioni, che soltanto la conce^ione fascista ha saputo affron-  tare con un piano concreto ed umano*   L/artigianato, invece, ha un carattere squisitamente rurale*  L/elogio deiritalia agrícola è implicitamente Telogio delle  folie artigiane*   Per tutto ciò il Fascismo, se riconosce nelhaítività industriale  un mezzo formidabile di conquista e di poten^a, se riconosce  nella fabbrica e nelPofficina unhndispensabile elemento di vita  per una na^ione civile, spiritualmente esalta la funcione del-  Tartigianato, il quale ha risolto, nello stretto âmbito delia  sua bottega, i conflitti dei capitalismo* L/artigiano, come il  piccolo proprietário coltivatore diretto, lavora con gioia;  il suo lavoro non è mosso soltanto da egoistiche esigenze eco-  nomiche, ma anche dal desiderio di compiere un'opera delia  quale nel suo intimo sente tutta la bellezsa* Come il piccolo  proprietário agogna al possesso terriero e una volta raggiuntolo  cerca ognora di consolidarlo, prodigandosi in opere di miglio-  ramento, investendo nella terra tutti i suoi risparmi, cosi  Tartigiano, dopo che si è proweduto dei mezzi indispensabili  per il suo lavoro, impiega tutte le for ze produttive delia sua  famiglia per potenziare sempre piú la sua piccola asienda e  faria assurgere magari a piccola industria*   II carattere particolare delPartigianato, che si ripercuote  nelle caratteristiche psicologiche di coloro che lo esercitano,  ha fatto si che esso fosse guardato dal Fascismo con particolare   115           simpatia e comprensione* II nostro Paese poi, che vanta gloriose  tradizioni nel campo dell'artigianato e possiede un núcleo  formidabile di piccole e medie botteghe artigiane, sente in  maniera particolare Íl bisogno di poteriare e sviluppare  questa forma di attività economica, solidíssima fonte di sta-  bilità sociale*   Per queste ragioni il problema artigiano non è e non puo  essere un problema esclusivamente economico*   Gli obbiettivi dei Regime in matéria di política artigiana  sono volti a migliorare tecnicamente e artisticamente i prodotti  di questa benemerita categoria, per poter superare la concor¬  rera straniera e conquistare i mercati*   Dal punto di vista economico il Governo fascista, attraverso  le cooperative di mestiere e bancarie, ha anticipato denaro e  assistito nei piü diversi modi questi piccoli imprenditori* Ha  cercato inoltre di applicare una rigorosa selecione dei prodotti,  indíviduando i centri di produzione caratteristici, coltivando  attraverso le mostre la conoscera di queste attività e il tradi-  zionale buon gusto dei nostro popolo, per stimolare i singoli e  compiere una efficace opera di selesione*   Le categorie professionali rappresentate dalla Federa^ione  fascista autonoma degli artigiani d*Italia, la quale sí e prodigata  per valorirare sempre piü questa folia di piccoli produttori  sapienti e tenaci, sono numerosissime*   L'arte dei legno comprende sensa limitazione di numero  intagliatori, laccatori, scultori in legno, lucidatori, doratori e  stipettai* Qualora le imprese non impieghino piü di cinque  dipendenti anche gli ebanisti e corniciai, mobilieri e tornitori  sono raccolti nella Federazione artigiana, la quale comprende  anche carpentieri e falegnami, imballatori e sediai, quando essi  siano impiegati in attività che non occupano piü di tre dipendenti*   n6            La ricordata Federasione rappresenta anche i fornitori di  oggetti d'arte, i battiferro, i ramai e calderai, gli sbalzatori di  metalli, gli arrotini e i modellatorh   Le attività artigiane, varie e multiformi, diverse per le materie  lavorate e per i prodotti ottenuti, dominano completamente  Farte dei tessuto e dei ricamo, Tarte delTorafo, delTargentiere  e delTorologiaio* Speciale importanza hanno anche nel campo  delia ceramica artistica, la quale ha raggiunto, specialmente  in alcune zo ne dei nostro Paese, un incontestabile splendore  e vanta antichissime tradizionh Ricordiamo le industrie cera-  miche umbre, faentine e quelle pesaresi, per citare soltanto le  principaln   L'arte dei cuoio e delia cak^tura raccoglie un grande numero  di doratori e di sellai, di pirografi e bulinatori, di sbalzatori e  stampatori, calzolai ed astucciai, che nel complesso raggiungono  un numero considerevole di addetti, i quali portano il tributo  precioso di un lavoro paciente alia produzione nazionale*  Anche i valigiai e i cinghiai, guantai e pellettieri, pur trovando  di solito il loro impiego in aziende cospicue, vengono però ad  accrescere il numero di questa benemerita categoria di modesti  e solidi produttori*   L'arte delia tessitura e dei ricamo, alia quale si dedicano con  grande perimia le mogli e le figlie dei nostri salariati, sia nel  campo dei merletto e delia trina, sia in quello delia filatura  e tessitura a mano di stoffe e tappeti, raggiunge mTimportanza  che, specialmente in alcuni centri delTItalia settentrionale  e delle isole, non può essere trascurata*   Tra gli artigiani vanno contati anche gli acquafortisti,  xilografi e xenografi, nonchè i litografi e i rilegatori di librh  Nei modesti centri il carattere artigiano si può riscontrare  anche nelle piccole tipografie come nei fabbricanti di timbri  in legno e metallo e di oggetti e modelli di carta e cartone*    Affine a questa attività è quella delia fotografia che nel grandís¬  simo numero dei casi e per la quasi totalità delia produzione  è in mano di valenti artigiani.   La lavorazione dei marmo e delia pietra è specialmente opera  di artigiani. Mosaicisti, alabastrai e sbozzatori di pietre, luci-  datori di marmi e sagomatori, costituiscono un gruppo notevole  di lavoratori che, insieme agli addetti all’arte dei restauro,  formano un gruppo importante delia Federazione artigiana.   A questa categoria appartengono anche i parrucchieri, gli  addetti all’arte deil’arredamento e dei giardino, quelli impiegati  nelFarte dei giocattolo e delia pirotécnica, i vulcanizzatori e  gli ombrellai.   Particolare posizione acquista poi quel gruppo di artigiani  che si dedicano alie attività miste proprie delia vita rurale,  i quali, diffusinei piú remoti angoli delle nostre campagne,  portano con la loro genialità di costruttori e con la loro pazienza  di fini esperti riparatori, un contributo che non può essere tra-  scurato, Ricordiamo tra questi i falegnami, gli ebanisti, i mec-  canici, i fabbri, ecc. Ma sarebbe troppo lungo dare una com¬  pleta nozione delle svariate funzioni esercitate dagli artigiani,  i quali costituiscono una massa imponente, che fornisce un  lavoro sapiente e prezioso ed esercita una funzione insostitui-  bile nella nostra economia.    118        V.    LA POLÍTICA dei lavori pubblici                          GENERALITÀ    A FIANÇO dei poderoso programma di bonifica sta un piü  esteso programma di lavori pubblici, inteso a dar lavoro al-  Tesuberante mano d'opera e creare un complesso di opere civili,  di cui ritalia meridionale e insulare specialmente difettavano*  Con questo intendimento furono creati i Proweditorati  alie opere per il Mezsogiorno e le Isole e TA^ienda Autonoma  Statale delia Strada.   L'opera svolta dal Governo fascista in questi ultimi dodici  anni è stata veramente imponente* Nel primo decennio fascista  (1922-32) le amministrazioni sopra ricordate hanno presi impe-  gni di spesa per circa 37 miliardi di lire, dei quali ben 17  miliardi e mezzo sono stati effettivamente pagati.   II programma di lavori pubblici compiuti ha già avuto, e  avrà ancor piü neirawenire, una notevolissima influen^a sul  benessere dei Paese; non solo ha intensificato gli scambi, ha  favorito i traffici e ha arrecato immensi vantaggi airagricol-  tura e albindustria, ma ha anche elevato il tenore di vita e ha  contribuito a stabilissare le correnti migratorie.   Si tratta di un'enorme quantità di capitale investito nel suolo  pátrio, di immense quantità di lavoro, che an^ichè andare  disperse sono State utilmente impiegate in opere di alto Valore  civile ed economico. Per questo la política dei lavori pubblici  è stata anche un mtzzo efficacissimo per arginare e combat-  tere la dilagante disoccupasione. Nei lavori compiuti dagli  ufiici tecnici dipendenti dal Ministero dei Lavori Pubblici,  dalPAzienda Autonoma Statale delia Strada e dal Sottosegre-  tariato per la Bonifica, neiranno 1926 si sono impiegati 21,8  milioni di giornate-operaio, 26,7 milioni nel 1927, 27,3 milioni  nel 1928* L'anno 1929 porta un sensibile aumento di lavori e di  giornate operaie impiegate, le quali toccano i 33,5 milioni:    queste raggiungono 41 milioni nel 1930, 39,3 milioni nel 1931,  per superare i 42 milioni nel 1932*   Queste cifre però non danno una completa idea delia massa  di lavoro posto in atto dal Governo fascista, perchè se nei  cantieri delle imprese appaltatrici di pubbliche costrutioni  si ebbe un formidabile aumento nel numero delle maestrante  impiegate, un incremento sensibile si ebbe altresinelle cave, nelle  officine, nelle fornaci, nelle fabbriche che forniscono alie prime  materiale da costrutione e mezzi d'opera* Anche nelle imprese  di trasporti Tindice di attività segnò un fortíssimo aumento*   Da un punto di vista político va poi posto in particolare  rilievo lo sforto compiuto dal Regime per dotare le città e le  campagne dei Meridionale e delle Isole di tutti quei serviti  pubblici di cui mancavano e che, consentendo forme di vita  migliore, sono di stimolo per Televatione morale e materiale  delle popolationi*   La messa in valore di estesi territori agricoli dei Mettogiorno,  cioè di un território con particolarissime caratteristiche demo-  grafiche, richiese la regolatione delle correnti dei lavoratori  onde incitare, aiutare, assistere quel proletariato agricolo che  desiderava radicarsi alia terra e formare colonie stabili*   Per questo il Duce sin dal 1925 creò presso il Ministero dei  Lavori Pubblici il Comitato permanente per le migrationi  interne, che poi volle alia sua diretta dipendenta presso la  Presidenta dei Consiglio*    LA VIABILITÀ ORDINARIA   Con legge dei maggio 1928 è stata affidata alFAtienda Autô¬  noma Statale delia Strada la rete delle strade di grande comuni-  catione, chiamata anche rete delle strade statali*    122                II Duce ha voluto creare un organo autonomo, agile, prepa-  rato a compiere rimmensa mole di lavoro che era richiesta  per una adeguata sistemazione dei nostro patrimônio stradale*  Egli, che ha sempre avuto un concetto romano delia strada,  ha dedicato ad essa le piú sollecite cure e ha fornito capitali  ingenti per il duraturo assetto ed il miglioramento delia rete  stradale.   Le 136 arterie che formano la rete, il cui sviluppo comples-  sivo è di 20.622 chilometri, nelhestate dei 1928 si trovavano  in condizioni non certo felici: soltanto 463 chilometri di strada  erano pavimentati in maniera tale da non richiedere alcun  ulteriore lavoro per la loro sistemazione* Rimaneva cioè la  quasi totalità da rivedere e da sistemare*   Alia fine di ottobre delhanno X erano stati sistemati 8562  chilometri, dei quali 7910 con trattamenti superficiali e 652  con pavimentazioni permanenti e semi permanenti* Erano  inoltre in corso altre pavimentazioni su oltre 1000 chilometri*  II resto delia rete è stato però oggetto di opere straordinarie  e di manutenzioni talmente accurate che attualmente tutte le  strade si trovano in ottime condizioni*   II Governo fascista nel campo delia viabilità ordinaria non  si è limitato a mantenere o pavimentare le strade esistenti*  Intensa è stata pure Tattività svolta per completare la rete di  grande comunicazione e per arricchire quella delle strade pro-  vinciali e specialmente delle strade comunali, che, in alcuni  compartimenti dei nostro Paese, era inadeguata ai bisogni dei  traffico e specialmente ai crescenti bisogni delPagricoltura*  Particolare menzione va fatta delle autostrade, di cui nel  decennio che va dal 1922 al 1932 furono costruite 436 chilo¬  metri, segnando in questo modernissimo campo delle comuni-  cazioni un primato, che ancor oggi ci è invidiato dai maggiori  Stati d'Europa*    123       La rete delle strade di grande comunicazione è stata aumen-  tata di ben 525 chilometri di nuova costruzione: ricordiamo  il completamento delia grande artéria litoranea tirrenica;  la costruzione dei tronchi delia litoranea ionica situati nelle  provinde di Taranto e Matera; il completamento delia lito¬  ranea adriatica con i tre tronchi situati tra S. Salvo in província  di Chieti e Serracapriola in província di Foggia; i nuovi tronchi  costruiti nelle provincie di Salerno, Potenza e Cosenza, per  tacere di altri importanti tronchi costruiti specialmente nel  Meridionale.   Se le nuove strade statali si sono rivelate di notevole portata,  di grandíssima utilità si sono dimostrate le strade costruite  dalle Provincie e specialmente quelle volute dai Comuni.   Bisogna ricordare che nel decennio fascista sono stati  costruiti 1143 chilometri di strade provinciali e 3844 chilo¬  metri di strade comunali. Nelle Calabrie, nella Lucania, negli  Abruzzi e in Sicilia, si è dato grande impulso alia viabilità  rurale e a quella che ha servito ad allacciare i comuni isolati  alia strade di grande comunicazione.   Anche neiristria sono State compiute opere cospicue:  circa 20 milioni sono stati dedicati alie costruzioni stradali.   Non va poi dimenticata la costruzione di strade turistiche  che servono anche per la comunicazione fra importanti compar-  timenti (citiamo ad esempio la Gardesana occidentale e orientale)  e quella di importantissime autostrade quali la Roma-Ostia,  la Napoli-Pompei, la Firenze-Viareggio, la Padova-Venezia  e quelle irradiantesi da Milano per Torino, i laghi e Brescia.   Non si può terminare questa breve e incompleta rassegna  delle opere stradali compiute dal Fascismo, senza ricordare  il ponte che congiunge Venezia con la terraferma, largo 20  metri, lungo 4 chilometri, costruito in meno di due anni con  la spesa di 80 milioni.    124       LE FERROVIE    La rete ferroviária ereditata dai passati regimi, se per molti aspetti  si presentava in felici condizioni, richiedeva però una opera attiva  di integrazione e di completamento onde rendere ancor piú effi-  cace il servizio che essa poteva prestare aireconomia dei Paese*  Negli ultimi 12 anni la rete ferroviária italiana è stata miglio-  rata e potenziata: rettiíiche e raddoppi di binário; ricambi e rin-  forzi di armamento; ampliamento e ricostruzione delle stazioni,  dei magazzini e dei servizi; rinnovamento dei materiale rotabile*  L'esercizio delle ferrovie è stato poi riordinato in maniera rapida  ed energica; è stato ristabilito un alto senso di disciplina nel perso-  nale ferroviário, dei quale ne è stato aumentato anche il rendimento*  Particolare importanza ha assunto poi la elettrificazione,  estesa ad importantissimi tronchi ferroviari e che si estenderá  ulteriormente per liberare sempre piú la Nazione dal grave  onere delia importazione dei carbon fossile*   Nel campo delle nuove costruzioni ferroviarie bisogna  ricordare la direttissima Roma-Napoli, a doppio binário,  che ha rawicinato notevolmente questa città alia capitale;  la Cuneo-Ventimiglia, la Sacile-Pinzano, e specialmente la  direttissima Bologna-Firenze, a doppio binário, con una galle-  ria scavata, per oltre 18 chilometri, nelle infide argille appenni-  niche, superando difficoltà tecniche giudicate insormontabili  e nella cui costruzione perdettero la vita decine di operai*   Nel complesso sono State aperte airesercizio nuove linee ferro¬  viarie dello Stato e deirindustriaprivata per circa 3000 chilometri*  Si può affermare che con Topera di completamento dei tron¬  chi compiuta dal Regime, e con la elettrificazione delle princi-  pali linee — di cui recentissima è la Bologna-Roma-Napoli —  la rete ferroviária di cui oggi dispone Tltalia è perfettamente  adeguata ai bisogni delia sua economia*    125      LE OPERE MARITTIME    « II mare era negletto. II Regime vi ha risospinto gli ita¬  liani. La marina mercantile decadeva: il Regime 1 -ha risolle-  vata. Durante questi anni sono scesi nel mare colossi potenti.  I porti si erano impoveriti: il Regime li ha attre^ati e vi ha  creato le zone franche. II lavoro vi era discontinuo per via  degli scioperi: oggi la disciplina delle maestran^e è perfeita.  Al mare, fonte di salute e di vita, il Regime manda ogni anno  centinaia di migliaia di figli dei popolo. La passione degli  Italiani per il mare rifiorisce. Vi riconosce un elemento delia  poten^a na^ionale »♦   Cosi il Duce parlava alhassemblea quinquennale dei  Regime.   Le opere compiute documentano con quale tenacia il  Governo abbia realiz^ato le basi per un*intensa politica mari-  nara.   Nel 1922 le condizioni degli scali marittimi italiani erano  insufficienti. II Regime ha voluto prowedere rapidamente  ad ampliare e sistemare quelli piü importanti, onde favorire  e richiamare il traffico internasionale, sen^a altresi trascurare  i porti minori.   Nel decennio 1922-1932 sono stati costruiti 28 chilometri  di opere di difesa, ripartite in 82 porti; la superfície dei bacini  è stata aumentata di 680 ettari. La calate si sono accresciute  di 36 chilometri e la superfície dei terrapieni di 295 ettari.   Dalle corrosioni dei mare sono stati difesi circa 17 chilo¬  metri di coste.   II Consorcio per il porto di Gênova ha completato il bacino  Vittorio Emanuele III, ha ultimato il i° lotto dei bacino Mus-  solini, ha costruito un nuovo bacino di carenaggio largo m. 32,  lungo m. 260.      II porto di Napoli è stato arricchito di un nuovo bacino;  mentre è stato sistemato il porto vecchio* A Livorno è stato  costruito un nuovo porto interno; a Cagliari un mo lo lungo  m* 1655; a Catania le nuove opere eseguite hanno aumentate  le calate di m* 550; a Bari, in seguito alia importan^a che hanno  assunto i traffici con TOriente europeo, fu proweduto ad un  grandíssimo lavoro di ampliamento* Grandiosi lavori sono stati  dedicati al porto di Marghera e alio scalo delia stazione marit-  tima di Venezia* Sono State rinnovate molte opere d'arte nel  porto di Trieste*   II lavoro compiuto è immenso* Oggi il nostro Paese gode di  scali marittimi perfettamente adeguati alie necessità dei traffici  ed è anche pronto ad accogliere ogni futuro incremento nel  commercio interna^ionale*    LE ACQUE PUBBLICHE   La regolari^a^ione dei corsi d*acqua è Topera pubblica per  eccellensa che, in Italia, acquista unhmportan^a di primissimo  ordine, data la sua particolare configurasione oro-idrografica*  Durante il decennio, per i lavori di sistema^ione delia Valle  dei Po sono stati impiegati oltre 400 milioni di lire, che hanno  permesso di migliorare notevolmente la difesa idraulica di  i milione e 250 mila ettari di uno dei territori piú densamente  popolati e ricchi dei nostro Paese*   II Magistrato alie acque di Venezia si è pure prodigato in un  complesso di attività tra le quali prendono particolare evidem;a  i lavori di sistemazione dei bacino delbAdige*   Negli altri bacini dei Regno sono stati costruiti circa 4000  chilometri di argini completati da 775 chilometri di pennelli  e difese frontali*    127     Nel settore delia navigazione interna, per quanto il nostro  Paese non presenti condizioni favorevoli per la costituzione  di una vera e própria rete di vie navigabili, il Governo ha voluto  rendere piú efficace quella esistente nella valle padana e nei  grandi laghi. La via d'acqua Milano-Venezia, le ferraresi,  la litoranea veneta sono State oggetto d’importanti lavori.  Anche il canale da Pisa a Livomo e il tronco inferiore dei  Tevere sono stati notevolmente migliorati.   Nel campo delia utilizzazione delle acque pubbliche, il  Governo ha promosso energicamente la costruzione di grandi  bacini idroelettrici, da servire eventualmente anche all' irri-  gazione. In tal modo 1 'Italia ha cercato di rimediare alia  naturale povertà di carbon fossile, sovvenendo ai bisogni dei  trasporti e delle industrie.   Nel primo decennio fascista la potenza degli impianti idroe¬  lettrici è stata portata da 1,5 milioni di kw. ad oltre 4 milioni; la  produzione di energia è salita da 4 a 10 miliardi di kw-ora.   L'Italia settentrionale concorre alia produzione idroelettrica  con oltre 3 milioni di kw. di potenza installata negli impianti;  esigua è la produzione delPItalia centrale (711.000 kw.) e  Meridionale (208.000 kw.); quasi trascurabile quella delle  isole (76.000 kw.).   L'ultimo decennio ha visto moltiplicarsi nel nostro sistema  alpino e appenninico i serbatoi idraulici che oggi raggiungono  il numero di 168, con una capacità di invaso complessiva di  quasi 1300 milioni di metri cubi.   Alcuni di questi servono anche per 1 'irrigazione.   Tra il centinaio di serbatoi costruiti durante gli ultimi dodici  anmi ricordiamo quello deljMoncenisio, dei Lago di Avio-  grande (Varese), di Ceresole Reale (Aosta), di Montesluga  (Sondrio), di Suviano (Bologna), di Trepido (Cosenza), di  Santa Chiara d'Ula (Cagliari), dell’Alto Belice (Palermo).    128       ACQUEDOTTI    « Da quíndici secoli Ravenna attendeva Tacqua* Si sono  ricordati in questi giorni i nomi venerati, ma lontani, degli  imperatori romanL Passavano i secoli, si susseguivano le gene-  razioni, cambiavano i governi, le signorie, le dominazioni,  la realtà era sempre lontana dal sogno* Solo il Fascismo poteva  fare questo, poichè il Fascismo è, sopratutto al presente, il  verbo volere »♦   Cosi il Duce si pronunciava il i° agosto delEanno EX inau¬  gurando Tacquedotto di Ravenna, consacrato alia memória  dei cadutu   Anche in questo campo di civiltà, di difesa delia razza e dei  popolo, di assistensa agli umili, il Regime si è prodigato,  aiutando gli enti locali con mutui di favore e concorrendo  airesecuzione delle opere stesse con contributi direttú   Oltre airacquedotto di Ravenna, or ora ricordato, van men-  zionati: il grande acquedotto dei Monferrato che dà acqua  a 81 comuni; Tacquedotto Schievenin che serve 20 comuni  delFalto agro trevigiano; Tacquedotto Istriano che approwi-  giona tutta la província; Tacquedotto Franciosetti per la città  di Torino; quello per la Vai d'Orcia e la Vai di Chiana, di cui  beneficiano 11 comuni; quello di Grosseto; gli acquedotti  delia Lucania, ecc*   Sviluppo notevolissimo ha avuto, nelEultimo decennio,  1'acquedotto pugliese*   II Fascismo afffontò decisamente il proseguimento di quel  colossale acquedotto con la costruzione dei grande sifone lec-  cese, delle diramazioni dei foggiano e di altri 1000 chilometri  di condotte esterne e interne agli abitati: fu cosi fornita  Tacqua ad una popola^ione complessiva di circa un milione  di abitanti*    9-4    129     La metà delia spesa totale sostenuta dallo Stato italiano per  compiere questa opera, che documenta il grado di civiltà di  un popolo, è stata erogata dal Governo fascista.   Al complesso di opere ricordate, miranti a dare acqua pura  alie popolazioni delle città italiane e dei comuni rurali, va  aggiunta anche la costruzione di numerose fognature in oltre  300 centri urbani dei Paese*   La breve rassegna che abbiamo fatto sarebbe assai incom¬  pleta se non venissero ricordate altre numerose opere civili ed  igieniche compiute dal regime: ospedali, tubercolosari, cimiteri,  lavatoi, costruiti a centinaia, specialmente nell Italia Meri-  dionale e nelle Isole, dove maggiormente difettavano* La  Sardegna, che era stata particolarmente trascurata dai goverm  precedenti, è stata oggetto di un f intensa attività in questo  campo di opere che riguardano il soddisfacimento dei bisogni  fondamentali delia vita*    U EDILIZIA   II Governo fascista, accanto alie nuove opere pubbliche  miranti a dare nuovo impulso alia vita economica dei Paese, ha  promosso una serie di opere per risanare, ampliare, abbellire,  le grandi città seguendo i dettami delia moderna urbanistica*  In moltissime città italiane sono stati sVentrati vecchi quar-  tieri, creati nuovi rioni, migliorato il rifornimento idrico e lo  smaltimento dei rifiuti* I macelli sono stati moderni^ti, cen-  tinaia di mercati pubblici sono stati rinnovati o costruiti di  nuovo* I servizi di illuminazione sono stati migliorati; lo svi-  luppo dei servizio telefônico costituisce un'altra fondamentale  conquista* Parchi e giardini, viali alberati e ville, sono stati  aperti al popolo che lavora*     Anche in questo campo per motivi di giustizia distributiva  1 'Italia Meridionale ha avuto le maggiori prowidenze.   Ma è stato specialmente nella Capitale che la sistemazione  urbanística ha assunto uno sviluppo dawero imponente. La  costruzione delle vie deli' Impero e dei Trionfi, la sistemazione  delle adiacenze dei Campidoglio e dei Fori Imperiali, ed il  compimento delle numerose opere per dare nuovo assetto  alia viabilità cittadina e per fornire al popolo stadi e giardini,  sono opere veramente degne delia Roma Imperiale.   A queste Va aggiunta la costruzione dei nuovi palazzi dei  Ministero dei Lavor i Pubblici, delia Giustizia, delFEducazione  Nazionale, delia Marina e delle Corporazioni, delia città universi¬  tária e di numerosi altri edifici pubblici necessari per la vita delia  Capitale, centro propulsore di tutte le attività delia Nazione.   Anche nelle varie provincie 1 'edilizia dello Stato ha avuto  singolare sviluppo: ricordiamo i 69 nuovi edifici costruiti per  i corpi armati delia Polizia e delia R. Guardia di Finanza, i  24 nuovi palazzi delle Poste e Telegrafi, i 15 edifici carcerari,  i 7 grandiosi gruppi di costruzioni universitarie e altri ancora.  Nel complesso si tratta di costruzioni per un volume di oltre  7 milioni di mc.   Un particolare posto spetta alia edilizia scolastica.   Nel 1922 il nostro Paese aveva un numero di scuole insuffi-  ciente; inoltre parte di queste si trovavano in condizioni sta-  tiche e di manutenzione dei tutto inadeguate alie esigenze piú  elementari delia popolazione scolastica. È quindi naturale che  il Re gim e, che ha sempre avuto a cuore 1’awenire delia razza  e la preparazione spirituale e fisica delia gioventú, abbia cer-  cato con tutti i mezzi a sua disposizione di dare il piú grande  impulso a questo genere di edilizia.   II Ministero dei Lavori Pubblici, la cui competenza oggi  si estende a tutti gli edifici scolastici d’Italia, ha costruito oltre   131    ii*ooo aule* I Comuni si sono pure prodigati in questa opera  che soddisfa ad uno dei primordiali bisogni delia vita civile,  sistemando vecchi edifici e prowedendo al risanamento ed  alia ricostruzione di quelli che erano igienicamente inabitabiln   L # Italia Meridionale anche in questo campo ha goduto di  particolari benefici*   Nel settore delle case popolari il Regime ha stanziato ioo  milioni a favore di quei comuni e di quegli istituti autonomi  che prendono Tiniziativa per la loro costruzione* II Regime ha  pure proweduto a creare Tlstituto Nazionale per le case degli  Impiegati dello Stato (L N* C* L S*), a emanare particolari  prowidenze per la costruzione di alloggi da destinare ai muti-  lati e agli invalidi di guerra* Col concorso finanziario dello  Stato sono stati edificati, a cura dei comuni, di istituti speciali  e di cooperative, oltre seimila edifici con cinquantamila appar-  tamenti, dei quali 28*000 di tipo economico e 22*000 di tipo  popolare*   II Governo dando grande impulso alie nuove costruzioni  non ha dimenticato la ricostruzione dei paesi devastati dalla  guerra e dai terremoti*   Oggi si può dire che ogni traccia delle devastazioni compiute  durante la conflagrazione europea sia scomparsa; il Regime ha  assolto in tal modo il debito di riconoscenza e di affetto contratto  verso quei compartimenti che furono teatro dei tremendo conflitto,  al quale segui la vittoria che il Fascismo solo ha saputo valorizzare*   La Calabria e la Sicilia, che purtroppo sono annoverate fra  i paesi piú colpiti dal terremoto, si sono giovate in modo par-  ticolare delle sollecite cure dei Governo, il quale autorizzò la  spesa di oltre 500 milioni per la costruzione di case di abita-  zione nei paesi distrutti dal terremoto dei 1908* Nella sola città  di Messina vennero edificati circa 1000 alloggi di tipo popola-  rissimo e numerose case economiche popolari con circa 4600    132      appartamenti* Nella città di Reggio Calabria circa iooo alloggi;  nella província oltre 5000*   Gradatamente sorsero interi rioni di nuove case economiche  e popolari: furono preparati rationali piani regolatori; si edifi-  carono chiese, si initiò Fedilitia pubblica»   Dopo il 1925, dopo cioè il trionfale viaggio che il Capo dei  Governo compi in Sicilia, Topera di ricostrutione fu notevol-  mente intensificata; oggi Messina e Reggio si possono con-  siderare tra le piü moderne città dei nostro Paese*   Anche i territori delia Marsica, che si distendono nei din-  torni di Avettano, colpiti duramente dal terremoto dei 1915,  furono oggetto di sforzi tecnici e finantiari cospicui da parte  dei Governo fascista*   Infatti quando il Fascismo raggiunse il potere, la situatione  delia Marsica era quanto mai desolante; oggi Avetzano è com¬  pletamente ricostruita e i centri colpiti hanno ormai rimarginate  le loro dolorose ferite*   La fermetta dei Governo Fascista e la rationalità dei suoi  sistemi di ricostrutione dei paesi terremotati si dimostrò in  occasione dei disastro dei Vulture ed anche in quello delle  Marche» Nelle tristi contingente che colpirono queste belle  provincie d'Italia, il Governo forni un^ssistenta pronta, ade-  guata, ispirata ad alto senso di umanità» Esso, però, antichè  cedere alie invocationi chiedenti il rápido apprestamento di  baracche, che avrebbe portato a ripetere gli errori tecnici e  finantiari in cui si cadde in tempi passati, prowide con rara  energia a dirigere Topera di assistenta ai disastrati, mentre  squadre di operai cominciavano ad innaltare le case in mura-  tura per i sentatetto»   Anche in questo settore delia vita nationale Topera dei Regime  è stata intensissima e tra le piü proficue: il Duce ha dato anche  a questo aspetto delia vita italiana un nuovo Volto alia Patria.Lorenzo Fioramonti. Fioramonti. Keywords: l’economia di Aristotele, economia fascisdta, Sciacca, Evola, diritto economico, stato fascista, economia fascista, corporativismo, ugo spirito.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Fioramonte: l’implicatura” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Fiore – implicatura musicale – filosofia italiana – Luigi Speranza (Celico). Filosofo. Grice: “If you are thinking that Fiore is the source for the Cistercians, you are wrong – actually Fiore WAS a Cisctercian until he wasn’t one! Pretty much like St. John’s!” -- da Floris, Italian philosopher, the founder the order of Ciscercian order of San Giovanni in Fiore (vide, Grice, “St. John’s and the Cistercians”). He devoted the rest of his life to meditation and the recording of his prophetic visions. In his major works Liber concordiae Novi ac Veteri Testamenti,: Expositio in Apocalypsim and Psalterium decem chordarum. Da Floris  illustrates the deep meaning of history as he perceived it in his visions. History develops in coexisting patterns of twos and threes. The two testaments represent history as divided in two phases ending in the First and Second Advent, respectively. History progresses also through stages corresponding to the Holy Trinity. The age of the Father is that of the law; the age of the Son is that of grace, ending approximately in 1260; the age of the Spirit will produce a spiritualized church. Some monastic orders like the Franciscans and Dominicans saw themselves as already belonging to this final era of spirituality and interpreted Joachim’s prophecies as suggesting the overthrow of the contemporary ecclesiastical institutions. Some of his views were condemned by the Lateran Council. Gioacchino da Fiore Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Jump to navigationJump to search «… E lucemi dallato, il calavrese abate Giovacchino di spirito profetico dotato»  (Dante Alighieri, Paradiso, Canto XII, vv. 140-141) Gioacchino da Fiore Joachim of Flora.jpg. Filosofo. NascitaCelico, 1130 MortePietrafitta, 30 marzo 1202 BeatificazioneNuncupato Santuario principaleAbbazia Florense Manuale Gioacchino da Fiore (Celico, 1130 circa – Pietrafitta) è stato un abate, teologo e scrittore italiano. È venerato come beato da parte dei florensi e dei gesuiti bollandisti, anche se non c'è mai stata una beatificazione ufficiale da parte della Chiesa cattolica.   Le condizioni economiche della famiglia di Gioacchino erano agiate; il padre Mauro, infatti, era tabulario o notaio. In passato si era ritenuto che la famiglia avesse origini ebraiche, forse per spiegare l'atteggiamento benevolo di Gioacchino nei confronti dell'Ebraismo.  Gioacchino nacque a Celico; la sua casa natale viene collocata storicamente dove sorge attualmente la chiesa dell'Assunta, edificata sicuramente prima del 1421 sul perimetro della casa natale dell'abate Gioacchino. Ricevette le prime nozioni di educazione scolastica nella vicina Cosenza. Ben presto fu mandato dal padre a lavorare, sempre a Cosenza, presso l'ufficio del Giustiziere della Calabria. A causa di contrasti insorti sul posto di lavoro, andò a lavorare presso i Tribunali di Cosenza. In seguito il padre riuscì a fargli ottenere un posto presso la corte normanna a Palermo, dove lavorò prima a diretto contatto con il capo della zecca, poi con i notai Santoro e Pellegrino e infine presso il Cancelliere di Palermo, arcivescovo Stefano di Perche. Entrato in disaccordo anche con Stefano, si allontanò definitivamente dalla corte reale di Palermo per compiere un viaggio in Terrasanta.  Gli inizi Forse nel corso di questo viaggio maturò un profondo distacco dal mondo materiale per dedicarsi allo studio delle Sacre Scritture. Al ritorno in patria Gioacchino si ritirò dapprima in una grotta nei pressi di un monastero posto sulle falde del monte Etna, poi tornò con un suo compagno a Guarassano, nei pressi di Cosenza. Qui fu riconosciuto e costretto ad incontrare il padre, che lo aveva dato per disperso. Al padre confessò di aver smesso di lavorare per il re normanno per servire il Re dei Re (cioè "il Signore Dio nostro")  Visse per circa un anno presso l'abbazia di Santa Maria della Sambucina, da cui si allontanò per andare a predicare dall'altra parte della valle, vivendo nei pressi del guado Gaudianelli del torrente Surdo, vicino a Rende.  Poiché al tempo la predicazione di un laico non era ben accetta, Gioacchino compì un viaggio fino a Catanzaro, dove il vescovo locale lo ordinò sacerdote. Durante il tragitto da Rende a Catanzaro si fermò nel monastero di Santa Maria di Corazzo, dove incontrò il monaco Greco che lo pose davanti alla parabola dei talenti, rimproverandolo di non mettere a frutto le sue doti. Tornò a predicare nuovamente a Rende, con l'abito di sacerdote. Poco tempo dopo vestì l'abito monastico, entrando nel monastero di Santa Maria di Corazzo. Questa abbazia benedettina, guidata dal beato Colombano, aspirava a seguire la regola cistercense.  Elezione ad abate Secondo le fonti più accreditate, nel 1177 Giovanni Bonasso venne eletto abate di Santa Maria di Corazzo, ma rinunciò, scappando dapprima nel monastero della Sambucina, poi nel monastero del legno della croce di Acri. Gioacchino non ambiva a diventare abate, ma a studiare le Sacre Scritture. Gli uomini più potenti di quel tempo, riunitisi con lui a Sambucina, lo convinsero ad accettare la carica di abate di quel monastero, all'epoca poverissimo. A Corazzo l'abate Gioacchino cominciò a scrivere la prima delle sue opere, La Genealogia, impiegando come suoi scribi frate Giovanni e frate Nicola.  Teologo e scrittore In qualità di abate compì un viaggio all'abbazia di Casamari. Durante questo periodo incontrò il papa Lucio III, che gli concesse la licentia scribendi. Con l'aiuto degli scribi Giovanni, Nicola e Luca, iniziò già a Casamari la stesura delle sue opere principali: la Concordia tra il vecchio e il nuovo testamento e l'Esposizione dell'Apocalisse. In quello stesso periodo Gioacchino interpretò innanzi al papa una profezia ignota, trovata tra le carte del defunto cardinale Matteo d'Angers. Da qui scaturì l'incoraggiamento del pontefice Lucio III a scrivere le sue opere.  Nel 1186-1187 si recò a Verona, dove incontrò il papa Urbano III. Al ritorno si ritirò a Pietralata, una località sconosciuta, abbandonando definitivamente la guida dell'abbazia di Corazzo. I suoi monaci non tolleravano il suo girovagare e lo stare sempre distante dall'abbazia e pertanto fecero una petizione per risolvere la questione presso la Curia romana. A seguito di ciò, nel 1188 ottenne l'affiliazione dell'abbazia di Corazzo all'abbazia di Fossanova e il papa Clemente III lo prosciolse dai doveri abbaziali, autorizzandolo a continuare a scrivere.  Pietralata e protomonastero di Fiore Vetere Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Abbazia Florense. A Pietralata, presumibilmente una contrada nei pressi di Marzi-Rogliano, da lui ribattezzata Petra Olei, cominciarono a pervenire molti seguaci. Il primo fu Raniero da Ponza, che in seguito fu legato apostolico in Francia e Spagna sotto papa Innocenzo III. Pietralata divenne presto un luogo incapace di ospitare la moltitudine di gente che accorreva a sentire Gioacchino; pertanto nell'autunno del 1188 Gioacchino salì in Sila alla ricerca di un territorio che si potesse abitare. Dopo varie perlustrazioni, si fermò nel luogo oggi denominato Jure Vetere Sottano, attualmente nel comune di San Giovanni in Fiore. A sei mesi di distanza dalla perlustrazione, abbandonò Pietralata e si trasferì con i suoi discepoli in Sila sul luogo prescelto. Pietralata è un luogo avvolto nel mistero e ancora oggi non identificato con sufficienti certezze.  Dopo sei mesi dal trasferimento, il re Guglielmo il Buono morì e gli subentrò sul trono normanno Tancredi, già conte di Lecce. Furono proprio i funzionari di Tancredi a contestare a Gioacchino l'insediamento in Sila, per cui l'abate dovette recarsi a Palermo (primavera 1191) per discutere con il nuovo re. Dopo un complesso confronto tra i due, durante il quale Tancredi propose all'abate di trasferirsi presso l'abbazia della Matina «allora in stato di grave declino» (proposta rifiutata in maniera decisa da Gioacchino), gli fu concesso di restare in Sila[3], nel luogo prescelto, facendogli dono di un vasto tenimento posto nelle adiacenze, aggiungendo 300 pecore e 30 some di grano per il sostentamento della comunità religiosa. Da qui in avanti cominciò a costruire il protomonastero di Fiore Vetere.  Nel 1194, dopo la morte di Tancredi, subentrò nel regno Enrico VI, figlio di Federico Barbarossa, il quale concesse a Gioacchino un vasto tenimento in Sila e privilegi sovrani su tutta la Calabria.  La Congregazione florense Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Ordine florense e Florensi. In questo periodo, dopo il diploma concesso da Enrico VI, Gioacchino fondò i monasteri di Bonoligno e Tassitano e acquisì altri monasteri già italo-greci. Forte del patrimonio terriero ed ecclesiale acquisito, Gioacchino si recò a Roma ricevendo da papa Celestino III l'approvazione della Congregazione florense e dei suoi istituti il 25 agosto del 1196.  I florensi continuarono a colonizzare il territorio assegnato e, affinché Fiore venisse articolato secondo lo schema della Tav. XII, misero a coltura i territori di Bonolegno e di Faradomus, facendosi aiutare molto probabilmente da gruppi di laici che condividevano il progetto del novus ordo. Pertanto, con le acque del fiume Garga, attraverso il canale cosiddetto badiale, fecondarono dapprima Bonolegno e poi Faradomus. Da qui insorsero delle liti con i monaci greci del monastero dei tre fanciulli, ubicato in prossimità di Caccuri, che contestarono ai florensi l'occupazione di territori che secondo loro detenevano da tempi immemorabili. I poveri florensi furono bastonati, malmenati e gli edifici in costruzione distrutti. Tuttavia l'azione di costruzione dell'insediamento non si fermò, fintanto che l'abate rimase in vita.  Gioacchino morì il 30 marzo 1202 presso Canale di Pietrafitta[4] e fu seppellito nel monastero florense di San Martino di Canale. Il suoi resti furono traslati nell'abbazia di San Giovanni in Fiore verso il 1226, quando la grande chiesa era ancora in costruzione. L'abate Matteo Vitari, successore di Gioacchino, continuò l'opera ampliando le fondazioni florensi; nel periodo del suo abbaziato, l'ordine florense vantava oltre cento filiazioni, tra abbazie, monasteri e chiese, ognuna dotata di ampi tenimenti-tenute e possedimenti vari, sparsi in Calabria, Puglia, Campania, Lazio, Toscana e rendite che provenivano anche dalle lontane terre di Inghilterra, Galles e Irlanda.  I grandi benefattori dell'abate Gioacchino e dell'Ordine florense La Congregazione florense prima e l'Ordine florense poi ebbero molti benefattori; fra i tanti vale la pena ricordare:  Signore di Oliveti: diede a Gioacchino la possibilità di vivere nel ritiro di Pietralata. Tancredi il Normanno: concesse a Gioacchino il Locum Floris, il Tenimentum Silae, 300 pecore e 112,5 quintali di grano annui. Enrico VI di Svevia: concesse a Gioacchino il Tenimentum Floris e tanti privilegi imperiali. Gilberto, vescovo di Cerenzia: concesse il tenimento Montemarco con la relativa abbazia e filiazioni dipendenti. Celestino III: riconobbe la Congregazione florense e i suoi istituti religiosi. Costanza d'Altavilla: ratificò a Gioacchino tutti i beni posseduti dal Monasterio Sancti Johanni de Flore. Umfredo Colino e Simone de Mamistra, Giustiziere Regio della Calabria: concessero a Gioacchino la tenuta di Caput Album (capo Arvo). Ugolino, cardinale prete di S. Lorenzo in Lucina, Legato Apostolico in Sicilia: concesse a Gioacchino la tenuta Albetum in Caput Gratium (Albeto di Capo Crati). Federico II di Svevia: concesse a Gioacchino le tenute Caput Album e Caput Gratis. Andrea, arcivescovo di Cosenza: concesse a Gioacchino la chiesa di San Martino di Jove in Canale (Pietrafitta). Stefano, vescovo di Tropea, Gattegrima e Simone de Mamistra (Giustiziere Regio della Calabria), signori di Fiumefreddo: concessero a Giacchino la chiesa di Santa Domenica, con tutte le sue dipendenze, compreso i tenimenti Flumen Frigidum e Barbaro. Culto  Gioacchino da Fiore con l'aureola, affresco della fine del sec. XVI, cattedrale di Santa Severina I seguaci di Gioacchino, subito dopo la sua morte, raccolsero la biografia, le opere e le testimonianze dei miracoli ottenuti per sua intercessione per proporne la canonizzazione. Questo primo tentativo probabilmente abortì a seguito delle disposizioni del Concilio Lateranense IV, che nel 1215 dichiarò eretiche alcune frasi contro Pietro Lombardo contenute in un libello accreditato ingiustamente a Gioacchino da Fiore. Tuttavia la seconda Costituzione Conciliare sull'errore dell'abate Gioacchino dichiarò anche: "Con ciò, però, non vogliamo gettare un'ombra sul monastero di Fiore, in cui lo stesso Gioacchino è stato maestro, poiché ivi l'insegnamento è regolare e la disciplina salutare. Tanto più che lo stesso Gioacchino ci ha inviato tutti i suoi scritti perché fossero approvati o corretti secondo il giudizio della Sede apostolica. Ciò egli fece con una lettera, da lui dettata e sottoscritta di proprio pugno, nella quale egli confessa senza tentennamenti di tenere quella fede che ritiene la chiesa di Roma, madre e maestra, per volontà di Dio, di tutti i fedeli" (Cost. 2).  Dante Alighieri, nella Divina Commedia, inserisce Gioacchino da Fiore nel paradiso (canto XII, versi 139-141), tra la schiera dei beati sapienti, corrispondenti agli odierni dottori della Chiesa, accanto ai santi Bonaventura da Bagnoregio, Rabano Mauro e Tommaso d'Aquino. Da ciò si desume il chiaro giudizio di Dante, emesso 110 anni circa dopo la morte dell'abate calabrese.  Un secondo tentativo d'avvio della canonizzazione fu compiuto dall'abate Pietro del monastero florense, che si recò ad Avignone per portare al Sommo Pontefice tutta la documentazione relativa alle grazie e ai miracoli ottenuti tramite l'abate Gioacchino, sia durante la sua vita sia dopo la sua morte.  È risaputo che i cistercensi venerarono come beato l'abate Gioacchino, elaborandone perfino l'antifona per il 29 maggio. Si ritiene che ciò sia avvenuto quando i florensi furono fatti confluire nella Congregazione cistercense calabro lucana. I gesuiti bollandisti nel loro calendario liturgico e nel loro messale avevano incluso l'abate Gioacchino come beato, fissando per lui nell'anno due festività celebrative. Il vescovo di Cosenza, Gennaro Sanfelice, denunciò all'Inquisizione i monaci cistercensi di San Giovanni in Fiore poiché tenevano continuamente accesa una lampada sull'altare vicino al sepolcro dell'abate Gioacchino. Tale denuncia causò una serie di problemi relativi al culto e alle reliquie.  All'approssimarsi dell'VIII centenario della morte dell'abate Gioacchino, il 25 giugno 2001 l'Arcidiocesi di Cosenza-Bisignano iniziò nuovamente l'iter per la canonizzazione. Ad oggi risulta conclusa la fase diocesana. Postulatore della Causa è stato nominato il don Enzo Gabrieli.  Opere  Dialogi de prescientia Dei Gioacchino, esortato da papa Lucio III, mise per iscritto la sua originale interpretazione delle Sacre Scritture. Le sue opere principali sono:  Concordia Novi ac Veteris Testamenti Expositio in Apocalypsim Psalterium decem chordarum A queste vanno aggiunte:  Adversus Iudaeos- edizione Adversus Iudeos, Fonti per la storia d'Italia 95, Roma, Istituto storico italiano per il Medio Evo Roma, Apocalypsis Nova De Articulis Fidei - edizione De articulis fidei, Fonti per la storia d'Italia 78, Roma, Tipografia del Senato, 1936. URL consultato il 30 aprile 2015. De prophetia ignota De Septem Sigillis Dialogi de Praescientia Dei et de praedestinatione electorum - edizione Dialogi de prescientia Dei et predestinatione electorum, Fonti per la storia dell'Italia medievale. Antiquitates 4, Roma, Istituto storico italiano per il Medio Evo Roma, Enchiridion super Apocalypsim Epistulae Inteligentia super calathis ad abbatem Gaufridum Testamentum Universis Christi fidelibus Exhortatorium Iudeorum Genealogia Liber Figurarum (scoperto da Leone Tondelli) Poemata duo (Visio admirandae historiae, Hymnus de patria coelesti) Prefatio in Apocalypsim Professio fidei Quaestio de Maria Magdalena Sermones Soliloquium Tractatus super quattuor Evangelia - edizione Tractatus super quatuor evangelia, Fonti per la storia d'Italia 67, Torino, Bottega d'Erasmo. Tractatus in expositionem et regulae beati Benedicti Ultimis Tribulationibus Sono inoltre conosciuti:  Testi apocrifi: Liber contra Lombardum Super Hieremiam Praemissiones e Super Esaiam De oneribus prophetarum Expositio super Sibillas e Merlino Vaticinia de Summis Pontificibus (di dubbia provenienza) Altri manoscritti vari, chiamati Opuscoli. Le intuizioni di Gioacchino da Fiore Secondo Gian Luca Potestà nella sua recensione a Refrigerio dei Santi, Gioacchino da Fiore, "segna comunque una svolta nella coscienza escatologica medievale, in quanto è il primo a rompere il "tabù agostiniano" riguardo ad Apocalisse 20 e ad avanzare, in modo cauto ma netto l'idea che la ligatio Sathane per annos mille vada riferita al tempo imminente di pace terrena, situato fra la prossima venuta dell'Anticristo e le persecuzioni finali di Gog e Magog." Sulla stessa linea si pone Robert E. Lerner che evidenza come il teorema di Sant'Agostino, della suddivisione della storia in tre periodi: Ante legem, sub lege, sub gratia, viene rivisto da Gioacchino che introduce nel dramma il quarto atto: Itaque tempus ante legem, secundum sub lege, tertium sub evangelio, quartum sub spiritali intellectu", dimostrando così la sua straordinaria originalità interpretativa delle Sacre Scritture.  Gioacchino da Fiore tra le tante ebbe tre interessanti e originali intuizioni.  Ha cercato e provato che esistono diverse forme di concordia tra l'Antico e il Nuovo Testamento, il primo indissolubilmente legato al periodo del Padre, il secondo indissolubilmente legato al periodo del Figlio. Da questo concetto, noto come modello "binario della teologia della storia", data la piena proporzionalità da lui riscontrata, intuisce la possibilità di "proiettare con fiducia il corso della storia cristiana oltre l'età apostolica sino al presente, e da qui verso il futuro." (Lerner) Sulla base di questo sistema di concordanza tra i due Testamenti, attraverso lo studio accurato delle Scritture, ritiene di poter scrutare nel futuro, assicurando che i due Testamenti assicuravano le medesime certezze. Dopo di che passa ad interpretare l'Apocalisse, l'ultimo libro del Nuovo Testamento, e anche qui ritrova a suo modo di dire la continuità dell'intera storia della chiesa, passata, presente e futura. Gioacchino ha sempre sostenuto a chiare lettere di essere un interprete ispirato della Scrittura, piuttosto che un profeta, egli, infatti, rifuggì dal rappresentare il tempo finale con parole diverse da quelle direttamente tratte dalla Scrittura. Da questo concetto binario, Gioacchino elabora un "modello ternario", connesso strettamente alla santissima Trinità, dimostrandolo con alcuni concetti fondamentali attraverso l'analisi teologico-iconografica delle lettere "ALFA" e "OMEGA". Dallo sviluppo di queste due concezioni basilari Gioacchino approdò allo sviluppo dei concetti riferiti alle "tre Età della Storia terrena", sostenendo che se c'era stato il tempo in cui ha operato prevalentemente il Padre e il tempo in cui ha operato prevalentemente il Figlio, allora doveva esserci anche un tempo in cui opererà prevalentemente lo Spirito Santo, che procede da Padre e dal Figlio. La scansione del tempo che l'abate di Fiore elabora si basa sulle tre epoche fondamentali: Età del Padre: corrispondente alle narrazioni dell'Antico Testamento, estesa nel tempo che va da Adamo ad Ozia, re di Giuda (784-746); Età del Figlio: rappresentata dal Vangelo e compresa dall'avvento di Gesù, estesa nel tempo che va da Ozia fino al 1260; Età dello Spirito Santo: estesa nel tempo che va dal 1260 fino alla fine del "millennio sabbatico", ovvero quel periodo in cui l'umanità attraverso una vita vissuta in un clima di purezza e libertà avrebbe goduto di una maggiore grazia. In questa età, una nuova Chiesa tutta spirituale, tollerante, libera, ecumenica, prende il posto della vecchia Chiesa dogmatica, gerarchica, troppo materiale.[6] L'età dello Spirito ricomprende le età precedenti in un regno dove i conflitti sono pacificati, le guerre eliminate e l'uomo rigenerato dallo svelamento dei misteri e s-secondo alcune interpretazioni- il ricongiungimento di cristiani ed ebrei, fino ad ora divisi dalla parziale illuminazione di Antico e Nuovo Testamento.  Con tale teorema Gioacchino estende il tempo della storia, proponendo la dilazione del tempo della salvezza. Gioacchino elabora pertanto, prima il modello dell'albero dei due avventi, poi i tre alberi, quello sviluppato nell'età del Padre, quello sviluppato nell'età del Figlio e quello che si svilupperà nell'età dello Spirito Santo. Gioacchino crede di vivere nella fase finale di una sesta età, cui ne seguirà una settima e ultima, tutta intrastorica, fatta dell'incremento dei doni dello Spirito fino al compimento del sabato eterno, stagione della pienezza della grazia donata. Nell'età dello Spirito l'etica non ha più il carattere punitivo e rigido dell'età del Padre: il disvelamento è una progressiva apertura verso un Dio benevolente, essenzialmente Amore, in cui si muove da una Padre dell'Antico Testamento, che è giudice/Dio guerriero/padrone dell'uomo e della natura severo-vendicativo e misterioso/trascendente, al Figlio che dona la vita per la salvezza dell'uomo mostrandosi come Amore e Verità, allo Spirito che completa questa dimensione rivelata.  L'inesorabilità della storia, secondo Gioacchino, è data da un ossessionante computo delle generazioni, che a volte valgono un'estensione di tempo a volte no. Con questo meccanismo complesso elabora una sorta di "linea del tempo", che va dalla "Genesi" al "Giudizio Universale". I due capi segnano i confini estremi della storia della salvezza che si sviluppa all'interno di questa linea del tempo. Gioacchino si chiede quanto è lunga questa linea del tempo e a quale punto di questa linea egli si trova, quindi da qui sviluppa una serie di calcoli e combinazioni teologiche del tutto originali. Robert E. Lerner sostiene che "Nella sua visione, ciò poteva essere conseguito soltanto con lo studio il più approfondito della Scrittura ed egli si sentiva fiducioso che, mediante nuove strategie di lettura, sarebbe stato in grado di portare alla luce messaggi predittivi della Scrittura, che sino ad allora erano rimasti segreti." Tutta la sua attività ha finito per qualificarlo come un ambizioso pensatore cristiano, ricercatore irrefrenabile di parallelismi, allusioni e predizioni. Il filosofo Giovanni Giraldi sottolinea invece l'aspetto in cui Gioacchino da Fiore parla di Età dello Spirito riferendosi esplicitamente ad un ordo spiritualis monachorum, una sorta di chiesa privilegiata di monaci - spiriti superiori - in seno alla Chiesa di Cristo, e quindi non una chiesa alternativa[7].  Nel suo Monasterium delinea una struttura sociale, ovviamente a carattere teologico, ma dove gli umani trovano la loro collocazione non in base al potere o al denaro o alla discendenza, ma in base alle loro tendenze, al loro carattere e al loro stato (persone contemplative, persone attive, persone dedite alla famiglia, anziani e deboli di salute, studiosi etc) e sotto la pacifica guida di un abate. Il Monasterium ipotizza una riforma radicale e una ristrutturazione che mette in crisi l'organizzazione della chiesa che condanna pubblicamente le sue idee e le sue opere nel concilio Lateranense del 1215: per l'affermazione di un disvelamento progressivo di Dio in tre epoche che mette in crisi l'idea dell'Unità delle Tre Persone divine, per la teoria di fondo secondo cui la verità non si esaurisce col cristianesimo, ma occorre un altro evento che ripari la storia, permettendo agli uomini di godere di un'età di perfezione.  Monasterium All'interno dei suoi ossessionanti calcoli cronosofici e millenaristi Gioacchino da Fiore elabora anche uno schema di vita religiosa per il tempo futuro, quello dello Spirito, riassunto nella tavola XII del Liber Figurarum. Esso descrive una congregazione religiosa, raggruppata in un insediamento denominato Monasterium, formata da persone con diversa spiritualità, raggruppate sapientemente in sette oratori[1]:  Oratorio della Santa Madre di Dio e della Santa Gerusalemme: in tale oratorio si trova l'abate Oratorio di San Giovanni Evangelista: dedicato alla vita contemplativa Oratorio di San Pietro: dedicato agli anziani o ai deboli di salute, lavori manuali leggeri Oratorio di San Paolo: dedicato allo studio Oratorio di San Stefano: dedicato a chi ha inclinazione per la vita attiva Oratorio di San Giovanni Battista: per sacerdoti e clerici Oratorio del santo patriarca Abramo: per laici coniugati e le loro famiglie Al Monasterium potevano quindi partecipare laici coniugati e non, clero secolare e conventuale, monaci spirituali. Tutti vivono sotto la guida di un unico abate che presiede l'istituto religioso, disponendo e regolando, per i gruppi e per ognuno, una sorta di scala d'accesso al Paradiso, da conquistare vivendo nella comunità. L'insediamento religioso è strutturato a modello di nuova Gerusalemme terrena con schema somigliante alla Gerusalemme dei cieli. Il Monasterium gioachimita delinea diversi aspetti comportamentali e sociali che rispettati saranno utili a varcare la porta d'accesso alla vita eterna. Il passaggio da un oratorio ad un altro si conquista glorificando il Padre eterno, ognuno per le proprie possibilità e a seconda del grado spirituale concesso ad ogni singolo individuo da Dio. Il progresso spirituale non è precluso a nessuno, per cui tutti possono aspirare ad accedere al Paradiso.  Il modello proposto dal Monasterium rappresentò una rivoluzione per due aspetti:  esso affranca ampi strati della società sia dalla feudalità ecclesiastica sia da quella "baronale"; esso coinvolgeva tutti i modelli religiosi integrando nel Monasterium perfino i laici, che al tempo erano ai margini della vita religiosa e della società civile. Questo modello monastico fu quindi osteggiato anche all'interno della chiesa del XIII secolo.  Diffusione del pensiero gioachimita Concilio Lateranense e prime reazioni La complessa e innovativa teologia della storia generò tensioni, specialmente nella scuola teologica di Parigi, storicamente a lui avversa. Nel 1215, il Concilio Lateranense IV dichiarò eretiche alcune frasi contro Pietro Lombardo di un'opera sulla Trinità falsamente attribuita a Gioacchino. Da questo equivoco se ne generarono altri, fintantoché lo stesso Papa Innocenzo III con bolla del 2 dicembre 1216 informa il vescovo di Lucca di non infamare l'abate Gioacchino, giacché l'Abate è considerato dalla Curia Romana un vero Cattolico (eum virum catholicum reputamus). Con parole dello stesso tenore si espresse Papa Onorio III con la Bolla del 5 dicembre 1220 con cui dà mandato all'arcivescovo di Cosenza (Luca Campano) di difendere i Monaci Florensi dalle false accuse rivolte al loro fondatore.  Neo Gioachimiti e il Gioachimismo Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Gioachimismo. Nei secoli, il pensiero di Gioacchino da Fiore è stato studiato, divulgato e diffuso. Si possono distinguere due gruppi di studiosi:  i gioachiniani e gioachimiti, che hanno rispettato fedelmente le opere originarie; gli pseudo gioachimiti o gioachimisti, che hanno recepito solo in parte le tesi proposte, spesso aggiungendo teoremi teologici estranei al pensiero originario. Tra i più grandi sostenitori dell'abate calabrese furono certamente i monaci florensi che ne seguirono la dottrina e l'esempio, ma egli suscitò interesse anche presso alcuni monaci cistercensi tra i quali:  Luca Campano: il primo dei seguaci eloquenti, egli fu scriba dell'abate nell'abbazia di Casamari, poi abate della Sambucina e infine Arcivescovo di Cosenza; a lui si ascrive una “vita” di Gioacchino Raniero Da Ponza: monaco vissuto a stretto contatto con Gioacchino, come “socio”, a Pietralata e a Fiore, tra il 1188 e il 1195; egli fu poi nominato da Papa Innocenzo III legato Apostolico in Francia meridionale e Spagna e in quelle terre diffuse la teologia di Gioacchino da Fiore, spargendo in quelle terre diversi semi che germineranno nel corso del secolo XIII. l'abate Matteo da Fiore de la Tuscia, che fu il suo primo successore e guidò la Congregazione Florense, finché non fu eletto arcivescovo di Cerenzia. Egli ebbe il merito di far copiare, ricopiare, ovvero duplicare tante volte tutte le opere di Gioacchino per diffonderle nei principali centri religiosi della penisola italiana e in tutta Europa. Se le opere di Gioacchino da Fiore sono giunte fino ai nostri giorni gran merito va all'abate Matteo da Fiore e agli scriba e amanuensi florensi che si adoperarono in questo immane lavoro di copiatura e duplicazione. La teologia di Gioacchino grazie a questi tre uomini si diffuse rapidamente, specialmente presso i Francescani spirituali francesi e italiani in vario modo. Tra questi:  Il provenzale Ugo de Digne, Giovanni da Parma, discepolo di Ugo e Gerardo di Borgo San Donnino, discepolo a sua volta di Giovanni da Parma, che si fece promotore del concetto relativo al Vangelo Eterno; scomunicato per eresia, fu condannato al carcere a vita Tra gli altri, si avvicinarono al pensiero di Gioacchino:  Salimbene de Adam da Parma, l'inglese Ruggero Bacone, la suora dell'ordine delle Umiliate Guglielma la Boema, la consorella Maifreda da Pirovano e il teologo laico di questo gruppo milanese Andrea Saramita, il francescano francese Pietro di Giovanni Olivi (1248-1298), che influenzò Giovanni di Rupescissa (Jean de Rochetaillade) (1300/1310-1366) e Giovanni di Bassigny. il provenzale Raymond Geoffroi, Ministro generale francescano. Ubertino da Casale, immortalato nelle pagine di Dante, era insieme a Pietro di Giovanni Olivi in Santa Croce a Firenze, il pesarese Angelo Clareno, riconosciuto fondatore dei Fraticelli della vita povera, e i seguaci di quest'ultimo, amico di Ubertino da casale. Michele da Cesena e Jacopone da Todi, l'eclettico spagnolo Arnaldo de Villanova, Francesco d'Appignano (Francesco della Marchia) (1285-90- dopo il 1344), l'inglese Guglielmo di Ockham, il francese Jean de Jandun (Giovanni di Janduno) (ca.1280-1328), Marsilio da Padova, Bernard Délicieux, Gentile da Foligno, priore generale degli agostiniani nel 1332. Michele Berti da Calci. Papa Celestino V, Cola di Rienzo, il sassone Federico di Brunswick, lo spagnolo Francesc Eiximenis, Nicola di Buldesdorf (?- 1446), Girolamo Savonarola (1452-1498) Certo quest'elenco è solo una piccola parte di un numero molto più folto di uomini colti che sono stati influenzati dalla sua teologia.  Nonostante molti francescani spirituali abbiano subito condanne e reclusioni come filo gioachimiti o ritenuti tali, l'influenza di Gioacchino nell'ordine dei fraticelli d'Assisi rimase viva, sia nella prima fase sia nei periodi successivi. La prova più eclatante è la presenza di Gioacchino nell'arte medievale:  Nell'apparato scultoreo e figurativo del Duomo di Assisi, Nella Divina Commedia Gioacchino e le sue idee vengono citate direttamente o indirettamente diverse volte Paradiso, Canto XII, la struttura urbanistica che i francescani dettero alle prime fondazioni americane, quali Puebla de Los Angeles, Veracruz, Los Angeles, ecc. la struttura compositiva elaborata da Michelangelo Buonarroti nella Cappella Sistina, secondo lo studio di H. W. Pfeiffer S.J. Anche nella Chiesa cattolica contemporanea, specialmente dopo il Concilio Vaticano II, diversi osservatori individuano il fiorire della ecclesia spiritualis di concezione gioachimita. Secondo l'analisi accurata di Henri-Marie de Lubac, teologo gesuita e poi cardinale, fra questi protagonisti della storia recente influenzati dal gioachimismo abbiamo[8]: papa Giovanni XXIII con la sua invocazione a <<una nuova Pentecoste», contrapponendo lo «spirito» del Concilio alla sua «lettera» e nuova Chiesa «spirituale» al posto di quella vecchia «carnale»; la <<Chiesa dei poveri>> del cardinale Giacomo Lercaro e del suo teologo don Giuseppe Dossetti, la corrente intellettuale dominante nel cattolicesimo italiano della seconda metà del secolo XX; Ignazio Silone su papa Celestino V, «figlio degli Abruzzi e di un cattolicesimo popolare impregnato di gioachimismo»; la "teologia della speranza" del gesuita Michel de Certeau e del protestante Jürgen Moltmann, ispirate dalle concezioni escatologiche di Ernst Bloch. Barack Obama fece del pensiero di Gioacchino da Fiore, un punto di riferimento: il presidente degli Stati Uniti d'America Barack Obama, nella stesura della sua tesi di laurea, lo citò a più riprese durante la sua campagna elettorale per le presidenziali[9], che definisce come "maestro della civilta' contemporanea" e "ispiratore di un mondo più giusto", usato non come citazione generica ma con specifico riferimento al moto "change we can", <<per indicare la necessità di un cambiamento radicale della storia.[...], citando il portabandiera di una società più giusta, e pensando all'apertura di un'epoca straordinaria, in cui lo spirito riuscirà a cambiare il cuore degli uomini>> Centro Internazionale Studi Gioachimiti Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Centro Internazionale di Studi Gioachimiti. Il Centro Internazionale Studi Gioachimiti cura l'edizione critica delle opere scritte da Gioacchino da Fiore, conservate in diversi codici manoscritti sparsi in diversi luoghi del mondo. Esso opera attraverso un Comitato Scientifico Internazionale e un Comitato Editoriale Internazionale e promuove ogni cinque anni un Congresso Internazionale di Studi a tema, relativo a Gioacchino dal Fiore e al Gioachimismo. A cadenza annuale stampa la rivista Florensia che contiene studi connessi a Gioacchino e al Gioachimismo.  Causa di Beatificazione e celebrazioni dell'VIII centenario della morte Nel 2001 l'arcivescovo di Cosenza-Bisignano Giuseppe Agostino ha riaperto il processo di canonizzazione. Nello stesso anno il Ministero per i Beni e le Attività Culturali ha istituito il Comitato per le celebrazioni dell'VIII centenario della morte dell'Abate Gioacchino da Fiore per promuovere la conoscenza di Gioacchino e del suo pensiero. Il programma fu redatto da Cosimo Damiano Fonseca, Professore di Storia Medioevale all'Università degli Studi di Bari, Accademico dei Lincei e direttore del Comitato scientifico del Centro Internazionale Studi Gioachimiti. Il comitato che ha agito, ha promosso tre congressi:  il primo itinerante da Roma a San Giovanni in Fiore, passando per Casamari, Fossanova, Anagni, Cosenza, Luzzi e Pietrafitta, il secondo a Bari, il terzo a Palermo. Il Comitato per le Celebrazioni ha anche promosso l'edizione della raccolta dei Codici Gioachimiti, l'Atlante delle Fondazioni Florensi, un libro sulle vicende dell'Ordine Florense, un altro relativo ai Vaticini, conservati presso la biblioteca del duomo di Monreale.  Gioacchino da Fiore e il Carattere Meridiano del Movimento Francescano in Calabria Editor il testo Luca Parisoli  Note ^ Gustavo Valente "Chiese conventi confraternite e congreghe di Celico e Minnito" Frama Sud ^ Pasquale Lopetrone, La Domus che dicitur mater omnia, soveria Mannelli, Rubbettino, 2006. ^ Il tempo dell'apocalisse, Lopetrone, San Martino di Giove a Canale di Pietrafitta-restauri, San Giovanni in Fiore, Pubblisfera, Gioacchino da Fiore - Manuale di storia della filosofia medievale ^ S. Magister, Riletture. Su Gioacchino da Fiore non tramonta mai il sole, chiesa.espressonline.it, Filmato audio Giovanni Giraldi, Giovanni Giraldi: dialogo con De Lubac su Gioacchino Da Fiore, su YouTube, H. De Lubac, Posterità spirituale di Gioacchino da Fiore, II. Da Saint-Simon ai nostri giorni", Jaca Book, Milano, L'eretico obamita-Il profeta democratico si ispira a Gioacchino da Fiore, mistico medioevale Con la sua idea (fraintesa) del paradiso in terra aveva irretito la modernità, su il Foglio, di Mattia Ferraresi USA: DON BAGET BOZZO, INTERESSANTE CHE OBAMA CITI GIOACCHINO DA FIORE-una finezza culturale che vorrei capire meglio, di don Gianni Baget Bozzo, a Adnkronos, Roma. Bibliografia: Gioacchino da Fiore, Sull'Apocalisse, (a cura di Andrea Tagliapietra), Feltrinelli, Milano, Gioacchino da Fiore, Introduzione all'Apocalisse, (prefazione di Kurt-Victor Selge, traduzione di Gian Luca Potestà), Viella, Roma, 1996. Gioacchino da Fiore, Commento ad una profezia ignota, (a cura di Matthias Kaup, traduzione di Gian Luca Potestà), Viella, Roma, 1999. Gioacchino da Fiore, Trattato sui quattro vangeli, (a cura Gian Luca Potestà, traduzione di Letizia Pellegrini), Viella, Roma, 1999. Gioacchino da Fiore, Dialoghi sulla prescienza divina e predestinazione degli eletti, (a cura di Gian Luca Potestà), Viella, Roma, 2001. Gioacchino da Fiore, Il Salterio a dieci corde, (a cura di Fabio Troncarelli), Viella, Roma, Gioacchino da Fiore, Sermoni, (a cura di Valeria de Fraja), Viella, Roma, 2007. Gioacchino da Fiore, I sette sigilli/De septem sigillis, (a cura di J.E. Wannenmacher, traduzione di Alfredo Gatto), con un saggio di Andrea Tagliapietra, Mimesis, Milano, Studi Antonio Maria Adorisio, La “leggenda” del santo di Fiore / Beati Ioachimi abbatis miracula, Vechiarelli, Manziana, 1989. Ernesto Buonaiuti, Gioacchino da Fiore: i tempi, la vita, il messaggio, Collezione meridionale, Roma, Carmelo Ciccia, Dante e Gioachino da Fiore, in “La sonda”, Roma, dicembre 1970; poi incluso nel libro dello stesso autore Impressioni e commenti, Virgilio, Milano, Carmelo Ciccia, Dante e Gioacchino da Fiore, con postfazione di Giorgio Ronconi, Pellegrini, Cosenza, 1997. Carmelo Ciccia, La santità di Gioacchino da Fiore (Par. XII), in Allegorie e simboli nel Purgatorio e altri studi su Dante, Pellegrini, Cosenza, Carmelo Ciccia, Saggi su Dante e altri scrittori: Gioacchino da Fiore..., Pellegrini, Cosenza, Luigi Costanzo, Il profeta calabrese, Direzione della Nuova Antologia, Roma, Antonio Crocco, Gioacchino da Fiore e il gioachimismo, Liguori, Napoli, Francesco D'Elia, Gioacchino da Fiore un maestro della civiltà europea- antologia dei testi gioachimiti tradotti e commentati-, Rubbettino, Soveria Mannelli, Valeria de Fraja (a cura di), Atlante delle fondazioni Florensi, vol. II, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli, 2006. Valeria de Fraja, Oltre Cîteaux. Gioacchino da Fiore e l'ordine florense, Viella, Pietro De Leo, Gioacchino da Fiore: aspetti inediti della vita e delle opere, Rubbettino, Soveria Mannelli, Henri de Lubac, La posterità spirituale di Gioacchino da Fiore, Jaca Book, Milano, Francesco Foberti, Gioacchino da Fiore, Sansoni, Firenze, 1934. Enzo Gabrieli, Una Fiamma che brilla ancora, La Fama sanctitatis dell'Abate Gioacchino, Comet Editor Press, Cosenza, 2010. Herbert Grundmann, Studien uber Joachim von Floris, Leipzig-Berlin, Herbert Grundmann, Gioacchino da Fiore. Vita e opere, a cura di G. L. Potestà, traduzione di S. Sorrentino, Viella, 1997. Pasquale Lopetrone, Monastero di San Giovanni in Fiore-Repertorio del cartulario, S. Giovanni in Fiore, Edizioni Pubblisfera, 1999. Pasquale Lopetrone, La cripta dell’archicenobio florense: strutture originarie e superfetazioni storiche, in «Florensia», Bollettino del Centro Internazionale Studi Gioachimiti, Comunicazioni al 5º Congresso Internazionale di Studi Gioachimiti – San Giovanni in Fiore- Settembre 1999, Gioacchino da Fiore tra Bernardo di Clarvaux e Innocenzo III», Edizioni Dedalo, Bari, Pasquale Lopetrone, La chiesa abbaziale florense di San Giovanni in Fiore, Librare, Pasquale Lopetrone, La localizzazione del protomonastero di Fiore. Cronaca dell’attività ricognitiva in «Florensia», Bollettino del Centro Internazionale Studi Gioachimiti, Pasquale Lopetrone, Il proto monastero florense di Fiore, origine, fondazione, vita, distruzione, ritrovamento, in «Abate Gioacchino» Organo trimestrale per la causa di canonizzazione del Servo di Dio Gioacchino da Fiore, Tipografia grafica cosentina, Cosenza, Pasquale Lopetrone, La «Domus que dicitur mater omnium» - Genesi architettonica del proto Tempio del Monasterium florense, in (a cura di) C. D. Fonseca, D. Rubis, F. Sogliano, Jure Vetere. Ricerche archeologiche nella prima fondazione monastica di Gioacchino da Fiore, Rubettino, Soveria Mannelli, Pasquale Lopetrone (a cura di), Atlante delle fondazioni Florensi, vol. I, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli, P. Lopetrone, L’architettura florense delle origini, in AA. VV., Gioacchino da Fiore, Librare, S. Giov. in F. Pasquale Lopetrone, La chiesa dell’archicenobio florense di San Giovanni in Fiore- Cronologia, in «Abate Gioacchino» Organo trimestrale per la causa di canonizzazione del Servo di Dio Gioacchino da Fiore, Tipografia grafica cosentina, Cosenza, Pasquale Lopetrone, Il modello della Chiesa Florense sangiovannese, in (a cura di) C. D. Fonseca, I Luoghi di Gioacchino da Fiore- Atti del primo Convegno internazionale di studio- Casamari, Fossanova, Carlopoli-Corazzo, Luzzi-Sambucina, Celico, Pietrafitta- Canale, San Giovanni in Fiore, Cosenza, Viella, Roma, Pasquale Lopetrone, Il Cristo fotoforo florense Pubblisfera, San Giovanni in Fiore, Pasquale Lopetrone L'effigie dell'abate Gioacchino da Fiore, in VIVARIUM - Rivista di Scienze Teologiche- Anno XX- n.3, Pubblisfera, San Giovanni in Fiore (Cs) Pasquale Lopetrone, San Martino di Giove a Canale di Pietrafitta-restauri, Pubblisfera, San Giovanni in Fiore (CS) Pasquale Lopetrone, Le prime fondazioni florensi in D. Dattilo (a cura di), Agger bruttius. Civiltà dell’interno, Ferrari editore, Rossano,  Stella Marega, Un simbolo nella storia. Il contributo alla riscoperta di Gioacchino da Fiore in Sacrum Imperium, in Heliopolis. Culture, civiltà, politica, anno XI, n. 1, pp. 40-51. Stella Marega, Gioacchino da Fiore, in Heliopolis. Culture, civiltà, politica, H. W. Pfeiffer, La Sistina Svelata, Libreria Editrice Vaticana, Roma, 2007. Salvatore Piccoli, «L'Abbazia di Corazzo e Gioacchino da Fiore», Calabria Edizioni, Lamezia Terme, 2010 seconda edizione ampliata. Antonio Piromalli, Gioacchino da Fiore e Dante, Rubbettino, Soveria Mannelli, Gian Luca Potestà, Il Tempo dell'apocalisse - Vita di Gioacchino da Fiore, Laterza, Bari, 2004. Alfredo Prisco, Nuove scoperte sulle figure, sulle parole e sulle pietre di Gioacchino da Fiore, Pubblisfera 2013 Franco Prosperi, Gioacchino da Fiore e le sculture del Duomo di Assisi, Dimensione Grafica Editrice, 2003. Marjorie Reeves e Warwick Gould, Gioacchino da Fiore e il mito dell'evangelo eterno nella cultura europea, Viella, 2000. Matthias Riedl (ed.), A Companion to Joachim of Fiore, Leiden, Brill, Francesco Russo, Bibliografia gioachimita, L. S. Olschki, Firenze, 1954. Antonio Staglianò, L'abate calabrese: fede cattolica nella Trinità e pensiero teologico della storia in Gioacchino da Fiore; presentazione di Gianfranco Ravasi, postfazione di Piero Coda, Libreria editrice vaticana, Città del Vaticano, Andrea Tagliapietra, Gioacchino da Fiore e la filosofia, il Prato, Saonara, Leone Tondelli, Il libro delle figure dell'abate Gioachino da Fiore, 2 voll. (in collaborazione con Marjorie E. Reeves e Beatrice Hirsch-Reich), S.E.I., Torino, 1953 (1ª edizione 1940). Fabio Troncarelli, Il ricordo del futuro-Gioacchino da Fiore e il gioachimismo attraverso la storia, Adda Editore, 2006. Voci correlate Ordine Florense Abbazia Florense Ernesto Buonaiuti Herbert Grundmann Leone Tondelli Antonio Piromalli Gioachimismo Giovanni apostolo ed evangelista Riforma spirituale medioevale. Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su Wikidata Gioacchino da Fiore, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Gioacchino da Fiore, in Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Gioacchino da Fiore, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su Wikidata Raniero Orioli, Gioacchino da Fiore, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Gioacchino da Fiore, su ALCUIN, Università di Ratisbona. Modifica su Wikidata Opere di Gioacchino da Fiore / Gioacchino da Fiore (altra versione), su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Gioacchino da Fiore, su Open Library, Internet Archive. Bibliografia su Gioacchino da Fiore, su Les Archives de littérature du Moyen Âge. Modifica su Wikidata (EN) Gioacchino da Fiore, in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton Company. Modifica su Wikidata Gioacchino da Fiore, su Santi, beati e testimoni, santiebeati.it.Centro Studi Gioachimiti, su centrostudigioachimiti.it. Lettera dal Vaticano Neo-Gioacchimismo, su stereo-denken.de. Gioacchino e i “duo viri”. Una profezia per immagini, su esplorazionicosentine.wordpress.com.  I TEMPI   Il mezzogiorno d'Italia nel secolo xii . » i   Le condizioni politiche . » 3   Normanni . " 5   Bizantini. " 3 °   Musulmani. “ 44   Svevi ..;. “ 5 2   I Pontefici. " 66   Le condizioni religiose . » 75   Tradizioni bizantine. » 77   MonachiSmo benedettino . » 9 1   Riforma cisterciense. “ 97   Gli Ebrei in Calabria. » H 4   Parte Seconda : LA VITA   La leggenda e la storia. » 121   Le fonti canoniche. — Luca. - Giacomo Greco. - La   leggenda ufficiale. " I2 3   Accenni autobiografici. — La vocazione monastica. -  Il monachiSmo del tempo. - La conversione pro¬  fetica . “ *35   I cronisti britannici. » 156   Le opere. — Da Casamari a san Giovanni in Fiore » 169                        258    INDICE    Parte Terza : IL MESSAGGIO   La profezia gioachimita . P a 8 - i8 7   11 Metodo. — La conoscenza biblica. - L’interpreta-   tazione allegorica. - Concordie e analogie .   L’escatologia gioachimita e la teologia economica. —   La Trinità nella storia. - Il passato, il presente,   l’avvenire. - L’avvento del terzo stato . » 2 °4   La Chiesa carnale, la società spirituale. — La scom¬  parsa della Chiesa visibile. - La suprema manife¬  stazione dello Spirito. - Chiesa di oggi e Chiesa di  , . . . » 220  domani.  IPOTESI «GIOACHIMITE» SUGLI AFFRESCHI DI GIOTTO  NELLA BASILICA DI S. CHIARA IN NAPOLI     Estratto dall' «Archivio Storico per le Province Napoletane >,  CXXV dell'intera collezione     SOCIETÀ NAPOLETANA DI STORIA PATRIA  NAPOLI 2007     IPOTESI «GIOACHIMITE» SUGLI AFFRESCHI DI GIOTTO  NELLA BASILICA DI S. CHIARA IN NAPOLI     Mais si l'on voit partout des métaphores  que deviendront les faits?   Gustave Flaubert, Bouvard et Pécuchet     Una delle più suggestive ipotesi in ordine alle motivazioni  della costruzione della grandiosa chiesa esterna del monastero di  S. Chiara a Napoli ed al possibile modello della pianta è stata  avanzata, nel 1995, da Caroline Bruzelius 1 . Secondo questa tesi  Sancia d'Aragona Maiorca, moglie di re Roberto d'Angiò, avrebbe  fondato la basilica ed il convento doppio di S. Chiara per ospitarvi  i «Francescani spirituali», vale a dire i frati appartenenti ad una  frangia rigorista e pauperista dell'Ordine minoritico, avversata dal  Papato e dalla dirigenza dell'Ordine stesso. I Francescani spirituali  si richiamavano, in particolare, anche alle idee del mistico cala-  brese Gioacchino da Fiore (1135-1202), per sostenere la necessità  di una radicale riforma della Chiesa 2 . La basilica di Santa Chiara,  dunque, sarebbe stata «consacrata» intenzionalmente all'ideale  della povertà apostolica 3 , così che le idee degli Spirituali avrebbero  costituito, in sostanza, l'unica giustificazione del progetto e la sola     1 C. Bruzelius, Queen Sancia ofMallorca and the convent church ofS.ta Chiara  in Naples, in «Memoirs of the American Academy in Rome», 40, 1995, pp. 82ss.;  E ad., Le pietre di Napoli. L'architettura religiosa nell'Italia angioina, 1266-1343,  Roma, Viella, 2005, pp. 150-175, edizione integrata rispetto alla precedente inglese  dal titolo The stones of Naples, Church Building in Angevin Italy, 1266-1343, New  Haven-London, Yale University Press, 2004, ove le ipotesi avanzate nel 1995 ven-  gono riprese, ribadite ed articolatamente argomentate.   2 Si denominavano «spirituali» appunto perché viri spirituales, e cioè eletti  destinati a vivere il terzo stato della storia, quello dello Spirito, così come teorizzato  da Gioacchino da Fiore.   3 Bruzelius, Le pietre, eh., p. 151.     36 MARIO GAGLIONE   chiave di lettura dell'edificio. Esisterebbe, in particolare, un pre-  ciso rapporto tra la semplicissima pianta rettangolare della basilica  napoletana ed una delle figurae del Liber figurarum, una raccolta di  schemi miniati utilizzati sia per l'esplicazione delle teorie storico-  teologiche di Gioacchino che per l'esercizio di pratiche contempla-  tive e mistiche. La pianta rettangolare della chiesa napoletana  costituirebbe così, secondo tale tesi, una vera e propria citazione  della figura XVIII del codice del Seminario urbano di Reggio Emi-  lia del Liber 4 . L'area presbiteriale della basilica con il coro dei frati  sarebbe stata, anzitutto, ricalcata sullo spazio simbolico corrispon-  dente nella figura al Tertius status, quello dello Spirito Santo, nel-  l'ambito della settima ed ultima Età della storia del mondo. In  questa stessa Età si sarebbe giunti a quella rigenerazione della  Chiesa 5 che era tanto attesa e propagandata dai Francescani spiri-  tuali. L'oratorio delle Clarisse, invece, avrebbe occupato lo spazio  riservato, sempre nel diagramma gioachimita, Poetava aetas, quel-  la ormai metastorica iniziata con la Resurrezione dei morti e carat-  terizzata dalla rivelazione della Gerusalemme celeste e dalla finale  visione della Pace.   Tale tesi, pur avendo conseguito un ampio consenso 6 , ha susci-  tato altresì rilievi e critiche soprattutto con riguardo agli effettivi  contenuti del filospiritualismo dei due sovrani ed alla verosimi-  glianza storica della pretesa celebrazione monumentale, nella basi-     4 Cfr. L. Tondelli, M. Reeves, B. Hirsch-Reich, Il Libro delle Figure del-  l'abate Gioachino da Fiore, Torino, SEI, 1953, voi. II, tav. XVIIIa.   5 Bruzelius, Le pietre, cit., p. 165.   6 Cfr. infatti M. Righetti Tosti Croce, Architettura tra Roma, Napoli e  Avignone nel Trecento, in Roma, Napoli, Avignone. Arte di Curia, Arte di Corte,  1300-1377, a cura di A. Tornei, Torino, SEAT, 1996, pp. 110-111; R.G. Musto,  Franciscan Joachimism, at the court ofNaples, 1309-1341: a new appraisal, in «Archi-  vimi Franciscanum Historicum», 90, 1997, pp. 419-422; C. Freigang, Kathedralen  ah Mendikantenkirchen. Zur politischen Ikonographie der Sakralarchitektur unter Karl  L, Karl IL und Robert dem Weisen, in Medien der Macht: Kunst zur Zeit der Anjous in  Italien, Berlin, Reimer, 2001, pp. 51-52; V.M. Mattano, La Basilica angioina di S.  Chiara a Napoli. Apocalittica ed escatologia, Napoli, La Città del Sole, 2003; C.  Bozzoni, Recensione a C. Bruzelius, Le pietre di Napoli..., in «Palladio», n. s. 19,  2006, pp. 129-132. Analogamente a quanto si sarebbe verificato per S. Chiara a  Napoli, la simbologia gioachimita della Figura delle Età del mondo avrebbe anche  ispirato, direttamente o indirettamente, le piante di alcune chiese francescane della  Calabria a partire da S. Francesco a Gerace, e cfr. M. Albano, L'Abbazia florense di  S. Maria di Fontelaureato a Fiumefreddo Bruzio, in «Arte Medievale», II, 2003, p. 61,  p. 69; A. Spanò, Insediamenti Francescani nella Calabria angioina. Il paradigma Gerace,  Soveria Mannelli, Città Calabria edizioni, 2006, pp. 80ss.     IPOTESI «GIOACHIMITE» SUGLI AFFRESCHI DI GIOTTO 37   lica napoletana, della teoria della storia elaborata da Gioacchino e  sostenuta dagli Spirituali 7 .   Comunque, altre conferme della tesi della derivazione gioachi-  mita della pianta della chiesa francescana sono state individuate, più  di recente, nell'ambito di una importante e preziosa monografia  dedicata all' attività di Giotto a Napoli 8 . Nel saggio appena menzio-  nato, seguendo la lettura proposta dalla Bruzelius, si sostiene che,  conformemente allo schema della Figura XVIII del Liber, che viene  definita «tavola di concordanza (Concordia) fra i secoli e i tempi,  con i tre stati e le otto età» 9 , Giotto e la sua bottega, riferendosi al  Nuovo Testamento, abbiano dipinto alcuni episodi della Vita di  Cristo nelle cappelle della navata sinistra della basilica. In quelle  poste nella navata destra, invece, il Maestro avrebbe realizzato  scene dell'Antico Testamento, ed, in particolare, Storie di Adamo,  Noè, Abramo e Davide e, forse, anche della Creazione, di Giuseppe,  di Mosè, di Sansone e di Salomone. Nelle cappelle di entrambe le  navate queste scene sarebbero state articolate in quattro o, addirit-  tura, in sei riquadri per ciascuna cappella 10 .   E evidente che l'interpretazione della Figura del Liber nei ter-  mini appena esposti viene ad essere principalmente addotta quale  conferma «esterna» della notizia, riferita da Giorgio Vasari, secondo  la quale Giotto, appena giunto a Napoli da Firenze «dipinse in  alcune capelle del detto monasterio [di S. Chiara] molte Storie del-  l'Antico Testamento e Nuovo» 11 . Questa stessa notizia è stata in-     7 Per tali critiche si rinvia a M. Gaglione, Qualche ipotesi e molti dubbi su due  fondazioni angioine a Napoli: S. Chiara e S. Croce di Palazzo, in «Campania sacra», 33,  2002, pp. 61-108; Id., Allusioni gioachimite nella basilica angioina di Santa Chiara a  Napoli?, in «Studi storici», 45, 2004, pp. 280-288; Id., La basilica ed il monastero  doppio di S. Chiara a Napoli in studi recenti, in «Archivio per la Storia delle Donne»,  4, 2007, pp. 127-198.   8 P. Leone de Castris, Giotto a Napoli, Napoli, Electa, 2006, pp. 125ss., il  quale riprende anche osservazioni di Mattano, La Basilica angioina di S. Chiara a  Napoli, cit., pp. 49ss.; pp. 83ss.; pp. HOss.   9 Leone de Castris, Giotto a Napoli, cit., p. 116, fig. 64.   10 Leone de Castris, Giotto a Napoli, cit., pp. 131-133, p. 151.   11 L'Edizione Giuntina delle Vite (1568) precisa: «Dopo, essendo Giotto  ritornato in Firenze, Ruberto re di Napoli scrisse a Carlo duca di Calavria suo  primogenito, il quale se trovava in Firenze, che per ogni modo gli mandasse Giotto  a Napoli, perciò che, avendo finito di fabricare S. Chiara, monasterio di donne e  chiesa reale, voleva che da lui fusse di nobile pittura adornata. Giotto adunque,  sentendosi da un re tanto lodato e famoso chiamar [e], andò più che volentieri a  servirlo, e giunto dipinse in alcune capelle del detto monasterio molte storie del  Vecchio Testamento e Nuovo. E le storie de l'Apocalisse ch'e' fece in una di dette     38 MARIO GAGLIONE   vece oggetto di ampio dibattito, non essendo mancato infatti chi,  sulla base di varie considerazioni, ha circoscritto l'intervento di  Giotto piuttosto al solo coro delle Clarisse, escludendo che il Mae-  stro abbia potuto operare anche nelle cappelle della chiesa esterna di  S. Chiara 12 . Infine, sempre nell'ambito della citata monografia, si è  sostenuto che la derivazione della pianta della basilica dalla menzio-  nata Figura risulterebbe più che probabile, poiché lo stesso Liber  Figurarum sarebbe stato ben conosciuto alla corte angioina. Infatti,  alcuni testimoni dell'opera e, in particolare, i manoscritti Vaticano  Latino 3822 e 4860, risulterebbero di fattura meridionale proprio  come il codice di Oxford, forse miniato nello scriptorìum di S. Gio-  vanni in Fiore. In particolare, le miniature del ms. Vat. Lat. 4860  rinvierebbero «alla speciosa cultura umbro-cavalliniana maturata a  Napoli» da Lello da Orvieto, Cristoforo Orimina e dall'anonimo Mae-  stro delle Tempere Francescane, con datazione intorno al 1330 13 . Ad  ogni modo, Sancia e Roberto avrebbero potuto conoscere l'opera an-  che in Provenza e nella Francia meridionale, ove si trovarono in di-     capelle furono, per quanto si dice, invenzione di Dante, come per avventura furono  anco quelle tanto lodate d'Ascesi delle quali si è di sopra abastanza favellato; e se  ben Dante in questo tempo era morto, potevano averne avuto, come spesso avviene  fra gl'amici, ragionamento». L'Edizione Torrentiniana (1550) invece: «Fu chiamato  a Napoli dal re Ruberto, il quale gli fece fare in Santa Chiara, chiesa reale edificata  da lui, alcune cappelle nelle quali molte storie del Vecchio e Nuovo Testamento si  veggono, dove ancora in una cappella sono molte storie dell'Apocalisse, ordinategli,  per quanto si dice, da Dante, fuoruscito allora di Firenze e condotto in Napoli  anch'egli per le parti», e cfr. l'edizione digitale sinottica curata del Centro di Ricerche  Informatiche per i Beni Culturali della Scuola Normale Superiore di Pisa, all'indirizzo  <ht tp ://biblio . cribecu . sns . it/vas ari/consult azione/V as ari/indice . html> (ultima con-  sultazione: 30 novembre 2007).   12 Cfr. F. Aceto, Pittori e documenti della Napoli angioina: aggiunte ed espun-  zioni, in «Prospettiva», 67, 1992, pp. 53ss. Per l'esame e la discussione delle diverse  posizioni: Leone de Castris, Giotto a Napoli, cit., pp. 85ss., che, riguardo agli altri  dipinti realizzati da Giotto a S. Chiara, ritiene che nell'area presbiteriale della chiesa,  alle spalle dell'altare maggiore e del coro dei frati ed in corrispondenza della Croce  della Deposizione affrescata dall'altra parte del muro nel coro delle Clarisse, dovesse  invece essere l'Apocalisse ricordata dallo stesso Vasari. Questo grande affresco era  stato probabilmente eseguito nei due riquadri posti ai lati della quadrifora centrale che  si apre nella parete divisoria tra la chiesa esterna e l'oratorio delle monache. Proprio  sulla stessa parete divisoria, dal lato dell'oratorio, era affrescato appunto il" Compianto  sul Cristo morto e le altre storie cristologiche, tra le quali, verosimilmente, una  Resurrezione ed un Cristo giudice. Infine, tornando alla chiesa esterna, anche il para-  petto delle tribune era affrescato ma con figure di Angeli e di Profeti, mentre le pareti  superiori, probabilmente, non erano dipinte, e cfr. Id., ivi, pp. 129, 133, 151.   13 Leone de Castris, Giotto a Napoli, cit., p. 146, figg. 115-116.     IPOTESI «GIOACHIMITE» SUGLI AFFRESCHI DI GIOTTO 39   verse occasioni ed ove, appunto, i diagrammi gioachimiti erano certa-  mente diffusi.   E fin qui l'importante contributo sulla presenza e sull'attività  di Giotto a Napoli.   Partendo dall' asserita fattura meridionale dei citati codici Va-  ticani Latini, fattura che costituirebbe un indizio della possibile  circolazione degli stessi a Napoli e presso la corte angioina, occorre  rilevare che l'origine e la datazione di questi manoscritti è partico-  larmente controversa. Mentre il ms. Vat. Lat. 4860 è stato varia-  mente datato tra il secolo XIII e la prima metà del secolo XIV, e lo  si è altresì ritenuto «codice di ambiente benedettino-olivetano pa-  dovano» opera di un miniatore bolognese, il ms. Vat. Lat. 3822 è  stato invece datato piuttosto concordemente alla fine del secolo  XIII, mentre ne è dibattuta l'area di produzione: Parigi o l'area  francese^ l'area genericamente italiana, o più specificamente sici-  liana 14 . E necessario ricordare poi che il ms. Vat. Lat. 4860 non  contiene la Figura delle «Sette età», dalla quale si pretende sia stata  ricavata la pianta di S. Chiara e sia derivato il soggetto degli affre-  schi che sarebbero stati eseguiti da Giotto nella chiesa esterna 15 . La  stessa Figura manca poi anche nel ms. Vat. Lat. 3822 16 . La suppo-     14 Quanto al ms. Vat. Lat. 4860, contenente estratti da opere diverse di  Gioacchino, la datazione al secolo XIII è stata sostenuta da Bignami Odier, Hirsch  Reich, Reeves e Daniel, che lo assegnano ad un estensore francescano. La datazione  alla prima metà del secolo XIV, invece, è stata sostenuta da Kaup, Troncarelli e De  Fraja. In particolare, Wessley e Troncarelli parlano di «codice di ambiente bene-  dettino-olivetano padovano» opera di un miniatore bolognese. Quanto all'origine  del ms. Vat. Lat. 3822, contenente anch'esso opere varie di Gioacchino, Troncarelli  propende per Parigi o per l'area francese, mentre Bignami Odier, Hirsch Reich e  Reeves propendono genericamente per l'area italiana, infine, all'area siciliana pensa  Patschovsky, e cfr. M. Rainini, Disegni dei tempi. Il «Liber Figurarum» e la teologia  figurativa di Gioacchino da Fiore, Roma, Viella, 2006, pp. 268-273.   15 Questo codice, infatti, ai ff. 198r-204v, comprende un abbozzo del dia-  gramma delle Rotae di Ez. 1, e dei diagrammi degli alberi delle generazioni discen-  denti, del drago apocalittico, del misterium ecclesiae, dei tre cerchi trinitari, della  dispositio novi ordinis, degli alberi-scala rappresentativi dei tre status e, di nuovo, dei  cerchi trinitari, ed è accompagnato da cinque fogli vuoti che avrebbero potuto  accogliere almeno altre dieci tavole di diagrammi, circostanza questa che conferma  che l'opera non era stata portata a termine, e rende improbabile l'eventuale suppo-  sizione di un testo incompleto perché privato, nel corso del tempo, di alcune delle  tavole originarie, e cfr. Rainini, Disegni dei tempi, cit., pp. 269-270.   16 II codice, infatti, ai ff . 2v-3r, 4v-5r, 7r-8r, reca i diagrammi delle genera-  zioni ascendenti, del draco magnus et rufus, del tetragrammaton e diverse versioni dei  tre cerchi, e cfr. Rainini, Disegni dei tempi, cit., pp. 272-273.     40 MARIO GAGLIONE   sizione dell'esecuzione delle miniature in ambiente meridionale non  può inoltre implicare necessariamente anche una diffusione del Li-  ber alla corte angioina. Quanto infine alla possibile conoscenza del-  l'opera da parte dei sovrani nel periodo in cui si trovarono in Fran-  cia, si tratta di una mera ipotesi, non suffragata, allo stato, da alcun  indizio o prova.   C'è in realtà da chiedersi se effettivamente la più volte citata  Figura XVIII del codice Reggiano del Liber abbia i contenuti «con-  cordistici» che vi sono stati da ultimo individuati.   Occorre anzitutto premettere che per «concordia», nell'ambito  delle opere e delle teorie di Gioacchino, deve intendersi «la corri-  spondenza simmetrica tra gli avvenimenti narrati nell'Antico Testa-  mento per il popolo di Israele e quelli raccontati e prefigurati nel  Nuovo Testamento... per il nuovo Israele della Chiesa» 17 .   La Figura in esame del Liber Figurarum reca, al centro, il già  citato diagramma rettangolare e, ai margini, un testo fittamente  manoscritto (cfr. fig. 1). Tale testo, la cui traduzione può leggersi  in appendice a questa nota, è tratto dal libro V della Concordia Novi  ac Veteris Testamenti, opera di Gioacchino da Fiore tradita dal co-  dice Urbinate Latino 8 della Biblioteca Apostolica Vaticana. Più  precisamente è riportato il passo posto tra la I e la II distinctio,  destinato ad essere illustrato da una Figura esplicativa che manca  nel manoscritto Urbinate Latino, e che viene in genere identificata  proprio nella citata tavola XVIII del Liber Figurarum 18 .   Orbene, il libro V della Concordia, dal quale è desunto il com-     17 Rainini, Disegni dei tempi, cit., p. 85. La più nota definizione gioachimita  della concordia è la seguente: «Concordiam proprie dicimus similitudinem eque  proportionis novi ac ueteris testamenti, eque dico quo ad numerum non quo ad  dignitatem; cum uidelicet persona et persona, ordo et ordo, bellum et bellum ex  parilitate quidam mutuis se uultibus intuentur», e, cioè, «chiamiamo propriamente  «concordia» la somiglianza di equa proporzione di Nuovo e Antico Testamento, e  dico equa per quanto riguarda il numero, non per quanto riguardo la dignità: come  se per una certa parità fossero rivolti l'uno di fronte all'altro persona e persona,  ordine e ordine, guerra e guerra», e cfr. ancora Id., ivi, p. 20, p. 33, nota 91.   18 Tondelli, Reeves, Hirsch-Reich, Il Libro delle Figure, cit., voi. I, pp. 84-  87, voi. II, tav. XVIILz, tratta dal codice del Liber conservato presso il Seminario  Vescovile di Reggio Emilia, ms. RI = El. Il codice della Concordia precisa (f. 132v):  «in hac figura declaratur magnum mysterium pertinens quam nimis ad catholicam  fidem...», e, precedentemente, «secundum quod ostenditur in presenti figura...».  Quale tavola XVIII£ Tondelli, Reeves ed Hirsch-Reich, pubblicano una variante  semplificata, forse «non finita», della stessa Figura, tratta dal codice del Corpus  Christi College di Oxford (ms. 255 A), al f. 5r. Nello stesso codice tuttavia, al f.  8v, il diagramma ricompare in forma omogenea a quella della tavola XVIIIa del     IPOTESI «GIOACHIMITE» SUGLI AFFRESCHI DI GIOTTO     41      KJ^^^^^^P^^^Uk:^^      Jr**®'      •■"■'•■' - *'■.■          Fig. 1 - La figura XVIII del Liber figurarum (da Tondelli, Reeves, Hirsch-Reich).     42 MARIO GAGLIONE   mento marginale alla nostra Figura, tratta delle storie principali  dell'Antico Testamento. Per esse viene proposta una interpreta-  zione fondata sull'esegesi spirituale, la quale, secondo Gioacchino,  avrebbe consentito anche di preconizzare gli avvenimenti storici  futuri. In altre parole, il libro V «è un lungo commentario sui libri  storici del Vecchio Testamento» 19 , ed «il suo contenuto è conside-  revolmente diverso» 20 da quello degli altri Libri della Concordia.  Infatti, è piuttosto nei precedenti libri, dal I al IV, che Gioacchino  procede effettivamente ad esaminare o a rinvenire i punti di «con-  cordanza» tra le vicende ed i personaggi narrati nell'Antico e nel  Nuovo Testamento. Nell'ambito del Liber Figurarum, nello stesso  codice di Reggio Emilia, poi, le figure concordatarie sono altresì  contenute piuttosto nelle tavole IX e X, e, soprattutto, nelle tavole  III e IV, da esaminare sinotticamente, ed appunto denominate Con-  cordia Veteris Testamenti et Novi 21 . In particolare, in queste due  ultime tavole è tracciato un dettagliato raffronto tra i personaggi e  gli episodi dei due Testamenti, ad esempio tra Adamo ed Azarias,  Abramo e Zaccaria, Isacco o Elia e Giovanni Battista, Giacobbe e  Cristo e cosi via. Proprio per quanto appena rilevato la Figura XVIII  è stata quindi designata come tavola delle «Età del mondo» 22 , delle  «Sette età del mondo» 23 ovvero delle «Sette età» 24 .     codice di Reggio Emilia, e cfr. Rainini, Il «Liber Figurarum» nel manoscritto Oxford,  Corpus Christi College, ms. 255 A (=0), in Id., Disegni dei tempi, cit.   19 A. Tagliapietra, Opere principali, in G. da Fiore, Sull'Apocalisse, Milano,  Feltrinelli, 1994, pp. 76ss.   20 Cfr. E.R. Daniel, Abbott Joachim of Flore, Liber de Concordia Noui ac  Veteris Testamenti, Philadelphia, The American Philosophical Society, 1983, p.  XXII, il quale, appunto, osserva: «not only is Book Five longer than the first four  Books together, but its content is considerably different from theirs». Le peculiarità  del libro V rispetto ai precedenti sono precisate dallo stesso Gioacchino: «etenim in  hiis quatuor libris parum agitur secundum spiritum, magis secundum litteram, hoc est  secundum concordiam littere et littere, scilicet duorum testamentorum...oportet nos  in hoc quinto libro de quibusdam gestis sollempnibus que occurrerint spiritualiter  agere ut ex multis testimoniis ostendamus laboriosos rerum fines et post magnos  agones et certamina pacem uictoribus impartiri» (Concordia, V, 1).   21 Tagliapietra, Opere principali, cit., p. 102.   22 Tondelli, Reeves, Hirsch-Reich, Il Libro delle Figure, cit., voi. I, p. 84.   23 A. Crocco, Liber Figurarum, Ms. Reggiano (RI), tav. XVIII (Biblioteca del  Seminario di Reggio Emilia). Le «sette età» del mondo, in L'Età dello Spirito e la fine  dei tempi in Gioacchino da Fiore e nel Gioachimismo medievale, Atti del II congresso  internazionale di studi gioachimiti, S. Giovanni in Fiore, Centro Internazionale di  Studi Gioachimiti, 1986, p. 8.   24 Rainini, Il «Liber Figurarum», cit., loc. ult. cit.     IPOTESI «GIOACHIMITE» SUGLI AFFRESCHI DI GIOTTO 43   La tavola XVIII del Liber ha infatti, principalmente, lo scopo  di illustrare la teoria escatologica della storia elaborata da Gioac-  chino ed incentrata sul susseguirsi di secula, tempora ed etates in  una prospettiva strettamente trinitaria, che conferisce unitarietà  alla storia stessa 25 . Rifacendosi dunque innegabilmente alla divi-  sione settenaria delle età della storia già teorizzata da Sant'Ago-  stino, Gioacchino colloca in modo originale la settima età, quella  cioè del raggiungimento della pax vera, della perfecta iustitia e della  plenìtudo veritatis et libertatis, entro il corso storico, aggiungendo  poi una Octava aetas quale «stadio finale ed eterno della storia  umana». Perciò la figura XVIII del Liber è suddivisa in un fregio  inferiore, rappresentante i sette secula dell'Età del Padre, in un  fregio superiore, che illustra i sette tempora dell'Età del Figlio, e  infine in una parte centrale raffigurante le sette Età del mondo, la  settima delle quali, corrispondente al momento storico in cui vi-  veva Gioacchino {tempus praesens), sarebbe sfociata nel Tertius sta-  tus dello Spirito Santo, cui, in conclusione, avrebbe fatto seguito,  appunto, Y Octava aetas 26 .   Ma passiamo a leggere le brevi iscrizioni che illustrano il dia-  gramma rettangolare centrale della Figura XVIII, riprodotta nella  figura 1 posta a corredo di questa stessa nota. Occorre precisare che  il diagramma deve essere esaminato trasversalmente, nel senso del  lato maggiore del rettangolo, da sinistra a destra e dal basso all'alto,  mentre il testo tratto dalla Concordia e trascritto ai margini risulta  vergato in senso perpendicolare al diagramma stesso.   Partendo dunque dal basso, rileviamo nell'ordine, nel fregio  inferiore {secula):   a) primum seculum, Adam genera tiones X, secundum seculum,  Noe generationes X, tertium seculum, Abraam generationes  X, quartum seculum, Booz generationes X, quintum seculum,  Joiada generationes X, sextum seculum, ]eremia generationes X,  septimum seculum, Zacharia sacerdos, sabbatum, adventus Spi-  riti Sane ti, septima etas;   b) initiatio primi stati, primum status, secundum status, tertium  status;     25 Tondelli, Reeves, Hirsch-Reich, Il Libro delle Figure, cit., voi. I, pp.  4-87.   26 Cfr. Crocco, Liber Figurarum, Ms. Reggiano (RI), tav, XVIII, cit., pp. 8-10.     44     MARIO GAGLIONE     nel fregio centrale (etates):   a) Adam, Noe, Abraam, Davit, transmigratio Babilonie, lohannes  Baptista, presens tempus;   b) all'interno della tromba: clarificatio Filii, clarificatio Spiriti  Sancii;   e) Etas prima, etas secunda, etas tercia, etas quarta, etas quinta,  etas sexta, etas septima;   nel fregio superiore (tempora):   a) initium Romanorum, Hysaia propheta;   b) initiatio secundi stati, primum tempus, Ozias generationes X,  secundum tempus, Zorobabel, tertium tempus, Christus genera-  tiones X, quartum tempus, generationes X, quintum tempus,  generationes X, sextum tempus, generationes X, septimum tem-  pus;   all'estremità destra del diagramma, dopo la linea divisoria:  a) etas octava, resurrectio mortuorum.   Come può agevolmente notarsi, nessuna delle iscrizioni men-  ziona specificamente l'Antico o il Nuovo Testamento; inoltre, per la  maggior parte, i personaggi citati, e cioè Adamo, Noè, Abramo,  Booz, Ioiadà, Geremia, Davide, Ozias, Zorobabele ed Isaia, rien-  trano nell'Antico Testamento e risultano variamente collocati lungo  tutto il diagramma, sia in basso che al centro, oltre che in alto. Solo  Zaccaria, Giovanni Battista e Cristo rientrano nel Nuovo Testa-  mento. Tuttavia, mentre Cristo è indicato nel fregio superiore della  Figura, che, sovrapponendo la stessa alla pianta di S. Chiara, corri-  sponderebbe alla navata sinistra della basilica guardando l'altare  maggiore, Zaccaria, il sacerdote padre del Battista, è segnato nel  fregio inferiore, dal lato cioè della navata destra della chiesa. Gio-  vanni Battista, infine, è indicato nel fregio centrale, nei pressi della  tuba, della tromba apocalittica. Quindi, le iscrizioni appena ripor-  tate, così come il testo marginale della Concordia, non consentono di  affermare che la Figura XVIII abbia prevalentemente contenuti  concordistici, ovvero che la stessa traduca graficamente concordanze  tra personaggi dei due Testamenti, che risultano infatti variamente  posizionati a destra, a sinistra ed al centro del diagramma. Non vi è,  dunque, alcun elemento che possa indurre a sostenere, almeno lette-  ralmente, né la concentrazione dei personaggi del Nuovo Testamento  nel fregio superiore, né quella dei personaggi dell'Antico nel fregio  inferiore, così da poter «giustificare» la collocazione dei cicli pitto-     IPOTESI «GIOACHIMITE» SUGLI AFFRESCHI DI GIOTTO 45   rici giotteschi corrispondenti, rispettivamente, nella navata sinistra  e nella navata destra della basilica di S. Chiara.   Potrebbe tuttavia sostenersi che la Figura gioachimita abbia  semplicemente costituito una fonte di ispirazione per la scelta del  soggetto dei cicli pittorici da eseguire sulle pareti delle cappelle,  oltre che per l'adozione della pianta dell'edificio, sicché non ci si  dovrebbe aspettare una corrispondenza letterale tra la tavola XVIII  del Liber e l'edificio concretamente realizzato. In altri termini, la  Figura stessa non avrebbe costituito né un programma decorativo,  né un progetto edilizio 27 . Ma a ben vedere, proprio la mancanza di  una tale effettiva corrispondenza, congiuntamente ai seri dubbi  avanzati in ordine alla sua fondatezza storica 28 , rende ancor più  fragile l'ipotesi della «matrice gioachimita» della chiesa di S. Chiara  a Napoli. Un collegamento tanto evanescente con la Figura non  consente infatti di dimostrare in maniera convincente che la pianta  ad aula rettangolare della chiesa napoletana, invece di derivare dalle  analoghe, diffusissime piante delle chiese degli Ordini mendicanti,  discenda proprio dal diagramma gioachimita. Risulta inoltre eviden-  temente impossibile dimostrare che i cicli pittorici dell'Antico e del  Nuovo Testamento, realizzati, secondo il referto vasariano, nella  stessa chiesa esterna, invece di derivare dai numerosi cicli «tipolo-  gici» inaugurati dagli affreschi dell'antica basilica di S. Pietro in  Vaticano, discendano piuttosto dalle speculazioni concordistiche  gioachimite.   Occorre invece chiedersi se, pur abbandonando la discutibile  ipotesi della valenza della Figura XVIII quale modello o fonte di  ispirazione, sia eventualmente sostenibile, in altro modo, una «giu-  stificazione» gioachimita della scelta del programma decorativo di S.  Chiara, incentrato, come si è detto, sulle Storie dell'Antico e del     27 Leone de Castris, ad esempio, osserva che Mattano, nel suo saggio La  Basilica angioina di S. Chiara a Napoli, cit., sovrappone la Figura XVIII del Liber  alla pianta della chiesa «al contrario» rispetto a quanto ipotizzato dalla Bruzelius,  sicché Vociava etas non viene più a corrispondere al coro delle Clarisse, bensì all'area  del sagrato e del vestibolo della chiesa esterna. Questa lettura è stata respinta dallo  stesso Leone de Castris, perché presuppone non «una ispirazione» ma «una volontà  di corrispondenza piena fra la pianta ed il diagramma» derivante da un improprio  «uso del diagramma come «progetto»». In altre parole, almeno per il programma  architettonico, la Figura gioachimita avrebbe costituito piuttosto una fonte di ispi-  razione che un modello seguito letteralmente dai costruttori, e cfr. Leone de Ca-  stris, Giotto a Napoli, cit., pp. 159-160, nota 36.   28 Cfr. i saggi indicati alla precedente nota 7.     46     MARIO GAGLIONE     Nuovo Testamento. Non di rado, infatti, opere di scultura, di pit-  tura e di architettura sono state interpretate proprio facendo riferi-  mento ad una possibile matrice gioachimita.   Ad esempio, il mosaico dell' 'Arbor vitae nell'abside della basilica  di S. Clemente a Roma avrebbe in qualche modo anticipato visiva-  mente l'esegesi gioachimita dell'Apocalisse di San Giovanni e della  Concordia 2 *, mentre un prezioso codice miniato da una bottega avi-  gnonese agli inizi del secolo XIV avrebbe risentito dell'escatologi-  smo e del «concordismo» gioachimita 30 . Influenze delle opere di  Gioacchino sono state rinvenute altresì nella pianta e nella struttura  della stessa abbazia madre dell'Ordine florense a S. Giovanni in  Fiore 31 , nelle sculture della facciata del Duomo di S. Rufino 32 ad  Assisi e negli affreschi della basilica di S. Francesco 33 nella stessa  città.     29 Questa tesi viene avanzata, per la verità, in maniera piuttosto vaga da E.R.  Daniel, Joachim of Fiore: Pattems of History in the Apocalypse, in The Apocalypse in  the Middle Ages, a cura di R. K. Emmerson-B. Me Ginn, Ithaca London, Cornell  University Press, 1992, pp. 72-88; per una lettura teologica ortodossa dei mosaici in  questione cfr. invece J. Barclay Lloyd, A new look at the mosaics of San Clemente,  in Omnia disce: Medieval studies in memory of Léonard Boy le, O.P., a cura di AJ.  Duggan, J. Greatrex, B. Bolton, Ashgate, Aldershot, 2005, pp. llss. D'altra parte  gli stessi mosaici vengono correntemente datati intorno al 1118-1123 quando Gioac-  chino non era ancora nato o era giovanissimo.   30 Si tratta del codice 55. K. 2 (Rossi 17) dell'Accademia Nazionale dei Lincei e  Corsiniana di Roma, e cfr. C. Frugoni, F. Manzari, Immagini di San Francesco in  uno Speculum humanae salvationis del Trecento, Padova, Editrici Francescane,  2006.   31 Cfr. A. Cadei, La chiesa figura del mondo, in Storia e Messaggio in Gioac-  chino da Fiore, Atti dell Congresso internazionale di studi gioachimiti (19-23 settembre  1979), S. Giovanni in Fiore, Centro Internazionale di Studi Gioachimiti, 1980, pp.  352ss., secondo il quale, l'assetto della chiesa abbaziale di S. Giovanni presenta  peculiarità che consentono di parlare di una tipologia gioachimita per Yicnografia  architettonica. Questi suoi connotati specifici, secondo Cadei, sono derivati dalle  tavole XII, XIII e XV del Liher figurarum. Lo stesso Autore non manca poi di  ricordare, a questo proposito, le divergenti opinioni di Leone Tondelli, secondo il  quale la Figura XII ha piuttosto carattere idealistico ed utopico, non risultando che  in nessuno dei monasteri florensi si sia cercato di realizzare tale modello, e di Edith  Pasztor che, invece, vede nel diagramma la pianta concretissima delle strutture  «urbanistiche» del monastero, e cfr. anche V. De Fraja, Oltre Cìteaux. Gioacchino  da Fiore e l'Ordine florense, Roma, Viella, 2006.   32 F. Prosperi, Gioacchino da Fiore e le sculture del Duomo di Assisi, Spello,  Dimensione Grafica, 2003, soprattutto sulla base delle tavole delle Praemissiones di  Gioacchino, tradite dal codice 15 del monastero benedettino di S. Pietro a Perugia,  risalente alla fine del XIII secolo o agli inizi del XIV.   33 F. Prosperi, Gioacchino da Fiore e Frate Elia. Dalle sculture simboliche del     IPOTESI «GIOACHIMITE» SUGLI AFFRESCHI DI GIOTTO     47     ad     Con particolare riguardo proprio alla basilica di S. Francesco si  è affermato 34 che il programma iconografico prescelto per la deco-  razione pittorica della chiesa inferiore così come di quella superiore,  nel 1253, avrebbe dovuto, nelle intenzioni dei committenti, illu-  strare l'inserimento dell'Ordine francescano nella storia del mondo  e della salvezza, storia articolata nelle tre grandi fasi della legge,  della grazia e dello spirito teorizzate da Gioacchino da Fiore e  riprese dai Francescani spirituali. Questi ultimi, infatti, identifica-  rono nel proprio il nuovo Ordine monastico preannunciato da  Gioacchino, individuando in San Francesco Valter Christus, il nuovo  messia, e, nel papa nemico, l'Anticristo. La ricostruzione concordi-  stica della storia operata da Gioacchino da Fiore venne così comple-  tata dai teologi Francescani spirituali in modo tale che «le corrispon-  denze tipologiche in ambito francescano vennero ampliate e intese  non in due ma in tre ricorsi successivi; il Nuovo Testamento è  adempimento della promessa dell'Antico, ma è, a sua volta, pro-  messa che si adempie sulla terra e nella storia, con l'avvento di  Francesco» 35 . Tuttavia, la condanna, nel 1255, delYlntroductorius ad  Evangelium Aeternum di Gerardo da Borgo San Donnino, opera che  rappresentava la più compiuta espressione delle teorie dei France-  scani spirituali, comportò l'interruzione dell'esecuzione del pro-  gramma iconografico assisiate, che avvenne forse già nel 1257.   Tracce significative di questo originario apparato decorativo  sono state ad ogni modo rinvenute nelle vetrate a contenuto tipolo-  gico 36 delle tre bifore del coro della basilica superiore, realizzate     Duomo di Assisi ai primi dipinti della Basilica di San Francesco, Spello, Dimensione  Grafica, 2007.   34 Da A. Cadei, Assisi, S. Francesco: l'architettura e la prima fase della decora-  zione, in Roma anno 1300. Atti della IV settimana di studi di storia dell'arte medievale  dell'Università di Roma «La Sapienza», a cura di A. M. Romanini, Roma, L'Erma di  Bretschneider, 1983, pp. 154ss.   35 Cadei, Assisi, S. Francesco, cit., p. 156, è, in particolare, il Maestro di S.  Francesco, negli affreschi della navata della chiesa inferiore, a seguire il parallelismo  tra le Storie della passione di Cristo (Cristo depone gli abiti ai piedi della croce, Cristo  dall'alto della croce affida Maria a Giovanni, Discesa dalla croce, Deposizione, Com-  pianto, Apparizione di Cristo in Emmaus) e le Storie di San Francesco {Francesco  rinuncia ai beni paterni, Innocenzo III sogna Francesco sorreggente la Chiesa di Roma,  Predica alle creature, Francesco riceve le stimmate da un serafino, Morte di San Francesco  e scoperta delle stimmate sul suo corpo).   36 Ad esempio, nella finestra I, designata anche come finestra VII, sono raf-  figurati episodi veterotestamentari quali prefigurazioni dei corrispondenti episodi  della Vita pubblica di Gesù, con i seguenti parallelismi: Davide viene a conoscenza  della morte di Saul, La disputa con i dottori nel Tempio; Giacobbe attraversa il Gior-     48 MARIO GAGLIONE   entro il 1250 ad opera di maestri tedeschi. L'iconografia delle stesse,  basata sulle corrispondenze tipologiche, avrebbe un sèguito in due  lancette del finestrone del transetto destro che completano il ciclo  dell'abside con le apparizioni post mortem di Cristo e gli antitipi 01  veterotestamentari delle apparizioni angeliche. Il complesso delle  vetrate del coro e del transetto verrebbe in tal modo a costituire  una serie tipologica triangolare, nella quale le Storie della vita di  Cristo farebbero da perno tra gli antitipi veterotestamentari e le  Storie della Genesi, da un lato, le Storie di San Francesco e di San-  t'Antonio^ dall'altro. Anche gli affreschi del transetto destro della  chiesa sarebbero contrassegnati da una impronta gioachimita. Tra  questi, la triade delle teofanie consistenti nella Maiestas, nelY Ascen-     dano, Il battesimo di Gesù; Mosè e il Padre Etemo, La Trasfigurazione; La purificazione  del tempio, La cacciata dei mercanti dal tempio; L'ingresso di un re, L'ingresso di Gesù in  Gerusalemme; Abramo lava i piedi degli angeli, La lavanda dei piedi agli Apostoli; Il  banchetto del re Assuero, L'ultima Cena; Elia in preghiera sul monte Oreb, L'Orazione  nell'orto di Getsemani; Joab bacia Amasa, Il bacio di Giuda e la cattura di Cristo.   37 L'interpretazione tipologica comporta l'uso di tipi o modelli che presentano  un'impronta in negativo o antitipo costituita da un'idea, una persona, o un avveni-  mento nell'Antico Testamento che prefigura un'idea, una persona, o un avveni-  mento nel Nuovo Testamento. Un esempio autorevole d'interpretazione tipologica  è offerto dallo stesso Vangelo (Matteo 12, 40): «Come infatti Giona rimase tre  giorni e tre notti nel ventre del pesce, così il Figlio dell'uomo resterà tre giorni e  tre notti nel cuore della terra», ove, l'episodio veterotestamentario (antitipo) di  Giona e della balena prefigura la morte e la resurrezione di Cristo. Sull'interpreta-  zione figurale o tipologica della Sacra Scrittura, cfr. H. Rondet, Thèmes bibliques,  éxégèse augustinienne , in Augustinus magister. Congrès intemational augustinien, Paris,  21-24 septembre 1954, Paris, Etudes Augustiniennes, 1955, voi. Ili, pp. 231-242; M.  Simonetti, Lettura e/o allegoria. Un contributo alla storia dell'esegesi patristica, Roma,  Institutum Patristicum Augustinianum, 1985; H. De Lubac, Esegesi medievale. I  quattro sensi della Scrittura, Milano, Jaca Book, 1986, voi. I, pp. 19-37; La termino-  logia esegetica nell'antichità. Atti del primo seminario di antichità cristiane, Bari, 25  ottobre 1984, Bari, EdiPuglia, 1987, nonché, più in generale, E. Auerbach, Figura,  in Id., Studi su Dante, a cura di D. Della Terza, Milano, Feltrinelli, 1993, pp. 176-  226; P. Van Dael, Tipologia, estratto dal corso di Storia dell'Arte medioevale tenuto  presso la Pontificia Università Gregoriana di Roma, consultabile all'indirizzo:  <http://www.unigre.it/rhetorica%20biblica/studenti/TBC005/TIPOLOGIA_-  van%20Dael.doc> (ultima consultazione: 30 novembre 2007); H.L. Kessler, Storie  sacre e spazi consacrati: la pittura narrativa nelle chiese medievali tra TV e XII secolo, in  L'arte medievale nel contesto (300-1300): funzioni, iconografia, tecniche, Milano, Jaca  Book, 2006, pp. 438ss.   38 Cadei, Assisi, S. Francesco, cit., pp. 155-156, secondo il quale i medaglioni  di San Francesco e di Sant'Antonio attualmente posti nel quadrilobo nella finestra  VII della basilica superiore ai lati del Cristo in gloria, proverrebbero dalle lancette  della quadrifora III posta nel transetto settentrionale della basilica superiore.     ''j$'x&H -'     IPOTESI «GIOACHIMITE» SUGLI AFFRESCHI DI GIOTTO     49     sione e nella Trasfigurazione, poste nelle lunette di volta e nel tratto  superiore della vetrata centrale, rimanderebbe alla Dispositio novi  ordinis pertinens ad tercium statum ad instar superne Jerusalem ed alla  Rota in medio rotae, contenute nelle Figurae XII e XV del Liber  Figurarum. I sostenitori di questa tesi ammettono peraltro che tali  sottili richiami e reconditi significati ben difficilmente avrebbero  potuto esser colti dal comune visitatore, e che i principali fruitori  sarebbero stati piuttosto i soli Francescani spirituali 39 .   Secondo questa opinione, in conclusione, la sintesi ed il com-  pletamento della teoria gioachimita della storia, operata dai France-  scani spirituali con l'individuazione nell'Ordine minoritico del no-  vus ordo monastico destinato alla guida della società, avrebbe avuto,  quale esito iconografico, proprio l'affiancamento degli episodi della  vita di San Francesco alle tradizionali serie tipologiche vetero e  neotestamentarie in una prospettiva «rivoluzionaria».   Tuttavia, accanto a queste serie tipologiche che sarebbero state  ispirate dalle teorie gioachimite e spirituali, nella stessa basilica  superiore assisiate furono eseguite altre e ben più note scene vetero 40  e neotestamentarie 41 , poste ancora una volta in collegamento con  ventotto episodi della Vita di San Francesco 42 , benché in una pro-     39 Cadei, Assisi, S. Francesco, cit., p. 159, ricorda infatti che, secondo lo  Schòne, si sarebbe trattato di un ciclo iconografico riservato ai soli Francescani  spirituali e che perciò era limitato al loro coro non accessibile al pubblico, circo-  stanza questa che ne favorì anche la successiva conservazione nonostante il muta-  mento del programma decorativo.   40 II ciclo dell'Antico Testamento, realizzato sulla parete nord, si compone di  sedici episodi e comincia con le Storie della Creazione nel registro superiore: Crea-  zione del mondo, Creazione di Adamo, Creazione di Eva, Peccato originale, La cacciata  dal Paradiso terrestre, Il lavoro dei progenitori, Il sacrificio di Caino ed Abele, Caino  uccide Abele proseguendo, nel registro inferiore, con episodi della vita dei quattro  patriarchi biblici Noè, Abramo, Giacobbe e Giuseppe: La costruzione dell'arca,  L'ingresso di Noè e degli animali nell'arca, Il sacrificio di Isacco, La visita degli angeli  ad Abramo, Isacco benedice Giacobbe, Esaù davanti ad Isacco, Giuseppe calato nel  pozzo dai fratelli, Giuseppe si fa riconoscere dai fratelli in Egitto.   41 II ciclo del Nuovo Testamento, collocato sulla parete sud, si compone di  sedici episodi e comincia con le Storie dell'infanzia di Cristo nel registro superiore:  Annunciazione, Visitazione, Natività, Adorazione dei Magi, Presentazione di Gesù al  tempio, Fuga in Egitto, Disputa nel tempio, Battesimo di Gesù. Nel registro inferiore,  invece, sono collocati gli episodi della Vita pubblica e della Passione di Cristo: Le  nozze di Cana, La resurrezione di Lazzaro, La cattura di Cristo nell'orto, Cristo davanti a  Pilato, La salita al Calvario, La Crocifissione, Il Compianto sul Cristo morto, Le pie  donne al sepolcro.   42 A partire dalla parete destra dal lato dell'altare: San Francesco riceve l'omag-  gio dell'uomo semplice, Il Santo dona Usuo mantello al povero, Sogno del palazzo colmo     50 MARIO GAGLIONE   spettiva più moderata, ispirata questa volta alla Vita ufficiale del  Santo, la Legenda maior redatta da San Bonaventura 43 . Proprio Bo-  naventura ed, in seguito, il probabile committente degli affreschi, il  cardinale francescano Matteo d'Acquasparta, si erano infatti oppo-  sti agli Spirituali rigoristi ed alla teoria da loro sostenuta secondo la  quale con l'avvento dell'Età dello Spirito si sarebbe pervenuti ad  uno scardinamento dell'ordine costituito già sulla terra e nella sto-  ria. L'Autore della Legenda, invece, ribaltò proprio la prospettiva di  un radicale mutamento «nella storia», sostenendo che i tempi nuovi  si sarebbero dispiegati su di un piano esclusivamente ultraterreno,  privo quindi di pericolose ricadute politiche.   Ritornando dunque agli affreschi dell'Antico e del Nuovo Te-  stamento che Giotto avrebbe eseguiti nella chiesa esterna di S.  Chiara, non risultano notizie, di fonte letteraria o documentaria,  dell'esistenza anche di un ciclo della Vita di San Francesco che  avrebbe potuto far pensare ad una consapevole imitazione del mo-  dello assisiate nella versione spirituale o piuttosto in quella bona-  venturiana. D'altra parte, al tempo della esecuzione degli affreschi  nella grande chiesa napoletana erano trascorsi decenni dai movimen-  tati inizi della decorazione della basilica di Assisi, vero e proprio  palinsesto iconografico della storia dell'Ordine. Inoltre, il contrasto  tra il papato e la dirigenza dello stesso Ordine minoritico, da un  lato, ed i dissidenti Spirituali dall'altro era giunto ormai, con papa     di armi, Cristo appare al Santo in S. Damiano, Rinunzia alle vesti, Sogno di Innocenzo  III, Innocenzo III approva la Regola, Il Santo sul carro di fuoco, Frate Leone vede il  trono celeste destinato a San Francesco, Cacciata dei demoni da Arezzo, La prova del  fuoco, L'estasi di San Francesco, Il presepe di Greccio, Miracolo della fonte, Predica agli  uccelli, Morte del signore di Celano, La predica davanti ad Onorio III, San Francesco  appare ai frati riuniti in capitolo ad Arles, Stimmate, Morte e funerali, San Francesco  appare al vescovo di Assisi e a frate Agostino, Il patrizio Girolamo si accerta delle  stimmate, Le Clarisse di S. Damiano piangono il Santo, Canonizzazione, San Francesco  appare a Gregorio IX, Guarigione del gentiluomo di llerda, Resurrezione della gentil-  donna, Liberazione di Pietro d'Alife.   43 Le posizioni di San Bonaventura vennero riprese dal cardinale Matteo  d'Acquasparta in tre suoi sermoni. Il cardinale, generale dell'Ordine dal 1287 al  1289, fu probabilmente l'ideatore del programma iconografico della navata della  basilica superiore e contrastò decisamente gli Spirituali guidati da Ubertino da  Casale. I tìtuli illustranti gli episodi della Leggenda francescana sono tratti dalla  Legenda maior, e cfr. E. Lunghi, San Francesco ad Assisi, Firenze, Passigli, 1996,  pp. 56ss. Per l'ispirazione alla Legenda major, cfr. G. Ruf, Francesco e Bonaventura.  Un'interpretazione storico-salvifica degli affreschi della navata nella chiesa superiore di  San Francesco in Assisi alla luce della teologia di San Bonaventura, Assisi, Casa Edi-  trice Francescana, 1974, p. 39 e Cadei, Assisi, S. Francesco, cit., p. 158.       IPOTESI «GIOACHIMITE» SUGLI AFFRESCHI DI GIOTTO     51     Giovanni XXII, ad una persecuzione sistematica dei secondi, e,  come si è visto, al prevalere di posizioni moderate, circostanza que-  sta che sembra deporre contro la possibilità di citazioni iconografi-  che eccessivamente «eversive» 44 .   Infine, l'assoluta impossibilità di ricostruire i contenuti ed i  soggetti delle scene vetero e neotestamentarie eventualmente realiz-  zate nella chiesa esterna di S. Chiara a Napoli non consente neppure  di accertare una eventuale, effettiva influenza sulle stesse di quella  più precisa ed articolata corrispondenza tra fatti, persone, figure e  adempimenti dei due Testamenti, che, secondo alcuni, sarebbe co-  munque derivata proprio dalla diffusione delle teorie di Gioacchino  tradotte poi in immagini 45 .   La spiegazione della scelta delle scene dell'Antico e del Nuovo  Testamento per la decorazione di S. Chiara, a questo punto, può  essere piuttosto individuata proprio nella volontà di seguire il tra-  dizionale filone tipologico, significativamente rinvenibile nello  stesso repertorio di Giotto.   Il modello più prestigioso di tale filone era costituito dalla serie  degli affreschi dell'antica basilica di S. Pietro in Vaticano. Le pareti     44 Nell'antico refettorio dei Frati minori, oggi chiesa esterna del monastero  delle Clarisse, è posto l'affresco della Mensa del Signore, attribuito al Maestro di  Giovanni Barrile, e datato intorno al 1331-1332, ovvero qualche tempo dopo il  1332, la cui particolare iconografia sarebbe servita a celebrare i valori della povertà  e dell'umiltà, testimoniando così il particolare favore dei sovrani angioini per questi  ideali strenuamente propugnati dai Francescani spirituali, favore «ufficializzato» dal  contorno araldico dell'affresco, e cfr. F. Bologna, I pittori alla corte angioina di  Napoli (1266-1414), Roma, U. Bozzi, 1969, pp. 200ss.; Leone de Castris, Giotto  a Napoli, cit., p. 106; pp. 146-149, e fig. 61. Una lettura più articolata è stata  recentemente suggerita da C. Frugoni, Una solitudine abitata. Chiara d'Assisi,  Roma-Bari, Editori Laterza, 2006, pp. 125-126: nel nostro affresco, Cristo è posto  su di una montagna circondato dagli apostoli. In basso, San Pietro distribuisce il  pane alla folla in ascolto attingendo a cesti stracolmi. In primo piano sono inginoc-  chiati San Francesco, con la bisaccia della questua, e Santa Chiara, in orazione. Il  dettaglio della montagna rimanda al Vangelo di Giovanni (6, 3-15), ove al miracolo  della moltiplicazione segue il discorso del Cristo che si presenta alla folla come «il  vero pane sceso dal cielo». V Agnus Dei, ripetuto quattro volte alle estremità, co-  stituisce un ulteriore richiamo all'eucaristia. Sembrerebbe in tal modo prevalere  proprio il riferimento eucaristico ricorrente, peraltro, nella dedicazione ufficiale  della chiesa esterna all'Ostia santa, sicché, i frati riuniti nel refettorio per il frugale  pranzo garantito dalla carità di Dio, nel consumare il cibo del corpo, non avrebbero  dimenticato la necessità di nutrirsi di quello dell'anima, ben più prezioso del pane.  Gli eventuali, ma labili, accenni spirituali erano, in tal caso, riservati ai soli frati  essendo il refettorio inaccessibile, di regola, ai laici.   45 Cadei, Assisi, S. Francesco, cit., p. 157.     52 MARIO GAGLIONE   della navata centrale erano infatti decorate con Storte dell'Antico e  del Nuovo Testamento, eseguite durante il pontificato di papa Leone  I (440-461), distrutte poi nel 1608, nel corso dei lavori di costru-  zione del nuovo S. Pietro, ma fortunatamente descritte da Jacopo  Grimaldi e documentate dagli acquerelli di Domenico Tasselli da  Lugo. Le scene dell'Antico Testamento, tratte soprattutto dalla Ge-  nesi e dall'Esodo, erano dipinte sulla parete destra, mentre sulla  parete sinistra si svolgeva un ciclo illustrante la Vita e la Passione  di Cristo. Questi affreschi costituirono: «il prototipo fondamentale  per le successive decorazioni con scene vetero e neotestamentarie  che da Roma si diffusero in tutta Italia e in gran parte d'Europa... la  prima e più completa esposizione per immagini dei principali episodi  biblici ed evangelici a livello di pittura monumentale» 46 . Un folto  gruppo di affreschi tipologici derivò direttamente da quelli di S.  Pietro, come nel caso delle decorazioni musive dell'atrio della basi-  lica abbaziale cassinense volute da Desiderio, dalle quali derivarono  ulteriormente le storie testamentarie di S. Angelo in Formis, nonché  degli affreschi di S. Pietro a Ferentillo, di S. Maria Immacolata di  Ceri, di S. Giovanni a Porta Latina 47 , di S. Maria in Monte Domi-  nico a Marcellina, di S. Nicola a Castro dei Volsci, della cappella di  S. Tommaso nel duomo di Anagni, dell'Annunziata a Cori, ed anche     46 Cfr. A. Tomei, La basilica dalla tarda antichità al secolo XV, in La basilica di  San Pietro a Roma, a cura di C. Pietrangelo Firenze, Cantini, 1989, p. 67, nonché H.  Kessler, «Caput et speculum omnium ecclesiarum»: old St. Peter s and church deco-  ration in medieval Latium, in Italian church decoration of the Middle Ages and early  Renaissance: functions, forms and regional traditions, a cura di W. Tronzo, Bologna,  Nuova Alfa, 1989, pp. 109-146.   47 II ciclo pittorico veterotestamentario comprende diciotto scene, mentre  quello neotestamentario ne comprende ventinove conteggiando separatamente V Ul-  tima cena e la Lavanda dei piedi, e fu realizzato da tre o quattro pittori nella seconda  metà del secolo XII. Nulla ha dunque a che vedere con questi affreschi la presenza  nella chiesa di quindici fratres paupertatis attestata dal Catalogo delle chiese di Roma  (Biblioteca Nazionale di Torino, Cod. lat. A 381) risalente al 1320 circa, e da alcune  lettere di Angelo Clareno del 1313, e cfr. Angelo Clareno, Opera, I, Epistole, a  cura di L. von Auw, Roma, Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, 1980, p.  XXXI, pp. lss., pp. 28ss. Più in generale, sostengono un collegamento tra gli  Spirituali napoletani e quelli romani, ed anzi una vera e propria influenza del  filospiritualismo di Sancia sulla politica di Cola di Rienzo: A. Collins, Greater  than Emperor. Cola di Rienzo (ca. 1313-1354) and the world of Fourteenth Century  Rome, Ann Arbor, The University of Michigan Press, 2002, pp. 108ss.; R.G.  Musto, Apocalypse in Rome. Cola di Rienzo and thepolitics ofthe new age, Berkeley,  Los Angeles, New York, The University of California Press, 2003, pp. 12 lss.,  165ss.       IPOTESI «GIOACHIMITE» SUGLI AFFRESCHI DI GIOTTO     53     dei restauri cavalliniani degli affreschi di S. Paolo 48 e del ciclo di  Vescovio. Gli stessi affreschi vetero e neotestamentari della basilica  superiore di Assisi derivano dalle serie tipologiche di S. Pietro. Si  tratta certamente di cicli piuttosto complessi: così a S. Pietro gli  episodi veterotestamentari erano quarantasei, a S. Paolo trentotto, a  Ceri venticinque, e ad Assisi sedici 49 . Questo modello iconografico  fu ripreso ben presto in tutta Europa, come conferma anche una  notizia offertaci da Beda il Venerabile (673 ca.-735) relativamente  all'importazione da Roma all'abbazia di S. Pietro a Wearmouth di  tavole dipinte di contenuto tipologico 50 . Dal dodicesimo secolo in  poi i cicli tipologici risultano sempre più elaborati, come dimostra la  pala d'altare di Klosterneuburg, costituita da placche di bronzo  smaltato champlevè, completata da Nicola de Verdun nel 1181 51 .     48 Su questo ciclo cfr. S. Romano, II cantiere di San Paolo fuori le mura: il  contatto con i prototipi, in Medioevo: i modelli. Atti del convegno internazionale di studi  Parma 27 settembre-I ottobre 1997, a cura di A.C. Quintavalle, Parma-Milano,  Università di Parma-Mondadori Electa, 2002, pp. 615-630.   49 Cfr. S. Romano, La morte di Francesco: fonti francescane e storia dell'Ordine  nella basilica di S. Francesco d'Assisi, in «Zeitschrift fur Kunstgeschichte», 61, 1998,  pp. 3 43 ss., ed E ad., La basilica di San Francesco ad Assisi. Pittori, botteghe, strategie  narrative, Roma, Viella, 2001.   50 «Constituto ilio abbate Benedictus monasterio beati Petri apostoli, consti-  tuto et Ceolfrido monasterio beati Pauli, non multo post temporis spatio quinta vice  de Brittannia Romam adcurrens, innumeris sicut semper aecclesiasticorum donis  commodorum locupletatus rediit; magna quidem copia voluminum sacrorum; sed  non minori, sicut et prius, sanctarum imaginum munere ditatus. Nam et tunc do-  minicae historiae picturas quibus totam beatae Dei genetricis, quam in monasterio  maiore fecerat, aecclesiam in gyro coronaret, adtulit; imagines quoque ad ornandum  monasterium aecclesiamque beati Pauli apostoli de concordia Veteris et Novi Te-  stamenti summa ratione conpositas exibuit; verbi gratia, Isaac Ugna, quibus inmo-  laretur portantem, et Dominum crucem in qua pateretur aeque portantem, proxima  super invicem regione, pictura coniunxit. Item serpenti in heremo a Moyse exaitato,  filium hominis in cruce exaltatum conparavit» e cfr. Beda, Vita quinque sanctorum  abbatum, I, 9, edizione elettronica nella Biblioteca Augustana (Bibliotbeca latina,  Latinitas medievalis) a cura di U. Harsch (Fachhochschule Augsburg) basata su Ve-  nerabilis Baedae Opera Historica, edidit Carolus Plummer, Oxonii, E typographeo  Clarendoniano, 1896, all'indirizzo: <http://www.fh-augsburg.de/~Harsch/Chrono-  logia/Lspost08/Bede/bed quin.html> (ultima consultazione: 30 novembre 2007).   51 In alto nella pala sono poste diverse scene veterotestamentarie accadute  prima della legge {ante legem), al centro sono le corrispondenti scene neotestamen-  tarie (sub gratia), ed in basso le corrispondenti scene veterotestamentarie sotto la  legge (sub lege). Ad esempio: le scene del Passaggio del Mar Rosso, del Battesimo di  Cristo e del «mare di bronzo» del tempio vanno considerate in corrispondenza; così  pure l'episodio di Giuseppe che viene messo nella cisterna, la deposizione di Cristo  nel sepolcro e Giona nel ventre del pesce, e così via, cfr. H. Buschhausen, The     54 MARIO GAGLIONE   Vennero redatti, inoltre, veri e proprio manuali proprio allo  scopo di indicare al pittore o allo scultore i collegamenti tipologici  tra gli episodi testamentari. Tra questi si ricorda il Victor in Car-  mine 52 , opera di un anonimo monaco cistercense inglese del XII  secolo, il quale, pur essendo contrario alla decorazione figurata delle  chiese, riteneva tuttavia ammissibili almeno le rappresentazioni ti-  pologiche poiché potevano fungere da efficaci libri laicorum. Ma,  certamente, la fonte primaria fu costituita dalla Glossa ordinaria di  Walafrido Strabone (f849) completata da Niccolò di Lira (f 1349),  vera e propria sintesi dell'esegesi tipologica dei Padri della chiesa 53 .   Orbene, proprio i temi tipologici rientravano certamente anche  nel repertorio di Giotto. Oltre alla discussa partecipazione del Mae-  stro all'esecuzione di alcuni episodi dell'Antico e del Nuovo Testa-  mento nella basilica di S. Francesco ad Assisi 54 , sappiamo, soprat-  tutto dalle Vite del Vasari, che Giotto eseguì Storie dei due Testa-  menti nella basilica di S. Pietro a Roma 55 , nella cappella palatina del  Castelnuovo 56 a Napoli, e storie del solo Nuovo Testamento nella  SS. Annunziata a Gaeta 57 . D'altro canto, la biografia dello stesso     Klosterneuburg Aitar of Nicholas of Verdun: Art, Theology and Politics, in «Journal of  the Warburg and Courtauld Institutes», 37, 1974, pp. 1-32.   52 Victor in Carmine. Ein Handbuch der Typo logie aus dem 12. Jahrhundert. Nach  der Handschrift des Corpus Chris ti College in Cambridge, Ms. 300, a cura di K. A.  Wirth, Berlin, Mann, 2006.   53 E. Male, Le origini del gotico. L'iconografia medioevale e le sue fonti, Mi-  lano, Jaca Book, 1986, pp. 15ss.; pp. 145ss.   54 L. Bellosi, Giotto e la Basilica Superiore di Assisi, in Giotto. Bilancio critico  di sessantanni di studi e ricerche, Firenze, Giunti, 2000, pp. 33-54; B. Zanardi,  Giotto e Pietro Cavallini. La questione di Assisi e il cantiere medievale della pittura a  fresco, Milano, Skira, 2002; T. De Wisselow, The date of the St. Francis cycle in the  upper Church of S. Francesco at Assisi: the evidence of copies and considerations of  method, in The art of the Franciscan Order in Italy, a cura di W. R. Cook, Leiden-  Boston, Brill, 2005, pp. 113ss.   55 Scrive infatti Vasari: «il papa avendo vedute queste opere e piacendogli la  maniera di Giotto infinitamente, ordinò che facesse intorno intorno a San Pietro  Istorie del Testamento Vecchio e Nuovo: onde cominciando fece Giotto a fresco  l'Angelo di sette braccia che è sopra l'organo; e molte altre pitture, delle quali parte  sono state da altri restaurate a dì nostri e parte nel rifondare le mura nuove, o state  disfatte», e cfr. anche A. Tomei, Giotto a Roma intorno al primo Giubileo, in La  storia dei Giubilei, a cura di G. Fossi, Roma, BNL, 1997, voi. I, pp. 238-255.   56 Questi affreschi furono eseguiti tra il 1329 ed il 1332-1333 ed andarono  purtroppo distrutti nel 1470, durante il regno di Ferrante d'Aragona, e cfr. Leone  de Castris, Giotto a Napoli, cit., pp. 168ss.   57 Scrive Vasari: «partito Giotto da Napoli per andare a Roma, si fermò a  Gaeta, dove gli fu forza, nella Nunziata, far di pittura alcune storie del Testamento      t ù„J. ]ìlttes:lJ£A^ !      IPOTESI «GIOACHIMITE» SUGLI AFFRESCHI DI GIOTTO 55   Giotto lascia davvero poco spazio ai sospetti di spiritualismo 58 . I  suoi committenti e protettori erano strettamente legati alla corte  pontificia, come quel fra Giovanni Mincio da Morrovalle, ministro  generale dell'Ordine minoritico, che lo chiamò ad Assisi o il cardi-  nale Jacopo Stefaneschi. Il Maestro, che aveva organizzato in ma-  niera imprenditoriale la propria bottega, non disdegnava inoltre di  prestare danaro e di acquistare terreni per investimento, ben lon-  tano da scrupoli pauperistici 59 . A Giotto, anzi, viene tradizional-  mente attribuita la canzone Molti son que che lodan povertade, che  contiene una vera e propria invettiva contro la povertà, ritenuta  istigatrice di delinquenza, causa di sovversione sociale e di ipo-  crisia 60 .   Ritornando a S. Chiara, in realtà, i frammenti di affresco a  contenuto narrativo più sicuramente riconducibili a Giotto ed alla  sua bottega sono quelli conservati nel coro o oratorio interno delle  monache. Sulla parete che divide appunto l'oratorio dalla chiesa  esterna può osservarsi ciò che resta di un Compianto sul Cristo depo-  sto, che lascia ipotizzare, pur in mancanza di più precise evidenze,  che l'intera parete fosse affrescata con scene della Vita di Cristo,  forse principalmente episodi della Passione, secondo quanto realiz-  zato nei cori di altri monasteri delle Clarisse. In particolare, nel coro  di S. Pietro in Vineis ad Anagni 61 , qualche tempo dopo la canonizza-     Nuovo, oggi guaste dal tempo, ma non però in modo che non vi si veggia benissimo il  ritratto d'esso Giotto appresso a un Crucifisso grande molto bello», per la citazione  cfr. la precedente nota 11.   58 Lo ammette lo stesso Leone de Castris, Giotto a Napoli, cit., p. 151.   59 Cfr. F. Antal, La pittura fiorentina e Usuo ambiente sociale nel Trecento e nel  primo Quattrocento, Torino, Einaudi, 1960, p. 232. Giotto affittava telai ai tessitori  meno abbienti realizzando profitti del 120%. Alcuni documenti attestano il suo  ruolo di garante di prestiti e, nel 1314, risulta assistito da ben sei avvocati in atti  contro debitori morosi o insolventi.   60 Tra l'altro il componimento precisa: «Di quella povertà ch'è contro a voglia/  Non è da dubitar ch'è tutta ria,/ Che di peccar è via, / Facendo ispesso a giudici far  fallo;/ E d'onor donne e damigelle spoglia;/ E fa far furto, forza e villania; /E ispesso  usar bugia/ E ciascun priva di onorato istallo». La canzone fu estratta dal codice 47  pluteo 90 laurenziano, ragguagliata sul codice 1717 riccardiano e pubblicata da F.  Trucchi, Poesie italiane inedite di dugento autori: dall'origine della lingua infino al  secolo decimosettimo, Prato, Ranieri Guasti, 1846, voi. II, pp. 5ss.   61 Cfr. M. Rak, Vedere, ricordare, raccontare. Immagine e racconto in un appa-  rato pittorico dottrinale di una comunità femminile pauperista nel tardo medioevo, in II  collegio Principe di Piemonte e la chiesa di S. Pietro in vineis in Anagni, a cura di M.  Rak, Roma, INPDAP, 1997, pp. 21-34, nonché S. Romano, Gli affreschi di San  Pietro in vineis, ibidem, pp. 105ss. e C. Jaggi, Frauenklóster im Spàtmittelalter. Die     56 MARIO GAGLIONE   zione di Chiara avvenuta nella cattedrale di quella città, ove fu  conservata la relativa bolla pontificia del 15 agosto del 1255, e,  comunque, entro il 1263, vennero appunto dipinte le Storie della  Passione di Cristo. Questo notevole ciclo si articola negli episodi  dell'Ingresso in Gerusalemme, Ultima cena e lavanda dei piedi, Cattura  e flagellazione di Cristo, Deposizione e discesa al limbo, Noli me tangere  e missione degli Apostoli, Giudizio universale, che dovevano servire  anzitutto come «strumento di memoria» nei momenti più solenni  della liturgia. All'atto della recita sottovoce {in secreto) della pre-  ghiera eucaristica {canon missae) nel corso della messa, quelle stesse  scene consentivano alle Clarisse di ripercorrere, anche visivamente,  la storia della redenzione fino alla morte ed alla resurrezione del  Salvatore. Le sofferenze di Cristo, rappresentate in maniera reali-  stica e cruenta, offrivano dunque alle Clarisse occasioni di medita-  zione e di riflessione. Gli episodi della vita del Salvatore, inoltre,  erano costantemente richiamati negli scritti dedicati alle Vite di San  Francesco e di Santa Chiara, e per quest'ultima, già nella Leggenda  redatta da Tommaso da Celano (1255-1256). Perciò, gli affreschi  cristologici venivano a costituire, in definitiva, un grandioso prome-  moria non solo della vita del Salvatore, ma appunto anche delle «vite  parallele» di Chiara e di Francesco, ricostruibili per analogia dalle  osservatrici, e ricordate alle monache anche attraverso le letture  edificanti, i racconti orali e, soprattutto, la predicazione, non occor-  rendo necessariamente la realizzazione di cicli tipologici «completi»  che comprendessero cioè anche le Storie dei due Santi francescani 62 .     Kirchen der Klarissen una Dominikannerinnen im 13. una 14. Jahrhundert, Monaco,  Michael Imhof, 2006, pp. 255ss.   62 II ciclo della Passione nel coro delle monache di S. Pietro in vineis prosegue,  in realtà, con l'episodio della stimmatizzazione di San Francesco, che riporta visi-  vamente al parallelismo con Cristo. Vi sono rappresentati inginocchiati anche una  badessa attorniata da monache ed un frate accompagnato da frati, in veste di  donatori oranti. Lo stesso ciclo si conclude con un riquadro nel quale sono dipinti  i Santi Aurelia, Scolastica e Benedetto e donatori. Nel coro delle monache della  basilica di S. Chiara ad Assisi, corrispondente all'attuale cappella di San Giorgio,  intorno al 1340 vennero eseguite, invece, oltre che le Storie della Passione di Cristo,  pur nell'ordine anomalo, da sinistra, di Resurrezione, Deposizione dalla croce, e  Deposizione nel sepolcro, anche quelle àzW Incarnazione con V Annunciazione , la Na-  tività, e l'Adorazione dei Magi, e cfr. C. Jaggi, Frauenklòster im Spàtmittelalter, cit.,  pp. 247ss. A Napoli dev'essere infine ricordato il notevole ed articolato ciclo della  Passione affrescato, probabilmente dopo il 1323 sulle pareti del coro delle Clarisse  della chiesa di S. Maria Donnaregina vecchia, ispirato alla Legenda Aurea di Jacopo  da Varagine ed alle Meditationes Vitae Còristi dello pseudo-Bonaventura ed articolato  in diciassette scene. In particolare, in tre registri di cinque scene ciascuno, più due:       IPOTESI «GIOACHIMITE» SUGLI AFFRESCHI DI GIOTTO 57   Come si è cercato di dimostrare, il riferimento alla esaminata  Figura gioachimita quale modello o fonte di ispirazione per la scelta  dei temi iconografici dei cicli pittorici realizzati nella basilica di S.  Chiara risulta, a ben considerare, davvero piuttosto improbabile.   Non molti anni or sono Richard Krautheimer, nei Poscritti ad  un suo aureo saggio di introduzione alla iconografia architettonica 63 ,     1) Ultima cena; 2) Comunione degli Apostoli) 3) Cristo lava i piedi a San Pietro; 4)  Orazione di Cristo nell'orto; 5) Cattura di Cristo con l'episodio del San Pietro che taglia  l'orecchio a Malco; 6) Cristo al cospetto dei sommi sacerdoti Anna e Cai/a, negazione di  Pietro, derisione di Cristo che viene privato dei vestiti per la prima volta, flagellazione di  Cristo; 1) Cristo portato davanti a Pilato per il primo giudizio e poi davanti ad Erode; 8)  Secondo giudizio di Cristo davanti a Pilato e nuova flagellazione; 9) Cristo privato delle  vesti e sua ascesa al Calvario, nuova spoliazione di Cristo ed innalzamento sulla croce;  10) Crocifissione; 11) Deposizione dalla croce, lamentazione sul corpo e sepoltura di  Cristo; 12) Discesa al Limbo e resurrezione di Cristo; 13) Le Marie al sepolcro, «Noli me  tangere», apparizioni di Cristo alla Vergine ed a Giuseppe d'Arimatea; 14) Apparizioni  di Cristo alle due Marie di ritorno dal sepolcro, a Giacobbe figlio di Alfeo ed a San  Pietro; 15) Cristo appare quattro volte agli Apostoli sul monte Tabor, poi sul monte degli  Olivi, cena ad Emmaus con l'episodio dell'Incredulità di San Tommaso; 16) Ascensione;  17) Pentecoste. Tali scene avevano lo scopo di suscitare la compassione delle mona-  che per le ultime vicende di Cristo, illustrando loro l'esempio delle Vergine Maria,  non mancando, poi, di suggerire paralleli con la Vita di San Francesco, e di offrire,  soprattutto nelle rappresentazioni dell'Ultima Cena, della Comunione degli Apostoli e  della Cena di Emmaus, l'occasione di una contemplazione eucaristica che era loro  preclusa dal vivo, durante l'elevazione dell'ostia nel corso della messa, e cfr., in  proposito, A.S. Hoch, The «Passion» cycle: images to contemplate and imitate amid  Clarissan «clausura», in: The church of Santa Maria Donna Regina: art, iconography and  patronage in fourteenth-century Naples, a cura di Janis Elliott, Aldershot, Ashgate,  2004, pp. 129-153.   63 Per la traduzione italiana del saggio dal titolo originario Introduction to an  «Iconography of Medieval Architecture» , comparso sul «Journal of Warburg and Cour-  tauld Institutes», 5, 1942, pp. 1-33, si veda R. Krautheimer, Introduzione a un'i-  conografia dell'architettura sacra medievale (1942), in Id., Architettura sacra paleocri-  stiana e medievale, Torino, Bollati Boringhieri, 1993, pp. 98-150, in particolare alle  pp. 144ss., comprendente i Poscritti del 1969 e 1987 (da p. 143). In questo saggio  Krautheimer propone le sue osservazioni sulla «copia parziale» architettonica che  caratterizza l'imitazione, durante il Medioevo, dei più prestigiosi edifici sacri non in  termini di copia puntuale e corrispondente («copia totale»), ma di copia rielaborata,  e cfr. al riguardo anche G. Bandmann, Early medieval architecture as bearer of mea-  ning, con introduzione di K. Wallis, e postille di H. J. Boker, New York, Columbia  University press, 2005, traduzione inglese del saggio originale in tedesco Mittelal-  terliche Architektur als Bedeutungstràger, Berlin 1951 e W. Schenkluhn, Iconografia e  iconologia dell'architettura medievale, in L'arte medievale nel contesto (300-1300):  funzioni, iconografia, tecniche, Milano, Jaca Book, 2006, pp. 62-63 e p. 67. Per alcuni  rilievi critici sulla tesi della «copia parziale», cfr., comunque, B. Brenk, Originalità e  innovazione nell'arte medievale, in Arti e storia nel Medioevo, a cura di E. Castelnuovo  e G. Sergi, Torino, Einaudi, 2002, voi. I, pp. 3-69.     58 MARIO GAGLIONE   rilevava come spesso l'interpretazione simbolica delle piante degli  edifici medievali fosse avvenuta post factum, e cioè dopo l'effettiva  adozione delle forme decisa per altre motivazioni. Molto frequente-  mente, cioè, si è attribuito al committente ed all'architetto ciò che  nell'edificio aveva voluto vedere a posteriori il teologo medievale, o,  altrettanto spesso, solo l'interprete moderno. Gli importanti studi  iconologici di Aby Warburg e, in seguito, di Erwin Panofsky e di  Fritz Saxl hanno contribuito involontariamente anche a scoper-  chiare «una specie di vaso di Pandora» dal quale sono poi fuoriuscite  interpretazioni simboliche a tutti i costi, «per amore o per forza».  Invece, l'indagine sui significati dell'opera architettonica ed, in ge-  nere, dell'opera d'arte dovrebbe essere svolta in modo che quanto «è  possibile» diventi «probabile», perché «la relazione ipotizzata abbia  un carattere di causalità ben definito, rilevabile da numerosi e dif-  ferenti indizi» 64 .   Sembra invece che proprio la mancanza di questi «numerosi e  differenti indizi» non consenta di sostenere né l'ispirazione gioachi-  mita degli affreschi, né la pretesa matrice francescano-spirituale  della pianta della basilica di S. Chiara a Napoli.   Mario Gaglione     64 R. Krautheimer, Introduzione, cit., p. 146.       IPOTESI «GIOACHIMITE» SUGLI AFFRESCHI DI GIOTTO     APPENDICE     59     Traduzione del testo posto ai margini della Figura XVIII del Liber  figurarum, tratto dalla Concordia Novi ac Veteris Testamenti dall'edizione a  cura di Tondelli, Reeves, Hirsch-Reich, Il Libro delle Figure \ cit., voi. II,  tav. XVIIIa.     Come illustrato in questa Figura, da Adamo fino a Giovanni Battista sono  trascorsi sei tempi ormai conclusi, durante i quali il Signore ha compiute le sue  opere sotto la legge ed i profeti, e nel settimo tempo si è riposato dalle opere del  primo stato, infatti la legge ed i profeti sono perdurati fino a Giovanni Battista.  Per tali motivi occorre attenersi a ciò che affermano i Santi Dottori, in ordine al  fatto che le due età, e cioè la sesta e la settima, trascorrono insieme, sia perché,  compiuti i sei tempi, le anime dei giusti riposano in Cielo, sia perché al popolo  di Dio è stato concesso un tempo sabbatico durante il quale potesse riposare  dalla servitù della legge, una volta acquistata la libertà dello Spirito Santo,  poiché dov'è lo Spirito del Signore lì è la libertà.   Questa definizione delle sei età riguarda propriamente la persona del  Padre poiché, evidentemente, il Padre, per mostrarsi signore effettivo di tutta  la terra, ha preteso dai suoi sudditi l'assoluta obbedienza dei sei tempi. Com-  piutisi questi tempi, in seguito, nel settimo tempo, il Padre mostra, a coloro che  gli hanno obbedito, l'affetto dell'amore e la libertà della grazia nello Spirito  Santo, perché lo stesso Spirito è amore, e dove c'è l'amore c'è la libertà. Proprio  per questo, infatti, l'Apostolo dice: «dove è lo Spirito del Signore lì è la libertà».   In conformità a tale generale definizione, riguardo alle sei età del mondo  occorre seguire quello che affermano i Santi Dottori, e cioè che nel sesto giorno  feriale è rappresentata la sesta età del mondo, nel sabato è significata la settima  età, e nella domenica l'ottava età, e poiché il sesto giorno è destinato alla fatica,  il settimo è riservato al riposo. Quel sabato sarà dunque colmo della gioia e della  letizia di tutti gli eletti, e ciò sia perché l'esercito dei santi martiri e degli altri  giusti sarà riunito in Cielo e regnerà con Cristo, sia perché al popolo di Dio  verrà concessa quella tregua sabbatica perché possa riposarsi dalla fatica della  sofferenza che ha sopportato nel corso dei sei tempi già quasi compiuti, e perchè  obbedisca al Signore nella libertà dello Spirito, poiché dov'è lo Spirito del  Signore lì è la libertà.   Questa definizione delle sei età viene comunemente riferita al Padre ed al  Figlio, poiché Padre e Figlio sono un unico Dio. Infatti, così come ciascuno dei  due singolarmente considerato è vero Dio, altresì considerati insieme essi non  sono due dei ma un unico Dio, ed avviene che alcune opere siano maggiormente  somiglianti al Padre ed altre al Figlio, così che essendo appunto uniti assieme si  manifestano in una forma unica anche se vengono chiamati distintamente con i  loro nomi. Diversa è la persona del Padre come diversa è la persona del Figlio,  tuttavia i due insieme considerati non sono due dei ma un unico Dio. E poiché  l'unico e lo stesso Spirito Santo procede non da uno solo dei due ma da en-  trambi, è chiaro che lo stesso Spirito sia in comunione con il Padre ed il Figlio  dai quali, appunto, procede all'infinito.   Questa definizione dei sei tempi o età concerne più propriamente la     60 MARIO GAGLIONE   persona del Figlio, il quale Figlio, certamente, per dimostrarsi maestro univer-  sale ha preteso un'assoluta osservanza della disciplina nel corso delle sei età.  Compiuti questi tempi, a coloro che operano con pazienza, Egli mostra nel suo  Spirito abbondanza d'amore e piena libertà di grazia, poiché il timore non è  compatibile con la carità, e perché la perfetta carità allontana il timore. In  questa Figura viene quindi esposto un grande mistero riguardante particolar-  mente la fede cattolica. Tutte le cose che Dio ha fatto le ha fatte nella sapienza.  La vera sapienza consiste nel conoscere e nel comprendere il Creatore, ed, in  particolare, attraverso le cose che sono state rese visibili, nel comprendere i sui  aspetti invisibili e nel contemplare Colui che ci ha creati. Dice infatti il Signore  nel Vangelo: «il Padre mio opera nello stesso modo nel quale opero anch'io».  Perciò è come se dicesse: mio Padre ha operato così che attraverso le opere  compiute a sua immagine nel primo stato del tempo, potesse dimostrare di  essere vero Signore e vero Dio, ed anche io opero cose simili in questo secondo  stato, così che né il Padre potrebbe agire senza di me, né io stesso potrei  operare senza il Padre, e ciò per dimostrare di essere identico a mio Padre,  poiché egli è Dio così come sono io stesso Dio, ed Egli stesso è onnipotente così  come io sono onnipotente. E, dunque, le opere del primo stato attengono  specificamente alla persona del Padre, mentre le opere del secondo stato riguar-  dano la persona del Figlio, e, d'altra parte, ad entrambi possono essere riferite  le opere di ciascuno dei due. Il Padre ed il Figlio sono infatti due persone.  Ciascuno di loro è Dio ed al contempo entrambi sono un unico Dio. E così  anche lo Spirito Santo viene detto Spirito del Padre perché procede dal Padre  ed in conformità a lui. Infatti non siete voi a parlare ma è lo Spirito del Padre  vostro che parla in voi. Viene anche definito Spirito del Figlio perché procede  dal Figlio conformemente a lui, secondo quanto si afferma: «Dio ha immesso  nei nostri cuori lo Spirito del Figlio che dice: Abba, Padre!». Ed altrettanto  l'Apostolo dice dello Spirito Santo: «dove è lo Spirito del Signore Ti è la libertà».  La servitù riguarda i sei giorni ed i sei giorni significano i sei tempi, la libertà  invece concerne il settimo giorno ovvero il settimo tempo. E proprio per questo  il settimo giorno ed il settimo tempo sono denominati sabato e riposo. Bisogna  considerare attentamente che dopo i sei tempi tribolati del primo stato è stata  concessa libertà e riposo nello Spirito Santo, e considerare altresì fino a che  punto il popolo dei fedeli abbia sopportato la servitù ed il giogo della legge per  servire il suo Signore nella libertà dello Spirito, poiché, come dice l'Apostolo:  «non avete ricevuto lo Spirito della servitù ancora una volta nel timore, ma  avete ricevuto lo Spirito dell'adozione filiale» per il quale possiamo dire: «Abba,  Padre!». Perciò, poiché lo Spirito Santo procede dal Padre ed a questi spetta il  sabato e la libertà, era necessario in conformità a ciò, che la settima età iniziasse  dal momento in cui Cristo è venuto nel mondo, perché questa età è stata  concessa come il sabato per il popolo di Dio. E per tale ragione è stato inviato  nello stesso tempo lo Spirito Santo, perché iniziasse quella età. Allo stesso  modo, dopo i sei tempi faticosi di questo secondo stato che, in conformità a  tale spiegazione, è iniziato con Ozia, ovvero con Mosè, verrà conferita al  popolo Cristiano la libertà, non vi è dubbio, nello Spirito Santo, affinché si  vedano svelate le cose che fino ad ora risultano ancora oscuramente percepibili  solo come di riflesso. E così noi stessi procederemo di glorificazione in glorifi-  cazione, e dallo Spirito del Signore verrà concessa la pace, nonché il sollievo     wmasSÈ     IPOTESI «GIOACHIMITE» SUGLI AFFRESCHI DI GIOTTO     61     dalla croce perché si possa trovare nel Signore riposo dalle tribolazioni. Ciò  accadrà dopo i sei faticosi tempi del secondo stato che abbiamo detto essere  pertinenti piuttosto al Figlio, perché lo Spirito Santo dimostri di procedere dal  Figlio di Dio. Esso stesso lo definirò Spirito che procede dal Padre, perchè solo  uno e sempre lo stesso Spirito procede da entrambi. Per questa ragione la  glorificazione della settima età è stata rimandata fino a questi tempi, poiché i  tempi travagliati hanno impedito il riposo del sabato che è stato concesso solo in  parte e non integralmente, fino a che si compiano i tempi del secondo stato che  sono destinati alla fatica dei cristiani. È dunque per quanto annunziato dal  Padre e dal Figlio che crediamo che ognuno di loro sia vero Dio, e, cioè, che  il Padre non sia generato da alcuno come Dio ed altresì che il Figlio derivi come  Dio da Dio. Poiché, in realtà, il Padre ed il Figlio, dai quali procede lo Spirito  Santo, non sono simultaneamente due dei ma un Dio solo, secondo quanto  afferma il Figlio nel Vangelo dicendo: «Quando verrà lo Spirito Santo che io  invierò a voi dal Padre», occorrerà che si concludano in altro modo le sette età,  in maniera che vengano conteggiate fino a Cristo cinque età, ed, inoltre, la sesta  fino alla definitiva incarcerazione di Satana, ed, ancora, la settima fino alla  resurrezione dei morti.  Indice generale     1. Introduzione 1   2. Una breve storia del salterio a died corde 2   3. Il Discorso n.9 di Agostino "Sul salterio a dieci corde" 4   4. Il "Salterio a dieci corde" di Gioacchino da Fiore: il contesto storico   eilPrologo 8   5. Il "Salterio a dieci corde" di Gioacchino da Fiore: il Libro Primo....l2   5. Conclusione 20   Tavola Illustrativa 22   Bibliografia 23     IL SALTERIO A DIECI CORDE   UN'IMMAGINE MUSICALE NELLA RIFLESSIONE  TEOLOGICA MEDIEVALE   Martino Mocchi     1. Introduzione   La presente ricerca si colloca all'interno del seminario tenutosi  presso l'Universita di Pavia nel secondo semestre del 2010 "Teologia e  altri saperi nel Medioevo" e vuole essere un contributo alia  comprensione del difficile rapporto tra teologia e musica in quest 1 epoca.  In particolare verra presa in esame la figura del salterio a dieci corde  come esempio di un punto di contatto tra le discipline. Quello die  tradizionalmente e considerato lo strumento biblico per eccellenza,  viene infatti "preso a prestito" da alcuni ambiti della riflessione  teologica medievale, che attraverso una interpretazione simbolica e  allegorica ne arricchisce l'originaria disposizione. Dopo una  introduzione relativa alia storia dello strumento in epoca biblica e  medievale si considereranno nello specifico il Discorso n. 9 di Agostino, in  cui l'autore recupera l'immagme in un contesto prevalentemente  teologico-morale, e si proporra quindi una disamina del Primo libro  del Salterio a dieci corde di Gioacchino da Fiore, per mettere in luce la  valenza mistico-escatologica che qui viene attribuita alio strumento. Il  filo conduttore della ricerca consiste dunque nel rintracciare,  nell'ambito di una riflessione che nasce e si sviluppa aH'interno di un  contesto dichiaratamente teologico, ma che trae motivi e sostegno  argomentativo dal riferimento all'immagine di uno strumento musicale,  delle possibili influenze, o in qualche modo degli spostamenti di  traiettoria, dovuti all'interazione tra le due discipline.     2. Una breve storia del salterio a dieci corde.   L'interesse particolare per il salterio a dieci corde ha origine nel  testo biblico. Il Libro dei Salmi indica questo strumento come il piu  adatto per accompagnare il canto dei versi, e sembra essere attribuita  alio stesso Davide una certa abilita nella pratica di tale arte. Se i risultati  della moderna esegesi sembrano concordare nell'attribuire alia figura  di Davide un ruolo fondamentale nel processo di rinnovamento e di  consolidamento di una pratica musicale aH'interno della comunita  ebraica 1 , risulta ben piu problematica la collocazione definitiva dello  strumento in questione. La piu recente traduzione del Testo Sacro, in  diversi punti, preferisce rendere attraverso la locuzione piuttosto  generica di "strumento a corda" dei termini di poco chiara  comprensione musicologica.   Il libro della Genesi, particolarmente ricco di riferimenti a pratiche  e strumenti musicali, identifica nel kinnor lo strumento nel quale Davide  eccelleva. Dalla narrazione si evincono delle caratteristiche che  potrebbero awicinare come tipologia di strumento il kinnor e la lira  greca chiamata kithara 2 . D'altro canto, pero, la pratica musicale di tale  strumento prevede l'utilizzo di un plettro per pizzicare le corde, il che  sembra essere in contrasto con la traduzione proposta nella versione  dei Settanta: il termine psalterion rimanda infatti etimologicamente al  verbo psallein, che significa letteralmente "pizzicare con le dita".   Nel periodo dei Re la scena musicale di Israele muta radicalmente:  proprio sotto l'impulso di Davide e di Salomone si sviluppa  un'organizzazione e un'istituzionalizzazione delle pratiche musicali  all'interno della comunita. Nasce la figura del musicista di professione,  comincia a distinguersi in modo netto la musica di corte dalla musica  del Tempio, si costituisce una vera e propria accademia come luogo  dell'educazione musicale, e vengono inseriti, accanto a quelli  tradizionalmente usati, nuovi strumenti musicali. Alcuni di questi,  come per esempio il nevel, possono fornire delle utili indicazioni a  proposito del nostro strumento. Il nevel e certamente uno strumento a  corda: nella versione dei Settanta il termine e reso attraverso l'utilizzo  di tre parole distinte, una delle quali e proprio psalterion. La     Una tale interpretazione prende le mosse direttamente dal testo biblico, che in piu  punti sembra concordare nell'attribuire a Davide il ruolo di "poeta" e di "musico":  cfr. 1 Sam 16, 16; 18, 10; 2 Sam 1, 17; 3, 33.   Per l'argomento del presente capitolo si fara riferimento al testo di C. Sachs, Storia  degli strumenti musicali, tr. it. M. Papini, Mondadori, Milano, 1996. Si vedano in  particolare i capitoli V, VI, X.     trasposizione latina di questo termine tende a far prevalere psalterium in  tutti e tre i casi, tanto che nell'intera Vulgata questo termine occorre  diciassette volte. La traduzione puo far pensare ad uno strumento  simile all'arpa: lo stesso Gerolamo ci informa del fatto che «psalterium  lignum illud concavum unde sonus redditur superius habet» 3 . Sembra  quindi possibile associare la struttura del nevel a quella dell'arpa  verticale angolare, diffusa sia nell'area greca che in quella fenicia. La  questione e pero ulteriormente complicata da un altro termine che nel  libro dei Salmi compare frequentemente associato a nevel, ed e legato  strettamente alia problematica del salterio a dieci corde: il termine asor.  Questa parola letteralmente significa "dieci". L'esegesi ha piuttosto  uniformemente interpretato tale accostamento come il riferimento ad  uno strumento musicale con dieci corde. Piu recenti studi musicologici  hanno invece mostrato che il termine potrebbe essere piu  correttamente inteso non come attributo riferito a nevel, ma come  sostantivo. Come tale rimanderebbe quindi ad uno strumento  autonomo, a riguardo del quale e difficile formulare ipotesi. Potrebbe  essere infatti proprio questo lo strumento a dieci corde da cui ha preso  spunto la traduzione greca, come del resto non sembra possibile  escludere la possibility che il salterio a dieci corde sia stata una  "invenzione" dei traduttori greci e latini che non trova una  corrispondenza immediata nelle pratiche musicali ebraiche.   La problematica relativa alia classificazione degli strumenti a corda  in epoca medievale e ancora oggi piuttosto incerta 4 . Sicuramente e  attestabile una ampia diffusione di arpe e cetre, che differivano pero  tra loro anche notevolmente per quanto riguarda la forma, le  dimensioni, il numero delle corde e le accordature. Il salterio e senza  dubbio riconducibile alia famiglia delle cetre, e in particolare ad uno  strumento a corde pizzicate provenienti dall'area meridionale del  Vicino Oriente, il qanum. Tale strumento si distingue dal santir, che  costituisce un'altra tipologia di cetra proveniente dall'area asiatica, la  cui pratica musicale prevedeva la percussione delle corde attraverso  l'utilizzo di bastoncini. Sembra interessante sottolineare che la prima  rappresentazione grafica medievale di uno strumento simile al salterio  risale ad un rilievo del 1184 che si trova a Santiago de Compostela, e che     Dalla lettera di San Gerolamo a Dardano. La citazione si trova in C. Sachs, Storia  degli strumenti musicali, cit., p. 127.   Per una disamina della questione in epoca medievale, oltre al gia citato testo di  Sachs, si veda: Giulio Cattin, La monodia nel medioevo, EDT Edizioni, Torino, 1979; e  Alberto Gallo, La polifonia nel medioevo, EDT Edizioni, Torino, 1991.     in generale tali rappresentazioni sono piuttosto rare prima del '300.   Da queste considerazioni si puo dunque concludere che all'epoca in  cui maturano le riflessioni di Agostino e di Gioacchino da Fiore esisteva  uno strumento chiamato salterio. D'altro canto la sua diffusione  comincia ad avere una certa ampiezza solo in una fase piuttosto tarda  del medioevo. Bisogna infine tenere presente sullo sfondo il difficile  rapporto in epoca medievale tra musica liturgica e pratiche strumentali,  che rimane un tenia di ampio dibattito per la storiografia moderna.  Questo sembra awalorare l'ipotesi secondo cui la ripresa deH'immagine  dello strumento trae origine da un contesto esegetico-teologico molto  prima che dall'osservazione di una pratica musicale vera e propria.     3. Il Discorso n.9 di Agostino "Sul salterio a died corde".   Il Discorso di Agostino "Sul salterio a dieci corde" rappresenta un  punto essenziale per la comprensione e la formazione dell'immagine  "teologica" dello strumento in questione. Le attuali conoscenze  del corpus agostiniano non permettono di individuare con certezza ne la  data ne il luogo in cui tale discorso fu tenuto. Il recupero deirimmagine  del salterio si inquadra in questo caso all'interno di un contesto  propriamente teologico-morale: l'obiettivo e quello di delineare un  percorso di crescita morale per il credente basato sull'osservanza dei  dieci comandamenti. L'argomentazione trova quindi la sua forza nel  parallelismo che si instaura tra i dieci precetti divini e le dieci corde del  salterio.   Il punto di partenza consiste nell'indicare la necessita di trovare un  accordo con «l'avversario», che viene identificato con la parola di Dio,  dal momento che «comanda cose contrarie a quelle che fai tu» 5 . In un  certo senso, quindi, l'avversario sarebbe meglio identificabile con la  nostra disposizione interiore, che ci allontana da un comportamento  moralmente corretto in senso cristiano. Seguire le disposizioni interiori  risulta infatti molto pericoloso nell'ottica agostiniana, in quanto da un  lato si e spinti ad assecondarle poiche procurano un piacere immediato,  dall'altro proprio tale piacere e ricondotto alia sfera del sensibile e  rappresenta quindi una minaccia per la vita ultraterrena. Allora     Agostino, Tractatus de decern chordis; tr. it. P. Bellini, F. Cruciani, V. Tarulli, Trattato  sul salterio a dieci corde; in Agostino, Discorsi; sul vecchio testamento, Citta Nuova,  Roma, 1979; p. 153.     «perche dovremmo camminare allietati da inutili canti che non ci  porteranno alcun vantaggio, dolci nel presente, amari in futuro?» 6 .  L'emergere di questo tenia del canto ci permette di riferire lo stesso  schema sopra rilevato alia musica. Sembra delinearsi infatti una  concezione ambivalente di tale disciplina: da un lato, nel suo corretto  uso, rappresenta uno strumento di grande forza ed espressivita  interiore, che puo permettere all'uomo di innalzarsi verso la sfera  divina. Dall'altro, se considerata nella sua dimensione sensibile, puo  essere la fonte di un «appagamento dell'orecchio» che rappresenta un  motivo di corruzione. Va notato che una tale impostazione e  riscontrabile in numerosi passi di Agostino, in primis nel De musica, ed e  un'eredita che l'ipponense riceve da una lunga tradizione filosofica  riconducibile come minimo a Platone 7 . La problematica ha avuto una  grande fortuna nella discussione della prima patristica 8 in relazione alle  modalita della pratica religiosa, e rimane uno sfondo obbligato per la  comprensione della musica cristiana in tutto il Medioevo 9 .   Su questo sfondo Agostino introduce il tema piu propriamente  morale, recuperando la figura del salterio:   «ecco, porto il salterio, ha dieci corde [...]. Perche e aspro il suono del  salterio di Dio? Cantiamo tutti con il salterio a dieci corde. Vi cantero  quello che dovrete fare. Il decalogo della legge infatti ha dieci  comandamenti». 10   L'asprezza attribuita al suono dello strumento non e evidentemente da  ricondurre ad un ambito musicale, quanto da intendere in senso  figurato come metafora della difficolta del cammino da compiere per  ottenere la benevolenza divina. La giustificazione del recupero  deirimmagine dello strumento e indicata nel legame ideale che si  instaura tra i dieci comandamenti e le dieci corde. In relazione a questo  tema e da rilevare come Agostino, riprendendo una esegesi molto  diffusa, distingua i primi tre comandamenti, e quindi le prime tre     6 Ivi, p. 159.   7 Si veda il VII libro delle Leggi, e il III libro della Repubblica, per esempio.   8 Un'analisi piu puntuale di tale discussione, interpretata in relazione alia  concezione agostiniana, si trova in: P. Sequeri, Musica e mistica, Libreria Editrice  Vaticana, Citta del Vaticano, 2005, cap. 2, pp. 45-106.   9 Si veda in particolare l'ampia discussione sul rapporto tra musica cantata e musica  strumentale, e il problema della musica vulgaris in relazione alia musica liturgica.  Una disamina di tali questioni si trova nei testi gia citati di Giulio Cattin e Alberto  Gallo.   10 Agostino, Sul salterio a dieci corde, cit., p. 159.     corde, che rimandano ai doveri verso Dio, dai successivi sette, che  danno disposizioni relative al comportamento verso i propri simili.  Sebbene l'intento primario del discorso non sia un intento musicale, la  metafora istituita tra il percorso cristiano e la figura del salterio e  portata fino in fondo: dal corretto utilizzo dello strumento, che  corrisponde al rispetto disciplinato dei comandamenti, emerge il  «canto nuovo», che si contrappone al vecchio proprio come l'uomo  nuovo, che nasce a seguito della venuta di Cristo, si contrappone  all'uomo dell'Antico Testamento. Il canto d'amore che nasce con Cristo  prende il posto del timore, che lega l'osservanza della legge alia paura  della punizione divina. E 1 questo il nocciolo argomentativo del discorso,  e il tema viene ribadito in piu punti. Al capitolo 8 Agostino afferma:   «Cambiate il comportamento. Prima amavate il mondo, ora amate  Dio. [...] Se lo fate con amore, cantate il canto nuovo. Se lo fate con  timore, ma lo fate, portate si il salterio, ma ancora non cantate» n .   Nel capitolo 13, che rappresenta il culmine del discorso,  l'argomentazione viene ribadita attraverso l'utilizzo di una metafora  che le conferisce una grande forza persuasiva. L'osservanza dei  comandamenti deve implicare contemporaneamente un atto di  ringraziamento a Dio per la grazia concessa, e un atto di repulsione e di  lotta interiore contro la passione sensibile. Il credente, quindi, deve  comportarsi da un lato come il suonatore di cetra che innalza le sue lodi  a Dio, dall'altro come il gladiatore che uccide senza compassione le  belve nell'arena. Il passo merita di essere citato testualmente:   «Negli spettacoli dell'anfiteatro il gladiatore e diverso da chi suona  la cetra. Nello spettacolo di Dio unica e la persona. Tocca le dieci  corde e ucciderai le dieci belve: fai insieme tutte e due le cose. Tocchi  la prima corda, con la quale si comanda di adorare un solo Dio, cade  la bestia della superstizione. Tocchi la seconda corda con la quale  non pronunci erroneamente il nome del Signore tuo Dio, cade la  bestia dell'errore delle nefande eresie che hanno creduto falsamente.  Tocchi la terza corda, per cui qualunque cosa fai la fai per nella  speranza del riposo futuro, viene uccisa la bestia, piu crudele delle  altre, dell'attaccamento a questo mondo» 12 .   Lo stesso discorso vale per i successivi sette comandamenti, che  enunciano i nostri doveri verso gli uomini, fino a che     11 M, p. 165.   12 Ivi, p. 173.     «cadute tutte le bestie ti trovi sicuro e innocente nell'amore di Dio e  in mezzo alia societa umana. Quante bestie uccidi toccando le dieci  corde! Molti capi infatti si nascondono sotto questi vizi capitali.  Nelle singole corde non uccidi singole bestie, ma greggi di bestie.  Facendo in questo modo canterai il canto nuovo con amore, non con  timore» 13 .   Il «canto nuovo», dunque, si puo innalzare attraverso l'osservanza  dei comandamenti divini. Si istituisce cosi una contrapposizione tra  l'uomo vecchio dell'Antico Testamento che basa sul timore l'osservanza  della Legge divina, e l'uomo nuovo che nasce con la rivelazione di  Cristo che basa sull'amore verso Dio e verso il prossimo la propria  condotta. In questa contrapposizione e centrale l'elemento del canto: il  canto esteriore, che si fonda sull'appagamento sensibile, rappresenta la  pratica musicale dell'uomo vecchio, mentre il canto interiore, che  innalza il nostro animo a Dio, e proprio dell'uomo nuovo. E' quindi  significativo come, attraverso il ricorso alia musica, Agostino voglia  argomentare la pericolosita delle passioni terrene. Nella sua intrinseca  ambivalenza e nella sua sfuggente duplicita, proprio la musica diventa  il modello della fragilita e della corruttibilita dell'uomo: anche un  elemento apparentemente cosi puro e spirituale puo trasformarsi in  una causa di corruzione per colui che non si comporta in conformita  alia parola di Dio. L'ammonimento, che trova il suo motivo e il suo  compimento all'interno di un contesto teologico-morale, risulta  certamente arricchito e reso persuasivo attraverso il ricorso a questa  metafora musicale.   Negli ultimi capitoli del discorso Agostino, seguendo uno schema  piuttosto consolidato, traduce l'argomentazione fino a questo punto  esposta in un lessico neotestamentario: il decalogo di Mose puo essere  sintetizzato nelle formule evangeliche «ama il prossimo tuo come te  stesso» 14 e «non fare agli altri cio che non vuoi sia fatto a te» 15 .  Conseguentemente, l'immagine del canto interiore ed esteriore viene  riformulata attraverso l'espressione «siate cristiani, perche e troppo  poco chiamarsi cristiani». 16   E' importante notare come le riflessioni qui proposte siano presenti,  seppur in maniera meno sistematica, nei commenti di Agostino ai  Salmi: nel commento al Salmo 32 compare il paragone tra i dieci     13 Ivi, p. 175.   14 Mt 19, 19; Mc 12, 31; Lc 10, 27.   15 Mt 7, 12; Lc 6, 31.   16 Agostino, Sul salterio a dieci corde, cit., p. 187.     comandamenti e le dieci corde del salterio, nel commento al Salmo 143  il tema centrale del canto nuovo che nasce attraverso la carita 17 . Questo  particolare e di una certa rilevanza per la nostra ricerca, dal momento  che permette di dare per scontata la conoscenza delle posizioni  agostiniane da parte di Gioacchino da Fiore. E 1 del tutto implausibile  infatti pensare che l'abate cistercense non conoscesse il testo  delle Enarrationes, mentre non sarebbe altrettanto da dare per scontata  la conoscenza del Discorso fin qui considerato. Senza voler in questa  sede risolvere un problema che meriterebbe una piu approfondita  indagine storiografica, si vuole rilevare che la ripresa delle posizioni  agostiniane da parte di Gioacchino, in questo contesto argomentativo,  si riferisce sicuramente ai passi citati dell 1 Esposizione sui Salmi, mentre  sembra trascurare alcuni elementi che pur assumono una importanza  non secondaria nel Discorso.     4. Il "Salterio a dieci corde" di Gioacchino da Fiore: il  contesto storico e il Prologo   Lo Psalterium decern chordarum rappresenta il principale contributo  di Gioacchino da Fiore sul tema della trinita, ed e dunque da inquadrare  aH'interno di uno dei dibattiti piu accesi della discussione teologica del  XII secolo. In seguito al confronto, di vastissima risonanza, che vide  contrapposte le figure di Abelardo e di Bernardo di Clairvaux, la disputa  fu ravvivata dalla pubblicazione delle Sententiae di Pietro Lombardo, tra  gli anni 1155-1157. Le tesi contenute in quest'opera suscitarono aspre     17 Si veda anche il commento al Salmo 91 dove compare il tema sintetizzabile nella  massima «siate cristiani, non ditevi cristiani». Un altro tema particolarmente  ricorrente nelle Enarrationes consiste nella differenza tra la cetra e il salterio.  Nell'interpretazione agostiniana infatti in relazione alia differente disposizione  della cassa di risonanza i due strumenti rappresentano lo spirito (il salterio, che ha  la cassa disposta verso l'alto) e la carne (la cetra, la cui cassa e invece orientata  verso il basso). Il tema compare in diversi passi: si veda 70 d 2, 11; 80, 5; 97, 5; 150,  6-7. Particolarmente interessante e la formulazione nel commento al Salmo 70:  «c'e una differenza tra la cetra e il salterio. Gli esperti dicono che il salterio ha  nella parte superiore quel legno concavo su cui sono tese le corde e fa da cassa di  risonanza, mentre la cetra lo ha nella parte inferiore». Il riconoscimento di un  particolare cosi macroscopico non sembra certo necessitare il riferimento a giudizi  "esperti". Si potrebbe pensare, addirittura, che Agostino non avesse mai visto  personalmente gli strumenti in questione.   8     critiche da parte di diversi opposition 18 , tra i quali proprio Gioacchino  da Fiore. Quest'ultimo, infatti, prende una posizione decisa contro gli  argomenti sostenuti dall'allievo di Abelardo, fino al punto di vedere  condannata la sua stessa opera nel IV Concilio Lateranense, nel 1215. Il  nocciolo della disputa e la distinzione tra sostanza e persone divine, che  risulta comunemente accettata nelle principali scuole teologiche del XII  secolo.   Gioacchino arriva a sostenere la «follia» di una tale impostazione,  teorizzando, al contrario, la perfetta compenetrazione e corrispondenza  tra la sostanza e le persone della trinita. Nella sua ottica, l'unita  inscindibile che caratterizza la trinita non puo prevedere distinzioni di  alcuna sorta: e piuttosto il carattere relazionale che permette di  garantire la fusione perfetta tra le tre persone, e alio stesso tempo il  loro riconoscimento singolare, come dimostra chiaramente la figura del  salterio. Distinguendo la sostanza dalle persone della trinita, invece,  Lombardo «e come se mettesse tre dieci al posto delle tre persone, e un  quarto dieci al posto della sostanza, come se Dio non fosse trinita, ma  una quaternita» 19 . La figura argomentativa che viene posta al centro  della critica e quella tradizionale dei tre rami provenienti dalla stessa  radice: la sostanza, secondo questa metafora, sarebbe distinguibile dalle  tre persone divine, proprio come i rami lo sono dalla radice, dalla quale  pure tutti sono generati. Per Gioacchino, al contrario, l'immagine a cui  si dovrebbe fare ricorso e quella dell'acqua, che come linfa vitale scorre  aH'interno dei rami stessi. Da questi passi si puo dunque intuire come  l'obiettivo polemico principale sia proprio l'autore delle Sententiae,  anche se e da rilevare che il suo nome non viene mai citato  esplicitamente. I nomi che ricorrono in piu punti, invece, sono quelli  degli eretici Sabellio e Ario, le cui eresie consistono nel ridurre, il  primo, la trinita ad una sola persona 20 , mentre il secondo nel separare  in modo inconciliabile le tre persone, che vengono distinte per grado  dimensionale: «come se al Padre offrisse dieci, al Figlio cinque, alio     18 Si ricorda ad esempio Gerhoh di Reichersberg, le cui posizioni ebbero grande  influenza sul Papa Alessandro III, e Giovanni di Cornwall. Per un'analisi piu  puntuale del dibattito si veda G. L. Potesta, J/ tempo dell'Apocalisse. Vita di Gioacchino  da Fiore, Laterza, Roma Bari 2004, cap. 3, pp. 36-41.   19 Gioacchino da Fiore, ll salterio a dieci corde, tr. it. di F. Troncarelli, K. V. Selge, Viella,  Roma 2004, p. 173.   20 Sabellio teorizza infatti la rigorosa unita e indivisibility di Dio, formato da una sola  persona, l'ipostasi, e tre nomi, che descrivono le diverse forme o attributi propri  della sua manifestazione. Il figlio e lo Spirito Santo sono quindi soltanto "modi"  dell'apparire del Padre scelti in base al proprio volere.     Spirito Santo un numero piu piccolo». 21   La stesura dell'opera si colloca all'interno di una vicenda biografica  particolare, di cui e lo stesso Gioacchino ad informarci. Il Prologo  dell'opera, infatti, consiste in un ripensamento a posteriori sulla genesi  di questo «opuscolo dedicato alio Spirito Santo» 22 , che rappresenta la  terza delle sue opere principali 23 . Il tenia principale su cui si insiste in  queste pagine e la spontaneita e l'immediatezza che hanno  caratterizzato l'elaborazione e la stesura di tale opera. Gli anni in cui  questo awiene sono quelli del soggiorno presso l'abazia di Casamari:  anni di grande entusiasmo intellettuale, in cui Gioacchino, «lontano  dagli affari del mondo, o quasi», arriva a sentirsi addirittura «un  abitante della citta superiore, celeste di Dio» 24 . Si tratta degli anni tra il  1182 e il 1185, in cui gli sforzi intellettuali dell'abate sono rivolti  alia Concordia Novi ac Veteris Testament^ che sara portata a termine solo  qualche tempo piu tardi. E 1 proprio durante la stesura di quest'opera,  infatti, che l'animo di Gioacchino viene scosso da una inaspettata  «esitazione nella fede della trinita» 25 , che impone una riflessione su  questo difficile argomento. Il lavoro sulla Concordia viene quindi  interrotto, nell'interesse di una problematica costitutiva ed  imprescindibile per qualsiasi riflessione teologica. La stessa  immediatezza che caratterizza il sorgere del problema si ritrova nel  percorso che porta alia scoperta di una soluzione:   «pregai [lo Spirito Santo] che si degnasse di mostrarmi il sacro  mistero della Trinita. E dicendo questo incominciai a cantare i salmi.  [...] Ed ecco subito mi si presento all'animo l'immagine del salterio     21 Gioacchino da Fiore, II salterio a dieci corde, cit., p. 173. La tesi fondamentale di Ario  consiste nella negazione della consustanzialita tra il Padre e il Figlio, a partire  dall'idea che l'unita di Dio e incompatibile con la pluralita delle persone divine. Il  Figlio, quindi, non ha la stessa natura del Padre, ma e la sua prima creatura, con la  conseguenza che l'incarnazione e la resurrezione di Cristo non possono essere  considerati eventi divini. il dibattito sull'arianesimo infiammo la disputa teologica  del IV secolo, e si concluse con la condanna delle tesi di Ario durante il Concilio di  Nicea del 325.   22 Gioacchino da Fiore, Il salterio a died corde, cit., p. 4.   23 Le altre due opere che costituiscono il corpus principale gioachimita sono  la Concordia Novi ac Veteris Testamenti e I'Expositio in Apocalypsim. Va qui notato che  l'indicazione del "Salterio a dieci corde" come "terza" opera e sostenuta  conformemente alle istruzioni date dallo stesso Gioacchino. Tale affermazione non  e riconducibile a ragioni cronologiche, quanto probabilmente ad un ripensamento  tematico sui propri scritti da parte dell'autore.   24 Gioacchino da Fiore, Il salterio a dieci corde, cit., p. 4.   25 Ibidem.   10     a dieci corde e racchiuso nella sua forma stessa in modo chiaro e  comprensibile il mistero della trinita» 26 .   Una vera e propria illuminazione, che scaturisce dalla grazia divina: un  percorso che sembra orientarsi ben piu sul versante mistico che su  quelle- speculativo-razionale. In questo contesto il tenia del canto  riveste un ruolo essenziale, come chiave di accesso ad un'intima  comunicazione con la parola di Dio. Il concetto viene ribadito in un  altro passo del Prologo:   «quando, con fervore di novizio cominciai ad amare il canto dei  salmi a causa di Dio, molti aspetti della scrittura divina che prima  leggendo non avevo potuto investigare, cominciarono a dischiudersi  a me che cantavo i salmi in silenzio» 27 .   Il carattere mistico del canto, che puo innalzare lo spirito verso  quei misteri che risultano oscuri alia lettura razionale, emerge in  queste righe con estrema efficacia. Alio stesso tempo, pero, non si puo  trascurare l'elemento del «canto silenzioso», che sembra rimandare  invece all'altro versante della concezione platonico-agostiniana: la  valenza corruttrice dell'elemento sensibile. Un canto che viene quindi  ricercato in un grado tale di purezza da poter arrivare addirittura ad  annullare se stesso. L'indicazione di Gioacchino, in questo punto, non  sembra volersi spingere fino a questa paradossale conclusione, che pur  e stata teorizzata da diversi autori in epoca medievale. Il recupero  dell'elemento musicale, come si vedra, procede piuttosto in conformita  all'impianto complessivo dell'opera, finalizzato ad «esaltare le  potenzialita figurali e le implicazioni visive della Sacra pagina. L'idea e  di attingere a un repertorio di enti visibili per accedere ah"invisibile» 28 .   Si potrebbe dire che l'elemento figurato incarna ed esplica, in un  certo senso, il contenuto di verita degli argomenti teorici qui proposti.  Se da un lato questa incarnazione segna anche il punto di partenza per  un percorso spirituale che, pur procedendo al di fuori del confine della  razionalita logica, puo innalzare alle sfere del divino, dall'altro lato la  coerenza argomentativa non puo essere garantita se non all'interno del  riferimento ad un elemento materiale, esperibile, concretamente  attingibile. Il "canto silenzioso" non sembra quindi poter arrivare ad  eliminare la musicalita del canto sensibile, quanto piuttosto si  caratterizza come la prova tangibile di un dissidio non ancora risolto,     26 Ibidem.   27 Ivi.p. 3.   28 G. L. Potesta, II tempo dell'Apocalisse, cit., p. 37.     11     di un'ambivalenza strutturale nell'interpretazione della musica, che  dovra passare anche il confine del XII secolo prima di trovare una  soluzione.   La struttura dell'opera permette una divisione interna in due parti:  la prima comprendente il libro primo, la seconda il libro secondo e  terzo. Tale distinzione interessa sia il contenuto semantico, sia il  periodo di stesura: e lo stesso Gioacchino ad informarci del fatto che il  secondo e il terzo libro «non li scrissi ne in quel luogo ne in quell'epoca,  ma dopo circa due anni» 29 . E 1 un'informazione non sorprendente alia  luce del contenuto, che sembra separato da una linea ben definita. La  differenza consiste nel fatto che, mentre nella prima parte il "salterio"  rappresenta lo strumento musicale fin qui considerato, e la sua ripresa  e relativa alia disputa sulla trinita, lo stesso termine viene usato nella  seconda parte per indicare il libro biblico dei Salmi, a partire dal quale  viene costruita una prospettiva escatologica ed esegetica che si basa sul  numero 150, che corrisponde appunto al totale dei Salmi. Se la prima  parte si contraddistingue, come visto, per il carattere di immediatezza e  spontaneita della riflessione, la seconda appare, invece, certamente piu  pensata, piu costruita, in riferimento ad un ingente e puntuale recupero  del testo sacro. Caratteristiche che la avvicinano certamente piu alia  produzione escatologica di Gioacchino, che non al resto dell'opera. Si  potrebbe pensare, come afferma Potesta, che il materiale che forma  questi libri sia il risultato di una serie di appunti raccolti in circa un  decennio di riflessioni sulla Concordia e sull'Expositio, e che trova una  sistemazione definitiva piuttosto tarda. In ogni caso e evidente che e la  prima parte dell'opera ad interessare piu direttamente il tema della  nostra ricerca. Sara questa, dunque, l'oggetto del prossimo paragrafo.     5. Il "Salterio a dieci corde" di Gioacchino da Fiore: il  Libro Primo   Il Primo libro del Salterio a dieci corde parte dall'immagine dello  strumento musicale per indagare la «ricchezza dei misteri» in essa  contenuti. Misteri che derivano dall'origine divina, per cui «niente puo  esservi di sterile o vano» 30 . Il riferimento e, ovviamente, in primo luogo  al testo biblico, e in particolare alia figura di Davide, autore dei Salmi,     29 Gioacchino da Fiore, Il salterio a dieci corde, cit., p. 4.   30 Ivi, p. 6.     12     di cui vengono citati alcuni passi che rimandano all'utilizzo del salterio  nelle pratiche liturgiche ebraiche 31 . La struttura del libro risulta divisa  in sette capitoli, o "distinzioni", in cui progressivamente vengono  introdotti nuovi elementi per una comprensione che passa dal piano  della semplice descrizione alio svelamento della prospettiva  escatologica contenuta nella forma dello strumento.   La prima distinzione introduce la figura del salterio, che viene  descritto come uno strumento «bello di forma, aggraziato per il suono,  soave per la modulazione» 32 . Le caratteristiche che compaiono in questo  passo sono notevolmente diverse da quelle che si sono viste prevalere  nella descrizione agostiniana, in cui «aspro e il suono dello strumento  di Dio» 33 . Il riferimento e il confronto con gli elementi contenuti  nelle Enarrationes appare del resto evidente fin dalle prime righe del  capitolo: Gioacchino riprende, seppur in maniera estremamente  sintetica, la distinzione tra il salterio e la cetra nella loro differente  funzione spirituale, il paragone tra le dieci corde e i dieci  comandamenti, la differenza tra le prime tre corde e le successive  sette. E in seguito compare il tema dell 1 «uomo nuovo che e stato creato  a immagine di Dio» 34 , che nasce dal "canto nuovo" del salterio. Se e  facile dunque riconoscere sullo sfondo la presenza e la conoscenza delle  tesi agostiniane, risulta altrettanto semplice vedere come Gioacchino  proceda, ben presto, verso l'elaborazione di un percorso autonomo, che  per alcune implicazioni e addirittura contrastante con le posizioni  dell'ipponense 35 .     31 Sal. 80, 3: "Intonate il cantico e suonate il timpano, il giocondo salterio e la cetra";  Sal. 150, 3: "Lodatelo col suono della tromba, lodatelo col salterio e la cetra".   32 Gioacchino da Fiore, II salterio a dieci corde, cit., p. 7.   33 Agostino, Sul salterio a dieci corde, cit., p. 159.   34 Ef. 4, 24.   35 La problematica relativa al complesso rapporto tra Agostino e Gioacchino esula  dagli obiettivi di questa ricerca. Si vuole d'altra parte richiamare, almeno in  termini generali, lo sfondo entro il quale collocare la discussione. Potesta indica  proprio nel «confronto a distanza con l'inquietante ombra di Agostino un motivo  per capire il laborioso ed esitante procedere della ricerca teologica di Gioacchino»  (G. L. Potesta, Il tempo dell'Apocalisse, cit., p. 8). Il termine centrale del dibattito  consiste nel divieto espresso da Agostino di interpretare l'Apocalisse in chiave  millenaristica. Questo rappresenta un grande scoglio per lo sviluppo complessivo  della ricerca dell'abate calabrese, interessato, in primo luogo, proprio ad  un'interpretazione della storia a partire dall'analisi del testo dell'Apocalisse. In  particolare, la chiave di volta del pensiero gioachimita si basa sull'interpretazione  dei versetti del capitolo 20 come preannuncio di un'epoca terrena di cui e  imminente l'instaurazione. Su questo sfondo diversi sono gli elementi di  incompatibilita tra i due pensatori, che riguardano del resto le opere in cui la   13     Il punto di partenza di questo percorso consiste nell 1 inter pretare  in primo luogo il salterio secondo la sua forma esterna, senza fare  riferimento alia natura delle corde, che invece rappresenta il principale  motivo di interesse della ripresa agostiniana. La forma triangolare  rimanda alia perfezione e alia natura inscindibile dell'unita trinitaria:  ad ogni vertice puo infatti essere associato il nome di una delle tre  persone, come si puo vedere dalla figura 1 riportata in Appendice. Si  puo quindi immediatamente notare come ogni persona sia  costitutivamente messa in relazione alle altre: proprio come il vertice  non puo essere individuato se non come punto di incontro delle rette  che provengono dagli altri due. L'intero spazio delimitato dalla figura si  caratterizza quindi come uno spazio indissolubilmente unitario, in cui  ogni elemento non puo che definirsi nel rapporto con il tutto, ma alio  stesso tempo e individuabile in uno dei tre vertici. In questo complicato  rapporto e l'elemento relazionale a fondare le possibility di  comprensione da parte della mente umana: ogni persona non e  pensabile se non come relazione che si instaura con le altre due.   «ll concetto di trinita si riferisce, dunque, alia categoria di relazione  a qualcosa; e ugualmente quello di unita: la trinita a evitare il  singolare della parola di persona; l'unita a evitare la divisione nel  concetto di sostanza». 36   Sullo sfondo del riferimento polemico alle tesi di Pietro Lombardo,  risulta evidente come sia dunque la categoria di relazione ad indirizzare  e guidare la mente neiravvicinamento ad un mistero che per sua  essenza rimane inarrivabile per le nostre facolta razionali. Di fronte a  questa presa di coscienza non e piu concesso cercare di spingersi oltre,  quanto piuttosto e da accettare la massima di Bernardo secondo cui  «voler investigare cio e orgoglio, crederlo e pieta» 37 . Non resta dunque  che un atto di fede di fronte ad un tale mistero, che per sua natura  rimane «ineffabile» 38 . L'ineffabilita di tale mistero sembra riaprire nella     prospettiva escatologica emerge in modo prevalente, come nel caso dell' Expositio.  L'interesse per l'Agostino musicus e quindi del tutto marginale, nel complesso del  pensiero di Gioacchino, e viene qui richiamato solo per favorire la comprensione  della particolarita dell'approccio gioachimita nei confronti dello strumento del  salterio. Un tale confronto, del resto, potrebbe fornire qualche interessante  indicazione per una comprensione piu generale del problema.   36 Gioacchino da Fiore, II salterio a died corde, cit., p. 17.   37 Ivi, p. 20.   38 Ibidem. L'utilizzo di questo termine per descrivere Palterita del mistero trinitario  rispetto alia nostra comprensione razionale avvicina curiosamente la riflessione di  Gioacchino ad un'area di indagine che ha avuto grande fortuna nell'eta moderna,   14     riflessione uno spazio per l'elemento propriamente musicale: tra le arti  e tradizionalmente la musica, infatti, proprio a causa della sua non  corrispondenza con un corpo sensibile, della sua costitutiva  impalpability, ad avere il carattere piu sfuggente, apparentemente  altro. Ineffabile, appunto. Di fronte al fallimento delle nostre facolta  razionali, che devono dichiarare la resa, resta quindi all'uomo ancora  una possibility per mantenere aperto uno spiraglio, un punto di  contatto con il mistero divino: l'elemento musicale, attraverso cui  esprimere la propria invocazione di lode a Dio. Il salterio, in queste  pagine, cessa di essere interpretato esclusivamente come una forma  geometrica per cominciare ad essere considerato secondo la sua  disposizione originaria di strumento musicale. Ai vertici si puo quindi  collocare il termine "Santo", che ripetuto tre volte rappresenta la  perfezione del canto di lode, mentre nel foro della cassa di risonanza si  puo inscrivere il nome del "Signore Dio degli eserciti", simbolo  dell'onnipotenza divina. E proprio questo foro da un lato rappresenta  l'elemento da cui scaturisce la vibrazione sensibile che rende udibile il  canto, dall' altro il fine stesso verso cui tale canto e rivolto.   L'ultimo passo compiuto da Gioacchino in questa prima distinzione  consiste nel mettere in relazione proprio questi due elementi  geometrici che contraddistinguono la forma del salterio: il triangolo e il  cerchio. Questa caratteristica permette di rimarcare la sfuggente  natura del mistero trinitario: nei vertici del triangolo sono infatti  distinguibili le persone divine, e d' altro canto il cerchio simboleggia la  loro intima connessione che forma un'unita inscindibile. La metafora  puo essere estesa al fatto che proprio in questa unita, cioe nell'elemento  circolare che rappresenta la cassa armonica da cui fuoriesce il suono, lo  strumento compie la sua funzione. La correttezza dell'argomentazione  e ulteriormente giustificata attraverso il riferimento al versetto di  Apocalisse 1, 8: "lo sono l'alfa e l'omega". L'essere atemporale di Dio, il  suo essere al principio come nella fine, e espresso in questo passo  biblico proprio in relazione alia prima e all'ultima lettera dell'alfabeto  greco, le cui raffigurazioni grafiche consistono in un triangolo e in un  cerchio. Il riferimento al passo biblico conclude gli sforzi di Gioacchino  in questa prima distinzione: la perfezione del salterio, attraverso cui si  incarna in una forma compiuta il mistero trinitario, eleva ad una     proprio nell'ambito della riflessione filosofico-musicale: si veda in particolare  Vladimir Jankelevitch, La musica e Vineffabile, 1961. Sebbene non si possa attribuire  a Gioacchino, evidentemente, alcuna intenzionalita nell'utilizzo di questo termine,  il confronto tra le prospettive potrebbe portare ad interessanti conclusioni.   15     prospettiva che permette di abbracciare la perfezione dell'immagine di  Dio nella pienezza dei tempi. Di fronte a questo la ragione e costretta a  fermarsi, e proprio in quel punto deve cominciare il canto.   Nella seconda distinzione Gioacchino insiste sull'elemento  relazionale come chiave interpretativa e risolutiva del mistero della  trinita. Ricorrendo ancora una volta aH'immagine del salterio, la  prospettiva e delineata attraverso l'osservazione per cui i tre vertici  non possono essere considerati elementi autonomi, ma relazionali,  prodotti dall'unione di due rette secanti. Rette che rappresentano  proprio l'unione di ogni vertice con gli altri due, in modo che nessun  punto potrebbe esistere se non in riferimento agli altri. Lo spazio che  pertiene ad ogni persona, non e pero da intendersi come il singolo  punto isolato, ma come l'angolo avente il suo vertice in quel punto, che  come tale e rappresentato dall'area che sta in mezzo ai lati dell'angolo  stesso. Si puo notare, quindi, che lo spazio di ogni persona coincide con  l'intera area del triangolo. Anzi, ogni area si costituisce in quanto tale,  cioe come porzione delimitata di spazio, proprio attraverso la relazione  con le altre due, che le impediscono di estendersi all'mfinito.   La terza distinzione contiene una discussione prettamente teologica  sugli attributi delle tre persone divine, e riguarda in modo meno diretto  il tema della nostra ricerca. Si vuole solo osservare come anche questa  prospettiva permetta a Gioacchino di insistere sul concetto di relazione  come elemento centrale per una corretta interpretazione del problema:  la potenza, la sapienza e la carita, caratteristiche che vengono  tradizionalmente attribuite al Padre, al Figlio e alio Spirito Santo, non  sono da concepire come elementi distinti e separabili tra loro, dal  momento che «tutta la trinita e perfetta potenza, tutta la trinita e  perfetta sapienza, tutta la trinita e perfetto amore» 39 .  Conseguentemente «non sono maggiori o hanno di piu le tre persone,  di quello che ha ciascuna, e non ha meno una, di quello che hanno le tre     insieme» 40 .     Nella quarta distinzione si introduce un nuovo elemento  nell'interpretazione del salterio, che consiste nell'osservare che il  vertice superiore non e rappresentato attraverso un singolo punto, ma  da un segmento. Questo esprime la priorita del Padre da cui viene  generato il Figlio e successivamente lo Spirito Santo, che procede da  entrambi. L'argomentazione assume in queste pagine dei tratti piuttosto  originali, strutturandosi sulla base di un parallelismo ricercato tra     39 Gioacchino da Fiore, II salterio a died corde, cit., p. 31.   40 Ibidem.     16     l'argomento teologico e la nostra modalita di scrittura. Il procedere  della scrittura cristiana da sinistra verso destra starebbe infatti a  conferma del fatto che la creazione ha inizio col Padre, che genera in  primo luogo il Figlio (lato e vertice sinistro), la cui unione produce lo  Spirito Santo (inteso come vertice destro). Al contrario, stando alle  Scritture, in epoca ebraica Cristo e stato concepito attraverso il corpo di  Maria «per opera dello Spirito Santo» 41 . Questo fatto e testimoniato dal  procedere della scrittura ebraica da destra verso sinistra. Gioacchino,  del resto, si rende conto che gli elementi introdotti in queste pagine  potrebbero indurre a pensare a una differenza di grado tra le persone  divine, il che sarebbe assolutamente errato. E 1 necessario, quindi,  spingere la lettura interpretativa ancora piu in la, osservando che il  segmento superiore e tale dal momento che in origine non e soltanto il  Padre, ma l'intera trinita, poiche «presso Dio non c'e mutamento, ne  l'ombra della vicissitudine» 42 . La forma trapezoidale del salterio indica  quindi che, fin dal principio, erano presenti le tre figure della trinita: e  questo l'argomento della quinta distinzione.   Il confronto tra la particolare considerazione del salterio che viene  fatta nella quarta e nella sesta distinzione, permette di mettere in luce  ancora una volta la peculiarity della riflessione di Gioacchino che,  basandosi sul recupero di un'immagine "musicale", oscilla tra le due  sponde della rigida argomentazione teologica e dell'emozione mistica  rappresentata dal canto. Il termine "Onnipotente" che compariva nel  vertice del Padre viene qui sostituito da "chiediamo": il salterio torna a  essere uno strumento musicale attraverso cui innalzare la nostra  invocazione a Dio. Ancora una volta, di fronte all'incertezza della  ragione, che si trova a dover contemplare l'incommensurabile  perfezione dell'eterna esistenza di Dio, sopravvive l'elemento musicale,  inteso da un lato come strumento di comprensione mistica del mistero  divino, dall'altro come ringraziamento per la grazia concessa. Su questo  sfondo Gioacchino riprende il filo della riflessione teorica:  l'affermazione dell'eterna esistenza della trinita lascia aperto il  problema relativo al suo manifestarsi all'interno del tempo umano:  perche Dio, essendo trino fin dal principio, non si e da subito rivelato  all'uomo nella sua essenza piu autentica?   La domanda introduce all'interno di una prospettiva escatologica,  che Gioacchino argomenta attraverso una riflessione sul percorso di  maturazione dell'uomo. Dio ha dovuto in un certo senso aspettare che     41 Mt 1,18; Lc 1,26-38; Gv 1,6.   42 Gcl,17.     17     l'uomo fosse in grado di comprendere la sua rivelazione: per questo a  quel «popolo ancora rozzo» 43 che fu quelle- dell'Antico Testamento si  mostro solo come Padre, perche la sua natura trina sarebbe stata  fraintesa in senso politeista. In seguito solo a qualche spirito  particolarmente elevato, come quello dei profeti, e stato dato di  comprendere il mistero, come dimostra Isaia che in piu punti si rivolge  "apertamente" al Figlio: «Signore, chi crede al nostro udito, e il braccio  di Dio a chi e stato rivelato? E salira come un virgulto davanti a lui e  come una radice dalla terra assetata» 44 . Solo con l'avanzare della  maturazione dell'uomo, cioe con il popolo cristiano, «piu vecchio  nell'eta» 45 , Dio si e potuto mostrare nella sua reale essenza. A questo  schema apparentemente binario, che si struttura in riferimento alia  contrapposizione Antico-Nuovo Testamento, Gioacchino fa seguire  un'interpretazione ternaria del tempo della storia dell'uomo, che viene  suddiviso in riferimento alle figure della trinita 46 .   L'argomento viene meglio sviluppato nel libro secondo, in cui  all'epoca del timore e a quella dell'amore, che tradizionalmente  corrispondono al tempo della Legge e quello inaugurato con la venuta  di Cristo, Gioacchino fa seguire una terza epoca, che sta per cominciare,  sotto il segno dello Spirito Santo. Proprio questa epoca rappresenta il  culmine del disegno divino: come la prima fu quella del Padre, e la  seconda non solo del Figlio, ma del Padre e del Figlio insieme, cosi la  terza sara l'epoca della trinita nella sua unita perfetta, in cui saranno  presenti nello stesso tempo il Padre, il Figlio e lo Spirito. Di fronte  aH'imminenza di questo tempo, che rappresenta il trionfo dei giusti,  l'intento e quello di ammonire «coloro che abitano in mezzo a Babilonia,  a fuggire da essa» 47 . Il richiamo al secondo libro permette di notare     43 Gioacchino da Fiore, II salterio a died corde, cit., p. 46.   44 Is 53,1.   45 Gioacchino da Fiore, Il salterio a died corde, cit., p. 47.   46 La compresenza di questi due modelli escatologici nel pensiero gioachimita e stato  fin da subito una questione centrale tra gli studiosi. Attorno a questo nodo si e  infatti orientato il dibattito ecclesiastico sulla duplice reputazione dell'abate, che  da un lato poteva essere letto come ortodosso (in relazione al modello binario),  dall'altro eterodosso (ponendo l'accento su quello ternario). La storiografia  successiva ha a lungo sottovalutato il problema. Alcuni studiosi hanno provato ad  interpretare il modello binario in relazione alia prospettiva storica e quello  ternario a quella mistica. Si noti che la questione costituisce un altro elemento di  forte distanza tra il pensiero di Gioacchino e quello di Agostino. Per una piu curata  riflessione sul tema si veda ancora: G. L. Potesta, Il tempo dell'Apocalisse, cit.   47 Gioacchino da Fiore, Il salterio a died corde, cit., p. 172. La citazione rimanda al  versetto di Ap. 18, 4.   18     come anche in questo contesto il limite della comprensione razionale,  che si deve arrestare di fronte alia grandezza del disegno divino,  rappresenta l'inizio di un nuovo percorso dove assolutamente centrale  e l'elemento musicale: «a noi ormai deve bastare di avere in questo  modo e fin qui contato le corde. [...] E 1 il tempo di dover cantare e  salmodiare» 48 .   Tornando alia sesta distinzione, Gioacchino procede facendo  corrispondere alia tripartizione della storia tre tipologie di figure  umane, distinte tra loro in riferimento alia propria mansione principale.  Al livello piu basso si collocano i laici, di cui e proprio il lavoro manuale,  poi i chierici, che hanno come compito lo studio e l'insegnamento, e  infine i monaci che si caratterizzano per il canto di lode e la salmodia.  E 1 da notare come il percorso che si delinea attraverso queste tre figure  non rappresenta solo il riconoscimento di una differenziazione sociale  tra gli uomini, ma e anche l'indicazione per una crescita individuale  che innalza l'animo verso Dio. Questi tre stadi sono resi da Gioacchino  attraverso una similitudine: «nello stato di timore baciamo i piedi, in  quello di apprendimento baciamo le mani, nella salmodia baciamo la  bocca». E dunque «e buono l'inizio nel bacio dei piedi, meglio la  perseveranza nel bacio della mano, l'ottimo e il compimento nel bacio  della sua bocca» 49 . L'elemento della bocca viene in questo contesto  recuperato, sulla scia di un'esegesi molto diffusa, per intendere il  mezzo attraverso cui si dispiega nel mondo la creazione e prende forma  il Verbo. Questo rimando ideale al bacio della bocca sembra quindi  voler ribadire come sia proprio l'elemento sonoro a mettere in  comunicazione l'uomo e Dio: da un lato come canto della salmodia,  mansione propria dell'uomo spiritualmente piu elevato, dall'altro come  espressione della potenza creatrice di Dio.   Solo nella settima distinzione Gioacchino prende in considerazione  direttamente il tema delle dieci corde dello strumento. Anche in questo     48 Gioacchino da Fiore, II salterio a dieci corde, cit., p. 171. Si vuole osservare che la  lettura qui proposta, che insiste sull'elemento musicale, permette di attribuire al  terzo libro una valenza forse maggiore rispetto a quella che sembra generalmente  assumere. Se l'elemento musicale della salmodia, che contraddistingue la terza  epoca, e l'elemento che permette di oltrepassare le facolta della ragione, dal  momento che l'avvento della pienezza divina sembra escludere la possibility di  una comprensione razionale, le pagine finali, dal momento che istruiscono sulle  modalita del canto, possono essere interpretate non solo come un «semplicissimo  libro che si limita a fornire indicazioni per la recita dei salmi» (K.-V.  Selge, Prefazione, 2006), ma come un ammonimento di Gioacchino sul modo di  comportarsi per tutti coloro che vivranno il tempo dello Spirito.   49 Gioacchino da Fiore, II salterio a dieci corde, cit., p. 53.   19     caso possiamo distinguere un impiego musicale dell'immagine da uno  piu propriamente teologico. Il primo approccio si basa  sull'interpretazione delle corde come elemento produttore di suono. Da  qui si osserva che le corde sono fissate indissolubilmente, alle loro  estremita, ai lati che simboleggiano il Figlio e lo Spirito, mentre la loro  vibrazione si propaga verso il vertice del Padre. Questo a intendere che  il nostro canto deve essere innalzato verso quest'ultimo a partire dal  messaggio della rivelazione contenuto nel Vangelo. D'altra parte, il  suono e reso udibile e prende corpo attraverso la cassa armonica  rappresentata dal cerchio, a sottolineare ancora una volta  1' indissolubility dell'essere trinitario. L'interpretazione piu  propriamente teologica delle corde e da collocare nel contesto  escatologico in cui si chiudeva la sesta distinzione. Il loro numero e la  loro disposizione rappresentano i gradi e la gerarchia degli eletti nella  citta divina, cosi che piu il grado si awicina a Dio, piu la corda e breve,  dal momento che sono meno coloro che riescono ad arrivarci. Alio  stesso modo ogni grado risuona secondo una propria nota, in modo che  «la diversita degli onori adorna meravigliosamente quella santa e  celeste patria, e la moderazione della diversita attraverso l'unita non  lascia nascere il livore» 50 . Forse in questa richiamo del suono acuto delle  corde piu vicine a Dio come espressione della difficolta insita nel  percorso per arrivarci si puo vedere un ultimo elemento di ripresa delle  argomentazioni agostiniane, che sembra del resto utile soltanto a  rimarcare la differenza tra le due impostazioni. Piu rilevante sembra  invece considerare come ultimo spunto di questo primo libro il tema  dell'armonia musicale che fornendo delle regole per il bel canto  awicina il nostro animo alia sfera divina. «Dio fece questo perche le  corde, tra loro distinte, con i diversi suoni che producono, allietino con  la soavita della loro melodia quella santa citta di Dio, nella quale tutti,  gioiosi, hanno la loro dimora». 51     5. Conclusione   Per tracciare un bilancio della ricerca condotta, bisogna affermare,  in primo luogo, che non emerge dai testi considerati una tesi "forte"  che possa sintetizzare una presa di posizione chiara. Certamente, nel     50 Ivi, p. 59.   51 Ivi, p. 60.   20     complesso, le indicazioni piu interessanti emergono dal testo di  Gioacchino, in cui si nota che una lettura dell'opera orientata in senso  un po 1 piu "musicale", potrebbe rappresentare una prospettiva  attraverso cui reinterpretare alcuni passi e metterne in luce alcune  sfumature. La ricerca, in definitiva, si pone quindi come un primo passo  che schiude degli orizzonti per una ricerca che potrebbe essere ampliata  in molte direzioni. Sullo sfondo, in primo luogo, e da rilevare che  l'analisi dei testi considerati si inserisce nella complessa problematica  del rapporto tra Gioacchino e Agostino, che deve trovare nell'ambito  teologico e filosofico, ben prima che in quello musicale, i propri motivi  argomentativi. In quest'ottica, il confronto tra le due prospettive  musicali legate aH'immagine del salterio, proprio perche maturato  inevitabilmente sullo sfondo di un riferimento teologico e morale,  permette di mettere in evidenza qualche elemento utile per una  riflessione piu generale. Certamente la considerazione sarebbe da  allargare ad una analisi piu generale della problematica musicale nel  pensiero dei due autori, in particolare, almeno, al De Musica di Agostino.  Infine, le indicazioni che qui abbiamo presentato per via teorica  potrebbero trovare sostegno da una ricerca piu dettagliata delle  pratiche musicali diffuse in ambito monastico nel XII secolo.   Si spera, in ogni caso, che la presente ricerca possa aver fornito  qualche elemento per la comprensione di uno strumento estremamente  affascinante e ricco di mistero, come il salterio a dieci corde.     21     Tavola Illustrativa     Prima distinzione:       %. i     n s .2     Seconda distinzione:     Quarta distinzione:      /attraverso GesuCristo nell'unita dello Spirito \  fig. 4     Sesta distinzione:     /attraverso GesuCristo nell'unita dello Spirito \  fig. 5     22     Bibliografia   AGOSTINO, Tractatus de decern chordis [tr. it. P. Bellini, F. Cruciani, V.   Tarulli, Trattato sul salterio a died corde; in Agostino, Discorsi sul   vecchio testamento, Citta Nuova, Roma 1979].  AGOSTINO, Enarrationes in Psalmos, [tr. it. di T. Mariucci, V. Tarulli,   Esposizione sui salmi; in Agostino, Opera Omnia, voll. 25, 26, 27, Citta   Nuova, Roma 1979].  CATTIN, G., La monodia nel medioevo, EDT Edizioni, Torino 1979.  GALLO, A., La polifonia nel medioevo, EDT Edizioni, Torino 1991.  GIOACCHINO DA FIORE, Psalterium dececm chordarum [tr. it. di F.   Troncarelli, K. V. Selge, II salterio a died corde, Viella, Roma 2004].  POTESTA, G. L., Il tempo dell'Apocalisse. Vita di Gioacchino da Fiore, Laterza,   Roma Bari 2004.  SACHS, C, The history of musical instruments, W. W. Norton & Company,   1940 [tr. it. di M. Papini, Storia degli strumenti musicali, Mondadori,   Milano 1996].  SEQUERI, P., Musica e mistica, Libreria Editrice Vaticana, Citta del   Vaticano 2005.Gioacchino da Fiore. Fiore. Keywords: implicatura, Fusaro, implicatura musicale. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Fiore: implicature” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51760692114/in/dateposted-public/

 

Fiormonte Domenico – filosofo.

 

Grce e Fiorentino – filosofia italiana – Luigi Speranza (Sambiase). Filosofo. Grice: “I like Fiorentino; for one, he influenced Gentile – Fiorentino managed to write two important tracts: a systematic ‘manuale’, of ‘elementi di filosofia’ with a section on semantics, communication, and language – his view of the latitudinal history of philosophy – and a ‘storia della filosofia,’ again seen as a manual, literally handbook! Both very clear and to the right audience!” Figlio di Gennaro, chimico e farmacista, e da Saveria Sinopoli. Fu educato da Giorgio e Bruno Sinopoli, rispettivamente zio e fratello di sua madre, entrambi sacerdoti, e venne influenzato dal pensiero e dagli scritti di Capocasale e Galluppi. Studia filosofia a Nicastro, sotto Marco e Crecca, insigni filosofi e latinisti. Trascorre il suo tempo libero nel caffè letterario "Cherry Plum", luogo d'élite che attira gli filosofi. Iniziò a farsi conoscere tra i coetanei di Sambiase, costruendosi una discreta reputazione. Si trasferì a Catanzaro dove intraprese gli studi di giurisprudenza. Sarebbe probabilmente divenuto un avvocato se la filosofia non fosse stata la sua innata passione. All'indomani dell'ignominosa resa del generale Ghio e dei suoi dodicimila soldati borbonici a Soveria Mannelli, nell'incontrare Garibaldi a Maida, Fiorentino gli si avvicinò per congratularsi del successo ottenuto gridando: «Viva l'annessione, vogliamo l'annessione!»  Dopo l'Unità d'Italia, venne nominato, con decreto regio, professore di filosofia a Spoleto. La sua fama di intellettuale e filosofo aveva varcato i confini della sua natia regione.  Si iniziato in Massoneria, nella Loggia Felsinea di Bologna.  Da Spoleto presto passa a Maddaloni, dove approfondì sempre più i suoi studi. Pubblica Il “panteismo” di Bruno.  Rivedeva molto di sé nel carattere e nel martirio di Bruno. La stessa affinità che, sia pure in chiave politica, ritrova Gioberti, grande statista. Il saggio su Bruno gli valse la cattedra a Bologna che era stata di Spaventa. Si occupa della storia della filosofia romana, contemporaneamente si interessò dell'epoca risorgimentale mettendo in risalto filosofi pocco conosciuti, quale A B C D ed E. Scrosse “La filosofia romana”; Pomponazzi; e “Scritti varii”. Seguì l'opera su Telesio data alle stampe in Firenze. Si trasferì a Napoli e Pisa. A Pisa pubblica “Elementi di filosofia” e il Manuale di Storia della Filosofia. Di lui risaltava lo stile incisivo e spigliato. Fonda il Giornale Napoletano. con le sue prefazione e note, pubblicò "Poesie Liriche edite ed inedite di Tansillo" (Domenico Morano, Napoli). Altre opere: “Volgarizzazione dell'Itinerario della mente a Dio di S. Bonaventura, dei Libri del Maestro, Dell'immortalità dell'anima e Del libero arbitrio di S. Aurelio Agostino, del Proslogio di Anselmo d’Aosta, Messina, Sul panteismo di Giordano Bruno” (Napoli); Saggio storico sulla filosofia greca” (Firenze); “Pomponazzi, studi storici sulla scuola bolognese e padovana del secolo XVI” (Firenze); “Telesio, ossia studi storici sull'Idea della Natura nel Risorgimento [Rinascimento] italiano” (Firenze); “La filosofia contemporanea in Italia, Napoli, Scritti vari di letteratura, poesia e critica, Napoli); “Elementi di filosofia, Napoli); “Della vita e opere di Grazia, Napoli); “Manuale di storia della filosofia, Napoli); “Il Risorgimento filosofico nel Quattrocento, Napoli, L. Lo Bianco, Vittorio Gnocchini, L'Italia dei Liberi Muratori, Erasmo ed., Roma, G. Galati, Interpretazione dell'opera, in «Archivio storico della filosofia italiana», G. Oldrini, “La cultura filosofica napoletana dell'Ottocento” (Bari); Di Giovanni, A cento anni dalla nascita dell'idealismo italiano, in «Bollettino della Società Filosofica Italiana», Treccani Enciclopedie, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. openMLOL, Horizons Unlimited srl. Il contributo italiano alla sFilosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Formazione del linguaggio. Il linguaggio e la prerogativa umana. Tra tutti gli animali l’uomo solo parla: e poiché l’uomo solo è forsia (li'u^wujqko aito (Vi ntoli ia'ciiz a, è naturale che tra cotesti due fatti |uU£li^tJtp si) cercato di trovare un nesso necessario. Ammessa questa mutua connessione, la domanda che naturalmente ne deriva, è questa. L’uomo parla perchè ragiona? o, al rovescio, ragiona perchè parla? Teoria K tradizionalistica sull’origine del linguaggio e sua critica. Le due opposte sentenze hanno trovato sostenitori. Una scuola detta de’ tradizionalisti non solo ha ammesso la necessità della parola per pensare, ma, com’era inevitabile, ha riconosciuto necessaria la rivelazione divina per la origine del linguaggio umano. Il corollario e perfettamente logico. Se l’uomo non può inventar nulla senza pensare; e se, per pensare, c’è (i) [Principale rappresentante moderno del tradizionalismo è il francese visconte Luigi de Bonald). Jrr*“ ilwlWuii) 6 JL^XÒru) di mestieri la parola, il linguaggio non poteva più derivare dall’uomo; e quindi a lui doveva essere stato rivelato da Dio. Una difficoltà molto ovvia non è stata però tenuta in conto. Come si fa a capire il linguaggio, se non è opera nostra, e se al suono esteriore non risponde nell’animo nostro il pensiero associatovi? Perchè il cavallo, il cane, benché odano il suono delle parole, non ne comprendono il significato! Gioberti, che rinfresca il tradizionalismo, cerca di evitare questo scoglio, distinguendo il pensiero p rimitivo, intuitivo, che precede il linguaggio, dal pensiero riflesso, che gli tien dietro e lo presuppone. Il linguaggio, per Gioberti, non è il fattore delle idee, ma l’istrumento indispensabile, perchè esse siano ripensate. Poiché però le idee nell’intuito mancano di distinzione, anche lui dovette sostenere la rivelazione per l’origine del linguaggio umano. Senza entrare in risposte astruse, noi opponiamo a questa dottrina un fatto molto comune. Poiché l’intuito delle idee è sempre presente, e poiché il suono del linguaggio colpisce il bambino fin dal suo primo nascere, perchè questi noi comprende subito, nò subito parla? Dati i due co-efficienti, l’intuito dell’idea e il suono esterno della parola, l’intelligenza dovrebbe immantinenti balzar fuora; ed intanto non è così, e ci vuole un lavoro lento ed assiduo, prima d’ intendere il valore del linguaggio. A (oM^Y^O l*< Tt.cC)) Teoria r azionale y. Lasciando dunque la mistica spiegazione di una rivelazione divina, la quale s’impiglierebbe in altre difficoltà, a spiegare, p. es., come Iddio, puro spirito, possa sensibilmente parlare, veniamo alla spiegazione umana. Linguaggio e universali. L’uomo parla soltanto q uando è capace di idee generali. Perciò noi abbiamo a<mr>v fatto seguire alla formazione di queste la formazione del linguaggio, che n 7 è la conseguenza. Come l’individuo è chiuso in sè ed irrelativo, così JL^ la sensazione, che vi corrisponde, è muta. Il linguaggio è comuni chevolezza tra spirito e spirito, e ciò che v? ha T di comune tra loro è, e non può essere altro, che l’universale. 1***^*» (s) I nomi. L’universale ha però diversi gradi, e sul primo formarsi non esprime altro che limi rappresentazione comune a più individui percepit i. In questo si fonda l’imposizione dei nomi, che si desume sempre da quella proprietà che più ha colpito l’immaginazione di un mainili <U*^fvTcj. popolo. Così, p. es., guardando il mare, imo può { rimanere più scosso dalla sua mobilità, un altro dalla nr ] sua ampiezza, un altro dal suo colore; e da ciascuna di queste proprietà può imporgli un nome diverso. Le altre note rimangono in seconda linea. Fermarsi sopra di una nota, a preferenza di un’altra, dipende poi dal diverso genio del popolo che si crea il linguaggio. Perciò non senza ragione la filologia moderna s’ingegna d’indovinare le concezioni nascenti devòlversi popoli dalle radici delle parole primitive. Il con questo metodo, riscontrando talune parole sanscrite, greche e latine, che si trovano le stesse, appresso tre rami di una sola razza, dimostra a che grado di civiltà essi fossero pervenuti prima di sparpagliarsi per varie ragioni. Comune, p. es., è la parola che significa il umo. Dunque, prima di dividersi, questi popoli avevano appreso ad estrarre il succo dalle uve. (A^tVvJ — Vc^fi IktcrrtsblC? <&Jt*/fl'n'tT tZjÉXjjrtmu Z Ain. f"r2rH^-££ RaA^ L ^ia^AA*-**** t^x<^ 7 r •<!T- J e /e altre parti del discorso. L’imposizione de’ nomi costituisce però la materia greggia di una lingua; e corrisponde appunto alla virtù rappresentativa dello spirito. L’attività dello spirito stesso è *signi-ficata* dal verbo, che è perciò l’elemento organico, e dalla cui più perfetta determinazione dipende la perfezione maggiore di una lingua. Le altre particelle, — preposizioni, congiunzioni, avverbi, — esprimono l’elemento formale e categorico del pensiero. Esprimono astrattamente le relazioni di cui sono capaci tanto gli oggetti, quanto l’attività medesima del nostro pensiero. [ >*<0 non x 3) Radici e flessioni. Nel nome e nel verbo si distingue la rappresentazione originaria da quelle determinazioni che dip oi, nel processo del linguaggio, le si sogliono aggiungere; c’è quindi in entrambi la radice e la flessione. Quando la lingua è sul nascere, il nome ed il verbo sono e spressi da un mono-sillabo, che rinchiude, come in un germe, la rappresentazione primitiva di una cosa o di un’azione. Quando poi si comincia a distinguere meglio le determinazioni che scampagnano.* o la cosa o Fazione, allora le varie modificazioni della 1 radice primitiva esprimono i numeri, i generi, i casi, le persone, il tempo; e tali flessioni si dicono declinazioni - 1 —: ^ —. — V i i...., coniugazioni, secondo che modificano il nome o il 7 verbo. Di questi due elementi fondamentali del nostro linguaggio, il verbo va congiunto con la categoria di tempo, il nome no. La ragione di tal divario è questa, che., il verbo esprime l’azione, la quale senza il tempo non si potrebbe classificare con precisione; laddove il porne, esprimendo il soggetto o l’oggetto de l’azione, stessa, *signi-fica* qualcosa di iienjnuignte, e si circoscrive piuttosto con le relazioni spaziali. Nelle lingue più ricche, difatti, tra i casi, che esprimono le diverse modificazioni de’nomi, si suole trovare quello che i grammatici chiamano locative, e indica il luogo dove la cosa si trova. Quanto più numerose e sottili sono le flessioni che fissano le varie sfumature dell’azione, tanto più ricca e più precisa è una lingua; quanto più fine sono le gradazioni dell’azione, che lo spirito può cogliere, e rivelare nel linguaggio; tanto è maggiore l’attitudine artistica e scientifica. Dove, invece, si arriva appena a significare 1’azione in una forma rozza, e quasi direi all’ingrosso, quivi manca il genio artistico e la speculazione. La perfezione dell’organismo sintattico rivela la potenza creatrice ed inventiva di un popolo. La lingua greca mostra l’eccellenza di quella coltissima nazione: e criterio di quella eccellenza è la compiuta forma del verbo, che in quella lingua basta ad esprimere ogni più delicata e fuggevol forma del pensiero. Le particelle. Condizione primissima del filosofare è una lingua la quale jgossa astrarre, e fissare le relazioni in sfe, ed indipendentemente dai proprii termini. Quindi le particelle, che diciamo preposizioni, congiunzioni ed avverbii, e che sono come le giunture del linguaggio, diventano un aiuto potentissimo, anzi un istrumento indispensabile della speculazione. Per esse noi pensiamo le relazioni di tempo e di spazio, di causa e di effetto, di mezzo e di fine, e simili, non solo in quanto si trovano, dirò così, incorporate coi termini fra cui tramezzano; ma le pensiamo sci o lte da ogni rappresentazione e come concetti puri. Il dove, il quando, il di, il da, il per, esprimono il luogo, il tempo, la proprietà, la provenienza, il mezzo, come categorie a se, che noi applichiamo ai nomi ed ai verbi, producendo così l’organismo del *period*. L’abbondanza di tali particelle è parimenti indizio della perfezione di una lingua. pajth'cfiiU'- i) C’ è dunque nella lingua tre gradi. C’è la ra ppresentazione della cosa o dell’azione, espressa dalla nuda radice. C’è la rappresentazione determinata per mezzo de’ concetti puri, espressa dalla flessione; e ci sono infine i concetti puri, in s&J astratti da ogni rappresentazione, e sono le particelle invariabili. 4. Sviluppo delle lingue.I linguaggi barbari e rozzi (si arrestano alle prime, alle radici mono-sillabiche, alle semplici rappresentazioni; o, tutto al più, riescono a con-glutinarle insieme. Le lingue sviluppate hanno flessioni; hanno cioè nomi e verbi perfettamente determinati; e Analmente hanno un ricco corredo di part i cell e^signiflcabrici delle relazioni universali. Delle particelle, di cui parliamo, due lingue hanno forse maggior copia, la greca fra le antiche, la tedesca fra le moderne; onde Xmo viene la loro maggiore attitudine a *sig-nificare* i concetti speculativi. Gli elementi delle lingue secondo M, Miiller. In conformità alle osservazioni da noi riferite finora, giova allegare l’autorità di Max ]\IiUl er J ), il quale, dopo sottili indagini, conclude, che tutte le lingue, senza eccezione di sorta, passate pel crogiuolo della grammatical comparata, sono risultate composte di due elementi (Max Miiller, Letture sulla scienza del linguaggio, e Nuove letture, trad. in ital. da Nerucci]. costitutivi; di radici *attributive*, " cioè, e radici *dimostrative*. Le radici attributive servono a *sig-nificare* una meidesima qualità primitiva, che si attribuisce ad un qualche essere. Le radici dimostrative, invece, servono ad esprimere una determinazione meramente formale. Lq j flessioni, consistenti nelle declinazioni de’ nomi, e nelle coniugazioni de’ verbi, nascono dalla unione organica delle due differenti specie di radici in una sola parola. Di modo che, anche filologicamente, apparirebbe manifesta la distinzione originaria di un *elemento attributivo* e di un *elemento dimostrativo* nella lingua; che corrisponderebbero al contenuto (o materia) il primo, ed alla *forma* del pensiero il secondo. La compenetrazione di questi due elementi primitivi non è uguale in tutte le famiglie delle lingue che si parlano. è perfetta, e perciò a mala pena discernibile nelle lingue ariane; è imperfetta, e perciò più facilmente riconoscibile, nelle lingue semitiche. Apprendimento delle lingue. — Altra è la funzione, che si richiede a formare la lingua; altra è quella dello impararla, formata che sia; benché le due funzioni abbiano, e debbano avere, alcunché di comune. Prevale rimmaginazione produttiva nella formazione primitiva dei linguaggi; prevale la ri-produttiva nella loro apprensione. Il bambino che nasce in una società progredita non deve far altro, che assimilarsi il linguaggio materno così coin 7 è stato tramandato. Egli impiega in questo lavoro assimilativo i primi cinque anni della sua fanciullezza, durante il qual tempo impara più, come diceva Gian Paolo), che non in altrettanti anni eli accademia. La sua mente vergine e robusta si arricchisce ben presto di quel tesoro tradizionale, eh’ ei si appropria e fa suo, riponendolo nella fresca e tenace memoria. L’apprendimento delle lingue, già si facile in questa prima età, si va poi di mano in mano rendendo malagevole, perchè la memoria con gli anni si affievolisce, e diviene men facile a ricevere, e men fedele nel ritenere. ly [Gian Paolo Riehter, grande scrittore umorista, tedesco].  Wikipedia Ricerca Marco Porcio Catone politico, generale e scrittore romano Lingua Segui Modifica Nota disambigua.svg Disambiguazione – Se stai cercando altri personaggi con lo stesso nome, vedi Marco Porcio Catone (disambigua). Marco Porcio Catone Project Rome logo Clear.png Censore della Repubblica romana Marco Porcio Caton Major.jpg Particolare del Patrizio Torlonia, busto identificato con Catone il Censore Nome originaleMarcus Porcius Cato Nascita234 a.C. ca. Tusculum Morte              149 a.C. Roma ConiugeLicinia Salonia FigliMarco Porcio Catone Liciniano Marco Porcio Catone Saloniano GensPorcia PadreMarco Porcio Questura204 a.C. Edilità199 a.C. Pretura198 a.C. Consolato195 a.C. Censura184 a.C. (LA)  «Ceterum censeo Carthaginem esse delendam.»  (IT)  «Per il resto ritengo che Cartagine debba essere distrutta.»  (Porcio Catone) Marco Porcio Catone (in latino: Marcus Porcius Cato; nelle epigrafi M·PORCIVS·M·F·CATO; Tusculum, 234 a.C. circa – Roma, 149 a.C.) è stato un politico, generale e scrittore romano, chiamato anche Catone il Censore (Cato Censor), Catone il Sapiente (Cato Sapiens), Catone l'Antico (Cato Priscus), Catone il Vecchio per aver superato di molto l'età media massima di vita allora a Roma o Catone il Maggiore(Cato Maior) per distinguerlo dal pronipote Catone l'Uticense.  BiografiaModifica Ritratto                                        Modifica Plutarco, autore delle Vite parallele, dà questo ritratto di Catone:   «[…] Quanto al suo aspetto, aveva capelli rossastri e occhi azzurri, come ci rivela l'autore di questo poco benevolo epigramma: “Rosso, mordace, occhiazzurro, Persefone neanche morto accoglie Porcio in Ade.”[1]»  «Fisicamente era ben piantato; il suo corpo s'adattava a qualunque uso, era tanto robusto quanto sano, poiché fin da giovane si applicò al lavoro manuale - saggio metodo di vita - e partecipò a campagne militari.[1]»  Origini familiariModifica  De re rustica, 1794 Nacque nel 234 a. C. a Tusculum, da un'antica famiglia plebea che si era fatta notare per qualche servizio militare, ma non nobilitata dal fatto di aver rifiutato le più importanti cariche civili. Fu allevato, secondo la tradizione dei suoi antenati latini, perché divenisse agricoltore, attività alla quale egli si dedicò costantemente quando non fu impegnato nel servizio militare. Ma, avendo attirato l'attenzione di Lucio Valerio Flacco, fu condotto a Roma, e divenne successivamente questore (204), edile (199), pretore(198) e console nel 195 percorrendo tutte le tappe del cursus honorum assieme al suo vecchio protettore; nel 184 divenne infine censore.  Marco Porcio Catone è considerato il fondatore della Gens Porcia. Ebbe due mogli: la prima fu Licinia, una aristocratica della Gens Licinia, da cui ebbe come figlio Marco Porcio Catone Liciniano; la seconda, è Salonia, figlia di un suo liberto, sposata in tarda età dopo la morte di Licinia, da cui ebbe Marco Porcio Catone Saloniano, nato quando il Censore aveva 80 anni.  Carriera politica                            Modifica «I ladri di beni privati passano la vita in carcere e in catene, quelli di beni pubblici nelle ricchezze e negli onori»  (Marco Porcio Catone, citato in Aulo Gellio, Notti attiche, XI, 18, 18) Durante i suoi primi anni di carriera si oppose all'abrogazione della lex Oppia, emanata durante la seconda guerra punica per contenere il lusso e le spese esagerate da parte delle donne. Nel 204 a.C.prestò servizio in Africa, come questore con Scipione l'Africano ma lo abbandonò dopo un litigio a causa di presunti sperperi. Egli comandò invece in Sardegna, dove per la prima volta mostrò la sua rigidissima moralità pubblica, e in Spagna, che egli assoggettò spietatamente, guadagnando di conseguenza la fama di trionfatore (194).  Nel 191 a.C. ricoprì il ruolo di tribuno militare nell'esercito di Manio Acilio Glabrione nella guerra contro Antioco III il Grande di Siria, giocò un ruolo importante nella battaglia delle Termopili e attaccando alle spalle Antioco permise la vittoria dei romani, che segnò la fine dell'invasione seleucide della Grecia. Nel 189 a.C. condusse un processo sia contro Scipione l'Africano sia contro il fratello Scipione l'Asiatico, accusandoli di aver concesso dei favori personali al re di Siria Antioco III e di aver dissipato il tesoro dello Stato. Il caso degli Scipioni consiste in uno dei più grandi scandali della Repubblica Romana, considerando che, soprattutto Scipione L'Africano, era considerato l'eroe della Seconda Guerra Punica.  Opera pubblicaModifica La sua reputazione di soldato era quindi consolidata; da quel momento in poi egli preferì servire lo stato a casa, esaminando la condotta morale dei candidati alle cariche pubbliche e dei generali sul campo. Pur non essendo egli personalmente coinvolto nel processo per corruzione contro gli Scipioni (l'Africano e l'Asiatico), fu tuttavia lo spirito che animò l'attacco contro di loro. Persino Scipione l'Africano, che si rifiutò di rispondere all'accusa, affermando solo: "Romani, questo è il giorno in cui io sconfissi Annibale", venendo assolto per acclamazione, trovò necessario ritirarsi, auto-esiliandosi, nella sua villa a Liternum. L'ostilità di Porcio Catone risaliva alla campagna d'Africa quando discusse con Scipione per l'eccessiva distribuzione del bottino tra le truppe, e la vita sfarzosa e stravagante che quest'ultimo conduceva.  CensoreModifica Al secondo tentativo, nel 184, egli fu eletto censore ed esercitò questa carica per quattro anni così bene che gli venne assegnato il soprannome di Censore (anche per il suo carattere severo, per il suo austero moralismo e per l'asprezza delle critiche rivolte da lui contro ogni indizio di corruzione delle antiche virtù romane).  Contro l'ellenismoModifica Catone si oppose inoltre all'ellenizzazione, ossia il diffondersi della cultura ellenistica, che egli riteneva minacciasse di distruggere la sobrietà dei costumi del vero romano, sostituendo l'idea di collettività con l'esaltazione del singolo individuo. Fu nell'esercizio della carica di censore che questa sua determinazione fu più duramente esibita e ovviamente il motivo dal quale gli derivò il suo celebre soprannome. Revisionò con inflessibile severità la lista dei senatori e degli equites, cacciando da ogni ordine coloro che riteneva indegni, sia per quanto riguarda la moralità, che per la mancanza dei requisiti economici previsti. L'espulsione di Lucio Quinzio Flaminino per ingiustificata crudeltà, fu un esempio della sua rigida giustizia.  Contro il lussoModifica La sua lotta contro il lusso fu assai serrata. Impose una pesante tassa sugli abiti e gli ornamenti personali, specialmente delle donne, e sui giovani schiavi comprati come concubini o favoriti domestici (leggi sumptuariae). Nel 181 a.C. appoggiò la lex Orchia(secondo altri egli prima si oppose alla sua introduzione, e successivamente alla sua abrogazione), la quale prescriveva un limite al numero di ospiti in un ricevimento, e nel 169 a.C. la lex Voconia, uno dei provvedimenti che miravano a impedire l'accumulo di un'eccessiva ricchezza nelle mani delle donne. Con le donne di casa, mogli, figlie o schiave, fu assai severo, fino a sfiorare talvolta la tirannia; una delle cause di dissenso con gli Scipioni, era proprio la libertà e il lusso che questi concedevano alle loro donne.  Nei confronti delle donne in realtà Catone appare quasi un nemico, penalizzandole in ogni modo: ne limitò il lusso degli abiti e dei gioielli, si oppose al possesso da parte della donna di denaro e ricchezza, sempre in difesa dei valori morali della Repubblica.  Contro i BaccanaliModifica Fu assai disgustato, assieme a molti altri dei romani più conservatori, dalla diffusione dei riti misterici dei Baccanali, che egli attribuì all'influenza negativa dei costumi greci; perciò sollecitò con veemenza l'espulsione dei filosofi greci (Carneade, Diogene lo Stoico e Critolao), che erano giunti come ambasciatori da Atene, sulla base della pericolosa influenza delle idee diffuse da costoro.  Contro i medici     Modifica Catone provava ripugnanza per i medici, che erano principalmente greci. Ottenne il rilascio di Polibio, lo storico, e dei suoi compagni prigionieri, chiedendo sprezzante se il Senato non avesse niente di più importante da discutere del fatto che qualche greco dovesse morire a Roma o nella sua terra. Era quasi ottantenne quando, secondo quanto dicono le fonti biografiche, ebbe il suo primo contatto con la letteratura greca; anche se, dopo aver esaminato i suoi scritti, è verosimile ritenere che possa aver avuto un contatto con le opere greche per gran parte della sua vita.  Contro CartagineModifica Il suo ultimo impegno pubblico fu di spronare i suoi compatrioti verso la terza guerra punica e la distruzione di Cartagine. Nel 157 a.C. fu uno dei delegati mandati a Cartagine per arbitrare tra i cartaginesi e Massinissa, re di Numidia. La missione fu fallimentare e i commissari ritornarono a casa. Ma Porcio Catone fu colpito dalle prove della prosperità dei cartaginesi a tal punto da convincerlo che la sicurezza di Roma dipendesse dalla distruzione totale di Cartagine. Da quel momento egli continuò a ripetere in Senato: «Ceterum censeo Carthaginem delendam esse.» ("Per il resto ritengo che Cartagine debba essere distrutta."). È noto che egli ripeteva ciò alla conclusione di ogni suo discorso.  Altre attività        Modifica Riguardo alle altre questioni egli fece riparare gli acquedotti di Roma, pulire le fognature, impedì a soggetti privati di deviare le acque pubbliche per il loro uso personale, ordinò la demolizione di edifici che ostruivano le vie pubbliche, e costruì la prima basilica nel Foro vicino alla Curia (Livio, "Historiae", 39.44; Plutarco, "Marcus Cato", 19). Aumentò inoltre la somma dovuta allo stato dai pubblicani per il diritto di riscuotere le tasse e allo stesso tempo diminuì il prezzo contrattuale per la realizzazione di lavori pubblici.  MorteModifica Dalla data della sua carica di censore (184 a.C.) alla sua morte, avvenuta nel 149 a.C. sotto il consolato di Manio Manilio Nepote e Lucio Marcio Censorino[2], Porcio Catone non occupò nessun'altra carica pubblica, ma continuò a distinguersi in Senato come tenace oppositore ad ogni nuova influenza.  Solo dopo la sua morte si iniziò la spedizione contro Cartagine (149 a.C.), che lui aveva voluto.  La visione della societàModifica Per Porcio Catone la vita individuale era un continuo auto-disciplinarsi, e la vita pubblica era la disciplina dei molti. Egli riteneva il singolo pater come il principio della famiglia, e la famiglia come il principio dello stato. Attraverso una rigida organizzazione del suo tempo egli realizzò un'enorme quantità di lavoro; pretese inoltre la medesima applicazione dai suoi dipendenti, e si dimostrò un marito e un padre severo, un inflessibile e crudele padrone. Ci fu apparentemente poca differenza, nel modo in cui trattava sua moglie e i suoi schiavi; il suo orgoglio soltanto lo indusse a prestare una più calorosa attenzione verso i figli.  RiconoscimentiModifica Per i romani stessi ci fu poco nella sua condotta che sembrasse necessario censurare; fu sempre rispettato e considerato come un esempio tradizionale degli antichi e più genuini costumi romani. Nel notevole passo (XXXIX, 40) in cui Livio descrive il carattere di Porcio Catone, non c'è alcuna parola di biasimo per la rigida disciplina della sua condotta domestica.  Opera letterariaModifica Porcio Catone è tra le principali personalità della letteratura latina arcaica: egli fu oratore, storiografo e trattatista. Fu autore di una vasta raccolta di manuali tecnico-pratici, con i quali intendeva difendere i valori tradizionali del mos maiorum contro le tendenze ellenizzanti dell'aristocrazia legata al circolo degli Scipioni, indirizzata al figlio Marco, i Libri ad Marcum filium o Praecepta ad Marcum filium, di cui si conserva per intero soltanto il Liber de agri cultura, in cui esamina, soprattutto, l'azienda schiavile che tanto spazio si conquisterà poi in età imperiale.[3] Affrontò inoltre la tematica dei valori tradizionali romani anche in un Carmen de moribus di cui sono ad oggi pervenuti pochissimi frammenti.  Fin dalla giovinezza si dedicò all'attività oratoria: pronunciò in tutta la sua vita oltre centocinquanta orazioni,[4] ma sono attualmente conservati frammenti di varia estensione riconducibili a circa ottanta orazioni diverse.[5] Si distinguono tra esse orationes deliberativae, ovvero discorsi pronunciati in senato a favore o contro una proposta di legge, e orationes iudiciales, discorsi giudiziari di accusa o difesa.  Fu inoltre autore nella vecchiaia della prima opera storiografica in lingua latina, le Origines, il cui argomento era la storia romana dalla leggendaria fondazione fino al II secolo a.C. Dell'opera, pur significativa dal punto di vista ideologico, si conservano scarsi frammenti.[6] Catone individua nel culmine del percorso educativo la formazione di un vir bonus, dicendi peritus (uomo di valore, esperto nel dire), espressione che sarà il cardine del successivo modello educativo romano.[7]  L'opera letteraria di Porcio Catone, in particolare quella storica e oratoria, fu elogiata da Cicerone,[8]che definì il censore primo grande oratore romano, e il più degno d'essere letto. Nella prima età imperiale, nonostante l'ideologia di Porcio Catone coincidesse in buona parte con la politica restauratrice del mos maiorum promossa da Augusto, l'opera di Porcio Catone fu oggetto di sempre minore interesse. Con l'affermarsi delle tendenze arcaizzanti nel II secolo d.C., invece, essa fu oggetto di grandi attenzioni, seppure a carattere esclusivamente linguistico ed erudito: Gellio e Cornelio Frontone ne tramandarono molti frammenti, e l'imperatore Adriano dichiarò di preferire Porcio Catone anche allo stesso Cicerone.[9]  A partire dal IV secolo d.C. l'opera di Porcio Catone iniziò a disperdersi, e se ne perse la conoscenza diretta. Grande diffusione ebbero, invece, le raccolte di proverbi in esametri erroneamente attribuite a Porcio Catone e denominate Disticha Catonis e Monosticha Catonis, ma composte probabilmente nel III secolo d.C.[9]  NoteModifica ^ a b Plutarco, Vita di Marco Catone, 1. ^ Velleio Patercolo, Historiæ Romanæ ad M. Vinicium libri duo, I,13. ^ Antonio Saltini, Storia delle scienze agrarie, vol. I, Dalle civiltà mediterranee al Rinascimento europeo, 3ª ediz., Firenze, Nuova Terra Antica, 2010, pp. 41-50. ^ Cicerone, Brutus, 65. ^ G. Pontiggia - M.C. Grandi, Letteratura latina. Storia e testi, Milano, Principato, 1996-98, vol. I, p. 159. ^ Pontiggia - Grandi, p. 164. ^ U. Avalle - M. Maranzana, Pedagogia, vol. I, Dall'età antica al Medioevo, Torino, Paravia, 2010, p. ? ^ Brutus, 63-69. ^ a b Pontiggia - Grandi, p. 165. Edizioni                                     Modifica Scriptores rei rusticae, Venetiis, apud Nicolaum Ienson, 1472 [Contiene i De re rustica di Catone, Varrone, Columella e Rutilio Tauro Palladio] (editio princeps). De agri cultura liber, Recognovit Henricus Keil, Lipsiae, in aedibus B.G. Teubneri, 1895. De agri cultura, ad fidem Florentini codicis deperditi edidit Antonius Mazzarino, Lipsiae, in aedibus B.G. Teubneri, 1962. Marci Porci Catonis Oratio pro Rhodiensibus. Catone, l'Oriente Greco e gli Imprenditori Romani. Introduzione, Edizione Critica dei Frammenti, Traduzione Ital. e Commento, a cura di Gualtiero Calboli, Bologna 1978. Traduzioni italiane                                                            Modifica Catone, De re rustica, con note, [Traduzione di Giuseppe Compagnoni], Tomo I-III, Venezia, nella stamperia Palese, 1792-1794 («Rustici latini volgarizzati»). Catone, Dell'agricoltura, Versione di Alessandro Donati, Milano, Notari, 1929. Liber de agricoltura, Roma, Ramo editoriale degli agricoltori, 1964. L'agricoltura, a cura di Luca Canali e Emanuele Lelli, Milano, A. Mondadori, 2000. Opere, a cura di Paolo Cugusi e Maria Teresa Sblendorio Cugusi, 2 voll., Torino, UTET, 2001. BibliografiaModifica (Per la bibliografia specifica sul De agri cultura e sulle Origines si rimanda alle rispettive voci)  L. Alfonsi, Catone il censore e l'umanesimo romano, Napoli, Macchiaroli, 1954 (estr.). A.E. Astin, Cato the Censor, Oxford, Clarendon press, 1978. C.C. Burckhardt, Cato der Censor, Basel, Reinhardt, 1899. L. Cordioli, Marco Porcio Catone il censore e il suo tempo, Bergamo, Sestante, 2013. F. Della Corte, Catone Censore. La vita e la fortuna, Torino, Rosemberg e Sellier, 1949 (rist. Firenze, La Nuova Italia, 1969). P. Fraccaro, Sulla biografia di Catone maggiore sino al consolato e le sue fonti, Mantova, G. Mondovì, 1910 (estr.). F. D. Gerlach, Marcus Porcius Cato der Censor, Basel, C. Schultze, 1869. F. Marcucci, Studio critico sulle opere di Catone il maggiore, vol. I [unico pubblicato], Analisi delle fonti, questioni varie, Orazioni del periodo consolare e degli anni posteriori fino alla censura, Orazioni del periodo censorio, Pisa, succ. fratelli Nistri, 1902. E.V. Marmorale, Cato maior, Catania, G. Crisafulli, 1944 (II ed. Bari, Laterza, 1949). C. Ricci, Catone nell'opposizione alla cultura greca e ai grecheggianti. Nota, Palermo, D. Lao e S. De Luca, 1895. E. Sciarrino, Cato the Censor and the beginnings of Latin prose. From poetic translation to elite transcription, Columbus, Ohio State University Press, 2011. Fonti antiche Cicerone, Cato maior de senectute Cornelio Nepote, Vita M. Porcii Catonis Tito Livio, Ab Urbe condita, XXXIX, 40 Plutarco, Vita Catonis maioris Voci correlateModifica Marco Porcio Catone Uticense, bisnipote Altri progetti                            Modifica Collabora a Wikisource Wikisource contiene una pagina dedicata a Marco Porcio Catone Collabora a Wikisource Wikisource contiene una pagina in lingua latina dedicata a Marco Porcio Catone Collabora a Wikiquote Wikiquote contiene citazioni di o su Marco Porcio Catone Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Marco Porcio Catone Collegamenti esterniModifica Catóne, Marco Porcio, detto il Censore, su Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su Wikidata Plinio Fraccaro, CATONE, Marco Porcio, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1931. Modifica su Wikidata Catone, Marco Porcio detto il Censore, in Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2010. Modifica su Wikidata Catóne, Marco Pòrcio, detto il Censóre, su sapere.it, De Agostini. Modifica su Wikidata ( EN ) Marco Porcio Catone, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su Wikidata ( ES ) Marco Porcio Catone, in Diccionario biográfico español, Real Academia de la Historia. Modifica su Wikidata ( LA ) Opere di Marco Porcio Catone, su PHI Latin Texts, Packard Humanities Institute. Modifica su Wikidata Opere di Marco Porcio Catone / Marco Porcio Catone (altra versione), su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Modifica su Wikidata ( EN ) Opere di Marco Porcio Catone, su Open Library, Internet Archive. Modifica su Wikidata ( EN ) Opere di Marco Porcio Catone, su Progetto Gutenberg. Modifica su Wikidata ( EN ) Audiolibri di Marco Porcio Catone, su LibriVox. Modifica su Wikidata ( EN ) Marco Porcio Catone, su Goodreads. Modifica su Wikidata Marco Porcio Catone, su Discografia nazionale della canzone italiana, Istituto centrale per i beni sonori ed audiovisivi. Modifica su Wikidata ( LA ,  IT ) Biblioteca degli scrittori latini con traduzione e note: M. Porcii Catonis quae supersunt opera, Venetiis excudit Joseph Antonelli, 1846. ( LA ,  FR )  Les agronomes latins, Caton, Varron, Columelle, Palladius, avec la traduction en français, M. Nisard (a cura di), Paris, Firmin Didot Fréres, 1856, pagg. 1 sgg. Historicorum Romanorum Reliquiae, Hermannus Peter (a cura di), vol. 1, in aedibus B. G. Teubneri, Lipsiae, 1914², pagg. 55-97. M. Catonis praeter librum de re rustica quae extant, Henri Jordan (a cura di), Lipsiae, in aedibus B. G. Teubneri, 1860. Controllo di autorità                        VIAF ( EN ) 99852885 · ISNI ( EN ) 0000 0001 2145 0009 · BAV 495/16621 · CERLcnp01316133 · LCCN ( EN ) n50047791 ·GND ( DE ) 118519697 · BNE ( ES ) XX1068238(data) · BNF ( FR ) cb11885944n (data) ·J9U ( EN ,  HE ) 987007259532005171(topic) · NSK ( HR ) 000358779 · CONOR.SI ( SL ) 45937507 · WorldCat Identities( EN ) lccn-n50047791   Portale Antica Roma   Portale Biografie   Portale Letteratura Ultima modifica 6 giorni fa di Elwood PAGINE CORRELATE Carthago delenda est Locuzione latina di Catone il Censore  De agri cultura opera di Catone  Origines opera di Marco Porcio Catone  Wikipedia Il contenuto   ETICA    P«K-   Avvertenza v   Capitolo I. Sentimento e appetito .... 1   1. Principio dello spirito pratico. — 2. L’azione riflessa. —   3. L’ appetito. — 4. La sensazione e il sentimento. —   B. La duplicità della tendenza appetitiva. — 6. Divario  tra azione riflessa ed appetito. — 7. L’appetito fonda-  mentale.   0   Capitolo IL Piacere e dolore ..... 9   1. Causa del piacere e del dolore. — 2. Il sentimento prin-  cipio d’azione. — 3. Tanto il piacere quanto il dolore  sono stati positivi. — 4. La condizione del piacere. —   B. Funzione biologica del sentimento. — 6. Differenza tra  sensazione e sentimento. — 7. Intensità o tono del pia-  cere o del dolore. — 8. Osservazioni di Aristotele sulla  natura del piacere.   Capitolo III. Desiderio e istinto .... 19   1. Il desiderio. — 2. L’istinto. — 3. Origine dell’istinto:  dottrina dello Spencer e sua critica. — 4. Carattere del-  l’ operare istintivo.   Capitolo IV. Affetti e passioni .... 2(1   l. L’affetto. — 2. La passione. — 3. Differenze tra l’af-  fetto e la passione. — 4. Le passioni in rapporto alla  vita movale. — 6. Classificazione delle sensazioni.    1    - 248 -   l>»g.   Capitolo V. Temperamento e carattere ... 35   1. Teoria antica dei temperamenti. — 2. Classificazione dei  temperamenti fatta dal Kant. — 3. Altra classificazione  dei temperamenti. — 4. Uguaglianza originaria o diffe-  renza irriducibile delle nature individuali. Temperamento  e carattere.   Capitolo VI. Carattere morale e virtù ... 42   1. Carattere. — 2. Carattere inorale. — 8. Giudizio valu-  tativo o pratico. — 4. Motivi naturali e motivi etici. —   6. La scienza e la virtù. — 6. Concetto della virtù.   Capitolo VII. Il fine dell’uomo .... 51   1. Il fine della vita umana secondo Aristotele. — 2. La  eudemonia aristotelica. 3. Il fine della vita secondo  Kant. — 4. Conclusione.   Capitolo Vili. Il sentimento morale ... 56   1. Concetto del senso morale. — 2. Origine del senso morale.   Capitolo IX. La volontà 61   -1. Distinzione della volontà dalle attività pratiche inferiori.   — 2. Definizione della volontà. — 3. Ragion pratica, fini,  mezzi. — 4. Rapporto della volontà con l’appetito. —   6. La spontaneità dello spirito nella volontà e la psico-  logia empirica inglese.   Capitolo X. Motivi e libero arbitrio ... 73   1. La quistione della libertà del volere. — 2. Critica del  concetto del libero arbitrio. — 8. La necessità del fine.   4. Causalità etica, educabilità e responsabilità. —   6. Critica del determinismo meccanico di Herbert.   Capitolo XI. Fatalismo e determinismo ... 85   1. Concetto del fato. — 2. Il concetto della Provvidenza e  il domma della grazia. — 3. Critica del fatalismo. —   4. Il determinismo.      - 249 —   p«g-   Capitolo XII. Motivi generali o determinismo sociale 9fi  1. I motivi generali. — 2. La statistica. — 3. Statistica e  libertà. — 4. Osservazione del Drobiscli.   Capitolo XIH. Legge morale ..... 102   1. Origine della legge morale. — 2. Dottrina teologica e  sua critica. — 3. La dottrina kantiana. — 4. Dottrina  aristotelica.   Capitolo XIV. Edonismo e utilitarismo . . . Ili   1. Classificazione dei sistemi morali. — 2. Cenno storico  dell’edonismo e dell’utilitarismo. — 3. L’utilitarismo se-  condo il Mill. — 4. Critica della morale del Mill. —   6. Critica dell’edonismo ; Smitli e Schopenhauer. L'amore.   — 6. Riepilogo.   Capitolo XV. (Continuazione). Imperativo catego-  rico e idee modello ...... 122   1. Teoria kantiana dell’imperativo categorico. — 2. Teoria  herbartiana delle idee modello. — 3. Critica del forma-  lismo kantiano ed herbartiano.   Capitolo XVI. Le virtù singole .... 130   1. Classificazione aristotelica delle virtù. — 2. La liberalità  e la magnanimità.   Capitolo XVII. La giustizia 138   1. La giustizia nell’etica aristotelica. — 2. Giustizia com-  mutativa e giustizia distributiva.   Capitolo XVIII. Organismi etici. — Origine della   famiglia ........ 143   1. Primo nucleo sociale: la famiglia. — 2. Carattere etico  della famiglia umana. L’amore. — 3. La generazione e  il valore etico della prole. — 4. Il sentimento e il dovere.   — 5. Gli elementi della famiglia e la definizione del ma-  trimonio.    — 250 -   l'»g-   Capitolo XtX. Organismo etico della famiglia . 151   1. La famiglia come organismo etico. — 2. La relazione  tra i coniugi. — 3. Dottrina kantiana del matrimonio.   — 4. Dottrina di Platone e di Aristotele. — 5. Coiteli ia-  sione circa la relazione coniugale. — 6. Relazione tra  genitori e figli. — 7. La proprietà e l’eredità. — 8. Dis-  soluzione della famiglia e divorzio.   Capitolo XX. Processo storico della famiglia. . 1G4   1. Età barbarica. — 2. La famiglia antica. — 3. La schia-  vitù e la clientela. — 4. Stabilità della famiglia ed ele-  mento religioso delle istituzioni domestiche. — 5. Indi-  pendenza del valore etico della famiglia dalla religione.   Capitolo XXI. Continuazione . . . . .175   1. Riepilogo. — 2. Gli elementi etici della famiglia romana:  a) la patria potestà; b) l’eredità; e) l’adozione; </) le  clientele; fi) riepilogo e osservazioni.   Capitolo XXII. La società civile .... 182   1. Prima limitazione etica del diritto di proprietà. — 2. Ori-  gine della società civile. — 3. Concetto della società ci-  vile. — 4. Contratto. — 5. Valore etico del contratto. —  fi. La giustizia nella società civile. — 7. La libertà civile.   — 8. La città. — 9. Passaggio dalla famiglia alla società  civile. — IO. Idealità della società civile.   Capitolo XXIII. Genesi dello Stato . . . 190   1. Gradi della coscienza civile descritti da Cicerone. —   2. La patria e la città. — 8. La nazione e lo Stato. —   4. Paragone tra famiglia, società civile e Stato. — 5. So-  stanzialità dello Stato.   Capitolo XXIV. Diverse opinioni su l’origine dello  Stato ......... 199   1. Idea greca dello Stato. — 2. Dottrina dell’origine di-  vina dello Stato. — 3. Dottrine della origine umana    — 251 -    dello Stato: a) Lo Stato derivato dalla forza ; b) lo Stato  derivato dall’istinto; c) lo Stato derivato dal contratto  sociale; d) lo Stato derivato da un’imperativo; e.) lo Stato  derivato da un' idea modello.   Capitolo XXV. Organismo dello Stato . . . ‘20S   1. Rapporto fra lo Stato e i cittadini. — 2. La statolatria  antica. — 3. L'individualismo moderno. — 4. Stato po-  litico e stato giuridico. — 5. La legge. — 6. Il governo.   — 7. La magistratura. — 8. Il fine dello Stato. — 9. Il  diritto punitivo. — 10. Le relazioni esterne dello Stato,  e la guerra. — II. La virtù politica. — 12. Organismo  dei poteri dello Stato.   Capitolo XXVI. Lo Stato in <|uanto contiene altri   organismi ........ 228   1. Relazione tra lo Stato e la famiglia. — 2. Stato e Co-  mune. — 3. Stato e associazioni private. — 4. Stato e  Chiesa. I   Capitolo XXVII. Relazioni tra Stato e Stato . . 237   1. Lo Stato e la coscienza comune del genere umano. —   2. Il commercio. — 3. Ravvicinamento progressivo tra i  vari popoli. — 4. I rapporti internazionali e la paco per-  petua. — 5. L’arbitrato internazionale. — G. La diplo-  mazia. — 7. La stampa, il fine dell’Unianitù e Ih storia.  Invitato a curare una nuova edizione degli Ele-  menti di Filosofia di Francesco Fiorentino, accettai  volentieri l’ onorevole invito per due ragioni : una,  che può parere tutta personale : che cioè questo li-  bro m’ è caro , perchè è il primo libro di filosofia  che io ho letto ; e i dubbii , suscitati in me da a  lettura di esso, segnano nella mia vita il primo sve-  aliarmi consapevole alla ricerca filosofica. a -,  ohe cosi mi si prestava recessione di soddisfare im  antico desiderio mio e di molti Colleglli valorosi, di  rimettere in luce la prima edizione di questi Elementi, -  divenuta assai rara e quasi introvabile (1) , giudi-  cata da noi di gran, lunga superiore alla seconda; „  a quella cioè che è divulgata e ormai quasi sola  nota , per le tante ristampe stereotipe fattene dal  signor Domenico Morano et dal suo figliuolo Um-  berto, fino alla 23. a edizione (ossia alla 21 a ristampa  della seconda edizione) pubblicata nel 1901.   Ho detto che la prima ragione può parere mera-  mente personale; ma tale, in fondo, non è . gia.cc  la mia esperienza m’è stata sempre indizio evidente  d' un pregio intrinseco e sostanziale del libro , pur  nella 2 a edizione: un prègio che agli occhi miei ha  reso sempre preferibile questo del Fiorentino , con   (1) Napoli , Domenico Morano ; di pp- Ut) ^ ’ divisa   in 2 parti : la I di 33; la II di 25.     I    VI    i suoi difetti, a tutti gli altri manuali scolastici di  filosofia, che, prima o dopo di esso, sono stati pub-  blicati in Italia, pur pregevoli quale per uno e quale  per un altro rispetto. Questo m’è sembrato che fosse  atto , a differenza degli altri , se studiato come va  un testo di filosofia, a muovere l’intelligenza e a far  sentire il bisogno di una elaborazione di concetti  ulteriore, di una più salda logica, di una più chiara  e più alta coscienza; che è poi il fine a cui può e  deve mirare quella prima istituzione filosofica che  viene impartita ne’ licei. Ci sono testi più ordinati,'  più lindi , più semplici , più facili , più ricchi , e  magari più moderni . Ma alla prova,— prova fatta, pur  troppo da molti insegnanti subita da migliaia e  migliaia di giovani, — questi testi riescono o dannosi,  o, per lo meno, inutili. Parte, infatti, per la ricchezza  del contenuto (povera ricchezza !) in cui hanno voluto  condensare, e quasi comprimere, a forza di oscuri  riassunti , quelle che sono giudicate le principali  dottrine intorno a ciascuna materia, parendo ai com-  pilatori che sarebbe l acuna deplorevole nella cultura  liceale la mancanza di cotali notizie, sono riusciti  zibaldoni indigesti e indigeribili , che nello spirito)  dei giovani non hanno prodotto se non quello chel  potevano produrre; nausea e disgusto, non soltanto  verso quei libri e quegli autori, ma verso la stessa  filosofia, di cui non si dava loro a conoscere altri*  più degni rappresentanti. Parte , compilati con la  preoccupazione dell’ ordine , della chiarezza , della  semplicità , con la falsa convinzione che quello si  ami a imparare, che non costi nessuna fatica; tra-  lasciando ogni discussione , evitando ogni concetto  unjpo’ alto, che sia, o paia, in contrasto col senso    comune; togliendo, insomma, alla filosofia niente-  meno che la sua propria natura , hanno amman-  nite quello ohe potevano ammannire : una non-filo-  sofia; dando cosi a studiare quello che non avrebbe  fatto certo nè bene nè male; ma che perciò, forse,  era inutile studiare. Altro che soave licor negli orli  del vaso : nè anche goccia di succhi amari ! ,   L’esperimento d’un libro di questo genere ce l’ho  apch’io sulla coscienza; e ne fo questa pubblica con-  fessione nella speranza di sgravarmene in qualche  modo. Anch’io commisi un anno,— un anno solo,—  l’errore di adottare un testo di psicologia facile fa-  cile , appunto perchè facile facile , chè non aveva  altro pregio. E il risultato che ne ebbi fu questo :  che gli alunni capirono sempre bene, senza mia fa-  tica. e conferirono sempre meglio, senza loro fatica;  ma, infine, con mia vergogna non piccola, mi accorsi  che’ sapevano tutto, e pur non sapevano niente.   Il libro di testo per l’insegnamento filosofico non  è detto che debba essere facile , nè moderno , nè  completo. La facilito , certo , è gran bella dote di  un libro ; ma quando questo libro - si vuol leggere  in viaggio , per scacciar la noia, o a letto, per pi-  gliar sonno. La modern ità, è un altro pregio tutt’ al-  tro che trascurabile; ma quando non ci stia a sca-  pito della verità e dell’efficacia. La completezza,—  che è ciò che più si desidera da taluni insegnanti  nel manuale del Fiorentino,^ una preoccupazione  senza fondamento : sia'perchè non ci può essere mai  se non una completezza relativa; e al libro del Fio-  rentino, così com’è disegnato, non manca nulla per  potersi dire completo ; sia perchè, nel nostro caso,  li libro è d estinato a una propedeu tica, filosofica,    e dev’essere strumento di cultura, pungolo dell'ina  telligenza, e quasi direi , pietra di paragone della  riflessione speculativa. E in ciò la quantità delle .  cognizioni da comunicare non ci ha proprio nulla I  da vedere. Giacché, se si vuole che l’ insegnamene  filosofico nei licei produca buoni frutti, bisogna che  noi insegnanti ce lo chiaviamo bene nel sommo della  testa : non importa niente che gli alunni abbiano    questa o quella cognizione, e sia modernissima quan-  to si voglia; sì importa, che imparino a pensare ;  ma a pensare per davvero, riflettendo sul pensiero,  e sforzandosi di farne un sistema logicamente coe-  rente.   E questo è l’effetto che li ottiene dal. libro del  Fiorentino ; del quale non sfuggono neppure a me  i punti non ben saldi , che non son pochi , nelle  dottrine : ma che è il solo libro scolastico nostro,  scritto con un unico spirit o, co n uno sfor zo costante j-)  di organizzare la Serie delle dottrine , quali che  siano; discutendo sempre, e lasciando intravvedere    cosi una luce lontana , maggiore di quella che vi  splende per entro ; il solo libro 1 , per continuare a  parlare con tutta franchezza, che qbitu i a. pensai /(  Meglio però vi abitua nella prima edizione,' da  me ora riprodotta; segnatamente nella parte che,  ìiguaida la Psicologia. Non è questo il luogo da i n-  dagare i motivi che indussero il Fiorentino a rimu-  tare nella seconda edizione, fatta intorno al 1880 ,  quasi tutti i primi undici capitoli del libro : nè di  indicare a uno a uno i mutamenti dottrinali che y’in-  trodusse. Certo è che per tali modificazioni il libro    venne profondamente trasformato: l’idealista cedette  all empirismo che saliva in auge; il kantiano stimò    IX    che la psicologia genetica, come allora la chiama-  vano in Germania, potesse p dovesse rendere ragio-  ne delT a priori ; che Darwin potesse compiere e  correggere Kant. « L’a priori kantiano, — giunse a  scrivere, — è una semplice fermata, che -si traduce  in queste parole : in noi c'è un’ attività 'già preformata  a compiere certe funzioni , senza di cui la sperienza  non si farebbe . La filosofìa moderna accetta la tesi  kantiana, e domanda: come si è preformata ? E cerca  di trovare la risposta in due fattori: rassp cjazjpne  e la ; la prima che accumula , la seconda   che trasmette. Per loro mezzo, Va priori dell’ indi-  viduo sarebbe ciò eh’ è a posteriori per la specie »  (p. 31 n.). Proprio quello che si. dimostrava assur-  do nel c&p. Ili della l. a edizione (IV della presente)!   Il libro, insomma, fu, diciamolo pure, guastato dal-  Tautore stesso. E non soltanto dal lato della dottrina.  Perchè, tormentato in questi primi capitoli fonda-  mentali, e qua e là, in tutti i punti più importanti,  nello sforzo di rammodernarsi e transigere, quasi,  con le più recenti dottrine, esso perdette lajr esch ez-  za del primo getto, la stringatezza e solidità della  primitiva costruzione, raniijaa, onde era stata origi-  nariamente concepito. Rabberciato alla meglio , si  arruffò, e divenne* aspro e difficile, di quella diffi-  coltà che non è allettativa dell’ingegno,- ma durezza  invincibile e disperante. Perchè ciò che è logica-,  mente ragionato , sebbene astruso , attrae e ferma   10 spirito, e lo costringe a pensare per assaporare   11 gusto forte che dà la vittoria sulle difficoltà; ma  ciò , che non fu organicamente pensato, stanca ed  opprime, ed allontana da sè.   Pure il manuale del Fiorentino, cosi guastato, s ; è    ■-*   K    X    V    continuato a ristampare ogni anno, e a studiar© n e }  licei del Mezzogiórno, pel buono che sempre conte-  neva , per la serietà onde appariva scritto. Oggi  che torna nelle sembianze primitive dovrebbe in-  contrare miglior fortuna. La Psicologia , com’è in  questa rinnovata edizione , è un' esposizione vera-  mente lucida, benché elementare, dei gradi princi-  pali dell’attività costruttiva dello spirito teoretico;  e, quando non avesse altro merito, questo solo do-  vrebbe bastare a farlo sostituire a quei compendi!  di psicologia empirica e descrittiva , che ora cor-  rono per le nostre scuole.   Giacché, come vedranno da sé i signori Colleghi,  la Psicologia del Fiorentini è ijutt’ altra cosa da,  queirempirica descrizione e classificazione dei fatti  di coscienza , che tiene ordinariamente il campo  dell’insegnamento liceale. Quella descrizione e 'Clas-  sificazione c'è pure ; ma in piccola proporzione e in  seconda linea, laddove la trattazione mira alla com-  prensione filosofica dell' attività dello spirito nella  sua progressiva produzione del mondo teoretico, del  mondo della scienza. Ora, che giovi più. richiamare  l’attenzione dei giovani su quest'attività, anzi che  sulla minuta e grossolanamente sistematica conoscen-  za dei fenomeni psichici, non credo che alcuno, a ben  rifletterci , vorrà mettere in dubbio. Siffatta cono-  scenza gioverà sempre ben poco, se pur mai gioverà:  e la sua utilità non potrà essere altra dall’ utilità  propria di ogni speciale contenuto mentale. Invece  è risaputo e convenuto,— é già s’è detto, — che fine  , della cultura del liceo non è d i ri empire, m a di for -  1 ma. re il e.er-vello. Come essenz ialmente formativa ed ‘  in sommo grado educatrice è appunto la coscienza, -t—.    t    quale può aversi a principio, e quale con l’aiuto di  questo libro può ottenersi, — della posizione dello spi-  rito umano nel mondo, doye non è spettatore, ma  attore e creatore — almeno del suo mondo. Questa  bqscienza è elemento necessario della cultura vera;   ed è gran ventura per la scuola media italiana pos-  sedere questo libro atto a promuoverla.   — Ma il Fiorentino non accenna questo. Ma il  Fiorentino non parla di, quest’altro, che pur si ri-  chiede dagli alunni della l. a classe liceale.   Non si richiede, veramente, nè questo, nè que-  st’altro. I programmi liceali, gli ultimi che si siano  prescritti dal Ministero, non parlano se non diElementi  di Psicologia, lasciando alla coscienza scientifica de-  gl’insegnanti d’intendere la Psicologia secondo i pro-  prii convincimenti . e di darli q uindi il conte nuto  corrispettivo. D’altra parteè: proprio possibile, dato  l’orario presente deH’insegnamento filosofico, fare  studiare come si conviene, in un solo anno, a gio-  vinetti appena giunti dal ginnasio, una trattazione di  Psicologia più estesa di questa del Fiorentino (che,  si badi, sorpassa nella presente edizione di 40 pa-  gine quella dell’edizione precedente) ?   Che, se dall’annunziata riforma della scuola media  il nostro insegnamento, — com’è giustamente nei voti  di parecchi insegnanti , — verrà concentrato, con  orario maggiore, negli ultimi due anni del liceo (ca-  ni’ era, quando questo libro fu scritto), allora 1’ e-  stensione delle due parti principali , in cui il libro  è diviso, risponderà puntualmente al programma dei  due anni.   Coteste due parti, per comodo delle scuole in cui  se ne volesse adottare una sola, s’è pensato di pub-    XII    blicarle questa volta in due volumetti separati. Nel  primo dei quali per motivi didattici ho creduto op.  portuno dividere la Psicologia dalla Logica. Vero  è che anche nella parte n si torna poi a trattare  di Psicologia. Ma è questione di parole, ove s'in-  tenda col Fiorentino per Psicologia quella parte  d ella Filo sofia de llo spirit o che studiaTe forme feno-  menologiche del sapere.   Per gli stessi motivi didattici ho spezzato nella  stampa il, discorso tutto seguito dall’autore, che,  scrivendo, non prendeva mai flato : e si vantava di  non esser uso a scrivere con le seste e rileggere  quello che avesse una; volta scritto. E ho diviso  ogni capitolo in tanti paragrafi oon speciali titoli,  quanti sono i singoli argomenti speciali che vi sono  toccati ; come, sempre per gli stessi motivi, ho messo  in corsivo termini tecnici, definizioni ed esempii.   Altre modificazioni non ho introdotte, salvo lievi  mutatnenti nei titoli dei capitoli, dove, non mi sem-  bravano esattamente corrispondenti al contenuto di  questi ; e qua e là ho corretto alcuni pochi errori  di fatto, incorsi nel libro per disavvertenza, e che  l’autore, avvertito, avrebbe corretti da sè. Della  forma non mi son permesso mutar altro che, in ra-  rissimi casi, alcuna espressione non abbastanza chia-  ra ; come ho tolto via, poiché si tratta di libro sco-  lastico, q ualche arcaismo , che potesse parere affet-  tato, e certe ripetizioni fastidiose di parole, a cui  l'autore, quasi per vezzo, non badava.   Note non ho voluto apporne se non di rado, e sem-  pre tra parentesi quadre, a chiarimento di espres-  sioni oscure. Ma ne ho voluto mettere sempre, bre-  vissime, ai nomi dei filosofi citati dal Fiorentino, per      1   — XIII —   indicarne la patria, l’epoca e le opere più celebri  o più notevoli. Potrà forse parere che ciò sia troppo  poco per alcuni, e troppo, e superfluo per altri. Ma  la pratica della scuola e degli esami mi ha indotto  a fare come ho fatto. Note lunghe non sarebbero  state lette, o avrebbero distratto; oltre che sareb-  bero entrate in particolari storici fuor di luogo.  Questi brevissimi cenni potranno bastare a non far  parere un Cameade ogni filosofo che Fautore ri-  corda, e a rendere forse impossibili casi simili a  quello che m'accadde nell’esame di un candidato  esterno di licenza liceale-; che mi dava Kant per con-  temporaneo di Aristotile. E siamo giusti: vedendo  sempre appaiati Aristotile e Kant, come fare a so-  spettare che l'uno era morto da venti secoli quando  nacque l’altro ?   Avvertirò infine che, riproducendo l’edizione del  1877 , ho creduto tuttavia di riferire dalla edi-  zione posteriore il capitolo sulle Sensazioni in parti-  colare, che nella prima mancava ; perchè contiene  notizie elementari, che è bene non sieno ignorate.  E avvertirò pure che, eccetto differenze di poco  conto, notate ai loro luoghi, nella Logica e nell’E-  tica, le due edizioni coincidono. Solo fu tolto nella  seconda un capitolo sul Piacere e il dolore (2° della  parte II), che da me, s’intende, è riprodotto.  La  dottrina  dell’Anima  in  Aristotile.   Il  periodo  filosofico  che  ho  in  animo  di  traiteggiaro  si  travaglia  pressoché  tulio  intorno  alla  ricerca  dell’ani-  ma ; muovendo  dai  principi!  aristotelici,  e contenendosi  il  più  delle  volte  nel  modesto  ufficio  del  commentare.  Il  perchè,  volendo  io  risalire  alle  origini  di  quella  contro-  versia, ho  divisato  farmi  dalla  dottrina  aristotelica,  e  dopo  averla  guardata  in  sè,  considerarla  negli  sviluppa-  mene che  partorirono  i due  commenti,  greco  ed  arabo.   In  Aristotile  medesimo  quella  dottrina  non  si  può  diligentemente  esaminare , se  non  riferendola  alle  altre  rimanenti,  onde  si  compone  il  sistema  tutloquanto.  Ci. e  se  in  cotesti  riferimenti  la  scienza  sempre  si  amplia  e si  allarga,  nel  caso  nostro  il  farlo  è una  necessità  derivata  dall’  indole  medesima  della  speculazione  aristotelica , la  quale  ci  si  palesa  consentanea  con  se  stessa  fin  nelle  ultime  conseguenze  di  un  primo  sbaglio.  Nelle  menti  volgari  si  un  errore  e si  una  verità  possono  essere  inseriti,  come^una  specie  di  episodio,  nella  struttura  del  siste-  ma ; ma  gl’  ingegni  veramente  speculativi  si  guardano  di  cascare  in  questo  fallo,  tanto  almeno,  quanto  a loro  basta  la  vista  di  guardarsene.  . •    J3jc|ti|<|£Lby  Coogl    72'    PIETRO  POMPONAZZI.    La  dottrina  dell’ anima,  e più  particolarmente  poi  quella  dell’anima  intellettiva,  presso  Aristotile,  implica  quelle  medesime  difficoltà  che  s’ incontrano  sin  dai  primi  passi  del  sistema.  Nel  Saggio  storico  su  la  filosofia  greca  io  toccai  di  queste  difficoltà,  e mi  studiai  di  chiarirne  al  possibile  il  vero  nodo  e la  vera  sorgente.  Lo  Zeller  non  ha  guari  nella  sua  Filosofìa  dei  Greci  ne  faceva  una  distesa  rassegna,  e di  nodo  in  nodo  mostrava  come  tutte  si  aggruppassero  nella  posizione  di  Aristotile  verso  Pla-  tone. Qui  non  mi  è consentito  altro  che  sfiorare  tutte  quelle  difficoltà,  e mostrare  come  riappaiano  nella  dot-  trina, della  quale  ora  discorriamo.  Si  vedranno  nella  psicologia  come  nella  metafisica  gli  stessi  problemi , e  poi  le  stesse  soluzioni , o meglio  il  difetto  di  una  vera  soluzione.   ( Platone  aveva  detto:  l’universale,  o l’idea,  è quanto  v’  ha  di  vero  e di  sostanziale  nelle  cose  ; la  materia,  per  i contrario,  è una  mera  negazione,  un  non-ente.  L'idea  rimane  sopra  la  moltitudine  e la  varietà  dei  fenomeni,  una , identica , permanente.  Le  cose  mutano , ella  no  ;  le  cose  muoiono,  ella  dura  eterna.  Tra  le  idee  ed  i sen-  sibili corre  dunque  un  dissidio  infinito,  a colmare  il  quale  Platone  non  sa  trovare  efficace  rimedio  ; onde  il  sistema  platonico  rimane  con  una  scissura  profonda  ed  irreparabile.  Aristotile  venuto  dopo,  e fermo  di  porvi  riparo,  delle  affermazioni  del  suo  maestro  parte  ritenne,  parte  rifiutò.  Parve  anche  a lui  che  l’ idea  sola  fosse  la  verità  delle  cose;  ma  perciò  medesimo,  a suo  avviso,  ella  non  può  stare  nè  sopra  nè  fuori  di  esse , ed  anzi  implicata  in  una  materia  di  cui  ella  è la  forma.  All’  idea  sopra  le  cose  di  Platone,  Aristotile  sostituì  V idea  nelle  cose , o la  forma.   Il  partito,  a cui  si  appigliò  lo  Stagirita  pare  a  prima  giunta  il  solo  spediente  acconcio  a ricongiungere       ]_bv  Gooffli    73    capito/lo  primo.   quei  due  mondi  che  Platone  aveva  lasciato  staccati  non  solo,  ma  opposti.  La  materia  e la  forma,  collegate  in-  sieme nell’unità  deU’individuo,  rappresentano  l'armonia  di  quei  due  conlrarii  che  Platone  non  aveva  saputo  riu-  nire. Ed  intanto  in  Aristotile  quel  congiungimento  noi|  è tanto  saldo,  che  quei  due  contrarii  mal  collegati  non  si  rivoltino  soventi  l' un  contro  l’altro,  e non  si  mettano  in  aperta  rottura.  Ognuno  di  essi  si  tiene  in  grado  di  primeg-  giare su  l’altro,  e fonda  le  sue  pretese  sopra  esplicite  dichiarazioni  di  Aristotile  a suo  favore;  le  quali,  bilancian-  dosi in  modo  che  nessuno  di  loro  penda,  tengono  l’animo  sospeso  ed  irresoluto.  Da  una  parte  T universale  non  può  stare  più  da  sè,  e cotesta  indipendenza  è accordata  soltanto  all’individuo,  dove  pare  che  consista  la  vera  sostanza  ; dall’  altra  l’ universale  solo  è conoscibile,  esso  solo  è la  verità.  Cosi  la  realtà  e Fa’^erTIir  si  trovano  spartite  quando  non  dovrebbero  essere.  La  realtà  si  l  appartiene  all’individuo;  la  verità  all’universale.  Pla-  tone era  stato  conseguente  nel  riporre  nell’  idea  e la  sostanza  e la  verità  delle  cose;  Aristotile,  invece,  on-  deggia, e quasi  vorrebbe  gratificarsi  l’uno  e l’altro,  accordando  all’  individuo  la  realtà  ed  all’  universale  la  verità,  con  un  sistema  di  compensi  che  qui  non  appro-  dano. Questa  contraddizione  è notata  molto  profonda-  mente dal  Zeller , che  la  sostiene  contro  le  osservazioni  del  Biese,  ed  è manifesta  a chiunque  sappia  di  Aristo-  tile la  dottrina  della  cognizione,  e quella  delle  cate-  gorie.1   Questa  prima  contraddizione  ne  partorisce  parec-  chie altre.  E primieramente,  se  la  scienza  non  è atta  a   1 « Er  sagt  oline  jene  Bescbrinkung  : dati  Wissen  geli  e nur  taf ’a  Allgemeine , und  ebeaso  unbedingt  : nur  das  Eiozelwesen  tei  eia  Sabstan-  tielles.  • Die  Philoi.  der  Griechen , vou  Zeller,  Zweite  Tbeil,  Zweìte  Au-  flage  , pog.  252.    Digitized  by  Google    74    PIETRO  POMPONAZZI.    cogliere  se  noe  la  forma  delle  cose , e questa  oon  ne  costituisce  l’ intera  sostanza , ne  conseguita  eh*  eHa  sarà  imperfetta  e che  non  corrisponde  alla  ..realtà  delle  cose  conosciute,  le  quali  si  trovano  specchiate  in  lei  soltanto  a metà.  Che  se  la  materia  è un  elemento  indi-  spensabile a fornire  la  sussistenza  dell’individuo,  non  può  venire  esclusa  dalla  cognizione,  come  se  fosse  un  accidente,  o anzi  un  ostacolo.  Ciò  era  ben  detto  secondo  i principii  platonici , ma  non  secondo  quelli  di  Aristo-  tile. Intanto  la  materia  è dichiarala  inconoscibile,'  es-  sendo priva  di  ogni  determinatezza.   Inoltre  1’  inconoscibilità  della  materia  nuoce  alla  conoscibilità  delie  forme,  perchè  queste,  salvo  la  prima  e purissima  forma , sono  tutte  implicate  nella  materia  non  solo,  ma  s’ ingradano  in  modo,  che  la  inferiore  sìa  • deve  considerare  come  potenza , e perciò  come  mate-  ria, per  rispetto  all'  altra  che  le  sta  sopra.  *   Aristotile  difatti  ha  posto  tal  relazione  tra  la  mate-  ria e la  forma,  qual’ è quella  che  corre  tra  la  potenza  e l’ atto  ; onde  la  materia  per  lui  è la  potenza  della  forma , come  la  forma  è l’ atto  della  materia.  Ora  se-  condo questa  determinazione  tutte  le  forme,  tranne  una  sola,  la  massima,  possono  dirsi  materia,  e cosi  l’ inconoscibilità  della  materia  si  riverserà  eziandio  so-  pra le  forme.  La  massima  forma  poi,  Dio,  in  mentre  che  dovrebbe  essere  la  più  pura , e perciò  la  più  lontana  dalla  individualità,  è ella  stessa  un  individuo.  Ora  l’ in-  dividualità divina  contraddice  con  la  teorica  fonda-  mentale,  secondo  cui  ogni  individuo  dev’  essere  il  sinolo  di  una  materia  e di  una  forma,  non  potendosi    1 à «?’  «Xtj  «yva>»To;  xa8’  ocutijv.  Metapk.,  VII,  IO.   1 « Ein  and  dasselbe  Diog  kana  tich  desihalb  io  dar  einen  Beziehong  «It  Stoff,  io  der  Andern  ala  Form,  in  jener  ala  Mogli  chea,  in  diesar  ala  Wirkliches  verhalteo.  • Zeller,  op.  cit.,  loe.  oit. , pag.  245.  •    - itized  by  Google    CAPITOLO  PRIMO.    75    etere  un  individuo  dove  non  abbia  luogo  punto  di  ma-  teria. In  fine  non  si  può  scorgere  dove  propriamente  Aristotile  ponga  U sostrato  della  individualità  : non  nella  forma  che,  stando  alla  teorica  della  cognizione,  dovrebbe  essere  l’universale;  non  nella  materia,  la  quale  è in-  determinatissima, e che  tanto  acquista  di  determinatezza,  quanto  la  forma  ve  ne  impronta.   Tale  per  sommi  capi  è il  capitale  difetto  dell’  ari-  stotelismo ; difetto  che  dalla  relazione  mal  definita  di  universale  e di  individuale , di  materia  e di  forma , si  diffonde  in  tutte  le  altre  teoriche,  e le  guasta  in  si-  mil  guisa,  producendo  un'  incertezza  ed  un  viluppo  ir-  resolubile. Non  è dunque  da  maravigliare  se  quel  si-  stema diede  occasione  a tante  controversie  di  interpreti,  perchè  esso  si  acconciava  ai  più  opposti  avviamenti.*  Tutta  la  filosofia  nel  medio  evo  e nella  rinascenza  si  diede  a risolvere  quei  problemi  in  opposte  sentenze,  credendo  sempre  di  ormare  i passi  di  Aristotile  ; nè ,  per  vero  dire,  mancavano  fondamenti  a questo  conflitto  di  opinioni.  Se  non  che  ogni  diversa  età  ha  mutalo  aspetto  alla  ricerca,  pur  conservandone  integro  il  fondo.  Così  la  scolastica  nei  primi  secoli  considerò  la  relaziono  tra  universale  ed  individuo  come  la  più  rilevante  ; di  poi,  tra  Tomisti  e Scotteti,  prevalse  la  questione  del-  l’ individualità , e chi  la  ripose  nella  materia , chi  nella  forma.  Da  ultimo  nella  rinascenza  si  cercò  nell’  anima  e nelle  sue  facoltà  quella  partizione  e quella  incertezza,  e si  domandò  quale  fosse  il  legame  che  stringe  l’ intel-  letto con  le  rimanenti  facoltà.   Le  tre  questioni  degli  universali , della  individua-  lità e dell’  intelletto  sono  diversi  aspetti  di  una  stessa  ricerca  ; e tult'  e tre  mettono  capo  in  Aristotile , e si  connettono  insieme,  e si  spiegano  1'  una  con  l'altra  nel  loro  storico  sviluppamento,  secondochò  parmi  di  ve-    Digitized  by  Google    76    PIETRO  POMPÒNAZZI.    dere , e secondochè  m’ ingegnerò  di  provare  nel  pro-  cesso di  questo  libro.   Lasciando  stare  per  ora  le  teorici#  che  sono  aliene  dal  mio  tema , e restringendomi  a quella  che  più  da  presso  vi  si  riferisce , dico  che  Aristotile  ha  risguardato  il  corpo  e l’ anima  sotto  l’ annodamento  medesimo  di  materia  e di  forma.  Basta  leggere  il  primo  capitolo  del  secondo  dei  libri  dell’  anima  per  chiarirsene  pienamente.  Il  corpo  fa  le  veci  di  materia  o di  soggetto , 1’  anima  per  contrario  non  può  essere  sostanza  se  non  come  forma  di  un  corpo  naturale  che  ha  la  vita  in  potenza. 1  E per  corpi  che  abbiano  la  vita  in  potenza  Aristotile  in-  tende quelli  che  si  dicono  organici.  Quindi  proviene  la  sua  celebre  definizione  dell’  anima , la  quale  fu  ripetuta  in  tutto  il  medio  evo,  ed  in  tutto  il  periodo  del  rinasci-  mento, nè  ancora  se  n’  è potuto  escogitare  una  migliore.  L’ anima,  ei  dice,  è l’ entelechia  prima  di  un  corpo  na-  turale che  ha  la  vita  in  potenza  ; e bisogna  intendere  per  tale  un  corpo  organico.*  Ora,  benché  l’entelechia  avesse,  nel  linguaggio  aristotelico,  una  determinatezza  maggiore  della  forma,  nondimeno  l’anima  è pur  sem-  pre la  forma  del  corpo , e ad  esso  annodata  con  legami  non  disleghevoli. 3   Perciò  ad  Aristotile  pare  oziosa  la  ricerca  se  il  corpo  e 1’  anima  siano  una  sola  e medesima  cosa , nel  modo  stesso  che  riesce  vano  il  voler  sapere  la  differenza  che  passa  tra  il  suggello  e la  cera  su  cui  s’ impronta.  Impe-  rocché se  l’ entelechia  si  dice  propriamente  in  quanto   v 1   4 Vedi,  De  Anima,  lib.  II,  cap.  I,  £ 4.   s Sto  boxili  è®Tiv  évreXt^sia  n rzpàrn  ata/xt ctoj  fvotxoZ  dwà/zsi   txoxro;  . róiaÙTO  Si,  a xv  ri  òpyavixóv.  De  Anima , lib.  II,  cip.  I,  § 8,  6.  Nell’  ediz.  del  Treodelembarg.   ’ ori  /ztv  oo!  oix  giTiv  |vx»ì  xwptsrÀ  toG  sw/xares.  De  Anima ,  lib.  II,  cap.  4,  § 12.    CAPITOLO  PRIMO.  , 77   è forza  motrice  e tinaie,  essa  è però,  come  osserva  lo  Zeller,  sempre  tutt’  uno  con  la  forma.1   Il  concetto  che  ha  dunque  Aristotile  dell’anima,  è  quello  di  forma , o di  entelechia  inseparabile  dal  corpo.  E si  badi,  che  egli  non  vuol  restringere  in' nessun  modo  questa  sua  definizione  fondamentale,  la  quale  è comune  a tutte  le  anime,  come  la  definizione  della  figura  io  geometria  è applicabile  a tutte  le  figure  in  particolare.  Ben  si  distinguono  parecchie  specie  di  anime,  i cui  gradi  Aristotile  determina  cosi:  nutrizione,  sensibilità,  locomozione,  intelligenza,  ordinate  in  modo  che  il  grado  superiore  presupponga  l’inferiore  e non  possa  stare  senza  di  esso  ; però  tutte  coleste  specie  di  anime  debbono  convenire  nella  definizione  comune.  Lo  stesso  Barili,  de  Saint’Hilaire  riconosce  questa  necessità.*   Stando  a queste  deduzioni,  la  dottrina  di  Aristotile  procede  fin  qui  sicura  e senza  esitazioni.  Dove  ci  è moto  prodotto  per  intrinseca  energia,  ci  è vita;  dove  ci  è  vita,  ci  è corpo  ed  anima,  cosa  mossa  e causa  motrice.  Il  corpo  è la  potenza  e la  materia  ; l’ anima  è 1’  entele-  chia e la  forma.  E come  nella  metafisica  l’ individuo  risulta  dalla  materia  e dalla  forma , cosi  nel  caso  spe-  ciale degl’ individui  animati,  o degli  animali,  il  loro  compiuto  concetto  consta  di  corpo  organico  e di  anima.   Ma  tutta  questa  armonia  viene  rotta  da  una  dubita-  zione che  Aristotile  propone  senza  risolvere.    * • Das  gleiche  Wesen  wird  aber  aoch  «eia  Eodzweck  «ein , wie  ja  Qberbaapt  die  Form  voo  der  bewegenden  und  der  Endursacbe  nicbt  verscbie-  deo  ist.  Solerti  non  die  Form  ala  bewrgende  Kraft  wirkt,  nennt  aie  Aristote-  le* Entelechie,  ami  somit  definit  i er  die  Seele  ala  die  Entelechie  uod  naber  ala  die  erste  Entelechie  cines  nalQrlichen  Kòrpers,  welcher  die  Fahigkeit  bat,  za  leben.  » — Zeller,  Zw.  Tbeil , pag.  571.   1 « La  definition  qu’il  a donoée  lui-méme  au  cb.  l«r  de  ce  livre  doit  donc  ponvoir  s’appliqoer  ipécialement  à chaqoe  espìce  d’ime  qu’il  a distia-  gatte.  » Ptychologit  d’Ariilole,  Paria,  1846,  pag.  181.   *    Digitized  by  Google    78    PIETRO  POUPONAZZI.    Arrivato  all’intelligenza,  egli  tentenna,  e si  perita  di  applicare  a lei  le  determinazioni  precedenti  dell’anima,  benché  avesse  prima  detto  che  quella  comune  defini-  zione fosse  applicabile  a tutti  i gradi  differenti  di  vita.  L’ intelligenza  pare  a lui  un  altro  genere  di  anima,  e per-  ciò separabile  nello  stesso  modo  che  l’ eterno  si  separa  dal  perituro. 1 Questa  scappata  di  Aristotile  può  riuscire  inaspettata  a quelli  soltanto  i quali  non  hanno  seguito  il  pensiero  aristotelico  in  tutto  il  suo  svolgimento.  Chi  però  ha  posto  mente  alla  irresolutezza  di  Aristotile  nel-  l’accordo proposto  tra  l’universale  e l’individuo,  ed  ha  visto  continuare  questa  perplessità  nella  concezione    della  materia  e della  forma,  nel  legame  tra  Dio  ed  il  1 mondo,  e nella  teorica  della  cognizione,  si  accorge  anzi  che  Aristotile  non  poteva  fare  altrimenti.  Nell’  anima  i stessa  ci  è qualche  cosa  che  tiene  più  della  materia,  e  qualcosallro  che  fa  le  veci  di  forma  ; il  senso  e le  fa-  coltà inferiori  che  sembrano  un  patire,  e l’ intelletto  clic  sembra  attivo  verso  di  loro.  Anzi  nell’  intelletto  me-  desimo Aristotile  discopre  questa  duplicità,  la  quale  co-  me era  rimasa  irreconciliata  e contrastante  nelle  prime  categorie  dell’  essere,  così  rimane  qui  negli  ultimi  svi-  I appara  enti  dello  spirilo.   Ciò  che  v’  ha  di  peculiare  nell’  anima  umana  è l’in-  \ lelletto;  perciò  noi  ci  fermeremo  un  poco  più  nel  mo-  ’ strare  in  che  modo  Aristotile  ne  avesse  esposto  la  na-  ! tura.  L’ intelletto  primieramente  apparisce  legato  con  le  l altre  facoltà  non  solo  per  la  intuizione  generale  del  si-  stema aristotelico,  che  fa  ricomprendere  ogni  forma  in-  feriore nella  superiore,  ma  per  l’esercizio  medesimo  della  sua  attività,  che  non  potrebbe  recarsi  in  atto  senza    Digitized  by  Google    CAPITOLO  PRIMO.    79    il  sussidio  delle  facoltà  precedenti.  Le  cose  estese  sono  ricevute  nell’anima  mediante  le  sensazioni,  le  quali  \  sono  perciò  forme  delle  cose  sensibili.  Dopo  questa  prima  maniera  di  forme,  che  richiede  la  presenza  della  mate-  ria, ve  n’ha  un’  altra  la  quale  si  assomiglia  alla  sen-  sazione, se  non  che  non  ha  bisogno  della  materia  presente.   Da  ultimo  l’ intelletto,  eh’  è forma  delle  forme,  esercita  verso  le  sensazioni  ed  i fantasmi  la  medesima  azione  che  i fantasmi  hanno  esercitato  su  le  sensazioni,  e le  sensazioni  su  le  cose  sensibili.  Cotalchè  come  la  sensa-  zione non  può  aversi  senza  la  materia,  nè  la  immagine  fantastica  senza  la  sensazione , così  1’  atto  della  intelli-  genza non  è possibile  senza  il  fantasma.  L’ intelletto  in  questa  prima  posizione  apparisce  dunque  legato  indis-  solubilmente con  tutto  il  sistema  delle  facoltà  del-  l’anima.1   Nè  per  la  sola  operazione  l’ intelligenza  apparisce  legata  con  l’ organismo  corporeo,  ma  per  la  sua  intrin-  seca natura.  Difatti  ella,  come  intelligenza,  non  è altro  che  ciò  per  cui  l’anima  ragiona,  e non  è nessuna  cosa  in  atto  prima  di  pensare  : ella  è soltanto  in  potenza.  *  Che  se  riannodiamo  questa  teorica  dell’  intelletto  con  l’ altra  dell’  anima , si  scorgerà , che  come  l’ anima  era  legata  col  corpo  organico,  così  l’ intelletto  è legato  con  l’ anima  ; perciò  qui  Aristotile  la  chiama  intelligenza  dell’  anima  (r»ì;  voC«)-  Ed  in  ultimo  risultamento  avremo  il  corpo  organico  come  subbietto  o materia  del-  l’ anima,  e questa  come  subbietto  dell’ intelligenza.   1 Vedi  tutto  il  cap.  8 del  lib.  Ili  dell’Anima,  dove  ì degno  di  spe-  ciale nota  questo  luogo:  x ed  Sii  roóro  omtc jit)  Atrèavépigva; puj&év  *»  oùdé  ?uvior  ór*»  rs  Se  capri,  oèvexyxvj  »(»*  yxVTaspta  ri  àsoipstv.   * ùsre  fj-nS’  aùroù  stvat  pùnv  /sride/tta»  àXX’  n t*vt»ì»,  ori  ^u»aró»  ò «pa  xaXaóptsvoi  rn ( »®ó;  (Xsyoi  Si  voó»  w dtetvostroci   xeni  oivei  r,  'l'UX’t)  où&t*  èsTiv  svspyda  tmv  ovroiv  tepìv  vosi».   Lib.  Ili,  cap.  H,  2 5.  De  Anima.    Digitized  by  Google    80    PIETRO  POMPONAZZI.    Altre  asserzioni  dello  stesso  Aristotile  accennano  però  alla  sentenza  opposta.  Già  abbiamo  visto  come  per  lui  l’intelligenza  sia  un  altro  genere  di  anima,  e se-  parabile, in  mentre  che  le  anime  dei  gradi  inferiori  sono  legate  con  gli  organi.  A questa  testimonianza,  che  sta  contro  alle  cose  precedenti,  se  ne  aggiunge  un’altra  ugualmente  esplicita,  dove  si  sostiene  che  il  Noo  venga  dal  di  fuori,  e che  solo  sia  divino. 1 Si  possono  distrug-  gere la  riflessione,  l’amore,  l’odio,  il  ricordarsi,  per-  chè siffatte  modificazioni  appartengono  al  soggetto  in  cui  alberga  l’ intelligenza  e che  la  possiede  ; ma  l’ intelli-  genza medesima  è qualcosa  di  più  divino , è qualcosa  d’ impassibile.  *   Che  se  dopo  tutte  queste  dichiarazioni,  che  riguar-  dano il  principio  intellettivo  nell’  uomo , ricorriamo  col  pensiero  all’  intelligenza  suprema , come  vien  descritta  nella  metafisica,  e segnatamente  nel  libro  dodicesimo,  la  difficoltà  da  noi  proposta  si  farà  più  evidente.  Prima  si  dimostra  come  non  ci  siano  altre  sostanze  che  quelle  che  risultano  da  una  materia  e da  una  forma;  poi  di  forma  in  forma  si  arriva  ad  una  suprema,  la  quale  non  è punto  implicata  nella  materia , e che  perciò  si  svelle  dal  sistema  mondano,  e non  vi  rimane  legata  se  non  per  un  filo  debolissimo , com’  è la  relazione  di  mosso  e  di  movente.  Quella  forma  suprema,  che  doveva  acco-  gliere in  sè  tutte  le  forme  inferiori,  non  è potente  nem-  manco  di  pensarle.  L’ intelligenza  divina  rimane  staccata  dal  mondo , se  non  fosse  per  il  bisogno  di  ricorrere  ad  un  motore  ultimo,  ed  immobile.  Tale  rimane  nel  si-  stema delle  facoltà  umane  l’ intelligenza  : è lo  stesso  di-  fetto che  si  riproduce  in  ciascuna  parte.   1 AeiTtirai  «?*  róv  voi!»  /ióvov  OùpaOev  eiwisuvai  xai  0eTov  ecvat  uo'vov.  De  gener.  anim.,  lib.  II,  ctp.  5.   Vedi  De  Anima,  lib.  I,  cap.  4,  § 14.    Digitized  by  Google    CAPITOLO  PRIMO.    81    Il  Rénan  si  è accorto  della  discrepanza  della  dottrina  su  l’ intelletto  nel  congegno  del  sistema  aristotelico , e  la  dichiara  un  frammento  di  scuole  più  antiche,  di  Anas-  sagora specialmente,  che  viene  citato  dallo  stesso  Aristo-  tile nel  terzo  libro  dell’Anima,  e nell’ottavo  della  Fi-  sica.' Ma  colesta  spiegazione,  oltre  all’  essere  poco  degna  di  Aristotile,  il  quale  non  ne  avrebbe  saputo  misurare  tutta  l’importanza,  contrasta  col  disegno  generale  del  sistema.  Saldata  che  avrete  questa  screpolatura,  come  fa-  rete poi  per  tante  altre  che  rimarranno  scommesse  ed  ir-  remediabili?  Poniamo  ancora  che  il  legame  tra  Dio  ed  il  mondo  si  rimeni  a questa  medesima  dottrina,  e che  tutto  il  duodecimo  libro  della  Metafisica  sia  un  episodio,  benché  un  po’  troppo  lunghetto;  si  risalderà  meglio  la  rottura  tra  la  materia  e la  forma  ? Si  spiegherà  meglio  la  teorica  della  cognizione,  sviluppata  negli  analitici  ? E  se  cotesta  magagna  s’ insinua  in  tutte  le  particolari  trat-  tazioni, come  si  fa  a dichiararla  un  frammento  slegato,  ed  a cacciarla  via  dal  sistema  ? Altro,  a parer  nostro,  è  il  dire  che  il  più  spedilo  e più  logico  avviamento  di  Ari-  stotile sarebbe  stato  di  continuare  nella  risoluta  opposi-  zione verso  il  suo  maestro,  ed  altro  il  negare  eh’  egli  in  questa  polemica  non  sia  proceduto  incerto,  parte  rifiu-  tando e parte  ritenendo:  incauto  cercatore,  anche  lui,  di  conciliazioni  impossibili.  c   Della  prima  e più  spiccata  contraddizione  nel  co-  struire Findividuo  di  materia  e di  forma  ho  discorso  di  sopra;  toccherò  ora  della  dottrina  della  cognizione.   La  scienza  secondo  il  processo  aristotelico  piglia  le  mosse  dalla  sensazione,  e procede,  sempre  più  svilup-  pandosi, per  molti  gradi,  i quali  sono  variamente  de-  scritti, ma  che  si  possono  però  ridurre,  conforme  al-   1 • Il  est  évideot  que  toute  cette  tliéorie  da  voù(  est  eropruntée  4  Anaxagore.  » — Jverrhoès,  etc.,  psp.  96,   F.  Fiorbntiko.    «    82    PIETRO  POMPONÀ.ZZI.    l’esposizione  del  Barili,  de  Sant’  Hilaire,  ai  seguenti;  sen-  sazione cioè,  pensiero  nella  forma  volgare , ed  in  quanto  sottoslà  alle  impressioni  sensibili;  scienza  (ìttLotìiw) , é  intelletto  (vo»{),  il  quale  è in  relazione  cop  gl’inteUigibili.   Riguardo  alla  sensazione  non  s’ incontra  difficoltà  :  essa  è la  forma  delle  cose  sensibili,  che  viene  accolta  dall’  anima  sensitiva.  Nel  sollevarsi  poi  dalla  sensazione  alla  scienza  Aristotile  ammette  moltè  sfumature,  die  talvolta  si  confondono,  ma  che  giova  descrivere,  per  far  vedere  quanto  sottile  osservatore  egli  fosse,  e come  per  lui  tutto  il  processo  del  pensiero  non  fosse  altro  che  un  continuo  disvilupparsi  dalle  forme  più  materiali  per  ri-  vestirne altre  più  generali  e più  pure.   Il  grado  immediato  alla  sensazione  è per  lui  la  Séga  che  lo  stesso  Saint-Hilaire  traduce  per  percezione,  e po-  trebbe pure  dirsi  opinione.  Sopra  cotesla  percezione,  o  opinione  che  dir  si  voglia,  pone  la  fantasia  (pxvmaia.) ,  la  quale  può  dirsi  un  grado  di  sviluppamene  maggiore,  staccandosi  già  dall’  oggetto  sentito , più  che  non  faces-  sero i due  gradi  precedenti,  i quali  ne  richiedevano  sempre  l’ immediata  presenza.   La  fantasia  medesima  si  riferisce  al  fantasma  (pàv  touhx)  ed  all’  inamagine  (Uwv)  ; imperocché  essendo  la  fantasia  una  specie  di  tramezzo  fra  la  sensazione  e la  scienza,  col  fantasma  si  accosta  più  all’  intelletto , con  l’ immagine  invece  si  accosta  più  all’  obbielto.   La  scienza  e l’ opinione  possono  accoppiarsi  in  certo  qual  modo,  ed  il  loro  miscuglio  dà  la  riflessione  ( <j>pó-  vjiJts).  La  scienza,  1’  opinione  e la  riflessione  Sega , ppóvmatj) , sono  da  Aristotile  comprese  sotto  un  .termine  comune  uttò^cs,  il  quale  è deputato  a signifi-  care l’ attività  spontanea  dell’  anima,  doyecchè  la  Stóvota  discorre  da  un  oggetto  in  un  altro. 1   1 Per  la  determinazione  di  tatti  cotesti  gradi  del  pensiero,  vedi  Barth.  de    CAPITOLO  PRIMO.    83    Tali  sono  i primi  sviluppameli  della  scienza;  ma  ipoichè  ella  consiste  nel  dimostrare , e nel  far  vedere  le  -cose  nelle  loro  cagioni,  perciò  è necessario  che  si  fermi  in  principi  assoluti  ed  indimostrabili.  Il  voOs  è l’ intelletto  di  questi  primi  principi,  i quali  sono  i termini  della  di-  mostrazione. Se  la  sensazione  ( afo^ots)  dunque  è il  primo  inizio  della  scienza , l’ intelletto  (vo0«)  n’è  l’ul-  timo risultato. 1   Chi  ha  tenuto  d’ occhio  tutto  il  processo  della  cogni-  zione, com’  è descritto  da  Aristotile,  si  sarà  accorto  che  -conforme  a questa  dottrina  il  vovg  non  può  fermarsi  se  non  nei  principi  più  remoli  dalla  materia,  e più  univer  sali.  Essendo  l’apice  di  ogni  astrazione,  esso  dev’essere  al  polo  opposto  della  sensazione,  che  si  trova  congiunta  ■con  la  materia  immediatamente.  Ed  intanto  il  punto  di  fermata  sono  i termini,  ossia  è la  sostanza.  Ora  la  so-  stanza, nonché  sia  1*  universalissimo  essere,  è invece  individuale  ; dunque  il  processo  della  scienza,  dopo  aver  percorso  tutte  le  forme  di  separazione  dalla  materia,  ri-  casca nella  sostanza,  la  quale  è dalla  materia  insepara-  bile. L’ essere  e la  sostanza  sono  spesso  confusi  da  Ari-  stotile, eh’ è quanto  dire  la  più  astratta  delle  forme,  l’essere,  vi  si  scambia  con  la  forma  attuosa  legata  con  la  materia.  * La  sostanza  è per  lui  una  volta  il  neccssa-    Saint-Hilaire , Logique  d'Arùtote,  tom.  II,  Deuxìème  l’artie,  section  XI®,  -di.  9®.   * Ecco  come  il  Trendcleraburg  prova  questo  ufficio  proprio  del  veù;  ■aristotelico.  « Noè;  in  primis  et  ultimis  scienti»  priucipiis  rersatur.  Ita  Analyt.,  post.  I,  27,  Xiyu  yàp  *sùv  ù.pyn'1  éKcuni/in»-  Elh.  Nicom.  VI,  6.  7st  fTSToct  voùv  siva*  TÙv  xpyrZv.  Quteuaui  sit  xp%rj  (neque  euim  omnis  ed  noJv  rediòit)  accuratius  defiuitur  Elh.  JVtc.,  Vi,  9,  ò pit  -/«.p  voós  ri»  opwv  u'J  oóx  sor*  /óyo;.  i.  e.  quorum  sulla  est  demoustratio  conclusione  «ffecta.  « Àristot.,  De  Aniti.  Commentario,  pag.  494.   1 « L’idée  de  Cétre  et  l’idée  de  substauce  se  coufoudeot  souvent  aiosi  pour  Aristote.»  Bar  ih.  Saiot-Iliiaire,  ioc.  cit. , cb.  40®.    Digitized  by  Google    84  ' PIETRO  POMPONAZZI.   rio  e 1’  universale,  un’  altra  volta  il  puro  accidente  ; un»  volta  forma,  un’  altra  volta  sinolo  di  materia  e di  forma/   Il  Noo  aristotelico  adunque  una  volta  si  ferma  ai  principi  (àp^wv),  un’altra  volta  ai  termini  (ópwv),  i  quali  non  sono  altro  che  la  sostanza.  Nè  in  quest’ una  soltanto  si  restringono  le  incertezze  di  quella  dottrina.  Il  Noo  allora  veramente  si  conchiude  e si  assolve,  quando  si  posa  in  se  stesso.  L’andare  di  pensiero  in  pen-  siero implica  un  processo  all’  infinito , dal  quale  Aristo-  lile  si  mostra  sempre  alieno.  Sforzato  adunque  dalla  stessa  dialettica  egli  immedesima  in  questo  atto  supremo  l’ intelletto  e l’ intelligibile,  ed  in  cotesta  medesimezza  dell’  intelletto  con  se  stesso  è riposta  la  sua  vera  asso-  lutezza. * Se  ci  fosse  qualcosa  di  esterno,  alla  quale  lo  spirito  dovesse  stare  sospeso,  egli  sarebbe  da  meno  di  lei.  E fin  qui  tutto  si  accorda  a maraviglia  con  la  natura  dello  spirito,  che  non  può  prendere  in  prestito  d’ al-  tronde la  sua  compiutezza,  nè  posare  altrove  che  in  se  stesso  ; ma  in  che  modo  si  potrà  conciliare  cotesta  af-  fermazione con  l’ altra  che  fa  travagliare  il  Noo  intorno  ai  primi  principi?  Ed  ecco  una  nuova  irresolutezza,  una  nuova  contraddizione  : lo  spirito  che  una  volta  si   1 Ecco  come  il  medesimo  Sant-Hilaire  riassumo  da  parecchi  luoghi  della  Metafilica  la  teorica  di  Aristotile,  dove  la  sostanza  apparisco  una  volta  neces-  saria, un’  altra  volta  come  reale,  cioè  come  individuale.  Non  trattando  qui  di  proposito  questa  teorica  mi  astengo  dal  citaro  io  stesso  i luoghi  del  testo.  • La  Science,  douée  de  ces  deux  caractéres,  du  général  et  du  nécessaire,  «'applique  donc  surtout  è ce  qui  est  en  soi , è lasubstance,  bien  plutùt  qu’anx  autres  catégorie»,  qui  ne  sont  que^d’accident.  La  substance,  l’étre  ■ éel  (oùsia)  est  su  faste  de  la  Science:  et  c’esl  elle  spécialement  qne  le  phi-  lusophe  doit  étudier.  De  plus,  c’est  à une  seule  et  ménte  Science  de  recher-  « ber  et  les  principe»  généraux  de  l’étre , de  la  substance , et  Ics  principe»  généraux  de  la  démonstration,  et  du  syllogisme  qui  la  coostitne.  • Loc.  cit.,  eh.  »e.   * a Si  absolutum  id  est,  quod  ad  nihil  nisi  ad  seipsum  rifertur,  acqui  tur  sane  mentem , siquidem  absoluta  est,  seipsam  cogitare.  » Tren-  «bltmburg , op.  cit.,  pag.  497.    CAPITOLO  PRIMO.    85    ferma  nei  principi  universali  e nella  sostanza  ; un’  altra  volta  che  si  conchiude  in  se  medesimo.  Certamente  quest’  ultima  conclusione  è più  accettevole,  e più  consen-  tanea alla  nozione  deirintellelto  espressa  precedentemen-  te; ma  ciò  non  toglie  il  fare  incerto  ed  anche  contraddit-  torio del  sistema.  Se  l’ intelletto  non  è,  se  non  quando  pensa  in  atto  ; esso  non  può  compirsi,  se  non  nell’  atto  suo  proprio.  Se  gl’  intelligibili  non  si  differenziano  dal-  l’ atto  medesimo  che  li  pensa,  come  si  può  dire,  che  l’ intelletto  si  fermi  nei  primi  principi,  i quali  in  tal  modo  dovrebbero  avere  un’ esistenza  indipendente?   Forse  ad  ovviare  a questi  ed  a tutti  gli  altri  incon-  ■venienti  finóra  discorsi,  Aristotile  ricorse  allo  sparii-  j  mento  del  Noo  in  due,  per  potere  più  facilmente  altri-  j  buirgli  le  più  conlradittorie  determinazioni.   Il  quinto  capitolo  del  terzo  dei  libri  su  l’ anima  ospone  la  partizione  dell’  intelletto  in  attivo  e passivo.  \  Come  nella  natura  ci  è la  materia,  eh’ è lutto  in  potenza,  \  e poi  la  causa  che  la  rechi  in  atto  ; così  bisogna  che  co-  teste  differenze  si  trovino  pure  nell’anima.  In  lei  adun-  que vi  è un  intelletto,  che  può  tutto  divenire,  ed  mi  altro  che  può  tutto  fare. 1 E come  l’agente  prevale  sul  paziente,  cosi  l’ intelletto,  che  tutto  fa,  è fornito  delle  migliori  prerogative;  è separato,  eh’  è quanto  dire  non  dipendente  da  nessun  organo,  è impassibile,  e non  ha  mistura  di  sorta;  perciò  è immortale  ed  eterno.  Per  contrario  l’ intelletto , che  tutto  diviene,  è capace  di  patire,  e perciò  è perituro,  e senza  l’ aiuto  dell’  intel-  letto attivo  non  può  nulla  pensare.   Il  Noo  attivo  così  descritto  apparisce  essere  quanto  nell’  uomo  v’ha  di  divino  ; anzi,  come  osserva  il  Zeller,  esso  non  si  differenzia  punto  dallo  stesso  Dio.  E di  ciò   1 /.ai  !<mv  S pìv  Totovro*  vsus  tw  Tra/Ta  ycvss&at,  S Sì'  r»  irà/Toc  iisiitv.  De  Anim.,  lib.  Ili,  5.    Digitized  by  Google    PIETRO  POMPONAZZI.    potrà  capacitarsi  chiunque  si  faccia  a riscontrare  la  dob-  trina  del  Noo  attivo  con  l’altr  del  Dio  aristotelico,,  come  si  trova  nel  dodicesimo  libro  della  Metafisica.  Se  non  chè  il  Noo  attivo,  da  alcuni  tolto  per  lo  stesso  Dio,,  non  si  può  considerare  se  non  come  qualcosa  dell’anima.  Aristotile  medesimo,  se  da  una  parte  lo  chiama  il  divine  nell’  uomo  ; 1 dall’  altra  ci  ricorda  eh’  esso  ò un  altro  ge-  nere di  anima. 1 Intanto  è impossibile  concepire  due  es-  senze divine,  una  nell’anima  umana,  l’altra  separata;  e questa  contraddizione,  prodotta  dalla  solita  dubbietà.  di  Aristotile,  rimane  anch’  essa  irresolubile. 3   Gl’  interpreti  di  Aristotile,  e non  gliene  mancarono’  neppure  quando  fioriva  ancora  la  greca  filosofia,  comin-  ciarono percip  a dissentire  sul  Noo  attivo,  secondochè  ci  attesta  Temistio.  Chi  voleva  farne  la  facoltà  che  co-  glie i supremi  principi  con  una  semplice  comprensione,  e senza  bisogno  di  discorrere,  come  pare  avesse  intesa  Temistio  medesimo  (nè  era  certamente  senza  fonda-  mento cotesta  interpretazione):  chi  per  contrario  dal  dover  essere  sempre  in  atto  argomentò  che  non  po-  tesse essere  altri,  salvochè  Dio;  ed  anche  a cotesto  com-  mento  dava  nerbo  la  descrizione  sovresposta  di  Aristotile.  Se  non  che,  obbiettava  lo  stesso  Temistio,  Aristotile  parla  dell’  intelletto  attivo  e del  passivo  come  di  diffe-  renze (rà;  Scxp cpas)  dell’  anima  ; ed  il  porlo  in  Dio  ri-   1 el  Oeiov  è vaù?  ir  pòi  t ài  av9/Jwirov.  Et.  ffie.,  X,  7.   8 7t»o;  irti 59v.  Jìe  An im.,  lib.  Il,  cgp.  3,  § 9.   3 « Die  ihatige  Vernunft  ist  mit  Eincm  Wort  nicht  atlein  dea  Guttli-  che  im  Menschen,  sondern  aie  ist  der  Sacbe  noch  von  dei»  gottlirhen  Geiste  selbat  nicht  veracliieden.  ......  Andererseits  liess  sich  aber  freilich  der   ansserweltliche  gòttliebe  Geist  nicht  wohl  ala  die  den  Kinzclncn  in"  oli  ricado  nnd  mittelst  der  Zengnnge  in  aie  iibcrgehcndo  Vernunft , ale  ein  Theil  der  menschlichen  Sede  bezeichnen.  Aber  eine  Liisung  dieaea  Widersprucbs  so-  ebeà  wir  bei  Aristatclca  vergeblieh.  • Zeller,  Phil  der  Grieche n,  Zw.  Theil,  pag,  440-441.    Diaitized    CAPITOLO  PRIMO.    87    pugnerebbe  a questo  esplicito  testo.  Il  Trendelerobnrg  nota  tutte  le  precedenti  dubbietà,  nè  sa  risolversi  egli  medesimo  a miglior  partito,  che  a questo,  di  confes-  sare cioè  una  certa  cognazione  tra  il  Noo  attivo  e Dio,  senza  però  spiegare  come  avvenga  nella  nostra  mente  questa  partecipazione  del  divino.  * Ben  si  accorge  che  Aristotile  nella  teorica  del  Noo  attivo  rompe  la  preclara  serie  delle  umane  facoltà,  e del  loro  progressivo  svi-'  luppo,  introducendovi  qualcosa  di  nuovo  e di  estrin-  seco, ma  non  riporta  questa  rottura  ad  una  più  estesa,  che  noi  vedemmo  fin  da  principio  avvenuta  dentro'  la  costituzione  originaria  dell*  individuo.  Al  dotto  critico  di  Berlino  non  Sfuggirono  però  i testi  ripugnanti,  e la  ragionevolezza  delle  interpretazioni  contraddittorie,  ben-  ché egli  non  si  fosse  sforzato , come  di  poi  ha  fatto  il  Zeller,  di  risalire  alla  prima  scaturigine  di  quelle  con-  traddizioni divenute  necessarie.  Chi  disse  : I’  intelletto  attivo  è Dio,  e Chi  lo  negò,  non  ebbe  certo  difetto  di  testi  per  convalidare  la  sua  chiosa.  11  Brentano  non  ha  guari  pubblicava  un  libro  per  provare  che  il  Noo  è una  facoltà  dell'  anima,  ma  senza  far  caso  delle  espressioni  che  si  possono  trarre  iti  opposto  senso.  Così,  a mò  d'esempio,  nel  libro  della  generazione  degli  animali  ò  detto  che  l’ intelletto  venga  da  fuori,  ed  egli  interpreta  doversi  intenderà  non  del  solo  intelletto , ma  di-  tutta  l’anima  intellettiva.*  Che  non  abbia  veduto  manifesta   1 Dopo  riferite  le  parole  di  Aristotile,  che  queste  differenze  di  attivo  o -  di  passivo  si  trovino  pare  nell’anima,  soggiunge.  « Qua)  serba  aperte  de  humano  agere  mimo.  « D’altra  parte.  « Divina  mena  nibil  esse  potest , nisi   agens  intcllectus , a qno  veritas  rerum  manat Sed  quomodo   liut,  ut  Immani  mens  divine  particeps  sit,  dietimi  est  nusquam.  s Com-  meni.  Ariti,  de  Anima,  pag.  492,  493.   1 • Vor  der  Hmd  sei  nnr  bemnrkt,  dass  nnter  dem  vou;  der  Svpy.Sev  in  den  Fòla*  eingeht , nidi t , wie  Manche  meinen  , der  voù;  7ro‘V)Tt/o;  at-  leta , sonderò  die  ganze  ibujnj  vortrtxv  zn  versteben  ist.»  Die  Ptychologie  *    88    PIETRO  POMPONA.ZZI.    l’ oscillazione  di  Aristotile  dopo  le  profonde  osservazioni  del  Zeller,  che  pure  ha  letto,  a me  sembra  cosa  stra-  nissima ; ma  ognuno,  a vedere,  si  vale  degli  occhi  suoi  e non  degli  altrui.  Eppure  a lui  è saltato  negli  occhi  il  doppio  valore  del  Noo  aristotelico;  se  non  che,  invece  di  spiegare  la  causa  di  questa  duplicità,  ei  riconosce  una  sola  significazione  come  propria  della,  dottrina  ari-  stotelica,  l’altra  come  una  certa  metafora,  di  cui  Ari-  stotile si  fosse  valso  ; lui  che  dalle  metafore  era  alienis-  simo. Come,  dice  il  Brentano,  noi  diciamo  sano  tanto  chi  ha  la  sanità , quanto  le  cose  che  conferiscono  a pro-  curarla, cosi  Aristotile  ha  potuto  chiamare  Noo  tanto  il  subbielto,  che  ha  in  sè  il  pensiero,  come  il  desiderio  spirituale,  che  n’  è un  corollario,  e Dio  che  n’  è il  prin-  cipio creatore. 1 Cosi  nella  lingua  tedesca,  ei  soggiunge,  Geruch  vuol  dire  ugualmente  ed  il  senso  che  coglie  gli  odori,  e l’odore  come  qualità  dei  corpi.  E lutto  questo  va  bene  ; ma  Aristotile  piglia  il  Noo  tutte  e due  le  volte  in  significato  proprio  e serio;  tanto  nel  terzo  libro  dell’Anima,  dove  ne  parla  come  di  differenza  dell’ anima  umana,  come  nel  dodicesimo  libro  della  Metafisica,  dove  lo  descrive  come  primo  motore  immobile  nella  relazione  che  ha  con  lutto  l’ universo.  E le  descrizioni  rinvergano  cosi  bene , che  paia  sempre  lo  stesso  Noo  che  si  descri-  ve : tanto  il  primo  motore  della  metafisica  rassomiglia  al  Noo  attivo  dei  libri  dell’anima!  Da  qui  l’oscillazione  del  sistema  aristotelico,  che  nessuna  interpretazione,   o distinzione  al  mondo  varrà  a far  cessare.   * ‘ <   des  Ar  ilio  tele*,  intbetondere  teine  Lehre  vom  vojj  noi  n ti  xeg  vou  D*  Frani  Brentano,  Maini,  1807.   1 a So  knnnte  aucb  Aristoteles  nicht  bloss  das,  was  die  Gedanksn  io  sich  bat,  sonderà  aucb  das,  was  Folgc  dea  Deokes  iat,  wie  dea  geistige  Begebren , aber  auch  das , was  ala  Princip  die  Gedanken  bervorbringt , ala  #>9Ù;  bczeichoen.  — Brentano,  op.  cit.,  pag.  171-172.    CAPITOLO  PRIMO.    89    Una  nuova  difficoltà  ci  si  affaccia  nel  conciliare  le  due  differenze  che  Aristotile  introduce  nel  Noo,  perchè  il  passivo  è detto  corruttibile,  e legato  con  la  memoria,  col  desiderio,  con  tutte  le  altre  facoltà  inferiori  ; e l’at-  tivo, per  contrario,  immisto,  separabile,  e perciò  im-  mortale : ed  intanto  il  primo  ed  il  secondo  appartengono  del  pari  all’  intelligenza,  che  n’  è il  genere  comune.  Ari-  stotile nel  distinguere  il  Noo  in  passivo  ed  in  attivo  ha  voluto  occorrere  a due  condizioni,  imposte  entrambe  dal  suo  sistema.  Prima  ha  voluto  legare,  il  meglio  che  si  poteva,  l’ intelletto  con  le  facoltà  rimanenti  ; perciò  ha  dovuto  introdurre  in  esso  i fantasmi  per  intendere,  i desideri  per  volere;  e gli  uni  e gli  altri  si  fondano  su  la  sensibilità,  e perciò  su  la  materia,  su  la  possibilità  del  corpo.  Dipoi  ha  voluto  far  dell’  intelletto  la  facollà  che  pone  la  scienza,  che  coglie  l’universale  puro,  sce-  verato da  ogni  qualsiasi  possibilità,  e che  perciò  non  avesse  nessuna  mistura  di  potenza,  o di  materia,  e fosse  puro  atto.  Da  qui  la  distinzione  di  due  intelletti  ; uno  che  attinge  ancora  alle  sorgenti  della  materia,  l’altro  che  non  vi  comunica  punto.  Perciò  vedemmo  che  l’ in-  telletto puro  non  può  patire,  e consiste  tutto  nell’ atto;  mentre  chel’  intelletto  passivo  patisce,  ed  in  certo  senso  si  dee  dire  che  abbia  della  materia,  perchè  ogni  potenza  è materia,  considerata  per  rispetto  all’ atto.  Hegel  ha  cercato  di  conciliare  questa  contraddizione,  che  si  possa  cioè  dare  un  intelletto  che  partecipi  alla  materia,  di-  cendo che  la  possibilità  nell’  intelletto  non  abbia  nessuna  materia,  perchè,  nel  pensare,  la  possibilità  è ella  mede-  sima un  essere  per  sè. 1 Però  conciliazione  siffatta  tien    1 « Die  Moj>lichkeit  eelbst  ist  abcr  liier  nicht  Materie;  dar  Versta  mi  hat  nOinlicti  keine  Mitene,  scinderti  die  Moglickeit  geliort  zu  seiner  Substanz  eelbst.  Denn  das  Denken  ist  vielmrhr  dieses , nicbt  an  sicli  za  sein  ; and.  v egeti  seiner  Reiobeit  ist  seme  Wirklickeit  nielli  das  Fùrcinandersein , scine    Digitized  by  Googte    90    PIETBO  P0MP0NAZ7I.    più  del  sistema  proprio  dell’ Hegel,  che  di  quello  di  Aristotile.   Quindi  proviene  ancora  l’ incertezza  di  determinare  in  che  consista  veramente  l’ intelletto  passivo.  Il  Tren-  delemburg  ha  opinato  eh’  esso  sia  costituito  da  tutte  le  facoltà  raccolte  quasi  in  un  nodo,  e considerate  come  condizioni  del  pensare.  Il  quale  può  aver  pigliato  il  nome  di  passivo  sia  perchè  vien  recato  a perfezione  dall’  intelletto  attivo,  sia  perchè  viene  occupato  dalle  cose  esterne. 1   Tale  interpretazione  però  va  incontro  a questo  inconveniente,  di  rendere  inutile  la  distinzione  che  Ari-  stotile aveva  fatto  tra  sentire;  immaginare  e pensare.  Se  il  pensare  non  è altro  che  il  sentire  e l’ immaginare  annodati  insieme,  perchè  distinguerli  da  quello?  Non  bisogna  dimenticare  mai  che  dell’intelletto  in  generale  Aristotile  fece  un  altro  genere  di  anima.  Pare  adunque  che  nello  sviluppo  della  intelligenza  , medesima  bisogna  trovare  quei  gradi  che  appartengono  al  Noo  passivo , e  gli  altri  che  sono  propri  del  Noo  attivo.  Già  di  questo  ultimo  noi  vedemmo  che  Aristotile  avesse  posto  la  fun-  zione peculiare  talvolta  nei  primi  principi,  tal’ altra  nel  ripiegarsi  sopra  di  sè.  I gradi  precedenti  della  scienza,  che  del  resto  appartengono  certo  alla  intelligenza,  biso-  gna che  si  attribuiscano  aH’intelletto  passivo.  Tale  è la  ne-  cessaria conclusione  a cui  si  perviene  a guardare  nel  lutt’  assieme  la  dottrina  aristotelica,  e cosi  vedo  che  ha  interpretato  pure  il  Zelier,  che  nelle  cose  di  Aristotile    Mogliclikeit  «ber  selbst  cin  Fursichsein.  » Hegel , GeschicMe  der  Philoi ..  tom.  II,  pag.  540—54 1 .   1 a Qua?  a sensu  inde  ad  imagiuationem  mentera  anteccssorunt , ad  rea  parcipiendas  menti  necessaria,  sed  ad  intelligendas  non  suflìciunt.  Orno es  iilas , qua?  p r eccedimi , facultates  in  nnum  quasi  nodum  colleetas  ,  □natenus  ad  rea  cogitaodas  postula  nlur,  vouv  TtuSriTixo  v dietas  esse  in-  nicamus.  > Trendclembnrg,  De  Anima,  Comment.,  pag.  493.    CAPITOLO  PRIMO.    9f    vede  molto  addentro,  ed  ha  grande  autorità.  L’ intelletto  passivo  per  lui  consiste  in  quei  gradi  intermedi  che  stanno  tra  il  sollevarsi  delle  forze  rappresentative  ed  il  pensiero  compiuto  che  quieta  in  sè  stesso  ; in  quel  pro-  cesso riflessivo  e discorsivo  che  Aristotile  stesso  con-  trassegna con  la  parola  ScuvousOca. 1   Guardando  ora  tutta  insieme  la  dottrina  del  Noo  aristotelico,  essa  ci  presenta  questa  contraddizione,  di  essere  cioè  considerato  come  l’ ultimo  sviluppo  dell'  at-  tività pensante  nell’  uomo,  e di  essere  presupposto  fuori  dell’uomo,  perfetto,  compiuto  in  sè,  separato.  È per  questa  ragione  che  il  Noo  passivo  ci  vien  mostrato  come  processo,  come  discorso,  ed  il  Noo  attivo  come  intui-  zione ; e che  il  primo  è tenuto  in  minor  conto  del  se-  condo. Affinchè  la  posizione  aristotelica  fosse  riuscita  precisa  e diritta,  ei  si  sarebbe  dovuto  disfare  di  quel-  l’universale separato,  ed  ambiguo,  e tener  fermo  nel  ri-  guardare lo  spirito  come  processo  rigoroso  ed  ordinato.  Ma  per  fare  ciò,  non  bisognava  modificare  soltanto  la  dottrina  dell’  intelletto , sì  veramente  mutare  1’  anda-  damento  generale  del  sistema  ; cosa  che  forse  non  era  da  pretendere  in  quei  tempi.  Il  concetto  dello  spirito  come  sviluppo  è risultato  della  filosofia  moderna.   Un  valoroso  storiografo  tedesco,  il  prof.  Carlo  Pranll,  non  ha  dubitato  di  presentarci  come  genuino  sistema  di  Aristotile  quello  che  per  noi  è piuttosto  un  desiderio.  Nò  al  dotto  critico  manca  ingegno  o copia  di  testi  ; ma  il  suo  fare  sa  troppo  di  moderno,  e perciò  di-  viene subito  sospetto.   L’intelletto,  il  Noo  aristotelico,  è per  lui  una  im-  mediata unità  nella  duplicità  della  Giostra  essenza,  e da  un  lato  coglie  l’uno  trascendente,  il  divino,  dall’altro  i    1 Zellcr,  op.cit.,  pag.  441.    Digitized  by  Google    f    D2  PIETRO  POMPONAZH.   molli,  l’ individuo  ; o in  altri  termini  è l’unità  originaria  del  senso  e della  ragione , il  principio  e la  fine,  l’ alfa  e  l’ omega.1  In  un  luogo  dei  morali  nicomachei  si  dice  che  il  senso  è Noo  ; e su  tal  dichiarazione  il  critico  tedesco  rifà  da  capo  tutta  la  teorica  di  Aristotile.  Dove  gli  altri  avevan  visto  un  altro  genere  di  anima,  egli  scorge  un’originaria  medesimezza;  dove  gli  altri  avevan  tro-  vato incertezze,  egli  sicuramente  afferma  che  il  Noo  aristotelico  è sviluppo,  che  muovendo  dalle  impressioni  sensibili  arriva  sino  all’  universale.   L’intelletto,  dice  il  Franti , secondo  il  modo  di  ve-  dere aristotelico,  non  è una  passiva  intuizione,  ma  un*  attività  che  nel  progresso  del  suo  sviluppo  va  dalla  potenza  all’atto.  È un  accrescimento  dentro  sè  stesso,  Zuwachs  in  sich  selb&lhinein,  come  dice  il  critico  te-  desco traducendo  l’ iniSoais  ì<?>’  tàuro  di  Aristotile.  Che  se  l’ intelletto  si  dice  potenza , esso  è una  potenza  tale  •che  si  distingue  da  tutte  le  altre  non  solo  perchè  com-  prende gli  opposti,  ma  ancora  perchè  si  fonda  sopra  un  precedente  attuale.   La  continuità  dello  spirito  in  questo  processo  si  pare  a ciò,  che  i primi  pensieri  si  distinguono  appena  dalle  sensibili  impressioni  ; talché  il  sapere  non  è qualcosa  apparecchiato  d’avanzo,  ma  nasce  la  prima  volta  come    * « Der  voi;  ist  fur  dia  Stale , vvas  dea  Ange  fur  den  Korper  i«t , rr  ist  die  anraittelbare  Einheit  in  der  Duplicil&t  nnseres  VVescn  , deno  er  < rfasst  einerseits  das  trascendente  Eioe , Gòttlicbe , and  andrerseits  ist  er  cs  atich  , welcher  das  Einzelne , Viete  ergreift , ja  es  wird  io  diesem  Sion  , d.  li.  von  einem  wabrhaften  Antropologismns  aus  , selbst  die  Sinneswabrnehraung  aiisdriiklicli  voi;  gena noi;  und,indem  so  der  voi;  der  geistige  Sion  fQr  dia  beiderseitigen  Crtheile  ist , sowohl  fOr  jene , welche  ein  Ewìges  und  Crsprùn-  fjliebes  aussprerben,  als  aocb  ffir  jene , welche  anf  das  Gcbiet  des  Verglii-  glicheo  sich  beziehen , a»  kann  er  mit  Rccbt  der  Anfaog  und  das  Eode  , das  vahre  A und  Q,  des  Apndeiktischeo  genannt  wcrdon.  » Getchichle  der  Logik.   ’ Erster  Band,  pag.  106-407.    Dii    by  Google    CAPITOLO  PRIMO.    93    , tale. 1 Quando  il  Noo  si  solleva , sopra  tutte  le  opposi-  zioni, al  supremo  Uno,  ivi  pensa  sè  stesso,  ed  il  pen-  siero ed  il  pensato  s’ identificano  : in  tale  attività  egli  mostra  la  sua  eternità.*  •>   Tal’  è per  sommi  capi  la  teorica  del  Noo  aristote-  lico secondo  il  Prantl  : prima,  attività  originaria , unità  del  senso  e della  ragione  ; poi  sviluppo  sino  al  pensare,  sviluppo  tale  che  tra  le  impressioni  sensibili  ed  i primi  gradi  del  pensiero  v’  è appena  differenza  ; infine  processa  intimo,  ed  indipendente  dalla  materia,  fino  ad  attingere  il  pensiero  di  sè  stesso,  e con  questo  l'eternità.   Questa  esposizione  toglie  ogni  dubbietà  ed  irreso-  lutezza dal  sistema  aristotelico,  e lo  fa  rigorosamente  logico,  però,  a quel  che  mi  pare,  a scapito  della  genui-  nità. Quella  unità  originaria  sa  troppo  di  moderno,  e  quella  eternità  conseguita  dal  nostro  spirito  nel  colmo  del  suo  sviluppo  è un’  intuizione  moderna  del  pari.  Ciò  che  mi  sembra  schiettamente  aristotelico  è il  concetta  dello  sviluppo  applicato  all’  attività  dello  spirilo  ; ma  il  pensare  puro  rimane  pur  sempre  staccato  dalla  serie  preclara  come  diceva  il  Trendelemburg.  Ammettendo  difatti  la  spiegazione  del  Prantl,  il  Dio  aristotelico  spa-  risce, perchè  il  Noo  è perfetto  e compiuto  nello  spirito  umano;  ed  il  Dio  di  Aristotile,  se  bisogna  a qualcosa,  è  per  cotesta  ultima  finalità.   Il  Prantl  tocca  dell’  intelletto  per  arrivare  al  comin-  ciamento  della  Logica.  Per  lui  l’ intelletto  si  compie  nel  concetto,  cioè  nel  cogliere  l’universale,  il  quale  non  è    1 Prantl,  op.  cit.,  loc.  cit.,  pag.  412.   * • Und  indetti  dar  voù;  in  dem  Denkcn  dieses  bòchsten  Einen  aicb  se'btt  deukt , erreicbt  er  das  Ziel  and  das  Zweck  seiner  Actnaliiat  : er  denkt  das  Angich  and  deukt  kiebei  steli  selbst  in  einer  Tbeilnabme  an  dem  Geda-  chten,  ao  dass  Denken  und  Gedacbtes  ideatiseli  siod  ; in  solcber  TbStigkeit  erweister  arine  Ewigkeit.  » Pag.  115,  loc.  cit.    $4    PIETRO  POMPONAZZI.    altro  che  l’ atto  medesimo  dell’  intendere  ; talmente  che  la  logica  s’ inizia  là  dove  la  psicologia  finisce.  L’ unilà  immediata  del  Noo  è il  principio  della  psicologia;  l'unità  immediata  del  concetto  è il  cominciamento  della  logica.1  Il  Prantl  fa  una  dotta  e profonda  investigazione  delie  ca-  tegorie aristoteliche,  delle  quali  mi  rincresce  non  poter  qui  discorrere,  tanto  più  che  nel  Saggio  sulla  filosofia  greca  io  mi  trovai,  inconsapevolmente,  d’accordo  col  professore  tedesco  nei  risultati  di  quella  ricerca.  Qui  però  non  voglio  omettere  di  dire  come  il  Prantl  si  accorge  che  lo  sviluppo  dello  spirito  si  riannoda  colla  dottrina  delle  categorie,  dove,  oltre  alle  determinazioni  estrinseche  •della  sostanza,  bisogna  ammettere  un  processo  genetico  -ed  intimo.1  Ma  cotesto  processo  per  il  quale  la  sostanza  -si  genera,  rimane  nel  sistema  aristotelico  ciò  che  direb-  besi  una  semplice  esigenza.  Perchè  la  sostanza  diventi  •questa  o quest’  altra  essenza,  non  apparisce  ; e cosi  non  apparisce  neppure  nello  sviluppo  dello  spirito  la  necessità  del  passaggio  da  una  forma  all’  altra  ; perciò  neppure  la  necessità  del  Noo,  che,  per  tal  causa,  può  dirsi  nell’  in  -  sieme  del  sistema  introdotto  da  fuora.  Il  Prantl  ha  un  bel  chiamare  il  Noo  unità  immediata,  Ansich  ; tutte  coteste  vedute  sono  più  profonde  come  scienza  che  vere  come  storia.  L’intelletto  separato,  il  motore  immobile  della  me-    1 • Dass  aber  Aristotele*  eine  Selbstentwicklung  der  Denktliàtigkeit  voo  ciucili  erstcr  Stadium  aa  bis  tu  einem  letztea  wesentlicli  erreicbbsreu  Zieie  «nerkennt,  sahea  wir  gleicbfalls  scbon  obeu....  ; und  so  ist  ihiu  aucb  die  tìrsprùogliche  Conception  der  Begriffe  aio  erstcs  Lumittelbares.  • Pag.  216.   1 Voglio  riferire  questa  osservazione  del  Praotl  eoo  le  parole  eoa  cui  I’  ha  compendiata  un  mio  giovane  amico  in  una  bella  tesi  di  laurea:  a Cosi  intorno  all’  individuo  si  raggnippano  amendue  i processi , nel  processo  gene  4ico,  o nel ytvsoàai  vltOÒiì  l’individualità,  la  sostanza  funziona  da  predi,  ceto,  ed  il  suo  soggetto  è la  materia  indeterminata;  uel  processo  categorica  funziona  da  soggetto,  e regge  e sostiene  tutte  le  determinazioni  categoriche.  »  Delle  varie  interpretazioni  dell'  idea  platonica  e della  categoria  aristo-  telica, Tesi  per  laurea  di  Felice  Tocco.    *C  -«V-    Digitized  by  Gt    CAPITOLO  PRIMO.    95    tafisica,  resiste  ad  ogni  più  benevola  interpretazione.  Certo  se  Aristotile  avesse  volato  e potuto  essere  conseguente,  avrebbe  pensato  come  lo  fa  pensare  il  Prantl.   Passando  ora  dall’  intelletto  alla  libertà  noi  troviamo  nella  dottrina  aristotelica  le  tracce  della  prima  indeter-  minatezza. 11  Brandis  ha  detto  che  la  libertà  secondo  Ari-  stotile consiste  nella  facoltà  che  ha  lo  spirito  di  svilupparsi  da  sè  e mediante  se  stesso  secondo  la  misura  della  sua  originaria  disposizione.  Ma,  domanda  con  molla  ragio-  nevolezza il  Zeller,  a qual  parte  dell’anima  debbe  ap-  partenere questo  sviluppo  ? alla  ragione  no,  perchè  im-  mobile ed  inalterabile;  all’anima  sensitiva  ed  appetitiva  nemmanco,  perchè  non  sono  capaci'  di  svilupparsi  con  libertà,  non  potendo  trovarsi  libertà  se  non  dov’è  la  ragione.  Rimarrebbe  l’intelletto  passivo,  al  quale,  sia  detto  una  volta  per  sempre,  si  ricorre  d’ordinario  quando  si  scorge  l’impossibilità  di  dare  uno  scioglimento  risoluto  ; ma  esso  stesso  oscillando  tra  la  ragione  e la  sensibilità,  avrebbe  bisogno,  al  pari  della  volontà,  di  uno  schiarimento  per  vedere  in  che  modo  si  possa  dare  * una  facoltà  che  partecipi  di  due  altre  cosi  opposte,  come  sono  il  senso  e la  ragione.1  Aristotile  stesso  accortosi  della  specie  di  altalena  che  fanno  la  ragione  pratica  ed  il  desi-  derio, li  rassomiglia  a due  palle  che  si  rimandano  da  uno  all’ altro.1  Un  filosofo  francese,  il  Waddington,  ta-  glia come  Alessandro  il  nodo,  invece  di  scioglierlo,  di-  cendo il  principio,  la  causa  dell’atto  volitivo  esser  l’Io;  degli  altri  atti  essere  soltanto  partecipe,  ma  qui  il  caso  esser  diverso,  e sentirsi  assoluto  e sovrano  padrone.*  Ma  appunto  di  questo  Io  noi  cerchiamo  invano  in  Ari-   1 Zeller  , op  cit. , loc.  cit.,  psg.  461.   1 Aristotile , De  anim.,  lib.  IH,  csp.  41,  $3.   8 La  Piicologia  di  Ariiloliie,  esposta  da  Carlo  Waddiogton  e Toltala  in  italiano  dalla  marchesa  Marianna  Floreozi  Waddington , pag.  284.    Digìtized  by  Google    96    PIETRO  POMPONAZZI.    stotile,  e vogliamo  scoprire  (love  si  annida,  se  nella  ra-  gione, o nella  sensibilità,  perchè  la  volontà  non  è facoltà  originaria,  come  non  è l’ intelletto  passivo,  nè  l’ intelletto  pratico.  La  vera  personalità  dello  spirito  è da  cercare  dunque  o nella  sensibilità,  o nella  ragione,  almeno  se-  condo i dati  della  psicologia  aristotelica.   La  scuola  ecclettica  di  Francia  ha  ripetuto  sempre  che  la  volontà  è l’ Io,  essendoché  la  ragione  è impersonale  ed  i fatti  sensibili  traggono  origine  dal  mondo  esteriore.  Con  questa  intuizione  peculiare  del  loro  sistema,  ei  si  fanno  ad  interpretare  Aristotile.  Se  non  che  la  volontà  per  il  filosofo  greco  non  è una  facoltà  originaria , quanto  meno  perciò  può  essere  la  intera  personalità  dello  spi-  rito! La  volontà  è una  specie  di  risultante  prodotta  dal  connubio  della  ragione  col  desiderio.  Le  quali  due  facoltà  essendo  si  opposte,  rimane  assai  difficile  il  definire  in  quale  di  esse  stia  la  libera  determinazione  di  se  stessa. 1   Quando  Aristotile  appaia  la  ragione  speculativa  con  le  facoltà  rappresentative,  e ne  fa  l’ intelletto  passivo  ;  ovvero  quando  accoppia  la  ragione  pratica  col  desiderio,  e ne  fa  la  libera  volontà,  rimane  sempre  incerto  quale  dei  due  elementi  debba  prevalere:  se  la  parte  sensitiva  ed  appetitiva  debba  trarre  dalla  sua  la  ragione,  ed  in-  trodurre in  lei  la  mutabilità  ed  il  patire;  ovvero  se  la  ragione,  signoreggiando  il  senso  e l’ appetito , debba  far  questi  partecipi  della  propria  impassibilità  ed  eternità.  Nella  vera  conciliazione  di  cotesti  due  opposti  termini  sarebbe  stala  riposta  la  persona  umana,  se  in  Aristotilo  il  loro  accoppiamento  non  fosse  rimasto  un  accostamento  esterno,  e,  come  dicono  i Tedeschi,  un  Zusmrmensetzung~    1 « Der  Wille  musa  demnach  cioè  ans  Vernnnft  and  Bugiarde  snsam-  mengetetzte  Thatigheil  saio.  Aber  auf  welcber  Scita  io  dieser  Verbiudong  da&  eigentliche  Wesen  dea  Willens,  die  Krafta  der  freieu  Selbslbestimmung  liegt ,  ist  sclmer  za  sagea.  • Zeller,  op.  cit. , peg.  460.    CAPITOLO  PRIMO.    97    Esclusa  la  volontà,  dove  si  deve  dire  che  alberghi  la  persona  umana?  Talvolta  pare  che  Aristotile  la  faccia  consistere  nella  propria  ragione  di  ciascuno;  ma  la  ra-  gione è un  puro  universale,  incapace  di  mutazioni  e di  patimenti,  eterna  ed  impassibile;  ed  invece  la  persona  è il  subbielto  proprio,  e la  causa  intrinseca  dei  suoi  mutamenti.  Tal’ altra  volta  pare  che  Aristotile  attribuisca  la  personalità  all’anima,  in  quanto  senziente  ed  appeti-  tiva; ma,  oltre  che  questa,  come  osserva  il  Zelter,  è  incapace  di  produrre  movimenti  da  sè,  secondochè  so-  stiene Io  stesso  Aristotile,  viene  esplicitamente  esclu-  ' sa,  dicendo  che  non  nell’  anima,  ma  nell’  uomo  in  quanto  consta  di  corpo  e di  anima,  dee  riporsi  il  subietlo  dei  movimenti  sensibili.  Il  corpo  intanto  non  è cagione  del  moto,  perchè  esso  verso  l’anima  è come  la  potenza  verso  l’ atto.  Ecco  in  quali  difficoltà  ci  siamo  imbattuti  nel  cercare  dove  consista  la  personalità  umana  secondo  i principi  di  Aristotile.  Le  quali  difficoltà,  a parer  mio,  procedono  dal  non  aver  Aristotile  fatto  vedere  per  qual  modo  1’  universale  si  determini,  per  intrinseca  energia  e per  dialettica  necessità,  nel  particolare,  e diventi  in-  dividuo; e per  qual  modo  poi  T individuo,  rifacendo  nel  processo  conoscitivo  il  cammino  inverso  del  processo  genetico,  si  sollevi  dalle  determinazioni  particolari  ed  accidentali  all’  universale  ed  all’  assoluto.  Non  è già  che  siffatto  processo  non  sia  stato  intraveduto  dall’ acume  di  Aristotile,  ma  non  è stato  spiegato  con  sufficiente  chiarezza , perchè  le  sue  dottrine  s’ informassero  tutte  secondo  quel  processo.  Il  Franti  accennando  al  processo  genetico,  come  intimo,  e diverso  dal  processo  catego-  rico, e trovandone  le  tracce  nella  Metafisica  di  Aristo-  tile, ed  in  altre  sue  opere,  ha  mostrato  come  la  deter-  minazione dell’  universale  nel  particolare,  il  concretarsi  della  forma  in  una  materia  sia  il  primo  postulato  di   F.  Fiomntiiso.  7    Digitized  by  Google    98    PIETRO  POMPONAZZI.    Aristotile.  E spiegando  dipoi  come  il  Noo,  per  assur-  gere alla  condizione  assoluta  di  pensiero,  ha  dovuto  essere  fin  da  principio  unità  originaria,  individuo  ed  z universale,  senso  e ragione,  affinchè  fosse  possibile  tutto  lo  sviluppo  intrinseco  dello  spirito,  ha  posto  in  evidenza  il  secondo  postulato,  non  meno  del  primo  in-  dispensabile. I due  postulati  che  la  critica  del  Prantl  richiede  nel  sistema  aristotelico,  nella  metafisica  il  primo,  nella  psicologia  il  secondo,  sono  però,  lo  ripetiamo,  appena  intraveduti  da  Aristotile,  e non  pienamente  de-  dotti. Forse  il  concetto  di  sviluppo  nello  spirito  è molto  più  evidente  che  non  il  processo  genetico  nella  sostan-  za; ma  ciò  non  toglie  tutte  le  irresolutezze,  ed  anche  le  contraddizioni,  che  noi  abbiamo  fatto  notare,  giovan-  doci degli  studi  del  Zeller,  il  quale  ha  collocato  il  si-  stema di  Aristotile  nella  sua  vera  luce,  tanto  per  ri-  spetto a Platone,  come  nel  suo  intrinseco  organamento.   Dalle  cose  premesse  apparisce  chiaramente  quel  che  debba  dirsi  della  immortalità  dell'  anima  secondo  Ari-  stotile. Per  lui  tutto  ciò  che  si  altera  è soggetto  alla  morte;  onde  le  facoltà  sensitive,  le  appetitive,  le  rap-  presentative, e perfino  l’ intelletto  passivo  finiscono  con  l’ organismo  corporeo,  da  cui  dipendono,  e con  cui  sono  indissolubilmente  legati.  Solo  superstite  è per  Aristotile  l’ intelletto  attivo,  il  quale,  se  fosse  provato  che  fosse  da  solo  la  persona  umana,  basterebbe  ad  assicurare  l' immortalità.  Ma  l' intelletto  attivo  è il  solo  elemento  universale,  una  specie  della  ragione  impersonale  della  scuola  eccletlica,  e perciò  la  sua  durata  non  ha  nulla  che  fare  con  la  durata  dell’  individuo  e della  persona.  Questo  intelletto  attivo  superstite,  slegato  che  sarà  dal  corpo,  non  avrà  nè  sensazioni,  nè  fantasmi,  nè  memo-  ria, nè  desideri;  e perciò  neppure  volontà,  nè  intelletto  passivo;  talché  non  potrà  avere  più  coscienza,  nè  per-    Digitized  by  Google    CAPITOLO  PRIMO.    99    sonalità  che  sodo  inseparabili  da  tutte  quelle  determi-  nazioni. Che  se  si  pon  mente,  come  il  Noo  attivo  per  pensare  avesse  bisogno  del  passivo,  noi  potremo  dire,  che  Aristotile  non  poteva,  secondo  i suoiprincipii,  far  sopravvivere  l’ intelletto  attivo  alla  morte  dell’ intelletto  passivo,  e se,  non  ostante  la  forza  della  logica,  lo  ha  fatto,  ciò  ne  dà  nuova  riprova , che  per  lui  non  era  ben  fermo  il  vero  concetto  del  Noo,  e che  una  volta  Io  po-  neva come  termine  supremo  dello  sviluppo  psichico,  un’altra  volta  ne  lo  stralciava,  attribuendogli  una  esi-  stenza separata,  impassibile  ed  immortale.   Aristotile  non  è pervenuto  sino  all’  autogenesi  dello  spirito',  perchè  non  si  può  creare  quel  che  si  suppone  esterno  non  solo,  ma  sproporzionalo  alle  facoltà  umane.  L’ infinito  per  lui  ora  consisteva  nel  concetto  dello  spi-  rito, ed  ora  in  qualche  cosa  di  esterno.  Tolta  l’ ipostasi  dell’  universale  che  aveva  ammesso  Platone  per  ciascuna  !  cosa,  ei  la  ritenne  per  rispetto  a Dio,  perciò  il  processo  dello  sviluppamento  rimase  dimezzato,  imbottendosi  in  un  termine  esteriore  che  gliene  impediva  il  prosegui-  mento. Non  ci  è un’  idea  preformata  della  natura , per-  :  ciò  la  natura  può  svilupparsi  per  virtù  intrinseca  ; ma  ;  ci  è l’ idea  di  Dio  sussistente  d’avanzo,  perciò  lo  spi-  rito non  può  farsi:  egli  già  è fatto,  e non  gli  rimane  se  non  d’ insinuarsi  nel  mondo  e di  svegliarvi  il  pen-  i  siero.  Questa  mi  pare  la  posizione  dell’  aristotelismo:  ;  Aristotile  rimase  platonico  per  metà.   Il  prof.  Augusto  Conti  è ricorso  a cause  esteriori  ed  accidentali  per  trovare  una  spiegazione  del  sistema  aristo-  telico, e perchè  l’egregio  professore  di  Pisa  è il  primo  ai  nostri  tempi  che  siasi  dato  a scrivere  una  storia  della  filo-  sofìa in  Italia,  mette  il  conto  di  dare  un  saggio  del  suo  modo  di  criticare  i sistemi.  Aristotile  è passato  dall’idea-  lismo platonico  alla  scienza  delle  cose  reali  : perchè?  Ecco    "'Otgitized  by  Google    •too    PIETRO  POMPONAZZI.    la  risposta  del  Conti:  « dacché  la  civiltà  greca,  uscendo  da’ propri  confini,  si  distendeva  nell’ Asia  con  l’armi,  era  naturale  che  alle  idealità  interiori,  tutte  di  raccogli-  mento, succedesse  la  scienza  delle  cose  reali.  » Ma  tutto  colesto,  dico  io,  non  ci  ha  nulla  che  fare.  Prima  di  ogni  cosa  non  è certo  che  Aristotile  abbia  pensato  il  suo  si-  stema proprio  al  lempo  che  i Greci  passarono  in  Asia  ;  ma,  poniamo  che  sì,  qual  relazione  ci  è fra  una  spedi-  zione a mano  armata  con  una  polemica  su  le  idee?   Il  prof.  Conti  discorre  dei  vizi,  pei  quali  i Greci  vennero  specialmente  in  mala  voce,  ed  eccoti  scoverta  la  causa,  perchè  la  loro  filosofia  « non  giunse  mai  al  puro  concetlo  di  creazione,  pernio  della  scienza.  » An-  che qui  la  causa  mi  pare  troppo  lontana  dall’  effetto,  e  non  veggo  in  che  modo  la  corruzione  dei  costumi  greci  potesse  appannare  il  loro  intelletto.  Forse  non  concepi-  rono tante  cose  vere  e belle  con  tutte  quelle  passioni?  Forse,  ai  tempi  in  cui  fioriva  1’  accademia  platonica,  a  Firenze  non  dominavano  vizi  somiglianti?  Dagli  scrit-  tori di  quel  secolo  parmi  scorgere  che  quelle  brutture  fossero  molto  in  voga,  e intanto  giunsero  al  puro  con-  cetto della  creazione  non  solo,  ma  concepirono  perfetta-  mente tutti  i dommi  cattolici,  e li  disposarono  alla  filo-  sofia.   Il  prof.  Conti  inclina  troppo  a far  la  critica  filoso-  fica con  la  nascita  e l’ educazione  cristiana,  con  le  rette  inclinazioni  del  cuore,  con  il  candore  dei  costumi;  ma  tutto  ciò  se  prova  a favore  del  suo  animo  bennato,  non  dà  pari  fondamento  ad  apprezzarne  l’acume  critico*  La  scienza  non  si  giudica  con  la  fede  di  buona  condotta  del  curato.   Ma  lasciando  queste  osservazioni  generali,  che  ap-  partengono al  suo  criterio  storico,  voglio  notare  che  nella  teorica  dell’  intelletto  di  Aristotile,  egli  ha  frantesi    lIÀQOglc    CAPITOLO  PRIMO.    ÌM   la  mente  dello  Slagirita.  Di  lui,  difatti,  dice  il  Conti  che  « distinse  l’ intelletto  agente  che  fa  intelligibili  le  cose,  dal  possibile  che  le  concepisce.  » 1 Aristotile  invece  chiama  intelletto  possibile  quello  che  tutto  diventa,  agente  quello  die  tutto  fa , come  si  può  vedere  nel  testo  medesimo  dei  libri  dell’Anima  che  ho  di  sopra  allegato.  L’ atto  con  cui  l’ intelletto  concepisce  gli  intelligibili,  e gli  intelligi-  bili medesimi  sono  tutt’ uno.  Non  ci  sono  già  le  cose  in-  telligibili distinte  dal  concetto;  onde  se  Aristotile  avesse  posto  veramente  questa  differenza  tra  i due  intelletti,  si  sarebbe  contraddetto.  E che  il  prof.  Conti  abbia  travisato  la  dottrina  aristotelica,  si  pare  da  ciò , che  l’ intelletto  possibile  per  Aristotile  precede  l’ agente,  come  la  potenza  precede  l’ alto;  mentre  pel  professor  Conti  av-  viene il  contrario,  forse  perchè  non  ha  attinto  questa  distinzione  dalla  sorgente  aristotelica,  ma  da  qualche  espositore  che  1*  avea  compreso  male.  Il  peggio  poi  si  è  che  il  professore  di  Pisa  ha  l’ aria  di  non  sospettare  «eppure  l’importanza  di  questo  problema,  non  meno  che  di  parecchi  altri  rilevantissimi,  contento  a sfiorarli  leggermente,  quando  non  li  trasanda  del  tutto. Francesco Fiorentino. Fiorentino. Keywords: idealismo, l’idea di natura in Talesio, panteismo di Bruno, filosofo maiore, filosofo minore, Aosta, Agostino, filosofia roma antica, Catone. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Fiorentino” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51689818509/in/photolist-2mKDQcp-2mPBcdN-2mKCnei-2mKDA5r-2mPLygi-2mKj9Vm-2mJqjKS-2mJd7nN-2mJ4GHU-2mGnP2f-2mKw3hq-DvhhWW-DhRHD2-CcQom5-BpZQLP-BpUj3L-CizXhT-Bm2xGQ-Cix5XZ-CdAEaL-CfWKjF-CdDizG-Bq3qnZ-obW75K-oa5425-oa52o5-2mQuZ9p-o9gw6u-nhHPhH-nhRBAG-nfDpKm-nhfmz6-njgyUp-nhFqkp-nj9RAK-nfppU1-nfCuEo-nhqgt7-nfCCMe-nje4Xa-njaa4a-nhsppz-nfCL9Q-nhFDy8-nhc3FN-njanDk-nfCYM5-nhFvTt-nhs4nv-nfCRmU

 

Grice e Fioretti – pro-ginnasmi – filosofia italiana – Luigi Speranza (Mercatale). Filosofo.  – Grice:: “I like Fioretti; thought-provoking; he says Plato should never have chosen ‘dialogue’ as a philosophical genre, and he is right; in my long tutorial life at Oxford I NEVER asked a tutee to write a dialogue for me! If Plato were the standard, that’s what we’d do!” Autore di “Pro-Ginnasmo” (pro-ginnasio, ginnasio – cf. Deutsche progrymnasium), un'ampia raccolta di note critiche su autori di varie epoche, dai greci e latini agli scrittori italiani del XVI secolo, da cui emergono la straordinaria versatilità e ricchezza interessi dell'autore. Come moralista, scrisse “Osservazioni di creanze e Esercizi morali. Critico acerrimo di Aristotele ed Ariosto, ed altri autori classici. È stato anche co-fondatore degl’Apatisti. Ha una vita indisciplinata. Il conte Giovanni Bardi, il feudatario di Vernio, lo ammonì ad una vita più contenuta. Ma ha risposto alle minacce con una satira che raggiunse le mani del conte, che immediatamente ordinò l'arresto di Fioretti. Ma Fioretti accorto fuggì, e i partigiani del conte trovarono solo un'iscrizione nella casa del prete che recita: Resurrexit, non est hic.  Infatti, si era rifugiato a Firenze, dove, nel tempo, cambiò completamente stile di vita. Si dedicò alla filosofia. Rimase nel Palazzo di Oriuolo e cambia anche il nome diventando Udeno Nisieli, che significa "di nessuno, ad eccezione di Dio".  Pubblica numerosi saggi. Si dimostra diligente filologo e critico critico. Il suo capolavoro è la raccolta di poesie “Proginnasmi” (cf. ginnasio, pro-ginnasio, Deutsche pro-gymnasium), contenente critiche ai poeti romani. E stato dimenticato dalla letteratura nel tempo, forse perché era eccessivamente franco.  Al suo pseudonimo era solito aggiungere la qualifica di "accademico apatita", come ad indicare la mancanza di passione nelle sue considerazioni poetiche. La totale imparzialità dei suoi giudizi era una condizione essenziale per sentirsi membro di questa accademia immaginaria, che più tardi, con la generosità di Coltellini, si concretizzò con l'obiettivo di riunire filosofi con abitudini salutari e politici impegnati.  Lasciò come ela sua biblioteca e i suoi scritti alla Chiesa di San Basilio. Altre opere: “Polifemo Briaco” Proginnasmi poetici” (Firenze, appresso Zanobi Pignoni, Firenze, nella Stamperia di Zanobi Pignoni), definita come "un'opera di grande erudizione, che pesa i meriti dei grandi scrittori dell'universo, e rivela i più singolari artifici della Poetica". Esercizi morali, Rimario e Sillabario, Firenze, per Zanobi Pignoni. Raffaello Ramat, La critica ariostesca, Firenze, e anche in Walter Binni, Storia della critica ariostesca, Lucca, Tiraboschi.  Luca, Scheda Biografica su Centro Ricerche Pratesi, Carmine Jannaco e Martino Capucci, Storia letteraria d'Italia: Il Seicento.  Gian Vittorio Rossi, Pinacotheca, Colonia, Giulio Negri, Istoria degli scrittori fiorentini” (Ferrara, per Bernardino Pomatelli); Giovanni Mario Crescimbeni, Comentarij..., Venezia Giovanni Mario Crescimbeni, L'Istoria della volgar poesia, Venezia; Giovanni Cinelli Calvoli, Biblioteca volante, II, Venezia, Giusto Fontanini, “Della eloquenza italiana” (Roma Domenico Moreni,  storico-ragionata della Toscana..., I, Firenze Giovan Battista Corniani, I secoli della Letteratura italiana dopo il suo Risorgimento Commentario di G. B. Corniani, S. Ticozzi, II, Milano, Francesco Inghirami, Storia della Toscana, Biografia, Fiesole, Ciro Trabalza, La critica letteraria, Milano, Umberto Cosmo, Le polemiche letterarie, la Crusca e Dante, in Con Dante attraverso il Seicento, Bari, Benedetto Croce, Storia dell'età barocca, Bari, Walter Binni, Storia della critica ariostesca, Lucca Raffaello Ramat, La critica ariostesca, Firenze, Franco Croce, La discussione sull'Adone, in La Rassegna della letteratura italiana, Letteratura italiana (Marzorati), I minori, Milano Carmine Jannaco, Martino Capucci, Il Seicento, MilanoPio Rajna, Le fonti dell'Orlando furioso, Firenze, Gianfranco Formichetti, Dizionario biografico degli italiani,  Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Anton Angelo de Cavanis e Marcantonio de Cavanis, “Il giovane istruito nella cognizione dei libri” Venezia, per Giuseppe Picotti, Girolamo Tiraboschi, Storia della letteratura italiana,  8, Roma, per Luigi Perego Salvioni Stampator Vaticano,  Treccani Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Antonio Belloni, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Benedetto Fioretti, noto anche come Udeno Nisiely e Fracastoro.  Mascolinità assieme di qualità, caratteristiche o ruoli associati a ragazzi o uomini Lingua Segui Modifica La mascolinità (o il genere maschile) è un insieme di attributi, comportamenti e ruoli generalmente associati agli uomini. La mascolinità è costruita socialmente e culturalmente,[1] anche se alcuni comportamenti considerati maschili, come indica la ricerca, sono biologicamente influenzati.[1][2][3][4] Fino a che punto la mascolinità sia influenzata biologicamente o socialmente è oggetto di dibattito.[2][3][4] Il genere maschile è distinto dalla definizione del sesso biologico maschile,[5][6] poiché sia i maschi che le femmine possono esibire caratteristiche maschili.   Nella mitologia greca Eracle è uno dei massimi simboli di mascolinità. Gli standard di mascolinità variano a seconda delle diverse culture e periodi storici.[7] Le caratteristiche tradizionalmente, culturalmente e socialmente considerate maschili nella società occidentaleincludono virilità, forza, coraggio, indipendenza, leadership e assertività.[8][9][10][11]  Il machismo è una forma di mascolinità che enfatizza il potere ed è spesso associata a un disprezzo per le conseguenze e la responsabilità.[12]  Il suo opposto può esser espresso dal termine effeminatezza.[13] Uno dei sinonimi maggiormente usati per indicare la mascolinità è virilità, dal latino virche significa uomo.  Contesti storici e culturaliModifica L'interpretazione ed il riconoscimento della mascolinità variano all'interno dei diversi contesti storici e culturali. Nell'antichità era prevalente prendere a modello l'uomo d'arme[14]; la figura del dandy, tanto per fare solo un esempio, è stato considerato un ideale di mascolinità nel XIX secolo, mentre è considerato al limite dell'effeminato per gli standard moderni[15].  Le norme tradizionali maschili, così come vengono descritte nel libro del Dr. Ronald F. Levant intitolato "Mascolinità ricostruita" sono: evitare ogni accenno di femminilità, non mostrare le proprie emozioni, tenere ben separato il sesso dall'amore, perseguire il successo e raggiungere uno status sociale più elevato, l'autonomia (il non aver mai bisogno dell'aiuto di nessuno), la forza fisica e l'aggressività, infine l'omofobia (disprezzo per il frocio, il finto maschio)[16]. Queste norme servono a riprodurre simbolicamente il ruolo di genere associando gli attributi e le caratteristiche specifiche creduti appartenere di diritto al genere maschile[17].  Lo studio accademico della mascolinità ha subito una massiccia espansione d'interesse tra la fine degli anni '80 e i primi anni '90, con corsi universitari che si occupano della mascolinità passati da poco più di 30 ad oltre 300 negli Stati Uniti[18]. Questo ha portato anche a ricerche riguardanti la correlazione tra concetto di mascolinità e le varie forme possibili di discriminazione sociale, ma anche per l'uso che del concetto se ne fa in altri campi, come nel modello femminista di costruzione sociale del genere[19].  Natura ed educazioneModifica  Competizione sportiva, scontro fisico e militarismo sono caratteristiche della mascolinità che appaiono in forme analoghe in quasi tutte le culture del mondo. La misura in cui l'espressione della propria mascolinità possa esser un fatto di natura o il risultato di un'educazione (e quindi appartenente all'ampio spettro del condizionamento sociale) è stato oggetto di molte discussioni.  La ricerca sul genoma umano ha dato importanti informazioni circa lo sviluppo delle caratteristiche maschili ed il processo di differenziazione sessuale specifico per il sistema riproduttivo degli esseri umani: il TDF sul cromosoma Y, che è fondamentale per lo sviluppo sessuale maschile, attiva la proteina chiamata "Fattore di trascrizione SOX9"[20] la quale aumenta l'ormone antimulleriano che reprime lo sviluppo femminile nell'embrione.  Vi è ampio dibattito poi su come i bambini sviluppino a partire dalla realtà corporea una propria identità di genere; chi la considera un fatto di natura sostiene che la mascolinità è inestricabilmente collegata al corpo umano maschile, ed in tale visione diventa qualcosa che è legato al sesso maschile biologico, cioè all'apparato genitale maschile il quale diviene così l'aspetto fondamentale della mascolinità[21].  Altri invece suggeriscono che, mentre la mascolinità può essere influenzata da fattori biologici, è anche però ampiamente costruita culturalmente; la mascolinità non avrebbe quindi una sola fonte d'origine o creazione, ma sarebbe anche associata a certi condizionamenti sociali. Un esempio di mascolinità socializzata è quella rappresentata dallo spuntare della barba, cioè dall'avere peli sul viso: l'adolescente che viene considerato e trattato da uomo a partire dal momento in cui comincia a radersi[22].  Mascolinità egemonicaModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Maschilismo.  Esempio di maschio poco più che adolescente con corpo muscoloso. Nelle culture tradizionali la maniera principale per gli uomini di acquistare onore e rispetto era quello di arrivare a mantenere economicamente la propria famiglia assumendone al contempo anche il comando e la leadership[23]. Raewyn Connell ha etichettato i tradizionali ruoli e privilegi maschili col termine di mascolinità egemonica, cioè la norma maschile, qualcosa a cui tutti gli uomini dovrebbero aspirare e che le donne invece sono scoraggiate dall'adottare: "Configurazione del genere come prassi che incarna la risposta accettata al problema della legittimità patriarcale... che garantisce la posizione dominante degli uomini e la subordinazione delle donne"[24].  Il Dr. Joseph Pleck sostiene che una gerarchia di mascolinità tra gli uomini esiste in gran parte nella dicotomia riferita all'orientamento sessuale tra maschio eterosessuale e non-maschio omosessuale e spiega che "la nostra società utilizza la dicotomia etero-omo come simbolo centrale per tutte le sue classifiche di mascolinità, distinguendo i veri uomini dotati di virilità da quelli che invece lo sono solo per finta"[25]. Kimmel[26] promuove questo concetto, aggiungendo però anche che il tropo "sei gay" indica che uno è innanzitutto privo di mascolinità, prima ancora d'indicare un maschio attratto da persone del proprio stesso sesso. Pleck conclude sostenendo che per evitare la continuazione dell'oppressione maschile sopra le donne, sopra gli altri uomini, ma anche sopra se stessi, debbono essere eliminate una volta per tutte le strutture ed istituzioni patriarcali dall'auto-consapevolezza maschile.  CriticheModifica Si tratta di un argomento dibattuto la questione se i concetti di mascolinità seguiti storicamente debbano ancora continuare ad essere applicati. I ricercatori hanno rilevato un corrente di critica alla mascolinità, dovuta al rimodellamento dei valori contemporanei, ai gruppi femministi più attivi che hanno assunto per sé certi ruoli tradizionali appartenenti alla mascolinità, all'ostilità culturale che la società d'oggi ha in certi casi posto sui cosiddetti valori maschili, ed infine anche alla promozione della mascolinità nella donna abbinata ad un pressione rivolta agli uomini per femminilizzarsi.  Le immagini di ragazzi e giovani uomini presentati nei mass media possono portare alla persistenza di concetti nocivi alla mascolinità; gli attivisti per i diritti degli uomini sostengono che i media non prestano una seria attenzione alle questioni relative ai diritti maschili e che gli uomini vengono spesso dipinti in una luce negativa, soprattutto nella pubblicità[27].  Scholar Peter Jackson scrive che le forme dominanti di mascolinità possono essere di sfruttamento economico e di oppressione sociale. Egli afferma che "la forma di oppressione varia dai controlli patriarcali sui corpi delle donne e dei diritti riproduttivi, attraverso le ideologie di domesticità, femminilità ed eterosessualità obbligatoria, alle definizioni sociali del valore del lavoro, le presunte maggiori abilità naturali del maschio e la remunerazione differenziale del lavoro produttivo e riproduttivo "[28].   Il lavoro meccanico in fabbrica è associato con la mascolinità tradizionale. Nozione di mascolinità in crisiModifica Un discorso sulla crisi della mascolinità è emerso negli ultimi decenni, sostenendo l'ipotesi che il concetto di mascolinità si trovi oggi nella civiltà occidentale in uno stato di più o meno profonda crisi[29][30].  La crisi è anche stata spesso attribuita alle politiche conseguenti al femminismo in risposta sia al presunto dominio degli uomini sulle donne, sia ai diritti attribuiti socialmente sulla base del proprio sesso d'appartenenza[31].  Altri vedono il mercato del lavoro in costante evoluzione come fonte della crisi della mascolinità, la deindustrializzazione e la sostituzione delle vecchie fabbriche con nuove tecnologie ha permesso ad un numero sempre maggiore di donne di entrare in questo mercato competendo alla pari con gli uomini, riducendo al contempo la necessità e domanda di forza fisica[32].  Tendenze contemporaneeModifica  L'operaio edile, esempio moderno di mascolinità. Anche se gli stereotipi effettivi siano rimasti relativamente costanti, il valore collegato alla concetto di mascolinità maschile è in parte cambiato nel corso degli ultimi decenni, ed è stato sostenuto che la mascolinità è pertanto un fenomeno instabile e mai raggiunto in modo definitivo.  Secondo un documento presentato all'American Psychological Association: "Invece di vedere una diminuzione dell'oggettivazione delle donne nella società, si è recentemente verificato un aumento nell'oggettivazione di entrambi i sessi... Uomini e donne possono limitare la loro assunzione di cibo nello sforzo di ottenere quello che considerano un corpo attraente sottile, in casi estremi portando anche a gravi disturbi alimentari"[33].  Sia gli uomini che le donne più giovani che leggono riviste di fitness e di moda potrebbero essere psicologicamente danneggiati dalle immagini perfette di fisico femminile e maschile che vedono: alcune giovani donne e uomini si esercitano eccessivamente nel tentativo di raggiungere ciò che essi considerano una forma corporea più attraente, che in casi estremi può portare a disordine dismorfico del corpo (dismorfofobia) o dismorfismo muscolare (anoressia riversa)[34][35][36].  Terminologia             Modifica I concetti di mascolinità sono variati a seconda del tempo e del luogo e sono soggetti a costanti cambiamenti, quindi è più appropriato parlare di mascolinità al plurale che di una singola tipologia di mascolinità[37].  NoteModifica ^ a b ( EN ) Constance L. Shehan, Gale Researcher Guide for: The Continuing Significance of Gender, Gale, Cengage Learning, 2018, pp. 1-5, ISBN 9781535861175. ^ a bhttps://books.google.com/books/about/Masculinity_and_Femininity_in_the_MMPI_2. html?id=5KL Plmr9T7MC&q=%22what+ masculinity+and+femininity+are%22 ^ a bhttps://books.google.com/ books/about/ Gender_Nature_and_Nurture.html?id=R6OPAgAAQBAJ&q=%22 biology+contributes%22+%22masculinity+and+ femininity%22 ^ a bhttps://books.google.com/ books/ about/The_Sociology_of_Gender.html?id=SOTqzUeqmNMC&q=%22+biological+ or+genetic+ contributions%22 ^ Joan Ferrante, Sociology: A Global Perspective, 7th, Belmont, CA, Thomson Wadsworth, gennaio 2010, pp. 269-272, ISBN 978-0-8400-3204-1. ^ What do we mean by 'sex' and 'gender'?, su who.int, World Health Organization (archiviato dall' url originale  l'8 settembre 2014). ^ https://books.google.com/books?id=jWj5OBvTh1IC&q=%22meanings+of+manhood+vary%22 ^ http://sk.sagepub.com/books/theorizing-masculinities/n7.xml ^https://archive.org/details/ femininitymascul0000unse/page/6 ^ https://books.google.com/ books?id=7SXhBdqejgYC&pg=PA157 ^ https://books.google.co.uk/books?id=-RxIUDYIuiIC&pg=PT248 ^http://www.britannica.com/EBchecked/topic/1381820/machismo ^ Roget’s II: The New Thesaurus, 3rd. ed., Houghton Mifflin, 1995. ^ Paul Treherne, The Warrior's Beauty: The Masculine Body and Self-Identity in Bronze-Age Europe, Journal of European Archaeology Vol. 3, Iss. 1, 1995. ^ Todd Reeser, Masculinities in Theory: An Introduction, John Wiley and Sons, 2010, pp. 1-3, ISBN 1-4443-5853-7. ^ Ronald F. Levant e Gini Kopecky, Masculinity Reconstructed: Changing the Rules of Manhood—At Work, in Relationships, and in Family Life, New York, Dutton, 1995, ISBN 978-0-452-27541-6. ^ Jennifer Dornan, Blood from the Moon: Gender Ideology and the Rise of Ancient Maya Social Complexity, 2004, ISSN 0953-5233 (WC · ACNP). ^ Rolla M. Bradley, Masculinity and Self Perception of Men Identified as Informal Leaders, ProQuest, 2008, p. 9, ISBN 0-549-47399-8. ^ Michael Flood, International Encyclopaedia of Menand Masculinities, Routledge, 2007, pp. Viii, ISBN 0-415-33343-1. ^ Brigitte Moniot, Faustine Declosmenil, Francisco Barrionuevo, Gerd Scherer, Kosuke Aritake, Safia Malki, Laetitia Marzi, Ann Cohen-Solal, Ina Georg, Jürgen Klattig, Christoph Englert, Yuna Kim, Blanche Capel, Naomi Eguchi, Yoshihiro Urade, Brigitte Boizet-Bonhoure e Francis Poulat, The PGD2 pathway, independently of FGF9, amplifies SOX9 activity in Sertoli cells during male sexual differentiation, in Development, vol. 136, n. 11, The Company of Biologists Ltd., 2009, pp. 1813-1821, DOI:10.1242/dev.032631, PMID 19429785. ^ Todd Reeser, Masculinities in Theory: An Introduction, John Wiley and Sons, 2010, p. 3, ISBN 1-4443-5853-7. ^ Todd Reeser, Masculinities in Theory: An Introduction, John Wiley and Sons, 2010, pp. 30-31, ISBN 1-4443-5853-7. ^ George, A., "Reinventing honorable masculinity" Men and Masculinities ^ R.W. Connell, Masculinities, Berkeley, University of California Press, 1995, 2005, pp. 77. ^ Understanding Patriarchy and Men's Power | NOMAS Archiviato il 1º marzo 2010 in Internet Archive. ^ Kimmel, Michael S., and Summer Lewis. Mars and Venus, Or, Planet Earth?: Women and Men in a New Millenium [sic]. Kansas State University, 2004. ^ Farrell, W. & Sterba, J. P. (2008) Does Feminism Discriminate Against Men: A Debate (Point and Counterpoint), New York: Oxford University Press. ^ Peter Jackson, The Cultural Politics of Masculinity: Towards a Social Geography, in Transactions of the Institute of British Geographers, vol. 16, n. 2, 1991, pp. 199-213, DOI:10.2307/622614. URL consultato il 26 aprile 2013. ^ Rooger Horrocks, Masculinities in Crisis: Myths, Fantasies, and Realities, St. Martin's Press, 1994, ISBN 0-333-59322-7. ^ Sally Robinson, Marked Men: White Masculinity in Crisis, New York, Columbia University Press, 2000, p. 5, ISBN 978-0-231-50036-4. ^ John Beynon, Chapter 4: Masculinities and the notion of 'crisis', in Masculinities and culture, Filadelfia, Open University Press, 2002, pp. 83–86, ISBN 978-0-335-19988-4. ^ John Beynon, Chapter 4: Masculinities and the notion of 'crisis', in Masculinities and culture, Filadelfia, Open University Press, 2002, pp. 86–89, ISBN 978-0-335-19988-4. ^ Pressure To Be More Muscular May Lead Men To Unhealthy Behaviors Archiviato il 18 giugno 2008 in Internet Archive. ^ Magazines 'harm male body image', in BBC News, 28 marzo 2008. URL consultato il 12 maggio 2010. ^ Muscle dysmorphia – AskMen.com ^ Men Muscle in on Body Image Problems | LiveScience ^ R. W. Connell, Masculinities, Polity, 2005, p. 185, ISBN 0-7456-3427-3. BibliografiaModifica Generale John Beynon, Chapter 4: Masculinities and the notion of 'crisis', in Masculinities and culture, Filadelfia, Open University Press, 2002, pp. 75–97, ISBN 978-0-335-19988-4. Todd W. Reeser, Masculinities in theory: an introduction, Malden, MA, Wiley-Blackwell, 2010, ISBN 978-1-4051-6859-5. R.W. Connell, 3, in The Social Organization of Masculinity, Berkeley (California)-Los Angeles, Polity, 2001, ISBN 978-0-520-24698-0. Levine, Martin P. (1998). Gay Macho. New York: New York University Press. ISBN 0-8147-4694-2. Stibbe, Arran. (2004). "Health and the Social Construction of Masculinity in Men's Health Magazine." Men and Masculinities; 7 (1) July, pp. 31–51. Strate, Lance "Beer Commercials: A Manual on Masculinity" Men's Lives Kimmel, Michael S. and Messner, Michael A. ed. Allyn and Bacon. Boston, London: 2001 Situazione attuale Arrindell, Willem A., Ph.D. (1 October 2005) "Masculine Gender Role Stress" Psychiatric Times Pg. 31 Ashe, Fidelma (2007) The New Politics of Masculinity, London and New York: Routledge. bell hooks, We Real Cool: Black Men and Masculinity, Taylor & Francis 2004, ISBN 0-415-96927-1 Broom A. and Tovey P. (Eds) Men's Health: Body, Identity and Social Context London; John Wiley and Sons Inc. Burstin, Fay "What's Killing Men". Herald Sun (Melbourne, Australia). October 15, 2005. Canada, Geoffrey "Learning to Fight" Men's Lives Kimmel, Michael S. and Messner, Michael A. ed. Allyn and Bacon. Boston, London: 2001 R.W. Connell, Masculinities, Cambridge, Polity Press, 2005, ISBN 0-7456-3427-3. Courtenay, Will "Constructions of masculinity and their influence on men's well-being: a theory of gender and health" Social Science and Medicine, yr: 2000 vol: 50 iss: 10 pg: 1385–1401 Jack Donovan, The way of men, Milwaukie, Oregon, Dissonant Hum, 2012, ISBN 978-0-9854523-0-8. Meenakshi G. Durham e Thomas P. Oates, The mismeasure of masculinity: the male body, 'race' and power in the enumerative discourses of the NFL Draft, in Patterns of Prejudice, vol. 38, n. 3, Taylor & Francis Online, 2004, pp. 301-320, DOI:10.1080/0031322042000250475. Galdas P.M. and Cheater F.M. (2010) Indian and Pakistani men's accounts of seeking medical help for angina and myocardial infarction in the UK: Constructions of marginalised masculinity or another version of hegemonic masculinity? Qualitative Research in Psychology Juergensmeyer, Mark (2005): Why guys throw bombs. About terror and masculinity (pdf) Kaufman, Michael "The Construction of Masculinity and the Triad of Men's Violence". Men's Lives Kimmel, Michael S. and Messner, Michael A. ed. Allyn and Bacon. Boston, London: 2001 Levant & Pollack (1995) A New Psychology of Men, New York: BasicBooks Mansfield, Harvey. Manliness. New Haven: Yale University Press, 2006. ISBN 0-300-10664-5 Reeser, T. Masculinities in Theory, Malden: Wiley-Blackwell, 2010. Robinson, L. (October 21, 2005). Not just boys being boys: Brutal hazings are a product of a culture of masculinity defined by violence, aggression and domination. Ottawa Citizen (Ottawa, Ontario). Stephenson, June (1995). Men are Not Cost Effective: Male Crime in America. ISBN 0-06-095098-6 ( EN ) Mark Simpson, Male impersonators: men performing masculinity, Londra, Cassell, 1994, ISBN 9780304328062. Walsh, Fintan. Male Trouble: Masculinity and the Performance of Crisis. Basingstoke and New York: Palgrave Macmillan, 2010. Williamson P. "Their own worst enemy" Nursing Times: 91 (48) 29 November 95 p 24–7 Wray Herbert "Survival Skills" U.S. News & World Report Vol. 139, No. 11; Pg. 63 September 26, 2005 Masculinity for Boys ( PDF ), su unesdoc.unesco.org, pubblicato dall'UNESCO, Nuova Delhi, 2006. ( EN ) Bonnie G. Smith e Beth Hutchison, Gendering disability, Londra, Rutgers University Press, 2004, ISBN 9780813533735. ( EN ) Stephany Rose, Abolishing White masculinity from Mark Twain to hiphop: crises in whiteness, Lanham, Lexington Books, 2014, ISBN 9781498522847. Nella storia Michael Kimmel, Manhood in America, New York [etc.]: The Free Press 1996 A Question of Manhood: A Reader in U.S. Black Mens History and Masculinity, edited by Earnestine Jenkins and Darlene Clark Hine, Indiana University press vol1: 1999, vol. 2: 2001 Gary Taylor, Castration: An Abbreviated History of Western Manhood, Routledge 2002 Klaus Theweleit, Male fantasies, Minneapolis : University of Minnesota Press, 1987 and Polity Press, 1987 Peter N. Stearns, Be a Man!: Males in Modern Society, Holmes & Meier Publishers, 1990 Shuttleworth, Russell. "Disabled Masculinity." Gendering Disability. Ed. Bonnie G. Smith and Beth Hutchison. Rutgers University Press, New Brunswick, New Jersey, 2004. 166–178. Voci correlate          Modifica Androgino Bromance Bushidō Castro clone Comunità ursina Femminilità Indice di mascolinità Leather Patriarcato (antropologia) Sessismo Twink (linguaggio gay) Collegamenti esterniModifica The Men's Bibliography, bibliografia completa sulla mascolinità. Boyhood Studies, bibliografia sulla mascolinità giovanile. Practical Manliness, sugli ideali storici della mascolinità applicati agli uomini moderni. The ManKind Project of Chicago, supporting men in leading meaningful lives of integrity, accountability, responsibility, and emotional intelligence NIMH web pages on men and depression, sulla depressione maschile. Article entitled "Wounded Masculinity: Parsifal and The Fisher King Wound" Il simbolismo storico che si riferisce alla mascolinità, di Richard Sanderson M.Ed., B.A. BULL, sulla narrativa maschile. Art of Manliness, sull'arte mascolina. The Masculinity Conspiracy, critica mascolina online. Future Masculinity, corso di critica sulla mascolinità. Controllo di autoritàThesaurus BNCF 48856 · LCCN( EN ) sh85081797 · GND ( DE ) 4123701-8 ·BNE ( ES ) XX546447 (data) · BNF( FR ) cb119462329 (data) · J9U( EN ,  HE ) 987007555599305171 (topic)   Portale Antropologia: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di antropologia Ultima modifica 1 mese fa di Aslog Murivel PAGINE CORRELATE Effeminatezza termine  Michael Messner (sociologo) sociologo statunitense  Privilegio maschile privilegio sociale degli individui maschi derivante solamente dal loro sesso  Wikipedia Il contenutoFioretti.  Keywords. Refs.: tipi di ginnasio: pais ragazzo (12-17 adolescens), 18-20 efebo; +20 neos. Oriuolo, progrinnasio, ginnasio, tre tipi di ginnasio: paides, 12-14, nuoi, o neoi, 15-18, 18+ efebi --. Terme – ginnasio e terme – giocchi nudi – nudita atletica – nudita eroica. Keywords: pro-ginnasmi. Luigi Speranza, “Grice e Fioretti” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51690421812/in/photolist-2mPMBQM-2mKGVxb

 

Grice e Fisischella – il duello – filosofia italiana – Luigi Speranza (Catania). Filosofo. Grice: “I love Fisichella; for one, he was a nobleman; for another, he died during Messina’s earthquake – leaving unfinished quite a few essays – he philosophised on both ‘nature’ and ‘convention,’ and the rationalist basis of his theory of contract is Griceian in nature, even if he fills it with charming Roman detail!” Appartenente alla nobile famiglia siciliana dei Fisichella, fu autore di famose saggi. Fu responsabile della Biblioteca Civica di Catania. Insegna a Messina. Morì vittima del terremoto di Messina. Altre opere: “Roma e il Mondo” (Eugenio Coco); “Pena temporaria, pena perpetua”; “Il concetto d’ “obbligazione naturale””; “Il concetto del divorzio secondo la filosofia di Enrico VIII” (Carmelo de Stefano); “Matrimonio, questione di stato – la legge di matrimonio”. Fu nominato "bibliotecario onorario" Federico De Roberto, che scrisse in uno scrittoio a schiena d'asino ancora conservato molte pagine del suo romanzo I Viceré.   Whoever has glanced through the pages of  any text-book on Mercantile Law will hardly deny  that Contract is the handmaid if not actually the  child of Trade. Merchants and bankers must have  what soldiers and farmers seldom need, the means  of making and enforcing various agreements with  ease and certainty. Thus, turning to the special  case before us, we should expect to find that when  Rome was in her infancy and when her free  inhabitants busied themselves chiefly with tillage  and with petty warfare, their rules of sale, loan,  suretyship, were few and clumsy. Villages do not  contain lawyers, and even in towns hucksters do  not employ them. 'Poverty of Contract was in fact  a striking feature of the early Roman Law, and can  be readily understood in the light of the rule just  stated. The explanation given by Sir Henry Maine  is doubtless true, but does not seem altogether  adequate. He points out' that the Roman house-  hold consisted of many families under the rule of a   ' Ancient Law, p. 312.   B. E. 1   Digitized by Microsoft®     2 INTRODUCTION.   paternal autocrat, so that few freemen had what we  should call legal capacity, and consequently there  arose few occasions for Contract. This may indeed  account for the non-existence of Agency, but not  for that of all other contractual forms. For if the  households had been trading instead of farming  corporations, they must necessarily have been more  richly provided in this respect. The fact that their  commerce was trivial, if it existed at all, alone  accounts completely for the insignificance of Con-  tract in their early Law.   The origin of Contract as a feature of social life  was therefore simultaneous with the birth of Trade  and requires no further explanation. It is with the  origin and history of its individual forms that the  following pages have to deal. As Roman civilization  progresses we find Commerce extending and Contract  growing steadily to be more complex and more  flexible. Before the end of the Roman Republic  the rudimentary modes of agreement which sufficed  for the requirements of a semi-barbarous people  have been almost wholly transformed into the  elaborate system of Contract preserved for us in  the fragments of the Antonine jurists.     Digitized by Microsoft®     CHAPTER I.   THE REGAL PERIOD: EARLY AGREEMENTS.   At the most remote period concerning which  statements of reasonable accuracy can be made,  and which for convenience we may call the Regal  Period, we can distinguish three ways of securing  the fulfilment of a promise. The promise could  be enforced either (1) by the person interested,  or (2) by the gods, or (3) by the community. When  however we speak of enforcement, we must not think  of what is now called specific performance, a con-  ception unknown to primitive Law. The only kind  of enforcement then possible was to make punish-  ment the alternative of performance.   I. Self-help, the most obvious method of re-  dress in a societj' just emerging from barbarism, was  doubtless the most ancient protection to promises,  since we find it to have been not only the mode by  which the anger of the individual was expressed, but  also one of the authorised means employed by the  gods or the community to signify their displeasure.  This rough form of justice fell within the domain of  Law in the sense that the law allowed it, and even   1 2   Digitized by Microsoft®     4 THE EEGAL PERIOD : EARLY AGREEMENTS.   encouraged men to punish the delinquent, whenever  religion or custom had been violated. But as people  grew more civilized and the nation larger, sdf-help  must have proved a difficult and therefore inade-  quate remedy. Accordingly its scope was by degrees  narrowed, and at last with the introduction of surer  methods it became wholly obsolete.   II. Eeligious Law, as administered by the  priests, the representatives of the gods, was another  powerful agency for the support of promises. A  violation of Fides, the sacred bond formed between  the parties to an agreement, was an act of impiety  which laid a burden on the conscience of the delin-  quent and may even have entailed religious disabili-  ties. Fides was of the essence of every compact,  but there were certain cases in which its violation  was punished with exceptional severity. If an  agreement had been solemnly made in the presence  of the gods, its breach was punishable as an act  of gross sacrilege.   III. The third agency for the protection of  promises was legal in our sense of the word. It  consisted of penalties imposed upon bad faith by  the laws of the nation, the rules of the gens, or the  by-laws of the guild to which the delinquent  belonged. What the sanction was in each case we  are left to conjecture. It may have been public  disgrace, or exclusion from the guild, or the paying  of a fine. And as some promises might be strength-  ened by an appeal to the gods, so might others by  an invocation of the people as witnesses.   Agreements then might be of three kinds corre-   Digitized by Microsoft®     EARLY PACTA. 5   spending to the three kinds of sanction. They  might consist of (1) an entirely formless compact,  (2) a solemn appeal to the gods, or (3) a solemn  appeal to the people.   I. A formless compact is called pactum in the  language of the twelve Tables. It was merely a  distinct understanding between parties who trusted  to each other's word, and in the infancy of Law  it must have been the kind of agreement most  generally used in the ordinary business of life.  Such agreements are doubtless the oldest of all,  since it is almost impossible to conceive of a time  when men did not barter acts and promises as freely  as they bartered goods and without the accompani-  ment of any ceremony. Compacts of this sort were  protected by the universal respect for Fides, and  their violation may perhaps have been visited with  penalties by the guild or by the gens. But intensely  religious as the early Romans were, there must have  been cases in which conscience was too weak a  barrier against fraud, and slight penalties were  ineffectual. Fear of the gods had to be reinforced  by the fear of man, and self-help was the remedy  which naturally suggested itself. In the twelve  Tables pactum appears in a negative shape,  as a compact by performing which retaliation or  a law-suit could be avoided ^ If this compact was  broken the offended party pursued his remedy.  Similarly where a positive pactum was violated, the  injured person must have had the option of chastising   1 Gell. XX. 1. 14. Auct. ad Her. ii. 13. 20.  Digitized by Microsoft®     6 THE BEGAL PERIOD: EARLY AGREEMENTS.   the delinquent. His revenge might take the form  of personal violence, seizure of the other's goods,  or the retention of a pawn already in his possession.  He could choose his own mode of punishment, but if  his adversary proved too strong for him, he doubtless  had to go unavenged ; whereas if the broken agree-  ment belonged to either of the other classes, the  injured party had the whole support of the  priesthood or the community at his back, and  thus was certain of obtaining satisfaction. It is  therefore plain that though formless agreements  contained the germ of Contract, they could not  have produced a true law of Contract, because by  their very nature they lacked binding force. Their  sanction depended on the caprice of individuals,  whereas the essence of Contract is that the breach  of an agreement is punishable in a particular way.  A further element was needed, and this was supplied  by the invocation of higher powers.   II. At what period the fashion was introduced  of confirming promises by an appeal to the gods  it would be idle to guess. Originally, it seems,  the plain meaning of such appeals was alone con-  sidered, and their form was of no importance.  But under the influence of custom or of the priest-  hood, they assumed by degrees a formal character,  and it is thus that we find them in our earliest  authorities.   Since Eeligion and Law were both at first the  monopoly of the priestly order, and since the religious  forms of promise have their counterpart in the  customs of Greece and other primitive peoples,   Digitized by Microsoft®     PUBLIC AGREEMENTS. 7   whereas the secular forms are peculiarly RomanS  the religious forms are evidently the older, and  formal contract has therefore had a religious origin.  Fides being a divine thing, the most natural means  of confirming a promise was to place it under divine  protection. This could be accomplished in two  ways, by iusiurandum or by sponsio, each of which  was a solemn declaration placing the promise or  agreement under the guardianship of the gods.  Each of these forms has a curious history, and as  they are the earliest specimens of true Contract,  we may discuss them in the next chapter.   III. Another method, and one peculiar to the  Romans, which naturally suggested itself for the  protection of agreements, was to perform the whole  transaction in view of the people. Publicity ensured  the fairness of the agreement, and placed its ex-  istence beyond dispute. If the transaction was  essentially a public matter, such as the official sale of  public lauds, or the giving out of public contracts,  no formality seems ever to have been required, so  that even a formless agreement was in that case  binding. The same validity could be secured for  private contracts by having them publicly witnessed,  and, the nexuTn was but one application of this  principle. In testamentary Law it seems probable  that the public will in comitiis calatis was also  formless, whereas in private the testator could only  give effect to his will by formally saying to his  fellow-citizens " testimonium, mihi perhibetote."   Thus the two elements which turned a bare  1 See p. 22.   Digitized by Microsoft®     8 THE REGAL PERIOD: EARLY AGREEMENTS.   agreement into a contract were religion and publicity.  The naked agreements (pacta) need not concern us,  since, their validity as contracts never received  complete recognition. But it will be the object of  the following pages to show how agreements grew  into contracts by being invested with a religious or  public dignity, and to trace the subsequent process  by which this outward clothing was slowly cast ofif.  Formalism was the only means by which Contract  could have risen to an established position, but  when that position was fully attained we shall find  Contract discarding forms and returning to the state  of bare agreement from which it had sprung.     Digitized by Microsoft®     CHAPTER II.   CONTRACTS OF THE EEGAL PERIOD.   Art. 1. IvsiVRANDVM is derived by some  from louisiurandum^, which merely indicates that  Jupiter was the god by whom men generally swore.  To make an oath was to call upon some god to  witness the integrity of the swearer, and to punish  him if he swerved from it. This appears from the  wording of the oath inLivy^ where Scipio says: "Si  sciens /alio, turn me, luppiter optime maxime, domum  familiam remque meam pessimo leto afficias," and  from the oath upon the luppiter lapis given by  Polybius and Paulus Diaconus, where a man throws  down a flint and says : " Si sciens folio, turn me  Dispiter saliia urbe arceque bonis eiiciat, uti ego hunc  lapidem." A promise accompanied by an oath was  simply a unilateral contract under religious sanction.  And it would seem that the oath was in fact used for  purposes of contract. Cicero remarks^ that the oath  was proved by the language of the XII Tables to  have been in former times the most binding form of  promise ; and since an oath was still morally binding   1 Of. Apul. de deo Socr. 5. = xxii. 53.   3 Off. III. 31. 111.   Digitized by Microsoft®     10 CONTRACTS OF THE REGAL PERIOD.   in the time of Cicero, though it had then no legal  force, the point of his remark must be that in  earlier times the oath was legally binding also.  From Dionysius we know that the altar of Hercules  (called Ara Maxima) was a place at which solemn  compacts (a-vvOrJKai) were often made', while Plautus  and Cicero inform us that such compacts were  solemnized by grasping the altar and taking an  oath''- It would seem probable that the gods were  consulted by the taking of auspices before an  oath was made. Cicero says that even in private  affairs the ancients used to take no step without  asking the advice of the gods*; and we may safely  conjecture that whenever a god was called upon to  witness a solemn proniise, he was first enquired of,  so that he might have the option of refusing his  assent by giving unfavourable auspices. The terms  of the oath were known as concepta uerba, at least  in the later Republic, and like the other forms of the  period they were strictly construed*. Periuriwm did  not mean then, as now, false swearing. It meant  the breach of an oath', the commission of any act at  variance with the uerba concepta'^.   There is some dispute as to what were the exact  consequences of such a breach. Voigt' thinks that  it merely entailed excommunication from religious  rites, but Danz^ is clearly right in maintaining that  its consequences in early times were far more serious ;   1 Dion. 1. 40. 2 piaut. Rud. 5. 2. 49. Cic. Flace. 36. 90.   3 Biv. 1. 16. 28. " Seru. ad Aen. 12. 13.   " i.e. sciens fallere, Plin. Paneg.d'i. Seneca, Ben. iii. 37. 4.  8 Off. III. 29. 108. ' lus Nat. in. 229. 8 j{g„i. ^(j_ „_ g 149     Digitized by Microsoft®     EFFECTS OF IVSIVSAJSfDVM. 11   they amounted in fact to complete outlawry.  Cicero says that the sacratae leges of the ancients  confirmed the validity of oaths. Now a sacrata lex  was one which declared the transgressor to be  sacer (i.e. a victim devoted) to some particular god^  and sacer in the so-called laws of Seruius Tullius^  and in the XII Tables' was the epithet of condem-  nation applied to the undutiful child and the  unrighteous patron. So likewise it seems highly  probable that the breaker of an oath became sacer,  and that his punishment, as Cicero hints'*, was  usually death. The formula of an oath given by  Polybius" is more comprehensive than that given  by Paulus Diaconus^ for in it the swearer prays  that, if he should transgress, he may forfeit not  only the religious but also the civil rights of his  countrymen. This shows that the oath-breaker was  an utter outcast; in fact, as the gods could not  always execute vengeance in person, what they did  was to withdraw their protection from the offender  and leave him to the punishment of his fellow-men'.  The drawbacks to this method of contract were the  same as those of the old English Law, which made  hanging the penalty for a slight theft ; the penalty  was likely to be out of all proportion to the injury  inflicted by a breach of the promise. So awful  indeed was it, that no promise of an ordinary kind  could well be given in such a dangerous form, and  consequently the oath was not available for the   1 Festus, p. 318, s.u. sacratae. - Fest. p. 230, s.u. plorare.   » Seru. ad Aen. 6. 609. ^ Leg. ii. 9. 22. ^ ni. 25.   5 p. 114, s.u. lapideni. ' Liu. v. 11. 16.   Digitized by Microsoft®     12 CONTRACTS OF THE REGAL PERIOD.   common affairs of daily life. The use of the oath  therefore disappeared with the rise of other forms of  binding agreement, the severity of whose remedies  was proportionate to the rights which had been  violated; while at the same time the breaking  of an oath came to be considered as a moral, instead  of a legal, offence, and by the end of the Republic  entailed nothing more serious than disgrace (dedecus).  In one instance only did the legal force of the oath  survive. As late as the days of Justinian, the  services due to patrons by their freedmen were still  promised under oath'. But the penalty for the  neglect of those services had changed with the  development of the law. At and before the time of  the XII Tables, the freedman who neglected his  patron, like the patron who injured his freedman'',  no doubt became sacer, and was an outlaw fleeing  for his life, as we are told by Dionysius'. But in  classical times the heavy religious penalty had  disappeared, and the iurisiurandi ohligatio was en-  forced by a special praetorian action, the actio  operarum*. By the time of Ulpian the effects of  the iurata operarum promissio seem indeed to have  been identical with those of the operarum stipu-  lation, though the forms of the two were still quite  distinct.   We may then summarise as follows our knowledge  as to this primitive mode of contract :   The form was a verbal declaration on the part of  the promisor, couched in a solemn and carefully   1 38 Dig. 1. 7. = Seru. ad Aen. 6. 609. s n, iq.   * 38 Big. 1. 2 and 7. = of. 33 Dig, 1. 10.   Digitized by Microsoft®     THE EARLY SP0N8I0. 13   worded^ formula (concepta uerba), wherein he called  upon the gods (testari deosY, to behold his good faith  and to punish him for a breach of it.   The sanction was the withdrawal of divine  protection, so that the delinquent was exposed to  death at the hand of any man who chose to slay  him.   The mode of release, if any, does not appear. In  classical times it was the acceptilatio^, but this was  clearly anomalous and resulted from the similar  juristic treatment of operae promissae and operae  iuratae.   Art. 2. Sponsio. Though the point is contested  by high authority, yet it scarcely admits of a doubt  that there existed from very early times another  form, known as spon^io, by which agreements could  be made under religious sanction. This method,  as Danz has pointed out, was originally connected  with the preceding one. It was derived from the  stern and solemn compact made under an oath to  the gods. But Danz goes too far when he identifies  the two, and states that sponsio was but another  name for the sworn promise^. The stages through  which the sponsio seems to have passed tell a  different story. The word is closely connected with  (Tirovhrj, a-rrevSeiv, and hence originally meant a  pouring out of wine'*, quite distinct from the con-  vivial Xot^T) or lihatio^, so that " libation " is not its  proper equivalent. The other derivation given by   1 38 Dig. 1. 7, fr. 3. ^ Plaut. Rud. 5. 2. 52.   5 46 Dig. 4. 13. '' Danz, Sacr. Schutz, p. 105.   5 Featus-p. 329 s.u. spondere. ^ Leist, Greco-It. B. G. p. 464, note o.   Digitized by Microsoft®     14 CONTRACTS OF THE REGAL PERIOD.   Varro' and Verrius^ from spons, the will, whence  according to Girtanner' spmsio must have meant a  declaration of the will, savours somewhat too strongly  of classical etymology.   I. This pouring out of wine, as Leist* has  ■ shown, was in the Homeric age a constant accom-  paniment to the conclusion of a sworn compact of  alliance (opKia iriaTo) between friendly nations.  The sacrificial wine seems originally to have added  force to the oath by symbolising the blood which  would be spilt if the gods were insulted by a breach  of that oath. In this then its original form sponsio  was nothing more than an accessory piece of cere-  monial.   II. The second stage was brought about by the  omission of the oath and by the use of wine-pouring  alone as the principal ceremony in making less  important agreements of a private nature. In the  Indian Sutras for instance a sacrifice of wine is  customary at betrothals ^ and comparison shows that  the marriage ceremonies of the Romans, in connec-  tion with which we find sponsio and sponsalia applied  to the betrothal and sponsa to the bride °, were very  like those of other Aryan communities'. We may  therefore clearly infer that at Rome also there was a  time when the pouring out of wine was a part of the  marriage-contract; and thus our derivation of the  word receives independent confirmation.   III. In the third and last stage sponsio meant   ^ L. L. VI. 7. 69. ° Festus, s. u. spotidere. ' Stip. p. 84.  •* Greco-It. B. G. § 60. = Leist, Alt-Ar. I. Civ. p. 443.   » Gell. IV. 4. Varro, L. L. vi. 7. 70. ' Leist, loc. cit.     Digitized by Microsoft®     PECULIARITIES OF SPONSIO. 15   nothing more than a particular form of promise, and  it is easy to see how this came about. At first the  verbal promise took its name from the ceremony of  wine-pouring which gave to it binding force ; but in  course of time this ceremony was left out as taken  for granted, and then the promise alone, provided  words of style were correctly used, still retained its  old uses and its old name. Sponsio from being a  ceremonial act became a form of words. Such was  the final stage of its development.   The importance attached to the use of the words  spondesne ?, spondeo in preference to all others' thus  becomes clear. Spondesne ? spondeo originally meant  " Do you promise by the sacrifice of wine ? " "I do so  promise," just as we say, "I give you my oath,"  when we do not dream of actually taking one.   Another peculiarity of sponsio, noticed though  not explained by Gaius^, was the fact that it could  be used in one exceptional case to make a binding  agreement between Romans and aliens, namely, at  the conclusion of a treaty. Gains expresses surprise  at this exception. But if, as above stated, a sacrifice  of pure wine ((nrovBal aKprjToi) was one of the early  formalities of an international compact (opKia iria-Ta),  it was natural that the word spo'ndeo should survive  on such occasions, even after the oath and the wine-  pouring had long since vanished.   Sponsio being then a religious act and subse-  quently a religious formula, its sanctity was doubtless  protected by the pontiffs with suitable penalties.  What these penalties were we cannot hope to know,  1 Gai. HI. 93. ^ m. 94.   Digitized by Microsoft®     16 CONTRACTS OF THE REGAL PERIOD.   though clearly they were the forerunners of the  penal sponsio tertiae partis of the later procedure.  Varro^ informs us that, besides being used at be-  trothals the sponsio was employed in money (pecunia)  transactions. If pecunia includes more than money  we may well suppose that cattle and other forms of  property, which could be designated by number and  not by weight, were capable of being promised in  this manner. Indeed it is by no means unlikely^  that nesBum was at one time the proper form for  a loan of money by weight, while sponsio was the  proper form for a loan of coined money (pecunia  numerata). The making of a sponsio for a sum  of money was at all events the distinguishing feature  of the actio per sponsionem, and though we cannot  now enter upon the disputed history of that action,  its antiquity will hardly be denied.   The account here given of the origin and early  history of the sponsio is so different from the views  taken by many excellent authorities that we must  examine their theories in order to see why they  appear untenable. One great class of commentators  have held that the sponsio is not a primitive institu-  tion, but was introduced at a date subsequeat to the  XII Tables. The adherents of this theory are  afraid of admitting the existence, at so early a period,  of a form of contract so convenient and flexible  as the sponsio, and they also attach great weight to  the fact that no mention of sponsio occurs in our  fragments of the XII Tables. While it would  doubtless be an anachronism to ascribe to the early  1 L. L. VI. 7. 70. 2 Karsten, Stip. p. 42.     Digitized by Microsoft®     THEORIES AS TO ORIGIN OF SP0N810. 17   sponsio the actionability and breadth of scope which  it had in later times, still it may very well have  been sanctioned by religious law, in ways of which  nothing can be known unless the pontifical Com-  mentaries of Papirius' should some day be discovered.  As to the silence of the XII Tables on this  subject, we are told by Pomponius that they were  intended to define and reform the law rather than  to serve as a comprehensive code". Therefore they  may well have passed over a subject like sponsio  which was already regulated by the priesthood. Or,  if they did mention it, their provisions on the  subject may have been lost, like the provisions as to  iusiurandmn, which we know of only through a  casual remark of Cicero's '>-   The early date here attributed to the sponsio  cannot therefore be disproved by any such negative  evidence. Let us see how the case stands with  regard to the question of origin.   (a) The theory best known in England, owing  to its support by Sir H. Maine, is that sponsio was a  simplified form of nexum, in which the ceremonial  had fallen away and the nuncupatio had alone been  left^. This explanation is now so utterly obsolete  that it is not worth refuting, especially since Mr  Hunter's exhaustive criticism^ One fact which in  itself is utterly fatal to such a theory is that the  nuncupatio was an assertion requiring no reply".     1 Dion. III. 3(5. ^ 1 Dig- 2. 2. 4.   3 Off. m. 31. 111. * Maine, Anc. Law, p. 326.   5 Hunter, Bovian Law, p. 385. " Gai. ii. 24.   B. E. 2   Digitized by Microsoft®     18 CONTRACTS OF THE REGAL PERIOD.   whereas the essential thing about the sponsio was a  question coupled with an answer.   (6) Voigt follows Girtanner in maintaining that  spondere signified originally " to declare- one's will,"  and he vaguely ascribes the use of sponsiones in  the making of agreements to an ancient custom  existing at Rome as well as in Latium'. He agrees  with the view here expressed that the sponsio was  known prior to the XII Tables, but thinks that  before the XII Tables it was neither a contract  (which is strictly true if by contract we mean an  agreement enforceable by action), nor an act in the  law, and that its use as a contract began in the  fourth century as a result of Latin influenced In  another place' he expresses the opinion that its  introduction as a contract was due to legislation, and  most probably to the Lex Silia. The objections to ■  this view are (1) that the etymology is probably  wrong, and (2) that the inference drawn as to the  original meaning of spondere involves us in serious  diflSculties. An expression of the will can be made  by a formless declaration as well as by a formal one.  And if a formless agreement be a sponsio, as it must  be if sponsio means any declaration of the will,  how are we to explain the formal importance  attaching to the use of the particular words '' spon-  desne ? spondeo." (3) This view ignores the religious  nature of the sponsio, which I have endeavoured to  establish, and (4) it forgets that sponsio, being part  of the marriage ceremonial, one of the first subjects   1 Bom. EG. 1. p. 42. ' lb. p. 43.   3 lus Nat. §§ 33-4.     Digitized by Microsoft®     THEORIES AS TO ORIGIN OF SPONSIO. 19   to be regulated by the laws of Romulus \ is most  probably one of the oldest Roman institutions.  Again (5), as Esmarch has observed^ the legislative  origin of the sponsio is a very rash hypothesis. We  only know that the Lex Silia introduced an improved  procedure for matters which were already actionable,  and had a new formal contract been created by such  a definite act we should almost certainly have been  informed of this by the classical writers.   (c) Danz also derives sponsio from spans, the  vvill; but he takes spondere to mean sua sponte  iurare, and thinks that the original sponsio was  exactly the same as iusiurandum, i.e. nothing more  than an oath of a particular kind^. His chief argu-  ment for this view is to be found in Paulus Diaconus,  who gives consponsor = coniurator. But why need  we suppose that Paulus meant more than to give a  synonym ? in which case it by no means follows that  spondere = iurare. For such a statement as that we  have absolutely no authority. Moreover, as we saw  above, iusiurandum was a one-sided declaration on  the part of the promisor only. How then could the  sponsio, consisting as it did of question and answer,  have sprung from such a source ? especially since  the iusiurandum, though no longer armed with  a legal sanction, was still used as late as the days of  Plautus alongside of the sponsio and in complete  contrast to it ?   {d) Girtanner, in his reply to the "Sacrale  Schutz" of Danz^, maintains that sponsio had nothing   1 Dion. n. 25. ^ ^. y_ far q. u. R. W. ii. 516.   ^ Sacr. Schutz, p. 149. *' Ueber die Sponsio, p. 4 ft.   2—2   Digitized by Microsoft®     20 CONTRACTS OF THE REGAL PERIOD.   to do with an oath, but was a simple declaration of  the individual will, and that stipulatio had its origin  in the respect paid to Fides. This view however  is even less supported by evideiice than that of  Danz'. Arguing again from analogy Girtanner  thinks that, as the Roman people regulated its  affairs by expressing its will publicly in the Comitia,  so we may conjecture that individuals could validly  express their will in private affairs, in other words  could make a binding sponsio. But this, as well  as being a wrong analogy, is a misapprehension of a  leading principle of early Law. For, as we have  seen, no agreement resting simply upon the will of  the parties (i.e. pactwn) was valid without some  outward stamp being affixed to it, in the shape  of approval expressed by the gods or by the people.  In the language of the more modem law, we may  say that such approval, tacit or explicit, religious or  secular, was the original caiisa ciuilis which dis-  tinguished contractus from pactiones. Now a popular  vote in the Comitia bore the stamp of public  approval as plainly as did the nexum. But the  sponsio, requiring no witnesses, was clearly not  endorsed by the people ; therefore the endorsement  which it needed in order to become a contractus  iuris ciuilis must have been of a religious nature,  and that such was the case appears plainly if we  admit that sponsio originated in a religious cere-  monial such as I have described.   To recapitulate the view here given, we mav  conclude that sponsio was a primordial institution  1 See Windsoheid, K. Y. fiir G. u. R. W. i. 291.   Digitized by Microsoft®     GROWTH OP SPONSION 21   of the Roman and Latin peoples, which grew into its  later form through three stages, (a) It was originally  a sacrifice of wine annexed to a solemn compact of  alliance or of peace made under an oath to the gods.  (b) Next it became a sacrifice used as an appeal to  the gods in compacts not jtnade under oath such as  betrothals. Just as iusiurandum for many purposes  was sufficient without the pouring out of wine, so for  other purposes sponsio came to be sufficient without  the oath, (c) Lastly it became a verbal formula,  expressed in language implying the accompaniment  of a wine-sacrifice, but at the making of which no  sacrifice was ever actually performed. In this final  stage, which continued as late as the days of Justi-  nian,   Its form was a question put by the promisee,  and an answer given by the promisor, each using  the verb spondere. " Filiam mihi spondesne ? "  " Spondeo." " Centum dari spondes ? " " Spondeo."  Throughout its history this was a form which Roman  citizens alone could use, in which fact we clearly see  religious exclusiveness and a further proof of religious  origin. Why they used question and answer rather  than plain statement is a minor point the origin  of which no theory has yet accounted for. The  most plausible conjecture seems to be that the  recapitulation by the promisee was intended to  secure the complete understanding by the promisor  of the exact nature of his promise.   Its sanction in the early period of which we  are treating was doubtless imposed by the priests,  but owing to our almost complete ignorance of the   Digitized by Microsoft®     22 CONTRACTS OF THE REGAL PERIOD.   pontifical law we cannot tell what that sanction  was.   Having now examined the ways in which an  agreement could be made binding under religious  sanction, let us see how binding agreements could  be made with the approval of the community.  There is reason to believe that this secular class  of contracts is less ancient than the religious class,  because nexum, and mancipium were peculiar to the  Romans, whereas traces of iusiurandum and sponsio  are found, as Leist has shown, in other Aryan  civilizations'.   Art. 3. NEXVM. There is no more disputed sub-  ject in the whole history of Roman Law than the  origin and development of this one contract. Yet the  facts are simple, and though we cannot be sure that  every detail is accurate, we have enough information  to see clearly what the transaction was like as  a whole. We know that it was a negotium per aes  et libram, a weighing of raw copper or other  commodity measured by weight in the presence of  witnesses^; that the commodity so weighed was  a loan' ; and that default in the repayment of a loan  thus made exposed the borrower to bondage* and  savage punishment at the hands of the lender. We  know also that it existed as a loan before the XII  Tables, for it is mentioned in them as something  quite different from mancipivjn^. To assert, as Bech-  mann does, that since nexum included conveyance as   1 Alt Ar. I. Civ. !•" Abt. pp. 435-443.   2 Gai. III. 173. 3 Mucins in Varro, L. L. 7. 105.  " Varro, L. L. vi. 5. 5 Clark, B. E. L. § 22.   Digitized by Microsoft®     THEORIES AS TO ORIGIN OF NEXVM. 23   well as loan " mancipiuvique " must therefore be an  interpolation into the text of the XII Tables S is an  arbitrary and unnecessary conjecture. The etymology  of nexum and of mancipium shows that they were  distinct conceptions. Mancipium implies the transfer  of manus, ownership ; nexum implies the making of  a bond {cf. nectere, to bind), the precise equivalent  of obligatio in the later law. It is true that both  nexum and mancipium required the use of copper  and scales, to measure in one case the price, in the  other the amount of the loan. But this coincidence  by no means proves that the two transactions were  identical. A modem deed is used both for leases and  for conveyances of real property, yet that would be  a strange argument to prove that a lease and a  conveyance were originally the same thing. Here  however we are met by a difficulty. If, as some  hold " and as I have tried to prove, we must regard  mancipium as an institution of prehistoric times  distinct from the purely contractual nexum, how  are we to explain the fact that nexum is used  by Cicero' and by other classical writers' as equi-  valent to mancipium, or as a general term signifying  omne quod per aes et libram geritur, whether a loan,  a will, or a conveyance ? Now first we must notice  the fact that nexum had at any rate not always been  synonymous with mancipium, for if it had been so,  there could have been no doubt in the minds of   1 Kauf, p. 130. ^ Mommsen, Hint. 1. 11. p. 162 n.   3 ad Fam. 7. 30; de Or. 3. 40; Top. 5. 28; Farad. 5. 1. 35.; pro  Mur. 2.   * Boethius lib. 3 ad Top. 5. 28 ; Gallua Aelius in Festus, s.u.  nexum ; Manilius in Varro, L. L. 7. 105.   Digitized by Microsoft®     24 CONTRACTS OF THE REGAL PERIOD.   Scaeuola and Varro that a res nexa was the same  thing as a res mandpata. This Scaeuola and Varro  both deny, and we must remember that Mucins  Scaeuola was the Papinian of his day. ManiUus* on  the other hand, struck perhaps by the likeness in  form of the obsolete nexum to other still existing  iwgotia per aes et Ubram, seems to have made nexum  into a generic term for this whole class of trans-  actions. In this he was followed by Gallus Aelius'.  The new and wider meaning, given by them to that  which was a technical term at the period of the  XII Tables, apparently became general in literature,  partly for the very reason that nexum no longer had  an actual existence, partly because neon liberatio,  the old release of nexum, had been adopted by  custom as the proper form of release in matters  which had nothing to do with the original nexum,  namely in the release of judgment-debts and of  legacies per damnationem^. One pecuUarity men-  tioned by Gains in the release of such legacies  seems altogether fatal to the theory that mandpium  was but a species of the genus nexum. Gains says  that nexi liberatio could be used only for legacies of  things measured by weight. Such things were the  sole objects of the true nexum, whereas res mancijri  included land and cattle. Therefore if mandpivm  were only a species of nexum we should certainly  find nexi liberatio applying to legacies of res mandpi,  but this, as Gaius shows, was not the case.   The view that nexum was the parent gestum per   1 Varro, L. L. vii. 105. ' Festus, p. 165, s. u. nexum.   s Gai. III. 173-5.     Digitized by Microsoft®     NBXVM DISTINCT FROM MANCIPIVM. 25   aes et libram, and that mancipium was the name  given later to one particular form of nexum, is worth  examining at some length, because it is widely  accepted S and because it fundamentally affects our  opinion concerning the early history of an important  contract. Bechmann^ thinks it more reasonable to  suppose that nexum narrowed from a general to a  specific conception. But it is scarcely conceivable  that nexum should have had the vague generic  meaning of quodcumque per aes et libram geritur^  when it was still a living mode of contract, and the  technical meaning of obligatio per aes et libram  when such a contractual form no longer existed.  What seems far more likely is that nexum had a  technical meaning until it ceased to be practised  subsequently to the Lex Poetilia, and that its loose  meaning was introduced in the later Republic, partly  to denote the binding force of any contract*, partly  as a convenient expression for any transaction per  aes et libram'^. Even in Cicero we find the word  nexum used chiefly with a view to elegance of style"  in places where mandpatio would have been a  clumsy word and where' there could be no doubt as  to the real meaning. But when Cicero is writing  history, he uses nexum in its old technical sense and  actually tells us that it had become obsolete'.   1 See Beohmann, Kauf, i. p. 130 ; Clark, E. R. L. § 22.   2 lb. p. 131. " Varro, I. c. — Pestus, s.u. nexum.  ■» Cf. ''nexu uenditi " in Ulpian, 12 Dig. 6. 26. 7.   5 Cio. de Or. iii. 40. 159.   6 Har. Eesp. vii. 14; ad Fam. vii. 30. 2; Top. 5. 28.  ' As in pro Mur. 2; Parad. v. 1. 35.   8 de Rep. 2. 34 and cf. Liu. viii. 28. 1.   Digitized by Microsoft®     26 CONTRACTS OF THE REGAL PERIOD.   Rejecting then as untenable the notion that  neseum denoted a variety of transactions, let us  see how it originated. The most obvious way of  lending com or copper or any <other ponderable  commodity, was to weigh it out to the borrower,  who would naturally at the same time specify by  word of mouth the terms on which he accepted  the loan. In order to make the transaction binding,  an obvious precaution would be to call in witnesses,  or if the transaction took place, as it most likely  would, in the market-place, the mere publicity of the  loan would be enough. Thus it was, we may  believe, that a nexum was originally made. It was  a formless agreement necessarily accompanied by  the act of weighing and made under public super-  vision. It dealt only with commodities which could  be measured with the scales and weights, and did  not recognize the distinction between res mancipi  and res nee mancipi, — a strong argument that  neoeum and mancipium were, as above said, totally  distinct affairs. Its sanction lay in the acts of  violence which the creditor might see fit to commit  against the debtor, if payment was not performed  according to the terms of his agreement. Personal  violence was regulated by the XII Tables, in the  rules of manus iniectio, but before that time it is safe  to conjecture that any form of retaliation against the  person or property of the debtor was freely allowed.   The fixing of the number of witnesses at five',  which we find also in mancipium, is the only  modification of nexum that we know of prior to  ' Gai. III. 174.   Digitized by Microsoft®     FUNCTION OF NEXAL WITNESSES. 27   the XII Tables. Bekker^ suggests that this change  was one of the reforms of Seruius Tullius, and that  the five witnesses, by representing the five classes of  the Servian census, personified the whole people.  This is a mere conjecture, but a very plausible one.  For we are told by Dionysius^ that Seruius made  fifty enactments on the subject of Contract and  Crime, and in another passage of the same author',  we find an analogous case of a law which forbade the  exposure of a child except with the approval of five  ■ witnesses. But here a question has been raised as to  what the witnesses did. The correct answer, I  believe, is that given by Bechmann*, who maintains  that the witnesses approved the transaction as a  whole, and vouched for its being properly and fairly  performed. Huschke, on the other hand, claims that  the function of the witnesses was to superintend the  weighing of the copper, and that before the intro-  duction of coined money some such public supervision  was necessary in order to convert the raw copper  into a lawful medium of exchange^. This view  is part of Huschke's theory, that neosum had two  marked peculiarities: (1) it was a legal act per-  formed under public authority, and (2) it was the  recognised mode of measuring out copper money by  weight.   The first part of Huschke's theory may be  accepted without reserve, but the second part seems  quite untenable. We have no evidence to show  that neooum was confined to loans of money or of   1 Akt. I. 22 ff. 2 jy_ IS -J jj. 15.   * Kauf, I. p. 90. ^ Nex-um, p. 16 ff.   Digitized by Microsoft®     28 CONTRACTS OF THE REGAL PERIOD.   copper. Indeed we gather from a passage of Cicero  that far, corn, may have been the earliest object of  neooum', while Gains states that anything measurable  by weight could be dealt with by nexi solutio'. No  inference in favour of Huschke's theory can be  drawn from the name negotium per aes et lihram,  for this phrase obviously dates from the more recent  times when the ceremony had only a formal signifi-  cance, and when the aes {rauduscidum) was merely  struck against the scales. If then we reject the  second part of Huschke's theory, and admit, as ,  we certainly should, that nescum could deal with any  ponderable commodity, it is evident that his whole  view as to the function of the witnesses must  collapse also. The very notion of turning copper  from merchandise into legal tender is far too subtle  to have ever occurred to the minds of the early  Romans. As Bechmann* rightly remarks, the  original object of the State in making coin was  not to create an authorised medium of exchange,  but simply to warrant the weight and fineness of  the medium most generally used. The view of  Huschke seems therefore a complete anachronism.  There is also another interpretation of neivum  radically different from the one here advocated, and  formerly given by some authorities^ but which  has few if any supporters among modern jurists.  This view was founded upon a loosely expressed  remark of Varro's in which nexus is defined as   1 Cio. de Leg. Agr. ii. 30. 83. ^ in. 175. » Xauf, i. p. 87.  * See Sell, Soheurl, Niebuhr, Christiansen, Puohta, quoted in  Danz, BSm. RG. ii. 25.     Digitized by Microsoft®     NEXVM A LOAN BY WEIGHT. 29   a freeman who gives himself into slavery for a debt  which he owes\ The inference drawn from this  remark was that the debtor's body, not the creditor's  money, was the object of nexvm, and that a debtor  who sold himself by mancipium as a pledge for the  repayment of a loan was said to make a newum'K  Such a theory does not however harmonize with the  facts. The evidence is entirely opposed to it, for  Varro's statement, as will be seen later on, admits of  quite another meaning. Neither nexum nor Tnan-  cipium is ever found practised by a man upon  his own person. Nor could nexum have applied to a  debtor's person, for the idea of treating a debtor like  a res mmicipi or like a thing quod pundere numero  C07istat, is absurd. Again, if neccu/m = mancipium, the  conveyance of the debtor's body as a pledge must  have taken effect as soon as the money was lent,  therefore (1) by thus becoming nexus he must have  been in mancipio long before a default could occur,  which is too strange to be believed, and (2) being in  mancipio he must have been capita deminutus^, which  Quintilian expressly states that no nexal debtor ever  was*. Clearly then mancipium was under no cir-  cumstances a factor in nexum,.   Thus it would seem that the theory which  regards nexum as a loan of raw copper or other goods  measurable by weight, is the one beset with fewest  difficulties. Such goods correspond pretty nearly  to what in the later law were called res fungihiles.   1 Varro, L. L. vii. 105 and see page 52.   2 nexum inire, Liu. vii. 19. 5.   " Paul. Diao. p. 70, s. u. deminutus. * Decl. 311.   Digitized by Microsoft®     30 CONTRACTS OF THE REGAL PERIOD.   The borrower was not required to return the very  same thing, but an equal quantity of the same kind  of thing. And this explains why neancm, the first  genuine contract of the Eoman Law, should have  received such ample protection. A tool or a beast of  burden could be lent with but little risk, for either  could be easily identified ; but the loan of corn or of  metal would have been attended with very great  risk, had not the law been careful to ensure the  publicity of every such transaction. lusiurandum  or sponsio might no doubt have been used for  making loans, but they both lacked the great  advantage of accurate measurement, which necmm  owed to its public character. It was the presence of  witnesses which raised neocum from a formless loan  into a contract of loan.   This general sketch of the original neooum is  all that can be given with certainty. The details  of the picture cannot be filled in, unless we draw  upon our imagination. We do not know what verbal  agreement passed between the borrower and the  lender, though it is fairly certain that payment  of interest on the loan might be made a part of the  contract. We cannot even be quite sure whether the  scale-holder (libripens) was an official, as some have  suggested, or a mere assistants   Our description of the contract may then be  briefly recapitulated as follows:   The form consisted of the weighing out and  delivery to the borrower of goods measurable by  weight, in the presence of witnesses, (five in number,  ' See page 52.     Digitized by Microsoft®     EARLY FORM OF NEXVM. 31   probably since the time of Seruius Tullius), whose  attendance ensured the proper performance of the  ceremony. The ownership of the particular goods  passed to the borrower, who was merely bound to  return an equal quantity of the same kind of goods,  but the terms of each contract were approximately  fixed by a verbal agreement uttered at the time.   The sanction consisted of the violent measures  which the creditor might choose to take against a  defaulting debtor. Before the XII Tables there  .seems to have been no limit to the creditor's power  of punishment. Any violence against the debtor  was approved by custom and justified by the noto-  riety of the transaction, so that self-help was more  easily exercised and probably more severe in the case  of nexum than in that of any other agreement.   The release (neooi solutio) was a ceremony pre-  cisely similar to that of the neocum itself, the amount  of the loan being weighed and delivered to the lender,  in presence of witnesses '.   Art. 4. We have now examined three methods  by which a binding promise could be made in the  earliest period of the Roman Law. The next  question which confronts us is whether there existed  at that time any other method. The other forms of  contract, besides those already described, which are  found existing at the period of the XII Tables, were  fiducia, lex mancipi, uadimoniv/m, and dotis dictio.  Did any of these have their origin before this time ?  Fiducia is doubtful, and lex mancipi, as we shall  see, owed its existence to an important provision  1 Gai. III. 174.   Digitized by Microsoft®     32 CONTRACTS OF THE REGAL PERIOD.   of that code. As to the origin of uadimonium,  we cannot fee certain, but judging from a passage  in Gellius* we are almost forced to the conclusion  that uadimonium also was a creation of the XII  Tables. Gellius speaks of " uades et subuades et XX V  asses et taliones...omnisque ilia XII Tabularum  antiquitas." We know that twenty-five asses was the  fine imposed by the XII Tables for cutting down  another man's tree, therefore it would seem from the  context that uades had also been introduced by that  code. The point cannot be settled, but since the  XII Tables were at any rate the first enactments  on the subject of which anything is known, we may  discuss uadimonium in treating of the next period.  The only contract of which the remote antiquity is  beyond dispute is the dotis dictio.   Art. 0. DOTIS DICTIO. Dionysius^ informs us  that in the earliest times a dowry was given with  daughters on their marriage, and that if the father  could not afford this expense his clients were bound  to contribute. Hence it is clear not only that dos  existed from very early times, but that custom even  in remote antiquity had fenced it about with strict  rules. From Ulpian' we know that dos could be  bestowed either by dotis dictio, dotis promissio, or  dotis datio. The promissio was a promise by stipu-  lation, and the datio was the transfer by mancipation  or tradition of the property constituting the dowry ;  so that these two are easy to understand. But dotis  dictio is an obscure subject. It is diflBcult to know  whence it acquired its binding force as a contract,  1 xTi. 10. 8. 2 II. 10. 3 Reg. vi. 1.     Digitized by Microsoft®     THEORIES AS TO DOTIS DICTIO. 33   since in form it was unlike all other contracts  with which we are acquainted. Its antiquity is  evidenced not only by this peculiarity of form, but  also by a passage in the Theodosian Code which  speaks of dotis dictio as conforming with the ancient  law'. An illustration occurs in Terence^ where the  father says, "Dos, Pamphile, est decern talenta,"  and Pamphilus, the future son-in-law, replies,  " Accipio " ; but we need not conclude that the  transaction was always formal, for the above Code°,  in permitting the use of any form, seems rather  to be restating the old law than making a new  enactment. A further peculiarity, stated by Ulpian*  and by Gaius^ was that dotis dictio could be validly  used only by the bride, by her father or cognates on  the father's side, or by a debtor of the bride acting  with her authority. Dictio is a significant word, for  Ulpian'' distinguishes between dictum and promis-  sum, the former, he says, being a mere statement,  the latter a binding promise. This distinction should  doubtless be applied in the present case, since dotis  dictio and dotis promissio were clearly different.  The following theories seem to be erroneous :  (a) Von Meykow' holds that dictio was adopted  as a form of promise instead of sponsio for this family  affair of dos, in order not to hurt the feelings of the  biide and of her kinsmen by appearing to question  their bona fides. That theory would be a plausible  explanation, if dictio could ever have meant a   1 C. Th. 3. 12. 3. 2 And. 5. 4. 48. ■' 3. 13. 4.   * Reg. VI. 2. ^ Epit. ii. 9. 3. « 21 Dig. 1. 19.   ' Diet. d. Rom. Brautg. p. 5 ff.   B. E. 3   Digitized by Microsoft®     34 CONTRACTS OF THE REGAL PERIOD.   promise, but from what Ulpian says, this can hardly  be admitted.   (6) Bechmann^ again, connects dotis dictio with  the ceremony otsponsio at the betrothal of a daughter.  The dos, he thinks, was promised by a sponsio made  at the betrothal, so that the peculiar form known as  dotis dictio was originally nothing more than the  specification of a dowry already promised. The dotis  dictio would therefore have been at first a mere  pactum adiectam, which was made actionable in  later times, while still preserving its ancient form.  The objection to this theory is that it lacks evidence :  indeed the only passage (that of Terence) in which  dotis dictio is presented to us with a context goes to  show that this contract was in no way connected  with the act of betrothal.   (c) Another explanation is given by Czylharz^  i.e. that dotis dictio was a formal contract. His  view is based on the scholia attached to the  passage of Terence, which say of the bridegroom's  answer : " ille nisi diodsset ' accipio ' dos non esset."  Czylharz therefore looks upon the contract as an  inverted stipulation. The offer of a promise was  made by the promisor, and when accepted by the  promisee became a contract. Though such a process  is quite in harmony with modern notions of Contract,  it would have been a complete anomaly at Rome.  And we cannot believe that, if acceptance by the  promisee had been a necessary part of the dotis  dictio, we should not have been so informed by  Gaius, when he has been so careful to impress  1 ESm. Dotalrecht. 2 Abt. p. 103. 2 Z. f. B. G. vn. 243.     Digitized by Microsoft®     THEORY OF DANZ. 35   upon US that the dotis dictio could be made nulla  interrogatione praecedente. Thus the view of  Czylharz besides being in itself improbable is  almost entirely unsupported by evidence. Even the  scholiast on Terence need not necessarily mean that  " accipio " was an indispensable part of the trans-  action. He may merely have meant that the bride-  groom at this juncture could decline the proffered  dos if he chose, and this interpretation is borne out  by lulianus" and Marcellus^ who give formulae  of dotis dictio without any words of acceptance.   A satisfactory solution of the problem seems  to have been found by Danz'. He looks upon  dos as having been due from the father or male  ascendants of the bride as an officium, pietatis*,  and quotes passages from the classical writers in  which they speak of refusing to dower a sister  or a daughter as a most shameful thing'. The  source of the obligation lay in this relationship  to the bride, not in any binding effect of the dotis  dictio itself. But in order that the obligation might  be actionable its amount had to be fixed, and this  was just what the dictio accomplished. It was an  acknowledgment of the debt which custom had  decreed that the bride's family must pay to the  bridegroom. In this respect the dos was precisely  analogous to the debt of service which a freedman  owed as an officium to bis patron, and which he  acknowledged by the iurata operarum promissio. The  dos and the operae were both officia pietatis, but   1 23 Dig. 3. 44. ^ 23 Dig. 3. 59. ' Rom. BG. 1. 163.   ^ See 23 Dig. 3. 2. ' piaut. Trin. 3. 2. 63 ; Cic. Quint. 31. 98.   .3—2   Digitized by Microsoft®     36 CONTEACTS OF THE REGAL PERIOD.   it became customary to specify their nature and  their quantity. In the one case this was done by an  oath, in the other by a simple declaration, and in  both cases the law gave an action to protect these  anomalous forms of agreement. What kind of  action could be brought on a dotis dictio is not  known. Voigt^ states it to have been an actio  dictae dotis, for which he even gives the formula,  but formula and action are alike purely conjectural.  We can only infer that the dotis dictio was action-  able since it constituted a valid contract. How or  when this came to pass we cannot tell.   A further advantage of Danz' theory, and one not  mentioned by him, is that it explains the capacity  of the three classes of persons by whom alone dotis  dictio could be performed. (1) The father and male  ascendants of the bride were bound to provide a dos  under penalty of ignominia^ ; (2) the bride, if sui  iuris, was bound to contribute to the support of her  husband's household for exactly the same reason';  and (3) a debtor of the bride was bound to carry  out her orders with respect to her assets in his posses-  sion, and supposing her whole fortune to have con-  sisted of a debt due to her, it is evident that  a dotis dictio by the debtor was the only way in  which this fortune could be settled as a dos at all.  Thus the hypothesis that the dos was a debt  morally due from the father of the bride, or from  the bride herself, whenever a marriage took place,  completely explains the curious limitation with   1 XII Taf. II. § 123. 2 24 Dig. 3. 1. 3 Cio. Top. i. 23.   Digitized by Microsoft®     FORM OF DOTIS DICTIO. 37   regard to the parties who could perform dotis  dictio. The nature of the transaction may then be  summarized as follows :   Its form was an oral declaration on the part  of (1) the bride's father or male cognates, (2) of the  bride herself, or (3) of a debtor of the bride, setting  forth the nature and amount of the property which  he or she meant to bestow as dowry, and spoken  in the presence of the bridegroom. Land as well as  moveables could be settled in this manner'. No  particular formula was necessary. The bridegroom  might, if he liked, express himself satisfied with the  dos so specified ; but his acceptance does not seem  to have been an essential feature of the proceeding.  Most probably he did not have to speak at all.   Its sanction does not appear, though we may be  sure that there was some action to compel perform-  ance of the promise. This action, whatever it may  have been, could of course be brought by the bride's  husband against the maker of the dotis dictio.  Perhaps in the earliest times the sanction was a  purely religious one.   Art. 6. Now that we have seen the various  ways in which a binding contract could be made in  the earliest period of Eoman history, we may con-  sider briefly the general characteristics of that primi-  tive contractual system. The first striking point  is that all the contracts hitherto mentioned are  unilateral : the promisor alone was bound, and he  was not entitled, in virtue of the contract, to  any counterperformance on the part of the promisee.  1 Gai. Ep. 3. 9.   Digitized by Microsoft®     38 CONTRACTS OF THE REGAL PERIOD.   The second point is that the consent of the parties  was not sufficient to bind them. Over and above  that consent the agreement between them was  required to bear the stamp of popular or divine  approval. Even in dotis dictio, as we have just seen,  a simple declaration uttered by the promisor was  invested with the force of a contract merely because  the substance of that declaration was a transfer of  property approved and required by public opinion.  Thirdly we notice that the intention of the con-  tracting parties was verbally expressed, but that the  language employed was not originally of any impor-  tance (except in the one case of sponsio), provided the  intention was clearly conveyed. We must therefore  modify the statement so commonly made that the  earliest known contracts were couched in a particular  form of words. For how did each of these particular  forms originate and acquire the shape in which  we afterwards find it ? By having long been used  to express agreements which were binding though  their language was informal, and by having thus  gradually obtained a technical significance. Conse-  quently the formal stage was not the earliest stage  of Contract. The most primitive contract of all was  not an agreement clothed with a form, but an agree-  ment clothed with the approval of Church or  State.     Digitized by Microsoft®     CHAPTER III.   THE TWELVE TABLES.   Art. 1. The causes leading to the enactment  of the great Reform Bill known as the XII Tables  were chiefly social, and the indefinite state of the  law was the grievance which called most loudly  for a remedy. Contracts and conveyances were but  little respected, the powers of the nexal creditor  were sorely abused, and legal procedure in general  was most uncertain. Yet more than all else the law  of torts and crimes needed radical reform : so that  though we possess but few actual fragments of the  XII Tables we have enough to tell us that very  little space was devoted to reforms in the law  of Contract. This fact ought not to surprise us,  knowing as we do that commerce was still in a  very backward state.   We hear nothing of any provision in the  XII Tables with respect to sponsio, but we know  from Cicero that iusiurandwn was recognised and  enforced'. Botis dictio was not mentioned, so far  as we can discover. A new form, the lex mancipi,   1 Off. HI, 31. 111..  Digitized by Microsoft®     40 THE TWELVE TABLES.   was created by one provision of this code, though  its creation was not apparently intended by the  Decemvirs, but was rather the result of juristic  interpretation. Vadimoniitm,, a contract which we  have not yet examined, was either created or  considerably modified by the XII Tables, and con-  stituted the earliest form of suretyship.   As the hard condition of nexal debtors was one  of the evils which led most directly to the secession  of the plebs and to the consequent enactment of the  new code, we should naturally expect to find laws  passed for their protection. Accordingly it is with  nexum that the contractual clauses of the XII Tables  are principally concerned.   Art. 2. NEXVM. I. The first provision as to  this contract was embodied in the famous words  which Festus has transmitted to us: CVM nexym   FACIET MANCIPIVMQVE VTI LINGVA NVNCVPASSIT   ITA ivs ESTO^ This was equivalent to saying that  the language used by the party making a nexum  was to be strictly followed in determining what  his rights and liabilities should be. The fact that  such a declaratory law was needed discloses two  features of the primitive nexum. We can see  (1) that the act of weighing, not the words which  accompanied that act, was the essence of the original  transaction, so that the scales must have been  used actually, and not symbolically as they were  in later days : (2) that the terms of a nexal loan  must often have been disobeyed; if, for instance,   ' Festus, p. 171, s.u. nuncupata pecunia.     Digitized by Microsoft®     CHANGES IN NEXVM. 41   the debtor had agreed to pay at the end of one  year, it might happen that a harsh creditor would  enforce payment at the end of six months. This  shows that the people were not feared as witnesses  to the same extent as were the gods who presided  over msiurandum and sponsio. The fact of the  loan was proved beyond question by the witnesses  present, but there was evidently no sacred virtue in  the words which went with the loan, and these were  not therefore binding simply because spoken in the  people's hearing. This defect was what the XII  Tables aimed at correcting. They thenceforth  placed the verbal terms of nexum on as strong a  footing as the words of sponsio. Conditions as to  the amount of interest payable, the date of maturity  of the loan, the security to be given by the debtor,  could all now be inserted in the verbal nuncupatio.  And still more important was the fact that the sum  or amount of the loan itself could be verbally  announced at the ceremony, so that if the debtor  said " I hereby receive and am bound to repay  fifty asses," this speech was as binding upon him as  if the fifty asses had been actually weighed out to him  in copper. As long as the money or corn was really  weighed in the scales, nexum continued to be a  natural and material method of loan ; but when by  the introduction of coined money it became possible  to count instead of weighing a given quantity of  copper, then nexum tended to become an artificial  and symbolical operation. The reason obviously is  that counting is far more simple than weighing.  Thus when a loan of 100 asses was being made.   Digitized by Microsoft®     42 THE TWELVE TABLES.   it became customary to name this sum in the  nuncupatio without weighing it at all. The scales  and witnesses appeared as before, but the scales  were not used. The borrower, instead of taking 100  asses out of the scale-pan, simply struck it with a  piece of copper so as to conform with the outward  semblance of the transaction. Though the weighing  had been dispensed with, yet by this rule of the  XII Tables he was as much bound in the sum of  100 asses as though they had actually been weighed  out to him. Hence the important efifect of the  clause which I have quoted. Given a proper coinage  that clause transformed the loan of money into  a datio imaginana and the release of such a loan  into an imaginana solutio. The outward form of  neacum remained the same, but the actual process  was greatly simplified. This change was doubtless  not intended when the rule was made by the  Decemvirs. It was the result of a more or less  unconscious and probably gradual development.  The genuine weighing and the fictitious weighing  doubtless existed side by side. But it seems fairly  certain that the introduction of coined money was  another of the Decemviral reforms', and if so, we may  assume that nexum changed from a ceremony  perfoi-med with the scales into one performed with  copper and scales (negotium per aes et libram) not  long after the Decemviral legislation.   II. Another important provision relating to  nescum modified the harsh remedy hitherto appUed  by the creditor against the delinquent debtor.  1 Mommsen, Som. Munzw. p. 175.     Digitized by Microsoft®     RESTRICTIONS ON POWER OF CREDITOR. 43   The words of the XII Tables have been fortu-  nately preserved by Gellius', and run as follows:   AERIS CONFESSI REBVSQVE IVRE IVDICATIS XXX DIES  IVSTI SVNTO. POST DEINDE MANVS INIEGTIO ESTO.  IN IVS DVCITO. NI IVDICATVM FACIT AVT QVIS ENDO  EO IN IVRE VINDICIT SECVM DVCITO VINCITO AVT  NERVO AVT COMPEDIBVS XV PONDO NE MINORE AVT  SI VOLET MAIORE VINCITO. SI VOLET SVO VIVITO.  NI SVO VIVIT QVI EVM VINCTVM HABEBIT LIBRAS  FARRIS ENDO DIES DATO. SI VOLET PLVS DATO.   There are two knotty points in the above passage.  (1) What is the exact distinction between ac-  knowledged money debts {aes confessum) and judg-  ments obtained by regular process of Law (res iure  iudicatae) ? (2) To what class of delinquents did  the punishment apply ?   (1) It can hardly be doubted^ that aes con-  fessuTn included a debt contracted by nexum, as  well as any other kind of debt the existence of which  was not denied by the debtor. For example, a  debt incurred by formless agreement or by sponsio  would be an instance of aes confessum, provided  the debtor admitted his liability. But in nexum  this liability had already been admitted solemnly  and before witnesses; to deny the existence of a  nexal debt was impossible. Therefore aes confes-  sum seems to be a term quite applicable to a  debt contracted by nexum. The words aeris nexi  were probably not used in the context because  aeris confessi had a wider meaning, and this law   1 XX. 1. 43. ^ Ihering, G. d. R. B. i. 156, note.   Digitized by Microsoft®     44 THE TWELVE TABLES.   was apparently intended to cover much more than  the one case of nexal indebtedness.   The other class of debts here described as res  iure iudicatae are no donbt judgment-debts. Where  damages had been judicially awarded to one of the  parties to an action, some means had to be provided  of compelling payment from the other party. The  executive in those early times was too weak to  enforce its decisions, and self-help, as we have seen,  was the usual resource of aggrieved persons. The  only way in which the law could assist judgment  creditors was by declaring what extent of retalia-  tion they might lawfully take. And this brings us  to the second question :   (2) In what cases was the above mentioned  manus iniectio to be exercised ? Voigt^ remarks  that the XII Tables never mention manus iniectio  as being a means of punishing default in a case of  nexum. He then proceeds to state that the remedy  for nexum was an actio pecuniae nuncupatae. Not  only is this statement purely fanciful, as there is  no mention of actio pecimiae nuncupatae in any of  our authorities, but Voigt has surely ignored the  evidence before him. Admitting, as we must, that  nexum is included among the cases named at the  beginning of the above clause, we can scarcely  avoid the further conclusion long ago reached by  Huschke that the rest of the clause, with its 30  days of grace, manus iniectio, ductio in ius, and all  the consequences of disregarding the iudicatum, is a  description of the punishment to which a breach of  1 XII Taf, I. 169.     Digitized by Microsoft®     JUDICIAL RECOGNITION OF NEXVM. 45   nexum might lead, as well as of that annexed to the  other kinds of aes confessum and to res iure iudi-  catae. The whole clause is one continuous state-  ment, and to hold that the latter part of it, beginning  at Ni IVDICATVM FACIT, provides a penalty solely  for the case of judgment-debts, seems a very  strained and unnatural interpretation. Why ex-  plain iudicatum as referring only to judgment  indebtedness ? Just before it in the text we find  the direction IN ivs DVCITO, so that a nexal debtor  after manus iniectio evidently had to be brought  into court. The precaution was probably a new  restraint upon the violence of creditors, in order  that the justice of their claims and the propriety of  manus iniectio might be judicially determined. But  if a judge had to pronounce upon the validity of  such proceedings, surely his decree might be de-  scribed by the term iudicatum, as found in the  above passage. It is no answer to say that the  nature of aes confessum precludes the possibility of  a judicial decision, and that therefore iudicatum  can only refer to a res iure iudicata, that is, a  judgment-debt. For in spite of this alleged dis-  tinction we find here that debtors of aes confessum  and judgment-debtors were treated in exactly the  same way. Each of them was at first seized by his  creditor and brought into court. Now why should  this have been necessary in the case of a iudicatus  more than in that of a nexus 1 For a judgment-  debt seems to need judicial recognition just as  little as a nexal debt. And yet we find that ductio  in ius was prescribed in both cases. The only     Digitized by Microsoft®     46 THE TWELVE TABLES.   rational way of explaining the difficulty, seems  to he to take iudicatum in the sense not of a  judgment-debt but of a judicial decree, and to  translate the passage as follows: "Let the creditor  bring the debtor into court. Unless the debtor  obeys the decree of the court or finds meanwhile  a champion of his cause^ in the court, let the  creditor lead him off into private custody, and  fetter him" etc. etc. Thus the ductio in ius, the  iudicatum, the domum ductio, and the directions as  to the right kind of fetters and the proper quantity  of food, must all have applied equally to aes con-  fessum (including nexum) and to res iure iudicatae.  This view is confirmed by the passage in which  Livy '^ describes the abolition of the severe penalties  of nexum,. The bill by which this was done or-  dained, so Livy tells us, " nequis, nisi qui noxam  meruisset, donee poenam lueret, in convpedibus aut in  neruo teneretur . . .ita nexi soluti, cautumque in pos-  teru/m ne necterentur." This law, the Lex Poetilia,  was evidently passed for the relief of nexi, and  relief was given by abolishing the use of compedes  et neruum. Now as this was the very description of  fetters given by the XII Tables in our text, it  seems certain that the language of the Lex Poetilia  referred to this clause of the Decemviral Code.  Hence it follows that the punishment provided by  this code was nexum, which is the view already  deduced from the words of the XII Tables them-  selves. The contrary interpretation, which is there-   1 PestuB, p. 376, s.u. uindex. ^ viii. 28.     Digitized by Microsoft®     FURTHER RESTRICTIONS. 47   fore probably erroneous, has strong supporters in  Muirhead^ and Voigt^   But even though a iudicatum was thus necessary  in order to permit the nexal creditor to lead off his  debtor into custody, we may agree with Muirhead that  the preliminary manus iniectio was within the power  of the nexal creditor without any judicial proceed-  ings. The nexum being a public transaction, a debt  thereby contracted was so notorious as to justify  summary procedure. Before the XII Tables, when  self-help was subject to no regulations that we  can discover, this summary procedure could be  carried to all lengths in the way of severity and  cruelty. But when the XII Tables had interposed  the ductio in ius for the protection of nexal debtors,  no other precaution against injustice was needful,  and a preliminary trial before the manus iniectio  would have been so superfluous that we cannot  believe it to have ever been required.   The elaborate provisions for the punishment of  debtors did not end with the text which has come  down to us and which has been quoted above.  The substance, though not the actual wording, of  the remainder of the law has fortunately been  preserved by Gellius'. As far as our text goes,  the proceedings consist of (1) manus iniectio, the  arrest or seizure of the debtor by the creditor;  (2) ductio in ius, the bringing of the debtor into  court, that is, before the praetor or consid ; (3) iudi-  catum, a decree of the praetor recognising the  creditor's claim as just and the proceedings as  ' B. L. p. 158. ^ XII Taf. i. 629. ' xx. 1. 45-52.     Digitized by Microsoft®     48 THE TWELVE TABLES.   properly taken. At this stage a uindex may step  in on the debtor's behalf. What was the exact  nature of his intervention we cannot know, but from  Festus' definition he seems to have been a friend of  the debtor, who denied the justice of his arrest and  stood up in his defence. By the XII Tables he had  to be of the same class as the debtor whom he  defended^ and if his assertions proved to be false he  was liable to a heavy fine^. If on the other hand  his defence was satisfactory to the Court, further  proceedings were doubtless stayed. But if no satis-  faction was given either by the uindex or by the  debtor, then (4) the creditor was entitled to lead  home his debtor in bondage, though not in slavery,  and to bind him with cords or with shackles of not  less than 15 lbs. weight. Meanwhile the law as-  sumed that the debtor would prefer to live upon his  own resources. This shows that a nexal debtor was  not always a bankrupt, and that it must often have  been the will and not the power to pay which was  wanting in his case. As there existed in those days  no means of attaching a man's property, the only  alternative was to attach his person. If however  the debtor was really a ruined man and could not  afford to support himself, the law bade the creditor  to feed him on the barest diet by giving him a pound  of corn a day, or more at the creditor's option.   Here our textual information leaves off and we   have to depend on Gellius' account. He says^   that this stage of domum duetto and uinctio lasted   sixty days, and that during that period a com-   ' Gell. XVI. 10. 5. 2 Festus, s. u. uindex. ' xx. 1. 46.     Digitized by Microsoft®     THEORIES AS TO NEXAL PENALTY. 49   promise might be arranged which would stay further  proceedings. Meanwhile (5) on three successive  nundinae, or market-days, the debtor had to be  brought into the comitiuni before the praetor, and  there the amount of his debt was publicly pro-  claimed. This was a second precaution intended to  protect the debtor by giving thorough publicity to  the whole affair. At last (6) on the third market-  day, and at the expiration of the sixty days, the full  measure of punishment was meted out to the un-  fortunate delinquent: he was addictus^ by the praetor  to his creditor, and thus passed from temporary  detention into permanent slavery.   The extreme penalty is said by Gellius to have  been either death or foreign slavery, and the words  in which the former was enacted are given by him  as follows: Tertiis nvndinis partis secanto. Si   PLVS MINVSVE SECVERVNT SE FRAVDE ESTO. The   meaning of these words has been much disputed,  for ever since the beginning of the century many  attempts have been made to soften their literal  sense. We should a priori translate them thus :  " On the third market-day let the creditors cut up  and divide the debtor's body. If any should cut  more or less than his proper share, let him not  suffer on that account." That this is how the  ancients understood the passage, we know from the  testimony of Gellius, Quintilian^ and Tertullian^  But Gellius and Dio Cassius, though they had no  doubts as to the meaning of the law, both say that   1 Gell. XX. 1. 51. ^ Inst. or. iii. 6. 64. ^ Apol. 4.   B. E. 4   Digitized by Microsoft®     50 THE TWELVE TABLES.   this barbarous practice of cutting a debtor in pieces  was never carried out, so far as they knew, even in  ancient times'. The law was therefore practically a  dead letter. Some commentators, whose views are  ably summed up by Muirhead'', make the most  of this admission, and hold that the interpretation  of "partis secanto" should be entirely different.  They regard the division of the debtor's body  between the creditors as too shocking a practice  to have ever existed at Rome, and they take  Secare to refer (as in the later phrase bonorwm sectio)  to a sale and division of the debtor's property.  In the event of his property being insuflScient  to cover the debt, the debtor would then, as  Gellius informs us, be sold into slavery "beyond  the Tiber." The objections to this theory have  been well pointed out by Niebuhr^. Not only is it  opposed to all the ancient authorities, who knew at  least the traditional meaning of the XII Tables as  handed down to them through many generations,  but it also conflicts with a well recognised principle  of early Law. That principle was that the goods of  a debtor were not responsible for his debts. His  person might be made to suffer, but his property  could not be touched. As we have seen, it was by  no means unusual for a nexal debtor to support  himself while in bondage. This can only be ex-  plained on the supposition that neither his property  nor his earnings were attachable by the creditor.  It is this exemption of property which accounts for '   > Gell. XX. 1. 52. Dio Cass, fragm. 17. 8.   2 R. Law, p. 208—9. ^ B. G. i. 630.     Digitized by Microsoft®     EXTREME PENALTY WAS DEATH. 51   the severity of the nexal penalties. Now a sale and  partition of the debtor's goods would have been  quite inconsistent with the whole system of personal  execution so plainly set before us in the rest of the  law, whereas the killing of the debtor was but a  fitting climax to his cruel fate. The inhumanity of  the proceeding is not likely to have been perceived by  men who tolerated such barbarities as the lex talionis  and the killing of a son by his paterfamilias. When  our classical authorities express their astonishment  at the cruelty of the law, we must remember that  they lived in a gentler age, in which the powers  even of the paterfamilias were much curtailed ; and  when they confess that they never knew of an  instance in which the law was literally executed, we  may discount their testimony by recollecting that  the nexal penalties of the XII Tables were abolished  centuries before they wrote.   Comparative jurisprudence furnishes another  argument in favour of accepting the literal sense of  the phrase "partis secanto." Kohler^ has collected  from different quarters various instances of customs  which closely correspond with this harsh treatment  of the Roman debtor. Unless therefore we dis-  regard analogy, probability, and the whole of the  classical evidence, we must clearly take the words  literally and understand that the creditor could  choose between selling his debtor into slavery  "beyond the Tiber," or putting him to death.  In the latter case, if there were more than one   ' Shakesp. v. dem Forum der Jurisp.   4—2  Digitized by Microsoft®     52 THE TWELVE TABLES.   creditor, they might cut up the body and each  carry off a piece.   III. There is a third clause of the XII Tables  in which neim/m. is mentioned, but it does not alter  the form of the contract. As far as we can make  out, it simply declares that certain persons mys-  teriously described as forcti et sanates shall have  an equal right to the advantages of neaymn\   IV. Lastly there is a clause of the XII Tables  intended to secure truthful testimony, that most  essential safeguard to Tieocum: Qui SE SIEEIT tes-   TARIER LIBRIPENSVE PVERIT NI TESTIMONIVM FATI-  ATVR IMPROBVS INTESTABILISQVE ESTO. That is,   whoever had been testis or libripens at the perform-  ance of a nexum or mancipiwm was bound to give  his testimony as to the fact of the transaction  or as to its terms under penalty of permanent  disqualification. This passage goes to show what  we also gather from other authorities ^ that the  libripens was a mere witness and not as some  have supposed a public official. The phrase "qui  libripens fuerit" would imply that any citizen might  fill the position ; and since we find that the libripens  was treated like any other witness it seems clear  that he could not have been a public personage.   We are now able to understand the meaning of  Varro's remark : " liber qui suas operas in seruitutem  pro pecwnia quam debet dat dum solueret nexus  uocatur." This merely means that a man who  had contracted a neooum, if unable to repay the   ^ See Pestus s. u. sanates, Bruns Font. p. 364.  2 Gai. II. 107 ; Ulp. Eeg. xx. 7.     Digitized by Microsoft®     RESULTS OF LEGISLATION. 53   loan and therefore subject to an addictio, was  obliged to serve like a slave, and retained the  epithet of nexus till the debt was paid.   On the whole then the legislation of the XII  Tables produced two results:   (1) By increasing the importance of the verbal  part of the ceremony it increased the flexibility of  the contract, and eventually changed it from a real  into a symbolical transaction. The culminating  point of the change was reached when the money  constituting the loan was not weighed out, but  merely named in the nuncupatio, while the borrower  struck the scale-pan with a piece of copper.   (2) By fixing certain limits to the violence of  the creditor it softened the hardships endured by  the nexal debtor. Though the extreme penalty of  death was finally permitted, yet this could not be  inflicted till the debtor had had many opportunities  and ample time to clear himself   The formula of neooum having now acquired  great importance, its wording was doubtless soon  reduced to a definite shape running somewhat as  follows : " Quod ego tibi M lihras hoc aere aeneaque  libra dedi, eas tu 7nihi...post annum... cum semissario  foenore. . .dare damnas esto." This is the formula  adopted by Huschke^ and modified by Rudorff.  The words "damnas esto" appear to be wrongly  rejected by Voigt, who disregards the analogy of  the solutio though that seems our safest guide.   The formula of nsad solutio is given by Gaius^ as  follows, though Karlowa's reading differs consider-  1 Nexum, p. 49, etc. ^ iii. 174.   Digitized by Microsoft®     54 THE TWELVE TABLES.   ably from that of Huschke: "Quod ego tihi tot  mill'ihus condemmatus sum, me eo nomine a te soluo  ' liberoque hoc aere aeneaque libra: hanc tibi libram  primam postremximque expendo secunduTn legem pvh-  licam."   Art. 3. The XII Tables did not, as far as we  know, contain any clauses affecting sponsio or dotis  dictio. The existence of those forms at such an  early period has to be inferred from other sources,  and we have seen that there is reason to assert  their great antiquity, which the silence of the  XII Tables cannot disprove. lusiurandum is known  to have been approved by the XII Tables', but to  what extent we cannot tell. We may therefore  at once proceed to examine one of the most impor-  tant innovations of the decemviral Code, namely  the contract which despite its ambiguous name is  known as the lex mancipi.   Art. 4. Lex mancipi. This form, as its  name indicates, was a covenant annexed to the  transaction known as mandpiMm (later as mMnd-  patio). Let us see first what mancipium was.  Ulpian^ says that it was the mode of transferring  property in res mancipi. Gains describes its use  shortly as a fictitious sale', "imaginaria uenditio,"  and states that it could only be performed between  Roman citizens, and applied only to res mancipi*.  He describes the ceremony thus : — The parties meet  in the presence of five witnesses and of a person  (called libripens), who holds a pair of scales. The   1 Cic. Off. III. 31 and see above, p. 39. ^ Beg. xix. 3.   8 I. 113. ■> I. 119-20.     Digitized by Microsoft®     ORIGIN OF THE LEX MANCIPI. 55   object of the transfer Gaius supposes to be a  slave. The alienor remains passive, but the alienee,  grasping the slave, solemnly declares aloud that  he owns him by right of purchase ; then he strikes  the scales with a piece of copper, and hands the  piece to the alienor as a symbol of the price paid.  Such is our meagre evidence as to the nature  of mandpium. On this slender foundation of fact  a vast amount of controversial theory has been  heaped up. One certainty alone can be deduced  from the evidence, that Tnancipium was not origi-  nally a general mode of conveyance, as Gaius and  XJlpian found it in their day, but that it began  by being a genuine sale for cash, in which the price  paid by the alienee was weighed in the scales and  handed over to the alienor. The nuncupatio, or  declaration made by the alienee, was merely explana-  tory of his right of ownership, while the grasping of  the object by the alienee and the acceptance of the  price by the alienor were no doubt originally the  essential elements in the transfer. The words spoken  by the alienee probably had at first no more binding  effect than the words of the borrower in nexum. We  may be sure that in such a state of the law disputes  would often arise as to the terms of the sale. And  it was probably to prevent such disputes that the  XII Tables made their famous rule: CVM NExyM   FAOIET MANCIPIVMQVE VTI LINGVA NVNGVPASSIT ITA   IVS ESTO. The extraordinary emphasis (not nuncu-  passit but lingua mmcupassit) which is here laid on  the verbal part of the ceremony is very striking.  Bechmann rightly argues that it would be wrong to   Digitized by Microsoft®     56 THE TWELVE TABLES.   take this rule as referring only to the leges mandpi,  but it would seem that it was to the language as  ' distinct from the acts used in the ceremony that  the XII Tables meant to give force and validity.  The legal results which followed from seizing the  object of sale in the presence of witnesses, and  from weighing out the price to the seller, had  long since been thoroughly well recognised. What  the XII Tables now introduced was the recog-  nition of the oral statement which accompanied  those outward acts. We can hardly accept the  sense which Bechmann has given to these words^.  He notes the contrast between words and acts which  is implied in the phrase lingua nuncupassit, but he  thinks that the object of the rule was to reconcile  the language of the transaction with its real nature.  His view is based on the assumption that even  before the XII Tables mancipium had changed from  a genuine into a fictitious sale. In other words  he assumes that while the alienee professed to buy  the object with money weighed in the scales, he  really weighed no money, but simply handed to the  alienor a piece of copper, "quasi pretii loco." In  fact the imaginaria uenditio of classical times was,  according to Bechmann^, already in vogue. The  purpose of the XII Tables was therefore to confirm  this change, by declaring that the words and not the  acts of the parties should henceforth have legal  effect. It was as if this law said : " Pay no attention  to the acts of the alienee, but listen to his oral  statement. He merely delivers a piece of copper,  1 Kauf, I. p. 197. ■■' lb. p. 167.     Digitized by Microsoft®     CHANGES IN MANCIPIUM. 57   but do not imagine that this is the whole price due.  In his declaration, the alienee states that the price  is such and such. Let that be considered the real  price of the object, and let the outward ceremony be  regarded as a mere fiction." All this appears to be  a very far-fetched interpretation of lingua nuTwupassit,  and the assumption on which Bechmann has based  it seems unwarranted, for two reasons :   (1) We do not know that mancipium had  already turned into an imaginaria uenditio. There  is not one shred of evidence to prove that such a  change had occurred before the XII Tables. So far  indeed from preceding the XII Tables, the change  would seem to have been directly caused by them.  Until coin was introduced the weighing of the  purchase-money was clearly necessary. If, as there  is good reason to believe, coinage was first instituted  by the Decemvirs^, the actual weighing must have  continued till their time. If on the other hand we  suppose that coined money was a much older  institution (Cornelius Nepos de uir. ill. 7. 8. attri-  butes its invention to Seruius Tullius), so that the  actual weighing had long been dispensed with, man-  cipium could still not have been an imaginaria  uenditio, because   (2) We can imagine no way in which a sale on  credit could have been practised before the XII  Tables. How could a vendor have permitted his  property to be conveyed to a purchaser for a nominal  and fictitious price, when the nuncupatio was as yet  devoid of legal force ? After the uti lingua nuncu-  ' See above, p. 42.   Digitized by Microsoft®     58 THE TWELVE TABLES.   passit of the XII Tables the nuncupatio doubtless  specified the exact amount of the purchase-money,  and this the alienor might lawfully claim. Moreover  before the Decemviral reforms mancipium would  have transferred full ownership to the purchaser,  and the seller might have clamoured in vain for his  money, unless he had previously taken security by  means of vxidvmoniwm or sponsio. For since a well  known provision of the XII Tables' was that no  property should pass in things sold till the purchase-  money was either paid or secured, we are bound to  infer that before this the very reverse was the case/  and that property did pass even when the price had  not been paid. Such having been the early law,  how can we hold, as Bechmann does^, that the cash  payment of the purchase-money was frequently not  required, though the forms of weighing etc. were  carried out in the original manner ? He urges' that  credit, not cash, must often have been employed,  because we caimot reasonably suppose that cash  payment was possible in every case. But the force  of this argument is weakened by the fact that  mancipation was only practised to a limited extent.  Tradition was the most ordinary mode of transfer  employed in every-day life. And in a solemn affair  such as mancipium, where five witnesses and a  scale-holder had to be summoned before anything  could be done, it cannot have been a great hardship  for the purchaser to be obliged to bring his purchase-  money and weigh it on the spot. Instead of credit  purchases having been usual before the XII Tables,  1 2 Inst. 1. 41. , 2 j[^uf, I. p. 160. s ib. p. 1S8.     Digitized by Microsoft®     STATUTOPY OEIGIN OP LEX MANCIPI. 59   it seems likely that the XII Tables virtually intro-  duced them. For by enacting that no property  should pass until the price was paid or secured to  the vendor, the Decemvirs made it possible for the  conveyance and the payment of the price to be  separately performed. Mancipium was thus made to  resemble in one respect a modern deed. The vendor  who has executed a deed, before receiving the  purchase-money, has a vendor's lien upon the  property for the amount of the price still owing to  him ; and similarly the mancipio dans who had not  received the full price, retained his ownership of the  property until that full price was paid to him, or  security given for its payment.   We may therefore reject Bechmann's idea that  the words lingua nuncupassit referred principally  to the fixing of price in the nuncupatio. They  simply gave legal force to the solemn oral state-  ment made in the course of mancipium. On the  one hand they bound the seller to abide by the  price named, and to deliver the object of sale in the  condition specified by the buyer. On the other  hand they compelled the buyer to pay the full  price stated in the nuncupatio, and to carry out all  such terms of the sale as were therein expressed.  In short, every lex mancipi embodied in the 7iun-  cupatio became henceforth a binding contract.   It is natural to inquire next what kind of   agreement might constitute a lex mancipi. The   nwncupatio placed by Gaius^ in the mouth of the   purchaser runs thus: " Hunc ego hominem ex iure   I 1. 119.   Digitized by Microsoft®     60 THE TWELVE TABLES.   Quiritium meum esse aio, isque mihi emtus esto hoc  aere aeneaqiie libra." To this might no doubt be  annexed various qualifications, and these were the  leges in question. Voigt' indeed considers that  these leges might contain every conceivable pro-  vision, but Bechmann seems to come nearer to the  truth in stating that no provision conflicting with  the original conception of mancipiwm as a sale for  cash could be inserted in the nuncupatio. For  instance, Papinian states that no suspensive con-  dition could be introduced into the formula of  mancipiwm^. The reason of this obviously was that  suspensive conditions are inconsistent with the  notion of a cash sale. The purchaser could not  take the object as his own and then qualify this  proceeding by a condition rendering the ownership  doubtful, A resolutive condition was also out of the  question, for when the mancipium had transferred  the ownership and the price was paid, it would have  been absurd to say that the occurrence of some  future event would rescind the sale. The transfer  was in theory instantaneous, so that future events  could not affect it.   The following then are a few cases in which the  lex mancipi could or could not be properly used:   (a) The creation of an usufruct by reservation  could be thus made', and the formula is given to us  by Paulus : " Emtus mihi esto pretio dedvxito usu-  frtijctu*."   (b) Property could thereby be warranted free   1 XII Taf. II. 469. ^ y^t. Frag. 329.   3 Vat. Frag. 47. * Vat. Frag. 50.     Digitized by Microsoft®     USES OF LEX MANCIPI. 61   from all servitudes by the addition to the nuncupatio  of the words "uti optimus matvimiisque sit^." The  means by which the vendor was punished if the  property failed to reach this standard of excellence  will be presently examined.   (c) The contents and description of landed  property might be inserted in the nuncupatio, and if  they were so inserted the vendor was bound to  furnish as much as was agreed upon. Failing this,  the deceived purchaser, so Paulus tells us^ could  bring against the vendor an actio de modo agri,  which entailed damages in duplum.   (d) The accessories of the thing sold, destined  to be passed by the same conveyance, would also  doubtless be mentioned.   (e) We might naturally have supposed that  the quality of slaves or of cattle could have been  described just as well as the content of an estate.  Cicero says : " cum ex XII Tabulis satis erat ea  praestari quue essent lingua nuncupata^," as though  descriptions of all kinds might be given in the  nuncupatio. Nevertheless Bechmann* has shown  that such was not the case, inasmuch as we find no  traces of any action grounded upon a false description  of quality. The only actions which we find to  protect mancipium are the actio auctoritatis and the  actio de modo agri. There is no authority for  supposing, as Voigt does^ that the actio de modo  agri was not a technical but a loose term used by  Paulus. According to Voigt, there was an action   1 18 Dig. 1. 59. ^ Sent. i. 19. 1. ^ Off. iii. 16. 65.   « Eauf, I. p. 249. ^ XII Taf. 120.     Digitized by Microsoft®     62 THE TWELVE TABLES.   (the name of which has perished) to enforce all the  terms of a nuncupatio of whatever kind. The so-  called actio de modo agri would then have been only  a variety of this general action. This theory is  inadmissible: for in making his solemn list of  the actiones in dztpZwm ^Paulus would hardly have  used the clumsy phrase actio de modo agri, if there  had been a comprehensive term including that  very thing. Consequently, the description of slaves  or cattle in the nuncwpatio does not seem to have  been in practice allowed. The greater protection  thus afforded to a purchaser of land than to one  of other res mancipi may probably be explained by  the fact that land was not and could not be con-  veyed inter praesentes, whereas oxen or slaves could  be brought to the scene of the mancipiwrn and their  purchaser could see exactly what he was buying.   (/) Provisions as to credit and payment  by instalment might also be embodied as leges in  the nwncupatio. This has been denied by Bechmann",  Keller', and Ihering', but their reasons seem far from  convincing. We may indeed fully admit their view  for the period prior to the XII Tables, since there  was then no coinage, and mancipium was an absolute  conveyance of ownership. But when coinage had  been introduced, when mancipium was capable of  transferring dominium only after payment of the  price, and when the oral part of mancipium had  received legal validity from the XII Tables, the  whole situation was changed.   1 Sent. I. 19. 1. 2 j^auf, i. p. 42. 3 Imt. 33.   •> Geist d. R. R., ii. 530.     Digitized by Microsoft®     ORIGIN OF CREDIT IN MANCIPIUM. 63   If it be said that credit is inconsistent with the  notion of mancipium as an unconditional cash transac-  tion, we may reply that this exceptional lex was  clearly authorised by the XII Tables, since its use is  implied in the legislative change above mentioned'.  If it be urged that no action can be found to enforce  any such lex, the obvious answer is that no action  was needed, inasmuch as the ownership did not vest  in the vendee till the vendor's claims were satisfied,  and therefore if the vendee never paid at all the  vendor's simple remedy was to recover his property  by a rei uindicatio. Nor is there much force in the  argument that clauses providing for credit would  have been out of place in the nuncupatio because  inconsistent with the formula " Hanc rem meam esse  aio, mihique emta esto." On the one hand it is  probably a mistake to suppose that this fixed form  was always used, for the expression uti lingua  nuncupassit seems clearly to imply that the oral part  of mancipium and nexum was to be framed so as  best to express the intentions of the parties, and the  same conclusion may be drawn from the comparison  of the formulae of mancipatio given in Gains I On  the other hand, admitting that " hanc rem meam esse  aio, etc." was a necessary part of the nuncupatio, it  must have been used in mancipations made on  credit, which by the XII Tables could not convey  immediate ownership, and the existence of which in  classical times no one denies. We are forced then  to conclude either that "hanc rem meam esse aio"  was not the phrase used at a sale on credit, or else  1 2 Inst. 1. 41 and see p. 58. '■' i. 119 and ii. 104.   Digitized by Microsoft®     64 THE TWELVE TABLES.   that it became so far a stereotyped form of words  that it could be used not only in its literal sense  but also as applying to credit transactions which the  Decemviral Code so clearly contemplated. It is  indeed inconceivable that if the price was, as every  one admits, specified in the mmcupatio, the terms of  payment should not have been specified also.   It is worth while to notice how the legal  conception of mandpium was indirectly altered by  the XII Tables. That very important clause which  prevented the transfer of ownership in things sold,  until a full equivalent was furnished by the vendee^,  had the effect of separating the two elements of  which mancipimn consisted. Delivery of the wares  and receipt of the price had at first been simul-  taneous ; they now could be effected singly. Thus  mancipium became a mere conveyance, and after a  while, as was natural, the notion of sale almost  completely disappeared, so that mancipium came to  be what it was in Gains' system, the universal mode  of alienating res mancipi.   The lex mancipi, as we have now considered it,  was an integral part of the formula of viancipium  which the vendee or alienee solemnly uttered.  Gains and Ulpian give us no hint that the vendor or  alienor played any part beyond receiving the price  fi:om the other party. But was this really so ?  Could the vendee have known how to word his  formula if the vendor had remained altogether  silent ? We have therefore to enquire next  (1) what share the vendor took in framing the   1 2 Inst. 1. 41.     Digitized by Microsoft®     THE vendor's dicta. 65   leges mancipi, and (2) how the lex mancipi was  enforced against him.   1. The part played by the vendor is denoted  in many passages of the Digest^ by the word  dicere. In others the word praedicere^ or commemo-  rare^ expresses the same idea, and we find that the  vendor sometimes made a written and sealed decla-  ration^. The object of such dicta was to describe  the property about to be sold^ and they necessarily  preceded the mancipium, or actual conveyance. They  were thus no part of the mancipatory ceremonial and  were quite distinct from the nuncupatio uttered by  the vendee, which explains their not being mentioned  by Gaius in his account of mancipatio^. It is to such  dicta that Cicero doubtless alludes', when he says  that by the XII Tables the vendor was bound to  furnish only "quae essent lingua nimcupata" but  that in course of time " a iureconsultis etiam reticen-  tiae poena est constituta." The reticentia here  mentioned was evidently not that of the vendee,  but was a concealment by the vendor of some defect  in the object which he wished to sell, and hence  this passage is useful as showing the contrast  between nuncupatio and dictu/m. The former might  repeat the statements contained in the latter, thus  turning them into true leges mancipi, and this ex-  plains the fact that lex mancipi (or in the Digest  lex uenditionis^), is sometimes used in the secondary   1 e.g. 21 Big. 1. 33, and 18 Dig. 1. 59.   2 19 Dig. 1. 21. fr. 1. » 19 Dig. 1. 41. * 19 Dig. 1. 13. fr. 6.  5 19 Dig. 1. 6. fr. 4. « i. 119.   =■ Off. III. 16. 8 19 Dig. 1. 17. fr. 6.   B. E. 5,   Digitized by Microsoft®     6,6 THE TWELVE TABLES.   sense of the vendor's dictum, as well as with the  primary meaning of the vendee's nwncupatio. The  leges embodied in the nuncupatio were thus binding  on the vendor, whereas his dictum was at first of no  legal importance. But in course of time the dicta  Came also to be regulated, and though their terms  were not formal and were never required to be  identical with those of the nwncupatio, yet it was  essential that the vendor in making them should  not conceal any serious defects in the property. The  dictum itself produced no obligation ; that could only  be created by incorporating the dictum, into the nun-  cupatio. The only function of dictum seems to have  been to exempt the vendor from responsibility and  from all suspicion of fraud. This is well illustrated  by a case to which Cicero' refers, where Gratidianus  the vendor had failed to mention, " nominatim dicere  in lege mancipi " (here used in the secondary sense),  some defect in a house which he was selling, and  Cicero remarks that in his opinion Gratidianus was  bound to make up to the vendee any loss occasioned  by his silence. Bechmann^ questions whether the  action brought against Gratidianus was the ocii'o  eniti or the actio auotoritatis. But from the way in  which Cicero speaks, it seems almost certain that he  had been trying to bring a new breach of bona fides  under the operation of the actio emti, and had not been  pleading in a case of actio auctoritatis, which would  scarcely have been open to such freedom of inter-  pretation. We cannot therefore agree with Bech-  mann that dicta not embodied in the nv/ncupatio  1 Or. 1. 89. 178. 2 Kauf, i. p. 257.     Digitized by Microsoft®     NVNCVPATIO AND DIOTIO DISTINGUISHED. 67   could be treated as nuncupata and made the ground  for an actio auctoritatis, though we know that in  later times they could be enforced by the actio emti.  The distinction between the formal nuncupata and  the informal dicta was never lost sight of, so far as  we can discover from any of our authorities, nor is  dictum ever said to have been actionable until long  after the actio emti was introduced. The matters  contained in the dicta of the vendor were descrip-  tions : (i) of fixtures or of property passing with an  estate', (ii) of servitudes to which an estate was  subject^, (iii) of servitudes enjoyed by the estate^. It  is noticeable that these are all mere statements of  fact and that they exactly agree with the definition  given by Ulpian*, who expressly excludes from dictum  the idea of a binding promise. Thus the distinction  between nuncujpatio and dictio may be briefly sum-  marized as follows :   Nwmupatio belonged only to mancipium,, whereas  dictio might appear in sales of res nee mancipi as well  as in mancipatory sales ^.   Nuncupatio was a solemn and binding formula;  dictio was formless and, until the introduction of the  actio emti, not binding.   Nuncupatio, as we have seen, did not touch  upon the quality of the thing sold, whereas dictio  might give, and eventually was bound to give, full  information on this point.   We must notice in conclusion what Bechmann   1 19 Big. 1. 26. = 21 Big. 2. 69. fr. 5.   3 Cio. Or. I. 39. 179. * 21 Big. 1. 19.   « 19 Big. 1. 6.   5—2   Digitized by Microsoft®     68 THE TWELVE TABLES.   has pointed out\ that lex, besides meaning a condi-  tion embodied in a sale or mancipation, signified  also a general statement of the terms of a sale or  hire. This sense occurs in Varro", Vitruvius', Cicero*  &c., and should be borne in mind, in order to avoid  confusion and to understand such passages correctly.   2. The methods by which the true leges nuneit-  patae could be enforced were two :   (a) Actio de modo agri. Of this we only know  that it aimed at recovering double damages from the  vendor who had inserted in the nuncupatio false state-  ments as to the acreage of the land conveyed^   (6) Actio auctoritatis (so called by modern civil-  ians'). This was an action to enforce auctoritas, an  obligation created by the XII Tables', whereby the  vendor who had executed a mancipatory conveyance  was bound to support the vendee against all persons  evicting him or claiming a paramount title. Auctor  apparently means one who supplies the want of legal  power in another, and thereby assists him to maintain  his rights. It is so used in tutela, of the guardian  who gives auctoritas to the legal acts of his ward.  In the present case, auctor means one who makes  good another man's claim of title by defending it;  and this explains why the obligation of auctoritas  varied in duration according to the nature of the  thing sold. Thus if the thing was a moveable (e.g.  an ox) the auctoritas of the vendor lasted only one  year, since the usucapio of the vendee made it un-   1 Eauf, I. p. 265. 2 £. ^ vi. 74. » i. 1. 10.   « Part. or. 31. 107. ^ Leuel, Z. d. Sav. Stift. E. A. in. 190.   s Lenel, Ed. perp. p. 424. ' Cic. Gaec. 19. 54.   Digitized by Microsoft®     SOURCE OF AV0T0RITA8. 69   necessary after that time. But if the thing sold was  land, usucapio could not, by the XII Tables, take  place in less than two years, and the avctoritas was  prolonged accordingly ^ The penalty for an un-  successful assertion of auctoritas was a sum equal  to twice the price paid^. This shows that at the  date of the XII Tables, as we have seen, mancipium  was still a genuine sale and involved the payment  of the full cash price. The same conclusion may  be drawn from Paulus' express statement that unless  the purchase money had been received no auctoritas  was incurred. This last rule was a logical sequence  of the enactment that no property vested until  payment was fully made, since it was impossible  that the vendee should need the protection of an  auctor before he had himself acquired title.   The question has been much debated whether  this liability of a vendor to defend his purchaser's  title arose ipso iure out of the mancipation, or  whether it was the product of a special agreement.  The latter view is held by Karlowa^, and Ihering*,  but the weight of evidence against it seems to be  overwhelming^   (a) Paulus* expressly states that warranty of  title was given in sales of res nee maiicipi by the  stipulatio duplae, but existed ipso iure in sales by  mancipation.   (6) Varro' says that if a slave is not conveyed   1 Cio. Top. i. 23. 2 Paul. Sent. ii. 17. 2-3.   3 L. A. 75. * Geist des R. R. m. 540.   5 See Girard, in N. E. H. de D. 1882. (6me Annge) p. 180.   6 Sent. II. 17. 1-3. ^ R. R. ii. 10. 5.   Digitized by Microsoft®     70 THE TWELVE TABLES.   by mancipation, his purchaser's title should be  protected by means of a. stipulatio smvplae uel duplae,  thus implying that in cases of mancipation such a  step was unnecessary.   (c) In recommending forms for contracts of  sale, Varro advises the use of the stipulatio in sales  of res nee mancipi'^, but gives no such advice and  mentions no stipulatory warranty in the case of res  mancipi.   (d) We find that there were two ways in which  the vendor could escape the liability of aitctoritas;  either (i) he could refuse to mancipate^, or (ii) he  could have a merely nominal price inserted in the  nuncupatio (the real price being a matter of private  understanding between him and the vendee), so that  the penalty for failing to appear as auctor would be a  negligible quantity. This we actually find in a man-  cipatio HS nummo uno, of which an inscription has  preserved the terms' where the object in mentioning  so small a sum must have been to minimise the  poena dupli in case the purchaser M'as evicted. Both  these expedients to avoid liability are absolutely  fatal to the theory of a special nwncupdtio as the  source of auctoritas. In short from all this evidence  we must conclude that after the enactment of  the XII Tables mandpium contained an implied  warranty of the vendee's title.   The origin of the heavy penalty for failing to  uphold successfully a purchaser's title has also been  much debated. Bechmann'' attributes its severity to   1 R. E. n. 2. 6, and 3. 8. " Plant. Pers. 4. 3. S7.   » Bruns, Font: 251. * Kauf, i. p. 121.     Digitized by Microsoft®     ORIGIN OF PENALTY IN AYCTOBITAS. 71   a desire to punish the vendor who had suffered his  vendee to say "hanc rem meam esse aio," when he  knew that such was not the case. But this would  have been to punish the vendor for reticentia, which  was not done till much later times, as we know from  Cicero; and moreover as we cannot be sure that  the phrase " hanc rem meam esse aio " was invariably  used in mancipium^, this view of Bechmann's comes  too near to the theory of the nuncupative origin of  auctoritas, not to mention the fact that it fails to  explain why the penalty was duphmi instead of sim-  plum. The best theory is probably that of Ihering-,  who sees in the poena dupli a form of the penalty  for furtum nee manifestum. It may be true, as  Girard has pointed out', that the actio auctoritatis  was not an actio furti in every respect. The sale of  land to which the seller has no good title lacks the  great characteristic of furtum, that of being com-  mitted inuito domino, since the real owner of the land  may often be entirely ignorant of the transaction.  Still it is plaia that the conscious keeping and selling  of what one knows to be another man's property is  a kind of theft ; and, in that primitive condition of  the law, it may have been thought unnecessary to  impose different penalties on the hona fide vendor  whose trespass was unconscious, and on the vendor who  was intentionally fraudulent. This poena dupli can  hardly be explained as a poena infttiationis, for if  such, would not Paulus have been sure to mention  it among his other instances of the latter penalty* ?   i See above, p. 63. ^ Geist des R. R. in. 229.   ' loc. eit. p. 216. " Paul. Sent. i. 19. 1.   Digitized by Microsoft®     72 THE TAVELVE TABLES.   Auctoritas had to be supplied by the vendor  whenever any third person, within the statutory  period of one or two years, attacked the ownership of  the vendee by a m uindicatio, or by a uindioatio  libertatis causa if the thing sold was a slave, or by  any other assertion of paramount title. Bechmann  seems to be right in holding that the warranty of  title also extended to all real servitudes enjoyed  by the property, and to any other accessiones which  had been incorporated in the nwncwpatio. To attack  the vendee's claim in that respect was to attack  a part of the res mancipata. Hence actio avctori-  tatis was the remedy mentioned above' in connection  with the true leges mancipi, and we may hold with  Bechmann and Girard" that the actio auctoritatis  and the actio de modo agri were the only available  methods of punishment for the non-fulfilment of a  lex mancipi.   How the vendor was brought into court as  aioctor is a question not easy to answer. But in  Cicero ° we find an action described as being in  auctorem praesentem, and apparently opening with  the formula : " Quando in iure te conspicio, quaero  anne fias auctor." The opening words do not lead us  to suppose that the vendor had been summoned, but  rather that he had casually come into court. This  formula was probably uttered by the judge*, in every  case of eviction, before the inauguration of the actio  avxytoritatis, in order to give the defendant an oppor-  tunity of answering and so of avoiding the charge.   ' See above p. 61. ^ loc. cit. p. 203.   3 Gaec. 19. 64 ; Mm: 12. 26. < Lenel, Ed. Perp. p, 427.     Digitized by Microsoft®     FUNCTION OF THE AVOTOR. 73   If no answer was made to this question, the  vendor was held to have defaulted, and the vendee  might properly proceed to bring his actio auctori-  tatis for punitive damages. But supposing that the  ■aiictor duly appeared to defend his vendee, what  were his duties ? It is not probable that he took  the place of the vendee as defendant, because the  word auctor does not seem to imply this, and because  the vendor having conveyed away all his rights had  no longer any interest in the property. The most  probable solution seems to be that which regards  the auctor simply as an indispensable witness. In  the XII Tables we know^ what severe penalties were  laid upon a witness who did not appear, as well as  upon one who bore false testimony. Now an atictor  who appeared but failed to prove his case was  clearly a false witness, while one who failed to  appear was an absconding witness. This was pro-  bably an additional reason for the severe punishment  inflicted on the auctor by the XII Tables. Thus  "the ingenious supposition of Voigt'', that the vendor  cannot possibly have incurred so heavy a penalty by  mere silent acquiescence in the nuncupatio of the  vendee, and must therefore have made a nuncupatio  of his own in which he repeated the words used by  the vendee, seems to be purely gratuitous as well  as wholly unsupported by evidence.   The last question to be considered is this: did   •auctoritas apply solely to the warranty of things   alienated by mancipium, or did it also apply to   things alienated by in iure cessio ? An answer in   1 See above p. 52. » XII Taf. ii. 120.   Digitized by Microsoft®     74 THE TWELVE TABLES.   the broader sense is given by Huschke^ who cites  Gaius^ as proving that mancipatio and in iure  cessio had identical effects. But this is at best a  loose statement of Gaius', and cannot prevail against  the stronger evidence which goes to prove that  auctoritas was a feature peculiar to mancipmm^  Bekker' points out that in iure cessio cannot have  produced the obligation of auctoritas, because the in  iure cedcTis took no part in the proceedings beyond  making default, and could not therefore have made  deceptive representations rendering him in any way  responsible. In iure cessio must then have been  from its very nature a conveyance without war-  ranty, and Paulus confirms this inference by stating*  that the three requisites of auctoritas were (i) man-  cipatio, (ii) payment of the price, (iii) delivery of  the res.   We may then sum up the foregoing remarks by  defining lex mancipi and auctoritas as follows :   Lex mancipi in its primary meaning, was a  clause forming part of the mmcupatio spoken by the  vendee in the course of mancipiimi, and constituting  a binding contract. It might embody descriptions  of quantity, specifications of servitudes whether  active or passive, conditions as to payment, and any  other provisions not conflicting with the original  conception of mancipium as a cash sale.   In its secondary meaning, which we must care-  fully distinguish, it referred to the dicta made by  the vendor.   ' Nexum, p. 9. ^ li. 22.   s Akt. I. p. 33, note 10. * Sent. ii. 17. 1-3.     Digitized by Microsoft®     THEORIES AS TO FIDVOIA. 75   Thirdly, we even find it applied to the terms  of sale as a whole, including nuncupatio, dicta, and  any other private agreement between the parties  respecting the sale.   The two means of enforcing leos mancipi in the  first sense were actio de modo agri and actio auc-  toritatis.   Auctoritas was an implied warranty of title intro-  duced by the XII Tables into every mancipatory con-  veyance, subject to the condition precedent that the  vendee must have received the goods and paid the  price. If the vendee was evicted, his proper remedy  was the actio auctoritatis (most probably an instance  of legis actio Sacramento'^), the object of which was  to recover punitive damages of double the amount of  the price paid, and which could be brought against  the vendor within two years, if the object sold  was an immoveable, and within one year, if a  moveable.   Since the lew mancipi is often credited with a  still wider function, we are next brought to consider  the agreement known as fidticia.   Art. 5. FIDVCIA. This agreement is thought by  many scholars to have been a species of lex mancipi,  and consequently a creation of the XII Tables.  Among those who thus regard fiducia as an agree-  ment contained in the nuncupatio are Huschke^,  Voigt', Eudorfif* and Moyle'. The first writer of  any weight who disputed the correctness of this view   1 Girard, I.e. p. 207. ^ Nexum, pp. 76, 117.   s XII Taf. II. 477. * Z. fur EG. xi. 52.   5 App. 2 to his ed. of the Inst.   Digitized by Microsoft®     76 THE ITVEtVE TABLES.   was Ihering^, and he has now been followed by Bek-  ker", Bechmami', and Degenkolb*. The view held by  these writers would seem to be the only tenable one.  They assert that fiducia never was a part of manci-  pium, but was simply an ancillary agreement tacked  on to mancipium and couched in no specific form.  The arguments againsb the former theory are :   (1) That fiducia might exist in cases of in iure  cessio as well as in cases of mancipium. Now in  iure cessio gave no opportunity for the introduction  of nuncupative contract. How then could a nuncu-  patio containing a fiducia have been introduced  among the formalities of the uindicatio ?   (2) We know that the actio fiduciae was bonae  fidei, and ionae fidei actions were of comparatively  late introduction ; how then is this fact to be  reconciled with the theory which derives fiducia from  the nuncupatio of the XII Tables ? Voigt" states that  the actio fidiuiiae was but one form of the ordinary  action on a lex mxmcipi (it must be remembered  that he regards every lex mancipi as having been  actionable), but he gives no explanation of the  surprising fact that fiducia alone of all the species of  lex mancipi should have been provided with an actio  bonae fidei.   (3) If we admit, as we have done', that the  only actions based upon mancipium are the actio  auxitoritatis and the actio de modo agri, how can  the actio fiduciae be classed with either ?   1 Geist des R. R. ii. p. S56. = Akt. i. 124.   3 Kauf, i. p. 287. « Z. fur RG. ix. p. 171.   " XII Taf. II. p. 475. « supra, p. 68.     Digitized by Microsoft®     THE FWVOIAE INSTBVMBNTVM. 77   (4) The strongest piece of evidence which we  possess in favour of Ihering's theory has appeared  since he wrote. It consists of a bronze tablet in-  scribed with the terms of a pactum fiduciae^ which  Degenkolb" has carefully criticised and which seems  to be conclusive in favour of our view. It contains,  not a copy of the words used in mancipation, but a  report of the substance of a fiduciary transaction.  The mancipation is said to have taken place first,  fidi fiduciae causa, and then the terms of the fiducia  are said to have been arranged in a pactum conuen-  tum between the parties, Titius and Baianus. It is  evident from the language of the tablet that this  fiduciary compact was independent of the mancipatio  and informally expressed, so that any attempt, such as  those made by Huschke and Rudorff, to reconstruct  the formula of fiducia, and to fit such a formula into  the nuncupatio of mancipium, is necessarily futile.  Voigt' has even taken pains to give us the language  used in the arbitrimn by which, according to him,  fiducia was enforced. This bold restoration is a good  instance of Voigt's method of supplementing history,  but it cannot be said materially to advance our  knowledge.   We are nowhere told that fiducia could not be  applied to cases of traditio, and a priori there  is no reason why this should not have been the  case. Yet all our instances of its use connect it  solely with mancipatio or in iure cessio*, and all the   1 Printed in C. I. L. No. 5042 and Bruns, Font. p. 251.   2 Z. filr EG. IX. pp. 117—179. '' XII Taf. ii. p. 480.   * Isid. Orig. v. 25. 23 ; Gai. ii. 59 ; Boeth. ad Gic. Top. iv. 10, 41.     Digitized by Microsoft®     78 THE TWELVE TABLES.   modem authorities, except Muther', are agreed in  thus limiting its scope. If indeed we could extend  fiducia to cases of traditio, it would be very hard to  see why there should not have been a contractibs  fiduciae as well as a contraxitus cotnmodati, depositi or  pignoris. We know from Gains' that fiducia was  often practised with exactly the same purpose as  pignut or depositum, and we may reasonably infer  that it was the presence of mancipaiio or in iure  cessio which caused the transaction to be described,  not as pigrms or depositum, but as fiducia. If we  admit that fiducia was never connected with traditio,  we can readily see why it never became a distinct  contract. Bechmann' points out that in iure cessio  or mancipatio was naturally regarded as the prin-  cipal feature in such transactions as adoptions,  emancipations, coemtiones, etc. The solemn transfer  of ownership was in all these cases so prominent,  that fiducia was always regarded as a mere pactum  adiectum.   If then we cannot admit fiducia to any higher  rank than that of a formless pactum, it follows that  the actio fiduciae, being borme fidei, and therefore  most unlikely to have existed at the period of the  XII Tables, must have originated many years later  than fidvMa itself, which as a modification of  mancipatio probably dated from remote antiquity;  This may serve as an excuse for discussing ^tfcia in  this place, although the XII Tables do not actually  mention it. But it must have existed soon after  that legislation, since it was the only mode of accom-   1 Sequestration, p. 337. " ii. 60. s Kauf, i. p. 293.     Digitized by Microsoft®     ARGUMENT FROM VSVBECEPTIO. 79   plishing the emancipation of a filiusfamilias as based  upon the XII Tables.   The theory that fiducia originated long before  the actio fiduciae is corroborated by the account  which Gaius gives' of the peculiar form of usucapio  called usureceptio. This was the method by which  the former owner of property which had been man-  cipated or ceded by him subject to a fiducia could  recover his ownership by one year's uninterrupted  possession. It diflfered from ordinary usucapio only  in the fact that the trespass was deliberate, and that  immoveable as well as moveable things could be thus  reacquired in one year instead of in two. This  peculiarity as to the time involved may perhaps be  explained by supposing that the objects of fiducia  were originally persons and therefore res mobiles, or  else consisted of whole estates which, like hereditates,  would rank in the interpretation of the XII Tables as  ceterae res. Now ii fiducia had been incorporated, as  some think, in the formula oi mancipium, and had been  actionable by means of an actio fiduciae based on the  lex mancipi, could not the owner have recovered the  value of his property by bringing this action, instead  of having been forced to abide the tedious and doubtful  result of a whole year's possession ? The fact noted  by Gaius that where no money was paid no usureceptio  was necessary, simply follows from the well-known rule  that an in iure cedens as well as a mancipio dans did  not lose his dominium until the price had been fully  paid to him. We may therefore conclude that man-  cipatio fiduciae causa resembled in its effect any  1 II. 59-60.     Digitized by Microsoft®     80 THE TWELVE TABLES.   other mancipatio. If this be the case, then fduda,  as we have already said, must for many years have  been an informal and non-actionable pactum, sup-  ported by fides and by nothing else. Bechmann  holds that' the object of the fiduciary mancipation  was expressed in the nuncupatio by the insertion of  the words fidi fiduciae causa, but this is a minor  point which it is impossible to determine with  certainty.   Fiducia then may be briefly described as a  formless pactum, adiectwm, annexed to Tmrndpatio or  in iure cessio, but not originally enforceable by action,  and therefore having no claim at this early date to  be considered as a contract.   Art. 6. VADIMONIVM is a contract which we  know to have been mentioned and perhaps intro-  duced by the XII Tables^. Gellius, however, speaks  of the ancient uades' as having completely passed  away in his time, so that in the opinion of Karlowa*  we can scarcely hope to discover the original form  of the institution. The most thorough inquiry into  the question is that made by Voigt', who has treated  the authorities and sources with the minutest care,  but whose conclusions do not always seem to be well  founded.   Let us first examine the essence of the trans-  action, a point as to which there is no doubt.  Vas meant a surety, and uadimonium the contract  by which the surety bound himself. Thus uadem   1 Kauf, I. p. 294. " Gell. xvi. 10. 8.   » ibid. * L.A. p. 324.   ^ Phil. Hist. Abhandl. der k. S. Ges. d. Wiss. viii. 299.     Digitized by Microsoft®     NATURE OF VADIMOS'irM. 81   poscere^ meant to require a surety, vadem dare to  provide a surety, uadem accipere to take a man  as surety for another man^, and uadari either to give  surety or to be a surety*. From the point of view  of the principal (uadimonium dans) uadimonium  sistere meant to appear in due course ^ uadimonium  deserere, to make default, while uadivionium differre  meant to postpone the obligation which the ims had  undertaken. The penalty for nonperformance was  the payment (depen^io) by the uas of the sum pro-  mised by his principal, who however was bound to  repay him**. There might be more than one uas,  and Voigt is probably right in stating that the  svbuas was a surety for the performance of the  obligation by the original uas''.   There were two kinds of luidimonium, (i) that  which secured the performance of some contract';  (ii) that which secured the appearance of the party  in court, =bail'. Under the first of these heads  Voigt places the satisdatio secundum mancipium  which is found in the Baetic Fiduciae Instrumentumi  as well as in Cicero", but whether or not this satis-  datio was given in the form of a uadimonium must  remain undetermined ; though, if it had been so  given, we might perhaps have expected Cicero to  use the technical phrase.   1 Cio. Rep. II. 36. 61; Var. L. L. vi. 8. 74.   ' Cio. Fin. ii. 24. 79. ^ Cic. Brut. i. 18. 3.   " Prise. Gram. i. 820. ^ Cic. Quint. 8. 29.   6 Cic. ad Brut. i. 18. 3. ; Plaut. Bud. 3. 4. 72.   ' I. c. p. 307. ^ Varro, L. L. vi. 7. 71.   » Cio. Off. IV. 10. 45. " ad Att. v. 1. 2.   B. E. 6   Digitized by Microsoft®     82 " THE TWELVE TABLES.   Next comes the question, in what form was  uadimonium origiQally made ?   The verbal nature of the primitive contract seems  to be proved by the passages that Voigt quotes^  while he also completely denrolishes the old view  which regarded uadimonium as having always been  a kind of stipulation, and points out Varro's^ ex-  press statement that uas and sponsor were not the  same thing. On the other hand it is plain that  uadimonium had come by Cicero's time to denote  a mere variety of the stipulation, a fact which may  be gathered from his language' and that of Varro*,  as well as from the frequent use of promittere in  passages describiag the contract. The later aspect  of uadimonium, need not however detain us, and  we may occupy ourselves solely with its primitive  form.   (a) Leist seems to think that both uadi-  monium and praediatura were binding, like the  spon^sio, in virtue of a sacred " word-pledge," or in  other words that " Vas sum" " Praes swm'' had a  formal value analogous to that of " Spondeo." This  view he bases on the etymology of vms, praes and  their cognates in the Aryan languages, but an ex-  amination of Pott^ Curtius' and Dernburg' serves  to show how entirely obscure that etymology is. If  we cannot be sure whether uas is derived from fari,   1 Gic. ad Qu. fr. ii. 15. 3. ; Ovid, Am. i. 12. 23 : uadimmia  garrula; etc.   a L. L. VI. 7. 71. 3 Q„int. 7. 29. * loc. cit.   6 Etymol. Forsch. iv. p. 612. « Civ. Stud. iv. 188.   ' Pfdr. I. 27..     Digitized by Microsoft®     PRIMITIVE FOEM OF VADIMONIVM. 83   to speak, uadere, to go, or from an Indo-Germanic  root meaning to bind, it is clearly impossible to  build any theory on so iasecure a foundation. More-  over, whatever the true etymology of uas may  ultimately be proved to be, we can find in the above  derivations no suggestion of a binding religious  significance such as we discover in sponsio.   (b) Voigt boldly assumes a knowledge of the  ancient ceremony, and assigns- to the iwtdimonium  connected with the sale of a farm the following  formula : " Ilium fundum qua de re agitur tihi habere  recte licere, haec sic recte fieri, et si ita faMum non  erit, turn x aeris tihi dare promitto." This is not  only purely imaginary, like many of Voigt 's recon-  structed formulae, but the unilateral form in which  it is expressed has no justification from historical  sources. The scope of promittis? promitto in a  stipulation is well established, but how can pro-  mitto in an unilateral declaration have had any  binding effect ? Voigt justifies his view by a com-  parison with dotis dictio and iurata operarum pro-  missio'^, but in both of these there was, as we have  seen, a binding power behind the verbal declaration.  The word promitto alone could never have produced  the desired effect, unless we admit the principle laid  down by Voigt^ that an unilateral promise was suffi-  cient to create a binding obligation, which is merely  to beg the question. If indeed we take promittere in  its ordinary sense, we cannot doubt that uadimonium  in Cicero's time was contracted by sponsio or stipu-   1 loc. cit. p. 315. ' lusNat. in. 178.   6—2   Digitized by Microsoft®     84 THE TWELVE TABLES.   latio, but on the other hand it is equally certain that  the ancient uadimonium, whatever it was, disappeared  soon after the Lex Aebutia.   The old form known to the Decemvirs cannot  then be stated with the absolute certainty which  Voigt seems to assume, but we may hazard one  theory as to its nature which appears not im-  probable, or at least far less so than that of an  unilateral promissio. Gains' tells us that there  were several ways of making uadimonia, and that  one of them was the ancient method of iusiurandwm.  That this was an exceptional method is proved by  our rarely finding it in use^ and its adoption is  almost inconceivable, except in the earliest times  when the oath was fairly common as a mode of  contract. We may be sure that the old uadimonium  was embodied in some particular form of words, else  it is hard to imagine how the penalty could have  been specified. But if so, and if we exclude sponsio,  as we are bound to do, what form of words could  have had such binding force as an oath ? The rarity  of this oath in Gellius' time may have induced him  to state that it had quite disappeared', while Gaius  may have mentioned it in order to make his list  of vadimonia complete.   Further, on examining the remedies for a breach  of iitsiurandum*, we find that self-help was resorted  to, just as it was in cases of neooum. And when  self-help began to be restrained by law, the natural     ' IV. 185. 2 e.g. 2 Dig. 8. 16.   3 See above p. 32. « See above p. 11.     Digitized by Microsoft®     POSSIBLE USE OF IV8IVRANDVU. 85   substitute would have been manus iniectio. Now  there is good reason to believe that the early  iwbdimonium was enforced by the legis actio per  maniis iniectionem'^, and as Karlowa rightly says^, we  cannot imagine such a severe penalty to have been  entailed by an ordinary sponsio. lusiurandum, on  the contrary, may easily have had this peculiarity,  since it is the only form of verbal contract which  we know to have been protected by means of self-  help.   Again, nanus iniectio seems to have been employed  not only by the principal against the uas, but also  by the uas against the principal. When Gaius states  that sponsores were authorized by a Lex Puhlilia  to proceed by manus iniectio against a principal  on whose behalf they had spent money (depensum),  he seems to show that facts and circumstances  were sometimes recognized as a source of legal  obligation. But we are bound to reject this ex-  planation, since no obligation ex re was recognized  until much later in the Roman jurisprudence. It  is far more likely that, as Muirhead suggests^, the  Lex Puhlilia merely extended to sponsores the  remedy already available to nodes; so that sponsio  became armed with the manus iniectio simply on  the analogy of its older brother uadimonium. The  theory here put forward as to the early form of  uadim.oniu/ni must remain a pure conjecture in the  absence of positive evidence; but its connection  with iusiurandum is at least a possibility.   1 Karlowa, L. A. p. 325 : Voigt, XII Taf. ii. 495.   2 L. A. p. 324. 3 R. L. p. 166.   Digitized by Microsoft®     86 THE TWELVE TABLES.   This vexed question may then be summed up as  follows :   (i) In the legal system of the XII Tables  uadimonium was a contract of suretyship, possibly  entered into by iusiurandwm, and probably entailing  manus iniectio, (a) if the surety (uas) failed to fulfil  his obligation, or (b) if the principal (uadimonium  dans) failed to refund to his surety any money  expended on his behalf   (ii) In later times uadimonium was clothed  in the ordinary sponsio and its old form had  completely disappeared.   Art. 7. There are a few other fragmentary  provisions in the XII Tables, which relate to  contracts and require a brief notice.   I. Paulus^ speaks of an actio in duplimi as  given by the XII Tables ex causa depositi. This  cannot have had any connection with the actio  depositi of the Institutes and Digest, for the latter  was an invention of the Praetor {honoraria), and  therefore could not have appeared till towards the  end of the Kepublic, while its usual penalty was  simplum, not duplum. Voigt explains^ this action  of the XII Tables as an instance of actio fduciae  based upon a fiducia cvrni amico. But we cannot  admit that fiducia at such an early period was  actionable at all', and still less can we base on  Voigt's assumption the further theory that every  breach of fiducia must have had a penalty of du-  plum annexed to it. The conjecture made by   1 Sent. II. 12. n. ^ XII. Taf. ii. 4. 79.   ' See above, page 78.     Digitized by Microsoft®     ACTIO EX CAV8A DEPOSIT!. 87   Ubbelohde' that the actio ex causa depositi of the  XII Tables was an actio de perfidia seems still more  rash than that of Voigt, and has deservedly met with  but little favour.   There are two points to be noted in this state-  ment of Paulus :   (i) He states that the action was ex causa  depositi: he does not call it actio depositi.   (ii) He does not say how the depositum was  made, but implies that it might be made by traditio  as well as by Tnancipatio, which also goes against  Voigt 's theory.   It was an ancient rule^ that if a man used the  property of another in a manner of which that other  did not approve, he was guilty of common theft, and  was punishable in duplum like any other fur nee  manifestus. It seems therefore quite reasonable  to suppose that the XII Tables mentioned this  kind o{ furtumi as arising ex causa depositi. If so,  the penalty of duplum mentioned by Paulus is no  mystery. It was merely the ordinary penalty as-  signed to furtum nee manifestum, and depositum as  a contract had nothing to do with it. Hence this  actio ex causa depositi does not properly belong to  our subject at all.   II. Gaius° says that by the pignoris capio of,  the XII Tables (a) the vendor of an animal to be'  used for sacrifice could recover its value if the  purchaser refused to pay the price, and (6) a man  who had let a beast of burden in order to raise  money for a sacrifice could recover the amount of   1 Gesch. der ben. R. G. p. 22. ^ gai. iii. 196. » iv. 28.     Digitized by Microsoft®     88 THE TWELVE TABLES.   the hire. Hardly anything is known of the legis  actio per pignoris capionem, but it was evidently  some proceeding in the nature of a distress, through  which the injured party could make good his claim  by seizing the property of the delinquent. The  only points in which this passage of Gains is in-  structive are these. First, we are here shewn what  were evidently exceptional instances of the legal  liability of a man's property, as distinguished from  his person, for his breaches of agreement. Secondly,  we here have conclusive proof that the consensual  contracts of sale and hire were unknown at the  period of the XII Tables : these two special in-  stances in which the contracts were first recognised  were both of a religious nature, and the makers of  the XII Tables do not seem to have dreamt that  other kinds of sale or hire needed the least protec-  tion. Thus for many years to come the most  ordinary agreements of every-day life, such as hire,  sale or pledge, were completely formless, depended  solely on the honesty of the men who made them,  and were not therefore, properly speaking, contracts  at all. The principle of the old Roman law that  neither consent nor conduct could create an obliga-  tion ex contractu, but that every contract must be  clothed in a solemn form, appears in the fullest  force throughout the XII Tables.     Digitized by Microsoft®     CHAPTER IV.   THE DEVELOPMENT OF CONTRACT.   At the threshold of a new period we may pause  to review briefly the ground already covered, and to  observe the very different aspect of our future field  of inquiry.   We find the legal system of the XII Tables to  have possessed five distinct forms of contract,  iusiurandum (including uadimonium ?), sponsio, dotis  dictio, neooum, and leoc mancipi. But though the  list sounds imposing enough, these forms were still  primitive and subject to many serious limitations :   (i) Roman citizens only were capable of using  them, and hence they were useless for purposes of  foreign trade.   (ii) They all alike required the presence of  the contracting parties, and were therefore available  only to persons living in or near Rome.   (iii) They all required the use of certain formal  words or acts, so that, if the prescribed formula or  action was not strictly performed, the intended  contract was a nullity.   (iv) The remedies for a breach of contract,  except in the case of nexum and lex mancipi, were  probably of the vaguest description, and may have  consisted only of self-help carried out under certain  pontifical regulations.     Digitized by Microsoft®     90 THE DEVELOPMENT OF CONTRACT.   A system with so many flaws was plainly  incapable of meeting the many needs which grew  out of immense conquests and rapidly extending  trade. Accordingly by the end of the Republic we  find that the law of contract had wholly freed itself  from every one of these four defects :   (i) Contracts had been introduced in which  aliens as well as Romans could take part.   (ii) Means had been devised for making con-  tracts at a distance.   (iii) Forms had by degrees been relaxed or  abolished.   (iv) Remedies had been introduced by which."  not only the old contracts but all the many new.  ones were made completely actionable.   The question now before us is: how had this  wonderful development been achieved ?   It is customary in histories of Roman Law to  subdivide the period from the XII Tables to the  end of the Republic into two epochs, the one before  the Lex Aebutia, the other subsequent to that law.  The reason for this subdivision is that the Lea:  Aebutia is supposed to have abolished the legis  actio procedure and to have introduced the so-called  formulary system, which enabled the Praetors to  create new forms of contract by promulgating  in their Edict new forms of action.   Such a division doubtless has the merit of giving  interest and definiteness to our history, but it has two  great drawbacks : First, that we do not know what  the Lex Aebutia did or did not abolish ; and secondly,  that its date is impossible to determine.     Digitized by Microsoft®     OBSCURITY OF LEX AEBVTIA. 91   As to its provisions, the two passages in which  the law is mentioned by Gains ^ and Gellius''' merely  prove that the legis actio system of procedure and  various other ancient forms had become obsolete as  a result of the Lex Aebutia. But that these were  not suddenly abolished is proved by the well-known  fact that Plautus and Cicero refer more often to the  procedure by legis actiones than they do to that per  formulas. The most plausible theory seems to be  that which regards the Lex Aebutia as having  merely authorized the Praetors and Aediles to  publish new formulae ia their annual Edicts. But  even this is nothing more than a conjecture.   The date of the Lex Aebutia (probably later than  A. V. C. 500) is also involved in obscurity, as is proved  by the fact that scarcely two writers agree upon the  question".   It seems clear that a law about which so  little is known is no proper landmark. The plan  here adopted will therefore be a different one. We  shall content ourselves with a detailed examination  of each of the kinds of contracts which we know  to have existed at Rome between the XII Tables  and the beginning of the Empire, treating in a  separate section of each contract and its history  down to the end of the period. By this means  we may avoid confusion and repetition, though the  period in hand, extending as it does over nearly five  hundred years, is perhaps inconveniently large to  be thus treated as a whole.   1 IV. 30. ' XVI. 10. 8.   ' A. V. c, 584 according to Poste and Moyle ; 513 aecording  to Voigt ; 507 according to Muirhead ; etc.     Digitized by Microsoft®     CHAPTER V.   FORMAL CONTRACTS OF THE LATER REPUBLIC.   Art. 1. Nexvm. The severity and unpopu-  larity of nexum did not prevent its continuance for  at least one hundred years after the modifications  made in it by the XII Tables. Its character  remained unchanged, until at last the Roman  people could suffer it no longer. In A. v. c. 428'  a certain nesous was so badly treated by his credi-  tor that a reform was loudly demanded. The Lex  Poetilia Papiria was the outcome of this agitation.  Cicero', Livy' and Varro* have each given a short  account of the famous law, and from these it  may be gathered that its chief provisions were as  follows :   (i) That fetters should ia future be used only  upon criminals.   (ii) That all insolvent debtors in actual bondage  who could swear that they had done their best to  meet the claims of their creditors °, should be set  free.   1 According to Liyy, but Dionysius makes it 452.   2 Bep. II, 30. 40. 59. s viii. 28. * L. L. vii. 5. 101.  ' Next qui bonam copiam iurarent : cf. Lex lul. Mun. 113,     Digitized by Microsoft®     LEX POETILIA PAPIRIA. 93   (iii) That no one should again be neccus for  borrowed money, i.e. that manus iniectio and the  other ipso iure consequences of nescum should  henceforth cease.   Varro is the one writer who mentions the  qualification that it was only nexi qui honam copiam  iurarent who were set free. But Cicero and Livy  may well have thought this an unnecessary detail,  considering what an immense improvement had  been made by the statute in the condition of all  future borrowers. A clause of the Lex Coloniae luliae  Genetiuae^ shows that imprisonment for debt was  still permitted, but that the effects of ductio were  much softened, the uinctio neruo ant compedibus  and the capital punishment being abolished along  with the addictio. But diici inhere was still within  the power of the magistrate^, and Karlowa" seems to  be right in holding that this was not a new kind of  ductio originating subsequently to the Lecc Poetilia.  The Praetor doubtless always had the power to  order that a iudicatus should be taken and kept in  bonds. But this was a very different thing from  the utterly abject fate of the nexus under the XII  Tables. It was only therefore the special severities  consequent upon nexum that can have been abolished  by the Lex Poetilia. Nexum itself was not abro-  gated, for the way in which later authors speak of it  shows that there still survived, if only in theory, a  form bearing that name and creating an obligation.  But as soon as its summary remedies were taken   1 cap. 61; Bruna, Font. p. 119.   2 Lex Bubr. cap. 21 ; Bruns, Font. p. 98. ^ L. A. p. 165.     Digitized by Microsoft®     94 FORMAL CONTRACTS OF THE LATER REPUBLIC.   away, neocum became less popular as a mode of  contract and gave way to the more simple obligatio  uerbis. Another reason for its being disused, wlien  it no longer had the advantage of entailing capital  punishment, was that the introduction and wide-  spread use of coinage made the use of scales  unnecessary. Stipulatio, which required no acces-  sories and no witnesses, was now the easiest mode  of contracting a money loan. We shall see in the  next section that it came to have still further  points of superiority, and thus it was certain to  supersede newum, when neoswii ceased to have  special terrors for the delinquent debtor.   The solutio per aes et libram which we find in  Gaius, as a survival of solutio nesd, was not  the release of nexii/m, but the similar release used  for discharging a legacy per darrmationem or a  judgment debt. Its continued existence is no proof  that neam/rn survived along with it, for in later days  it had nothing to do with the release of borrowed  money. But though nexum proper certainly died  out before the Empire, we have seen' how the  meaning of the word became more vague and com-  prehensive. By the end of the Republic we find  neocum used to describe essentially different trans-  actions, and simply denoting any negotiwm per aes  et libram.   Art. 2. Sponsio and stipvlatio. The origin and   early history of sponsio have already been considered.   There is no authority for Bekker's opinion that sponsio   was enforceable before the XII Tables by the legis   1 See above p. 24.     Digitized by Microsoft®     THREE USES OF SPOHiSIO. 95   actio Sacramento^, nor do we know that it gave  rise to any action, but notwithstanding this fact we  have seen good reason for concluding that it existed  at Rome from the earliest times. As we found that  its origin was religious, and as the XII Tables do  not mention it, we may regard the remedies for a  breach of sponsio as having been regulated by  pontifical law, down to the time when condictiones  were introduced. In the law of this last period  sponsio appears in three capacities :   (1) As a general form of contract adapted to  every conceivable kind of transaction.   (2) As a form much used in the law of pro-  cedure.   (3) As a mode of contracting suretyship.   Its binding force was the same in all these three  adaptations, but its history was in each case different.  Thus sponsio was used as a general form of contract  down to the time of Justinian, though it had then  long since disappeared as a form of suretyship. And  there were statutes affecting the sponsio of surety-  ship which had nothing to do with the sponsio of  contract or of procedure. It will therefore be con-  venient to treat, under three distinct heads, of the  three uses to which sponsio became adapted, remem-  bering always that in form, though not in all its  remedies, it was one and the same institution.   I. Sponsio as a general form of contract.   We have seen that the form of sponsio consisted  of a question put by the promisee and answered  by the promisor, each of whom had to use the   1 AU.i. p. 147.     Digitized by Microsoft®     96 FORMAL CONTRACTS OF THE LATER REPUBLIC.   word spondere. For example : Qu. : " Sponden ticam  gnatam filio uxorem meo ? " Ans. : " Spondeo^." Qu. :  "Centum dari spondes?" Ans.: " Spondeo^." This  form was available only to Roman citizens. But  there subsequently came into existence a kindred  form called stipulatio, which could be used by  aliens also, and could be expressed in any terms  whatsoever, provided the meaning was made clear  and the question and answer corresponded.   The connection between sponsio and stipulatio  is the first question which confronts us. There is no  doubt that sponsio was the older form of the two,  because (i) it alone required the use of the formal  word spondere, (ii) it was strictly iuris ciuilis, where-  as stipulatio was iuris gentium^, and (iii) it had to be  expressed in the present tense (e.g. dari spondes?)  whereas stipulatio admitted of the future tense (e.g.  dabis ? fades ?), which Ihering^ has shown to be a  sign of later date. Since the rise of the tits gentivm,  was certainly subsequent to the XII Tables, we are  justified in ascribing to the stipulatio a comparatively  late origin, though the precise date cannot be fixed  with certainty.   Though stipulatio was a younger and a simpli-  fied form, yet it is always treated by the classical  jurists as practically identical with sponsio. Both  were verbal contracts ex interrogatione et responsione,  and their rules were so similar that it would have  been waste of time and useless repetition to discuss  them separately.   1 Varro, L. L. vi. 7. 70. ^ Qaius in. 92.   3 Gaius loc. cit. * Geist d. B. B. ii. 634.     Digitized by Microsoft®     ORIGIN OF 8TIPVLATI0. 97   The derivation of stipulatio has been variously  given. Isidorus^ derived it from stipula, a straw ;  Paulus Diaconus^ and Varro" from stips, a coin;  and the jurist Paulus*, followed by the Institutes,  from stipulus, firm. The latter derivation is doubt-  less the correct one^ but it does not help us much.  What we wish to know is the process by which a  certain form of words came to be binding, so that  it was distinctively termed stipulatio, the firm trans-  action. Now if we conclude, as Voigt does', that  the stipulatio and the sponsio were both imported  from Latium, their marked difference with respect  to name, age and form must remain a mystery.  Whereas we may solve, or rather avoid, this diffi-  culty by acknowledging that sponsio was the parent  of stipulatio, and that the latter was but a further  stage in the simplification of sponsio which had  been steadily going on since the earliest times.  We have already reviewed the three stages through  which sponsio seems to have passed. Stipulatio in  all probability represents a fourth and wider stage  of development. The binding force of a promise  by question and answer, apart from any religious  form, at last came to be realized after centuries of  use', and as soon as the promise became more  conspicuous than the formal use of a sacred word,  the word spondere was naturally dropped, and with   1 Orig. 5. 24. - s. u. Stipem.   3 L. L. VI. 7. 69-72. * Sent. v. 7. 1.   ^ See Ihering, Geist ii. § 46, note 747, who compares the  German Stab, Stift, bestatigen, bestiindig.   6 lus Nat. II. 238. '' Ihering, Geist ii. p. 585.   B. E. 7     Digitized by Microsoft®     98 FORMAL CONTRACTS OF THE LATER REPUBLIC.   it fell away the once descriptive name sponsio, to  make way for that of stipulatio, now a more correct  term for the transaction. Thenceforward, as a matter  of course, stipulatio became the generic name, while  sponsio was used to denote only the special form spon-  desne? spondeo.   The precise date of the final change is a matter  of guess-work. But as stipulatio was the form avail-  able to aliens^ it was probably the influx of strangers  which made the Romans perceive that their old  word spondere, only available to Roman citizens,  was inconvenient and superfluous. Unless contracts  with aliens had become fairly common, the need of  the untrammelled stipulatio would hardly have been  felt. Therefore it seems no rash conjecture to suppose  that the stipulatio was flrst used between Romans  and aliens, and first introduced about A.V.C. 512*,  the date generally assigned to the creation of the  new Praetor qui inter peregrinos ius dicebat.   As to the form of the stipulatio :   (a) Ihering* and Christiansen* have expressed  the opinion that originally the promisor did not  merely say spondeo, faciam, daho, etc., as in most of  the known instances, but repeated word for word all  the terms of the promise as expressed in the question  put by the promisee. This view is based upon the  passages in Gaius^ and the Digest*, which lay great  stress upon the minute correspondence necessary  between the question and the answer in a vaHd   ' Gai. III. 93. 2 Liu ^^j-^ ^ix.   » Geist II. 582. * Inst, des B. B. p. 308.   •^ in. 92. « 45 Dig. 1. 1.     Digitized by Microsoft®     VARIOUS STIPULATORY FORMULAE. 99   stipulation. It is hard to see how such a rule could  have arisen unless there had been some danger of  a mistake in the promisor's reply, and if this reply  had been confined to the one word spondeo,  promitto, or faciani, a mistake would hardly have  been possible. Hence this view seems highly pro-  bable.   (b) Voigt"^ has given the following account of  the origin of the various formulae.   (i) The form spondesne ? spondeo is the oldest  of all, and dates back into very early times ^ which  is probably quite correct. But in a more recent  work' this view expressed in "lus Naturale" is unfor-  tunately abandoned, and Voigt regards sponsio as a  Latin innovation dating from the fourth century of  the City. This seems surely to place the birth of  sponsio far too late in Roman history.   (ii) The looser form dabisne ? dabo is found in  Plautus*, and was no doubt, as Voigt says^ a product  of the ius gentium and first introduced for the benefit  of aliens.   (iii) Lastly, the origin of the forms promittis ?  promitto, and fades? faciam^, is placed by Voigt  not earlier than the beguming of the Empire. But  his reasons for so doing seem most inadequate. If  the form dabisne? dabo occurs in Plautus, the form  fades? fadam, which is essentially the same, can  hardly be attributed to a later period. And since   1 Ius Nat. IV. 422 ft.   2 See Liu. iii. 24. 5, A.v.c. 295, and iii. 56. 4, A.v.c. 305.   3 Bom. RG. i. p. 43. ■• Pseud. 1. 1. 112, A.v.c. 663.  5 /. N. IV. 424. « Of. Gaius, in. 92. 116.   7—2     Digitized by Microsoft®     100 FORMAL CONTRACTS OF THE LATER REPUBLIC.   prondttam is used by Cicero as a synonym for  spondea/m}, and fidepromittere was an expression  used in stipulations, as Voigt admits, two centuries  before the end of the Republic'-', it seems rash to  affirm that promittere, the shortened phrase, was  not used in stipulations until the time of the  Empire. We may therefore attribute both of these  forms to republican times.   (c) The admissibility of condicio and dies as  qualifications to a stipulation must always have  been recognized, since a promise deals essentially  with the future and requires to be defined.   (d) The insertion of a conventional penalty into  the terms of the contract was probably practised  from the very first, whenever facere and not dare  was the purport of the promise, because the candictio  certi was older than the condictio incerti, and there-  fore for many years an unliquidated claim would  have been non-actionable unless this precaution had  been taken.   We have now seen that verbal contract by ques-  tion and answer, whether called sponsio or stipulatio,  existed long before it became actionable. When it  finally became so is uncertain, though we know  what forms the action took.   (a) Condictio certae pecuniae.   Gains' speaks of a Lex Silia as having introduced  the legis actio per condictionem for the recovery of  certa pecunia credita. This law is mentioned nowhere  else, and its date can only be approximately fixed.   1 Cic. pro Mur. 41. 90. ^ I. N. iv. 424, note 77.   -' IV. 19.     Digitized by Microsoft®     ORIGIN OF PECTNIA CBEDITA.   We know from Cicero^ that pecwnia credita, a re"  money loan, might in his time originate in  ways, by datio (mutuum), expensilatio, or stipulatio.  But we cannot infer from this that the Lex Silia  made all those three forms of loan actionable'', for  mutuum and expensilatio, as will presently be seen,  were certainly of more modern origin than the  condictio certae pecuniae. It appears indeed that  stipulatio was the original method of creating pecunia  credita^: consequently the Lex Silia must have  simply provided for the recovery of loans made by  sponsio or stipulatio. It is noticeable, moreover,  that Gaius speaks as though by this law money  debts had merely been provided with a new action :  he does not imply that stiptdatio or sponsio was  thereby introduced, as Voigt'' and Muirhead' have  ventured to infer. Their view is surely an un-  warrantable inference, for if the Lex Silia had  created so new and important a contract as stipu-  latio, Gaius would hardly have expressed so much  surprise at the creation of a new form of action to  protect that contract. His language seems clearly  to imply that pecunia credita was already known,  and was merely furnished by this law with a new  remedy. We may conclude then that pecunia  credita must have existed before the Lex Silia, and  can only have been created by stipulatio. Stipulatio   ' Rose. Com. 5. 14. ^ Puohta, Imt. 162.   3 Cf. the dare, credere, expensum ferre of the Instrumentum  fiduciae in Bruns, p. 2-51, with the dare, gtipulari, and expensum  ferre of Rose. Com. 5. 13-14, and see Voigt, lus Nat. it. 402.   * Ills Nat. II. 243. ■' R. L. p. 230.     Digitized by Microsoft®      102 FORMAL CONTRACTS OF THE LATER REPUBLIC.   cannot, therefore, have been introduced by this law,  though it probably was thereby transferred from the  religious to the secular code.   The age of the Lex Silia has been variously  given', but there are no trustworthy data, and any  attempt to fix it must be somewhat conjectural.  The only thing we do know is that this law must  have been enacted a considerable time before the  Lex Aquilia of A.V.C. 467, for the latter law pun-  ished" the adstipulator who had given a fraudulent  release, and as this release must have applied to the  stipulatio certae rei of the Lex Galpurnia', it is evident  that the Lex Aquilia must have been younger than  the Lex Calpurnia, which, as we shall see, was itself  younger than the Lex Silia.   We may perhaps approximate even more closely  to the date of the Lex Silia. Muirhead^ has con-  jectured with much plausibility that the introduction  of the condictio certae pecmviae was a result of the  abolition of the nexal penalties, or in other words  that the Lex Silia followed soon after the Lex  Poetilia of A.v.c. 428. There are several strong  points in favour of this hypothesis :   (i) It explains Gaius' difiiculty as to the reason  why condictio was introduced. For when the terrors  of nexum were abolished, it was natural to substitute  some penalty of a milder description and not to let  defaulting debtors go entirely unpunished. Now   1 A.V.C. 311 to 329, according to Voigt, I. N. iv. 401.  " Gai. III. 215.   ' Of. quanti ea res est in Gai. loc. cit. with 13 Dig. 3. 4.  * R. L. p. 230.     Digitized by Microsoft®     PROBABLE OBJECT OF LEX SILIA. 103   this is just what the condictio certae pecuniae,  with its sponsio poenalis tertiae partis, presumably  accomplished, for like neocum it dealt only with  pecunia.   (ii) This hypothesis helps us also to understand  why the condictio certae pecuniae should have been  introduced before the cmidictio certae rei, thus  making a stipulation of certa pecunia actionable,  while a stipulation of res certa had not this protec-  tion. As we found above', the introduction of coin  must have made the stipulatio certae pecuniae a very  convenient substitute for nexiom. It was therefore  natural to give a remedy to this stipidatio and so to  make it take the place of nexum as a binding  contract of loan ; while certa res, never having had  and therefore not immediately requiriag a remedy,  was not protected by condictio until several years  later.   (iii) We can also see why the condictio ceiiae  pecuniae should have been the only condictio fur-  nished with so severe a penalty as the sponsio  poenalis. It was because money loans had been  jealously guarded in the days of nexum, and it was  therefore thought proper to protect the money loan  by stipulation far more carefully than the promise of  a res certa.   All these seem strong points in confirmation  of Muirhead's hypothesis. By connecting stipulatio  and condictio with the downfall of nexum and of its  manus iniectio, we not only get a plausible date for  the Lex Silia, but what is far more important, we  1 p. 94.     Digitized by Microsoft®     104 FORMAL CONTRACTS OF THE LATER REPUBLIC.   obtain a satisfactory explanation of the curious fact  that, while stipulationes were made actionable, they  were not all made so at once.   The forms of condictio under the legis actio system  are not known, but under the formulary system, this  condictio had the following formula: Si paret N^  N'egidium A" Agerio HS X dare oportere, iudesc, iV™  Negidium A" Agerio X condemna. s. n. p. a} Its  peculiar sponsio will be given in another place.  (b) Condictio triticaria or certae rei.   The Lex Calpurnia, which must have preceded  the Leoo Aquilia^ and must therefore have been  enacted earlier than A.v.C. 467, extended the legis  actio per condictionem to stipulations of triticum, corn,  {condictio triticaria) ; and this, being soon interpreted  by the jurists as including every debt of res certa,  gave rise to the condictio certae rei. This new kind  of condictio omitted, for the reason above '-stated, the  sponsio and restipulatio tertiae partis, in place of  which the defendant merely promised to the plaintiff  a numnvus wnus which was never exacted or paid*.  Therefore, as the severer law invariably precedes the  milder, we might be sure that the Lex Silia with its  heavy penalty was older than the Lex Calpurnia  with its nominal fine*, even if Gains had not clearly  led us to this conclusion by the order in which he  mentions the two laws'.   The formula ran thus : Si paret N'^ Negidiwm A"  Agerio tritici optimi X modios dare oportere, qvtanti   1 Gai. IV. 41. Lenel, Ed. Perp. 187. ^ See above, p. 102.   » p. 103. * Voigt, I. N. III. 792.   ' Keller, Civilp. 20. « Gains, iv. 19.     Digitized by Microsoft®     DEVELOPMENT OF OONDICTIO. 105   ea res est, tantam pecuniam, index, iV™ Negidium A"  Agerio condemna. s. n. p. a.   (c) Condictio incerti.   The above condictio triticaria, or certae rei, was  in course of time extended by the interpretation of  the jurists or by the Praetor's Edict to res incertae,  and gave rise to a condictio incerti, which was the  proper action on a stipulation involving facere or  praestare or some other object of indefinite value.  The thing promised might be defined as quanti in-  terest, or quanti ea lis aestimata erit etc.', and it is  plain how much this comprehensive mode of ex-  pression must have increased the adaptability and  general usefulness of the stipulation. In this way,  for instance, the cautio damni infecti and the stipu-  lations of warranty were doubtless always expressed.  The nature of this condictio may perhaps be best  understood from its formula, which was as follows :  Quod A^ Agerius de N" Negidio incertum stipulatus  est, quidquid paret oh earn rem N™ Negidium A"  Agerio dare facere oportere, eius iudex, N™ Negidium  A" Agerio condemna. s. n. p. aJ' This was so far  an advance upon the condictio certae rei that, the  condemnatio here left the damages entirely to the  discretion of the judge; but it was still a stricti  iuris action, in which no equitable pleas were ad-  mitted on the part of the defendant.  {d) Actio ex stipulatu.   We have seen that the condictiones certae pecuniae  and certae rei were due to legislation, and the con-  dictio incerti to juristic interpretation: it remains  1 Voigt, RG. I. pp. 601-2. 2 (jai. iv. 131, 136.     Digitized by Microsoft®     106 FORMAL CONTRACTS OF THE LATER REPUBLIC.   to inquire what was the origin of the actio ex  stiffulatu, i.e. the honae fidei action on a stipulation  for incertwm dare or for certwm facere^, which  completed this series of legal remedies. Its ap-  pearance was an event of great importance to the  subsequent history of Contract, since it applied ex-  clusively to stipulations containing a honae fidei  clausula, and it was by means of this action alone  that such stipulations were enforced I Voigt's ex-  planation of its origin is that the actio ex stipulatu  was devised as the proper remedy for fidepromissio  and for the cautio rei uxoriae introduced in A.V.C.  523'. But it is very doubtful if the date can be  fixed with such exactness. There is nothing to  show that the actio ex stipulatu did not exist earlier  than those particular forms of stipulation ; and if it  had been, as Voigt thinks, the original action on a  fideproTnissio, it would probably have been known as  actio ex fidepromisso or by some such descriptive  name.   The introduction of the doli clausula is the most  important event in the whole history of the stipulatio,  yet the exact moment at which this took place is  hard, if not impossible, to fix. Girard* attributes its  invention to C. Aquilius Gallus. But if this had  been the case, Cicero^ would hardly have overlooked  the fact. On the other hand Voigt, who rightly  identifies the actio ex stipulatu with the action on a   1 Bethmann-Hollweg, C. P. p. 267.   2 44 Dig. 4. 4. fr. 15-16.   3 I. N. IV. 407. Gellius iv. 1, 2.   * N. Rev. Hist, de Droit, xiii. 93. ^ Off. in. 14. 60.     Digitized by Microsoft®     THEORIES AS TO ACTIO EX STIPVLATV. 107   doli clausula, and regards the two as inseparable,  places the introduction of doli clausula earlier than  the time of Cicero, because that writer mentions the  actio ex stipulatu among the " indicia in quibus ad-  ditur ' ex fide bona^.' " The introduction of the first  clausida doli was, according to Voigt", made by the  words fides, in fidepromissio, and "quod melius aequius  sit" in the cautio rei uxoriae^. This conjecture is  unsupported by evidence ; for though we know that  cautio rei ihxoriae* and fidepromissio^ were both  actionable by the actio ex stipulatu, and therefore  must have contained doli clausulae, we have no  right to assume that they were the first of their  kind.   We cannot, moreover, follow Voigt in supposing  the actio ex stipidatu to have been expressly invented  for fidepromissio and cautio rei uxoriae. We have to  presuppose the existence of a condictio incerti before  the doli clausula could become actionable, since a  claim of damages for dolus was necessarily an in-  certum; and there is no reason why the actio ex  stipulatu should not have been developed from the  condictio incerti by mere interpretation. Its essential  connection with the stipulatio containing the clausula  doli may readily be admitted, but we cannot be  certain what were the first stipulations containing  clausulae of the kind.   The doli clausidae are well summarized by Voigt '^  as follows :   1 I. N. IV. 413. 2 I. N. IV. 407.   3 Boeth. ad Top. 17. 66. " 23 Dig. 4. 26.   s 45 Dig. 1. 122. « I. N. iv. 411.     Digitized by Microsoft®     108 FORMAL CONTRACTS OF THE LATER REPUBLIC.   (i) " Quod melius aequius erit," as in " cautio  rei uxoriae."   (ii) " Fide," in fidepromissio.   (iii) " Si quid dolo in ea re factum sit^."   (iv) "DoluTn Tnalum, huic rei abesse afuturuinque  esse spondesne^ ?"   (v) " Gui rei si dolus malus non abest, non  abfuerit, quanti ea res est tantam pecuniam, dari  spondes^ ? "   The date of each of these forms is, however,  impossible to determine. The cases of contracts by  stipulation in which doli clausulae are found have  been collected by Voigt*, but need not be enumerated  here.   The effect of the clausula was to convert the  action on the stipulation containing it from a stricti  iuris action into a bonaefidei action, in which equitable  defences might be entertained by the judge. This ex-  pansion was effected by introducing the words " dare  facer e oportere ex fide bona " in the intentio of the  action. If "ex fide bona " had not appeared in the  formula of an actio ex stipulatu, the action would  simply have been a condictio incerti. It seems there-  fore reasonable to suppose that the actio ex stipulatu  was nothing more than a development of the condictio  incerti, and that the words ex fide bona, perhaps  suggested by the actio emti, were inserted to suit the  liberal language of the stipulation.   In praetorian stipulations the doli clausula was     1 4 Dig. 8. 31. ^ 46 Dig. 7. 19, 50 Dig. 16. 69.   3 46 Dig. 1. 38. fr. 13. " I. N. iv. 416 ff.     Digitized by Microsoft®     EXCEPTIO DOLI UNCONNECTED WITH OLA VSVLA. 109   an usual part of the fonnula; e.g. in cautio legis  Falcidiae^, stipulatio iudicatum soltii', stipulatio ratam  rem haberi^, etc. But in conventional stipulations it  was purely a matter of choice whether the doli  clausula should be inserted or not.   We must not fancy that the actio de dolo and  the exceptio doli, which Cicero attributes to his  colleague C. Aquilius Gallus', had anything in com-  mon with the actio ex stipulatu based upon a  clausula doli^. The former remedies were a pro-  tection against fraud where no agreement of a  contrary kind had been made", whereas the action  on a stipulation containing the clausula doli was  available only when dolus maltts had been specially  excluded by agreement. Hence it follows that  where the stipulation had omitted the clausula doli  there can have been no remedy for dolus until the  great reform introduced by Aquilius Gallus.   As soon as stipulations of all kinds had thus  become actionable, and had probably passed out of  the hands of the Pontiffs into the far more popular  jurisdiction of the Praetor, the law of contract  received an extraordinary stimulus, and we find the  stipulation producing entirely new varieties of obli-  gation, though its form in each kind of contract re-  mained of course substantially the same. Here are  some of the purposes for which stipulatio was em-   1 35 Big. 3. 1. = 46 Big. 1. 33.   » 46 Big. 8. 22. fr. 7.   ' Off. in. 14. 60. Nat. B. in. 30. 74.   » Voigt, I. N. 3. 319.   ' See the case of Canius, in Cio. Off', in. 14. 58-60.     Digitized by Microsoft®     110 FORMAL CONTRACTS OF THE LATER REPUBLIC.   ployed, apart from its uses in procedure and surety-  ship.   (1) It produced a special form of agency by  means of adstipulatio^. The promisee who wished  a claim of his to be satisfied at some far-off period,  when he might himself be dead, had only to  get a friend to join with him in receiving the  stipulatory promise. This friend could then at any  time prosecute the claim with as good right as the  principal stipulator, and the law recognised him as  agent for the latter. Even a slave could in this way  stipulate on behalf of his master*.   (2) In consequence of its universal adaptability,  the stipulation gave rise to nmiatio. The reducing  to a simple verbal obligation of some debt or  obligation based upon different grounds (e.g. upon a  sale, legacy, etc.) was accomplished by stipulatio, and  known as expromissio debiti proprii.   (3) It created a rudimentary assignability of  obligations by virtue of delegatio, another form of  nouatio. In the one case, the debtor was changed,  and the creditor was authorised by the former  debtor to stipulate from the new debtor the amount  of the former debt : in the other case {expromissio  debiti alieni) the creditor was changed, and the new  creditor stipulated from the debtor the amount owed  by him to the former creditor.   (4) It also created the notion of correal obli-  gation, by which two or more promisors in a  stipulation made themselves jointly responsible for  the whole debt, and so gave additional security to   1 Gai. III. 117. = .? Inst. 17. 1.     Digitized by Microsoft®     FKUITS OF 8TIPVLATI0. Ill   the promisee. The effects of this will be seen in a  later section.   (5) It served to embody in a convenient shape  any special condition annexed to a separate contract  — e.g. a promise to pay the price agreed upon in  a sale', and the stipulationes simplae et duplae  annexed to sales of res nee mancipi^. Thus an  enforceable contractus adiectus could be made on the  analogy of a pactum adiectum.   (6) It clothed in an actionable form so many  different kinds of agreements that it would be  impossible to exhaust the list. For instance, agree-  ments as to interest^ wagers, the promise of a  dowry^, the making of a compromise^ the creation of  an usufruct, could all be thrown into stipulations  either single or reciprocal, and thus turned into  binding obligations.   (7) Most of the events in the history of this  immense development of stipulatio are impossible to  fix at any given period, though the attempt to do so  has been often made. Yet the invention of one  famous stipulation can be exactly dated, from its  bearing the name of Cicero's colleague, C. Aquilius  Gallus, and having therefore been invented by him  in the year of his Praetorship^. This Aquilian  formula, which operated as a general release of all  obligations, and which the Institutes' give us in full,  is an excellent instance of the usefulness of the  stipulation, and it also clearly shows what long and   1 Cato, R. R. 146. ^ Varro, R. R. ii. 3.   ' Plant. Most. 3. 1. 101. * See p. 32.   « Plant. Bacch. 4. 8. 76. « A.v.c. 688. ' 3 Inst. 29. 2.     Digitized by Microsoft®     112 FORMAL CONTRACTS OF THE LATER REPUBLIC.   elaborate forms this contract sometimes assumed  in later times, so that all kinds of terms, de-  scriptions or warranties might without difficulty be  incorporated in a single comprehensive formula.  It was probably this increasing length of stipu-  lations which caused them to be put in writing,  and induced lawyers to publish formulae in which  they should be expressed. Both of these results  had already taken place in the time of Cicero. He  not only speaks of written stipulations, but also  describes the composition of stipulatory formulae as  one of the chief literary occupations of a leading  lawyer'. We know from a constitution of the  Emperor Leo, which changed the law in this respect,  that the written stipulations of the Republic and  early Empire were merely put into writing for the  sake of evidence". The writing in itself constituted  no contract, and raised no presumption in favour of  the existence of a contract; but the written stipu-  lation had to conform with all the rules of the  ordinary spoken stipulation, since it was nothing  but a spoken stipulation recorded in writing.   The legislative changes of the period were mostly  devoted to modifications in the stipulations of  suretyship. But in a few cases the ordinary stipu-  lation was itself affected.   (i) By the Lex Titia of A.v.c. 416—426° stipu-  lations for the payment of money lost at gambling  were declared void.   (ii) Various laws against usury were enacted,   1 de leg. i. 4. 14. 2 3 Inst. 15. 1.   ' Voigt in Phil. Hist. Ber. der S. G. der W. xiii. 257.     Digitized by Microsoft®     SPONSIO IN PROCEDURE. 113   all of which affected the stipulation, since that was  the mode in which fenus was usually contracted.   (ui) The Lex Cinaia de mwieribus of A. v. c. 550,  the object of which was to restrain lavish gifts to  pleaders and public men, naturally limited all stipu-  lations between parties within range of the prohibi-  tion, and in the corresponding condictio gave rise to  the exceptio legis Ginciae, which probably ran thus :  ...si in ea re nihil contra legem Ginciam factum  sit...   (iv) The Praetor C. Aquilius Gallus, as above  mentioned^, instituted in his Edict the exceptio doli  mali, and thereby nullified stipulations which, how-  ever perfect ia form, had been procured by fraud.  This exceptio was of course inapplicable to cases in  which the stipulation contained a clausula doli.   II. Sponsio in the law of Procedure.   The original function of the processual sponsio  seems to have been that of helping to decide the  question at issue by expressing it in the form of a  wager. As a common feature of practice, sponsio  made its appearance in many other different connec-  tions, and sometimes developed into the more modern  stipulatio. We find it employed :   (i) As a means of obtaining a decision by a  wager, in which the contention of either party was  succinctly stated and so submitted to the judge.  This was known as sponsio praeitodicialis.   (ii) As a means of fixing a penalty, as well as  of obtaining a decision, in (a) the condictio certae   1 p. 109.  B. E. 8     Digitized by Microsoft®     114 FORMAL CONTRACTS OF THE LATER REPUBLIC.   pecuniae or (6) the interdicts, in which case it was  known as sponsio poenalis.   (iii) As a mode of giving security ; for instance  in the uindicatio, where we find the stipulatio pro  praede litis et uindiciarum.   Bekker's classification^ does not exactly correspond  with this one. He divides processual sponsiones into  (A) sponsiones made in the course of a trial,   (a) as to the chief question,   (6) as to conditions and incidental matters,  and (B) sponsiones made apart from a trial,   (a) with a view to some future trial,   (b) with no such view.   The objection to this classification seems to be  that the whole of class (B) were not properly pro-  cessual sponsiones at all.   1. Sponsio praeiudicialis' was a promise to pay  a fixed sum, made by the plaintiff to the defendant,  and conditioned upon the plaintiff's defeat. It was  accompanied by a similar promise (restipulatio) on  the part of the defendant, conditioned upon his defeat.  These mutual sponsiones were in fact nothing more  than a bet on the result of the action. They generally  involved a merely nominal sum, and were perhaps first  introduced in the actio per sponsionem in rem, as a  means of settling the question of ownership without  employing the larger and more costly sacramentum  of five hundred asses'. The date of their origin is  impossible to fix, but the custom of making such  sponsiones and having them decided by a judge   1 Akt. I. 257. 2 Gai. iv. 94. 165.   3 Baron, p. 403.     Digitized by Microsoft®     SPONSIO PRAEIVDIGIALIS. 115   seems to have been one of great antiquity, and  must have existed long before the sponsio became  armed with any condictio. The very notion of a  bet submitted to a judge as a means of deciding  rights of property seems, as Sir Henry Maine has  said ', to savour of the primitive time when the judge  was simply a man of wisdom called in to arbitrate  between two disputants. Moreover, it is hard to  imagine that the actio per sponsionem in rem could  have been introduced in any but the most ancient  times, when in Cicero's age there were the rei  uindicatio sacramento and the far simpler m uin-  dicatio per formulam petitoriam to accomplish the  same objects There is therefore every probability  that the actio per sponsionem was at least as old as  the legis actio sacramento. According to Voigt* the  procedure per sponsionem was the original form also  of the actio Publiciana introduced in A.v.C. 519. In  Cicero's time it was still a favorite method of pro-  cedure for all sorts of litigation^.   (a) In questions as to property the plaintiff  might choose whether he preferred to bring an actio  per formfublam, petitoriam, or one per sponsionem^.  If he chose the latter course, the defendant was  compelled sponsions se defenders.   (b) In really trivial praeiitdicia the question  was stated in the formula and sent straight to the  i^tdex without any condemnation, but the procedure   1 E.H. of I. 259.   2 KeUer, C. P. § 28. ^ j. j^. ly. 506. " e.g. Caec. 8.   5 Lex Ruhr. e. 21, 22; Cic. 2 Verr. i. 45. 115; Gaius, iv. 91.  ^ Gai. IV. 44.   8—2     Digitized by Microsoft®     116 FORMAL CONTRACTS OF THE LATER REPUBLIC.   in this case was not necessarily based upon a sponsio  praeiudicialis and might be a simple preliminary  inquiry ordered by the Praetor.   The sponsio praeiudidalis thus worked in a  peculiarly roundabout way; its penalty was nomi-  nal and not therefore its real object, and it brought  about a decision on the main question by treat-  ing that question as a thing of secondary im-  portance.   2. Sponsio poenalis (a) in the condictio, was pecu-  liar to the legis actio per condictionem introduced by  the Lex Silia. It was accompanied by a restipulatio,  so that either party to the action promised to the  other a penalty of one-third ' in the event of losing  his case. Eudorff" reconstructs the formula of this  sponsio as follows : Si pecuniam certam creditam qua  de re agitur mihi debes, earn pecuniam cum tertia  parte amplius dare spondes? But this seems in-  correct, since from Cicero's language' we gather  that the sponsio was for the tertia pars only; the  sum in dispute plus one-third is never mentioned.  The formula then was probably as follows: Si  pecuniam certam creditam qua de agitur mihi debes,  dus pecuniae tertiam partem dare spondes ? Hence  Rudorff* seems also wrong in stating that the con-  demnatio of the formula in the corresponding condictio  must have involved the principal sum plus one-third.  Voigt ^ more correctly holds that the condemnatio can  only have involved the summa sponsionis. We can   1 Cic. Base. Com. 5. 14. 2 Ed. Perp. p. 103.   '' " legititnae partis sponsio facta est." Rose. Com. 4. 10.  * Rom. RG. II. 142. ^ j_ j^ m 741^     Digitized by Microsoft®     SPON^SIO POENALIS. 117   see that, as Gains '■ implies, this sponsio was just as  much praeiudicialis as that of the actio per sponsio-  nem, giving as it did a ground for the decision of the  main question ; but it was also distinctly poenalis, be-  cause the sum which it involved was worth having  and worth extorting from the unsuccessful party,  and therefore the condemnatio was carried out in  the usual manner. The principal sum in dispute  was then no doubt quietly paid, since the decision as  to the sponsio tertiae partis had also settled to whom  the disputed sum belonged.   (b) In the private interdicts (possessoria and  restitutoria) if the party to whom the interdict was  addressed chose to dispute it, he might do so by  challenging the plaintiff to make a sponsio and  restipulatio, the rights of which should be deter-  mined by recuperatores. This sponsio differed from  the former (1) by being purely poenalis and having  no trace of praeiudicium for its object ; (2) by being  in factwm concepta ^.   The origin of these two uses of sponsio cannot be  dated, in the case of (a) because we do not know the  date of the Lex Silia, and in the case of (6) because  we do not know when the possessory interdict was  first granted by the Praetor. But it is fairly certain  that the sponsio poenalis of the interdict was more  modern than the sponsio poenalis of the condictio,  partly because it had no sort of connection with a  praeiudicium, which seems to have been the original  object of the processual sponsio, and partly because  it was in factum concepta.   1 IV. 93, 94. 2 Gai. iv. 166; Cic. Caec, 8. 23.     Digitized by Microsoft®     118 FORMAL CONTRACTS OF THE LATER REPUBLIC.   3. Another purpose for which the sponsio was  adopted in procedure was to give bond against pos-  sible losses. It thus furnished a substitute for the  old form of obligation contracted by the praes in  real actions. The stipulatio pro praede litis et uindi-  ciarum, accompanied by sureties ', was given by the  plaintiff who wished to bring an actio per sponsionem  in rem, or who disputed an interdict, and the amount  promised in the stipulation was double the value  of the property in dispute.   Another contract of the same kind was the  stipulatio ivdicatum solui ', by which the plaintiff in  an actio per formulam petitoriam obtained a promise  from the defendant that he would pay up the value  of the property in dispute and of its fructus, in the  event of being defeated in the action.   Voigt gives imaginary formulae for these two  stipulations", but in reality we do not know much  about them. Stipulations of this kind were not  peculiar to the law of procedure. They were simply  varieties of the cautio, a very common method of  securing future rights, and they had their counter-  part in the cautio damni infecti, cautio Muciatm,  cautio legis Falcidiae and all the praetorian stipula-  tions. The origin of the cautiones in general cannot  however be dated : we know merely that they must  have been invented subsequently to the introduction  of the condictio.   III. Sponsio as a means of Suretyship.   The introduction of the new idea of correal obli-   1 Cic. 2 Verr. i. 45. 115; Gai. iv. 91-94.   2 46 Dig. 7. 20 ; Gai. rr. 89. ' Im Nat. in. 588 and 820.     Digitized by Microsoft®     SPOJfSIO IN SURETYSHIP. 119   gation which resulted from the use of the stipulation,  naturally led to the use of the stipulation as a mode  of suretyship. For if three sponsores promised the  same sum to the same stipulator, the latter obviously  had three times as good security as if he had put  his question to one sponsor instead of to three.   1. The consequence was that sponsor soon  acquired the special meaning of a co-promisor or  surety, and this change probably took place soon  after the sponsio became actionable by the Lex Silia.  But if the surety -sponsor had had no recourse against  the principal-spojisor whose debt he had been com-  pelled to satisfj"^, his case would have been hard indeed.  To provide against this hardship, the Lex Publilia '  of A. V. c. 427 enacted :   (a) That the surety-spo?iso?' might make use  of an actio depensi against the principal debtor for  the amount spent on his behalf   (6) That the mode of procedure in this actio  depensi should be the legis actio per manus iniec-  tionem, and that the penalty should be duplum^.   (c) That the principal debtor should however  have six months' grace for the repayment of his  surety, but   (d) That a surety who paid a gambling-debt on  behalf of his principal should forfeit his right of  action.   This law is alluded to by Plautus, and was  clearly prior to the introduction of fidepromissio.   1 Voigt in Phil. Hist. Ber. der k. s. Ges. d. Wiss. xlii. p. 259.   2 Gai. IV. 22. 171.     Digitized by Microsoft®     120 FORMAL CONTRACTS OF THE LATER REPUBLIC.   In later times the surety had in the actio mandati  a further remedy against the principal sponsor.   2. About the beginning of the fifth century, as  new forms of stipulatio grew up alongside of the old  sponsio, another sort of suretyship was introduced  under the name oi fidepromissio. It was so called  because the sureties entered into a stipulation con-  taining the words : "Jide tua promittis ? fide mea pro-  mitto." The new form was no doubt devised for the  benefit of foreigners and marked the further growth  of ius gentium. It seems to have been treated as  exactly equivalent to sponsio, for sponsio as well as  fidepromissio could only be used to secure a verbal  obligation \ Since it is coupled with sponsio in the  Lex Apideia, and since the heirs of sponsores and  fidepromissores were both alike free from the obliga-  tion of their predecessors ^ it is fairly certain that  the actio depensi and inanus iniectio of the Leoo  Publilia must have been extended to fidepromissio  by interpretation '. The fidepromissor also had the  remedy of the actio mandati, but this was of later  origin.   The Lex Apuleia de sponsoribus et fide promis-  soribus of A.v.C. 525 ^ applying to both Italy and  the provinces, gave to any sponsor or fidepromissor  who had paid more than his aliquot share of the  principal debt a right to bring the severe actio  depensi against each of his co-promisors to recover  the amount overpaid. This law, giving as it did  protection to the sponsor against his co-sponsor, was   ' Gai. III. 119 ; iv. 137. 2 Gai. in. 120.   ' Gai. III. 127. " Voigt, I. N. iv. 424.     Digitized by Microsoft®     FIDEPROMISSIO. 121   the natural complement to the Lex Puhlilia which  had already secured him against the principal  debtor.   The object of the next law, Lex Furia de sponso-  ribus et fidepromissoribus of A.V.c. 536 \ is rather  obscure, but it seems to have re-enacted the Lex  Apuleia with reference to Italy only, and probably  provided the spmisor with a more thorough mode of  redress. What this mode was the language of Gains ^  does not make plain ; but Moyle is no doubt wrong  in asserting ' that it was the actio pro socio, unmis-  takably of much later origin. Its only clearly new  enactment was that sponsores or fidepromissores in  Italy, whose guarantee was for an unlimited period,  should be liable for two years only. This limited  liability Voigt thinks was perhaps borrowed from  the rules applying to the uas.   Lastly, the Lex Cicereia (Studemund) of uncertain  date, but which must have been passed before  A.V.c. 620, since it ignored fideiussio, gave further  protection to sureties by enacting :   (<x) That any creditor who secured his debt by  taking sponsores or fidepromissores must announce  the amount of the debt and the number of the  sureties before they gave their adpromissio.   (b) If he failed to do this, any surety might  within 30 days institute a praeiudicium to inquire  into his conduct ; and if the judge declared that the  required announcement had not been made, all the  sureties were freed from their liability*. This law   1 L. Furius Philue was Praetor in that year. Voigt, I. N. iv. 424.   2 ni. 122. 2 Inst. p. 411, note. * Gai. iii. 123.     Digitized by Microsoft®     122 FORMAL CONTRACTS OF THE LATER REPUBLIC.   was subsequently, we know, extended by interpreta-  tion to fideiussores.   3. A third form of suretyship was at last de-  vised, by which obligations other than verbal ones  could be similarly secured. This was done by a  stipulation containing the words "fide tua ivbes ? fide  mea ivheo" and it was hence known as fideiussio.  It must have been iuvented about the beginning of  the sixth century, and was doubtless needed, as Voigt  suggests^, in order to provide a form of suretyship  for the newly invented real and consensual con-  tracts ". Its chief points of difference from the other  two forms were that (a) it applied to all kinds of  contractual obligations ; (6) the heir of the fideiussor  was bound by the same obligation as his predecessor ;  and (c) the provisions of the foregoing legislation as  to sponsio and fidepromissio did not as a rule apply  to fideiussio. The only point of resemblance was  that the fideiussor, like the sponsor and fidepro-  missor, had the actio mandati^ against his principal,  whereas the sponsor and probably the fidepromissor  had the actio depensi of the Lex Puhlilia in addition  to the more modem remedy.   The Lex Cornelia mentioned by Gains * as affect-  ing all sureties alike, whether sponsores, fidepromis-  sores or fideiussores, has been shown by Voigt ' to be  a part of the Lex Cornelia swmtuaria of A.V.C. 673.  Two sections of this act provided :   (i) That no surety should validly become re-   1 I. N. IV. 425. 2 Gai. ni. 119.   » Gai. m. 127. » in. 124.   ° Phil. Hist. Ber. der k. s. Ges. der Wiss. xlii. p. 280.     Digitized by Microsoft®     BXPMNSILA TIO. 123   sponsible for more than two million sesterces > on  behalf of the same person in any given year. Except  in the case of dos^, whatever liability was contracted  over and above that amount was void.   (ii) That no suretyship of any sort should be  valid when given for a gambling debt I   In thus tabulating all the laws on this subject,  we must not omit to mention the rule applying to  all forms of suretyship alike, that if the surety had  guaranteed a lesser sum than the principal debt, his  guarantee held good, but if a larger sum or a differ-  ent thing, the guarantee became void.   In conclusion, it is very remarkable how largely  the law of suretyship was developed by means of  legislation. The reason was, that while sufficient  means existed for enforcing the mutual obligations of  debtor and creditor, there were no rules to regulate  the relations of debtor and surety, or of sureties  among one another. The old uadimonium was ap-  parently inadequate, while the newer uadimonium,  as we saw, was but a form of stipulatio, and the  ordinary condictio would clearly have been inapplic-  able to cases of this kind. Hence it became neces-  sary that legislation should intervene.   Art. 3. EXPENSILATIO. So many irreconcilable  statements have been made as to the nature of this  peculiarly Roman contract" that no one can hope  to describe it with perfect accuracy. Confident   1 20,000 according to Dauz, B. BG. ii. 83.   2 Gai. m. 124-5. ^ Voigt, Bom. BO. i. 616.   * See a full summary of the various opinions in Danz, B. BG.  II. pp. 43-60.     Digitized by Microsoft®     124 FORMAL CONTRACTS OF THE LATER REPUBLIC.   assertions on the subject serve only to show our  real ignorance, and ignorant we must be, owing to  the vagueness of the evidence. Yet it is only as to  the form of the contract that much controversy has  prevailed. Its operation and its history are tolerably  certain.   Form: Our ignorance respecting the mode in  which the contract was made is partly due to  the fact that tabulae, which meant account-books  in general, meant also a chirograph, or a written  stipulation, or an ordinary note-book'. We can  never be quite sure in what sense a technical term  of such ambiguity is used in any given passage.  Everyone agrees that the entry of a debt in the  creditor's account-book imposed a correspbnding  obligation upon the debtor, and the theory that  debts were entered for this purpose in separate  documents has been exploded ever since Savigny'''  refuted it. But the question so difficult to answer  is this : what sort of account-book was the codex in  which these binding entries were made ? We gather  from Cicero's speech for Roscius the actor that there  were in his day at least two principal books in general  use, (1) aduersaria ', and (2) codex or tabulae rationwm.  The former was a day-book, in which the details of  every-day business were jotted down, while the latter  was a carefully kept ledger, containing a summary  of the household receipts and expenditure, copied at  regular intervals from the aduersaria. These two   1 See Wunderlich, Liu. oblig. p. 19.   s Verm. Schrif. i. 211 ff.   ' Also called ephemeris. Prop. iii. 23. 20.     Digitized by Microsoft®     THEORIES OF BOOK-KEEPING. 125   books were also used by bankers (argentarii) ; and in  their codew or ledger were entered their accounts-  current with their different customers '. Similarly in  the codex of the householder there were probably  separate accounts, on separate folios, under such  heads as ratio praedii, ratio locitlorum, &c.^ There  was sometimes used a book known as (3) kalendanum,  in which the interest on loans was computed and  entered ', the making of loans at interest being  hence called kalendarium exercere.   (a) Some writers are of opinion that these  book -debts were entered by the creditor in the main  codex, and that this codex was a mere cash-book.  In that case, unless the debt was a loan actually  paid in cash, it must have been entered on both  sides of the account, debtor as well as creditor,  otherwise the book would not have balanced. This  twofold entry is said to have been called transcriptio;  and nomen transcripticium would accordingly have  been the name applied to an}' debt contracted in  that manner. The weakness of this theory lies in the  clumsiness of the alleged twofold method of entry;  we can scarcely believe that an imaginary receipt  would have been credited in the account simply  for the purpose of making both sides balance. More-  over it is unwise to assume, as these writers do  in support of their theory, that the Roman method  of keeping accounts was an easy matter and therefore  needed but few books ; for in a large town house, or  on a large estate with bailiffs, tenants and slaves to   1 2 Big. 13. 10 and 2 Dig. 14. 47. - 33 Dig. 8. 23.   3 12 Dig. 1. 41 and 33 Dig. 8. 23.     Digitized by Microsoft®     126 FORMAL CONTRACTS OF THE LATER REPUBLIC.   be provided for, it seems far more likely that the  accounts should have been elaborate and the account-  books numerous.   (6) According to Voigt, book-debts (nomina)  were entered in a (4) codex accepti et expensi  kept for the express purpose. Whether such a  fourth book existed, or whether the rationes accepti  et eccpensi were kept as a separate account in the  main codex rationum, is a question which our  authorities hardly enable us to answer. This  does not however seem very important, and it is  certainly impossible to tell in any given passage  whether the author is speaking of the main codex  (2), or of the codex accepti et expensi (4), which  Voigt supposes to have been a distinct book. His  theory is plausible, for codex accepti et expensi would  be a very natural name for a book containing only  expensa lata and accepta lata. But we may fairly  doubt the existence of this fourth book, partly be-  cause there is no passage which clearly distinguishes  it from the other account-books, and partly because  it is hard to see why the books of a Roman house-  hold, though clearly numerous, should have been  thus needlessly multiplied. Why should not 'no-  mina facere'-' have meant " to open an account"  with a man, and why could not such an account  have been opened as well on a folio of the prin-  cipal ledger as on a folio of the imaginary codex  accepti et expensi ? Perhaps a banker may have  found it worth his while to keep, as Voigt supposes,  a separate book for his loans and book-debts, but we  1 Cic. 2 Verr. i. 36. 92 ; Seneca, Ben. in. 15.     Digitized by Microsoft®     NATURE OF TRANSCRIPTIO. 127   cannot imagine that this would have been the common  practice of ordinary householders, when their codex  would have done equally well.   Eaypensilatio was the name of the transaction,  while the entry itself was called nomen; and the  term nomen transcripticium, which has been ex-  plained as the equivalent of nomen, because the  entry was transcribed from the aduersaria into the  codex, or because it was copied into both sides of the  account, seems rather to have denoted only a nomen  of a novatory character'. That nomen could produce  an original obligation is proved by the cases of Visel-  lius Varro" and of Canius' in which there is no  mention of transcriptio. Further Gaius clearly im-  pKes* that the nomen transcripticium was but one  instance of the use of expensilatio, and the cases  cited by him are purely novatory. Voigt therefore  is probably right in distinguishing the ordinary  nomen which created an obligation, from the nomen  transcripticium, which novated an obligation already  existent. If so, the name transcripticium comes from  the fact that   (a) a debt entered in one place as owed by Titius  might be transcribed into another part of the codex  as owed by Negidius (transcriptio a persona in per-  sonam), or   (h) a debt owed by Negidius, on account of (e.g.)  a sale, might be embodied in an expensilatio and  thus converted from a honae fidei into a stricti iuris   1 See Gaius in. 128. ^ Val. Max. vni. 2. 2.   ^ Cic. Off. III. 14. 59.   * " ueluti nominibus transcripticiis ," in. 130.     Digitized by Microsoft®     128 FORMAL CONTRACTS OF THE LATER REPUBLIC.   obligation by being entered in the codex {transcriptio  a re in personam).   Some passages are supposed to describe the entry  of book-debts in the books not only of the debtor and  creditor, but of third persons also' ; but it is difficult  to imagine that any man would have entered in the  midst of his own accounts a record of transactions  which did not actually concern him. Here again we  may believe that the ambiguity of the word tabulue  has led the commentators astray. What they have  taken for the account-books of a third party may  have meant simply his memorandum or note-book.  Salpius^ has endeavoured to explain away the  difficulty by asserting that these tabulae of third  parties really mean in every instance the tabulae of  either debtor or creditor. But the passages do not  seem to be capable of bearing such an interpretation,  and it appears far more likely that the word tabulae  has caused all the difficulty.   To summarise then this view of the Literal  Contract, we may believe it to have been made by  an entry written by the creditor on a separate folio  of the codex (2) or chief household ledger, and that  its form was very probably that given by Voigt' as  follows :   "HS X a Numerio Negidio promissa tfcc. expen-  sa Numerio Negidio fero in diem " ; whereupon the  debtor might, if he liked, make this corresponding  entry in his codex: "HS X Aulo Agerio promissa Jkc,  Aulo Agerio refero in diem,."   1 E.g. Cio. Att. IV. 18; Rose. Com. i.l; de Or. ii. 69. 280.   2 Novation, p. 95. 3 Bam. BG. i. 64.     Digitized by Microsoft®     FOKM OF ENTRY. 129   In cases of novation, the form would be as follows :   Creditor: "HS X a Lucio Titio dehita expensa  Numerio Negidio fero in diem" (transcriptio apersona  in personam), or else : "HS X a Numerio Negidio ex  emti causa dehita expensa Numerio Negidio fero in  diem," {transcriptio a re in personam). As in the  previous case, the debtor might make similar entries  in his codex.   Having thus opened an account, which could  only be done with the authorisation of the debtor,  the creditor would naturally enter on the same page  such items as payment of interest on the debt,  payment of the principal on account, &c. According  to Voigt, the entries showing repayment of the  principal would be made in the following form :  "HS X a Numerio Negidio dehita accepta Numerio  Negidio fero." Such an entry constituted a valid  release and went by the name of acceptilatio. Voigt'  thinks that the acceptilatio, as here given, was made  first by the debtor, and that the creditor followed him  with a corresponding accepti relatio. But the word  acceptum seems rather to imply that the release was  looked upon from the creditor's point of view. It is  therefore more likely to have been the creditor who  took the initiative in entering the acceptilatio, just  as he did in enteiing the expensilatio, while the debtor  perhaps followed him with an accepti relatio.   We know from Cicero^ that expensilatio could be  used to create an original obligation, while Gaius  tells us that it was much used for making an assign-  ment or a novation. Where however a loan made in  1 ib. p. 65. 2 Off. III. 14. 58-60.   B. E. 9   Digitized by Microsoft®     130 FORMAL CONTRACTS OF THE LATER REPUBLIC.   cash was entered in the creditor's book, the contract  was regarded as a case not of expensilatio but of  mutuum, and the entry was called nomen arcarium}.  This name seems to have come from the fact that  the money was actually drawn from the area or  money-chest^; and in such case the entry on the  creditor's books constituted no fresh obligation, but  served merely as evidence of the mutuum,.   History: The old theory of its origin, given by  Savigny and Sir Henry Maine, is that ecopensilaiio  was a simplified form of neacum. They argued that  the word expensum pointed clearly to the fiction  of a money -loan made by weight. But they never  succeeded in explaining how it happened that the  nexal loan should have produced a contract so  strangely difierent from itself.   The newer theory, which Voigt has ably set  forth ^ is far more intelligible and agrees with all  the facts. Its merit lies in recognising expensilatio  as a device first used by bankers and merchants  and subsequently adopted by the rest of the com-  munity. Nothing indeed could be plainer than the  commercial origin of expensilatio. Like the negoti-  able instrument of modem times it is a striking  instance of the extent to which Trade has moulded  the Law of Contract. This institution probably did  not originate at Rome, but the Greek bankers of  Southern Italy may have adopted and used it  centuries before we hear of its existence. It seems  to have been first iatroduced* by the Greek argen-   1 Gaius in. 131. ••' Cic. Top. 3. 16.   3 Z. N. II. 244 ft. * Voigt, mm. RG. i. 60.     Digitized by Microsoft®     ORIGIN OF EXPENSILATIO. 131   torn or tarpezitae (TpaTre^Tai), who came to Rome  about A. V. c. 410 — 440, and took the seven shops  known as tabernae ueteres^ on the East side of the  Porum^ Their numbers were subsequently increased,  when the tabernae nouae were also occupied by them.  Their business was extremely varied and their system  of book-keeping doubtless highly developed. They  made loans^, received deposits*, cashed cheques  {perscriptionesY, managed auctions', and exchanged  foreign monies for a commission (collybusy. They  also used codices accepti et expensi, in which, as we  have seen, accounts-current were kept with their  customers ^ We learn from Livy' that by A. v. C.  5.59 the expensilatio thus introduced by them had  become a common transaction among private in-  dividuals. It cannot have been long before the  conception of pecunia credita was extended so as  to cover book-debts as well as stipulations ; but  we do not know the exact date. From Cicero"  however we learn that pecunia expensa lata was a  branch of pecunia credita within the scope of the  Lex Silia, and that the proper remedy for its  enforcement was the condictio certae pecuniae with  its sponsio tertiae partis. As Voigt" has well  pointed out, the expensilatio presupposes the exis-  tence throughout the community of a high standard  of good faith. It was therefore ill adapted for   ' Liu. XXVI. 27. 2 Liu. vii. 21.   3 Plaut. Cure. 5. 2. 20. * ib. 2. 3. 66.   5 ib. 3. 62-65. « Cio. Caec. 6. 16.   ? Cio. Att. XII. 6. 1. 8 2 Dig. 14. 47.   ^ Liu. XXXV. 7. ^'' Rose. Com. 5. 14.  11 I. N. II. 420.   9—2   Digitized by Microsoft®     132 FORMAL CONTRACTS OF THE LATER REPUBLIC.   general use among the Greeks, whose bad faith was  proverbial'. The fact that it was at Rome, and at  Rome only, that this contract received full legal  recognition, is proved by Gains' doubts" as to  whether a peregrin could be bound by a nomen  transcripticiwn. By the end of the Republic eocpen-  silatio was at its height of favour, but it died out,  except among bankers, soon after the time of Gains,  for in Justinian's day it was unknown.   Art. 4. Chirographvm and Stngrapha were  forms of written contract borrowed, as their name  implies, from Greek custom, and chiefly used by pere-  grins, as Gaius informs us°. The distinction between  the two was purely formal, the one being signed by  the debtor (cAiro^rrop/i Mm), and the other being written  out in duplicate, signed by both parties, and kept by  each of them (syngraphay. These foreign instru-  ments at first produced nothing more than a pactum  nudrmi, for wherever we find syngrapha mentioned  in Plautus, it denotes a mere agreement (pactum),  the terms of which had been committed to writing  and which was certainly not actionable, while chiro-  graphum, never occurs in his plays. The Roman  magistrates, finding these instruments recognised by  aliens, ventured at length to enforce debts ew syn-  grapha, and thus their legal validity was secured^  They had received, some sort of recognition by the   1 Plaut. Asin. 1. 3. 47.   ■" m. 133. s III. 134.   * See Diet, thirteenth cent, in Heimbach, Greditum p. 520, and  Ascon. in Gic. Verr. i. 36.   s Cic. pro Rah. Post. 3. 6; Har. resp. 13. 29 ; Phil. ii. 37. 95 ;  ad Att. Yi. 1. 15 ; ii. v. 21. 10 ; ib. vi. 2. 7.     Digitized by Microsoft®     CHIROGRAPHVM. 133   time of Cicero, but when they were first enforced  does not appear, though it was certainly late in the  history of the Republic. Gneist^ has advanced the  theory that in Cicero's time neither chirographum  nor syngrapha was a genuine literal contract, but  only a document attesting the fact of a loan, which  could always be rebutted by evidence aliunde. This  theory is the more plausible because Gains himself  does not seem certain as to the binding nature of  these documents^   An interesting passage in Theophilus° is some-  times said to give the form in which litterarum  obligatio proper, i.e. expensilatio, was contracted.  This view is certainly wrong, for the context  shows that Theophilus meant to describe a contract  signed by the creditor and known as chirographum.  As a sample of how chirographa were made, the  Latin translation of this instrument may therefore  be quoted : " Centum aureos quos mihi ex caussa  locationis dehes tu ex conuentione et confessione lit-  terarum tuanrni dabis?" And to this the debtor  wrote the following answer: "Ex conuentione deheo  litterarum nuearutn." This was evidently not a nomen  transcripticium, but a chirographum or syngrapha,  since Gaius expressly states debere se aut daturum  se scribere to be the usual phraseology of such  instruments. Both parties also seem here to have  been present, whereas one of the chief advantages  of expensilatio was that it enabled debts (by expensi-  latio) and assignments (by transcriptio) to be validly  made without requiring the presence of the parties   1 Form. Vertr. p. 113. ' in. 134. » Paraphr. in. 21.   Digitized by Microsoft®     134 FORMAL CONTRACTS OF THE LATER REPUBLIC.   concerned. Heimbach* is therefore wrong in taking  the above passage as equivalent to " Eacpensos tiM  tuli ?" " Expensos mihi tulisti." The transaction was  evidently dififerent from expensilatio, and can have  been nothing else than a dhirographtim. Another  specimen chirographum preserved in the Digest^  shows that the promise or acknowledgement was  sometimes made in a letter from the debtor to the  creditor.   > Cred. p. 330. 2 2 Dig. 14. 47.     Digitized by Microsoft®     CHAPTER VI.   CONTRACTS OF THE IVS GENTIVM. Part I.   Consensual Contracts.   Art. 1. Emtio Venditio. The forms of con-  tract hitherto examined have been distinguished from  most of the contracts of modern law in one or more  of the following respects :   (i) They were confined to Roman citizens.   (ii) They were unilateral.   (iii) They were capable of imposing obligations  only by virtue of some particular formality.   (iv) They were available only inter praesentes.   The contract which we are now about to consider  was modem in all its aspects :   (i) It was open to aliens as well as to citizens.   (ii) It was bi-lateral.   (iii) It rested only upon the consent of the  parties, required no formality, and could be re-  solved like any modem contract into a proposal by  one party' which became a contract when accepted  by the other party.   1 Plant. Epid. 3. 4. 35.     Digitized by Microsoft®     136 CONTRACTS OF THE IVS OENTIVM.   (iv) It could be made at any distance, provided  the parties clearly understood one another's meaning.   How then can the formal contracts of the older  law ever have produced such a modem institution to  all outward appearance as the consensual contract of  sale?   The elements which make up the popular con-  ception of sale are usually fourfold ; they consist of:   (1) The agreement by which buyer and seller  determine to exchange the wares of the latter for  the money of the former;   (2) The transfer of the wares from the seller to  the buyer ;   (3) The pajrment of the price by the buyer to  the seller ;   (4) The representation, express or implied, of  the seller to the buyer, that his wares are as good in  point of quantity or quality as they are understood  to be.   Mandpatio was at first a combination of the  second and third elements above-mentioned. It  was a transfer of ownership followed by an imme-  diate payment of the price. Subsequently, as we  saw, the payment became separated from the trans-  fer, so that mancipatio represented only the second  element. The fourth element, that of warranty,  existed to a certain extent in those sales in which  the transfer of property was made by moundpatio,  and this fourth element we shall consider further in  a later section. But throughout the early history of  Rome the first element, indispensable wherever a  sale of any kind takes place, was completely un-     Digitized by Microsoft®     ORIGIN OF ACTIO EMTI. 137   recognised by the law. The reason is that the  preliminary agreement between buyer and seller was  nothing more than a pactum, an agreement without  legal force because usually without form. The parties  might always of course embody their agreement of  sale in a sponsio and restipulatio, but in such a case  all that the law would recognise would be the re-  ciprocal sponsiones, not the agreement itself Why,  we may ask, was recognition ever accorded to this  preliminary pactum ? In other words, what was the  origin of emtio uenditio, which turned the pactum  into a contract ?   Bekker's plausible theory' adopted by Muirhead"  is that contracts of sale were originally entered into  by means of reciprocal stipulations, and that the actio  emti was but a modification of the actio ex stipu-  latu founded on those stipulations, while it borrowed  from the actio ex stipulatu its characteristic bonae  fidei clause. But how then did the notion of bona  fides arise in the actio ex stipulatu itself? Bekker  seems to have put the cart before the horse, and  Mommsen" holds the far more reasonable view that  the actio emti was the original agency by which  bona fides found its way into the law of contract, in  which case the actio ex stipulatu must have been not  the prototype but the copy of the actio emti.   The origin of the actio emti was indeed very  curious, since it seems clearly to have been suggested  and moulded by the influence of public law. The  sales of public property, which used at first to be   1 Akt. I. 158. ^ Bom. Law, p. 334.   3 Z. der Sav. Stift. R. A. yi. 265.     Digitized by Microsoft®     138 CONTRACTS OF THE IVS OENTIVM.   carried out by the Consuls and afterwards by the  Quaestors', became increasingly frequent as the  conquests of Rome were multiplied, and as the  supplies of booty, slaves and conquered lands be-  came more and more plentifiTl. The purchase by  the State of materials and military supplies was  also of frequent occurrence, as the wealth of Rome  increased. Now these public emtiones and iiendi-  tiones constantly occurring between private citizens  and the State were founded upon agreements neces-  sarily formless. The State could clearly not make a  iusiurandum or a sponsio, but the agreements to  which the State was a party (according to the  fundamental principle laid down at the beginning  of this inquiry that the sanction of publicity was as  strong as that of religion) were no less binding than  the formal contracts of private law. A public breach  of bona fides would have been notorious and dis-  graceful. Whenever therefore the State took part  in emtio uenditio, the agreement of sale was thereby  invested with peculiar solemnity ; and thus in course  of time the pactum uenditionis became so common as  an inviolable contract that the actio emti uenditi was  created in order to extend the force of the public  eTTitio uenditio into the realm of private law. As  soon as this action was provided, emtio uenditio  became a regular contract, which was necessarily  bilateral because performance of some sort was  required from both parties. An action could thus  be brought either by the buyer against a seller  who refused to deliver (actio emti), or by the  ^ MommseD, Z. der Sav. Stift. E. A. vi. p. 262.     Digitized by Microsoft®     INFLUENCE OF PUBLIC SALES. 139   seller against a buyer who failed to pay {actio  uenditi).   The history of the words emere uendere is in-  structive. We can see that at first they were not  strictly correlative. Vendere or uenumdare meant to  sell, not in the sense of agreeing upon a price, but  in the sense of transferring in return for moneys ;  while eniere meant originally to take or to receive,  without reference to the notion of buying''. But  neither emere nor uendere was at first a technical  term. Emere subsequently got the specialized sense  of purchasing for money as distinct from permutare,  to barter ^, but this particular shade of meaning seems  like the actio to have had a public origin. The old  technical expression for the purchase of goods at public  sale was emtio sub hasta or sub corona, while the object  of the sales was to get money for the treasury, and  therefore the consideration was naturally paid by  purchasers in coin. These public uenditioiies thus  led to three results:   1. The agreement of sale came to the front as  the element of chief importance, and as a transac-  tion possessing all the validity of a contract.   2. The word emere came to denote the act of,  buying for money, as distinct from permutatio which  meant buying in kind.   3. The uenditio of public law resting wholly upon  consent, which was probably signified by a lifting up of  the hand in the act of bidding*, and being necessarily  a transaction bonae fidei, it follows that when emtio   ^ Voigt, I. N. IV. 519. ^ Paul. Diac. s. u. emere.   2 21 Dig. 1. 19. fr. 5. * Cf. the word manceps.     Digitized by Microsoft®     140 CONTRACTS OF THE lYS GENTIVM.   uenditio was made actionable in private law, consent  was the only thing required to make the contract  perfectly binding, and that the rules applicable to  it were those, not of iiis strictwm, but of bona  fides.   The complete recognition of emMo uenditio was  only attained by degrees. The first step in that  direction seems to have been the granting of an  exceptio rei uenditae et traditae to a defendant  challenged in the possession of a thing which he had  honestly obtained by purchase and delivery. The  second step was the introduction of the actio Puhli-  ciana, through which a plaintiff, deprived of the  possession of a thing that had been sold and de-  livered to him (1) by the owner or (2) by one whom  he honestly believed to be the owner, might recover  it by the fiction of usucapio^.   These remedies, the exceptio and the actio, were  necessary complements to one another. The former  was a defensive, the latter an offensive weapon, and  they both served to protect a bona fide purchaser  who had by fair means obtained possession of an  object to which in strict law another might lay  • claim. The exceptio rei uenditae et traditae^ was  founded upon an Edict worded somewhat as follows :   SI QVIS ID QVOD VENDIDIT ET TRADIDIT NONDVM  VSVCAPTVM PETET, EXCEPTIONEM DABO ^ ; and in   the formula of an action by the seller to recover the  thing sold this exceptio would have been introduced  thus:... si non earn rem qua de agitur J.' Agerius   1 Gai. IV. 36. 2 44 j)ig^ i_ 20.   3 Voigt, I. N. IV. 517.     Digitized by Microsoft®     ACTIO PYBLIOIANA. 141   N" Negidio vendidit et tradidit Its effect was to   protect the bona fide purchaser even of a res mancipi  against the legal owner who attempted to set up his  dominium ex iure Quiritium. On the other hand  the actio Publiciana in its alternative form, was  based on two Edicts worded somewhat as follows:   (i) SI QVIS ID QVOD EI TRADITVM EST EX IVSTA  CAVSA A DOMINO ET NONDVM VSVCAPTVM PETET,  IVDICIVM DABO\   (ii) SI QVIS ID QVOD BONA FIDE EMIT ET EI  TRADITVM EST NON A DOMINO ET NONDVM VSV-  CAPTVM PETET, IVDICIVM DABO I   The precise wording of these Edicts is much dis-  puted, but the question of their correct emendation  is too large to be discussed here. The formula of an  actio Publiciana based on the second Edict is given  by Gaius '" and ran as follows : Si quern hominem A^  Agerius* emit et qui ei tradittis est anno possedisset,  turn si eum hominem de quo agitur eius ex iure Quiri-  tium esse oporteret, quanti ea res erit, tantam pecuniam,  iudex, N™ Negidium A" Agerio condemnato, s. n.p. a.   The usefulness of these actions as a protection to  sale is apparent. They secured the buyer in posses-  sion of the object sold to him until usucapio had  ripened such possession into full dominium ; but  they were useful only when his possession had been  interrupted and he wished to recover it. On the  other hand, the exceptio rei uenditae et traditae pro-   1 Voigt, I. N. IV. 478.   2 Voigt, /. N. IV. 479. 2 IV. 36.   ■• BONA FIDE here iDserted by Voigt, I. N. iv. 483, of. 6 Diri.  2. 7. fr. 15.     Digitized by Microsoft®     142 CONTRACTS OF THE IVS GENTIVM.   tected him till the period of tisucapio agaiost the  former owner; but it was only usefal where his  possession had not been interrupted. The date of  the actio Publidana and of this exceptio are not  to be fixed with absolute certainty; but it is quite  clear that neither of them had anything to do  with a Praetor Publicius mentioned by Cicero as  having existed about A.v.c. 685'. Though there  is no mention of either actio or exceptio in the  writers of the Republican period, yet it is clear  from some passages of Plautus^ that the tradition  of res mancipi sold was in his time a transac-  tion protected by the law, and Voigt ^ has shrewdly  argued that both actio and exceptio must be older  than the actio emti, because the latter aimed at  securing delivery (habere licere) which would have  been of no use had not delivery already been protected  by legal remedies. Now the Fasti Gapitolini report a  Consul M. Publicius Malleolus of A. v. c. 5 22*, and the  conjecture that he was the author of the actio Publi-  dana seems very plausible °. The exceptio rei uen-  ditae et traditae was probably somewhat older, for  the defensive would naturally precede, not follow, the  offensive remedy. Nor can this exceptio in Voigt 's  opinion have been contemporary with the actio  Publidana, because it does not bear the name of  exceptio Publidana, which it otherwise would have  borne ° This argument does not seem to me strong,   1 Cie. Cluent. 45. 126.   2 Cure. 4. 2. 8 ; Fers. 4. 3. 64 ; Epid. 3. 2. 23.   ' I. N. XV. 469. < = Praetor in a.v.c. 519.   " Voigt, I. N. IV. 505. 6 I. N. iv. 468.     Digitized by Microsoft®     SALE ENFORCED BY EDICT. 143   since we know that the famous exceptio doli was not  called exceptio Aquiliana. But the point is not an  important one. It is enough to be able to say with  approximate certainty that the exceptio rei uenditae  et traditae and the actiones Puhlicianae were intro-  duced by some Praetor about A.v.c. 520.   Still the agreement of sale was not yet enforce-  able as such. In private affairs it remained what it  had been from the time of the XII Tables, a formless  agreement supported only by the mores of the com-  munity, whereas in public affairs it was still techni-  cally a pactum as before, except that the publicity  of sales made by the Quaestors gave to their terms  a peculiarly binding force. The solemnity always  attaching to transactions done in the presence of the  people was, as we have seen, at the root of this respect  paid to the public uenditio.   At last the Praetor of some year decided to  make the emiio uenditio of private law the ground  of an action, and thus put it on a level with the  public uenditiones. We do not know the terms of  the important Edict by which the actio emti was  introduced, but the formula of the action (ex uendito)  brought by the seller is partly given by Gains ^ and  must have been as follows : Quod Aulus Agerius  mensam N" Negidio uendidit, quidqvid paret oh earn  rem iV™ Negidium A" Agerio dare facere oportere  ex fide bona'', eius, index, N™ Negidium A" Agerio  condemnato. s. n. p. a. The intentio here was exactly  the same as that of the actio ex stipulatu, and was  probably its prototype, both of them being equally  1 IV. 131. 2 cio. Off. III. 16. 66.     Digitized by Microsoft®     144 CONTRACTS OF THE lYS GENTIVM.   bonae fidei actions. The formula of the action (ex  emto) brought by the purchaser was worded in like  fashion: Quod A' Agerius de N" Negidio hominem  quo de agitur emit, quidquid oh earn rem N^ Negidium  A" Agerio dare facer e oportet ex fide bona, eiv^, index,   t&C. (&C.   The age of the a^tio emti has been very hotly  disputed, and the most knotty question has been  whether the action existed or not in the days of  Plautus, who died A.v.c. 570. The chief opponent  of the affirmative theory has been Bekker', but the  arguments of Demelius", Costa', Voigt* and Bech-  mann' are so convincing that little doubt on the  subject can any longer be entertained. It appears  absolutely certain that the actio emti was a feature  of the law as Plautus knew it. An elaborate proof of  this proposition has been so well given by Demelius  and Costa that it is not necessary to do more than  sum up the evidence.   (i) The contract of emtio uenditio was discussed  by Sex. Aelius Paetus Catus (Cos. A.V.C. 556) pro-  bably in his Tripertita, and by C. Liuius Drusus  (Cos. A.v.c. 642)«.   (ii) The aedilician Edict, which presupposed  that emtio uenditio was actionable, is mentioned by  Plautus '.   (iii) We find in Plautus many passages which  are only intelligible on the supposition that emtio   ' AU. I. 146, note 38. ^ z.fiir SG. ii. 177.   3 Dir. Pnvato 365-73. * I. N. iv. 542.   5 Kauf, I. pp. 511-526. « 19 Dig. 1. 38.  7 Capt. 4. 2. 43.     Digitized by Microsoft®     INSTANCES IN PLAUTUS. 145   uenditio was actionable. For instance in Mostel-  laria^, where the son of Theuropides pretends to  have bought a house, and where the owner of the  house is represented as begging for a rescission of  the sale, we cannot suppose, as Bekker does''', that  fides was the only thing which bound the owner.  Had it not been for the existence of the actio emti  he could not have been represented as trying to have  the sale cancelled'.   Again, in Act 5, Scene 1, the slave Tranio ad-  vises his master Theuropides to call the owner into  court and bring an action for the mancipation of the  house *, and this can be nothing else than a reference  to the actio ex emto. In the same play° it is also  plain that hona fides was a principle controlliiig the  iudicium ex emto.   Again in Persa ' it is clear that Sagaristio, when  selling the slave-girl, would not have taken such  pains to disclaim all warranty if he could not have  been compelled by the actio emti to make good the  loss sustained by the purchaser. To prevent this  liability Sagaristio is careful to throw the whole  periculum on the buyer. Why should he have done  so, had there been no actio emti ?   Again in Rudens the leno, who had taken  earnest-money for the sale of a slave girl and had  then absconded with her, would not have been so  much afraid of meeting the buyer Plesidippus, if he   1 3. 1. and 2. ^ de Empt. Vend. p. 16.   3 3. 2. 110.   * 5. 1. 43. Cf. Gai. iv. 181. « 3. 1. 139.   8 4. 4. 114. and 4. 7. 5.   B. E. 10   Digitized by Microsoft®     146 CONTRACTS OF THE IVS 0ENTIVM.   had not feared the actio emti. And when the slave  girl was finally abiudicata from the leno *, Demelius  and Costa are unquestionably right in regarding this  as a result of a iudicivmi ex emto. Bekker's opinion  that it was the result of a uindicatio in libertatem  seems hardly to agree with the fact that the leno is  not represented as knowing of her free status till  two scenes later''. We might multiply instances,  but the evidence is so fully given by others that it is  not worth repeating. The general conclusion to be  drawn from the above facts is that emtio uenditio  became actionable before A.v.c. 550; and, if our  argument be right, later than 520, the date of the  actio Publiciana.   From Plautus we gather further that arrha or  arrhabo, the pledge or earnest money which Gaius  mentions in this connection, was often given to bind  the bargain of sale as well as other bargains. From  this it has been argued that pure consensus must have  been insufficient to make the contract binding'; but,  if that be so, why should the arrha have been used  in Gains' day, when we know that sale was purely  consensual ? In Rudens " it is clear that the arrhabo  was not a necessary part of the transaction, but a  mere piece of evidence, so that arrhahonem acceperat  simply means uendiderat^. The use of arrhaho is  mentioned also in Mostellaria^ and Poenulus^. It  was probably forfeited by the purchaser in case the  bargain fell through.   ^ 5. 1. 1. 2 5. 3—8.   ' Bekker, Heid. Krit. Jahrschrift, i. 444.   ■* 2. 6. 70. « Brid. Prol. 45-6.   6 3. 1. 111—4. 4. 21. ' 5. 6. 22.     Digitized by Microsoft®     WARRANTY IN SALE. 147   Having now seen how the actio emti uenditi  originated and what was its probable age, let us see  what obligations were imposed by the conclusion of  the sale upon each of the parties to it :   (1) Upon the purchaser (emtor).   His chief duty was reddere pretium, to pay  the price agreed upon', and if the price consisted  partly of things in kind, his duty was to deliver  them " ; but according to Voigt ' there was no obli-  gation iipon him to do more than deliver.   A duty which the purchaser seems very early  to have acquired was that of compensating the seller  for mora on his part *.   (2) Upon the vendor (tienditor-).   His chief duty was rem praestare ° (or rem habere  licere), to give quiet possession to the vendee ; but  this did not include the obligation to convey  dominium ex iure Quiritium,".   The actio emti, as we have now examined it,  enforced three things : (1) recognition of the con-  sensual agreement of sale, (2) delivery by the seller,  (3) prompt payment by the buyer. Thus it dealt  with three of the elements involved in the general  conception of sale. The fourth element, that of  warranty, remains to be considered.   We know that this fourth element was covered  by the actio emti in the time of Ulpian, but it does  not seem to have been so during the Eepublic.  Both Muirhead' and Bechmann* have involved the   ' Varro, R. R. n. 2. 6. ^ Cato, R. R. 150.   3 /. N. in. 985. ^ 19 Dig. 1. 38 fr. 1.   « 19 Dig. 1. 11. " 19 Dig. 1. 30 ; 18 Dig. 1. 25.   !■ R. Law, p. 285.. ^ Kauf. i. 505.   10—2   Digitized by Microsoft®     148 CONTRACTS OF THE IVS GENTIVM.   subject in unnecessary difficulty by confusing a honae  fidei contract of sale with one in which warranty  was employed. They speak as though bona fides  included warranty, a proposition not necessarily tnie  and of which we have no proof. It appears, on the  contrary, that the actio emti to enforce warranty was  of much later origin than the actio emti to enforce  consensual sale '. We have therefore to inquire how  warranty was originally given and how it was made  good.   The only kind of warranty which we have hitherto  encountered is that against eviction implied in every  mancipatio and enforced by the actio auctoritatis.  This method was but of limited scope, since it ap-  plied only to res mancipi.   After the introduction of the condictio incerti, it  became possible to embody warranties in the form of  a stipulation. This was accomplished in one or more  of the following ways :   (1) The stipulatio duplae specified the warranty  given by the vendor, and provided in case of a breach  for liquidated damages in the shape of a poena dupli,  which was doubtless copied from the duplwm of the  a^tio auctoritatis. The best specimens of this stipu-  lation are texts 1 and 2 of the Transylvanian Tablets  printed by Bruns ''-. It was apparently used in those  sales of res mancipi, which were consummated not by  mancipatio but by traditio '. Its superiority to the  warranty afforded by the actio auctoritatis was that  it guaranteed quality as well as title, which the actio   1 Girard, Slip, de Garantte, N. R. H. de D. vii. p. 545 note.  ^ Font. p. 256. ^ Varro, B. R. ii. 10. 5.     Digitized by Microsoft®     STIPULATIONS OF WARRANTY. 149   auctoritatis could not do. The Tablets indeed show  that the warranties against defects in this stipulation  "were exceedingly comprehensive, and that it defended  against eviction not only the buyer, but also those in  privity with him (emtorem eumue ad quern ea res per-  tinebit).   (2) We also find a stipulatio simplae, of which  the best instances are texts 3 and 4 of the Transyl-  vanian Tablets and which, according to Varro ^ might  be used as an alternative to the stipulatio duplae, if  preferred by the two parties. Its aim in securing the  buyer against eviction and defects was precisely the  same as that of the former stipulation; its only  difference being that the damages were but half  the former amount, i.e. were exactly measured by  the price of the thing sold. Girard and Voigt are  probably wrong in identifying this stipulation used  for res mancipi with the next one, which was  apparently used only in sales of res nee man-  cipi.   (3) Another stipulation of frequent occurrence  was the stipulation recte habere licere. This guaran-  teed quiet possession so far as the seller was con-  cerned. Its scope was therefore not so wide as that  of the stipulatio siviplae or duplae. The vendor  simply promised recte habere licere, but specified no  penalty in the event of his non-performance, so that  the action on the stipulation must have been a  condictio incerti, in which the damages were assessed  by the judge. The import of the word 'recte' was  doubtless not the same as that of ex fide bona ; but,   1 R. R. II. 2. 5.     Digitized by Microsoft®     150 CONTRACTS OF THE IVS GENTIVM.   as Bechmann ^ has pointed out, it simply implied a  waiver of technical objections.   (4) A stipulation as to quality alone is men-  tioned by Varro " as annexed to the sale of oxen and  other res mancipi. The vendor simply promised  sanos praestari, so that in this case also the remedy  was condictio incerti for judicial damages.   (5) A satisdatio secundum mancipiimi is also  mentioned by Cicero' and in the Baetic Tablet ^  But its nature and form are quite uncertain. Its  name implies that it had some connection with  auctoritas, and the most likely theory seems to be  that it was a stipulation of suretyship, by which  security was given for the auctor, either to insure  his appearance (and if so, it was a form of uadimo-  nium/') or to guarantee his payment of the poena  dupli, in the event of eviction (and if so, it was a  form oifideiiissio ').   The three first of the above stipulations prove  that even in the early Empire (a.d. 160 is the sup-  posed date of the Transylvanian Tablets) actio emii  was not yet an action for implied warranty. Ulpian's  language also indicates that the implication of war-  ranty was a new doctrine in his day '.   Thus far we have seen that stipulations of war-  ranty were customary, and that by the stipulatio  duplae or simplae both title and quality were  secured. The next step was to make these stipu-   1 Kauf. I. p. 639. ^ ii. 5. 11.   » ad Att. V. 1. 2. * Bruns, Fcmtes, p. 251.   " Varro, vi. 7. 54. ^ gge Girard, loc. cit. p. 551.   ' 21 Dig. 1. 31 fr. 20.     Digitized by Microsoft®     LOGATIO OONDVGTIO. 151   lations compulsory, and this was first accomplished  by the Aediles, in their Edict regulating, among  other things, sales in the open market. Plautus  mentions this Edict, and refers to the rule of red-  hibitio which it enforced \ The first positive mention  of aedilician regulations as to warranty occurs how-  ever in Cicero ^ and from this it appears that the  Aediles first compelled a stipulatio duplae in the sale  of slaves. This innovation was doubtless intended to  punish slave dealers, who were, as Plautus shows, a  low and dishonest class, by imposing upon them the  old penalty of duplum. The two aedilician actions  which could be brought, if the stipulatio duplae had  not been given, were (1) the actio redhibitoria, avail-  able within two months, and by which the vendor  had to restore the duplum of the price"; (2) the  actio quanti emtoris intersit*, available within six  months for simple damages. Further than this,  however, the law of the Republic did not advance.  It was not till the day of Trajan and Septimius  Severus that the stipulations of warranty were  compulsory for other things than slaves*, and we  cannot therefore here trace the development of  warranty to its consummation.   Art. 2. LocATio Condvctio. The word locare  has no technical equivalent in English, for it some-  times expresses the fact of hiring, sometimes that of  being hired. It means literally to place, to put out.   1 Capt. i. 2. 44 ; Bud. 2. 3. 42 ; Most. 3. 2. 113.   2 Off. III. 17. 71.   3 21 Dig. 1. 45. « 21 Dig. 1. 28.  5 Girard, N. B. H. de D. viii. p. 425.     Digitized by Microsoft®     152 CONTRACTS OF THE IVS GBNTIVM.   As we say that a capitalist places his money, so the  Romans said of him pecunias locat\ The State was  said opios locare when it paid a contractor for doiag  a job, while the gladiator who got paid for fight-  ing was said operas locare. This contract was con-  sensual and bi-lateral like emtio uenditio, and had a  very similar origin. It is easy indeed to see that for  a long time there was no distinction made between  locatio and uenditio. The latter meant originally, as  we have seen, to transfer for a consideration, and  thus included the hire as well as the sale of an  object. Festus accordingly says that the locationes  made by the Censors were originally called uendi-  tiones ^ The confusion thus produced left its traces  deeply imprinted in the later law, for we find Gaius'  remarks on locatio condiictio chiefly devoted to a  discussion of how in certain doubtful cases the  line should be drawn between that and emtio uen-  ditio.   Like emtio uenditio, this contract was developed  in connection with the administration of public busi-  ness. The public affairs in which contractual relations  necessarily arose were of four kinds ' :   (1) Sales of public property, such as land, slaves,  etc., which devolved upon the Quaestors. This class  of transactions produced the contract of emtio uen-  ditio, as above explained.   (2) Contracts for the hire of public servants,  generally known as apparitores. These were the  lictores and other attendants upon the different   ' Most. 1. 3. 85. ^ Festus, s. u. uenditiones.   " Mommsen, Z. der Sav. Stif. R. A: vi. 262.     Digitized by Microsoft®     VARIOUS FORMS OF HIRE. 153   magistrates, and were naturally engaged by those  whom they respectively served. This hiring gave  rise to the contract known as condiictio operarum,  while the offer of such services to the State con-  stituted locatio operarum.   (3) Business agreements connected with public  work, such as the building of temples or bridges,  the collection of revenue, etc. This class was in  charge of the Censors \ and developed the contract  of locatio operis, while the transaction viewed from  the standpoint of the contractor became known as  conductio operis.   (4) Agreements for the supply of various kinds  of necessaries for the service of the State, such as  beasts of burden, waggons, provisions, etc. This  hiring produced the contract known as conductio rei,  while the contractors who supplied such commodities  were said rem locare.   Thus the first group of public transactions gave  birth to the contract of sale in private law, while the  three last groups each became the parent of one of  the three forms of the contract of hire.   Just as uenditio seems to have been the original  equivalent of locatio, so must emtio have been the  original term for what was afterwards known as  conductio. Conducere can originally have applied  only to the second class of agreements; it must  have denoted the collecting and bringing together  of a body of apparitores. Afterwards, when the  notion of hiring became conspicuous, conducere doubt-  less lost its narrow meaning, and was extended to   1 Liu. xMi. 3.     Digitized by Microsoft®     154 CONTRACTS OF THE IVS GENTIVM.   the pther two kinds of hire, as the correlative to  locare '-   The wholly distinct origin of these various kinds  of locatio conductio, and the fact that they were  transacted by different magistrates, are sufficient  reasons for the curious distinction which the classical  jurisprudence always drew between locatio conductio  r&i, operis and operarum. A trace of the old word  emere as equivalent to conducere always remained in  the word redemtor, meaning a contractor for public  works. This term was never applied to the apparitor,  since it was he who took the initiative and who  was thence regarded as a locator operarwm.   When the conception of locatio conductio became  separated from that of emtio uenditio it is impossible  to determine. But since the two transactions appear  in Plautus distinct as well as enforceable, and since  the contract of sale was only recognised shortly before  Plautus' day, the conceptions of sale and of hire pro-  bably became quite distinct before either transaction  became actionable. We can trace in many passages  of Plautus the three forms locatio rei", locatio operis',  locatio operarum* ; and it can hardly be imagined  that these contracts could have been so common and  so distinctly marked had they not been provided  with actions. Voigt ' however is of opinion that the  three different forms of locatio conductio became  actionable at different periods. Locatio conductio   ' Mommsen, ib. p. 266.   2 Pseud. 4. 7. 90 ; Merc. 3. 2. 17.   3 Bacch. i. 3. 115 ; Persa, 1. 3. 80.   * Aul. 2. 4. 1 ; Merc. 3. 4. 78 ; Epid. 2. 3. 8.  = I. N. IV. 596, ff.     Digitized by Microsoft®     AGE OF THE VARIOUS FORMS. 155   operis and operarwm he places earliest, and admits  that they were known as contracts by the middle of  the sixth century, which would bring them very  nearly to the age of emtio uenditio ; but from  Cato ^ he infers that locatio conductio rei was of later  origin and that it did not become actionable until  the first half of the seventh century. The earliest  actual mention that we possess of locatio conductio is  by Quintus Mucins Scaeuola, author of 18 books on  the IxiS Giuile'', whom Cicero quotes^, though we  cannot tell whether the quotation refers to all  kinds of locatio conductio or only to the locatio  conductio operis. Certain it is that in Cato ' locatio  conductio rei seems to be treated rather as emtio  uenditio fructus rei. It is also remarkable that lo-  catio conductio rei is seldom mentioned in Plautus ^  and so briefly that we can form no conclusion as to  whether it was or was not actionable; whereas on  the contrary locatio conductio operis and operarum  appear very often and exhibit all the marks of  ' thoroughly developed contracts. For instance, the  locatio conductio operancni in Asinaria" contains a  lex commissoria, and that in Bacchides'' provides for a  bond to be given by the locator operarum binding  him to release the person whose operae he had been  employing, as soon as the work was finished. Again  in Miles Gloriosus^ the technical term improbare  opus is used to express the rejection of work badly  carried out by a contractor. All this points to the   1 R. B. 149. 2 i.y.c. 661-672. •* Off. in. 17. 70.   * R. R. 149, 150. 5 Cure. 4. 1. 3 ; Merc. 3. 2. 17.   6 1. 8. 76. ' 1. 1. 8. ? 4. 4. 37.     Digitized by Microsoft®     156 CONTRACTS OF THE IV8 GENTIVM.   existence of an action for locatio conductio operarum  and for locatio conductio operis at the time when  Plautus wrote'; hut Voigt seems right in concluding  that locatio conductio rei did not become actionable  till a good deal later.   The origin of this action, as of the actio emti, was  in the Praetor's Edicts and in form it differed but  little from the actio emti uenditi. Like the latter it  was bonae fidei^ and its form {ex locato) must have  been as follows : Quod A^ Agerius N" Negidio  operas locauit, quidquid paret oh earn rem N™ Negi-  dium A" Agerio dare facere oportere ex fide bona,  eius, iudex, N™ Negidium A" Agerio condemnato.  s. n. p. a. Like emtio uenditio it is also clear that  locatio conductio of all kinds could be made by mere  consensus, and that from the first it must have been  a 6onae fidei contract like its prototjrpe.   The writings of Oato * are our chief authority for  the existence of the locatio conductio operis and  operarum in the second half of the seventh century,  and for the manner in which these locationes were  contracted. It appears to have been customary to  draw up with care the terms (leges locationis) of such  contracts, and when these were committed to writing,  as they doubtless must have been, they exactly  corresponded to the contracts made in modem  times between employers and contractors.   Already in the Kepublican period the jurists had   ^ So Demelins, Z.filr RG. ii. 193 ; Bechmann, Kauf. i. p. 526 j  but Bekker denies it Z.fUr RG. iii. 442.   ■•i .50 Dig. 16. 5. ^ Cic. N. D. iii. 30. 74 ; Off. a. 18. 64.   * R. R. 141-5.     Digitized by Microsoft®     FURTHER DISTINCTIONS. 157   begun to subdivide the classes of contracts above  mentioned.   (1) They distinguished between various sorts of  locatio cmiductio rei. There was (a) rei locatio frii-  endae in which the use of the object was granted ^  (6) rei locatio ut eadem reddatur in which the object  itself had to be returned, and (c) rei locatio ut eiusdein  generis reddatur ''■ in which a thing of the same kind  might be returned.   (2) The two kinds of locatio condiictio operis  were also most probably distinguished at an early  date into : (a) locatio rei faciendae in which a thing  was given out to be made (epyov), and (6) locatio  operis faciendi^ in which a job was given out to be  done {aTTOTeXea/jia).   (3) Locatio condvxtio operarum alone does not  seem to have been subdivided in any way.   The object of these distinctions was doubtless to  define in each case the rights and duties of the  conductor. The technical expression for the remu-  neration in locatio conductio was m,erx*, and it was  always a sum of money, probably because it was  originally paid out of the aerarium and therefore  could not conveniently have been given in kind.  The fact that in Plautus the word pretium was often  used instead of merx, shows that the distinction  between locatio conductio and emtio uenditio was still  of recent origin when he wrote; but our general  conclusion must be that this contract was known   ^ Gai. III. 145 ; Lex agraria, c. 25.   2 19 Dig. 2. 31 ; 34 Dig. 2. 34.   3 19 Dig. 2. 30 ; 50 Dig. 16. 5. * Varro, L. L. v. 36.     Digitized by Microsoft®     158 CONTRACTS OF THE IVS GENTIVM.   to him in some at least of its forms, and that in  all its branches it arrived at full maturity in the  Republican period.   It is worth remembering that the Lex Rhodia  de iactu, the parent of the modern law of general  average, was enforced by means of this action. The  owner sued the ship's magister ex locato, and the  magister forced other owners to contribute by suing  them ex conducto\ This law was discussed in Re-  publican times by Servius Sulpicius and Ofilius".   Art. 3. Before proceeding further with our  history of the ius gentmm contracts we must notice  the important innovation made by the Edict Pacta  conuenta, the author of which was C. Cassius Longi-  nus, Praetor A.v.c. 627'. We have seen how the  pactum uenditionis and the pactwn locationis had  been recognised and transformed into regular con-  tracts about seventy years before this time. The  present Edict gave legal recognition to pacta in  general, and thus rendered immense assistance in  the development of formless Contract.   Its language was somewhat as follows^: PACTA   CONVENTA, QVAE NEC VI NEC DOLO MALO NEC AD-  VEESVS LEGES PLEBISCITA EDICTA MAGISTKATVVM  FACTA ERVNT, SERVABO.   The scope of the Edict was, however, less broad  than might at iirst be supposed. It might well be  understood to mean that all lawful agreements would  thenceforth be judicially enforceable. But as a  matter of fact the test of what should constitute   » Camazza, Bir. Com. p. 172. ■' 14 Dig. 2. 2. fr. 3.   3 Voigt, Bom. EG. i. 591. ■• 2 Big. 14. 7. fr. 7.     Digitized by Microsoft®     EDICT PACTA OONVENTA. 159   an enforceable pactum lay in the discretion of  the individual Praetor. He might or might not  grant an action, according as the particular agree-  ment set up by the plaintiff did or did not appear  to him a valid one. This Edict was therefore  nothing more than an official announcement that the  Praetor would, in proper cases, give effect to pacta  which had never before been the objects of judicial  cognizance. It needs no explanation to show what  important results such an Edict was sure to produce,  even in the hands of the most conservative Praetors;  and accordingly we find that in the next century new  varieties of formless contract arose from the habitual  enforcement by the Praetor of corresponding pacta.   The mode in which tentative recognition was  accorded to the new praetorian pacta was the  devising of an actio in factum^ to suit each new set  of circumstances. The formula of such an action  simply set forth the agreement, and directed the  judge to assess damages if he should find it to  have been broken. This was doubtless the means  by which societas, mandatum, depositivm, commoda-  tum, pignus, hypotheca, receptum, constitutum — in  short, all the contractual relations originating in  the last century of the Kepublic — were at first  protected and enforced. A curious historical parallel  might be drawn between these actiones in factum  and our "actions on the case." Not only are the  terms almost synonymous, but the adaptability of  each class of actions to new circumstances was  equally remarkable; and the part played by the  1 2 Dig. 14. 7. fr. 2.     Digitized by Microsoft®     160 CONTRACTS OF THE IVS GENTIVM.   latter class in the expansion of the English Law of  Tort bears a striking reseniblance to that played  by the former in the development of the Roman  Law of Contract.   We shall see specimens of the actio in factum  based upon the edict Pacta conuenta, when we come  to examine the various contracts of the later Re-  public which all owed their origin to the Praetor's  Edict.   Art. 4. Mandatvm. The age of the actio man-  dati is difficult to fix, but there are good reasons for  believing that it was the third bonae fidei action  devised by the Praetor, and that it is older than  the actio pro socio. Mandatv/m was an agreement  whereby one person, at the request of another,  usually his friend', undertook the gratuitous per-  formance of something to the iaterest of that others  In short, it was a special agency in which the agent  received no remuneration. Its gratuitous character  was essential, for where the agent was paid, the  transaction was regarded as a case of locatio conductio.  We know that the testamentum per aes et libram was  virtually a mandatum to the familiae emtor', and  that fideicommissa, which began to be important  towards the end of the Republic, were nothing but  mandata*; it is plain too that as an informal trans-  action mandatum, must always have been practised  long before it became recognised by the Praetor.   The earliest piece of direct evidence^ which we   1 Cie. Eosc. Am. 39. 112. == Gai. iii. 156.   s Gai. II. 102. 4 Ulp. Frag. 25. 1-3.   » Auot. ad Her. ii. 13. 19.     Digitized by Microsoft®     MAJVDATVAf. 161   have as to the actio mandati is that it existed in  A.V.C. 631 under the Praetorship of S. lulius Caesar.  It is probable that the action was then of recent  origin, and represented the first-fruits of the Edict  Pacta conuenta^, for Caesar treated it as non-  hereditary, whereas the Praetor Marcus Drusus soon  afterwards granted an actio in h&redem according to  the rule of the later law''   From Plautus it distinctly appears that Tnandatum  was a well developed institution in his day, but there  is no evidence to prove that an actio mandati already  existed. The transaction is often mentioned', and  must have been necessary in the active commercial  life which Plautus has pourtrayed. In Trinummus*,  for instance, we see a regular case of mandatv/m  generate. The phrase "mandare fidei et fiduciae"  here indicates that fides pure and simple was the  only support on which mandatum rested, and that  there was no motive beyond friendly feeling to  compel the performance of the mandatum. On the  other hand the word infamia is thought to have had  a technical meaning, as an allusion to the fact that  the actio mxvndati was fam,osa ^ ; but this is surely  a flimsy basis for Demelius' opinion that the actio  mandati was in existence as early as the middle of  the sixth century *.   It seems much safer to regard this action as   1 Voigt, Rom. EG. i. 681. ^ 17 Dig. 1. 53.   ' E.g. Bacch. 3. 3. 71-5 ; Gapt. 2. 2. 93 ; Asin. 1. 1. 107 ;  Epid. 1. 2. 27, 31 ; Gist. i. 2. 53.   ■< 1. 2. 72-121.   5 Cic. pi-o S. Rose. 38. Ill ; Gaec. 3. 7.   « Z. fur EG. II. 198 ; Costa, Dir. Priv. p. 390.   B. E. 11   Digitized by Microsoft®     162 CONTBACTS OF THE IVS GENTIVM.   younger than those of emtio iienditio and locatio  conductio, and to trace its origin to the influence of  the Edict Pacta conuenta. The earliest form of  relief granted to the agent against his mandator was  doubtless an actio in factwrn,, based upon that Edict,  and having a formula of this kind^ :   Si paret N™ Negidium A" Agerio, cv/ni is in  potestate l!- Titii esset, mandauisse ut pro se solioeret,  et A™ Agerium emancipatum soluisse, quanti ea res  erit, tantam pecuniam index N^ Negidium A" Agerio  condemna. s. n. p. a.   When at length the Praetor was prepared to-  recognise mandatum as a regular contract of the ius  duile, he placed it on an equal footing with the older  bonae fidei contracts by granting the actio mandati,  with its far more flexible formula in ius concepta.  The actio mandati directa brought by the principal  against the agent had the following formula :   Quod A' Agerius N" Negidio rem curandam man-  dauit, quidquid paret oh earn rem N™ Negidium A"  Agerio darefacerepraestare oportere ex fide bona, eius,  iudex, N"^ Negidium A" Agerio condemna. s. n. p. a.   In the actio contraria, by which the agent sued  the principal, the formula began as above, but the  condemnatio was different, thus:   quidquid paret ob eam rem A™ Agerium N"   Negidio dare facere praestare oportere e. f. b. eius  A™ Agerium N" Negidio condemna. s. n. p. a.   Or again, where the claims and counter-claims  were conflicting, the condemnatio might be made  still more indefinite, thus :   1 17 Dig. 1. 12. fr. 6.     Digitized by Microsoft®     GROWTH OF ACTIO MANDATI. 163   quidquid paret oh earn rem alterum alteri   dare facere praestare oportere e. f. b. eius alterum  alteri condemna. s. n. p. a.'   Unfortunately we do not know the language of  the Edict by which the actio mandati was instituted;  but the fact that it was modelled on the actions of  sale and hire is one that nobody disputes.   There is no direct authority for assuming the  existence of an actio in factum in this case, as there  is in the cases of commodatum and depositum, where  we have Gaius' express statement to that effects  But it is clear, from Gaius' allusion to "quaedam  causae" and from his use of "uelut," that double  formulae existed in many other actions. We may  well accept Lenel's ingenious theory' that the exist-  ence of an actio contraria always indicates the  existence of formulae in ius and in factum conceptae,  and the assumption here made is therefore no rash  conjecture.   The conception of mandatum changed somewhat  before the end of the Republic. It meant at first  any charge general or special*. But by Cicero's  time it had acquired the narrow meaning, which it  retained throughout the classical period, of a par-  ticular trust ^, while procuratio was used of a general  trust °, and its remedy was the actio negotiorum ges-  torum '   Thus it still remains for us to inquire to what   1 Lenel, Ed. Perp. p. 235.   2 Gai. IV. 47. ' Ed. Perp. p. 202.  * Cato, R. R. 141-3. = 17 Dig. 1. 48.   6 Cic. Top. 10. 42. ' Gai. in 3 Dig. 3. 46.   11—2   Digitized by Microsoft®     164 CONTRACTS OF THE IVS GENTIVM.   extent procuratio, i.e. general agency, was practised,  as distinguished from mandatv/m generate, i.e. special  agency with general instructions, and how general  agents (procuratores) were appointed.   Now it is one of the most striking features of the  Boman Law that agency of this sort was unknown  until almost the end of the Republic. How and  why so great a commercial people as the Romans  managed to do without agency, is a question that  has received many different answers. We may be  sure that mandatum was practised long before it  ever became actionable, but if so, it was practised  informally and had no legal recognition. The cir-  cumstance which made it almost impossible for  general agency to exist was that the Romans held  fast to the rigid rule : " id quod nostrum est sine  facto nostra ad ahum transferri nan potest \" Such  a rule evidently had its origin in the early period  when contracts were strictly formal, and when he  alone who uttered the solemn words or who touched  the scales was capable of acquiring rights. In a  formal period the rule was natural enough; but  the curious thing is that it should not have been  relaxed as soon as the real and consensual contracts  became important.   This fact has sometimes been accounted for on  ethical grounds. It has been said that the keen legal  conscience of the Romans made them loth to depart  from the letter of the law by admitting that a man  who entered into a contract could possibly thereby  acquire anjdihing for anybody else. But the true   > 50 Dig. 17. 11.     Digitized by Microsoft®     RARITY OF AGENCY. 165   reason seems rather to have been a practical one ^ —  that the existence of an agency of status precluded  that of an agency of contract. Thus we know that  householders as a rule had sons or slaves who could  receive promises by stipulation, though they could  not bind their paterfamilias by a disadvantageous  contract; and so to a limited extent agency always  existed within the Roman family. It is also obvious  that, in an age when men seldom went on long  journeys, the necessity for an agent or fully em-  powered representative cannot have been seriously  felt. Plautus shows however that agency was not  developed even in his day, when travel had become  comparatively common. In Trimimmus and Mostel-  laria, for instance, no prudent friend is charged with  the affairs of the absent father, and consequently the  spendthrift son makes away with his father's goods  by lending or selling them as he pleases \   We can however mark the various stages by  which the Roman Law approximated more and  more closely to the idea of true agency.   1. The oldest class of general agents were the  tutor es to whom belonged the management (gestio)  of a ward's or woman's affairs, and the curatores of  young men and of the insane.   2. The next oldest kind of general agents were  the cognitores, persons appointed to conduct a par-  ticular piece of litigation ", and not to be confounded  with the cognitores of praediatura *. They were ori-   1 Pemice, Labeo, i. 489. " Trin. 1. 2. 129; Most. 1. 1. 74.   3 2 Verr. in. 60. 137 ; Gaee. 14.   * Lex. Malae. 63 ; Cio. Har. Resp. 45.     Digitized by Microsoft®     166 CONTRACTS OF THE IVS GENTIVM.   ginally appointed only in cases of age or illness ^ and  their general authority was limited to the manage-  ment of the given suit. Gaius has shown us how  they were able to conduct an action by having their  names inserted in the condemnatio ^ Whether they  existed or not under the legis actio procedure is  uncertain ; but they probably did, since we know that  they were at first appointed in a formal manner =-  Subsequently the Edict extended their powers to the  informally appointed procuratores. The action by  which these agents were made responsible to their  principals was after Labeo's time the actio mandati*.  During the Republic however and before his time  the jurists do not seem to have regarded the relation  between cognitor and principal as a case of mandatum,  but simply gave an action corresponding to each par-  ticular case, as for instance an actio depositi if the  cognitor failed to restore a depositwn.   3. Procuratores were persons who in Cicero's  day" acted as the agents and representatives of  persons absent on public business ^ They often  appear to have been' the freedmen of their re-  spective principals, and their functions were doubt-  less modelled on those of the curatores. The  connection between curatores and procuratores is  seen in the Digest where pupilli and absent in-  dividuals are often coupled together', while the   ' Auot. ad Her. ii; 20. " Gai. iv. 86.   3 Gai. IV. 83. ■< 17 Dig. 1. 8. fr. 1.   = Quint. 19. 60-62 ; -2 Verr. v. 7. 13 ; Lix lui. Mm. 1.   « Gaec. 57. • ' Cio. Or. 2. 249.   8 29 Dig. 7. 2. fr. 3 ; 47 Dig. 10. 17. fr. 11 ; 50 Dig. 17. 124.     Digitized by Microsoft®     PROOVRATIO. 167   definitions of procurator show that his power was  confined to occasions on which his principal was  absent \ and the word procuratio itself indicates  that it was copied from the curatio of furiosi ^ or of  prodigi.   One passage of Gaius " seems to imply that the  procurator was not always carefully distinguished  from the negotioruTn gestor or voluntary agent, and  Pernice interprets some remarks of Cicero * as indi-  cating the same fact. From this he infers with much  likelihood^ that the remedy against the procurator  was originally not the actio mandati but the actio  negotiorum gestorum^. Even in Labeo's time the  actio mandati was probably not well established in  the case of procuratores, though it was so by the  time of Gains'.   A procurator might conduct litigation for the  absent principal; but the acquisition of property  through an agent was not clearly established even  in Cicero's time °, though the principal could always  bring an action for the profits of a contract made  in his name".   4. Negotiorum gestio was a relation not based  upon contract, but consisted m the voluntary in-  tervention of a self-appointed agent, who undertook  to administer the affairs of some absent or deceased  friend. In the Institutes it is classed as a form of   1 Paul. Diac. s.u. cognitor. ' Lex agr. c. 69.   3 IV. 84. ^ Top. 42 and 66. " 17 Dig. 1. 6. fr. 1.   •> Labeo, I. 494. ' 4 Dig. 4. 25. fr. 1.   8 3 Dig. 3. 33. " Cic. Att. vi. 1. 4.   i» 3 Dig. 3. 46. fr. 4.     Digitized by Microsoft®     168 CONTRACTS OF THE IVS GENTIVM,   quasi-contract, and it was always regarded as a  relation closely analogous to mandatum^.   The mode of enforcing claims made by the  negotiorum gestor and his principal against one  another was the actio negotiormn gestorum, which  might, like the actio mandati, be either directa or  contraria. It was based upon an Edict worded thus :   SI QVIS NEGOTIA ALTERIVS, SIVE QVIS NEGOTIA  QVAE CVIVSQVE CVM IS MORITVR FVERINT, GES-  SERIT, IVDICIVM EO NOMINE DABOl   We do not know the date of this Edict, but it  was certainly issued before the end of the Republic,  inasmuch as the action founded upon it was discussed  by Trebatius and Ofilius'. This action had a formula  in ills concepta which ran somewhat as follows :   Quod N' Negidius negotia A^ Agerii gessit, qua  de re agitur, quidquid oh earn rem N'^ Negidium A"  Agerio dare facere praestare oportet ex fide bona,  tantam pecuniam index JV'" Negidium A" Agerio  condemna. s. n. p. a.*   5. Another means by which agency could prac-  tically be brought about was adstipulatio, as we saw  above ". This was not a case of true agency, for the  adstipulator acquired the claim in his own name,  and if he sued upon it, he did so of course in his own  right : yet he was treated as agent for the other  stipulator and made liable to the actio mandati^.   6. Fideiussio was probably treated as a form of  special agency almost from the time of its invention,   1 3 Dig. 5. 18. fr. 2. 2 3 Big. 5. 3.   » 17 Big. 1. 22. fr. 10. * Lenel, Ed. Perp. p. 86.   ° p. 110. » Gai. III. 111.     Digitized by Microsoft®     SOOIETAS. 169   since we know that it possessed the remedy of the  actio mandati as early as the time of Quintus Mucius  Scaeuola ^   Art. 5. SociETAS. This was the common name  given to several kinds of contract by which two or  more persons might combine together for a common  profitq,ble purpose to which they contributed the  necessary means. These contracts could be formed  by mere consent of the parties, and except in the  case of societas uectigalis they were dissolved by the  death of any one member, so that even societas in  perpetuum meant only an association for so long as  the parties should live '.   Ulpian distinguishes four kinds of societas": (1)  omnium honorum, (2) negotiationis alicuius, (3) rei  unius, and (4) uectigalis.   The first of these has no counterpart in our  modem law, but may be described as a contractual  tenancy in common. The second and third may be  treated under one head, as societates quaestuariae,  corresponding to modem contracts of partnership.  The fourth may best be regarded as the Roman  equivalent of the modem corporation.   Except in the case of this fourth form, which  was in most respects unique, the remedy of a socius  who had been defrauded, or who considered that the  agreement of partnership had been violated, or who  wished for an account or a dissolution, was either an  actio in factum or the more comprehensive actio pro  socio ■*.   1 17 Dig. 1. 48. " 17 Big. 2. 1.   3 17 Dig. 2. 5. * Cic. Rose. Com. 9.     Digitized by Microsoft®     170 CONTRACTS OV THE IVS GENTIVM.   Both these actions were of praetorian origin, and  the former was doubtless the experimental mode of  relief which prepared the way for the introduction of  the latter. At first we may fairly suppose the  Praetor to have granted an actio in factwm adapted  to the particular case, with a formula worded some-  what as follows : 8i paret iV™ N™ cum A" A° pactum  bonuentum^ fecisse de societate ad rem certam emendam  ideoque renuntiauisse societati ut solus em^ret^, quanti  ea res est tantam pecuniam, iudex, N'^ iV™ A" A"  condemna. s. n. p. a. When the pactum societatis  had thus been protected, and the juristic mind had  grown accustomed to regard societas in the light of a  contract, the Praetor then doubtless announced in  his Edict that he would grant an actio pro socio to  any aggrieved member of a societas. In this way  agreements of partnership became fully recognised  as contracts, and were provided with an actio in iiis  conoepta, the formula of which must have been thus  expressed':   Quod A' Agerius cum N" Negidio sodetatem coiit  universoru/m quae ex quaestu veniunt, quidquid oh  eam rem N"^ Negidium A" Agerio (or alterum alteri)  pro socio dare facere praestare oportet ex fide bona,  eius iudex N™ Negidium A" Agerio (or alterum  alteri) condemna. s. n. p. a.   The superiority of this honae fidei action to  the former remedy, as a mode of adjusting com-  plicated disputes arising out of a partnership, is  too obvious to require explanation. The actio in   1 17 Dig. 2. 71. "^ 17 Big. 2, 65. ir. 4.   3 Lenel, Ed. Perp. p. 237.     Digitized by Microsoft®     AGE OF ACTIO PRO SOCIO. l7l   factum may still however have proved useful in  certain cases.   Societas appears in Plautus with much less dis-  tinctness than either of the other three consensual  contracts. Socius is not used by him in a technical  or commercial sense, but means only companion ^ or  co-owner^. The nearest approach to an allusion to  societas in its more recent form is to be found in  Rudens^ where the shares of socii are mentioned;  but this is no reason for supposing that Plautus  knew of societal as a contract. The date of the  actio pro socio is impossible to fix, though Voigt^  has suggested that the Praetor P. Kutilius Rufas  must have been its author in the year 646 ^ Abso-  lute certainty on the subject is unattainable, because  we cannot tell whether this Rutilius originated or  merely mentioned the edict, nor can we positively  identify him with the Praetor of a.v.c. 646. On  these points there is hopeless controversy", so that  they must remain unsettled. But what we can do  with a certain measure of accuracy, is to trace the  process by which societal came to be regarded as a  contractual relation, and slowly grew in importance  till it called for the creation by the Praetor of a  honae fidei action to protect it. This action certainly  existed about the end of the seventh century, for  it is mentioned in the Lex Julia Municipalis of   1 Bacch. 5. 1. 19 ; Cist. 4. 2. 78.  ' Bud. i. 3. 95. ' 1. 4. 20 and 2. 6. 67.   * lus N. IV. 603 note 204.  5 38 Dig. 2. 1.   " See Husehke, Z. fur Civ. wnd Proc. 14. 19 ; Schilling, Inst.  §313.     Digitized by Microsoft®     172 CONTRACTS OF THE IVS GENTIVM.   A.V.C. 709 ^ and was discussed by Quintus Mucius  Scaeuola". A closer approximation to the date of  its "origin seems to be impossible.   1. Societas omnium bonorum.   The original conception of societas seems not to  have been that of a commercial combination, but of  a family. Not indeed that the term societas was  ever applied to the association of father, mother,  children and cognates; but they were practically  regarded as a single body, each member of which  was bound by solemn ties to share the good or bad  fortune which befell the rest. The duty of avenging  the death of a blood-relation, the duty of providing  a certain portion for children, as enforced by the  querela inofficiosi testamenti, the obsequia which  children owed to their parents, are illustrations of  the principle. Now this body, the family, could  hold common property: and here is the point at  which the family touches the institution of partner-  ship. The technical term which expressed the  tenancy in common of brothers in the family pro-  perty (hereditas), was consortivmi^, and the brother  co-tenants were called consortes. This institution  of consortium was of great antiquity, being even  found in the Sutras*. It is compared by Gellius'  to the relation of societas, and arose from the  descent or devise of the patrimonial estate to several  children who held it undivided. Division might at  any time be made among them by the actio familiae   1 Bruns, Font. p. 107. ^ gaj. ni. 149 ; Cic. Off. in. 17. 70.   » Cie. 2 Veir. ii. 3. 23 ; Paul. Diao. 72.   " Leist, Alt.-Ar. lus Gent. p. 414. ■> i. 9. 12.     Digitized by Microsoft®     SOCIETAS OMNIVM BONORVM. 173   erciscundas \ but they might often prefer to continue  the consortium, either because the property was  small, or because they wished to carry on an es-  tablished family business. If the latter course was  adopted, the tenancy in common became a partner-  ship, embracing in its assets the whole wealth of the  partners ; and it is easy to see how this natural part-  nership, if found to be advantageous, would soon be  copied by voluntary associations of strangers. Thus  socius, as we know from Cicero*, was often used as  a synonym of censors, and there can be no doubt  that consortium was the original pattern of the  societas omnium bonorum". That there were some  differences between the rules of consortium and those  of societas does not affect the question. For in-  stance *, the gains of the consortes were not brought  into the common stock, but those ot socii were; while  the death of a socius dissolved the societas, but that  of a consors did not ^ dissolve the consortium. These  points of difference and others " probably arose from  the juristic interpretation applied to societas, when  it had once become fairly recognised as a purely  commercial contract. But consortium and societas  omnium bonorum have two points in common which  show that they must have been historically connected,  (i) In societas omnium, bonorum there was a complete  and immediate transfer of property from the indi-  viduals to the societas'', whereas the obligations of   ■■ Paul. Diao. s. u. erctum. ^ Brut. i. 2.   3 Leist, Soc. 24 ; Pernioe, Z. der S. Stift. R. A. in. 85.  i 17 Dig, 2. 52. * Pernice, Labeo i. p. 69.   « See Pernice, Laieo i. 85-6. ' 17 Dig. 2. 1.     Digitized by Microsoft®     174 CONTRACTS OF THE IVS GENTIVM.   each remained distinct and were not shared by the  others'. Now this is exactly what would have  happened in consortium : the property would have  been common, but the obligation of each consors  would have remained peculiiar to himself, (ii) The  treatment of socii as brothers' is clearly also a  reminiscence of consortiv/m ; and this conception of  fratemitas, being peculiar to the societas omnium  bonorum^, makes its connection with the old con-  sortium still more evident.   The fraternal character of this particular societas  is responsible for the existence of a generous rule  which subsequently, under the Empire, became  extended so as to apply to the other kinds of societas^  The rule was that no defendant in an actio pro socio  should be condemned to make good any claim beyond  the actual extent of his means ^ This was known as  the beneficium competentiae ; and it gave rise to a  qualified formula for the actio pro socio, as follows :   Quod A' Agerius cum N" Negidio societatem  omnium bonorum emit, quidquid 6b earn, rem iV"'  Negidium A° Agerio dare f. p. oportet ex f. b.  dumtaxat in id quod i\r* Negidius facere potest,  quodue dolo malo fecerit quominus possit, eius index  N™ Negidiwm A" Agerio condemna. s. n. p. a.   2. Societas negotii uel rei alicuius.   This second form of partnership must have been  the most common, since it was presumed to be in-  tended whenever the term societas was alone used '.   1 17 Dig. 2. 3. 2 17 Dig. 2. 63. ' 17 Dig. 2. 63.   * 17 Dig. 2. 63. fr. 1. 42 Dig. 1. 16 and 22.   « 17 Dig. 2. 7.     Digitized by Microsoft®     THEORIES OF ACTIO PRO SOCIO. 175   It has also been derived from consortium by  Lastig\ His theory is that consortes, or brothers,  when they undertook a business in partnership  with one another^, often modified their relations  by agreement. The special agreement, he thinks,  then became the conspicuous feature of the partner-  ship, and the relations thus established were copied  by associations not of consortes but of strangers.  The object of the theory is to explain the correal  obligation of partners. This correality did not how-  ever exist at Rome^, except in the case of banking  partnerships, where we are told that it was a peculiar  rule made by custom*, so that Lastig's theory lacks  point. A further objection^ is that this theory does not  explain, but is absolutely inconsistent with, the exist-  ence of the actio pro socio as an actio famosa. The  fraternal relations existing between consortes could  never have suggested such a remedy, for Cicero in  his defence of Quinctius lays great stress on the  enormity of the brother's conduct in having brought  such a humiliatiag action against his client.   Another explanation of the actio pro socio is  given by Leist". He derives it from the actio so-  cietatis given by the Praetor against freedmen who  refused to share their earnings with their patrons.  This societas of the patron must have been a one-  sided privilege, like his right to the freedman's   1 Z. filr ges. Handelsrecht. xxiv. 409-428.   2 As in 26 Dig. 7. 47. 6.   3 14 Dig. 3. 13. 2 ; 17 Dig. 2. 82.   * Auet. ad Her. ii. 13. 19 ; 2 Dig. 14. 9,   5 As Perniee has pointed out, Labeo i. p. 94.   6 Soc. p. 32.     Digitized by Microsoft®     176 CONTRACTS OF THE IVS GENTIVM.   services' ; for the freedman could never have brought  an action against his patron, since he was not entitled  to any share in the patron's property. The actio  societatis was therefore a penal remedy available  only to the patron, and consequently it cannot pos-  sibly have suggested the bilateral actio pro socio  of partners. Nor can the bonae fidei character of  the actio pro socio be explained if we assume such  an origin.   The most reasonable view appears to be that  which regards the actio pro socio as the outcome of  necessity. The Praetor saw partnerships springing  up about him in the busy life of Rome. He saw  that the mutual relations of socii were unregulated  by law, as those of adpromissores had been before  the legislation described above in Chapter v. He  found that an actio in factum, based on the Edict  Pax>ta conuenta, was but an imperfect remedy; and  as an addition to the Edict was then the simplest  method of correcting the law, it was most natural  for him to institute an actio pro socio, in which  bona fides was made one of the chief requisites  simply because the mutual relations of socii had  hitherto been based upon fides \   3. Societas uectigalium uel pMicanorwm.   This kind of societas was a corporation rather  than a partnership, and we have proof in Livy that  such corporations existed long before the other kinds  of societas came to be recognised as contracts. These   1 38 Dig. 2. 1.   2 Cie. Quint. 6. 26 ; Q. Rose. 6. 16 ; S. Rose. 40. 116 ; 2 Verr.  III. 58. 134.     Digitized by Microsoft®     SOGIETAS AND COLLEGIVM. 177   societates acted as war-contractors^ collectors of taxes ^,  and undertakers of public works'. In one passage in  Livy * they are called redemtores, and we find three  societates during the second Punic War in A.v.c. 539"  supplying the State with arms, clothes and com. It  was perhaps the success of these societates publica-  norwm" which iatroduced the conception of com-  mercial and voluntary partnership. But still they  were utterly unlike partnerships', so that their his-  tory must have been quite different from that of the  other societates. They were probably derived from  the ancient sodalitates or collegia^, which were per-  petual associations, either religious (e.g. augurium  collegia), or administrative {quaestorum collegia), or  for mutual benefit, like the guilds of the Middle  Ages (fabrorwm collegia). This theory of their  origia is based upon three points of strong resem-  blance which seem to justify us in establishing a  close connection between societas and collegium:   (1) Both were regulated by law", and were  established only by State concessions or charters.   (2) Both had a perpetual corporate existence,  and were not dissolved by the death of any one  member "-   (3) Both were probably of Greek origin. We   > Liu. XXXIV. 6 in a.v.c. 559. ^ Liu. xxvii. 3 (a.v.c. 544).   » Liu. XXIV. 18 (A.V.C. 540) ; Cic. 2 Verr. i. 50. 150.  • XLii. 3 (a.v.c. 581). ' Liu. xxiii. 48-9.   " Liu. xxxix. 44 ; XXV. 3. '3 Dig. 4. 1.   8 Lex rep. of a.v.c. 631, cap. 10 ; Cic. leg. agr. ii. 8. 21 ; pro  domo 20. 51 ; PUnc. 15. 36.   9 GaiuB, 3 Dig. 4. 1 ; 47 Dig. 22. 1.   "I 28 Dig. 5. 59 fr. 1 ; 17 Dig. 2. 59 ; Cic. Brut. i. 1.   B. E. 12   Digitized by Microsoft®     178 CONTRACTS OF THE IVS GENTIVM.   are told that societates publiccmorum existed at  Athens', while Gaius^ derives from a law of Solon  the rule applying to all collegia, that they might  make whatever bye-laws they pleased, provided  these did not conflict with the public law.   These three facts may well lead us to derive this  particular form of societas from the collegium. We  know further that the jurists looked upon it as quite  different from the ordinary societas, and that it did  not have the actio pro socio as a remedy'- The  president or head of the societas was called manceps*,  or magister if he dealt with third parties ', and the  modes of suretyship which it used in its corporate  transactions were praedes and praedia', another  mark perhaps of its semi-public origin.   1 Arist. Bep. Ath. 52. 3 and of. Voigt, I. N. ii. 401.   2 47 Dig. 22. 4. 3 Voigt, Rom. BG. i. 808.   * Ps. Asc. in Cio. Diu. ; Paul. Diao. 151 s. u. manceps ; Cio. dam.   10. 25 ; Cic. Plane. 26. 64.   ' Paul. Diac. s. u. magisterare ; Cic. Att. v. 5. 3 ; Cio. 2 Verr.   11. 70. 169 ; ib. III. 71. 167.  ' Lex Mai. c. 65.     Digitized by Microsoft®     CHAPTER VII.   CONTRACTS OF THE IVS GENTIVM. Part II.   Real Contracts.   Art. 1. MvTWM. We have not yet really dis-  posed of all the consensual contracts, for we now  come to a class of obligations entered into without  formality and by the mere consent of the parties,  but ia which that consent was signified in one par-  ticular way, i.e. by the delivery of the object in  respect of which the contract was made. The con-  tracts of this class have therefore been teirmed Eeal  contracts, though they might with equal propriety be  called Consensual. The oldest of them all is mutumn,  the gratuitous loan of res fungibiles, and it stands  apart from the other contracts of its class in such  a marked way, that its peculiarities can only be  understood from its history. It differed from the  other so-called real contracts, (i) ia having for its  remedy the condictio, an actio stricti iuris; (ii) in  being the only one which conveyed ownership in the  objects lent, and did not require them to be returned  in specie. Both peculiarities requfre explanation.   12—2  Digitized by Microsoft®     180 CONTRACTS OF THE IVS GENTIVM.   The most important function of Contract in early-  times was the making of money loans, and for this  the Romans had three devices peculiarly their own,  first Tiexum, then sponsio, and lastly earpensilatio.  But these were available only to Roman citizens, so  that the legal reforms constituting the so-called ius  gentium naturally included new methods of per-  forming this particular transaction. One such in-  novation was the modification of sponsio, already  described, and the rise of stipulatio in its various  forms : another was the recognition of an agreement  followed by a payment as constituting a valid  contract, which might be enforced by the condictio,  like the older sponsio and expensilatio. This latter  innovation was the contract known as mutuwm. It  doubtless originated in custom, and was crystallised  in the Edict of some reforming Praetor.   As its object was money, or things analogous to  money in having no individual importance, such as  com, seeds, &c., the object naturally did not have to  be returned in, specie by the borrower.   Though the bare agreement to repay was suffi-  ciently binding as regards the principal sum, the  payment of interest on the loan could not be pro-  vided for by bare agreement, but had to be clothed  in a stipulation. This rule may have been due to  the fact that mutuum was originally a loan firom friend  to friend ; but it rather seems to indicate that bare  consensus was at first somewhat reluctantly tolerated.   In Plautus mutuum appears as a gratuitous loan,  generally made between friends^ and in sharp con-  > Cure. 1. 1. 67 and 2. 3. 51 ; Paeud. 1. 3. 76.     Digitized by Microsoft®     AGE OF MVTrVM. 181   trast to foenus, a loan with interest', which was  always entered into by stipulation. When mutuv/m  is used by Plautus to denote a loan on which interest  is payable, we must therefore understand that a  special agreement to that effect had been entered  into by stipulation, since mutuum was essentially  gratuitous.   From three passages " it is evident that mutuum  was recoverable by action in the time of Plautus*  (circ. A. V. c. 570), and it seems probable that Livy^  also uses it in a technical sense ^ If then we place  the date of the Lex Aebutia as late as A.v.c. 513,  and suppose, as Voigt does ', that mutuum being a  iuris gentium contract must have been subsequent  to that law, we shall be led to conclude that mutuum  came into use about the second quarter of the sixth  century. This theory as to date is supported by the  fact, which Karsten points out', that mutuum would  hardly have been possible without a uniform legal  tender, and that Rome did not appropriate to herself  the exclusive right of coinage till A.v.c. 486. We  thus see that the introduction of mutuum and that  of emtio uenditio, i.e. of the first real and the first  consensual contract, took place at about the same  time.   As regards its peculiar remedy we know that  money lent by mutuum was recoverable by a con-  dictio certae pecujiiae, with the usual sponsio and   1 Asin. 1. 3. 95.   2 Trin. 3. 2. 101 ; 4. 3. 44 ; Bacch. 2. 3. 16.   3 Cure. A.v.c. 560. ■^ xxxii. 2. 1. » Of A.v.c. 555.  6 I. N. IV. 614. ' Slip. p. 38.     Digitized by Microsoft®     182 CONTRACTS OF THK IVS GENTIVM.   restipulatio tertiae partis\ It seems, like expensila-  tio, to have received this stringent remedy by means  of juristic interpretation, which extended the meaning  and the remedy of pecimia certa credita so as to cover  this new form of loan. Thus we find credere often  used by Plautus in the sense of making a miwtvm/m *.   When this final extension had been made iu  the meaning of pecunia credita, we may reconstruct  the Edict on that subject as follows ° :   SI CERTVM PETETVR DE PECVNIA QVAM QVIS  CREDIDERIT EXPENSVMVE TVLERIT MVTVOVE DE-  DERIT NEVE EX IVSTA CAVSA SOLVERIT PROMISE-   RITVE, DE EO IVDICIVM DABO. The iudicium here  referred to was the condictio certae pecuniae, the  formula of which has already been given*.   We know that mutuvm, could be applied to other  fungible things besides money, such as wine, oil or  seeds, and in those cases the remedy must have been  the condictio triticaria'^.   FoENVS NAVTIGVM {Bdveiov vavTiKov). A con-  tract very similar to mviuvm,, which we know to  have existed in the Republican period, since we find  it mentioned by Seruius Sulpicius * and entered into  by Cato', was foeniis nauticum, a form of marine  insurance resembling bottomry^. It consisted of a  money loan (pecunia traiecticia) to be paid back  by the borrower, — ^invariably the owner of a ship, —   1 Cic. Rose. Com. 4. 13.   2 As in Pers. 1. 1. 37; Merc. 1. 1. 58; Pseud. 1. 5. 91.   s Voigt, I. N. IV. 616. •* p. 104. » 12 Dig. 1. 2.   8 22 Dig. 2. 8. ' Plutarch, Cat. Mai. 21.   ' Camazza, Dir. Com. p. 176 ff.     Digitized by Microsoft®     FOENVS NAVTIGVM. 183   only in the event of the ship's safe return from her  voyage. A slave or freedman of the lender apparently  went with the ship to guard against fraud'; but there  was no hjrpothecation of the ship, as in a modem  bottomry bond.   The contract resembled mutuum in being made  without formality; but its marked peculiarities  were:   (i) That it was confined to loans of money,  (ii) And to loans from insurers to ship-owners,  (iii) And because of the great risk it was not  a gratuitous loan, but always bore interest at a very  high rate ^ It is, however, quite possible that this  interest was not originally allowed as a part of  the formless contract, but that it was customary, as  Labeo states ', to stipulate for a severe poena in case  the loan was not returned. If that be so, the stipu-  l&tory poena spoken of by Seruius and Labeo must  have been the forerunner in the Republican period  of the onerous interest mentioned by Paulus'' as  an inherent part of this contract in his day.   Art. 2. CoMMODATVM. The next three real  contracts are not mentioned by Gains, who appa-  rently took his classification fi-om Seruius Sulpicius,  and it therefore seems certain that in the time of  Seruius and during the Republic they were not re-  garded as contracts, but as mere pacta praetoria.   Commodatum was the same transaction as mutuum  applied to a different object. In mutuum there was  a gratuitous loan of money or other res fungihilis,   1 Plut. Gat. 1. 0.; 45 Dig. 1. 122 fr. 1.   ■' 22 Big. 2. 7. ' 22 Big. 2. 9. " 22 Big. 2. 7.     Digitized by Microsoft®     184 CONTRACTS OF THE IVS GENTIVM.   whereas in commodatum the gratuitous loan was one  of a res nonfungihilis '   Both were originally acts of friendship, as their  gratuitous nature implies. Plautus shows us that in  his day the loan of money was not distinguished from  that of other objects, for he uses commodare^ and  iitendwm dare^ in speaking of a money loan, as well  as in describing genuine cases of commodatum. We  do not, however, discover from Plautus that commo-  datum, was actionable in his time, as mmiuwrn clearly  was. Vtendmn dare, we may note, is in his plays  a more usual term than commodare *. If it be asked  why the condictio was not extended to commodatum  as it was to mutwu/m, the answer is that the latter  always gave rise to a liquidated debt, whereas in a  case of commodatum the damages had first to be  judicially ascertained, and for this purpose the con-  dictio was manifestly not available.   The earliest mention of commodatum as an action-  able agreement occurs in the writings of Quintus  Mucins Scaeuola (ob. A.v.c. 672) quoted by Ulpian"  and Gellius *. Cicero significantly omits to mention  it in his list of bonae fidei contracts, and the Lex lulia  Municipalis (a.v.c. 709) contains no allusion to it'.  The peculiar rules of the agreement seem to have  become fixed at an early date. Quintus Mucins  Scaeuola is said to have decided that culpa leuis   ^ e.g. a scyphus, Plaut. Asin. 2. i. 38 or a chlamys, Men. i. i.  94.   2 Asin. 3. 3. 135. « Persa, 1. 3. 37.   * Aul. 1. 2. 18 ; Bvd. 3. 1. 9. » 13 Dig. 6. 5.   « VI. 15. 2. ' Bruns, Font. p. 107.     Digitized by Microsoft®     AGE OF COMMODATVM. 185   should be the measure of responsibility required from  the bailee (is cui commodatur), and to have established  the rule as to furtum usus, in cases where the res  commodata was improperly used. It seems therefore  probable that the Praetor recognised commodatum  at first as a pactum praetoriwn, and granted for  its protection an actio in factum, with the following  formula :   Si paret A™ Agerium N" Negidio rem qua  de agitur commodasse (or utendam dedisse) eamque  A" Agerio redditam non esse, quanti ea res erit,  tantam pecuniam N"^ Negidium A" Agerio condemna.  s. n. p. a.   The agreement between bailor and bailee pro-  bably did not come to be regarded as a regular  contract until after the time of Cicero. We must  therefore place the introduction of the actio commo-  dati at least as late as A.v.c. 710, and by so doing we  explain Cicero's silence. Whatever conclusion we  shall arrive at as to depositum must almost neces-  sarily be taken as applying to commodatum, also.  They both had double forms of action in the time  of Gaius\ neither is mentioned by Cicero, and  Scaeuola evidently dealt with them both together.  Hence their simultaneous origin seems almost  certain. The actio commodati is said to have been  instituted by a Praetor Pacuuius'', who, like Plau-  tus, used the words utendum dare instead of com-  modare. The terms of his Edict must therefore  have been:   1 IV. 47. 2 13 Dig. 6. 1.     Digitized by Microsoft®     186 CONTRACTS OF THE IVS GENTIVM.   QVOD QVIS VTENDVM DEDISSE DICETVR, DE EO  IVDICIVM DABOl   The author of this Edict was formerly supposed  by Voigt to be Pacuuius Antistius Labeo", the  father of Labeo the jurist ; but this statement has  recently been withdrawn' on the ground that this  Pacuuius, having been a pupil of Seruius Sulpicius *,  could not have been Praetor as early as the time of  Quintus Mucius. If however the above theory as to  the dates be correct, Voigt's former view may be  sound : Q. Mucius may have been speaking of the  actionable pactum, while Pacuuius may have been  the author of the true contract. The aMio com-  modati directa had a formula as follows: Qiiod A'  Agerius N" Negidio rem q. d. a. commodauit (or  utendam dedit) quidquid oh earn rem M™ Negi-  dium A" Agerio dare facere praestare oportet ex  fide bona, eius iudex N"^ Negidiwm A' Agerio con-  demna. s. n. p. a. It was doubtless in this form  that the action on a commodatum was unknown to  Cicero. He must have been familiar only with the  actio in factvmi, and for that very reason he must  have regarded com/modatwm not as a contract, but as  a pactum conuentum.   Art. 3. Depositvm. The most general word  denoting the bestowal of a trust by one person  upon another was commendare', and Voigt has  shown' that corrvmendaiumh was the technical term   1 I. N. III. 969. 2 I. N. in. 969 note 149G.   » B. HG. i. 622 note 25. * 1 Dig. 2. 2. 44.   ' Plant. Trin. 4. 3. 76 ; Cio. Fam. ii. 6. 5 ; 16 Diff. 3. 24 ; Cio.  Fin. III. 2. 9. « R. RG. i. App. 5.     Digitized by Microsoft®     OBIGIN OF DEPOSITVM. 187   for a particular kind of pactum. If the object of  commendatio '■ was the performance of some service,  the relation was a case of mandatwm'^ : if its object  was the keeping of some article in safe custody, the  relation was described as depositvmi^. This case  clearly shows how arbitrary is the distinction  drawn by the Roman jurists between Real and  Consensual Contract. Though starting, as we have  seen, from the same point, mandatum came to be  classed as a consensual, and depositv/m as a real  contract. This was simply because the latter dealt,  while the former did not deal, with the possession  of a definite res.   Depositum distinctly appears in Plautus* as an  agreement by which some object is placed in a  man's custody and committed to his care, though  deponere is not the word generally used by Plautus  to denote the act of depositing. He prefers the  phrase seruandimi dare, corresponding to utendvmi  dare, which we found to be his usual expression for  commodatum'. These very words, semandum dare,  were also used by Quintus Mucins Scaeuola in dis-  cussiDg depositum ', but we cannot ascertain from his  language whether or not the actio depositi was  already known to him. He may merely have been  discussing an actionable pactum,. Nor can we  infer from any passage of Plautus the existence  of depositum as a contract in his time. He seems   1 Cic. Fin. III. 20. 65. 2 Plant. Merc. 5. 1. 6.   3 16 Dig. 3. 24 ; Plant. Merc. 2. 1. 22. * Bacch. 2. 3. 72.   6 Merc. 2. 1. 14 ; Cure. 2. 8. 66 ; Bacch. 2. 8. 10.   8 Gell. VI. 15. 2.     Digitized by Microsoft®     188 CONTRACTS OF THE IVS GENTIVM.   rather to represent it, as Cicero does ', in the light of  a friendly relation based simply on fides '^-j and in  most of the Plautine passages the transaction is that  which was afterwards known as depositum irregulare,  i.e. the deposit of a package containing money either  at a banker's ', or with a friend *   Some have thought that there must have been  an action in Plautus' time for the protection of such  important trusts °, but Demelius° points out that  the actio furti (to which Paulus alludes as actio ex  catosa depositi) would have afforded ample protection  in most cases; and it would be extremely rash to  infer that either commodatum or d&positwm was  actionable in the sixth century of the City.   At first sight it even looks as though depositum,  was not protected by any action in the days of  Cicero. The passages in which he mentions it'  appear to treat the restoration of the res deposita  rather as a moral than a legal duty. Similarly  where he enumerates the bonae fidei actions',  where he mentions the persons qui bonam fidem  praestare debent ', and where he describes the indicia  de fide mala'^', he entirely leaves out the actio depositi  and does not make the slightest allusion to depositum.   But all this is equally true of commodatum^.  And since we have the clearest evidence that com-  modatum. was actionable in the time of Quintus   1 2 Verr. it. 16. 36. ^ Merc. 2. 1. 14.   5 Cure. 2. 3. 66. * Bacch. 2. 3. 101.   » Costa, Dir. Priv. p. 320. « Z. fur RG. ii. 224.   ' Farad, iii. 1. 21 ; Off. i. 10. 31 ; iii. 25. 95.  8 Off. III. 17. 70. 9 Top. 10. 42.   " N. D. III. 30. 7. " Gai. iv. 47.     Digitized by Microsoft®     LATENESS OF ACTIO DEPOSIT!. 189   Mucius ScaeuolaS we can hardly avoid the con-  viction that depositurn also was actionable in his  day by means of an actio in fojctvmi, whereas the  actio depositi was not introduced, as Voigt holds, till  the beginning of the eighth century==-   This theory of development, already applied to  mandatum and societas, has the advantage, not only  of explaining why commodatwm and depositvmi were  not numbered among hoTiae fidei contractus, but also  of accounting for the existence in Gains' day of their  double formulae which have puzzled so many jurists'.  We may then believe that depositurn was first made  actionable between A.v.c. 650 and 670 as a pactum  praetorium, and with the protection of an actio in  factum concepta as given by Gains: Si paret A™  Agerium apud N™ Negidiwm mensam argenteam  deposuisse eamque dolo N^ Negidii A" Agerio red-  ditam nan esse, quanti ea res erit, tantam pecuniam,  iudex, N™ Negidium A" Agerio condemnato. s. n.  p. a.   This formula was doubtless the only one pro-  vided for depositumi down to the end of Cicero's  career. But about A.v.c. 710^ juristic interpre-  tation began to regard commodatvmi and depositurn  as genuine contracts iuris ciuilis, and thereupon a  second formula was iutroduced into the Edict, with-  out disturbing the earlier one, so that depositurn, like  commodatwm, was finally recognised as a contract.   1 13 Dig. 6. 5. " Earn. EG. i. 623.   * See Muirhead's Gaim, p. 293 note.   * 41 Dig. 2. 3. 18 ; 16 Dig. 31. 1. 46 ; Trebatius was trib. pleb.  A.V.C. 707.     Digitized by Microsoft®     190 CONTRACTS OF THE IVS GENTIVM.   We know that the Praetor's Edict by which this  change was brought about ran somewhat thus : QVOD  NEQVE TVMVLTVS NEQVE INCENDII NEQVE RVINAE  NEQVE NAVFRAGII CAVSA DEPOSITVM SIT IN SIMPLVM,  EAEVM AVTEM RERVM QVAB SVPRA COMPREHENSAE  SVNT IN IPSVM IN DVPLVM, IN HEREDEM EIVS QVOD  DOLO MALO EACTVM ESSE DICETVR QVI MORTWS  SIT IN SIMPLVM, QVOD IPSIVS IN DVPLVM IVDICIVM   DABO'. The penalty of dwplwm shows that, where  the depositwn had been compelled by adverse cir-  cumstances, a violation of the contract was regarded  as peculiarly disgraceful and treacherous. In other  cases, where the depositwn was made under ordinary  circumstances, the amount recovered was simplwm,  and the new formula must have been that given by  Gaius " as follows : Quod A' Agenus apud N™ Negi-  dium mensam argenteam, deposuit qua de re agitur,  quidquid oh earn rem JSf™ Negidium A" Agerio dare  facere oportet ex fide bona, eius index N™ Negidiv/m  A" Agerio condemnato. s. n. p. a.   Art. 4. PiGNVS. The giving and taking of a  pledge appears in Plautus as a means of securing a  promise, but seems then to have belonged to the  class of friendly acts which the law did not con-  descend to enforce. In Gaptiui^ for instance, the slave  who had been pledged is demanded in a purely in-  formal way, and in Rudens^ pignus is a mere token  given to prove that the giver is speaking the truth.  Its connection with arrhabo is very close. Each  served to show that an agreement was seriously   1 16 Dig. 3. 1. ••' IV. 47.   » 5. 1. 18. • 2. 7. 23.     Digitized by Microsoft®     ^0270 PIGNERATICIA. 191   meant by the parties, or was a means of securing  credit as a substitute for money', and if the agree-  ment was broken, the pignus or arrhabo was doubtless  kept as compensation. This practice of giving pawns  or pledges was probably of great antiquity, but we  hear nothing of it from legal sources, simply because  it was an institution founded on mores alone. It pro-  bably applied only to moveables and res nee mancipi\  for res mancipi could be dealt with by a pactvmi  fiduciae annexed to mancipatio. Gaius ' derives the  word from pugnuTn, because a pledge was handed  over to the pledgee ; but the correct derivation is  doubtless from the same root as pactum, pepigi,  Pacht, Pfand*. Pignus must then have meant a  thing fixed or fastened, and so a security. And  this derivation suits the word in the phrase pignoris  capio equally well, without leading us to suppose that  the custom of giving a pledge was in any way derived  from the pignoris capio of the legis actio system.   We do not know when pignus became a contract,  though it certainly was so before the end of the  Republic. Long before being recognised as such it  doubtless enjoyed the protection of an actio in factum,  with a formula as follows : Si paret A^ Agerium N"  Negidio ratem q. d. a. oh pecuniam debitam pignori  dedisse, eamque pecuniam solutam, eoue nomine satis-  factum esse, aut per N™ Negidium stetisse quominus  soluatur, eamque ratem q. d. a. A" Agerio redditam  rum esse, quanti ea res erit, tantam, &c.^ In course   1 Bechmann, Kauf, ii. 416. ''■ 50 Big. 16. 238. ' ibid.   * Dernburg, FJr. i. p. 49 ; Beitr. zur vrgl. Sprachforsch. ii. p. 49.  ' Lenel, Ed. perp. p. 201.     Digitized by Microsoft®     192 CONTRACTS OF THE IVS GENTIVM,   of time the actio pigneraticia was introduced as an  alternative remedy, and Ubbelohde ' has argued that  since its place in the edict was between commodatum  and depositum, the Praetor must have introduced  the actio pign&raiicia after the actio com/modati and  before the actio depositi ; which seems a very plausi-  ble conjecture. We have no direct evidence of the  existence of an actio pigneraticia earlier than the  time of Alfenus Varus, a jurist of the later Re-  public"''; it is not mentioned by Cicero; in short  everything points to the origin of the contract of  pigrms as corresponding in age to that of commo-  datwm and depositwm. The language of the Edict  by which pignus was made a contract has not  survived, while the formula of its actio pigneraticia  resembled of course that of the actio depositi, and  need not therefore be given.   Though pignus was doubtless a very inadequate  security from the point of view of the pledgor, since  it might at any time be alienated or destroyed, it is  the only form which appears to be common in  Plautus, and of fiducia he shows us not a trace '-  Pignus seems to have been much used for making  wagers, and pignore certare was probably as common  as sponsione certare ^ which we treated of in a pre-  vious article.   The contracts of a kindred nature which seem to  have arisen even sooner than pignus will be discussed  in the next chapter.   1 6. der ben. Bealcont. p. 62. 2 13 jjjgr. 7. 30.   3 Costa, Dir. Priv. p. 262. * Bekker, Akt. i. 253.     Digitized by Microsoft®     CHAPTER VIII.   CONTRACTS NOT USUALLY CLASSIFIED AS SUCH.   Art. 1. FiDVCiA. We have examined in a  former chapter the early origin of the pactwm  fidudae^, a formless agreement annexed to a solemn  conveyance, by which the transferee of the object  conveyed as security agreed to reconvey, as soon as  the debt was paid, or whenever a given condition  should arise. As a result of the Edict Pacta conuenta,  and before Cicero's time'', this pactum became en-  forceable by the actio fiduciae.   This action was in factum, like the others of its  class, and its function was to award damages, but  it could not otherwise compel the actual recon-  veyance of the object. Its formula must have been  worded as follows^ :   Si paret A™ Ageriwm N" Negidio fwndum quo de  agitur oh pecuniam debitam fiduciae causa mancipio  dedisse, eamque pecuniam solutam eoue nomine satis-  f actum esse, aut per N™' Negidium stetisse quominus  solueretur, eumque fwndum redditum non esse, nego-   1 Supra, p. 78. '^ Cie. Off. in. 15. 61.   3 Lenel, Ed. Perp. p. 233.   B. E. 13   Digitized by Microsoft®     194 CONTEACTS NOT CLASSIFIED.   tiumue ita actum non esse ut inter honos T)ene agier  oportet et sine fraudatione, quanti ea res erit tantwm  pecuniam index N™ Negidium A" Agerio condemna.  s. n. p. a.   The peculiar clause "ut inter honos bene agier  oportet"'^ virtually made this a bonae fidei action.  That fact may perhaps explain vfhyfiduda was never  protected by a formula in ius coTicepta, and hence  was never regarded as a true contract.   Art. 2. Hypotheca. We have seen that there  were two ways in which a tangible security might be  given: (i) the object might be conveyed with a  pactum fiduciae, providing that it should be recon-  veyed on the fulfilment of a certain condition, or  else (ii) the mere detention of the object might be  granted on similar terms. In the former case  the pledge or its value could be recovered by  the actio fiduciae, in the latter by the actio pigne-  raticia whose origin we have just discussed. But  neither fiducia nor pignus was a contract of pledge  pure and simple; each consisted of an agreement  plus a delivery of the object.   The abstract conception of mortgage, i.e. pledging  by mere agreement, is a distinct advance upon both  these methods. The contract which embodied this  form of pledge was known as hypotheca ; and as its  name indicates it was borrowed from the Greeks,  from whom the Romans also took the Lex Rhodia  de iactu and the foeitms nauticum. Precisely the  same contract is found in the speeches of Demos-   1 Cic. Top. 17. 66.     Digitized by Microsoft®     ORIGIN OF HYPOTHECA. 195   thenes' under the name of v-trodr)Kr\, which could  he applied to moveables or immoveables, and even  to articles not yet in existence. The Romans how-  ever regarded hypotheca not as a contract but as a  pactum.   It is quite certain that a legal conception so refined  as the pactum hypothecae could not have had a place  in the legal system of the XII Tables. There are  passages in Festus" and Dionysius" in which the  words si quid pignoris and eveyypat^eiv have been  supposed to indicate the existence of some such  practice at an early period. But the evidence is  much too vague to supply trustworthy data, and we  may confidently assert that mortgage was unknown  to the early law*. Accordingly, we find that hy-  potheca was introduced and made actionable by  slow degrees. Its popular name was pignus oppo-  situm, as distinct from pignus depositum, the ordinary  pignut above described.   Its LQtroduction seems to have been one of the  many legal innovations produced by the large immi-  gration of strangers into Rome after the Second Punic  War. These strangers must generally have become  tenants of Roman landlords, since the lack of ius  commercii prevented their buying lands or houses,  and in order to secure his rent, the only resource  open to the landlord was to take the household goods  of these tenants as security. Such household goods  {inuecta illata) probably constituted in most cases  the only wealth of the foreign immigrant, conse-   1 Dernburg, Pfdr. i. p. 69. ^ s.u. nancitor.   " VI. 29. * Dernburg, Pfdr. i. 55.   13—2   Digitized by Microsoft®     196 CONTRACTS NOT CLASSIFIED.   quently the landlord could not remove them, and  the method of pignus was not available. The ex-  pedient which suggested itself was that the tenant  should pledge his goods without removal, by means  of a simple agreement. The relation thus created  was the original form of hypotheca and was precisely  analogous to that of a modern chattel mortgage.   As the idea was introduced by foreigners ', it was  very natural that this agreement of pledge should  have received a foreign name. Another class to  whom the new expedient was applied were the free  agricultural tenants (coloni) whose sole wealth often  consisted of their tools and other agricultural stock^.  The necessity of making a pledge without removal  is obvious in their case also.   I. It was for the protection of landlords that  a Praetor Saluius introduced the interdictum Salui-  anum, which seems to have been the first legal  recognition that hypotheca received. Its date is not  known. Formerly the Praetor Saluius lulianus,  author of the Edictum perpetuum, was regarded as  the inventor of this interdict, but his own language  in the Digest^ contradicts this supposition. The  most reasonable theory is that the interdict origi-  nated before the Edict Pacta conuenta (A.v.c. 627)  at about the end of the sixth century.   The fact that Plautus knew hypotheca as a mere  nudum pactum can hardly be doubted*. It is true  that he not only uses, as Terence does a little later ',   1 Dernburg, Pfdr. i. 56. " 4 Big. 15. 3. 1.   » 1.S Dig. 7. 22. * Demelius, Z.filr RG. ii. 232.   5 Phorm. 4. 3. 56.     Digitized by Microsoft®     INTERDIGTVM SALVIANVM. 197   the phrase pignori opponere ' to denote the making  of a pledge by mere agreement; but he also men-  tions the Greek technical term eTndi^Krj and seems  to use hypotheca as a metaphor'^. The testimony  to be gathered from these passages does not however  prove that hypotheca was actionable'.   The contents of the interdictum Saluianum can-  not be given with certainty. We only know two  things about it : (1) that it was a remedy of limited  scope, being available only against the tenant or  pledgor, but not against third parties to whom he  had transferred or sold or pledged the goods, and  (2) that the interdict was prohibitory and forbade  the pledgor to prevent the landlord from seizing  the objects which had been mortgaged.   (1) This first proposition is distinctly stated by  a constitution of Gordian", but flatly contradicted  by a passage in the Digest *. The latter authority,  however, seems open to strong suspicion " and the  fact that the actio Seruiana was presumably intro-  duced because the interdictum Saluianum was  inadequate further goes to prove the correctness of  Gordian's constitution.   (2) We may be fairly certain that the interdict  was prohibitory, like the interdictum utrvbi, and  not restitutory, as Huschke would have it'; since  the weight of authority is in favour of the former   1 Pseud. 1. 1. 85. * True. 2. 1. i.   3 Costa, Dir. priv. p. 264 ; Dernburg, Pfdr. i. p. 65.  * 8 God. 9. 1. = 43 Dig. 33. 1.   " Lenel, Z. der Sav. Stiftung, R. A, iii. 181.  7 Studien, p. 398.     Digitized by Microsoft®     198 CONTRACTS NOT CLASSIFIED.   view^ We may therefore accept KudorfiPs restora-  tion of its formula, which runs as follows*: Si  is homo quo de agitur est ex his rebus de quibus inter  te et conductorem (colonum, &c. &c.) conuenit, ut quae  in eu/m fwndum quo de agitw inducta illata ibi nata  factaue essent ea pignori tibi pro mercede eiusfimdi  essent, neque ea merces tibi soluta eoue nomine satis-  f actum, est aut per te stat quaminu^s soluatur, ita quo-  minus eum ducas uim fieri ueto.   II. The second remedy introduced to enforce  the formless agreement of mortgage was the actio  Seruiana, which was far more efficacious. Its author  cannot have been Seruius Sulpicius Rufus, the Mend  of Cicero, because he never was Praetor Vrbanus, and  the action must have existed long before his time.  The Praetor who devised it was doubtless one of the  many Seruii Sulpicii whose names constantly appear  in the fasti consulares, and its age is probably not  much less than that of the interdictum Saluianum.  The action was certainly younger than the interdict,  and an improvement upon it, because the jurists  treated the law of mortgage under the head of inter-  dict', which indicates that this was the form of the  original remedy. We may be sure that the interdict  is older than the Edict Pacta conuenta, for otherwise  it would not have been needed. And as soon as  pa(Aa were thus legally recognised, it is safe to say  that a more perfect remedy for hypotheca was sure   ' Dernburg, Pfdr. p. 59; Bachofen, Pfdr. p. 13; Keller, Re-  cemion. p. 977 and Eudorff, Pfandkl. p. 210 ; Lenel, Ed. Perp. p.  394. ■   2 Pfandkl. p. 209. Of. Budorff, Ed. Perp. 282.   ' Dernburg, Pfdr. i. p. 61.     Digitized by Microsoft®     ACTIO SERVIANA. 199   to be devised. The probability is then that the actio  Seruiana was one of the first products of the Edict  Pacta conuenta, partly because we know that the  interdict was an imperfect remedy, partly because  hypotheca was much in vogue at that early date.  Thus we may gather from Plautus' allusions that  hypotheca was already in a well developed state  about A.v.c. 570. Cato the Censor^ also seems to  have alluded to it, and Caec. Statins {oh. A.v.c.  586), as cited by Festus", unquestionably did so.  The curious circumstance that Cicero should have  mentioned it only twice ^ may perhaps be accounted  for by the fact that pignus in its looser sense was  always a synonym for hypotheca *, and as he mentions  it so seldom in its Greek form, we may suppose that  the term hypotheca was then only just coming into  general use. We know that pignus in the narrower  sense was distinguished by Ulpian from hypotheca as  sharply as we distinguish a pawn from a mortgage ^,  but the earlier writers lead us to infer that the  term pignus oppositum, or simply pignus, was origi-  nally the equivalent of hypotheca.   The effect of the actio Seruiana was probably a  mere enlargement of the scope of the interdictwm  ■ Saluianum, giving the landlord a legal hold upon  the inuecta illata of his tenant even in the possession  of third parties. But since the right of thus pledging  by agreement was as yet recognised only as between  the colonus or the house-tenant and his landlord,   1 jj. i{. 146. ^ s.u. reluere.   3 Att. n. 17 and Fam. xiii. 56. ■* 20 Dig. 1. 5.   » 13 Dig. 7. 9.     Digitized by Microsoft®     200 CONTRACTS NOT CLASSIFIED.   hypotheca was a transaction still confined to a small  class.   III. A final improvement was effected, perhaps  shortly after the one just mentioned, when the  Praetor granted an action on. the analogy of the actio  Seruiana, upon all agreements of pledge of whatever  description. From the creation of this action, known  as cuctio quasi Seruiana ^ or hypothecaria ", or simply  Seruiana^, dated the introduction of a law of mort-  gage applicable to objects of all kinds. The name  hypothecaria, which we find applied only to the last  of these three remedies, implies either that this was  the only action available for all forms of hypotheca, or  else that the Greek term was not introduced until  the contract had thus become general.   The formula of the CKtio quasi Seruiana or hypo-  thecaria was of course in factum concepta *, because  the pactum hypothecae never was treated as a con-  tractus iuris ciuilis, though it became in reality as  binding as any contract. The words are restored  by Lenel° as follows, in an action by the mortgagee  against a third party : Si paret inter A™ Agerium et  Ludum Titium, conuenisse ut ea res qua de agitur A°  Agerio pignori hypothecaeue esset propter pecuniam  debitam, eamque rem tunc cum conueniebat in bonis D  Titiifuisse, eamque pecuniam neque solutam neque eo  nomine satisfactum esse neque per A^ Agerium, stare  quominus soluatur, nisi eares A" Agerio arbitratu-tuo   1 4 Inst. 6. 7. 2 16 Dig. 1. 13.   ' Bachofen, Pfdr. p. 28.   * Ed. perp. p. 397 ; cf. Dernburg, Pfdr. i. p. 78.  ' ib. p. 81 ; cf. Budorfl, Ed. perp. 234.     Digitized by Microsoft®     AQTIO HYPOTHEOARIA. 201   restituetur, quanti ea res erit, tantam pecuniam index  N'" Negidium A" Agerio condemna. s, n. p. a.   No mortgage can be of much practical use unless  it empowers the creditor to sell the thing pledged,  so as to cover his loss. But it is evident that the  mere pledgee or mortgagee could have had no in-  herent right to sell or convey what did not belong to  him. This was an advantage possessed by fiduoia,  since the property was fully conveyed and could  therefore be disposed of as soon as the condition was  broken. The only way out of the difficulty both in  pignus and hypotheca was to make a condition of  sale part of the original agreement. This was un-  necessary under the Empire ^ when the power of sale  came to be implied in every hypotheca, but during  the Republic the power had to be explicitly re-  served, or else the vendor was liable for conversion  (furtumy. Even Gains " speaks as though a pactum  de uendendo was usual in his time. Labeo describes  a sale eoc pacta conuento^, but the usual name for the  clause of the agreement containing the power of sale  was lex ccmimissoria. When it became possible to  insert such a clause is uncertain, but Demburg  seems right in maintaining that, as the lex commis-  soria was known to Labeo and to the far more  ancient Greek law, it must certainly have been  customary at Rome long before the end of the  Republic.   1 13 Dig. 7. 4.   2 47 Dig. 2. 74 ; Demburg, Pfdr. i. p. 91. ^ n. 64.  * 20 Dig. 1. 35.   = Pfdr. I. p. 86 as against Baehofen, Pfdr. p. 157.     Digitized by Microsoft®     202 CONTRACTS NOT CLASSIFIED.   The custom of committing hypothecae to writing  (tabulae), which is indicated by Gaius', doubtless pre-  vailed also in the Republican period, the object of  the writing being simply to facilitate proof   When we translate hypotheca by the English  word mortgage, we must not forget that the latter  denotes technically a conveyance defeasible by con-  dition subsequent, closely resembling ^cZwcia, where-  as the former denoted the mere creation of a lien.   On the other hand it is true that our modem  mortgage has lost its original resemblance to fidma,  and has now become almost identical with hypotheca.   Art. 3. Praediatvea. This was a peculiar form  of suretyship which the Roman jurists never treated  as a contract, though it doubtless had a very ancient  origin. It was connected with the public emtiones  and locationes, and was the regular method by which  contractors or undertakers of public work gave bond  to do their work properly.   The transaction resembled the giving of sponsores  in private law. The friends of the contractor who  were willing to be his sureties (praedes) appeared  before the Praetor or other magistrate, and entered  into a verbal contract by which they bound them-  selves with all that they possessed. The magistrate,  we are told, asked each surety " Praesne es?" and  the surety answered "Praes"\ This has every  appearance of having been a formal contract like  sponsio, and it is difficult to accept the view of  Mommsen ^ who considers that the publicity of the   » 20 Dig. 1. 4 ; 22 Dig. 4. 4.   2 Paul. Diao. s.u. Praes. ' Stadtr. von Salpema, p. 468.     Digitized by Microsoft®     PRAEDIATVRA. 203   transaction leads us to infer its formless character.  If we follow him in assuming that praedes and  praedia were purely public institutions, how can we  explain the existence of the praedes litis et uindici-  arum, who certainly appeared in private suits ', and  how can we understand those passages in Plautus  and Cicero which clearly refer to praedes and praedia  in private transactions ^ ? If then we deny to prae-  diatura an exclusively public character, we must  class it with sponsio and uadimonium as another  formal mode of giving security.   The etymology which explains the word praes as  being the adverbial form of praesto is undoubtedly  false '. Ihering and Goppert ■* suppose that it comes  from the same root as praedium, and means one who  undertakes a liability. But in the Lex agraria the  spelling is praeuides instead of praedes, and this  indicates rather that the true derivation is from  prae and uas ', in the sense of " one who comes forth  and binds himself verbally "^ Pott' thinks that  uas was the generic term for surety, and that praes  was a composite word meaning a surety who makes  good (praestare) what he undertakes. Where the  derivation is so uncertain no safe conclusion can be  arrived at, and the origin of the contract must, in  this case as in that of the primitive vadimonium,  remain an enigma.   ' Cf. aduersariw, Gai. iv. 16, 94.   2 Plaut. Men. 4. 2. 28 ; Cio. Att. xiii. 3. 1.   3 Eivier, Untersuch. p. 29. * Z.fiir RG. iv. p. 26.^.  ' Fas bomfari, or uas from a root meaning " to bind."   8 Dernbur'g, P/dr. i. 27 ; Eivier, Untersueh. p. 14.  ' Etym. Forsch. iv. p. 417.     Digitized by Microsoft®     204 CONTRACTS NOT CLASSIFIED.   The obligation of the praes was enforced by com-  pulsory sale, the details of which we unfortunately  do not know. The expression praedes uendere^  shows approximately how the right was enforced^,  but it is uncertain whether this ^ meant to sell the  property of the surety, or merely to sell the claim  of the State against him K   Besides the personal responsibility thus assumed  by the praes, there was another kind of security  known as praedium^ which the principal might be  required to give. If the praedes furnished by him  were not sufficient, praediwm might be required as  an additional safeguard'; but we also find that  praedes or praedia might be separately given'.   The form in which a bond of praedia had to be  made was a written acknowledgment in the Treasury  (praediorum apud aerarium subsignatio), and the  only object capable of serving or being pledged as a  praedium was landed property owned by a Roman  citizen, and possessing all the qualities of a res  mancipi^. Hence the seciirity of praedia could not  in many instances have been available, for the  whole of solwm prouinciale and the holdings of  ager publicus in the possession of occupatorii would  of course have been excluded. The amount of   ' Cio. Phil. 11. 31. 78 ; aes Malac. cap. 64-5.  2 Dernburg, Pfdr. i. p. 28. ' Cic. 2 Verr. i. 54. 142.   * Goppert, Z.filr EG. iv. p. 288.   ' Lex agraria of a.v.c. 643 ; Lex Put. parieti faciendo, Bruns,  Font. p. 272, aes Malac. cap. 64.  ' ae» Malac. cap. 60.   ' e.g. Lex Acilia repet. 61, 66, 67, and Festus s.u. quadrantal,  8 Cic. Place. 32. 80.     Digitized by Microsoft®     PRAEDIORVM SVBSIGNATIO. 205   praedia which had to be given was entirely in the  magistrate's discretion ^ and to help him in his  decision we find that there existed praediorum  cognitores^ who were probably persons appointed  to assess the value of praedia, and responsible to  the State if their information was wrong.   As to the nature of the transaction effected by  praediorum subsignatio, there can be no doubt that  the old theory held by Savigny and others is incor-  rect ', and that the State did not in virtue of svbsig-  natio become absolute owner of the praedia. Rivier  and Demburg * have demonstrated that the State  merely acquired a lien, and that praediorum sub-  signatio was therefore a species of mortgage. The  classical sources fully support this view", and it is  certain that while the property was subject to this  lien its owner still had the right to sell it and to  exercise other rights of ownership*. A public sale  (uenditio praediorum) followed closely no doubt  upon the default of the debtor, but did not neces-  sarily accompany the sale of the goods of the praedes^  (uenditio praedium). At Rome the former sale was  made by the praefecti aerario, and in the Lex Mala-  citana the duumvirs or decuriones are empowered to  make it °.   A peculiarity of the sale of praedia was that the   ' Lex agraria, 73-4 ; Bruns, Font. p. 84.   2 aes Malac. cap. 65.   3 Savigny Heid. Jahrsch. 1809, p. 268 ; Walter, E. G. p. 587 ;  Hugo, R. G. 449.   * Pfdr. 1. p. 33. ° Varro L. L. v. 40 ; Lex agraria, 74.   8 50 Dig. 17. 205. ^ Gai. ii. 61 ; Cie. 2 Verr. i. 55. 144.   8 cap. 64; Bruns, Font. p. 146.     Digitized by Microsoft®     206 CONTKACTS NOT CLASSIFIED.   dominiwm residing in the owner became instantly  transferred to the praediaior or purchaser from the  State, without any act on the owner's part. The  only advantage reserved to the dispossessed owner  was an exceptional right of recovering his property  from the purchaser by usurec&ptio, i.e. conscious  usucapio S one of the few instances in which it was  possible to exercise usucapio otherwise than with a  bona fide colour of title. In this case, as the  praedia were always land, the statutory period of  two years was necessary to complete the adverse  possession.   The lex praediatoria mentioned in the aes  Malacitanum" has been thought to be a statute of  unknown date; but it more probably denotes some  collection of traditional terms used in praediatura  and analogous to a lex uenditionis in a contract of  sale °. The restoration of "praediatoria " in Gains'  is doubtful, and "censoria" seems much to be pre-  ferred.   The operation of praediatura as a general lien  on all the property of the praes was probably re-  cognised in the Republican period, although Dem-  burg° has doubts on this point. Such a lien is found  in the Lex Malacitana in the time of Domitian,  but this may have been an extension to the public  aerarium of the general hypotheca belonging to the  Imperial Fiscus. At any rate, there is no evidence  that the lien did not exist in our period ; and if it   1 Gai. II. 61. « cap. 64.   3 Boecking, Rom. Priv. B. 294.   * IV. 28. 5 Pfdr. X. p. 42.     Digitized by Microsoft®     ACTIO QVOD irssv. 207   did, we can readily see that the security of praedia-  tura was superior to that of sponsio.   It is perhaps natural that the subject of praedes  and praedia should be obscure, for the complicated  nature of the law of praediatura is attested by  Cicero \ who states that certain lawyers made it a  special study.   Art. 4. AcTiONES ADiECTiciAE. Besides intro-  ducing the actio mandati, the Praetor's edict en-  larged the scope of agency by instituting several  other important actions. These were the actiones  quod iussu, exercitoria, institoria, tributoria, de peculio  and de in rem uerso. In all of them alike the Prae-  tor's object was to fasten responsibility on some  superior with whose consent, or on whose behalf,  contracts had been made by an inferior. They  are known as actiones adiecticiae, because they were  considered as supplementing the ordinary actions  which could be brought against the inferior himself ^  As they made the principal liable on the contracts  of a subordinate, it is plain that they must have  been a most useful substitute for the complete law  of agency which the Romans always lacked. The  fact that they all had formulae in ius conceptae  points to a late origin, but they all doubtless origi-  nated before the end of the Republic.   (1) The actio quod iussu was an action in which  a son or slave, who had made a contract at the  bidding of his pater familias, was treated as a mere  conduit pipe, and by which the obligation was  directly imposed on the pater familias who had  1 Balb. 20. 45. = 14 Dig. 1. 5. fr. 1.     Digitized by Microsoft®     208 CONTRACTS NOT CLASSIFIED.   authorized it. Since Labeo mentioned the action as  though its practice was well developed in his day ',  we may fairly suppose that iussus was made action-  able in Republican times.   The formula was as follows :   Quod iussu N^ Negidii A" Agerius Gaio, cum is  in potestate N'' Negidii esset, togam uendidit qua de  re agitur, quidquid oh earn rem Oaium jUium A°  Agerio dare facere oportet ex fide hona, eius iudex  iV™ Negidium patrem A" Agerio condemna. s. n. p. a.  Here the express comniand of the superior was the  source of his obligation.   (2) The actio exercitoria was an action in which  a ship owner or charterer {exercitor) was held directly  responsible for the contracts of the ship master " (ma-  gister nauis). Its formula probably ran as follows:  Quod A^ Agerius de Lmio Titio magistro eius nauis  quam N' Negidius exercebat, eius rei causa in quam  L' Titius ibi praepositus fuit, incertum stipulatus est  qua de re agitur, quidquid oh earn rem N'^ Negidium  A" Agerio praestare oportet ex fide bona eius N™'  Negidium A" Agerio condemna. s. n. p. a.- It was  known to Ofilius in the eighth century of the city*,  and was very probably even older than his day.   The necessities of trade were obviously the source  from which this particular form of agency sprang,  because in an age of great commercial activity,  when even bills of lading were not yet introduced,  it was expedient that the delivery of goods or the   1 15 Dig. 4. 1. fr. 9. ^ x4 Big. 1. 1.   ' Baron, Abh. aus dem B. C. P. ii. 181.  * 14 Dig. 1. 1. fr. 9.     Digitized by Microsoft®     ACTIO INSTITORIA. 209   making of contracts by the master should be equi-  valent to a direct transaction with the ship owner  himself.   (3) The actio institoria no doubt had a like  commercial origin. This was an action by which  the person who employed a manager (institor) in a  busiuess from which he drew the profits, was made  liable for the debts and contracts of the manager.  This action was known as early as the days of  Seruius Sulpicius^, and its formula closely resem-  bled that of the actio exerdtoria. The difference  between these two and the actio quod iussu con-  sisted simply in the fact that the iiissus or autho-  rization was special in the one case, and general in  the other two. In the actiones exercitoria and insti-  toria an implied general authority was ascribed to the  agent in virtue of his praepositio^, whereas in the  actio quod iussu the agent had only an express special  authority. Thus the magister nauis and the institor  were genuine instances of general agents ; and we  find therefore, as we should have expected, that the  acts of the magister and institor only bound the  master when strictly within the scope of their  authority'. This is an excellent instance of the  manner in which Mercantile Law has developed the  same rules in ancient as in modem times.   (4) The actio tributoria was that by which a  master was compelled to pay over* to the creditors  of a son or slave trading with his consent whatever   1 14 Dig. 3. 5. fr. 1.   2 46 Dig. 3. 18 ; Oosta, Azioni ex. p. 40.   ' 14 Dig. 1. 1. fr. 7. •* tribui, 14 Dig. 4. 5. 5.   B. E. 14   Digitized by Microsoft®     210 CONTRACTS NOT CLASSIFIED.   profits he had received from the business. The  formula ran thus : Quod J.' Agerius de L" Titio qui  in potestate N'' Negidii est, cum is sciente N" Negidia  merce peculiari negotiaretur, -infiertum stipulatus est  qua de re agitur, quidquid ex ea merce et quod eo  nomine receptum est ob earn rem iV™ Negidium .4."  Agerio tribuere oportet, eius dumtaxat in id quod  minus^ dolo malo N^ Negidii A' Agerius tribuit,  N'^ Negidium A" Agerio condemna. s. n. p. a*.  This action was mentioned by Labeo ' and was there-  fore probably as old as the other actions of this class.  The knowledge and tacit approval of the superior  were here the source of his obligation.   (5) The actiones de peculio and de in rem uerso  were proceedings by which the master was required  to make good any obligation contracted by his son or  slave, to the extent of the son's or slave's peculium,  or of such gain as had accrued to himself {in rem  uersum) from the contract. Their peculiarity, as  Gaius has told us and as a recent writer conclu-  sively shows*, was that they had one formula with  an alternative condemnatio, which may be recon-  structed as follows : Quod A' Agerius de Lwdo Titio  cum is in potestate JV* Negidii esset, incertmn stipula-  tus est qua de re agitur, quidquid ob earn rem Lucius  Titius A" Agerio praestare oportet ex fde bona, eius  iudex N'^ Negidium A" Agerio, dumtaxat de peculio  quod penes N"^ Negidium est, uel siquid in rem N*  Negidii inde versv/m est, condemna. s. n. p. a. This   » 14 Dig. 7. 3. " Baron, I. c. p. 176.   ■< 14 Dig. 4. 7.   * Baron, I. e. pp. 136-69 ; cf. Lenel, Ed. perp. p. 225.     Digitized by Microsoft®     GONSTJTVTVM. 211   formula might be so modified that the actio de  peculio and the actio de in rem uerso could be  brought either separately or together. These actions  were known to Alfenus Varus^, and it is safe to say  that they were introduced some time before the  end of the Republic. The knowledge or consent of  the superior did not here have to be proved.   The difference between the actio tributoria and  the actio de peculio was considerable. By the former  the master contributed his profits and then shared in  the distribution as an ordinary creditor. But by the  latter he became a preferred creditor, and deducted  from his profits the whole amount owed to him by  the son or slave. The peculium in the latter case  was in fact only the balance remaining after the  debts of the son to him had been satisfied.   Art. 5. CoNSTiTVTVM AND Receptvm. To-  wards the end of the Republic we find two kinds of  formless contract by which a debt could be created,  and both of which seem to have sprung fi-om the  requirements of Roman commerce ■'.   I. Gonstitutmn.   The chief characteristics of this contract may be  gathered from the constitution by which Justinian  ftised together the actio recepticia and the actio  pecuniae constitutae\ as well as from allusions in  the Digest. It seems to have been a formless pro-  mise of payment at a particular date ; depending on  the existence of a prior indebtedness to which the   1 15 Dig. 3. 16. == Ihering, Geist iv. 218-220.   3 4 Cod. 18. 2.   14—2   Digitized by Microsoft®     212 CONTBACTS NOT CLASSIFIED.   constitutwm became accessory^; unconditional^; en-  forced by an actio pecuniae constitutae of Praetorian  origin which was in some cases perpetua and in  others armalis ; and available to persons of all classes.  Constitutwm is discussed by Labeo ', and is men-  tioned by Cicero^ in a way which makes it certain  that the actio pecuniae constitutae existed in his day.  The action originated in the Praetor's Edict",  and it was thereby provided with a penal sponsio  similar to that of the condictio certae pecuniae. This  leads us to infer that pecwnia constituta was treated  by the Praetor as analogous to pecunia credita ; es-  pecially as Gains • states that pecwnia credita strictly  meant only an unconditional obligation to pay money,  while we know from Justinian's constitution that  unless constitutvmi was unconditional no action would  lie. But why should the penal sponsio of the actio  pecuniae constitutae have been so much heavier than  that of the condictio, namely dimidiae instead of  tertian partis ' ? The reason given by Theophilus'  is that constitutum, was generally entered into by a  debtor in order to gain time for the payment of a  debt already due, and that the Praetor instituted  this severe action in order to discourage insolvent  debtors from this practice. Labeo on the contrary  says * that constitutvm, was made actionable in order  to enforce the payment of debts not yet due. Both   ' li Dig. 5.1. fr. 5 ' God. l.c.   » 13 Big. 5. 3. ■» Quint. 5. 18.   ' 13 Dig. 5. 16. » in. 124.   ' Gai. IT. 171. 8 Paraphr. iv. 6-8.   18 Dig. 5. 3.     Digitized by Microsoft®     TWO FORMS OF ACTION. 213   Labeo and Theophilus are probably right ', but each  takes a one-sided view. The Praetor's aim presu-  mably was to enforce the payment of any debt, due  or not due, which the debtor had made a renewed  promise to pay at a particular date. The breach of  a repeated promise (for constitutum always implied  a previous promise or indebtedness) was doubtless  regarded by the Praetor as a singularly flagrant  breach of faith ; and hence he compelled the defen-  dant to join in a penal sponsio dimidiae partis.   This actio per sponsionem was not however the  only remedy for a breach of constitutum. The Digest  shows that the usual form of redress was an actio in  factum ", which ' probably had a formula as follows :  Si paret Nwmeriimi Negidium Aulo Agerio X  millia Kal. Ian. se soluturwn constituisse, neque earn  pecuniam soluisse, neque per Agerium stetisse quo-  minus solueretur, eamque pecuniam cum constituehatur  debitam fuisse, quanti ea res est, tantam pecuniam,  Nunierium Negidium Aulo Agerio condemna ; and  that this actio in factum, existed in Gaius' time  as an alternative remedy seems probable from his  language in iv. 171. It is not likely that the actio  in factum arose simultaneously with the other; and  of the two Puchta* is almost certainly right in  assigning the earlier date to the actio per spon-  sionem, because the custom of sponsione prouocare  suggests an ancient origin. This sponsio, like that of  the condictio, was praeiudicialis, but it also contained  a strongly penal element. Its penal character was   » Bruns, Z. f. EG. i. p. 56. » 13 Dig. 5. 16. 2.   ' Bruns, loc. cit. p. 59. * Inst. ii. 168.     Digitized by Microsoft®     214 CONTRACTS NOT CLASSIFIED.   no doubt the reason why the action could not be  brought against the heir of the constituens, and why  it was annalis. As Bruns has shown, the remedy  after one year was probably the actio in factum'^,  by which the plain amount of the constitutwm could  alone be recovered.   Gonstitutvmn could be employed for the renewal of  the promisor's own debt {const, debiti proprii), as  well as of another man's {const, debiti alieni), and  this distinction was early allowed". In the later  law it could also be used to reinforce and render  actionable an obligatio naturalis. But this feature  probably did not exist at the origin of the action",  for the Praetor could only have had in mind pecunia  eredita, when he inflicted such a heavy penalty.  The effect of constitutwm was simply to reinforce the  old obligation by supplying a more stringent remedy.  It never produced novation as stipulatio or expensi-  latio * would have done.   //. Receptwm.   The agreement by which shipmasters, innkeepers  and stablemen {nautae, caupones, stabularii) under-  took to take care of the goods or property of their  customers was known as receptwm, and was enforced  by means of an actio de recepto as rigorously as the  duties of common carriers are enforced by the Common  Law". The Edict was expressed as follows : navtae  CAVPONES stabvlarii qvod cvivsqve salvvm fore   RECEPERINT NISI RESTITVENT, IN EOS IVDICIVM DABO ;   ' Bruns, loc. cit. J). 68. " 13 Dig. 5. 2.   ' Bruns, ib. p. 69. < 13 Dig. 5. 28.   ' Camazza, Dir. Com. p. 106.     Digitized by Microsoft®     THEORIES AS TO RECEPTVM. 215   and the remedy was an ordinary actio in factv/m,  authorising the judge to assess damages for the loss  or non-production of the goods.   But the contract which more nearly concerns us  is receptum argentariorum, the nature of which has  been a subject of much controversy.   This was a formless promise to pay on behalf of  another man, and we gather from Justinian ' that it  was capable of creating an original debt; capable  of being made svb conditione or in diem, and en-  forced by an actio recepticia, which was perpetua;  while Theophilus tells us' that it was confined to  bankers (argentarii). Bruns" indeed supposes that  receptum was a formal contract iuris ciuilis, while  according to Voigt* it was a species of expensilatio  devised by the argentarii. Lenel^ however has  proved that receptum argentariorum was introduced  and regulated by the Praetor in the same part of  the Edict in which he treated of the recepta  nautarum, cauponarum and stabulariorum. This  appears from the fact that in 13 Big. 5. 27 and  28, constituere has evidently been substituted by  Tribonian and his colleagues for recipere. Ulpian  treated of constitutwm in his 27th book on the  Edict": but the passage quoted in the Digest is  from his 14th book on the Edict, in which we know '  that he discussed the clause Nautae caupon^s sta-  hularii. So also Pomponius, who discussed recepta     1 4 Cod. 18. 2. 2 IV. 6-8. » Z. fur RG. i. 51 ft.   * fiSm. EG. I. 65-8. ' Z. der Sav. Stift. ii. 62 S.   « 13 Dig. 5. 16. ' 4 Dig. 9. 1.     Digitized by Microsoft®     216 CONTBACTS NOT CLASSIFIED.   nautarvm, &c. in his 34th book^ and constitutum in  his 8th*, is described' as mentioning the latter in his  34th book. Gains also is represented to have dealt  with constitutum in the very same book* in which he  treated of recepta nautarum^.   We must conclude, either that all these writers  introduced into their discussion of recepta naviarum  &c. the totally irrelevant subject of constitutum, or  that the subject thus introduced was not constitutum  but receptum argentariorum. If the latter conclusion '  is correct, as we may well believe that it must be, it  follows that receptum, argentariorum was, like the  other recepta, regulated by the Praetorian Edict, and  was therefore not a contract iuris ciuilis. By analogy  with the other recepta we may further conclude that  receptum argentariorum was formless, and hence  cannot have been a species of eoopensilatio. The  remedy was of course an actio in factum.   Recipere is used by Cicero* in the sense of under-  taking a personal guarantee, but with no clearly  technical meaning. Justinian states that the ouctio  recepticia was objectionable on account of its "solem-  nia uerba," and Lenel has explained this to mean  that the actio recepticia, being necessarily in factum  like those of the other recepta, had to contain the   words "si paret soluturwm recepisse. n^que   soluisse quod solui recepit," of which recipere was  a technical term. This term, being misunderstood  by the Greeks, was translated in Justinian's time   > 4 Dig. 9. 1 fr. 7 and 9. 3. ^ 13 Vig. 5. 5 fr. 5.   » ib. 5. 27. * ib. 5. 28. = 4 Dig. 9. 2 and 5.   « Phil. V. 18. 51. ; ad Fam. xiii. 17.     Digitized by Microsoft®     A MERCANTILE DEVICE. 217   by constitmre. It is almost certain that the actio  recepticia was known before the end of the Republic,  since Labeo evidently ' discussed it.   The function of receptum probably was to provide  an international mode of assigning indebtedness,  because transcriptio a persona in persona/m was not  available to peregrins'. The existence of the debt  between the creditor and the original debtor was  clearly not affected by the obligation of the argen-  tarius who had made a receptum; and from the  passages above cited Lenel also infers that receptum  pro alio was the only known form which the contract  ever took. In short, it seems to have closely resem-  bled the acceptance of a modem bill of exchange",  and it was doubtless made by the argentarius on  behalf of his clients or correspondents.   1 13 Dig. 5. 27. ' Lenel, Z. der Sav. Stift. n. 70.   3 Carnazza, Dir. Com. p. 93.     Digitized by Microsoft®     CONCLUSION.   We have now traced the development of the  Roman Law of Contract from an early stage of  Formalism, in which few agreements were actionable,  and those few provided with imperfect remedies,  to the almost complete maturity to which it had  attained by the end of the Republia   Of all the contracts which we have examined,  nexum and uadimoniwn seem to be the only two  that became obsolete during this period, while the  new contracts of Praetorian origin, such as depositwm  and constitutum, attained their full growth, as we  have seen ; so that the jurists of the Empire found  little to do besides the work of interpretation and  amplification.   The one great improvement, and almost the only  one, which the Law of Contract underwent sub-  sequently to our period, was the introduction of the  actiones praescriptis uerhis, by which the scope of  Real Contract was immensely enlarged.   Li other respects, the Law of the Republic  has the credit of having generated that wonderful-  system of Contract which later ages have scarcely  ever failed to copy, and which lies at the root of so  much of English Law. Francesco Fisichella. Fisischella. Keywords: il duello, “del contratto” – giocco come contratto – wrestling as a contract, fencing as a contract, contract bridge as a contract -- pena temporaria, pena perpetua, divorzio, matrimonio, stato, legge, devere naturale, obbligazione naturale. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Fisichella” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51760247338/in/dateposted-public/

 

Grice e Floridi – informare – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo. Grice: “’To inform’ was first used by some Roman! It surely ain’t Grecian!” -- Eessential Italian philosopher. He has explored aspects of Grice’s use of the expression ‘inform,’ ‘mis-inform,’ in terms of ‘factivity.’  Insegna a 'Ferrara. Conosciuto per il suo lavoro in due aree di ricerca filosofica: la filosofia dell'informazione e l'etica informatica.   Si laurea a a Roma. Insegna a Bari e Ferrara. Conosciuto per i suoi studi sulla tradizione scettica (scetticismo), ma principalmente per il suo lavoro di fondazione della filosofia dell'informazione e dell'etica informatica, due campi che ha contribuito a costituire. Fondatore un gruppo di ricerca interdipartimentale sulla filosofia dell'informazione. Durante la laurea a Roma, studiato da classicista e da storico della filosofia. Si è interessato di filosofia della logica ed epistemologia. Si è quindi occupato di diversi argomenti filosofici tradizionali, alla ricerca di una nuova metodologia, con l'obiettivo di riuscire ad avvicinarsi ai problemi contemporanei in una prospettiva che fosse efficace dal punto di vista euristico e potesse allo stesso tempo anche costituire un arricchimento intellettuale nell'affrontare le questioni filosofiche dei nostri giorni. Molto presto, inizia a distanziarsi da quello che Grice chiama la filosofia analitica “classica”. Secondo Floridi, il movimento analitico ha perso la sua spinta iniziale ed era ormai un paradigma sempre più debole, scolasticizzato – “specialmente ad Oxford!” --. Per questo motivo, ha concentrato i suoi interessi su una nuova fondazione dell'epistemologia. Anda alla ricerca di un concetto di "conoscenza” “indipendente-dal-soggetto", vicino a ciò che oggi definisce informazione semantica. è necessario sviluppare una filosofia costruzionista, all'interno della quale il design, la creazione di modelli e le implementazioni sostituiscano analisi frivole e esami cavillosi (e.g. sull’uso di ‘informare,’ ‘disinformare,’ ecc.) In questo modo, la filosofia ha la speranza di non chiudersi in un angolo sempre più angusto, fatto di ricerche griceiane auto-sufficienti e che interessano solo a sé stesse, e di riacquistare un punto di vista più ampio sui problemi che sono realmente determinanti nella vita umana fuori di Oxford! Così, lentamente, è giunto a prendere in considerazione la filosofia dell'informazione, una nuova area di ricerca emersa dalla svolta computazionale, avvicinandola da due prospettive, quella puramente teorica della semantica, pragmatica, sintassi, semiotica, logica e dell'epistemologia, e quella più tecnica dell'informatica, in particolare dell'etica, della teoria dell'informazione di Shannon -- e della humanities computing.  Il filosofo ha bisogno di acquisire conoscenze di IT necessarie per fare uso del computer in maniera efficace. Anche il filosofo posse essere interessato ad acquisire le conoscenze di sfondo indispensabili per la comprensione critica dell’era digitale e dunque iniziare a lavorare sulla branca della filosofia che si va formando, proprio la Filosofia dell'informazione, che si augura un giorno possa diventare parte integrante della cosiddetta “philosophia prima,” o prote philosophia della sua fase romana!. Da allora, Philosophy of Computing and Information è diventata il suo maggiore interesse di ricerca.  In PI, sostiene che ci sia bisogno di un concetto più ampio di elaborazione e di “flusso” causale dell'informazione – alla Dretske -- che includa la computazione, ma non solo. Questa prospettiva fornisce una cornice teorica molto efficace all'interno della quale inserire e dare significato alle differenti linee di ricerca. Il secondo vantaggio è la prospettiva diacronica, che permette di inquadrare lo sviluppo della filosofia nel tempo. PI fornisce infatti un punto di vista molto più ampio e profondo su ciò che la filosofia avrebbe cercato di fatto di realizzare nel corso dei secoli. Altre opere: “InfosferaFilosofia e Etica dell'informazione” (Torino: Giappichelli Editore); “La quarta rivoluzione, Milano: Raffaello Cortina Editore); “Pensare l'infosfera” (Milano: Raffaello Cortina Editore); “Il verde e il blu” (Milano: Raffaello Cortina Editore, OII: digital ethicslab. oii.ox.ac.uk,//digital ethicslab.oIEG philosophy of information.net/ pdf/auto.pdf  the newatlantis.com/publications/why-information-matters  Onlife openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Luciano Floridi,.Oxford Institute, su oii.ox.ac.uk. Home page e articoli online, su philosophyofinformation.net. Intervista e lezione durante l'IoE talks (Internet of EverythingRoma ) La lecture su "Intelligenza artificiale, dobbiamo preoccuparci?" presso il Centro Nexa del Politecnico di Torino Biografia e intervista su Rai Media Mente, su media mente rai. Biografia e intervista per l'American Philosophical Association,  Cervelli in Fuga, Roma, Accenti.  Wikipedia Ricerca Informazione ciò che porta conoscenza Lingua Segui Modifica Nota disambigua.svg Disambiguazione – Se stai cercando il quotidiano, vedi Informazione (quotidiano). L'informazione è l'insieme di dati, correlati tra loro, con cui un'idea (o un fatto) prende forma ed è comunicata.[1] I dati oggetto della stessa possono essere raccolti in un archivio o in un'infrastrutturadedicata alla sua gestione, come nel caso di un sistema informativo. Essa è oggetto di studio e applicazione in vari settori della conoscenza e dell'agire umano.    Lista delle vittorie di Rimush, Re di Akkad, sopra Abalgamash, re di Marhashi e sopra le città elamite. Tavoletta d'argilla, copia di un'iscrizione monumentale, circa 2270 a.C. (si veda Stele di Manishtushu) Ad esempio in campo tecnico è oggetto di studio dell'ingegneria dell'informazione, sul fronte delle scienze sociali è oggetto d'indagine delle scienze della comunicazione e in generale della sociologia, con particolare riguardo agli aspetti legati alla diffusione dei mezzi di comunicazione di massa nell'attuale società dell'informazione (o era dell'informazione).  EtimologiaModifica La parola deriva dal sostantivo latino informatio(-nis)(dal verbo informare, nel significato di "dare forma alla mente", "disciplinare", "istruire", "insegnare"). Già in latino la parola veniva usata per indicare un "concetto" o un'"idea", ma non è chiaro se questa parola possa avere influenzato lo sviluppo della parola informazione.  Inoltre la parola greca corrispondente era "μορφή" (morfè, da cui il latino forma per metatesi), oppure "εἶδος" (éidos, da cui il latino idea), cioè "idea", "concetto" o "forma", "immagine"; la seconda parola fu notoriamente usata tecnicamente in ambito filosofico da Platone e Aristotele per indicare l'identità ideale o essenza di qualcosa (vedi Teoria delle forme). Eidos si può anche associare a "pensiero", "asserzione" o "concetto".[2]  Evoluzione concettualeModifica Col progredire delle conoscenze umane il concetto di informazione si è evoluto divenendo via via più vasto e differenziato: informazione è in generale qualunque notizia o racconto, inoltre qualunque comunicazionescritta o orale contiene informazione. I dati in un archivio sono informazioni, ma anche la configurazione degli atomi di un gas può venire considerata informazione. L'informazione può essere quindi misurata come le altre entità fisiche ed è sempre esistita, anche se la sua importanza è stata riconosciuta solo nel XX secolo.  Per esempio, la fondamentale scoperta della “doppia elica” del DNA nel 1953 da parte di James Watson e Francis Crick ha posto le basi biologiche per la comprensione della struttura degli esseri viventi da un punto di vista informativo. La doppia elica è costituita da due filamenti accoppiati e avvolti su se stessi, a formare una struttura elicoidale tridimensionale. Ciascun filamento può essere ricondotto a una sequenza di acidi nucleici (adenina, citosina, guanina, timina). Per rappresentarlo, si usa un alfabeto finito come nei calcolatori, quaternario invece che binario, dove le lettere sono scelte tra A, C, G e T, le iniziali delle quattro componenti fondamentali. Il DNArappresenta quindi il contenuto informativo delle funzionalità e della struttura degli esseri viventi.  DescrizioneModifica In generale un'informazione ha valore in quanto potenzialmente utile al fruitore per i suoi molteplici scopi: nell'informazione, infatti, è spesso contenuta conoscenza o esperienza di fatti reali vissuti da altri soggetti e che possono risultare utili senza dover necessariamente attendere di sperimentare ognuno ogni determinata situazione. Sotto questo punto di vista il concetto utile di informazione e la parallela necessità di comunicare o scambiare informazione tra individui nasce, nella storia dell'umanità, con l'elaborazione del linguaggio da parte della menteumana e si sviluppa con la successiva invenzione della scrittura come mezzo per tramandare l'informazione ai posteri. Secondo quest'ottica la storia e l'evoluzione della società umana sono frutto dell'accumulazione di conoscenza sotto forma di informazione. Nell'informazione ad esempio è contenuto know howutile per eseguire una determinata attività o compito, cosa che la rende ad esempio una risorsa strategica in ambito economico dell'economia aziendale.  L'informazione e la sua elaborazione attraverso i computer hanno avuto certamente un impatto notevole nella nostra attuale vita quotidiana. L'importanza è testimoniata, ad esempio, dai sistemi di protezione escogitati mediante la crittografia e dal valore commerciale della borsa tecnologica. L'uso appropriato dell'informazione pone anche problemi etici di rilievo, come nel caso della riservatezzariguardo alle informazioni cliniche che potrebbero altrimenti avvantaggiare le compagnie di assicurazioni mediche e danneggiare i pazienti.  L'importanza e la diffusione dell'informazione nella società moderna è tale che a questa spesso ci si riferisce come la Società dell'Informazione.  Nei vari contestiModifica Altre definizioni provengono dall'informatica e dalla telematica:  Nel modello di Shannon e Weaver, l'informazione è considerata parte integrante del processo comunicativo; La teoria dell'informazione ha come scopo quello di fornire metodi per comprimere al massimo l'informazione prodotta da una sorgente eliminando tutta la ridondanza; Nella teoria delle basi di dati (ad esempio nel modello relazionale, ma non solo), un'informazione è una relazione tra due dati. Fondamentale da questo punto di vista è la distinzione tra il dato (un numero, una data, una parola...) e il significato che si può dare a tale dato, mettendolo in relazione con uno o più dati o rappresentazioni di concetti. In un computer quindi, le informazioni sono numerabili, e a seconda del sistema di interpretazione e della rappresentazione possiamo distinguere tra informazioni esplicite, relativamente facili da quantificare (come la data di nascita del signor Rossi) e informazioni dedotte, il cui numero dipende dalle capacità di calcolo delle informazioni fornite al sistema (ad esempio l'età del signor Rossi, ottenibile mediante sottrazione della data odierna e la data di nascita). È questo un esempio di informazione dedotta esatta, ma ci sono anche metodi per dedurre delle informazioni che non sono certe: ad esempio un servizio di rete sociale può stabilire con una certa precisione che due persone che hanno frequentato la stessa scuola si conoscono o hanno conoscenze in comune, ma non può dare la certezza matematica di ciò. InformaticaModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Tipo di dato. I computer, nati come semplici calcolatori, sono diventati col tempo dei potenti strumenti per memorizzare, elaborare, trovare e trasmettere informazioni. La diffusione di Internet come rete globale ha d'altro canto messo a disposizione una mole di informazioni mai prima d'ora a disposizione dell'umanità. Alla base di ogni informazione in un computer c'è il concetto di dato: sebbene all'interno del calcolatore elettronico tutti i dati siano digitali, cioè memorizzati come semplici numeri, dal punto di vista umano, invece, si può attribuire un significato anche ai numeri. Per questo motivo, nei linguaggi di programmazione, spesso esistono alcuni formati specifici per indicare in modo esplicito quale significato dare ai dati. Fermandosi ai tipi di base abbiamo essenzialmente numeri, caratteri e stringhe (successioni finite di caratteri). Tali dati devono essere messi in relazione tra di loro per avere un significato; se invece le relazioni valide possibili sono più di una, si può generare ambiguità.[non chiaro]  Matematica e logicaModifica Ad esempio, 1492 è un numero che da solo non significa niente: potrebbe essere una quantità di mele (se correlato mediante la relazione di quantità con l'oggetto mela), il costo di un anello o l'anno in cui Cristoforo Colombo si imbarcò e scoprì l'America. La parola "calcio" può essere uno sport, un elemento chimico o un colpo dato col piede. In genere le basi di dati che contengono informazioni relative ad un determinato campo del sapere non risentono molto del problema dell'ambiguità: in una base dati di chimica la parola calcio indicherà certamente l'elemento chimico. Nelle basi di dati relazionali, sistemi di tabelle e relazioni permettono di organizzare i dati per poter ottenere delle informazioni senza ambiguità: se la tabella "elementi_chimici" contiene la parola calcio, questo sarà senza dubbio l'elemento chimico. La semplice immissione del dato nella tabella "elementi_chimici" ha implicitamente classificato la parola "calcio", conferendole un significato, dato dalla scelta della tabella in cui inserire un dato (la scelta della tabella rappresenta il trasferimento di conoscenza da una persona alla base dati). Inoltre, le basi di dati relazionali permettono la creazione di relazioni tra dati di diverse tabelle.  Oltre alle relazioni esplicite, ci possono essere delle relazioni dedotte. Supponiamo di avere la tabella "figlio_di": se abbiamo che Antonio è figlio di Luigi (informazione 1), e che Luigi è figlio di Nicola (informazione 2), allora possiamo dedurre che Nicola è il nonno di Antonio (informazione 3). È quindi possibile formalizzare la relazione e inserirla nella base di dati, ottenendo la tabella nonno_di senza dover immettere altri dati:  se A è figlio di B e B è figlio di C, allora C è nonno di A oppure, ogni volta che si ha bisogno di conoscere eventuali nipoti/nonni di qualcuno, analizzare la relazione figlio_di. E le informazioni possono essere maggiori: analizzando il sesso di B, si potrà sapere se C è nonno paterno o materno.  Le basi di conoscenza pensate per la deduzione sono più elastiche delle tradizionali basi di dati relazionali. Un esempio sono le ontologie.  Analisi particolarmente ricercate per il loro valore economico ai fini commerciali sono quelle che analizzano grandi flussi di informazioni per scoprire tendenze che permettono dedurre delle informazioni che hanno una buona probabilità di essere vere riguardo utenti singoli o categorie di utenti. Supponendo che Antonio abbia sempre acquistato in internet dei libri di fantascienza, allora la pubblicità che gli si mostrerà potrà mostrare dei libri di fantascienza o simili, che molto probabilmente lo interesseranno. Questi tipi di analisi possono fornire informazioni talvolta sorprendenti: una catena di supermercati in un paese anglosassone avrebbe scoperto, analizzando gli scontrini, qualcosa altrimenti difficilmente immaginabile: le persone che acquistavano pannolini spesso compravano più birra delle altre, per cui mettendo la birra più costosa non lontano dai pannolini, poteva incrementarne le vendite. Infatti le persone che avevano figli piccoli passavano più serate in casa a guardare la TV bevendo birra, non potendo andare nei locali con gli amici. L'esempio dell'associazione tra pannolini e birra è usato spesso nei corsi universitari di data mining; tuttavia c'è da precisare che non è chiaro quale sia la catena di supermercati in questione, e l'esempio, seppur valido a scopi didattici, potrebbe essere inventato.  Aspetti tecnici                 Modifica L'informazione è generalmente associata a segnali, trasmissibili da un sistema di telecomunicazioni e memorizzabili su supporti di memorizzazione.  La misurazione Modifica Secondo la Teoria dell'Informazione in una comunicazione, che avviene attraverso un dato alfabeto di simboli, l'informazione viene associata a ciascun simbolo trasmesso e viene definita come la riduzione di incertezza che si poteva avere a priori sul simbolo trasmesso.  In particolare, la quantità di informazione collegata a un simbolo è definita come   {\displaystyle I=-\log _{2}P_{i}}  dove P_{i} è la probabilità di trasmissione di quel simbolo. La quantità di informazione associata a un simbolo è misurata in bit. La quantità di informazione così definita è una variabile aleatoria discreta, il cui valor medio, tipicamente riferito alla sorgente di simboli, è detto entropia della sorgente, misurata in bit/simbolo. La velocità di informazione di una sorgente, che non coincide con la frequenza di emissione dei simboli, dato che non è detto che ogni simbolo trasporti un bit di informazione "utile", è il prodotto dell'entropia dei simboli emessi dalla sorgente per la frequenza di emissione di tali simboli (velocità di segnalazione). Quanto sopra può essere generalizzato considerando che non è assolutamente obbligatorio che ogni simbolo sia codificato in maniera binaria (anche se questo è ciò che accade più spesso). Quindi l'informazione collegata a un simbolo codificato in base a è per definizione pari a   {\displaystyle I_{a}=-\log _{a}P_{i}}  con P_{i} pari alla probabilità di trasmissione associata a quel simbolo. L'entropia della sorgente è per definizione pari alla sommatoria, estesa a tutti i simboli della sorgente, dei prodotti tra la probabilità di ciascun simbolo e il suo contenuto informativo. Nei casi particolari in cui a sia 10 l'entropia della sorgente è misurata in hartley, se invece a è pari al Numero di Eulero e si misura in nat. Dalla formula si evince che se la probabilità Pi di trasmettere il simbolo è pari a uno, la quantità di informazione associata è nulla; viceversa se nel caso limite ideale di Pi=0 la quantità di informazione sarebbe infinita. Ciò vuol dire in sostanza che tanto più un simbolo è probabile tanto meno informazione esso trasporta e viceversa: un segnale costante o uguale a se stesso non porta con sé alcuna nuova informazione essendo sempre il medesimo: si dice allora che l'informazione viaggia sotto forma di Innovazione. I segnali che trasportano informazione non sono dunque segnali deterministici, ma processi stocastici. Nella teoria dei segnali e della trasmissione questa informazione affidata a processi aleatori è la modulante (in ampiezza, fase o frequenza) di portantifisiche tipicamente sinusoidali che traslano poi in banda il segnale informativo.  La codifica dell'informazione                                         Modifica La codifica dell'informazione consiste nel trasformare un'informazione generica in un'informazione comprensibile da un dispositivo o che sia adatta alla successiva elaborazione. Il primo problema da affrontare nei processi di elaborazione dell'informazione è la rappresentazione dell'informazione. L'informazione consiste nella ricezione di un messaggio tra un insieme di possibili messaggi. La definizione esatta è che l'informazione si rappresenta usando un numero finito di simboli affidabili e facilmente distinguibili.  All'interno delle apparecchiature digitali l'informazione è rappresentata mediante livelli di tensione o mediante magnetizzazione di dispositivi appropriati. Le esigenze di affidabilità impongono che tali simboli, per una maggiore efficienza, siano due o al massimo tre: nel primo caso si hanno solo 0 e 1, corrispondenti a 2 livelli di tensione (standard TTL: 0/5 V; standard RS-232: +12/-12 V) che vanno a formare la numerazione binaria; nel secondo caso si può avere un terzo stadio, indicato come HiZ (alta impedenza), che rappresenta un livello indeterminato, causato ad esempio dal filo "scollegato".  La portata dei flussi                     Modifica Il concetto di informazione trasportato su un canale di comunicazione può essere messo in analogia con quello della portata in idrodinamica, mentre la velocità del flusso rappresenta la velocità di propagazione del segnale che trasporta l'informazione sulla linea. Al riguardo ogni linea di trasmissione o mezzo trasmissivo ha un suo quantitativo massimo di informazione trasportabile, espresso dalla velocità di trasmissione della linea stessa secondo il Teorema di Shannon.  Il rapporto con la privacy                                             Modifica Magnifying glass icon mgx2.svg                            Lo stesso argomento in dettaglio: Privacy. Il settore dell'informazione è un settore interessato da una continua evoluzione e da una rilevante importanza sociale. Basta pensare alla quantità e qualità delle informazioni sotto forma di dati personali, abitudini e consumi dei clienti, che posseggono le aziende. La tutela dei dati personali risulta essere argomento di controversia, tra quelli che vorrebbero un libero scambio delle informazioni e quelli che vorrebbero delle limitazioni attraverso la tutela e il controllo. Oltre alla tutela dei dati personali e sensibili di clienti, fornitori e dipendenti, le aziende hanno la necessità di tutelare la proprietà intellettuale, i brevetti e il know-how interno, in generale le informazioni confidenziali (materia che non ha nulla a che vedere con la privacy).  Note                                   Modifica ^ Giuliano Vigini, Glossario di biblioteconomia e scienza dell'informazione, Editrice Bibliografica, Milano 1985, p. 62. ^ Il termine indicava originariamente "ciò che appare alla vista", derivando dalla radice indoeuropea *weid-/wid-/woid-, "vedere" (confronta il latino video). Esso venne però ad assumere in seguito una grande molteplicità di significati (per esempio, in Isocrate esso indica il "modello teorico" di un'orazione). Bibliografia                                                  Modifica Hans Christian von Baeyer, Informazione. Il nuovo linguaggio della scienza, Edizioni Dedalo, 2005, ISBN 978-88-220-0226-6 Antonio Teti, Il potere delle informazioni. Comunicazione globale, Cyberspazio, Intelligence della conoscenza, Il Sole 24 Ore Editore, 2012, ISBN 978-88-6345-446-8 William Aspray, The Scientific Conceptualization of Information: A survey, Annals of History of Computing, vol. 7- n. 2, Aprile 1985 Voci correlate                      Modifica Asimmetria informativa Archivio Conoscenza Dati Disinformazione Diritto all'informazione Informazione classificata Infodemiologia Memoria Mezzi di comunicazione Pluralismo Privacy Teoria dei segnali Testo espositivo Altri progetti        Modifica Collabora a Wikiquote Wikiquote contiene citazioni sull'informazione Collabora a Wikizionario Wikizionario contiene il lemma di dizionario «informazione» Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file sull'informazione Collegamenti esterni                                    Modifica informazione, su Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su Wikidata ( EN ) Informazione, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su Wikidata Stanford Encyclopedia of Philosophy - Information, su plato.stanford.edu. Informazione, in Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Information Helps Us Understand The Fabric Of Reality Order and Disorder, Jim Al-Khalili, Spark. Controllo di autorità                                                Thesaurus BNCF 7988 · LCCN( EN ) sh85029027 · GND ( DE ) 4026899-8 ·BNE ( ES ) XX526504 (data) · J9U( EN ,  HE ) 987007543387305171 (topic)   Portale Diritto   Portale Informatica   Portale Psicologia   Portale Scienza e tecnica Ultima modifica 5 giorni fa di Gac PAGINE CORRELATE Teoria dell'informazione Autoinformazione Primo teorema di Shannon Wikipedia Il contenutoFloridi. Keywords: informare, Dretske, knowing, causing, cervello in fuga; modal disimplicature, “I’m telling you”, “for your information” submodes of the indicative mode, ‘exhibitive’ and ‘protreptic’ -- influence, inform. Conversation as rational cooperation – ‘false’ “information” no information!” -- Refs.: Luigi Speranza, "Informazione ed implicatura: Grice e Floridi," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51760176198/in/dateposted-public/

 

Grice e Fonnesu – inter-soggetivo – filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano). Filosofo. Grice: “I like Fonnesu; especially, on inter-subjectivity: “I cooperate with you; you cooperate with me” – or rather, “I co-operate with thee; thou cooperates with me! We cooperate!” -- Luca Fonnesu (Milano), filosofo.  Professore di filosofia a Pavia. Fonnesu si è laureato in Filosofia a Firenze con Cesa, dove ha poi conseguito il titolo di dottore di ricerca in Filosofia.  Prima di conseguire la laurea, borsista della Fondazione Robert E. Schmidt di Heidelberg. Borsista del Deutscher Akademischer Austauschdienst svolgendo la sua attività di ricerca presso il Leibniz Archiv di Hannover. Borsista ‘post-doc' a Firenze. Ricercatore a Pisa. Insegna a Pavia. È inoltre socio dell'Associazione di cultura e politica "il Mulino", membro della Leibniz-Gesellschaft, della Fichte-Gesellschaft, della Società italiana di studi kantiani, della Hegel-Vereinigung, della Società italiana di filosofia analitica e del Comitato editoriale di "Studi settecenteschi". Il professor Fonnesu è inoltre il coordinatore del Corso di dottorato di ricerca in Filosofia a Pavia, fa parte del Consiglio scientifico di Verifiche e del Comitato direttivo della "Rivista di filosofia".  Temi di ricerca I principali temi di ricerca dell'attività accademica del professor Fonnesu possono essere sostanzialmente ricondotti alla filosofia morale e alla filosofia classica tedesca. Per quanto concerne la filosofia classica tedesca tra Kant e Hegel si è concentrato sulle strutture concettuali, le fonti e la ricezione nella tradizione filosofica approfondendo inoltre la presenza dell'etica kantiana nel dibattito contemporaneo. Ha poi studiato il dibattito sulla teodicea nella tradizione filosofica, l'illuminismo europeo, la tradizione analitica e le altre tradizioni nell'etica contemporanea. In quest'ultimo ambito ha sviluppato in modo particolare la tematica del libero arbitrio e della responsabilità nella filosofia moderna e contemporanea. è un esperto di storia dell'etica.  Altre opere: “Antropologia e idealismo. La destinazione dell'uomo nell'etica di Fichte” (Roma-Bari, Laterza); “Dovere, Scandicci, La Nuova Italia); “Storia dell'etica: da Kant alla filosofia analitica” (Roma, Carocci); “Per una moralità concreta: studi sulla filosofia classica tedesca” (Bologna, Il Mulino); “Fichte, Fondamento del diritto naturale secondo i principi della dottrina della scienza” (Roma-Bari, Laterza); “Diritto naturale e filosofia classica tedesca” (Pisa, Pacini); “La verità. Scienza, filosofia, società” (Bologna, Il Mulino);  “Etica e mondo in Kant” (Bologna, il Mulino); “Le ragioni della filosofia” (Firenze, Le Monnier); “Diritto, lavoro e "Stände": il modello di società di Fichte, in "Materiali per una storia della cultura giuridica", Rousseau e la filosofia come "médecine du monde". A proposito di un saggio recente, in "Intersezioni", Ragione pratica e “ragione empirica” in Kant, in "Annali filosofia, Firenze", “Weber e l'etica” ("Iride"); Le edizioni kantiane e la riflessione "Sul senso interno", "Studi kantiani”; “Sullo stato degli studi fichtiani” (“Cultura e scuola"); “La società concreta: considerazioni su Fichte e Hegel” ("Daimon. Revista de filosofia", Murcia); “Sul pensiero di Luporini, in "Giornale critico della filosofia italiana"); “Kant, Leibniz e la "Aufklärung": ottimismo e teo-dicea, in Kant e la filosofia della religione (N. Pirillo, Brescia, Morcelliana); “L'ideale dell'estinzione dello Stato in Fichte” ("Rivista di storia della filosofia"); “Sul concetto di felicità in Hegel” in Fede e sapere. Hegel, R. Bonito Oliva e G. Cantillo (Milano, Guerini); “Metamorfosi della libertà nel ‘Sistema di Etica' di Fichte” (“Giornale critico della filosofia italiana”); “Sui doveri verso se stessi”; “A partire da Kant”; “La libertà e la sua realizzazione nella filosofia di Fichte, in G. Duso G. Rametta, La libertà nella filosofia classica tedesca. Politica e filosofia tra Kant, Fichte, Schelling e Hegel” (Milano, Angeli); “Sulla 'seconda natura' in Fichte”, in R. Bonito Oliva G. Cantillo Natura e cultura, Napoli, Guida); “Preti e le tradizioni etiche, in Parrini L. M. Scarantino, “Preti” (Milano, Guerini); “Errori dell'ontologia. Percorsi della meta-etica tra Russell e Mackie”; in L. Ceri S. F. Magni, Le ragioni dell'etica, Pisa, ETS, Rousseau tra filosofia e botanica. Una nota, in M. Ferrari, I bambini di una volta. Problemi di metodo. Studi per Egle Becchi, Milano, Franco Angeli, Presentazione, in R. M. Hare, Scegliere un'etica, Bologna, il Mulino, Presentazione, in Foot, La natura del bene, Bologna, il Mulino, Sulla morale kantiana, in C. La Rocca, Leggere Kant. Dimensioni della filosofia critica” (Pisa, ETS); Presentazione, in Foot, Virtù e vizi, Bologna, il Mulino, Etica e concezione etica del mondo in Albert Schweitzer, Humanitas, Punto di vista morale e moralità, in “Il ponte”, Cesare Luporini, Maria Moneti). Comandi e consigli nella filosofia pratica moderna, in S. Bacin, Etiche antiche, etiche moderne. Temi in discussione, Bologna, Il Mulino); “Harry Frankfurt, in “Rivista di filosofia”, Etica, in L'universo kantiano, S. Besoli, C. La Rocca e R. Martinelli (Macerata, Quodlibet); “Kant e l'etica analitica” in Continenti filosofici. La filosofia analitica e le altre tradizioni, M. De Caro e S. Poggi (Roma, Carocci); Fichte critico di Kant: moralità e religione nel ‘Saggio di una critica di ogni rivelazione', in Critica della ragione e forme dell'esperienza, L. Amoroso, A. Ferrarin e C. La Rocca (Pisa, ETS Edizioni); “La felicità e il suo tramonto: dall'illuminismo all'idealismo, in “Filosofia politica”, Libertà e responsabilità: dall'utilitarismo classico al dibattito contemporaneo, in M. De Caro, M. Mori, E. Spinelli, Il libero arbitrio (Roma, Carocci); “Genealogie della responsabilità, in Quando siamo responsabili? Neuroscienze, etica e diritto, M. De Caro, A. Lavazza e G. Sartori, Torino, Codice. Intersoggettività Lingua Segui Modifica Ulteriori informazioni Questa voce o sezione sugli argomenti psicologia e filosofia è ritenuta da controllare. Ulteriori informazioni Questa voce o sezione sugli argomenti psicologia e filosofia è priva o carente di note e riferimenti bibliografici puntuali. Intersoggettività è un concetto utilizzato in filosofia e in psicologia con cui si intende genericamente la condivisione di stati soggettivi da parte di due o più persone.  La parola è utilizzata con tre significati:  l'accezione più debole si riferisce all'"accordo", ovvero c'è intersoggettività quando più persone concordano sui significati e sulla definizione di una situazione. viene altrimenti utilizzata per riferirsi al "senso comune", le concezioni condivise costruite dalle persone nelle loro interazioni reciproche ed utilizzate come risorsa quotidiana per interpretare i significati degli elementi della vita sociale e culturale. Se le persone condividono il "senso comune" significa che utilizzano una definizione ed interpretazione condivisa della situazione[1]. infine, il termine viene utilizzato per riferirsi alle divergenze di significato condivise (o parzialmente condivise). Le auto-presentazioni, le menzogne, gli scherzi, e le "emozioni sociali" ad esempio richiedono un'incompleta definizione della situazione, con parziali divergenze nelle condivisioni dei significati. Chi sta mentendo è impegnato in un atto intersoggettivo perché lavora con due diverse definizioni della situazione. L'intersoggettività intesa come nuova modalità relazionale auspicabile tra uomo e donna ha mosso l'elaborazione non solo politica ma anche e soprattutto filosofica e persino teologica di alcuni esponenti di spicco del movimento femminista.  In filosofiaModifica Nella filosofia contemporanea, l'intersoggettività è un argomento importante nelle tradizioni analitiche e continentali. L'intersoggettività è considerata cruciale non solo a livello relazionale ma anche a livello epistemologico e persino metafisico. Ad esempio, l'intersoggettività è postulata come avente un ruolo nello stabilire la verità delle proposizioni e nel costituire la cosiddetta obiettività degli oggetti.  Una preoccupazione centrale negli studi sulla coscienza degli ultimi 50 anni è il cosiddetto "problema delle altre menti", che si chiede come possiamo giustificare la nostra convinzione che le persone hanno menti molto simili alle nostre e prevedere gli stati mentali e il comportamento degli altri, come la nostra esperienza dimostra[2]. Le teorie filosofiche contemporanee dell'intersoggettività devono perciò affrontare il problema delle altre menti.  Nel dibattito tra individualismo cognitivo e universalismo cognitivo, alcuni aspetti del pensiero non sono né esclusivamente personali né pienamente universali. I sostenitori della sociologia cognitiva sostengono l'intersoggettività: una prospettiva intermedia della cognizione sociale che fornisce una visione equilibrata tra le visioni personali e universali della nostra cognizione sociale. Questo approccio suggerisce che, anziché essere pensatori individuali o universali, gli esseri umani si iscrivono a "comunità di pensiero", comunità di differenti credenze. Esempi di comunità di pensiero includono chiese, professioni, credenze scientifiche, generazioni, nazioni e movimenti politici[3]. Questa prospettiva spiega perché ogni individuo la pensa diversamente dall'altro (individualismo): la persona A può scegliere di aderire alle date di scadenza degli alimenti, ma la persona B può credere che le date di scadenza siano solo linee guida ed è comunque sicuro mangiare il cibo dopo la data di scadenza. Ma non tutti gli esseri umani la pensano allo stesso modo (universalismo).  L'intersoggettività sostiene che ogni comunità di pensiero condivide esperienze sociali diverse dalle esperienze sociali di altre comunità di pensiero, creando credenze diverse tra le persone che si iscrivono a comunità di pensiero diverse. Queste esperienze trascendono la nostra soggettività, il che spiega perché possano essere condivise da tutta la comunità di pensiero[3]. I fautori dell'intersoggettività sostengono l'opinione secondo cui le credenze individuali sono spesso il risultato di credenze della comunità di pensiero, non solo di esperienze personali o credenze umane universali e oggettive. Le credenze sono ripensate in termini di standard, che sono stabiliti dalle comunità di pensiero.  Edmund Husserl, il fondatore della fenomenologia, riconobbe l'importanza dell'intersoggettività e scrisse ampiamente sull'argomento. Il suo testo più noto sull'intersoggettività sono le Meditazioni cartesiane. Sebbene la fenomenologia di Husserl sia spesso accusata di solipsismo metodologico, nella quinta meditazione cartesiana, Husserl tenta di affrontare il problema dell'intersoggettività e propone la sua teoria dell'intersoggettività trascendentale e monadologica[4]. L'allieva di Husserl Edith Stein estese le basi dell'intersoggettività nell'empatia nella sua tesi di dottorato del 1917, Sul problema dell'empatia (Zum Problem der Einfühlung). L'intersoggettività aiuta anche a costituire l'oggettività: nell'esperienza del mondo disponibile non solo per se stessi, ma anche per l'altro, c'è un ponte tra il personale e il condiviso, il sé e gli altri.  In psicologiaModifica Le discussioni e le teorie dell'intersoggettività sono preminenti nella psicologia contemporanea, nella teoria della mente e negli studi sulla coscienza. Tre principali teorie contemporanee sull'intersoggettività sono la teoria della teoria, la teoria della simulazione e la teoria dell'interazione.  Shannon Spaulding, dell'Oklahoma State University, scrive; "I sostenitori della "teoria della teoria" sostengono che spieghiamo e prevediamo il comportamento impiegando teorie psicologiche istintive su come gli stati mentali influenzano il comportamento. Con le nostre teorie psicologiche intuitive, deduciamo dal comportamento di un soggetto quali sono probabilmente i suoi stati mentali. E da queste inferenze, più il principio psicologico che collega gli stati mentali al comportamento, prevediamo il comportamento altrui"[5].  I sostenitori della teoria della simulazione, d'altra parte, affermano che spieghiamo e prevediamo il comportamento degli altri usando le nostre menti come modello e "mettendoci nei panni degli altri", cioè immaginando quali sarebbero i nostri stati mentali e come ci comporteremmo se fossimo nella situazione dell'altro. Più specificamente, simuliamo quali stati mentali dell'altro avrebbero potuto causare il comportamento osservato, quindi usiamo gli stati mentali simulati, fingiamo le credenze e fingiamo i desideri come input, eseguendoli attraverso il nostro meccanismo decisionale. Quindi prendiamo la conclusione risultante e la attribuiamo all'altra persona[6]. Recentemente, autori come Vittorio Gallese hanno proposto una teoria della simulazione incarnata che si basa sulla ricerca neuroscientifica sui neuroni specchio e sulla ricerca fenomenologica[7].  Spaulding osserva che questo dibattito ha sofferto di stagnazione negli ultimi anni, con progressi limitati all'articolazione di varie teorie sulla "simulazione ibrida". Per risolvere questo vicolo cieco, autori come Shaun Gallagher hanno avanzato la teoria dell'interazione. Gallagher scrive che un "... importante cambiamento sta avvenendo nella ricerca sulla cognizione sociale, lontano da un focus sulla mente individuale e verso ... aspetti partecipativi della comprensione sociale ...." La teoria dell'interazione è proposta per porre l'accento su una svolta interattiva nelle spiegazioni dell'intersoggettività[8]. Gallagher definisce un'interazione come due o più agenti autonomi impegnati in un comportamento co-regolato. Ad esempio, quando si porta a spasso un cane, il comportamento del proprietario è regolato dal cane che si ferma e che annusa, e il comportamento del cane è regolato dai comandi del proprietario. Quindi, portare a spasso il cane è un esempio di un processo interattivo. Per Gallagher, l'interazione e la percezione diretta costituiscono ciò che definisce l'intersoggettività "primaria" (o di base).  Gli studi sul dialogo e sul dialogismo rivelano come il linguaggio sia profondamente intersoggettivo. Quando parliamo, ci rivolgiamo sempre ai nostri interlocutori, prendendo la loro prospettiva e orientandoci a ciò che pensiamo che pensino[9]. All'interno di questa tradizione di ricerca, è stato sostenuto che la struttura dei singoli segni o simboli, la base del linguaggio, è intersoggettiva[10] e che il processo psicologico di autoriflessione implica l'intersoggettività[11]. Una ricerca sui neuroni specchio fornisce prove delle basi profondamente intersoggettive della psicologia umana[12] e probabilmente gran parte della letteratura sull'empatia e la teoria della mente si riferisce direttamente al concetto di intersoggettività.  Intersoggettività e sviluppo infantileModifica Colwyn Trevarthen ha applicato l'intersoggettività allo sviluppo culturale molto rapido dei neonati[13]. La ricerca suggerisce che come bambini, gli esseri umani sono biologicamente collegati a "coordinare le loro azioni con gli altri"[14]. Questa capacità di coordinarsi e sincronizzarsi con gli altri facilita l'apprendimento cognitivo ed emotivo attraverso l'interazione sociale. Inoltre, la relazione più socialmente produttiva tra bambini e adulti è bidirezionale, in cui entrambe le parti definiscono attivamente una cultura condivisa[14]. L'aspetto bidirezionale consente alle parti attive di organizzare la relazione nel modo che ritengono opportuno: ciò che considerano importante riceve più attenzione. L'accento è posto sull'idea che i bambini siano attivamente coinvolti nel modo in cui apprendono, usando l'intersoggettività[14].  Intersoggettività e psicoanalisiModifica Oltre che nelle scuole di psicoterapia dove trova applicazione la teoria delle interrelazioni tra terapeuta-paziente, anche in ambito psicoanalitico, con questo termine si intende il modello relazionale che fa da parametro nel procedere della relazione tra analista e analizzato.  Dalla teoria alla prassi intersoggettivaModifica Quella psicoanalisi che si attiene più allo "spirito" del suo fondatore Sigmund Freud piuttosto che alla sua "lettera", considera sé stessa come un metodo per la trasformazione della realtà piuttosto che come un sistema di interpretazione della realtà. In questo modo la psicoanalisi sembra inglobare nel suo manifesto programmatico, almeno nei fatti, e sia pur indicando un'altra metodologia di prassi, la famosa frase di Marxed Engels ad Hegel innanzitutto e a tutto il pensiero filosofico: "I filosofi hanno interpretato il mondo in maniera diversa ma si tratta invece di trasformarlo" [15]  Valori morali e valori relazionaliModifica Conseguentemente la psicoanalisi si pone al di sopra di ogni moralismo, al di là del bene e del male convenzionali e considera invece il modello relazionale intersoggettivo come valore supremo poiché in esso coincidono e la terapia e la conoscenza.  Psicoterapia e psicoanalisi: guarigione o intersoggettività?Modifica Lo stesso Freud ammise che la psicoanalisi, pur essendo nata come medicina ovvero terapia per curare disturbi nervosi, psichici o mentali, ben presto si rivelò un metodo di conoscenza rispetto al quale la cosiddetta guarigione del paziente passava in secondo piano: il paziente aumenta principalmente la conoscenza di sé stesso, simultaneamente anche guarisce ma la guarigione dal punto di vista dell'analisi in sé è un epifenomeno. Da questo punto di vista c'è un parallelismo tra Freud e Cristoforo Colombo: così come quest'ultimo, partito con l'intenzione di arrivare alle Indie divenne inaspettatamente lo scopritore dell'America, ugualmente Freud dopo aver iniziato il suo cammino con intenti semplicemente curativi divenne anch'egli scopritore di una nuova via di conoscenza.  Il male: motore della psicoanalisi verso l'intersoggettivitàModifica Se la psicoanalisi è una "via di conoscenza", il male del paziente può essere considerato una "vocazione" in quanto è proprio la chiamata dell'essere a sapere di sé. Se non ci fosse questo male, non ci sarebbe ciò che incalza alla conoscenza di sé. La psicoanalisi ha la pretesa di dissolvere il male trovandone il senso, che è ben altro e ben più radicale che esorcizzare il male come fanno la psicofarmacologia e altre tecniche psicoterapeutiche. La psicoanalisi non tratta il male in sé ma il senso del male, la sua direzione; e nel trovare tramite il suo metodo questo senso nascosto ne permette la realizzazione e, nel realizzarlo, elimina il male alla radice e non nella sua semplice sintomatologia che altrimenti potrebbe riapparire sotto altre vesti. Questo ottiene superando quel senso che chiedeva al soggetto, che lo pativa dolorosamente, di essere realizzato. Il male ritornerà ma non sarà più una ripetizione, la coazione a ripetere infatti quale memoria storica di ciò che è stato non si può chiamare vera vita e il dolore psichico che magari anche si somatizza denuncia proprio questo.  In questo significato la psicoanalisi intesa come "autorealizzazione dell'inconscio" trova una sua definizione da parte dell'altro pioniere della psicoanalisi delle origini: Carl Gustav Jung, che trattava la sua intera esistenza nello stesso modo in cui considerava la psicoanalisi: un'autorealizzazione dell'inconscio. Infatti da quanto detto finora chiunque intuisce che quello dello psicoanalista non può essere semplicemente un mestiere nel senso tradizionale del termine che si dà alla parola "mestiere" ma semmai uno stile di vita, un vero e proprio atteggiamento esistenziale perennemente teso a scalzare la forte resistenza alla trasparenza dell'opacità interiore che quindi coincide con una sorta di atteggiamento alchemico coincidente con l'azione di disvelamento del "misterium coniunctionis". Atteggiamento questo che coincide con l'intersoggettività la quale per dispiegarsi necessita per la sua realizzazione di una sorta di rivoluzione copernicana al livello del sistema psichico tendente a spodestare l'Ego come ha fatto Niccolò Copernico con la Terra, ed in un certo senso con l'Antropos, da centro narcisistico del sistema psichico per sostituirlo con il Sé che è l'identità solo relazionale e che comprende l'uno e l'altro della relazione come un'unità processuale indivisibile, mentre l'Ego per sua natura non può che necessariamente essere vincolato a un'identità storica e per ciò continuamente minacciata nella sua coerenza da ciò ch'egli costituisce sostanzialmente come altro da sé, paventando la rottura del vissuto di continuità.  Psicoanalisi e relazioneModifica La psicoanalisi, operando al di là di ogni moralismo convenzionale al progressivo divenire conscio dell'inconscio, opera alla progressiva trasformazione del modello relazionale interdipendente, (dove i due sono calati con le loro reciproche dipendenze in un gioco delle parti per così dire inconsapevole) nel modello relazionale intersoggettivo dove la coppia analista-analizzato è in una relazione all'interno della quale non si danno altri bisogni che quelli propri del processo di soggettivazione: il bisogno della presenza dell'altro e quello di essere con l'altro in libertà.  L'esoterismo dell'intersoggetivitàModifica Esistono discipline come la psicoanalisi che non si possono giudicare dall'esterno come per esempio la comunità scientifica richiede di fare nelle scienze esatte con i suoi metodi statistici. Da qui l'atteggiamento apparentemente altero di molti sostenitori della psicoanalisi, ritenuti da altri per questo saccenti, a partire da Freud che liquidava con una battuta gran parte delle critiche alla psicoanalisi dicendo semplicemente che chi non ha sperimentato una analisi in prima persona non può nemmeno sapere di cosa si sta parlando.  Questo vale anche e soprattutto per l'intersoggettività la cui teorizzazione scaturisce proprio dalla psicoanalisi, intersoggettività che oltre ad essere una nuova modalità di relazionarsi, è anche una nuova logica nella quale tutto viene trattato come un processo unitario senza alcuna separazione tra i momenti di tale processo e nella quale ogni momento del processo è anche tutto il processo pur essendo solo uno dei momenti che lo compongono, momento del processo che contiene in sé i movimenti già superati e quelli ancora non in essere.   Freud stesso, sin dagli esordi del metodo psicoanalitico metteva in atto questa logica rinunciando alle resistenze della sua ragione, frammentante il reale movimento quale dinamica dell'essere, si poneva in ascolto dell'inconscio che parlava attraverso i balbettii dei suoi pazienti, ovvero attraverso il loro transfert e quindi anche del suo proprio controtransfert anche se Freud possedeva qualche strumento in più del suo paziente, strumento che gli permetteva così di non agire il controtransfertper non riprodurre una relazione "normale" cioè interdipendente, ma realizzare un'esperienza relazionale nuova e quindi conoscitiva più ancora che terapeutica: in una parola, una relazione intersoggettiva.  Nella sua pratica clinica Freud usava già allora una logica intersoggettiva anche se, legato come era per la sua formazione accademica alla scienza ufficiale, non la teorizzava. Solo dopo molto tempo la psicoanalisi passò da una teoria pulsionale di impronta positivisticaa una teoria veramente relazionale.  In un certo senso quindi la psicoanalisi e la sua logica che la guida nel processo psicoanalitico, l'intersoggettività, le apparentano entrambe alle tradizioni dell'esoterismo anche se solo per un suo corretto intendimento che vada al di là delle vulgate da rotocalco. Questo è un dato di fatto anche se la psicoanalisi e la nuova logica intersoggettiva non si sono mai trincerate dietro sette o congreghe iniziatiche come altre vie di conoscenza hanno invece fatto anche se giustificate dal timore di essere fraintese. La psicoanalisi al contrario fin dall'inizio è stata un movimento di pensiero di chiara indole essoterica.  La fine dei ruoli e la fine del (vecchio) mondoModifica All'interno del modello relazionale intersoggettivo che fa da parametro al procedere della relazione psicoanalitica, non vige alcuna divisione di ruoli quali quelli di: maschile-femminile, attivo-passivo, conoscente-conosciuto, tra chi interpreta e chi è interpretato, tra chi dà e chi riceve, in una parola tra soggetto e oggetto. Questo è possibile grazie al fatto che i due della relazione psicoanalitica facendo leva sulla loro capacità riflessiva prendono distanza via via sempre più da sé stessi e dalla situazione contingente nella quale sono entrambi calati e si progettano nel tempo nella libertà.  In questa maniera eros e logos cessano la loro contrapposizione secolare e anzi si fanno alleati uno dell'altro. Infatti gli "equivoci" che si danno all'interno della relazione costituita dalla coppia analista-analizzato e che nel gergo proprio di questa disciplina prendono il nome di transfert e di controtransfert, in ultima analisi vengono a coincidere con la stessa modalità relazionale interdipendente la cui critica radicale non è stata ancora condotta sino in fondo, prova ne sia che nel modello relazionale intersoggettivo non si danno più "equivoci" non avendo più i due partner della relazione intersoggettiva altra aspettativa che quella del dirsi dell'altro nella libertà.  E invece sono proprio questi equivoci ciò che costituiscono l'inconscio quali sintomi dell'interdipendenza stessa. Ciò si spiega abbastanza facilmente se si pone attenzione al fatto che mentre il modello intersoggettivo è quello di una relazione in cui l'unica aspettativa che l'uno ha verso l'altro è solo quella che l'altro ci sia ma in libertà. Non è così nell'interdipendenza, ed è proprio questa diversa aspettativa che fonda e struttura l'inconscio e tutti i sintomi dell'inconscio: transfert e controtransfert.  Il principio di intersoggettività fa del metodo psicoanalitico, quale metodo di trasformazione delle realtà relazionali, quanto di più seriamente critico vi possa essere dell'ordine relazionale strutturato sulla divisione dei ruoli.  Intersoggettività e femminismoModifica Per quanto attiene ai rapporti tra la prospettiva aperta dall'intersoggettività e quelle del "movimento di liberazione della donna" ormai più brevemente chiamato femminismo, si possono trovare dei paralleli non tanto nelle posizioni sindacaliste o corporativequanto nelle posizioni più esplicitamente filosofichecome quelle espresse da Virginia Woolf, da Simone de Beauvoir o da altri ancor più recenti esponenti che invece presero le mosse proprio dalla psicoanalisi sia pure Lacaniana e filtrata da una donna Luce Irigarayespulsa immediatamente da Lacan stesso, dato il modo irriverente con cui trattava "il maestro".  Importate in Italia le idee eretiche della psicoanalista lacaniana, a Milano per opera dei filosofi Luisa Muraroe Adriana Cavarero si è costituita una vera e propria comunità filosofica intitolata alla maestra di Socrate, la filosofa "Diotima" tanto elogiata da Socrate stesso. Comunità filosofica femminile che è all'origine di una corrente filosofica abbastanza recente denominata "filosofia della differenza" e che ha ormai esponenti a livello internazionale.  Resta il fatto comunque che almeno al momento attuale la tematica dell'intersoggettività è stata trattata e approfondita in maniera veramente esplicita proprio dalla scienza psicoanalitica.[16]  NoteModifica ^ ( EN ) http://people.brunel.ac.uk/~hsstcfs/glossary.htm ^ Hyslop, A (2010). "Other Minds", The Stanford Encyclopedia of Philosophy (Fall Edition), Edward N. Zalta (Ed.) Accessed from plato.stanford.edu/archives/fall2010/entries/other-minds/>;. Section 1. ^ a b Eviatar Zerubavel, Social Mindscapes: An Invitation to Cognitive Sociology, Cambridge, Massachusetts, Harvard University Press, 1997. ^ E. Husserl, Cartesian Meditations, Klumer Academic Publishers. Translated by Dorion Cairns. ^ Shannon Spaulding, Introduction to debates on Social Cognition, in Phenomenology and the Cognitive Sciences, vol. 11, n. 4, 5 settembre 2012, p. 432, DOI:10.1007/s11097-012-9275-x, ISSN 1568-7759 (WC · ACNP). ^ Spaulding, S. (2012) “Introduction to debates on Social Cognition.” Phenomenology and the Cognitive Sciences. Vol. 11. Pg. 433 ^ Gallese, V & Sinigaglia, C. (2011) What is so special about embodied simulation. Trends in Cognitive Sciences. Vol. 15, No. 11. ^ De Jaeger, H., Di Paulo, E., & Gallagher, S. (2010) Can social interaction constitute social cognition? Trends in Cognitive Sciences. Vol. 14, No. 10. Pg 441. DOI:10.1016/j.tics.2010.06.009 ^ Linell, P. (2009). Rethinking language, mind and world dialogically. Charlotte, NC: Information Age Publishing ^ Gillespie, A. (2009). The intersubjective nature of symbols. In Brady Wagoner (Ed), Symbolic transformations. London: Routledge ^ Gillespie, A. (2007). The social basis of self-reflection. In Valsiner and Rosa (Eds), The Cambridge handbook of sociocultural psychology. Cambridge: Cambridge University press ^ Rizzolatti, G. & Arbib, M. A. (1998). Language within our grasp. Trends in neurosciences, 21, 188-194. ^ Copia archiviata ( PDF ), su psych.uw.edu.pl. URL consultato il 13 ottobre 2019 (archiviato dall' url originale  il 22 luglio 2018). ^ a b c Lynda Stone, Charles Underwood e Jacqueline Hotchkiss, The Relational Habitus: Intersubjective Processes in Learning Settings, su karger.com. URL consultato il 10 dicembre 2014. ^ Karl Marx, Friedrich Engels: "Miseria della filosofia", 1844 ^ Tale questione sui rapporti tra la tematica dell'intersoggettività e il movimento femminista sono stati trattati anche in "L'ultimo tratto di percorso del pensiero Uno - Escursioni nella filosofia del XX secolo" di Silvia Montefoschi al capitolo 15 pag 277 dal titolo "Il risveglio del soggetto femminile" BibliografiaModifica E. Husserl, Sulla fenomenologia dell'intersoggettività - Prima parte: 1905-1920 (Zur Phänomenologie der Intersubjektivität. Texte aus dem Nachlass) E. Husserl, Per la fenomenologia dell'intersoggettività - Seconda parte 1921-1928(Zur Phänomenologie der Intersubjektivität. Texte aus dem Nachlass) E. Husserl, Per la fenomenologia dell'intersoggettività - Terza parte 1929-1935 (Zur Phänomenologie der Intersubjektivität. Texte aus dem Nachlass) M. Scheler, Essenza e forme della simpatia, FrancoAngeli, Milano 2010 (originariamente 1913, II ed. 1923) Martin Buber, Il principio dialogico, 1959 George E. Atwood e Robert Storolow, I contesti dell'essere. Le basi intersoggettive della vita psichica, 1992 Jessica Benjamin, L'ombra dell'altro. Intersoggettività e genere in psicoanalisi, 1997 Silvia Montefoschi, L'uno e l'altro. Interdipendenza e intersoggettività nel rapporto psicoanalitico 1977 Silvia Montefoschi, La glorificazione del vivente nell'intersoggettività tra l'uno e l'altro 1995 Donald Davidson, Soggettività, intersoggettività, oggettività 2001 Voci correlateModifica Psicoanalisi intersoggettiva Collegamenti esterniModifica intersoggettività, in Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2009. Modifica su Wikidata ( EN ) Intersoggettività, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su Wikidata Controllo di autoritàThesaurus BNCF 18628   Portale Filosofia   Portale Psicologia Ultima modifica 9 mesi fa di InternetArchiveBot PAGINE CORRELATE Psicoanalisi intersoggettiva Glossario di psicologia analitica lista di un progetto Wikimedia  Psicoanalisi relazionale Wikipedia Il contenutoLuca Fonnesu. Fonnesu. Keywords: inter-soggetivo, free will, Kant, freedom, free, practical reason, the good, meta-ethics, Mackie, Hare, Fichte, Hegel, happiness in Aristotle, Kant, and Hegel, Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Fonnesu” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51759735816/in/dateposted-public/

 

Grice e Fornero – confilosofare – filosofia italiana – Luigi Speranza (Vigone). Filosofo.  Grice: “I like Fornero; he surely understands the longitudinal unity of philosophy; ‘filosofare is con-filosofare,’ I love that: philosophy as philosophy of conversation – witness Socrates and Alcebiades.” Si è occupato di ambiti disciplinari diversi, che vanno dalla storia della filosofia alla bioetica, dalla laicità al diritto. Ha compiuto studi filosofici a Torino. Si laurea con una tesi sull'esistenzialismo italiano. Dopo aver insegnato per alcuni anni, in seguito ha svolto un'attività di libero scrittore, curando, su incarico di Abbagnano, una serie di aggiornamenti della sua celebre storia della di filosofia. In un secondo momento a conferma del fatto che egli non è soltanto uno storico della filosofia, bensì un filosofo dai molteplici interessi si è dedicato allo studio della bio-etica, della laicità e del diritto, con saggi che hanno suscitato ampi dibattiti e che costituiscono dei contributi importanti su queste tematiche. Abbagnano aveva pubblicato un Compendio di storia della filosofia per i licei che, dopo un periodo di notevole diffusione, alla fine degli anni settanta era quasi sparito dalla scuola. Da ciò la necessità di una profonda revisione dell'opera, che decise di affidare a Fornero. Nasceva così l'Abbagnano-Fornero, che, anche grazie ai continui aggiornamenti e ampliamenti, è tuttora il manuale di filosofia più diffuso. Fra le sue numerose edizioni e versioni ricordiamo: “Filosofi e filosofie nella storia”; “Protagonisti e testi della filosofia”; “Itinerari della filosofia”; “La filosofia”; “La ricerca del pensiero”; “Percorsi di filosofia”; “L'ideale e il reale”; “Con-Filosofare” e “I nodi del pensiero.” In questi lavori segue e sviluppa in modo creativo l'impostazione metodologica di Abbagnano, mirando a un modo di fare storia della filosofia che si qualifica per un'informazione accurata, una profonda empatia con le tematiche trattate e l'astensione da valutazioni ideologiche e di parte. Ha inoltre condiretto alcune collane di destinazione liceale e universitaria: “i Sentieri della filosofia” e i Sentieri della pedagogia di Paravia e, “I fili del pensiero” di Bruno Mondadori. Fra le grandi storie della filosofia quella pubblicata da Abbagnano presso la Pombail cosiddetto Abbagnano grande, uscito in prima edizione costituisce un'opera di riferimento fondamentale, che è stata universalmente apprezzata. Dopo la morte di Abbagnano, è uscito, sempre presso Pomba, un quarto volume di questa storia, dedicato al pensiero contemporaneo. Anche in questo caso, era stato lo stesso Abbagnano a incaricare Fornero di proseguire il suo lavoro, che si interrompeva con l'esistenzialismo e presentava solo un ultimo, sintetico capitolo su alcuni degli sviluppi più recenti.  In questo nuovo volume, Fornero punta a una ricostruzione chiara e scientifica al tempo stesso. Una ricostruzione che, basandosi su una conoscenza diretta (o "di prima mano") degli autori trattati, si caratterizza per obiettività e rispetto delle posizioni di cui dà conto, evitando valutazioni teoretiche che non spettano allo storico. Al pari del suo maestro, Fornero insiste sull'autonomia della filosofia, che non si può dissolvere nelle scienze umane, nella politica o in altre discipline. Ma gli impetuosi sviluppi della filosofia novecente non erano esauriti in quel volume. Di conseguenza, pubblica un secondo tomo del volume quarto della Storia della filosofia. Con questo contributo l'opera si configura finalmente come una trattazione esauriente dell'intera storia della filosofia dell’Europa occidentale. Abbagnano pubblica presso la Pomba la prima edizione del Dizionario di filosofia, un vastissimo elenco di lemmi tematici affrontati con grande attenzione allo sviluppo concettuale e con straordinaria capacità di sintesi. Ne curava una riedizione ampliata. Il Dizionario restaun punto fermo della storiografia filosofica, ma iniziava ormai a mostrare dei limiti cronologici.  Così, ha provveduto, co-adiuvato da un gruppo di specialisti da lui coordinato e diretto, a redigerne una nuova edizione.  L'impostazione di fondo voluta da Abbagnano è conservata, cosicché vengono escluse le voci biografiche a favore dei lemmi concettuali. Sono centinaia le voci aggiornate, mantenendo la separazione fra il contributo originale di Abbagnano e l'aggiornamento, e le nuove voci inserite. L'opera continua così a proporsi come uno dei più ampi strumenti di consultazione. Pubblica presso Bruno Mondadori Le filosofie del Novecento, una delle più ampie e sistematiche ricostruzioni storiche del pensiero contemporaneo.  L'opera muove dal pensiero nietzschiano inteso come crocevia della modernità e presenta una serie di capitoli che danno conto, seguendo un'organizzazione tematica, di tutti i principali autori e filoni della riflessione filosofica contemporanea: dalle grandi correnti del primo Novecento (neo-positivismo, positivism logico, neo-empirismo, filosofia analitica, filosofia analitica del linguaggio ordinario, neocriticismo, spiritualismo, neoidealismo, pragmatismo), al marxismo e all'esistenzialismo in tutte le loro declinazioni, per giungere alle più recenti formulazioni dello strutturalismo, del postmodernismo, dell'epistemologia, della teologia, dell'ermeneutica e delle teorie politiche ed etiche. Forte degli studi storiografici ormai accumulati e sempre in linea con i sopraccitati presupposti metodologici, pubblica, presso Bruno Mondadori, “Bioetica cattolica e bioetica laica”. Si concentra sulle posizioni della bioetica cattolica ufficiale e su quelle della bioetica laica. Attraverso uno studio analitico e puntiglioso dei testi e a un metodo improntato a una sostanziale imparzialità, giunge a definire alcuni punti nodali che a suo avviso oppongono strutturalmente la bio-etica cattolica e quella laica (sebbene non manchino posizioni intermedie e alternative). Punti che si sintetizzano nella tesi cattolica della indisponibilità della vita e nella tesi laica della disponibilità della vita.  Da un punto di vista contenutistico Fevita di prendere posizione a favore dell'uno o dell'altro modello. Tuttavia, il suo contributo produce una notevole chiarificazione delle posizioni in campo e ha il merito di porre empateticamente sotto gli occhi del lettore le strutture teoriche e concettuali che stanno alla base dei due "paradigmi"merito che gli è stato riconosciuto da Vattimo, che ha parlato di «rispettosa capacità di ascolto», e da Possenti, che parla di «giustizia intellettuale nel descrivere le varie posizioni in gioco».  Questo saggio ha originato un ampio dibattito, sia negli studi specialistici, sia nel mondo dell'informazione (come testimoniano le recensioni e i numerosi interventi apparsi sui quotidiani).  Dibattito continuato sia in “Laicità debole e laicità forte” sia in “Laici e cattolici in bioetica: storia e teoria di un confront”. Quest'ultimo saggio completa il trittico. In esso si dà conto della nuova fase del dibattito sui concetti di bio-etica cattolica e laica e si offre una serie di chiarificazioni e ampliamenti storico-concettuali, fra cui spicca l'approfondimento della nozione di "paradigma" che, partendo da Kuhn ma andando al di là di Kuhn, applica in modo originale alla bioetica.  Fra le novità del volume vi è l’ammissione, da parte di alcuni autorevoli studiosi cattolici, dell'esistenza di una diversità paradigmatica fra la bioetica di matrice cattolica e la bio-etica di matrice laica. Diversità di cui si auspica da molte parti il superamento con una serie di ipotesi ampiamente documentate nel saggio -, ma che di fatto esiste e condiziona, sia sul piano teorico sia sul piano pratico, la vita odierna. Gli studi sulla bioetica hanno trovato una continuazione e uno sviluppo nel lavoro di Luca Lo Sapio Bioetica cattolica e bioetica laica nell'era di papa Francesco. Che cosa è cambiato? (Pomba, Milano ) in cui l'autore affronta il tema delle ripercussioni bio-etiche del pontificato di Bergoglio, mettendone in luce i tratti di novità e continuità rispetto al passato. Il saggio è preceduto da un saggio di Fornero, in cui offre una sintesi aggiornata delle sue idee circa i paradigmi della bio-morale cattolica e laica. Alcune delle questioni poste in Bioetica cattolica e bioetica laica toccano il generale argomento della laicità. Tant'è che Laicità debole e laicità forte prosegue l'analisi in questa direzione, oltrepassando l'ambito limitato della bio-etica, pur continuando a usarlo come campo esemplare di indagine. Ragionando in termini teorici e non solo storici, elabora una prospettiva filosofica sulla laicità che muove dalla distinzione analitica fra due diverse accezioni del concetto di "laicità": una larga e una ristretta. Distinzione che ritiene indispensabile per fare ordine e chiarezza intorno al concetto in questione e per giustificare, senza i consueti riduzionismi, i diversi modi con cui ci si può definire "laico” (English: lay). In senso largo la laicità allude a una serie di atteggiamenti metodici (autonomia discorsiva, libero confronto delle idee, pluralismo, ecc.) che, in virtù del loro carattere procedurale, possono essere fatti propri da chiunque, a prescindere dal fatto di essere credenti o meno (tant'è che oggi, nell'ambito di questa accezione di “laico”, si parla comunemente di "laico credente" e di "laico non credenti"). In senso stretto, il ‘laico’ allude invece a quella determinata visione del mondo che è propria di coloro che non si limitano a seguire i sopraccitati criteri metodici, ma che pensano e vivono a prescindere da Dio e dall'adesione a un determinato credo religioso (tant'è, che oggi, nell'ambito di questa accezione del laico, si parla comunemente di “credenti e laici” o, in Italia, di “cattolici e laici”).  Per denominare l'accezione larga, usa l'espressione "laico debole", mentre per denominare l'accezione ristretta adopera l'espressione "laico forte", avvertendo che in questo contesto “debole” e “forte” non hanno il significato ordinario e valutativo di "meno consistente" o "più consistente", ma un significato tecnico e descrittivo, allusivo di un minore o maggiore grado di radicalità. In altri termini, il laico in senso largo è denominata "debole" poiché possiede una valenza essenzialmente formale o *metodologica*, mentre il laico in senso stretto è denominato "forte" poiché possiede una valenza di tipo materiale o *sostanziale* (in quanto allusiva della visione del mondo propria di un non credente).  L'originalità consiste quindi nel ritenere legittimi entrambi i significati (teorici e storici) del concetto di "laico" e nell'aver insistito più di ogni altro studioso in Italia sul fatto che non si deve "censurare" l'accezione ristretta o “forte” del concetto (cf. Grice on ‘weak’ and ‘strong’ – the ‘strong’ theorist, the weak theorist). Insistenza che non gli impedisce di evidenziare come il laico proprio dello Stato italiano pluralista e democratico coincida con il laico debole o largo, ossia con quella capace di ospitare in sé tutte le visioni del mondo, sia quelle di matrice religiosa sia quelle di matrice agnostica o atea. -- è vivamente persuaso del valore e della necessità della filosofia. Da ciò il suo costante impegno ad argomentare con chiarezza questa tesi, mediante una proposta la cui peculiarità consiste nel ritenere che, prima di chiedersi (come si fa solitamente) se la filosofia sia utile o meno, bisogna chiedersi se da essa si possa prescindere o meno, ossia se sia davvero possibile, per l'uomo, vivere senza filosofare. Su questo punto non ha dubbi: la filosofia è un'esigenza che sgorga dalla vita stessa e dalle sue ineludibili domande, al punto che l'uomo, come non può fare a meno di respirare e pensare, così non può fare a meno di fare filosofia. Queste considerazioni vengono più organicamente sviluppate in “Utilità della filosofia”. Tra filosofia e diritto: indisponibilità e disponibilità della vita. è uscito per i tipi di Pomba un nuovo volume, forse il più importante della sua produzione saggistica dal titolo Indisponibilità e disponibilità della vita: una difesa filosofico giuridica del suicidio assistito e dell'eutanasia volontaria. Si tratta di una vasta indagine filosofico giuridica che  approfondisce con chiarezza una delle dicotomie fondamentali della cultura contemporanea, quella tra indisponibilità e disponibilità della propria vita. E ciò non solo sul piano storico-descrittivo (nel cui ambito offre comunque una documentazione amplissima che va dalla filosofia alla bioetica, dal diritto alla giurisprudenza italiana) ma anche e soprattutto su quello teorico-propositivo. Esaminando a vario titolo questo binomio e mostrandone le rilevanti concretizzazioni giuridiche e penalistiche, l'opera approfondisce il tema del "diritto di morire", che viene definito come il diritto di congedarsi volontariamente dalla propria vita e studiato nelle sue tipologie più note (suicidio, rifiuto delle cure e morte assistita). Nella parte centrale del saggio si mette organicamente a fuoco il nesso fra il diritto di vivere e il diritto di morire, inteso, quest'ultimo, come il versante negativo del diritto di vivere.  Su questa base,perviene a prendere apertamente posizione a favore della morte medicalmente assistita, che viene originalmente configurata come un nuovo e peculiare "diritto di libertà" giuridicamente articolato.  Insiste sulla "inaggirabilità" della filosofia anche in ambito giuridico, soprattutto in rapporto alle complesse e cruciali questioni del fine vita.  La filosofia contemporanea, IV*, Pomba, Torino, Storia della filosofia, La filosofia contemporanea, IV**, Pomba, Torino, Dizionario di filosofia, Pomba, Torino, Le filosofie del Novecento, B. Mondadori, Milano, Opere su bioetica, laicità e diritto Bioetica cattolica e bioetica laica, B. Mondadori, Milano, Laicità debole e laicità forte, B. Mondadori, Milano, Laici e cattolici in bioetica: storia e teoria di un confronto (in collaborazione con M. Mori), Le Lettere, Firenze  Indisponibilità e disponibilità della vita: una difesa filosofico giuridica del suicidio assistito e dell'eutanasia volontaria, Pomba, Torino. Articoli e interventi su bioetica e laicità Un passo in avanti. Risposte a Mordacci e Corbellini, in Vale ancora la contrapposizione tra bioetica cattolica e bioetica laica?, «Politeia», Due significati irrinunciabili di laicità, in  La laicità vista dai laici, E. D'Orazio, EgeaUniversità Bocconi Editori, Milano, Etsi non daretur, laicità e bioetica da Scarpelli a Lecaldano, in Eugenio Lecaldano. L'etica, la storia della filosofia e l'impegno civileDonatelli e M. Mori, Le Lettere, Firenze, Bioetica, laicità e "bioetica laica", in Diritto, Bioetica e Laicità. Commenti a Bioetica tra "morali" e diritto diBorsellino, «Politeia», Non esiste solo la "bioetica cattolica". Nota sui rapporti fra i valdesi e la bioetica, «Bioetica. Rivista interdisciplinare», Il "maggior bio-eticista cattolico". Considerazioni sul paradigma bioetico di Sgreccia e sulle sue peculiarità e differenze rispetto ad altri modelli bioetici di matrice cattolica, in Vita, ragione, dialogo. Scritti in onore di Elio Sgreccia, Cantagalli, Siena,Risposte ai critici, in Il dibattito su bioetica laica e bioetica cattolica. Commenti a Laici e cattolici in bioetica di G. Fornero e M. Mori, «Politeia»,Scarpelli e il tema della laicità, in L’eredità di Uberto ScarpelliBorsellinoS. SalardiM. Saporiti, Giappichelli, Torino, Voce Laicità, in Enciclopedia di bioetica e scienza giuridica, diretta da E. SgrecciaA. Tarantino, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, Bioetica cattolica e bioetica laica: tra passato e presente, in L. Lo Sapio, Bioetica cattolica e bioetica laica nell'era di papa Francesco. Che cosa è cambiato?, con un saggio di G. Fornero, POMBA, Milano, Magistero bioetico cattolico e bioetica laico-secolare: tra passato e futuro, in  Bioetica tra passato e futuro. Da van Potter alla società 5.0, E. LargheroM. Lombardi Ricci, Edizioni Effatà, Cantalupa (TO), Manuali Filosofi e filosofie nella storia, Paravia, Torino, Protagonisti e testi della filosofia, Paravia, Torino, Itinerari di filosofia, Paravia, Torino 2002 La filosofia, Paravia, Torino, La ricerca del pensiero, Paravia, Torino  Percorsi della filosofia, Paravia, Torino  L'ideale e il reale, Paravia, Torino  Con-Filosofare, Paravia, Torino  I nodi del pensiero, Paravia, Torino. «La Stampa», 2 «Avvenire», Filosofia, bioetica, laicità e diritto. Sito ufficiale, su giovannifornero.net. Giovanni Fornero. SWIF Sito web italiano per la filosofia, su swif.uniba.  Filosofia analitica Lingua Segui Modifica Con l'espressione filosofia analitica ci si riferisce ad una corrente filosofica sviluppatasi a partire dagli inizi del XX secolo, per effetto soprattutto del lavoro di Gottlob Frege, Bertrand Russell, George Edward Moore, dei vari esponenti del Circolo di Vienna e di Ludwig Wittgenstein.[1] Per estensione, ci si riferisce a tutta la successiva tradizione filosofica influenzata da questi autori, prevalente nel mondo anglofono (Regno Unito, Stati Uniti, Canada, Australia), ma attiva anche in molti altri paesi.  OriginiModifica Alla fine del XIX secolo, Gottlob Frege ed altri portarono ad un notevole avanzamento nel campo della logica. L'idea fondamentale del movimento del circolo di Vienna era di applicare questo nuovo metodo logico, detto positivismo logico, ai tradizionali problemi filosofici. I risultati di questo metodo sono controversi, tuttavia è innegabile che tale tentativo abbia portato importanti ripercussioni e sviluppi in una serie di campi, quali ad esempio l'informatica e lo studio del linguaggio nei suoi vari aspetti: sintassi, semantica, pragmatica.  Tra gli altri assunti del positivismo logico si possono ricordare la concezione della filosofia come uno strumento d'indagine che possa emendare il linguaggio dalle sue ambiguità, dalle sue intrinseche contraddizioni e perplessità, proponendosi come un metodo teso a disvelare l'origine di alcuni problemi "filosofici" da un utilizzo idiosincratico delle forme linguistiche.  La filosofia analitica dopo gli iniziModifica Se il positivismo logico aveva tratto ispirazione dalle tesi sostenute da Ludwig Wittgenstein nel suo Tractatus, è possibile legare lo sviluppo della filosofia analitica alle revisioni e agli sviluppi cui Wittgenstein stesso sottopose la propria prima filosofia, suggestioni raccolte ed elaborate in seguito da altri pensatori. La filosofia del tardo Wittgenstein non adotta i medesimi strumenti dei neopositivisti – l'analisi logica ed il metodo scientifico – ma piuttosto si concentra sugli scopi e i diversi contesti reali di utilizzo del linguaggio.  La filosofia analitica delle origini e il positivismo logico condividevano un generale atteggiamento anti-metafisico, centrato per il secondo sul principio di verificazione. I filosofi Karl Popper con il suo falsificazionismo già dal 1934, e George Edward Moorein un articolo pubblicato nel 1938, considerarono il principio verificazionista ideato dai neopositivisti come esso stesso una teoria metafisica, ovvero un assunto passibile delle medesime critiche che il Circolo di Vienna rivolgeva alla quasi totalità delle filosofie classiche. Sul piano dell'analisi del linguaggio quindi, la filosofia analitica sposterà la propria ricerca principalmente sugli aspetti propri di ogni forma di asserzione linguistica – rinunciando quindi al progetto neopositivista di costruire un linguaggio formalizzato su basi puramente logiche – e concentrando l'attenzione sull'uso reale del linguaggio, così come viene suggerito dal Wittgenstein della teoria dei giochi linguistici.  Il metodo           Modifica Ciò che contraddistingue la filosofia analitica non è un insieme di tesi ma piuttosto un metodo, o uno stile, filosofico. In particolare, possiamo individuare quattro elementi caratterizzanti. Il primo è il valore dell'argomentazione. Quando si presenta una tesi si deve sostenerla attraverso un argomento, si devono rendere esplicite le ragioni a favore (ed eventualmente contro) ciò che si afferma. Affinché tesi ed argomenti possano essere valutati è fondamentale usare la massima chiarezza possibile, ad esempio dando delle definizioni di tutti i termini non di uso comune. Il secondo è l'utilizzo di tecniche di logica formale nell'esposizione della teoria. Ad esempio, il linguaggio modale (della possibilità e della necessità) viene analizzato attraverso la semantica dei mondi possibili sviluppata, fra gli altri, da Ruth Barcan Marcus e Saul Kripke. Il terzo elemento è il rispetto per i risultati delle scienze naturali.  Non tutti i filosofi analitici lavorano su problemi che sono vicini a quelli trattati dalle scienze naturali, benché molti lo facciano. Ma è generalmente accettato che non è lecito per un filosofo contraddire risultati ampiamente accettati nelle scienze naturali, a meno di non fornire in effetti un argomento di valore scientifico a sostegno del proprio rifiuto. Infine, viene spesso messo in rilievo il valore del senso comune. A parità di altre condizioni, una teoria filosofica che preserva le verità del senso comune (ad esempio che esistono oggetti materiali, esistono persone, etc) è migliore di una che le contraddice.[senza fonte]  Il rapporto con la filosofia continentale      Modifica La filosofia analitica è talvolta contrapposta alla filosofia continentale, termine con cui ci si riferisce a movimenti come l'idealismo tedesco, il Marxismo, la psicoanalisi, l'esistenzialismo, la fenomenologia, l'ermeneutica ed il Post-strutturalismo. Ad ogni modo, non mancano i tentativi di sintesi tra le due impostazioni filosofiche (ad esempio quelli di Hilary Putnam e Richard Rorty).  Breve storia della filosofia analitica   Modifica G. E. Moore e la Common Sense Philosophy(filosofia del senso comune). Rifiuto dell'idealismo post-hegeliano britannico. Bertrand Russell: Analisi logica, atomismo logico. (Primo) Wittgenstein: Tractatus. logica formale. Filosofia del linguaggio ideale. Positivismo logico ed empirismo logico. circolo di Vienna. Rudolf Carnap. Verificazionismo. Distinzione Analitico-Sintetico. Rifiuto della metafisica, etica ed estetica. Emotivismo. Scuola di Oxford. Gilbert Ryle, John Langshaw Austin. secondo Wittgenstein. Filosofia del linguaggio comune. Tarde pubblicazioni di Wittgenstein. filosofia linguistica Pragmatismo americano. Emigrazione di logici e scienziati dall'Europa verso gli Stati Uniti. Filosofia della scienza. Comportamentismo. Willard Van Orman Quine. Filosofia del linguaggio. Semantica del linguaggio naturale. Donald Davidson. Oxford negli anni settanta. Peter Strawson, Michael Dummett, John McDowell, Gareth Evans. Revival della Filosofia politica: John Rawls, Robert Nozick, Ronald Dworkin, Bernard Williams. Filosofia della mente, scienze cognitive. Alan Turing. Paul Churchland & Patricia Smith-Churchland. Neopragmatismo: Richard Rorty, Hilary Putnam. Note                                                            Modifica ^ Preston. Voci correlate                                  Modifica Filosofia continentale Società Italiana di Filosofia Analitica Collegamenti esterni                                                       Modifica filosofia analitica, in Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2009. Modifica su Wikidata ( EN ) Filosofia analitica / Filosofia analitica (altra versione), su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su Wikidata ( EN ) Aaron Preston, Analytic Philosophy, in The Internet Encyclopedia of Philosophy, ISSN 2161-0002 (WC · ACNP). URL consultato il 5 maggio 2017. Controllo di autorità Thesaurus BNCF 18345 · LCCN( EN ) sh85004780 · GND ( DE ) 4001869-6 ·BNF ( FR ) cb11944944r (data) · J9U( EN ,  HE ) 987007294738005171 (topic) ·NDL ( EN ,  JA ) 00561031   Portale Filosofia: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di Filosofia Ultima modifica 2 mesi fa di Synoman Barris PAGINE CORRELATE Rudolf Carnap filosofo tedesco  Positivismo logico movimento filosofico-scientifico  Note sulla logica testo del filosofo Ludwig Wittgenstein.  WikipediaGiovanni Fornero. Fornero. Keywords. confilosofare, “Che cosa e la filosofia analitica? Ryle, Wisdom, Strawson, Austin, Grice.” Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Fornero” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51759957623/in/dateposted-public/

 

Grice e Formaggio – l’arte come comunicazione – filosofia della tecnica artistica – filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano). Filosofo. Grice: “I like Formaggio; for one, he philosophised on aesthetics – estetica filosofica, he calls it – along phenomenological lines – on the other, he took very seriously the idea of Latin ‘ars’ – and concludes that an ‘artificium’ is meant as ‘communicative’.” Inizia a lavorare in fabbrica quando trova impiego alla Brown Boveri di Milano. Ben presto però la sua indole portata allo studio, supportata da una vivace intelligenza, lo spronò a iscriversi alle scuole serali. Quest'esperienza, che accomunava lo studio al lavoro, dura ma anche formativa (nel frattempo aveva cambiato lavoro, passando alle Orologerie Binda per avere più tempo libero da dedicare allo studio), acuì sempre più la sua sensibilità verso i problemi sociali, che costituiranno in seguito, anche quando diventerà professore a Milano e Pavia, il soggetto prevalente del suo percorso culturale, sia filosofico che umano.  Venne trasferito a Motta Visconti. Pur insegnando, proseguì gli studi a Milano, dove si laurea, relatore Banfi, con “L’arte come comunicazione. Fenomenologia dell'arte” o “rapporto tra arte e tecnica nelle estetiche europee contemporanee, avveniristica per quei tempi, incentrata com'era sul tema della “tecnica” artistica.  Nei primi anni del dopoguerra, dopo aver partecipato attivamente alla lotta partigiana, entra a far parte dell'Università Statale di Milano come assistente alla cattedra di Estetica. Collabora anche alla rivista Studi filosofici e pubblica alcuni saggi, come “Fenomenologia della tecnica artistica”, riprendendo e ampliando la sua tesi di laurea. In virtù di questo saggio, si aggiudica l'incarico alla cattedra di Estetica di Pavia. Si trasferì in Veneto, dopo aver vinto il concorso a cattedra a Padova, in un periodo molto difficile per tutto il mondo accademico italiano e in modo particolare per quello di Padova a causa delle forti tensioni causate dalla rivolta studentesca prima, e dal nascente terrorismo armato poi, assumendo dapprima l'incarico di preside della Facoltà di Magistero e poi quella di pro-rettore. Ricoprì la cattedra a Milano, della quale fu poi professore emerito. Gli allievi pubblicarono un libro in suo onore Il canto di Seikilos. Scritti per Dino Formaggio. Gli fu conferito il premio Lion d'Or International 1996 nell'arena romana di Nîmes per le pubblicazioni di filosofia e il suo impegno civile. A Teolo, comune della provincia di Padova, gli è stato dedicato il Museo di arte contemporanea, la cui nascita è stata resa possibile da alcune donazioni all'ente effettuate grazie al suo interessamento, e la cui collezione comprende opere di autori del XIX e Professore quali Dino Lanaro, Aligi Sassu, Medardo Rosso e Renato Birolli.  Il Fondo librario Dino Formaggio è stato donato dagli eredi alla Biblioteca di Filosofia di Milano nel  ed è costituito dalla consistente biblioteca filosofica di studio (oltre 2200 volumi). Il fondo è stato recentemente catalogato ed è ora disponibile alla consultazione e in parte, al prestito. Tutti i volumi sono stati associati al possessore, riportano lo stato della copia e segnalano la presenza di note, commenti, dediche, firme autografe. Sono in fase di catalogazione i periodici. Potete trovare le notizie bibliografiche di tutti i testi della ricca biblioteca nel Catalogo di Ateneo. Altre opere: “Fenomenologia della tecnica artistica” (tecnica tecnica arte artistico); Piero della Francesca; Il Barocco in Italia; L'idea di artisticità – arte artistico artisticita – tecnica tecnicista, tecnicisticita; Arte; La morte dell'arte e dell'estetica; Van Gogh in cammino; I giorni dell'arte; Problemi di estetica; “Separatezza e dominio; Filosofi dell'arte del Novecento; Il canto di Seikilos. Scritti per Dino Formaggio, Guerini, Milano.  Pierluigi Panza, Padre dell'Estetica Fenomenologica italiana, in Corriere della Sera, Museo di Arte Contemporanea "Dino Formaggio" di Teolo, Introduzione al Museo, su//comune.teolo.pd. Scuola di Milano Museo di arte contemporanea Dino Formaggio.  "Arte ed Emozioni"Intervista a Dino Formaggio, su emsf.rai. 3 Museo d'arte contemporanea Dino Formaggio, su turismopadova. "Filosofo dell'arte e maestro di vita" di Vladimiro Elvieri, Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia italiana Treccani Elio Franzini, Ricordo, Davide Eugenio Daturi, "Il perché e il come dell'arte: l'estetica di Dino Formaggio", sito della mostra bibliografico-documentaria Milano.  Nazione comunità di individui che condividono alcune caratteristiche comuni quali la lingua, il luogo geografico, la storia ed un governo Lingua Segui Modifica Il termine nazione (dal latino natio, in italiano«nascita») si riferisce ad una comunità di individui che condividono alcune caratteristiche come il luogo geografico, la cultura (cioè la lingua, la religione, la storia e le tradizioni), l'etnia ed, eventualmente, un governo.[1][2]  Un'altra definizione considera la nazione come uno "stato sovrano" che può far riferimento a un popolo, a un'etnia, a una tribù con una discendenza, una lingua e magari una storia in comune.  Una differente corrente di pensiero, che fa riferimento all'idea di nazione in quanto realtà oggettiva e legata a pensatori riconducibili a diverse espressioni politico-culturali, include tra le caratteristiche necessarie di una nazione il concetto di sangue (Herder) o di «consanguineità» (Meinecke).[3]  Un'altra definizione vede la nazione come una «comunità di individui di una o più nazionalità con un suo proprio territorio e governo» o anche «una tribù o una federazione di tribù (come quella degli indiani nordamericani)».[4] È appoggiandosi a tali nozioni che si è sviluppato negli anni '70 il concetto di micronazione.  Alcuni autori, come Jürgen Habermas, considerando obsoleta la nozione tradizionale di nazione, si riferiscono a essa come a un libero contratto socialetra popoli che si riconoscono in una Costituzionecomune[senza fonte]. Tale concetto, in questo caso, si estenderebbe anche a quello di patria e il patriottismonazionale verrebbe così rimpiazzato dal «patriottismo costituzionale».[5] o grazie al concetto di "gruppo di appartenenza": la nazione è tale dal punto di vista politico. Ciò prevede un profondo senso del "noi", pace e ordine al suo interno, una serie di simboli e miticomuni, la garanzia di protezione e la consapevolezza della durevolezza nel tempo della nazione rispetto ai singoli individui.  CaratteristicheModifica Il senso del "noi" si sviluppa nella popolazione spesso grazie al confronto con il "gruppo esterno", che alle volte assume la forma di un odiato nemico. Un esempio può trovarsi nella storica rivalità tra nazione francese e nazione tedesca: entrambe hanno caratterizzato la loro identità nell'ostilità rispetto al vicino. Una nazione può essere rappresentata da uno Stato, che garantisce un ordinamento giuridico e ne afferma la sovranità. In tal caso si parla di Stato-nazione. Oltre gli stati esistenti, alcuni partiti politici e associazioni rivendicano di appartenere a nazioni senza Stato e, per quanto riguarda l'Europa occidentale, si riuniscono nella Conferenza delle nazioni senza stato d'Europa occidentale (CONSEU). L'organizzazione che raccoglie nazioni e popoli non rappresentati di tutto il mondo è l'Organizzazione delle nazioni e dei popoli non rappresentati (UNPO).  Ernest Renan definisce nazione come l'anima e il principio spirituale di un popolo, che gode di una ricca eredità di ricordi e del consenso attuale. Ne consegue che la nazione esiste finché trova posto nella mente e nel cuore delle persone che la compongono.  L'idea di nazione matura nel tempo.  Giustificazione storica della nazione è fornita da opere letterarie, da poesie e da canti, composti anche in un passato molto lontano ma che vengono rapportati al presente; classica giustificazione della nazione tedesca è riscontrabile nella Germania di Tacito, in cui i popoli abitanti nel cuore dell'Europa vengono esaltati come valorosi, leali e incorrotti: è probabile che Tacito abbia voluto in questo modo fare una critica della società romana, dando comunque materiale ai tedeschi per legittimare la propria superiorità.  Nell'uso quotidiano erroneamente i termini come nazione, stato e paese vengono usati spesso come sinonimi per indicare un territorio controllato da un singolo governo, o gli abitanti di quel territorio o il governo stesso; in altre parole lo Stato.  In senso stretto tuttavia, nazione indica le persone, mentre paese indica il territorio e stato la legittima istituzione amministrativa. Per aumentare la confusione, i termini nazionale e internazionale si applicano agli Stati.  Nonostante al giorno d'oggi molte nazioni coincidano con uno Stato, le cose non sono sempre andate così in passato e ancora oggi esistono nazioni senza Stato[6]e viceversa ci sono degli stati formati da più nazioni. Vi sono anche stati senza nazione.[senza fonte]  Occorre infine ricordare che con il termine "nazioni" in passato si intendevano anche associazioni di mercanti aventi la stessa nazionalità e residenti in uno Stato estero per motivi di commercio verso il cui governo erano rappresentati da propri consoli (diversi dalle rappresentanze statali presso altri stati).  Il concetto di nazione nella storiaModifica Antichità e testi sacriModifica L'archetipo della nazione d'IsraeleModifica La Bibbia descrive il concetto di nazione (nationes o gentes) come "una delle grandi divisioni naturali della specie umana uscita dalle mani di Dio creatore, espressione della diversità visibile della società umanasulla terra". Le nazioni sono il risultato della divisione dell'umanità in schiatte, stirpi e popoli, come il fruttodel superamento dell'unità originaria del genere umano.  La Genesi racconta del passaggio da un primitivo universalismo a una dispersione dei popoli, causata forse nel tempo attraverso la discendenza dei figli di Noè, sopravvissuti con lui al Diluvio universale, o repentinamente dall'edificazione della torre di Babele. L’Apocalisse di San Giovanni pronostica un ripristino dell'antico universalismo, secondo un piano di salvezza che riguarderà tutte le nazioni e non soltanto il popolo d'Israele.  Di preferenza, nelle Sacre scritture il termine "nazione" ricorre per indicare i nemici pagani del popolo eletto, quelle nazioni, cioè, che non riconoscono Dio e la sua potenza. Il popolo di Dio deve lottare e combattere le nazioni per difendersi dalla sottomissione e dall'errore. Tutto ciò riconduce a un sentimento di nazionalismo.  La nazione di Israele nasce come "lega sacra" tra le varie tribù ebraiche, su una base al tempo stesso etnica e religiosa. Sarà questa unione culturale (variabile culturale) a tenere unito il popolo di Dio, anche in assenza di una forma politica stabile.  GreciaModifica Possiamo tradurre in greco il termine nazione con "ethnos", sebbene questa voce abbia assunto un elevato numero di connotazioni: popolo (greco o barbaro), forme politiche associative non riconducibili alle polis, ma anche un popolo o una comunità etnica con un proprio statuto politico-giuridico e un'autonoma struttura costituzionale. Il termine ethnos indica non tanto "una popolazione dispersa su un territorio esteso, che vive in villaggi e unita da legami politici deboli e intermittenti", quanto un insieme, etnicamente omogeneo, di comunità politiche locali, con un'identità politica fondata essenzialmente sull'elemento territoriale. Il termine genos indica la comune discendenza, la provenienza da uno stesso ceppo, i vincoli di sangue, ma generalmente non esprime vincoli di appartenenza politica.  I differenti popoli che formano la nazione (ethnos) ellenica sono accomunati su vincoli di sangue (variabile naturale) più che da legami di tipo culturale o politico territoriale.  L'evento che più di ogni altro ha unito i greci in un sentimento unitario, sono state le Guerre persiane.Socrate distingue la rivalità interna e la definisce "discordia", dalla minaccia di altri popoli, che chiama "guerra". La superiorità culturale e politica dei greci rispetto ai barbari favorisce un sentimento di unione non solo di sangue, ma anche politica e culturale, che si perpetuerà oltre la contingenza persiana, anche se non si raggiungerà mai la realizzazione di una nazione in senso proprio, libera da conflitti interni e rivolta a un espansionismo esterno.  RomaModifica È nel mondo romano che il termine nazione fa la sua comparsa per la prima volta e viene utilizzato con sfumature diverse. Nel suo significato immediato la natio richiama la nascita e l'origine, la comunità di diritto alla quale si appartiene per vincolo di sangue, secondo uno degli usi restrittivi che già si trova nella tradizione biblica. Nell'uso romano la natio è anche la terra nella quale si è nati, il luogo d'origine, di appartenenza o di provenienza. Generalmente natioviene utilizzato per indicare le popolazioni straniere, alleate o sottomesse a Roma. Altre volte indica popolazioni ostili alla Res pubblica, o popolazioni barbare e arretrate.  A differenza di gens, che indica una stirpe intera (ad esempio la gens Germanica), natio indica le singole tribù.  Il termine natio ha assunto dunque valenze e connotazioni diverse, che indicavano l'esistenza di vincoli di appartenenza politica basati sul sangue, sull'affiliazione tribale e sui legami territoriali, ma non la presenza di un ordine politico complesso e articolato, di un livello di civiltà lontanamente paragonabile a quello romano. Questo spiega perché, per indicare Roma, il sostantivo natio venga sostituito da civitas, patria, res pubblica, Urbs.  MedioevoModifica Il Medioevo è un periodo di mezzo fra il mitodell'universalismo (realizzato antecedentemente sotto forma di impero) e il particolarismo nazionale che si realizzerà nei secoli a venire. È un periodo importante, che pone le basi per i successivi mutamenti storici e sociali. Tra l'età tardoromana e l'inizio dell'Alto medioevo vanno ricercati i fattori e gli elementi dalla cui combinazione scaturirà in seguito la maggior parte delle nazioni storiche che ancora oggi compongono la carta politica dell'Europa.  Il Medioevo è il periodo d'elezione per studiare la formazione di buona parte degli stati europei.  Le nationes universitarieModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Nationes, Peregrinatio academica, Clerici vagantes e Authentica Habita. Le nationes universitarie, sorte nelle Università medievali d'Europa dal XIII secolo in avanti, sono una delle espressioni storicamente più significative del compromesso tra universalismo e particolarismo. Gli scholares vagantes si muovono da tutta Europa per apprendere nelle diverse città europee gli insegnamenti impartiti da magistri a loro volta provenienti da ogni paese.  Particolarismo dettato dalla loro provenienza territoriale. Universalismo caratterizzato dal sapere (universale appunto).  Al tempo stesso, le corporazioni e associazioni cui davano vita nelle città che li ospitavano per difendersi reciprocamente dalle pressioni dei poteri locali, tendono a strutturarsi in funzione della loro differente provenienza geografica, sulla base dunque della terra d'origine, della lingua materna e della diversità di costumi.  "L'università divenne il centro e il punto di partenza dell'organizzazione nazionale".  Le nationes mercantili e conciliariModifica Più rilevante è stata la funzione svolta dalle nationes mercantili. Si tratta di comunità forestiere composte da commercianti e operatori economici stabilmente insediate all'estero.  Similitudini con le nationes universitarie:  Nascita spontanea, volontaria e limitata nel tempo; Garantire assistenza e tutelare gli interessi professionali; L'aggregazione avviene in base a criteri linguistico-territoriali; In generale, le nationes mercantili hanno avuto un ruolo più spiccatamente politico-rappresentativo: non si sono limitate alla salvaguardia dei privilegi e delle concessioni ottenuti dal potere locale o al perseguimento di comuni obiettivi materiali, ma hanno anche perseguito lo sviluppo delle relazioni economiche e politico-diplomatiche tra paesi e la definizione di modelli socioculturali e d'identità politico-territoriali. Si può dunque dire che hanno storicamente contribuito alla costruzione della futura Europa delle nazioni.  Agli interessi dei commercianti si affianca la solidarietà patriottica, l'affinità culturale e religiosa, una lingua comune e un comune sentimento riferiti a una città/regione/nazione.  Il principio qui stabilito, se da un lato dimostra come in questa fase storica l'appartenenza (o identità) nazionale sia ancora priva di rilevanti connotazioni politiche, dall'altro conferma come i valori etnolinguistici che sono alla base di quella che potremmo definire l'idea di nazione culturale fossero già pienamente attivi nella mente delle classi dirigenti e dei ceti intellettuali dell'epoca.  Dalla Riforma alla Rivoluzione                                                   Modifica A partire dal '500 fenomeni come l'accentramento del potere politico nelle mani dei sovrani, l'affinamento letterario delle lingue vernacolari, il radicamento su base territoriale delle chiese riformate producono, su gran parte del territorio europeo, il progressivo consolidarsi del sentimento collettivo e della coscienza unitaria di sempre più vaste comunità umane, che cominciano ad assumere una fisionomia e un'identità nazionale.  Machiavelli: Il termine nazione assume un significato generale ed estensivo poiché si riferisce a collettività straniere, a popolazioni e a paesi oppure può richiamare una o più comunità con la loro particolare fisionomia storica e culturale. Nazione indica dunque differenze linguistiche e territoriali, diversità culturali, ma anche la continuità storica che caratterizza la vita di un popolo rendendolo specifico e differente dagli altri.  Guicciardini: Oltre agli usi scontati (luogo di nascita, paese di appartenenza, popolazioni barbare straniere), nazione indica anche una comunità etnico-territoriale distinta dal punto di vista della cultura. (Gli Svizzeri si alleano col Ducato di Milano per respingere i Francesi).  Nascita delle "chiese nazionali" (cuius regio, eius religio). Distacco teologico ma anche politico e linguistico rafforza il senso di appartenenza.  In questa fase è possibile individuare una profondità storica: il termine nazione non indica soltanto coloro che su un dato territorio condividono la stessa lingua, gli stessi costumi e la stessa religione, ma un insieme di caratteri e di legami che rimanda ad un passato percepito come unico e peculiare, con una sua forza vincolante.  Per il periodo storico compreso tra Rinascimento e Rivoluzione francese possiamo distinguere tre modelli o varianti del concetto di nazione:  Nazione statale: la nazione si forma sotto la spinta dello Stato. La crescita del sentimento nazionale è proporzionata alla crescita dello Stato (territoriale). Es. Inghilterra[7]; Nazione culturale: sviluppata in quegli stati in cui il modello politico statuale si è sviluppato con maggiore ritardo (Germania, Italia). La nazione coincide in questo caso con una comunità popolare basata sulla cultura, sulla lingua e sulle tradizioni storiche. Nazione politica sovrana. La nazione costituisce un'unione volontaria di cittadini che si pone, al posto dell'antico sovrano, come fondamento esclusivo dello Stato. Da qui si sviluppa una sovranità politica. Es. Francia rivoluzionaria. La nazione culturale                     Modifica Si sviluppa nel '700. Fonda la sua coesione sulla lingua, sulla cultura e sulla tradizione (Herder), non sull'astratta rigidità di un'obbligazione politica (Kulturnation). Secondo Herder nella vita di una nazione, l'unità di cultura e di lingua viene prima dell'unità politica, dello Stato e della costituzione. I vincoli culturali sono più stabili e duraturi di quelli istituzionali. Esempi di nazione culturale (Germania, Italia). Herder teorizza la nazione come un fattore di progresso civile e morale, nonché come un tramite fra l'individuo e l'umanità. Realizzando sé stesso all'interno di una realtà sociale culturalmente omogenea e spiritualmente coesa, l'uomo può più facilmente attingere alla dimensione dell'universalità e realizzare la sua natura sociale (visione universalistica).  La nazione politica - Visione romantica di Rousseau     Modifica Pone al centro la volontà degli individui che vi fanno parte (volontà di costituire una nazione), piuttosto che la natura e la storia, come fattore fondante della nazione politicamente intesa. Richiamo al sentimento piuttosto che alla ragione (Rousseau). R. sottolinea l'importanza che le istituzioni, la volontà politica e un agire sociale collettivo sorretto dalla passione comune e dalla consapevolezza di sé e della propria identità rivestono nel salvaguardare e rafforzare il sentimento di appartenenza nazionale di qualunque identità politica. A proposito delle diversità dei popoli Rousseau afferma che sono le forme di governo, i sistemi di legislazione e le leggi che devono adattarsi allo spirito dei popoli e al loro carattere.  Per Sieyès il terzo Stato rappresenta la nazione intesa proprio come un organo assoluto senza il quale lo Stato non esisterebbe. Gli ordini privilegiati sono qualcosa di esterno alla nazione. Minoranza infima e inutile. Ciò che lega una nazione non è dunque la comune origine storica, la lingua, i costumi o il territorio, ma la volontà degli individui, tutti ugualmente liberi. Volontà non alimentata da retaggi storici ma da sé stessa.  Ottocento                  Modifica In seguito al periodo rivoluzionario, il campo semantico del termine nazione si allarga notevolmente: da semplice realtà collettiva caratterizzata da usi e costumi a soggetto originario dell'organizzazione della società, la comunità fondamentale che legittima le istituzioni che organizzano la vita collettiva.  Associazione con altri termini: popolo, patria, libertà, cittadinanza, Stato, volontà, sovranità.  Aspetto terminologico                                 Modifica Nel XIX secolo il concetto di nazione diventa globale e inclusivo in corrispondenza della nascita degli stati-nazione. Indica quindi la totalità degli abitanti di un paese, si avvicina al concetto di cittadinanza e spesso si rivela indipendentemente da componenti culturali o etniche. Dunque nazione coincide sempre più con "insieme dei cittadini" o "popolo", il quale assume la valenza di un soggetto politico unitario composto da uguali. Al contempo la nazione si compenetra alla patria. Nasce il nazionalismo.  Aspetto relativo al contesto in cui si impone la nazione                            Modifica Mutamenti legati alla rivoluzione industriale (sviluppi trasporti, comunicazioni di massa, urbanizzazione). La nazione rimane un punto di riferimento per i cittadini innanzi ai mutamenti sociali.  Attivismo politico di nuovi ceti e gruppi sociali di matrice borghese. Dunque nazione come fattore di integrazione socioculturale innanzi alla disgregazione delle rivoluzione industriale.  La nazione ha bisogno di basi storiche e culturali su cui radicarsi: costruzioni più o meno spontanee da parte di poeti, storici, scrittori, filosofi, linguisti e filologi (intellettuali). Nazionalizzazione (attribuire un significato nazionale) dei miti del passato. Dunque dare radici storiche a qualcosa di già esistente.  Alcuni approcci alla nazione elaborati nel sec. XIX Modifica Magnifying glass icon mgx2.svg                            Lo stesso argomento in dettaglio: Nazionalità. La nazione romantica          Modifica Visione illuministica: nazione come realtà nella quale si riconoscono gli esseri illuminati e i popoli i cui costumi siano stati segnati dalla logica del progresso storico. Visione romantica: nazione come sfera di appartenenza particolaristica ma non esclusiva. La nazione non può fare a meno di entrare in rapporto con la cultura e lo spirito delle altre nazioni e degli altri popoli, insieme con i quali essa costituisce un più vasto organismo vivente. I popoli possono vivere in armonia mantenendo la propria individualità.  Passaggio dallo spirito cosmopolitico settecentesco al nazionalismo ottocentesco. Fichte: solo la nazione tedesca (grazie alla sua superiorità linguistica e culturale, ecc.) può fare da guida politico-spirituale a beneficio dell'intero genere umano. Realizzare il cosmopolitismo partendo dal nazionalismo. La Germania è superiore: dunque è l'unica in grado di generare quell'universalità.  La superiorità linguistica della nazione tedesca, secondo Fichte, è legata alla capacità dell'Urvolk ("popolo originario") di mantenere e salvaguardare la propria lingua originaria ("Ursprache") da influssi stranieri, restando stanziati sul territorio d'appartenenza, a differenza di altri ceppi germanici che, migrando, hanno favorito il modificarsi non solo delle proprie abitudini comportamentali, ma anche della propria lingua. Dunque, il popolo tedesco è l'unico popolo, il popolo non corrotto dal progresso e dalle regole.  Nazione, libertà, umanità                                 Modifica Le differenze fra nazione culturale e politica non sono così individuabili da un punto di vista dell'analisi pratica (sangue e volontà si mescolano).  La nazione italiana: non è qualcosa da costruire ex novo, ma è una comunità naturale che deve essere risvegliata dandole uno Stato e un assetto politico unitario. Per gli autori italiani, il termine nazione è unito alla libertà, alla politica e allo Stato. Al contrario degli intellettuali tedeschi come Herder, quelli italiani pensano che le variabili culturali siano solo un punto di partenza per giungere a una nazione in senso politico, libera e sovrana, dotata di istituzioni e di un governo che ne rispecchi la specificità.  Mancini: le nazioni costituiscono una dimensione naturale e necessaria della storia umana, la cui vitalità storica dipende tuttavia dalla loro libertà e indipendenza, dal fatto cioè di essere non un mero aggregato di fattori naturali e storici (territorio, lingua, ecc.), bensì un corpo politico e di possedere un governo, una volontà giuridica e leggi proprie. Senza lo Stato la nazione rischia di restare un corpo inanimato.  Mazzini vede nella nazione la base politica della sovranità popolare e dello stato democratico: "Per nazione noi intendiamo l'universalità de' cittadini parlanti la stessa favella, associati, con eguaglianza di diritti politici, all'intento comune di sviluppare e perfezionare progressivamente le forze sociali e l'attività di quelle forze."  Differenza fra Mazzini e Sieyès. Per Sieyès il soggetto storico che fa nascere la nazione attraverso la volontà sono i cittadini (liberi e uguali), per Mazzini è invece il popolo, inteso unitariamente come titolare di diritti e doveri che trascendono quelli dei singoli individui, popolo come espressione di una nuova epoca storica. Funzione pedagogica della nazione: essa educa l'uomo al sacrificio, al dovere e all'etica in funzione della comunità.  Marxismo e questione nazionale                                Modifica Marx vede la nazione come un progetto della classe borghese, la quale, proponendosi come classe dominante, conquista il controllo dello Stato, dei suoi apparati legali e produttivi, a scapito dei vecchi ceti feudali e aristocratici. La nazione non costituisce dunque una totalità omogenea. I proletari vi sono esclusi. In quanto prodotto borghese, la nazione è strettamente connessa alle dinamiche del sistema capitalistico e come tale questa verrà meno con il superamento del capitalismo. La nazione è dunque una realtà storico-politica contingente.  Note                                   Modifica ^ Federico Chabod, L'idea di Nazione Bari 1961 ^ Il World Book Dictionary definisce la nazione come “la popolazione che occupa uno stesso luogo geografico, unita sotto lo stesso governo, e parlante usualmente la stessa lingua” ^ LA STORIA, vol. 11, Mondadori, 2007, p.16. ^ Webster's New Encyclopedic Dictionary (trad en-WP). ^ Il termine patriottismo costituzionale, coniato dal politologo e giornalista conservatore tedescoDolf Sternberger (1907-1989) fu completamente reinterpretato dal filosofo tedesco Jürgen Habermas. ^ Intervista con il Dott. G. Mayos, presidente Circolo di Barcellona di studi della nazione.Archiviato il 4 gennaio 2012 in Internet Archive. ^ Stein Rokkan, Territori, Nazioni, Partiti: verso un modello geopolitico dello sviluppo europeo, in "Rivista Italiana di Scienza Politica", X, n. 3, 1980 Bibliografia                                                     Modifica Federico Chabod, L'idea di Nazione, Bari, Laterza, 1961. Stein Rokkan, Territori, nazioni, partiti, in "Rivista italiana di Scienza politica", X, n. 3, 1980. (Id.), Stato, nazione e democrazia in Europa, a cura di Peter Flora, Il Mulino, Bologna 2002 Anthony D. Smith, Le origini etniche delle nazioni, Bologna, Il Mulino, 1998, ISBN 978-88-15-13881-1. (Id.), La nazione. Storia di un'idea, Rubbettino, Soveria Mannelli 2007 Wolfgang Reinhard, Storia del potere politico in Europa, Il Mulino, Bologna 2001 Pietro Grilli di Cortona, Stati, nazioni e nazionalismi in Europa, Il Mulino, Bologna 2003 Alessandro Campi, Nazione, Bologna, Il Mulino, 2004, ISBN 978-88-15-10199-0. Jan-Werner Muller, Constitutional Patriotism, 0691118590, 9780691118598, 9781400828081 Princeton University Press 2007. Voci correlate       Modifica Unità nazionale Patria Popolo Stato Esilio Patriottismo Nazionalismo Mito-motore Etnocentrismo Etnogenesi Comunità immaginate Comunitarismo Pulizia etnica Razza Discendenza Xenofobia Micronazione Altri progetti                   Modifica Collabora a Wikiquote Wikiquote contiene citazioni sulla nazione Collabora a Wikizionario Wikizionario contiene il lemma di dizionario «nazione» Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su nazione Collegamenti esterni                     Modifica Anthony D. Smith, Nazione, su Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1996. Modifica su Wikidata nazione, in Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2010. Modifica su Wikidata nazione, in Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2009. Modifica su Wikidata ( IT ,  DE ,  FR ) Nazione, su hls-dhs-dss.ch, Dizionario storico della Svizzera. Modifica su Wikidata Nazione, in Enciclopedia delle scienze sociali, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1991-2001. Controllo di autorità                                            Thesaurus BNCF 11118 · GND ( DE ) 4041279-9   Portale Antropologia   Portale Geografia   Portale Politica Ultima modifica 16 giorni fa di Eumolpo PAGINE CORRELATE Popolo insieme delle persone fisiche che sono in rapporto di cittadinanza con uno Stato  Nazionalità appartenenza di un individuo a una determinata nazione  Cosmopolitismo atteggiamento di chi si considera cittadino del mondo  Wikipedia Il contenutoDino Formaggio. Formaggio. Keywords: arte naturale, l’arte come comunicazione, fenomenologia della tecnica artistica, natura, arte, artistico, tecnica, l’arte come comunicazione, segno della natura, segno dell’arte, segno naturale, segno artificiale – artificiale – segno di natura, segno di arte, ‘phuseos’ ‘theseos’ – per natura, per positione --  la natura, la nazione -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Formaggio” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51759649101/in/photolist-2mRPJp8-2mRNu9t-2mQ8kJS-2mQ2SsQ-2mPTxJB-2mPXDFp-2mLHHHe-2mLznXk-gCFVD4

 

Grice e Fracastoro – sull’anima – filosofia italiana – Luigi Speranza (Verona). Filosofo. Grice: “I love Fracastoro; for one, I love a physician, since I came to know quite a few – at Richmond!” “Grice: “I love Fracastoro; he philosophised on mainly three topics: the ‘soul’ – in a philosophical dialogue entitled after him, Fracastoro; on poetics, in a dialogue which he named after his poet friend Navagero; and third, on ‘intellezione,’ in a dialogue which he named after another friend, one Torre, “Torrius,” – Grice: “The fact that Gerolamo, or Girolamo, is still at Verona, is fascinatingly charming!” Considerato uno dei più grandi filosofi di tutti i tempi. Insegna logica a Padova. Fu archiatra di Paolo III, al quale dedica “Homocentrica”. A lui è dedicato il cratere Fracastoro presente sulla Luna. Fondatori della patologia (teoria del patire). Fu il primo ad ipotizzare e verificare che una infezione e dovuta a un germe portatore di una malattia, con la capacità di moltiplicarsi nel corpo dell’organismo e di contagiare altri attraverso la respirazione o altre forme di contatto. “Sifilide, ossia sul “mal francese,” sotto forma di poemetto in esametri e il trattato "Sul contagio e sulle malattie contagiose.” Il trattato è all'origine della patologia, o teoria del patire. Fu il primo a scoprire che le code cometarie si presentano sempre lungo la direzione del Sole, ma in verso opposto ad esso. Descrisse uno strumento in funzione astronomica, poi realizzato da Galilei: il cannocchiale. Scrisse tre dialoghi filosofici: Naugerius sive de Poetica (dialogo di estetica), Turrius sive de Intellectione e l'incompiuto Fracastorius sive de Anima.  Fracastoro, con il nome di Giroldano, viene incontrato da Dago, personaggio di un fumetto argentino creato da Robin Wood e Alberto Salinas, in una delle sue avventure, per la precisione nel n. 10 anno XIV del mensile, proprio mentre Girolamo interroga una prostituta in cerca di informazioni per il suo poema sulla sifilide.  Una leggenda sul Fracastoro fa parte della storia popolare veronese. Una sua statua è posta su un arco alla fine di via Fogge, che da nord si innesta in Piazza dei Signori (comunemente detta anche Piazza Dante). La statua rappresenta la sua figura intera con in mano il mondo, che il popolo del tempo ha ribattezzato la bala de Fracastoro, dove bala è il termine dialettale che indica palla. In quella strada vi era il passaggio per il vecchio tribunale da parte di giudici e avvocati ed era vicina a tutti i palazzi del potere di quel tempo. La bala è legata ad una profezia: cadrà sulla testa del primo galantuomo che passerà sotto. Finora non è mai successo. Il popolo di Verona usa questa storia per sbeffeggiare gli uomini del potere. Enrico Peruzzi, Dizionario Biografico degli Italiani, Ettore Bonora, Il "Naugerius" del Fracastoro, Milano,Garzanti, Storia della Letteratura italiana, Dal Piaz Giorgio, Padova e la Scuola Veneta nello sviluppo e nel progresso delle Scienze geologiche. Mem. R. Ist. Geologia Univ. Padova, Dal Piaz Giorgio, Cenni sulla vita e le opere di carattere geologico di Antonio Valleri senior. In: “Il metodo sperimentale in Biologia da Valleri ad oggi”, Simposio nel III Centenario della nascita di Antonio Valleri, Univ. Studi Padova e Acc. Patavina Sci. Lett. Arti, Questo testo proviene in parte dalla relativa voce del progetto Mille anni di scienza in Italia, opera del Museo Galileo. Istituto Museo di Storia della Scienza di Firenze, Girolamo Fracastoro, Patavii, excudebat Josephus Cominus, Opere, Venetiis, apud Iuntas, Homocentrica, Venetiis, Sifilide Tiziano, Ritratto di Girolamo Fracastoro. Enciclopedia Italiana, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Enrico Peruzzi, «FRACASTORO, Girolamo», in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Vita condizione propria della materia vivente Lingua Segui Modifica Nota disambigua.svg Disambiguazione – Se stai cercando altri significati, vedi Vita (disambigua). La vita è l'insieme delle caratteristiche degli esseri viventi che manifestano processi biologici come l'omeostasi, il metabolismo, la riproduzione e l'evoluzione.[1]   Alberi in una foresta (Muir Woods National Monument, California, USA). La biologia, ovvero la scienza che studia la vita, ha portato a riconoscerla come proprietà emergente di un sistema complesso che è l'organismo vivente. L'idea che essa sia supportata da una «forza vitale» è stato argomento di dibattito filosofico, che ha visto contrapporsi i sostenitori del meccanicismo da un lato e dell'olismo dall'altro, circa l'esistenza di un principio metafisico in grado di organizzare e strutturare la materia inanimata.[2] La comunità scientifica non concorda ancora su una definizione di vita universalmente accettata, evitando ad esempio di qualificare come organismo vivente i sistemi come virus o viroidi.   Gli scienziati concordano comunque sul fatto che ogni essere vivente ha un proprio ciclo vitale durante il quale si riproduce, adattandosi all'ambiente mediante un processo di evoluzione, ma ciò non implica la vita perché qualunque caratteristica che hanno i viventi può essere ritrovata in altre situazioni non considerate viventi, ad esempio alcuni virus software che hanno un ciclo vitale e di riproduzione nel loro ambiente informatico ma non sono vivi, o alcuni cristalli che crescono e si riproducono, e molti altri esempi. Una più basica serie di caratteristiche della Vita sono state avanzate, come ad esempio un sistema composto da molecole omochirali che si mantiene in omeostasi e capace di reazioni autocatalitiche (James Tour).  Le forme di vita che sono o sono state presenti sulla Terra vengono classificate in animali, cromisti, piante, funghi, protisti, archaea e batteri.[1][3]  DefinizioneModifica  Ernst Mayr Riguardo alla definizione di cosa sia la vita c'è ancora dibattito tra scienziati e tra filosofi. Secondo il biologo Ernst Mayr sarebbe sufficiente individuare le caratteristiche fondamentali della vita da un punto di vista materiale:   «Il definire la natura dell'entità chiamata vita è stato uno dei maggiori obiettivi della biologia. La questione è che vita suggerisce qualcosa come una sostanza o forza, e per secoli filosofi e biologi hanno provato ad identificare questa sostanza o forza vitale senza alcun risultato. [...] In realtà, il termine vita, è puramente la reificazione del processo vitale. Non esiste come realtà indipendente.[4]»  (Ernst Mayr) Il biologo Hans Driesch sosteneva invece che la vita non potesse essere compresa con gli strumenti delle scienze meccaniche, come la fisica, le quali si occupano esclusivamente dei fenomeni non biologici, ragion per cui la biologia andrebbe separata da queste discipline:[5]  «La vita non è [...] una connessione speciale di eventi inorganici; la biologia, pertanto, non è un'applicazione della chimica e della fisica. La vita è qualcosa di diverso, e la biologia è una scienza indipendente.»  (Hans Driesch, The science and philosophy of the organism, p. 105, trad. ingl., Londra 1929 2[6]) Uno studio approfondito in merito è stato fatto dal fisico Erwin Schrödinger.[7] Nella sua dissertazione Schrödinger nota per prima cosa la contrapposizione tra la tendenza dei sistemi microscopici a comportarsi in maniera "disordinata", e la capacità dei sistemi viventi di conservare e trasmettere grandi quantità di informazione utilizzando un piccolo numero di molecole, come dimostrato da Gregor Mendel, che richiede necessariamente una struttura ordinata. In natura una disposizione molecolare ordinata si trova nei cristalli, ma queste formazioni ripetono sempre la stessa struttura, e sono quindi inadatte a contenere grandi quantità di informazione. Schrödinger postulò quindi che l'unico modo in cui il gene può mantenere l'informazione è una molecola di un "cristallo aperiodico" cioè una molecola di grandi dimensioni con una struttura non ripetitiva, capace quindi di sufficiente stabilità strutturale e sufficiente capacità di contenere informazioni. In seguito questo darà l'avvio alla scoperta della struttura del DNA da parte di Franklin, Watson e Crick; oggi sappiamo che il DNA è proprio quel cristallo aperiodico teorizzato da Schrödinger.  Seguendo questo ragionamento Schrödinger arrivò ad un apparente paradosso: tutti i fenomeni fisici seguono il secondo principio della termodinamica, quindi tutti i sistemi vanno incontro ad una distribuzione omogenea dell'energia, verso lo stato energetico più basso, cioè subiscono un costante aumento di entropia. Questo apparentemente non corrisponde ai sistemi viventi, i quali si trovano sempre in uno stato ad alta energia (quindi un disequilibrio). Il disequilibrio è stazionario, perché i sistemi viventi mantengono il loro ordine interno fino alla morte. Questo, secondo Schrödinger, significa che i sistemi viventi contrastano l'aumento di entropia interno nutrendosi di entropia negativa, cioè aumentando a loro favore l'entropia dell'ambiente esterno. In altre parole gli organismi viventi devono essere in grado di prelevare energia dall'ambiente per ricompensare l'energia che perdono, e quindi mantenere il disequilibrio stazionario. Questo è ciò che in biologia è stato riconosciuto nei fenomeni di metabolismo e omeostasi.  Secondo Ernst Mayr, è un'entità viva, quindi con peculiarità che la distinguono dalle entità non viventi, l'organismo vivente, soggetto alle leggi naturali, le stesse che controllano il resto del mondo fisico. Ma ogni organismo vivente e le sue parti viene controllato anche da una seconda fonte di causalità, i programmi genetici. L'assenza o la presenza di programmi genetici indica il confine netto tra l'inanimato e il mondo vivente.  Unendo il concetto del disequilibrio con quello della riproduzione (cioè della trasmissione ordinata delle informazioni), come espressi da Schrödinger, si ottiene quello che può essere definito vivente:  un sistema termodinamico aperto, in grado di mantenersi autonomamente in uno stato energetico di disequilibrio stazionario e in grado di dirigere una serie di reazioni chimiche verso la sintesi di sé stesso.[8] Questa definizione è largamente accettata nell'ambito della biologia, nonostante ci sia ancora dibattito in merito.[9][10]  Basandosi su questa definizione un virus non sarebbe un organismo vivente, perché può arrivare a riprodursi ma non può farlo autonomamente, in quanto si deve appoggiare al metabolismo di una cellula ospite, così come non sono esseri viventi le semplici molecole autoreplicanti, in quanto sottoposte all'entropia come tutti i sistemi non viventi.  La ricerca sui Grandi virus nucleo-citoplasmatici a DNA, ed in particolare la scoperte dei mimivirus, quindi l'eventualità che costituiscano anello di congiunzione tra i virus, definiti qui non viventi, e i più semplici viventi comunemente accettati, ha contribuito ad estendere il dibattito e a rendere più sfumata la linea di confine tra viventi e non, ed alcune ipotesi minoritarie, suggeriscono che i domini Archaea, Bacteria, ed Eukarya possano originare da tre differenti ceppi virali e i plasmidi possono essere visti come forme di transizione tra virus a DNA e cromosomi cellulari.[11]  Oltre la definizione di Schrödinger, vari studiosi hanno proposto diverse caratteristiche che nel loro insieme dovrebbero essere considerate sinonimo di vita:[12][13]  Omeostasi: regolazione dell'ambiente interno al fine di mantenerlo costante anche a fronte di cambiamenti dell'ambiente esterno. Metabolismo: conversione di materiali chimici in energia da sfruttare, trasformazione di diverse forme di energia e sfruttamento dell'energia per il funzionamento dell'organismo o per la produzione di suoi componenti. Crescita: mantenimento di un tasso di anabolismopiù alto del catabolismo, sfruttando energia e materiali per la biosintesi e non solo accumulando. Interazione con l'ambiente: risposta appropriata agli stimoli provenienti dall'esterno. Riproduzione: l'abilità di produrre nuovi esseri simili a sé stesso. Adattamento: applicato lungo le generazioni costituisce il fondamento dell'evoluzione. Queste caratteristiche sono, per la loro peculiarità, comunque passibili di critiche e di parzialità. Un ibrido non riproducentesi non può considerarsi come non vivo, così pure un organismo che ne abbia perduto la capacità nel corso del tempo. Parimenti un'ipotetica situazione che obblighi la dipendenza da strutture estranee per mantenere l'omeostasi, un organismo strutturalmente non in grado di adattarsi ulteriormente all'ambiente e altre singole deficienze, difficilmente, se prese singolarmente, possono far escludere di avere a che fare con un vivente.  Organismi viventiModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Organismo vivente. La vita è caratteristica degli organismi viventi. In generale la vita si considera una proprietà emergentedegli esseri viventi. Questo significa che si tratta di una caratteristica posseduta dal sistema, ma non posseduta dai suoi singoli componenti. Un organismo vivente, quindi, è vivo, mentre non sono vive le sue singole parti.[14]  Condizioni necessarie alla vitaModifica L'esistenza della vita, così come la conosciamo,necessita di particolari condizioni ambientali. I primi organismi comparsi sulla Terra si sono per necessità sviluppati in base alle condizioni preesistenti, ma in seguito a volte sono stati gli organismi stessi a modificare l'ambiente, a vantaggio proprio o di altri organismi.[15] È il caso della produzione di ossigeno da parte dei cianobatteri, che ha modificato profondamente l'atmosfera terrestre causando un'estinzione di massa (detta catastrofe dell'ossigeno) e rendendo possibile la colonizzazione dell'ambiente terrestre.[16] Inoltre col tempo si sono determinate sempre più interazioni complesse tra i diversi organismi, facendo sì che nella maggior parte degli ambienti la vita di determinate specie sia possibile grazie alla presenza di altri organismi che creano le condizioni necessarie[15] (spesso si tratta di microorganismi, come nel caso dei batteri azotofissatori, che trasformano l'azoto molecolare presente nell'aria in molecole utilizzabili per le piante[17]).  Ogni essere vivente può sopravvivere all'interno di determinati limiti relativi ai fattori fisici dell'ambiente (temperatura, umidità, radiazione solare, ecc.). Al di fuori di questi limiti la vita è possibile solo per brevi periodi, se non impossibile del tutto. Queste condizioni, che sono diverse per ogni specie, sono definite range di tolleranza.[18] Per esempio una cellula batterica ad una temperatura troppo alta subirà la denaturazione delle sue proteine, mentre ad una temperatura troppo bassa subirà il congelamentodell'acqua che contiene. In entrambi i casi morirà. Anche le caratteristiche chimiche costituiscono fattore limitante; pH, concentrazioni estreme di forti ossidanti, elementi chimici in concentrazione tossiche, eccetera, costituiscono spesso un muro quasi invalicabile allo sviluppo della vita. Lo studio di organismi estremofili, ha contribuito enormemente all'individuazione delle condizioni ritenute minime per lo sviluppo della vita, nonostante risulti chiaro che la definizione di ambiente "estremo" è comunque relativa e diversa per ogni organismo.[17]  Determinate esigenze sono comuni a tutti gli organismi viventi. Affinché ci sia vita è necessario che si disponga di energia, al fine di mantenere il disequilibrio energetico del sistema (vedi sopra).[19] La maggior parte degli organismi autotrofi sfrutta l'energia solare, attraverso la quale compie la fotosintesi, ottenendo i nutrienti dalla materia inorganica. Questi organismi, che comprendono piante, alghe e cianobatteri, si dicono fotoautotrofi. Altri autotrofi più rari sfruttano invece l'energia derivante da processi chimici, e si definiscono chemioautotrofi. Le altre specie, dette eterotrofi, sfruttano l'energia chimica dai composti organici prodotti da altri organismi, nutrendosi dell'organismo stesso, di una sua parte o dei suoi scarti.  È necessario inoltre affinché ci sia vita che ci sia disponibilità dei principali costituenti biologici, cioè carbonio, idrogeno, azoto, ossigeno, fosforo, e zolfo, nell'insieme detti anche CHNOPS.[19] Gli organismi autotrofi li ricavano principalmente in forma inorganica dall'ambiente, mentre quelli eterotrofi sfruttano principalmente i composti organici di cui si nutrono.  Tutte le forme di vita conosciute, infine, necessitano di abbondanza d'acqua, anche se alcuni organismi hanno sviluppato adattamenti che permettono loro di conservare le proprie riserve di liquidi a lungo, così da potersi allontanare notevolmente dalle fonti d'acqua.  Queste condizioni sono condivise dalla quasi totalità delle forme di vita conosciute, tuttavia non è possibile escludere l'esistenza, sulla terra o su altri pianeti, di organismi in grado di vivere in condizioni completamente diverse. Per esempio nel 2010 è stato trovato nel Mono Lake in California un batterio, Halomonas sp., ceppo GFAJ-1, in grado di sostituire il fosforo nelle proprie molecole con l'arsenico,[20] che proprio per la sua similitudine col fosforo e per la sua tendenza a sostituirlo nelle molecole biologiche, è tossico per la maggior parte degli organismi conosciuti, escludendo quelli che lo utilizzano come ossidante nella respirazione,[21] al pari di numerosi composti utilizzati a tale scopo da differenti organismi. In seguito questa scoperta è stata messa in dubbio,[22][23] e sono in corso (2012) verifiche per accertare l'eventuale eccezionalità della scoperta. Gli esobiologi ipotizzano una vita basata sulla chimica del silicio anziché del carbonio.  Origine della vitaModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Origine della vita ed Evoluzione della vita. Secondo i modelli attualmente accettati la vita sulla terra è comparsa grazie alle condizioni presenti tra 4,4 e 2,7 miliardi di anni fa, che hanno permesso lo sviluppo di macromolecole come gli amminoacidi e gli acidi nucleici, come dimostrato dall'esperimento di Miller-Urey, dalle quali in seguito si sono originati polimeri come i peptidi e i ribozimi. Il passaggio dalle macromolecole alle protocellule è l'aspetto più controverso della questione, sul quale sono state avanzate diverse ipotesi, come quella del mondo ad RNA, quella del mondo a ferro-zolfo e la teoria delle bolle.  A partire dalle protocellule gli organismi hanno poi raggiunto lo stadio attuale in cui li conosciamo tramite processi, spiegati dalla teoria dell'evoluzione, lungo un ramificato processo di evoluzione della vita.  Vita extraterrestreModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Esobiologia ed Extraterrestre. Qualunque forma di vita non propria del pianeta Terra viene detta "extraterrestre". Questo termine può riferirsi, in maniera più ampia, a qualunque oggetto al di fuori della stessa realtà terrestre. Tutt'oggi l'uomo non conosce alcun esempio di essere vivente extraterrestre e il dibattito tra scettici e sostenitori della probabile esistenza di forme di vita aliene a quelle terrestri è molto acceso.  Nella cultura umanisticaModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Vita (filosofia) e Filosofia della vita. Prima che la scienza fornisse spiegazioni scientifiche sulla vita, l'uomo tentò di fornire risposte riguardo ai fenomeni dei viventi tramite la mitologia, la religione e la filosofia.   Nella cultura letteraria e filosofica, l'esistenza umana è stata associata alle emozioni, alle passioni e in generale alla storia di ciascuna persona. Poeti, letterati, filosofi e pensatori hanno associato alla vita significati diversi e presentando una personale concezione di vita umana. Alcune posizioni hanno dato vita a vere e proprie correnti di pensiero, come il vitalismo, il pessimismo, o il nichilismo.  Diritto e questioni etiche sulla vita umanaModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Diritti umani e Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo. Nelle società organizzate, la vita umana rappresenta un valore che richiede attenzione in termini di diritto. Questioni di tipo etico determinano le scelte circa la difesa e la salvaguardia della vita, quando questa è messa in discussione da altri tipi di scelte, come la pena di morte, l'aborto o l'eutanasia. Secondo attente analisi e ricerche la maggior parte delle persone possiede una vita infelice per cause di tipo affettive, morali, sociali, personali e cause derivate dalle relazioni amorose, da ciò le persone possono evidenziare idee suicide o entrare in fasi depressive. A titolo esemplificativo può essere appropriato riportare le seguenti riflessioni che bene descrivono lo stato d'animo della Bovary,[24]travolta dalle devastanti vicende passionali, che la indurranno infatti al suicidio: Da che dipendeva quella insufficienza della vita, quell'istantaneo imputridirsi delle cose alle quali essa si appoggiava?... Ogni sorriso nascondeva uno sbadiglio di noia, ogni gioia una maledizione, ogni piacere il suo disgusto...  Vita sinteticaModifica Dalla ricerca delle proprietà oggettive che definiscano il concetto di vita si è sviluppato un ramo della biologia chiamato biologia sintetica che utilizza conoscenze di biologia molecolare, biologia dei sistemi, biologia evoluzionistica e biotecnologie con l'idea di progettare sistemi biologici in maniera artificiale in laboratorio.  NoteModifica ^ a b ( EN ) NASA - Life's Working Definition: Does It Work?, su www.nasa.gov. URL consultato il 1º giugno 2018. ^ Riccardo De Biase, I saperi della vita: biologia, analogia e sapere storico, Giannini Editore, 2011, p. 97. ^ Five Kingdom Classification System, su www.ruf.rice.edu. URL consultato il 1º giugno 2018. ^ Ernst Mayr, cap 6, What is tha meaning of "life" The nature of life, Carol E. Cleland, University of Colorado, Cambridge University press, 2010 DOI: [1], Hardback ISBN 978-0-521-51775-1, Paperback ISBN 978-0-521-73202-4 ^ H. Driesch, Philosophie des Organischen, Leipzig, Engelmann, 1909. ^ Ed. originale: Philosophie des Organischen, Engelmann, Leipzig 1909. ^ ( EN ) Erwin Schrödinger, What is Life? The Physical Aspect of the Living Cell, Cambridge, Cambridge University Press, 1944. ^ Che cos´è la vita?: la cellula vivente dal punto di vista fisico, su disf.org. ^ ( EN ) Defining Life: Astrobiology Magazine - earth science - evolution distribution Origin of life universe - life beyond, su astrobio.net. ^ Cos'è la vita?, su torinoscienza.it, Torino scienza (archiviato dall' url originale  l'11 maggio 2015). ^ ( EN ) Patrick Forterre, Three RNA cells for ribosomal lineages and three DNA viruses to replicate their genomes: A hypothesis for the origin of cellular domain, in Proceedings of the National Academy of Sciences, vol. 106, n. 10, 2006, pp. 3669–3674, DOI:10.1073/pnas.0510333103, PMID 16505372. PMC 1450140 ^ ( EN ) How to Define Life -points to ponder for comprehensive questions on final exam, su una.edu. ^ ( EN ) McKay Chris P., What Is Life—and How Do We Search for It in Other Worlds?, in PLoS Biology, vol. 2, n. 9, 14 settembre 2004, p. 302, DOI:10.1371/journal.pbio.0020302, PMID 15367939. PMC 516796 ^ ( EN ) Defining Life, Explaining Emergence, su nbi.dk, Center for the Philosophy of Nature and Science Studies, Niels Bohr Institute, 1997. ^ a b ( EN ) Understand the evolutionary mechanisms and environmental limits of life, su astrobiology.arc.nasa.gov, NASA (archiviato dall' url originale  il 26 gennaio 2011). ^ Roberto Argano et al., Zoologia generale e sistematica, Zanichelli, ISBN 88-323-1803-2. ^ a b Colin R. Townsend et al., L'essenziale di ecologia, Zanichelli, ISBN 88-08-08923-1. ^ ( EN ) Daniel D. Chiras, Environmental Science – Creating a Sustainable Future, Jones & Bartlett Learning, 2009, ISBN 978-0-7637-5925-4. ^ a b ( EN ) Essential requirements for life, su cmapsnasacmex.ihmc.us, NASA. ^ ( EN ) Wolfe-Simon F, Blum JS, Kulp TR, Gordon GW, Hoeft SE, Pett-Ridge J, Stolz JF, Webb SM, Weber PK, Davies PC, Anbar AD, Oremland RS, A Bacterium That Can Grow by Using Arsenic Instead of Phosphorus, in Science, dicembre 2010, DOI:10.1126/science.1197258, PMID 21127214. ^ ( EN ) Joanne M. Santini, Streimann Illo C. A., Hoven Rachel N. vanden, Bacillus macyae sp. nov., an arsenate-respiring bacterium isolated from an Australian gold mine, in Int J Syst Evol Microbiol, vol. 54, n. 6, 2004, pp. 2241–2244, DOI:10.1099/ijs.0.63059-0. ^ Vita all'arsenico? Probabilmente no, su Le Scienze, 29 gennaio 2012. URL consultato l'8 marzo 2012. ^ ( EN ) Reaves M. L., Sinha S., Rabinowitz J. D., Kruglyak L., Redfield R. J., Absence of arsenate in DNA from arsenate-grown GFAJ-1 cells, 31 gennaio 2012. ^ G. Flaubert, Madame Bovary, BUR, 1992, p. 258-259. Voci correlateModifica Biologia Evoluzione Biodiversità Morte Altri progettiModifica Collabora a Wikiquote Wikiquote contiene citazioni sulla vita Collabora a Wikizionario Wikizionario contiene il lemma di dizionario «vita» Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file sulla vita Collegamenti esterniModifica vita, su Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su Wikidata vita, in Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2009. Modifica su Wikidata ( EN ) Vita, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su Wikidata Origine della vita, su minerva.unito.it. La vita e l'evoluzione, su vita-morte-evoluzione.bravehost.com. Vita, in Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Controllo di autoritàThesaurus BNCF 12970 · LCCN( EN ) sh85076810 · GND ( DE ) 4034831-3 ·BNE ( ES ) XX530995 (data) · BNF( FR ) cb11933780m (data) · J9U( EN ,  HE ) 987007529230105171 (topic) · NDL( EN ,  JA ) 00570344   Portale Biologia: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di Biologia Ultima modifica 12 giorni fa di Gac PAGINE CORRELATE Biologia scienza che studia la vita  Organismo vivente entità dotata di vita  Che cos'è la vita? Wikipedia Il contenuto  Vita (filosofia) Lingua Segui Modifica Il concetto di vita in senso biologico non coincide con quello filosofico. Genericamente possiamo riferirci alla biologia nel definire la vita come la condizione di esseri che, caratterizzati da una forma precisa e da una struttura chimica particolare, hanno la capacità di conservare, sviluppare e trasmettere forma e costituzione chimica ad altri organismi[1].  In filosofia la definizione del concetto di vita è diversa e più complessa poiché risente della scarsità lessicale presente nella lingua italiana che usa un unico termine per una diversità di significati: in senso generale si adopera il lemma "vita" per indicare la vita animale, quella umana, quella oltreumana e, nei riguardi dell'uomo in particolare: la vita corporea, quella psichica, quella spirituale.[2]  Pensiero anticoModifica Nel pensiero greco antico vengono usati invece tre termini a seconda del loro specifico significato:  ζωή (zoé): il principio, l'essenza della vita che appartiene in comune, indistintamente, all'universalità di tutti gli esseri viventi e che ha come concetto contrario la non-vita e non, come si potrebbe pensare, la morte poiché questa riguarda il singolo essere che cessa, lui e soltanto lui, di vivere;[3] βίος (bíos): indica le condizioni, i modi in cui si svolge la nostra vita. Zoé è dunque la vita che è in noi e per mezzo della quale viviamo (qua vivimus), bios allude al modo in cui viviamo (quam vivimus), cioè le modalità che caratterizzano ad esempio la vita contemplativa, la vita politica ecc. per le quali la lingua greca usa appunto il termine bios accompagnato da un aggettivo qualificante;[3] ψυχή (psyché):[4] nella lingua greca del Nuovo Testamento ricorre nel significato di "anima-respiro"[5], il "soffio" vitale: (EL)  «ὁ φιλῶν τὴν ψυχὴν αὐτοῦ ἀπολλύει αὐτήν, καὶ ὁ μισῶν τὴν ψυχὴν αὐτοῦ ἐν τῷ κόσμῳ τούτῳ εἰς ζωὴν αἰώνιον φυλάξει αὐτήν.[6]»  (IT)  «Chi ama la sua vita la perde e chi odia la sua vita in questo mondo la conserverà per la vita eterna»  Nella filosofia greca antica tutto il reale è concepito come vivente secondo la teoria dell'ilozoismo che nella ricerca del principio introduce considerazioni di argomento biologico per cui: Diogene di Apolloniaconsidera l'aria come vita, Empedocle fa risultare la vita dalla armonica fusione dei quattro elementi primigeni, Anassagora intuisce l'origine di tutti gli esseri viventi nell'aggregazione dei semi (σπέρματα). Tutti questi sono elementi materiali viventi che vengono connessi con il concetto di psyché, come nel Timeo[7] di Platone dove l'intero mondo è un organismo vivente. Un concetto di anima del mondo, che risale probabilmente a tradizioni orientali, orfichee pitagoriche. Secondo Platone il mondo è infatti una sorta di grande animale, la cui vitalità generale è supportata da quest'anima, infusagli dal Demiurgo, che lo plasma a partire dai quattro elementifondamentali: fuoco, terra, aria, acqua.  «Pertanto, secondo una tesi probabile, occorre dire che questo mondo nacque come un essere vivente davvero dotato di anima e intelligenza grazie alla Provvidenza divina.[8]»  Anche per Aristotele la vita s'identifica con l'anima (ἐντελέχεια), sia essa vegetativa, sensitiva o intellettiva, che è nel sinolo «causa e principio del corpo vivente»[9] Con Aristotele il primato della forma sulla materia porta alla contrapposizione del βίος ϑεωρητικός (bios teoretikòs) al βίος πρακτικός (bios praktikòs), al primato della vita contemplativa sulla vita attiva, come diranno i filosofi medioevali, vale a dire la superiorità della conoscenza teoretica, che permette all'uomo di cogliere la verità di per se stessa mentre quella pratica cerca anch'essa la verità ma come mezzo in vista dell'azione, al fine di cambiare la realtà:  «...è giusto anche chiamare la filosofia scienza della verità. Infatti della filosofia teoretica è fine la verità, di quella pratica l'opera, poiché i [filosofi] pratici, anche se indagano il modo in cui stanno le cose, non studiano la causa di per se stessa, ma in relazione a qualcosa ed ora.[10]»  La visione aristotelica sarà fatta propria anche dal neoplatonismo, che nella sua dottrina emanatistica e nella concezione dell'anima come psiche cosmica, stabilirà la connessione tra il mondo ideale, della generazione delle diverse dimensioni della realtà appartenenti alla stessa sostanza divina, e quello materiale delle realtà empiriche.  Il pensiero cristiano e medioevaleModifica Nella concezione cristiana nel Vecchio Testamento la vita umana è strettamente collegata alla volontà benefica di Dio mentre la morte è rapportata al peccato. Nel Nuovo Testamento la connessione vita-divino si consolida nel messaggio di Gesù che assicura la resurrezione, una vita futura a chi crede in lui.  (LA)  «Ego sum resurrectio et vita: qui credit in me, etiam si mortuus fuerit, vivet: et omnis qui vivit et credit in me, non morietur in aeternum.[11]»  (IT)  «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno.»  La filosofia medioevale accoglie l'eredità neoplatonica dell'importanza del βίος ϑεωρητικός per una vita vissuta religiosamente e misticamente come strumento per giungere alla vita oltremondana e riprende la concezione aristotelica della vita biologica adattando la sua definizione dell'anima come «l'atto puro di un corpo che ha la vita in potenza»[12] alla teoria dell'immortalità dell'anima:  Filosofia modernaModifica Tra il 1600 e il 1700 la vita viene concepita come appartenente a un essere vivente che deve essere studiato come se fosse una macchina distinguendo nettamente ciò che riguarda gli elementi fisici da quelli psichici. Questa tesi, dove si cimentano in particolare Cartesio e Hobbes viene contrastata da Leibniz che definendo la monade la riferisce al principio aristotelico della entelechìa (ἐντελέχεια) intesa come la tensione di un organismo che mira a realizzare se stesso secondo leggi proprie, passando dalla potenza all'atto.[13]  Queste concezioni vengono superate dal vitalismo che eredita dal 1600 i motivi neoplatonici e magici-alchemici dei filosofi rinascimentali Marsilio Ficino e Pico della Mirandola.  I pensatori dell'età romantica, Herder, Hölderlin, Schiller, Jacobi, nel filone segnato dalla Critica della ragion pratica e dalla Critica del giudizio kantiane, concepiscono la vita inserendola nella nuova visione della filosofia della natura sviluppata da Goethe, Schelling e Hegel il quale in particolare vuole contrastare sia la teoria intellettualistica che vede la vita come qualcosa di incomprensibile sia quella romantica che contrappone l'energia della vita al freddo sapere, riportando la vita nell'ambito dello sviluppo dialettico dell'Idea (tesi) che si oggettiva come natura (antitesi) per approdare alla sintesi dell'Idea che torna su se stessa colma di realtà.  All'inizio del XX secolo si costituisce la Lebensphilosophie, la filosofia della vita che rifacendosi all'opera di György Lukács La distruzione della ragione, si esprime in una varietà di autori che elaborano una dottrina variegata e non unitaria tenuta assieme dall'antinomia vita-ragione. Così Dilthey, Rickert, Simmel, Scheler, Ludwig Klages, e specialmente Unamuno, José Ortega y Gasset, Eugeni d'Ors e altri, si rifanno a elementi del romanticismo, di Arthur Schopenhauer, di Nietzsche oppure riconducono la razionalità a qualcosa di immanentealle stesse strutture materiali della vita. Una «vitalizzazione della ragione» che porta all'irrazionalismo, al misticismo, all'amoralismo:  «La ragione tende a razionalizzare la vita, nemica della ragione; qualora essa conseguisse il suo intento, si avrebbe la morte e la negazione della vita. Nello stesso tempo la vita tende a vitalizzare la ragione...[14]»  Su queste basi speculative nella seconda metà del Novecento la filosofia francese con Deleuze ha sviluppato una filosofia della vita che in questo autore, attingendo agli studi storico-epistemologici di Georges Canguilhem, porta alla fondazione di una visione immanentistica della vita che ha come fulcro il concetto di differenza-ripetizione   «...tutte le identità non sono che simulate, prodotte come un effetto ottico, attraverso un gioco più profondo che è quello della differenza e della ripetizione.[15].»  Sulla scia del pensiero di Nietzsche, la differenza è concepita come affermazione pura, come atto creativo e l'identità come un che di selettivo, che torna solo per affermare la differenza.  Attingendo alla filosofia della vita Foucault avanza la teoria del "biopotere" cioè le pratiche con le quali la rete di poteri gestisce  la gestione del corpo umano nella società dell'economia e finanza capitalista, la sua utilizzazione e il suo controllo la gestione del corpo umano come specie, base dei processi biologici da controllare per una biopoliticadelle popolazioni[16] NoteModifica ^ Ove non indicato diversamente, le informazioni contenute nel testo della voce hanno come fonte: Dizionario di filosofia Treccani (2009) alla voce corrispondente ^ Vittorio Possenti, La questione della vitaArchiviato il 10 febbraio 2015 in Internet Archive. ^ a b Martin Heidegger, Concetti fondamentali della filosofia aristotelica, Milano, Adelphi, 2017, p. 77, ISBN 9788845978678. ^ Vittorio Possenti, Op.cit. Archiviato il 10 febbraio 2015 in Internet Archive. ^ Richard Broxton Onians, The Origins of European Thought, Cambridge, Cambridge University Press, 1951 ^ N. T. Gv. 12, 25 ^ Platone, Timeo, 34 b – 37 d ^ Platone, Timeo, cap. VI, 30 b ^ Aristotele, De anima, II, 4, 415 b ^ Aristotele, II libro della Metafisica,1, 993b 19-23 ^ Gv. 11, 21-27 ^ Aristotele, De anima, II, 412a 2 ^ Aristotele, De Anima, II, 412, a27-b1 ^ Lorenzo Lunardi, Attualità di Unamuno,Padova : Liviana Ed., 1976. ^ Gilles Deleuze, Differenza e ripetizione, Il Mulino, 1971, p. 2. ^ Michel Foucault, La volontà di sapere, Feltrinelli, 1978 Voci correlateModifica Esistenza Naturalismo (filosofia) Filosofia della natura Vitalismo   Portale Filosofia: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di Filosofia Ultima modifica 10 mesi fa di Narayan89 PAGINE CORRELATE Psiche termine della psicologia  Vitalismo corrente di pensiero che esalta la vita  Panpsichismo teoria  Wikipedia  Vitalismo corrente di pensiero che esalta la vita Lingua Segui Modifica Il vitalismo è una corrente di pensiero che esalta la vita intesa principalmente come forza vitaleenergetica e fenomeno spirituale, al di là del suo aspetto biologico materiale.   Raffigurazione di Venere, principio della vita e della fertilità che nasce dall'acqua PrincipiModifica Il vitalismo ritiene che i fenomeni della vita, costituiti da una "forza" particolare, non siano riconducibili interamente a fenomeni chimici, ed in particolare che vi è una netta demarcazione tra l'organico e l'inorganico, che la vita sulla terra ha avuto un'origine divina e non solo da un'evoluzione risalente a circa 3800 milioni di anni fa, come sostengono i biologicontemporanei.  Il vitalismo può essere anche inteso, nell'ottica nietzschiana e dannunziana, come l'esaltazione della vita senza limiti né freni ideologici o morali, come la ricerca del godimento (dionisiaco), come la celebrazione dell'istinto e di quella volontà di potenzache apparterrebbe solo a pochi eletti, i quali sanno imporre il proprio comando sui più deboli. Questa forza può così rigenerare un mondo che Nietzsche e D'Annunzio ritengono esausto.  In una tale ottica l'evoluzionismo non sarebbe in contrasto col vitalismo, ma darebbe anzi la conferma che la natura si serve della selezione naturale al fine di perpetuare la propria volontà di vivere attraverso la sopravvivenza dei migliori.[1] A differenza del vitalismo dannunziano, che nelle sue manifestazioni racchiude molti degli elementi tipici dell'estetismo decadente, il vitalismo nietzschiano va considerato anche nella sua accezione dionisiaca di accettazione tragica della vita, di un'accettazione tout court della vita, finanche nei suoi aspetti più truci e sofferenti.  StoriaModifica  Bambino nel grembo materno disegnato da Leonardo da Vinci(1511 circa)[2] Pur con radici antiche, il vitalismo si è sviluppato come sistema teorico tra la metà del Settecento e la metà dell'Ottocento. Si tratta di una concezione ereditata in gran parte dal neoplatonismo e dalla filosofia rinascimentale, secondo cui le idee platoniche, oltre a trascendere il mondo, sono anche immanenti alla natura, diventando la ragione costitutiva dei singoli organismi e di tutto ciò che esiste. Il cosmo, in quest'ottica, risulta animato da un principio intelligente, veicolato in esso da una comune e universale Anima del mondo.[3] Se Leibniz proseguì sulla stessa lunghezza d'onda, attribuendo vita e capacità di pensiero anche alla materia inerte, e schierandosi contro il meccanicismo di Cartesio e degli empiristi,[4] Schelling vedeva invece nel vitalismo una concezione irrazionale e perciò da scartare, in quanto affine al noumeno kantiano, preferendo piuttosto parlare di evoluzionismo finalistico: questo era da lui concepito agli antipodi sia del vitalismo, ma anche del determinismo meccanico, che è incapace di cogliere la profonda unità che pervade la natura, riducendola ad un assemblaggio di singole parti.[5]  Dopo aver trovato espressione anche nella poetica di Giacomo Leopardi,[6] il vitalismo riemerse nel Novecento con Bergson, il quale, in una rinnovata polemica contro il determinismo e il materialismo, torna ad affermare che la vita biologica, come del resto la coscienza, non è un semplice aggregato di elementi composti che si riproduce in maniera sempre uguale a se stessa. La vita invece è una continua e incessante creazione che nasce da un principio assolutamente semplice, non rieseguibile deliberatamente, né componibile a partire da nient'altro.[7]  Tentativi di spiegazione in laboratorioModifica (Tedesco)  «Wer will was Lebendiges erkennen und beschreiben, Sucht erst den Geist heraus zu treiben, Dann hat er die Teile in seiner Hand, Fehlt, leider! nur das geistige Band. Encheiresin naturaenennt's die Chemie, Spottet ihrer selbst und weiß nicht wie.»  (IT)  «Per capire e descrivere una realtà vivente, si cerca sempre innanzitutto di cavarne la vita; allora si ha la mano piena di frammenti inerti, a cui manca solo - purtroppo - il nesso della vita. La chimica le dà il nome di encheiresin naturae:[8] si burla di se stessa e nemmeno se ne avvede.»  (Mefistofele rivolto a una giovane matricola universitaria, nel Faust di Goethe, vv. 1936-41)  Figure di omuncoli disegnate da Antonio Vallisnieri (1721), ritenuti i semi in grado di operare la generazione dell'uomo Dal punto di vista biologico ci sono stati diversi tentativi di costruire la vita in laboratorio partendo da basi il più possibile scientifiche, per cercare di ridurre gli aspetti maggiormente irrazionali della concezione della vita, o per poterne dare delle spiegazioni quantomeno plausibili. I più importanti sviluppi della biochimica e dell'ingegneria genetica sono stati i seguenti:  Nel 1828 il chimico tedesco Friedrich Wöhler, in collaborazione con Justus von Liebig, effettua la prima sintesi organica, la sintesi dell'urea. Nel 1859 viene pubblicata la teoria dell'evoluzione di Darwin. Nel 1897 Eduard Buchner dimostra che la fermentazione può avvenire anche senza cellule di lievito vive ma solo con loro estratti. Nel 1935 Wendell Meredith Stanley cristallizza il primo virus, il virus del mosaico del tabacco. Negli anni 1932-1934 Harold Urey prepara i primi composti organici deuterati. Nel 1953 Stanley Miller ottiene per sintesi le prime molecole organiche. Si tratta però, allo stato, di procedimenti meramente meccanici, che nulla dicono sul perché un certo composto dovrebbe dare la vita a differenza di un altro. Tali esperimenti si limitano a rieseguire in laboratorio i procedimenti naturali di generazione della vita, senza che questi siano compresi a fondo; proprio perché ne sono un'imitazione, tali procedimenti sembrano non differire qualitativamente da quelli operanti in natura.  Secondo il paleontologo Teilhard de Chardin, che studiando la storia dell'evoluzione della Terra elaborò la cosiddetta legge di complessità e coscienza, esiste all'interno della materia una tendenza a diventare maggiormente complessa e al tempo stesso ad accrescere una propria coscienza, passando dallo stato inanimato a quello via via più evoluto. La coscienza sarebbe dunque il fine nascosto a cui tendono le leggi della natura, e che potrebbe essere in grado di spiegarle.[9] Il biologo e filosofo Hans Drieschricorse al termine aristotelico entelechia per designare questa forza vitale in grado di strutturare la materia organica secondo leggi immateriali.[10]  Il desiderio di costruire la vita totalmente al di fuori delle vie naturali ricorre invece soprattutto nella fantascienza; a questo filone appartiene ad esempio il romanzo Frankenstein di Mary Wollstonecraft Shelleydel 1818.  Note                                      Modifica ^ L'esaltazione della vita nell'opera di Friedrich Nietzsche e di Gabriele D'Annunzio, cit. in bibliografia. ^ Dettaglio dal codice Windsor sugli studi sugli embrioni. ^ Concetto già espresso da Platone, il quale, richiamandosi alla tradizione dell'ilozoismoarcaico, sosteneva che il mondo è una sorta di grande animale, supportato da una «Grande Anima» infusagli dal Demiurgo, che impregna il cosmo e gli dà vitalità generale (Timeo, 34 b). ^ Leibniz, Monadologia, 1714. ^ Schelling, Bruno, ovvero il principio divino e naturale delle cose (1802), dove egli recupera il concetto neoplatonico di Weltseele o «Anima del mondo». ^ Gaetano Macchiaroli, Giacomo Leopardi, Napoli, Biblioteca Nazionale, 1987, p. 371. ^ Bergson, L'Evolution créatrice, 1907. ^ Espressione composta da un termine grecoall'accusativo (encheiresin) ed uno latino, che significa letteralmente «manipolazione della natura», con cui in ambito accademico si indicava l'assemblaggio di componenti biologiche nel tentativo di formare un organismo vivente (Hugo Von Hofmannsthal, The Whole Difference: Selected Writings of Hugo von Hofmannsthal, pag. 499, a cura di J.D. McClatchy, Princeton University Press, 2008). ^ Pierre Teilhard de Chardin, L'avvenire dell'uomo[1959], Il Saggiatore, Milano 1972. ^ Dizionario di filosofia Treccani. BibliografiaModifica Luigino Zarmati, Il vitalismo. L'esaltazione della vita nell'opera di Friedrich Nietzsche e di Gabriele D'Annunzio, Leonardo da Vinci editore, 2001 ISBN 8888926011. Gertrud Hvidberg-hansen, The Spirit of Vitalism, Intl Specialized Book Service Inc, 2010 ISBN 8763531348. Lelia Pozzi D'Amico, Medicina e metafisica, Nuovi Autori, 2008 ISBN 8875683301. Enrico Marabini, La singolarità dei sistemi animati. Riflessioni e confutazioni sul problema del neovitalismo, Il Pavone, 2008. ISBN 8895299329. Georges Canguilhem, La conoscenza della vita, prefazione di Antonio Santucci, Il Mulino, 1976. Scott Lash, Life (Vitalism), Theory, Culture and Society, 23.2-3 (2006). Voci correlateModifica Animismo Evoluzionismo (scienze etno-antropologiche) Henri Bergson Collegamenti esterni                                           Modifica vitalismo, in Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2009. Modifica su Wikidata vitalìsmo, su sapere.it, De Agostini. Modifica su Wikidata Controllo di autoritàThesaurus BNCF 12148   Portale Filosofia: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di filosofia Ultima modifica 1 anno fa di Trottapiano PAGINE CORRELATE Pierre Teilhard de Chardin gesuita, filosofo e paleontologo francese  Pensiero di Teilhard de Chardin Dannunzianes  l'anima     L' ultimo libretto del nostro filosofo, che dal  suo stesso nome ci pervenne intitolato « Fracasto-  rius sive de Anima, » dovrebbe essere quasi la  sintesi de' precedenti ragionamenti da lui tenuti  intorno all'intellezione. Ed invero fu a suo  luogo notato come intendimento del nostro Au-  tore era di risalire daile estrinsecazioni del  pensiero alla sua stessa sorgente, e dalle facoltà  dell'anima, prima fra le quali la intellettiva, e  dagli atti loro, alla stessa propria natura del-  l' anima razionale. Cammino inverso a quello  che si era tenuto e si teneva comunemente nelle  scuole, dove, da definizioni astratte dell'anima.     GIROLAMO FRACASTORO 219   come dall' entelecheia d'Aristotele, si faceva di-  scendere e si credeva di potere spiegare i singoli  fenomeni; ma appunto perciò abbiamo annoverato  il Fracastoro fra i primi filosofi del rinascimento,  avendo egli avuto chiara coscienza della necessità  di procedere a posteriori anche ne' più ardui  problemi della filosofia, della quale in tal guisa  preannunziò il rinnovamento . Nel suo libro  dell' Anima adunque si dovevano raccogliere  1 supremi sforzi dell' acume filosofico del Fraca-  storo, e tuttavia per talune ragioni che or ver-  remo esponendo, questo libretto rimane inferiore  all' aspettazione del lettore, e forse al concetto  stesso che aveva guidato l' autore nel comporlo.     II.   In primo luogo il dialogo è rimasto incom-  piuto perchè F autore, che da tanti anni vi me-  ditava sopra, fu prevenuto dalla morte. E per  quanto si possa credere che in confronto del-  l' ampio svolgimento dato al libro dell' Intelle-  zione^ questo sull' Anima avrebbe dovuto avere  un corrispondente e proporzionato sviluppo, in  ragione della più alta gravità e difficoltà della  materia, è tuttavia un libretto di non molte     220 CAPITOLO OTTAVO   pagine quello clie ci è pervenuto, e che si trova  impresso nella raccolta delle opere Fracastoriane.   In secondo luogo la dottrina dell' anima  è in questo dialogo trattata limitatamente , e  quasi esclusivamente rispetto alla controversia  dell' immortalità. E' ben vero che il Fracastoro  cerca sin dal principio di sollevarsi sino ad af-  ferrare la « quiddità » dell' anima, però assai  brevemente, e di leggieri si scorge che non è  questo, almeno in tal luogo, il fine principale  a cui mira. Notissima è la contesa suscitata a  quel tempo dal Pomponazzi intorno alla immor-  talità, da lui filosoficamente negata, cristiana-  mente creduta, non diremmo tanto per la  consapevolezza del pericolo, quanto per quello  strano contrasto che accompagna le più ardite  ribellioni di uomini usciti allora dal dominio  della teologia. Il che tuttavia non tolse che al  Pomponazzi stesso da taluno si facesse intendere  eh' egli, ammessa per buona la sua credenza  come cristiano,, poteva essere arso soltanto come  filosofo. La dottrina del maestro ebbe contraddi-  tori fra i suoi stessi discepoli. Primo fra questi  il Contarini, uomo di chiesa, la confutò, dicendola  sospetta di ateismo; nè alcuno si attenderebbe  che il Fracastoro, uomo religioso, e medico del  Concilio di Trento, avesse a difenderla. Ciò non     GIROLAMO FRACASTORO 221   ostcante è errata l'opinione di coloro i quali  credettero, come riferisce pure l'anonimo scrit-  tore della vita del Fracastoro, che questi com-  ponesse il suo dialogo « adversus insana non  minufi quam impia Pomponatii praeceptoris pla-  cita » (pag. 8). Queste parole ci fanno sentire  r acrimonia dell' animo nei contradditori del  Pomponazzi, ma tale non è verso di lui l'animo  del Fracastoro, il quale si sforza bensì di con-  fermare l'immortalità, ma senza parola di ran-  core contro di alcuno, anzi senza mai nominare  il Pomponazzi, e senza quasi mostrar di cono-  scere le obiezioni da esso addotte. Il dialogo  poi fu pubblicato soltanto molti anni dopo la  morte del filosofo mantovano, onde anche per  questo rimane del tutto escluso che 1' opera  fracastoriana potesse avere un fine personale e  polemico. Con tutto ciò egli è certo che il fine  apologetico della difesa del dogma la vince ,  nel nostro autore, sulla discussione schiettamente  filosofica; e l'aver egli ristretto un argomento  sì vasto pressoché a questa sola questione , to-  glie oggi naturalmente al dialogo originalità  ed efficacia.   In terzo luogo, ed è logica e necessaria con-  seguenza di quanto finora si è osservato , la  forma stessa del dialogo diviene piuttosto let-     222     CAPITOLO OTTAVO     terapia che filosofica e si abbandona a poetiche  concezioni, invece di conservarsi strettamente  raziocinativa e dialettica , quale appariva nel  dialogo della « Intellezione. » Sente il nostro  autore che la quistione dell' immortalità sfugge  propriamente all' indagine della ragione , on-  d' egli vi sostituisce la poesia e il sentimento,  per quanto siano questi pure lati assai ragguar-  devoli dell' animo e del pensiero umano. Non-  dimeno quello che nel caso nostro più importa  notare, si è che ciò facendo il Fracastoro non  pretende ancora assoggettare la ragione al dogma,  siccome era avvenuto per tutto il medio evo,  ma francamente riconosce che in quistioni di  tal natura non si può procedere col rigore del  ragionamento filosofico, in guisa che non s'abbia  ad accettare se non quello che sia stato rigoro-  samente dimostrato, come volevano le antiche  scuole degli stoici e dei peripatetici : « Deinde...  et duritiem severitatemque illam vel stoicam vel  etiam peripateticam exuamus, ut nihil velimus  admittere nisi quod iis rationihus assertum com-  prohatumque fuerit quas comprobativas consue-  vimus appellare. In omnibus enim illas expe-  tere iniustum profecto est » (pag. 207). Queste  parole ci sembrano per vero molto notevoli. Se  le prendiamo alla lettera, in esse il Fracastoro     GIROLAMO FRACASTORO 223     ci apparisce, come filosofo, inferiore a sè stesso,  e verrà il Descartes a ristabilire come legge  essenziale del metodo quel medesimo rigore  dimostrativo che stoici e peripapetici avevano  voluto. Tuttavia conviene ben rilevare come  anche in cotesto il nostro Autore, pur soste-  nendo una tesi opposta a quella del Pompo-  nazzi, sa ben distinguere, come questi aveva  insegnato a fare, ciò che può esser soggetto di  razionali dimostrazioni, e ciò che, non potendo  esserlo, va piuttosto confidato al sentimento ed  alla fede. Non v' è più qui la formula medio-  evale « intellectus quaerens fidem ; » e nemmeno  Taltra « /ides quaerens intellectum », ed in cote-  sta distinzione che assegna un campo separato  alla filosofia e alla fede, pur entrambe neces-  sarie a soddisfare un'imperiosa esigenza psico-  logica, tutti sanno che fu il principio di un  salutare rinnovamento oltreché scientifico, altresì  morale e civile.     III.   Del rimanente non è a dimenticare che  al tempo del Fracastoro quasi tutte le specu-  lazioni e discussioni che si facevano intorno     224     CAPITOLO OTTAVO     all' anima , aggiravansi principalmente intorno  all'immortalità. Ogni secolo discute quei pro-  blemi che più lo interessano, e non è a mera-  vigliarsi che in un' epoca in cui ridestavansi  i nomi e i ricordi gloriosi di antiche scuole  filosofiche, in cui si rinnovellavano le forme  letterarie ed artistiche dell' antica civiltà greca  e romana , si cercasse con ansia profonda in  quei ricordi, presso quei letterati, nei libri di quei  filosofi, la conferma o la liberazione da quei  dogmi che per secoli avevano occupato le menti  di ognuno. Così avviene che di tutta la psicologia  di Aristotele, la sua dottrina intorno alla doppia  natura del Noo, da cui sembrava potersi con-  chiudere, rispetto all'anima, ora che ella è, ora  che non è mortale, era stata fra le altre parti  della sua dottrina la più dibattuta da commen-  tatori e filosofi ; è i nomi stessi di aristotelismo  e di platonismo si prendevano ormai come in-  segne di guerra, secondochè si mirava ad oppu-  gnare 0 a difendere 1 dogmi cristiani. Indi le  guerre tra aristotelici ed antiaristotelici; e tra  gli aristotelici stessi gli uni si sforzavano an-  cora di tirare le dottrine del maestro, come  avea fatto la scolastica, a razionale dimostra-  zione di rispettate credenze, gli altri invece  francamente vi si ribellavano, ma tutti facevano     GIROLAMO FRACASTORO     225     segno de' loro studi più assidui quei luoghi  d'Aristotele che più da presso si riferivano  alle supreme quistioni del loro tempo. Ed ecco  perchè anche la psicologia del Pomponazzi si  svolge principalissimamente intorno all'immor-  talità , come pure intorno alla stessa quistione  si agitano, pressoché esclusivamente, tutti i  suoi contraddittori o sostenitori, come il Nifo,  il Contarini, il Fracastoro, l'Achillini, il Porzio,  il Zabarella infìno al Cremonini e al Cesalpino ;  e in generale tutti coloro che più o meno par-  tecipando al moto impresso dal Pomponazzi,  svolsero o rifecero, sulle tracce d' Aristotele, la  psicologia del Rinascimento.     IV,   Premesse le quali- cose, veniamo ora a più  particolareggiato esame di questo dialogo del  Fracastoro. Sono i medesimi personaggi che  avevano si dottamente ragionato dell'intellezione,  i quali ora prendono parte alia nuova discussione  intorno all' anima, ed incomincia a parlare il  Fracastoro, protagonista del dialogo. Pel cui svol-  gimento, quasi dramma intellettivo, l'autore non   IS     226 CAPITOLO OTTAVO   manca in prima di tratteggiare la mirabile  scena naturale ove egli e i su oi compagni si tro-  vano, al cospetto di tante bellezze naturali di  acque, di monti, di luoghi boscosi ; e tutto ciò  risuscita in loro l' immagine degli antichi filo-  sofi greci, che contemplando la viva natura  s' ispiravano alle sublimi loro speculazioni. Tal-  ché pieno dei ricordi e delle idee greche, il Fra-  castoro che sin dal principio cita Teofrasto per  la somiglianza del luogo ove egli ed i suol amici  erano radunati con altro luogo da quello de-  scritto nell'Arcadia, così soggiunge: « De anima...  nostra cum sinais haUturi sermonem^ in qiiam  videtur musica latentem nescio quam vim et  consensum habere, apte quidem fiet si aliquan-  tis per nunc ecccitetur in noUs. » Ed alcuni carmi  cantati dal solito garzonetto, accompagnati dal  suono della cetra, danno l' ispirazione e l' in-  tonazione del dialogo. Perocché in tali versi  si canta del felice giovine che rapito da Giove  e dato per compagno ad Ebe, cambia la terrena  dimora con V eterna giovinezza dell' Olimpo.   Questo congiungere insieme la poesia e la  filosofia (pur tenuto fermo quanto sopra abbiam  detto sulle diverse e talora opposte ragioni  della scienza e dell ' arte ) è uno dei feno-  meni a mio giudizio più ragguardevoli che     GIROLAMO FRACASTORO 227   SÌ manifestano in taluni dei più grandi inge-  gni dei Rinascimento, compreso il Bruno stesso  che sì altamente e filosoficamente poetava. In-  vero r Italia era allora tutto un popolo di  artisti ; e dell' arte si facevano ben sovente  ispiratori e maestri i filosofi. Tal fenomeno me-  riterebbe un più lungo studio, che qui non è  il luogo nemmen di accennare, perchè troppo  ci allontanerebbe dal nostro fine principale ;  però piacemi almeno di riferire un saggio della  poesia filosofica del Fracastoro, osservando che  se allora ì' arte e l' ispirazione del sentimento  tenevano il luogo delle dimostrazioni filosofiche,  ben potremmo augurarci che oggi all'inverso,  di tanto mutati i tempi, la filosofia e la scienza  valessero a dar vita ad un' arte e ad una poesia  nuova, quando tutti oggi sono concordi a lamen-  tare la decadenza della poesia e dell'arte. Eceo  ora la poetica finzione del Fracastoro :   Ne timeas, Troiane fiier, quod in ardua tantum  Tolleris a terra: quod rostro atque unguihus uncis  Te complexa ferox volncris per inania portai.   Audisti ne unquam sublimis nomen Olympi ?  Audisti ne Jovis, tonitru, qui fulmina torquet ?. . . .   nie ego sum, non haee te volucris, sed Juppiter est, qui  Haud praeda captus, diari sed amore nepotis  In summum amplexu innocuo te portai Oìympum.     228     CAPITOLO OTTAVO     Astra ubi tot spedare soìes, uhi pulcher oUt Sol  Oi-tusque occasusque siios, ubi candida noctes  Currit Luna nitens, auroram Lucifer anteit.   Hic ego te in numero superum domibusque Deorum,  Ver ubi perpetuum, felix ubi degitur aetas  Aeterna et semper viridis floreìisriiie iuventa,  Consistam, aequalemque annis pubcntibus ITeben  Officioque dabo comitem   .Pone metum, dilecte Jovi, melioraque longe  Frospiciens, charam pucr obliviscere Troiani ;  Neve Deim te iam et divorum regna petentem  lilla canum, aut Idae nemorosae cum sequatur.     Y.   Tale dunque è la poetica introduzione al  trattato dell' anima. Ma l' autore entra subito  in materia, e ricerca intorno all'anima due cose :  quale ella sia « qualis nam sit^ » cioè s' ella  sia eterna ed immortale o no; e che cosa sia  « quid sit, » cioè la stessa sua natura. Con  rapida analisi egli raccoglie tutti gli elementi  che la riflessione filosofica scorge nel concetto  che tutti possiedono dell' anima, intesa co-  me principio della vita , e che da Aristotele  erano stati cosi ampiamente dibattuti e venti-  lati. Percorre tutti i gradi della vita, e non  si ferma all' antica distinzione delle specie di  anime che corrispondono alle celebri facoltà     GIROLAMO FRACASTORO     229     aristoteliche di nutrizione, sensibilità, locomo-  zione, intelligenza, pur fra loro concatenate in  modo che non sia possibile la funzione superiore  se non siano state prima attuate le funzioni in-  feriori; ma sviluppa inoltre il principio stesso  della vita, separandolo, più distintamente forse  che non avesse fatto lo stesso Aristotele, dalle  varie operazioni, procedenti da altre cause, che  concorrono a manifestarlo. In ciò la sua espe-  rienza di medico e 1' erudizione eh' egli posse-  deva delle dottrine vitalistiche e animistiche  emesse da fisici e medici insigni, come Andro-  nico e G-aleno, ch'egli ricorda, lo pongono in  grado di meglio determinare il principio stesso  della vita, procedendo per eliminazione di tutto  quanto apparisca insufficiente a spiegare una  forza 0 potenza di tanto mirabile efficacia. Così  egli esclude che bastino a dar ragione della vita  la naturai complessione delle parti d'un corpo  organico, considerando quelle piuttosto come  strumenti indispensabili che come vera ed intima  causa ; esclude quella temperatura o mescolanza  di umori e queir armonia o consenso delle mem-  bra su cui pur tanto si erano fermati gli  antichi, scorgendo in tutto ciò piuttosto un rap-  porto da cosa a cosa, che un principio unico  ed attivo delle operazioni • esclude infine quegli     230 CAPITOLO OTTAVO   Spiriti che eia altri fiiron cliiamati vitali, o il  calor naturale, parendogli questi cosa ben dif-  ferente da ciò che è propriamente forza vivente  e pensante. Ma allora che cosa è 1' anima, come  principio della vita, sia vegetativa, sia sensitiva^  sia intellettiva ? E qui il Fracastoro torna esat-  tamente ad Aristotele, la cui celebre definizione  dell' anima, fu ripetuta per tutto il medio evo,  ed in tutto il periodo del rinascimento, « nè an-  cora, al dire del Fiorentino, se n' è potuta esco-  gitare una migliore » (Pomponazzi, pag. 26.)  A dir vero, quella stessa definizione aristotelica,  essere cioè V anima V entelechia prima di un  corpo fisico, organico, che ha la vita in potenza,  non era forse la più persuasiva, a cagione del-  l' oscurità di queir entelecheia che ha dato luogo  a tante discussioni e interpretazioni ; tuttavia il  Fracastoro si adopera per illustrarla, e la esplica  coi concetti di forma sostanziale e di atto mo-  tore, e poi di forza organizzatrice ; dei quali  i primi due erano il risultato delle teorie ari-  stoteliche, il terzo dovea essere il punto di  partenza delle nuove speculazioni che si vennero  svolgendo per tutta la filosofia moderna, dallo  spirito puro cartesiano sino alla monade Leibni-  ziana :«.... Aristoteles quidem volens animae  naturam et rationem eocplicare^ entelechiam     GIROLAMO FRACASTORO 231   vocavìt , qiiam alii agitationem continuam, alìi  actum transtulere : est ennn anima propria  forma corporis organici, naturalis, viventis sed   QUATENUS INFLUIT VIM ET AGITATIONEM IN TOTUM!   prìmuin enim tum esse dat, tum conservationem  continuam ; per ipsam deinde fiunt attractiones  similiiim, aggenerationes, et alimenta qualitates  in virtute illius alter ant , miscent , collocante  formant, figttrant . . . . et tandem progressìones  animalium , generationes semìnum , et demum  similium organizationes : quae omnia fiunt in  virtute animae et formae per eam vim quam  a mundi anima ed a Beo certam et nunquam  errantem recepit » (pag. 209).   VI.   Non si poteva concepire in una forma più  elevata e universale questa forza efFettrice della  vita, qualunque essa siasi (dacché la sua essenza  ci sfugge, come ci sfuggono tutte le ultime  ragioni delle cose) ; ne la dottrina di Aristotele  poteva avere un più chiaro e sincero interprete.  Ancora è da notare come il Fracastoro, da buon  naturalista eh' egli era, presente qui l' unità  della vita nell' universo, ma riferendo 1' anim<a     232     CAPITOLO OTTAVO     dell' uomo all' anima del mondo ed a Dio, non  conclude in favore di un assoluto panteismo, idea-  le 0 materiale , eh' era pure stato il retaggio  di alcune scuole antiche, ne partecipa a quelle  fantastiche animazioni che si riscontrano, come  altrove notammo, in alcuni filosofi del rinasci-  mento ; bensì la stessa sua sobrietà e temperanza^  che anche altrove abbiamo avuto occasione di  porre in rilievo^ lo trattiene dal trascendere ad  affermare quanto non fosse il semplice bisogno di  concepire la natura come un tutto organizzato e  vivente. Il quale bisogno fu pure altamente  sentito in tutto il Kinascimento. Ma se si con-  fronti questa semplicità e diremmo quasi buon  senso del Fracastoro, con le stravaganze che  intorno all'anima del mondo ebbe dichiarato  Cornelio Agrippa nei libri « De Occulta Philo-  sophia ; » con le cose astruse e sottili che sì leg-  gono nella « Pampsychia » del Patrizzi, nel  « De SuUitilite » Cardano, nel « Messaggero »  del Tasso ; e in fine con le idee trascendenti  enunciate nei libri « De Causa » e nella « Cena  delle Ceneri » del Bruno e nel «• De sensu re-  rum et Magia » del Campanella, si vedrà quanto  l'azione moderatrice del Fracastoro fosse oppor-  tuna per volgere senza scosse la filosofia del suo  tempo dal formalismo d'Aristotele al naturalismo  de' nuovi tempi.     GIROLAMO FRACASTORO 283   Però la definizione aristotelica dell'anima  abbracciata dal Fracastoro non risolve una difl5-  coltà, anzi una contraddizione sostanziale che qui  sorge improvvisa. L'anima, essendo per Aristotele  forma sostanziale del corpo è indisgiungibile da  questo, come egli ebbe risolutamente affermato  in più luoghi, e segnatamente in quello notis-  simo del Lib. II cap. 1 § 12 «De Anima. » Ne  perciò Aristotele ebbe anco il pensiero di voler  indagare la possibilità di un' esistenza separata  dell' anima. In tutto il suo sistema materia  e forma costituiscono nella realtà una sola cosa,  entrambe sono egualmente necessarie ed inse-  parabili, essendo la materia la potenza della  forma, e la forma atto della materia, talché dove  è materia è forma, e dove è forma è altresì  materia. Tuttavia questa unione e compattezza  della materia e della forma, che costituisce uno  dei cardini del sistema aristotelico, vien rotta  allorché dalla realtà applicata al conoscimento,  deve la teorica d' Aristotele adattarsi a spiegare  il modo con cui si effettua in noi la cognizione,  mediante la stessa materia e la stessa forma.   Invero la materia, secondo la teoria eredi-  tata da Platone , e che non pertanto torna  meno sostenibile nel sistema aristotelico, è in-  definita 0 indeterminatissima, perciò ella è     284     CAPITOLO OTTAVO     inconoscibile in sè stessa, come vlen dichiarato  nella metafisica. La cognizione invece è data  dalla forma; vi è però in questo una intrin-  seca difiìcoltà , perchè la forma educendosi  dalla potenza della materia, parrebbe che la  inconoscibilità di questa dovesse rendere meno  accettevole la conoscibilità di questa. La diffi-  coltà si aggrava quando la materia e la forma  si considerino in quei due termini estremi di  tutta la nostra conoscenza che sono l' individuo  e r universale. Questi due termini rimangono  inconciliabili nel sistema d' Aristotele, e dì qua  la prima sorgente di tutte le opposte direzioni  date alle varie parti della sua dottrina, alle  quali questo primo principio, per la stessa com-  pattezza del sistema, generalmente si distende.  Invero l' individuo è sensibile, V universale è  intelligibile, secondo la teorica fondamentale  d'Aristotele che pure altrove abbiamo richia-  mata ; intanto l' individuo che dovrebbe parte-  cipare della inconoscibilità della materia , è  tuttavia per lui il sinolo di una materia e di  una forma, ma partecipa di più della incono-  scibilità della materia a cui è più vicino ; l'uni-  versale invece nella sua massima forma rimane  assoluta conoscenza, ossia pura forma, senza  mistione alcuna di materia, cioè Dio. Li tal     GIROLAMO FRACASTORO 235   guisa si viene a separare per la prima volta la  materia dalla forma, dappoiché è manifesto che  mentre tutte le altre forme^ eccetto la massima^  si compenetrano nella materia, rispetto alla no-  stra conoscenza si ammette una forma pura  che viene ad essere per così dire divorziata  dalla materia.   E' questa veramente una contraddizione del  sistema d'Aristotele, la quale chi ben consideri^  non va attribuita a difetto del genio smisurato  di lui, ma accusa piuttosto una di quelle intime  ripugnanze che si ritrovano in fondo a tutte  le analisi più profonde del pensiero metafisico,  e che avrebbe dato luogo più tardi alla nega-  zione del principio di causa per parte dell'Hume,  e al riconoscimento di quelle intrinseche anti-  nomie le quali dovevano essere messe in evi-  denza dall' acutissima mente del Kant nella  critica della ragion pura. Ora questa stessa con-  traddizione trasportata per necessaria conse-  guenza di sistema nella investigazione della  natura dell'anima, dà luogo alla strana ambi-  guità di Aristotele intorno alla immortalità ed  alle controversie infinite che ne derivarono. Pe-  rocché mentre dalla definizione sopra riferita  dell'anima dovea dedursi che questa non essendo  disgiungibile dal corpo non potesse avere una     286     CAPITOLO OTTAVO     esistenza separata, e perciò dovesse dileguarsi  e perire, clie dir si voglia, al morire o disfarsi  del corpo, ecco invece che vien dicliiarata ad  un tratto capace di separata esistenza, e perciò  immortale. Ciò è chiaramente detto da Aristotele  in altro luogo pur celeberrimo del IT. libro  « De Anima » ove è detto che /' intelletto e la  potenza pensante senibra essere un altro genere  di aniìna e questa sola potersi dare che sia se-  parata, come V eterno dal perituro (cap. 2 § 9).  Adunque, stando alla antecedente definizione  dell' anima (che pare dovea comprendere tutti  i generi di anime) anche l' intellettiva avrebbe  dovuto concludersi mortale ; ma giunto a questo  Aristotele si arresta, e ripigliando il cammino  dalla teorica della conoscenza e dalla forma  pura, come sovra V abbiamo esposta, che si può  concepire separata dalla materia, conclude che  si può dare, èvSéxexat, anche un'intelligenza se-  parata, e perciò immortale. Questa conclusione  sembra tanto più inaspettata inquantochè egli  aveva fatto scaturire 1' anima intellettiva dalle  potenze inferiori ; allo stesso modo che tutte le  forme erano implicate nella materia ; e tuttavia  non ostante l' antinomia delle parti, egli è in  fondo coerente all' insieme del suo sistema, per-  chè l'intelletto che si dice ora separato vien     GIROLAMO FRACASTORO 237   fuori in forza di quel medesimo ragionamento  che, nel processo conoscitivo dall' individuo al-  l'universale, gli avea fatto concepire la possibilità  di una forma pura separata da ogni materia  che spiegasse 1' universale. Tale per sommi capi  è la teorica di Aristotele che qui ci siamo sfor-  zati di ridurre alla suprema possibile chiarezza  traendola fuori dal viluppo delle ragioni opposte,  specialmente de' commentatori , e mostrandola  come un prodotto logico del suo sistema. Nè  bisogna dimenticare inoltre che in tutta cotesta  controversia Aristotele stesso non è abbastanza  esplicito, e ciò diede luogo ai commenti infiniti  degli espositori.   VII.   G-li aristotelici avevano dunque un bel di-  battersi fra queste due opposte conclusioni ; il  problema era insolubile. Invero tanto potevano  aver ragione coloro che avrebbero voluto sfor-  zare Aristotele ad esser logico fino in fondo,  traendo dall' inseparabilità dell' anima dal corpo  la prova della mortalità della medesima, tanto  coloro che dalla forma e dall' intelletto separato  concludevano per l' immortalità. Ed è cosa nota     CAPITOLO OTTAVO     nella storia che mentre i Dottori delle scuole  stavano per questa sentenza, quasi tutti i com-  mentatori non scolastici, e Alessandristi e Averroi-  sti, conchiudevano per la prima opinione, anche  prescindendo dalla dottrina dell' intelletto sepa-  rato come contraria alla definizione generale  dell' anima. Il vero si è che cotesti erano sol-  tanto ragionamenti a priori^ nè la natura del-  l' argomento ammetteva la possibilità di quella  esperienza che ormai da tante parti , e dal  Fracastoro stesso, si contrapponeva alle astratte  speculazioni. Bisognava dunque contentarsi di  queste o abbandonare la controversia. Tuttavia  notammo già che il problema s' impone, alla  umana coscienza e non è di quelli che special-  mente in un tempo in cui sì gran parte dell'edificio  morale e civile e religioso riposava su di esso,  avrebbero potuto evitarsi. Se il sistema d'Aristo-  tele era impotente a risolvere un siffatto problema  bisognava sciogliersi dal sistema, ed allora a che  affidarsi ? La quistione, come altrove notammo,  era stata ben posta dal Pomponazzi , la cui  dottrina ci piace qui riassumere con le cospicue  parole del Ferri nella altre volte citata sua  Opera : « Se volete, dice essa, una dimostrazione  dell' immortalità, la filosofia non ve la dà, nè  ve la può dare ; ammessa invece la verità rive-     GIROLAMO FRACASTORO     239     lata, la religione ve la fornisce, domane! alela  ad essa » (pag. 219). Ora, il Fracastoro come  si comporta ? Egli è, a nostro avviso seguace  giudizioso del suo Maestro, perchè è ben vero  che egli difende V immortalità la quale il Pom-  ponazzi fllosoflcamente impugnava, ma sentendo  r insufiScenza de' ragionamenti filosofici, franca-  mente ricorre a quella religione stessa che pure  il Pomponazzi aveva additata. Infatti, oltre a  quanto fu già rilevato in principio, ch'egli non  prometteva dimostrazioni filosoficamente rigo-  rose ; qui, dopo percorse e ripetute le ragi oni  d'Aristotele secondo la interpretazione scolastica,  assai modestamente e quasi dubitativamente  conchiude esser là tutto quella che sembravagli  potersi addurre in favore della sua tesi: « atque  haec quidem sicnt quae de perìpateticorwn penu  ediici posse videntur.... ; » Di più confessa an-  cora per bocca del suo interlocutore, che non  poche cose potrebbero tuttavia revocarsi in  dubbio : « Non panca certe sunt quae si conten-  tiosi esse velimus possint adirne in diihium  verti » (pag. 215). Ond' egli da questo punto  abbandona addirittura il campo della filosofia  per entrare in quello della teologia, e quando  viene a parlare, pur tentando di risolvere quei     240     CAPITOLO OTTAVO     dubbi, di Dio e dei fini della creazione, così  dell' uomo , come di questa meravigliosa mac-  china mondana ; e di poi della beatitudine degli  angeli, della generazione del Cristo, della vita  e dello spirito dei santi (pag. 209 e passijn) egli  manifestamente non parla più come filosofo ma  soltanto secondo religione, e non fa nè può  far altro che ripetere le argomentazioni dei  teologanti ; nelle quali, come è giusto, noi in-  competenti non lo seguiremo.     XIII.     Non di meno l' interpretazione che il Fra-  castoro dà alle dottrine di Aristotele, ci porge  argomento di esaminare alcun' altra cosa che  non è senza importanza per rispetto alla storia  della filosofia e in particolare dell'Aristotelismo  nel rinascimento. L'entelecheia d'Aristotele, oltre  alle altre discussioni, aveva dato luogo a dubbi  intorno all'unità dell'anima e del corpo umano ;  perocché, si diceva, se 1' anima è 1' atto e la  forma del corpo organico, naturale, vivente,  secondo le parole dello Stagirita, essendo co-  testo corpo organico non vera unità, riunione  di più membra tanto diverse quanto sono le     GIROLAMO FRACASTORO     241     ossa dai muscoli, dai nervi, dalle vene, e così  di seguito, come può l'anima essere una forma  unica applicandosi a forme tanto diverse ? E qui  l'acume de'commentatori d'Aristotele si era assai  ingegnato di trar fuori 1' unità dell' anima, in-  colume, e quale è attestata dalla coscienza, dalla  molteplice varietà delle forme corporee di cui  doveva essere l'atto e la vita. Gli uni avean  detto che l' unità dell' anima dee intendersi  soltanto w genere, pur differendo le membra  nelle specie; come più animali, ad esempio  r uomo, il cavallo, il bue, costituiscono un ge-  nere unico, differenti ssimi rimanendo nella spe-  cie : dove ognun vede che, se così fosse, l'unità  dell' anima sarebbe fondata soltanto sopra un  concetto mentale; ma realmente nient' altro  sarebbe che un' astrazione eduna chimera. Altri  poi dicevano che in ogni corpo organico vi è  sempre una parte che è principale rispetto alle  altre, anzi queste son fatte per quella e gover-  nate da quella, onde 1' anima non è necessario  che si intenda esser una rispetto a tutte le parti  del corpo, ma soltanto rispetto a quella che è  la principale, e così 1' anima è unico atto od  unica forma di un' unica organica potenza,- la  quale ha virtù di dare la vita al tutto. Questa  risoluzione sembra al Fracastoro più vicina alla     242 CAPITOLO OTTAVO   verità del nesso fisiologico che è fra le membra^  e Clelia loro subordinazione: tuttavia non lo  ai)paga compiutamente^ e ci sembra notevole ii  principio che egli ora introduce per definire la  controversia. Anche le parti principali, die' egli  con profonda dottrina e con acuto spirito di  osservazione, sono parecchie, onde 1' unità non  può risultare dal solo fatto che una di esse è  la principale. Ma da che cosa risulterà dunque?  Balla loro continuità, egli rlice, perchè ogni  xmità non sì può altrimenti intendere che come  continuità; « Principale» siquidem partes, quam-  quam plures sint, fiuntper continuationem unum:   OMNE ENIM CONTINUUM EST UNUM » (pag. 209   verso). Questo principio ci pare notevole perchè  fa presentire V analisi profonda che del concetto  di unità fu fatto da filosofi posteriori sino allo  Spencer, il quale ne' « Primi principi » svilup-  pando il concetto che è già cosi chiaro nel  Fracastoro, dimostra che (.gni unità è continuità  di parti,, perchè 1' assolutamente uno è impen-  sabile. E se il Fracastoro avesse sostituito alla  continuità delle parti del corpo organico la con-  tinuità degli stati di coscienza (e ognun sente  il nesso . logico che dovea condurre da quella  a questa) avrebbe posto una delle pietre ango-  lari della psicologia moderna. La quale, come     GIROlAMO FRACASTORO     243     ognun sa, si è costituito per proprio oggetto  appunto r esame della successione di quegli  stati, di cui il processo cerebrale e le parti orga-  niche sono la causa occasionale, mentre la co-  scienza n'è il legame indispensabile ; e dall'analisi  descrittiva di tali stati di coscienza, dal più  semplice al più complesso, fa scaturire quella  grande unità che è la nota più caratteristica  nella natura e nella vita dello spirito.     XI.   Altro punto importante della psicologia fra-  eastoriana ci sembra quello ove, pur mantenendo  assoluta la diversità dell'intelletto dalla materia,  riaccosta tuttavia l'uno all'altra, per dimo-  strare come l' incorruttibilità del primo non dee  intendersi altrimenti che quale conservazione  di una energia sostanziale, allo stesso titolo per  cmì si ammette indistruttibile ed eterna la mate-  ria. Nulla si crea e nulla si distrugge, è il prin-  cipio antico, cui ritorna il Fracastoro, dopo le  negazioni alle quali per il falso concetto dell'atto  creativo erano venute la scolastica e la teolo-  gia medioevale. Ma tale principio rimesso in  Qnore anche da altri filosofi e scienziati del     244 CAPITOLO OTTAVO   rinascimento, manifestamente segna un grande  progresso, e già accenna a quella legge univer-  sale e feconda della conservazione e trasforma-  zione dell' energia, che tanta importanza ha  assunto nell'indirizzo e nelle scoperte della  scienza moderna. Non diremo che nelle dottrine  del Fracastoro si giunga sino a questo, e che  ciò possa avere virtù risolutiva rispetto alla  quistione dell' immortalità ; nondimeno ci par  nuovo, bello e fllosoflco il pensiero da cui egli  è guidato, e ci piace rilevarlo : « Procul dubio,  die' egli, idem de intellectu dicendum erit quod  de materia, et utrumque incorruptibile et aeter-  num esse. » E ripete poco stante : « Quare et  incorruptibilem ponere intellectum debemus, et  parem habere cum materia conditionem » (pagi-  na 213 verso). Ed infine ci pare manifesto che  rispetto alla tesi ultima che il Fracastoro . voleva  sostenere, vale a dire V immortalità, egli abbia  inteso come non dall' astrazione o separazione  dell'intelletto dalla materia, (su cui si fondavano  quasi tutti gli altri aristotelici sostenitori dell'im-  mortalità stessa) ma dal loro accomunamento era  lecito dedurre quanto di più filosofico si poteva  dire suir argomento. Onde anche in ciò il Fra-  castoro dà prova così di grande acume d'inge-  gno come di retto criterio filosofico ; ed è forse     GIROLAMO FRACÀSTORO     245     questo il solo punto in cui egli, contrapponendosi  alla dottrina del Pomponazzi, ben si appone,  perocché se non riesce a dare una dimostrazione  della immortalità, che egli stesso abbastanza  esplicitamente ha confessato la filosofia non pò-  ter dare; toglie almeno quella rude contraddi-  zione che non avea dubitato di accogliere il  Pomponazzi, ammettendo potersi credere cristia-  namente quello che filosoficamente avea negato.  Questa massima strana, è tanto inconcepibile,  che fra gli stessi storici della filosofia vi fu chi  stimò non sincero il Pomponazzi come cristiano,  ad esempio il Brucker, il quale scriveva che  ha una fede eroica chi crede sincero l' osse-  quio onde fa mostra il Pomponazzi verso la  religione cristiana; mentre altri invece, come  il Bitter, stimò il Pomponazzi non sincero  0 almeno non coerente o non convinto come  filosofo. Tale incoerenza non sarebbe stata pos-  sibile al Fracastoro, la cui temperanza e il  retto criterio filosofico aveano fatto scorgere  il giusto punto fin dove filosofia e religione  sarebbero andate d'accordo, e al di là del quale  alla religione, non alla filosofia, sarebbe stato  lecito procedere sola. Sola ma non avversa ;  perchè quello che la filosofia avesse dimostrato  assurdo, ninna religione potrebbe mai dare a     246 CAPITOLO OTTAVO   credere, e ciò che si stima verità religiosa  (leve non poter esser dimostrato falso in filosofia.  Ecco perchè il Galilei, impigliato egli pure in  quistioni religiose, doveva affermare più tardi  che « due verità non possono mai contrariarsi ; »  intendendo per tali la verHà filosofica e la re-  ligiosa ; e fii pure il GFalilei quegli che riuscì a  rivendicare totalmente alla filosofia ed alla scien-  za la sua autonomia contro le antiche invasioni  religiose e teologiche. Il Fracastoro adunque,  seguace del Pomponazzi nello sceverare il cri-  terio filosofico dal religioso, è più logico e più  accorto di lui nel non mettere in contraddizione  F uno coir altro, ma piuttosto nel segnare il  confine d^ ambedue. E poiché in filosofia come  in religione e in morale e in politica, tutte le  quistioni più gravi sono principalmente qui-  stioni dì confini, così ci pare notevole che  il Fracastoro abbia colto precisamente quei  punto, in cui trovandosi la religione non con-  traddetta dalla filosofia, e offrendo questa ben  largo campo ad altre ricerche, potevasi at-  tendere ben altro sviluppo da un concetto alta-  mente filosofico , quale era quello dell' energia  sostanziale e della forza, il quale sviluppo si  ebbe di fatto in tutta la filosofia posteriore  fino allo Spinoza e al Kant ed all' Hege).     GIROLAMO FRACÀSTORO     247     Senza caddentrarci più oltre in questo speciale  iirgomento, che eccederebbe i limiti del nostro  studio ed il nostro bisogno, stimiamo opportuno  confortare la nostra opinione con le belle parole  del Ferri, da lui poste come conclusione del suo  sapiente esame intorno alle dottrine psicologiche  del Pomponazzi , e che a noi pare conven-  gano pienamente anche a quelle del Fracastoro :  « Accomunati nella energia, manifestazione della  forza, r anima e il corpo, l' interno e 1' esterno  non sono più estranei 1' uno all' altro. Intesa  secondo questo rapporto la materia, può essere  sede e condizione perpetua della vita e dello  spirito senza contraddizione, e 1' anima umana  può aspirare all' immortalità senza che il feno-  meno sensibile, falsamente trasformato in cosa  sostanziale ed esistente per sè, opponga a que-  sta aspirazione un ostacolo insuperabile » (La  Psicologia del Pomponazzi, in fine).     X.   Molte altre cose avremmo ad aggiungere  intorno a questo Dialogo del Fracastoro se vo-  lessimo per disteso riferirne tutto il contenuto;  ma avvertimmo già che nell' esame degli autori     248 CAPITOLO OTTAVO   ed in argonìento come quello che stiamo trat-  tando, è da cogliere la sostanza delle dottrine,  e in quella parte soltanto che, vivificata da studi  posteriori, poteva esser cagione di nuovi avvia-  menti, e render ragione dei progressi ulte-  riori della scienza. Tutto il resto può essere  abbandonato all' oblio. Nel Fracastoro, se non  ci inganniamo, è manifesta ormai abbastanza,  per quanto si è detto fin qui, la somma delle  sue dottrine suU' anima. L' intelletto umano ,  come complesso di tutta quella varietà di ope-  razioni che erano state da lui dichiarate nel Dia-  logo precedente, è qui raccolto e sintetizzato,  per così dire, in un' entità separata, che ha  qualche cosa di divino, perchè fornita di quella  virtù di pensare che è la suprema manifesta-  zione della vita e dell'ordine dell'universo.  Talché in certo modo tutto è intelletto e tutto  si compendia neir intelletto : « mtellectus omnia   quodammodo fieri potest Si igitur omnia   fieri dehet intelledus, et in potentia esse ad  omnia susceptiUlia, separatimi et aUtractum  necesse est.... » (pag. 214). Tale intelletto sepa-  rato, che è come l' essenza stessa dell' anima  umana a cui è peculiare, a differenza delle  anime belluine o semplicemente vegetative che  ne sono sfornite, fa sì che la stessa anima umana     GIROLAMO FRACASTORO - 249   sia dotata delle virtù che a quello som proprie,  onde l'anima, come l'intelletto, può essere con-  cepita qual forma separata dal corpo, ed essere  pertanto una, non ostante la moltiplicità delle  sue funzioni, ed immortale non ostante il suo  legame col corpo corruttibile. Belle sono inoltre  le parole e le imagini che nel Fracastoro qua  e là ricorrono per armonizzare in un tutto questi  elementi discrepanti che convergono a spiegare"  r intelletto e V anima umana ; e quando , ad  esempio,, esamina, secondo un paragone allora  divulgato, se l' animo si congiunga col corpo  come il nocchiero colla sua nave ; ovvero se sia  tal parte di noi che solo da esso dipenda tutto  r esser nostro : « utrum ille assistat nohis, que-  madmodum nauta, ut aiunt, navi; an magis  nostri sit ita pars, ut esse illud , quod quisque  hahet ab ilio detur {psig. 216 verso); quando  discute in che modo possano stare insieme e  formare un tutto solo, un atto o forma indi-  visibile quale è l' intelletto, e una materia divi-  sibile quale è il corpo : « qiiomodo unum fieri  posse ex indivisibili actii et divisibili materia »  (pag. 219 verso ) ; quando ricerca con grande  sottigliezza il moto proprio dell'anima, e se  questo a lei sia sostanziale o accidentale secondo  le distinzioni aristoteliche, collegando il moto     250 CAPITOLO OTTAVO   di essa e di tutte le cose, coli' iaimagine della  catena omerica che tutto abiuracela e stringe  al primo motore (pag. 221) ; in tutto ciò, dico,  il nostro autore dà prova di grande vigore  speculativo, e se non tutte nuove sono le cose  ch'ei dice, tutte però rivelano in lui una mente  analizzatrice e ricostruttrice, tale da poter stare  al confronto cogl' ingegni più acuti e coi filo-  sofi metafisici più profondi del Rinascimento.  Da ultimo singolarmente importante dovea es-  sere quella parte del suo dialogo in cui dalle  altezze sin qui contemplate dell' anima e del-  l'intelletto umano , partecipazione dell' intelli-  genza divina , e attività originata dal primo  motore, egli intendeva discendere a dimostrare  il naturai principio di tutte le cose, la loro  produzione, origine e perfezione. Ancorcliè in-  volto nel preconcetto antropomorfico che pone  l'uomo quasi centro di tutte le cose «cuius grafia,  egli dice, reliqua alia facta et ordinata fiiere »  (pag. 222 verso) non può disconoscersi che con  mirabile sintesi filosofica egli si prova a riannoda-  re in un solo ordine tutte le cause dei fenomeni  naturali, e descrive la formazione delle cose. Argo-  mento bellissimo che tentò sempre V intelligenza  e la fantasia de' più grandi naturalisti e filosofi.  Certo, non abbracceremmo oggi le idee del Fraca-     GIROLAMO FRACASTORO -OA   storo SU tutte le formazioni naturali ; ma, quello  che è per noi più importante a notare, qui di  nuovo vediamo come accanto al filosofo risorge  in lui lo scienziato. Invero il Pracastoro intra-  prende a descrivere la formazione del sistema  celeste, il numero e la distribuzione delle sfere,  il soffio divino che animò il tutto, e poi man  mano le generazioni e le varietà delle piante^  degli animali, e da ultimo degli uomini, per  mezzo degli elementi naturali, quali il caldo il  freddo, le attrazioni e ripulsioni delle cose. In  tutto ciò il Fracastoro, per quanto pare a noi,  non ragiona come que' filosofi che avevano più  volte architettato a priori, e secondo certe loro  idee preconcette, il sistema della natura, ma  sebbene non alieno egli pure dalle tradizioni  bibliche, fa chiaramente sentire che l' ordine  dell' universo da lui intuito è semplicemente  il risultato delle cognizioni eh' egli mercè F e-  sperienza e con lo studio e l' osservazione di  tutta la sua vita, si era formato in astronomia,  in matematica, in fisica; ed egli in ciò procede  come geologo, come botànico , come medico^  come naturalista, o in una parola come scien-  ziato. Dalle quali cose si ha ancora una volta  confermato come nel rinascimento la parte vitale  delle speculazioni e dei sistemi filosofici fu quella     252 CAPITOLO OTTAVO   eh' ebbe a sostegno lo studio (lei fatti speri-  mentati nella natura, dai quali soltanto gl' in-  gegni più illuminati credevano oramai esser  possibile tentar di spiegare il passaggio dalla ma-  teria informe alle più alte manifestazioni della  vita e dello spirito. Problema immenso, tanto alto  e tanto complesso clie nemmeno ai dì nostri  si può dire di esser vicini al suo scioglimento;  non pertanto se fu almeno, fin dal Rinascimento,  dimostrato qual dovesse essere la via vera per  incamminarvisi, questo è dovuto a coloro che  vollero ritemprata la filosofìa nelle scienze. Ma  questa parte del Dialogo del Fracastoro, che  prometteva essere la sintesi sublime delle sue  cognizioni e delle sue idee filosofiche intorno  alla natura, all'intelletto ed all'anima, non  può se non accendere in noi un desiderio il quale  non può essere soddisfatto, percliè a questo punto  il dialogo stesso è rimasto tronco e interrotto  per la morte dell' autore.Girolamo Fracastoro. Fracastoro. Keywords: dialogo sull’anima, ovvero, il Fracastoro, di Fracastoro. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Fracastoro” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51688440237/in/photolist-2mPtp3t-2mKwLu6

 

Grice e Francesco – corpi – filosofia italiana – Luigi Speranza (Diano Marina). Filosofo. Grice: “I like Francesco; for one, he philosoophised, like I do, on “I” and “We” – ‘first person’, ‘personal identity,’ and so on!” Insegna a Milano e Pavia. Collabora alla pagina culturale del Sole 24 Ore, è stato presidente della Società Italiana di Filosofia Analitica e presidente della European Society for Analytic Philosophy. Altre opere: “La mente” (Mondadori, Milano. Che fine ha fatto l'io?” (Editrice San Raffaele, Milano); “La mente” (Carocci, Roma); “La coscienza” (Laterza, Roma Bar); “L'io e i suoi sé: identità della persona e smente” (Cortina, Milano); “La mente” (Nuova Italia Scientifica, Roma); “Il Realismo Analitico” (Guerini e associati, Milano); “Russell” (Laterza, RomaBari); “Il soggeto communica al altro soggeto di un oggetto: senso e riferimento” (Edizioni Unicopli, Milano); “Sgnificato e riferimento” (Edizioni Unicopli, Milano). Rettore dello Iuss di Pavia.  Corpo (filosofia) concetto filosofico Lingua Segui Modifica Il termine corpo in filosofia ripropone il significato del linguaggio comune intendendo per corpo ogni essere esteso nello spazio e percepibile attraverso i sensi. Le caratteristiche fisiche, biologiche, meccaniche del corpo di cui si è interessata la filosofia ai suoi inizi, sono state poi oggetto dello specifico pensiero scientifico, mentre la storia della filosofia nella sua totalità si è occupata in particolare del rapporto tra anima e corpo.  Filosofia antica                                          Modifica Nella filosofia antica e medioevale possiamo rintracciare due concezioni di questa relazione anima-corpo: la prima risale alla interpretazione orfico-pitagorica secondo la quale il corpo è un'entità di natura completamente diversa e separata rispetto all'anima; teoria questa ripresa da Platone che afferma che il corpo è la "tomba" dell'anima.[1] L'anima, infatti, decaduta dalla sua condizione iniziale di perfezione ideale ed eternità si trova prigioniera in un'entità corruttibile e mortale.  Al pensiero platonico si connettono sia la patristica[2]sia la prima fase della scolastica.[3]  La seconda concezione del rapporto anima-corpo si ritrova in Aristotele che sostiene che le due entità non sono separate ma costituiscono elementi separabili di un'unica sostanza: il corpo è la materia intesa come potenzialità, quella che offre possibilità di sviluppo, l'anima è la forma, la realizzazione di quelle possibilità materiali tramutatesi in attuali. L'anima è la vita che possiede in potenza un corpo. Il corpo cioè è un puro e semplice strumento dell'anima: ma non uno strumento inerte ma tale che possiede «in se stesso il principio del movimento e della quiete»[4]  Filosofia medioevaleModifica Il corpo inteso come strumento dell'anima si ritrova nello stoicismo, nell'epicureismo e nella scolastica: per Tommaso d'Aquino il corpo si dirige a realizzare l'anima e le sue attività razionali allo stesso modo che la materia aspira a realizzare la forma.[5], fino a tendere a diventare parte del Corpo Mistico[6].  Questa concezione del corpo come strumento rispetto all'anima non fu condivisa, nell'ambito della scolastica, dall'agostinismo che vede nel corpo la forma corporeitatis per cui in questo, indipendente dall'anima, vi è sia potenza che atto e l'anima è un'ulteriore sostanza che si aggiunge ad esso.  La filosofia modernaModifica La dipendenza strumentale del corpo rispetto all'anima finisce con Cartesio per il quale corpo e anima sono due sostanze, il primo res extensa, sostanza estesa e non pensante, la seconda, res cogitans, sostanza pensante e non estesa[7]. Tra le due sostanze non vi è alcun nesso causale: il corpo è «come un orologio, o un altro automa (ossia una macchina che si muove da sé).»[8]  La separazione del corpo dall'anima diede origine a dottrine dualistiche e monistiche che cercavano di risolvere il problema del rapporto tra eventi incorporei e corporei.  Tra le concezioni dualistiche la prima è quella cartesiana dell'interazionismo che teorizza uno stretto scambio di azioni tra le due sostanze riducendo così la diversità tra fatti corporei e incorporei fin quasi ad annullarla.  In opposizione a questo dualismo nella seconda metà del XVII secolo per le dottrine dell'occasionalismo di Nicolas Malebranche[9] e di Arnold Geulincx l'anima e il corpo sono unite dalla esistenza di Dio.  Nell'ambito del monismo va inserita la soluzione di Leibniz che vide un parallelismo tra eventi corporei e incorporei connessi non da un rapporto causale ma da un regolare e continuo legame per cui ad ogni evento materiale ne corrisponde uno immateriale secondo un'"armonia prestabilita" tale per cui «i corpi agiscono come se, per impossibile, non esistessero anime; le anime agiscono come se non esistessero i corpi; ed entrambi agiscono come se le une influissero sugli altri»[10]  Tra monismo e pluralismo si colloca la filosofia di Spinoza che concepisce «la mente e il corpo come un solo identico individuo, che è concepito ora sotto l'attributo del pensiero, ora sotto quello dell'estensione»[11] Nell'unica sostanza divina infatti coincidono corpo e anima ossia i due attributi dell'estensione e del pensiero che mantengono però la loro diversità in quanto coincidenti solo in Dio.  Un rigoroso monismo caratterizza invece la filosofia illuministica con le teorie materialiste dell'uomo-macchina di Julien Offray de La Mettrie e Paul Henri Thiry d'Holbach secondo le quali le attività mentali dell'uomo dipendono meccanicamente dal corpo.  Collegato al materialismo settecentesco è in parte la filosofia di Karl Marx secondo il quale i pensieri e i sentimenti dell'uomo scaturiscono dai suoi comportamenti corporei[12]  Intendendo il materialismo in senso diverso da quello marxiano, Friedrich Nietzsche imposta una dottrina esaltante la corporeità in contrapposizione alla metafisica idealistica[13]  La concezione monistica che intende il corpo in senso idealistico annovera: George Berkeley che vede il corpo e ogni realtà materiale come una produzione mentale poiché solo la mente e le sue percezioni sono reali;[14]Arthur Schopenhauer, per cui il corpo è nella sua essenza "volontà di vivere" e gli oggetti materiali semplici oggettivazioni della volontà;[15]Henri Bergson che considera il corpo un semplice strumento dell'azione pratica di una coscienza spirituale[16].  Filosofia contemporaneaModifica Da Schopenhauer e Bergson derivano le concezioni del corpo della fenomenologia e dell'esistenzialismo: per Edmund Husserl attraverso una molteplicità di riduzioni fenomenologiche il corpo viene isolato come esperienza vivente.[17] Concezione condivisa secondo diversi modi da Jean Paul Sartre[18] e Maurice Merleau-Ponty.[19]  NoteModifica ^ Platone, Fedone 66b ^ Origene, De principiis, II, 9, 2 ^ Scoto Eriugena, De divisione naturae, 11, 25 ^ Aristotele, L'anima, II, 1, 412b, 16 ^ San Tommaso d'Aquino, Summa Theologiae, I, q. 91a, 3 ^ Summa Theologiae, questione 8, articolo 3, nei tre possibili gradi della fede, carita' sulla terra e beatitudine del Cielo. ^ Cartesio, Meditazioni metafisiche, 1. 6 ^ Cartesio, Le passioni dell'anima, art.6 ^ N. Malebranche, Dialoghi sulla metafisica e sulla religione, 1, 10 ^ G. W. von Leibniz, Monadologia, par. 81 ^ B. Spinoza, Ethica, II, 21, schol. ^ K. Marx, Ideologia tedesca ^ F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, I, «Gli odiatori del corpo» ^ G. Berkeley, Trattato sui principi della conoscenza umana, par.7 ^ A. Schopenhauer, Mondo, I, par.18 ^ H. Bergson, Materia e memoria, 1896 ^ E. Husserl, Meditazioni cartesiane, par.44 ^ J.-P. Sartre, L'essere e il nulla, 1943 ^ M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, 1945 BibliografiaModifica N. Abbagnano / G. Fornero, Protagonisti e testi della filosofia, 3 voll., Paravia, Torino 1996. F. Cioffi et al., Diàlogos, 3 voll., Bruno Mondadori, Torino 2000. A. Dolci / L. Piana, Da Talete all'esistenzialismo, 3 voll., Trevisini Editore, Milano (rist. 1982). S. Gabbiadini / M. Manzoni, La biblioteca dei filosofi, 3 voll., Marietti Scuola, Milano 1991. S. Moravia, Sommario di storia della filosofia, Le Monnier, Firenze 1994. G. Reale / D. Antiseri, Storia della filosofia, 3 voll., Brescia 1973. C. Sini, I filosofi e le opere, Principato, Milano 1986 (seconda edizione). F. Brezzi, Dizionario dei termini e dei concetti filosofici, Newton Compton, Roma 1995. Centro Studi Filosofici di Gallarate, Dizionario dei filosofi, Sansoni, Firenze 1976. Centro Studi Filosofici di Gallarate, Dizionario delle idee, Sansoni, Firenze 1976. Enciclopedia Garzanti di Filosofia, Garzanti, Milano 1981. E.P. Lamanna / F. Adorno, Dizionario dei termini filosofici, Le Monnier, Firenze (rist. 1982). N. M. Filippini, T. Plebani, A. Scattigno (curr.), Corpi e storia. Donne e uomini dal mondo antico all'età contemporanea,Viella, Roma 2002. M.R. Pelizzari (cur.), Il corpo e il suo doppio. Storia e cultura, Rubbettino, Soveria Mannelli 2010. C.Zaltieri, L'invenzione del corpo. Dalle membra disperse all'organismo, Negretto Editore, Mantova 2010. AA.VV, Il corpo offeso tra piaga e piega, in Figure dell'immaginario, rivista on line di filosofia, storia e letteratura, n. 1, gennaio 2014, su figuredellimmaginario.altervista.org.   Portale Filosofia: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di Filosofia Ultima modifica 2 anni fa di 151.27.70.208 PAGINE CORRELATE Monismo (religione) Unità psicofisica Monismo Wikipedia Il contenuto  Alsmith, Adrian J. T., 2015, “Mental Activity & the Sense ofOwnership”, Review of Philosophy and Psychology, 6(4): 881–896. doi:10.1007/s13164-014-0208-1 –––, forthcoming, “Bodily Structure and Body Representation”, Synthese, first online: 5 April 2019. doi:10.1007/s11229-019-02200-1 Anema, Helen A., Martine J.E. van Zandvoort, Edward H.F. de Haan, L. Jaap Kappelle, Paul. L.M. de Kort, Ben P.W. Jansen, and H. Chris Dijkerman, 2009, “A Double Dissociation between Somatosensory Processing for Perception and Action”, Neuropsychologia, 47(6): 1615–1620. doi:10.1016/j.neuropsychologia.2008.11.001 Anscombe, G. E. M., 1957, Intention, Oxford: Blackwell. –––, 1962, “On Sensations of Position”, Analysis, 22(3): 55–58. doi:10.1093/analys/22.3.55 Armstrong, David Malet, 1962, Bodily Sensations, London: Routledge and Paul. Ataria, Yochai, 2018, Body Disownership in Complex Posttraumatic Stress Disorder, New York: Palgrave Macmillan US. doi:10.1057/978-1-349-95366-0 Aydede, Murat, 2009, “Is Feeling Pain the Perception of Something?”, Journal of Philosophy, 106(10): 531–567. doi:10.5840/jphil20091061033 Baier, Kurt, 1964, “The Place of a Pain”, The Philosophical Quarterly, 14(55): 138–150. doi:10.2307/2955550 Baier, Bernhard and Hans-Otto Karnath, 2008, “Tight Link Between Our Sense of Limb Ownership and Self-Awareness of Actions”, Stroke, 39(2): 486–488. doi:10.1161/STROKEAHA.107.495606 Bain, David, 2013, “What Makes Pains Unpleasant?”, Philosophical Studies, 166(S1): 69–89. doi:10.1007/s11098-012-0049-7 Bennett, David J. and Christopher Hill (eds.), 2014, Sensory Integration and the Unity of Consciousness, Cambridge, MA: MIT Press. Bermúdez, José Luis, 1998, The Paradox of Self-Consciousness, Cambridge, MA: MIT Press. –––, 2005, “The Phenomenology of Bodily Awareness”, in Phenomenology and Philosophy of Mind, David Woodruff Smith and Amie Lynn Thomasson (eds.), Oxford: Clarendon Press, 295–316. –––, 2011, “Bodily Awareness and Self-Consciousness”, in Oxford Handbook of the Self, Shaun Gallagher (ed.), Oxford: Oxford University Press. –––, 2015, “Bodily Ownership, Bodily Awareness and Knowledge without Observation”, Analysis, 75(1): 37–45. doi:10.1093/analys/anu119 –––, 2018, The Bodily Self: Selected Essays, Cambridge, MA: MIT Press. Bermúdez, José Luis, Naomi Eilan, and Anthony Marcel (eds.), 1995, The Body and the Self, Cambridge, MA: MIT Press. Billon, Alexandre, 2015, “Why Are We Certain That We Exist?”, Philosophy and Phenomenological Research, 91(3): 723–759. doi:10.1111/phpr.12113 –––, 2016, “Making Sense of the Cotard Syndrome: Insights from the Study of Depersonalisation: Making Sense of the Cotard Syndrome”, Mind & Language, 31(3): 356–391. doi:10.1111/mila.12110 –––, 2017, “Mineness First: Three Challenges to the Recent Theories of the Sense of Bodily Ownership”, in Vignemont and Alsmith 2017: 189–216. Block, Ned, 1983, “Mental Pictures and Cognitive Science”, The Philosophical Review, 92(4): 499–541. doi:10.2307/2184879 –––, 2005, “Review Action in Perception by Alva Noë”:, Journal of Philosophy, 102(5): 259–272. doi:10.5840/jphil2005102524 Bonnier, Pierre, 1905, “L’Aschématie”, Revue Neurologique, 13: 605–609. Botvinick, Matthew and Jonathan Cohen, 1998, “Rubber Hands ‘Feel’ Touch That Eyes See”, Nature, 391(6669): 756–756. doi:10.1038/35784 Bradley, Adam, forthcoming, “The Feeling of Bodily Ownership”, Philosophy and Phenomenological Research, first online: 28 October 2019. doi:10.1111/phpr.12657 Brewer, Bill, 1995, “Bodily Awareness and the Self”, in Bermúdez, Marcel, and Eilan 1995: 291–310. Briscoe, Robert, 2009, “Egocentric Spatial Representation in Action and Perception”, Philosophy and Phenomenological Research, 79(2): 423–460. doi:10.1111/j.1933-1592.2009.00284.x –––, 2014, “Spatial Content and Motoric Significance”, AVANT. The Journal of the Philosophical-Interdisciplinary Vanguard, 5(2): 199–217. doi:10.26913/50202014.0109.0009 –––, forthcoming, “Bodily Awareness and Novel Multisensory Features”, Synthese, first online 28 February 2019. doi:10.1007/s11229-019-02156-2 Brooks, Rodney A., 1991, “Intelligence without Representation”, Artificial Intelligence, 47(1–3): 139–159. doi:10.1016/0004-3702(91)90053-M Brugger, Peter, Bigna Lenggenhager, and Melita J. Giummarra, 2013, “Xenomelia: A Social Neuroscience View of Altered Bodily Self-Consciousness”, Frontiers in Psychology, 4: 204. Burge, Tyler, 2010, Origins of Objectivity, Oxford: Oxford University Press. doi:10.1093/acprof:oso/9780199581405.001.0001 Carman, Taylor, 1999, “The Body in Husserl and Merleau-Ponty”, Philosophical Topics, 27(2): 205–226. Carruthers, Glenn, 2008, “Types of Body Representation and the Sense of Embodiment”, Consciousness and Cognition, 17(4): 1302–1316. doi:10.1016/j.concog.2008.02.001 Cassam, Quassim, 1995, “Introspection and Bodily Self-ascription”, in Bermúdez, Marcel, and Eilan 1995: 311–336. –––, 1997, Self and World, New York: Oxford University Press. Ceunen, Erik, Johan W. S. Vlaeyen, and Ilse Van Diest, 2016, “On the Origin of Interoception”, Frontiers in Psychology, 7: art. 743. doi:10.3389/fpsyg.2016.00743 Chadha, Monima, 2018, “No-Self and the Phenomenology of Ownership”, Australasian Journal of Philosophy, 96(1): 14–27. doi:10.1080/00048402.2017.1307236 Chen, Cheryl K., 2011, “Bodily Awareness and Immunity to Error through Misidentification: Bodily Awareness and Immunity to Error through Misidentification”, European Journal of Philosophy, 19(1): 21–38. doi:10.1111/j.1468-0378.2009.00363.x Clark, Andy, 1997, Being There: Putting Brain, Body and World Together Again, Cambridge, MA: MIT Press Coburn, Robert C., 1966, “Pains and Space”, Journal of Philosophy, 63(13): 381–396. doi:10.2307/2024284 Cole, Jonathan and Jacques Paillard, 1995, “Living without Touch and Peripheral Information about Body Position and Movement: Studies with Deafferented Subjects”, in Bermúdez, Marcel, and Eilan 1995: 245–266. Coliva, Annalisa, 2012, “Which ‘Key to All Mythologies’ about the Self? A Note on Where the Illusions of Transcendence Come from and How to Resist Them”, in Prosser and Recanati 2012: 22–45. doi:10.1017/CBO9781139043274.003 Condillac, Étienne Bonnot de, 1754 [1997], Traité des sensations, 2 volumes, Paris: Durand. Reprinted in Traité des sensations, Traité des animaux, Paris: Fayard, 1997. Corns, Jennifer, 2014, “The Inadequacy of Unitary Characterizations of Pain”, Philosophical Studies, 169(3): 355–378. doi:10.1007/s11098-013-0186-7 Coslett, H.B, 1998, “Evidence for a disturbance of body schema in neglect”, Brain and Cognition, 37: 527–544. Craig, A. D. (Bud), 2003, “Interoception: The Sense of the Physiological Condition of the Body”, Current Opinion in Neurobiology, 13(4): 500–505. doi:10.1016/S0959-4388(03)00090-4 Crane, Tim (ed.), 1992, The Contents of Experience, Cambridge: Cambridge University Press. doi:10.1017/CBO9780511554582 Damasio, Antonio, 1999, The Feeling of What Happens: Body and Emotion in the Making of Consciousness, London: William Heinemann. De Preester, Helena, 2007, “The Deep Bodily Origins of the Subjective Perspective: Models and Their Problems”, Consciousness and Cognition, 16(3): 604–618. doi:10.1016/j.concog.2007.05.002 Descartes, René, 1649, The Passions of the Soul, Indianapolis, IN: Hackett, 1989. Dijkerman, H. Chris and Edward H. F. de Haan, 2007, “Somatosensory Processes Subserving Perception and Action”, Behavioral and Brain Sciences, 30(2): 189–201. doi:10.1017/S0140525X07001392 Dokic, Jéróme, 2003, “The Sense of Ownership: An Analogy Between Sensation and Action”, in Agency and Self-Awareness: Issues in Philosophy and Psychology, Johannes Roessler and Naomi Eilan (eds.), Oxford: Oxford University Press, 321–344. Ehrsson, H. Henrik, Katja Wiech, Nikolaus Weiskopf, Raymond J. Dolan, and Richard E. Passingham, 2007, “Threatening a Rubber Hand That You Feel Is Yours Elicits a Cortical Anxiety Response”, Proceedings of the National Academy of Sciences, 104(23): 9828–9833. doi:10.1073/pnas.0610011104 Ernst, Marc O., 2006, “A Bayesian view on multimodal cue integration”, in Knoblich, Thornton, Grosjean, & Shiffrar 2006: 105–131. Evans, Gareth, 1982, The Varieties of Reference, Oxford: Oxford University Press. Fulkerson, Matthew, 2014, The First Sense: A Philosophical Study of Human Touch, Cambridge, MA: MIT Press. Gadsby, Stephen, 2017, “Distorted Body Representations in Anorexia Nervosa”, Consciousness and Cognition, 51: 17–33. doi:10.1016/j.concog.2017.02.015 –––, 2018, “How Are the Spatial Characteristics of the Body Represented? A Reply to Pitron & deVignemont”, Consciousness and Cognition, 62: 163–168. doi:10.1016/j.concog.2018.04.011 Gadsby, Stephen and Daniel Williams, 2018, “Action, Affordances, and Anorexia: Body Representation and Basic Cognition”, Synthese, 195(12): 5297–5317. doi:10.1007/s11229-018-1843-3 Gallagher, Shaun, 1986, “Body Image and Body Schema: Aconceptual Clarification”, Journal of Mind and Behavior, 7(4): 541–554. –––, 1995, “Body Schema and Intentionality”, in Bermúdez, Marcel, and Eilan 1995: 225–244. –––, 2003, “Bodily Self-Awareness and Object Perception”, Theoria et Historia Scientiarum, 7(1): 53–68. doi:10.12775/ths.2003.004 –––, 2005, How the Body Shapes the Mind, New York: Oxford University Press. doi:10.1093/0199271941.001.0001 –––, 2008, “Are Minimal Representations Still Representations?”, International Journal of Philosophical Studies, 16(3): 351–369. doi:10.1080/09672550802113243 Gatzia, Dimitria Electra and Berit Broogard (eds.), 2020, The Epistemology of Non-Visual Perception, Oxford: Oxford University Press. doi:10.1093/oso/9780190648916.001.0001 Gendler, Tamar Szabó, 2008, “Alief in Action (and Reaction)”, Mind & Language, 23(5): 552–585. doi:10.1111/j.1468-0017.2008.00352.x Gibson, James J., 1979, The Ecological Approach to Perception, Boston: Houghton Mifflin Goldenberg, Georg, 2003, “Goldsten and Gel’s case Schn.: A classic case in neuropsychology?” in Classic Cases in Neuropsychology, Volume 2, Chris Code, Claus-W. Wellesch, Yves Loenette, Andre Roch Lecours (eds.), Hove, NY: Psychology Press, 281–299. Guillot, Marie, 2017, “I Me Mine: On a Confusion Concerning the Subjective Character of Experience”, Review of Philosophy and Psychology, 8(1): 23–53. doi:10.1007/s13164-016-0313-4 Guillot, Marie and Manuel García-Carpintero (eds.), forthcoming, The Sense of Mineness, Oxford: Oxford University Press. Gurwitsch, Aron, 1985, Marginal Consciousness, Athens, OH: Ohio University Press. Haggard, Patrick, Tony Cheng, Brianna Beck, and Francesca Fardo, 2017, “Spatial Perception and the Sense of Touch”, in Vignemont and Alsmith 2017: 97–114 Hall, Richard J., 2008, “If It Itches, Scratch!”,Australasian Journal of Philosophy, 86(4): 525–535. doi:10.1080/00048400802346813 Harcourt, Edward, 2008, “Wittgenstein and Bodily Self-Knowledge”, Philosophy and Phenomenological Research, 77(2): 299–333. doi:10.1111/j.1933-1592.2008.00193.x Head, Henry and Gordon Holmes, 1911, “Sensory Disturbances from Cerebral Lesions”, Brain, 34(2–3): 102–254. doi:10.1093/brain/34.2-3.102 Henri, Michel, 1965, Philosophie et Phénoménologie du corps, Paris: Presses Universitaire de France. Hilti, Leonie Maria and Peter Brugger, 2010, “Incarnation and Animation: Physical versus Representational Deficits of Body Integrity”, Experimental Brain Research, 204(3): 315–326. doi:10.1007/s00221-009-2043-7 Holly, W. J., 1986, “The Spatial Coordinates of Pain”, The Philosophical Quarterly, 36(144): 343–356. doi:10.2307/2220189 Hopkins, Robert, 2011, “Re-imagining, Re-Viewing and Re-Touching”, in Mcpherson 2011: 261–283. Hochstetter, Gregor, 2016, “Attention in Bodily Awareness”, Synthese, 193(12): 3819–3842. doi:10.1007/s11229-016-1141-x Hurley, Susan, 1998, Consciousness in Action, Cambridge, MA: Harvard University Press. Husserl, Edmund, 1913, Ideas Pertaining to a Pure Phenomenology and to a Phenomenological Philosophy (Second Book: Studies in the Phenomenology of Constitution), R. Rojcewicz and A. Schuwer (trans.), Dordrecht: Kluwer, 1989. James, William, 1890, The Principles of Psychology, 2 volumes, New York: Henry Holt. Kammers, M.P.M., F. de Vignemont, L. Verhagen, and H.C. Dijkerman, 2009, “The Rubber Hand Illusion in Action”, Neuropsychologia, 47(1): 204–211. doi:10.1016/j.neuropsychologia.2008.07.028 Katz, David, 1925, The World of Touch, Hillsdale, NJ: Erlbaum. Kinsbourne, Marcel, 1995, “Awareness of One’s Own Body: An Attentionnal Theory of Its Nature, Development, and Brain Basis”, in Bermúdez, Marcel, and Eilan 1995: 205–224. Kinsbourne, Marcel and Henrietta Lempert, 1980, “Human Figure Representation by Blind Children”, The Journal of General Psychology, 102(1): 33–37. doi:10.1080/00221309.1980.9920961 Klein, Colin, 2015, What the Body Commands: The Imperative Theory of Pain, Cambridge, MA: The MIT Press. Knoblich, Günther, Ian M. Thornton, Marc Grosjean, and Maggie Shiffrar (eds.) 2005, Human Body Perception from the Inside Out, New York: Oxford University Press. Leder, Drew, 1990, The Absent Body, Chicago: Chicago University Press. Legrand, Dorothée, 2006, “The Bodily Self: The Sensori-Motor Roots of Pre-Reflective Self-Consciousness”, Phenomenology and the Cognitive Sciences, 5(1): 89–118. doi:10.1007/s11097-005-9015-6 Lhermitte, J., 1942, “De l’image corporelle”, Revue Neurologique, 74: 20–38. Longo, Matthew R., 2017, “Body Representations and the Sense of Self”, in Vignemont and Alsmith 2017: 75–96. Longo, Matthew R., Friederike Schüür, Marjolein P.M. Kammers, Manos Tsakiris, and Patrick Haggard, 2008, “What Is Embodiment? A Psychometric Approach”, Cognition, 107(3): 978–998. doi:10.1016/j.cognition.2007.12.004 Longo, Matthew R. and Patrick Haggard, 2010, “An Implicit Body Representation Underlying Human Position Sense”, Proceedings of the National Academy of Sciences, 107(26): 11727–11732. doi:10.1073/pnas.1003483107 Lyons, Jack, 2011, “Circularity, Reliability, and the Cognitive Penetrability of Perception”, Philosophical Issues, 21(1): 289–311. doi:10.1111/j.1533-6077.2011.00205.x Mach, Ernst, 1914, The Analysis of Sensations, La Salle, Ill.: Open Court. Maine de Biran, F. P. G., 1812 [2001], Essai sur les fondements de la psychologie, Paris: Vrin. Mandrigin, Alisa, forthcoming, “The Where of Bodily Awareness”, Synthese, first online: 8 April 2019. doi:10.1007/s11229-019-02171-3 Margolis, Joseph, 1966, “Awareness of Sensations and of the Location of Sensations”, Analysis, 27(1): 29–32. doi:10.1093/analys/27.1.29 Marchetti, Clelia and Sergio Della Sala, 1998, “Disentangling the Alien and Anarchic Hand”, Cognitive Neuropsychiatry, 3(3): 191–207. doi:10.1080/135468098396143 Marr, David, 1982, Vision: A Computational Investigation into the Human Representation and Processing of Visual Information, San Francisco, CA: W.H. Freeman. Martin, Michael G.F., 1992, “Sight and Touch”, in Crane 1992: 199–201. doi:10.1017/CBO9780511554582.010 –––, 1993, “Sense Modalities and Spatial Properties”, in Spatial Representations: Problems in Philosophy and Psychology, Naoimi Eilan, Rosaleen McCarty and Bill Brewer (eds.), Oxford: Oxford University Press. –––, 1995, “Bodily Awareness: A Sense of Ownership”, in Bermúdez, Marcel, and Eilan 1995: 267–290 . Martínez, Manolo, 2011, “Imperative Content and the Painfulness of Pain”, Phenomenology and the Cognitive Sciences, 10(1): 67–90. doi:10.1007/s11097-010-9172-0 Matthen, Mohan (ed.), 2015, The Oxford Handbook of Philosophy of Perception, Oxford: Oxford University Press. doi:10.1093/oxfordhb/9780199600472.001.0001 –––, forthcoming, “ The Dual Structure ofc touch”, in Vignemont, Wong, Serino, and Farnè forthcoming. McDowell, John, 2011, “Anscombe on bodily self-knowledge”, in Essays on Anscombe’s “Intention”, Anton Ford, Jennifer Hornsby, and Frederick Stoutland (eds.), Cambridge MA: MIT Press, 128–146. McGinn, Colin, 1996, The Character of Mind: An Introduction to the Philosophy of Mind, Oxford, New York: Oxford University Press. McGlone, Francis, Johan Wessberg, and Håkan Olausson, 2014, “Discriminative and Affective Touch: Sensing and Feeling”, Neuron, 82(4): 737–755. doi:10.1016/j.neuron.2014.05.001 Mcpherson, Fiona (ed.), 2011, The Senses: Classic and Contemporary Philosophical Perspectives, Oxford: Oxford University Press. Medina, Jared and H. Branch Coslett, 2016, “What Can Errors Tell Us about Body Representations?”, Cognitive Neuropsychology, 33(1–2): 5–25. doi:10.1080/02643294.2016.1188065 Melzack, Ronald and Patrick D. Wall, 1983, The Challenge of Pain, New York: Basic Books Merleau-Ponty, Maurice, 1945, Phénoménologie de la perception, Paris: Gallimard. Milner, David and Mel Goodale, 1995, The Visual Brain in Action, New York: Oxford University Press. Mishara, Aaron L., 2004, “The Disconnection of External and Internal in the Conscious Experience of Schizophrenia: Phenomenological, Literary and Neuroanatomical Archaeologies of Self”, Philosophica, 73: 87–126. Mizumoto, Masaharu and Masato Ishikawa, 2005, “Immunity to Error Through Misidentification and the Bodily Illusion Experiment”, Journal of Consciousness Studies, 12(7): 3–19. Moro, Valentina, Massimiliano Zampini, and Salvatore M. Aglioti, 2004, “Changes in Spatial Position of Hands Modify Tactile Extinction but Not Disownership of Contralesional Hand in Two Right Brain-Damaged Patients”, Neurocase, 10(6): 437–443. doi:10.1080/13554790490894020 Moseley, G. Lorimer, Alberto Gallace, and Gian Domenico Iannetti, 2012, “Spatially Defined Modulation of Skin Temperature and Hand Ownership of Both Hands in Patients with Unilateral Complex Regional Pain Syndrome”, Brain, 135(12): 3676–3686. doi:10.1093/brain/aws297 Munro, Daniel, forthcoming, “Visual and Bodily Sensational Perception: An Epistemic Asymmetry”, Synthese, first online: 27 June 2019. doi:10.1007/s11229-019-02304-8 Murillo Lara, Luis Alejandro, 2018, “Explaining the Felt Location of Bodily Sensations through Body Representations”, Consciousness and Cognition, 60: 17–24. doi:10.1016/j.concog.2018.01.007 Nielsen, M., 1938, “Gerstmann Syndrome: Finger Agnosia, Agraphia, Confusion of Right and Left and Acalculia: Comparison of This Syndrome with Disturbance of Body Scheme Resulting from Lesions of the Right Side of the Brain”, Archives of Neurology & Psychiatry, 39(3), 536–560. doi:10.1001/archneurpsyc.1938.02270030114009 Noë, Alva, 2004, Action in Perception, Cambridge, MA: MIT Press. Noordhof, Paul, 2001, “In Pain”, Analysis, 61(2): 95–97. doi:10.1093/analys/61.2.95 O’Callaghan, Casey, 2020, A Multisensory Theory of Perception, Oxford: Oxford University Press. 92–117 O’Regan, J. Kevin, 2011, Why Red Doesn’t Sound Like a Bell: Understanding the Feel of Consciousness, Oxford: Oxford University Press. O’Regan, J. Kevin and Alva Noë, 2001, “A Sensorimotor Account of Vision and Visual Consciousness”, Behavioral and Brain Sciences, 24(5): 939–973. doi:10.1017/S0140525X01000115 O’Shaughnessy, Brian, 1980, The Will, Vol. 1. Cambridge: Cambridge University Press. –––, 1989, “The Sense of Touch”, Australasian Journal of Philosophy, 67(1): 37–58. doi:10.1080/00048408912343671 –––, 1995, “Proprioception and the Body Image”, in Bermúdez, Marcel, and Eilan 1995: 175–204. –––, 2000, Consciousness and the World, Oxford: Oxford University Press. Paillard, Jacques, 1999, “Body schema and body image: A double dissociation in deafferented patients”, in G. N. Gantchev, S. Mori, and J. Massion (eds.), Motor Control, Today and Tomorrow, Sofia: Professor Marius Drinov Academic Publishing House, 197–214. Paillard, Jacques, François Michel, and George Stelmach, 1983, “Localization Without Content: A Tactile Analogue of ‘Blind Sight’”, Archives of Neurology, 40(9): 548. doi:10.1001/archneur.1983.04050080048008 Peacocke, Christopher, 1992, “Scenarios, Concepts, and Perception”, in Crane 1992: 105–135. doi:10.1017/CBO9780511554582.006 –––, 2012, “Explaining de se Phenomena”, in Prosser and Recanati 2012: 144–157. doi:10.1017/CBO9781139043274.009 –––, 2014, The Mirror of the World: Subjects, Consciousness, and Self-Consciousness, Oxford: Oxford University Press. –––, 2017, “Philosophical Reflections on the First Person, the Body, and Agency”, in Vignemont and Alsmith 2017: 289–310. –––, 2019, The Primacy of Metaphysics, Oxford: Oxford University Press Penfield, Wilder and Theodore Rasmussen, 1950, The Cerebral Cortex of Man, New York: MacMillan. Pitron, Victor, Adrian Alsmith, and Frédérique de Vignemont, 2018, “How Do the Body Schema and the Body Image Interact?”, Consciousness and Cognition, 65: 352–358. doi:10.1016/j.concog.2018.08.007 Prosser, Simon and Francois Recanati (eds.), 2012, Immunity to Error through Misidentification: New Essays, Cambridge: Cambridge University Press. doi:10.1017/CBO9781139043274 Ratcliffe, Matthew, 2008, Feelings of Being: Phenomenology, Psychiatry and the Sense of Reality, Oxford: Oxford University Press. Reid, Thomas, 1764, An Inquiry into the Human Mind on the Principles of Common Sense, Edinburgh: University of Edinburgh Press, 2000. Richardson, Louise, 2013, “Bodily Sensation and Tactile Perception”, Philosophy and Phenomenological Research, 86(1): 134–154. doi:10.1111/j.1933-1592.2011.00504.x Romano, Daniele, Martina Gandola, Gabriella Bottini, and Angelo Maravita, 2014, “Arousal Responses to Noxious Stimuli in Somatoparaphrenia and Anosognosia: Clues to Body Awareness”, Brain, 137(4): 1213–1223. doi:10.1093/brain/awu009 Romano, Daniele and Angelo Maravita, 2019, “The Dynamic Nature of the Sense of Ownership after Brain Injury. Clues from Asomatognosia and Somatoparaphrenia”, Neuropsychologia, 132: 107119. doi:10.1016/j.neuropsychologia.2019.107119 Salje, Léa, 2017, “Crossed Wires about Crossed Wires: Somatosensation and Immunity to Error through Misidentification: Crossed Wires about Crossed Wires”, Dialectica, 71(1): 35–56. doi:10.1111/1746-8361.12170 Schilder, Paul Ferdinand, 1935, The Image and Appearance of the Human Body, New York: International Universities Press. Schwenkler, John, 2013, “The Objects of Bodily Awareness”, Philosophical Studies, 162(2): 465–472. doi:10.1007/s11098-011-9777-3 –––, 2014, “Vision, Self-Location, and the Phenomenology of the ‘Point of View’:”, Noûs, 48(1): 137–155. doi:10.1111/j.1468-0068.2012.00871.x Schwitzgebel, Erica, 2007, “Do You Have Constant Tactile Experience of Your Feet in Your Shoes? Or Is Experience Limited to What’s in Attention?”, Journal of Consciousness Studies, 14(3): 5–35. Schwoebel, John and H. Branch Coslett, 2005, “Evidence for Multiple, Distinct Representations of the Human Body”, Journal of Cognitive Neuroscience, 17(4): 543–553. doi:10.1162/0898929053467587 Serrahima, Carlota, forthcoming, “The Bounded Body: On the Sense of Bodily Ownership and the Experience of Space”, in Guillot and Garcia-Carpintero forthcoming. Seth, Anil K., 2013, “Interoceptive Inference, Emotion, and the Embodied Self”, Trends in Cognitive Sciences, 17(11): 565–573. doi:10.1016/j.tics.2013.09.007 Sherrington, Charles Scott, 1906, The Integrative Action of the Nervous System, New Haven, CT: Yale University Press. Shoemaker, Sydney S., 1968, “Self-Reference and Self-Awareness”, The Journal of Philosophy, 65(19): 555. doi:10.2307/2024121 –––, 1994, “Self-Knowledge and ‘Inner Sense’” (Royce Lectures), Philosophy and Phenomenological Research, 54: 249–314; Lecture I: The Object Perception Model”, 54(2): 249–269. doi:10.2307/2108488 Sirigu, Angela, Jordan Grafman, Karen Bressler, and Trey Sunderland, 1991, “Multiple Representations Contribute to Body Knowledge Processing: Evidence from a Case of Autotopagnosia”, Brain, 114(1): 629–642. doi:10.1093/brain/114.1.629 Smith, A.D., 2002, The Problem of Perception, Cambridge, MA: Harvard University Press. Smith, Adrian J.T., 2009, “Acting on (Bodily) Experience”, Psyche, 15(1): 82–99. Smith, Joel, 2006, “Bodily Awareness, Imagination and the Self”, European Journal of Philosophy, 14(1): 49–68. doi:10.1111/j.1468-0378.2006.00243.x Stein, Barry E. and M. Alex Meredith, 1993, The Merging of the Senses, Cambridge, MA: MIT Press. Thelen, Esther and Linda B. Smith, 1994, A Dynamic Systems Approach to the Development of Cognition and Action, Cambridge, MA: MIT Press Thompson, Evan, 2005, “Sensorimotor Subjectivity and the Enactive Approach to Experience”, Phenomenology and the Cognitive Sciences, 4(4): 407–427. doi:10.1007/s11097-005-9003-x Tsakiris, Manos, 2017, “The Material Me: Unifying the Exteroceptive and Interoceptive Sides of the Bodily Self”, in Vignemont and Alsmith 2017: 335–362. Tsakiris, Manos and Helena de Preester (eds.), 2018, The Interoceptive Mind: From Homeostasis to Awareness, Oxford: Oxford University Press. doi:10.1093/oso/9780198811930.001.0001 Turvey, M. T. and Claudia Carello, , 1995, “Some Dynamical Themes in Perception and Action”, in Mind as Motion: Exploration in the Dynamics of Cognition, Robert F. Port and Timothy Van Gelder (eds.), Cambridge, MA: MIT Press, 373–402. Tye, Michael, 2002, “On the Location of a Pain”,Analysis, 62(2): 150–153. doi:10.1093/analys/62.2.150 Van Beers, Robert J., Anne C. Sittig, and Jan J. Denier van der Gon, 1999, “Integration of Proprioceptive and Visual Position-Information: An Experimentally Supported Model”, Journal of Neurophysiology, 81(3): 1355–1364. doi:10.1152/jn.1999.81.3.1355 Van Gelder, Tim, 1995, “What Might Cognition Be, If Not Computation?”:, Journal of Philosophy, 92(7): 345–381. doi:10.2307/2941061 Vesey, G.N.A., 1964, “Bodily Sensations”,Australasian Journal of Philosophy, 42(2): 232–247. doi:10.1080/00048406412341201 de Vignemont, Frédérique, 2007, “Habeas Corpus: The Sense of Ownership of One‘s Own Body”,Mind & Language, 22(4): 427–449. doi:10.1111/j.1468-0017.2007.00315.x –––, 2011, “A Mosquito Bite Against the Enactive Approach to Bodily Experiences”, Journal of Philosophy, 108(4): 188–204. doi:10.5840/jphil2011108411 –––, 2012, “Bodily Immunity to Error”, in Prosser and Recanati 2012: 224–246. doi:10.1017/CBO9781139043274.013 –––, 2014, “A Multimodal Conception of Bodily Awareness”, Mind, 123(492): 989–1020. doi:10.1093/mind/fzu089 –––, 2018, Mind the Body: An Exploration of Bodily Self-Awareness, Oxford: Oxford University Press. doi:10.1093/oso/9780198735885.001.0001 –––, 2020, “What Phenomenal Contrast for Bodily Ownership?”, Journal of the American Philosophical Association, 6(1): 117–137. doi:10.1017/apa.2019.34 de Vignemont, Frédérique and Massin, Olivier, 2015, “Touch”, in Oxford Handbook of philosophy of perception, Mohan Matthen (ed.), Oxford: Oxford University Press. de Vignemont, Frédérique and Adrian J. T. Alsmith (eds.), 2017, The Subject’s Matter: Self-Consciousness and the Body, (Representation and Mind), Cambridge, MA: MIT Press. de Vignemont, Frédérique, Andrea Serino, Hong Yu Wong, and Alessandro Farnè (eds.), forthcoming, The World at Our Fingertips: a Multidisciplinary Investigation of Peripersonal Space, Oxford: Oxford University Press. Welch, Robert B. and David H. Warren, 1980, “Immediate Perceptual Response to Intersensory Discrepancy”, Psychological Bulletin, 88(3): 638–667. doi:10.1037/0033-2909.88.3.638 Wittgenstein, Ludwig, 1958, Blue and Brown Books, Oxford: Blackwell. –––, 1978, Philosophical Investigations, G.E.M. Anscombe (trans.), Oxford: Blackwell. Wong, Hong Yu, 2015, “On the Significance of Bodily Awareness for Bodily Action: Figure 1”, The Philosophical Quarterly, 65(261): 790–812. doi:10.1093/pq/pqv007 –––, 2017, “In and Out of Balance”, in de Vignemont and Alsmith 2017: 311–334. Wu, Wayne, forthcoming, “Mineness and Introspective Data”, in Guillot and Garcia-Carpintero forthcoming. Zahavi, Dan and Josef Parnas, 1998, “Phenomenal Consciousness and Self-awareness. A Phenomenological Critique of Representational Theory”, Journal of Consciousness Studies, 5(5–6): 687–705.Michele Di Francesco. Francesco. Keywords: corpi, unicorno, unicornis, adj. later noun, nome sustantivo, nome aggetivo, nome proprio, nome commune – unicorn – Meinong, Grice, “Vacuous Names”, vacuous descriptions, Priest, Read, persona, an Etruscan concept, the grammar of ‘referring’ – the grammar of ‘senso’, the grammar of ‘significato’ -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Francesco” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51758709547/in/dateposted-public/

 

Grice e Franchini – l’eta degl’eroi -- la gloria d’Enea– filosofia italiana – Luigi Speranza (Napoli). Filosofo. Grice: “I like Franchini; for one, he wrote on the ‘metaphysics of love;’ for another, he wrote on ‘historical reason’: I collect reasons, pure reason, practical reason, communicative reason, historical reason…” -- Figlio di Vincenzo e Anna Scalera, si laurea sotto le armi: visse una drammatica esperienza bellica che lasciò un segno per la vita. Studia all’Istituto Italiano di Studi Storici, fondato da Croce a Napoli, dove ha tenuto in seguito conferenze e lezioni. Insegna a Messina e Napoli. Fonda la Hegel-Internationale Vereinigung, è stato socio delle Accademie napoletane nella Società nazionale di Scienze, Lettere e Arti e dell’Istituto Lombardo di Milano. Intensa è la sua attività di pubblicista e di scrittore. Collaborò nell’immediato dopoguerra a giornali come “La Voce”, “L’Azione”, “Il Giornale”, e in seguito al “Mattino” di Napoli, al “Tempo” di Roma e alla “Gazzetta di Parma”. Scrisse sul “Mondo” di Mario Pannunzio, contribuì assiduamente alla “Rivista di Studi Crociani”. Diresse la nuova serie filosofica della rivista “Criterio”, fondata a Firenze da Ragghianti. Sin da adolescente frequenta la casa di Croce, scoprendone via via la lezione di alta umanità e di profondo significato etico-politico. Une alla vocazione filosofica la militanza politica in nome dei valori della liberal-democrazia. Partecipa attivamente a “Nord e Sud” di Compagna e alla “Realtà del Mezzogiorno” di Macera. Cultore delle arti visive, di cinema e di teatro, di musica e di poesia, si cimenta tra l’altro nella scrittura di 99 Aforismi, antologizzati nel volume degli “Scrittori italiani di aforismi”. Redasse nel preziose “Note biografiche di Croce”, raccolte dalla viva voce del filosofo, che furono oggetto di alcune trasmissioni radio-foniche. La sua vasta biblioteca è a Napoli. Il nocciolo della sua filosofia sta nel tema del “giudizio”, storico, politico, prospettico. Alla lezione di Croce, che considera un classico della storia delle idee, si e costantemente ispirato, riconoscendogli il merito, per lo più sottaciuto, di aver calato il pensiero nel vivo dell’esperienza storica. In “Esperienza dello storicismo” distingue, in continuità ideale con gli studi di Antoni, lo storicismo di matrice vichiano-crociana dal “Historismus” tedesco, prevalentemente filologico, nella convinzione peraltro che la filosofia dello “spirito” non fosse una pura e semplice ripresa dell’idealismo hegeliano. Indaga il nucleo logico della filosofia di Croce individuando, nel nesso delle categorie conoscitive (teoretica, aletica) e pratiche (buletica, volitiva), l’*uni*-cità or ‘aequi-vocalita’ della dialettica, di opposti e distinti. Fu tra i primi a confrontarsi con le nuove correnti della fenomenologia, dell’esistenzialismo, del neo-positivismo e la filosofia analica del linguaggio ordinario, segnalando nel tema del ‘nulla’ lo scacco definitivo del sistema, insieme con il bisogno di qualificare l’ ‘irrazionale’ (il pre-razionale), che è il vasto mondo della non filosofia. Elabora una esaustiva storia del concetto di “dia-lettica” dai Greco-Romani ai contemporanei (Le Origini della dialettica), approdando infine alla forma moderna della filosofia nel passaggio dalla “metafisica teologica” alla metodologia della storia. Ha appreso da Hegel che la dialettica *è* la logica della filosofia, distinta dalla scienza. Alla tradizione del criticismo kantiano collega il concetto di “giudizio”, in special modo nella forma della riflessione estetico-teleologica della terza Critica. Gli si aprirono nel frattempo squarci significativi sul fattore esistenziale e storico del “non essere ancora” (il potenziale, l’attuale, il divenire) che lo indusse ad analizare il concetto di “progresso” tra la crisi del ideale dell’ illuminismo e la dimensione etico-politica del giudizio “prospettico” – il pre-spettico, lo spettico, il prospettico -- tra passato, divenire, e avvenire. Il futuro è in qualche modo pre-vedibile nella prospettiva individuale di chi è chiamato ad agire in una situazione in sviluppo. Altra cosa sono l’astratta profezia, l’oracolo, le prassi scientifica, la scommessa (the bet), il “caso” -- che sono forme di pre-visioni utili, finanche necessarie, ma non trascendentale (Pre-visione). Proclama il diritto alla filosofia, la lotta per il diritto all’esercizio della ragione contro il sofisma che limita la libertà, per ridare dignità alla ri-vendicazione dei diritti umani (Il diritto alla filosofia). Tratta sul rapporto di filosofia e scienza, riconoscendo a ogni sapere una funzione paritaria nella differenza della materia e della forma. Non ha punti di partenza né approdi finali, ma poggia sulla spontaneità creatrice del vitale nel quale Croce, in perenne confronto critico con Hegel, indica l’origine della dialettica e una scoperta di alta Eticità. Nell’Utile, da Croce elevato al livello dello spirito, indaga gli aspetti ineludibili di buona parte della vita umana (la volontà, la passione, la classificazione), per una comprensione ad ampio raggio del senso del terrestre. Altre opere: “Critica della ragione storica” (Giannini, Napoli); “Storicismo” (Giannini, Napoli); “Metafisica e storia” (Giannini, Napoli); “La linea ed il circolo -- Il progresso: storia di un’idea – storia lineale, storia ciclica -- La Nuova Accademia, Milano; L’idea di progresso. Teoria e storia, Giannini, Napoli, “La dia-lettica e la co-loquenza”, Giannini, Napoli, La materia della filosofia, Giannini, Napoli, Teoria della previsione, ESI, Napoli; seconda Giannini, Napoli, “Croce interprete di Hegel” Giannini, Napoli); “Il concetto di storia in Croce, Morano, Napoli; E.S.I., Napoli, Renata Viti Cavaliere La logica della filosofia, Giannini, Napoli); “Il sofisma e la libertà” Giannini, Napoli, “Autobiografia minima, Bulzoni, Roma, Interpretazioni. Da Bruno a Jaspers, Giannini, Napoli “Consenso e dissenso” (Sansoni, Firenze); Intervista su Croce, A. Fratta, SEN, Napoli, Il diritto alla filosofia, SEN, Napoli, Critica delle crisi: filosofia, scienze, rivoluzioni” (Cadmo, Roma); “Il progresso della filosofia, Storia della filosofia con testi e ricerche, Ferraro Napoli, Eutanasia dei principii logici, Loffredo, Napoli); “Il potere e l’ipotesi. Tappe di una filosofia delle funzioni, Morano, Napoli, Pensieri sul “Mondo”, R. Viti Cavaliere, C. Gily, R. Melillo, presentazione di G. Cotroneo, Luciano, Napoli); “Teoria della previsione, G. Cotroneo e G. Gembillo, Armando Siciliano, Messina, Le origini della dialettica, F. Rizzo, Rubbettino, Soveria Mannelli, Scritti su “Criterio”, Introduzione, testi e indici R. Viti Cavaliere e R. Peluso, Scripta Web, Napoli. "Dizionario Biografico", su treccani.  quartotempoblog, Biografia di Carmen Moscariello Quarto Tempo, altervista.org. critica M. Biscione, Interpreti di Croce, Giannini, Napoli G. Gembillo, Un itinerario filosofico, La Nuova Cultura, Napoli Coppolino, La “scuola” crociana, La Nuova Cultura, Napoli, V. Mathieu, Storia della filosofia: La filosofia del Novecento, Le Monnier, Firenze, G. M. Pagano, “Storicismo e azione” (Cadmo, Roma); G. Cantillo, Società Nazionale di Scienze, Lettere e Arti, Napoli, E. Paolozzi, il valore dei dettagli, in L'identità liberale di una società in trasformazione, Napoli, La tradizione critica della filosofia. G. Cantillo e R. Viti Cavaliere, Loffredo, Napoli, R. Viti Cavaliere, Postfazione, La teoria della storia di Croce, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, Viti Cavaliere, Profilo in Ead., “Il giudizio e la regola” (Loffredo, Napoli); “Il diritto alla filosofia, G. Cotroneo e R. Viti Cavaliere, Rubbettino, Soveria Mannelli  R. Viti Cavaliere, Una scelta di lettere di Carlo Antoni in "Logos", Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. //store.rubbettinoeditore/raffaello-franchini/ Fondo Franchini, Università “L’Orientale” di Napoli.  Una scelta di lettere di Carlo Antoni a Raffaello Franchini  a cura di Renata Viti Cavaliere   Nota introduttiva  Si offre al lettore una scelta di lettere di Carlo Antoni a Raffaello Franchini, tra le cui carte chi scrive ha rinvenuto una custodia, di colore verde sbiadito, contenente la preziosa raccolta 1 . Sul risvolto di copertina Franchini così annotava: «Sono 48 lettere di Antoni. Pubblicabili solo dopo molto tempo: mutilarle sarebbe un grave errore». Poco più avanti aggiungeva  a mo’ di  postilla: «+ 3 reperite in seguito. Sul non mutilarle farei riserve. + 1 reperita il 6-2- ‘66». In spirito di fedeltà, dunque, alla  palese intenzione del mio maestro di vedere un giorno stampate le lettere di Antoni, e consapevole della difficoltà a pubblicare ancor oggi integralmente il lascito  epistolare, ho preservato intatte alcune lettere ora destinate all’attenzione degli  studiosi, ma ntenendo la massima discrezione su quei contenuti “riservati” a cui si allude nell’appunto manoscritto.  Le lettere abbracciano un arco temporale che va dal 1948 al 1959 2 . Si è fatto in modo che non si perdesse - nella scelta operata -  il filo “logico” di  uno scambio epistolare intenso, che purtroppo conosciamo solo unilateralmente 3 , riguardante pensieri e dottrine che in quegli anni avevano impegnato molto Antoni incidendo non   poco sull’assai più giovane Franchini , che per tanti versi si considerò sempre idealmente suo allievo. Proprio allo scopo di non interrompere il dialogo sotteso al carteggio, non sono ovviamente state escluse, solo per il fatto di essere state già edite,  le 6 lettere di Antoni che Franchini riportò quasi per intero all’interno del sag gio  in memoriam , scritto nel ‘69 nel decimo anniversario della morte dello studioso  1  Un sentito ringraziamento ai figli Laura e Vincenzo per avermi messo a disposizione i materiali  dell’Archivio Franchini.  2   Su alcune buste compare l’indirizzo vomerese di Via Michetti, ma per lo più le lettere  sono indirizzate a «Il Giornale» in via Roma, e poi in Via Nardones, nel cuore dei Quartieri spagnoli a Napoli.  3  Non è stato in alcun modo possibile reperire le lettere di Franchini. Esse non sono presenti nel Fondo Antoni conservato a Roma a Villa Mirafiori, e si deve seriamente ritenere che siano andate perdutetriestino, costruendo intorno ad esse per buona parte l’affettuoso ricordo di una  magistrale lezione 4 . Dieci anni addietro infatti, nel corso del 1959, Franchini si era trovato ad  intervenire sul pensiero e l’opera di Carlo Antoni a distanza di appena un mese: nel  mese di luglio aveva recensito il volume   La restaurazione del diritto di natura , edito con Neri Pozza, in una lunga nota sul «Mondo» dal titolo   Le leggi di Antigone , e  nell’agosto fu chiamato purtroppo a scrivere nel giro di poche ore, con sincero  rammarico,   In morte di Carlo Antoni. Amico della verità 5 , un corposo necrologio rivolto a celebrare la maestrìa del grande discepolo di Croce, così fedele e al tempo stesso del tutto originale. Le lettere qui pubblicate aiutano a focalizzare, per rapidi lampi di luce, quel tratto di strada relativo ai precedenti anni Cinquanta, vissuti da  entrambi per lo più all’in terno della tradizione crociana, dalla quale sentirono di non dover prescindere, a partire dagli ultimi anni di vita del filosofo  (morto nel ’52)  sino alla prematura scomparsa di Antoni  nel ‘59 .  Sorprende per certi aspetti l’ incipit   della lettera di Antoni del 6 novembre  1948: «È da tempo che seguo con vivo interesse la Sua attività di studioso….», se si  considera la giovane età di Franchini, allora ventottenne.  E’ pur vero però ch’egli  poteva già vantare una significativa produzione scientifica, tra articoli di giornale e saggi, non soltanto di esordio, e che i primi scritti risalgono già al 1944. Franchini aveva infatti pubblicato una serie di brevi articoli su quotidiani napoletani come «Il Corriere» e «La Voce», e saggi su riviste di pregio come «Ethos» diretta da Gabriele Pepe e «Lo Spettatore italiano» curato da Elena Croce e Raimondo Craveri 6 . Non credo si sbagli ad indicare nella recensione al volume di Antoni  Considerazioni su  4  Il saggio dal titolo  Carlo Antoni, lo storicismo e la dialettica  è nel volume R. Franchini,   Interpretazioni.  Da Bruno a Jaspers , Napoli, Giannini, 1975, alle pp. 355-379. Era già uscito, con titolo diverso, nella miscellanea di AA. VV.,  Umanità e Storia. Scritti in onore di Adelchi Attisani , Napoli, Giannini, 1971, vol. I, pp. 507- 527. A quarant’anni dalla stesura, il testo di Franchini su Antoni appartiene ad un legato non  agevolmente reperibi le, per cui le lettere in esso contenute risultano per i lettori d’oggi “come se” inedite.   5  Franchini racconta nelle sue note autobiografiche di aver redatto in breve tempo, rinunciando ad andare ai  funerali, l’ampio articolo commemorativo per «Il Mondo».  Cfr. R. Franchini,   Autobiografia minima , Roma, Bulzoni, 1973.  6  Sulla prima produzione di Franchini si veda il volumetto di G.M. Pagano,  Storicismo e azione. Gli scritti giovanili di Raffaello Franchini (1940-1955) , Roma, Cadmo, 1983. Il periodo dal ’40 al ’43 fu di  formazione e di studio tra le difficoltà della guerra, privo però di documentazione a stampa   Sent from the all new AOL app for iOSHegel e Marx   del ’46 (pubblicata in quell’anno  nella rivista  «Ethos») l’atto d’inizio di  un dialogo filosofico che andrà via via intensificandosi. Si può presumere infatti che Carlo Antoni, nella prima delle lettere da me rinvenute, esprimesse un giudizio assai positivo sul lavoro del giovane studioso avendo anche chiaro il ricordo di  quell’articolo di due anni addietro, nel quale si tracciava di lui un bel profilo con  riferimento ai precedenti volumi   Dallo storicismo alla sociologia  (del 1940) e   La lotta contro la ragione  (del 1942). In realtà Franchini da allora in poi, e in   più d’una  occasione, ebbe sempre gran cura di rievocare i pensieri di Antoni sia in segno di  consenso sia comunque per un doveroso riconoscimento dei suoi meriti d’interprete.  Valga ad esempio la recensione allo   Hegel  di De Ruggiero (in «Lo Spettatore Italiano», 1948 7 ) dove compare un significativo riferimento alla lettura che Antoni aveva proposto circa il carattere intellettualistico e astrattivo della dialettica hegeliana nella prima triade della  Scienza della logica . In quella occasione, peraltro, Franchini non si limitò ad illustrare i termini di una questione dai risvolti complessi, ma  suggeriva d’intendere il rapporto dell’essere col nulla, reali solo nel divenire, come la  prova evidente dell’uscita dalla immobilità tautologica della vecchia identit à senza  vita. In altre parole egli non mostrò di approvare del tutto l’idea di un “tradimento”  della dialettica operato da Hegel nei confronti della sua creatura più preziosa, perché  l’essere e il nulla in quanto opposti, o contrari, animano il movimento d ella realtà lungi dal fissarlo per dir così in uno schema triadico posticcio. Non per caso,  nell’esaminare i saggi raccolti da Antoni nel ’46, Franchini mirò subito al problema -Hegel che per il filosofo triestino rappresentò a lungo un cruccio insuperabile, anche  negli anni a venire. Tra critiche all’illuminismo e all’irrazionalismo romantico si può  dire che Hegel abbia redatto la  magna charta  della speculazione moderna che è la dialettica, quasi un segreto di difficile decriptazione. Mentre, però, Antoni si  arrovellava sul “rompicapo” che è l’essere da cui sprizza la scintilla del divenire  vitale, cogliendo in Hegel il restauratore della metafisica tradizionale, Franchini  7  Ristampato nel volume   Esperienza dello storicismo , Napoli, Giannini, 1953, pp. 181-185. Il ricordo di   De   Ruggiero: lo studioso e l’uomo  sta nel volumetto   Dalla filosofia della storia alla ragione storica , Napoli, Giannini, 1953, pp. 115-118mostrava maggiore apertura alla nuova logica che di fatto assorbe la metafisica in una logica non più matematizzante. Molto acuta gli era pertanto sembrata la critica di Antoni al «ritmo dialettico hegeliano come risultante da una sorta di contaminazione tra sillogistica e dialettica degli opposti» 8 , perché in tal caso cominciava ad emergere il problema di una preferenza del filosofo di Stoccarda rivolta in ogni modo al sillogismo piuttosto che al giudizio. Il tema della dialettica si trova al centro dello scambio epistolare dei primi anni  Cinquanta. Croce, nonostante l’età avanzata e gl i acciacchi che lo assillavano, aveva  scritto nuove e profonde analisi intorno all’origine della dialettica in Hegel e sul tema  della vitalità che per un verso complicava il sistema, mentre, peraltro, lo arricchiva  ulteriormente dall’interno. Nella recensione all’ultimo libro di Croce   Indagini su  Hegel e schiarimenti filosofici  Franchini aveva chiamato ancora una volta in causa Antoni, attribuendogli finanche il merito di aver suscitato nel maestro il bisogno di un ripensamento della questione della dialettica 9 . Antoni ne fu lusingato ma al tempo  stesso si preoccupò dell’opinione del vecchio filosofo. Scrisse al Croce un biglietto di scuse per avere impropriamente adoperato l’espressione “dialettica” dei distinti, e a  Franchini una lunga lettera (del 31 marzo 1952) in cui chiariva forse anche a se stesso che la differenza da lui messa in luce, alla fine degli anni Quaranta, tra la dialettica  hegeliana della contraddizione e la crociana dialettica dell’opposizione, comunicata a  Croce pur con molta discrezione, aveva forse finito per condurre il filosofo proprio là dove egli non avrebbe voluto e dove per la verità non si sentì mai di seguirlo: vale a  8  Cfr. R. Franchini,   Il razionalismo hegeliano , in Id.,   Dalla filosofia della storia alla ragione storica , cit., p. 67.  9  Vedi R. Franchini,   La crudele dialettica , in «Il Mondo», 29 marzo 1952. Si chiedeva Franchini: che cosa è accaduto nei quarantasei anni che intercorrono tra il  Saggio sullo Hegel  del 1907 e gli ultimi scritti crociani su Hegel? Cosa ha spinto Croce a tornare sul tema della dialettica in Hegel? Certo non la pubblicazione degli scritti giovanili di Hegel, neppure il cosiddetto rinascimento esistenzialistico-fenomenologico del filosofo di Stoccarda, e neppure i brillanti saggi di De Negri. Semmai era stato Carlo Antoni a sottolineare  l’aporia i ntellettualistica nella hegeliana formulazione del movimento dialettico. Croce, pur non  rispondendo direttamente alla questione posta da Antoni, aveva voluto infine includere l’opposizione nella  logica dei distinti in modo che non si perdesse di vista la d rammaticità dell’atto generativo del prodursi del  reale nel suo significato logico-spiritualedire ad una sorta di primato della vitalità nel suo dialettico rapporto con la vita morale 10 . Intorno alla metà  degli anni Cinquanta, come si legge nelle lettere dal ’54 al ‘57, l’intreccio di varie vicende offre snodi teorici, e non solo teorici, particolarmente  interessanti. Direi che tre possono essere considerate le questioni più significative, che di necessità  coinvolgono filosoficamente il lettore al di là dell’apparenza di  alcune diatribe contingenti. In primo luogo si deve collocare il fatto importante della pubblicazione del libro di Carlo Antoni  Commento a Croce  (1955), coevo al Congresso di filosofia che si svolse a Napoli (con la relazione introduttiva di Antoni)  sul tema della “conoscenza storica”. Connessa alla stampa del libro di Antoni è la  vicenda relativa al caso- Fiore (1957), che com’è evidente molto amareggiò l’Antoni,  e, infine, la questione, aperta da Croce molti anni addietro (che per ovvi motivi torna  in queste lettere), intorno al significato dell’insegnamento della “filosofia della storia” nelle università italiane. Gustosa, infine, l’osservazione ironica di Antoni a  proposito del libro di S  prigge dedicato a Croce, relativa al celebre saggio del ’42  Perché non possiamo non dirci cristiani.  Val la pena, quando ancor oggi si torna spesso a discettare sul senso e sul ruolo di questo scritto, commentare la strana insinuazione sui motivi prettamen te politici, benché anacronistici, che l’avrebbero,  secondo lo studioso inglese, ispirato. La recensione di Franchini al  Commento a Croce  uscì dunque nel giugno del  ’55 sulla «Nuova Antologia». Non so se furono pochi i lettori che ne presero visione,  come  ipotizzava Antoni; certo è che ampia fu l’analisi di quel libro all’interno del  puntuale racconto (non però un esaustivo resoconto) scritto da Franchini sul congresso napoletano di Filosofia, racconto-resoconto che uscì negli «Atti»  dell’Accademia Pontaniana l’anno seguente 11 . L’illustre interprete di Croce dichiarò  poi onestamente, con l’umiltà dello studioso intelligente, di aver  potuto vedere con  10  Rimando alla monografia di G. Sasso,   L’illusione della dialettica .  Profilo di Carlo Antoni , Roma,  Edizioni dell’Ateneo, 1982. Si veda anche l’esauriente saggi o di M. Biscione,  Carlo Antoni interprete di  Hegel , in «Filosofia», XLVII, II (1996), pp. 173-192, con particolare riferimento al volume postumo di Antoni,   Lezioni su Hegel 1947-57  , Napoli, Bibliopolis, 1988.  11  R. Franchini,   La conoscenza storica , in «Att i» dell’Accademia pontaniana, N.S., V, Napoli, 1956, pp.  277-288 (rist. in   Metafisica e Storia , Napoli, Giannini, 1958, da cui si cita) maggiore chiarezza i suoi pensieri, quasi in virtù del diradarsi di una sorta di nebbia,  attraverso l’illustrazione che ne  aveva fatta il giovane discepolo. Che posto ebbe dunque il  Commento a Croce  nella discussione svoltasi durante il XVII Congresso di filosofia intorno al cruciale problema della conoscenza storica? 12  Anzitutto Franchini poneva una questione di politica culturale, assegnando alla relazione introduttiva di Antoni il significato di un  “riscatto” del valore filosofico dello storicismo crociano rispetto alle posizioni “sistematiche” o, che è lo stesso, “problematicistiche”, di  coloro cioè che comunque presuppongono un assoluto, sia esso raggiungibile oppure no. Franchini vide in Antoni una voce laica in grado di contrastare dogmatismi annosi e quelle forze culturali poco sensibili alle inquietudini dello spirito liberale anche  nell’organizzazione degli studi. La scelta di chiamare Antoni ad aprire i lavori del Congresso era stata “politicamente” rilevante e teoreticamente acuta, perché si trattò del riconoscimento di una linea di ricerca filosofica, tutt’uno c on la ricerca storiografica, che appunto Antoni   –   così scriveva Franchini - «ha spinto alle estreme  conseguenze […] nei capitoli dedicati all’origine storica della distinzione e ai rapporti tra l’Assoluto e la storia» 13 . Il  Commento a Croce   fu in quell’occa sione lo strumento di una militanza filosofica di tenore essenzialmente etico-politico. «Solo un filosofo  della storia, nel senso metodologico e non metafisico dell’espressione, poteva in  piena consapevolezza gridare alto e forte il no dell’Etica contro le  usurpazioni del politicismo comunista» 14 . Così Franchini, forse con enfasi eccessiva ma  correttamente, collocava Antoni dalla parte dell’antitotalitarismo, anche memore  degli studi da lui fatti sulla tragedia totalitaria della Germania nazista.  Sull’ibridazione di socialismo e liberalismo Antoni non era d’accordo, come si sa,  pur tuttavia mai egli aveva negato il carattere solidaristico di una politica economica curvata sul sociale, come infatti emerge in alcuni tratti delle lettere a Franchini.  12   Il Congresso affiancò al tema della conoscenza storica quello su “Arte e linguaggio”. Era stato  organizzato da Felice Battaglia e dalla SFI napoletana, e vide partecipi i principali esponenti degli schieramenti filosofici del tempo, come Stefanini, Bontadini, Spirito, Calogero, Fazio Allmayer, Paci, Filiasi-Carcano, e tra gli organizzatori Cleto Carbonara. Antoni fu primo relatore e animatore, con numerosi interventi, delle accese discussioni sino alla fine dei lavori.  13    Ibid. , p. 305Antoni fu l ieto d’aver partecipato al Congresso napoletano, sì da trarne soddisfazione  morale e politica, benché anche in seguito continuò a vedere nella cultura italiana sempre e solo schiere di combattenti non proprio ad armi pari, specie là dove le idee  “confessionali”  tornavano per lo più a compattarsi in vista di un certo potere. La presenza di Antoni aveva ottenuto un esito importante: aveva consentito agli esponenti di una tradizione storicistica  sui generis , alla quale Franchini si univa seguendo il cammino già di Ciardo, Attisani, Parente, di testimoniare la volontà di un  confronto con le altre correnti della filosofia italiana e straniera. D’altronde, al solito  pregiudizio che tendeva  a stanziare gli studi “crociani” nel Sud dell’Italia, era stato  p roprio l’Antoni, nel discorso di chiusura delle sessioni del Congresso, ad opporre la realtà del pensiero di Croce, per eccellenza europeo e mondiale nell’ispirazione e nei suoi fecondi risultati. Franchini non si fece tuttavia sfuggire l’occasione di denu nciare  i limiti di presunte filosofie d’avanguardia. Tra l’altro lo stesso problema della conoscenza storica, così posto nella sua purezza, poteva indurre nell’errore di non  considerarne il rapporto con la volontà e la vita morale, di trascurare cioè il ruolo  dell’individuo umano, che è un nulla se si vuole rispetto all’infinito, ma è quel tutto che si realizza nell’opera singola e si trasmette storicamente alle generazioni future  in nome di una tradizione critica 15 . Non aveva forse Croce detto chiaramente che « storicismo  è creare la propria azione, il proprio pensiero, la propria poesia, muovendo dalla coscienza presente del passato»? Chi, se non un individuo concreto e responsabile, potrebbe essere  mai l’artefice di tanta “proprietà”? Cos’è lo  storicismo se non il vero umanismo dei nostri giorni? 16  Ad Antoni Franchini tributava in definitiva il migliore degli omaggi sottolineando la teoreticità del libro su Croce, di  quel “commento” messo lì a dissimulare forse con un eccesso di pudore la nuova  filosofia che nasceva dalla lettura intrinseca del grande pensatore. I capitoli sulla Distinzione e sul Giudizio sono cruciali nel libro di Antoni, profondi e utili quelli  sull’individuo nella Storia e sull’idea di progresso. Più d’ogni altro principio quello  15   In particolar modo Calogero e Attisani avevano messo in discussione la concezione dell’individuo in  Croce e Antoni.  16  B. Croce,   La storia come pensiero e come azione  (1938), Bari, Laterza, 1966: Storicismo e umanismo, p.della distinzione è appartenuto allo spirito italiano, da Machiavelli a Galilei, da Vico a Croce attraverso Labriola e De Sanctis. Nella logica crociana poi la distinzione correggeva, secondo Antoni, gli effetti indebiti di una contraddizione perenne pur  nell’unità che ne è lo sfondo. L’identità allora diventa non già l’accordo presupposto dei contrari ma il reale incontro dell’universale col concreto nella forma conoscitiva  del giudizio storico. Croce restaurava così   –   secondo Antoni -  il principio d’identità,  rigenerandolo tuttavia nella nuova vita di un rapporto asimmetrico racchiudibile nella formula a=A. E tra le categorie non passa spazio come per un salto dall ’ uno all ’ altro contesto. «In realtà il sistema   –   scriveva Antoni   –    è quello di un’unica categoria reale   e attiva, che è l’Io, di cui le categorie sono articolazioni. Lo stesso trapasso della conoscenza nell’azione non può essere inteso come un passaggio radicale da una categoria all’altra, quasi che la conoscenza d’una situazione storica non fosse già  guida ta da una volontà e da un interesse e l’azione non fosse guidata, lungo l’intero  suo svolgimento, dalla conoscenza» 17 . La lettera del 2 luglio del ’56, più avanti  riportata, è davvero illuminante a tal proposito: Antoni, platonicamente, indicava  nell’Idea del Bene l’idea -guida dello spirito umano, incisa in noi per definirsi nel  tempo in quella che felicemente chiamiamo “storia della civiltà”.   Profonda fu l’amarezza di Antoni dopo aver letto la recensione di Tommaso Fiore al suo “Commento” sul numero di dicembre della rivista «Il Ponte» del ‘56 18 . Il suo dispiacere nasceva anche dal fatto che i direttori, succeduti al Calamandrei nella gestione della rivista, erano almeno dichiaratamente suoi amici 19 . Nella recensione  non si sottolineavano, com’è pur giusto fa re, eventuali spunti critici per una filosofica  discussione, ma si assumeva nei confronti dell’Autore un atteggiamento ostile in  partenza, probabilmente per motivi che non si direbbero solo di carattere teorico. E  difatti si accusava Antoni, «l’unico supe rstite del crocianesimo in un mondo che crociano non è» (come se il mondo aspettasse di assumere un colore politico o una preferenza culturale per decreto della Storia) di aver discettato di problemi morali e  17  Franchini cita da Antoni,  Commento a Croce , Venezia, Neri Pozza, 1955, p. 170.  18  Vedi T. Fiore, rec. a C. Antoni,  Commento a Croce,  in «Il Ponte», 12 (1956), pp. 2155-2157.  19   Tumiati assunse la direzione della rivista fondata da Calamandrei, in un primo tempo, dal ‘56 fino al  1965, insieme con Agnolettipolitici in maniera distaccata dalla realtà, realtà che pure in gioventù lo aveva attratto  e animato. Le “infedeltà” o presunte tali riscontrate dal recensore nei riguardi di  Croce venivano prima denunciate in nome di un crocianesimo fossilizzato, quasi che lo si volesse difendere a tutti i costi, e poi segnalate come devianze, talvolta vere e proprie concessioni a un larvato gentilianesimo. Inutile dire che questo avveniva, e poteva esser fatto, solo sminuzzando il discorso di Antoni e calcando la mano su alcune frasi o concetti che risultavano distorti nel loro effettivo significato. Date le premesse, non stupisce la conclusione cui giungeva il recensore quando si chiedeva:  “ ma quale crocianesimo è questo? ”  se, difatti, Antoni si era permesso di seminare dubbi, di rivelare incertezze e contraddizioni nel sistema. La peggior cattiveria nello  scritto del Fiore consistette però nell’attribuire ad Antoni una sorta di astenia  emotiva, ben altra cosa rispetto alla passione democratica del De Ruggiero e al  civismo mazziniano dell’Omodeo, entrambi già scomparsi . Eppure Tommaso Fiore era andato da amico e sodale ad accogliere Antoni a Bari in una precedente visita dello studioso nella città pugliese; Fiore era un antifascita convinto e aveva fatto parte del movimento democratico meridionale con De Martino, Dorso, in continuità con Salvemini, Gobetti e Carlo Rosselli 20 . Un po’ d’anni addietro, nel ’40 Guido Calogero e nel ’41 Tommaso Fiore , si videro rifiutare e aspramente criticare il manifesto liberalsocialista da Croce, il quale tendeva a separare il concetto di libertà,   per lui superiore, dall’idea di giustizia. Dissonanze politiche pesarono probabilmente  più del dovuto sulla “scombinata” e certo solo velatamente scientifica recensione che il Fiore aveva redatto nel ’56 sul libro di Antoni.  Per una curiosa ironia della sorte sia Antoni che Franchini hanno ricoperto, a  distanza di un decennio, incarichi universitari nell’ambito del settore filosofico 21  sulla disciplina della Filosofia della storia, tanto avversata da Croce. Pur tra molte difficoltà burocratico-isti tuzionali Antoni riusciva nel ’54 a cambiare titolarità  (adempiendo ad un impegno preso col filosofo), chiamato infine sulla cattedra di  20   A Tommaso Fiore è stato dedicato nel ’67 un intero fascicolo della «Rivista Pugliese» di  Bari, comprensivo del carteggio con Carlo Rosselli e con Guido Dorso.  21  Antoni aveva precedentemente insegnato Letteratura tedesca a Padova dal 1942  politici in maniera distaccata dalla realtà, realtà che pure in gioventù lo aveva attratto  e animato. Le “infedeltà” o presunte tali riscontrate dal recensore nei riguardi di  Croce venivano prima denunciate in nome di un crocianesimo fossilizzato, quasi che lo si volesse difendere a tutti i costi, e poi segnalate come devianze, talvolta vere e proprie concessioni a un larvato gentilianesimo. Inutile dire che questo avveniva, e poteva esser fatto, solo sminuzzando il discorso di Antoni e calcando la mano su alcune frasi o concetti che risultavano distorti nel loro effettivo significato. Date le premesse, non stupisce la conclusione cui giungeva il recensore quando si chiedeva:  “ ma quale crocianesimo è questo? ”  se, difatti, Antoni si era permesso di seminare dubbi, di rivelare incertezze e contraddizioni nel sistema. La peggior cattiveria nello  scritto del Fiore consistette però nell’attribuire ad Antoni una sorta di astenia  emotiva, ben altra cosa rispetto alla passione democratica del De Ruggiero e al  civismo mazziniano dell’Omodeo, entrambi già scomparsi . Eppure Tommaso Fiore era andato da amico e sodale ad accogliere Antoni a Bari in una precedente visita dello studioso nella città pugliese; Fiore era un antifascita convinto e aveva fatto parte del movimento democratico meridionale con De Martino, Dorso, in continuità con Salvemini, Gobetti e Carlo Rosselli 20 . Un po’ d’anni addietro, nel ’40 Guido Calogero e nel ’41 Tommaso Fiore , si videro rifiutare e aspramente criticare il manifesto liberalsocialista da Croce, il quale tendeva a separare il concetto di libertà,   per lui superiore, dall’idea di giustizia. Dissonanze politiche pesarono probabilmente  più del dovuto sulla “scombinata” e certo solo velatamente scientifica recensione che il Fiore aveva redatto nel ’56 sul libro di Antoni.  Per una curiosa ironia della sorte sia Antoni che Franchini hanno ricoperto, a  distanza di un decennio, incarichi universitari nell’ambito del settore filosofico 21  sulla disciplina della Filosofia della storia, tanto avversata da Croce. Pur tra molte difficoltà burocratico-isti tuzionali Antoni riusciva nel ’54 a cambiare titolarità  (adempiendo ad un impegno preso col filosofo), chiamato infine sulla cattedra di  20   A Tommaso Fiore è stato dedicato nel ’67 un intero fascicolo della «Rivista Pugliese» di  Bari, comprensivo del carteggio con Carlo Rosselli e con Guido Dorso.  21  Antoni aveva precedentemente insegnato Letteratura tedesca a Padova dal 1942 10  Storia della filosofia moderna e contemporanea nell’Università di Roma. Franchini ottenne l’incarico didattico nell’Uni versità di Napoli dopo aver conseguito la libera  docenza, inaugurando il corso nel ’56 con una prolusione sulla  Filosofia della storia , materia che si accingeva ad insegnare. Antoni non riuscì a recarsi a Napoli per assistervi, ma poté leggerne il testo su «Criterio» con sincero compiacimento 22 .  Franchini tracciò in quell’occasione il profilo storico della questione, dai pensatori cristiani fino a Hegel, a Spengler e Toynbee, difendendo l’insegnabilità di una  disciplina che mira a conoscere «un secolare biso gno dell’animo umano» rivolto a dare un senso generale alle epoche storiche. S’intende che  la filosofia della storia, in quanto caso particolare della metafisica, andava svecchiata e in un certo senso riformulata attraverso la metodologia storica non disgiunta dalle sempre essenziali  ricerche di storia della storiografia. Egli si appellava alla tradizione “locale” ma  europea di Vico, De Sanctis, Bertrando Spaventa, Omodeo. Non faceva però il nome di Antonio Labriola, ricordato invece da Antoni (lettera del 14 gennaio 1956) insieme al caso Ferrero e alla oramai lontana, nel tempo, battaglia contro la filosofia della storia in un celebre discorso che Croce tenne al Senato del Regno nel maggio del 1913 23 . La prolusione di Franchini si chiudeva con un omaggio «al primo docente  ufficiale che di questa materia l’Italia abbia avuto, il nostro Maestro ed Amico Carlo Antoni…» 24 . La recensione al libro di Sprigge merita qualche nota in margine, anche a  difesa dell’interprete inglese sul quale potrebbe pesare fin troppo l’icastica  osservazione di Antoni che gli attribuisce una lettura del rapporto di Croce col cristianesimo sulla base di mere considerazioni politicistiche. Franchini cercò allora  22   La Prolusione uscì in due puntate su «Criterio», la rivista diretta a Firenze da Ragghianti, nel ’57, I, n. 4,  pp. 277-284 e I, n. 5, pp. 354-363. «Criterio» fu poi ripresa da Franchini nella Nuova Serie Filosofica, e da lui diretta dal 1983 al 1990.  23  Il discorso in Senato non conteneva, contrariamente a quanto talvolta si è lasciato intendere, alcun riferimento a Ferrero (per il quale si veda invece la nota di Croce in  Conversazioni critiche , serie I, Bari, Laterza 1918. Il testo del discorso in Senato del 29 maggio 1913 si può leggere in   Discorsi parlamentari , con un saggio di M. Maggi, Bologna, Il Mulino, 2002. Su  Croce e Ferrero  si veda la nota di F. Tessitore in «Rivista di Studi crociani», 1 (1964), pp. 147-150. Sulla riconciliazione di Croce e Ferrero, in nome di un comune sentire negli anni bui del fascismo, rimando a A. Parente,  Croce per lumi sparsi , Firenze, La Nuova Italia, 1975, pp. 270-273.  24  La Prolusione fu poi ristampata in Franchini,   Metafisica e Storia , cit., pp. 105-13311  di dipanare la controversa materia 25 , riconoscendo allo Sprigge la buona fede pur nella ripetizione del luogo comune per il quale si attribuivano a Croce inclinazioni e spirito conservatori. In effetti Croce aveva mostrato sempre  “comprensione” per la Chiesa cattolica, ciò non pertanto lo scritto del ’42, che pure piacque molto per  evidenti ragioni a taluni cattolici, fu una risposta alla sfida dei fatti sulla base di principi teorici che in ogni modo ispirarono il filosofo, il cui sguardo per necessità  mirava ad assumere connotati universali “oltre” la mera contingenza delle circostanze  politiche. E tuttavia il contenuto di quel testo è sempre “presente” nel suo significato  inequivocabile. La figura di Gesù, al centro del cristianesimo, ha rappresentato un messaggio ancora fermamente iscritto nel cuore della modernità e dentro la storia del mondo contemporaneo, sia per gli appartenenti ad una chiesa sia per i laici credenti e  non credenti. Non in poco conto pertanto dev’essere  tenuto il plurale espresso in quel  “noi” ( Perché   [noi]  non possiamo non dirci cristiani ), che difatti esclude il discorso in prima persona, ed esclude che si tratti della confessione di un sentimento segreto.  Parimenti estranee all’argomento crociano furon o le polemiche anticlericali, del tutto fuori luogo in un contesto che, come può verificare ogni attento lettore, fu di carattere teoretico e storiografico. Il cristianesimo non è stato un miracolo, ma un processo storico; anche se proprio il fatto di aver intersecato profondamente le vicende storiche di una così vasta parte del mondo lo rende una sorta di evento straordinario, non però  diversamente, in chiave ontologica, dal miracolo che ogni ente è, e dall’eccezione che  noi tutti siamo. Le lettere, fatt esi più rare tra il ’58 e i primi mesi del ’59, raccontano di vicende  accademiche e di fatti quotidiani, di brevi viaggi e di alcuni malanni che affliggevano Antoni già da qualche tempo. Al centro peraltro sta la figura di Luigi Scaravelli, scomparso tragicamente nella primavera del 1957. Nella Commemorazione pisana 26  Antoni aveva tracciato dello Scaravelli, a pochi mesi dalla morte, un profilo davvero  25  La recensione al libro di C. Sprigge,   Benedetto Croce, l’uomo e il pensatore  (Napoli, Ricciardi, 1956) apparve su «Criterio» con il titolo  Un profilo del Croce , 2 (1957), pp. 165-167 e fu ristampata nel volume   L’oggetto della filosofia , Napoli, Giannini, 1962, pp. 253-258.  26  La commemorazione letta nella Sala degli Stemmi della Scuola Normale Superiore il 23 novembre 1957 è nel volume di C. Antoni,  Gratitudine , Milano-Napoli, Ricciardi, 1969, pp. 32-521956 Caro Franchini, ho letto la recensione, che Le restituisco. Mi rallegro con Lei per il fatto che il Suo libro sia stato recensito dalla «Historische Zeitschrift», che resta tuttora la migliore rivista tedesca di studi storici 49 . È un onore per Lei. In quanto alla recensione stessa, essa ha il consueto carattere informativo delle recensioni tedesche, nelle quali di rado si prende posizione. Naturalmente noi, abituati allo stile delle recensioni crociane, ci impazientiamo dinanzi a tanta acriticità. Ignoro chi sia questo Funke. Con i più cordiali saluti Suo Antoni Ha visto il mio  Tramonto delle ideologie  sul «Mondo»? 50  Roma, 4 sett. 1956 Mio caro Franchini,  49  Si tratta della recensione di G. Funke al libro di Franchini   Esperienza dello storicismo , in «Historische Zeitschrift», Bd. 181, 3, (1956), pp. 596-600. Antoni aveva scritto sul «Mondo» (marzo 1954) un lungo e denso articolo sul volume di Franchini, che si può leggere nella raccolta   Il tempo e le idee , a cura di M. Biscione, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1967, pp. 447-451.  50  Vedi «Il Mondo», luglio 1956, in   Il Tempo e le idee , cit., pp. 232-24 12  partecipe, in spirito di amicizia e di stima per un uomo schivo e assai colto, conversatore brillante che sapeva «passare dalla musica classica al romanzo francese, dalla pittura alla fisica nucleare». Giunto alla filosofia da studi scientifici, di matematica e di medicina, Scaravelli si era infatti misurato con i grandi della tradizione filosofica specie su temi di logica pura per certi versi, ma in virtù  dell’intento di far pre valere  il capire sull’esistere. A Croce e Gentile aveva dedicato con acume le sue fatiche d’interprete, non meno che a Platone, Cartesio, Kant,  Heidegger, Heisenberg. In ogni modo egli aveva cercato di risolvere un suo problema teoretico. Antoni scrive a Franchini (lettera del 3 dic. 1958): «Il problema di  Scaravelli era quello di dedurre il molteplice dall’identico, cioè di scoprire o “capire”  come la grande madre genera i suoi figli». Problema insolubile perché pur muovendo  dal principio d’identità indispensabile per la comprensione dei significati, Scaravelli  dovette infine arrendersi alla sua dissolvenza aprendosi piuttosto al giudizio delle  forme concrete dell’esistere storico. Si trattava  del problema della creazione del mondo, concludeva Antoni, riassumendo così in una formula efficace le puntuali analisi contenute nella  Critica del capire 27  , ch’ebbero il merito di rompere il silenzio  con cui il libro fu accolto, nonostante il parere molto   positivo espresso nel ’42 dallo  stesso Croce.  Mancò, infine, il tempo per discutere tra amici intorno all’ultimo libro di  Antoni   La restaurazione del diritto di natura . Franchini ne aveva parlato nel numero di luglio del «Mondo», accogliendo senza riserve la proposta, in apparenza assai poco  storicistica, di un “ritorno” al principio dell’etica universalmente umana, la sola  capace però «di evitare le pericolose conseguenze del predominio della tecnica e della civiltà di massa». Egli ebbe forse bene a mente le parole adoperate da Antoni in una lettera di qualche anno prima 28 : alla base del giudizio storico e dell’azione morale  e politica sta la luce di un concetto universale dello spirito umano che tuttavia, proprio nella forma di un umanesimo rinnovato, non contrasta affatto con la visione  27  Si veda la lunga recensione di Antoni a L. Scaravelli,  Critica del capire , in «Giornale critico della filosofia italiana», Seconda serie, II (1942), pp. 232-234.  28  Vedi lettera del 2 luglio 1956, più avanti riportatastoricistica e dialettica della vita con tutte le sue imprevedibili e particolarissime circostanze. *** Roma, 6 novembre 1948 Caro dott. Franchini, è da tempo che seguo con vivo interesse la Sua attività di studioso. Così ho letto la Sua bella recensione del libro del Ciardo 29  e il Suo articolo sul Gramsci, comparso sullo «Spettatore» 30 . Ho ricevuto oggi la sua memoria su  Storicismo e   relativismo 31 , che ho letto subito. Penso che il suo esame del rapporto e la differenza  tra “storicismo” e “istorismo” ossia relativismo storicistico sia molto opportuno oltre  che acuto. Ella mi muove un lieve appunto: quello di aver attribuito al Troeltsch il merito  di aver introdotto nell’uso comune il termine di “storicismo”. Mi sembra però di aver  detto una verità incontestabile: anche se al termine il Troeltsch continuava a dare un significato deteriore, tuttav ia egli ha introdotto l’uso del termine stesso nel dominio  della storiografia e della riflessione sui metodi della storiografia. Soltanto dopo di lui si parla di storicismo moderno, di problemi, crisi ecc. dello storicismo. Se Ella ha occasione di venire a Roma, sarò assai lieto di vederla e di conversare con lei. Con cordiali saluti  29  La recensione al libro di M. Ciardo,   Le quattro epoche dello storicismo , era uscita in «La parola del passato», 6 (1947), pp. 368-373 (rist. nel volume R. Franchini,   Esperienza dello storicismo , Napoli, Giannini, 1953).  30   Si tratta dell’articolo   La “metodologia dell’azione” di A. Gramsci , uscito in «Lo Spettatore italiano», 6 (1948). La rivista si pubblicava a Roma per iniziativa di Elena Croce, figlia maggiore del filosofo, e del marito Raimondo Craveri.  31  Cfr. R. Franchini,  Storicismo e relativismo , in «Atti» dell’Accademia Pontaniana, N.S., I (1949), pp. 241 -255 (rist. in   Esperienza dello storicismo,  cit.)Roma, 12 marzo 1950 Caro Franchini, di ritorno da Bari, dove sono  stato a tenere una conferenza agli “Amici della cultura”, trovo la sua lettera e mi affretto a rispondere, ossia a rilasciarle il “certificato” che desidera 32 . Con cordialissimi auguri Suo Carlo Antoni Roma, 12 marzo 1950 È da qualche anno che seguo con molta attenzione gli scritti che il prof. Raffaello Franchini va pubblicando nelle riviste. Alcuni di essi, infatti, hanno già recato un contributo di chiarificazione e di critica assai notevole nel campo degli studi storico- filosofici: Tutti, poi, indistintamente sono la testimonianza d’un ingegno  assai vivace, fine, sensibile ai più urgenti problemi della filosofia e della   vita. Oltre a rivelare una preparazione culturale assai ricca e sostanziosa, essi indicano anche un  raro senso di umanità. Tra i giovani dell’ultima generazione il Franchini è certamente  uno dei più promettenti. Per le sue doti intellettuali e morali ritengo anche che possa  32   Segue la lusinghiera lettera di presentazione di Antoni sull’operosità del giovane Franchini, i l quale di lì a poco entrò a far parte del corpo docente del liceo classico della Scuola militare napoletanaessere un magnifico insegnante, tale da mantenere alto il prestigio di cui ha sempre  goduto il collegio della “Nunziatella”.  Carlo Antoni Roma, 1 ottobre 1951 Mio caro Franchini, ho letto con grande interesse il Suo saggio 33  e soprattutto la parte che mi riguarda. Ella ha afferrato perfettamente il mio pensiero (La ringrazio anche per averne messo in rilievo la novità), tanto perfettamente da trarne le conseguenze, che  io non avevo voluto trarne, malgrado che mi avvedessi che c’erano. In effetti Le confesso che ho i miei dubbi intorno ad una “dialettica” dei distinti. Di questo dubbio  Lei trova traccia del resto nella recensione  che feci allo “Hegel” di De Ruggiero.  In ogni caso sono assai lieto della penetrante attenzione che Ella dedica ai miei scritti. Suo Carlo Antoni Roma, 25 marzo 1952 Mio caro Franchini,  33  Il saggio è:   Morte e resurrezione della dialettica da Hegel a Croce , in «Letterature moderne», 3 (1951), pp. 292-302 (rist. in   Esperienza dello storicismo , cit.) il Suo articolo 34   mi ha fatto, com’è naturale, un immenso piacere. Attribuirmi il  merito di aver provocato in Croce il bisogno di riesaminare la questione della dialettica è, non occorre dirlo, rendermi il massimo degli onori. Ma Croce stesso che ne dice? Vorrei sapere se approva il Suo articolo. Con saluti cordialissimi Suo Carlo Antoni Roma, 31 marzo 1952 Mio caro Franchini, La ringrazio per la Sua lettera e per le notizie che mi dà. Come Ella può comprendere, la questione, da Lei sollevata nel Suo articolo, ha per me una grande  importanza. Le dirò come io veda la cosa. Quando pubblicai nel ’45 il mio saggio  sulla Dialettica di Hegel, in cui ne denunciavo il carattere intellettualistico, saggio ri stampato nel ’46 nelle mie “Considerazioni” 35 , Croce ne prese conoscenza, tanto che mi segnalò il Suo articolo in proposito, ma non si propose il problema. Erano  tempi in cui Croce, tutto preso dall’attività politica, non aveva probabilmente l’agio  di ritor nare sulle sue idee intorno alla dialettica. Il mio scritto suscitò l’interesse di De Ruggiero, che lo ha citato con molta lode nel suo “Hegel”, ma senza prender  posizione. Per quanto riguarda questa mia prima osservazione, penso che Croce abbia ragione nel negare che la sua revisione sia stata provocata da me.  34   Il riferimento è all’articolo:   La crudele dialettica , uscito su «Il Mondo» il 29-3- ’52. Tutti gli scritti di  Franchini che uscirono nella rivista di Mario Pannunzio dal 1950 al 1966 sono raccolti nel volume  Pensieri   sul “Mondo” , a cura di R. Viti Cavaliere, C. Gily, R. Melillo, con una Presentazione di G. Cotroneo, Napoli, Luciano, 2000.  35  C. Antoni,   La dialettica di Hegel , in «Poesia e verità», 1 (1945); rist. in Id.,  Considerazioni su Hegel e  Marx , Napoli, 1946. Si ricorda che Franchini recensì le  Considerazioni  nella rivista «Ethos», II (1946), pp. 87-90Ma nel ’49 io giunsi all’altra osservazione e cioè alla netta distinzione tra la hegeliana dialettica della contraddizione e la crociana dialettica dell’opposizione.  Essa si connetteva alla mia prece dente attribuzione (del ’46) a Croce della restaurazione del principio d’identità.  Ero molto incerto se comunicare o no a Croce questa mia osservazione, che  avevo svolto nel corso universitario di quell’anno. Mi rendevo conto, cioè, che essa  avrebbe provocato un grave turbamento ed un bisogno di una radicale revisione del pensiero crociano nei confronti di Hegel e della dialettica in generale. Mi consultai con parecchi amici. Tra costoro Riccardo Bacchelli, al quale ricorsi e per la sua sensibilità umana e psicologica e per la devozione che aveva per la persona di Croce, mi dissuase dal farlo, dicendo che oramai era meglio lasciare tranquillo il glorioso vegliardo e non costringerlo alla sua età a un siffatto sforzo. Tuttavia la cosa mi tormentava, dato che ritenevo che Croce avesse attribuito a Hegel la sua propria gloria e mi dispiaceva che potesse morire senza essersi reso conto della propria originalità nei confronti di quel suo maestro. Dopo che si fu ripreso dalla grave malattia, che lo colpì, mi feci coraggio e gli scrissi. Croce mi rispose con una lettera  che era un’accettazione di massima, ma contenuta in termini un po’ generici. Si vedeva che si riservava di meditare per suo conto l’intera questione. E infatti poco  dopo cominciarono a uscire i suoi nuovi scritti intorno alla vitalità e al suo carattere dialettico, e in genere intorno a Hegel e alla origine della dialettica hegeliana. Il punto di partenza di questi scritti, però, è fornito dal momento della vitalità, al quale Croce riporta tutta la dialettica: sia la teoria hegeliana per sé stessa, sia la dialettica della vita e dello spirito in sé. In questo modo Croce andava, in certo senso, più in là della  mia osservazione, scavalcandola e prendendo tutt’altra direzione. Le dirò che, invece,  per mio  conto ho proseguito in direzione ben diversa. Nel corso di quest’anno ho svolto un esame dell’intera questione, che mi ha portato a risultati che contrastano  con le tesi recentissime espresse da Croce.Per concludere penso che Croce, pur essendo stimolato dalla mia seconda osservazione, a riproporsi lo studio della natura della dialettica, è stato condotto alle  sue nuove idee dal senso più accentuato dell’importanza della vitalità.  Con cordialissimi saluti Suo Carlo Antoni Roma, 2-12-52 Mio caro Franchini, La ringrazio di aver pensato a me in questi giorni. Come sempre succede, nei primi momenti dopo la scomparsa di persona cara, non ci si rende conto del tutto della perdita. Il senso di vuoto viene dopo. Così accadrà per noi tutti: ma dovremmo anche cercare di restare uniti. Il Suo articolo comparso nel «Mondo» 36  mi è molto piaciuto. Vorrei vedere il fondo del «Times»: non potrebbe spedirmelo in prestito? Glielo restituirei subito. Arrivederci tra breve Suo Carlo Antoni Roma, 6 ottobre 1953  36  R. Franchini,   Benedetto Croce tra i due secoli , in «Il Mondo», 29-1 Caro Franchini, ho ancora sul mio tavolo la lettera, che ho ritrovato al mio ritorno dalle vacanze. Vorrei che Lei mi desse qualche notizia sul concorso, di modo che io possa eventualmente intervenire presso i commissari. Ho letto con piacere i Suoi due articoli: quello su Mann 37  e quello sul libro del Sainati 38 . Sulla personalità di Mann faccio molte riserve. Si parlò di lui con Croce,  l’ultima volta che lo vidi, ed in fondo Croce era d’accordo, quando dicevo che dagli  scritti di Mann veniva su un certo lezzo di frollo, se non addirittura di marcio. Attendo il Suo volume. Suo Carlo Antoni Roma, 11 aprile 1954 Caro Franchini,  con l’editore Pozza, che era qui in questi giorni, ho esaminato la questione della traduzione d’una scelta di lettere di Hegel 39 . I due volumi della nuova edizione  37   Su Mann era uscito l’articolo   Nobiltà dello spirito  sia in «Il Giornale» del 30-9- ‘53 sia in «Il Gi ornale di Trieste» del 6-10- ‘53.   38   Di Sainati si parlava a lungo nell’articolo  Studi crociani , apparso su «Il Mondo» del 6 ottobre 1953.  39   Il progetto di curatela dell’Epistolario hegeliano presentava più d’una difficoltà: la nuova edizione dell’Hoffmeister avrebbe dovuto far fede, assai più dell’edizione curata dal figlio del filosofo, ma era al momento incompleta. L’idea allora di rifarsi alla precedente edizione, da integrare eventualmente con le  lettere ritenute significative, si mostrò impraticabile. Franchini avrebbe dovuto occuparsi della traduzione di  una scelta di lettere e della stesura dell’introduzione storico -critica. Non se ne fece nulla, nonostante la   buona disposizione dell’editore Pozza e l’interessamento di Ragghiant   Sent from the all new AOL app for iOSdel Meiner, curata da Hoffmeister, arrivano al 1822. Sono previsti altri due volumi. La nuova edizione reca il copyright con espressa riserva dei diritti di traduzione. Per mia esperienza prevedo che le pretese del Meiner sarebbero esose. Da un rapido  confronto con la vecchia edizione del 1887, curata dal figlio, ho tratto l’impressione  che la nuova non rechi molto di nuovo. In ogni caso, se ci si volesse attenere a  quest’ultima, si dovrebbe attendere l’uscita dei due ultimi volumi, che chi sa quando  si attuerà. Con Pozza sono quindi giunto alla conclusione che ci conviene rifarci alla prima edizione, che reca anche sufficienti note. Ove risultasse qualche nuova lettera molto importante nella nuova edizione, il Pozza chiederebbe il diritto di traduzione per essa. Ella dovrebbe quindi cominciare il lavoro di scelta. Non le nascondo che dalla lettura delle lettere il compito della traduzione mi è apparso molto arduo. Con cordiali saluti Suo Carlo Antoni Roma, 5 maggio 1955 Caro Franchini, grazie per  le Sue parole. Si tratta in fondo d’un semplice cambiamento del titolo della mia cattedra, che era poi una sorta d’impegno che avevo assunto con Croce. Ancora l’ultima volta che lo vidi, Croce mi raccomandò di fare cambiare quel titolo di “filosofia della   storia”, che proprio non gli andava giù 40 . Gli spiegai allora  40   Alla notizia dell’ottenuto conferimento della cattedra di Filosofia della storia nella Facoltà di Lettere dell’Università di Roma, Croce nel congratularsi con l’Antoni, così gli scriveva: «Se la parola  sociologia  è screditata per la sua volgare origine positivistica, quella di  Filosofia della  storia è del pari screditata per la sua origine teologica e metafisica. Lei si deve subito dar da fare per cangiarlo». Cfr. Lettera di Croce ad che la procedura non era facile, ed infatti ci sono voluti parecchi anni, con modifiche allo statuto, per raggiungere il risultato 41 . Sono ansioso di leggere sulla «Nuova Antologia» la Sua recensione: peccato che sarà letta da pochi!  L’intervento di Tagliacozzo mi ha sorpreso: è un esempio del cattivo modo in  cui un discepolo può seguire un maestro, cui è affezionato. Con cordialissimi saluti, Suo Carlo Antoni Roma, 22 maggio 1955 Mio Caro Franchini, bellissima la Sua recensione, per cui Le sono molto grato 42 . Mi dispiace soltanto che essa compaia nella «Nuova Antologia», dove sarà letta da pochi. La Sua osservazione o previsione sulla sorpresa di molti che scopriranno quanto complessa sia la filosofia crociana, mi ha divertito e fatto ricordare come spesso mi sia toccato  di sentire che quella filosofia non era interessante, perché non era “problematica”. Mi  è piaciuto anche il modo, assai fine, con cui Ella ha saputo definire la mia posizione verso le dottrine del Maestro.  Antoni, 26 dicembre 1946, in  Carteggio Croce-Antoni , a cura di M. Musté, introduzione di G. Sasso, Bologna, Il Mulino, 1996, p. 73.  41  Dal 1954 Antoni fu chiamato alla cattedra di Storia della filosofia moderna e contemporanea.  42  La recensione al libro di Antoni  Commento a Croce  uscì con questo titolo sulla rivista «Nuova  Antologia» nel giugno di quell’anno Ottimo pure l’articolo sulla Storia e conomica del Kulischer 43 , anche dal punto di vista giornalistico. Sarà bene che ci vediamo prima della scadenza dei termini per la presentazione delle domande di libera docenza 44 . Il 26 mi reco a Firenze per incontrarmi con Ragghianti e Pozza, e sarò di ritorno soltanto il 30. Cordialmente Suo Carlo Antoni Roma, 14 gennaio 1956 Mio caro Franchini, una bronchite con i fiocchi   –   si direbbe ch e quest’anno sono iettato –   mi ha tenuto a letto per una settimana e ancora non so quando potrò uscire di casa. Prevedo che dovrò rinunciare al progetto di venire a Napoli per la Sua prolusione 45 : è un vero dispiacere per me, perché ci tenevo ad essere presente.  Il primo insegnante di “filosofia della storia” è stato, a quanto mi consta,  Terenzio Mamiani, poi a Roma Labriola tenne tale insegnamento per incarico, con  43   Antoni si riferiva all’articolo dal titolo  Una storia del progresso  uscito su «Il Giornale» del 13-5- ‘55 (rist.  in R. Franchini,   L’oggetto della filosofia , cit.).  44  Antoni  si era prodigato l’anno prima per l’inserimento della Filosofia della storia nell’elenco delle libere  docenze. Nel 1956 Franchini sostenne gli esami di abilitazione alla libera docenza in Filosofia della storia superandoli brillantemente. Tra i commissari Felice Battaglia, Adelchi Attisani e lo storico Giorgio Falco.  45   Franchini inaugurò il suo Corso di Filosofia della Storia nell’Università di Napoli nel 1956 con una  prolusione dal titolo   La Filosofia della storia,  il cui testo uscì poi, nel 1957, sulla rivista «Criterio» diretta da C.L. Ragghianti, in due puntate. Il testo della lezione inaugurale venne infine ristampato nel volume   Metafisica e Storia , cit.molto successo. Nella mia prolusione del 1946 46  tenni ad accennare alla continuità ideale, tramite Croce. La proposta di attribuire la cattedra a Ferrero, provocata da un clamoroso intervento del presidente Teodoro Roosevelt, fu bocciata dal Senato. Croce tenne allora un famoso discorso 47 , che valse a far cadere la proposta, del resto poco gradita dal mondo accademico di allora. Suo Carlo Antoni Roma, 14 giugno 1956 Mio caro Franchini, Ella può ben immaginare con quanto piacere ho letto e riletto la Sua memoria alla Pontaniana 48 . Anzitutto essa mi ha confortato confermando l’ utilità del mio intervento al Congresso di Napoli. Ma anche la parte che più propriamente riguarda il  mio “Commento” mi è stata di grande vantaggio. In fondo, si guardano i propri scritti sempre un po’ attraverso una nebbia: un osservatore acuto ed esperto , come Lei, è di grande aiuto a discernere le linee principali del proprio pensiero. La ringrazio, dunque, con molto affetto  46  La Prolusione dal titolo   La dottrina dialettica della storia  è nel volume postumo  Storicismo e antistoricismo , a cura di M. Biscione, introduzione di A. Pagliaro, Napoli, Morano, 1964, nella Collana di Filosofia diretta da E.P. Lamanna e P. Piovani.  47  Antoni si riferisce al celebre discorso di Croce al Senato del Regno, nella seduta del 29 maggio 1913,  Sul  disegno di legge “Istituzione di una cattedra di Filosofia della storia presso la Università di Roma” , che ora è possibile leggere nel volume   Benedetto Croce. Discorsi parlamentari , con un saggio di M. Maggi, cit., pp. 59-64.  48  La memoria accademica  di cui si parla riguardava l’ampio resoconto critico che Franchini scrisse intorno  al XVII Congresso di Filosofia che si era tenuto a Napoli nel marzo del 1955, dove Antoni era stato invitato a tenere la relazione introduttiva sul tema della conoscenza storica. Antonio Aliotta sul «Giornale  d’Italia» del 26 marzo 1955 aveva sottolineato l’importanza di una tradizione di storicismo crociano nell’ultimo decennio. La memoria di Franchini, dal titolo   La conoscenza storica , uscì negli «Atti»  dell’Accademia Pon taniana, N.S., V, 1956, pp. 277-288 (rist. in   Metafisica e Storia,  cit.Roma, 2 luglio 1956 Mio caro Franchini, la Sua osservazione tocca un punto, che aveva già suscitato le perplessità del mio amico Attisani. Nel mio articolo esso era trattato troppo sommariamente. Bisognerà che ci ritorni sopra. In ogni caso voglio subito avvertirla che non penso a qualcosa di medio tra conoscenza storica e azione, ma al semplice fatto che noi   pensiamo e giudichiamo la storia alla luce di quel concetto universale dell’uomo o  dello spirito umano, che è il medesimo che orienta la nostra azione morale e politica.  Questo concetto, in quanto principio dell’azione morale, è l’idea del Bene. Essa è  vera, anzi è la verità che abita in noi, ma si va definendo e chiarendo attraverso la storia, che per questo è storia della civiltà. Aggiungo che non vi è distinzione tra categoria e coscienza della categoria, anche  se la prima appare eterna e l’altra  storicamente relativa: la categoria è sempre coscienza di sé, ma si va rendendo sempre più cosciente, come, mi sembra, sia insegnato da Croce nelle parti storiche dei suoi trattati.  Ha fatto bene ad accettare l’invito al “Simposio” laterziano. Sono curioso di  sapere quali sono gli altri invitati. Ella non manca di combattività, sicché sono tranquilli per la buona causa. Non sono sicuro di resistere al caldo fino alla fine del mese. Tuttavia la prego di telefonare a casa mia al Suo passaggio da Romagrazie per la Sua lettera di consenso al mio articolo sul socialismo 51 . Era una  conferenza, che tenni nel gennaio dell’anno scor  so a Zurigo e che poi fu raccolta in un volume pubblicato in Svizzera. Avendo avuto una certa eco in Svizzera e Germania, pensai che era utile farla conoscere, anche in relazione alla situazione dei  “radicali”. In effetti mi sembra di aver ottenuto qualcos a: un socialista come Silone  ha sentito il bisogno di telefonarmi per dirmi che era d’accordo. Come Ella si sarà accorto, la parte più importante è l’ultima, dove io cerco di venire incontro alle “istanze” sociali senza cadere nelle confusioni del liberal -socialismo calogeriano. Mi sembra che proprio avendo attribuito al liberismo un carattere etico-politico, si possa  dargli anche un nuovo carattere positivo, liberatore, “sociale”.   In quanto all’indirizzo del «Mondo», alcuni amici mi hanno fatto osservare c he  da alcune settimane era piuttosto “moderato”. Poiché le critiche, che io Le esposi  nella nostra conversazione per strada, le vado facendo a Pannunzio appunto da alcune settimane, forse non è presunzione la mia, se suppongo di aver ottenuto qualcosa anche in questo senso. Va benissimo per la recensione allo Sprigge 52 , dove c’è da obiettare ad una sorta d’insinuazione (Croce avrebbe scritto l’articolo sul perché non possiamo non  dirci cristiani   –   che sappiamo aver avuto carattere anti-nazista   –   perché prevedeva  l’alleanza con la Dem. Cristiana, nel 1942!)  Suo Antoni Roma, 24 nov. 1956  51  Le convinzioni di Antoni sul socialismo, sul liberalismo e sulla incongruità di un liberalsocialismo furono sempre chiare e lineari. Franchini concordava. Qui esse emergono nella concretezza del dibattito politico che coinvolse gli intellettuali del «Mondo».  52  La recensione di Franchini alla traduzione italiana del libro di C. Sprigge,   Benedetto Croce, l’uomo e il   pensatore  (Napoli, Ricciardi, 1951) uscì su «Criterio» con il titolo  Un profilo del Croce , 2 (1957), pp. 165-167 (rist. nel volume   L’oggetto della filosofia , cit., pp. 253-258Caro Franchini,  l’infiammazione agli occhi, che mi aveva impedito di venire a Napoli e che  sembrava scomparsa, mi dà nuovamente fastidio, sicché devo riguardarmi.  Penso che Ella dovrebbe scrivere l’articolo sul primo decennio dell’Istituto 53 . Come forse Ella sa, nei tempi in cui Croce stava progettandolo, io insistetti presso  Mattioli, affinché scoraggiasse l’iniziativa. Infatti non avevo  nessuna fiducia nella  utilità dell’istituzione. Devo riconoscere che mi ero sbagliato, anche se difatti, errori,  inconvenienti non sono mancati. In complesso, mi sembra, il nostro giudizio deve essere positivo. Anche se ne hanno profittato alcuni furfante lli, se, cioè, l’eterogenesi dei fini o l’astuzia della ragione hanno operato in senso negativo, parecchi bravi giovani hanno avuto modo di studiare e lavorare. In quanto all’indirizzo “storico” dell’Istituto, esso non soltanto corrisponde al nome, ma al p reciso pensiero di Croce. Con i più cordiali saluti Suo Carlo Antoni Roma, 18 gennaio 1957 Mio caro Franchini, purtroppo devo rinunciare definitivamente alla mia gita a Napoli: non sono ancora completamente ristabilito e devo riguardarmi da una ennesima ricaduta. Non  53   Il 17 dicembre del ’57 fu pubblicato infatti sul «Mondo» l’articolo di Franchini   Dieci anni   nell’anniversario della fondazione dell’Istituto Italiano di Studi Storici avvenuta nel 1947 nella s ede di Palazzo Filomarino in Napoli ho ancora ripreso ad uscire di casa. Le faccio quindi per lettera gli affettuosi auguri che avrei voluto farle a voce. Spero di leggere la Sua prolusione in «Criterio» 54 . Le sono grato per il Suo   proposito di propormi per la “Pontaniana”: onore che accetto e che mi è molto  gradito 55 . Eccole i miei dati biografici: nato a Senosecchia (Trieste) il 15-8-1896; volontario nella guerra  ’15 - ’18, ferito, medaglia di bronzo e croce di guerra;  laureato in Filosofia a Firenze nel 1928; professore nei Licei scientifici dal 1924 al 1932 a Messina e a Roma;  assistente dell’Istituto Italiano di Studi Germanici dal 1932 al 1942. Libero  docente di Storia della filosofia nel 1937; professore di Letteratura tedesca a Padova nel 1942; membro della Giunta del Partito Liberale, Consultore nazionale, Commissario  dell’IRCE nel periodo 1944 -1946; chiamato nel 1946 alla cattedra di Filosofia della storia di Roma. Premio Einaudi per la filosofia 1952;  socio corr. dell’Accademia dei Lincei, dell’Arcadia, dell’Acc. Peloritana, socio  della Mont- Pelagia Society e dell’Archäologische Institut.  Chiamato alla cattedra di Storia della filosofia moderna e contemporanea 1954. Suo Carlo Antoni Roma, 15-2- ‘57   54  Cosa che avvenne. Vedi sopra la nota 44.  55   Franchini era diventato socio ordinario dell’Accademia Pontaniana di Napoli nel 1954 su proposta di  Fausto Nicolini. Rinvio per queste ed altre notizie biografiche al volumetto R. Franchini,   Autobiografia minima , Roma, Bulzoni, 1973. Antoni fu dal ’57 socio della prestigiosa Accademia Caro Franchini,  sono lieto per la notizia che Ella mi dà: così Ella potrà assumere l’incarico, che,  mi auguro, sia anche compensato. Lessi con piacere le notizie della Sua prolusione. Esse mi diedero qualche conforto in un momento di amarezza, quando cioè mi capitò di leggere sul «Ponte» la cattiva e balorda recensione di Tommaso Fiore al mio  Commento 56  .  E dire che costui, appena letto il libro, mi scrisse una lettera entusiastica! Tumiati 57 , al quale avevo espresso la mia sorpresa per la pubblicazione di siffatta sconcezza, mi scrisse una lettera piena di deplorazioni o scuse. Ma chi mi ha recato la serenità è stato Ragghianti, che, dopo aver fatto un breve ritratto del Fiore, mi ha suggerit o di seguire l’aurea massima di Flaubert: «Mon cul vous  contemple». Ottimo il Suo articolo in «Criterio» 58 . Suo Carlo Antoni Roma, 23 maggio 1957 Caro Franchini, non ho voluto che Ella attendesse il mio libro dalla ERI e Le ho spedito oggi una delle copie a mia disposizione. Pannunzio accoglierà volentieri la Sua recensione 59 .  56  La recensione di T. Fiore al  Commento a  Croce (1955) di Antoni era uscita in «Il Ponte», Rivista mensile di politica e letteratura, a. XII, 12 dicembre 1956, pp. 2155-2157.  57  Corrado Tumiati assunse la direzione della rivista «Il Ponte», fondata da Piero Calamandrei, a partire dal  1956, direzione che condivise per un certo periodo con Agnoletti (fino al ’65).   58   Antoni si riferisce all’artic olo di Franchini sul libro di Sprigge (vedi nota 51).  59  Si tratta del libro di Antoni   Lo storicismo,    pubblicato nel ’57 dalle edizioni ERI, in cui sono raccolte le conferenze da lui tenute nell’estate dell’anno precedente per il Terzo Programma della Radio italiana; la 957 Mio caro Franchini, è da un pezzo che non mi faccio vivo con Lei. Non Le scrissi quando Ella mi annunciò la fine del «Giornale», ultimo quotidiano liberale, che, oltre a tutto, era un bel giornale, assai bene redatto. Faceva onore a Napoli 60 . Per Lei, forse, l’esser  costretto ad abbandonare una continuata attività giornalistica è stato un vantaggio. Ella è ad un punto in cui deve concentrare i suoi spazi. Non le ho neppure scritto che la prefazione al Suo nuovo libro mi ha dato molta soddisfazione e mi ha trovato pienamente consenziente. Attendo ora il libro 61 , di cui voglio occuparmi in un articolo sul «Mondo» oppure in «Criterio» (che, dopo un intervallo dovuto a indisposizioni di Ragghianti, riprende ora ad uscire). Sono  d’accordo con Lei anche per quanto riguarda i collaboratori del «Mondo», tra i quali  la qualità non corrisponde spesso alla quantità. Tornato dalla villeggiatura   –   sono stato sul lago di Como e in Svizzera -, ho  avuto la sessione d’esami e una sessione del Consiglio Superiore. Altra sessione di  detto Consiglio è prevista per il 23 c.m. Alla fine del mese sarò a Marburgo, invitato dai filosofi tedeschi a partecipare ad un loro congresso e a intervenirvi con una  conferenza. Cercherò d’istruirli.  Con affettuosi saluti Suo  recensione di Franchini dal titolo  Una storia dello storicismo  uscì puntualmente su «Il Mondo» nel giugno  del ’57 (rist. in   Metafisica e Storia , cit.).  60  «Il Giornale», quotidiano liberale come ben sottolineava Antoni, uscì a Napoli dal 1954 al 1957. Fu fondato da Quinto Quintieri e Tommaso Astarita. Franchini lavorò nella redazione del «G iornale» dal ’49  alla fine: vi era entrato su pressione e interessamento dello stesso Croce.  61  Il libro di Franchini in uscita era   Metafisica e Storia , edito poi nel ’58 presso l’editore Giannini di Napoli 1958 Caro Franchini, La ringrazio per aver pensato a me per una conferenza alla Società filosofica di   Napoli e ringrazio pure l’amico Carbonara e gli altri componenti del Consiglio. La  prego, anzi, di esprimere loro la mia più viva gratitudine per un invito che mi lusinga. Ma è da un pezzo che non accetto di tenere conferenze. Esse mi recano, infatti, molta tensione e fatica: non amo leggere, ma il parlare richiede uno sforzo, che mi lascia prostrato. La prego quindi di scusarmi presso la Società filosofica. Mi auguro di vederla tra breve qui a Roma. Con saluti affettuosi Suo Carlo Antoni Roma, 20 marzo 1958 Caro Franchini, ho una certa intenzione di muovermi per Pasqua, anche per togliermi di dosso  una certa malinconia e irritazione, ma penso che sarò a Roma per l’assemblea dell’Associazione. In caso contrario La avvertirei in tempo. Ho un vivo desiderio di32  parlare a lungo con Lei di molte cose, anche perché mi vado sempre più isolando 62 : ciò che non fa bene alla salute. Con cordialissimi saluti Suo Carlo Antoni  Roma, 22 sett. ‘58  Caro Franchini, La ringrazio anzitutto per il Suo interessamento al caso del ragazzo, che Le avevo raccomandato. Ella ha fatto più di quanto potessi sperare. Il trafiletto mi sembra andare benissimo: contiene alcune frecciate brillanti. Naturalmente recherà un dispiacere al nostro Battaglia. Il quale potrà sempre  rispondere che l’organizzazione del Congresso è stata diretta da un comitato, che  conteneva fior di laici e che costoro sono stati sempre consenzienti 63 . A mio avviso il  difetto sta nell’assurdo di un congresso filosofico, dove i filosofi laici , se decidono di intervenire, si presentano necessariamente in ordine sparso, ciascuno con idee proprie, mentre le chiese vi inviano schiere compatte e disciplinate. Ho pure qualche  riserva da fare sulle parole dell’amico Calogero, che hanno un significato  che non condivido: dialogare sta bene, ma bisogna guardarsi dal ridurre la filosofia a mero dialogo, ché si rischia di ridurla ad un attualismo del dialogare, dove il dialogo stesso diventa fine a sé stesso. Ma questo è un altro discorso. Con cordialità  62  Trovano in un certo modo conferma le consideraz ioni sulla “nobile solitudine” tipica di uno studioso schivo e riservato come fu l’Antoni. Rinvio alla Introduzione di G. Sasso al  Carteggio Croce-Antoni , cit., p. XVIII.  63  Ancora strascichi polemici sui Congressi di filosofia in Italia1958 Mio caro Franchini,  in effetti quella mia frase sull’insolubilità del problema di Scaravelli è p iuttosto sibillina e può sembrare campata in aria. Mi piace molto che Ella me ne faccia quasi un rimprovero. Tuttavia in una commemorazione non potevo passare ad una critica e  soprattutto non potevo affrontare per mio conto l’intera questione 64 . Il problema  di Scaravelli era quello di dedurre il molteplice dall’identico, cioè di scoprire o “capire” come la grande madre genera i suoi figli. Era, insomma, il  problema della creazione del mondo. Se vogliamo, era anche il problema di derivare  l’estetica dalla logica, l’individuale esistenza dall’universale categoria. Questo, se non erro, era per lui il problema del “capire”, che, come Ella ben vede, era insolubile.  Ma Ella vede anche che se avessi dovuto spiegare perché il problema era mal posto, avrei dovuto tenere una vera e propria lezione. Con saluti cordialissimi Suo Carlo Antoni Roma, 8 gennaio 1959  64  Antoni aveva tenuto una splendida commemorazione di Luigi Scaravelli nella Sala degli Stemmi alla Scuola Normale di Pisa il 23 novembre 1957. Scaravelli era scomparso tragicamente nella primavera di  quell’anno. Così Antoni scriveva a Franchini in data 8 maggio ’57: «Ella  avrà saputo della tragica morte del mio vecchio, carissimo amico Scaravelli. Sono stato a Firenze ai suoi funerali. Era uno spirito amabile, brillante, fine, buono e un galantuomo anche nelle cose filosofiche: era uno dei nostri ed io contavo su di lui. Per me è una perdita dolorosissima».Caro Franchini, eccellente il Suo articolo su M. Weber 65 . Ella ha indubbiamente ragione nel trovare un presupposto kantiano o neo-kantiano nella sua teoria del tipo ideale. Io ne avevo avvertito la presenza, ma non vi avevo insistito. Assai utile il Suo articolo per quei fessi in mala fede che pretendono di scoprire Weber e di utilizzarlo, assieme a  Dilthey, contro Croce. Raramente il rancore, l’arrivismo, la petulanza hanno messo  insieme tanta stupidità. Ma che cosa credono di concludere con questa impresa sballata? Suo Carlo Antoni Roma, 3 marzo 1959 Caro Franchini,   penso anch’io che la Sua appartenenza alla Nunziatella possa essere d’ostacolo  ad un alleggerimento dei suoi incarichi scolastici, reso urgente dai suoi incarichi universitari. Ho ricevuto il Suo  Kant  66 , ma Le devo confessare che non ho trovato il tempo per leggerlo. Lo farò nei prossimi giorni. Alla fine di gennaio sono stato a Zurigo, dove ho tenuto una conferenza e ho parlato alla radio: è stata una gita splendida, un tempo magnifico, nella Svizzera coperta di neve. Suo Carlo Antoni  65   L’articolo di Franchini su  Weber e il “regresso”   era uscito nel gennaio del ’59 su «Il Mondo».   66  Si tratta del volume: I. Kant,  Critica della ragion pratica , a cura di R. Franchini, Bari, Laterza, 1959.Raffaello Franchini. Franchini – not to be confused with Franchini, author of ‘I gladiatori’ -- Keywords: I gladiatori. vitale, avvenire, divenire, storia, historismus, ragione storica, spirito, dialettica, opposti, l’opposto, il distinto, aequi-vocalita della dialettica – dialettica come metodo della filosofia, non della scienza; prospettico, prespetico, spetico, giudizio, l’utile, storia ciclica, storia lineale, filosofia analitica, historimus philologicus, critica della ragione storica; Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Franchini” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51760313400/in/datetaken/

 

Grice e Franci – i ostrogoti – filosofia italiana – Luigi Speranza (Ferrara). Filosofo.  Grice: “I like Franci; for one, he philosophises and calls his thing ‘studi linguistici,’ for another, he teaches in a varsity older than mine!” Insegna a Bologna. i suoi interessi si sono concentrati principalmente sullo studio delle molteplici manifestazioni della spiritualità. Dopo essersi laureato a Bologna con Heilmann, ha poi compiuto studi di perfezionamento a Roma sotto la supervisione di Tucci. Direttore del Dipartimento di Studi Linguistici, presidente dell'Accademia delle Scienze e direttore della Biblioteca di Discipline Umanistiche presso l'Bologna. È stato inoltre Accademico effettivo dell'Accademia delle Scienze dell'Istituto di Bologna; Socio ordinario dell'Istituto Italiano per il Medio ed Estremo Oriente, Roma; Membro dell'European Society for Asian Philosophy, Nottingham, Socio Onorario e membro del Comitato Scientifico dell'Associazione Italia-India; Consigliere dell'Associazione Italiana di Studi Sanscriti; Vicepresidente del Centro di Documentazione e Iniziativa per la Pace «Giovanni Favilli»; Membro del Comitato Direttivo del Centro Studi, Iniziative e Informazioni «Amilcar Cabral»; Membro del Coordinamento nazionale per l'insegnamento delle culture afro-asiatiche nella scuola secondaria; Direttore della collana «Studi e testi orientali». Ha inoltre insegnato presso le Calcutta per tre anni nei primi anni sessanta e di Firenze.  Insegna: Sanscrito Lingue Arie Moderne dell'India Storia dell'India Moderna e Contemporanea Filosofie, Religioni e Storia dell'India e dell'Asia Centrale. Gli interessi di Franci si rivolgano principalmente all'India classica e, in particolare, allo studio del pensiero mistico (bhakti) e dell'Advaita Vedānta shankariano. Egli non ha mancato comunque di approfondirne anche gli aspetti moderni e contemporanei:  il ruolo dell'induismo nell'India d'oggi; problematiche relative alla questione linguistica, con particolare attenzione alle letterature in bengali e in inglese; studi sul pensiero classico nell'India d'oggi e i pensatori moderni in generale come Aurobindo. Altre opere: L'Upadesasahasri (Gadyabhaga) di Sankara: contributo allo studio del Kevaladvaita” (Bologna); “Recenti sviluppi delle questioni linguistiche indiane, Bologna); “Alcuni problemi e tendenze della filosofia comparata” (Bologna); “Yoga ed esicasmo, Trapani, “Saggi indologici, Bologna, La Bhakti: l'amore di Dio nell'induismo, Fossano); “Studi sul pensiero indiano, Bologna, Piero Martinetti e "Il sistema Sankhya", Contributi alla storia dell'orientalismo, Giorgio Renato Franci, Bologna, Luigi Heilmann linguista, indologo, umanista, Bologna, La benedizione di Babele: contributi alla storia degli studi orientali e linguistici, e delle presenze orientali, a Bologna, Bologna, L'induismo, Bologna, Il Mulino, Induismo, prefazione di Gianfranco Ravasifotografie di Andrea Pistolesi, Milano, Touring Club Italiano, Il Buddhismo, Bologna, Il Mulino, Yoga, Bologna, Il Mulino, Filosofia indiana Induismo, Treccani L'Enciclopedia italiana".  Wikipedia Ricerca Ostrogoti antico popolo germanico Lingua Segui Modifica Ulteriori informazioni Questa voce o sezione sull'argomento storia è priva o carente di note e riferimenti bibliografici puntuali. Gli Ostrogoti (in latino Ostrogothi o Austrogothi) erano il ramo orientale dei Goti, una tribù germanicache influenzò gli eventi politici del tardo Impero romano.   Palazzo di Teodorico a Ravenna, mosaico nella basilica di Sant'Apollinare Nuovo. Sconfissero Odoacre, che aveva deposto Romolo Augusto, ultimo Imperatore Romano d'Occidente, e si insediarono in Italia. Furono poi sconfitti dai Bizantini.  Identità con i GrutungiModifica  Fibula ostrogota a forma di aquila. La tribù degli Ostrogoti (Austrogothi) viene citata per la prima volta nel 269[1] all'interno della biografia dell'imperatore Claudio il Gotico (attribuita a Trebellius Pollio), appartenente alla raccolta "Historia Augusta": essi sono ricordati fra le tribù della Scizia che invasero e devastarono allora l'impero (all'interno della biografia gli Ostrogoti sono citati insieme con i Grutungi, i Tervingi e i Visigoti)[2].  Secondo Herwig Wolfram le fonti primarie parlavano di Tervingi/Grutungi o di Vesi/Ostrogoti senza mai mischiare le coppie.[3] I quattro nomi venivano usati contemporaneamente, ma sempre rispettando le coppie, come in Gruthungi, Austrogothi, Tervingi, Visi.[4]  Herwig Wolfram e Thomas Burns concludono che il termine "Grutungi" era un identificativo geografico usato dai Tervingi per descrivere un popolo che si autodefiniva Ostrogoti.[4][5] Questa terminologia sparì dopo che i Goti vennero fatti scappare dall'invasione unnica. A suo supporto, Wolfram cita Zosimo che parla di un gruppo di Sciti a nord del Danubio chiamati "Grutungi" dai barbari dell'Ister.[6] Wolfram conclude che questo popolo erano i Tervingi rimasti dopo la conquista degli Unni.[6] Secondo questa concezione Grutungi e Ostrogoti furono più o meno lo stesso popolo.[5]  Che i Grutungi fossero gli Ostrogoti era anche il parere di Giordane[7] Egli identificò i re Ostrogoti da Teodorico il Grande a Teodato come gli eredi del re Grutungio Ermanarico. Questa interpretazione, nonostante sia condivisa da molti odierni studiosi, non è universalmente condivisa. La nomenclatura di Grutungi e Tervingi cadde in disuso poco dopo il 400.[3] In generale, la terminologia di una tribù gotica divisa dagli altri scomparve gradatamente dopo l'assorbimento fatto dall'impero romano.[4]  Peter Heather ritiene invece che l'identificazione tradizionale degli Ostrogoti con i Greutungi sia errata. Secondo Heather gli Ostrogoti nacquero solo nella seconda metà del V secolo dalla coalizione tra i Goti Amal in Pannonia (ex sudditi degli Unni) e i Goti foederati dell'Impero in Tracia.[8] I Grutungi che nel 382 si stanziarono all'interno dell'Impero come foederati, secondo Heather, non erano lo stesso popolo che fondò un regno romano-barbarico in Italia negli ultimi anni del V secolo sotto Teodorico il Grande, ma i progenitori (insieme con i Tervingi e i Goti superstiti dell'armata di Radagaiso) dei Visigoti. Secondo Heather, i Visigoti nacquero agli inizi del V secolo dalla coalizione, sotto Alarico, di tre gruppi gotici:[9]  Tervingi (stanziati come foederati nei Balcani nel 382 e poi uniti sotto la guida di Alarico) Grutungi (stanziati come foederati nei Balcani nel 382 e poi uniti sotto la guida di Alarico) Goti di Radagaiso (invasa l'Italia nel 405, vennero sconfitti da Stilicone e arruolati nell'esercito romano; dopo l'uccisione di Stilicone, vi fu un'ondata repressiva da parte dell'Impero contro i soldati di origine barbarica, che decisero dunque di unirsi ad Alarico) Secondo Heather, dunque, i Grutungi erano i progenitori dei Visigoti, non Ostrogoti.  Genealogia mitologica e storicaModific Þjelvar (secondo la Gutasaga)  Hafþi=Huítastjerna Graipr  Guti ovvero Gapt (o Gautr o Gautar) (anche Gaut, Goto, etc.) (cfr. Giordane)  Hulmul Gautrekr leggendario re dei Geati  Augis   "Amala" capostipite degli Amali Hisarnis  Ostrogota (ca. 200 - 249 d.C.), primo re degli Ostrogoti Hunuil Athal Achiulf  Oduulf  Ansila Edilf Vultuuf   Hermanaric (+ 376) re della tribù gotica dei Grutungi Valaravans Hunimund  Vinitharius Thorismund   Vandalarius  Beremund Thiudimer (+ 474)   Valamir Vidimer Veteric   = Erelieva Eutaric = Amalasunta   Teodorico (454 ca. - 526)   Amalafrida   = (1) N.N.; (2)Audofleda (o Audefleda)  Atalarico   Matasunta = (1) Vitige;  (2) Germano Giustino  (1) Teodegota = Alarico II (2) Amalasunta = Eutaric  Germano StorModifica  Posizionamento degli Ostrogoti in Sarmazia attorno all'anno 380.  Il regno gotico in Dacia (Gutthiuda), 271-376. Dal III al V secoloModifica Secondo le loro stesse tradizioni erano originari dell'attuale isola svedese di Gotland e la regione di Götaland.  Nel 250 si divisero dai visigoti e nacque appunto il regno ostrogoto. Il primo re si chiamava Ostrogota ed era della stirpe degli Amali. [senza fonte]  Nel 251 gli Ostrogoti uccisero l'imperatore Decio, più tardi saccheggiarono alcune isole dell'Egeo e conquistarono la Tracia e la Mesia.  La prima menzione di Ostrogoti si ha nel 269, quando l'imperatore Claudio II li riconobbe fra i barbari sciti. In quell'anno Claudio II riuscì a fermare l'avanzata degli Ostrogoti.  Nelle prime fasi della loro migrazione dalla Scandinavia, gli Ostrogoti, o goti d'Oriente fondarono un regno a nord del Mar Nero, dal III al IV secolo(Cultura di Černjachov).  Ma nel 340 ricominciarono le scorrerie e conquistarono il regno vandalo (che prima della conquista del Nord Africa si trovava in Dacia) e presero questa popolosa regione.  Dopo queste vittorie assoggettarono popoli slavi(sklaveni) e arrivarono fino al Mar Baltico, e alcuni storici paragonarono le loro imprese a quelle di Alessandro Magno, perché avevano creato un regno che partiva dalla Grecia e arrivava fino al mar Baltico.  Invasioni degli UnniModifica Incalzati dagli Unni che li avevano scacciati dalla loro regione d'insediamento tra il Danubio e il Mar Nero, gli Ostrogoti chiesero pressantemente asilo a Valente, accalcandosi ai confini dell'Impero, precisamente lungo il Danubio. L'imperatore Valente accettò di accogliere le popolazioni barbare come foederati, allo scopo di rafforzare il proprio esercito e per aumentare la base imponibile del fisco.[10] Gli Ostrogoti si stabilirono così nel territorio della Mesia e della Dacia.  Dopo le invasioni degli UnniModifica Travolti dall'invasione unna, numerosi nuclei di Ostrogoti entrarono a far parte dell'orda di Attila; dopo la morte del condottiero unno (453), il popolo ostrogoto si ricostituì e si stanziò lungo il medio corso del Danubio, in un territorio corrispondente grosso modo all'odierna Serbia. Dopo il collasso dell'Impero degli Unni nel 454, molti Ostrogoti vennero spostati dall'imperatore Marciano in Pannonia con la qualifica di foederati. Nel 460, durante il regno di Leone I, dal momento che l'impero romano smise di pagare la quota annuale, devastarono l'Illiria. Venne firmata la pace nel 461 in seguito alla quale il giovane Teodorico Amalo, figlio di Teodemiro della dinastia Amali, venne mandato a Costantinopoli come ostaggio, dove ricevette un'educazione romana.[11]  Regno in ItaliaModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Regno ostrogoto e Teodorico il Grande.  Il 30 settembre 489 Teodorico sconfigge Odoacre (Antica pergamena).  Estensione del Regno degli Ostrogoti. In Italia, nel 476 il barbaro Odoacre depose l'ultimo imperatore romano Romolo Augusto, detto Augustolo, e non osando proclamarsi imperatore si proclamò re di un misto di popoli barbari (Eruli, Sciri, Rugi, Gepidi, Turcilingi). Egli riscattò dai Vandali con un tributo la Sicilia, che rimase dunque unita all'Italia e ne seguì le sorti. Caduto l'Impero romano d'Occidente, era rimasto in piedi quello d'Oriente, il cui imperatore Zenone intendeva riconquistare l'Occidente, in mano ai barbari. L'imperatore era preoccupato dall'intraprendenza di Odoacre, che aveva saputo governare in modo da non urtare la suscettibilità dei Latini e da estendere i confini del suo regno.  Il periodo compreso tra il 477 e il 483 vide una lotta a tre tra Teodorico, che successe al padre nel 474, Teodorico Strabone e l'imperatore bizantino Zenone. Nel corso di questo conflitto le alleanze cambiarono più volte, e buona parte dei Balcani venne devastata. Alla fine, dopo la morte di Strabone avvenuta nel 481, Zenone scese a patti con Teodorico. Parte della Mesiae della Dacia vennero cedute ai Goti, e Teodorico venne nominato magister militum praesentalis e Console nel 484.[12] Solo un anno dopo Teodorico e Zenone ripresero il loro conflitto, e di nuovo Teodorico invase la Tracia saccheggiandola. Fu allora che Zenone siglò un accordo con Teodorico, invitandolo a invadere l'Italia in suo nome per scacciare il re degli Eruli Odoacre che, dopo aver deposto l'ultimo imperatore romano d'Occidente Romolo Augusto(476) ed essersi proclamato Rex Italiae, amministrava la penisola in totale autonomia.   In numero forse di 250.000 tra uomini, donne e bambini[13], da Nouae risalirono la Sava condotti da Teodorico loro re, si scontrarono con Odoacre ad Aquileia e lo batterono a Verona (489). Odoacre scese invano nell'Italia centrale per ottenere aiuti da Roma. Riguadagnata Ravenna riuscì a battere l'avversario e a chiuderlo in Pavia: ma i Visigoti, giunti dalla Spagna in aiuto dei loro consanguinei, ruppero il blocco. La guerra continuò un altro anno finché l'11 agosto 490Odoacre fu sconfitto definitivamente sull'Adda[14] e venne costretto a rifugiarsi a Ravenna. Dopo un lungo assedio a Ravenna, nel febbraio 493 Odoacre si arrese a Teodorico con la promessa di aver salva la vita; ma Teodorico, violando i patti, uccise Odoacre a tradimento durante un banchetto, con le proprie mani, e ne fece uccidere i parenti e i seguaci[15]. Secondo altri, Odoacre fu invece giustiziato dopo rapido processo condotto dallo stesso Teodorico, in quanto stava tentando di indurre alcuni generali ostrogoti alla rivolta per riconquistare il trono.   Gli Ostrogoti costituirono un nuovo regno romano-barbarico in Italia, che si estendeva fino alla Pannoniaa nord est e alla Provincia (l'odierna Provenza) a nord ovest. Come Odoacre, anche Teodorico poteva vantare il titolo di patrizio e rispondeva all'imperatore di Costantinopoli con la qualifica di viceré d'Italia, titolo riconosciuto dall'imperatore Anastasio nel 497. Il suo regno fu caratterizzato da un relativo ordine interno, anche se i luogotenenti reali violarono sovente le disposizioni di Teodorico di rispettare la popolazione latina. Molti proprietari terrieri ancora fedeli al paganesimo furono eliminati con l'accusa di schiavismo, ma in molte circostanze fu un pretesto per consentire ai possidenti barbari e collaborazionisti (tra cui Quinto Aurelio Memmio Simmaco) di ingrandire le loro proprietà.  Il regno sopravvisse fino all'intervento diretto in Italia dell'imperatore d'Oriente Giustiniano I e alla susseguente guerra goto-bizantina.  La caduta                    Modifica Magnifying glass icon mgx2.svg                         Lo stesso argomento in dettaglio: Guerra gotica (535-553).  Impero di Teodorico - La mappa mostra i regni germanici nel 526, l'anno in cui morì Teodorico. Oltre all'Italia, la Dalmazia e la Provenza, regnò anche sui Visigoti. Dopo la morte di Teodorico del 30 agosto 526, le sue conquiste incominciarono a collassare. Successore di Teodorico fu il neonato nipote Atalarico, tutelato dalla madre Amalasunta come reggente. La mancanza di un erede forte portò a una rete di alleanze che condussero lo stato ostrogoto alla disintegrazione: il regno visigoto riconquistò la propria autonomia sotto Amalarico, i rapporti con i Vandali divennero ostili, e i Franchi incominciarono una nuova campagna espansionistica sottomettendo i Turingi, i Burgundi e quasi sfrattando i Visigoti dalla loro patria, la Gallia meridionale.[16] La posizione di predominanza che il regno ostrogoto acquisì grazie a Teodorico in Europa occidentale passò ora ai Franchi.  Non sopportando la reggenza di una donna, né l'educazione romana impartita al ragazzo, né i rapporti ossequiosi di Amalasunta verso Bisanzio e neppure il suo spirito conciliante verso i Romanici, la nobiltà gotariuscì a strapparle il figlio e a educarlo secondo le usanze del suo popolo. Tuttavia il giovane Atalarico si diede a una vita di sperperi ed eccessi trovando una morte prematura.[17] Allora Amalasunta, che voleva mantenere il potere, sposò suo cugino Teodato, ducadi Tuscia. Costui, però, la relegò in un'isola del lago di Bolsena, dove poi la fece uccidere da un suo sicario nel 535. L'esilio e l'assassino di Amalasunta fu il casus belli che permise a Giustiniano di invadere l'Italia.[18]Teodato tentò di evitare la guerra, spedendo messaggeri a Costantinopoli, ma Giustiniano era già pronto a reclamare l'Italia. Solo la rinuncia al trono di Teodato, e la consegna del suo regno all'impero, avrebbero evitato la guerra.  Il generale incaricato di dirigere le operazioni fu Belisario, che da poco aveva combattuto con successo contro i Vandali, a cui furono affidati 10.000 uomini tra comitatensi, foederati e buccellarii. Il generale bizantino conquistò velocemente la Sicilia, per poi occupare Rhegium (Reggio Calabria) e Napoliprima del novembre 536. A dicembre era a Roma, costringendo alla fuga il nuovo Re dei Goti Vitige che da poco era stato chiamato a sostituire Teodato. Rimase fermo a lungo a Roma poi, grazie a rinforzi giunti da Costantinopoli, il generale spedì Narsete a liberare Ariminum (Rimini), e Mundila (che battè i Goti a Pavia) a conquistare Mediolanum (Milano). I conflitti interni fra Narsete e Belisario fecero sì che Milano, assediata, dovette capitolare per fame venendo saccheggiata da 30.000 Goti che, guidati da Uraia, trucidarono gli abitanti (539).   Ritratto di Teodato su una sua moneta. Nel frattempo erano arrivati in Italia anche i Franchi e i Burgundi, discesi nella Pianura Padana al comando di Teodeberto. Belisario riuscì a espugnare Ravenna, capitale degli Ostrogoti, e a catturare Vitige, grazie a un'astuzia: finse di accettare l'offerta da parte dei Goti di diventare loro re per farsi aprire le porte e conquistarla. In seguito alla caduta di Ravenna, il tesoro regio e la corte furono trasferite a Pavia, dove già Teodorico aveva fatto realizzare un Palazzo reale[19].Giustiniano, spaventato, richiamò in patria Belisario lasciando campo libero ai Goti. Nel 541 salì al potere Totila, che ottenne l'appoggio della popolazione italica grazie a una politica agraria di eguaglianza, in base alla quale i servi, affrancati, si arruolavano in massa nell'esercito di Totila. Grazie a questo e ad altri fattori, riconquistò l'Italia settentrionale. Totila arrivò fino a Roma assediandola e conquistandola; per la sua difesa venne richiamato Belisario che la riprese nel 547. Giustiniano, dopo aver richiamato Belisario, lanciò nel 549 una nuova campagna di conquista dell'Italia, con a capo Germano. Durante la riconquista di Roma guidata da Narsete, Totila venne ferito e morì poco dopo. Il successore di Totila fu Teia che, sconfitto velocemente (552), fu anche l'ultimo re dei Goti. La sua sconfitta non determinò però l'automatica sottomissione delle guarnigioni ostrogote, che, pur non eleggendo un nuovo re, continuarono avanti una lotta disorganizzata, chiamando in loro aiuto i Franchi-Alamanni condotti da Butilino e Leutari: Narsete, comunque, riuscì a sconfiggere i franco-alamanni, spingendoli al ritiro e nello stesso tempo ottenne la sottomissione delle ultime fortezze ostrogote della Tuscia, di Cuma e di Conza (553-555). Rimaneva però ancora da conquistare la regione transpadana, in cui i Goti, condotti da Widin, non avevano intenzione di arrendersi e avevano ottenuto inoltre l'appoggio del comandante franco Amingo: la loro resistenza durò fino al 561/562, quando Narsete sconfisse sia Widin sia Amingo e sottomise Verona, Pavia[20] e Brescia, le ultime sacche di resistenza.  La Prammatica Sanzione del 554 ricondusse tutti i territori dell'Italia sotto la legislazione dell'Impero bizantino, e reintegrò tutti i proprietari terrieri delle terre alienate dall'"immondo" Totila a favore dei contadini. Gli Ostrogoti, in seguito alla vittoria bizantina, scomparvero praticamente come componente demica, venendo dispersi o arruolati come mercenari per servire in Oriente nell'esercito bizantino, mentre pochi rimasero in Italia; la Chiesa ariana venne perseguitata e molti Ostrogoti vennero convertiti al cattolicesimo, salvo poi essere riassorbiti dai Longobardi.  Cultura                                                    Modifica  Orecchini ostrogoti in stile policromo, Metropolitan Museum of Art, New York. Architettura                                               Modifica A causa della breve storia del regno, l'arte di Ostrogoti e Romani non subì una fusione. Sotto il patrocinio di Teodorico e Amalasunta, comunque, vennero svolti numerosi restauri di edifici dell'antica Roma. A Ravenna vennero costruite nuove chiese ed edifici monumentali, molti dei quali sono tuttora in piedi. La Basilica di Sant'Apollinare Nuovo, il suo battistero, e la Cappella Arcivescovile seguono uno stile architettonico tardo romano, mentre il Mausoleo di Teodorico mostra elementi puramente gotici, tipo il mancato uso di mattoni a cui vennero preferiti blocchi di calcare istriano, o il tetto in monoblocco di pietra da 300 tonnellate.  Letteratura Modifica Buona parte dei lavori di letteratura gotica (redatti durante il regno ostrogoto) sono in lingua latina, nonostante alcuni dei più vecchi siano stati tradotti in greco e in gotico (ad esempio il Codex Argenteus). Cassiodoro, provenendo da un contesto diverso, ed esso stesso incaricato di compiti importanti nelle istituzioni (console e magister officiorum), rappresenta la classe dirigente romana. Come molti altri con le stesse origini, servì lealmente Teodorico e i suoi eredi, come descritto nelle sue opere del tempo. Il suo Chronica, usato in seguito da Giordane per il proprio Getica, e altri panegirici scritti da lui e da altri romani per i re Goti del tempo, vennero redatti sotto la protezione dei signori Goti stessi. La sua posizione privilegiata gli permise di compilare il Variae Epistolae, un epistolario di comunicazioni di stato, che ci permette un'ottima conoscenza della diplomazia gotica del tempo.   Fibbia di cintura ostrogota da Torre del Mangano, VI secolo, Pavia, Musei Civici Boezio è un'altra importante figura del tempo. Ben educato e proveniente da una famiglia aristocratica, scrisse di matematica, musica e filosofia. Il suo lavoro più famoso, il De consolatione philosophiae, venne scritto mentre si trovava imprigionato con l'accusa di tradimento.  Re ostrogoti    Modifica Magnifying glass icon mgx2.svg                            Lo stesso argomento in dettaglio: Sovrani ostrogoti. Dinastia degli Amali       Modifica Valamiro circa 447-465 Teodemiro 468-474 Teodorico 476-526 Atalarico 526-534 Teodato 534-536 Re successivi                                 Modifica Vitige 536-540 Ildibaldo 540-541 Erarico 541 Totila 541-552 (anche conosciuto come Baduela) Teia 552-553 Note                              Modifica ^ Giovanni Battista Picotti, Ostrogoti in Enciclopedia Italiana Treccani, 1935. ^ Trebellius Pollio, Historia Augusta - Divus Claudius, ~ 400. ^ a b Herwig Wolfram, Storia dei Goti, Roma, Salerno editrice, 1985 (orig. ted. 1979), p. 24. ^ a b c Herwig Wolfram, p. 25 ^ a b Thomas S. Burns, A History of the Ostrogoths (Bloomington: Indiana University Press, 1984), p. 44. ^ a b Wolfram, 387 n57. ^ Heather, Peter, 1998, The Goths, Blackwell, Malden, 52 - 57, 300 - 301. ^ Heather 2005, p. 543. ^ Heather 2005, p. 542. ^ Wolfram, pp. 81-82. ^ Giordane, Getica, 271 ^ Bury (1923), Cap. XII, pp. 413-421 ^ AA.VV., Dall'impero romano a Carlo Magno, in La Storia, Milano, Mondadori, 2004, Vol. IV.. ^ Aldo A. Settia (1999), "Il fiume in guerra. L'Adda come ostacolo militare (V-XIV secolo)", Studi storici, XL(2): 487-512 ^ Gabriele Pepe, Il Medio Evo barbarico d'Italia. Torino: Giulio Einaudi, 1959, p. 31 ^ Bury (1923), Cap. XVIII, p. 161 ^ John Bagnell Bury (1923), History of the Later Roman Empire, Vols. I & II., Cap. XVIII, pp. 159-160 ^ Procopio di Cesarea, De Bello Gothico I, 5.1 ^ ( EN ) Filippo Brandolini, Pavia: Vestigia di una Civitas altomedievale. URL consultato il 1º giugno 2019. ^ ( EN ) Piero Majocchi, Piero Majocchi, Sviluppo e affermazione di una capitale altomedievale: Pavia in età gota e longobarda, "Reti Medievali - Rivista", XI - 2010, 2, url: < http://www.rmojs.unina.it/index.php/rm/article/view/54/357>, in Reti Medievali. URL consultato il 1º giugno 2019. Bibliografia                                                    Modifica Fonti primarie                                        Modifica Procopio di Cesarea, De bello Gothico, Volumi I-IV Giordane, De origine actibusque Getarum ("Origine e azioni dei Goti"). traduzione di Charles C. Mierow Cassiodoro, Chronica Cassiodoro, Varia epistolae ("Lettere"), presso il Progetto Gutenberg Anonymus Valesianus, Excerpta, Par. II Fonti secondarie                      Modifica In inglese Edward Gibbon, History of the Decline and Fall of the Roman Empire Vol. IV, Capitoli 41 Archiviato il 20 gennaio 2008 in Internet Archive. e 43Archiviato il 20 gennaio 2008 in Internet Archive. Thomas S. Burns, A History of the Ostrogoths, Boomington, 1984. John Bagnell Bury, History of the Later Roman Empire Vol. I & II, Macmillan & Co., Ltd., 1923. Peter Heather, The Goths, Oxford, Blackwell Publishers, 1996, ISBN 0-631-16536-3. Herwig Wolfram, Storia dei Goti, Roma, Salerno editrice, 1985 (orig. ted. 1979), pp. 431 ss. Patrick Amory, People and Identity in Ostrogothic Italy, 489–554, Cambridge 1997 In italiano Claudio Azzara, L'Italia dei barbari, Bologna, il Mulino, 2002 Renato Bordone; Giuseppe Sergi, Dieci secoli di medioevo, Torino, Einaudi, 2009 I Goti. Catalogo della mostra, Milano, Electa, 1994 Gabriele Pepe, Il Medio Evo barbarico d'Italia. Torino, Giulio Einaudi, 1959 Giovanni Tabacco, La Storia politica e sociale, dal tramonto dell'Impero romano alle prime formazioni di Stati regionali, in: Storia d'Italia, vol. I, Torino, Einaudi, 1974 Giovanni Tamassia, Storia del regno dei Goti e dei Longobardi in Italia, Vol. II.. Peter Heather, La caduta dell'Impero romano, Milano, Garzanti, 2005. Fonti su Teodorico AA. VV., Teoderico il grande e i Goti d'Italia. Atti del XIII Congresso internazionale di studi sull'Alto Medioevo (Milano, 2-6 novembre 1992), Spoleto, CISAM, 1993. G. Garollo, Teoderico re dei Goti e degl'Italiani, Firenze, Tip. Gazzetta d'Italia, 1879. W. Ensslin, Theoderich der Grosse, München, B. F. Bruckmann, 1947. P. Lamma, Teoderico, Brescia, La Scuola Editrice, 1951. J. Moorhead, Theoderic in Italy, Oxford, Oxford University Press, 1992. P. Amory, People and identity in Ostrogothic Italy, 489-554, Cambridge, Cambridge University Press, 1997. A. Giovanditto, Teodorico e i suoi goti in Italia (454-526), Jaca Book, Milano 1998. B. Saitta, La «civilitas» di Teoderico: rigore amministrativo, «tolleranza» religiosa e recupero dell'antico nell'Italia ostrogota, Roma, L'Erma di Bretschneider, 1999. Voci correlate                     Modifica Goti Sovrani ostrogoti Regno ostrogoto Lingua gotica Teodorico il Grande Grutungi Altri progetti                  Modifica Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Ostrogoti Collegamenti esterni                            Modifica ( IT ,  DE ,  FR ) Ostrogoti, su hls-dhs-dss.ch, Dizionario storico della Svizzera. Modifica su Wikidata ( EN ) Ostrogoti, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su Wikidata ( EN ) Ostrogoti, in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton Company. Modifica su Wikidata   Portale Antica Roma   Portale Medioevo Ultima modifica 9 giorni fa di InternetArchiveBot PAGINE CORRELATE Regno ostrogoto regno ostrogoto in Italia (493-553)  Tervingi Grutungi Wikipedia Il contenutoGiorgio Renato Franci. Keywords: i ostrogoti, Staal, Grice on Indian Philosophy – ‘the Indian philosophical culture” “The Western European philosophical culture” -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Franci” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51759288276/in/dateposted-public/

 

Grice e Francia – i centauri – filosofia italiana – Luigi Speranza (Firenze). Filosofo. Grice: “Francia is a good one; for one, he philosophised on ‘not’: “il rifiuto.”” Grice: “Italians use rifiute and confute – as we do!” – Grice: “Ryle used to say, to provoke Popper, that ‘to refute’ is pretentious, when “to deny” does!” Figlio del generale e geografo Orazio e di Gina Mazzoni, dopo gli studi liceali si laurea Firenze con Carrara, di cui diviene. Insegna a Firenze. Al contempo, svolse attività di ricerca all'Istituto Nazionale di Ottica di Arcetri, diretto da Vasco Ronchi. Lavora presso il centro di ricerca ottica della Ducati di Bologna fino al 1951 quando divennne professore straordinario di onde elettromagnetiche all'Firenze, quindi ordinario della stessa disciplina nel 1954 all'Istituto Nazionale di Ottica (Arcetri), dopo due anni di ricerca e di insegnamento all'Rochester. Passa all'Firenze, come ordinario di ottica su una cattedra appositamente creata per lui. Contemporaneamente, collaborò con l'Istituto di ricerca sulle microonde del CNR di Firenze, fondato da Nello Carrara. Fonda e diresse sia l'Istituto di ricerca sulle onde elettromagnetiche, oggi Istituto di Fisica Applicata del CNR, che l'Istituto di Elettronica Quantistica (sempre del CNR). Ordinario di fisica superiore presso l'Firenze rimanendovi fino al 1991, anno del pensionamento, quindi ebbe la nomina a professore emerito.  Altresì presidente della Società italiana di fisica dal 1968 al 1973, della International Commission for Optics della Società italiana di logica e filosofia della scienza, del Forum per i problemi della pace e della guerra e della Scuola di musica di Fiesole, oltre l'ambito scientifico Torando di Francia ebbe vasti interessi culturali, occupandosi approfonditamente tra l'altro di filosofia della scienza. Socio nazionale dell'Accademia Nazionale dei Lincei, era anche un appassionato dantista.  Era padre dell'architetto Cristiano Toraldo di Francia.  Si occupa variamente di fisica matematica, di ottica, di microonde, di laser, di meccanica quantistica, di elettrodinamica, di fondamenti della fisica, di epistemologia, di informatica. Tra i suoi contributi principali sono da ricordare, nel campo dell'ottica, la formulazione del concetto di super-risoluzione (Toraldo filters) e del principio dell'interferenza inversa (prodromico alla nozione di olografia), nonché la dimostrazione sperimentale dell'esistenza delle onde evanescenti (evanescent waves).  I suoi contributi più recenti hanno riguardato la didattica della fisica, la divulgazione della filosofia della scienza e i rapporti tra scienza e società nonché tra cultura scientifica e cultura umanistica. Tra l'altro, in collaborazione ha curato e tradotto in italiano il noto trattato La fisica di Feynman, opera didattica di Richard Feynman. Altre opere: Fisica per architetti, Edizioni Universitarie, Firenze); “Onde elettromagnetiche, Zanichelli, Bologna); “Radiazione, Istituto di Fisica, Università degli Studi di Firenze, Firenze, “Diffrazione” (Einaudi, Torino); “Il fotone e l’elettrone”; Istituto di Fisica, Università degli Studi di Firenze, Firenze, “L’accelerazione della particella” Istituto di Fisica, Università degli Studi di Firenze, Firenze); “Elettrodinamica e radiazione” Istituto di Fisica, Università degli Studi di Firenze, Firenze. “Il metodo geometrico ed il metodo aritmetico della fisica” Istituto di Fisica, Università degli Studi di Firenze, Firenze, “Radiazione”, Istituto di Fisica, Università degli Studi di Firenze, Firenze, “Il fisico (Einaudi, Torino); “Il fisico” (Guaraldi, Firenze-Rimini, Il rifiuto. Considerazioni semiserie di un fisico sul mondo di oggi e di domani, Einaudi, Torino, Problemi dei fondamenti della fisica, Scuola Internazionale di Fisica, Varenna sul Lago di Como, Società Italiana di Fisica, Editrice Compositori, Bologna, Le teorie fisiche. Un'analisi formale (Bollati Boringhieri, Torino); “L'amico di Platone. L'uomo nell'era scientifica” (Vallecchi, Firenze); “Le cose e i loro nomi” (Laterza, Roma-Bari);  Fisica per il licei” (La Nuova Italia, Firenze); “La grande avventura della scienza, Istituto di Fisica, Università degli Studi di Firenze, Firenze, “La scimmia allo specchio. Osservarsi per conoscere” (Laterza, Roma-Bari); “Un universo troppo semplice. La visione storica e la visione scientifica del mondo, Feltrinelli, Milano); “Tempo, cambiamento, invarianza” (Einaudi, Torino, Dialoghi di fine secolo. Ragionamenti sulla scienza e dintorni” (Giunti, Firenze); “Ex absurdo. Riflessioni di un fisico ottuagenario, Feltrinelli, Milano); “In fin dei conti, Di Renzo Editore, Roma); “Il pianeta assediato. Conversazione di fine millennio” Le lettere, Firenze, Nascita di un uomo moderno, Edizioni CNSL, Recanati, Introduzione alla filosofia della scienza” (Laterza, Roma-Bari, Metodi matematici della fisica, Edizioni IFAC, Firenze,. Elettrodinamica e teoria della radiazione (Renzo Vallauri e Daniela Mugnai), Edizioni IFAC, Firenze. Per le notizie biografiche qui riportate, ci si riferisce a R. Pratesi, L. Ronchi Abbozzo, "Breve nota sul contributo scientifico di Giuliano Toraldo di Francia", Quaderni della Società Italiana di Elettromagnetismo, cfr. anche aif/fisico/biografia-giuliano-toraldo-di-francia/  Elenco dei Professori  di Firenze Archiviato, Florence, Italian Physical Society, Editrice Compositori, Bologna, R. Pratesi, L. Ronchi Abbozzo, "Breve nota sul contributo “ ", Quaderni della Società Italiana di Elettromagnetismo,  E. Castellani, "Nodi d'invarianti: l'eredità", scienziato umanista, Le Scienze,  E. Agazzi, "Ricordo", Epistemologia, Breve nota sul contributo, su elettromagnetismo. Piero Angela, Dialoghi di fine secolo: ragionamenti sulla scienza e dintorni, Giunti Editore,  In ricordo, Riccardo Pratesi, Società italiana di fisica. Teatro dell'assurdo Lingua Segui Modifica Storia del teatro occidentale Teatro greco Tragedia greca Commedia greca Dramma satiresco Autori classici greci Teatro latino Atellana Cothurnata Fescennino Praetexta Palliata Satira latina Togata Autori classici latini Teatro medievale Sacra rappresentazione Mistero Moralità Masque Dumbshow Commedia elegiaca Teatro moderno Commedia umanistica Teatro erudito Dramma pastorale Teatro rinascimentale Teatro elisabettiano Commedia dell'arte Commedia ridicolosa Comédie larmoyante Dramma romantico Dramma borghese Dramma politico Teatro contemporaneo Regia teatrale Teorici del teatro Teatro epico Teatro dell'assurdo Varietà Storia della danza Storia del mimo e della pantomima Storia del circo Visita il Portale del Teatro Teatro dell'assurdo è la denominazione di un particolare tipo di opere scritte da alcuni drammaturghi, soprattutto europei, tra gli anni quaranta e gli anni sessanta, a volte prolungato agli anni settanta per quel che riguarda poi il lavoro di alcuni autori particolari. Con lo stesso termine si identifica anche tutto lo stile teatrale nato dall'evoluzione dei loro lavori.  EtimologiaModifica Il termine venne coniato dal critico Martin Esslin, che ne fece il titolo di una sua pubblicazione del 1961, The Theatre of the Absurd. Per Esslin il lavoro di questi autori consiste in una articolazione artistica del concetto filosofico di assurdità dell'esistenza, elaborato dagli autori dell'esistenzialismo (si vedano ad esempio le tesi di Jean-Paul Sartre risalenti agli anni trenta e quelle successive di Albert Camus, esposte anche nelle proprie produzioni narrative e appunto teatrale, oltre a quella consueta saggistica).  CaratteristicheModifica Le caratteristiche peculiari del teatro dell'assurdo sono il deliberato abbandono di un costrutto drammaturgico razionale e il rifiuto del linguaggio logico-consequenziale. La struttura tradizionale (trama di eventi, concatenazione, scioglimento) viene pertanto rigettata e sostituita da una successione di eventi priva di logica apparente, legati fra loro da una labile ed effimera traccia (uno stato d'animo o un'emozione), apparentemente senza alcun significato. Il teatro dell'assurdo si caratterizza per dialoghi volutamente senza senso, ripetitivi e serrati, capaci di suscitare a volte il sorriso nonostante il senso tragico del dramma che stanno vivendo i personaggi.  Tra i maggiori esponenti del teatro dell'assurdo (che potrebbe avere come "padre" letterario Alfred Jarry) vanno ricordati Samuel Beckett, Jean Tardieu, Eugène Ionesco, Karl Valentin, Arthur Adamov e Georges Schehadé. Una seconda generazione ha avuto come protagonisti Harold Pinter, Robert Pinget, Boris Vian e Sławomir Mrożek. Anche Jean Genet, autore di Le serve, era stato inizialmente inserito da Esslin nel gruppo originario.  Fra gli autori italiani, fu spesso accostato al teatro dell'assurdo Achille Campanile, indicandolo come un precursore.[1]  Note                                     Modifica ^ [1] BibliografiaModifica ( EN ) Martin Esslin, The Theatre of the Absurd, Garden City, Doubleday & Company, 1961, OCLC 329986. Voci correlateModifica Assurdo Esistenzialismo Generi teatrali Patafisica Collegamenti esterniModifica ( EN ) Teatro dell'assurdo, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su Wikidata Voce «Teatro dell'assurdo» nel Dizionario dello Spettacolo del '900, su Delteatro.it. URL consultato il 19 maggio 2007 (archiviato dall' url originale  il 27 maggio 2007). Controllo di autoritàThesaurus BNCF 51160 · LCCN( EN ) sh85134575 · GND ( DE ) 4141169-9 ·BNE ( ES ) XX549476 (data) · BNF( FR ) cb120486794 (data) · J9U( EN ,  HE ) 987007534167305171 (topic)   Portale Letteratura   Portale Teatro Ultima modifica 2 mesi fa di 62.98.219.141 PAGINE CORRELATE Esistenzialismo corrente di pensiero  Eugène Ionesco scrittore e drammaturgo francese  Albert Camus et la Parole manquante Langue Suivre Modifier Albert Camus et la Parole manquante est un essai d'Alain Costes consacré à Albert Camus et publié en 1973. Le cheminement intellectuel de l'écrivain est étudié sous un angle psychanalytique, et décomposé en trois « cycles » : le cycle de l'absurde, le cycle de la révolte et le cycle de la culpabilité.   Albert Camus et la Parole manquante Auteur Alain Costes Pays Drapeau de la France France Genre Essai Éditeur Payot Collection Science de l'Homme Date de parution septembre 1973 Nombre de pages 252 Série Étude psychanalytique modifier Consultez la documentation du modèle Camus parole.jpg Cadre conceptuel                                                Modifier Alain Costes se propose de saisir le cheminement intellectuel d'un des écrivains français les plus lus, aussi bien dans son pays que dans le monde. C'est à dessein qu'il a placé cette citation de Camus en tête de son ouvrage :  « Comme les grandes œuvres, les sentiments profonds signifient toujours plus qu'ils n'ont conscience de le dire. »  — Le Mythe de Sisyphe  Alain Costes fonde son étude sur une double approche, à la fois textuelle sur l'analyse des textes de Camus -la plus exhaustive possible- et sur une approche biographique de l'homme. Pour lui, les deux approches sont complémentaires pour rendre compte le plus exactement possible de ce qui a fondé la démarche camusienne. Son objectif est de rechercher ce qui fait le désir de création d'un écrivain comme lui et de s'attacher à expliquer les modes de sublimation littéraire : pourquoi est-il devenu écrivain, « où puise-t-il son énergie créatrice ? »  Il est certain que dans son cas le fait parental est un élément évident. D'une part, il n'a pas suffisamment connu son père, mort pendant la guerre en 1914, un an après la naissance d'Albert, pour en garder la moindre image. D'autre part, sa mère, douce et peu loquace, s'est toujours effacée derrière la figure autoritaire de la grand-mère. L'enfant est donc rapidement confronté à une forte absence parentale. Pour combler ce manque, il va rechercher en particulier des substituts de père, qu'il va trouver chez son instituteur monsieur Germain[1] puis chez Jean Grenier, son professeur de philosophie au lycée d'Alger (ce qu'Alain Costes appelle des « imagos »[2]). Il leur impute son amour pour le football, dont son instituteur était particulièrement féru[3], de la nage et de la mer, qui lui viendrait de son oncle tonnelier qui vivait avec eux chez la grand-mère, et de l'écriture qu'il tiendrait du professeur Jean Grenier.  Son amour du théâtre en découle largement : « Le théâtre transportait Camus dans le monde qui était exactement le sien du fait de ses identifications paternelles littéraires. »  Cycle de l'absurde         Modifier  Sisyphe « L'homme que je serais si je n'avais été l'enfant que je fus. »  — Carnets tome 2, page 137.  Apparemment, La mort heureuse son premier roman, s'inscrit dans un cadre œdipien banal : Mersault entretient une liaison avec Marthe qui va de temps en temps voir Zagreus, son ancien amant. Mais Mersault tue Zagreus dans une crise de jalousie. Tout se complique cependant  : Mersault a surtout tué Zagreus pour le voler, Zagreus l'estropié, (comme l'oncle de Camus)[4] infirmité qu'il a rapportée de la guerre, cette guerre où son père est mort. Voilà la raison essentielle du meurtre de Zagreus par Mersault, cet homme silencieux qui rappelle à Camus cette mère absente et murée dans son silence[5].  L'analyse d'Alain Costes est confortée par un article[6]où les difficultés de Meursault[7] se traduisent ainsi : échec du travail de deuil, perte de contact avec la réalité[8] et rupture des relations objectale[9]. C'est en quelque sorte le fantasme de Camus qui a pour titre L'Étranger.  L’ambivalence de Camus, le côté positif qu’il investit dans la Nature idéalisée et le côté négatif d’une perte de contact avec la réalité, c’est d’abord son premier recueil de nouvelles où l’on retrouve dans le titre cette dualité : « l’endroit » qu’il projette sur la Nature, sur l’amour et « l’envers » qui représente le monde absurde et angoissant. Face à cette angoisse, à ses tentations suicidaires – le suicide est « le seul problème philosophique » - Camus veut exprimer son pari pour la vie, par-delà l’absurde à travers l’analyse qu’il livre dans Le Mythe de Sisyphe.  « Quoi qu’il en soit, écrit Alain Costes, la pierre angulaire de la pensée de Camus réside dans les silences de sa mère[10]. Comme les mythes, les silences sont faits pour que l’imagination les anime. » Il rêve d’une 'philosophie du minéral', « à force d’indifférence et d’insensibilité, il arrive qu’un visage rejoigne la grandeur minérale d’un paysage »[11].  C’est la bonne mère Nature qui réapparaît mais sous une forme dénudée, hiératique, celle où il est souvent question de pierre ou de désert[12]. Le Malentenduaussi est une tragédie du mutisme, de la non communication, « comme toutes les œuvres du cycle de l’absurde »[13]. En  février 1943 , quand Camus termine Le Malentendu, il note dans ses carnets : « C’est le goût de la pierre qui m’attire peut-être tant vers la sculpture. Elle redonne à la forme humaine le poids et l’indifférence sans lesquels je ne lui vois de vraie grandeur »[11]. Comme le sculpteur qui fait parler la pierre, « Camus peuple le silence maternel de ses fantasmes ». C’est le mythe de Niobé, réduite au silence pour avoir provoqué la mort de ses enfants. Ce silence qui fascine tant Camus et lui renvoie l’image de sa mère, il va le vaincre par l’écriture, oralité du langage, qui tient aussi à son père mort et à son oncle muet.  Cycle de la révolte Modifier  La révolte selon Delacroix La conception de La Peste est difficile, laborieuse, trois versions se succèdent pour composer, recomposer, peaufiner son texte. Pour Alain Costes, ce long et pénible travail exprime la « restructuration progressive du moi physique camusien ». Camus précise ainsi son objectif : « Faire ainsi du thème de la séparation le grand thème du roman; c’est le thème de la mère qui doit tout dominer ». C’est un Camus recomposé en 4 personnages, expression de la restructuration de son Moi[14] : le docteur Rieux est le résistant Camus, Tarrou est le fils dont le père (comme celui de Camus) assista à une exécution capitale, Rambert le journaliste que la peste sépare de sa femme et Grand le long travail de création.  En  octobre 1948  est jouée la première de L’État de siège. Dans cette pièce, les habitants de Cadix vivent une vie insouciante quand survient le tyran Peste et sa secrétaire. Seul Diego s’oppose au tyran et se sacrifiera pour qu’il parte. Mais ici c’est l’image paternelle du tyran qui est maléfique, alors que l’imago maternel est valorisé et Diego va engager une lutte victorieuse contre le Père. Cette évolution indique selon Alain Costes, que Diego-Camus « aborde très clairement la situation œdipienne ».  Les Justes, cette pièce ou des révolutionnaires russes doivent tuer le Grand-duc, représentant du tsar (donc le Père) repose sur l’histoire du meurtre du père et l’histoire d’une passion avec Dora-Kaliayev. Les amants se rejoignent enfin au-delà de la mort dans un acte qui transcende leur amour contrairement à l’histoire de Victoria et de Diego dans L'État de siège. C’est pourquoi Alain Costes peut soutenir que pour la première fois, on y trouve une problématique authentiquement œdipienne.  Lors de la gestation de L'Homme révolté, Camus prend ses distances vis-à-vis de ses premiers maîtres, André de Richaud, André Gide, André Malraux, les philosophes allemands… et même Jean Grenier dont il dit : « rencontrer cet homme a été un grand bonheur. Le suivre aurait été mauvais, ne jamais l’abandonner sera bien »[15]. L’Homme révolté, c’est la recherche de la mesure, ce qu’il appelle la « pensée de Midi ». Camus veut dépasser le thème de l’absurde en repartant du mythe de Sisyphe, « je crie que je ne crois à rien et que tout est absurde, mais je ne puis douter de mon cri et il me faut au moins croire à ma protestation[16]. C’est ce dépassement qui devient révolte. Touche après touche, Camus trace à partir des faits accumulés (le recours au rationnel) ce qu’il appelle la mesure, qui doit permettre de concilier dimensions personnelle et collective, justice et liberté. On assiste selon Alain Costes au « passage d’une pensée antithétique à une pensée dialectique, La Pensée du Midi, synthèse de liberté et de justice, de culpabilité et d’innocence, d’individuel et de collectif, de personnel et de lucide.  Cycle de la culpabilité                                                   Modifier  Schéma de la culpabilité Dans L'Exil et le Royaume, aussi bien Janine La Femme infidèle dépressive qui, dans le Sahel loin de chez elle, perd ses repères et sa confiance en elle-même que dans Le Renégat, cet « esprit confus » qui cherche une rédemption masochiste jusque dans le désert saharien, ces deux héros dépressifs se vivent en tant qu’objet, « en état de totale dépendance », en quête d’un objet perdu (le mari pour elle et le père pour lui)[17].  On retrouve cette tendance dans la nouvelle Retour à Tipasa[18] où Camus est effectivement retourné, mais en hiver cette fois, contraste marquant avec le Tipasa de Noces écrasé de soleil. Il y trouve un temps de mélancolie et la frustration du retour à Paris car « il y a la beauté et il y a les humiliés ». Il emportera « une petite pièce de monnaie », beau visage femme côté pile et face rongée de l’autre côté.  La dépression latente, l’extrême difficulté à écrire s’inscrit dans les deux Jonas. La nouvelle conte l’histoire –très autobiographique- d’un peintre qui laisse envahir sa vie et ne parvient plus à exercer son art. Il en arrive à vivre dans la gêne, à se réfugier dans une espèce de cagibi dans lequel Alain Costes voit comme un rappel de l’utérus, régression ultime de la dissolution du Moi. Dans la seconde version plus optimiste, un mimodrame, Jonas se reconstruit en peignant une immense toile mais sa prise de conscience sera fatale à son 'objet', à sa femme qui dépérit et finit par mourir. Dans la seconde version, Camus est dans son élément, la réalité théâtrale où il va désormais se réfugier pour quelques années, échappant dans l’adaptation théâtrale au contenu, au fond qu’il emprunte aux auteurs qu’il adapte.  La seule nouvelle de L'Exil et le Royaume qui soit plus « optimisme » (porte ouverte au Royaume) s’intitule La Pierre qui pousse. Cette pierre rappelle bien sûr le rocher de Sisyphe mais ici le héros d’Arrast va se débarrasser de sa pierre en la déposant chez son ami le coq. Selon Alain Costes, ce n’est qu’en retrouvant la parole par sa discussion avec le coq que d’Arrast va pouvoir « évacuer son objet persécuteur (jeter sa pierre) et clore son travail de deuil ».  Dans La Chute, son héros Clamence va s’infliger un châtiment radical pour apaiser sa culpabilité, devenir sourd à ce cri, ce corps qui tombe à l’eau et le poursuit depuis si longtemps. Il s’installe dans cette ville de canaux et de brume, lui qui n’aime que le soleil de la Méditerranée, dans le « malconfort », « cette cellule de basse-fosse », comme Jonas va s’isoler dans sa soupente. De là, il va pouvoir prendre à témoin le monde entier, s’auto accuser, « projeter son surmoi sur le monde extérieur », se réfugier dans ce personnage double de juge-pénitent.   Ces années cinquante sont les années où Camus se lance dans l’adaptation et la direction théâtrale. Il y a, comme le note Roger Quilliot, des raisons objectives, le décès de Marcel Herrand[19], « la crise physique et morale confinant à la dépression » qui mobilise une partie importante de ses forces. Mais Alain Costes y voit surtout l’omnipotence des images du père[20], « retour au théâtre, retour aux grandes admirations adolescentes, retour au Père ».  En 1959, Camus tourne une nouvelle page. C’est en janvier, la première des possédés qui lui a coûté tant de temps et d’efforts, en novembre il commence à écrire Le premier homme, double quête de la mère et du père où « Camus avait retrouvé sa créativité » à travers la sublimation par l’écriture.  Références psychanalytiques                                                  Modifier Camus aborde plusieurs concepts psychanalytiques dans son œuvre[21] :  Surmoi : phase postérieure à la liquidation de l'Œdipe, trouvant sa source dans l'intériorisation des interdits parentaux et constitue le représentant psychique de la réalité extérieure ; Désintrication : arrêt d'une situation entremêlée  ; Parents combinés : fantasme très archaïque, précédant la scène primitive, défini par Mélanie Klein où les parents apparaissent confondus dans une relation sexuelle ininterrompue ; Processus primaire : Ensemble des mécanismes de l'appareil psychique de l'inconscient, produisant rêve et symptôme, lapsus et œuvre d'art. Les processus principaux sont le déplacement, la condensation et le retournement dans le contraire ; Processus secondaire : Mécanisme qui joue sur le pré conscient et l'inconscient avec révision du désir après examen de la réalité extérieure. Notes et références                       Modifier ↑ Monsieur Germain à qui il dédiera ses Discours de Suède, donc d'une certaine façon son prix Nobel de littérature. ↑ Image fantasmatique des représentations des deux sexes avec qui le sujet a vécu une relation affective durable. On peut ainsi discerner d'une façon très générale : « l'imago de la bonne mère ou l'imago de la mauvaise mère » (même chose pour le père). ↑ Camus sera d'abord un gardien de buts accompli au Racing club d'Alger puis un supporter assidu à Paris. ↑ Pour un portrait de cet oncle qui vivait avec eux à Alger, voir la nouvelle Les Muets dans le recueil L'Exil et le Royaume. ↑ Voir ses nouvelles autobiographiques dans L'Envers et l'Endroit. ↑ Pichon-Rivière et Baranger, Répression du deuil et intensification des mécanismes et des angoisses schizo-paranoïques, Revue française de psychanalise, 1959. ↑ Ne pas confondre Mersault héros de La Mort heureuse et Meursault héros de L'Étranger. ↑ Perte du réel « qui finit par une stupeur catatonique ». ↑ Dont le fantasme se focalise sur un objet. ↑ La pièce de Ben Jonson qu’il donne en mars 1937 avec sa troupe du Théâtre du travails’intitule La Femme silencieuse. ↑ a et b Carnets tome 2, édition de la Pléiade, page 80. ↑ Voir les nouvelles La Halte d’Oran ou le Minotaure et Le Désert. ↑ « La tragédie n’est-elle pas toujours “malentendu” au sens propre du terme, stupeur et pour tout dire, surdité » commente Roger Quillot dans son essai sur Camus La Mer et les Prisons. ↑ Morvan Lebesque écrivait déjà dans son essai sur Camus : « En Rieux, en Tarrou, voire en Joseph Grand ou en Rambert, c’est Camus lui-même qui se rassemble ». ↑ Carnets tome 2, page 277. ↑ Carnets tome 2, page 420. ↑ Alain Costes résume ainsi ces nouvelles : « Janine en quête d’un homme, le Renégat courant de père en père, les muets réduits (eux aussi) au silence par leur patron, Daru dans L’Hôte rendu étranger à son pays du fait de la loi, d’Arrast, Jonas et Clamence ulcérés par les exigences de leur surmoi, tous sont torturés par une problématique dont la plaque tournante est l’imago paternelle ↑ Nouvelle intégrée au recueil L'Été. ↑ Cette disparition prématurée oblige Camus à prendre la direction du festival d’Angers. ↑ Camus recherchera la tombe de son père avant d’aller s’y recueillir en 1957 à Saint-Brieuc. ↑ Janine Chasseguet-Smirgel, Dépersonnalisation, phase paranoïque et scène primitive, Revue française de psychanalyse, 1958. Voir aussi                               Modifier Sur les autres projets Wikimedia :  Albert Camus et la Parole manquante, sur Wikimedia Commons Albert Camus et la Parole manquante, sur Wikiquote Bibliographie                                                       Modifier Pichon-Rivière et Baranger, Notes sur l'Étranger de Camus, Revue française de psychanalyse, 1959 A. Durand, Le Cas Albert Camus, Fischbacher, 1961 R. De Luppé, Albert Camus, Éditions Universitaires, 1962 Pierre-Henri Simon, Présence de Camus, Éditions Nizet, 1962 Jean Grenier, Les Îles, Gallimard, 1964 Jean Onimus, Camus, Desclée de Brouwer / Fayard, 1965 P. Ginestier, Pour connaître la pensée d'Albert Camus, Gallimard, 1969 Danièle Boone, Camus, coll. La Plume du temps, éd. Henri Veyrier, 1987 Liens internes                       Modifier Société des études camusiennes Culpabilité (psychanalyse) icône décorative Portail de la littérature française Dernière modification il y a 3 mois par Vlaam PAGES ASSOCIÉES Le Mythe de Sisyphe ouvrage d'Albert Camus  Cycle de l'absurde La Mort heureuse livre de Albert Camus  Wikipédia Giuliano Toraldo di Francia. Francia. Keywords: i centauri, ex absurdo; scientific realism, philosophy of physics, foundations of physics; geometry and arithmetics as the methods in physics; observation and perception, ‘what the eye no longer sees’ – ‘we see with our eyes”; Eddington’s two tables – teoria relativistica, theory of relativity – theory of the absolute, particella, relativita, assoluto/relativo – relative-assoluto – Galilei – H. P. Grice’s discussion of the ‘relative-absolute’ distinction vis-à-vis R. M. Hare (‘there are no absolute values’) as cited by colonial philosopher J. L. Mackie in ‘Inventing right and wrong’ ‘absolute value’ ‘relative value’ , Lemarchand, theatre, not Esslin. --  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Francia” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51759455588/in/dateposted-public/

 

Grice e Franzini – espressione – filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano). Filosofo. Grice: “I like Franzini; for one, he philosophised on aesthetics and passions (‘passioni’). Sir Geoffrey [Warnock] and I philosophised on the former, if not the latter!” Si laurea con Giovanni Piana e Dino Formaggio. Insegna a Milano e l'Udine. Studia Husserl e la fenomenologia, nonché della filosofia francese, ha indagato sul fronte storico e teoretico alcuni temi cruciali dell'estetica, quali la “creazione”; “simbolo” (‘to throw two things together, so that the recipient compares them!); “immagine”;  “experienza estetica inter-soggetiva”. Sulla scorta di una ricognizione della genesi settecentesca dell' “estetica”, vista quest'ultima come punto di incontro tra doxa ed episteme, fra sentimento e ragione, fra il noetico e l’estetico, -- “La noetica di Grice” -- indaga lo statuto dell’estetica e della noetica, approfondendo il valore volitivo/giudicativo (noetico, contenuto, p) della dimensione pre-categoriale dell'esperienza (l’estetico). Questo percorso trovato una sintesi che mira alla definizione di una "fenomenologia del noetico”, no dell’estetico; ossia di una ‘noesi’ che sappia de-cifrare la ricchezza simbolica dell’estetico – rappresentazione, immagine. Altre opere: “Dall’estetico al noetico” (Milano, Unicopli); “Sul bello naturale” (Milano, Guanda); “Il bello naturale creato di Dio (phusei); il bello ART-ificiale creato dall’ART-ista Vinci (thesei – ex positione)” (Milano, Unicopli); La figura del diavolo, il discorso del diavolo” (Milano, Mimesis); “In principio erat verbum” Favola: dal mito al logos (Milano, Guerini); “In-scriptum, De-scriptum, ex-criptum – (Milano, Cuem); “Le leggi del cielo, l’estetico e il patico (Milano, Guerini); “Metafora, mimesi, morfo-genesi, progetto. Architettitura filosofica (Milano, Guerini). La Fenomenologia” (Milano); “Differenze nello spirito romano” (Milano, Edizioni dell'Arco); “Mondo possibile: l’interpretazione dell’espressione comunicativa (Milano, Guerini); “Il senso, il sensibile, il sentimentale, l’ingenuo” (Milano, Mondadori); “Il senso, sentire, sentimento” (Milano, Bruno Mondadori); “Percezione e immagine” (Milano, Il Castoro), “Piacere, dispiacere, Gusto e disgusto” (Milano, Nike); “Fenomenologia pura, fenomenologia impura, fenomenologia mista – il misto, il puro, l’impuro (Einaudi, Torino); “Cezanne a Liguria”; “Fenomenologia del noetico: Al di là dell'immagine” (Milano, Cortina); “Il teatro, la festa e la rivoluzione. Su Rousseau e gli enciclopedisti, Palermo, Aesthetica; "Estetica del bello, noetica del brutto, Palermo, Aesthetica, Immagine e verita: e vero che il sole si ferma) (Milano, Il Castoro); “L’estetico dell’espressione comunicativa” (Firenze, Le Monnier); “L’unicita della ragione; La cosedetta “altra ragione” – il buletico e il creditum: sensibilità, immaginazione, forma naturale, forma artificiale, forma create dall’art-ista, Milano, Il Castoro); Il simbolico e il noetico (to throw to things to be compared, say an Italian flag, and the  love of country); Simbolo: figura, materia, e forma – simbolo materiale – forma noetica – hyle-morphismo” (Milano, Il Saggiatore); “La lume dell’altre ragione” (Milano, Bruno Mondadori); La rappresentazione dello spazio – spatium (Milano, Mimesis); ntroduzione all'estetica, Bologna, Il Mulino); “Arte, bello e interpretazione della natura” (Milano, Mimesis); Non sparate sull'umanista. La sfida della valutazione (Milano, Guerini e Associati); “Filosofia della crisi” (Milano, Guerini e Associati,  pre-moderno, Moderno e postmoderno. Un bilancio, Milano, Raffaello Cortina Editore, ti dà il benvenuto, su eliofranzini. L'estetica aujourd'hui. Conversazione» Il rasoio di Occam MicroMega  Estetica, filosofia, vita quotidiana. Conversazione in MicroMega, su unimi Entra in carica oggi, il rettore  su unimi, contiene l'articolo Il nuovo rettore della Università Statale di Milano prevede di mantenere a Città Studi un polo di dipartimenti scientifici  Edmund Husserl Fenomenologia Scuola di Milano   SOCRATE: Caro Fedro, dove vai e da dove vieni? Platone FEDRO FEDRO: Dalla casa di Lisia, Socrate, il figlio di Cefalo, (1) e vado a fare una passeggiata fuori dalle mura. Ho passato parecchio tempo là seduto, fin dal mattino; e ora, seguendo il consiglio di Acumeno,(2) compagno mio e tuo, faccio delle passeggiate per le strade, poiché, a quanto dice, tolgono la stanchezza più di quelle sotto i portici. SOCRATE: E dice bene, amico mio. Dunque Lisia era in città, a quanto pare. FEDRO: Sì , alloggia da Epicrate, nella casa di Monco, quella vicino al tempio di Zeus Olimpio.(3) SOCRATE: E come avete trascorso il tempo? Lisia non vi ha forse imbandito, è chiaro, i suoi discorsi? FEDRO: Lo saprai, se hai tempo di ascoltarmi mentre cammino. SOCRATE: Ma come? Credi che io, per dirla con Pindaro, non faccia del sentire come avete trascorso il tempo tu e Lisia una faccenda «superiore a ogni negozio»? (4) FEDRO: Muoviti, allora! SOCRATE: Se vuoi parlare. FEDRO: Senza dubbio, Socrate, l'ascolto ti si addice, poiché il discorso su cui ci siamo intrattenuti era, non so in che modo, sull'amore. Lisia ha scritto di un bel giovane che viene tentato, ma non da un amante, e ha comunque trattato anche questo argomento in modo davvero elegante: sostiene infatti che bisogna compiacere chi non ama piuttosto che chi ama. SOCRATE: E bravo! Avesse scritto che bisogna compiacere un povero piuttosto che un ricco, un vecchio piuttosto che un giovane, e tutte quelle cose che vanno bene a me e alla maggior parte di voi! Allora sì che i suoi discorsi sarebbero urbani e utili al popolo! Io ora ho tanto desiderio di ascoltare, che se facessi a piedi la tua passeggiata fino a Megara e, seguendo Erodico,(5) arrivato alle mura tornassi di nuovo, non rimarrei dietro a te. FEDRO: Cosa dici, ottimo Socrate? Credi che io, da profano quale sono, ricorderò in modo degno di lui quello che Lisia, il più bravo a scrivere dei nostri contemporanei, ha composto in molto tempo e a suo agio? Ne sono ben lungi! Eppure vorrei avere questo più che molto oro. SOCRATE: Fedro, se io non conosco Fedro, mi sono scordato anche di me stesso! Ma non è vera né l'una né l'altra cosa: so bene che lui, ascoltando un discorso di Lisia, non l'ha ascoltato una volta sola, ma ritornandovi più volte sopra lo ha pregato di ripeterlo, e quello si è lasciato convincere volentieri. Poi però neppure questo gli è bastato, ma alla fine, ricevuto il libro, ha esaminato i passi che più di tutti bramava; e poiché ha fatto questo standosene seduto fin dal mattino, si è stancato ed è andato a fare una passeggiata, conoscendo, corpo d'un cane!, il discorso ormai a memoria, credo, a meno che non fosse troppo lungo. E così si è avviato fuori dalle mura per recitarlo. Imbattutosi poi in uno che ha la malattia di ascoltare discorsi, lo ha visto, e nel vederlo si è rallegrato di avere chi potesse coribanteggiare con lui (6) e lo ha invitato ad accompagnarlo. Ma quando l'amante dei discorsi lo ha pregato di declamarlo, si è schermito come se non desiderasse parlare: ma alla fine avrebbe parlato anche a viva forza, se non lo si fosse ascoltato volentieri. Tu dunque, Fedro, pregalo di fare adesso quello che comunque farà molto presto. FEDRO: Per me, veramente, la cosa di gran lunga migliore è parlare così come sono capace, poiché mi sembra che non mi lascerai assolutamente andare prima che abbia parlato, in qualunque modo. SOCRATE: Ti sembra davvero bene. FEDRO: Allora farò così . In realtà, Socrate, non l'ho proprio imparato tutto parola per parola: ti esporrò tuttavia il concetto più o meno di tutti gli argomenti con i quali lui ha sostenuto che la condizione di chi ama differisce da quella di chi non ama, uno per uno e per sommi capi, cominciando dal primo. SOCRATE: Prima però, carissì mo, mostrami che cos'hai nella sinistra sotto il mantello; ho l'impressione che tu abbia proprio il discorso. Se è così , tieni presente che io ti voglio molto bene, ma se c'è anche Lisia non ho assolutamente intenzione di offrirmi alle tue esercitazioni retoriche. Via, mostramelo! FEDRO: Smettila! Mi hai tolto, Socrate, la speranza che riponevo in te di esercitarmi. Ma dove vuoi che ci sediamo a leggere? SOCRATE: Giriamo di qui e andiamo lungo l'Ilisso,(7) poi ci sederemo dove ci sembrerà un posto tranquillo. FEDRO: A quanto pare, mi trovo a essere scalzo al momento giusto; tu infatti lo sei sempre. Perciò sarà per noi facilissimo camminare bagnandoci i piedi nell'acqua, e non spiacevole, tanto più in questa stagione e a quest'ora.(8) SOCRATE: Fa' da guida dunque, e intanto guarda dove ci potremo sedere. FEDRO: Vedi quell'altissimo platano? SOCRATE: E allora? FEDRO: Là c'è ombra, una brezza moderata ed erba su cui sederci o anche sdraiarci, se vogliamo. SOCRATE: Puoi pure guidarmici. FEDRO: Dimmi, Socrate: non è proprio da qui, da qualche parte dell'Ilisso, che a quanto si dice Borea ha rapito Orizia?(9) SOCRATE: Così si dice. FEDRO: Proprio da qui dunque? Le acque appaiono davvero dolci, pure e limpide, adatte alle fanciulle per giocarvi vicino. SOCRATE: No, circa due o tre stadi più in giù, dove si attraversa il fiume per andare al tempio di Agra: (10) appunto là c'è un altare di Borea. 2  Platone Fedro  FEDRO: Non ci ho mai fatto caso. Ma dimmi, per Zeus: tu, Socrate, sei convinto che questo racconto sia vero? SOCRATE: Ma se non ci credessi, come fanno i sapienti, non sarei una persona strana; e allora, facendo il sapiente, potrei dire che un soffio di Borea la spinse giù dalle rupi vicine mentre giocava con Farmacea, ed essendo morta così si è sparsa la voce che è stata rapita da Borea (oppure dall'Areopago,(11) poiché c'è anche questa leggenda, che fu rapita da là e non da qui). Io però, Fedro, considero queste spiegazioni sì ingegnose, ma proprie di un uomo fin troppo valente e impegnato, e non del tutto fortunato, se non altro perché dopo questo gli è giocoforza raddrizzare la forma degli Ippocentauri, e poi della Chimera; quindi gli si riversa addosso una folla di tali Gorgoni e Pegasi (12) e un gran numero di altri esseri straordinari dalla natura strana e portentosa. E se uno, non credendoci, vorrà ridurre ciascuno di questi esseri al verosimile, dato che fa uso di una sapienza rozza, avrà bisogno di molto tempo libero. Ma io non ho proprio tempo per queste cose; e il motivo, caro amico, è il seguente. Non sono ancora in grado, secondo l'iscrizione delfica, di conoscere me stesso;(13) quindi mi sembra ridicolo esaminare le cose che mi sono estranee quando ignoro ancora questo. Perciò mando tanti saluti a queste storie, standomene di quanto comunemente si crede riguardo a esse, come ho detto poco fa, ed esamino non queste cose ma me stesso, per vedere se per caso non sia una bestia più intricata e che getta fiamme più di Tifone, oppure un essere più mite e più semplice, partecipe per natura di una sorte divina e priva di vanità fumosa.(14) Ma cambiando discorso, amico, non era forse questo l'albero a cui volevi guidarci? FEDRO: Proprio questo. SOCRATE: Per Era, è un bel luogo per sostare! Questo platano è molto frondoso e imponente, l'alto agnocasto è bellissimo con la sua ombra, ed essendo nel pieno della fioritura rende il luogo assai profumato. Sotto il platano poi scorre la graziosissima fonte di acqua molto fresca, come si può sentire col piede. Dalle immagini di fanciulle e dalle statue sembra essere un luogo sacro ad alcune Ninfe e ad Acheloo.(15) E se vuoi ancora, com'è amabile e molto dolce il venticello del luogo! Una melodiosa eco estiva risponde al coro delle cicale. Ma la cosa più leggiadra di tutte è l'erba, poiché, disposta in dolce declivio, sembra fatta apposta per distendersi e appoggiarvi perfettamente la testa. Insomma, hai fatto da guida a un forestiero in modo eccellente, caro Fedro! FEDRO: Mirabile amico, sembri una persona davvero strana: assomigli proprio, come dici, a un forestiero condotto da una guida e non a un abitante del luogo. Non lasci la città per recarti oltre confine, e mi sembra che tu non esca affatto dalle mura. SOCRATE: Perdonami, carissimo. Io sono uno che ama imparare; la terra e gli alberi non vogliono insegnarmi nulla, gli uomini in città invece sì . Mi sembra però che tu abbia trovato la medicina per farmi uscire. Come infatti quelli che conducono gli animali affamati agitano davanti a loro un ramoscello verde o qualche frutto, così tu, tendendomi davanti al viso discorsi scritti sui libri, sembra che mi porterai in giro per tutta l'Attica e in qualsiasi altro luogo vorrai. Ma per ì l momento, ora che sono giunto qui io intendo sdraiarmi, tu scegli la posizione in cui pensi di poter leggere più comodamente e leggi. FEDRO: Ascolta, dunque. «Sei a conoscenza della mia situazione, e hai udito che ritengo sia per noi utile che queste cose accadano; ma non stimo giusto non poter ottenere ciò che chiedo perché non mi trovo a essere tuo amante. Gli innamorati si pentono dei benefici che hanno fatto, allorquando cessa la loro passione, mentre per gli altri non viene mai un tempo in cui conviene cambiare parere. Infatti fanno benefici secondo le loro possibilità non per costrizione, ma spontaneamente, per provvedere nel migliore dei modi alle proprie cose. Inoltre coloro che amano considerano sia ciò che è andato loro male a causa dell'amore, sia i benefici che hanno fatto, e aggiungendo a questo l'affanno che provavano pensano di aver reso già da tempo la degna ricompensa ai loro amati. Invece coloro che non amano non possono addurre come scusa la scarsa cura delle proprie cose per questo motivo, né mettere in conto gli affanni trascorsi, né incolpare gli amati delle discordie con i familiari; sicché, tolti di mezzo tanti mali, non resta loro altro se non fare con premura ciò che pensano sarà loro gradito quando l'avranno fatto. Inoltre, se vale la pena di tenere in grande considerazione gli amanti perché dicono di essere amici al sommo grado di coloro che amano e sono pronti sia a parole sia coi fatti a rendersi odiosi agli altri pur di compiacere gli amati, è facile comprendere che, se dicono il vero, terranno in maggior conto quelli di cui si innamoreranno in seguito, ed è chiaro che, se parrà loro il caso, ai primi faranno persino del male. D'altronde come può essere conveniente concedere una cosa del genere a chi ha una disgrazia tale che nessuno, per quanto esperto, potrebbe tentare di allontanare? Essi stessi, infatti, ammettono di essere malati più che assennati, e di sapere che sragionano, ma non sanno dominarsi; di conseguenza, una volta tornati in senno, come potranno credere che vada bene ciò di cui decidono in questa disposizione d'animo? E ancora, se scegliessi il migliore degli amanti, la tua scelta sarebbe tra pochi, se invece scegliessi quello più adatto a te tra gli altri, sarebbe tra molti; perciò c'è molta più speranza che quello degno della tua amicizia si trovi tra i molti. Se poi, secondo l'usanza corrente, temi di guadagnarti del biasimo nel caso la gente lo venga a sapere, è naturale che gli amanti, credendo di essere invidiati dagli altri così come si invidiano tra loro, si inorgogliscano parlandone e per ambizione mostrino a tutti che non hanno faticato invano; mentre coloro che non amano, essendo più padroni di sé, scelgono ciò che è meglio in luogo della fama presso gli uomini. Inoltre è inevitabile che molti vengano a sapere o vedano gli amanti accompagnare i loro amati e darsi un gran da fare, cosicché, quando li vedono discorrere tra loro credono che essi stiano insieme o perché il loro desiderio si è realizzato o perché sta per realizzarsi; ma non provano affatto ad accusare coloro che non amano perché stanno assieme, sapendo che è necessario parlare con qualcuno per amicizia o per qualche altro piacere. E se poi hai paura perché credi sia difficile che un'amicizia perduri, e temi che se sorgesse un dissidio per un altro motivo la sventura sarebbe comune ad entrambi, mentre in questo caso verrebbe un gran danno a te, perché hai gettato via ciò che più di tutto tieni in conto, a maggior ragione dovresti temere coloro che 3  Platone Fedro  amano: molte sono le cose che li affliggono, e credono che tutto accada a loro danno. Per questo allontanano gli amati anche dalla compagnia con gli altri, per timore che quelli provvisti di sostanze li superino in ricchezza, e quelli forniti dì cultura li vincano in intelligenza; in somma, stanno in guardia contro il potere di tutti quelli che possiedono un qualsiasi altro bene. Così , dopo averti indotto a inimicarti queste persone, ti riducono privo di amici, e se badando al tuo interesse sarai più assennato di loro, verrai in discordia con essi. Chi invece non si è trovato a essere nella condizione di amante, ma ha ottenuto grazie alle sue doti ciò che chiedeva, non sarebbe geloso di chi si accompagna a te, anzi odierebbe coloro che rifiutano la tua compagnia, pensando che da costoro sei disprezzato, ma trai beneficio da chi sta assieme a te. Perciò c'è molta più speranza che dalla cosa nasca tra loro amicizia piuttosto che inimicizia. Per di più molti degli amanti hanno desiderio del corpo prima di aver conosciuto il carattere e aver avuto esperienza delle altre qualità individue dell'amato, così che non è loro chiaro se vorranno ancora essere amici quando la loro passione sarà finita; per quanto riguarda invece coloro che non amano, dal momento che erano tra loro amici anche prima di fare questo, non è verosimile che la loro amicizia risulti sminuita dal bene che hanno ricevuto, anzi esso rimane come ricordo di ciò che sarà in futuro. Inoltre ti si addice diventare migliore dando retta a me piuttosto che a un amante. Essi lodano le parole e le azioni dell'amato anche al di là di quanto è bene, da un lato per timore di diventare odiosi, dall'altro perché essi stessi danno giudizi meno retti per via del loro desiderio. Infatti l'amore produce tali effetti: a coloro che non hanno fortuna fa ritenere molesto ciò che agli altri non arreca dolore, mentre spinge coloro che hanno fortuna a elogiare anche ciò che non è degno di piacere, tanto che agli amati si addice più la compassione che l'invidia. Se dai retta a me, innanzitutto starò assieme a te prendendomi cura non solo del piacere presente, ma anche dell'utilità futura, non vinto dall'amore ma padrone di me stesso, senza suscitare una violenta inimicizia per futili motivi, ma irritandomi poco e non all'improvviso per motivi gravi, perdonando le colpe involontarie e cercando di distogliere da quelle volontarie: queste sono prove di un'amicizia che durerà a lungo. Se invece ti sei messo in mente che non possa esistere amicizia salda se non si ama, conviene pensare che non potremmo tenere in gran conto né i figli né i genitori, e non potremmo neanche acquistarci amici fidati, poiché i vincoli con essi ci sono venuti non da una tale passione, ma da altri rapporti. Inoltre, se si deve compiacere più di tutti chi ne ha bisogno, anche nelle altre cì rcostanze conviene fare benefici non ai migliori, ma ai più indigenti, poiché, liberati da grandissimi mali, serberanno la massima gratitudine ai loro benefattori. E allora anche nelle feste private è il caso di invitare non gli amici ma chi chiede l'elemosina e ha bisogno di essere sfamato, poiché costoro ameranno i loro benefattori, li seguiranno, verranno alla loro porta, proveranno grandissima gioia, serberanno non poca gratitudine e augureranno loro ogni bene. Ma forse conviene compiacere non chi è molto bisognoso, ma chi soprattutto è in grado di rendere il favore; non solo chi chiede, ma chi è degno della cosa; non quanti godranno del fiore della tua giovinezza, ma coloro che anche quando sarai diventato vecchio ti faranno partecipe dei loro beni; non coloro che, ottenuto ciò che desideravano, se ne vanteranno con gli altri, ma coloro che per pudore ne taceranno con tutti; non coloro che hanno cura di te per poco tempo, ma coloro che ti saranno amici allo stesso modo per tutta la vita; non coloro che, cessato il desiderio, cercheranno il pretesto per un'inimicizia, ma coloro che daranno prova della loro virtù quando la tua bellezza sarà sfiorita. Dunque tu ricordati di quanto ti ho detto e considera questo, che gli amici riprendono gli amanti perché sono convinti che questa pratica sia cattiva, mentre nessuno dei familiari ha mai rimproverato a coloro che non amano di provvedere male ai propri affari per questo motivo. Forse ora mi domanderai se ti esorto a compiacere tutti quelli che non amano. Ebbene, io credo che neanche chi ama ti inviti ad avere questo atteggiamento con tutti quelli che amano. Infatti né per chi riceve benefici la cosa è degna di un'uguale ricompensa, né, se anche lo volessi, ti sarebbe possibile tenerlo nascosto allo stesso modo agli altri; bisogna invece che da ciò non venga alcun danno, ma un vantaggio a entrambi. Io penso che quanto è stato detto sia sufficiente: se tu desideri ancora qualcosa e pensi che sia stata tralasciata, interroga». FEDRO: Che te ne pare del discorso, Socrate? Non è stato pronunciato in maniera straordinaria, in particolare per la scelta dei vocaboli? SOCRATE: In maniera davvero divina, amico, al punto che ne sono rimasto colpito! E questa impressione l'ho avuta per causa tua, Fedro, guardando te, perché mi sembrava che esultassi per il discorso intanto che lo leggevi. E dato che credo che in queste cose tu ne sappia più di me ti seguivo, e nel seguirti ho partecipato al tuo furore bacchico, o testa divina! (16) FEDRO: Ma dai! Ti pare il caso di scherzare così ? SOCRATE: Ti sembra che io scherzi e che non abbia fatto sul serio? FEDRO: Nient'affatto, Socrate, ma dimmi veramente, per Zeus protettore degli amici: credi che ci sia un altro tra i Greci in grado di parlare sullo stesso argomento in modo più grande e copioso di lui? SOCRATE: Ma come? Bisogna che il discorso sia lodato da me e da te anche sotto questo aspetto, ossia perché il suo autore ha detto ciò che bisognava dire, e non solo perché ha tornito ciascun termine in modo chiaro, forbito e puntuale? Se proprio bisogna, devo convenirne per amor tuo, dal momento che mi è sfuggito a causa della mia nullità. Infatti ho posto mente soltanto all'aspetto retorico del discorso; quanto all'altro, credevo che neppure Lisia lo ritenesse sufficiente. A meno che tu, Fedro, non abbia un'opinione diversa, mi è parso che abbia ripetuto due o tre volte gli stessi concetti, come se non avesse a disposizione grandi risorse per dire molte cose sullo stesso argomento, o forse come se non gliene importasse nulla; e mi sembrava pieno di baldanza giovanile quando mostrava com'era bravo, dicendo le stesse cose prima in un modo e poi in un altro, a parlarne in tutti e due i casi nella maniera migliore. 4  Platone Fedro  FEDRO: Ti sbagli, Socrate: precisamente in questo consiste il discorso. Infatti non ha tralasciato nulla di ciò che meritava d'esser detto in argomento, tanto che nessuno mai saprebbe dire cose diverse e di maggior pregio rispetto a quelle dette. SOCRATE: In questo non potrò più darti retta: uomini e donne antichi e sapienti, che hanno parlato e scritto di queste cose, mi confuteranno, se per farti piacere convengo con te. FEDRO: Chi sono costoro? E dove hai ascoltato cose migliori di queste? SOCRATE: Ora, lì per lì , non so dirlo; ma è chiaro che le ho udite da qualcuno, dalla bella Saffo o dal saggio Anacreonte o da qualche scrittore in prosa.(17) Da cosa lo arguisco per affermare ciò? In qualche modo, divino fanciullo, sento di avere il petto pieno e di poter dire cose diverse dalle sue, e non peggiori. So bene che non ho concepito da me niente di tutto ciò, dato che riconosco la mia ignoranza; allora resta, credo, che da qualche altra fonte io sia stato riempito attraverso l'ascolto come un vaso. Ma per indolenza ho scordato proprio questo, come e da chi le ho udite. FEDRO: Ma hai detto cose bellissime, nobile amico! Neanche se te lo ordino devi riferirmi da chi e come le hai udite, ma metti in atto esattamente il tuo proposito. Hai promesso di dire cose diverse, in maniera migliore e non meno diffusa rispetto a quelle contenute nel libro, astenendoti da queste ultime; quanto a me, io ti prometto che come i nove arconti innalzerò a Delfi una statua d'oro a grandezza naturale, non solo mia ma anche tua.(18) SOCRATE: Sei carissimo e veramente d'oro, Fedro, se pensi che io affermi che Lisia ha sbagliato tutto e che è possibile dire cose diverse da tutte queste; ciò, credo, non potrebbe capitare neanche allo scrittore più scarso. Tanto per incominciare, riguardo all'argomento del discorso, chi credi che, sostenendo che bisogna compiacere coloro che non amano piuttosto che coloro che amano, abbia ancora altro da dire quando abbia tralasciato di lodare l'assennatezza degli uni e biasimare la dissennatezza degli altri, il che appunto è necessario? Ma credo che si debbano concedere e perdonare simili argomenti a chi ne parla; e di tali argomenti è da lodare non l'invenzione, ma la disposizione, mentre degli argomenti non necessari e difficili da trovare è da lodare, oltre alla disposizione, anche l'invenzione. FEDRO: Concordo con ciò che dici: mi sembri aver parlato in modo opportuno. Pertanto farò anch'io così: ti concederò di stabilire come principio che chi ama è più ammalato di chi non ama, e quanto al resto, se avrai detto altre cose in maggior quantità e di maggior pregio di queste, ergiti pure come statua lavorata a martello a Olimpia, presso l'offerta votiva dei Cipselidi! (19) SOCRATE: L'hai presa sul serio, Fedro, perché io, scherzando con te, ho attaccato il tuo amato, e credi che io proverò veramente a dire qualcosa di diverso e di più vario a confronto dell'abilità di lui? FEDRO: A questo proposito, caro, mi hai dato l'occasione per un'uguale presa.(20) Ora tu devi parlare assolutamente, così come sei capace, in modo da non essere obbligati a fare quella cosa volgare da commedianti che si rimbeccano a vicenda, e non volermi costringere a tirar fuori quella frase: «Socrate, se io non conosco Socrate, mi sono dimenticato anche di me stesso», o quell'altra: «Desiderava dire, ma si schermiva»; ma tieni bene in mente che non ce ne andremo di qui prima che tu abbia esposto ciò che sostenevi di avere nel petto. Siamo noi due soli, in un luogo appartato, io sono più forte e più giovane. Da tutto ciò, dunque, «intendi quel che ti dico»,(21) e vedi di non parlare a forza piuttosto che spontaneamente. SOCRATE: Ma beato Fedro, mi coprirò di ridicolo improvvisando un discorso sui medesimi argomenti, da profano che sono a confronto di un autore bravo come lui! FEDRO: Sai com'è la questione? Smettila di fare il ritroso con me; poiché penso di avere una cosa che, se te la dico, ti costringerà a parlare. SOCRATE: Allora non dirmela! FEDRO: No, invece te la dico proprio! E le mie parole saranno un giuramento. Ti giuro... ma su chi, su quale dio? Vuoi forse su questo platano qui? Ebbene, ti giuro che se non pronuncerai il tuo discorso proprio davanti a questo platano, non ti mostrerò e non ti riferirò più nessun altro discorso di nessuno. SOCRATE: Ahi, birbante! Come hai trovato bene il modo di costringere un uomo amante dei discorsi a fare ciò che tu ordini! FEDRO: Perché allora fai tanti giri? SOCRATE: Niente più indugi, dal momento che hai proferito questo giuramento. Come potrei astenermi da un tale banchetto? FEDRO: Allora parla! SOCRATE: Sai dunque come farò? FEDRO: Riguardo a cosa? SOCRATE: Parlerò dopo essermi coperto il capo, per svolgere il discorso il più velocemente possibile e non trovarmi in imbarazzo per la vergogna, guardando verso di te. FEDRO: Purché tu parli; quanto al resto, fa' come vuoi. SOCRATE: Orsù, o Muse dalla voce melodiosa, vuoi per l'aspetto del canto vuoi perché siete state così chiamate dalla stirpe dei Liguri amante della musica,(22) narrate assieme a me il racconto che questo bellissimo giovane mi costringe a dire, così che il suo compagno, che già prima gli sembrava sapiente, ora gli sembri tale ancora di più. C'era una volta un fanciullo, o meglio un giovanetto assai bello, di cui molti erano innamorati. Uno di loro, che era astuto, pur non essendo innamorato meno degli altri aveva convinto il fanciullo che non lo amava. E un giorno, saggiandolo, cercava di persuaderlo proprio di questo, che bisogna compiacere chi non ama piuttosto che chi ama, e gli parlava così : «Innanzi tutto, fanciulfo, uno solo è l'inizio per chi deve prendere decisioni nel modo giusto: bisogna sapere su cosa verte la decisione, o è destino che si sbagli tutto. Ai più sfugge che non conoscono l'essenza di ciascuna 5  Platone Fedro  cosa. Perciò, nella convinzione di saperlo, non si mettono d'accordo all'inizio della ricerca e proseguendo ne pagano le naturali conseguenze, poiché non si accordano né con se stessi né tra loro. Che non capiti dunque a me e a te ciò che rimproveriamo agli altri, ma dal momento che ci sta dinanzi la questione se si debba entrare in amicizia con chi ama piuttosto che con chi non ama, stabiliamo di comune accordo una definizione su cosa sia l'amore e quale forza abbia; poi, tenendo presente questa definizione e facendovi riferimento, esaminiamo se esso apporta un vantaggio o un danno. Che l'amore sia appunto un desiderio, è chiaro a tutti; che inoltre anche chi non ama desideri le cose belle, lo sappiamo. Da che cosa allora distingueremo chi ama e chi non ama? Occorre poi tenere presente che in ciascuno di noi ci sono due princì pi che ci governano e ci guidano, e che noi seguiamo dove essi ci guidano: l'uno, innato, è il desiderio dei piaceri, l'altro è un'opinione acquisita che aspira al sommo bene. Talvolta questi due princì pi dentro di noi si trovano d'accordo, talvolta invece sono in disaccordo; talvolta prevale l'uno, talvolta l'altro. Pertanto, quando l'opinione guida con il ragionamento al sommo bene e prevale, la sua vittoria ha il nome di temperanza; mentre se il desiderio trascina fuori di ragione verso i piaceri e domina in noi, il suo dominio viene chiamato dissolutezza. La dissolutezza ha molti nomi, dato che è composta di molte membra e molte parti; e quella che tra queste forme si distingue conferisce a chi la possiede il soprannome derivato da essa, che non è né bello né meritevole da acquistarsi. Il desiderio relativo al cibo, che prevale sulla ragione del bene migliore e sugli altri desideri, è chiamato ingordigia e farà sì che chi lo possiede venga chiamato con lo stesso nome; quello che tiranneggia nell'ubriachezza e conduce in tale stato chi lo possiede, è chiaro quale epiteto gli toccherà; così , anche per gli altri nomi fratelli di questi che designano desideri fratelli, a seconda di quello che via via signoreggia, è ben evidente come conviene chiamarli. Il desiderio a motivo del quale è stato fatto tutto il discorso precedente ormai è pressoché manifesto, ma è assolutamente più chiaro una volta detto che se non viene detto; ebbene, il desiderio irrazionale che ha il sopravvento sull'opinione incline a ciò che è retto, una volta che, tratto verso il piacere della bellezza e corroborato vigorosamente dai desideri a esso congiunti della bellezza fisica, ha prevalso nel suo trasporto prendendo nome dal suo stesso vigore, è chiamato eros».(23) Ma caro Fedro, non sembra anche a te, come a me, che mi trovi in uno stato divino? FEDRO: Certamente, Socrate! Ti ha preso una certa facilità di parola, contrariamente al solito! SOCRATE: Ascoltami dunque in silenzio. Il luogo sembra veramente divino, percio non meravigliarti se nel prosieguo del discorso sarò spesso invasato dalle Ninfe: le parole che proferisco adesso non sono lontane dai ditirambi.(24) FEDRO: Dici cose verissime. SOCRATE: E tu ne sei la causa. Ma ascolta il resto, poiché forse quello che mi viene alla mente potrebbe andarsene via. A questo provvederà un dio, noi invece dobbiamo tornare col nostro discorso al fanciullo. «Dunque, carissimo: cosa sia ciò su cui bisogna prendere decisioni, è stato detto e definito; ora, tenendo presente questo, dobbiamo dire il resto, ossia quale vantaggio o quale danno presumibilmente verrà da uno che ama e da uno che non ama a chi concede i suoi favori. Per chi è soggetto al desiderio ed è schiavo del piacere è inevitabile rendere l'amato il più possibile gradito a sé; ma per chi è malato tutto ciò che non oppone resistenza è piacevole, mentre tutto ciò che è più forte o pari a lui è odioso. Così un amante non sopporterà di buon grado un amato superiore o pari a lui, ma vuole sempre renderlo inferiore e più debole: e inferiore è l'ignorante rispetto al saggio, il vile rispetto al coraggioso, chi non sa parlare rispetto a chi ha abilità oratorie, chi è tardo di mente rispetto a chi è d'ingegno acuto. è inevitabile che, se nell'animo dell'amato nascono o ci sono per natura tanti difetti, o anche di più, l'amante ne goda e ne procuri altri, piuttosto che essere privato del piacere del momento. Ed è altresì inevitabile che sia geloso e causa di grande danno, poiché distoglie l'amato da molte altre compagnie vantaggiose grazie alle quali diverrebbe veramente uomo, danno che diventa grandissimo quando lo allontana da quella compagnia grazie alla quale diventerebbe una persona molto assennata. Essa è la divina filosofia, da cui inevitabilmente l'amante tiene lontano l'amato per paura di essere disprezzato, così come ricorrerà alle altre macchinazioni per fare in modo che sia ignorante di tutto e guardi solo al suo amante; e in questa condizione l'amato sarebbe fonte di grandissimo piacere per lui, ma del massimo danno per se stesso. Quindi, per quanto riguarda l'intelletto, l'uomo che prova amore non è in nessun modo utile come guida e come compagno. Poi si deve considerare la costituzione del corpo, e quale cura ne avrà colui che ne diventerà padrone, dato che si trova costretto a inseguire il piacere anziché il bene. Lo si vedrà seguire una persona molle e non vigorosa, non cresciuta alla pura luce del sole ma nella fitta ombra, inesperta di fatiche virili e di secchi sudori, esperta invece di una vita delicata ed effeminata, ornata di colori e abbellimenti altrui per mancanza dei propri, intenta a tutte quelle attività conseguenti a ciò, che sono evidenti e non meritano ulteriori discussioni. Ma stabiliamo un punto essenziale, e poi passiamo ad altro: per un corpo del genere, in guerra come in tutte le altre occupazioni importanti, i nemici prendono coraggio, gli amici e gli stessi amanti provano timore. Perciò questo punto è da lasciar perdere, dato che è evidente, e bisogna passare invece a quello successivo, cioè quale vantaggio o quale danno arrecherà ai nostri beni la compagnia e la protezione di chi ama. è chiaro a chiunque, ma soprattutto all'amante, che egli si augurerebbe più d'ogni altra cosa che l'amato fosse orbo dei beni più cari, più preziosi e più divini; accetterebbe che rimanesse privo di padre, madre, parenti e amici, ritenendoli causa d'impedimento e biasimo della dolcissima compagnia che ha con lui. E se possiede sostanze in oro o altri beni, egli penserà che non sia facile da conquistare né, una volta conquistato, trattabile; ne consegue inevitabilmente che l'amante provi gelosia se l'oggetto del suo amore possiede delle sostanze, e gioisca se le perde. Inoltre l'amante si augurerà che l'amato sia senza moglie, senza figli e senza casa il più a lungo possibile, poiché brama di cogliere il più a lungo possibile il frutto della 6  Platone Fedro  sua dolcezza. Ci sono altri mali ancora, ma un dio ha mescolato alla maggior parte di essi un piacere momentaneo; per esempio all'adulatore, bestia terribile e fonte di grande danno, la natura ha comunque mescolato un piacere non privo di gusto. E così qualcuno può biasimare come rovinosa un'etera o molte altre creature e attività del genere, che almeno per un giorno possono essere occasione di grandissimo piacere; ma per l'amato la compagnia quotidiana dell'amante, oltre al danno che arreca, è la cosa di tutte più spiacevole. Infatti, come recita l'antico proverbio, il coetaneo si diletta del coetaneo (credo infatti che l'avere gli stessi anni conduca agli stessi piaceri e procuri amicizia in virtù della somiglianza); tuttavia anche il loro stare insieme genera sazietà. Inoltre si dice che la costrizione è pesante per chiunque in qualsiasi circostanza: ed è proprio questo il rapporto che, oltre alla differenza d'età, l'amante ha con il suo amato. Infatti, quando uno più vecchio sta assieme a uno più giovane, non lo lascia volentieri né di giorno né di notte, ma è tormentato da una necessità e da un pungolo che lo conduce a destra e a manca procurandogli di continuo piaceri a vedere, ascoltare, toccare l'amato e a provare tutto ciò che lui prova, sì da mettersi strettamente e con piacere al suo servizio. Ma quale conforto o quali piaceri darà all'amato per evitare che questi, stando con lui per lo stesso periodo di tempo, arrivi al colmo del disgusto? Quando quello vedrà un volto invecchiato e non più in fiore, con tutte le conseguenze già spiacevoli da udire a parole, per non parlare poi se ci si trova nella necessità di avere a che fare con esse; quando dovrà guardarsi in ogni momento e con tutti da custodi sospettosi e sentirà elogi inopportuni ed esagerati, come anche insulti già insopportabili se l'amante è sobrio, vergognosi oltre ogni sopportazione se è ubriaco e indulge a una libertà di linguaggio stucchevole e assoluta? E se quando è innamorato e dannoso e spiacevole, una volta che l'amore è finito sarà inaffidabile per il tempo a venire, in prospettiva del quale era riuscito a malapena, con molte promesse condite di infiniti giuramenti e preghiere e in virtù della speranza di beni futuri, a mantenere il legame già allora faticoso da sopportare. E allora, quando bisogna pagare il debito, dato che dentro di sé ha cambiato padrone e signore, e assennatezza e temperanza hanno preso il posto di amore e follia, è divenuto un altro senza che il suo amato se ne sia accorto. Questi, ricordandosi di quanto era stato fatto e detto e pensando di parlare ancora con la stessa persona, chiede che gli siano ricambiati i favori resi allora; quello per la vergogna non ha il coraggio di dire che è diventato un altro, né sa come mantenere i giuramenti e le promesse fatte sotto la dissennata signoria precedente, dato che ormai ha riacquistato il senno e la temperanza, per non ridiventare simile a quello che era prima, se non addirittura lo stesso di prima, facendo le stesse cose. Perciò diventa un fuggiasco, e poiché l'amante di prima ora è di necessita reo di frode, invertite le parti, muta il suo stato e si dà alla fuga.(25) L'altro è costretto a inseguire tra lo sdegno e le imprecazioni, poiché non ha capito tutto fin dal principio, cioè che non avrebbe mai dovuto compiacere chi ama e di necessità è privo di senno, ma ben più chi non ama ed è assennato; altrimenti sarebbe inevitabile concedersi a una persona infida, difficile di carattere, gelosa, spiacevole, danno sa per le proprie ricchezze, dannosa per la costituzione fisica, ma dannosa nel modo più assoluto per l'educazione dell'anima, della quale in tutta verità non c'è e mai ci sarà cosa di maggior valore né per gli uomini né per gli dèi. Pertanto, ragazzo, bisogna intendere bene questo, e sapere che l'amicizia di un amante non nasce assieme alla benevolenza, ma alla maniera del cibo, per saziarsi; come i lupi amano gli agnelli, così gli amanti hanno caro un fanciullo». Questo è quanto, Fedro. Non mi sentirai dire di più, ma considera ormai finito il discorso. FEDRO: Eppure io credevo che fosse a metà, e che tu avresti speso uguali parole per chi non ama, dicendo che bisogna piuttosto compiacere lui e indicando quanti beni ne derivano; ma ora perché smetti, Socrate? SOCRATE: Non ti sei accorto, beato, che ormai pronuncio versi epici e non più ditirambi, proprio mentre muovo questi rimproveri? Se comincerò a elogiare l'altro, cosa credi che farò? Non lo sai che sarei certamente invasato dalle Ninfe, alle quali tu mi hai gettato deliberatamente in balia? Perciò in una parola ti dico che quanti sono i mali che abbiamo biasimato nell'uno tanti sono i beni, ad essi opposti, che si trovano nell'altro. E che bisogno c'è di un lungo discorso? Di entrambi si è detto abbastanza. Così il racconto avrà la sorte che gli spetta; e io, attraversato questo fiume, me ne torno indietro prima di essere costretto da te a qualcosa di più grande. FEDRO: Non ancora, Socrate, non prima che sia passata la calura. Non vedi che è all'incirca mezzogiorno, l'ora che viene chiamata immota? Ma restiamo a discutere sulle cose che abbiamo detto; non appena farà più fresco, ce ne andremo. SOCRATE: Quanto ai discorsi sei divino, Fedro, e semplicemente straordinario. Io penso che di tutti i discorsi prodotti durante la tua vita nessuno ne abbia fatto nascere più di te, o perché li pronunci di persona o perché costringi in qualche modo altri a pronunciarli (faccio eccezione per Simmia il Tebano, (26) ma gli altri li vinci di gran lunga). E ora mi sembra che tu sia stato la causa di un mio nuovo discorso. FEDRO: Allora non mi dichiari guerra! Ma come, e qual è questo discorso? SOCRATE: Quando stavo per attraversare il fiume, caro amico, si è manifestato quel segno divino che è solito manifestarsi a me e che mi trattiene sempre da ciò che sto per fare. E mi è parso di udire proprio da lì una certa voce che non mi permette di andare via prima d'essermi purificato, come se avessi commesso qualche colpa verso la divinità. In effetti sono un indovino, per la verità non molto bravo, ma, come chi sa a malapena scrivere, valido solo per me stesso; perciò comprendo chiaramente qual è la colpa. Perché anche l'anima, caro amico, ha un che di divinatorio; infatti mi ha turbato anche prima, mentre pronunciavo il discorso, e in qualche modo temevo, come dice Ibico, che «commesso un fallo» nei confronti degli dèi «consegua fama invece tra gli umani».(27) Ma ora mi sono reso conto della colpa. FEDRO: Che cosa dici? 7  Platone Fedro  SOCRATE: Terribile, Fedro, terribile è il discorso che tu hai portato, come quello che poi mi hai costretto a dire! FEDRO: E perché? SOCRATE: è sciocco e sotto un certo aspetto empio. Quale discorso potrebbe essere più terribile di questo? FEDRO: Nessuno, se tu dici il vero. SOCRATE: E allora? Non credi che Eros sia figlio di Afrodite e sia una creatura divina? FEDRO: Così almeno si dice. SOCRATE: Ma non è detto da Lisia, né dal tuo discorso, che è stato pronunciato tramite la mia bocca ammaliata da te. E se Eros è, come appunto è, un dio o un che di divino, non sarebbe affatto un male, e invece i due discorsi pronunciati ora su di lui ne parlavano come se fosse un male; in questo dunque hanno commesso una colpa nei confronti dì Eros. Inoltre la loro semplicità è proprio graziosa, poiché senza dire niente di sano né di vero si danno delle arie come se fossero chissà cosa, se ingannando alcuni omiciattoli troveranno fama presso di loro. Pertanto io, caro amico, ho la necessità di purificarmi; per coloro che commettono delle colpe nei confronti del mito c'è un antico rito purificatorio, che Omero non conobbe, ma Stesicoro sì . Costui infatti, privato della vista per aver diffamato Elena, non ne ignorò la causa come Omero, ma da amante alle Muse quale era la capì e subito compose questi versi: Questo discorso non è veritiero, non navigasti sulle navi ben costrutte, non arrivasti alla troiana Pergamo.(28) E dopo aver composto l'intero carme chiamato Palinodia gli tornò immediatamente la vista. Io pertanto sarò più saggio di loro almeno sotto questo aspetto: prima di incorrere in un male per aver diffamato Eros tenterò di offrirgli in cambio la mia palinodia, col capo scoperto e non velato come allora per la vergogna. FEDRO: Non avresti potuto dirmi cose più dolci di queste, Socrate. SOCRATE: Veramente, caro Fedro, tu intendi con quale impudenza siano stati pronunciati i due discorsi, il mio e quello ricavato dal libro. Se un uomo dall'indole nobile e affabile, che fosse innamorato di uno come lui o lo fosse stato in precedenza, ci ascoltasse mentre diciamo che gli amanti sollevano grandi inimicizie per futili motivi e sono gelosi e dannosi nei confronti dei loro amati, non credi che avrebbe l'impressione di ascoltare persone allevate in mezzo ai marinai e che non hanno mai visto un amore libero, e sarebbe ben lungi dal convenire con noi sui rimproveri che muoviamo ad Eros? FEDRO: Per Zeus, forse sì , Socrate. SOCRATE: Io dunque, per vergogna nei suoi confronti e per timore dello stesso Eros, desidero sciacquarmi dalla salsedine che impregna il mio udito con un discorso d'acqua dolce; e consiglio anche a Lisia di scrivere il più in fretta possibile che, a parità di condizioni, conviene compiacere più un amante che chi non ama. FEDRO: Ma sappi bene che sarà così : quando avrai pronunciato l'elogio dell'amante, sarà inevitabile che Lisia venga costretto da me a scrivere un altro discorso sullo stesso argomento. SOCRATE: Confido in ciò, finché sarai quello che sei. FEDRO: Fatti coraggio, dunque, e parla. SOCRATE: Dov'è il ragazzo a cui parlavo? Faccia in modo di ascoltare anche questo discorso e non conceda con troppa fretta i suoi favori a chi non ama per non aver udito le mie parole. FEDRO: Questo ragazzo è accanto a te, molto vicino, ogni qualvolta tu voglia. SOCRATE: Allora, mio bel ragazzo, tieni presente che il discorso di prima era di Fedro figlio di Pitocle, del demo di Mirrinunte, mentre quello che mi accingo a dire è di Stesicoro di Imera, figlio di Eufemo. Bisogna dunque parlare così : «Non è veritiero il discorso secondo il quale anche in presenza di un amante si deve piuttosto compiacere chi non ama, per il fatto che l'uno è in preda a "mania", l'altro è assennato. Se infatti l'essere in preda a mania fosse un male puro e semplice, sarebbe ben detto; ora però i beni più grandi ci vengono dalla mania, appunto in virtù di un dono divino. Infatti la profetessa di Delfi e le sacerdotesse di Dodona,(29) quando erano prese da mania, procurarono alla Grecia molti e grandi vantaggi pubblici e privati, mentre quando erano assennate giovarono poco o nulla. E se parlassimo della Sibilla (30) e di tutti gli altri che, avvalendosi dell'arte mantica ispirata da un dio, con le loro predizioni in molti casi indirizzarono bene molte persone verso il futuro, ci dilungheremmo dicendo cose note a tutti. Merita certamente di essere addotto come testimonianza il fatto che tra gli antichi coloro che coniavano i nomi non ritenevano la mania una cosa vergognosa o riprovevole; altrimenti non avrebbero chiamato "manica" l'arte più bella, con la quale si discerne il futuro, applicandovi proprio questo nome. Ma considerandola una cosa bella quando nasca per sorte divina, le imposero questo nome, mentre gli uomini d'oggi, inesperti del bello, aggiungendo la "t" l'hanno chiamata "mantica". Così anche la ricerca del futuro che fanno gli uomini assennati mediante il volo degli uccelli e gli altri segni del cielo, dal momento che tramite l'intelletto procurano assennatezza e cognizione alla "oiesi", cioè alla credenza umana, la denominarono "oionoistica", mentre i contemporanei, volendola nobilitare con la "o" lunga, la chiamano oionistica.(31) Perciò, quanto più l'arte mantica è perfetta e onorata della oionistica, e il nome e l'opera dell'una rispetto al nome e all'opera dell'altra, tanto più bella, secondo la testimonianza degli antichi, è la mania che viene da un dio rispetto all'assennatezza che viene dagli uomini. Ma la mania, sorgendo e profetando in coloro in cui doveva manifestarsi, trovò una via di scampo anche dalle malattie e dalle pene più gravi, che da qualche parte si abbattono su alcune stirpi a causa di antiche colpe, ricorrendo alle preghiere e al culto degli dèi; quindi, attraverso purificazioni e iniziazioni, rese immune chi la possedeva per il tempo presente e futuro, avendo trovato una liberazione dai mali presenti per chi era in preda a mania e invasamento divino nel modo giusto. Al terzo posto vengono l'invasamento e la mania provenienti dalle Muse, che impossessandosi di un'anima tenera e pura la destano e la colmano di furore bacchico in canti e altri componimenti poetici, e celebrando innumerevoli opere degli antichi educano i posteri. Chi invece giunge alle porte della poesia senza 8  Platone Fedro  la mania delle Muse, convinto che sarà un poeta valente grazie all'arte, resta incompiuto e la poesia di chi è in senno è oscurata da quella di chi si trova in preda a mania. Queste, e altre ancora, sono le belle opere di una mania proveniente dagli dèi che ti posso elencare. Pertanto non dobbiamo aver paura di ciò, né deve sconvolgerci un discorso che cerchi di intimorirci asserendo che si deve preferire come amico l'uomo assennato a quello in stato di eccitazione; ma il mio discorso dovrà riportare la vittoria dimostrando, oltre a quanto detto prima, che l'amore non è inviato dagli dèi all'amante e all'amato perché ne traggano giovamento. Noi dobbiamo invece dimostrare il contrario, cioè che tale mania è concessa dagli dèi per la nostra più grande felicità; e la dimostrazione non sarà persuasiva per i valent'uomini, ma lo sarà per i sapienti. Prima di tutto dunque bisogna intendere la verità riguardo alla natura dell'anima divina e umana, considerando le sue condizioni e le sue opere. L'inizio della dimostrazione è il seguente. Ogni anima è immortale. Infatti ciò che sempre si muove è immortale, mentre ciò che muove altro e da altro è mosso termina la sua vita quando termina il suo movimento. Soltanto ciò che muove se stesso, dal momento che non lascia se stesso, non cessa mai di muoversi, ma è fonte e principio di movimento anche per tutte le altre cose dotate di movimento. Il principio però non è generato. Infatti è necessario che tutto ciò che nasce si generi da un principio, ma quest'ultimo non abbia origine da qualcosa, poiché se un principio nascesse da qualcosa non sarebbe più un principio. E poiché non è generato, è necessario che sia anche incorrotto; infatti, se un principio perisce, né esso nascerà da qualcosa né altra cosa da esso, dato che ogni cosa deve nascere da un principio. Così principio di movimento è ciò che muove se stesso. Esso non può né perire né nascere, altrimenti tutto il cielo e tutta la terra, riuniti in corpo unico, resterebbero immobili e non avrebbero più ciò da cui ricevere di nuovo nascita e movimento. Una volta stabilito che ciò che si muove da sé è immortale, non si proverà vergogna a dire che proprio questa è l'essenza e la definizione dell'anima. Infatti ogni corpo a cui l'essere in movimento proviene dall'esterno è inanimato, mentre quello cui tale facoltà proviene dall'interno, cioè da se stesso, è animato, poiché la natura dell'anima è questa; ma se è così , ovvero se ciò che muove se stesso non può essere altro che l'anima, di necessità l'anima sarà ingenerata e immortale. Sulla sua immortalità si è detto a sufficienza; sulla sua idea bisogna dire quanto segue. Spiegare quale sia, sarebbe proprio di un'esposizione divina sotto ogni aspetto e lunga, dire invece a che cosa assomigli, è proprio di un'esposizione umana e più breve; parliamone dunque in questa maniera. Si immagini l'anima simile a una forza costituita per sua natura da una biga alata e da un auriga.(32) I cavalli e gli aurighi degli dèi sono tutti buoni e nati da buoni, quelli degli altri sono misti. E innanzitutto l'auriga che è in noi guida un carro a due, poi dei due cavalli uno è bello, buono e nato da cavalli d'ugual specie, l'altro è contrario e nato da stirpe contraria; perciò la guida, per quanto ci riguarda, è di necessità difficile e molesta. Quindi bisogna cercare di definire in che senso il vivente è stato chiamato mortale e immortale. Ogni anima si prende cura di tutto ciò che è inanimato e gira tutto il cielo ora in una forma, ora nell'altra. Se è perfetta e alata, essa vola in alto e governa tutto il mondo, se invece ha perduto le ali viene trascinata giù finché non s'aggrappa a qualcosa di solido; qui stabilisce la sua dimora e assume un corpo terreno, che per la forza derivata da essa sembra muoversi da sé. Questo insieme, composto di anima e corpo, fu chiamato vivente ed ebbe il soprannome di mortale. Viceversa ciò che è immortale non può essere spiegato con un solo discorso razionale, ma senza averlo visto e inteso in maniera adeguata ci figuriamo un dio, un essere vivente e immortale, fornito di un'anima e di un corpo eternamente connaturati. Ma di queste cose si pensi e si dica così come piace al dio; noi cerchiamo di cogliere la causa della perdita delle ali, per la quale esse si staccano dall'anima. E la causa è all'incirca questa. La potenza dell'ala tende per sua natura a portare in alto ciò che è pesante, sollevandolo dove abita la stirpe degli dèi, e in certo modo partecipa del divino più di tutte le cose inerenti il corpo. Il divino è bello, sapiente, buono, e tutto ciò che è tale; da queste qualità l'ala dell'anima e nutrita e accresciuta in sommo grado, mentre viene consunta e rovinata da ciò che è brutto, cattivo e contrario ad esse. Zeus, il grande sovrano che è in cielo, procede per primo alla guida del carro alato, dà ordine a tutto e di tutto si prende cura; lo segue un esercito di dèi e di demoni, ordinato in undici schiere. La sola Estia resta nella dimora degli dèi; quanto agli altri dèi, quelli che in numero di dodici sono stati posti come capi guidano ciascuno la propria schiera secondo l'ordine assegnato.(33) Molte e beate sono le visioni e i percorsi entro il cielo, per i quali si volge la stirpe degli dèi eternamente felici, adempiendo ciascuno il proprio compito. E tiene dietro a loro chi sempre lo vuole e lo può; infatti l'invidia sta fuori del coro divino. Quando poi vanno a banchetto per nutrirsi, procedono in ardua salita verso la sommità della volta celeste, dove i carri degli dèi, ben equilibrati e agili da guidare, procedono facilmente, gli altri invece a fatica; infatti il cavallo che partecipa del male si inclina, e piegando verso terra grava col suo peso l'auriga che non l'ha allevato bene. Qui all'anima si presenta la fatica e la prova suprema. Infatti quelle che sono chiamate immortali, una volta giunte alla sommità, procedono al di fuori posandosi sul dorso del cielo, la cui rotazione le trasporta in questa posa, mentre esse contemplano ciò che sta fuori del cielo. Nessuno dei poeti di quaggiù ha mai cantato né mai canterà in modo degno il luogo iperuranio.(34) La cosa sta in questo modo (bisogna infatti avere il coraggio di dire il vero, tanto più se si parla della verità): l'essere che realmente è, senza colore, senza forma e invisibile, che può essere contemplato solo dall'intelletto timoniere dell'anima e intorno al quale verte il genere della vera conoscenza, occupa questo luogo. Poiché dunque la mente di un dio è nutrita da un intelletto e da una scienza pura, anche quella di ogni anima cui preme di ricevere ciò che conviene si appaga di vedere dopo un certo tempo l'essere, e contemplando il vero se ne nutre e ne gode, finché la rotazione ciclica del cielo non l'abbia riportata allo stesso punto. Nel giro che essa compie vede la giustizia stessa, vede la temperanza, vede la scienza, 9  Platone Fedro  non quella cui è connesso il divenire, e neppure quella che in certo modo è altra perché si fonda su altre cose da quelle che ora noi chiamiamo esseri, ma quella scienza che si fonda su ciò che è realmente essere; e dopo che ha contemplato allo stesso modo gli altri esseri che realmente sono e se ne è saziata, si immerge nuovamente all'interno del cielo e fa ritorno alla sua dimora. Una volta arrivata l'auriga, condotti i cavalli alla mangiatoia, mette innanzi a loro ambrosia e in più dà loro da bere del nettare. Questa è la vita degli dèi. Quanto alle altre anime, l'una, seguendo nel migliore dei modi il dio e rendendosi simile a lui, solleva il capo dell'auriga verso il luogo fuori del cielo e viene trasportata nella sua rotazione, ma essendo turbata dai cavalli vede a fatica gli esseri; l'altra ora solleva il capo, ora piega verso il basso, e poiché i cavalli la costringono a forza riesce a vedere alcuni esseri, altri no. Seguono le altre anime, che aspirano tutte quante a salire in alto, ma non essendone capaci vengono sommerse e trasportate tutt'intorno, calpestandosi tra loro, accalcandosi e cercando di arrivare una prima dell'altra. Nasce così una confusione e una lotta condita del massimo sudore, nella quale per lo scarso valore degli aurighi molte anime restano azzoppate, e a molte altre si spezzano molte penne; tutte, data la grande fatica, se ne partono senza aver raggiunto la contemplazione dell'essere e una volta tornate indietro si nutrono del cibo dell'opinione. La ragione per cui esse mettono tanto impegno per vedere dov'è sita la pianura della verità è questa: il cibo adatto alla parte migliore dell'anima viene dal prato che si trova là, e di esso si nutre la natura dell'ala con cui l'anima si solleva in volo. Questa è la legge di Adrastea.(35) L'anima che, divenuta seguace del dio, abbia visto qualcuna delle verità, non subisce danno fino al giro successivo, e se riesce a fare ciò ogni volta, resta intatta per sempre; qualora invece, non riuscendo a tenere dietro al dio, non abbia visto, e per qualche accidente, riempitasi di oblio e di ignavia, sia appesantita e a causa del suo peso perda le ali e cada sulla terra, allora è legge che essa non si trapianti in alcuna natura animale nella prima generazione. Invece l'anima che ha visto il maggior numero di esseri si trapianterà nel seme di un uomo destinato a diventare filosofo o amante del bello o seguace delle Muse o incline all'amore. L'anima che viene per seconda si trapianterà in un re rispettoso delle leggi o in un uomo atto alla guerra e al comando, quella che viene per terza in un uomo atto ad amministrare lo Stato o la casa o le ricchezze, la quarta in un uomo che sarà amante delle fatiche o degli esercizi ginnici o esperto nella cura del corpo, la quinta è destinata ad avere la vita di un indovino o di un iniziatore ai misteri. Alla sesta sarà confacente la vita di un poeta o di qualcun altro di coloro che si occupano dell'imitazione, alla settima la vita di un artigiano o di un contadino, all'ottava la vita di un sofista o di un seduttore del popolo, alla nona quella di un tiranno. Tra tutti questi, chi ha condotto la vita secondo giustizia partecipa di una sorte migliore, chi invece è vissuto contro giustizia, di una peggiore; infatti ciascuna anima non torna nel luogo donde è venuta per diecimila anni, poiché non rimette le ali prima di questo periodo di tempo, tranne quella di colui che ha coltivato la filosofia senza inganno o ha amato i fanciulli secondo filosofia. Queste anime, al terzo giro di mille anni, se hanno scelto per tre volte di seguito una tale vita, rimettono in questo modo le ali e al compiere dei tremila anni tornano indietro. Quanto alle altre, quando giungono al termine della prima vita tocca loro un giudizio, e dopo essere state giudicate le une vanno nei luoghi di espiazione sotto terra a scontare la loro pena, le altre, innalzate dalla Giustizia in un luogo del cielo, trascorrono il tempo in modo corrispondente alla vita che vissero in forma d'uomo. Al millesimo anno le une e le altre, giunte al sorteggio e alla scelta della seconda vita, scelgono quella che ciascuna vuole: qui un'anima umana può anche finire in una vita animale, e chi una volta era stato uomo può ritornare da bestia uomo, poiché l'anima che non ha mai visto la verità non giungerà mai a tale forma. L'uomo infatti deve comprendere in funzione di ciò che viene detto idea, e che muovendo da una molteplicità di sensazioni viene raccolto dal pensiero in unità; questa è la reminiscenza delle cose che un tempo la nostra anima vide nel suo procedere assieme al dio, quando guardò dall'alto ciò che ora definiamo essere e levò il capo verso ciò che realmente è. Perciò giustamente solo l'anima del filosofo mette le ali, poiché grazie al ricordo, secondo le sue facoltà, la sua mente è sempre rivolta alle entità in virtù delle quali un dio è divino. Quindi l'uomo che si avvale rettamente di tali reminiscenze, essendo sempre iniziato a misteri perfetti, diventa lui solo realmente perfetto; dato però che si distacca dalle occupazioni degli uomini e si fa accosto al divino, è ripreso dai più come se delirasse, ma sfugge ai più che è invasato da un dio. Questo dunque è il punto d'arrivo di tutto il discorso sulla quarta forma di mania, quella per cui uno, al vedere la bellezza di quaggiù, ricordandosi della vera bellezza mette nuove ali e desidera levarsi in volo, ma non essendone capace guarda in alto come un uccello, senza curarsi di ciò che sta in basso, e così subisce l'accusa di trovarsi in istato di mania: di tutte le ispirazioni divine questa, per chi la possiede e ha comunanza con essa, è la migliore e deriva dalle cose migliori, e chi ama le persone belle e partecipa di tale mania è chiamato amante. Infatti, come si è detto, ogni anima d'uomo per natura ha contemplato gli esseri, altrimenti non si sarebbe incarnata in un tale vivente. Ma ricordarsi di quegli esseri procedendo dalle cose di quaggiù non è alla portata di ogni anima, né di quelle che allora videro gli esseri di lassù per breve tempo, né di quelle che, cadute qui, hanno avuto una cattiva sorte, al punto che, volte da cattive compagnie all'ingiustizia, obliano le sacre realtà che videro allora. Ne restano poche nelle quali il ricordo si conserva in misura sufficiente: queste, qualora vedano una copia degli esseri di lassù, restano sbigottite e non sono più in sé, ma non sanno cosa sia ciò che provano, perché non ne hanno percezione sufficiente. Così della giustizia, della temperanza e di tutte le altre cose che hanno valore per le anime non c'è splendore alcuno nelle copie di quaggiù, ma soltanto pochi, accostandosi alle immagini, contemplano a fatica, attraverso i loro organi ottusi, la matrice del modello riprodotto. Allora invece si poteva vedere la bellezza nel suo splendore, quando in un coro felice, noi al seguito di Zeus, altri di un altro dio, godemmo di una visione e di una contemplazione beata ed eravamo iniziati a quello che è lecito chiamare il più beato dei misteri, che celebravamo in perfetta integrità e immuni dalla prova di tutti quei mali che dovevano attenderci nel tempo a venire, contemplando nella nostra iniziazione mistica visioni perfette, semplici, immutabili e 10  Platone Fedro  beate in una luce pura, poiché eravamo purì e non rinchiusi in questo che ora chiamiamo corpo e portiamo in giro con noi, incatenati dentro ad esso come un'ostrica. Queste parole siano un omaggio al ricordo, in virtù del quale, per il desiderio delle cose d'allora, ora si è parlato piuttosto a lungo. Quanto alla bellezza, come si è detto, essa brillava tra le cose di lassù come essere, e noi, tornati qui sulla terra, l'abbiamo colta con la più vivida delle nostre sensazioni, in quanto risplende nel modo più vivido. Per noi infatti la vista è la più acuta delle sensazioni che riceviamo attraverso il corpo, ma essa non ci permette di vedere la saggezza (poiché susciterebbe terribili amori, se giungendo alla nostra vista le offrisse un'immagine di sé così splendente) e le altre realtà degne d'amore. Ora invece soltanto la bellezza ebbe questa sorte, di essere ciò che più di tutto è manifesto e amabile. Chi dunque non è iniziato di recente, o è corrotto, non si innalza con pronto acume da qui a lassù, verso la bellezza in sé, quando contempla ciò che quaggiù porta il suo nome; di conseguenza quando guarda ad essa non la venera, ma consegnandosi al piacere imprende a montare e a generare figli a mo' di quadrupede, e comportandosi con tracotanza non ha timore né vergogna di inseguire un piacere contro natura. Invece chi è iniziato di recente e ha contemplato molto le realtà di allora, quando vede un volto d'aspetto divino che ha ben imitato la bellezza o una qualche forma ideale di corpo, dapprima sente dei brividi e gli sottentra qualcuna delle paure di allora, poi, guardandolo, lo venera come un dio, e se non temesse di acquistarsi fama di eccessiva mania farebbe sacrifici al suo amato come a una statua o a un dio. Al vederlo, lo afferra come una mutazione provocata dai brividi, un sudore e un calore insolito; e ricevuto attraverso gli occhi il flusso della bellezza, prende calore là dove la natura dell'ala si abbevera. Una volta che si è riscaldato si liquefano le parti attorno al punto donde l'ala germoglia, che essendo da tempo tappate a causa della secchezza le impedivano di fiorire. Così , grazie all'afflusso del nutrimento, lo stelo dell'ala si gonfia e prende a crescere dalla radice per tutta la forma dell'anima; un tempo infatti era tutta alata. A questo punto essa ribolle tutta quanta e trabocca, e la stessa sensazione che prova chi mette i denti nel momento in cui essi spuntano, ossia prurito e irritazione alle gengive, la prova anche l'anima di chi comincia a mettere le ali: quando le ali spuntano ribolle e prova un senso di irritazione e solletico. Dunque, quando l'anima, mirando la bellezza del fanciullo, riceve delle parti che da essa provengono e fluiscono (e che appunto per questo sono chiamate flusso d'amore) (36) e ne viene irrigata e scaldata, si riprende dal dolore e si allieta. Quando invece ne è separata e inaridisce, le bocche dei condotti donde spunta fuori l'ala si disseccano e si serrano, impedendone il germoglio; ma esso, rimasto chiuso dentro assieme al flusso d'amore, pulsando come le arterie pizzica nei condotti, ciascun germoglio nel proprio, tanto che l'anima, pungolata tutt'intorno, è presa da assillo e dolore, e tornandole il ricordo della bellezza si allieta. In seguito alla mescolanza di entrambe le cose, l'anima è turbata per la stranezza di ciò che prova e trovandosi senza via d'uscita comincia a smaniare; ed essendo in stato di mania non può né dormire di notte né di giorno restare ferma dov'è, ma corre in preda al desiderio dove crede di poter vedere colui che possiede la bellezza: e una volta che l'ha visto e si è imbevuta del flusso d'amore, libera i condotti che allora si erano ostruiti, riprende fiato e cessa di avere pungoli e dolore, e allora coglie, nel momento presente, il frutto di questo dolcissimo piacere. Perciò non se ne distacca di sua volontà e non tiene in conto nessuno più del suo bello, ma si dimentica di madri, fratelli e di tutti i compagni, e non gli importa nulla se le sue sostanze vanno in rovina perché non se ne cura, anzi disprezza tutte le consuetudini e le convenienze di cui si ornava prima d'allora ed è disposta a servire l'amato e a giacere con lui ovunque gli sia concesso di stare il più vicino possibile al suo desiderio; infatti, oltre a venerarlo, ha trovato in colui che possiede la bellezza l'unico medico dei suoi più grandi travagli. A questa passione cui si rivolge il mio discorso, o bel fanciullo, gli uomini danno il nome di eros, gli dèi invece la chiamano in un modo che a sentirlo, data la tua giovane età, ti metterai ragionevolmente a ridere. Alcuni Omeridi citano due versi, credo presi da poemi segreti, riguardanti Eros, uno dei quali è piuttosto insolente e non del tutto corretto come metro; essi suonano così : I mortali lo chiamano Eros alato, gli immortali Pteros, ché fa crescere l'ali.(37) A questi versi si può credere oppure non credere; non di meno la causa e la sensazione di chi ama è proprio questa. Ora, se chi è stato colto da Eros era uno dei seguaci di Zeus, riesce a sopportare con più fermezza il peso del dio che trae il nome dalle ali; quelli che erano al servizio di Ares e giravano il cielo assieme a lui, quando sono presi da Eros e pensano di subire qualche torto dall'amato, sono sanguinari e pronti a sacrificare se stessi e il proprio amore. Così ciascuno conduce la sua vita in base al dio del cui coro era seguace, onorandolo e imitandolo per quanto gli è possibile, finché resta incorrotto e vive la prima esistenza quaggiù, e in questo modo si accompagna e ha relazione con gli amati e con le altre persone. Quindi ciascuno sceglie tra i belli il suo Eros secondo il proprio carattere, e come fosse un dio gli edifica una specie di statua e l'abbellisce per onorarla e tributarle riti. I seguaci di Zeus cercano il loro amato in chi ha l'anima conforme al loro dio:(38) pertanto guardano se per natura sia filosofo e atto al comando, e quando l'hanno trovato e ne se sono innamorati, fanno di tutto affinché sia effettivamente tale. E se prima non si erano impegnati in un'occupazione del genere, da quel momento vi mettono mano e imparano da dove è loro possibile, continuando poi anche da soli, e seguendo le tracce riescono a trovare per loro conto la natura del proprio dio, perché sono stati intensamente costretti a volgere lo sguardo verso di lui; e quando entrano in contatto con lui sono presi da invasamento e tramite il ricordo ne assumono le abitudini e le occupazioni, per quanto è possibile a un uomo partecipare della natura di un dio. E poiché ne attribuiscono la causa all'amato, lo tengono ancora più caro, e sebbene attingano da Zeus come le Baccanti,(39) riversando ciò che attingono nell'anima dell'amato lo rendono il più possibile simile al loro dio. Coloro che invece erano al seguito di Era cercano un'anima regale, e trovatala fanno per lei esattamente le stesse cose. Quelli del seguito di Apollo e di ciascuno degli altri dèi, procedendo secondo il loro dio, bramano che il proprio fanciullo abbia un'uguale natura, e una volta che se lo sono procurato imitano essi stessi il dio e con la persuasione e 11  Platone Fedro  l'ammaestramento portano l'amato ad assumere l'attività e la forma di quello, ciascuno per quanto può; e lo fanno senza comportarsi nei confronti dell'amato con gelosia o con rozza malevolenza, ma cercando di indurlo alla somiglianza più completa possibile con se stessi e con il dio che onorano. Dunque l'ardore e l'iniziazione di coloro che veramente amano, se ottengono ciò che desiderano nel modo che dico, diventano così belle e felici per chi è amato, qualora venga conquistato dall'amico che si trova in stato di mania per amore; e chi è conquistato cede all'amore in questo modo. Come all'inizio dì questa narrazione in forma di mito abbiamo diviso ciascuna anima in tre parti, due con forma di cavallo, la terza con forma di auriga, questa distinzione resti per noi un punto fermo anche adesso. Uno dei cavalli diciamo che è buono, l'altro no: quale sia però la virtù di quello buono e il vizio di quello cattivo, non l'abbiamo precisato, e ora bisogna dirlo. Dunque, quello tra i due che si trova nella disposizione migliore è di forma eretta e ben strutturata, di collo alto e narici adunche, bianco a vedersi, con gli occhi neri, amante dell'onore unito a temperanza e pudore e compagno della fama veritiera, non ha bisogno di frusta e si lascia guidare solo con lo stimolo e la parola; l'altro invece è storto, grosso, mal conformato, di collo massiccio e corto, col naso schiacciato, il pelo nero, gli occhi chiari e iniettati di sangue, compagno di tracotanza e vanteria, dalle orecchie pelose, sordo, e cede a fatica alla frusta e agli speroni. Quando dunque l'auriga, scorgendo la visione amorosa, prende calore in tutta l'anima per la sensazione che prova ed è ricolmo di solletico e dei pungoli del desiderio, il cavallo che obbedisce docilmente all'auriga, tenuto a freno, allora come sempre, dal pudore, si trattiene dal balzare addosso all'amato; l'altro invece non cura più né i pungoli dell'auriga né la frusta, ma imbizzarrisce e si lancia al galoppo con violenza, e procurando ogni sorta di molestie al compagno di giogo e all'auriga li costringe a dirigersi verso l'amato e a rammentare la dolcezza dei piaceri d'amore. All'inizio essi si oppongono sdegnati, al pensiero dì essere costretti ad azioni terribili e inique; ma alla fine, quando non c'è più alcun limite al male, si lasciano trascinare nel loro percorso, cedendo e acconsentendo a fare quanto viene loro ordinato. Allora si fanno presso a lui e hanno la visione folgorante dell'amato. Scorgendolo, la memoria dell'auriga è ricondotta alla natura della bellezza, che vede di nuovo collocata su un casto piedistallo assieme alla temperanza; a tale vista è colta da paura e per la reverenza che le porta cade supina, e nello stesso tempo è costretta a tirare indietro le redini così forte che entrambi i cavalli si piegano sulle cosce, l'uno, spontaneamente perché non recalcitra, quello protervo decisamente contro voglia. Ritiratisi più lontano, l'uno per vergogna e sbigottimento bagna tutta l'anima di sudore, l'altro, cessato il dolore che gli veniva dal morso e dalla caduta, a fatica riprende fiato e incomincia, pieno d'ira com'è, a ingiuriare, coprendo di male parole l'auriga e il compagno di giogo perché per viltà e debolezza hanno abbandonato il posto e l'accordo convenuto. E costringendoli di nuovo ad avanzare contro la loro volontà a stento cede alle loro preghiere di rimandare a un'altra volta. Quando poi è giunto il tempo stabilito ed essi fingono di non ricordarsene, lo rammenta a loro con la forza, nitrendo e trascinandoli con sé, e li obbliga ad accostarsi di nuovo all'amato per fare i medesimi discorsi; e quando sono vicini tende la testa in avanti e rizza la coda, mordendo il freno, e li trascina con impudenza. L'auriga, sentendo ancora più intensamente la stessa impressione di prima, come respinto dalla fune al cancello di partenza, tira indietro ancora più forte il morso dai denti del cavallo protervo, insanguina la lingua maldicente e le mascelle e piegandogli a terra le gambe e le cosce lo dà in preda ai dolori. Quando poi il cavallo malvagio, subendo la medesima cosa più volte, desiste dalla sua tracotanza, umiliato segue ormai il proposito dell'auriga, e quando vede il bel fanciullo, muore dalla paura; di conseguenza accade che a questo punto l'anima dell'amante segua l'amato con pudicizia e timore. Poiché dunque l'amato, come un essere pari agli dèi, è oggetto di ogni venerazione da parte dell'amante che non simula, ma prova veramente questo sentimento, ed è egli stesso per natura amico di chi lo venera, se anche in precedenza fosse stato ingannato dalle persone che frequentava o da altre, le quali sostenevano che è cosa turpe accostarsi a chi ama, e per questo motivo avesse respinto l'amante, ora, col passare del tempo, l'età e la necessità lo inducono ad ammetterlo alla sua compagnia; infatti non accade mai che un malvagio sia amico di un malvagio, né che un buono non sia amico di un buono. E dopo averlo ammesso presso di sé e avere accettato di parlare con lui e stare in sua compagnia, la benevolenza dell'amante, manifestandosi da vicino, colpisce l'amato, il quale si avvede che tutti gli altri amici e parenti non offrono neppure una parte di amicizia a confronto dell'amico ispirato da un dio. Quando poi questi continua a fare ciò nel tempo e si accompagna all'amato incontrandolo nei ginnasi e negli altri luoghi di ritrovo, allora la fonte di quei flusso che Zeus, innamorato di Ganimede, (40) chiamò flusso d'amore, scorrendo in abbondanza verso l'amante dapprima penetra in lui, poi, quando ne è ricolmo, scorre fuori; e come un soffio di vento o un'eco, rimbalzando da corpi lisci e solidi, ritornano là dov'erano partiti, così il flusso della bellezza ritorna al bel fanciullo attraverso gli occhi, e di qui per sua natura arriva all'anima. Quando vi è giunto la incoraggia a volare, quindi irriga i condotti delle ali e comincia a farle crescere, e così riempie d'amore anche l'anima dell'amato. Pertanto egli ama, ma non sa che cosa; e neppure è a conoscenza di cosa prova né è in grado di dirlo, ma come chi ha contratto una malattia agli occhi da un altro non è in grado di spiegarne la causa, così egli non si accorge di vedere se stesso nell'amante come in uno specchio. E in presenza di questi, il suo dolore cessa esattamente come a lui, se invece è assente allo stesso modo di lui desidera ed è desiderato, perché reca in sé una sembianza d'amore che dell'amore è sostituto: però non lo chiama e non lo crede amore, bensì amicizia. Più o meno come l'amante, ma in misura più debole, desidera vederlo, toccarlo, baciarlo, giacere con lui; e com'è naturale, in seguito non tarda a fare cio. Quando dunque giacciono insieme, il cavallo sfrenato dell'amante ha di che dire all'auriga, e pretende di trarre un piccolo guadagno in cambio di tante fatiche; invece quello dell'amato non ha nulla da dire, ma, gonfio di desiderio e ancora incerto abbraccia e bacia l'amante, manifestandogli affetto per la sua grande benevolenza. Così , nel momento in cui si congiungono, non è più tale da rifiutare di compiacere da parte sua l'amante, se viene pregato di soddisfare; ma il compagno di giogo assieme all'auriga 12  Platone Fedro  si oppone a ciò, obbedendo al pudore e alla ragione. Se dunque prevalgono le parti migliori dell'animo, quelle che guidano a un'esistenza ordinata e alla filosofia, essi trascorrono la vita di quaggiù in modo beato e concorde, poiché sono padroni di sé e ben regolati, avendo sottomesso ciò in cui nasce il male dell'anima e liberato ciò in cui nasce la virtù; e alla fine, divenuti alati e leggeri, hanno vinto una delle tre gare veramente olimpiche, di cui né la temperanza umana né la mania divina possono fornire all'uomo un bene più grande.(41) Se invece seguono un genere di vita piuttosto grossolano e privo di filosofia, ma ambizioso, forse, in stato di ubriachezza o in qualche altro momento di negligenza, i loro due compagni di giogo sfrenati, cogliendo le anime alla sprovvista e portandole nella stessa direzione, possono compiere la scelta che tanti considerano la più beata e mandarla ad effetto; e una volta che l'hanno mandata ad effetto, se ne avvalgono anche in futuro, ma raramente, poiché fanno cose che non sono approvate da tutta l'anima. Anche costoro vivono in amicizia reciproca, ma meno di quelli, sia durante l'amore sia quando ne sono usciti, credendo di essersi dati l'un l'altro e di aver ricevuto i più grandi pegni, che non è lecito sciogliere perché ciò condurrebbe all'inimicizia. Al termine della vita escono dal corpo senz'ali, ma col desiderio di metterle, cosicché riportano un premio non piccolo della loro mania amorosa; infatti non è legge che coloro i quali hanno già iniziato il cammino sotto la volta del cielo scendano di nuovo nella tenebra e camminino sotto terra, bensì che trascorrano una vita luminosa e felice compiendo il viaggio in compagnia reciproca, e che una volta rinati rimettano le ali assieme per grazia dell'amore. Questi doni così grandi e così divini, o fanciullo, ti darà l'amicizia da parte di un amante. Invece la compagnia di chi non ama, mescolata con temperanza mortale, capace di amministrare cose mortali e misere, dopo aver generato nell'anima amata una bassezza lodata dal volgo come virtù, la farà girare priva di senno attorno alla terra e sotto terra per novemila anni. Questa, caro Eros, per le nostre facoltà, è la più bella e virtuosa palinodia che abbiamo potuto offrirti in dono e in espiazione, costretta a causa di Fedro a essere pronunciata, oltre al resto, anche con alcune parole poetiche. Ma tu concedi il perdono per le cose di prima e serba gratitudine per queste, e, benevolo e propizio, non togliermi e non storpiarmì per la collera l'arte amorosa che mi hai dato, anzi concedimi di essere in onore tra i bei fanciulli ancor più di adesso. E se nel discorso precedente io e Fedro abbiamo detto qualcosa che a te suona stonata, attribuiscine la colpa a Lisia, che del discorso è padre, e fallo desistere da simili prolusioni, volgendolo alla filosofia come si è volto suo fratello Polemarco,(42) affinché anche questo suo amante non sia nel dubbio come ora, ma dedichi senz'altro la sua vita ad Eros in compagnia di discorsi filosofici. FEDRO: Mi unisco alla tua preghiera, Socrate: se questo è meglio per noi, che avvenga. Da un pezzo ho ammirato il tuo discorso per quanto l'hai reso più bello del precedente; quindi temo che Lisia mi appaia misero, quand'anche voglia opporre ad esso un altro discorso. Recentemente infatti, mirabile amico, un politico lo biasimava criticandolo proprio per questo, e in tutta la sua critica lo chiamava logografo;(43) perciò forse si tratterrà per ambizione dallo scrivercene un altro. SOCRATE: Ragazzo, la tua opinione è ridicola, e quanto al tuo compagno sbagli di grosso, se credi che si spaventi così al minimo rumore. Ma forse pensi che chi lo biasimava dicesse quello che ha detto proprio per criticarlo. FEDRO: Così pareva, Socrate; del resto sei anche tu conscio che coloro che nelle città hanno il massimo potere e la massima reverenza si vergognano a scrivere discorsi e a lasciare propri scritti, temendo l'opinione dei posteri, cioè di essere chiamati sofisti. SOCRATE: Ti sei scordato, Fedro, che la dolce ansa ha preso il nome dalla lunga ansa del Nilo (44) e oltre all'ansa dimentichi che gli uomini di governo piu assennati amano tantissimo comporre discorsi e lasciare propri scritti, almeno quelli che, quando scrivono un discorso, apprezzano a tal punto chi li loda da aggiungere in testa per primi i nomi di quelli che li devono lodare in ogni singola occasione. FEDRO: In che senso dici ciò? Non capisco. SOCRATE: Non capisci che all'inizio del discorso di un uomo politico per primo viene scritto il nome di chi lo loda! FEDRO: E come? SOCRATE: «Il consiglio ha deciso», dice più o meno, ovvero «il popolo ha deciso», o entrambi, e ancora «il tale e il tal altro ha detto» (e qui lo scrittore cita se stesso con grande reverenza e si fa l'elogio). Poi si mette a parlare, mostrando a chi lo loda la sua abilità, talvolta dopo aver composto uno scritto assai lungo. O ti pare che una cosa del genere sia altro che un discorso scritto? FEDRO: Non mi pare proprio. SOCRATE: Quindi, se il discorso regge, l'autore esce di scena tutto lieto; se invece viene escluso e radiato dallo scrivere discorsi e dall'essere degno di scriverli, piangono lui e i suoi compagni. FEDRO: E anche molto! SOCRATE: è chiaro dunque che non disprezzano questa attività, ma l'ammirano. FEDRO: Sicuro! SOCRATE: E allora? Quando un retore o un re è in grado di raggiungere la potenza di Licurgo, di Solone o di Dario (45) e di diventare un logografo immortale nella sua città, non si crede forse egli stesso pari agli dèi mentre ancora vive, e i posteri non pensano di lui la stessa cosa, contemplando i suoi scritti? FEDRO: Certamente! SOCRATE: Credi allora che uno di costoro, chiunque sia e in qualunque modo sia ostile a Lisia, lo biasimi proprio perché scrive discorsi? 13  Platone Fedro  FEDRO: Non è verosimile, da ciò che dici, poiché a quanto pare criticherebbe anche il proprio desiderio. SOCRATE: Allora è chiaro a tutti che non è cosa turpe in sé lo scrivere discorsi. FEDRO: Ma certo. SOCRATE: Ora però io ritengo turpe questo, il pronunciarli e scriverli in modo non bello, ma riprovevole e disonesto. FEDRO: è chiaro. SOCRATE: E allora qual è il modo di scriverli bene e quale il modo contrario? Abbiamo bisogno, Fedro, di esaminare a questo proposito Lisia e chiunque altro abbia mai composto o comporrà uno scritto sia pubblico sia privato, in versi come un poeta o non in versi come un prosatore? FEDRO: Chiedi se ne abbiamo bisogno? E per quale ragione uno, oserei dire, vivrebbe, se non per i piaceri di questo tipo? Non certo per quelli per cui bisogna prima soffrire, altrimenti non si prova godimento, come sono quasi tutti i piaceri del corpo, che per questo motivo sono stati giustamente chiamati servili. SOCRATE: Tempo ne abbiamo, a quanto pare. E poi mi sembra che in questa calura soffocante le cicale, cantando sopra la nostra testa e discorrendo tra loro, guardino anche noi. Se dunque vedessero che anche noi due, come fanno i più a mezzogiorno, non discorriamo, ma sonnecchiamo e ci lasciamo incantare da loro per pigrizia della mente, giustamente ci deriderebbero, considerandoci degli schiavi venuti da loro per dormire in questo luogo di sosta come delle pecore che passano il pomeriggio presso la fonte; se invece ci vedranno discorrere e navigare accanto a loro come alle Sirene senza essere ammaliati, forse, prese da ammirazione, ci daranno quel dono che per concessione degli dèi possono dare agli uomini. FEDRO: E qual è questo dono che hanno? A quanto pare, non l'ho mai sentito. SOCRATE: Non si addice davvero a un uomo amante delle Muse non averne mai sentito parlare.(46) Si dice che un tempo le cicale erano uomini, di quelli vissuti prima che nascessero le Muse; quando poi nacquero le Muse e comparve il canto, alcuni di loro restarono così colpiti dal piacere che cantando non si curarono più di cibo e bevanda e senza accorgersene morirono. Da loro in seguito ebbe origine la stirpe delle cicale, che ricevette dalle Muse questo dono, di non aver bisogno di nutrimento fin dalla nascita, ma di cominciare subito a cantare senza cibo né bevanda fino alla morte, e di andare quindi dalle Muse a riferire chi tra gli uomini di quaggiù le onora, e quale di esse onora. A Tersicore riferiscono di quelli che l'hanno onorata nei cori, rendendoli a lei più graditi, a Erato di chi l'ha onorata nei carmi d'amore, e così per le altre, secondo l'onore che ha ciascuna. A Calliope, la più anziana, e a Urania, che viene dopo di lei, riferiscono di quelli che trascorrono la vita nella filosofia e onorano la loro musica, poiché esse, avendo cura del cielo e dei discorsi divini e umani, emettono tra tutte le Muse la voce più bella.(47) Per molte ragioni, quindi, a mezzogiorno bisogna parlare e non dormire. FEDRO: E allora bisogna parlare. SOCRATE: Dobbiamo dunque esaminare quello che ora ci siamo proposti, ossia come è bene pronunciare e scrivere un discorso e come non lo è. FEDRO: è chiaro. SOCRATE: I discorsi che saranno pronunciati in modo bello e decoroso non devono forse implicare che l'animo di chi parla conosca il vero riguardo a ciò di cui intende parlare? FEDRO: A tal proposito, caro Socrate, ho sentito dire questo: per chi vuole essere un retore non c'è la necessità di apprendere ciò che è realmente giusto, ma ciò che sembra giusto alla moltitudine che giudicherà, non ciò che è veramente buono o bello, ma che sembrerà tale, poiché il convincere il prossimo viene da questo, non dalla verità. SOCRATE: «Non parola da buttare»(48) dev'essere, Fedro, ciò che dicono i sapienti, ma si deve esaminare se le loro affermazioni sono valide. Anche per questo non bisogna lasciar cadere quanto ora è stato detto. FEDRO: Hai ragione. SOCRATE: Esaminiamolo dunque in questo modo. FEDRO: Come? SOCRATE: Se volessi persuaderti a difenderti dai nemici acquistando un cavallo, ed entrambi non conoscessimo un cavallo, ma io per caso sapessi di te solo questo, che Fedro reputa sia un cavallo quell'animale domestico che a orecchie assai grandi... FEDRO: Sarebbe ridicolo, Socrate. SOCRATE: Non ancora. Ma lo sarebbe nel caso che, per convincerti sul serio, componessi un discorso di elogio dell'asino chiamandolo cavallo e sostenendo che tale bestia è assolutamente degna di essere acquistata sia per uso domestico sia per le spedizioni militari, utile per il combattimento in groppa, valente a portare bagagli e vantaggiosa in molte altre cose. FEDRO: Allora sarebbe davvero ridicolo. SOCRATE: E non è forse meglio essere ridicolo e amico piuttosto che esperto e nemico? FEDRO: Così pare. SOCRATE: Pertanto, quando il retore che non conosce il bene e il male inizia a persuadere una città che si trova nelle sue stesse condizioni, facendo non l'elogio dell'ombra dell'asino come se fosse del cavallo, ma l'elogio del male come se fosse il bene, e presa dimestichezza con le opinioni della gente la persuade a operare il male anziché il bene, quale frutto credi che mieterà in seguito la retorica da quello che ha seminato? FEDRO: Sicuramente non buono. 14  Platone Fedro  SOCRATE: Ma buon amico, abbiamo forse svillaneggiato l'arte dei discorsi in modo più rozzo del dovuto? Essa forse dirà: «Cosa mai andate cianciando, o mirabili uomini? Io non costringo nessuno che non conosca il vero a imparare a parlare, ma, se il mio consiglio vale qualcosa, a prendere me solo dopo aver acquisito quello. Questa dunque è la cosa importante che vi voglio dire: senza di me, anche chi conosce le cose come sono in realtà non saprà essere più persuasivo secondo arte». FEDRO: E non dirà cose giuste, se parlasse così ? SOCRATE: Sì , se i discorsi che si presentano le rendono testimonianza che è un'arte. In effetti mi sembra di udire alcuni discorsi che vengono a testimoniare che essa mente e non è un'arte, ma una pratica priva di arte. Un'autentica arte del dire senza il tocco della verità, afferma lo Spartano,(49) non esiste né esisterà mai. FEDRO: C'è bisogno di questi discorsi, Socrate: su, portali qui ed esamina cosa dicono e in che modo. SOCRATE: Venite avanti, nobili rampolli, e persuadete Fedro dai bei figli (50) che se non praticherà la filosofia in modo adeguato, non sarà mai in grado di parlare di nulla. Fedro dunque risponda. FEDRO: Chiedete. SOCRATE: La retorica, in generale, non è l'arte di guidare le anime per mezzo di discorsi, non solo nei tribunali e in tutte le altre riunioni pubbliche, ma anche in quelle private, la stessa sia nelle questioni piccole sia in quelle grandi, e non è affatto di maggior pregio, almeno quando è retta, nelle cose serie che in quelle di poco conto? O come hai sentito parlare in proposito? FEDRO: No, per Zeus, assolutamente non così , ma soprattutto nei processi si parla e si scrive con arte, come pure nelle assemblee pubbliche. Non possiedo informazioni più ampie. SOCRATE: Ma allora, a proposito dei discorsi, hai sentito parlare solo delle arti di Nestore e Odisseo, che hanno messo per iscritto a Ilio nei periodi di tregua, e non di quelle di Palamede? (51) FEDRO: Per Zeus, neanche di quelle di Nestore, a meno che tu non faccia di Gorgia un Nestore, o di Trasimaco e Teodoro un Odisseo.(52) SOCRATE: Forse. Ma lasciamo perdere costoro. Tu dimmi piuttosto: nei tribunali gli avversari cosa fanno? Non fanno affermazioni tra loro contrastanti? O cosa diremo? FEDRO: Proprio questo. SOCRATE: Riguardo al giusto e all'ingiusto? FEDRO: Sì . SOCRATE: Allora, chi opera in questo modo con arte, farà apparire la stessa cosa alle stesse persone ora giusta, ora, quando lo voglia, ingiusta? FEDRO: Come no? SOCRATE: E in un'assemblea popolare farà sembrare alla città le stesse cose ora buone, ora, al contrario, cattive? FEDRO: è così . SOCRATE: E non sappiamo che il Palamede di Elea (53) parlava con un'arte tale da far apparire agli ascoltatori le stesse cose simili e dissimili, una e molte, ferme e in movimento? FEDRO: Ma certo! SOCRATE: Dunque l'arte del contraddire non si trova solo nei tribunali e nell'assemblea popolare, ma a quanto pare in tutto ciò che si dice ci sarebbe questa sola arte, se mai la è veramente, con la quale uno sarà capace di rendere ogni cosa simile a ogni altra in tutti i casi possibili e per quanto è possibile, e di mettere in luce quando un altro fa la stessa cosa e lo nasconde. FEDRO: In che senso dici una cosa del genere? 5OCRATE Se cerchiamo in questo modo credo che ci apparirà evidente. L'inganno si verifica di più nelle cose che differiscono di molto o in quelle che differiscono di pOco? FEDRO: In quelle che differiscono di poco. SOCRATE: Ma è più facile che non ti accorga di essere arrivato all'opposto se ti sposti poco per volta che se ti sposti a grandi passi. FEDRO: Come no? SOCRATE: Dunque chi ha intenzione di ingannare un altro senza essere ingannato a sua volta deve distinguere con precisione la somiglianza e la dissomiglianza degli esseri. FEDRO: è necessario. SOCRATE: Ma se ignora la verità di ciascuna cosa, sarà mai in grado di discernere la somiglianza dì ciò che ignora, piccola o grande che sia, con le altre cose? FEDRO: Impossibile. SOCRATE: Dunque, in coloro che hanno opinioni contrarie alla realtà degli esseri e si ingannano, è chiaro che questa impressione si insinua attraverso certe somiglianze. FEDRO: Accade proprio così . SOCRATE: è possibile allora che uno possieda l'arte di spostare poco a poco la realtà di un essere attraverso le somiglianze, conducendolo ogni volta da ciò che è al suo contrario, o viceversa di evitare questo, se non ha cognizione di cosa sia ciascun essere? FEDRO: Non sarà mai possibile. SOCRATE: Dunque, amico, colui che non conosce la verità, ma è andato a caccia di opinioni, ci offrirà un'arte dei discorsi ridicola, a quanto pare, e priva di arte. FEDRO: Pare di sì . 15  Platone Fedro  SOCRATE: Vuoi dunque vedere, nel discorso di Lisia che porti e in quelli che noi abbiamo fatto, qualcuna delle cose che definiamo prive di arte e conformi all'arte? FEDRO: Più d'ogni altra cosa, poiché ora noi parliamo in certo qual modo a vuoto, non avendo esempi adeguati. SOCRATE: E per un caso fortunato, a quanto pare, sono stati pronunciati due discorsi che recano un esempio di come chi conosce il vero, giocando con le parole, possa condurre fuori strada gli ascoltatori. Ed io, Fedro, ne attribuisco la causa agli dèi del luogo; ma forse anche le profetesse delle Muse, che cantano sopra la nostra testa, possono averci ispirato questo dono, poiché io non sono certo partecipe di una qualche arte del dire. FEDRO: Sia come dici tu. Solo spiega ciò che affermi. SOCRATE: Su, leggimi l'inizio del discorso di Lisia. FEDRO: «Sei a conoscenza della mia situazione, e hai udito che ritengo sia per noi utile che queste cose accadano; ma non stimo giusto non poter ottenere ciò che chiedo perché non mi trovo a essere tuo amante. Gli innamorati si pentono...» SOCRATE: Fermati. Bisogna dire in che cosa costui sbaglia e opera senz'arte, non è vero? FEDRO: Sì . SOCRATE: Non è forse evidente per chiunque almeno questo, che siamo d'accordo su alcune di queste cose, in disaccordo su altre? FEDRO: Mi sembra di capire il tuo pensiero, ma esprimilo ancora più chiaramente. SOCRATE: Quando uno dice la parola "ferro" o "argento", non intendiamo forse tutti la stessa cosa? FEDRO: Certo! SOCRATE: E quando si tratta dei termini "giusto" e "bene"? Non siamo portati chi in una direzione, chi in un'altra, e siamo in conflitto gli uni con gli altri e persino con noi stessi? FEDRO: Proprio così ! SOCRATE: Dunque concordiamo su alcune cose, su altre no. FEDRO: è così . SOCRATE: In quale dei due campi siamo più facilmente ingannabili e la retorica ha maggior potere? FEDRO: Quello in cui vaghiamo nell'incertezza, è evidente. SOCRATE: Pertanto chi si accinge a praticare la retorica deve innanzitutto aver distinto con metodo queste cose e aver colto un carattere peculiare di entrambe le forme, quella in cui è inevitabile che la gente vaghi nell'incertezza e quella in cui non lo è. FEDRO: Chi avesse colto questo, Socrate, avrebbe compreso un'idea davvero bella. SOCRATE: Inoltre credo che, nell'occuparsi di ciascuna cosa, non debba lasciarsi sfuggire, ma debba percepire con acutezza a quale delle due specie appartiene ciò di cui intende parlare. FEDRO: Come no? SOCRATE: E allora? Dobbiamo dire che l'amore appartiene alle questioni controverse oppure no? FEDRO: Alle questioni controverse, non c'è dubbio. O credi che ti sarebbe stato possibile dire quello che poco fa hai detto su di lui, ossia che è un danno sia per l'amato sia l'amante, e al contrario che è il più grande dei beni? SOCRATE: Parli in modo eccellente; ma dimmi anche questo, giacché io a causa dell'invasamento non lo ricordo troppo bene: se all'inizio del discorso ho dato una definizione dell'amore. FEDRO: Sì , per Zeus, in modo davvero insuperabile. SOCRATE: Ahimè, quanto sono più esperte nei discorsi, a quel che dici, dici, le Ninfe dell'Acheloo e Pan figlio di Ermes rispetto a Lisia figlio di Cefalo! Può darsi che dica una sciocchezza, ma Lisia, cominciando il suo discorso sull'amore, non ci ha costretto a concepire Eros come una certa realtà unica che voleva lui, e in relazione a questo ha composto e condotto a termine tutto il discorso seguente? Vuoi che rileggiamo il suo inizio? FEDRO: Se ti sembra il caso. Tuttavia ciò che cerchi non è lì . SOCRATE: Parla, in modo che ascolti proprio lui. FEDRO: «Sei a conoscenza della mia situazione, e hai udito che ritengo sia utile per noi che queste cose accadano; ma non stimo giusto non poter ottenere ciò che chiedo, perché non mi trovo a essere tuo amante. Gli innamorati si pentono dei benefici che hanno fatto, allorquando cessa la loro passione...». SOCRATE: Sembra che costui sia ben lungi dal fare ciò che cerchiamo, se mette mano al discorso non dall'inizio ma dalle fine, nuotando supino all'indietro, e prende le mosse da ciò che l'amante direbbe al suo amato quando ormai ha smesso di amarlo. Oppure ho detto una sciocchezza, Fedro, mia testa cara? FEDRO: è certamente la fine, Socrate, quella intorno a cui compone il discorso. SOCRATE: E il resto? Non ti pare che le parti del discorso siano state buttate lì alla rinfusa? O ciò che è stato detto per secondo risulta che per una qualche necessità doveva essere messo per secondo piuttosto che un altro degli argomenti trattati? A me, che non so nulla, è sembrato che lo scrittore abbia detto in maniera non rozza ciò che gli veniva in mente; e tu sei a conoscenza di una qualche arte di scrivere discorsi, in base alla quale lui ha disposto questi argomenti così di seguito, uno dopo l'altro? FEDRO: Sei troppo buono, se credi che io sia in grado di vedere nelle sue parole in modo così preciso! SOCRATE: Ma penso che tu possa dire almeno questo, che ogni discorso dev'essere costituito come un essere vivente e avere un corpo suo proprio, così da non essere senza testa e senza piedi, ma da avere le parti di mezzo e quelle estreme scritte in modo che si adattino le une alle altre e al tutto. FEDRO: Come no? 16  Platone Fedro  SOCRATE: Esamina dunque il discorso del tuo compagno, se è composto così o in altro modo, e troverai che non differisce in nulla dall'epigramma che secondo alcuni è stato scritto sulla tomba di Mida il Frigio.(54) FEDRO: Qual è questo epigramma, e cos'ha di particolare? SOCRATE: è questo qui: Vergine bronzea sono, e sto sull'avello di Mida. Fin che l'acqua scorra e alberi grandi verdeggino, stando qui sulla tomba di molte lacrime aspersa, annuncerò a chi passa che Mida qui è sepolto. Capisci senz'altro, come credo, che non c'è alcuna differenza se un verso viene recitato per primo o per ultimo. FEDRO: Tu ti fai beffe del nostro discorso, Socrate! SOCRATE: Allora lasciamolo perdere, così non ti crucci (eppure mi sembra che contenga parecchi esempi ai quali gioverebbe porre attenzione, cercando di non imitarli in alcun modo); e passiamo agli altri due discorsi. In essi, mi sembra, c'era qualcosa che per chi vuole fare indagini sui discorsi è conveniente esaminare. FEDRO: A che cosa alludi? SOCRATE: In qualche modo erano opposti: uno diceva che si deve compiacere chi ama, l'altro chi non ama. FEDRO: E con molto vigore! SOCRATE: Pensavo che tu avresti detto il vero, cioè con mania: ciò che cercavo è appunto questo. Abbiamo detto infatti che l'amore è una forma di mania. O no? FEDRO: Sì . SOCRATE: E che ci sono due forme di mania, una che nasce da malattie umane, l'altra che nasce da un mutamento divino delle consuete abitudini. FEDRO: Giusto. SOCRATE: Distinguendo quattro parti di quella divina in relazione a quattro dèi, abbiamo attribuito l'ispirazione mantica ad Apollo, quella iniziatica a Dioniso, quella poetica alle Muse, la quarta ad Afrodite ed Eros, e abbiamo detto che la mania amorosa è la migliore. E non so come, rappresentando con immagini la passione amorosa, forse toccando da un lato un che di vero, dall'altro uscendo un po' di strada, abbiamo composto un discorso non del tutto incapace di persuadere e abbiamo levato quasi per gioco, con parole misurate e pie, un inno in forma di mito in onore di Eros, mio e tuo signore, Fedro, e protettore dei bei giovani. FEDRO: E almeno per me, un discorso davvero non spiacevole da ascoltare! SOCRATE: Prendiamo dunque in esame solo questo, come il discorso sia potuto passare dal biasimo alla lode. FEDRO: Cosa intendi dire con ciò? SOCRATE: A me pare che il resto sia stato fatto realmente per gioco; ma in alcune di queste cose dette a caso ci sono due procedimenti di cui non sarebbe spiacevole se si riuscisse a coglierne con arte la potenza. FEDRO: Quali? SOCRATE: Il primo consiste nel ricondurre le cose disperse in molteplici modi a un'unica idea cogliendole in uno sguardo d'insieme, così da definirle una per una e da chiarire ciò su cui si vuole di volta in volta insegnare. Per esempio, nel discorso fatto poco fa su Eros, una volta definito ciò che è, a prescindere se sia stato detto bene o male, è appunto grazie a questa definizione che il discorso ha acquistato chiarezza e coerenza interna. FEDRO: E dell'altro procedimento cosa dici, SOcrate? SOCRATE: Esso consiste, al contrario, nel saper dividere secondo le idee in base alle loro articolazioni naturali, senza cercar di spezzare alcuna parte, alla maniera di un cattivo macellaio; ma come i due discorsi di poco fa concepivano la dissennatezza dell'animo come un'idea unica in comune, e come da un corpo unico hanno origine membra doppie dallo stesso nome, chiamate destra e sinistra, così i due discorsi hanno considerato anche la componente della follia come un'idea per sua natura unica in noi: il primo discorso, tagliando la parte di sinistra, e poi tagliandola ancora, non ha smesso prima di aver trovato in queste divisioni un certo qual amore chiamato sinistro e di averlo a buon diritto biasimato; l'altro discorso invece ci ha condotto nella parte destra della mania e vi ha trovato un amore che ha lo stesso nome dell'altro, ma è divino, e dopo aavercelo posto innanzi lo ha elogiato come la causa dei nostri più grandi beni. FEDRO: Dici cose verissime. SOCRATE: Io, Fedro, sono amante di questi procedimenti, delle divisioni e delle unificazioni, al fine di essere in grado di parlare e di pensare; e se ritengo che qualcun altro sia per sua natura capace di guardare all'uno e ai molti, lo seguo «tenendo dietro alle sue orme come a quelle di un dio». E quelli che appunto sono in grado di fare ciò, lo sa un dio se la mia definizione è giusta o meno, fino a questo momento li chiamo dialettici. Quelli che invece hanno appreso da te e da Lisia ciò di cui si è discusso ora, dimmi tu come conviene chiamarli: o è proprio questa l'arte dei discorsi, grazie alla quale Trasimaco e gli altri sono diventati abili a parlare essi stessi e rendono tali gli altri, che vogliono coprirli di doni come dei re? FEDRO: Sono uomini regali, sì , ma non esperti delle cose che chiedi. Ma mi pare che tu dia il nome giusto a questo metodo, chiamandolo dialettico; quello della retorica invece pare ci sfugga ancora. SOCRATE: Come dici? Potrebbe forse esserci qualcosa di bello, che anche senza questi procedimenti si apprende lo stesso con arte? Né io né tu dobbiamo assolutamente disprezzarlo, ma dobbiamo appunto precisare che cos'è ciò che rimane della retorica. FEDRO: Rimangono moltissime cose, Socrate, almeno quelle che si trovano nei libri scritti sull'arte del dire. 17  Platone Fedro  SOCRATE: Hai fatto bene a ricordarmelo. Per primo, credo, all'inizio del discorso dev'essere pronunciato il proemio; sono queste che chiami le finezze dell'arte, non è vero? FEDRO: Sì . SOCRATE: Al secondo posto viene una narrazione seguita da testimonianze, al terzo le argomentazioni, al quarto le verosimiglianze. Poi vengono la conferma e la riconferma, così almeno credo che dica l'eccellente uomo di Bisanzio, il Dedalo dei discorsi. FEDRO: Vuoi dire il valente Teodoro? SOCRATE: Come no? E poi sia nell'accusa sia nella difesa vanno fatte una confutazione e una controconfutazione. E non tiriamo in ballo il bellissimo Eveno di Paro, che per primo trovò l'insinuazione e gli elogi indiretti; (55) alcuni sostengono che pronunciasse persino dei biasimi indiretti in poesia per esercitare la memoria (in effetti era un uomo abile). E lasceremo riposare Tisia e Gorgì a,(56) i quali videro come il verosimile sia da tenere in conto più del vero e con la forza del discorso fanno apparire grande ciò che è piccolo e piccolo ciò che è grande, vecchio ciò che è nuovo e al contrario nuovo ciò che è vecchio, e scoprirono la brevità dei discorsi e le prolissità infinite su ogni sorta di argomento? Una volta Prodico,(57) sentendo da me queste cose, scoppiò a ridere, e sostenne di aver scoperto lui solo i discorsi di cui l'arte abbisogna: né lunghi né brevi, ma misurati. FEDRO: Parole molto sagge, o Prodico. SOCRATE: E non menzioniamo Ippia? Credo che anche l'ospite eleo voterebbe con lui.(58) FEDRO: Perché no? SOCRATE: E come parleremo dei Templi alle Muse dei discorsi innalzati da Polo, ad esempio la ripetizione o il parlare per sentenze e per immagini, e dei Templi alle Muse dei nomi di cui Licimnio gli fece dono per la composizione del bello stile?(59) FEDRO: E le opere di Protagora,(60) Socrate, non erano più o meno di questo tipo? SOCRATE: Una certa Correttezza dello stile, ragazzo, e molte altre belle cose. Ma quanto ai discorsi strappalacrime sfoderati per la vecchiaia e la povertà, mi pare che l'abbia vinta per arte la potenza del Calcedonio, uomo d'altronde straordinario nel suscitare la collera nella gente e poi nell'ammansire chi aveva fatto adirare incantandolo, come soleva dire, e potentissimo nel lanciare e sciogliere calunnie in ogni modo. Sembra poi che ci sia comune accordo tra tutti sulla conclusione dei discorsi, alla quale alcuni danno il nome di riepilogo, altri un altro nome. FEDRO: Intendi il ricordare per sommi capi agli ascoltatori, alla fine del discorso, ciascuno degli argomenti trattati? SOCRATE: Intendo questo, e se tu hai qualcos'altro da aggiungere sull'arte dei discorsi... FEDRO: Cose da poco, che non vale la pena di dire. SOCRATE: Lasciamo perdere le cose di poco conto, e vediamo piuttosto in piena luce quale potenza dell'arte hanno le cose di cui abbiamo parlato, e quando. FEDRO: Una potenza davvero forte, SOcrate, almeno nelle adunanze del popolo. SOCRATE: Infatti l'hanno. Ma guarda anche tu, o esimio, se la loro trama non sembra anche te, come a me, slegata. FEDRO: Purché tu lo dimostri. SOCRATE: Allora dimmi: se uno si presentasse al tuo compagno Erissimaco o a suo padre Acumeno e dicesse loro: «Io so somministrare ai corpi farmaci tali da riscaldarli e raffreddarli, se lo voglio, e se mi pare il caso tali da farli vomitare e persino evacuare, e moltissime altre cose del genere. E dal momento che ho queste conoscenze sono convinto di essere un medico e di far diventare medico un altro a cui comunico la scienza di queste cose», cosa credi che direbbero dopo averlo ascoltato? FEDRO: Cos'altro se non chiedergli se sa anche a chi e quando bisogna fare ciascuna di queste cose, e in quale misura? SOCRATE: E se allora rispondesse: «Non lo so affatto: ma sono convinto che chi ha appreso queste conoscenze da me sia a sua volta in grado di fare ciò che chiedi»? FEDRO: Direbbero, credo, che quell'uomo è pazzo, e che crede di essere diventato un medico per aver sentito qualcosa da qualche libro o per aver usato casualmente dei farmaci, senza avere alcuna conoscenza dell'arte. SOCRATE: E se uno si presentasse a Sofocle e ad Euripide dicendo che sa comporre discorsi lunghissimi su un argomento piccolo e piccolissimi su un argomento grande, commoventi, quando lo vuole, e al contrario spaventevoli e minacciosi, e tante altre cose del genere, e che insegnando ciò crede di trasmettere il modo di comporre una tragedia? FEDRO: Credo che anche costoro, Socrate, riderebbero se uno pensa che la tragedia sia altra cosa che l'unione di questi elementi ben connessi tra loro e accordati con il tutto. SOCRATE: Però non lo rimprovererebbero con villania, credo, ma come un musico, se incontrasse un uomo che crede di essere esperto nell'armonia, perché il caso vuole che sappia come si fa a produrre il suono più acuto e quello più grave, non gli direbbe villanamente: «Disgraziato, tu sei pazzo!», ma in quanto musico gli direbbe, in modo più affabile: «Carissimo, chi vuole essere un esperto di armonia è necessario che conosca anche questo, tuttavia nulla vieta che chi ha le tue capacità non sappia neppure un poco di armonia; tu infatti conosci le nozioni necessarie e preliminari dell'armonia, non come si produce l'armonia». FEDRO: Giustissimo. SOCRATE: Allora anche Sofocle direbbe a chi si esibisse di fronte a loro che conosce i preliminari dell'arte tragica ma non il modo di comporre una tragedia, e Acumeno direbbe all'altro che conosce i preliminari della medicina, non la scienza medica. FEDRO: Assolutamente. SOCRATE: E cosa pensiamo che direbbero Adrasto voce di miele o Pericle, (61) se sentissero parlare degli accorgimenti che abbiamo elencato poco fa, cioè parlare conciso, parlare per immagini e tutte le altre cose che abbiamo 18  Platone Fedro  scorso affermando che erano da esaminare in piena luce? Forse per villania, come abbiamo fatto io e te, si rivolgerebbero con parole aspre e rudi a chi ha scritto queste cose e le insegna spacciandole per retorica, oppure, essendo più saggi di noi, ci lascerebbero di stucco dicendo: «Fedro e Socrate, non bisogna essere aspri, ma indulgenti, se alcuni, non essendo a conoscenza della dialettica, non hanno saputo definire cosa mai sia la retorica e in conseguenza di questa condizione, possedendo le nozioni necessarie e preliminari dell'arte, hanno creduto di averla scoperta; e impartendo queste nozioni ad altri ritengono di averli istruiti compiutamente nella retorica e presumono che i loro discepoli debbano procurarsi da sé nei discorsi la capacità di esporre ciascuna di queste cose in maniera convincente e di collegare tutto l'insieme, come se fosse opera da nulla!». FEDRO: Ma può anche darsi, Socrate, che sia proprio un qualcosa del genere cio che concerne l'arte che questi uomini insegnano e presentano per iscritto come retorica, e mi sembra che tu abbia detto il vero; ma allora come e dove ci si può procurare l'arte di colui che è veramente esperto di retorica e persuasivo? SOCRATE: Riuscire a diventare un perfetto campione della retorica, è naturale, Fedro, e forse anche necessario, che sia come negli altri campi: se per natura sei portato alla retorica, sarai un retore famoso, a patto d'aggiungervi scienza ed esercizio; ma se manchi di una di queste qualità, resterai imperfetto. Quanto poi all'arte connessa a ciò, non mi sembra che il metodo proceda nella direzione in cui vanno Lisia e Trasimaco. FEDRO: Qual è il metodo, allora? SOCRATE: Si dà il caso, carissimo, che Pericle sia stato probabilmente il più perfetto di tutti nella retorica. FEDRO: Perché? SOCRATE: Tutte le grandi arti hanno bisogno di sottigliezza e di discorsi celesti sulla natura, poiché questa elevatezza di pensiero e questa capacità di condurre tutto ad effetto sembrano provenire in qualche modo da qui. E Pericle, oltre alla buona disposizione naturale, si acquistò anche questo: imbattutosi, credo, in Anassagora,(62) uomo di tal fatta, si riempì di discorsi celesti e giunse alla natura dell'intelletto e della ragione, argomenti intorno ai quali Anassagora si diffondeva ampiamente, e da qui ricavò quello che era utile per l'arte dei discorsi. FEDRO: In che senso dici ciò? SOCRATE: Il modo di procedere dell'arte medica è lo stesso della retorica. FEDRO: E come? SOCRATE: In entrambe bisogna dividere una natura, in una quella del corpo, nell'altra quella dell'anima, se tu, non solo per esercizio e in modo empirico, ma con arte, vuoi procurare all'uno salute e vigore somministrandogli medicine e nutrimento, e trasmettere all'altra la convinzione che desidera e la virtù offrendole discorsi e occupazioni rispettose delle leggi. FEDRO: è verosimile che sia così , Socrate. SOCRATE: Ritieni dunque che sia possibile comprendere la natura dell'anima in modo degno di menzione senza conoscere la natura dell'insieme? FEDRO: Se si deve dare qualche credito a Ippocrate, che è degli Asclepiadi,(63) senza questo metodo non è possibile neanche comprendere la natura del corpo. SOCRATE: E dice bene, amico; tuttavia bisogna confrontare il discorso con quanto afferma Ippocrate ed esaminare se si accorda. FEDRO: Certamente. SOCRATE: Allora esamina cosa dicono sulla natura Ippocrate e il discorso vero. Non bisogna forse ragionare così riguardo alla natura di qualsiasi cosa? Innanzitutto si deve considerare se ciò in cui vorremo essere esperti noi stessi e in grado di rendere tale un altro sia semplice o multiforme; poi, se è semplice, si deve esaminare quale potenza ha per sua natura nell'agire e su che cosa la esercita, o quale potenza ha nel subire e da che cosa la subisce, se invece ha più forme bisogna enumerarle e vedere per ciascuna di esse ciò che si vede per un'unità, cioè in virtù di che cosa è portata per sua natura ad agire e su che cosa, o in virtù di che cosa a subire, che cosa e da che cosa. FEDRO: Può essere, Socrate. SOCRATE: Dunque il metodo privo di questi procedimenti somiglierebbe all'andare di un cieco. Chi invece persegue con arte una qualsiasi cosa non è da rassomigliare a un cieco o a un sordo, ma è chiaro che, se uno vuol trasmettere ad altri discorsi fatti con arte, dimostrerà puntualmente l'essenza della natura di ciò a cui rivolgerà i suoi discorsi; e questo sarà in qualche modo l'anima. FEDRO: Come no? SOCRATE: Perciò tutto il suo sforzo è teso a questo, poiché in questo cerca di produrre persuasione. O no? FEDRO: Sì . SOCRATE: è chiaro dunque che Trasimaco e chiunque altro offra seriamente l'arte della retorica, innanzitutto descriverà e farà vedere con la massima precisione l'anima, se per sua natura è una e tutta uguale o multiforme come l'aspetto del corpo; diciamo infatti che questo è dimostrare la natura di una cosa. FEDRO: Assolutamente. SOCRATE: In secondo luogo, in virtù di che cosa è per sua natura portata ad agire, e su cosa, o in virtù di che cosa è portata a subire, e da che cosa. FEDRO: Come no? SOCRATE: In terzo luogo, classificati i generi dei discorsi e dell'anima e le loro proprietà, passerà in rassegna tutte le cause, adattando ciascun genere di discorso a ciascun genere di anima e insegnando quale anima, da quali discorsi e per quale causa viene di necessità persuasa, quale invece non viene persuasa. 19  Platone Fedro  FEDRO: Sarebbe bellissimo se fosse così , a quanto pare! SOCRATE: Pertanto, caro, ciò che verrà dimostrato o detto in altro modo non sarà mai detto o scritto con arte, né su questo né su un altro argomento. Ma quelli che oggi scrivono le arti dei discorsi che tu hai ascoltato sono scaltri, e pur conoscendo molto bene l'anima sono portati a dissimulare; perciò, prima che parlino e scrivano in questo modo, non lasciamoci convincere da loro, credendo che scrivano con arte. FEDRO: Qual è questo modo? SOCRATE: Già usare le espressioni appropriate non è cosa facile; ma per quanto mi è possibile voglio dirti come bisogna scrivere, se si intende farlo con arte. FEDRO: Dillo dunque. SOCRATE: Poiché la forza del discorso sta nella guida delle anime, chi vuole essere esperto di retorica è necessario che sappia quante forme ha l'anima. Esse sono tantissime e di svariate qualità, e di conseguenza alcuni uomini sono di un certo tipo, altri di un altro; e dato che le forme dell'anima risultano così divise, a loro volta sono tantissime anche le forme dei discorsi, ciascuna di tipo diverso. Per questo motivo gli uomini di un certo tipo si lasciano facilmente persuadere da discorsi di un certo tipo su determinati argomenti, mentre gli uomini di un altro tipo, sempre per questo motivo, sono difficili da persuadere. Perciò chi vuole diventare retore deve innanzitutto tenere in adeguata considerazione queste cose, poi, osservando il loro modo di essere e di operare all'atto pratico, dev'essere in grado di seguirle acutamente con le sue facoltà intellettive, altrimenti non avrà mai niente più dei discorsi che ascoltava quando frequentava un maestro. E quando sappia dire in modo adeguato quale genere di uomo viene persuaso e da quali discorsi, e sia in grado di accorgersi della sua presenza e di provare a se stesso che si tratta di quell'uomo e di quella natura sulla quale vertevano a suo tempo i discorsi, e poiché ora è di fatto presente deve riferirle questi discorsi nella maniera prevista, per persuaderla di determinate cose, una volta che dunque sia in possesso di tutti questi requisiti, sappia cogliere i momenti giusti in cui bisogna parlare e quelli in cui bisogna trattenersi e sappia discernere l'opportunità e l'inopportunità del parlare conciso, commovente o indignato e di tutte le altre forme di discorso che ha appreso, allora l'arte è realizzata in modo bello e compiuto, prima no. Ma se uno manca di una qualsiasi di queste cose quando parla, insegna o scrive, e afferma di parlare con arte, vince chi non si lascia persuadere. «E allora?», dirà forse il nostro scrittore. «Fedro e Socrate, la pensate così? Dobbiamo forse definire in altro modo l'arte che è detta dei discorsi?». FEDRO: è impossibile in altro modo, Socrate; eppure sembra un lavoro non da poco. SOCRATE: Hai ragione. Proprio per questo bisogna rivoltare tutti i discorsi sottosopra ed esaminare se da qualche parte appare una via più facile e più breve per giungere ad essa, così da non procedere inutilmente per una via lunga e aspra, quando è possibile percorrerne una corta e liscia. Ma se hai da qualche parte un aiuto, per averlo ascoltato da Lisia o da qualcun altro, cerca di richiamarlo alla memoria e di dirlo. FEDRO: Così , per fare una prova, potrei, ma non me la sento, almeno adesso. SOCRATE: Vuoi dunque che io riferisca un discorso che ho ascoltato da alcuni che si occupano di queste cose? FEDRO: Perché no? SOCRATE: D'altronde, Fedro, si dice che è giusto riferire anche le ragioni del lupo. FEDRO: Allora fa' così anche tu. SOCRATE: Dunque, essi sostengono che non si devono magnificare e levare così in alto queste cose, con tanti giri di parole; infatti, come abbiamo detto anche all'inizio del discorso, chi intende essere sufficientemente esperto nella retorica non deve certo partecipare della verità circa questioni giuste e buone, o uomini tali per natura o per educazione, poiché nei tribunali non importa proprio niente a nessuno della verità su queste cose, ma importa solo ciò ch'è atto a persuadere: è il verosimile, a cui si deve applicare chi intende parlare con arte. Talvolta infatti non bisogna neanche esporre i fatti, a meno che non si siano svolti in maniera verosimile, ma solo quelli verosimili, sia nell'accusa sia nella difesa, e in genere chi parla deve seguire il verosimile, dopo aver detto tanti saluti alla verità; poiché è appunto questo che, se percorre l'intero discorso, procura tutta quanta l'arte. FEDRO: Hai esposto, Socrate, proprio le ragioni che adducono quelli che danno a vedere di essere esperti nell'arte dei discorsi; mi sono ricordato che già in precedenza abbiamo toccato brevemente tale argomento, e sembra che ciò sia di enorme importanza per chi si occupa di queste cose. SOCRATE: Sicuramente hai studiato con precisione proprio Tisia: quindi Tisia ci dica anche questo, se per verosimile intende qualcosa di diverso da ciò che sembra ai più. FEDRO: E che altro? SOCRATE: E avendo fatto questa scoperta, a quanto pare, di saggezza e d'arte insieme, ha scritto che se un uomo debole e coraggioso, che ha percosso un uomo forte e vile e gli ha portato via il mantello o qualcos'altro, viene condotto in tribunale, nessuno dei due deve dire la verità, ma il vile deve asserire di non essere stato percosso dal solo uomo coraggioso, questi deve confutare ciò ribattendo che erano loro due soli, e servirsi del seguente argomento: «Come avrei potuto io, data la mia condizione, mettere le mani addosso a una persona come lui?». L'altro non ammetterà la propria viltà, ma cercando di dire qualche altra menzogna offrirà subito materia di confutazione all'avversario. E anche negli altri campi le cose dette con arte sono più o meno di questo genere. Non è così , Fedro? FEDRO: Come no? SOCRATE: Ahimè, sembra che abbia fatto la scoperta davvero sensazionale di un'arte nascosta, Tisia o chiunque altro sia e da qualunque luogo si compiaccia di trarre il nome! Ma a costui, amico, dobbiamo dire o no... FEDRO: Cosa? 20  Platone Fedro  SOCRATE: Questo: «O Tisia, da tempo noi, prima ancora che tu venissi qui, ci trovavamo a dire che questo verosimile viene a nascere nei più per somiglianza col vero; e poco fa abbiamo spiegato che chi conosce la verità sa scoprire benissimo le somiglianze. Perciò, se hai qualcos'altro da dire sull'arte dei discorsi, lo ascolteremo; altrimenti daremo credito a ciò che abbiamo esposto or ora, cioè che se uno non enumererà le nature di coloro che lo ascolteranno, e non sarà in grado di dividere gli esseri secondo le forme e di raccoglierli uno per uno in un'idea, non sarà mai esperto nell'arte dei discorsi, per quanto è possibile a un uomo. E non potrà mai acquisire queste capacità senza molta applicazione; ad essa il sapiente dovrà indirizzare i suoi sforzi non per parlare e agire con gli uomini, ma per poter dire cose che siano gradite agli dèi e fare ogni cosa in modo a loro gradito, per quanto è nelle sue facoltà. Infatti i più saggi tra noi, Tisia, dicono che chi ha intelletto deve prendersi cura di compiacere non i compagni di schiavitù, se non in modo accessorio, ma i padroni buoni e che discendono da uomini buoni. Perciò, se la strada è lunga, non meravigliartene, in quanto per raggiungere grandi traguardi bisogna percorrerla, non come credi tu. D'altronde, come dice il nostro discorso, anche queste fatiche diventeranno bellissime grazie a quei traguardi, se uno lo vuole». FEDRO: Mi pare che si stia parlando in modo bellissimo, Socrate, se davvero qualcuno ne è capace. SOCRATE: Ma per chi intraprende azioni belle è bello anche soffrire, qualunque cosa gli tocchi di soffrire. FEDRO: Sicuro. SOCRATE: Quanto si è detto a proposito dell'arte e della mancanza di arte nel fare discorsi sia dunque sufficiente. FEDRO: Come no? SOCRATE: Rimane la questione della convenienza e della non convenienza della scrittura, quando essa vada bene e quando invece sia sconveniente. O no? FEDRO: Sì . SOCRATE: Sai allora come, nell'ambito dei discorsi, potrai acquistarti il massimo favore di un dio con le tue azioni e le tue parole? FEDRO: Per niente. E tu? SOCRATE: Io posso raccontarti una storia tramandata dagli antichi; il vero essi lo sanno. E se noi lo trovassimo da soli, ci importerebbe ancora qualcosa delle opinioni degli uomini? FEDRO: Hai fatto una domanda ridicola! Ma racconta ciò che dici di aver udito. SOCRATE: Ho sentito dunque raccontare che presso Naucrati, in Egitto, (64) c'era uno degli antichi dèi del luogo, al quale era sacro l'uccello che chiamano ibis; il nome della divinità era Theuth.(65) Questi inventò dapprima i numeri, il calcolo, la geometria e l'astronomia, poi il gioco della scacchiera e dei dadi, infine anche la scrittura. Re di tutto l'Egitto era allora Thamus e abitava nella grande città della regione superiore che i Greci chiamano Tebe Egizia, mentre chiamano il suo dio Ammone.(66) Theuth, recatosi dal re, gli mostrò le sue arti e disse che dovevano essere trasmesse agli altri Egizi; Thamus gli chiese quale fosse l'utilità di ciascuna di esse, e mentre Theuth le passava in rassegna, a seconda che gli sembrasse parlare bene oppure no, ora disapprovava, ora lodava. Molti, a quanto si racconta, furono i pareri che Thamus espresse nell'uno e nell'altro senso a Theuth su ciascuna arte, e sarebbe troppo lungo ripercorrerli; quando poi fu alla scrittura, Theuth disse: «Questa conoscenza, o re, renderà gli Egizi più sapienti e più capaci di ricordare, poiché con essa è stato trovato il farmaco della memoria e della sapienza». Allora il re rispose: «Ingegnosissimo Theuth, c'è chi sa partorire le arti e chi sa giudicare quale danno o quale vantaggio sono destinate ad arrecare a chi intende servirsene. Ora tu, padre della scrittura, per benevolenza hai detto il contrario di quello che essa vale. Questa scoperta infatti, per la mancanza di esercizio della memoria, produrrà nell'anima di coloro che la impareranno la dimenticanza, perché fidandosi della scrittura ricorderanno dal di fuori mediante caratteri estranei, non dal di dentro e da se stessi; perciò tu hai scoperto il farmaco non della memoria, ma del richiamare alla memoria. Della sapienza tu procuri ai tuoi discepoli l'apparenza, non la verità: ascoltando per tuo tramite molte cose senza insegnamento, crederanno di conoscere molte cose, mentre per lo più le ignorano, e la loro compagnia sarà molesta, poiché sono divenuti portatori di opinione anziché sapienti». FEDRO: Socrate, tu pronunci con facilità discorsi egizi e di qualsiasi paese tu voglia! SOCRATE: E pensa che alcuni, mio caro, hanno asserito che i primi discorsi profetici nel tempio di Zeus a Dodona venivano da una quercia! Agli uomini di allora, dato che non erano sapienti come voi giovani, bastava, nella loro semplicità, ascoltare una quercia o una roccia, purché dicessero il vero; ma forse per te fa differenza chi è colui che parla e da dove viene. Non miri infatti solamente a questo, se le cose stanno così o diversamente? FEDRO: Hai colto nel segno, e mi sembra che riguardo alla scrittura le cose stiano come dice il re di Tebe. SOCRATE: Allora chi crede di tramandare un'arte con la scrittura, e chi a sua volta la riceve nella convinzione che dalla scrittura deriverà qualcosa di chiaro e di saldo, dev'essere ricolmo di molta ingenuità e ignorare realmente il vaticinio di Ammone, se pensa che i discorsi scritti siano qualcosa in più del riportare alla memoria di chi già sa ciò su cui verte lo scritto. FEDRO: Giustissimo. SOCRATE: Poiché la scrittura, Fedro, ha questo di potente, e, per la verità, di simile alla pittura. Le creazioni della pittura ti stanno di fronte come cose vive, ma se tu rivolgi loro qualche domanda, restano in venerando silenzio. La medesima cosa vale anche per i discorsi: tu potresti anche credere che parlino come se avessero qualche pensiero loro proprio, ma se domandi loro qualcosa di ciò che dicono coll'intenzione di apprenderla, questo qualcosa suona sempre e 21  Platone Fedro  solo identico. E, una volta che è scritto, tutto quanto il discorso rotola per ogni dove, finendo tra le mani di chi è competente così come tra quelle di chi non ha niente da spartire con esso, e non sa a chi deve parlare e a chi no. Se poi viene offeso e oltraggiato ingiustamente ha sempre bisogno dell'aiuto del padre, poiché non è capace né di difendersi da sé né di venire in aiuto a se stesso. FEDRO: Anche queste tue parole sono giustissime. SOCRATE: E allora? Vogliamo considerare un altro discorso, fratello legittimo di questo, in che modo nasce e quanto è per sua natura migliore e più potente di questo? FEDRO: Qual è questo discorso e come, secondo te, nasce? SOCRATE: è quello che viene scritto mediante la conoscenza nell'anima di chi apprende; esso è in grado di difendersi da sé, e sa con chi bisogna parlare e con chi tacere. FEDRO: Intendi il discorso vivente e animato di chi sa, del quale quello scritto si può a buon diritto definire un'immagine. SOCRATE: Per l'appunto. Ora dimmi questo: l'agricoltore che ha senno pianterebbe seriamente d'estate nei giardini di Adone (67) i semi che gli stessero a cuore e da cui volesse ricavare frutti; e gioirebbe a vederli crescere belli in otto giorni, o farebbe ciò per gioco e per la festa, quand'anche lo facesse? E riguardo invece a quelli di cui si è preso cura sul serio servendosi dell'arte dell'agricoltura e seminandoli nel luogo adatto, sarebbe contento che quanto ha seminato giungesse a compimento in otto mesi? FEDRO: Farebbe così , Socrate: sul serio per gli uni, diversamente per gli altri, come tu dici. SOCRATE: Dovremo dire che chi possiede la scienza delle cose giuste, belle e buone abbia meno senno dell'agricoltore con le sue sementi? FEDRO: Nient'affatto. SOCRATE: Allora non le scriverà seriamente nell'acqua nera, seminandole attraverso la canna assieme a discorsi incapaci di difendersi da sé con la parola, e incapaci di insegnare in modo adeguato la verità. FEDRO: No, almeno non è verosimile. SOCRATE: Infatti non lo è. Ma a quanto pare seminerà e scriverà i giardini di scrittura per gioco, quando li scriverà, serbando un tesoro da richiamare alla memoria per se stesso, nel caso giunga «alla vecchiaia dell'oblio»,(68) e per chiunque segua la sua stessa orma, e gioirà a vederli crescere teneri. E quando gli altri faranno altri giochi, ristorandosi nei simposi e in tutti i divertimenti fratelli di questi, egli allora, a quanto pare, invece che in essi passerà la vita a dilettarsi in ciò di cui parlo. FEDRO: è un gioco molto bello quello che dici, Socrate, rispetto all'altro che è insulso: il gioco di chi sa divertirsi coi discorsi, narrando storie sulla giustizia e sulle altre cose di cui parli. SOCRATE: Così è in effetti, caro Fedro: ma l'impegno in queste cose diventa, credo, molto più bello quando uno, facendo uso dell'arte dialettica, prende un'anima adatta, vi pianta e vi semina discorsi accompagnati da conoscenza, che siano in grado di venire in aiuto a se stessi e a chi li ha piantati e non siano infruttiferi, ma abbiano una semenza dalla quale nascano nell'indole di altri uomini altri discorsi capaci di rendere questa semenza immortale, facendo sì che chi la possiede sia felice quanto più è possibile per un uomo. FEDRO: Ciò che dici è molto più bello. SOCRATE: Ora che siamo d'accordo su questo, Fedro, possiamo giudicare quelle altre questioni. FEDRO: Quali? SOCRATE: Quelle che volevamo indagare e per le quali siamo arrivati a questo punto, ossia esaminare il rimprovero rivolto a Lisia circa lo scrivere i discorsi e i discorsi stessi, quali fossero scritti con arte e quali senz'arte. Ciò che è conforme all'arte e ciò che non lo è mi sembra che sia stato chiarito opportunamente. FEDRO: Così almeno mi è parso: ma ricordami ancora una volta come abbiamo detto. SOCRATE: Se prima uno non conosce il vero riguardo a ciascun argomento su cui parla o scrive e non è in grado di definire ogni cosa in se stessa, e una volta che l'ha definita non sa dividerla secondo le sue specie fino ad arrivare a ciò che non è più divisibile, quindi, dopo aver scrutato a fondo allo stesso modo la natura dell'anima, trovando la specie adatta a ciascuna natura non dispone e regola il discorso secondo questo procedimento, offrendo discorsi variegati a un'anima variegata e dalla piena armonia, discorsi semplici a un'anima semplice, non sarà possibile, per quanto è conforme a natura, maneggiare con arte la stirpe dei discorsi né per insegnare né per persuadere, come il discorso fatto in precedenza ci ha chiaramente indicato. FEDRO: Risulta in tutto e per tutto così . SOCRATE: Riguardo poi alla questione se sia bello o turpe pronunciare e scrivere discorsi, e quando un rimprovero sia rivolto giustamente oppure no, non ha forse chiarito ciò che abbiamo detto poco fa... FEDRO: Cosa abbiamo detto? SOCRATE: Che se Lisia o altri ha mai scritto o scriverà su argomenti d'interesse privato o pubblico, proponendo leggi o scrivendo un'opera politica, nella convinzione che in ciò vi sia una grande solidità e chiarezza, allora il biasimo ricade su chi scrive, che lo si dica o meno: poiché il non distinguere realtà e sogno in ciò che è giusto e ingiusto, male e bene, non può davvero evitare di essere riprovevole, quand'anche tutta la gente lo apprezzasse. FEDRO: No di certo. SOCRATE: Chi invece ritiene che nel discorso scritto su qualsiasi argomento vi sia necessariamente molto gioco e che nessun discorso con pregio di grande serietà sia mai stato scritto né in versi né in prosa (e neanche pronunciato, come i discorsi dei rapsodi che sono recitati senza essere sottoposti a vaglio e non mirano a insegnare, ma a persuadere), 22  Platone Fedro  ma che i migliori di essi siano realmente un mezzo per aiutare la memoria di chi già conosce l'argomento, e ritiene che solo nei discorsi sul giusto, sul bello e sul bene, pronunciati come insegnamento allo scopo di far apprendere e scritti realmente nell'anima, vi sia chiarezza, compiutezza e pregio di serietà; e inoltre è convinto che discorsi tali debbano essere detti suoi come se fossero figli legittimi, innanzitutto quello che reca in sé, nel caso si trovi che lo possiede, poi quelli che discendenti e fratelli di questo, sono nati allo stesso modo nell'anima di altri uomini secondo il loro valore, e ai rimanenti manda tanti saluti; bene, un uomo siffatto, Fedro, è probabile che sia tale quale tu e io ci augureremmo di diventare. FEDRO: Io voglio e mi auguro in tutto e per tutto ciò che dici. SOCRATE: Dunque, per quanto riguarda i discorsi, ormai abbiamo scherzato abbastanza: tu ora va' da Lisia e digli che noi due siamo discesi alla fonte e al santuario delle Ninfe e abbiamo ascoltato dei discorsi che ci ordinavano di riferire a Lisia e a chi altri componga discorsi, a Omero e a chi altri abbia composto poesia epica o lirica, e in terzo luogo a Solone e a chiunque nei discorsi politici abbia scritto dei testi con il nome di leggi, quanto segue: se ha composto queste opere sapendo com'è il vero e può soccorrerle quando ciò che ha scritto viene messo alla prova, e quando parla è in grado egli stesso di dimostrare la debolezza di quanto è stato scritto, una persona del genere non deve essere chiamato col nome di costoro, ma con un nome derivato da ciò a cui si è dedicato con serietà. FEDRO: Quale nome gli assegni dunque? SOCRATE: Chiamarlo sapiente, Fedro, mi sembra che sia cosa troppo grande e che si addica solo a un dio; chiamarlo invece filosofo o con un nome del genere sarebbe a lui più adatto e conveniente. FEDRO: E niente affatto fuori luogo. SOCRATE: Chi invece non possiede cose di maggior pregio di quelle che ha composto e ha scritto, rivoltandole su e giù per lungo tempo, incollandole l'una con l'altra o separandole, non lo dirai a buon diritto poeta o autore di discorsi o scrittore di leggi? FEDRO: Come no? SOCRATE: Riferisci dunque questo al tuo compagno! FEDRO: E tu? Cosa farai? Non bisogna lasciare da parte neanche il tuo compagno. SOCRATE: Chi è costui? FEDRO: Isocrate (69) il bello. Cosa riferirai a lui, Socrate? Come lo definiremo? SOCRATE: Isocrate è ancora giovane, Fedro: tuttavia voglio dire ciò che prevedo di lui. FEDRO: Che cosa? SOCRATE: Mi sembra che per doti naturali sia migliore a confronto dei discorsi di Lisia, e che inoltre sia temperato di un'indole più nobile. Perciò non ci sarebbe affatto da meravigliarsi se, col procedere dell'età, proprio grazie ai discorsi cui ora pone mano superasse più che se fossero fanciulli quanti mai si sono dedicati ai discorsi, e se inoltre questo non gli bastasse, ma uno slancio divino lo spingesse a cose ancora più grandi; giacché nell'animo di quell'uomo, caro amico, c'è una forma naturale di filosofia. Pertanto io riferisco queste cose da parte di questi dèi al mio amato Isocrate, tu fa' sapere quelle altre al tuo Lisia. FEDRO: Sarà così . Ma andiamo, poiché anche la calura si è fatta più mite. SOCRATE: Non conviene rivolgere una preghiera a questi dèi prima di metterci in cammino? FEDRO: Come no? SOCRATE: O caro Pan e voi altri dèi di questo luogo, concedetemi di diventare bello dentro, e che tutto ciò che ho di fuori sia in accordo con ciò che ho nell'intimo. Che io consideri ricco il sapiente e possegga tanto oro quanto nessun altro, se non chi è temperante, possa prendersi e portar via.(70) Abbiamo bisogno di qualcos'altro, Fedro? Da parte mia si è pregato in giusta misura. FEDRO: Fa' questo augurio anche per me; le cose degli amici sono comuni. SOCRATE: Andiamo! 23  Platone Fedro  NOTE: 1) Celebre oratore ateniese vissuto tra il quinto e il quarto secolo a.C., di cui restano 34 orazioni giudiziarie. Il discorso sull'amore che gli viene attribuito nel dialogo è probabilmente fittizio. Il padre Cefalo, originario della Sicilia, aveva una fabbrica d'armi al Pireo; nella sua casa è ambientata la Repubblica. 2) Noto medico dell'epoca. 3) Epicrate era un oratore democratico; Morico, forse il proprietario precedente della casa, era un cittadino ateniese che per le sue ricchezze e il suo lusso divenne frequente bersaglio dei poeti comici. 4) Pindaro, Isthmia 2. 5) Erodico di Megara, divenuto poi cittadino di Selimbria, era un medico famoso per il suo regime di vita "salutistico"; Platone lo menziona anche nella Repubblica e nel Protagora. 6) I Coribanti erano i sacerdoti della dea Cibele, i cui culti erano caratterizzati da una forte valenza orgiastica. 7) Piccolo fiume che scorre vicino ad Atene. 8) Il dialogo è immaginato in piena estate, a mezzogiorno. 9) Borea, vento del nord, rapì Orizia, figlia di Eretteo, re di Atene; in cambio concesse agli Ateniesi il suo favore nelle battaglie navali. Farmacea, citata poco sotto, era una ninfa cui era sacra la fonte dell'Ilisso. 10) Demo dell'Attica. 11) Letteralmente 'colle di Ares', era un'altura in Atene dove aveva sede il più antico tribunale della città, formato dagli arconti usciti di carica. 12) Sono tutti esseri mitologici. Gli Ippocentauri o Centauri, nati dall'unione di Issione con una nube, erano metà uomo e metà cavallo. La Chimera era un mostro con tre teste, una di leone, una di capra spirante fuoco, una di serpente. Le Gorgoni, mostri marini, erano Steno, Euriale e Medusa; le prime due erano immortali, mentre Medusa, che aveva il potere di pietrificare con lo sguardo, era mortale e fu uccisa da Perseo. Pegaso era il cavallo alato nato dal sangue della testa di Medusa tagliata da Perseo; con il suo aiuto Bellerofonte uccise la Chimera. 13) «Conosci te stesso» era appunto il precetto scritto nel tempio di Apollo a Delfi. 14) Tifone o Tifeo, figlio di Gea e del Tartaro, era un drago dalle molte teste che emettevano fumo e fiamme; al termine di una dura lotta Zeus lo fulminò e lo scagliò sotto l'Etna. Il suo mito è ricordato in Esiodo, Theogonia 820 seguenti. Da Tifone ha avuto origine il nome comune indicante un vento caldo portatore di tempeste. Nel testo greco c'è un gioco di parole, intraducibile in italiano, con il quale Tifone viene paretimologicamente accostato al participio di "túpho" ('fumare', 'bruciare') e, tramite l'aggettivo privativo "atuphos" a "tuphos" ('vanità', 'orgoglio', superbia'). Nel dialogo Platone fa uso più volte di simili giochi verbali, impossibili da mantenere nella traduzione, per creare paretimologie. 15) Alle Ninfe, divinità dei boschi e dei fiumi, Socrate in seguito attribuirà il dono dell'ispirazione. Acheloo, oltre ad essere un fiume della Grecia centrale, era anche dio dei fiumi. 16) Una locuzione simile ricorre in Omero, Iliade libro 8, verso 281. 17) Saffo è la famosa poetessa lirica di Lesbo vissuta tra il settimo e il sesto secolo a.C., autrice di carmi soprattutto d'amore omoerotico, divisi dagli Alessandrini in nove libri; di essi ci sono pervenuti un'ode intera, una quasi completa e parecchi frammenti di varia lunghezza. Anacreonte di Teo, lirico monodico del sesto secolo, fu autore tra l'altro di poesie amorose dal tono leggero, di cui restano pochi frammenti. Non è invece possibile sapere a quali autori in prosa si allude nel passo. 18) Gli arconti ateniesi, al momento di entrare in carica, giuravano che se avessero trasgredito le leggi di Solone avrebbero innalzato a Delfi una statua d'oro della loro grandezza e peso. 19) Cipselo fu tiranno di Corinto nel sesto secolo e fondò una dinastia di tiranni. L'offerta votiva cui si allude era forse una statua. 20) Immagine derivata dalla lotta: Fedro intende che Socrate a sua volta ha offerto il fianco a una critica. 21) Pindaro, frammento 105 Snell-Maehler (citato anche in Meno). 22) Il testo greco gioca sull'assonanza tra "ligús", 'dalla voce melodiosa', e "ligús" 'Ligure' (con lambda maiuscolo). Questo gioco paretimologico è probabilmente alla base della leggenda secondo cui i Liguri erano amanti del canto. 23) Socrate istituisce un nesso paretimologico tra "èros" e "róme" ('forza'). 24) Il ditirambo, componimento lirico corale associato al culto di Dioniso, ai tempi di Platone era in piena decadenza. Qui il termine ha una connotazione negativa, indicando una forma di invasamento non ispirata da "mania" divina, e quindi non mediata dal logos. 25) L'immagine è ricavata da un gioco fatto con un coccio (óstrakon), nero da una parte e bianco dall'altra; i giocatori, divisi in due squadre, sceglievano un colore e a seconda di quello che risultava lanciando il coccio dovevano fuggire o inseguire. La metafora significa che l'amante, prima inseguitore, ora fugge l'amato. 26) Simmia, prima pitagorico, poi discepolo di Socrate, è uno degli interlocutori del Fedone. 27) Ibico, frammnto 310, Page. Poeta lirico corale del sesto secolo a.C., di lui restano un'ode e pochi frammenti. 28. Stesicoro, poeta lirico corale, visse nel sesto secolo a.C. Secondo una leggenda perse la vista per aver accusato Elena di infedeltà in un carme omonimo e la riacquistò per aver scritto la Palinodia (la 'Ritrattazione'), in cui sosteneva che Paride non aveva portato a Troia la vera Elena, ma un fantasma con le sue sembianze; questa versione del mito fu ripresa da Euripide nell'Elena. Omero invece, non avendo fatto la stessa cosa, rimase cieco. Allo stesso modo Socrate pronuncerà una ritrattazione del discorso precedente su Eros, nella quale solleverà il dio dalle accuse che gli aveva mosso. 24  Platone Fedro  29) A Delfi, in Beozia, c'era il più famoso santuario di Apollo, che dava i responsi per bocca della sua sacerdotessa, la Pizia; a Dodona, nell'Epiro, c'era un santuario di Zeus. 30) Questo nome designava in origine una, in seguito più sacerdotesse di Apollo, di cui era nota l'ambiguità dei responsi; la più celebre era la Sibilla di Cuma, in Campania. 31) L'arte divinatoria, in greco "mantike", viene fatta derivare da "manikos" cioè 'affetto da mania'; il composto "oionoistike", di invenzione platonica, viene ricondotto a "oieris" ('opinione', 'credenza'), e accostato a "oionistike", ovvero l'"arte di trarre gli auspici" dal volo degli uccelli. Il gioco paretimologico, di cui si è provato a rendere ragione nella traduzione, è importante in quanto è funzionale al rovesciamento della tesi sostenuta da Lisia. 32) è il celebre mito dell'anima come una biga alata, metafora complessa e non facile da interpretare. Se infatti l'auriga rappresenta palesemente la ragione, non è del tutto chiaro il significato dei due cavalli; è poco soddisfacente l'interpretazione tradizionale, secondo cui il cavallo nero rappresenterebbe l'anima concupiscibile, quello bianco l'anima impulsiva, e l'intera immagine sarebbe da intendere come la tripartizione dell'anima che Platone teorizza nella Repubblica (libri 4 e 9). Infatti nel Timeo si dice che anima concupiscibile e anima impulsiva sono mortali, mentre qui i due cavalli fanno parte proprio della struttura dell'anima immortale, come prova anche il fatto che essi si nutrono di nettare e ambrosia, cibo e bevanda degli dèi, e che tale struttura è comune sia all'anima umana sia a quella divina. è preferibile pensare che i cavalli indichino due componenti opposte connaturate comunque all'anima immortale, che l'auriga ha la funzione di conciliare per trovare un equilibrio. 33) Estia, dea del focolare, nella cosmologia antica veniva identificata col centro dell'universo, che era immobile; per questo essa, unica tra gli dèi, non viaggia per il cielo. Le divinità che guidano le dodici schiere sono probabilmente quelle olimpiche. 34) L'Iperuranio, il luogo 'oltre il cielo', è il mondo delle Idee. Luogo metafisico, immagine della sfera dell'intelligibile che nella sua immutabilità trascende la realtà sensibile, esso è raggiungibile solo dell'anima. 35) Adrastea, letteralmente 'l'inevitabile', in questo caso è una personificazione del destino; in Repubblica (libro 5) impersonifica invece la vendetta. Viene qui esposto il destino escatologico delle anime e la teoria della metempsicosi, argomento che ha una più ampia trattazione con il mito di Er nel libro decimo della Repubblica. Nel Fedro l'assegnazione della vita futura è strettamente determinata dalla misura in cui le anime hanno contemplato la pianura della verità prima di tornare sulla terra, poiché ad esso corrisponde il grado di verità connesso alla vita in cui si reincarnano. 36) Altro gioco verbale basato su una paretimologia il termine "imeros" ('desiderio'), collegato per assonanza ad Eros, viene fatto derivare da i-, radice di "eiri" ('andare'), "mer-" radice di "méros" ('parte'), "ro-", radice di "roé" ('flusso'). 37. Gli Omeridi erano una scuola di aedi nell'isola di Chio che la tradizione voleva fondata dallo stesso Omero. Invenzione platonica sono sia i poemi segreti cui si allude ironicamente sia i due versi citati, nei quali c'è un gioco di parole tra "Eros" e Ptéros" (epiteto scherzosamente coniato da "pterós" ('alato'), probabilmente suggerito da quei passi omerici (Iliade libro 1, versi 403-404; libro 14, verso 291; libro 20, verso 74) in cui si dice che gli dèi chiamano le cose in modo diverso dagli uomini. 38) è impossibile conservare nella traduzione il gioco tra il genitivo "Diós" ('di Zeus') e l'aggettivo "dios", solitamente reso con 'splendente' o 'divino'. 39) Le Baccanti o Menadi erano le sacerdotesse di Dioniso. 40) Zeus, innamorato di Ganimede, bellissimo fanciullo frigio, in forma di aquila lo rapì sull'Olimpo, e ne fece il coppiere degli dèi. Per il gioco linguistico su "imeros", la nota 36. 41) L'espressione significa che né la temperanza umana esaltata da Lisia, né la follia divina di per sé bastano a costruire una scienza nel senso pieno del termine, ma occorre una giusta mescolanza delle due cose; questo, in ultima analisi, può essere il senso del mito della biga alata. L'immagine agonistica, più che a tre differenti gare, allude probabilmente al fatto che per vincere nella lotta bisognava atterrare l'avversario tre volte. 42) Figlio di Cefalo e fratello di Lisia, fu vittima delle persecuzioni politiche sotto i Trenta tiranni. 43) Ad Atene la frequenza dei processi e l'assenza del patrocinio legale, che obbligava l'accusatore o l'accusato a parlare personalmente in giudizio, avevano fatto nascere la professione del logografo ('scrittore di discorsi'), che preparava su commissione i testi da pronunciare in tribunale; le orazioni di Lisia sono appunto la testimonianza della sua attività di logografo. Il termine ha nel contesto una connotazione negativa, tanto da essere poco sotto equiparato a sofista. Il parallelo ritorna più avanti, dove si allude ai compensi che i sofisti chiedevano per i loro insegnamenti. 44) L'espressine, un po' enigmatica, significa probabilmente che da una cosa semplice ne è derivata una difficile. 45) Figura storicamente indeterminata, Licurgo fu, secondo la tradizione, il legislatore di Sparta. Uomo politico e poeta, annoverato tra i sette saggi, Solone attuò, durante il suo arcontato (594-593 a.C.), una riforma dello stato ateniese che prevedeva la divisione dei cittadini in classi in base al censo. Dario primo, re di Persia dal 521 al 485 a.C., fu il promotore della prima guerra greco-persiana. 46) Il mito che segue è probabilmente creazione platonica. Il canto delle cicale è metafora dell'ispirazione a comporre discorsi ma anche del rischio, da parte dell'ascoltatore, di lasciarsene ammaliare senza sottoporli a vaglio critico, un atteggiamento passivo che le cicale stesse, intermediarie tra gli uomini e le Muse, non approvano. 47) Sulla scia del catalogo esiodeo (Theogonia 75 seguenti), le Muse qui citate hanno nomi parlanti Tersicore è 'colei che gioisce dei cori', Erato è connessa con Eros, Calliope è 'dalla bella voce', Urania 'la celeste'. 25  Platone Fedro  48) Omero, Iliade libro 2, verso 361. 49) Per Spartano qui si intende semplicemente una persona che dice la verità in modo franco e lapidario. 50) I "figli" di Fedro sono i discorsi che ha indotto gli altri a fare. 51) Nestore, il più vecchio dei guerrieri greci a Ilio, era famoso per la sua eloquenza persuasiva. Abile, e soprattutto astuto parlatore era notoriamente Odisseo. Anche Palamede, l'eroe che smascherò un tentativo di Odisseo di non partecipare alla guerra di Troia, era fornito di capacità oratorie. 52) Gorgia di Lentini, nato tra il 485 e il 480 a.C. e morto vecchissimo dopo il 380 a.C., fu uno dei principali esponenti della sofistica; a lui è dedicato l'omonimo dialogo di Platone. Delle sue numerose opere restano pochi ma significativi frammenti. Il sofista Trasimaco di Calcedonia, vissuto nel quinto secolo a.C., è uno dei personaggi della Repubblica, dove difende in modo combattivo la sua idea della giustizia come diritto del più forte. Teodoro di Bisanzio, attivo nella seconda metà del quinto secolo a.C., scrisse un trattato di retorica. 53) Allusione ironica a Zenone di Elea (quinto secolo a.C.) e ai paradossi con i quali cercava di confutare dialetticamente i concetti di molteplicità e movimento; famosi sono i paradossi della freccia e di Achille e la tartaruga. 54) Mida era il leggendario re della Frigia che per avidità di ricchezze chiese e ottenne da Dioniso di poter trasformare in oro tutto ciò che toccava; ma poiché anche tutto ciò che voleva mangiare o bere diventava oro, pregò il dio di liberarlo da questo dono funesto. L'epigramma citato è attribuito a Cleobulo di Lindo, uno dei sette saggi. 55) Poeta e sofista contemporaneo di Socrate. 56) Tisia fu maestro di Gorgia e iniziatore, assieme a Corace, della scuola retorica siciliana. 57) Prodico di Ceo, uno dei più importanti esponenti della sofistica, discepolo di Protagora e maestro di Socrate. 58) Ippia di Elide, il celebre sofista da cui prendono il titolo due dialoghi di Platone. 59) Polo di Agrigento e Licimnio di Chio furono discepoli di Gorgia; il primo è uno dei protagonisti del Gorgia di Platone. Nel passo si allude probabilmente a opere di retorica dei due sofisti, come poco sotto a proposito di Protagora. 60) Protagora di Abdera, protagonista dell'omonimo dialogo Platonico, visse ad Atene nell'età periclea. Considerato il principale esponente della sofistica, è ricordato soprattutto per il suo agnosticismo religioso, che gli valse una condanna per empietà, e il suo relativismo, sintetizzato nella massima «l'uomo è misura di tutte le cose». Nulla ci rimane delle sue numerose opere. 61) Adrasto, il re di Argo che guidò la spedizione dei sette contro Tebe, è rappresentato da Eschilo nelle Supplici come abile oratore; l'epiteto «voce di miele» gli è già riferito da Tirteo (frammento 9,8 Gentili-Prato). Adrasto è qui usato come eteronimo di un personaggio contemporaneo, forse un sofista. Anche Pericle, lo statista ateniese del quinto secolo che radicalizzò il processo democratico della polis portandola al massimo splendore, è qui ricordato, con un tocco d'ironia, per le sue capacità oratorie. 62) Anassagora di Clazomene (quinto secolo a.C.) visse per molti anni ad Atene, dove ebbe come discepoli Pericle e lo stesso Socrate. Punto cardinale del suo pensiero è l'esistenza di un principio razionale che dà ordine al mondo, da lui chiamato "nous" ('intelletto'). 63) Ippocrate di Cos, vissuto tra il quinto e il quarto secolo a.C., fu il fondatore della medicina antica; l'epiteto di Asclepiade deriva da Asclepio, dio della medicina. Di lui e dei suoi discepoli resta un considerevole numero di scritti riuniti nel cosiddetto corpus Hippocraticum. 64) Città sul delta del Nilo, sede di un emporio commerciale greco. 65) Theuth o Thoth era il dio egizio dell'invenzione, che i Greci identificavano con Ermes; rappresentato con la testa di ibis, era scriba nel tribunale dei morti. Con questo mito Platone assegna alla scrittura un valore puramente "ipomnematico", ovvero la considera un mero supporto alla memoria, e non veicolo di sapienza; la trasmissione del vero sapere resta per lui affidata all'oralità dialettica. 66) «La regione superiore» è l'alto corso del Nilo. Thamus, leggendario re dell'Egitto, viene considerato un eteronimo dello stesso Ammone, una delle principali divinità egizie, venerata da una potente casta sacerdotale e identificata dai Greci con Zeus; poco sotto infatti, la risposta da lui data a Theuth è chiamata «vaticinio di Ammone». 67) I «giardini di Adone» erano recipienti in cui d'estate si piantavano semi che nascevano entro otto giorni e subito morivano; il rito simboleggiava la morte prematura di Adone, il bellissimo giovane amato da Afrodite. Allo stesso modo i «giardini di scrittura», ovvero i discorsi scritti, devono essere intesi come una forma di gioco, poiché i veri discorsi latori di verità sono affidati alla dimensione orale. 68) Citazione poetica di autore ignoto. 69) Il retore Isocrate (436-338 a.C.) fondò ad Atene una scuola in competizione con l'Accademia platonica; di lui restano 21 orazioni. Isocrate era fautore di un'alleanza di tutte le città greche sotto la guida di Filippo di Macedonia, in vista di una spedizione contro i Persiani. 70) Pan, figlio di Ermes, era la principale divinità agreste del pantheon greco, venerata soprattutto in Arcadia; presiedeva alla pastorizia e per questo era rappresentato con sembianze caprine. Pan compare già come protettore del luogo assieme alle Ninfe, e per questo Socrate gli rivolge la preghiera conclusiva. «Oro» è da intendersi in senso metaforico come ricchezza della sapienza.Elio Franzini. Franzini. Keywords: espressione, Sibley, Strawson, ‘Bounds of Sense” -- simbolo, rappresentazione, immagine, noetico, estetico, natura, bello, forma, materia, arte, platone, dialogue d’amore, bello, comunicazione, rappresentazione, forma. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Franzini” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51759406043/in/dateposted-public/

 

Grice e Frixione – l’implicatura metrica di Lucrezio – filosofia italiana – Luigi Speranza (Genova). Filosofo. Grice: “The Grecians were pretty clear – and Cicero followed suit – surely if I say ‘He made it,’ there is no implicature that he is a poet, even if ‘poeien’ is strictly, ‘make’!” -- Grice: “Poetry is a good place to apply the idea of implicature, as in Donne – Nowell-Smith’s favourite obscure poet, and Blake – mine!” –Insegna a Salerno, Milano, Genova. I suoi interessi di ricerca includono il linguaggio. Le sue ricerche riguardano il ruolo delle forme di ragionamento non monotòno nell'ambito e il rapporto tra l’illusione del perceptum ed il ragionar invalido. Si è anche occupato di modelli di rappresentazione. È noto anche per la sua attività di poeta d'avanguardia (segnalata, tra gli altri, da Sanguineti) e per aver fondato e fatto parte del “Gruppo ‘93”. Altre opere: “Il Significato” FrancoAngeli); “La Funzione e la computabilità” (Carocci); “Come Ragioniamo, Laterza Editore, Lista delle pubblicazioni da DBLP Computer Science Bibliography, Universität Trier; Diottrie, Piero Manni, Ologrammi, Editrice Zona, Insegnamenti Scuola di Scienze Umanistiche, Uiversità di Genova..  Guida dello Studente, Corso di Laurea in Filosofia, Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, Governing Boards of the Italian Association of Cognitive Sciences. A Cognitive Architecture for Artificial Vision., in Artificial Intelligence, Elsevier. Francesco Prisco, Sanguineti: «La letteratura è un gioco che può ancora scandalizzare», in Il Sole 24 Ore, Angelo Petrella, GRUPPO 93. L'antologia poetica Angelo Petrella, in Editrice Zona,.  Marcello Frixione scheda nel sito Genova, Dipartimento di Antichità, Filosofia e Storia, Come ragioniamo recensione di Dario Scognamiglio, ReF Recensioni Filosofiche.  It cannot be denied that the poem of Lucretius failed to awaken any  marked interest until long after its publication. The almost unbroken  silence of his contemporaries regarding him is significant of the com-  parative indifference with which his production was received. The  reasons for this neglect are various and not far to seek. In the first  place the moment was inopportune for the appearance of such a work.  "It was composed in that hapless time when the rule of the oligarchy  had been overthrown and that of Caesar had not yet been established,  in the sultry years during which the outbreak of the civil war was  awaited with long and painful suspense." ^ The poet betrays his sol-  icitude for the welfare of his country at this crisis in the introduction  of his work, in which he invokes the aid of Venus in persuading Mars  to command peace —   Efficc ut inter ea f era moenera militiai   Per maria ac terras omnis sopita quiescani '^ —   and acknowledges that his attention is diverted from literary labors by   the exigencies of the state :   N^am neque nos agere hoc patriai tempore iniquo  Possumus aequo animo nee Memmi clara propago  Talibiis in rebus comrnuni desse saluti. ''   Munro believes these lines were written toward the close of 695,  when Caesar as consul had formed his coalition with Pompey and  when there was almost a reign of terror.* The reflection of a state of   1 Monimseii, Hist. Rome, IV, p. 698 (Eng. Tr. ).   ' I. 29. 30.   M. 41-43-   ^Muiim. Luiictiiis. II. p. 30.     6 CONTROVERSIAL ELEMENTS IN LUCRETIUS.   tumult and peril is equally obvious in the opening verses of the second  book, where the security of the contemplative life is contrasted with  the turbulence of a political and military career.' Particularly signifi-  cant are the lines :   Si non forte tuas legiones per loca campi  Fervere cum videas belli simulacra cientis,  Subsidiis magnis et ecum vi constabilitas,  Ornatasque armis statuas pariierque animatas,  His tibi turn rebus timefactae religiones  Effugiunt animo pavide ; mortisque timores  Turn vacuum pectus lincunt curaque solutum,  Fervere cum videas classem lateque vagari}   It can readily be appreciated that a period of such fermentation  and alarm would afford opportunity for philosophic study to those  alone who were able to retire from political excitements to private  leisure and quiet. Moreover the very characteristics of the Epicurean  philosophy would recommend it chiefly to persons of this description.  Participation in public life was distinctly discouraged by the school  of Epicurus, who regarded the realm of politics as a world of tumult  and trouble, wherein happiness — the chief end of life — was almost, if  not quite, impossible. They counselled entering the arena of public  affairs only as an occasional and disagreeable necessity, or as a pos-  sible means of allaying the discontent of those to whom the quiet of  a private life was not wholly satisfactory.'' Such instruction, though  phrased in the noble hexameters of a Lucretius, was scarcely calculated  to enjoy immediate popularity in the stirring epoch of a fast hurrying  revolution.^   1 Sellar, Rommi Pods of the Republic, p. 290.   2 II, 40-47. " Caesar after his consulship remained with his army for three  months l)efore Rome, and was bitterly attacked by Memmius. Does Lucretius here  alhide to Caesar? " Munro, II, p. 122.   •^ Zeller, Stoics, Epicureans and Sceptics, p. 491, 3, 6.   * " In consequence of his mode of thought and writing lieing so averse to his own  time and directed to a better future, the poet received little attention in his own  age." Teuflfel, Hist. Rom. Lit. I, 201 (Eng. Tr.). "It (Epicureanism) arose in a  state of society and under circumstances widely different from the social ar.d  political condition of the last phase ol the Roman Republic." Sellar. Roman Poets  of the Republic, p. 357.     IXTRODUCTIOX. 7   A somewhat ingenious, but unsuccessful, attempt has been made to  account for the indifference with which Lucretius was treated on the  ground of his assault Upon the doctrine of the future life. It has  been suggested that as the enmity of the Christian writers was early  called down upon his head for this cause, he was likewise whelmed  ' ' under a conspiracy of silence on the part of his Roman contempo-  raries and successors " for the same reason. ^ But so general was the  skepticism of his age on this question, that it is scarcely credible that  the publication of his views could have seriously scandalized the cul-  tured classes who read his lines. The same judgment will hold true  with reference to the entire attitude of Lucretius toward the tra-  ditional religion. It is a sufficient answer to the theory that his in-  fidelity created antipathy toward him to record the fact that Julius  Caesar, than whom no more pronounced free-thinker lived in his day,  was, despite his skepticism, pontifex maxi'mus of the Roman common-  wealth, and did not hesitate to declare in the presence of the Senate  that the immortality of the soul was a vain delusion.^ That he rep-  resented in these heretical opinions the position of many of the fore-  most persons of the period is the testimony of contemporary literature.   Shall we not find the better reason for the apparent neglect of  Lucretius in the era immediately following the issue of his poem in  the fact that there was no public at this juncture for the study  of Greek philosophy clothed in the Latin language .? Cicero, who de-  voted himself with the zeal of a patriot to the creation of a philosoph-  ical literature in his native tongue, complained of the scant courtesy  paid to his efforts. Xon eram nescius. Brute, cum, quae summis in-  geniis exquisitaque doctrina philosophi Graecn sermone tractavisseni, ea  Latinis Uteris mandaremus, fore ut hie noster labor in varias reprehen-  siones incur reret. Nam qiiibusdam, et Us quidem non admodum indoctis,  totum hoc displicet, philosophari. Quidam autem non tam id reprehendunt,  si remissius agatur, sed tantum studium tamque muUam operant ponendam  in eo non arbitrabantur. Erunt etiam, et ii quidem eruditi Graecis Utter is,  contemnentes Latinas, qui se dicant in Graecis legendis operant maUe  consumer e. Postremo aliquosfuturos suspicor, qui me ad aUas Utter as vocent,   * This is the view advanced by R. T. Tyn-il of the University of Dublin. See  his LiiUn Poc'try, p. 74, (Houjrhton, Mifflin & Co., N. Y., 1895).  ^ Merivale. History of the Romans. If. p. 354.     8 CONTROVERSIAL ELEMENTS IN LUCRETIUS.   genus hoc scribendi, etsi sit elegans, personae iamen et digtiiiatis esse  negent.^ Yet this work, as he explains in his De Divinatione,'^  was undertaken with the commendable purpose of benefitting  his countrymen. He anticipated with delight the advantages  which would accrue to them when his researches were com-  plete. Magnificum illud etiam Romanisque hominibus gloriosum, ut  Graecis de philosophia litteris no?i egeant. ^ And later he reaped his re-  ward in an awakened interest in the subjects of his studious inquiries.  But he was compelled in the beginning to cultivate a sentiment in  behalf of those investigations. Lucretius addressed himself to an un-  sympathetic public, and was likewise required to wait for applause  until a' more appreciative generation rose up to do him honor.   Yet it must not be supposed that Epicureanism exercised a feeble  influence over the thought of cultivated Romans in this period of  their history. The very theme which engaged the genius of Lucretius  had also employed the energies of predecessors and contemporaries.  Among attempts of this character were the De Rerum Natura of  Egnatius, which appeared somewhat earlier than the work of Lucretius ;  the Empedoclea of Sallustius mentioned by Cicero in the much dis-  cussed passage relating to Lucretius; and a metrical production en-  titled De Rerum Natura by Varro.* Commentaries on the principles  of Epicureanism had also been extant for some time. Chief among  the authors of such compositions was Amafinius who preceded  Lucretius by nearly a century. Our knowledge of him is mainly  derived from Cicero, who says : C Amafijiius exstitit dicens cuius libris  editis commota multitudo contulit se ad eain potissimum disciplinam}  Rabirius is also mentioned by the same author as belonging to that  class of writers, Qui nulla arte adhibita de rebus ante oculos positis vol-   * Dc Finilnts, I, i.   ^ Quaercnti mihi vmltumquc d diu cogitanti, quanotii re possem prodesse qtiam plu-  rimus, ne quando intervdtterem considere reipubiicae, nulla niaior occurrebat^ quam si  optimaruni artiwn vias traderevi vicis civibus; quod conpluribus iam libris me arbitror  conseciiturn. . . . Quod enim munus rei publicac adferrc mains nieliusve pos-  s tonus , quam si docemus at que erudimus iuveiitutem^ his praesertim in or i bus at que  iemporibus, qtdbus ita prolapsa est, etc. II, I, 2.   ^ De Divinatione, II, 2.   ^ Sellar, Roman Poets of the Republic, p. 278.   ^ Acad. I, 2, 5.     INTRODUCTION. 9   gari sermone disputant.^ Rabirius indulged in a popular treatment  of philosophy and covered much the same ground as Amafinius.  Another contributor to the literature of Epicureanism whom Cicero  records in no complimentary way is Catius — Catius insuber, Epicur-  eus, quinuper est vioriuus, quae ille Gargettius et iam ante Democritus ctSuXa,  hie spectra nominat. ^   The interest in this school of philosophy among Romans of the  time of Lucretius is further apparent in the prominence which cer-  tain Epicurean teachers attained. Conspicuous among them is Zeno  the Sidonian, whose lectures Cicero in company with Atticus had at-  tended on the occasion of his first visit to Athens, 79 to 78 B.C.,  whom he calls the prince of Epicureans in his De Natura Deorum,'^  and wliose instruction is doubtless liberally embodied in Cicero's  discussions of the system of Epicureanism.* Contemporary with  Zeno was Phaedrus/ who had achieved distinction in Athens and  Rome, in both of which places Cicero studied under his direction.  Somewhat later Philodemus^ of Gadara appeared in Rome, and is  mentioned by Cicero as a learned and amiable man. The consider-  able body of writings bearing his name found in the Volumina Her-  culanensia'^ indicates his position among the philosophic instructors  of his day. Scyro * a follower of Phaedrus, said to have been the  teacher of Vergil ; Patro * the successor of Phaedrus, who taught in  Athens; and Pompilius Andronicus,^" the grammarian who gave up his  j)rofession for the tenets of Epicurus, were eminent also at this period.   Partly as a result of the activity of these teachers of philosophy, and  partly on account of the prevailing anxiety to arrive at some satis-  factory scheme of life, the number of disciples of Epicurus steadily  increased at this time, and included not a few illustrious names.   »7>/j6. Disp., IV, 6.   ■'Ad Fam.. XV, 16, 2.   ^I. 21. Cf. Diogenes Laertius. X, 25.   * Rilter et Preller, Hist. Phil. Graec, 447. a.  -^Ad Fam., XIII, i.   ^De Fin., II, 35, 119.   • Ritter et Preller, Hist. Phil. Graec, 447, a.  ^Ad. Fam., VI. ii.   ^Ad. Fam., XIII, i. Ad Attic, V, 11.   ^•^Zeller. Stoics. Fpicnreans and Sceptics, p. 414, i.     lO CONTROVERSIAL ELEMENTS IN LUCRETIUS.   These are known to us chiefly through the writings of Cicero/ who  mentions T. Albutius, Velleius, C. Cassius, the well-known conspirator  against Caesar, who may himself be classed among those who had  lost confidence in the gods/ C. Vibius Pansa, Galbus, L. Piso, the  patron of Philodemus, and L. Manlius Torquatus. Other notable  personages are apparently regarded as Epicureans by Cicero, but  grave doubts have been expressed concerning their real attitude  toward the school. It is barely possible that Atticus may justly be  denominated an Epicurean, for he calls the followers of Epicurus  nostri familiar es^ and condiscipuli.* But his eclectic spirit would  seem to forbid his classification with any single system, and Zeller^  feels that neither he nor Asclepiades of Bithynia, a contemporary of  Lucretius, who resided at Rome and was associated with Epicureans,  can be regarded as genuine disciples of Epicurus.   The discussions of the Epicurean philosophy in De Natura Deorwn,  De Finibus and other works of Cicero evince the profound interest he  had in the school, though his general attitude was one of unfriendli-  ness. What reason, then, we may ask, can be given for his almost  uninterrupted silence concerning Lucretius } The only reference we  have to the poet in all Cicero's voluminous compositions occurs in a  letter to his brother Quintus,* four months after the death of Lucretius,  in which he says, Lucretii poemata, ut scribis ita sunt: viultis lunmiibus  ingenii, viultae etiam artis; sed cum veneris virum te putabo, si Sallustii  Empedoclea legeris, hominem non putabo. These words certainly imply  that both Marcus and Quintus had read the poem, and many scholars  accept the statement of Jerome in his additions to the Eusebian  chronicle — quos Cicero emendavit — as applying to Marcus.' But if he  was closely enough identified with the work of Lucretius to edit his  manuscript, why in those writings wherein ample opportunity was af-  forded, did not Cicero mention his labors in the field of philosophy .?   ^ Zeller, Stoics, Epicureans and Sceptics, p. 414, 3.  ■^Merivale, Hist. Rom., II, pp. 352, 3.  ^De Fin., V, i, 3.  ^Legg., I, 7» 21.   '^Stoics, Epicureans and Sceptics, p. 415.  ^Ad Quint ton, II, II.   ^ Munro (II, pp. 2-5) who discusses this question with his usual lucidity, inclines  to the opinion that Jerome, following Suetonius, has indicated M. T. Cicero as the     INTRODUCTION. I I   This is a particularly pertinent inquiry in view of the fact that he does  speak of Amafinius, Rabirius and Catius, as we have already observed,  and that he devoted so much attention to the discussion of Epicur-  ean principles. Munro answers this question by declaring that it was  not Cicero's custom to quote from contemporaries, numerous as his  citations are from the older poets and himself; that had he written  on poetry as he did of philosophy and oratory, Lucretius would have  undoubtedly occupied a prominent place in the work, and that more  than once in his philosophical discussions Cicero unquestionably re-  fers to Lucretius.^ Munro is not alone in contending that the liter-  ary relations between Lucretius and Cicero were more or less intimate.  Other critics have traced to Cicero's Aratea important lines in  Lucretius, while many passages in Cicero closely resemble utterances  of the poet. Martha quotes several remarkable parallels between De  Finibus and various lines in Lucretius.^ But it is argued on the other  hand no less vigorously that didactic resemblances prove nothing, ex-  cept that Lucretius and Cicero wrought from like sources their several  Latinizations of Greek philosophy.   And herein there is suggested a possible explanation of Cicero's ap-  parent indifference to the poet, whether he did him the favor of edit-  ing his verse or not. Cicero had made an earnest study of Greek  philosophy long before the poem of Lucretius had been introduced  to his notice. He had resorted to original authorities for informa-  tion concerning Epicureanism. Zeno the Sidonian and Philodemus  of Gadara, as already noted, had supplied him with much material.  Everywhere in his philosophical works there is evidence that he re-  garded himself a sort of pioneer in this peculiar field of investigation.     editor of Lucretius, and that this was the real fact. Sellar, Roman Poets of the  Republic, pp. 284-6, though suspending judgment does not deny the probability  that M. T. Cicero performed this favor for Lucretius. Teuffel, Hist. Rom. Lit.,  I, 201, 2, while expressing doubt concerning the evidence of Cicero's connection  with the poem, declares that at any rate his " part was not very important, and it  might almost seem that he was afraid of publishing a work of this kind." Prof. E.  G. Sihler, N. Y. University, presents an argument of great force against the prob-  ability of Cicero's editorship. See Art. Lucretius and Cicero. Transactions Amer-  ican Philological Association^ Vol. XXVIII, 1897.   1 Munro, II. pp. 4, 5.   ^ M. Constant Martha, La: L^oeme de Lucrece, quoted in Lee's Lucretius, p. xiv, I.     12 CONTROVERSIAL ELEMENTS IN LUCRETIUS.   and therefore deserving of the pre-eminence therein. He d()u])tlcss  placed no importance upon any Latin writings beside his own which  treated of this class of Greek culture. Indeed the references which  he has made to persons engaged in an undertaking similar to his own  are in no instance flattering. And Lucretius would only be esteemed  by him a competitor in the same department of inquiry, who wrote  in Latin verse instead of Latin prose.   Keeping these facts in mind the comparative silence of Cicero re-  garding Lucretius does not seem wholly incompatible with the theory  of his editorship. He was himself an expositor of Epicurus — and  that too of the hostile kind. He had " popularized the Epicurean  doctrines in the bad sense of the word," and had thrown "a  ludicrous color over many things which disappear when they are more  seriously regarded. " ^ Yet his opposition to the tenets of Epicurus  would not preclude him from friendly association with many who  professed them, and if asked to lend his name to the publication of  Lucretius' verses, there could be no reason for withholding it. But  if his antagonism to Epicureanism would lead him to speak against  the doctrines of the poem, his admiration for the literary excellences  of the work, as exhibited in his willingness to stand sponsor for its  issue, would deter him from adverse criticism. Silence in such a  case is the best evidence of friendship.   Mommsen ^ remarks that "Lucretius, although his poetical vigor  as well as his art was admired by his cultivated contemporaries, yet  remained — of late growth as he was — a master without scholars."  But with increasing knowledge in what is best in Epicurus and a  finer taste to appreciate the moral and literary virtues of Lucretius,  subsequent generations gave ample recognition to the poet. Horace  and Vergil were greatly influenced by him, particularly the latter, who  is supposed to refer to Lucretius in the famous lines :   Felix qui potuii rerum cognoscere causas\  Atque metus omnes et inexorabile fatum.  Subiecit pedihus strepitumque Achernntis avari.'^     1 Lanjje, History of Materialism. I. p. 127 (Eng. Tr.).  =* Hist. Rome, IV, p. 699.  ^ Georgica, II. 490 2.     INTRODUCTION. I 3   Ovid pronounced words of high eulogy upon him :   Carmina sublimis tunc sunt peritura Lucre tt  Exitio terras cum dabit una dies. ^  The persistency of the Epicurean school of philosophy despite perse-  cution and opposition down to the fourth century A. D. demon-  strates its marvelous vitality and the almost deathless influence of  the personality of Epicurus, whose single mind projected its grasp  upon human thought throughout the whole existence of the sect.  And not the least important agent in affecting this result, because of  his almost idolatrous devotion to his master and the persuasive charm  of his lines, was the poet Lucretius. Marcello Frixione. Frixione. Keywords: l’implicatura metrica di Lucrezio, poetry, Ezra Pound, Alighieri, “speranza, tela” – Tesauro – Folco -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Frixione” – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51759787619/in/dateposted-public/

 

Frontino (catalogued by it.wiki under “filosofi romani”and ‘scrittori romani’ – vide Marc’Aurelio Antonino.

 

Frontone – vide Antonino

 

Grice e Frosini – filosofia italiana – Luigi Speranza (Catania). Filosofo. Grice: “I like Frosini; only in Italy a professor of jurisprudence – the Italian H. L. A. Hart – would care to provide a theatrical ‘reduction’ of a Sicilian ‘romanzo’! Genial – He has also written on Risorgimento families!” --  «Il progresso tecnologico è la nuova democrazia di massa»  (Vittorio Frosini in'intervistaalla trasmissione RAI Mediamente ). Considerato il padre dell'Informatica in Italia, si devono a lui le prime riflessioni generali sulle implicazioni esistenti tra diritto, tecnologie e attività giudiziarie.  Laureatosi alla a Pisa in filosofia e studia a Catania. Studia la regolamentazione dell'informatica; ha presieduto l'Associazione Italiana di Diritto dell'Informatica e di Giuritecnica e l'Istituto di Teoria dell'interpretazione e di informatica giuridica presso la Facoltà di Giurisprudenza dell'Roma "La Sapienza". Teorico di un "umanesimo tecnologico" attento ai diritti civili, ha avviato una ricostruzione sistematica dei problemi dell'informatica consapevole delle diverse implicazioni economiche e sociali della regolamentazione giuridica. Nel confronto costante tra diritto e tecnologie, il progresso produce una evoluzione sociale continua che si riflette nel campo giuridico ed economico come nei miglioramenti qualitativi dei diversi rapporti con le istituzioni, favorendo un continuo e immediato confronto fra amministratori e amministrati entro un rapporto diretto a carattere orizzontale, mentre prima era a carattere “verticale” e così il cittadino diventa veramente attore della vita civile e non più suddito. Di qui il profilarsi di una nuova democrazia di massa in cui si realizza con apparente paradosso una nuova forma di libertà individuale, un accrescimento della socialità umana che si è allargata sull'ampio orizzonte del nuovo circuito delle informazioni, un potenziamento, dunque, dell'energia intellettuale ed operativa del singolo vivente nella comunità». L'opera centrale di Vittorio Frosini, Professore ed emerito di filosofia del diritto e di informatica giuridica è indubbiamente “La struttura del diritto”. Il saggio ebbe immediati riconoscimenti e una notevole fortuna in Italia dove ebbe sei riedizioni pressoché inalterate. Quale suo autore ricevette un premio dall'Accademia Nazionale dei Lincei dalle mani del Presidente della Repubblica Italiana, Antonio Segni.  Frosini è peraltro autore di saggi fondamentali sul rapporto tra tecnologia e diritto quali:  “Cibernetica: diritto e società”; “Informatica, diritto e società” (Milano); “Giuffrè Il giurista e le tecnologie dell'informazione” (Roma, Bulzoni); “La democrazia nel XXI secolo)” (Roma, Ideazione ed.;, Macerata, Liberilibri); “La lettera e lo spirito della legge” (Milano): Giuffrè Teoria e tecnica dei diritti umani” (Napoli, Edizioni scientifiche Italiane; “Fondamentali sono anche i suoi scritti sulla rivista Informatica e Diritto: “L'automazione elettronica nella giurisprudenza e nell'Amministrazione Pubblica”; “La giuritecnica: problemi e proposte”; “Giustizia e informatica”; “La protezione della riservatezza nella società informatica”; “L'esperienza OCSE nel potenziamento degli scambi tecnologici connessi alla gestione delle informazioni”; “L'informatica nella società contemporanea; “Riflessioni sui contratti d'informatica”; “Il giurista nella società dell'informazione Riconoscimenti A Vittorio Frosini sono dedicati:  il premio nazionale di informatica giuridica "Vittorio Frosini" della rivista Il diritto dell'informazione e dell'informatica; la collezione di strumenti di calcolo e di elaborazione automatica dei dati, utilizzati presso l'Istituto di Teoria dell'Interpretazione e di Informatica Giuridica dell'Università "La Sapienza" di Roma. MediaMente: "Il progresso tecnologico e ‘la nuova democrazia di massa’", su mediamente.rai.  "Net freedoms: i diritti di libertà in rete" Dibattito sul diritto dell'informazione e dell'informatica | RadioRadicale  Cfr. Frosini in una lucida testimonianza su Università, Normale e Collegio Mussolini, Raimondo Cubeddu e Giuseppe Cavera.  Sabino Cassese, Vittorio Frosini e lo spirito della legge, Il Sole; Frosini, La democrazia nel XXI secolo, Macerata, Liberi libri,.  Fondazione Piero Calamandrei, Roberto Russano, degli scritti, Milano, A. Giuffrè, Vittorio Frosini, su TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  La ‘morfogenesi dell’ordinamento giuridico’ in Vittorio Frosini, in "L'Ircocervo. Rivista elettronica italiana di metodologia giuridica, teoria generale del diritto e dottrina dello stato" Genesi filosofica e struttura giuridica della Società dell'informazione, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, su edizioniesi.  Il Gattopardo TEATRO STABILE, ROMA Il Gattopardo - forse il film più popolare di Luchino Visconti, tratto dal capolavoro letterario di Tomasi di Lampedusa - è ora anche uno spettacolo teatrale. L'inedita trasposizione scenica si deve al regista Gianni Giaconia, dal 1995 direttore artistico della sala di piazza Nerazzini, a un passo dalla più nota piazza dei Navigatori. Suo infatti il proposito di compiere una riduzione del romanzo da adattare alle scene.   COMUNICATO STAMPA di Giuseppe Tomasi di Lampedusa   riduzione teatrale di Vittorio Frosini   regia di Gianni Giaconia   musiche di Vittorio Giannini  scene di Luca Arcuri   Il Gattopardo - forse il film più popolare di Luchino Visconti, tratto dal capolavoro letterario di Tomasi di Lampedusa si deve al regista Gianni Giaconia, dal 1995 direttore artistico della sala di piazza Nerazzini, a un passo dalla più nota piazza dei Navigatori. Suo infatti il proposito di compiere una riduzione del romanzo da adattare alle scene, sua la scelta di approntare una singolare versione multimediale della celebre opera servendosi del testo messo a punto da Vittorio Frosini (e proprio in questi giorni uscito in volume presso Bulzoni editore) e di inserti cinematografici appositamente confezionati per l'occasione.   Nei centoventiminuti di questa originale edizione del Gattopardo riletto da Gianni Giaconia gli inserimenti segneranno - non senza una certa attitudine sperimentale e trasgressiva - alcuni passaggi della storia del principe Salina, da Tomasi di Lampedusa mirabilmente ritratta nel doloroso passaggio, sulla scia dell'impresa garibaldina, dalla Sicilia dei Borboni a quella dei Sabaudi, amaro volgere di un mondo che si vede scosso e abbattuto da nuovi fremiti, dove però resta valida la massima "se vogliamo che tutto rimanga com'è, bisogna che tutto cambi".   In scena, impegnati a sostenere le parti che nella memoria di ognuno di noi hanno ancora i volti e i modi di Burt Lancaster, Claudia Cardinale o Alain Delon (per limitarsi ai soli protagonisti principali), sono circa trenta attori, tra cui Giorgio Berini, Sergio Silvestro e Eleonora Zimei, nei ruoli - rispettivamente - del principe, di suo nipote Tancredi e della bella Angelica.   Siciliano di origine, Gianni Giaconìa si puo' considerare romano d'adozione. E' dal 1969 infatti che risiede nella capitale, dove - con il nome d'arte di Marcello Monti - ha iniziato la sua carriera d'attore proseguita tra palcoscenici e set per quasi tre decenni ininterrotti. In teatro, è stato diretto tra gli altri da Vasilicò, Fantoni, Sbragia, Vannucchi, Garrani e ha lavorato a fianco di Elsa De Giorgi, Gianrico Tedeschi, Salvo Randone. Tra le sue interpretazioni e partecipazioni cinematografiche e televisive, ricordiamo i film "Correva l'anno di grazia 1870" di Alfredo Giannetti (con Marcello Mastroianni e Anna Magnani, 1971) e "Ligabue" di Salvatore Nocita (con Flavio Bucci, 1978), oltre a varie pellicole con Maurizio Merli dirette da Marino Girolami (tra cui "Italia a mano armata" nel 1976), e soprattutto a "Fontamara" di Carlo Lizzani (con Michele Placido, 1980) dove Gianni Giaconia-Marcello Monti è Scarpone.   Ha esperienza di doppiaggio e di regia televisiva (per fiction trasmesse da televisioni locali siciliane).   Dal 1995 dirige il Teatro Stabile di Santa Francesca Romana, per il cui palcoscenico ha già siglato, tra le altre, le regie di "Processo a Gesù" di Fabbri, "Vita di Galileo" di Brecht, "La tempesta" di Shakespeare, realizzando spettacoli multimediali.   La trasposizione in linguaggio scenico di un testo narrativo - scrive Vittorio Frosini autore della riduzione teatrale de "Il Gattopardo" - obbliga ad esercitare sul testo originario un rifacimento, che è quasi una operazione di chirurgia estetica; anzi, si tratta di una metamorfosi da un linguaggio scritto in un linguaggio parlato e gestito, da una continuità discorsiva ad una serialità episodica. Nel procedere a questa manipolazione intellettuale ho dovuto affrontare il problema di una scelta tematica dei motivi presenti nell'opera romanzesca: ho dato perciò risalto ad alcuni di essi. Tale è il confronto fra la coscienza del principe e l'idea della morte, che viene anteposto agli altri momenti della vicenda; tale è il rapporto fra la condizione storica dei personaggi e l'irruzione dell'impresa garibaldina. Si tratta dunque di una libera sceneggiatura del romanzo, di una interpretazione di esso, e cioè di una lettura partecipe.   Vittorio Frosini è professore emerito dell'università La Sapienza di Roma, dove ha insegnato filosofia del diritto, sociologia giuridica e teoria dell'interpretazione. E' stato componente del Consiglio Superiore della Magistratura e Visiting Professor nelle università di Tokyo e di Harvard, ed è accademico della Real Academia di Spagna. E' autore di molti studi di carattere giuridico, pubblicati anche in diverse lingue straniere, e di numerosi saggi di carattere storico e letterario, dedicati in parte alla Sicilia.   Orario:  da martedì a sabato alle ore 20.45,  domenica alle ore 17.45;  Teatro Stabile S. Francesca Romana,  Piazza Nerazzini, Roma  tel: 06 5125531   Informazioni e prenotazioni: tel. 06.5125531  Biglietti: intero 25.000 - ridotto 20.000   Stagione 2000/2001 del Teatro Stabile S. Francesca Romana:   Dal 12 ottobre al 12 novembre 2000  Il Gattopardo di G. Tomasi di Lampedusa riduzione teatrale di Vittorio Frosini regia di Gianni Giaconia   Dal 21 al 26 novembre 2000  Goffredo Tofani (produzione da definire)   Dal 23 gennaio al 4 febbraio 2001  Compagnia Associazione Agitati prima dell'Uso L'uomo, la bestia e la virtù di Luigi Pirandello regia di G. Cirillo   Dal 20 al 25 febbraio 2001  Goffredo Tofani (produzione da definire)   Dal 27 febbraio all'11 marzo 2001  Compagnia I Bankarettisti Non ti pago di Eduardo De Filippo regia di Gennaro Sommella   Dal 13 al 25 marzo 2001  Compagnia I Buattari 'O scarfalietto di E. Scarpetta regia di Paolo Savini   Dal 27 marzo all'8 aprile 2001  Compagnia Corricorri Vin santo di Roberto Giacomozzi regia di Roberto Giacomozzi   Dall'1 al 13 maggio 2001  Compagnia Associazione Agitati prima dell'Uso L'importanza di chiamarsi Ernesto di Oscar Wilde regia di Gaetano Cicoira   Dal 22 maggio al 3 giugno 2001  Compagnia Associazione Agitati Prima dell'Uso (una commedia da definire di E. Scarpetta) regia di Gaetano Cicoira  STAMPAPERMANENT LINK TEATRO STABILE IN ARCHIVIO [2]  WORDSTAR(S) DAL 7/1/2013 AL 19/1/2013Il Gattopardo romanzo scritto da Giuseppe Tomasi di Lampedusa Lingua Segui Modifica Nota disambigua.svg Disambiguazione – Se stai cercando il film diretto da Luchino Visconti, vedi Il Gattopardo (film). «Se non ci siamo anche noi, quelli ti combinano la repubblica in quattro e quattr'otto. Se vogliamo che tutto rimanga com'è, bisogna che tutto cambi»  (Tancredi Falconeri, nipote di don Fabrizio Corbera, Principe di Salina) Il Gattopardo Incipit Gattopardo.jpg L'incipit manoscritto del Gattopardo AutoreGiuseppe Tomasi di Lampedusa 1ª ed. originale1958 Genere  romanzo Sottogenere                                           storico Lingua originaleitaliano AmbientazioneSicilia, 1861-1910, Risorgimentoitaliano ProtagonistiFabrizio Corbera Il Gattopardo è un romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa che narra le trasformazioni avvenute nella vita e nella società in Sicilia durante il Risorgimento, dal momento del trapasso del regime borbonico alla transizione unitaria del Regno d'Italia, seguita alla spedizione dei Mille di Garibaldi. Dopo i rifiuti delle principali case editrici italiane (Mondadori, Einaudi, Longanesi), l'opera fu pubblicata postuma da Feltrinelli nel 1958, un anno dopo la morte dell'autore, vincendo il Premio Strega nel 1959,[1] e diventando uno dei best-seller del secondo dopoguerra; è considerato uno tra i più grandi romanzi di tutta la letteratura italiana e mondiale.  Il romanzo fu adattato nell'omonimo film del 1963, diretto da Luchino Visconti e interpretato da Burt Lancaster, Claudia Cardinale e Alain Delon.  Tema e storia editorialeModifica L'autore contemplava da lungo tempo l'idea di scrivere un romanzo storico basato sulle vicende della sua famiglia, gli aristocratici Tomasi di Lampedusa, in particolare sul bisnonno, il principe Giulio Fabrizio Tomasi, nell'opera il principe Fabrizio Salina, vissuto durante il Risorgimento, noto per aver realizzato un osservatorio astronomico per le sue ricerche e morto nel 1885. Dopo che il Palazzo Lampedusa fu gravemente lesionato dai bombardamenti dalle forze Alleate durante la Seconda guerra mondiale e saccheggiato, l'autore scivolò in una lunga depressione.   Stemma di famiglia dei Tomasi Fu scritto tra la fine del 1954 e il 1957, l'anno della morte dell'autore - un erudito appassionato di letteratura, ma del tutto sconosciuto ai circuiti letterari italiani. Il manoscritto venne inviato alle case editrici con una lettera di accompagnamento scritta di pugno dal cugino di Tomasi, il poeta Lucio Piccolo. La spedizione della prima copia (una versione ancora parziale) avvenne il 24 maggio del 1956 da Villa Piccolo, indirizzata al conte Federico Federici della Mondadori. Lucio Piccolo stesso cercò di avere notizie circa l'esito della lettura del manoscritto da parte di Mondadori, inviando una lettera all'amico e collega poeta Basilio Reale, per sincerarsi se la lettura avesse sortito l'esito sperato.[2] Tuttavia, gli editori Arnoldo Mondadori Editore e Einaudi rifiutarono. Infatti, il testo, pur privo di alcuni capitoli, fu dato in lettura prima al conte Federici per Mondadori, poi a Elio Vittorini, allora consulente letterario per Mondadori e curatore della collana I gettoni per l'Einaudi, il quale lo bocciò per entrambe le case editrici rimandandolo all'autore, e accompagnando il rifiuto con una lettera di motivazione. L'opinione negativa di Vittorini, un clamoroso errore di valutazione, fu da lui ribadita anche successivamente, quando il Gattopardo divenne un caso letterario internazionale.  L'avventurosa pubblicazione avvenne solo dopo la morte dell'autore. L'ingegner Giorgio Gargia, paziente della baronessa Alexandra Wolff Stomersee, la moglie psicoanalista di Tomasi, si offre di consegnare una copia a una sua conoscente, Elena Croce. La figlia di Benedetto Croce lo segnala a Giorgio Bassani, da poco divenuto direttore della collana di narrativa I Contemporanei per la Giangiacomo Feltrinelli Editore, e che sollecitava gli amici letterati a segnalargli interessanti inediti[3]. Bassani ricevette dalla Croce il manoscritto incompleto, ne comprese immediatamente l'enorme valore, e nel febbraio 1958 volò a Palermo per recuperare e ricomporre il testo nella sua interezza: decise subito di pubblicare il libro[4], che uscì l'11 novembre dello stesso anno, curato da Bassani. Nel 1959, quando ricevette il premio Strega, la tiratura aveva raggiunto in solo otto mesi le 250 000 copie, divenendo il primo best selleritaliano con oltre centomila copie vendute[5]. La forza e l'importanza che ebbe il romanzo in quegli anni è testimoniato anche dalla battuta che Eduardo De Filippo nella commedia del 1959 Sabato, Domenica e Lunedì fa dire a Memè, la zia colta di casa Priore, la quale ammonendo i parenti troppo affaccendati nelle questioni quotidiane esce di scena ammonendoli al grido di "compratevi il Gattopardo!".  Il titolo del romanzo ha origine nello stemma di famiglia dei principi di Lampedusa, rappresentato dal Felis leptailurus serval, una belva felina diffusa nelle coste settentrionali dell'Africa, proprio di fronte a Lampedusa. Nelle parole dell'autore l'animale ha un'accezione positiva: «Noi fummo i Gattopardi, i Leoni; quelli che ci sostituiranno saranno gli sciacalletti, le iene; e tutti quanti Gattopardi, sciacalli e pecore continueremo a crederci il sale della terra». Tuttavia, proprio sull'onda del successo planetario del romanzo, sarebbe invalso invece un significato negativo, facendo dell'aggettivo "gattopardesco" l'emblema del trasformismo delle classi dirigenti italiane. A ben vedere, è anche vero che fu Tomasi stesso con le sue fiere parole a legare la parola a un significato ambiguo, quando prevede un destino di rassegnazione e di solo illusorio orgoglio per l'Italia futura[6].  Nel 1967 dal romanzo venne tratta un'opera musicale di Angelo Musco, con libretto di Luigi Squarzina.  TramaModifica Il racconto inizia con la recita del rosario in una delle sontuose sale del Palazzo Salina, dove il principe Fabrizio, il gattopardo, abita con la moglie Stella e i loro sette figli: è un signore distinto e affascinante, raffinato cultore di studi astronomici ma anche di pensieri più terreni e a carattere sensuale, nonché attento osservatore della progressiva e inesorabile decadenza del proprio ceto; infatti, con lo sbarco in Sicilia di Garibaldi e del suo esercito, va prendendo rapidamente piede un nuovo ceto, quello borghese, che il principe, dall'alto del proprio rango, guarda con malcelato disprezzo, in quanto prodotto deteriore dei nuovi tempi. L'intraprendente e amatissimo nipote Tancredi Falconeri non esita a cavalcare la nuova epoca in cerca del potere economico, combattendo tra le file dei garibaldini (e poi in quelle dell'esercito regolare del Re di Sardegna), cercando insieme di rassicurare il titubante zio sul fatto che il corso degli eventi si volgerà alla fine a vantaggio della loro classe; è poi legato da un sentimento, in realtà più intravisto che espresso compiutamente, per la raffinata cugina Concetta, profondamente innamorata di lui.  Il principe trascorre con tutta la famiglia le vacanze nella residenza estiva di Donnafugata; il nuovo sindaco del paese è don Calogero Sedara, un parvenu, ma intelligente e ambizioso, che cerca subito di entrare nelle simpatie degli aristocratici Salina, mercé la figlia Angelica, cui il passionale Tancredi non tarderà a soccombere; non essendo una nobile, Angelica non avrà immediatamente il consenso di don Fabrizio, ma grazie alla sua travolgente e incantevole bellezza riesce a convincere casa Salina e a sposare Tancredi. Inoltre Calogero Sedara, il padre di Angelica, fornisce alla figlia nel contratto matrimoniale tutto quello che possiede.  Arriva il momento di votare l'annessione della Sicilia al Regno di Sardegna: a quanti, dubbiosi sul da farsi, gli chiedono un parere sul voto, il principe risponde suo malgrado in maniera affermativa; alla fine, il plebiscito per il sì sarà unanime. In seguito, giunge a palazzo Salina un funzionario piemontese, il cavaliere Chevalley di Monterzuolo, incaricato di offrire al principe la carica di senatore del Regno, che egli rifiuta garbatamente dichiarandosi un esponente del vecchio regime, ad esso legato da vincoli di decenza. Il principe condurrà da ora in poi vita appartata fino al giorno in cui verrà serenamente a mancare, circondato dalle cure dei familiari, in una stanza d'albergo a Palermo dopo il viaggio di ritorno da Caserta, dove si era recato per cure mediche. L'ultimo capitolo del romanzo, ambientato nel 1910, racconta la vita di Carolina, Concetta e Caterina, le figlie superstiti di don Fabrizio.  Il significato dell'operaModifica L'autore compie all'interno dell'opera un processo narrativo che è sia storico che attuale. Parlando di eventi passati, Tomasi di Lampedusa parla di eventi del tempo presente, ossia di uno spirito siciliano citato più volte come gattopardesco ("Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi")[7]. Nel dialogo con Chevalley di Monterzuolo, inviato dal governo sabaudo, il principe di Salina spiega ampiamente il suo spirito della sicilianità; egli lo spiega con un misto di cinica realtà e rassegnazione. Spiega che i cambiamenti avvenuti nell'isola più volte nel corso della storia hanno adattato il popolo siciliano ad altri "invasori", senza tuttavia modificare dentro l'essenza e il carattere dei siciliani stessi. Così, il presunto miglioramento apportato dal nuovo Regno d'Italia appare al principe di Salina come un ennesimo mutamento senza contenuti, poiché ciò che non muta è l'orgoglio del siciliano stesso.   Il dialogo con Chevalley manoscritto Egli infatti vuole esprimere l'incoerente adattamento al nuovo, ma nel contempo l'incapacità vera di modificare sé stessi, e quindi l'orgoglio innato dei siciliani. In questa chiave egli legge tutte le spinte contrarie all'innovazione, le forme di resistenza mafiosa, la violenza dell'uomo, ma anche quella della natura. I Siciliani non cambieranno mai poiché le dominazioni straniere, succedutesi nei secoli, hanno bloccato la loro voglia di fare, generando solo oblio, inerzia, annientamento (il peccato che noi Siciliani non perdoniamo mai è semplicemente quello di "fare". [...] il sonno è ciò che i Siciliani vogliono). Garibaldi è stato uno strumento dei Savoia, nuovi dominatori (da quando il vostro Garibaldi ha posto piede a Marsala, troppe cose sono state fatte senza consultarci perché adesso si possa chiedere a un membro della vecchia classe dirigente di svilupparle e portarle a compimento [...] ho i miei forti dubbi che il nuovo regno abbia molti regali per noi nel bagaglio). Questi avvenimenti si sono innestati su una natura ed un clima violenti, che hanno portato ad una mancanza di vitalità e di iniziativa negli abitanti (... questo paesaggio che ignora le vie di mezzo fra la mollezza lasciva e l'asprezza dannata; [...] questo clima che ci infligge sei mesi di febbre a quaranta gradi; [...] questa nostra estate lunga e tetra quanto l'inverno russo e contro la quale si lotta con minor successo...).  Classificazione come romanzo storicoModifica La vicenda descritta nel Gattopardo può a prima vista far pensare che si tratti di un romanzo storico. Tomasi di Lampedusa ha certamente tenuto presente una tradizione narrativa siciliana: la novella Libertà di Giovanni Verga, I Viceré di Federico De Roberto, I vecchi e i giovani di Luigi Pirandello ispirata al fallimento risorgimentale, drammaticamente avvertito proprio in Sicilia, dove erano vive speranze di un profondo rinnovamento. Ma mentre De Roberto, che fra i tre citati è, per questa tematica, il più significativo, indaga le motivazioni del fallimento con una complessa rappresentazione delle opposte forze in gioco, Tomasi di Lampedusa presenta la vicenda risorgimentale attraverso il machiavellismo della classe dirigente, che alla fine si mette al servizio dei garibaldini e dei piemontesi, convinta che sia il modo migliore perché tutto resti com'era. Questa rappresentazione per la prospettiva da cui è descritta è parziale; restano fuori dal romanzo molti eventi significativi: solo per fare un esempio, la rivolta dei contadini di Bronte, che provocò 16 morti prima di essere stroncata nel sangue da Nino Bixio che fece condannare a morte 5 dei responsabili (oggetto invece della novella di Verga).  Da questo punto di vista quindi le mancanze de Il Gattopardo come romanzo storico del Risorgimento in Sicilia sono evidenti. Osservava Mario Alicata: «Una cosa è cercare di comprendere come e perché si affermò nel processo storico risorgimentale una determinata soluzione politica, cioè la direzione di determinate forze politiche e sociali, un'altra cosa è credere, o far finta di credere, che ciò sia stato una sorta di presa in giro condotta dai furbi (dai potenti di ieri e di sempre) ai danni degli sciocchi (coloro che si illudono che qualche cosa di nuovo possa accadere non solo sotto il sole di Sicilia ma sotto il sole tout court)». Pertanto è dubbio se il valore de Il Gattopardovada ricercato al di fuori della prospettiva del romanzo storico; la faccenda appare più complicata di come poteva apparire ai primi lettori dell'opera, se il principe stesso negava di aver voluto scrivere un romanzo storico (semmai un testo intessuto di memoria e di memorie), nella seconda edizione de Il romanzo storico, invece Lukács riconduce Il Gattopardo al canone proprio del genere.  Di recente Vittorio Spinazzola, in un importante lavoro degli anni novanta, Il romanzo antistorico, attribuisce alla triade formata da I Viceré di De Roberto, I vecchi e i giovani di Pirandello, e il romanzo di Tomasi di Lampedusa, la fondazione di un nuovo atteggiamento del romanzo rispetto alla storia; non più l'ottimismo di una concezione storicista e teleologica dell'avvenire dell'uomo (ancora presente in Italia nelle grandi cattedrali di Manzoni e Nievo), ma la dolorosa consapevolezza che la storia degli uomini non procede verso il compimento delle magnifiche sorti e progressive, e che la "macchina del mondo" non è votata a provvedere alla felicità dell'uomo. Il romanzo antistorico è il deposito di questa concezione non trionfalistica della storia, nei tre testi citati il corso della storia genera nuovi torti e nuovi dolori, invece di lenire i vecchi. Malgrado la posizione nuova di Spinazzola, che rilegge in modo intelligente la questione, il problema resta aperto, e la critica non ha ancora trovato una soluzione condivisa su questo tema.  È un romanzo uscito dalla tradizione narrativa ottocentesca, della quale si avverte almeno la presenza di Stendhal; ma nel senso della solitudine e della morte che pervade il protagonista si rivela anche l'influenza determinante dell'esperienza decadente.[8]  Un altro elemento di differenza con altri romanzi storici è il suo essere una trasposizione in un racconto di fantasia di vicende familiari che in parte sono realmente avvenute e sono state tramandate attraverso la bocca dei parenti di Tomasi di Lampedusa. A differenza di romanzi storici come ad esempio I promessi sposi, nel quale nessun dettaglio storico era specificato che non fosse già presente nelle fonti scritte consultate da Manzoni, Il Gattopardorappresenta esso stesso una testimonianza storica (seppur offuscata dal tempo e dalla tradizione orale) di come una parte della nobiltà visse quel determinato periodo di transizione.  Sterilità e morteModifica Il modulo narrativo si discosta molto dai canoni del romanzo storico: il romanzo è suddiviso in blocchi, con una sequenza di episodi che, pur facendo capo ad un personaggio principale, sono dotati ciascuno di una propria autonomia. Inoltre, il fallimento risorgimentale descritto non è un esempio di uno scarto tra speranze e realtà nella storia degli uomini, ma sembra quello di una norma costante delle vicende umane, destinate inesorabilmente al fallimento: gli uomini, anche re Ferdinando o Garibaldi, possono solo illudersi di influire sul torrente delle sorti che invece fluisce per conto suo, in un'altra vallata.  La negazione della storia e la sterilità dell'agire umano sono alcuni dei motivi più ricorrenti e significativi del libro; in questa prospettiva di remota lontananza dalla fiducia nelle "magnifiche sorti e progressive", il Risorgimento può ben diventare una rumorosa e romantica commedia e Karl Marx un "ebreuccio tedesco", di cui al protagonista sfugge il nome, e la Sicilia, più che una realtà che storicamente si è fatta attraverso secoli di storia, resta una categoria astratta, un'immutabile ed eterna metafisica "sicilianità". Nella descrizione del fallimento risorgimentale, secondo alcuni, si può intravedere un'altra riconferma della legge e degli uomini: il fallimento esistenziale che, negli anni in cui scriveva, Tomasi di Lampedusa poteva constatare.  Correlato a questo è il tema del fluire del tempo, della decadenza e della morte (che richiamano Marcel Proust e Thomas Mann) esemplificato nella morte di una classe, quella nobiliare dei Gattopardi che sarà sostituita dalla scaltra borghesia senza scrupoli dei Sedara, ma che permea di sé tutta l'opera: la descrizione del ballo, il capitolo della morte di don Fabrizio (secondo alcuni critici il punto più alto del romanzo), la polvere del tempo che si accumula sulle sue tre figlie e sulle loro cose. Si può dire che fra la tradizione del romanzo storico, siciliana ed europea, di fine Ottocento e Il Gattopardo è passato il decadentismo con le sue stanchezze, le sue sfiducie, la sua contemplazione della morte; l'opera di Tomasi di Lampedusa inoltre cadeva in un momento di ripiegamento dei recenti ideali della società italiana e di quella letteratura che si era sforzata di dare voce artistica a quegli ideali.  Il manoscrittoModifica Le fotocopie dei manoscritti originali si trovano presso il Museo del Gattopardo a Santa Margherita di Belice(AG), mentre gli originali sono custoditi dall'erede Gioacchino Lanza Tomasi presso il Palazzo Lanza Tomasi a Palermo, ultima dimora dello scrittore.  NoteModifica ^ 1959, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, su premiostrega.it. URL consultato il 14 aprile 2019. ^ Samonà, pp.. ^ Gioacchino Lanza Tomasi, «Le avventure del Gattopardo», 8 luglio 2011, www.ilsole24ore.com ^ D. Gilmour, L'ultimo gattopardo. Vita di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Feltrinelli, Milano 2003, p. 172 ^ Bragaglia Cristina, Il Piacere del Racconto, La Nuova Italia, 1993. ^ Tullio De Mauro, «Gattopardo non gattopardesco», 26 giugno 2011, www.ilsole24ore.com ^ Gattopardismo in Vocabolario – Treccani ^ Aldo Giudice, Giovanni Bruni, Problemi e scrittori della letteratura italiana, vol. 3, tomo secondo, pag. 700, ed. Paravia, Torino, 1978. EdizioniModifica Il Gattopardo, Prefazione e cura di Giorgio Bassani, Collana Biblioteca di Letteratura n.4, Milano, Feltrinelli Editore, novembre 1958, p. 332. Il Gattopardo, Collana Universale Economica n.416, Milano, Feltrinelli, febbraio 1963. Il Gattopardo, antologia a cura di Riccardo Marchese, Collana Primo scaffale n.16, Firenze, La Nuova Italia, 1967, p. 240. Il Gattopardo e i Racconti, Edizione conforme al manoscritto del 1957, Collana Gli Astri, Milano, Feltrinelli, dicembre 1969. Il Gattopardo, Nota introduttiva di Maria Bellonci, Milano, Club degli Editori, 1969. Il Gattopardo, Collana I Narratori n.229, Milano, Feltrinelli, novembre 1974. Il Gattopardo, a cura di Giovanna Barbieri, Collana Narrativa scuola, Torino, Loescher Editore, 1979. Il Gattopardo, Nuova edizione riveduta con testi d'Autore in Appendice, a cura di Gioacchino Lanza Tomasi, Collana Le Comete, Milano, Feltrinelli, giugno 2002, p. 300, ISBN 978-2-7028-7908-5. - Collana Universale Economica, LXXXVII ed., Feltrinelli, 2006 - CVI ed., marzo 2021; Collana Grandi Letture, Feltrinelli, 2013, ISBN 978-88-079-2222-0. Il Gattopardo, Prefazione di Gioacchino Lanza Tomasi, Collezione Premio Strega, Torino, UTET - Fondazione Maria e Goffredo Bellonci, 2006, ISBN 88-02-07540-9. Il Gattopardo letto da Toni Servillo, edizione integrale in audiolibro, Emons 2017, ISBN 978-88-6986-127-7. BibliografiaModifica Alberto Anile, Maria Gabriella Giannice, Operazione Gattopardo: come Visconti trasformò un romanzo di "destra" in un successo di "sinistra", Genova, Le Mani, 2013. Rosaria Bertolucci, Il principe dimenticato, Sarzana, Carpena, 1979. G. Bottino, Saggio su "Il Gattopardo" di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Genova, 1973. M. Castiello, Il Gattopardo, Milano, 2004. Arnaldo Di Benedetto, Tomasi di Lampedusa e la letteratura, in Poesia e critica del Novecento, Napoli, Liguori, 1999. Margareta Dumitrescu, Sulla parte VI del Gattopardo. La fortuna di Lampedusa in Romania, Catania, Giuseppe Maimone Editore, 2001. G. Lanza Tomasi, I luoghi del Gattopardo, 2001. G. Masi, Come leggere Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, 1996. S.S. Nigro, Il Principe fulvo, Palermo, Sellerio editore, 2012. F. Orlando, L'intimità e la storia. Lettura delGattopardo, Torino, Einaudi, 1998. Alberto Samonà, Giuseppe Tomasi di Lampedusa a Villa Piccolo: la dimora dell’immenso parla una lingua antica, in Maria Antonietta Ferraloro, Dora Marchese, Fulvia Toscano (a cura di), Itinerari Siciliani - Topografie dell’anima sulle tracce di Tomasi di Lampedusa, Roma, Historica edizioni, 2017. G. P. Samonà, "Il Gattopardo", i "Racconti", Lampedusa, Firenze, 1974. A. Vitello, I Gattopardi di Donnafugata, Palermo, 1963. A. Vitello, Giuseppe Tomasi di Lampedusa: il Gattopardo segreto, 2008. Luca Alvino, Il paradigma del rosario nel Gattopardo, su Nuovi Argomenti, 2021. Voci correlate                     Modifica La Sicilia del Gattopardo Altri progettiModifica Collabora a Wikiquote Wikiquote contiene citazioni da Il Gattopardo Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Il Gattopardo Collegamenti esterniModifica ( EN ) Il Gattopardo, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su Wikidata ( EN ) Edizioni e traduzioni di Il Gattopardo, su Open Library, Internet Archive. Modifica su Wikidata ( EN ) Il Gattopardo, su Goodreads. Modifica su Wikidata Riduzione radiofonica de "Il Gattopardo" (dal programma Ad alta voce di Rai Radio 3) Audiolettura del dialogo tra Don Fabrizio e Chevalley, su elapsus.it. Giuseppe Tomasi di Lampedusa - Opera su Italialibri.net, su italialibri.net. Audiolibro letto da Pietro Biondi Controllo di autoritàVIAF ( EN ) 175579094 · LCCN( EN ) no2015015062 · GND ( DE ) 4281792-4 ·BNE ( ES ) XX2035378 (data) · BNF( FR ) cb122950403 (data) · J9U( EN ,  HE ) 987007394812705171 (topic)   Portale Letteratura   Portale Risorgimento Ultima modifica 6 giorni fa di Marcel Bergeret PAGINE CORRELATE Il Gattopardo (film) film del 1963 diretto da Luchino Visconti  Giuseppe Tomasi di Lampedusa scrittore italianoIl Gattopardo (film) film del 1963 diretto da Luchino Visconti Lingua Segui Modifica Il Gattopardo Fotogramma ballo Il Gattopardo.png Claudia Cardinale e Burt Lancaster nella celebre scena simbolo del ballo finale Paese di produzioneItalia, Francia Anno1963 Durata187 min 205 min ca. (versione estesa) Rapporto2,21:1 (stampa 70 mm) 2,35:1 (stampa 35 mm) 2,25:1 (negativo) Generestorico, drammatico RegiaLuchino Visconti SoggettoGiuseppe Tomasi di Lampedusa(romanzo) SceneggiaturaSuso Cecchi D'Amico, Pasquale Festa Campanile, Enrico Medioli, Massimo Franciosa, Luchino Visconti ProduttoreGoffredo Lombardo Produttore esecutivoPietro Notarianni Casa di produzioneTitanus, S.N. Pathé Cinéma, S.G.C. Distribuzionein italianoTitanus FotografiaGiuseppe Rotunno MontaggioMario Serandrei MusicheNino Rota ScenografiaMario Garbuglia CostumiPiero Tosi, Reanda, Sartoria Safas Interpreti e personaggi Burt Lancaster: don Fabrizio Corbera, principe di Salina Alain Delon: Tancredi Falconeri Claudia Cardinale: Angelica Sedara/Donna Bastiana Paolo Stoppa: don Calogero Sedara Rina Morelli: principessa Maria Stella di Salina Lucilla Morlacchi: Concetta Romolo Valli: padre Pirrone Terence Hill: conte Cavriaghi Pierre Clémenti: Francesco Paolo di Salina Serge Reggiani: don Ciccio Tumeo Maurizio Merli: Fulco, un amico di Tancredi Giuliano Gemma: generale di Garibaldi Ida Galli: Carolina Ottavia Piccolo: Caterina Carlo Valenzano: Paolo Brook Fuller: principe Ivo Garrani: colonnello Pallavicino Anna Maria Bottini: Mademoiselle Dombreuil, governante Lola Braccini: donna Margherita Marino Masè: tutore Howard Nelson Rubien: don Diego Tina Lattanzi: cuoca Ernesto Almirante: generale Marcella Rovena: contadina Rina De Liguoro: principessa di Presicce Valerio Ruggeri: colonnello Giovanni Melisenda: don Onofrio Rotolo Vittorio Duse: colonnello Vanni Materassi: sergente Olimpia Cavalli: Mariannina Winni Riva: cameriera Stelvio Rosi: sergente Leslie French: cavaliere Chevalley Gino Santercole: uomo di Donnafugata Lou Castel: generale Michela Roc: contadina Pino Caruso: giovane patriota Tuccio Musumeci: giovane patriota Doppiatori originali Corrado Gaipa: don Fabrizio Corbera Solvejg D'Assunta: Angelica Sedara/Donna Bastiana Carlo Sabatini: Tancredi di Falconeri Franco Fabrizi: conte Cavriaghi Lando Buzzanca: don Ciccio Tumeo Pino Colizzi: Francesco Paolo di Salina Gianni Bonagura: generale di Garibaldi Isa Bellini: Mademoiselle Dombreuil, governante Ferruccio De Ceresa: cavaliere Chevalley Il Gattopardo è un film del 1963 diretto da Luchino Visconti.  Il soggetto è tratto dall'omonimo romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, e la figura del protagonista del film, il Gattopardo, si ispira a quella del bisnonno dell'autore del libro, il Principe Giulio Fabrizio Tomasi di Lampedusa, che fu un importante astronomo e che nella finzione letteraria diventa il Principe Fabrizio di Salina, e della sua famiglia tra il 1860 e il 1910, in Sicilia(a Palermo e provincia e precisamente a Ciminna e nel feudo agrigentino di Donnafugata, ossia CiminnaPalma di Montechiaro e Santa Margherita di Belice in provincia di Agrigento).  Il film ha vinto Palma d'oro come miglior film al 16º Festival di Cannes.[1]  TramaModifica Nel maggio 1860, dopo lo sbarco a Marsala di Garibaldi in Sicilia, Don Fabrizio assiste con distacco e con malinconia alla fine dell'aristocrazia. La classe dei nobili capisce che ormai è prossima la fine della loro superiorità: infatti gli amministratori e i latifondisti della nuova classe sociale in ascesa approfittano della nuova situazione politica.   Don Fabrizio di Salina in una scena del film. Don Fabrizio, appartenente a una famiglia di antica nobiltà, viene rassicurato dal nipote prediletto Tancredi che, pur combattendo nelle file garibaldine, cerca di far volgere gli eventi a proprio vantaggio e cita la famosa frase: "Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi". Specchio della realtà siciliana, questa frase simboleggia la capacità di adattamento che i siciliani, sottoposti nel corso della storia all'amministrazione di molti governanti stranieri, hanno dovuto per forza sviluppare. E anche la risposta di Don Fabrizio è emblematica: "...E dopo sarà diverso, ma peggiore."  Quando, come tutti gli anni, il principe con tutta la famiglia si reca nella residenza estiva di Donnafugata, trova come nuovo sindaco del paese Calogero Sedara, un borghese di umili origini, rozzo e poco istruito, che si è arricchito e ha fatto carriera in campo politico. Tancredi, che in precedenza aveva manifestato qualche simpatia per Concetta, la figlia maggiore del principe, s'innamora di Angelica, figlia di don Calogero, che infine sposerà, sicuramente attratto dal suo notevole patrimonio.  Episodio significativo è l'arrivo a Donnafugata di un funzionario piemontese, il cavaliere Chevalley di Monterzuolo, che offre a Don Fabrizio la nomina a senatore del nuovo Regno d'Italia. Il principe però rifiuta, sentendosi troppo legato al vecchio mondo siciliano, citando come risposta al cavaliere la frase: "In Sicilia non importa far male o bene: il peccato che noi siciliani non perdoniamo mai è semplicemente quello di 'fare'".  Il connubio tra la nuova borghesia e la declinante aristocrazia è un cambiamento ormai inconfutabile: Don Fabrizio ne avrà la conferma durante un grandioso ballo, al termine del quale inizierà a meditare sul significato dei nuovi eventi e a fare un sofferto bilancio della sua vita.  Produzione            Modifica Difficoltà produttiveModifica Nel 1958 il produttore Goffredo Lombardo, patron della Titanus, acquistò i diritti del romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, quando Il Gattopardo stava riscuotendo un grande successo editoriale. La regia venne affidata inizialmente a Mario Soldati e poi ad Ettore Giannini, che però vennero entrambi licenziati da Lombardo per divergenze sulla realizzazione della pellicola e sostituiti con Luchino Visconti[2][3]. Ettore Giannini scrisse addirittura una bozza di sceneggiatura che approfondiva le vicende risorgimentali, allontanandosi però dal romanzo di Tomasi di Lampedusa e mettendo in secondo piano la storia d'amore tra Tancredi e Angelica: per queste ragioni, Lombardo, con la mediazione di Visconti, incaricò Suso Cecchi D'Amico, Pasquale Festa Campanile, Enrico Medioli e Massimo Franciosa di scrivere una nuova sceneggiatura, accantonando quella di Giannini, che rimase molto offeso dal comportamento del produttore e per questo si ritirò per sempre dal mondo del cinema[3].  Il 27 marzo 1963, al cinema Barberini di Roma, il film uscì in anteprima dopo una lavorazione che aveva richiesto quindici intensi mesi, iniziata alla fine del dicembre 1961, mentre il primo ciak ebbe luogo lunedì 14 maggio 1962. Nell'autunno precedente, il regista, insieme allo scenografo Mario Garbuglia e al figlio adottivo di Giuseppe, Gioacchino Lanza Tomasi, aveva effettuato un sopralluogo in Sicilia, che non era certo valso a dissipare le preoccupazioni del produttore Goffredo Lombardo. Lo stesso Lombardo raccontò in un'intervista che, recatosi sui set per raccomandare a Visconti di contenere i costi che crescevano sempre di più, ricevette questa risposta dal regista: "Lombardo, io questo film lo posso fare solo così. Se lei vuole, mi può sostituire"[3].  L'investimento richiesto da questo colossal italiano si rivelò infatti presto superiore a quanto previsto dalla Titanus allorché ne aveva acquistato i diritti cinematografici. Dopo un mancato accordo di co-produzione con la Francia, la scrittura di Burt Lancaster nel ruolo di protagonista, nonostante le iniziali perplessità di Luchino Visconti (che avrebbe preferito che a vestire i panni di Don Fabrizio fosse Laurence Olivier o l'attore sovietico Nikolaj Čerkasov[4]), e forse dello stesso attore,[5] permise un accordo distributivo per gli Stati Uniti d'America con la 20th Century Fox.  Ciononostante, le perdite subite dal film Sodoma e Gomorra e da questo film, costato quasi tre miliardi di lire, causarono la sospensione dell'attività della Titanus come produttrice cinematografica[6].  RipreseModifica Per quanto, come si è detto, la narrazione oggettiva degli eventi sia oscurata e marginalizzata nel film dallo sguardo soggettivo del protagonista-regista, un grande impegno fu posto nella ricostruzione degli scontri tra garibaldini ed esercito borbonico. A Palermo nei vari set prescelti (piazza San Giovanni Decollato, piazza della Vittoria allo Spasimo, piazza Sant'Euno, piazza della Marina) "l'asfalto fu ricoperto di terra battuta, le saracinesche sostituite da persiane e tende, pali e fili della luce eliminati".[7] Tutto questo per iniziativa di Visconti, poiché il produttore Lombardo si era raccomandato che non vi fossero scene di combattimento.   Villa Boscogrande Si rese inoltre necessario il restauro, avvenuto in 24 giorni, della villa Boscogrande, nei pressi della città, che sostituì, per le scene iniziali del film, il palazzo dei Salina, le cui condizioni ne sconsigliavano l'utilizzo.  Anche per le scene girate nella residenza estiva dei Salina, Castello di Donnafugata, che nel romanzo sostituiva Palma di Montechiaro, si scelse un sito alternativo, Ciminna. "Visconti s'infatuò per la Chiesa Madre e il paesaggio circostante. L'edificio a tre navate presentava uno splendido pavimento in maiolica. L'abside decorata con stucchi rappresentanti apostoli e angeli di Scipione Li Volsi (1622) era inoltre provvista di scranni lignei del 1619 intagliati con motivi grotteschi, particolarmente adatti ad accogliere i principi nella scena del Te Deum. Il soffitto originale della chiesa, in parte danneggiato durante le riprese è stato poi rimosso e oggi non è più in sito.  Inoltre la situazione topografica della piazzetta di Ciminna sembrava ottimale, mancava solo il palazzo del principe. Ma in 45 giorni la facciata disegnata da Marvuglia fu innalzata davanti agli edifici a fianco della chiesa. L'intera pavimentazione della piazza fu rifatta eliminando l'asfalto e rimpiazzandolo con ciottoli e lastre"[7] Gran parte delle riprese ambientate all'interno della residenza furono girate a Palazzo Chigidi Ariccia.[4]  Infine, varie scene sono state girate internamente ad alcune sale del palazzo Manganelli a Catania.   Gli interni di Palazzo Valguarnera-Gangi Il balloModifica Ottimo era invece lo stato di manutenzione di palazzo Valguarnera-Gangi, a Palermo, in cui fu ambientato il ballo finale, la cui coreografia venne affidata ad Alberto Testa. In questo caso, il problema da affrontare era l'arredamento degli ampi spazi interni. Contribuirono generosamente all'opera gli Hercolani e lo stesso Gioacchino Lanza Tomasi con mobili, arazzi, suppellettili. Alcuni quadri (la stessa Morte del giusto) e altre opere artigianali furono commissionate dalla produzione. Il risultato finale valse uno scontato Nastro d'argento alla migliore scenografia.  Un altro Nastro d'argento andò alla fotografia a colori[8] di Giuseppe Rotunno (che lo aveva vinto anche l'anno precedente con Cronaca familiare). Degna di note, in particolare, l'illuminazione dei locali cui, per volontà del regista che voleva ridurre al minimo l'uso delle luci elettriche, contribuivano migliaia di candele, che costituirono un ulteriore problema logistico, poiché dovevano essere riaccese all'inizio di ogni sessione di riprese e frequentemente sostituite; inoltre non di rado la cera fusa colava addosso alle persone presenti in scena. La preparazione del set, la necessità di vestire centinaia di comparse[9] richiesero per queste scene turni estenuanti.[10] La scena del ballo (oltre 44 minuti) a Palazzo Gangi-Valguarnera è diventata famosa per la sua durata e opulenza.  DistribuzioneModifica Ulteriori informazioni Questa voce o sezione ha problemi di struttura e di organizzazione delle informazioni. AccoglienzaModifica Il film registrò un ottimo successo al botteghino in Italia, risultando campione d'incassi assoluto nella stagione 1962-1963 con un ricavato di 2.323.000.000 di lire dell'epoca;[11] detiene a oggi il nono posto nella classifica dei film italiani più visti di sempre con 12 850 375 spettatori paganti.[12] Tuttavia il mancato successo negli Stati Uniti non permise alla pellicola di rientrare nelle ingenti spese di produzione, decretando il fallimento finanziario della Titanus.  Al momento della sua uscita nelle sale, la maggior parte della critica americana stroncò il film, complice soprattutto uno sciagurato montaggio che venne realizzato senza il consenso del regista, con un taglio di quasi mezz'ora di pellicola dall'edizione definitiva.[13] Lo stesso Lancaster s'impegnò, con scarso esito, nel montaggio della versione americana, illudendosi di poter salvare quello che considerava, a ragione, un capolavoro.[14]  Il film fu osteggiato anche dal Partito Comunista Italiano (al quale era legato Visconti) che non vedeva di buon occhio il romanzo di Lampedusa, ritenuto "espressione di un'ideologia reazionaria" e "politicamente conservatore".[15] Per questo motivo il regista montò una versione alternativa per la critica cinematografica della sinistra di area comunista, che includeva alcune scene del tutto estranee al romanzo originale ma molto conformi alla sua salda fede marxista, come conflitti di classe e fermenti di rivolta contadina[16], poi tagliate nella versione definitiva presentata al Festival di Cannes. Questo non bastò a risparmiare le critiche di alcuni intellettuali di sinistra che bollarono il film di anti-storicismo.[17]  Con il passare degli anni, il film è stato rivalutato in maniera positiva dalla critica di tutto il mondo. Sul sito aggregatore Rotten Tomatoes registra il 98% delle recensioni professionali positive, con un consenso che recita, "sontuoso e malinconico, Il gattopardopresenta battaglie epiche, ricchi costumi e un valzer da ballo che si candida per la più bella sequenza trasposta in cinema".[18] Su Metacritic ha invece un punteggio di 100 basato su 12 recensioni.[19]  Martin Scorsese lo ha inserito nella lista dei suoi dodici film preferiti di tutti i tempi.[20] Il film è stato inoltre selezionato tra i 100 film italiani da salvare[21].  RiconoscimentiModifica Festival di Cannes 1963 Palma d'oro a Luchino Visconti David di Donatello 1963 Miglior produttore a Goffredo Lombardo Premio Feltrinelli 1963 Premio per le arti - Regia cinematografica National Board of Review Awards 1963 Migliori film stranieri Golden Globe 1964 Candidato per il Miglior attore debuttante ad Alain Delon Premi Oscar 1964 Candidato per i Migliori costumi a Piero Tosi Nastri d'argento 1964 Migliore fotografia a coloria Giuseppe Rotunno Migliore scenografia a Mario Garbuglia Migliori costumi a Piero Tosi Candidato Regista del miglior film a Luchino Visconti Candidato Migliore sceneggiatura a Suso Cecchi D'Amico, Luchino Visconti, Massimo Franciosa, Pasquale Festa Campanile ed Enrico Medioli Candidato per la Migliore attrice non protagonistaa Rina Morelli Candidato per il Migliore attore non protagonistaa Romolo Valli CommentoModifica Il Gattopardo rappresenta nel percorso artistico di Luchino Visconti un cruciale momento di svolta in cui l'impegno nel dibattito politico-sociale del militante comunista si attenua in un ripiegamento nostalgico dell'aristocratico milanese, in una ricerca del mondo perduto, che caratterizzerà i successivi film di ambientazione storica.   Palazzo Filangeri di Cutò, a Santa Margherita di Belìce dimora estiva di Giuseppe Tomasi di Lampedusa descritta, col suo giardino, nel romanzo. Il regista stesso, a proposito del film, indicò come propria aspirazione il raggiungimento di una sintesi tra il Mastro-don Gesualdo di Giovanni Verga e la Recherche di Marcel Proust.[22]  Sotto il profilo della critica, è stato notato che «Visconti traduce le pagine di Lampedusa in termini puramente cinematografici, sia a livello drammaturgico (larghe ellissi, sintesi, analogie temporali e tre flashback dedicati al principe), sia come regia: l’uso del tempo antinaturalistico, la pausa, il silenzio, la reiterazione, l’alternarsi di totali e scene più raccolte, di protagonisti e comprimari, la funzione narrativa del paesaggio, la disposizione dei corpi e degli oggetti, la scenografia»[23].  La rivoluzione mancataModifica  Il principe di Salina Fabrizio Corbera interpretato da Burt Lancaster. La pubblicazione del romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa aveva aperto all'interno della sinistra italiana un dibattito sul Risorgimento come "rivoluzione senza rivoluzione", a partire dalla definizione utilizzata da Antonio Gramsci nei suoi Quaderni del carcere. A chi accusava il romanzo di aver vituperato il Risorgimento si opponeva un gruppo di intellettuali che ne apprezzava la lucidità nell'analizzarne la natura di contratto, all'insegna dell'immobilismo, tra vecchia aristocrazia ed emergente classe borghese.[24]  Visconti, che già aveva affrontato la questione risorgimentale in Senso (1954) e che era stato profondamente colpito dalla lettura del romanzo, non esitò ad accettare la possibilità di intervenire nel dibattito offertagli da Goffredo Lombardo, che si era assicurato, per la Titanus, i diritti cinematografici del libro.  Nel film, la narrazione di questi eventi è affidata allo sguardo soggettivo del Principe di Salina, sulla cui persona vengono raccordati "come in un inedito allineamento planetario, i tre sguardi sul mondo in trapasso: del personaggio, dell'opera letteraria, del testo filmico che la visualizza".[25]. Lo sguardo di Visconti viene a coincidere con quello di Burt Lancaster, per il quale questa esperienza di "doppio" del regista "varrà... una profonda trasformazione interiore, anche sul piano personale".[26]  È qui che si può cogliere la cesura rispetto alla precedente produzione del regista: gli inizi di un periodo in cui nella sua opera "...nessuna forza positiva della storia...si profila come alternativa all'epos della decadenza cantato con struggente nostalgia".[27]  È determinante nell'esprimere questo passaggio, il ballo finale, cui Visconti assegnò, rispetto al romanzo, un ruolo più importante sia per la durata (da solo occupa circa un terzo del film) sia per la collocazione (ponendolo come evento conclusivo, mentre il romanzo si spingeva ben oltre il 1862, sino a comprendere la morte del principe nel 1883 e gli ultimi anni di Concetta dopo la svolta del secolo). In queste scene tutto parla di morte. La morte fisica, in particolare nel lungo e assorto indugiare del principe dinanzi al dipinto La morte del giusto di Greuze. Ma soprattutto la morte di una classe sociale, di un mondo di "leoni e gattopardi", sostituiti da "sciacalli e iene".[28]  I sontuosi ambienti, vestigia di un glorioso passato, in cui ha luogo il ricevimento, assistono impotenti all'irruzione e alla conquista di una folla di personaggi mediocri, avidi, meschini. Così il vanesio e millantatore colonnello Pallavicini (Ivo Garrani). Così lo scaltro don Calogero Sedara (Paolo Stoppa), rappresentante di una nuova borghesia affaristica, abile nello sfruttare a proprio vantaggio l'incertezza dei tempi, e con cui la famiglia del principe si è dovuta imparentare per portare una nuova linfa economica nelle sue esauste casse.  Ma è soprattutto nel nuovo cinismo e nella spregiudicatezza dell'adorato nipote Tancredi, che dopo aver combattuto coi garibaldini non esita, dopo Aspromonte, a schierarsi coi nuovi vincitori e ad approvare la fucilazione dei disertori, che il principe assiste alla fine degli ideali morali ed estetici del suo mondo.[29]  NoteModifica ^ ( EN ) Awards 1963, su festival-cannes.fr. URL consultato l'11 giugno 2011 (archiviato dall' url originale  il 25 dicembre 2013). ^ Il Gattopardo di Giannini che non vide mai la luce, in la Repubblica, 25 maggio 2013. ^ a b c Il cinema coraggioso dell'ultimo Gattopardo, su osservatoreromano.va. URL consultato il 4 novembre 2018 (archiviato dall' url originale  il 4 novembre 2018). ^ a b Alessandro Boschi, La valigia dei sogni, LA7, 1º gennaio 2012. ^ Caterina D'Amico, La bottega de "Il Gattopardo", Marsilio.Edizioni di Bianco e Nero, 2001, pag.456 ^ "Ancora a distanza di anni, Lombardo attribuisce la crisi al costo eccessivo di due film i quali, nonostante il successo di pubblico, non sono riusciti a coprire il costo di produzione: Sodoma e Gomorra di Robert Aldrich e Il Gattopardo di Luchino Visconti". Callisto Cosulich, L'"operazione Titanus", in "Storia del cinema italiano", Marsilio, Edizioni di Bianco e Nero, 2001, pag.145 ^ a b Caterina D'Amico, op.cit. ^ All'epoca il premio veniva aggiudicato separatamente per la fotografia a colori e quella in bianco/nero ^ "...i costumi approntati (oltre agli otto per gli attori principali) furono 393: gli abiti femminili erano tutti diversi tra di loro e per almeno cento di questi si prevedevano cappotti e sorties varie". Ibid. ^ "La vestizione iniziava alle due del pomeriggio, alle otto di sera cominciavano le riprese, che duravano fino alle quattro del mattino, talora alle sei". Ibid ^ Stagione 1962-63: i 100 film di maggior incasso, su hitparadeitalia.it. URL consultato il 27 dicembre 2016. ^ I 50 film più visti al cinema in Italia dal 1950 ad oggi, su movieplayer.it. URL consultato il 27 dicembre 2016. ^ Quando gli Usa bocciarono 'Il Gattopardo' di Visconti, in la Repubblica, 27 settembre 2013. ^ Tony Thomas, Burt Lancaster, Milano Libri Edizioni, 1981. ^ E il Pci cercò di levare gli artigli al «Gattopardo», in il Giornale, 20 luglio 2013. ^ Torna in sala «Il Gattopardo» con i 12 minuti mai visti tra rivolte e conflitti di classe, in Corriere della Sera, 23 ottobre 2013. ^ Visconti e il Pci quel tira e molla sul Gattopardo, in La Stampa, 28 ottobre 2013. ^ ( EN ) Il Gattopardo, su Rotten Tomatoes, Fandango Media, LLC. URL consultato il 26 ottobre 2018. Modifica su Wikidata ^ ( EN ) Il Gattopardo, su Metacritic, Red Ventures. URL consultato il 26 ottobre 2018. Modifica su Wikidata ^ ( EN ) Scorsese’s 12 favorite films, su miramax.com. URL consultato il 25 dicembre 2013 (archiviato dall' url originale  il 26 dicembre 2013). ^ Rete degli Spettatori ^ Luchino Visconti, Il Gattopardo, Bologna 1963, p.29 ^ Piero Spila, Quell'Ossessione che piacque anche a Togliatti, in "Bianco e nero" 2-3/2013, pp. 58-69, doi: 10.7371/75533. ^ Antonello Trombadori (a cura di), Dialogo con Visconti, Cappelli, Bologna, 1963 ^ Luciano De Giusti, La transizione di Visconti, Marsilio, Edizioni di Bianco e Nero, 2001, p. 76 ^ Giorgio Gosetti, Il Gattopardo, Milano, 2004 ^ Luciano De Giusti, op.cit. ^ Così nel film, il principe di Salina a Chevalley ^ Alessandro Bencivenni, Luchino Visconti, Ed. L'Unità/Il Castoro, Milano, 1995, pp. 58-60 BibliografiaModifica Antonio La Torre Giordano, Luci sulla città - Palermo nel cinema dalle origini al 2000, ASCinema - Archivio Siciliano del Cinema, prologo di Goffredo Fofi, prefazione di Nino Genovese, Caltanissetta, Edizioni Lussografica, 2021, ISBN 978-88-8243-518-9 Suso Cecchi D'Amico, Renzo Renzi, Il Gattopardo di Luchino Visconti, collana Dal soggetto al film, vol. 29, Cappelli editore, Bologna (1963) Alberto Anile, Maria Gabriella Giannice, Operazione Gattopardo: come Visconti trasformò un romanzo di "destra" in un successo di "sinistra", Le Mani editore, Genova (2013) Altri progettiModifica Collabora a Wikiquote Wikiquote contiene citazioni di o su Il Gattopardo Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Il Gattopardo Collegamenti esterniModifica Il Gattopardo, su CineDataBase, Rivista del cinematografo. Modifica su Wikidata Il Gattopardo, su MYmovies.it, Mo-Net Srl. Modifica su Wikidata Il Gattopardo, su ANICA, Archiviodelcinemaitaliano.it. Modifica su Wikidata ( EN ) Il Gattopardo, su Internet Movie Database, IMDb.com. Modifica su Wikidata ( EN ) Il Gattopardo, su AllMovie, All Media Network.Modifica su Wikidata ( EN ) Il Gattopardo, su Rotten Tomatoes, Flixster Inc. Modifica su Wikidata ( EN ,  ES ) Il Gattopardo, su FilmAffinity. Modifica su Wikidata ( EN ) Il Gattopardo, su Metacritic, Red Ventures. Modifica su Wikidata ( EN ) Il Gattopardo, su TV.com, Red Ventures (archiviato dall' url originale  il 1º gennaio 2012). Modifica su Wikidata ( EN ) Il Gattopardo, su AFI Catalog of Feature Films, American Film Institute. Modifica su Wikidata Controllo di autoritàLCCN ( EN ) n88215079 · GND ( DE ) 4254519-5 · BNF ( FR ) cb122205415 (data)   Portale Cinema   Portale Risorgimento Ultima modifica 10 giorni fa di 93.33.20.107 PAGINE CORRELATE Tancredi Falconeri Il Gattopardo romanzo scritto da Giuseppe Tomasi di Lampedusa  Principe Fabrizio SalinaGiuseppe Tomasi di Lampedusa scrittore italiano Lingua Segui Modifica Giuseppe Tomasi di Lampedusa Tomasi di Lampedusa.jpg Giuseppe Tomasi di Lampedusa in una fotografia d'epoca Principe di Lampedusa Stemma In carica1934 - 1957 Altri titoliDuca di Palma Barone della Torretta Barone di Montechiaro Grande di Spagna NascitaPalermo, 23 dicembre 1896 MorteRoma, 23 luglio 1957 SepolturaCimitero dei Cappuccini, Palermo Dinastia                                                Tomasi di Lampedusa PadreGiulio Maria Tomasi MadreBeatrice Mastrogiovanni Tasca di Cutò ConsorteAlexandra, baronessa von Wolff-Stomersee ReligioneCattolicesimo «Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi.»  (Tancredi Falconeri, nipote materno di Don Fabrizio Corbera, Principe di Salina, Duca di Querceta, Marchese di Donnafugata, ne "Il Gattopardo") Premio Strega  1959 Giuseppe Tomasi di Lampedusa(Palermo, 23 dicembre 1896 – Roma, 23 luglio 1957) è stato un nobile e scrittore italiano.  Letterato di complessa personalità e autore del noto romanzo Il Gattopardo, fu un personaggio taciturno e solitario e trascorse gran parte del suo tempo nella lettura. Ricordando la propria infanzia scrisse: ero un ragazzo cui piaceva la solitudine, cui piaceva di più stare con le cose che con le persone[1].  BiografiaModifica InfanziaModifica Don Giuseppe Tomasi, 11º principe di Lampedusa, 12º duca di Palma, barone di Montechiaro, barone della Torretta, Grande di Spagna di prima Classe (titoli acquisiti il 25 giugno 1934 alla morte del padre), nacque a Palermo il 23 dicembre del 1896, figlio di Giulio Maria Tomasi (1868-1934) e di Beatrice Mastrogiovanni Tasca di Cutò (1870-1946). Rimase figlio unico dopo la morte della sorella maggiore Stefania, avvenuta a causa di una difterite (1897). Fu molto legato alla madre, donna dalla forte personalità, che ebbe grande influenza sul futuro scrittore.  Non lo stesso avvenne col padre, un uomo dal carattere freddo e distaccato. Da bambino studiò nella sua grande casa a Palermo con l'ausilio di una maestra privata, della madre (che gli insegnò il francese) e della nonna, che gli leggeva i romanzi di Emilio Salgari. Nel piccolo teatro della residenza di Santa Margherita Belice, ereditata dai Cutò e molto amata da sua madre, dove passava lunghi periodi di vacanza, talora anche in inverno, assistette per la prima volta a una rappresentazione dell'Amleto, recitato da una compagnia di girovaghi.  Il casato dei Tomasi di Lampedusa è una diramazione della famiglia Tomasi da cui discendono anche i Leopardi di Recanati e che la tradizione indica di origini bizantine. Caratterizzata da grande fervore religioso, non condiviso dallo scrittore, la famiglia vanta nell'albero genealogico un santo, san Giuseppe Maria Tomasi (1649-1713), e una venerabile, Isabella Tomasi (1645-1690). In epoca recente lo zio Pietro Tomasi della Torretta fu Ministro degli esteri e presidente del Senato.  Sotto le armi a CaporettoModifica A partire dal 1911 Tomasi di Lampedusa frequentò il liceo classico a Roma e in seguito a Palermo. Sempre a Roma, nel 1915 s'iscrisse alla facoltà di Giurisprudenza, senza terminare gli studi. Nello stesso anno venne chiamato alle armi, partecipò alla guerra come ufficiale d'artiglieria e nella disfatta di Caporettofu catturato dagli austriaci, che lo imprigionarono in Ungheria. Riuscito a fuggire, tornò a piedi in Italia.  Dopo le sue dimissioni dal Regio Esercito con il grado di tenente, ritornò nella sua casa in Sicilia, alternando al riposo qualche viaggio, sempre in compagnia della madre, che non lo abbandonava mai, e svolgendo studi sulle letterature straniere. Nel 1925, insieme al cugino Lucio Piccolo, si recò a Genova, dove si trattenne circa sei mesi, collaborando alla rivista letteraria Le opere e i giorni.  Il matrimonio con Licy von Wolff-StomerseeModifica A Riga, il 24 agosto 1932, sposò in una chiesa ortodossa la studiosa di psicanalisi Alexandra, baronessa von Wolff-Stomersee, detta Licy, figlia del barone tedesco del Baltico Boris von Wolff-Stomersee e della cantante italiana Alice Barbi, la quale nel 1920aveva sposato in seconde nozze il diplomatico Pietro Tomasi, marchese della Torretta, zio di Giuseppe. Andarono a vivere con la madre di lui a Palermo, ma ben presto l'incompatibilità di carattere tra le due donne fece tornare Licy in Lettonia. Nel 1934 morì Giulio Tomasi, e così Giuseppe ereditò il titolo. Nel 1940 venne richiamato alle armi, ma, essendo a capo dell'azienda agricola ereditata, fu presto congedato.  Si rifugiò così con la madre a Villa Piccolo (Capo d'Orlando), dove poi li raggiunse Licy, per sfuggire ai pericoli della guerra. Alla fine del 1944 fu nominato presidente provinciale della Croce Rossa Italiana di Palermo e poi presidente regionale, fino al 1946.[2].  La madre, che era da poco tornata a Palermo, morì nel 1946. Nel 1953 iniziò a frequentare un gruppo di giovani intellettuali, dei quali facevano parte Francesco Orlando e Gioacchino Lanza Mazzarino. Con quest'ultimo instaurò un buon rapporto affettivo, tanto da adottarlo qualche anno dopo. Da quel momento in poi Gioacchino Lanza Mazzarino fu ribattezzato Gioacchino Lanza Tomasi.  L'incontro con Eugenio Montale e Maria BellonciModifica  Statua a grandezza naturale dello scrittore Giuseppe Tomasi di Lampedusa situata in piazza Matteotti a Santa Margherita Belice Tomasi di Lampedusa fu spesso ospite presso il cugino Lucio Piccolo, col quale si recò nel 1954 a San Pellegrino Terme per assistere a un convegno letterario, cui il parente poeta era stato invitato per ritirare il primo premio di un concorso letterario. Lì conobbe Eugenio Montale e Maria Bellonci. Si dice che fu al ritorno da quel viaggio che iniziò a scrivere Il Gattopardo, ultimato due anni dopo, nel 1956.  All'inizio il manoscritto del Gattopardo non fu preso in considerazione dalle case editrici Mondadori e Einaudi, alle quali era stato inviato in lettura, e i rifiuti riempirono Tomasi di Lampedusa di amarezza. Il manoscritto fu giudicato negativamente da Elio Vittorini, all'epoca influente lettore per Mondadori e curatore della celebre collana "I gettoni" per l'editore Einaudi, che non s'accorse di aver letto un capolavoro della letteratura italiana e mondiale[3]. Vittorini successivamente rifiuterà la pubblicazione de Il dottor Živago di Pasternak e Il tamburo di latta di Grass.  La morte e il successo postumoModifica  Francobollo per il cinquantenario della morte Nel 1957 gli fu diagnosticato un tumore ai polmoni; morì il 23 luglio, non prima di aver adottato come erede l'allievo e lontano cugino Gioacchino Lanza di Assaro. Il romanzo fu pubblicato postumo nel novembre del 1958, quando Elena Croce lo inviò a Giorgio Bassani, che lo fece pubblicare presso la casa editrice Feltrinelli. Nel 1959 il romanzo vinse il Premio Strega.[4] Curiosamente, anche Giuseppe Tomasi di Lampedusa morì lontano da casa come il suo antenato protagonista de Il Gattopardo, il 23 luglio 1957 a Roma[5], nella casa della cognata in via San Martino della Battaglia n. 2, dove era andato per sottoporsi a particolari cure mediche che si rivelarono inefficaci. La salma fu tumulata il 28 luglio nella tomba di famiglia al Cimitero dei Cappuccini di Palermo.  Non avendo eredi, i titoli nobiliari (duca di Palma, principe di Lampedusa, barone di Montechiaro, barone della Torretta e Grande di Spagna di prima Classe) andarono allo zio paterno Pietro Tomasi della Torretta, che morì nel 1962 senza lasciare discendenti diretti, ma solo collaterali. Gli succedette il cugino Giuseppe Garofalo, figlio di Maria Antonia Tomasi di Lampedusa, suo congiunto maschio più prossimo, che ereditò con due cugine figlie di Chiara anche parte dei beni.  AscendenzaModifica GenitoriNonniBisnonniTrisnonni Giulio, VIII Pr. di Lampedusa (1814– 1885)Giuseppe Tomasi, III, VII Pr. di Lampedusa (1767– 1831)Carolina Wochinger e Greco (1784 - 1845)                                                   Giuseppe, IX Pr. di Lampedusa (1838– 1908)Maria Stella Guccia e Vetrano (1815 - 1886Giovan Battista Guccia e Bonomolo (1736 - 1834)VetranoGiulio, X Pr. Lampedusa (1868– 1934Salvatore Papè e Gravina (1790 - 1870)Pietro Papè e BolognaIppolita Gravina MassaStefania Papè e Vanni (1840– 1913)Vittoria Vanni e Filangieri                                        Francesco Vanni e InvegesRosalia Filangieri (1774 - 1847)Giuseppe, XI Pr. di Lampedusa (1896–1957)Lucio Mastrogiovanni Tasca e Nicolosi (1820 - 1892)Paolo Mastrogiovanni TascaRosa NicolosiLucio Mastrogiovanni Tasca e Lanza (1842–1892)Beatrice Lanza Branciforte (1825 - 1900)Giuseppe Lanza Branciforte (? - 1855)             Stefania Branciforte e BranciforteBeatrice Mastrogiovanni Tasca e Filangieri (1870–1946)Alessandro IV Filangieri e Pignatelli (1802 - 1854)Niccolò Filangieri (1760 - 1839)Margherita Pignatelli Aragona Cortes (1783 - 1830)Giovanna Nicoletta Filangieri e Merlo (1850–1891)Teresa Merlo Clerici (1816 - 1897)Francesco MerloGiovanna ClericiFilm biograficiModifica  Giuseppe Tomasi in età giovanile, nel 1936  La macchina per scrivere di Tomasi (Museo del Risorgimento, Santa Margherita Belice)  La tomba nel Cimitero dei Cappuccini (Palermo) La storia dell'ultimo periodo della sua vita e della stesura de Il Gattopardo è raccontata nel film del 2000 di Roberto Andò, Il manoscritto del Principe. Nel 1960 Ugo Gregoretti ha girato il documentario La Sicilia del Gattopardo in cui ricostruisce la vita e i luoghi di ispirazione del romanzo. In occasione della quattordicesima edizione della Festa del Cinema di Roma è stato proiettato il Docufilm Die Geburt des Leoparden (trad. it.: La nascita del Gattopardo), regia di Luigi Falorni. Un viaggio alla scoperta della vita dell'ultimo principe di Lampedusa raccontato dalle voci e dalle testimonianze delle persone care[6]. DedicheModifica Nel 2011 Alitalia gli ha dedicato uno dei suoi Airbus A320-216 (EI-DSB). Gli è stato dedicato un asteroide, il 14846 Lampedusa. A Santa Margherita di Belice è stato allestito presso il Palazzo del Gattopardo, ex proprietà dei Lampedusa il Museo del Gattopardo.[7] Nel 2003 nasce a Santa Margherita di Belice il parco letterario Giuseppe Tomasi di Lampedusa che dà il via al Premio letterario internazionale Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Nel 2019 viene fondata nel comune di Palma di Montechiaro l'istituzione comunale "Giuseppe Tomasi di Lampedusa", con direttore scientifico Gioacchino Lanza Tomasi. OpereModifica Il Gattopardo, Milano, Feltrinelli, I ed. novembre 1958; nuova edizione riveduta sul manoscritto a cura di Gioacchino Lanza Tomasi, Milano, Feltrinelli, 2002. Racconti, Prefazione di Giorgio Bassani, Collana Biblioteca di Letteratura: I Contemporanei n. 26, Milano, Feltrinelli, 1961; edizione riveduta a cura di Nicoletta Polo, prefazione di Gioacchino Lanza Tomasi, Milano, Feltrinelli, 1988; Nuova ed. rivista e accresciuta, Collezione Le Comete, Feltrinelli, 2015; Collana UE, Feltrinelli, 2017. Lezioni su Stendhal, Palermo, Sellerio, 1977. Invito alle Lettere francesi del Cinquecento, Collana I Fatti e le Idee, Milano, Feltrinelli, 1979, ISBN 978-88-072-2420-1. Il mito, la gloria, a cura di Marcello Staglieno, Roma, Shakespeare & Company, 1989 Letteratura inglese, 2 voll. (I: Dalle origini al Settecento; II: L'Ottocento e il Novecento), a cura di Nicoletta Polo, postfazione di Gioacchino Lanza Tomasi, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1990-1991. Opere, introduzione e premessa di Gioacchino Lanza Tomasi, a cura di Nicoletta Polo, Collana I Meridiani, Milano, Mondadori, 1995; Nuova edizione aumentata, Collana I Meridiani, Mondadori, 2004. Licy e il Gattopardo. Lettere d'amore, a cura di Sabino Caronia, Roma, Edizioni associate, 1995. Viaggio in Europa. Epistolario 1925-1930, a cura di Gioacchino Lanza Tomasi e Salvatore Silvano Nigro, Milano, Mondadori, 2006, ISBN 978-88-045-6477-5. La sirena, Milano, Feltrinelli, 2014 [con cd audio contenente una registrazione a voce dell'autore]. Ah! Mussolini!, Postfazione di Gioachino Lanza Tomasi, Milano, De Piante Editore, 2019 NoteModifica ^ I racconti, 5ª ediz., Milano 1993, p. 53. ^ David Gilmour, L'Ultimo gattopardo ^ Indro Montanelli, «La stanza di Montanelli. Elio Vittorini fascista? Lo eravamo tutti», 11 giugno 1997, Corriere della Sera, p.40 ^ 1959, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, su premiostrega.it. URL consultato il 14 aprile 2019. ^ «Morire, come ogni altra cosa, è un'arte». Due scomparse indecenti e una morte ambiziosa, su elapsus.it. URL consultato il 18 aprile 2016. ^ Tomasi di Lampedusa e il Gattopardo, genesi di un capolavoro in DVD, sul sito Luce Cinecittà, 24.06.2020, consultato il 28 giugno 2020. ^ Il Museo del Gattopardo, su comune.santamargheritadibelice.ag.it. URL consultato il 18 aprile 2016. BibliografiaModifica Alberto Anile - Maria Gabriella Giannice, Operazione Gattopardo, Genova, Le Mani, 2013. Manuela Bertone, Tomasi di Lampedusa, Palumbo, Palermo, 1995. Rosaria Bertolucci, Il Principe dimenticato, Sarzana, Carpena, 1979. Salvatore Calleri, La zampata del Gattopardo. I luoghi dell'anima: solitudine e ricerca interiore in Giuseppe Tomasi di Lampedusa, a cura dell'Istituto di Pubblicismo, Scialpi, Roma 2010.(Salvatore Calleri) Carmelo Ciccia, Giuseppe Tomasi di Lampedusa in Profili di letterati siciliani dei secoli XVIII-XX, Centro di Ricerca Economica e Scientifica, Catania, 2002. Arnaldo Di Benedetto, Tomasi di Lampedusa e la letteratura e La «sublime normalità dei cieli»: considerazioni sulla parte prima del «Gattopardo», in Poesia e critica del Novecento, Liguori, Napoli, 1999, pp. 65–97 e 237-50. Arnaldo Di Benedetto, Elementi di onomastica lampedusiana, in O&L. I nomi da Dante ai contemporanei, a cura di B. Porcelli e B. Bremer, Baroni, Viareggio, 1999, pp. 119–23. Arnaldo Di Benedetto, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, «La Sirena», in L'«incipit» e la tradizione letteraria italiana, vol. IV (Il Novecento), a cura di P. Guaragnella e S. De Toma, Pensa MultiMedia, Lecce, 2010, pp. 447–56. Margareta Dumitrescu, Sulla parte VI del Gattopardo. La fortuna di Lampedusa in Romania, Giuseppe Maimone Editore, Catania 2001. Franco La Magna, Lo schermo trema. Letteratura siciliana e cinema, Città del Sole Edizioni, Reggio Calabria, 2010, ISBN 978-88-7351-353-7 Gioacchino Lanza Tomasi, Introduzione a "Opere" di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Mondadori Editore, Milano, 1995 coll. I Meridiani. Salvatore Silvano Nigro, Il Principe fulvo, Palermo, Sellerio editore, 2012. Francesco Orlando, Ricordo di Lampedusa (1962)seguito da Da distanze diverse (1996), Torino, Bollati Boringhieri, 1996. Basilio Reale, Sirene siciliane. L'anima esiliata in «Lighea» di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Moretti & Vitali, 2000. Giuseppe Paolo Samonà, Il Gattopardo. I racconti. Lampedusa, Firenze, La Nuova Italia, 1974 Salvatore Savoia, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Ed. Flaccovio, Palermo, 2010. Jochen Trebesch, Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Leben und Werk des letzten Gattopardo, NORA, Berlin, 2012. Nunzio Zago, Tomasi di Lampedusa, Bonanno, Acireale-Roma, 2011. Steven Price, Lampedusa, a novel, New York, Farrar, Straus and Giroux, 2019. Maria Antonietta Ferraloro, Giuseppe Tomasi di Lampedusa - Il Gattopardo raccontato a mia figlia, La nuova frontiera junior, Roma, 2017. Voci correlateModifica Il Gattopardo Tomasi di Lampedusa (famiglia) Altri progettiModifica Collabora a Wikiquote Wikiquote contiene citazioni di o su Giuseppe Tomasi di Lampedusa Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Giuseppe Tomasi di Lampedusa Collegamenti esterniModifica Tomasi di Lampedusa, Giuseppe, su Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su Wikidata Arnaldo Bocelli, TOMASI, Giuseppe, duca di Palma, principe di Lampedusa, in Enciclopedia Italiana, III Appendice, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1961. Modifica su Wikidata ( EN ) Giuseppe Tomasi di Lampedusa, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su Wikidata ( EN ) Opere di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, su Open Library, Internet Archive. Modifica su Wikidata ( EN ) Bibliografia di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, su Internet Speculative Fiction Database, Al von Ruff. Modifica su Wikidata ( EN ) Giuseppe Tomasi di Lampedusa, su Goodreads. Modifica su Wikidata Bibliografia italiana di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, su Catalogo Vegetti della letteratura fantastica, Fantascienza.com. Modifica su Wikidata ( EN ) Giuseppe Tomasi di Lampedusa, su Internet Movie Database, IMDb.com. Modifica su Wikidata Parco letterario Tomasi di Lampedusa, su parcotomasi.it. Controllo di autoritàVIAF ( EN ) 88710059 · ISNI ( EN ) 0000 0001 1683 1579 · SBN CFIV055692 · BAV495/127999 · LCCN ( EN ) n50049833 · GND( DE ) 120871114 · BNE ( ES ) XX847385(data) · BNF ( FR ) cb11926785v (data) ·J9U ( EN ,  HE ) 987007269071005171 (topic) ·NDL ( EN ,  JA ) 00458907 · WorldCat Identities( EN ) lccn-n50049833   Portale Biografie   Portale Letteratura Ultima modifica 13 giorni fa di 176.201.22.91 PAGINE CORRELATE Gioacchino Lanza Tomasi musicologo italiano  Il Gattopardo romanzo scritto da Giuseppe Tomasi di Lampedusa  Tomasi di Lampedusa (famiglia) famiglia aristocratica italianaTomasi di Lampedusa (famiglia) famiglia aristocratica italiana Lingua Segui Modifica Tomasi di Lampedusa Coat of arms of the Family of Tomasi.svg spes mea in deo est D'azzurro al leopardo d'oro, illeonito, sostenuto da un monte di tre cime di verde cucito.[1] StatoBandiera del Regno di Sicilia 4.svg Regno di Sicilia Flag of the Kingdom of the Two Sicilies (1816).svg Regno delle Due Sicilie Flag of Italy (1861-1946) crowned.svg Regno d'Italia Italia Italia Casata di derivazioneTomasi TitoliCroix pattée.svg Principe di Lampedusa Croix pattée.svg Duca di Palma Croix pattée.svg Barone di Montechiaro Croix pattée.svg Barone di Falconeri Croix pattée.svg Barone della Torretta Croix pattée.svg Grande di Spagna FondatoreMario Tomasi Data di fondazioneXVI secolo Etniaitaliana I Tomasi di Lampedusa sono una famiglia storica siciliana, diramatasi dai Tomasi[2], che deve la propria notorietà in particolare al suo esponente Giuseppe Tomasi di Lampedusa e al successo editoriale da questi ottenuto, postumo, con la pubblicazione del romanzo Il Gattopardo.   Stemma dei Tomasi di Lampedusa StoriaModifica Origini: studi e leggendeModifica  Il castello di Palma di Montechiaro Le prime notizie storiche sui Tomasi risalgono al VII secolo, mentre, per quanto concerne i secoli precedenti, sono state prospettate ipotesi diverse. Secondo la tradizione sarebbe originaria di Bisanzio (330 d.C.).   Alcuni studiosi (Sansovino, Villabianca, Palizzolo Gravina) sostengono che la famiglia de' Leopardi da Roma si trasferì a Costantinopoli al seguito dell'imperatore Costantino I[3]. Filadelfo Mugnosaffermò che la famiglia discendeva da Leopardo, figlio di Crispo, primogenito dell'imperatore Costantino[4]. Archibald Colquhoun ritiene che il capostipite dei Tomasi sia stato Thomaso il Leopardo, figlio dell'imperatore Tito e della regina Berenice.[5] Andrea Vitello, autore che ha approfondito gli studi sulla famiglia, fa discendere i Tomasi da Irene, figlia dell'imperatore bizantino Tiberio I, che sposò Thomaso detto il Leopardo, principe dell'Impero e comandante della guardia imperiale[6]  Sino a tutto il XIX secolo, come segnala Vincenzo Buonassisi, era condivisa l'opinione che individuava in due fratelli gemelli, Artemio e Giustino, gli artefici del ritorno in Italia dei Leopardi-Tomasi; nel secolo successivo la discendenza dai due gemelli, approdati ad Ancona e provenienti da Bisanzio, è stata confermata da Andrea Vitello, studioso della genealogia della famiglia Tomasi di Lampedusa, e ribadita da quanti, dopo la pubblicazione degli scritti di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, si sono interessati alla sua ascendenza[7]. Temendo per la loro vita a causa delle lotte al vertice dell'Impero, lasciarono Costantinopoli dopo la morte dell'imperatore Eracleo, tra il 640 e il 646, stabilendosi ad Ancona. Dal ramo rimasto nelle Marche discenderebbero i Leopardi nei rami di Recanati, come pure sosteneva Monaldo padre di Giacomo Leopardi[8], e di Amatrice, da cui discende la schiatta, tuttora esistente anche in linea femminile [ de Sanctis di Castelbasso e Rosati di Monteprandone de Filippis Delfico] di Pier Silvestro Leopardi.  Titoli nobiliariModifica In Sicilia non vigeva la legge salica ed i titoli nobiliari si trasmettevano anche in linea femminile. In forza delle norme dettate nel Liber Augustalis (III, 27 “de la successione de li nobili in li feudi") e nei capitula "de successione feudalium", "de alienatione feudorum","de successione feudorum"[9] e della prammatica 14 novembre 1788 i titoli venivano trasmessi al collaterale maschio vivente più prossimo e più anziano e, in mancanza di maschi, alla femmina più prossima privilegiando le nubili. Il primo titolo nobiliare dei Tomasi di Sicilia, la baronia di Montechiaro, fu acquisito per via materna come, in epoche successive, anche le baronie di Franconeri e della Torretta.  LetteraturaModifica Il casato dei Tomasi di Lampedusa, ramo staccatosi dai Tomasi di Capua, trasferitosi da Siena nel Regno di Napoli al seguito di Alfonso V d'Aragona[10] è stato immortalato nel romanzo Il Gattopardo scritto dal principe Giuseppe Tomasi di Lampedusa.  Il successo dell'opera ha determinato il diffondersi di due neologismi: il sostantivo "gattopardismo" e l'aggettivo "gattopardesco"[11].  StemmaModifica  L'arma dei Tomasi (Palazzo ducale, Palma di Montechiaro) BlasonaturaModifica D'azzurro al leopardo d'oro, illeonito, sostenuto da un monte di tre cime di verde cucito.[12]  MottoModifica spes mea in deo est  Genealogia              Modifica Baroni di Montechiaro e duchi di PalmaModifica Il capostipite dei Tomasi siciliani, Mario (n. 1558), capitano d'armi, si trasferì dalla Campania in Sicilia, a Licata[13], dove sposò Francesca Caro baronessa di Montechiaro. Mario Tomasi e Francesca Caro ebbero due gemelli, Ferdinando e Mario, governatore del Castello di Licata e capitano dell'Inquisizione. Ferdinando (1597-1615), barone di Montechiaro[14], appena sedicenne sposò Isabella La Restia; i coniugi ebbero due gemelli, Carlo e Giulio, rimasti orfani del padre a nove mesi; quando i gemelli avevano diciassette anni morì anche la madre e lo zio Mario li chiamò presso di sé a Licata dove restarono circa sei anni.  Carlo venne nominato duca di Palma nel 1639 (il duca fu l'artefice della fondazione del paese oggi denominato Palma di Montechiaro) ma cedette baronia e ducato al fratello e prese gli ordini diventando uno dei chierici regolari teatini studioso di teologia. Scrisse numerose opere in latino e italiano, cinquantuno delle quali pubblicate[15]. Dopo la sua morte, essendogli stati attribuiti diversi miracoli, venne avviato un processo di beatificazione e fu proclamato Servo di Dio[16]. La famiglia annovera anche tre cardinali nel periodo bizantino (Fabio, durante il papato di Gregorio III, Vibiano durante quello di Alessandro II e Pietro durante il Patriarcato di Gerusalemme di Sergio III).  Duca SantoModifica  La venerabile Maria Crocifissa (Isabella Tomasi), Giulio I (1614-1669), duca di Palma e barone di Montechiaro venne nominato principe di Lampedusa, sposò Rosalia Traina, baronessa di Falconeri, dalla quale ebbe otto figli:  Francesca (1643-1727), suor Maria Serafica, badessa del monastero di Palma; Isabella (1645-1699), suor Maria Crocifissa, beata (nel romanzo è ricordata come "Beata Corbera")[17]; Ferdinando (1647), che morì a tre mesi; Antonia (1648-1721), suor Maria Maddalena; Giuseppe I (1649-1713), cioè San Giuseppe Maria Tomasi; Rosaria, che morì a 11 mesi (1650-1651); Ferdinando (1651- 1672); Alipia (1653-1734), suor Maria Lanceata. I coniugi impartirono ai figli una rigida educazione religiosa; tutti, fatta eccezione per Ferdinando, si indirizzarono alla carriera ecclesiastica. Tale fervore religioso si perpetuò anche nei secoli successivi, tanto che i Tomasi rischiarono spesso l'estinzione[18]. Isabella, che visse come Suor Maria Crocifissa, entrò nel monastero, per lei e le sorelle fondato dal padre, il 12 giugno 1659, giorno dell'inaugurazione e con lei entrarono Francesca e Antonia: Isabella aveva quattordici anni, Francesca quindici ed Antonia undici. Nel 1661 anche la madre Rosalia entrò in convento di clausura come oblata insieme alla figlia diciottenne Alipia (l'unica che avendo solo sei anni quando vi entrarono le sorelle non le aveva seguite); fu costretta, per amministrare i vassalli, ad uscire dalla clausura quando il nipote Giulio II restò orfano.  Giulio I dedicò l'intera sua vita alla beneficenza e ad opere pie con tale assiduità ed impegno da essere definito il Duca Santo; costruì numerose chiese, un asilo per le orfanelle, un ospedale, un reclusorio per meretrici pentite, istituì un Monte di Pietà per contrastare gli usurai, avviò bonifiche e si dedicò a numerose opere sociali ed umanitarie. Il terzo principe di Lampedusa fu Ferdinando I, al quale spettarono i titoli nobiliari del padre, in quanto prima di lui erano nati solo due maschi, Ferdinando morto a tre mesi e Giuseppe I che, rinunciando ai suoi diritti dinastici, si era indirizzato alla carriera ecclesiastica. Tutte e quattro le figlie vollero entrare come suore di clausura nel Monastero Benedettino. Il fervore religioso di Giulio I e dei suoi congiunti era tale che a Palma l'intera famiglia era nota come "una razza di Santi"[19]; è ancora conosciuta a Palma una deliziosa nenia "Il testamento del Duca di Palma"[20]. Come il fratello Carlo alla sua morte Giulio I venne proclamato Servo di Dio[21]. l  Principi di Lampedusa, duchi di Palma, baroni di Montechiaro e Falconeri            Modifica Ferdinando I morì a soli ventun anni, l'anno successivo alla nascita del figlio Giulio II (1671-1698), nato dal matrimonio con Melchiorra Naselli e Carlo. Anche Giulio II, morì giovane, a ventisette anni; dalla moglie Anna Maria Fiorito e Tagliavia, ebbe due figli maschi Antonino morto in tenera età e Ferdinando II, che visse quasi ottant'anni, sposò Rosalia Valguarnera e Branciforte e, rimasto vedovo, Giovanna Valguarnera e La Grua. Giulio II restò sino all'età di sette anni nel monastero che ospitava la nonna Rosalia (suor Seppellita) e le zie; compiuti i sette anni assunse l'onere della sua educazione il nonno materno Luigi, principe d'Aragona. Nonostante sia morto giovane riuscì a fondare l'Istituto delle Scuole Pie, affidato ai Padri Scolopi. Fu allievo dell'Istituto, la cui sede è oggi occupata dal comune di Palermo.  Ferdinando II (1697-1775) ebbe dieci figli, otto maschi e due femmine, Maria (1718-1795) suor Maria Crocifissa monaca del monastero di Palma e Anna Maria (m. 1751) che sposò Antonio Lucchesi Palli, principe di Campofranco. I figli maschi fatta eccezione per il primogenito Giuseppe II (1717-1792) e per Gaetano morto in tenerissima età, si diedero alla carriera ecclesiastica o a quella militare: Giulio (m. 1787) Abate di Santa Maria di Roccamadore e Prelato domestico di Clemente XIV, Salvatore (m. 1783) prete dell'Olivella, Carlo (n. 1734) gentiluomo di camera del duca di Savoia e capitano dell'esercito sardo, Gioacchino (1739-1792) esente guardie del corpo, Elia (1740-1790) capitano di artiglieria, Pietro (n. 1752) cavaliere di Malta. Ferdinando II potenziò il patrimonio della famiglia e la istituzione dell'Accademia dei Pescatori Oretei con finalità letterarie, il terzo seminario dei Nobili retto dai padri Scolopi, e l'assunzione di rilevanti ruoli politici. Fu nominato da Carlo VI grande di Spagna, fu presidente dell'arciconfraternita della Redenzione dei Cattivi, capitano di Giustizia di Palermo, pretore di Palermo, deputato del Regno, Vicario generale del Regno, maestro razionale di cappa corta del Regio Patrimonio. Giuseppe II (1717-1792) sposò Antonia Roano e Pollastra dalla quale ebbe tre figli Francesco morto in tenera età, Rosalia, moglie di Gioacchino Burgio del Vio, Duca di Villafiorita e Giulio III (1743-1812). Giuseppe II, cavaliere di Malta, fu governatore della Compagnia della Pace, ambasciatore del Senato di Palermo presso Carlo III, governatore del Monte di Pietà, capitano di Giustizia di Palermo, deputato del Regno, presidente dell'Arciconfraternita per la Redenzione dei Cattivi, Intendente Generale degli eserciti.  Il figlio Giulio III sposò Maria Caterina Romano Colonna figlia del duca di Reitano, con la quale ebbe tre figli Baldassarre cavaliere di Malta, Antonia moglie di Francesco Arduino Ruffo marchese di Roccalumera e Giuseppe III (1767-1833). Giulio III fu governatore della Pace, senatore di Palermo, rettore dell'Ospedale Grande, deputato del Regno, pretore di Palermo, governatore del Monte di Pietà, cavaliere di San Giacomo.  Giuseppe III si sposò due volte. La prima moglie, Angela Filangeri e la Farina figlia del principe di Cutò morì di parto insieme al nascituro; dalla seconda moglie Carolina Wochingher ebbe due femmine Caterina che sposò Giuseppe Valguarnera e Ruffo, principe di Niscemi e duca dell'Arenella e Antonia che sposò Francesco Caravita principe di Sirignano. L'unico maschio, Giulio IV, è il protagonista del romanzo Il Gattopardo. Giuseppe III dovette affrontare una situazione disastrosa sotto il profilo economico. La moglie Carolina, rimasta vedova, fu costretta ad affrontare numerose vertenze giudiziarie e a varare un progetto di contenimento delle spese.  Il Gattopardo e i suoi discendenti        Modifica Giulio Fabrizio Maria Tomasi Caro Traina IV (1815-1885), pari di Sicilia, principe di Lampedusa, duca di Palma, barone di Montechiaro e Falconeri, sposò Maria Stella Guccia e Vetrano, figlia del marchese di Ganzaria e zia del matematico Giovanni Battista Guccia, fondatore del Circolo Matematico di Palermo[22]. Diedero alla luce dodici figli, sette femmine e cinque maschi. È il principe di Salina, protagonista del romanzo del bisnipote.   Giuseppe Tomasi di Lampedusa Salvatore, decimo figlio, morì giovane, come la sesta, Caterina e la dodicesima, Maria Rosa.  Linea maschile          Modifica Giuseppe IV (1838-1908), primogenito del Gattopardo, sposò nel 1867 Stefania Papè e Vanni (1840-1913), dalla quale ebbe cinque figli maschi: Giulio (1868-1934), Pietro (1873-1964), Francesco (1875-1956), Ferdinando (1877-1920) e Giovanni (1879-1940). Francesco ebbe un figlio, Giuseppe, morto ventenne nel 1945. Si sposarono, ma non ebbero figli, Pietro, Ferdinando e Giovanni, mentre il primogenito Giulio V ebbe, oltre all'autore del romanzo, una femmina, Stefania, morta a tre anni (1893-1896).  Giuseppe V (1896-1957), lo scrittore, principe, duca e barone, sposò nel 1932 Alexandra Wolff Stomersee, figlia di un nobile baltico e dell'italiana Alice Barbi, che, nel 1920, in seconde nozze aveva sposato Pietro Tomasi della Torretta, zio di Giuseppe. Alla morte dell'autore del libro, lo zio Pietro, il parente maschio più prossimo, ereditò i titoli di principe di Lampedusa, duca di Palma e barone di Montechiaro e Falconeri. Come secondogenito era già barone della Torretta, conosciuto però come marchese (di "cortesia" secondo gli autori), titolo che usò ufficialmente nella carriera diplomatica. Pietro fu Ministro degli Esteri, Senatore del Regno, ultimo presidente del Senato del Regno e presidente del primo Senato della repubblica. Con Pietro Tomasi Della Torretta si estinse la linea maschile.  Linea femminile  Pietro morì a Roma nel 1962, nominando eredi di quanto possedeva a Ginevra le figlie della defunta moglie, una delle quali, Alexandra Wolff Stomersee, aveva sposato Giuseppe, il nipote scrittore. I suoi beni residui, tra i quali un lussuoso appartamento a Roma, andarono agli eredi legittimi, suoi cugini di primo grado: Giuseppe Garofalo, figlio di Maria Antonia Tomasi di Lampedusa, che aveva sposato il professor Giovanni Garofalo, e le sorelle Giovanna e Maria Carolina Crescimanno, figlie di Chiara Tomasi di Lampedusa, che aveva sposato Francesco Paolo Crescimanno di Capodarso.  Fra i diversi discendenti in linea femminile rimasti in Sicilia, vi era Isabella Crescimanno di Capodarso, deceduta il 13 aprile 2015, la quale scrisse Memorie, libro in cui venivano raccontati aneddoti della famiglia. Rimangono il fratello Cesare Crescimanno e i figli di lui Mario e Maria Laura, entrambi con figli ed altri discendenti.  Il secondogenito di Giulio Fabrizio Tomasi e di Maria Stella Guccia, Giovanni, barone di Montechiaro, (Palermo 1840 - Baden Baden 1896) sposò la cugina prima Carolina Guccia, Il figlio Giuseppe (1871-1936) sposò Rosa Agliata; portava il titolo di conte di Celona ed aveva un grande biglietto da visita in cui dichiarava di essere il solo ed unico cugino in secondo grado di Pietro Tomasi della Torretta, senatore del Regno. Dal matrimonio nacquero quattro figli, due maschi e due femmine. Tre non ebbero discendenti; soltanto Carolina (1908 - 2016) ebbe un figlio dal marito Giuseppe Lo Piccolo (Palermo 1947). Carolina era vivente quando Pietro Tomasi della Torretta morì, Era la parente più prossima in via femminile, poiché suo padre Giovanni era il secondogenito di Giulio Fabrizio. Da questo matrimonio fra Maria Giovanni Tomasi e Guccia e la cugina Carolina Guccia nacquero una figlia Maria Stella e un maschio Giuseppe che sposo Rosa Agliata ed ebbe due figli maschi e due femmine. Erano molto poveri ed i maschi morirono di tisi lavorando nelle miniere di Montegrande, una figlia era monaca e sua sorella Carolina Guccia e Marasà sposò l'avv. Giuseppe Lo Piccolo. Quando Pietro Tomasi della Torretta morì questo divenne il parente più prossimo in linea femminile. Ha fatto cognonomizzare Tomasi ed ha invertito il cognome in Tomasi Lo Piccolo. È seguito dai discendenti di Antonia Tomasi e Guccia la figlia più anziana di Giulio Fabrizio, che andò sposa al professor Giovanni Garofalo. I discendenti per via femminile di questo matrimonio sono i Di Rella Tomasi di Lampedusa. Anche loro hanno fatto cognonomizzare il cognome Tomasi di Lampedusa e sono discendenti di Giuseppe Garofalo, l'unico cugino maschio di primo grado vivente alla morte di Pietro Tomasi della Torretta.  Nessuno dei discendenti viventi avrebbe comunque avuto diritto - anche se la repubblica non avesse abolito i titoli nobiliari - al riconoscimento dei titoli in capo a Pietro (principe di Lampedusa, duca di Palma e barone della Torretta), poiché, dopo l'Unità d'Italia ed il riconoscimento negli anni venti dei titoli borbonici, poiché ad essi era stata estesa la legge salica, che escludeva le donne dalle linee dinastiche.  Secondo il diritto borbonico, invece, come si evince dall'esame dei Capitula Regni Siciliae, il capo della dinastia sarebbe diventato Giuseppe Lo Piccolo Tomasi, il parente maschio più prossimo in linea femminile. Quando Giuseppe Garofalo morì, era vivente il figlio della sua unica figlia Maria, coniugata Di Rella, quindi Aurelio Di Rella Tomasi ed i suo successori sarebbero i successori secondo il diritto borbonico. In verità sono preceduti da Giuseppe Lo Piccolo Tomasi, che non ha discendenti.   Aurelio Di Rella Tomasi di Lampedusa, avvocato, cavaliere dell'Ordine della Corona d'Italia e componente della Consulta dei Senatori del Regno, ha tre figli, due dei quali maschi, che si trovano immediatamente dopo di lui nella linea dinastica femminile.  Giuseppe Garofalo aveva due sorelle: Marietta, che rimase nubile, e Giulia, coniugata con Pietro Trombetta, che ebbe cinque figli (tre maschi e due femmine). Uno dei maschi, Giovanni Trombetta, avvocato, fu vice comandante militare della Resistenza ai nazisti in Liguria e. in onore della famiglia materna, assunse il nome di battaglia di "Colonnello Tomasi".  La regolamentazione dei titoli araldici vigente nel Regno d'Italia. Consulta araldica, Libro d'Oro  Con la soppressione degli ordinamenti feudali, negli Stati dove le distinzioni nobiliari sopravvissero vennero costituite speciali commissioni consultive per l'esame di questioni araldiche. Si ebbero così il tribunale araldico in Lombardia, la commissione araldica a Venezia e Parma, la congregazione araldica capitolina a Roma ecc.. Analogamente a quanto era avvenuto negli stati preunitari, anche nello stato italiano venne istituito, con il Regio Decreto 313 del 10 ottobre 1869, un organo collegiale, denominato Consulta araldica. Con il Regio Decreto 5318 dell'8 maggio 1870 venne istituito il Libro d'oro della nobiltà italiana. Questo registro avrebbe man mano raccolto le concessioni di giustizia o di grazia approvate dalla Consulta araldica. L'estratto del Libro d'oro faceva fede del loro riconoscimento da parte del Regno d'Italia.  Le successioni furono regolamentate secondo la legge vigente nel Regno di Sardegna, e fu quindi ammessa soltanto la successione per via maschile secondo le norme della legge salica: maschi primogeniti.   La Consulta fu varie volte mutata nella composizione e nelle attribuzioni fino al Regio Decreto 7 giugno 1943, n. 651. La Consulta esaminava tanto le pratiche di giustizia che quelle di grazia. Le prime erano le successioni che seguivano i principi della legge salica, le seconde quelle successioni che avevano bisogno di una sanatoria concessa con decreto reale (successioni per via femminile, in favore di membri della famiglia diversi dai maschi primogeniti). Queste successioni per grazia avevano il carattere di una rinnovazione. I titoli venivano concessi sul cognome ed erano soggetti alla legge salica nella ulteriore trasmissione. Vennero di fatto privilegiate le successioni che sanavano contenziosi all'interno delle grandi famiglie e assistita la loro sopravvivenza. I criteri erano piuttosto restrittivi, anche se il Regno d'Italia conservò spesso le regole presenti al momento della loro concessione, per cui i titoli austriaci erano riconosciuti a tutti i componenti maschili del casato. Il Libro d'oro stabiliva anche una imposta di concessione per l'iscrizione ed in assenza di questa vari titoli rimasero esclusi dall'inclusione per motivi fiscali. Era questo il caso di famiglie che avevano molti titoli e non corrisposero la tassa per tutti quelli che potevano rivendicare. Queste situazioni rimasero insanabili, in quanto Umberto II non ritenne di dover sanare situazioni fiscali in vigore nel Regno d'Italia.  La trasformazione in Repubblica Italiana nel 1946 e la successiva Costituzione del 1948 abolirono qualsiasi titolo nobiliare; la XIV disposizione transitoria e finale demandò a una legge ordinaria le modalità di soppressione della Consulta araldica; per molti anni non sopraggiunse alcun atto al proposito e perciò si presumeva che l'organismo persistesse formalmente, pur non avendo più titolo né scopo. Infatti la sentenza della Corte costituzionale del 26 giugno 1967, n. 101, dichiarò illegittima qualsiasi legislazione araldico-nobiliare italiana susseguitasi dal 1887 al 1943. Nel 1967 ancora la Consulta sentenziò che i titoli nobiliari «non costituiscono contenuto di un diritto e, più ampiamente, non conservano alcuna rilevanza». Il D.L. 112/2008 (convertito in legge 133/2008) e il Decreto legislativo 66/2010 abrogarono espressamente, rispettivamente, il R.D. 651/1943 e il R.D. 652/1943, che regolavano i titoli nobiliari, e la Consulta araldica. Dopo tali atti abrogativi, dunque, non esiste più alcuna norma giuridica relativa alla Consulta araldica e detta consulta è soppressa a tutti gli effetti.  La Consulta araldica dopo la proclamazione della Repubblica  La decisione di abbandonare l'Italia da parte di Umberto II il 13 giugno 1946 non determinò una rinuncia totale alle sue prerogative. Umberto ritenne di mantenere in vita la fons honorum spettante a casa Savoia. A partire dal 1950, Umberto II rilasciò numerosi titoli nobiliari, attenendosi alle prassi in essere ai tempi del Regno. Furono sanate molte vertenze e il Libro d'oro della nobiltà italiana continuò ad essere stampato come documento di una associazione privata. Questa si strutturò in associazioni regionali e in una giunta centrale. Molti titoli furono anche assegnati a vari sostenitori della monarchia ed alla borghesia imprenditoriale, in particolare nel settore dell'edilizia.  All'interno di questa prassi, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, avendo nel maggio 1946 richiesto alla corte di appello di Palermo di adottare il suo cugino in secondo grado Gioacchino Lanza di Mazzarino e di Assaro, si presentava assieme ai genitori dell'adottando Fabrizio Lanza di Assaro e Conchita Ramirez di Villarrutia in tribunale e veniva registrato l'assenso all'adozione. Nel dicembre del 1946, alla registrazione del decreto da parte della Corte di Appello, Giuseppe Tomasi di Lampedusa scriveva a Falcone Lucifero, Ministro della Real Casa, del suo desiderio di trasmettere i titoli della famiglia al figlio adottivo, in assenza di una discendenza maschile. La lettera recava anche l'adesione e l'appoggio di Pietro Tomasi della Torretta. Successivamente Fabrizio Lanza di Assaro si recò a Villa Italia a Cascais ed Umberto IIcomunicò per iscritto a Lucifero la sua adesione alla proposta di trasmettere il titolo di duca di Palma sul cognome all'adottando. I restanti titoli della famiglia Tomasi, secondo il regolamento araldico del Regno d'Italia, tornavano alla Corona.  NoteModifica ^ A. Mango di Casalgerardo, Nobiliario di Sicilia, Reber, 1912 (anche centrale/mango online: «vanta discendere dalla famiglia dei Leopardi di Costantinopoli che si vuole passata in Ancona sin dal 646 cambiando il cognome in quello di Tomasi»). ^ Angelo Tommasi di Vignano, Notizie storiche e genealogiche sulla nobile famiglia Tommasi: Tommasi e Tomasi, rami di Siena, di Capua e di Sicilia, 1933 ^ V. Palizzolo Gravina, op. cit., 363-364, segnala quanto segue: «sull'origine della famiglia Tomasi dal Villabianca appoggiato al Sansovino rileviamo essere l'antica de' Leopardi di Roma, è passata con Costantino imperatore in Costantinopoli, ove fu grande e potente sino al tempo di Eracleo imperatore, per la cui morte ella passo' in Italia, fermandosi in Ancona. La si disse Tomasi dal greco trauma, che vuol dire mirabile, però che si sa i due gemelli Artemio e Giuliano aver mostrato un ingegno meraviglioso». Tutti gli altri autori concordano nel ritenere che uno dei due gemelli si chiamasse Giustino e non Giuliano ^ F. Mugnos, op. cit., vol. III, al riguardo precisava: «Tuttavia non lascerò di dire che Artemio e Giustino fratelli gemelli, ovvero nati ambedue da un parto, cavalieri nobilissimi costantinopoliani dell'antichissima famiglia Leopardi originata da Leopardo o da Licino Leopardo figlio di Crispo primogenito dell'imperatore Costantino il grande» ^ A. Colquhoun, A dilemma of Princes, Go, 1960, p. 30. ^ A. Vitello, I Gattopardi di Donnafugata, cit., p. 39: «Capostipite della gens Thomasa-Leopardi è il generale Thomaso detto il Leopardo, principe dell'Impero Bizantino e comandante della guardia imperiale. Fu lui a sposare Irene, figlia dell'imperatore Tiberio». Tuttavia Gilmour, biografo inglese dell'Autore del libro, ritiene prive di prova le tesi di Vitello e fantasiose tutte le ricostruzioni dell'albero genealogico anteriori al ritorno in Italia della famiglia (David Gilmour, L'ultimo Gattopardo, Feltrinelli, Milano 2003, pp 20-21). ^ Vincenzo Buonassisi, op. cit., scrive: "«Tutti si accordano in dire, che ella sia greca di origine, e della città di Costantinopoli non essendo però si chiaro, se ella già di antico fosse passata in essa al tempo di Costantino, o fossevi passata di poi. Venne ella primieramente in Ancona in due fratelli Artemio e Giustino, nati di un parto, e tanto simiglianti nelle fattezze che era una meraviglia il vederli: onde anche si vuole che a cagione di questa stupenda simiglianza venissero chiamati i Tomasii, perché di prima Leopardi diceva si, spiegando l'insegna di un Leopardo» ^ scrive Andrea Vitello, Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Sellerio 2008 p. 31: "della comune origine era convinto il padre del poeta che fu in corrispondenza con il padre dell'astronomo; nella Istoria gentilizia di casa Leopardi di Recanati il conte Monaldo sostenne appunto la discendenza dei Leopardi dai Thomasi bizantini" ^ . I Capitula qui citati ed altri relativi al tema della successione dei feudi sono reperibili nei Capitula Regni Siciliae dei quali è stata pubblicata una ristampa anastatica dall'editore Rubbettino nel 1999 ^ Girolamo Gigli, Diario Sanese, Siena, 1854, pp 548 e seg. ^ Il VI volume del Grande Dizionario della Lingua Italiana di Salvatore Battaglia edito dall'UTET nel 1970 non riportava le due voci che compaiono invece a pagina 410 del supplemento del 2004. I due termini non risultavano riportati neppure nell'edizione del 1984 del Vocabolario illustrato della lingua italiana, di Devoto-Oli, editrice Selezione dal Reader's Digest. Entrambi i vocaboli sono invece riportati nel Dizionario essenziale della lingua italiana di Sabatini-Coletti pubblicato dalla casa editrice Sansoni nel 2007. Compare solo il termine gattopardismo ne Il grande italiano-vocabolario della lingua italiana di Aldo Gabrielli, edito nel 2008 dalla casa editrice Hoepli. Nel linguaggio aulico, ha avuto ingresso soltanto di recente (Mimmo Muolo, LA REGOLA D’ORO, Avvenire, 23 dicembre 2016, in ordine alle resistenze nella Curia: "il Papa ne ha evidenziate di tre tipi: aperte in quanto derivanti dal dialogo sincero, nascoste o gattopardesche, e malevole, queste ultime ispirate dal demonio"). ^ A. Mango di Casalgerardo, Nobiliario di Sicilia, Reber, 1912 (anche centrale/mango online: «vanta discendere dalla famiglia dei Leopardi di Costantinopoli che si vuole passata in Ancona sin dal 646 cambiando il cognome in quello di Tomasi»). ^ Francesco Emanuele Gaetani marchese di Villabianca, Della Sicilia nobile, Palermo 1757, p. 65, "...Mario di Tomasi che da Capua passò in Sicilia, con il viceré Marco Antonio Colonna, e fu capitan d'armi nella Licata sull'anno 1585, rispondendo in quei tempi un tal uffizio al grado di Vicario generale regio d'oggidì" ^ Marchese di Villabianca, op. cit. p 65: "fu quella baronia recata in dote da Francesca di Caro e Celestre, primogenita figlia di Ferdinando ultimo barone di essa a Mario di Tomasi" ^ Tutti gli scritti di Carlo Tomasi sono enumerati e sinteticamente descritti nella seconda parte dell'opera di Antonio Francesco Vezzosi I scrittori de' chierici regolari detti Teatini , Roma 1780, pp 349-359 ^ Giovanni Bonifacio Bagatta Vita del venerabile Servo di Dio D. Carlo de' Tomasi e Caro della Congregazione de' chierici regolari Roma 1702 ^ S. Cabibbo - M. Modica, op. cit, p. 85 raccontano che la beata Isabella usava flagellarsi a sangue sin dalla più tenera età. ^ Secondo Gilmour, op. cit., p. 22, a Capua su otto figli sei si fecero sacerdoti o monache ^ da Reinhard Volker, Le grandi famiglie italiane, le élite che hanno condizionato la storia d'Italia di Horst Reimann Tomasi di Lampedusa, Neri Pozza, 1996, p. 585 ^ Volker, ivi, p. 588 ^ Biagio della Purificazione, Vita e virtù dell 'insigne Servo di Dio D. Giulio Tomasii e Caro, duca di Palma, Prencipe di Lampedusa, barone di Monte Chiaro e cavaliere di San Giacomo , Roma, 1685 ^ Benedetto Bongiorno, Guillermo P. Curbera, Giovanni Battista Guccia, Pioneer of International Cooperation in Mathematics, Springer, Heidelberg 2018. Bibliografia        Modifica Gian Evangelista Blasi, Opuscoli di autori siciliani alla grandezza di Ferdinando Maria Tomasi, Caro, Traina e Naselli, Palermo, 1770. Bonifacio Bagatta, Vita del venerabile servo di Dio D. Carlo De' Tomasi della Congregatione De' Chierici Regolari, Roma 1702. Domenico Bernino, Vita del venerabile cardinale D. Giuseppe Maria Tomasi de' Chierici regolari, Roma. Vincenzo Buonassisi, Sulla condizione civile ed economica della città di Siena, Moschini, 1854. Sara Cabibbo, Marilena Modica, La Santa dei Tomasi, storia di Suor Maria Crocifissa, Einaudi, Torino, 1989. Francesco Caravita di Sirignano, Memorie di un uomo inutile, Mondadori, 1981. Isabella Crescimanno Tomasi, Memorie, fondazione Piccolo di Calanovella, 2009. Giovanni Battista di Crollalanza, Dizionario storico blasonico delle famiglie nobili e notabili italiane estinte e fiorenti, rist. an., Forni, Sala Bolognese 2011. Girolamo Gigli, Diario Sanese, Siena, 1854. David Gilmour, L'ultimo Gattopardo, Feltrinelli, 2003. Leptailurus serval, internet. Antonino Mango di Casalgerardo, Nobiliario di Sicilia, Reber, 1912. Giovanni Mattoni, Sul sentiero della pazienza, vita di San Giuseppe Maria Tomasi, cardinale di santa Romana Chiesa, Vicenza, 1986. Filadelfo Mugnos, Teatro genologico delle famiglie del Regno di Sicilia, rist. an., Forni, Sala Bolognese 2007. Vincenzo Palizzolo Gravina, Il blasone in Sicilia, Visconti & Huber, 1875 Volker Reinhardt, Le grandi famiglie italiane. Le élites che hanno condizionato la storia d'Italia, Neri Pozza, 1996. Salvatore Savoia, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Palermo, 2010. Giuseppe Tosi, L 'eredità morale del Gattopardo, Salerno, 1999. Andrea Vitello, I Gattopardi di Donnafugata, Flaccovio, 1963. Andrea Vitello, Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Il Gattopardo segreto, Sellerio, 1987. Nunzio Zago, Giiuseppe Tomasi di Lampedusa, Palermo, 1987. Voci correlateModifica San Giuseppe Maria Tomasi Pietro Tomasi Della Torretta Giuseppe Tomasi di Lampedusa Palazzo Lampedusa Villa Lampedusa Palma di Montechiaro Castello di Montechiaro (Palma di Montechiaro) Tomasi (famiglia) Controllo di autoritàVIAF ( EN ) 77198047 · CERL cnp00569868 ·GND ( DE ) 122475119 · WorldCat Identities( EN ) viaf-77198047   Portale Sicilia   Portale Storia di famiglia Ultima modifica 2 mesi fa di Messbot PAGINE CORRELATE Pietro Tomasi della Torretta diplomatico e politico italiano  Giuseppe Tomasi di Lampedusa scrittore italiano  Giulio Fabrizio Tomasi nobile italiano  Principe Fabrizio Salina protagonista del romanzo Il Gattopardo Lingua Segui Modifica Don Fabrizio Corbera, principe di Salina Il gattopardo salina01.jpg Il principe di Salina Fabrizio Corbera interpretato da Burt Lancaster nel film Il Gattopardo. UniversoIl Gattopardo Lingua orig.Italiano SoprannomeIl Gattopardo AutoreGiuseppe Tomasi di Lampedusa Interpretato daBurt Lancaster Voce orig.Corrado Gaipa SessoMaschio EtniaItaliana Professionenobile Don Fabrizio Corbera, principe di Salina, duca di Querceta, marchese di Donnafugata, è il protagonista del romanzo Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa e dell'omonima trasposizione cinematografica di Luchino Visconti.  Il personaggioModifica La figura di don Fabrizio, in parte autobiografica e in parte ispirata al personaggio storico di Giulio Fabrizio Tomasi, rappresenta la disillusione e l'impotenza di un'intera classe sociale di fronte ai cambiamenti della storia.  Don Fabrizio è la figura di un uomo che seppure dotato di una forza epica e di una statura intellettuale superiore a quella dei suoi pari, non riesce a integrarsi nella società a lui contemporanea, cui guarda con scetticismo e altera lucidità. Emblematico è il suo rifiuto ad accettare la carica di senatore del neo-regno sabaudo, non certo perché mosso da lealismo borbonico, ma per una sostanziale incapacità intellettuale, che lo scrittore chiama "rigidità morale", ad assumersi la responsabilità politica di un cambiamento di cui, in fondo, non si sente partecipe.  Il personaggio storicoModifica Nella storia il personaggio di don Fabrizio è ricalcato su quello realmente esistito di Giulio Fabrizio Tomasi, bisnonno dello scrittore italiano.  Il personaggio tra realtà e finzioneModifica Sarebbe sbagliato credere che la figura di don Fabrizio sia quello di un personaggio reale: di Giulio Fabrizio Tomasi, oltre al nome, alla statura, al colore biondastro dei capelli e alla passione dilettantesca per l'astronomia, ha ben poco.  Lo stesso Tomasi di Lampedusa se ne era accorto, e nella ormai celebre lettera all'amico Enrico Merlo[1]dichiarava che il personaggio del romanzo doveva apparire molto più intelligente di quanto non lo sia stato nella realtà. In effetti Giulio Tomasi, bisnonno dello scrittore, come Don Fabrizio, non prese mai parte alla vita politica del suo tempo e con la sua morte, avvenuta senza aver mai fatto testamento, inizia la lunga vicenda giudiziaria fra i suoi eredi (1885-1960 ca) che ha portato al totale disfacimento del patrimonio dei Lampedusa.  Anche la passione per l'astronomia, che nel romanzo diventa un elemento epico, effettivamente si tradusse nel ripiegamento in un interesse puramente personale e dilettantistico di un aristocratico siciliano di metà ottocento. Conosciamo anche il catalogo delle sue osservazioni astronomiche, ma nulla fa intravedere la possibilità di una reale scoperta di corpi celesti.  Insomma, sulla figura di Giulio Tomasi pesa un giudizio critico sostanzialmente negativo che nemmeno le sue doti in campo matematico-astronomico son riuscite a cancellare: il don Fabrizio de Il Gattopardo è invece un personaggio puramente letterario, che in certe sfumature psicologiche deve assomigliare molto di più al suo autore che non al modello storico.  Scrive in proposito Pietro Citati: «Con una leggera vanità, Lampedusa immaginava di assomigliargli. Non gli assomigliava affatto: Salina era soltanto un sogno o una remota proiezione di eleganza e di grandezza inattingibili. Lampedusa non aveva la sua autorità, prepotenza, crudeltà, orgoglio di classe. Non aveva la pelle bianca, i capelli biondi, né la mitomania. Non conosceva il suo ardore carnale, l'allegra felicità fisica, il dono di afferrare e possedere la vita. Non condivideva il suo spirito mondano, portato anche nelle esperienze spirituali. Solo qualche volta l'antenato avidissimo e il discendente passivo si incontrano e si abbracciano nello stesso sentimento: quando Fabrizio rivela il proprio desiderio di contemplazione, l'"indifferente bontà", e la sconfitta».[2]  Quello che appare un trittico di personaggi, il Giulio Tomasi storico, il don Fabrizio del romanzo e l'autore stesso, è in realtà un unico quadro la cui chiave di lettura è per l'appunto l'autobiografismo.  Tomasi di Lampedusa, come il suo avo, vive un'epoca di transizione: l'uno si rifugia nella scrittura, l'altro nell'astronomia. Entrambi, rifiutano di partecipare alla vita politica del tempo.  E va qui ricordato che Tomasi rifiutò dopo una prima adesione, la carica di presidente regionale della C.R.I., proprio durante l'ultimo periodo bellico. Questa fu la sua unica esperienza politica, insieme alla giovanile partecipazione alla "grande guerra".  Eppure lo scrittore Lampedusa, attraverso il suo romanzo, che a distanza di cinquant'anni dalla sua uscita continua ad essere uno dei capolavori della narrativa italiana del secondo novecento, come è stato giustamente ribadito da Francesco Orlando, eterna un'epoca e il disfacimento totale di un'intera classe sociale attraverso il suo autobiografismo, che non scade mai nel memorialismo grazie al fatto che i suoi personaggi, come per l'appunto Don Fabrizio, non sono mai abbastanza realistici, senza per questo essere meno "veri", per irretire il racconto in uno schema narrativo di stampo verista, simbolista o ancor meno decadentista.  Il Gattopardo è un'opera moderna, senza per questo essere un romanzo epocale: forse in ritardo rispetto a certi modelli europei, cui comunque l'autore si rifà, Il Gattopardo è quanto di più squisitamente siciliano si possa immaginare. Anche l'anti-italianismo di Lampedusa che si traduceva nel rifiuto del melodramma, diventa un modo per affermare l'identità insulare dell'autore.  NoteModifica ^ Il cane Bendicò è la chiave del Gattopardo, su Repubblica.it, 9 novembre 2000. URL consultato il 15 marzo 2017. ^ Fabrizio Salina principe e gigante, su Repubblica.it, 30 novembre 1995. URL consultato il 15 marzo 2017. BibliografiaModifica Gioacchino Lanza Tomasi, G. Tomasi di Lampedusa. Una biografia per immagini, Palermo, Sellerio, 1999, ISBN 88-7681-113-3. Gioacchino Lanza Tomasi, I luoghi del gattopardo, Palermo, Sellerio, 2001, ISBN 88-7681-139-7. Francesco Orlando, Ricordo di Lampedusa, Torino, Bollati Boringhieri, 1996, ISBN 88-339-0982-4. Collegamenti esterniModifica ( EN ) Principe Fabrizio Salina, su Internet Movie Database, IMDb.com.   Portale Letteratura: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di letteratura Ultima modifica 2 mesi fa di Rojelio PAGINE CORRELATE Il Gattopardo romanzo scritto da Giuseppe Tomasi di Lampedusa  Villa Lampedusa Giulio Fabrizio Tomasi nobile italiano Lingua Segui Modifica Ulteriori informazioni Questa voce sull'argomento nobili italiani è solo un abbozzo. Contribuisci a migliorarla secondo le convenzioni di Wikipedia. Giulio Fabrizio Tomasi (Palermo, 12 aprile 1815 – Firenze, 1885) è stato un nobile italiano.  BiografiaModifica Giulio Fabrizio Maria Tomasi, appartenente alla famiglia Tomasi di Lampedusa, fu bisnonno di Giuseppe Tomasi di Lampedusa nonché la figura storica a cui lo scrittore si ispirò per il personaggio di Principe Fabrizio Salina, protagonista del romanzo Il Gattopardo.  Di lui sappiamo relativamente poco e la sua figura storica è ricostruibile principalmente da quanto riferito dallo stesso scrittore e da quanto rimane della sua biblioteca, oggi in parte conservata a Palermo, presso l'archivio privato della famiglia Lanza Tomasi.  Giulio Tomasi nacque a Palermo il 12 aprile 1813, erede di quella che era allora un'importante famiglia dell'aristocrazia siciliana: dal padre, Giuseppe Tomasi e Colonna, ereditò nel 1831 il titolo di Principe di Lampedusa e di Duca di Palma. Fu anche Grande di Spagna e sedette fra i Pari del Regno di Sicilia fino al 1848. Dalla madre, Carolina Wochinger, di origini tedesche, ereditò invece una certa attitudine teutonica al rigore intellettuale e allo scientismo illuminista settecentesco. Sposò Maria Stella Guccia e Vetrano, figlia del marchese di Ganzaria e zia del matematico Giovanni Battista Guccia, fondatore del Circolo Matematico di Palermo.[1]  Personaggio difficilmente catalogabile, Giulio Tomasi fu certamente un aristocratico dotato di una cultura e di una curiosità intellettuale superiori alla media, come dimostra la sua ricca biblioteca, dove troviamo testi di astronomia, matematica, geometria, meccanica e fisica, fra i quali preziosi esemplari della Meccanica Analitica di Joseph-Louis Lagrange e uno dei primissimi volumi stampati del celebre Kosmos di Alexander von Humboldt. Totalmente autodidatta, Giulio Tomasi fu un astronomo dilettante, ma che riuscì ad ottenere "sufficienti riconoscimenti pubblici e gustosissime gioie private" (Il Gattopardo, pag. 25) come ne ebbe a ricordare il pronipote scrittore.[2]  Sappiamo che nel 1853 creò un proprio osservatorio astronomico, in una sua villa nella Piana dei Colli, a nord di Palermo: conosciuta come Villa Lampedusa, per questa innovazione era all'epoca nota soprattutto come "Osservatorio ai Colli del Principe di Lampedusa". Alla sua morte, avvenuta a Firenze nel 1885, l'Osservatorio ai Colli fu frazionato fra gli eredi e la strumentazione astronomica venduta.  NoteModifica ^ Benedetto Bongiorno, Guillermo P. Curbera, Giovanni Battista Guccia, Pioneer of International Cooperation in Mathematics, Springer, Heidelberg 2018. ^ Il Gattopardo tra gli astri Controllo di autoritàVIAF ( EN ) 81387616 · CERL cnp01165159 ·WorldCat Identities ( EN ) viaf-81387616   Portale Astronomia   Portale Biografie   Portale Letteratura Ultima modifica 9 mesi fa di 5.170.225.93 PAGINE CORRELATE Principe Fabrizio Salina protagonista del romanzo Il Gattopardo  Tomasi di Lampedusa (famiglia) famiglia aristocratica italiana  Villa Lampedusa Villa Lampedusa Lingua Segui Modifica Ulteriori informazioni Questa voce o sezione sull'argomento ville d'Italia non cita le fonti necessarie o quelle presenti sono insufficienti. Ulteriori informazioni Questa voce sugli argomenti ville della Sicilia e architetture di Palermo è solo un abbozzo. Contribuisci a migliorarla secondo le convenzioni di Wikipedia. Villa Lampedusa Localizzazione StatoItalia Italia RegioneSicilia LocalitàPalermo Coordinate38°09′45.72″N 13°19′44.04″E Informazioni generali CondizioniIn uso Villa Lampedusa è una villa che si trova a Palermo, costruita come residenza suburbana all'epoca di Ferdinando IV di Borbone, che aveva una residenza estiva, la cosiddetta Casina Cinese, nei pressi della quale la nobiltà siciliana costruiva le proprie ville di campagna. All'inizio del XVIII secolo venne fatta edificare da don Isidoro Terrasi, nel 1756 vennero effettuati alcuni lavori di ristrutturazione su progetto di Giovanni Del Frago, architetto. Degne di note le decorazione eseguite da Gaspare Fumagalli. La villa appartenne poi ai Principi Alliata di Villafranca ed infine ai Tomasi di Lampedusa.  All'epoca del romanzo Il Gattopardo era più noto come "Osservatorio ai Colli del Principe di Lampedusa" dall'attività prediletta dell'allora proprietario, Giulio Fabrizio Tomasi, bisnonno di Giuseppe Tomasi di Lampedusa e figura storica a cui lo scrittore si ispirò per il personaggio di Principe Fabrizio Salina, protagonista del romanzo Il Gattopardo. Appariva come una costruzione a due piani, alle spalle del corpo principale della villa; il primo piano costituiva probabilmente lo studio, mentre il secondo, con la copertura a cupola, la specola vera e propria. Alcuni degli strumenti in uso del principe sono oggi conservati presso il Museo dell'Osservatorio astronomico di Palermo. Fra questi i più rilevanti sono il telescopio azimutale Merz, il telescopio equatoriale di Lerebours & Secretan e il telescopio altazimutale di Worthington.[1][2] Alla sua morte, avvenuta nel 1885, l'Osservatorio ai Colli fu frazionato fra gli eredi e la strumentazione astronomica venduta.  Oggi all'interno della proprietà, sono ospitate delle attività commerciali.  All'interno del Baglio della foresteria di Villa Lampedusa si trova una struttura alberghiera Villa Lampedusa Hotel & Residence [3] gestita dal Gruppo Guccione.  Nelle Antiche Scuderie invece, oggi viene svolta un'attività di ristorazione dai fratelli Cottone, con il loro Ristorante Pizzerie La Braciera in Villa[4].  NoteModifica ^ L'Attività astronomica di Giulio Fabrizio Tomasi, Principe di Lampedusa ^ Indice Strumenti ^ Villa Lampedusa – Hotel and Residence, su hotelvillalampedusa.it. URL consultato l'11 giugno 2021. ^ Villa Lampedusa, su La Braciera. URL consultato l'11 giugno 2021. Collegamenti esterniModifica scheda su un sito del turismo a Palermo, su palermoweb.com. storia della proprietà attuale, su hotelvillalampedusa.it. informazioni sul restauro, su mobilitapalermo.org.   Portale Architettura   Portale Palermo Ultima modifica 6 mesi fa di 5.91.251.38 PAGINE CORRELATE Principe Fabrizio Salina protagonista del romanzo Il Gattopardo  Giulio Fabrizio Tomasi nobile italiano Palazzo Lanza Tomasi Lingua Segui Modifica Palazzo Lanza Tomasi Palermo 0421 2013.jpg Facciata Localizzazione StatoItalia Italia RegioneSicilia LocalitàPalermo IndirizzoKalsa, Mura delle Cattive Coordinate38°07′04.5″N 13°22′18.52″E Informazioni generali CondizioniIn uso CostruzioneXVII secolo Usoprivato Il Palazzo Lanza Tomasi di Lampedusa è un edificio patrizio del XVII secolo, ubicato sulle Mura delle Cattive e affacciato sul Foro Italico, lungomare di Palermo.[1]   Panoramica. StoriaModifica Epoca spagnolaModifica L'edificio - altrimenti definito Palazzo Lampedusa alla Marina, con accesso in via Butera - sorge nel quartiere Kalsa, la cittadella eletta degli Emiri, adiacente all'Hotel Trinacria. L'attuale costruzione fu edificata alla fine del Seicento sui bastioni spagnoli, fortificazioni erette a difesa degli attacchi e delle incursioni perpetrati da ciurme pirata o corsare, nel contesto storico in cui imperava il bisogno primario di assicurarsi la supremazia navale nel Mediterraneo.  Dopo la vittoriosa impresa di Tunisi nel 1535, Carlo V d'Asburgo predispose la costruzione di nuovi bastioni per la difesa della città. Dopo il transito dell'imperatore in molte località dell'isola, i viceré di Sicilia Ferrante I Gonzaga prima, e Giovanni Vega poi, gestirono imponenti cantieri di fortificazioni alla moderna. La Marina era protetta a nord dal Forte di Castellamare, a sud dal bastione di Vega, e fra i due fu eretto il bastione del Tuono.[2] In prossimità delle mura la zona era densamente militarizzata e soltanto nella seconda metà del Seicento si cominciarono ad edificare i palazzi a ridosso delle mura. Il bastione del Tuono fu demolito attorno al 1720, quello di Vega sul finire del secolo.  I primi edifici furono il palazzo Branciforte di Butera[1][3] e la chiesa di San Mattia Apostolo con l'aggregato noviziato dei Crociferi.[1][4] I Brancifortefurono i proprietari dell'intera cortina muraria da Porta Felice al bastione del Tuono. Gli edifici a ridosso del bastione furono ceduti ai Gravina[5] e da questi affittati ai Padri Teatini che li adibirono a Collegio Imperiale per l'educazione dei nobili.[6]  Il Collegio fu chiuso nel 1768 e il palazzo fu acquistato da Giuseppe Amato, principe di Galati. Questi intervenne unificando in un unico prospetto di stile vanvitelliano la facciata sul mare, formata da dieci finestre con terrazza.  Epoca unitariaModifica Nel 1849 il principe Giulio Fabrizio Tomasi di Lampedusa, astronomo dilettante, lo acquistò con l'indennizzo versatogli dalla corona per l'espropriazione dell'isola di Lampedusa.  Gli armatori De Pace acquistarono metà del palazzo nel 1862 e lo trasformarono secondo il gusto del tempo, realizzando il grande scalone d'ingresso e il parquet a doghe di ciliegio e noce per la Sala da ballo. Il manufatto marmoreo, come tanti altri elementi d'arredo, proviene dal convento delle Stimmate, abbattuto in seguito alla costruzione del Teatro Massimo Vittorio Emanuele.  Epoca contemporaneaModifica Nel 1948 Giuseppe Tomasi di Lampedusa, dopo la perdita del palazzo di famiglia nei bombardamenti del 22 marzo e del 5 aprile 1943, ricomprò la proprietà dai De Pace e vi risiederà fino alla morte, avvenuta nel 1957.  Oggi è residenza del musicologo Gioacchino Lanza Tomasi e della consorte duchessa Nicoletta Polo Lanza Tomasi. Il figlio adottivo dello scrittore ha riunificato l'intera proprietà e compiuto un completo restauro dell'edificio.  L'ultimo piano è sede della struttura ricettiva Butera 28 Apartments.  StileModifica Prospetto verso la marina con dodici finestre e terrazza, quest'ultima un vero e proprio giardino pensile con fonte, ricco di essenze mediterranee e subtropicali.   La costruzione presenta quattro livelli, di cui tre elevazioni oltre il pianoterra su via Butera. Il solo piano nobile sul fronte mare.  Piano nobile del palazzo costituisce in gran parte la casa museo dello scrittore: Biblioteca storica di Giuseppe Tomasi di Lampedusa.[7] Nell'ambiente sono presenti due grandi bocce di Caltagirone del primo Settecento, sulla parete sopra il caminetto, un San Girolamo, opera di Jacopo Palma il Giovane. Sala da ballo, ambiente in cui sono esposti tutti i suoi manoscritti: il manoscritto completo de Il Gattopardo, quello della quarta parte del romanzo contenente una pagina che con compare nella pubblicazione, il dattiloscritto, i manoscritti della Lezioni di Letteratura Francese e Inglese e dei Racconti, una prima stesura de La Sirena. Nella sala è presente un piccolo quadro di Domenico Provenzani raffigurante la famiglia del "Duca Santo" Giulio Tomasi di Lampedusa. Scalone monumentale[7] in marmo. Tra gli ambienti che raccorda si trovano: Sala delle Conferenze: ambiente con soffitto affrescato ed una splendida collezione di ventagli francesi del Settecento; Sala del Mediterraneo, l'ambiente ospita una collezione di carte nautiche redatte dalla Marina Inglese nel 1870, di proprietà del nonno di Gioacchino Lanza Tomasi; Museo della famiglia Tomasi di Lampedusa; Sale di ingresso[7] e un secondo scalone. OpereModifica I restanti arredi del piano nobile provengono da Palazzo Lanza di Mazzarino. Tra questi uno tavolo in marmo intagliato della metà del Cinquecento, originariamente nella Villa Palagonia, due rari cassettoni siciliani in ebano e avorio del primo Settecento, due lampadari a gabbia di Murano modello Rezzonico e uno centrale di epoca Luigi XVI. Quadri di Pietro Novelli, Antonio Catalano, Federico Barocci. Opere moderne come bozzetti di Robert Wilson (regista), Arnaldo Pomodoro e Mimmo Paladino, oltre a due ritratti a penna di Pablo Picasso risalenti al 1910, raffiguranti la marchesa Anita, nonna di Gioacchino.  NoteModifica ^ a b c Gaspare Palermo Volume quinto, pp. 15. ^ Gaspare Palermo Volume quinto, pp. 6 e 7. ^ Gaspare Palermo Volume secondo, pp. 358. ^ Gaspare Palermo Volume secondo, pp. 347. ^ Gaspare Palermo Volume secondo, pp. 305 e 306. ^ Pagine 355, 384, 453 3 454, Giovanni Evangelista Di Blasi, "Storia del regno di Sicilia" [1], Volume III, Palermo, Stamperia Orotea, 1847. ^ a b c Arredamento proveniente dal distrutto Palazzo Lampedusa e dal Palazzo Filangeri di Cutò di Santa Margherita di Belice, la residenza estiva dei Filangeri di Cutò, la famiglia materna dello scrittore, distrutta dal terremoto della valle del Belice nel 1968. BibliografiaModifica Gaspare Palermo, "Guida istruttiva per potersi conoscere ... tutte le magnificenze ... della Città di Palermo", Volume II, Palermo, Reale Stamperia, 1816. Gaspare Palermo, "Guida istruttiva per potersi conoscere ... tutte le magnificenze ... della Città di Palermo", Volume V, Palermo, Reale Stamperia, 1816. Voci correlateModifica Alcuni riferimenti al presente non sono più esistenti oppure risultano modificati o ricostruiti con tecniche moderne.  A Palermo:  Bar pasticceria Mazzara; Caffè Caflish; Pasticceria del Massimo; Casa del critico musicale Bebbuzzo Sgadari di Lo Monaco, in corso Scinà; Palazzo Lampedusa, distrutto nel bombardamento aereo del 5 aprile del 1943, oggi parzialmente ricostruito da privati con la primitiva denominazione di Casa Lampedusa; Tomba di Giuseppe Tomasi di Lampedusa nel cimitero dei Cappuccini. Per la trasposizione cinematografica de Il Gattopardo:   Palazzo Valguarnera Gangi, Quartiere Kalsa; Villa Boscogrande. Santa Margherita Belice:  Palazzo Filangeri di Cutò o Palazzo Gattopardo: è un edificio costruito nel XVII secolo, ma danneggiato dal terremoto del 1968. Nelle immediate adiacenze è ubicato il Parco del Gattopardo. Palma di Montechiaro:  Chiesa di Maria Santissima del Rosario: la chiesa madre citata più volte, in particolare all'arrivo della famiglia Salina a Donnafugata. Monastero delle Benedettine. Alcuni luoghi cari ispirarono Giuseppe Tomasi di Lampedusa nelle ambientazioni e nella stesura del manoscritto.  Bagheria, con Palazzo Cutò; Capo d'Orlando, con Villa Piccolo; Ficarra con Casa Gullà, presso l'abitazione esiste tuttora una lapide a ricordo, (luglio - ottobre 1943), ove tra i tanti angoli suggestivi e scene di vita ficarrese trovò fonte di ispirazione nella creazione del romanzo Il Gattopardo, in particolare del personaggio del "campiere". Altri progettiModifica Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Palazzo Lanza Tomasi   Portale Architettura   Portale Arte   Portale Palermo Ultima modifica 4 mesi fa di Asiabam PAGINE CORRELATE Palazzo Mirto palazzo storico di Palermo  Giuseppe Tomasi di Lampedusa scrittore italianoVittorio Frosini. Frosini. Keywords: gattopardo, interpretazioni filosofiche del gattopardo, Gramsci, riduzione teatrale, Visconti, la rivoluzione perduta, l’ordine morale, l’ordine legale, Hart, diritto naturale, diritto artificiale, filosofia del diritto, fascismo, risorgimento.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Frosini” – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51759338733/in/dateposted-public

 

Grice e Fusaro – idealismo e prassi – filosofia italiana – Luigi Speranza (Torino). Filosofo. Grice: “I like Fusaro – he philosophised on a critique of conversational reason!” Diplomato al liceo Alfieri di Torino, si laurea con “Marx” a Torino. Studia a Milano. Insegna Gramsci a Harvard. Insegna a Milano.  Cura “La ragion populista” su Casa Pound. Membro del Risorgimento Meridionale per l'Italia. Fonda Vox Italia.  Si considera allievo di Hegel e Marx. Tra gli italiani predilige Gramsci e Gentile. Tra i moderni cita Spinoza, Fichte e Heidegger, con un'attenzione costante per le origini romani della filosofia. Si occupa inoltre di storia della filosofia. Tra gli filosofi studiati ci sono Koselleck, Blumenberg, oltre ai già citati Marx, Hegel, Gramsci, Gentile, Spinoza e Fichte.  Tratta Marx nell'ottica dell'idealismo, accostando alla critica del sistema capitalistico elementi dalla tradizione del comunitarismo e del sovranismo. Segue le orme di Preve. Altre opere: “Speranza: un saggio filosofico” (Il Prato); “La farmacia di Epicuro: la filosofia come terapia” (Il Prato). “L’atomismo di Lucrezio: alle radici del materialismo” (Il Prato); “La schiavitù salariata” (Il Prato); “Bentornato Marx! Rinascita di un pensiero rivoluzionario” – cfr. “Bentornato Grice! Rinascita della prammatica” (Bompiani); “Essere senza tempo: il concetto filosofico d’accelerazione” (Bompiani); “Minima mercatalia: il capitalismo” (Bompiani); “L'orizzonte in movimento. Modernità e futuro in Koselleck, Il Mulino); Coraggio, Cortina); “Idealismo e prassi in Gentile” (Il Melangolo); “Rivolta, dissidenza, scissione” (Barney); “Il futuro è nostro: filosofia dell'azione” (Bompiani); “Stato commerciale chiuso” (Il Melangolo); “Essere-nel-mondo e passione” (Feltrinelli); “Europa e capitalismo. Per riaprire il futuro” (Mimesis); “Peccato nei Grundzüge” (Il Melangolo); “Altrimenti: il dissenso conversazionale” Einaudi, “Coscienza del precariato” Bompiani “L’ordine dell’amore” (Rizzoli); Processo alla Rivoluzione (Il Ponte Vecchio); “Marx idealista: una lettura eretica del materialismo storico” Mimesis); “La notte del mondo: arte e technica in Heidegger” tecnocapitalismo, POMBA, Glebalizzazione. La lotta di classe al tempo del populismo” (Rizzoli); “Il naturalismo di Lucrezio” (Bompiani, Marx); “Il Lavoro salariato e capitale, Bompiani, Marx, Forme di produzione pre-capitalistiche, Bompiani,  Marx Friedrich Engels, Manifesto e princìpi del comunismo, Bompiani, Marx Friedrich Engels, Ideologia” Bompiani, Johann Gottlieb Fichte, “Missione del dotto, Bompiani); “L’epicureismo romano – piacere” AlboVersorio, ESE, su uniese. Arriva al Teatro GiordanoFoggia ZON, in Foggia ZON Curriculum Harvard, Department of Romance Languages, Rai Filosofia, Diego Fusaro presenta Filosofico.net, su Il  di RAI Cultura dedicato alla filosofia. Diego Fusaro, Il Fatto Quotidiano, su Il Fatto Quotidiano. 17 febbraio.  Diego FusaroL'Interesse Nazionale, su diegofusaro.com.  Passa dal marxismo 2.0 alla rivista più vicina ai cattolici conservatori di CL, in Giornalettismo, Chiude Tempi, licenziamento immediato per redazione e dipendenti, in L’Huffington Post, La conversione del filosofo comunista: scriverà per la rivista di estrema destra, su libero quotidiano, Author at Radio Radio, su Radio Radio. 14 marzo.  Perché le turbo-stupidaggini di Fusaro non fanno ridere ma sono pericolose, su The Vision, Gioia Tauro risultati elezioni comunali, su corriere. Foligno, ecco l’eventuale giunta M5s: Assessore in pectore alla cultura, su umbria Comunali Area ITALIA Regione UMBRIA Provincia PERUGIA Comune FOLIGNO, elezionistorico,  "Valori di destra, idee di sinistra". Fusaro a bomba: nuovo movimento ultra-sovranista, è l'anti-Salvini?, su libero quotidiano. Il filosofo che difende il governo del cambiamento. E sogna la guerra tra popolo ed élite, in Tiscali Notizie, Fusaro, Il capitale: un trionfo dell'idealismo tedesco, Consorzio Festival filosofia, Il filosofo populista Panorama, in Panorama,  In memoria di Preve. Anti-europeismo Euro-scetticismo, Meridionalismo, protezionismo, questione meridionale Revisionismo del marxismo, revisionismo del Risorgimento, socialismo nazionale, teoria del ferro di cavallo, sovranismo diegofusaro.com.  YouTube. openMLOL, HorizonsRadio Radicale.  Filosofico.net La filosofia e i suoi eroi.  Democrito comunitario democratico, in “Giornale Critico di Storia delle Idee”, n. 15/16 (2016). Maturità negata. Precarizzazione e de-eticizzazione del mondo della vita, in “Giornale Critico di Storia delle Idee”, n. 1 (2017). The Role of Aesthetics in Fichte’s Science of Knowledge, in “Polish Journal of Philosophy”, Volume 10, Issue 2, 2016, pp. 31-43. Fichte e la compiuta peccaminosità. Filosofia della storia e critica del presente nei “Grundzüge”, Il Nuovo Melangolo, Genova 2017. FUSARO D. (2016). Fichte and Gentile. Notes about the relationship between Transcendental Idealism and Actual Idealism. ÁGORA FILOSÓFICA, vol. 1; p. 4-22, ISSN: 1679-5385 FUSARO D. (2016). On Language and “Aufforderung” in Fichte. A Few Historiographical Notes. INFORMACIÓN FILOSÓFICA, vol. Vol 13; p. 5-19, ISSN: 1721-7709 FUSARO D. (2015). Dogmatismo e idealismo nello “Stato commerciale chiuso di Fichte”. POLITICA & SOCIETÀ; p. 275–296, ISSN: 2240-7901 FUSARO D. (2015). Fichte e la Rivoluzione francese. Note intorno a un dibattito storiografico. RIVISTA DI STORIA DELLA FILOSOFIA, vol. 3; p. 571-591, ISSN: 0393-2516 FUSARO D. (2015). Heidegger lettore di Marx. La metafisica marxiana come verità dell’idealismo. STUDI FILOSOFICI, vol. 1; p. 179-199, ISSN: 1124-1047 FUSARO D. (2015). Lineare Zeitauffassung. Temporalità e critica del dogmatismo nei Discorsi alla nazione tedesca di Fichte . LA CULTURA, vol. 2; p. 231-252, ISSN: 0393-1560 FUSARO D. (2015). Il “Sistema della Libertà”. La Filosofia Pratica di Fichte e la Lettura di Husserl. REVISTA PORTUGUESA DE FILOSOFIA, vol. 71; p. 26-37, ISSN: 0870-5283, doi: 10.17990/RPF/2015_71_1_0000 FUSARO D. (2015). Fichte, Marx e l’ontologia della prassi. TEORIA, vol. 2/2015; p. 25-49, ISSN: 1122-1259          FUSARO D. (2015). Ripensare l’Europa a partire da Edmund Husserl. In: vacchelli G e Patrizia G. Liberare l’Europa. Tra pensiero critico e nuove visioni. MILANO: Mimesis Edizioni, ISBN/ISSN: 9788857531274 FUSARO D. (2015). Riprendersi il futuro. Utopia, storia e possibilità. RINGIOVANIRE IL MONDO. UTOPIA E NOSTALGIA DEL FUTURO. p. 35-61, Saonara: Il Prato, ISBN/ISSN: 9788863362459 FUSARO D. (2015). Karl Marx. La verità come “questione pratica”. Filosofia, verità e politica. Questioni classiche. p. 166-181, ROMA: Carocci Editore, ISBN/ISSN: 9788843074556 FUSARO D. (2015). Antonio Gramsci. MILANO: Feltrinelli, vol. 2, ISBN: 9788807227011          FUSARO D., Tagliapietra A (a cura di) (2015). RINGIOVANIRE IL MONDO. UTOPIA E NOSTALGIA DEL FUTURO. SAONARA: Il Prato, ISBN: 9788863362459 FUSARO D. (2015). The Concept of ‘commercial anarchy’ in Fichte’s ‘The Closed Commercial State’. SERBIAN POLITICAL THOUGHT, vol. 10; p. 5-18, ISSN: 1450-5460 FUSARO D. (2015). L’Unione Europea tra rivoluzione passiva e questione meridionale. Note a partire da Gramsci. PHENOMENOLOGY AND MIND, vol. 8; p. 201-211, ISSN: 2280-7853, doi: http://dx.doi.org/10.13128/Phe_Mi-17746 FUSARO D. (2014). Dialettica storica e senso della possibilità. GIORNALE CRITICO DI STORIA DELLE IDEE, vol. 10; p. 49-59, ISSN: 2240-7995 FUSARO D. (2014). Il concetto di temporalità storica in Reinhart Koselleck. STORIOGRAFIA, vol. 13; p. 155-161, ISSN: 1128-2339 FUSARO D. (2014). Della critica conservatrice. Nuove forme di connivenza con l’insensatezza. LA SOCIETÀ DEGLI INDIVIDUI, vol. 49; p. 36-50, ISSN: 1590-7031 FUSARO D. (2014). Particolarismo e universalismo nei “Discorsi alla nazione tedesca” di Fichte. FILOSOFIA POLITICA; p. 227-246, ISSN: 0394-7297 FUSARO D. (2014). NOTES ON THE “END OF HISTORY” RE-THINKING THE PRESENT AS HISTORICITY. FACTA UNIVERSITATIS. SERIES: PHILOSOPHY, SOCIOLOGY, PSYCHOLOGY AND HISTORY, vol. 13; p. 9-12, ISSN: 1820-8495 FUSARO D. (2014). Apraxia ed eclissi del lavoro nel capitalismo assoluto. PARADIGMI, vol. 1; p. 75-88, ISSN: 1120-3404 FUSARO D. (2014). Il principio trasparenza: le «Confessioni» di Rousseau e i paradossi della sincerità. INTERSEZIONI; p. 403-422, ISSN: 0393-2451, doi: 10.1404/78090 FUSARO D. (2014). Idealismo pratico? Note sulla prima delle “Tesi su Feuerbach” di Marx . GIORNALE DI METAFISICA, vol. 2/2014; p. 432-452, ISSN: 0017-0372 FUSARO D. (2014). La costellazione dell’humanitas. Mercato, cittadinanza, comunità, libertà. Civitas Augescens. Includere e comparare nell’Europa di oggi. p. 159-173, FIRENZE: Olschki, ISBN/ISSN: 9788822263070 FUSARO D. (2014). Pensare la dissidenza nel tempo del conformismo globale. In: Fusaro D, Caputo S, Vitelli L. Pensiero in rivolta. Dissidenza e spirito di scissione. p. 9-30, Barbera Editore, ISBN/ISSN: 978-88-98693-12-2 FUSARO D. (2014). Storia e ideologia. L’odierna malattia antistorica. TEORIE DEL PENSIERO STORICO. p. 215-231, MILANO: Unicopli, ISBN/ISSN: 884001750X FUSARO D. (2014). Il “sistema della libertà” di Fichte. La dottrina della scienza come ontologia della prassi. Libero arbitrio. Teorie e prassi della libertà. p. 253-271, NAPOLI: Liguori Editore, ISBN/ISSN: 9788820753306 FUSARO D. (2014). Il futuro è nostro. Filosofia dell’azione. MILANO: Bompiani, vol. 509, ISBN: 9788845277177 FUSARO D. (2014). Fichte e l’anarchia del commercio. Genesi e sviluppo del concetto di “Stato commerciale chiuso”. GENOVA: Il Nuovo Melangolo, ISBN: 9788870189414 FUSARO D. (2013). J.G. Fichte, “Missione del dotto”. Milano: Bompiani, p. 1-478, ISBN: 8858757807 FUSARO D. (2013). Fichte e l’alienazione dell’Io. GIORNALE CRITICO DI STORIA DELLE IDEE, vol. 9; p. 89-106, ISSN: 2240-7995 FUSARO D. (2013). La compiuta peccaminosità. La critica della società capitalistica nei «Grundzüge» di Fichte. FILOSOFIA POLITICA, vol. 1; p. 97-116, ISSN: 0394-7297 FUSARO D. (2013). GRANDEZZE E LIMITI DI LESZEK NOWAK. Scienza, marxismo e metafisica. Leszek Nowak e la Scuola Metodologica di Poznan. p. 267-290, Villasanta: Limina Mentis editore, ISBN/ISSN: 978-88-95881-83-6 FUSARO D. (2013). Spettri della filosofia. Note sul rapporto tra Marx e Stirner. RIVISTA DI STORIA DELLA FILOSOFIA; p. 253-271, ISSN: 0393-2516, doi: 10.3280/SF2013-002003 FUSARO D. (2013). Idealismo e prassi. Fichte,Marx e Gentile. GENOVA: Il Nuovo Melangolo, vol. 210, ISBN: 9788870188899 FUSARO D. (2013). Come un solo corpo. Spinoza e l’ontologia dell’essere sociale. LA RAGIONE DELLA PAROLA RELIGIONE, ERMENEUTICA E LINGUAGGIO IN BARUCH SPINOZA. p. 259-294, SAONARA: Il Prato, ISBN/ISSN: 9788863361858 FUSARO D. (2013). Aporie e limiti della Begriffsgeschichte di Reinhart Koselleck. LA CULTURA, vol. 2; p. 319-338, ISSN: 0393-1560 FUSARO D. (a cura di) (2013). Il piacere di vivere. Di Epicuro., MILANO: Alboversorio, vol. 11, ISBN: 9788897553410 FUSARO D. (2012). Il tempo dei concetti. La riflessione filosofica di Reinhart Koselleck. GIORNALE CRITICO DI STORIA DELLE IDEE, vol. 8; p. 65-83, ISSN: 2240-7995 FUSARO D. (2012). La logica ideologica Vecchie e nuove legittimazioni del potere. LA SOCIETÀ DEGLI INDIVIDUI, vol. 1; p. 149-166, ISSN: 1590-7031, doi: 10.3280/LAS2012-043013 FUSARO D. (2012). L’orizzonte in movimento. Modernità e futuro in Reinhart Koselleck. BOLOGNA: Il Mulino, ISBN: 978-88-15-23703-3 FUSARO D. (2012). Per una filosofia del riconoscimento: a partire da Fichte. In: V. Cordero. LA LIBERTÀ COME RICONOSCIMENTO: TAYLOR INTERPRETE DI HEGEL. p. 5-23, SAONARA: Il Prato, ISBN/ISSN: 9788863361889 FUSARO D. (2012). Il paradosso di Democrito: inconciliabilità dell’etica con la fisica?. In: Giuseppe Solaro. Il mistero di Democrito. p. XIII-XXIX, ROMA: Aracne Editrice, ISBN/ISSN: 8854857246 FUSARO D. (2012). SENSIBILMENTE SOVRASENSIBILE. L’IDEOLOGIA DEL CAPITALE UMANO. IL LAVORO PERDUTO E RITROVATO. vol. 11, p. 111-125, Udine – Milano: EDIZIONI MIMESIS, ISBN/ISSN: 9788857512082 FUSARO D. (2012). Il progresso non garantito nella filosofia della storia di Kant. Storia, rivoluzione e tradizione. Studi in onore di Paolo Pastori (2 voll.). vol. I, p. 459-472, FIRENZE: Edizioni del Poligrafico Fiorentino, ISBN/ISSN: 978-88-902492-3-5 FUSARO D. (2012). Stato nazionale ed egemonia del politico sull’economico. Leadership futura. p. 166-173, Milano: Associazione Centro Studi BE, ISBN/ISSN: 9-788890-726606 FUSARO D. (2012). Ein Triumph der deutschen Wissenschaft: Marx idealista. Leggere Marx oggi. p. 41-48, SOVERIA MANNELLI: Rubbettino, ISBN/ISSN: 978-88-498-3412-3 FUSARO D. (2012). Coraggio. MILANO: Raffaello Cortina Editore, ISBN: 978-88-603-0467-4 FUSARO D. (2012). Apocalissi e metafisica dell’illimitatezza. In: A. Vergani. Apocalissi del capitalismo : considerazioni inattuali sul destino del mondo contemporaneo. p. 5-29, SAONARA: Il Prato, ISBN/ISSN: 978-88-633-6131-5 FUSARO D. (2012). Minima mercatalia. Filosofia e capitalismo. MILANO: Bompiani, ISBN: 978-88-452-7013-0 FUSARO D. (2012). Il realismo, fase suprema del postmodernismo? Note su “New Realism”, postmodernità e idealismo. KOINÉ; p. 57-73 FUSARO D. (2012). Senza inizio né fine. Monoteismo del mercato e metafisica dell’illimitatezza. GIORNALE CRITICO DI STORIA DELLE IDEE, vol. 7; p. 105-119, ISSN: 2240-7995 FUSARO D. (2011). Prolegomena to any future philosophy of history that will be able to present itself as a science. STORIA DELLA STORIOGRAFIA, vol. 59-60; p. 209-223, ISSN: 0392-8926 FUSARO D. (2011). La disobbedienza ragionata. Critica illuministica e Stato assoluto in Koselleck e Foucault . FILOSOFIA POLITICA; p. 449-468, ISSN: 0394-7297 FUSARO D. (2011). Come si fa la storia dei concetti? La proposta di Otto Brunner, tra storiografia e ideologia politica . HISTORIA MAGISTRA; p. 72-81, ISSN: 2036-4040 FUSARO D. (2011). I “Geschichtliche Grundbegriffe” di Brunner, Conze e Koselleck. Acquisizioni e novità teoriche. . RIVISTA DI STORIA DELLA FILOSOFIA; p. 249-266, ISSN: 0393-2516, doi: 10.3280/SF2011-002003 FUSARO D. (2011). L’aporia dello Stato in Fichte. L’egemonia della politica sull’economia come reazione all’epoca della compiuta peccaminosità. GIORNALE CRITICO DI STORIA DELLE IDEE, vol. 5, ISSN: 2035-732X FUSARO D. (2011). Ideologia tedesca. MILANO: Bompiani, p. 19-1692, ISBN: 978-88-452-6674-4 FUSARO D. (2011). Metafisica e reazione al disincanto postmoderno. In: A. Cusimano. Per una rifondazione della Metafisica. Critica della ragion postmoderna. p. 7-34, SAONARA: Il Prato FUSARO D. (2011). Quale comune? Per una critica del marxismo deleuziano di Toni Negri. KOINÉ, vol. 1-3; p. 55-71 FUSARO D. (2010). Modernità come supremazia dell’utile economico. GIORNALE CRITICO DI STORIA DELLE IDEE, vol. 2, ISSN: 2035-732X FUSARO D. (2010). Nietzsche tra eterno ritorno e tensione verso il futuro. Le aporie nella concezione nietzscheana del tempo. La passione della conoscenza. Studi in onore di Sossio Giametta. p. 185-227, LECCE: Pansa Multimedia FUSARO D. (2010). Salario, prezzo e profitto. MILANO: Bompiani, p. 5-521, ISBN: 978-88-452-6679-9 FUSARO D. (2010). Essere senza tempo. Accelerazione della storia e della vita. MILANO: Bompiani, ISBN: 978-88-452-6604-1 FUSARO D. (2010). Andrea Tagliapietra. Il dono del filosofo. Sul gesto originario della filosofia. AGALMA, vol. 19; p. 119-123, ISSN: 1723-0284 FUSARO D. (2010). Bibliografia di Così parlò Zarathustra. MILANO: Bompiani, p. 1165-1222, ISBN: 978-88-452-6492-4 FUSARO D. (2009). Bentornato Marx! Rinascita di un pensiero rivoluzionarioBompiani, ISBN: 978-88-452-6394-1 FUSARO D. (2009). Ancora una filosofia della storia?. In: L. Grecchi. Occidente: radici, essenza, futuro. p. 5-38, SAONARA: Il Prato, ISBN/ISSN: 978-88-633-6031-8 FUSARO D. (2009). Marx e l’infuturamento della filosofia della storia di Hegel. In: R. Mordacci. Prospettive di filosofia della storia. p. 147-168, Milano: Bruno Mondadori, ISBN/ISSN: 978-88-615-9346-6 FUSARO D. (2009). La gabbia d’acciaio: Max Weber e il capitalismo come destino. KOINÉ, vol. 1-3; p. 113-130 FUSARO D. (2009). Reinhart Koselleck nel dibattito storiografico e filosofico. TEORIA POLITICA; p. 89-105, ISSN: 0394-1248 FUSARO D. (2009). Forme di produzione precapitalistiche. MILANO: Bompiani, p. 5-333, ISBN: 978-88-452-6228-9 FUSARO D. (2009). Manifesto e princìpi del comunismo. MILANO: Bompiani, p. 5-440, ISBN: 978-88-452-6322-4 FUSARO D. (2008). Perché non può essere noioso lo studio di ciò che nasce dalla meraviglia. È veramente noiosa la storia della filosofia antica?. p. 117-141, SAONARA: Il Prato, ISBN/ISSN: 978-88-633-6011-0 FUSARO D. (2008). Lavoro salariato e capitale. MILANO: Bompiani, p. 6-256, ISBN: 978-88-452-6030-8 FUSARO D. (2008). La filosofia della storia di Herder: una prospettiva greco-centrica?. ARCHÉ, vol. VII; p. 15-32, ISSN: 2035-5564 FUSARO D. (2007). Presentazione, in C. Preve, Un’approssimazione al pensiero di Karl Marx. In: C. Preve. UN’APPROSSIMAZIONE AL PENSIERO DI KARL MARX TRA MATERIALISMO E IDEALISMO. p. 5-17, ISBN/ISSN: 978-88-89566-76-3 FUSARO D. (2007). Saggio introduttivo. In: Luciano di Samosata. Tutti gli scritti. p. 5-96, MILANO: Bompiani, ISBN/ISSN: 978-88-452-5895-4 FUSARO D. (2007). Marx e l’atomismo greco: alle radici del materialismo storico. SAONARA: Il Prato, ISBN: 978-88-89566-75-6 FUSARO D. (2007). Karl Marx e la schiavitù salariata: uno studio sul lato cattivo della storia. SAONARA: Il Prato, ISBN: 978-88-89566-77-0 FUSARO D. (2007). Bibliografia di Luciano di Samosata, Tutti gli scritti. MILANO: Bompiani, p. 2053-2072, ISBN: 978-88-452-5895-4 FUSARO D. (2007). Per una teoria del’arte in Marx. KOINÉ, vol. 1-3; p. 111-125 FUSARO D. (2007). Sulla questione ebraica. MILANO: Bompiani, p. 5-207, ISBN: 88-452-5807-6 FUSARO D. (2007). DEMOCRITEA COLLEGIT EMENDAVIT INTERPRETATUS EST SALOMO LURIA. In: S. Luria. DEMOCRITEA COLLEGIT EMENDAVIT INTERPRETATUS EST SALOMO LURIA. p. 16-900, MILANO: Bompiani, ISBN/ISSN: 88-452-5804-1 FUSARO D. (2006). La farmacia di Epicuro. La filosofia come terapia dell’anima. SAONARA: Il Prato, ISBN: 88-89566-45-0 FUSARO D. (2006). I Presocratici. In: Diels-Kranz. I presocratici : prima traduzione integrale con testi originali a fronte delle testimonianze e dei frammenti nella raccolta di Hermann Diels e Walther Kranz. p. 1187-1320, MILANO: Bompiani, ISBN/ISSN: 978-88-452-5740-7 FUSARO D. (2005). Filosofia e speranza. Ernst Bloch e Karl Löwith interpreti di Marx. SAONARA: Il Prato, ISBN: 88-89566-17-5 FUSARO D. (2004). Montaigne euretes del moderno. In: Michel de Montaigne. Apologia di Raymond Sebond. p. 5-73, MILANO: Bompiani, ISBN/ISSN: 88-452-1112-6 FUSARO D. (2004). Differenza fra la filosofia della natura di Democrito e quella di Epicuro. MILANO: Bompiani, p. 6-260, ISBN: 88-452-1363-3. glebalizazzione. Diego Fusaro. Fusaro. Keywords: idealism e prassi, Lucrezio, italianita, romanita, Gramsci, Gentile, arte, technica, filosofia della storia, peccato, italiano, italianita, evola, filosofia in eta antica, filosofia romana. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Fusaro: l’implicatura” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51701379488/in/photolist-2mQPiYS-2mN8ym7-2mLP9qE-2mLF5SC-2mKw3hq-2mKbok1-2mKfNvB-2mJe9QJ

 

Grice e Fuschi – filosofia italiana – Luigi Speranza (Cesena). Filosofo.  – Grice: “I like Fuschi, and so does Eco, Rota, and Carlini! Fuschi opposes Aquina’s truths and turns them into mistakes – since they involve things about the past – where the apostles kept property – it’s all pretty unverifiable, -- still Fuschi was thoroughly heretic!” – Grice: “Fuschi is the Italians’ Ockham!” --  Michele da Cesena   Affresco di Andrea di Buonaiuto nel Cappellone degli Spagnoli di Firenze. Al centro c'è papa Innocenzo VI; in primo piano, tre ecclesiastici che discutono: Guglielmo da Ockham, Michele da Cesena e l'arcivescovo di Pisa Simone Saltarelli. Rispettivamente alla destra e alla sinistra del papa vi sono Egidio Albornoz e Carlo IV di Lussemburgo. Di grande rilievo nelle vicende politiche ed ecclesiastiche, noto soprattutto per essere stato ministro generale dell'Ordine francescano.  Dopo avere studiato a Parigi, venne eletto alla più alta carica dell'Ordine francescano durante il capitolo generale tenuto a Napoli. Durante quel capitolo vennero anche approvate le rinnovate Costituzioni dell'Ordine, note (per essere state preparate da un gruppo di frati ad Assisi) come Constitutiones Assisienses. Si distinse subito per una decisa persecuzione nei confronti degli “spirituali, sostenitori dell'assoluta povertà di Gesù Cristo e della necessità di una altrettanto rigorosa povertà dell'ordine francescano. In questa opera di repressione, e appoggiato da Giovanni XXII. Con le lettere bollate Sancta Romana e Gloriosam Ecclesiam Giovanni XXII riprova e scomunicava tutti gli spirituali. Si voleva così chiudere il "caso" della frattura tra gli spirituali e il resto dell'Ordine francescano (la cosiddetta "comunità"), sospingendo i primi nell’eresia e nella marginalità. Incalzati dalla persecuzione, Ubertino da Casale e Angelo Clareno, i maggiori esponenti della corrente spirituale, dovettero lasciare l'Ordine. A Marsiglia, per la prima volta erano stati bruciati sul rogo quattro spirituali. Tuttavia, anche i rapporti tra Michele e Giovanni XXII si deteriorarono. Il papa, infatti, aveva riaperto il dibattito a proposito della povertà di Cristo, e finì per abolire (con la lettera bollata Inter nonnullos) la "finzione" giuridica, in vigore fin dal tempo di Niccolò III (regolamentata con lettera bollata Exiit qui seminat), secondo la quale i francescani non possedevano nulla né come singoli, né come conventi, né come Ordine, ma era la Santa Sede a detenere la proprietà di tutti i loro beni che poi venivano gestiti per mezzo di procuratori. Durante il capitolo di Perugia i Francescani difesero le loro tesi sulla povertà di Cristo e degli Apostoli, come singoli e in comune. Il manifesto francescano di Perugia (più precisamente, due lettere encicliche scritte dal Capitolo e indirizzate a tutti i frati) venne però condannato dal papa. Ormai lo scontro tra Fuschi e Giovanni XXII era irreversibile.  Il ministro generale venne convocato dal papa ad Avignone e sospeso dalla sua carica. Venne confermato dai Francescani alla carica di ministro generale nel capitolo di Bologna. Giovanni XXII gli impose una residenza forzata ad Avignone, ma fuggì con un piccolo gruppo di frati, tra i quali Occam e Bonagrazia da Bergamo. I fuggitivi si imbarcarono nel porto di Aigues-Mortes e raggiunsero a Pisa il campo di Ludovico il aro, candidato al trono del Sacro Romano Impero.  Il papa depose Fuschi dal suo ruolo di ministro generale con la lettera bollata Cum Michaël de Caesena. Con la lettera bollata Dudum ad nostri, Fuschi, Occam, e venivano scomunicati. Tale condanna venne rinnovata con la lettera bollata Quia vir reprobus Michaël de Caesena.  Durante il capitolo generale convocato a Parigi venne eletto ministro generale Oddone. Una parte comunque minoritaria dell'ordine francescano rimase fedele a Fuschi, rifiutando di riconoscere l'autorità d’Oddone e del papa stesso, ritenuto eretico e quindi ipso facto decaduto (nel suo scontro con il papa per la successione al trono imperiale, Ludovico il aro face eleggere papa Rainalducci da Corbara con il nome di Niccolò V. Esponente, con Occam e Marsilio da Padova, del gruppo di intellettuali schierati sul fronte ghibellino e protetti da Ludovico il aro, Fuschi visse alla corte. Nomina Occam suo successore e vicario, affidandogli il sigillo dell'Ordine che era ancora in suo possesso.  M. Niccoli nella Enciclopedia Italiana, », C. Dolcini nel Dizionario Biografico degli Italiani riporta. L’ultimo appello di M. fu pubblicato a Monaco e non si hanno notizie su di lui. Altre opere: “Appellatio monacensis, Armando Carlini, Fra Michelino e la sua eresia, prefazione di Renato Serra, Bologna, Nicola Zanichelli, Cattività avignonese Disputa sulla povertà apostolica, “Il nome della rosa”; Ordine francescano Riforma spirituale medioevale. TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Dizionario biografico degli italiani,  Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,. Michele da Cesena e michelisti, -- michelismo e tomismo -- la voce nel Dizionario del pensiero cristiano alternativo, sito Eresie Medioevo ereticale: la disputa sulla povertà, su mondi medievali.net. Predecessore Ministro generale dell'Ordine dei Frati MinoriSuccessoreFrancescocoa.png Alessandro Bonini Gerardo Odonis Francescanesimo Disputa sulla povertà apostolica Filosofia.  L'eresia è una dottrina considerata come deviante dall'ortodossia religiosa alla cui tradizione si collega, come storicamente quella cattolica.[1] Il termine viene utilizzato anche fuori dall'ambito religioso, in senso figurato, per indicare un'opinione o una dottrina filosofica, politica, scientifica o persino artistica in disaccordo con quelle generalmente accettate come autorevoli.   Galileo Galilei condannato per eresia Etimologia, origine e sviluppi del termine                                                Modifica  Goya: Il tribunale dell'Inquisizione "Eresia" deriva dal greco αἵρεσις, haìresis derivato a sua volta dal verbo αἱρέω (hairèō, "afferrare", "prendere" ma anche "scegliere" o "eleggere"). In tale ambito indicava anche delle scuole come quella dei Pitagorici o quella degli Stoici.  In ambito cristiano, il termine "Eresia", assente nei vangeli canonici, compare negli Atti degli apostoli(5:17, in origine dunque eretico, era colui che sceglieva, colui che era in grado di valutare più opzioni prima di, cfr. Atti, 24:5, 24:14, 26:5, 28:22) per indicare varie scuole (o sette) come quelle dei Sadducei, Cristiani e Farisei. Sia in greco antico sia in ebraico ellenizzato questo termine non possedeva, originariamente, alcuna caratteristica denigratoria.  Con le Lettere del Nuovo Testamento tale neutralità del termine viene meno: in 1 Corinzi 11:19, Galati 5:20, 2 Pietro 2:1, haìresis inizia ad assumere dei connotati dispregiativi e ad indicare la "separazione", la "divisione" e la rispettiva condanna.[2] Secondo Heinrich Schlier lo sviluppo in negativo di hairesisprocede con l'analogo sviluppo del termine ekklesia: haìresis ed ekklesia divengono due opposti.[3]  Secondo Alain Le Boulluec, fu Giustino (100-162) il primo apologeta ad utilizzare sistematicamente il termine "eresia" per combattere le correnti cristiane considerate devianti.[4]  In ambito ebraico si evidenzia un processo analogo: sempre nel I secolo d.C. (in corrispondenza con l'emergere dell'ebraismo rabbinico ortodosso) il termine ebraico min (מִין, pl. מִינִים , minim; corrispettivo del greco haìresis) assume dei connotati dispregiativi e viene utilizzato per indicare sia i cristiani che gli gnostici.  Il termine da un significato neutro assume in un secondo momento un valore negativo e passa ad indicare una dottrina o un'affermazione contraria ai dogmi e ai princìpi di una determinata religione, sovente oggetto di "condanna" o scomunica da parte dei rappresentanti della stessa. Nel caso della Chiesa cattolica, ad esempio, sono previsti appositi sinodi per stabilire quali siano le deviazioni dall'ortodossia e la Congregazione per la Dottrina della Fede (erede della Congregazione della sacra romana e universale Inquisizione) per individuare coloro che vengono considerati "colpevoli di eresia" (ovvero gli eretici).  Fuori dall'ambito religioso il termine viene utilizzato in senso figurato per indicare un'opinione o una dottrina filosofica, politica, scientifica o persino artistica in disaccordo con quelle generalmente accettate come autorevoli.  Eretico è dunque chi proclama con forza una propria scelta definitiva: "eresia" può pertanto equivalere ad una scelta sia di credo sia di appartenenza tra fazionireligiose contrapposte. Un'altra possibile interpretazione, legata al significato di "scelta", richiama il fatto che l'eretico è colui che "sceglie", cioè accetta, solo una parte della dottrina "ortodossa", rimanendo in disaccordo su altre parti. Nel registro informale, il termine viene però usato per indicare un'opinione gravemente errata o comunque discordante dalla tesi più accreditata riguardo ad un certo argomento.  In origine il termine, utilizzato da scrittori ellenistici, indicava una fazione o una setta religiosa, senza connotazioni negative. Già nel Nuovo Testamento il termine assume un significato negativo e in questo senso venne utilizzato da padri della Chiesa e scrittori ecclesiastici. Ad esempio il termine venne ampiamente impiegato da Ireneo nel suo trattato Contra haeresis(Contro le eresie) per contrastare i suoi oppositori nella Chiesa. Egli descrisse le sue posizioni come ortodosse (dal greco ortho- "retta" e doxa "opinione") in contrapposizione con quelle "eretiche" dei suoi avversari.  Ovviamente, nell'accezione negativa, il termine eresia può essere visto come reciproco: pochi sarebbero disposti a definire le proprie credenze come eretiche, ma piuttosto a presentarle come l'interpretazione corretta di una determinata dottrina, e quindi come la visione ortodossa giudicata eretica da altri. Ciò che costituisce eresia è un giudizio dato in funzione dei propri valori; si tratta dell'espressione di un punto di vista relativo ad una consolidata struttura di credenze. Per esempio, i cattolici vedevano nel protestantesimoun'eresia mentre i non cattolici consideravano il cattolicesimo stesso come la grande apostasia.  Nell'ambito del cristianesimo si tende a fare una distinzione fra eresia e scisma: quest'ultimo comporta un distacco dalla chiesa ortodossa, considerata conforme alle regole date, senza "perversioni nel dogma" (secondo la definizione di San Girolamo)[5], anche se, secondo alcuni teologi cattolici, lo scisma inveterato finisce per assumere anche caratteristiche dottrinali [6].  Cattolicesimo                                                    Modifica  Sassetta: Rogo di un eretico «Sotto il profilo giuridico-ecclesiastico, eretico è definito colui che, dopo il battesimo, e conservando il nome di Cristiano, ostinatamente si rifiuta o pone in dubbio una delle verità che nella fede divina e cattolica si devono credere»  (Karl Rahner, Che cos'è l'eresia?, Brescia, Paideia, 2000, p 29) Varie opere dell'apologeta e scrittore cristiano Tertulliano sono dirette contro gli eretici e le rispettive eresie: Marcione, Valentino, Prassea.  Il Padre della Chiesa Agostino d'Ippona rivolse la sua polemica principalmente contro i manichei, i donatistie i pelagiani.  In un decreto successivo alla vittoria su Licinio e al Concilio di Nicea I, Costantino condannò le dottrine degli eretici (Novaziani, Valentiniani, Marcioniti, Paulianisti e Catafrigi).  Blaise Pascal in Pensieri si sofferma più volte sul tema delle eresie[7]. Nel frammento 862[8] scrive [9]:  «[...] Dunque esiste un gran numero di verità, sia di fede che di morale, che sembrano incompatibili e che sussistono tutte in un ordine meraviglioso. La sorgente di tutte le eresie è l'esclusione di alcune di queste verità, e la sorgente di tutte le obiezioni che ci fanno gli eretici è l'ignoranza di alcune delle nostre verità. E di solito accade che non potendo concepire il rapporto tra due verità opposte e credendo che l'accettazione di una comporti l'esclusione dell'altra, essi si attaccano all'una ed escludono l'altra, e pensano che noi facciamo il contrario. [...]»[10]  Gilbert Keith Chesterton così definisce l'eresia e l'eretico:  «L'eretico (che è anche sempre fanatico) non è colui che ama troppo la verità; nessuno può amare troppo la verità. Eretico è colui che ama la propria verità più della verità stessa. Preferisce, alla verità intera scoperta dell'umanità, la mezza verità che ha scoperto lui stesso. Non gli piace veder finire il suo piccolo, prezioso paradosso, che si regge solo coll'appoggio di una ventina di truismi, nel mucchio della sapienza di tutto il mondo»[11]  (Gilbert Keith Chesterton, L'Uomo Comune - La Nonna del Drago ed altre serissime storie)  «L'eresia è quella verità che trascura le altre verità. Solo la Chiesa cattolica è il luogo dove tutte le verità si danno appuntamento e riescono a convivere, pur se sempre minacciate di squilibrio»[12]  (Gilbert Keith Chesterton, Perché sono cattolico - Tommaso Moro)  «Un'eresia è sempre una mezza verità trasformata in un'intera falsità»[13]  (Gilbert Keith Chesterton, America, 9 Novembre 1935)  Un esempio di verità che trascura le altre verità ci è dato dalle tentazioni di Gesù descritte nei vangeli sinottici. Vincenzo di Lerino, nel suo Commonitorium, scrive che gli eretici usano le Scritture allo stesso modo di Satana, quando per tentare Gesù[14][15]:  «Lo condusse a Gerusalemme, lo pose sul punto più alto del tempio e gli disse: "Se tu sei Figlio di Dio, gettati giù di qui; sta scritto infatti:  Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo affinché essi ti custodiscano;  e anche:  Essi ti porteranno sulle loro mani perché il tuo piede non inciampi in una pietra".  Gesù gli rispose: "È stato detto: Non metterai alla prova il Signore Dio tuo"».[16]  Il Medioevo                                      Modifica Magnifying glass icon mgx2.svg                            Lo stesso argomento in dettaglio: Movimenti ereticali medievali. I moti di contestazione nei confronti della Chiesa, divampati nella prima metà del XII secolo, come quello dei patarini e quello degli arnaldisti, avevano dato l'indicazione della necessità di una riforma religiosa. Il movimento dei catari, che affiorò contemporaneamente in diversi punti d'Europa, ambiva alla creazione di una nuova Chiesa. Contro di loro papa Innocenzo III bandì nel 1208 una crociata di sterminio. Nel 1244, la caduta dell'ultima roccaforte di Montségur, nel sud della Francia, con il conseguente rogo di circa duecento catari, determinò la fine del catarismo.  Nel XIII secolo Tommaso d'Aquino nella Somma Teologica definirà l'eresia «una forma d'infedeltà» che corrompe la dottrina e porta turbamento nelle anime dei fedeli. Secondo Tommaso inoltre, e poi di conseguenza nell'ambito del cattolicesimo, si pongono alcune distinzioni fra i diversi gradi dell'eresia. Quando si tratta dell'opposizione diretta e immediata ad un dogma esplicitamente proposto dalla Chiesa si parla di dottrina eretica, mentre quando ci si oppone a una conclusione teologica o ad altri elementi derivati di una verità rivelata o ad una dottrina definibile, ma non ancora definita, si parla di proposizioni erronee, o che sanno di eresia, o prossime all'eresia.  Note                                  Modifica ^ Da notare che nella tradizione lessicograficaitaliana, il lemma "eresia" indica prevalentemente quelle dottrine contrarie ai dogmi della Chiesa cattolica. Così l'edizione del De Mauro datata 2004: «dottrina o affermazione contraria ai dogmi e ai principi della Chiesa cattolica»; così anche l'edizione 2004 del Devoto-Oli: «dottrina che si oppone direttamente e contraddittoriamente a una verità rivelata e proposta come tale dalla Chiesa cattolica»; così il vocabolario online della Treccani: «dottrina che si oppone a una verità rivelata e proposta come tale dalla Chiesa cattolica e, per estensione, alla teologia di qualsiasi chiesa o sistema religioso, considerati come ortodossi»; nell'edizione online del Grande Dizionario Italiano della Hoepli: «Nel cristianesimo, dottrina, palesemente dichiarata e sostenuta, che si oppone alla verità rivelata da Dio e affermata come tale dal linguaggio della Chiesa ‖ Insieme di interpretazioni personali, contrastanti con la tradizione, che possono svilupparsi nell'ambito di una religione basata su un sistema di dogmi ufficialmente riconosciuti». Tuttavia nel Vocabolario della Lingua italiana Zingarelli (edizione del 2010), nella prima definizione di questo lemma, esso acquisisce un significato ben più ampio: «Nelle religioni fondate su una dogmatica universalmente o ufficialmente riconosciuta, dottrina basata su interpretazioni personali in contrasto con la tradizione». ^ Schlier (1968) ^ Schlier,  op. cit., pp. 182–3. ^ Le Boulluec,  (2007), pp. 434-5. ^ Epistola ad Titum, Patrologia Latina, vol. 26, col. 598. ^ Agostino, Contra Cresconium, II, 7, 9 ^ Blaise Pascal, Pensieri e altri scritti, Milano, Mondadori, 2018, p. 630. ^ Frammento 862 secondo la numerazione Brunschvicg, 733 secondo la numerazione Lafuma, da Blaise Pascal, Pensieri e altri scritti, Mondadori, Milano, pp.131 e 140. ^ ( FR ) Pensées sur la religion et sur quelques autres sujets ( PDF ), su ub.uni-freiburg.de, pp. 131. ^ Blaise Pascal, Pensieri e altri scritti, Milano, Mondadori, 2018, p. 553. ^ Aforismi sulla verità e sulle virtù raccolti e commentati da Paolo Gulisano ( PDF ), su www.chesterton.it. ^ Vittorio Messori con Michele Brambilla, Qualche ragione per credere, Edizioni Ares, 2008, p. 60. ^ Gilbert Keith Chesterton, Summa Chestertheologica, Casa Editrice Guerrino Leardini & Centro Missionario Francescano Società Chestertoniana Italiana, 2020, p. 135. ^ Vincentius of Lerins, XXVI, in The Commonitorium of Vincentius of Lerins, Cambridge, Cambridge University Press, 1915, pp. 107-109. «Heretics use Scripture in the same way as Satan did in the Temptation of our Lord, and they lure the incautious to join them by claiming special grace and privileges for their followers.» ^ San Lorenzo da Brindisi, Lutero - Volume secondo, Siena, Ezio Cantagalli, 1933, pp. 181-182. «Insegna il medesimo Lirinense che gli eretici, nel portare le testimonianze della Divina Scrittura, imitano il demonio, che messo il Signore sopra la più alta guglia del tempio, gli disse: «Se tu sei il Figlio di Dio, buttati giù: poichè sta scritto che Dio ha comandato ai suoi Angeli ecc...».» ^ Luca 4,18, su bibbiaedu.it. Bibliografia   Modifica Irene Bueno, Le eresie medievali, Ediesse, 2013. Delio Cantimori, Eretici italiani del cinquecento - Ricerche storiche, Sansoni Editore Nuova, Firenze 1977 Cesare Cantù, Gli eretici d'Italia. Discorsi storici, Torino, Unione Tip., 1865-66, 3 voll. Carlo Fornari, Frati, antipapi ed eretici parmensi protagonisti delle lotte religiose medievali, Silva Editore, 1994. Barbara Garofani, Le eresie medievali, Roma, Carocci, 2008. Alain Le Boulluec, La notion d'hérésie dans la littérature grecque, IIe-IIIe siècles, Vol. 1: De Justin à Irénée, Vol. 2: Clément d'Alexandrie et Origène, Parigi, Etudes Augustiniennes, 1985. Alain Le Boulluec, Ellenismo e cristianesimo, in Il sapere greco, II, Torino, Einaudi, 2007. Giovanni Merlo, Eretici ed Eresie medievali, Bologna, Il Mulino, 1989. René Nelli, La vie quotidienne des Cathares du Languedoc au XIII siècle, Paris, Hachette, 1969. Mauro Orletti, Piccola storia delle eresie, Quodlibet, 2014. ISBN 9788874625963 Romolo Perrotta, Hairéseis. Gruppi, movimenti e fazioni del giudaismo antico e del cristianesimo da Filone Alessandrino a Egesippo, Bologna, EDB, 2008. Giancaro Rinaldi, le fonti per lo studio delle eresie cristiane antiche, Trapani, Il Pozzo di Giacobbe, 2015. Robert M. Royalty, The Origin of Heresy: A History of Discourse in Second Temple Judaism and Early Christianity, New York, Routledge, 2013. Manlio Simonetti, Ortodossia ed eresia tra I e II secolo, Messina, Rubettino, 1994. Heinrich Schlier, αἵρεσις, in Gerhard Kittel (a cura di), Grande Lessico del Nuovo Testamento, I, Paideia, 1968. Geoffrey S. Smith, Guilt by Association: Heresy Catalogues in Early Christianity, New York, Oxford University Press, 2015. Michel Téron, Piccola enciclopedia delle eresie cristiane, Il Melangolo, 2008. Gioacchino Volpe, Movimenti religiosi e sette ereticali nella società medievale italiana, Roma, Donzelli, 2007   [1922] . Walter L. Wakefield, Austin P. Evans (eds.) Heresies of the High Middle Ages, New York, Columbia University Press, 1969 (raccolta di fonti scelte tradotte ed annotate). Stefano Zen, Tolleranza e repressione, in R. De Maio (a cura di), Le fonti della Storia moderna, Torino, Loescher, 1993, ISBN 88-201-0166-1. Catari                                  Modifica Anne Brenon, I Catari, storia e destino dei veri credenti (Le vrai visage du Catharisme), Firenze, Convivio, 1990. Jean Duvernoy, Le Catharisme. La religion, 1976. Jean Duvernoy, Le Catharisme. L'histoire, 1979. Francesco Zamboni (a cura di), La cena segreta: trattati e rituali catari, Adelphi 1997. Valdesi                      Modifica Carlo Papini, Valdo di Lione e i poveri nello spirito. il primo secolo del movimento valdese 1170/1270, edizioni Claudiana, 2002. Giorgio Tourn, I Valdesi, la singolare vicenda di un popolo chiesa, edizione Claudiana, 1993. Apostolici           Modifica Umberto Cocconi, La lebbra dell'anima. Gherardino Segalello e il movimento degli Apostolici a Parma, edizioni MUP, 2018. Dolciniani                Modifica Raniero Orioli (a cura di), Fra Dolcino: nascita, vita e morte di un'eresia medievale, Milano, Jaca Book, 2004. Voci correlate Modifica Begardi Dottrine cristologiche dei primi secoli Inquisizione Letture e interpretazioni della Bibbia Martiri di Guernsey Movimenti ereticali medievali Persone giustiziate per eresia Storia del Cristianesimo Successione apostolica Altri progetti       Modifica Collabora a Wikiquote Wikiquote contiene citazioni sull'eresia Collabora a Wikizionario Wikizionario contiene il lemma di dizionario «eresia» Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file sull'eresia Collegamenti esterni                                                 Modifica eresia, su Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su Wikidata Giuseppe De Luca, ERESIA, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1932. Modifica su Wikidata eresia, in Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2010. Modifica su Wikidata ( EN ) Eresia, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su Wikidata ( EN ) Eresia, in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton Company. Modifica su Wikidata "Dizionario di eresie, eretici, dissidenti religiosi", su eresie.com. URL consultato il 23 febbraio 2019. Controllo di autorità                     Thesaurus BNCF 1652 · LCCN( EN ) sh85060383 · GND ( DE ) 4022838-1 ·BNF ( FR ) cb12005387c (data) · J9U( EN ,  HE ) 987007558051205171 (topic)   Portale Cristianesimo   Portale Religione   Portale Sociologia   Portale Storia Ultima modifica 1 mese fa di Salvatore Damato PAGINE CORRELATE Movimenti ereticali medievali Scisma divisione causata da una discordia fra gli individui di una stessa comunità (come un'organizzazione, movimento o credo religioso)  Catarismo movimento eretico, separato dal Cattolicesimo durante il medioevo europeo; professava un assoluto ripudio della materia in ogni sua forma  Wikipedia Il contenuto è disponibile in base alla licenza CC BY-SA 3.0, se non diversamente specificato.Michele Fuschi. Fuschi. Keywords: “Occam  excommunicated” -- Modified Occam’s Razor”, “Cristo e povero” -- italiani eretici, tomismo, michelismo, eresia filosofica – eretico – Occam scommunicato. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Fuschi” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51692239470/in/photolist-2mKSeS7

 

Grice e Gaetani – L’implicatura di Catullo -- APVD NEAPOLIM – filosofia italiana – Luigi Speranza (Martano). Filosofo. Grice: “I like Gaetani, for one, he is a duke – and kept beautiful gardens at Martano – he philosophised on the ‘ottocento’, as any philosopher from the Novecento would!” Figlio di Carlo, conte di Castelmola, e Giuseppina Chiriatti. La famiglia Gaetani annovera oltre al ramo dei Castelmola, anche quello dei Laurenzana, di cui si ricorda il Barone Di Laurenzana, esponente del movimento radicale. L'insegna araldica dei Castelmola è costituita da uno scudo forgiato di due strisce blu ondeggianti che lo attraversano in senso trasversale. I Gaetani, prima Caetani, vantarono alcuni papi, tra cui Bonifacio VIII.  Il padre, Carlo, avvocato, fu ripetutamente eletto tra le file dei radicali nel Consiglio comunale di Napoli. Da Napoli attiene, fino a tutta la Grande Guerra, alla cura del patrimonio fondiario in Martano, acquisito dal matrimonio con Chiriatti. Questa infatti si era trasferita a Napoli dopo l'uccisione del facoltosissimo padre Paolo, nell'ambito di una torbida vicenda che vide infine coinvolta la madre di lei, Maria Fortunato, quale mandante, assieme al prete Mariano, dato che i due erano in tresca. Diviso il patrimonio tra le due figlie Giuseppina e Paolina Chiriatti, e la madre stessa, vennero iniziati i lavori di costruzione del palazzo Chiriatti-Gaetani. A Palazzo Chiriatti-Gaetani la famiglia venne a dimorare mentre man mano la gestione delle fortune familiari passava in capo a Gaetani, che si impegna in un'ardua opera di bonifica e di razionalizzazione colturale, culminata con l'acquisto di diversi macchinari ad alta tecnologia. E però proprio il malfunzionamento dell'attrezzatura finalizzata all'estrazione dell'acqua dai pozzi, bene capitale nelle aride campagne della zona, a determinare l'infiacchimento del capitale di famiglia e il progressivo indebitamento verso il Banco di Napoli, che culmina con la fine del fascismo.  Frattanto  Gaetani, che si fregiava del titolo di duca, a seguito del matrimonio con la duchessa d'Ascoli, Leopoldina, si dedica alla filosofia, mentre, del resto, ebbe a ricoprire la carica di Provveditore a Potenza. La sua filosofia e ispirata dalla Francia, della che fu un grande amatore, nonostante il fascismo e nonostante la sua adesione al regime, che ad un certo punto ne impedì la circolazione in Italia. Crociano, segue lo schema tracciato dal maestro, mentre l'ultimo ricordo della natia Martano fu un canto dedicato alle tradizioni grike, di cui raccomandava appassionatamente la conservazione e il culto.  Nei giorni furenti che precedettero il Referendum istituzionale appoggiò in pubblici comizi la Monarchia, e per questo pagò dazio dovendosi allontanare all'indomani del voto e rifugiarsi in Napoli, tutto teso negli studi letterari.  Altre saggi: Villon (Napoli); “Un carteggio inedito di F. Bozzelli (S. Gaetani, F.B ozzelli), L'Aquila, Masseria, Martano (Lecce); “Un bilancio letterario” (Roma); “Per onorare un maestro: il Torraca, Napoli); “Catullo” (Roma); L'Ottocento” (Napoli); “La bancarotta del rosso: commedia in tre atti, Lecce); “Per la venuta del Duce” (Lecce); “Bernardo Bellincioni, Galatina (Lecce); “Il benedettino-cistercense d. Mauro cassoni nel Tempio, nella scuola, negli studi: ), Lecce, “Ricordi di Benedetto Croce, Napoli); Vicende tipi e figure del Casino dell'Unione, Napoli); Napoli ieri e oggi: passeggiate e ricordi, Milano-Napoli); Apud Neapolim..., Napoli); Fonti storiche e letterarie intorno ai martiri di Otranto, Napoli.  "Catullo" rimanda qui. Se stai cercando altri significati, vedi Catullo (disambigua).  Sirmione, busto di Catullo Gaio Valerio Catullo (in latino: Gaius Valerius Catullus, pronuncia classica o restituta: [ˈɡaːɪʊs waˈlɛrɪʊs kaˈtʊllʊs]; Verona, 84 a.C. – Roma, 54 a.C.) è stato un poeta romano. Il poeta è noto per l'intensità delle passioni amorose espresse, per la prima volta nella letteratura latina, nel suo Catulli Veronensis Liber, in cui l'amore ha una parte preponderante, sia nei componimenti più leggeri che negli epilli ispirati alla poesia di Callimaco e degli Alessandrini in generale.   Indice 1                                            Biografia 1.1Origini familiari 1.2Trasferimento a Roma, vita sociale e letteraria 2Opera 3Il mondo poetico e concettuale di Catullo 4Note 5Bibliografia 5.1            Rassegne bibliografiche 5.2Traduzioni italiane 5.3Commenti 5.4             Studi 6Altri progetti 7Collegamenti esterni Biografia  Il busto di Catullo presso la Protomoteca della Biblioteca civica di Verona. Origini familiari  Catullo da Lesbia, dipinto di Lawrence Alma-Tadema (1865). Gaio Valerio Catullo proveniva da un'agiata famiglia latina che aveva contribuito a fondare la città di Verona, nella Gallia Cisalpina; il padre avrebbe ospitato Q. Metello Celere e Giulio Cesare in casa propria al tempo del loro proconsolato in Gallia[1]. Per quanto concerne gli estremi cronologici della sua biografia, San Girolamo[2] pone l'87 a.C. e il 57 a.C. rispettivamente come data di nascita e di morte e specifica che appunto egli morì alla giovane età di trent'anni. Tuttavia, poiché nei suoi carmi accenna ad avvenimenti che riportano all'anno 55 a.C. (come l'elezione a console di Pompeo[3] e l'invasione della Britannia da parte di Cesare[4]), si è maggiormente propensi a ritenere che egli sia nato nell'84 e morto nel 54 a.C., dato per certo il fatto che sia morto a trent'anni.  Trasferimento a Roma, vita sociale e letteraria Trasferitosi nella capitale, si suppone intorno al 61-60 a.C., cominciò a frequentare ambienti politici, intellettuali e mondani, conoscendo personaggi influenti dell'epoca, come Quinto Ortensio Ortalo, Gaio Memmio, Cornelio Nepote e Asinio Pollione, oltre ad avere rapporti, non molto lusinghieri, con Cesare e Cicerone; con una ristretta cerchia d'amici letterati, quali Licinio Calvo ed Elvio Cinna fondò un circolo privato e solidale per stile di vita e tendenze letterarie. Durante il suo soggiorno prolungato a Roma ebbe una relazione travagliata con la sorella del tribuno Clodio, tale Clodia.[5]. Clodia viene cantata nei carmi con lo pseudonimo letterario "Lesbia", in onore della poetessa greca Saffo, molto cara a Catullo e proveniente dall'isola di Lesbo. Lesbia, che aveva una decina d'anni più di Catullo, viene descritta dal suo amante non solo graziosa, ma anche colta, intelligente e spregiudicata. La loro relazione, comunque, alternava periodi di litigi e di riappacificazioni ed è noto che l'ultimo carme che Catullo scrisse all'amata fu del 55 o 54 a.C., proprio perché in essa viene citata la spedizione di Cesare in Britannia. Da alcuni suoi carmi emerge, inoltre, che il poeta ebbe anche un'altra relazione, omosessuale, con un giovinetto romano di nome Giovenzio. Catullo si allontanò, comunque, varie volte da Roma per trascorrere del tempo nella villa paterna a Sirmione, sul lago di Garda, luogo da lui particolarmente apprezzato e celebrato per il suo fascino ameno, situato nella sua terra di origine e che per questo induceva al poeta distesi periodi di riposo. Nel 57-56 a.C.seguì Gaio Memmio in Bitinia: in quella circostanza andò a rendere omaggio alla tomba del fratello situata nella Troade. Quel viaggio non recò alcun beneficio al poeta, che ritornò senza guadagni economici, come sperava al momento della partenza, né la lontananza riuscì a fargli riacquistare la serenità perduta a causa dell'incostanza e dell'indifferenza di Lesbia nei suoi confronti. Fu tuttavia una nota positiva la visita alla lapide del fratello, in occasione della quale scrisse il Carme 101 (a cui si ispirò in seguito anche Ugo Foscolo per la poesia In morte del fratello Giovanni). Catullo non partecipò mai attivamente alla vita politica, anzi voleva fare della sua poesia un lusus fra amici, una poesia leggera e lontana dagli ideali politici tanto osannati dai letterati del tempo[6]. Disprezzava infatti la politica di allora, dominata da politici corrotti che servivano soltanto il proprio interesse: riteneva dunque che favorire l'uno o l'altro non significasse niente di meno che aiutare l'uno o l'altro a perseguire il suo vantaggio personale. Tuttavia, seguì la formazione del primo triumvirato, i casi violenti della guerra condotta da Cesare in Gallia e Britannia, i tumulti fomentati da Clodio, comandante dei populares, fratello della sua celebre amante Lesbia e acerrimo nemico di Marco Tullio Cicerone, che verrà da lui spedito in esilio nel 58 a.C. ma poi richiamato, i patti di Lucca e il secondo consolato di Pompeo. Una nota da sottolineare è il Carme 52 dove, per usare le parole di Alfonso Traina, "il disprezzo della vita politica si fa disprezzo per la vita stessa":  (LA) «Quid est, Catulle? quid moraris emori? sella in curuli struma Nonius sedet, per consulatum peierat Vatinius: quid est, Catulle? quid moraris emori?»  (IT) «Che c'è, Catullo? Che aspetti a morire? Sulla sedia curule siede Nonio lo scrofoloso, per il consolato spergiura Vatinio: che c'è, Catullo? Che aspetti a morire?»  (Carme 52) Opera Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Storia della letteratura latina (78-31 a.C.).  Marco Antonio Mureto, Catullus et in eum commentarius, Venetiis, apud Paulum Manutium, 1554. Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Liber (Catullo). Il liber di Catullo non fu ordinato dal poeta stesso, che non aveva concepito l'opera come un corpo unico, anche se un editore successivo (forse lo stesso Cornelio Nepote a cui è stata dedicata la prima parte dell'opera) ha diviso il liber catulliano in tre parti secondo un criterio di tipo metrico: i carmi da 1 a 60, sotto il nome di "nugae" (letteralmente "sciocchezze"), brevi carmi polimetri, per lo più faleci e trimetri giambici; i carmi da 61 a 68, i cosiddetti "carmina docta" d'impronta alessandrina e per lo più in esametri e distici elegiaci; i carmi dal 69 al 116 sono gli epigrammi ("epigrammata"), in distici elegiaci.  Il mondo poetico e concettuale di Catullo  Il poeta Catullo legge uno dei suoi scritti agli amici, da un dipinto di Stefan Bakałowicz. Catullo è per noi uno dei più noti rappresentanti della scuola dei neòteroi, poetae novi, (cioè "poeti nuovi"), che facevano riferimento ai canoni dell'estetica alessandrina e in particolare al poeta greco Callimaco, creatore di un nuovo stile poetico che si distacca dalla poesia epica di tradizione omerica divenuta a suo parere stancante, ripetitiva e dipendente quasi unicamente dalla quantità (in riferimento all'abbondanza dei versi di quest'ultima) piuttosto che dalla qualità. Sia Callimaco che Catullo, infatti, non descrivono le gesta degli antichi eroi o degli dei[7], ma si concentrano su episodi semplici e quotidiani. Per giunta, i neòteroi si dedicano all'otium letterario piuttosto che alla politica per rendere liete le loro giornate, coltivando il loro amore solo ed esclusivamente alla composizione di versi, tanto che Catullo dichiara nel carme 51: «Otium, Catulle, tibi molestum est:/otio exsultas nimiumque gestis» «L'ozio per te, Catullo, non è buono;/ nell'ozio smani e ti scalmani» (traduzione a cura di Nicola Gardini). Talvolta il poeta ostenta il suo disinteresse per i grandi uomini che lo circondavano e che stavano scrivendo la storia: «nihil nimium studeo, Caesar, tibi velle placere» «non m'interessa, Cesare, di andarti a genio» (carme 93), scrive al futuro conquistatore della Gallia. Da questa matrice callimachea proviene anche il gusto per la poesia breve, erudita e mirante stilisticamente alla perfezione. Si sviluppano, originari dell'alessandrinismo e nati da poeti greci come Callimaco[8], Teocrito, Asclepiade, Fileta di Cos e Arato, generi quali l'epillio, l'elegia erotico-mitologica e l'epigramma, che più sono apprezzati e ricalcati dai poeti latini.  Catullo stesso definì il suo libro expolitum (cioè "levigato") a riprova del fatto che i suoi versi sono particolarmente elaborati e curati, le poesie raffinate e curate. Una delle caratteristiche peculiari della sua poetica è, infatti, la ricercatezza formale, il labor limæ, con cui il poeta cura e rifinisce i suoi componimenti. Inoltre, al contrario della poesia epica, l'opera catulliana intende evocare sentimenti ed emozioni profonde nel lettore, anche attraverso la pratica del vertere, rielaborando pezzi poetici di particolare rilevanza formale o intensità emozionale e tematica, in particolare come nel carmen 51, una emulazione del fr. 31 di Saffo, come anche i carmina 61 e 62, ispirati agli epitalami saffici. Il carme 66, preceduto da una dedica ad Ortensio Ortalo, è una traduzione della Chioma di Berenice di Callimaco, che viene ripreso per mostrare l'adesione ad una raffinata elaborazione stilistica, una dottrina mitologica, geografica, linguistica ed infine la brevitas dei componimenti, con la convinzione che solo un carme di breve durata può essere un'opera raffinata e preziosa.  Note ^ Svetonio, Vita di Cesare, 73. ^ Chonicon, ad annum. ^ Carme 113, 2. ^ Carmi 11, 12; 29, 4; 45, 22. ^ Secondo un'indicazione di Apuleio nell'Apologia, 10, la donna a cui si riferisce Catullo rimase vedova nel 59 a.C. di Quinto Metello Celere, sicché si può pensare a Clodia. ^ Al riguardo si veda il carme 93: «Nil nimium studeo, Caesar, tibi velle placere / nec scire utrum sis albus an ater homo» - «Non mi interessa affatto piacerti, Cesare, né sapere se tu sia bianco o nero». ^ Eccezion fatta, forse, per i carmina 63 e 64. ^ Morelli Alfredo Mario, Il callimachismo del carme 4 di Catullo, Cesena: Stilgraf, Paideia: rivista di filologia, ermeneutica e critica letteraria: LXX, 2015. Bibliografia Rassegne bibliografiche J. Granarolo, Catulle 1948-1973, in Lustrum, vol. 17, 1973-1974, pp. 27-70. J. Granarolo, Catulle 1960-1985, in Lustrum, vol. 28-29, 1986-1987, pp. 65-106. H. Harrauer, A Bibliography to Catullus, Hildesheim, 1979. J.P. Holoka, Gaiu Valerius Catullus. A Systematic Bibliography, New York-Londra, 1985. Traduzioni italiane Mario Rapisardi, Napoli, 1889. E. Stampini, Torino, 1921. U. Fleres, Milano, 1927. C. Saggio, Milano, 1928. Guido Mazzoni, Bologna, 1939. Salvatore Quasimodo, Milano, 1942. V. Errante, Milano, 1943. E. D'Arbela, Milano, 1946. Enzio Cetrangolo, Milano, 1950. Vincenzo Ciaffi, Torino, 1951. Giovanni Battista Pighi, Verona, 1961. E. Mazza, Parma, 1962. Guido Ceronetti, Torino, 1969. Mario Ramous, Milano, 1975. T. Rizzo, Roma, 1977. Francesco Della Corte, Milano, 1977. Enzo Mandruzzato, Milano, 1982. F. Caviglia, Roma-Bari, 1983. Giovanni Wesley D'Amico, Palermo, 1993. Gioachino Chiarini, Milano, 1996 Guido Paduano, Torino, 1997. Luca Canali, Firenze, 2007. Alessandro Natucci, Roma, 2008, 2020 anche in formato Kindle Alessandro Fo, Torino, 2018. Commenti R. Ellis, Oxford 1876. A. Riese, Lipsia 1884. E. Baehrens, Lipsia 1885. G. Friedrich, Lipsia-Berlino 1908. W. Kroll, Lipsia 1923. Massimo Lenchantin de Gubernatis, Torino 1928. G. Fordyce, Oxford 1961. G.B. Pighi, Verona 1961. K. Quinn, Londra 1970. F. Della Corte, Milano 1977. F. Caviglia, Bari 1983. E. Merrill, Boston 1983. H.-P. Syndikus, Darmstadt 1984-1990. Studi Paolo Fedeli, Introduzione a Catullo, Roma-Bari, Laterza, 1990. J. Ferguson, Catullus, Oxford, 1988. E.A. Schimdt, Catull, Hidelberg, 1985. F. Della Corte, Due studi catulliani, Genova, 1951. C.L. Neduling, A Prosopography to Catullus, Oxford, 1955. D. Braga, Catullo e i poeti greci, Messina-Firenze, 1950. O. Hezel, Catull und das griechische Epigramm, Stuttgart, 1932. J.K. Newman, Roman Catullus and the Modification of the Alexandrian Sensibility, Hildesheim, 1990. A.L. Wheeler, Catullus and the Tradition of Ancient Poetry, Londra-Berkeley, 1934. Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff, Catullus hellenistische Gedichte. in Hellenistische Dichtung in der Zeit des Kallimachos, II, Berlino 1924. Mario Rapisardi, Catullo e Lesbia. Studi, Firenze, Succ. Lemonnier, 1875. Enzo Marmorale, L'ultimo Catullo. Napoli, 1952 Giancarlo Pontiggia, Maria Cristina Grandi, Letteratura latina. Storia e testi. Vol. 2, Milano, Principato, marzo 1996, ISBN 978-88-416-2188-2. (EL) N. Kaggelaris, Wedding Cry: Sappho (Fr. 109 LP, Fr. 104a LP)- Catullus (c. 62, 20-5)- modern Greek folk songs, in E. Avdikos e B. Koziou-Kolofotia (a cura di), Modern Greek folk songs and history, pp. 260-270. Altri progetti Collabora a Wikisource Wikisource contiene una pagina dedicata a Gaio Valerio Catullo Collabora a Wikisource Wikisource contiene una pagina in lingua latina dedicata a Gaio Valerio Catullo Collabora a Wikiquote Wikiquote contiene citazioni di o su Gaio Valerio Catullo Collabora a Wikiversità Wikiversità contiene risorse su Gaio Valerio Catullo Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Gaio Valerio Catullo Collegamenti esterni Catullo, Gaio Valerio, su Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su Wikidata Massimo Lenchantin De Gubernatis, CATULLO, Gaio Valerio, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1931. Modifica su Wikidata (EN) Gaio Valerio Catullo, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su Wikidata Gaio Valerio Catullo, su BeWeb, Conferenza Episcopale Italiana. Modifica su Wikidata (LA) Opere di Gaio Valerio Catullo, su Musisque Deoque. Modifica su Wikidata (LA) Opere di Gaio Valerio Catullo, su PHI Latin Texts, Packard Humanities Institute. Modifica su Wikidata Opere di Gaio Valerio Catullo / Gaio Valerio Catullo (altra versione), su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Modifica su Wikidata (EN) Opere di Gaio Valerio Catullo, su Open Library, Internet Archive. Modifica su Wikidata (EN) Opere di Gaio Valerio Catullo, su Progetto Gutenberg. Modifica su Wikidata (EN) Audiolibri di Gaio Valerio Catullo / Gaio Valerio Catullo (altra versione), su LibriVox. Modifica su Wikidata (EN) Bibliografia di Gaio Valerio Catullo, su Internet Speculative Fiction Database, Al von Ruff. Modifica su Wikidata (EN) Gaio Valerio Catullo, su Goodreads. Modifica su Wikidata Il Liber di Catullo tradotto in italiano, su spazioinwind.libero.it. Il Liber di Catullo con concordanze e liste di frequenza, su intratext.com. Le grotte di Catullo, su smugmug.com. URL consultato il 1º maggio 2019 (archiviato dall'url originale il 9 luglio 2009). Scansione metrica del Liber di Catullo, su rudy.negenborn.net. La Chioma di Berenice: traduzione di Alessandro Natucci, su digilander.libero.it. Il carme 64: traduzione di Alessandro Natucci (PDF), su classiciscriptores.weebly.com. Controllo di autorità                    VIAF (EN) 100218993 · ISNI (EN) 0000 0001 2145 2004 · SBN CFIV000778 · BAV 495/44471 · CERL cnp01259860 · LCCN (EN) n79006943 · GND (DE) 118519719 · BNE (ES) XX1047188 (data) · BNF (FR) cb118955751 (data) · J9U (EN, HE) 987007259536205171 (topic) · NSK (HR) 000168539 · CONOR.SI (SL) 18455907 · WorldCat Identities (EN) lccn-n79006943   Portale Antica Roma   Portale Biografie   Portale Letteratura Categorie: Poeti romaniRomani del I secolo a.C.Nati nell'84 a.C.Morti nel 54 a.C.Nati a VeronaMorti a RomaGaio Valerio CatulloEpigrammistiValeriiPoeti italiani trattanti tematiche LGBTSalvatore Gaetani. Gaetani. Keywords: APVD NEAPOLIM, l’implicatura di croce. Croce, Catullo -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gaetani” – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51759940980/in/dateposted-public/

 

Grice e Gagliardi – filosofia italiana – Luigi Speranza (Marino). Filosofo. Grice: “I like Gagliardi; I spent some time with medics at Richmond, talking Greek! Anyhow, Gagliardi shows why the Angles prefer physician – since ‘medicare’ is such a trick!” – Grice: “Philosophically interesting bit is that Gagliardi applies ‘medico’ and qualifies it with ‘morale’!” –Nacque a Marino, feudo dei Colonna, nell'area dei Colli Albani, come riferisce lMoroni nel suo Dizionario di erudizione, e come riferito dallo stesso Gagliardi nel in "L'idea del vero medico fisico e morale formato secondo li documenti ed operazioni di Ippocrate" (Roma). In effetti, il cognome Gagliardi esiste all'epoca a Marino ed è tuttora tramandato. Fu impegnato in ricerche morfologiche, microscopiche ed anatomo-patologiche a proposito delle ossa, compiendo importanti scoperte in questo campo: in “Anatomia delle ossa illustrata con le nuove scoperte", Roma) descrisse per primo la struttura lamellare delle ossa. Inoltre effettua alcuni esami e ricerche comparative tra le ossa umane e quelle del vitello. Descrisse probabilmente per primo un caso di tubercolosi ossea. La sua opera fu piuttosto lodata, e l' “Anatomia” fu ristampato. Fece importanti studi sul "mal di petto". Filosofa sull'educazione morale. Diede anche ammonimenti contro i guaritori ciarlatani e fornì alcuni suggerimenti deontologici.  Abitava nel rione Sant'Angelo, presso via delle Botteghe Oscure. In questa strada un suo servo fu ucciso misteriosamente nottetempo. Durante le villeggiature dei papi presso la Villa Pontificia di Castel Gandolfo Gagliardi ha il privilegio di offrire la frutta al papa. Alessandro VIII gli conferì un titolo nobiliare, ma non sappiamo quale.  I suoi lavori, conservati nelle maggiori biblioteche di Roma, rivestono un particolare interesse se anche duecento anni dopo la loro scrittura, il vice-direttore dell'Ospedale San Martino di Genova, Arata, diede alle stampe una lettera inedita del Gagliardi sull'itterizia. Si ha svolto un proficuo lavoro di ricerca su Gagliardi, scoprendo anche una firma del medico in margine ad un saggio discusso all'Università La Sapienza.  Altre opere: “L'infermo istruito nelle scuole” (Roma); “Consigli preventivi e curativi in tempo di contagio dati in forma di dialogo” (Roma); “Relazione de' Mali di Petto che corrono presentemente nell'Archiospedale di Santo Spirito in Sassia” (Roma); “L'educazione morale” (Roma). “Come sopra l'influenza catarrale che presentemente regna in Roma e Stato ecclesiastico” (Roma). Note: Si veda l'annotazione di “Due baiocchi” in "Castelli Romani", Bossi, Dell'Istoria d'Italia antica, Enciclopedia TreccaniGagliardi, Domenico, Luciano Sterpellone, I protagonisti della medicina, Girolamo Tiraboschi, Storia della letteratura italiana,  Lucarelli, Domenico Gagliardi,  Giornale de' letterati d'Italia, Guillermo Olagüe de Ros, La "Relazione de' Male di Petto" en el ambiente anatomo-clínico romano, in Dynamis: Acta hispanica ad medicinae scientiarumque historiam illustrandam, Gaetano Moroni, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica, Venezia, Tipografia Emiliani, Antonia Lucarelli, Memorie marinesi, 1ª ed., Marino, Biblioteca di interesse locale "Girolamo Torquati", Ordinamento universitario dello Stato Pontificio Tubercolosi ossea  Domenico Gagliardi, su TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  1  te cose senza profondarvi in alcuna di efse, ed allora appunto diverrete più capaci di fare maggiori progressi, e tanto più se vi servirete per regolatore delle vostrej operazioni di quel saggio avvertimento feftina lente:  Esplorerò dunque con private conferenze l'animo di ciascun di voi separatamente, per meglio accercarmi di ciò,che vi farà bisogno , non potendo il Medico dare ajuto al suo Infermo s se prima non avrà ben conosciute le cagioni del suo male, e spero in oggi; e domani di potere ricavare da voi ciò, che sarà più necessario, ch'Io sappia, per meglio indirizzarvi. Ritiriamoci ora à fare il privato esame, per potere Lunedì prossimo dar principio alle nostre Giornate.  [ocr errors][merged small] [merged small][merged small][ocr errors][merged small] M  Nella quale si moftra cofa fi ricerchi d'eljena       ziale per efere Medico je ciò, che     gli rechi ornamento .  Avveddi jeri dal vostro parlare;   che non siete tutti voi di genio   uniformi,perche conobbi bene,   che tal'uno di voi non restava persuaso, & altri più ; ò meno, s’appagavano delle mie ragioni, e riflettendo, che ciò possa nascere dalla diversità delle vostre menti più o meno sublimi, & animofe. Quindi è, che prima d'inoltrarmi nel presente ragionamento, stimo necessario di premettere una breve partizione delli vostri ingegni, à fine di regolare ciascuno di voi secondo la propria capacità : Ecer  tamente , conforme nell'esterno non vi assomigliate trà voi, così ancora nell'interno sarete differenti, cioè, che non avrà ciascuno di voi la medesima capacità, & apertura di mérite ; il medesimo talento, ē spirito, la medesima memoria , e ritentiva , & il medesimo giudizio, o perspicacia d'ingegno; onde, ciò suppofto, io non potrò con la medesima misurd, e regola mostrare à tutti voi ciò, che vi converrà d'essenziale, è d'ornamento per potere diventare veri Medici. Dunque mi converrà necessariamente dividere left fenziale dall'ornamento, perche l'effenziale dovrà competere egualmente à voi, che fiete di mente più sublimi, che agli altri d'inferiore capacità : L'ornameiro poi, perche non potrà competere egualinente , nè potrà essere in tutti voi uniforme, bisognerà regolarlo fecondo la  propria capacità, e genio di ciascuir di vois con pensare al modo, che poffino l'ingegni inferiori uguagliare per altra via ancora nell'ornamento li più subliini ; E ciò servirà primieramente per dare un'ottima  direzzione alle menti di maggior capaci. tà, in farli conoscere ciò, che si debba di elli premettere d'essenziale , per poscia potersi avanzare in quello di più, di cui saranno capaci. In secondo luogoperche non si confondano, & avviliscano le menti meno sublimi, anzi per istruirle , & ani. marle insieme à fupplire con l'Arte al di, fetto di Natura,  Certo, che ognuno di voi deve avere il medesimo fine, cioè di divenire Medico; Onde dovrà unitamente con gl'altri incaminarsi per la medesima strada, e fino à tanto, ch'abbia conseguico il suo in, tento ; Mà perche chi si trova in forze maggiori trà voi è portato facilmente dal suo spirito ad uscire dalla careggiata, quindi è, che bisognerà idearsi un caso, che dia un buon regolamento à tutti unitamente, che sarà il seguente :  Vi fia trà voi chi posseda in contanti due, chi trè , e chi quattro talenti , e che voglia ciascuno per uso proprio fabricarsi una casa compita, che abbiad d'avere il medesimno uso, e la medefima  fruto  struttura, certo è, che li fondamenti converrà, che li facciate uniformi, il sopra terra dovrà alzarsi eguale, le stanze doyranno essere di numero, e capacità consimili, altrimenti non avrà la medesima struttura. In idearsi queste case non potrà l'Architetto eccedere la spesa di due talenti, altrimenti non potria senza indebitarsi compire la sua fabrica ,chi di voi hå che due foli talenti; Si dolerà facilmente con l'Architetto chi ne hà d'avantaggio, perche non gl'abbia delineato fabrica più sontuosa , à cui facilmente egli risponderà, è meglio, che litalenti vi avanzinoy che manchino, perche li potrete impiegare in ornato, e così la vostra farà più bella comparsa ; Sentendo questo voi, che avete soli due talenti vi dolerete ancora coll'Architetto, che non vi rimarrà cosa da spendere per ornarla , e perciò la voftra fabrica non potrà comparire bella al pari delle altre, vi risponderà il medesimo, abbiate pazienza , che vi darò il modo per far comparire vaga la vostra ancora al pari delle altre : Mă se per vostradisgrazia spenderete li vostri talenti senza le buone regole dell'Architettura, é voglia ognuno di voi farsi una casa à suo genio . Vois che avete quattro talenti vorrete fare il doppio degli altri, vi profonderete più del bisogno ne' fondamentis farece muri più larghi; l'alzerete più dell' altri; con tutti li vostri quattro talenti Atenterete à copritla ; con che denari poi la stabilirete? A che servirii la magnifiċenza della vostra casa , non potendola in tutto compire per renderla usuale?  Tanto peggio seguirà in voi, che possedete meno, se nella vostra fabrica spetdeste più di quello; che dovete je po tete; correreste pericolo di non poterla ricoprire, onde vi rimarria affatto infruto tuosa,  Altro inconveniente ancora potrid fascere si nell'uno, come nell'altro caso, che saria di risparmiare ne' fondamenti qualche porzione de’talenti per impiegarla nell'ornáto, iii questo modo le vostre cafe fariano sempre in pericolo di rovina. $e , con tutta la sua bella apparenzas fatta  [ocr errors] ad imitazione di quei Mercadanti, che ciò che hanno tengono in mostra , e questi sono quelli, che ben spesso si veggono fallire.  Questa fabrica , ch'ora vi hò ideato è appunto la Medicina Pratica, la quale fi deve da tutti voi apprendere , e nella medema conformità, affinche ne ricaviate un metodo di medicare uniforme, facile , e sicuro , e se in apprenderla voi, che siete dotati d'ingegno più subliine degl'altri, vorrete stendervi più in oltre delli vostri Compagni, vi confonderete con facilità con tutto il vostro bel talento, perche fzcilmente il vostro spirito grande vi farà divagare in quelle cose, che apprese in altritempi , che resivi più capaci, meglio lo capirete, & adatterete al vostro bisogno. Șia per esempio, se in questo tempo, che attendete alla pratica , vi venisse fantasia di leggere, & imparare molti, e diversi liftemi, e li varj metodi di medicare, che Lono nella Medicina , questo vi reccherà confufione, contenendo tanta diversità di pensieri,d'ideese di modi con tutto che la  7  verità delle cose sia una sola , onde con Fagione riferisce Lacuna, (a) ch'esclamava à suoi tempi Galeno : Judicij veri difficultatem liquidò oftendunt tot , tàmque variæ hærefes, quòt in Arte Medicâ reper riuntur; E tanto maggiorinente, che  quefti distogliendovi da quel bell'ordine, che voi avevate preso in offervare l'andamenti de? mali con li vostri propri occhi, vi faranno acquistare una pratica fimile alla vostra ideata fabrica, che non farà côpita, & in conseguenza non ne potrete cavare quel profitto,che ne riporteranno li voftri Compagni , li quali à cagione della  maggiore attenzione, che hanno in apprendere quella sola,non divertendosi in altro, se ne approfitteranno bene, e la loro  pratica sarà compita , e potrà avere il suo uso, giacchè al parere di Cicerone : (6) Affiduus ufus, uni rei deditus, die Ina genium ; & Artem fæpè vincit ; Sicchè in questa parte eforto tutti voi à non applia care ad altro , allora che prendete lame  pra(a) Comment 1. Aphorism. 1. ex Lecuno in Epit, (6) Cicero pro Cornel. Balb.  1  [ocr errors] pratica, che à quell'esercizio, che fate, eccettuatone alcuni tempi destinati per Ja Notomia, e per la Boštanica,  Perfezionati, che farete in detta, pratica , & appreso, che avrete un metodo facile, e più sicuro di medịcare, allora converrà di ornarla di altre cose , che abbiano correlazione con la Medicina , secondo il proprio genio , e capacità, con fermo proponimento però , che non vị abbiano da distogliere dallo studio di er fa , nè da confondere ciò, che auete con li propri occhi offeryato più volte, eţurto ciò, che avețe appreso per ornamento non l'avrete da profeflare come negozio principale, altrimenti vi distoglierà da quello , che avevate già acquistato dị buono nella - Medicina, ma sopra di cio più diffusamente ne tratteremo in ap: presto  Questą praticą, appunto acquistatą, mediante le reiterate esperienze, e diligenti osservazioni fatte intorno li Malati è quello , che fi ricerca d'essenziale nel Medico , & oltre di questa ogn'altra cosa, che s’acquisterà di più gli servirà d'ornamento maggiore : Che sia così,per consolazione di yoi, che siete d'ingegni meno sublimi, yeniamo alle prove.  La prima sarà con l'autorità d'Ippocrate chiara , e testuale ; Dice dunque , egli:(a) Ars fane medica jām mihi tota inventa ese videtur, quæ fic comparata eft, ut fingulas, da consuetudines , temporum occasiones doceat. Qui enim hoc pactó Artis Medicæ cognitionem habet , is minimum ex, fortuna pendet , fed & citrà fortunam, çum fortunâ rectè eam adminiftrabit ; Firma enim eft Ars tota Medica , cjusque prçceptiones , ex quibus conftat dr.  Consistendo dunque tutta la Medicina in sapersi ciò, che sia solito à farsi, e le congiunture de' tempi, nelle quali fi deve operare, queste chi meglio di voi le potrà sapere, avendole con li yostri propri occhi più volte osservate? e bastando ciò per bene medicare, secondo la dottrina d'Ippocrate, sarete dunque , mediante la vostra buona pratica, allora già divenuti  Me(a) Hippocr. in lib. de loc. in bom.nesa  Medici; E fe poi desiderate sentire sopra ciò più chiaro parere d'Ippocrate , legge. xe De decenti ornatu, dove così vi parla ; Sint cu in memoria tibi morborum curatio.  da harum modi, quo multipliciter, quomodò in fingulis fe habent; bọc enim principium eft in Medicina , medium, & finis = che sono appunto questi il costitutivo del. l'essenziale:  Sia all'oppofto tal'uno ornato di tut, te le scienze, nià che non abbia acquistato ancora in Medicina una buona pratica , questi non si potrà dire con tutte le sue scienze Medico pratico, perche non saprà ben mcdicare, e gl'accaderà per l'appunto, ciò, che succederia ad un'insigne Geo. grafo se volesse viaggiare senza la guida , queiti nelli bivj, ò trivj sbaglierebbe la strada , per non averne la buona pratica , e con tutto , che possedeffe la situazione di tutto il mondo, in un piccolo tratto di paese si smarrirebbe; Mà tutto questo con Pesempj più chiari ve lo farò costare,  Tralasciando di riferirvi un lungo Catalogo de' Medici , che hanno scritto in  fola  sola Medicina pratica, e che fiorirno con gran lode, mentre vissero, senza effere ornaci d'altre scienze, perche lo potre te, volendo, con li vostri proprj occhi rincontrare , leggendo i loro libri ; Vi riferirò solamente alcuni casi accaduti à Medici, ch'avevano appreffo di noi molta ftima', per essere versatiliminella buona pratica di medicare, e si poteuano annoverare trà quelli, di cui parla, Ippocrate nel libro De Arte : Viri hujus Aricis periti , re ipfi lubentiùs, quàm vero bis demonftrant ; li quali vennero al cimento con Medici di maggior grido di loro nelle altre scienze, e ciò , che ne seguì .  Gio: Giacomo Baldini ne fù uno di questi , il quale efsendo folamente un buon Pratico, e dotato d'isperimentată prudenza , era per li fuoi pingui guadagni molto invidiato da alcuni di quelli, che li riconoscevano in molte scienze superiori di gran lunga à lui, s'abbattè egli una volta in un consulto con due Medici delli più celebri nella facondia,  1  B  с рiй  e più versati in molte altre scienze,e per tal cagione poco conto facevano di lui; Ora questi avevano già premeditati li loro discorsi molto eruditi, à fine, che meglio comparisse à tutta una nobile Udienza , che vi dovea intervenire, la poca sufficienza, & infelice modo di di(correre del Baldini, furono sì lunghi li sudetti eruditiffimi ragionamenti, e s'ina oltrarono tanto in cose fuori del propofito, che in vece di dilettare annojarono tutta l'Udienza, & avvedutofi di ciò il buon Pratico, in vece di gareggiare con loro nell'eloquenza , fece un breve di. scorso, mà tutto indirizzato all'urgente bisogno, conobbe meglio degl'altri il male, lo confermò con l'autorità puntuale d'Ippocrate, fece il suo pronostico mortale, che si verificò in breve, venne alla cura , propose alcuni rimedj, e terminò il consulto con applauso uniuersale di tutta quella nobile Udienza , diccndo  : : mo, che ha discorso à proposito, e se ne partì tutto contento, e consolato.  Gio  [ocr errors][merged small] 1  1  Giovanni Tiracorda già in questo Archiospedale degnissimo Decano, che nella pratica Medica aveva quei bei lumi, che felicirano le cure ardue , si abbattè in un consulto con un Medico catedratico eruditissimo nelle lingue , c Greca in ispecie, nelle Matematiche, ed ancora nella Teologia ; L'Infermo era Oltramontano y poco prima giunto in Roma , che li ainmalaffe, ed in tempo di aria sospetta, il' di cui male fù creduto dal sudetto eruditiffimo Professore eflere una febbre etica , e con tali, erante ragioni s'ingegnava di provarlo in ispezie per il pollo basso che aveá, che fariano per certo bastate à formarne liga gran ležzione in cattedra. In tanto il buon Pratico Tiracorda penaya in fentire ciò, che conosceva non potersi in modo alcuno verificare, e dovendo egli concludere , con breve discorso fece capire essere il male del povero foratieri) una febbre maligna,e di pelimo costume, che se presto,e validamente non era foc corso farebbe morto, disse ciò, che con  veniva  B2  [ocr errors] veniva farsi con sollecitudine, e l'esito  funesto, in breve seguito , ne fù il Giu-  dice, chi di loro avesse meglio conosciu-  to il male,       Riferirò   per terzo ciò, che seguì ad Antonio Piacenti mio Maestro, la di cui perizia nel ben medicare è nota , per via vere ancora molti, che furono da effo ne’loro gravi mali bene assistiti, onde per essere io interessato , non m'inoltrcrò di vantaggio in lodarlo, e lascierò, che facciano altri quella giustizia , che le sue gloriose ceneri meritano. Questi ebbe occasione più volte di trovarsi alsieme co' Professori di molto grido, per le varie scienze, che possedevano, e vedevo, che il suo configlio, ò era feguitato, ò volendosi fare diversamente  per lo più si sbagliava; Accadde una volta nella cura di un'Infermo, che pativa di un male graue di testa, creduto da esso procedere da pienezza d'umori viziofi, che nel basso ventre dimoravano, c per ciò gl’aveva proposto il dejettorio, che à ciò si oppose chi era versato più di luiin altre scienze fuori della pratica medicinale, con il motivo, che l'evacuazione glavria inolto pregiudicato. Stette egli faldo nella proposta già fatta, quale fù esaminata da altri Profeffori, e conclusa: ed eseguita che fù, l'efito moftrò d'onde procedeva il male, e chi l'aveva meglio accertato, posciache mediante l'evacuazione ne rimnase libero.  Due gran motivi si poffono dedurre dalli riferiti casi, uno di confolazione per voi, che non avete genio ; ò abilità all'acquisto di altre scienze, vedendo, che nella vostra sfera pratica; abilitati che sarete , potrete ftare à fronte con quelli di più letteratura di voi, purche abbiate prudenza , e giudizio in sapervi ben regolare; e l'altro servirà d'avvertimento à voi d'ingegno più perspicaces che desiderate apprendere tutto lo scibile, à non fidarvi folamente sù quello, ch'è ornamento Medico, dovendo ancor voi poffedere Fondatamente, al pari degl'altri, quella buona pratica Medica, ch'è la direttrice del ben curare, senza  [merged small][ocr errors] la quale sono inutili tutti gl'altri ornamenti: Consolatevi però ancor voi, che bramate d'apprenderli : perche quando saranno uniti alla buona pratica, vi ferviranno ancor'elli di scorta, e vi faranno divenire eccellenti Medici, & in prova di ciò non vi mancano esempj di cafile, guiti, che fanno conoscere quanto accrescano di chiarezza alle nostre menti le Filosofie sperimentali, la Ģeometria, l'Aftronomia, & altre scienze, che porfono avere correlazione con la Medici. na, mà per ora potrà bastarvi l'oracolo d'Ippocrate allora, che scrivendo à Tel, Lalo gli notificò: Geometria mentem acuit, e longè Splendidiorem reddit ; e nel libro de Aere, Aquis, & locis ; Ad Artem Medicam Astronomiam ipfam non minimum, fed plurimum poteft conferre ; Ben'è vero, che rari fono quelli, a'quali datum eft adire Corintum , perche tutte queste cose averle , poffederle, e maneggiarle à quel segno, che conviene, cnon più oltre non a ricerca minor prudenza di quella, che aveva il Re Mitridate iu reggere un  Coco  [ocr errors] Cocchio tirato da bravi , e numerosi de strieri, altrimenti andandosene tutte in pampani , e fiori, che non legano, produrranno pochissimo frutto, quantuns que fosse vaghiflima la loro prima ap. parenza.  Sicché parmi d'avervi à bastanza mostrato , che l'essenziale del Medico non consiste in altro, che nella buona, e soda pratica acquistata mediante le re. iterate osservazioni di ciò, che fiegua nelli progrefli de’mali, e quanto fiac. quisterà di più fia tutto ornamento.  E da questo si possono comprende reli gran vantaggi, che necessariamente nel ben medicare, non solamente li Gio. uani Praticanti, & Aliftenti ne riportano dalle continue offeruazioni , che fi fanno negli Spedali ove sono numerosi gl'Infermi, mà ancora gli Profeffori primarj, che ivi esercitano, potendo questi, mediante le reicerace osservazioni, che si fanno in lunga serie di anni, acquistare molta perizia pratica , e franchezza ancora nel medicare, conforme, che ogn'uno di esli ben se ne avvedeje lo confeffa.  E finalmente, acciocchè non resti quanto vi hò detto infructuofo,converrà, che ora vi mostri come vi dovrete contenere nell'acquistare detta pratica tutti assieme, e conformé, fi dovrà regolare ciascun di voi ; secondo la propria capacità , in quello, ch'è ornamento, mà effendo questi più punti , che meritano matura riflessione, bisognerà riportarli alla Giornata di domani, venite però tutti, e voi precisamente, ch'avere più brio, e spici:o più vivace deglalri preparati di sofferenza, perche sarà Giornata di attenzione, e mortificazione infieme.  [ocr errors][merged small] [blocks in formation] Nella quale si fà vedere ciò, che dovre farsi da tutti unitamente per ben confeguire una buona prática, e quello, che dovrà operare ciaschedino secondo la propria capacità per uguagliarsi a' Comia pagni in quello , ch'è ornamento.  Mi :  I   dispiace   nella Giornata di jeri accennato, ch'oggi vi mortificherei , perche jacula prævisa minus feriunt ; Mi persuado , che di già farete venuti preparati per sentire da me rimproveri sopra li vostri poco lodevoli portamenti, da me più volte osservati, mà abbiateci pazienza ò perche ciò G fa per voftro bene.  Ditemi di grazia à che fine venite in questo luogo pieno di miserie ? Frana camente mi risponderete : A prendere la pratica di Medicina; e questa in che modo la prendete yoi più disinvolti, & allegri , che mostrate d'esfere più spiritofi degl'altri? Con paffeggiare per lo Spe.  daledale, confabulando trà di voi sopra le novelle di queito mondo? Questo non è il modo da prendere pratica di Medicina, nella quale si richiede una fomma applicazione, mà più tosto da divertirvi: Sappiate, che lo Spedale non è luogo da perderci inutilmente il tempo in divertimenti, e svari, perche è ripieno di aria infetta, chi non brama d'approfita tarsi non si curi dimorarvi , mà se ne vada in aria migliore, e più amena di fta, che farà per lui più utile, e sicura , e non mi faccia cestar bugiardo, poiche in cal guisa continuando, non folamente daria à divedere che la Medicina sia Arte lunga , mà ancora, che non si possa in conto alcuno acquistare, essendo questo tutto l'opposto di ciò, che da principio vimostrai. 15 TMarcello disse, rimproverando li  suoi foldati, che non aveano fatto come e doveano, e poteano il loro uffizio: Mula  ta vidi Romanorum corpora, fed Romanum vidi neminem; e così ancora io potrò direfin'ora di voi: Multa vidi discipulorum  [ocr errors] corpora , fed difcipulum vidi neminem ; Spero però, che conforme servirono di stimolo a' suoi soldaţi le parole risentite di Marcello per fare, che superassero nel giorno susseguente Annibale,cosi le mie moveranno ancora gl'animi vostri in ay. venire ad operare con più attenzione, e fervore di prima scusandovi del passa  perche non sapevate ancora in che modo vi dovevate contenere ; Qual mutazione, oltreche recherà à voi gran vantaggio , si perche più prestamente vi sbrigherete, e con miglior ordine v’im. poffefferete della buona pratica Medica, à cui devono indirizzarsi tutte le vostre operazioni , sarà ancora di mia somma consolazione.  Prima però di porvi à questo ftudio pratico farà di mestiere, che possediate , oltre il buon costume, l'Istituzioni Me diche, con le quali diverrete già iniziati à questo nuovo esercizio, essendo legge d'Ippocrate di non doversi praticare altrimenti, ordinando egli (a) doppo aver  detto: (a) I* Hippocratis lige :  detto: Institutionem à puero fit moribus generofis , venendo alla Medicina pratica, Hæc verò cum facra fint , facris hominibus demonftrantur, prophanis verò nefas priùsquàm foientiæ facris initiati fuerint ; e facendo voi diversamente non potrete capire ciò, che vi si presenterà d'offer= väbile, e s’aveste ancora appreso la cognizione de'mali , vi recheria quefta un sommo vantaggio, insegnando Ippocrates ( b ) che Qui autem fignorum cognitio: nem habuerit is: folus ritè ad curationem aggredietur, caso che nò procurerete , che sia questo il primo vostro studio, e lo farere ; con discrivere in un libretto di memorie tutti li segni , che fanno venire in cognizione di quel tal determinato male, con indicarvi quali sono li essenziali ; ex. gr. dell'Angina, dell' Epátiride &c. é quelli, che sono distintivi; che fanno conoscere, se sia Colico, Ò Nefritico il male, se fia vera , ò falfa gravidanza, e così proseguendo in tutti quei casi confimili, che hanno bisogno  di (b) la lib.de Media  [ocr errors] [ocr errors] di qualche segno proprio, che meglio li faccia comprendere , e tutto ciò è necessario à farsi, perche attorno l’Infermo dalli segni si rinviene il suo niale , e questi sono neceffarj d'averli à memoria, perche all'ora non si può ricorrere à leggerli ne’libri, quando sareçe interrogati, che male quello sia ; Dovrete ancora lasciare in detto libretto di memorie molto spazio di casta bianca in ciasche, dun caso, doppo avervi descritti gl’accennati segni per notarvi ciò, che biso, guerà in appresso,  Acquistata , ch'avrete la cognizione de' mali più frequenti, e che vagano in quella stagione, e questo in breve tempo lo potrete fare , incomincierete ad osservare il modo, con il quale si curano , & in quel medesimno libretto dove avrete descritti li segni , v.g. della Punfura , capitandovi d'osservare il detto male, verrete descrivendo la cura, e mutazioni, che di giorno in giorno eslo anderà facendo, tanto in meglio, che in peggio, con tutto ciò , che offerverece  di riguardevole, mà succintamente con qualche contrasegno indicativo,per non fare scrittura voluminosa.  Di dette cure da offervarsi contentatevi di prenderne poche da principio, e le più facili , per poterle esattamente confiderare, e capire bene, quali in progresso di tempo l'anderete moltiplicando, e scegliendo secondo vedrete meglio poterle possedere , e comprendere; Avvertite però non caricarvenc troppo, nè di tralasciarle, se non ne avete veduto l'evento felice, ò funesto , quale noterere per meglio impoffeffarvi nelli pronoftici da farsi in casi consimili, nelle congiunture, che vi si presenteranno . E tutto questo è coerente al consiglio d'Ippocrate dato nella sua legge, ove dice : Ad bec longi temporis induftriam accedere neceffe eft, quod disciplina veluti gravidata  felicitèr , & benè crescendo maturus fructus efferat.  Lo studio, che dovrete fare in casa sarà di leggere solamente dui, ò trèlibri pratici de’migliori , che potreteavere si antichi, che moderni scelti dal Direttore vostro Macítro, & in quelli procurerete rincontrare se ciò, ch'avete osservato si uniformi alli loro sentimenti, e noterete, in che cosa consista il di- . yario, per domandarne sopra ciò la cagione à chi sarà vostro Direttore nella pratica, ò almeno alli Medici Affiftenti di detto Archiospedale, che sono già pratici, de' quali ancora vi dovrete prevalere in molte occorrenze, potendoli avere più pronti, e nel luogo istesso dove vi esercitate,  Mà perche le conferenze accrefcono fervore, e facilitano insieme li progressi, per cagione dell’utile emulazione, e di sentire da? Compagni qualche cosa di più, che talvolta non fi sapeva ; Quindi è, che almeno una volta la settimana vi dovrete congregare tutti insieme per conferire ciò, che ogn'uno avrà acquistato di più nel suo esercizio pratico, & à questa conferenza potria avere qualche sopraintendenza il Medico Af fiftente di guardia, che deve necessaria.  mente  [ocr errors] mente essere nello Spedale permanente ; E quando sarete disposti à tal’utile esercizio non avrete da affaticarvi in cercare luogo à propofito, conforme era neceffario prima, perche voi, che di presente ftudiate avete avuta la sorte propizia, mediante l'animo generofo , e magnitico di Monsig. Illuftriffimo Gio: Maria Lang cifi, cho con tanti suoi incominodi, c con si considerabile spesa, à publico bene, hà stabilito sì grandiosa, e nobile Libraria , ed in questo medesimo luogo, dove vi esercitate, potrete ivi radunarvi, e fare con tutti li vostri commodi l'utilissime conferenze , con quel di più, che ne potrete ricavare da'vn'abbon, dantislima scelta di libri , che vi si custodiscono d'ogni scienza, & in particolare, assai più numerofi d'ogn'altra in Medicina. Qual commodo fe l'aveflimu avuto noi, che ora fiamo avanzati negl'anni, in nostra gioventù, quanto mai ci faria stato grato; poiche per fare conferenze allora, bisognava andare in luoghi privati à dare incommodo, e pure si face  vano  vano con fervore  conforme seguì int cafa del Dottor Girolamo Brafavola, dove ogni Lunedì si teneva congreffo publico, e si leggevano un difcorso con due problemi Medici, oltre le conferenze, che si facevano fopra altre materie, concernenti la Medicina, è detto.congreffo continuò con fervore per molti anni , e con profitto di chi lo frequentava. Talmente che tutta vostra la colpa fària se voi ora che avețe derta commodità la trascuraste', non potendosi ciò attribuire ad altro, e con vostra somma vergogna, che al poco desiderio, che aveste di approfittarvi.  Vi riuscirà più commodo di fare alcune diligenze intorno alli Malati, che vi fiere scelti da offervare , prima della visita del Medico Principale, che consor feranno d'interrogarli, con descrivere ciò, che vi troverete di novità per essere sbrigati , e pronti nel tempo della visita, nella quale sentirete voi ancora il polso à tutti gl’Infermi del Quartiere per impoffeffarvi delle differenze di esia  C  e ciò  e ciò farete con qualche attenzione particolare, per meglio comprendere ciò che nel giorno vi scorgerete differente dalla mattina , e nelle visite susseguenti, ciò, che di divario dalle antecedenti, ed in ispecie se più , ò meno celeri, se più, ò meno eguali , se più , ò meno duri, se più alti , ò più basli , e molte altre differenze, che avete gia letre nel trattato de' Polfi, ed occorrendovi sopra di ciò alcuna difficoltà , non abbiare timore di spiegarvi, e di dirlo à chi vi sopraintende , perche da tutti con somma cortesia vi sarà spianata; Starete attenti quando s'interrogano li Malati nuovi per rinve- ; nirne l'idea del male, & offerverete il modo , che si tiene con quelle persone idiote, che non sanno rispondere à ciò, che si domanda loro , & apprenderete la gran pazienza, che bisogna averci, per potervene servire ancora voi abbattendovi in Gimili Infermi idioti. Vi porrete à mcmoria quell'idea, che dal Medico Principale farà stabilita à quel male, e pet non dimenticarvene la noterere in  un libretto conforme vien praticato da. gl’Afiftenti, con notarvi insieme il no me dell'Infermo, e numero del letto, invigilerete in sentire , e capir bene cutte le ordinazioni, che si faranno, con rincontrarne ancora li suoi effetti, non trascurerete di sentire ciò, che si dice del pronostico del male, e d'ogn'altra cosa concernente tal'infermità, ed in ispecie in quelli, che vi siete scelti per osservare, e facendo yoi ciò, che vi hò decco , vi assicuro , che quell'Arte, che Ippocrate chiamò lunga, la farete divenire più breve di quello, che vi credevate, potendo yoi in tal guisa con facilità non solamente apprendere il modo più sicuro di medicare , mà ancora la franchezza del ben pronosticare, conforme insegna Ippocrate : (0) Eventa igitur per experientiam cognita prædicenda, id enim gloriam adfert , c cognitu ejt. facile.  *Terminata , che farà la detta visita seguirete il Medico , che vi conduce inpratica per osservare le visite, che sono per la Città, nelle quali procurerete di fare le vostre osservazioni nel miglior modo , che vi sarà permesso.  Con il sudetto vostro Direttore, e Maestro conferirete tutte le difficoltà, che vi occorrono, con animo però decerminato d'apprenderne li loro documenti, essendo questi li semi di  quanto di buono in voi germoglierà à suo tempoo conforme disse Ippocrate nella sua legge : Doctorum præcepta feminum rationem habent, non già di contradire con pertinacia à quello, che verrà da esso detto, e risoluto, ed imiterete in ciò le Api, che succhiano il mele da' fiori, è non già le Vespi, che pungono con li loro aculei colui, à cui si approssimano. Credetemi, che la modestia, e li buoni costumi, l'attenzione, e la docilità ne? giovani formano la base stabile di tutti li loro avanzamenti, dove, che il mal costume, la pertinacia , la garrulità , e la petulanza affatto l'atterrano, elanniçhilano.  Nelli  [ocr errors] [ocr errors] Nelli tempi poi, che saranno prof fimi alle offervazioni anatomiche comincierete ad alleggerirvi dalle occupa. zioni Mediche, per attendere con più fervore alla Notomia, e procurerete in quelle vicinanze di trovare un'Indice delle oftenfioni, che fi faranno , per istudiare preventivamente ciò, che pu- . blicamente si dimostrerà, ed in oltre vi troverete presenti à tutte le preparazioni delle parti, che si faranno in privato, non solo per meglio capire , & impofseffarvi di quello , ch'avete letto, mà ancora per mostrarvene già pienamente istrutti quando le vedrete publicamente dimostrare i  Non trascurerete , essendovi occafioni d'aperture de cadaveri, di trovarvi presenti à quelle, e tanto maggior mente se avrete osservato li mali di quei poveri defonti, e se non l'avrete visitati, procurerete informarvi delle loro infermità , perche mediante tali ispezioni verrete meglio in cognizione del luogo affetto, e di qualche cagione ancora di  detto  C 3  detto male, e noterete in succinto nel vostro libretto ciò, che si farà rinvenuto in quelle di considerabile , acciocchè vi resti memoria per prey aleryene à suo tempo. Ed affinche meglio le possiate ritrovare , riporterete in un repertorio per ordine alfabetico ciò , che offeryato avrete, tanto nelle cure de inali, esiti de’madesimi, che aperture de' cadaveri, senza lasciare nè pure un giorno di non notarvi qualche cosa offervata, e questo l'andrete bene spesso rileggendo, à fine non vi scordiate di ciò, che una volta apprendeste.  Quando si faranno l'ostensioni bota taniche non occorrerà, che trascuriate l'altre vostre applicazioni mediche,perche non richiedono queste quell'attenzione, ch'è necessaria per la Notomia. E tanto più, che durano tutta una stagione, onde basterà, che per tal'effetto Jeggiare qualche libro bottanico, e con l'esercizio oculare ricontriate nell'Orto Medico le più usuali per meglio conocerle , le quali per voi possono esse  re  [ocr errors] re sufficienti con la notizia delle loro  virtù.        Impiegato , ch'avrete il primo ane  no, con fervore, in fare tutto ciò, che  fin'ora vi hò detto, ristrignerete poscia   in una nota tutti quei mali più essenziali  à saperfi, che ancora non avevate offer-  vati, à fine , che capitandovi possiate in  quelli continuare li vostri studj, imitan.   do quei Giardinieri, che vogliono for  mare un vago prato di fiori ; Questi colo  tivano tutto quel terreno, e con buona  ordinanza vi dispongono li semi, à fine  non vi resti del sodo incolto, ove non  nascono fiori , mà sol'erbe campestri,  e che li fiori, che nascono , non resting  trà loro confusi.   Quando avrete già offervato ocularmente le cure de' mali più riguardevoli, e frequenti, e quelle occorsevi di nuovo, l'avrete più volte ancora rincontrate nelle cose essenziali, uniformi, e che possederete già la Notomia, elsendo divenuti capaci di meglio discernere ciò, che fate, all'ora converrà , che  [ocr errors] vi applichiate à rinvenire le cagioni de? mali , e non prima, perche essendo tante , e così diverse tra loro le cagioni descritte dagli Autori in un medeliino male per  la diversità di sì numerosi sistemi, novamente inventati, che se Galeno à fuo tempo giudicò al parere di Lacuna che : Judicis veri difficultatem liquido ostendunt tot, tantæque variæ hæreses, quot in Arte Medicâ reperiuntur ; Che giudizio accertato ne potreste formare voi ora , che sono cotanto più cresciute, prima d'essere nella pratica bene istrutti? Oggidi li giovani sono così perspicaci, per non dire arditi, che li raziocinj, che già udirono da’loro Maestri, quali come buona femenza dovriano conservare, & aspettare, che con il tempo crefceffero , conforme ordina Ippocrate nella sua legge: Tempus omnia hæc ad plenam nutritionem confirmat, in vece di çoltivarli ora non li seguitano più, & in vece di quelli se ne scegliono delli più vaghi, onde quando ciò abbia da esfere è pur meglio, che l'apprendiate quandofiete divenuti più suficienti à farlo, ed all'ora appunto, che sarete à pieno informati dell’idee de'mali, delli loro sina tomi, del modo, che s’abbiano à curare, e dell'esito , che possono avere, perche potrete allora con più sperimentato giudizio sceglervi quel raziocinio intorno alle sudette cagioni morbose più adattabile degl'altri al vostro bisogno: Sentite di grazia come al proposito ve lo infinua Ippocrate : (d) Preclara enim res eft, quæ ex opere , quod quis didicit proficifcitur oratio ; Écon maggior chiarezza in altro lạogo , (e) dove così parla : Ncque priùs ad ratiocinationis perfuafionem quàm ad ufum cum ratione conjunctum animum adhibere ; Ratiocinatio enim in eorum, quæ fenfu comprehenduntur recordatione quadam confiftit ; ed in appreffo : Nullum ex his , quæ folâ ratione concludun- , tur fructum percipere licet , verùm ex his , qua operis demonstrationem habent, fallax enim, & ad errorem proclivis affeverario; Ed operandosi da voi in questo modo, effendo già divenuti più abili, e capaci, da un principio più accertato ricaverete un ražiocinio è certo , ò per lo meno probabile, dove che facendosi diversamente con impoffeffarvi prima d'ogn'altra cosa delli raziocinj in aria, e di bella comparsa, che possono con danno notabile preoccupare le vostre menti, e quefti effendo Icelti da voi per mero genio , fenza saperne il perche, vi faranno dedurre delle conseguenze, che vi pareranno certe , ed evidenti, le quali in atto pratico le troverete diverse das quelle ve l'eravate figurate; onde per acquistare pofcia la buona pratica vi converrå deporli, conforme è convenus to farli da altrui, che se ne sono ayveduri , per non continuare ne' loro pregiudizj, e sentite come à meraviglia fi ritrovano costoro delcritti da Ippocrate: (f) Venuste enim cognitionis intelligentia apud iftos sparsa ejš . Cum igitur hi ex neceffitate indocti exiftant eos ad utilem *xercitationem cohortor . Mà veniamo all' esempio per caminare con più chiarezza. S'idei il più bell'ingegno, che frà voi si trova, che il tal male proceda da un' acido esaltato, è da un calore eccellivo, ne dedurrà subitamente con la sua perspicacia , dunque và curato con gli alkalici, ò con gl’attemperanti. Volesse Iddio, che ciò si verificaffe , non avreste per certo bisogno d'affaticarvi tanto intorno l'Infermi per apprendere la vera pratica , perche in questo modo diverreste presto Medici; Mà non è questo il modo da caminare con licurezza, perche se quella cagione non è accertata farà neceffariamente incerta ancora la conseguenza da quella dedotta , la quale potrà talvolta produrre all'innocenti Infermi un nocabile danno, perche Gi tra{curerà di far quello, che s’è osservato altre volte effer loro di giovamento per andare in traccia à ciò,ch'è incerto, e so. lamente da noi ideato. Qual verità udite con che chiarezza si ricava da Ippocrate:(8) Quidquid artėm artificiosè di&tum  ef(d) Hippide deciørd. (e) Id, in lib.de tracept  1  efem(f) In lib.pracept:  eft, (8) Hippocr.de decobabitki  [ocr errors] eft , non autèm factum, viam, rationem artis expertem arguit.. Opinabile fiquidem fine actione infcitiæ , nullius artis indicium eft ; Opinatio enim cum præcipuè in Arte Medicâ, eâ quidèm utentibus crimini vertitur; His verò qui eâ indigent exitium afferty fi namque  fuis verbis perfuafi exiftim mant se opus ex scientia profectum novisse, quemadmodùm aurum adulterinum igni probatur,tales se ipfi etiàm produnt ; e ciò lo conferma ancora nella sua legge, dicendo, che la sola opiņione ignorationem parit . Il modo dunque praticabile più sicuro sarà di dedurre la cagione demali dalla già accertata cura ,  osservata più volte profittevole, con que’lumi, che vi darà di più la Notomia, e quando anche per questa strada non se ne rinvenisse la più certa, non potrà nascerne quel pregiudizio già accennato , perche la cura anderà a suo dovere, essendo fatta secondo le buone osservazioni pratiche; oltre di che caminando voi con quest'ordine non vi regolerete con l'incertezza dell'opinioni degl'uomini,ogni giorno variabili, mà bensi con la certezza delli giudizi di Natura, sempre più accertati , come divinamente considerò Cicerone allorche diffe : Hominum com. menta delet dies, naturæ judicia confirwsat.  Quindi è, che Pittagora non fenza cagione faceva tacere li suoi scolari sinche aveffero compiti cinque anni di studio , perche voleva , che cominciassero à parlare quando appunto capivano ciò, ch'elli dicevano , e veramente chi presto parla non ha premeditato ciò, che dice, e chi non hà premeditato ciò, che dice, parla à caso.  Per conferma di quanto vi hò detto, ed à fine non prevarichiate ora, che avere da me sentito dire qual potesse esfere il inodo facile sì, mà non già sicuro, da prestamente liberarvi dall'intraprese fatiche, v'addurrò altri sentimenti d'Ippocrate,da’quali non potrete discostarvi se vorrete essere tenuti suoi veri seguaci, dice egli ( b :) parlando in termini difare progresso nella Medicina : At vero in Medicina iampridem omnia fubfiftunt in eaque principium , via inventa eft, per quam præclara multa longo temporis fpatio sunt inventa, bu reliqua deinceps invenientur; Si quis probè comparatus fuerit, ut ex inventorum cognitione ad ipforum investigationem feratur, Qui verò his omnibus rejectis , ac repudiatis aliam inventionis viam ; aut modum aggrediatur, to aliquid Je invenise jactitat, is cùm fallitur , tùm alios fallit, neque enim iftud ullo pacto fieri poteft. Ippocrate dunque vuole, che dalle cose accertate si passi all'investigazionc di esse,per meglio discernere ciò, che in quelle non fosse ancora palese,mà non già, che dalle incerte si pasli à fare al. cuna investigazione , dicendo chiaramente, che chi farà diversamente ingannerà se stesso , e gl'altri, e tutto ciò vie. ne più precisamente individuato redarguendo quelli, che dalle cagioni incerte ne vogliono dedurre una certa cura, come si legge in appresso: At verò nunc ad cos , qui novâ quadam ratione artem ex  přo."  propofita materiâ investigant nostra revera tatur oratio fiquidem eft calidum, aut fria gidum, aut ficcum, aut humidum , quod hominem lædit , & eum, qui rectè mederi volet opporret calido per frigidum, frigido per calidum , ficco per bumidum, & humido per ficcum opitulari . Exhibeatur mihi aliquis naturâ non admodùm robuftâ , fed imbecilliore; qui triticum crudum, & inelaboratum edat , quale ex areà fuftulit, carnes crudas , & aquam bibat , ex qua victus ratione non dubium eft quin multa ,  gravia fit perpeffurus. Nàm & doloria bus conflict abitur, & imbecillo erit corpore, O ventriculus corrumpetur, nequè vitam diù tollerare poterit . Quodnàm igitur ità affecto præfidium comparandum Calidum nè , aut  frigidum, an ficcum, an humidum? Siquidem horum quodque fimplex eft. Namque fi quod lædit ab his ipfis eft diversum contrario disolvere convenit , velut ipfifatentur - Eft enim certifima, & evidentiffima medela , sublatis quibus utebatur cibis , pro tritico panem exhibere , da  pro  crudis carnibus coctas, dj insupèr vinum propi  narly  nare, neque fieri poteft , quin his commu: tatis convalefcat ; e questa accertata cura come si è ritrovata , se non dal vedere, che le sudette cose hanno altre volte conferito in simili casi?  Seguitate pure la strada calcata da' noftri maggiori, se non volere errare, per la quale ebbe origine, e si è avanzata la vera Medicina, e questa è quella dell'offervazioni, conforine chiaramente confessa Ippocrate.(i) dicendo : Neque verò pigeat ex plebeis sciscitari  fi quid ad curandi opportunitatem conferre videatur , fic enim censeo artem univerfam coma moftratam fuiffe , quod fingula ex fine abi fervata, ad eadem aggregata fuerint. Animum igitur adhibere oportet fortuit,e occafioni , qu& plerumque fe offert , quæque cum utilitate, & lenitudine conjuncta eft, quàm cum sollicitatione, & forti defenfione; e ricavate pure li vostri raziocinj dalle cagioni de' mali, dalle cure à voi note, ed in quella conformità, che più vi appagano, che ottenuti in questa guisa, se  non fi) Hipp.praceptiones .  [ocr errors][ocr errors] non dimostrativi , faranno almeno inno-  centi, non potendo recare pregiudizio  alcuno, e state fermi in tale proposito,  per l'esempio di più d'uno , conforme,  che diceffimo, à cui è convenuto mutare  li raziocinj delle cure dapoi, che hanno  osservato in pratica meglio gl'andamen-   ti de' mali, e non prima d'allora si sono  accertati , che l'opinione era assai diver-  sa dalla verità, conforme nel suo sogno  ci fà conoscere Ippocrate, ( a ) non solo  perche li comparvero assai differenti trà  di loro, mà perche la verità dimorava  appresso Democrito, che non s'inganna-  va, e l'opinione trà l’Abderiti già pre-  giudicati, per la falla loro credenza, che  Democrito delirasse.        Appreso, che voi avrete le cagioni  ancora de'mali, all'ora sarete arrivati  à qualche perfezione maggiore , poten-  do, rotto già il silenzio Pittagorico, con  fondamento parlare, e con franchezza  ancora medicare, resterà solo d'istruirvi  in che modo si dovrà contenere ciasche-   duno (a) Hippo in epiß. Pbilope.2.  [ocr errors][merged small] D  [ocr errors] duno di voi in ornare, secondo la propria capacità ciò, ch'avrete acquistato tutti in commune.  > Parlerò prima con voi di mente fu. blime, e generofa, che vi pare un troppo angusto campo la sola Medicina , onde per far conoscere a tutti la vostra maggiore abilità, volete stendervi più oltre, ed all'acquisto d'altre scienze,conforme nelle private conferenze apertamente diceste, ove tal’un di voi mostrò genio grande d'apprendere le Mattematiche, altri l'Astrologia', e chi per ornamento le Lingue straniere, & in ispecie la Grecaj e chi per divertimento ancora l'erudizioni Istoriche i  Mi dispiace d'aver sentito dire, che trà voi yi fia chi lo faccia per genio grande, perche questo vorrei, che tutto lo ponefte alla fola Medicina's qual dovrete profeffare, onde viva pur sempre caurelato , e circospetto chi di voi hà  fimit geniono che non gli faccia perdere -Hamore à cid, ch'avrà dianzi acquistaso; perch'è solito, che chi apprende congenio grande una cosa nuova, trascura   necessariamente ciò, che prima se non  per genio , almeno per impegno lo ap-  pagaya .         Io per me non posso, nè devo op-   pormi à quanto deliderate, si perche è   onefto , sì ancora perch'essendo all'ora   voi già divenuti Maestri vorrete fare à  vostro modo ; Vi dò solo questo conse-  glio, che facciate regolare la vostra in  clinazione fempre dalla prudenza , e dal  giudizio, e che non la lasciare in tutta  sua libertà, e facendo voi in questo mo-  do non potrete errare, perché le sudette  virtù mai non permetteranno, che fi din  ftacchi dalla Medicina già appresa , nè  che nel fare li nuovi acquisti gli rubi  quel tempo, già destinato per lei, e final  mente faranno in modo , che non l'ap-  prendiate à quel segno di poterle pro-  feffare , mà per solo ornamento, e per   poterne ancora voi discorrere in quella   parte , che possa servire alla Medicina.   Mà vediamo d'ajurare , e consolare insieme voi altri, che restereste altrimena  1  [merged small][ocr errors][merged small] [ocr errors][ocr errors] timesti, non solamente per la separazione, che faranno da voi li vostri compagni, inà eziandio per la cagione di essa . In primo luogo parliamo chiaro intorno a'vostri difetti , per dare à ciascheduno di essi il suo rimedio , s'è possibile. Dilli s'è poffibile,perche se sarete affatto inetti, & incapaci mutate mestiere, conforme hò fatto fare à qualcheduno di simile inabilità, perche altrimenti vi affaticherete in darno fino , che viverete , mà re, ò la vostra memoria apprende con qualche difficoltà , tenétela continuamente esercitata , che migliorerà, volendo Cicerone, (b) che : Affiduus usus uni rei deditus, & ingenium, a artem fepè vincit ; ò il vostro giudizio non è pronto , ajutatelo con l'attenzione, e vigilanza, date tempo, che si farà, perche molte piante fioriscono prima, & altre sono più tardive; ò il vostro discorso è alquanto infelice, e non siete pronti, esercitatevi nclli discorsi publici , bene imparati à memoria, discorretela continuamente con li  vostri (b) Cicero pro Cornelio Balbo.  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] vostri compagni più franchi di voi, fae  tevi animo, & abbiate forma fiducia ,  che il vostro timore cesserà. Aspettate  ora da me di sapere il modo, che dovre-  te tenere per adornare ancor voi l'ope-  ra già fatta , à fine di non iscomparire  trà gl'altri vostri compagni, e con ra-  gione.        Già voi non vi curate d'uscire dal-  la Medicina , in questa dunque converrà  trovare l'ornamento, che sia adattato  al vostro bisogno, e doppo fatta matura  rifeflione, non trovo miglior conseglio  di quello, che fi ricava da Prospero  Marziano Medico di grand’ingenuità ,  all'ora , che ricercando la cagione, per-  che li Medici antichi erano tanto stima-   ti, & onorati assai più di quelli, che  vivevano à suo tempo, egli fù di fenti-  mento, che procedeffe ciò   per  effer stati. glantichi versatillimi ne' pronostici, e non vi sia discaro à sentire ciò, ch'egli diffe : () Cur prisci Medici tanti habiti fint apud homines, ut non folùm primas in  Ci. (c) Prosper Martian. 2.prediff. perf.23.  e  [ocr errors] D 3  Ciuitatibus, ac Regnis tenerent , Regibus Principibusque imperarent , fed etiàm summus honos , Diisque folis præstari folitus, Medicis tribueretur, admiranda enim circà agrotos , & præftitife, & prædixise eft. necessarium ; Sicut vice versâ mirum non eft ifi nunc adeù vvilitèr tractentur, quando nèc in curando, nèc in prædicendo quidquam spectabile pr&tent noftri, cum ea faciant tantummodò, a dicant , quæ ipfis idiotis sunt manifefia, & tamèn'artis pradantiam noftrorum temporum continuò jaEtant imperiti , Medicinamque posteriores ditasse profitentur , fed veniunt excufandi, eo quod antiqua thefauros adhùc non percepere, quibus tota quidem Hippocratis do. Etrina plena eft; Verùm præfens liber, [h.c. prædiétionum secundus ) adeò abundat, ur folus paupertatem, cu miferiam artis noftrorum temporum indicare fufficiat, nam quis nostrum eft qui centefimam partem eorum cognofcere poffit, qu& antiquiores Medicos comunitèr prævidere confueviffe in hoc libro teftatur Hippocrates ; Sicchè voi per fare spicco , & essere molto stimati  nella  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] nella professione impoffeffatevi bene de! pronostici d'Ippocrate , che uniti alla buona pratica acquistata , vedrete, che vantaggi questi vi recheranno , & effendo stati ricavaci da molte offervazioni uniformi, accadute in più secoli, non vi serviranno d'ornamento inutile,mà bensi molto profittevolese necessario, e tanto maggiormente se spoglierere ancora ciò, che v'è di migliore nell'Epidemj, ed in tutti gl'altri divini libri d'Ippocrate , per mettervene à memoria più , che  potrete , å fine di serviryene secondo li i bisogni, che vi si presenteranno, e que  sto studio lo farete in quell'ore, nelle quali vi persuaderete, che li vostri compagni le terranno impiegate all'acquisto d'altre scienzcacciocchè vi cresca il fervore ad apprenderle con emulazione.  Ornati, che sarete tutti nella conformità, che s'è detto, ogn'uno di voi ne farà la bella  comparsa ne consulti, ed all'ora si conoscerà chi di voi avrà fatta i  miglior elezione del compagno, e si rina contrerà, che voi, ingegni, ch'eravatemeno apprezzati degl'altri, per la voftra applicazione, e prudenza , certamente, che non iscomparirete tra gl' altri di maggior talento di voi.  Se il modo, che vi hò proposto non farà buono, e profittevole trovatene altro migliore,& acciocche lo possiate rinvenire più commodamente sia posto ogn' un di voi in sua libertà di sceglierlo à fuo piacere. S'avete genio di studiare prima della Medicina altre scienze, cosa ne feguirà facendosi, che non potendo sapere ancora cosa vi possa bisognare vi converrà ftudiarle ex profeso, e se l'avrete apprese con genio à quel fegno, che le pofliate profeffare, ciò, che studierete in appreffo; con minor piacere , lo subordinerete alla prima, che di già possedere. te, mà ne seguirà peggio ancora, che tutto farete meglio, eccettuatone il Medico, conforme vi farò costare in appresso.  Se il genio vi porterà ad apprenderle insieme con la Medicina, che ne feguirà? Ciò appunto , che accade à chi  [ocr errors] [ocr errors][ocr errors][ocr errors] in un medesimo tempo getta in un camро  semi diversi, e mescolati , e che ne raccoglierà? Un frutto confuso, e quem sto ancora à voi potrà succedere, poiche la bella ordinanza è quella, che facilita, e felicita le grand'imprese , dove che la confusione le preverte , e le annichila.  Inoltre s'avrete studiate le Mattematiche, con gran genio , e studio profondo, e vorrete poi fare il Medico niuna cosa di Medicina vi appagherà, cercherere in essa le dimostrazioni evidenti, e non trovandole, che ne seguirà, se non sarete nella pratica ancora versatiffimi? Che per temenza d'errare vi formerete un metodo di medicare à vostro modo , con pochi rimedj, creduti da voi sicuri à non poter nuocere , e semplici, come fono Occhi di granci, Stibio diaforetico, Sperma ceti, un poco di Caffia , qualche ottava di Tartaro di Bologna, qualche Clistiero, qualche bevuta d'ac. qua di Nocera , Oglio d'Amandole dolci, Sangue ircino preparato , Corno di Cervo filosofico, Giacinto bianco , e  cofe  [ocr errors][merged small] cole simili, tutte sicure à non poter nuocere, & in questa conformità vi regolerete tanto ne' piccioli, ne' gravi, che ne' gravissimi mali. Questo è un modo sicuro, mà nell'infermità benigne, e leggiere, non già in tutti i casi gravissimi, ne' quali è chiamato il Medico per dare un pronto riparo, non già per complimento, per espugnarlo, ò almeno per retundere la sua veemenza , e questo pretenderete di farlo con cose innocenti? ch'è il medesimo, che dire con cose  attività ? Queste dunque adoprerete ne' bisogni inaggiori , ne' quali : Melius eft anceps experiri remedium quàm nullum. Rimedi sicuri vi persuaderetç, che siano quelli, che non possono fugare il male ? Questa sarà una licurezza inutile, mentre non rileva il pericolo, sarà sicurezza, per chi assicura, non già per chi deve essere assicurato , perche se in quefta borasca si sommerge la Nave,non è tenuto chi assicurò al rifacimento del perduto, mentre che và tutto à danno dell'aficurato. Un tal modo di operare  lo  di poca  [ocr errors] lo potrebbe ancora esercitare , chi non sapesse altro di Medicina , perche già ch'è sicuro non ci vorrà grand'arte per praticarlo, mentre l'arte consiste in la. per conoscere ciò, che in un caso potrebbe nuocere, e nell'altro giovare, e per questo effetto si chiama il Medico, onde essendo gl'accennati rimedi sicuri, e non potendo nuocere à ch'effetto vi sarà bisogno del Medico per darli? Oltre di che, per parlarvi ingenuamente, questo modo di medicare è assai confimile à ciò, che fanno coloro , ch’imparano la scherma, che per non offendere, nè effere offesi adoprano certe smarre senza taglio, ed in vece di punta acuta hanno ivi un bottone di ferro foderato di pelle, ò cottone , qual sorte d'arme sicura in tempo di pace, di ch'efficacia sarà all?ora, che l'inimico ci affalisce con armi pungentiffime, lo potremo offendere , à almeno difenderci da effo? Credo di nò con questa sorta d'armi sicure, ci converrà per certo adoprare almeno armi eguali, e se saranno superiori riusci.  ranno  [ocr errors] ranno migliori ; il fimile appunto succederia quando il male grave alfalisse, se questo lo voleste espugnare con l'accennati rimedi sicuri, combattereste seco con quell'armi appunto senza taglio, e fenza punta, poco atte à fare validas difesa.  E non basterà in questi casi Parme sola , mà converrà saperla ben maneg. giare, per fare que' colpi sicuri riservati a' soli Maestri dell'arte, quali come li fapreste fare se mai non aveste maneggiate simili armi, volendovene talvolta prevalere?  Sò, che questa voce di medicamento sicuro, che non può nuocere'è molto plausibile appresso alcuni, che la considerano superficialmente, mà capita bene, è molto nociva , poiche nel bisogno più urgente non è tempo di passarlela con cose di poca attività, richiedendo quello ajuti maggiori , ò equivalenti alIneno ad esso, e tutto ciò, ch'è sicuro. à  non nuocere non basta per rimuovere ciò,che nuoce, onde se non ammazzano  direttamente possono almeno indirettamente nuocere, per la cagione, che non sono sufficienti à rimuovere ciò, che puol’ammazzare. Ippocrate,che conobbe tal verità assomigliò il Medico al Governatore della Nave: questi appunto trovandosi in una borasca di mare cofa dovrà fare ? Deve in primo luogo alleggerire la Nave, con gettar via ciò , che più l'aggrava, acciocchè tando più galleggiante non venga ricoperta dall'onde; Voi già mi capircte, onde non occorrerà mi spieghi di vantaggio, potendo considerare da voi medefimi , che alleggerimento rechino a'corpi, che si ritrovano nella tempesta del inale, eripieni di viziosi umori, si piccoli , e poco efficaci medicamenti.  Io non pretendo già porvi in difcredito li dettirimedj, perche in qualche caso possono essere profittevoli : Per esempio ne' veleni corrosivil'oleofi, ed in qualche altro caso ancora grave sono utilissime le copiose beure d'acqua, e cose simili, mà che siano sufficienti questi  per  per curare tutti li mali, dicovi apertamente di nò , perche in molti mali gravi convengono altri rimedi più efficaci, conforme ordinò Ippocrate : (d) V alentibus verò morbis, valentin natura medicamenta exbibeantur ; & altrove : Extre. mis morbis extrema remedia optima funt.  Anzi, che se si tralasceranno da voi li più efficaci in quei casi, che competono per sostituirvi questi più leggieridico, che peccherete d'omissione gravemente, potendone nascere pregiudizj gravi alli vostri Inferini in trascurar ciò, che li compete,per dar loro ciò, che non può recare profitto equivalente al bifogno. E quando il solo differire un rimedio possa recare del danno, come bene avvertì il divino Ippocrate : (e). Cum enim ab omni ante aliena fit procrastinatio, tùm verò maximè in Medicina , in qua di. latio vitæ periculum affert ; quanto maggiore lo recherà l'omiffione , essendo difetto più conliderabile della dilazione  Ne (d) Hipp de loc. in hom. (e)ld.in epift.ad Crat.  Nè per cimore d'essere tacciati di omiffione dovrete fare d'avantaggio di quello , che fiete tenuti di fare, perche all'ora incorrereste in un'altro errore , non inferiore al primo, mà come vidovrete in ciò regolare ve l'insegna Ippocrate nel primo Aforismo in tal guisa: Seipfum præftare oportet opportuna, & quit decent facientem.  Se divenuti Profeffori d'Astrologia farete ancora il Medico , non vi capiterà Infermo, che non vorrete alzargli las figura del decubito, non gli darete ri. medj se non che a' buoni aspetti de' Pianeti, e fuggendo li cattivi,cosa ne seguirà? Che perdendosi l'occasione pronta d'operare, l'Infermo se n'andrà all'altro mondo à riconoscere più da vicino li suoi malefici Pianeri, stanteche Occasio præceps, à quella bisogna , che indirizziate tutta la vostra attenzione, oltre di che vi servirete d'una scienza più incerta della Medicina per accertare ciò, che in essa crederete fallace. E se ornati di tutte l'erudizioni Istoriche vorrete esercitare ancora las Medicina per far pompa in quello, che meglio saprete , & è di vostro genio, comincierete à discorrere con li vostri Infermi,ò con altri, che ivi si troveranno presenti ab Urbe conditâ fino al tempo dell'Impero Romano, e con vostro sommo piacere , il meno poi , che farete sarà di pensare all'Infermo , che avete avanti gl’occhi, à cui dovete dare ajuto.  Iddio guardi, che tal’uno di voi , ch'avefse più spirito, che prudenza, s'annojasse di far ciò, che ho detto intorno l'osservazioni Mediche, e si volesse  porre à fare il Medico senz'avere acquistato un buon metodo di medicare, affidato solo in una gran scelta di belle, ed efficaci ricette, questi sarebbe simile à colui, che custodisce delle bellissime armi, mà non le så maneggiare, ed in conseguenza caderia in uno delli maggiori errori, che si possino mai commettere nella Medicina , cioè di divenire un gran Ricettante, e de' più validi, e pronti  ri  مرور  rimedi si Chimici, che Galenici, che avemo, e non sapendo il modo d'adopee rarli l'applicheria à casa, con tutto, che fi fosse ideato d'imitare un Capitano, che per conseguire la vittoria fi serve di valorosi soldati, e questo modo d'ope, rare quanto possa riuscire dannoso, lo lascerò considerare à voi, per quando farete divenuti già provetti ; solo riflettete ora, che quel Capitano, che non sa comandare li suoi valorosi soldati, in ve. ce di vittorie riceverà bene spesso delle sconfitte, e quel troppo ardire indica ignoranza, come afferi Ippocrate: (a) Audacia verò, artis ignorationem arguit : E in altro luogo :(b) At quod temerè fit nullo modo fubfiftere videtur, sed nomen tantùm inane efle .  Non riuscendo dunque tanti altri modi ricercati da voi sarà neceilario,che seguitiate quello, che v'è stato da me proposto, con il quale farete sicuri di abilitárvi à poter divenire veri Medici  E  )quan(a) Hippocr. de lege. (b) Idem in lib. de Arte,pro ftri fore inp Ver  ner  te,  fo fe  quantunque fiatc trà voi d'abilità difu. guali, & in particolare per quel profittevole uso, che potrete ricavare dalle diligenti, creiterate offervazioni fatte intorno l'Infermi, non potendosi questo apprendere in altro modo , conforme giudicò Ippocrate : (a) Usus namque, qui in fapientia , tùm in arte ei adjuncta , doceri nequit ; e questo di quanta efficacia fia, sentitelada Cicerone: (b) Aljungant ufum frequentem, qui umnium Magiftrorum precepta fuperaf.  Mà non vorrei, che tornaste ora à contriftaryi, voi, che fiete di natura malinconici, parendovi forse troppo, quanto v’hò proposto per neceffario in acquistare la buona pratica , perche se vorrete diyentare veri Medici, ed eflere compresi nel minor numero di quelli, di cui parlò Ippocrate nella sua legge così: Medici nomine quidèm multi, re ipfa perpauci , sarà necessario, che facciate dal canto voftro ogni posibile, & à fine  pro(c) Hipp.de decenti ornatu . (d) Cicero 1.de Oratore .  [ocr errors] proseguiare con maggior fervore li vostri studj, vi mostrerò in domani quella fortuna propizia, che vi potrà toccare in premio delle vostre virtuose fatiche. Venga pure chi di voi la desidera ottenere, che gli farò conoscere quella forte, ch'è sempre favorevole, non essendo soggetta à vicende, à fine, che di efla se ne innamori.  1  [ocr errors][merged small][merged small] GIORNATA III.  Nella quale si mostra la fortuna , che deve defiderare, e procurare il vero  Medico , e la via più figura  per ottenerla,  A  D un gran cimento oggi m'espon  in volervi mostrare la vostra buona fortuna, posciache desiderandovela propizia, durevole, e senz'effere soggetta á vicende, qual potrà essere mai questa fortuna sì prospera Quando nè le grandezze, nè gli onori, nè le ricchezze, né le delizie, e piaceri,cose cotanto bramatç nel mondo, la possono in cale stato costituire ? Appena è arrivato l'uomo alle grandezze, od onori sommi, che questi cominciaio da bel principio à contriftarlo, alle ricchezze, che l'infaftidiscono, alle delizie, e piaceri, che questi ancora non gli rechino goja, e confiderabile danno: in somma si scorge chiaraméte,che Nemo fua forte contentus.  [ocr errors][ocr errors] In conferma di ciò riferisce Ippon crare nella lettera scritta à Damageto , che Multi fene&tutem exoptant, cumque cò pervenerint gemunt, nulloqae in fatu firmâ mente perfiftunt . Principes, ac Reges privatum beatum prædicant , privatus Re. gium Imperium affe&tat , qui rem publicam regit, artificem tamquàm periculi expertem laudat , artifex verò illum velut in omnia potentiam exercentem. E pur questi quan to mai avranno desiderato fimili fortu. ne, quanto vi ayranno faticato peč conseguirle, & ottenute , che l'ebbero, punto ne rimasero contenti; Ela cagione di ciò fù, che questi andavano in traccia della bell'apparenza della fortu. na fallace, non glà della di lei sostanza ftabile , e quello, ch'è peggiore , la cer. cavano ancora fuor di strada, conforme nella sudetta lettera fi legge: Rettam enim virtutis viam puram , minimèque af peram, ac inoffenfam non cernunt ; Questa via dunque bisognerà , che ancora vi mostri, acciocchè pofliate tutti ottenere il yoitro intento, ed io uscire dal mio.  E 3  cie  [merged small][ocr errors] [ocr errors] cimento con reputazione ; state attenti per non isbagliarla, perche si tratta di fare acquisto di una fortuna stabile,eterna, e non soggetta á vicende.  Che il Medico debba essere foriu. nato non vi cade ombra di difficoltà ; mentre , che se fosse diversamente, chi mai fi vorria prevalere dell'opera di coPii, al quale la forte foffe contraria , Paveffe affatto abbandonato, e che non gli piovessero addosso da per tutto, che infortunj, e miserie, da ogn’uno sarebbe certamente sehernito, e per necessità gli converria mutar mestiere, sicchè è incontrovertibile, che Oportet Medicum fe forfanatum  Mà qual fia questa fortuna, che strada dobbiate tenere in cercarla, e ciò, che dovrete fare per confeguirla , procurerò ora mostrarvi con la buona fcorta d'Ippocrate, à fine non possiate sbagliare.  Due sorti di fortune fi ritrovano descritte da Ippocrate, (e) una delle  quali (c) 110 lib.de loc:in hom.  1quali è quella, ch'è fuori di noi, & ope* ra independentemente da noi, e l'altra, ch'è sempre con noi , & opera conforme noi vogliaino .  Quella, ch'è fuor di noi così apa punto egli la descrive : Sui enim juris eft, Fortuna , nulli imperio paret , neque ad cujusquam votum fequitur; qudla poi, ch'è sempre con noi l'accenna con dire : Mihi enim foli bi fortunatè afequi , idemque infortunatè non assequi videntur , qui recte quid ei malè facere fciunt , e dependendo il bene, ò male operare da noi, la for tuna dunque, che da ciò resulta, da noi dependerà, e sarà questa per sempre inseparabile da noi medesimi.  La fortuna dunque, ch'è fuori di noi è quella, ch'è affatto cieca , e non considera il merito di chi benefica, ma dà à chi più le aggrada di vantaggio ancora di quello, che il beneficato da ella sappia mai desiderare : Talvolta ad un Contadino avvezzo å zappare la terra, fà discoprire un tesoro; capace à farlo divenire molto ricco, con tutto, che le  sue  1  E 4  fue brame fossero di pochi soldi; Ad un? altro ancora più miserabile farà conseguire una grazia nel giuoco, che lo toglierà per sempre dalle sue miserie, e tutto ciò proviene-, perche vuol fare à suo modo, giacchè Sui juris eft, nulli imperio paret  L'altra poi; che risiede in noi, è quella, che secondo, che la trattiamo ella ci corrisponderà, se la vorremo propizia , se variabile, fe peffima, propizia, variabile ; e pelima ancora l'otterremo, conforme da ciò, che Ippocrate c'insegnò li puol dedurres & ancora dall'esperienza di coloro , qui rectè quid, vel malè facere fciunt, giornalmente vediamo.  Certamente, che la prima fortuna non è quella, che deve essere desideratiz, e procurata da voi, che non dovete zappare la terra , nè tampoco dilettarvi del giuoco, ed anco maggiormente , ch'effendo cieca, forda, e per non dispensare à dovere le sue grazie ingrata ancora , questa non deve effere defiderata da voi, che dovete conseguire il premio per giu  Aizia,  stizia , ed à quel segno, che vi si deve ;  Oltre di che la sua sola istabilità bafte,  rebbe per farvela odiare, dovendo voi   defideíare una forte stabile, e permanen-  te; per non provarne le di lei vicende,   Esclusa dunque la prima forte, neceffa-  riamente dovrete contentarvi della se   conda; e tanto maggiormente, che la   potrete regolare à vostro piacere.         In trè modi dunque potrete fabri-   carvi la vostra fortuna, ò buona , ò va-  riabile , ò peffima , se la vorrete buona ,   dovrete operar bene, conforme v'inse  gnò Ippocrate nel detto libro in tal gui-   la : Fortunatè enim affequi eft rectè facere,   hoc enim, qui fciunt faciunt , ed allora cià   otterrete , quando scaccierete affatto da   voi li vizj, e farete in modo, ch'ella sem   pre ammiri le vostre virtù, e si ponga in   soggezione, quando anche non voleffe,   di operare a'vostri vantaggi. Se poi la   bramerete variabile, fatela conversare   con le vostre virtù, e con li vostri vizj,   che imparerà dal diverso modo d'opera   re, che li pratica trà esli ad effere variag   bile  [ocr errors] 2  1  ;  bile ancor essa. Qual modo l'indicd ancora con dire : (f) Ego verò fi omnibus modis ditefcere voluiffem ; cioè se per  via di virtù, e de vizj avesse voluto fare fortuna , non ad vos decem talentorum gratid, fed ad magnum Perfarum Regem proficiscerer ; con che fece conofcere ancora l'incostanza di detta fortuna, rimirandosi ella ben {peffo istabile, sì in quei fervigj, che dependendo dalla volontà di molti con la sola virtù non s'acquistano, come bene speiso l'esperimentano i Medici condotti; che nelle Corti, ove trà molti altri la provorno tale Seiano e Bellisario.Se poi vorrete farla divenite pellima, consegnatela in potere de' vostri vizj, che apprenderà da questi i loro pessimi costumi , e perima certamente diverrà, ed udite con quantas chiarezza ve lo dice egli nel libro sopracitato : Qui enim non reftè quid facis, non  fortunate afēqui poterit? quum reliqua , que æquum eft facere non faciat. Talmente, che la vostra buona fortuna, the voi  do!  (f) In epif.Abderir. Hippo  dovete procurare è quella che proviene dalle vostre buone, e virtuose opere, c questa l'avrete propizia, e ftabile fino, che vorrete , effcndo subordinata al vostro sapere, e volere, giacchè al parere d'Ippocrate nel luogo sopracitato, effa fi può felicemente conseguire, da chi sda e vuole: Et facile eft ipfam felicitèr alle. qui, fi quis fciens uti velint, d'onde faa cilmente n'è nato quel detto: Virtute dua cey comite fortuna.  Non basterà però d'avervi ciò brem vemente accennato, per potervi cons sicurezza determinare il modo , che dov vrete tenere in procurare questa buona, e tanto desiderabile fortuna, perche ciò, che vi hò detto fin'ora , non è sufficiente à farvi capire in che maniera vi dovrete contenere , allora, che sarete  Eper porvi in viaggio per cercarla, e ciò, che dovrete fare nel progresso di quello , 6 quanto di felice ne potrete riportare dalla vostra lunga, ò breve navigazione, onde sarà necessario, che per meglio esaminare li sopr’accennati punti, che cifiguriamo d'essere già presenti al porta dell'imbarco , e che nel fare detto viaggio mi serva della seguente ideata maniera per iinitare ancora in ciò Ippocrate, che dovendo andare a trovare la sua fortuna in Abdera, conforme udirete in appreffo, ancor egli vi si porcò per mare, ed in una nave non presa à caso, mà scelta da lui con molta cautela,come si legge nella lettera prima scritta à Damageto, che comincia : Cum apud te Rbodi ejem Damagete, navem illam vidi , cui Solis infcriptio inerat , quæ mihi perpulbhra , puppi probè, idoneâ carinâ inAructa , muliaque transtra habere vifa eft, tu verò eam comendabas c. cam ad nos mitrito @c. E tutto ciò, non senza gran mistero, mentre circospetto, e con il buffolo da navigare avanti gl’occhi deve viaggiare chi cerca la fortuna, e deve  per tale effetto scegliersi un bastimento sicuro.  Questo Porto è appunto il luogo , da dove s'intraprende, il camino verso il Tempio della felicità, ove dovrete por.  ancora  tarvi  1  tarvi, per conseguire la buona forte a. e queste trè navi sono già qui allestite per ogn’uno di voi, che voglia fare il sudetto viaggio , converrà , che à vostro piacere ve ne scegliate una di esse, mà prima , che facciate tal'elezione , nella quale facilmente potreste ingannarvi, fentite da me un breve ragguaglio di tali bastimenti, del loro modo di viaggiare, de pericoli, che s'incontrano, e dell' esito, che si hà della navigazione in ciascheduno di efli.  Mirate colà à finiftra, quella si chiama la nave del Sole, ivi la Prudenza regge il timane, la Giustizia invigila al buffolo , la Fortezza regola l'antenne ela Temperanza sopr'intende al tutto: ivi non risiedono altro, che virtù,e tutte attente alli loro assegnati ministerj. Per entrare in questa si ricercano due requiz fiti, e sono i Attestato di abilità, e provę di buoni costumi , altrimenti chi n'è privo, non vi fi può imbarcare.  L'altro bastimento, che stà alla deftra , li chiama la nave di Giano, questa  hà  [ocr errors][ocr errors] hà parimente buoni Piloti, che sono le accennate virtù, che regolano la nave del Sole, mà vi è solamente di male, che vi si trovano alcuni vizj, e tra questi vi è il proprio interesse, la Politica,la Menzogna, l'Adulazione, il Secondo fine, vestiti tutti di Zelo, ela Malizia, che s'infinge tutta umile, in somma vi sono con le virtù mescolati li vizj, che per dimorare insieme con esse conviene loro di stare molto circospetti, e tramutati in altri sembianti, e per entrare in detto bastimento, non si ricerca altro attestato, che dell'abilità.  Il terzo poi, situato nel mezzo, che fà sì bella comparsa, si chiama la nave felice : ivi al timone presiede la Malizia, al bussolo sopr’intende l’Inganno , lw vele si maneggiano dall'Astuzia, la Maledicenza,e l'Impostura consultano continuamente trà esse cose gravi, la Lussuria , la Gola, con tutti li vizj consimili festeggiano , ciripudiano tra loro, ed allettano chiunque vedono- ivi approfsimarsi ad entrare nella loro nave, dicen  do  [ocr errors][ocr errors][merged small][ocr errors] do à tutti: Per entrare quì trà noi non si ricercano tanti requisiti; qui non serye abilità, li buoni costumi non s'apprezzano, basta, che abbiate genio à gustare de’noftri piaceri, che subitamente vi ammetreremo, e condurremo in un trata to al porto della felicità.  Vado vedendo, che tal'uno di voi è portato dal proprio genio di eleggerli questa nave, che ha il nome felice, con tutta l'apparenza di prosperità, senza pensare più oltre, conforme:(8) Magna pars hominum eft, que navigatura de teme peftate non cogitat. Mà riflettete bene à ciò, che fate, poiche non bisogna tosto fidarsi di quel bel nome, e di quella prima vaga comparsa, conviene ancora ri. flettere al fine, che può avere una simile navigazione, che ora vi spiegherò.  Si ftaccherà questa nave dal porto con allegria, mà nel viaggio incontrerà molti pericoli , perche non è regolata dalla Prudenza, e quantunque la Malizia , e l'Inganno facciano quanto pollo  [merged small][merged small][ocr errors] no,  (g) Sexeca de Traxq.Anims.sapoll.  1  no, acciocchè non si sommerga, nulladimeno questa non potrà sfuggire il passo dell'Ignominia , che stà situato un buon tratto di camino prima di giugne. re al porto della felicità, (dove bisogna neceffariamente arrivare per ottenere la buona forte) si rimira ivi uno scoglia grande, ove è la residenza maggiore di tutti li vizj, hà nella sua estremità, ver, so il sudetto porto alzate due gran colonne, ove è scritto : Non plus vltrà, affinche sappiano tutri li vizj, che fino colà possono giugnere , mà che più oltre è vietato loro il passare. Approdata, che sarà detta naye al sudetto scoglio, è su, bitamente visitata , e ciò, che di viziosa ivi si trova, con tutti'li viziosi , e vizj loro viene arrestato, non potendo anda, re più oltre simil pefte , cosa di buono vi potrà mai essere dove fono tanti vizj, consideratelo voi? Onde farà necessario, che tutto ivi rimanghi in potere de' vizj. Che faranno all'ora quei miserabili, che  s'imbarcarono in fimile navę, renduti schiavi de'proprj vizj ; qual fortunaspropizia avranno ritrovato, quando, che la loro pessima ancora l'abbandonorà, per non restare ancor essa schiava ed il tormento maggiore, che avranno, farà di rimirare con li propri occhi tra, passare quelli, che navigano ne i bastimenti del Sole,e di Giano ancora,fe chi viaggia in questa fi farà regolare dalle virtù ; oh che cattiva elezione avreste fatto mai se aveste condesceso al vostro genio ! come vi trovereste, che farele in fimili miserie , privi della libertà, e della forte? Plinio ciò predisse faggiamente, dicendo, ( a ) che Habet has vices conditio mortalium , ut advere  fa ex fecundis , ex adverfis secunda ne 2 cantur.  Sicchè fuggire, per quanto potete, i simili imbarchi , che vi conducono, non  al porto della felicità, mà bensì à quello ? dell'ignominia , e delle miserie ; onde  bisognerà, che vi scegliare è la nave del ? Sole, ò quella di Giano per giugnere ti al desiato porto della felicità, per ri,  F  tro(a) In Panegir. at Trajan.  [ocr errors] 2  [ocr errors] trovare la vostra buona fortuna  Il proprio genio vi farà inclinare talvolta d'entrare più costo in quella di Giano, con la quale crederete di poter ritrovare una miglior fortuna, à questo non mi opporrò, perche dove vi è la Prudenza , c la Giustizia, sc farete à lor modo , con tutto, che vi siano vizi ancora, questi non potranno molto nuocervi; Mà prima di entrarvi, sarà bene, che sappiate il viaggio, che fanno, si questa , à cui vi porta il vostro genio, che quella del Sole, che voi poco gradite, e che tributo portano sì l’una, che l'altra al Tempio dell'Eternità, affinche meglio fiate informati di tutto, prima , che vi determiniate all'imbarco.  S'incaminerà con prospero vento la nave di Giano verso il porto della felicità , incontrerà nel camino varie tempeste , mà la Prudenza, e la Giustizia, che la regolano, le opereranno senza il disturbo de’vizj, le supereranno tutte con la loro buona condotta; capiterannó molte, e varie occasioni assai vantag  giose,  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] giose, se n'approfitterà più , ò meno chi farà ivi imbarcato , secondo, che si consiglierà con li vizj, ò con le virtù, fe darà orecchie a’yizj , & in ispecie al proprio interesse, gli dirà, che tutto può fare, fe alla Giustizia , se non quello , che deve, ch'è convenevole, e giusto, arriverà all'accennato passo dell'ignominia si fermerà per iscaricare ivi tutti i vizj, con tutto quello, che di vizioso fi ritrovi nella ricerca generale, che ti farà della nave, e se per disgrazia di chi ivi s'imbarcò, Coffe ftato guadagnato da? vizj, e fossero questi in detto viaggio divenuti arbitri della sua volontà, resterà ivi tutto l'acquisto fatto,come cosa proveniente dalla loro viziosa industria, e quel, ch'è peggio, ne seguirà del mifero passeggierofatto schiavo, ciò, che successe à chi navigò nel bastimento felice, le povere virtù con l'infelice forte abbandoneranno chi le tradì, chi le vilipese, e se n'andranno altrove à ritrovare chi meglio le tratti. Succedendo poi diversamente, è cie  l'in  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] F 2  [ocr errors][ocr errors] l'imbarcato abbia fatto tutto quello che gli fu suggerito dalla virtù fattosi il sudetto espurgo, e lasciati ivi tutti i vizj, proseguirà la nave il suo viaggio verso il porto della felicità, dove appena giunta, che si scaricherà tutto ciò, che fi porta al Tempio dell'Eternità, e lo presenterà la Gloria avanti il Tribunale della Giustizia eterna, che ivi à tal'etfetto presiede, domanderà questa, se quel tributo, che si offerisce sia stato in alcun tempo inescolato con robbe viziose , & inferce , risponderà la Gloria , che quantunque fia venuto accompagnato da' vizj, nulladimeno, che sia Rato già espurgato à bastanza nel pallo dell'Ignominia, dove tutto ciò, chew d'inquinato vi era , fù lasciato assieme con i vizj; non basta, risponderà la Giuftizia, è tributo, che ha avuto comercio una volta con cose infette, non deve andare à dirittura al Tempio dell'Eternità, fi consegni al Tempo , che gli faccia fare una lunga , e rigorosa quarantena onde bisognerà aspettare la discrezio  [merged small][ocr errors] ne del Tempo, quando le vorrà eternare!  Il viaggio poi, che fà la nave del Sole , è bensì più adagiato , perche que fta non naviga à tutti i venti, hà delle tempefte , mà le supera, perche la regge la Prudenza; non fà grandi acquisti, mà fono sicuri, perche li regola la Giustizia, nel passo dell'ignominia non si ferma punto, perche non hà seco li vizj, che la facciano trattenere per il loro sbarco, giugne finalmente al porto della fesicicà, non avendo quanto si porta per offerta avuto in alcun tempo comércio con cose infette, e viziose , appena presentato dall'Umiltà senza pompa avanti il Tribunale della Giustizia, che questa fubitamente ordinerà , che si trasporti tutto al Tempio dell'Eternità , eflendo cose pure, e non sospecte d'inquinamento alcuno, e che fi registri ancora trà gli Eroi il nome di colui, che l'offerisce, ed ecco la sua fortuna divenuta già stabile, ed eterna, per goder’ancor'effa i favori dell'Eternità.  AveteAvere già sentito il tutto, ora siete in istato di deliberarvi, e di prendere quel partito , che vorrete per consiglio mio, imbarcatevi pure nella nave del Sole, se avete tutti li requisici necessarj, che sono abilicà, e buoni costumi, e se ne siete privi, procurareli pure à tutto costo, perche farerc più sicuri di portare  offerte , fe non molto considerabili, alimeno sincere, ed affai gradite dall'Eter  nità, se lo farete di controgenio : Durum eft confcendere navim ; sappiare però, che è un quieto vivere, dove l'ainbizione non perturba la fantasia, l'ira non rode il cuore, l'invidia non consuma le mi. dolle, la superbia non accieca , e dove finalmente tutti gl'altri vizj non possono punto nuocere, ftantechè non vi dimorano, l'ingresso vi parer à duro, mà il rimanente vi riuscirà felice, e quando non aveste altro motivo di sceglierla, vi doyria animare å farlo , che Ippocrate per andare in Abdera à cercare la sua forte non fi fervi della nave felice, nè di Giano, mà benisi di questa del Sole, e la  :  CO- .  [ocr errors][ocr errors] comendò non solo prima d'averla provata, mà molto più dapoi, dicendo; (b) Cui cum Solis figno, etiam fanitatem apponito cùm re verâ , prospero numine vee la fecerit . E certamente, che prospero numine ancor in questa si navigherà per, essere regolata dalle sole virtù.  Se poi sarete risoluti di cercare la vostra forte sù la nave di Giano, procurerete almeno di non navigare à curti li venti, e terrete frenato il vostro inte. resse,acciocchè quando la Giustizia non potrà navigare , esso non ordini il disancoramento, e che quando la Sincerità vorrà operare, allora l'Adulazione non la turbi, e finalmente difautorerete tutti li vizj, che ivi ritroverete, e li porrete in catena , come tanti schiavi, altrimenti sotto specie, ed ombra di virtù v'inganneranno sempre: Fallit enim vitium fpecie virtutis,  umbra. Operando voi in questa maniera, acquisterete più gloria, che se navigate  nella (b) In 1.6 2.epift. ad Damagetum.  F4  [ocr errors] nella nave del Sole, perche vi farete saputi ancora difendere dagl'inimici domestici , e la vostra fortuna restando ammirata del vostro inodo d’oprare , vi sarà molto propizia , e gli darete voi medesimi stimolo d'invigilare à vostro favore, vedendo , che operate per eternarla; sappiate però, che in tutto il tempo di detta navigazione, vi converrà stare vigilantissimi , e non meno di quelli, che passeggiano sopra precipizj, mà à far questo hoc opus : bic labor eft.  Da queste trè figurate navigazioni, comprenderete non solo ciò, che nel corso di vostra vita vi potrebbe accadere, mà il modo ancora di schivarne ogni finiftro, che fosse valevole à ritardarvi l'acquisto della buona fortuna , perche se voi da bel principio vorrete darvi in preda a' viziosi piaceri , che progreffi mai potrete fare ? E che fortuna prospera potrete conseguire? Ed incominciando una volta à gustare le viziose delizie , non avrete più palato capace di assaporare il nettare delle vir  tù;  [merged small][ocr errors] [ocr errors][ocr errors] tù ; la malizia, l'inganno , e la frode vi sosterranno sino che gl'è à grado , mà alla tine avendo conseguito ciò, che bramavano da voi , vi lasceranno cadere, anzi forse ajuter anno, come fanno l'infidi compagni, nel precipizio maggiore delle miserie, nel quale ritrovandovi, di chi vi dovrece lagnare? forse che della vostra mala sorte innocente , quando, che voi medesimi ne licte stati glautori. La vostra fortuna non ha mancato , ella troppo hà fatto per esservi propizia, ambiva di favorirvi, mà voi all'ora la tenevate lontana, perche credevate, che il trovarvi in delizie, in ispafli, e viziosi divertimenti, fosse il miglior negozio, che potreste mai fare : E se talvolta v'infinuava la strada delle virtù con qualche stimolo interno , voi la rigettavate con dispreggio , onde meritamente esclama contro costoro Ippocrate : (c) Indoetus autèm qui eft , quomodò fortanatè affequi poffit? Si quid enim etiàm affequatur, non Memorabilem fanè fucceffum babebit ; Qui  enim (c) Hippode locis in bom.  3. A  3  [ocr errors] cnim non rectè quid facit , non fortunate affequi poterit , quum reliqua , quæ æquum et facere, non faciat;cd altrove :(d) Ego verò ut fortuna quidem quavis in re non nibil tribuo , ità certè cenfeo malè à morbis curatis , ut plurimùm adverfam fortunam contingere ; e nell'epistola à Damagero così dice, parlando di simili sfortunati viziosi: Eorum res adversas derideo,eorum infortunia intento rifu excipio. Veritatis enim instituta violant.  Se poi vorrete seguitare la strada di mezzo, e mantenervi amico delle virtù senza discostaryi affatto dalli vizj, e questa con tutto sia meno pericolosa, non è molto sicura , perche quantunque in essa farete più ricchezze, stante il fecolo corroto, il buon nome non l'acquisterete stabile, e di lunga durara, edin conseguenza incostante farà la vostras fortuna , inercèche tutti quegl’artifici usati, quelli difettucci d'adulazione di qualche bugiòla à tempo, e di quelle mormorazioncelle coperte, di quel zeloaf(d) De Arteaffettato, e giustizia con il secondo fine, modi più tosto appresi da Correggiani ozioli, che da buoni Maestri, scoperti , che saranno dagl’uomini di stima , e di senno, questi vi perderanno quel concetto, che prima avevano di voi. Oltre di ciò, che vita mai infelice sarebbe la vostra, dovendo servire à due Padroni Deo, Mammona : Deo, ch'è il Protettore delle virtù, & Mammona de' vizj: Nemo poteft duobus Dominis fervire , Deo,  Mammond . Mà dato ancora il caso, che vi riusciffe di farlo, che vantaggio ne ricavereste mai, mentre le dolcezze dell' ingenuità ve le amareggierà l'adulazione, quelle della giustizia ve le dissapo, rerà il proprio interesse, quelle del zelo l'attolicherà il secondo fine, vivereftę continuamente inquieti , stando sempre vigilanti, che non si scoprissero li vostri difetti, perche vorreste passare per ingenui , e non sareste , per giusti, e prende reste ogni arbitrio contro il dovere, con qualche cosa di vantaggio -; ficchè il partito più sicuro farà di vivere lontani  da,  1  da'vizj, e starsene con le fole virtù ; perche quantunque le ricchezze non vi pioveranno addosso da per tutto, nè l'aura popolare vi porterà molto in alto, con tutto ciò quel buon nome, quel buon concetto, che formeranno di voi gl’uomini sensati, non vi sarà mai tolto, durando sempre stabile ; perche è fondato sù le vostre virtù, permanenti sù il vostro onore immutabile, che est Splendor virtutis , come S. Ainbrogio negli Officj asserisce. Onde voi operan+ do bene otterrete la sorte stabile, conforme ve lo predice ancora Ippocrate, (e) dove così parla : Fortunatè enim affequi eft re&tè facereshoc autem qui sciant faciunt , e d'avantaggio, viverete con una somma tranquillità d'animo,perche goderete tutto quel gran dilettoyche apportano le virtù a' loro seguaci, non potendosi ciò per altra via conseguire, mentre: (f) Semita certè=Tranquilla per virtutem patet unica vitæ ; nè per questo non istabilirete la vostra casa, anziche 1  le). Deloc.in hom. [f] Juvenalis forira 10:  me  ز  meglio degl'altri, e per due ragioni, la prima, per avere fatto li voftri acquisti onoratamente con le fole virtù; l'altra poi, perche il mondo non è così spopolato d'uomini, che amano, e seguitano le virtù, quanto da alcuni si crede, effendovene di molti, onde voi, che se guitare questa buona via ò sarete pochi, ò numerosi ; se pochi, viverete bene,  perche da molti Tarete stimati, fe poi į farete numerosi, converrà, che li viziosi  ancora , ch'avranno bisogno dell'opera vostra s'accommodina alli vostri retti costumi.  Caminando dunque voi per la via delle fole virtù , potrete senza fallo conseguire la vostra buona sorte, e por trete allora dire çon ragione : Nos te,  Nos facimus  fortuna Deam, coloque locamus •  Dove che caminando voi diversamente,  appena vi sarà permesso il poter dire :   Nos facimus fortuna Deam , mundos que locamus,  Stan  [ocr errors] Nos te ,  Stanteche appena  sù l'aura popolare iftabile, in tal caso, la potrete appog. giare, nella quale non si curò punto Ippocrate di fondare la sua fortuna, come da più motivi si ricava, c primieramente, da ciò, che scrisse egli à Democrito, manifestandogli, che dal volgo, disprezzatore delle buone opere, aveva ricayato più tosto riprensione, che onore, con che fà credere, ch'egli non procurava có compiacergli da cattivarselo, affinche aveffe detto bene di lui, e l'avesse onorato, perche la sua politica solo consisteva, in operare, conforme si doveva, ed in far ciò, che solamente era decente al vero Medico, conforme fi spiegò nel primo de' suoi Aforismi in tal guisa : Se ipfum præftare oportet, quæ decent facientem; e ciò in termini prù preciâ l'individua affai meglio in altro luogo , (8) dove così dice : Neque verò gratiam, qua tibi homines demerearis subtrabo , cum fit Medici præftantia digna , eorum autem, que per Instrumenta adhibentur, & de  mon  (8) Hipp in lib de præcepto  monftrationis eorum, quæ fignificant , reliquarumque ejusmodi memoriam adeffe oportet, quod fi vulgi tibi audientiam comparare voles, id non valdè gloriosè insti. tuas , neque tamen cum ostentatione portia. câ fiat, industrie enim impotentiam arguit, neque certè probo induftriam multo labore partam in alium ufum transferri , quod per Se fola ut eligatur grata fit ; Inanem enim fucı laborem cum ambitiofà oftentationes tibi impones.  In oltre tal verità si ricava ancora , dall'aver egli ricusato il servigio del potentiffimo Rè Artaserse, mentre certa cosa'era, che se avesse desiderato d'acquistare l'aura popolare , non doveva egli ricusarlo, poiche ritrovandosi in un tal posto, senza dubbio alcuno tutta la Persia saria corsa ad onorarlo, niuno averia potuto più dir male di lui per tema di non incorrere nell'indignazione del Rè potentissimo Artaferse, onde con averlo ricusato dà à divedere, che egli non fi curava punto di dett'aura popolare, nè delle ricchezze, e fortuna, che dacssa provengono, conforme apertamente fi spiegò nella lettera scritta alli Abe deritani, dicendo ivi: Ego verò fi omnibus modis ditefcere voluifem viri Abderia tæ , nè decem quidè m talentorum gratiâ ad vos venirem, fed ad magnum Perfarum Regem proficiscerer , ybi &c.  E per far conoscere meglio à tutti, ch'egli non caminava per la via dell'aura popolare, nè delle ricchezze, mà bensì per quella della sola virtù volle portarsi in Abdera , folainente per visitare, e trattare con Democrito, e questo perche lo faccffe lui medesimo lo confesso, dicendo : (b) Eum autem gravibus , firmis moribus ele præditum intelligo ; talmente, che stimò egli fortuna maggiore quella, che sperava ottenere con trattare con un'uomo di questa sorta , per apprenderne da esso qualche buon dor cumento, non solamente de i dieci talenti offertigli dagl’Abderiti,inà ancora di tutte le ricchezze, e grandezze insie: me della Persią, & udite con quantan  chiz (h) in etir. Abderit.  [ocr errors] chiarezza lo dice : (a) Rex Perfarum nos ad fe vocavit nefcius mibi potiorem of fapientiæ , quàm auri rationem .  E finalmente , acciocchè meglio comprendiate , che quanto v'hò detto intorno alle trè strade, che vi sono per cercare la fortuna, o qual di queste dobbiate scegliere, s'uniformi sempre più con i sentimenti del gran Maestro, confermiamolo ancora con l'accennate trè vie di cercare la fortuna , contenute in detta lettera. Primieramente con il quomodocumque ditefcero ci addita un bivio, cioè tanto la strada, che conduceva in Persia , à fare acquisto di cesori, e grandezze considerabili, che quella di Abdera , che allettava all'acquisto di dieci foli talenti ; La prima di queste egli non la ftimò à proposito, perche conduceva in paesi barbari, inimici, e dove vi era la peste ; La seconda nè tampoco , perche dubitava, che quel vizio dell'inte, resse, que' dicci talenti, avessero possuto rendere servile, e schiava la sua virtù,  G  cosa (a) Hippo in epiß. Denetr.  cosa fece egli per battere su'l sicuro, fi fabricò la terza via, espurgata da ogni vizio, e prima d'incaminarti per essa la descriffe in tal guisa all’Abderiti: Mihi verò ad vos venienti , non Natura , neque Deus argentum promiserit . At nequè vos [viri Abderite] per vim obtrudite, fedlia berè artis liber â elle finite operâ . Qui autem mercede operam fuam locant, hi fcien. sias, tamquàm ex priore libertate manci. pio dantes , fervire cogunt .  Oh Ippocrate, se questi tuoi documenti fossero stati mai dati à rivedere à quel Quinto Petilio Pretore Urbano, à cui pervennero in mano i libri del dia finganno composti da Numa Pompilio , certamente che,ò l'averia fatti brugiare, conforme che fece quelli, o pure ti averia fatto quel favore , che fecero gli Abderiti al suo Democrito, che lo dichiarorno pazzo, e fi faria servito come Precote delle seguenti cognecture per dichiararti cale, primieramente avrias dedotto contro di te, che tu per portarti da Democrito, da cui non potevi sperare bene alcuno, perche appena aveva un Platano, che lo difendeffe dal Sole, ed un sedile di pietra, dove potesse sedere, mostrasti smoderato desiderio d'andarvi, conforme costa nella prima lettera scritta à Damageto , dove così dicit Navem ad nos mittito , fed fi fieri poteft, Hon remis , fed alarum remigio instruct amo res enim, eu amicitia urget. In oltre, che per  benc  andare in Persia , dove, oltre offerte sì grandiose , eri tanto desiderato da un Rè potentissimo, cu fosti prontissimo à rie cusar la chiamata , conforme costa nella lettera da te scritta ad Hiftano, senza riflettere , che quel potentissimo Rè poo teva distruggere la tua Patria per tua cagione. Chi dunque procura , ed effettua con tanta sollecitudine, ed anfietà una cosa, che non gli può recare profitto alcuno , e ricusa con altrettanta prontezza ciò, che gli può moltissimo giovare, senza considerare ciò, che può sopravenire di male dal ricusarla ; certamente, ch'egli si può condannare per pazzo. Saria stata però troppo ingiusta  que  [ocr errors] quefta sentenza di Petilio , quando l'avesse cosi pronunziata , poiche per condannare un'uomo savio per pazzo, prio mierainente si ricercano più rilevanti prove di queste : in oltre bisognava dargli le sue difefe', in cui deducesfe lc sue: ragioni prima di condannarlo, nelles quali faria stato dedotto, primieramente, che non sussisteva in fatto, che da Democrito non se ne poteva sperare bene alcuno, costando dall'Ippocratica confeffione , quanto mai di bene egli ne ficavasse , ch'è questo: (b) Tum ego  Democrite præftantisime magna hofpitalitatis tud munera mecum in Co reportabo, cùm multa me fapientia tua admonitione compleveris. Prçco enim tuarum laudum rem vertor, quod natura humana veritatem inveftigasti, a mente complexus es; Acceprâ autem à te mentis curatione discedo ; La grand'ansietà dunque di andare à fare simili acquisti, non era indizio di pazzia, ma bensì di somma prudenza , di sommo giudizio. Che poi per noneffere andato in Persia foffe censurato a torto è chiaro, mentre non avendo alcun bisogno di quanto gli poteva da ciò risultare, conforme egli confesso: (c) Nos vietu, veftitu, domo, omnique read vitam neceffariâ cumulatè frui ; Perfarum autem opibus uti , nequè mihi æquum eft; non doveva esporsi di andare à fervire popoli barbari , ed inimici, e quanto erano maggiori l'offerte, che gli faceva. no , tanto più lo costituivano loro schia, vo. E quando vi fosse andąco, cosa mai averia riportato? Oro, argento, onori sommi, e grandezze, e quetti potevano paragonarli all'acquisto, che fece, con Democrito, di dottrina, e faviezza di mente maggiore? Ed essendo egli andato per curare uno creduto pazzo, per cagione di quel medesimo ei ritornò più savio, e più dotto di quello, che era prima ; e da ciò fi può dedurre quanto mai bisogna stare cautelato à dichiarare pazzi coloro che non sono potendo queIti tali talvolta illuminare ancora i Savja  L'or(c) In epif. Hylani.  [ocr errors] L'ottima dunque di queste trè ftrade fi scelse Ippocrate , per acquistare la sua fortuna, e Pottenne profpera, stabi. le, ed eterna i poiche fino, che il mondo durerà, la fua fortuna ancora sarà ri. fplendente; per questa voi dunque vi dovete indirizzare le volere effere suoi veri seguaci, e questa ancor meglio la scorgerete, dapoi, ch'avrere nella Giornata di domani udita la gran deformi. tà de' vizj, ed il danno grande , che possono apportare questi al Medico, che caminasse per quella via , giacchè conto traria juxtà fe pofira magis elucefcunt ,  GIOR  [blocks in formation] Nella quale si tratta delli vizj , mostrando  quanti pregiudizi poffona apportare al Medico , e le in lui alcuni di esli pana fcufabili , almeno quelli, che sembrano Ermafroditi.  [ocr errors][merged small] Na dura , ed ardua Provincia og  gi intraprendo per voi, dovendo parlare contro la corrutela del tempi,  ' lati, e contro uno stile già invecerato , con tutto ciò bramando voi sapere da me il vero per non ingannarvi, dirò con Seneca ; (f) Quaramus quid aprime fa&tum fit, non quid ufitatissimum, & quod nos in poffeffione felicitatis eterna conftituat, non quod vulgo veritatis peffimo interpreti probatum fit.  Vorrei potcre scusare ancor io li vizj, conforme fanno quelli, che li rimirano solamente mascherati con gli abiti delle virtù à fine di consolarvi, sc  cofa  G4  [merged small][ocr errors] [ocr errors] 104 Dell'Idea del vero Medico. cosa difficile vi sembrasse mai il poteryene affatto spogliare. Per esempio ricoprono la bugia con il manto della prudenza , e dicono, ch'è prudenza di celare all'Infermi la verità, perche ciò fi fà per loro bene , acciocchè non si contristino maggiormente del male, che foffrono. Gli adulano ancora talvolta se defiderano qualche cosa , che non competa loro, con tutto, che possa molto nuocere, sotto pretesto d'aver carità, ed à fine, che vietandola non s'inquietino maggiormente, e così vanno ricoprendo molti altri vizi per renderli familiari, e meno deformi . Mà perche hò promesso di parlarvi con chiarezza, e fincerità, non potlo, nè devo adularvi. Li vizj li dovrete cenere per vizj; e le virtù per virtù : Li vizj, e le virtù le dovete considerare , come due linee p2rallele, che non possono in alcuna delle loro particombagiarli, come due contrarj diametralmente opposti, che non possono tra loro convenire; Dovete con. fiderare li vizj come mostri spaventofi ,  che  che avvelenano con l'alito chiunque ad effi fi avvicina , come dunque ardin, Tete d'accostarvi ad essi per ricoprirli?  Mà conceduto ancora , che si poteffero mai travestire, ditemi di grazia, viaggiorefte voi con una comitiva di ladroni, benche fossero travestiti in abito di gatantuomini, caminereste sicuri di non effere offesi da essi, con tutto, che fossero sì civilmente adornati a Certamente mi risponderece di nò: Tali apa punto fono li vizj, poniamoli addosso quelmanto, che volemo, e questo non facendoli mutare il loro perverfo costume, sempre vizj saranno, sempre nuoceranno di molto ; E siccome li Leoni, e le Tigri per quante carezze loro fi fac ciano mai deporranno la fierezza, cosi ancora al parere di Seneca: Vitia nun, quàm bona fide manfuefcuniş trasmutateli pure in che sembiante volete, anzi, che essendo questi travestiti , faranno de danni peggiori, perche non potendosi conoscere per vizj à prima vista, non li potranno subitamente scacciare da chiKabborrisce, onde ancora trà questi ayeriano all'ora maggior campo libero da machinare le loro infidie, ed acciocchè meglio putiare scoprire li loro tradimenti, contentatevi, che ve ne descriva qualch’uno di quelli , che nel Medico fono più decestabili, e nocivi, con pers mettermi che non servi quell'ording solito à praticara da chi tratta di esli , perche essendo fregolati non meritano di effere trattati con buon'ordine, ba. standomi solo di farvi capire la loro deformità, c quanto erano mai da Ippo, crate odiari, e creduti nocivi al vero Medico, mentre giudicò essere parte di buona Medicina il saperfi:(8) Qua faciunt ad demonftrandam incontinentiam quæftuofam, & fordidam Professionem ixexplebilem habendi fitim , cupiditatem, de traditionem, impudentiam , fiquidem iftas Spectant ad eorum cognitionem dc.e non già à fine di seguitare , må bensì di fug. gire fimili diferci. La bugia, inimica scoperta del ge  nerc (g) De decenti babita.  nere umano, come tratta li suoi fidi re. guaci & Li separa, scoperti che sono, dal publico, e privato commercio de viventi, fà, che niuno presti loro più fede, gli costituisce infami, e li pone il più delle volte in evidente pericolo di vita, facendoti publicare ciò, che non fù mai verità, e questa come si potrà scusare nel Medico in ispecie, in cui ella è reato più grave, che non è in altri Profeffori, sì di Legge, come ancora di Teologgia, e che ciò sia, veniamone alle prove, Dica una bugia il Procuratore al suo Cliento gli potrà pregiudicare nella robba, venendo talvolta à perdere mediante quella la sua lite ; La dica un Teologo, che abbia di già prevaricato, à chi è da lui diretto nello spirituale, gli farà perdere l'anima ; La dica il Medico al suo Ammalato, gli farà perdere la robba, la vita, e l'anima insieme , ed ecco l'esempio chiaro: Dica il Medico al suo Infermo, il di cui male si avanza : Lei stia di buon'animo, che la sua infer. mità non è di gran momento , li segni  non  [ocr errors] nonsono mortali , Ella guarirà , fi fidi di me, viva pure sicuro, e riposato ; mediante questa bugia l'Infermo non pensa a' casi suoi, non aggiusta le partite dell' anima, che premono tanto, non fà téItamento, non dinunzia li suoi crediti, è ripostini segreti, non accresce diligenze, acciò la sua cura sia allistita da Me. dici più esperti, si avanza tanto in un tratto nel male, che si sopisce, o sų aliena di mente, resta incapace à fare cosa alcuna di proposito, e se ne muore, ed ec  che ha perduto la vita , la robba, e l'anima ancora, se per ispeciale grazia di Dio non fù illuminato à pentirsi de' suoi peccati prima , che diveniffe incapace à poterlo fare, e questi sono trè reati nati da una sola bugia, la quale benche dete ta à fine di sollevargli lo spirito, in vece di ciò gli hà cagionato un'improvisas morte, per lui così svantaggiosa. Dis spongono le leggi, che li delitti sono maggiori, e più qualificati, quando li delinquenti ne hanno commessi numero maggiore, è della medesima fpeçie, ò  CO,  equivalenti, ficchè calcolandosi mag. gior numero di tali reati nella bugia del Medico, che in quella del Legista, e del Teologo, in conseguenza viene , che è più grave delitto la bugia nel Medi. co , che negl'altri due sopr'accennati Profeffori. In oltre se il Medico, per persuadere al suo Infermo, acciò prendesse con maggior fiducia il rimedio da lui propostogli, affermasse, che quel medesimo avesse giovato ad altrui, e ciò non fosfe vero , rincontrandosi poscia la verità, in che discredito rimarria ape preffo à cui disse tal menzogna, certo è, che non lo terria in avvenire più nel numero de' veri Medici, mà bensì di parabbolani,de' quali Ippocrate cosi disse: (h) Virtutis apud ipfos modus eft , id quod deteriùs eft, mendacii enim ftudium exercent ; e parlando de' Medici menzogneri così disse: (i) Quapropter veritate nudati, omnem improbitatem, ac ignominiam ing duunt. L'adulazione è vizio, che s'infinua  dol(h) In epiß. Domag. (i) Dedec.bablik,  dolcemente, e con galanteria , è un veleno , che fi beve fraposto con un'apparente netrare, e questa parimente nel Medico cresce in qualità di reato, posciacchè dica qualsifia altro Adulatores à taluna, ch'è deforme, non meno di aspetto, che povera di abilità.: Voi Giete una bellissima, una compitissima , egalantiffima Giovane, fiete eccellente in molte cose; nelle quali non avete chi vi fuperi ; le darà compiacimento bensi con formo suo diletto, ma non l'ucci derà ; Dica il Medico ad una sua Infer. ma, che desidera gustare un grappolo di uva: V. S. ne puol mangiare un poco , perche bisogna condescendere qualche volta al desiderio dell'Inferma , quod face pit nutrit , lo faccia pure liberamentes Se la povera adulata Inferma lo farà, non folamente vi averà compiacimento, e diletto per allora , mà poscia potrà ancora morire per tal cagione, non è quem sto caso già da me inventato, mentre si legge in Ippocrate seguito nella figlia di Eurianatte, che per aver gustata l'uvale crebbe non solo notabilmente il male, mà se ne morì, dice egligdoppo di avere narrato, che l'era sopragiunta la refrigerazione delle parti estreme il delirio: (1) Ifta autèm ut ferebant ex deguftata uva huic contigerat ; potrete dunque voi nel Medico scufare l'adulazione omicida per conciliarvi la grazia dell'Infermo ? Risponderà Ippocrate certamente di no, perche dice egli in termini precisi dell'adulazione nella regola dal vivere: (m) Is velut res horrenda vitari debety a gratia vitanda per quam unitas deperit.  E non solamente è reato gravissimo nel Medico l'adulazione in ciò, che riguarda la regola del vivere, mà ancora nel prescrivere medicamenti . V'incontrerete in molte contingenze, nelle quali gl'Infermi , ò glastanti proporranno riinedi, ed il più delle volte quegli, che non saranno à proposito, in questi casi avvertirete bcnc à non adulare il genia di chi li propose', mà doverete fare ciò, che il bisogno richiederà, e non altri  menti: (1) Epid.lib.3./46.2.egroting (in) Do pracipe.  [ocr errors][ocr errors] per adula  menti: Conforme ancora, se venendo  proposto da altri Medici ciò, che non vi  parerà essere profitcevole all'Ammala-  to, in tal caso non dovereste  zione tacere, e lasciar correre ciò, che  fù proposto da altrui , mà bcnsi con tut-  ta civiltà addurre li vostri motivi, cra-   gioni, che avete in contrario, à fine  venghino esaminati,essendo questo l'ob-  bligo de veri Medici, conforme Ippo-  crate insegnò, dicendo: (n) Qui quid-  quid do&trinâ acceperunt in medium profen   & facultate dicendi utuntur , ad gratiam comparati, & pro gloria,qua indè provenit decertare parati,doctrinam fuam ad veritatis lucem repurgantes.  Dell'Ateismo vizio esecrando non ve ne saria d'uopo parlarne , perche egli è cosi repugnante, che chi hà uso di raa gione mi pare assai difficile vi poffa in effo cadere, con tutto ciò, perche certe proposizioni, che sparse, e feminate alle volte fi ritrovano in alcuni libri, che vengono da lontani paesi, potriano alle  menti (n) De decohabitu.  runt ,  1  0  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] inenti di voi, che volete volare troppo i alto,recare qualche disturbo, non istimo  superAuo di dar loro sopra ciò qualche  luine, à fine stieno più circospette, e  cautelare, e particolarmente nel sentire  certe proposizioni dirette à ridurre le   operazioni animaftiche alla sola machi26 na, e struttura del corpo fatta dalla na  tura, con sì mirabile artificio, guarda  tevene pure da queste , perche hanno de l'ateismo nascosto, e tenete fermo, che en vi voglia sempre un primo Movente di  . ftinto, e separato dalla struttura, perche de quantunque la detta struttura fia necef.  faria alli moti interni, ed esterni , nulla-  dimeno senza il primo Moyente, che è   l'anima rationale nell'uomo , cessa ogni li moto regolato, come si scorge chiara.  mente ne' cadaveri, ne' quali con tutto,  che rimanga la mirabile struttura , sepa-       rata ch'è l'anima dal corpo iyi ogni mo-  le     to regolato finisce.   Nè solamente nel leggere ciò , che viene scritto converrà stare cautelati, e circospetti, mà ancora in quello fi sente  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] riferire intorno alle pazzie di coloro , che, per essere reputati di singolar dottrina , tralasciorono di credere ciò, che dovevano, perche non capacitava le loro meni materiali, se non ciò, che con li propri occhịrimiravano, ò palpavano con le loro mani, contro de' quali Sant' Agostino fortemente inveisce, chiamanı doli uomini di carne.  Spero dunque, che per quanto leggerete di male in questo genere , ò sentiFete dire, non diventerețe così pazzi , che vi vogliate assomigliare alle bestie , Je quali, in ciò, che riguarda il dare un minimo contrasegno interno d'eternità, punto non s'assomigliano all'uomo,mentrechi mai di effe ha saputo ritrovare il modo di scolpire, ed intagliare l'effigie brutale di alcuna della sua , ò d'altra fpecie, come seppe inventare l'industria umana? ed ancora in durissime pietre , per conservarla visibile, tale quale appunto ella fù vivente, per secoli innumcrabili? e ciò donde è proceduto ? se non da quell'interno desiderio , che  l'uo  )  [ocr errors] Puomo hà in fe fteffo d'eternità.  L'Ira è un vizio, che deforma li suoi seguaci, li quali conforme diffe un sayio Letterato, molto da me stimato, eriverito, fe questi li potessero rimirare nello specchio , allora, che sono nel suo furore, yedendosi divenuti così deformi, e trasfigurati in mostri,odierebbono,non solamente cal vizio , anziche se medesimi; Modo tenuto dalli Spartani,che per fare concepire orrore all'ubriachezzas conduccyano li loro figliuolini in certo tempo dell'anno, nel quale fi concedeva libertà d'ubriacarsi, in luogo publico , affinche questi vedessero , che deformę spettacolo cagionava tal vizio, per concepirne in avvenire di esso maggior spavento . Voi dunque per meglio apprendere à che segno dobbiate tenere lontana da voi l'ira, non accaderà velo moftri con parole , essendo di maggior efficacia , che rimiriate con li vostri propri occhi , in chi si trova adirato, più al vivo una tale, c tanta deformità, giacchè:  H 2Segnius irritant animos demiffa per  aures  [ocr errors] Quàm quæ funt oculis subiecta fide  "libus, E così comprenderete meglio ancora , se tal vizio sia tollerabile nel Medico, che deve avere sempre l'animo compofto , conforme comanda Ippocrate de Medico : Eum quoque spect are oportet, ut animi temperantiam excolat, non taciturnitate folùm , verùm etiam reliquâ totius vita moderatione , quod ad illi comparandam gloriam plurimum affert adjumenti ; e più chiaramente, ancora lo comanda in altro luogo, (a) dove dice: Ne quid perturbato animo facias ; Ed è la cagione appunto di ciò, perchè il Medico, che deve invigilare con somma attenzione alle cure de' suoi Infermi, non deve avere la mente turbata, per poter meglio discernere li partiti megliori, e più profittevoli, che dovrà prendere à prò de fuoi Malati, ed à tale effetto Ippocrate comanda, che sia incombenza del Medi  co (a] Inlib de decora.  co il sedare litumulti, ordinandoli ef pressamente:(6) Tumultus verbis caftiges, G ad omnia fubminiftrandi te prome  ptum adhibeas.  [ocr errors][merged small][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] Converrà però prima in voi medesimi se mai foste dall'ira predominati, che sediate li vostri interni cumuli, per poter muovere più facilmente glaltri con il vostro buon'esempio ad imitarvi.  Mà vi sono alcuni Iracondi, che credono essere cosa nociva alla salute il ceprimere in un subito li loro primi moti, onde per tal cagione lasciano termin nare il loro corso : Mà quanto questi s'ingannino lo fà vedere Ippocrate con dire :(c) Ira contrabit , cor, pulmonem in fe ipsa, din caput, & calida , bumidum; il qual testo Vallesio così la spiega : Ira eft furor fanguinis circa cor c. hinc  fit ut fervente Sanguine,cor , pulmo , & caput calefcant , & repleantur. Nimirùm fanguis fervore tumet, & venas, arteriasque tumefacit, fed ob vebementem calorem, qui illis in locis eft, co contrabitur  ubi[b] Dodec.hab. [c] 6.Epid.fe5.4.,  [merged small][merged small][merged small][ocr errors][merged small] [ocr errors] [ocr errors][ocr errors] H 3  ubique fanguis. Undè fit, ut multis ob iram oculi, du vene frontis intumefcant, & tota facies rubore suffundarur , eo tempora pulfent , & caput doleat , quin do febris fuu perveniat . Si persuadono dunque questi, che gl'accennari danni che cagiona l'Ira à parti sì principali, sia più vantaggio di pazientarli, che di rimuoverli?  Onde non dovrete in conto alcuno farvi dominare dalla collera, e non solamente per quello che riguarda la buona direzione della cura, mà ancora li vostri proprj avanzamenti, stanteche quel povero Infermo pur troppo annojato dal suo male , avvedutofi, che ancor voi gli accrefcere moleftia, adirandovi per ogni piccola cagionc,se ne disfarà facilmente per non potervi più soffrire.  La Superbia nella Medicina à che segno sia deforme riflettetelo in Menecrate Medico, che insuperbito forfe per effergli alcune piccole cure riuscite felici, ed ayer sentito dire, che Esculapio, in quei tempi rozzi per tal cagione fù annoverato trà Dei, egli volendolo su  pe  [ocr errors][ocr errors][merged small][merged small][merged small] perare, scrivendo ad Agesilao Ř è de Spartani ; pose nella soprascritta : Ager filao Regi Menecrates Juppitèr ; gli calzò bene però la risposta, che gli fù data da quel saggio Rè in tal guisa : Menecrati Medico Agefilaus Rex mentis fanitatem; nè fù ciò sufficiente per reprimnere la sua superbia , mentre riferisce Leone Sansio, (d) che : Eo furoris in hoc genere delatus eft , ut quofcumque liberaffet à morbo jurejurando anté sanitatem rcceptam adıētos , Jecum deindè benevalentes adduceretistatis temporibus tamquam  fervos; atquè jatellites, eâ tamen lege, ut alius quidèm Herculis insignibus indutus ; alius Apollinis babitum gerens ; alius Mercurii perfonam fuftinens , alius aliumi mutatus in Deum, Menecratem, utpote Jovem Optimum Maäimum Dii minorum gentium sequerentur. Onde converrà, che la teniate lontana da voi , per non essere stimati pazzi, e maggiormente quando vi troverete nell' auge delle vostre prosperità , perche allora la superbia molto vi potria nuocere,  fc [d] In Florid.9.prafat.  [merged small][merged small][merged small][merged small][ocr errors][merged small][merged small][merged small] H 4  se foste da efla dominati, allora vi sforzeria à distaccarvi dalli vostri più antichi, e cari amici, solamente perche vi conobbero prima, che le vostre fortune incomincialfero : E pafferia ancora più oltre allora il suo ardire, fe ella potesse dominaryi à suo modo, meiltre vi faria prendere tal compiacimento di tutte le vostre, sì grandi, che picciole opere, come se fossero singolari, e da niun'altro fattibili à quella perfezzione, che voi fatte l'avrete, senza permettervi punto d'indugiare å formarne concetto, con forine far fi deve delle cose proprie , almeno fino a tanto, che dal tempo fiano tolte dalle mani dell'Adulazione, e pofte in quelle della libera sincerità, à fines che doppo averle ben confiderate dia loro il suo giusto valore, secondo il quale , e forse meno deve stimare le cores proprie, chi si trova in prosperità di fortuna , per goder egli il favore dell'adulazione. Onde in tutti gli stati , e maggiormente in quello di prosperità, nel quale sarete più oiservati da tutti doveteseguitare l'ottimo conseglio d'Ippocrate , (e) che dice : Medicum urbanitater quamdam fibi adjunétam babere convenit, affinche possiate effere da tutti tenuti cortesi, umani , e senza superbia.  La defiftimazione, ed il disprezzo del compagno è un vizio dependente dalla superbia, onde develi dal vero Me dico abborrire, al parere d'Ippocrare: Ne superbus , do inhumanus videatur ; E tanto più , che deve essere d'animo modesto, e cemperato , di ottimi coitumi, umano, e giusto, conforme egli giudicò nel libro de Medico : E se il Si. gnore diede à voi maggior talento degl' altri vostri compagni, perche nel coufronto, che ne fate, in vece di ringraziarlo, mostrate più tolto di biasimarlo, con dire, che difetraffe in non fare uguale à voi chi è d'inferiore capacità di voi, potendo il disprezzato rispondervi : Ipfe fecit nos, & non ipfi nos; Dunque, che colpa è la mia 2 E non avendo voi ragione da dotervene meco, prendeteveland  con Tel Dedec.org.  [ocr errors] con chi mi hà fatto ; sicchè fuggire pure   fimil vizio, che può ancora paffare più   oltre,inentre da quel disprezzo,da quel-  la disistimazione nascendone il discredi-   to del vostro compagno, chi sà, che non  vi facessero divenire pessimi Medici, fer-  vendovi di caloccasione per procurare  qualche servigio di colui, che fù da voi  posto in discredito? Olère di che;chi fos-  te mai di simile viziosa natura disprez-  zeria ancora bene spesso quelli piccoli  mali, che in breviffimo tempo possono  divenire giganti con non piccolo disca-  pito della sua esistimazione.        Qando mai potessero fcufarsi, che  non credo , in alcrui li vizj spettanti alla  gola, che sono la crapula, e l'ubriachez-  za , nel Medico sempre faranno molto  condannati, perche dovendo egli gior-  nalmente opporsi a' defideri depravati  de' suoi Infermi, con ordinar foro las  dieta, come mai potrà persuadergliela,  se non gli darà egli buon'esempio? Fa-  cendo più profitto questo di qualunque  ragione, al parere di Seneca, che vuole,   che  [ocr errors] 1  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] 20  che (f) Longum iter eft per præcepta, bre  ve, & efficax per exempla. E se poi de' la vostri disordini ne fossero stati spettatori in li vostri Infermi, come mai potreste per  fuader loro il contrario, di ciò, che voi seco faceste? Se volete dunque essere ub  bediti fiate fobri, e tali certamente dooi vrete essere, se non vorrete essere peg{ giori de' bruti stessi, perche conforme  riferisce Ippocrate:(g) Sitit quidem Aper, oli sed quantum aquæ appetit, Lupus vero di.  laniato quod Je se obtulit necesario alimento, quiescit; Mà quando tutto ciò non vi bastasse vi doveria far abborrire que fti vizj la sola rifellione, che questi poffono ó abbreviarvi la vita, ò per la meno  rendervela penosa, fino, che viverete. co  Non essendovi cosa nel mondo più nociva della Lussuria, chi potrà mai scue farla negl’uomini, quando, che la vedianio sì moderata , e sì ben' regolata dal solo istinto di natura in quasi tutte le bestie prive dell'uso di ragione , alla riserva folainente di alcune poche , trà  quali (f) Epift.6. [5] In cpif.Demag:  [ocr errors][ocr errors] ti  [ocr errors] quali vi sono quelle , che più s'assomis gliano all'uomo, che sono li Scimiotti, e Gatti mamoni, rare volte li bruti à confusione de' sensuali fi  veggono  do. minati da detto vizio, se non sono proffimi à quei tempi destinati dalla natura, per la moltiplicazione della loro fpecie, solamente il Lussurioso è più brutale di effi , che non ha in ciò  hà in ciò tempo determinato, essendo in ogni tempo dominato dal suo vizio, che lo consuma , & annichila, conforme riferisce Ippocrate : (b) Ep annorum quidem temporum ordo terminus eft brutis ad choitum, at homo perpetuò insano libidinis aftrostimulatur.  Qual'estro infano di libidine faria più , che in altri detestabile nel Medico, fe non lo sapeffe reprimere con la sua continenza , posciacchè dovendo egli giornalmente conversare con donne conforme avverti l'istesso Ippocrate:() Et omni horâ mulieribus , virginibus illi occurrunt; Sicchè Iddio guardi, ch'egli non corrispondesse con tutta fedeltà à  quella (h) In epift.Damage (i)  De doc.ork  [ocr errors] per ca.  quella somma confidenza , à cui  gione della sua profeflione; viene am-  meslo, diverria ogni suo trascorso reato  gravillimo, sì proprio, che della pro-  fellione isteffa , talınente, che l'innocen-  te Medicina ancora ne faria calunniaca.  Onde voi, che desiderate far molti pro-  grelli in essa , dovrete vivere lontani, e  detestare simil vizio ; Altrimenti perde-  reste ogni speranza di fare un minimo  progresso in effa ; Converrà dunque,che  fedelmente offerviate il seguente giura-  mento d'Ippocrate : Juro &c.fed castam,  bu ab omni fcelere puram, tùm vitam , tùm  ætatem meam perpetuò præftabo.   Ecercamente, che non dovrete fare diversamente, sì per li vostri avanzamenti, che per profitto delli vostri Infermi, mentreche, come mai potreste applicare con attenzione alli vostri vantaggi, alle cure de' vostri Infermi, se le vostre menti in quel tempo divagassero altrove, e fossero distratte in linili oba brobriosi pensieri ? Confido dunque,che con la vostra prudenza, e temperanza  [ocr errors][merged small] nonnon sarete per cadere in simili reati , che sono detestati da putti, per essere mancamenti commessi in mestiere di buona fede, conforme è la Medicina,  L'Ingratitudine è vizio ancor esso detestabile, per essere aborrito ancora dalle fiere, essendosi osservata tal’una di esse aver usata gratitudine al suo benefattore ; mà questa sarebbe ancora più detestabile, se nella Medicina seguisse , che lo Scolare si mostrasse ingrato al suo Maestro, mostreria certamente, è una natura molto perversa, ò di aver perduto l'uso di ragione, mentre qual gratitudine mai potria egli sperare, che non l'usò à cui tanto era tenuto, quali progrefli mai potria fare, allontanandosi da chi gli porge la mano per sollevarlo, e promoverlo? Credo,che un simile yizio, Ò Giovani generosi farà sempre lontano dalle vostre menti, conforme deve stare dalla mente di chi spera divenire Maestro, per il motivo di non aver à ricevere il fimile contracambio da' suoi Scolari, che stimolati dal suo mal'esempio faria  facile  facile loro riuscissero essi ancora ingrati.  Quindi è, chę Ippocrate per esimere li  suoi Şcolarida un fimile obbrobriofo ar-  tentato gli faceva obligare con poliza  e promettere con giuramento le seguenti  cose: Juro , & ex fcripto Spondeo planè  obfervaturum, Præceptorem quidem , qui  me hanc artem edocuit , Parentum loco ha-   biturum , eique cùm ad viftum, tùm etiàm  ad usum neceffaria , grato animo communi-  çaturum, & fuppeditaturum, ejusque poftea   ros apud me eodem loco   9.quo germanos fratres, eofque, libanc artem addifcere volent,absque mercede, fyngraphâ edoctu  [ocr errors][ocr errors][merged small] rum &c.  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] Da un'altra poco inferiore ingratie tudine spero vi guarderete voi, che ambite avanzarvi per la via delle virtù , & è, che se sarete da qualche vostro come pagno fatti chiamare à dar consiglio, ò in loro assenza sostituiti à curare tal* uno de' suoi Malati , non tramerete contro loro insidie , per subentrare in sua vece , stanteche tal’enorme ingratitudia ne, non è usata, fe non da quelli, che sono ignoranti, e che diffidano per la buona via delle virtù potersi avanzare ; e per tal cagione si servono di quella del vizio ; Onde con ragione consigliava Ippocrate al Medico à non prevalersi delli Softituti ignoranti , ftanteche de’loro errori ne resta debitore colui, che li propone, in questo caso però non ne re, steria punto debitore, poiche pagheria il mancamento commesso con la sua elpulfionc , & affinche non abbiate da ri, cevere fimile ingratitudine v'iinpegnerete quanto meno potrete di promovere ignoranti, e maliziosi ,  34 0  fono  e  €  L'Invidia, che per lo più proviene dalla mancanza di ciò, che fi desidera, è da altri si vede possedere , come la po. trere seguitare senza condannare voi stesi inabili à potere conseguire ciò, che bramate , avendolo potuto ottenere un' altro vostro compagno, questa non vi avyedete, che vi fà dichiarare da voi medesimi da poco, e codardi ? Onde impiegherete aflai meglio tutto quel tenipo,e pensieri,che malamente li spregano  [ocr errors][ocr errors] in invidiare il bene altrui, con cercare di conseguire ciò, che desiderate , per le sue yie proprie, & oneste, e credetemi, che questo vizio non regna se non negli animi vili, e codardi , trà quali voi, che avete abilità, e spirito vi dovete vergognare di esservi annoverati,e tanto maggiormente, che questi viziofi furono da Democrito giudicati ancora stupidi, ed ignoranti,allorche ad Ippocrate disse:(a) Et certè fufpicor pleraque in Arte tuâ aut per invidiam, aut per ingratitudinem palàm contumeliâ affici ; & in appresso dice , Cum fint ignorantes , quod melius eft dama nant , calculoruin enim fuffragia stupidis attribuuntur, nequè ægrotantes fimùl ap  probare volent, neque ejusdem Artis focii bi teftimonio confirmare , cùm invidia obfter  Gr. Veritatis enim nulla eft cognitio, nei què teftimonii confirmatio,  Ed è certamente cosa assai difficile, i che li seguaci di simil vizio poffino con  tenersi nel semplice desiderio di ciò, che da essi è invidiato, senza passar più oltre  [ocr errors] ne  (a) In epift.Damaget.  in procurarlo ancora , e con modi ignominiofi, anziche si serviranno talvolta della calunnia, e dell'inganno, per confeguirlo, e vi pare, che simili maniere fiano degne del vero Medico rationale ? Quando Ippocrate (b) giurò, che : Medicum ratione utentem, alterum numquàm invidiosa calumniaturum? Mà che siano modi praticati solamente da quelli, che Forensem quæftum fectantur , trà quali non faria convenevole, che voi fofte annoverati.  Mà acciocchè possiate mantenervi lontani da simile obbrobrioso yizio, sarà necessario, che vi dia alcuni utili avver. timenti, che sono: Vedendo yoi avanzare qualche vostro compagno nellinegozj,è cosa nacurale,che fentiate dentro di voi un certo stimolo, che incomincicrà da principio a farvi contriftare,e questo sarà appunto il primo seme, che insinuerà dentro di yoi l'invidia per farvi divenire suoi seguaci, di questo, affinche efla non trionfi di voi, è servitevene disprone per avanzarvi ancor voi, con   imitarlo, se il detto vostro compagno  opererà conforme si deve, ò di remora,  fe vedrete , ch'egli si avanza per la via  del vizio, ed in tal caso, con riflettere  solamente, che à voi non conviene d'in-  vidiare ciò, ch'è disdicevole al vostro  onore, detto seme verrà in un tratto di-  Itrutto. In oltre sappiate, che non do-  vete rimirare solamente l'efteriore com-  parla, che fà il vostro compagno, mà  ancora dovrete rillettere à quanti disag-  gi, che talvolta soffrirà egli per effajalle  fatiche eccellive,all'inquietitudini grane  di, alla scarsezza del tempo, ch'egli hàg  che gli toglierà ancora il riposo necessa-  rio, le quali cose se tutte le rifletterete ,  certamente in vece d'invidiarlo , più  tosto lo compatirete, e direte con Vir-  gilio :    Non equidem invideo miror magis.   A tempo di Seneca vi era un certo vizio vagabondo, chiamato da lui Core curfatio, che necessitava li suoi scguaci andar girando continuamente per las  I 2  Città  [ocr errors][ocr errors] Città allo sproposito cercando li negozi senza aver prima determinato nella loro mente quali, mà solamente quei, che à ventura si presentavano loro d'avanti, e questo tal vizio lo descrive  per  un'inquieta dapocaggine, un perdimento di tempo, con non altro profitto,che d'una certa stanchezza di corpo,acquittata per tanto girare ora in quà , ora in là.  Galeno, conforine egli riferisce nel principio del suo merodo , fù da alcuni di quelli, che pareva, che l'anassero più degl'altri , stimolato fortemente à seguitare questo vizio, dicendogli, che se non tralasciava d'essere tanto indagatore del vero, e non si accomodava allo stile di quel tempo, d'andar girando tutta la mattina, à visitare per complimento li Signori, e la sera d'andare à cenare seco, non saria stato amato, nè averia contratto le loro amicizie, riferendolo appunto in tal guisa : Me verò ex iis , qui me unicè diligere funt visi, nonnulli fæpè increpant , quòd plus justo veritatis studia Jim addiétus , quafi nec mibi ipfi ufui , niec  ipfis  [ocr errors] [merged small][merged small][merged small][ocr errors][merged small][ocr errors][merged small][ocr errors][ocr errors]  ipfis in totâ vità fim futurus , nifi, & ab   hoc tanto veritatis indagande studio defi-  ftam, da manè salutando circumeam ,   vefperi apud potentes cænem. His enim   artibus tum amari , tùm amicitias conci-   liari, tùm verò pro artificibus haberi &c.   Ed in tanto non volle egli condescende-   re à farlo, perche la giudicò per cofa   impropria di chi era seguace di ottimo   Maestro, soggiugnendo in appresso da-   poi averne commendato alcuni di que-   fti : At horum nemo , nèc mane potentium  fores ipfos falutaturus , nè vefperi cænatu-  rus frequentabat , fed ficut Hefiodus cer,  cinit :     Namque alium ditem cernens cui deeft,     quod agatur :  Ipfe folum vertit tauris, & semina        ponit.  Onde fuggirete ancora voi simile vizio,  se desiderate d'essere veri seguaci d'Ip-  pocrate.       La Pertinacia, e lo spirito di con-  tradizzione sono due difetti nel Medico  di sommo rimarço, e non si possono per   con  [ocr errors][ocr errors][merged small][ocr errors][ocr errors][ocr errors] I 3  conto alcuno in lui scusare ; se vi contaminasse mai il primo, vi costituirebbe ignoranti, cogliendovi quella bella proprierà, che hanno li Dotti, ch'è : Sapientis eft mutare confilium ; vi faria anche di peggio,che vi costituirebbe simili alle bestie, perche farebbe divenire ancor voi incapaci di ragione , e perciò venendo esclusi dal commercio degl'uomini savj cosa fareste infectaci di simile vizio? Se poi, che Iddio je me liberi fofte invali da quel 'cattivo spirito di contradizzione y guai alli vostri Infermi, perche venendo loro proposto da altri ciò, che si deve, e voi non volendo, che fi eseguisse , mà più tosto in vece di quello , altra cosa contraria, come anderebbe l'a cura facendosi à vostro modo, se foste ancora pertinaci? Ippocrate insegnò à questo propofito ciò che si debba Fare, e che ne risulti di male facendosi diversamentc , & è:(0) Neque fanè indecorum fuerit fi Medicus in rei præfentis anguftiâ , circà agrum verfaturz imperitiæ etiam tenebris circumfufus , alios quoque accerfiri jubeat, quo communi confilio , que in rem agri sunt disquirantur, & illi ad præfidiorum facultatem operas fuas confoTint; e cosa ne seguirà seregneranno trà di essi questi vizj? De eo munimini ambitiosè contendere, se ipfos ludibrio exponere, Sicchè voi , che sperate divenire veri Medici Ippocratici, vi converrà tenere lontani da voi tali vizj, che tanto vi potriano pregiudicare.  etiam [C] Hipp.præcept.  L'Avarizia fù talmente odiata da Ippocrate, che se avesse potuto l'averia del tutto sbandita dal mondo, poiche scrivendo à Crateva erbario famofiffimo de' suoi tempi, così appunto gli manifeftò il suo desiderio : Quod si Crateurs amaram pecuniæ cupiditatis radicem excindere poffis , ut nulla ejus reliquia extent, hoc probè teneto, quod unâ cum hominum corporibus , etiàm malè affeétos purgaremus, fed hæc quidem in votis habenda : Tanto scrisse Ippocrate, con tuttoche non gli fossero ancora giunti à notizia li documenti di Demnocrito , cheportandosi poscia alla sua cura in Abdera da lui medesimo sentì , trà quali vi fù questo contro l'avarizia: (d) Quinàm enim Leo aurum defolium in terrum abdidit? Quinàm Taurus , alienum ufurpandi cupiditate , ad prælium impetu quodam delarus eft &c. e con ragione così esclamava Democrito scorgendo l'uomo caduto in tal vizio peggiore de'bruti.  Quanto mai cresca la deformità dell'ayarizia in chi è avanzato negl'anni sentitelo da Cicerone:(6) Avaritia senilis vituperanda eft maximè : Poteft enim quidquañ effe abfurdius , quàm quo minus via restat , eò plus viatici quærere?  Mà più d'ogn'altro la saria obbrobriosa nel Medico , perche essendo stato da Ippocrate dichiarato fimil vizio per male più grave della pazzia, cgli farà tenuto non solo di crederlo tale, mà ancora di medicarlo, onde se in vece di far ciò lo procurasse, ecustodisse in femedesimo con diletto , in qual trascorso egli incorreria? E certamente più grave,  e me  [d] inefiß.Damag. [e] In Cat,Maior.  [blocks in formation] e meno scusabile faria, che in ogn'altro, per non aver egli apprezzato li documenti d'un tanto Maestro, che sono li seguenti: (f) Miserabilis sanè eft humana vita , quòd ad eam totam intolerabilis are genti cupiditas, velut hybernus flatus pervaferit, ad quem morbum infania graviarem curandum , utinàm Medici umnes potiùs concurrerent. E lo dimostra in termini precisi altrove , () dove così saggiamente consiglia : Neque verò exigenda mercedis cupiditate duci oportet, nifi ut ad artem edifcendam tuos inftruas , fuadeoque nè in eo inhumanitèr nimis te geras, fed & opum affluentiam, & facultates refo picias, interdùm gratis cures , itaùt memoris gratitudinis potiorem,quàm præfentis existimationis rationem habeas. Quòd fi thofpiti, vel egeno largiendi occafio se te offerat his , vel maximè fuccurrendum eft. Qui enim erga homines humanum fe exhibuerit, is artis amore teneri censetur. Cofa dirà l'Avaro , & altri viziosi leggendo, tanti ottimi consigli, dati loro da Ippo  crate? [f] In epif. Senar. Abderit. [5] Inlibede prai:  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] crate 2 Mi persuado; che quello appunto , che diffe Quinto Pecilio Pretore Urbano, riferito da Livio, allorche ebbe terto li libri di Numa Pompilio, che erano stati tanti secoli sepolti : Se fe eos in ignem coniecturum , perche , dos legi, fervarique non oportere; e questo perched non per altro, perche egli era Pretore, e non gli compliva, che altri sapessero , che molte cofe, ch'egli faceva erano mal fatte , poiche que' libri altro non contenevano, che di rimuovere ciò, che non era ben fatto, e ciò, ch'era sommamente pregiudiziale al popolo, trattandosi in quelli De diffoluendis falfis religionibus.  Questo vizio certamente non farà scusato da chi è di mente sana , nè da chi ben riflette à quanti disaggi mai soggiacino li miseri Avari senza potersi sapere ad utile di chi lo faccino. In beneficio proprio certamente che nò, poiche non altro, che travagli ne ricavano dal cumulare, che fanno ; A prò degli Eredi 2 nè tampoco, perche se potessero immaginarsi , che gli Eredi volessero  go  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][merged small][ocr errors][merged small] godere con ispendere liberamente, priveriano fubitamente dell'eredità, fic. che di questi solamence Padrone ne rimarrà l'avarizia , inentre per sodisfarla esi cumulano , c questa , che ne farà di tanti avanzi ? facilmente non sapenda servirsene li consegnerà al lusso, affinche disipandoli in un tratto ne impingui altri Avari.  Ippocrate odiava il lusso grandemente, à segno , che compose un libro contro di effo, ch'è appunto quello De Decenti ornatu , nel quale non solamente incarica à Medici di fuggirlo , mà dà ancora per cagione del lusso il modo di distinguere li veri Medici da Parabolani, de quali ultimi parlando, così dice: Si enim conventu facto ambitiofa, e quem fuofâ fuâ profeffione decipientes in urbium circulis verfantur, Quos ex veftitu , cum cæteris ornamentis, quis cognofcere poterit, quin etiam quò fumptuofiùs ornati fuerint , cà majori odio adversandi , ab eis, qui eos confpexerint , fugiendi ; dove de veri, e buoni Medici cosi ne parla : Quia  bus  [ocr errors][merged small][ocr errors][ocr errors] bus non ineft exquisitus, nequè cariofus ornatus, qui fe fe excultus venuftate, cu frugalitate, non tam ad fuperfluam curiofitatem,quàm ad optimam existimationem, prudentiam, e animi moderationem compararunt , ad inceflum verò eo femper sunt habitu ; Sicchè dal Medico seguace d'Ippocrate devesi fuggire il lusso per quanto gli preme la propria riputazione ; certe mode straniere, e galanti non gli competono , come si legge (b): Peregrie nus cultus immodicus calumniam tibi com. parabit .  Tiberio s'ingannò, allorche propoftofi in Senato di proibire il gran luffo di quei tempi, essendo egli di sentimento contrario, persuadendoli, che in lasciarlo correre à briglia sciolta, da se medefimo si faria stancato, e perciò disse : Nos pudor , divites satietas, pauperes egestas in meliùs mutet; qual vergogna ne' suoi {moderati succeffori punto non si mirò mentre in Nerone si vidde à che segno s'inoltrasse il lufto. Mi persuado però,ch'egli si volesse ingannare per altro fine   politico, mentreche girandosi dal lusso  continuamente la ruota della fortuna ,  gli compliva più di vedere tante muta.  zioni di stato ne' suoi sudditi, che disau.  torato chi li cagionava, e tanto mag-   giormente che avendo questo vizio un  dominio tirannico s'uniformava al suo  governo . Tiraneggia per verità il luffo  li suoi seguaci , mentre l'impoverisce  e vuole eliggere da tutti gradimento di  quanto male fà loro. Ordina , che dalla  Persia , e dall'Indie sia trasportato un  drappo non più veduto , forza li suoi sem  guaci à prenderlo ad ogni maggior co-  ito, e fà, che oltre il gran dispendio  ringrazjno quel Perfiano, quell'Indiano  ancora, che lo portò, perche appagò il  loro desiderio , li quali ne resteranno fa-  cilmente ammirati, non meno di quello  ne rimanesse Tacito , allorche li Romani  per abbassare gl’animi dell’Inglesi, li fe-  cero assuefare à molti costumi loro, e da   essi non più praticati, e l'appresero per  foimo favore , mà ben se ne ayvide Ta-   [ocr errors][ocr errors][ocr errors] cito del fine, che in ciò si aveva dicendo: (i) Que humanitas cenfebatur, cùm efet Species fervitutis.  L'Infedeltà, e Fellonia sono vizi confederati, e detestabili in ogni qualità di Persone, mà più d'ogn'altro nel Medico, posciache ogn'uno ciò, che ha di più prezioso, che sono la vita, e l'onore glielo fida; Onde se csso mancaffe, à cui gli prestò tanta fede, che gastigo mai li potrebbe trovare de' maggiori, che lo potesse punire à bastanza , avendo commesso un reato di fimil forta, un mancamento di buona fede ? Sicchè odiateli pure simili vizj esecrandi, conforme l'abborriya Ippocrate, non volendo insegnare la Medicina à chi non aveva giurato prima sù tutte le Deità ciò,che segue, cioè: (1) Nequè cujusquam precibus adducturus , alicui medicamentum letale propinabo , neque hujus rei author cro , nequè simili ratione mulieri pellum subdititium ad fætum corrumpendum exhi  bebo,  (i) In Vita Agricola.  11) In lurejuri Hippocr.   [ocr errors][merged small][ocr errors][merged small] bebo, fed caftam, ab omni fcelere puram, tùm vitam , tùm diatem meam perpetuò præftabo . Sicchè con ragione, e con giusti motivi verrà escluso chi mai in fimili vizj cadesse dall'effer vero Media co, e degno seguace d'Ippocrate,  Non è piccolo difetto nel Medico l'essere troppo curioso di quelle cose , che non fanno al suo mestiere, conforme tra l'altre sono li fatti domestici de' suoi Infermi; onde da tal vizio ye ne dovre. te aftenere,perche tal curiosità vi potria tenere distratti da quel negozio, à cui dovete principalmente applicare, ch'è il ben dirigere le cure de vostri Infermi, come y'astringe il giurainéro d'Ippocrate,ch'è questo:In quafcumque domos ingrediar , ob utilitatem Ægrotuntium intrabo.  Mà di più di questa ancora può efa fere viziosa la troppa curiosità delle cose moderne, e peregrine, e particolarmente ne' Medici giovani, che non pofsedono ancora la Mcdicina à quellas perfezzione , che fi richiede ; onde da questo vizio v'asterrete , sì perche vi fa  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] [ocr errors] ria divagare inutilmente in cose, che ancora dal tempo non sono state ben digerite , come ancora vi terria lontani da ciò, che farà necessario di fare, cioè d'impossessarvi bene di quanto è stato da molti secoli confermato, à segno, che diverreste periti nelle novità incerte, rimanendo inesperti nell'accertate da lungo tempo , quali poscia sentendole vi giugneranno nuove ,. sopra di che mi riporto à ciò, che disli nella secondas Giornata , nella quale mostrai, come vi dovrete regolare per divenire Medici. Solo ora vi foggiugno quello, che à questo proposito ne dice Ippocrate, ed affinche meglio discerniate tutto il vizioso, per tenerlo lontano da voi: (m) Multæ namque ad ambitiofam quamdam operam comparat& videntur , ea videlicet , qua de nulla re utili quaftiones agitant ; E quali siano le cose utili nella Medicina, lo spiega in appresso soggiugnendo : Priusquàm verò ad Ægrum ingrediaris , fac cognitum habeas quid agendum fet ;.  ple(m) De dec.org.  che  pleraque enim non ratiocinatione , fed au» dia  xilio indigent : E se ciò non fosse chiaro ida  à sufficienza passiamo al libro De Fractua cioè  ris, dove parlando de' Medici , qui sao da  pientiam fibi falsò arrogant , così chiaracha mente dice : Verùm enimverò multa hoc stil modo hac in arte æftimari folent. Quod la enim peregrinum eft , nèc dùm conftat an en utile fit, confueto, quod jam norunt utile  elle anteponunt , quodque ab ufu communi day abhorret ei, quod eft probè cognitum ; e non evi vi sia discaro di sentire quanto mai à ci proposito redarguisce Ippocrate coloro, ei che vanno cercando le belle idee : (a)  ei Hujufmodi igitur , ubi præellem non tàm de vi curandi ratione cum illis conferrem, verùm, m ut auxilium ferrent audactèr peterem : Veo d. nuste enim cognitionis intelligentia apud eito istos Sparfa eft , cum igitur , bi ex necesitait; te indocti existant, eos ad utilem exercitaci- tionem cohortor, ubi prçceptorum cognitione .: deftituuntur.  L'Ozio padre di tutti li vizj, se non t; lo terrete lontano da voi, vi potria farperdere tutto ciò, che di buono aveste mai acquistato; Egli è capace di farvi nauseare le virtù , d'arrestarvi nel mezo della vostra carriera, d'abbatęrvilo spișito , e finalmente di trasfigurarvi in quella mostruosa figura, che più sarà di suo genio, e sențite appunto, come ne parla Ippocrate di questo pessimo vizio: (b) Quod enim otiofum eft , nilque agit ad improbitatem viam affectat, ad eamque rendit ; Talmente che per divenire voi yeri Mcdici, dovrete fuggir l'ozio , deftruttore d'ogni yostro bene; c per ciò farç, vi dovrete ancora astenere dalle frequenti musiche, dalli ridotti de' Novellifti, e da altri consimili divertimenti, ne? quali non si puol'acquistare altro, che dį pascere inutilmente la curiosità, ed il proprio genio , e ciò con ragione fi puol giudicare tempo perduto, perche profitto alcuno da essi non se ne ricava.  Gran infortunio sarebbe della Me. dicina, quando v'entraffe la Malizia à corteggiarla, avendo questa già impa  rato  (h) Dedecenti babits,  [ocr errors] rato adimitare tutte le bạone virtù con finzioni soprafine , ed in che guisa, ne parleremo più diffusamente in appresso; Solamente ora vi avvertirò, che se tal?  uno di yoi reftasse mai inferrato da fimi31 le vizio diyerrebbe subito uniforme à 1 quei Medici descritti da Ippocrace :(9)  Qui quidem Perfonarum, quæ in Tragediis producyntur maximè fimiles esse videntur ;  mentrechę farebbe tante comparse difi ferenti, quante gliene dettasse la sua madi lizia nelle congiunture à lei opportune , ci mà come termineria la tragedia lo moAd stra Ippocrate chiaramente doppo aver N avvertito, che Orium , ignavia mali  tiam quærunt, soggiugnendo: (d) Hi enim - Sunt, qui fora frequentant , ruditate, ac Ti infcitia sua imponentes, & circulis Civita  tum verfantes ; Talmente che per non cheffer yoi posti nel numero di Parabolani  necessariamente vi converrà fuggire , afe e detestare fimil vizio . Il timore, e l'ardire , con tuttoche K 2  sem-  (c) In Hippocratis lege.  (d) Hippoer.de dec. habitu.   [ocr errors][ocr errors] 2.  [ocr errors] sembrino trà di loro contrarj, nulladimeno vengono molto biasimati da Ippocrate nel Medico, dichiarandoli in lui per segni viziosi d'ignoranza, dicendo egli : (e) At verò imperitia malus eft thefaurus , malaque opes reconditæ iis, qui ram tùm opinione ipfi, tùm revera possident fecuritaris animi, du lætitiæ expers, timiditatis, & audaciæ nutrix; Ac timiditas quidem impotentiam , Audacia verò artis ignorationem arguit. Perloche non di potrete nè segúitare, nè scusare, nè anco sotto lpecie nel primo di circospezzione, e nel secondo di spirito, perche diversi sono trà loro il timore, e la circofpezzione, l'ardire, e lo spirito . Il timore vi farà perdere l'occasione pronta , che vi si presenterà di operare per non faperla voi conoscere, ma non già la circospezzione, che nasce dal poffe dere molto bene ogni danno , ed ogni profitto, che ne poffino risultare da ciò, che voi farete, onde questa vi renderà folamente per breve tempo irresoluti,  e fino (e) Hipp Text.  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] e fino a tanto, che averete bilanciato il bene, & il male, e conosciuto, ch'avrete quale delli due prevalga , sarete prontissimi esecutori di quanto avrete deliberato. L'ardire poi per essere temerario vi porterà con violenza ad operare , onde non vi farà diftinguere quando ve ne dobbiate servire , dove, che lo spirito , che vi rende perspicaci, & accorti, Ve. lo farà ben capire , quando fia tempo. opportuno di farlo, conforme egregiamente avverti Ippocrate : (f) Temeraria namquè proclivitas, do promptitudo,quam. vis valdè fit utilis, despectui eft , at confiderandum quando bis uti liceat.  L'Odio è un vizio, che trà li maggiori può divenire il primo, quando fi stenda fino alli ultimi confini della sua iniquità, cioè alli benefizj ricevuti, pafsando allora à quell'esecrando reato , che solamente trà gl'uomini regna, esfendone le bestie più fiere esenti, conforme da tanti esempj registrari nello Istorie si può comprendere, & in ispecie  di (f) In lib.de Medica  [merged small][ocr errors][merged small] K 3  [ocr errors] [ocr errors] di quel fiero Leone , che nell'Anfiteatro Romano il' véce di divorare il suo Beriefattore condannato ivi ad bestias, lo difese dalla violenza delle altfc, mà quellos che si rende più considerabile, si è, che alle volte' , quanto č maggiore il benefizio, tanto più viene perseguitato dall'odio, giacchè al parere di Tacito: (g) Beneficia coʻusquè leta sunt , dùm videntur exfolvi poffe, ubi multum antevenere pro gratia odium redditur; Darebbe l'animo à voi non dico di seguitare' vizio sì obbrobrioso, e ripugnante' ad ogni  in il pretesto del naturale di chi lo segue , inclinato a farlo, per non potersi moderare. Senticenc però prima d'impegnarvi à ciò, cosa ne diffe ad Ippocrate, quel grand’amatore della giustizia Democrito:(b) Plerique' verò quæ natur& hoc adSéribentes Benefactorem odio' habent, co parům abeft ut indignè ferant fi debitores effe puténtur , fed eu pleriquè artis ignorantiam in se ipfis habeotes, a imperiti  (g) Annal. lib.4. [h]. Epiß. ad Damageexiftentes, id quod meliùs eft purgant intero   stupidus enim fiant suffragia. Talche il   solo sospetto d'essere infetti da un fimile   vizio, vi renderia incapaci per sempre   di quanto voi bramate conseguire.       Quanto mai sia difficile d'esprimere  tutte le trame dell'ingarinoz ed impostu-  ra, sentitelo riferire da Ippocrate in tal  guisa : (i) Difficile eft multorum malorum  machinatricem folertiam verbis exprime-  re, cum eorum fit infinitas quædami din  bis cum dolofis conimentis prava mente in-  ter le conversentur; apud eos autèm virtu-  tis modus habetur , quod eft deteriùs; men-  dacia enim amant, do in bis fe exercent,   voluptatis ftudium extollunt; legibus mini-  me parentes a   Certamente che meglio non fi poteva da Ippocrate esprimere l'inganno vizio tanto diletto da' maližiofi Impostori, mentre da questi li modi più improprj, che si praticano sono credati per loro virtù , nè fi seguita da efi altro studio, che della menzogna, nè fi atten  de (i) In epist.Domaget.  [merged small][ocr errors][ocr errors][merged small][ocr errors][ocr errors] K 4  1.  avendo  de ad altro, che à piaceri, e diversi-  menti, fenz'alcun timore di gastigo. Le  tristizie di costoro non si pofsono mai   à bastanza esprimere, stanteche, fingen-  dosi questi Mcdicis con modi improprj.  accreditano li loro medicamenti , non   punto di rossore ne di servirsi di testimoni corrotti, che con menzogna: attestino il gran giovamento, che das quelli ne ricevettero con tuttoche non se ne fossero mai prevaluti, nè di ripromettere ne' mali incurabili quella certa salute, che non è in potere de' Medici,  , quantunque espertislimi , il farla conseguire ; In oltre giudicano graviffimi, e inortali tutti quei mali, benche di sua natura leggieri , purche rechino aglo Infermi qualche apprensione, affinche credano questi esfere stati mediante la. loro virtù risanati , e d'avantaggio , per non essere riconvenuti d'aver errato ne? pronostici, parlano con doppio linguag. gio , à tal’uno diranno, che quel tale Ammalato deve necessariamente morife,& ad altri, che deve infallantemente  mie  [ocr errors] rllanare, per avere pronto si nell'ano, che nell'altro evento chi contesti la loro, fimulata perizia in sapere ben prevedere gl’esiti de' mali; Milantano in oltre costoro i loro grand’arcani, con i quali fi vantano d'avere refuscitato molti, già fatti spediti da Medici. Solamente dico. no con verità, che in mano loro niuno. muoja, perche ridotti che li hanno in: pessimo stato di salute, abandonano li loro Infermi, non potendoli più lusingare con le solite false speranze di salute, de' quali prima fi servivano per ifmugnere le loro borse. Per inantenersi poi in creditozli pongono forto alte protezioni, e sfuggono d'incontrarsi con Medici dotti, ed esperti, non porendo ftare à fronte con chi ben sa discoprire la loro ignoranza . Al divino Ippocrate furono note alcune di queste verità, mentre egli (1) così ne parla : Qui igitus in ignorantia profundo fubmerfi funt , ij prædicta ( cioè l'operare con ingenuità) minimè percipiunt , cum Medici nomine iz  digni [] Intib.præcepat  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] 'digni re ipfà comprobent ; quàm repente  evetti fint , fortune tamén egentes per die  vites quofdam ex anguftiis emergunt viri-  que es éventu nominis celebritatem adepti  &c. ed in appreffo : Qui certè ad curatio-  nem non accedunt ; ubi vident miserabilcm  effe affectionem, c ejulatibus plenam, alio-  rum-Medicorum congreffum fugiunt; e in  altro luogo: (m) Qui igitur eos reprébena  dunt qui viltis à morbo manus non admo-  vent , non minùs adhortantur ad ea fufci-  pienda , quæ attingere fas non eft ; quàm  que fas eft , in eoque apud eos qui nomine  tenus Medici sunt admirationem fibi conci-  liant , ab artis verò peritis ridentur.   Mà crescerebbe più oltre ancora l'iniquità di costoro, quando ; che unisfcro alle loro male arci l'ippocrisiaj conforme che più volte si è osservato' ins ral'uno di essi,che postosi adosso un'abito di fimulata penitenza, e' čutto umile con li seguenti artificj procurava di maggiormente accreditarli. Introdotto, ch'egli era clandestinamente in qualche  cura  (m) in lib.de Arte,  čura, doppo di aver fatte molie insolite, ed affetrate offervazioni intorno all'Ammalato, cosi incominciava à parlare : Io coinpatisco infinitamente li Signori Medici, che lo curano s perche questo è un male'assai oscuro , e difficile à ben curarsi, non essendo ciò da cutti, fin qui scorgo , che hanno fatto tutto quello , che sapevano", nè io drdisco di biasimare ciò, che fino ad ora harino fatto, perche quest'abito ; che porto in doffo non mi permette di dir male del mio prosimo, nè di togliere la riputazione à Profeffori cotanto accreditatie tanto maggiormente, che quando anche non foffe ftato fatto a fuo' dovere ciò, che si è fatto sin’ora', non siamo più in tempo d'impedirlo, dico bene , che io peccherei mortalmente, se non' dicelli libera.. mente ciò, che debbasi fatie in avvenire, questo male à conto mio và curato in tal guisa : Primieramente gli si devono dare i tali, e tali' rimedi , e dipoi develi fare in questo modo, e ac fi opererà diversamente, io mi protesto che questo poveroInfermo se ne morirà quanto prima ; e lo.   vedrete con vostro cordoglio. É fe tal  uno degli astanti più prudente lo prega-  va d'abboccarsi con li Medici della cura,  à fine di comunicar loro questi suoi sen-  timenti, ei ricusava tal congresso, con  pretesto , ch'essendo odiato da tutti li  Medici per la sua ingenuità, e dottrina  non fariano mai condescesi à quanto di  buono egli avesse proposto, onde , che  reputava non solamente superduo tale  abboccamento , må ancora non pratica-  bile da un suo pari, che deve,per l'umil-  tà, che profetava, effere injinico delle  difcordie; onde avessero pure fatto ciò,  che ad esli pareva , e piaceva , bastando-   gli d'aver accennato il gran pericolo, ed  il modo insieme più sicuro da sfuggirlo  per mera carità di giovare à quel povero  Infermo così aggravato , non già per in-  teresse alcuno, da cui egli n'era lonta-  nisiino. Infinite confusioni cagionarono  simili parole pietose in più cure , stante-  che tal’uno de' più creduli, che vi si tro-  vorno presenti, diffe : Sentiste , con che   [merged small][ocr errors] modestia parlava quel sant'Uomo, se non fosse così scrupolofo, oh quanti errorici averia discoperti, commesli da' noftri Medici ignoranti in questa cura ! Si vede però, ch'egli intende, perche hà fatto certe osservazioni particolari intorno all'Ammalato, che non le abbiamo vedute fare da' noftri Medici. Ed altri di più consigliavano à licenziare tutti li Medici per farlo curare da esso folo, per-. fuadendofi, ch'egli l'averia certamente guarito . Quali danni ne riportino li poveri Infermi da costoro, che Medicorum congreffum fugiunt,gli espresse assai bene, e con pochissime parole Ippocrate nel sopracitato libro , dicendo ivi; Ægroti verò dolore conflictati in utrâque improbia tate natant ; cioè in quella dell'ignoranza, e dell'inganno di simili viziosi Impostori.  Quello però, che reca non ordinaria meraviglia si è, che il popolo più volte caduto à dar fede à fimili viziosi Impostori con danno notabile, & evidente della propria falute ritorna di bel  nuo  nuovo a creder loro , & à restarne insieme nuovamente deluso, conforme ancora che con tutto abbiano questi nociuto à molti, niuno contro di essi dell'offesi ne fà risentimento , e la cagione di ciò / non puol'essere altra, che godono questi quel vantaggio, che hanno le donne di mala vita, da cui ne s'allontanano molti, che da esse furono danneggiati, nè alcuno contro di esse ne fà rilentimento proporzionato al male ricevuto', e ciò cre. do, che segua sì nell'uņo, che nell'altro caso,per la vergogna,che ogn’uno di essi hà di manifestarsi con atto publico per imprudéte, onde perciò pazienta,e ţaçe.  E finalmente se per disaventura un fimile yizio contaminafle mai il Media co dotto, ma politico, oh quanti danni ancor peggiori di questi apporteria à molti, posciacchè inestandosi al ben radicato sapere l'inganno , e l'impostura , che frutti velenosi mai produrrią unas fimile pianta ? e nocenda questi senza effere creduti nocivi, non solamente trà l'idioti , mà ancora trå li più cautelati,  e cir.  )  )  e circospetti troveriano lo smaltimento, c per non diffondermi più oltrc, dirò solamente che il Medico dorco, e politico, quando che fosse divenuto Impostore, avendo egli perduto la sua ingenuità diverrebbe allora non solamente tiranno de' suoi Infermi, facendo loro arţificiosamente credere , che da esso depende lą loro falute, anziche la vita isteffa , e che non poțriano nè pure un momento di più yiyere, quando si allontanassero dal suo consiglio,& ajuto,mà ancora di tutti gli altri Professori ingenui , potendoli conculcare à suo piacere per prevalersi egli delle frodi somminiftrategli dall'inganno, alle quali non potendo contraporre le proprieşper esserneprivi,conviene loro cedere , per non sapersene schermire, giacchè Års luditur Arte. Fuggite dunque yoi, che ambite di mantenervi ingenui, e divenire veți Medici fimil vizio, e voi, à cui specta d'invigilare alla publica salute.  Non tantum tollerate nefas hanc tole lite peftem.  Ded [ocr errors][ocr errors][ocr errors][merged small][ocr errors] Del miserabile vizio dell’Ignoranza poco sarà d'uopo parlarne, sì perche vi è già nota la sua deformità, sì ancora perche vi vedo incaminati à gran passi per la strada della sapienza,solamente vi riferirò per vostra consälazione, affinche prestamente ne diveniate veri possessori di questa, ciò, che Ippocrace à questo proposito insegnò, con una bella somi  glianza , & è: (n) Non alitèr enim ac Miniftri , & Miniftræ in domibus tumultuantes, ac ceriantes , fi quando de repente eis hera adfuerit, attoniti conquiefcunt , fimilitèr etiàm reliqua animi cupiditates malorum, hominibus funt administre, at ubi fapientia in conspectum fe dederit, tanquàm mancipia reliqui affe&tus difcedunt. Insegna parimente Ippocrate nell'iscoprire li seguaci di tal vizio il modo da conoscere li Medici ignoranti, mà di ciò non devo parlarne, perche il mio fine è diretto à detestare li vizj , fenza andar cercando li viziosi. Non però tacere devo il gran danno, che questi apportanoalla povera Medicina riferito da Ippocrate irel principio della sua legge in tal guisa : Omnium profectò artium Medicina nobilisfima, verùm propter eorum , qui eam exercent ignorantiam c. omnibus artibus iàm longè inferior habetur .  Finalmente con la Maledicenza terminerò io ancora di dir male de vizji questa è un vizio assai incivile, perche opera sempre contro li buoni costumi, e contro la civiltà , questa certamente non si dovrà seguitare da voi, venendovi da Ippocrate tanto proibita nel libro : De Medico, che in tal guisa incomincia: Hoc fcripto Medico imperamus, eo dicimus, dove tra l'altre cose, che coinanda vi sono le seguenti: Ut animi temperantiam excolat , non taciturnitate folùm, verùm etiàm reliquâ totius vitæ moderatione , bom nis, ac honeftis fit moribus, & æquus in omni vitæ confuetudine fe præftare debeat ; Le quali cose come le potrete osservare, essendo maledici ? Ed affinchè meglio comprendiate quanto il ben moriggerato Ippocrate odiasse questo vizio, passia  L  mo  [ocr errors] mo à rillettere ciò, ch'egli dice nel libro  De Arte , il quale comincia così : Non  nulli turpitèr in sectandis artibus artifi.  cium suum collocant , neque id, quod facere  Se credunt meo quidem judicio obrinent , sed    Jue scientia oftentationem faciunt aci E  poi soggiugne : Qui verò ea, quæ ab aliis  sunt inventä inhoneftorum verborum arti-  ficia contaminare contendit , nequè quida  quàm corrigit,   fed à peritis inventa, apud imperitos traduçit . Is fanè prudentice exiftimationem tueri velle non videtur , fed potiùs naturam fuam, aùt ignoratiam nem malitiosè prodere : Solis enim artium ignaris, hoc opus competit, qui ambitiofiùs quidem contendunt , neque tamen improbie tate suâ ullo modo præftare poffunt, ut aliorum opera, vel recta calumnientur , vel non recta repræhendant : Eos igitur , qui in alias artes hoc modo invadunt,coerceant, fi poffint , quibus hæc cura eft, quorumque id intereft. Vedete voi à che segno odiava il divino Ippocrate li maledici, che voleya , che fossero ristretti , essendo indegni di convivere tra uomini di ono.  re  [ocr errors] [ocr errors] re. Crederei, che quanto hà detto cosi chiaramente , & al propoliço Ippocrate vi pofsa bastare per odiare un limil vizio, e tanto maggiormente se rifletterete, che quanto voi direte di male degli altri, altri ancora ne potranno dire di voi , ficchè parlate bene degl'altri, Ò tacete  Țacerò ancor Ia per non nausearvi di vantaggio nel descrivervi la laidezza di tutti gl'altri vizj, sperando , che ciò, che vì hò detto di questi pochi,pofsa baftare, per farvi prendere odio a tutti gli altri, ed à quel segno , che li viziofi lo porteranno facilmente alle virtù, qual? odio pero spererei, che in un subbito deponessero į viziosi , se spogliati per pochi momenti d'ogni loro difetto, si aboccaflero insieme con effe, allora cofa disebbono sentiamolo da Seneca; (a) Quidquid opravi inimicorum execrationem puto ; Quidquid timui Dii boni quantò melius fuit , quàm quod concupivi cum multis inimicitias gefi, & in gratiam ex odio res  L 2  dii (a) De Vita beata cap.2.  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] dii buc. quid aliud quàm telis me opposui dc.  Avere inteso come parlerebbero bene li viziosi se avessero la forte dili berarsi da? loro difetti solamente per breve tempo, approfittatevene dunque voi, giacchè per sempre, se vorrete, potrete effere di mente capaci di conoTcere la loro deformità, e fuggirla. Mà quando mai credeste per cosa molto difficile di potervene affatto spogliare, fate almeno, che con le vostre virtù vi si fra. meschi solamente tanto di vizioso, quanto communemente si tollera nell'oro di lega bassa , c non più , che non arriva ad avvilirlo, nè à fargli perdere il suo vago Splendore.  Passerò ora alla seconda parte per esaminare se li vizj ermafroditi si possino alıneno tollerare nel Medico.  Per vìzio ermafrodito intendo quello, che dalla malizia , e dall'inganno viene talmente trasmutato in virtù, che difficilmente si potrà discernere, se prima non si scoprono le sue parti vergognose,  che  و  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] che fino ad ora non hanno sapuco, ne  potuto ricoprire. Sia per esempio, se la malizia,e l'in-   ganno vogliono , sono capaci di trasfi-   gurare così bene la superbia in umiltà,   l'iniquità in zelo di giustizia , che diffi,   cilmente senza l'ajuto del disinganno ,   che scopre le loro vergogne , li potranno   distinguere. Nel prino caso si serviran-   no facilmente de' seguenti artificj. Da-   rete à suo tempo voi un'opera alla luce,   ò vi riuscirà felice la cura di un male  grave, è cosa facile, che ne abbiate del  compiacimento interno, e questo avvan-  zandosi più del dovere, è facile ancora,  che palli à farvene qualche poco insu-  perbire, di quell'opera, di quella bella  cura, cosa faranno la malizia, e l'ingan-  no per farvene affatto insuperbire ? Ri.  copriranno la piccola vostra superbian  con il manto dell'umiltà , & in congiun-  tura, che sentirà lodarvi gl'insinueranno  in tal guisa à rispondere : Questo non so-  no cose degne di lode, sono bagattelle,  non meritano d'essere lodare da un Vir: L3 tuofo suo pari, sono parsi di un debbole ingegno ; Chi sentirà si limili risposte resterà sorpreso da üná tanta umiltà, ed állora maggiormente s’infervorirà dilo darvi, entrerà nelli meriti della causazed allora appunto avranno compito il loro negozio,in farvi maggiormente insuperbire, che cosa converrà fare per iscoprire le vergogne alla in ascherata superbia , per conoscere se quella umiltà sia stata vera ; ò fimulata; bisognerà ricorrere al disinganno, che la scopra. Aspetterà questi facilmente la congiuntura proposito, & in vece di lodaryi dirà tutto quello, che la finta yostra umiltà aveva già detto di voi, con qualche par, ticolarità di più, che sarà vera , sì perche il disinganno non mentisce; sì ancora perche i chi è capace d'insuperbirli, non essendo di gran prudenzaś può in qualche cosa trascorrere ; Allora sentendosi la superbia toccata sul vivo lacererà in un tratto il bel manto dell? umiltà, e da se medesima mostrerà le fue vergogne rispondendo : Come ! non  fono  [ocr errors] [ocr errors][ocr errors] ز  sono cose degne di lode? sono parti di  un debbole ingegno sono bagáttelle?  sono tutte cose d'eterna memoria ; voi  non le capice, perche liete un'ignorantë.  Che ne dite ? questa è quell'umiltà, che  una volta parlava così bene; è forse scu-  sabbile nel Medico avendo questa un  naturale si fraudolento? Mi persuado ,  che ora, che la conoscere ; non la scuse-  rete, anzi la biasimerete più costo. Nel secondo caso se venisse in pen-   siero à tal’uno, che Iddio non voglia, di   promovere al servigio d'un'Ipocondria-   co da lui curato qualche suo amorevole,   mà dovendosi rimovere chi attualmente  lo serve, e competencemente bene, sen-   za l'ajuto della malizia, e dell'inganno.».  non si poiria ciò effettuare. Questi cacci-   vi vizi per servirlo, che cosa faranno ?   procureranno di vestire l'iniquità con   abito di zelo di giustizia, e che diča à   quell'Ippocondriaco, ch'è vero, che   viene servito bene da quel suo Ministro,  mà che premendogli tanto la sua salute,   il suo zelo, & il suo obligo richiedono   [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][merged small] gli procuri sempre li suoi vantaggi, ed in ispecie trattandosi di propria salute, e di salute, che gli premetanto, per 12 conservazione della quale il Signor Tale foggetto nel suo mestiere unico, che non hà pari, saria veramente à propofito , mà non per questo è dovere di far perdere il pane à chi lo ferve, si dice solamente, che lo sappia , che vi è chi lo servirebbe assai meglio, caso che capitasse mai congiuntura ; Fatti, che hà l'iniquità questi projetti ad un'Ippocondriaco, che non brama altro, che vivere, con tutto quel di più di male, che sentirà dire  per altre  vie di quel povero galantuomo, che lo   serve,procurate da chi vuole lubentrare;  Credete voi, che non si effettuerà fimile  tentativo dall'iniquità? Forse prima di  otto giorni farà espugnata la Piazza,  perche tanto si batterà, che si farà brec-  cia, e vi si porrà dentro, e di sì bella  impresa ne trionferà la sola iniquicà. Voglio, che sia vero , che il  Ato ne sia capace, má vediamo un poco  se il fine è stato retto, e se il zelo digiu-   stizia  1  che il propo  [ocr errors] [ocr errors][merged small] stizia ne fù egli il primo motore? Chi avrà procurato simile ingiustizia , certainente, che non sarà molto eccellente nel suo mestiere, perche chi è tale, è ancora giusto , e prudente, dunque ve ne saranno de' più esperti di lui. Ciò supposto procuriamo, che il disinganno ne faccia le sue diligenze, e questo facil. mente farà infinuare al sudetto Ippocondriaco, che giacchè hà megliorato nella mutazione di quel suo Ministro, procuri ancora di mutare il Medico , e ne trovi un'altro megliore di quello, che ha presentemente, e piacendogli tal'insinuazione, cd effettuandola, cosa dirà colui, quando si vedrà fuori del servigio? fi lamenterà forsi del torto, che gli ha fatto, avendolo tanto tempo ben servito ? mà di chi si lamenterà? dovrà dolersi di se medesimo, perche gli è stata fatta quell' ifteffa giustizia , ch'esso hà procurato foffe fatta altrui; Dà dunque a conoscere chi operò in questo modo, che non ebbe per fine il zelo di giustizia , perche questo non gli è piacciuto, mà forse ne  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][merged small] ebbe  [ocr errors][ocr errors] ebbe qualchedun'altro di quelli, che low no chiamati secondi fini, cosa ne dite voi di questo vizio ermafrodito & vi pare di poterlo scusare nel Medico; e se ve ne fofreche non credo ; tal’uno trá efi to scusereste forse ? Io per me lo scuserei nella forma appunto , che diffe di fimili viziofi Democrito ad Ippocrate: (b) Cum igitur tot indigenas; e miferas ánimas videamus quomodò eorum vitam ejusmodi intemperantja deditam ludibrio. non bao beamus 2  Molte altre frodi,tramåte dalla malizia, e dall'inganno potrei orá riferirvij fe non dubitäsli, palesate; che fosseros che tal’uno ( di voi non dico , che siete di ottima inclinazione ) sentendole riferire se ne potesse abusare; onde in ciò procurerò con Tacito più tosto Artem oblivionis , quàm memoria.  Avete già udito la gran deformità de' vizj, il danno, che apportano a'suoi seguaci, ed il non doverfi seguitare ; nè fcufare in conto alcuno , che possonofervirvi di motivi efficacissimi per tenerli lontani da vois purche non si siano di già radicati ne' vostri cuori, nel qual caso faria necessaria la gran Medicina proposta da Ippocrate per isvellere affatto li vizj, ch'è la seguente: (C) Equidem omnes animi morbos vehemences(che sono appunto i vizj) insanias reputo ; cùm opiniones quasdam, da vifa rationi fufcitant, ex quibus fanéscit s qui per virtutem repurgatur.Preparerò dunque per la Giornata di domani la sudetta Mediciija,dalla quale se ne avrete bisogno rimàrrete certamente sanatis casos che nò, preservati almeno da fimili infezioni, in avvenire . Venite tucci, che vi aspetto con desiderio ; perche sarà Giornata di molto profitto quella , in cui si parla delle virtù.  [ocr errors][merged small] [blocks in formation] Nella quale.  fi discorre dell'acquisto delle virtà, e del bene , che apportano al vero Medico , e se alcuna di effe  fi poffa in lui cenfurare  non  Vanto mai sia infelice, e miferabile  la condizione umana,lo dimostra.  110 non solamente li vizj,mà anca. ra le virtù, posciacchè li primi,che tanto nuocono, spontaneamente in noi germogliano, e le seconde, che sono così utili,  senza reiterare fatiche, & una lun. ga , & industriosa coltura si acquistano. Appena nasce l'uomo, che in lui subitamente l'ignoranza si manifesta, e quel primo vagito , che dà n'è il primo contrafegno , mentre non ne sà ancora il perche egli lo faccia : Cresce, ela malizia fi scopre, l'ira, e la gola si manifestano ; S'inoltra nella gioventù , e la lussuria si risente, e di mano in mano , che gl’anni fi avanzano, li vizj tutti un  dop  [ocr errors][ocr errors] doppo l'altro fi veggono germogliare;  Con ragione dunque disse Democrito :  (d) Totus homo ab ipfo ortu morbus eft ;  e ne assegna la cagione : Talis enim ex  materno cruore Sanie permixto promicuit  Infelice , e miserabile dunque condizio  ne umana, che per fare acquisto di ciò,  che l'è nocivo, punto non hà d'affaticar-  si, perche spontaneamente li vizj li fan-  no possessori di noi, essendo concepiti,  e nascendo con noi medesimi, e questa  è la cagione, perche erunt vitia donec  homines, dove, che per ottenere ciò ,  ch'è di nostro sommo bene dupplicate  fatiche si ricercano; La prima delle quali  consiste nello svellere da noi le tanto im-  poffeffate radici de vizj, e l'altra d'an-  dare à poco à poco introducendo in sua  vece li semi delle virtù, e ciò non basta,  perche conviene ancora di cuftodirli  fino à tanto, che siano assicurate bene le  loro radici, per non essere dove sono se,  mentari suolo nativo. E perche ò lante  virtù spontaneamente ancor voi, ccon   quel(d) In epi.2.Damaget.  [ocr errors][ocr errors][merged small][ocr errors][merged small][merged small]  quella medesima facilità non germoglia.. te in noi per renderci felici? Conosco, che voi fiere un'attributo divino, ma non per questo, vi dovęte tanto sdegnare di unirvi con noi, che siamo creati ad im. magine, e fimilitudine di Dio, conosco ancora, che per ricevervi li richiede abitazione espurgara da ogni iminondezza, pura, e proporzionata à voi, e se per questa cagione voi state lontane da noi, la colpa non sarà la vostra, mà bensì di noi medesimi, che siamo quelli, che vi impediamo l'ingresso, e che ritardiamo si gloriofe conquiste, che ci possono rendere beati, con trascurare ciò, che voi richiedete  Oggi sì, che voglio far prova di voi per conoscere à che segno liano gli animi vostri generosi, e se avere ancora acquistato l'uso di ragione , potendo, se vorrete, ciò che si trova d'infelice in voi commutarlo in prosperità, e ciò, ch'è disgrazia in fortuna: Accingetevi pure, se ne sarete sprovisti, all'acquisto delle belle virtù, se ambite divenire Semidei,  dicendo apertamente Ippocrate, (e) ches Medicus Philofophus Deo &qualis habetur ; e cosa voglia intendere per Medici Filosofi lo spiega divinamente in appresso, cioè quelli, che habent , quç faciunt ad demonstrandam incontinentiam, quatuoSam, ac sordidam profefionem, inexplebilem habendi fitim , cupiditatem , detraa &tionem, impudentiam ; che sono per l'appunto quelli, che seguirano le virtù , ed hanno in abbominazione li vizj.  Sbandito dunque , che avrete da voi ogni vizioso inquinamento, e perciò renduti più capaci dell'acquisto delle eroiche virtù, proporrò in primo luogo ciò, che concerne alla Religione, come quella, ch'è la suprema di tutte le virtù, & ancora la loro base fondamentale, in cui sono appoggiate tutte le altre.  La Religione quanto debba essere àc  cuore al Medico, sentitelo da Ippocrate: (f) Hactenus igitur cum sapientia, communionem , eorumque etiàm plurima habet Medicus, nam & Deorum cognition  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][merged small] дет  (C, &f) Hippode $65.0TMnem ipfe potiffimùm animo complectitur , cumque aliis in affe&tibus , & casibus Medicina multum Deos colere comperitur duc. e tutto ciò lo afferisce dapoi di avere insegnato, che nella Medicina vi era ancora: Superftitiofi metus aversatio preAantia Divina . E non solamente à benefizio vostro ciò converrà , che facciate , mà ancora à prò de' vostri Infermi, perche venendo ogni bene dal Cielo , nelle vostre più gravi, e pericolose cure converrà , che non vi fidiate della vostra fola perizia, mà ancora, che supplichiate Dio, che vi assista con la sua santa grazia à bene indirizzarle; qual pio sentimento si ritrova ancora descritto in Ippocrate, e dato à coloro, che disprezzando gli ajuti Divini , fi raffidavano solamente ne' loro incantesimi, à cui cosi parlò risentitamente; (8) Quos contrafacerc decuerat, facra facere nimirùm , & precari , ad Templa deducere, Diis fupplicare ; e sotto dice: Maxima ergò, fceleratisima peccata Deus expiat , dapu  rificat (g) De morbo facro..  rificat tuteláque noftrâ existit ; e non imitando voi la gran pietà di tanto Maestro come potrete essere annoverati trà suoi seguaci ?  A questa viene in seguela la Prudenza , la quale è una virtù al parere di Democrito riferito da Ippocrate, che non solamente fà conoscere, e bene distinguere il prasente, mà ancora fà prevedere il futuro: (a) At folus hominis sensus recta intelligentia eminùs splendescens. Quod præfens , & futurum eft prævidet; E questa è quella, che toglie ogni confufione, e libera da qualunque pericolo chi la poisede : Qui enim hæc ipsa prudenti cogitatione difponunt , ii & facilè liberantur , meum risum fubleuant ; E questa non si può ottenere senza prima rimovere da noi tutti quei vizj, che prevertono la nostra mente, trà quali li principali sono l'ira , la superbia , l'avarizia , l'invidia, e l'inganno, li quali sono tutti capaci di farla prevaricare, e renduta che sarà per la mancanza di  M  que(a) Epist. ad Damag.  [ocr errors] questi quieta, e tranquilla , la Prudenza con maggior facilità si potrà acquistare.  Senza questa bella virtù, regolatrice di tutte le buone operazioni, non pensate di potere esercitare la Medicina, perche come vi potrete regolare senza effa , allorche v'incontrerete in Maláci indiscreti, e disobbedienti, in mali simulati, in controversie con altri Profeffori, ed in tanti altri emergenti, che vi possono giornalmente accadere, in quali laberinti vi trovereste? in quante confufioni, se non aveste la scorta della Prudenza, quali inquietudini provereste se foste privi di sì bella virtù ? (6) Non poteft effe vita jucunda, à qui abfit Prudentia , come disle Cicerone; Cni possiede detta virtù hà quanto di buono poffa mai desiderare, ftanteche (c) Nullum Numen abest fi fit Prudentia.  Quindi è, che Ippocrate fino, che visse non solamente fi fece regolare in tutte le fue operazioni da questa virtù, come nelle sue memorie si scorge, mà consiglia li suoi seguaci , e comanda loro insieme à non discostarsi punto dal suo patrocinio, insegnando ancora il modo per acquistarla, conforme da moltislimi suoi documenti potrete comprendere , de' quali ve ne riferirò quei soli, che sono registrati nel libro De decenii habitu , dove doppo aver descritto il vestire positivo del Medico accreditato, soggiugne : Qui se fe, ex cultus venuftate , frugalitate, non tàm ad fuperfluam curiofitatem , quàm ad optimam existimationem, prudentiam, e animi moderationem compararunt; e passando à ciò, che deve provedersi di necessario  con(b) 5.Tufculon. (c) Juven.fat.10  per  il suo mestiere , lo avvertisce, che sia prudente in farlo, altrimenti : Horum penuria mentis inopiam, at detrimentum affert ; Vuole anco in appreffo, che usi prudenza in prevedere ciò, che può avere di bisogno j'Infermo, che non operi con animo turbato, che sedi le confusioni, e li tumulti, che sgridi l'Infermi disobbedienti,l'intimorisca , mà insieme con prudenza, che Blandè eos excipiendo, consoletur , confor  [ocr errors][ocr errors] [ocr errors][ocr errors] me ancora, che avverta di non li prevalere di Sostituti imperiti, affinche de' loro mancamenti non resti esso debbitore, e quelli , che opereranno in tal guisa cosa acquisteranno? Gloriam tùm apud majores, tùm apud pofteros fibi comparabunt; e finalmente insegna il modo di conseguire con facilità la sudetta virtù, soggiugnendo : Qui etfi non multarum rerum cognitionem habent , earum tamen ufis afliduo prudentiam affequuntur .  Apprendercla dunque ora, che fapete il modo facile per conseguirla , caso,che non ne foste proveduti à sufficiene za , per imitarlo anco in questa.  La Giustizia, una delle altre virtù principali confifte, al parere di Galeno , di dare à ciascheduno ciò, che gli compete: (d) Naturæ iustitiam in eo confiftere, ut quod unicuique competit distribuat ; E. questa non la potrete acquistare, se da voi non terrete lontana l'iniquità, con turti li suoi vizj feguaci, che sono le passioni, l'adulazione, ed altri, che operano tutto il contrario di ciò, che alla   Giustizia piace. Il bene, che apporta  detta virtù è dupplicato, perche non fo-  lamente benefica chi la riceve , mà an-  cora, chi l'esercita; chi la riceve ottiene  tutto quello , che deve desiderare, e  conseguire, e chi l'esercita non puoles-  sere censurato à ragione, perche le sue  operazioni saranno sempre regolare con  giustizia, e tutta quella giustizia, che  si fà , si riceve ancora da altrui, in ciò ,  che riguarda gli proprj avanzamenti  ftanteche (e ) Fundamentum perpetud coe  mendationis, famæ eft juftitia, fine qua  nihil effe poteft laudabile. Meritamente  dunque compete al giusto di fiorire co-  me la Palma : Juftus ut palma florebit,  perche conforme la Palma quanto è più  caricata di grave peso, tanto maggiore  mente sormonta , così ancora il giusto,  quanto più fi procura deprimerlo, tanto  maggiormente viene inalzato.        Questa eroica virtù non solamente  viene incaricata da Ippocrate al Medico   [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][merged small] M 3  con  (e) Cicero i.de Offic.  con precetti, dicendoli : (f) Æquum autem in omni vitæ confuetudine se preo ftare debet ; e ne assegna la ragione, fog. giugnendo: Cum omnibus in rebus multum fit in justitia præfidii; mà ancora fù da lui medesimo seguitata, conforme in tutte le sue memorie si può rincontrare, trà quali per non dilungarmi, riferirò solaméte ciò,che si legge in una lettera da lui scritta al Senato di Abdera, nella quale dicc à tal proposito : Ego verò fi omnibus modis ditefcere voluiflem viri Abderita , nè decem quidem talentorum gratiâ ad vos venirem , fed ad Perfarum Regem proficifcerer , ubi Urbes tote opibus humanis refertiffime occurrissent; e ne assegna la cagione, perche ei non lo fece foggiugnendo: Regias autèm opes ignominia mihi futuras, opulentiam Patria inimicam reportaffem, quibus circumaffuens Urbium Grecia deftructor exifterem ; Antepofe dunque Ippocrate à sì confiderabiliffimi proprj vantaggi il publico bene, fù dunqu'egli perciò disinteressarissimo,e come  tale (t) De Medico.  [ocr errors] tale fece conolcere à che segno amava la giustizia, non potendolo chi veramente l'ama con prove più demostrative far costare, che con quelle dell'essere di. finteressato.  Custodire dunque la Giustizia co. me pupilla delli vostri occhi , perche questa è quella , che vi può rendere feli. ci, non potendoyi mancare cosa alcuna, quando la vostra mente sia giusta, come viene espresso in due versi esametri scol. piti sopra la Porta Romana di Marino mia Patria, Feudo Nobile dell'Eccellentiffima Casa Colonna, che sono: Hic tibi tuta quies, do que cupit odia  virtus. Defisietquè nihil, fo mens non deficit  equa ,  Infeparabile dalla Giustizia deve effere la Fortezza, pofciacchè non sempre li potrebbe eseguire ciò, che la prima dispone senza l'autorità della seconda. Ippocrate diede la legge conforme fi avevano da regolare gl'Infermi,mà ordinò ancora al Medico fuo Esecutore,  che  M 4  che in caso di trasgressione de' suoi Malati fi armasse di fortezza per farla eseguire : (8) Eumque à fuis cupiditatibus deterreat, bu fimul quidèm cum amaru- , lentiâ vehementèr increpet . E questas virtù come s’acquista ? con togliere da noi ogni timore, ogni pufillanimità, con invigorire lo spirito, e rendere l'animo pronto, & obbediente ad eseguire ciò, che li viene dalla discrera Giustizia ordinato'.  Doppio bene parimente ne nasce mediante la sudetta virtù ; Il primo è , che sono sicuri gl'Infermi curati da chi è giusto di non essere adulati, ponendosi da essi in esecuzione tutto ciò, che loro compéte, e non di vantaggio, e l'altro è, che chi la possiede ne riceve stima , erispetto,ponendo in sogezzione coloro, con quali si tratta .  Örnatevi dunque voi ancora di quefra neceffaria virtù, dovendo nelle occorrcoze resistere alli'defiderj dopravaci de voftriInfermi, male avvezziin sanità  ز  [ocr errors] à cra  (5) Hippode decenti ornatu ,  [merged small][merged small][ocr errors] * crapulare giornaliente , e dovendo  opporvi à ciò, che fuor di proposito ver-  rà motivato dagli aftanti, come potreste  resistere, se non foste armati di fortezza,  e costanza , neceffariamente caderefte  nell'adulazione con danno sì della loro  Calute', che della vostra riputazione ;  oltre di che con pochi contradittori vi  abbatterete , perche conoscendovi di  quell'animo descritco da Orazio ;   Juftum ; tenacem propofito virum.  Non Civium ardor prava jubentium,       Nec vultus instantis T yramni        : Mente quatit.  Per loro quiete più di uno vi lascierà  stare senza recarvi moleftia .   La Temperanza è quella virtù, che frena li noftri (moderati desiderj, e li restrigne dentro i limiti dell'onesto , e ci rende finalmente padroni di comandare à noi stessi ; Quindi è, che Democrito, fiinproverando coloro, che hanno defiderj smoderati , (h) disse : Et cùm multis dominare velint , fibi ipfos imperare ne  queunt : (3) Hipp. epif.Damag,queunt ; Senza questa bella virtù nelle maggiori prosperità non si puol godere di quelle e Alessandro il Grandes appena ebbe notizia, che vi erano più mondi, che subitamente si concristòs e perdette tutto quel contento, che forli aveva ris cavato dalle coniquifte di più Regni , perche gli crebbe subitamente il delide, rio ambizioso di fare maggiori progrefli.  Come s’acquisti questa virtù linsegno Seneca s ( b ) con dire : Sani erimus , cu modica concupifcemur, fi unusquisque se  numeret , metiatur fimul corpus , fciatquè hec multùm capere, nec diù pode ; Nihil tamen æquè tibi profuerit ad temperantiam omnium rerum, quàm frequens cogitatio brevis avi, a bujus incerti, quidquid facies refpice ad mortem ; Octima Media cina, e degna veramente di quel gran Morale per moderare i nostri sfrenati desiderj. E con ottimi sentimenti ancora si ritrova registraro in Ippocrate in tal guisa: (i) Quod fi quis omnia , quæ facit pro viribus mente verfaret, vitam ab omni  cafu (h) Epif.94. (i) Inepif. Damago  cafu immunem fervaret, se ipfe probè non fcens, fuam ipfius concrétionem apertè intelligens, cupiditatis ftudium in infini, tum non extenderet, fed naturam divitem, & omnium alumnam per ea, quæ abundè suppetunt, sequeretur. Quemadmodùm autèm optimus corporis habitus affectionum periculum denunciat s lic magnus rerum fucceffüs lubricus eft.  Elsendo dunque tanto utile questa virtù, quanto è desiderabile la propria felicità, la dovreté bramare, e procurare insieme, e non solamente per vostro proprio bene, ma ancora delli vostri Infermi; perche se sarece immersi profondamente nelli vostri fmoderati desiderj, avrete la mente sempre così distratta da quelli, che à tutt'altro penserete, che à ciò, che possa essere di profitto agli Ammalati, e se pure lo farete, farà cog mence stanca, per breve tempo, e di paffaggio, doveche avendo roli delide, rj onesti, questi poco vi affaricheranno la mente , onde avrete campo di applicare con più attenzione alle cure, e da  [merged small][ocr errors] [ocr errors] inferioris che eravate al negozio, divers sete superiori, alleggeriti che ne farete, con notabile vantaggio di chi si prevalerà dell'opera vostra.  E tanto maggiormente, che l'offervanža di si bella virtù non fù solamente incaricata da Ippocrate a' suoi seguaci, comandando loro:(2) Eum quoque Ipe&t are oportet, ut animi temperantiam excolat, non taciturnitate folùm, verùm etiàm reliquả totius vite moderatione Quòd ad illi comparandam gloriam plurimum affert.adjumenti ; Ed altrove: (m) Bonum Medicum minimè impellit ut fuam atilitatem quærat , verùm ut potiorem fuæ existimationis rationem habeat ; Itaques longè  satiùs eft à morbo fervatis exprobrare, quàm perniciosè habentes emungere ; Mà di più per darci esempio la volle egli medesimo religiosamente osservare, po. sciacchè chiamato dal Rè Artaserse, e con che promesse !.(n) Auri igitur quana fum volet, reliquaquè quibus indiget effuse  ei  (1") De Medico.  (m) De precept. (n) Ix epift... Hellefp.Præfee.  6110  ei exhibeto, di ad nos mittita, cum Perform rum enim optimatibus eodem erit honore; Şicchè la promessa confilteva in ricchezze, commodi , & onori à quel fegnio, che ne ayeise potuto defiderare, cosa rifpo e il modeftiffimo ? (0) Quàm celerrime refcribe, nos vietu, veftitu , domo, omniquè re ad vitam neceffaria cumulatè frui; Pere sarum autèm opibus uri neque  mibi  fquum eft; E scrivendo à Demetrio manifesto anche meglio la sua moderazione, di, cendoli: (P) Rex Persarum nos ad fe vocavit nefcius mihi potiorem effe fapientiæ , quàm auri rationem; Chi altro farebbe itato di animno sì moderato in fimili congiunture, che ad una chiamata di un Rè potentissimo, alle offerte sì grandiofe si fosse potuto contenere con quella moderazione Ippocratica di ricusarle? Ne crediate, che Ippocrate non considerasse li vantaggi , che ne poteva riportare, perche in congiuntura, che ricusando, per non rendere schiava - la scienza Medica delle venalità, li dieci talenti offer  [ocr errors] tigli (0) In epift.2. Hystania (p) In epift.Demetr.  .  tigli dalli Abderitani per la cura di Democrito , così loro rispose :(9) Ego verò ja omnibus modis ditefcere voluiffem viri  Abderit , ne decem quidèm talentorum gratiâ ad vos venirem, sed ad magnum Perfarum Regem proficifcerer, ubi Ürbes tot& opibus humanis refertiffimæ occurriffent dc. divitiæ non funt pecuniæ undequaquè comparat&; Magna enim sunt virtutis facra , quæ à juftitiâ non teguntur , Jedin apertum fe proferuntur. Ex morbis quajtum non facio.  Sono tutti questi esempi, che provano un'eroica moderazione di animo, una somma temperanza, e se è vero ciò, che riferisce Seneca, (r) che Platonc, ed Aristotele ricavassero più profitto dalli costumi di Socrate, che dalle sue parole. Questi del nostro Ippocrate sono tali, che possono bastare à togliervi dalIa mente ogni (moderato desiderio per farvi divenire seguaci di sì eroica virtù , come è la Temperanza, ed allora potrete con essa ridervi di quelle vagheapparenze di felicità da alcuni tanto apa prezzate, consistendo tutte in fottilidima superficie, mentre dentro di se, non altro contengono, che incommodi. Un legno dorato fà una vaga apparenza,mà dentro di se, non altro nudrisce, che molte tarle , che lo divorano, nè vi G2 discaro à sentire ciò, che ne dice Seneça: (S). Et cum auro teita profundimus quid aliud , quàm mendacio gaudemus ? Scimus enim fub illo auro feda ligna lati. tare buco omnium istorum, quos incedere altos vides bracteata felicitas eft , infpice , e disces fub iftâ tenui membrana dignitasis quantùm mali lateat . Sicchè la vera felicità non consiste nell'esterna apparenza , non nella superficie vaga, må bensì nel godere internamente una tranquilla calma, che dalla bella apparenza esterna più costo viene turbata, che dotta.  Hò cercato, come si fuol dire , per mare, e per terra un ritratto al naturale della verità  pro  per      farvelo vedere, mà non  l'hd  17 Epiß.115.   1  1  l'hò potuto ritrovare à proposito, perche, chi l'hà dipinta con il viso coperto, chi dentro un pozzo al bujo, chi l'hà profondata anco più bassa, onde non sapevo come fare per farvela vedere , non troyandola delineata in formas ostensibile . Mi venne in pensiero diricercare in Ippocrate , fe in occasione, che fù per curare Democrito l'avessi à forte potuto vedere nel suo  emi abbattei per l'appunto nel sogno, che egli fece prima di andare in Abdera , nel quale al vivo descrive la Verità , ed in quella guisa appunto, che gli comparve in sogno, (t) ve la descriverò ancora io. Gli parve di vedere, nel primo spuntare dell'Aurora una bella Dea alta, e risplendente, ornata positivamente, e senza pompa , li suoi occhi risplendevano come dui scintillanti stelle, ed avendolo preso per la mano lo conduceva per la Città di Abdera à passo lento, e finalmente nel disparire, che fece ella gli disse , ch'era la Verità , e che nel giorno  pozzo,  se(1) Is Epift.P hilop.  3  [ocr errors][ocr errors] seguente lo aspettava da Democrito do. ve dimorava.  Meritano veramente molte circo. stanze di questo misterioso logno d'efservi interpretare; La prima delle quali è la sua maestosa bellezza, e questa denota, che la verità è degna di essere da tutti amata; La seconda il suo ornamento positiuo, e senza pompa significa, che non hà bisogno di francie, nè di altri abbellimenti superfui ; La terza, li suoi occhi risplendenti mostrano , che ella abbia necessità di buona vista, dovendo vedere , e ben discernere li vizj, che la perseguitano; La quarta, con il prendere per la mano Ippocrate fà comprendere, che non vuole contraere amicizia con  gente di cattivo costume, perche bene li avvedeva, che appreffo ad Ippocrate non si accostavano nè la bugia, nè l'adulazione ; La quinta il condurlo à palli lenti inferisce, che chi vuole andare accompagnato con la verità non deve caminare in fretta, mà adagio , come faceva Ippocrate. La festa il dire, che lo  N  aYC  [ocr errors] averebbe aspettato da Democrito, dove ella dimorava, significa, che non ama le grandezze del mondo, ne vuole fare la fua comparsa, se non in quei luoghi , dove alla è conosciuta , e rispettata con fchiettezza, e sincerità.  Obella Dea, se questi sono li voftri fentimenti, date à divedere , che voi fiete troppo folitaria , modesta, e circospetta; E perche non frequentate luoghi più magnifici, e non vi fate vagheggiare publicamente ? Forse, che temete di faziare chi vi rimira con il vostro afpetto, conforme fù detto di Poppea Sabbina bellissima Dama de' suoi tempi, per non farsi vedere in publico , che col viso coperto ? E finalmente , perche non conversate con persone di sfera inaggiore de poveri Filosofi, con quali domesticamente voi trattate? Sapete come risponderà facilmente la Verità: lo son contenta di ftarmene così solitaria, perche fono troppo odiata , sentendomi dire da per tutto : Veritas odium parit ; ed io, che abborrisco di soggiacere à quest'  [ocr errors] odio, per vivere quiera , e tranquilla , son forzata nel mondo à ftarmene folie faria ; Solamente nel Cielo godo ogni libertà , ivi sono amata da tutii, ivi sono il Caduceo di eterna pace, e fapete per. che ? Perche ivi l'Invidia non mi perseguita , l'Adulazione non mi tradisce, l’Iniquità , è la Malizia non mi possono punto nuocere, come dunque posso io in Terra liberamente conversare , senza pormi à rischio di perdere quanto ho di buono, quanto ho di pregiabile, ch'è ciò, che dico. Se io comparisle da per tutto, non potrei fare di meno di non incontrarmi bene spesso con miei iniqui, e fraudolenti persecutori, e se questi, che fanno tante prede mi guadagnassero con lodare la inia bellezza, e mi facesseroprevaricare , non farei più virtù, onde per mantenermi tale, quale devo essere sono forzata vivere in folitudine con il mio bene accostumato Democrito.  Avrete da quanto vi hò descritto sin'ora compreso non solamente la bele  N 2  lezzalezza della Verità , mà ancora li suoi divini costumi, onde fi accinga pure ogni uno di voi à sposarla , perche cosa più bella , ed utile di questa non potrete ritrovare, e tanto maggiormente, ch'è affai facile à potervi fortire una simile ventura, bastandole , che finceramente l'amiate, che farà tutta vostrą. Vi avverto però, ch'ella è gelofillima, ondę vi converrà per conviverci in pace odiare la menzogna, l'adulazionc, l'iniquità, e l'inganno, altrimenti vi perderefte in un'istante la sua grazia.  Mi perfuado , che lo farete di cuore, perche Ippocrate , ch'ebbe la sorte, come dilli , di rimirarla una sola volta , ccome in sogno, ne restò così invaghito di ella, che fino, che visse l'amò fedelmente, à segno di esporsi ad evidente pericolo di perdere tutto il suo acquistato concetto; Posciacchè nella cura di colui, ch'era avvezzo di vivere à suo capriccio, e perciò facilmente fù ferito in testa, confesso candidamente di averlo curato male, dicendo , ivi : Hoc me  latuit  [ocr errors] latuit sectione opus habere , deceperunt aux sèm me future.(a)  Biasimerà taluno di quelli che amano più la loro estimazione, che la Verità questa tua confeffione publica ò Ippocrate, trattandosi di un'errore di questa forta , c tanto maggiormente, che niuno ti forzava à palesarlo, e ti diranno : Dovevi pure prevedere, che la maledicenza avrebbe fatto contro di tè quanto poteva per iscreditarti, à cui egli rifponderia facilmente, se vivesse, non mi dà faftidio, che si mormori di me, purche io non tradisca la Verità, hò voluto lasciare quest'esempio,acciocchè li miei seguaci non cadano in simile errore, e segua pure contro di me quel male ne så seguire ; Sapete, che danno ne hà riportato Ippocrate da simile confessione ? Due elogij frà gl'altri, capaci à renderlo glorioso per tutta l'eternità, che sono li Teguenti:  Cornelio Celso così ne parla di questo fatto : (b) A futuris fe deceptum  effc (a) L16.5.Epid <grot.-7. (b) Lib.8.cap.4.  N 3  effe Hyppocrates memoriæ prodidit , more fcilicèt magnorum virorum ; & fiducian magnarum rerum habentium; Năm tevia ingenia ; quia nihil habent, nil fibi detrahunt; magno ingenio, multaque nihilominùs babituro convenit etiàm fimplex veri errò: ris confeffio; præcipuèque in eo ministerio , quod utilitatis causâ pofteris traditur, ne qui decipiantur eâdem ratione ; qua quis antè deceptus eft.  Quintiliano ancora lo commenda in tal guisa: (c) Hyppocrates clarus in Arte Medicâ videtur honeftifimè fecife , dùm proprios quofdam errores confeffus eft , boc fine , nè posteri peccarent.  Certamente, che non avrebbe riportáte tante lodi Ippocrate, se avesse tenuta celata tal verità, e se non avesse confessati li propri errori, non li darebbe tanta credenza à ciò, che dice.  Dunque animateyi voi ancora à ree guitare un sì glorioso Maestro, e non remete dalla Verità , che sposerete , doverne riportare alcun svantaggio, anzi  te  (c) Lib.z. cap.8.  [ocr errors][ocr errors] tenete per infallibile di poterne voi ana cora ricavare glorie immortali.  Il difensore maggiore, ch'abbia la Verità è il Disinganno, egli è quello, che discopre ciò, che si fà contro di essa, che impiega ogni sua attenzione , & efficacia à suo prò, non prendendosi alcuna soggezione de' vizj, anco maggiori, in manifestare le loro iniquità; Hà finalmente tal possanza, che qualunque Verità più occulta la rende palese à tutti Niuno senza il di lui ajuto sarebbe capace d'avvertire alli proprj errori ; onde converrà se vorrete seguitare la Verità paffare con esso lui ancora buona corriso pondenza , rispettarlo, e farvelo vostro amico di confidenza ; Vi avverto però, che se vorrete veramente confederaryi con il Dilinganno, non dovrere effere ostinati, nè pertinaci nella vostra opinione, perche altrimenti nel meglio vi abbandonerà , onde converrà di farvi regolare in tutto da lui , e vedrete come vi favorirà nelli maggiori vostri bifogni.  Se non si fosse fatto regolare Ippo: crate da questa eroica virtù, come mai fi sarebbe potuto avvedere del sopr’accennato errore, e d'altri, e proprj, e del Medici suoi coetanei , che egli riferisce ; Certo è, che se fosse stato pertinace nella sua opinione il Disinganno non gli avrebbe fatto conoscere la Vericà qual' era , & in ispecie nel caso di quell'Ancella di anni dodici, nella quale ei confessò,:(d) Hoc cognitum eft rectè fe&tione opus habere , fecta eft autèm non velut opportebat , fed quantùm reli&tum eft , pus in ipso factum est ; Et in questo confeffa, che non fù fatto il taglio à suo dovere . Nel male di Eupolemo, chi gli averia manifeftato:(e) Hic videbatur biberari pofle, fa unicâ amplå feftione fectus fuiffet ; E perche non si fece ? Mortuus eft.  Conforme ancora nel caso di quell' Uomo quafi leproso, (f) che andando al bagno di acqua solfurea guarì dal male,che aveva, mà morì poscia Idoprico per la retrocesfione del primo; E di Scamandro, (8) à cui gli accelerò la morte un potente folutivo, come avrebbe possuto dire : Videbatur plus temporis fubstinere potuille. nisi ob vim pharmaci; E nel figlio di Teoforbo :( 6 ) Huic exulcerats est alvus fortitèr à magnâ pharmaci vehementia , moru tuus eft autèm tertiâ die poft potionem ; Nella moglie di Antimaco , à cui : (i) Datum eft potu Elatherium vehementius , quàm opportebat, pou mortua eft circà mediam noctem; In quell'uomo Eubeo, (i) il quale:Cùm bibiffèt pharmacum expurgans fres dies purgabatur, e mortuus eft ; E nel caso di Artandro, (m) il quale : Sanus erat à catapotio extinctus eft ; E finalmente in quello di Trinone , (n) lasciando di riferirne altri : Cùm ad nervum fanè parum medicamentum erodens fuiset adhibitum, opistotono mortuus eft.  Dunque queste utili memorie, che noi leggiamo in Ippocrate tutte le dovemo al Disinganno, che gliele fece cos nofcere. Ovirtù così sublime, perche ancora non consigliaste tanti altri Profeffori eccellenti, che scriveffero ancor esli con questa Ippocraticà ingenuità nello scoprire li propri errori à pofteri; Quanto bene averia apportato à noi simile verità; Hanno scritto; è vero, molo te mirabili osservazioni, mà hanno ancora con quelle più tosto cantato li loro trionfi, che compianto le altrui sventure. Fate almeno, che li secoli venturi godano di questo bene , & à voi toccherà di ereditäre ò Giovani ingenui questa purità di scrivere Ippocratica ; se vi uniformcrete conforme egli fece alli consigli del vostro disinganno:  yemo  (g) Epid.lib.5.&gr.15. (h) Ep.lib.5.&gr.17. (1) Ep. lib.s. agr.18. (1) Ep.lib.5.agro3s. (m) Lib.s. agr.42: (a) Lib.gi .gr.74  7  La Vigilanza à che segno sia neceffaria nel Medico , ne dà non piccolo contrasegno il sagrificio, che bramava Esculapio del Gallo, fiinbolo della vigilanza, volendo facilmente quell'antico Nume della Medicina far capire a suoi seguaci ciò medianto, che desiderava da essi, più d'ogn'altra cosa , la  vi  [ocr errors] )  [ocr errors] vigilanza, e con ragione, stanteche nella Medicina : 60 ) Occafio præceps; occafio in que tempus non multum ; E se à prenderla quando si presenta , non li fà con atten zione è cosa facile di perderla , con dia scapito di ciò, che si poteva ottenere in vantaggio dell'Infermo ; Quindi è, che Ippocrate dà titolo di ottimo Medico à colui solo; che prevede le cose future, dicendo :(p) Medicum prænotionem adhibere optimum effe mihi videtur ; Prenoa scens enim , & prædicens apud ågrotos, da prafentia, & præterita, & futura ; E questo non già per altra via , che  per quella della vigilanza , si può ottenere. Per conferma di ciò fà à proposito la somiglianza, che apporta Ippocrate (9) del Medico con il Governatore della nave, che si ritrova in tempeita, à cui non conviene già dormire per non sommergersi insieme con il suo baltimento trà l’onde; Ed in verità yi converrà essere nelle vostre cure molto circospetti, e vigilanti,  non  (0) Hipp.Præceptiox.  (9) De veteri Medio.   (p) Di Prenot.  non essendo sufficiente la fola vostra pea tizia , mentre che al parere d'Ippocrate: (r ) Bonis autèm Medicis fimilitudines pariunt errores , ac difficultates; E cresce maggiormente à tempi noftri tal neceffità  per cagione della separazione, che ha fatto la Medicina dalla Cirugia , e Farmacia, perche fe allora baftava una parte di vigilanza , dicendo il detto Ippocrate : Nec folùm feipfum præftare oportet opportuna facientem, verùm, e agrum, affidentes de exteriora, a' quali dovendo invigilare il Medico, acciò non trascurino di fare ciò, che da esli si deve, ora maggior obligo gli corre di dupplicarla per questa nuova aggiunta.  Nè vi riferirò, per perfuadervi ad essere vigilanti, l'esempio, che ne diede in se stesso Ippocrate, per non avervi à ripetere tutto ciò che abbiamo di esso, mentreche non fi legge nelle sue opere cosa che non denoti una somma avvedutezza, una grandissima vigilanza , & in ifpecie ne' suoi pronostici, ne'quali fi  puol (r) Epid. lib.6.dift, &:  puol dire con ragione, che ancora de Bercore collegit aurum , onde spero , che con rincontrarle ocularınente à fuo tema po, sempre più vi crescerà lo stimolo di efsere vigilanti, e tanto maggiormente ne sarete, quando in quelle leggerete, (che : Vigilantia verò &c. ad vitæ boneftatem refert . Majorem enim apud alium fibi gratiam conciliat, fi ad artem traducatur , eique decus, ob gloriam comparat ; & in appresso: Bonus Medicus vigens ipfus artis opifex nuncupatur.  Della Vigilanza è compagna inseparabile, e fedele la fatica , la quale per essere opposta all'Ozio padre di tutti li vizj, li può chiamare madre di tutte le virtù, e questa nella Medicina è cosi essenziale, che senza essa è impoflibile di poterli acquistare, esercitare, ed ampliare ,  A voi dunque, che desiderate essere veri Medici converrà accingervi à triplicara facica. La prima vi servirà per fare acquisto della Medicina; La secon  dada per impiegarla nell’efercizio di effa , ela terza finalmente per lasciare degną memoria di voi in ampliarla à quel fegno', che vi farà permesso dal vostro ingegno.  Già della prima ne fù discorso nella seconda Giornata, nella quale fù moftrato ciò, che si debba fare per conseguire la buona pratica ; mi resta fola. mente ora da soggiugnervi, che quella sola non può bastare per farvi vivere ripofati , e senz'altra briga , ftanteche quantunque, fia sufficiente per potere esercitare la Medicina, nulladimeno per essere ancor voi annoverati trà Proferfori più esperti, e capaci di dare più accertati consigli vi converrà infino al fine di voftra vita faticare in fare sempre nuovi acquisti, restandoyi tuttavia molto da apprendere, sì per incontrarvi alle volte in mali non più osservari, conforine Celso avvertì , dicendo : Sæpè vero etiàm nova incidere genera morborum , che per essere la Medicina scienza sì va#a, che niuno fin'ora ha potuto scoprire li suoi ultimi confini, nè Ippocrate, nd tampoco Esculapio, che ne furono l'Inventori , conforme egli confessa ingenuamente :(t) Ego enim ad finem Medicinæ non perveni, etiamfi iàm fenex fim, nequè enim ipfius Inventor Esculapius.  Quale appunto debba essere la seconda fatica nel professarla, così ve la descrive: (1) Crebro ægrum invife diligentem considerationem adhibeas, ut iis, qui decepti sunt per mutationes accurras; Facilior enim tibi cognitio fuppetet , fimula què te promptiùs expedies • Instabilitèr enim moventur quæ in humidis confiftunt. Questo testo è così chiaro , che non hà bisogno di dichiarazione maggiore, ris' chiedendo da voi Ippocrate nell'esercizio pratico la fatica unita alla vigilanza, e facendo voi in questo modo vi assicura, che minori brighe avrete, perche presto tirarete à fine ciò, che facendo con trascuraggine vi apporterebbe maggiori incominodi, La terza fatica è arbitraria, e viene  fo(t) In Epif.Democt (0) De decenti babiru.  [ocr errors] folamente abbracciata da quelli fpiriti investigatori, che hanno unita la vivacità dell'ingegno alla prudenza, e questi per  il desiderio , che hanno di eternare li loro nomi, riescono in tale opera profittevoli, de' quali credo , che frà voi ve ne farà caluno abile, dal quale spero non si ricuserà fatica sì gloriosa,abbracciata, e consigliata insieme da Ippocrate, dicendo: (*) Nunc verò ea , quibus summo studio prudentes incumbere debent, partim quidèm à majoribus excerpta, partim verò etiàm nunc per nos inventa ad te fcripfimus.  Nè delista taluno di voi, che sia abile à sì gloriosa impresa d'effettuarla per vedere impallidito di volto, emaciato di corpo, & invecchiato prima del tempo chi abbracciò fimile fatica; posciacchè da quell'emaciazione di corpo, da quel pallore di volto, e dal comparire più vecchio, ch'egli sia, gran benefici ne hà ritratti che sono,maggior vivacità di mente , senno, e prudenza.  Mà (x) In Epif ad Reg.Demetr.  [ocr errors] Mà quando ancora da tal gloriosa cagione ne risultasse qualche fisico svantaggio, fi bilanci qualsia peggiore, se quefto, ò pure quello, che ne proviene dall'ozio; e si vedrà senza fallo, che l'oziofi non solamente sono soggetti ad infermità peggiori di quello fieno gli ftudiofi, mà ancora , che terminano più presto la loro miserabile vita , onde non è prudenza il temere ciò, che può recare minor danno per andare in traccia à ciò, che ne può recare maggiore, e con lo svantaggio di più, che à prò degl'affaticati Letterati stà sempre preparata un' eternità di gloria, dove, che à danni de gl’oziofi una perpetua ignominia.  Non mi stenderò di vantaggio in esaminare le altre virtù , che restano perche vi si richiederia più tempo di una sola giornata, e tanto più , che poffedendo voi le già descritte vi si renderanno famigliari tutte le altre; Solamente del più bel frutto , che producono le virtù , ch'è il buon costume, non sarà fuori di proposito oggi parlarne , stante  che  che questo da Ippocrate viene stretta. mente incaricato al Medico , per farvi conoscere insieme à che segno egli lo profeffava .  Il buon costume è un'abito essence ziale per la vita civile, acquistato solamente da chi poliede un'aggregato di moltiffime virtù', trà quali risplendong la Prudenza, la: Sincerità, la Gratitu, dine , l'Umiltà, la Discretezza , la Bez nedicenza , l'Urbanità, e la Conyenienza, e questo abito deve essere continuato, perche fe la Superbia , l'Ira , l'Ambizione, & altri vizi di fimile perversa natura l'interrompono, il buon costume passa fubitamente in cattivo, Chi hà la forte di poffederlo è ricchisiino, mentre hà un tesoro, del quale quanto più ne fpende , tanto più resta in capitale ; Per csempio, chi hà il buon costume di lo-, dare, non solamente non riceve alcun discapito dalle lodi, che dispensa, mà n'è perciò egli ancora lodato. Devesi nondiineno usare prudenza in non eccedere molto con affettazione ne' buonicostumi, ftantęche alle volte, quando sono soverchiamente adoperati, e con affettazione nauseano, & in vece di apportare del bene,fanno del male, e tanto maggiormente, quando ciò viene regolato da qualche secondo fine, nel qual caso la lode istessa può essere nociva, e perciò ebbe à dire Tacito ; Peffimum inimicorum genus laudantium.  A che segno sia necessario al Medi, co il buon costume, mediante il quale viene colta ogni ambiziosa contesa, lo dimostrò Ippocrațe doppo di aver fatto , conoscere la necessità , che vi sia di consultare con altri Profeffori li mali oscuri, soggiugnendo : (a) De eo minimè am. bitiosè contendere , fe ipfos ludibrio exponere; Pofciacchè fimil maniera non è propria de' Medici racionali, mà solamente di quelli triviali, che : Forenfem queftum fectantur , conforme egli dice in appreffo.  Nè solamente il mal costume pone in discredito chi lo esercita , mà passt  O 2  per [a] De Præcept,  و  'per causa sua ancora nell'innocente Medicina la calunnia ; L'esempio è chiaro : Contrasteranno due Medici tra di loro acerrimamente, se fi debba, ò no dare un'orzata in un male acuto, se debbali, ò nò colare,fe prima debba darsi, ò doppoi il seccimo giorno, e se sia praticabile ayanti, che il male sia terminato, le quali essendo questioni inutili, e come fi fuol dire , di lana caprina , perche con l'esperienza fi può rincontrare se ne posfa feguire quel gran danno, che si figura chi contradice, onde finili contese non poffono à mio credere autenticare al  che l'imprudenza, e mal costume di chi le promove, e picciol male recheriano, se la colpa di ciò restafse trà li foli Artefici altercanti, il peggio è, che ne passa alla Medicina la calunnia; Quest'esempio non è stato inventato da me, ritrovandofi descritto da Ippocrate così bene, che non vi recherà punto di noja il sentirlo riferire : (b) Que igitur ignorantur bee funtó quanam de causâ in morbis acutis, quidam Medici toto vita tempore in Ptifanî non colatâ exhibenda perfeverents rectè fe curare existiment; Quinàm etiàm omni ratione contendunt', ne ullo modo hordeum æger devoret , quoad indè magnum fecuturum detrimentum exiftiments  morbis (b) De ration. Tic.in morbiacut.  tro,  verùm per linteum excolantes ejus fuccum porrigunt . Horum etiam nonnulli , nequè Ptisanam craffam , neque succum exhibent, ubi quidem dùm feptimum diem eger attigerit , alii verò dùm in totum morbus judicatus fuerit ; E ciò, che da simili altercazioni ne fiegua l'esprime in tal modo : At verò Ars tota magnam quidèm apud vulgum calumniam fubftinet , ut nullam omninò Medicinam efe exiftiment a kquidem in acutis morbis, in tantùm inter Te diffentiunt Artifices , ut quæ alter exhi. bet, veluti optima reputans , etiàm mala alter exiftimet.  Due ingiurie vi farei nel medesimo tempo , se pretendesli d'insegnarvi il buon costume: una saria di riputarvi male accostumati, che per  ļa Dio grazia non siete, e l'altra di credervi stolidi, ed  incapaci di ragione , per non esservi approfittati di ciò, che vi disli, detestando quei vizj, che costituiscono il mal cos ftume. Continuare di buon'animo á fuggire li vizj, e seguitare queste virtù, che vi hò mostrato, e non dubitate , perche Hi vostri buoni costumi in breve diverranno ottimi, & acciò possiate conseguire con più facilità fimil sorte vi rappresenterò alcuni costumi eroici d'Ippocrate, li quali vi potranno fervire di norma in moltissime vostre occorrenze , che vi si presenteranno facilmente à suo tempo.  Egli fù così esemplare nell'offervanza degli ottimi costumi, che non sò fe trà Medici ( alla riserva di quelli dia chiarati già Santi) ve ne sia stato, ò ve ne sia di presente , chi lo possa uguagliare  La Pietra del paragone per cono. fcere se il costume sia ottimo sono li onori, ftanteche honores mutant mores , onde quando l'onorato non cambia li fuoi costumi in peggio per cagione dell? onore ricevuto's tenete pure per certo,  che  )  che il suo costume sia ottimo. E la ca. gione di ciò è, perche con gli ottimi regna l'umiltà in grado eroico, e dove è questa , la fuperbia non s'accosta, fa. pendo per esperienza, che inutilmente impiegheria ogni sua fatica, e la superbia è quella, che perverte il buon co. stume , mà contro l'ottimo non fi ci  meriti,  )  Che Ippocrate abbia ricevuti onori fommi non trovo fi controverta da ale cuno, mentre fù chiamato dal Rè potentiffimo Serse, con promesse di ciò, che egli avesse saputo desiderare, oltre di costituirlo Magnato della Persia, fù cre duto ancora, che discendeffe dal Dio Esculapio, che fosse in grazia del Rc Demetrio', e di molti altri Potentati, e finalmente, che ricevesse dagli Ateniefi onori maffimi, non solo umani, mà ancora divini effo vivente, come costa per Senatus Consulto, ch'è questo : Ut igitur conftet Populum Athenienfem Græcis femper utilitèr confuluife , utquè dignam pro meritis Hyppocrati gratiam referat, decrevit  Poo  0 4Populus ut is magnis mysteriis ; Hor fecùs at Hercules Jovis filius publicè initiaretur, O coronâ aureâ mille aureorum coronaret tur. Coronam ipfam Quinquatribus magnis in gymnico certamine pręcone proclamante, omnibus Coorum liberis liceat non  fecùs às Atheniensium Athenis pubertatem ageres quod coram Patria ejufmodi virum proCreavit, Hyppocrates verò, ut Civitatis jis re, victu in Pritaneo toto vita tempore donetur.  E questi commi onori qual mücazione produsero ne' suoi costumi? niuna appunto, mentre non furono capaci di farlo insuperbire, come fi legge nella sua lettera , che scrisse già divenuto vece chio à Democritó : Et ego fanè plus repræhenfionis , quàm honoris ex arte mihi confecutus videor ; Vedete quanto stimava l'onori maslimi, e se s’infuperbivad punto di quelli, credendoli inferiori ad una picciola riprensione , dico picciola, perche delle grandi non n’era capace un’Ippocrate . Più gli premeva , per quanto li può congetturare dalla mede  fima lettera, la cagione delli ònori,mentre mostrava di dolersi, che eisendo diyenuto già vecchio non era potuto ancora giugnere à tutta la perfezione dell' Arre; volendoci forsi con questo far conofcere, che non sono tanto pregiabili gli onori, quanto è la cagione, che li produce, ch'è la virtù , la quale dipende tutta da noi, doveche gl'effetti di quella dipendono dall'altrui volontà; Avendo dunque Ippocrate resistito à non fare alcuna mutazione nelli suoi buoni coftumi in tanti, e tali onori ricevuti, è contrasegno evidente, che foffero arri. vati al grado dell'ottimo , nel quale solamente, come fi è mostraro, sono im.mutabili li costumi.  Che vi sia stato à luo tempo, ò dapoi fino al presente chi abbia.conseguito limili onori, non se ne ritrova memoria, per quanto fia stata cercata, onde non hà alcun'altro Medico avuto occasione, doppo di lui di mostrare ugual costanza del suo buon costume in fimili prosperità; Ricevendo dunque voi onori, faprece  [ocr errors] [ocr errors][ocr errors] con l'esempio di un tanto Éroe, confora me vi doyrete contenere affinche le prosperità, che ne risultano da esli , non vi facciano, conforine appunto fecero prevaricare li antichi Romani, che fusono ne' primi secoli della Repúblicas esemplari in bontà, mà avanzandoli pom fcia nelle ricchezze andavano declinando , e finalmente nell'auge delle loro felicità, e grandezze da buoni divennes ro cattivi , onde con ragione esclamò Tacito : Felicitate corrumpimur. Mi di{piacerebbe però sommamente,che simili sventure si verificassero in voi, perche goderei vedervi tutti esemplari, e degni imitatori d'Ippocrate, non solamente nella dottrina, mà ancora negli ottimi costumi  Mi rimane per totale conferma del mio intrapreso assunto di corroborare con altri esempi ciò, che hò proväto con le ragioni ancora.  Il primo de'quali sarà di farvi vedere, con quanta civiltà egli scrise de gli antichi intorno à quelle cose che effi  11011  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] non sapevano, e che furono dalla sua induftria inventate . Dice egli intorno la regola del vivere : (c) Alii quidem aliud ättigerunt, totum verò nes unus quidem adhùc ex his , qui antè extiterunt ; Neque tamen eorum quisquam reprehendendus , quòd invenire non potuerint ; quin potiùs Jaudandi omnes'; quod quædam inveftigao tione aggreffi fint ; Neque ergò que recta dieta non funt argüere decrevi , fed his , qué abundè funt cognità affentiri in animo habeo ; quæ igitur ab iis , qui antè nos fuerunt reétè di&ta funtzde bis fieri non poteft fi alitèr ferihatur, ut reétè fcribam, quæ verò non rectè dixerunt fi ea quidem , quod ità non habeant redarguero nihil profecero ; E cosa abbia fatto in questo caso lo dice in appresso, cioè: Que non rette fuerint cognita aperiam; Quin etiàm qua corum nultus , qui antè me fucrunt explicare aggreffus eft qualia fuerint demonftrabo ; Ed altrove con chę prudenza ne parla:(a) Sed nequè de victus ratione quid  quàm  [c] Dx viftus ratione lib.i.  [d] De ratione vitus in grutis.   [ocr errors] quàm effatu dignum veteres fcriptis tradiderunt , eamque , quamvis magna res fit, omiserunt s Varia tamen morborum fingua lorum genera , multiplicemque eorum divid fionem non ignorarunt quidàm. Avete of servato con che creanza , con che giua stizia; e con che prudenza ne parla un' Ippocrate de' suoi Antichi, scusandoli in ciò, che non seppero, e non pregiudicandoli punto in seguitare, e confeffare ciò, che di buono efi dissero; Si è praticato questo buon costume da alcuni de' noftri Moderni verso li Antichi? Mi pare di leggere, per dire il vero, più tosto il contrario, anzichè mi sono avveduto, che taluno di efli há palleggiato con tal fasto invidioso dace sopra quelle gloriose ceneri, che ne sono rimasto molto scandalizato, rifettendo, che Ippocrate con li suoi Antichi diversamente faceva, nė vi riferirò da vantaggio per non farvi nauseare di ciò, che essi ancora hanno fatto di bene .;  Per fecondo vedremo, come egli fi portò in quelle cose, che lo toccavanoal vivo. Gli pervennero à notizia alcune   predizioni (e) credute da Prospero Mar.  ziano suo Espositore accurato, Astro-  loggiche, che appresso gli Egizj si prati-  cavano in quei tempi, che erano alli   Greci ancora ignote, le quali non li pia-  cevano, mentre disse : Egnautèm hujuf-   modi vates effe nolo ; e con ragione, per-   che gli pervertevano ciò, ch'egli con   tanta diligenza aveva ricavato dalle  proprie offervazioni intorno alli prono-   stici de' mali, e che aveva appreso dagl'   altri, e pure con questa modestia si con-   tonne : Prædictiones Medicorum referun-   tur permultæ tùm præclar& , tùm admira-   tione dignæ, quales neque equidèm prædixi,   neque quemquàm, qui prædiceret, audivi;   e cosi destramente se ne liberò senza   contradirle . Questa maniera sì dolce   non è stata già praticata nel giugnere à   notizia tante belle invenzioni Anatomi-  che ; contro la circolazione del sangue   cosa non fù detto mai? Senza possedere   un'ottimo costume non fi può lodar ciò,   che (e) Lab.2.Prædi&ionum  [ocr errors] che perverte un'abito fatto da lungo tempo, e che si è praticato per lunga serie di anni.  Per terzo riferirò comę egli firegelaya quando era necessitato à palesare qualche errore commesso. Questo lo faceya senza individuarne l'Autore, ece cettuatone li proprj, li quali publicamente confessava , come già fentiste, parlando del disinganno, e questo, da chi vien praticato Solainente d'Ippocrate fi racconta fimile ingenuità, & in caso ancora, che abbią apportato laws morte,  Per quarto finalmente per far trionfare la sua gran bontà riferirò il giuramento, ch'egli fece, che nella Medicina à suo tempo non vi era alcun Medico razionale, (f) che non fosse di buoni costumi, e questo giuramento, chi lo farebbe à tempi nostri ? Onde bisogna neç ffariamente confeffare, che unico fia stato Ippocrate non solamente nella dottrina, mà ancora nell'ingenuità de' co  stumi; [f] In lib.de præcept,  [ocr errors][ocr errors] ftumi ; Sicchè con ogni giustizia li com. pere il principato nella Medicina, che egli da tanti secoli pofliede.  Dovrete yoi dunque per essere tee nuti degni, e veri suoi seguaci non folaa mente abbracciare,& uniformarvià ciò, ch'egli scrisfe in Medicina , mà ancora ftrettamente osservare quanto nella morale si debba fare, ftimando forG il buon' Ippocrate più necessarj li buoni costumi al vero Medico, delli suoi Fisici docu. menti, mentre questi li lasciò in libertà di ciascheduno di seguitarli, mà li primi con giuramento forzava tutti ad offer. varli esattamente, obligandoli a giurare di essere grati, di vita incolpabili, onorati, casti, giusti, modefti, pudichi, fedeli , e di somma segrerezza , e sentite sotto che pena l'obligava: Hoc igitur jusjurandum , fi religiosè obfervavero, ac minimè irritum fecero , mihi liceat cum fummâ apud omnes existimatione perpetuò vitam felicem degere's & artis uberrimum fruEtum percipere , quod fi illud violavero,  pejeravero , contraria mihi contingant ;  E quan  [ocr errors] E quanto mai il buon costume nel Medl  att  [ocr errors]  mente si può comprendere da ciò,   dice nel libro Di lege : Quifquis enim   Medicine scientiam fibi vere comparare   volet eum his ducibus voti fui compotem  fieri oportet natura, dottrina , moribus   generofiss è chiunque di questi ne farà   privo, come uomo profano, diverrà im-   meritevole gli sia dimostrata una scien-   za sì facra , conforme e la Medicina,   soggiungendo ivi : Hæc verò cum sacra  fint , facris hominibus demonftrantur , pro-  phanis verò nefas,   Sono dunque, secondo la mente d'Ippocrate , effcnziali nel Medico le virtù morali , e nientemeno di quello fieno li documenti Fisici, ed in conseguenza ancora come tali apporteranno necessaria- . mente un commo bene al vero Medico , non potendo esser tale, se non ne farà ornato à sufficienza, conforme in termi. ni precisi più diffusamente lo dimostra lo stesso Ippocrate nelli libri De Medico, © De Decenti ornatu, e nel libro De Pre  و (  9  ceptionibus , ove affinche non se ne possa dubitare l'attesta con prova legale, cioè mediante il suo giuramento, ch'è questo : Hoc namque jurejurando affirmare audeam , Medicum ratione utentem , alterum nunquàm invidiosè calumniaturum, fic enim animi impotentiam prodit. Verùm id potiùs faciunt , qui forensem quastum  seEtantur . Sicchè per essere veri Medici razionali dovrete essere ornati di virtù , e non contaminati da’ vizj , conforme sono quelli, che per essere meri mercenarj non meritano il titolo di vero Media co , quantunque fossero nelli documenti Medici versati ; e perciò saggiamente egli nel libro De Lege asserisce: Non folùm verbo , fed etiam opere Medici existimationem tueri oportet; ch'è quanto dovevo mostrarvi nella prima parte.  Se poi alcune virtù fi poffino giuftamente censurare nel Medico, che è la seconda parte del mio discorso, in qualche caso crederei di sì, conforme con un'esempio riferito da Ippocrate brevemente vi farò vedere.  P  TutteTutte le virtù hanno un fine retro, e se fi lasciano operare à tutto loro potere s'inoltrano con tanto fervore, che da alcune di esse in vece di ricavarné profitto , se ne riporterà del danno, La Giustizia, & il Zelo, tra le altre , fe si cferciçano con sommo rigore, & à quel segno, che arriva la loro autorità. Quefte sono capaci di porre cutto il mondo in sconcerto, e perciò diffe Salomone:(+) Noli effe juftus multùm; onde è necessario unirlo alla civiltà per renderle fruttuose.Simili fconcepci appunto potrebboro giornalmente accadere nella Medicina, fe il Medico si voleffe fervire della sola Giu. ftizia, del solo zelo con quell'Inferma male avvezzo in fanità à fare à fuo modo , allorche trasgredendo alla regola di vivere,fosse da esso con tutta giustizia riprefo, & afpramente sgridato di tal’erróre, cosa se ne ricaverebbe di profitto da çal giuftiffima,mà indiscreta riprensione? Se non che, ò l'Infermo facesse peggio  in; (1) Ecclef.cap.79  1  [ocr errors] in avvenire, e che senza alcun profitto perdesse ogni çispetto à chị lo riprese, ed in questo ca fo giustamente il Medico verria censurato, perche non si servi in fare una simile riprensione del prudens ziale consiglio d'Ippocrate, (a) che dice ciò, che deve fare, doppo di averlo afpramente {gridaco,& è : Simulque cum commonefaciendo , & blandè excipiendo consoletur ; & altro ve dice : Condonandum aliquid consuetudini ; Quel poco di dolce, che gli porgerà doppo l'amaro della riprélonę opera tato di bene che faràche la Giustizia usata divenga profittevole ,  Il ţimile pariinentě ne seguirà se voi, con zelo poco discreto , vorrete riprendere taluno , che sia ricaduto in mali venerci ; questo tale, quanto più lo [griderețe , tanto peggio farà , bisogna dolcemente che gl'infinuate , e gli facciate capire il danno , & il pericolo, che gli può sopravenire da fimili ricidive, le miserie, la morte penosa inevitabile saranno quelle , che, inlinuate con gius  [ocr errors] (a) In lib.præcept.  [ocr errors] dizio, lo potranno più facilmente perfuadere di fuggire simili errori, perche questi motivi restano impressi per lungo tempo nella mente , mà le gridate, che passano presto in oblivione , riescono infruttuose, perche sentendosi con animo irritato , non s'apprendono quanto: fi dovriano . Molti altri esempi potrei apportarvi, mà credo , che li riferiti pollino essere sufficienti per farvi capire tal verità ; Volete dunque, che le vostre virtù non fiano censurate , accompagnatele, e non le fare operare fole, e fate appunto conforme si suol praticare con le donzelle vistose à fine non si mormori di loro che accompagnate con altre donne più provetre , e prudenti possono trattare in privato, e comparire in pliblico senza taccia.  Mi persuado che li documenti, le ragioni , e gl'esempj d'Ippocrate, che vi (hò addotti fin'ora, saranno senza fällo sufficienti a farvi incaminare per il retto fentiero delle virtù , il quale spianato in tal guisa , fe à caluno di voi paresse tut  tavia  [ocr errors]  tavia disastroso, non occorrerà s'affati  chi di vantaggio, perche per lui non fa.  ranno à proposito le virtù, e per tanto  se ne viva pure à suo bell'agio con li  suoi vizj diletti, nè occorrerà, che in do-  mani quivi si presenti, perche voglio in  avvenire parlare solamente a quelli, che  hanno generosamente determinato d'ab-  bandonare affatto li vizj, e seguitare le   sole virtù.   [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][merged small][merged small][ocr errors] G. I Ô R N Å TA V I.  Nella quale s'accenda il modo di prévalerfi   del consiglio delle virtù contra l'infidie.  de vizj, affinchè il vero Medico poffan  godere una vita iranquilla , e lasciare   di se doppio morte una gloriufi memoria :   [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] On mio contento non ordinario vi  vedo oggi, prima del solito , quì tutti preferiti; posciacchè averidoviderto nel fine della Giortiada di jeri, che chi nơn s'era già determinato di seguitare le fole viétừ, non occorreva ch'oggi forfè venuto; temevo che almeno quelli , che gliscorgevo più pensoli degli altri, foffero mancati; Mà vedendo quì ancor voi, e più ilari , e disinvolti del consue. to, è chiaro contrafegno, che le vostre menti, che si ritrovavano nelle Giornate passate ambigue, non sapendo ancora à che partito appigliarsi, abbiano già déterminato di seguitar le virtù, avendo jeri gustato, e meditato in appressoquanto di benc da elle ne possa risultaa re; Onde tutto il giubilo interno; che voi ora provares non nasce da altro, che dall'essere divenuti padroni del vostró volere. Spero dunque, che tutti inGeme äverere avuto la medesima forte d'allontanarvi affatto da' vizj, e di confederarvi con le sole virtù, e queste fatele ora padrone dispotiche della vostra voz lontà, e non temere de viżj , che fuor di voi fi ritrovano , che possano essi punto nuocervi, con tutto che vi tramaffero continue insidie per lo sdegno concepi . to contro di yoi's che ve ne siete da efti affatto allontanati , perche farà curau delle virtù il difendervi: Vi säria gran timore quando questi inimici teneilero tuttavia assediato il vostro cuore, e fiorreffero liberamente d'intorno alla voftra volontà ; Allora sì che tion potreste fidarvi delle loro insidie , ftanteche in tal caso le virtù non potriano affiftervi. Vivete dunque cautelati á non tradire. voi stesli orche ne fiece liberi; e questo seguiria facilmente quando apriste qual  [ocr errors] che segreta porta , per dove poteffero i'vizj dentro di voi tornare. Per altro faccino  pure  fuori di voi quel più , che possono s che punto non vi potranno danneggiare.L'esempio l'abbiamo chiaro ne i Romani, che fino ch'ebbero Annibale nell'Italia stiedero con ragione molto mesti, ed affitti per il timore delli gran danni , che poteva loro  apportare, mà appena partito, sollevorno lo spirito, con tutto che proseguisse à molestarli, e di niuna cola elli ebbero più spavento, che della guerra intestina, la quale alla fine fù cagione , che perdelfero la loro libertà.  Parerà oggi discorso superfluo il mio,mentre voi avêdo in abbominazione li vizj;ed essendovi dichiarati seguaci delle virtù, potrete con la guida di esse consigliare più tosto gl'altri, che aver bisogno di Direttore, con tutto ciò perche non avete à bastanza ancora acquiftato Puso di prevalervi di effe , non vi farà infructuoso il sentire da me in compendio quel bene , che à suo tempo, ed  [ocr errors] [ocr errors] in tutti i vostri maggiori bisogni , questo vi apporteranno , potendo ciò ancoras fervire per confermarvi di vantaggio della vostra lodevole risoluzione.  E cominciando prima dalla Religione, che con puro cuore profeffate , poiche  Non fi comincia ben se non dal Cielo ; Qucfta non solamente vi darà lume, e vi fervirà di scorta per quello che riguarda l'eternità, mà vi configlierà di fare fempre uniti con le virtù, facendovicon chiarezza vedere la deformità de' vizj, e li gran danni che apportano; Quindi è, che neceffariamente la fapienza deve ftare unita con la Religione, conforme diffe Lattanzio : Homines ideò falluntur , quòd aut Religionem fufcipiunt omissá Sapientiâ , aut Sapientia foli student omissa Religione , cum alterum fine altero non poffit effe verum ; Oltre di che vi farà conofcere meglio di che forta d'amici avrete da fare elezione, perche fe vi abbattete con taluno di coloro, che sono affatto increduli di ciò, che non veggono, v'in  [ocr errors] [ocr errors] finuerà, che questi non sono à proposito per voi , che ci trattiace quanto porta il mero bisogno ; ma non più oltre, perche questi sono tenuti da Sant'Agostino per tomini carnali , dicendo ; In homine carnali tota regula intelligendi est consuetudo cernendi quod solent videre credunt ; quod non folentznon credunt; conforme ancora, che fuggiare ogni altro vizioso , è che v'intrinfechiare solamente con chi è seguace delle virtù, e finalmente vi terrå fempre circospetti in non prestare fede à ciò,che leggerete, ò sentirete dire; che poffa in qualche parte alienarvi dal suo vero sertimento  Non ritrovandovi ora in istato di potere profeffare la Medicina , per non essere totalmente esperti in essa , vi converrà cercare ottimi Direttori, nella di cui elezione consigliandovi con la Pradenza , v'insinuerà, che vi appoggiate -à quell'appunto, che descrive Cicerone in tal guisa : Eft igitur adolescentis majores natú vereri, ex iisque deligere optimos, e probatisimos , quorum confilio , atque  au  auctoritate vitantur : Ineuntis enim ætatis, inscitia ferum conftituenda da regenda prudentiâ eft.  V’insinuerà d'avantaggio la giustižia come vi dovrete contenere per acquistarvi il loro affetto , che sarà, oltre l'accennato ossequio, di esser loro fede  li, e schiecti z di moftrarvi sempre pune è tutali, obbedienti, e diligenti in tutti li  affari, che v'insporranno, perche operando või in questa guisa, non solamento v'istruifanio con tutto l'amore, må vi loderanno da per tutto, dalla quale preventiva commendazione germoglieranno à suo tempo li principi delle vostre fortune', e troveretegià spianata la ftria da de voftri progreni s állorché principierete à medicáre.  Intraprendendo con questi felici principj l'attual'esercizio della Medicinás allorche' già farete divenuti esperti , non pafferă lungo tempo, che molti di prevaleranno dell'opera vostras & allora appunto li vizj vi comincieranno à muoa vere guerras e Vinvidia farà la prima  ämoà molestarvi. Questa già da bel principio vi aveva fissato adosso li suoi maligni sguardi , mà non prima di vedervi avanzati si muoverà per suscitarvi contro li suoi seguaci, e le comanderà, che spargano da per tutto, che fiere troppo giovani , che non avete ancora pratica sufficiente, e che dicano con finto zelo : Oh poveri Malati, che si pongono nelle voItre mani, se questi guariscono seguirà per miracolo, non per la vostra perizia, e se vedrà, che ciò non basti per arrestaryi ne' vostri progrelli, invigorirà allora li suoi comandi, e farà disseminare dalli medesimi, che siete veramente infelici, mentre quanti Malati vi capitano, tanti ne muojono, e che non sanno capire , come siano così pazzi coloro, che vi chiamano. Sentendovi calunniare à torto in tal guisa, cosa dovrete fare? Non altro, che consigliarvi con la Prudenza, e con la Giustizia, che vi favoriranno assai bene : primieramente vi esorteranno a non prendervene alcun fastidio, perche è affai migliore la vostra  forte  و  sorte , per essere invidiati , che non è quella delli vostri calunniatori , che non hanno chi l'invidj, mà appena tal’uno, che li compatisca. Vi consiglieranno poscia à non prendervela con quei miseram bili , e vili esecutori dell’Invidia , perche operano come suoi schiavi, non già come uomini liberi, e se foffero in loro libertà opererebbero come voi, che aba borrite simili iniquicà. Vi consiglieranno bensì à mortificare l'Invidia in questa forma, cioè, di contraporle la vostra umiltà, quando d'Invidia vedrà, che voi non siete ricorsi alla vendetta rarne il suo ajuto, mà in sua vece vi servite dell'Umiltà, resterà talmente forpresa, e confusa, che si vergognerà in avvenire di ciinentarsi più sola con voi, avyedendosi di non potervi abbattere ; mà cosa farà per non cedere? Si unirà con il Dispreggio, e con lo Sdegno per necessitarvi à ricorrere alla Vendetta. Questi vizj baldanzosi comanderanno à qualchuno de' suoi petulanti seguaci, cine vi faccia una mala creanza, e vi mo  per implom desti senz'averne data occafione, in queIto caso ricorrete subbitamente per consiglio alla Prudenza, che vi farà capire, che di tal'ingiuria , non ne doyete chiedere fodisfazione dalli seguaci del Dispregio, e dello Sdegno, perche quei, che seguitano questi yizj , come imprudeņti, sono ancora pazzi, & į pazzinon essendo capaci di discernere ciò che fạnno, non sono tenuti di renderne conto; Contro li principali dunque, & autori caderà il vostro sdegno , e questi, come vi consiglierà che li mortifichiace ? Non già con la vendetta, perche questo appunto desidereriaạo che faceste, cioè, che ricorreste ad un'altro vizio, che vi tradise, e cogliessę nel mezo per forzarvi å rendervi à loro discrezione, inà bensì con la sola sofferenza tanto da essi temuta per il grandanno, che loro apporta, & affinche lo facciate con aniino generoso vi riferirà li seguenti casi.  A Diogene Filosofo Stoico, mentre stava disputando particolarmente della collera , gli fù da un protervo giovane  fpu  Sputato in faccia , sopportò egli il tutto piacevolmente , e da savio, e solo disse: Io non vado veramente in collera , mà non lasciò però di dubitare , fe in questa occasione doveffi farlo.  Catone mentre staya difendendo una causa ricevette da Lentulo giovane seditioso ua folenne sputacchio nella fronte, egli si nettó, e rasciugò la fronte , & armato di una gran sofferenza, solo diffe: lo affermarò à tutti, ò Lentulo, che fi gabbano quelli, che negano, che tù abbi bocca. Rifettendo voi dunque all'ingiuria maggiore della vostra fatta ad uomini di tanta stima, & al modo, che si conțennero vi si renderà più facile l'esecuzione del confimile ripiego propostovi dalla prudenza , mediante il quale avvedutosi il Dispregio, e lo Sdegno, che in vece di quocervi vi hanno accresciuto ftima appresso tutti, desisteranno ancora eff di più moleftärvi, vedendosi dalla vostra sofferenza delusi, e vinti, Arriverete al fior degl'anni avan.  [ocr errors] zati già ne' commodi, & in conseguenza con più lautezza nudriti. Allora vorrà facilmente la lussuria cimentarsi con voi, e per farvi qualche danno considerabile, vitenderà molte insidie , vi farà trovare occasioni pronte; procurera, che siate con vezzi, e lusinghe adescati; Allora cosa farere?ftate faldi,perche sarà contro voi questa una gran guerra, mentre non avrete campo in quel punto preso di consigliarvi con le virid, ftanteche : Vinum, & Mulieres faciunt prevaricare Sam pientes., come ben diffe Salomone. State faldi, che è pur troppo vero, che molti si sono arrenati per questa cagione nel meglio de’loro avanzamenti : Vi converrà dunque procurare di prevenire l'infidie della lussuria, e non aspettare di cssere prevenuti da effe , e questo lo farere , quando sarete prossimi à quel tempo con chiamare à consiglio generale turte le virtù per risolvere cosa sia efpediéte,che facciate,ò di accasarvi,e con chi, ed in che tempo, ò di continuare lo Aato libero,e con che cautele maggiori,La Prudenza, e la Giustizia vi con figlieranno facilmente à prender mor glie, con il motivo gịultiflimo,che quel la vita, che da voltri genitori riceveste con voi non si estingua, mà che per la conservazione della propria specie law propaghiate ne posteri, ed à buon fine ancofa, che non abbiate tanto da impazzirvi nella vostra vecchiają à cercare l'eredi, conforme ad alcuni, che non mai fi cușorono del titolo di padre è accaduto; La sola difficoltà si rifringerà allo sciegliere chi faccia per poi , perche la Prudenza, e la Giustizia vi vorranng consigliare diversamente da quello si pratica in alcuni luoghi, dove il folico  di cercare chị abbią dotę groffa , chi sia bella, e fpiritosa; la Prudenza non vorrà, che cerchiate questo, in primo luogo, mà bensì, chi sia di buoni natali, di perfetta faļute, e di ottimi costumi, ¢ ben’educata ; e con ragione, perche non deve essere affare di minore impostanza l'accasarsi, di quello, che sia di fær compra di un cavallo; e se per comprare  un  [merged small][merged small][merged small][ocr errors] [merged small][ocr errors] un cavallo ( che non riuscendo buono fi può subitamente dar yia) fi ricerca in primo luogo la buona razza, fe fia fano, e se abbia vizio'alcuno, perche nel pro- : vedersi della compagnia inseparabile non si hanno da fare fimili diligenze Sicchè trovato che ayrete chi abbia le condizioni sudette stringete, senza più indugiare , il vostro matrimonio, con quella dote, che avrà, senza ricercarne d'avantaggio, che farete un'ottimo negozio, perche quattro faranno le doti, che prenderete, una sola apprezzata , e trè inestimabili , per non effervi prezzo, che le uguagli', e saranno, la buona nascita,la salute, e gli ottiini costumi, con la buona educazione, & avvertite à non fare diversamente , per non cadere nella sventura di Socrate, che fi abbatte in una inquietisima Santippa. Circa il tempo in cui lo dovrete fare viconsiglieranno, che non lo facciate nè troppo giovani , nè croppo vecchi, mà bensì nell'età virile, ed allora appunto, che ayrete stabilito un'assegnamento suffi  ciente  1  [ocr errors]  ciente per il inantenimento della vostra  fameglia, e non prima , pèrche si ricerca  fenno, e cominodica per effere, buon Pa-  dre di fameglia. Non troppo giovani,   per non distogliervi da vostri studj, ed  avanzamenti, ne' quali non sarete anco-  ra bene stabiliti , nè troppo vecchi, per  non lasciarli, se avrete figliuoli, troppo  immacuri, e senza avyiamento, e per  non foccombere ancor yoi fotto il peso  del matrimonio prima di quello , che  fareste vivendone disciolti , conforme  à tanti è accaduto ,        Şe poi voi adurrete alla Prudenza ,  e Giustizia li seguenti motivi, che avete   esimervida simile legame, che sono; ò che già vi è nella vostra fameglia, chi sia atto à sostenere un simil peso, ò che dubitate , che la moglie, e l'educazione de'figliuoli vi possano distogliere dalla voftra professione, qualche altro inotivo à voi folamente noto non crediare, che yi forzeranno già à farlo, vilascięrano in tutta yostra libertà, vi consogneranno bensì alla Fortezza, e Tempe  Q:  per  [ocr errors] ranza,  }  ranza , acciocchè vi consiglino, e prestino ajuto in caso, che la Luffuria vi fa. ceffe qualche violenza . Il consiglio, che quefte virtù vi daranno sarà facilmente, che siate circospetti, ed appena , che vi sarete avveduti di qualche laccio, che yi tenderà la Lussuria di troncarlo,e prima che vi poniate il piede, che siate fempre cautelati nel parlare , ę fentendo qualche parola equivoca, l'interpreciate sempre à favore dell'onestà, né la crediate detta per voi, che ricevendo qualche cortesia insolita, la crediate fatta solamente per isperimentare la vostra modestia, e non ad altro fine , onde la cancellerete subitamente, acciò la rimembranza di quella non turbi la vostra fantasia ; Che vi moftriate sempre sostenuti più tosto, che galanti in certe occasioni di confidenze, dalle quali con bel modo procuriate di liberarvene , che da certi luoghi sospetti,se ne potrete fare a meno, ne stiate lontani, & andandovi, procuriate efservi in ore, che vi fieno altri, perche al parere di Seneca : Magna pars  peccatorum tollitur fe peccaturis teftis alibi  Aat(a); ed ivi non vitrattenjate più del  bisogno necessarios e sempre con discorsi   serj, ed uniformandovi alli consigli della  Fortezza, e Temperanza non diffidate  punto della loro allistenza nelli maggio  si vostri bisogni, che dureranno lino à  tanto. che sarà in auge il fervore della  vostra gioventù .         Il vizio della gola vorrà aticor'egli  fare tutti li suoi sforzi contro di voi in  decto tempo più profpero di vostra vita,   per vedere se vi potesse adescare; e cofa   farà a comanderà facilmente à qualche-  dano de' suoi ricchi feguaci , che facen-   do uno de' fuoi sontuolillimi pranzi, o   cena; conviti ancor voi; considero , che   vi troverete in quel punto preso incri-   garislimi, perche rifletterete allora , che   le ricuserete tale invito , sarete' tenuti   per uomini incivili, che non gradite li   favori, e cortefie, che vi fi fanno; fed    l'accetterete,metterere ad un gran risico   Ja vostra temperanza , onde vi converrà   (*) Episi 11.di questo ancora chiederne preventivo Consiglio s. per aver pronto il suo fano imedio per quando vi capitaffe il bio fognb.  si Consigliandovi preventivamente con la Prudenzás.per sapere in che modo allora vi dovrete contentere, sarà facilesi chievi dica;;che se viritroverete in luoo ghi dove sia solito, e che frequentemente li Medici fiano convitati, & intervenghino in fimili bancheteis. non ricusate tali inviti s perche quelle cose, che sono folite', nou recanto alcuna aimniirazione, non facendosene caso,basterà solamente; che yi sappiate regolare con giadizio in non pregiudicare di molto alla vostra  consueta fobrietás perche nuocerestu e è  più li denti nel masticare , che la gola nell'inghiottire si e diportandovi in tal guisa,la gola avrà poco guadagnato con voi; Sepois dove voi dimorerete , non fosse in uso, mà solamente, che di rado li Medici v'intervenissero con modo al  fai civile, che lo ricusiate pure,non man.. candovi legittima scusa, mentre ò la vo(tra complessione non assuefatta à fimili disordini, ò qualche cura riguardevole, che avrete in quel tempo, queste vi potranno efiinere onestamente da qualunque taccia d'inciýiltà . 03.15  Sò che vi appagherete di tal distinzione saviazfatta dalla Prudenza, effendo. voi capaci di riflettere , che dove i Mea dici ricevono spesso simili correfie fono molto stimati, ed in conseguenza i loro difetti non sono con tanta attenzione norati da tutti, come l'opposto segue dove di detta stima si penuria.  E certamente l'esperienza hà fatto vedere, che nel secondo caso, quando li Medici si sono voluti azardare à fimili cimenti, se ne sono poscia pentiti, ftante che, ò per non essere cosa solita , ò mediante la curiosità di vedere in che modo si regolavano coloro, che tanto biafie mano la crapula, hanno ritrovato iyi molti spettatori de' loro portamenti, che li hanno posti in qualche suggezio.  R 4  [ocr errors] ne,  he', mediante la quale ; se hanno procutato di contenerli nella sobrietà, hanno. fentito de'motteggiametitizñiehte da effi graditi, e se hanno disordinato, gli sono giunti all'orecchie certi sussurri della's fervitů z che diceva : Il buon Medico che biasima tanto li disordini , egli troppo fà peggio di noi, andiamo à credere cið, ch'egli dice; Se poi taluno di elle fia restato gabbato dal vinos non hà troVato già chi l'abbia seusato ; conforme fece Seneca a favore di Catone; impuitato di fimile vizio, dicendo, che non poteva essere, che un Catone fi ubriacasses mà quando che ciò fosse stato vero, in un Catone fimile vizio faria passato in virtù .  Mà non si sono già pentiti quelli ; the civilmente ricufarono fimili inviti, mentre fattisi capaci coloro, che desideravano di vederli crapolare; dalli giusti motivi apportaci per iscusa, rimasero più tosto edificati, che disgustati da fiinili repulse, ed in segno di ciò ne diedero in avvenire attestati di maggior ftima: Ne  ро  [ocr errors] [ocr errors] potrei di questi efempj riferire alcuni a mà, per non dilongarmi troppo , ftimo bene di tralasciarli . Sicche, per vincere la gola , il partito più sicuro sarà di fuga gire l'occasioni pronte di crapolare con un'onesta ritirata , conforme la Prudene za configlia :  Stabilito che avrete il vostro itato à quel fegno che potrete ; non solo per decentemente vivere , e mantenere con decoro la voftra casa j mà ancora con la vostra economia accrescerla commodamente; allora l'ingordigia , e l'infariabia lità di cumulare vi comincieranno & muover guerra, e quello, che farà più formidabile con apparenze vantag: giofe v'infidieranno alla vita , mentre vi Itimoleranno, e vi violenreranno infieme ad accettare tutto ciò che vi si pre fenterà davanti , e fe quefto non bastera à renervi nottése giorno occupati, vi ftimoleranno à procurarne de' nuovi fervigj, e certainente non per altro fing, che per distruggere in breve il vostro inzia dividuo con una eccelliva fatica, con  una  1  250 Dell'Idea del vero Medico. una continua inquietudine di animo,con una perpetua schiavitudine, credute tutse dal Mondo pazzo per felicitàe per prosperità di fortuna  Cosa dovrete dunque fare per rimuovere da voi un sì evidente pericolo di vita, che vi sovrasta 2 Vi converrà certameute prenderci rimedio prima, che questi nemici facciano breccia nel vostro cuore., e parlamentino con il vo. ftro desiderio, perche altrimenti con lo fplendore dell'oro li guadagneranno, ed il suo rimedio ficuro farà, che quando  ' non ifta concento di ciò che hà, e vorrà procurare cofe maggiori, di consigliarvi tosto con la Prudenza, che questa facilmente lo quieterà con dirvi : Cofa bramate d'avantaggio a non avete, più di quello vi bisogna rimirate quanti altri, che hanno accor essi egual merito alvoftro, sono più attempati di voi, e pure non sono così ben proveduti, come voi fiere: Ditemi, che tempo avete , che vi avanza , quando appena ne resta tanto ,che basti per lo studio necessario's e pery il bisognevole riposo ?  E quale di questi due tempi vorrete impiegare nelle cure di più, che deside rate confeguire ? forse il primo ? La Giustizia se'ue sdegnerà per non esser vostro: Forse il secondo, che è cutro vostro & come potrete vivere s fapendo voi, che: Quod caret alterna requie durabile non eft. Riflettete attentamente, che lo le pioggie curte cadessero sopra pochi campi, in vece di ravvivarli, e rendera li più fécondi , opprimeciano più costo quanto di verde li ricopres e che la gran Providenza ,che saggiamente opera, dispensa il publico bene à prở di cucţi; facendo, che il Sole non per pochi, mà bensi per tutti risplenda', c finalmente che le taluno vorrå soverchiainente cam ricare il suo stomaco, anco di dolcissimo cibo , gli converrà ben spesso soffrire aspri dolori di ventre. Risplende molto l'oro, må riflettere ancora , ch'è più' grave di qualunque altro metallo , onde neceffariamene ammaffarne di molto non  si può  G può senza restarvi affatto oppresli id Breve sotto il suo grave peso, o per la meno perderci la propria libertà; Quindi è, che faggiamente Curio ricusò da'. Sanniti tutta quella gran quantità di oro, che gl'avevano portato 5 dicendo foro, che esso credeva cosa più gloriosa il poter comandare à chi molt'oro possedeva , di quello che fosse il possederne di molto ; volendo in tal guisa farci ca. pire, che non si poteva cumulare oro in: gran copia, e mantenere la sua libertà. Il mio configlio dunque è, che freniate il vostro defiderio, acciò non bramjata nè pure una cura d'avantaggio di quel le, che potrete commodamente reggere, e tanto maggiormente, che quefta voce Cura appresso li Latini non significa altro, che Briga, è travaglio, ex eo quod cor edat, dw excruciet, delle quali conviene ayerne folamente tante,quante baftino à poterle fofferire, e non più , verificandosi in esse più, che in ogn'altra cosa quel detto: Ne quid nimis . Sentitene però il parere della Giustizia per res  go:  [ocr errors] golarvi fino dove vi potrete stendere;  per non incorrere nella caccia d'insa-  ziabili.  Voi sarete facilmente rimasti per   ora appagati di quanto vi avrà detto la   Prudenza, à segno, che non vi curerete   sentire altro conseglio, con tutto ciò per   convenienza almeno sarete tenuti,aven-   dovi ciò la sudetta incaricato, di sentir-   ne il parere della Giustizia , intorno al  vostro regolamento, e con tale occasio-  ne vi potrete consigliare ancora sopra   un certo ripiego, che facilmente il vo-   ftro desiderio visuggerirà, cioè di all.com   gerirvi de’ servigi antichi per proveder-   vi de' nuovi di maggior vostro profitto,   e minor briga, il quale non lo dovrete   porre in esecuzione senza l'approvazio-   ne della Giustizia.   Esposto , che avrete a questa fanta virtù ciò, che bramate sapere, ella cortesemente y'insegnerà ciò, che dovrete fare intorno al vostro regolamento, che sarà di misurare in primo luogo le vostre forze , & il tempo, che vi resta libero,  [ocr errors] e poi l'impiego , che vi si presenta, e se rincongrerete le misure proporzionate trà di loro , accettatelo pure, senz'alcun timore della taccia d'insaziabili; Vi suggerirà però, che stiate bene oculati in prenderne le dette misure à suo dovere, affinchè non reftiate ingaonati, perche . altrimentiaffatto infructuofo riusciria il fuo configlio,ed acciocchè non segua un tale errore, vi darà lei medefima dug meze canne, una delle quali la troverete molto scarfa, e l'altra affai vantaggiosa; con la prima yi ordinerà, che miluriate le voitre forze, & il tempo, che vi ayanza ; con la feconda l'impiego, che vi li presenta, e prendendo voi le misure in questa guisa yi assicura la Giustizia , che non potrete errare. Doye che facendoli da voi diversamente, tutte le altre meze canne , che adoprerete ve le porgerà il yostro desiderio fatte à suo modo, e saranno tutte yantaggiose di molto quelle, con le quali misurerete le vostre forze, & il tempo, e scarsiffime quelle, delle quali yi servirete per misurare l'occasio  ni,  [ocr errors][ocr errors] ni , e questa è la cagione de? sbagli, che fi prendono contro il volere della Giuftizia , c per due capi, (primieramente, perche chi misura in cal guisa erra per abbreviare la lunghezza di fuá vita , divenendo omicida di fe medesimo, sì ancora per il danno,chie nc poffono riceveré alcunische ad ore affai incongrue, ed à mente stracca gli cocca per fimilisbagli essere curati.  In glçre vi dirà apertamente, che non dovrere in conto alcuno disfarvi delli servigi antichi per prenderne de' nuovi in fua veće, perche non avete alcuna giusta cagione di farlo , anziche facendolo, mostrereite una somma ingratitudine in abbandonare chi in temро  de' vostri bisogni vi fù grato , e chi vi favori ne' vostri avanzamenti, non con altro motivo, che de' yostri maggiori vantaggi ; se poielli, senza alcuna vostra colpa, fi alienaffero da voi , in questo solo caso, perche volenti nan fit injuria, lo potreste fare senz'alcuna taccia d'ingratitudine; e së esercitaste la  Me256 Dell?idea del vero Medica, Medicina in certi luoghi lontani, dove alcuni li prevalgono di un Medico fino à tanto, che lo vedono incominciare à far negozj, ed allora se ne disfanno per prenderne à proteggere un altro : İyi basterebbe pazientare un poco, che vi li presenterebbe l'occasione di poter: lo fare, mà dove ciò non li costuma vị convien’essere grati, e costanti, fische sarete capaci di medicare,  Con tutto che resterere per qualche tempo appagati di quanto vi hanno consigliato la Prudenza, e la Giustizia perche il vostro desiderio yerrà conținuamente bersagliato daļli sudettį ab. bominevoli vizj, sarà necessario, chcimploriate l'affiftenza della Fortezza , e Temperanza , acciò perseveriare sempre Itabili nell'offervanza di detto consiglio, & il maggior bene, che dette virtù vi potranno apportare, sarà d'infinuaryi diverse istorie di coloro, che per essere Itati insaziabili, nel colmo delle loro credute prosperità sono mancati, eche infelice memoria di esia ne fią rimasta trà  noi  [ocr errors] و  [ocr errors] noi, mentre chi ha lasciato la sua fameglia appena slattata , senza indirizzo, a senza guida, chi intricata la sua eredità , per non aver avuto tempo in vita di ben'impiegare li suoi avanzi; chi, doppa fofferta una lunghissina, e dispendiosa infermità, acquistata per li suoi grans Strapazzi , appena hà lasciato tanco, che bastasse al suo funerale; e finalmente cosa sia stato detto di tutti doppo morti, cioè, che non'ınericavano d'essere compatiti, perche erano morti per colpa loro, avendo voluto abbracciare troppo, e più di quello, che potevano reggere, çon tutto quello, che la maledicenzą gradita, e senza timore alcuno så inventare di peggio contro i poveri des fonti,  Impresli, che avrete sì spaventosi esempj nelle vostre menti, con la riferfione, che il simile seguirebbe in voi,  fc cadefte in tali errori, non temeţe più , che il vostro disiderio possa essere superato da simili vizj , perche questi gļi serviranno di un gran freno ,  R  Nelle  Nelle vostre maggiori prosperită l'Adulazione ancora vi farà doppia guerra la prima confifterà in ispargere di voi più lodi di quelle , che meriterete, per risvegliarvi contro l'Invidia , quando fi foile mai adormentata, mà trovandovi già premuniti de' buoni avvertimenti dativi dalla Prudenza, non vi potrà punto nuocere in questo primo asfalto, e se uniręcę alla fofferenza una profonda , e fincera umiltà, supererete l'Adulazione, el'Invidia nel medesimo tempo, Màvedendofi da voi la maliziosa Adulazione fchernita , adoprerà tutte le sue frodi per violentarvi ad essere suoi seguaci , e per farvi divenire per forza Adulatori, come farà mai ? Sentite bene; Pren. derà l'occasione di qualche cura grave, nella quale intervengano molti parenti, & amici dell'Infermo, e vi farà da  queiti  porre in angustie di diventare Adulatore per forza, per li seguenti impulsi : Vi dirà taluna di esli , questo male si aggrava, perche non gli fate applicare quattro vefficatorja se ne morirà senza  questo  [ocr errors][ocr errors][merged small][merged small] questo rimedio, e la colpa farà tutta yostra, che trascurate un rimedio sì efficace. Un'altro vi dirà: perche non gli date una buona Medicina da tirare giù ? lo volete lasciar morire senz'ajuto? ayver, cite, se muore , fentirere, che si dirà di voi, à me basta di avervelo avvisato. Vi sarà ancora trà essi chị vi ayyertirà, che se gli cavate sangue morirà certamente, perche non gli conviene; e d'avantaggio vi dirà , che se lo cayerere lo amazerete, e derro male farà per appunto un'infiammagione interna , nella quale non conviene ciò, che viene proposto , e gli sarà necessario quanto viene ritardato. Vedete in chę angustie , in che laberinţi vi troverefte, se non aveste la Prudenza configliera ? Imitercste senza dubbio, ò quel Medico, à cui un tempo fà , fù suggerito da un'amico dell'Infermo , in un caso simile , un certo riinędio, dicendo, che lo proponeva , perche cra esso ancora mezo Medico ; A cui alquanto alterato gli rispose: & io son tutto Medico , conviene dunque, che la mecà ce  [ocr errors][ocr errors][merged small] fi: 28    1  da al tutto; Io, che sono tutto, non voglio che si dia , non si deve dunque dare; O pure quell'altro, che ritrovan. dosi in un fimile intrigo», doppo aver dette le sue ragioni , senza profitto, rifpose : Giacchè loro Signori ne fanno più di me, facciano loro la cura , e se ne andiede via, mà ciò non lodandolo la Prudenza, sentirete dunque da lei , in che forma vi dovrere regolare.  Sentendo riferire da voi questo fatto la Prudenza disapproverà molta, che chi non è Professore, ardisca così francamente di proporre, ed escludere quelli rimedj, che in mali sì gravi danno molto da pensare alli medesimi Professori provetti, e che pongano à cimento li onorati, con modi si violenti, di diventare Adulatori, e facilmente in tal guisa vi consiglierà: Dite le vostre ragioni à chi bisogna, con animo composto, e questi, ò fi appagheranno di quelle , ò nò, se ne resteranno fodisfatti, rimarrà già terminata la controversia , e potrete fare liberamente à voftro modo, se poi persisterahtio ancora ostinati nella loro opis nione , allora suggerite, che tratrandosi di un male sì grave con tante controverfie, desiderate nella cura di avere altri Professori compagni per meglio risolve. re ciò, che si debba fare ó e procurate, che con sollecitudine ciò segua y acciòcchè la lunga dilazione non pregiudichi all'Ammalato, e che ne consulti siano presenti coloro, che fuscitorno le controversie , affinche sentano con quante circospezioni sono serviti gl'Infermi, ed ancora se avranno qualche cosa di più la poffano dedurre à tutti.  Facendo voi à modo della Prudens za, non dovete avere più timore di prevaricare, perche la Fortezza vi assisterà, c consolerà insieme , l'assistenza sarà di non farvi prendere in questi casi certi : dannosi ripieghi, che sariano , in vece de' vefficanti d'applicare li senapismis di un purgante , dare un leniente, ed in tanto d'andare differendo la sanguigna , facendovi conoscere, che l'operare in questo modo non è da Medico, mà bensi  [ocr errors] 9  [ocr errors] da Adulatore, e che quancunque questi tali nelli funesti eventi fieno dall’Adulazione tenuti indocenti, e difefissorio però dalla Giustizia creduti rei di gran colpa s con tutti quelli, che ne diedero l'occasione, e vi confolerå parimente la Fortezza con dirvi: Si poffono chiamare tempi felici nella Medicina li presenti, non vedendoli ora l'Adulazione premiata à quel segno, che era ne' tempi di Galeno, nè la lincerità così vilipesa; Allora trionfavano li Medici Adulatori, erano ricchi, e potenti gerano stimati , e riveriti, ogn’uno facęya à gara di fayòrirli, eli onorati, sinceri, e docti se ne stavano abbandonati, derisi, evilipeli, e se non fosse stata la mia grand'alistenza,che prestavo loro , nè pure úgo ne sarebbe rimasto di efli, anzi Galeno isterlo, che non avesse prevaricato per quanto venivano violentati dall'Adulazione :' So, che presterete fede à quanto vi dico, mà volendovene accertar meglio di quanto fuccedeva in quei cempi leggere ciò , che Galeno riferisce nel primo del suo  [ocr errors] me.  [merged small][ocr errors][ocr errors][ocr errors][merged small][ocr errors][ocr errors] metodo, che appunto è questo: Eoque jure fit cum ægrotare cçperint Medicos advocent , non quidem optimos į utpotè quos per Sanitatem noscere nunquam ftuduerunt , fed eosy quos maxime familiares habent ; quique ipfis maximè adulentur , qui du frigidam dabünt; si banc popofcerint, lavabunt cùm juferint; a nivem; vinum= que porrigent poftremò quidquid jubebitur mancipiorum ritu facient &c. itaque non qui meliùs arten callet ; fed qui adulari aptiùs novit apud iftos magis in pretio eft , buic omnia plana's perviaque funt , huic ædium fores patent ; hic brevi efficitur dives, plurimùmque poteft &c. Quali violenze oggidì sono cessate , mercèche hanno imparato molti à proprie spese à non commertere più la loro vita in mano degl'infidi Adulatori, e perciò essendo mancati per loro l'impieghi, e li gran guadagni, che in breve facevano,è mancato ancora quel grand'impulso, che vi era à dover effere Adulatori per essere adoperati, e tutto questo mi costa  per essere io la Fortezza, che affifto à quei  ز  e. lig a fe ne be he ni dy 112 to 5, 10  generofi spiriti,che abborriscono l'Adulazione , & abbandono quei vili, che se le danno in preda  Se poi non bastasse all'Adulazione d'avervi fatto violentare da parenti, ed amici, mà volesse ancora farvi forzare dall'Infermo isteffo à divenire suoi fem; guaci , in questo caso, fatte che avete le diligenze propostevi dalla Prudenza; e. che mediante quelle egli non resti appagato, la Giustizia non vi violenterà già à continuare il servigio, vi forzerà bensì à non divenire Adulatore , onde in questo caso, con tutta civiltàs procurerete ( quando l'Infermo' non deliri) di consegnare ad altri ciò, che non fà per la vostra riputazione ; ben’è vero, che questi sono casi rarissimi avendo molte altre cose da penfare l'aggravato Infermo, che di voler'essere adulato, con tut  per farvivedere, che ve ne sia stato qualcheduvo, che abbia desiderato di cllcre adulato fino alla morte, viriferirò la presente istoria : Una persona di qualità cospicua, molti anni sono, dovendosi  pro  to ciò  [ocr errors] [ocr errors] provedere di Medico; ne scelse uno tutto di suo genio, ed avendolo participato al suo amico di confidenza ; questi in vece di rallegrarsene seco se ne condolse, dicendogli apertamente, che poteva fare meglior'elezione , essendovene tanti più esperti del già eletto 3 replicò à questo: Lolo-sò beniffimo, mà hò voluto pren derne uno, che faccia à mio modo ancora quando mi trovo ammalato, perche io non poffo Coffrire quel Medico, che allora mi voglia forzare à fare à suo modo, gli rispose saviamente l'amico : Signore, chi fà à suo modo quando ft benes: conviene , che faccia à modo del Medico quando ftà male, non poffo lodare la sua elezione, con tutto che sia di suo genio, perche si tratta di Medico, à cui si consegna la propria vita, non già di un servidore di mera comparsa ; che poco importa di che abilità egli sia, mà non paffarono molti anni, che detto Signore cadde inferino di lunga , e fiftidiosa malacia, che terminò finalmente, per essere vissuto à suo inodo in un'ascelfo interno, espurgava della marcia per feceffo , la vidde l'isteffo Infermo, che diffe, non farà marcii , må bensì il pangrattato, che hò preso questa mattina lo domandò al suo Medico, che gli rispose per dargli gufto, quello appunto & Signore, e con quel pangrattato se ne mori, adulato sempre fino al fine della fua vita.  L'Iniquità, e l'Inganno confederati , nôn porerido più Toffrire, che voi godiare quella bella tranquillità interna per cagione delle vostre virtù, vorranno ancora effi con le loro frodi adoperare ogni sforzo possibile per turbarla ; ed in fare ciò vi toccheranno facilmente nel più vivo, inolestandovi in qualche cosa di vostra somma premura , e doppo di aver consultato trå fe più danni,risolve, ranno alla fine di farvi perdere il servigio di quelli, che vi sono più á cuore, € tanto si adopereranno,e con tanti mezi s'ingegneranno, che finalmente gli riufcirà ciò, che bramavano i onde voi, senza faperne il perche , e senza averne  data  و  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][merged small] data alcuna occafione , essendosi con in? sidie segrete proceduto , all'improviso vi troverete esclusi da quel servigio da voi tanto prediletto. E che farete allora? vi dolerete forse con la Giustizia ; che siete stati licenziati à torto ? Avvertite , che facendo in tal guisa imitereste Santippa, che si doleva della morte di suo marito , perche si faceva morire å torto, à cui il sapience Socrate rispose : E che desideravi forse, che io foli fatto morire à ragione ? questa appunto è la mia gloria, che sono fatto inorire à torto. Sicchè alla Giustizia non vi cooviene ricorrere, må berisi dapoi che fi sarà alquanto calmato quel senso, che neceffariamente vi avrà apportato una nuova ingrata, ed improvisa, dovrete ricorrere alla Pradenza per riceverne il suo configlio à fine di poter più spedicamente restituire all'animo vostro quella bella calma, che dall’Iniquicà, e dall'Inganno gli era stata rubata :  La Prudenza senrendo da voi tal novità vi consolerà certamente, ftate  al  [ocr errors][merged small][ocr errors] allegri, dicendovi , che questa è una's grazia, che vi fà la Divina Providenza, facendovi capire , che vi dovete alquana: to staccare da ciò, che nel mondo vi è più caro , per confidare solamente in lei, che non mai hà abbandonato chi fedelmente la serve. E di che vi dolete? forse perche perduto avete un servigio à voi caro ve ne restano pure tanti altri? com- .. partite tra questi il vostro affetto, che così non avrete fatta perdita alcuna potendone del vostro amore ricevere da molti maggior ricompensa di prima, ò pure (che sarà meglio ) questo vostro amore non gradito dagl'uomini accrefcetelo à Dio, che vi recherà molto maggior profitto di quello , che vi rendeva prima. E se veramente amate di cuore quella casa, che avete perduta g non vi dovete contristare della perdita vostra , mà bensi della sua , avendo lasciato voi, ch'eravate già istrutti da tanto tempo nelle complessioni, e mali di chi ivi conviveva per prenderne uno affatto novizio , che prima , che ne qa divenuto  1  capace à quel segno, che voi siete, vi vuole del tempo affai, & in tanto come anderà? e poi se questo nuovo eletto fù complice ancor'egli nelli segreti trattati dell’Iniquità, e dell'Inganno , che bell. acquisto , che averà fatto, prendendo uno di simili costumi in vostra vece , che fiete uomini di onore, talche non voi, mà chi vi lasciò hà occasione d'afAliggersi, perche danno à se stesso feçe, non à voi, che per essere esenti da questa briga ne ricevere sollievo ; chi è pari. mente entrato in luogo vostro , se pur? egli è complice, come disfi , ayrà molta occasione da contristarsi per la finderesi, che gli resta di non avere operato come dovea, e per il timore, che un giorno il fimile possa succedere à lui ancora.Quietatevi dunque , giacchè rammarico alcuno non vi resta d'averli mal serviti, con questa ferma fiducia, che in quel sito ( come tante volte è accaduto ) da dove la malvagità, e l'inganno hanno tolto à viva forza un virgulto , la Giustizia vi pianterà un vago, e glorioso lauro  con  [ocr errors] con questo motţo ;Ųno avulo splendidior non deficit alter; molto di più vi potrei dire, se non lo riputaffe superfluo, poiche gl’animi vostri ben moriggeräti con pochi motivi si sodisfano, e li calma. no, allorche vengono da accidenti im. provisi turbati,  Udifte come vi consolo bene la Prudenza, e con che fortį motivi , li quali fe li cerrețę impressi nelļe vostre menti, quantunque vi giungano simili accidenti in avvenire, punto non vịcontristeranno, avendo questi forza di disporre gl'animi vostri à foffrirli coftantemente, ed in conseguenza di fare, che li sudetti vizj delle loro iniquità non trionfino.  L'Ambizione yorrà ancor'effa nell' auge delle vostre fortune tentare, fe  potesse fare con yoi quaļche acquisto; s'ingegnerà di porvi nella mente idee grandiofe , viftimolerà à molte imprese, con pretesto di rendervi a' pofteri gloriofi : Per esempio , fe y'insinuerà di comporre qualche vago sistema di Medicina, qualche nuoyo metodo di medicare , à qualche altra cosa non pensata , nè tencat fin'ora da altri, e voi ricorrere subbita. mente alla Prudenza per consiglio, e vedrete come v'indirizzerà bene ; intorno à nuovi sistemi, e metodi di medicare vi farà questo dilemma: O ve ne sono trà gl’inventari de' veri,ò nò; Se ye ne sono, perche non li seguitate? che cosa yolete cercare di megliore della. verità? Se poi non vi è cosa ancora accertata in quelli, avendoyi per tanti secoli frayagliato una infinità d'uomini dotti, cosa yi persuaderete di fare di vantaggio ? non vi avvedete , che indarno faticherefte ancor voi, senza speranza alcuna di gloria, e se pure la conseguiste saria per pochi momenti; Il sistema, ed il metodo corrispondono al tutco, e quando questo non regge , e non suflifte, è se. gno evidente, che le fuc parci costitutive fono difertose; Impiegate dunque ogni voftra fatica in accertare , e rendere palese qualche parte di esli, che vi avvedrere, che sia oscura, ò che manchi, la quale benchc minima , nulladimeno una gran gloria vi apporterà, allorche l'averete accertata, e rinvenuta , e lascierete tali imprese grandi a' pofteri , che fi renderanno più facili a'medesimi, ale lorchè acquistate, saranno maggiori notizie delle loro parti costitutive,di quel, le ve ne fieno al presente; E per non effere creduți imprudenti scegliere di queste le necessarie , come avvertì Cicerone, (a) dicendo : Alterum eft vitium, quòd quidàm nimis magnum  gran  )  ftudium , multamque operam in res abfcuras , atque diffaciles conferunt , eafdemquè non necesarias; e quelle ancora, che sieno proporzionate alle vostre forze, come insegnò Orazio :(b) Sumite materiam vestrisqui firibitis    aquam.  Viribus , & verfate diù quid ferrere     cufent  Quid valeant humeri.   E perciò vi consiglierà la Prudenza d'impiegarvi in yostra gioventù intorno į a' ritrovamenti Anatomici , Chimici,  of[a] Primo de Officiis. (b] De Arte Poetica.   osservazioni Mediche e d'altre cose   utili, che richiedono ayvedutezza di  mente, buona vista , afsiduità , pazien-  za, e sanità, e questi accertati, che sono  incontrovertibili, rimangono per fem-  pre, e vi dissuaderà in detta età di dare  alla luce trattati di nuovi modi di inedi.  carc,essendo allora appunto come i frut-   ti fuori di stagione, che non hanno tutta  la loro sostanza, dovendosi ciò maturare  nell'età avvanzata, e colma d'esperienze  pratiche , dal che si può dedurre la ca--  gione, perche talvolta ne’libri,che trat-  tano di pratica , alcune cose, che vi fi  ritrovano non si verificano punto, e ciò  proviene , perche furono descritte da  Medici , che non avevano ancora tutta  l'esperienza necessaria per meglio accer-  tarle.   Vedendo questo vizio di non avere { potuto nella vostra persona fare alcun  guadagno, vorrà far prova, se per l'amore, che portate à qualche vostro figliuolo vi potesse far prevaricare, e vi anderà suggerendo à poco a poco, che avendo  S  voi  [ocr errors][ocr errors] voi de' buoni Protettori, gli procuriate, mediante il loro ajuto, qualche titolo nobile , qualche carica onorifica superiore alla vostra condizione per inalzarlo, e dargli insieme attestato del vostro amore, e benche questo non cada nella persona vostra direttamente, con tutto ciò, venendo procụrato da voi, tanto sarete tenuti consigliarvege con la Prudenza, anzi con la Giustizią-ancora , e consigliandovi con queste virtù vi diranno concordemente, che il maggior benc, che voi potrete fare a' vostri figliuo, li sarà, il procurare con ogni maggiore judustria , che divengano capaci , e meriteyoli di dette cariche, di detti titoli, che così, con poco ajuto de' vostri Protettori, potranno à suo tempo conseguire ciò, che sapranno desiderarc, e gloriosamente, venendo loro ciò conferito à cagione del proprio mcrito, ed operando voi in tal guisa , l'Ambizione nonpotrà trionfare di voi; trionferebbe bensì, quando che voi usaste violenze in procurar cose, delle quali non ne fossero  [ocr errors] me  [ocr errors] meritevoli, nel qual caso ancora quanto farete loro ottenere sarà per l'appunto consimile à quel titolo nobile, e speciofo, che si legge nel frontispizio di qualche libro, à'cui la materia rozzamente,  senza dottrina in esso trattata non gli corrisponde, che in vece ne formi concetto di esso chi lo legge, e considera, lo muoye più tolto al risos e perciò resta in un cantone derelitto, senza che alcuno più lo consideri,  L'Avarizia con duplicato pretesto di zelo vi assalirà ancor'effa, ftantechę se non avrete figliuoli, ò nipoti y’infinuerà, che facciate degl'avanzi più che potrete, à fine di stabilire qualche degna, e grandiosa memoria di voi à prò de' posteri; fe poi gli averete, li facciate ancora per lasciarli più commodi, ed in questo frete bene circospecti, poichè  Fallit enim vitium fpecie virtutis ,  du umbra; Onde appena, che in voi fentirete certi impulli, certi stimoli infolici di cumulaà tali effetei, consigliatevi con 13 S2  PruePrudenza, e con la Giustizia, le quali vi faranno capire ciò, che dovrete fare , c vi diranno facilmente intorno alla memoria grandiosa, che meditate di lasciasciare, essere meglio, che la lasciare ale quanto meno magnifica, e senza alcuno ajuto dell'Avarizia, che grandiosa con viziosi avanzi, perche tutto quel di più, che mediante il vizio l'accrescerete, in vece di apportarvi gloria , vi recherà ignominia , e che rispetto al cumulare di vantaggio per li figliuoli, e nipoti non lo facciate, perche quello lascierete loro di più,acquistato con Avarizia consumerà ciò, che avrete onestamente acquiftato, in oltre che voi siete tenuri di lasciar loro tanto, che li bafti à potersi avyanzare ancor'essi nelle virtù, stante  che :  Haud facilè emergunt quorum vir  tutibus obftat  Res angufta domi . : E v'infinueranno d'avantaggio, che Ippocrate v'insegnò' chiaramente à tal proposito ciò, che dovete fare, dicen  dovi  [ocr errors] [ocr errors][merged small] dovi: (a) Neque verò exigende mercedis  cupiditate duci oportet , nisi ut ad artem  edifcendam tuos instruas; E che quando  gli averete duplicato, ò triplicato ciò,  che fù lasciato à voi, e vi bastò per di-  venire virtuosi, sarete giudicari da tutti  per buoni Padri di fameglia, e che av-  vertiate bene, che certe ricchezze, che  superano la propria condizione, e per  altro non bastano à mantenersi in altra  sfera superiore , sono pericolosissime,  perche à cui fi lasciano , volendosi trat-  tare quefti d'avantaggio di quello, che  compete loro, preftamente le dißiperan-  no, conforme l'esperienza quotidiana lo   dimostra ben? fpeffo , per non volere   questi tali ad altro impiego applicare ,   che à quello dello dispendioso diverti-   mento, non servendo ftrertiffimi Fide-   commiffi , nè altri legami inventati per   impedirlo; ftanteche nella medesimais   conformità, che da'viventi si passeggia   sopra li sepolcri de’defonti, cosi ancora   per l'appunto si passa sopra le loro vo-   [ocr errors][ocr errors] lon(a) De pracept.  S 3.  278 Dell'Idea del vero Medico. lontà, e che quello, à cui dovrete invia gilare più d'ogn'altra cosa farà, di lasciarli virtuosi, ben’educati, e con buoni avviamenti, che allora , quantunque li lascierete con mediocri commodi, da se medesimi potranno divenire ricchi, e con questo vantaggio maggiore , che quelle ricchezze, che da se medesimi fi accumuleranno , non già le disliperan10 , conforme bene speffo in quelle , che si ereditano succede. Ponderate bene questi consigli, e servitevene, se volete in tutto abbattere l'Avarizia.  Incominciando voi à porre il piede nella vecchiaja , à cui conviene di cedere, ve ne avvedrete facilmente, quando che non potrete con quella facilità di prima reggere le voftre solite occupazioni , ed allora cosa farete? Non altro certamente che di consigliarvi con tutte le virtù, che v'indirizzinó per qual via dovrete caminare acciocchè voi , li quali sarete utili alla Republica per la lunga esperienza, che avrere, possiate più lungamente giovarle.  La  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] La Prudenza, come Maestra di tutte le altre virtù vi dirà, che non è  convenevole d'abbandonare tutti quei fervigj di coloro, che da voi per lungo tempo ne hanno ricavato del profitto nella loro salute , ed anco lo sperano in avvenire, per la fiducia , che hanno in voi, efsendo in istato ancora di potere ben'oprare , nè tampoco parte di elli , perche faria molto odiofa una tale vom ftra parziale risoluzione ; onde voi non potendo disfarvene, per non sentire ilamenti dei vostri clienti, vi converrà perfare di andare sostituendo qualcheduno, che vi poffa alleggerire almeno la fati  ed acciò abbiate facilità in eleggerlo, vi apporterà le trè malime sostituzioni , che il mondo tutto rimirò nel primo secolo della commune falurcs cioè : La prima, che fù fatta da Augusto in persona di Tiberio ; La seconda da Galba in quella di Pilona ; e la terza da Cocceo Nerva in quella di Trajano; ed in tal guisa facilmente v'istruirà , dicendovi : Nella prima Augusto ebbe una  $4  pelli  [ocr errors] pessima intenzione,inentre scelse un soggetto di reprobi costumi; un Tiberio ben noto per la sua iniquità, ed al sostituente più di ogn'altro, stanteche: (6) Comparatione deterrimâ fibi gloriam quafavisse . Nella seconda vi fù ottimo fine, perche fù eletto un meritevole, solamente si mancò ne i mezi , e di questo ne fù cagione l'avarizia di Galba, giacchè:(c) Confit at potuiffe conciliare animos, quantulacunque parci jenis liberalitate, c perciò ebbe l'esito infelices Nella terza finalmente tutti li requisiti furono ottimi, non vi fù punto di vizioso sì nel principio, che ne i mezi, e fine , e perciò fù gloriofiflima. Queste , benche fie00 state sostituzioni maflime, nulladime‘no possono servire di norina ancora nelle picciole, mentre dalla prima ne ricaverete, che vi sarà  che vi sarà poco bene accostumato; chi farà vizioso non meriterà di essere da yoi eletto ; Dalla seconda ne dedurrete, che chi elegge deve stare lontano dall'avarizia, e non esser  punto  do[b) Tasit. Annal lib. 1. [] Tacit. Hia.Jib.1.  redominato da questo vizio, se brama, che tutto vada felicemente ; Sicché la terza, in cui concorrono tutte le buone condizioni farà quella , che si dovrà imitare da voi per fare una degna elezione,mentre non fù già eletto da Cocceo Nerva Trajano per cagione di parentela , nè di {moderato amore, che gli portasse , mà bensì per il suo merito, e per la bontà de' suoi costumi, e non ebbe già per fine principale di gratificare l'eletto, mà solamente coloro , che doveano effergli. fudditi, e perciò riuscì un'ottimo Imperatore, e felicissimi tempi furono chiamati quelli del suo Impero. Non intendo già per questo di consigliarvi d'abbandonare li parenti, gl'amici, e quelli, che più d'ogn'altro ainate, perche ciò non saria ragionevole, anzi vi dico, che fiere tenuti à preferirgli ad ogn'altro eguale, ed anco qualche poco superiore à loro, conforme vi ordinerà la Giustizia isteffa , vi avverto solamente, che non vi serviate della parentela, dell'amicizia, e dell'amore per inicroscopio, acciò  ز  [ocr errors] vingrandischino di molto il soggetto, che prendete di mira per sostituirlo, altrimenti v'ingannerete , e chi lo mirerà fenza questi microscopj se ne avvederà molto benes conforine capirete anco voi istelli rimirandoli fpassionatamente ins fimile forma : E' ud verso affai trito; mà però che cade molto al proposito quello, che dice:  Quifquis amat ranam, ranam putat  effe Dianam; E la cagione fiè, perche l'amore non solamente så ingrandire il merito , mà ancora så ricoprire li difetti degl'oggetti amati. Se farere dunque voi la vostra elezione con rimirare li soggetti calig quali realmente sono 1109 alterati, per quali vi pofsono parere, non solamente sarà questa gradita , e profitcevole, mi eziandio riuscirà per voi gloriosa , conforme seguì à Cocceo Nerva, à cui la maggior gloria , che gli fia rimasta trà tante altre è quella ; di aver'egli saputo eleggere un Trajano per fuo successore all'Impero , e solo da questi ogn'uno  [ocr errors] ora comprende à qual segno giugnesfero la sua prudenza , il suo giudizio, e la sua integrità, ed essendo questi documenti della Prudenza per appunco coerenti à ciò, che Ippocrate c'insegna, cioè :(d) At verò imperitis nunquam quidquàm procurandum committes. Sin minùs ejus, quod malefactum eft vituperium in te recidet &c. non potrete da esli punto discoItarvi.  Palliamo ora all'incunbenza, che dovrà avere questo vostro sostituto, il quale essendo da voi scelto di buoni cos stumi, e dotto, caminerà in curto fecon: do la vostra direzione, onde profitcevole in conseguenza sarà , à cui l'avrete proposto, perche ne riceverà da esso un servigio alliduo, animato dal vostro prático configlio, e di questo ve ne prevalerete da principio ne'casi più leggieri, per poi, fecondo che v’andrete inoltrando negl'anni, avanzarlo ne'.gravi, con questo però, che abbiate l'occhio arrento al servigio, con visitare ancor voi di quando in quando gl'Infermi, per diriga gerli meglio con li vostri più accertati consigli , e facendo voi in questo modo non solamente non avranno fcapitato punto li voftri Infermi, anzi che più toito acquistato , restando loro tutto il voAro consiglio come prima con l'afiftenza maggiore del giovine sustituito, che da voi , mediante le vostre occupazioni, non lo potevano esiggere, e precisamente nelle ore più fastidiose, e tutto questo benefizio sapete perche lo riceveranno, ftanreche il sostituto fù scelto da voi, e da voi non preso à caso, mà bensì capato trà li buoni per il migliore, dove che se fosse stato preso per via di raccomandazioni, e senza la vostra dependenza , non caminerebbero le cose così felicemente, poiche sdegneria tal da voi independente sostituto caminare con le yostre direzioni, volendo far'egli à suo modo, e non saria picciolo favore,quando ve lo facesse, in caso di qualche controversia , di non ispargere da , che voi siete vecchi rimbambiti, e che  quan; [d] De dec.orn.  non  [ocr errors] non fiete più capaci di medicáre, per iscreditarvi con fimili menzogne, e da ciò qual vantaggio se ne riporteria à prò degl'Infermi, se non che una confusione, una inquietudine continuata , ponendosi in dubbio talvolta à chi de* due fi dovesse prestar maggior fede, se al giovane petulante, e scostumato,ò al vecchio, benche ingiustamente vilipeso; Con ragione dunquc Ippocrate inveisce contro costoro, che per vie indiretre si avanzano, dicendo: (e) Quàm repentè evecti fint, fortunæ tamèn ægentes per divites quofdam ex anguftiis emergunt utrique exi eventu nominis , celebritatem adepti, & in pejus ruentes luxu diffluunt , quæ in arte nulli rationi reddende sunt obnoxia negligunt ac.  In questo proposito il Disinganno, che hà il cuore sincero vi scoprirà un'altro pregiudizio delli massimi , che corrono trà alcuni , che non sono nella professione versati, quali credono per cosa utile nelle cure le controversie, edissenzioni trà Medici, e dicono, che essendo trà essi discordi, si scopra allora meglio la verità, confondendoli da quefti tali ciò, ch'è disputa virtuofa , utile anzichè neceffaria , dalla diffenzionc, e discordia superflua, e viziosa, nata dal mal costume . Il Disinganno vi scoprirà il tutto, e vi dirà: la disputa neceffaria è quella, che risulta da qualche indicazione dubbiofa per meglio discernerla, e questa trà Professori esperti, e di buoni costumi termina prestamente ; perche seguitandofi da elli solamente il configlio megliore, in un subito si accertano, le quali ragioni , e quali motivi prevalgono, se gl’affermativi, ò pure li contrarj, ed à megliori concordemente si appigliano ; Dovechè la diffenzione, e difcordia , che proviene dal mal costume, che per lo più viene fomentata da puntigli, e germoglia da picciole occasioni, non solamente è molto dannofa , inà perche si yà al cattivo, non mai viene affatto terminata,stanreche in simili contenzioni = Qui velit ingenio cedere nullus  eriti  [ocr errors] erit ; ela cagione di ciò n'è, perche tutto proviene dalle volontà discordi,che non amano di unirsi assieme, nel qual caso lę ragioni più valide, li motivi più evidenti, ò non appagano, ò non si vogliono capire, à segno , che alla fine annojarifi del troppo altercare, in vece della decifione letteraria fi passa qualche volta all' obbrobriosi improperj, senza ricavarne altro profiețo, che : Şeipfos ludibrio exponere , come insegnò Ippocrate , (f) € questo è per appunto quell'ideato bene', che à prò degl'Infermi se ne riportą da fimili contese, sicchè non v'è altra strada, che quella della concordia, à cus uniteci il consiglio già propostovi dalla Prudenza, & approvato dalle altre virtù entrando voi nella vecchiaja, se bramate con vantaggio,e profitto de' vostri Infermi alleggerirvi dalle fatiche, nel qual caso trovădoyi aggravati dall'ostinata Discordia , la Giustizia non vi obligherà à paziétare di vataggio,mà farete, che ogn’uno si serva pure à suo piacere ,  (6) Lib. de Praçept.  [ocr errors] Inoltrati, che poi sarete nella vecchiaja , che ve ne avvedrere pur troppo, se non vi vorrete lusingare, dalla notabile mutazione, che proverete in voi da quello , ch'eravate una volta, poiche le forze del vostro corpo languiranno, il vostro perspicace ingegno, la vostra. gran memoria, la vivacità del vostro fpirito, il discorso così spedito non si scorgeranno più quelli, che già furono, rincontrandoli ogn'uno molto mutati. In tale stato inevitabbile, cosa vi converrà fare? Non altro certamente, che d'imitare quei celebri Pittori, che per non perdere quel glorioso nome, che per lo passato aveano acquistato, allorche si avvedono, che i loro pennelli non sono più à dovere regolati dalla tremolante mano  li sospendono per trofei delle loro opere già fatte, e terminano in questa guisa gloriosamente il loro mestiere.  Seneca assomigliò faggiamente la vecchiaja alla nave, che comincia per la sua antichità à scomporsi, dicendo:  Quem  12  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] Quemadmodùm in Have, que sentinam  trabit uni rime , aut alteri obfiftitur : Ubi  plurimis locis laxari cæperit , q cedere,  fuccurri'non poteft navigio dehiscenti : Ità   in fenili corpore aliquatenùs imbecillitas  fuftineri , c fulciri poteft, ubi tamquàm   in putri ædificio omnis junctura dilabitur ,  Odùm alia excipitur , alia difcinditur cir-  cumspiciendum eft quomodò exeas . E po-  tendo egualmente la detta nave, che il  vecchio, pericolare nel suo consueto  viaggio, converrà dunque ad ambedue  prendere il sicuro porto per prolungare  più, che sia poflibile il suo essere.   Mà questo distaccamento vi parerà il più duro, il più difficile di qualunque altra cosa, che averete emendata in voi sino à quel tempo; sì perche quest'impotenza insensibilmente se ne verrà ayanzando, onde in un subbito non ve ne potrete avvedere, e forse non prima di allora , che voi sarete renduti affatto inabili per la repugnanza grande , che hà Pumana natura à dichiararsi inabile, come ancora, perche non godendo più  T  quel  е  quella bella perspicacia di mente, quella pronta risolutezza di prima, non saprete così bene, come una volta, scegliere, e prontamente eseguire li buoni consigli della Prudenza, e se il buon'abito fatto non vi ajuterà allora à fare tal risoluzione, infingardamente procrastinando di giorno in giorno ad effettuarla , farete più tosto voi prevenuti dalla neceflità, di prevenirla ; Sicchè prima, che voi abbandoniate li negozj; elli averanno lasciato voi's Quindi è, che per non cadere in fimile obbrobriofa miseria converravvi, per ben consultarla, nè d'afpettare allora , che la vostra mente farà notabilmente deteriorata, nè, per eseguirla, quando sarete molto proflimni al non potere più operare, e quanto queste risoluzioni più generosamente intraprese saranno , tanto più gloriosamente, e facilmente vi riusciranno, nè crediate , che un simile distaccamento, con tutto che la nostra natura vi repugni , lo sia impoflibile à farsi, mentre lì è veduto praticare da più d'uno , e trà gli altri dalMedico Romolo Spezioli , il quale nel colmo delle sue prosperità, doppo un lungo servigio della Regina Cristina di Svezia , di gloriofiflima memoria, che continuò finche ella visse; doppo essere ftato Medico Pontificio della santa memoria di Alessandro Ottava, incaminatosi già per la via Ecclesiastica, proseguì questa, e lasciò affatto nell’auge delle sue occupazioni, e della sua età con generosa risoluzione, contento di ciò che aveva acquistato , l'esercizio della Medicina , nè alcuno de' suoi clienti si è potuto dolere con ragione di lui, perche li abbandonò è vero,  mà     per   servire folo à Dio, che con quanta esemplarità egli lo faccia , offenderei non solamente la fua modestia con riferirlo, mà temerei ancora, con fargliene molti encomj, che non restaffe à bastanza appagato chi con occhio fincero giornalmente rimira le fue degne operazioni.  Nè devo in questo proposito paffare sotto silenzio il ritiro , che fece Antonio Piacenti di felice memoria, mio di  T 2  let  [ocr errors][ocr errors] lettissimo Maestro, avendo voluto egli tra le altre fue virtù, per compimento della sua gloria collocarvi questa ancora del bel distaccamento dal mondo,e nell' istabilirlo mi disse, che lo faceva per prevenire la sua inevitabbile impotenza, ftimando , che il prevenirla fosse cosa più vantaggiosa , che d'effere da effas prevenuto per gl’esempj, che aveva offervati in alcuni , che quantunque decrepiti, e finemorati, con tutto ciò non vollero lasciare di fare il Medico' più per rendersi ridicoli appreffo li giovani, che punto non li compativano, che di effere a' suoi Infermi profittevoli, e con ammirazione di tutti ponevano à pericolo quel buon concetto , che avevano fino allora acquistato, per un tenuiffimo, c miserabbile premio, del quale non nc avevano alcun bisogno, per essere già divenuri molto ricchi.  Sicchè per isfuggire simili sventure vi converrà d'andar pensando in tempo opportuno, e quando ancora sarete con fegtimenti vegeri, à questo buon ritiro,  c fino  [ocr errors] la  e fino da quel tempo appunto, che.co“ mincierete ad alleggerirvi le fatiche, perche ciò, che la Prudenza allora vi consigliò fù tutto preordinato à questo effetto, e la prima diligenza, che vi converrà fare sarà di agiustare li yoftri affari domestici in quella forina appunto, che fogliono praticare quei saggi viandanti, che devono sempre stare allestiti per passare in remotislimi paesi, e che non possono indugiare punto, allorche sono ayyifati  per partenza. Questi tengono sempre pronto ciò, che fà di bisogno per il loro viaggio, si aggiustano le loro puntuali rimelle , e poi danno la sopraintendenza generale di ciò, che possedono à chi fedelmente lo custodisca, ed à tal ministero eleggono un proprio figliuolo,se farà prudente economo,e fenza vizj,altrimenti un'estranco di provata fedelcà, economia, e prudenza .  Dato un buon fefto , che voi averen te alli vostri affari domestici in tanto, che anderete vedendo se caininerà tutto à vostro modo , per poterlo emendare,  [merged small][ocr errors] [ocr errors] fe in qualche cosa difettasse, à fine di non avervi più da inquietare intorno ad csso , fupplicherete le virtù, che vi configlino , e preftino il loro ajuto, in questo penultimo paffo, che dovrete fare, le quali avendovi sempre affiftito per lo paflato, certamente che non vi abbandoneranno nel meglio, ed allora appun  che vi trameranno infidie la fastidiofaggine, l'impazienza, il sospetto, l'incostanza, l'amore proprio, con il soverchio timore di ciò, ch'è inevitabbile , vizj tutti, che aspettano il quando voi farete languenti non meno di corpo,che di mente, per dominarvi à fuo modo ; nel qual compaflionevole stato cosa fareste mai di buono, se non ayelte le virtù consigliere?  Queste divideranno facilmente il loro conGglio in sette parti; La prima farà il quando lo dovrete farê; La feconda il come ; La terza dovë ;La quarta con chi ; Quinta;con che preparamenti; Sesta, cosa dovrete allora fare; Ela settima, che cosa fuggire.  Primo,  ز  Primo ; circa al quando, vi dirà la Prudenza, che allora appunto facciate il vostro distaccamento, quando che proverete sensibile il peso degl'anni, che la memoria vi anderà notabilmente mancando, e che fentirete la fatica, benche allegerita, molto molesta , ed averete allora giusto motivo di pensare solamente à voi stessi , senza più indugiare à farlo.  Secondo, intorno al come lo doyrete fare, vi consiglierà la Giustizia di usare ogni maggior civiltà possibile in licenziarvi da tutti quelli, che si prevagliono di voi, con far loro conoscere, che fino à tanto, che avere potuto, non avete risparmiato nè fatica, nè incommodi per servirli bene, ma ora, che vi sono mancate le forze, il solo buon'animo, che vi resta, non lo credere sufficiente per li loro bifogni, e che li confoliate insieme, che avendoli già voi proveduti di soggetti non inferiori à voi , potranno essere da questi in avvenire affai bene affiftiti; Ne seguirannofacilmente varj atti di reciproca tencrezza, mà fate, dirà la sudetta virtù, che questi nè vi distolgano dalla risoluzione già fatta, nè vi pongano in qualche forta d'impegno d'averla in qualche loro occorrenza, ò imprudentemente da ritrata tare , ò mancar loro di parola.  Terzo, nè vi consiglieranno già , che vi scegliate qualche solitudine remota per fare il vostro ritiro, mà bensì un'appartamento assolato della vostras casa, nel quale vi sia minore strepito, anzichè vi dissuaderà la Prudenza, se aveste mai qualche pensiero d'allontanarvi dal. la Città, d'effettuarlo, per li seguenti motivi, perche ne' piccioli luoghi non potrete ritrovare tutti quei commodi, nè godere di quei vantaggi, che nelle fole città vi sono, dove il governo risiede, la civiltà, e la convenienza rcgnano, doveche al contrario questi mancano, ò almeno scarseggiano, oltre il correre rischio di penuriare di molte cose, s'incontrano facilmente de' disguki, à cagione della poca cognizione,   e civiltà, che ivi li suol praticare , & in  ispecie con quelli, che la dottrina, & il  valore l’inalzò, essendo perciò molto  dall'inciviltà odiaci, e benche Scipione  il Grande nel suo, non tutto volontario  ritiro in Linterno; (perche lo fece per  accomodarsi alla necelli:à di quei calun-  niosi tempi) avesse la sorte di essere stato  venerato da molti uomini facinorofi,che  ivi accorsero per ainmirarlo, è stato egli  quasi singolare in questo, mentre altri  furono assai diverLamente trattati, trà  quali basterà riferirne uno solo,mirabbi-  le     per   l'accidente, che vi s'incontro. Venne volontà nel secolo passato ad un' Officiale maggiore di guerra,doppo molsi illustri fatti felicemente occorsili, di ritirarsi alla sua picciola patria, già dia venvto vecchio, per godere ivi la sua quiete. Mà appena giontovi , che incon minciò ad essere deriso, e beffeggiato da quei rpstici abitatori; Ditali impropri trattamenti se ne rammaricava il valo, roso vecchio, mà per non prenderla con tanti, andava disimulando. Si suscita.  [merged small][ocr errors][ocr errors] tono in questo mentre alcuni principj di guerra, ed ecco all'improviso Inviati con sacchetti d'oro, che andavano cercando quel merito così vilipeso da quella rustica progenie, allora quel meritevole prendette spirito, e per mortificare li suoi persecutori fece spandere quell' oro alla vista di tutti, che ammirati attoniti, e confusi ebbero occasione di ravvederli del loro errore ; mà se quell' oro non compariva , il merito ivi non già risplendeva.  Mà perche avanzandovi nella vecchiaja non potrete sapere à che segno la vostra salute si di corpo, che di mente vi potranno reggere ; Quindi è, che  per compire faggiamente il corso di vostra vita, le virtù vi consiglieranno à sceglicre chi potrà essere à proposito per voi, allorche vorrete vivere solamente à voi medefimi, tanto in caso di felice, che di penosa vecchiaja , e facilmente yi diranno la Prudenza, e la Giustizia : fceglietevi å tal'effetto un Direttore spiricuale de' più dottia e discreti, che vi  COR  [ocr errors] conservi vivi li yoftri abiti virtuofi. Una amico fido, e prudente, che vi suggerisca ciò, che dovrete operare, caso che, ve ne dimenticaste , che sopraintenda.a’ vostri interessi,acciocchè non fieno trafcurati,per negligenza di chi li maneggia. Un parente amoroso, e disinteressato, per supplire all'amico, e dare anco soggezione à chi vi serve, ed un servidore abile, che vi allista con carità , amore, e discretezza, e questi non basterà , che yeli siate scelti, mà dovrete ancora mane tenerveli ben’affetti, altrimenti disguftandoli con voi , vi troverete intrigati a, e sappiate la cagione del disgusto de' trè primi, quale potria effere ; l’incommodo, senza loro utile, delle frequenti visite, e brighe continue per voi, mediante le quali annojari , fi potriano facilmente alienare da voi;mà per rimediare à quefto, non dovrete fare altro, che di fervirvi della potentissima efficacia di qualche cortesia usata loro si che, se ve ne farà d'uopo, cambierà in un tratto ogni più dura fatica in ispasso", ogni noja in  ز  piacere, ed ogni più grave disaggio in dilettevole divertimento ; caso poi, che non ve ne fosse molto bisoglio, diportandovi voi con esli grati , essi ancora verso di voi saranno più diligenti, aslidui , ed affezionati : Munera , crede, mihi placant, bomines  que, Deosque ; E renete pure per certo , che favolosi sono quei casi, che di alcuni Gentili fi raccontano, che tutto elli facevano per puro amore, e che l'incommodo maggiore degl’altri era da questi lo più ricercato; Mà però con il servidore abile, che dovrà stare affiduo con voi, per tenerlo contento, vi converrà praticare due modi, uno privativo, che consisterà in non maltractarlo nè con fatti, nè con parole, dovendo voi, che avrete bisogno di lui, acquistarvi il suo amore, e facendo voi diversamente, in vece di guadagnaryelo , più tosto lo perderefte, quando che ve qe portasse : E vero, che difettando egli, lo dovrete correggere, mà pero con maniera umana, con farglicapire'il suo fallo, non già con ingiuriara To, e caricarlo di strapazzi, perche venendo trattato da voi in tal guisa , cosa ne seguirà ? O che vi abbandonerà nel meglio, e voi come rimarrefte? O continuerà a fare peggio di prima, e voi cam fa avreste acquistato ? E l'altro positivo, che consisterà in fargli capire, che voilo amate di cuore, e non per solo vostro vantaggio , mà come fosse un vostro figliuolo, e che ciò sia, lo crederà allora appunto quando si vedrà trattato bene da voi, comandato con discretezza, c meglio di ogn'altro glielo farà capire , quando si vedrà regalato da voi con giudizio , e questo regalo non consisteria in altro, che di usargli un'amorevolezza pecuniaria , à proporzione del vostro potere, ogni anno nel vostro giorno natalizio,con promettergli negl'anni venturi sempre di raddoppiarla, e questa, con tutto che sia una gran cosa in apparenza, voi, che sarete avanzati negl’ anni, la potrete ufare con più generosità de' padroni giovani,che sperano di cains pare lungo tempo, & al servidore gli sarà grato à segno, che non lascerà cosa, che possa giovare à farvi vivere più luagamente, che non la procuri. Avrà fempre timore , che non vi disgustiare , che non patiate , & allora appunto lo avrete già interessato nella vostra vita, e nericaverete un'ottimo servigio.  pare  Quinto, oltre li preparamenti neceffarj già da voi fatti  per  sostentamento, e sollievo del corpo, vi consiglieranno facilmente, & in ispecie la Fortezza , à farne ancora degl'altri per l'animo, non meno necessarj de primi, e questi saranno di proyedervi di molta sofferen  ed ilarità, che facilmente ve ne bifogncranno , acciò non venga turbata la vostra bella tranquillità di animo, che goderere, santeche trà mali familiari dell'inoltrata vecchiaja yi fi annovera quello ancora della fastidiosaggine, e questa non con altro rimedio si puo curare  che con l'abbituara sofferenza ; E perche danneggiano ancora di molto pell’età avanzata la malinconia, & il  di  za ,  [merged small][ocr errors] disgusto; Quindi è, che per tenerli lone tani, vi è d'uopo dell'ilarità , mediante la quale solamente diverrete ad essi superiori.  Sesto , parerà forse cosa impropria à chi udirà , che voi come Medici  provetti possiate avere di bisogno allora del parere altrui intorno à ciò, che dovfete, ò non dovrete operare, mà fe ben rifletterà , che non mai fù nocivo ad alcuno il caminare con il consiglio della Prudenza, e della Giustizia in ispecie, cambierà facilmente parere , e tanto maggiormente, che niuno in caufa propria puol'essere competente Giudice e più precisamente in quella età, in cui tutto ciò, che abbiamo di meglio, allora languisce; Le virtù luderte vi diranno à tal proposito, che non crediate già,che il vostro ritiro abbia à servire per totale riposo del vostro corpo, 8c acciocchè se ne stia affatto ozioso, & infingardo, perche passereste in tal caso, da un'estremo vizioso all'altro, senza profitco alcuno, essendo questo egualmente nocivo  dell'  dell'anrecedente, perche, come ben sapete, consistendo la vita nel continuo movimento de fluvidi , che dentro il nostro corpo si aggirano , & ancora, che questo venga agevolato dalle pressioni musculari , sicchè ogni qualvolta cefferete di muovervi, non avendo tanta forza li muscoli, in istato di quiete , di propellere , neceffariamente seguirà , che detti duvidi lentamente scorreranno, e più d'ogn'altro ne' vecchi, impoveriti de' spiriti, onde in conseguenza ne verrà, che la vira iftelsa ne riceverà del danno notabile, mancandole ciò, che se le deve , per il suo più necessario prolongamento, oltre di che ne' vecchi cade un'altra necessità particolare di doversi muovere, & è, perche tendendo eli alla ficcità, li loro tendini, e legamenti, atti più dell'altre parti à contraerla , cessando di moverli si possono irrigidire à segno, che impediscano loro affatto il poter più camminare , conforme più chiaramente fi scorge in quei vecchi, che à cagione di qualche loro  [ocr errors]  indisposizione per lungo tempo forzata-  mente giacciono in letro, li quali, ben-  che abbiano superato quel male, che li  teneva al riposo, nel volere camminare   si accorgono di non poterlo più libera-  mente fare come prima. Il sudetto ritiro  dovrà servire bensì per riposo, e calma  della vostra mente, già stanca per li so-  verchi pensieri, la quale non dovrete',  nè potrete quietare con renderla affaito  oziosa , mà bensì con contracambiare   quei di già nojosi con altri più ameni , ! quei cotanto laboriosi, con altri, che  non la stanchino di vantaggio, mà più  tosto la ricreino, conforme in appresso  diremo.      Mà ritornando al moco , che vi  competerà di fare , questo sarà appunto  quello, (vi dirà la Giustizia ) che altrui  di età avanzata voi avrete consigliato,  cioè di farlo in tempi sereni, & aria ri.  scaldata dal Sole, non già irrigidita del-  la notte, & allora appunto, che il vostro  stomaco ayerà digerito il cibo, con que-  fta avvertenza di più, che avvedendovi di non potere continuare l'esercizio, a quel segno di prima, lo modererete, non tutto in un tratto, ma bensì à poco à poco, finche vi poniare in una regola di poterlo continuare, senza voftro disaggio, & à quel segno , che lo stimerete necessario , e ve lo permetteranno levostre indisposizioni, che soffrirete, & acciocchè sia continuato per quando non potrete uscire à cagione de' tempi fred. di ventofi, ò umidi,lo farete in casa. Solevano à tal'effetto una volta li vecchi praticare l'esercizio chiamato dell'attacco, che conGsteya in istringere con le mani un certo ferro foderato di corame, che era conficcato in due lati prossimi ad un'angolo della stanza, all'altezza di un'uomo, al quale attaccati , non solamente si distendevano , mà con maggior agilità ancora movevano faltellando li piedi, modo appreso forse da Eumene, che ritrovandosi assediato, per avere più agili li suoi cavalli, caso che gli fosse convenuto fuggire, in un modo assaiconfimile a questo li esercitaya, mà fù nel  fea  secolo passato già dismesso tal'esercizio,  con molti altri neceffarj alla salute,e non  se ne sà comprendere altra cagione, se  non perche, non erano commodi, stan-  teche strapazzavano il corpo', il che fi  congettura dal vedere , che da allora in  qua non si è aèreso ad altro, che à cerça-  re questo commodo, fe pure commodo   si potrà chiamare ; (soggiugnerà la Pru-  denza) ciò, che incommoda la salute ;  Commodo si potrà dire una carozza,che  posi shule Molle con cignioni lunghi, che  non isbarta punto, allorche le sue ruote  urtano ne' faili, per chi foffre il inale di  pietra nella vellica, per chi parisce bru-  ciori di orina , per una giovane gravida,  folita di abbortire, perche ò non posso-  no soffrire lo sbattimento, ò è loro no-   civo; onde :  conviene , che facciano conformc è loro   permesso; Mà per un giovane sano, à cui   lo sbattere gli conferisce alla salute, af-  sodandogli la sua buona complessione  commodo non si deve chiamare,mà ben-  si incommodo, perche presto glicla in-   [ocr errors][ocr errors][ocr errors] ز  [ocr errors] 0  el  [ocr errors] .com  commoderà. A questo proposito vi riferirò un caso terribile di un Cavaliere, il quale à cagione di propria commodità non moveva nè pure un dito, se non gli era accompagnato da chi lo serviva, fi faceva fino imboccare, quanto mai egli era commodo ; onde lo conduffe la sua pazzia à diventare un tronco, mercechè volendo una volta muovere un braccio, non lo poteva più fare,un piede nè tampoco , e come un ciocco gli convenne vivere, se pure quello vivere li  [ocr errors][ocr errors] poteva dire,  Dall'esercizio corporale ritorniamo à quello della mente, la quale, conforme dicemmo, non la dovrete stancare di vantaggio con cose laboriose ayendo voi à tal'effetto bramato, e procurato il vostro ritiro, mà nè tampoco converrà di tenerla affatto oziosa, acciocchè non ritorni à coltivare le specie antiche, non sapendo, che altro fi fare. Nel principio del vostro distaccamento, come vi suggerirà la Prudenzala terrete occupata in diverse cose, con il suo rin  par  [ocr errors][ocr errors] partimento dell'ore più proprie ad esse. Ne darete alcune agl'esercizj fpirituali à prò dell'anima vostra , secondo il configlio del vostro Direttore,qualche altra servirà per l'esercizio corpcrale, e le rimanenti alla quiete della mente faranno da voi destinate in due maniere , cioè, con leggere , ò sentirlo , e con il riposo; Li libri da leggere, proprj per tal'effetto, già ve li sarete scelti , allorche vi preparaste per il ritiro , e si può supporre, che saranno inorali, prediche, vite più esemplari de' Santi, e cose confimili, e se vi sarete serbato qualche libro Medico, questo facilmente non tratterà di altro, che del regolamento della vecchiaja, e del modo conforme si possa più agevolmente ella sopportare , & inoltrandovi finalmente nella penosa vecchiaja, non troverete maggior refrigerio, e sollievo, che di uniformarvi in tutto nella volontà di Dio, e se giornalmente farete qualche meditazione sopra la morte, vi recherà questa del vantaggio , perche divenendo perciò superiori  [ocr errors] ad effa, non vi potrà punto contristare, allorche da vicino la scorgerete venire, e tanto maggioripente se meditandola rifletterere, che se ne viene per togliervi dalle miserie, e collocarvi in un'eternità di bene, essendo voi vissuti con le buone direzioni delle virtù, non già con le lufinghe fallaci de vizj.  Settimo, finalinente, diranno le vir. tù , se volessimo rammentarvi tutto ciò, che non è convenevole, che ora facciate inolto averelimo da dirvi, solamente alcune cose vi avvertiremo, nelle quali potreste facilmente cadere . La prima delle quali sarà , ( se vorrete caminare con le buone direzioni della Prudenza ) che avendo voi una volta per giusti motivi risoluto di lasciare la Professione, non mai più dovrete pentirvenç, e ritornar di bel ouovo à profeffarla», se non in quel caso impossibile, che voi cựngiovenifte, altrimenti facendolo acquisterefte ritolo,ò d'instabili , imprudenti, ò per la meno di superbi, potendosi da ciò .cognetturare, che allora non lo facesteper impotenza, mà bensì per isdegno   concepito per non vedervi stimati à quel  segno, che bramavate di essere.       La seconda, se vi venisse mai volon-  tà di mutare, senza giusta, & urgentili-   ma occafione , il vostro già fatto tefta-   mento, mà solamente per motivo di me-   gliorarlo, che non lo facciate, vi coman-   deranno la Prudenza, e la Giustizia in   conto alcuno, mentre questo saria uno   delli maggiori infortunj , che vi poteffe   allora accadere, perche se quello , che   avrete fatto in tempo , ch'eravate con   sentimenti più vegeti, ora non è di vo-   stra sodisfazione , come potrà fodisfarvi   l'altro fatto da voi , dapoiche vi siete ri-    tirati, à cagione di debolezza , non nie-    110 di corpo,che di mente la quale entre-   rà prestamente, per essere in quella età   sospettosa nella casa della dubietà, mà    ritrovandofi ancora languida , e piena di   timore tosto le sembrerà un laberinto,   non sapendone rinvenire la strada das    uscirne, e perciò la sera penserà ad una    cosa, e depofta quella, la mattina ad un'   altra,  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] V 4  altra, oggi farà di un genio, e domani facilmente di un'altro, e durando per qualche tempo così incostante, non folamente si confonderà, mà s'inquieterà ancora ; onde quel tempo, che avevate dato alla calma del vostro animo , in questo modo glielo rubbereste per darlo alla vostra inquietudine , fenza ricavarne un minimo profitto, perche se pure giugnefte à fine di stabilire la vostra ultima disposizione, sarà questa assai peggiore della prima, e se non arriverete à compirla , l'inquietudini riccute, che giovamento viaveranno apportato ? E quanto dette virtù vi hanno ordinato, l'esperienza pur troppo l'hà fatto vedere, mentre chi nel suo ritiro hà avuto simile tentazione, non solamente è vissuto inquietissimo tutto quel tempo, che aveva destinato alla sua quietc, mà hà fatto una nuova disposizione del suo avere così intrigata, così confusa, che hà dato di fe molto da dire . In niun tempo si deve andare in traccia dell'ottimo, essendo questa distruttivo del bene,  mà  [ocr errors] 1  mà in questo stato meno d'ogni altro  nel quale è molto espediente di dare  orecchie à ciò, che si legge in Tacito,  ed è : Confilium , cui impar erat fatu per-  mifit ; E certamente, che quando siete  meno capaci di risolvere, è pur meglio,  che lasciate correre ciò, che faceste di  vostro genio quando eravate più atti,  che di mutarlo divenuti meno sufficienti  ancora ad emendarlo.        Vi pregiudicherà per terzo ancora   di molto la troppa curiosità, & in ispecie   de fatti domestici , come ben vi avverri   tirà la Prudenza, perche più d'una vol-  ta sentirete cose tali, che vi turberanno   notabilmente la vostra quiete,& affinche  dal non ricercarli fi scanzi ogni pregiu-  dizio, fate., che quel vostro amico, quel  vostro parente, de' quali da principio   parlammo, gli diano il suo rimedio, ci   pensino essi, che meglio di voi lo faran-  (no , e senza inquietudine vostra. E caso  poi, che la necessità portaffe di farvenc   consapevoli sfuggano per quanto si può  di dirvelo di sera , per non togliervi   0  [ocr errors] il riposo della notte.  La quarta intorno à ciò, che dovrete fuggire in caso di qualche incommodo abituato, che da soverchi anni procedere , la Giustizia, e la Temperanza vi diranno : Ricordatevi, che una volta in altri non l'avreste curato, mà folamente mitigato; onde non facciate, che la molestia , che vi recaffe vi stimoIalle ancora à divenire carnefici di voi medesimi , con pretendere di farvelo curare, conforme à più di un Medico avanzato negl’anni è accaduto , per esserfi voluto esporre al taglio della pietra , quantunque ad altri così avanzati in età non l'averiano consigliato.Questa penfione , che Iddio hà posto sù il gran benefizio della lunga età che vi ha conceduta , vuole, che da voi fi paghi, altrimenti il fudetto benefizio mancherà prestamente 5 Limnolesti pruriti esterni , li bruciori d'orina , le vigilie frequenti, che bene spesso ne' vecchi accadono , fapete pure, che non vanno curati con rimedi eradicativi, mà mitigar ben fi  de  [ocr errors] 1  [ocr errors][ocr errors] devono con cose anodine, trå quali il  latte , amico de vecchi asciutti hà il  primato , e per essere ancora egli il pris  mo querimento, che si prende, non è  disdicevole , che non venendo à cagionc  del soverchio sonno ritardato, sia ancora  Pultimo, conforme praticò con profitto  Fabio Mafsimo nella sua età decrepiti.       Per quinto avvertimento vi con-   verrà stare molto circospetti per non   cadere in certi errori, che li vecchi li   stimano sussidi dell'età cadente, ftante-  che provando languidezza di forze fi,   portano con desiderio (moderato à pre-   valerli de’yini più generosi, e di altri   più fpiritosi liquori , intorno a' quali vi  ricorderà la Temperanza, che sapete  pure quanto di male apportino alla in-  languidita tefta , all’inaridite viscere,  e quanto di solfo communicano alli ni-  trofi fluvidi, ed in conseguenza di che   danno essi siano , che voi ben lo sapete,   onde in vece di questi vi servircte più   ļosto del perfetto cioccolato , de' buoni   brodi, de' vini gentili, e delicati, c di altri liquori consimili, presi con moderazione, e con questa distinzione , che effendo taluno di voi grasso, & avendo disposizione al soverchio sonno prenderà spesso il cioccolato la mattina, nel doppo pranzo , ò di sera il caffè , ò il the, è la bollitura di salvia , sc poi sarà dimagrito , e sottoposto à vigilie, las mattina frequenterà più tosto un brodo con la fetta del pane ivi bollita, e del cioccolato se ne servirà qualche volta doppo pranzo immediatamente, conforme ancora in vece del thè, e del caffè ricorrerà all'uso della bollitura dell'orzo abrustolato, resa grata con qualche odoroso liquore, all'emulsioni fatte in brodo , con semi di meloni , in particolare fe farà molestato da pertinaci vigilie.  Per fefto , fuggite ogni sorta di be vanda gelata, vi diranno la Fortezza, e la Temperanza , quantunque la moleIta fete, che alle volte suole travagliare li vecchi vi rendesse ansiosi di effe, perche sapete pure quanto danno vi po  triano  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] triano recare, & in vece di queste servis  teyi delle bevande attualmente calde ,  che vi smorzeranno con più facilità la  sete per quella cagione à voi nota, che  sciogliono li liquori caldi più facilmente  quei fali, che titillando le papille del  gusto non solamente le costringono, mà  recano ancora aridità à tutta la mem-  brana interna del palato , & esofago in-  crespandola à guisa di carta pecora, e  questi con il liquore caldo vengono più  facilmente sciolti, & ancora le parti ina-  ridite con più prontezza fi distendono,  doveche dalle gelate ne segue l'opposto,  e per questa cagione tali acque sono  consimili à quelle , che   Quò plus sunt potæ , plus fitiuntur        aqud;  E perciò non si sà capire per qual cagio-  ne in particolare ne' vecchi sia stato dif-  messo il bevere caldo tanto praticato  dagli antichi Romani , e tanto maggior-  mente, che dall'abuso di dette acque  gelate ogn'anno ne seguono delli casi  funesti, coine ben sapete ; Dal soverchio   bere,  7  bere, con tutto che non sia gelato, ve no asterrete ancora,  effendoyi noto quanto di male possa apportare alli stomachi debilitati dagl’anni, potendo non sólamente inlanguidire li fermenti digestivi, mà opprimere insieme preventivamente quel calore, che stà per finire. L'esperienza dimostra chiaramente , che le piante annose inaffiate à suo dovere si conservano, mà soverchiamente più preftamente mancano,  Per settimo, v'avvertiranno la Prudenza, e la Giustizia di non porvi in una regola rigorosa di vivere, con il motivo della moderazione del vostro esercizio consueto , perche la natura già affuefatta da tanto tempo à quella quantità di nutrimento, vedendolo tutto in un tratto notabilmente scemare ne riceveria incommodo considerabile, costando pur troppo per esperienza , che alcuni vecchi,li quali l'hãno voluta tanto ristrignere preltamente sono mancati. Quello, che dovrete praticare sarà di guardarvi da certi cibi di dura cozzione, di cattiva  qua  qualità atti à poter nuocere , per altro nella quátirà l'anderete moderando con occasione, & avyedendovi di non poterla ben diggerire, allora l'anderete scemando, mà però lentamente, accioca chè non riesca molto fenfibile derta mutazione, perche è cosa evidente, che allora appunto, che i vecchi allentano di mangiare , poco resta loro di vita.  Peggiore di questo ancor saria, se cadefte in quella opinione tanto dangosa , che per vivere fano sia neceffario di prender cose, che non facciano escrementi, mà che con l'odore delle vivande, con qualche brodo di sostanza, si possa meglio , e con più salute campares di quello si faccia con tante altre cose piene di parti escrementose, perche la Datara vuole fi camini per le sue strade ordinarie, vuole da tutti egualmente efiggere ciò, che brama . Quell'incommodo, che vi reca nel restituire le feccie ella sà per quali fini lo faccia , non è à caso. Non n'elimè già Alessandro Magno dal suo fetore, conforme che li suoi Cor  teg  teggiani adulandolo dicevano , perche ella non sà cosa sia signoria, e grandezza fà che la morte (a) Æquo pulsat pede pauperum tabernas,  Regumque Turres.  Per tre gran benefici la natura volle , che vi fossero li tanto odiati escrementi: Primo, perche dentro di noi si facilitassero mediante queste tante digeftioni, che vi si fanno , conforme l'esperienze chimiche ad evidenza lo dimostrano, in tante digestioni fatte con il Fimo, e da quì rifletcete quanto s'ingannino coloro, che procurano anziosamente à forza di tanti reiterati purganci star-, ne senza; Per secondo, che nell'uscire che fanno impari à conoscere ogn’uno se stesso, à che segno debbasi insuperbire chi dentro di se conserva fimili fetidillime materie; E il terzo per convincere chi non credesse il primo, con farlivedere quanta fecondità questi rechino alli terreni sterili, che colsuo beneficio divengonono fertiliffimi , talche erroneaè à priori quell'opinione di potersi nudrire con cose, che non abbiano escrementi, conforme ancora tale à pofteriori si dimostra per essersi veduto chi l'hà voluto praticare divenire un marafino, che in breve fini i suoi giorni.  Per ottavo , & ultimo finalmente, ch'è forse il più forte di tutti, vi diranno le virtù : Guardatevi da quelli trè gran persecutori de' vecchi, che sono, la caduta, il catarro, & il corpo soverchiamente lubrico ; La caduta , voi sapere molto bene, che per due gran motivi è nella vecchiaja più dannosa, che in altre etadi, sì per essere li vecchi di mi. nor vigore, e li più facili à terminare la lor vita , ritrovandosi arrivati allo scorto di effa , sì ancora, perche cadendo come un tronco ciò, che viene loro percoffo riceve colpo pieno, non venendo riparato dall'agilità delle mani, nè dallo scanzo della vita , come segue ne' giovani di maggior agilità di loro, onde per evitare una simile fventura dovrete andare sempre con il vostro bastone, ne  fa  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] farere come alcuni, che l'abboriscono per mofrar braura , quando braura più tosto sembreria l'ayere in mano il bastone di comando"; onde non senza mia stero fù chiamato da’ Latini il bastonc della vecchiaja Scipio, & il prendere Sufcipio.  L’occasioni di prendere li catarri à che segno le dobbiate fuggire, l'efperienza altrui ve ne fece maestri, (vi suggerirà la Temperanza) mentre osservaIte, che chi li espose all'aria rigida, chi ftiede in luogo soverchiamente caldo, chi disordinò in cibi grossi, come sono il formaggio, legumi , & alrre cose consimili furono da essi moleftati, converrà dunque à voi ancora fuggirli, se non avrete quell'erronea massima, che ebbe quel Medico, che disordinava molto, sù la fiducia, che niuna cosa gli potesse nuocere, dicendo, che li Legislatori non sono soggetti alle leggi, mà gli convenne soffrire la morte immatura per questa sua falsa credenza; e finalmenre quanto dobbiate stare cautelati, per non incor  rere  1  rere nella foverchia lubricità di ventre,  non occorrerà vi sia suggerito, sapendo i da voi medesimi, che l'abuso de' dolciu  mi, cde'frutti producono fimile indifposizione. L'irascibile ancora spesso in, citata con l'abuso de' cibi caldi per accrescere pungoli alla bile , quanto la poffino rendere frequente nell'età avanzata lo sapete assai bene, con tante altre cagioni, che farà superfluo viliano ram,  mentate. i  Essendo voi dunque nel corso della vostra vita camminati sempre con le dii rezioni delle virtù, avete da sperare fer  mamente di potere incontrare una gloriosa morte, perche esse in quel vostro  estremo bisogno, più che non fecero in é altri,vi assisteranno; La Prudenza vi farà  soffrire ciò, ch'è inevitabile, con animo  generoso ; La Giustizia sperare quel pre7 , mio, che sarà dovuto alle vostre gloriose  opere ; La Fortezza vi darà cuore da refiftere intrepidi ad ogni patimento più duro ; e finalmente la Temperanza vi consolerà, con farvi vedere, che trà  X 2  quel  [ocr errors][ocr errors] ز  quelli molti , che vissero, pochi ne giunsero all'età voftra ; onde voi, che avrete sempre dato saggio di tanca moderazione, come potrete non contentarvi di essere già vissuti à bastanza, potendo con intrepidezza dire :  Vixi, quem dederat curfum for  tuna peregi; Sicchè felice sarà la vostra morte , & invidiabile da tutti , nè crediate che fiano per abbandonaryi queste doppo morte , perche allora più che mai saranno inseparabili da voi,posciacchè quando ancora eravate viventi si poteva dubitare, che potefte essere, ò nò, prudenti, giusti, forti, e temperari, perche in realtà potevate dare occasione à dette virtù d'alienarsi da voi, mà doppo morte, che tal cagione finì, non si potrà più dire di voi, che prudenti, giusti , forti, e temperati non foste, ficchè resteranno allora da voi eternamente inseparabili le vostre virtù. E chi mai rimarrà doppo morte più glorioso di voi? forse il ricco? questo no, perche le sue ricchezze già  al  [ocr errors] Ja morte,  allora passarono in altri, non sono più  fue; Forse il potente ? nè anco, perche  la sua grandezza è rinchiusa allora den-  tro la sua urna , & il suo potere è diven-  tato un niente; Forse chi ottenne fingo-  lari prerogative di natura , come sono  la somma bellezza, salute , e robustezza  di corpo? questi nè tampoco, perche  quelle già furono, e non sono più doppo              restando un nulla , giacchè :   Quod fuit, non eft pro nihilo reputatur .  Solamente dunque chi vive seguace del-  le virtù può sperare di ritenere ancora  per se doppo morte quanto gadè in vi-  ta, e fù suo proprio , con tutta quella  gloria imınortale, che acquistò chi visse  virtuosamente, de' quali parlando Ip-  pocrate (*) così diffe : Quique hac viâ  incedunt gloriam tùm apud                      majores , tùm  apud pofteros fibi comparabunt, ch'è quan-  to dovevo mostrarvi.       Ed eccoci giunti al fine della festa  Giornata, e convenevole sarà di ripo-   sarci,farci, in venerazione di chi creò l'Universo, giacchè egli ancora requievit die Septimo ab universo opere , quod patrarat , do benedixit diei feptimo , & fanétificavit illum  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][merged small] X 3  (-) De decenti babita ,  è à priori (2) Horat.Carnr. odc 4   fa.  dicom (e) Hipp.de Pracepticx.   fo     quan   (1) De pracept:  fione  [d] Epidem.lib.5. @grot.28. ex Valefio. [e] Epid.lib 5. ægrot.7. (f) Epidilib.5.&gt.g.  ap(4) In epift. Abderit. (r) Epift.6.  rano  (d) In Comment Hipfoer. de Fraft.  fers (b) 18 epiß. Damogit,  alla (a) In epif Philop.  K  per(a) In lib.præcepto  ch' Th. In lib.de pracept:  fprone [b) De preception.   Set   era (b) In 2.epiji. ad Domeg.  1  F 3  i   [ocr errors] fare  1  (h) Hippocr. de veteri Medico  C2  pra(c) De decerti babits.   In.  Morale,  DE'FIGLIUOLI  e Medica DEL DOTTOR DOMENICO GAGLIAR DI  Divisa in due Parti. PARTE PRIM A  Sopra l'Educazione Morale. DEDICATA ALLA SANTITA'DI N.S. INNOCENZO XIII,  Neglectis urenda filix innascitur agris  Hor. Sat. 3. lib. I.                  In ROMA, MDCC XXII.  Nella Stamparia di Pietro Ferri alla Minerva.   Con licenza de'Superiori .  [blocks in formation] [ocr errors] sien L Titolo gloriofifsimo di Padre Universale , it quale viene fo  lamente attribuito all'Altissimo Merito di Voltra Santità , mi rende più  a 3animoso à consagrarle la prcfentc Opera sopra l'educazione de'figliuoli Morale, e Medica, con ferma speranza , che Ella comc zelantissimo amatore del buon costume non solamente la riceverà sotto il potentissimo fuo patrocinio; ma le farà di vantaggio godere gl'effetti della sua somma clemenza ; mercecche non permetterà già qucsta, che rimanga infruttuoso ogni qualunque suo documento profittevole allo stradamento de'figliuoli per farli divcnire amanti dellc virtù, cd aperti nemici de' vizj, essendo tal desiderio appunto il maggiore che possa avere un'ottimo Pan  dre;  mente dal principio del suo Gloriofiflimo Pontificato ha fatto la S. V. colle operazioni più gloriofe conoscere al mondo tutto; vedendosi tanto il suo Paterno Zelo, quanto la sua somma beneficenza indiri, zati folamente al giusto, ed all' onesto, gastigando i 'rei , c premiando i meritevoli: conforme appunto costumarono tanti Santillimi Pontefici suoi Antca natì di gloriofiffima memoria. Talmente che l'Eroiche Virtù in V. Beatitudine essendo ereditarie, si trovano profondamente radicate,e queste di fimin le natura debbono neceffaria,  men,  a 4  zarsi, seppure l'ottimo potranno sormontare. i Nè lì veggono nell' Antichissima , c Nobilissima Famiglia de Conti ereditarie l'eroiche virtù dc'suoi Maggiori nei foli Sommi Pontefici ;. mentre risplendono questo ancora , in tutti gli altri, c. con applausi universali; cssendosi veduti do. po la dcgnissima esaltazione di V.B. al Trono Pontificio, nc' più a Lei congiunti di Sangue la medesima nioderazione di animo, ed affabilità princicra ; assegno chc,non senza ammirazione,fan ben conoscere a tutti, che le presenti felicità non han  na  a gli animi generosi, e forti, in cui regnano abituate l'Eroiche Virtù.  In tempi dunque felici, o fortunati,ne'quali la verità svelata pud comparire avanti al Principe , godo la forte di presentarle prostrato à Santissimi Piedi di V.B. e consagrarle inficmc qucfte mie fatiche, diret. te non ad altro, che al publico bene; mostrando queste a Padri di faniglia,non folamente l'obbligo loro, ma cziandio il modo più facile d'indirizare benc i proprj figliuoli, affinche non divengano elli viziosi per. turbatori della publica quie  te.  ritevole dell'efficace Patrocinio del Principe, essendon'egli di essa vigilantissimo Custode: Contribuendo dunquc alla felicità del Principato la buona cducazione de'figliuoli , como cagione della publica quicte; affinchè là S. V. possa godere tutta quella lunga serie di anni felici , che ardentemente le bramo con ogni maggiore offequio la supplico à volerlo rendere degno del suo Supremo Patrocinio, potendo questo accrescere alle sue prove, e ragioni momento di forza bastevole a renderle più convincenti nel ripulire gli animi rozi,dano, e baciandole i Santillimi Piedi con profonda venerazione mi umilio.  Di Voftra Beatitudine  Omilifs,e fedeliss. Suddito  Domenico Gagliardi.  AL  C  On rilevanti motivi ho intrapre  so lo scrivere sopra l'Educazione de' figliuoli : primieramente, perchè leggendola Sacra Scrittura ho con chiarezza conosciuto l'obbligo grande col quale da essa viene aftretto ciascun Padre ad educar bene i propri figliuoli; ordinando l'Ecclesiastico al 30. Curva cervicem ejus in juventute, fu tunde latera ejus, dum infans eft, ne forte induret, Ego non credat tibi, Er erit tibi dolor anime . Doce filium tuum , E'operare in illo , ne in turpitudinem illius offendas; e trovandomi molti figliuoli era anch'io compreso nel numero di questi . Incominciando dunque a cercare qual modo foffe il migliore , per sodisfare a’mici doveri, benc mi avvidi alla prima, ch'era d'uopo conosce  per congetturare meglio ove le proprie inclinazioni li aveffero portati . In feguela di questo considerai, che indarno si sarebbe affaticato ogni qualunque ben’esperto educatore, se l'educando difetrasse nella esatta regola del vivere, quantunque fosse dotato dalla natura di un'ottima indole ; mercecche il nudrimento , eccedente in quantità, e qualità, potrebbe cagionargli internamente tal moto inordinato negli spiriti, che fosse capace di togliere alla sua mente quella limpidezza neceffaria a chi ha d'apprendere la buona educazione .  Si avanzò più oltre la mia mente coi suoi pensieri, cominciando a meditare se co gli ajuti medici, allorchè già introdotto negli educandi l'accennato interno sregolamento, si fosse potuto questo calmare; c con molti lumi ricevuti da Ippocrate, ove tratta de  Aere  Aere , Aquis , EX Locis , arrivò a comprendere, che potevano queste giovaredi molto in tale occasione.  Accertatomi per le fudette rifleffioni, che l'educazione de' figliuoli poteva trattarsi da un Medico provetto, appartenendo appunto ad ello più che ad ogni altro il conoscere i temperamenti, donde nascono i naturali, la regola del vivere, ed il modo di calmare gi’interni moti inordinati de’fluidi, mi accinsi a tale impresa, non potendomisi addoffare da critici, che io abbia contravenuto al documento, che insegna Orazio nella sua Arte poetica a chi brama di scrivere con profitto, cioè:  Sumite materiam veftris qui fcri  bitis æquam  Viribus , & versate diu quid fer  re recufent,  Quid valeant humeri. E per corrispondere con attenzione,  grandezza dell'argomento intrapreso, formai alla prima la seguente partizione di effo.  Divisi primieramente la presente Opera in due parti, cioè in Morale, c Medica, affinche con facilità maggiore ti riuscisse di apprendere quanto scris vo trovandolo non confuso.  Nella prima Decade troverai descritti molti avyertimenti, che dò, acciocche chi voglia accasarsi; possa provederli di ottima moglie; nè ti paja ciò fuori del nostro proposito ; perchè se non si abbatcerà in una moglie prudente, ed onesta , duc gran mali riceverà l'educazione de' suoi figliuoli; il primo de'quali sarà ereditario dicendol’ ArioIto:  Di vacca nascer cerva non vede  sti, Ne mai colomba d'aquila, nè figliaonefti E l'altro poi come potrà queste ajutarti ad educarli bene , fe non sapràche cosa sia la buona educazione, per non averla mai in se medesima sperimentata? Laonde conviene conchiudere, che la base fondamentale della buona educazione consista in iscegliersi una ottima consorte; ed avendola trovata, fi danno parimente molti documenti utili per mantenerla costante nel suo buon costume ; ed inoltre si mostra di quai modi si doverd fervire avendo sbagliato alla prima nel provedersi di effa , affinche molto minori divengano i suoi infortunj.  Nella seconda Decade principia. 1'Educazione Morale de figliuoli; ed in questa scorgeranno i Padri di famiglia quanto siano tenuti d'invigilarci, e quali inconvenienti nascono dalle loro  era,  [ocr errors] zio la similitudine de campi, nc'quali fa vedere di che pregiudizio sia questa, dis cendo:  Neglectis urenda filix innascitur  agris E che le Madri non debbansi abu, fare dell'amore verso i figliuoli, essendo questo trascorso molto nocivo allawi buona educazione, a segno che, se molti non avessero avuto l'asilo materno per esimersi da gastighi, averebbero depofti quei vizj,percui poscia divennero infelici . Troverai parimente documenti facili, e profittevoli, de quali potrà ogniuno feryirsi sccodo le diverse loro inclinazioni per educarli. E perch'è il compimento della buona educazione l'istradarli a ciò, che doveranno applicarsi, quindi è, che si tratta ancora del modo, col quale si doveranno provedere i figliuoli secondo gl'impieghi, de  que  quali si conosceranno meritevoli ; e dandosi il caso per lorosventura, che i genitori morissero, trovandosi elli di tenera età, si propone ciò, che pare conveneyole a farsi in simili calamitose cótingenze:e' per non lasciare poi in abbandono i poveri, che non ponnoricevere tutti quegli ajuti da Macstri conforme possono avere i figliuoli de'bene Itanti, fiè pensato anche ad essi per dare un ripulimento più universale contro vizj,essendo tal semenza in tutte le condizioni degli uomini perniciofiffima per la Republica.  Quattro sono gli interlocutori ideali della presente opera : Sempronio giovane molto accorto, il quale brama d'istruirsi; Mecenate , e Publio prudenti direttori, ed il Medico provetto , per dilucidare alcune cose appartenenti alla Medicina. Mi fono servito di Publio ammogliato per la sperienza grande,  chc  che si trova colui, il quale per molti an ni è vivuto in tale stato: di Mecenate sciolto da tal legame, periscoprire quel di più,chenon può eslere noto, a chi hà moglie,rimirando le cose più sincere chi si trova in disparte, enon ha abbagliato la vista dalle proprie passioni.  Inoltre raccontando Publio cioca chè costumavası fare in tempi meno rilassati, farà maggiormente conoscere la differenza de'correnti, & additerà ancora il modo, che si potrebbe tenere per emendarli,quando questi discordafsero molto da quelli . Nè potrà dolersi alcuno di quanto io con tutta sincerità procuro di darti a notizia; essendoche conforme il Medico non può trovare il rimedio opportuno al male se non forma l'idea giusta, con esaminare esattamente la natura, cagione, e gli effetti di esso, così ancora nel ritrovare isimedj ai vizj, che sono mali dell'animo  b 2 caca  [ocr errors] è necessario sapere precisamente la natura, le cagioni, e li cattivi effetti di esli ; oltre di che, non parlando io in particolare di alcuno, ma solamente in  generale diciò, che è detestabile, non si potrà dolere di me se non chi da se medefimo conoscerà d'essere macchiato di tali difetti,come a tale proposito disse S. Ambrogio ne'suoi serm.pag.102. Ego non de omnibus loquor Etc. ego neminem nomino : conscientia fua unumquemque conveniat.  Averei potuto ancor darui la feconda parte; ma per maturare meglio alcune cose contenute in essa ci è d'uopo di maggior tempo, c per iftabilirle ancor con provo più convincenti; ti baa Iti per ora un picciolo abbozzo di ella affinchè poffi da questo comprendere il progresso da me tenuto per compire una educazione più generale . Quattro sono i punti Medici prinche convenga nel tempo, che sono già  cipali, che si tratteranno nella Decali  de terza, in ordine alla buona educazione; il primo fiè quello , che deesi fare per vantaggio di essa, prima di concepire figliuoli: Il secondo, cioc  [ocr errors] in  ito lif  [merged small][merged small][ocr errors][merged small][merged small] per cola  [ocr errors] concetti, e dimorano nell'utero materno; il terzo che far si debba, dati che sono alla luce, e finattanto, che dura la loro pucrizia: Il quarto finalmente, ciocche convenga allorchè sono in età, nella quale dee in effi manifestarsi l'uso di ragione , indugiando questo.  Nel primo si farà vedere assai difficile il potersi avere figliuoli di buona indole, e docili , se tra marito, e moglie regneranno continue discordie; se faranno l'uno, o l'altra di essi dediti all'ubriachezza, ed alla crapula; con dimostrare loro donde ne provengala cagione; oltre le sperienze dimostrative di ciò.  b 3  Nc  [blocks in formation] [ocr errors] Nel secondo, che non debba una deviata madre tenere la medesima vita, che faceva , prima di concepire; con mostrarle ancora gl' incomodi che può ricevere ella medesima, ed il feto, che porta riell'utero, per tal cagione, e quanto possa venire danneggiata la buona educazione da questo.  Nel terzo si farà conoscere , dati alla luce, di qual latte debbano nutrirsi, e qual regola in cffi debba tenersi, allorche saranno slattati, per deprime. re quel principio , che si scorgesse avvanzato in loro a danni della buona educazione; e qual cuftodia abbia d'aversi di esli , affinche non divengano di cattiva complessione, la quale sarebbe molto pregiudiziale alla buona educazione,  E finalmente nel quarto , vedendosi questi ne' buoni documenti morali non fare progressi, fi esamina sela  sero avere pofsanza tale da deprimere, o innalzare alcuni principj in esli, o foverchiamente assottigliati, o più del dovere sopiti; mediante i quali ne nascesse ostacolo alla mente nell'apprendere, e ritenere i documenti necessari, e questo sedebba farli con ajuti più efficaci mostrandoci anche Orazio, che Incultæ pacantur vomere sylve.  Nella quarta Decade poi troverai dieci ragionamenti sopra i vizj, e le virtù, con esaminarsi ancora ifrutti di ambidue ; e servendo questa come di una appendice all'opera, goderà il vantaggio di efsere trattata con ragioni, e documenti filosofici, medici , morali, e naturali, secondocheayerà d'voро  di essi ; & intanto si sono queste materie poste nel fine , per non dilungare troppo i ragionamenti, potendo ciò renderli tediosi; ed essendo per altro  neceffario il farc: ben comprendere a tutti quanto di buond, o cattivo nasca dalla buona, o cattiva educazione; doveva questo non trattarsi solamente di passaggio, conforme si era già fatto nelle antecedenti conferenze; ma farfene bensì particolari ragionamenti a parte per dimostrarlo con più di chiarezza, potendone da ciò risultare un infinito bene; conciosiacosache fàconoscere chiaramente il nostro Ippocrate nella risposta, che diede agli Adderiti, essere feliciquei Popolizi quali ben sapeano, che la loro sicurezza non consisteva nelle alte torri,cd in altre materiali fortificazioni;mà bensì nella bontà de Citradini,e ne'loro prudenti consigli:spiegandosi ivi : Beati profectò funt populi , qui sciunt bonos viros suaesse munimenta, nonturres,neque muros, fed fapientum. vi. rorum sapientia confilia ; É venendo interrogato Socrate nel convivio de'sette  fa  fapienti di Platone, qual fosse la più ben munita Città, egli rispose : Que bonos viros habet . Quale la più felice : In qua præfe&ti focietate conjunguntur: E finalmente qual fosse la migliore di tutte, egli disse: In qua plurima virtuti premia proposita sunt . Nè può di ciò dubitarsene, insegnandoci l'oracolo della Divina Sapienza al 6. Multitudo fapientum fanitas orbis.  Spero finalmente, che saranno ricevute queste mie fatiche con animo benigno da quei, che sono amanti delle virtù, e se faranno vilipesc da chi ha già fatto l'abito di āteporre i vizja queste,verranno da essi più costo a loro mal grado onorate; riputandole di pregionó dissimile a quelle cose solite da essi a pofporsi; mi basterà, che fiano grate a chi possiede il buon costume, ed utili a chi brama di acquistarlo, perchè gid sono divenuto capace , che nel mondo erunt vitia conec homines; con questa diferenza solamente del più, o del meno,nè io pretendo di vantaggio. Vivi costante nel bene operare per continuare ad essere felice, e far conoscere agl’infelici viziofi colla tua tranquillità di animo meglio le loro mi  serie.  Si videbitur Reverendissimo Patri Sacri Palacii Apoftolici Magiftro.  N. Barcbarius Episc. Bojanen. Vicefg:  APPROVAZIONI.  Etta, è considerata del si  gnor Dottore Domenico Gagliardi , intitolata l’Educazione de figliuoli morale ; o medica ; per commissione dei Padre Reverendiffimo Gregorio Sel. Seri Maestro del Sagro Palazzo Apoftolico; non ci hò trovarà cosa vervna , chic fia contraria alla Fede, o clic offenda i buoni costumi . Con verità bensi poffo; c debbo attestare; che una tale opera per mio sentimento è degna di uscire in luce, perchè oltre l'effere or: nata di scelta crudizione, e di soda dottrina ; può essere molto fruttuosa ; ed al publico, ed al privato, spiegandosi ia essa con dotta; e giudiziola chiarcze  [ocr errors] za la maniera di ben educare la prole, affare di somma importanza , come è ben noto a chi non hà cicco l'intendimento, ed offuscata la ragione. Cosi ne giudico ; c francamente mi persuado, che altrimente non ne giudicherà chiunque col leggerla dalla forza del vero G conoscerà obbligato ad approvare con giusta lode il zelo ben commendabile, e con eso l'erudito , e saggio faperc del chiarissimo autore, che per la publica utilità non hà ricusato di addosCarG acl colmo delle sue Mediche applicazioni una cale fatica, che ben lo palesa non meno versato negli studi più propri della sua professione, che negli altri, per cui sono degnamente accreditati i più celebri per fama di erudizione.  Io Fra Tomaffo Maria Minorelli de'Pre  dicatori Maestro di Sagra Teologia, « Bibliotecario Cafanastense  Per  P  Er commissione del P.RñoGregorio  Selleri Macstro del Sagro Palaze zo Apostolico avendo letra , e confiderata l'opera dell'Eccellentiffimo Signor Doctor Domenico Gagliardi , intitolata L'Educazione de figliuoli morale,e Medica, non avendo trovato nella medesima mala fimc repugnanti alla nostra Santa Fede, ed alla bontà de costumi, nè discordanti da i buoni fondamenti della nostra Professione di Medicina la considero degna di publicarli con la Stampa questo dì 20. Gennaro 1722.  Michelangelo Paoli  IMPRIMATUR.  Fr. Gregorius Selleri Ordinis Prædica  corum Sac.Palat. Apoft. Magift.  Delle Conferenze,  INTRODUZIONE ALL'OPERA,  Pag, į DECADE PRIMĄ  CONFERENZA I. Sopra l'elezione della Moglie , e sue condizioni più essenziali.  IS CONFERENZA II. Sopra l’età più propria, epro.  porzionata di accasarsi ; e quale sia svantaggio maggiore, farlo prima del tempo convenevole, 9 nella vecchiezza :  33 CONFERENZA III. Dove la mostra,in che cose faa  esenziale l'uguaglianza nei Matrimonj; e quali jvantaggi nascano dalle disuguaglianze in queAte.  53 CONFERENZA IV. Sopra gli antichi costumi, pras  ticati appreffo alcuni Popoli per la generazione ; ę se sia più vantaggioso lo scoprire scambievolmente i propri  , corporali difetti , prima di sposarsi, o l'occultarli.  77 CONFERENZA V. Nella quale si mostra , in che modo si maritino le belle , le ricche , ę le deformi  quantingue povere. CONFERENZA VI. Nella quale si esaminano piut  distintamente i pregiudizi, che risultano dai matrimonj fatti senza l'intervento della Pruden74.CONFEREOZA VII. Sopra i difetti , e le virtu delle donne.  253 CONFERENZA VIII. Come si debba regolare l'uomo colla moglie scelta di ottime qualità.  188 CONFERENZA IX.Come si debbano regolare i saggi  mariti con le mogli imprudenti , e viziose . 213 CONFERENZA X. Sopra i ripiegbi prudenziali ,  che debbonsi prendere in diverse occorrenze dalle  mogli saggie , incontrandosi in viziosi, ed indiscrefi mariti,  254  DECADE SECONDA  Sopra l'educazione Morale de'figliuoli, CONFERENZA I. Nella quale si mokra, che co  Ta sia edncazione , cui appartengo piid di ogni altro; e sefia necessario luogo particolare, ove debba farsi .  301 CONFERENZA II. Intorno a quello , che debbas  farsi da Genitori per educar bene i figliuoli . 323 CONFERENZA III. Intorno all'uffizio, e qualita dell’Ajo, e dei Maestri .  350 CONFERENZA IV. Sopra l'educazione delle Pin gliuole,  377 CONFERENZA V. Sopra l'etd opportuna d' apa  prendersi le scienze, ed il modo più facile per accer  tarsi delle particolari inclinazioni de'figliuoli . 403 CONFERENZA VI. Sopra gl' impieghi , che do  vranno darsi da saggi Padri a figliuoli ben’educati, e dotti.  421 CON  CONFERENZA VII. Come debbano i Padri rego  larsi nel provedere i figliuoli ingnoranti , e viziosi.  447 CONFERENZA VIII. Sopra il modo di ben collacare le figliuole.  473 CONFERENZA IX. Sopra l'educazione de Pupil  li : e come debba ciascuna portarsi verso i suoi Genitorį defonti,  499 CONFERENZA X. Sopra l'educazione de'figliuoli  poveri, e donde venga questo danneggiata . 539  [ocr errors] IN TRODUZZIONE  ALL OPERA.  Sempronio , ( Mecenate .  V  [ocr errors] Sem.  Engo talmente af frettato da mici cogiunti a prender moglie, che non mi lasciano vivere, sti  molandomi giornalmente di farlo; a segno che, per non poterli più sentire, sono in necessità di compiacer loro : solamente due core mi ritardano; e fono l'educazione de figliuoli, che possono nascere,e la cura, la quale fi dec avere di esli, efsendo in ciò inesperto ; per altro mi trovo già pronto a consolarli : istruitemi, Mecenate, in queste, potendo voi fare due beneficj in un tempo;cioè, d'istruire me, econsolar' efli, che tanto bramaDo le mie nozze. :  А  Mer.  Mec. Mà questa moglie,ci è già scelta approposito per voi ?  Sem. Ci sono tante giovani oggidi belle , galanti , e ricche, che essendo anche io giovane,e commodo di beni di fortuna la posso scegliere a mio genio, e fodisfazione in brevissiino tempo.  Mec. Però non sò se tutte queste belle , galanti, e ricche, faranno per cala voftra,leggendo in Ateneo che: demens eft , qui oculis uxorem accipit : come fece appunto Monimo  il quale , avendo sposata una Giovane , senza ricercare prima i suoi costumi, divenne infelicillimo marito; c dolendosi della sua {ventura con Olimpia madre di Alessandro, lo riprese della sua trascuragginc, usata nello sceglierla.  Sem. E che ! la dovrò prendere forse deforme , scoriese, e povera ?  Mec. Neanco questa farebbe al caso voftro.  Sem. E chi dunquc doverò prendere?  Mec. Una's clic lia donna di propo,   fito,  Sem,  [ocr errors][ocr errors] Sem. E quelle, che sono belle , egalanti, sono donne ancora di propofito.  Mec. Mà non tutte buone per voi.  Sem. Quali saranno quelle, che voi Itimate buone per me?  Mec. Quelle appunto, che sapranno softenere con senno, e con prudenza la metà del peso della casa, e dell'educazione de figliuoli; onde quando voi la tropaste di queste qualità avercre risparmiato la metà del penfiere dell'educazione, e cura de figliuoli; e queste sono appunto quelle Itimate appropolito da Plauto, in Stiche, ove dice: UI per  orbem cum ambulent Omnibus , os obturens , ne quis meritò  maledicat fibi. Essendo queste ornate di tutte quello desiderabili prerogative, descritte daw Seneca in O&avia. Probitus , fidesque conjugis , mores, pue  dor placeant inarito. Sem. Io credea , foffe fufficiente, che ja moglie sapeffe far figliuoli, c chou ogr’una di queste fosse a propofito.Mec. Per farli, lo credo ancheio, ma non già per educarli bene, e per adempire quanto dee' una vera madre di famiglia; essendo che per far questo liricerca, che sia dotata di senno e di prudenza' : vi avvedete voi ora del vostro errore, e che come si suol dire, ponevate il carro avanti i buovi, con istruirvi nell'educazione de' figliuoli , senza sapere ciò, che ci vuole per iscegliersi una buona moglie: e se v'incontrasto in una imprudente, garrula, e contenziosa, à che vi gioverebe il sapere educar bene i figliuoli, se quanto di buono voi operaste, ella sarebbe capace distruggere colla sua imprudenza, e garrulità ?, allor sì che fareste caduto in quella fyentura descritta dal Poeta Saririco :  Semper habet lites, alternaque jure  gia lectus In quo nupta jacet, minime dormia  tur in illo . O.pure vi abbatteste in una, che fosse di quella natura superba, descritta dal me. desimo, la quale dicesfc; Нос  [ocr errors] voluntas ;  Imperat ergo viro. In questi casi educate bene i figliuoli se potere .  Sem. La bramerei savia, e prudente, ma vorrei, che foffe anche gentile, e galante ; perche le donne di fattezze grossolane non mi sono mai andate a genio.  Mec. Se questa sarà sana , e prudente non ci hò cosa incontrario, ma se poi colla sua gentile, e delicata complesfione ci fosse unira qualche indisposizione di animo, e di corpo, il che suole alle volte accadere, non vi consiglierei a farlo. Sem. E perche ?  Mec. Vi porreste in tal caso a pericolo di fare una cattiva razza; eredicandog da figliuoli non meno il bene , che il inale di effe ; ed hò sentito da Medici, che più dalle Madri, che da i Padri questo si ritragga, per il nutrimento dato loro quei nove mesi, che li portano nel ventre nè fi può fperare,  che  [ocr errors] A 3  che dal seme velenoso del nappello nasca un giglio, o una rosa: non sarebbe poco, quando meno velenosa germogliasse quella pianta , che dee ello produrre : e poi voi, il quale vi dilettate de cavalli, dovreste sapere per isperienza, che quelli nati da cattiva razza, riescono i meno generosi; e perciò dovete anche riflettere, che il limile poffa seguire negli uomini, come lo descrisse Orazio.  Fortes creant ur fortibus , du bonis :  Et in juvencis, eft in equis patrum  Virtus : nec imbellem feroces   Progenerant aquile columbam . Sem. In maggior confusione di prima ora mi trovo, sentendo da voi , lian neceffario ancora di scegliere una donna savia, e prudente per moglie; onde, per liberarmi da tanti guai, seguiterò le vostre orme, e viverò libero da questo legame anche io, e dicano ciocche vogliono i miei parenti.  Mec. Non fatedi grazia, Sempronio, questo sproposito,  Sem.  [ocr errors][ocr errors] Sem. E voi perche l'avere fatto ?  Mec. Non aveva allora la sperienzas d'adesso ; nè mi abbatiei in consigliere sincero; e sappiate , che mi sono pentito più volte, e particolarmente avanzaadomi negl’anni, di averlo fatto.  Sem. E per quali motivi?  Mec. Perche non anderei tanto lambiccandomi il cervello in cerca del mio erede (briga dolorosa dell'età avanzata) se avesli figliuoli.  Sem. Essendo voi tuttavia robusto, farefte anche in tempo di farli.  Mec. E che vi dispiace forse la mina robustezza, che me la vorreste far  perdere? non sono più in tempo di farli; hò procurato finora di non esser ridicolo, & ora più del passato son tenuto di farlo, e voi mici varrefte far diventare per cantare di me forse ciocchè disse il Taffo di Vincilao :  Vincilao, che sì grave , e faggio innante  Canuto pargoleggia, e vecchio amants : Queste risoluzioni, Sempronio , deona fare in gioventù , per poter vedere i suoi  figliuoli bencincaminaci prima di mori. re, essendo che a me potrebbe succedere ciò che dice Plauto:  Poft mediam ætatem, qui ducit uxorem,  Si eam fenex prægnantē   fortuitò feceris , Quid dubita's quin fiet parasū nomen  puero . Poftumus?  Sem. Dunque saranno ridicoli tani vecchi, che si accasano,e con giovanette anche belle?  Mec. Io non debbo entrare nei freci altrui, debbo bensi pentire 2 cali miei, ora che ho il pieno uso di raggione, acquistato cò gli anni; ma questi sono discorsi fuori del nostro proposito, dovendo voi risolvervi a prender moglie , per non avervi a pentire poi ancor voi di non averla pigliata ; e per ciò dovere farvi ora istruire in quello, ch'è necessario per fare un ottima elezione.  Sem. E da chi?  Mec. Da colui, che la seppe far ottima , e perciò gode vita felice , e tranquilla.Sem. Ma io non vorrei, Mecenate mio, palesare alero , che à voi il mio interno; perche sapete pure qual vento spiri oggidì, che si van cercando id fecti alcrui per mantenere allegre le nostre notturne assemblee, laonde di scoprendo le mic debolezze ad un'altro, sarebbe cosa facilissima si divulgoffero fra molci.  Mec. Viverenino in tempi infelicissim mi, re in Citcà si vasta la secretezza re. gnasse in me solamente,  Sem. Mà non potreste voi solo istruire mi in cucto , essendo vomo di molta fperienza nelle cose del mondo.  Mec. In teorica potrei darvi molti avvertimenti, ma in cose pratiche nors posso consigliarvi ; perche essendo io sciolto da limil legune, no ho avuta occasione di approfittarmi in tal faccenda.  Sem. Oh quanto mira meglio colui, il quale stà in disparte, i difetti dongeschi di quello facciano i mariti! e come giudice spassionato , quanto li distingue anche meglio! Mec. Voi sapete quanto vi amo, u  per:  perciò non lascierei cosa alcuna, che non facessi per consolarvi; mà conos . cendo io, che meglio potreste essere iftruito in tutto coll'intervento di chi averà navigato felicemente molti anni per questo gran mare , perche vi amo, dico questo ; potendo egli molte cose aver conosciute in atto pratico,alle qualinon possono giungere le mie teoriche.  Sem. Se lo giudicare necessario bisognerà farlo : ma chi sarà ral'consigliere?  Mec.Ci sarebbero Publio Roscio,che per lo spazio di quaranta tre anni, e vivuto in pace con sua moglie. Massimo trentanove anni parimente, senza contendere,e Silvio Paterno trentadue;ora sceglietovi, chi volere di questi.  Sem. Oh bene avete trovati i parenti più prossimi à Noè, che sono in questa Città ! quai consigli mi potranno dare questi vecchi decrepiti, che non firicordano del seguito nel dì avanti; e poi a tempi loro non usandofi le galanti maniere constumate oggidì, a che mi fervirebbono i loro ancichi consigli , non  pra.  praticabili a tempi nostri?  Mec. Tutte queste eccezioni, che da. te loro sono in vantaggio vostro; per, che, se non si ricorderanno quello , che udiranno da voi, niuno risaprà i fatti voftri , e se, senza tante galanti maniere di oggidì, fi feppero far amare dalle loro consorti, insegnando a voi i modi, da loro tenuti, ci guadagnerere molto in saperli, e se non siete ancora informato della capacità de’vecchi, apprenderes la da Ovidio,  Jura fenes norint , dow quid liceata  que , nefasque, Falque fit inquirant, legumque exa.  mina servent. E da Cicerone , il quale, de Senectute, così parla del Vecchio: Non facit en que juvenes, at verò multa majora, meliora facit ; non enim viribus , aut ves locitate corporis res magne gerantur , fed confilio , authoritate , fententia , quia bus non modo non arbari , fed etiam auga. ri senectus folet. Laonde faggiamento l'Ecclef. al 25. dico ;- Corona fenun muba ta peritia :  Sem  Sem. Sceglietene dunque uno di quefti a vostro genio, e quello, che conoscerete più approposito per il bisogno mio.  Mec. Publio sarebbe più al caso, per. che quantunque egli meno si ricordi delle cose presenti, conforme sono tutti i più vecchi, ha felicissima memoria nel ricordarsi delle passate:e poi avendo numerola famiglia, e così bene accostuinata , saprà anche istruiryı nella educazione di essa.  Sem. Attenderò dunque con anfierà i consigli di Publio; ma faprà istruirini incio, che riguarda la cura, che si dec avere per conservare la prole con buona falute  Mec. L'esperienza, avuta in molte cõgiunture ad esso accaduce lo averà facilmente renduto capace, a darvi qualche buon consiglio in questo ancora; ma non già con tanta esattezza cõforme farebbe chi foffe profeffore di Medicina.  Sem. Sarebbe dunque bene u’interveniffe uno di questi; c difcegliere tra periti il migliore  Merg.  Mec. Il vostro Dottore è pratichiffimo, avendo avuti molti figliuoli, è anche ingenuo , e sò che vi ama di cuore, onde migliore di ello non saprei sccglierlo.  Sem. Così è: or ditemi, come doverò contenermi nelle nostre conferenze?  Mec. Domanderete quando si presenterà l'occasione tutto quello, bramate di sapere; e non vi vergognate di fare anche quesiti di poco rilievo ; perche non facendoli, rimarrete con perplessità in molte cose.  Sem. Come si farà per informare Publio,che al Dott. parlerò io modelimo'  Mec. Sara inia cura d'informarlo di tutto, e già che siamo di primavera potremo portarci al mio giardinetto, contiguo alle mura della Citrà, ove come disse il Petrarca:  Non palazzi , non teatro , e loggia ,  Ma in lor vece un abete , un faggio, un     pino,  Fra l'erba verde , el bel monte vicino ,  Levan di terra al ci el nostro intelletto , E faremo ivi due volte la settimana le nostre conferenze.  Sem. Mà non sarebbe meglio, per approfittarmi prestamente , il farle tre volte ?  Mec. Vicompiacerò anche in questo, purche le occupazioni degl’aleri lo permettano ; ma voi, Seinpronio, averete già dato luogo nel vostro cuore a qualche oggetto, perche bramate sapere con sollecitudine se quefto ci abbia da rimanere,viconsiglierei però quádo ciò fosse, a spogliarvene prima, per applicare tutto il pensiero a quella, che converra à yoi, & alla vostra casa , che vientri  per meglio stabilircela ,  Sem. Non sono determinato ancora, quantunque abbia posto l'occhio in più parti, onde posso facilmente spogliarmene affatto, e starò con anfietà attendendo l'avviso del giorno, in cui si darà principio alle nostre conferenze.  DECADE PRIMA  CONFERENZA PRIMA  Sopra l'elezione della Moglie, e fue  condizioni più ellenziali. Mecenate , Publio, Sempronio ,  e Medico.  Mec.  O notificato à Publio ciocchè voi bramate da esso, il quale vi copatisce a maggior segno;  posciache egli ancora si trovò in un fimile laberinto,allor che dovea prender Moglie, comc jeri appunto mi disse, e da lui medesimo sentirere ora con vostra confolazione.  Pub. Quantunque anch'io venifli Atimolato da mici Genitori ad accasarmi andavo nulladimeno téporeggiado d'effettuarlo;perche apprendeva fosse schia  vitudine grande la vita cognugale, ma la ritrovai, per verità, assai diversa das quello, che io mi avea figurato ; & efsendo stato sempre mio costume, anche da giovane di regolarmi col consiglio d'uomini favii , c provetti, mi portai da un di questi mio amico, che non aveva alcun interesse in cal affare, per consigliarmi seco , fe dovessi risola vermi a prender moglie, il quale uditas ch'ebbe tale proposta, cortesemente mi disse: figliuol mio è tempo ormai , che vi risolviate di farlo ; perche avendo voi già l’età di venticinque anni poiere esser capace d'indrizare una donna per la buona strada , quantunque aveste sbagliato in isceglierla nelle cose meno essenziali, e sappiate, che l'uomo savio bene spesso fa divenire la moglie non dissimigliante da lui , siccome l'imprudente donna precipita l'uomo poco avveduto : figuratevi alla prima di dover navigare per un vasto oceano dover essere voi il nocchiere, che guida la nave : sappiatevi ben regolare  nelle  [ocr errors] e di  [merged small][merged small][ocr errors][merged small][merged small][merged small][ocr errors][ocr errors][ocr errors] nelle tempeste, per non sommergervi ; prendetela sana, ben accostumata, e di buon parentado, non vi lasciate abbagliare dalla bellezza, dote, e nobiltà; e risolvetevi ; perche quanto più differirete, altrettanto inaggiore sarà il morivo di pentirvi della tardanza: raccommandatevi al Signor Iddio, essendo che: A Domino autem propriè uxor bona , come disie Salomone; procuratela giovane, nè tardate di vantaggio.  Sem. Quanto mi consolo , che vi siete ancor voi trovato in fimile laberinto; e son sicuro, che perciò compatirete le mie debolezze.  Pub. Vi comparisco a maggior segno figliuol mio , fatevi però animo ; perche quantunque paja la vita conjugale alla prima di un gravissimo peso, quando però questo viene portato concordemento d'ambedue, riesce molto leggiero, an. zi foare'; e tal fortuna l'hò sperimenta. --ta io medelimo.  Sem. Vi abbatteste à caso in sì buona compagnia, o pur faceste preventivos  [merged small][ocr errors][ocr errors] diligenze per isceglierla 2  Pub. Le feci certamente esatciflimus per non operare da balordo ; perche se per provederci de' cavalli, cani, anzi di vili giumenti si fanno efatte diligenze', acciocchè siano sani , edi buona rizzi; quattro maggiormente sono neceffario queste nello provedersi di moglie, come puntualmente si trova registrato in Tcognide, Canes quidem, a afinos querimus ,  • Cyrne, dequos Generofos, cu hec quisque vult ex  bona progenie Sibi parare ; uxorem aurcm ducere  malam Ex mala progenie non curat 1. Vir bonus ; modo fibi pecunias multas  1offerat. * Sem. E qual modo teneste in farle? - Pub. Avendo posto l'occhio ad una Gentildonga modesta,non diriguale alla mia condizione, & in età nubile, miraccomunaadai di cuorc al Medico , che fa. Noriva la mia casa , acciocchè avessesavesle ben Dell'Elezione della Mog. 19 procurato di accertarsi della sua salute , avvertito à non ingannarsi, per non ave. re a fare ancor esso la penitenza del suo fallo; posciache se fosse stata mal sana, dovendola curare, briga maggiore gli averebbe apportata; senza speranza di premio straordinario ; per esserne egli Itaro la cagione, che fosse entrata in inia casa; ciò però dilli per ischerzo. m  Sem. E detto Medico, come lo potcs va scoprire, se non l'avesse avuta ini cura ?  Pub. Penetrò tanto, che mi bastò ,  Sum. Com'egli fece ;   Pub. Avendo confidenza col suo Speziale, segretamente cercò nel di lui libro maltro, se vi era descritto alcune medicamento, servito per effe lei, e non trovandovi cosa di rilievo, mi disse : ftiamo bene di salute, perche none, si è mai purgata .  Sem. E leu fosse fervita di qualches altro Speziale? Pub. Questo non si costumava di fare  in quei tempi tanto allo Speziale, quanto al Medico. Una volta, ch'essi erano ftati ammessi, fino alla morte continuavano, ed'eravamo per ciò ben serviti; imperciocchè con molto amore effi s'in. tereflavano ne i nostri vantaggi,conforme comprenderete da quanto soggiungerò. Non si appagò già l'affezzionato Medico di questa fola diligenza usata', mà volle far di vantaggio, e fu d'abboccarsi col Dottore, che medicava in quella casa,introducendo seco discorso sopra la poca salute, che godevano alcune giovani, ch'egli curava, attribuendone la cagione di ciò al poco esercizio, ch'esse facevano ; e di poi passò à domandargli, di quali rimedij egli si prevaleva per conservare in salute quella , che doveva appunto essere la mia futura fpofa, la quale in appareaza mokravas essere più sana dell'altre; cui replicò, ch'avendo ella sortito un ottimo temperaméto, no aveva d'uopo dell'opera lua, & in segno di ciò nel mal de vajuoli da ella sofferto appena cgli vi fu chiamato  nel  oel fine', tanto la natura le fu propizia , che senza alcuno ajuto medico fece il fuo corso felicemente; e con questa seconda diligenza mi accertò della buona salure, ch'ella godeva.  Sem. Questo favore toccherà à voi, Dottore, di farmelo...  Med. Non mi ponete di grazia in Gmile intrigo ; perche non essendo io si avveduto, non vorrei errare nello scoprire gli altrui difetti : e poi se îi desse il caso, che io avelli curato quella giovane, l'onor mio n'anderebbe di mezo , discoprendovi la verità delle cose con, fidateini.  Sem. Della vostra avvedutezza punto non dubito: e poi porrò la mira a qualcuna, che non fia medicata da voi; onde non mi contriftate col recufare di f.2vorirmi ; perche altrimenti sarete voi cagione, che io non prenda moglie, noa potendomi fidare meglio di alcun altro in questo, se non di voi.  Med. Per servirvi la vedrò, considererò il suo temperamento, e fisonomia;  B 3  mà  mà tante altre diligenze, praticate per Publio, non vi prometto di firle; perche ora non si costuinano più molte cose, che si facevano allora.  Sem. L'usanze buone non si debbono dismerrere mai, io mi dichiaro con voi, non per ischerzo, come diffe Publio , mà con tutto il fenno: che se non sarà fana , toccherà à voi di curarla senza fperanza di ricompensa , succedendomi per colpa vostra tale sventura'.  Mega Vorrci, Sempronio, che mi mostraste qual privilegio voi avere più del Dottore di dismettere l'usanze buone; essendo ch'è pur usanza buona riconoscere col dovuto guiderdone il Medico, il che voi volete disinertere', obbligandolo di più ad osservare quello, che fa  per voi.  Sem. Lo dicevo per animarlo, 20ciocchè lo facesse con più fervore: non già tutte le cose, che si dicono si fanno.  Mec. Questo però non è già premio , che animi, mà bensì minaccia , che avvilisce più costo ; olore di che non è già  ben  ܪ  ben fatto di proporre con tanta franchezza ciò, che non si vuole praticare,  Sem. Non parliaino più di ciò; palliamo al costume ; questo in che dee cons Giftere, avendomi voi significato, non essere necessario, che la moglie lia garbata, e galante?  Mec. Cerra cofa è, che il buon costume della donna, non dee coolisterer in questo, mà bensì in aver cura delle casa, in saperla ben reggere, e gover: nare di cui parlando ne? ;suoi Proverbij Salomone diffe : Confickeravit. Jemitas domus fue , panem otiofa non comedia Ed il Nazianzeno nei suoi documenti che da alle vergini, così dice Neque domibus cxternis olideas , neque  menfis. Ed altrove contro le donne più del doc yere ornate, così parla .  Mos eft mulieribus [res pretiofa] domi  manere  [ocr errors] Plurimum, & divinis alloqui sermonibus Telaque , fufoque ( hoc enim munus eft mulierum)Ancillis opera distribuereservos vitare ,   Labiis vincula ferre, oculis,atq;genis:   Neq; pedē exirà vestibula Sepè babere; E Menandro comico greco così dice , Intus manere mulierem oportet  oportet :: Bonam, egredientes autem foras nullius  pretii sunt . Sem. Come scopriste, Publio , che fosse di questo costume la vostra Conforte?  Pub. Avevo in quel tempo un servitore molto affezionato, & insieme accorto, diedi ad effo segretamente l'incombenza, che lo aveffe scoperio ; e fi pora tò egli così bene, che in brieve fui informHo ditutio.  Sem.' E come fece?  Pub. Conduffe, ove questi sogliono ricrearsi, un certo fuo conoscente, il quale da molto tempo serviva in quella casa, e dopo d'essersi insinuato avvedutamente appresso di lui,introdusse discor. so, come è lor costume, sopra le stravaganze de padroni, & interrogato, che l'ebbc de cractamenti, che riceveva dal  fuo  suo, passò alla giovane, di cui ne diffe un infinito bene, con individuargli alcune particolarità, le quali denotavano forfe savia, c prudente .  Sem. Questi come poteva essere apa pieno informato delle qualità della gior vane, non trattando in quei tempi lei padrone con servitori?  Pub. I servitori in ogni cempo sono ftati curiofillimi di scoprire i fatti de'padroni, & anco i più segreti', come ava vertì Giovenalc.  Scire volunt fecreta domis, atque inda timeri. E siccome sempre vi è stata qualche affezionata corrispondenza tra essi, e le donne di servigio, onde per questa via, ciocche effi nonodono, ne offervano, lo penetrano : nè è stato mai possibile, che le donne di servigio ili fiano astenute dal'non palesare i difetti del: le padrone , almeno a questi loro favo riti, per mostrare con elli confidenza.  Sem. Vi bastò quefta sola notizia ?  Pub. Procurai in oltre rincontrarl24 da più parti prima di crederla ; pofçiag  che  che udito efferii da quella casa partita disguitata una donna , fecidiella  prenderne inf rmazione, la quale contesto le medelime cose,che dette aveva il servitore; ed essendo uniforine à questo notizie il publico conceito, che di essa fi aveva nel vicinato, mi appagai del suo buon costuine ie non feci altre dili. genze intorno à questo. ni  Sem Manon sarebbe stato ineglio vi foste informato da qualche Uomo das bene?  Pub. Non lo stimai neceffario , avendo rincontrato da più parti il medesimo: e poi per dirvela giusta , chi è buonio non è curioso d'investigare gli altrui difecii; ed anco sapendoli si guarda molto bene dal publicarli..."  Sem. Il vostro Ulisse, Mecenate, sa, rebbe approposito per iscoprire gli altrui difetti in  Mec.. Ma non in questo affare, perche egli cicala troppo: si ricerca in tale affare chi sia destro, e serio , che compri, c non venda.  Sem.  Sem. Palesatemi ora , Publio, qual modo usaste nell'informarvi della prosapia della vostra Conforte ?  Pub. Vi era in quel tempo un certo sfaccendato investigatore de' fatti altrui, il quale andava curiosamente cercando le memorie delle antiche famiglie negli Archivi ; cui feci parlare dau un'amico, è che mostraffe desiderio, tanto delle notizie della mia famiglia, quanto dell'alcra, con fargli promertere un convencvole riconoscimento per le sue fatiche'; e per verità in brieve tempo d'ambidue pose in chiaro quanto circa ad un secolo a poteva tro. vare, e seorgendo verificarsi ciocchés aveva detto della mia, prestai fedes à quanto aveva ritrovato dellal, tra; e vedendo, che fiftava quasi del pari tanto nel bene, quanto nel male's non ini curai fare diligenze di vantag. gio'intorno a questo ancora potendomi bastare.  Sem. Dunque quantunque sapeste, che in quella viera qualche eccezione,  non  [ocr errors] [merged small][ocr errors] non ne faceste caso?  Pub. Mà se vi era questa nella mias ancora, come potevo farne caso, do. vendoci ne' Matrimonj servare uguaglianza.  Mec. Credete forse, Sempronio, che tutti noi descendiamo da Cerari, e che per non interrotta serie di molti secoli le nostre famiglie siano state sempre illuftri? Se li potesse ora ritrovare la de. scendenza vera degli Arsaci; e Tolomei, oh quanti di questi si troverebbero esercitare arti vili, e forse core peggiori ancora . lo per tal motivo no mi fon punto curato di far ricercare dell'albero della mia casa , se non l' ulcimo secolo ; e tanto maggiormente, che un mio amico, il quale si mostrò più curioso di me, bramandolo di due , dopo di avere speso di molto in ricercare i fatti de'suoi antenati; vi trovò alcune cose, che forse nulla li piacquero, o fece tralasciare l'opera:solamente queIto guadagno vi fece, che non milançava più la sua nobiltà , come prima.Som. Di avere però l'albero della sua casa lo stimo neceffario, affinche i  posteri seguirino i loro illustri maggiori.  Mec. Lo credo anch'io , mà però non conviene farne publica mostra , se uon cui averà trà suoi ascendenti chi abbia goduta la Sovranità, mediances la quale degnamenre merita la preminenza sopra tutte le altre una sì illustre famiglia. Potrei riferirvi à questo proposito ciò, che fece un saggio Prencipe, cui fu presentato l'albero de'suoi antenati; lo rinirò egli ben bene , & essendoli avveduto , che l'adulazione vi avca innestare alcune cose ideali, lo fè piantare profundamente in una fund Villa, atfinche da quello germogliaffed l'albero de'suoi descendenci più glorioso, essendoche lo fc piantare ivi ad onta dell'adulazione.  Med. Licredo anche utili detti albe. ri per prova della salute goduta dagli asccadenti ; posciache se il Padre mori ottuagenario , il nonno parimente in età decrepita , conforme anco l'atavo , ed  il tritayo, sarebbe questa una provas grande della perfetta falure in quella famiglia; e tanto più se questa si proyaffe ancora per parto delle donne; dove che se fossero morti giovani , e vi foffero regnati tra eli mali creditarj, farebbe far un cattivo negozio, d'incftare a piante si cattive la propria.  Sem. Riuscirà ora cosa difficile à potersi sapere i difetti del casato, col quale dov.erò apparentare, per non esserci più quegli avveduti indagatori dei difetti altrui.  Mec. Non dubitate, perche non ci è questa penuria ; sono stati, e saranno sempre nel Mondo niolti, a quali premono più i farti altrui , che i proprj, ricavandune da ciò notabile guadagno ; basterà essere loro grati, perche di quc sto vivono , per altro ne troverete molti: e poi ci sono ora tanti manoscritti, e libri anche stampati, i quali trattano delle nostre famiglie, che vi si renderà più facile di quello, che credete, à Caperlo giusto ; Sc però non averanno,  tore  scritto con passione, clivare; il che si difeerne facilmente, non potendosi mai celare questi canto , che non si scuoprano.  Sem. In questo supplicherò voia favoriemi, avendone già pratica di molte ; Ini mette solamente pensiere il mor do di scoprire ciò, che accennò il Dor  concernente all'età , che fieno viyuti, & alla loro falute, ed in questo ancora vi prego , Dottore , che mi ajutiate.  Med. Questa non è incombenza di Medico, dovendo egli cercare i vivi per 'risanarli , se sono infermi ; ma ai morti qual bene potrà apportare, ricercandoli ?  Sem. Apporterete à me il bene, le non lo farcte a defonti, con trovarmi moglic , che descenda da famiglia sana, ed in conseguenza ancora a miei descendenti.  Mec. Il Dottore ha da fare, non gli date questa briga ; vi voglio inícgnare io il modo per uscoprirlo; posciache,  fc  [ocr errors][ocr errors] se la famiglia, colla quale voi volete app arentare, sarà illustre, e di antica pro fapia, ci saranno tante lapidi sepotcrali,ove son descritti i fatti degli ascendenti , ed ivi troverete anche gli anni, che questi vissero ; se poi saranno famiglie moderne, l'invidia farà palese più di quello, che bramerete sapere di cfle , ritrovandosi ricche.  Sem. Passiamo ora all'età più propria d'accasarsi.  Mec. Voi,Sempronio, vorreste essere in un sol congresso istruito di tutto; riferrete di grazia,che Publio è vecchio, ed il Dottore ha le sue occupazioni ; non ci abuliamo della loro sofferenza.; e poi non è già vostro vantaggio di far lunghe conferenze, perche meno a apprendono li troppi documenti, di quello si faccia udendone pochi per volta ; differiamolo dunque alla seguente Conferenza.  CON,  CONFERENZ A 11.  Sopra l’età più propria, e proporzionata    di accasarsı ; e quale fia svantaggio     maggiore , farlo prima del tem-       po conyenevole, ò nella vec-   chiezza.  [ocr errors][ocr errors] Sempronio , Publio , Mecenate,  e Medico.  [ocr errors][ocr errors] Sem.  01, Publio , che avete avuto fortuna nel vostro accasamento, ditemi di grazia: in qual'età  cravate,quádo prédeste moglie?  Pub. Appena io avca terminato l'anno. vigelimo quinto.  Sem. E la vostra sposa qual’età avea?  Pub. Era allora appunto entrata nel vigefimo. Sem. Perche non la prendeste prima?Pub. Perche non mi pareva di avere acquistato ancora turto quel conosciméto necessario per far passaggio a detto stato. Oltre di che trovando scritto questo Sacramento per ultimo , ftimai bene d'effectuarlo dopo l'età stabilita da conferirsi il Sacerdozio, per non errare.  Sem. Ma prendono pur tanti moglie prima di questa età ?  Pub. Da ciò forse deriva , che molti fi lagnano ancora di essersi accafati ; ed è cola facile, che per non sapersi in quell'età iinmarura regolare con giudizio, e prudenza , incontrino più disastri, che consolazioni,  Sem. Dunque avendo i vecchi più fperienza, senno, e prudenza de giovani converrebbe aspettarsi a farlo fino all' età fenile.  Pub. Per altri motivi però, apportati da Euripide , non si dee aspettar tanto, dicendo egli:  Et nunc juvenes adhortor omnes,  Ne in senecture nuptias celebrantes   [ocr errors] Vix liberos procreént;nec enim voluptas     eft,  Sedres inimica mulieri fenex vir,           Ed altrove,  Amarus juveni uxori fenex maritus .   Sem. Sono però accaduti à rempi noftri cafi felici ne’vecchi sposati con le  giovani, ed hanno avuto prole. 3 Pub. Questi matrimonj bisogna , che  riuscissero assai infelici anticamente;podi sciacche di Omero racconta Erodoto į nella di lui vita, che sdegnatoli egli con  tro alcune donne,che sacrificavano à Co.  rcre in un trivio, imprecase loro questo o gran male.  Audi flavi Ceres precor, hoc mihi perfi  ce votum:  Hanc numquam juveni matronam junge I  marito, Sed tremulo fit nupta feni , cui vertice  cani Fundantur crines, E non avendo saputo augurare loro infortunio peggiore di questo;qual felicisà dunque potranno essi godere? Potrà  [ocr errors][ocr errors] effere tal volta, che le donne di oggidi fieno divenute più savie di quello fossero allora; o pur,non trovando alcune di esse mariti giovani fi contentino di quelli, che possono avere , senza contristarsene punto; se pure non è qualche caso singolare questo da voi riferito , il quale non è sufficiente à formare Aato.  Sem. Bramerei in primo luogo sapere da voi , se debba essere uguale l'età dell' uomo à quella della donna, per servare in tutte le cose perfecta uguaglianza?  Pub. Appunto per cagione di proporzionata uguaglianza , non debbono essere ambidue di consimile erà , perche deesi, come ben'avvertì Euripide regolar questa dalla durazione della fccondità , non dagli anni , dicendo egli. Malum eft juvenem uxorem adolescenti  conjungere. Diuturnior autem eft marium vigor , Fæmineum verò corpus citiùs puberta. sc deftituitur .  Sem.  [ocr errors][ocr errors] Sem. Quefta differenza di età in che doverà consistere , e quanti anni doverà avere più l'uomo della donna?  Pub. Sopra questo particolare ini persuado , che non si possa dare certa, c determinata regola;contutto ciò potrà dire il Dottore, quello ch'egli ne senta.  Med. Aristotele pone la fecondità dell'uomo fino all'età di 70. anni, e quella della donna sino à 50.jma perche ora forse sono le complessioni deceriorate , e perciò non si osserva, se non di rado giugnere à questo termine, voglio  in ciò regolarmi con quello , che piu } frequentemente suole accadere,il quale  appunto è; rispetto all'uomo incirca al 60.anno ; & alla donna intorno al 40. talmente che nello spazio di 20. anni,  confifterebbe detta fecondità di più o nell'uomo che nella donna.Ciò ftabilito,  ogni qual volta nou trapali in detrá - proporzione il triplo l'età dell'uomo  sempre farà in uguaglianza g rispetto al sempo di poter generare; purche non  C 3  VCI  yenga variata da qualche indisposizione morbofa.  Sem. Sicche dunque un uomo di 40. anni farebbe- nell'uguaglianza , prendendo una giovane, che ne avesse venti?  Med. Così è: uscirebbe bensì da calc proporzione , se la prendesse di 14.anni; poiche trovandoli la donna nell'età di anni 34.avendone il marito 60. sarebbe già divenuto sterile sei anni prime di effa.  Sem. E se la donna fi accalaffe in età maggiore di quella del marito , che ne potrebbe seguire da ciò ?  Pub. Le riuscirebbe certamente pii facile di fare à suo modo; imperciocche non prendendosi quella soggezione del marito , che suole apportare di più l'anzianità, disporrebbe, tụtto à fuo piacere;ed Iddio guardi,che la diffcrenza degli anni foffe tale, che il marito le potess’essere figliuolo,allorsi,che lo vor. rebbe tenere, e regolare da subordinato in tutto à se medesima : e poi è da riflet. tersi, che difficilmente inducendoli ladonna, se nő è molto stimolata  dal senso, à congiungersi in macrimonio con ginvani di tanta disparità; onde in questo caso soffrirebbe il povero marito per molti capi penc considerabili: solamente  la gelosia, che ne potrebbe ella avere gli i recherebbe tormento grando; olere di  chc, comc vuole Leonide , sarebbe sen-  za prole, e senza moglie, posciacche egli  dice:     Conjuge nec frueris,nec   frueris fobole . Sem. Io , che non voglio tanti guai, la bramo più giovane di mie; mà diremi, Dottore, qual'è l'età competente della donna,per cffer moglic?  Med.La giovane può prendere marito allor'appunto, ch'è atca à concepire , effédo divenuta già dóna;c può succedere questo alle volte nell'età di 12. anni, altresì di 13., 0.14.3 e più tardi ancora ; onde in detço tempo porrebbe divenire sposa.  Mes. Sarebbero però quelle di 12., 0 13.anni spose immature; e non só  quanto potessero riuscire buone mogli; poi  che  [ocr errors][ocr errors] C 4  che lasciando la conliderazione di do. versi queste scegliere uno stato nel quale conviene perseverare fino alla morreu, cd in conseguenza averebbero bisogno di più maturo senno per fare detto passo: e senza riflettere a tanti disaggi, che ponno incontrare nei primi parri; doinando, come si sapranno bene regolare col marito, e nell'educare i figliuoli?  Med. Hò considerato anch'io queste difficoltà; mà dall'altro canto è da riAettersi ancora, che prendendoli così giovanette ; si possono ind rizare, come li vuole ; ed abbiano l'esempio nelle piante, le quali allorche sono tenere , con facilità grande le poisiamo piegare a nostro compiacimento ; mà non già questo accade allorche sono indurate Virgilio parlando di domar la gioventù, dice, che nell'età più tenera con più facilità succeda.  viamque infifte domandi, Dum faciles animi juvenum, dum mo  bilis ætas. Mec. Io mi maraviglio, che. voi co  [ocr errors] me  [ocr errors] meMedico non vi opponiate 'a maritag: gi di età si tenera, potendo meglio di chi non è vecfato in medicina conoscere il danno, che possa apportare alle cenere giovani similc mutazione di stato . :  Med. Non vi maravigliare di questo, perche noi circgoliamo nel modo di vivcre colle consuetudini de? paefi', insegnandoci il nostro Ippocrate, che: dandum fit aliquid regioni, & confuetudini; e non per questo , che qualche.caso liano seguito funesto, debbong esse variure, essendoche cziandio consimili cali fe, guono nelle più adulce, pericolando queste ancora ne parti.  Mec: Lasciamo le consuetudini dan parte, e dicemi di grazia, se inariterelte una vostra figliuola in età si tenera ?  Med. Ci penserei alquanto , & anderei procrastinando il trattato , fin tanto che li assodasse un poco più negli anni; c tanto maggiormente, se non fosse ben complessa ; poiche non vorrei, che nel cominciare si prestamente à far figliuo. li , quello, che dovesse andare in suo  [ocr errors] crc  [ocr errors] crescimento , G.deviasle altrove..'  Sem. Si differiranno facilmente quefti maritaggi, per non ispropriarsi della dote, e voi alori Medici, che fiete renuti alquanto interessati, forse per ciò differirete di effettuarli. -:" Med. Non fiamo però sì ftolidi, che non riflettiamo, che la dilazione non paga debito, e che questo fodisfacendosi fpedicamente ci libera da cravagli di doverlo pagare..  Sem. Qual'età voi realmente credere più propria da prendersi marito?  Med. Se la giovane goderà prospera falute , mi persuado , che intorno al vigelimo anno lia la più convenevole ; le poi foffe gracile, si potrebbe anche in. dugiare qualche anno di più, per meglio ftabilirsi; purche non paffalse il vigefimo quinto; ftantccche facendoli talri. soluzione di accasarsi, per godere prole sufficiente alla conservazione della fami. glia , ciè d'uopo di figliuolanza, che fopraviva, e ci fiano ancora de'maschi , e ciò nello spazio di 20. anni di fecons  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] dità si può commodamente ottenere.  Semi Talmente che, chi bramasse di avere più numerola figliuolanza,gli coverrebbe prendere una giovane di 15. anni?  Med. Per istabilire bene la sua casa, non fi dee solamente procurare il nuinero defigliuoli, mà ancora la robustezza, e vitalità de'medefini; e questi,co. me vuole Aristocile nel 7. della sua politica, nascendo da Padri giovanetri, sono di poco vigors, almeno i primogeniti, i quali fogliono per lo più accafarsi. Quindi è, che Tacito, ove parle de'costumi de'Germani, dice; che tras cffi le vergini fi maricavano già adulte, cche perciò passasse ne'figliuoli la ro, bustezza dei genitori.  Sem. E l'età dell'Uomo più congrua di accasarsi, quale sarà ?  Med. Quella appunto, che si contiene erà lo spazio di 25., 30.anni;quando ciò da altro impedimento non venga ri. tardato.  Mes, Lo credo anch'io, che da molte cagioni potrà essere ritardato : im. percioche, se averà egli impieghi,i quali richiedono applicazione grande, e non si troverà sufficientemente proveduto di beni di fortuna, per sostentare la famiglia ; fe non goderà salute competente; se in casa averà molte sorelle, e madre in particolare, che fosse donna risentita, in questi casi doverà indugiare a farlo, fin tanto almeno, che si troverà in istato più opportuno, non essendo convenevole porli sotto ad un giogo di questa forta con simili impedimenti svantaggiosi alla quiere conjugale.  Semi Vorrei sapere, quali danni risulterebbono,s’io tardasli a prender moglie fino alli anni 35.  Mec. Se voi tarderete tanto, temo, * che non la prenderete più, e per ducor motivi: primièramente perche trà tana to facilmente' vi potreste deyiare, cd abbattendovi in qualche donna scaltrita , saprà ben'ella distorvi da tal penfie ro con le sue arti; e guai a voi, le fi af fomigliaffe questa a quella donna impu  dica,descritta da Salomone al 7. dc' suoi Proverbj, la quale ; ornatu meretricio prçparata ad capiendas animas; e con quali artificj ! victimas pro faluse vovi, hodiè reddidi vota mea ; idcirco egreffas fum in occursum tuum, defiderans te vin dere , e reperi ; intexui funibus lectulum meum , ftravi tapetibus pietis ex Ægypto, aspersi cubile meum mirra , a aloe br. E poi trovandovi in quell'età, farà facile, che comincierete a rifertere sù l'incertezza di poter'invecchiare, e facilmente direte ; come anderebbe allora la niiafamiglia séza’l mio stradaméto;qual pensiero , se non vi distogliesse affitto, vi renderebbe almeno irrisoluto nell'effettuarlo; onde farc à mio modo, risolvetevi, e non procrastinate di vantaggio: perche altrimenti vi seguirà cioco ch'è accaduto à me medeliino, che mi fono invecchiato senza successione. E sapere , che diranno di voi le donne, elsendovi avanzato negli anni? Questi è vecchio, che ne vagliamo fare? E perciò converrà allora, volendola prendere,  ассо  accommodarvi a chi troverete , con le condizioni che da ella vi saranno date; dove che adesso farà a vostro modo quella , che vorrete prendere.  Sem. Questo certamente sarebbe svantaggio grande per me; laonde non bisognerà perderci teinpo.  Pub. E tanto più sollecitamente vi risolverete,sentendo li pregiudizj grandi , ricevuti da cui tarda moltó a pren. dere moglie,i quali sono anche maggioridi quelli, che possono accadere à chi lo fà prima del tempo.  Sem. Quali sono, Dottore, questi Matrimonj fatti prima, ò più tardi del dovuto tempo?  Med. Li preventivi sono; se un giovanetto fi accasaffe in età di 15.9 16. anni; e li tardivison quelli, che si fanno, allorche tal’uno è divenuto già veça chio,  Sem. Quali danni apporterebbe ad un giovane lo accafarli di 15. anni?  Med. Questi accompagnandosi con, una giovanetta coetanea , non saprebbe  [ocr errors] regolare le sue operazioni; c s'egli in quello primo fervore fregolato pregiudicaffe allo proprio individuo, quanti svansaggi ne riporterebbe? E qual'indi. rizzi sarebbe capace di dare a suoi figliuoli, avendo egli bisogno di chi lo dirigeffe? E stando tuttavia in crescimeto, defraudandofi questo per il diyiamento della miglior parte del suo sanguc iinpiegata nella troppo sollecitas generazione, come potrebbe convertirli in suo beneficio ? Oltre di che noll possono fperarsi frutti perferti da simili piante, le quali non sono arrivate an. cora alla loro perfezione,  Pub. Aristotile nel 7. della sua Politica fà sopra di questo un'ottima riflerfione ; cioè, che fimili figliuoli, che pajono quasi coetanei a Padri, poco rispetto portano loro, querclandofi sovente sopra il governo della casa contro di efli.  Med. Ci sono però alcuni cafi, che debbonsi eccettuare dall'accénata regola , e tra questi sono quelli unichi ,  cd  [ocr errors] ed antichi rampolli di qualche illustre, e ricca famiglia, che per non vederlas estinta , fi procura in età tenera di accafarli. Siccome ancora, se si vedesse un giovanetto ben complesso, che comincialle a deviarhi, non avendo chi lo tenesse a freno;onde per non vederlo precipitare , converrebbe accasarlo , senza indugiare di vantaggio ; ed in questi casi li doverà prendere un'altra inisura , competendo loro piu tosto una saggias giovane, che avesse qualche anno di più di loro, affinch'essa regolaffe alcune operazioni concernenti alla salute , potendo la moglie saggia molto adoperarfi in fimili affari.  Sem. I poveri vecchi allorche foffero robufti, perche non potrebbero divenire fposi anch'elli?  Med. Perche, conforme dice Euripide.  Sed, aut feneétus Veneri valere jubet;  Aut Venus senibus molefta eft . Onde per tal cagione si accelerarebbero la inorte, çssendo anche potenti, e ritrovandosi inabili a questo , si contri-   sterebbero per molte cagioni:primiera-  mente per essersi accinti ad un'impresa,  nella quale non riescono abili perlochę  verrebbero anche derisi,e beffeggiati da  giovani, e per non vedersi corrisposti  dalle loro conforti con quelle maniere  cortofi, ch'elli vorrebbero, e final  mente per essere privi della bramatas.  prole, come descrisse Virgilio ;:     Nec dulces natos , Veneris nec prçmian         noris.  E vi parc,che questi poffano vivere con-  tenti? Con ragione dunque Blepirone  appresso Aristota ne diceva:   -Heu, mihi infeliciis qui senex. cxiftens       duxi uxorem.  E Menandro esprimendo le fvcnturc de?.  vecchi amanti, così fayella:    Nurde miferius poteft daramante   Seine, Hifi alius fenex amans;  Nam , qui frui cupis rebus , à quibus   Propten tempus, quomedò ille non mi     Jerefte), 06.01.10   D  Mere  [ocr errors][ocr errors] arasiit  Mec. Ia questo li credo infelici anch? io, leggendo in Catullo :  Er fenis amplexus culta puella fugit. Ed in Arenco ciocche disse Teognide, ch'è appunto.  Sero Viro juvenis uxor magna calamiras. Cymba fine anchora , effractisq; Tudensibus.  Pub. Udite ciocche dice Plauto di questi: Tum capire cano amas fenex nequif  fime? Si unquàm vidiftis pictum amantem,  bem illic eft. Ed Ovidio, ch'era informatiffimo de' genj delle donne di quei tempi, così ebbe a dire : Que bello eft habilis , Veneri quoque  convenir , stas ; Turpe fenex miles', turpe fenilis amor.  Quos petiere Duces annos in milise aforit  Hos petir in focio bella puella viro. Laonde, qnando a vecchi venitfe in fantasia di preader moglie, a configlino  con  2 con Orazio , il qualc dice :  Intermiff - Venus diu Rursùs bella moves:parce precor precor, : Non fum qualis eram.  Sem. Riceveranno questi certamente, prendendo moglie , svantaggi affaimag. giori di quelli, che incontrano i giovanerti?  Med. Senza fallo; posciacche questi, crescendo loro con gli anni il senno, u la robustezza, vanno incontro al tempo  migliore ; dove quelli sempre più u precipitano nel più miserabile : or re  dere voi, Sempronio , che danni apporta il diffrire tanto lo accasamento  Mec. Ho conosciuto però un vecchio, il qual, essendo caduto nelle reti di Venere, piangeva dirottamente la sua sventura; e volendolo io confolare, persuadendomi, che li lagnasse dell'errore commesso; cgli mi rispose : oh che fallo hò commiffo io a non prendere moglic,  quando era giovane! poiche fe valoroü so mi son portato nell'età inaridica della un vecchiezza , quanto più farei stato nel ,  [ocr errors] 2  la verde giovenile? Gli replicai però: guai à voi, se in quel tempo foste stato così dedico à fimilc piacere; posciacche vi averebbe farro inyecchiare prima del ecinpo; dicendoli dell’ainor lafcivo.  Ef juvenis juvenes, qui facit ille fenes. E per meglio illuminarlo gli apportai l'iscrizione sepolcrale di Menelao, ch'è questas Inter opus medium lafcivå mørte for  lutus; Hic fitus eft , dom init jam Menelaus  bumum ; Qui blande. Veneri visa facraverat Haud aliter vitam ponere juffus eraf.  Sem. Or ditemi : questa uguaglianza come dec essere nelle altre cose?  Pub. L'esamineremo in appresso.  [ocr errors] [ocr errors][merged small] CONFERENZA III. :2  [merged small][ocr errors][ocr errors][ocr errors] Dove si mostra,in che cose sia esenziale       l'uguaglianza nei Matrimonj;   quali svantaggi nascano   dalledisuguaglianze             in queste.  Sempronio ; Publio , Mecenate's   Medico.  M  [ocr errors] Sem.  I persuado, Publio, che non essendo seguite trà voi, clas voftra conforte, al. tercazioni,e discors  die, averece goduta la sorte di una perfectisfima uguaglianza in tutte le cose.  Pub. In tutte è impossibile poterlos ottenere ; bafta solamente , che difuguaglianza non sia nelle più esenziali, nelle quali certamente fui fortunato,ef. fendo di verificato in me il Proverbio diSalomone: Qui inuenit mulierem bonam, invenis bonum : du auriet jucunditatem à Domino  Sem. E queste quali sono?  Pub. La prima è il genio buono uniforme in ambidue: e questo non potrete credere, quanto mai trà noi foffe reciproco ; poicche, quanto io volea,senza repugnanza alcuna cra grato anche ad effa ; ed in quello poteva immaginarini, che fosse stato di sua sodisfazione, ci concorreva anche la mia, à segno, che delle nostre volontà, sen'era formata una sola ; onde di noi con ragione si poteva dire, ciò ch'è registrato nell'Ecclesiastico al 25.,ch'è grato à Dio, ed à gli uomini :  Vir, & mulier benè fibi confentientes .  Sem. Sicche dunque se vi potevate immaginare, che avesse deliderato un, bell'abito, ò una nobile Stufiglia allas inoda,voi l'avereste compiaciuta prontamente  Pub. Non desideravano le mogli queAte cose in quei tempi, ne'quali non  costu.  [ocr errors] costumavano ; bramavano bensì di avej re provisioni abbondanti di lini, cana  pc, e cottoni per farne lavorare copio  se biancherie ; di vedere fatte le provi. i sioni à tempo debito , di quanto biso  gnava per servizio di casa cutto l'anno ; di avere otrimi maestri per istruire bene i figliuoli; e servitù fedele, e benc accoltumata.  Sem. O tempi felici: non poteva io essere nato allora !  Pub. Ed io vorrei trovarmi giovane in questi coll'uso di ragionc, cd esperienza , che godo :  Sem. E la seconda quale sarà ?  Pub. Che questo genio uniforme fi ftabilisca sopra le virtù cristiane, e morali in primo luogo; c di poi in tutto le altre cose utili per lo stabilimento della casa,cd in queste è stata veramente seinpre singolare; imperciocche vedendo, che bramavo di sodisfare all'. obbligo, che corre ad ogni benestante, di sovvenire i poveri, essa ancora facea le sue parti con mia somma consolazio  D4  ne ;  ne; e nel rimanente vedendomi artento agli affari domestici, s'ingegnava per quanto poteva, di sollevarmi in molte cose ; talmentecche hò sperimentato in me ciò, che diffe. Appollonide :  Certè inter homines Non aurum , non regnum , non divitia. .. rum luxus Voluptates tam eximias prebent , Quam buni marici , & uxoris pia Volunt as jufta , & legitimè affecta.  Sem. Lo credo anch'io[facendo voi cosi]che potevare godere una perpetua felicità.  Pub. E voi ancora la potrete godere, se farete il medesimo.  Sem. I tempi calamitofi , ne'quali siamo , non lo  permettono. Pub. Se dipenderà da tempi, converrà avere pazienza ; perche farà irremcdiabile; mà se dipédeffe poi da voi,senza fallo potrete porvi rimedio: or'vediamo,da chi dipenda. I tépi calamitofi dāneggiano co carestie, pestilézcguerre, terremuoti,c tempeste ; c queste non  effens  20  [ocr errors] effendoci ora crà noi,come possono corbare il regolamento della propria casa? Onde vedere, che dipende da noi', non da tempi ; dunque à torto vi lagnate de'tempi ; essendo voi , non cfli l'origine della vostra infelicità; e se poressero questi parlare , direbbero in loro dif colpa: voi ci calunniare à torto, per ricoprire i vostri mancamenti; perche vi piace tale modo di vivere, e vi dilet.  ta, quanrunque ne moftriate un'appa. rente rammarico.  Sem. Si pratica oggidi fare diversa. mcate d' allora i conviene accomodarli ai più : bisogna averci pazienza .  Puh. Questo è un pretesto peggiore i dell'antecedente; perche voi conoscere,  che fate male; ed avere la cognizione, che non facendolo fareste felice ; porche dunquc lo fate , dipendendo da voi il farlo, ò non farlo? Ohcecità ! volere piuttosto effere imitatore di chi voi conofcete; che faccia male, che di quellig che operano bene; e poi, se voi dite che ci vuole pazićza,perche vi lagnate?  Som.  [ocr errors][ocr errors] Sem. Operavano allora cutti in questa forma?  Pub. Io non andava cercando, se vi era caluno , il quale diversamçare operaffe ; perche volendo prendere l'esempio da chi lo faceva ; questi solamente rimiravo, per imitarlo.  Mec. Sempronio mio, non vi avanzate più oltre in questo, perche Publio. vi convincerà di vantaggio ; e vi farà anche conoscere, che i vecchi non sono storditi, conforme alcuni credono; efsendo che al parere di Plutarco;la mente in vecchiaja ringiovenisce.  Sem. Vi è altro trà le cose neceffarie. da fervarli uguaglianza ?  Pub. Nella ftatura ancora ci vuoly, se non totale uguaglianza, almeno proporzione ; posciacche, se sarà la spora pigmea, ed il marito gigante , se ne avyodrà ella ne'parti, ed in alere segrete occasioni ancora ; laonde à questo proposito parlò Ovidio : Quàm malè inæquales veniunt ad aran tra juvenci,Tam premitur magno conjuge nuptas  minor. : Sem. Sarebbe dunque bene prendernc prima le misure di ambidue per formarne una giusta pariglia.  Pub. Non è ciò necessario, nè conve. niente ; perche coll'occhio ancora fi può discernere la notabile disuguaglia, za. Debbo ancora avertirvi , che li rim  cerca la proporzione de'beni di fortuna; ? perche se vi apparentaste con gence mi  lerabile, alla vostra casa coccherebbe il mantenerla: altrimenti non vi sarà pace con vostra moglic; perche la vora rà soccorrere di nalcolto, sc non potrà farlo palesemente.  Sem. E la Nobiltà dee entrare ancora essa trà le cose necessarie da ugu2 gliarli ?  Pub. Questa uguaglianza non è ftia mata essenziale , secondo il sentimcnto i di Platone, registrato nel tive del suo  Regno; ovcper teffere la tela della buo. na discendenza , cgli procura di moa strare, non ricercarli cosa più effenzia,  le  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] ke ne'maritaggi, che d’innestare le virtù  ; per esempio, al temperamento forte unire il moderato : onde potendo questa unione formarsi con inferiori di condizione ancora ; non si ricercheranno nè ricchezze, nè poffanza, nè altre credute dal mondo vantaggiofe condizioni, per tesserla a suo dovere ; come appunto lo fà contesfare à Socrates ; perche egli considerava talc affare in ordine al bene univerfale , non particolare di ciascuno ; persuadendosi, che congiungendoli in tale forma , fi potesfc porre il mondo in migliore consonanza. Ed in conferma di questo, cade in acconcio la bella concione , fatta dawa Camulejo Tribuno della plebe l'anno 310. ab Urbe condita, la quale viene riferita da Livio; e dimostra questa con vive ragioni tutti quei vantaggi, che possono apportare i maritaggi scambie. voli trà nobili, c plebei alla Republica. Io però mi persuado , che più decoroso fia, secondo l'apparenza del Mondo, fceglierla non plebca.  Mec.  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] Mec. Voi dice benc , Publio ; malo colla nobiltà fosse unito il mal costume scegliere te forte piuttosto una Meffalina, che una ben'educara, c prudente plebea per vostra consorte?  Pub. Questo poi nò ; perche in tale caso mi perfuado minor caccia, porerne ricevere, sposando una plebea , la quale col suo buon costume,.c fenno, in brieve tempo fi farebbe conoscere non dissomigliante à quelle nate nobili; doveche la nobile mal’educata , e viziola, degenerarebbe in plebea fenza fallo.  Mer. Vedete dunque, che la sola nobiltà non dee attendersi, mentre voi medesimo la posponere al buon coftu.  Sem. Vi sono esempj di nobili savj, che abbiano sposate giovani ignobili?  Pub, Molcillimi. Vifu Teodofio lin. peratore , il quale antepose la figliuola di un povero Filofofo à cutte le più nobili, riconoscendola meritevole di tale grandezza , per la fua buona educazioac. Ed Abramo che desiderò, volen  do  [ocr errors] 1  70  me.  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] do prendere moglie? Uditelo das. Ambrogio : Difce quid in uxore queratur : "Non aurum , non argentam quafivis Abraham, non poffiones , fedt gratiam bons indolis : lib.i. de Abr. cap.9.  Sem. Nella bellezza, ò deformità fi dovrà cercare proporzione?  Pub. Qualche forta sarà bene di procurarla ; perche , fe diforme sarà il inarito , c bella la moglie, dirà ogni rivale, ammirato di questo; con Virgilio : Mopfo Nisa datur , quid non fperemus  amantes! ! Oltre di che in un continuo tormento di gelosia fi ponc, chi la prende éon fimile disuguaglianza; e tanto maggiormente , dicendo Giovenale :  Rara eft concordia forma, • Atque pudicitia. 21 che viene anche confermato dal Petrarca in tal guifa :  Due gran nemiche erano insieme ago gionte:  Bellezza, ed'oneftade Oltre di che poi  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] Fastus ineft pulcbris, fequitur superbiaus  formam .  Sem. Nelle ricchezze fi dee cercare od uguaglianza?  Pub: Quella appunto , che fu detta i dell'ecà , cioè, che sem pre fiano ad una  certa proporzione inferiori quelle della cala, con cui volete apparentarvi,perche, come disse ben Marziale :  Inferior Matrona fuo fit, Prifce marito, 4  Non aliter fiunt femina,virque pares..  Sem. Sc uno volcffe prendere moglic in lontani paesi, e di diversi linguaggi, indurrebbe questo disuguaglianza alcuna ?  Pub. Forse che si, quando non s'incontrasse donna di gran fenno ; perche il costume , e modo di vivere differenti, prima, che si accomodino a quelli, che troveranno , possono fare nafcere molti diffapori ; se pure potranno mai uniformarli; come ne dubitano Emilio Probo : Non cadem omnibus funt honefta atque turpia , fed omnia majorum inftitusis, judicant ; nemaque nibil rectum puosat, nifi quod patriæ moribus convenit. Ed Ovidio così canto: Nefcio que nasale folum dulcedine cun  stos Ducit , immemores non finit effe fui. Beo'è vero però, che in quei luoghi, fe Veducazione delle giovani fosse mi  gliore di quella del vostro paese, forse che potrebbe questa accrescere vantaggio a voi.  Sem. Se il marito farà dotto, indur. rà disuguagliáza l'effere la moglie ignorante  Pub. Anzi più tolo disuguaglianzas apporterebbc , fe fosse dotta, ed erudi-$perche come vuole Giovenale ; Non habeat matrona , tibi qua junctae  recumbit Dicendi genus , aut curtum fermones  rotatum. Torqueat enthimema, nec biftorias soins ? omnes, Sed quædam ex libris, non intelli.  Ed udite, come dice l'Ecclesiastico di  ques  [merged small][ocr errors] queste al 28. Lingua tertia mulieres vin ratas ejecit, o privavit illas laboribus fuis ; Qui respicit illam non babebis rea quiem , nec habebit amicum in quo requieJoar.  Mec: Posso a questo proposito riferire ciò, che è accaduto a tempi noftri. Vi tù un dotto Jurisconsulto, che aveva una sua figliuola, e volle addottrinarla nelle materie legali,cd avendo acquistato detta giovane molta perizia in esso le convennc,morto il padre, prédere,inarito, e si trovò la povera giovane talniente confusa nelle faccende domestiche, che si pentiva grādemente di avere applicato allo studio, dicendo: che mi serve ora di sapere le leggi, non avendo įmparato quello, che mi conviene fapele per governare la casa?  Sem. Già fu parlato della uguaglian. za, o proporzione , ch'essere dee tra l'uomo , e la donna intorno all'età ; ina se portasse la necessità , che un attempato unico della sua famiglia dovesse prédere moglic, pornon lasciarla cftinguc:  E  [ocr errors] re  re, ditemi, Dottore , quale sarà l'età, se non proporzionata , almeno più fe. conda della donna, con cui dovesse con. giungersi  Med. Quella, nella quale più facilmente li concepisce, ch'è tra i venti, e li venticinque anni.  Sem. Orsù Mecenate risolviamoci ambidue a prendere moglie, potendo ogn' uno di noi provedersela della medesima ctà, e non permettere , che la vostra famiglia si illustre fi cftingua in voi.  Mec. Credeva essermi già bastantemente spiegato nella prima conferenza, ma voi non avete capito le mic raggioni, tornando la seconda volta a configliarmi 'l medesimo, con mostrare premura maggiore per la mia descendenza, che per me; onde vi torno a dire, che nella mia età non è più convencvole lo aceafarli; dicendo Euripide :  Verùm fonecta jubet valere Cypridem,  Et ipfa rursus senibus infensa est venus. Quindi è, che Sofocle interrogato allorch'era già vecchio s'egli esercitava  [ocr errors] a più gli atti venerei : Iddio me ne guardi  diffe, che io mi sono guardato un pezzo fa da coresti, come da una impetuofa, e violenta tirannide, Valerio Mallimo lo riferisce.  Sem. Io ne domando scusa, dichiza randomi non averlo detto a questo fi  ne , Delidero ora faperc i pregiudizj; EI che apportano ne' matrimonj le disus guaglianze; ed in primo luogo ; fe faranno di genio differenti tra loro.  Pub. Dice Salomone: Melius eft habitars in terra deferia , quam cum mulieu rerixoja, litigiofa; onde vi potrete i figurare di vedere la casa piena di con  fufione, ove regnano genj differenti; * pofciache ciocche vorrà il marito, ve  nendo ad essere disapprovato dalla mo  glie, onon fi effettuerà, o per la meno I in qualche parte verrà variato, e que  Ito medelimo darà occafionc à discordie perpetue tra effi , fe il marito non averà la prudenza di Giove , cui  Giunone si opponeva sempre come vuoo le Omero,Dum moliuntur,dum comitur annus est.  Sem. Ed il rimedio per questo, quaEin le farebbe?  Pub. Lo diremo a suo tempo. . Sem. Ho conosciuto marici alti due  palmi più delle mogli, e il doppio più i grossi, ne da questa disuguaglianza ho veduto seguirne inale alcuno.  Med. Ed io ; che fon più vecchio di voi, ho medicato più d'una di questo nel tempo, che stavano per partorire, ridotte a termine di morte, per non poter dare alla luce i loro figliuoli, se non dopo alcuni giorni , e coll'ajuto del  Chirurgo, e di queste, alcune sono pei rite. Succederà a quelle di avere parto  felice che nella gravidanza avendo fi avuta inappetenza grande, il feto si sarà  poco nudrito; e perciò rimanendo picciolo, questi non averà ftentato ran  to nel uscir fuori; o pure la cassa del o corpo della madre, con quanto è neces  sario, per rendere meno difficile il parto , sarà stato in queste proporzionato al bisogno. Ma preventivamente alcu  [ocr errors] ne di queste cose non costumandoli ri. conoscere tra noi , conforme appresso alcuni popoli li faceva, e perciò, per esimerki da tal pericolo, conviene riAeterle prima del maritaggio, toccan. do questo a'padri di famiglia.  sem. Sc un bel giovane prendeffe per moglie una donna deformc , che male potrebbe ciò apportare?  Pub. Niuno, quando però foffe egli fodisfatto, e la donna fosse prudente, e non l'avesse presa per cagione di grofsa dote; perche si farà quest'invaghito delle sue rare qualità, ed averà egli facilmente appreso da Salomone ne' suoi Proverbj, che: Fallax gratia , e vana eft pulcritudo : mulier timens dominum ipfa laudabitur.  Sem. E se il motivo di prenderla foffe Itata la dote  Mec. Seguendo per lo più simili deliderij in giovani , i quali penuriano di beni di fortuna, la pace tra essi dyrerebbe lintanto, che la dote foffe in picdi: mà appena consumata questa , allo.  ra  1  [ocr errors] racomincierebbero reciproche doglian. ef ze; quelle del marito sarebbero, diri.  trovarsi vicina la moglie deforme, e della donna di non vedere più la sua dote, Caduceo di pace tra di loro.  Sem. Dandosi però vincolata , ciò non potrebbe seguire .  Mec-Non si può ottenere questo in limili disuguaglianze ; perche vogliono tali sposi libero il danaro, per vincolarsi cili colla deformità della moglie, finche dura la doce.  Sem. Non so capire perche s'abbiad d'apparcntare con casc men facoliose ; perche questo apporterà. svantaggio nella dote.  Pub. Ma però quiere maggiore, ove entrerà limile sposa; perche quella giovane , la qual’esce da una casa, ove con gran laurezza viveva, difficilmente po  trà acomodarli alla vostra, ove 1101 i potrete con quel fasto trattarla ; onde  da ciò ne nasceranno amarezze continuc ; o pure (arece forzato , volendola consolare, ad impoverirvi prestamente.  E4  Sen.  of  [ocr errors] Sem. Il prendere una moglie nata in paesi lontani potrebbe forse recare gran vantaggio ; perche non avendo parenti vicini, sarebbe più ossequiosa al marito, nè lo disgusterebbe, e ciò farebbe felicità grande.  Pub. E voi credete, che 'l Padre fia sì sciocco, che non penserà ancora di raccomandarla à chi lia d'autorità , acciocchè le assista in caso di bisogno? c quando avesse cgli difetrato in questo, credere voi, che chi parte dal suo pae. sc, sia così insensata di non sapere col suo ingegno trovare chi la protegga in un suo urgente bisogno? Qual patrocinio cal volta sarà molto più autorevole; ed efficace di quello, potesse ricevere da suoi congiunti: non v'invaghite di straniere, se non in caso, che mancare sero donne del paese, ove voi dimorate.  Mec. Sono andato più volte rifectendo, che non sarebbe forse svantaggio lo sceglierla , non dico da paesi remoti, ma da città convicine, e mi ha mosso  que  in questo pensiero Giovenale, con dire  Malo Venofinam , quam te Cornelia  [ocr errors][merged small] Grascorum , fi cum magnis virtutibus be  affers Grande supercilium, & numeras in dos be  te sriumphos ; id Perche queste riescono più docili, eve  nendo in città più nobile, gradisco no ?: quanto si fa loro, più delle proprie cita tadine, e fogliono ancora eslerc meno dedite al luflo ,  Pub. Vi sono le sue difficultà in queste i .  ancora . Imperciocche Carone, con e tutto che fosse uomo sì faggio, quanti di guai ebbe con la sua moglie Acrorias I Paola, quantunquc povera, e nata in ¿ un villaggio ? fu questa superba, vio2 lenta , e debole di mente. Laonde a tal  propofito S. Girolamo lib. 1. in Joviniznum diffe; Nequis putet si pauperem dy  xerit fatis fe concordie providili &c. E bij maggiormēte ora che il lusso ha polto il  piede da per tutto; ne crediare che vorranno vestirc con minore pompa delle  E 2  Fu    [ocr errors] Junonem autem non adeo accuso, neque  irafcor, Semper enim mihi consueta eft impedire  quidquid intelligo, Sem. Ma quale rimedio ci sarebbe in questo caso per fuggire le discordie?  Pub. Conoscendo' voi il costume di vostra moglie, che sia di contradirvi, come espresse Terenzio,  Novi ingenium mulierum  Nolunt ubi velis, ubi nolis   Cupiunt ultro. In questo caso ordinate tutto l'opposto di ciò, che bramare, per esser ubbidi  to.  : Sem. E se avesse poco fervore nellas pictà, e trascurassc alquanto gli affari domestici, scorgendo quancunque suo marito attcntiffimo a tutto?  Pub. Sarebbe segno, che avesse altre cole, credute da essa di premuras maggiore di queste , che le andasse. ro per la mente; perche non si trascurano affari si rilevanti, se non da quel. le, di cui disse Terenzio ;ciccadine, se non s'incontrerà in savie, c prudenti.  Sem. Mi piacerebbe di avere una moglie, la quale mi sollevasse con qualche storietta ; perche dunque il fatirico dice: Nec historias feiat omnes?  Pub. Perche, con sapere le donne molte storie, essendo cosa facile il poterG abusare di qualcuna di esse, niun vantaggio vi apporterebbe ; e sappiate che ci sono libri molto lascivi, i quali non comple in conto alcuno, che da esse si leggano, confessando tal verità Ovidio medesimo quantunque fosse impudico, con dire : Eloquar invitus, teneros no tange  poetas , Summoveo dores impius ipfe meas . Callimacum fugito non eft inimicus e  mori, Er cum Callimaco tu quoque Coe noces . Carmina quis potuit tutò legifeTibulli ? Veltua, cujus Opus , Cintia fola fuit ? Quis potuit lecto durus difcedere Gallo? Er mea, nefcio quid, carmina tale fo  E  [ocr errors] [ocr errors] E poi due cose non si possono fare: die vertirsi nel leggere, e reggere la casas;  e dovendo a voi premere la secondands ( conviene ch'essa abbandoni la prima ; ¢  sappiate, che Giovenale dice a questo proposito  Quis ferat uxorem,cui conftent omania?  Mer. Plutarco però dice, che sarebbe di profitto al marito d'istruire la mo* glie nella geometria, ed in alire cores o dottrinali, ed onoratissime ; perches ď allora si spoglierebbe affatto delle leg.  gierezze, e vanirà de pensieri , e si aAterrebbe dal danzarc,  Pub. Che la moglie s'istruisca nei buoni documenti morali, e di pietà da mariti è cosa ucile, e lodevole; maw,  che s'impieghi ad apprendere la geomei tria , quando fi trovare inadre di più fi:  gliuoli, non so come le potesse riuscire  avendoli d'intorno , per lo strepito ch' delli fanno ; se poi fi allontanaffe da elli ,  ecco che l'educazione loro anderebbe a male. Sarebbe ciò solamente tollera. bile in una donna itcrile, avendo servis  tà  tù sì buona, della quale si potesse ad chiusi occhi fidare, per divertirsi con tale scienza, c passare la noja che le recherebbe il trovarsi senza figliuoli; per altro se abbiamo d'aspettare , che las geometria tolga la yanità donnesca, regnerà questo difetto per sempre nelle donne : e poi la mia moglie, che nulla sa di geometria, odia la vanità, ed i balli; dunque possono fuggire detti vizi quelle ancora, che non sono geome  tre.  Sem. Vorrei sapere distintamente, che cosa fia questo matrimonio ; perche dovendomi accasare bramo di esserne informato, per non operare alla cieca in così rilevante materia ?  Mec. L'udirete da me nella venturas conferenza.  CON  [merged small][ocr errors][ocr errors] Sopra gli antichi costumi , praticati   apprello alcuni Popoli per la gene-    razione; e se sia più vantaggioso      lo scoprire scambievolmente            i proprj corporali difetti ,           prima di sposarsi,   o l'occultarli..  Mecenate, Sempronio ; Publio  e Medico.  i Mec.  On mi ftéderò molto nel riferirvilan. tichissima libertà de? Greci, nè tampoco l'incestuoli  modi de' Persiani, praticati ne gli atti conjugali, per non contaminare le vostre orecchie; mentre i primi a guisa di bestie moltiplicavano, conoscendo i figliuoli solamen  te  te le loro madri, comme scrisse Tzetzes Iftorico  Gracorum priùs mulieres per Greciam,  Non quemadmodum nunc , conjunge-        bantur legitimis viris,  Sed inftar jumentorum mifcebantur om-        nibus volentibus ;  Erant igitur unius naturæ tunc filii ,   Sobas agnofcentes matres , non patres, Ed i secondi non avevano orrore di esse. re figliuoli, c mariti, come riferisce Catullo, Nafcatur magus ex Gelli, matrique  nefando Conjugio , con discat Persicum aruspi  cium ,  Nam Magus ex matre, donato gigne       tur oportet i  Si vera eft Perfarum impia religio.   Sem. Ma il Cielo lasciava impunici fi effecrandi delitti  Mec. Non già; perche, come si ricaya dal fudecco Tzetze furono mediante il diluvio puniti, dicendo egli in appreffo.a         Poft illud , quod in Ogygis tempore inci.         dit diluvium ,  Cecrops acceffit ad Aibenas Gracia,  Has Ashenas cū vocaffet ex Soi Ægypti,  Cum multis aliis rebus commoda vis   Gracia; Tùm lege conftituit mulieribus nuptias 5  legitimas, 1M Ex quibus filii cognoverunt duos pa  rentes. Anzi  per farvi conolcere , che la natura stessa abborrisce l'incestuosi connubj, vi posso apportare molci csempj de bruti, tra quali, non solamente il camelo lo ha in orrore, uno de' quali ammazzò il suo cuftode , che lo ingannò a coprire la madre, appena avvedutofene , coine riferiscono Aristocile , ed Eliano ; ma Plinio ancora racconta, che nellad campagna di Rieti vna cavalla avvedu  tasi di questo, immediatamente si prei cipitasse, e Varrone fcriffe, che un ca  vallo per la medesima cagione faceffe tale impeto contro il suo armétiero, che l'uccidcffe:e dell'elefante raccora il me  deliof  desimo avvenimento Nicolò Lirense.  Sem. Ma come faceano a riconoscersi i figliuoli da' Padri,avendoli cosi confufamente generaci . ; Pub. Appreffo alcuni Popoli, allorche i figliuoli aveano compito il quinto anno, quei, che più li assomigliavano a gl’incerti padri, erano tenuti da essi  per loro figliuoli; come racconta Stob. Ser. 42.  Sem. Quanto è stato peggiore il mondo in quei tempi di quello fia oggidi !  Mec. Se voi sapeste il rimanente, ftu. pirere anche di vantaggio.  Sem. Eche, vi sono state altre scelleratezze ancora?  Mac. Contentatevi di non udire altro per ora ; e lasciate simili notizie , per quando farete più proveito : passiamo aderlo a' tempi incno infelici. Ristabilito, che fu il matrimonio, s'introduffe da alcuni popoli il contratto della vendita delle loro figliuole, cioè da' Greci, Traci; Aliri, Arabi, Indiani, ed al, tri, come da Tiraquello nelle sue leggi  COS  [ocr errors] [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] · conjugali si racconta, e Sofocle intro-  o duce le donne, che cosi favellano fo-     pra dició:       Ubi verò ad pubertatem hilares perve-        nimus  Pellimur foras, atque divendimur  Procul à Diis patriis, a parentibus,   Alia quidem peregrinis, alia barbaris. De' quali parlando Pomponio Mela riferisce, che: proba , formof&que in pretio erant .  Sem. In quei tempi saranno stati con: ienti i padri, nascendo loro figliuole , e non già mesti, conforme ora sono, che debbono dotarle, mercecch'essi al-,  Jora ne ricevevano utile grande; oltre I di che saranno state anche molto più cu  stodire queste mogli a caro prezzo com* prate di quello si faccia ora, ch'effe b con grosse doti comprano noi; poiche  offervo, che se un cavallo ci costa molK to, abbiamo somma premura di esso.  Mec. L'interessati padri può effere, di che lo faceffero, ma non già i buoni, che le amavano, e perciò riflettevano,  F  [ocr errors] ancora, che se non portavano dote le loro figliuole, non acquistavano, ovc foffero entrate, dominio alcuno. Ele mogli fi ftimano c rispettano ancor adeffo da giusti, e saggi mariti , per questa modelima cagione ; e poi quelle, che portano grosse doci fanno ben farli portare rispetto anche da’mariri non favj , dicendo Giovenale : Intolerabiliùs nibil eft, quam fæmina  dives. Dicendo ancora Cleobulo appreffo Stobeo: Si babebis uxorem ditiorem , aut nobiliorem, dominos habebis , non affines. In oltre si costumava da altre nazioni ancora comprarsi dalle mogli i mariti; conforme fi ricava da Virgilio; Teque fibi generū Thethis emas omnibus  undis. E Boetio, nel lib.z. de Commenti alla topica di Cicerone, così parla.  Tribus modis uxor habebatur,usu,farre, & coemptione ; fed confarreatio folis Ponsificibas conveniebat; quæ autem in mamum per coemprionem conveperat , hæc  [merged small][ocr errors][merged small][ocr errors][ocr errors] mater familias vocabatur &c.;  Sem. Si è costumato in alcun tempo, che non fa corsa tra contracnci dote ale cuna ne’inaricaggi?  Mec. Nelle leggi di Solone, Licur. go, e di Platone fu stabilito questo ; ben è vero però, che la sperienza has fatto conoscere, che fuccedevano più di rado i matrimonj , per non effervi il suo fuflidio dotale ; essendocche  pochi vi erano', che volessero soccomettersi al grave pero di essi, senza il follievo della dote; onde vedendoli dan ciò risultare notabile danno alla Republica , la prudenza Romana ftabilì con leggi le doti,da consegnarsi alle figliuole , per sostentare non solamente li peli del matrimonio, ma per allettare maggiormente ancora, mediante effe, gl uomini a prender moglie, come disse il Satirico, Veniunt à dote sagitsa .  Pub. Erano certamente troppo pregiudiziali fimili leggi, dalle quali lcfcludevano le dori; c perciò Aristotilo discordò dall'opinione del suo Macftro Platonc provando ne' suoi Problemi , che fia cosa obbrobriosa prendere moglie indotata ; e che sia anche gran pazzia di colui , che lo facefle , dovendo egli riflettere al peso, che se gli accresce: onde sopra di ciò interrogato Anafsandro, cgli 'rispose ; che sarebbe divenuto servo certamente colui il quale bisognoso prendeva moglie indotata; perche in vece di se solo, dovea alimentare più persone. Quindi è, che con somma prudenza fu risoluto nel Concilio Arelatcose; che non si dovesse fare matrimonio alcuno senza dotc , como riferisce il Fontanella.  Sem. E' stato costumato da nazione alcuna il prendere più d'una moglie nel medesimo tempo  ? Mec. Anzi tuttavia dagl'infedeli fi pratica ; ben è vero però, che tra eli le mogli sono trattate , come schiave , tenendosi racchiuse , e guai a voi, Sempronio, se vi fosse permesso più di unas moglie , allora vedreste in che travagli maggiori vi porrebbero le donne , che  go  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] godono la libertà, ond'è stato fantisfimo il provedimento , che unica fia la conforte.  Sem. E da chi ebbe origine, questo matrimonio in fimile forma?  Pub. Dal grande Iddio ; posciacche, crcato Adamo, formò Eva, e glicla died'egli medesimo per conforte; onde ad iinitazione di questo gran matrimonio dce ogni fedele contentarsi di una's fola compagna, e di rispettarla ancora, conforme fece il primo marito, il quza le allorche la ricevette per sua sposas, così disse : Hoc nunc os ex ossibus meis, caro de carne mea , hæc vocabitur virago, quoniam de viro fumpta eft : quamobrem relinquer homo patrem fuum, a matrem,  adbarebit uxori suæ, derunt duo in carne una; e da ciò comprendere, quale ftima li debba fare della propria moglie.  Sem. Ma tornando alle doti, queste da principio in che quantità furono ftabilire ? Mer, Non fu allora ciò determinaco,  ben  [merged small][merged small][ocr errors] F 3  ben è vero però, che in appresso, essendo divenute ecceffive, furono stabilite in una certa quantità, secondo le condizioni delle persone ;. e particolarmçate nei domini, ben regolati.  Sem. E questo viene offervato?  Mec. Qualche volta, ma non sempre; fentendosi assegnate a caluni in fommas più considerabile degl'altri,quantunque fiano della medesima condizione  Pub. Mi piacerebbe lo stabilimento fiffo , secondo lo fato delle persone, ma da che proviene questa inosservanza?  Mec. Dal lusso accresciuto, il quale effendosi anch'esso posto tra le spese necessarie per il sostentamento matrimoniale, viene anche considerato per tale da chi dee accasarsi ; e perciò dice, tanta dote io voglio , per pocer fare quello, che si costuma dagl'altri.  Pub. Qnando io preli moglie, e per qualche cempo in appreffo , & contentava ogn’uno di ricevere competente dore; perche questo lusso di oggidi non non vi era.  More  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] Mec. A tempo ancora, che vivevas Gnco Scipione, le doti parimente erano molto proporzionate al vivere di allora , ascendendo la più pingue, quale ebbe Magulia, che fu chiamata las dotata, a cinquecento mila affi, come riferisce Valerio Maffimo.  Sem. Non erano dunque si tenui les doti ascendendo a tanta somma.  Mec. Avvertite Sempronio, che gli affi non erano già scudi; ma solamente ogo’uno di essi arrivava appena al valore di quattro de' noftri quattrini di rame; onde turci icinquecento mila afli formavano la somma di circa quattro milas fcudi de' noftri; e poi le più frequenti erano di dieci mila asli, come ebbe Tacia figliuola di Cesone , il quale non era ignobile, e cal somma appena ascendeva a scudi ottanta,  Sem. Ma da che proveniva, che corressero doti si tenui in quei tempi ?  Mec. Non da altro, che dal non efservi lusso, Sem. Ma perche non si pone dal Prin  cipe  [ocr errors][merged small] F4  cipe sopra di ciò la prammatica ?  Pub. Perche aon ci è bisogno in queIto della sua autorità.  Sem. Come non ci è bisogno?  Pub. Ditemi, Sempronio, se voi poteste senza l'autorica del Principe far cosa, che fosse anche di sua fodisfazione, vi sarebbe bisogno della sua autorità per farla?  Sem. Non ci sarebbe certamente di uopo di essa.  Pub. Or ditemi, s'è in voftra libertà, nel farvi un'abito , spenderci 50. ò pur 100. scudi , ed in una carrozzas 500.Ò 1000. in questo vi astringerà forfc il Principe alla spesa maggiore?  Sem. Certamente, che no;  Pub. Perche dunque non lo fate confiftendo in qưesto la prammatica ?  Sem. Perche gl'altri non costumano di farlo.  Pub. Or dunque domandate a questi, che pongano efl'la prammatica, non al Principe, il quale non comanda, che fi ecceda gel lufto,Mec. A questo proposito essendo ftato supplicato Tiberio , a porre moderazione all'eccellivo lusso, che correvad in quel tempo, egli negò apertamente di farlo, dicendo come riferisce Tacito: Pauperes neceffitas, divites fatietas, Nos pudor in melius muter; onde da ciò comprendete , che noi siamo i padroni di prendere quelle misure, che più ci aggradano nei nostri trattamenti ; & udite da Tacito medesimo, come mai lo espresse al vivo nel secondo de' suoi Annali: Cur ergò olim parfimonia pollebat? Quia sibi quisque moderabatur : non ritrovandoli Gneo Fabrizio, e Quinto Emilio, che un tondino, ed una saliera di argento, per servirsene nei sagriticj; per altro tenevano da se lontano ogni luflo , conforme fecero ancora i Publicoli, i Curj, i Scauri, & altri valoroG uomini, i di cui pensieri non si aggi. rayano già intorno alle ricchezze, ma bensi agli onorevoli Consolati alle me. ravigliose Dittature, ed ai Trionfi , per çimagcre immortali nella pofterità: cos  me  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] me riferisce Valerio Malimo :  Sem. Hò capito a bastanza, e conofco, che il mancamento viene da noi. Notificatemi ora, Dottore , quali sono questi difetti corporali delle donne, i quali voi meglio degli altri conoscerere:  Med. Non posso servirvi in ciò, ele sendo che quanto sò di occulco, non, debbo palesarlo.  Mec. Il Dottore è compatibile in questo, perche s'entrasse egli in disgrazia delle donne, potrebbe dire di aver finito di fare il Medico; imperciocche, comincierebbero queste a dire, che tutti di suoi infermi muojono, e perciò sias sfortunatissimo nel medicare, e di vantaggio sia un vecchio stordito, che non sappia ove si abbia la testa; e sapere purc, che queste muovono gl'animi colla loro eloquenza più di Demostene; onde lo porrebbero in una totale defiftimazione, non facendoli scrupulo alcuno di far ciò quanrunque fosse di pregiudizin grande a professori, il dicui merito effe non sanno conoscere, per vedersi  [ocr errors] [ocr errors][ocr errors] da effe anteporfi gl'adulatori a questi.  Med. Non è questo il motivo, che mi ritarda il palesarli, ma bensì, l'avere io qualche segreto di cal’una, che si trova con qualche imperfezione, onde non vorrei , che mi credesse manca. core di fede , figurandofi, parlaffi di lei: per altro, non mi ritarderebbe già di farlo quello, che voi avete accennato; perche, se dicessero mal di me, diverrei Medico fortunato, essendo che non me . dicando , non mi potrebbe morire alcuno, e per questo riposo ancora goderebbe la mia mente tranquillità maggio  [ocr errors][ocr errors] re.  Mec. Queste sono belle rifleffioni, ma - però ad ogn'uno piace l'effere adopera  to, e questo senza protezione difficile mente si conseguisce.  Med. Piacerebbe a me ancora quan. do ciò non distruggeffe il mio indivi.  duo ; e cercherei ancor io queste pro- tezioni, quando accrescessero dotčrina ;  ma non potendo le stelle cramandare i quci benigai inguda, ch'effe non hanno  onde  onde per tal cagione mi persuado, che queste ancora non potranno addottrinare. Voi conoscere il mio naturale ; di grazia non diciamo altro.  Sem. Se non diremo altro, non termineremo la nostra conferenza, ed io rimarrò senza essere istruito.  Mer. Vi consolerò io , ch'essendo già vecchio, niū fastidio mi prédo delle doglianze feminili, non curandofi esse più trattare meco. Vi persuaderete forse, Sepronio, che tali difetti personali occulti sieno cose grandi , essendo, che il Dottore ricusò palesarveli? questi non sono altro, per quanto mi vado immaginando, che un poco digobba, la quale viene ben uguagliata da buftini ripieni nella parte mancante . Sono qualche palmo di giunta ne'calcagni, per potere coparire al par delle altre ; qualche piaghetta,ò fistola occulta,o ferore di naso, ò di bocca ; ò pure altro impedimento, mediante il quale si rendono infeconde: Ma non crediate già, che tutte le donge abbiano fimili imperfezioni , effen,  do  [ocr errors] do solamente alcune poche queste così  imperfette.     Pub. E' certamente curioso quel caso  riferito a tal proposito da San Vincenzo  Ferrerio nei suoi fermoni. Aveva un  giovane sposato una donna , la quale  gli parea di giusta ftatura , rimase poi  cgli quando la vide porsi a letto manca-  ta in un momento per metà. Dubito da  principio, che gli fosse stata cambiata,  mà miratala bene in viso, si avvide effe.  re la medesima , onde stimò bene dirle,  cosa avesse fatto dell'altra metà della  sua persona ; l'accorta non fece altro ,  che mostrargli le sue pianelle, ò tram-  pani per la loro grandezza, che appun-  to allora si era cavati, i quali non erano  inferiori all'altezza della base di una co-  longa.   Sem. Fra tutte l'accennate imperfec zioni, niuna mi darebbe maggior faItidio del fecore del nalo, ò della bocca ; perche io, che sono dilicato, non potrete credere , che avversione ciò mi recherebbe; onde di questo , prima difpofarla, voglio ben'accertarmi in vicinanza tale, che possa scoprirlo io medefimo.  Pub. E che ? forse temete, udendolo per relazione altrui, d'incontrare las bontà di quelle donne, che redarguite, perche non avessero palesato il fetore della bocca de loro mariti, effe rispofero ; che credevano , che tutti gl'uomini odorassero in quella forma? D.Hier. in Jovin. Sem. Come si potrebbe fare per  isco. prire quefti difetti corporali occulti?  Mec. Doverebbero palesarsi reciprocamente alla prima, altrimenti, essen. do il matrimonio un contratto, vi farebbe inganno, ciò non facendosi : E fe nei contratti delle compre de' schiavi, ò cavalli, quando la frode fi scuopre, esli si possono riscindere, così mi persuado, che sia in questo, cadendo-yil'inganno in cose essenziali alla fecon- N dità; oltre poi, quando non si poteffc riscindere , quante occasioni daranno di perpetui disturbi tra di effi fimili diferti.  Sem,  [ocr errors][ocr errors] 3  Sem. Şi è dato mai il caso, che siang palesati questi prima delle nozze?  Mec. Molti esempj ci sono, e tra gli alori, quello di Crate Filosofo Teba. no, cui portando grand'amore Hipparchia, la quale aveva non inferior genio col Filosofo , che colla sua doctrina , onde richiedendolo per marito, che, fece egli ? si scoprì il dorso, cmostrolle la sua gibbosità; e di poi posto in terra il maorello, bastone, e tasca , che 2veva, le disse: Signora, queste sono tutte le mie supellectili, la mia defor mirà già l'avete veduta, onde considerate seriamente ciò, che fare per non.  avervene a pentire . La saggia donnarei plicogli, che aveva già sufficientemen  te proveduto ogni bisognevole, e confiderata ogn'altra cosa, e perciò credeva, che più bello di lui, e più ricco non fosse nato al mondo; onde che l'avesse pure condotta dove voleva , come sua moglie . Ed il simile fece ancora nel discoprire la sua gibbofità il Padre di Sergio Galba a Livia Occellina Daman  mol  per mo  molto ricca, è bella, per non ingannarla.  Sem. Bisogna, che queste non credersero deformità svantaggiosa la gobbas de’loro mariti , perche hò osservato i figliuoli di cocefti molto diritti , e belli; mà vorrei sentir riferire qualche caso di donna, che avesse scoperto all'uomo i suoi difetti.  Pub. Vi fu una giovane bellissima amata teneramente da un Gentiluomo, il quale avédola farta chiedere glie , fi scusò ella di non poterlo compiacere, onde da simile ripulsa s'accese di desiderio maggiore , per averlas; mà che fece la savia giovane, vedendo , ch'egli non defifteva ? gli fe intendere, che lei medesima gli averebbe palefata la cagione, per la quale ritardava di condescendere alle sue brame, e c011"certato il luogo , ed abboccatisi insienie gli scoprì il suo petto , e felli vedere un canchero , ch'aveva in una zinna, dicendogli,Signore, questa carne, ch'è incominciata ad incadavcrirli voi amato  [ocr errors][ocr errors] ta  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] canto! Rinase egli confuso nel rimira, re tale spettacolo, il quale frenò in gran parte quell'ardente amore, che le portava's desistendo in avvenire di farla più importunare.  Sem. lo credea , che le donne non fossero facili a scoprire i loro difetti, sarauno però rari questi esempi :  Mec. Il simile credo anch'io, e da ciò facilmente oasceranno molte contese cra mariti, e mogli , d'onde provengono i divorzj, e fe li palesaffero alla prima scambievolmente i loro difetti, forfe che non seguirebbero; posciache essendune ainbidue consapevoli, non li pom trebbero allora dolere, se non di loro medefimi.  Sem. Perche non si potrebbero fare ri. conoscere ambidue prima del matrimos nio per meglio accertarsene?  M26. Questo ripiego fu disapprovato, quantunque lo aveffe proposto Platone; onde che fi dirà apportandolo you?' Evi pare, che l'oneltà lo debba permettere? Appena le leggi Romane antiche tolle.  G  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] [ocr errors] 98 Conf. 4. Dec. prima il rarono una tale ricognizione nell'uomo, proibendola efprenainente nelle donne: e re Platone aveffe osservato cioccheri feriscono Plinio, e Solino, che i cadaveri delle donne galleggiano sù l'ondes con il ventre all'ingiù, e degli uomini all'opposto, cercamente, che averebbe appreso dalla natura il documento di doverte, trattare con maggior onestà, vedendoli naduralmente risplendere un non fo che di modestia in eile, anche dopo morte. 1. Pub. A questo propofito lessi in Plufarco, con mią grande ammirazione, ciocch'egli racconta di quelle Vergini Milelie, le quali , divenute pazze a cagione d'influenza peftifera,che ivi vagava, erano forzate dal loro delirio a morire appiccare, e questi spectacoli giornalmente fi trimiravano nella Città di Mileto ; fenza che le preghiere, e le dagrimé de' genitori potessero impedirli; solamente il contiglio di un Savio porè rimuoverlig. e fu di procurare con decreto del Senato, che tutte quelle,che si sospendessero in avvenire , forfero esposte nude in nezo alla piazza a vita di ogniiuno:Indusfe nella fancatia di cucina te le giovani tale spavento, ufc4to sopra di ciò l'editto, che manco affatto Porrido fpettacoto, aftenendoli age'unas in avvenire di farlo ; perche concerioz per cola assai peggiore perfere veduta ignuda , benche morta, che vestica ap. piccata .  Med. Due altri fatti poffo riferire anch'io di donne savie : Polisena fu unas di queste, di cui così ne parla Euripi  de,  At illa jam moriens tamen  Multum providit , ut honeftè caderet .  Celaretque', que celare oculos virorum   oportet i Ed Ovidio ancora, nelle sue Metamor, foli, così dice della medesima , Tunc quoque cura fuis partes velare,  pudendas Cum caderet , castique decus fervare;  pudoris ; E l'altra fu Olimpia madre di Alessan  dro il Grande , che trovandoli proffiina alla morte, con i propri capelli, e vefti ricopriva ciocche l'onestà non permetteva - Acimirasle scoperto .  Sem. E chc G farà delle belle, delle ricche, e delle brutte, e povere ancora , come troveranno queste marito?  Mes, L'udirete in appreso.  [ocr errors][ocr errors][merged small] [ocr errors][merged small] [ocr errors] Nella quale si mostra, in che modo        si maritino le belle, le ricche,         e le deformi quantunque   povere.  Mecenast , Sempronio , Publio ,  & Medico.  Mec.  A lunga sperienzando  che hò del mondo, grá cose mi ha fatto conoscere intorno a_matrimonjoli qua,  li per essere contracti, come fu detto, hò scoperto in effi ancora i suoi scnsali , conforme fono negli alori trafichi. In quei fatti a doves re de quali già parlammo hò offervato sempre mezana la Prudenza, la le non già di approveccia di alcuna fensaria per se medesima, come sogliono  qua,  praticare gli altri sensali dc' matrimo. nj.  Sem. Quali sono questi altri?  Meci Amore , l' Ambizione, e las Bugia.  Sem. Che fofle Amore sensale Ò, 'mezano de' natrimonj' lo sapevo anch? io; ma questi alori mi giungono nuovi; e come mai l'Ambizionc potià trattare i matrimoni?  Mec. Vi sarà una giovane brutta ral. volca , e povera , c perciò Amore l'averà abbandonata'; ma perche si trove rà umfratello, che si potrebbe avanzare nelle armi, ò nelle letrere, che farà l'Ambizione? li metterà a trattare il di lei matrimonio, e con motivi si efficaci darà ad intendere , che da quel mari. taggio, ne risulteranno vantaggi tali a prò di quel giovane, cui la propong, che lo porranno in grandezze, edonorificenze molto considerabili in breves tempo  - Sem. Ma non li avvede, ch'ella è de forme  Mero  Mec. In questo l'Ambizione s'inge. gnerà di non fargliela comparire tanto brocca con mostrarli, che ci sono tante più deformi di effe, le quali pure hanno trovato marito; e di poi gli caricherà tanto le specie dell'apparence bene futuro, che arriverà ancora , quantunque. fyfle brutiifiina a fargliela comparire vaga a segno, che lo farà divenire diella amante.  Sem. Ma questi sarà impazzito, se non diftinguerà ciocche a leoli esteriori si fa palese.  Mec. Credere forse voi,che solamen. ce Amore faccia impazzire gli Orlandi? l'Ambizione ancora è capace di farlo; e questa appunto è la sensaria, ch'ella brama: cioè di vedere fuori de'suoi sen. rimenti anche gli uomini savj, e talvol? ta quelli ancora , che si stimavano capaci di dare ottimi consigli ad altri.  Sem, Ed Ainore, che fensaria ritraer da? suoi maritaggi?  Mes. Non altra ; che di vederli in brieve tra di loro disgustati, essenda,che come si luol dire per proverbio; chi per amore si prende, per rabbia li lascia.  Sem. Ela Prudenza , che ne ritrae di sensaria?  Mec. Di vederli con perfecta pace tra elli, di sentirli dire con Aufonio trai di loro : Uxor vivamus , quod viximus', dove  teneamus, Nomina, qua primo fumpfimus in than)       lamo :  Nec ferat ulla dies, ut commutemur in      Ævo,  Quin juvenis tibi fim, tuque puellas   mibi. Sem. Questa per verità è un'ottima fenfaria, che volentieri si può pagare da curti,e con fomino diletro.Ma palliamo ora all’Avarizia ; com’enera questa nei matrimoni, vedendosi introdottas oggidi tanta pompa , e splendidezza in elli , che pajono più costo trattari', u regolati dalla prodigalirà sua nemica.  Mec. Cosi non ci cotraffe: : vedrete una giovane non solamenté bructa, ma  [ocr errors][merged small] anche mal sana , ricca però affai: e chi mai [poserebbe questa , con cucce le sue ricchezze, se l'Avarizia non trattasse il suo parenrado ?  Sem. E come mai ella opera ?  Mer. Si porrà d'intorno ad un bel giovane, ma povero , e gl'infinuerà, che quel partito potrebbe farlo divenia re molto riccbi e gli riempirà la testad fcema, che si ritrova, di molte, ei molte migliaja di scudi; dicendogli , che potrà allora godere, e stare allegramente; e susurrandogli qualche altra cosecca di più alle orecchie, lo farà fare in tutto, e per tutto a suo modo; fenza che gli amici lo possano più rimuovere con tutta la rectorica di Cicerone, e l'energia di Demostene.  Sem. Questi ancora mi sembra un paz-s zo. Ben è vero però, ch'è caso raro , effendoci fatto divenire dall'Avarizia i posciache i suoi seguaci non buttando il loro non sono tenuti pazzi; conformea potrà contestare il Dottore', che conos sce, che cosa fja pazzia,  Mede  [ocr errors] Med. Cilono però diverse specie di questo male; laonde se non sono di quefta fpecie di di:Sipare il loro gli Avari sa-, ranno di qualche altra; mentre alcuni di essi, per non ispropriarli del danaro , divengono tiranni di se medefimi i ed inoltre, quanti Avari vi sono stati, che per leggiere cagioni hanno dato la morce a se incdelimi , e quetti di riputere: voi forse savj? e tornando al caso proposto, à me pare, che per  avarizia coftui spreghi il meglio, che si ritrovas, ch'è appunto il fiore delli suoi anni, spofando una donna mal fana, e brutta . ..Sem, Che sensaria mai può guadagnare l'Avarizia in far questo? » Mer Ella spera di potere acquistare tanti seguaci di più, quanti poveri arricchisce per questa via, essendoche quando erano poveri, non potevano : cflere Avari, perche non avevano mo-> do da cumulare i dove che arricchiti poffono averlo ..  Sem. Mà come potrà avanzare? dicendogli, che faute, che avesse il pa.  ren  rentado, averebbe goduto, e sarebbe ftato allegramente , e questo non si può tare da quelli , che vogliono cumula  Meo. Voi non capice il parlar equivoco dell'Avarizia ; ella non già intende il godere , e stare allegramente dispendiofo , ma bensì quello di cumulare , creduto da efla , e suoi seguaci piacere , e contento maggiore di tutti gli alori"; è ben vero però, che in questi cali rimane ella fovente delusa ; posciache i giovani dislipano tanto in tali occalioni, che bene spesso si pente l’A. varizia di esservisi ingerita.  Semi Com'entra la Bugia ne'matri. monj?  Mec. In quanti se ne fanno, senza le direzioni della Prudenza essa vuole-ingerirsi, e per un verso; d per Palero ci vuole avere in questi la sua parte. 7  Sem. Si dice però communemente, che la Bugia abbia le gambe corte, onde fi fcoprirà, e non potrà perciò fare breccia. diri  Mele  1  Mec. Non è così perche non opera già sola. Se Amore per esempio trarre. rà un parentado, essa pronta vi accorre, e si affatica tanto per fare apparire quel. la giovane , per cui si tratta , savia, prudente, e di abilirà : ò quel giovane di costumi angelici, e di abilità sommas; quando per verità farà tutto l'opposto.  Sem. Mà quelto in brieve si può scoprire.  Mec. Prenderà ben ella il contratempo, e quando vedrà che i genj, mediante Amore, saranno cominciari as collegarsit, allora, ciocche ella dirà , sadà creduto per vero; nè fi pafferà più oltre per iscoprirlo, quantunque fosse falfifsimo: lo fomina in tali occasioni la Bagia si affatica tanto; che arrivò as dire un Filoloto, che s'ella non si ri-, mescolaffe à questo segno si troverebbe per certo il mondo.più spopolaco notabilinente  Sem. E come ? e perche ?  Mec. Popolandoli il mondo, median-> te i matrimonj, quando questa non aju.taffe à farli, oh quanti di meno ne le guirebbero! Onde per mancanza di effe molto fcemerebbe ; talmente ch'essad lo mantiene cosi popolato .  Sem. Non credo però; che abbia tanta parte in essi, quanta voi dite. )  Mec. Ed io credo di vantaggio ancora; imperciocche dicemi: nel mondo, quali sono più numerosi, i buoni, ò i carrivi?  Sem. Questo calcolo non so chi l'abbia fatto : ti dice bene da pertutto, che gran parte in esso vi sia di cattivi. · Men E credete voi, Sempronio, che questi trovassero moglie, se la Bugiai non ricoprisse i loro vizja:  Sem. Io credo di nò;  Mec. Dunque non facendosi tutti questi, che danno considerabile apporterebbero alla popolazione del mond?  Sem. Ditemi, che fensaria ella riceve ?  Mec. Non altra, che di trionfare allorche li scuoprono gl'inganni da efsa orditi; e li prende sommo piacere del  lc  de discordie, e dissensioni, nate da ciò tra in arirari.  Sem. Oh che razza di gusti deprava  Mic. Quéli appunto sono i piaceri, che li prendono i vizj, non confiitendo in altro, che nel vedere precipitato chiunque dura loro fede, e perciò non iè bene di prevalerli, Sempronio, della opera loro in conto alcuno. -- Semi Mirpersuado , che la Prudenza non tratterà fimili mariraggi, onde pochi faranno quelli, nel quali effa s'in. trometterà : per efeinpio, se sarà bella da giovane, lascierà trattare il suo  pa. rentado ad Ainore, ed effa fi discolto. rà.  Mec. Non è così ; perche la Prudenza non è già tanto indiscreta, che odj la bellezza, c fe vedrà, che colla beh - lezza ci fia unica anche l'onestà, ed il  buon costume, li tratterà , e concladerà infieme; ma quando poi fi ávvedesse, che colla bellezza, questi non ci fossero, allora ne lafcierà la libertà ad A  mo  more , che le marici a suo piacere :  Sem. Mà ci sono elempj di queste belle accasate dalla Prudenza?  Pub. Tanti appunto, quante donne helle hanno mantenuta la fede illibata) ai loro mariti; e di queste Plutarco ne riferisce molte, parlando delle donne illuftri į confessando ancora l'Ariosto nel canto 37. non esservene stata mai pea nuria di esse, con dire:  E di fedeli , e caste , e faggie , e forti  Stare ne fon, ne pur in Grecia, e ithead   [ocr errors] Roms,  Ma in ogni parte, ove fra gl'Indi,       gl’Orti  Dell'Esperidi il Sol spiega la chioma;  Delle quai sono i pregi, e glonor mortis  Sì ch'appena di mille una finoma,  E questo perche avuto hanno a'lor tempi   I Scrittori bugiardi, invidi , ed empji. lSem. E nci maritaggi con ricche doti s'ingerisce mai la Prudenza , effendo disuguali di condizione ?  Mes. In questi ancora , quando ritrova, che amili ricchezze fono venu  te  te per vic oneste;descritre così da Sene's ca de Vila beat a cap.2 3. Nulli detractas, nec alieno fanguine cruentas , fine cujufquam injuria parias , fine fordidis quæstibus, quarum tam honeftus fit exitus,quàm introitus, quibus nemo ingemifcat , nifi malignus. E non scorgendo di mal cofume chi le poflede, li conclude ancora; perche come mostró Platone į non induce disuguaglianza disdicevole las fola disparita di condizione.  Sem. Quale farebbe questa disugua. glianza disdicevole?  Mec. Sarebbe appunto, se un nobile, per cagione della gran dote, volefse sposare l'unica figliuola map educa. ta di un vile, e sordido arcista; l qual matrimonio non solamente darebbe da dire a molti, ma ancora per lungo tempo sarebbe privo di potere conversare con uguali, chi prendesse una fimile Spofa,  Sem. Vi fuschi di Te in fimile congiuntura, che de mormorazioni solamente per qualche tempo duravano, mà  chc  che le grosse dori rimanevano per sem., pre; io però non sono di genio si vile.  Méc. Credo, che voi manterrete il decoro di Gentiluomo,má replico bensis a colui, che punto non lo consideras :: che i figliuoli ancora riinangono per : seinpre di somiglianti inclinazioni, e co. ituini; essendoli osservato in molii, che hanno voluto canto digradare dalla lo-> ro condizionc, con prendere per moglie giovani mal nate , e di poco buon co-> itume', 'credirarsi da loro descendenti » gonj vili, c plebej; cosa alai più dannoia , e pregiudiziale , di quello sieno le mediocri picchezze nelle famiglie ile luftris onůc perciò il poeta Satirico conrra di questi disle,....... 9. Scilicet expectas, us tradat mater boSo do neftosigilom  Aut alios mores, quam quos babet? E quell'altro anche canto  Infequitur leviter filia matris iter... Olere diche certi matrimonj fatti con tanta disparità di condizione, se non, averà prudenza la moglie , riescono ang che infaufti a mariti; come provò Fulvio, il quale avendo sposato una Ichigvå, fu dalla medeliina tradico, denunziando ove egli era nascosto, csendo tra i proscritti in tempo del Triumvirato ...,  Sem. Vorrei anche sapere, fela Pru-, denza tratti marrimonj didonne brurce, e ditettofe...  * Mec. Questi ancora maneggia , quando ci trova il suo conto; cioè a dire che quella da voi creduta deformità non pregiudichi a fare figliuoli, nè alla pace doinestica.  Sem. Io mi perfuado, che la brut. tezza poffa ritardare 'ambidue ; perciocche, come si potrà amare una donna deforme e non amandoti questa, come li potranno avere figliuoli, ed esserci la pace domestica di  Mec. Dovete sapere , Sempronio ; che due bellezze sono nelle donnc ; una delle quali è di fola apparenza, e perciò viene detta eftcriore, e l'altra inter, Da, la quale risicde nell'animo: la pri.  [ocr errors] ma si rende inanifesta ad og i uno, che Ja rimira; la seconda poi, quanto più si nasconde tanto maggiormente risplende'; quale di queste due voi bramerefte, Sempronio, che avesse il primo luogol nella vostra sposa ?  Sem. Quella , che porelli vedere, we godere insieme.  Meci Questa sarebbe lefterna , che per breve tempo la potreste vedere, er godere ; essendocche prettamente fier nisce, venendo da' Poeti assomigliatas alla rosas Collige virgo rofas dum fos novus, o  nova pube's, Er memor efto , ruum fic properare  tuum. Ed altri: Rofa viget breve tempus, fi autem pra           terierit    Quærens invenies.non rofas, fed fpinas.  E Seneca dinle    Anceps.forma bonum mortalibus ,  Exigui donum breve temporis ,  U velox celeri peide laberis :   H 2  8. Ed  [ocr errors][ocr errors] Ed il Petrarca ancora così ne parla  Questo noftro caducong fragil bene,  Cb'è vento ed ombra , ed ha nome   beliade. L'altra bensì, effendo radicata nell'ani. ino, non languisce in alcun tempo; anzi che in certe contingenze fa vedere quanto opera in conservare la pace domeftica. Vi potrei a questo proposito addurre molti csempj; ma quello riferito da Enea Silvio della moglie di un celebre Medico Sanesc fa al nostro propofito. Questa era molto deforme , nulladimeno, per le fue rare viciù, l'amaya suo marito svisceratamente, chiamandola la sua buona Ladiç; ed appunto d'onde possa ciò nascere lo spiega Lucrezio, dicendo : Nee divinitùs interdum ,  Venerisque sagittis , Deteriore  , fit ut a forma muliercula ametur ; Nam facis ipfa fuis interdum  fæminar factis Morigerisque modis , cu mundo corpore  cultu  Ur fucile insuefcat fecum vir degere  vitam. Sem. Ma effendoci l'efteriore , per- · che non potrebbero ancor' acquistare 1.1 bellezza interna coll'industria de’lo"ro mariti?  Moc. Onanto siete buono, Sempronio, che vi volete affaricare in merte, re "il giudizio, ove non sia ; e non sapite, che fin'ora non è bastato l'animo ad alcuno di porcelo: bisogna pregare Iddio, che non vi abbarciate in caluna, che penurj di effo; perche altrimenti è tuito tempo perduto quello, che s'impiega per farlo entrare, ove non sia.  Pub. Sempronio procurare di grazia di stare cautelato; perche questa bellezza esteriore, che voi tanto bramare, fi uniforma alle volte a quella dei tempi degl'Egizj, ch'erano belli di fuori, e e brunti al di dentro : oltre di che apprendere questo utiliffimo documento da S. Girolamo : non facilè cuftodisor, quod omnes amant,  O in quo totius popu. li vosa fufpirant; e canto maggiormen  te ,  [ocr errors] H 3  .te, che il Nazianzeno la chiama : temporis, & morbi ludibrium : Santamente, dunque l’Ecclesiastico dice: Ne respicias in muliere speciem, nec concupiscas mulierem in fpecie.  Scm. Coinc fa la Prudenza a conosce. re, che questo giudizio vi lia, ove law bellezza non regna?  Mec. Lo comprende ben ella allorche rimira una giovane modesta , circospetra nel parlare, non curiosa, ftabile, attenta , ed applicata a fare ciocche dee; onde la reputa perciò giudiziosa; mà le poi la scorge incostante, disapplicata, curiosa', garrula , c vana , que. Ito le basta per crederla imprudente, c non fi prende penfiere alcuno di essa.  Sem. Ho udico raccontare più volte, che alcune giovani pri na di maritarsi fieno ftatc tenute per giudiziose, e prudenti, ma che poi fattefi (pose sieno diveoute l'opposto di quello, che dianzi erano reputate , per avere sciolta labri. glia a tutti quei vizj, che tenevano ce.Mec. Bisognerebbe con esattezzas esaminare, per colpa di cuilia ciò provénuto , se di effe, o de i loro mariti; u se fi rincontraffe , che avessero in ciò peccato i mariti, sarebbero esse degne di compaffione, dovendo come subordinate regolarli secondo quello, che a medelimi vedranno operare; potendo ancor esse scusarfi, come fecero le don. ne Ebrce allorche furono riprese, perche fagrificavano nell'Egitto, le quali dillero : Numquid fine noftris viris fecimus? fer: 44.  Sem. Come Opera la Prudenza per concludere fimili matrimoni?  Mec. Primieramcnte con fare riflettere al giovane, che brama di accasar  fi, quale sia il fine principale del matri,-monio , cioè per ottenere figliuoli, o che questo non fi orriene mediante los bellezza, ma bensì per la sanirà del corpo;: onde che non debba quell'anceporsi a questa ; ficcome ancora cons fare confiderare i danni, che potrebbe qucla bellezza ofteriore apportare  [ocr errors][ocr errors] mariti, li quali provò appunto Uria per la bellezza di Bersabea ; ed Abramo uomo saggio per isfugirli, che cosa facelle, avendo Sara per moglie, donna. belliffima , allorche dovea andare in E. gitto, e fu , Gen.12. Novi quod pulchra fis mulier, & quod cum viderint te Ægyptii di&turi funt : uxor illius eft, interfcient me, o te refervabunt : dic ergò obfecro te, quod foror mea fis &c.: Eche quando simili infortunj, non accadersero per cale cagione , potrebbero per altro succedere dicendo Leucippo:che la bellezza sia una saetta, la quale ferisce con maggiore velocità di quellow, che viene scoccata dall'arco : e Ciro che debbali più temere questa, del fuoco, il quale non offende in qualche distan. za conforme fa la bellezza; insegnando l’Ecclefiaftico al 9. Propter Speciem mulieris multi perierunt , & ex bac concipifcentia quafi ignis exardefcit : oltre di che gli farà ben capire, che non solamente,egli viventesquefta polsa danneggiarlo , ma cziandio clinto che sarà , c  CON  [ocr errors] con qaciti motivi lo ani nerà a scize glierti per inoglie più costo la laggine, che la bella.  Sem. Mà come dalla moglie belles potrà strapazzarli il maritu defanto?  Mec. Lo comprenderete dal seguente avvenimento riferito da Petronio Are bitro. Dimorava in Efeso una Matrona, non meno bella, che stimata da tutti di fomma pudicizia ; ed essendole morto il inarito, non solamente dirottitfunamente lo pianse, mà, accompagnatolo al sepolcro, delibero volere ivi termic nare la sua vita con esso ; nè fu porabile, che i parenci , anzi il Magistrato stesso la potessero rimuovere daral penfiero. Già sofferri. avea cinque giorni di rigorosa astinenza, quando un sol. dato, il quale cuftodiva alcuni cadaveri de ladri, ch'erano stari, giustiziati vicino a quel sepolcro, si avvide di notte, che usciva un cerro lume da unas contigva casetta , ed udiva insieme ivi piangerl ; vi accorse , cd animalo vi entro, e calato che fu dove si piangeva,  ap  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] Conf. 5. Dec. prima appena vedute due donne'appreffo ad un cadavero, sen tornò in dietro a prendere la sua poca cena, e ritornato che fu, cominciò a consolarle con offerire loro quel poco di ristoro, che feco portato avea. La più addolorata , la qual'era la sudetra Matrona non mostrò punto di gradire le cortesi esibizioni del feldato, anziche più costo'raddoppiava ischiamazzi con svellersi i capelli, e percuoterfi maggiormente il perto : non si perdette egli di animo per questo , ma fi accosto all'altra, ch'era la fervente , offerendole cortesemente il vino, che avea ; ed ella non fi moftro canto ritro. fa; posciache'riftoroffi con quello,e guftò ancora il cibo'; ed indi si pose ad efpugnare la pertinacia della sua padrona, e tanto le leppe dire, che alla fine la vinse, eristoroffi anch'ella. Vedendo il soldato, efferli renduta in questo, passò più oltre', e coll'ajuto della fervente gli riusci di prenderla per moglie, non dispiacendo alla vedova l'aspetto del fudecco giovane ; ¢ ciò fu concluso  frete  [ocr errors][ocr errors] frettolosainente . Dimorarono tre gior-  ni in decto sepolcro i sposi, uscendo ap-  pena di noite tempo il soldato a prove-  dere ciocche faceva d'uopo per alimca-  tarsi tutti. In questo montre da' paren-  ti degli appiccati fu portato via uno di  quei cadaveri , ed avvedutofene il sole  dato lo palesò alla sua fpofa tutto con-  tristato ; dicend le, che non era coave-  niente di aspettare la sentenza del giu-  dice , essendo egli incorso nella   pena  di vita , per la sua trascurata custodia ; on. de che gli avesse pure preparato il luo. go per fepelirlo allieme coll'altro suo inarito, essendo egli già disposto a darli la morte . Ciò udico, la compaffionevole donna rispose: non sia mai, che io abbia da vedere due de' mici carifli.  mi mariti, defonti nel medesimo tempo; desidero più costo appiccare il inorto, che di perinettcre, che il vivo perisca:  deh prediamo questo cadavero,e collo? chiamolo, ove manca quello del ladro.  Ubbidi prontamente il soldaco ; e nel  di seguente cucco il popolo f maravi. Conf. s. Doc. prim. gliò, coine inai quel njorto, così teneramente pianio, fosse stato posto sopra un paribolo:  Sem. Talmente che saranno tutte finzioni quei gran pianti, e schiamazzi, che fanno le donne vedendo morti i mariti?  Mec. Per lo più cosi credo anch'io ; perche, non avendo queste la prudenzas virile, con faciliià grande fi pongono as piangere, ma noui tono già così gli uo. mini .  Pub. Voi mostrato di non avere letto Filostrato in Sofijt.: il quale raccontas ciò, che fece Erode il Sofista nella morte di sua moglie, ch'è questo appunto. Non si contentò egli di averla pianta dirottilmamente, stando anche sopra terra, ma volle continuare a farlo tutto il rimanente di sua vita : e come se le inura della sua casa pocessero essere as parte del suo dolore, le fè tutte vestire di bruno, e la sua casa fu dall'alto al barlo così bene dipinta a color nero, chu rendca gränd'orrorc: inoltre volle, che  tutti quei, ch'erano al suo servigio fof. sero mori, o per natura, o per arte: cgli stesso si fè cignere co’carboni il vol. to, per portare ancora in fronte la di. visi del suo dolore. Tutti i suoi mobili anche i piatii, e bacili', ne' quali li lavava crano neri . Passò del tempo in questa bizaria, senza volere udire alcu. no di quei, che volcano persuaderlo a cambiare risoluzione. Lucio, che gliera amico, gli aveva più volte parlato di questa materia, mà senza frutto; allas tine una sola parola di scherzo lo guada. gnò. Le sue serventi lavavano un giorno alla fontana certe rape; le vide Lucio , e domandò , fe quelle doveano servire per la tavola del loro padrone, il che affermarono; se ciò è cosi disse Lucio ; riferitegli da mia parte, ch'egli fa un gran torto alla sua moglie, e che non dee mangiare rape bianche in casas vestita tutta di nero ; onde che si era infinitamente maravigliato , com' egli non riparasse a cosi grave disordine, dovendo il suo bere, cd il suo mangia.  [merged small][ocr errors][ocr errors][merged small] TC  re essere vestiti come lui di gramagliw; ed a queste parole cominciò ad aprire gli occhi, per vedere, e riconoscere le sue stravaganze, e questi era pur Filosofo non già donni !  Sem. Iftruitemi di grazia meglio sopra i matrimoni, fatti senza l'intervento della Prudenza, per non cadervi.  Mec. Nella: ventura conferenza vi consoleremo.  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][merged small] 100, avendola me  CONFERENZA VI. 6'1 Nella quale si esaminano più distintamente i pregiudizj', che risultano dai matrimonj farci fenza in l'intervento della           Prudenza.  Sempronio, Publio , Mecenate   © Medico 6,156 OL  Uanto mai mi ha contriftato la storia riferita della cru. dele donna di Efe. fo  glio considerata . Pub. Non bisogna sgomentarsi, Sempronio , per fi lieve cagione ; perche. primicramenre chi fa , le veridico lia tutto ciò , che in esta si racconta parendoini molto inverisimile , che li di lci parentis cd amici l'avessero del cute  [ocr errors] to  cata, avendo, oltre i natali,  Giulio s 1981  Conf. 6. Dec. prima  qualche concerto maggiore, per lo sviscerato amore mostrato verso suo marito; oltre di che, chi potrà mai credere, che una donna, i dopo efsere stata cinque giorni, con tanta attinenza, poreise pensare , non che effettuare ciò , che fi lppone facesse : e poi, quando' realmente fosse ciò foguito , vi posso riferire moltissini esempj dimogli fedeliflime, le quali o per vero dolore sono morte, quando videro i loro consorti estipfi, è dettero chiari atteftati del loro fincero , e costante amore. Laodamia fù una di queste, la quale mori di cordoglio sopra il çadavere di Protesilao fuo marito , ucciso da Etrore. Ed Artemisia a che segno amò le ceneri di Mausolo suo marito , che fin volle , stemprate tolle sue lagrimc, dar loro ricetto nel suo corpo ingojandole a poco a poco! 'E finalinente, per non diftendermi di vantaggio nel riferirne inolte altre : Peponilla moglie dime riferisce Xitilino, sotto l'Impero di Vespasiano, aon visse nove anni con suo marito dentro un sepolcro, ove diede la vita a due figliuoli? e questa lo tenne lontano dal supplicio, per quanto le fu permesso, non già ve lo mandò. ?  Sem. Tutto va bene; ma però, che una donna, dopo tante lagrime sparse per suo marito, l'abbia esta condannato al patibolo, mi pare grave, e detestabilc facro; posciache, se non amava quel cadavero, à che fine bagnarlo di tante lagrime? e se poi l'era ficaro, come mai ebbe tanto cuore di fare un' atto si crudele contro di esso, feuzan averle data occasione alcuna?  Mec. Quell'iniqua fantesca fu la cagione di tanta fceleratezza; impercioc" che la povera padrona, dopo cinque  giorni di dolorofa inedia sofferta, non trovando dalla morte pietà alcuna in voler porre fine ai suoi cordogli, e vedendosi imporcunara dalle preghiere di essa s’induffe à prendere quel poco diria ftoro', offertole non già da pareoti , che  I  l'ave  [ocr errors][ocr errors] l'avevano abbandonata, mà bensì da un cftranco, che fu la ruina della sua réputazione, perche chi d'altrui preode, se Iteffa vende.  Sem. Mà come! nc anco dentro il repolcro è sicura la pudicizia , ed allas prcfenza del marito defonto!  Mec. Diceva il Re Filippo, che non era inespugnabile quella fortezza, ove fusse potuto entrare un mulo carico di oro; e voi credere sicura una donna bella, guardata da una sola fancesca in luogo remoto ? quando trovandofi già languida è affalita da un soldato armato, giovane bello , ed avvenente , ristorandola col cibo , adulandola, e lusingandola insieme con dolci parole. A queIto proposito cade in acconcio il proverbio di Salomone. Mulierem fortem quis inveniet? E tanto inaggiormente, quando il marito giace estinto, e per. ciò nè può correggerla, nè punirla. : Sem. Queste ragioni non mi appaga. no punto, onde per non avere a cadere in fimili infortunj , bramerei che voi  con  [ocr errors][ocr errors] con la vostra solita ingenuità mi scopriIte molti altri pregiudizj, che potrebbero nafcere , non avendo la Prudenza parte uc'maritaggi ; e perche avete voi conversato molto in yostra gioventù , vi sarere incontrato facilmente in, più contrasti nati tra i mariti , e mogli.  Mer. Gli hò uditi certamente fpefso riferire , e letti ancora ; e quantunque non li abbia provati, per essere vivuto libero, con tutto ciò sono appicno informato di molciffimi avvenimenti in fimili materie.  1 Sem. Or dunque, in quelli fatti per opera d'Amore, senza intervento della Prudenza , che vi avere offervato di inale ?  Meo. Ne hò veduci tanti di questi principiare bene, ma poi cambiare in un tratto la bella apparenza, ed allas fine rerminare infelicemente ancora .  Sem. Come cominciali bene, e poi mutarfi? fe:  Chi ben comincia , bà la metà dell'opra?  Mec. E pur così è seguito ; impera   cioc  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][merged small][ocr errors] I 2  ciocche alla prima, in quel fervor di afferro, la sposa era tenuta in pianta di mano; ma appena intiepidito questo de qualche lieve cagione mutava faccia il tutto, e quel grand'amore in breve pafsava in noja, ed alla fine questa si avanzava al dispregio. Quindi è che l’Ap. piense disse: 174 Ef modus , dulci, nimis immodera  ta voluptas Tædia finitimo limite semper babet : Cerne nouas fabulos rident florente        colore  Piet a, velut primo vere coruso at bumus,  Cerne diu tamen bas, hebetataque lumi-        na fleetas,  Et tibi conspectus nausea mollis erit.   Pub. Voi, Sempronio, avete lascia. to il meglio, cioè,  Non si comincia ben se non dal Cielo. E credete, che facendosi il matrimonio per opera d'Amore senza l'intervento della Prudenza, sia esso cominciato dal Cielo ? Sem. E perche no, avendol per fine  la  la conservazione della propria specie ?  Pub. Il fine è fanto, ma il da voi proposto mezo, per conseguirlo , non è buono;non dovēdosi ricorrere ad Amore per farci conseguire una buona moglie, ma bensì a Dio, conforme c'insegna Salomone : Uxor prudens à Domino ·  Sem. Per quali motivi si avanzano di poi al dispregio?  Mec. Per molti ; lasciando in disparte l'interesse della dote (molto tenue per l'ordinario nelle donne belle) promessa, e per lo più non pagata; che suole frea quentemente turbare la pace domeftica: Il primo de' quali è il dominio, che vuole acquistare la donna bella sopra il marito; imperciocche come vuole Mcnandro :  Superba res eft pulchra mulier: E pretenderà per giustizia di poterlo efiggere mediante il favore , che gli hà fatto di prenderlo, essendofi veduta vagheggiare da tanti altri, che la bramavano per inoglie. Il secondo sarà la gelolia, che apporterà tra loro una continua guerra....  Sem. Come la gelosia, essendosi pre . fi per amore?  Mer. Amore medesimo , che li uni, per prendersi di elli diletto, s'ingegnerà di suscitarla ; e per promoverla, ba. sta, che faccia concepire ad un di effi un minimo sospetto di essere passato in altri quell'affetto , ch'egli godeva intiero; non essendo altro la gelosia al parer di Cicerone , che : Ægritudo, 6x quod alter quoque poriatur co , quod ipse concupicris, e come questa operi uditelo dal Taffo  N'arde il marito, e dell'amore al fuoco  Ben della gelosia s'agguaglia il gelo,  E va in guifo avanzando a poco , a poco  Nel tormentato petro il folle zelo ,  Che da ogni uomo l'afronde in chiuso loco;  Vorria celarlo a tutti occhi del Cielo.   Sem. Mà questa Publio potrebbe anche nalcere, quantunque la Prudenzas avesse avuto parte in detto matrimonio, Pub. Difficilmente, essendo che aves  reb  [ocr errors] rebbe ella saputo scegliere una donna saggia , che avesse colte fiınili ombre, quando fossero nate nella mente del marito, senz'occasione alcuna , e che non fosse ella stata capace di suscitarvele.  Sem. E come potrebbe far questo una donna?  Pub.Con fuggire ogni eccesso di vanità; insegnando S. Crisostomo nell’onilia 21. al popolo : Ornatus Zelotypia fuSpicionem ingerere folet; cd in appresso, che ; modeftia ornatus omnem improbar fufpicionem expellis, omni autem vinculo formius conjugium conciliat.  Sem. Vi sono casi seguiti di donne, ch'abbiano usata tanta prudenza?  Pub. Certamenre , che ve ne sono molti antichi, e moderni ancora: tra gli antichi , la moglie di Focione , di Trajano , & Alpolia moglie di Ciro, e di Arcasserse, e tra moderni. Madama di Chantal, come scrive il Padre Cordier uclla sua famiglia Santa , fu unan di quefte; posciache ella non G vede.rs giammai meglio vestita , che quando  [ocr errors] doveva trattenersi col marito; se doveva egli andar fuori, e fare qualche viaggio, non ornava mai il suo  corpo,  che quando cia di ritorno : le fu detto un giorno, troyandofi lontano da molto teippo il Barone suo marito: Madamas ogn'un crederà , ch'abbiate vendute le vostre velti, ed i vostri ornamenti, voi non li fate più comparire, come se dubitafte, che da alcuno dovessero esservi rubati: non mi parlare di questo rispose ella , pofciache gli occhi , a' quali devono piacerc,sono cento leghelungi di quà. Riferisce anche il medesimo, che la Ducheffa di Gandia Vice-Regina di Catalogna avesse una somma modederazione nel yeftiré, non curandosi di portare abiti di fera , nè con oro. Una delle sue confidenti prese parimente un giorno ardire di così favellarle: Madama di altro non discorre per tuttas questa città , che della riforina de' vostri abiti, pare', che sempre voi diveniate di minor condizione di quella, fiecc Aata ; più vi fi accrescono beni di  for  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][merged small][ocr errors][ocr errors][merged small] fortuna, meno ve ne service ; cui rispose:2 ine non dà il cuore di portare nè seta, nè oro, quando il mio marito vas sempre ricoperto di un'aspro cilizio , ed in questo anche riflettere, quanto operi il buon'esempio del marito, per frenare la vanità donnesca.  Sem. E quelli, che tratta l'Ambizione senza l'intervento della Prudenzas, che fine fortiscono?  Mec. Pellimo, stante che, non verificandosi punto quanto s'era da essa promeso, li riinane con moglie deforme, ed indotata ; e di vantaggio ancora, è con molti figliuoli sulle spalle ; ed alle volte ancora privi di elli', senza speranza di poterli ottenere, per la poca falua te di fimile consorte .  Sem. Se vi avesse avuto mano la Prudenza, come si potevano fuggire queste disgrazie ?  Pub. Avcrebbe con maggiori cautele questa consigliato, cfaininando atcentamente, che fondamento potevano avere le milácate speranze; ç rinvenute  le  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] le acree, ed insuffiftenti, averebbe dilsuaso più costo, di effettuarlo ; ò per la meno nella dubietà di cffe averebbe assicurato meglio le buone qualità dellas donna, affinche'andando le speranze a male, fosse piinasto questo di certo : di aver una donna prudente in casa,la quale quantunquc povera , come vuole Salomone. Sapien's mulier edifcat domum fuam. Ne averebbe già permesso a Tiberio, che avesse sposato Giulia, las quale oltre il disprezzarlo, come non uguale a lei; ci faceva lecito di vivere a luo piacere; conforme riferisce Tacito nel primo de' suoi Anoali. Ne tampoco Silio averebbe sposaro Meffalina, vivente Claudio, se la Prudenza vi forse intervenuta:nè già di Claudio Mellalina sarebbe stata conforte.  Sem. E li matrimonj fatti dalla solas Avarizia, che danni possono apportarc?  Mec. Maggiori di quello, che vi potrete mai perfuadere; posciache in tali casi non li sposa già la giovane, mà bensi la dote i mercè che : veniunt à dote;di fagitta ; onde considerare voi, come ella ella sarà trattata dal marito, e che amoal  re le porterà; quando l'affetto non è inndi dirizzato alla moglie, ma bensì tutto  alinero interesse ; ed avvedutali effa di E essere posposta ad una cosa inanimatas,  che dirà, e farà mai, troyandosi ricBt ca ?  Sem. Bisognerà ben, che soffrá , I ftia focto l'ubbidienza del marito .. 1 Mec. Voi fempronio non avere letto  Anafsandro , e perciò parlare in cal # guisa , il qual dice,  Si quis pauper pecuniofam uxorem 1 Duxerit, non uxorem , fed dominam  habeti  [ocr errors]   Cujus eft famulus , de feruus ;  E credete forse , che quancunque paja-   no fortunati coloro, che prendono grof. u se dori, realinente siano sempre? Oh  quanto sono infelici ! come conobbs o anche Menandro con dire :  Quisquis uxorem unicam heredem cupit  adfcifcere Divitem ,is vel irasis pænamluit Diis,  Vel inf. lix effe vult s-sub nomine for  tunati. Sem. Gran cose si dicono da questi poeti, che fono favole; lo vedo, che le grosse doti arricchiscono le cafe.  Meca Li poesi son chiamati Vates da’ Latini, qual voce significa anche indo. vino, ed in questo ho osservato , che per lo più l'hanno indovinato; oltre di che tra efli vi sono stati Filosofi celebri. Io non nego, che qualch’uno prendendo groffe doti Gi sia potuto arricchire; essendosi però incontrato con moglie saggia; mà quanti li fono finiti di fpiantare per questa medesima cagiore, elsendosi abbattuti in mogli imprudenti?  Sem. E come ciò può accadere, prendendofi quantità grande di danaro in fimili matrimoni?  Mec. Per questo medelimo segue;po. fciache addolorato diceva Demenao. Argentum accepi ; dote imperium ven  didi. Laonde, comandando esse , sono capaci di darli fondo, con difsiparlo in bre  ale  fon ve tempo.; ed eccovi appunto il guadagno, che si ricava da effe.  Sem. Questo però seguirà , quando di incontreranno mariti, che non sapranno farG ubbidire.  Mec. Porrà accadere agl'altri ancora dicendo Giovenale;  Intolerabilius nihil eft , quam fæmina EI  dives, i Ed andare a cozzar con queste ? andate  le a riprendere; ed affinche Gate meglio  informato ; udite ciocche dice a questo & propofito Artemone,  fazio, ut fcias Quid periculi fir dotata mulieri convi  cium dicere. Si potranno con facilità maggiore reg. gere bensì quelle, che non averanno portata dote, come si ricava da un detto greco: Sponfa indotata non habet libertatem,  fiuè audaciam loquendi. Sem. Questo ardıre lo potranno avere forse le belle.  Mec. Lo hanno le brutte ancora re  [ocr errors][ocr errors] fa  [ocr errors] saranno ricche , e superbe , come vien riferito da Gellio , Me miferum, qui Corbulam duxi , &  talenta decem Nanam , mulierculam, cubitalem, cujus  Superbia adeò intolerabilis eft! Sem. Ed in che cosa potrà gettare il fuo la moglie, dovendo essere soggetta al marito?  Mec. Chi è ricca, come abbiam detto, non vuole stare soggetta ad esso; onde vorrà spendere a luo modo : se vedrà, che una sua uguale condurrà tre servitori, ella per la sua grossa dore, pretenderà condurne sei, bramerà anche gli abiti di inaggior valuta; Carrozze più nobili, e suntuose s e vorrà effe. refrattara in tutte le cose con magnificenza superiore alle altre; e se il marito non si troverà commodo di farlo, elibirà cfla medesima la sua dore , per fupplire a quanto bisogna ; e durando molto que, fta vita , anderà in malora la dore , con tutto il capitale del inarito . Or vedete , che fortuna s'incontra nel prendersi  grof.  [ocr errors][ocr errors] is grosse doti, e che svantaggi ne riceveranno da questa anche i loro figliuoli.  Sem. In questo io vorrei mostrare spirito, e farla fare a mio modo.  Pub. Vi voglio riferire un caso a quefto proposito assai curioso ; Una certas giovane, che si trovava ricca dote, la prima sera , che cenò col suo marito , non volle gustare cosa alcuna , e ftando in tavola molto contristata, le fù domandato ; da che ciò provenisse , e qual occasione la rendeffe così meftas,' ella rispose; come volete, che io man.  gi, se non vi è l'uomo nero, che ini ser1 va in tavola ; e non hò piatti d'argen  , proporzionati alla dote, che hò portata : il marito le rispose, che nel giorno seguente averebbe fatto trovare più d’un uomo nero, i quali l'avercbbero servita , come desiderava : fec'egli comparire nel tempo del delinare due mori ben neri , acciocche la servislero, s'icfierà per tal cagione la giovane a segno, che si levò di tavola , e nacquero da ciò infiniti disturbi tra di elli,onde vedete voi, Sempronio, che vantaggi risultano dall'essere risentito in fiinili contingenze: bisogna pregar Iddio, che la moglie ricca, sia ricca anche di senno, aliriinenti la casa andrà in malora , quantunque avesse portato il doppio di dote.  Sem. Hò udito sempre dire, che las metà della dore non si possa alienare, e che li fidecommiffi rimangono sempre in piedi; come dunque potranno seguire l'accennati dilapidamenti?  Mec. Il lusso però oggidì hà usurpato il privilegio di poter alienare ogni reliduo dotale, e di svincolare ancora ogni più stretto fidecoaimiffo .  Sem. Mà in che modo?..  Mec. Si fingono pericoli di case, che stanno per cuinare, e per tal cagione di toglie ogni più stretto vincolo, posto sopra i capitali: mà passiamo ad altro, perche questa è materia molto lagrimevole.  Sem. Talmente che a derro vostro re alla moglie ricadesse quaich'eredità;  con  [ocr errors][ocr errors] converrebbe rinunziarla, per non incorIf rere in fimili fventure ?  Mec. Muta faccia il cafo ; perche la moglie, ch'è vivuta qualche anno col marito, trovandosi molti figliuoli, ed a vendo già passato quei primi fervori del. le nozze , ne' quali si spende molto, non averà genio più a dissipare, ed effen• dosi assodata nel governo della casa, se  pur farà qualche sfarso di più , sarà con i moderazionc , e proporzionato al suo Itato,  Sem. Or io ho capito, come si abbia da scegliere la moglie, che sia di tutto proposito ; cioè nè povera , nè riccas, e che abbia più cervello, che bellezza,  acciocche non si abbia da dire di essaie : quello mi fu raccontato una volta, che  dicefle la scimmia , effendo entrata nella bottega di un arteficet, che lavorava modelli di cera, ove prendendo nelle inani una bella cesta, dopo di averla ac  carezzata, e baciata, mettendo den| tro di essa la mano, c trovatala vota  gridò: Oh che bella gefta, mà de manca il cervello !  K  Pube  [ocr errors] Pub. Or sì, che voi la capite per il suo verso; e scegliendola di questa forta allora sì, che farere forçunato, e potrete dire di avere presa una grandislima dote , conforme è succeduto a me: evi voglio raccontare ciocche ini seguì nel tempo , che io era sposo : mi fù domandato da un mio, amico, che dote io avca ricevuto, e trovandomi sodisfatto delle buone qualità della mia compagna , gli rispofi ; che credeva di aver ricevuto cento mila scudi ; rimase egli ammirato , sapendo , che io non eras folito di milantare le mie cole, nè fimile dote fi costumava allora, folamente mi replicò: in che corpi li avete ricevuti? cui soggiunfi, in contanti dieci mida, ed in giudizio il rimanente ; egli di pose a ridere; cd io non ho avuta sin ora occasione alcuna di contristarmi di ciò.  Sem. Desidererci ora sapere, che altri miali, poffa apportare la Bugia , concludendo etsa il matrimonio?  Mec. Se lo-traria di passaggio , non suolo apportare danni molto conlidera  1  i bili; mà se poi s'interna nelle cose cffen  ziali, guai a chi si fida di essa ; pofciache se ricoprirà i mancamenci d'una donna impudica a segno, che quel povero uomo, che la vuole sposare, la creda una casta Penelope ; effettuandolo diverrà infelice; e se vorrà fare com  parire le ricchezze dello sposo affai e maggiori, s'ingegnerà ben ella di pro:  curarlo, e con infolite maniere : che non ha fatto a giorni nostri in fimile afa fare! e arrivata fino a fingere le note dell'avere, nelle quali vi erano regiftra  ti molti crediti fruttiferi , senza il no* i me de? debitori; con pretesto, che si  celavano questi , perche , essendo fiignori di qualità, non volevano essere  nominati; e nebanchi ancora non è arrivata a fare apparire grosli depositi in  faccia di Tizio', i quali erano mere imei prestanze, che nel dì susseguente tor  navano a credito di Sempronio suo vefo posseditore?  Sem. Bisognerà dunque vivere molto caurclaro'nci trattati de matrimonj,per  K 2  non  [ocr errors] non essere dalla Bugia tradito sin  Mer. Udite di più : se una poverad giovane sarà ingannata da esla's facendole apparire il suo futuro sporo ricco; che tenga carrozza; si trovi las cafa ben fornita di preziose suppellettili, a segno che le faccia credere che quel partito sia una gran fortuna; cadendo. vi in effettuarlo, in un tratto si avvede. rà, che il cutto fù mera apparenza; pois che appena consumato il matrimonio, sparisce il palazzo incantato di Armida, e li cavalli, o carrozza tornano al fuo padrone ; : e per vivere conviene dar di mano alla sua dore, trovandosi il mari10 fpiantato. Vi voglio raccontare una storiella, nella quale scoprirete l'astuzia usata da uno di questi miserabili,che con inganni giunse a sposare una ricca giovane. Se ne stava egli nel giorno fta. bilito per le nozze penlierofo , e mesto, a segno che la Suocera si mofle a domandargli cosa egli aveva; cui replicò, che certamente non aveva cosa alcuna ; fco. perte, che furono di poi le fue miseric,G dolse leco la medesima, ch'era statas da esso ingannata ; replicò il ribaldo: fignora lei si ricorderà benissimo, che's  io le diffi nel tal giorno, domandando i mi cosa io aveva, che niente le replicai?  che occasione dunque ella ha da dolerlei dime , se le palesai la verità, con dirle', che nulla avea.  Sem. Accadono questi cali?  Mer. Cosi non accadeffero, anzi ve ne sono de'peggiori ancora.  Sem. E quali sono ?  Mec. Volendo la Bugia accasare un giovane deviato, che farà? comincie. rà a lodare il suo buon costume, la sua  modeftia, a fegno, che lo farà compa0  rire in iftato d'innocenza cadendo las  povera fpofa a credere questo, tuttaa  allegra acconsentirà, non solamente al  matrimonio, mà sicuramente ancoras  converserà seco; non dico altro, che  in breve diverrà un cadavero, median-  tc i quel malo ;-col-quale l'averà mal  concia.     Şom. Sono vesiquefi cali, Dottore?   Med  K 3  Med. Accadono, e non di rado;quando però liamo avvisati in tempo, diamo loro il suo rimedio ; ma allorche il malfattore vuol fare da Medico., la finisce di stroppiare con quei secreti, che talvolta averà egli in se medelimo provati , i quali applicati in una compleffione gentile, essendo rimedji mercuriali, potranno in vece di giovamento apportarle danno notabile.  Pub. Questi pregiudizj tempo fà non seguivano; imperciocche, se allora cal uno cadeva in fimili mali, îi faceva prima curare , e risanato, ch'era perfertamente prendeva moglie.  Sem. Talmente, che questa Bugia ne matrimoni cagiona danni molto confiderabili, ond'io procurerò di tenerlas lontaga allorche tratterò il mio accalamento.  Mec, Bisognerà, che stiáre però molto avvertito; posciachc comparirà travestiça; e sotto specie dį verità per ins gannarvi. Sem, Io fona un bell'umorcänon cres  derò  1121  N  derò allora all'istefa verità, per non di ingannarmi, giacche la Bugia fi vestu dei suo manto.  Mec. Alla verità conviene prestarlo d  fede in ogni tempo, mà però vi è il modo da discernerla, quando cssa sia pura , ò simulata.  Sem. E come?  Mec. Quando voi vedrete ingrandire le cose assai più di quello , che fieno ve. risimili, ivi ftà nascosta la menzogna, e datele la tara di due terzi meno di quello vengono rappresentate, che così di poco sbaglierete. E se vedrete poi in  alcune altre ufarsi artificj, c diligenzu u maggiori, di quello, che convenga,  per farvele credere, e voi togliete tre terze parti a ciò, che fi dice, e credete solamente quello , che rimane, che così l'indovinerere.  Sem. Dovendo io prendere moglie poco fastidio mi prendo dei difetti de  gli uomini , vorrei bensì sapere quei i  delle donne, da' quali doverò guardarini.  K 4  Mer.  [ocr errors] Mec. Nella ventura Conferenza farete istruito in questi.  Pub. Bisognerà fargli conoscere ancora le virtù di esse, affinche fappia difcernere quali siano le buono.  [ocr errors][merged small][ocr errors][merged small] CONFERENZA VII.  Sopra i difetti, e le Virtù  delle donne.  Sempronio , Medico , Mecenate  e Publio ,  M  Sem.  I persuado Dottore, che niuno meglio di voi conoscerà les imperfezioni delle donne , effendo voi  meglio di ogni altro informato de' naturali, e tempera menci loro.  Med. Secondo il parere di Democri. to, le povere donne soffrono , per cam gione dell'utero, seicento mali di più degli uomini ; come si legge nella lettem ra da esso scritta ad Ippocrate', over Sexcentum arumnarum mulieri auctorSem. Io non voglio sapere da voi li mali dell'utero, ma bensì quelli dell'animo, non quelli, che sono ad effe di moleftia, ma quei che possono altrui ancora nuocere, conforme sono i loro vizj.  Med. Di questi ogni uno, che per qualche tempo le abbia trattate , ne può effere bastantemente informato . lotor110 poi al temperamento delle donne, vi poffo ben dire, che una volta fu promossa questa gran disputa ; qual foffe più caloroso, l'uomo , ò la donna, e dipoi essersi molto dibattute le ragioni dell'una, e dell'altra parte, fu detto, che quando la donna non fia di temperamento più caldo di quello dell'uomo , non si possa mettere in dubio che non sia più callida di esso ; cioè a dire più astuta  Pub. L'aluzia però, quando non è maliziosa, c fraudolenta, non entra tra i difetti deteftabili; dicendo Teren. zio in Andria i  Aftutum fallere difficile eft.  [ocr errors] [ocr errors] 201  [ocr errors][ocr errors] Onde questa può ftimarsi avvedutezžas,  Jodata dall'Ecclesiastico al 19. Aft ut us  agnoscit fapientiam.     Mec. Nelle donne però farà sempre  detestabile, non essendo quefte fcarse   di malizia, e d'inganni, al parerc di Se1  neca in Hippolyto : 1  Sed dux malorum foemina , d fcelerum          artifex,  E di Plauto in milite :   Quid pejus muliere ; atque audacius?    Quid? Nibil.  E l'Ariosto così ebbe a dire di effe         Non siate però tumide, efastofe  + Donne per dir,che l'uom fia vostro figlio,"   Che dalle spine nascono le roje,  E d'una ferid'erba nafce il giglio.  Importune', Superbe , e dispettose  Prive di amor; di fede , e di consiglio;  Temerarie , crudeli, inique, ingrate ,  Per peftilenza eterna al mondo nate.   Pub. Piano di grazia , Mecenaco; cliente perche parlando in tal guifa', correcc  pericolo di essere lacerato dalle donne  come fucceffe ad Orfeo, di cui parlaw   Pla  1  Platone ne' suoi simposj. Per tal unas, che sia stata cattiva tra effe , con questo vostro modo di parlare cosi generale, pregiudicate a tante illustri femmine degne di eterna memoria, anzi che as vostra madre medefma, e con essa a voi ancora. Leggere,le opere di Cristina Pisana, è di Lucrezia Marinelli, che troverete ivi, quanti più iniqui, escellerari uomini vi sono stati, che donne ; onde ci comple stare cheri; e tanto maggiormente, che le donne cattive, fono appunto come le vipere, le quali, sc non vengono compresse, o con altri modi irritate, non mordono già , nè avvelenano; ina gli uomini perverfi, non sono già così, assomigliandoli al lupo quel detto greco: homo homini lupus: da cui non giova punto l'allontanarsi ; perche ello va cercando di danneggiare. E parliamo con tutta sincerità; avete voi veduto mai alcuna donna andare di. predando i.paffaggieri per terra , ò per mare, conforme, fanno gli uomini E giacche avere apportato l'Ariosto con  [ocr errors] 1  [ocr errors][ocr errors] tro di esse, perche non riferite ancoras el ciò, che dice a loro favore? che apporDe tai nella conferenza quinta, ch'è appunto :  E di fedeli , e caste, Saggie, e forti  State ne fon ne pur in Grecia,e in Roma; ti Ma in ogni parte , ove fra gl'Indi , 6       "gl’orti  Dell'Esperide il fol spiega la chioma,  Delle quai sono i pregi, e gi’onor morti,  Si ch’appena di mille una fi noma ,  E questo, perche avulo hanno a lor sempi   Iscrittori bugiardi , invidi , empj. E finalmente doverebbe bastare ciocche dicono Socrate, e Platone di esse per  frenare la lingua di chi ne dice male, 1  cioè, che sono capaci molce di effe d? amministrare la republica ancora .  Mec. Bisognerà dunque credere, che le donne non abbiano difetti, per non  pregiudicare a qualcuna , che tra esse fia ed Itata buona?  Pub. Io non pretendo difendere les cattive , ma fulamente cancellare lo buone del numero di queste, nè voglio  fcu  1  scusare i vizj, chc insidiano le donne ; ma se le Virtù non isdegnano di accompagnarsi con effe, come posso tenerle çelate in pregiudizio di cante? e precisamente di quelle di cui l'Ecclesiastico al 26. ne fa gloriosi encomj,chiamandole : Lucerna splendens ; columna aurea super bafes argenteas ; fundamenta æterna: Laonde , Mecenate, non dobbiamo in conto alcuno dir male delle donne; poffiamo bensì censurare quei difetti, che le perseguirano; perche facendo in tal guisa non fi potranno dolere di noi le buone , le quali non danno a' vizj ricerto; no tampoco, se taluna cadeffe a darglielo, farà contro di noi risentimen. 10 alcuno, per non dichiararsi da se medelima viziosa : e regolandoci con que. Ita norma faremo conoscere, che non odiamo le donne, ma bensì quei vizj, che da loro medefimc debbonli odiaren come loro capitali nemici.  Sem. Iftruitemi dunque, Mecenate, sopra questi vizj, scorgendovi molto informato di effeMec Di alcuni ne fono informato; ma cutti tutti io non li so: perche mi fido' guro che siano tanti appunto, quanti so. i no i caratteri Cineli: vi posso riferire li  più principali , che doverebbe fapere ogni marito, per potersi ben regolares scorgendoli nelle mogli. Il primo di  questi è la Vanità, la quale ha un gran i seguito di altri vizj, a se fubordinati,  mà cominciamo ora da questa, che die ď poi parleremo degli altri.  Sem. Che cosa è precisamente, ed in che consiste questa vanità? :)  Mec. Credo, che fia un vižio, tanto in esse, quanto negli uomini effeminati, diretto a procurare ftima maggiore, che competa loro in genere di bellezza.in c. 10,4:19.fi  Sem. Spiegatevi di vantaggio affinche possa comprendere meglio quanto avete detto.  Mec. Ciocche dilli mi pare chiaro', con tutto ciò mi spiego più diffusamente , e dico: che se una donna, ò-un uomo effeminaco deformi procureranno  pre  all  prevalersi di superfui abbellimenti a fine di comparire belli, pretendendo das ciò ricevere stima maggiore nel concetto delle persone intorno alla loro bel. lezza. Questi saranno vani.  Sem. Dunque le belle non saranno vane, non avendo d'uopo di fienili abbellimenti.  Mec. Ponno cadere queste ancoras in detto vizio ; quando paresse loro di non essere tanto belle, che abbiano a rapire il cuore di tutti, e perciò effe credessero colla vanità di potere diveairvi a quel segno.  Sem. Come fono numerose le donne di questo genio?  Mer. Poche sono quelle, che non lo abbiano ; la moglie di Publio è tras quefte, che odiano la vanità.  Sem. E che! la vostra moglie, Publio, non si ornava, come le altre , quando era giovane ?:  Pub. Si ornava in quella forma, che io desiderava, a fine di compiacermi,non già per fare pompa di fa con altri.  Sem.  [ocr errors][ocr errors] 1  1  Sem. Come vi contenevate per firla di perseverare in cotal guisa? posciache a  alcune per breve tempo incominciano a farlo, mà dipoi vedendo le altre , che  fi adornano, b-lasciano trasportare dal i mal costume anch'efle  Pub. Avevå ella fomma venerazione alle fentenze de' Santi Padri, ed affinche meglio le comprendeffc, l'erano da me spiegate : onde adducendole sopra ciò quella bella sentenza di S. Cipriano, che dice : Non eft pudica, qua affeet at animum "altorius movere , etiam Jalva corporis caftitate ; fi afteneva ella perciò dal vestire con pompa, dovendo uscire di cafa,  Sem. Se faceffero tutte cosi, andrebbe la maggior parte assai positivamente  vestira ; imperciocche li mariti per non u ispendere, non direbbero già loro, che  fi ornassero, e studierebbero giorno ,' notte fentenze contro la vanità.  Mes. Che male ciò apporterebbe loro 2 Sem, Non altro, che si farebbe di ef  fe oggidì poca ftima; essendo che, chi non fa la lụa comparsa, come le altre, non è punto contiderata ,  Mec. E te taluna la faceffe con inde. bitarti, chi sarebbe di queste due più considerata , la yana, ò la modefta?  . Sem. Certamente quella, che più di ornaffe, perche niuna và cercando, come questa comparsa si faccia , effepdo molto noto quel detto : Unaè bibe'as, quaris nomo, Sedopor.  tet babere. Mec. Si cercano, come anche voi di. ceste, più i fatti altrui oggidi, che i proprj; onde per questo motivo yi ammetto, che sarebbe più considerata la ya-na , che la modefta; e poi quando quefti non si cercassero, non credo già, che i mercanti vogliano donare il loro; onde dipoi,che averanno aspettato un pezzo, forzati a domandare giudicialmente il loro nelle publiche udienze vi pare, che possa stare celato? ell'essere conf. derata in questo modo, vi pare, che posla apportare decoro , ò vituperio?  Pub,  [ocr errors][ocr errors] d  Pub. Senza queste vostre rifellioni, di forma cattivo concetto delle vane solamente a rimirarle, şi era ornata Thamar c deposti avea gli abiti yedoyili  più modefti, e Giuda quando la vide i in quella forma, che concerto ne fè di  effa? Suspicatus eft efe meretricem: Genef. 38. vedere dunque yoi, Sempronio, come sono considerare le vane da parenti anche più congiunri?  Sem. Dicemi, che altro pregiudizio apporti questa yanicà ?  Mec. Quando esce fuori de' suoi limi. ti, hà due altri vizj, che per l'ordinario noll'abbandonano, e sono la prodi. galità, e l'impudicizia  Sem. Sono queste certamente due peflime compagne, le quali possono apportare gran male, infidiando alla ro. ba, ed all'onore; mà è seguitata da alţri vizj?  Mer. E più correggiata la yanità das cu efli, di quello sia un Generale di esser  cito da 'suoi Officiali, posciacche 120 fuperbia, l'invidia, il dispreggio, l'ineganno, con molti altri di questa perversa natura, a vicende la servono, onde chi è vana, è anche superba , invidiosa , dispreggiatrice, e fraudolenta, tramando sempre inganni, e frodi.  Pub. In conferina di questo, diffe S. Crisostomo. In Gen.fim Homilia 41. A corporis cultu innumera frunt mala , arrogantia, que intus nafcitur, defpectus proximi , faftus spirisus, animą corruptio, voluptatum illicitarum fomes &c.  Sem. Questa vanità fino a che segno potrebbe tollerarsi nelle donne?  Mec. Sarebbe certamente indifcreto quel marito, che non tollerasse alla moglie giovane una mediocre vanità, quantunquc da questa fi poffa facilinente fare passaggio alla grande ; dee bensi per tema di ciò egli ftare vigilante, affinche non trascenda questa i suoi limiti, li quali le vengono prefissi dall'onesto: e lidee questa tollerare ancora, affinche s'inducano alcune più facilmente a pren. dere marito. Pub. Sant'Agostino riprese rigorofa  men  [ocr errors] [ocr errors] mente Eudicia per voler andare troppo ncgletta nel vestire, e le fè incendere, che averebbe dimostrata umiltà maggiore con ubbidire a suo inarito , che a vestirsi di panno vile, per lo spirito di contradizione , esclamando il Santo :  quid absurdius, quam mulierem de bumi. I li vifte  fuperbire ? Sem. Come li conoscerà, che questa trascenda i limiti prefilli dall'onesto a    Mer. Allorche una donna vorrà rico-  prirsi di gioje, e di oro, e quello è peg.  gio, senza riflettere se le sue entrate lia-  no sufficienti a poter fare tante spele,  venendone di ciò ripresa da Ovidio poe-  ta lascivo, dicendo:    Quis pudor eft cenfus corpore ferre          Juos?  Ed altrove.   Gemmisque auroque teguntur  Omnia , pars minima eft ipfa puellae          fui.  E Properzio dice anche di più.    Matrona incedit cenfus induta nepa-        tum   Pub.  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] L 3  Pub. Seneca al 7. de Benef. dice ancora : Video uniones non fingulos fingulis auribus comparatos; jam verò exerci14 aures oneri ferendo funt ; junguntur interje, & infuper alii binis fupponuntur Non faris muliebris injania viros fubjegerat , nifi bina ar terna patrimonia auribus fingulis pependisent. Ma meglio di ogni alero S. Ambrogio : De Nabut. Ifrael. cap.s. lo fa capire . Dele&tantur compedibus mulieres dummodo auro ligentur non putant onera effes fi pretiofa funt: non pusant vincula efi, fi in iis shefauri corufcant : delectant de vulnera , ut aurum auribus inferatur, do margarita depen. deant c. E finalmente conchiude . Non parc unt dispendio , dum indulgent cupidisati. Laonde fantamenre dice l'Ecclefiafte ; Averre faciem tuam à muliere compta.  Sem. Må se sarà nobile , non potrà fare di meno, quantunque le sue rendi. te foffero tenui, di non ornarsi pomposamente, vedendolo praticare da chi è mcno дobile di ella.  Mece  [ocr errors] Mes. Ditemi per cortesia, forle che questa sua nobiltà, senza danaro, potrå fodisfare il costo di tante pompe?  Sem. Mi perfuado che nòsmå pare una certa cosa, il comparire meno delle alo tre, alla quale, chi è nobile non si può accomodare. Mec. Anzi queste , per  fár comparire maggiormente la loro nobiltà, non doverebbero soggettarsi a cose vandag per far conoscere inlieme, ch'essa rin fplenda assai più dell'oro, e delle gioje. Sencite, ciò che diffe a tale proposito la saggia moglie di Focione ; come riferisce Plutarco nella di lui vita. Şi trovava un giorno questa illuftre Dama ins conversazione di altre donne, ornate tutte pomposamentes vi fu chi le disse: perche non era venuta essa ancor adornata come le altre, cui rispose : che le bastava per ornamento la virtù di suo marico, al che non seppe che replicare la più curiosa, e vana delle altre.  Pub. A questo proposito dice Aristocile, che il buon ornamento nelle don  ne', non debba già consistere nella pompa, mà bensì nella modeftia, e nel modo onesto, e decente di vivere ; il quale fu da Aspasia praticato, come riferisce Eliano , quantunque ella avesse avuto per  mariti due gran Monarchi; cioè Ciro, & Artafferse, ciò non ostante fi feppe ella così bene guardarc dalla soverchia curiosità, e pompa, che recò am mirazione a tutto l'universo. Elodando Plinio la moglie di Trajano, non seppe apportare fatto più glorioso di queIto a suo favore: che di efferli, come donna mantenuta sempre lontana dallas vanità superflua.  Sem. E se l'entrare fossero sufficienti, potrebbe dirsi vana una, che trascendeffe i sudet i limiti?  Mec. Se la vanità non fosse unira col. la prodigalità, forse che in questa, se non trascendeffe molto, sarebbe rollera bile, ma il vizio della prodigalità non le permetterà moderazione alcuna; posciache: Prodiga non sentit pereuntem fæminas fenfum. E poi credete voi, che'l fine, per cui fi orna a quel segno, fia sempre onesto? non lo credetre già Seleuco , quel gran Legislatore de' Locri, il quale fè quefta legge; che non fosse permesso ad altre donne di ornarsi pomposamente, se non a quelle che volevano amoreggiare, e fare anche di peggio; e sappiare , che, fù questo un gran rimedio contro la vanità; posciache divenne quel Dominio per qualche tempo modeftiilimo, spor gliandosi le donne delle loro fupes Aves pompe. Quindi è, che da saggio padre operò Lisandro, come riferisce Plutara co, con rimandare a Dionilio tiranno le preziose vefti, che aveva mandate in dono alle sue figliuole, con tutti gli altri ornamenti; con fargli incendere; che averebbero più tosto tali ornamenti viruperato le sue figliuole, in vece di or. narle.  Sem. E le ricchissime, che non soggiacciono al pericolo d'impoverire,perche non poffono fare tutto quello sfara fo, che bramano?  1  [ocr errors] tutte  Mec. Non tutto quello, che si può, è convencvole a farli. Giovanna di Navarra consorte di Filippo il Bello, trovandosi in Burges, mortificò molte Dame, che andarono a visitarla con abiti sontuofiffimi , dicendo loro. Credeas effere in questa città io solamente la Reging, mà ne trovo mille.  Pub Chi brama servirsi bene delle proprie ricchezze, non dee impiegarle per  fodisfare le sue voglie, ed in cose superflue ; dee ancora pensare and quelle, che sono maggiormente necef• farie, che ornano l'anima, come insegna S. Cipriano dicendo : locupletem te effe dicis e utere divitiis , fed ad bonds are tes; divitem te fentiant pauperes &c.  Sem. Se taluna fosse deforme , potrebbe ornarli più dell'onesto per comparëre bella e  Mec. Faccia pure quanto può la deforme , che fempre scoprirà di vantage gio la sua deformità; e guai a quelles, povere damigelle, che vi harno a conbattere, perche rimirandofi allo fpero  [ocr errors]  chio, deteriorare più costo con quelli   abbellimenti, che li pongono, si per-  suadono, che per difetto di effe ciò deo   tivi', non sapendo bere addattarli, ed  a questo proposito cosi parla Giove-  nale,     Quid Pfecas admifit , quænam eft culpa        puella  Si tibi difplicuit nasus tuus?   Sem. Consideriamo i sarti quanti rimproveri riceveranno di vantaggio  Mer. Vi fù uno di questi gli anni scorfi, che avendo portari alcuni abiti ad una ricca, e deforme, ed allorche se li provava , diffe, che non erano ben fata ti; perche non le stavano bene al viso ; quel povero uoino vi ebbe un pezzo fof. ferenza, må alla fine le disse : Signora io gli ho fatti a misura della sua vita , alla quale vanno benissimo , non già del suo viso; onde questa non è colpa mia , mà deila natura, se non stanno bene  ad effo.  Sem. E le brutte, è belle, che siano adoperando i bellectiglo fanno per vanitá a  Moc.  Mec. Questo certamente è molto dubioso; posciache, se lo fanno per essere stimate più belle, s'ingannano, mentre ogni uno, che le rimira, le tienes per copie mal dipinto, non già per ori . ginali, e voi sapete ; quanto lieno più  timati gli originali delle copie, quantunque pajano ben colorite; e poi quel mal odore, che tramandano quegli unguenti posti sul viso, come le possono rendere amabili? ed udite Plauto, come ne parla, Vei fefe sudor cum unguentis fociavit  illico, Ibidem olent, quafi cum una multa jura  confundit coquus, Quid oleas , nefcias ; nifi id unum male  olere intelligas. E Giovenale così dice: Interea fæda aspectu , ridendaque's  multo Pane tumet facies, aut pinguia popeana Spirat, hinc miferi vifcantur Labra  marici. Ed in appresso;  Tal  Tot medicaminibus , coctaque filiginis       Offas  Accipit , & madido, facies dicetur anni   ulcus ? E guai a queste se intervenissero al giuo, .co, che inventò Frine, riferito da E rasmo lib. 6. Apophtegn.pofciache si troverebbero confufe, e mortificate. Ef sendo ella in conversazione di donne; tra quali ben si avvide effervene non poche bellettate , introdusse il giuoco del1e penitenze, uscendo a forie chile doveffe comandare; e toccando a lci, ordinò, che fosse portato un gran carino pieno di acqua', e che ciascuna dovesse ja varsi il viso, come ella faceà ; 'non poterono le altre scufarfi, effendoli'impegnate ad ubbidirç, e ne seguì da ciò tal metamorfofi,che li domandava il nome ad alcune non riconoscendosi più per quelle , ch'erano prima.  Pub. Bisognerebbe , che leggeffero S.Ambrogio : Examer. 6. cap. 8. per illuminarsi, ove dice : Deles picturam' mulier , f vultum tuum materiali candore,oblinius, fi acquifito rubore perfundas : ila la pi&tur a via, non decoris eft ; illa pi. Eura fraudis , non fimplicitatis eft ; illance pictura temporalis eft, aut pluvia, aut Judure fergiiur : illa pi&tura fallit, de ripit, ut neque illi place as , cui placere de  laderas , qui:nielligit non tuum, fed alicnum effe, quod placeas, & tuo displiceas auctori , qui vidiet opus fuum efl deletun; ed apporia inoltre, lib.i. de Virginibus, un dilema affai calzante a questo propofito, dicendo, fepulchra es, quid abscomderis? fi deformis, cur te formosam effe mentiris? neç tud conscientia , nec alieni gratiam erroris habitura?  Şem. Lo faranno çalvolta le bruite per ricoprire ļa ļoro deformità.  Mes. Quanto s' ingannano queste; posciache in vece di ricoprirla più costo in tal guisa la rendono palese a tutti; cfsendo che non potendo mai fare in modo, che non si conosca ciocche di più del naturale si sono poste sul viso, das Joro medesime si discuoprono per defore mi, çon pregiudizio anche delle bells,  Şe  [ocr errors] [ocr errors] se ciò facessero; perche saranno queste ancora credute di ayere difetti tali, che abbiano d'uopo di essere ricoperti; E se poi la deformità proveniffe dall'improporzione delle parti, che non è male da biącca, come la potranno rimcdiare? posciache converrebbe in tal calo inventare il modo da profilare mcglio il naso, ristringere la bocca, e di slargare la fronte, ed a questo non potendo ațrivar esse senza maggiormente deformarli, perche dunque li pongono a garreggiare col Divino Artefice, che così le formò per fini a lui ben ooti?  Sem. Hò udito però, che quelle, che cadono in fimile errore, sia impoffibile, che possano più aftenersi dal non farlo, e queste in che modo le coayincereste Publio?  Pub. Sono certamente infelici quelle donne, che non piacciono a se medefime , come disse S. Cipriano , de Bon. Pud. femper eft mifera, que non fibi places qualis eft. Onde queste difficilmense potranno convincerli; con tutto ciò,  quan:  Tollens ergo  quando' mai godessero un momento di mente tranquilla , domanderci loro, se amano più la bellezza dell'anima, è quella del corpo, e dicendomi, come è più verifimile , ch'amino più quella dell'anima , apporterei loro ciocche dicc S. An:brogio : in Examer 6. cap. 8.  ergo membra Ch ifti faciam membra meretricis? Abfit, quod fi quis adulteret opus Dei; grave crimen admittit , grave eft enim crimen , ut pures, ut melius te bomo , quam Deus pingat . Grave eft , ut dicat de te Deus, non cognofco 16lores meos , non agnofco imaginem meam, non agnofco vultum, quem ipse" formavi, Rejicio ergò quod meum non eft , illum quare, qui te pinxit , cum illo habeto confortium , ab illo fume gratiam, cui mercodem dedifti. Quid refpondebis ? ed udite ancora quanto lo detefta S. Cipriano de Habit wirg. Manus Deo inferunt quando illud, quod ille formavit, reformare,  transfigurare contendunt , nefcientes quod opus Dei eft omne quod nafcitur:Diaboli, quodeumque mutatur ac, tu te exi,  Jimas impunè Laturum tam improbare meritatis audaciam Dei artificis offenfama Ut enim impudica circa bomines, du inn cefta fucis lenocinantibus non fis ,' corruptis, violatisque, qua Dei funt péjor adultera derineris dc.  Sem. Quelle, che fi bellettano, mi persuado certamente, che non averanno uditi gliaccennati sentimenti di queisti Santi; perche in verità, sc riflettes sero attentamente a ciò , che questi di cono, fi alterrebbero dal farlo; mà vor: rei sapere in oltre da voi, Dottore, se pollano queste lordure, che si pongor Ho le donne sul viso, essere di nocumento alla loro salute?  Med. Sono senza dubio molto dannosi; perciocche se il tingerfi solamenrei capelli ha apportato a molte la mor- to, come riferisce Gal. de comp.medic. fec. locos , cap.3. de tinet.capil. oye dice: Non folum enim in periculo verfatas fape frio -fæminas ; fed mortúas ex perfrigeratione capitis per hujufmodi pharmaca induéta , Ed Aczio parimeate afferisce , libr. 6.  M  CAP  1  cap: 57. di averne vedute morire alcune per tale cagione apoplettiche, e tabide; quanto più facilmente potranno es. fere danneggiate da cosmetici , ne' quali entra il solimato? E posso io asserirvi di avere veduta più di una di queste divenute , ò asmatiche, ò apopletriche, à paralitiche, ò idropiche in érà proverra; senza poi quel danno, che suode recare in gioventù a tutte , ne' loro denti ; e gignive; nè preftino fede a coforo, che fabricano belletti, quantun. que dicano di averli fatti fenza folimato, poiche le gabbano.  Sem. Si che dunque aon gioveranno ne per l'anima, ne per il corpo? Mas come si doveranno regolare i poveri mariti , fe queste fi oftinaffero in voleres tutte le cose alla moda 2  Mer. Io non farei altro, che spiegare loro i seguenti vèrsi di Properzio ar. vocato di effe : * Quid juvat arnato procedere vitta ca  pillo  Et tenues Cos vete movere finns ?Aut quid orontea crines perfunderes      mirra?  Teque peregrinis vendere muneribus ?  Naturęque decus mercato perdere cultu?  Nec finere in propriis membra nitere   bonis estir's Ed altroye: Nunc etiam infectos demens imitance  Britannos Ludis, o caterno gincta colore caput, E soggiunge :  Ut natura dedit, fic omnis recta figura,  Turpis Romano Belgicus ore colar E Plauto ancora, che pone in derisione queste  tante variazioni di mode : dicendo in Epidico  Quid ifta ? Quo quotannis nomina in      In veniuntur noua  * Tunicam rallama tunicam spilam    Linteulum, Cæcisium,  Indosiatam, Palegiatam. Calšbulan,   aut Crocotulam. er. Pub. Allai meglio facente, Mecenate, a fare intendere loro ciò che dice San Cipriano dihi de babitu Kirginum ; ovewi  .  Ceterùm fi tu te fumptuofiùs cumas, per publicum notabiliter incedas , oculos in se juventutis illícias', fufpiria adolefcentum poft te trabas , concupifcendi libidinem nuFrias, peccandi fomitem yuccendas, ut fi ipfa non pereas, alios tamen perdas, velut gladium te, du venenum videntibus se prabeas * excufari non potes , quafi mente cafta fis, do pudica s redarguit te cultus improbus id impudicus ornatus , conforme lo fa conoscere Aufonio in Delia, od ei Delia, nos miramur ,'eft mirabile ,  quod tam Diffimiles eftis ruque , fororque túa ; ?> Hæc habitu casta , cum non fit caffats  videtur, Tu preter cubium nil meretricis habes. Cum caffi nores sibi fint , buic cultus  honeftus, Te tamen, cultus damnat, caftus  cam.  Sem. Parfando ora all'ira , queltas noir mi pare, che abbia tanto dominio i nelle donne, quanto negli uomini, aven  do  [ocr errors] do veduto adirati più questi, che quelle alcune volte, che mi sono abbattuto seco in Gimili contingenze. x  Mec. Non doverebbero certamente le donne adirarfi ; pofciache divengono allora talmente deformi , che più non si riconoscono , .quanto mai li erasfigurano; onde avendo effe in orrore la deformità, doverebbero anche odia. re la cagione di essa ; Ma yoi , Sempro, nio, le averete facilmente trovate in bonaccia, non già in tempo di furore ; e perciò dite, che vi pajono gli uomini più colerici di esse; fe però vi foste abbattuto nel vedere adirata Ja moglie di quel povero, Grammatico riferito lepidamente da Ausonios diversamente para lcreste ; mentre di essa cosi dice: Anma', virumque docens, atque arma  virumque peritus':' Non duxi uxorem , fed magis arma do  1  ܢ ܀  Namque dies fotos y Botafque ex ordine  ! noctes :: Liribus oppugnat a, meques meumque  Ata  [ocr errors] M 3  giam !  Atque , ut perpetuis dotata à Marre  duellis risin Arma in me follit , nec datur ulla  quies: Jamque repugnanti dedam me, wide  nique victum Jurget ob hoc folùm, jurgia quod fuOltre di che Salomone, che non 'mentisce, dice ancora: non eft ira fuprà iram mulieris .  Sem. Non saranno però ofinate les donne, che averanno i marici più rifenciti di effe , e non tanto buoni, come era il sudetto Grammatico? 0:0,  Mec. L'oftinazione alle volte liavanza tanto in effe , che le rende incorre. gibili, come comprendercte ancora dal feguente avvenimento riferito dal Poga gi. Vi fu una di queste» che dopo ave. rc ricevuto moltisms bastonate da fuo marito, non potendola far ritrattare dall'ingiuria, che gli facea, chiamaadolo pidocchiofo,la calò anche nel poz . 30, fin tanto che poteva parlare sem..  pre  [ocr errors] pre fu percinace nel medesimo disprego gio ; finalınente, avendo anche la te. ita fommersa nell'acqua, colle unghie de deti grosli soprappoftę gli faceva cenno di quello , che averebbe colla voce pronunziato , se avesse potuto Oltre di che il vizio della vendetta facilmente di collega con esse, dicendo : Giovenale:                    Vindicta  Nemo magis gaudet , quam femina.   Sem. Le finzioni, e le menzogne and che segno s'internano acll'animo dona, nesco ?  Mec. Nelle donne scaltrite più affai, che nelle milense:Ben è vero però,che se s'incontreranno in mariti accorti, apporteranno loro gran danno le proprio finzioni, e menzogne; come appunto seguì alla moglie di Teodofio à allas quale avendo egli donato un pomo di eccessiva grandezza , volle ella gratifi care con esso uno de principali Signori della corte, il quale due giorni dopo mandollo in dono all'Imperatore ;quantunque mostrasse apparentemente di gradirlo n'ebbe per ò egli intern rammarico;perloche essendo cornato dipoi dall’Imperatrice, domandandole, se riteneva più quel bel pomo; gli rispose, che lo aveva mangiato, ed avendola pregata, che avesse fatta matura riflessione a quanto diceva, ella ostina. tamente confermava il suo derto; allo. ra l'Imperatore per convincerla lo fè portare in sua presenza, ele disse: Voi Giete una finta donna ; ne mostrò in av. venire feco più confidenza .  Sem. Hò uditi con molto mio rammarico i difetri donnefchi; consolatemi ora voi, Publio, con riferirmi le Virtù delle donne, ed in ispecie qvelle, che ponno apportare profitto alli mariti. & Pub. La Prudenza, e l'Amore Gince. ro sono le principali virtù, che debbono risplendere nelle mogli.  Sem. Ma di queste Virtù sono capaci Je donne? Pub. Non può dubitarf di ciòyinenero  le  le ftorie non solamente profane, ma faa cre ancora lo confermano, e presentemente vediamo anche risplenderé mole cisime di effe con fimili virtù.  Sem. Perche duaque fi dice tanto ma le delle donne  Pub. La cagione di ciò la trovo in Euripide, il quale dice:  Miferrimum eft muliebre genus , femel  Nam , quæ peccant etiam immeritis   Dedecorifque funt mulieribus, com   municant vituperium, Mala non malis , Ma questo, e un abuso grande, ed in. giusto posciache contro di noi altri uomini non si costumà addollarsi a' buon il vituperio de' cattivi, e qual ragione dunque vuole, che ciò militi contro di effe ? Ovidio però le difende da tale in. giusta maledicenza con dire:  Parcite paucarum diffundere crimen ist  Spectesur meritis quaque paella fuis.   Sem. Voglio credere che donnes prudenti vi siano ffate ayendo udita  rasa  omnes :  raccontare molci saggi farci delle Porzie, Cornelie , Paoline, e  Paoline, e di altre ; Mà di queste , che con amore sincero abbianoamato i loro mariti vorrei udirne riferire qualche altro csempio per meglio accertarmene.  Pub. Vi posso fodistare in questo picnamente, e principiando dal grande, e fincero amore', che mostrarono a loro mariti carcerarile donne Spartane;men. tre queste andando a visitarli li ferono vestirc de iloro abici, ed effc rimasero carcerate: pafferò poi a riferirvi, ciocche fè Cabadis Reina di Persia, la quale parimente liberò suo marito carcerato con vestirâ ella de' suoi abiti, e rima. nere priva della sua libertà , c vita ancora · Riferisce parimente il Tarcagnota un fatto molto riguardevole a tales proposito. Avendo ottenuto per capi. tolazione di uscire solamente le donne dalla città di Vespergia cariche di quello, che più loro piaceva, abbandonando queste oro, e supellectili preziose, she avevano, trasportarono sulle spal.  le  [ocr errors][ocr errors] le i loro più congiunti. Ed udite finalmencé un esempio singolare dell'amorce sincero di una saggia Regina, riferito dal Padre Cordier · Roberto Re della gran Bertagna si trovava ferito con una laetta velenata , fu giudicato da’Medici per unico riinedio il farla succhiare da cui avesse voluto esporre la propria vita, per salvare quella del Re ; la Regina sua moglie fi mostrò prontislima di farlo, ma non voleva in conto alcuno il Re permetterle, che si esponesse a tal pericolo. Chę fè l'amorosa moglic ! aspetto, che fosse addormentato , ed allora appunto, sciolta la ferita , succhiolla intrepidamente, e con tanto felice successo, che rifano il Re, senza riportarne nocumento alcuno l'amorosa Consorte...  Sem. Persevereranno queste prudenti, ed amorose consorti semipre nella. medesima forma ?  Pub. Se faranno i mariti prudenti in faperle bene diriggere, lo fåranto, come udirete nella seguente ConfeTenzi.  CON  CONFERENZA VIII.  Come si debba regolare l'uomo    colla moglie scelta di ottime   qualità.  Sempronio , Publio, Mecenase ,  e Medico  M  Som.  perfuado, chief sendo la giovane di ottimi costumi,non civoglia grandparte nel regolarla, po  sciacche da se mca delima sapra ben governarsi.  Pub. Non è già così , Sempronio ; quantunque sia buona, ci vuole anche attenzione in reggerla , affinche non divenga cattiva , perche conforme fi dice, che prendendo marito, muci sta10, può anche cambiare costume; im,     [ocr errors] L2perciocche il corso è di molti anni, é fi dee navigare in un mare, nel quale s'in. contrano de' scogli, e continuando la metafora , descrittami da quel vecchio, che la donna sia la nave; questa quan. tunque non abbia difetto alcuno, da se fola, e senza chi la indirizzi, a fola di: screzione de' venti , che sono i suoi pen• ficri, non può giugnere al defiato porto della felicità , onde conviene, che l'uomo faccia da nocchiere, e non dor ma; quantunque fia bonaccia..  Sem. Infegnatemi, dunque come do. vrò regolarmi, per non errare?  Pub. Potrò riferirvila direzione del la quale io fteffo mi sono servito, eve: drete, fe questa vi aggrada. ' Sem. Avendola voi posta in esecuzio. nc felicemente, poffo fperarne anch'io profitto.  Pub. Ebbi alla prima quest'avverte11za di non addomesticarmi seco in ecceso fo, ma solamente, quanto bastava per -farle conoscere, ch'io l'amava , c perciò la rispettava , ferviva, ed oporava s  mà  mà çon tenere sempre un tale qual den, coroso fuftegno. Procurava in oltre, ché non iscopriffe il mio debole, c per fare prova del suo afferto, di quando in quando, mi facea da essa scorgere penberolo, ed alle volte ancora alquanto mesto: non li assicurava ella di ricerca. fc la cagione di ciòs solameore dopo qualche giorno, faccosi animo, mi diss fe: Signore, yorrei vedervi allegro, comc debbono essere i spost ; fe poffo io sollevarvi in cosa alcuna , eccomi pronta': comandatemi, ed indirizzatemi che non ricoferò di obbedirvi . Mi senti a tale corcese offerta immediatamente giubilare il cuore, e le rispoli con faccia ilare : Signora viringrazio delle obliganti esibizioni, che voi mi fate, u vi afficuro , che me nc prcvalerò, avendomi molto sollevato con questo voftro -corcese parlare : E guitai immediatamente di quella confolazione registrata nell'Ecclesiastico al 26. Gratia mulieris -Sedula delectabit virum fuum, copaiba ljus impinguabit .  Sem.  6  [ocr errors][ocr errors] Sem. E se fosse entrata in sospetto , che voi non l'aveste amata?  Pub. Questo non poteva crederlo perche, come diffi , la rispettava, cd onorava con particolare artenzione ; cd essendo ella prudente, ben fi avvedeva, che della sua persona era sodisfattiffimo;  sospettava bensì, come mi riferi dipoi, il che da altre cagioni ciò veniffc ; u  con bel modo tanto fè, che alla fine un i giorno, dapoi avere presa meco confia  denza maggiore , interrogandomi sopra ciò, seppe da me la cagione de' mici turbati penfiori ; cioè : che questi dcrivavano dal timore, che io aveva di non cffere ancor baltantemente capace di cducare bene i figliuoli, e di non sapere mantenere fino alla morte il reciproco affetto coniugale a quel segno, che fi dovea .  ! Sem. Che rispofe ella?  Pub. Con volto ilare mi replicò, che a questo dovea anch'effa contribuire la sua parte , ic perciò ca ayefli pur deposto la metà di detti pensieri , ch'erano tuoi.  Sem.  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] Sem. E se vi aveffe risposto ; penfiamo ora a darci bel tempo : figliuoli non po abbiamo quando quefti nasceranno Gi farà, come li potrà, non ci contriftiamo ora di quello, che non è presente.  Pub. Non fi parlava così in quei rempi, ne' quali il divertimento non erao anche divenuto affare creduto rilevan. te, ed essenziale, che richiede sfe giornata intera ; era bensì creduco effenziale il provedere quanto faceva d'uopo, ed il prevedere ciocche poteva fuccca dere. ... Sem. Vi manrenne la parola data di sollevarvi , quando sopravenne il bisagno  Pub. Fè anche di vantaggio, pofcix che fcoperto ch'ebbi il suo buon animo, un giorno così le parlai: Signora mia, voglio, che camminiamo di buon conia certo in reggere la casa ; abbiamo tansto assegnamiento, che può bastare as Amantenerci nel nostro stato decorosamente ; pofliamo tenere tre fervitori, due per lei, ed uno per mc , una ser  [ocr errors] vente, ed una matrona, ed avere la  noftra carrozza, che serve ad ambiduc; of dividiamo ora l'incumbenza: voi pen+ ferere alla tavola, alle biancherie, ed  io al rimanente ; dell'esazioni voglio  ne fiare anche voi consapevole per vom  ftro governo ; ficcome ancora dell'esi-  to, per caminare di buon concerto tra  noi nello spendere: debiti non voglio  ne facciamo, nè avanzi considerabili  fino a tanto, che abbiamo l'assegnamen.  to fiffo , c non amministriamo tutte le  rendite; e basterà , che solamente po-  niamo da parte ogni anno qualche cosa,  per fupplire alle stagioni fterili, alle ri-  tardate rescoffioni, ed alle spese straor-  dinarie, per non ritrovarci allora bilo-  gnosi di danaro : All'educazione de' fi-  gliuoli penseremo concordemente, al-  lorche Iddio li manderà.   Sem. Ed essa accettò queste brighe ?    Pub. Anziche mi ringraziò ; mo-  strandofi contentissima, per averla po-  fta a parte del governo.    Sem. E se aveffc risposto; io non vo- glio ingerirmi in questo affare ; pensateci voi, col maestro di casa; perche non voglio prendermi questo tedio?  Pub. Sarebbe stata troppo ardıca simile risposta in quei tempi, ne quali crano molto rispettati dalle mogli i mariti , contentandoli vivere subordinate ad effi , e non succedca già come dice l'Ecclefiaftico al 26. Mulier si primatum babeat , contruria eft viro fuo; perche qucfta maggioranza non la godevano.  Sem. Mà come riusciva in quelle cose , che le toccavano di fare?  Pub. A maraviglia bene; posciache aveva la matrona , ch'era donna savia, e consigliandosi con essa lei, divenne in breve tempo espertisfima in tutte quelle cose, che le appartenevano.  Sem. Chi potrà trovare oggidi quefta matrona non costumandosi più tal servigio ? e poi quando anche si trovassc, diventerei ridicolo, se prendesi, per servire mia moglie, la matrona .  Pub. Perche ridicolo? forse che fa. rebbe cosa mal fatta?  Som.  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] Sem. Non dico mal facta , mà effendo in disufo , farebbe segnato a dito, chi l'introduceffe.  Pub. Mà da chi? forse da' savj, u prudenti?  Sem. Non credo da questi ; mà bensi da tutti quelli, che non costumano te. nerla.  Pub. Or io di questi non mi prendcrei soggezione alcuna; mi dispiacereb. be bensì , che i savj biasimassero le mie operazioni ; imperciocche possono farvi altro dispetto costoro,che non son savj, che di non conversare con esso voi? E che perdita da ciò riceverefte? ogni qual volta questo provenga, non per cagione di cosa malfatta, mà più tosto decorosa, ed onesta, che sono vantag. giose per voi ; nel qual caso efli li renderebbero meritevoli della censura de' savj. Io vi poffo ingenuamente confessare, che se non fosse stata in cafa mia la matrona, che avesse indirizato da pria. cipio la mia consorte , non averci già goduta quella tranquillità di animo fpe  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] rimentata fino al presente; posciacche questa matrona essendo nata civilmente, e così ancora trattata da me, dando alla mia conforte buoni conligli, la istruiva ottimamente, e perciò non vi è stata occasione alcuna di discordie tra noi; il che non sarebbe già seguito, se fi fosse configliata con qualche donnas ordinaria, e giovane, da cui facilmente pellimi consigli averebbe ricavati.  Sem. Questa matrona itava al fervia gio attuale?  Pub. Quantunque fosse falariata, era però distinta dall'altra donna, che mi serviva, e faceva molce cofe spontaneamente di più di quelle, che le toccavano, per l'amore, che portava alla casa, ove sperava terminare i suoi giorni; non costumandofi licenziare queste , fe non per cagioni assai gravi, le quali raro volte accadevano ; e quando la Signora partoriva , essendo pratichisimas; non li può esprimere , che aflistenza le prestava in tutto quello, lc occorreva ; ed in tempo di malattie cra singola  re;  2  re; oltre di che nell'educare bene i figliuoli, e le femine in ispecie, cra mol. to eccellente, sapendosi far amare, a rispettare insieme: or vedere voi quali danni ha apportato privarsi di effe.  Sem. Mà perche è stato dismesso si buon fervigio ?  Pub. Io precisamente non lo sò, può essere, che sia noto a Mecenate.  Moc. Io ho udito riferire più voltes che queste volessero fare troppo lezelaati, e perciò fi fia verificato in esse la favola di Efopo, ove parla del trattata di accordo fatto tra il lupo, e la pecor ra,contro la soverchia custodia de' cani; e per verità, vi erano alcune, di esse, che facevano la guardia alle figliuolo più di quello , che facciano i cani alle pecore; -mà questo non era motivo fufficiente per dismettere un servigio cotanto utile al decoro, ed onestà dellas casa, conosciuto ciò, anche da Tibullo quantunque molto lascivo, mentre egli consigliò: At tu cafto precor maneas, fanétique pue  Aft  [ocr errors] dorisa  N3  Affideat cuftos fedula femper anus .  Sem. Come regalavate, Publio, fperso la vostra sposa?  :- Pub. Oltre le mancie solite del Natale, e del giorno mio natalizio, che consistevano in dodici piastre per.volta, e quando si riscotevano grosse somme, fempre qualche moneta di oro le davas, perche mi è piaciuto , ch'ella 'manegiafle danari.  Sem. E che ne faceva 279  Pub. Quando arrivava a cumulare la somma di cinquanta scudi , creava un cenfo, e la metà del frutcabo di effo dispensava a poveri, c fi verificava in lei ciò, che dice Salomone delle donne savie: Manum fuam aperuit sinopi , & palmias suas extendit ad pauperem , dell'altra si serviva per vestirdi:. ;1  Sem. E le fpilte non se l'era riservate ne' capicoli matrimoniali? LifPubi Questo non costumava allora... non facendofi tanto consumo di effe,come 'oggidì, che liveste alla moda .  Sem. Eche a non fi vertiva alla moda in quel temposPub. Si vestiva all'usanza propria det [ paese, quale era di non cangiare sì di  sovente, quella , che correva.  Sem. Non è questa la vera moda, mà bensì quella, che oggi si porta da paeli stranieri, ed indi a pochi meli, venen, done un'altra, la prima non si usa più , perche le ultiine sono quelle , che dilectano, ed appagano gli occhi .  Pub.E degli abiti di vecchia moda anche in buono essere che fe ne fa?  Sem. Si esitano a quel prezzo, che fi trova, e con discapito grandissimo,  Pub. Come costa questo vestire all? ultima moda , perche io, che vivo all antica, non ne sono in formato ?  Sem. Costa assai per verità, essendo che bisogna pagare sempre di più del suo valore quel drappo di nuova moda; mà ad alcuni ciò non da fastidio, perche i mercanti sono cosi cortesi', che lo danno in credenza. ti ''p  Pub. Questa , per parlarvi con tutta fincerità, mi pare la vera moda diandare in malora; perche estendo sì cari,  Conf. 8. Dec. prima ed il mercante volendo alla fine essere pagato, che si farà allora , non essendovi danaro per sodisfarlo?  Mec. Si mucerà paese, e per verità quando questa nuova moda non era tanto in uso non si vedevano già i galant' uomini , divenuti per essa miserabili, nè mutare paese, essendo per loro poco sicuro quello, ove vestirono a tutta moda.  Sem. Con chi coversava la vostra fposa ?  ? ? Pub. Con i suoi parenti più proflimi , li quali in giorni festivi, in occasione di male , ò di altri bisogni venivano as visitarci, ed altresì noi con effi loro facevamo.  Sem. Ma non recavano noja fimili conversazioni  Pub. Anzi erano di sollievo grandislimo; essendoche i capi di casa fi ritiravano in disparte a difcorrere fopra gť iatereffi domestici; consigliandosi tras loro, per meglio regolarti, nel far colcivare la campagna, ne irinvestimenti  da  da farsi, e nel governo economico della casa : le donne poi colli ragazzi, ftavano divertendosi tra loro.  Sem. Ed in che?  Pub. Nel domandare , che profitto facevano i figliuoli,che belli premj avevano avuti da loro maestri, e come fi portavano le figliuole ne' loro lavori, i quali bene spesso portavano seco queste, per farli vedere ; e ciò serviva per  eccitar emulazione tra elli a portarli meglio in avvenire, lodandosi, e premiandos ancora chi s'era portato benc.  Sem. In detto tempo a costumavad giocare?  Pub. Questo non fi faceva , eccettuato, che in tempo di carnevalc.  Sem. Si giocava alle ombre in detto tempo?  Pub. Questo si costumava ; posciache ove si giocava, non vi era Sole .  Sem. Voglio intendere colle carte di fpade , bastoni , coppe, e danari.  Pub. Queste ne pur si conoscevano in quel tempo da esse, e se l'avessero co  no  [ocr errors] nosciute', non averebbero giocato con carre tantó-misteriose, le quali fanno vedere , che le spade, i bastoni, e le coppe , malamente adoperate consumano tutto il danaro ,  .. Sim. Ele conedie li udivano allora?  Pub. Queste erano frequentare', ò'da curiofi forestieri, è da paesani ožiofi per  alcro le donne se n'altenevano ; e se non era più, che qualche rappresentazione facra, fatta di giorno, avevano rossore di comparirvi.  Sem. Eli passeggi si costumavano ins quel tempo?  Pub. Passeggiavano ancora, mà per essercitare iutto il corpo a beneficio della salute , non già come si fa oggidi, per 'indolirli folamente la schiena , a cagione di tanti inchini, che Gi fanno, fenza muovere un paffo.  Sem. Lecafe, come erano bene a dobbate  Pub. Asai meglio', che non sono adesso, rimirandovisi appcfi nelle pareti di effe akuni quadri di carte', ches  er  [ocr errors][ocr errors] ga in  erano le piante delle tenute, che si possedevano,dalle quali & ricavava groffi ffimo frutto, ed allora non vi era tanto luffo; poiche loro, ch'oggidì s'impie  in apparenze superflue d'indorature, e nelle vanità alla moda, fi ipendeva in quei tempi assai meglio in compre diterreni, e di alcre cose fructifere. Ne si commettevano già furti di piatti, fottocoppe , bacili, candelieri, ed altri vali di argento ; perche questi allora. erano. assai meglio custoditi ; effendo pochi elli, che gli aveano, e perciò di rado ancora venivano adoperati. -Sem. Sapete Mecenate, che mi crovo confuso a cagione di questo racconto fatró da Publio, riflettendo a ciò, che sarebbe più utile , mà non lo potrò seguitare, per il diverso costume introdotto oggidi ; e dichiarandomi volere vivcre così, non troverò moglie; dall' altro canto a seguitare il modo, che si tiene, sono arrivato a comprendere , che è molto dannoso per cutti i verfi. Dunque che dovrò fare?Mec. Di non isbigottirvi punto per qucsto. Scegliete voi il modo, che credece migliore, e dichiaratevi pure apertamence , che questo volete seguitare e troverete ciò non oftante moglie, u forse senza d'uopo di ricercare tanto al minuto il costume; posciache quelles giovane,che si contenterà di essere tratcata in questa guisa , sarà certamente fac via, e bene accostumata .  Sem. Mà se le altre non la vorranno trattare per non seguitare ciocche effe fanno, come si troverà ?  Mec. Che pregiudizio risulterà a voi & ad effa da questo, che farebbe la voftra fortuna? anzi voi medelimo lo do. vreste procurare, affinche non la deviaf. sero dai suoi doveri.  Sem. Or io così farò, e dica ogn'uno ciocche vuole ; perche hò uditi molti mariti sospirare frequentemente; da che provenisse questo, non lo só precisamente, sò bene, che senza cordoglio non ti sospira . Or ditemi , che altro doverò fare per mantenerla costante nel  fuo  [ocr errors] suo buon costume ?  Pub. Nun altro, che di non darle al. cun mal'esempio, e di tenerla continuamente occupata in devozioni ; affari do. mestici; e nell'educazione de' figliuoli; perche la vita oziosa è pessima, dicenda l'Ecclefiaftico: Mitte illum in operationem, ne vacet; multam enim malitiam docuit otiofitas .  Sem. Come mi dovrò contenere intorno alla devozione?  Pub. Le darete in questo voi huono esempio ,' conforme richiede l'obligo voltro ; imperciocche tanto io , quanto la mia conforte cravamo favoriti dal medesimo direttore spirituale , c trequentavamo sovvente le nostre devozioni ; la sera poi colli figliuoli, e servitù fi recitavano alcune preci, e li leggevano anco libri fruttuosi per l'anima, ed in oltre da noi si sovvenivano bene spelso i poveri, e da ciò ne hò ricavato quel bene, che si trova registrato nell'Ecclefiaftico : Mulieris bona beatus Vir, numerus enim annorum illius duplex .  Sen.  .  Sem. In che altri affari domestici la tenevate occupata ?  Pub. Effendomi avveduto , ch'aveya desiderio di copiosa biancheria , ordinavo, che fossero proveduti nelle fiere canape, lini , e cottone, é veden. dole si rallegrava molto, e li faceva filare, e reffere a suo modo; e ciò per verità la teneva impiegata qualche ora del giorno , ingegnandosi ancor essa di filare , ò d'inaspare; e facendosi le bucate in casa, rinnacciava a maraviglia , quanto ne aveva bisogno, affieme colla matrona ; ed io rimirandola cosi diligente ne godevo fommamente, vedendo verificarsi in essa quella condizione ancora di donna saggia, descritta da Salomone: Quafivir lanam, d linum, operara eft confilio manuum suarum.  Sem. La conducevate in Villa?  Pub. In certe belle giornate lo praticavo; anzi che le faceva vedere le nostre tenute, e tutti quegli stabili, che la casa godeva in campagna, con istuirla ancora, sopra quello che si poteva  fars  [ocr errors] fare di van aggio, per renderli più frutriferi; sopra di che ne ricercavo ancora il suo parere, da poi che la vidi ben, informata di tutto  Sem. E qual bisogno avevate di configlio donnescovoi, che fiece sì esperto in tali affari?  Pub. Il prendere consiglio giova agli inesperti, e non pregiudica mai a i pratici; e poi sapere voi il mio fine qual’ era:che, se Iddio mi avesse chiamato a se prima di essa fosse riinasta informata. di tutte le cose: e sappiate, che le povere vedove sono gabbate da loro miniftri, quando non si trovano informace degl'interessi domestici; il che non legue già allorche fanno ciò, che debbas farsi. Ne crediate già , che sia cosa im, propria alle donne d'essere informate della campagna, ponendo tra le condizioni di saggia donna Salomone anche questa : Consideravit agrum, a emis eum: De fructu manuum fuarum planiavit vineam. Sem. Nell'educazione de' figliuoli,  che  [ocr errors] che diligenze usavate  Pub. Eravamo tanto io, quanto essas attentiffimi a tutte le loro operazioni, per poterli di ogni minimo difetto correggere da principio; eflendo che le piante velenose fi svellano alla primas con facilità grande dalla terra,mà allorche sono ben radicate v'è d'uopo di maggiore facica. E riflettendo che tanto si fà, e quanta industria si pones per ridurre docile un cavallo da maneggio, mi pare che questa sia più necessaria d'impiegarla a pro de' figliuoli, da quali vantaggi maggiori si ritraggono senza fallo, che da cavalli .  Sem. Come viriusciva facile il correggerli?  Pub. Per verità facilisimo, perche erano docili ; e questo beneficio l'hò riconosciuto dal buon naturale della madre, il qual passò anche ne' figliuoli; scorgendoli bene spesso all'opposto i vizj de genitori paffare ne' figliuoli  ancora.  Sem. Quale induftria usavate nel di. riggerli ?un canto viera l'altarino con tutti li suoi  Pub. La prima fu d'istruirli nella pie-*** Tu tà cristiana, e d'insinuarla bene ne'lo. si ro cuori ; primieramente col buono  esempio, e poi colle parole; ed era vely ramente di consolazione grande il vede  re quei figliuolini attenti, e divoti nel fare orazioni ; e di poi, per meglio afficurarmi delle loro naturali inclinazioni, aveva fatto preparare per divertirli varie cose in una stanza spartata , ove in  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] arneli; sin altro l'armariuccio con certe armi di legno tinte, che sembravano di ferro ; vi erano ancora in altra parte din versi giocarelli puerili, ed altrove qual che libretto in una picciola scanzia ; c nelle ore di recreazione li conducevo ivi, affinche si divertisfero. Quei ch'erano portati dal genio all'Ecclefiaftico, correvano alla prima all'altarino, el ornavano in quella forma į che l'ayeano veduto in chiesa; e ciò serviva per renderli maggiormente attenti alla devozione: altri poi secondo le loro incli  O  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] na.  nazioni si divertiyano, coi libri, è   colle armi,e di rado alcuni di efli li spas,   favano co i giocarelli; e stava attentifli-   mo osservando quelli, che persevera-   vano nel medesimo genio ; perche con-   forme averete ancora voi osservato, non   è fempre uniforme l'inclinazione de’ra-   gazzi, e mi sono finalmente accertato ,  che quelli, ove il genio li portava ,  sono stabiliti in esso divenuti adulti,col-  tivava però sempre le loro inclinazioni,  vedendole disposte al buono.  1 Mec. Gli Archieli foleano condurre   i loro figliuoli ad una fiera, per com-   prendere i loro genj, e quei, che ve-  deano desiderosi di provederli de' libri,   li mandavano all'Accademia, quei poi ,   che aveano compiacimento a rimirare   le armi, li deftinavano   per       la   guerra Sem. E le figliuole, che facevano ?  Pub. In altra ftanza fi syariavano,afliftite ò dalla Madre,ò dalla Matrona,ove erano coscinetti, per commodo das cucire ; ferri da fare calzette, piccio.  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] Dell'Elezione della Mog. arr le conocchie, ecommode per filare ; e diverse pupazzine vestite, ò da spose , ò da monache ; ed ivi ancora chi affifteva loro', fcorgeva Vinclinazio ni, ch'avevano", rimirando a’ quali di queste cose le portava il genio ; ed in fatti quella, che si fè monaca, non si divertiva in altro, che in ispogliare, e rivestire la sua pupazzetta in abito da monaca, e l'altra, che prendette marito , sempre giocolava colla sua pupazzetta vestira da sposa .  Sem. Felice coppia! non saprei anch' io abbattermi in simile compagnia.  Pub. La troverete anche voi cercandola, perche non è già estinta nel mondo la razza di quelle di cui parlò l'Ecclesiastico al caj. 26. Mulier fortis obleEtat virum fuum, de annos vitæ illius in pace implebit.  Sem. Sì bene, mà se per mia sventura m'incontrafí in una , che non fosse così buona; che doverò fare in sal caso ? Meca, L'esaminereino nella venturas  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] conferenza, nella quale meglio anche apprenderete il modo, che dovrete tenere in, fare perseverare la buona, co(tante nel suo lodevole costume avendola scelta per vostra conforte,  CON,  the  te  CONFERENZ A IX.  [ocr errors] Come si debbano regolare i faggi    mariti con le mogli imprudenti,   e viziofe.  Publio , Mecenate , Sempronio ,  & Medico  Pub.  O, ch' hò navigato lungo tempo per questo vasto Oceano degli ammogliati, posso servire di  fida scorta a voi,che doyete entrarvi. Le maffime principali, che dovrete tenere sono queste : primieramente di operare più col buono esempio, che con semplici parole, confessando Platone, ed Aristocile che maggiore profitto fi ricavava da ciò, che si vedeva fare a Socrate, che da' suoi morali documenci. Quindi è, che'Plutarco ne' suoi ammaestramenti matrimoniali ebbe a dire: che non preten. da il marito di far divenire la moglie buona economa , s'egli coll'esempio non le mostrerà efferlo anch'effo : onde non recherà maraviglia, ciocche diffos Ovidio. Dum fuit Artrides una contentus ,  illa, Caffà fuit , vitio eft improba fuftaus  viri. Mec. L'esempio però di Socrate appresso la sua moglie Santippe nulla giovava,  Pub. Sapete perche ? Si abbatte il una donna talmente pazza, che dovea più tosto essere legata colle catene, che ammonita con esempi, e parole : mà di questo ne parleremo a suo tempo. Or proseguendo il mio discorso; in secondo luogo deesi togliere ogn'occasione, che possa farle cambiare di buona in cattiva, perciocche quantunque ottima da principio, per trascuraggine del marito può divenire peffima, ed in che  mo  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] modo uditelo da Euripide.    Sed nunquam nunquam [ neque enim,       femel dicam  Oportet prudentes, quibus eft uxor,  Ad uxorem in domibus accedere finere  Mulieres, ipfæ enim præceptores funt         malorum.  E che più ! Levina donna da principio  caftiffima per   la libertà, che le diede suo marito di andare vagando per il mondo , quanto , quanto si mutaffe  mutasse , sentitelo da questo Épigramma. Cafta , nec antiquis cedens Levina Sa        binis,  Et quamvis tetrico triftior ipsa viro,  Dum modo Lucrino , modò fe permitrit       Averno,  Et dum Bajanis fæpè fovetur aquis,  Incidit in flammam, juvenemque fe-          quuta , relicto     Conjuge, Penelopes venit, abiit Helena.  E d'onde ciò avvenne, se non dalla li.  bertà, che le diede il marito ? Nè Mef-  salina averebbe già commessa quella sì  enorme scelleragine di sposarli con Silio   [ocr errors][ocr errors][ocr errors] publicamente, e nel palazzo imperia, le , fe Claudio Imperatore l'avesse condotta seco ad Oftia; del qualc attentato parlandone Tacito arrivò a dire : laborabit annalium fides; c credete forse , che se Ottone non avesse lodata a quel segno la bellezza di Poppea Sabina sua moglie alla presenza di Ncrone, glie l' averebbe tolta ? non già ; ma il pazzo arrivando a dire, nel levarsi dalla menfa dell'Imperatore, che se ne andavas lieto a trovare sua moglic stupore di bellezza, a lui solo concedura, e desiderata da tanti, e volete chc Nerone, udendolo non s'invaghisse di essa ?  Sem. Averanno forse da tenerli chiu. se le mogli per far verificare, ciocche disse il Satirico ? Pone feram choibe , fed quis custodiet  ipfos Custodesē cauta eft, & ab ipfis inci  pit uxor. Pub. Io non intendo dire questo, mà folamente di trattarle, come diffe Tacito del popolo Romano , che: nec tam,  tam  [ocr errors][ocr errors] fam feruitutem pati poteft, nec totam libertatem , cioè colla misura di mezo, discreta, e giudiziola e finalmente conviene compatire molte leggiere debolezze di effe con non farne calo, di quelle particolarmente, ove non si scorge malizia, e cattivo fine ; ¢ quando mai vi fosse d'uopo di rimedio, non dee questo darsele in publico, nè con istrepito contenzioso, e riflettere a ciò, che dice Plutarco; che Venere fù collocata dagli antichi vicino a Mercurio, affinche con arte, ed avvedurezza , e non con violenza in tali faccende li procedesse ; e lasciando il profano da parte, vediamo che rispetto avesse a sua moglie il nostro primo padre Adaino : dipoi di avere detto, ch'era una porzione di se medesimo; cioè: cara de carne mea; soggiunse « quamobrem relinquer bomo patrem fuum , & matrem, &adbarebit ukuri sud, do crunt duo in carne una Gen. cap. 2.  Sem. Questo però mi reca gran tercore, perche se Adamo trattò così bere  sua  :  sua mnoglie, ed erano nel Paradiso terrestre ; ne- ella poteva essere stata crea . ta da mano più perfetta , contuttociò ingannò suo marito a segno , che tutti noi ce ne risentiamo, che farà dunque una figliuola di essa in questo mondo?  Pub. Fu fedotta però dal serpente, allorche Adamo dormiva, onde apprendetene dà ciò questo documento: di non dormire, quando vi sia il serpente, che tenti sedurre voftra moglie.  Sem. Mà qual serpente ci sarebbe, se io sposarsi una giovane, che da zitellas aveffe dato sempre saggio di somma mo. deftia ; ed appena entrata in casa mias, cominciasse a dire ; voglio un'altro abito alla nuova moda: queste gioje non; sono legate all'usanza; voglio lo scarabattolo, come hanno le altre mie  pari; qual ferpente la tenterebbe in questo caso, per farla parlare in tal guisa ?  Pub. Sarebbero due non che un fojo, li serpenti; cioè l'eccessiva vanità, e l'ambizione proprie ò insinuate,e quefti converrebbe scacciarli,er.  [ocr errors] Sem. Ed in che modo?  Pub. Voi averece già scelta la giova. CH  ne nata da? savj, e discreti parenti, and mutt  quali avrete facilmente manifeftato l'animo voftro , in che forma la vorretes trattare; accordandomi ciò, mi pare, cosa quasi impossibile, che una giovane  ben'educara possa alla prima avanzarsi Q  a domandare imperiosamente ciocche be brama ; se pure non sarà stata mal con  figliata; da qualch’una poco prudente, i  onde per ovviare questo, converrà , che alla prima stiate attento di non farlas trattare , se non con quelle, che voiconoscerere savie, e prudenti, delle quali potrete essere sicuro, che non sarà configliata a questo; ò pure se voi medelimo nolle darete mal'esempio ; conforme a questo proposito avvertiscePlutarco, ne? suoi precetti matrimoniali, oye dice'; vir corporis ftudiofus, uxorem reddit la  sciviori cultui deditam ; voluptuofus amas, toriam, & libidinofam ; boni , honestique  amator , modeftam , & honeftam: E sog. giugae di vantaggio; nè putes à super,  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] mo,  fuis , profusifque fumptibus uxorem temperaturam ; fi te ad hæc omnia minimè contemnentem confpiciat', quin potiùs auratis poculis , pietifqae cubiculis, mulorum, & equorum phaleris gaudentem videat ; non enim fieri poteft, ut à mulieribus luxus removeatur, quo viri circumfluunt . Sem. Mà come farà praticabile il pri  se terrà visite publichce ove ogn' una farà a gara di comparire con mag . gior pompa dell'alere?  Pub. Se conoscerete, ch'ella abbias la prudenza della moglie di Focione, di cui già parlammo, permetteteglielo pure liberamente; perche farà della natura di quella , di cui parla l’Ecclefiaftico al cap. 26. Mulier fenfata, tacita non eft immutatio eruditæ animæ : mà per al. fro, se non farà di tal senno vi porrete ad evidente cimento di essere forzato a tractarla meglio delle altre , e con pompa maggiore, per esfere sposa novella.  Sem. Ma queste non si potranno fuggire; imperciocche lo potrebbero incon  fra:  [ocr errors] trare inimicizie, ricusa adofi ; ò per la a meno li darebbe moito da dire à tuttaa la città.  Pub. Se non si potranno fugire, e voi  permettetele.  [ocr errors] Sem. Mà facendolo poi bisognerà , che seguiti ciocche praticano le altre.  Pub. Non è da porsi in dubio.  Sem. Consigliacemi dụnque, che dovrò fare.  Pub. Non mi dà l'animo.  Sem. E perche ?   Pub. Perche scorgo più volonterolo voi di queste visite, di quello che sarà la voftra sposa, compiacendovi forse, che si vedano le vostre grandezze, e sono molti del vostro genio', che mostrano in apparenza dispiacimento di tal cosa, che internamente con ardenza la bra. mano; e fanno come diffe Tacito di Ti. berio : Specie recufantis vebementiffime cupiebat.  Sem. Mà è possibile, che non ci siad mezo termine per isfuggire queste prime vifte, senza che rimanga alcuno disgutaco?  Pub.  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][merged small] Pub. Si potrebbe questo trovare,ogni qualvolta però non abbiate voi compia. çimento di averle. di Sem. E questo quale sarebbe?  Pub. Di condurre la vostra sposa fuofi della città in distanza tale, che non rioscisse facile alle altre di venirla a visitare.  Sem. E chi sà, se la sposa fi contentasse di questo?  Pub. Non vi contenterete voi ; perciocche una giovane bene accostumatas farà ciocche vorrete : toccate voi ora colle mani, che i mariti sono per lo più arrefici delle loro ruine, e non le povere mogli.  Sem. Mà andando fuori, e poi tornando , faremo nei medefimi termini di prima, rispetto à queste visite :  Pub. Così credo anch'io ; pofciache vorrete fodisfare allora al desiderio,che avere di riceverle; mà udite di grazias, ciò che ne potrebbe nascere di buono da questa vostra lontananza dalla città : Che intanto voi col vostro giudizio po  tre  [merged small][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] trefte istradarla in modo , che non sarà  poi facile, che diça , qucsto voglio, po:  sciache le potrete far ben conoscere i  precipizi , che nascono dall'ecceffivo  lusso, ed i danni, che apporta l'ambi,  zione;ed averefte inoltre in quelto men.  tre, che dimorerete in villa , tempo op:  portuno d'istruirla ancora nella buona  economia, la quale è l'unico antidoto  contro la prodiga vanità.     Sem. Insegnatemi dunque, che dovrò  fare fin tanto che staremo in villa?   Pub. Contratto, che averete trà voi quel santo amore conjugale, le farete comprendere, che guadagno abbia recato alla vostra casa l'efferyi portaticolà, e che per farle conoscere , che voi non l'avete fatto già per avarizia , ma per esimervi bensì dalle confuloni, u disturbi, che nascono da tante visite, e rivisite, che si costumano, donare ad effa la metà di detta somma avanzatas; affinche ne faccia una soccita di animali, ò la rinvesta a suo piacere, c commodo, e procurerete , che facendosi detta foccita, non abbia questa disgrazia alcuna per più anni, con foggiacere voi as quei discapiti, che l'inclemenza delle Stagioni potrebbero apportarle, e vedrete in atto pratico y qual amore effa. porrà all'economia. Le prime impresfioni sono quelle , le quali radicateli negli animi foftri tanto del bene', quanto del male, difficilmente fi cancellano più, mentre che,  Quo fuerit imbut a recens feruabir odo  rem  Tefta diu.  Sem. Questo mi piace affaislimo; perche mi concilierà l'amore di essa, edonerò senza fare discapito alcuno ; mentre ciocche dono, rimane in cafa; mi farebbe discaro bensì, quando andaffe in börfá de mercanti: Mà se in progrefso di tempo desiderasse qualche abito , come mi dovrò regolare?  Pub. Dovrete invigilare di provederla preventivamente di ciocche è necefsario al decente ornato, secondo il voItro grado ; affinche non sia forzatas  [ocr errors] chiedervi cosa alcuna .  Sem. Mà se ciò non ostante lo facesse, hò da negarglielo?  Pub. Se voi la scorgerete attaccatas, al danaro non glielo negate , questo si, che in vece di spendere voi, date la moneta ad ella, acciocche la spenda a suo modo,  Mec. A questo proposito posso riferire un caso accaduto. Venne voglia ad una donna civile di farsi una certa scuffia alla moda; il di lei marito, ch' era accorto , non glie la negò; ben è vero,  che le diede il danaro nuovo di zecca per farsela ; ella cominciò à con, tare, e ricontare dette monete, li le parvero assai belle, e perciò non  s’induceva à spenderle ; le domandò į egli pallato qualche tempo, se fi cras  ancora fatça la scuffia; cui rispose, che non aveva potuto trovare cosa appropo.  fito; le replicò : fatela quando vi piaci ce, perche il danaro è vostro, e se lo Ha volere impiegare in altro, fate voi; mà ella non lo spese già per goderselo.  P  Sem :  [ocr errors] le qua  [ocr errors][ocr errors] Sem. E se fosse liberale ; che non fa. ceffe conto del danaro ?  Meo. In questo caso pariinente non mostrare renitenza in sodisfarla ; dite bensì, che commetterete fuori, e farété venire merletti più belli, e più alla moda di quei, che sono in città; perche intanto, ò le passerà la voglia di farsela, ò si murerà la moda , come si vede giornalmente accadere, e potrebbe anche darli il caso, che un giorno fi rendeffe capace di ciocche disse Crate, Filosofo : che ornamentum eft, quod orhaf:ornat autem quod mulierem boneftiorem reddit. Quindi è, che secondo quel detto greco :  Mulieri ornamentum mores, e non  [ocr errors] durum  Sem. E se le venisse tentazione di porfi qualche manteca nel viso, per comparire più vaga?  Pub.Ciò non dovrete tolerarlo in conto alcuno riso.it  Sem. Che averò da fare? sgridarlas .forse, e mortificarla inleme  Pub.  [ocr errors] fa  Pub. Questo poi nd; pofciache me. no verrece seco alle brutte, meglio semnot pre farà per voi, ed affinche possiate di in ciò regolarvi con prudenza, vi rifeac rirò per convincerle dolcemente, cioc  che dice Zenofonte nell'economico, ch' è questo: Die mihi uxor, nonne hisce legibus matrimonium inivimus, ut quod effet utrique faculsatum, invicem communica. remus ? annuit illa . Jam ait , fi poftquam tu tuam portionem bonæ fidei contulifes, ego pro veris gammis fiétitias , prò auro puro, adulterinum darem , prò torquibus aureis vitrum auri bracteis oblitum prò monilibus folidis , ligna 'auro, argen to, incruftamentis obducta, num boni confuleres, aut judicares , me plus tibi contuliffe ; fi talibus technis tibi imponerem, quam fi quod baberem', uti eft in medium conferrem? quod illa excipiens , cave , inquit, ne mibi talis fis , neque enim te ex animo amare pollem; quo audiio ille fic perrexit : atqui nos in hoc potisimum convenimus, ut alter alteri corporum Noftrorum copiam faceremas, quod  P. 2  [ocr errors][ocr errors] h  cum  Pub. Nira maltrattato ?  cum uxor annuiset. Sum ne, inquit , tj bi gratior, aut carior futurus, fi corpins boc, uti eft, nullo medicamento vitiatum Communicem, an fi os,oculofque minio infestos tibi ofculandum preberem? At ego in. quit uxor; minimum nunquam attigerim, neque fucatos oculos gratius, quam tuos afpexerim . Et mihi , ait ille , puta mentem eamdem effe: nec tam mentito (quem tu cerufit, fib:oque inducis) colore delectari, quam tuo nativa. Quo tam commado fermone caftigata mulier abjecit omnia tectoria, formaque medicamenta . Onde di questo convincentissimo ragionamento vi potrete anche voi prevalere per ridurla a suoi doveri, senza contendere seco,  Sem. E se diveniffe fastidiosa, iraconda, e garrula, che dovrò fare?  Pub. Tutto l'opposto di quello , che farà lei, imperciocche altrimenti sarà la. casa vostra un continuo inferno.  Sem. Come si potrà praticare questo  Pub. Non vi potrà fare mai peggio di uxor.  unda ,  quello, che faceva Santippe a Socrate,  e pure la sopportava , come viene dea  scritto da Bigo poeta :              Ferendum eft  Socratis exemplo quodcumque peregerit  Xantippen, fiquidem convitia multas       moventem ,  Cum blando argueret, fædatus defuper  Nil nifi deterso, poft tanta tonitrua,   dixit Vertice, se pluviam non ignorante se  quutang Sem. Bisognerebb’essere però Socrate per sopportare tanta ingiuria .  Pub. Cominciando ad operare da Socrate potreste anche voi divenire simile ad esso ; posciache interrogato per qual cagion'cgli sopportava tanti strapazzi ricevuti dalla sua insolente moglie, rifpofe : Cum illam domi talem perpetior , infuefco, dw exerceor ,'ut ceterorum quoque foras patulantiam, et injuriam facia liùs feram; laonde con sopportare l'in  giu  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] P 3  [ocr errors] giurie della vostra moglie, diverreste Socrate anche voi.  Sem. Mà se fosse altera , ambiziosa di commandare, e non volesse fare ciocche dal marito le veniffe ordinato  Pub. Socrate sopportava questo ancora ..  Sem. Mà voi, Mecenate, che non fieţe Socrare, che fareste?  Mec. Vi posso riferire ciocche fecero alcuni in fimili casi, e con profitto . Vi fu una certa vedova, cui erano morti trè mariti, a cagione dei gran disgusti dati loro da essa ; non trovava questas più alcuno, che la volesse prendere per moglie, un giovane alla fine, sapendo ch'era divenuta inolto ricca la volle sposare ; mà cosa fè questi ? ordinò, che fosse trovato il cavallo più indomito, che fosse nella città, con ordinare al fuo cocchiero, che nella mattina feguente alle sue nozze lo avesse fatto andare furiosamente per il cortile del suo palazzo, e che avesse di poi eseguito puntualmente ciocche da esso gli fareb,  be  1  be stato comandato; in quella macci  na il cavallo fè furie grandi ; venne cuole riosità alla sposa di vedere da che pro  cedesse quel gran rumore, che udivano in  si affacciò alla feneftra, e nel medesimo tempo ancora vi accorse lo sposo, il quale domandò al cocchiero , la cagione di ciò, cui rispose : Signore, è unas beftia, che non si può domare, e perciò ogni giorno farà il medesimo; allora egli comandò, che fosse trucidato, conforme crudelmente seguì; la povera sposa rimase attonita da sì risoluto comando, c voltatosi lo sposo verso di effa , le disse : Signora mia, quando le bestie non G poffono domare è necessario di venire à queste risoluzioni : das dovero, che mutò ella modo di vivere, e di leone divenne agnella. Vi fù parimente una moglie assai disobediente,alla quale avendo ordinato il marito, che non fosse uscita di casa ogni giorno, e tornata di  notte,  mà vedendo , che colle buone non ricavava profitto alcupo; udite un giorno quello le fece nel  [ocr errors] P 4  tor  tornare a casa : teneva'pronte le forfici, e le recise i capelli, dipoi le disse : oh adesso andare fuori di casa quando volete, che farete una bella comparsa : sapete  voi, che se ne aftenne, ed in avvenire fu più obediente a suo marito.  Sem. Vedete voi, Publio', che con mostrarsi risentito, si possono anco togliere i difetti donneschi?  Pub. Questi sono casi rariffimi, che felicemente riescano : I più frequenti però fanno vedere il contrario. Nacque una volta competenza tra il Sole e l'Aquilone, a chi di loro fosse riuscito più agevole, a togliere da dosso il mantello ad un viandante : si adoperò con tuttas la sua violenza il secondo, mà, ftringendoselo alla vita chi lo portava , non fu mai possibile farglielo lasciare : cominciò dipoi il Sole, senza usare violenza, a percuoterlo coi suoi continuati raggi ; refiftè egli per qualche spazio di tempo ; mà alla fine & spogliò non solamente del mantello, ma del giuppone ancora; e da questa ápologo.com,  pren:  [ocr errors] i prenderete se riesca più utile la violenob za , ò la piacevolezza continuata per ri  muovere i difetti donneschi : ed Ovidio  che le conosceva bene,così canto:   Define, crede mibi, visin irritare vetado  Obfequio vinces aprius ipfe tuo.   Sem. E se fosse ostinata in non volere cedere mai, mai , allorsì , crederei , che fosse d'uopo prevalera di quel rime  dio contenuto in questi due versi : .. Rendon più frutta donne , afini , e noci  A cbi ver loro ha le mani più atroci .  Pub. E da cui apprendeste, Sempronio, modo sì ingiusto, e villano das trattar le mogli? forse che dall'indiscreto Ercolano Sanese ? il quale, conforme racconta il Dolce nel secondo del. le istituzioni delle donne, avendo comprati certi tordi , mentre li stava mangiando con sua moglie, le diffe ; se aveva mai veduti tordi più grassi di quelli ; vi replicò la moglie ; ch'erano merli, mà , volendole far capire il marito, ch'erano tordi, non fu mai possibile, crsendofi oftinata nella sua falsa credenza;alla fine, dopo le contese, l'Ercolano fi avanzò a percuoterla col bastone, il quale non tolse già la sua pertinacias; posciache in capo all'anno disse al marito, che in quella medesima sera era Itata così malamente trattata per quei maledetti merli, ch'egli diceva essere tordi ; e convennegli fare l'anniversario ancora , con batterla nuovamente, come accadè in molti anni seguenti. Or vedere, che profitto apportano le battiture alle donne pertinaci? Poteva l' Ercolano crederli anche per storni; perche ciò non diminuiva loro già il sapore: mà, se fosse egli stato sotto la censura di Catone, non averebbe certamente commesso fimili attentati; imperciocch'egli voleva, che i mariti, che percuotevano le mogli, foffero puniti col medesimo gastigo, che si dava a coloro,che rubavano nei tempi dei loro Dei, come riferisce Plutarco. ES. Crisosto. mo nella umilia 26. epift. prima D. Pau. li ad Corinthios, così dice: Neque verberandam uxorem dico , abfit: ultima  nam  [ocr errors] 201  [ocr errors][ocr errors] namque ignominia eft non ejus qui verbe-  ratur , fed qui verberat &c. e dipoi ,  vos viros illud admoneo , nullum fit tam  magnum peccatum, quod ad verberan-  dum uxorem vos compellat , per lo che  meritamente cantò il Guazzo:   Offende il Cielose il santo amor discioglie  Quel che con empia man baste la moglie.   Sem. E se si credesse impudica, li ha da fare da Socrate in permetterglielo ?  Pub. Questo poi nò : fi dee bene fare da Socrate in non ingannarsi nel crederla cale, quando non fosse ; perche alle volte la gelosia fà travedere le ombre per corpi; e fa credere, anche le menzogne rapportate da uomini sceleraci per cose vere; ed udite a tale proposito questo prodigioso fatto. Si trovava al servigio di S.Elisabetta Regina di Portogallo un paggio di ottimi costumi, u perciò da effa amato, di cui si prevale  va per suo elemofiniero ; fu questi ca* lunniosamente imputato appreffo al Re  di soverchia confidenza verso la sua pa.  drona, ed anche reciproca di essa verso .  di  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] di lui ; fu data credenza alla calunnia ; onde il Re adirato fè ordinare ad un  fornaciaro, che avesse gettato dentro l'ardente fornace il primo paggio, che nel di seguente gli mandava; comandò dunque all’innocente , che si portafíe colà; mà perche udà sonare la campana di una chiesa, mentre era in viaggio, la sua devozione lo spinse ad andare verso quella parte ove si trattenne in ascoltare più messe qualche spazio di tempo; mà, perche il Reviveva impaziente di udire il successo, ftimò bene inviarvi l'altro paggio calunniatore, il quale, essendo arrivato il primo , conseguì il meritato gastigo, ch'era preparato per l'innocente : ed arrivato poi il secondo portò al Re l'avvifo, di essere ftato ubbidito; e risaputali poscia las cagionedal Re, perche fosse egli indugiato tanto, ben si avvide della sua innocenza, e della giustizia di Dio. Viene riferito dal P. Crodier.  Sem. Mà corne potrò conoscere d'a. vere occafione di dubitarne con fondamento?  Pub  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] Pub. Se voi per esempio non ufafte a ad  Jei tutta quella fedeltà dovuta , ò pure  se per cafî faceste conversare gioventù in più vistosa di voi, e con tutta libertà;  allorsì forse forse, che, se non fosse più, che la carta Penelope, ne potreste alquanto dubbitare.  Sem. Ed in questo caso, che dovrei fare per correggerla , e gaftigarla ancora bisognando?,  Pub. Bisogna , ch'esaminiamo prima chi foffe il reo principale in questo caso, se voi, ò essa?  Sem. Sarà essa lei , perche io voglio, che sia pudica.  Pub. Voi volere, chefia, e fate ogni possibile, che non lia.  Sem. E come?  Pub. Con darle primieramente mali esmpio col vostro cattivo modo di operare; e poi con darle commodo di fare ciocche ella vuole. Credetemi, Semipronio , che le donne, se non hanno il  cattivo esempio dato loro di mariti, ad ditficilmente s'inducono a far male,  Scn  3  d  Sentite ciocche dice a tale proposito  Euripide,     Stulla quidem fumus mulieres, non       nego,  Cum autem infit hoc animis , peccat ma-   ritus Faftidiens connubia , imitari vult Mulier viruń, co aliui parare ama  fium. Ed operandosi in questa guisa , tutto questo procede per colpa de' mariti, e sentitene ora il parere de' Santi Padri, | S. Agostino così dice , lib. 2. de adult. conjug. Periniquum effe videsur , ut pudicitiam vir ab uxore exigat, cum ipse non exhibeat , ed inoltre dice , ui quales volumus uxores noftras invenire , ipfe nos inveniant , du fi intactam quærimus, intatti fimus ; c Lactanzio, de vero cul. cap. 2 3. Exemplo continentiæ docenda uxor, ut fe caftè gerat , iniquum eft enim, út id exigas, quod ipse præftare non poffis; e poco in appresso, uxorem ejus qui circa corrumpendas alienas uxores occupatur , exemplo ivcitatam, aut imitari se putare,aut vindicare; e l'uomo di Dio Giob  così parla , fi deceptum eft cor meum fue 2 per  per muliere, a fi ad oftium amici mei infi  diatus fum , fcortum alterius fit uxor mea, od fuper illam incurventur alii , e notare  quella parola alii, che denota, che non sarà un solo.  Sem. Ma se per colpa mia non venisse, ed ella fosse sì pazza , che volcsse trau dirini, che dovrò fare? 1 Pub. Questo sarebbe caso rarissimo, s poiche avendola scelta di famiglia ono  rata; non facendole mancare cosa alcu. na, e non dandole veruna occalione di tradirvi, sarebbe una grandiflima ini. quità , fe lo faceffe ; in questo caso dunt. que da principio dovere stare vigilantes alla di lei custodia con fare molte caure diligenze.  Sem. E da che me ne potrò avvedere?  Pub. In primo luogo dal suo affetto til vero, che s'intiepidirà verso di voi, ef  sendo che questo non può portarlo a dụe gel medesimo tempo  Sam.  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] Sem. E se fosse finta, come potrò di. stinguere il vero dal fimulato affetto ?  Mec. Con un poco di tempo ve ne av. vedreste beniffino, con dirle, che volete fare un lungo viaggio con essa lei, e cominciando a porre all'ordine ciocche fa di bisogno, per farvi conoscere risoluto ; può essere, che da principio diffimuli, onde se vedrete, che in progresso di tempo ella li contristi, almeno in assenza vostra , credere pure,  che qualche cattivo pensiere le va per las mente, essendo quaGi impollibile , che chi hà simili attacchi, non si rammari. chi allorche dee allontanarsi; e tanto maggiormente, quando non abbia avu. ta in altri tempi repugnanza alcuna di viaggiare .  Sem. Io che dovranno confiftere l'accennate diligenze ?  Pub. Principalmente in vedere, che fidata servicù voi avete in casa ; posciache, se farà al vostro servizio qualcuno bizarro, che faccia spese disorbitanti, di questi non vi fidate punto, che non  ten  [ocr errors] di tenga mano, perche d'onde gli vengoo? no l'entrate da spendere tanto, non ba  stando la sola paga per far queste ? licenziatelo dunque alla prima, e se il ma  le da ciò procedeffe , tal volta potrebbe in questo solamente bastare.In oltre sareb-'.  be anche ben fatto, sospettando voi dela la di lei fedeltà, d'intraprendere qualche viaggio ad onefto titolo di devozio  ne; con andare a visitare qualche Santi  tuario ; ed in tale occasione le userere, delle cortesic più del ordinario, per riscaldare quell'affetto, che si era inties pidito verso di voi; e fatela girare un gran pezzo, che così le ritornerà il rens no, che aveva incominciato a perdere; e voi sapete, Dottore , quanto bene può apportare il viaggiare in questi casi.  Med. Certo è, che allontanandoci da quell'oggetto, che turba l'animo postro, può quefto più facilmcórc cálmarfi , conforme lo conobbe anche Proper: zio dicendo : Unum erit auxilium mutatis Cinthia terris  Quan  1  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] Quantùm oculis, animo tàm procul ibis.  Amor. Ma per addurvi autoricà più propria vi apporterò ciò , che ne dice Cornclio Celso : Mutare debere regiones , fi mens redis , annua peregrinatione effe jaDandos.  Sem. Hò da farne alla prima risenti. mento, cominciando a sospeccarne con fondamento  Pub. Questa è materia molto gelofa ; onde con prudenza grande doverà cratcarli, e con molta circospezione.  Mec. Così credo anch'io, rifetten. do a ciò, che dice Ausonio: Toxica zelotipo dedit uxor maca ma  wire. Sem. Mà se il caso si avanzasse tant' oltre, che mi accertalli di tale misfatto?  Pub. Due rimedi ci sarebbero, un  o legalc, cl'altro suggerito dalla somma prudenza , o fancità,  Sem. Lasciamo il legale ; l' altro qualid? Pub, Marc'Antonio Filosofo Impera  [ocr errors] bi tore prudentissimo diffimulò, come rac  conta Giulio Capitolino ; il gran torto 1 fattogli da Faustina sua moglie, dicenddo di esso : tantùmque abfuiffe , ut de cas  ejufque adulteris fupplicium ex lege fumeret, ut illos fibi non ignotos (gran virtù  in chi tutto poteva ) pra ceteris ad ve#rios honores, & magistratus promoveret s  du in iis Tertullum, quem cum ea prandena sem aliquandò deprebenderat. E S.Paolo Eremita, come vien riferito da Socr. in fripart. historia lib. 1. cap. 2. Avendo ritrovato la sua moglie adultera, che fec' egli. Nil aliud , quam tacitè subrifis, jureque jurando affirmavit , fe nunquam cum ca concubiturum , ad adulterum au  tem; tibi, inquit , tam babeto, & cuma 1 difto adberemum abiit .  Mec. Rimali sorpreso da maraviglia, Dottore, quando lesti nel lib. de cap. util. ex adverfis , come mai il vostro Carda  no autore di esso ;' uomo sì celebre, vi * abbia posto gli utili , che ne' possa ri  portare il marito dalla moglie adultera ; pour essendoche quanto da fimile misfattorisulta , è tutto danno, e' vituperio.  Med. Non parla ivi il detto autore dell'utile onesto, e decorofo , mà bensi di quello, che si ricava (per servirmi della frase di Tacito) Ex induftria facinorofa ; ed avendo egli intrapreso l'affunto di ricavare da tutte le avverGità quell'utile, che ponno dare, da questo non si poteva ritrarne altro che un vàntaggio viziolo e detestabile chiamandolo egli medesimo:surpe auxilium.  Sem. E se li moftcafie gelola di me?  Pub. Sarebbe segno, che molto vi amasse, nel qual caso, facendole cono. fcere, che sono vani quei sospetti, che concepisce di voi, che vivete, comes debbono i buoni mariti, farebbe colas facile, che deponeffe tal gelosia.  - Sem. Ma se non vivefli offervantiflimo, ed andafli in qualche luogo un poco fospetto, solamente per divertirmi , mà fenza fare inale alcuno 1  Pub. Evoi tralasciate di andarvi,che così cesserà ancora.la gelosia; altrimensi quel vostro divercimento xi.cofterà  са  [ocr errors][ocr errors] caro , togliendovi la pace domesticas; e rifertere di grazia allo spaventofo fuccesso seguito nell'isola di Lenno; ove, le donne per gefolia z ch’ebbero, che i loro marici fi foffero invaghiti di alcune belle schiave, congiurarono contro di essi talmente, che divennero ftudiofamente tutte vedove in una notte : oltre di che, udite ciò, che dice l’Ecclefiaftico al 26. Dolor: cordis , do luctus mulier zelotipa : :  Sem. Mà se pretendeffe poi,che io so. disfaccffi al debito matrimoniale di vantaggio , che fosse convenevole, cho dovcrò fare?  Pub. Avendola voi scelta di buoni coo stumi, non avere da temere questo ; se pures non ile darete occasione di farlo!  Sem. E quale sarebbe questa ? 15,368  Pub. Potrebb’essere il gran confumo di cioccolata , e pistachiara , di rosolà, e vini generosi, e di altre cose, che  accendeffero il sangue , che si faceffe in * casa vostra ; orde basterebbe , che lo  toglie te via ; imperciocche,  [ocr errors] Sine Cerere , Bacco friget Venus .  Sem. E se questo rimedio non baItasse?  Pub. Allor conviene ricorrere alla prudenza , con farle ben capire, che quello sarebbe il modo da farla divenire prettamente vedova ; e che per non farle provare una così infelice fyenturas, dovete opporvi alle sue eccedenci brame...  Mer. Ad un certo marito, che si tro. váva spesso in fimili angustie , gligiovò molto il fare l'astrologo, posciache non mostrava già di opporli a quanto deside, rava la moglie, ma bensì le diceva , ch' cra d'uopo trovare prima nell'Effemeri. di, se in quel punto G farebbe generato figliuolo sano ; ed alle volte le dava ad intendere, che sarebbe nato cieco, altresi zoppo, onde in questo modo operava tanco, che li bastava per indurre a fare a suo modo la credula moglie .  Sem. E se non volesse applicare a farai domestici, come mi doycrò conteacre ?  Pub.  7  [ocr errors][ocr errors] #1 Pub. Bisognerà , che voi claminiace boy  bene d'onde ciò provengà ; pofciache,  se nascesse per cagione di qualche indis1  posizione di testa sopravenutale il non ad potere applicare i converrebbe, che  voila comparifte, cd in tal caso potrcbI be fupplire la matróna a quanto ad ella  spettava, 18  Sem. Si che dunque non potrò fare di meno di non provedermi di questa matrona , potendonc avere bisogno grande di essa?  Pub. Questo non è da porta in dubbio, fe bramercte, che la direzione della vostra casa vada bene, e non vorrete voi medefimo fare da donna',  Sem. E se non provcnifle dall'accennata cagiones  Pub. Doverete anche informarvi, se ciò procedeffe, perche qualcuno voftro favorito le volefle fare da sopraftante, il che non sarebbe conveniente, ed in tal calo to doverefte ammonire a defi. ftate, quando nollo vogliate rimuovere, ed allora vedretc, cho e Ha sarà appli  ciui  1  [ocr errors] cata, ò pure , se si divertisse ia altre cose per dare sodisfazione a voi, ael qual caso non potrebbe applicare alli facci domestici : per esempio, se vi veniffe voglia, che imparasse, a sonare, a cantare, e ballare, ò pure qualche linguage gio straniero , certamente, che non potrebbe ella applicare con attenzione a tante cose ; onde mutando voi fimile pensiero la vedrete tornare attentissima alle cose domeftiche,  Sem. Mà se non vi fosse alcuna delle fudette cagioni , mà che per il suo catcivo nacurale volesse inquietarmi con operare da pazza, che doverò fare?  Pub. S. Crisostomo insegna in questi casi gell’amilia 26. epist. 1. D. Pauli ad Corinthios, che cosa si debba fare: cioè quello, appunto, che pratica un buono agricoltore nel coltivare il sao campo, il quale, fe lo conosce sterile, procura di ajutarlo con industria, per farlo divenire fecondo ; e non per questo, sem mentato che abbia ivi il grano, nafcendovi dell'erbs.catcive, si duglefe. co, perche le abbia prodotte ; mà beni sì con sofferenza grande le carpisce a po  co a poco , senza danneggiare punto  quel seme di frumento, che ivi vede - germogliato. Or perche non si ha dad  praticare il medesimo colla moglie? fors' ella è meno meritevole del campo di ricevere simili ajuti ? è forse il seme umano inferiore a quello del frumento? ed udice ciò, che dice il fudeko Santo: quotiescumque aliquid molefti domi contigerit, fi quid uxor peccaverit , confolare, cu noli marorem augere Licèt enim omnia proiicias, nibil, moleftius continger, quàm non, babere benevoham domi uxorem; licèt quodcumque dixeris peccafuni, nuha lum magis dolendum , quam cum uxorlu Jeditionem habere. Quod fi inuicemones ra ferenda funt , multo magis uxoris, fi pauper fi, noli exprobrare fistulta, noli ei infultare ; fed efto modeftior . Etes nim tuum membrum et Garo una fa&i cfis. Sed falta eft cbrid auracundai Igitus dolendum eft , nox irafcendum ut e poi soggiunge. Quod fi vorberaveris  [ocr errors][ocr errors] exafperabit morbum ; afperisas enim mare fuetudine , , non alia afperitate disolui  Sem. E sc le veniffe voglia di vedere tutte le comedie , andare a' festini , c di frequentare tutti gli altri divertimenti, che doverò fare  Pub. Arendola alla prima assuefatta diversamente, come potrà venirle tale volonca ? E quando in particolare averà più figliuoli, ò pure farà anche gravida: non li potrebbe dare altro caso, che le faceftc mutare costume voi mcdefimo, divenendo curioso , c vagabondo : mantenetevi costaoce nel ben operare i ch'ella ancora persevererà nelles medefima forma; ed usatele ancora in quei tempi qualche amorevolezza di vantaggio, per tenerla contenta .  Mer. Questo lo credo anch'io ben fatto, avendo conosciuto un certò marito , cui era discaro, che la sua moglie, c figliuole fossero andate alle comedies & ad altre publiche feste, mà che cosas egli faceva ? in cambio di questo , leroy  [ocr errors] o galava in quei tempi frequencemente,  dando loro l'equivalente a quello , che  averebbe potuto spendere in fimili died vertimcoti; e quantunque ad effe dispia  cesse per allora di non andarvi, nulladi. meno vedendo quelle insolite cortelier,  si consolavano, e terminato poi ch'eras # quel tempo, diceva la madre alle fi  gliuole : nulla averemmo guadagnato di buono , se fossimo state alle comedie, dove che da non averle vedute, ne ab. biamo ricavato molto; e poi per verità erano una volta proibice alle donne certe feste notturne, come da Tito Livio, lib.g.Dec.4. fi ricava,che in compendio, e questo: Viri per noctem fæminis, dousenere etati turpiter miscebantur . Qua nc comperts , fuere S.C. fublata, din mulros animadverfum fuit. E Svetonio lo conferma nella vita ancora di Octaviano Augusto  Sem. Ditemi finalmente, se uno avefin se pensiere di sposare una vedova , come du fi doverebbe regolare in diriggerla ?  Pim. Se questa averà avuto un mari  [ocr errors] Ate condizioni unite è cosa difficilissima  ,co saggio, sarà facile parimente, che un altro faggio marito la poffa regolare, mà elsendo stata assuefatta di fare a sno - inodo, non si potrà mai piegare a far diversamente : posciache una pianta assodata con cattiva piega, non si può più addirizare. Io non consiglierei a prendere queste per moglie,se non chi(quando fosse tuttavia in età di farlo) si trovarfe molti figliuoli, e non avesse tempo d'invigilare attorno ad effi; e che fosse pienamente accertato, che la detta vedova avesse dato faggio di somma prudenza in casa del defonco marito; e che in oltre non avesse figliuoli proprj, nè fosse più in iftato di farli, e li trovaffe prospera falute; mà chi abbia tutte que  di trovarla dall'altro canto non essendoci queste, si prepari-pure a soffrire molti travagli, chi vorrà applicare a fimili matrimonj , poiche queste fogliono effere troppo scaltrite .  Sem. Vado riflettendo, che molti di Q uesti buoni consigli non saranno prati  [ocr errors] [ocr errors] [merged small][ocr errors][ocr errors][ocr errors][merged small] cabili nei nostri tempi, onde se I ddio non ci provede , non sò come potremo più softenerci in avvenire .  Pub. Perche non sono praticabili forse che non dipende ciò da voi?  Sem. Dipende da me , mà è dura cosa di essere il primo riformatore degli abusi.  Pub. Non si fanno già queste riforme colla corda al collo, come disponevano le leggi di Ligurgo; c poi non sareste già il primo voi , essendoci i Curj oggidi ancora, ma questi non si rimirano già per non averli da in mirare; onde questo sarebbe appunto quello , che vi doverebbe animare a farlo : posciachei non volendovi gli altri seguitare, non riferterebbero con attenzione a quello, che voi operafte.  Sem. E nella ventura Conferenza sopra clie fi tratterà?  Pub. Bisognerebbe confolave quelle povere mogli-faggie, che G abbattono in mariti viziofi, ed insegnare loro coinc debbanfi contenere in simile sveninca.CONFEREN ZA X.  Sopra i ripieghi prudenziali, che debbonsi prendere in diverse occorrenze dalle mogli saggic, incontrandosi in viziosi, ed indiscreti  mariti.  Sempronio , Publio, Mecenate ,  € Medico. Semi mag Iferitemi , Publio ,  quali sono i vizj,de'  mariti cattivi. Pub.  Questi sono molti, e forse non minori  di quelli delle mogli pellime : iinperciocche , fe farà egli trascurato, da tal difetto ne verrà il precipizio di tutta la casa: se prodigo peggio che peggio : se avaro , farà mancare ancora quello , che sarà necefsario : fe fcapestrato, guai a quella povera moglie, che dovrà combattere  fe  [ocr errors] [ocr errors] seco : se giocatore , fi porrà a peri. colo in una sola notte di perdere quan, to egli possiede : se lascivo, non li con. tenterà dell'onesto : fe affatto impotente, poco amore per lo più suole avere verso la moglie : sc goloso fuori dimo. do, oltre di soggiacere a continue in. fermità , sarà oppresso anche da dobbiti. Or vedere in che miserie Gi troveranno le saggie donnc in mano di costoro ? E se per disgrazia fi abbattessero ancosa in taluno debole di senno, che avesse appresso di se qualche servitore fcal. trito, il quale lo dominaffe, c lo facesse fare a suo modo, oh quanti disaggi se converebbe soffrire !  Sem. Come dunque li doverà regolare una donna saggia , ed attenta col 04rito trascurato ?  Pub. Con ama rlo teneramente, quancunque fi avveg ga della sua trascurag. gine.  Sem. E come lo potrà fare?  Pub. La prudenza le infinuerà di far. lo, per vedere , fe per questa via lo po  acres  [ocr errors][ocr errors] réffe indurre ad essere applicato,, perciocche, fe per sua sventura facefle il contrario, e cominciasse a sgridarlo , certamente ch'egli si mostrerebbe assai più trascurato ; e credete pure per  co. fa certa, che colle buone più profitto ne ricaverà, che irritandolo.  Sem. E se vedeffe , che ciò non ostanu Te', continuasse ad cssere trascurato , doyrå ella perfeverare in questo grand'amore? ... Pub. Senza fallo ; anzi che, invece di scemarlo; più costo, glie lo dee accrescere; poscia sche, se non sarà più , 'che'affatto iosensato , fi avvedrà alla fine, che lo ama di puro caore ; ed accertatoli di questo, come potrà fare di meno di non amarla anch'effo ? Platone, allorche gli fu riferito, che Zenocrate Two scolare enipiamente parlaffe di esso, * *ffpofe : non essere credibile : ut quem tantoperè amaret , ab eo invicem non di  ligeretur; ed intal proposito dice Sene• Ed Lpift.g. Ego tibi monftrabo amatorium Dane medicamente fine berba , fine ullius  0  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] er veneficæ carmine ; fi vis amari , amau. :l Ed udite anche ciò, che dice S. Ago  stino : Nulla est major ad amorem in vitai tio , quam prævenire amando.  Sem. E che le gioverà questo reciproco amore , quando le cose domestiche andranno di male in peggio?  Pub. Assai più di quello , che voi credete; imperciocche quando sarà ac. certata di questo reciproco amore, ed informata insieme dei disordini domestici, in certe congiunture, che le donne fanno prendere, lo saprà con dolci  maniere ben'effa illuminare. f Sem. Ed illuminato , che fosse, se  non sarà capace di operare di vantaggio, a che gli potrà servire ?  Pub. A molte cose ; imperciocche prenderà ben' ella un'alera simile congiuntura, e ne otterrà ciò, che saprà bramare; che farà appunto il maneggio dispotico della casa : e vi pare, che questo amore abbia operato poco a far. le spuntare tanto dominio? Sem. E se glie lo negasse ?  R  Pube  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] Pub. Non è possibile, che ciò faccia, se pon farà più che inumano .  Sem. E se fosse ?  Pub. Allora converrebbe prendersi altre vie, senza però scemare punto del suo cordiale affetto.  Sem. Queste quali sarebbero ?  Pub. Essendo egli trascurato sarebbe cosa facile, che potesse la saggia donna trovare qualche buon canale fecreto,da far penetrare a chi comanda lo stato, nel qual li trova quella infelice casa.  Sem. Basterà poi questo , per farlo divenire applicato?  Pub. Oh quanto opera tale istanzas fatta da faggia, e pudica moglie ! si udirå all'improviso dichiarato unEconomo al trascurato marito, e si verificherà in Jui il proverbio di Salomone : Qui ftultus eft ferviat fapienti ; ò pure quell’al  feruus fapiens dominabitur stultis filiis : e recherà ammirazione, che non potrà penetrare, donde fia provenuta tale istanza, non potendosi egli mai persuadere, che l'abbia procurata la sofferentiffima moglie. Ed ecco rimediato    a tutto senza strepito, e concesa alcuna;  non dovendosi a queste esporre le fag-  gie donne; conformc lo dimostra il la-  crificio, che costumava presso i gentili  farsi 2 Giunone Dea delle nozze, cui  non ardevano già le vittime, alle quali  non era stato prima levato il fiele, eget-  taro via , per denotare, che non deb-  bano mai marito, e moglie adirarsi in-  fieme.     - Sem. Qualche volta però è riuscito  alla moglie, che ha mostrato perto , di  ottenere ciocche voleva da suo marito.   Pub. Sì bene dal marito prudente,mà non già dall'imprudente , e vizioso . Santipre non averebbe già fatto fare a fuo modo , fe invece di Socrate foffe stato marito suo l'Ercolano, di cui parlammo ; e ragionando noi ora de' mari. ti viziosi, e mogli saggie, nulla gioverebbe a queste,il  mostrare petto;anzi facendolo doverebbero cancellarsi dal numero delle prudenti. mi Se fosse prodigo, come ella si  [ocr errors] dovrà contenere ?  Pub. Oltre di amarlo, come si è detto di sopra, dovrà guardarsi dal riprenderlo soverchiamente, e con modi aspri per non irritarlo maggiormente; insegnando Plutarco, che l'austerità della donna dee, come quella del vino , renderá giovevole, e grata , non già amara, e dispettosa, conforme quella del. l'aloe.  Sem. S'indurrà facilmente la moglie, per goder ella ancora de' suoi fcialacqui, a non riprenderlo.  Pub. Non è così ; perciocche la donna faggia patisce fuori di modo, nel vedere dilapidarsi la casa; anzi che procurerà di non goderli per quanto può, u fi conterrà nel vestire pulita si, ma senza alcuna vanità; mostrando Plutarco, che l'unico mezo per acquistarli la grazia del marito, fia la vita esemplare, lontana da cutte le vanità superflue : cu quando il marito, la volefie forzare a far diversamente, sarà capace di scusarfi con un santo pretesto di divozione,  dal  [ocr errors][ocr errors] dal quale venga moffa a vestirsi di unj abito votivo, cd accompagnerà ancor'a questo astinenze, ed orazioni, per ottenere da Dio la grazia , che il marito fi ravvegga.  Sem. E le ciò non ostante, egli continuafle nella medelima forma , non sarebbe pur ineglio, che godesse ancor essa, potendo in tal guisa dar gusto as suo marito?  Pub. Non lo farà essendo prudente; perciocche considererà , ch' essendo due a dilapidare, più prestamente si darebbe fondo a tutto ; mentre due deAtrieri, che concordemente corrono al precipizio, poco indugiano a cadervi; dove che, quando uno di essi è refio, lo può ritardare di vantaggio.  Sem. Sin ora però non iscorgo riparo alcuno.  Pub. E credere voi, che il marito , vedendola così ben composta, e così esemplare nella modestia, a lungo andare non s'illumini? Quello esempio, çh'egli avrà continuamente avanti gli  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] occhi, sarà di tanta efficacia , che finalmente lo farà rayvedere : ed udite ciò, che dice Euripide a cale proposito:  Domiperdam etiam virum probibet  UXOR  Bona , ci conjuncta , fervat domum. Mà meglio ancora apprenderete tal verità da S. Crisostomo in Joan. Homil.60. Nil potentius muliere bona ad inftruendum, & informandum virum, quodcumque voluerit : neque tam lenitèr amicos, neque, magistros , neque Principes patietur, ut conjugem admonentem , atque consulentem . Habet enim voluptatem. quamdam admonitio uxoria, cum plurimùm amet, cui consulit. Multos poffums afferre viros asperos, immises per uxores mites redditos, & manfuetos; ipfa enim mensa, lector. E conclude:fi prudens erit, & diligens, omnes vincot.  Sem. Tutto questo bene si potrà ottenere, allorche avrà dilapidato ogni cosa; ed à che le potrà giovare l'effersi tanto affaticata, allorche averà ricevu., to il colpo facade?  Pub.  [ocr errors] Pub. Non è così, Sempronio ; perche se indugiass’egli molto à ravvedersi, non già trascureranno i propri parenti ò pure  colui, che aveffe con autorità suprema a porgervi riparo, mossi dalla gran sofferenza della saggia donna.  Sem. Ma non sarebbe rimedio più speditivo, che intentasse la donna il giudizio contro di esso, per farlo dichiarare dilapidatore?  Pub. Questo non farà mai chi è saggia; perche considererà molto bene, che dopo un simile paffo non vi sarebbe più pace tra loro : e poi diciamola giusta, per via di liti, se facesse il marito comparire, che in vece di effere dilapidatore, fosse più costo economo, che cosa se li potrebbe fare ? sapete pure, che i raggiri non mancano.  Sem. Quale sarebbe dunque il rimedio per ovviare fimil male , quando colle buone non si potesse ottenere ?  Pub. Di porre un'altra testa capace à governare bene la casa, in vece di quella, che governava male, qual sarebbeappunto un'altro Economo, per fare verificare ciò, che dispone l'Ecclesiaste: Servo fenfato liberi serviant .  Sem. Io bisogna, che parli, come la intendo: ho veduto alcuni Economi in breve tempo arricchirsi con queste ainministrazioni; onde non vorrei, che simili economati servissero di apparenza; mà che poi in sostanza le cose continuaffero nella medesima forina ad andar male; con questa differenza solamente; che quello , che si deteriora, non apparisca, passando nascostamente in borsa dell'Economo; il che mi perfuado , che possa esser'errore peggiore del primo ; mentre facendolo il padrone confumerebbe il suo ; mà l'Economo fi  apo proprierebbe quello degli altri.  Pub. E di quelli , che hanno amministrato con ucile considerabile dell' economato, ne avete veduto alcuno?  Sem. Di questi ancora.  Pub. E de' prodighi , chi avete osservato, che non abbia dissipato tutto il  fuo?  Serg  Sem. A lungo andare niuno. meh Pube Or dunque complirà alla Repu  blica, che vi sia detto economato; e 1 particolarmente , se la moglie sarà pruI dente, e non vorrà anch'essa approvece ciarsi di qualche cosa; nel qual caso i non potrà già l'Economo fare dispotica  mente a suo piacere, avendo ch’invigi  li attentamente alle sue operazioni : 0 i poi se questi si arricchiscano, ponno far  lo con altri impieghi onoratamente , essendo uomini di somma abilità.  Sem. Mà non sarebbe meglio, che separasse la sua dote, e riconoscesse il fuo?  Pub. Queste voci di mio, e tuo non sonavano bene alle orecchie di Platone; e le detesta Plutarco in bocca delle mogli, volendo che tanto il bene, quanto il inale sia comune tra efli: ed io credo, che questa reciproca comunanzas fia molco vantaggiosa per il marito; pera che se la moglie crederà per sue ancora tutte l'entrate della casa, non ispenderà con tanta facilità queste in cose sus  per:  [ocr errors] perAue , essendo le donne di natura tenacissiine nello spropiarsi del proprio.  Sem. E se foffe Avaro a quel segno, che per ingordigia di cumulare moltoro facesse mancare il bisognevole alla moglie, ed a' suoi figliuoli ?  Pub. Questo non dovrebbe farsi, e da persone civili maggiormente, essendo padri di famiglia ; tanto per non dire a’figliuoli mal'esempio , quanto perche dee l'uomo civile lasciare a posteri gloriosa memoria di se medesimo; questa non si acquista già mediante l'oro viziosamente radunato; perche non sarà più suo dopo morte, passando all' erede, per lo più prodigo, il dominio di effo, il quale scialacquandolo ravviverà bensì l'ignominiosa memoria dell'Avaro, che lo cumulò; dicendo ogn'uno allorche lo vedrà spendere malamente in bagordi , crapole, e luffi : vedere dove và l'oro dell'Avaro ? onde à che gli sarà servito l'effere stato tiranno di se medesimo nel cumularlo, e che bei vantaggi ne avrà riportato ? Quindi è, che  non  0.  non senza inistero fà da un'ombra del suo inferno domandare il Dante all'Avaro.  Dicci , che 'l sai, di che sapor è loro 3  Mec. Se l'avesse doinandato à Crasso, averebbe risposto francamente, ch'era molto amaro      amaro, come dice il Petrarca.  E vidi Ciro più di sangue avaro ,  Che Crafo d'oro,e l'un, e l'altro n'ebbe  Tunto alla fin, che a ciascun parves   amaro. Mec. Fu data una bella risposta à colui, che trovandosi presente al sontuoGislimo funerale fatto dal figliuolo generoso al Padre zvaro, domandò ad un suo amico : che averebbe detto il defonto se fosse risuscitato, ed avefle veduti tanti lumi di cera ardere nel medesimo tempo, quando egli vivente, in casa sua, non pocea Coffrire , che più di una lucer, na di olio ardeffe ; cui rispose : nullas certamente, posciache tuito s'impic-. gherebbe in estinguere prestamente col suo fiato quei lumi, affinche non li logoralsero di vantaggio; ayerebbe bensi  [ocr errors][ocr errors] mu  mutato con sollecitudine il testamento; perche tal generoso erede non gli sareb. be piaciuto.  Sem. Vorrei sapere, che dovrà fare la povera moglie, e come lo potrà amare, trovandosi priva del bisognevole?  Pub. Ciò non oftante conviene, che lo ami, lo serva, e gli faccia tutte le maggiori finezze poslībili, con mostrarne anche piacere de' suoi sordidi avanzi, fintanto che sarà divenuta padrona del suo cuore per regolarlo à suo modo.  Sem. E questo appunto egli defidererà; mà in tanto la meschina patirà doppiamente, facendolo di contragenio.  Pub. Abbia un poco più di sofferenza; perche guadagnato , che avrà l'animo di esso, farà allora ciocche vuole, essendoci moltissimi esempj di Avari fatti divenire anche prodighi dalle mogli; onde quanto sarà più facile a renderli persuali, di dover fare le loro convenienze:  Mec. Si racconta dal Sabellico un ingegnosa maniera, della quale si servi ladem faggia moglie di un Signore molto avatro. Questi per ammassare quantità im  mensa di oro, che si produceva dalle di miniere, scoperte nel suo dominio, tei nea impiegati à tal opera tutti i conta  dini, che coltivavano la tèrra ; e perciò n'era nata grandissima carestia, per la quale correva pericolo di essere tagliato in pezzi l'autore di essa, se las iaggia moglie colla sua prudenza non lo aveffe illuminato. Questa dipoi di csferfi ben internata nel suo affetto fè dan molti artefici formare coll'oro tante vivande, quante n'erano necessarie in un sontuosislimo banchetto, e perfezionare segretamente che furono , invitò fuo marito à definare nel suo appartamento,  e portatovig rimase egli ammirara allas  prima, nel vedere quel sontuoso imbardimento di vivande, tutte di oro, e fi persuadeva, che ciò fosse itato fatto per ; una.vaga prima comparsa ; mà rimirane. do in appresso, che non compariva a'.tro, che oro in varie forme di vivaride lavorato , le disse ; Signora ;, e quan  do  do verranno le vivande da potersi mangiare ? Replicogli la moglie, che trovandosi tutti li contadini applicati alle miniere , non si attendeva più à coltivare la terra ; onde bisognava accomodarsi à mangiare oro, perche de' soliti comestibili già si penuriavad affatto ; fi avvide egli del suo errore , e fe dismettere tal lavoro per attendere à quello, ch'era più neceffario, e dopo piamente utile per la conservazione del suo individuo.  Sem. Essendo il marito scapestrato , che cosa dovrà fare l'infelice moglie?  Pub. Arinarsi di' una santa sofferenza con amarlo più, che sia possibile .  Sem. Maltrattando però anch' ellas con fatti, econ parole; non sò, come potrà continuare ad amarlo, e fopportarlo.  Pub. Non potendosi cimentare seco la saggia moglie, non potrà farne di meno; perche altrimentine anderebbe sempre  di sotto ; come accennò Ovidio nel secondo de' Fasti:  Quid faciet? pugnet? Vincetur fæmina  pugnans • E parlando altrove d'Ipemnestra , le fe dire : Che deggio io far del ferro? in che con  viene Coll’armi una donzella 2 io più conformi Ho le braccia , le man, la forza , ib  cuore  All'ago, all'apo , alla conocchia, al  fufo, Che all'armi crude, e bellicosi ferri . Laonde sempre meglio farà à soffrire', 1 andandolo bensì illuminando a poco ad  poco con dolci modi, mediante i quali le fiere stesse depongono la loro crudel. tà; e s'egli non averà un cuore più cru  do di quello delleone , non incrudelirà - certamente contro di essa, raccontando  Plinio di questo animale : ubi sævis, in  viros, plus, quam in fæminas fremeres 1 veluti natura eum docuerit mulieres mi  tius, quam viros elle tractandas. E for tuttavia perseverasse à rampognarla, si  serva di quell'avvertimento, che diero  no  [ocr errors] no i capitani di Ciro ai suoi soldati : che venendo i loro inimici alla zuffa gridan. do , con silenzio gli avessero accolti ; mà se tacendo, andassero efli ad inveftirli gridando; dal che ne cavo Plutarco layvertimento, che debbano tacere le donne, allorche vedono i mariti adiraci; quando sono mesti bensì debbano animarli, e dar loro sollievo con affettuose, ed efficaci parole.  Sem. Voglio credere, che la moglie manierosa lo possa addolcire à fine, che seco non contrasti; mà fuori di casa come lo potrà trattenere, che non prenda impegni di duelli, ò di riffe ?  Pub. Quello , che seguirà fuori di casa, essa non potrà cercamente impedirlo, essendoche non dee andargli appreffo; lo domerà bensì in questo caso qualcun'altro, perche vexatio dat intellecium ; onde maltrattandolo qualcuno, ò effo altri, in ambidue i modi  potrebbe mettere giudizio; poiche, feri. ceverà, oh quanti mutano vita dopo di avere fofferta qualche disgrazia confi.  de.  [merged small][ocr errors][ocr errors][ocr errors] derabile , e se offenderà altri, il gasti. go ancora, che gli sovrasterà lo potrebu be far ravvederc .  Mer. Hò conosciuto molti di questi , che hanno perseverato qualche tempo nelle loro stravaganze, e poi si sono domati, e particolarmente quei, che hanno sofferte considerabili sventure.  Pub. Alcuni di questi ancora si ravveggono allor , che divengono padri di numerosa famiglia, crescendo loro il pensiero di provederla , e particolarmente avendo molte figliuole ; onde non dee mai la saggia donna disguItarsi con fimili mariti; dee bensì raccomandarli al Signore , che li faccia ravvedere , ed abbandonando le vanità mondanc, attendere al governo dellas sua casa più diligentemente, che sia poflibile.  Sem. Essendo giocatore, come dovrà regolarsi con esso lui ? converrà che lo seguiti anch'essa per darli sodisfazione?  Pub. Per andare in rovina prestamente, cosi potrebbe fare.Sem. Forse che nò; perche tal volta perdendo uno, vincerebbe l'altra, e maggiormente, che sogliono le donne vincere sempre ; onde potrebbero andare le cose compensate, e senza veruno discapito.  Pub. E se perdessero ambidue, bella compensazione , che seguirebbe! Le donne possono vincere con licurezza solamente quando si contentino di fares perdite maggiori,terminato il giuoco, è prima di principiarlo; per altro sono anch'esse soggette alle perdite.  Mec. E curiofo,ciò che accadette una volta in mia presenza : giocava un mio amico con una donna alquanto atrempata, ed avendo egli carte superiori, io gli disli, che non le avesse scoperte, e fi foffe fatto vincere, giocando con una donna. Questi mi rispose, che non las teneva più per donna altrimenti, avendo passico li quaranta anni, mà bensì per uomo.  Sem. Or ditemi , che cosa debbas fare?  Pub.  [ocr errors][ocr errors] [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] Pub. Amare, e sopportare il marito, ed i suoi difetti.  Sem. Questa è la solita canzona; mà intanto in una notte potrebbe giocarsi tutto il suo; ed allora che le averebbe  giovato l'amare, ed il sopportare? I.  Pub. Dite voi dunque ciò, che dovesse fare per darvi più opportuno riparo .  Sem. Diricorrere, farqi sentire con iftrepito, per impedire, che non potefse più giocare.  Pub. Oh bene ! É non sapete voi, che nitimur in vetitum ; onde questo sarebbe à appunto il motivo di fargliene venire  maggior desiderio di prima ; e se avesse dismesso per lo passato il giuoco à meza notte, di farglielo durare in avvenire sino à giorno, per fare dispetto all'imprudente moglie.  Sem. Mà che dovrà fare questa infei lice donna?  Pub. Non altro, che sofferire , ed amare, più che mai, ed udite ciò, che dise S. Ambrogio Sec. Offic. Quid tam  ino.  [ocr errors][ocr errors] S 2  S  [ocr errors][ocr errors] inolitum , atque impreffum affe Etibus humanis, quam, ut eum amare inducas in animum, à quo te amari velis?  Sem. Penurierà la casa del necessario, non si pagherà la servitù, i debiti cresceranno, le tenure deterioreranno, anderà tutto da male in peggio, e questo sarà appunto il frutto del soffrire , ed amare.  Pub. Forse , che lo schiamazzo della moglie, quantunque giugnesse à quel fegno descritto da Virgilio: Fæmineum clamorem ad. cæli fidera's  tollunt. potrebbe dare riparo à tanti mali? certo che no, mentre, come dicemmo, diverrebbero maggiori. A tal pro- en pofito cade in acconcio la risposta , che diede il Re Filippo à coloro, che lo fti- dic molavano à muovere guerra ai Greci, i quali beneficati da esso sparlavano della sua real persona, che fu quefta : Quanto peggio farebbero , se fossimo nemici la loro ?  Sem. Però se io fosfi ne. suoi piedi,  [ocr errors] non  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] non potrei essere così amoroso di un marito, che procura di mandare la casa in malora.  Pub. E che fareste dunque di vantaggio? 50  Sem. Sei iniei parenti non mi volesseed  ro dare ricetto in casa loro , me ne sta  rei in un appartamento separato , e pro. 1  curerei di non trattarlo più; perche, come si suol dire : occhio non vede, cuor non duole.  Pub. Sarebbe questa certamente una gran pazzia conosciuta anche da Eui ripide per tale; mentre egli fa dire ad  Giunone; non esserci altro rimedio più  opportuno , di questo, per riconciliare  gli animi, che il conversare insieme ,  dicendo:   Ho disegnato a lunghi lor contrasti  Ho giammai di por fine con un modo   Segreto, e nuovo a lor, unırli insieme. i Onde qual vantaggio riporterebbe dallo  ftare lontana dal marito, e di abbandonare affatto il letto nuzziale , fe non di eternare le discordie? e se non sapete,  che  [ocr errors] S 3  che cosa guadagna la donna , con fare la disgustata, udirelo da Salomone: Qui confundit domum fuam poffidebit ventos ; onde fi ritroverà alla fine colle mani piene di vento, e questo sarebbe appunto tutto il guadagno, che averebbe fatto.  Mec. Io, che in mia gioventù sono fato amico di qualche giocatore , il qual faceva grosse perdite , in occalione, che taluno di effi mi riferiva le sue sventure, non potevo contenermi di non domandare, se la sua moglie n'era consapevole, e mi dicea, non avere potuto farne diineno di non palesargliele, allora, che dovendo fodisfare la grossa perdita già fatta , gli era convenuto più volte chiedere le gioje, per impegnarle, non trovandosi pronto il danaro; cui replicavo : che schiamazzi averà fatto ella trovandosi doppiamente disgustata ; e rimaneva ammirato nell'udire, che qualcuna di effe con prontezza grande glie le dava ; e di vantaggio mi riferiva, che non vi era già pericolo, che la trovasse colcata, quando cornava quancunque avesse tardato molto; anzi, che con faccia molto allegra li dava la buona sera, allorche lo vedeva comparire; e mirallegravo seco dellas buona sorte, che godeva nelle sue sventure, essendosi abbattuto in una sì prudente moglie; ne mi poteva contenere, avendo seco confidenza, di non riprenderlo in tale occasione con dirgli:c voi siete sì crudo, che non avete comparfione di farla ogni sera tanto parire: troppo fo, mi dicea egli ; perche se non pensasli ad essa talvolta, che mi trovo sotto nel giuoco,chi sà quando lo avessi terminato, e che perdita maggiore avessi fatto ; allicurandomi inoltre che di tanti incomodi, che le aveva recati , ne averebbe avuta viva rimembranzada à suo tempo, per farla godere, se soprayiyeva ad esso, pensando di lasciarlas erede, non avendo figliuoli; conforme appunto è seguito ; onde la sua sofferen· za ,  fu alla fine rimunerata . Sem. Ed in quei giocatori, che avevano le mogli risentite, vi siete mai abbattuto?  Mec.  [ocr errors] S4  Mec. In questi ancora, e domandan. do loro, che dicevano le mogli allorche sapevano le loro grosse perdite, vi fu tra questi chi in tal guisa mi rispose : il maggiore tormento, che io abbia allorche fo qualche groffa perdita è di vedere inviperita mia moglie, cui chiedendo le gioje, per impegnarle, me le hà sempre negate ; mà io l'hò mortificata con vendere altre cose, ch'erano di sua somma fodisfazione ; affinche conoscesse, che io era il padrone.  Pub. Vedere dunque , Sempronio , quanto sia meglio soffrire in questi casi, che fare risentimento; e voi Mecenate, di grazia cessate di dir male più delle donne, avendo confeffato, che vene sono delle prudenti ancora .  Mec. Sono però queste di fimile natura rariffime, non contentandosi per lo più le mogli di farli impegnare le gioje, e particolarmente à sodisfare per le perdite fatte nel giuoco .  Sem. Come debbonsi le mogli regolare, quando scorgogo i mariti diviati a  Pub  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] [ocr errors] mente,  Pub. In niuna altra occasione si conosi  sce meglio la donna saggia , quanto in fi questa ; imperciocche le tocca sul più 1 vivo; onde doverà adoperarvi cutta la  prudenza poffibile per divertirlo. Sine tanto, che il fatto sarà secreto, non dee darsene per intesa; e se taluna lv rapportasse , che viene tradita da fuo marito , dee ella replicarle con risentimento: ch'egli l'ama , e crede ferma  che per questa cagione non le possa fare un simile torto, dee però servirsi dell'avviso, per rincontrare dalle mutazioni , che scorgesse in lui , tanto nell'affetto, quanto nella stima verso di lei, se debba prestarle fede.  Sem. Doverà dunque lasciar correre trascuratamente, senza darci riparo , male fi considerabile, una donna in particolare, che non gli da occasione alcuna di farle simile torto?  Pub. Ho udito dire da' Medici, che ci siano alcuni rimedi , che sono peggiori del male, al quale si applicano ; onde non vorrei, che questo fosse uno  di quelli; palesatemi dunque voi qual credereste in questo caso essere il suo ri. medio più valido , quando non vi piacciano i più beoigni .  Sem. Di fuggirsene immediatamente in casa de' suoi genitori, con animo di non tornare più da suo marito.  Pub. Questo appunto sarebbe uno di quei peffimi rimedi, posciacche dandofegli campo libero in avvenire di fare, ciò, che vuole, accrescerebbe non folamente il male antico, mà ne produrrebbe, anche degli altri, che sono las totale discordia conjugale, ed il divul. garsi da pertutto ciò, che non è bene, venga publicato.  Sem. Che cosa dunque ella dovrà fa  , per non morire accorata , dimorando in casa del marito ?  Pub. Conyerrebbe , in questo caso principalmente , ch'ella ben apprendesse quel consiglio dato da Platone as Zenocrate, qual fù : che sacrificate alle grazie , per essere più avvenente, che per lo passato ; e così con dolci manie.  re  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] re  [ocr errors][ocr errors] re potrebbe facilmente conciliarsi il suo affetto ; dicendo Salomone che: Mulier gratiofa invenit gloriam. E quali debbano essere queste dolci maniere ; non occorre, che mi diffonda per istruirne le donne, cfsendone di effe maestre: diro solamente, che se la palma, ch'è un albero insensato arriva, come vuole Plinio, à piegarsi, allorche stà vicino alla sua palma femina , volete , che il marito ancora non si renda alle piacevoli maniere di una saggia moglie? Fu interogata Livia Drufilla da una Dama, perche faceva fare ad Augusto marito suo ciò, ch'ella volea ; così rispores : perche fo volentieri quello, che io conosco essere di Cesare in piacere, e non ricerco i fatti suoi , come racconta Dio.  ne.  Sem. E se faceffe praticare per casas una sua qualche donna Atraniera, come la potrà tollerare ?  Pub. Anzi la dee, per non irritare maggiormente l'animo di suo marito, e farle corresie ancora, mostrando di non essere consapevole di cosa alcuna ; conforme appunto fè Terzia Emilia moglie del maggiore Affricano, la quale, non solament’egli vivente, diffimulò di fapere,  che suo marito amaya una fuas schiava, mà dopo la morte di esso las fè libera, e la diede per moglie ad un suo liberto ; come racconta Valerio Massimo. Ed Omero riferisce di vantaggio, che la moglie di Antenore aveffe egual cura di un figliuolo fpurio di esso, di quello , che avea de proprj, per non disgustarfi suo marito. Plutarco ancora racconta nel libro delle donne illuftri, che Stratonica si prendesse il pensiero di educare bene i figliuoli di Dejotaro suo marito, quantunque  forsero nati da Elettra sua serya : oltre poi quello, che dice la facra Genefi di Sara, ė di Rebech ab 16. & 30.  Sem. Questo però non lo porrà mai fare una moglie di spirito ; non potendo questa soffrire un simile torto .  Pub. Quefte, che hò riferite , avevano spirito, cprudenza; ne mi persua  [ocr errors][ocr errors][merged small][merged small][ocr errors] deco,  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] derò, che possiate darvi à credere , che - Olimpia madre di Alessandro il Grande lie  non avesse spirito, e pure questa , venendole rapportato, che Filippo suo marito era talmente invaghito di una giovine di Teslaglia, che si credea communemente, foffe ammaliato ; volle conon scerla , ed appena veduta, che l'ebbe le disse : Tecum enim philtra babes, quanto mai le parve bella ! e non fu questa picciola finezza il dire ad una sua rivale, che rapiva il cuore di tuti.  Mec. Io so, che alcuna di queste per aver ricevute.cortesie obbliganti dalle saggie mogli, sono fervite di mezane , per riconciliare l'affetto era effe,e i loro mariti : altre poi, che hanno ricevuto strapazzi,sono state cagione di odj mag. giori tra essi ; onde seinpre hà giovato alle mogli saggic, di non inafprire maggiormente la piaga con irritarla.  Pub. Un'ottimo ammaestraméto vien dato à queste da Plutarco, ed è di non allontanarsi mai dal marito, perche facenda altrimenti, la rivale diverrà af  for  [ocr errors] [ocr errors][ocr errors][ocr errors] soluta padrona, non solamente del letto mà ancora della casa tutta,  Sem. Mà durerà sempre questo disordine ?  Pub. Non durerà, perche la prudente moglie saprà vincere col tempo las violenza dell'altra, come ben cspreffe Ofeo Poeta :  Capitur ergo ab infirmis celer,  Aquilamque brevi testudo vincit. E la testuggine appunto, essendo Gimbolo della donna onefta, non recherà maraviglia, se questa ancora frenerà il volo dell'aquila, con aspettare però l'occafione opportuna, la quale potrebbe essere, allorche li fa dimora in villas, ove l'amica non fosse presente; ed il maggiore argomento che potesse addurre per allontanarlo dall'amore impudico, sarebbe appunto di fargli conoscere colle buone, il cattivo esempio, che ne prendono i figliuoli; con insinuargli ancora,per giuoco,quel detto di una pudica donna, tratta å forza dal Re Filippo: deh lasciami andare, gli disse, per  [merged small][ocr errors][merged small][merged small][ocr errors][ocr errors] na ,  Il che tutte le donne , portata via la lucer  sono simili ; mà se poi imitasse * quella prudenre Gentildonna Sicilianad  di cui fa menzione Lodovico Vives, nel *' lib. 2. de Christiana fæmina , quanto mai u lo renderebbe à se affezionato? Questas  andava osservando ciò , che facevano i servitori, che fosse al padrone marito suo più grato, e quello ella facea di sua mano studiosamente; se bene talora con estrema fatica fua, quello poi , ch'era di meno travaglio, fatica, e noja, comandaya à servitori.  Sem. Mà quando non fosse deviato altrove il marito, che cosa porrà fare la i donna savia , à fine, che non ecceda con i essa lei in pregiudizio della propria falute ?  Pub. La saggia donna non dovrà mostrarsi renitente à fodisfare le brame di E fuo marito ; ben è vero però, che dee'as 1  poco a poco, andargli dolceinente infio nuando il danno, che potrebbe appor  tare l'immoderata frequenza degli arti conjugali , potendogli questi abbrevia  Per que  .  re anco la vita con danni notabili della  sua famiglia ; e starà ben ella circospet-  ta nell'ordinare vivande, calorose per  la mensa, ed ancora nel tenerlo lonta-  no dallo frequente uso del cioccolato,  erosolì.     Crescere res poset nimiùm damnofa   libido. Come vuole Ovidio . Sem. Prometteste, Dottore, di mo. strarmi sino à che segno poffa giugnere l'uomo in pagare il debito matrimoniale senza discapito della propria salute.  Med. Epicuro, Democrito , Averroe, ed altri Filosofi ancora credettero, che sempre sia molto dannoso l'uso venerco : Altri poi lo credono solamente, allora, ch'eccede i limiti dell'onesto.  Sem. Or io non voglio andare cercando malanni ; per battere al sicuro mi contento starmene senza prendere moglie ; perche la propria salute mi dee premere molto più della moglie.  Med. Ditemi di grazia , Sempronio, senza andare in collera : Voi che avete fpiriti generosi, fe venisse un esercitoDell'Elezione della Mog. 289 per distruggere la vostra patria, per salvare la propria vita, abbandonereste la difesa di essa é o pure vi porreste ad evidente pericolo di morte per difenderla ?  Sem. Sarei un gran codardo, quando l'abbandonaffi; dovendo per sua difesa porre à pericolo la vita con tutte le mie sostanze  Meda E per conservare la vostra specie, la quale può difenderla ne' suoi bisogni, perche ricusate di farlo? non ponendo già ad evidente pericolo, nè vita , nè roba , contenendovi dentro i limiti della moderazione, esponendovi in tal caso solamente à pericolo di soffrire qualche moderato, e breve disaggio: e se voftro Padre fosse stato di questo sentimento  come farefte voi  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] naro ?  Sem. Converrà dunque farlo ; mind u questa moderazione nell'uso venereo, in che doverà confiftere?  Med. Primieramente in fuggirlo più, che sarà possibile la state: dicendo Cel. co 10, aftate in fptum, fi fieri poteft, abftinen.  ,  dum ; e nell'autunno dice : neque autumno utilis venus eft ; nel rimanente poi dell'anno non abufandovene sarà sempre meglio per voi,  Sem. Mà da che potrò comprendere tale abuso?  Med. Dalla stanchezza, che riceverete dopo di esso, perseverando questa, per qualche tempo, nella forina , che descriffe Ovidio di averla osservata in un amante Vidi ego cum foribus laljus prodiret  amator Invalidum referens ; emeritumques  latus, Sem. E cadendo io in questo, che rimedio averò da praticare?  Med. Aftenervene per qualche tempo, dicendo Virgilio nella Georgica;  Nulla magis vires industria firmat Quam Venerem, cæci fimulos aver  tere Amoris, E di questo niuno meglio, che voi ne potrà essere giudice s purche sia la voItra mente libera, e non preoccupatas  dall  [ocr errors] [ocr errors] dall' estro libidinoso .  Şem. E per fuggire questo, qual ri# medio sarebbe opportuno ?  Med, Il vitto moderato, e la moglie - favia sono i veri antidoti per indurre moderazione nelli cimenti di venere.  Pub. Vedere dunque , Sempronio, quanto possa giovare una saggia donnas nel fare prolungar la vita à suo marito ? prendetelo dunque à buon fine, quan  do la vostra moglie vi frenaffe in que1 fto, facendolo per noftro bene.  Met. Or io non vorrei starmene raffi, dato alle donne sopra di ciò; perche affai di rado fi riceverebbe da effe tale beneficenza;vorrei più tosto prendere l'efeinpio dai bruti, i quali , toltone quei tempi prefisli loro dalla natura, non si ac.  costano più alle femine, nè tampoco ef: se appetiscono i maschi; ed udite come  lo conobbe bene Democrito riferito ,  Dottore, dal vostro Ippocrate nellas u lectera scritta à Damageto; Anniversa  riorum temporum ordo, brutis quidem danimantibus coitus finem adfert , homo  T2  verò  [ocr errors] [ocr errors] verò infano libidinis stimulo continenter agitatur.  Sem. Dandosi il caso, che il marito fosse impotente, ne viverà contristatas la povera moglie di questo?  Pub. Prescindendo dal rammarico, che averà, trovandosi priva di figliuoli, credetemi , ch'essendo prudente, non fi prendera di ciò fastidio alcuno;perche considererà ben'ella, che quel momentaneo diletto è compensato da molti altri tormenti, che îi soffrono, non solamente nelle cattive gravidanze, e laboriofi parti , mà quello, ch'è di travaglio maggiore, nell'educar beoe i figliuoli , de' quali taluno alle volte riesce scapestrato laonde se rifletterà à ciò che dice l’Ecclefiaftico al 16, Utile eft mori fine filiis quam impios habere, aidarà pace essendo priva di elli.  Sem. Io conoseo alcune di queste sterili, che non fanno alcro, che sospirare; eso che volentieri introdurrebbero il giudizio del divorzio. Pub. Ed io conosco più di una  di  que  [ocr errors] 2  fte,  fte, che si trovano nella medefima nave, le quali stanno contentiflime, e pensano perseverare col suo marito fino allas morte, quantunque sia impotente. E forse credono quelle , che il tentare questo divorzio sia qualche delizioso divertimento ? Sappiano, che converrà loro esporsi à prove, e recognizioni , che danno molto da cicalare per tutta la citrà. Ed inoltre, facendo ciò, mostreranno ancora di essere libidinose,deliderando avere più validi mariti.  Sem. Mà coine ci potrà essere pace i tra simili conjugi?  Pub. Se la moglie sarà prudente, non i ci sarà discordia alcuna ; perche vedenÛ dofi il marito così impotente, procurerà per altre vie divertirla , se non  fürà del tutto disamorato.  Sem. Mi persuado , che poco averà · da dolerâi la moglie del marito goloso , * quando però faccia anche ad essa gufta10 re qualche delicata viyanda?  Pub. Non è così; perche la donnas prudente di questo fi rammarica al parodi tutti gli altri difetti, essendo che fis mile vizio persevera per lo più fino allas morte ; onde con facilità grande può far impoverire; conforme si legge nell' Ecclesiastico al 21. Qui diligit epulas in egeftate erit, qui amat vinum, Q pin. guia non ditabitur . Oltre poi imali, che suole apportare alla salute.  Sem. Mà comc ci potrà dare rimedio ?  Pub. Conosco anch'io, che farà cola difficile il poterlo affatto rimuovere, mà la prudenza, e l'ingegno donnesco potranno darvi bensì qualche riparo , con guadagnarsi l'affetto del suo marito, il quale acquistato, se le réderà à poco à poco facile à titolo di sanità, d'introdura, re qualche moderazione ia effo : avvertali però, che la servitù rimanga in qual. À che parte compensata di quegli avanzi della mensa , de' quali soleva partici- ; parne, altrimenti questa per tal cagione sarà capace suscitare discordie traefo sa, e suo marito, con inventare infinite menzogne,  Sem.  11  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] [ocr errors] Sem, Ed abbattendosi con mariti di la mente debole, come hanno da fare per di rimuovere dalla loro grazia certi servis I tori favoriti, che li dominano ?  Pub. La donna, che colla sua pru. denza può giugnere à rimuovere dal cuore di suo marito caluna, che lo porfedeya indebitamente, con quanta facilità maggiore potrà allontanare questi,quando voglia abusarli della dilui grazia ; ed in ciò non occorre istruirla di vantaggio, essendone espertissimas; basterà solamente accennarle , che faccia passaggio delle cose leggiere, e nelle gravi norf operi con violenza grande, per non porlo in impegno di sostenerlo ; mà venendo l'occasione opportuna in qualche fuo trascorso rilevante, gli faccia conoscere , ch'ella non opera per passione, ma bensì per suoi vantaggi.  Sem. E se aveffe anche la Suocera cartiva , la quale consigliaffe suo figliuolo à Itrapazzarla , che cosa doverà fare?  Pub. Di sopportarla , amarla , erispettarla , come costuma fare con fuo  [ocr errors] [ocr errors] marito ; perche non nascono già per altra cagione le discordie tra suocera, u nuora , che dalla gelosia , che hanno le madri , che i figliuoli amino più le mogli ch'esse, da cui ricevettero l'efsere  Sem. Mà se ciò non ostante continuarse à fare il medesimo, non sarebbe me. glio di metterla in discredito appresso il figliuolo, à fine che non le desse più credenza ?  Pub. Questo non dee fare la donna saggia'; dee bensì riflettere à ciò, che, fi costumava nella città di Lepidi in Affrica per meglio imparare à soffrire. Racconta Plutarco, che ivi era costu  che nel giorno seguente alle nozze la sposa mandasse à domandare alla suocera una pentola, la quale le venivad negara ; e questo si facev'à fine che, non G sdegnafre, le in avvenire le avesse negato alcuna cosa.  Sem. Converrebbe ora discorrere fopra le stravaganze grandi, che nascono tra i marişi çattivi, cle mogli peffime ,  [ocr errors][ocr errors] me ,  [ocr errors][merged small] Pub,  [ocr errors] Pub. Non è certamente neceffario parlarne ; posciacche, à chi darebbes l'aniino di consigliare costoro, che sono incapaci di ragione ? Bisogna, che tra loro si aggiustino, e fogliono per lo'. più essere concordi', perche niuno di loro può rinfacciare all'altro i difetti, elsendone ambidue colmi . Il danno è bensì de' poveri figliuoli , che non si educano bene, tanto per l'esempio cattivo, che danno loro, quanto per la direzione, della quale eli penuriano : ben è vero però, che quando questi li avanzano alle discordie', non effendoci mezo capace à poterli più riconciliare tra loro, solamente l'autorità del prencipe può impedire le rovine maggiori che possono nascere per i dilapidamenti delle loro sostanze, 'à fine și non vedea ce mendichi i loro discendenti.  Sem.Sarebbe però un vantaggio grande, che tutti i mariti catrivi prendesse. ro mogli (imili ad essi ; perche alloran per i buoni rimarrebbero le buone solamente.  Pub.  Pub. Succede frequentemente così , essendo questi portati dal loro genio ad amare simili ad essi, secondo il pro-. verbia : aqualis æqualem delectat, ý semper à fimili fimile amatur. Il che viene confermato dal Nazianzeno , di. cendo:  Pulli quidem pullis amici , coruique  corvis ,  [ocr errors] Et furnis sturni , puro autem pretiofus.  eft purus : Meglio però di tutti l'insegna l’Ecclesiaste: Diligit fimile fibi , dow omnis homo fimilem fibi, omnis caro ad fimilem fibi conjungitur, omnis homo fimili sui sociabitur. Onde se accaderà, che una catciva giovane prenda un buon marito non sarà già di sua volontà, mà verrà bensì sforzata da' parenti à farlo, e das quefto nc nascerà quello appunto, che, dice l'Ecclefiaftico al 26. Mulieris ira , o irreverentia , & confufio magna: on- ; de guai à chi toccherà limile infortunio. ;  Sem. Mà che potrebbe fare chi li trovafle in simili miserie?Pub. Di prevalersi di quest' ottimo consiglio, riferito.da Gel. in Sat.Menip. Vitium uxoris's aut tollendum , aut ferens dum ; perche : Qui tollit vitium, uxorem commodiorem præftat , qui ferte se fe meliorem facit.  Sem. E cui riuscì il potere far questo in core rilevanti ?  Pub. Tra gli altri à Socrate; come ris ferisce Plutar.de Choib. ira: il quale avendo seco à defináre Euridemo, quando nel meglio si alzò in piedi Sancippe , e dopo di avere caricato di villanie socrate roversciò la tavola in terra; onde Euridemo si alzò in piedi addolorato per partirli; cui Socrate disse con gran Aemma: non accadè poco innanzi in casa tua, che una gallina yolando fece l' isteffo ? e pure niuno vi fu , che li contriftaffe disinile avvenimento; perche dunque voi ora lo fate 2  Sem. Non si è parlato Gin'ora, come fì abbiano da regolare le povere donne per iscegliersi un buon marito Pub. Nom dçe la donna sceglierli as  suo  suo compiacimento il marito; mà bensì riceverlo da' suoi più congiunti, e di questo ne parleremo nell'educazione de' figliuoli, mostrando le diligenze, che doveranno farg da' padri å fine di provederle bene.  Sem. Spererei di sapere scegliere las moglie, ora che ini trovo in ciò istruito; mà sposata che l'avefli mi troverei intricato nell'educare i figliuoli, quando Iddio me li concedeffe, non avendo ancor appreso à bastanza il modo das regolarmi per bene diriggerli.  Pub. Nella seguente Decade tratteremo di questo.  [ocr errors][merged small] Sopra l'educazione morale de' figliuoli  CONFERENZA PRIMA  Nella quale si mostra, che cosa sia educazione, cui appartenga più di ogni  altro; e se sia necessario luogo    particolare,ove debba farsi.   Sempronio , Publio , Mecenate  e Medico.  [ocr errors] Sem.  N che consiste l'edu-.  cazione? Pub.  Nello svellere da gli animi de' tcneri figliuoli tutti quei  vizi, che spontaneamente germogliano in elli, e nell inestarvi in loro vece i preziosi gerini delle virtù ; effepdoche, come ben'er  preffe Virgilio nella Georgica parlando degl'innesti ; Pomaque degenerant , fuccos oblita priores,  sem. Come! in noi spontaneamente nascono i vizj!  Pub. Non è da dubitarnę mentre nascono molti vizj con noi medesimi insę. gnandoci il Profeta : Ecce enim in iniqui, tatibus conceptus fum ; du in peccatis concepit me mater mea; verità conosciutas, anche da' gentili ; posciacche Orazio così scriffe:  Nam vitiis nemo finè nafcitur. Optimus  Qui minimis ur getur . E Democrito, che ; totus homo ab ipfo are fu'morbus eft ; ed inoltre, che secondo l'età in noi germogliano i vizi propri di effe, i quali se non saranno a tempo dçbito estirpaţi, quei della puerizia fivedranno adulti nelle altre età; ma vie peggio ancora, che vedo verificarsi ciò che diffe Orazio nell'Odę 6. lib.3. cioè i  Ætas parentum pejor avis tulit  Nos nequiores, mox daturos   Pro  ille eft,  Sopra l'educ. de figliuoli. 303 Progeniem vitiofiorem , E da ciò comprenderece à che segno debba essere ora l'educazione più esatta di prima.  Mec. Ed io che soglio conversare spesso co' miei amici ho veduto più di una volta, in occasione, che questi as. pertavano qualche visita di soggezione, verificarli ciò, che dice Giovenale nella satira 14,  Hofpite ventura ceffabit nemo tuorum ;  Verre pavimentum, nitidas oftende co-       lumnas,  Arida cum tota defcendat aranea tela,  Hic lavet argentum, vasa aspera fer-   geat alter,  Vox domini fremit inftantis, virgam.  que tenensis.  Ergo mifer trepidas ne stercore fæda cao  ning Atria difpliceans oculos veniensis amici, Ne perfufa luto fit porticus, tamen  uno  Semodio foobis , her emendat fervulusE quel ch'è peggio ancora , che vedo verificarli appresso alcuni ciò, che se  gue :  14  [ocr errors][ocr errors] Illud non agitas, ne sanctam filius      omni.  Afpiciat fine labe domum, vitioqae ca-        rentem,  Sem. Vi concorre altro alla cattivas   90 Educazione, che la trascuraggine ulata in non eftirpare à tempo debito gli ac GE cennati difetti  Pub. Potrebbero anche renderla peg el gior e i cattivi esempj dati a' figliuoli, luz dicendo Giovenale nell'accennata satira.  Sic natura jubet velociùs, du citiùs nos  Corumpunt vitiorum exempla domeftica       magnis  Cum   subeant animos auctoribus . Quali cattivi esempi potrebbero a’proprj accrescere gli altrui difetti .  Sem. Mà come possono essere capaci in di cattivi esempi i teneri fanciulli non distinguendo questi ancora il bene dal male?  Pub.  [ocr errors] [ocr errors][ocr errors][ocr errors] Pub. Dice Plutarco nell'educazione de' figliuoli, che s'imprimono gli ammaestramenti in elli conforme appunta fanno nella cerà molle i sugelli, e che perciò il divino Platone saggiamente avertisce le balie à non raccontare loro  favole di ogni sorta , mà solamente u quelle, che ponno essere giovevoli al  buon costume;confermandoci ciò S.Ba,  filio, il quale, scrivendo à quei dellas  città di Neocesarea , confessò loro di  ellere debitore di una buona parte della  sua divozione alla nutrice, la quale,non  perdendo mai alcun sermone di S. Gre.  gorio, li serviva di molti belli derti uditi  da esso in tutte le congiuntùre, che se  le presentavano per imprimnerglieli benc  nel cuore ancora tenero ; laonde saggia-  mente diffe Focilide :     Mentre fanciullo lei, virtute impara ,  Ma oltre il malesempio', pregiudicano  anche ad elli molto le carrive insinua.  zioni,   Sem. Ma questi mali esempi non sa. ranno dati già loro dai genitori, quants  [ocr errors] 3  ci  [ocr errors] [ocr errors][ocr errors][ocr errors][merged small] cunque fossero viziosi; perche vediamo i ciechi desiderare i figliuoli bene illuminati, ed i zoppi, che questi liano liberi, e spediti al moto: ne tampoco infinueranno loro cose cattive.  Pub. Così appunto dovrebb’essere, e pure ciò non liegue ; posciache alcuni hanno voluto insinuare à i loro figliuoJini l'invecchiati difetti da' quali esli erano contaminaci. Vi furono due di questi, di cui fa menzione Enea Silvio libr. 1. comment.; che dediti all'ubriachezza procuravano , appena slactati ch'erano i loro figliuoli, di affuefarli al vino facendone gustare loro de' più generofi, che si trovassero; ed uno fti, persuadendosi , che non averle il suo figliuolo bastantemente bevuto vino di giorno, volle di notte, in tempo chc dormiva,farglielo ingojare con un cannellino; mà perche sonnacchioso corceva la bocca ingiuriò aspramente las moglie ; dicendole, che non era suo fi. gliuolo legittimo, per non affomigliarsi ad esso, cui tanto piaceva il vino. E vi  [ocr errors] ed uno di que  [merged small][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] re  [ocr errors] recherà orrore il sentire di vantaggio bu quello, che riferisce S. Gregorio di un li esecrando bestemmiatore il quale ingi  nuava ad un suo figliuolino di cinque anni di ritrovare bestemmie anche infoJite, e riferisce ancora il gastigo , che da Dio ricevette per sì detestabile dclitro,  Mec. Mà senz' and are cercando gli antichi esempi ; non ci è stato à giorni noftri un Padre, che premiava de' suoi figliuoli quello, che cimentandoli co  i suoi fratelli, rimaneya vittorioso nel d  fare à pugni ? cosa tanto crudele , che non fi racconta già praticata da Gladiatori Romani tra fratelli,  Sem. Le Madri però non saranno state così perverse nel mal'educarli,  Pub. Queste ancora sono state colpevoli di ciò; scrivendosi di Draomirad, : Principessa molto vana, che per colpa  fua diveniffe Boleslao parricida, e fratricida ; dove che il fratello Vinceslao  educato da Ludimilla sua ava molto fagi gia, e pia divenne un Sanco , come nela  [ocr errors] [ocr errors][ocr errors][merged small] la sua vita si riferisce; e da ciò comprendere quanco di profitto apporti la buona educazione.  Mec. Questo non è da porfi in dubio, scorgendoli anche ne bruti profittevole; mentre racconta Plutarco, che Licur. go per fare conoscere tal verità a? Spartani fè comparire due cani , uno de quali era avvezzato per la caccia, e l'altro, dedito in tutto alla sua naturale inclinazione, non attendeva ad altro, che à leccare pentole di cucina, e nel mede: simo tempo à vista loro fè portare anche una lepre, ed un carino di broda : nel vedere il primo fuggire la lepre li pose a seguirla ; e l'altro se ne andò verso il catino; soggiungendo egli a’Spartani: così faranno appunto i vostri figliuoli ancora , se saranno, ò nò istruiti. Quindi è che avendo Tolomeo Re di Egitto domandato ad un Savio quale foffe las negligenza maggiore, che regnava tra gli uomini, egli prontamente rispore : ch'era la trascuragginc nell'educare i figliuoli, mercecche da questa infinitimali ne potevano nascere:  Sem. Mà à chi dev'essere più à cuore questa educazione?  Pub. A coloro, cui dev'essa maggiormente premere, che sono i genitori, e questi debbono con industriose, e diligenti manière spogliarli d'ogni difetto, e d'andare ne i loro teneri cuori  giornalmente istillando il prezioso liy quore delle virtù, senza desistere mai;  essendoche, come avvertì Plutarco questa voce costume , pronunziata in lingua Greca, significa anche continuo esercizio, onde da ciò si può comprendere che non ci vuole trascuraggine nell'educare i figliuoli. Riferisce Orazio Flacco, le diligenze in ciò usate da suo padre; verso di lui lib. 1. Sat. 6. che furono. Sed puerum est ausus Romam portare  docendum; Ipfe mihi cuftos incorruptiffimus omnes Circum doctores aderat , quid mulia?  pudicum, Qui primus virtutis bonos , fervavit ab omni  Non  11  [ocr errors] V 3  [ocr errors][merged small] Non folùm facto verùm opprobrio quo  que furpi. Santamente dunque ordina Salomone ne' suoi proverbj : erudi filium tuum , do refrigerabit te, & dabit delicias anime tudo  Sem. Mà le saranno i Padri talmente occupati, che non abbiano tempo das poterlo fare?  Pub. Se averanno occupazioni più riLevanti di questa, saranno compatiti, caso che nò, sono tenuti di farlo, e non facendolo meritano la riprensione del vecchio Crate,qual disse;contro costoro: Dove andate meschini, d voi, che nel cercare di farvi ricchi movete ogni pietra; e nondimeno de' voftri figliuoli, a' quali lieto per lasciare le vostre facoltà, vi prendere poco pensiero ; al che sog. giugne Plutarco, che questi operano in quella maniera, come se alcuno governaffe bene le sue scarpe, e de i piedi non fi curaffe punto. Or ditemi di grazias qual potrà essere l'occupazione più riguardevole di questa ?  Sem.  [ocr errors][ocr errors] [ocr errors] Sem. I publici affari, per esempio, oltre il decoro personale, i quali ricer. cano somma attenzione, e si può dalli buona amininistrazione di questi ricavarne molta gloria, e molto lustro, vantaggiosi ai figliuoli ancora,  onde  perciò non potranno distrarsi per educarli bene.  Pub. E questo lustro, e gloria se si  estingueffe nc'figliuoli mal educati qual i acquisto averebbero fatto i Padri? Gli  Ateniesi nelle feste di Cerere faceano un misterioso giuoco, ed era , che comparivano avanti l'alcare quei destinati ad effo à prendere ivi un luine acceso, qual dovea porgersi ad un'altro , che in una decerininaca distanza lo stava aspettando, per consegnarlo ancor esso ad altri, che in egual lontananza lo atrendevano: se il detto lume si foss' estinto prima di giugnere all'ultima mera , era in libertà di ogni uno beffeggiare colui in inani di cui si estinguěya. E Platone fu di se. timento nelle sue leggi, che : gignentes, alentes liberos vitam tanquam  1  [ocr errors] lampada alii aliis tradunt. Or figuratevi ancor voi, che questo splendore, che voi dite debba passare ne' posteri; come rimarrebbe colui , che per la sua malas educazione lo estingueffe ? in che ludibrj egli li troverebbe venendo da tutti, beffeggiato ? e sapendosi, che vi ebbe colp’anche la poca applicazione del padre in educarli, dirà facilmente qualcuno : quanto era meglio un poco meno di luftro, mà più durevole nella sua descendenza.  Mec. Da questo dunque procederà, che alcuni figliuoli di uomini illustri sono di costumi tanto diversi da efli , che pajono più tosto nati dal disonore, averanno quelli facilmente difefcato nell' educarli.  Pub. Plutarco ne adduce ancora un alıra cagione credendo egli che i fi. gliuoli degli uomini illustri divengano facilmente superbi, ed arroganci; e lo comprova coll'esempio di Diofanto figliuolo di Temistocle, il quale solevas, dire ne cerchi, che tutto ciò, che li fos  se  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][merged small] se piaciuto sarebbe anco al popolo d'A. tene piaciuto; perche quello , che voleva egli voleva la inadre; e quello che la madre Temistocie, e quello che Temistocle anco tutti gli Ateniefi.  Sem. Credo però , che più comparibili polfano essere le Madri se diferteranno in deira educazione, essendoche alcune di esse hanno impiegato turte le ore del giorno in adornarli, in ricevere, ò fare visite, in passeggi , ò conversazioni; talmente che pochissimo tempo potrebbe rimanere loro di badare a' figliuoli,quando non foffero diftrarte an. che nel giuoco .  Pub. Già sono capace, che premono oggidi ad alcune più i divertimenti, che i propri figliuoli. E vi pare, Sempronio, che debbanli queste scusare? Non averanno certameote occasione alcuna di lagnarli , se faranno questi cartivas riuscita ;. perch'esse vi hanno difettato non solamente colla trascuraggine, w cziandio col mal esempio dato loro ies S. Girolamo scrivendo a Leta non diffgià, che foss'esfa scufabile, dando a'figliuoli mal esempio, mentre così parla: Nihil in te, & in patre suo videat , quod fi fecerit peccer .  Sem. Non si potrebbe supplire coiu Maestri, & Aij alla propria trascurag  gine?  [ocr errors][ocr errors] Pub. Si potrebbe in caso di necessità; mà però è assai differente l'industria,che adoperano i propri genitori da quellas, che sia l'altrui, ed eflendo questa à proporzione dell'amore , quanto maggiore sarà quella de' propri genitori, che più di ogni altro li ainano? Si suol dire ingeniofus amor , e questo appunto è quello, che li ricerca nella buona edu. cazione .  Sem. Se dunque li può supplire, saranno scufabili quei genitori, che sostituiscono in loro vece chi lo faccia.  Pub. Non per questo però debbonli affatto allontanare da efsa, senza averci qualche sopraintendenza particolare, e non usando questa non si potranno mai scusare,  Mer.  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] Meg. Siete Publio troppo rigoroso, e questo credo , che proceda , perche voi foste l'educatore de' vostri figliuoli; mà non sono ora più quei tempi felici , ne' quali si pensava di lasciarli più rosto ben educati, che ricchi; non sarà poco, che abbiano ora i figliuoli un Ajo di ti. tolo , che non li lasci almeno precipi. tare in tutti i vizj ; onde da alcuni, che sono arrivati a conoscerlo a è trovato quel santo ripiego di porli nei seminarj, assai giovanetti, e prima che la malizia fi avanzasle in elli.  Pub. Or io non mi sono curato di porre i miei figliuoli in questi seminarj; perche ho voluto fare a modo del Profeta , il qual dice : Filii tui ficut novelle oliva. tum in circuitu menja tuk. Sono questi seminarj fantissimi,istituci ostimi per ap: prendere il rimore di Dio, mà oh quanto fà di più quel Padre amoroso , ed actento, quella Madre faggia, e divora, in educarli in tutto , avendoli appreffo di loro ! e questo ben lo conobbe Orazio ringraziando suo padre della buo  V  è  C.  na sua educazione in tal guisa .  Laus illi debetur,à me gratia major; perche : obiiciet nemo fordes mihi .  Mac. Voi aveste però la fortc,, che vi furono i vostri figliuoli, tanquam novelle olivarum ; perche, se riflettiamo alli rami di elli, sono simbolo di pace , e tali appunto sono li vostri ellendo dotati di ottimo naturale ; fe al frur. to, è vero  ch'essendo immaturo , inolto amaro, ma questo con industria diviene anche dolce, ed il fimile è seguito in elli, essendo giovani; se poi final. mente al sugo, che da' suoi frutti maturi si esprime, ch'è l'olio, questo non fà alcun movimento, solendosi dire per proverbio : è cheta come l'olio , e contimnili à questo sono anche i vostri figliuoli, contro de' quali aon si è senci. to alcun richiamo fin'ora, e spero, che trovandosi già avanzati negli anni , cresceranno sempre più in bontà: mà se in vece di novella olivarum Iddio ve li avelse dati, come piante di mirto, questi non iftavano bene in circuitu menja tud.  Sem.  [merged small][ocr errors][merged small][merged small][merged small][merged small][ocr errors] [ocr errors] Semi E per qual cagione, producendo il mirto un fiore gratissimo ?  Mer. Sì bene, mà però senza alcun frutto, ed è pianta dedicata à Venere, e tra esli facilmente si annidano i serpenti, e se fossero ftati di limile cattiva natura i vostri figliuoli, Publio, come vi fareste contenuto con efli loro?  Pub. Gli averei ben domati io; perche più fieri de'Leoni non potevano già essere, e pur questi coll'arre divengono mansueti, e vi assicuro, che non averei fatto da cerusico pietoso; avendo appreso da Salomone il rimedio qual'è; nos li subtrabere' à puero disciplinam ; fi enim percufferis eum virgâ, non morietur. ** Més. Sapete pur, che Dione, con forme racconta Plutarco nella sua vita, per il soverchio rigore usato , e fatto ufare, nell'educare il suo figliuolo, fu cagione, che per disperazione cgli si precipitasse da una finestra : il rigore paierno non è sempre moderato , per cagione, che il più delle volte questo parsa dal soverchio amore, al foverchio  (de  [ocr errors] 9  [deg no ; e poi i Padri vorrebbero in un tracto estinguere tutti i difetti de’loro figliuoli, e questi han d'uopo di tempo preparatorio non meno, che le valide medicine, come fa il Dottore.  Med, Questo è veriflimo, perche dandoli un violento rimedio, senza prepa, sare prima gli umori, danno maggiore potrebbe apportare ; quindi è che il noItro Ippocrate c'insegnò : Corpora cum quis purgare volucrit oportet Auida facere ,  Pub. Però se Neocle non avesse usato tanto rigore , con arrivar sino à privare della sua eredità il figliuolo , certamente, che la Grecia non avrebbe avu.  PC to il gran Temistocle, il quale ritrovan. doli in tali angustic ricavò dalla necefficà la virtù, essendo che bene spesso : veWatio dat intellectum .  GULE Mec. Questo esempio appunto fa conofcere, che sotto padri tanto rigorofi non possono educarli bene i figliuoli ; fpc posciache avendolo diseredato lo mandò ancora fuori di casa, e perciò averàalırove trovato chi lo cducasse con più discretezza; e poi questo fu un bene per accidente, il quale assai di rado rie. sce con tanta felicità, rimirandosi dall' altra parte infiniti, che discacciati da' propri genitori , datisi in preda maggiormente de vizj, terminarono infelicemente la loro vita negli spedali, ò disperati, di trovare modo da vivere, presero il soldo militare, per foftentarli in quel breve tempo, che vissero .  Pub. Or io sono di questo parere, che debbano i propri genitori educare i loro figliuoli; perche, se saranno buoni , e docili, riuscirà facile l'educarli; re poi perversi, ed ostinati niuno credo, che potrà usare diligenza , ed attenzione maggiore di cfli: saprete pure quel che seguì tra lo scolare, ed il maestro, fingendo il primo di studiare diceva sotto voce : tu credi, che io studj, e non istudio, al quale sotto voce anche risspoodeva il secondo : e cu credi, che jo mi curi di questo che nulla mi preme. Mec. Voi dite orcimamche, perche  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] fete capace di farlo, e fiete anche pru.  dente, mà come pretendete esiggere  tutto questo da un Padre imprudente, e  vizioso, il quale non rifletterà punto à  quel saggio documento di Giovenale  registrato nella Satira 14. il quale è:    Maxima debetur puero reverentia, so       quid  Turpe paras, nec tu pueri contempferis   annos,  Sed peccaturo obfiftat tibi filius infuns,  Nam fi quid dignum cenforis feceris ira,  Quandoque fimilem tibi ; te non corpore        Bantung  Nec vuleu dederit, murum quoque filius,            & cum  Omnia deterius tua per veftigia peccer.     Pub. Allorsì, che converrebbe tro-  vare chi foffe capace di farlo , per la ra-  gione, che Giovenale medefimo appor-  ta successivamente nella Satira da voi  citata :    Unde tibi frontem, libertatémque pa-        rensis  Cum facias pejora fenex? Wacuumque       cerebro   Jam  [ocr errors] [ocr errors][ocr errors][ocr errors] Jampridem capul huc venioja cucurbito  quçrat . Mà però, che l'educatore insieme coll' educando dimorassero in propria casa.  Mec. E se in casa propria, oltre il mal esempio, la laurezza del vivere ritardassero i loro progressi?  Pub. Confesso,che in questo caso converrebbe mandarli fuori, ed in paesi anche remoti; acciocche il mal esempio, e la trascuraggine grande de' genitori, colà non giungeffero.Mà è possibile, che questi, a' quali non dev'esser cosa di maggior premura di questa, possano as proprio compiacinento dare mal efempio a' figliuoli? e poi se non sono prudenti, perche s'inducono à divenire Padri ? Certa cosa c,che i figliuoli mal ducati non apporteranno loro altro, che confulione, dicendo l’Ecclesiastico al 22. Confusio pat.is eft de filio in disciplinato.  Mer. Il mondo oggi corre cosi, mol. ti sono. Padri di nome, e solamente perche li hanno generati , onde perciò con  vie.  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] X  viene ricorrere ad altri Padri savj, u prudenti , che gl' istruiscano, e fuori del proprio nido , essendo ora gran parte de' genitori divenuti imitatori de' corvi, è dello struzzolo, che gli abandonano, non già delle aquile, che con tanta attenzione istruiscono i loro polli.  Pub. Polliamo dunque conchiudere , che se i genitori saranno capaci, e diligenti nell'educare i loro figliuoli, niu. no meglio, di efli potrebbe farlo; e fe nella casa paterna si vivesse, come conviene non sarebbe d'uopo cercare altro luogo per educarli,potendosi con profit. to istruire in effa.  Sem. Che doverà fare il buono educatore, sia Padre, è estraneo, per isvellere da efsi i difetti?  Moc. Questo lo vedremo nella seguente Conferenza.  CON  [merged small][ocr errors] Intorno à quello, che debba farsi da'        Genitori   per  educar bene i figliuoli.  [ocr errors] Mecenate , Sempronio , Publio ,  e Medico  [ocr errors] мес. .  L peso maggiore, che abbiano i Pa. dri , mi persuado che sia l'educazione dei figliuoli s  perche si tratta di navigare sempre contro acqua, dovendo opporsi bene spesso alle loro cattive inclinazioni, e superarle à forza d'ingegno; e si trovano alle volte torrenti si rapidi, che si rende assai difficilc poterli alla prima superare.  Sem. Non mi fono risoluto fin ora di prender moglie; perche hò consideratoanch'io le molte difficoltà, che s'incontrano in questi tempi à ben’educare i fi. gliuoli , ne' quali vedo , che appenas slattati che sono, pretendono di fares à lor modo, senza avere alcun riguardo à quanto viene ordinato loro da'genitori .  Mec. Non vi sgomentate per questo ; Sempronio mio, essendoci il suo rimedio , quando chi sopraintende há prudenza, e la prendere, come li suol dire, la lepre col carro. Vi dirò io sci avvertimenti generali, che vi potranno molto giovare, allorche sarete Padre di famiglia ; nel particolare poi sarete meglio istruito da Publio.Ed il primo farà; che tanto voiquanto la vostra con. forte diare loro buono esempio.  Sem. Ed in quali cose ?  Mer. In tutte ; perche se voi sarete in continue discordie con vostra moglie, come potrete correggerli, quando mai foffero discordanti tra fratelli? se vorrete, che non disordinino nel nutrirsi, come lo potranno fare vedendovi cra  po  [ocr errors] [ocr errors][ocr errors][merged small] polare giornalmente se li bramerece divori, come potranno essere, se non mostrerete voi coll'esempio, ciò, che volete , ch'essi facciano 3 E scoprendovi tutti dediti agli spasli, e piaceri, come pretenderece,che siano applicari allo studio, divagandosi ancor elli collaa mente nel pensare di fare il simile quanto prima , per imitarvi? non fate 10 una parola, che quel difetto,che volete da effi (vellere lo rimirino in voi medeliini, dovendo voi imitare Agricola, quando fi portò al governo dell'Inghilterra , allorche si trovava molto rilassata, il quale prima da se medelimo cominciò à dare il buono esempio.  Sem. Ed il secondo qual sarà ?  Mec. Di trattarli ugualmente tutti, senza mostrare parzialità benche minima verso alcuno.  Sem. Che male potrebbe apportare questa parzialità paterna  Mes. Infinito ; percioche usandola voi, non solamente darette occasione di odio tra fratelli, ed ecco, che invece  [merged small][ocr errors] che il pre  ce di svellere da esli i vizj gli accrescere. ste di vantaggio, mà ancora, che il diletto sarebbe meno attento degli altri ad approfittarsi de' vostri buoni docu. menti, persuadendosi egli, che' compacirete i suoi difetti, per l'amore, che loro mostrate, e gli altri,dal mal esempio di questo, che profitco farebbero ? Igenitori debbono : imitare il Sole, e la Luna , che risplendono ugualmente as benefizio di cutri : e sappiate che la parzialità, che usò David per Ammone fu la sua ruina ; impercioche questa lo fè divenire incestuoso, e quell'amore troppo tenero, che fè trascurare tal mi. sfatto,incitò Abfalone à divenire fratri. cida; mancamenti tutti derivati dalla connivenza paterna.  Sem. Il terzo qual sarà ?  Mec. D'accomodare l'animo vostro alla dolcezza, ed al rigore secondo le occasioni, che vi si presenteranno.  Sem. E queste quali saranno ?  Mec. Se voi li vedrete attenti , e che & approfittino dei buoni documenti che  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] avete dati loro, in quel tempo sarà opportuna la dolcezza; mà se poi vedre. te, che trascurino, e diferčino, dovrete servirvi del rigore per correggerli.  Sem. In tutti i loro trascorsi mi dove. rò contenere ugualmente severo? ,  Mec. Ci sono alcuni difetti, de' quali non si dee far caso, essendo prudenza alle volte non darsene per inceso; altri sì, benche minimi in apparenza, non debbonsi lasciare impuniti : per esempio una tal inavvertenza, nata più tosto da disapplicazione, che da disubbidienza è compatibile; mà non già una benche picciola bugia , ò una finzione maliziosa anche minna, dovendosi quefte con risentimento svellere affatto dow principio ; perche se prendono piedes non li svellono più ; ed in correggerli di queste non dovete usare il rigore alla prima, mà bensì colle buone far loro confeffare la verità, e conoscere il mancamento, e dipoi con risentimento ainmonirli, facendo loro capire , per quan. to sarà poflibile, la deformità grande  [ocr errors][ocr errors][merged small][ocr errors][merged small] di tali vizj, con non perderli sopra quefti più di mira ; concioliacosache come insegna l’Ecclesiastico al 20. Mores hominum mendacium fine bonore : du confufro illorum cum ipfis fine intermifione .  Sem. Il quarto quale sarà ?  Mec. Di essere tanto voi, quanto las Madre sempre concordi in ammonirli; perche se un di voi li coreggerà, e l'altra li vorrà scusaro, non solamente non fi approfitteranno della correzione , mà prenderanno animo di far peggio, trovando chi li difenda ; ed in questo errore fogliono cadere frequenteinente le Madri con danno evidente della buona educazione; come par che l'accenni Salomone ne' suoi proverbj al 29. Puer qui dimittitur voluntati sur confundit miirem suam : ond'effe , per non cadere in questo, debbono imitare quelle faggio miatrone del testamento vecchio tra le quali che non fece Sara per l'educa. zione d'Isac, Rebecca di Giacob, od Anna di Samuele ; siccome ancora Sansa Monaca, S. Celinia, che fecero ofetime educazioni de' figliuoli, dilendo-   ne da queste nati un S. Agostino, un  S. Remigio: tra le quali merita anche   di essere annoverata la pia , e zelance  Madre di S. Andrea Corfini, che non  desistè giammai d'industriarsi Gintanto,  che non lo vide di lupo cambiato in  agnello.   Sem. Riferitemi ora il quinto.  Mec. Dovete parimente tener celato l'amore, che portate loro, ne tampoco con quotidiani gaftighi far loro credere, che Giete disamorato affatto verso di essi ; perche il soverchio amore li farà prendere troppa confidenza con voi ; ficcome alli continui gastighi facendovi il callo,non li prezzeran più . Quella correzione risentita , fatta à suo tempo, cou parole, che li pungano, serve as molei di stimolo maggiore ad operare bene, più di quello che facessero le sferzate . La scimmia, allorche si moftras madre sviscerata de suoi parti,con troppo ftringerseli al lato li uccide, e questo segue per lo soverchio amore, che  por  [ocr errors] porta loro , non già per isdegno. Il destriero più generoso colle continue sferzate divien reftio. Ordinariamente de Madri sogliono peccare di troppo affetto , ficcome i Padri di soverchio rigore; e da ciò ne viene , che più amorosi li portano i figliuoli verso le Madri, che verso i Padri, de'quali hanno bensì maggior timore.  Sem. Ed il sesto finalmente ?  Mec. Di non farli trattare in assenza vostra con persone, che possano distrug. gere quanto di buono avere in esli inlinuato; posciache debbono anche credere, che cutti abbiano da operare in quella forma, che voi prescrivere , che elli vivano; e se per disavventura udiranno da qualche malvagio consigliero maslime contrarie alle vostre , quanto male apporterebbero queste infinuandosi in quelle tenere menti, e non atte ancora à ben discernere qual sia il veleno, e quale l'antidoto. Ne vi starò so-. pra di ciò à riferir esempj, perche di Umili miserie ne accadono giornalmen  tes  [ocr errors] E  te, come voi ben sapere ; vi addurrà solamente ciò che si osserva in un certo  animale (come riferisce il Salier Hs: - Juppon:) che dimora in una montagna  del regno di Gotto nel Giappone, il   quale è in grandezza, e figura fimile al  lupo ; viene però ricoperto da un pelo  morbidiffimo al par della seta, e la sua  carne è delicatissima al gusto;entra que-  sto animale bene spesso nel mare; mas   se     per   fua (ventura s'inoltra molio in effo, diviene pesce, ricoprendosi di squame, de' quali essendone stato presentato uno al Re di Gotto, che per metà era divenuto squamoso, e nel rimanente conservava il suo morbidissimo pelo, fè ciò conoscere tal verità. Or se il conversare co pesci può far divenire un'animal si morbido anch'effo squamoso,che farà l'innocente giovanetto conversando cou cattivi? Che apprenderà di buono da quel lacche vizioso? da quel cocchiere scapestrato, è da altri viziosi? quando non facesse altro discapito, imparerà a correre, ò pure à guidare land  carrozza, oh che belle prerogative di un giovane nato per governare, e reggere qualche parte del Mondo! Quindi è che rettamente ordina l’Ecclefiaftico al 7. Difcede ab iniquo , & deficient man la abfte. E S. Agostino scrisse che : fitcilius eft fortem stare in martyrio, quam in pravå societate .  Sem. I Genitori, Publio , debbono ugualmente essere à  parte  dell'educazionc  Pub. Certamente, che sì ; mà però in modo, che uniforine vada la dettaa educazione, e perciò debbono in tutto portarli concordeinenre: si possono bene tra loro dividere alcune incombenze; per esenipio la Madre, essendo assidua, e non vagabonda,averà maggior campo d'infinuare loro , ed anco di fare apprendere in primo luogo ciò che riguarda alli precetti Divini , dovendoli allan sofferenza donnesca questa lode, che, per non attediarsi punto in replicare le medesime cose infinite volte, riescono in ciò lingolari, cd in segucla d'iftruir.  [ocr errors] li nel Galateo oon affetrato, e vano, ma bensì nel serio , ed in quello, che insegna ciò, che appartiene ad un gentiluomo cristiano, il quale non solamente è diretto alle cose mondane, mi alle divine ancora; e sopra tutto al rispecto, e venerazione, che si dee à Dio in ogni tempo, come dispone l’Ecclesiastico al 2. Serva timorem illius, do in illo veterafce; perche soggiunge: Quis enim permanfit in mandatis ejus , & dereli&tus eft? aut quis invocavit eum, & difpexis ilum?  Sem. Ed il Padre quale incombenza doverà prenderli ?  Pub. Essendo un poco grandicelli, e come li fuol dire già smammari, dee il buon Padre cominciare ad iftruirli in modo, che possano riuscire graci, ed utili alla Republica, come faggiamence viene avvertito da Giovenale : Gratum eft , quod patria civem , popu  loque dedifi Si facis,ut patria fit idoneus, utiliser E per fare questo dev'essere vigilaore',non solamente à rimuovere da elli certi primi difetti, che sogliono in quell'età manifeítarli, come sono la pertinacia , e disubbidienza , con certa vivacità di spirito contenziosa , e questo farlo più tosto con uno sguardo severo , e con minaccie, che con percosse in sì tenera età ; e qualche volca ancora il togliere loro parte della colazione è un gastigo molto profittevole ; 'mà divenuti, che saranno alquanto più capaci dee istillar loro maslime nobili, cd onorate, e replicatamente, à fine, che se le imprimano bene nel cuore.  Pub. E queste quali sono ?  Pub. La prima, ch'è la più essenzia. le, sarà di amare sopra tutte le creature Dio, e di venerare tutci i Sanri, con fare loro comprendere , che tutto il bene, che abbiamo, viene da Dio, e che non amandolo, non lo potremo da esso conseguire, non potendo avere altro, che lui, che ci soccorra nei nostri maggiori travagli: dicendo appunto l’Ecclefiaftico al 33. Timenti deum non occur.  rent  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] rent mala, fed insentatione Deus illums confervabit, & liberabit à malis ,  Sem. E dopo questa ?  Pub. La seconda farà di amare il noftro prossimo come noi medesimi, e di non fare altrui ciò, che sarebbe discaro à noi stesi ; e far loro di vantaggio capire, che ognuno sarebbe miserabile in questo mondo , se non fosse soccorso dal compagno : e venendo l'occasione di comprare qualche cosa,andare infinuan. do loro in quel punto questa verità, che se quel povero uomo non avesse faticato per noi, se sarà farto per esempio , noi . anderemmo nudi , ò vestiti al più di pampini , con mostrar loro ancora, che conviene sodisfarlo delle dovute mercedi , affinche possa vivere per averci à servire con puntualità un'altra volta : Capitando lavoratori di campagna farà bene che conprendano,che se quei miserabili non iftassero di giorno al sole, e di notte allo scoperto,non si mangierebbes quel bel pane , nè li berebbe quel buon vino, che ci portano in tavola, onde  [ocr errors][subsumed][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] [ocr errors] degli altri.  che debbonsi con prontezza sodisfare, acciocche possano con amore attendere à coltivare la terra, che li produce mediante la loro industria ; e non perdere alcuna delle occasioni , che capitano per meglio imprimere in quei teneri cuori l'amore verso il prossimo, clas puntualità in fodisfare quanto si dee a' poveri mercenarj.  Sem. Offervo però quei, che sono più puntuali in sodisfare,peggio serviti  Pub. Non è così, Sempronio, può effere che vi sia taluno, che operi con questa ingratitudine, mà nell'universalc offervo, che chi ben tratta è ben tractato, e poi non ci dee già muovere à ben operare il proprio vantaggio; mà bensì, perche in coscienza liamo tenuti di sodisfarli puntualmente, ed udite che grave eccesso commette colui , che traIcura di farlo : Panis egentium, dice l' Ecclesiastico al 34. vita pauperum eft : qui detrabit illum bomo fanguinis eft. Qui aufert in fudore panem, quafi qui occidis  pre  [ocr errors] proximum fuum . Qui effundit fanguinem, e qui fraudem facit mercenario , fratres '. funt.  Mec. Queste massime sono certamen. te necessarie , affinche divenuti adulti non si facciano guadagnare dal mal esempio di alcuni , che costumano di fa. re ciocche non conviene ; e sarebbe anche necessario nel medesimo tempo d’in. finuare ne'loro animi la benevolenza neceffaria verso la servitù ; affinche la possano riscuotere reciproca dalla medefima ; perchè, conforme chiaramente fa conoscere Seneca nell' Epistola 47, è falso quel detto : Quot servi tot hoftes , dicendo egli : non habemus illos boftes, fed facimus; per non tratçarli in quellas guila: Quemadmodum tecum fuperiorem velles vivere. Onde io sono camminato sempre colle massime di questo grande Uomo nel inorale ; che il servitore: 60lat magis dominum , quàm timeat, e për cagione di ciò assegna:quod Deo fatis eft, quod colitur, eu amatur ; onde che più di questo noi non dobbiamo esiggere,  Y  da  [merged small][ocr errors][ocr errors] [ocr errors] da noftri servitori, e tanto più che non paseft amor cum timorë mifceri.  Pub. Dice questo grand’uomo cercamente il vero ; perche se non farà reciproco l'amore tra il servidore, ed il Padrone, avendo continuamente questi. al.lato,continua sarà ancora l'occasione prossima di rammarico tra efl ; e fatto che averà l'abito in questo, non potrà più aftenersi di non contriftarlo, per ogni lieve cagione.  Sem. Dunque, Mecenate, al parere del vostro Seneca non si potranno licenziarei servitori, chcli porteranno male?  Mec. Non pretend' egli questo ; ma folamente, che non fieno i Padroni in fervos fuperbiffimi, crudeliffimi , dow contumeliofiffimi ; come pocrete vedere nella citata Epiftola. Sem. Essendo però noi li Padroni, toccherà ad efli soffrire qualche noftra ftravaganza .  Pub. Dobbiamo anche noi riflettere, fino a che segno possano quest' esferes forferte da cali perchè se le nostre stra-,vaganze fossero grandi, e continue, ci   renderemmo noi meritevoli di riprenfio.  ne : vietandoci l'Ecclefiaftico il farlo al  4. ove così dice: Noli effe ficut leo in doa  mo tua evertens domesticos tuos, & oppria  mens fubjeétos tuos . E c'insegna di van-'  taggio , come ci dobbiamo portare co")  fervitori senfati al settimo , dicendoci :  sonladas fervum in veritate operum, ne-  que mercenáriun danten animam fuam.  Servus fenfatus fit sibi dilectus , quas ani:  ma sua ; ne defraudes illum libertate, nebo   que inopem derelinquas illum,   - Sem. Ma se divenissero a noi importu.   ni, contradicendo a quello, che noi bra.  miamo di fare, doveremo anche collea  rarli?   Pub. Se saranno fedeli, e parleranno per zelo a bneficio voftro, dovrete non solamente tollerarli, ma eziandio amar-, li più di prima; perche farà segno, che non vi adulano,facendo cosa ucile a voi, quantunque la considerino svantaggiosa a loro medefimi, con moftrarne voi dispiacere ; ed udite l'oracolo dell'Eccle  siasti  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] Aico al 33. Si eft tibi seruus fidelis, fortis bi quafi anima tua : quasi fratrem , fic cum tracta , quoniam in janguine anima comparasti illum. sibaforis eum iniuftè, in fugam convertetur. É cosa averete acquistato con perdere per vostro capriccio un servitore tanto fedele? quando ne trovarete un' altro fimile ad eiro ? & abbiate da me questa certa notizia, che l'adulazione ne' servitori, si è avanzata a questo segno , per il dispiacere,che alcuni Padroni mostrano nell'udire la verità fincera : laonde esli, per non perdere la loro grazia , vengono forzati ad adularli , c tradirli insieme. Ma vorrei, che questi, che hanno a male di udire da fervitori la verità, facessero attenta riflessio. be a quello che dice Giob al cap-31. che è questo: Si contempla fubire judicium cum Servo meo, e ancilla mea, cum discepia. rent adversus me : quid enim faciam cum Surrexerit  ' ad judicandum Deuse du cum quaferis quid respondebo illi ? Nunquid non in utero fecit me ; qui & illum operatus eft, & formavit me in vulva unus?  Semp.  Sem. Quando però saranno grandi li figluoli li scorderanno di questi utili avvertimenti .  Pub. Non sarà così quando il Padre, oltre il rammentarli frequentemente', li praticherà esso ancora, dal di cui buono csempio comprenderanno meglio, che debba farli così..  Sem. Vorrei sapere , Publio, fe il Pa. dre possa condurre i suoi figliuoli a vedere le maschere?  Pub. Anzi dee farlo, con que sta avvertenza però d'imprimere ne loro cuori , che quei,che con sembianti sì deformi, e spaventofi si trasmutano,sono paz. zi, e che quei sconci gefti, e parole oscene,chc dicono, sono tutticffetti della loro pazzia, con infinuare loro, che divenendo effi grádinon lo facciano per non essere anch'elli tenuti pazzi. Sole. vano i Spartani fare ubriacare i schiavi, c li facevano vedere a loro figliuoli, af. finchè prendessero orrore all’ubriacheza za da quelle pazzie, che da fimile get tc agitata dal vino fi commetreyades  rem  ied effendo riuscito a quelli profittevole; fperarei, che facesse il fimile anco a quefti, e tanto maggiormente non avendo il mal'esempio da i genitori, perchè se ne aftengono , cd essendo veriffimo quel detto : Quo fuerit imbuta recens fervabit ode  Tefta diu. Impreffe che faranno da principio ne' cuori de' fanciulli fimili verità, difficil. mente si cancelleranno più.  Sem. E crescendo negli anni, & avan. zandosi nella capacità, che averaano da fare i genitori?  Pub. Di prevenire tutti concorde mente i mali, ne'quali potessero cadere; insegnandoci l'Ecclesiastico al 18. Antò languorem adhibe medicinam , per lo che doveranno porre un antemurale a vizj in questa forma: Già efli averanno cominciato ad aver l'uso di ragione, e potranno comprendere qual fia il male, & il beno,cominciando a conoscere gli effetti dell’uno, e dell'altro; : onde venendo loro questi meglio spiegati comprende  ran.  ranno con più facilità qual mostro orrendo sia l'uomo vizioso, e quanto preggiabile sia colui, che abborrisce i vizi, quanto odiati da cucci siano i primi, ed amati li secondi, prenderanno in questa forma ancor efi orrore al vizio; efe non averanno compagni più che cattivi, i quali vadino seducendoli, come potrà cflere, che non s'incamminino ancor'eff per  la buona via ? ed una volta, che fi sono incamminati per essa colla grazia di Dio, e con l'occhio paterno vigilante sarà cosa difficile il discostarsi più das quefta .  Sem. E delle massime di onore, e de puocigli cavallereschinon ne discorrere?  Pub. E che credete voi , Sempronio, che le massime di Dio non siano anch'effe di onore, e cavalleresche? Impoffel fatevi bene di queste, che tutte le altre vengono di seguito ; non sapete voi, che la prima vircù : Eft vitium fugere, fapientia prima Stultitiâ caruifle. Datemi uno , che abbia in orrore il via zio, cche lo fugga, che io lo crederò perfetto in cutro.Sem. Io credeva, che queste matsime dovessero servire per i figliuoli, che s’indirizano alla vita religiofa,non per quel. li, che debbono vivere nel mondo, ove senza aver un poco d'inganno pare, che non a polla convivère;  Pub. Quanto ficte in errore ; perchè ugualmente sono necessarie le mailime di Dio per i Religiosi, che per i fecolari, dovendo tutti indirizarci per la via dell' ecernità ; nè crcdiate che godano quelli, che vivono,come voi dite al mondo, van. taggio alcuno di più di coloro, che ope. rano come si dee; anzi sono infelicillimi , & uditelo dall'oracolo dell'Eccle. {iastico al 2. V & duplici corde , d. labiis fceleftis, du manibus malefacientibus, peccatori terram ingredienti duabus viis. Va disolutis corde, qui non credunt Deo; & ideo non protegentur ab.co. Va his, qui perdideruns Justinentiam, & qui dereliquerunt vias rectas, diverterunt inue vias pravas. Et quid facieni cum infpicera esperit Dominus ? Se dunque lo mafime del mondo faranno differenti da queste  abban,  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] - abbandonatele puré , che non fanno per voi , perchè come vi troverete senza il -Patrocinio di Dio?  Sem. Dicemi, se in casa ci saranno,oltre i genitori, altri parenti, li doveran. no ancor questi ingerire nell' educazione  Pub. Questi ancora , ma però più con dare loro buon' csempio, che con pas role; posciache è cola inolto difficile, che tutti questi siano uniformi nelle buone direzioni di effa'; oode fe taluno di questi-inlinuasse tal cosa, la quale sembrasse differente a quella , che udi da'genitori, o ficonfonderebbe, o per lo meno non prestérebbe la dovuta crea denza a quanto verrà foro insinuato da suo Padre, è questo lo mostrerò col segucnce. esempio . Nel domare i pola Icdri [ che "polledrucci anco possono chiamarsi i figliuoli, avendo bisogno'ral volta ancor esli di effere domati ] fcfaranno diversi li cozzoni, non folamen te ci vorrà più tempo in renderli docili , ma ancora potranno correre pericolo di  pren.  [ocr errors][merged small] -prendere qualche vizio ; perchè fentendo, oggi una mano più gravę, nel di seguente altra più legiera,e certe speronate differenti dalle altre , pon comprenderanno così bene quello , che doveranno fare; e cal, volca inasprendoli diverranno anche restj. Se questi paren. ti fossero tutti uniformi, e caminaffero colle medesime direzioni, potrebb'effere meno male, ma sempre meglio farà , che sia uno solo quel complesso , & armonia vaiforme de propri genitori savj, e prudenti, da'quali una sola volontà li forma.  i 37. Sem. Voi, Publio, che avete educa. toi vostri figliuoli da voi medesimo, in, segnatemi di quali documenti xifiere servito per iftruirli nelle þuo be creanze, cda cui gli apprendelte per potermene ancor'io prevalere a suo tempo 2  Pub. Per non crrare mi sono servito di quci, che non possono fallire, aven, doli ricavati dalla Sacra Scritsura.  Sem. E che parla quefta ancora delle buone creanze, che debbono insegnarli a'figliuoli?  Pub.  [ocr errors][ocr errors] Cena  Pub. Divinamente ne tratta l' Eccle. El di  fiaftico al 31. ove dice: Utere , quafi himo frugi iis , que tibi apponuntur , ne cum manduces multum, odio babearis; cela prior  causa disciplina , el noli nimius effe, ne * forsè offendas. Et fi in medio multorum fe.  disti prior illis , e exsendas manum fuam , nec prior pofcas bibere.  Sem. E del rispetto, che debbe avetfi a Maggiori, ne parla ?  Pub. Di questo ancora al 32. dicen. do: Adolefcons loquere in quâ causå vix', fibis interrogatus fueris ; babeat caput rée Sponfum fuum ; in multis efto quasi infciusi, audi taceus fimul' quçrens •  • In me dio Magnarum non presumas, & ubi sunt fenes non multùm loquaris : talmente che leggendo voi attentamente la Sacrae Scrittura , potrete divenire un'ottimo educatore de i vostri figliuoli.  Sem. Vorrei sapere ancora qual vizio giudicace peggiore di tutti gli altri, in un uomo civile, è facoltoso, sopra il quale fia d'uopo d'invigilarci più, che negli altri, per porerlo affatto svellere da figliuolis  [ocr errors] Pub. Io ho stimato sempre tutti i vizj per pesimi, non effendoci alcuno di effi tollerabile; quello però, che ho sem. pre proccurato di svellere con più attenzione da miei figliuoli, è stato l'avarizia; perchè ho sempre creduto, che, crescendo questa avesse superato tutti gli alcri, figurandomi l'avaro come una lacuna,che assorbisce in fe moltiffimi rivi, che debbono scorrerc ad inaffiare, e rendere fecondi molti campi; onde che, stagnando effi, possono apportare notabile danno a molti, c.quel ch'è peggio con danno notabile di chi li divia: ed udine, come a propofito l'efpreffe \'Eccicfiaftico al s.F4 & alia infirmitas peffima, quam vidi fub Jole : divitia conservala in malum Domini fui , pereunt enim in afflictione peffima, & in appresso miserabilis prorsùs infirmitas : quomodo venit,fic revertetur . Quid ergo prodeft ei , quod laborauit in ventum ? Cunétis dicbus vitæ fua comedit in tenebris , & in con ris multis, & in ærumna, aique friftitiâ ed il perche lo efpresc Orazio con dire Jemper Avarus eget.Sem. Ora io, che ho udito tanto, non sarà mai pericolo, che divenga avaro , sembrandomi la vita di questi infelicissima . E tornando all'educazione: se il Padre non fosse capace di educare, ela Madre fosse poco prudente, chi si dove. rà sostituire in loro vece?  Mec. Buoni Maestri, è se saranno ricchi , potranno provedersi anche dell' Ajo, di cui discorreremo nella ventura Conferenza.  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] CON.  CONFERENZA III.  Intorno all'uffizio, e qualità dell'Ajo,  Ĉ dei Maestri:  [merged small][ocr errors] V  [ocr errors] Sem.  Ual'è l'uffizio dell'   Ajo ?   Pub. L'Ajo dee at-   tendere precisame-   te al costume, ed   a ciò ch'è ordina. to ad effo.  Sem. Ed al Maestro, che apparticoche di fire ?  Pub. Oltre quello, che riguarda il costume, dee ancora insegnare loro le scienze, & tutto quello, che ha da premettersi per il conseguimento di elle. Semp. Ma non potrebb’essere anche  Ajo  Ajo il Maestro, giacche attende questi al costume ancora ?  Pub. Alcuni lo praticano ; altri poi più facoltosi provedono di Ajo, è dit Maestro i loro figliuoli , credendo il far ciò diligenza maggiore.  Semp. Ma realmente, chi di quefti fa meglio?  Pub. Se s'incontrasse un uomo versacissimo nell’una, e nell'altra profesione , mi perfuado :, che questi foffe di profitto maggiore, ma per essere raris : fimi quefti,quindi è, che chi può li provede dell'uno, dell'altro.  Sem. Che condizioni dee avere l’Ajo?  Pub. Dovcado egl'istruire nel costume, lo doverà avere anche otti  mo in priino luogo , dovrà essere prus Idente, ed accorto, industrioso, e diri  piego prontojalliduo, crudito nelle ftoorie, non molto colerico, sostenuto, che di abbia ancora parti da faríi amare , fia  prarichissimo delle cose del Mondo , e se fosse versato in medicina, sarebbe anche ile requisito.  Sem.  [ocr errors] Sem, -Mà trovare tante parti in un uomo farà cosa molto difficile.  Pub. E perciòi rari fono quei , che facciano l'uffizio loro come si richiede; contenrandoli', alcuni Padri di averly nobile sì, mà nel riinanente , come si diffe; folamente di citolo, battando loro di avere l'ombra , e non tutto l'effenziale di efia, persuadendosi , che questa possa essere sufficiente.  Sem. E come, anderebbe Gmil'educa. zione?  Pub. Quafi nella medesima maniera , che se non ci foffe chi la dirigeffe , porendo fare l'educando a fuo modo .  Mac. lo so, che dovendosi provede re un Signore di qualità dell'Ajo, furongli proposti diverli ; trà quali vi era un nobile ,'mà poco erudito; un Poera infigne ; ed un eccellente Geografo, ed Aftrologo insieme ; niuno di questi volle al suo fervigio ; ricufando il primo, per il motivo, che di nobiltà il suo figliuolo nè aveva a sufficienza ; al secondo oppose , che Aimava fi fosse potuto  trop.  U troppo divagare dal suo ufficio chi at  tendeva a comporre poemi, nè volle il che terzo, perchè dubitava che l'aveffe fated  to troppo girare colla mente, non che avendo altro , che discorrere seco, che  di cielo, e di terra: alla fine gli fu pro* posto un buono Istorico, eccellente Fi.  losofo, e Matcematico , questi disse fà al mio bisogno: perchè gli mostrerà come fi dee yiyere cogli esempi altrui, l'insegnerà a tirare le linee recte , ed a prendere col compasso le misure giuste 3 ; e lo fermo al suo fervigio,  Sem. In qual'età li dee porre sotto la cuftodia dell'Ajo l'educando?  Pub. Più prestamente, che si può.  Sem. Mà 'non sarebbe fpefa superdua questa , ponendosi in età, nella quale non è ancora capace di comprendere i buoni documenti?  Pub. Non li chiama mai spesa super, fua quella, che & fà per educare i pro· pri figliuoli, essendo ucilisfimo rinvesti. ·mento,perciocchè, acquistato che averanno elli le virtù si troveranno un gran tesoro, e non soggetto alle vicende della fortuna; ed in quella età, quantunque non comprendano i buoni documenti, nulladimeno questi in qualche parte, cominciano ad imprimerli nella loro mente oltre;di che quanto gioverà, per conoscere le inclinazioni nacive l'averli ayuci in custodia da çenerį anni?  Meç. Si disse tempo fà di uno, che gettava il danaro avendo posto l’Ajo al figliuolo di età adulta, e divenuto già alquanto vizioso, perchè non averebbe allora potuto egli più emendarlo, aven. do prelo già possesso in esso i vizj.  Pub. Questo lo credo anch'io ; per. chè le piante tenere sono quelle , che si possono piegare a proprio compiacimento, dove che le già cominciare ad assodarfi vogliono crescere co’loro di. fepti , quantunque ci si adoperi ogni in. duftria per emendarli. Quindi è che l'Ecclefiaftico al7.così ordina. Filii ribi sunt, Erudi jllos, & curva illos à pueritia illorum.  Sem.  nes  [ocr errors] Sem. Qual onorario si dee dare all' ile Ajo ?  Pub. Non ci è danaro, portandosi be  che uguagli il beneficio, ch'egli apporta , onde deefi generosamente trattare,  Mec. V'era un’mio amico', che solea dire che se avesse trovato un educatore, a suo modo , per i suoi figliuoli, non solamente lo averebbe trattato assai bene, mà di vantaggio gli averebbe anche la. sciato nn grosso legato nel suo tcftamento , per maggiormente animarlo ad impiegare ogn'industria poffibile pro de fuoi figliuoli,  Pub. Costui mostrava conoscere cer. tamente l'utile maggiore de suoi figliuoli; perchè ben comprendeva, che rimanendo dopo la sua morte efli bene educati quancunque fossero alquanto meno ricchi di beni di forcuna , sarebbe questo stato compensato dall'utile assai più riguardevole, che risultaya loro dalle virtù acquistate, posciache al pa. rere di Cicerone.Ora:pro Sexto: virtus in  [ocr errors] tempeftate fava quieta eft,lucer in tenebris , expulsa loco manet tamen, atque hş. ret in patria , Splenderque per fe semper, neque alienis unquam fordibus obfolefcit , quale sorte cerçamente non godono le richezze.  Sem. In qual modo si hanno da prevalere della loro industria, e prudenza nell'educarli?  Pub. Secondo l'età si debbono anche regolare. Nè teneri fanciulli con maniere foavi debbono insinuare loro quello, a che dicemmo essere tenuti i propri genitori, ę fucceffivamente fecondo vedranno i narurali così debbono opcrare  Som. Di quante fpecie possono essere questi naturali?  Pub. E quì presente il Dottore, che meglio di me potrà fodisfarvi ; iftruite, lo di grazia in questo brevemente e con termini chiari da capirsi da ogn'uno :  Med. Secondo la diversità de temperamenti sono varj ancora i naturali ; posciache questi da quelli in gran parta  des  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] derivano, ed effendo quattro le specie bi principali de temperameati a quattro  sorte ancora si potranno ridurre li naturali de figliuoli, cioè all'igneo , o biliofo, che dir vogliamo , al femmatico, al melanconico, o al soverchiamente allegro, detto fanguigno. Ci sono poi altre specie subalterne, che nascono dalle diverse mescolanze dei liquidi, che nella massa umorale predominano, de quali ora non ne parlo.  Sem. Per meglio distinguerli dunque i  doverebbe l'Ajo essere Medico ancora.  Med. Cimancherebbe questo d'averci anche da impazzire co'ragazzi, forse che non ci danno da fare a bastanza allora che sono infermi?  Sem. Questi naturali sono sempre uniforme in tutte l'età?  Med. Sogliono variare fpeffe volte nelle mutazioni di esse, offervandoli ciò manifeftamente. Sem. E  per quali cagioni? Med. Perchè varia la massa de Avidi, secondo che ci avanziamo nell'età  acquis  [ocr errors][ocr errors] 2 3  acquistãdo energia maggiore alcuni fer, menti col crefcere gli anni, ficcome questa si può scemare ancora accostandoci alla vecchiaja.  Sem. Come si dovrà regolare con chi è di naturale biliosoa,  Med. In quefti, per quanto si può, è sempre meglio servirsi della dolcezza ; poscia che colle afprezze maggiormente si accendono, ed allora divengono pertinaci.  Sem. E se di questa si abusaffero?  Med. Allora la dolcezza dell' Ajo dee cambiarsi in rigore per far loro conofcere , che nel mele, e nel zuccaro ancora è nascosto l'amaro.'  Pub. Di questo già raggionammo baftantemente nella paffata conferenzas istruendone i Padri, onde non stiamo.a dilungarci di vantaggio  Med. Siami permesso di aggiungere, a quanto fù detto, una mia rifeflione, ed è quefta : che le severe correzioni riescono più utili fatte a sangue freddo, canto per profitto dell'educando quanto per vantaggio dell'Ajo , che può senza ira insinuargli le sue più mafurate ammonizioni , e restano anche maggiormente iinpresse ricevute di mattina a ventre vuoto, essendo la mente anche più limpida, dove che ricevute allorche si trovano già agitati dall'errore commesso, non sono cosìcapaci di comprenderle.  Sem. Come si doverà contenere co' sanguigni.  Med. Questi sono più facili de primi ad educarli  ; perchè sogliono essere difinvolti ;basterà tenerli frenati in certi eccelli , ne quali potrebbero cadere', di soverchia allegria, e curiosità, ed avvicinandosi all'età giovenile tenerli lontani da cose veneree .  Sem. Che potrà fare il povero Ajo allor che sono grandicelli, ed averanno quei stimoli, che fanno prevaricare anche i saggi?  Medi Il miglior antidoto , che fias contro li stimoli della lussuria c, di condurre qualche volta i giovani ne noftri  Spe.  [ocr errors][ocr errors][merged small] 24  spedali , ed in tempo, che si faccias qualche amputazione di parti genitali putrefatte, a cagione del morbo gallico: e cercamente induce loro tale spavento sì crudele spettacolo, che si sono alcuni di questi spogliati affatto di fimili pensieri, per l'orrore conceputo allorchè udirono, che da donne era ve. nuto quel tanto male, e che per esse conveniva soffirire sì atroce tormento di ferro, e di fuoco, e di vantaggio di non essere più uomo.  Sem. Ec i malinconici come vanno trattati?  Med. Questi appunto sono quelli , che fanno fofpirare non solamente i poveri Aji, mà ancora noi quando essi sono malati; perchè hanno un naturale stravagantissimo, é maggiormente fe regierà in elli qualche porzione di umore chiamato atrabilare : bene è vero però, che nell'età tenera non hà tal'umore. quella energia, che si manifesta colcrefcere essi negli anni, e questi ò danno al byono, e divengono eroi, ò al pessimo ,  elo.  [ocr errors] [ocr errors] e sono molto iniqui, e perversi; debmit bonsi dunque con grande industria  queili  fti trattare, e senza usar loro molta vios  lenza, e più coll'affiduirà , e colli efemin pj fatti da lor medesimi leggere, o rifei riti di persone viventi da loro cono, of sciute, che con aspre sferzate;debbonsi  anche tenere divertiti, & applicaci a più cose, alle quali abbiano genio.  Sem. Come divertiti, & applicati, parendo queste cose contrarie  Med. Divertiti, dico, con far loro prendere aria amena , conducendoliins  villa più frequentemente degli altri, & i applicati alle volte a cose diverse dallo studio, come farebbe il suono, il  quale se sarà di loro genio li può tenere lontani da que pensieri tetri, che occupa  no continuamente le loro menti; ma di o questo converrà discorrerne più diffusamente a suo tempo.  Pub. Egliflemmatici come van regolati ?  Med. Questi sono quelli, che se non faranno onore all'Ajo gli recano almeno  poo  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] pochi travagli; perchè fogliono essere pacifici, e tardi d'ingegno: Ben'è vero però, che nelle mutazioni dell'età sogliono alle volte sciogliersi, e divenire un poco più spiritosi, e fare ancora com  petente riuscita.  [ocr errors] Sem. Come suole essere, Publio, di profitto l’Ajo, facendo anche da Maeftro, nelle scienze ?  Pub. Se terrà lo stile praticato da Mae. Ari, riuscirà egregiamente come dicemmo ; ma se vorrà poi insegnare colla medesima maniera le scienze, che insinua il buon costume,anderà tutto peffimamente.  Sem. E perchè  Pub. Lo stile tenuto dagli Aji in istruire nel buon costume è d' infingare tutto in voce, il quale nulla giova per fare loro apprendere con fondamento le frienze ; perchè queste sarebbero superficialmente adattate , & à quella guifas appunto, che G soprapone loro ridotto in fogli al legno, il quale col tempo di. sperdendol rimane legno ciò, che mo.  Atraa  [ocr errors] tre ftrava di essere oro, dove che il Maes po stro, professore esperto, procura d'in=  finuarle nella mente colle sue regole, e collo scritto, affinche abbia pronto il comodo di ricordarli di quello , che si  fosse mai dimenticato. G Mec. Ora comprendo da che fia  pros ceduto, che viaggiando molti anni fono udj in una Città discorrere alcuni giovani co molto spirito in ogni scienza, i quali per essere di poca età mi recarono ammirazione ; ma avendo avuto curiosità alcuni anni dapoi di sapere se profitto maggiore avessero farto, mi fu risposto, che avevano più tosto deterio.  rato; bisogna dunque che il loro Ajo gli de aveffe istruiti a braccia , e non con fon10 damento.  Pub. Nerone, che fu istruito da Seneca in questa guisa, fece alla prima las < sua bella comparsa, ma terminò poi u peffimamente.    Sem. L'autorità dell' Ajo sin dove fi  Atende?    Pub. Tanto'oltre, quanto quella del Padre,dovendo essere amplifima, a fine che f. rendano ossequioli, & obedienti ad effo,  Mec. Le Madri però sono quelle, che procurano di ristrignerla,imponendo loro, che non li gastighino, nè li sgridino, ma che li compatiscano se non si approfittano de’loro documenti; e questo lo fanno per rimore, che non fiammalina, e bene spesso,per questo timore di male ideale , ne nasce il certo male della possima educazione loro ; perchè per non disgustarle gli Aji fanno a lor modo, comportando quanti difetti efG hanno: le saggie madri però lasciano che li gastighino ad arbitrio loro, eli correggano secondo il bisogno , conoscendo queste per isperienza, quello che per dottrina ancora conobbe Salomone al prover. 22.  ftultitia colligata eft in corde pueri, d virga disciplina fugabit Cam •  Sem. Debbono usare distinzione alcu, na in questo, secondo l'erà ? Pub. Essendo l'Ajo prudente saprà re.  go:  ne  [ocr errors] golarsi anche in questo , & accomoderă i il gastigo secondo l'erà, econ quei mo.  di, che conoscerà effere all'educando più sensibili ; per esempio se lo scorgessc goloso, il fargli sottrarre qualche pietanza in tavola gli sarà di gran gastigo ; se giocoliero, togliendoli quell'ora di divertimento, lo toccherà lül vivo; e fe averà un certo roffore in sentirsi sgridare, questo sarà appunto l'opportuno suo gastigo ; in somma il migliore sarà quel. lo, che si renderà più sensibile.  Sem. Può l’Ajo per qualche suo af. 1 fare allontanarsi da effo ?  Pub. Per quanto meno farà possibilu dee farlo; perche non mancano scelerati adulatori, i quali, per guadagnarsi la grazia de padroni giovani,infinuano loro ciò , che può dilettarli , quantun. que lia pregiudiziale, e per ciò se mai doveffe allontanarsi da effo per qualche tempo, dee avere di chi possa fidarsi in sua assenza .  Sem.E qual sorta di divertimento deb, bono permettere loro?  [ocr errors] [ocr errors] Pub,  :: Pub. Tutti quelli, che non sono viziofi, e fono ad esli geniali, per esempio il giuoco delle boccie, della palla, del volanıę, ed altri, anche più laboriosi di questi, competenti alla loro età.  Sem. Nel tempo che sono direrti li fi. gliuoli dall’Ajo possono i Padri educarli ancor effi?  Pub. Se saranno capaci di uniformarfi alle buone direzioni dell'Ajo, pofranno qualche cosa contribuire ancor essi, L'incombenza loro però è di offeryare qual profitco facciano, e di sentirne anche il parere di più persone capaci sopra i loro buoni progrefli , esaminati che li averanno; per altro scorgendo, che yą. da tutto a lyo dovere non debbono con fondere i figliuoli con documenti diffc. reori, ne contristare l? Ajo con varjare il loro metodo; bafterà la loro vigilante  Lopraintendenza ; mà muta quando non vogliano come doverebbero, effimedelimi in tutto instruirli.  Sem. Bramerei ora sapere le condi. zioni che doyerà avere un ottimo Mae. Aro  Pub.  [ocr errors][merged small] [ocr errors] 101  Pub. In primo luogo dev'essere di via ta esemplare, dotto , c prudeme , siccodel me è necessario ancora, che abbia buo  na comunicativa, per farsi ben capire,  fia sostenuto, diligente, e si sappia far 1 amare, e temere, e sia anche pratico  delle tristizie de figliuoli, per non farq gabbare da effi.  Sem. Trovandogi un uomo di tante buone qualità potrebbe anche servire I per maestro di casa, ed elascore nelme,  desimo tempo; perchè facendosi ben ca. pire, indurrebbe più facilmente i debi,  tori a pagare ciò, che debbono particos e larmente ora, che sono tanto renitenti di farlo,  Med. Questo e uno degli errori mal. fimis perch'essendo talunò ottimo per un impiego 2 con darglicne tanti fi fa in modo , che divenga trascurato in tutti; essendo grito quel detto; Pluribus intentus minor eft ad fingula fenfus. Or io coftumo questo s chi mi serve., faccia solamente l'ufficio suo ; perchè considero,' che non sia poco,che li riesca in una sola  cosa,  cosa, ed ho provato con isperienza, che se taluno procura ingerirsi in più, confondendole tutte , ne pur una ne farà bene.  Pub. Voi Sempronio vi figurate, che fia picciolo affare l'insegnare a figliuoli le dottrine , e ben picciolo il generarli, mà non già il farli divenire uomini eccellenti; perchè in un istante si generano, e con poca fatica , mà per bene addottrinarli non solamente vi è duopo di molti anni, mà ancora di attenta , ed induftriosa applicazione . Per abbozzare una statua ci vuole poco, mà per ridurla a somma perfezzione numero infinito di sealpellate di più ci vogliono; C riflettendo voi al valore della statuas abbozzata, ed a quello della ridotta a perfezione, ben comprenderete il van. tagio di più che ne ricaveranno i vostri figliuoli dal Maestro, che istruisce con profitto.  Sem. Io lo dicca a buon fine ; perchè risparmiandosi qualcheservitore,mi riufciva più comodo di fargli un buono af4 fegnamento , acciochè viveffe contea. to.  Pub. Glie lo dovete fare senza accrom (cergli maggiori brighe, se bramare, to che la statua da voi abbozzata abbia iti ma , e valore grande,  Mec. Veramente in quei casi conviene deporre l'avarizia', ed ogni parkmonia ; e non fare come quel Padre sciocco riferito da Plutarco, che domandando ad Aristippo ; quanto paga. mento ricercava per ammaestrare il suo figliuolo, udendo domandare inillo dramme rispose ; questo è troppo ; perchè con mille dramme potrei comperarç  un servo; çoi saggiamente replicò: duna que averai due servi, tuo figliuolo, e  e quello, che comprerąi: facendogli conoscere, che se non era bene ammacftrato, sarebbe diyenuto un servo il fuo figliuolo ancora.  Sem, Quale farà l'incombenza del Macftro?  Pub. Gjà per quanto appartiene al co. fune seguirerà quello, che si è detto  CON  [ocr errors] Аа  1  con cominciare prima da Dio ;' nel rima, nente poi lasciate pensare ad esso, per; che avendolo scelto pratico, e dotto faprà secondo l'età, e capacità andarlo itruendo come fi dee: bensi voi di. chiaratevi apertamente com voftri fi, gliuoli alla sua presenza , che volete,che lo ftimino, ed obbediscano da Padre, con dargli ogni più ampla facoltà di cor.  eggerli, e gaftigarli severamente in ralo di bisogno; perchè bramare di riconofcere per figliyoli solamente quei , che studieranno, e faranno passata nelle ccienze 1 Mec. Quanto fu mai eroico l'atto, che fece l'Imperatore Teodosio ; impercioche avendo scelto Arsenio per Maestro del fuo figlinolo, ed avendogli detto; Pofthac tu magis pater ejus quam ego, come riferisce il Baronio all’A.380-avvenne un giorno, che passando Teodo, 'fio per la camera, oye Arsenio faceva la repetizione a suo figliuolo, osservò , che il Maestro fe ne stava in piedi, e lo [colaro affifos ne bo potè coptcnere di  non  [ocr errors][ocr errors] non dimostrare ad Arsenio il suo dispia çimento ; veramente gli disse ini avvcdo, che voi non sapere far bene il vo. ftro uffizio ; tenete, tenere il grado di Maestro, e non di scolaro : Sagra Mac fta , replicò Arsenio, non sarebbe punto convenevole, che io mi ponelli a se. dere per dar la lezzione ad un Imperatore; ciò udito Teodofio tolfe la Coro, na di capo al suofigliuolo,c comando ad Arsenio , che fedesse ; & ad Arcadio suo  figliuolo, che stasse in piedi colla testad á scoperta, fin tanto che il Maçstro gli parlaffe ,  Sem. E se non faceffero tutto quello i profitto, che io defiderasli, che averò el da fare?  Pub, Vedere, Sempronio, parliamo chiaro, i Padri yorrebbero dopci in bre. yiflimo tempo  i loro figliuoli, onde in quefto non abbiate tanta fretta, lasciateci porre il sempo neceffario per impof  sessarsi bene; må se poi vi accorgette, nel che oon dare tempo al tempo non li apejet profitrassero, doveţe esaminare d'onds  A a 7  prox  ,  [ocr errors] erro  [ocr errors] [ocr errors] provenga la cagione, e se saranno più Hgliuoli, vedendo , che taluno di edi li  di approfittaffe, e gli altri rimanessero indietro, la colpa non sarebbe del MaeItro, ma bensi dei figliuoli, e che non applicassero, o che non fossero di mente ancor capace di apprendere. * Sem. E se la cagione venisse dal Mae. Itro, che fosse disapplicato , contenzio, so, o troppo bestiale ?  Pub. E'voi trovarene un'altro į mas non date fede loro alla prima ; perchè dopo , che averanno ricevuto il gastigo verranno a piangere da voi, el dole.  che il Maestro fia bestiale; ma non diranno già la cagione giusta; per çui li ha gastigati; ed in questo caso avvertite a non dar mai ragione a loro trovandosi presenti,anzicon volto afpro sgridageli , e dite loro che lo averanno meritato : informatevi però bene come è andato il fatto , per ritrovare la verità.  Sem. Ma venendo per colpa de figliuoli che averà da fare?  Pub,  ranno,  Pub. Se saranno disapplicati, vedete ancor voi di usarci diligenza , con promettere loro premi per animarli ad essere più attenti ; e fe poi venisse dall'incapacità in qualcuno, bisogna averci pazienza; e rimirate le dita delle vostre mani, che ancor’esse non sono uguali , e pur la mano turta insieme fa l'uffizio suo; così parimente sarà la figliolanza, quando venga secondo la sua capacità impiegata bene.  Sem. Dolendosi il Maestro di questo, e dichiarandosi di non poterci aver più pazienza?  Pub. Confolatelo, & animatelo ad averci ancor effo pazienza, conforme conviene, che P abbiate ancor voi  Mec. Si doleano con Antipatro i MaeAtri, che i suoi figliuoli non volevano per tante fatiche, e diligenze usate loro , approfittarsi punto dei loro documenti, e per consolarli egli dicevan che vi era un paese nel mondo, ove le parole si gelayano in tempo di verno appena uscite dalla bocca, a cagione digio  freddi ecceffivi, che le racchiudevano nell'aria, ma appena comparfa la primavera,fgelandoli queste allora si udivano.. Non dubitate , diceva loro » che verrà ancora in essi la primavera ; ed alloras queste parole, che odon'ora da voi , fi Igeleranno ancor effe; continuate pura parfare , per  , per uđitne all'ora di vantago Sem. Dovero comparire nel cempo , che si fa scuola?  Pub. Anche, frequentemente s per ve. dere che si fa, per aninarli insieme a portarfi bene, c tenerli in freno.  Sim. Stimate neceffario ohre di tea net loro il Maestro di mandarli alle fouo: le publiche?  Pub. Per godere di quei vantaggi, che apporta l'emuluzione può essere utile : debbonfi però avvertire due cofe; la prima , che vadano sempre accompa. gnati dal reperirore, perchè del fetvis rore in curto non vi dovete fidare, poa tendolo indurre fare a lor modo:Pal. tra poi che fixno vicini in feuola a come  pa  [ocr errors][ocr errors] mpagni bene accostumati, perchè ivi po.  trebbero divenire maliziosi trattando  con carrivi. eri  Mec. Bisogna ancora stare molto cau., telato nello scegliere questi reperitori, detçi comunemente Pedanti, perchè  vi è stato tra esfi cal’uno, che insegnaya of  a' figliuoli il fare la fabbatina , il giuoco delle carte, & altri vizj in vece delle virtù; e vi è stato chi di questi ancora così iniquo , che ha  procurato, che abbandonaffe il figliuolo la casa paterna , dopo d'ayer rubaro al Padre qualche fomma di danaro considerabile, e seco conducendolo fuori di stato , per ispre. garla. Onde se non si sappia che siano di ottimi costumi, non debbonli consesgnare ad effi i propri figliuoli, per non ricevere quella riprensione, che fece Diogenç Sinopio a quei di Megara, dicendo loro, come riferisce Eliano, che fi contentava di essere più rosto un ariete della lor mandria, che loro figliuolo, perchè a custodire quello impiegavano uomini fedelilimi, & ad iftruire questi  ripų  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] A a 4  riputavano abile chiunque fi folfe loro abbattuto dinanzi.  Sem. E le figliuole fi debbono regola. re nella medesima forma? :)  Pub. In alcune cose non vanno regolate così, conforme udirete nella seguente Conferenza.  w  CON  [ocr errors][merged small][merged small][merged small] Semn.  He differenza cie  tra l'educazione dei С  figliuoli, e quella delle figliuole ?  Pub. Primieramen:  te, che queste,non dovendosi incamminare per la via delles fcienze , non hanno d'uopo di tanti maeftri; e poi essendo diverli i loro vizj, e naturali inclinazioni,debbonsi quefticon differenti manicre correggere ,  Sem. ' quali sono questi vizj delle figliuole  22 Pub. La vanità par che nasca con lo ro, quçfta opera, che moltissime di  effe  [ocr errors] cffe sino dalla nascital  par  che mostrino compiacimento in fegtir lodare la loro bellezza : ha poi la maggior parte di cffe, un certo difpreggio, il quale viene da alcuni creduto per vivacità di fpirito; altre poi fin d'allora moftransi vezzofe, e molto affabili; e vi sono ancora di quelle, le quali danno a divede. re appena nate la loro dispettosa rozzez. za , contrafegni tutti non leggieri di ciò, che possa nell'età pid avanzata ope. rare la loro naturale inclinazione.  Sem. Di correggere tali difetti cui partiene principalmente  * Pub. Alle Madri, che con affiduità amorosa aflifton loro ; dovendo i Padri portarsi giornalmente fuori di casa per affari, che li tengono alle volte lungo tempo occupati; c quefte avendo bisogno di una affidua cuftodia da niuno meglio, che dalle Madrila poffono riccvc, re: debbono però i Padri per quaaco fa. rà perineslo lorosinvigilarci attenicamene te anch'effi. Sem. Che dovranno fare le Madri in quella tenera età, nella quale ne put capiscono ciò che loro si dice?  Pub. Poffono far tholco, con impea dire ancora, che non rimirino , ed odino ciò che non è convenevole; perchè quello, che mostrano inclinazione alla vanità; non bisogna cominciare ad ornarle vanamente, pe å far loro certi ýczzi disdicevoli, perchè s'imprimono quelle vanità, e quegli atti con facilità grande in si tenera età; quelle bensi che mostrano dispettosa rozzezza pof. fono follorarli con fimili vezzi  per  inco minciare a poco y a poco a renderle più  [ocr errors][ocr errors] umane.  [ocr errors] Sem. E di poi cominciando a capire , che dovrà farsi?  Pub. Allora farà tempo d'incomina ciare a far loro apprendere , che la bela lezza della donna non confiste ja altro che nella bontà de'coftumi.  Sem. Oh capiranno beneche cosa dano costumi le picciole figliaole?  Pub. Non importa, perchè quantunque allora pon lo capiscano, nulladime  nos  [ocr errors][ocr errors] no ,  effe continuando ad udirlo a fuo tempo ben lo comprenderanno; basta che allora non si secondino le innate inclinazioni loro viziose.  Sem. Mà fe la Madre avesse compiacimento di essere stimata bella, c fpiritofa, e forse anche vana , come potrà istruire la sua figliuola diversamente da sè medesima, e che non abbia da compiacerli anch'essa di ciò ?  Pub. Ora entriamo nei guai grandi, perchè se la Madre non diriggerà bene tal affire, l'educazione anderà pellina  menic.  Sem. In questo caso che dovrà farsi?  Pub. Quello appunto, che fù da me praticato, di provederli d'una buona matrona ; e se questa fù utile alla mia famiglia, essendovi la Madre capace, evigilance,  ; quanto più sarà geceffaria in questo caso, che voi mi rappresentare ?  Sem. Lo credo anch'io; dunque essendo duopo provedersi della matrona, ditemi quai requisiti dovrà avere per far bene l'uffizio fuo ; perchè essendog  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] dismesso questo buon servigio, non si potranno trovare con facilità quelle , che siano esperte.  Pub. Non dev' essere giovane , nè vecchia , mà di età conlistence,  Sem. Perchè non vecchia , pocendo quest' avere maggiore sperienza del mondo?  Pub. E vero , mà la vecchiaja ancora la può rendere più fastidiosa , e meno attenta : e poi se dovrà cuftodire le vostre figliuole, che hanno da nascere, chi sà se fosse allor viva ; e vivendo farebbo decrepita , quale età non lega.molto colla gioventù, e perciò non sarebbe ad effe accetta,dec ancora essere di buo. ni costumi, e pia,di parentato civile, ed onoraco , prudente , discreca, attenta, affezzionata', che sappia ben cucire di bianco , leggere , fcrivere mediocres mente, e che non sia curiosa di leggere: libri profani, e lascivi. p9  Sem. O che mal farebbe, se leggere ancora l'istorie profane, potcado fervire si di effe per meglio iftruirlo?  Pub,  -1  Pub. Le storie profane non tutge conferiscono alla buona educazione, el, fondovene alcune molto nocive ad essą come già dicemmo, onde chi sà, che prendendo diļetto in udirne riferire alGuna di queste, non prendessero amo, re anche l'educande a simile lectura  Sem. E se sapesse la lingua francese , o spagnuola, non sarebbe maggior van taggio , per insegnare loro quel parla. xe , che oggidi è tanto in uso ::Pub. Che pretendete ? forse di mari, farle in Francia, o in Ispagna ?  Sem. Non lo dico per questo fine, mà veáendo qualche lignora di quei paeli , o trovandoli con alcuna , che la parlasse, sarebbe da esse capita, e por trebbero risponderle.  Pub, Voi vorreft'educare le vostre fi, gliuole per far pompa del loro spirito , e non vi accorgete, che quefta non è la sua strada; e qual nccefficà avete,cheessa converfino , e tratejno con gence ftraniera s volere forse, che apprendano į cofumi loro diffepsadi dai noftri?  Sem,  [ocr errors] [ocr errors] GB  [ocr errors][ocr errors] Sem. Non bramo quefto, mà hò sentito dire , che sia vantaggio grandes e l'avvezzarle disinvolte, e spiricosc, perchè più facilmente fi maritano queste,  Pab. Voi prendereste moglie di spiritofa, e disinvolta  Şem. Io non già, ora chc sò come debi ba sceglierli.  Pub. E perchè dunque volete incam, minare le vostre figlie per una yia , che voi la ftimate non recta e non vi avve, dere , che in ţal guisa mostrarefte di amarle poco a  Sem. Il saper ricamare ancora mi per, suado, che la requisto necessario nella matrona :  i Pub. Per far che ? per educarle forse nella vanità e non sapete, che cosi fa comincia bel bello ; posciache dalla sem ta fi paffa al’oro, e dall'oro alle perle  per formarne ricami di gran valore.Cor. 4, nelia madre dei Gracchi fe conoscere  a quella gentildonna Capuana, la quale 0  era alloggiata in sua cafa, allorchè moArolle i ricami ida effa farsi,per mio fvario.  bano essere i layori delle Madri, con farde yeder i suoi figliuoli, ed in qual forma da effa fi aducavano, che non era già nelle vanità, mà bensì nelle virtù .  Sem. Bramerei almeno , che sapesse insegnar loro un poco fuono, e di canto,  Pub. Questo poi sarebbe peggio, per: che l'educherebbe cantarine, & im. parandolo per vostro syario, non lo di fimparerebbero già, per non dilectare an, che gl'altri.  sem. Contenendom’io in questo vo. fro antico rigore mi farefte mutare il mondo.  Pub. Io non pretendo tanto : voi mi vichiedere del regolamento della vostra cafa ;c chcaforse pretendece che da queta debba prendere la norma tutto il mondo a facciano gli altri ciò che vogliono , mi basterebbe di ottenere, che voi, che ricercate il mio parere appren. deste ciò, che dovrete fare,  Sem. Io resto perfuafiffimo di quanto dite per benefizio mio, ma sifetto añ,  cora  [ocr errors][ocr errors] cora nel medefimo tempo a quello , che li il mondo dirà, operando diversamente  da quanto ora li costuma dalla maggior parte .  Pub. Qual parte del mondo stimate voi, che sia più saggia, la maggiore, o la minore?  Sem. Ho udito sempre dire, che sia la minore,  Pub. Or dunque; perchè da voi medelimo volete porvi nel numero de i meno saggi? deh seguitate la più sana , e non vi prendere fastidio alcuno dell' altra , quantunque sia più numerosa :  prendete di grazia la mira verso quò eundi dum, non quò itur.  Sem. Rimango persuaso, e quanto m'insegnafte voglio risolutamente fare. Or ditemi per mia istruzione ; scelto che averò questa matrona , della quale voglio provedermi prima di prendere moglie, che averò da fare io, e qual' incumbenza apparrerrà ad essa ?  Pub. Voi, allor che le consegneretç la vostra figliolanza, le direte: che Bb  fia  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] lia cura sua d'istruirla principalmente nella pietà , e devozione, e che rimuova da essa tutti i difetti allorche li ye desse comparire , senza indugiarvi un momento ; anzi che meglio farebbe an. cora, se preveniffc al bisogno con semi, narę anticipatamente ne’loro animili preziosa semenza delle virtù, e che per questo procuri di non perder la mai di vifta : e vedendo ch'ella li porti diligen. te nel suo uffizio usatele più gratitudine, affinche non habbia da parerle penosas quella vita tanto soggetta, che farà ; e credetemi, che il premio è il maggiore incentivo a farci fare con amore quelle cose, che senza di esso ci parrebbono molto penose.  Mec. Questo è certiffimo, posciache chi mai li porterebbe il primo a scalare una muraglia, difesa da tanti nemici are mati, se non se {perasse da questo un premio grande ?  Sem. Fatto che avrò le mie parti, in che forma essa adempirà le sue ? Pub.. Nato che sarà alcuno de' vo  [merged small][ocr errors][ocr errors] ftri figliuoli, principierà il suo minister ro con invigilare, venendo lattato,dal...  la balia, a quanto sara necessario, con i fare anche da soprabbalia , nè permetteo ra già, come dicemmo, chc oda,quan  tunque non le comprenda ancora , cer, i te canzone amorose, nè pure, che fifli  i suoi occhi innocenti a'rimirare certi datti scomposti, & indecenti; perchè  quantunque non siano allora da esso conosciuti per quel che sono , nulla dime, no in progresso di tempo, conforme fi apprendono le parole, così ancora può  insinuarsi nell'animo qualche cintura noSeminaciva di tali difetti; e procurando, che D in vece di quelle oda, e rimiri cose  profittevoli,cd oneste, delle quali se ne i apprenderà alcuna particella, resterà  questa a benefizio dell'educazione, e i procurerà ancora nel tempo della lacta  zione colle buone sue maniere , di prin-  cipiare ad affezionarselo.    Sem. Che dovrà fare dipoi ?   Pub. Già toccherà ad effa slattarlo, e * si perderà il sonno più di una notte. B b 2  Sem,  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] liri  Sem. Sarà bene, acciocche non lo perdiamo anche noi, di tenerlo in qualche mezanino lontano dalle nostre stanze,  Mec. Per questa cagione sono andato io più volte in collera co i miei amici , avendo osservato lontani dal loro appartamento i figliuoli anche lattanti,per timore, come dicean'o , che non turbarsero il loro riposo, e diceva loro: pere dete pur tanto tempo, e vegliate tanto per il giuoco, e continue conversazioni, oh bene non potete vegliare un poco pe’ vostri figliuoli? E se non lo volece perdere voi, cui tanto debbono premere , vi persuadete forse, che le donne mercenarie di servigio vorranno perdere il fonno? Dormiranno ben bene, e lasciefanno piangere chi vuole; ma da questo quanti mali ne saranno seguiti lo faprà meglio il Dottore.  Med. lo dalle offervazioni fatte sono arrivato a conoscere questa verità ; che più fortunati siano nel mascere, e nel imorire i poveri, che i ricchi; perchè quelli dalle proprie Madri sono lattaţi, eand custoditi diligentemente con amore;docal ve che questi sono consegnati alla indi  screta servitù, e trattati assai diversadai mente in tutto ; e posso riferire a que  fto proposito di averne curati alcuni,che caduti dal letto, per trascuraggine del. le balie , ebbero a perdervi la vita , ed altri, per il gran pianto fi allentarono , negando cal volta loro il latte le balie, allorche ne avevano bisogno; e per avere loro ripercosso secretamente il lat. time, quanti ne sono periti? Giccome ancora quanti ne sono morti af gati per averli tenuti negligentemente nel proprio letto ? avvenimenti tutti, che afa sai più di rado G odono accaduti tra po  veri , quantunque questi siano assai i più numerosi, che i bene stanti. Della  morte dei ricchi non parlo, perchè ave. rete uoi medesimo osservato questi, be  ne spesso, per li soverchi, e conculcati : rimedj, dati loro, più facilmente , che  i poveri perire, & alle volte in mano de  Ciarlatani.    Pub, Se voi dunque avercte amore   per  [ocr errors][ocr errors] Bb 3  per i vostri figliuoli non li terrete lontaa ni dalle vostre stanze in ogni tempo per. che tal vicinanza darà stimolo maggiore alla matrona di avere per loro più attenzione , & all'altre donne di fare me . glio il loro uffizio.  Sem. Riferitemi ora il modo, che doverà tenere in appresso per conoscere meglio s'ella, operi a suo dovere?  Pub. Già fu discorso, ma non sarà mai a bastanza, di quello, che dovrå farli intorno ad imbeverarli ben bene del fan. to cimor di Dio, e crediate pure per cofa certa, che questo è il fondamento principale della buona educazione; efsendo esso solamente capace di rimuovere tutti i vizj, non porendo questi far breccia ove si ricrova benradicato: è vero però, che questo feme santo noni basta piantarlo solamence, na decli col. rivare sempre con atrenzione, e fervore, acciocche non perisca, essendo che a poco a poco germoglia ne teneri par. goletti, ed in questo doverete aricor voi invigilarvi. In seguela poi dovrà,  appe  19  and appena che le figliuole faranno capa.  ci, tenerle impiegate ad apprendere qualche lavoro di quei necessarj a saperG dalle donne, che sono il cucire , far calzerte, cessere, e filare, e questi disporli secondo l'ctà, e capacità loro : nel medesimo tempo impareranno a leggere, e di poi a scrivere, e questa sarà l'incumbenza , che dovrà avere intorno al lavoro,  Sem. O ben le donne civili, e nobili averaono da teffere, e filare che han. no forse da procacciarsi il vitto con que. fti lavori  Mer. Intorno al filare non avete occasione di risentirvene, perchè è torna, ta l'usanza di farlo ; non sò però se per bizzarria, o per profitto ; averere pur veduto, Sempronio, nelle case civili conocchie sì ben fatre , che fanno venire la voglia di adoperarle anche a noi al. tri uomini.  Sem. Queste le ho veduce certamente, ma però stare oziose, onde mi perfyadeva, che fossero state fatte per col  locarle dentro i loro scarabattoli nonri: mirandole punto adoperate .  Mer. Nonaveranno filato in presenza vostra, perchè non avendo voi moglie non era tempo ancora, the imparaste a filare alla moda.  Pub. Le caste donzelle in questo s'im: piegavano anticamente, e tralasciando di riferire, che lo facessero Penelope, Lucrezia , & infinite Matrone Romane; Alffeandro Magno fi vestiva co gli abiti teffuti dalle fue Sorelle, come racconka Curzio ; & Augusto non portò già altri abiti , che quelli, che dalla sua Moglie, Figliuola , e Nepoti erangli ftati fatti, come riferifce Svetonio: Onde se no li vergognavano queste di farlo, per qual motivo potranno aftenersene le tanto inferiori ad effe ?  Sem. Ma fe non avessero genio di fardo , tanto più non vedendolo praticarea alle Madri?  Pub. Questo genio può farfi venire con riferir loro qualche bell'esempio, & appunto de racconta uno il Surio nel di  fe  fecondo di Maggio, che se coinincies ranno a gustare le cose di Dio sarebbe assal a propogto: dice dunqu'egli, che andando S. Antonino Arcivescovo di Firenze, per una contrada di qite!la città vide un buon numero di Angeli, che  formavano come un corpo di guardias e sopra il tetto di una povera časa ; li ven  , ne in pensiere di catrarvi, e di riconoscere l'occasionc y per cui meritava canto favore da Dio; non vi trovò, che und Madre con tre sue figliuole , le quali filavano per guadagnarsi un poco di pane, e stavano con gran modestia : vedendo il Santo il bisogno , che avevano, fc loa to una buona limosina :-Dopo qualche tempo ripassando per la medesima strada vide, che la stessa casa era ricoperta di piccioli folletti, armati di tutti quei stromenti, che fogliono portare li dediti alla libertà del mondo : entrò, evide le medesime, che passavano il tempo a ridere, scherzare', e motteggiare , e fare le belle: Riferito questo, si poa trebbe soggiungere loro, che se Iddiogradisce canto il non stare in ozio in quelle, che sono miferabili, quanto più lo gradirà in effe, che spontaneamente, e fenza bisogno alcuno lo fanno e credetemi, che non mancano modi per fare applicare le figliuole, effen. do queste più docili demaschi.  Sem. Oltre il lavoro, che averanno da fare di vantaggio ?  Pub. In tutte le cose deve esservi la buona ordinanza, la quale tutta dcpende dal sapersi ben compartire il tempo , onde queste essendo pratiche divideráno Je ore def giorno in questa guisa ; la pri. ma della mattina , dette che saranno le figliuole, e veftite di tutto punto, sarà impiegata al servigio di Dio con fare orazione, o sentire qualche cosa di quanto esso vuole da noi; ciò fatto dcefi ristorare colla colazione moderata il corpo, per poi passare quelle ore de. ftinate al lavoro; e terminate queste , conviene di fare alquanto esercitare il corpo in cose non violence, e permettendolo il tempo, in aria con affatto  [ocr errors] rac  [ocr errors] .. 395 K tacchiusa. Avvicinandosi poscia l'oras  del definare converrà prendersi il nutrimento a proporzione dell'età, e poi dopo di questo è neceffario godere alquan. to di riposo, per potere alle ore destitiate tornare al solito lavoro.  Sem. Sino a qual'età possono i maschi ftare sotto la custodia della matrona?  Pub. Fin tanto appunto, che, cono. scendo le lettere dell'alfabeto, possono consegnarli al Maestro, per tenerli in quelle ore , che dovrà far egli scuola fotto la sua custodia; ben è vero peròs che non essendovi l’Ajo,possono ritornare, per quelle ore, destinate al diverti  mento, sotto la cuftodia della medelima $ matroni.  Semi. Nascendo tra fratelli, e sorelle qualche contrasto come doverå regolarli la marrona?  Pub. Sogliono i fanciulli vivaci essere molesti alle forelle, e da ciò ne nascono bene spesso trà loro reciproche aleercam zioni, mà se la matronal manterrå fotenuta a segno, che non pregdano les  [ocr errors][ocr errors] confidenza , avendone rimore di essa, difficilmente si avanzeranno a contendere tra loro, ma caso che la sua efficacia non bastasse,dee di ciò farne consapevole il Padre, o il Maestro , affinchè pensano a prendervi il più opportuno rimedio con tenerli separati. .  Sem. Crescendo le figliuole in età, e scoprendosi in esse qualche differto donnesco, come li dovrà regolare la matrona per estirparlo?  Pub. Non aspetterà quefta , essendo prudente, che giungano fimili diffetti a manifestarsi ; perchè come dicemmo procurerà con preventivi ripari di ab. batterli prima che si manifestino.  Sem. Venendo le figliuole negli anni , ne' quali sogliono alcune cominciare a contristarsi, e fofpirare, che averà da fam rela matrona?  Pub. Le figliuole ben' educate difficilmente cadono in fimili debolezze; ma quando mai ciò seguisse in alcuna, alJora si conoscerà il senno, e la prudenza della matrona; posciachè si saprà inters  !  [ocr errors] e nare nella sua confidenza per consigliarl  a far cose non disdicevoli alla sua condi* zione,ed a lasciarsi regolare dal suo amo.  roso Padre. 3 Sem. Ma non sarebbe meglio, quan.  do si vedellero contristate, porle in monastero per compire l'educazione?  Pub. Se sarete sicuro , che colà possano vivere con più ritiratezza, che in casa vostra , ed abbiano migliori direttrici cui dia l'animo di calinare le loro passioni, potrebbe farsi ; mà se poi vivessero con libertà maggiore, qual vantaggio ne ricaverebbero ?  Sem. Vivono colà tanto ritirate, che la porta di rado si apre; ne viene permefso l'ingresso libero ad alcuno.  Pub. Qucfto non basta se gli occhi, c le orecchie staranno maggiormente aperte; perche per esse po lono entrare le cagioni de' sospiri: e poi voi, Sempronio,mostrate di non fidarvi della voftra matrona , la quale totalmente dipende da voi, enon diffidate punto di tanţe servenci de’monafterj, sopra le qua;  [ocr errors] di autorità niuna yoi avere.  Sem. Sarà ben vigilante in questo chi averà cura dell'Educayde,  Pub. Voi y’ingánate$épronio, se crede, te,che l'altrui vigilanza superi quella de genitori attenti , e capaci : onde mi perJuado , che nella casa paterna queste ftiano meglio , che altrove,  Mec. Voi dite bene,Publio , che fiee te capace di custodirle come li dee, mà datemi un Padre, ed una Madre, che ad ogn'altro pensino, che all'educazione delle figliuole , e tanto maggiormente se non averanno una tale donna capace , e fedele a ben diriggerle, o saranno prive di Madre, la sola casa pater. na sarà sufficiente a custodirle?  Pub. Credo certamente di no.  Mec. Or dunque, che fi hà da fare in questo caso per non lasciarle a discrezio. ne dell'infida servitù ? o bisognerà, chę qualche faggia parente la conduca in casa sua, o porle in monasterio , sotto Ja direzione di saggia Maestra, Pub. Non è questo il rimedio appro;od  [ocr errors][ocr errors] priato al loro male, che congste in una gran passione , la quale non si : può rimovere da esse senza cósolarle.Ne  certamente si cureranno già di ricevere i queste in casa loro le saggie parenti : e  ricevendole le imprudenti qual vantaggio ne potreste Iperare ? E ponendole in monaftcro sotto la cura di faggiaMaestra  qual bene potranno ricevere da essa ef$ sendo tra loro discordanti di genio ? fa  rebbe più capace tal una di queste di sedurre altre compagne,a far che si unifor  massero al suo genio , più tosto, che di u mutarlo; onde nè ad esse, nè al monastero oi tornerebbe conto , che vi entrassero, 1 Intorno poi al sudetto riincdio ne parleremo a suo luogo , e tempo,  Şem. E quelle figliuole, che non avea se ranno le accennate paflioni ponno eduei carsi ne monasteri?  Pub. Se i loro genitori sarın capaci, ed attenti, e viveranno all'antica, non fra farà d'uopo cercare altra casa , che las  paterna per educarle, come dicemmo parlando de figliuoli della Conferenzís  [ocr errors] 1, della presente decade ; mà se poi foffe il contrario,non sarebbe buona per esse, ¢ converrebbe anche fanciulle racchiu. derle in monafterio, affinchè si discostas sero dalrimirare i mali efsempj domesti ci, specialmente quei, che potrebbero dalle Madri ricevere ,  Sem. Vorrei che mi diceste, Mecena, te,in che possono difettare le Madri nella educazione dellc figliuole?  Mec, In due cose principali, che so. no l'eccessivo amore che portan loro,e la libertà che vogliono mantenere per  fare ancor esse tutto a lor modo. L'amore non le permetterà di contriftarle, ne riprenderle, e la libertà,che vogliono godere , le disanimerà a procurare di farle .vivere diversamente da quello ch'esse .coftumano, e vi voglio riferire un caso seguito in mia presenza, Si trovavano in una conversazione alcune gentildonne în tempo di carnevale , le quali domandavano l'una l'altra quante volte avevano condotte, le loro figliuole alle commediese per verità non udj già che alcu  na  if ve le avesse condotte poche volte; vi fù f, bensì la più attempata dell'altre, che hin disse in tempo ch'ella era zitella rare tudi volte G costumava condurvele, e se non # era modeftiffima l'opera, che si recitava cui non potevano già udirla le zitelle; vi fù  chireplicò ancora che non si poteva oggidi far di meno di non condurle;perchè altrimenti fi contrifterebbero tanto, che non ci si potrebbe più vivere ; non dico altro,che vedo il mondo andare da male in peggio come predisse Orazio.  Sem. Oh consideriamo come anderà l'educazione delle cittadine , e dello à plebce !  Mec. Sappiate, che a queste fi è dato da qualche tempo in qua un'ottimo regolamento, essendosi aperte scuole publiche in ogni Rione, e mantenute  dalla generosità del nostro Prencipe , - ove vengono dirette da Maestre molto  esemplari numerose figliuole,molte delle quali si tratrengono ivi tutto il giorno; onde non solamente hanno occasione tutte di apprendere il fanto timor di Сс  Dio,  Dio, ed il buon costume, ma eziandio d'approfittarli in molti lavori dooneschi utili, e necessari per la casa , tenendoli in oltre lontane da quelle occasioni, che potrebbero in esse introdurre difetti; onde fpererei, che quando questo fanto istituto giuagesse ad eliere sufficienre anche  per le più miserabili, un'infinito bene, e più universale se ne porelle ricevere  Sem. Bramerei ora di sapere quale sia il tempo più opportuno d'apprendersi de fcienze?  Pub. Si parlerà di questo quando ci rivedremo ,  [ocr errors][merged small] [ocr errors][merged small][ocr errors][ocr errors] 1  Sopra l' età opportuna d'apprendersi le scienze, cd il modo più façile per accertarsi delle par. ticolari inclinazioni  de' figliuoli,  Sempronio , Publio , Mecenate ,  & Medico,  [ocr errors] Pub.  A proporzione delle cose li può chiama.  re ànima del monL  do ; essendo che questa lo mäntic  ne, clo fà risplen. dete : sconcerto grande certamente formano quelle cose, che sono prive di efsa. Se per sua sventura veniffe genio ad uno, che avesse voçe rauca abituata di fare il Musico,non doverebbe certamen  Сс 2   quali deb  bago    Z       S  Semo    1  1   [merged small][ocr errors] [ocr errors][merged small]  3.      onde  to   H  fpo.   F 2   Dum  Sem,  A 2  Mec.  127. ÇON:  IOI  ani  te egli effettuarlo ; perchè non troverebbe, quando anche giugnesse a saper cantare, chi si prendesse diletto del luo ingrato canto. Converrà dunque in tutte le cose prendere la sua proporzione giu. sta, con proccurare attentamente, in fare ciò, di non ingannarli.  Sem. L'erà dunque proporzionatas ne' figliuoli per apprendere le scienze quale sarà?  Pub. Quantunque secondo il loro spi. rito, e capacità deel cio regolare ; nulladimeno prima di dodici, o tredici anni farà difficile, che questa sia proporzionata ; e tanto maggiormente, che debbonsi prima applicare ad imparare la lingua latina , per meglio intenderle.  Sem. Ho sentito dire da qualcuno, che la lingua latina li potrebbe imparare come Gi apprendono gli altri linguag. gi, o nella manicra, che s'impara la lingna nativa, o dipoi col sentir parlares altri che la possiedono.  Pub. Vedete , Sempronio, se voi bra. mate fare da buon Padre di famiglia, sia.  tc  * t'e a mico di fare poche novità nell'edu  care, & istruire i vostri figliuoli, e fere vitevi di questo avvertimento,che i Maa rescalchi, che non inchiodano i cavalli  da essi ferrati, sono quelli, che pongono il chiodo nella guida vecchia · Anzi che vi dico di vantaggio,che se vi abbaca  tefte per vostra disgrazia in Maestri, che $ volessero sperimentare modi nuovi per  addottrinarli, non vi prevalete di loro; i perchè avendo i vostri figliuoli perduto ; tempo in mano di questi, converrebbe farli tornare da capo.  Mer. Vi fu a questo proposito un cer. to Maestro di musica, chiamato Timor  teo, che pretendeva doppia mercede & da quei, che avcano imparato l'arrej 1 senza buoni fondamenti , adducendone op per cagione , che doppia facica glicon  veniva fare ; cioè, che disimparasfero  essi ciò che avevano appreso, e poi d’indi fegnare loro le vere regole dell'arte :  onde se dupplicata riuscirà la fatica a Maestri nel caso , che non avessero pre. sa la strada diritta, il fimile seguirebbe Cc 3  an.  [ocr errors][ocr errors] anche a voi per doverli far dilimparare ciocche malamente apprefero.  Pub. E poi,che cosa averebbero a fa. re i figliuoli allorchè non hanno ancora la capacità di apprendere le scienze e quando mai ne acquistassero alcuna parte di esse, seguirebbe ciò per la felicità di memoria ; ina non capirebbero già quello che elli avessero appreso, nè tampoco saprebbero prevalera di quel documento generale,non ben capito,in molte particolari contingenze; onde tal'età non sarebbe proporzionata per fare acquisto delle scienze.  Sem. Ma se caluno avesse ingegno, e capacità maggiore degli altri, perchè non potrebbe questi esserae capace anche nella tenera età ?  Pub. Dee benli avvertirsi di vantag. gio in questi se.convenga allora porli a fimili laborioli studi ; perchè il buono agricoltore , quancunque abbia un campo fertilissimo, a suo tempo vi getta il seme, e lo fa riposare ancora , per non vederlo divenire sterile, e poi chi  sà  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] si, che non sia un fiore senza frutto quello, che comparisce prima del suo  tempo 2 e che poi allorche gli altri,erci đuti di minor ingegno si vedranno cari,  chi di frutti, questi non si rimiri spogliaco di efi? ricordiamoci, che: nil violentum durabile.  Met. Aveva un giovanetto di questi fatto una bella composizione in lode di un gran Personaggio, e recieztala alla  sua presenza con tanto spirito, che ne. i rimase ogn’uno degl’ascoltanti ammira  to; il meno ingegnoso, é fpiritoso, che vi era tra efli , domandò al suo Maestro, che ivi si trovava presente, sçra ftaja  composta dal detto figliuolo, cui rispoe fe di fi ; e voltatosi egli a quel Personag  gio gli dise : fogliono alcuni avere spirito, c capacità grande da giovanetti,  la quale perdono poi avanzati che sono o negli anni. Udendo questo il figliuolo 1 rispose prontamente a costui: ma voi  Sigaore, da giovanetto bello spirito, c | capacità che averete ayura ! Rimafer  quel Signore in vdir si propra, ed argu  Сс 4  ta   ta risposta, la quale fe credere a tutti la composizione essere fata fua. ,  sem. Questi ingegni dunque , per quanto ho udito, averanno d'uopo più tosto di ritegno, che di stimolo.  Pub. Voi non dovere dubitare di ciò, vedendolo praticare giornalınente nella vostra scuola di cavalcare, ove tra i precerci, che averete avuci , vi sarà questo, di non lasciare la libertà del freno a quei destrieri , che sono più fpiritoli degli altri.  Sem. Come mi dovrò regolare per conoscere, che sieno i figliuoli proporzionati più ad una, che ad altre scienze?  Pub. Dovrece principalmente fare esplorare il loro genio ftabile qual Ga, eriflettere,fe corrisponda questo alla loro capacità, e disposizione naturale.  Sem. Come si potrà conoscere, che fia stabile questo genio ?  Pub. Ciò di discerne benissimo; pofciache i figliuoli dalla più tenera età cominciano a mostrare le loro inclinate egli effettuarlo ; perchè non troverebbe, quando anche giugnesse a saper cantare, chi si prendesse diletto del luo ingrato canto. Converrà dunque in tutte le cose prendere la sua proporzione giu. sta, con proccurare attentamente, in fare ciò, di non ingannarli.  Sem. L'erà dunque proporzionatas ne' figliuoli per apprendere le scienze quale sarà?  Pub. Quantunque secondo il loro spi. rito, e capacità deel cio regolare ; nulladimeno prima di dodici, o tredici anni farà difficile, che questa sia proporzionata ; e tanto maggiormente, che debbonsi prima applicare ad imparare la lingua latina , per meglio intenderle.  Sem. Ho sentito dire da qualcuno, che la lingua latina li potrebbe imparare come Gi apprendono gli altri linguag. gi, o nella manicra, che s'impara la lingna nativa, o dipoi col sentir parlares altri che la possiedono.  Pub. Vedete , Sempronio, se voi bra. mate fare da buon Padre di famiglia, sia.  tc  * t'e a mico di fare poche novità nell'edu  care, & istruire i vostri figliuoli, e fere vitevi di questo avvertimento,che i Maa rescalchi, che non inchiodano i cavalli  da essi ferrati, sono quelli, che pongono il chiodo nella guida vecchia · Anzi che vi dico di vantaggio,che se vi abbaca  tefte per vostra disgrazia in Maestri, che $ volessero sperimentare modi nuovi per  addottrinarli, non vi prevalete di loro; i perchè avendo i vostri figliuoli perduto ; tempo in mano di questi, converrebbe farli tornare da capo.  Mer. Vi fu a questo proposito un cer. to Maestro di musica, chiamato Timor  teo, che pretendeva doppia mercede & da quei, che avcano imparato l'arrej 1 senza buoni fondamenti , adducendone op per cagione , che doppia facica glicon  veniva fare ; cioè, che disimparasfero  essi ciò che avevano appreso, e poi d’indi fegnare loro le vere regole dell'arte :  onde se dupplicata riuscirà la fatica a Maestri nel caso , che non avessero pre. sa la strada diritta, il fimile seguirebbe Cc 3  an.  [ocr errors][ocr errors] anche a voi per doverli far dilimparare ciocche malamente apprefero.  Pub. E poi,che cosa averebbero a fa. re i figliuoli allorchè non hanno ancora la capacità di apprendere le scienze e quando mai ne acquistassero alcuna parte di esse, seguirebbe ciò per la felicità di memoria ; ina non capirebbero già quello che elli avessero appreso, nè tampoco saprebbero prevalera di quel documento generale,non ben capito,in molte particolari contingenze; onde tal'età non sarebbe proporzionata per fare acquisto delle scienze.  Sem. Ma se caluno avesse ingegno, e capacità maggiore degli altri, perchè non potrebbe questi esserae capace anche nella tenera età ?  Pub. Dee benli avvertirsi di vantag. gio in questi se.convenga allora porli a fimili laborioli studi ; perchè il buono agricoltore , quancunque abbia un campo fertilissimo, a suo tempo vi getta il seme, e lo fa riposare ancora , per non vederlo divenire sterile, e poi chi  sà  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] si, che non sia un fiore senza frutto quello, che comparisce prima del suo  tempo 2 e che poi allorche gli altri,erci đuti di minor ingegno si vedranno cari,  chi di frutti, questi non si rimiri spogliaco di efi? ricordiamoci, che: nil violentum durabile.  Met. Aveva un giovanetto di questi fatto una bella composizione in lode di un gran Personaggio, e recieztala alla  sua presenza con tanto spirito, che ne. i rimase ogn’uno degl’ascoltanti ammira  to; il meno ingegnoso, é fpiritoso, che vi era tra efli , domandò al suo Maestro, che ivi si trovava presente, sçra ftaja  composta dal detto figliuolo, cui rispoe fe di fi ; e voltatosi egli a quel Personag  gio gli dise : fogliono alcuni avere spirito, c capacità grande da giovanetti,  la quale perdono poi avanzati che sono o negli anni. Udendo questo il figliuolo 1 rispose prontamente a costui: ma voi  Sigaore, da giovanetto bello spirito, c | capacità che averete ayura ! Rimafer  quel Signore in vdir si propra, ed argu  Сс 4  ta  ta risposta, la quale fe credere a tutti la composizione essere fata fua. ,  sem. Questi ingegni dunque , per quanto ho udito, averanno d'uopo più tosto di ritegno, che di stimolo.  Pub. Voi non dovere dubitare di ciò, vedendolo praticare giornalınente nella vostra scuola di cavalcare, ove tra i precerci, che averete avuci , vi sarà questo, di non lasciare la libertà del freno a quei destrieri , che sono più fpiritoli degli altri.  Sem. Come mi dovrò regolare per conoscere, che sieno i figliuoli proporzionati più ad una, che ad altre scienze?  Pub. Dovrece principalmente fare esplorare il loro genio ftabile qual Ga, eriflettere,fe corrisponda questo alla loro capacità, e disposizione naturale.  Sem. Come si potrà conoscere, che fia stabile questo genio ?  Pub. Ciò di discerne benissimo; pofciache i figliuoli dalla più tenera età cominciano a mostrare le loro inclinapo  [ocr errors] ruti zioni, & in proseguimento di essa li van.  no spiegando meglio, & alla fine avvici. nandosi al tempo di risolversi , la palesano espressamente, ed in questo caso è  veramente stabile, e fissa. Oh quanto die   si conobbe bene fin da suoi teneri anni  il genjo di Marco Catone : posciache  quanrunque venisse violentato con fiere  minaccie a fare cosa da esso creduta di-  sdicevole da Quinto Popedio Latino, si  mantennc sempre costante nel suo senti-  mento; il di cui animo intrepido G. avan-  zò, crescendo negli anni; posciache  condotto alquanto più grandicello, da  Sarpedone fuo pedante a casa di Silla  per visitarlo, e vedendo nel cortile di   decto palazzo la lista de' proscritti, eb.  be a dire : è possibile, che non vi sia chi  ammazzi un tiranno sì crudele comes  Silla? domandò egli al suo pedante un  coltello, dicendogli , che ad esso fareb-  be riuscito facile il poterlo uccidere ;  perchè fi poneva a sedere accanto a lui  come riferisce Valerio Massimo,    Sem. E se nell'ecà genera avessero mo.   stra,  strato qualche inclinazione ad una scien. za, e poi dopo qualche anno li fossero invogliati di qualche altra , ed alla fine, venuto il tempo da determinarli, voJeffero apprenderne alera differente da queste, che doverà farsi?  Pub. Questi sono di genio istabile , e non li fiffano mai, onde a qualunque fcienza si applicheranno, non sarà mai di lor piena sodisfazione , ed in questo caso consigliatevi con chi ben conosce. rà il loro talento, come sono i Macítri, e da esli comprenderete in quale fcienza ciascun di loro potrà riuscire più atto, e fare in modo , che in quella fi applichi.  Sem. Ma fe moftraffero non avervi genio ?  Pub. Questo si fa venire con far suggerire loro, che quella scienza , la qua. Je si crede proporzionata alla loro abilità, sia la più bella, la più nobile, la più utile, c la più dilettevole, che li accomoderanno senza indugio a volerla apprendere.  Sem.  [merged small][ocr errors][merged small] Sem. Sarebbe necessario, che m'in formaste ancora sopra la facilirà , che uno possa avere in apprendere più una scienza, che un'altra  Pub. Se voi scorgerece un figliuolo serio, e prudente, per quel che potrà portare la sua età, divota', e che inclis ni all'ecclesiastico, questi pare nato per istudiare Teologia, Se serio parimente, e prudente , volonteroso di studiare, s che tal volta nelle picciole altercazioni nare tra fratelli effo fi frapponga , e mostri voler giudicare , chi di loro abbia corto, o ragione , a questi fate pur  studiare Legge, che diverrà un'altro Bartolo. Se poi obiecterà , sarà riflessivo, tirerà frequenti conseguenze , questi averà cutti'li buoni requisiti per divenire un'eccellence filosofo . Se lo vedrere ingegnoso in adattare, e difporre i suoi giocarelli puerili, prendere misure di alcune cose, il suo genio lo porterà ad apprendere le Marcematiche ; conforme seguì in Protagora, ed in Biagio Pa. fcali:c fs lo mirerete sonrinyamente  ap  [ocr errors][merged small][ocr errors][ocr errors] applicato a disegnare, o rimirar picture, la sua inclinazione naturale lo porterà a fare il Pittore : finalmente se lo vedrete afliduo nel tempo, che qualcuno sia malato in casa, e desideroso d'allistergli, c stare con attenzione ad ascoltare ciò, che dirà il Medico, il genio, e l'abilicà lo portano a studiare Medicina.  Sem. Se sarà nobile però come potrà effere Medico, non costumandoli das pertutto che questi esercitino cale pro feffionc  Pub. Dunque sarebbe affai fortunato uno de’vostri figliuoli; se fosse Medico; perchè essendo singolare , che stimas grande averebbe egli, e che belli acquisti apporterebbe a casa vostra ?  Sem. E se tal uno morteggiaffe, che odoraffero questi alquanto di cattivo?  Pub. E voi fate, ciò che fè Vefpafiano a Tito, allorchè riseppe, che aveva ciò motreggiato, quando pofe la gabella fopra l'orina , cioè di fargli odorare i danari, che da detta imporzione furono esatti, e trovò il buon figliuolo,  che  [ocr errors] [ocr errors][ocr errors] il modo di medicar cavalli, alcuni nou  3 che non avevano alcun cattivo odore, Dita ed il (mile seguirebbe anche in questi.  Mec. Vorrei sapere da voi, Sempro>nio, se vi sia stato alcun nobile, che abbia imparato a medicare cavalli?  Sem. Che voi non lo fipete! essendo. !ci quel vostro amico, che non solamen  te lo sà fare, mà anco l'esercita , peel rò nobılmente.  Mec. Oh Dio buono,per medicare le bestie s’ha da impiegare senza alcun moc  teggiamento un nobile ! e per curare un -2.14 uoino tanto più nobile di esse hà d'ave. mai retinore di essere motteggiato! più no  bile dunque farà creduto da questi of l'esercizio del Manescalco, che quello  del Medico, giacchè quello è esercitato da nobili, e questo da essi viene abbor. rito?  Pub. Hanno dato alla luce libri,sopra bili, tra quali vi è Pasquale Caraccioli Cavaliero Napolitano, e Marino Gir, zoni Senatore Veneto ; laonde potrebbero meglio impiegarsi i nobili nello  elpi            scrivere di medicina, per imitarc Corne. lio Celso nobile Romano.  Med. Vi è stato anche a giorni nostri Roberto Boile nobile, e ricco Inglese , il quale non hà risparmiato, ne spefa , ne fatica per accrescere la filosofia fperimentale ; e quanto di bene egli abbia fatto, le sue opere lo mostrano , avendolo queste renduto glorioso a’posteri .  Mec. In questo particolare bisogna , che io parli contro di noi medesimi : per ispregare le nostre ricchezze in lussi, lo facciamo prontamente ; per impiegarle poi a beneficio della viriù, non ci sappiamo indurre, perchè pajono ad alcu. ni spregate, quantunque realmente non fiano. Mà torniamo al nostro assunto.  Sem. Vorrei sapere dal Dottore, da che proceda la varietà dei genj .  Med. Questo secondo il mio debole fentimento credo , che da temperamenti poffa in gran parte derivare, perchè colui , ch'è malinconico averà genio as cose serie, il bilioso ad altre più risoluto, il demmático gradirà la quiete, ed  1  [ocr errors][ocr errors] il sanguigno amerà la varietà delle cose,  e poi rifletto, che l'arie ancora, ove al-  cuni nascono, ponno contribuire molto  alla determinazione de genj, essendoche  vi sono alcuni luoghi,ove quasi tutti at-  tendono ad un solo metiero, ed in un   tal clima li osservano genj affai differen,  ti dall'altro; ben è vero però, che alle  volte ancora le altrui fortune fanno ve.  nire il genio più ad una cofa , che ad  un'altra per esempio l'essere un semplice  Soldato divenuto Generale, ha fatto  venire il genio a più d'uno di seguitare  la guerra : l'avere lasciato un Medico  ricchezze considerabili, ha dato moti-  vo a molti di applicare alla Medicina   ed il fimil è accaduto nell'altre profes-  sioni. Leggo però che nella Cina, cd  in alcuni altri dominj fuori dell'Europa  quefi genj sono già fissati , non essendo  permesso ad alcuno il fare differente me-  stiero da quello di suo Padre., e perciò   colà igenj sono stabili non potendoli   yariarere a suo modo.     Şem. E se quedo genio, che taluna   do  [ocr errors] de'figliuoli hà, non corrispondeffe alla sua capacità, che doverà farsi?  Pub. Questo suole per lo più corrifpondere, quando nasca spontaneamente, e aon da impegno; perchè ci potrebb' essere taluno, che avendo genio il suo compagno di applicare, per esempio alla legge , e questa quantunque non geniale nulladimeno per non discoftarli da esso, volesse anch'egli ftudiarla , ed in questo caso, vedendo voi, che non avesse quell'abilità, che tale profes. fione richiede, potreste farlo allontanare dal detto suo amico per qualche tempo, senza che penetrasse il perchè, e così il genio , che nasce dall'impegno,fi muterà facilmente, quando non vi concorra anche il proprio .  Sem. Come mi potrò allicurare, che fia proporzionato il genio, e l'abilità alla scienza , la quale bramano di acquiItare ?  Pub. Niuna cosa vel potrà far meglio conoscere , che lo profitio , che faran. no ja quclle, perché è impossibile che  con  [ocr errors][ocr errors] di concorrendovi l' abilità , ed il genio ,  questo non si faccia anche da principio,  ed accertato, che voi sarete di ciò vivea te pur quieto di mente, che ci è la sua of proporzione.  Sem. E se non ci sarà detto profitto, G doveranno levare da questa per porli ad apprendere alcra scienza?  Pub. Conviene maturare bene fimile si risoluzione, per conoscere meglio don  de proceda il non farsi profitto, poten. do ciò nascere da due cagioni, cioè,o da fimulata inclinazione, o da inabilirà : se provenissc dalla prima potrete fare  da qualche loro confidente scoprire i qual fia la loro propria inclinazione, ;  dove il genio li porti, e prima di perdere maggior tempo ponereli in quellas ad essi geniale ; se poi nascerà dalla inabilità, ovunque li porrete, questa farà sempre impedimento al conseguimento di essa.  Sem. E se procedesse dall'essersipenriti, ritrovandola più difficile di quello, che se l'erano figurata ? Dd  Pub.  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] [ocr errors] Pub. Questi cenereli per istabili, poltroni, che poco di buono ne potrete tiçayare; perchè ovunque gli applicherere , sempre faranno il medesimo, non avendo fermezza , ge sofferenza per la fatica, Sogliono però alle volte alcuoi di questi rimetçerli nella buona strada , quando ciò venisse da una certa pufillanimità di cuore , onde farà bene di ajugarli da principio con buoni repetitori, mediante i quali animandosi , prosegui. ffono poi con profitto ,  Sem. E se non ayeffe taluno genio a fofa alcuna, come mi doyero regolare  Pub. Vi potrete con questi regolare a yostro modo , ogni qual volca či liau Pabilità, e l'ingegno ; perchè sogliono alcuni per modestia in tutço , e per tut: to forromergersi al volere paternoję queIti riescono per lo più virtuofi , ogni qual voltą abbia l'ayerţenza di farli applicare a quella scienza, che Gia proporzionata al loro talento, come già di. femmo Sem. Stimate bene che nel tempo,i che applicano alle scienze si possano , pare per loro divertimento, far applicare al plin suonogal canto, o ad altri civili diverčia 0,1 mçnti? open Pub, Şe li yoletę far divertire day * quells, fateli applicare anche a questi , A Colui, che applica, e li approfita in  cose ferie , non bisogna distrarlo con  çosę amene, perchè le prendeffe cal vol. i ha genio grande a queste come ande,  rebbero , Sempronio mio, le serie an  zi che, se ne moftrassero efli genio,dove. a fe da questo diftorli, con dire loro, che  approfittati, che saranno nelle scienze, * yoi medelimo volere, che si divețiano o in quelle, ed in turti gli alțri civili orna  mengi . In un caso solamente fi potrebbe ciò permettere, cioè quando il figliuolo fosse di temperamento molto malin. conico, e çetro per solleyargli l'animo contriftato,  Sem. E se la foyerchia applicazione allo {tudio danneggiasse la salute, che converrà farsi, Dottore? Med. Primieramente procurerere, DI?  che  [ocr errors][ocr errors] illbuono per evitare i nocu.  che si moderi ciocche sarà eccessivo;perchè quello che non fi può apprendere ia un giorno, fi apprenderà nell'altro, e fe voi vedrete , che ciò non basti, levateli affatto dallo studio ; perchè è me. glio il figliuolo fano, quantunque fias ignorance, che dotto divenuto inabile a godere il frutto delle sue faciche: e non vi fate dare ad intendere da parabolani, che a forza di rimedi possa superarsi tal incomodo, perchè in tal caso averà due nemici, che lo perseguiteranno;cioè l'applicazione soverchia, ed il rimedio da taluno credulo, o malizio. menti di effa, quando lo specifico rimedio consiste nella totale rimozione dall'applicazione:  Sem. Approfftrati che saranno i figliuoli, che dovrà fare il buon Padre di famiglia per provederli bene?  Pub. Ci penseremo trattanto, e la di. scorreremo in appreffo.  CON.  421  CONFERENZA VI.  [ocr errors] Sopra gl' impieghi, che dovranno darsi da faggi Padri a' figliuoli  ben’educati ,, e dotti.  [ocr errors][merged small][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] Pub.  o sviscerato ainore de Padri verso i figliuoli, li fa bene spesso cadere in mol. ti eccelli, e partis  colarmente allorche questi nascono ; pofciache fino da quel punto di figurano alcuni di efi , e senza alcun fondamento, di far loro ottenere grandezze, & onori confiderabili, e per ciò allora dispongono d'indirizare il primo per l' Ecclesiastico, a fin che giunga a sublimi posti; di acca fare il fe  con  el  Dd 3  [ocr errors] condo , e fargli ottenere una groni lima dote : d'incamminare il terzo per un generalato di esercito: ed al quarto ; c quinto di dat per moglie figliuole ereditieres e ricche, acciocche poffano passare la quelle famiglic ad ereditarne archie il cognome. Se tali chimere, senza verun fondamento ideates riuscisfero , oh chie bella cosa che sarebbe! l'averebbero con quefti modi certamen. té accomodati tutti affai bene : mà benedetta sia quella volta, che pur una di queste si verifichi in tutto ; posciachè al destinato per l'ecclefiaftico viene genio di prender moglie; a quello per la moglie di farsi ccclefiaftico, o religioso; all'altro per condurre eserciti d'imparate a guidar bene un biroccio ; o muta i fei; ed agli altri destinati, pet rostegno di famiglie altrui, di rovidare, per quanto poisono s la propria , con giuochi , é bagordi ; a quali si darino in preda : e sapete ciò da che nasce dal non avere i Padri appreso bene da Salomone al 16. quello che debbatio fare , qual'è? Cor.  bos  st bominis difponii viam fuam, fed Domini eft. n diriģere grefus fuos; onde per voler fare to tutto da se medesimi, perciò non poffo. ! nio avere buon fine i loro disegni . of Mec. Questo l'ho confiderato anche dio più volte, in occasione, che seativa I dire a Padti: questo l'ho già destinato i per la tal via ; e quello per quell'altra s # conforme ch'elli fossero stati arbitri del  la Providenza Divina , che regge turto, a difpofitoti assoluti delle inclinazioni  de figliuoli ; é volendo ammonire sopra di ciò talun di quefti , mitróncava il dia scorso con dire che già poneva da para te gli assegnamenti necessari, e che pensava ancora alle fpefe straordinarie ; per i quando avessero conseguito quelle caris  che; che bramavano di fare orretiere 2 figliuoli; ed era quelto trent'aniti primas che le potessero conseguirt , onde mi sembra vano le loro menti teatri di commedie, ove fiori personaggi paffeggiano ·  Sem. Non ci averanno dunque das penfare, i Padri allorche nascono i Ai gliuoli di far conseguire loro vantaggi? DI 4Pub. Non hanno allora da pensare a questo, mà bensì di proccurare, che divengano abili a conseguire quella buona sorte , che Iddio 'averà preparata a meri. tevoli : e perciò fantamente un saggio Padre aveva in una tela fatti dipingere i suoi figliuoli colla sola camicia, e con questa iscrizione.  Tocca a Dio lo stabilire  In che guifa han da vestire . Volendo significare , che a lui non toccava fare altro, se non ricoprirli colla ca. micia, affinchè non comparisfero affatto nudi ; nel riinanentę poi si uniformavi colla volontà di Dio, acciocche li avesse rivestiti a suo modo, e che questa prima copertura non consisteva in altro, che nella buona educazione , alla quale dovea cffo pensare; onde non prima , che fiano educati, ed istruiti questi nelle virtù,possono i Padri comprendere, che voglia Iddio disporre di eli.  Sem. Qual di questi il Signore Iddio averà disposto per acca farsi? E sem. Quello , che conoscerece più (e  frio, sano, e sensato, e che averà inclina. kizione a questo, perchè avere pur  udito bu qual capacità , e segno ci vuole per prenaf dere moglie?  Sem. Se il primo genito , al quale si suol dar moglie, non avesse tutte queste condizioni, e foffe volonteroso d'accasarsi, che si averà da fare?  Pub. Se gli mancaffe la sanità, o faviezza sarebbe segno, che Iddio non vo. lesse; e voi potreste sostituire ad esso chi fosse più capace..  Sem. É se ci fosse il maggiorasco, che ma potrò far io venendo egli chiamato as  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] Pub. Farete dal canto vostro tutto quello , che potrete ; perchè non manca. no, ripieghi in simili contigenze, per farlo rinunziare a questo, con serbarli un buon assegnamento; mà se poi non vi riufciffe converrà averci pazienza; perchà vostra non è la colpa , mà di chi lo chiamò a questo, che non pensò a tanto.  Sem. E per l'ecclesiastico, chi dielli a doverà incaminare,  Pub,  [ocr errors] Pub. Il più docilc, dotto, e divoto.  Sem. E se non avess' egli tal genio ?   Pub. Sarebbe segno che Iddio non lo volesse per questa via, e voi sostituitene un altro ad effo, che l'abbia , quartunque foffe men dotto; o pute incominciatead istradarlo per questa via alla lon. tana, che può essere's che tal genio gli venga .  Sem. É quale sarebbe questa via  Pub. Quella della Avvocatura, se fará inclinato alle materie legali; mà non to fare Avvocato di dome, perchè cið (crvirebbe a nulla.  Sem. Come mi dovrà regolare in far questo?  Pub. D'incaminarlo per la medesima via , che calcarono quelli che sono riufciti eccellenti in tale professione ; i quali ne'primi anni cominciarono a rivolta. fé protocolli negli offizj de Notari.  Sem. Mà una persona nobile non potrà far questo.  Püb. E percið non potranno forfe giugnere ancora alla perfezione di quellig che lo fecero:  More  [ocr errors][ocr errors] Med. Vannio pure alla guerra ventu. fieri moltissimi nobili con pericolo giornalmente di morte, e cominciano meri fanci di volontà; perchè dunques non possono fare ancor questo, nel quale non li incontra un fimile pericolo, ed il fine ancora, è retrissimo,onoratiffimos crfendo diretto all'atimigistrazione della giustizia ?  sem. E dipoi che dovranno fare  Pubs Prendere pratica delle cause appreffo i migliori Curiali , ed esercitari in questa, passare a prenderla dagli Avvo. cati con iftare sotto la loro dettatvra , se forà bisogno : e finalmeiite im poffeffati, che saranno in detta pratica ascoltare attentamente per qualche tempo i Giudici de primi tribunali; ed allor si, che po. tranno porsi a fare gli Avvocati , tros Vandofi colmi di doctrina , e di sperien2à.  Sem. Esercitato che averanno l'Avvocatura che faranno ?  Pub. Avendo acquistata perizia maga giore in tal ministerio , c per averlo lom  de.  [ocr errors] deyolmente qualche tempo esercitato , potranno per giustizia , non già per grazia pretendere i migliori posti della Republica, e di grado in grado avanzandosi, potranno conseguire ciò, che bra. mano:  Sem. E’lsudetto genio come verrà ?  Pub. Chi averà amministrato con rettitudine la giustizia, sarà senza dubio rimunerato da Dio; se lo fè a Salomone per avere solamente mostrato desiderio di esser giusto,fupplicandolo di ciò,come fi legge al 3. dei Rè: Quia poftulafti ver. bum hoc , bu non petiffi tibi dies multos ; nec divitias &c. ecce feci tibi fecundum Sermones tuos &c. fed, hæc que non poftulasti, dedi tibi : divitias fcilicet, do gloriam; ed udite ciocche dice per bocca d'Isaia al 51. Facite justitiam &c. ed ins appreffo: Beatus vir , qui facit hoc; e nel libro della sapienza al primo : diligite ju, ftitiam , qui judicatis terram ; come volete dunque che, a questi non dia las vocazione ancora di servirlo; cffendogli sì grata la sua servitù.Sem. Se taluno di eisi volesse farsi re, ligioso, che dovrò fare?  Pub. Non altro ch'esplorare se fia vera vocazione, o soggestiones perchè se farà vera vocazioneld, dioè, che lo chiama; onde a questa non dovete opporvi s perchè si sono veduti gastighi assai evidenti fulminati contro chi si è opposto al Divino Volcre , : Sem. Come mi porrò accertare di questa vera vocazione ?  Pub. Dovete alla prima mostrare res nitenza in dargli permissione, che lo faca cia : conducerelo continuamente con esso voi, ed informarelo sinceramente di tutte le difficoltà, che potrebbe in. contrare nella vita religiosa ; come anco delle astinenze, ad altre penitenze, che tra effi fi costumano, con doverfi privare della propria volontà, allorchè sarà religioso; e se si manterrà sempre saldo, é costante nel suo proposito, crem dete per certo, che farà vera vocazione.  Sem. Mà non sarebbe bene, che lo condücelli alle conversazioni, alle comig  me  medic, ed ai passeggi per divertirlo me, glio, caso che lo vedcili malinconico?  Pub. Questo poi non dovretç fare ; perchè allor îi che perderebbe quanto di buono egli acquisto nell'educazione; e non facendoli poi Religioso vi farebbe fofpirare, per averlo voi con defii mo: di improprj sedotto , E non crediatę gia che facendosi Religioso, per vera vocazione,egli viverà infelice, anzi che sarà il più contento, e felice degli altri, per, che godono questi , quando non abbia. no ambizione, ed altri attacchi mog, dagi, sommą tranquillità d'animo,  Sem, Sicchè dunquc sarebbe bene, che facefî venirç a qualcun aloro ancosa la yolontà di farsi religioso, giacchè elli vivono così feļici, e particolarmense a quelli, che fossero incapaci di alcu, no impiego della Republica .  Pub. Ayversite, Sempronio, di non far questo, con modi suggestivi, per fini mondani; come sarebbero, per far di, venire gli altri fratelli,che sono al secolo più facologi mediapre l'augumento delo  la  la sua parte șinunziara , o perchè non saperç a che impiegarlo, mentre questo non piacerà a Dio, onde contentatevi di dare solamente a Dio quelli, ch'esso yuole, e non quelli che non fanno per voi, come sogliono pure troppo effettuar re alcuni, che sc hạnno raluno de figliuo, li difertosi, o di poco fennolo consacra no a Dio, essendo questo il sacrificio apo punto di Çaigo , che gli daya le vittiine più magre, e tanto maggiormențe chę essendo questi turti suoi operarj? come volere, che poslano fervirlo bene, se non avranno capacità sufficiențe di farlo?  Mec, Sarebbero dunque, come quelle vittime, che si offerivano agl'Idoli di Moloc, ed a quello di Sapurno dai Gentili, che morivano nelle loro braccia jufocate senza esser capaci di alçro, che di piançi.  Sem. Se paluno & volçís'elimçre da qualunque impiego per starsene senza pensare a cosa alcuna,che averò da fare?  Pub. Coltui bramerebbe darG all' ozio, e non è volontà di Dio, che stia  l'uo  l' uomo ozioso leggendosi nella Geneli al 2. Pofuit eum in paradiso voluptatis, ut operaretur, e se in luogo di delizie non volle , che stesse ozioso l'uomo , come lo permetterà nel mondo? quando allorchè ye lo pose gli disse : In Judore vultus fui vefceris pane tuo, donec rever. teris in terram ; quale poi fa il danno, che apporta l'ozio uditelo dall'Ecclefiastico al 33. Multam malitiam docuit otio. fisas; e maggiormente questo può nuocere a chi hà beni di fortuna', perchè essendo l'ozio il padre di tutti i vizj, che ne seguirebbe da questo? Allorsi che la buona educazione gli gioverebbe poco; onde per ovviare a ciò potreste farli suggerire, se bramasse entrare in corte ove fi sta per lo più a sedere , gon si fatica, ne fi applica a cose di rilievo, discor, rendosi bensì delle novelle della città, e del mondo,e li fà una vita neghittosa,la quale farà facilmente confacevole al suo genio, e perciò, che la provasse un poco: caso poi, che ricusasse questa ancora, allora vedete a chc aveffe genio, e la.  [ocr errors][ocr errors] sciateglielo fare, perchè  sempre sarà meglio, che faccia qualche cosa', che stia coralmente in ozio ; e tra gl'impieghi onorevoli ci sono la pittura, nella quale alcuni malinconici i sono con genio esercitati : il lavoro alcorno : il dar las vernice indiana , ed altre cose simili , confacevoli a chi non voglia intraprendere affari di suggezione, ed udite ciocchè consigliava ancora San Girolamo Epist. ad Ruftic. Vel fifcellam texe junco, vel canistrum piecte viminibus ; più costo che ftare ozioso.  Sem. E se tal uno di essi volesse applicare a far negozj di cambi, e ricambi, edsagl’affitci'de dazj, averò da permetterglielo?  Pub. Ci penserei prima d'accordarglielo; non solamente perchè nostro Signore Gesù Cristo levò S. Matteo da far simili esercizj, mà ancora, perchè questi impieghi, che mediante un fallimento, o altri accidenti del mondo ponno scomodare di molto, non sono negozj licuri, anzi azzardolidimi in chihà da perdere molto del suo ; che questo lo faccia chi poco può discapitare di proprio gl’è tollerabile.  Sem. Avendo taluno genio alla caval. lerizza, e li dilettasse di mantenere più cavalli di quelli, che Geno necessarj,averò da collerarglielo?  Pub. Essendo tal genio diretto alle bestie, quando fi eccedesse nel numero , o nell'amore verso di effe, non sarebbe tollerabile:nel numero, perchè al parere del Petrarca: in Dial. de equo; Quot equorum mores totidem equitum pericula; e nell' amore, perchè gl'uomini quantūque grádi, che vi cadettero, furono di ciò biasi. mati; tra’quali Alessandro, Augusto, ed altri. Quindi è, che faggiamente dispone il Deutero.al 17. Rex non multiplicabit fin bi equos ; or dunque come potrà ciò permcttersegli, essendo anche dispendioso?  Sem. Vado or riflettendo come G rę. goleranno quei figliuoli educati benc da Maestri,criusciti eccellenti nelle scienze, se non averanno i Padri attcari, e 'capaci di dar loro direzioni buone in  [ocr errors] j  tempo, che debbono prendere stato : © che faranno ancora quci nati da Padri poco nobili, e meno ricchi,effendo d'uopo riflettere a tante cose per accomodarli bene?  Pab, La gran providenza di Dio supa plisce a questo ; effendoche : bong menfi fuccurrit Deus,Allorchè questi faranno divenuti capaci,cd abili, da loro medesimi comprenderanno qual ha il volere Divino, ed avanzandosi colla loro prudenza giugneranno felicemcate fin dove Iddio averà disposto, che arrivino.  Sem. Io sono rimasto sorpreso allo volte nel vedere cerți mal educati, e poco dotti , ed anco per vie indirctte , giu. gnere a gran posti; ed altri, alle volte quanrunque di vita esemplarc, meritevoli, e capaci, rimanere indietro,  Pub. Questo ancora è un arcano della Providenza Divina ; posciachc essas I tollererà , che caļuno s'avanzi per queste ich vie; mà che ? vedendosi questi nell'au, ge  delle loro fortunc cadere a terra, çi i fa credere, che senza il Divino ajuto  for  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] formino la statua di Nabucdonosor, 12 quale mediante un picciolo falsolino s' atterra, come appunto provò Sejano. I E quelli poi, che rimirate non avanzarsi, avendo merito, Iddio conosce, che quel posto,che voi credere, che compete. rebbe loro, e non lo conseguiscono, non fàrà per loro,effendoche, oc'incontrerebbero delle disgrazie, o pur sarebbe dannoso alla loro eterna salute, e di  quefta verità non dubiterere punto ; perchè alle volte: honores mutani mores, ondes chi sà, che in questi non seguisse cosi? se volete udire altre ragioni sopra di ciò leggete Seneca che tratta diffusamcnte di questo nel libro:quare bonis viris mala accidant cum fit Providentia .  Sem. E che dice di più di questo?  Pub. Tra le altre cose urili dice la Pro. videnza Divina a coloro, che di ciò si prendono rammarico al cap. 6.Quid habetis quod de me queri pofitis vos, quibus recta placuerunt? Aliis bona falsa circum. dedi , animos inanes velut longo , falla. rique fomnio luff, Auro illos , argento ,  ebo  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] ebore ornavi: intus boni nibil eft . Ifti quos profęlicibus aspicitis fi non quâ occurrunt, sed quâ latent videritis, miferi sunt , fordidi , turpes ad fimilitudinem parietum fuorum extrinfecus culti . Non eft ifta folida, sincera folicitas: crufta eft, quidem tenuis . It aque dum illis licet  ftare, co ad arbitrium suum oftendi, nitent , da imponunt cum aliquid incidit , quod difurbet; ac detegat , tunc apparet quantum alta , ac veræ feditatis alienus Splendor absconderit. Vobis dedi bona certa, manfura quanto magis versaveritis , & undique inspexeritis,meliora,majoraque permisi vobis , metuenda contemnere , cupienda fastidire. Non fulgetis extrinfecus : bona veftra introrsum obverfa sunt . Non egere feu  licitate fęlicitas veftra eft. Ferte fortiter, bc.  · Sem. Sin ora abbiamo discorso intorno al modo da provederli senza soccorrerli di proprio , vorrei , che ora m’ istruiste come mi doverò regolare con efli loro nel sovvenirli, vivendo io, e dopo la mia morte ?  Pub,  [merged small][ocr errors] Ec 3  Pub. Questo è un prudente quesito, e dev'esaminarsi seriamente, dependendo da questo il mantenimento ancora della buona educazione acquistata ; posciache bene spesso conforme diffe Tacito: felicitate corrumpimur.  Sem. Come dunque mi dovrò regola. re coll'ammogliato ? perchè non vorrei pensare al suo mantenimento , fentendo giornalmente molci dolersi de loro Pa. dri, che non li provedono in tempo opporcuno di quanto fa loro bisogno; oltre di che sò ancora, che così pensa mio Padre trattarmi.  Pub. Voi dovrete affegnargli unas convenevole, c fufficient entrata, che pofsa baftare per il suo mantenimento ; con questa considerazione di vantaggio di accrescerla, secondo che anderà mul. riplicando la famiglia.  Sem. Mà non averà d'avere qualche cosa di vantaggio del bisognevole?  Pub. Qualche cosarella credo anch' io di fi, perchè accadono alle volte certe spefarelle impensace, alle quali nonfi farà dato il suo equivalente assegnamento; mà per altro non debbono i buoni Padri di famiglia essere molto generoli co'suoi figliuoli ammogliati.  Sem. E per qual cagione?  Pub. Perchè dagli affegnamenti soprabbondanti ne nascono il lusso, las crapola, e cento altri vizj.  Sem. Mà se farà ben’educato non caderà in questi trascorsi .  Pub. L'essere ben’educato opererà , che questi non si dolga del conveniente, e giusto assegnamento fattogli da suo Padre ; mà per altro fate, ch'egli si ritrovi denaroso, troverà ben più d'uno, che gli li porrà d'intorno per farglielo spendere in cose voluttuose, onde toglieregli affatto l'occasione di far questo, che vivererc voi più quieto , ed egli più fano  Sem. Si dovrà quest'ingerire nell'amministrazione dell'azienda ?  Pub. Anzi sarà necessario, che lo facciate istruire in tutte le cose, dovendo egli, non solamente dopo la vostra mor  [merged small][merged small][ocr errors] te reggere la casa , mà eziandio se mai per disgrazia voi v'inabilitaste; o pure per la soverchia età volerte attendere alla quiere.  Señ. Ed agl'altri figliuoli dovrà farsi assegnamento per farli vivere da se ?  Pub. Questo nò: li doverece bensì voi provedere di quanto farà loro'bisogno, al più, che vi potreste stendere; sarebbe d'assegnare loro un tanto per vestirsi, con qualche cosarella di più, mà non già con prodiga mano ; perchè l'abbondanza del danaro è la rovina dei giovani, anco ben educati, e credetemi, ch' io sò qualche cosa in questo particolare, e Mecenate ne sarà tal-volta informato più di me.  Mec. Voi dire la verità, poichè se un figliuolo di famiglia maneggierà danaro, sarà corteggiato da più d'uno, e tentato da questi a prendersi divertimenti d'ogni genere, dove che se non averà, questi Teduttori faranno come le formiche, che non li accofano ove gon è grano ; come dille Ovidio.  Hora  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] Horrea formicæ tendunt ad inania  nunquam Nullus ad amisas currit amicus opes. Sem. Guadagnando taluno di questi, dovrò continuare a fare con effo lui quello, che fo con gl' altri?  Pub. In questo caso voi potreste fargli da economo , affinchè non ispregasse, con rinvestire in faccia sua i suoi guadagni , per animarlo ad accrescerli; ed infieme, per eccitare gli altri fratelli ad imitarlo; e continuerete voi a mantenerlo, essendo la casa non bisognofa ; mà se non bastassero l'entrate al comune mantenimento, il figliuolo bene educato spontaneamente vi soccorerà col proprio guadagno; non potendol prevalere del consiglio di Solone, come riferisce Plutarco: che solamente i figliuoli, abbandonati da loro Padri, non fossero tenuti, allorche questi avessero avuto bisogno di esser soccorsi da figliuo, li, efli didarglielo.  Sem. E se uno de miei figliuoli foffo; destinato a qualche giverno, o 'alera  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][merged small] ca.  [ocr errors] carica dispendiosa,per servigio del Prencipe?  Pub. In questo caso,Sempronio , con. verrà,che voi facciate tutti li sforzi por. fibili in soccorrerlo, anche oltre il bisognevole:e per queste cótingenze debbo. no i buoni Padri avere cumulato danaro per prevalersene, e non bastando, pofsono anche fare debito; perchè questo si chiama rinvestimento, che a suo tempo, oltre il decoro , recherà anco utile alla casa.  Sem. Vediamo ora come dovrò lasciarli dopo la mia morte, ed in primo luogo come averò da contenermi coll' ammogliato; se lasciarlo padrone libero, o usufruttuario con fare la primoge, nitura ?  Pub. Lasciandolo voi, che sia arrivaco in età affodata, e senza vizj, attento alla casa, e versato nel maneggio di effa, potreste anche fare di meno di legarlo con fidecommisso; con tutto ciò, perchè non potrete sapere i naturali de' figliuoli, che da esso nasceranno,  e se  [ocr errors] e se sarà in tempo, per qualche accidca: te di poterlo far esto, non sarebbe male d'istituirlo, con lasciare ad esso qualche porzione libera, per fargli conoscere, che non diffidate della sua bontà, ed at. tenzione in moltiplicare la roba.  Sem. Ed agl’altri, che dovrò lasciare  Pub. Un Ogorevole mantenimento per potere decentemente vivere fecon. do la loro condizione, ed a colui, che foffe capace di avanzarsi nelle cariche, qualche cosa libera per poterlenc prea valere ne'suoi urgenti bisogni , quando le averà ottenure ; må dite che farefta di vantaggio voi, Mecenate ?  Mes. Avendo veduto , che alcuni apa pena eftinti i genitori , quantunque fora to la loro dirczione foffero ftati mode  tariflimi in tutto, pull adimeno pelle o pompe funebri, clutto incominciarona di a slargarli in modo, che non mostravano o essere più quci di prima , cosi ben disci· plinati nella parhimonia ; questo dico mi o farebbe, avendoqualche rimedio, acciocche non foffe in tutta libertà loro di manifestare quel ge nio ch'era quando vivevano i padri fie mulaco,a fine di precluder loro affatto la via di darsi all'eccessivo lusso.  Pub, Sapete pure quanto sia difficile il volere regolare le cose canto al minuto dopo morte ? e quante disposizioni si fanno, che non fi osservano dagli eredi? or come potrete far mai, ch'elli allora fieno buoni economi di quello, che non è più vostro?  Mec. Tutto va bene, mà però certe cose possono farfi eseguire anche dopo morte , perchè li dispongono in vita, ed allor'appunto, che sono proprie; onde perchè non le potrei conseguire difpo. nendo, che si dovesse ogn'anno rinvestire una parte dell'entrate, la quale io credelli soprabbondante al loro decente. sostentamento?  Pab. E che pretenderefte farne di tal vincolato investimento?  Med. Vorrei che dovesse servire per dotare le figliuole ; e credetemi, che  que  [ocr errors] [ocr errors] queste doti d'oggidì, che sono divenute eccessive, sono la rovina delle care, onde quando queste non si dovessero linen. brare da' capitali mi persuado, che sarebbero esenti dal deteriorare per questa parte. Farei ancora assegnamento maggiore a Cadetti, di quello, che alcuni costumano di fare, e particolarmente a quei, che sono ben incaminati per la strada della letteratura, o militare, non servendo questo scarso, ed insufficiente assegnamento ad altro, che a fare maggiormente spregare a primogeniti, godendo più grosse rendite del loro bisogno con pregiudizio de progressi altrui, perchè in sostanza tutti debbonli, e gualmente considerare per figliuoli, e fenza demerito alcuno dell'amore paterno portandoli tutti seco rispettofi.  Sem. Voi Mecenat vorreste reftringere tanto i poveri Primogeniti, che poco rimarrebbe loro per vivere, perchè una parte dell'eredità paterna la vorreste porre a moltiplico, ed oltre di questo  pre  [ocr errors][ocr errors] pretendere ancora di accrefcere gli assegnamenti consueți de Cadetti;onde stencerebbero i poveri Primogeniti a vivere anchę mediocremente,  Mer, lo non hò preteso di appor. car ļoro danno alcuuo, ma bensi più fofto giovamento, liberandoli dallas penosa briga di dover pensare alle dori delle loro sorelle, e figliuoic, facendo trovare queste pronte in tempo , che ne potranno avere biso, gno,  Şem, Sę tante deligenze si dovranno praticarç per li figliuoli ben educati, e dosti , che doverà farsi per quei , che non si farango approficcati nell'educa, zione, e nelle scienze  Pub. L'esaminaremo ia appreso,  SON  [ocr errors][merged small] Come debbano i Padri regolarsi nel  provedere i figliuoli ignoranti,  ç yiziosi,  Publio , Sempronio , Mecenate ,  & Medico.  [ocr errors][merged small][ocr errors][ocr errors] Pub.  Alomone non solamente notificò il giubilo grande,che godono i Padri allorche vedono i lo  ro figliuoli ben di. sciplinati , come al 23. dc suoi Proyerbj dice ; Exultat gaudio paser jufti : qui fapientem genuis lætabitur inco; Må eziandio espresse il rammarico, che ne hanno quei , che li vedono viziofi al decimo ferrimo ove dice ; Ira patris filius ftultus,  dolor matris, qua genuit eum. Quindi  è, che  è, che l'Ecclesiastico al 16. conchiude: Utile eft mori fine filis , quàm impios habe  re.  · Sem. Questi cattivi , e viziosi forse non averanno avuto dircttori nei loro teneri anni, che gli abbiano ben'educari.  Pub. Ci sono di quei, che l'ebbero an. cora, e pure da essi niun giovamento ne riportarono  Sem. Come è possibile questo?  Pub. Dovete voi sapere, che quando il vizio è radicato nel cuore de figliuoli, e che di la si propaga al capo, ardua impresa fi renderà il poterlo svellere, perchè fi rende allora effo quali padrone della volontà ?  Sem. Mà perchè questi non possono. coll'educazione estirparsi dal cuore, e dalla mente quando di effa fi foffero impoffesfati ancora è  Pub. Ardua impresa, come disi farà prenderla con vizj chiamati da Salomone nelle sue Parabole al 2 2. Stultitia colligata in corde pueri; e tanto maggior. io figliuoli, pensare allnde  mente quando chi n'è contaminato non coopererà ancor ello per rimuoverli?  Sem. E come potrà farac di meno, avendo avanti gli occhi canti buoni esempj, ed udendo saggi documenti , e ragioni convincentisfime !  Pub. Si trovano questi talmente accecati, e sordi, che non veggono, nè capiscono nè esempj, nè ragioni ; e queIto nasce ancora dal loro naturale , egenio perverso, che in vece di apprende. re, e vedere con loro profitto li fà porre in deriGone quanto odono, e veggono, come saggiainente insegna Salomone al 15. de suoi Proverbj: Stultus irridet disciplinam patris fui, qui autem cuftodit increpationes astutior fiet.  Sem. Questi genj perversi donde nascono ?  Pub. Dalla poca cognizione dell'onefto, e del vero bene , e da questa deriva, che credono ogni qualunque cosa, che appag! la loro volontà, per onesta, quautunque sia detestabile, ed avendo, fatto in tal falfa ccedenza l'abito, quc  FF  Ito  [merged small][ocr errors][merged small][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] Ito palsa in naturalezza, e genio, per es. ser divenuta la loro fantasia quasi consimile a quei cristalli con artificio lavorati, che fanno comparire le cose proporzionate,e belle per i isconcie,e le íconcie per belle , e proporzionate .  Sem. Indicatemi ora qualcuno di que. Iti vizj tanto perversi.  Pub. Se voi scorgerete in un fanciullo certa crudeltà ferina, qual fù di colui, che con un ago cavava gli occhi a cerci uccelli : d'altri che feriva col coltello, o bastone il compagno, e scorgendo sgorgare sangue maggiormente s'infieriva: o pure una certa inclinazione a trafugare, e nascondere cose non comestibili , prese anco da qualche scrigno: l'essere pertinace, e perseverante nel non dire mai verità, e fare qualche danno per imputarlo altrui; overo quantunque corretto,e gastigato più volte il continuare tuttavia a non volere apprendere cose di Dio, con avere dispiacere di sentirne anche parlare ; imparando ben l'altre dannose al buon costume : non rispettare  [ocr errors] i i genitori , anzi beffeggiarli di più quanworld do sono da elli correcci; e tutti questi di  fetti crescendo esli negli anni vedendosi avanzati più rosto, che diminuiti, credete pure, che limili vizj sono già divenuti padroni del cuore , e della volon. tà.  Mec. Vi fù uno di questi, che in età di cinque anni ammazzò con coltello un  fuo compagno, e non essendo capace, i per  essere di sì tenera età, di gastigo, o proporzionato a tal'eccesso, commesso anche con crudeltà  per  li rinovati colpi, a che gli diede, fu fatto caftrare in pe  na da quel Prencipe dominance, dicendo egli, che non voleva razza di simili fiere nel suo dominio .  Sem. Mà hò udito riferire più volte, che pur si rendono máfuete le fiere ache o più crudeli; com'è poflibile dunque, che  questi, in qualche modo, dall'industrias umana non si possano domare? esaminiamo di grazia, se vi poress’essere qual  che rimedio, per rendere mansueci anco o questi, o pur datemi sopra cio, per mio  Ff 2  re  regolamento, qualche buon consiglio ; perchè , fe Iddio per gastigarmi mi desse un di quefti figliuoli, io sarci il più infelice uomo tra tutti i vivenci.  Pub. Lo credo, e perciò bisogna, che cominciare da or'a supplicarlo, che non vel dia , ed essendo egli sì misericordio. fo, potrete dopo reiterate preghiere an. che sperarlo ; e voi, Dottore, avete alcun rimedio di quelli, che chiamare eradicativi per isvellere questi vizj?  Med. Se non foffero cotanto radicati spererei disì, mà farò qualche studio particolare , anche intorno a questi, per vedere se G trovasse alcuno specifico, almeno, che potesse minorar loro tant' orgoglio ,  Pub. Se si trovaffe questo sarebbe gran vantaggio ; perchè allora coll'educazione li potrebbe fare qualche cosa di più, se non in cutti, almeno in alcuni di esli , onde pensateci seriamente, e fare qualche sperienza tractanto , per riferire a suo tempo ciò, che averete ritrovato giovevole.  Sem.  [ocr errors] .  Elio Sem. Mà intanto insegnatemi almeno แบ่งชี้  quello, che li potcffe fare di vantaggio 11  nell'educare questi, perchè poi, che averà ritrovato qualche rimedio il Dotcore, mi informerà di quello.  Pub. Şe fi potesse discernere in tempo, che prende il latte quel figliuolo,in cui la crudeltà volesse fare progresi, la prima cosa che farei, sarebbe, di mutargli la nutrice, se fosse donna risentita , e tiera, ed in vece di questa gli farei dal Dottore scegliere un latte di balia pacifica , e femmatica; effendocche di ciò me ne porge morivo quello, che seguì all'Imperatore Commodo, il quale per essere stato nudrito da una donna rifen  tita, e barbata come un uomo , data* gliela affinchè diveniffe generoso; mà in  vece di questo divenne un gladiatore ,  per non dilergarfi di altro, che di sangue, j  e di caroificine, ed hà ben creduto talun che appunto detta balia fosse figliuola di gladiatore.  Med. Olrre lo sceglierla proposito,fi potrebbe anch'essa far nudrire di erbe,ed altri cibi di tenue sostanza, e toglierle ache affatto l'uso del vino, e slattato che fosse il fanciullo converrebbe non fargli gustare, ne vino, ne carne per alcuni anni; mà è cosa difficiliffima, per non, dire impossibile , a conoscer quisto ne? bambini.  Sem. A questi sarebbe bene, fin dalla tenera età cominciare ad usarglı gran rigore per vedere di domarlo?  Pub. Se si verificasse realmente che le vespe muojono nell'olio, e risuscitano nell'aceto,converrebbe,per estinguere vizj li perniciofi, valerli più costo del dolce lenitivo, che dell'afpro pungente; contuttociò per assicurarsi meglio con. viene regolarfi secondo gli effetti, che produrranno in loro i gastighi ; essendoche xlcuni fanciulli nella tenera era acora s'infieriscono allorchè fi veggono perciotere colla sferza, onde senza  pro ditco alcuno questi di batterebbero, come insegnò Salomone : ne suoi Proverbi al 27. fi contuderis ftultum in pila quafi pofanas feriente de super pile, non aufes retur ab eoftultitia ejus Semo  erli che  Sem. Ponendosi questi per la buona via , con deporre gran parte della loro fierezza, si potrà sperare, che divengano buoni?  Pub. Dee sempre temersi, che possano ricadere nel medesimo eccesso, non potendosi ne anco alle bestię togliere af. fatto la fierezza nativa, quantunque mostrino essere divenute mansuete.  Mec. Riferirò a questo proposito ciò che seguì di un Leone : questo era divenuto apparentemente fi mansueto,chę girava per tutta la città senza recare molestia ad alcuno; mà abbattendosi un giorno in un macellaro , che portava sulle spalle un gran pezzo di carne , se gli avventò alla vita, lo ferìgravemente colle unghie,e se non era pronto a dargli la detta carne,l'averebbe anche sbranato. Così mostrò la sua fierezza , che teneva di anzi celata.  Sem. E quelli , che mostrano inclinazione al furto ?  Pub. Questi ancora, se Iddio non gli ajuta', termineranno malamente la  lor  [merged small][ocr errors] Ff 4  loro vita; effendo cosa assai difficile, per non dire impoffibile, il poter svellere af. fatto tal vizio ; perchè quanrunque alcuni non siano forzati dal bisogno, las cattiva loro inclinazione li porta a rubare,  Sem. Si possono questi gastigare colle sferzate ?  Pub. Così fi dee fare, perch'essendo vili di natura, enon superbi come i primi , dalle percoffe possono ricevere profitto,almeno in aftenersene per qual  che tempo.  Mec. Abbiamo l'esempio di colui , che condannato a morte per ladro, conducendosi al paribolo fè premurofiffima istanza di rivedere sua Madre, ed oricnura che l'ebbe, avicinoffi tanto ad essa, che coi denti le svelre un orecchia, dicendole: per colpa voftra io vado al paribolo, perchè, fe foffi ftato da voi ga. ftigato da piccolo, non vedreste tale spettacolo, ne tampoco io soffrirei queIta ignominiofa morte. Pub. E neceffario ancora condurli a  31  2  vedere far giustizia, e con tal occasione insegnare loro qual gastigo meritano quei, che rubano', e che in oltre sono semprc miserabili questi infelici, come ben conobbe Salomone al is, de' suoi proverbj:Alii rapiuni non fua, & femper in egeftate  funt , Mec. Un simile obbrobrioso speccacolo indusse una volta gran terrore ad uno quantunque ftolido mendico ; poscia che per essere stato giustiziaco un monctario falso, aveva una collana appesa al collo di dette monete falsificato da esso, e credendo il mendico, che per quelle monete foffe fatto morire , al. lorchè taluno gli esibiva una moneta di argento, la ricusava con allontanarli da eslo , contentandofi solamente di quelle di rame, che non le aveva vedute appese in quella collana di vituperio.  Sem. Mostrando poco rimor di Dio , e meno rispecto a genitori?  Mec. Questo appunto, essendo il vi. zio peggiore di catti, diviene incorrig. gibile per opera de'genitori.  [ocr errors][ocr errors] Sem. E per opera di chi fi potrebbe emendare?  Mec. Polemone essendo giovane fu viziofiffimo a segno che si portò un giarno alla scuola di Zenocrate, non già per apprendere da esso alcun buon documento, mà bensì per disturbare più tosto quei, che aveano genio d'apprenderli; avvedutofi di ciò il saggio filosofo, cominciò a favellare sopra il vivere onesto, e li vantaggi, che da esso firiportavano, e con tali convincenti ragioni , che rimase sorpreso il vizioso giovane a segno, che abbandonò i suoi viziosi compagni per seguitare Zenocra. te, da i di cui buoni documenti, u modo di vivere esemplare, si cambiò da peffimo , ch'egli era , in ortimo, e da ciò ne deduco, che ancor voi non dovete indugiare un momento di più, essendo il figliuolo in età capace, di non mandarlo in qualche esemplare seminario , affinchè , co'i documenti, e colli buoni esempj apprenda , e miri ciocche fare gli convenga; e proccuracedi non farlo tornare più a casa vostra, se non averà mutato costume , e state ancor voi lontano da esso, mostrandovi dif. gustato del suo modo di vivere'; e sapranno ben quei buoni' directori, ayvezzi a domare fimiliceryelli, allertarlo al bene, e con modi più spedienti correggerlo, e punirlo, affinchè li emen. di.  Pub. Debbono parimente i Padri ftare cautelati nel gastigare i viziosi loro figliuoli, divenuti grandicelli, perchè fi potrebbe dare il caso, che questi sentendosi percuotere, fi rivoltassero contro di effi , e li znaltrattassero ancora :  Sem. Se per disavventurà de poveri genicori rimanessero questi incorriggibi. li , che fi averà da fare per provederli?  Pub, Udite come mai parla bene a in questo proposito l'ecclesiastico ál 22.  Confufio Patris eft de filio indisciplinato: onde come potrà mai in simile confun fione régolarsi egli con prudenza! Certa cosa è, che per prender moglie questi  non sono buoni ; per Rcligios- neanco; .  de  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] de maneggi della Republica non sono capaci; talmente che non sapranno, che impiego potessero far loro ottenere.  Sem. Perchè non sarebbero buoni a prendere moglie ; pofciachè chi sà, che divenendo capi di casa non mettessero giudizio ?  Pub. A voi darebbe l'animo di convivere insieme con costoro, se vi foffero compagni  Sem. A me difficilmente.  Pub. Or dunque, perchè volere porli a convivere con una giovane senza fpe. rienza? ed a che vica infelice fiespor. rebbe questa con marito si vizioso? E poi roi procurate fare il poffibile per togliere da effo i vizj, e non essendovi ciò riuscito , pretendere forse far razza de suoi difetti In quanto poi, che il prendere moglie li possa fare mutar coItume, non è credibile ; perchè, se Mulieres faciunt prevaricari fapientes, che faranno a vizioli di questa specie? Ne fi potrà persuadere alcuno, che questi tali non abbiano già provato le dissolu.,  sez:  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] tezze di Vegere, perchè i vizj al parere di Seneca non vanno mai foli; e se quem ste non hanno moderato il loro orgoglio, che più potranno acquistar di buono conginngendosi in matrimonio Il dir poi, che si prenderanno il pensiero dei loro tigliuoli nell'educarli, questo è lontano dal vero ; perchè li vorranno bensì allevare limili adelli, e quando ciò non riuscisse loro palcsemence, mediante le diligenze usate in contrario dalle Madri, faranno il possibile nasco, ftamente di conservare in effi, alincno in propri difetci, acciocche non li dica, che non liano loro degni figliuoli; come ap parisce dagli esempj dell'ubriaco, e de beftemmiatore riferici di sopra .  Sem. E qualcuno di questi perchè non si potrebbe indirizzare per la vian Ecclefiaftica  Pub. Peasate voi che questi abbias vera vocazione di caminare per queIta santa via.  Sem. Mà se G dichiaraffe, che a volesse indirizare per essa , e mi pregafle,  che  [ocr errors][ocr errors][merged small][ocr errors][ocr errors] che gl'impetrafli qualche pingue beneficio, averò da ricusare il farlo 2  Pub. Certamente che sì, perchè quefi farà mosso dall'intereffe, cioè dal conseguire l'utile del pingue beneficio, non già dal servire a Dio, come far dovrebbe ; onde farà non diffimile a colui, che brama prendere moglie, non per il fine del santo Matrimonio, mà per l'intereffe della pingue dore, che si ritrova colei , che vuole sposare.  Mec. A proposito di groffa dote fece una donna accorta una bella burla al suo futuro sposo: Ella era per verità alquanto deforme, e perciò più d'uno dicca al giovane, che la voleva prendere, il qual era molto bello, che l'aveffe rimirata meglio prima di sposarla,cui rispondea, che li bastava di effettuare il matrimonio , per dare di mano alla grossa dore , che aveva; per altro, che di tal moglie punto non si curava i Fù ciò riferito alla giovane, la quale fe portare da una sua damigella, allorchè fi dovea spofare, una grolla borsa di danaro in Chiesa, ed  aspete  [ocr errors] [ocr errors][ocr errors] aspettò , che il Parroco avesse domandato allo sposo se la voleva,il quale udito ciò disse, senza indugiarvi punto: disi; allora l'accorta donna si fe sporgere la preparata borsa , e tenendola nelle mani, allorchè fu ricercata anch'essa del suo consenso, nulla rispondeva ; ne fi sapeva che fine doveffe fare quella borsa; perchè il futuro sposo si speranzava, che dovesse servire per un publico donativo per  effo , ed i Chierici, che fosse la mancia per loro : alla fine stimolata più volte a rispondere ella disse; se questo fignore si è dichiarato volersi sposare collas mia dore, questa, mostrando la borsa,essendo parte di essa, mentre non risponde, è segno , che non lo vuole qual consenso dunque hò da dare io s'egli brama la mia doce, e non già me? e così confuso, e mortificato partì il giovane ; onde non vorrei , che facesse il beneficio ancora il Gmile, di ricusarlo, facendo con esso l'amore a cagione della sua dote.  Pub. E poi dovreste anche rifletreredi quanto scandalo sarebbe un ecclefiastico vizioso , dovendo cgli essere lo fpechio de'buoni costumi; ne fperace , che questi,che si muovono per fimile fine possano divenir buoni ; ponno divenire benli peggiori impiegando il danaro sa. gro in cose viziose.  Sem. E se caluno di questi volesse applicarsi al governo della Republica, c chiedesse il mio ajuto,per poter e ottencre qualche posto per via di favori, e di regali; perchè non ho da compiacerlo?  Pub. Questo ne tampoco doverete fare, perchè se fosse d'uopo amministrar la ! giustizia,nó direbbe già egli quello, che diffe Giulio Cesare : che per un Regno di poteva far torto alla giudizia, perchè lo farebbe per assai meno, effendo ano che  capace di farlo per sodisfare an folo de suoi viz); onde tanto voi, quanto chi vi avesse contribuito entrerette a parte di tutte l'ingiustizie, ed iniquità chia capace di commettere un vizioso.  Sem. Che dunque doverei fare , per non vivere da disperato , quando avelli alcuno di questi?  Pub.  [ocr errors] Pub. Mandarlo alla guerra per fargli provare come Gi vive, cd alle volte  qucIta è l'unica medicina di questi cali; perchè se fono fanguinarj possono faziarsi del sangue de nemici; se attendono alla rapina nc'saccheggiamenti possono sodisfare la loro ingordigia;se poco cimorati di Dio, e niente rispettoG a genitori, vedranno quanto temere Gi debba , e rispetrare un Capitano quantunque non gli abbia creati, o generaci; onde poirebbe essere, che il Signore Iddio gli toccaffe il cuore, e facesse comprende, re, che se tanto li fa per un uomo , quant. to di più fi doverà fare per Iddio, e per chi lo gencrò !e sappiate , che dalle lega gi di Mosè venivano questi condannati ad esser lapidati dal Popolo, come nel Deuteronomio al 21. Si genuerit homo filium contumacem, da proteruum, qui non audiat Patris , aut Marris imperium, co coercitus obedire contempferit, appraben. dent cum, ducent ad seniores civitatis illius, & ad portam judicii , dicentque ad ços c. lapidibus eum obruet populus Civis  Gg  tatis  [ocr errors][ocr errors][merged small][ocr errors][ocr errors] taris, ut auferatur malum de medio ucStric. onde in vece di vedere fimile spettacolo sarà pur meglio mandarli alla guerra, la quale faggiamente fu difi. nita: Infolefcentis generis humani tonfura.  Sem. E se ricufaffe di andare alla guerra ?  Pub. E voi figuratevi, che vi sia già andato, e fatto prigione ; onde rinchiudetelo in qualche fortezza : non avendo però commessi ancora reati gravi , affinchè non siano puniti dalla giustizia con morte ignominiofa; conforme qualche volta è seguito; e tenerelo ivi fin tanto che camperere, che così farcte sicuro, che non commetterà gravi eccelsi, trovandosi guardato, e custodito , Non bisogna però, che prendiate cal risoluzione a sangue caldo, mà fateci matura riflessione : c regolatevi ancora col consiglio di qualche faggio , e buono amico,  Sem. Per dopo la mia morte comes avero da disporre le cose ?  Pub.  Pub. Con lasciare a cattivi figliuoli ma solamente tutto quello, che non potrei te cogliere loro, non per odio persona  le; mà de loro vizjicon questa condizio. ne però , ch'effendosi ravveduti, dopo un triennio di vita esemplare, poffino godere un tanto dei frutti della vostra eredità; e perseverando nel ben operare abbiano ancora d'avere qualche accrescimento maggiore ; qual perdano intieramente, ed immantinente, ricornando a menare vita scandalosa.  Sem. E se fingeranno di essere divenuti buoni a fine di poter godere quel i frutto maggiore?  Pub. Non sarà meglio, che facciano così,che operino sfacciaramente male ? de l'interno Iddio solamente lo rimira ; le  l'esterno appena è palese a gli uomini, i  quali di questo solamente pouno appa-  garsi; e poi vi è stato qualcuno ancora ,  ch’hà incominciato a menar vita mi-  gliore , per conseguire qualche premio,  che poi si è ravveduto da dovero.    Mec. Vi è l'esempio di quel Soldato,   che  [ocr errors][ocr errors] bu  COM  [ocr errors] [ocr errors] che si racconra essere stato convertito da S.Francesco Saverio : Questi era un pessimo uomo, ed iracondo a segno, che non averebbc sofferta una parola anche indifferente, che non l'avesse appresa detta per lui, e volesse anco vendicarsene . Le ainmonizioni, ed esortazioni faccegli dal Santo nulla giovavano; alla fine li disse mostrandogli una moneta di oro, se voleva guadagnarsela rispose francamente di sì : or sù dunque replicò il Santo venire meco , e giriamo d'incor. no l'esercito ; Io la porterò in mano, affinchè la miriate, e voi non avete a fare altro, che di sopportare con pazienza quello, che udirete dire contro di voi. Fù dato principio alla grande ope. ra,ed egli rimirando con occhi tifi l'oro, si rideva di quanto male udiva contro di sè, e cerininato felicemente il giro, guadagnò il premio. Allora il Santo tiratolo da parte gli disse: figliuolo mio per una si vile mercede voi avere potuto sopportar tanto, e per un Dio non poteie sofferire una minima particella diquesto ? il Signore Iddio in quel punto $ gli toccò il cuore , e fi ravvide per sempre.  Sem. Mà se poi i difetti de' figliuoli non fossero gravi a questo segno, e fos. sero di quelli, che pure non disdicano ganto, per essere divenuti ormai familiari, potrebbero con questi proporsi a sudetti ministeri, ed impieghi ?  Pub. Spiegatevi apercamente, quali voi intendere per questi vizj familiari?  Sem. Per esempio se caluno di esli avesse principiato da 14: 0 15. anni a dimorare la maggior parte della notte fuori di casa, e quancunque suo Padre l'avesse più volte ammonito, che non lo facesse , ed effo ciò non oftante continuafle ; contraeffe debiti; e perchè è figliuolo di famiglia, non potendosi obbligare, facesse obbligazioni dette pagherà. con grandissimo difcapito, senza data , per  firmarla dopo la morte di suo Padre; ed altre cosarelle non tanto familiari; come dir male del profimo , di mancare alle volte alla parola data ; ne  ga:  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] GS 3  [ocr errors] gare ciò, ch'egli averà avuto; e se riyscirà , di gabbare il compagao nel giuoco; con altri piccioli vizj di questa forte?  Pub. Cofarelle, piccoli vizj voi chiamate questi! E non riflettere,che quando il giovane li sarà abituato in questi ugua. glierà egli taluno de vizioli di primo rango: ad uno che sarà avvezzo  la  maggior parte della notte dimorare fuori di sua casa, e sarà giovane, voi volere impetrare beneficj Ecclesiastici, ed im. picghi gelosi della Republica ? Và forse a studiare in quelle ore, o a farsi la disciplina negli oratorj, quando i studj, e questi sono ferrari ? e come vi persuadete, che possano adempire l'obbligo loro, effendo scarf di dottrina , e di buoni costumi, ed applicati a cose, in cui per la meno inutilmente si perde il tempo a e fatta che averete rifcllione agli altri loro vizj, che avete apportati ; consigliatevi colla vostra coscienza se lo potrete fare : mà esaminiamo di grazia donde ciò proceda, e se sia solamente colpa de figliuoli canto deviamento.  Sem.  [ocr errors][merged small] Sem. É' loro certamente; perchè hò sentito lagnarsene i Padri di questo, col. le lagrime su gli occhi.  Pub. Questo fu il pianto del coccodrillo, che piagneva il suo figliuolo allorchè lo aveva ucciso: come si sono portati questi Padri nell'educarli?  Sem. Certa cosa è, che tante diligenze, quante ne hò udite nelle nostre conferenze,non le han faute.  Pub. Or dunque, se non gli hanno educati bene, a dolgano della loro trafcuraggine, perchè viziosi li vollero efli.  Sem. Mà che averanno da fare ora?  Pub. Questa penitenza appunto, che Iddio manda loro;di sopportare figliuo. li viziogi .  Sem. Ci sarà pure qualche rimedio?  Pub. Ciè certamente, ed è questo; di fare alli piccioli nepoti ciò,che non fece. ro a loro figliuoli, cioè di educarli bene; perchè altrimenti, non essendo capacii loro Padri di fare questo, i vizj non li fyelleranno mai dalle loro famiglie:  Sem. Voi diceste,che questo cocchi al Padre,  Pub,  [ocr errors][merged small][ocr errors] Gg 4  Pub. Sibene quando sia capace di farlo, e vi pare , che questi viziofi fiano abili ad educare i figliuoli a suo dove-' re? Il loro mal esempio come permetterà, ch'essi apprendano le virtùd Onde quantunque schiamazzino alle volte redendo i loro figliuoli viziosi,č incerco se lo facciano per zelo di amore, o per invidia , perchè non possono essi più con. tinuare fimile vita rilassata essendo vecchi.  Sem. Io hò cap to a bastanza , ed ora compreоdo la cagione; perchè nell'universale non si possono affatto estirpare i vizj, mà voglio approfittarmene per casa mia, per non avere anche io a fare il pianto del coccodrillo. Ma le povere figliuole come si doveranno provedere? essendo gran disgrazia loro, quando capitassero in mano di simili viziofi.  Pub. Esamineremo anche questo , nà non è ora tempo ; perchè richiede affare si rilevante lungo ragionamento.  CON  [merged small][merged small][ocr errors][merged small] [ocr errors] Pub.  Onfesso ingenuamente che non séza rigione alcuni Pa. driffi contristano ál. lorchè nascono tan,  co loro figliuole ; perchè il penfare a collocarle bene non è piccolo intrico, chiamandoli questo affare dall'Ecclefiaftico al 7.opera grande dicendovi: Trade filiam, & grandes opus feceris, o bomini fenfato da illam; posciache saranno state educate alcune di effc col timore di Dio, senza lusso ,c vagità, modeste comc fi dee, istruite inquanto è necessario per il buon regolamento di una casa; mà che servirà loro tutto questo , se capiteranno in mano di un marito imprudente , vizioso, ed indiscreto! e fimile appunto a quello , ch' ebbe quell'innocente Giustina , il di cui Epitatio sepolcrale è questo.  Immitis ferro secuit mea colla mari.  [ocr errors] Dum propero nivei folvere vincla pedis  Durus, ante thorum , quo nupér   nupta coiur,  Quo cecidis noftrę virginitatis honos.  Nec culpâ meruisse necem bona Numi-       na testor,  Sed jaceo fasi forte perimpia mei  Discise ab exemplo Juftine , difcite pa.   tres  Ne nubat fatuo filia veftra viro. Or vedete Sempronio, che gran facenda è questa !  Mec. La conobbe afrai bene Democr. appresso Stob. dicendo: Qui bonum generum nactus eft invenis plium, qui verò, malum, fimul & filiam perdidit: quindi è,  che  [ocr errors] che saggiamente fù conligliato da Temiffocle quel Padre, che desiderava das effo fapere , cui dovesse dar per moglie l'unica sua figliuola; se al dotto povero, o al ricco vizioso, replicò egli a mè aggrada più l'uomo, che ha bisogno di ricchezze, che le ricchezze , che hanno bisogno di uomo : come dice Val. Mas.  Sem. Mà quando si sono fatte le dili. gen ze necessarie, e fiè già rincontrato, che sia imprudére, e vizioso chi la vuole perché non si esclude fimile soggetto ?  Pub. Se voi sapeste quante fraudolenti manifatture Gi fanno, per avere unas giovane savia per moglie, stupireste; anzi quante più d'imperfezzioni hanno i giovani, che vogliono accasarli seco, tanto maggiormente queste si adoperano, tanto si fa,che alla fine riesce fimile facenda.  Sem. Mà chi sono questi, che faranno tante manifatture , non essendo capace un fimil giovane di farle ?  Pub. Se non sarà cgli, saranno ben’i suoi congiunti , i quali raffidati, che per  [ocr errors] [ocr errors] Il fingo della futura sposa cffo possa divenire saggio, tanti ponti di oro le faranno , che alla fine caderà a dire di sì.  Sem. Mà i genitori come lo permetteranno?  · Pub. Saranno ancora effi sforzati a chinare la cesta, quando colla linguas non poteffero arrivare a proferire quel doloroso sì.  Sem. Saranno dunque anche i suoi genitori poco prudentia  Pub. Oh bene : non fiete voi ancora a pieno informato dal mondo; mà ne ben Mecenate.  · Mec. Ne sono pur troppo, anzi fono arrivato a conoscere , perchè fi dica insa geniofus amor; avendo scoperto, che amore aguzza l'ingegno de fuoi fenfali, e rende anche artificiofa la lingua alla menzogna .  Sem. Mà che potrebbero fare questi, quando il Padre steffe faldo in non volergliela dare?  Mes. L'ingegno agguzzato fi ferve dell'autoricà, e la dispone in modo , che  [ocr errors][ocr errors] niuno più degno di merito si affacci a chiederla, per rispetto di colui, col quale si tratta : e sapere pure, che in questi cali, per non fare inimicizie, non li vicne mai alla negativa scoperta , potendovi costringere ad addurre un ignominiofa cagione,per cui far non si vuole: Siprude bensì un mezzo, termine, quale è che la giovane pensa di farsi monaca; laonde in questo mentre dal sudetto pretendente fi fanno affacciare tutti li peggiori, ed i più scapestrati giovani, che siano nella Città a chicderla,e cutci inferiori di condizione ad ello; talmente che il Pae dre , che la vorrebbe maritare, trovan  dofi annojato, alla fine li piega, per non che trovare soggetto migliore, che la fac. i cia domandare : e tanto più, che si tro  verà circondato da consiglieri già guadagnati da chi la pretende.  Sem. Sarà dunque peggiore , e più id svantaggiosa la condizione della donna nell'accasarsi , che dell'uomo.  Pub. Non ci è dubbio alcuno, perchè l'uomo non è ricercato, ne violentaco  per  [ocr errors] en  [ocr errors] per parte della donna, mà beasi effa da chi la brama.  Mec. Può essere,che quando voi prendeste moglie ciò non li coftumaffe ; mà ora posso dirvi di certo,  che questo li pratica, essendo seguito in persona mia, che ho avuto più d'una richiesta fe.voleva accasarmi colla tale, senza ricer  carla.  Sem. Or io quantunque non fia versato sufficientemente nelle cose del mon. do, procurerei segretamente di trovare un giovane favio,quantunque meno ricco, e la darei a questi; perchè sposata , che fosse,hò sempre udito dire, che: multa facta tenent, così finirebbe ogni conresa.  Pub. In somma in questi casi, chi più sà, più s'inviluppa nelle difficoltà; onde alle volte riescono migliori certe risoluzioni fatte senza tante rifellioni ; c voi Sempronio, non avete detto male; mà non saprete già scegliere questo giovane savio così all'infretta; converrà dunque che l'impariats,     ed  [ocr errors][ocr errors] Ff 3   Ес   Pub. .  [ocr errors] 1  [ocr errors] 1  Sem. Come si doverà dunque fare per conoscerlo?  Pub. Il Padre che ha figliuole da mai ritare dev'essere un Argo, per rimirare  nel medesimo tempo cento giovani, ed offervare i loro andanlegri.  Mec. Oggidì però non è necessario averne tanti ; perchè con soli due occhi moltissimi difetti li possono ritrovare ne giovani, ed in breve; quantunque non corrano quei calamitosi tempi, che accenna Giovenale alla satira 13. Humani generis mares sibi noffe volenti  Sufficit una domus , paucos confus  me dies, do Dicere te miferum poftquam illic vec  [ocr errors] neris,  [ocr errors] Pub. Fatemi piacere dunque voi, Mecenate,d'istruirlo in questo giacchè fiece più pratico di mè nel discernere i giova. nili mancamenei correnti; perchè a tempo mio la gioventù viveva diversamen. te, e perciò fi ftentava più in iscoprire i loro difetti. Mec. Lo faro, perchè non voglio, ri  CU:  [ocr errors] cusandolo, che vi confermiate nellas credenza di qnello , che di me sospettafte,che io fia nimico delle doone,poscia. chè io ammiro la virtù in alcune di esse, e perciò non vorrei, che questa mancafse affatto, abbattendosi in viziofi mariti: onde se voi, Sempronio,vedrere un gio.. vane accompagnarfi, e conversare continuamente con taluno, conosciuto da voi per vizioso y tencte pur ancor esso per tale, senza fare altra diligenza; verificandoli quel proverbio:all'accoppiar ti veggio.  Sem. E se fi desse il caso, che questi non converfaffe con altri?  Mec. Questo è difficile oggidì, che fi conversa tanto; mà se caluno fuggisse le conversazioni,mirate bene la sua firo. nomia, e se la scorgerete tetra , e inalinconica tenerelo pure per uomo infociabile, e non senza i suoi difetti proprj; se poi foffe allegro, disinvolto, e non converfasse oggidi con altri, formatene buon concetto di esso; perchè lo farà a cagionc , che non troverà coma  pa  de pagni bene accoftunati uguali ad effo.  Sem. Vorrei qualche altra regola,per meglio potermene avvedere ; perchè se non conoscefli per viziofi quei, co’quali egli conversalle, potrei ingannarmi.  Mes. Se voi vedrete un giovane stare in chicfa con poca divozione, e discorserc ivi co i compagni comc farebbe in piazza, questi farà poco timorato di Dio; se frequenrerà le feste, cd i passeggi, e rimirerà con grand'arrenzione le donne, in cui si abbaite, farà egli effemminato ; se dispreggerà i suoi compagni, cvorrà avere sopra di essi una certa superiorità , farà superbo ; se li piacerà vestire con pompa , sarà vanos se poi oggi dirà una cosa, c domane ne farà una alıra, farà incostante; e finalmente se frequenterà i ridotti, ove si giuoca , gran genio egli avrà a questo vizio; in somma da se medesimo colle sue operazioni manifeftcrà i suoi difetti.  Sem. Starei fresco, se aventi d'accomodare una mia figliuola in questi tempi, dovendo fare tante diligenze; mi cor.  H  vers pa  [ocr errors] verrebbe prendere la fantcrna di Diogene, ed andare per la città dicendo: homi. nem quæro, e caminare più di un giorno per trovare, chi fosse in cucco; e per turto, senza alcun de'detti diferci.  Moc. Mà chi non vuole affogarla , dee anche servirsi del cannocchiale del Galileo,che scuopre le macchie del sole.  Sem. Io mi persuado, che se i Padri, c le Madri riguardassero al minuto curti i differti , pochi troverebbero moglie.  Mer. Sarebbe questo la fortuna de i giovani; perchè non trovandola allorsi che incomiacierebbero a spogliarfi do loro vizj, ed in breve diverrebbero bene accostumari, ed a tale proposito posso riferirvi ciò , ch'è seguito in una riguardevole città. Affinchè iCadetti andassero con più fervore, di quello faccano , alla guerra, cominciarono le donnc a non ammettere alle loro conversazioni coloro, che non avevano fatte almeno dues campagne in gucrra viva ; conciofiacofache li reputavano vili, e codardi.Servi tale renitepza di Aimolo grande a tutta  la  Die la gioventù per andare alla guerra;  segnoche pochi furono quci, che non Si seguitassero i primi, che vi andarono: " or se una fimile ripulsa molte canti ad  andare incontro alla morte; dovrebbe certament’essere di stimolo maggiore, per andare incontro alla vita migliore, quando questi non trovasfero inoglie.  Pub. Vedete voi,Semprouio,che sconcerti sono questi, di non potere con facilità come prima trovare mariti a proposito per le figliuole, c.questo da che na. sce, se non dalla cattiva educazione  della gioventù ? rifecrcte dunquc quano co debba premcre questo affare anco alla Repubblica,  Sem. Io lo scorgo molto bene; mà che fi dovrà fare ritrovandoci in queste an.  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] Mec. Quello che disse quel Filosofo, che presc per moglie una donna allai picciola, allorchè fu interrogato, perchè l'avesse scelta così, egli rispose : perchè del male conveniva prenderne il minore: il fimile anche dirò io de'mariti difetto  Hhafi; di prendere quei che hanno vizj me. no considerabili , che fono appunto quelli che riescono men disdicevoli alla condizione del galantuomo.  Sem. Maritandofi dunque con questi, che buona direzione doverà darfcle da genitori?  Mes. Debbono i genitori allorche le maricano non seguitare quel caccivo costume di alcuni , che le consigliano a farli rispectare, e ftare sostenute con tutti, di non farli sottomettere alla prima, perchè diverranno, così facendo, infelicissime, quantunque portassero groffa dote, mà le consiglino bensì nella forma, che fecero i genitori di Sara, allorchè la consegnarono per isposa al secondo Tobia con groffa dore; ed uditc ciocchè fecero Tob, 10. Apprebendentes parentes fo. liam suam ofculari funs eam, & dimiferunt ire monentes eam, bonorare foceros, diligere maricum, regere familiam, gubernare domum, da se ipsam inreprebensibilē exhibere.  Sem. E se un Padre avesse tre , o quattro figliuole, che si volessero mari  tare  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] tare cuite, chc dovrà egli fare, non efrendo molio ricco?  Mec. Maricarle , con dar loro quella dote più congrua, che può.  Sem. Mà li scomoderebbe troppo privandosi di sì considerabile somma di danaro, o quantità di roba, che con. veniffe dar loro maritandole turce.  Mec. E come potrebbe farac di me00?  Sem. Potrebbe farlo beniffimo con efortarlca fará Monache.  Mec. E se non Gi volessero fare?  Scm. Non mancano modi al Padre accorto, che ci facciago, o colle buones ocolle cattive.  Mec. Padre voi chiamare colui, che vuole sforzare la volontà delle figliuole? chiamatelo Padrigao, non accorto, màcrudele; perchè qual delitto hanno queste commesso da chiuderle in vitas. contro il loro genio?  Sem. Come chiuderle in vita, trattantandosi'di darle, e consagrarlo a Dio?  Mes, Non si chiama darle a Dio ,  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] qualia  quando la loro volontà non ci concorra, nè consacrarle a lui, quando non ci sia il lor consenso : questo li chiamná porle a penare continuamente, non avendole iddio chiamare a questo stato : ( guai a quei Padri , che lo faranno, perchè del bene, facendone tanto poco, che non basterà loro , punto non ne parteciperanno: del male si che ne faranno partecipi di molto, essendo capaci di farlo, trovandoli in iftato di disperazione. E fappiate, che mi fù riferito un caso orribile di una di quelle, fatta Monaca per forža, la quale , quando ebbe eseguito quanto defideraya il Padre, lo chiamò alle grate del Monastero, cgli disse alle orccchie : fignor Padre or farcte conten. to, che mi avere levata di casa.in  que: fto mondo non ci rivederemo più ; må bensi nell' altro ed in pellimo luogo, perchè ci danneremo ambiduc . E che vitupero è questo ; per far godere i maschi, li hanno da porre in disperazione Je feminine? Se voi non potere dar loro dieci mila sçudi di dorc, dategliene me  no,  [ocr errors] cina  no , ed acca sacele; quando volontaria. mente non siano inclinate alla vita reli  giosa. Non vi chiederanno già quel tal e giovane per i sposo, mà vi faranno dire  bensì, che la loro vocazione sarebbe di  accasarli . Starà dunque al Padre marii tarle a chi più gli aggrada ; mà so ben io da che ciò procede.  Sem. E da chc?  Mec. Dall'eccellive doti, che corrono, le quali oltre il dispendio,che apportano per le spese grandi, che si richiedono allorchè â prendono, angustiaao ancora quando hango a darli altrui nel maricarsi le figliuole.  Sem. Or io non voglio nell'anima. mia questo peccato ; fe li vorranno maricare cutte, le lascierò mnaritare; mi diremi: che dote farebbe proporzionata, Publio ?  Pab. Quella , che fi foleva comune. mente costumare prima , che foffero inse dal Prencipe , come già dicemmo ; e  se  [ocr errors] Hh 4  feaveste da trattare co persone discrete, potreite anche di loro francamente, che non vi curate di tanti lussi, e perciò volece dare quella dote, che si costumava in quel tempo, che questi non vi erano: o fi contenteraano, e voi averete fatto doppio negozio, essendovi anche accertato di appareatare con gence discreta , e capace; se poi non lo vorranno fare , averete scoperto , che non sono a proposito per vostra figliuola, volendo clli vivere con pompa , e lusso eccellivo.  Sem. Questa dote li dovrà consegnare libera ?  Pub. Questo poi nò; perchè potreb. be alienarli , c restare la voftra figliuola indotata,  Sem. E se non vorranno concludere il matrimonio fenza la dote libera?  Pub, E voi sconcluderelo affatto ; perchè è un pessimo segno, quando si pretenda questo, denotando che ci sia bisogno in quella casa di danari. Questo sì, che sposata che farà, consegnare allo fpolo quanto gli avste prometo; perechè non porrere immaginarvi mai, quan. ti difturbi aascono tra conjugi per quem fta benedetta dote promessa, e non pio gaca ; provando bene spesso le povero mogli, per tal cagione, molti mali trace tamenti.  Sem. E se non mi trovali il danaro pronio?  Pub. Prendcrelo più costo ad interesse, e perciò i saggi Padri di famiglia sogliono essere buoni econoini, con met. tere da parte ogni anno qualche fommi di danaro, per essere anche puntuali allorchè locano le loro figliuolc; e fanno coato allora di fare vantaggioso rinvs. Itimento.  Som. Sarebbe dunqne bene, che s'iq. dutriassero i Padri di famiglia coi trafichi, e s'impiegaffero con fervore in fare confiderabili avanzi.  Pub. Di far qucfto non sono cenuri in costo alcuno; bilta ch'elli non fcia. lacquino le loro rendire, perchè li poslono anche fare avanzi congderabili in questo modo , ellendo che: Parfimonias eft magnum veftigab.  Sem.  [ocr errors][ocr errors] 1  [ocr errors] di ;  Sem. Almeno lo doverebbero fare, avendone molte da maritare.  Pub. Neanco; perchè il buon Padre re, ed avendole educate bene,molti concorreranno a prenderle, e con onesta doto,perchè porranno a cõro la buona educazione per qualche migliajo di scudi, essendo realmente essa l'equivalente;onde saggiamente diffe. Plauto in Aulu. Dummodo morata rectè veniat dotata      eft fatis, ed Orazio nell'ode 24.li: 3.  Dos eft magna parentum  Virtus, metuens alterius oiri  Certo federe caftitas.   Sem. Oggidi vogliono però dote, e non chiacchiare.  Pub. Sì quelli che s'innamorano della dote , o vogliono spendere più della loro pollibilità ; quelli però, chcbramerango avere una moglie saggia, conlide. reranno in primo luogo le sue buone qualicà, e di queste faranno maggior ca. pitale, che della dore, la quale è mero bene di fortuna, dove che quelle, non  fo  [merged small][ocr errors][ocr errors] [ocr errors] solamente non sono soggette alle sue in-  costanti vicende, mà sempre crescono  di valore , onde faggiamente Orazio eb-  be a dire nella r. Epistola.  Vilius argentum eft auro , virsusibus au-   [ocr errors][ocr errors][ocr errors] Sem. E se il Signore mi delle', in 32stigo de mici peccati, una figliuola risentita', vana, pronta, loquace, contenziosa, che con tutta la buona educazione non si fosse potuta mutare,  volendo questa marito, che averò da fare?  Pub. Trovarle uno simile a Socrate, che fu li sofferente colla sua dispetrosa Sancippe ; cioè a dire un giovane sodo , prudente, non iracondo, mà soItenuto.  Mec. Vi fu però quel filosofo,il quale diede una sua figliuola simile a questa ad ug fuo nemico, e ricercato perchè avesse ciò fatto , rispose : per gastigarlo :  Sem. Doverò in quello caso conte. nermi nella moderata dore ?  Pub. Per levarvi di casa una figliuo: la di questa forra, non dovete reftare per  dat  [ocr errors] . 492 Conf. 8. Deco feconda la doro, perche date allo sposo un grande osso da rodere, onde, è di dovere, che gli diate ancora un poco più di polpa, per consolarlo , cd a fine, che ci abbia ancora un poco più di soff:renza.  Sem. E se questa, la prima volta , che contrastasse con suo marito, tornaflc a casa mia ?  Pub. Voi immediatamente dovete rimandarla a casa sua, senza darle alcun ricetto, e sgridarla ancora; acciochè non fi avezzafle a farlo più in avvenire ; con dirle apertamente, che colà hà da mori. re, perche se il Padre comincierà a dar. le ricetto, è finira; ogni giorno seguirango'nuovi sconcerti, e perciò il Profeta saggiamente disse: Obliviscere domum Pa. tris tui.  Mec. Un saggio Padre in fimile avveniincnto fè questo: Si portò egli medelimo colla sposa dal genero , e gli disse. Per grazia vi chieggo, che per questa prima volta le perdoniate per amor mio, nà se mai succederà cosa fimilc in avvemire, datele pure quel gastigo, che vor.  гс  [ocr errors] rece; perchè io non intendo più inters porre nè pur una minima parola a suo favore ; anzi che non la reputerò più per mia tigliuola , trasgredendo i vostri, e miei comandi. Ella , che credeva, che suo Padre fosse scco andato per isgridare fuo marito, perdè l'orgoglio a segno, che in avvenire muco modo di vivere.  Sem. Se avelli una figliuola brutta, c mal fina, e volelle marito, che avcrò da fare?  Pub. Primeramente vi dovrete informare col vostro Dottore,se possano i suoi difetti pregiudicarle nel pártorire, con porre a risico la sua vita ; accertato che farete di questo , che non poffa seguire, maritätela pure nel miglior modo, che potretc, darele anche buona dote  per avere un uomo di propofito.  Mec. Vi fu molti anni sono una lice per cagione, ch'essendosi sposata senza il consenso de suoi Genitori una giovane, perchè il di lei Padre pretendevas darle la dote stacutaria, e lo sporo ne chiedeva di vantaggio ; essendo che oltre gli altri difetti , che aveva era statas sempre senza denti : giunse queftas istanza all'orecchie del Prencipe , il quale ordinò  che fossero alla rolitas dote accresciuti duc mila scudi di più , per uguagliarc i difetti, che aveva la sudetta sposa.  Sem. Mà se non si affacciaffe alcuno, che li voleffe, non si potrebbe stimolare a farsi Monaca?  Pub. Questo sarebbe peggiore facrificïo dell'altre, che volevare dare a Dio, essendo stata rifiutata da tutti gli uomini; e militando per questa ancora le medefine ragioni, non lo dovete fare ; se non farà chiamata da Dio a questo stato; onde la potrete tenere in casa vostra , e procurate, che ha servita più degli altri voltri figliuoli:non dovendo voi permetrcre che all'interne sue imperfezzioni, vi si aggiungano anco gli esterni (trapazzi.  Sem. E con quelle che averanno la vocazione di farsi Monache, come mi doverò contenere ?,  Pub.  [ocr errors] Pub. Primieramente di far esplorare beo bene la loro volontà , per accertarvi, le lia vera vocazione, c non disperazione ; perchè alcune in questa cadono alle yo!ce, e precisamente quando non possono avere quel marito, che bramano; e scoperto che ayerere, che siano chiamate da Dio,adocchiare tre, o quat. tro Monasterj de più osservanti, į di  diversi istituti, e fare ad effe leggere le i loro regoles acciocchè sappiano ciò,che - doveranno fare ; e dipoi dice loro, che  fi scelgano quell'istituto,che piace loro, e fatele pur monacare.  Sem. Sarà bene di tenere loro una conversa  per  forvirle? Pub. Sc alcuna fosse stroppia, venendole permesfo,fatelo, per altro non inno. vate cosa di vantaggio di quello, che ivi fi suole praticare dalle altre ; questo sì che dovrete far loro il livello costumandosi, e consegnarlo, acciocchè lo faccia. no riscuotere a loro modo,affinchè nó ab. *biano da stare dopo la vostra mortc all' indiscretezza de fratelli, i quali foglio  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] [ocr errors] no essere molto trascurati in soddisfarle, e trattatele in modo, che nő abbiano bi. sogno di soccorso altrui; perchè così viveranno staccatiffime dal secolo.  Sem. E se qualcuna volesse imparare a cantare,efsendol già dichiarata di far. fi Monaca?  Pub. Non permetterei quefto ; perchè, se poi fi mutasse , ilche sarebbe cosa ficile cantando delle belle ariette, voi rimarrette colla cantarina in casa; ditele bensì che lo imparerà allorchè larà Monaca, perchè ivi averà delle altre compagne ancora, colle quali si potrà esercitare per meglio apprenderlor  Sem. E se volesse viaggiare un poco per il mondo , prima di chiudersi?  Pub. Questo neanco firebbe ben fit. to ; perchè col viaggiare si può vedere, e trattandosi,udire più d'una cosa, che po. trebbero rimuoverla dal suo fervore, e. quando questo desiderio procedesse per cagione di divozione, conducerela in qualche luogo de più vicini,ove sia qual. chc divoro Santuario, per consolarla .  Soma  1  '1  Sem. Se bramasse vestirsi da sposa prima di monacarsi, e ricoprirli di gioje, hò da permetterlo ?  Pub. Alifte por motivo di potersi fare l'antichissima consuetudines per altro doyendofi sposare col Signore , non mi pa.  jono simili abiti da esso graditi, mà ben. † sì i più modefti: Una sola riflessione in & favor di ciò ci potrebbe essere, che si  portassero per dispreggio, facendo vedere allorchè li spoglia di esli per rivestira dei sacri, che li rinunziano tutte le pompe, e vanità mondane.  Sem. Rimanendo redove le figliuole , averò da riceverle più in casa inia?  Pub. Effendo uscire da casa vostra, ed essendosi già dimenticate, come vuole fil Profeta,di essa, non siete più tenuto di  riceverle :- e perciò fi foleva ancora nei Kriti degli átichi Romani praticare colle  Spose di muoverle nell'uscire dalla casa  paterna più volte in giro affinché si die : menticassero affatto di ritornavi più . 4  Sem. Mà se rimaneffero vedovc affai giovani,e senza figliuoli,che averebbero da fare così solc li Pub.  [ocr errors] Pub. In questo caso, se volessero corparvi, mostrerebbe essere crudele quel Padre, che ricusaffe riceverle.  Sem. E volendoli queste rimaritare toccherà al Padre penfarci?  Pub. Lo ponno fare senza il di lui consenso; bene è vero però, che le fuggie figliuole fogliono col consiglio pacerno regolarsi in tutte le cose, ed in particolare in affare di tanta premura , conforme è questo.  Sem. E se avesse più figliuoli anche pargoletti potrebbe penfare il Padre prima di morire a qualche ripiego, affinchè fossero questi ben' educaci;perchè rimaritandoli la loro Madre poco penlicro Gi prenderebbe di effi il Patrigno nell'edu. carli.  Pub. A questo ci vuole un poco di tempo per rillerrerci bene, onde ne pare leremo nella seguente.i Sopra l'educazione de Pupilli: e come debba ciascuno portarsi verso i  suoi genitori defonti.  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][merged small][ocr errors][ocr errors] Mec.  A pena maggiore, che possa avere il Padre moribondo, essendo egli in sen. timenti, mi persua  do che sia questa: di lasciare i figliuoli pargoletti, dubicando, che non solamente possano esserc danneggiati nella roba, mà ezian. dio nell'educazione; posciache rifletterà facilmente , che quando la Madro pallasso alle seconde nozze, poco penGaro li prenderebbe di elli il Patrigno, ela  pro  propria Madre molto certamente farebbe dividendo l'affecto per merà trà elli , cd i figliuoli gencrati col secondo mari. to. Laonde la loro educazione Iddio sà comc anderebbe.  Sem. Mà ti è pur bastantemente proveduto 'a tali sventure, con Tutori, e Curatori ; come dunque potrebbe andar male l'educazione di effi, venendo cosi bene affiftiti?  Mec. Può essere , che a tempi antichi li Tutori fossero di giovamento a Pupil. li : oogidì però tra questi fanno nulla i mediocri; fanno bensì del gran male i cattivi, e gli occimi, che operino all'antica sono così pochi, che non sò se arriveranno al numero di quelli buoni , di cui parla Giovenale :  Boni quippe homines numero vix funt  totidem quof  Thebarum poriæ , vel divitis oftia Nili.  Sem. Udii pur da voi , Publio, nella Conferenza decima della decade passa. ta;effere utili alla Republicà gli Economi; or come dunque i Tutori, essendo  an  [ocr errors][ocr errors] anch'elli Economi, possono apportarc e questo gran mile.  Pub. Tra l'Economo, ed il Tutore ci è differenza potabile; conciofacosache all'Economo non appartiene l'educazione de figliuoli; ed essendo egli splendidamente riconosciuro delle sue fatiche procura di servire con somma fedeltà, per accrescere, o mantenersi almeno il credito acquistato , a fine di essere ados, perato in altre fimili contingenze; essendo che per profeffione lo esercita ; dove che il Tutore, dovendo anche invigilare alla educazione , vedendosi poco, O nulla riconosciuto delle sue maggiori fatiche, non è cosìgeloso della sua estimazione in cal ininisterio , per non cu. rara  punto di fimile briga inutile , fpecialmente chi non opererà per virtù, la qual'è da pochi seguirata, e maggiora mente se non si vede rimunerata secondo il sentimento di Giovenale, il quale dice:  Quis enim virtutem ample&titur ipfam  Prema fi tollis?   Laon.  [ocr errors] 0  li 3  Laonde non recherà maraviglia se eras efli vi saranno de cattivi.  Sem. E questi, che mali potrebbero apportare, Mecenate?  Mer. Primieramente di lasciar fare a figliuoli ciocche eff vogliono , e poi ponno prendere tanto amore alla roba de’Pupilli, che se vogliono, possono arri. vare ad appropriarsene buona parte di cffa.  Sem. Edin che modo ?  Mec. Faranno comparire debiti antichi, i quali furono gia pagati, ed accordandoli con detti finti creditori, fi divideranno per metà il furto, dando loro indietro l'antiche ricevure ; lascic. ranno vendere all'incanto i corpi più frucciferi , ed effi vi faranno offerire sot. to mano ; & farà cal vendita, nella quale farà grossa senfaria a lor favore; faranno rinvestimenti con persone fallite , e non senza considerabilitimi approvesci loro; in somma, per non infpiegarmi di vantaggio, sarebbe assai meglio, che questi non ci fossero ; perchè almeno se spregasscro  i figliuoli anderebbe per sodisfare i ca.  pricci di chi n'è padrone.     Sem. Costumeranno di far questo i più  bisognofi.   Mec. I bisognosi lo faranno per biso . gno, ed i non bisognosi per arricchirsi di vantaggio.  Sem. Mà è possibile, che nel Mondo ci sia gente così iniqua che lo faccia?  Mec. Questa è questione di fatco; di. cendomi il mio Procuratore , che giornalmente accadono liti di rendiinenti de'conti in cause de Pupilli, e che si vedono prodotti certi libri di amministrazione così intricati, per ricoprire le magagne, che ben si scorge essere stati fatti così da gente molto maliziosa .  Sem. Talinente che voi non lodate, che si diano a Pupilli questi Tutori?  Mer. I cattivi certamente noa posso lodarli.  Sem. E quali saranno i buoni?    Mec. Quelli, che ricuseranno di ac-  cettar qucfte brighe    Sem. I cattivi non sono a proposito, i buoni non vogliono accettarle ; dunque bisognerà cadere a prédere per necelfità i mediocri, che non fanno nè bene nè male. Oh confideriain corne p')trà andar bene l'educazion de figliu li !  Mec. E perciò doverebbe ogni b:100 Padre di famiglia aver un amico confidente di lom na integrità, è che fosse anche informato de fuoi interelli, e que. fti impegnarlo da molto tempo prima ad accettare, se li delle mai il caso, ch' egli morisfe in tempo, che i suoi figliuo. li avessero bisogno di guida, che voleffe fargli carità di tenerli, ed allevarli, come se foffero fuoi ; senza però discapito di borsa; ed è cosa facile , che prene desse allora l'impegno di farlo, perchè fi lusingherebbe, che ciò non fosse per seguire in breve.  Sem. Signor Mecenate mio, scusate. mi, se passo taor'olore; vedo oggidi il mondo così corrotto che dubiterei molto, che l'amico si ponesse anche in luogo di Padre con isposare la moglie del l'amico rimasta vedova .  Mec.  [ocr errors] Mec. Questo non doverebbe farli da un buono amico,  Sem. Questo ancora è di fatto, conoscendone qualcuno , che lo hà bevislimo praticaco, e lo sò con tutto che io ab. bi. meno anni di voi.  M:c. Losò anch'io; mà questo diceva per vedere di fuggire il maggiôr male; or dunque bisogna conchiudere, che doppia disgrazia lia, quando i Padri muojono giovani,  Sem. In fimile intrico dunque o biso. gierà , che il Dotcore trovi rimedio, che in tal erà non si inuoja , o pure tro. Vire chi poffi fedelinente indirizire cali Pupilli: avete voi, Doctore , un simile rimedio ?  Med. Rimedio per non morire non si è trovato fin'ora; ben è vero però, che a prolungare la vita con tenersi lon, tani da cerci spropositi massicci , che possono abbreviarla, a questo si può are rivare.  Sem. Ed in che modo  Med. Contenendosi con moderazione   nel  [ocr errors][ocr errors] nell'esercizio conjugale; perchè ci so. no taluni, che si pongono alla disperata in tale facenda, come se nel dì seguente la moglie dovesse essere loro rubata, senza avvederfi, che ruberà la morte elli alla moglie , continuando tal vita; oltre poi tanti altri disordini accompagnati a queste. Bisogna dunque, che viva re. golato chi ha figliuoli di tenera età , e non li fidi della gioventù ; perchè que. sta tradisce bene spesso, e che consideri il danno, che apporterebbe alla sua famiglia , con morire prima d'invecchiarli.  Sem. Questo si può fare ; mà se non baftaffe ? perchè hò veduto morire anchci giovani non aminogliari , e ben regolati ancora ; che doverebbe dunque farli per terminare la vita non tanto dolorosamente?  Pub. Hò udito riferire, che in alcune città vi lia una specie di magistrato , composto di persone di sperimentata integrità, le quali invigilano a questo ; onde introducendoli trà di noi potrebbe  con  consolar molto i Padri, cui seguiffc fimil e disgrazia duplicata, per lasciare i figliuo  li non atti ancora a poterli da se regola  [ocr errors] re.  [ocr errors] Sem. Questo mi piacerebbe, e vi prometro, che procurerei ach'io di entrare in derto magistrato.  Pub. Se vi avelli da porre io, due di difficoltà ci avrei ; la prima , che fiere  troppo giovanezessendo cariche da con. ferirsi a persone di provetta e à, e l'al  tra perchè voi lo chiedete, essendo che A finili impieghi, doyendosi conferire a  solimericevoli, aleuoi di questi più toe $ fto li ricusano, che li domandino; ed è a cosa cerca , che colui, che brama un ins  cumbenza, non solamente senza lucro, mà di molto incomodo ancora', qualche fine vi hà per lo più vantaggioso per se.. medesimo, il quale potrebbe rendere infructuoso ogni vantaggio, che da ello, si speraffe .  Serth Che averebbero da fare quefti?  Pub. Primieramenre d'inventariare fedelmente tutto quello, che avesse la.  [ocr errors] sciato quel defonto, di eficare poi il superfluo , e non fruttifero, e rinvestire il ritratto in faccia de Pupilli , con fare le cose chiare, e senza procacciarli emolumento alcuno .  Sem. E che altro?  Pub. Di dare fefto immediatamente all'educazione; con porre nel migliore feminario i maschi, se saranno di erá ca. paci, e le femmine in un Monastero dei più csemplari.  Sem. Ele rendite chi le amministrerà? • Pub. Un ministro salariato, che fia capace, o più secondo l'azienda che foffe, i quali rendessero esatto conto ad uno dei detti sopraintendenti dell'ope. rato ogni settimana, per potersi poi, da più di elli congregati ogni mese, risol. vere gli emergenti più difficili, che ac. cadeffero.  Sem. E degli avanzi, che si farebbe?  Pub. Andarli rinvestendo , allorche foffero arrivati ad una certa somma, con tutte le dovute cautele acciocchè fosse. ro fatti a ragione veduta.Sem. Nello stabilirli poi divenuci adulti chi ci penserebbe?  Pub. Quci deputati medesimi, che sopra intendono all'amministrazione.  Sem. E se caluno di questi avesse figliuolo , o figliola, ed apparenrasse cilin eli: 0 pur faceffe quello che fu obiettaco a Tutori.  Pub. Vi sarebbero sopra di ciò, le suc regole, in quali casi li dovesse proibi. re, o ammettere tra esli l'apparentarli; perchè quando mai fossero eguali, che male farebbe l'appareatare con gente scelta, e capace a bene dirigere. Oltre di che con qual amore di vantaggio liarebbe amministrata quella roba ; ¢ qual educazione più vigilante riceverebbero questi in cal casoBafteşebbe, che non entraffero poveri in detra soprainten denza affinchè non seguissero casi disdif cevali, che daffero occalione di inormo, rare , ed essendo questi scelti nobili, c bencftanti, non li indurrebbero a far quelle cose, che furono obiercare a Tucori, c tanto più ch'essendo molti a for  pra  [ocr errors] sopraintendere difficilmente tra questi vi sarebbe chi potesse, anche volendo, defraudare iPupilli in cosa alcuna per la vigilanza degli altri.  Sem. E se in detta amministrazione seguisse qualche disgrazia, chi sarebbe teauto-a risarcirla?  Pub. O questa seguirebbe casual. mente, senza colpa altrui, ed in questo caso non sarebbe a ciò tenuto alcuno , mà se poi ci fi scorgesse inalizia ; il delinquence farebbe obbligato a risarcirla.  Sem. A fare ottenere loro buoni impieghi, e provedecli di cariche proporzionate alle loro condizioni, e capacità, chi vi doverebbe pensare, fatti aduki ?  Pub. Il medesimo inagiftrato, atinchè con ragione di potessero chiamare quei, che lo compongono veri Padri della Patria, cgran sollevatori de Pupilli ; mà divenuti questi capaci sapranno da se medesimi farli strada per il conseguia mento di effe.  Sem. Sino a quale ctà doverebbero Rarc fotto tal depucazione?  Pub.  11  [ocr errors] Pub. Le femmine fino a canto,che fora ossero collocate ; i maschi poi non sareb* be male in tempi si calamitosi, che vi  stessero fino a tanto, che fossero atti, è 1 capaci di sapersi regolare da se mcdefifoto mi nell'amninistrazione de loro beni.  Sem. E se caluno di questi rimaneffe d incapace di operare a dovere?  Pub. Affinchè non dilapidaffe il fuo, converrebbe tenerlo soggetto sin tanto, i che vi fosse chi porelle prendere partii colare direzzione di effi, come sarebbe di qualche fratello di giudizio , o altro pa• from rente ricco; pio , ed onorato.  Sem. Mà questi pareori, perchè non potrebbero anch'elli prendersi il pensie. iro di amministrare detta roba de Pupilli, alineno lin tanto, che foffe ftabilico fimile magiftrato?  Mec. I Parenti , Sempronio mio, talia dc quali però, sono peggiori degli altri,  perchè prendono maggior contidenzas colla roba de fuoi parenti è perciò facilmente se l'appropriano;onde di questi non vi prevalec, se non quando li scor  gere  gerete con lunga sperienza, che siano ve. ramente difinteresati,  Pub. dove sono andati quei parenti antichi , che avevano premura maggiore della roba de loro congiunti,che della propria : hò veduto io alcuni di que. Iti mettere fuori somme confiderabili di danaro per folicvarli nelle loro angustic, ed ancor fenza alcuna usura ; ve ne fu uno tra gli altri, che prese l'amministrazione di un luo cognato, il quale eras quali che fallito, e lo ripose in piedi, con liberarlo da tutti i debiti da esso fatti, che ascendevano a fomma molto considerabile.  Sem. Ritornando alla grand'opera di cariià del sudetto Magistrato , mi perfuado, che in quei luoghi, ove li costu.  i Padri morranno senza avere da pensare all'indirizzo , che dover ango • avere i loro figliuoli divenuti Pupilli.  Pub. Occalione non hanno di ricerca.. re altri inodi : posciache questo Magiftrato pensa non solamente a diriggere i Pupilli ricchi, ma anche quei che riman  goo  [ocr errors] gono con mediocre commodo.  Sem. Oh luoghi fclici, ove la morte non reca tanto cordoglio, divenendo ivi l'amore, e l'autorità paterna a guisa di  fenice, che rinascono, ed alle volce più i profittevoli a figliuoli di quello, che fos  fero prima a cagione dei Padri trascura#ci, e nel costume , e nell'economia , e se  per questi ancora ci fosse qualche cenfoi se, quanto anderebbero meglio le cose?  Mer. Voi, Sempronio, che non avein te ancora piena sperienza del mondo  vorrelte aggiustarlo in un tratto ; come fogliono fare alcuni zelanti giovani , allorch' entrano a governarne qualche particella di efto. Abbiare de me questo configlio, cavato da Licurgo, che nelle riforme bisogna camminare affai lenta. mente, e con molta circospezione , per non cadere in peggio.  Sem. Che doveranno fare i figliuoli per mostrarâ grati verso i loro genitori defonti?  Pub. Due cosc, la prima è di mante, gere nel mondo la meinoria onorovolsdielli, e l'altra, che maggiormente preme, di alleggerire le loro pene, che possono foffrire nell'altra vita.  Mec. La prima dagli Egizi li praticava con imball mare i corpi de' loro genitori, e questi conservavano anco gli atavi , i tritavi, con quel auiero maggiore degli ascendenti, de quali furono eredi, e con quanta stima, c vencrazione universale! che se ac loro sommi bifogni avessero avuto necessità di danari, impegnando una di queste mumie, ne trovavano quanti facevano loro bisogno ; perchè avevano il pensiere di riscuoterle in breve. Gli antichi Romani ancora fabricavano tempj alle memorie de’loro Padri, o per lo meno ftatue per mano di eccellenti scultori.  Sem. Come si doverà fare per mantenere viva la memoria de genitori?  Mec. Se sono stati illustri per le loro rare virtù, e maneggi, debbonsi anche imitare da figliuoli, per fare scorgere a chi non li conobbe, di essere le loro virtù passare in effi; insegnandoci l’Ecclelia.  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] ftico al 11. che in filiis agnofcitur vir.  Sem. E se avesse dato alla luce opero letterarie , doverà imitarlo in queste ?  Mer. Certamente più in queste che pcll'edificare ville sontuose, posciache quelle di Cicerone, e di Seneca fono già da gran tempo distrutte, ma non già i loro libri, i quali continuano i loro anni sempre più gloriofi alla fama.  Pub. Fù interrogato un favio, se fosse più defiderabile l'acquistare un regno, o l'avere dato alla luce qualche operas dottrinale, utile a posteri; rispose egli che la seconda ; perchè della prima non pofsiamo eslerne altro, che meri usufrutruarj, privandoci della proprietà di esso la morte, dove che della feconda ne Gamo perpetui poffeffori ,accrescendo più tosto la morte il valore di essa, e perciò con ragione diffe Giovenale : fat. 8.  Libera fi dantur populo fuffragia quis să  Perditus ut dubitet Senecam preferre        Neroni.    Sem. E se non avessero fatto cofa al-  cuna memorabile ?           Kka   Mer.  [ocr errors] Mec. Debbono i figliuoli incominciare a farl’elli ; perchè diccndoli poi fatte dal figliuolo del rale, anco i genicori faranno partecipi della gloria di efsi.  Sem. E se fosse stato un gran Capitano, ed il figliuolo non avesse quel coraggio, che si richicde in tal carica ?  Mec. Procuri egli di uguagliare la fua gloria in cose concerncati alla pace; perchè si dira:il Padre fè prodezze grandi in guerra, e questi le ha fatte in affari di  pace.  Sem. Lasciando debiti più del suo capitale dovrà il figliuolo fodisfarli del fuo, quando avesse? · Mec. Certamente che sì, per non farlo dichiarare fallito ; e di vantaggio le fors' egli ne paeli Elvetici, per non riceverne infamia; cottumandog colà gaftigare anche i defonci , che per malizia feceto più debiti del loro capitale.  Sem. E se avesse ricevuto fuo Padre qualche ignominioso gastigo?. Mec. Doverà egli allontanarli dos  quel  qu I paesc, per non udirne dir male pui blicamente, non potendolo scusare;  per altro se fosse stato' cattivo a quel fcgno , che non avesse meritaco‘limiles  ignominia,doverà colle opere buone, e a gloriofe cancellare ogni memoria po.  co buona di esso; perch' essendo pro? prietà della luce scacciare le tenebre  così ancora delle buone operazioni pre  fenti è di cancellare la memoria delle 8  carrive passate.  Sem. E se lo avesse privato dell'eredi. tà parerna doverà farannullare il testa. mento , avendo ciò fatto senza cagione?  Mec. Sofferendo ciò farà credere, che  certamente lo faceffe fenza cagione , . i poichè facendo altrimenti, se non l'ebbe  allorchè lo fè, la previde, per dichia. rarsi dopo la sua morte il figliuolo concrario alla sua volontà, e di ciò ne dierono un memorabil'esempio i figliuoli di Metello, i quali, quantunque esclisfi contro le leggi, non vollero,per riverenza dovuta ai Padre , far istanza alcuna in contrario.  Sem.  Kk 3  Sem. Se un Padre ainoroso de fuoi figliuoli, ed anche pio, volesse, allorchè stà vicino à morte, far distribuire qualche fomma confiderabile di danaro a poveri , ma perchè l'amore verso i figliuoli lo portasse a farne effi consapevoli, per vedere se fossero contenti di ciò, come dovranno contenerfi in fimi. le affare? - Mec. Uniformarsi in tutto , e per tutto al volere paterno , c sappiate che Iddio non solameate gradirà tal atco , mà lo rimunererà ancora .  Pub. Un caso prodigioso si racconta a questo proposito nel Prato spirituale di un uomo dabene, e fomnmo elemosiniere', il quale, ritrovandosi vicino a morte, chiamò il fuo figliuolo, cui dopo avergli fatto vedere una gran somma di danaro disse:figliuolo,che gradirete più, che vilasci questo danaro, o pure, che vi deputi Gesù Cristo per vostro curatore rispose il figliuolo: averò più accaro il mio Gesù per curatore : ciò udito fece dispensare a poveri tutto queldanaro: cosa fè il giusto, e supremo Cu. ratore? Si ritrovava in Costantinopoli, ove egli dimorava , uno de'principali, ch'aveva una sola figliuola, la quale per essere ricchissima veniva da molti desiderata per moglie ; il gran Curatore dell'orfano ispirò alla Madre di essa, che infinuaffe a suo marito, qualmente la loro figliuola avesse più bisogno di un uomo faggio, che di ricchezze, e che maritandola a qualche Signore correva pericolo ch'ella fosse malamente trattata: Piaccque cal consiglio al marito , il qnale repplicolle : preghiamo dunque Sua Divina Maesta, che glielo dia a foo compiacimento, ed andare voi in  quefto punto alla Chiesa a supplicarla,e có. ducetemi quello, che immediatamente entrerà in Chiesa dopo di voi ; qual fù appunto il pio, e generoso pupillo, dal suo grã curatore arricchito in un istáte.  Mec. Or vedere voi, Sempronio, ch' effetri buoni produce l'uniformarii colla pia volontà del Padre, e quanto si è detto del Padre doyerà aacora inrcn.  der,  [ocr errors][merged small][ocr errors] Kk 4  dersi della Madre, in tutto quello, che apparterrà a figliuoli.  Sem. In che doverà con Gftere il bene che sono tenuti di fare i figliuoli, per l'anima dei loro genitori?  Mec. In sodisfare in primo luogo tutti i loro debiti, e legati pij, ed adempio re prontamente le loro disposizioni.  Sem. Må se non ci saranno danari pronti, si averanno d'alienare gli effetti? vi saranno pure i suoi tempi da sodisfar-, li con commodo ?  Mer. Sapete che detti effetti , ne' quali ci è debito; non vanno considerati come propri, e per ciò, non entrando nell'eredità a favore dell'erede, che gli dee importare, che si vendano ? fe poi li vuole appropriare a se, ci prenda danari sopra, se non gli hà, e fodisfaccia chi dee averc;; e se per cagione di detta dilazione quella povera anima penaffe in. tanto,  oh che bcll'amore moftrerebbe il figliuolo per suo padre, lasciandolo cor. mentare ! Il più chiaro contrafegno di affetto verso fuo Padre è questo, di ob  be  [ocr errors] Les bedirlo sollecitamente in fodisfare cioco che diipone li faccia seguita la sua morte  Pub. Or io sono di questo parere, che non si debba aspettare fino alla morte a  fodisfare i debiti contratti, c le opere o pie, che si vogliono fare, e maggior  meate mi sono confermato in questo leggendo, che vi fosse un certo uomo civile sì, mà assai povero, non avendo altro, che quattro Sparvieri avvezzati alla caccia, coi quali si alimentava; vc  nendo egli a morte chiamò tre suoi fi& gliuoli, ene lasciò uno per ciascuno, di  cendo loro, che il quarto lo vendeffero,  e ne facessero tanto bene per l'anima sua  morto che fosse. I detti figliuoli il di  venente, per vivere se ne andarono alla  caccia coi quattro uccelli, uno de quali  seguitando la preda non tornò più : co-  minciarono a contrastare tra loro di chi  fosse il perduto, ed ogn'uno giurava, che  quello, che era ritornato, ed aveves   sulle mani era il suo ; fi accordarono alla  fine, che il perduro era quello , che do-  veva impiegarli in beneficio dell'anima   del  [ocr errors] !  [ocr errors][ocr errors] del loro comune Padre ; il quale rimase privo di quel bene.  Sem. Oltre di questo doveranoo far altro?  Mec. Avere giornalmente una viva memoria di essi, col raccomandarli a Dio in tutte l'orazioni, che faranno, fervencemente; perchè non è picciolo il bene, che da cfli ricevettero, conGitendo in tutto il loro etlere, e ciò facendo oltre il sodisfare a propri doveri, daranno anche chiaro indizio deila loro buona cducazione.  Sem. Vorrei sapere da voi , Publio, so la vedova possa essere capace di ben’ educare i propri figliuoli,parendomi che da principio ne dubitaffe Mecenate, con dire, che non farebbe poco a dividere il suo amore materno tra i primi figliuoli, e gli altri avuti col secondo marito,  Pub. Perchè nò ; quando ella perseyerasse costante nello stato vedovile, fosse dotata di senno, e prudenza, ftesse attenta , ed avesse petio da farsi ftimare, c rispettare da efl, e Mecenatc parlò  del  na delle vedove , che prendono altro mari  to, non di quelle di cui diffe Ovidio,  [ocr errors] che.  bes  01  ol  Sustinent in viduâ triftia figna domo.  Sem. A trovare però oggidi chi sia il dotata di tante virtù sarà cosa molto difficile, dicendo di queste Giovenale. Rara avis in terris nigroque fimillima  cygno.  Pub. Si a voi, Sempronio, che forse of anderete solamente in cerca de diferti ili donncschi, mà non già a chi brama di  trovare le virtù, per approfittarsene, o gi ainmirarle; e non crediare già, che ogbe gidi le virtù sieno affatto efiliate dal d mondo, anzi sappiare, che quando paa re, che i vizj (i dilatino maggiormente, do allora è il tempo , ch'esse li affaticano in  trovare ricetto dai più lavj, per risplendere maggiormente : ed io vi poffo finceramente palesare, che ci sono presentemente alcune vedove, le quali vivono con tanta csemplarità , che ponno uguagliarsi alle antiche matrone, delle quali i Scrittori fecero tanti grandi elogj.Sem. Bisogna che queste vivano molto ritirare ; c da ciò trascerà che, da me non son conosciute, laonde notificatemi chi sono, affinche possa anche io fodar. le, ed onorarle, come meritano , ed apprendere insieme dalle loro operazioni qualche urile documento.  Pub. Mostrare certamente troppa cu. riosità , Sempronio, con volerle conoscore', e se avete deliderio di apprendere qualche documento dalle loro operazioni , questo lo potrete appagare con udire le relazioni dell'operato da esse, e tanto maggiormente, che queste non operano a fine di acquistare gloria, må bensì di bene istruire i loro tigliuoli, e perciò non fi curaro punto di essere lodate da alcuno, ed a voi è vietato anco il farlo dall'Ecclefiaftico al 2. dicendo : Ante mortem non laudes hominem quemquam.  Sem. Informatemi dunque del modo, che questo hanno tenatoy e tragono in educare i figliuoli? Pub. Quefte , Sempronio , sono quela  le  res  ope  mogli,che amarono di vero cuore i loro  mariti, e perciò appresero da Didone  ciò, che rifeșisce nel quarto dell'Enei-  di Virgilio :   Ille meos primus qui me fibi junxit ame-  Abftulit ille, babe ai                    fecum, fervetque se-      pulchro.  laonde quantunque rimase vedove nel  più bel fiore degli anni, non vollero  giammai acconsentire a rimaricarsi ; inà  bensì rimirando ne'figliuoli qualche par.  ic de’loro genitori collocarono in elli, per   tal cagione cutto il loro materno affetto;  e non li potranno mai baftantemente   esprimere le deligenze da esse usare a   pro dei loro vantaggi ; posciache , ia cu-   ftodire, ed accrcfcere le sostanze di  clli, che cosa non fanno mai?   Sem. E come possono , essendo mancato il capo di casa, crescerle?  Pub. E pure ciò non ostante , l'hò osfervato in più di una di effe, c quello, che mirende ammirazione, senza fordida economia , perchè mantengono illo  [ocr errors][ocr errors][merged small][ocr errors][ocr errors] ro  to grado decoroso, senza scemarlo puoto: laonde sono meritevoli di quell'encomio, che fè Cicerone a Craffo , ed a Scevoli, chiamando il primo moderatiffimo nello fpendere fra i fplendidi , e l'altro splendidiffimo tra i moderati ; vi potrei anche dire di vantaggio, che avendole osservate e faccillime jipitatrici del bombice, il quale per formare la sua casa poge tutta la sua miglior softanza in essa, onde spero, che l'imiteranno anche dopo morte, con divenire farfalle per volarsene più speditanicnte al Cielo.  Sem. Hò udito esaggerare tanto cótro il luffo nelle passare conferenze ; como mai queste si fanno così bene regolare in tempi, ne quali ci troviamo.?  Pub. Vidifli parimente in quelle , se ben vi ricorderete , che non mancava presentemente ancora, chi viveffe net costume ancico, e che non si osservalle da tutti chi operava in tal forma ; perchè pochi erano l'imitatori di efli, c da ciò nasce, che queste di regolano con  tan.  tanta aggiustacezza, perchè vivono a  quella usanza, e se li vagliono di qualby che cosa dello presente, lo fanno con  gran moderazione, e più per salvare una certa apparenza, a fine di non singolarizzarsi, che per vanità.  Sem. Mà nell'educarli di che norma si servono ?  Pub. Di quell' appimnto, di cui già i parlammo , ina con grandiilima atten#zione ; folamente di vantaggio hò osserte vato, che avendo quefte già bene im  bevuti i figliuoli del rispetto dovuto ad  effe ne'ceneri anni, divenuci poscia più ci adulti, deposto il rigore priiniero si so  no servite più costo della piacevolezza ; coli ed in questo modo hanno continuato  ad elggere curta la venerazione ad else dovuta da figliuoli.  Sem. E nel provederli d'impieghi comc li porrano?  Pub. Volelle Iddio, che con tanto fervore operaffino noi alori Padri conforme esse fanno' in questo; effendoche  taluna li ha così ben accomodaci , che :  non  non si è renduta loro fenfibile la perdita fatta del Padre, trovandosi presen!emente in istato tale, che possono contentarsi.  Sem. Oh fortunati figliuoli; se io fossi nei loro piedi , non mi dimenticherei gianımai di tanto beneficio ricevuto da effe.  Pub. Ed io pasferei più oltre, cioè a riflettere i disaggi, che averano sofferto, per fare conscguire questo bene,e quanto averanno cenuto occupata la mente co’pensieri, e quante vigilie averanno sofferte. Or ditemi, vi pare che qucftc, che operano in tal forma, si possano paragonare alle antiche Porzie , alle Cor. nelie, alle Avie , ed alle Pauline che cosa fecero quelle più di queste, che meritarono la corona di pudicizia, pero effere vivate nella stato vcdovile esem. plarissime e  Sem. Certamente che meritano qucm Ite ancora di esser coronate, e credecemi, Publio , che questo vostro racconto mi hà sommamente confolatozed animato ingeme a prendere moglie; perchè se io arrivafli á scegliermi una di queste, morrei certamente men contristato , avendo chi supplirebbe le mie veci nel ben educare i figliuoli.  Mec. Abbiamo finora parlato della cducazione dei figliuoli de benestanti, e di quelli de' poveri non abbiamo fatta menzione alcuna.  Pub. Conyerrà certamente discorrere anche di questi, essendo cosa essenziale ondc lo porteremo alla ventura Conferenza.  [merged small][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] CONFERENZA X.  Sopra l'educazione de' figliuoli poveri, e donde venga queita  danneggiata.  Publio , Mecenate , Sempronio ,  i Medico.  Pub.  He bella cosa fareb.  be , se nel monС do ognuno viveffe  conforme richiede l'obbligo cristiano:  di non fare altrui, ciò, che a se dispiace: oh bell’armonia, che nascerebbe da questo allorsì che ciascuno potrebbe vivere ad occhi chiuli, non trovandosi chi ingannasso il coinpagno ; c tanre sorte di supplicj , inventare per reprimere', c. gastigare la malizia degl'uomini rimarrebbero affas.  [ocr errors] to oziose; e li ministri di Giustizia a che | servirebbero, essendo ciascuno retrislimo  giudice di se medesimo? Oh felice, c mi fortunato vivere che sarebbe, essendo  ritornato il secol d'oro, nel quale come  lo descriffe Ovidio ne suoi fafti.    Proque metu populum fine vi pudor                                               ipfe       regebar,     Nullus erat justis reddere jura labor.  E Giovenale nella fac. 6.   Cum furem nemo timerer  Caulibus, aut pomis, tu aperto vive.          ret borte,  Mà quanrunque fiafi tanto affaticato  Platone per farlo ritornare , appena c  rimasto ogni suo pensiero riposto nel ga-   binetto delle sue Idee, senza recare vei runo profitto; onde si può conch iudere,  che questo probabilmente non tornerà  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][merged small] Sem. Mà non fi potrebbe almeno far ritornare quello di argento ? perchè a sopportare da gran tempo in qua il secolo di ferro, già divenuto rugginoso, fembra dura , ed insoffiribile cola.  L12  Sem.  [ocr errors] Pub. Questo è difficile; e non meno, che a far divenire un pezzo di ferro argento; intorno al cui lavoro tanti ci si affaticano indarno. Non sarebbe poco se a questo di ferro,che noi abbiano, il quale ben diceste, che sia divenuto rug. ginoso, se gli potesse dare una ripulitura, affinchè non comparisse tanto deforme, come presentemente par, che sia diveDuto •  Sem. Facciamolo dunque ; ma da che parte di esso si doverà principiare?  Pub. Da quella più tenera, come abbiamo fatto finora nei nobili, cioè dalla tenera gioventù, ove la lima può più facilmente attaccare : cominciate voi dunque a portarmi il lavoro, che io li. merò.  Sem. Qiello , che' mi premerebbe più d'ogni altra cosa, sarebbe che in. cominciassimo a ripulire un poco i servitori.  Pub. La ruggine in questi è troppo dura; come volete voi, che limi, efsendo di già quefti divenuti adulti; por  [ocr errors][ocr errors] tatemeli giovaneci, che io cominciero limarli.  Sem. E come potranno questi allora discernerli? Offervandoli, che ne pur i loro figliuoli hanno genio a fare tal meftiero; ideandosi tanco i Padri, quanto effi, allorchè cominciano a conoscere i vantaggi della vita civile, di voler parfare ad effa,con avanzarli di condizione.  Pub. Dunque se non si sà precisamente chi voglia incaminarli per questa via, cominciamo da tutti i figliuoli poveri , che cosi comprenderemo quelli da incaminarsi in cursi li mestieri nel inedeliino tenipo.  Sem. Che doverà farfi in questi prima di ogni altra cosa ?  Pub. Quello appunto, che già dicem. mc:infinuare bene nell'animo loro il fan.  to timor di Dio, base fondamentale di O tutte le virtù morali, e cristiane  Sem. E chi doverà far questo? th Pub. I loro genitori.  Sem. E se questi non ne avessero appreso tanto, che hastaffc loro ? Pub. Ci sono i Parochi de'quali è incombenza,non solamente di proccurare, che fieno istruiti i figlioli, mà anche, i genitori medelimi,  Mec. Se ci fosse un fol pastore in una gran greggia di pecorelle, molte ne divorerebbero di più i lupi ; onde come potranno baltare questi, che sono pochi a tanci?  Pub. Ci sono i Maestri, che supplisco. no ancor ela.  Mec. Mà quelli che non hanno modo da tenerli?  Pub.Sogovi tante scuole per i poveri, che possono ben ivi apprendere ciocche appartiene a questo  Mec. Mà fe trascureranno di andarvi, ed intanto innoltrandosi i vizj come firi. medierà?.  Pub. Colgastigo, che servirà dierempio agli altri, che non ci cadano, ed a tal effetto ci è per questi la casa di correzione, ove sono severamente morti. ficati. Mec. Vorrei, che vedeflimo, Publio ,  se  [ocr errors][ocr errors] fc ci fosse modo di non avere rovente bisogno di limili gastighi; perchè vado rifcttcndo, che molti pochi sono correcti da eso ; e quantunque ci licno le forche alzate, tanto i delicti fi comincitono gel inedefimo tempo.  Pub. E che prerendete forse, che nel monda non feguano delicti?  Mec. Non pretendo tanto, mà solamente che sceinino questi più notubilincnte, ed in conseguenza ci sia meno duopo digastigo.  Pub. E come fareste per procurare che minor numero deili presenti ne leguillero?  Mec. Vorrei in diverse parti della cietà scegliere i più caritativi ; e pii artetici, che ci foffero in ogni profeflione, ed a questi consegnare , e raccomandare più di uno dei giovanetti, arrivati in età di poter cominciare ad apprendere i principi di quell'arte, alla quale 'mostraffero inclinazione, ed abilità.  Pub. E prima di detto tempo chi ne averebbe il pensiero di andarli istruendo nel beo operare ?  Mr.  [merged small][ocr errors][merged small][ocr errors][merged small] [ocr errors] Mec. Ci sono pur tanti pii, cd esemplari operarj , zelantisfimi del buon costume, cui non recherebbe gran briga l'invigilare sopra di elî, con un ben regolato ripartimento, li quali per rimediare a'disordini maggiori, che incontrasfero doverebbero avere chi desse loro assistenza, e braccio autorevole; e credetemi, che dupplicato bene da ciò ne risulterebbe: cioè, che non anderebbono in quelle ore vagabondando per la città, e li approfitterebbero insieme di molti buon iavvertimenti, e cosi la gregge averebbe pastori a proporzione del fuo bisogno: e fapere pure, che quantunque tanto si operi da questi zelancisfimi nello svellere i vizi già adulti, nulladimeno per lo più poco, o niente di frutto da cfsi si ottiene , onde mi parrebbero fatiche con profitto maggiore queste impiegate, allorchè i vizi sono anco teneri, potendosi allora con più facilità sradicare; che quando sono già adulti,senza tralasciare però d'invigilare a fradicare anche questi assodati.  Pub.  [ocr errors][ocr errors][merged small][ocr errors] Pub. E chi manterrebbe detti figliuoli da quei artefici; acciocchè l'istruiffero fin tanto, che il loro lavoro meritalse premio ?  Mer. Sarebbe facile qui tra noi a trovarsi il modo, essendoci si numerose, e considerabili limosine di pane , da diftribuirli a poveri; nè si potrebbe dubicare in conto alcuno, che questi non folsero tali ; onde sarebbero con giustizia , e profitto impiegare in essi ; nè potrebbero gli altri dolerli, perchè verrebbero anche distribuite colla discreta propora zione rispetto agli altri bisognosi invalidi; ne apporterebbero gran briga cinque, o sei ragazzi di questi, provedusi già di pane, avendoli in bottega; ecenendo loro gli occhi sopra, non potrebbero andare vagabondando in cerca de vizj conforme facevano.  Pub, E'pensiero questo da macurarsi meglio per discernere, che vantaggio conliderabile potesse apportare.  Sem. E se avessero genio di studiare?  Mec.  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] Mer. Di questo ne discorreremo nel fine.  Sem, Or ditemi dunque quali sono i vizj familiari a ragazzi poveri ?  Mec. Possono essere innumerabili, se non sono sradicati alla prima da qual. cuno, e tanti appunto, quante sono l'erbe dannose , & inutili, che nascono in una siepe abbandonata da chi la coltivi. Posciache questi poffono essere primieramente affatto ignoranti dei misteri della Santa Fede; non hanno in bocca altre parole, che difonckte, appreses per istrada, e ral volia per essere figliuolini nè pur fapranno i loro ligniti. cati ; fi afsucfaranno da teneri anni al rubare, e cominciando dalle core commefibili faran passaggio all'altre ancora ; diverranno poi tanto impertin nenti, che daranno fastidio a tutti; bu. giardi , fraudolenci, bestemmiatori, e malizioli a segno, che quabrunque fico no di dieci, e undici anni saranno già capaci in pratica di tutti i vizj concernenti alla luffuria .  Puo.  [ocr errors]    [ocr errors][ocr errors] De   i buos  [merged small][ocr errors][ocr errors] [ocr errors]  prove, e do  po  [merged small][ocr errors][ocr errors] Sem. Ma è poflibile, Dottore, che in sì tenera età facciano questo?  Med. Io più d’uno di questi ho vedy. to venire zoppi all'ospedale per ca. gione di buboni gallici, che avevano acquistati con tali viziose  ritrovata la verità gli ho anche mol. to bene sgridati.  Sem. Da che diviene questa gran facilità di cadere in fimili vizj?  Med. Lo spiegò Socrate a Teodata bellissima meretrice,allorche li gloriava di superarlo nel saper sedurre più facilmente essa i suoi scolari,di quello avess' cgli potuto fare colla sua dottrina in rimuovere dal suo amore i suoi drudi, con risponderle,che lo credeva , nè punto fi maravigliava di ciò; perch'ella li tirava all'ingiù , & a seconda del precipizio con poca sua fatica dove ch'egli dovendoli tirar fuori da questo aveva d'uopo impiegarvi fatica maggiore; come riferisce Eliano,  Sem. Oh so, che crescendo questi vizj con gli apoi, quanci mali effetti eli  pros  [ocr errors][ocr errors][merged small][ocr errors][ocr errors] [ocr errors] 540 Conf. 10. Dec. feconda produrranno ! riempiranno per la meno le galee di genec facinorosa, se pur que. fti non anderanno sulle forche; onde conosco anch'io, ch'è troppo necessa. rio darci riparo, altrimenti di questi viziosi ne toccheranno ad ogn'uno per servitori, o per arrifti: ma come fi potrebbe fare almeno , che non cre. scessero di vantaggio?  Mes. Se non li trova il modo, che non vadano vagabondando per le piazze, e di cenerli lontani da quei, che fono un poco più adulti di essi, sempre correranno tali pericoli; e perciò lag. giamente ordinò Ligurgo, che i figliun. li fossero allevati per i villaggi, e gli Egizi non li faceano porre alla mensa per cibarsi, se prima noa avcano corso a piè nudi due, o cre leghe. Ed appresso i Parci, se i loro figliuoli non avevano colla frezza colpito, e fatto cadere il pane, che posto avevano in luogo eminente, non facevano gustar loro altro; conforme ancora facevano le donne dell'Isole Baleari, ma colla fionda, c  CO:  [ocr errors][ocr errors] così li tenevano occupati , affinchè non aveflcro campo di avanzarli ne'vizj. Ma trovandosi tra noi impicghi con direttori discreti, sarebbero questi affai più profitcevoli; potendoli eziandio formare scuole d'apprendere arti, dove fossero istruiti, e nella pierà, & in quel mestiero al quale applicassero di genio ; ma per opere sì magnifiche crè cose si ricercano , le quali sono ; l'autorità del Prencipe ; valido soccorso; & allistenza allidua di uomini pii, ezclanti del buon costume.  Sem. Ma vi è pur S. Michele a Ripas grande ove si fa tutto queito; perchè dunque andate cercando altro?  Mec. Abbiamo certamente tal Ospizio Apostolico utiliffimo, esantißimo, ove col timor di Dio G avvezzano, e si approfittano ancora in diverse arci, era sendo usciti di là molti , ch'erano prima senza indirizzo, e modo da softcocarli, divenuti capaci d'alimentare se medesimi, e le loro famiglie; ma questo folo non è sufficiente per educare tutri i  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] nigliuoli poveri, che sono nella Città; nè è poffibile moltiplicarne canti altri confimili ad effo, che foffero fufficienti; onde bisognerebbe trovare un modo praticabile , acciocche fossero istruiti nella medesima forma, ma senza ag. gravio di spesa equivalente alla proporzione di quella .  Pub. Tutto si potrebbe fare, ma però se non si toglieffe prima quello , che dasse loro mal' esempio, gioverebbe a nulla.  Meo. Questo è veriffimo;.perchè entrando caluno al servizio, quantunque fosse semplice, e di buon costume ,' fe cominciarse a comandargli il suo padione certe cose, che non li possono dire in pubblico, effendo indecenti, como potrebbe far di ineno obbedendolo as non divenire ancor esso diviato ? effen. do che: a bove majori discit arre minor , Se quantunque foffe sobrio, e vedeff: continuamente banchettare , & a vesse tutto il commodo da disordinare anch' effo, come non diverrà gologfimo? E  par  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] last particolarmente se si abbatteffc in chi, come dice Giovenale,  Radere tubera terra  Boletum condire, codem in jure na,   tantes  Mergere facedulas didicit Sco ap  Et cana monstrante gula. Se si accorgerà poi, che manchi di pa. rola, imparerà anch'esso a farlo dicen. do: se lo fa il mio Padrone, ben lo posso far arch'io , perchè farà forse oggi  di civiltà prar carlo. Voi dunque, Semi pronio, vidolete attorto dei servirori;  doleceri bensì dei padroni, che gli ac-  coltumano viziosi.    Sem. Ma io   per  la Dio grazia non fò di questo, e pure mi sono capitati molci cattivi fervitori.  Pub. Saranno stati prima corrotti da altri padroni se non gli avete corrorti voi, e perciò imparare a non mutarli tanto spesso , potendovi abbattere ins peggiori, i quali non sarebbero più correggibili:  Barbatos licet admoveas, mille inde magiftros.Mec. Non solamente i servitori si approfittano del mal'esempio de' padroni, ma tutti gli artisti, e mercanti ancora, dandosi da caluno di esli a questi, invece del danaro, che avanzano, certe mercaozie, le quali non trovano ad clitare, e le pongono a prezzi altissimi, e da ciò essi imparano ad alterare i conti, ed in che forma !  Sem. Ma ci sono pure i periti, che li rivedono, e tarano?  Mec. Si bene, ma però elli l'informano, e fanno ben loro capire, che hanno ricevuto, a ragione di contanti, assai di meno di quello pretendevano di aver dato loro, a cagione dei prezzi alterati delle robe ricevute.  Sem. Sicche faranno un bel guada. gno questi , che daranno roba in vece di danaro; e ditemi, Dottore, se ciò si pratica collo Speziale ancora ?  Med. Taluno per quanto ho udito lo fa.  Sem. Consideriamo, che buone medicine daranno loro questi, che sono così malamente pagari.  Med.  Med. Li poveretti troppo fi sforzano die a servirli bene; ma certa cosa è, che vo  gliono starci in capitale almeno, c peri ciò non daraano già loro i migliori ri1 nedj.  Pub. I mercanti Moscoviti, prima che it fosse data loro la libertà di uscire dal El Regno, avevano una bella maniera di  contrattare, la quale era di chiedere soSelamente il giusto prezzo delle loro mer  canzic, e guai a colui, che l'avesse altea si raco; posciache sarebbe caduto in pene sd gravissime.  Mec. Sicoftumerebbe tra noi ancora, 1 se correffe puntualmente il danaro; må  dovendosi tener morto questo più anni, e poi pagarfi Iddio sà come, bisogna pur, ch'ella pensino al modo, che debbo.  no tenere per guadagnarci ; diano dunSe qne i primi ad edi buon csempio, che fa  raono imitati.  Sem. E per fare, che i servitori non divengano viziosi, olcre il non dar loro  mal'esempio, che si potrebbe fare di e vantaggio ?  Mer.  [ocr errors] Mm  Mec. Bisogn' anche procurare, che non abbiano occasione di addocrinarli in certe cose, che mal'interpretate da efli, da buone che sono potrebbero divenire pesime; e vi riferirò a tale proposito un esempio. Si abbatte un giorno un mio amico, che seco aveva due fervi. tori, ad udire un certo discorso morale, fatto da un buon religioso, mà molto semplice, sopra il furto, e venuto al par. ticolare, a che fomma questo doveste giugnere per essere peccaminofo , avvedutosi egli, ch'erano attentissimi i suoi fervitori in udirlo, chiese incontinente licenza,con iscusa di dover fare certo ur. gentislimo negozio in quel punto;mà come egli,ini riferì il negozio era, che non udifícro questi , che li potesse con ficura coscienza rubare una anche minima cosa, perchè, come diceva, costoro l'averebbero reiterato tante volte in un giorno, che in breve mi farei impoverito .  Pub. Mi persuado ancora, che non convenga dar loro il comodo di approvecciarsi malamente, con fidarsi alla sjeca di cili, dando loro gran maneggio;  per  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] perchè la comodità appunto fà l'uomo ladro.  Mec. Vi era uno di questi, il quale prendeva cutto all'ingrosso, e con vantaggio grande, e dipoi lorivendeva a minuto, ed a prezzo rigoroso al suo padrone, e vi faceva giornalmente guada. gno considerabile, scusandosi in far ciò, ch'era  per  sua industria , perchè non gli aveva ordinato di far questo il suo padrone ; onde ingannavafi costui in credere di non aver obligata, ad effo tutta la sua industria, come difatto avea .  Sem. Sarebbe dunque riuscito van taggioso per loro se avessero studiato , ed appreso le buone dottrine.  Mic. Se avessero fatto questo non si porrebbero a servire, come disse uno di questi al suo padrone, allorchè lo sgridava, ch'era un ignorante, cui replicó: signore se fossi dotto non servirei , mà bensì averei chi mi servisle.  Sem; Ne hò però ayuti di quei, che sono stati alla scuola, e sapevano anco ra un poco di latino.  Ner.  [ocr errors][merged small][ocr errors][ocr errors][merged small][ocr errors] Mm 2  Mec. Mà che serviva loro questo?  Sem. A nulla ; mà però se non mori. vano i loro Padri si sarebbero tirati aranti nello studio, e forse sarebbono riusciti uomini dotti.  Mer. Vorrei , ch'esaminaflimo ora qual fosse meglio: chci figliuoli dei poveri s'incaminassero per la strada delle lettere , o pure fi ponessero da principio ad apprendere le arti,  Sem. E che pretendereste forse voi impedire, che ogn’uno non s'incamini a suo bellagio per la via , che giudica per fe più vantaggiosa ? Capece pure, che vi sono stati molti plebci , che sono riusciti in esso come accennò Orazio  fat.6.1.  Multos fape viros nullis majoribus oj  tos,  Ei vixise probos , magnis du honoribus  auctos. Mec. Questi non saranno stati però miserabili, perchè dice ancora GioveHaud facilè emergunt quorum virtutibus ebfas.Res angufta domi.    e poi se taluno di questi, inà molto  di rado, è riuscito, oh quanti sono andati  a inale! onde vorrei, che vedeffimo quali  di questi fieno quelli , che possono essere  capaci di compire questa carriera , ed a   quali non getti conto ; perchè il sen.  tiere delle scienze, é assai lungo , ed  crto, ed ha difficile ancora il suo ingres-  so; come bene lo descrive Silio Italico  dicendo.   Ardua faxofo perducit semita clive ,  Aspera principio, nec enim mihi fallera,     mos eft,  Profequitur labor ad nitendum intrare   volenti. Onde chi non potesse caminarvi fino al fine, che farcbbe trovandosi nel mezo di esso ? non vorrà tornare indiccro per vergogna, nè potrà ivi foftentarli., per essergli mancata la provisione neceffaria; onde non faprà a che partito appigliarfi; dove che la via delle arti, efiendo assai più piana, e più breve, ed ancomeno dispendiosa, li renderà più facile, e  [ocr errors] Mm 3  van.  vantaggiosa a questi di poterla cerminare.  Sem. Sicchè dunque farà meglio, e più vantaggioso per loro d'incaminarsi per il sentiero delle arti, giacchè questo si renderà più facile a poveri di compirlo.  Mec. Così credo anch'io, perchè almeno giugneranno a guadagnarli il pa. ne più spedicamente, e con minor pericolo di rimanere inesperti .  Sem. Come pensate voi di fare questa scelta, di chi sia capace d’incaminarsi per essa, e chi per l'altra più piano delle arti .  Mec. Se per esempio ci fossero figliuo. li di mediocre talento de poveri artisti, o di vedove, che appena colla loro fati. ca arrivano ad alimentarli parcamente, questi sarebbero perduti, volendoli incaminare per la trada delle scienze, e maggiormente, se saranno i loro genitori avanzati negli anni ; perchè morendo questi, chi li softenterà trovandoạ nella carriera a qualcuno di quei, che sono nel  principio del camino può essere, che;  torni indietro, econ ripugaanza gran3 de si ponga ad apprendere qualche arre,  quelli, che saranno però più inoltraci , vergognandosi di farlo, come si trove. ranno i meschini, non avendo chi più li sostenri ? talmente che per procac. ciarli il vitto saranno costretti di fare ogni viltà, purchè salvino l'apparenza del proseguimento di tale impiego , ch' esli si avevano figuraco di voler esercitare; laonde poftisi in doslo una toghetta,ed un perucchino, ne quali consiste il loro capitale, tutti lindi si porranno , essendo ignoranti, a far da guasta mestiere: e vi pare che questi possano apportare utile alla Republica, stroppiando cause, se prenderanno la via legale ? e quello ch'è peggio , che se per quella della medicina s'incamineranno quanti ne animazeranno impunemente ? Olere poi il discredito, che ne riceverebbono professioni (i nobili, per cagione di essi.  Sem. Mà perchè se ne prevalgono di questi?  Mec.  [ocr errors] Mm 4  Mec. Perchè la maggior parte, chc litigano sono ignoranti; e simili a questi ancora sono quelli, che si trovano malati; onde come potranno discerneru questi a che segno giunga la di loro abilità? ctanto più, che quantunque penuriando di dottrina i guasta mestieri, non si trovano già scarû di malizia, per dare ad intendere lucciole per lanterne quando vi sia duopo, essendo questi gran; mensognieri.  Sem. Quali voi crederefte, Mecenate, che potessero incaminarli per la via del le scienze con sicurezza maggiore?  Meo. Quelli solamenre a quali il Padre morendo in questo mentre , poresse lasciare 'ranto, che fosse sufficience a poter terminare i loro studj, cche fossero di buono ingegno; perchè se non saranno cali gertato averebbero quel danaro, e rimanendo mendichi, ed ignoranti, questi ancora fi porrebbero a fare molce viltà, e perciò l'Ecclesiast. al 27. csclama. Propter inopiam multi deliquerunt; de'quali così ebbe anco a dire Orazio .  Ma  Magnum pauperies opprobrium jubet.  Quiduis , @ facere, & pari,  Virtutisque viam deferit arduam.   Sem. A chi toccherebbe di farne la prova del loro ingeg:10 , e capacità ?  Mec. Niuno meglio de' loro maestri , che li avessero cominciati ad istruire sarebbe più a proposito; mà taluni di questi alle voltc consigliano i poveri Padri con poca carità a fare proseguire loro l'opera mal’incominciara .  Pub. Sapere, Mecenate, che non è disprezabile pensiero questo da voi apportato, e rifletto ora anch'io, che il voler porre con tanta facilità i poveri all'acquisto delle scienze possa essere una delle cagioni, che ritardano più tosto la buona educazione,e mi inaraviglio che non si dia già dato opportuno riparo a questo inconveniente,  Mec. Sicte pur pratico del mondo, e non riflettere , che non tutto arriva all' orecchie di chi vi può dare rimedio,perchè se vi giugnessero tutte le cose, quanti buoni regolamenti si prendereb  [ocr errors][merged small] Res  nale fac. 3:bero dalla vigilanza di effo.  Pub. Che imparassero i figliuoli de’ poveri, a leggere, scrivere , e l'abaco lo stimerei necessario ; mà che questi poi si applicassero alli studi delle scienze, non avendo nè capacità necessaria, nè modo da foftentarli, ora che voi ave. te mostrato tanti inconvenienti lo stimo dannoso anch'io.  Sem. Come fecero Publio, quei celebri filosofi antichi, i quali erano affatto privi de’beni di fortuna, a divenire così dotti; efsendomi stato raccontato di Diogene, che  appena  avesse una botte per  difendersi dall'inclemenze dell'aria : e di Socrate, chę altre di calcare sem, pre la terra co’piedi nudi, appena venisse ricoperto da un sordido mantello.  Pub. Affinchè meglio comprendiate la verità di quanto diffi, dovete sapere, che considera S. Tomaso la povertà in due maniere ; ove parla : Contra genti. Jes; cioè: aut ex coactâ neceffitate, aut ex propriâ voluntate. Questi filosofi da voi mentovati erano poveri; perchè non  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] si curavano punto de'beni della fortuna,  e riputandoli dannosi non istudiavano  di cumulare richezze, quantunque das  queste 'venissero adescati . Mentre , che  non fece Alessandro il grande per ri-  muovere dalla sua bramata povertà  Diogene , quantunque in darno? Quan,   . to non fi adoperò Archelao per fare divenire ricco Socrate ? mà egli per liberarsi dalla di lui generosa importunità li fè intendere , che in Atene a vile prezzo  si vendevano le farine, e che colà le acto que nulla costavano; e perciò questa voin lontaria povertà, non folamente non li * contristava , mà serviva loro più tosto  di ajuto per la filosofia; come riferisce 1 Stobeo, fer.93, che confeffalse, l'isteiro  Diogene . Anzi Epicuro passò più oltre,  come si ricava da Seneca nell'epift. 2 1.   persuadendosi egli,che la volontaria poi vertà , la quale si uniforma alle leggi di  natura , non debba riputarsi povertà, į inà più tosto ricchezza superiore a tutte 3 le altre, di qual sentimento , oltre molti  altri filosofi, fù ancora Democrito; men  [ocr errors][ocr errors] tre  tre venendo egli interrogato, come ri. ferisce Scobeo, qual fosse il vero modo da divenire molto ricco, rispose : con divenire povero di desiderio.  Sem. Potrebbero dunque i nostri poveri figurandoli volontaria la loro forzata povertà, divenire Filosofi ancor efli.  Pub. Non è più quel tempo antico, nel quale i poveri si contentavano audrirli di solo pane, ed acqua , o di sole erbc , come riferisce Eliano, che faceffe Diogene; onde questa povertà volontaria, senza un special dono di Dio si renderà impollibile a conseguirsi .  Sem. Vorei sapere, perchè questa povertà forzata abbia da ritardare l'acquisto delle scienze, c la volontaria più tosto da promoverlo?  Pub. Perchè la forzata contrifta fortemente l'animo,apprendendo chi la sof. fre di essere infeliciffimo, dove che la volontaria, riputandoli per feliçità da cui si gode, lo rende sommamente cranquillo : Laonde chi mai coll'animo con,  [ocr errors] tristato potrà applicare a cose tanto serie, conforme sono le scienze ? le quali richiedono attenta meditazione da cui brama d'approfittarsene. Quindi è, che Aristotile nel primo della sua Etica ebbe con ragione a dire: Impoffibile eft indigentem operari bona ; e più chiaramente nel secondo della politica : Impoffibile eft inte digentem ftudio vacare ; c non potendosi i poveri di spontanea volontà chiamare in digentes,non milita contro di esli l'autorità di Aristotile; perchè questi hanno ciocche, fà d'vopo al loro necessario sostentamento, ed è ciò sufficiente per effi , avendolo fatto conoscere Socrate, riferito da Stobeo al serm. 95. allorchè diffe: Si res 'mea mibi non fufficiunt, du ego ipfis fufficio, as fic etiam ipfa mibi; al opposto i poveri, che non hanno povero il loro desiderio ancora , non li appagano punto di ciò, chè fi trovano , braman. do sempre di vantaggio, sembrando loro quanto hanno per esli insufficiente, c per tale cagione vivono perperuamente contristati. Or ditemi, Sempronio, se  [ocr errors][ocr errors] avere da dire altro intorno al morale?  Sem. Non altro certamente intorno a questo, e credo di avere udito tanto, che se me ne approfitterò saprò scegliere la noglie approposito , ed allevare nel buon costume anche i miei figliuoli, che nasceranno : mi rimane solamente di sentire dal Dottore, quali vantaggi potrebbe apportare all'educazione la Medicina, e specialmente in quei figliuoli  , che ricalcitrano nello approfittarfi de buoni documenti morali.  Med. Di questo ne tratteremo nella ma Parte . seconda parte  Il fine della Prima Parte.Grice: “I like Gagliardi. In honest Italian prose, he manages to write a treatise for the week: the first day (or giornata) and so forth. It is an empirical ethical treatise along Aristotelian lines of the type I classify as ‘is’ rather than ‘ought’. Recall that the fundamental question I pose for pragmatics is why maxims ought to be followed rather than being, as they are, mainly and ceteris paribus followed! My answer to that is in three stages, and the first ‘answer, dull and empirical’ is that the maxims ARE, as a matter of EMPIRICAL fact, followed. This far Gagliardi goes – and succeeds!” – Grice: “He wrote extensively, knowing British parents, how a father must take care of his son, or at least find him a good tutor!” Domenico Gagliardi. Gagliardi. Keywords: “a dull (if at a certain level adequate) answer to the fundamental question about the conversational categoric imperative”; moralia, etica, mos, ethos – Grice on morality – morals – educazione – “We learn not to tell lies from our parents” Hardie, Ethica Nichomachaea, la formazione del carattere.  “Empirical fact we’ve learned since childhood and it would be difficult to diverge from the practice” – “This is a dull empirical.” --  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gagliardi” – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza.  https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51691219431/in/photolist-2mPYy6p-2mPqEYR-2mKRfHn-2mKCfz1-2mKM1De-mw5RV7-mw5QTh-mw5PVA-mw4r44-mw2gNX-mw2JS4-mw5LT3-mw3Tvr-mw2Mpi-mw2eZ6-mw264R-mw45RG-mw2QUp-mw2Ton-mw27EB

 

Galetti. Filosofo. Emporium.

 

Grice e Galilei – Eppur si muove -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Pisa). Filosofo. Galileo Galilei. Grice: “His father was, like mine, a musician.” – “La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l'universo), ma non si può intendere se prima non s'impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, ne' quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto”. Personaggio chiave della rivoluzione scientifica, per aver esplicitamente introdotto il metodo scientifico (detto anche "metodo galileiano" o "metodo sperimentale"), il suo nome è associato a importanti contributi in fisica e in astronomia. Di primaria importanza fu anche il ruolo svolto nella rivoluzione astronomica, con il sostegno al sistema eliocentrico e alla teoria copernicana. I suoi principali contributi al pensiero filosofico derivano dall'introduzione del metodo sperimentale nell'indagine scientifica grazie a cui la scienza abbandonava, per la prima volta, quella posizione metafisica che fino ad allora predominava, per acquisire una nuova, autonoma prospettiva, sia realistica che empiristica, volta a privilegiare, attraverso il metodo sperimentale, più la categoria della quantità (attraverso la determinazione matematica delle leggi della natura) che quella della qualità (frutto della passata tradizione indirizzata solo alla ricerca dell'essenza degli enti) per elaborare ora una descrizione razionale oggettiva[N 6] della realtà fenomenica. Sospettato di eresia e accusato di voler sovvertire la filosofia naturale aristotelica e le Sacre Scritture, Galilei fu processato e condannato dal Sant'Uffizio, nonché costretto, il 22 giugno 1633, all'abiura delle sue concezioni astronomiche e al confino nella propria villa di Arcetri. Nel corso dei secoli il valore delle opere di Galilei venne gradualmente accettato dalla Chiesa, e 359 anni dopo, il 31 ottobre 1992, papa Giovanni Paolo II, alla sessione plenaria della Pontificia accademia delle scienze, riconobbe "gli errori commessi" sulla base delle conclusioni dei lavori cui pervenne un'apposita commissione di studio da lui istituita nel 1981, riabilitando Galilei. La casa natale di Galilei  Abitazione all'800  Abitazione in via Giusti Dal libretto di battesimo di Galileo riportante come luogo "in Chapella di S.to Andrea", si credeva fino alla fine dell'800 che Galileo potesse essere nato vicino alla cappella di Sant'Andrea in Kinseca nella fortezza San Gallo, il che presumeva che il padre Vincenzo fosse un militare. In seguito fu identificata casa Ammannati, vicino alla Chiesa di Sant'Andrea Forisportam, come la vera casa natale. Nacque a Pisa, figlio di Vincenzo Galilei e di Giulia Ammannati. Gli Ammannati, originari del territorio di Pistoia e di Pescia, vantavano importanti origini; Vincenzo Galilei invece apparteneva ad una casata più umile, per quanto i suoi antenati facessero parte della buona borghesia fiorentina. Vincenzo era nato a Santa Maria a Monte, quando ormai la sua famiglia era decaduta ed egli, musicista di valore, dovette trasferirsi a Pisa unendo all'esercizio dell'arte della musica, per necessità di maggiori guadagni, la professione del commercio.  La famiglia di Vincenzo e di Giulia, contava oltre Galileo: Michelangelo Galilei, che fu musicista presso il granduca di Baviera, Benedetto Galilei, morto in fasce. Dopo un tentativo fallito di inserire Galileo tra i quaranta studenti toscani che venivano accolti gratuitamente in un convitto di Pisa, fu ospitato "senza spese" da Tebaldi, doganiere della città di Pisa, padrino di battesimo di Michelangelo Galilei, e tanto amico di Vincenzo da provvedere alle necessità della famiglia durante le sue lunghe assenze per lavoro. A Pisa, Galilei conobbe Bartolomea Ammannati che curava la casa del rimasto vedovo Tebaldi il quale, nonostante la forte differenza d'età, la sposò, probabilmente per metter fine alle malignità, imbarazzanti per la famiglia Galilei, che si facevano sul conto della giovane nipote. Successivamente fece i suoi primi studi a Firenze, prima col padre, poi con un maestro di dialettica e infine nella scuola del convento di Santa Maria di Vallombrosa, dove vestì l'abito di novizio. Vincenzo iscrisse il figlio a Pisa con l'intenzione di fargli studiare medicina, per fargli ripercorrere la tradizione del suo glorioso antenato Galileo Bonaiuti e soprattutto per fargli intraprendere una carriera che poteva procurare lucrosi guadagni.  Nonostante il suo interesse per i progressi sperimentali di quegli anni, la sua attenzione fu presto attratta dalla semiotica, la logica, e la matematica – lo studio del segno -- che comincia a studiare dall'estate del 1583, sfruttando l'occasione della conoscenza fatta a Firenze di Ostilio Ricci da Fermo, un seguace della scuola matematica di Tartaglia. Caratteristica del Ricci era l'impostazione che egli dava all'insegnamento della matematica: non di una scienza astratta o formale, ma di una disciplina materiale che servisse a risolvere i problemi pratici legati alla meccanica e alle tecniche ingegneristiche. Fu, infatti, la linea di studio "Tartaglia-Ricci" (prosecutrice, a sua volta, della tradizione facente capo ad Archimede) a insegnare a Galileo l'importanza della precisione nell'osservazione dei dati e il lato ‘prammatico’ della ricerca scientifica. È probabile che a Pisa abbia seguito anche i corsi di filosofia naturale (fisica) tenuti dall'aristotelico Bonamici. Durante la sua permanenza a Pisa arriva alla sua prima, personale scoperta, che chiama l' “iso-cronismo” nelle oscillazioni di un pendolo. Rinuncia a proseguire gli studi di medicina e anda a Firenze, dove approfondì i suoi nuovi interessi, occupandosi di meccanica e di idraulica. Trova una soluzione al "problema della corona" di Gerone inventando uno strumento per la determinazione idrostatica del peso specifico dei “corpi”.  L'influsso di Archimede e dell'insegnamento del Ricci si rileva anche nei suoi studi sul centro di gravità dei solidi. Cerca intanto una regolare sistemazione economica: oltre a impartire lezioni private a Firenze e a Siena, andò a Roma a richiedere una raccomandazione per entrare nello Studio di Bologna a Clavius, ma inutilmente, perché a Bologna gli preferirono alla cattedra Magini. Su invito dell'Accademia Fiorentina tenne due Lezioni circa la figura, sito e grandezza dell'Inferno, difendendo le ipotesi già formulate da  Manetti sulla topografia dell'Inferno. Galilei si rivolse allora a Monte, matematico conosciuto tramite uno scambio epistolare su questioni matematiche. Monte e fondamentale nell'aiutare Galilei a progredire nella carriera universitaria, quando, superando l'inimicizia di Giovanni de' Medici, un figlio naturale di Cosimo de' Medici, lo raccoma al fratello cardinale Francesco Maria Del Monte, che a sua volta parlò con il potente Duca di Toscana, Ferdinando I de' Medici. Sotto la sua protezione, ebbe un contratto triennale per una cattedra a Pisa, dove espose chiaramente il suo programma, procurandosi subito una certa ostilità nell'ambiente accademico di formazione aristotelica. Il metodo che sigue e quello di far dipendere quel che si dice da quel che si è detto, senza mai supporre come vero quello che si deve spiegare. Questo metodo me l'hanno insegnato i miei matematici, mentre non è abbastanza osservato da certi filosofi quando insegnano elementi fisici. Per conseguenza quelli che imparano, non sanno mai le cose dalle loro cause, ma le credono solamente per fede, cioè perché le ha dette Aristotele. Se poi sarà vero quello che ha detto Aristotele, sono pochi quelli che indagano; basta loro essere ritenuti più dotti perché hanno per le mani maggior numero di testi aristotelici [...] che una tesi sia contraria all'opinione di molti, non m'importa affatto, purché corrisponda alla esperienza e alla ragione”. Frutto dell'insegnamento pisano è “De motu antiquiora”, che raccoglie una serie di lezioni nelle quali egli cerca di dar conto del problema del movimento. Base delle sue ricerche è il trattato, pubblicato a Torino, “Diversarum speculationum mathematicarum liber d Benedetti, uno dei fisici sostenitori della teoria dell'impeto come causa del moto violento. Benché non si sapesse definire la natura dell’impeto impresso a un corpo, questa teoria, elaborata da  Filopono e poi sostenuta dai fisici parigini, pur non essendo in grado di risolvere il problema, si opponeva alla tradizionale spiegazione aristotelica del movimento come prodotto del mezzo nel quale il corpo animato stesso si muove. A Pisa Galilei non si limitò alle sole occupazioni scientifiche: risalgono infatti a questo periodo le sue “Considerazioni sul Tasso” che avrebbero avuto un seguito con le Postille all'Ariosto. Si tratta di note sparse su fogli e annotazioni a margine nelle pagine dei suoi volumi della Gerusalemme e dell'Orlando furioso dove, mentre rimprovera al Tasso la scarsezza della fantasia e la monotonia lenta dell'immagine e del verso, ciò che ama nell'Ariosto non è solo lo svariare dei bei sogni, il mutar rapido delle situazioni, la viva elasticità del ritmo, ma l'equilibrio armonico di questo, la coerenza dell'immagine l'unità organica – pur nella varietà – del fantasma poetico. La morte del padre lo lasciando l'onere di mantenere tutta la famiglia: per il matrimonio della sorella Virginia, dovette provvedere alla dote, contraendo dei debiti, così come avrebbe poi dovuto fare per le nozze della sorella Livia con Galletti, e altri denari avrebbe dovuto spendere per soccorrere le necessità della numerosa famiglia del fratello Michelangelo. Del Monte intervenne ad aiutare nuovamente, raccomandandolo al prestigioso Studio di Padova, dove era ancora vacante una catedra dopo la morte di Moleti. Le autorità della Repubblica di Venezia emanarono il decreto di nomina, con un contratto, prorogabile, di quattro anni e con uno stipendio di 180 fiorini l'anno. Tenne a Padova il discorso introduttivo e dopo pochi giorni cominciò un corso destinato ad avere un grande seguito presso gli studenti. Vi sarebbe restato per diciotto anni, che avrebbe definito «li diciotto anni migliori di tutta la mia età. Arriva a Venezia solo pochi mesi dopo l'arresto di Bruno a Venezia. Nel dinamico ambiente di Padova (risultato anche del clima di relativa tolleranza religiosa garantito dalla Repubblica veneziana),  intrattenne rapporti cordiali anche con personalità di orientamento filosofico lontano dal suo, come Cremonini, filosofo rigorosamente aristotelico. Frequenta anche i circoli colti e gli ambienti senatoriali di Venezia, dove strinse amicizia con Sagredo, che Galilei rese protagonista del suo Dialogo sopra i massimi sistemi, e Sarpi, esperto di semiotica. È contenuta proprio nella lettera  al frate servita la formulazione della legge sulla caduta dei gravi. Gli spazii passati dal moto naturale esser in proportione doppia dei tempi, e per conseguenza gli spazii passati in tempi eguali esser come ab unitate, et le altre cose. Et il principio è questo: che il mobile naturale vadia crescendo di velocità con quella proportione che si discosta dal principio del suo moto. Galileo tiene a Padova lezioni di meccanica: il suo “Trattato di meccaniche” dovrebbe essere il risultato dei suoi corsi, che avevano avuto origine dalle “Questioni meccaniche” di Aristotele.  A Padova Galileo attrezza con l'aiuto di un artigiano che abitava nella sua stessa casa, una officina nella quale eseguiva esperimenti e fabbricava strumenti che vendeva per arrotondare lo stipendio. Perla macchina per portare l'acqua a livelli più alti ottenne dal Senato veneto un brevetto ventennale per la sua utilizzazione pubblica. Da anche lezioni private e ottenne aumenti di stipendio: dai 320 fiorini percepiti annualmente passa ai 1.000.  Una nuova stella fu osservata d’Altobelli, il quale ne informò Galilei. Luminosissima, fu osservata successivamente anche da Keplero, che ne fece oggetto di uno studio, il De Stella nova in pede Serpentarii. Su quel fenomeno astronomico Galileo tenne tre lezioni, il cui testo non ci è noto, ma contro le sue argomentazioni scrisse un opuscolo Lorenzini, sedicente aristotelico originario di Montepulciano,su suggerimento di Cremonini, e intervenne a sua volta con un opuscolo anche Capra. Interpreta il fenomeno della ‘nuova stella’ come prova della mutabilità dei cieli, sulla base del fatto che, non presentando la "nuova stella" alcun cambiamento di parallasse, essa dovesse trovarsi oltre l'orbita della Luna. A favore della tesi si pubblica “Dialogo de Cecco di Ronchitti da Bruzene in perpuosito de la Stella Nuova. Ronchitti difende la validità del metodo della parallasse per determinare la distanza minima di cose accessibili all'osservatore solo visivamente, quali sono gli astri. Rimane incerta l'attribuzione del dialogo, se cioè sia opera dello stesso Galilei o di Spinelli. Compose due trattati sulla fortificazione, la Breve introduzione all'architettura militare e il Trattato di fortificazione. Fabbricò un compasso, che descrisse in “Le operazioni del compasso geometrico et militare” (Padova). Il compasso era strumento già noto e, in forme e per usi diversi, già utilizzato, né Galileo pretese di attribuirsi particolari meriti per la sua invenzione; ma Capra lo accusa di aver plagiato una sua precedente invenzione. Ribalta le accuse di Capra, ottenendone la condanna da parte dei Riformatori dello Studio padovano e pubblicò una Difesa contro alle calunnie et imposture di Baldessar Capra milanese, dove ritorna anche sulla precedente questione della nuova stella. L'apparizione della nuova stella crea grande sconcerto nella società e Galileo non disdegna di approfittare del momento per elaborare, su commissione, oroscopi personali, al prezzo di 60 lire venete. Peraltro, e messo sotto accusa dall'Inquisizione di Padova a seguito di una denuncia di un suo ex-collaboratore, che lo aveva accusato precisamente di aver effettuato oroscopi e di aver sostenuto che gli astri determinano le scelte dell'uomo. Il procedimento, però, fu energicamente bloccato dal Senato della Repubblica veneta e il dossier dell'istruttoria venne insabbiato, così che di esso non giunse mai alcuna notizia all'Inquisizione romana, ossia al Sant'Uffizio. Il caso venne probabilmente abbandonato anche perché Galileo si era occupato di astrologia natale e non di astrologia pro-gnostica o previsionale.  La sua fama come autore di oroscopi gli portò richieste, e senza dubbio pagamenti più sostanziosi, da parte di cardinali, principi e patrizi, compresi Sagredo, Morosini e qualcuno che si interessava a Sarpi. Scambia lettere con Gualterotti, e, nei casi più difficili, con Brenzoni. Tra i temi natali calcolati e interpretati figurano quelli delle sue due figlie, Virginia e Livia, e il suo proprio, calcolato tre volte. Il fatto che si dedicasse a questa attività anche quando non era pagato per farlo suggerisce che egli vi attribuisse un qualche valore. Non basta guardare, occorre guardare con occhi che vogliono vedere, che credono in quello che vedono. (if you see that p, because you want that p). Non sembra che, nella polemica sulla "nuova stella", Galilei si fosse già pubblicamente pronunciato a favore della teoria elio-centrica di Copernico. Si ritiene che egli, pur intimamente convinto copernicano, pensasse di non disporre ancora di prove sufficientemente forti da ottenere invincibilmente l'assenso della universalità dei filosofi. Tuttavia, espressa privatamente la propria adesione al copernicanesimo a Keplero – che aveva pubblicato il suo Prodromus dissertationum cosmographicarum scriveva. Ho già scritto molte argomentazioni e molte confutazioni degli argomenti avversi, ma finora non ho osato pubblicarle, spaventato dal destino dello stesso Copernico, nostro maestro. Questi timori, però, svaniranno proprio grazie al cannocchiale, che Galileo punterà per la prima volta verso il cielo. Di ottica si erano occupati già Porta nella sua Magia naturalis e nel De refractione e Keplero negli Ad Vitellionem paralipomena, opere dalle quali era possibile pervenire alla costruzione del cannocchiale. Lo strumento fu costruito indipendentemente da Lippershey, un ottico tedesco naturalizzato olandese. Galileo decise allora di preparare un tubo di piombo, applicandovi all'estremità due lenti, ambedue con una faccia piena e con l’altra sfericamente concava nella prima lente e convessa nella seconda. Quindi, accostando l’occhio alla lente concava, percepii l’astro abbastanza grande e vicino, in quanto essi apparivano tre volte più prossimi e nove volte maggiori di quel che risultavano guardati con la sola vista naturale. Presenta l'apparecchio come sua costruzione al governo di Venezia che, apprezzando l'invenzione, gli raddoppiò lo stipendio e gli offrì un contratto vitalizio d'insegnamento. L'invenzione, la riscoperta e la ricostruzione del cannocchiale non è un episodio che possa destare grande ammirazione. La novità sta nel fatto che Galileo è il primo a portare questo strumento, usandolo in maniera prettamente logica e concependolo come un potenziamento del sentire – il vedere. La grandezza di Galileo nei riguardi del cannocchiale è stata proprio questa. Supera tutta una serie di ostacoli concettuali (cf. Galileo sees that the star is nice +> without a telescope – I could see the cow from the window) -- utilizzando suddetto strumento per rafforzare le proprie tesi.  Grazie al cannocchiale, Galileo propone una nuova visione del mondo celeste. Giunge alla conclusione che, alle stelle visibili ad occhio nudo, si aggiungono altre innumerevoli stelle mai scorte prima d’ora. L'Universo, dunque, diventa più grande; Non c’è differenza di natura fra la Terra e la Luna. Galileo arreca così un duro colpo alla visione aristotelico-tolemaica geo-centrica del mondo, sostenendo che la superficie della Luna non è affatto liscia e levigata bensì ruvida, rocciosa e costellata di ingenti prominenze. Quindi, tra gli astri, almeno la Luna non possiede i caratteri di assoluta perfezione che ad essa erano attribuiti dalla tradizione. Inoltre, la Luna si muove, e allora perché non dovrebbe muoversi anche la Terra che è simile dal punto di vista della costituzione? Vengono scoperti i un satellite di Giove, che Galileo denomina “la stelle medicea”. Questa consapevolezza l’offre l'insperata visione in cielo di un modello più piccolo dell'universo copernicano. Le scoperte furono pubblicate nel Sidereus Nuncius, una copia del quale Galileo invia a Cosimo II, insieme con un esemplare del suo cannocchiale e la dedica dei quattro satelliti, battezzati da Galileo in un primo tempo Cosmica Sidera e successivamente Medicea Sidera («pianeti medicei»). È evidente l'intenzione di Galileo di guadagnarsi la gratitudine della Casa medicea, molto probabilmente non soltanto ai fini del suo intento di ritornare a Firenze, ma anche per ottenere un'influente protezione in vista della presentazione, di fronte al pubblico degli studiosi, di quelle novità, che certo non avrebbero mancato di sollevare polemiche. Chiede a Vinta, Primo Segretario di Cosimo II, di essere assunto allo Studio di Pisa, precisando. Quanto al titolo et pretesto del mio servizio, io desidererei, oltre al nome di Matematico, che S. A. ci aggiugnesse quello di “filosofo”, professando io di havere studiato più anni in filosofia, che mesi in matematica pura. Il governo fiorentino comunica a Galileo l'avvenuta assunzione come «Matematico primario dello Studio di Pisa et di” “Filosofo” del Ser.mo Gran Duca, senz'obbligo di leggere e di risiedere né nello Studio né nella città di Pisa, et con lo stipendio di mille scudi l'anno, moneta fiorentin. Galileo firma il contratto e raggiunse Firenze.  Qui giunto si premura di regalare a Ferdinando, figlio del granduca Cosimo, la migliore lente ottica che aveva realizzato nel suo laboratorio organizzato quando era a Padova dove, con l'aiuto dei mastri vetrai di Murano confezionava occhialetti sempre più perfetti e in tale quantità da esportarli, come fece con il cannocchiale mandato all'elettore di Colonia il quale a sua volta lo prestò a Keplero che ne fece buon uso e che, grato, concluse la sua opera Narratio de observatis a se quattuor Jovis satellitibus erronibus, così scrivendo. “Vicisti Galilaee” -- riconoscendo la verità delle scoperte di Galilei. Ferdinando ruppe la lente. Galilei gli regala qualcosa di meno fragile: una calamita armata, cioè fasciata da una lamina di ferro, opportunamente posizionata, che ne aumenta la forza d'attrazione in modo tale che, pur pesando solo sei once, il magnete sollevava quindici libbre di ferro lavorato in forma di sepolcro. In occasione del trasferimento a Firenze lascia la sua convivente, la veneziana Marina Gamba, conosciuta a Padova, dalla quale aveva avuto tre figli: Virginia e Livia, mai legittimate, e Vincenzio, che riconobbe. Affida a Firenze la figlia Livia alla nonna, con la quale già convive l'altra figlia Virginia, e lascia Vincenzio a Padova alle cure della madre e poi, dopo la morte di questa, a Bartoluzzi.  In seguito, resasi difficile la convivenza delle due bambine con Ammannati, Galileo fece entrare le figlie nel convento di San Matteo, ad Arcetri (Firenze), costringendole a prendere i voti non appena compiuti i rituali sedici anni. Virginia assunse il nome di suor Maria Celeste, e Livia quello di suor Arcangela, e mentre Virginia Galilei si rassegna alla sua condizione e rimase in contatto epistolare con il padre, Livia non accetta mai l'imposizione. La pubblicazione del Sidereus Nuncius suscita apprezzamenti ma anche diverse polemiche. Oltre all'accusa di essersi impossessato, con il cannocchiale, di una scoperta che non gli apparteneva, fu messa in dubbio anche la realtà di quanto egli asseriva di aver scoperto. Sia Cremonini, sia Magini, che sarebbe l'ispiratore del libello “Brevissima peregrinatio contra Nuncium Sidereum” da Horký, pur accogliendo l'invito di Galilei a guardare attraverso il telescopio che egli aveva costruito, ritennero di *non* vedere alcun supposto satellite di Giove.  Solo più tardi Magini si ricredette e con lui anche Clavius, che aveva ritenuto che i satelliti di Giove individuati da Galilei fossero soltanto un'”illusione” prodotta non direttamente dal corpo di Galileo mai dalla lente del telescopio. Quest’obiezione e difficilmente confutabile. Conseguente sia alla bassa qualità del sistema ottico del primo telescopio, sia all'ipotesi che la lente potessero deformer la vision natural all’occhio nudo. Un appoggio molto importante fu dato a Galileo da Keplero, che, dopo un iniziale scetticismo e una volta costruito un telescopio sufficientemente efficiente, verifica l'esistenza effettiva dei satelliti di Giove, pubblicando a Francoforte la “Narratio de observatis a se quattuor Jovis satellitibus erronibus quos Galilaeus Galilaeus mathematicus florentinus jure inventionis Medicaea sidera nuncupavit”. Poiché i gesuiti del Collegio Romano sono considerati tra le maggiori autorità scientifiche del tempo, si recò a Roma per presentare le sue scoperte. Fu accolto con tutti gli onori da Paolo V e da Cesi, che lo iscrisse nei Lincei. Galileo scrive a Vinta che i gesuiti avendo finalmente conosciuta la verità dei nuovi Pianeti Medicei, ne hanno fatte da due mesi in qua continue osservazioni, le quali vanno proseguendo; e le aviamo “riscontrate con le mie” e si rispondano giustissime. Però, a quel tempo non sapeva ancora che l'entusiasmo con il quale anda diffondendo e difendendo le proprie scoperte e teorie suscita resistenze e sospetti precisamente in ambito ecclesiastico.  Bellarmino incarica i matematici vaticani di approntargli una relazione sulle nuove scoperte fatte da un valente matematico per mezo d'un istrumento chiamato cannone overo ochiale e la Congregazione del Santo Uffizio precauzionalmente chiese all'Inquisizione di Padova se fosse mai stato aperto, in sede locale, qualche procedimento a carico di Galilei. Evidentemente, la Curia Romana comincia già a intravedere quali conseguenze avrebbero potuto avere questi singolari sviluppi della filosofia sulla concezione generale del mondo e quindi, indirettamente, sui sacri principi del cristanensimo. Scrisse il Discorso intorno alle cose che stanno in su l'acqua, o che in quella si muovono, nel quale appoggiandosi alla teoria di Archimede dimostra, contro Aristotele, che i corpi galleggiano o affondano nell'acqua a seconda del loro peso specifico non della loro forma, provocando la polemica risposta del Discorso apologetico d'intorno al Discorso di Galileo Galilei di Colombe. Al Pitti, presenti il granduca, la granduchessa Cristina e Barberini, allora suo grande ammiratore, diede una pubblica dimostrazione sperimentale dell'assunto, confutando definitivamente Colombe.  Galilei accenna anche alle macchie solari, che sosteniene di aver già osservate a Padova, senza però darne notizia: scrisse ancora, l'Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari e loro accidenti, pubblicata a Roma dall'Accademia dei Lincei, in risposta a tre lettere di Scheiner che, indirizzate a Welser, duumviro di Augusta, mecenate delle scienze e amico dei Gesuiti dei quali era banchiere. A parte la questione della priorità della scoperta, Scheiner sosteneva erroneamente che le macchie consistevano in sciami di astri rotanti intorno al Sole, mentre Galileo le considerava materia fluida appartenente alla superficie del Sole e ruotante intorno ad esso proprio a causa della rotazione stessa della stella.  L'osservazione delle macchie consentì, quindi, a Galileo la determinazione del periodo di rotazione del Sole e la dimostrazione che il cielo e la terra non erano due mondi radicalmente diversi, il primo solo perfezione e immutabilità e il secondo tutto variabile e imperfetto. Infatti, ribadì a Federico Cesi la sua visione copernicana scrivendo come il Sole si rivolgesse «in sé stesso in un mese lunare con rivoluzione simile all'altre de i pianeti, cioè da ponente verso levante intorno a i poli dell'eclittica: la quale novità dubito che voglia essere il funerale o più tosto l'estremo e ultimo giudizio della pseudofilosofia, essendosi già veduti segni nelle stelle, nella luna e nel sole; e sto aspettando di veder scaturire gran cose dal Peripato per mantenimento della immutabilità de i cieli, la quale non so dove potrà esser salvata e celata». Anche l'osservazione del moto di rotazione del Sole e dei pianeti era molto importante: rendeva meno inverosimile la rotazione terrestre, a causa della quale la velocità di un punto all'equatore sarebbe di circa 1700 km/h anche se la Terra fosse immobile nello spazio. La scoperta delle fasi di Venere e di Mercurio, osservate da Galileo, non era compatibile col modello geocentrico di Tolomeo, ma solo con quello geo-eliocentrico di Tycho Brahe, che Galileo non prese mai in considerazione, e con quello eliocentrico di Copernico. Galileo, scrivendo a Giuliano de' Medici il 1º gennaio 1611, affermava che «Venere necessarissimamente si volge intorno al sole, come anche Mercurio e tutti li altri pianeti, cosa ben creduta da tutti i Pittagorici, Copernico, Keplero e me, ma non sensatamente[N 36] provata, come ora in Venere e in Mercurio». Difese il modello eliocentrico e chiarì la sua concezione della scienza in quattro lettere private, note come "lettere copernicane" e indirizzate a padre Benedetto Castelli, due a monsignor Pietro Dini, una alla granduchessa madre Cristina di Lorena.  L'horror vacui Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Vuoto (filosofia). Secondo la dottrina aristotelica in natura il vuoto non esiste poiché ogni corpo terreno o celeste occupa uno spazio che fa parte del corpo stesso. Senza corpo non c'è spazio e senza spazio non esiste corpo. Sostiene Aristotele che "la natura rifugge il vuoto" (natura abhorret a vacuo), e perciò lo riempie costantemente; ogni gas o liquido tenta sempre di riempire ogni spazio, evitando di lasciarne porzioni vuote. Un'eccezione però a questa teoria era l'esperienza per la quale si osservava che l'acqua aspirata in un tubo non lo riempiva del tutto ma ne rimaneva inspiegabilmente una parte che si riteneva fosse del tutto vuota e perciò dovesse essere colmata dalla Natura; ma questo non si verificava. Galilei rispondendo a una lettera inviatagli nel 1630 da un cittadino ligure Giovan Battista Baliani confermò questo fenomeno sostenendo che «la ripugnanza del vuoto da parte della Natura» può essere vinta, ma parzialmente, e che, anzi, «lui stesso ha provato che è impossibile far salire l’acqua per aspirazione per un dislivello superiore a 18 braccia, circa 10 metri e mezzo. Galilei quindi crede che l'horror vacui sia limitato e non si chiede se in effetti il fenomeno fosse collegato al peso dell'aria, come dimostrerà Evangelista Torricelli.  La disputa con la Chiesa Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Disputa tra Galileo Galilei e la Chiesa. La denuncia del domenicano Tommaso Caccini. Il cardinale Roberto Bellarmino Il 21 dicembre 1614, dal pulpito di Santa Maria Novella a Firenze il frate domenicano Tommaso Caccini lanciava contro certi matematici moderni, e in particolare contro Galileo, l'accusa di contraddire le Sacre Scritture con le loro concezioni astronomiche ispirate alle teorie copernicane. Giunto a Roma, il 20 marzo 1615, Caccini denunciò Galileo in quanto sostenitore del moto della Terra intorno al Sole. Intanto a Napoli era stato pubblicato il libro del teologo carmelitano Paolo Antonio Foscarini, la Lettera sopra l'opinione de' Pittagorici e del Copernico, dedicata a Galileo, a Keplero e a tutti gli accademici dei Lincei, che intendeva accordare i passi biblici con la teoria copernicana interpretandoli «in modo tale che non gli contradicano affatto». Bellarmino, già giudice nel processo di Giordano Bruno, tuttavia affermava che sarebbe stato possibile reinterpretare i passi della Scrittura che contraddicevano l'eliocentrismo solo in presenza di una vera dimostrazione di esso e, non accettando le argomentazioni di Galileo, aggiungeva che finora non gliene era stata mostrata nessuna, e sosteneva che comunque, in caso di dubbio, si dovessero preferire le sacre scritture.  L'anno dopo il Foscarini verrà, per breve tempo, incarcerato e la sua Lettera proibita. Intanto il Sant'Uffizio stabilì, il 25 novembre 1615, di procedere all'esame delle Lettere sulle macchie solari e Galileo decise di venire a Roma per difendersi personalmente, appoggiato dal granduca Cosimo: «Viene a Roma il Galileo matematico» – scriveva Cosimo II al cardinale Scipione Borghese – «et viene spontaneamente per dar conto di sé di alcune imputazioni, o più tosto calunnie, che gli sono state apposte da' suoi emuli».  Il papa ordinò a Bellarmino di convocare Galileo e di ammonirlo di abbandonare la suddetta opinione; e se si fosse rifiutato di obbedire, il Padre Commissario, davanti a un notaio e a testimoni, di fargli precetto di abbandonare del tutto quella dottrina e di non insegnarla, non difenderla e non trattarla». Il cardinale Bellarmino diede comunque a Galileo una dichiarazione in cui venivano negate abiure ma in cui si ribadiva la proibizione di sostenere le tesi copernicane: forse gli onori e le cortesie ricevute malgrado tutto, fecero cadere Galileo nell'illusione che a lui fosse permesso quello che ad altri era vietato. Comparvero nel cielo tre comete, fatto che attirò l'attenzione e stimolò gli studi degli astronomi di tutta Europa. Fra essi il gesuita Orazio Grassi, matematico del Collegio Romano, tenne con successo una lezione che ebbe vasta eco, la Disputatio astronomica de tribus cometis anni MDCXVIII: con essa, sulla base di alcune osservazioni dirette e di un procedimento logico-scolastico, egli sosteneva l'ipotesi che le comete fossero corpi situati oltre al «cielo della Luna» e la utilizzava per avvalorare il modello di Tycho Brahe, secondo il quale la Terra è posta al centro dell'universo, con gli altri pianeti in orbita invece intorno al Sole, contro l'ipotesi eliocentrica.  Galilei decise di replicare per difendere la validità del modello copernicano. Rispose in modo indiretto, attraverso lo scritto Discorso delle comete di un suo amico e discepolo, Mario Guiducci, ma in cui la mano del maestro era probabilmente presente. Nella sua replica Guiducci sosteneva erroneamente che le comete non erano oggetti celesti, ma puri effetti ottici prodotti dalla luce solare su vapori elevatisi dalla Terra, ma indicava anche le contraddizioni del ragionamento di Grassi e le sue erronee deduzioni dalle osservazioni delle comete con il cannocchiale. Il gesuita rispose con uno scritto intitolato Libra astronomica ac philosophica, firmato con lo pseudonimo anagrammatico di Lotario Sarsi, attaccava direttamente Galilei e il copernicanesimo.  Galilei a questo punto rispose direttamente: fu pronto il trattato Il Saggiatore. Scritto in forma di lettera, fu approvato dagli accademici dei Lincei e stampato a Roma. Dopo la morte di papa Gregorio XV, con il nome di Urbano VIII saliva al soglio pontificioBarberini, da anni amico ed estimatore di Galileo. Questo convinse erroneamente Galileo che risorge la speranza, quella speranza che era ormai quasi del tutto sepolta. Siamo sul punto di assistere al ritorno del prezioso sapere dal lungo esilio a cui era stato costrett, come scritto al nipote del papa Francesco Barberini. Galileo resenta una teoria rivelatasi successivamente erronea delle comete come apparenze dovute ai raggi solari. In effetti, la formazione della chioma e della coda delle comete, dipendono dall'esposizione e dalla direzione delle radiazioni solari, dunque Galilei non aveva tutti i torti e Grassi ragione, il quale essendo avverso alla teoria copernicana, non poteva che avere un'idea sui generis dei corpi celesti. La differenza tra le argomentazioni di Grassi e quella di Galileo era tuttavia soprattutto di metodo, in quanto il secondo basava i propri ragionamenti sulle esperienze. Galileo scrisse infatti la celebre metafora secondo la quale la filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi “(io dico l'universo)” mettendosi in contrasto con Grassi che si richiamava all'autorità dei maestri del passato e di Aristotele per l'accertamento della verità sulle questioni naturali.  Giunse a Roma per rendere omaggio al papa e strappargli la concessione della tolleranza della Chiesa nei confronti del sistema copernicano, ma nelle sei udienze concessegli da Urbano VIII non ottenne da questi alcun impegno preciso in tal senso. Senza nessuna assicurazione ma con il vago incoraggiamento che gli veniva dall'esser stato onorato da papa Urbano – che concesse una pensione al figlio Vincenzio – Galileo ritenne di poter rispondere finalmente, nel settembre del 1624, alla Disputatio di Francesco Ingoli. Reso formale omaggio all'ortodossia cattolica, nella sua risposta Galileo dovrà confutare le argomentazioni anticopernicane dell'Ingoli senza proporre quel modello astronomico, né rispondere alle argomentazioni teologiche. Nella Lettera Galileo enuncia per la prima volta quello che sarà chiamato il principio della relatività galileiana: alla comune obiezione portata dai sostenitori della immobilità della Terra, consistente nell'osservazione che i gravi cadono perpendicolarmente sulla superficie terrestre, anziché obliquamente, come apparentemente dovrebbe avvenire se la Terra si muovesse, Galileo risponde portando l'esperienza della nave nella quale, sia essa in movimento uniforme o sia ferma, i fenomeni di caduta o, in generale, dei moti dei corpi in essa contenuti, si verificano esattamente nello stesso modo, perché «il moto universale della nave, essendo comunicato all'aria ed a tutte quelle cose che in essa vengono contenute, e non essendo contrario alla naturale inclinazione di quelle, in loro indelebilmente si conserva».[65]  Dialogo Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo. Galilei comincia il suo nuovo lavoro, un Dialogo che, confrontando le diverse opinioni degli interlocutori, gli avrebbe consentito di esporre le varie teorie correnti sulla cosmologia, e dunque anche quella copernicana, senza mostrare di impegnarsi personalmente a favore di nessuna di esse. Ragioni di salute e familiari prolungarono la stesura dell'opera. Dovette prendersi cura della numerosa famiglia del fratello Michelangelo, mentre il figlio Vincenzio, laureatosi in legge a Pisa si sposa con Sestilia Bocchineri, sorella di Geri Bocchineri, uno dei segretari del duca Ferdinando, e di Alessandra. Per esaudire il desiderio della figlia Maria Celeste, monaca ad Arcetri, di averlo più vicino, affitta vicino al convento il villino «Il Gioiello». Dopo non poche vicissitudini per ottenere l'imprimatur ecclesiastico, l'opera venne pubblicata.  Nel Dialogo i due massimi sistemi messi a confronto sono quello geo-centrico e quello elio-centrico. Tre sono i protagonisti: due sono personaggi reali, amici di Galileo, Salviati e Sagredo, nello cui palazzo si fingono tenute la conversazione. Il terzo protagonista è ‘Simplicio,’ un commentatore di Aristotele, oltre a sottintendere il suo semplicismo scientifico. Simplicio è il sostenitore del sistema geo-centrico, mentre l'opposizione elio-centrica è sostenuta da Salviati e Sagredo. Il Dialogo ricevette molti elogi, ma si diffusero le voci di una proibizione. Riccardi scrive ad Egidi che per ordine del Papa il “Dialogo” non doveva più essere diffuso. Gli chiedeva di rintracciare le copie già vendute e di sequestrarle. Il Papa adirato accusa Galileo di aver raggirato i ministri che avevano autorizzato la pubblicazione. L’Inquisizione romana sollecita quella fiorentina perché notificasse a Galileo l'ordine di comparire a Roma entro il mese di ottobre davanti al Commissario generale del Sant'Uffizio. Galileo, in parte perché malato, in parte perché spera che la questione potesse aggiustarsi in qualche modo senza l'apertura del processo, ritarda per tre mesi la partenza; di fronte alla minacciosa insistenza del Sant'Uffizio, parte per Roma in lettiga.  Il processo comincia con il primo interrogatorio di Galileo, al quale Maculano contesta di aver ricevuto un precetto con il quale Bellarmino gli avrebbe intimato di abbandonare la teoria elio-centrica, di non sostenerla in nessun modo e di non insegnarla. Nell'interrogatorio Galileo nega di aver avuto conoscenza del precetto e sostenne di non ricordare che nella dichiarazione di Bellarmino vi fossero le parole “quovis modo” (in qualsiasi modo) e “nec docere” (non insegnare). Incalzato dall'inquisitore, Galileo non solo ammise di non avere detto cosa alcuna del sodetto precetto, ma anzi arriva a sostenere che nel detto Dialogo mostra il contrario di detta opinione del Copernico, e che le ragioni di Copernico sono invalide e non concludenti. Concluso il primo interrogatorio, Galileo fu trattenuto, pur sotto strettissima sorveglianza, in tre stanze del palazzo dell'Inquisizione, con ampia e libera facoltà di passeggiare. Il giorno successivo all'ultimo interrogatorio, nella sala capitolare del convento domenicano di Santa Maria sopra Minerva, presente e inginocchiato Galileo, fu emessa la sentenza dai inquisitori generali contro l'eretica pravità, nella quale si riassume la lunga vicenda del contrasto fra Galileo e il cristanesimo, cominciata con lo scritto Delle macchie solari e l'opposizione dei cristiani al modello Copernicano. Nella sentenza si sostiene poi che il documento fosse un'effettiva ammonizione a non difendere o insegnare la teoria copernicana.  Imposta l'abiura con cuor sincero e fede non finta e proibito il Dialogo, e condannato al carcere formale ad arbitrio nostro e alla pena salutare della recita settimanale dei sette salmi penitenziali per tre anni, riservandosi l'Inquisizione di moderare, mutare o levar in tutto o parte le pene e le penitenze. Se la leggenda della frase di Galileo, «E pur si muove», pronunciata appena dopo l'abiura, serve a suggerire la sua intatta convinzione della validità del modello copernicano, la conclusione del processo segna la sconfitta del suo programma di diffusione della filosofia, fondata sull'osservazione rigorosa dei fatti e sulla loro verifica sperimentale – contro il cristenesimo che produce esperienze come fatte e rispondenti al suo bisogno senza averle mai né fatte né osservate – e contro i pregiudizi del senso comune, che spesso induce a ritenere reale qualunque apparenza: una filosofia che insegna a non aver più fiducia nell'autorità, nella tradizione e nel senso commune e che vuole insegnare a pensare. La sentenza di condanna prevedeva un periodo di carcere a discrezione del Sant'Uffizio e l'obbligo di recitare per tre anni, una volta alla settimana, i salmi penitenziali. Il rigore letterale fu mitigato nei fatti. La prigionia consistette nel soggiorno coatto per cinque mesi presso Palazzo Niccolini, a Trinità dei Monti e di qui, in Palazzo Piccolomini a Siena. Quanto ai salmi penitenziali, Galileo incarica di recitarli, con il consenso della Chiesa, la figlia Livia, suora di clausura. Piccolomini favore Galileo, permettendogli di incontrare personalità della città e di dibattere questioni scientifiche. A seguito di una lettera che denunci l'operato, il Sant'Uffizio provvide, accogliendo una stessa richiesta avanzata in precedenza da Galilei, a confinarlo nell'isolata villa del Gioiello, che possede nella campagna di Arcetri. Si l’intima di stare da solo, di non chiamare ne di ricevere alcuno, per il tempo ad arbitrio di Sua Santita. Solo i familiari poaaono fargli visita, dietro preventiva autorizzazione: anche per questo motivo gli fu particolarmente dolorosa la morte di Livia. Poté tuttavia mantenere corrispondenza con amici ed estimatori: a Diodati consolandosi delle sue sventure che l'invidia e la malignità “mi hanno machinato contro” con la considerazione che l'infamia ricade sopra i traditori e i costituiti nel più sublime grado dell'ignoranza. Da Diodati seppe della versione in latino che Bernegger anda facendo a Strasburgo del suo Dialogo e gli riferì di Rocco, purissimo peripatetico, e remotissimo dall'intender nulla di filosofia che scrive a Venezia mordacità e contumelie contro di lui. Questa, e altre lettere, dimostrano quanto poco Galileo avesse rinnegato le proprie convinzioni copernicane.  Dopo il processo scrive e pubblica “Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze attinenti la mecanica e i moti locali”, organizzato come un dialogo che si svolge in quattro giornate fra i tre medesimi protagonisti del precedente Dialogo dei massimi sistemi: Sagredo, Salviati e Simplicio. Nella prima giornata si tratta della resistenza dei materiali. La diversa resistenza deve essere legata alla struttura della particolare materia e Galileo, pur senza pretendere di pervenire a una spiegazione del problema, affronta l'interpretazione atomistica di Democrito, considerandola un'ipotesi capace di rendere conto di fenomeni fisici. In particolare, la possibilità dell'esistenza del vuoto – prevista da Democrito – viene ritenuta una seria ipotesi scientifica e nel vuoto – ossia nell'inesistenza di un qualunque mezzo in grado di opporre resistenza – Galileo sostiene giustamente che tutte le cose discendeno con eguale velocità, in opposizione con Aristotele che ritiene l'impossibilità concettuale di un moto in un vuoto.  Dopo aver trattato della statica e della leva nella seconda giornata, nella terza e nella quarta si occupa della dinamica, stabilendo le leggi del moto uniforme, del moto naturalmente accelerato e del moto uniformemente accelerato e delle oscillazioni del pendolo. Intraprende corrispondenza con Bocchineri. La famiglia Bocchineri di Prato aveva dato una giovane, di nome Sestilia, sorella di Alessandra, per moglie al figlio di Galilei, Vincenzio.  Quando Galilei incontra Bocchineri, questa è una donna che si è affinata e ha coltivato la sua intelligenza, sposa di Buonamici, un importante diplomatico che diventerà buon amico di Galilei.  Bocchineri e Galilei si scambiano numerosi inviti per incontrarsi e Galilei non manca di elogiare l'intelligenza di Bocchineri dato che sì rare si trovano donne che tanto sensatamente discorrino come ella fa. Con la cecità e l'aggravarsi delle condizioni di salute è costretto talvolta a rifiutare gli invite NON *SOLO* per le molte indisposizioni che mi tengono oppresso in questa mia gravissima età, ma perché son ritenuto ancora in carcere, per quelle cause che benissimo son note. L'ultima lettera mandata  di "non volontaria brevità". «Vide / sotto l'etereo padiglion rotarsi / più mondi, e il Sole irradïarli immoto, onde all'Anglo che tanta ala vi stese / sgombrò primo le vie del firmamento. E tumulato nella Basilica di Santa Croce a Firenze. Il Cristenesimo mantenne la sorveglianza anche nei confronti degli allievi. Quando i seguaci diedero vita al Cimento, esso intervenne presso il Granduca, e il Cimento e sciolto. Convinto della correttezza della cosmologia copernicana, Galileo era ben consapevole che essa fosse ritenuta in contraddizione con il testo cristiano che sostenevano invece una concezione geocentrica dell'universo. Il cristanesimo considera le Sacre Scritture ispirate dallo Spirito Santo, la teoria eliocentrica poteva essere accettata, fino a prova contraria, soltanto come semplice ipotesi (“ex supposition”) o modello matematico, senza alcuna attinenza con la reale posizione dei corpi celesti. Proprio a questa condizione il “De revolutionibus orbium coelestium” di Copernico non e condannato dalle autorità ecclesiastiche e menzionato nell'Indice dei libri proibiti. Galileo si inserì nel dibattito sul rapporto fra scienza e fede con la lettera a Castelli. Difese il modello copernicano sostenendo che esistono *due* verità necessariamente non in contraddizione o in conflitto fra loro. La Bibbia è certamente un testo sacro di ispirazione divina e dello Spirito Santo, ma comunque scritto in un preciso momento storico con lo scopo di orientare il lettore verso la comprensione della vera religione. Per questa ragione, come già avevano sostenuto molti esegeti tra i quali *Lutero* e Keplero, i fatti della Bibbia sono stati necessariamente scritti in modo tale da poter essere compresi anche dagli antichi e dalla gente comune. Occorre quindi discernere, come già sostenuto da Agostino, il messaggio propriamente basato nella fede dalla descrizione, storicamente connotata ed inevitabilmente narrativa e didascalica, di fatti, episodi e personaggi. Dal che seguita, che qualunque volta alcuno, nell'esporla, volesse fermarsi sempre nel nudo suono litterale, splicito, potrebbe, errando esso, far apparire nelle Scritture non solo contraddizioni e proposizioni remote dal vero, ma gravi eresie e bestemmie ancora. Poi che sarebbe necessario dare a Dio e piedi e mani e occhi, e non meno affetti di un corpora quasi-umanio, come d'ira, di pentimento, d'odio ed anco tal volta la dimenticanza delle cose passate e l'ignoranza delle future.” Lettera alla granduchessa di Toscana. Il noto episodio biblico della richiesta di Giosuè a Dio di fermare il Sole per prolungare il giorno era usato in ambito ecclesiastico a sostegno del sistema geo-centrico. Galileo sostenne invece che in quel modo il giorno non si sarebbe allungato, in quanto nel sistema  geo-centrio la rotazione diurna (giorno/notte) non dipende dal Sole, ma dalla rotazione del Primum Mobile. La Bibbia deve essere re-interpretata e bisogna “alterar” il “senso” delle parole, e dire che quando la Scrittura dice che Dio ferma il Sole, voleva dire che ferma 'l primo mobile, ma che, per accomodarsi alla capacità di quei che sono a fatica idonei a intender il nascere e 'l tramontar del Sole, lo Spirito Santo dice al contrario di quel che avrebbe detto parlando a uomini sensati. Nel sistema elio-centrico la rotazione del Sole sul proprio asse provoca sia la rivoluzione della Terra attorno al Sole, sia la rotazione diurna (giorno/notte) della Terra attorno all'asse terrestre. Quindi l'episodio biblico ci mostra manifestamente la falsità e impossibilità del mondano sistema aristotelico e Tolemaico, e all'incontro benissimo s'accomoda co 'l Copernicano.. Infatti se Dio avesse fermato il Sole assecondando la richiesta di Giosuè, ne avrebbe necessariamente bloccato la rotazione assiale (unico suo movimento previsto nel sistema copernicano), provocando di conseguenza - secondo Galileo - l'arresto sia della (ininfluente) rivoluzione annuale, sia della rotazione terrestre diurna prolungando quindi la durata del giorno. A questo proposito, è interessante la critica proposta da Koestler, in cui sostiene che Galileo sape meglio di chiunque altro che se la terra si fermasse bruscamente, montagne, case, città, crollerebbero come un castello di carte. Il più ignorante dei frati, senza sapere nulla del momento di inerzia, sape benissimo quel che succedeva quando i cavalli e la carrozza frenavano di colpo o quando una nave finiva contro gli scogli. Se si interpreta la Bibbia secondo Tolomeo, il brusco arresto del Sole non aveva effetti fisici degni di nota e il miracolo rimaneva credibile al pari di qualsiasi altro miracolo. In base all'interpretazione di Galileo, Giosuè avrebbe distrutto non soltanto gli Amorrei, ma la terra intera! Sperando di far passare queste sciocchezze penose, Galileo rivela il suo disprezzo per gli avversari. Fece analoghe considerazioni in lettere a Dini, le quali destarono preoccupazione negli ambienti conservatori per le idee innovative, il carattere polemico e l'ardimento coi quali Galilei sostene che alcuni passi della Bibbia dovessero venir re-interpretati alla luce del sistema copernicano. Le Sacre Scritture si occupano di Dio. La filosofia naturale, che fa indagini sulla Natura si fondarsi su «sensate esperienze» e «necessarie dimostrazioni». La Bibbia e la Natura non possono contraddirsi perché derivano entrambe da Dio. Di conseguenza, in caso di discordia apparente, non sarà la scienza a dover fare un passo indietro, bensì gli interpreti del testo sacro che dovranno cercare al di là del “significato” splicito superficiale (explicatura). Le Sacre Scritture sono conforme soltanto "al comun modo del volgo", ossia si adatta non già alle competenze degli "intendenti", ma ai limiti conoscitivi dell'uomo comune, velando così con una sorta di “allegoria” il “senso più profondo” di un enunciato.. Se il “messaggio” “letterale” diverge da un enunciato del filosofo naturale, non lo può mai il suo “contenuto” "recondito" e più autentico, ricavabile dall'interpretazione delle Sacre Scriture oltre i suoi “significato” più epidermico. Circa il rapporto tra filosofia e la rivelazione, celebre è la sua frase: «intesi da persona ecclesiastica costituita in eminentissimo grado, l'*intenzione* dello Spirito Santo essere d'*in-segn-arci* come si vadia al cielo, e non come vadia il cielo», usualmente attribuita Baronio. Si noti che, applicando tale criterio, Galileo non avrebbe potuto usare il passo biblico di Giosuè per cercare di dimostrare un presunto accordo tra testo sacro e sistema copernicano o la supposta contraddizione tra la Bibbia e il modello tolemaico. Deriva invece proprio da tale criterio la teoria di Galileo secondo la quale esistono *due* sorgenti di *conoscenza* che sono in grado di rivelare la stessa verità che proviene da Dio. Il primo è le  Sancte Scritture, scritte dal spirito santo in termini comprensibili al "volgo", che ha essenzialmente valore salvifico e di redenzione dell'anima, e richiede quindi un'attenta inter-pretazione delle affermazioni relative ai fenomeni naturali che in essa sono descritti. Il secondo è questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l'universo), scritto in simboli», che va letto (decifrato) secondo la ragione (non la fede) e non va pos-posto alle Sancte Scriture ma, per essere *ben* o corretamente interpretato, deve essere studiato con gli strumenti di cui Dio – nostro genitore -- ci ha dotati: sentire, il giudicare, il discorrire. Nella disputa filosofica di problemi naturali non si dovrebbe cominciare dalla autorità di luoghi delle Sancte Scritture, ma dall’esperienza sensata (a posteriori) e dalla di-mostrazioni necessaria (dall’assiomi, a priori): perché, procedendo di pari dal Verbo divino la Scrittura Sacra e la Natura – la fisi dei grecchi --, quella come ‘dettatura’ (dictature – dettato ed impiegato) dello Spirito Santo, e questa ‘dettatura’ come osservantissima esecutrice de gli ordini di Dio, nostro genitore.” La filosofia – regina scientiarum – La ‘materia’ della filosofia la rende d'importanza primaria (metafisica come filosofia prima, filosofia naturale come filosofia seconda. La flosofia non pretendere di pronunciare giudizi su una verità specifica (la porta e chiusa). Al contrario, se una certa esperienza non si accorda con un assioma, allora e quest’assioma che deve essere ri-letti alla luce della experienza. Non vi può essere, in definitiva, dis-accordo tra ragione ed experienza, essendo, per definizione, entrambe vere. Ma, in caso di *apparente* contraddizione su un fenomeno naturale, occorre modificare l'interpretazione dell’assioma per adeguarla all’esperienza.  Aristotele – con il suo geo-centrimo -- non differe sostanzialmente da Galileo. Aristotele ammetteva la necessità di rivedere l'interpretazione dell’esperienza. Ma nel caso del sistema elio-centrico, Bellarmino sostenne, ragionevolmente, che non vi fossero una prova conclusive a suo favore. Dico che quando ci fusse vera demostratione che il sole stia nel centro del mondo (o nostro sistema pianetario) e la terra nel terzo cielo, e che il sole (elio) non circonda la terra (gea), ma la terra circonda il sole, allhora bisogneria andar con molta consideratione in esplicare le Scritture che paiono contrarie, e più tosto dire che “non l'intendiamo” – cf. Grice on metaphor and ‘My neighbour’s three-year old is an adult”), che dire che sia “falso” (‘You’re the cream in my coffee”, “My neighbour’s three-year old understands Russell’s Theory of Types”) quello che si dimostra. Ma io non crederò che ci sia tal dimostratione, fin che non mi sia mostrata. L’ esperienzia di visione – osservazione -- con gli strumenti allora disponibili, della parallasse stellare (che si sarebbe dovuta riscontrare come l’effetto dello spostamento della Terra rispetto al cielo delle stelle fisse) costituiva invece evidenza contraria alla teoria elio-centrica. In tale contesto, Aristotele ammetteva quindi che si parlasse di una teoria o ipotesi o modello elio-centrico solo “ex suppositione” (come ipotesi matematica geometrica o aritmetica). La difesa di Galileo ex professo (con cognizione di causa e competenza, di proposito e intenzionalmente) della teoria geo-centrica quale “reale” descrizione fisica del sistema solare e delle orbite dei pianete si scontrò quindi, inevitabilmente, con la posizione ufficiale d’Aristotele. Tale contrapposizione sfociò nel processo a Galilei, che si concluse con la condanna per veemente sospetto di eresia" e l'abiura forzata delle sue concezioni astronomiche.  RiAl di là dal giudizio storico, giuridico e morale sulla condanna a Galilei, le questioni di carattere epistemologico filosofico e di “ermeneutica” che furono al centro del processo sono state oggetto di riflessione da parte di Grice. che spesso ha citato la vicenda di Galileo per esemplificare, talora in termini volutamente paradossali, il suo pensiero in merito a tali questioni. Contro Feyerabend, sostenitore di un'anarchia epistemologica, Grice sostenne che Aristotele si attenne alla ragione più che Galilei, e prese in considerazione anche le conseguenze etiche e sociali della teoria elio-centrica. La sentenza aristotelica contro Galilei e razionale e giusta, e solo per motivi di opportunità politica se ne può legittimare la revision. Questa provocazione sarà poi ripresa da Ratzinger, dando luogo a contestazioni da parte dell'opinione pubblica. Ma il vero scopo per cui Grice espresso tale provocatoria affermazione e "solo mostrare la contraddizione di coloro che approvano l’eliocentrismo di Galileo e condannano il geo-centrismo aristotelico, ma poi verso il lavoro dei loro contemporanei sono rigorosi come lo erano gl’aristotelichi ai tempi di Galileo. Nel corso dei secoli che seguirono, l’aristotelismo modifica la propria posizione nei confronti di Galilei. Il Sant'Uffizio concesse l'erezione di un mausoleo in suo onore nella chiesa di Santa Croce in Firenze. Benedetto XIV olse dall'Indice i libri che insegnavano il moto della Terra (“e pur si muove”) con ciò ufficializzando quanto già di fatto aveva fatto Alessandro VII con il ritiro di un dicreto.  La definitiva autorizzazione all'”in-segna-mento” del moto della terra e dell'immobilità del sole arriva con un decreto della Sacra Congregazione dell'inquisizione approvato da Pio VII.  Particolarmente significativo risulta il contributo di Newman, a pochi anni dalla abilitazione dell'insegnamento dell'eliocentrismo e quando le teorie di Newton sulla gravitazione risultavano ormai affermate e provate sperimentalmente. Newman riassume il rapporto dell'elio-centrismo con Aristotele. «Quando il sistema copernicano comincia a diffondersi, quale aristotelico non sarebbe stato tentato dall'inquietudine, o almeno dal timore dello scandalo, per l'apparente contraddizione che esso implicava con una certa autorevole tradizione? Generalmente si accetta che la terra e immobile e che il sole, fissato in un solido firmamento, ruota intorno alla terra. Dopo un po' di tempo, tuttavia, e un'analisi completa, si scoprì che Aristotele non aveva deciso quasi niente su questioni come questa e che la scienza fisica poteva muoversi in questa sfera di pensiero quasi a piacere, senza timore di scontrarsi con l’adagio, “Master dixit””. Newman compie della vicenda Galileo come conferma, e non negazione, di Aristotele. E certamente un fatto molto significativo, considerando con quanta ampiezza e quanto a lungo fosse stata sostenuta dai aristotelichi una certa interpretazione di questa affermazione fisica geo-centrica, che Aristotele non l'abbia formalmente riconosciuta (la teoria del geocentrismo, ndr). Guardando alla questione da un punto di vista umano, e inevitabile che essa dovesse far propria quell'opinione. Ma ora, accertando la nostra posizione rispetto all’esperienza, troviamo che malgrado gli abbondanti commenti che fin dall'inizio essa ha sempre fatto su Aristotele, com'è suo compito e suo diritto fare, tuttavia, è sempre stata indotta a spiegare formalmente Aristotele o a dar loro un senso di autorità che l’esperienza può mettere in discussione. Paolo VI fece avviare la revisione del processo e con l'intento di porre una parola definitiva riguardo a queste polemicheGiovanni Paolo II auspicò che fosse intrapresa una ricerca interdisciplinare sui difficili rapporti di Galileo con la Chiesa e istituì una Commissione per lo studio della controversia tolemaico-copernicana nella quale il caso Galilei si inserisce. Il papa ammise, nel discorso in cui annuncia l'istituzione della commissione, che"Galileo ebbe molto a soffrire, non possiamo nasconderlo, da parte di uomini aristotelichi. Si cancella la condanna e chiarì la sua interpretazione sulla questione teologica scientifica galileiana riconoscendo che la condanna di Galilei fu dovuta all'ostinazione di entrambe le parti nel non voler considerare le rispettive teorie come semplici ipotesi non comprovate sperimentalmente e, d'altra parte, alla mancanza di perspicacia, ovvero di intelligenza e lungimiranza, dei filosofi aristotelichi che lo condannarono, incapaci di riflettere sui propri criteri di interpretazione di Aristotele e responsabili di aver inflitto molte sofferenze a Galilei. Come dichiara Giovanni Paolo II, come la maggior parte dei suoi avversari aristotelichi, Galileo non fa distinzione tra quello che è l'approccio scientifico ai fenomeni naturali e la riflessione sulla natura, di ordine “filosofico”, che esso generalmente richiama. È per questo che Galilei rifiutò il suggerimento che gli era stato dato di presentare come un'ipotesi il sistema di Copernico, fin tanto che esso non fosse confermato da prove irrefutabili. Era quella, peraltro, un'esigenza del metodo sperimentale di cui egli fu l’iniziatore. Il problema che si posero dunque i aristotelichi era quello della compatibilità dell'eliocentrismo e Aristotele. Così l’esperienza, con i suoi metodi e la libertà di ricerca che essi suppongono, obbligava gl’aristotelichi ad interrogarsi sui loro criteri di interpretazione di Aristotele. La maggior parte non seppe farlo. Il giudizio pastorale che richiedeva la teoria copernicana e difficile da esprimere nella misura in cui il geocentrismo sembrava far parte dell’insegnamento stesso d’Aristotele. Sarebbe stato necessario contemporaneamente vincere delle abitudini di pensiero e inventare una pedagogia capace di illuminare il popolo. La storia del pensiero scientifico del Medioevo e del Rinascimento, che si comincia ora a comprendere un po' meglio, si può dividere in due periodi, o meglio, perché l'ordine cronologico corrisponde solo molto approssimativamente a questa divisione, si può dividere, grosso modo, in tre fasi o epoche, corrispondenti successivamente a tre differenti correnti di pensiero: prima la fisica aristotelica; poi la fisica dell'impetus, iniziata, come ogni altra cosa, dai Greci ed elaborata dalla corrente dei Nominalisti; e infine la fisica galileiana. Fra le maggiori scoperte che Galilei fece guidato dagli esperimenti, si annoverano un primo approccio fisico alla relatività, poi noto come “relatività galileiana”, la scoperta delle quattro lune principali di Giove, dette appunto “satelliti galileiani” (Io, Europa, “Ganimede” e Callisto), il principio di inerzia, seppur parzialmente.  Compì anche studi sul moto di caduta dei gravi e riflettendo sui moti lungo i piani inclinati scoprì il problema del "tempo minimo" nella caduta dei corpi materiali, e studia varie traiettorie, tra cui la spirale paraboloide e la cicloide.  Nell'ambito delle sue ricerche di matematica – geometria ed aritmetica -- si avvicinò alle proprietà dell'infinito introducendo un celebre paradosso di Galileo. Galilei incoraggiò Cavalieri a sviluppare le idee del maestro e di altri sulla geometria con il metodo degli indivisibili, per determinare aree e volumi: questo metodo rappresentò una tappa fondamentale per l'elaborazione del calcolo infinitesimale. Quando Galilei fece rotolare le sue sfere su di un piano inclinato con un peso scelto da lui stesso, e Torricelli fece sopportare all’aria un peso che egli stesso sapeva già uguale a quello di una colonna d’acqua conosciuta fu una rivelazione luminosa per tutti gli investigatori della natura. Essi compresero che la ragione vede solo ciò che lei stessa produce secondo il proprio disegno, e che essa deve costringere la natura a rispondere alle sue domande; e non lasciarsi guidare da lei, per dir così, colle redini; perché altrimenti le nostre osservazioni, fatte a caso e senza un disegno prestabilito, non metterebbero capo a una legge necessaria. Galilei fu uno dei protagonisti della fondazione del metodo scientifico espresso con linguaggio matematico e pose l'esperimento come strumento a base dell'indagine sulle leggi della natura, in contrasto con Aristotele e la sua analisi qualitativa del cosmo. Hanno sin qui la maggior parte dei filosofi creduto che la superficie della luna fosse pulita tersa e assolutissimamente sferica, e se qualcuno disse di credere, che ella fusse aspra e muntuosa fu reputato parlare più presto favolusamente, che filosoficamente. Ora io questa istessa lunare asserisco il primo, non più per immaginazione, ma per sensata esperienza e necessaria dimostrazione, che egli è di superficie piena di innumerevoli cavità ed eminenze, tanto rilevate che di gran lunga superano le terrene montuosità. Già nella lettera a Welser a proposito della polemica sulle macchie solari, Galilei si domandava che cosa l'uomo nella sua ricerca vuole arrivare a conoscere.  «O noi vogliamo specolando tentar di penetrar l'essenza vera ed intrinseca delle sustanze naturali; o noi vogliamo contentarci di venir in notizia d'alcune loro affezioni»  Ed ancora: per conoscenza intendiamo l'arrivare a cogliere i principi primi dei fenomeni o come questi si sviluppano?  «Il tentar l'essenza, l'ho per impresa non meno impossibile e per fatica non men vana nelle prossime sustanze elementari che nelle remotissime e celesti: e a me pare essere egualmente ignaro della sustanza della Terra che della Luna, delle nubi elementari che delle macchie del Sole; né veggo che nell'intender queste sostanze vicine aviamo altro vantaggio che la copia de' particolari, ma tutti egualmente ignoti, per i quali andiamo vagando, trapassando con pochissimo o niuno acquisto dall'uno all'altro. La ricerca dei principi primi essenziali comporta dunque una serie infinita di domande poiché ogni risposta fa nascere una nuova domanda: se noi ci chiedessimo quale sia la sostanza delle nuvole, una prima risposta sarebbe che è il vapore acqueo ma poi dovremo chiederci che cos'è questo fenomeno e dovremo rispondere che è acqua, per chiederci subito dopo che cos'è l'acqua, rispondendo che è quel fluido che scorre nei fiumi ma questa «notizia dell'acqua» è soltanto «più vicina e dependente da più sensi», più ricca di informazioni particolari diverse, ma non ci porta certo la conoscenza della sostanza delle nuvole, della quale sappiamo esattamente quanto prima. Ma se invece vogliamo capire le «affezioni», le caratteristiche particolari dei corpi, potremo conoscerle sia in quei corpi che sono da noi distanti, come le nuvole, sia in quelli più vicini, come l'acqua. Occorre dunque intendere in modo diverso lo studio della natura. «Alcuni severi difensori di ogni minuzia peripatetica», educati nel culto di Aristotele, credono che «il filosofare non sia né possa esser altro che un far gran pratica sopra i testi di Aristotele» che portano come unica prova delle loro teorie. E non volendo «mai sollevar gli occhi da quelle carte» rifiutano di leggere «questo gran libro del mondo» (cioè dall'osservare direttamente i fenomeni), come se «fosse scritto dalla natura per non esser letto da altri che da Aristotele, e che gli occhi suoi avessero a vedere per tutta la sua posterità. Invece i discorsi nostri hanno a essere intorno al mondo sensibile, e non sopra un mondo di carta.A fondamento del metodo scientifico quindi ci sono il rifiuto dell'essenzialismo e la decisione di cogliere solo l'aspetto quantitativo dei fenomeni nella convinzione di poterli tradurre tramite la misurazione in numeri così che si abbia una conoscenza di tipo matematico, l'unica perfetta per l'uomo che la raggiunge gradatamente tramite il ragionamento così da eguagliare lo stesso perfetto conoscere divino che la possiede interamente e intuitivamente. Però...quanto alla verità di che ci danno cognizione le dimostrazioni matematiche, ella è l'istessa che conosce la sapienza divina. Il metodo galileiano si dovrà comporre quindi di due aspetti principali: sensata esperienza, ovvero l'esperimento distinto dalla comune osservazione della natura, che deve infatti seguire a un'attenta formulazione teorica, ovvero a ipotesi (metodo ipotetico-sperimentale) che siano in grado di guidare l'esperienza in modo che essa non fornisca risultati arbitrari. Galileo non ottenne la legge di caduta dei gravi dalla mera osservazione, altrimenti ne avrebbe dedotto che un corpo cade più rapidamente tanto più è pesante (un sasso nell'aria arriva prima a terra di una piuma per via dell'attrito). Studiò invece il moto dei corpi in caduta controllandolo con un piano inclinato, costruendo cioè un esperimento che gli permettesse di ottenere risultati più precisi. Anche l'esperimento mentale può essere un utile strumento di dimostrazione e permise a Galileo di confutare le dottrine aristoteliche sul moto. necessaria dimostrazione, ovvero un'analisi matematica e rigorosa dei risultati dell'esperienza, che sia in grado di trarre da questa risultati universali e ogni conseguenza in modo necessario e non opinabile espressi dalla legge scientifica. In questo modo Galileo concluse che tutti i corpi nel vuoto precipitano con una velocità proporzionale al tempo di caduta, anche se chiaramente non aveva effettuato esperimenti considerando tutti i possibili corpi con differenti forme e materiali. La dimostrazione va ulteriormente verificata, con ulteriori esperienze, ovvero il cosiddetto cimento che è l'esperimento concreto con cui va sempre verificato l'esito di ogni formulazione teorica. Sintetizzando la natura del metodo galileiano, Rodolfo Mondolfo infine aggiunge che:  «Il vincolo stabilito da Galileo tra osservazione e dimostrazione le esperienze fatte mediante i sensi e le dimostrazioni logico-matematiche della loro necessità – era un vincolo reciproco, non unilaterale: né le esperienze sensibili dell’ osservazione potevano valere scientificamente senza la relativa dimostrazione della loro necessità, né la dimostrazione logica e matematica poteva raggiungere la sua "assoluta certezza oggettiva" come quella della natura senza appoggiarsi all’ esperienza nel suo punto di partenza e senza trovare la sua conferma in essa nel suo punto d’ arrivo. È questa l'originalità del metodo galileiano: avere collegato esperienza e ragione, induzione e deduzione, osservazione esatta dei fenomeni e elaborazione di ipotesi e questo, non astrattamente ma, con lo studio di fenomeni reali e con l'uso di appositi strumenti tecnici.  La terminologia scientifica in Galilei Fondamentale è stato il contributo di Galileo al linguaggio scientifico, sia in campo matematico, sia, in particolare, nel campo della fisica. Ancora oggi in questa disciplina molto del linguaggio settoriale in uso deriva da specifiche scelte dello scienziato pisano. In particolare, negli scritti di Galileo molte parole sono tratte dal linguaggio comune e vengono sottoposte ad una "tecnificazione", cioè l'attribuzione ad esse di un significato specifico e nuovo (una forma, quindi, di neologismo semantico). È il caso di "forza" (seppur non in senso newtoniano), "velocità", "momento", "impeto", "fulcro", "molla" (intendendo lo strumento meccanico ma anche la "forza elastica"), "strofinamento", "terminatore", "nastro". Un esempio del modo in cui Galileo nomina gli oggetti geometrici è in un brano dei Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze:  «Voglio che ci immaginiamo esser levato via l'emisferio, lasciando però il cono e quello che rimarrà del cilindro, il quale, dalla figura che riterrà simile a una scodella, chiameremo pure scodella. Come si vede, nel testo ad una terminologia specialistica ("emisferio", "cono", "cilindro") si accompagna l'uso di un termine che denota un oggetto della vita quotidiana, cioè "scodella". Galilei è ricordato nella storia anche per le sue riflessioni sui fondamenti e sugli strumenti dell'analisi scientifica della natura. Celebre la sua metafora riportata nel Saggiatore, dove la matematica viene definita come il linguaggio (o la semiotica, o i ‘signi’ – il segno -- in cui è scritto libro della natura:  La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l'universo), ma non si può intendere se prima non s'impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, ne' quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto. In questo brano Galilei mette in collegamento le parole "matematica", "filosofia" e "universo", dando così inizio a una lunga disputa fra i filosofi della scienza in merito a come egli concepisse e mettesse in relazione fra loro questi termini. Ad esempio, quello che qui Galileo chiama "universo" si dovrebbe intendere, modernamente, come "realtà fisica" o "mondo fisico" in quanto Galileo si riferisce al mondo materiale conoscibile matematicamente. Quindi non solo alla globalità dell'universo inteso come insieme delle galassie, ma anche di qualsiasi sua parte o sottoinsieme inanimato. Il termine "natura" includerebbe invece anche il mondo biologico, escluso dall'indagine galileiana della realtà fisica.  Per quanto riguarda l'universo propriamente detto, Galilei, seppur nell'indecisione, sembra propendere per la tesi che sia infinito:  «Grandissima mi par l’inezia di coloro che vorrebbero che Iddio avesse fatto l’universo più proporzionato alla piccola capacità del loro discorso che all’immensa, anzi infinita, sua potenza»  Egli non prende una posizione netta sulla questione della finitezza o infinità dell'universo; tuttavia, come sostiene Rossi, «c'è una sola ragione che lo inclina verso la tesi dell'infinità: è più facile riferire l'incomprensibilità all'incomprensibile infinito che al finito che non è comprensibile». Ma Galilei non prende mai esplicitamente in considerazione, forse per prudenza, la dottrina di Giordano Bruno di un universo illimitato e infinito, senza un centro e costituito di infiniti mondi tra i quali Terra e Sole che non hanno alcuna preminenza cosmogonica. Lo scienziato pisano non partecipa al dibattito sulla finitezza o infinità dell'universo e afferma che a suo parere la questione è insolubile. Se appare propendere per l'ipotesi della infinitezza lo fa con motivazioni filosofiche in quanto, sostiene, l'infinito è oggetto di incomprensibilità mentre ciò che è finito rientra nei limiti del comprensibile. Il rapporto fra la matematica di Galileo e la sua filosofia della natura, il ruolo della deduzione rispetto all'induzione nelle sue ricerche, sono stati riportati da molti filosofi al confronto fra aristotelici e platonici, al recupero dell'antica tradizione greca con la concezione archimedea o anche all'inizio dello sviluppo nel XVII secolo del metodo sperimentale.  La questione è stata così ben espressa dal filosofo medievalista Moody. Quali sono i fondamenti filosofici della fisica di Galileo e quindi della scienza moderna in genere? Galileo è sostanzialmente un platonico, un aristotelico o nessuno dei due? Si limitò, come sostiene Duhem, a rilevare e perfezionare una scienza meccanica che aveva avuto origine nel Medioevo cristiano e i cui principi fondamentali erano stati scoperti e formulati da Buridano, da Nicola Oresme e dagli altri esponenti della cosiddetta "fisica dell’ impetus" del XIV secolo? Oppure, come sostengono Cassirer e Koyré, voltò le spalle a questa tradizione dopo averla brevemente processata nella sua dinamica pisana e ripartì ispirandosi ad Archimede e Platone? Le controversie più recenti su Galileo sono consistite in larga misura in un dibattito circa il valore fondamentale e l’ influsso storico che su di lui avevano esercitato le tradizioni filosofiche, platoniche e aristoteliche, scolastiche e antiscolastiche. Galileo viveva in un'epoca in cui le idee del platonismo si erano diffuse nuovamente in tutta Europa e in Italia e probabilmente anche per questa ragione i simboli della matematica vengono da lui identificati con entità geometriche e non con numeri. L'uso dell'algebra derivato dal mondo arabo nel dimostrare relazioni geometriche era invece ancora insufficientemente sviluppato ed è solo con Leibniz e Isaac Newton che il calcolo differenziale divenne la base dello studio della meccanica classica. Galileo infatti nel mostrare la legge di caduta dei gravi si servì di relazioni e similitudini geometriche.  Da una parte, per alcuni filosofi come Alexandre Koyré, Ernst Cassirer, Edwin Arthur Burtt (1892–1989), la sperimentazione fu certamente importante negli studi di Galileo e giocò anche un ruolo positivo nello sviluppo della scienza moderna. La sperimentazione stessa, come studio sistematico della natura, richiede un linguaggio con cui formulare domande e interpretare le risposte ottenute. La ricerca di questo linguaggio era un problema che aveva interessato i filosofi sin dai tempi di Platone e Aristotele, in particolare rispetto al ruolo non banale della matematica nello studio delle scienze della natura. Galilei si affida a esatte e perfette figure geometriche che però non possono mai essere riscontrate nel mondo reale, se non al massimo come rozza approssimazione.  Oggi la matematica nella fisica moderna è utilizzata per costruire modelli del mondo reale, ma ai tempi di Galileo questo tipo di approccio non era affatto scontato. Secondo Koyré, per Galileo il linguaggio della matematica gli permette di formulare domande a priori prima ancora di confrontarsi con l'esperienza, e così facendo orienta la stessa ricerca delle caratteristiche della natura attraverso gli esperimenti. Da questo punto di vista, Galileo seguirebbe quindi la tradizione platonica e pitagorica, dove la teoria matematica precede l'esperienza e non si applica al mondo sensibile ma ne esprime la sua intima natura. La visione aristotelica Altri studiosi di Galilei, come Stillman Drake, Pierre Duhem, John Herman Randall Jr., hanno invece sottolineato la novità del pensiero di Galileo rispetto alla filosofia platonica classica. Nella metafora del Saggiatore la matematica è un linguaggio e non è direttamente definita né come l'universo né come la filosofia, ma è piuttosto uno strumento per analizzare il mondo sensibile che era invece visto dai platonici come illusorio. Il linguaggio sarebbe il fulcro della metafora di Galileo, ma l'universo stesso è il vero obbiettivo delle sue ricerche. In questo modo secondo Drake, Galileo si allontanerebbe definitivamente dalla concezione e dalla filosofia platonica per accostarsi invece alla filosofia aristotelica per cui ogni realtà deve avere in sé stessa le leggi del proprio costituirsi. La sintesi tra platonismo e aristotelismo Secondo Eugenio Garin Galileo invece, con il suo metodo sperimentale, vuole identificare nel fatto osservato "aristotelicamente" una necessità intrinseca, espressa matematicamente, dovuta al suo legame con la causa divina "platonica" che lo produce facendolo "vivere". Alla radice di gran parte della nuova scienza, da Leonardo a Galileo, accanto al desiderio tutto rinascimentale di non lasciare intentata via alcuna, è viva la certezza che il sapere ha aperta innanzi a sé la possibilità di una salda cognizione. Se noi ripercorriamo la Teologia platonica, vi troviamo al centro questa tesi, largamente e minutamente discussa nel libro secondo: alla mente di Dio sono presenti tutte le essenze; la divina volontà, che poteva non creare, ha manifestato la sua generosità col dare concreta e mondana realizzazione alle eterne idee facendole vivere. La fecondità del concetto di creazione si rivela nel dono della vita che Dio ha dato, e poteva non dare. Ma la volontà non tocca quel mondo razionale che costituisce l'eterna ragione divina, il verbo divino, cui dunque si conforma e si adegua questo mondo il quale, platonicamente, rispecchia l'ideale razionalità per il tramite dell'intermediario matematico: "numero, pondere et mensura". La mente umana, raggio del Verbo divino, è nelle sue radici impiantata essa pure in Dio; è in Dio partecipe in qualche modo dell'assoluta certezza. La scienza nasce così per il corrispondersi di questa struttura razionale del mondo, impiantata nell'eterna sapienza divina, e della mente umana partecipe di questa luce divina di ragione. Studi sul moto La descrizione quantitativa del movimento  Rappresentazione dell'evoluzione moderna dei diagrammi utilizzati da Galileo nello studio del moto. Ad ogni punto di una linea corrisponde un tempo e una velocità (segmento giallo che termina con un punto blu). L'area gialla della figura così ottenuta corrisponde quindi allo spazio totale percorso nell'intervallo di tempo (t2-t1). Dilthey vede Keplero e Galilei come le massime espressioni nel loro tempo di "pensieri calcolatori" che si disponevano a risolvere, tramite lo studio delle leggi del movimento, le esigenze della moderna società borghese:  «Il lavoro degli opifici urbani, i problemi sorti dall’invenzione della polvere da sparo e dalla tecnica delle fortificazioni, i bisogni della navigazione relativamente ad apertura di canali, a costruzione e armamento di navi, avevano fatto della meccanica la scienza preferita del tempo. Specialmente in Italia, nei Paesi Bassi e in Inghilterra, questi bisogni erano assai vivaci, e provocarono la ripresa e continuazione degli studi di statica degli antichi e le prime ricerche nel nuovo campo della dinamica, specialmente per opera di Leonardo, del Benedetti e dell'Ubaldi. Galilei fu infatti uno dei protagonisti del superamento della descrizione aristotelica della natura del moto. Già nel medioevo alcuni autori, come Giovanni Filopono nel VI secolo, avevano osservato contraddizioni nelle leggi aristoteliche, ma fu Galileo a proporre una valida alternativa basata su osservazioni sperimentali. Diversamente da Aristotele, per il quale esistono due moti "naturali", cioè spontanei, dipendenti dalla sostanza dei corpi, uno diretto verso il basso, tipico dei corpi di terra e d'acqua, e uno verso l'alto, tipico dei corpi d'aria e di fuoco, per Galileo qualunque corpo tende a cadere verso il basso nella direzione del centro della Terra. Se vi sono corpi che salgono verso l'alto è perché il mezzo nel quale si trovano, avendo una densità maggiore, li spinge in alto, secondo il noto principio già espresso da Archimede: la legge sulla caduta dei gravi di Galileo, prescindendo dal mezzo, è pertanto valida per tutti i corpi, qualunque sia la loro natura.  Per raggiungere questo risultato, uno dei primi problemi che Galileo e i suoi contemporanei dovettero risolvere fu quello di trovare gli strumenti adatti a descrivere quantitativamente il moto. Ricorrendo alla matematica, il problema era quello di capire come trattare eventi dinamici, come la caduta dei corpi, con figure geometriche o numeri che in quanto tali sono assolutamente statici e sono privi di alcun moto. Per superare la fisica aristotelica, che considerava il moto in termini qualitativi e non matematici, come allontanamento e successivo ritorno al luogo naturale, bisognava dunque prima sviluppare gli strumenti della geometria e in particolare del calcolo differenziale, come fecero successivamente fra gli altri Newton, Leibniz e Cartesio. Galileo riuscì a risolvere il problema nello studio del moto dei corpi accelerati disegnando una linea ed associando ad ogni punto un tempo e un segmento ortogonale proporzionale alla velocità. In questo modo costruì il prototipo del diagramma velocità-tempo e lo spazio percorso da un corpo è semplicemente uguale all'area della figura geometrica costruita. I suoi studi e le sue ricerche sul moto dei corpi aprirono inoltre la via alla moderna balistica. Sulla base degli studi sul moto, di esperimenti mentali e delle osservazioni astronomiche, Galileo intuì che è possibile descrivere sia gli eventi che accadono sulla Terra che quelli celesti con un unico insieme di leggi. Superò quindi in questo modo anche la divisione fra mondo sublunare e sovralunare della tradizione aristotelica (per la quale il secondo è governato da leggi diverse da quelle terrestri e da moti circolari perfettamente sferici, ritenuti impossibili nel mondo sublunare). Il principio d'inerzia e il moto circolare  Sfera sul piano inclinato Studiando il piano inclinato, Galilei si occupò dell'origine del moto dei corpi e del ruolo degli attriti; scoprì un fenomeno che è conseguenza diretta della conservazione dell'energia meccanica e porta a considerare l'esistenza del moto inerziale (che avviene senza l'applicazione di una forza esterna). Ebbe così l'intuizione del principio di inerzia, poi inserito da Isaac Newton nei principi della dinamica: un corpo, in assenza d'attrito, permane in moto rettilineo uniforme (in quiete se v=0) fino a quando forze esterne agiscono su di esso. Il concetto di energia non era invece presente nella fisica del Seicento e solo con lo sviluppo, oltre un secolo più tardi, della meccanica classica si arriverà ad una precisa formulazione di tale concetto.  Galileo pose due piani inclinati dello stesso angolo di base θ, uno di fronte all'altro, ad una distanza arbitraria x. Facendo scendere una sfera da un'altezza h1 per un tratto l1 di quello a SN notò che la sfera, arrivata sul piano orizzontale tra i due piani inclinati, continua il suo moto rettilineo fino alla base del piano inclinato di DX. A quel punto, in assenza d'attrito, la sfera risale il piano inclinato di DX per un tratto l2 = l1 e si ferma alla stessa altezza (h2 = h1) di partenza. In termini attuali, la conservazione dell'energia meccanica impone che l'iniziale energia potenziale Ep = mgh1 della sfera si trasformi - man mano che la sfera discende il primo piano inclinato (SN) - in energia cinetica Ec = (1/2) mv2 sino alla sua base, dove vale mgh1 = (1/2) mvmax2. La sfera si muove quindi sul piano orizzontale coprendo la distanza x tra i piani inclinati con velocità costante vmax, fino alla base del secondo piano inclinato (DX). Risale poi il piano inclinato di DX, perdendo progressivamente energia cinetica che si trasforma nuovamente in energia potenziale, fino a un valore massimo uguale a quello iniziale (Ep = mgh2 = mgh1), al quale corrisponde velocità finale nulla (v2 = 0).   Rappresentazione dell'esperimento di Galileo sul principio d'inerzia. Si immagini ora di diminuire l'angolo θ2 del piano inclinato di DX (θ2 < θ1),e di ripetere l'esperimento. Per riuscire a risalire - come impone il principio di conservazione dell'energia - alla medesima quota h2 di prima, la sfera dovrà ora percorrere un tratto l2 più lungo sul piano inclinato di DX. Se si riduce progressivamente l'angolo θ2, si vedrà che ogni volta aumenta la lunghezza l2 del tratto percorso dalla sfera, per risalire all'altezza h2. Se si porta infine l'angolo θ2 ad essere nullo (θ2 = 0°), si è di fatto eliminato il piano inclinato di DX. Facendo ora scendere la sfera dall'altezza h1 del piano inclinato di SN, essa continuerà a muoversi indefinitamente sul piano orizzontale con velocità vmax (principio d'inerzia) in quanto, per l'assenza del piano inclinato di DX, non potrà mai risalire all'altezza h2 (come prevederebbe il principio di conservazione dell'energia meccanica).  Si immagini infine di spianare montagne, riempire valli e costruire ponti, in modo da realizzare un percorso rettilineo assolutamente piano, uniforme e senza attriti. Una volta iniziato il moto inerziale della sfera che scende da un piano inclinato con velocità costante vmax, questa continuerà a muoversi lungo tale percorso rettilineo fino a fare il giro completo della Terra, e ricominciare quindi indisturbata il proprio cammino. Ecco realizzato un (ideale) moto inerziale perpetuo, che avviene lungo un'orbita circolare, coincidente con la circonferenza terrestre. Partendo da questo "esperimento ideale", Galileo sembrerebbe erroneamente ritenere che tutti i moti inerziali debbano essere moti circolari. Probabilmente per questo motivo considerò, per i moti planetari da lui (arbitrariamente) ritenuti inerziali, sempre e solo orbite circolari, rifiutando invece le orbite ellittiche dimostrate da Keplero. Dunque, ad essere rigorosi, non pare essere corretto quanto afferma Newton nei "Principia" - fuorviando così innumerevoli studiosi - e cioè che Galilei avrebbe anticipato i suoi primi due principi della dinamica. Misura dell'accelerazione di gravità File:Isocronismo.webm Spiegazione del funzionamento dell'isocronismo nella caduta dei gravi lungo una spirale su un paraboloide. Galileo riuscì a determinare il valore che egli credeva costante dell'accelerazione di gravità g alla superficie terrestre, cioè della grandezza che regola il moto dei corpi che cadono verso il centro della Terra, studiando la caduta di sfere ben levigate lungo un piano inclinato, anch'esso ben levigato. Poiché il moto della sfera dipende dall'angolo di inclinazione del piano, con semplici misure ad angoli differenti riuscì a ottenere un valore di g solamente di poco inferiore a quello esatto per Padova (g = 9,8065855 m/s²), nonostante gli errori sistematici, dovuti all'attrito che non poteva essere completamente eliminato.  Detta a l'accelerazione della sfera lungo il piano inclinato, la sua relazione con g risulta essere a = g sin θ per cui, dalla misura sperimentale di a, si risale al valore dell'accelerazione di gravità g. Il piano inclinato permette di ridurre a piacimento il valore dell'accelerazione (a < g), facilitandone la misura. Ad esempio, se θ = 6°, allora sin θ = 0,104528 e quindi a = 1,025 m/s². Tale valore è meglio determinabile, con una strumentazione rudimentale, rispetto a quello dell'accelerazione di gravità (g = 9,81 m/s²) misurato direttamente con la caduta verticale di un oggetto pesante. Misura della velocità della luce Guidato dalla similitudine con il suono, Galileo fu il primo a tentare di misurare la velocità della luce. La sua idea fu quella di portarsi su una collina con una lanterna coperta da un drappo e quindi toglierlo lanciando così un segnale luminoso ad un assistente posto su un'altra collina ad un chilometro e mezzo di distanza: questi non appena avesse visto il segnale, avrebbe quindi alzato a sua volta il drappo della sua lanterna e Galileo vedendo la luce avrebbe potuto registrare l'intervallo di tempo impiegato dal segnale luminoso per giungere all'altra collina e tornare indietro.Una misura precisa di questo tempo avrebbe consentito di misurare la velocità della luce ma il tentativo fu infruttuoso data l'impossibilità per Galilei di avere uno strumento così avanzato che potesse misurare i centomillesimi di secondo che la luce impiega per percorrere una distanza di pochi chilometri.  La prima stima della velocità della luce fu opera, nel 1676, dell'astronomo danese Rømer basata su misure astronomiche. Apparati sperimentali e di misura  Termometro di Galileo, in un'elaborazione successiva. Gli apparati sperimentali furono fondamentali nello sviluppo delle teorie scientifiche di Galileo, che costruì diversi strumenti di misura originalmente o rielaborandoli sulla base di idee preesistenti. In ambito astronomico costruì da sé alcuni esemplari di cannocchiale, provvisti di micrometro per misurare quanto distasse una luna dal suo pianeta. Per studiare le macchie solari, proiettò con l'elioscopio l'immagine del Sole su un foglio di carta per poterla osservare in sicurezza senza danni alla vista. Ideò anche il giovilabio, simile all'astrolabio, per determinare la longitudine usando le eclissi dei satelliti di Giove. Per studiare il moto dei corpi si servì invece del piano inclinato con il pendolo per misurare intervalli temporali. Riprese anche un rudimentale modello di termometro, basato sulla dilatazione dell'aria al variare della temperatura. Il pendolo  Schema di un pendolo Galileo scoprì nel 1583 l'isocronismo delle piccole oscillazioni di un pendolo; secondo la leggenda l'idea gli sarebbe venuta mentre osservava le oscillazioni di una lampada allora sospesa nella navata centrale del Duomo di Pisa, oggi custodita nel vicino Camposanto Monumentale, nella Cappella Aulla. Questo strumento è semplicemente composto da un grave, come una sfera metallica, legato ad un filo sottile e inestensibile. Galileo osservò che il tempo di oscillazione di un pendolo è indipendente dalla massa del grave e anche dall'ampiezza dell'oscillazione, se questa è piccola. Scoprì anche che il periodo di oscillazione {\displaystyle T}T dipende solo dalla lunghezza del filo {\displaystyle l}l:[135]  {\displaystyle T=2\pi {\sqrt {\frac {l}{g}}}}T=2\pi {\sqrt  {\frac  {l}{g}}} dove {\displaystyle g}g è l'accelerazione di gravità. Se ad esempio il pendolo ha {\displaystyle l=1m}{\displaystyle l=1m}, l'oscillazione che porta il grave da un estremo all'altro e poi di nuovo indietro ha un periodo {\displaystyle T=2,0064s}{\displaystyle T=2,0064s} (avendo assunto per {\displaystyle g}g il valore medio {\displaystyle 9,80665}{\displaystyle 9,80665}). Galileo sfruttò questa proprietà del pendolo per usarlo come strumento di misura di intervalli temporali. La bilancia idrostatica Galileo nel 1586, all'età di 22 anni quando era ancora in attesa dell'incarico universitario a Pisa, perfezionò la bilancia idrostatica di Archimede e descrisse il suo dispositivo nella sua prima opera in volgare, La Bilancetta, che circolò manoscritta, ma fu stampata postuma  «Per fabricar dunque la bilancia, piglisi un regolo lungo almeno due braccia, e quanto più sarà lungo più sarà esatto l'istrumento; e dividasi nel mezo, dove si ponga il perpendicolo [il fulcro]; poi si aggiustino le braccia che stiano nell'equilibrio, con l'assottigliare quello che pesasse di più; e sopra l'uno delle braccia si notino i termini dove ritornano i contrapesi de i metalli semplici quando saranno pesati nell'acqua, avvertendo di pesare i metalli più puri che si trovino. Viene anche descritto come si ottiene il peso specifico PS di un corpo rispetto all'acqua: {\displaystyle P_{S}={\frac {\operatorname {peso\;in\;aria} }{\operatorname {peso\;in\;aria} -\operatorname {peso\;in\;acqua} }}}{\displaystyle P_{S}={\frac {\operatorname {peso\;in\;aria} }{\operatorname {peso\;in\;aria} -\operatorname {peso\;in\;acqua} }}}. Ne La Bilancetta si trovano poi due tavole che riportano trentanove pesi specifici di metalli preziosi e genuini, determinati sperimentalmente da Galileo con precisione confrontabile con i valori moderni. Il compasso proporzionale  Una descrizione dell'uso del compasso proporzionale fornita da Galileo Galilei. Il compasso proporzionale era uno strumento utilizzato fin dal medioevo per eseguire operazioni anche algebriche per via geometrica, perfezionato da Galileo ed in grado di estrarre la radice quadrata, costruire poligoni e calcolare aree e volumi. Fu utilizzato con successo in campo militare dagli artiglieri per calcolare le traiettorie dei proiettili. Galilei e l'arte Letteratura Gli interessi letterari di Galilei Durante il periodo pisano Galileo non si limitò alle sole occupazioni scientifiche: risalgono infatti a questi anni le sue Considerazioni sul Tasso che avranno un seguito con le Postille all'Ariosto. Si tratta di note sparse su fogli e annotazioni a margine nelle pagine dei suoi volumi della Gerusalemme liberata e dell'Orlando furioso dove, mentre rimprovera al Tasso «la scarsezza della fantasia e la monotonia lenta dell'immagine e del verso, ciò che ama nell'Ariosto non è solo lo svariare dei bei sogni, il mutar rapido delle situazioni, la viva elasticità del ritmo, ma l'equilibrio armonico di questo, la coerenza dell'immagine l'unità organica – pur nella varietà – del fantasma poetico. Galilei scrittore. D'altro più non si cura fuorché d'essere inteso»  (Giuseppe Parini) «Uno stile tutto cose e tutto pensiero, scevro di ogni pretensione e di ogni maniera, in quella forma diretta e propria in che è l'ultima perfezione della prosa.»  (Francesco De Sanctis, Storia della Letteratura Italiana) Dal punto di vista letterario, Il Saggiatore è considerata l'opera in cui si fondono maggiormente il suo amore per la scienza, per la verità e la sua arguzia di polemista. Tuttavia, anche nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo si apprezzano pagine di notevole livello per qualità della scrittura, vivacità della lingua, ricchezza narrativa e descrittiva. Infine Italo Calvino affermò che, a suo parere, Galilei è stato il maggior scrittore di prosa in lingua italiana, fonte di ispirazione persino per Leopardi. L'uso della lingua volgare L'uso del volgare servì a Galileo per un duplice scopo. Da una parte era finalizzato all'intento divulgativo dell'opera: Galileo intendeva rivolgersi non solo ai dotti e agli intellettuali ma anche a classi meno colte, come i tecnici che non conoscevano il latino ma che potevano comunque comprendere le sue teorie. Dall'altro si contrappone al latino della Chiesa e delle diverse Accademie che si basavano sul principio di auctoritas, rispettivamente biblico ed aristotelico. Si viene a delineare una rottura con la tradizione precedente anche per quanto riguarda la terminologia: Galileo, a differenza dei suoi predecessori, non trae spunti dal latino o dal greco per coniare nuovi termini ma li riprende, modificandone l'accezione, dalla lingua volgare. Galileo, inoltre, dimostrò atteggiamenti diversi nei confronti delle terminologie esistenti:  terminologia meccanica: cauto accoglimento; terminologia astronomica: non respinge i vocaboli che l'uso abbia già accolto o tenda ad accogliere. Li utilizza, però, come strumenti, insistendo sul loro valore convenzionale ("le parole o imposizioni di nomi servono alla verità, ma non si devono sostituire a essa). Lo scienziato poi segnala gli errori che nascono quando il nome travisa la realtà fisica o che nascono dalla suggestione esercitata dagli usi comuni di un vocabolo sul significato figurato assunto come termine scientifico; per evitare questi errori, egli fissa esattamente il significato dei singoli vocaboli: sono preceduti o seguiti da una descrizione; terminologia peripapetica: rifiuto totale che si manifesta con la sua messa in ridicolo, servendosene come puri suoni in un gioco di alternanze e rime. Arti figurative «L'Accademia e Compagnia dell'Arte del Disegno fu fondata da Cosimo I de' Medici nel 1563, su suggerimento di Giorgio Vasari, con l'intento di rinnovare e favorire lo sviluppo della prima corporazione di artisti costituitasi dall'antica compagnia di San Luca. Annoverò tra i primi accademici personalità come Buonarroti, Bartolomeo Ammannati, Agnolo Bronzino, Francesco da Sangallo. Per secoli l'Accademia rappresentò il più naturale e prestigioso centro di aggregazione per gli artisti operanti a Firenze e, al tempo stesso, favorì il rapporto fra scienza e arte. Essa prevedeva l'insegnamento della geometria euclidea e della matematica e pubbliche dissezioni dovevano preparare al disegno. Anche uno scienziato come Galileo Galilei fu nominato membro dell'Accademia fiorentina delle Arti del Disegno. Galileo, infatti, prese pure parte alle complesse vicende riguardanti le arti figurative del suo periodo, soprattutto la ritrattistica, approfondendo la prospettiva manieristica ed entrando in contatto con illustri artisti dell'epoca (come il Cigoli), nonché influenzando in modo consistente, con le sue scoperte astronomiche, la corrente naturalistica. Superiorità della pittura sulla scultura Per Galileo nell'arte figurativa, come nella poesia e nella musica, vale l'emozione che si riesce a trasmettere, a prescindere da una descrizione analitica della realtà. Ritiene inoltre che tanto più dissimili sono i mezzi usati per rendere un soggetto dal soggetto stesso, tanto maggiore l'abilità dell'artista. Perciocché quanto più i mezzi, co' quali si imita, son lontani dalle cose da imitarsi, tanto più l'imitazione è maravigliosa.” Ludovico Cardi, detto il Cigoli, fiorentino, fu pittore al tempo di Galileo; ad un certo punto della sua vita, per difendere il suo operato, chiese aiuto al suo amico Galileo: doveva, infatti, difendersi dagli attacchi di quanti ritenevano la scultura superiore alla pittura, in quanto ha il dono della tridimensionalità, a discapito della pittura semplicemente bidimensionale. Galileo rispose con una lettera. Egli fornisce una distinzione tra valori ottici e tattili, che diventa anche giudizio di valore sulle tecniche scultoree e pittoriche: la statua, con le sue tre dimensioni, inganna il senso del tatto, mentre la pittura, in due dimensioni, inganna il senso della vista. Galilei attribuisce quindi al pittore una maggiore capacità espressiva che non allo scultore poiché il primo, tramite la vista, è in grado di produrre emozioni meglio di quanto faccia il secondo mediante il tatto. “A quello poi che dicono gli scultori, che la natura fa gli uomini di scultura e non di pittura, rispondo che ella gli fa non meno dipinti che scolpiti, perché ella gli scolpe e gli colora.” Il padre di Galileo era un musicista (liutista e compositore) e teorico musicale molto noto ai suoi tempi. Galileo fornì un contributo fondamentale alla comprensione dei fenomeni acustici, studiando in modo scientifico l'importanza dei fenomeni oscillatori nella produzione della musica. Scoprì anche la relazione che intercorre fra la lunghezza di una corda in vibrazione e la frequenza del suono emessa. Nella lettera a Lodovico Cardi, Galileo scrive:  «Non ammireremmo noi un musico, il quale cantando e rappresentandoci le querele e le passioni d'un amante ci muovesse a compassionarlo, molto più che se piangendo ciò facesse?... E molto più lo ammireremmo, se tacendo, col solo strumento, con crudezze et accenti patetici musicali, ciò facesse...»  (Opere XI) mettendo sullo stesso piano la musica vocale e quella strumentale, dato che nell'arte sono importanti solo le emozioni che si riescono a trasmettere. Dediche  Banconota da 2.000 lire con la raffigurazione di Galileo  2 euro commemorativi italiani per il 450º anniversario della nascita di Galileo Galilei A Galileo sono stati dedicati innumerevoli tipi di oggetti ed enti, naturali o creati dall'uomo:  la Galileo Regio, una regione della superficie del satellite Ganimede; l'asteroide 697 Galilea; una sonda spaziale, la Galileo; un sistema di posizionamento spaziale, il sistema Galileo; il gal (unità di accelerazione); il Telescopio Nazionale Galileo (TNG), situato sull'isola di La Palma (Spagna); l'aeroporto internazionale "Galileo Galilei" di Pisa; un gruppo musicale giapponese, Galileo Galilei; un album degli Haggard dal titolo "Eppur si muove"; una canzone scritta e interpretata dal cantautore pugliese Caparezza intitolata "Il dito medio di Galileo"; il sottomarino Galileo Galilei; una nave da guerra italiana, la Galileo Galilei; la banconota da 2.000 lire; una canzone Messer Galileo cantata da Edoardo Pachera durante la 52ª edizione dello Zecchino d'Oro; una società, produttrice di strumenti scientifici, ottici ed astronomici e denominata Officine Galileo; una moneta commemorativa da 2 euro nel 2014 per il 450º anniversario della sua nascita; un supercomputer di potenza di calcolo pari a circa 1 PetaFlop, installato presso il consorzio interuniversitario CINECA e classificato per diverso tempo fra le prime 500 strutture di calcolo al mondo; una cattedra di storia della scienza dell'Università di Padova, detta appunto cattedra galileiana, istituita per Enrico Bellone a cui poi successe William R. Shea che la resse fino al 2011, più la Scuola Galileiana di Studi Superiori della stessa università, nonché l'Accademia galileiana di scienze, lettere ed arti di Padova. Galileo Day Galileo Galilei viene ricordato con celebrazioni presso istituzioni locali il 15 febbraio, il Galileo Day, giorno della sua nascita. Altre opere: La bilancetta (postuma), Tractatio de praecognitionibus et precognitis and Tractatio de demonstration. Le mecaniche, Le operazioni del compasso geometrico et militare, Sidereus Nuncius,  Discorso intorno alle cose che stanno in su l'acqua, Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari e loro accidenti (pubblicato dall'Accademia dei Lincei), 1613 (su archive.org, BEIC) Discorso sopra il flusso e il reflusso del mare, Roma, Il Discorso delle Comete, Il Saggiatore, Roma, Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, Firenze, Due nuove scienze, Leida, Trattato della sfera, Roma 1656 (su BEIC) Lettere Lettera al Padre Benedetto Castelli, Lettera a Madama Cristina di Lorena, Lettera a Pietro Dini, Edizione nazionale Opere di Galileo Galilei, Edizione Nazionale, a cura di Antonio Favaro, Firenze, G. Barbera, Le opere di Galileo Galilei. Edizione nazionale sotto gli auspicii di Sua Maestà il Re d'Italia.  Firenze, Tipografia di G. Barbera, Le opere di Galileo Galilei, Edizione Nazionale, Appendice, Firenze, Giunti, 2013 ss. in quattro volumi: Vol. 1: Iconografia galileiana, a cura di F. Tognoni, Carteggio, a cura di M. Camerota e P. Ruffo, con la collaborazione di M. Bucciantini, Testi, a cura di A. Battistini, M. Camerota, G. Ernst, R. Gatto, M. Helbing e P. Ruffo, Documenti, a cura di M. Camerota e P. Ruffo (Edizione digitale delle Opere Letteratura e teatro Vita di Galileo è il titolo di un'opera teatrale di Brecht in più versioni, a partire dalla prima risalente agli anni 1938-39. Gli ultimi anni di Galileo Galilei è il titolo di un'opera teatrale giovanile di Ippolito Nievo. Galileo è uno spettacolo teatrale del 2010 di Francesco Niccolini e Marco Paolini. Film Galileo Galilei è un cortometraggio sullo scienziato pisano. Galileo è un film di Cavani. Galileo si chiama anche il film di Joseph Losey tratto dal dramma Vita di Galileo di Bertolt Brecht. Per testuali parole di Puccianti, Galileo fu veramente cultore e propugnatore della Natural Filosofia: in effetti egli fu matematico, astronomo, fondatore della Fisica nel senso attuale di questa parola; e queste varie discipline considerò sempre e trattò come intimamente connesse tra loro, e insieme ad altri studi vari, come diversi aspetti e atteggiamenti di una stessa attività dello spirito: filosofo dunque, anche perché portò su questa attività la riflessione e la critica; ma non incurante delle conseguenze o, come ora si direbbe, delle applicazioni pratiche. I problemi più importanti e centrali lo impegnarono per tutta la durata della sua vita scientifica, non con continua opera su ciascuno di essi, ma con ritorni successivi sempre più approfonditi e più generali, e in fine risolutivi» (da: Luigi Puccianti, Storia della fisica, Firenze, Felice Le Monnier, Fondamentali furono inoltre le sue idee e riflessioni critiche sui concetti fondamentali della meccanica, in particolare quelle sul movimento. Tralasciando l'ambito prettamente filosofico, dopo la morte di Archimede, il tema del movimento cessò di essere oggetto di analisi quantitativa e discussione formale allorché Gerardo di Bruxelles, vissuto nella seconda metà del XII secolo, nel suo Liber de motu riprese la definizione di velocità, già peraltro considerata dal matematico del III secolo a.C. Autolico di Pitane, avvicinandosi alla moderna definizione di velocità media come rapporto fra due quantità non omogenee quali la distanza e il tempo (cfr. Gerard of Brussels, "The Reduction of Curvilinear Velocities to Uniform Rectilinear Velocities", edito da Clagett, in Grant, A Source Book in Medieval Science, Cambridge (MA), Harvard University Press,  e Mazur, Zeno's Paradox. Unraveling the Ancient Mystery Behind the Science of Space and Time, New York/London, Plume/Penguin Books, Ltd., Achille e la tartaruga. Il paradosso del moto da Zenone a Einstein, a cura di Claudio Piga, Milano, Il Saggiatore, Grazie al perfezionamento del telescopio, che gli permise di effettuare notevoli studi e osservazioni astronomiche, fra cui quella delle macchie solari, la prima descrizione della superficie lunare, la scoperta dei satelliti di Giove, delle fasi di Venere e della composizione stellare della Via Lattea. Per maggiori notizie, si veda: Luigi Ferioli, Appunti di ottica astronomica, Milano, Editore Ulrico Hoepli, Cfr. pure Vasco Ronchi, Storia della luce, IBologna, Nicola Zanichelli Editore, Dal punto di vista storico, un'ipotesi autenticamente "eliocentrica" fu quella di Aristarco di Samo, poi sostenuta e dimostrata da Seleuco di Seleucia. Il modello copernicano invece, contrariamente a quanto generalmente ritenuto, è "eliostatico" ma non "eliocentrico" (vedi nota seguente). Il sistema di Keplero, poi, non è né "eliocentrico" (il Sole occupa infatti uno dei fuochi dell'orbita ellittica di ciascun pianeta che gli ruota attorno) né "eliostatico" (a causa del moto di rotazione del Sole attorno al proprio asse). La descrizione newtoniana del sistema solare, infine, eredita le caratteristiche cinematiche (i.e., orbite ellittiche e moto rotatorio del Sole) di quella kepleriana ma spiega causalmente, tramite la forza di gravitazione universale, la dinamica planetaria. ^ A proposito del modello copernicano: «È da notare che, sebbene il Sole sia immobile, tutto il sistema [solare] non ruota intorno ad esso, ma intorno al centro dell'orbita della Terra, la quale conserva ancora un ruolo particolare nell'Universo. Si tratta cioè, più che di un sistema eliocentrico, di un sistema eliostatico.» (da G. Bonera, Dal sistema tolemaico alla rivoluzione copernicana, E non più soggettiva, come era stata fino ad allora condotta. ^ Secondo Giorgio Del Guerra, nella casa sita al n. 24 dell'attuale via Giusti in Pisa (G. Del Guerra, La casa dove, in Pisa, nacque Galileo Galilei, Pisa, Tipografia Comunale. Verosimilmente, Galileo non dovette avere buoni rapporti con la madre se non ricorda mai gli anni della sua infanzia come un periodo felice. Il fratello Michelangelo ebbe occasione di scrivere a questo proposito a Galileo, quasi augurandosene l'ormai imminente dipartita: «[...] di nostra madre intendo, con non poca meraviglia, che sia ancora così terribile, ma poiché è così discaduta, ce ne sarà per poco, sì che finiranno le lite.» Un Tommaso Ammannati fu fatto cardinale da Clemente VII nel 1385, mentre il fratello Bonfazio Ammannati ottenne la porpora da uno dei successori di Clemente, l'antipapa Benedetto XIII; quanto a Giacomo Ammannati Piccolomini, cardinal, fu umanista, continuatore dei Commentarii di Pio II e autore di una Vita dei papi che è andata perduta. ^ Si ricorda un Tommaso Bonaiuti, che fece parte del governo di Firenze dopo la cacciata del Duca di Atene e un Galileo Bonaiuti, medico noto al suo tempo e gonfaloniere di giustizia, il cui sepolcro nella Basilica di Santa Croce divenne la tomba dei suoi discendenti; a partire da Galileo Bonaiuti, il cognome della famiglia cambiò in Galilei. ^ Così scriveva Muzio Tedaldi a Vincenzo Galilei: «per la vostra ho inteso quanto havete concluso con il vostro figliuolo [Galileo]; et come, volendo cercar di introdurlo qua in Sapienza, vi ritarda il non esser la Bartolomea maritata, anzi vi guasta ogni buon pensiero; et che desiderate che la si mariti, e quanto prima. Le considerationi vostre son buone, et io non ho mancato né manco di far quell'opera che si ricerca; ma sino a qui son venuti tutti partiti, per non dir obbrobriosi, poco aproposito per lei… Per concludere, ardisco di dire che credo che la Bartolomea sia così casta come qual si vogli pudica fanciulla; ma le lingue non si possono tenere; pure io crederrò, con l'aiuto che do loro, di levar via tutti questi romori et farli supire; per il che a quel tempo potrete facilmente mandare il vostro Galileo a studio; et se non harete la Sapienza, harete la casa mia al vostro piacere, senza spesa nessuna, et così vi offero et prometto, ricordandovi che le novelle son come le ciriegie; però è bene credere quel che si vede, e non quel che si sente, parlando di queste cose basse.» Obbligatoriamente l'iscrizione doveva avvenire per gli studenti toscani in quell'Università. Chi voleva andare in un'altra Università avrebbe dovuto pagare una multa di 500 scudi stabilita da un editto granducale per scoraggiare la frequenza in un ateneo diverso da quello pisano (In: A. Righini, Op. cit.). ^ Lo testimonierebbe la coincidenza di argomentazioni esistente tra gli Juvenilia, gli appunti di fisica abbozzati da Galileo in questo periodo, e i dieci libri del De motu del Bonamico. (In: Storia sociale e culturale d'Italia, La cultura filosofica e scientifica, La filosofia e le scienze dell'Uomo, La storia delle scienze, Milano, Bramante Editrice, Ne descrive i dettagli nel breve trattato La bilancetta, circolato prima fra i suoi conoscenti e pubblicato postumo nel 1644 (Annibale Bottana, Galileo e la bilancetta: un momento fondamentale nella storia dell'idrostatica e del peso specifico, Firenze, Leo S. Olschki Editore). Studi riportati nel Theoremata circa centrum gravitatis solidorum, pubblicato in appendice ai Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze attinenti alla meccanica e ai moti locali. ^ Galileo sottopose a Clavius una sua insoddisfacente dimostrazione della determinazione del baricentro dei solidi. (Lettera a Clavius). Giovanni de Medici aveva progettato una draga per il porto di Livorno. Su questo progetto il granduca Ferdinando aveva chiesto una consulenza a Galilei che dopo aver visto il modellino affermò che non avrebbe funzionato. Giovanni de Medici volle comunque costruire la draga che in effetti non funzionò. (Giovan Battista de Nelli, Vita e commercio letterario di Galileo Galilei, Losanna, con tale Benedetto Landucci che Galilei raccomandò a Cristina di Lorena riuscendo a fargli ottenere nel 1609 il posto di pesatore al saggio; il lavoro, consistente nel pesare gli argenti che venivano venduti, procurava un guadagno di circa 60 fiorini. Lettera a Cristina di Lorena (Ed. Naz., Vol. X, Lettera N., Alla dote per la sorella Livia avrebbe dovuto contribuire anche il fratello Michelangelo. (Lettera a Michelangelo Galilei, Michelangelo... fu versatissimo nella musica e la esercitò per professione; essendo stato buon liutista non v'è dubbio che fosse allievo egli pure di suo padre Vincenzo. visse in Polonia al servizio di un conte palatino; nel 1610 era a Monaco di Baviera ove insegnava musica, e in una lettera datata del 16 agosto di quell'anno, egli pregava il fratello Galileo, di acquistargli grosse corde di Firenze per suo bisogno et dei suoi scolari...» (Dizionario universale dei musicisti, Milano, Casa Editrice Sonzogno). Le spese per i viaggi in Polonia e Germania furono sostenute da Galileo. Michelangelo appena sistematosi in Germania volle sposarsi con Anna Chiara Bandinelli e, anziché saldare il debito per la dote che aveva con il cognato Galletti, spese tutto il denaro che aveva in un lussuoso ricevimento nuziale. ^ «Mi dispiace ancora di veder che V.S. non sia trattata second'i meriti suoi, e molto più mi dispiace che ella non habbi buona speranza. Et s'ella vorrà andar a Venetia questa state, io l'invito a passar di qua, che non mancarò dal canto mio di far ogni opera per aiutarla e servirla; chè certo io non la posso veder in questo modo. Le mie forze sono deboli, ma, come saranno, io le spenderò tutte in suo servitio.  (Lettera di Guidobaldo Del Monte a Galilei. In: Ed. Naz., Vol. X, Lettera N. 35, Ancora vivente, Galileo fu ritratto da alcuni dei più famosi pittori del suo tempo, come Santi di Tito, Caravaggio, Domenico Tintoretto, Giovan Battista Caccini, Francesco Villamena, Ottavio Leoni, Domenico Passignano, Joachim von Sandrart e Claude Mellan. I due ritratti più famosi, visibili alla Galleria Palatina di Firenze e agli Uffizi sono invece di Justus Suttermans che rappresenta Galileo ormai anziano come simbolo del filosofo conoscitore della natura. (In "Portale Galileo") ^ Per moto «naturale» s'intende quello di un grave, ossia di un corpo in caduta libera, diversamente dal moto «violento», che è quello di un corpo che sia soggetto ad un «impeto». ^ L'esatta formulazione della legge è stata data da Galileo nel successivo De motu accelerato: «Motum aequabiliter, seu uniformiter, acceleratum dico illum, qui, a quiete recedens, temporibus aequalibus aequalia celeritatis momenta sibi superaddit», ove l'accelerazione di gravità è indicata essere direttamente proporzionale al tempo e non allo spazio. (Ed. Naz.) ^ Con lettera da Verona, l'Altobelli riferiva a Galileo, senza dar credito, che la stella, «quasi un arancio mezzo maturo», sarebbe stata osservata. In verità, dietro Antonio Lorenzini (da non confondere col vescovo Antonio Lorenzini) si celava il Cremonini; cfr. Uberto Motta, Antonio Querenghi. Un letterato padovano nella Roma del tardo Rinascimento, Pubblicazioni dell'Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano, Vita e Pensiero, «Nacque in Padova intorno al 1580. Poco più che ventenne professò i voti nell’Ordine Benedettino, e nei primi anni del secolo XVII si trovava nel monastero di S. Giustina di Padova, legato in molta intimità col Castelli, insieme col quale fu discepolo di Galileo, prendendo le parti del Maestro nelle questioni relative alla stella nuova dell’ottobre 1604.» (Da Museo Galileo). Usus et fabrica circini cuiusdam proportionis, per quem omnia fere tum Euclidis, tum mathematicorum omnium problemata facili negotio resolvuntur, opera & studio Balthesaris Capræ nobilis Mediolanensis explicata. (In: Patauij, apud Petrum Paulum Tozzium, 1607) ^ Alcuni calcoli astrologici, anche risalenti al periodo fiorentino, furono conservati da Galileo e compaiono nel volume 19 dell'Opera omnia (sezione "Astrologica nonnulla", pp. 205-220). Da notare che per lo più si tratta di calcoli del tema natale, solo in qualche caso accompagnati da interpretazioni o pronostici. ^ È stata ritrovata una lista della spesa dove Galilei, insieme a ceci, farro, zucchero, ecc., ordinava di acquistare anche pezzi di specchio, ferro da spianare e quanto di utile per il suo laboratorio ottico. (Da una nota di una lettera di Ottavio Brenzoni  conservata nella Biblioteca Centrale di Firenze) ^ Espressione tradizionalmente attribuita da scrittori cristiani all'imperatore pagano Flavio Claudio Giuliano che in punto di morte avrebbe riconosciuto la vittoria del Cristianesimo: «Hai vinto o Galileo» riferendosi a Gesù nativo della Galilea. ^ Il comportamento di Galileo è stato variamente giudicato: vi è chi sostiene che egli le chiuse in convento perché «doveva pensare a una loro sistemazione definitiva, cosa non facile perché, data la nascita illegittima, non era probabile un futuro matrimonio» (come se egli non potesse legittimarle, come fece con il figlio Vincenzio e come se una monacazione coatta fosse preferibile a un matrimonio non prestigioso; cfr. Sofia Vanni Rovighi, Storia della filosofia moderna e contemporanea. Dalla rivoluzione scientifica a Hegel, Brescia, Editrice La Scuola), mentre altri ritengono che «alla base di tutto stava il desiderio di Galileo di trovare per esse una sistemazione che non rischiasse di procurargli in futuro alcun nuovo carico [...] tutto ciò nascondeva un profondo, sostanziale egoismo» (cfr. Ludovico Geymonat,). ^ «quel mirare per quegli occhiali m'imbalordiscon la testa», avrebbe detto Cremonini secondo la testimonianza di Paolo Gualdo. (Da una lettera del Gualdo a Galilei. Scheiner pubblicò ancora sull'argomento il De maculis solaribus et stellis circa Iovem errantibus. La priorità della scoperta andrebbe all'olandese Johannes Fabricius, che pubblicò a Wittenberg, il De Maculis in Sole observatis, et apparente earum cum Sole conversione. Cioè con i sensi, con l'osservazione diretta. ^ «Egli pensava infatti che una colonna d’acqua troppo alta tendeva a spezzarsi sotto l’azione del suo stesso peso, così come si spezza una fune di materiale poco resistente quando, fissata in alto, viene tirata dal basso. Fu quindi proprio questa analogia fondata sull’esperienza osservativa a portare il Galilei fuori strada.» (in IL VUOTO – Elisa Garagnani – Isis Archimede). Salmi che la figlia di Galileo, suor Maria Celeste, s'incaricò di recitare, con il consenso della Chiesa. Baretti, in una sua ricostruzione, avrebbe fatto nascere la leggenda di un Galilei che una volta alzatosi in piedi, colpì la terra e mormorò: "E pur si muove!" (In Giuseppe Baretti, The Italian Library). Tale frase non è contenuta in alcun documento contemporaneo, ma nel tempo fu ritenuta veritiera, probabilmente per il suo valore suggestivo, a tal punto che Berthold Brecht la riporta in "Vita di Galileo", opera teatrale dedicata allo scienziato pisano alla quale egli si dedicò a lungo. ^ In Paschini è riportato che: «secondo le norme del Sant'Offizio» questa condizione «era equiparata ad una prigionia per quanto egli facesse per ottenere la liberazione. Si ebbe il timore probabilmente ch'egli riprendesse a fare propaganda delle sue idee e che un perdono potesse significare che il Sant'Offizio si fosse ricreduto a proposito di esse» (cfr. pure Alceste Santini, "Galileo Galilei", L'Unità). Conceditur habitatio in eius rure, modo tamen ibi in solitudine stet, nec evocet eo aut venientes illuc recipiat ad collocutiones, et hoc per tempus arbitrio Suae Sanctitatis.» (Ed. Naz.) ^ A Galileo era infatti proibito stampare qualunque opera in un paese cattolico. ^ Fonti di questa corrispondenza si trovano in: Paolo Scandaletti, Galilei privato, Udine, Gaspari editore, Antonio Favaro, Amici e corrispondenti di Galileo Galilei, Alessandra Bocchineri, Venezia, Pubblicazioni del R. Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, Valerio Del Nero, Galileo Galilei e il suo tempo, Milano, Simonelli Editore, A. Righini, Galileo: tra scienza, fede e politica, Bologna, Editrice Compositori, 2008, p. 150 e sgg.; Geymonat, Giorgio Abetti, Amici e nemici di Galileo, Milano, Bompiani, Banfi,  «Galileo fu invitato alla villa di S.Gaudenzio, sulle colline di Sofignano, alla fine di luglio del 1630, ospite di Giovanni Francesco Buonamici, che con lo scienziato vantava una parentela da parte della moglie Alessandra Bocchineri: la sorella di lei, Sestilia, aveva sposato a Prato l'anno prima il figlio di Galileo, Vincenzo.» (In Comune di Vaiano) Fu permessa a Galilei l'assistenza del giovane allievo Vincenzo Viviani e, dall'ottobre 1641, anche di Evangelista Torricelli. ^ «La prego a condonare questa mia non volontaria brevità alla gravezza del male; e le bacio con affetto cordialissimo le mani, come fo anche al Signor Cavaliere suo Consorte.» (In Le Opere di Galileo Galilei, a cura di Eugenio Albèri, Firenze, Società Editrice Fiorentina, 1848, p. 368) Anfossi pubblicava–anonimamente–in Roma un libro in cui le leggi di Keplero e di Newton erano presentate come «cose che non meritano la menoma attenzione» e si chiedeva come mai «tanti uomini santi» ispirati dallo Spirito Santo, «ci han detto ottanta e più volte che il Sole si muove senza dirci una volta sola che è immobile e fermo?» (Sebastiano Timpanaro, Scritti di storia e critica della scienza, Firenze, G.C. Sansoni, L'edizione curata da Favaro si basava sulle copie allora disponibili, perché l'originale non era stato ritrovato (Avvertimento. Il manoscritto originale è stato scoperto nell'agosto 2018 e pubblicato come appendice a Michele Camerota, Franco Giudice, Salvatore Ricciardi, "The reapparance of Galileo's original letter to Benedetto Castelli". L'effetto di parallasse stellare, che dimostra la rivoluzione della Terra attorno al Sole, sarà misurato da Friedrich Wilhelm Bessel solo nel 1838. Per il testo della condanna, vedi: Sentenza di condanna di Galileo Galilei, su it.wikisource.org. Per il testo dell'abiura, vedi: Abiura di Galileo Galileisu it.wikisource.org. ^ Questa frase è stata citata in un intervento molto criticato di Joseph Ratzinger (cfr. "La crisi della fede nella scienza" in Svolta per l'Europa? Chiesa e modernità nell'Europa dei rivolgimenti, Roma, Edizioni Paoline. Ratzinger aggiunge da parte sua che: «Sarebbe assurdo costruire sulla base di queste affermazioni una frettolosa apologetica. La fede non cresce a partire dal risentimento e dal rifiuto della razionalità, ma dalla sua fondamentale affermazione e dalla sua inscrizione in una ragionevolezza più grande. Qui ho voluto ricordare un caso sintomatico che evidenzia fino a che punto il dubbio della modernità su se stessa abbia attinto oggi la scienza e la tecnica.» ^ Già chiaramente indicati nella Lettera a Madama Cristina di Lorena granduchessa di Toscana. L'Accademia del Cimento, fra le più antiche associazioni scientifiche al mondo, fu la prima a riconoscere ufficialmente, in Europa, il metodo sperimentale galileano. Fu fondata a Firenze da alcuni allievi di Galileo, Evangelista Torricelli e Vincenzo Viviani. Si lasci alla storiografia stabilire, caso fosse mai possibile, se Galileo concepisse il moto inerziale unicamente come circolare [...] o se ammettesse anche la possibilità in natura della prosecuzione indefinita del moto rettilineo, anche perché in Galileo non si può sensatamente parlare di formulazione del principio d'inerzia come se fossimo nell'ambito della moderna fisica newtoniana, ma solo di alcune considerazioni preliminari al principio della relatività del moto.» Portale Galileo, su portalegalileo.museogalileo.it.Testi non compresi nella prima edizione dell'Edizione Nazionale curata da Antonio Favaro, ma in quella curata da William F. Edwards e Mario G. Helbing, con Introduzione, Note e Commenti di William A. Wallace, per Le opere di Galileo Galilei. Edizione Nazionale, Appendice al Volume III: Testi, Firenze, G.C. Giunti. Bibliografiche  Abbagnano, Albert Einstein, Leopold Infeld, L'evoluzione della fisica. Sviluppo delle idee dai concetti iniziali alla relatività e ai quanti, Torino, Editore Boringhieri, Mario Gliozzi, "Storia del pensiero fisico", in: Luigi Berzolari (a cura di), Enciclopedia delle matematiche elementari e complementi, Vol. III, Parte II, Milano, Editore Ulrico Hoepli, Paolo Straneo, Le teorie della fisica nel loro sviluppo storico, Brescia, Morcelliana, Giuliano Toraldo di Francia, L'indagine del mondo fisico, Torino, Giulio Einaudi editore, George Gamow, Biografia della fisica, Biblioteca della EST, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, Max Born, La sintesi einsteiniana, Torino, Editore Boringhieri, Natalino Sapegno, Compendio di storia della letteratura italiana, Firenze, La Nuova Italia Editrice, Centro di Studi Filosofici di Gallarate (a cura di), Dizionario dei Filosofi, Firenze, G.C. Sansone Editore, Ludovico Geymonat (a cura di), Storia del pensiero filosofico e scientifico, Milano, Aldo Garzanti Editore, Ludovico Geymonat, Lineamenti di filosofia della scienza, Biblioteca della EST, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, Federigo Enriques, Giorgio De Santillana, Compendio di storia del pensiero scientifico, dall'antichità fino ai tempi moderni, Bologna, Nicola Zanichelli Editore, Renato Pettoello, Leggere Kant, Brescia, Editrice La Scuola, 2014, Cap. III, § 6. ^ David Lerner (a cura di), Qualità e quantità e altre categorie della scienza, Torino, Editore Boringhieri, Pietro Redondi, Galileo eretico, Roma-Bari, Editori Laterza, 2009. ^ Sentenza di condanna di Galileo.  Giovanni Paolo II. Vaticano, discorsi, Discorso ai partecipanti alla sessione plenaria della Pontificia Accademia delle scienze, su w2.vatican.va, 31 ottobre Tullio Regge, Cronache dell'universo. Fisica moderna e cosmologia, Torino, Editore Boringhieri, La dimora natale di Galileo: l’enigma delle tre case, William Shea, La Rivoluzione scientifica–I protagonisti: Galileo Galilei, in: Storia della Scienza Treccani, Aliotta e Carbonara, p. 36. ^ Alberto Righini, Galileo. Tra scienza, fede e politica, Bologna, Editrice Compositori, Lettera da Pisa di Muzio Tedaldi a Vincenzo Galilei, «mi è grato di saper che haviate rihavuto Galileo, et che siate di animo di mandarlo qua a studio». (Ed. Naz.) Kline,   Enrico Bellone, Caos e armonia. Storia della fisica moderna e contemporanea, Torino, POMBA Libreria,  Ilya Prigogine, Isabelle Stengers, La nuova alleanza. Metamorfosi della scienza, Torino, Giulio Einaudi editore, Andrea Pinotti, "Introduzione al Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, tolemaico e copernicano"  in: G. Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, 2 voll., Milano, Fabbri Editori, Ludovico Geymonat (a cura di), Storia del pensiero filosofico e scientifico, 9 voll., Milano, Aldo Garzanti Editore,  Paschini, Lettera di Giovanni Uguccioni al Granduca di Toscana (Ed. Naz., Vol. X, Lettera N. Lettera a Fortunio Liceti, 23 giugno 1640. (Ed. Naz., Vol. XVIII, Lettera Galileo Galilei, National Maritime Museum, su collections.rmg.co.uk. URL consultato l'8 gennaio 2018. ^ Discorso intorno alla Nuova Stella, In Padova, appresso Pietro Paolo Tozzi,Consideratione astronomica circa la Nova & portentosa Stella che nell'anno MDCIIII adì X ottobre apparse. Con un breve giudicio delli suoi significati, In Padova, nella stamparia di Lorenzo Pasquati, 1605. ^ Antonio Favaro, "Galileo Galilei ed il «Dialogo de Cecco di Ronchitti da Bruzene in perpuosito de la Stella Nuova». Studi e ricerche", Atti del Reale Istituto Veneto di scienze, lettere ed arti, Enciclopedia Treccani alla voce "Ronchitti, Cecco di" ^ Difesa di Galileo Galilei nobile fiorentino, lettore delle matematiche nello studio di Padova, contro alle calunnie & imposture di Baldessar Capra milanese, usategli sì nella «Considerazione astronomica sopra la Nuova Stella del MDCIIII» come (& assai più) nel pubblicare nuovamente come sua invenzione la fabrica & gli usi del compasso geometrico & militare sotto il titolo di «Usus & fabrica circini cuiusdam proportionis & c.» (In: Venetia, presso Tomaso Baglioni). ^ Antonio Favaro, "Galileo astrologo secondo documenti editi e inediti. Studi e ricerche", Mente e cuore, VIII (Trieste) pp. 1-10. ^ Giuseppe Antonino Poppi, La Repubblica, Galileo as Practising Astrologer, su journals.sagepub.com. Heilbron,Heilbron, Cesare Lucarini, La porta magica di Roma: Le epigrafi svelate, Roma, Edizioni Nuova Cultura, Geymonat, Giovanni Reale, Dario Antiseri, Manuale di filosofia. Vol. 2, Editrice La Scuola, 2014. ^ Ed. Naz., Lettera di Belisario Vinta a Galileo del 6 giugno 1610. (Ed. Naz.,  Lettera di Cosimo II a Galileo Il cannocchiale e i manoscritti A Milano il tesoro di Galileo, Benedetto Castelli, Discorso sopra la calamita. ^ Geymonat, Pasquale Guaragnella, Galileo e Le lettere solari ^ Francesco Iovine, Galilei e la Nuova Scienza, Firenze, La Nuova Italia, Museo Galileo ^ Paolo Antonio Foscarini, Lettera sopra l'opinione de' Pittagorici, e del Copernico, della mobilità della Terra e stabilità del Sole, e del nuovo Pittagorico sistema del mondo, Napoli, Lazaro Scoriggio, Guido Morpurgo-Tagliabue, "I processi di Galileo e l'epistemologia", Rivista di Storia della Filosofia, G. Galilei, Il Saggiatore, Per una rigorosa disamina storico-critica della dinamica relativa, si veda: Protogene Veronesi, Enzo Fuschini, Fondamenti di Meccanica Classica, II edizione ampliata, Bologna, CLEUB, Ed. Naz., Ed. Naz., Lettera di Galilei a Geri Bocchineri, Ed. Naz., Vol. XIX, G. Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi, Alexandre Koyré, Etudes galiléennes, Paris, Éditions Hermann, Franco Tornaghi, Gabriele Mangiarotti, Galileo Galilei. Mito e realtà. Itinerario antologico, Milano, CESED, Ed. Naz., Eugenio Albèri, Commercio epistolare di Galileo Galilei, Firenze, Società Editrice Fiorentina, Lettera, in Le opere di Galileo Galilei, a cura di Eugenio Albèri, Firenze, Società Editrice Fiorentina, Lettera, in Le opere di Galileo Galilei, a cura di Eugenio Albèri, Firenze, Società Editrice Fiorentina, Arcetri, in Le opere di Galileo Galilei, a cura di Eugenio Albèri, Firenze, Società Editrice Fiorentina, Gianbattista Venturi, Memorie e lettere di Galileo Galilei, Modena, Geymonat, Klaus Lankheit, Florentinische Barockplastik. Die Kunst am Hofe der letzen Medici, München, vedasi pure Mario Scotti, "Foscolo, Ugo", Dizionario biografico degli italiani,Giovanni Maria Caglieris, Copernico, la sorte del De Revolutionibus dopo la condanna della Chiesa e il ruolo di Galileo, Galileo, Come interpretare le Scritture, G. Galilei, Op. cit. Battistini, G. Galilei, Lettere, Torino, Giulio Einaudi editore, Edoardo Aldo Cerrato, «Come si vadia al cielo, e non come vadia il cielo» su oratoriosanfilippo.org. ^ Galileo Galilei, Il Saggiatore,Galileo Galilei, su plato.stanford.edu. ^ Koestler, Koestler, Quella citazione di Feyerabend - l'epistemologo che smitizzò Galileo, in Corriere della Sera. Paul Feyerabend, Corriere della Sera, tr. it a cura di M. Marchetto, Bompiani, Milano, Orazio La Rocca, Il Vaticano cancella la condanna di Galileo, in La Repubblica, Il Vaticano cancella la condanna di Galileo, su ricerca.repubblica.it. Alexandre Koyré, Introduzione alla lettura di Platone, Firenze, Vallecchi Editore, Paolo Marazzini Elisa M. Guzzi, Francesca Bonicalzi, Che cos'è la fisica, Milano, Editoriale Jaca Book, Matthew W. Parker, Philosophical Method and Galileo's Paradox of Infinity, preprint, Albert Van Helden, Galileo, su britannica.com.Galileo Galilei, Lettere al Welser, terza lettera, G. Galilei, G. Galilei,  G. Galilei, G. Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, Pordenone, Studio tesi, II giornata, G. Galilei, I due massimi sistemi del mondo, in: G. Galilei, La prosa, Firenze, G.C. Sansoni, A. Koyré, cit., Firenze, Vallecchi, Ernst Mach, On Thought Experiments, E. Brendel, Intuition Pumps and the Proper Use of Thought Experiments in Dialectica, Barry Gower, Scientific Method. ^ Rodolfo Mondolfo, "Il pensiero di Galileo e i suoi rapporti con l'antichità e con il Rinascimento", in: R. Mondolfo, Figure e idee della filosofia del Rinascimento, Firenze, La Nuova Italia,Luca Serianni, Giuseppe Antonelli, Manuale di linguistica italiana. Storia, attualità, grammatica, Milano, B. Mondadori, Serianni e Antonelli, G. Galilei, Dialogo dei massimi sistemi, in: Opere di Galileo Galilei, Firenze, G. Barbèra, Francesco Bertola, "Galileo e il suo tempo nella scienza astronomica", in: Enciclopedia Treccani; vedasi pure Francesco Bertola, Francesco Danesin, Da Galileo alle stelle, Biblos, Cittadella, Ernest A. Moody, "Galileo e Avempace: la dinamica dell'esperimento della torre pendente", in: Philip P. Wiener, Aaron Noland (a cura di), Le radici del pensiero scientifico, Milano, G. Feltrinelli editore, A. Koyré, "Galileo e Platone", in: A. Koyré, cit., Firenze, Vallecchi, G. Galilei, Le lettere copernicane, a cura di Massimo Baldini, Roma, A. Armando Editore, Eugenio Garin, Storia della filosofia italiana, Torino, Giulio Einaudi editore, Wilhelm Dilthey, L'analisi dell'uomo e l'intuizione della natura. Dal Rinascimento al secolo XVIII, prefazione e traduzione italiana di Giovanni Sanna, 2 voll., Firenze, La Nuova Italia, Mechanics, su fromdeathtolife.org).  Alexandre Koyré, Galileo and Plato, in Journal of the History of Ideas, IV Kyle Forinash, William Rumsey, Chris Lang, Galileo's Mathematical Language of Nature ^ Jay Orear, Fisica Generale, Bologna, Nicola Zanichelli Editore,Stillman Drake, Galileo and the Law of Inertia, in American Journal of Physics, v Paolo Rossi, Storia della Scienza Moderna e Contemporanea, 5 voll., Torino, POMBA, Rinaldo Pitoni, Storia della Fisica, Torino, Società Tipografico-Editrice Nazionale, The Speed of Light, su galileoandeinstein.physics.virginia.edu. La misura della velocità della luce (PDF), su online.scuola.zanichelli.it. Stillman Drake, Noel M. Swerdlow, Trevor H. Levere, Essays on Galileo and the History and Philosophy of Science, Toronto (CA), University of Toronto Press, Inc.,Trevor H. Levere, William R. Shea, Nature, Experiment and the Sciences. Essays on Galileo and the History of Science in Honour of Stillman Drake, Berlin & Heidelberg, Springer-Verlag, Giovilabio, su catalogo.museogalileo.it. Termometro, su catalogo.museogalileo.it. Pendulum Clock, su galileo.rice.edu. Rinaldo Pitoni, cGalileo and the pendulum clock,La prima edizione è stata pubblicata da Giovanni Battista Hodierna nella sua opera Archimede redivivo con la stadera del momento, Palermo, Galileo's Balance, su math.nyu.edu.Testo italiano e traduzione inglese in: Hydrostatic Balance, su galileo.rice.edu. Roberto Renzetti, Il giovane Galileo, su fisicamente.net. Le operazioni del compasso, su portalegalileo.museogalileo.it. Galileo, secondo Calvino, G. Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, Firenze, G.C. Sansoni, Accademia delle Arti del Disegno, su brunelleschi.imss.fi.it,  ^ Chrysa Damianaki, Galileo e le arti figurative, Roma, Vecchiarelli Editore, Galileo: 'Sopra alcuni problemi attenenti alla musica', Early Studies in Sound, su library.thinkquest.org. Andrea Frova, Mariapiera Marenzana, Thus spoke Galileo. The great scientist's ideas and their relevance to the present day, Oxford (UK), Oxford University Press,Marcello Cesa-Bianchi, Carlo A. Cristini, Giovanni Cesa-Bianchi, Alessandro Porro, L'ultima creatività. Luci nella vecchiaia, Milano, Springer-Verlag Italia, Galileo Regio. ^ Angelo Bassani, "Cesare Pecile e la storia della scienza a Padova", in: Rendiconti dell'Accademia Nazionale delle Scienze, detta dei XL. Memorie di Scienze Fisiche e Naturali, Cesare Pecile e la storia della scienza a Padova). Galileo Day, Ippolito Nievo, Drammi giovanili. Emanuele e Gli ultimi anni di Galileo Galilei, a cura di Maurizio Bertolotti, Venezia, Marsilio Editori, ITIS Galileo su JoleFilm Bibliografia Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Bibliografia su Galileo Galilei. Nicola Abbagnano, Storia della filosofia, Torino/Milano, POMBA/TEA, Antonio Aliotta e Cleto Carbonara, Galileo Galilei, Milano, F.lli Bocca Editori, Antonio Banfi, Galileo Galilei, Milano, Casa Editrice Ambrosiana (ristampato da Il Saggiatore, Milano), Andrea Battistini, Galileo, Bologna, Società editrice il Mulino,  Ludovico Geymonat, Galileo Galilei, Torino, Einaudi, John Lewis Heilbron, Galileo, a cura di Stefano Gattei, Torino, Einaudi, Morris Kline, Storia del pensiero matematico, traduzione di Alberto Conte, Torino, Giulio Einaudi editore, Arthur Koestler, I sonnambuli. Storia delle concezioni dell'universo, Milano, Editoriale Jaca Book, Pio Paschini, Vita e Opere di Galileo Galilei, Città del Vaticano, Casa Editrice Herder,Giovanni Reale, Dario Antiseri, Manuale di filosofia, Editrice La Scuola, Paolo Rossi Monti, La nascita della scienza moderna in Europa, Roma-Bari, Editori Laterza, Accademia galileiana di scienze, lettere ed arti Arcetri Astronomia Bibliografia su Galileo Galilei Cannocchiali di Galileo Casa di Galileo Galilei Domus Galilaeana Fisica Galilei (famiglia) Isocronismo La favola dei suoni Meccanica Metodo scientifico Micrometro di Galileo Museo Galileo Niccolò Copernico Ostilio Ricci Processo a Galileo Galilei Relatività galileiana Rivoluzione astronomica Rivoluzione scientifica Termometro galileiano Trasformazione galileiana Villa Il Gioiello Vincenzo Galilei Virginia Galilei Vita privata di Galileo Galilei. Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Galileo Galilei, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Galileo Galilei, in Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Galileo Galilei, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Galileo Galilei, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. su accademicidellacrusca.org, Accademia della Crusca. Galileo Galilei, su BeWeb, Conferenza Episcopale Italiana.Galileo Galilei, su Find a Grave. MacTutor, University of St Andrews, Scotland.Galileo Galilei, su Mathematics Genealogy Project, North Dakota State University.Opere di Galileo Galilei, su Liber Liber.openMLOL, Horizons Unlimited srl.  Opere di Galileo Galilei, su Open Library, Internet Archive. Opere di Galileo Progetto Gutenberg. LibriVox. Pubblicazioni di Galileo Galilei, su Persée, Ministère de l'Enseignement supérieur, de la Recherche et de l'Innovation.Bibliografia di Galileo Galilei, su Internet Speculative Fiction Database, Al von Ruff. Galileo Galilei (autore), su Goodreads.  Galileo Galilei (personaggio), su Goodreads.  Galileo Galilei, in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton Company.Peter Machamer, Galileo Galilei, in Edward N. Zalta, Stanford Encyclopedia of Philosophy, Center for the Study of Language and Information, Università di Stanford. The Galileo Project, su galileo.rice.edu. Dizionario Interdisciplinare di Scienza e Fede, su disf.org. Archivio integrato di risorse galileiane, su galileoteca.museogalileo.it. Museo Galileo – Firenze, Italia, su museogalileo.it. Conserva gli strumenti scientifici originali di Galileo European Cultural Heritage Onlinesu echo.mpiwg-berlin.mpg.de. Scheda su Galileo Galilei accademico della Crusca sul sito dell'Accademia, su adcrusca.it.Fondo "Antonio Favaro", su domusgalilaeana.it. Archivio "Scienza & Fede", su disf.org. Laboratorio storico "G. Galilei", su illaboratoriodigalileogalilei.it.  Lo scherzo d'un uomo di genio dice cose più serie che non le cose serie dell'uomo volgare; anzi primo indicio della superiorità è il sorriso. Il volgo andava ripetendo che la caduta di un pomo preannunziò la scoperta della gravitazione universale: e Byron scherzando di ceva essere stata la prima volta, da Adamo in qua, che un pomo e una caduta dessero qualche vantaggio al genere umano. Altro che pomo ! voleva dire il poeta: esatte premesse occorrono alle grandi scoperte e non il caso. Il pensiero è una catena e ciò che ai più par caso entra nella serie. Togliete Galilei e Keplero e avrete soppresso le premesse immediate a Newton. Togliete Copernico, e li avrete soppressi tutti. Togliete le tradizioni pitagorichealle univer sità italiane e sparisce Copernico. Dov'è il caso? Il pomo no: una serie di grandi pensieri che furono grandi scoperte sgombrò le vie del firmamento all' anglo. Un fatto può essere occasionale, ma per quegli uomini che portano nel cervello quella preparazione, che rias sumendo la serie, afferra il fatto e lo trasforma. Così nell'astronomia e così proprio in tutte le altre scienze. To gliete Bruno e Campanella, e non troverete Vico. Togliete Telesio, e li perdete tutti. Togliete le tradizioni naturalistiche dell'antica scuola italica— già greca di origine —e sparisce Telesio. È la me desima serie ed è una riprova della cognatela tra tutte le scienze. E questa serie non si smentisce neppur dove la reazione crede spennare le reni agl'ingegni alati. Non fu una reazione il libro della Ragion di Stato —che creò tanti discepoli-contro il Principe, che aveva già tutta una scuola, cioè Bottero non ebbe il disegno aperto di reagire trionfalmente contro Machiavelli? Ebbene, mentre il prete Bottero mandava ad uno de'più grandi e sventurati ingegni 215 italiani quante maledizioni gli erano ispirate dalla triplice reazione di Parigi, di Madrid e di Roma, era nel tempo istesso tirato dalla logica a prendere da Machiavelli la teorica de’ mezzi, come il secre tario di Firenze aveva preso la teorica de'fini pubblici da Dante e da Petrarca, ispirati — alla loro volta —dall'antica tradizione ro mana. Ed ecco la reazione entrare nella serie, come appunto la santa alleanza insinuava ne 'codici tanti principii della rivoluzione. E ciò non accade soltanto rispetto ai sistemide'quali l'uno suppone l'altro anche dove il secondo reagisce al primo, ma alle singole teo riche di ciascuno, le quali non segnano un progresso che non sia una conclusione di ciò che si era pensato prima. A che mira, infatti, la critica di Galilei? A reintegrare l'unità della natura. Ma se Bacone lo chiama filosofo telesiano, voi dovete ricordare che Telesio non solo aveva propugnato il metodo sperimen tale, ma tentato comporre il dissidio lasciato aperto da Aristotile tra materia e forma, come Pomponazzi e Campanella avevano troncato il dualismo tra intelletto e senso, e Bruno tra natura e Dio. Non è un gruppo, è una catena nella quale il nome di ciascuno s’inanella nel precedente, e tutti insieme presentano il disegno della rinnovata natura. Per questi il risorgimento fu naturalismo, fu ita liano, mentre la scolastica era stata europea. Se dalla serie e dal proprio posto nella serie voi spiccate il nome di Galilei, vi accorgerete che resterà il nome di un astronomo più o meno insigne, di un improvvisatore di qualche teorica, dello scopri tore fortunato di qualche astro e di qualche istrumento, ma che cosa egli abbia aggiunto al pensiero, per quale via e con quali effetti voi non saprete dire. Ammirerete un mito e sarà volgare ammirazione. Voi, in somma, assisterete ai miracoli di un prestigiatore non alle scoperte del genio. Or sospettate voi che io vi voglia esporre ad una ad una le pre messe di Galilei e di Klepero per arrivare sino a Newton? che io voglia indicarvi da quali parti specialmente della meccanica terre stre emerse la meccanica celeste e come la dimostrazione de'quadrati de' tempi delle rivoluzioni che stanno fra loro come i cubi degli assi maggiori delle orbite abbia aperto a Newton la conclusione che la forza era proporzionale alla massa? Sarebbe riuscire, pel cammino peggiore, a nessuna meta. I dotti · non imparerebbero una sillaba di nuovo e vedrebbero in espressioni difettive snaturate quelle forme che chiedono un'analisi esatta, e i meno dotti si allontanerebbero storditi e infastiditi. Io, dunque,. 216 senza guastare la serie, debbo dirvi quel che penso io intorno ad al cuni pensieri di quell'uomo sommo e scelgo — non a caso —i punti seguenti: 1.º Come intese Galilei il metodo sperimentale? 2. ° Quale valore oggettivo dette egli alla conoscenza? 3. ° Quale fu il risulta mento scientifico e morale delle sue dottrine? Non è poco, e più che nella cortesia --cosa mediocre— confido nella serietà con la quale voi ed io vogliamo che sia discusso il pa trimonio glorioso della mente. II. « Non vogliamo costruzioni scientifiche, non metodi aprioristici, vogliamo il metodo sperimentale: » Così gridano, e vogliamolo pure, io scrivevo, ma vogliamolo davvero. Non fu forse proclamato ed eser citato con diverso intento e diversa fortuna? Non fu fecondo o arido, secondo l'intelletto e la mano che presero a trattarlo? Non si distin gue dall'empirismo? Bisogna dunque sapere che è veramente me todo sperimentale. Galilei si trova a pari distanza tra Telesio e Bacone, due che pro pugnarono il metodo sperimentale senza scoprire nulla nel mondo naturale, e si trova ad un secolo di distanza da Leonardo da Vinci, che, professando il metodo sperimentale, strappò più di un segreto alle cose reali. Perchè dunque l'istesso metodo, arido nelle mani di Telesio e di Bacone, diventa fecondo nelle mani di Leonardo e di Ga lilei? Ecco il punto. E la risposta è chiara: — Perchè il metodo non è veramente lo stesso. Per Telesio e Bacone comincia e resta nel fenomeno e dove al fenomeno aggiunge qualche ipotesi, è soggettiva, cioè puro ri torno all'antico. Per Leonardo e Galilei comincia dal fatto e sale alle alte sfere della ragione, mediante il linguaggio stesso delle cose che è la matematica. La matematica è formale come la logica —dice Bacone. La matematica è reale come le cose afferma Galilei. Con la matematica sei arrivato a far girare la terra -è un frizzo di Bacone contro Galilei. E la terra gira -- grida il pisano. Pur tu ti sei disdetto —rincalza Bacone. Stolto ! dice Galilei -- potevo disdirmi cento volte, e la prova re sta e la terra continua il suo giro. 217 Ma chi ti malleva la realtà della matematica? Il fatto stesso che misuratamente si move, misuratamente per corre il tempo e lo spazio, nella misura costituisce l'ordine. -La misura è aggiunta. - La misura è: io la colgo: chi non la coglie non vede il fatto. Telesio non lo dice. Leonardo lo disse, e scoprì. Telesio e tu non avete scoperto. Il fatto a voi è stato muto; a noi ha parlato. Fermiamoci. Il divario è grande. Potete voi dire che sia l'istesso metodo? Fu Bacone l'anglo che intese Galilei o un altro? Quando si parla di metodo sperimentale, di senso, di fatto, biso gna cogliere tutto il fatto, il quale non è qualità soltanto, è quan tità; e questi due termini s'integrano a vicenda, in modo che la quantità si qualifica, e la qualità si quantifica. Questo pro cesso graduale ed intimo delle cose è l'evoluzione, e la legge che la traveste, affaticandola di moto in moto, è la causalità, che in Newton si determina come gravitazione universale. Il fatto dunque non è fenomeno soltanto, è fenomeno e legge. Così Galilei lo intuisce e così lo intuisce intero; Bacone coglie un termine solo e mutila il fatto. L'esperienza che in Galilei è piena, in Bacone è unilaterale; quel metodo che in Galilei è sperimentale, in Bacone diventa empirico; e quel processo che nell'uno è fecondo di scoperte, nell'altro è gonfio di precetti pom posi. Ha un bel rimuovere Bacone tutti quelli ch'ei chiama idoli, se innanzi agli occhi gli rimane fisso l'idolo peggiore, il fatto eslege. Così aveva fatto Leonardo da Vinci notando nel fenomeno la legge, e così fa Galilei, entrambi con pochi precetti e con effetti amplissimi, tirandone l'uno applicazioni mirabili alla meccanica, e specialmente all'idraulica, l'altro al sistema planetario. E si ripeta pure che in Galilei l'esperienza naturale è senso pieno, ma quì un fatto contemporaneo ci deve fermare e impensie rire. Bruno senza i computi di Copernico, senza il metodo speri mentale e il teloscopio di Galilei, e senza il calcolo superiore di Newton, non era pervenuto per sola forza di pensiero, alle medesi me anzi a più larghe conclusioni che non si trovino nell'astronomo tedesco, nell'italiano e nell'inglese, affermando cose che facevano sgomento a Klepero e furono trovate poi vere dal progresso poste riore? Il pensiero, da solo, non valse altrettanto che l'esperienza, e 218 ciò che lo scienziato induceva computando, il genio non poteva co struire? L'esempio di Bruno, non bene inteso, potrebbe inficiare la cri tica di Galilei, nè per il genio vale ricorrere ad eccezioni, che com plicano la quistione e non spiegano nulla. Il vero è che Bruno intese il fatto e l'esperienza come Galilei, e movendo dal medesimo punto, l'uno giunse con la logica dove l'altro con la matematica. La conseguenza è che la matematica è la logica delle cose, e che se rispetto alla mente, come dice Leibintz, pensare è calcolare, rispetto alle cose moversi misurata mente vuol dire evolversi razionalmente. Bruno è la riprova, non l'eccezione. Appena, infatti, il nolano intese il sistema copernicano, n'esultò, cercò alla matematica la riprova della logica, e come Campanella scrisse l'apologia di Ga lilei, così Bruno di Copernico. Era dal medesimo punto di partenza la medesimezza del pensiero logico e del pensiero matematico, con medesimezza di disegno e di effetti. E-ora si dirà-Cartesio non intese fare la medesima cosa, cioè costruire la fisica col pensiero, come il nolano, introducendovi la matematica, come Galilei, e perchè egli riuscì a costruire una fi sica falsa, disconoscendo Bruno in tutto e in gran parte il disegno di Galilei? Perchè egli non muove come que due dal fatto, bensì dall'idea astratta, dal puro cogito, che non è la cosa, ma l'ombra della cosa, e l'ombra ei tratta come cosa salda. Perciò non solo non giunse per forza di logica, agl’infiniti mondi del nolano, ma nep pure per forza di matematica a riconoscere l'importanza del siste ma eliocentrico dimostrato da Copernico e da Galilei. Bacone errò, mutilando il fatto e attenendosi al solo fenomeno, Cartesio errò, correndo dietro l'ombra del fatto e improvvisando la legge. L'uno cadde nell'empirismo l'altro nell'apriorismo. In Bacone riconosciamo il merito di avere insistito sulla indu zione, e in Cartesio, come dice Comte, il merito di aver convertito la qualità in quantità, e la quantità continua nella discreta. Ma l'uno e l'altro, non avendo colto il punto di partenza, non aggiun sero nulla alla scienza della natura. Justus Liebig, parlando dell'intima gioia degli scopritori - ne gata a Bacone - nomina Galilei, Klepero, Newton. E perchè non ricorda Bruno? Quanta non è la sua gioia dove saluta le comete come testimoni della sua filosofia, e parlando di Copernico, ag giunge qualche felicità essere toccata al secolo suo, quando dai 219 lidi dell'oceano germanico un grande astronomo sorse a con forto della sua filosofia. In quella gioia c'è — come ho detto— l’unità del pensiero logico col matematico, e nella medesimezza de' risultati c'è la cognatela tra la natura e il pensiero, la quale vuol essere riaffermata, supe rando da una parte il vecchio idealismo metafisico e dall'altra il positivismo empirico. Ed ora, dopo il metodo sperimentale, dobbiamo esaminare in Ga lilei il valore che egli dà alla conoscenza. III. Non è di piccolo momento questo esame; involge il massimo pro blema della filosofia ed è un punto importante della mente, e dirò, del carattere di Galilei. Si può formularlo così: Il metodo speri mentale condusse Galilei a quel relativismo filosofico che dà alla conoscenza un valore precario, cioè o relativo al soggetto pensante (sofistica) o relativo ad un certo tempo e luogo (empirismo)? In altre parole: per Galilei nulla di permanente, di assoluto, di uni versale entra nella conoscenza, o c'è invece delle conoscenze che per loro necessità intrinseca s' impongono a tutti gli uomini, e alla natura come agli uomini, e a Dio come alla natura? Ci sono— risponde il Pisano - e il fatto ci dice che sono, e ci dice che sono le conoscenze matematiche sian pure o applicate, perchè non mutano per variare di luogo e di tempo, e perchè tali si riscontrano nelle cose quali si trovano nella mente. La natura le impone, la mente le sugella, neppur Dio potrebbe negarle, ma o il sofista o il pazzo. L'affermazione è solenne, e bisogna lasciargli la parola. Quanto alla verità, egli dice di che ci danno cognizione le dimostrazioni matematiche, ella è l'istessa che conosce la sapienza divina. Nessun divario, dunque, in questo tra la sapienza divina e umana? Di vario di modo, egli dice, lo ammettiamo, perchè in Dio è sapienza intuitiva quella che nell'uomo è discorsiva; di numero pure, perchè Dio le sa tutte quelle verità, e l'uomo una parte; ma di necessità no: sono del pari necessarie per lui e per noi, e mille Demosteni e Aristotili e-voleva dire—mille Dei non potrebbero scemare la certezza di una sola di quelle. Partecipa di questa certezza la scienza della natura, le cui leggi sono matematiche. E il processo fu questo: Telesio affermò che il 220 libro della filosofia è la natura; Bruno aggiunse che quel libro è scritto in carattere assoluti: Galilei conchiuse che i caratteri sono matematici. Anche Cartesio disse come Galilei: Apud me omnia sunt ma thematice in natura; ma lo disse dopo e timidamente, essendoci questa differenza tra’due pensatori, che per Galilei le verità mate matiche leggibili nella natura hanno l'istesso valore per la mente sia divina o umaņa, e per Cartesio niente è limite alla onnipotenza di Dio, neppure il principio di contraddizione. Se lo disse davvero o per vivere tranquillo, specialmente dopo le persecuzioni fatte a Galilei, non - so; ma, certo, l'italiano lo a vanza di tempo e di fermezza. Delle altre scienze che non sono le naturali Galilei dubitò, perchè si sottraggono alle matematiche e l'uomo vi mette del suo. Le abbandonò al relativismo. Ma se tutto è evoluzione e tutto procede da natura, noi ben pos siamo affermare che i suoi Dialoghi delle Scienze Nuove saranno quasi prefazione di una Scienza Nuova intorno alla comune natura delle nazioni. Le teoriche sulla psico-fisi e sulla fisica sociale hanno assai allargato il campo di applicazione alle matematiche. Noi, è vero, non possiamo mutare le leggi naturali, ma possiamo forse mutare le leggi sociali e costruire a nostro talento le società umane? La storia non rientra ogni giorno più nelle leggi della natura e però della misura? La morale par certo la cosa più im ponderabile, ed è pure altrettanto graduale e necessaria nel suo processo che il suo moto si potrebbe dire uniformemente accelerato. Dal pensiero si traduce nella volontà, dall'azione alle istituzioni, e se rea, dal fastigio all ' imo (1 ). Signori, ho esaminato quelli che nella scienza di Galilei mi parevano i punti principali ed ho tentato liberare dagli equivoci volgari il metodo sperimentale. Non a pompa letteraria mi sono giovato di rapidi raffronti ma per delineare quello che fu il cervello più equilibrato di quanti al mondo furono scienziati. Le conse guenze scientifiche e morali di quella profonda rivoluzione intel lettuale io ve le ho segnate senza orgoglio nazionale e con pura coscienza di uomo. Era cosí alto il tema, così pieno di pensiero, di (1 ) Qui manca qualche pagina intorno all'applicazione delle matematiche ai fenomeni sociali e morali, non potuta trovare. 221 poesia, di storia, di gloria e di dolori che a me non che il tempo, mancò il volere di divagare. Abbasserei l'occhio da Telesio, da Co pernico, da Galilei per posarlo sulla politica? Farei allusioni, rim proveri, programmi? Mail monumento che divisate è mondiale; una sillaba aggiunta al tema macchierebbe la prima pietra: e, per rien trare nella mediocrità de ' Parlamenti, invidieremmo a noi questa breve fortuna che ci solleva a colloquio coi legislatori degli astri. Che sono i nostri codici, i nostri statuti, i disegni nostri, che durata hanno e che sapienza di fronte alle leggi onde Galilei sta biliva il ritmo dei cieli, Machiavelli la vicenda degli Stati, e Vico il corso dell'umanità? C'è qualcosa al di sopra dei codici ed è la pa rola dei fondatori delle religioni, che lasciano libri sacri e parlano ai millenarii. Pur viene il secolo che mette nella pagina più au tentica di quei libri il tarlo del pensiero. Ma qualcuno c'è stato che senza chiamarsi messia nè profeta misurò una parola a lettere di stelle, la pose nel firmamento, e nessuno la cancellerà. Come chia mate un uomo che vi trasmette un libro più duraturo di una bib bia? Alzate il monumento e non mi chiedete altro.  The principle of relativity states that it is im- possible to determine whether a system is at rest or moving at constant speed with respect to an inertial system by experiments internal to the system, i.e., there is no internal observation by which one can distinguish a system moving uniformly from one at rest. This principle played a key role in the defence of the heliocentric syst- em, as it made the movement of the Earth com- patible with everyday experience. According to common knowledge, the prin- ciple of relativity was first enunciated by Galileo Galilei (1564–1642; Figure 1) in 1632 in his Dialogo Sopra i Due Massimi Sistemi del Mondo (Dialogue Concerning the Two Chief World Syst- ems) (Galilei, 1953), using the metaphor known as ‘Galileo’s ship’: in a boat moving at constant speed, the mechanical phenomena can be described by the same laws holding on Earth. Many historical aspects of the birth of the rel- ativity principle have received little or scattered attention. In this short paper we put together some evidence showing that Giordano Bruno (1548–1600; Figure 2) largely anticipated Gal- ilei’s arguments on the relativity principle (Bruno, 1975). In addition, we briefly discuss Galilei’s silence about Bruno, and the con- nection between the lives and careers of the two scientists. Figure 1: A portrait of Galileo Galilei by Ottavio Leoni (en.wikipedia.org). Figure 2: An eighteenth century egrav- ing of Giordano Bruno (http://www. the history blog . com / wp - content / up- loads/2012/02/bruno-giordano.jpg).   Page 241     Alessandro De Angelis and Catarina Espirito Santo Giordano Bruno and the Principle of Relativity  2 GALILEI AND THE PRINCIPLE OF RELATIVITY The Dialogo Sopra i Due Massimi Sistemi del Mondo is the source usually quoted for the enun- ciation of the principle of relativity by Galileo Galilei. However, its publication in 1632 was certainly not a surprise, as Galilei had expres- sed his views much earlier, in particular when lecturing at the University of Padova from 1592 to 1610. Some aspects of the evolution of Galilei’s ideas, from the Trattato della Sfera ... (D’Aviso, 1656) in which the Earth is still placed at the centre of the Universe, towards the Dia- logo, and passing through his heliocentric cor- respondence with Kepler from 1597 onwards (Galilei, 1890 –1907), are examined, for ex- ample, by Barbour (2001), Crombie (1996), Cla- velin (1968), Giannetto (2006), Martins (1986) and Wallace (1981; 1984). In February 1616, the Roman Inquisition condemned the theory by Nicolaus Copernicus (1473–1543) as being foolish and absurd in philosophy. One month before, the inquisitor Monsignor Francesco Ingoli (1578 –1649) ad- dressed Galilei in the essay Disputation Con- cerning the Location and Rest of Earth Against the System of Copernicus (Ingoli, 1616). This letter listed both scientific and theological arg- uments against Copernicanism. Galilei only responded in 1624, and in his lengthy reply he introduced an early version of the ‘Galileo’s ship’ metaphor, and discussed the experiment of dropping a stone from the top of the mast. Both arguments, as we shall see, had previously been raised by Bruno, and later were used again by Galilei, although with small differences, in the Dialogo. In the Dialogo Sopra i Due Massimi Sistemi del Mondo, Galilei discusses the arguments then current against the idea that the Earth moves. The book is a fictional dialogue be- tween three characters. Two of these, Salviati and Sagredo, refer to figures in the ok that disappeared a few years after the publication of the book. Salviati plays the role of the defender of the Copernican theory, putting forward Gali- lei’s point of view. The second character, Sa- gredo, is a Venetian aristocrat who is educated and liberal, and he is willing to accept new ideas. Thus, he acts as a moderator between Salviati and the third character, Simplicio, who fiercelysupportsAristotle. Thenameofthislast character (reminiscent of ‘simple-minded’ in Ital- ian) is in itself a clear indication of Galilean dia- lectics, which are designed to destroy oppon- ents. Despite being a famous commentator of Aristotle, Simplicio manifests himself with an embarrassing simplicity of spirit. Galilei uses Salviati and Simplicio as spokespersons for the two clashing world views; Sagredo represents the discreet reader, the steward of science, the one to whom the book is addressed, and he intervenes during the discussions, asking for clarification, contributing conversational topics and acting like a science enthusiast. On the second day, Galilei’s dialogue con- siders Ingoli’s arguments against the idea that the Earth moves. One of these is that if the Earth is spinning on its axis, then we would all be moving eastward at hundreds of miles per hour, so a ball dropped from a tower would land west of the tower that in the meantime would have moved a certain distance to the east- wards. Similarly, the argument goes that a cannonball shot eastwards would fall closer to the cannon compared to a ball shot to the west since the cannon moving east would partly catch up with the ball. To counter such arguments Galilei propos- es through the words of Salviati a gedanken- experiment: to examine the laws of mechanics in a ship moving at a constant speed. Salviati claims that there is no internal observation which allows them to distinguish between a smoothly-moving system and one at rest. So two systems moving without acceleration are equivalent, and non-accelerated motion is rel- ative: Salviati – Shut yourself up with some friend in the main cabin below decks on some large ship, and have with you there some flies, but- terflies, and other small flying animals. Have a large bowl of water with some fish in it; hang up a bottle that empties drop by drop into a widevesselbeneathit. Withtheshipstanding still, observe carefully how the little animals fly with equal speed to all sides of the cabin. The fish swim indifferently in all directions; the drops fall into the vessel beneath; and, in throwing something to your friend, you need throw it no more strongly in one direction than another, the distances being equal; jumping with your feet together, you pass equal spaces in every direction. When you have observed all these things carefully (though doubtless when the ship is standing still everything must happen in this way), have the ship proceed with any speed you like, so long as the motion is uniform and not fluctuating this way and that. You will discover not the least change in all the effects named, nor could you tell from any of them whether the ship was moving or standing still. In jumping, you will pass on the floor the same spaces as before, nor will you make larger jumps toward the stern than toward the prow even though the ship is moving quite rapidly, despite the fact that during the time that you are in the air the floor under you will be going in a direction opposite to your jump. In throwing something to your companion, you will need no more force to get it to him whether he is in the direction of the bow or the stern, with yourself situated op- posite. The droplets will fall as before into the Page 242     Alessandro De Angelis and Catarina Espirito Santo Giordano Bruno and the Principle of Relativity  vessel beneath without dropping toward the stern, although while the drops are in the air the ship runs many spans. The fish in their water will swim toward the front of their bowl with no more effort than toward the back, and will go with equal ease to bait placed any- where around the edges of the bowl. Finally the butterflies and flies will continue their flights indifferently toward every side, nor will it ever happen that they are concentrated toward the stern, as if tired out from keeping up with the course of the ship, from which they will have been separated during long intervals by keeping themselves in the air. And if smoke is made by burning some incense, it will be seen going up in the form of a little cloud, remaining still and moving no more toward one side than the other. The cause of all these correspondences of effects is the fact that the ship’s motion is common to all the things contained in it, and to the air also. That is why I said you should be below decks; for if this took place above in the open air, which would not follow the course of the ship, more or less noticeable differences would be seen in some of the effects noted. (Galilei, 1953: 217). Note that Galilei does not state that the Earth is moving, but that the motion of the Earth and the motion of the Sun cannot be distinguished (hence the name ‘relativity’): There is one motion which is most general and supreme over all, and it is that by which the Sun, Moon, and all other planets and fixed stars – in a word, the whole universe, the Earth alone excepted – appear to be moved as a unit from East to West in the space of twenty-four hours. This, in so far as first appearances are concerned, may just as logically belong to the Earth alone as to the rest of the Universe, since the same appear- ances would prevail as much in the one sit- uation as in the other. (Galilei, 1953: 132). 3 RELATIVITY AND CELESTIAL MOTIONS BEFORE COPERNICUS The possibility that the Earth moves had been discussed several times, in particular by the Greeks, mostly as a hypothesis to be rejected. Also an annual motion of the Earth around the Sun had been considered by Aristarchus of Samos (c. 310 – c. 230 BC). Later, some medi- eval authors discussed the possibility of the Earth's daily rotation. The first was probably Jean Buridan (c. 1300–1361; Figure 3), one of the ‘doctores parisienses’—a group of profes- sors at the University of Paris in the fourteenth century, including notably Nicole Oresme. Buridan’s example of the ship, which was lat- er used by Oresme, Bruno and Galilei, is con- tained in Book 2 of his commentary about Aris- totle’s On the Heavens (1971): It should be known that many people have held as probable that it is not contradictory to appearances for the Earth to be moved circu- larly in the aforesaid manner, and that on any given natural day it makes a complete rotation from west to east by returning again to the west – that is, if some part of the Earth were designated [as the part to observe]. Then it is necessary to posit that the stellar sphere would be at rest, and then night and day would result through such a motion of the Earth, so that motion of the Earth would be a diurnal motion. The following is an example of this: if anyone is moved in a ship and imagines that he is at rest, then, should he see another ship which is truly at rest, it will appear to him that the other ship is moved. This is so because his eye would be completely in the same relationship to the other ship regardless of whether his own ship is at rest and the other moved, or the contrary situation prevailed. And so we also posit that the sphere of the Sun is totally at rest and the Earth in carrying us would be rotated. Since, however, we imag- ine we are at rest, just as the man on the ship Figure 3: Jean Buridan (www.buscabio- grafias . com / biografia / verDetalle / 576 / Jean %Buridan). moving swiftly does not perceive his own mo- tion nor that of the ship, then it is certain that the Sun would appear to us to rise and set, just as it does when it is moved and we are at rest. (Buridan, 1942: Book 2, Question 22). Here we agree with Barbour (2001), that what Buridan is referring to is kinematic relativity. To Barbour, ... we have [here] a clear statement of the principle of relativity, certainly not the first in the history of the natural philosophy of motion but perhaps expressed with more cogency than ever before. The problem of motion is beginning to become acute. We must ask our- selves: is the relativity to which Buridan refers kinematic relativity or Galilean relativity? There is no doubt that it is in the first place kinematic; for Buridan is clearly concerned with the condi- tions under which motion of one particular body can be deduced by observation of other bod- ies. (Barbour, 2001: 203).  Page 243     Alessandro De Angelis and Catarina Espirito Santo Giordano Bruno and the Principle of Relativity  Later, Buridan (1942) writes: But the last appearance which Aristotle notes is more demonstrative in the question at hand. This is that an arrow projected from a bow directly upward falls to the same spot on the Earth from which it was projected. This would not be so if the Earth were moved with such velocity. Rather, before the arrow falls, the part of the Earth from which the arrow was projected would be a league’s distance away. But still supporters would respond that it happens so because the air that is moved with the Earth carries the arrow, although the arrow appears to us to be moved simply in a straight line motion because it is being carried along Figure 4: A miniature portrait of Nicole Oresme included in his Traité de la sphère. Aristotle, Du ciel et du monde (n.d.) (en.wikipedia.org). with us. Therefore, we do not perceive that motion by which it is carried with the air. Buridan already expresses some concerns about the dynamics involved, but his conclusion is that ... the violent impetus of the arrow in ascend- ing would resist the lateral motion of the air so that it would not be moved as much as the air. This is similar to the occasion when the air is moved by a high wind. For then an arrow pro- jected upward is not moved as much laterally as the wind is moved, although it would be moved somewhat. (ibid.). Thus, the theory of impetus is not pushed to the limit in which one would identify it with the prin- ciple of inertia, nor with a dynamical concept of relativity. A further step was implicitly taken a few years later by Nicole Oresme (c. 1320 –1382; Figure 4). Oresme first states that no observation can disprove that the Earth is moving: ... one could not demonstrate the contrary by any experience ... I assume that local motion can be sensibly perceived only if one body appears to have a different position with re- spect to another. And thus, if a man is in a ship called a which moves very smoothly, irrespective if rapidly or slowly, and this man sees nothing except another ship called b, moving exactly in the same way as the boat a in which he is, I say that it will seem to this person that neither ship is moving. (Oresme, 1377; our English translation). Oresme also provides an argument against Buridan’s interpretation of the example of the arrow (or stone in the original by Aristotle) thrown upwards, introducing the principle of composi- tion of movements: ... one might say that the arrow thrown up- wards is moved eastward very swiftly with the air through which it passes, with all the mass of the lower part of the world mentioned above, which moves with a diurnal movement; and for this reason the arrow falls back to the place on the Earth from which it left. And this appears possible by analogy, since if a man were on a ship moving eastwards very swiftly without being aware of his movement, and he drew his hand downwards, describing a straight line along the mast of the ship, it would seem to him that his hand was moved straight down. Following this opinion, it seems to us that the same applies to the arrow moving straight down or straight up. Inside the ship moving in this way, one can have horizontal, oblique, straight up, straight down, and any kind of movement, and all look like if the ship were at rest. And if a man walks westwards in the boat slower than the boat is moving eastwards, it will seem to him that he is moving west while he is going east. (ibid.). Also, Nicolaus Cusanus (1401–1461) stated later, without going into detail, that the motion of a ship could not be distinguished from rest on the basis of experience, but some different argu- ments need to be invoked—and the same ap- plies to the Earth, the Sun, or another star (Cu- sanus, 1985). All this happened before Copernicus: a dis- cussion of how things could be, not so much abouthowthingsreallyare. Thisviewpointwould change after Copernicus. 4 GIORDANO BRUNO AND THE PRINCIPLE OF RELATIVITY In April 1583, forty years after the publication of the book by Copernicus and nine years before  Page 244     Alessandro De Angelis and Catarina Espirito Santo Giordano Bruno and the Principle of Relativity  the 28-year old Galilei was called to the Uni- versity of Padova, Bruno went to England and lectured in Oxford, unsuccessfully looking for a teaching position there. Still, the English visit was a fruitful one, for during that time Bruno completed and published some of his most important works, the six ‘Italian Dialogues’, including the cosmological work La Cena de le Ceneri (The Ash Wednesday Supper, 1584) (see Bruno, 1975). This latter book consists of five dialogues between Theophilus, a disciple who exposes Bruno’s theories; Smitho, a character who was probably real but is difficult to identify, possibly one of Bruno’s English friends (perhaps John Smith or the poet William Smith)—the English- man has simple arguments, but he has good common sense and is free of prejudice; Pru- dencio, a pedantic character; and Frulla, also a fictional character who, as the name in Italian suggests, embodies a comic figure, provocative and somewhat tedious, with a propensity to- wards stupid arguments. In the third dialogue, the four mostly com- ment on discussions heard at a supper attend- ed by Theophilus in which Bruno—called in the text ‘il Nolano’ (the Nolan), because he was born in Nola near Naples—was arguing in part- icular with Dr Torquato and Dr Nundinio, re- presenting the Oxonian faculty. Bruno starts by discussing the argument relating to the air, winds and the movement of clouds, and he largely uses the fact that the air is dragged by the Earth: Theophilus ... If the Earth were carried in the direction called East, it would be necessary that the clouds in the air should always appear moving toward west, because of the extremely rapid and fast motion of that globe, which in the span of twenty-four hours must complete such a great revolution. To that the Nolan replied that this air through which the clouds and winds move are parts of the Earth, be- cause he wants (as the proposition demands) to mean under the name of Earth the whole machinery and the entire animated part, which consists of dissimilar parts; so that the rivers, the rocks, the seas, the whole vaporous and turbulent air, which is enclosed within the high- est mountains, should belong to the Earth as its members, just as the air does in the lungs and in other cavities of animals by which they breathe, widen their arteries, and other similar effects necessary for life are performed. The clouds, too, move through happenings in the body of the Earth and are based in its bowels as are the waters ... Perhaps this is what Plato meant when he said that we inhabit the con- cavities and obscure parts of the Earth, and that we have the same relation with respect to animals that live above the Earth, as do in re- spect to us the fish that live in thicker humid- ity. This means that in a way the vaporous air is water, and that the pure air which contains the happier animals is above the Earth, where, just as this Amphitrit [ocean]1 is water for us, this air of ours is water for them. This is how one may respond to the argument referred to by Nundinio; just as the sea is not on the surface, but in the bowels of the Earth, and just as the liver, this source of fluids, is within us, that turbulent air is not outside, but is as if it were in the lungs of animals. (Bruno, 1975: 117). The Dialogue then moves to discussing the motion of projectiles, and Bruno starts by ex- plaining the Aristotelian objection to the stone thrown upwards: Smitho – You have satisfied me most suffic- iently, and you have excellently opened many secrets of nature which lay hidden under that key. Thus, you have replied to the argument taken from winds and clouds; there remains yet the reply to the other argument which Aristotle submitted in the second book of On the Heavens2 where he states that it would be impossible that a stone thrown high up could come down along the same perpendicular straight line, but that it would be necessary that the exceedingly fast motion of the Earth should leave it far behind toward the West. Therefore, given this projection back onto the Earth, it is necessary that with its motion there should come a change in all relations of straightness and obliquity; just as there is a difference between the motion of the ship and the motion of those things that are on the ship which if not true it would follow that when the ship moves across the sea one could never draw something along a straight line from one of its corners to the other, and that it would not be possible for one to make a jump and return with his feet to the point from where he took off. (Bruno, 1975: 121). In Theophilus’ speech, Bruno then gives the following reply (in reference to the ship shown in Figure 5): Theophilus – With the Earth move ... all things that are on the Earth. If, therefore, from a point outside the Earth something were thrown upon the Earth, it would lose, because of the latter’s motion, its straightness as would be seen on the ship AB moving along a river, if someone on point C of the riverbank were to throw a stone along a straight line, and would see the stone miss its target by the amount of the velocity of the ship’s motion. But if some- one were placed high on the mast of that ship, move as it may however fast, he would not miss his target at all, so that the stone or some other heavy thing thrown downward would not come along a straight line from the point E which is at the top of the mast, or cage, to the point D which is at the bottom of the mast, or at some point in the bowels and body of the ship. Thus, if from the point D to the point E someone who is inside the ship would throw a stone straight up, it would return to the bottom along the same line however far the ship mov- Page 245     Alessandro De Angelis and Catarina Espirito Santo Giordano Bruno and the Principle of Relativity  ed, provided it was not subject to any pitch and roll. (Bruno, 1975: 121). He then continues with the statement that the movement of the ship is irrelevant for the events occurring within the ship, and he explains the reasons for this: If there are two, of which one is inside the ship that moves and the other outside it, of which both one and the other have their hands at the same point of the air, and if at the same place and time one and the other let a stone fall without giving it any push, the stone of the former would, without a moment’s loss and without deviating from its path, go to the prefixed place, and that of the second would find itself carried backward. This is due to nothing else except to the fact that the stone which leaves the hand of the one supported by the ship, and consequently moves with its mo- tion, has such an impressed virtue, which is not had by the other who is outside the ship, Figure 5: The ship referred to in the dialogue; note that the letters are missing (math.dartmouth.edu). because the stones have the same gravity, the same intervening air, if they depart (if this is possible) from the same point, and arc given the same thrust. From that difference we cannot draw any other explanation except that the things which are affixed to the ship, and belong to it in some such way, move with it: and the stone carries with itself the virtue of the mover which moves with the ship. The other does not have the said participation. From this it can evidently be seen that the ability to go straight comes not from the point of motion where one starts, nor from the point where one ends, nor from the medium through which one moves, but from the efficiency of the originally impressed virtue, on which depends the whole differ- ence. And it seems to me that enough consid- eration was given to the propositions of Nun- dinio. (Bruno, 1975: 123). The experiments carried out in the ship are thus not influenced by its movement because all the bodies in the ship take part in that move- ment, regardless of whether they are in contact with the ship or not. This is due to the ‘virtue’ they have, which remains during the motion, after the carrier abandons them. Bruno thus clearly expresses the concept of inertia, using the word ‘virtu`’, in Italian meaning ‘quality’, which is carried by the bodies moving with the ship—and with the Earth. Bruno’s arguments certainly constitute a step towards the principle of inertia. 5 DISCUSSION AND CONCLUDING REMARKS We have seen that in La Cena de le Ceneri Giordano Bruno anticipates to a great extent the arguments of Galileo Galilei on the principle of relativity. In fact, his explanation contains all of the fundamental elements of the principle. The idea that the only movement observable by the subject is the one in which he does not take part, was presented earlier by Jean Buridan and Nicole Oresme, together with the notion of the composition of movements, which was alien to Aristotelian mechanics (see Barbour, 2001). Sim- ilar arguments were used by Nicholas Copern- icus (1543). The main missing ingredient was the idea of inertia, which explains the fact that projectiles move along with the Earth. In fact, while there is a continuous line between Buri- dan, Oresme, Copernicus, Bruno and Galilei, the arguments of Bruno on the impossibility of detecting absolute motion by phenomena in a ship constitute a significant step towards the principle of inertia and providing a dynamical context for relativity. What is new in Bruno, and what brings him almost exactly to where Galilei stood, is a clear understanding of the concept on inertia. The arguments and metaphors used in dis- cussions concerning the world systems were common to different authors, and were largely derived from Aristotle, Ptolemy and their com- mentators. Often they were used without ref- erencing, and sometimes they were attributed to the wrong source. For example, in his On the Heavens, Aristotle uses as experimental argu- ment the one about the stone that is sent upwards. In their comment on this work, Bur- idan and Oresme used a modified version of this experiment in which an arrow is sent upwards in a ship—although this was possibly introduced by an earlier unidentified commentator/translator. Nevertheless, the description by Galilei of exact- ly the same ship experiment that Bruno used in the Cena makes it very likely that Galilei knew this work. The use of the dialogue form with a similar choice of characters can also be seen as a possible sign that Bruno influenced Galilei.  Page 246     Alessandro De Angelis and Catarina Espirito Santo Giordano Bruno and the Principle of Relativity  However, Galilei never mentions Bruno in his works, and in particular there is no reference to him in Galilei’s large corpus of letters, even though he references the ‘doctores parisienses’ in his MS 46 (Galilei, c. 1584),3 a 110-page long manuscript containing physical speculations bas- ed upon Aristotle’s On the Heavens. Some authors (e.g. Clavelin, 1968) have commented on Galilei’s silence about Bruno, putting forward reasons of prudence, but as pointed out by Mar- tins (1986) this can hardly explain the absence of any mention also in his personal correspond- ence. Furthermore, although Galilei himself never mentions Bruno’s name in his personal notes and letters, several of his correspondents do mention the Nolan. In a letter to Galilei dating to 1610, Martin Hasdale tells him that Kepler had expressed his admiration for Galilei, although he regretted that in his works the latter failed to mention Copernicus, Giordano Bruno and sever- al Germans who had anticipated such discov- eries—including Kepler himself: This morning I had the opportunity to make friends with Kepler ... I asked what he likes about that book of yourself and he replied that since many years he exchanges letters with you, and that he is really convinced that he does not know anybody better than you in this profession ... As for this book, he says that you really showed the divinity of your genius; but he was somehow uneasy, not only for the German nation, but also for your own, since you did not mention those authors who intro- duced the subject and gave you the opportun- ity to investigate what you found now, naming among these Giordano Bruno among the Ital- ians, and Copernicus, and himself. Thus, we can say that Galileo Galilei was probably aware of Giordano Bruno’s work on the Copernican system. When Galilei arrived in Padova in 1592 it is also possible that the two scientists met, because Bruno was a guest of the nobleman Giovanni Mocenigo in Venice at the time and Galilei shared his time between Padova and Venice. In 1591, Bruno had unsuc- cessfully applied for the Chair of Mathematics that was assigned to Galilei one year later. Although it might be impossible to prove that the two astronomers met, it is hard to believe, given the motivations and characters of the two men and the circumstances of their lives during those years, as well as the small size of the Italian scientific community in those days, that they failed to discuss their respective arguments con- cerning the defence of the Copernican system. 6 NOTES 1. Amphitrite was in Greek mythology the wife of Poseidon, and therefore the Goddess of the Sea. 2. See Aristotle (1971: Section 296b). 3. Although Antonio Favaro, the Curator of the National Edition of Galilei’s works, dates it to 1584, Crombie (1996) and Wallace (1981; 1984) prefer a date of around 1590. 7 ACKNOWLEDGEMENTS We wish to thank Luisa Bonolis, Alessandro Bettini, Alessandro Pascolini, Giulio Peruzzi and Antonio Saggion for useful suggestions, and the anonymous referees for directing us to some important aspects that we neglected to mention in the first draft of this paper. 8 REFERENCES Aristotle, 1971. On the Heavens. Cambridge (Mass.), Harvard University Press (Loeb Classic Greek Lib- rary English translation of the c. 350 BC Greek original). Barbour, J., 2001. The Discovery of Dynamics, Ox- ford, Oxford University Press. Bruno, G., 1975. The Ash Wednesday Supper. The Hague, Mouton (English translation by S.L. Jaki of the 1584 Italian original). Buridan, J., 1942. Questions on Aristotle‟s On the Heavens. Cambridge (Mass.), Medieval Academy of America (English translation by E.A. Moody of the c. 1340 Latin original). Clavelin, M., 1968. Galileo‟s Natural Philosophy. Paris, Colin (in French). Copernicus, N., 1543. On the Revolutions of the Heavenly Spheres. Nuremberg, Johannes Petreius (in Latin). Crombie, A.G., 1996. The History of Science from Augustine to Galileo. New York, Dover. Cusanus, N., 1985. On Learned Ignorance. Minne- apolis, The Arthur J. Banning Press (English trans- lation by J. Hopkins of the 1440 Latin original). D’Aviso, U., 1656. Treatise on the Sphere of Galileo Galilei. Rome, N.A. Tinassi (apparently written in Padova in 1606, in Latin). Galilei, G., c. 1584. MS 46. In Collezione Nazionale Galileo della Biblioteca Nazionale di Firenze (in Latin). Galilei, G., 1890–1907. Carteggio. National Edition of the Works of Galileo Galilei, Volumes 10–18. Flor- ence, G. Barbera (in Italian). Galilei, G., 1953. Dialogue Concerning the Two Chief World Systems. Berkeley, University of California Press (English translation by Stillman Drake of the 1632 Italian original). Giannetto, E., 2006. Bruno and Einstein. Nuova Civiltà delle Macchine, 24, 107–137 (in Italian). Hasdale, M., 1610. Letter to Galileo Galilei, dated 15 April. In Galilei, 1890–1907, Volume 10, 314–315. Ingoli, F., 1616. Disputation Concerning the Location and Rest of Earth Against the System of Coper- nicus. Rome (English translation by C.M. Graney of the Latin original at http://arxiv.org/abs/1211.4244). Martins, R. de A., 1986. Galileo and the principle of relativity. Cadernos de História e Filosofia da Ciência, 9, 69–86 (in Portuguese). Oresme, N., 1377. Le livre du Ciel et du Monde. Book II, Chapter 25 (manuscript). Paris, National Library. Oresme, N., n.d. Traité de la sphère. Aristote, Du ciel et du monde. In the National Library, Paris, fonds français 565, fol. 1r. Wallace, W.A., 1981. Prelude to Galileo: Essays on Page 247     Alessandro De Angelis and Catarina Espirito Santo Giordano Bruno and the Principle of Relativity  Medieval and Sixteenth-Century Sources of Galileo‟s Thought. Dordrecht, Reidel. Wallace, W.A., 1984. Galileo and His Sources: Heri- tage of the Collegio Romano in Galileo‟s Science. Princeton, Princeton University Press.  4 Volgareelatino nel carteggio galileiano   Sommario 4.1 Galileo epistolografo: volgare e latino. – 4.2 Un confronto con Descartes e Mersenne. – 4.3 Le lingue dei corrispondenti. – 4.4 Le lettere latine di Galileo. 4.1 Galileo epistolografo: volgare e latino Per le consuetudini della respublica litterarum lo scambio epistolare europeo riveste un ruolo importantissimo, anche in considerazione della censura, in quanto «la lettre n’a pas besoin d’imprimatur ni de ‘privilège’» (Fattori in Armogathe, Belgioioso, Vinti 1999, 52).1 Non esistendo ancora i periodici scientifici, le lettere svolgevano anche tale funzione. Allievi e simpatizzanti, protettori, principi e cardinali, eruditi ita- liani e stranieri, colleghi ed ecclesiastici, artisti e letterati, amici e familiari: il carteggio galileiano comprende tutto questo.2 I destinatari di Galileo sono per lo più in Italia, ma non mancano corrispondenti stranieri, specialmente in Francia (Parigi e Lione), in Baviera, a Praga e nei Paesi Bassi: «Per quanto la giurisdizione del 1 Sulla respublica litterarum e la corrispondenza tra i savants cf. Fumaroli 1988; Bots, Waquet 1994 (in particolare i saggi di Johns, Fumaroli, Waquet, Frijhoff); Waquet 1998; Armogathe, Belgioioso, Vinti 1999 (in particolare l’intervento di Marta Fattori); Jau- mann 2001; Bots, Waquet 2005; Fumaroli 2015. 2 Breve, ma puntualissimo, Bucciantini in Irace 2011, 344-9; si veda anche Garcia 2004, 257-65. All’epistolario galileiano è dedicato Ardissino 2010; la studiosa ha cura- to un’antologia delle lettere italiane dello scienziato (Galilei 2008), con introduzione di Battistini (L’umanità di uno scienziato attraverso le sue lettere). Sul registro polemico nell’epistolario si veda Ricci 2015.   Filologie medievali e moderne 23 | 19 10.30687/978-88-6969-450-9/004 57  Bianchi 4 • Volgare e latino nel carteggio galileiano suo epistolario sia di estensione europea, Galileo si rivolge soprat- tutto alla classe dirigente degli Stati italiani, laica ed ecclesiastica» (Battistini in Galilei 2008, 13).3 In che lingua scriveva Galileo le sue lettere? Ci si aspetterebbe che, nonostante la programmatica scelta del volgare per le sue opere, egli utilizzasse nella corrispondenza con gli stranieri il latino, lingua franca dell’aristocrazia del sapere. Una verifica integrale nei volumi dell’EN riserva invece la sorpresa di una situazione affatto diversa, che riportiamo in tabella:   Vol. EN 10 11 12 13 14 15 16 17 18 18suppl. 20 suppl. 1 20 suppl. 2 Suppl. 2015 TOT. Anni Lettere di cui scritte in latino da Galileo 1574-1610 89 3 1611-13 42 0 1614-19 47 0 1620-28 51 1 1629-32 49 1 1633 18 0 1634-36 50 2 1637-38 33 1 1639-42 49 1 2 0 2 0 3 0 10 0 445 9 2 a Kepler (4 agosto 1597, EN 10, 67; 19 agosto 1610, EN 10, 421) 1 a Brengger (8 novembre 1610, EN 10, 466) a Kepler (28 agosto 1627, EN 13, 374) a Fortescue [Aggiunti] (febbraio 1630, EN 14, 83) 1 a Bernegger [Aggiunti] (16 luglio 1634, EN 16, 111) 1 agli Stati generali dei Paesi Bassi (agosto 1636, EN 16, 468-9) a Boulliau(d) (1 gennaio 1638, EN 17, 245) a Boulliau(d) (30 dicembre 1639, EN 18, 134)                 3 Cf. anche Garcia 2004, 257: «l’espace de cette république semble se réduire, dans son esprit, à la seule Italie – c’est-à-dire aux trois villes de la Péninsule les plus actives culturellement, Rome, Venise et Florence». Filologie medievali e moderne 23 | 19 58 Galileo in Europa, 57-70   Bianchi 4 • Volgare e latino nel carteggio galileiano Su un totale di 445 lettere – manteniamo i criteri di Favaro, che in- clude anche le epistole-trattato, quali le tre sulle macchie solari, e le dedicatorie – sono latine soltanto 9 (il 2,02 %). Si tratta delle lettere superstiti, ma, anche supponendo che la sorte ne abbia distrutto un numero maggiore in latino che in italiano, i dati sono inequivocabili. Sappiamo poi che di quelle 9, 2 sono state composte da Niccolò Ag- giunti su commissione dello scienziato (v. infra). Ne restano dunque 7. 4.2 Un confronto con Descartes e Mersenne Il confronto con Descartes è eloquente. Charles Adam ricostruisce che nel carteggio superstite «sur un total de 498 lettres, 63 sont en latin» (Adam 1910, 22), cioè il 12,65%. Del resto la familiarità del fi- losofo con il latino era profonda: Il apprit le latin à fond, non seulement comme une langue morte, mais comme une langue vivante qu’il pourrait avoir à parler et à écrire. Il la parla, en effet, quelquefois en Hollande, et même en France à une soutenance de thèses; et il l’écrivit dans trois ou quatre de ses ouvrages et un certain nombre de lettres. Quelques- unes de ses notes mêmes, rédigées pour lui seul et à la hâte, sont en latin. Il maniait cette langue aussi bien et souvent mieux que le français, le plus souvent avec vigueur et sobriété, parfois aus- si pourtant avec quelques gentillesses de style qui rappellent les leçons des bons Pères; lui-même avoue qu’il a fait des vers, sans doute des vers latins, et une fois avec Balzac il se piqua de bel esprit et lui écrivit dans un latin élégant ‘à la Pétrone’. (Adam 1910, 22)4 Il latino fu ancor più abituale per Marin Mersenne (1588-1648), che anche in quanto ecclesiastico (ordine dei Minimi) era più legato alla lingua antica: su 308 epistole da lui redatte e conservateci sono la- tine il 38, 64% (119), in francese le restanti.5 Sarebbe interessante uno studio dell’uso linguistico in tale epistolario che analizzi il tipo di missiva, la provenienza e la formazione dei destinatari. Accenniamo qui soltanto al fatto che Mersenne, a cui furono rivolte alcune lette- 4 Al carteggio di Descartes è dedicato l’ampio volume di Armogathe, Belgioioso, Vinti 1999; vi si veda in particolare il saggio di Torrini che compara l’epistolario di Descartes e di Galileo: per il primo il carteggio fu un luogo privilegiato di discussione filosofica, ben più che per Galileo. 5 Conteggio nostro dai 17 volumi della corrispondenza dell’erudito (Mersenne 1945- 1988). Divergono leggermente dalla nostra la somma indicata nel vol. 17 a p. 107 (330) e quella che si ricava dall’indice delle missive a pp. 145-9 (317). La lettera nr. 1691 a Baliani ci è tradita in italiano da una stampa secentesca delle opere di questi, ma si tratta probabilmente di una traduzione dall’originale latino o francese (cf. il commen- to di de Waard, Beaulieu). Filologie medievali e moderne 23 | 19 59 Galileo in Europa, 57-70     Bianchi 4 • Volgare e latino nel carteggio galileiano re in italiano, non rispose mai in quella lingua; i curatori del carteg- gio affermano, seccamente, che «Mersenne savait très mal l’italien» (commento alla lettera nr. 1691). Troppo seccamente, perché egli comprendeva in verità assai bene l’italiano, come dimostra la tradu- zione-rielaborazione di pagine galileiane (Les Méchaniques de Gali- lée, Les nouvelles pensées de Galilée).6 Interessante sarebbe valutare affermazioni di comprensione o incomprensione di una lingua stra- niera come quelle di Giovanni Battista Baliani, in cui la grafia sem- bra giocare un grande ruolo. Per esempio, ha ricevuto da Mersenne una lettera «in lingua francese, ma tanto chiara ché io l’ho intesa leg- gendola correntemente» (missiva nr. 1429), cioè è riuscito a legger- la nonostante fosse in francese e nonostante la grafia. Un mese pri- ma aveva spiegato al corrispondente: «Rispetto alla lingua, in che V. P. mi deve scrivere, confesso, che mi è più caro che mi scriva in lat- tino, che già hò preso un poco la pratica del suo carattere. Il france- se però intendo meno, ancorche intenda assai bene i libri stampati» (missiva nr. 1417; in nota i curatori ricordano che Torricelli aveva lo stesso problema). Galileo non leggeva il francese.7 Contrariamente a ciò che era consuetudine e norma nella respublica litterarum, Galileo fece uso parchissimo del latino per l’epistolografia. Anche se dobbiamo precisare che era ormai scontata a quell’altezza cronologica, almeno in Francia e Italia, l’utilizzo della lingua mater- na per comunicare con connazionali,8 e il carteggio stricto sensu ga- lileiano – lettere composte o ricevute dallo scienziato – non presenta quasi eccezioni.9 Anche tra le lettere che nell’EN fanno corona all’epi- stolario galileiano propriamente detto, ma che fornendo informazioni sullo scienziato furono raccolte da Favaro, sempre o quasi gli italia- ni scrivono a un connazionale (foss’anche il papa) in italiano. Analo- gamente si comportano i dotti francesi (pur con qualche eccezione): Mersenne, Fermat, Descartes si scrivono in francese. Ricorrono in- vece non infrequentemente al latino i dotti tedeschi per comunicare tra loro: nell’EN si veda Scheiner che scrive a Kircher, e Bernegger a tutti i propri connazionali.10 Analogamente, l’olandese Hugo de Gro- 6 Sul rapporto Mersenne-Galileo (e Descartes-Galileo) si veda almeno Bucciantini 2009. 7 Cf. anche Favaro 1983, 1392. 8 Pantin 1996, 58: «À la fin de la Renaissance, les langues vernaculaires (surtout s’il s’agissait du français et de l’italien) étaient devenues le premier moyen de s’exprimer et même de raisonner (dans la correspondances scientifiques du début du XVIIe siècle les allemands sont souvent presque les seuls à parler latin)». Di diverso parere Battis- tini in Galilei 2008, 13: «pur essendo ancora il latino la lingua abituale nel trattare ma- terie scientifiche ed erudite, anche tra connazionali». 9 Paolo Maria Cittadini, che si firma teologo dello Studio bolognese, si rivolge in la- tino a Galileo (EN 10, 389). 10 Per un’indagine sulla corrispondenza dei dotti tedeschi nel Cinquecento si veda Lefèbvre 1980. Cf. anche Leonhardt 2011, 213. Filologie medievali e moderne 23 | 19 60 Galileo in Europa, 57-70     Bianchi 4 • Volgare e latino nel carteggio galileiano ot (Grotius) scrive in latino a Maarten van den Hove (Martino Orten- sio nell’EN) e a Gerhard Voss (Vossius). 4.3 Le lingue dei corrispondenti Galileo non si allinea al costume della comunicazione latina con stra- nieri, mostrando una forte tendenza a evitare la lingua antica.11 D’al- tra parte, l’adozione dell’italiano da parte di stranieri testimonia la fortuna della nostra lingua e il suo prestigio.12 Galileo instaura una comunicazione italiana paritetica – nel senso che entrambi i corri- spondenti scrivono in italiano – non solo con Clavius e Faber, che vi- vevano stabilmente in Italia da molti anni (si noti però che in alme- no due lettere il principe Cesi aveva scritto al secondo in latino), ma anche con Markus Welser,13 l’ingegnere militare Antoine de Ville (al- lora in servizio della Serenissima),14 Carcavy, Peiresc, Reael, Lowijs Elzevier,15 Ladislao IV di Polonia, Massimiliano di Baviera, Jean de Beaugrand. L’effettiva conoscenza dell’italiano da parte dei corri- spondenti non si può misurare solo dalle missive, per alcune delle quali va postulato l’intervento di un madrelingua (certamente nel caso di principi e regnanti, ma anche le lettere di Reael sono troppo ben scritte per non supporre almeno un correttore).16 Significativo il caso di François de Noailles (1584-1645).17 Già sco- laro di Galileo a Padova, ufficiale militare e poi non troppo abile am- basciatore francese a Roma (1634-36), attivo nel chiedere alla Chie- sa clemenza per l’antico maestro, lo incontrò a Poggibonsi sulla via del ritorno in Francia e ricevette una copia manoscritta delle Nuove scienze, delle quali fu dedicatario. Restano 8 lettere da lui inviate a Galileo dall’ottobre 1634 al novembre 1638. Le prime cinque sono in italiano e risalgono al tempo in cui era diplomatico a Roma: di esse soltanto una è interamente autografa (EN 16, 144), ma probabilmente 11 Nell’inopportunità di riportare dettagliate rassegne biografiche sui molti personag- gi che nomineremo, rimandiamo una volta per tutte all’Indice biografico dell’EN (anche del supplemento 2015) e agli indici di Drake 1995 e di Heilbron 2010, nonché al rege- sto di nomi propri curato dal Museo Galileo di Firenze, disponibile online e continua- mente aggiornato. Daremo qui solamente qualche informazione utile al nostro discorso. 12 Cf. Stammerjohann 2013. 13 Cf. cap. 2, § 5. Quando questi è malato, anche il fratello Matthäus scrive in ita- liano a Galileo. 14 Cf. Pernot 1984 e Vérin 2001. 15 Scrive in italiano anche a Micanzio. Bonaventure e Abraham Elzevier si erano in- vece rivolti a Galileo in latino. 16 Diodati scrive a Reael in italiano (EN 16, 492). 17 Su di lui cf. Favaro 1983, 1317-45. Per i corrispondenti francesi di Galileo riman- diamo a Baumgartner 1988 e ai riferimenti bibliografici ivi contenuti. Filologie medievali e moderne 23 | 19 61 Galileo in Europa, 57-70     Bianchi 4 • Volgare e latino nel carteggio galileiano composta o almeno rivista da un madrelingua. Le altre quattro han- no soltanto la sottoscrizione di pugno del diplomatico. Il 15 gennaio 1636, in un punto morto delle discrete manovre per il mitigamento della condanna di Galileo, Noailles si scusa con questi del ritardo nel- lo scrivere: «Potrà similmente attribuire la cagione dell’haver tardato a scriverli all’assenza del mio secretario italiano» (EN 16, 377). È al- meno in parte un pretesto, ma ci informa delle abitudini linguistiche della corrispondenza. La stessa lettera riporta un breve poscritto au- tografo, che può dare l’idea della competenza linguistica dell’amba- sciatore, buona, ma nettamente inferiore alla lingua e allo stile esibi- to nelle altre lettere a Galileo: «Il latore de la presente li darà nove di me, et quanto gran stima fo de le sue virtù et come sto con desiderio di servirla in ogni occorrenza». Di fatto, l’uso dell’italiano sembra, non solo in Noailles, un piacere e un omaggio al maestro degli anni pado- vani e al grande scienziato. Dopo il rientro in Francia (1636) Noailles gli scriverà personalmente – cioè senza aiuto di segretari – in france- se (restano tre lettere autografe). Lettere che – l’ambasciatore dove- va certo esserne al corrente – Galileo non poteva intendere e di cui restano tra i manoscritti galileiani le traduzioni italiane.18 A Grienberger e de Groot che gli si rivolgono in latino, Galileo ri- sponde in italiano. In latino gli scrivono anche Gassendi (con l’ec- cezione di una missiva italiana composta insieme a Peiresc), Tycho Brahe, Mersenne, Morin, Abraham e Bonaventure Elzevier, l’avver- sario Scheiner e parecchi altri.19 Ma non sono conservate le risposte del nostro (a Tycho non rispose affatto) 20 e dunque non sappiamo in quale lingua fossero composte. Gli scrissero invece in italiano Martin Hasdale (tedesco, fu a lun- go in Italia per divenire poi potente consigliere alla corte di Rodolfo II); David Ricques (polacco o tedesco), Thomas Segget (scozzese, fu a lungo in Italia; poi a Praga), il greco Demisiani, il cardinale François de Joyeuse, Krzysztof Zbaraski (nell’EN Cristoforo di Zbaraz), Ri- chard White (allievo di Castelli, scrive da Londra e si scusa per gli errori di lingua), Giovanni di Guevara (spagnolo, ma nato a Napoli), Philippe de Lusarches (maestro di camera degli ambasciatori fran- cesi a Roma), Johannes Riijusk (cugino del Reael, scrive da Venezia), Francesco van Weert (olandese al servizio della Serenissima), Justus 18 Cf. l’introduzione di Favaro alle missive e il supplemento di EN 18, 436. Al ruo- lo dei segretari nella respublica litterarum accenna Fattori in Armogathe, Belgioioso, Vinti 1999, 57-8. 19 Raymund Schorer (mercante tedesco attivo anche a Venezia), Theophilus Mül- ler (tedesco, linceo, da Roma), Beaulieu (non meglio identificato), John Welles (da Lon- dra), Jan Friedrich Breiner, Michel Coignet, Marek Lentowicz (che fu studente a Pado- va), Bartholomäus Schröter (tedesco), Jean Tarde, Filippo d’Assia, Jan Brozek (polac- co), Maarten van den Hove (Hortensius, olandese).   20 Bucciantini 2003, 87.  Filologie medievali e moderne 23 | 19 62 Galileo in Europa, 57-70  Bianchi 4 • Volgare e latino nel carteggio galileiano Weffeldich (agente degli Elzevier a Venezia), Jean-Jacques Bouchard (dotto francese che visse molti anni a Roma), Henry Robinson (ingle- se, fu a Livorno per commercio e abitò per alcuni anni a Firenze). Restano alcune epistole italiane che Galileo inviò a Leopoldo d’Au- stria (Innsbruck), a Pedro de Castro conte di Lemos (Madrid), agli Stati Generali delle Province Unite dei Paesi Bassi (ve n’è un’altra in latino, EN 468-69, di cui parleremo tra qualche pagina), a Francisco de Sandoval duca di Lerma (Madrid), a Maarten van den Hove (matematico olandese). Scrivono a Galileo sia in latino che in italiano Leopoldo d’Austria, Jacques Jauffred21 (una missiva privata è in volgare, una pubblica è stampata in latino), Benjamin Engelcke (di Danzica, fu per alcuni an- ni in Italia).22 Gli Stati Generali delle Province Unite dei Paesi Bassi si rivolgono a Galileo sia in latino che in francese (Reael traduce per Galileo; una deliberazione dell’assemblea sulla proposta galileiana del calcolo della longitudine è redatta in olandese e Reael la tradu- ce in latino per Galileo). Il francese è peraltro usato anche in altre occasioni dagli olandesi, come quando Huygens si rivolge a Diodati. Il quadro generale dell’epistolario è dominato dall’italiano, anche perché la maggioranza degli stranieri aveva vissuto per un periodo abbastanza lungo in Italia durante gli studi universitari o per altri motivi. Sono dunque stranieri con una vasta conoscenza personale della Penisola e della sua lingua.23 4.4 Le lettere latine di Galileo Si esaminerà ora il ristretto gruppo di epistole latine di Galileo rima- steci. Della corrispondenza tra Galileo e Kepler, di importanza capi- tale, restano poche lettere, 7 da parte del tedesco, 3 da parte del pi- sano. Non si incontrarono mai di persona. La comunicazione si svolse sempre in latino e coprì, per quanto è conservato, un arco tempora- le che va dal 1597 al 1627 (ma le lettere scritte da Kepler non vanno oltre il 1611). I rapporti scientifici e personali tra i due scienziati so- no illustrati nel dettaglio e nell’ampio quadro culturale del tempo in Bucciantini (2003), a cui ci rifacciamo per la nostra analisi. Al tempo del primo contatto epistolare (1597) nessuno dei due è famoso: Gali- leo è niente più che il solido matematico dello Studio di Padova; Ke- pler, dopo aver rinunciato alla carriera teologica e pastorale, è mate- matico a Graz. I due non si conoscono neppure di nome. Per tramite 21 Su di lui vedi DBI (s.v. «Gaufrido, Jacopo»). 22 Cf. infra in questo capitolo. 23 Cf. Favaro 1983, 1320-2. Una testimonianza in senso contrario (ovvero scarsa com- petenza dell’italiano da parte di studenti stranieri a Padova) è riferita da Mikkeli 1999, 81; ci sembra tuttavia un’eccezione di fronte alle tante altre. Filologie medievali e moderne 23 | 19 63 Galileo in Europa, 57-70     Bianchi 4 • Volgare e latino nel carteggio galileiano dell’amico Paul Homberger, Kepler fece arrivare in Italia il suo My- sterium cosmographicum (1596). «Probabilmente fu lo stesso Keple- ro a suggerirgli [a Homberger] di destinare una copia allo Studio di Padova, ovvero di consegnarla a chi in quel tempo occupava la catte- dra di matematica in una delle università più prestigiose d’Europa» (Bucciantini 2003, 22). E Galileo, letta solo la prefazione dell’opera, nella quale Kepler dichiara la sua adesione al Copernicanesimo, de- cise di inviare una lettera di ringraziamento all’autore per tramite dello stesso Homberger che stava per fare ritorno in Austria.24 È la missiva del 4 agosto 1597 (EN 10, 67), che contiene l’importantissima di dichiarazione di Copernicanesimo da parte di Galileo (in Copernici sententiam multis abhinc annis venerim).25 Importantissima anche in base alla doppia considerazione che a fine Cinquecento i copernicani si contavano sulle dita (oltre a Kepler e Galileo, erano Bruno, Roth- mann, Mästlin, Digges, Harriot, Stevin, de Zúñiga)26 e che prima del- le scoperte del 1610 «le copernicianisme était une opinion extrava- gante et ridicule, et donc non dangereuse ni ne méritant même d’être condamnée» (Bucciantini 2009, 20). Si capisce dunque l’entusiasmo di Galileo nell’apprendere che un tale Kepler aveva le sue stesse idee e pubblicava opere per difenderle e diffonderle, mentre lui, Galileo, non aveva avuto il coraggio – afferma – di pubblicare le sue osserva- zioni in difesa del sistema eliocentrico per non fare la fine di Coper- nico, lodato da pochissimi e deriso dai più. Il latino di questa lette- ra ci sembra un poco più elevato di quello del Sidereus nuncius, con più frequente subordinazione (soprattutto frasi relative e infinitive). La gioiosa risposta di Kepler, contento anch’egli di aver trovato un compagno, è più lunga e stilisticamente superiore, per quanto non brillante: esclamazioni e interrogative retoriche vivacizzano il det- tato, che è molto fluido e senza imbarazzi; vi sono finezze umanisti- che, come l’inserzione di una parola in caratteri greci (αὐτόπιστα). La strategia culturale di Kepler per l’affermazione del Copernicane- simo prevede innanzitutto il convincimento dei matematici ed egli si dichiara disponibile a far pubblicare in terra tedesca gli scritti di Galileo, se questi teme di farlo in Italia. Ma Galileo, non condividen- do la strategia proposta, non rispose a questa lettera.27 Stupito del silenzio, Kepler ritentò attraverso Edmund Bruce di avere nuove di Galileo nel 1599.28 24 Cf. anche Biancarelli Martinelli 2004. 25 Una dichiarazione di poco precedente (maggio 1597), ma appena accennata e di- messa, diversamente dalle righe indirizzate a Kepler, è in una lettera a Jacopo Mazzo- ni (EN 2, 197-202; cf. Bucciantini 2003, 29).   26 Bucciantini 2003, 53. 27 Bucciantini 2003, 73. 28 Bucciantini 2003, 103.  Filologie medievali e moderne 23 | 19 64 Galileo in Europa, 57-70  Bianchi 4 • Volgare e latino nel carteggio galileiano Giunse poi la stagione del Sidereus nuncius, durante la quale Ke- pler fu il solo grande interlocutore straniero cui Galileo si rivolse e la cui conferma delle scoperte ebbe importanza paragonabile soltanto a quella degli studiosi del Collegio Romano. Oltre alla presa di posizio- ne ufficiale con la Dissertatio cum Nuncio sidereo, Kepler invia a Ga- lileo una lettera privata il 9 agosto 1610, chiedendo, in sostanza, altri elementi a sostegno delle scoperte e del cannocchiale. La risposta di Galileo, datata 19 agosto (EN 10, 421), è significativa. Il nostro è an- cora a Padova, ma ha già ottenuto il posto alla corte di Toscana e la lettera è pervasa da un’esuberante soddisfazione del proprio succes- so, «con toni che sfiorano l’autocelebrazione» (Bucciantini 2003, 190): il racconto delle ricompense e dello stipendio ricevuto dopo la scoper- ta, la protezione e la garanzia del Granduca quanto alle scoperte, il ti- tolo di filosofo aggiunto ora a quello di matematico, che Kepler non gli riconoscerà. Galileo non ha molto tempo per scrivergli (paucissimae enim supersunt ad scribendum horae). Lo stile è solido e non più impac- ciato come nella lettera del 1597; la scrittura è più fluida, c’è più mo- vimento, con interrogative e riferimenti eruditi (seppur scolastici, co- me oblatrent sicophantae) e quasi con affetto per il suo alleato lontano che, pur chiedendo chiarimenti e testimoni, lo ha appoggiato. In par- ticolare è insolita, in Galileo, una conclusione come me, ut soles, ama. Con la pubblicazione della Dioptrice nel 1611 (Kepler fu il padre dell’ottica moderna), termina uno scambio frequente tra i due: essi non hanno più avvertito il bisogno di confrontarsi e collaborare rego- larmente, a causa sia di progetti e attitudini scientifiche differenti, sia di piccole incomprensioni (per es. la stima riposta da Kepler in Simon Mayr, che dispiacque al nostro).29 Certo, Galileo si informerà su co- me stia e che cosa faccia l’altro e Kepler prenderà posizione nelle po- lemiche legate al Saggiatore con l’Hyperaspistes (1625), ma non è più in gioco una collaborazione stabile e duratura. Le lettere superstiti, in ogni caso, saltano dal 1611 al 4 settembre 1627 (EN 13, 374-5), al- lorché Galileo raccomanda Giovanni Stefano Bossi al dotto corrispon- dente perché questi lo accetti come scolaro. La missiva, non molto in- teressante quanto al contenuto (una raccomandazione), testimonia il tentativo di riallacciare la relazione. Nel poscritto Galileo aggiunge: Mitto, cum his complicatam litteris, Orationem Nicolai Adiunctii, adolescentis in omni humaniore et severiore literatura excultissi- mi: eam sat scio te magna cum voluptate lecturum, et mirifice fu- turam ad tuum palatum et gustum. Si tratta dell’Oratio de mathematicae laudibus, uscita a Roma nello stesso anno dalla penna del giovane Aggiunti, notevole non solo per 29 I motivi del distacco sono scandagliati in Bucciantini 2003, 198-205. Filologie medievali e moderne 23 | 19 65 Galileo in Europa, 57-70     Bianchi 4 • Volgare e latino nel carteggio galileiano lo stile latino brillante di cui l’autore dava prova, ma anche per la celebrazione della matematica come modo di vedere la realtà (una Geometria nos in rerum notitiam perducit, et sola complectitur studia universa).30 Dopo di che, morto Kepler nel 1630, il Dialogo lo accuse- rà, pur «con rispetto» (così la didascalia a margine), di aver creduto a «predominii della Luna sopra l’acqua, ed a proprietà occulte, e simi- li fanciullezze» (4, 54): come è noto, un attacco che si ritorce contro Galileo. A rendere incompatibili le posizioni dei due grandi vi erano idee radicalmente diverse sul cosmo e la posizione dell’uomo in esso.31 Veniamo agli altri corrispondenti. Johann Georg Brengger (1559- 1630 ca.), medico di Augsburg, si interessava di problemi scientifici.32 Per tramite di Welser pone a Galileo alcune questioni sui monti lu- nari, cui Galileo risponde con una lunga epistola in un latino asciut- to l’8 novembre 1610. A sua volta Brengger risponderà estesamente in latino il 13 giugno 1611 (EN 11, 121). Una delle due lettere composte in latino da Niccolò Aggiunti su incarico di Galileo si legge in EN 14, 83 (datata febbraio 1630) ed è la risposta a George Fortescue.33 Il 15 ottobre 1629 (EN 14, 47) que- sti gli aveva indirizzato una pomposa lettera latina annunciandogli la pubblicazione delle sue Feriae academicae (1630), nelle quali, di- scorrendo di ottica, catottrica, matematica e astronomia, adduceva nonnulla [...] experientia comprobata mea. Lettera pomposa in cui gli elogi a Galileo, iperbolici, sono intessuti di riferimenti eruditi (il mi- to di Cefeo e la costruzione del faro di Alessandria su progetto di So- strato). La notizia più saliente che il mittente vuole comunicare è l’a- ver fatto di Galileo un personaggio del libro annunciato: In his usus sum artificio Marci Tullii aliorumque, qui, ut sibi in dicendo auctoritatem concilient, inducunt colloquentes Catones, Crassos, Antonios, similesque palmares homines. [...] Igitur ignosce, Vir sapientissime, si disputantem in scriptis meis temet repereris, 30 Il passo è riportato in Camerota 2004, 570. Secondo Peterson 2015, 130, inviando a Kepler il testo di Aggiunti, Galileo inviterebbe il corrispondente a rivolgere un’‘atten- zione matematica’ non solo ai cieli, ma anche alla realtà terrestre. 31 «L’abbandono [da parte di Galileo] di ogni visione antropocentrica è certamente una delle caratteristiche della sua filosofia che più lo allontana non solo da Keplero ma an- che da Copernico» (Bucciantini 2003, 322). «Il progetto galileiano di fondazione di una scienza copernicana del moto fu fin dall’inizio antitetico e concorrente alla nuova dina- mica celeste kepleriana. La forza e la tenacia con cui Galileo proseguì in ogni momento della sua vita le sue ricerche sul moto inerziale all’interno di una prospettiva cosmolo- gica gli impedirono di accettare le ‘assurde’ leggi kepleriane» (Bucciantini 2003, 336). 32 Laureato in medicina a Basilea, ebbe scambio epistolare con Clavio e Kepler su problemi scientifici (cf. Reeves, van Helden 2010, 43, 220-1; Keil 2002, 610-11; Buc- ciantini 2003, 230-3). 33 Pochissimo si sa di lui: cf. la voce di Ross Kennedy nell’Oxford Dictionary of National Biography (2004), con bibliografia; Favaro 1883b, 203-10; Besomi, Helbing 1998b, 3-4. Filologie medievali e moderne 23 | 19 66 Galileo in Europa, 57-70     Bianchi 4 • Volgare e latino nel carteggio galileiano illos inter qui exquisitis suis artibus occiduum hunc sustentant orbem. Alle pp. 122-59 delle Feriae è allestito un dialogo (con narratore) tra Ga- lileo, Clavio, Grienberger – astrologorum huius aevi facile principes – e Ferdinando Gonzaga. Con la missiva Fortescue ne informa lo scienziato e si scusa per non avergli chiesto il permesso (Ergo da veniam, serius petenti licet, Vir spectatissime, quod, inconsulto te, cum tuo egerim nomine). Nella risposta – che commenteremo – lo scienziato dichiara, con accenti che corrispondono del tutto ai moduli dello stile encomia- stico, che nostram [...] enim mirifice incendisti cupiditatem, pregando- lo di inviargli copia del libro non appena stampato (Cum typographi suam operam absolverint, tuique libri editionem perfecerint, unum vel alterum exemplar ad nos primo quoque tempore perferendum cures). Non escludiamo che la parte ‘galileiana’ delle Feriae34 abbia potuto ispirare Galileo e suggerirgli quell’unicum narrativo che è la sua appa- rizione come personaggio nel Dialogo sopra i due massimi sistemi (3, 176). In tale passo, per ribadire la priorità galileiana su Scheiner ri- guardo alla scoperta della correlazione tra macchie solari e l’inclina- zione dell’asse solare, Galileo si è servito di un fine stratagemma reto- rico-narrativo, unico nell’opera: Salviati ricorda dettagliatamente una discussione con Galileo e ne riporta in modo diretto (con due punti e virgolette) le parole. Un intervento ‘diretto’ dell’autore all’interno del Dialogo dei personaggi. Lo stratagemma è interessante anche perché è un falso creato ad hoc da Galileo, come hanno acutamente ricostruito Besomi, Helbing (1998b, 720-37) e come era noto a collaboratori di Ga- lileo: Benedetto Castelli parlò del passo in questione come «testimonio falso delle macchie del sole» (lettera del 29 maggio 1632 a Galileo, EN 14, 358). L’influenza di Fortescue su tale episodio è indimostrata, ma possibile anche in base alla cronologia della composizione del Dialogo.35 Contrariamente alle sue abitudini, Galileo volle rispondere a For- tescue in latino (questi era stato al Collegio inglese di Roma dal 1609 al 1614; non sappiamo tuttavia se Galileo ne fosse al corrente), e si affidò per questo al provetto latinista Niccolò Aggiunti (1600-1635). Allievo di Castelli a Pisa, al quale succedette nel 1626 sulla cattedra di matematica, Aggiunti fu anche precettore di corte, dove conobbe e divenne discepolo fidato di Galileo, tanto che fu tra coloro che du- rante il processo del 1633 asportarono da casa del maestro le carte giudicate pericolose. Studiò in particolare i fenomeni capillari. Uni- ca sua opera a stampa è la già menzionata Oratio de mathematicae 34 Accenni in Favaro 1883b, 203-10; Besomi, Helbing 1998b, 3 e Camerota 2004, 206. 35 La parte dell’opera sui movimenti delle macchie solari (3, 172, 10-187) è stata com- posta «probabilmente dopo il settembre del 1631, dopo che Galileo aveva letto la Rosa Ursina [opera di Scheiner]» (Besomi, Helbing 1998b, 47). Filologie medievali e moderne 23 | 19 67 Galileo in Europa, 57-70     Bianchi 4 • Volgare e latino nel carteggio galileiano laudibus (1627), che fu la prolusione al suo insegnamento universi- tario; restano manoscritti alcuni altri suoi testi.36 Ebbe fama di otti- mo latinista e per questo Galileo chiese la sua collaborazione. Ciono- nostante difese anche l’uso del volgare nella trattazione filosofica.37 Il 30 gennaio 1630 Aggiunti scrisse a Galileo: «Credo che V. S. Ecc.ma volentieri mi perdonerà così lunga dilazione, vedendo che io gli pago il debito e in oltre qualche usura: io parlo della rispo- sta al Sig.r Giorgio [Fortescue], la quale mando a V. S., fatta con quella maggior accuratezza che ho potuto. Harò caro intender quan- to gli sodisfaccia. Nella soprascritta basterà fare: Eruditiss.o Viro Georgio de Fortiscuto. Londinum» (EN 14, 71). Della missiva ci resta la copia autografa di Galileo. In essa, datata da Favaro febbraio 1630, si ringrazia ampollosamente, anche con richiami eruditi, per l’onore di comparire come personaggio inter eximios viros e di essere così celebrato. La lettera è ben nota agli studiosi galileiani, perché Gali- leo dichiara di lavorare a un arduum opus: magnum mundi systema, quod trigesimum iam annum parturiebam, nunc tandem pario. E di- chiarandone il tema (in hoc opere abditissimas maris aestuum causas [...] inquiro, et, nisi mei me fallit amor, mirabiliter pando), prega il cor- rispondente di inviargli dati sull’osservazione delle maree: Proinde siquid habes circa hasce alternas aequoris agitationes diligenti nec divulgata observatione notatum, ad me perscribere ne graveris. L’altra lettera latina composta da Aggiunti su commissione di Galileo (16 luglio 1634; EN 16,111) è indirizzata a Matthias Bernegger (1582- 1640), dotto residente a Strasburgo e traduttore in latino del Dialogo. Alcuni mesi prima egli aveva scritto a Galileo annunciandogli la tradu- zione (10 ottobre 1633; EN 15, 299).38 Favaro ricostruisce che probabil- mente tale epistola non fu consegnata allo scienziato, perché Benjamin Engelcke (1610-1680), che avrebbe dovuto portarla di persona, la spedì a Galileo ed essa andò perduta (noi leggiamo oggi la minuta dello scri- vente); l’Engelke scrisse poi a Galileo informandolo della traduzione. La lettera di Bernegger è stesa in un latino sicuro e curato, ma non af- fettato, con la sola iperbole finale di Galileo non Italiae modo tuae, sed orbis, quem immortalibus tuis scriptis illustrasti, lucidissimum sidus, che rispecchia lo stile encomiastico. Per la risposta Galileo volle affidarsi anche in questa occasione ad Aggiunti, che così scriveva allo scienziato il 12 aprile 1634: «Questa qui alligata è la lettera che, in esecuzione del suo cenno, ho fatta al Bernechero, del quale non sapendo il nome non ho potuto porvelo. Se le paresse lunga, potrà scorciarla et acconciarla a modo suo. Io l’ho scritta con mia gran fatiga, perché il considerare in 36 Su Aggiunti, oltre alla voce del DBI, si vedano Favaro 1983; Camerota 1998; Ca- merota 2004, 21-2 e passim; Peterson 2015, 128-36.   37 Cf. Camerota 1998. 38 Commenteremo questa lettera nei cap. 8.  Filologie medievali e moderne 23 | 19 68 Galileo in Europa, 57-70  Bianchi 4 • Volgare e latino nel carteggio galileiano nome di chi io scrivevo mi sbigottiva. V. S. nel mio mancamento accusi il suo comandamento» (EN 16, 82). Ciò testimonia inequivocabilmente che Aggiunti non ha semplicemente tradotto in latino una risposta re- datta da Galileo in volgare, ma composto in toto la lettera. Essa sfoggia uno stile brillante, retorico, erudito. Aggiunti parago- na Bernegger traduttore a un egregius pictor che abbellisce la figura della persona ritratta: con i latinae elegantiae colores egli riprodurrà le philosophicae lucubrationes dello scienziato. L’acme retorico-erudita è raggiunta paragonando la traduzione del Dialogo al ritratto di Antigo- no sapientemente realizzato da Apelle: essendo il sovrano privo di un occhio – era appunto soprannominato μονόφθαλμος –, il pittore sfruttò i vantaggi del tre quarti per nascondere il difetto fisico, come ricorda un passo dell’Institutio oratoria (2, 13, 12): Habet in pictura speciem tota facies: Apelles tamen imaginem Antigoni latere tantum altero ostendit, ut amissi oculi deformitas lateret. Aggiunti si rifà direttamente a Quintilia- no e inscena una ‘cecità’ di Galileo, non fisica, come avverrà più tardi, ma metaforica (difetti di stile e improprietà di espressione del Dialogo): tuum artificium hoc pollicetur, ut, citra similitudinis detrimentum, me pulchriorem quam sum ostendas, et, imitatus Apellem, qui Antigoni faciem altero tantum latere ostendit, ut amissi oculi deformitas occultaretur, tu quoque, si quid in me mutilum vel deforme offendes, ab ea parte convertas qua speciosius apparebit. È evidente la soddisfazione e l’orgoglio per la traduzione latina dell’o- pera che tante umiliazioni aveva portato a Galileo, soddisfazione e orgoglio accresciuti dai dolori fisici e dalla perdita della figlia, man- cata pochi mesi addietro (ma di ciò non si accenna nella lettera): Ceterum deierare liquido possum, post tot turbas et corporis animique vexationes, quas mihi pepererunt primum studia ipsa, quae radices artium amarae sunt, deinde studiorum fructus, qui multo ipsis radicibus amariores fuerunt, hoc tuo erga me studio nullum mihi maius solatium contigisse. Passi come questo attestano l’alto livello della prosa latina di Aggiunti: sottolineamo la naturalezza stilistica con cui l’immagine degli studi co- me radici delle scienze – radici amare perché intrise di fatica – si tramu- ti nel paradosso dei frutti più amari delle radici, paradosso in cui sono adombrate le sofferenze e umiliazioni del processo e dell’abiura. Alle quali Galileo reagisce con nuovi studi e la stesura delle Nuove scienze: Non tamen his angustiis eliditur aut contrahitur animus, quo liberas viroque dignas cogitationes semper agito, et ruris angustam hanc solitudinem, qua circumcludor, tanquam mihi profuturam aequo animo fero. Filologie medievali e moderne 23 | 19 69 Galileo in Europa, 57-70    Bianchi 4 • Volgare e latino nel carteggio galileiano Bernegger fu sbalordito dall’eleganza di tale lettera e non subodo- rò che non venisse dalla penna di Galileo; scrisse infatti a Diodati: Valde me terruit ipsius [Galileo] epistola, longe tersissima et elegantissima; quam elegantiam cum vel mediocriter assequi posse desperem, verendum habeo ne magnus ille vir ingenii sui divini foetum in commodiorem interpretem incidisse velit. Sed iacta est alea (EN 16, 176-7). Aggiunti morì nel dicembre 1635. Meno interessanti le ultime tre lettere di cui dobbiamo occuparci. Il 30 ottobre 1637 il dotto Ismaël Boulliau(d) (1605-1694)39 inviò a Ga- lileo una copia del suo De natura lucis40 accompagnandola con una lettera latina in cui si dichiarava amico di Gassendi e di Diodati (EN 17, 207-8) e in cui annunciava l’imminente pubblicazione del Philolaus sive Dissertatio de vero Systemate Mundi (1639). È una missiva di ac- compagnamento, piuttosto breve e spedita quanto a stile. La risposta di Galileo (1 gennaio 1638; EN 17, 245), pure in latino, ha lo stesso te- nore: con un dettato puramente comunicativo informava di aver già perso la vista e di non poter quindi formarsi un giudizio sulle dimo- strazioni del De natura lucis che contengano figure; ha però apprez- zato ciò che gli è stato letto e si interessa del Philolaus. Infine si scu- sa per la brevità e sommarietà della risposta: Breviter admodum ac ieiune scribo, praestantissime vir: plura enim scribere me non patitur molesta oculorum valetudo. Quare me velim excusatum habeas. Una seconda lettera di Boulliau(d) risale al 16 settembre 1639 (EN 18, 103): un puro accompagnamento all’invio del Philolaus, con l’augurio retorico che utinam Deus, qui alligat contritiones suorum, restituat oculorum lumen tibi ademptum, nobisque tale damnum resarciat, ut ipse legas libellum, et rationum seriem sine alienorum oculorum opera dispicias. La risposta latina del nostro, in data 30 di- cembre 1639 (EN 18, 134), è del tutto analoga alla precedente: rin- grazia il corrispondente e apprezza quanto gli è stato letto, ma non potendo vedere le figure non può giudicare bene. È latina, infine, una missiva di Galileo agli Stati generali dei Pae- si Bassi, in cui chiede che sia esaminata la sua proposta per il calco- lo della longitudine in mare. È una lettera non retorica, per quanto contenga alcuni elementi topici come l’elogio del destinatario:   39 40 Celsitudinum Vestrarum, qui per omnia maria et terras celeberrimas suas peregrinationes et navigationes cum gloria maxima iam instituerunt et quotidie porro instituunt, et commercia amplissima ubique quotidie dilatant [...] (EN 16, 469). Su di lui vedi Beaulieu 1984, 377) e Hockey et al. (2007). L’opera a stampa reca la data 1638; non sappiamo dire se Boulliau(d) ne abbia invia- to un esemplare (cui poi fu apposta una datazione posteriore) o una copia manoscritta. Filologie medievali e moderne 23 | 19 70 Galileo in Europa, 57-70Galileo  291. MARTINO HASDALE a GALILEO in Padova. Praga, 15 aprile 1610. Bibl. Naz. Fir. Mss. Gal., P. VI, T. VII, car. 120. – Autografa. mor mo Essendo un pezzo che disegnavo di ritornare in Italia, et particolarmente a Padova et Venetia, più per godere quella gentilissima conversatione di V. S. che per altro; et tanto più me ne cresce il desiderio, quanto che veggo nuovi parti del suo felicissimo et divino ingegno: delli quali l'ultimo, intitolato Nuntius Sydereus, ha rapito ultimamente tutta questa Corte in ammiratione et stupore, affaticandosi ogniuno di questi ambasciatori et baroni di chiamare questi matemathici di qua per sentire se vi sanno fare alcuna oppositione alle demostrationi di V. S. Però vanno procurando di havere di quelli occhiali doppiii, per vederne l'esperienza. re re Io mi truovai, XII giorni fa, a desinare dal Sig. Ambasciatore di Spagna, dove il Sig. Velsero portò al detto Ambasciatore uno di questi libbri, mostrandogli molti luoghi notabili di r quello libro. Il Sig. Ambasciatore mi domandò delle qualità di V. S. Io gli risposi quello che potei, non già quanto V. S. merita. Mi disse che voleva sentire l'openione del Kepplero(658) sopra questo libro, sì come credo che habbia fatto chiamarlo. Ma io questa mattina ho havuta occasione di fare amicitia stretta con il Kepplero, havendo egli et io mangiato con l'Ambasciatore di Sassonia; et domattina siamo invitati da quel di Toscana, dove io vado familiarmente di continuo, essendo quel Signor mio padrone vecchio. Hora gli ho domandato quello che gli pare di quel libro et di V. S. Mi ha risposto che sono molti anni che ha prattica con V. S. per via di lettere, et che realmente non conosce maggiore huomo di V. S. in questa professione, nè manco ha conosciuto; et che con tutto che il Tichone fosse tenuto per grandissimo, nondimeno che V. S. l'avanzava di gran lunga. Quanto poi a questo libro, dice che veramente ella ha mostrata la divinità del suo ingegno; però, che ella viene havere data qualche occasione non solo alla natione Todesca, ma anco alla propria, non havendo fattone mentione(659) alcuna di quegli autori che le hanno accennato et(660) porta occasione di investigare quello che hora ha truovato, nominando fra questi Giordano Bruno per Italiano, et il Copernico et sè medesimo, professando di havere accennato simili cose (però senza pruova, come V. S., et senza demostrationi): et haveva portato seco il suo libro, per mostrar allo Ambasciatore Sassone il luogo. Ma in quello ch'eramo in questi ragionamenti, è sopragionto un estraordinario di Sassonia al detto Ambasciatore, che ha disturbata la conversatione. Ma domattina, piacendo a Dio, ci rivederemo, che senz'altro porterà il medesimo suo libro con quello di V. S., come ha fatto hoggi, per mostrarlo all'Ambasciatore di Toscana. Seppi poi la morte del Cl.mo nostro Sig.r Cornaro(661), con mio grandissimo dispiacere, che me mo Vostro Aff. Fratello lo Michelag. Galilei.  (658) (659) (660) (661) de Kepplero – [CORREZIONE] non havendo fattione mentione – [CORREZIONE] Tra accennato e et si legge, cancellato, quelle cose. – [CORREZIONE] Un LORENZO di MARCANTONTO CORNARO era morto il 25 settembre del 1609 (Necrologio Nobili, nell'Archivio di 252  r lo scrisse il S. Ottavio Pamfilio, quale desidero sapere se si truova ancora costì, perchè gli vorrei scrivere. Et la prego, havendo occasione, di fare un cordialissimo baciamano al Padre Maestro Paolo et Padre Maestro Fulgentio(662), suo compagno, et che spero fra alcuni mesi lasciarmi rivedere con qualche carico. Con che fine le bacio le mani. Di Praga, alli XV d'Aprile 1610. Di V. S. Ecc. ma re mo Serv. Devot. Martino Hasdale. Io mando questa per via dell'Ambasciatore di Venetia. Mi ricordo degli suoi melloni Turcheschi. mor mo Fuori: All'Ecc. Sig. P.rone Oss. r Il Sig. Gallileo Gallilei, Mattematico di Padova.Galilei. Galilei. Keywords: “the sun rises in the east” “the sun sets in the west” “you’re the cream in my coffee” ‘disimplicature’ -- esperienza, observazione, visione, nature, aristotele, filosofia naturale, fisis, natura, interpretazione, semiotica, segno naturale, il padre di Galileo – Some like Galileo Galilei, but Vincenzo Galilei is MY man” – Galileo e Bruno. Refs: Luigi Speranza, “Galileo, Grice e il saggiatore,” The Swimming-Pool Library, Villa Grice. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51713841789/in/photolist-2mMLXtT-2mMN3uy-2mLLZRD-2mLQ1Vx-2mKHfUW-2mLMaMX-2mKR9ZM-2mPsUUV-2mKGUth-2mKN13V-2mKBDtr-2mKQW9n-2mKGTYe-2mPBcdN-2mPEECV-2mKCfz1-2mKyJgk-2mKiNkD-2mJwx6n-2mJwx4P-2mJzYWx-2mJxNBT-2mJxNLf-2mJzYYg-2mJB4gi-2mJB4hW-2mJB48H-2mJwx4U-2mJsq3i-2mJzYWs-2mJxNJ1-2mJB48s-2mJzYWY-2mJsq3Z-2mJxNAf-2mJzYmE-2mJzZ4g-2mJB4ag-2mJspX3-2mJB5vc-2mJsw72-2mJwyqm-2mJsq69-2mJzZ7H-2mJxV5n-2mJA6g1-2mJB5uR-2mJxQ19-2mJA6fe-2mJBawe

 

Grice e Galimberti – l’imaginario sessuale – filosofia italiana – Luigi Speranza (Monza). Filosofo. Grice: “I like Galimberti: he has philosophised on amore, amicus, amicizia – all topics of my interest – while I am into vyse, he is into the seven capital vyses! He also has spoken about speech: the ‘parole nomade,’ and the ‘equivoci’ of the ‘anima.’ – In general his philosophy is about nihilism and the idea of man in the age of ‘techne’ (ars).” Il suo maggior contributo riguarda lo studio del inconscio e il simbolo (contractio), inteso come la base primeva e più autentica dell’uomo – ‘logica simbolica’. Nasce a Monza, la mamma maestra di elementari e il padre deceduto. Le necessità della famiglia l’obbligano a lavorare. Frequenta le scuole superiori in seminario. Terminati gli studi liceali classici, si iscrive  al corso di laurea in Filosofia a Milano. Si laurea quindi con Emanuele Severino con lode, con “La logica di Jaspers”. Fra i suoi maestri, anche Bontadini. Studia fenomenologia del corpo con Borgna a Novara. Insegna a Monza e Venezia. Studia con Trevi.“E se "filo-sofo" non volesse dire "amante del sagio" ma "saagio dell'amore", così come "teo-logo" vuol dire dotto *su* Dio e non ‘parola di Dio’, o come "metro-logo" vuol dire scienzato delle misure e non misura della scienza?” “Perché per la forma greca ‘filo-sofo’ questa *inversione* della morfologia nella implicatura? Perché il filosofo greco si struttura come un logico che formalizza il reale, sottraendosi al mondo della vita, per rinchiudersi nell’academia, dove, tra iniziati, si trasmette da maestro a discepolo quesso che lo face un ‘sagio,” e che non ha nessun impatto sull'esistenza e sul modo di condurla. E per questo cheda Socrate, che indica come la sua condotta "l'esercizio di morte", ad Heidegger, che tanto insiste sull' “essere-per-la-morte”, il filosofo si e innamorato più del saper morire che del saper vivere. Al centro della sua riflessione sta il corpori degli uomini, che, in un mondo sempre più dominato dalla tecnica, si sentono un "mezzo" nell'"universo dei mezzi", riuscendogli sempre più difficile trovare e dare un senso alla sua vita, alla sua esistenza. Si deve trovare un senso al radicale disagio, alla tragicità del suo esistere, anche attraverso il recupero dell'ideale antico greco-romano, evitando mitologie.  Il suo maggior contributo consiste nel porre la dimensione del simbolo (coniactum – the idea is that you throw two things together so that the recipient may compare them, one becomes the ‘symbol’ – coniactum – of the other – cf. Grice on Peirce on symbol) alla base primordiale della ragione conversazionale, che ha inteso ordinare il simbolo (mito, no logos) – dunque l’ambilavenza delle cose ma non l’equivalenza generale di significati. Il simbolo (coniactum) è il sustratto pre-razionale. Rappresenta un caos originario che ragione tenta di arginare. Siamo razionali (apolineo) per difenderci dal simbolo dionisiaco. Il concetto fondamentale del simbolo non è l’equi-valenza generale, ma l’ambi-valenza. Riprende Freud e Jung, fondendone con Nietzsche, Severino e Heidegger. Importante è stato il costante riferimento a Husserl e Jaspers. Il filosofo cerca la “comprensione” (verstaendnis – cf.. Grice on ‘understand’ – ‘understanding,’ literally, slang for a leg) e non la spiegazione (verklaerung) del comportamento umano. La psicologia filosofica o rationale (l’anima di Aristotele) non può operare una trasposizione tout-court dei metodi e dei modelli concettuali delle scienze naturali perché, così facendo, l'uomo verrebbe ridotto a mero evento naturale, fisico, come ha luogo, per esempio, in psichiatria.  Contrario, poi, al dualismo di Cartesio, Galimberti ha anche fatto riferimento al metodo fenomenologico e al funzionalismo per consentire altresì, alla psicologia filosofica o rationale, la comprensione e la descrizione fenomenologica di quelle strette relazioni che intercedono fra nostri corpori assieme al significato che queste relazioni comportano. E e tutto ciò lo porterà ad abolire, di conseguenza, ogni distinzione concettuale fra ”salute“ e ”malattia.” Insiste sull'inconsistenza della contrapposizione tutta occidentale fra scienza e fede – fiducia -- individuando come questa seconda – la fiducia, cf. English ‘trust,’ truth’ -- sia in realtà l'elemento fondativo dell'intera coscienza occidentale, all'interno anche della scienza e della tecnica. Scienza e fede non dovrebbero mai confliggere, è importante che nessuna delle due invada il campo dell'altra. Tematizza innanzitutto il passo della Genesi in cui Adamo è definito "dominatore della Terra, sui pesci dei mari e sugli uccelli del cielo", collocando l'uomo in una posizione privilegiata rispetto agli animali e la Natura in sé e legittimandolo a operare su di essi per alimentare la propria esistenza. In quanto il progresso è l'affermazione di questo primato umano, la tecnica (Greco techne, Latino, ars) è indubbiamente l'ipostasi che sigilla costantemente quest'affermazione sull'indifferenza naturale. La coscienza della techne (Latin ‘ars’) tecnica è formulata come una risposta alle fatiche naturali, si appellerebbe, dunque, a una condizione strutturale di eminenza consegnata da Dio e propugnata dalla persistenza di un animale sui generis.  Riconosce la cristianità come il carattere di una scansione temporale che identifica il passato come spazio del peccato, il presente dell'espiazione, il futuro della redenzione e salvezza. Questo semplice modello triadico ha una ricorrenza quasi ossessiva nelle forme occidentali, fra le quali la medicina (malattia, diagnosi, cura), psicoanalisi (disturbo, terapia, guarigione), scienza (ignoranza, sperimentazione, scoperta). La triade è il "coefficiente a-storico" necessario a profilare la possibilità di un progresso, che si esercita eminentemente nello scenario tecnico. Qui, l'uomo che soccombe alle fatiche naturali della sopravvivenza, del parto e del lavoro (così come minacciato nella Bibbia) ha modo di riscattare la propria difficoltà attraverso mezzi che ne purificano endemicamente l'opera, al costo di un esaurimento delle risorse naturali. Ma, in fondo, la loro esistenza è preposta a questo.  Non si definisce né "credente" (in senso cattolico) né "non-credente", ma "greco-romano", nel senso di colui che vuole recuperare la visione del mondo della civiltà greco-romana, in modo nietzschiano e heideggeriano (si veda anche Il detto di Anassimandro, un noto saggio di Heidegger sul pensiero greco arcaico), fondendola però con la pur antitetica visione cristiana: la morte e la vita vanno pertanto prese sul serio, e non minimizzate pensando a un'altra vita ultraterrena. La ragione è importante perché, come nel detto "Conosci te stesso", fornisce all'uomo il senso del proprio limite.  Approfondisce molto la tematica del concetto di tempo e del suo rapporto con l'uomo. La sua indagine evidenzia come nell'età degli antichi – eta greco-romana, eta classica -- non si pensasse al tempo come lineare ed escatologico, tanto meno vi era associata l'idea di progresso. Essi concepivano l'essere come kyklos (tempo ciclico, l’eterno ritorno di Nietzsche), come un ciclo in cui ogni evento è destinato a ripetersi. Nella filosofia greco-romana antica era impensabile che l'uomo potesse esercitare un controllo sul cosmo, o di imporre su di esso i propri fini. La dimensione dell'uomo era inserita armonicamente all'interno dei cicli naturali che si susseguivano necessariamente e senza alcuno scopo. Nel ciclo infatti il fine (in greco telos) viene a coincidere con la fine e la forza propulsiva (in greco energheia, actus) porta all'attuazione dell’ergon, l'opera, ciò che è compiuto.   Il ciclo si manifesta dunque con l'esplicitarsi dell'implicito.Il seme diventerà frutto solo alla fine del ciclo di crescita e maturazione stagionale, e il frutto coinciderà con il fine del seme, con il dispiegarsi completo dell'energia e delle potenzialità implicitamente contenute in esso. Nel ciclo, in cui tutto si ripete, non si dà progresso: di conseguenza divengono fondamentali la memoria dei cicli passati e quindi la parola dei vecchi, deposito di esperienza, e l'educazione, come trasmissione della memoria e dell'esperienza passata. Tuttavia, l'uomo è da sempre tentato di conciliare il tempo ciclico della natura con il tempo umano, che è un tempo “scopico” (dal greco skopein, che indica un guardare mirato). Con questa operazione l'uomo vuole reintrodurre scopi umani nel tempo naturale, naturalmente privo di scopi. Emerge qui dunque la necessità propriamente umana di progettarsi, cioè di gettarsi-fuori di sé verso un obiettivo, cercando di dotare di senso la propria esistenza. Questa tendenza tuttavia, può armonizzarsi con il “kyklos” solo se l'uomo vive con la consapevolezza tragica di non poter oltrepassare i limiti posti dalla natura, primo tra tutti la sua mortalità. In caso contrario, egli si macchierà di hybris (superbia), la tracotanza, l'unico vero peccato riconosciuto dalla saggezza greco-romana.In termini esemplificativi, il cacciatore esercita il suo guardare mirato nel bosco (skopos) e solo in questo tempo progettuale e nella compresenza di mezzi e fini, il suo arco diventa strumento e la lepre l'obiettivo. Si tratta di un tempo lineare che si muove tra due estremi: i mezzi e i fini (la ragione come phronesis or prudentia).V'è tuttavia un elemento che si inserisce tra questi termini, impossibile da controllare, ovvero il kairos, il tempo opportuno, che è anche imprevedibilità, e che può determinare o meno l'incontro tra mezzi e fini. Non è dunque nelle possibilità dell'uomo il tessere il proprio destino. Egli deve saper cogliere il kairos, la circostanza favorevole, e in essa espandere sé stesso.  Questo equilibrio tra tempo naturale, umano e del kairos è stato sconvolto dall'uomo nell'età della tecnica: obiettivo di quest'ultima è infatti quello di ridurre fino ad annullare la distanza tra mezzi e scopi (in cui si inseriva il kairos, l'imprevedibile) per realizzare così un controllo e un dominio assoluti sul mondo, che da cosmo a cui accordarsi è divenuto natura da dominare, e per portare a compimento una tirannia completa del tempo umano. Con l'età della tecnica abbiamo scatenato il Prometeo che gli dèi avevano incatenato, determinando il trionfo del potere della techne sulla necessità (in greco ananke) della natura, fino alla paradossale situazione in cui la tecnica non è più strumento nelle mani dell'uomo ma è l'uomo a trovarsi nella condizione di mero ingranaggio, funzionario inconsapevole dell'apparato tecnico.  Riflettendo sulle modalità in cui l'uomo abita il mondo, approfondisce il concetto di ‘corpori.’ Studiando genealogicamente il concetto di corpo dal periodo romano antico – quale e la etimologia di corpo? Quella di Platone e terribile: soma sema --  mette in contrasto le diverse modalità in cui esso è stato osservato. I corpori – corpus romano, pl. corpora – corpore -- sono visto come organismi da sanare per la scienza, come forza lavoro da impiegare per l'economia (body-abled man), come carne da redimere per la religione, come inconscio (id) da liberare per la psicoanalisi, come supporto di segni (semiotica corporale – la semiotica dei corpi) -- da trasmettere per la sociologia – un segno e un medio fisico – l’immagine e percipita per un corpo – un corpo mittente – un corpo che recive il messagio – semiotica fisica. L'uomo e capace di cappire significatum ambi-valente (uno senso Fregeiano e una implicatura – “He is a fine friend +> He is a scoundrel). Questo significatum ambivalente e fluttuante e quello che il corpo ha da sempre assunto. Questa ambivalenza del segno fra corpo 1 e corpo 2 nasce dal suo sottrarsi all'uni-vocità (or aequi-vocita – or aequi-segno) di una teoria psicologica categorizzante, concedendosi invece una “con-fusione” de un codex di senso fregiano e un codex di implicatura, con i quali i corpori sono costituito. Per salvarsi di un panico creato da questa ambivalenza (significatum fregeano, significatum griceianum), si sigue il principio d'identità, collocando i corpori di volta in volta sotto un equi-valente generico che gli garantisse uni-vocità o aequi-vocita (quando l’implicatura e cancellata). Cogliendo lo sfondo in cui i corpori si mostrano, si evidenzia la legge fondamentale che lo governa, ovvero lo “scambio” (o ‘con-versazione’) simbolica – il simbolo e il significatum griceiano -- in cui tutto è re-versibile e non vi è demarcazione tra significati – questo che Grice chiama la ‘indeterminazione disgiontiva infinita: il corpo significa che p1 o p2 o p3 o … L'ambivalenza del segno è una legge inclusiva per cui ciò che è, è sì sé stesso (principio d’identita), ma anche altro da sé (principio della negazione – diaphoron).  In questo modo i corpori conservano la sua oscillazione simbolica tra vita e morte: oscillazione che non posse eliminarsi tracciando una violenta disgiunzione tra vita e morte, tra ciò che è (l’ente, il ‘being’ di Grice) e ciò che non è (vide Grice, “Negazione e privazione).Proposito conclusive è quello non tanto di emancipare o liberare i corpori dalla restrizione impostagli dal senso apolineo fregeiano (che non avrebbe altro effetto che confermare i limiti in cui i due corpori sono reclusi), bensì quello di restituire i corpori alla sua originaria innocenza.  Si è sempre schierato su posizioni fortemente anticapitaliste, esprimendosi e professandosi inequivocabilmente comunista. è stato ufficialmente richiamato da Venezia a volersi attenere alle corrette regole di citazione degli scritti di altri autori. Questo per aver riportato alcuni brani di altri autori senza citarli in. Tutto ha avuto inizio quando in seguito a un articolo de Il Giornale è emerso che aveva copiato "una decina di brani" di Sissa per un saggio. Ha ammesso di aver violato il diritto d'autore riservandosi di riparare al danno. Ciò non ha comunque soddisfatto Sissa perché “quello non chiedere scusa, piuttosto un cercare delle scuse, un patetico arrampicarsi sugli specchi. Con il passare del tempo sono emersi altri precedenti analoghi. Infatti anche per il saggio su Heidegger, copia Zingari. I due arrivarono a un accordo che prevedeva l'ammissione da parte di Galimberti dell'indebita appropriazione intellettuale nelle successive edizioni del libro e da parte di Zingari l'impegno "a non tornare più sulla questione". Oltre a Sissa e Zingari sono stati copiati testi di Cresti, Natoli e Bradatan. Per difendersi, dice che "in ogni ri-elaborazione però, c'è uno scatto di novità".  L'inchiesta giornalistica de Il Giornale ha accertato che due dei saggi, presentati al concorso a Venezia erano stati copiati da altri autori. La commissione giudicante composta all'epoca non si accorse del fatto. Il rettore ha detto che "non ho, ora come ora, estremi per sollecitare il ministero, deve essere un professore del raggruppamento a farlo. Di mio posso dire che in ambito umanistico si producono troppi testi e che questo è uno dei fattori che causano l'impossibilità di fare controlli accurati. Nello specifico, secondo me dovrebbe essere Galimberti, nel suo interesse, a chiedere la convocazione di un giurì o comunque a rispondere e a specificare le sue posizioni.”Nel giugno  la rivista L'indice dei libri del mese ha pubblicato nel proprio sito un lungo articolo su altri copia-incolla. In particolare il saggio sul mito è stato indicato come costituito al 75% da un "riciclaggio" di suoi scritti precedenti, per il restante 25%, una ristesura di intere frasi e paragrafi, presi da altri autori, quasi identici agli originali. Le accuse mosse a Galimberti sono poi diventate un saggio, “La mistificazione intellettuale (Coniglio Editore, ), in Bucci, elenca i nomi dei pensatori da cui avrebbe tratto parti di testi senza citare la fonte. Vattimo ha dichiarato al Corriere della Sera: «si scrive anche a distanza d'anni dalla lettura; la spiegazione è plausibile. Lui cita l'autore la prima volta; poi ci mette quelle frasi che ricorda anche senza virgolettarle. Il sapere umanistico è retorico. Noi si lavora su altri testi, si commenta. Platone e Aristotele sono stati saccheggiati da tutti. Nella filosofia è tutto un glossare. C'è chi copia dagli altri e chi da sé stesso».Altre opere: ROMA SERMO ROMANVM -- Milano, Mursia). Agire (Milano, Apogeo);  Amore. Assisi, Cittadella Editrice,.Tra il dire e il fare. – dire e una forma di fare --  Il viandante della filosofia, con Marco Alloni, Roma, Aliberti,.Parole d'ordine, Milano, Apogeo,.  Amore. Milano, AlboVersorio. Amante, amato, amico --” Napoli-Nocera Inferiore (SA), Orthotes,.  “Il bello” Napoli-Nocera Inferiore (SA), Orthotes,. Eros e follia, Mariapia Greco, Lecce, Milella Editore. Fenomenologia del corpo, Milano, Feltrinelli – cf. Grice on ‘body’ – in “Personal Identity” “I fell from the stairs” -- Dall'inconscio al simbolo, Milano, Feltrinelli, 2“Equivoci” (Milano, Feltrinelli); Parole nomadi, Milano, Feltrinelli; I vizi capitali e i nuovi vizi, Milano, Feltrinelli. Amore, Milano, Feltrinelli. Treccani. Umberto Galimberti, nato a Monza nel 1942, è stato dal 1976 professore incaricato di  Antropologia Culturale e dal 1983 professore associato di Filosofia della Storia. Dal 1999 è professore ordinario all'università Ca' Foscari di Venezia, titolare della cattedra di Filosofia della Storia. Titolo opera: Le cose dell'amore. Il libro è di: saggistica, cioè appartiene al genere letterario dei saggi. Sommario: A) Riassunto per capitoli: I  CAPITOLO “Amore e trascendenza”: La metafora di Dio è sempre stata collegata alla  metafora dell'amore, nel senso che senza la presenza della trascendenza, cioè che è al di là dei limiti di ogni conoscenza possibile e quindi superiore alla ragione umana, l'amore perde la sua forza e la sua capacità di leggere il mondo. Rimane un enigma dove l'amore vede in Dio la sua trascendenza, e Dio vede nell'amore la sua natura,e questo intreccio non presenta sentimentalismi ma solo il nesso tra amore e trascendenza. II  CAPITOLO “Amore e sacralità”: La sacralità è dovuta dal desiderio dell'uomo di  immortalità e quindi dal desiderio di conservare la sopravvivenza dell'individuo e della totalità dell'essere. Oltre al sacrificio, un altro modo di sperimentare la morte della propria individualità è l'orgasmo, l'apice della vita sessuale, durante il quale l'Io e il Tu  si dissolvono, e ciò è reso possibile dalla fiducia reciproca. III CAPITOLO “Amore e sessualità”: Il sesso non è qualcosa di cui l'Io dispone, ma è qualcosa che dispone l'Io,  aprendolo così alla crisi. Nella sessualità, la meta non è il godimento dell'Io, ma il suo perdersi negli abissi dell'anima, i quali si pensa siano rimasti disabitati, e che invece possono riapparire durante quel rinnovamento della vita a cui l'Io cede ogni volta che ha un rapporto sessuale e quindi nesso con l'altra parte di sé. IV  CAPITOLO “Amore e perversione”: La perversione è sempre stata giudicata negativamente, perché concepita  come sinonimo di devianza, degrado, ribrezzo e ripugnanza. Il perverso non cerca la trasgressione, ma la sua aspirazione è di raggiungere uno stato dove è soppressa ogni nozione di organizzazione, struttura, separazione e dl'universo di differenze da cui prende avvio ogni principio d'ordine. Il godimento del perverso non deriva dalla sessualità, ma dalla sessualità portata a quel limite oltre il quale c'è l'incontro con la  morte. V CAPITOLO “Amore e solitudine”: La mitologia greca aveva divinizzato la  masturbazione, perché era espressione di autosufficienza e indipendenza dagli altri. Ma questo atto venne condannato, nell'età dei Lumi, dalla scienza medica e dall'economia: la prima sosteneva che essa provocava malattie, mentre la seconda affermava che era uno spreco. Osservando invece il fenomeno della masturbazione da un'ottica diversa da queste due discipline, questo "vizio dell'adolescente" non appare come un qualcosa da combattere, ma un qualcosa su cui fare leva per integrare gradualmente la sessualità.  VI CAPITOLO "Amore e denaro": La prostituzione è uno scambio di sesso e denaro che caratterizza il regime sessuale della nostra società, e che viene alimentato da un desiderio di rapido miglioramento delle proprie condizioni economiche. Infatti, di fronte al denaro tutto diventa merce: quando un uomo paga una donna, non le riconosce alcuna interiorità sua propria, arrivando a considerarla più come un "genere" che come "individuo". VII CAPITOLO "Amore e desiderio": L'amore è un'illusione di stabilità emotiva. Questo sentimento necessita novità, mistero e pericolo, ma deve saper combattere il tempo, la quotidianità e la familiarità. infatti, la ricerca della  sicurezza e della stabilità porta l'amore al suo degrado, perché così facendo essa non prevede l'avventura, la tensione e il senso del rischio che alimentano la passione. VIII CAPITOLO "Amore e idealizzazione": La percezione della realtà è una costruzione attiva, dove l'immaginazione, la fantasia, il desiderio, di cui l'idealizzazione amorosa è una figura, intervengono a trasfigurare i dati della realtà. Da ciò si deduce che l'oggettività è un'ideale impossibile, e infatti la convinzione di conoscere l'altro in modo oggettivo è una delle tante illusioni create dalla passione per evitare la delusione. IX CAPITOLO "Amore e seduzione": Nella vita quotidiana, la trasparenza riesce ad allargare l'orizzonte e lo scenario dischiuso dall'immaginazione. Infatti il desiderio si trova in ogni fessura della realtà che lascia trasparire un'ulteriore senso: quello dell'irreale e de-reale. Il corpo dell'altro diviene così uno specchio che riflette il nostro desiderio, e questo corpo non deve essere mai nudo, perché la seduzione si esprime attraverso le vesti, gli accessori, i gesti, la musica. X CAPITOLO "Amore e pudore": L'amore prevede che ad amare e ad essere amato sia il nostro Io, una delle due soggettività presenti in ogni individuo e che, contro la sessualità generica, impone la  barriera del pudore. Essa però non limita la sessualità ma la individua, sottraendola a quella genericità in cui si celebra il piacere senza riconoscere l'individualità. E' importante sottolineare che il pudore non è un sentimento esclusivamente sessuale, ma ha anche una valenza sociale che si pone alla difesa dell'individuo contro la pubblicizzazione del privato. XI CAPITOLO "Amore e gelosia": Nella nostra società, dove la sussistenza dipende sempre meno dalla solidità dei vincoli familiari, la gelosia è  vista come un sentimento arretrato che ostacola la libertà e la sincerità dei singoli. Essa, cha affonda le sue radici nell'infanzia non per la progressiva rinuncia da parte del  bambino al possesso esclusivo del padre o della madre, ma perché durante questo periodo chiunque ha provato sentimenti come la solitudine e la paura di essere abbandonati, altera la percezione, l'attenzione, la memoria, il pensiero e il comportamento. Per avere controllo su questo potente stato d'animo, bisogna separare progressivamente l'amore dalla ossessività, cioè civilizzarla. XII CAPITOLO "Amore e tradimento": Il tradimento risiede nella fiducia originaria, dove non c'è traccia neppure del sospetto, perché non sorgono ne l'interrogazione ne il dubbio. Ma la scoperta di quest'ultimo segna la nascita della coscienza, e questo atto è indicato dal tradimento. Sono presenti diverse reazioni al tradimento: 1)la vendetta, che non emancipa l'anima ma la irrigidisce; 2) la negazione, in cui l'individuo che ha subito una delusione tenta di negare il valore dell'altro; 3) il cinismo, che fa credere che l'amore sia sempre una delusione; 4) il tradimento di sé, che porta a tradire sé stessi e le proprie esperienze emotive; 5) la scelta paranoide, un atteggiamento legato più alla sfera del potere che a quella dell'amore. XIII CAPITOLO "Amore e odio": L'odio è il compagno inevitabile dell'amore, e la sopravvivenza di questo sentimento amoroso non dipende tanto dalla capacità di evitare l'aggressività, che è il riflesso dello stato di pericolo in cui si trova la persona che ama, quanto dalla capacità di viverla e oltrepassarla. In amore, l'individuo può accettare la dipendenza verso la persona amata, oppure per riscattarla trasforma la passione amorosa in passione aggressiva, carica di odio, dove il messaggio finale è che non si può fare a meno di questa persona. XIV CAPITOLO "Amore e passione": A differenza dell'amore, la passione non segue le regole, ignora il governo di sé, non conosce il limite e non dipende da progetti. Per questo è possibile dire che l'amore è cristiano, mentre la passione è pagana. La passione cerca rassicurazione, ma nello stesso tempo vuole essere smentita, rifiutata e delusa, perché attribuisce all'affetto, alla domesticità, all'amare e all'essere amato poca importanza. Questo perché la passione conosce il destino e non lo scambio, in quanto l'altro è considerato solo come materia per la sua creazione, ovvero la fantasia, la quale si alimenta del dubbio e dell'incertezza. XV CAPITOLO "Amore e immedesimazione": L'alienazione nell'altro per amore di sé approda o nell'assimilazione con la persona amata, che porta alla perdita della propria identità, o nel possesso della persona amata, con la tendenza ad escluderla dal mondo. Gli amanti chiamano amore questa reciproca immedesimazione, e questa rinuncia di sé e della propria libertà non esprime solo un rapporto di dipendenza, ma una vera e propria condizione di alienazione. Il mantenimento in amore della propria autonomia non solo evita l'identificazione con la persona amata, ma consente il recupero di se stesso. XVI CAPITOLO "Amore e possesso": La passione, quando non approda nell'immedesimazione con la persona amata, si indirizza verso il possesso, che riduce le relazioni della persona amata, e in cui l'amante non ama propriamente l'altro, ma solo il potere che esercita sull'altro. Dunque, chi ama per possesso non si accontenta del possesso del corpo e del godimento sessuale che ne deriva, ma pretende che la persona amata lasci per lui tutto il suo mondo, e che lo ami non solo per la sua evidente identità, ma per le sue qualità nascoste. Solo a questo punto il suo desiderio di possesso è soddisfatto ma, con la sua soddisfazione, anche la sua passione si estingue, perché non era amore per l'altro, ma era perverso amore di sé. XVII CAPITOLO "Amore e matrimonio": La nostra società è caratterizzata dall'individualismo, in cui l'individuo  vive in base alla sua personale idea di felicità, senza più subire l'influenza delle norme tradizionali. Attualmente, l'amore è slegato da ogni riferimento sociale, giuridico e religioso, e si sta diffondendo la figura de "l'uomo della passione", che attende dall'amore qualche rivelazione su se stesso o sulla vita in generale. Da una parte quindi l'amore-passione, che rappresenta l'evasione dal mondo per raggiungere in sogno la felicità assoluta, dall'altra l'amoreazione che fonda il matrimonio, che non evade dal mondo ma assume in esso il proprio impegno. XVIII CAPITOLO "Amore e linguaggio": L'amore utilizza le parole per dare espressione a ciò che la logica non sa cogliere. Infatti, i paradossi del linguaggio dell'amore cercano di infrangerla, perché la logica include la normalità e la quotidianità, mentre l'amore vuole esprimere l'eccesso, l'insolito, e non può farlo se rispetta le regole della ragionevolezza. Questo eccesso concede all'amore nuove libertà di cui ha bisogno, perché essa nasce quando è totalizzante, e infatti il linguaggio dell'eccesso pretende la totalità, dove odio e amore possono confluire e passare l'uno nell'altro. XIX CAPITOLO "Amore e follia": L'amore è quasi sempre stato considerato come un qualcosa posseduto dall'Io. Freud smentisce ciò sostenendo che non esiste una ragione onnipotente che guida la volontà che governa le ragioni, in quanto la psiche umana non è razionale. Fu Platone il primo ad interessarsi alle regole della ragione e agli abissi della follia. Egli con il termine follia indica un'esperienza dell'anima che sfugge a qualsiasi tentativo che cerchi di fissarla e disporla in successione. B) Tesi dell'autore: I CAPITOLO: L'amore non può esistere senza un raggio di trascendenza. II CAPITOLO: C'è una profonda affinità tra il sacrificio e l'atto d'amore. III CAPITOLO: L'amore non rinnega il sesso e l'erotica. IV CAPITOLO: L'amore deve sapere accettare anche la perversione. V CAPITOLO: La masturbazione è segno di solitudine. VI CAPITOLO: Con la prostituzione ciò che si  vuole comprare non è il sesso ma il potere su un altro essere umano. VII CAPITOLO: E' importante saper conciliare il bisogno di sicurezza (l'amore) e il desiderio di avventura (la passione). VIII CAPITOLO: L'idealizzazione amorosa influenza la nostra percezione della realtà. IX CAPITOLO: La vera seduzione è possibile solo quando il corpo non si riduce a quel significato univoco che è il sesso. X CAPITOLO: Il pudore è quel sentimento che difende l'individuo dall'angoscia di perdersi nella genericità animale. XI CAPITOLO: La gelosia è il rovescio della passione, dell'intimità e della dedizione che caratterizzano l'amore. XII CAPITOLO: Il tradimento è il lato oscuro dell'amore, che però è ciò che gli conferisce il suo significato e che lo rende possibile. XIII CAPITOLO: L'odio è il compagno inevitabile dell'amore, perché esso è la risposta a quella minaccia che è l'amore. XIV CAPITOLO: A differenza dell'amore, la passione non conosce limite e regole. XV CAPITOLO: L'amore non prevede la rinuncia di sé. XVI CAPITOLO: L'amore come passione è il desiderio di potenza assoluta su di una persona. XVII CAPITOLO: Il matrimonio non è supportato da alcuna buona ragione, perché nelle cose dell'amore la ragione non ha gran voce in capitolo. XVIII CAPITOLO: L'amore si affida al linguaggio per esprimere l'intreccio della nostra anima. XIX CAPITOLO: L'amore è un cedimento dell'Io per liberare in parte la follia che lo abita. C) Impressioni riportate nella lettura: A mio parere, il libro "Le cose dell'amore" è stato molto coinvolgente per i temi trattati: l'autore, grazie alla sua esperienza di vita e alla sua abilità di scrivere che non è da sottovalutare in uno scrittore, riesce a descrivere tutte le sfumature dell'amore senza cadere nella banalità e nella monotonia, tendendo sempre accesa nel lettore la voglia di proseguire la lettura. Ciò è favorito anche dal fatto che molti dei temi affrontati si riscontrano nella vita quotidiana di ognuno di noi, cioè ci riguardano da vicino perché fanno parte della società in cui viviamo: l'amore legato al denaro, e quindi al fenomeno della prostituzione, che è un problema diffuso in Italia; l'amore legato al pudore, un aspetto necessario per vivere in comunità, che quindi ha una valenza sociale; l'amore legato alla gelosia, la quale è vista come un sentimento che, in una società in cui sta avvenendo l'emancipazione dell'individuo, ostacola la libertà e la sincerità dei singoli; l'amore slegato dal matrimonio, in quanto nella nostra società si sta diffondendo l'individualismo. Difficoltà incontrate nella lettura: Durante la lettura del libro "Le cose dell'amore", ho riscontrato delle difficoltà nella comprensione di alcune frasi o parole. In qualsiasi lettura è fondamentale capire e interiorizzare tutto ciò che sta scorrendo sotto i nostri occhi, e porsi delle domande per essere certi di aver appreso tutto in maniera corretta. Se si tralascia anche un solo particolare perché non lo si riesce a comprendere fino in fondo, andando avanti nella lettura si svilupperanno sempre più problemi di condiscendenza. In questo libro ho riscontrato più di una frase, o semplicemente delle parole, che hanno sollevato delle difficoltà nella comprensione dei concetti-chiave. Ad esempio, prima di continuare lalettura mi sono dovuta soffermare su parole di cui non conoscevo il significato e che ostacolavano la mia interpretazione di questo testo, alcune delle quali sono: ambivalenza, assedio, avvedutezza, dissoluzione, ineffabilità, millanteria, parossismo, prevaricazione. In particolare, ho dovuto cercare informazioni relative al significato di due parole, trascendenza e alienazione, perché entrambe sono temi importanti affrontati rispettivamente nel capitolo I e nel capitolo XV. Era dunque necessario approfondire il concetto contenuto in queste due espressioni per raggiungere l'obiettivo di questa lettura: accrescere le nostre conoscenze. Inoltre ho avuto modo di riflettere in modo più attento e accurato sul termine "immedesimazione", che era già stato per me oggetto di studio in alcune discipline, ma non era mai stato così legato alla quotidianità, così vicino al nostro ambiente di vita. In conclusione, questo libro mi ha dato l'opportunità di ampliare il mio sapere, e soprattutto mi ha dato l'occasione di approfondire il concetto di alcune parole, elencate precedentemente, prima a me estranee. Scheda del libro  Introduzione: L’uomo, troppo spesso, tende a definire l’amore legandolo a significati  che, in realtà,  non gli appartengono completamente. Galimberti, attraverso un’attenta analisi, s’introduce all’interno del sentimento più incomprensibile ed equivocato di tutti i tempi. Egli non definisce l’amore, ma associa a questo i tanti falsi sinonimi che  gli vengono attribuiti, cercando di dimostrare che i termini non sono equivalenti ma  solo in relazione. Graficamente, dunque, l’amore e i falsi sinonimi potrebbero essere rappresentati da due insiemi, con un’ampia parte compenetrata, ma non sovrapposti. Il  risultato  evidente risulta essere un passaggio dalla amore è… ad una più ricca ed attenta osservazione di amore e… definizione abituale di Amore e... L’amore viene  analizzato in tutte i suoi aspetti, dalla trascendenza, sacralità alla perversione, seduzione, denaro,  dal pudore al tradimento, dall’immedesimazione, possesso al  matrimonio, dal linguaggio alla follia. Il sentimento più oscuro sembra nascere da un incantesimo della fantasia che fa idealizzare in un essere la persona amata e cessare con il tempo che, favorendo la realtà, finisce col produrre una disillusione delle aspettative, trasformando la passione, l'idealizzazione, iniziale in un affetto privo di partecipazione e trasporto. Le conseguenze, talvolta, possono essere anche molto gravi tanto da tramutare la passione in una patologia e sostituire ai poeti d'amore degli psicologi. La vicenda divina è legata anche all'atto sessuale in cui l'uomo trasgredisce, eccede, cadendo sotto il peso della passione che non rappresenta solo uno smarrimento del desiderio e di se stesso ma anche un vero e proprio patire. "il desiderio, per quel che ancora le parole significano, rimanda alle stelle: de-sidera" (Le cose dell'amore, 1) Come scrive l'autore, l'amore e la trascendenza vanno di pari passo e dal momento che il significato della parola desiderio rimanda alle stelle, quando esso con il tempo si estingue, non c'è più elevazione dell'anima che è in grado, trascendendosi, di lasciarsi superare. L'amore e la trascendenza, dunque, sono legati non da un rapporto reciproco, ma dal sentimento che viene sviluppato per le cose che non è possibile possedere. D ANALISI E COMMENTO: Il libro risulta essere molto interessante nelle tematiche e negli accostamenti tra gli argomenti e permette, attraverso l'uso di un linguaggio comune di poter essere compreso da diversi tipi di lettore, trattando ,infatti, un tema senza età e senza la necessità di particolari conoscenze umane o scientifiche permette a tutti di immedesimarsi, interrogarsi ed interagire conil testo ed è proprio questa compenetrazione del lettore che crea una polisemia di significati e sempre diverse chiavi di lettura sia da altre persone sia dal tempo che muta le circostanze della vita. L'autore riesce a non abbandonarsi mai in trattati banali o superficiali finendo in discorsi pesanti ed inconsistenti ma inserisce diverse tonalità che mantengono viva la curiosità e la voglia di proseguire la lettura. La contemporaneità in cui vive gli permette di rapportare al testo l'esperienza personale, permettendo che venga identificata o differenziata da quella altrui. Le tematiche attuali, lo stile concreto e il narratore in cui è possibile identificarsi mostrano, dunque, l'ottima riuscita del libro. "Amore non è solo  vicenda di corpi, ma traccia di una lacerazione, e quindi incessante ricerca di quella pienezza, di cui ogni amplesso è memoria, tentativo, sconfitta." (Le cose dell'amore, 19). conseguenza si tende ad innamorarsi solo delle persone che la fantasia porta a sognare ed idealizzare e a cadere in depressione o nel deprezzamento di se stessi se il sentimento non è ricambiato, poiché, senza l'immaginazione, che influenza la percezione ed esalta la realtà il desiderio di sicurezza potrebbe far cessare sul nascere l'amore per la paura di non essere corrisposti. L'amore, tuttavia, nelle sue molteplici identificazioni ha anche un lato oscuro, riconosciuto nel tradimento. Esso rappresenta sia il dolore per fine della fiducia, che l'inizio dello sviluppo della coscienza, infatti, solo chi si concede senza avere la sicurezza di non essere tradito può provare il vero amore. La coscienza può, emancipandosi, portare al perdono e decidere di passare oltre oppure può svilupparsi in vendetta, cinismo, svalutazione o malattia, e dal momento che questa è la strada più percorsa generalmente è bene che non si realizzi come pratica insincera ma come reciproco riconoscimento, dove chi ha tradito non cerca scuse e chi ha subito prende atto ed eventualmente accetta il cambiamento poiché tradire qualcuno, qualsiasi sia il rapporto che lega, è già una possessione che inizia il processo di arresto della propria crescita. L'amore e l'odio, invece, coesistono perfettamente, poiché solo chi ama davvero sa odiare e solo chi odia veramente è, in realtà, in grado di amare. Essi rivelando che, per vivere bene, non si può fare a meno d'altre persone, sono i soli, unici e veri sentimenti. "Amore, come Socrate ce lo ha descritto, non è tanto un rapporto con l'altro, quanto una relazione con l'altra parte di noi stessi" l'amore e le caratteristiche che gli vengono associate mettono in relazione l'uomo con la parte folle del proprio essere da cui si era discostato nel tempo. " Ora che vi ho detto tutto sull'amore, non crediate che io ne sappia più di voi: il ragazzino, il bimbo appena nato ne sanno quanto me. L'unica differenza è che lui, che non ha anni e ancor meno esperienza, crede ancora a ciò che lo tormenta; mentre noi, che siamo carichi di anni e di esperienza, cerchiamo di affidarci a essi per rendere meno dolorose le nostre illusioni. Eppure con tutto ciò, sappiamo forse amare meglio di lui?" (M. Chebel "Il libro delle seduzioni") Galimberti conclude la sua opera con questa breve citazione, in essa è racchiuso, infatti, tutto il significato dell'amore. Un sentimento inspiegabile che non è possibile conoscere né completamente né in modo uguale o simile ad altre persone, una sensazione che gratifica i bambini, poiché nella loro innocenza la vivono senza tormenti e ansietà pur conoscendola come gli adulti. AMORE È... "l'amore è un fiore delizioso, ma bisogna avere il coraggio di andarlo a cogliere sull'orlo di un abisso spaventoso" (le cose dell'amore, 116 Ivi, 120) L'amore è il più importante tra tutti i sentimenti, dal momento che è possibile associarlo a tutti gli altri. Esso è difficile da trovare e spesso viene confuso con altri molto simili ma mai uguali. Solo chi ha il coraggio di lottare, di sfidare, di mettersi in gioco, di rischiare può ottenere il vero sentimento ricercato o in ogni caso non vivere nell'illusione, riconoscendo i falsi sentimenti che cercano continuamente di insidiare un posto che non appartiene a loro. La fatica di condurre il "gioco" attraverso la strada se pur più reale, più complicata porta ad una felicità certa e vera che permette di non patire grandi sofferenze ma solo piccole illusioni riconoscendo che il male apparente non è in realtà vero male così come ciò che si definisce generalmente come bene non sempre è il vero bene.  Nella Introduzione al suo celebre libro del 1983 Il corpo(Feltrinelli, Milano, pp. 11-16), Umberto Galimberti così si esprimeva:  È forse tempo che la psicologia incominci a pensarsi contro se stesse a comprendersi al di là della sua nominazione idealistica che la propone come «discorso sulla psiche, quindi su quell'unità ideale del soggetto che la grecità ha promosso col termine ????, e a cui la psicologia non s'è ancora sottratta neppure nella sua più moderna espressione scientifica.  Ma pensare contro non significa pensare l'opposto, mantenendosi su quel medesimo terreno d opposizione in cui il conflitto, così come si genera, si riassorbe. Pensare contro significa pensare fino in fondo, quindi andare alle radici, scavando il fondo su cui si impianta il radicamento.  Questa operazione che rimuove la solidità delle radici, disloca la psicologia dal luogo che s'è data, quindi la dis-orienta, la sottrae al suo oriente, alla sua origine storica.  Quest'origine è rintracciabile nella cultura greca e precisamente in quel momento in cui la specificità dell'uomo è sottratta all'ambivalenza delle sue espressioni corporee per essere riassunta in quell'unità ideale, la psyche, che da Platone in poi, per tutto l'Occidente, sarà il luogo del riconoscimento dell'unità del soggetto, della sua identità. Ma questo luogo di identificazione contiene già il principio della separazioneperché, come coscienza di sé, la psyche incomincia a pensare per sé, e quindi a separarsi dalla propria corporeità. La prima operazione metafisica è stata un'operazione psicologica.  Nata con un significato semplicemente classificatorio per designare quei libri aristotelici che erano collocati dopo (µ?ta) i libri di fisica (t? f?s???), la «metafisica» ha guadagnato ben presto e coerentemente un significato topico che designa un al di là della natura, quindi una scienza dell'ultrasensibile che si differenzia dal mondo dei corpi perché, contro il loro divenire e mutare,  rappresenta l'immutabile e l'eterno. L'idea platonica è il modello di questa separazione e contrapposizione, e la psyche, essendo «amica delle idee, incomincerà a considerare il corpo come suo carcere e sua tomba.  Una volta che la verità è posta come idea, l'opposizione tra ideale e sensibile , tra anima e corpo, diventa l'opposizione tra vero e falso, tra bene e male. Valori logici e valori morali nascono da questa contrapposizione che la metafisica ha creato e la scienza moderna ha mantenuto, rivelando così la sua profonda radice metafisica se è vero, come dice Nietzsche, che «la credenza fondamentale dei metafisici è la credenza nelle antitesi dei valori».  A questo punto per la psicologia, pensarsi contro se stessa, pensarsi fino in fondo, fino al fondo della sua origine storica, significa pensarsi contro questa antitesi di valori che non la realtà, ma lo sguardo metafisico, con cui la psicologia ha generato se stessa, ha instaurato. È uno sguardo che ancora ospita la psicologia come residuato di quell'idealismo che, a partire da Socrate e Platone, ha percorso l'Occidente come suo lungo errore.  Da questo errore la filosofia si è emancipata con Nietzsche che ha denunciato quel retro-mondo, quell'«al di là inventato per meglio calunniare l'al di qua», ma non la psicologia, che così rimane la più occidentale delle scienze e quindi la più metafisica, se per metafisica intendiamo il pensiero  della separazione, il puro d?a ß???e??, da cui nascono quelle antitesi denunciate da Nietzsche e fedelmente riportate dal discorso psicologico sulla norma, dove si disgiungono ragione e follia.  Fattasi carico della logica della separazione inaugurata dalla disgiunzione platonica tra corporeo e ideale, la psicologia, se vuol essere coerente a se stessa, non può parlare del corpo se non impropriamente, se non per un'infedeltà al suo statuto scientifico, a meno che per corpo non intenda l'idea di corpo che come scienza s'è data. Ma se il corpo anatomico, a cui questa idea si riduce dopo che lo psichico è stato separato e autonomizzato, non è luogo in cui la psicologia si riconosce, allora del corpo la psicologia potrà parlare propriamente solo se si pronuncia contro se stessa, contro lo statuto della separazione, che è poi quell'origine metafisica da cui la psicologia è nata,  ha fondato se stessa come scienza, e ancora si conserva.(…)  Come luogo della revisione psicologica, il corpo parla simbolicamente, non nel senso in cui la psicoanalisi parla dei simboli per ribadire un'altra separazione, quella tra conscio e inconscio, dove nell'inconscio si ritrova il rovescio dell'iperuranio platonico, il 'vero' significato di ciò che si manifesta, ma nel senso di abolire la barra che ha separato l'anima dal corpo inaugurando la 'psico-logia'. Abolire la barra significa mettere assieme, s?µ-ß???e??. Proponendosi come simbolo, il corpo abolisce la psicologia come storicamente s'è  pensata in Occidente, la sradica dalle sue radici storiche, che sono poi quelle metafisiche e idealistiche, e così la costringe a pensarsi contro se stessa.  Questo pensiero che è contro, perché pensa fino in fondo, fino alle radici, incontra la corporeità che, nel suo sorgere immotivato e nel suo ambivalente apparire, dice di essere questo, ma anche quello. L'ambivalenza così dischiusa non è ambiguità, ma è quell'apertura di senso a partire dalla quale anche la ragione può fissare l'opposizione dei suoi significati ,e quindi quell'antitesi dei valori in cui si articola la sua logica disgiuntiva quando divide il vero dal falso, il bene dal male, il bello dal brutto, Dio dal mondo, lo spirito dalla materia, l'anima dal corpo.  Queste opposizioni sopprimono l'ambivalenza (?µf?) con cui la realtà corporea originariamente appare nel suo duplice aspetto, come un Giano bifronte, per instaurare quella bivalenza (bis) dove il positivo e il negativo si rispecchiano producendo quella realtà immaginaria da cui traggono origine tutte le «speculazioni». Diciamo immaginaria perché la realtà non può mai di per sé essere negativa se non per effetto di una valutazione. Ma se il negativo è da interpretare semplicemente come il «valutato negativamente», allora la negatività attiene essenzialmente al giudizio di valore. Proponendosi come questo, ma anche quello, il corpo, come significato fluttuante, che si concede a tutti i giudizi di valore, ma anche si sottrae, con la sua ambivalenza li fa tutti oscillare. Luogo e non-luogo del discorso, esso opera quel taglio geologico nella storia che ne rivela tutte le stratificazioni. Da centro di irradiazione simbolica nella comunità primitiva, il corpo, infatti, è diventato in Occidente «il negativo di ogni valore» che il gioco dialettico delle opposizioni è andato accumulando. Dalla «follia» del corpo di Platone alla «maledizione della carne» nella religione biblica, dalla «lacerazione» cartesiana della sua unità alla sua «anatomia» ad opera della scienza, il corpo vede proseguire la sua storia con la sua riduzione a «forza-lavoro» nell'economia dove più evidente è l'accumulo del valore nel segno dell'equivalenza generale, ma dove anche più aperta diventa la sfida del corpo sul registro dell'ambivalenza.  Qui «sfida» non significa che il corpo si oppone a qualcosa o a qualcuno, ma semplicemente che non si affida a una pienezza di senso e di valore, non perché abbia obiezioni o riserve che qualsiasi discorso sarebbe in grado di recuperare o di assorbire, ma perché quella pienezza di senso e di valore è cresciuta sulla sua negazione che, se da un lato ha lasciato il corpo senza senso, senza nome, senza identità, dall'altro gli ha dato la possibilità di diventare il contro-senso, colui che dissolve il Nome e risolve l'identità nelle sue adiacenze: A enon A, perché questo è il gioco dell'ambivalenza simbolica, e insieme la strada con cui il corpo può recuperarsi dalle divisioni disgiuntive in cui la struttura metafisica del sapere psicologico l'ha confinato.  Questo recupero è possibile perché il gioco dell'ambivalenza è aperto prima che il sapere metafisico fissi le regole del gioco, ma proprio perché le regole vengono dopo, questo gioco è imprevedibile, perché nessuna determinazione posta in gioco conosce la sua destinazione. L'unica certezza è quella che non ci si può sottrarre alla necessità del gioco, non si può dire l'ultima parola sul gioco e fermarlo per sempre.  Per la sua natura ambivalente, infatti, il corpo è una riserva infinita di segni, entro cui lo stesso sapere psicologico, che ha individuato nella psyche lo specifico dell'uomo, diventa a sua volta un segno, una modalità di ricognizione che non può pretendere di dire qual è il senso ultimo del corpo. Qui il corpo si cela non perché nasconde se stesso, ma perché in esso i segni sovrabbondano sulle capacità che il sapere psicologico ha di ordinarli. Il volume di senso indotto dai segni del copro prevale infatti sulla costituzione dei significati istituiti dalla rappresentazione che il sapere psicologico s'è fatto. Si tratta allora di demolire la semplicità della rappresentazione psicologica dissolvendola nella pluralità di senso che la sovrabbondanza dei segni produce.  Se ciò non accade, se la psicologia non si pensa contro la rappresentazione che si è data a partire da quell'alba greca in cui ha preso avvio l'autonomizzazione della psyche, la psicologia non giungerà mai alla comprensione dell'espressività originaria del corpo, ma sarà costretta ad errare, perché ignora l'errore che è alla base della sua fondazione epistemica, della sua nascita come scienza.  Si tratta di un errore che non investe solo il sapere psicologico ma ogni sapere razionale quando, sottraendosi alla polisemia della realtà corporea, si afferma come asserzione incontrovertibile su di essa. In questo passaggio dalla verità come ambivalenza alla verità come decisione del vero sul falso, il sapere razionale dimentica di essere una procedura interpretativa tra le molte possibili per porsi come assoluto principio, dimentica di essere un inganno necessario per dirimere l'enigma dell'ambivalenza, e in questa dimenticanza diviene un inganno perverso.  Contro questo inganno il corpo rimette in giuoco la sua natura polisemica rifiutandosi di offrirsi all'economia politica esclusivamente come forza-lavoro, all'economia libidica esclusivamente come fonte di piacere, all'economia medica come organismo da sanare, all'economia religiosa come carne da redimere, all'economia dei segni come supporto di significazioni. In questo rifiuto il corpo sottrae a tutti i saperi il loro referente, e alle economie, che su queste codificazioni hanno accumulato il loro valore, sottrae il loro senso. Ciò è possibile perché, nonostante le iscrizioni, nel loro immaginario, abbiano cercato di dividere il corpo in quei settori in cui era possibile ricondurlo all'equivalente generale in cui si esprime di volta in volta l'economia di un sapere, il corpo è ambivalente, è cioè una cosa, ma anche l'altra, per cui: o la decisione del sapere sulla divisione del corpo, o l'ambivalenza del corpo sulla frammentazione dei saperi, con conseguente dissolvimento del loro valore accumulato.  Per sfuggire a questa alternativa, che è inevitabile dal momento che ogni sapere è un'assunzione di prospettiva, quindi una selezionedella visione che diviene condizione preventiva per la delimitazione del vero e del falso, occorre riguadagnare il terreno su cui il sapere occidentale è cresciuto. Questa consapevole riappropriazione non è una regressione, non è l'abbandono del solido terreno del sapere, al contrario, è la ricostruzione genealogica del suo significato.  Riproporre l'ambivalenza del corpo non significa quindi rifiutare il sapere razionale, né tanto meno accettarne la resa, ma significa andare alle radici di questo sapere e scoprirlo per ciò che esso è: nulla di più che un tentativo per far fronte all'ambivalenza della realtà corporea che, così riscoperta, è ciò che dà ragionedelle molteplici ragioni.  Queste ragioni che i saperi tendono a soddisfare non possono più proporsi con assoluta verità, perché ormai si è scoperto che la verità non è nella lotta tra l'asserzione vera e quella falsa, ma l'apertura nell'universo del senso che l'ambivalenza della realtà corporea custodisce come luogo da cui partono tutte le decisioni scientifiche. Si tratta di un senso che sta prima di ogni significato, e che nessun significato promosso dalla decisione scientifica può abolire, perché è prima di ogni inizio e continua oltre ogni conclusione.  Ne consegue che alla metafisica dell'equivalenza produttrice di quei significati con cui in Occidente si sono fatti circolare i corpi secondo quel preciso registro di iscrizioni che di volta in volta li de-terminavano, e sulle cui determinazioni sino nati i vari campi del sapere, il corpo sostituisce il gioco dell'ambivalenza, ossia di quell'apertura di senso che, venendo prima della decisione dei significati, li può mettere tutti in gioco col corredo delle loro iscrizioni in quell'operazione simbolica in cui il sapere perde la sua presa, perché la delimitazione dei campi in cui da sempre si è esercitato si è simbolicamente con-fusa.  Questa è la sfida del corpo, una sfida che è già iniziata se c'è da dar credito a quella «crisi delle scienze europee» denunciata da Husserl. Niente di più benefico. Sono i primi effetti di quella violenza simbolica rispetto a cui quella razionalistica è in ritardo di una generazione, perché ancora crede in una controparte, e quindi non sa che ogni parte e ogni controparte altro non sono che l'effetto di quell'operazione disgiuntiva che ogni ragione mette in atto per affermare il proprio sapere.  Ma quando la realtà immaginaria, prodotta dalle opposizioni polari in cui si articola ogni sapere razionale, non riesce più a farsi passare per realtà vera, in quel gioco di specchi che si frantumano a contatto con la polisemia della realtà corporea, allora si è più vicini all'ambivalenza, non per una contrapposizione dialettica o per un'opposizione organizzata, ma perché là dove tutte le maschere sono cadute, compresa quella della bivalenza codificata, ogni termine che ruota su se stesso si s-termina. Questo è l'esito simbolico che attende l'ordine strutturale di ogni sapere. E già se ne vedono le tracce. Seguendole, il corpo consegna ogni ontologia e ogni deontologia alla geo-grafia, alla grafia della terra, la più dicente, la più descrittiva, quella che non accorda privilegi metafisici, perché non conosce la mono-tonia del discorso, ma l'ambi-valena della cosa.     Fra tutte le numerose pubblicazioni di Galimberti, questa è, forse, quella che maggiormente gli ha dato visibilità e lo ha designato quale uno dei più popolari maitres-à-penser della filosofia italiana contemporanea.  È anche un'opera caratteristica, perché in essa Galimberti, curatore di rubriche di psicologia su svariate riviste illustrate, si fa campione di una rivolta della psicologia contro se stessa e cerca di scalzarne le basi storiche e ideologiche, in nome di un «pensarsi fino in fondo» che equivarrebbe, nelle intenzioni dell'autore, a un completo rovesciamento della sua prospettiva e delle sue stesse finalità.  Il punto da cui muove Galimberti per sferrare il suo attacco alla psicologia è che quest'ultima, «la più occidentale delle scienze, e quindi la più metafisica», è nata sull'idea della separazione di corpo e psyche che, partendo da Platone, percorre come un filo rosso tutta la storia del pensiero occidentale. Secondo l'Autore, la specificità dell'uomo è stata sottratta all'ambivalenza delle sue espressioni corporee in nome dell'unità ideale, quella - appunto - della psyche, divenuta l'elemento fondamentale della sua identità.  Ma il corpo, per Galimberti, è portatore di un messaggio ambivalente (non equivoco, ci tiene a precisare), secondo il quale mostra di essere questo, ma anche quello. Egli non si prende il disturbo di precisare meglio questi concetti, considerandoli - evidentemente - di per sé chiari. Afferma invece che l'ambivalenza suggerita dal corpo realizza una «apertura di senso» (bella espressione, ma altrettanto vaga del «questo» e «quello»), grazie alla quale la ragione ha la possibilità di fissare l'opposizione dei suoi significati, ossia l'aborrita «antitesi dei valori», che ha l'imperdonabile impudenza di voler distinguere il vero dal falso, il bello dal brutto, il buono dal cattivo.  Tale antitesi dei valori è, per Galimberti, la somma di tutti i vizi della filosofia; riprendendo il concetto da Nietzsche, egli la ritiene responsabile della lacerazione e della schizofrenia del pensiero occidentale, del quale traccia una veloce panoramica per mostrare - con accenti severiniani - che esso è stato un lungo, deplorevole errore, in quanto basato sulla metafisica e, quindi, sul dualismo. E il dualismo, si capisce, è un male, perché crea arbitrariamente un al di là, dal quale poter meglio calunniare l'al di qua; ovvero, per dirla in termini più razionali, perché si basa su una logica disgiuntiva che sa, vagamente, di sulfureo (d?a-ß???e??, la separazione, etimologicamente fonda il nome del Diavolo, «colui» che separa).  Questo, dunque, è un punto centrale della argomentazione di Galimberti: il pensiero che separa è malvagio ed erroneo; dunque, tutto il pensiero dell'Occidente, essendo dominato dall'idealismo e dalla metafisica, è un pensiero erroneo e foriero di tristi conseguenze.  La ricetta per uscire da questo vicolo cieco non è, come si potrebbe pensare, la logica unitiva, bensì il pensiero dell'ambiguità, dove le cose sono queste e anche quelle, allo stesso tempo; ossia, dove rinviano a una polisemia che può essere interpretata, volta a volta, in un senso come nell'altro. Anche la psicoanalisi è una scienza metafisica, anzi, la più metafisica di tutte, perché reintroduce, attraverso la contrapposizione di conscio e inconscio, la lacerazione platonica e cristiana tra anima e corpo, tra spirito e materia; e fornisce una immagine distorta dell'uomo.  È a partire da questo punto che il ragionamento di Galimberti si fa propriamente filosofico, oltrepassando il campo ristretto della psicologia.  Invece di accettare l'ambivalenza del corpo, la logica disgiuntiva (dell'economia, della medicina, della religione e della psicanalisi) instaura la sua «bivalenza», dove il positivo e il negativo si rispecchiano in un gioco di riflessi che rimanda sempre a una rigida contrapposizione, a una polarità di «interpretazioni della realtà». Ma perché interpretazioni? Perché, per Galimberti, non esistono il positivo e il negativo, bensì la valutazione positiva e la valutazione negativa di fatti e situazioni che potrebbero essere anche i medesimi, guardati però da differenti punti di vista.  Eccoci arrivati, dunque, nel castello del mago Atlante, dove le cose non sono quelle che sono, ma quelle che vorremmo (o che temiamo) che esse siano. Come in  un labirinto di specchi, a metà fra Borgés e Pirandello, noi nulla sappiamo delle cose che vediamo e con le quali ci confrontiamo, bensì emettiamo giudizi di valore che ce le fanno percepire in un modo piuttosto che in un altro. Rashomon di Kurosawa o Sei personaggi in cerca d'autore: sia come sia, la negatività è un giudizio di valore; e il corpo, da Platone in poi, è il negativo: dunque, la negatività del corpo è frutto di un giudizio di valore.  Anche se sostiene di non indulgere a una modalità di pensiero irrazionalistica, Galimberti sostiene che ogni ragione si serve di una logica disgiuntiva allo scopo di affermare se stessa, ossia il proprio sapere. Così, la psicologia afferma la separazione della psyche dal corpo, per poter affermare il proprio sapere su di essa; esattamente come l'economia politica afferma la separazione della forza-lavoro dalla totalità della persona, per poter affermare il suo controllo sulla prima (e a danno della seconda).  Senonché, le opposizioni su cui si articola ogni sapere razionale sono, in realtà, «immaginarie»: non attengono alla dimensione della realtà, ma a quella dell'alienazione dalla realtà. Ci si potrebbe chiedere in che cosa questa realtà ulteriore, questa realtà vera che sta dietro la facciata della realtà (immaginaria), sia più reale di quella; su che cosa fondi la sua pretesa di non essere vittima dell'alienazione metafisica; in base a quali criteri la si possa considerare più concreta, più effettuale della deprecata «antitesi dei valori».  Galimberti non affronta esplicitamente la questione, ma sembra intuire la possibile critica e anticipa eventuali obiezioni affermando che, quando il pensiero è capace di accettare l'ambivalenza (e non la bi-valenza, che è tutt'altro) delle cose, allora cadono tutte le maschere e si è più vicini alla loro realtà. O meglio, egli non adopera l'imbarazzante espressione «realtà»; glorifica l'ambivalenza in se stessa, come concetto del tutto auto-evidente; gli basta impedire che il pensiero duale, oppositivo, bivalente, non riesca a farsi passare per la «realtà vera».  Ma questa «realtà vera», in ultima analisi, esiste o non esiste? Galimberti non risponde, l'abbiamo già detto; si limita ad osservare, con ironia un po' pesante, che coloro i quali si attardano nel pensiero oppositivo - che, dice, è di per sé violento - non sanno di essere in ritardo rispetto alle lancette della storia: perché credono ancora in una controparte, e non sanno che «ogni parte e ogni controparte altro non sono che l'effetto di quell'operazione disgiuntiva che ogni ragione mette in atto per affermare il proprio sapere».  Vi sono echi minacciosi in questa affermazione (il trotzkiano «cestino della spazzatura della storia» ove precipitano i non rivoluzionari, in tempi di rivoluzione), ma anche un po' patetici (l'ultimo soldato giapponese che continua a combattere nella giungla per una guerra che è vane questioni, senza rendersi conto di appartenere a una razza che si è estinta.  Si tratta di una posizione quanto mai radicale, poiché equivale alla condanna senza appello di tutta la filosofia occidentale, da Platone in poi; anzi di ogni sapere, «dal momento che ogni sapere è un'assunzione di prospettiva, quindi una selezionedella visione che diviene condizione preventiva per la delimitazione del vero e del falso».   Ma il vero e il falso, in se stessi, non esistono; così come non esistono le verità di principio, ma solo le verità di fatto. Non esistono verità, dunque non esistono saperi che possano presentarsi come portatori di verità: i saperi sono sempre strumentali, parziali, relativi.  È incredibile: siamo in piena sofistica, che Socrate aveva già brillantemente confutato circa ventitré  secoli fa; ma Galimberti ci presenta le sue conclusioni come se fossero qualcosa di staordinariamente nuovo, riconoscendosi - casomai - un continuatore radicale dell'opera di Nietzsche.  «Queste ragioni che i saperi tendono a soddisfare - afferma Galimberti con la massima disinvoltura -non possono più proporsi con assoluta verità, perché ormai si è scoperto che la verità non è nella lotta tra l'asserzione vera e quella falsa, ma l'apertura nell'universo del senso che l'ambivalenza della realtà corporea custodisce come luogo da cui partono tutte le decisioni scientifiche». E aggiunge che «si tratta di un senso che sta prima di ogni significato»; ma, di novo, non ci spiega in che modo egli arguisca l'esistenza di questo «senso originario», dato che tutti i sensi che noi diamo alle cose forzano la loro vera essenza.     Arrivati a questo punto, possiamo fare alcune osservazioni conclusive.  Punto primo: che il pensiero idealistico sia stato tutto un lungo errore, forse bisognava sforzarsi di dimostrarlo e non darlo per scontato al principio di un libro interamente dedicato alla discussione degli effetti negativi di un tale errore.  Punto secondo: che non esista alcun criterio di verità, è posizione filosoficamente rozza e semplicistica. Altro è affermare che la verità è difficilmente accessibile, altro è affermare che ogni verità è una forma di violenza che i «saperi» cercano di imporre per fondare se stessi. La filosofia è frutto di sottili distinzioni, di una particolare sensibilità per le sfumature; ma qui, sulla scorta di Nietzsche, si fa filosofia veramente a colpi di martello (e non è un complimento).  Punto terzo: che il corpo sia il luogo privilegiato in cui la realtà ci svela il suo volto ambivalente, aiutandoci a liberarci dalle pastoie alienanti del pensiero disgiuntivo, è - ancora una volta - posto ma non discusso, e tanto meno dimostrato.  Eppure è fin troppo facile osservare che, se l'introduzione della psyche ha relegato il corpo al ruolo di «negativo», l'esaltazione del corpo che fa Galimberti sembra ribaltare la prospettiva, senza modificarla «alle radici» (come egli sostiene di voler fare). Ossia, a questo punto è la psyche che rischia di diventare il negativo o, quanto meno, il luogo dell'errore, dell'illusione, della disgiunzione. Ma sarebbe perfettamente  inutile muovere una simile obiezione a Galimberti: egli vi risponderebbe, come ha fatto in più occasioni, che la psyche non è altro dal corpo, che è corpo anch'essa, perché tutto è corpo.  La sua intera filosofia non è che una assolutizzazione della corporeità; e, pur di sostenere questa tesi, egli arriva a sostenere, senza batter ciglio, che l'anima è una «invenzione» dei cristiani, avvenuta nel IV secolo dopo Cristo (cfr. il nostro precedente articolo Umberto gGlimberti e la morale del cristianesimo, sempre sul sito di Arianna Editrice).  Ma davvero basta dire che tutto è corpo, per eliminare l'antitesi dei valori e restaurare l'età dell'oro del pensiero (del pensiero?) ambivalente, dove le cose sono finalmente se stesse e non quello che noi giudichiamo che esse siano?  Ora, è verissimo che la vita, nel suo livello immediato e quotidiano, procede per giudizi di valore che sono spesso affrettati, imprecisi, immotivati e, soprattutto, soggettivi. Da ciò, tuttavia, non discende che il rimedio consista nel proclamare la relatività di tutti i valori e l'inesistenza di ogni criterio di verità. Questo sarebbe quel che si dice curare il mal di testa con le decapitazioni.  Esistono altri livelli di esistenza - non solo di tipo razionale, su questo siamo d'accordo con Galimberti -, ai quali è possibile accedere, e nei quali si può intravedere, pur senza possederlo interamente, un criterio di verità capace di sottrarre le cose al gioco degli specchi della loro incessante mutevolezza.  Se non credessimo a questo, dovremmo non solo sospendere ogni giudizio di valore, ma rinunciare a ogni possibilità di avvicinarci al vero, al bello e al buono; in altre parole, dovremmo ritirare un rigo su ogni possibilità di fare non solo psicologia, ma anche filosofia.     Queste, e non altre, sono le conclusioni coerenti del ragionamento di Galimberti: per cui, ad essere rigoroso, egli dovrebbe dichiarare non la riforma della psicologia, ma la sua soppressione radicale; e, quanto alla filosofia, la sua estinzione irreversibile. Come è possibile continuare a ragionare in termini filosofici, se dobbiamo prendere atto che non esistono controparti, ma solo ambivalenze che è possibile tirare ora in qua e ora in là, secondo il nostro umore del momento?  Si badi: quello che propone Galimberti non è un pensiero complementare, come lo è - ad esempio - il taoismo, il quale, giustamente, ci ricorda che non esiste luce senza buio, caldo senza freddo, gioia senza dolore. No, si tratta qui di un relativismo puro e semplice: io dico che questa cosa è calda, tu dice che è fredda; forse lo dirò anch'io, domani, se me ne verrà la voglia; per intanto, abbiamo ragione tutti e due. Io ho la mia verità, tu la tua; e sappiamo che entrambe sono vere, o che entrambe possono esserlo, o che entrambe lo sono state o lo saranno.  Il relativismo  è una cattiva filosofia, anzi è l'impossibilità di fare filosofia.  Eppure, questi sono gli applauditissimi maitres-à-penser della cultura odierna.Umberto Galimberti. Galimberti. Keywords: il sessuale, l’immaginario sessuale, sesso, Why did the Romans need to distinguish between ‘amatus’ and ‘amicus’? -- amore, follia, jung, simbolo, sole-fallo, simbolo, simboli di jung, I corpi d’amore, I corpi d’amore sessuale – immaginario sessuale, immaginario collettivo sessuale, cose dell’amore, platone, il convito, I corpi, I gesti – I gesti dei corpi. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Galimberti” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51690260374/in/photolist-2mRdKdB-2mQ81kz-2mPZ2Vc-2mPkobg-2mPnrMV-2mN8ym7-2mKyyDD-2mKG8fP-2mKG6xL-2mKDZmL-2mF2HcQ

 

Grice e Galli – filosofia italiana – Luigi Speranza (Carru). Filosofo. Celestino Galli. Interesting philosopher. Not to be confused with Galli.

 

Grice e Galli – sull’amore -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Montecarotto). Filosofo. Compiute gli studi classici con assoluta regolarità, si iscrive alla Facoltà di Filosofia a Roma, dove ha come maestri, tra gli altri,  Varisco e Barzellotti. Da Varisco apprende il rigore del metodo negli studi filosofici. Da Barzelotti aprende la passione per le ricerche storiche e le vaste esplorazioni letterarie. Si laurea sotto Barzellotti con il massimo dei voti dopo aver discusso “Kant e Rosmini” (Lapi, Citta di Castello); Insegna a Senigallia, Bologna, e Firenze. In “I principii della scuola, con particolare riguardo alla scuola elementare” (Il Risveglio Scolastico, Milano). Insegna a Cagliari e Torino. Figura centrale della filosofia italiana, Galli esordisce con una ricerca sullo sviluppo della filosofia kantiana e quella di Rosmini; temi che non solo non si stanca mai di ampliare ma affina in ulteriori indagini. Esegue vaste indagini sulla storia della filosofia. Socrate, Platone, Aristotele, Cartesio, Bruno, Leibniz, e Renouvier.  «L'uno e i molti” (Chiantore, Torino) certifica la teoria. Gli procura l'interesse di larga parte del mondo filosofico italiano per le conclusioni sui rapporti tra il sentimento e la reflessivita. Ampie le discussioni, e talora vivacissime, su autori contemporanei, dai quali esige rigore, chiarezza e intransigenza speculativa. Organo di polemiche e di interventi nella vita della cultura italiana contemporanea è «Il Saggiatore», da lui fondata, Privo di ambizioni mondane, sempre affabile, ama la compagnia delle persone colte e la conversazione delle anime semplici, destinate al bene e alla verità. Confida soprattutto nella scuola, veicolo ideale per dare alle generazioni nuove volontà, serietà, cultura adeguata ai tempi. Una scuola che studia, senza divagare e che sappia attingere costantemente alle fonti del sapere, ama ripetere. Grazie al suo ininterrotto lavoro di studioso, il mondo accademico italiano ha beneficiato di un numero impressionante di sue pubblicazioni, fatto di saggi, manuali per le scuole, opuscoli e articoli per riviste specializzate. Si dedica all'arte e alla religione, completando, in questa maniera, il panorama delle sue indagini. La Scuola media statale di Montecarotto ha aggiunto all'intestazione il nome di "Gallo Galli".  Altre opere: La filosofia teoretica dei manuali, Oderisi, Gubbio, Dialettica dello spirito” (I., Oderisi, Gubbio); “Lineamenti di filosofia, Azzoguidi, Bologna; La dimostrazione dell'esistenza del mondo esterno e il valore pratico delle qualità sensibili secondo Cartesio, Oderisi, Gubbio); Renouvier. II. La legge del numero, D. Alighieri, Milano, Le prove dell'esistenza di Dio in Cartesio (Valdes, Cagliari);:La dottrina cartesiana del metodo, D. Alighieri, Milano); “La filosofia di Leibniz: Facoltà di Magistero, Torino, Statuto, Torino); “Studi cartesiani, Chiantore, Torino); “Cartesio, Chiantore, Torino, “Dall'essere alla coscienza, Chiantore, Torino); “L’idealismo” (Gheroni, Torino); “PComenio, Gheroni, Torino); “La Filosofia greca: I sofisti, Socrate, Platone. Torino. Facoltà di Magistero. heroni, Torino, Leibniz, Milani, Padova); “Carlini ed altri studi; da Talete al "Menone" di Platone; il problema di Cartesio, per la fondazione di un vero e concreto immanentismo, Gheroni, Torino, Corso di storia della Filosofia: Aristotele, Gheroni, Torino, Da Talete al menone di Platone, Gheroni, Torino, Tre studi di filosofia: pensiero ed esperienza, sulla persona, su Dio e sull'immortalità, Gheroni, Torino Socrate ed alcuni dialoghi platonici: Apologia, Convito, Lachete, Eutifrone, Liside, Jone, Giappichelli, Torino, Linee fondamentali d'una filosofia dello spirito, Bottega d'Erasmo, Torino, L'idea di materia e di scienza fisica da Talete a Galileo, Giappichelli, Torino, L'uomo nell'assoluto, Giappichelli, Torino, La vita e il pensiero di Giordano Bruno, Marzorati, Milano Sguardo sulla filosofia di Aristotele, Pergamena, Milano, Platone, Pergamena, Milano 1974. Di carattere pedagogico Filosofia (Oderisi, Gubbio). Idealismo, spiritualismo ed esistenzialità nella metafisica in Galli; Cartesio, in Italia. Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 51, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,  Persée. Portail de revues en sciences humaines et sociales, su persee.fr. There is another Galli, who also did philosophical studies – but his brother was more famous, the author of Tabula philologica.  Platone FEDRO FEDRO: Dalla casa di Lisia, Socrate, il figlio di Cefalo, (1) e vado a fare una passeggiata fuori dalle mura. Ho passato parecchio tempo là seduto, fin dal mattino; e ora, seguendo il consiglio di Acumeno,(2) compagno mio e tuo, faccio delle passeggiate per le strade, poiché, a quanto dice, tolgono la stanchezza più di quelle sotto i portici. SOCRATE: E dice bene, amico mio. Dunque Lisia era in città, a quanto pare. FEDRO: Sì , alloggia da Epicrate, nella casa di Monco, quella vicino al tempio di Zeus Olimpio.(3) SOCRATE: E come avete trascorso il tempo? Lisia non vi ha forse imbandito, è chiaro, i suoi discorsi? FEDRO: Lo saprai, se hai tempo di ascoltarmi mentre cammino. SOCRATE: Ma come? Credi che io, per dirla con Pindaro, non faccia del sentire come avete trascorso il tempo tu e Lisia una faccenda «superiore a ogni negozio»? (4) FEDRO: Muoviti, allora! SOCRATE: Se vuoi parlare. FEDRO: Senza dubbio, Socrate, l'ascolto ti si addice, poiché il discorso su cui ci siamo intrattenuti era, non so in che modo, sull'amore. Lisia ha scritto di un bel giovane che viene tentato, ma non da un amante, e ha comunque trattato anche questo argomento in modo davvero elegante: sostiene infatti che bisogna compiacere chi non ama piuttosto che chi ama. SOCRATE: E bravo! Avesse scritto che bisogna compiacere un povero piuttosto che un ricco, un vecchio piuttosto che un giovane, e tutte quelle cose che vanno bene a me e alla maggior parte di voi! Allora sì che i suoi discorsi sarebbero urbani e utili al popolo! Io ora ho tanto desiderio di ascoltare, che se facessi a piedi la tua passeggiata fino a Megara e, seguendo Erodico,(5) arrivato alle mura tornassi di nuovo, non rimarrei dietro a te. FEDRO: Cosa dici, ottimo Socrate? Credi che io, da profano quale sono, ricorderò in modo degno di lui quello che Lisia, il più bravo a scrivere dei nostri contemporanei, ha composto in molto tempo e a suo agio? Ne sono ben lungi! Eppure vorrei avere questo più che molto oro. SOCRATE: Fedro, se io non conosco Fedro, mi sono scordato anche di me stesso! Ma non è vera né l'una né l'altra cosa: so bene che lui, ascoltando un discorso di Lisia, non l'ha ascoltato una volta sola, ma ritornandovi più volte sopra lo ha pregato di ripeterlo, e quello si è lasciato convincere volentieri. Poi però neppure questo gli è bastato, ma alla fine, ricevuto il libro, ha esaminato i passi che più di tutti bramava; e poiché ha fatto questo standosene seduto fin dal mattino, si è stancato ed è andato a fare una passeggiata, conoscendo, corpo d'un cane!, il discorso ormai a memoria, credo, a meno che non fosse troppo lungo. E così si è avviato fuori dalle mura per recitarlo. Imbattutosi poi in uno che ha la malattia di ascoltare discorsi, lo ha visto, e nel vederlo si è rallegrato di avere chi potesse coribanteggiare con lui (6) e lo ha invitato ad accompagnarlo. Ma quando l'amante dei discorsi lo ha pregato di declamarlo, si è schermito come se non desiderasse parlare: ma alla fine avrebbe parlato anche a viva forza, se non lo si fosse ascoltato volentieri. Tu dunque, Fedro, pregalo di fare adesso quello che comunque farà molto presto. FEDRO: Per me, veramente, la cosa di gran lunga migliore è parlare così come sono capace, poiché mi sembra che non mi lascerai assolutamente andare prima che abbia parlato, in qualunque modo. SOCRATE: Ti sembra davvero bene. FEDRO: Allora farò così . In realtà, Socrate, non l'ho proprio imparato tutto parola per parola: ti esporrò tuttavia il concetto più o meno di tutti gli argomenti con i quali lui ha sostenuto che la condizione di chi ama differisce da quella di chi non ama, uno per uno e per sommi capi, cominciando dal primo. SOCRATE: Prima però, carissì mo, mostrami che cos'hai nella sinistra sotto il mantello; ho l'impressione che tu abbia proprio il discorso. Se è così , tieni presente che io ti voglio molto bene, ma se c'è anche Lisia non ho assolutamente intenzione di offrirmi alle tue esercitazioni retoriche. Via, mostramelo! FEDRO: Smettila! Mi hai tolto, Socrate, la speranza che riponevo in te di esercitarmi. Ma dove vuoi che ci sediamo a leggere? SOCRATE: Giriamo di qui e andiamo lungo l'Ilisso,(7) poi ci sederemo dove ci sembrerà un posto tranquillo. FEDRO: A quanto pare, mi trovo a essere scalzo al momento giusto; tu infatti lo sei sempre. Perciò sarà per noi facilissimo camminare bagnandoci i piedi nell'acqua, e non spiacevole, tanto più in questa stagione e a quest'ora.(8) SOCRATE: Fa' da guida dunque, e intanto guarda dove ci potremo sedere. FEDRO: Vedi quell'altissimo platano? SOCRATE: E allora? FEDRO: Là c'è ombra, una brezza moderata ed erba su cui sederci o anche sdraiarci, se vogliamo. SOCRATE: Puoi pure guidarmici. FEDRO: Dimmi, Socrate: non è proprio da qui, da qualche parte dell'Ilisso, che a quanto si dice Borea ha rapito Orizia?(9) SOCRATE: Così si dice. FEDRO: Proprio da qui dunque? Le acque appaiono davvero dolci, pure e limpide, adatte alle fanciulle per giocarvi vicino. SOCRATE: No, circa due o tre stadi più in giù, dove si attraversa il fiume per andare al tempio di Agra: (10) appunto là c'è un altare di Borea. 2  Platone Fedro  FEDRO: Non ci ho mai fatto caso. Ma dimmi, per Zeus: tu, Socrate, sei convinto che questo racconto sia vero? SOCRATE: Ma se non ci credessi, come fanno i sapienti, non sarei una persona strana; e allora, facendo il sapiente, potrei dire che un soffio di Borea la spinse giù dalle rupi vicine mentre giocava con Farmacea, ed essendo morta così si è sparsa la voce che è stata rapita da Borea (oppure dall'Areopago,(11) poiché c'è anche questa leggenda, che fu rapita da là e non da qui). Io però, Fedro, considero queste spiegazioni sì ingegnose, ma proprie di un uomo fin troppo valente e impegnato, e non del tutto fortunato, se non altro perché dopo questo gli è giocoforza raddrizzare la forma degli Ippocentauri, e poi della Chimera; quindi gli si riversa addosso una folla di tali Gorgoni e Pegasi (12) e un gran numero di altri esseri straordinari dalla natura strana e portentosa. E se uno, non credendoci, vorrà ridurre ciascuno di questi esseri al verosimile, dato che fa uso di una sapienza rozza, avrà bisogno di molto tempo libero. Ma io non ho proprio tempo per queste cose; e il motivo, caro amico, è il seguente. Non sono ancora in grado, secondo l'iscrizione delfica, di conoscere me stesso;(13) quindi mi sembra ridicolo esaminare le cose che mi sono estranee quando ignoro ancora questo. Perciò mando tanti saluti a queste storie, standomene di quanto comunemente si crede riguardo a esse, come ho detto poco fa, ed esamino non queste cose ma me stesso, per vedere se per caso non sia una bestia più intricata e che getta fiamme più di Tifone, oppure un essere più mite e più semplice, partecipe per natura di una sorte divina e priva di vanità fumosa.(14) Ma cambiando discorso, amico, non era forse questo l'albero a cui volevi guidarci? FEDRO: Proprio questo. SOCRATE: Per Era, è un bel luogo per sostare! Questo platano è molto frondoso e imponente, l'alto agnocasto è bellissimo con la sua ombra, ed essendo nel pieno della fioritura rende il luogo assai profumato. Sotto il platano poi scorre la graziosissima fonte di acqua molto fresca, come si può sentire col piede. Dalle immagini di fanciulle e dalle statue sembra essere un luogo sacro ad alcune Ninfe e ad Acheloo.(15) E se vuoi ancora, com'è amabile e molto dolce il venticello del luogo! Una melodiosa eco estiva risponde al coro delle cicale. Ma la cosa più leggiadra di tutte è l'erba, poiché, disposta in dolce declivio, sembra fatta apposta per distendersi e appoggiarvi perfettamente la testa. Insomma, hai fatto da guida a un forestiero in modo eccellente, caro Fedro! FEDRO: Mirabile amico, sembri una persona davvero strana: assomigli proprio, come dici, a un forestiero condotto da una guida e non a un abitante del luogo. Non lasci la città per recarti oltre confine, e mi sembra che tu non esca affatto dalle mura. SOCRATE: Perdonami, carissimo. Io sono uno che ama imparare; la terra e gli alberi non vogliono insegnarmi nulla, gli uomini in città invece sì . Mi sembra però che tu abbia trovato la medicina per farmi uscire. Come infatti quelli che conducono gli animali affamati agitano davanti a loro un ramoscello verde o qualche frutto, così tu, tendendomi davanti al viso discorsi scritti sui libri, sembra che mi porterai in giro per tutta l'Attica e in qualsiasi altro luogo vorrai. Ma per ì l momento, ora che sono giunto qui io intendo sdraiarmi, tu scegli la posizione in cui pensi di poter leggere più comodamente e leggi. FEDRO: Ascolta, dunque. «Sei a conoscenza della mia situazione, e hai udito che ritengo sia per noi utile che queste cose accadano; ma non stimo giusto non poter ottenere ciò che chiedo perché non mi trovo a essere tuo amante. Gli innamorati si pentono dei benefici che hanno fatto, allorquando cessa la loro passione, mentre per gli altri non viene mai un tempo in cui conviene cambiare parere. Infatti fanno benefici secondo le loro possibilità non per costrizione, ma spontaneamente, per provvedere nel migliore dei modi alle proprie cose. Inoltre coloro che amano considerano sia ciò che è andato loro male a causa dell'amore, sia i benefici che hanno fatto, e aggiungendo a questo l'affanno che provavano pensano di aver reso già da tempo la degna ricompensa ai loro amati. Invece coloro che non amano non possono addurre come scusa la scarsa cura delle proprie cose per questo motivo, né mettere in conto gli affanni trascorsi, né incolpare gli amati delle discordie con i familiari; sicché, tolti di mezzo tanti mali, non resta loro altro se non fare con premura ciò che pensano sarà loro gradito quando l'avranno fatto. Inoltre, se vale la pena di tenere in grande considerazione gli amanti perché dicono di essere amici al sommo grado di coloro che amano e sono pronti sia a parole sia coi fatti a rendersi odiosi agli altri pur di compiacere gli amati, è facile comprendere che, se dicono il vero, terranno in maggior conto quelli di cui si innamoreranno in seguito, ed è chiaro che, se parrà loro il caso, ai primi faranno persino del male. D'altronde come può essere conveniente concedere una cosa del genere a chi ha una disgrazia tale che nessuno, per quanto esperto, potrebbe tentare di allontanare? Essi stessi, infatti, ammettono di essere malati più che assennati, e di sapere che sragionano, ma non sanno dominarsi; di conseguenza, una volta tornati in senno, come potranno credere che vada bene ciò di cui decidono in questa disposizione d'animo? E ancora, se scegliessi il migliore degli amanti, la tua scelta sarebbe tra pochi, se invece scegliessi quello più adatto a te tra gli altri, sarebbe tra molti; perciò c'è molta più speranza che quello degno della tua amicizia si trovi tra i molti. Se poi, secondo l'usanza corrente, temi di guadagnarti del biasimo nel caso la gente lo venga a sapere, è naturale che gli amanti, credendo di essere invidiati dagli altri così come si invidiano tra loro, si inorgogliscano parlandone e per ambizione mostrino a tutti che non hanno faticato invano; mentre coloro che non amano, essendo più padroni di sé, scelgono ciò che è meglio in luogo della fama presso gli uomini. Inoltre è inevitabile che molti vengano a sapere o vedano gli amanti accompagnare i loro amati e darsi un gran da fare, cosicché, quando li vedono discorrere tra loro credono che essi stiano insieme o perché il loro desiderio si è realizzato o perché sta per realizzarsi; ma non provano affatto ad accusare coloro che non amano perché stanno assieme, sapendo che è necessario parlare con qualcuno per amicizia o per qualche altro piacere. E se poi hai paura perché credi sia difficile che un'amicizia perduri, e temi che se sorgesse un dissidio per un altro motivo la sventura sarebbe comune ad entrambi, mentre in questo caso verrebbe un gran danno a te, perché hai gettato via ciò che più di tutto tieni in conto, a maggior ragione dovresti temere coloro che 3  Platone Fedro  amano: molte sono le cose che li affliggono, e credono che tutto accada a loro danno. Per questo allontanano gli amati anche dalla compagnia con gli altri, per timore che quelli provvisti di sostanze li superino in ricchezza, e quelli forniti dì cultura li vincano in intelligenza; in somma, stanno in guardia contro il potere di tutti quelli che possiedono un qualsiasi altro bene. Così , dopo averti indotto a inimicarti queste persone, ti riducono privo di amici, e se badando al tuo interesse sarai più assennato di loro, verrai in discordia con essi. Chi invece non si è trovato a essere nella condizione di amante, ma ha ottenuto grazie alle sue doti ciò che chiedeva, non sarebbe geloso di chi si accompagna a te, anzi odierebbe coloro che rifiutano la tua compagnia, pensando che da costoro sei disprezzato, ma trai beneficio da chi sta assieme a te. Perciò c'è molta più speranza che dalla cosa nasca tra loro amicizia piuttosto che inimicizia. Per di più molti degli amanti hanno desiderio del corpo prima di aver conosciuto il carattere e aver avuto esperienza delle altre qualità individue dell'amato, così che non è loro chiaro se vorranno ancora essere amici quando la loro passione sarà finita; per quanto riguarda invece coloro che non amano, dal momento che erano tra loro amici anche prima di fare questo, non è verosimile che la loro amicizia risulti sminuita dal bene che hanno ricevuto, anzi esso rimane come ricordo di ciò che sarà in futuro. Inoltre ti si addice diventare migliore dando retta a me piuttosto che a un amante. Essi lodano le parole e le azioni dell'amato anche al di là di quanto è bene, da un lato per timore di diventare odiosi, dall'altro perché essi stessi danno giudizi meno retti per via del loro desiderio. Infatti l'amore produce tali effetti: a coloro che non hanno fortuna fa ritenere molesto ciò che agli altri non arreca dolore, mentre spinge coloro che hanno fortuna a elogiare anche ciò che non è degno di piacere, tanto che agli amati si addice più la compassione che l'invidia. Se dai retta a me, innanzitutto starò assieme a te prendendomi cura non solo del piacere presente, ma anche dell'utilità futura, non vinto dall'amore ma padrone di me stesso, senza suscitare una violenta inimicizia per futili motivi, ma irritandomi poco e non all'improvviso per motivi gravi, perdonando le colpe involontarie e cercando di distogliere da quelle volontarie: queste sono prove di un'amicizia che durerà a lungo. Se invece ti sei messo in mente che non possa esistere amicizia salda se non si ama, conviene pensare che non potremmo tenere in gran conto né i figli né i genitori, e non potremmo neanche acquistarci amici fidati, poiché i vincoli con essi ci sono venuti non da una tale passione, ma da altri rapporti. Inoltre, se si deve compiacere più di tutti chi ne ha bisogno, anche nelle altre cì rcostanze conviene fare benefici non ai migliori, ma ai più indigenti, poiché, liberati da grandissimi mali, serberanno la massima gratitudine ai loro benefattori. E allora anche nelle feste private è il caso di invitare non gli amici ma chi chiede l'elemosina e ha bisogno di essere sfamato, poiché costoro ameranno i loro benefattori, li seguiranno, verranno alla loro porta, proveranno grandissima gioia, serberanno non poca gratitudine e augureranno loro ogni bene. Ma forse conviene compiacere non chi è molto bisognoso, ma chi soprattutto è in grado di rendere il favore; non solo chi chiede, ma chi è degno della cosa; non quanti godranno del fiore della tua giovinezza, ma coloro che anche quando sarai diventato vecchio ti faranno partecipe dei loro beni; non coloro che, ottenuto ciò che desideravano, se ne vanteranno con gli altri, ma coloro che per pudore ne taceranno con tutti; non coloro che hanno cura di te per poco tempo, ma coloro che ti saranno amici allo stesso modo per tutta la vita; non coloro che, cessato il desiderio, cercheranno il pretesto per un'inimicizia, ma coloro che daranno prova della loro virtù quando la tua bellezza sarà sfiorita. Dunque tu ricordati di quanto ti ho detto e considera questo, che gli amici riprendono gli amanti perché sono convinti che questa pratica sia cattiva, mentre nessuno dei familiari ha mai rimproverato a coloro che non amano di provvedere male ai propri affari per questo motivo. Forse ora mi domanderai se ti esorto a compiacere tutti quelli che non amano. Ebbene, io credo che neanche chi ama ti inviti ad avere questo atteggiamento con tutti quelli che amano. Infatti né per chi riceve benefici la cosa è degna di un'uguale ricompensa, né, se anche lo volessi, ti sarebbe possibile tenerlo nascosto allo stesso modo agli altri; bisogna invece che da ciò non venga alcun danno, ma un vantaggio a entrambi. Io penso che quanto è stato detto sia sufficiente: se tu desideri ancora qualcosa e pensi che sia stata tralasciata, interroga». FEDRO: Che te ne pare del discorso, Socrate? Non è stato pronunciato in maniera straordinaria, in particolare per la scelta dei vocaboli? SOCRATE: In maniera davvero divina, amico, al punto che ne sono rimasto colpito! E questa impressione l'ho avuta per causa tua, Fedro, guardando te, perché mi sembrava che esultassi per il discorso intanto che lo leggevi. E dato che credo che in queste cose tu ne sappia più di me ti seguivo, e nel seguirti ho partecipato al tuo furore bacchico, o testa divina! (16) FEDRO: Ma dai! Ti pare il caso di scherzare così ? SOCRATE: Ti sembra che io scherzi e che non abbia fatto sul serio? FEDRO: Nient'affatto, Socrate, ma dimmi veramente, per Zeus protettore degli amici: credi che ci sia un altro tra i Greci in grado di parlare sullo stesso argomento in modo più grande e copioso di lui? SOCRATE: Ma come? Bisogna che il discorso sia lodato da me e da te anche sotto questo aspetto, ossia perché il suo autore ha detto ciò che bisognava dire, e non solo perché ha tornito ciascun termine in modo chiaro, forbito e puntuale? Se proprio bisogna, devo convenirne per amor tuo, dal momento che mi è sfuggito a causa della mia nullità. Infatti ho posto mente soltanto all'aspetto retorico del discorso; quanto all'altro, credevo che neppure Lisia lo ritenesse sufficiente. A meno che tu, Fedro, non abbia un'opinione diversa, mi è parso che abbia ripetuto due o tre volte gli stessi concetti, come se non avesse a disposizione grandi risorse per dire molte cose sullo stesso argomento, o forse come se non gliene importasse nulla; e mi sembrava pieno di baldanza giovanile quando mostrava com'era bravo, dicendo le stesse cose prima in un modo e poi in un altro, a parlarne in tutti e due i casi nella maniera migliore. 4  Platone Fedro  FEDRO: Ti sbagli, Socrate: precisamente in questo consiste il discorso. Infatti non ha tralasciato nulla di ciò che meritava d'esser detto in argomento, tanto che nessuno mai saprebbe dire cose diverse e di maggior pregio rispetto a quelle dette. SOCRATE: In questo non potrò più darti retta: uomini e donne antichi e sapienti, che hanno parlato e scritto di queste cose, mi confuteranno, se per farti piacere convengo con te. FEDRO: Chi sono costoro? E dove hai ascoltato cose migliori di queste? SOCRATE: Ora, lì per lì , non so dirlo; ma è chiaro che le ho udite da qualcuno, dalla bella Saffo o dal saggio Anacreonte o da qualche scrittore in prosa.(17) Da cosa lo arguisco per affermare ciò? In qualche modo, divino fanciullo, sento di avere il petto pieno e di poter dire cose diverse dalle sue, e non peggiori. So bene che non ho concepito da me niente di tutto ciò, dato che riconosco la mia ignoranza; allora resta, credo, che da qualche altra fonte io sia stato riempito attraverso l'ascolto come un vaso. Ma per indolenza ho scordato proprio questo, come e da chi le ho udite. FEDRO: Ma hai detto cose bellissime, nobile amico! Neanche se te lo ordino devi riferirmi da chi e come le hai udite, ma metti in atto esattamente il tuo proposito. Hai promesso di dire cose diverse, in maniera migliore e non meno diffusa rispetto a quelle contenute nel libro, astenendoti da queste ultime; quanto a me, io ti prometto che come i nove arconti innalzerò a Delfi una statua d'oro a grandezza naturale, non solo mia ma anche tua.(18) SOCRATE: Sei carissimo e veramente d'oro, Fedro, se pensi che io affermi che Lisia ha sbagliato tutto e che è possibile dire cose diverse da tutte queste; ciò, credo, non potrebbe capitare neanche allo scrittore più scarso. Tanto per incominciare, riguardo all'argomento del discorso, chi credi che, sostenendo che bisogna compiacere coloro che non amano piuttosto che coloro che amano, abbia ancora altro da dire quando abbia tralasciato di lodare l'assennatezza degli uni e biasimare la dissennatezza degli altri, il che appunto è necessario? Ma credo che si debbano concedere e perdonare simili argomenti a chi ne parla; e di tali argomenti è da lodare non l'invenzione, ma la disposizione, mentre degli argomenti non necessari e difficili da trovare è da lodare, oltre alla disposizione, anche l'invenzione. FEDRO: Concordo con ciò che dici: mi sembri aver parlato in modo opportuno. Pertanto farò anch'io così: ti concederò di stabilire come principio che chi ama è più ammalato di chi non ama, e quanto al resto, se avrai detto altre cose in maggior quantità e di maggior pregio di queste, ergiti pure come statua lavorata a martello a Olimpia, presso l'offerta votiva dei Cipselidi! (19) SOCRATE: L'hai presa sul serio, Fedro, perché io, scherzando con te, ho attaccato il tuo amato, e credi che io proverò veramente a dire qualcosa di diverso e di più vario a confronto dell'abilità di lui? FEDRO: A questo proposito, caro, mi hai dato l'occasione per un'uguale presa.(20) Ora tu devi parlare assolutamente, così come sei capace, in modo da non essere obbligati a fare quella cosa volgare da commedianti che si rimbeccano a vicenda, e non volermi costringere a tirar fuori quella frase: «Socrate, se io non conosco Socrate, mi sono dimenticato anche di me stesso», o quell'altra: «Desiderava dire, ma si schermiva»; ma tieni bene in mente che non ce ne andremo di qui prima che tu abbia esposto ciò che sostenevi di avere nel petto. Siamo noi due soli, in un luogo appartato, io sono più forte e più giovane. Da tutto ciò, dunque, «intendi quel che ti dico»,(21) e vedi di non parlare a forza piuttosto che spontaneamente. SOCRATE: Ma beato Fedro, mi coprirò di ridicolo improvvisando un discorso sui medesimi argomenti, da profano che sono a confronto di un autore bravo come lui! FEDRO: Sai com'è la questione? Smettila di fare il ritroso con me; poiché penso di avere una cosa che, se te la dico, ti costringerà a parlare. SOCRATE: Allora non dirmela! FEDRO: No, invece te la dico proprio! E le mie parole saranno un giuramento. Ti giuro... ma su chi, su quale dio? Vuoi forse su questo platano qui? Ebbene, ti giuro che se non pronuncerai il tuo discorso proprio davanti a questo platano, non ti mostrerò e non ti riferirò più nessun altro discorso di nessuno. SOCRATE: Ahi, birbante! Come hai trovato bene il modo di costringere un uomo amante dei discorsi a fare ciò che tu ordini! FEDRO: Perché allora fai tanti giri? SOCRATE: Niente più indugi, dal momento che hai proferito questo giuramento. Come potrei astenermi da un tale banchetto? FEDRO: Allora parla! SOCRATE: Sai dunque come farò? FEDRO: Riguardo a cosa? SOCRATE: Parlerò dopo essermi coperto il capo, per svolgere il discorso il più velocemente possibile e non trovarmi in imbarazzo per la vergogna, guardando verso di te. FEDRO: Purché tu parli; quanto al resto, fa' come vuoi. SOCRATE: Orsù, o Muse dalla voce melodiosa, vuoi per l'aspetto del canto vuoi perché siete state così chiamate dalla stirpe dei Liguri amante della musica,(22) narrate assieme a me il racconto che questo bellissimo giovane mi costringe a dire, così che il suo compagno, che già prima gli sembrava sapiente, ora gli sembri tale ancora di più. C'era una volta un fanciullo, o meglio un giovanetto assai bello, di cui molti erano innamorati. Uno di loro, che era astuto, pur non essendo innamorato meno degli altri aveva convinto il fanciullo che non lo amava. E un giorno, saggiandolo, cercava di persuaderlo proprio di questo, che bisogna compiacere chi non ama piuttosto che chi ama, e gli parlava così : «Innanzi tutto, fanciulfo, uno solo è l'inizio per chi deve prendere decisioni nel modo giusto: bisogna sapere su cosa verte la decisione, o è destino che si sbagli tutto. Ai più sfugge che non conoscono l'essenza di ciascuna 5  Platone Fedro  cosa. Perciò, nella convinzione di saperlo, non si mettono d'accordo all'inizio della ricerca e proseguendo ne pagano le naturali conseguenze, poiché non si accordano né con se stessi né tra loro. Che non capiti dunque a me e a te ciò che rimproveriamo agli altri, ma dal momento che ci sta dinanzi la questione se si debba entrare in amicizia con chi ama piuttosto che con chi non ama, stabiliamo di comune accordo una definizione su cosa sia l'amore e quale forza abbia; poi, tenendo presente questa definizione e facendovi riferimento, esaminiamo se esso apporta un vantaggio o un danno. Che l'amore sia appunto un desiderio, è chiaro a tutti; che inoltre anche chi non ama desideri le cose belle, lo sappiamo. Da che cosa allora distingueremo chi ama e chi non ama? Occorre poi tenere presente che in ciascuno di noi ci sono due princì pi che ci governano e ci guidano, e che noi seguiamo dove essi ci guidano: l'uno, innato, è il desiderio dei piaceri, l'altro è un'opinione acquisita che aspira al sommo bene. Talvolta questi due princì pi dentro di noi si trovano d'accordo, talvolta invece sono in disaccordo; talvolta prevale l'uno, talvolta l'altro. Pertanto, quando l'opinione guida con il ragionamento al sommo bene e prevale, la sua vittoria ha il nome di temperanza; mentre se il desiderio trascina fuori di ragione verso i piaceri e domina in noi, il suo dominio viene chiamato dissolutezza. La dissolutezza ha molti nomi, dato che è composta di molte membra e molte parti; e quella che tra queste forme si distingue conferisce a chi la possiede il soprannome derivato da essa, che non è né bello né meritevole da acquistarsi. Il desiderio relativo al cibo, che prevale sulla ragione del bene migliore e sugli altri desideri, è chiamato ingordigia e farà sì che chi lo possiede venga chiamato con lo stesso nome; quello che tiranneggia nell'ubriachezza e conduce in tale stato chi lo possiede, è chiaro quale epiteto gli toccherà; così , anche per gli altri nomi fratelli di questi che designano desideri fratelli, a seconda di quello che via via signoreggia, è ben evidente come conviene chiamarli. Il desiderio a motivo del quale è stato fatto tutto il discorso precedente ormai è pressoché manifesto, ma è assolutamente più chiaro una volta detto che se non viene detto; ebbene, il desiderio irrazionale che ha il sopravvento sull'opinione incline a ciò che è retto, una volta che, tratto verso il piacere della bellezza e corroborato vigorosamente dai desideri a esso congiunti della bellezza fisica, ha prevalso nel suo trasporto prendendo nome dal suo stesso vigore, è chiamato eros».(23) Ma caro Fedro, non sembra anche a te, come a me, che mi trovi in uno stato divino? FEDRO: Certamente, Socrate! Ti ha preso una certa facilità di parola, contrariamente al solito! SOCRATE: Ascoltami dunque in silenzio. Il luogo sembra veramente divino, percio non meravigliarti se nel prosieguo del discorso sarò spesso invasato dalle Ninfe: le parole che proferisco adesso non sono lontane dai ditirambi.(24) FEDRO: Dici cose verissime. SOCRATE: E tu ne sei la causa. Ma ascolta il resto, poiché forse quello che mi viene alla mente potrebbe andarsene via. A questo provvederà un dio, noi invece dobbiamo tornare col nostro discorso al fanciullo. «Dunque, carissimo: cosa sia ciò su cui bisogna prendere decisioni, è stato detto e definito; ora, tenendo presente questo, dobbiamo dire il resto, ossia quale vantaggio o quale danno presumibilmente verrà da uno che ama e da uno che non ama a chi concede i suoi favori. Per chi è soggetto al desiderio ed è schiavo del piacere è inevitabile rendere l'amato il più possibile gradito a sé; ma per chi è malato tutto ciò che non oppone resistenza è piacevole, mentre tutto ciò che è più forte o pari a lui è odioso. Così un amante non sopporterà di buon grado un amato superiore o pari a lui, ma vuole sempre renderlo inferiore e più debole: e inferiore è l'ignorante rispetto al saggio, il vile rispetto al coraggioso, chi non sa parlare rispetto a chi ha abilità oratorie, chi è tardo di mente rispetto a chi è d'ingegno acuto. è inevitabile che, se nell'animo dell'amato nascono o ci sono per natura tanti difetti, o anche di più, l'amante ne goda e ne procuri altri, piuttosto che essere privato del piacere del momento. Ed è altresì inevitabile che sia geloso e causa di grande danno, poiché distoglie l'amato da molte altre compagnie vantaggiose grazie alle quali diverrebbe veramente uomo, danno che diventa grandissimo quando lo allontana da quella compagnia grazie alla quale diventerebbe una persona molto assennata. Essa è la divina filosofia, da cui inevitabilmente l'amante tiene lontano l'amato per paura di essere disprezzato, così come ricorrerà alle altre macchinazioni per fare in modo che sia ignorante di tutto e guardi solo al suo amante; e in questa condizione l'amato sarebbe fonte di grandissimo piacere per lui, ma del massimo danno per se stesso. Quindi, per quanto riguarda l'intelletto, l'uomo che prova amore non è in nessun modo utile come guida e come compagno. Poi si deve considerare la costituzione del corpo, e quale cura ne avrà colui che ne diventerà padrone, dato che si trova costretto a inseguire il piacere anziché il bene. Lo si vedrà seguire una persona molle e non vigorosa, non cresciuta alla pura luce del sole ma nella fitta ombra, inesperta di fatiche virili e di secchi sudori, esperta invece di una vita delicata ed effeminata, ornata di colori e abbellimenti altrui per mancanza dei propri, intenta a tutte quelle attività conseguenti a ciò, che sono evidenti e non meritano ulteriori discussioni. Ma stabiliamo un punto essenziale, e poi passiamo ad altro: per un corpo del genere, in guerra come in tutte le altre occupazioni importanti, i nemici prendono coraggio, gli amici e gli stessi amanti provano timore. Perciò questo punto è da lasciar perdere, dato che è evidente, e bisogna passare invece a quello successivo, cioè quale vantaggio o quale danno arrecherà ai nostri beni la compagnia e la protezione di chi ama. è chiaro a chiunque, ma soprattutto all'amante, che egli si augurerebbe più d'ogni altra cosa che l'amato fosse orbo dei beni più cari, più preziosi e più divini; accetterebbe che rimanesse privo di padre, madre, parenti e amici, ritenendoli causa d'impedimento e biasimo della dolcissima compagnia che ha con lui. E se possiede sostanze in oro o altri beni, egli penserà che non sia facile da conquistare né, una volta conquistato, trattabile; ne consegue inevitabilmente che l'amante provi gelosia se l'oggetto del suo amore possiede delle sostanze, e gioisca se le perde. Inoltre l'amante si augurerà che l'amato sia senza moglie, senza figli e senza casa il più a lungo possibile, poiché brama di cogliere il più a lungo possibile il frutto della 6  Platone Fedro  sua dolcezza. Ci sono altri mali ancora, ma un dio ha mescolato alla maggior parte di essi un piacere momentaneo; per esempio all'adulatore, bestia terribile e fonte di grande danno, la natura ha comunque mescolato un piacere non privo di gusto. E così qualcuno può biasimare come rovinosa un'etera o molte altre creature e attività del genere, che almeno per un giorno possono essere occasione di grandissimo piacere; ma per l'amato la compagnia quotidiana dell'amante, oltre al danno che arreca, è la cosa di tutte più spiacevole. Infatti, come recita l'antico proverbio, il coetaneo si diletta del coetaneo (credo infatti che l'avere gli stessi anni conduca agli stessi piaceri e procuri amicizia in virtù della somiglianza); tuttavia anche il loro stare insieme genera sazietà. Inoltre si dice che la costrizione è pesante per chiunque in qualsiasi circostanza: ed è proprio questo il rapporto che, oltre alla differenza d'età, l'amante ha con il suo amato. Infatti, quando uno più vecchio sta assieme a uno più giovane, non lo lascia volentieri né di giorno né di notte, ma è tormentato da una necessità e da un pungolo che lo conduce a destra e a manca procurandogli di continuo piaceri a vedere, ascoltare, toccare l'amato e a provare tutto ciò che lui prova, sì da mettersi strettamente e con piacere al suo servizio. Ma quale conforto o quali piaceri darà all'amato per evitare che questi, stando con lui per lo stesso periodo di tempo, arrivi al colmo del disgusto? Quando quello vedrà un volto invecchiato e non più in fiore, con tutte le conseguenze già spiacevoli da udire a parole, per non parlare poi se ci si trova nella necessità di avere a che fare con esse; quando dovrà guardarsi in ogni momento e con tutti da custodi sospettosi e sentirà elogi inopportuni ed esagerati, come anche insulti già insopportabili se l'amante è sobrio, vergognosi oltre ogni sopportazione se è ubriaco e indulge a una libertà di linguaggio stucchevole e assoluta? E se quando è innamorato e dannoso e spiacevole, una volta che l'amore è finito sarà inaffidabile per il tempo a venire, in prospettiva del quale era riuscito a malapena, con molte promesse condite di infiniti giuramenti e preghiere e in virtù della speranza di beni futuri, a mantenere il legame già allora faticoso da sopportare. E allora, quando bisogna pagare il debito, dato che dentro di sé ha cambiato padrone e signore, e assennatezza e temperanza hanno preso il posto di amore e follia, è divenuto un altro senza che il suo amato se ne sia accorto. Questi, ricordandosi di quanto era stato fatto e detto e pensando di parlare ancora con la stessa persona, chiede che gli siano ricambiati i favori resi allora; quello per la vergogna non ha il coraggio di dire che è diventato un altro, né sa come mantenere i giuramenti e le promesse fatte sotto la dissennata signoria precedente, dato che ormai ha riacquistato il senno e la temperanza, per non ridiventare simile a quello che era prima, se non addirittura lo stesso di prima, facendo le stesse cose. Perciò diventa un fuggiasco, e poiché l'amante di prima ora è di necessita reo di frode, invertite le parti, muta il suo stato e si dà alla fuga.(25) L'altro è costretto a inseguire tra lo sdegno e le imprecazioni, poiché non ha capito tutto fin dal principio, cioè che non avrebbe mai dovuto compiacere chi ama e di necessità è privo di senno, ma ben più chi non ama ed è assennato; altrimenti sarebbe inevitabile concedersi a una persona infida, difficile di carattere, gelosa, spiacevole, danno sa per le proprie ricchezze, dannosa per la costituzione fisica, ma dannosa nel modo più assoluto per l'educazione dell'anima, della quale in tutta verità non c'è e mai ci sarà cosa di maggior valore né per gli uomini né per gli dèi. Pertanto, ragazzo, bisogna intendere bene questo, e sapere che l'amicizia di un amante non nasce assieme alla benevolenza, ma alla maniera del cibo, per saziarsi; come i lupi amano gli agnelli, così gli amanti hanno caro un fanciullo». Questo è quanto, Fedro. Non mi sentirai dire di più, ma considera ormai finito il discorso. FEDRO: Eppure io credevo che fosse a metà, e che tu avresti speso uguali parole per chi non ama, dicendo che bisogna piuttosto compiacere lui e indicando quanti beni ne derivano; ma ora perché smetti, Socrate? SOCRATE: Non ti sei accorto, beato, che ormai pronuncio versi epici e non più ditirambi, proprio mentre muovo questi rimproveri? Se comincerò a elogiare l'altro, cosa credi che farò? Non lo sai che sarei certamente invasato dalle Ninfe, alle quali tu mi hai gettato deliberatamente in balia? Perciò in una parola ti dico che quanti sono i mali che abbiamo biasimato nell'uno tanti sono i beni, ad essi opposti, che si trovano nell'altro. E che bisogno c'è di un lungo discorso? Di entrambi si è detto abbastanza. Così il racconto avrà la sorte che gli spetta; e io, attraversato questo fiume, me ne torno indietro prima di essere costretto da te a qualcosa di più grande. FEDRO: Non ancora, Socrate, non prima che sia passata la calura. Non vedi che è all'incirca mezzogiorno, l'ora che viene chiamata immota? Ma restiamo a discutere sulle cose che abbiamo detto; non appena farà più fresco, ce ne andremo. SOCRATE: Quanto ai discorsi sei divino, Fedro, e semplicemente straordinario. Io penso che di tutti i discorsi prodotti durante la tua vita nessuno ne abbia fatto nascere più di te, o perché li pronunci di persona o perché costringi in qualche modo altri a pronunciarli (faccio eccezione per Simmia il Tebano, (26) ma gli altri li vinci di gran lunga). E ora mi sembra che tu sia stato la causa di un mio nuovo discorso. FEDRO: Allora non mi dichiari guerra! Ma come, e qual è questo discorso? SOCRATE: Quando stavo per attraversare il fiume, caro amico, si è manifestato quel segno divino che è solito manifestarsi a me e che mi trattiene sempre da ciò che sto per fare. E mi è parso di udire proprio da lì una certa voce che non mi permette di andare via prima d'essermi purificato, come se avessi commesso qualche colpa verso la divinità. In effetti sono un indovino, per la verità non molto bravo, ma, come chi sa a malapena scrivere, valido solo per me stesso; perciò comprendo chiaramente qual è la colpa. Perché anche l'anima, caro amico, ha un che di divinatorio; infatti mi ha turbato anche prima, mentre pronunciavo il discorso, e in qualche modo temevo, come dice Ibico, che «commesso un fallo» nei confronti degli dèi «consegua fama invece tra gli umani».(27) Ma ora mi sono reso conto della colpa. FEDRO: Che cosa dici? 7  Platone Fedro  SOCRATE: Terribile, Fedro, terribile è il discorso che tu hai portato, come quello che poi mi hai costretto a dire! FEDRO: E perché? SOCRATE: è sciocco e sotto un certo aspetto empio. Quale discorso potrebbe essere più terribile di questo? FEDRO: Nessuno, se tu dici il vero. SOCRATE: E allora? Non credi che Eros sia figlio di Afrodite e sia una creatura divina? FEDRO: Così almeno si dice. SOCRATE: Ma non è detto da Lisia, né dal tuo discorso, che è stato pronunciato tramite la mia bocca ammaliata da te. E se Eros è, come appunto è, un dio o un che di divino, non sarebbe affatto un male, e invece i due discorsi pronunciati ora su di lui ne parlavano come se fosse un male; in questo dunque hanno commesso una colpa nei confronti dì Eros. Inoltre la loro semplicità è proprio graziosa, poiché senza dire niente di sano né di vero si danno delle arie come se fossero chissà cosa, se ingannando alcuni omiciattoli troveranno fama presso di loro. Pertanto io, caro amico, ho la necessità di purificarmi; per coloro che commettono delle colpe nei confronti del mito c'è un antico rito purificatorio, che Omero non conobbe, ma Stesicoro sì . Costui infatti, privato della vista per aver diffamato Elena, non ne ignorò la causa come Omero, ma da amante alle Muse quale era la capì e subito compose questi versi: Questo discorso non è veritiero, non navigasti sulle navi ben costrutte, non arrivasti alla troiana Pergamo.(28) E dopo aver composto l'intero carme chiamato Palinodia gli tornò immediatamente la vista. Io pertanto sarò più saggio di loro almeno sotto questo aspetto: prima di incorrere in un male per aver diffamato Eros tenterò di offrirgli in cambio la mia palinodia, col capo scoperto e non velato come allora per la vergogna. FEDRO: Non avresti potuto dirmi cose più dolci di queste, Socrate. SOCRATE: Veramente, caro Fedro, tu intendi con quale impudenza siano stati pronunciati i due discorsi, il mio e quello ricavato dal libro. Se un uomo dall'indole nobile e affabile, che fosse innamorato di uno come lui o lo fosse stato in precedenza, ci ascoltasse mentre diciamo che gli amanti sollevano grandi inimicizie per futili motivi e sono gelosi e dannosi nei confronti dei loro amati, non credi che avrebbe l'impressione di ascoltare persone allevate in mezzo ai marinai e che non hanno mai visto un amore libero, e sarebbe ben lungi dal convenire con noi sui rimproveri che muoviamo ad Eros? FEDRO: Per Zeus, forse sì , Socrate. SOCRATE: Io dunque, per vergogna nei suoi confronti e per timore dello stesso Eros, desidero sciacquarmi dalla salsedine che impregna il mio udito con un discorso d'acqua dolce; e consiglio anche a Lisia di scrivere il più in fretta possibile che, a parità di condizioni, conviene compiacere più un amante che chi non ama. FEDRO: Ma sappi bene che sarà così : quando avrai pronunciato l'elogio dell'amante, sarà inevitabile che Lisia venga costretto da me a scrivere un altro discorso sullo stesso argomento. SOCRATE: Confido in ciò, finché sarai quello che sei. FEDRO: Fatti coraggio, dunque, e parla. SOCRATE: Dov'è il ragazzo a cui parlavo? Faccia in modo di ascoltare anche questo discorso e non conceda con troppa fretta i suoi favori a chi non ama per non aver udito le mie parole. FEDRO: Questo ragazzo è accanto a te, molto vicino, ogni qualvolta tu voglia. SOCRATE: Allora, mio bel ragazzo, tieni presente che il discorso di prima era di Fedro figlio di Pitocle, del demo di Mirrinunte, mentre quello che mi accingo a dire è di Stesicoro di Imera, figlio di Eufemo. Bisogna dunque parlare così : «Non è veritiero il discorso secondo il quale anche in presenza di un amante si deve piuttosto compiacere chi non ama, per il fatto che l'uno è in preda a "mania", l'altro è assennato. Se infatti l'essere in preda a mania fosse un male puro e semplice, sarebbe ben detto; ora però i beni più grandi ci vengono dalla mania, appunto in virtù di un dono divino. Infatti la profetessa di Delfi e le sacerdotesse di Dodona,(29) quando erano prese da mania, procurarono alla Grecia molti e grandi vantaggi pubblici e privati, mentre quando erano assennate giovarono poco o nulla. E se parlassimo della Sibilla (30) e di tutti gli altri che, avvalendosi dell'arte mantica ispirata da un dio, con le loro predizioni in molti casi indirizzarono bene molte persone verso il futuro, ci dilungheremmo dicendo cose note a tutti. Merita certamente di essere addotto come testimonianza il fatto che tra gli antichi coloro che coniavano i nomi non ritenevano la mania una cosa vergognosa o riprovevole; altrimenti non avrebbero chiamato "manica" l'arte più bella, con la quale si discerne il futuro, applicandovi proprio questo nome. Ma considerandola una cosa bella quando nasca per sorte divina, le imposero questo nome, mentre gli uomini d'oggi, inesperti del bello, aggiungendo la "t" l'hanno chiamata "mantica". Così anche la ricerca del futuro che fanno gli uomini assennati mediante il volo degli uccelli e gli altri segni del cielo, dal momento che tramite l'intelletto procurano assennatezza e cognizione alla "oiesi", cioè alla credenza umana, la denominarono "oionoistica", mentre i contemporanei, volendola nobilitare con la "o" lunga, la chiamano oionistica.(31) Perciò, quanto più l'arte mantica è perfetta e onorata della oionistica, e il nome e l'opera dell'una rispetto al nome e all'opera dell'altra, tanto più bella, secondo la testimonianza degli antichi, è la mania che viene da un dio rispetto all'assennatezza che viene dagli uomini. Ma la mania, sorgendo e profetando in coloro in cui doveva manifestarsi, trovò una via di scampo anche dalle malattie e dalle pene più gravi, che da qualche parte si abbattono su alcune stirpi a causa di antiche colpe, ricorrendo alle preghiere e al culto degli dèi; quindi, attraverso purificazioni e iniziazioni, rese immune chi la possedeva per il tempo presente e futuro, avendo trovato una liberazione dai mali presenti per chi era in preda a mania e invasamento divino nel modo giusto. Al terzo posto vengono l'invasamento e la mania provenienti dalle Muse, che impossessandosi di un'anima tenera e pura la destano e la colmano di furore bacchico in canti e altri componimenti poetici, e celebrando innumerevoli opere degli antichi educano i posteri. Chi invece giunge alle porte della poesia senza 8  Platone Fedro  la mania delle Muse, convinto che sarà un poeta valente grazie all'arte, resta incompiuto e la poesia di chi è in senno è oscurata da quella di chi si trova in preda a mania. Queste, e altre ancora, sono le belle opere di una mania proveniente dagli dèi che ti posso elencare. Pertanto non dobbiamo aver paura di ciò, né deve sconvolgerci un discorso che cerchi di intimorirci asserendo che si deve preferire come amico l'uomo assennato a quello in stato di eccitazione; ma il mio discorso dovrà riportare la vittoria dimostrando, oltre a quanto detto prima, che l'amore non è inviato dagli dèi all'amante e all'amato perché ne traggano giovamento. Noi dobbiamo invece dimostrare il contrario, cioè che tale mania è concessa dagli dèi per la nostra più grande felicità; e la dimostrazione non sarà persuasiva per i valent'uomini, ma lo sarà per i sapienti. Prima di tutto dunque bisogna intendere la verità riguardo alla natura dell'anima divina e umana, considerando le sue condizioni e le sue opere. L'inizio della dimostrazione è il seguente. Ogni anima è immortale. Infatti ciò che sempre si muove è immortale, mentre ciò che muove altro e da altro è mosso termina la sua vita quando termina il suo movimento. Soltanto ciò che muove se stesso, dal momento che non lascia se stesso, non cessa mai di muoversi, ma è fonte e principio di movimento anche per tutte le altre cose dotate di movimento. Il principio però non è generato. Infatti è necessario che tutto ciò che nasce si generi da un principio, ma quest'ultimo non abbia origine da qualcosa, poiché se un principio nascesse da qualcosa non sarebbe più un principio. E poiché non è generato, è necessario che sia anche incorrotto; infatti, se un principio perisce, né esso nascerà da qualcosa né altra cosa da esso, dato che ogni cosa deve nascere da un principio. Così principio di movimento è ciò che muove se stesso. Esso non può né perire né nascere, altrimenti tutto il cielo e tutta la terra, riuniti in corpo unico, resterebbero immobili e non avrebbero più ciò da cui ricevere di nuovo nascita e movimento. Una volta stabilito che ciò che si muove da sé è immortale, non si proverà vergogna a dire che proprio questa è l'essenza e la definizione dell'anima. Infatti ogni corpo a cui l'essere in movimento proviene dall'esterno è inanimato, mentre quello cui tale facoltà proviene dall'interno, cioè da se stesso, è animato, poiché la natura dell'anima è questa; ma se è così , ovvero se ciò che muove se stesso non può essere altro che l'anima, di necessità l'anima sarà ingenerata e immortale. Sulla sua immortalità si è detto a sufficienza; sulla sua idea bisogna dire quanto segue. Spiegare quale sia, sarebbe proprio di un'esposizione divina sotto ogni aspetto e lunga, dire invece a che cosa assomigli, è proprio di un'esposizione umana e più breve; parliamone dunque in questa maniera. Si immagini l'anima simile a una forza costituita per sua natura da una biga alata e da un auriga.(32) I cavalli e gli aurighi degli dèi sono tutti buoni e nati da buoni, quelli degli altri sono misti. E innanzitutto l'auriga che è in noi guida un carro a due, poi dei due cavalli uno è bello, buono e nato da cavalli d'ugual specie, l'altro è contrario e nato da stirpe contraria; perciò la guida, per quanto ci riguarda, è di necessità difficile e molesta. Quindi bisogna cercare di definire in che senso il vivente è stato chiamato mortale e immortale. Ogni anima si prende cura di tutto ciò che è inanimato e gira tutto il cielo ora in una forma, ora nell'altra. Se è perfetta e alata, essa vola in alto e governa tutto il mondo, se invece ha perduto le ali viene trascinata giù finché non s'aggrappa a qualcosa di solido; qui stabilisce la sua dimora e assume un corpo terreno, che per la forza derivata da essa sembra muoversi da sé. Questo insieme, composto di anima e corpo, fu chiamato vivente ed ebbe il soprannome di mortale. Viceversa ciò che è immortale non può essere spiegato con un solo discorso razionale, ma senza averlo visto e inteso in maniera adeguata ci figuriamo un dio, un essere vivente e immortale, fornito di un'anima e di un corpo eternamente connaturati. Ma di queste cose si pensi e si dica così come piace al dio; noi cerchiamo di cogliere la causa della perdita delle ali, per la quale esse si staccano dall'anima. E la causa è all'incirca questa. La potenza dell'ala tende per sua natura a portare in alto ciò che è pesante, sollevandolo dove abita la stirpe degli dèi, e in certo modo partecipa del divino più di tutte le cose inerenti il corpo. Il divino è bello, sapiente, buono, e tutto ciò che è tale; da queste qualità l'ala dell'anima e nutrita e accresciuta in sommo grado, mentre viene consunta e rovinata da ciò che è brutto, cattivo e contrario ad esse. Zeus, il grande sovrano che è in cielo, procede per primo alla guida del carro alato, dà ordine a tutto e di tutto si prende cura; lo segue un esercito di dèi e di demoni, ordinato in undici schiere. La sola Estia resta nella dimora degli dèi; quanto agli altri dèi, quelli che in numero di dodici sono stati posti come capi guidano ciascuno la propria schiera secondo l'ordine assegnato.(33) Molte e beate sono le visioni e i percorsi entro il cielo, per i quali si volge la stirpe degli dèi eternamente felici, adempiendo ciascuno il proprio compito. E tiene dietro a loro chi sempre lo vuole e lo può; infatti l'invidia sta fuori del coro divino. Quando poi vanno a banchetto per nutrirsi, procedono in ardua salita verso la sommità della volta celeste, dove i carri degli dèi, ben equilibrati e agili da guidare, procedono facilmente, gli altri invece a fatica; infatti il cavallo che partecipa del male si inclina, e piegando verso terra grava col suo peso l'auriga che non l'ha allevato bene. Qui all'anima si presenta la fatica e la prova suprema. Infatti quelle che sono chiamate immortali, una volta giunte alla sommità, procedono al di fuori posandosi sul dorso del cielo, la cui rotazione le trasporta in questa posa, mentre esse contemplano ciò che sta fuori del cielo. Nessuno dei poeti di quaggiù ha mai cantato né mai canterà in modo degno il luogo iperuranio.(34) La cosa sta in questo modo (bisogna infatti avere il coraggio di dire il vero, tanto più se si parla della verità): l'essere che realmente è, senza colore, senza forma e invisibile, che può essere contemplato solo dall'intelletto timoniere dell'anima e intorno al quale verte il genere della vera conoscenza, occupa questo luogo. Poiché dunque la mente di un dio è nutrita da un intelletto e da una scienza pura, anche quella di ogni anima cui preme di ricevere ciò che conviene si appaga di vedere dopo un certo tempo l'essere, e contemplando il vero se ne nutre e ne gode, finché la rotazione ciclica del cielo non l'abbia riportata allo stesso punto. Nel giro che essa compie vede la giustizia stessa, vede la temperanza, vede la scienza, 9  Platone Fedro  non quella cui è connesso il divenire, e neppure quella che in certo modo è altra perché si fonda su altre cose da quelle che ora noi chiamiamo esseri, ma quella scienza che si fonda su ciò che è realmente essere; e dopo che ha contemplato allo stesso modo gli altri esseri che realmente sono e se ne è saziata, si immerge nuovamente all'interno del cielo e fa ritorno alla sua dimora. Una volta arrivata l'auriga, condotti i cavalli alla mangiatoia, mette innanzi a loro ambrosia e in più dà loro da bere del nettare. Questa è la vita degli dèi. Quanto alle altre anime, l'una, seguendo nel migliore dei modi il dio e rendendosi simile a lui, solleva il capo dell'auriga verso il luogo fuori del cielo e viene trasportata nella sua rotazione, ma essendo turbata dai cavalli vede a fatica gli esseri; l'altra ora solleva il capo, ora piega verso il basso, e poiché i cavalli la costringono a forza riesce a vedere alcuni esseri, altri no. Seguono le altre anime, che aspirano tutte quante a salire in alto, ma non essendone capaci vengono sommerse e trasportate tutt'intorno, calpestandosi tra loro, accalcandosi e cercando di arrivare una prima dell'altra. Nasce così una confusione e una lotta condita del massimo sudore, nella quale per lo scarso valore degli aurighi molte anime restano azzoppate, e a molte altre si spezzano molte penne; tutte, data la grande fatica, se ne partono senza aver raggiunto la contemplazione dell'essere e una volta tornate indietro si nutrono del cibo dell'opinione. La ragione per cui esse mettono tanto impegno per vedere dov'è sita la pianura della verità è questa: il cibo adatto alla parte migliore dell'anima viene dal prato che si trova là, e di esso si nutre la natura dell'ala con cui l'anima si solleva in volo. Questa è la legge di Adrastea.(35) L'anima che, divenuta seguace del dio, abbia visto qualcuna delle verità, non subisce danno fino al giro successivo, e se riesce a fare ciò ogni volta, resta intatta per sempre; qualora invece, non riuscendo a tenere dietro al dio, non abbia visto, e per qualche accidente, riempitasi di oblio e di ignavia, sia appesantita e a causa del suo peso perda le ali e cada sulla terra, allora è legge che essa non si trapianti in alcuna natura animale nella prima generazione. Invece l'anima che ha visto il maggior numero di esseri si trapianterà nel seme di un uomo destinato a diventare filosofo o amante del bello o seguace delle Muse o incline all'amore. L'anima che viene per seconda si trapianterà in un re rispettoso delle leggi o in un uomo atto alla guerra e al comando, quella che viene per terza in un uomo atto ad amministrare lo Stato o la casa o le ricchezze, la quarta in un uomo che sarà amante delle fatiche o degli esercizi ginnici o esperto nella cura del corpo, la quinta è destinata ad avere la vita di un indovino o di un iniziatore ai misteri. Alla sesta sarà confacente la vita di un poeta o di qualcun altro di coloro che si occupano dell'imitazione, alla settima la vita di un artigiano o di un contadino, all'ottava la vita di un sofista o di un seduttore del popolo, alla nona quella di un tiranno. Tra tutti questi, chi ha condotto la vita secondo giustizia partecipa di una sorte migliore, chi invece è vissuto contro giustizia, di una peggiore; infatti ciascuna anima non torna nel luogo donde è venuta per diecimila anni, poiché non rimette le ali prima di questo periodo di tempo, tranne quella di colui che ha coltivato la filosofia senza inganno o ha amato i fanciulli secondo filosofia. Queste anime, al terzo giro di mille anni, se hanno scelto per tre volte di seguito una tale vita, rimettono in questo modo le ali e al compiere dei tremila anni tornano indietro. Quanto alle altre, quando giungono al termine della prima vita tocca loro un giudizio, e dopo essere state giudicate le une vanno nei luoghi di espiazione sotto terra a scontare la loro pena, le altre, innalzate dalla Giustizia in un luogo del cielo, trascorrono il tempo in modo corrispondente alla vita che vissero in forma d'uomo. Al millesimo anno le une e le altre, giunte al sorteggio e alla scelta della seconda vita, scelgono quella che ciascuna vuole: qui un'anima umana può anche finire in una vita animale, e chi una volta era stato uomo può ritornare da bestia uomo, poiché l'anima che non ha mai visto la verità non giungerà mai a tale forma. L'uomo infatti deve comprendere in funzione di ciò che viene detto idea, e che muovendo da una molteplicità di sensazioni viene raccolto dal pensiero in unità; questa è la reminiscenza delle cose che un tempo la nostra anima vide nel suo procedere assieme al dio, quando guardò dall'alto ciò che ora definiamo essere e levò il capo verso ciò che realmente è. Perciò giustamente solo l'anima del filosofo mette le ali, poiché grazie al ricordo, secondo le sue facoltà, la sua mente è sempre rivolta alle entità in virtù delle quali un dio è divino. Quindi l'uomo che si avvale rettamente di tali reminiscenze, essendo sempre iniziato a misteri perfetti, diventa lui solo realmente perfetto; dato però che si distacca dalle occupazioni degli uomini e si fa accosto al divino, è ripreso dai più come se delirasse, ma sfugge ai più che è invasato da un dio. Questo dunque è il punto d'arrivo di tutto il discorso sulla quarta forma di mania, quella per cui uno, al vedere la bellezza di quaggiù, ricordandosi della vera bellezza mette nuove ali e desidera levarsi in volo, ma non essendone capace guarda in alto come un uccello, senza curarsi di ciò che sta in basso, e così subisce l'accusa di trovarsi in istato di mania: di tutte le ispirazioni divine questa, per chi la possiede e ha comunanza con essa, è la migliore e deriva dalle cose migliori, e chi ama le persone belle e partecipa di tale mania è chiamato amante. Infatti, come si è detto, ogni anima d'uomo per natura ha contemplato gli esseri, altrimenti non si sarebbe incarnata in un tale vivente. Ma ricordarsi di quegli esseri procedendo dalle cose di quaggiù non è alla portata di ogni anima, né di quelle che allora videro gli esseri di lassù per breve tempo, né di quelle che, cadute qui, hanno avuto una cattiva sorte, al punto che, volte da cattive compagnie all'ingiustizia, obliano le sacre realtà che videro allora. Ne restano poche nelle quali il ricordo si conserva in misura sufficiente: queste, qualora vedano una copia degli esseri di lassù, restano sbigottite e non sono più in sé, ma non sanno cosa sia ciò che provano, perché non ne hanno percezione sufficiente. Così della giustizia, della temperanza e di tutte le altre cose che hanno valore per le anime non c'è splendore alcuno nelle copie di quaggiù, ma soltanto pochi, accostandosi alle immagini, contemplano a fatica, attraverso i loro organi ottusi, la matrice del modello riprodotto. Allora invece si poteva vedere la bellezza nel suo splendore, quando in un coro felice, noi al seguito di Zeus, altri di un altro dio, godemmo di una visione e di una contemplazione beata ed eravamo iniziati a quello che è lecito chiamare il più beato dei misteri, che celebravamo in perfetta integrità e immuni dalla prova di tutti quei mali che dovevano attenderci nel tempo a venire, contemplando nella nostra iniziazione mistica visioni perfette, semplici, immutabili e 10  Platone Fedro  beate in una luce pura, poiché eravamo purì e non rinchiusi in questo che ora chiamiamo corpo e portiamo in giro con noi, incatenati dentro ad esso come un'ostrica. Queste parole siano un omaggio al ricordo, in virtù del quale, per il desiderio delle cose d'allora, ora si è parlato piuttosto a lungo. Quanto alla bellezza, come si è detto, essa brillava tra le cose di lassù come essere, e noi, tornati qui sulla terra, l'abbiamo colta con la più vivida delle nostre sensazioni, in quanto risplende nel modo più vivido. Per noi infatti la vista è la più acuta delle sensazioni che riceviamo attraverso il corpo, ma essa non ci permette di vedere la saggezza (poiché susciterebbe terribili amori, se giungendo alla nostra vista le offrisse un'immagine di sé così splendente) e le altre realtà degne d'amore. Ora invece soltanto la bellezza ebbe questa sorte, di essere ciò che più di tutto è manifesto e amabile. Chi dunque non è iniziato di recente, o è corrotto, non si innalza con pronto acume da qui a lassù, verso la bellezza in sé, quando contempla ciò che quaggiù porta il suo nome; di conseguenza quando guarda ad essa non la venera, ma consegnandosi al piacere imprende a montare e a generare figli a mo' di quadrupede, e comportandosi con tracotanza non ha timore né vergogna di inseguire un piacere contro natura. Invece chi è iniziato di recente e ha contemplato molto le realtà di allora, quando vede un volto d'aspetto divino che ha ben imitato la bellezza o una qualche forma ideale di corpo, dapprima sente dei brividi e gli sottentra qualcuna delle paure di allora, poi, guardandolo, lo venera come un dio, e se non temesse di acquistarsi fama di eccessiva mania farebbe sacrifici al suo amato come a una statua o a un dio. Al vederlo, lo afferra come una mutazione provocata dai brividi, un sudore e un calore insolito; e ricevuto attraverso gli occhi il flusso della bellezza, prende calore là dove la natura dell'ala si abbevera. Una volta che si è riscaldato si liquefano le parti attorno al punto donde l'ala germoglia, che essendo da tempo tappate a causa della secchezza le impedivano di fiorire. Così , grazie all'afflusso del nutrimento, lo stelo dell'ala si gonfia e prende a crescere dalla radice per tutta la forma dell'anima; un tempo infatti era tutta alata. A questo punto essa ribolle tutta quanta e trabocca, e la stessa sensazione che prova chi mette i denti nel momento in cui essi spuntano, ossia prurito e irritazione alle gengive, la prova anche l'anima di chi comincia a mettere le ali: quando le ali spuntano ribolle e prova un senso di irritazione e solletico. Dunque, quando l'anima, mirando la bellezza del fanciullo, riceve delle parti che da essa provengono e fluiscono (e che appunto per questo sono chiamate flusso d'amore) (36) e ne viene irrigata e scaldata, si riprende dal dolore e si allieta. Quando invece ne è separata e inaridisce, le bocche dei condotti donde spunta fuori l'ala si disseccano e si serrano, impedendone il germoglio; ma esso, rimasto chiuso dentro assieme al flusso d'amore, pulsando come le arterie pizzica nei condotti, ciascun germoglio nel proprio, tanto che l'anima, pungolata tutt'intorno, è presa da assillo e dolore, e tornandole il ricordo della bellezza si allieta. In seguito alla mescolanza di entrambe le cose, l'anima è turbata per la stranezza di ciò che prova e trovandosi senza via d'uscita comincia a smaniare; ed essendo in stato di mania non può né dormire di notte né di giorno restare ferma dov'è, ma corre in preda al desiderio dove crede di poter vedere colui che possiede la bellezza: e una volta che l'ha visto e si è imbevuta del flusso d'amore, libera i condotti che allora si erano ostruiti, riprende fiato e cessa di avere pungoli e dolore, e allora coglie, nel momento presente, il frutto di questo dolcissimo piacere. Perciò non se ne distacca di sua volontà e non tiene in conto nessuno più del suo bello, ma si dimentica di madri, fratelli e di tutti i compagni, e non gli importa nulla se le sue sostanze vanno in rovina perché non se ne cura, anzi disprezza tutte le consuetudini e le convenienze di cui si ornava prima d'allora ed è disposta a servire l'amato e a giacere con lui ovunque gli sia concesso di stare il più vicino possibile al suo desiderio; infatti, oltre a venerarlo, ha trovato in colui che possiede la bellezza l'unico medico dei suoi più grandi travagli. A questa passione cui si rivolge il mio discorso, o bel fanciullo, gli uomini danno il nome di eros, gli dèi invece la chiamano in un modo che a sentirlo, data la tua giovane età, ti metterai ragionevolmente a ridere. Alcuni Omeridi citano due versi, credo presi da poemi segreti, riguardanti Eros, uno dei quali è piuttosto insolente e non del tutto corretto come metro; essi suonano così : I mortali lo chiamano Eros alato, gli immortali Pteros, ché fa crescere l'ali.(37) A questi versi si può credere oppure non credere; non di meno la causa e la sensazione di chi ama è proprio questa. Ora, se chi è stato colto da Eros era uno dei seguaci di Zeus, riesce a sopportare con più fermezza il peso del dio che trae il nome dalle ali; quelli che erano al servizio di Ares e giravano il cielo assieme a lui, quando sono presi da Eros e pensano di subire qualche torto dall'amato, sono sanguinari e pronti a sacrificare se stessi e il proprio amore. Così ciascuno conduce la sua vita in base al dio del cui coro era seguace, onorandolo e imitandolo per quanto gli è possibile, finché resta incorrotto e vive la prima esistenza quaggiù, e in questo modo si accompagna e ha relazione con gli amati e con le altre persone. Quindi ciascuno sceglie tra i belli il suo Eros secondo il proprio carattere, e come fosse un dio gli edifica una specie di statua e l'abbellisce per onorarla e tributarle riti. I seguaci di Zeus cercano il loro amato in chi ha l'anima conforme al loro dio:(38) pertanto guardano se per natura sia filosofo e atto al comando, e quando l'hanno trovato e ne se sono innamorati, fanno di tutto affinché sia effettivamente tale. E se prima non si erano impegnati in un'occupazione del genere, da quel momento vi mettono mano e imparano da dove è loro possibile, continuando poi anche da soli, e seguendo le tracce riescono a trovare per loro conto la natura del proprio dio, perché sono stati intensamente costretti a volgere lo sguardo verso di lui; e quando entrano in contatto con lui sono presi da invasamento e tramite il ricordo ne assumono le abitudini e le occupazioni, per quanto è possibile a un uomo partecipare della natura di un dio. E poiché ne attribuiscono la causa all'amato, lo tengono ancora più caro, e sebbene attingano da Zeus come le Baccanti,(39) riversando ciò che attingono nell'anima dell'amato lo rendono il più possibile simile al loro dio. Coloro che invece erano al seguito di Era cercano un'anima regale, e trovatala fanno per lei esattamente le stesse cose. Quelli del seguito di Apollo e di ciascuno degli altri dèi, procedendo secondo il loro dio, bramano che il proprio fanciullo abbia un'uguale natura, e una volta che se lo sono procurato imitano essi stessi il dio e con la persuasione e 11  Platone Fedro  l'ammaestramento portano l'amato ad assumere l'attività e la forma di quello, ciascuno per quanto può; e lo fanno senza comportarsi nei confronti dell'amato con gelosia o con rozza malevolenza, ma cercando di indurlo alla somiglianza più completa possibile con se stessi e con il dio che onorano. Dunque l'ardore e l'iniziazione di coloro che veramente amano, se ottengono ciò che desiderano nel modo che dico, diventano così belle e felici per chi è amato, qualora venga conquistato dall'amico che si trova in stato di mania per amore; e chi è conquistato cede all'amore in questo modo. Come all'inizio dì questa narrazione in forma di mito abbiamo diviso ciascuna anima in tre parti, due con forma di cavallo, la terza con forma di auriga, questa distinzione resti per noi un punto fermo anche adesso. Uno dei cavalli diciamo che è buono, l'altro no: quale sia però la virtù di quello buono e il vizio di quello cattivo, non l'abbiamo precisato, e ora bisogna dirlo. Dunque, quello tra i due che si trova nella disposizione migliore è di forma eretta e ben strutturata, di collo alto e narici adunche, bianco a vedersi, con gli occhi neri, amante dell'onore unito a temperanza e pudore e compagno della fama veritiera, non ha bisogno di frusta e si lascia guidare solo con lo stimolo e la parola; l'altro invece è storto, grosso, mal conformato, di collo massiccio e corto, col naso schiacciato, il pelo nero, gli occhi chiari e iniettati di sangue, compagno di tracotanza e vanteria, dalle orecchie pelose, sordo, e cede a fatica alla frusta e agli speroni. Quando dunque l'auriga, scorgendo la visione amorosa, prende calore in tutta l'anima per la sensazione che prova ed è ricolmo di solletico e dei pungoli del desiderio, il cavallo che obbedisce docilmente all'auriga, tenuto a freno, allora come sempre, dal pudore, si trattiene dal balzare addosso all'amato; l'altro invece non cura più né i pungoli dell'auriga né la frusta, ma imbizzarrisce e si lancia al galoppo con violenza, e procurando ogni sorta di molestie al compagno di giogo e all'auriga li costringe a dirigersi verso l'amato e a rammentare la dolcezza dei piaceri d'amore. All'inizio essi si oppongono sdegnati, al pensiero dì essere costretti ad azioni terribili e inique; ma alla fine, quando non c'è più alcun limite al male, si lasciano trascinare nel loro percorso, cedendo e acconsentendo a fare quanto viene loro ordinato. Allora si fanno presso a lui e hanno la visione folgorante dell'amato. Scorgendolo, la memoria dell'auriga è ricondotta alla natura della bellezza, che vede di nuovo collocata su un casto piedistallo assieme alla temperanza; a tale vista è colta da paura e per la reverenza che le porta cade supina, e nello stesso tempo è costretta a tirare indietro le redini così forte che entrambi i cavalli si piegano sulle cosce, l'uno, spontaneamente perché non recalcitra, quello protervo decisamente contro voglia. Ritiratisi più lontano, l'uno per vergogna e sbigottimento bagna tutta l'anima di sudore, l'altro, cessato il dolore che gli veniva dal morso e dalla caduta, a fatica riprende fiato e incomincia, pieno d'ira com'è, a ingiuriare, coprendo di male parole l'auriga e il compagno di giogo perché per viltà e debolezza hanno abbandonato il posto e l'accordo convenuto. E costringendoli di nuovo ad avanzare contro la loro volontà a stento cede alle loro preghiere di rimandare a un'altra volta. Quando poi è giunto il tempo stabilito ed essi fingono di non ricordarsene, lo rammenta a loro con la forza, nitrendo e trascinandoli con sé, e li obbliga ad accostarsi di nuovo all'amato per fare i medesimi discorsi; e quando sono vicini tende la testa in avanti e rizza la coda, mordendo il freno, e li trascina con impudenza. L'auriga, sentendo ancora più intensamente la stessa impressione di prima, come respinto dalla fune al cancello di partenza, tira indietro ancora più forte il morso dai denti del cavallo protervo, insanguina la lingua maldicente e le mascelle e piegandogli a terra le gambe e le cosce lo dà in preda ai dolori. Quando poi il cavallo malvagio, subendo la medesima cosa più volte, desiste dalla sua tracotanza, umiliato segue ormai il proposito dell'auriga, e quando vede il bel fanciullo, muore dalla paura; di conseguenza accade che a questo punto l'anima dell'amante segua l'amato con pudicizia e timore. Poiché dunque l'amato, come un essere pari agli dèi, è oggetto di ogni venerazione da parte dell'amante che non simula, ma prova veramente questo sentimento, ed è egli stesso per natura amico di chi lo venera, se anche in precedenza fosse stato ingannato dalle persone che frequentava o da altre, le quali sostenevano che è cosa turpe accostarsi a chi ama, e per questo motivo avesse respinto l'amante, ora, col passare del tempo, l'età e la necessità lo inducono ad ammetterlo alla sua compagnia; infatti non accade mai che un malvagio sia amico di un malvagio, né che un buono non sia amico di un buono. E dopo averlo ammesso presso di sé e avere accettato di parlare con lui e stare in sua compagnia, la benevolenza dell'amante, manifestandosi da vicino, colpisce l'amato, il quale si avvede che tutti gli altri amici e parenti non offrono neppure una parte di amicizia a confronto dell'amico ispirato da un dio. Quando poi questi continua a fare ciò nel tempo e si accompagna all'amato incontrandolo nei ginnasi e negli altri luoghi di ritrovo, allora la fonte di quei flusso che Zeus, innamorato di Ganimede, (40) chiamò flusso d'amore, scorrendo in abbondanza verso l'amante dapprima penetra in lui, poi, quando ne è ricolmo, scorre fuori; e come un soffio di vento o un'eco, rimbalzando da corpi lisci e solidi, ritornano là dov'erano partiti, così il flusso della bellezza ritorna al bel fanciullo attraverso gli occhi, e di qui per sua natura arriva all'anima. Quando vi è giunto la incoraggia a volare, quindi irriga i condotti delle ali e comincia a farle crescere, e così riempie d'amore anche l'anima dell'amato. Pertanto egli ama, ma non sa che cosa; e neppure è a conoscenza di cosa prova né è in grado di dirlo, ma come chi ha contratto una malattia agli occhi da un altro non è in grado di spiegarne la causa, così egli non si accorge di vedere se stesso nell'amante come in uno specchio. E in presenza di questi, il suo dolore cessa esattamente come a lui, se invece è assente allo stesso modo di lui desidera ed è desiderato, perché reca in sé una sembianza d'amore che dell'amore è sostituto: però non lo chiama e non lo crede amore, bensì amicizia. Più o meno come l'amante, ma in misura più debole, desidera vederlo, toccarlo, baciarlo, giacere con lui; e com'è naturale, in seguito non tarda a fare cio. Quando dunque giacciono insieme, il cavallo sfrenato dell'amante ha di che dire all'auriga, e pretende di trarre un piccolo guadagno in cambio di tante fatiche; invece quello dell'amato non ha nulla da dire, ma, gonfio di desiderio e ancora incerto abbraccia e bacia l'amante, manifestandogli affetto per la sua grande benevolenza. Così , nel momento in cui si congiungono, non è più tale da rifiutare di compiacere da parte sua l'amante, se viene pregato di soddisfare; ma il compagno di giogo assieme all'auriga 12  Platone Fedro  si oppone a ciò, obbedendo al pudore e alla ragione. Se dunque prevalgono le parti migliori dell'animo, quelle che guidano a un'esistenza ordinata e alla filosofia, essi trascorrono la vita di quaggiù in modo beato e concorde, poiché sono padroni di sé e ben regolati, avendo sottomesso ciò in cui nasce il male dell'anima e liberato ciò in cui nasce la virtù; e alla fine, divenuti alati e leggeri, hanno vinto una delle tre gare veramente olimpiche, di cui né la temperanza umana né la mania divina possono fornire all'uomo un bene più grande.(41) Se invece seguono un genere di vita piuttosto grossolano e privo di filosofia, ma ambizioso, forse, in stato di ubriachezza o in qualche altro momento di negligenza, i loro due compagni di giogo sfrenati, cogliendo le anime alla sprovvista e portandole nella stessa direzione, possono compiere la scelta che tanti considerano la più beata e mandarla ad effetto; e una volta che l'hanno mandata ad effetto, se ne avvalgono anche in futuro, ma raramente, poiché fanno cose che non sono approvate da tutta l'anima. Anche costoro vivono in amicizia reciproca, ma meno di quelli, sia durante l'amore sia quando ne sono usciti, credendo di essersi dati l'un l'altro e di aver ricevuto i più grandi pegni, che non è lecito sciogliere perché ciò condurrebbe all'inimicizia. Al termine della vita escono dal corpo senz'ali, ma col desiderio di metterle, cosicché riportano un premio non piccolo della loro mania amorosa; infatti non è legge che coloro i quali hanno già iniziato il cammino sotto la volta del cielo scendano di nuovo nella tenebra e camminino sotto terra, bensì che trascorrano una vita luminosa e felice compiendo il viaggio in compagnia reciproca, e che una volta rinati rimettano le ali assieme per grazia dell'amore. Questi doni così grandi e così divini, o fanciullo, ti darà l'amicizia da parte di un amante. Invece la compagnia di chi non ama, mescolata con temperanza mortale, capace di amministrare cose mortali e misere, dopo aver generato nell'anima amata una bassezza lodata dal volgo come virtù, la farà girare priva di senno attorno alla terra e sotto terra per novemila anni. Questa, caro Eros, per le nostre facoltà, è la più bella e virtuosa palinodia che abbiamo potuto offrirti in dono e in espiazione, costretta a causa di Fedro a essere pronunciata, oltre al resto, anche con alcune parole poetiche. Ma tu concedi il perdono per le cose di prima e serba gratitudine per queste, e, benevolo e propizio, non togliermi e non storpiarmì per la collera l'arte amorosa che mi hai dato, anzi concedimi di essere in onore tra i bei fanciulli ancor più di adesso. E se nel discorso precedente io e Fedro abbiamo detto qualcosa che a te suona stonata, attribuiscine la colpa a Lisia, che del discorso è padre, e fallo desistere da simili prolusioni, volgendolo alla filosofia come si è volto suo fratello Polemarco,(42) affinché anche questo suo amante non sia nel dubbio come ora, ma dedichi senz'altro la sua vita ad Eros in compagnia di discorsi filosofici. FEDRO: Mi unisco alla tua preghiera, Socrate: se questo è meglio per noi, che avvenga. Da un pezzo ho ammirato il tuo discorso per quanto l'hai reso più bello del precedente; quindi temo che Lisia mi appaia misero, quand'anche voglia opporre ad esso un altro discorso. Recentemente infatti, mirabile amico, un politico lo biasimava criticandolo proprio per questo, e in tutta la sua critica lo chiamava logografo;(43) perciò forse si tratterrà per ambizione dallo scrivercene un altro. SOCRATE: Ragazzo, la tua opinione è ridicola, e quanto al tuo compagno sbagli di grosso, se credi che si spaventi così al minimo rumore. Ma forse pensi che chi lo biasimava dicesse quello che ha detto proprio per criticarlo. FEDRO: Così pareva, Socrate; del resto sei anche tu conscio che coloro che nelle città hanno il massimo potere e la massima reverenza si vergognano a scrivere discorsi e a lasciare propri scritti, temendo l'opinione dei posteri, cioè di essere chiamati sofisti. SOCRATE: Ti sei scordato, Fedro, che la dolce ansa ha preso il nome dalla lunga ansa del Nilo (44) e oltre all'ansa dimentichi che gli uomini di governo piu assennati amano tantissimo comporre discorsi e lasciare propri scritti, almeno quelli che, quando scrivono un discorso, apprezzano a tal punto chi li loda da aggiungere in testa per primi i nomi di quelli che li devono lodare in ogni singola occasione. FEDRO: In che senso dici ciò? Non capisco. SOCRATE: Non capisci che all'inizio del discorso di un uomo politico per primo viene scritto il nome di chi lo loda! FEDRO: E come? SOCRATE: «Il consiglio ha deciso», dice più o meno, ovvero «il popolo ha deciso», o entrambi, e ancora «il tale e il tal altro ha detto» (e qui lo scrittore cita se stesso con grande reverenza e si fa l'elogio). Poi si mette a parlare, mostrando a chi lo loda la sua abilità, talvolta dopo aver composto uno scritto assai lungo. O ti pare che una cosa del genere sia altro che un discorso scritto? FEDRO: Non mi pare proprio. SOCRATE: Quindi, se il discorso regge, l'autore esce di scena tutto lieto; se invece viene escluso e radiato dallo scrivere discorsi e dall'essere degno di scriverli, piangono lui e i suoi compagni. FEDRO: E anche molto! SOCRATE: è chiaro dunque che non disprezzano questa attività, ma l'ammirano. FEDRO: Sicuro! SOCRATE: E allora? Quando un retore o un re è in grado di raggiungere la potenza di Licurgo, di Solone o di Dario (45) e di diventare un logografo immortale nella sua città, non si crede forse egli stesso pari agli dèi mentre ancora vive, e i posteri non pensano di lui la stessa cosa, contemplando i suoi scritti? FEDRO: Certamente! SOCRATE: Credi allora che uno di costoro, chiunque sia e in qualunque modo sia ostile a Lisia, lo biasimi proprio perché scrive discorsi? 13  Platone Fedro  FEDRO: Non è verosimile, da ciò che dici, poiché a quanto pare criticherebbe anche il proprio desiderio. SOCRATE: Allora è chiaro a tutti che non è cosa turpe in sé lo scrivere discorsi. FEDRO: Ma certo. SOCRATE: Ora però io ritengo turpe questo, il pronunciarli e scriverli in modo non bello, ma riprovevole e disonesto. FEDRO: è chiaro. SOCRATE: E allora qual è il modo di scriverli bene e quale il modo contrario? Abbiamo bisogno, Fedro, di esaminare a questo proposito Lisia e chiunque altro abbia mai composto o comporrà uno scritto sia pubblico sia privato, in versi come un poeta o non in versi come un prosatore? FEDRO: Chiedi se ne abbiamo bisogno? E per quale ragione uno, oserei dire, vivrebbe, se non per i piaceri di questo tipo? Non certo per quelli per cui bisogna prima soffrire, altrimenti non si prova godimento, come sono quasi tutti i piaceri del corpo, che per questo motivo sono stati giustamente chiamati servili. SOCRATE: Tempo ne abbiamo, a quanto pare. E poi mi sembra che in questa calura soffocante le cicale, cantando sopra la nostra testa e discorrendo tra loro, guardino anche noi. Se dunque vedessero che anche noi due, come fanno i più a mezzogiorno, non discorriamo, ma sonnecchiamo e ci lasciamo incantare da loro per pigrizia della mente, giustamente ci deriderebbero, considerandoci degli schiavi venuti da loro per dormire in questo luogo di sosta come delle pecore che passano il pomeriggio presso la fonte; se invece ci vedranno discorrere e navigare accanto a loro come alle Sirene senza essere ammaliati, forse, prese da ammirazione, ci daranno quel dono che per concessione degli dèi possono dare agli uomini. FEDRO: E qual è questo dono che hanno? A quanto pare, non l'ho mai sentito. SOCRATE: Non si addice davvero a un uomo amante delle Muse non averne mai sentito parlare.(46) Si dice che un tempo le cicale erano uomini, di quelli vissuti prima che nascessero le Muse; quando poi nacquero le Muse e comparve il canto, alcuni di loro restarono così colpiti dal piacere che cantando non si curarono più di cibo e bevanda e senza accorgersene morirono. Da loro in seguito ebbe origine la stirpe delle cicale, che ricevette dalle Muse questo dono, di non aver bisogno di nutrimento fin dalla nascita, ma di cominciare subito a cantare senza cibo né bevanda fino alla morte, e di andare quindi dalle Muse a riferire chi tra gli uomini di quaggiù le onora, e quale di esse onora. A Tersicore riferiscono di quelli che l'hanno onorata nei cori, rendendoli a lei più graditi, a Erato di chi l'ha onorata nei carmi d'amore, e così per le altre, secondo l'onore che ha ciascuna. A Calliope, la più anziana, e a Urania, che viene dopo di lei, riferiscono di quelli che trascorrono la vita nella filosofia e onorano la loro musica, poiché esse, avendo cura del cielo e dei discorsi divini e umani, emettono tra tutte le Muse la voce più bella.(47) Per molte ragioni, quindi, a mezzogiorno bisogna parlare e non dormire. FEDRO: E allora bisogna parlare. SOCRATE: Dobbiamo dunque esaminare quello che ora ci siamo proposti, ossia come è bene pronunciare e scrivere un discorso e come non lo è. FEDRO: è chiaro. SOCRATE: I discorsi che saranno pronunciati in modo bello e decoroso non devono forse implicare che l'animo di chi parla conosca il vero riguardo a ciò di cui intende parlare? FEDRO: A tal proposito, caro Socrate, ho sentito dire questo: per chi vuole essere un retore non c'è la necessità di apprendere ciò che è realmente giusto, ma ciò che sembra giusto alla moltitudine che giudicherà, non ciò che è veramente buono o bello, ma che sembrerà tale, poiché il convincere il prossimo viene da questo, non dalla verità. SOCRATE: «Non parola da buttare»(48) dev'essere, Fedro, ciò che dicono i sapienti, ma si deve esaminare se le loro affermazioni sono valide. Anche per questo non bisogna lasciar cadere quanto ora è stato detto. FEDRO: Hai ragione. SOCRATE: Esaminiamolo dunque in questo modo. FEDRO: Come? SOCRATE: Se volessi persuaderti a difenderti dai nemici acquistando un cavallo, ed entrambi non conoscessimo un cavallo, ma io per caso sapessi di te solo questo, che Fedro reputa sia un cavallo quell'animale domestico che a orecchie assai grandi... FEDRO: Sarebbe ridicolo, Socrate. SOCRATE: Non ancora. Ma lo sarebbe nel caso che, per convincerti sul serio, componessi un discorso di elogio dell'asino chiamandolo cavallo e sostenendo che tale bestia è assolutamente degna di essere acquistata sia per uso domestico sia per le spedizioni militari, utile per il combattimento in groppa, valente a portare bagagli e vantaggiosa in molte altre cose. FEDRO: Allora sarebbe davvero ridicolo. SOCRATE: E non è forse meglio essere ridicolo e amico piuttosto che esperto e nemico? FEDRO: Così pare. SOCRATE: Pertanto, quando il retore che non conosce il bene e il male inizia a persuadere una città che si trova nelle sue stesse condizioni, facendo non l'elogio dell'ombra dell'asino come se fosse del cavallo, ma l'elogio del male come se fosse il bene, e presa dimestichezza con le opinioni della gente la persuade a operare il male anziché il bene, quale frutto credi che mieterà in seguito la retorica da quello che ha seminato? FEDRO: Sicuramente non buono. 14  Platone Fedro  SOCRATE: Ma buon amico, abbiamo forse svillaneggiato l'arte dei discorsi in modo più rozzo del dovuto? Essa forse dirà: «Cosa mai andate cianciando, o mirabili uomini? Io non costringo nessuno che non conosca il vero a imparare a parlare, ma, se il mio consiglio vale qualcosa, a prendere me solo dopo aver acquisito quello. Questa dunque è la cosa importante che vi voglio dire: senza di me, anche chi conosce le cose come sono in realtà non saprà essere più persuasivo secondo arte». FEDRO: E non dirà cose giuste, se parlasse così ? SOCRATE: Sì , se i discorsi che si presentano le rendono testimonianza che è un'arte. In effetti mi sembra di udire alcuni discorsi che vengono a testimoniare che essa mente e non è un'arte, ma una pratica priva di arte. Un'autentica arte del dire senza il tocco della verità, afferma lo Spartano,(49) non esiste né esisterà mai. FEDRO: C'è bisogno di questi discorsi, Socrate: su, portali qui ed esamina cosa dicono e in che modo. SOCRATE: Venite avanti, nobili rampolli, e persuadete Fedro dai bei figli (50) che se non praticherà la filosofia in modo adeguato, non sarà mai in grado di parlare di nulla. Fedro dunque risponda. FEDRO: Chiedete. SOCRATE: La retorica, in generale, non è l'arte di guidare le anime per mezzo di discorsi, non solo nei tribunali e in tutte le altre riunioni pubbliche, ma anche in quelle private, la stessa sia nelle questioni piccole sia in quelle grandi, e non è affatto di maggior pregio, almeno quando è retta, nelle cose serie che in quelle di poco conto? O come hai sentito parlare in proposito? FEDRO: No, per Zeus, assolutamente non così , ma soprattutto nei processi si parla e si scrive con arte, come pure nelle assemblee pubbliche. Non possiedo informazioni più ampie. SOCRATE: Ma allora, a proposito dei discorsi, hai sentito parlare solo delle arti di Nestore e Odisseo, che hanno messo per iscritto a Ilio nei periodi di tregua, e non di quelle di Palamede? (51) FEDRO: Per Zeus, neanche di quelle di Nestore, a meno che tu non faccia di Gorgia un Nestore, o di Trasimaco e Teodoro un Odisseo.(52) SOCRATE: Forse. Ma lasciamo perdere costoro. Tu dimmi piuttosto: nei tribunali gli avversari cosa fanno? Non fanno affermazioni tra loro contrastanti? O cosa diremo? FEDRO: Proprio questo. SOCRATE: Riguardo al giusto e all'ingiusto? FEDRO: Sì . SOCRATE: Allora, chi opera in questo modo con arte, farà apparire la stessa cosa alle stesse persone ora giusta, ora, quando lo voglia, ingiusta? FEDRO: Come no? SOCRATE: E in un'assemblea popolare farà sembrare alla città le stesse cose ora buone, ora, al contrario, cattive? FEDRO: è così . SOCRATE: E non sappiamo che il Palamede di Elea (53) parlava con un'arte tale da far apparire agli ascoltatori le stesse cose simili e dissimili, una e molte, ferme e in movimento? FEDRO: Ma certo! SOCRATE: Dunque l'arte del contraddire non si trova solo nei tribunali e nell'assemblea popolare, ma a quanto pare in tutto ciò che si dice ci sarebbe questa sola arte, se mai la è veramente, con la quale uno sarà capace di rendere ogni cosa simile a ogni altra in tutti i casi possibili e per quanto è possibile, e di mettere in luce quando un altro fa la stessa cosa e lo nasconde. FEDRO: In che senso dici una cosa del genere? 5OCRATE Se cerchiamo in questo modo credo che ci apparirà evidente. L'inganno si verifica di più nelle cose che differiscono di molto o in quelle che differiscono di pOco? FEDRO: In quelle che differiscono di poco. SOCRATE: Ma è più facile che non ti accorga di essere arrivato all'opposto se ti sposti poco per volta che se ti sposti a grandi passi. FEDRO: Come no? SOCRATE: Dunque chi ha intenzione di ingannare un altro senza essere ingannato a sua volta deve distinguere con precisione la somiglianza e la dissomiglianza degli esseri. FEDRO: è necessario. SOCRATE: Ma se ignora la verità di ciascuna cosa, sarà mai in grado di discernere la somiglianza dì ciò che ignora, piccola o grande che sia, con le altre cose? FEDRO: Impossibile. SOCRATE: Dunque, in coloro che hanno opinioni contrarie alla realtà degli esseri e si ingannano, è chiaro che questa impressione si insinua attraverso certe somiglianze. FEDRO: Accade proprio così . SOCRATE: è possibile allora che uno possieda l'arte di spostare poco a poco la realtà di un essere attraverso le somiglianze, conducendolo ogni volta da ciò che è al suo contrario, o viceversa di evitare questo, se non ha cognizione di cosa sia ciascun essere? FEDRO: Non sarà mai possibile. SOCRATE: Dunque, amico, colui che non conosce la verità, ma è andato a caccia di opinioni, ci offrirà un'arte dei discorsi ridicola, a quanto pare, e priva di arte. FEDRO: Pare di sì . 15  Platone Fedro  SOCRATE: Vuoi dunque vedere, nel discorso di Lisia che porti e in quelli che noi abbiamo fatto, qualcuna delle cose che definiamo prive di arte e conformi all'arte? FEDRO: Più d'ogni altra cosa, poiché ora noi parliamo in certo qual modo a vuoto, non avendo esempi adeguati. SOCRATE: E per un caso fortunato, a quanto pare, sono stati pronunciati due discorsi che recano un esempio di come chi conosce il vero, giocando con le parole, possa condurre fuori strada gli ascoltatori. Ed io, Fedro, ne attribuisco la causa agli dèi del luogo; ma forse anche le profetesse delle Muse, che cantano sopra la nostra testa, possono averci ispirato questo dono, poiché io non sono certo partecipe di una qualche arte del dire. FEDRO: Sia come dici tu. Solo spiega ciò che affermi. SOCRATE: Su, leggimi l'inizio del discorso di Lisia. FEDRO: «Sei a conoscenza della mia situazione, e hai udito che ritengo sia per noi utile che queste cose accadano; ma non stimo giusto non poter ottenere ciò che chiedo perché non mi trovo a essere tuo amante. Gli innamorati si pentono...» SOCRATE: Fermati. Bisogna dire in che cosa costui sbaglia e opera senz'arte, non è vero? FEDRO: Sì . SOCRATE: Non è forse evidente per chiunque almeno questo, che siamo d'accordo su alcune di queste cose, in disaccordo su altre? FEDRO: Mi sembra di capire il tuo pensiero, ma esprimilo ancora più chiaramente. SOCRATE: Quando uno dice la parola "ferro" o "argento", non intendiamo forse tutti la stessa cosa? FEDRO: Certo! SOCRATE: E quando si tratta dei termini "giusto" e "bene"? Non siamo portati chi in una direzione, chi in un'altra, e siamo in conflitto gli uni con gli altri e persino con noi stessi? FEDRO: Proprio così ! SOCRATE: Dunque concordiamo su alcune cose, su altre no. FEDRO: è così . SOCRATE: In quale dei due campi siamo più facilmente ingannabili e la retorica ha maggior potere? FEDRO: Quello in cui vaghiamo nell'incertezza, è evidente. SOCRATE: Pertanto chi si accinge a praticare la retorica deve innanzitutto aver distinto con metodo queste cose e aver colto un carattere peculiare di entrambe le forme, quella in cui è inevitabile che la gente vaghi nell'incertezza e quella in cui non lo è. FEDRO: Chi avesse colto questo, Socrate, avrebbe compreso un'idea davvero bella. SOCRATE: Inoltre credo che, nell'occuparsi di ciascuna cosa, non debba lasciarsi sfuggire, ma debba percepire con acutezza a quale delle due specie appartiene ciò di cui intende parlare. FEDRO: Come no? SOCRATE: E allora? Dobbiamo dire che l'amore appartiene alle questioni controverse oppure no? FEDRO: Alle questioni controverse, non c'è dubbio. O credi che ti sarebbe stato possibile dire quello che poco fa hai detto su di lui, ossia che è un danno sia per l'amato sia l'amante, e al contrario che è il più grande dei beni? SOCRATE: Parli in modo eccellente; ma dimmi anche questo, giacché io a causa dell'invasamento non lo ricordo troppo bene: se all'inizio del discorso ho dato una definizione dell'amore. FEDRO: Sì , per Zeus, in modo davvero insuperabile. SOCRATE: Ahimè, quanto sono più esperte nei discorsi, a quel che dici, dici, le Ninfe dell'Acheloo e Pan figlio di Ermes rispetto a Lisia figlio di Cefalo! Può darsi che dica una sciocchezza, ma Lisia, cominciando il suo discorso sull'amore, non ci ha costretto a concepire Eros come una certa realtà unica che voleva lui, e in relazione a questo ha composto e condotto a termine tutto il discorso seguente? Vuoi che rileggiamo il suo inizio? FEDRO: Se ti sembra il caso. Tuttavia ciò che cerchi non è lì . SOCRATE: Parla, in modo che ascolti proprio lui. FEDRO: «Sei a conoscenza della mia situazione, e hai udito che ritengo sia utile per noi che queste cose accadano; ma non stimo giusto non poter ottenere ciò che chiedo, perché non mi trovo a essere tuo amante. Gli innamorati si pentono dei benefici che hanno fatto, allorquando cessa la loro passione...». SOCRATE: Sembra che costui sia ben lungi dal fare ciò che cerchiamo, se mette mano al discorso non dall'inizio ma dalle fine, nuotando supino all'indietro, e prende le mosse da ciò che l'amante direbbe al suo amato quando ormai ha smesso di amarlo. Oppure ho detto una sciocchezza, Fedro, mia testa cara? FEDRO: è certamente la fine, Socrate, quella intorno a cui compone il discorso. SOCRATE: E il resto? Non ti pare che le parti del discorso siano state buttate lì alla rinfusa? O ciò che è stato detto per secondo risulta che per una qualche necessità doveva essere messo per secondo piuttosto che un altro degli argomenti trattati? A me, che non so nulla, è sembrato che lo scrittore abbia detto in maniera non rozza ciò che gli veniva in mente; e tu sei a conoscenza di una qualche arte di scrivere discorsi, in base alla quale lui ha disposto questi argomenti così di seguito, uno dopo l'altro? FEDRO: Sei troppo buono, se credi che io sia in grado di vedere nelle sue parole in modo così preciso! SOCRATE: Ma penso che tu possa dire almeno questo, che ogni discorso dev'essere costituito come un essere vivente e avere un corpo suo proprio, così da non essere senza testa e senza piedi, ma da avere le parti di mezzo e quelle estreme scritte in modo che si adattino le une alle altre e al tutto. FEDRO: Come no? 16  Platone Fedro  SOCRATE: Esamina dunque il discorso del tuo compagno, se è composto così o in altro modo, e troverai che non differisce in nulla dall'epigramma che secondo alcuni è stato scritto sulla tomba di Mida il Frigio.(54) FEDRO: Qual è questo epigramma, e cos'ha di particolare? SOCRATE: è questo qui: Vergine bronzea sono, e sto sull'avello di Mida. Fin che l'acqua scorra e alberi grandi verdeggino, stando qui sulla tomba di molte lacrime aspersa, annuncerò a chi passa che Mida qui è sepolto. Capisci senz'altro, come credo, che non c'è alcuna differenza se un verso viene recitato per primo o per ultimo. FEDRO: Tu ti fai beffe del nostro discorso, Socrate! SOCRATE: Allora lasciamolo perdere, così non ti crucci (eppure mi sembra che contenga parecchi esempi ai quali gioverebbe porre attenzione, cercando di non imitarli in alcun modo); e passiamo agli altri due discorsi. In essi, mi sembra, c'era qualcosa che per chi vuole fare indagini sui discorsi è conveniente esaminare. FEDRO: A che cosa alludi? SOCRATE: In qualche modo erano opposti: uno diceva che si deve compiacere chi ama, l'altro chi non ama. FEDRO: E con molto vigore! SOCRATE: Pensavo che tu avresti detto il vero, cioè con mania: ciò che cercavo è appunto questo. Abbiamo detto infatti che l'amore è una forma di mania. O no? FEDRO: Sì . SOCRATE: E che ci sono due forme di mania, una che nasce da malattie umane, l'altra che nasce da un mutamento divino delle consuete abitudini. FEDRO: Giusto. SOCRATE: Distinguendo quattro parti di quella divina in relazione a quattro dèi, abbiamo attribuito l'ispirazione mantica ad Apollo, quella iniziatica a Dioniso, quella poetica alle Muse, la quarta ad Afrodite ed Eros, e abbiamo detto che la mania amorosa è la migliore. E non so come, rappresentando con immagini la passione amorosa, forse toccando da un lato un che di vero, dall'altro uscendo un po' di strada, abbiamo composto un discorso non del tutto incapace di persuadere e abbiamo levato quasi per gioco, con parole misurate e pie, un inno in forma di mito in onore di Eros, mio e tuo signore, Fedro, e protettore dei bei giovani. FEDRO: E almeno per me, un discorso davvero non spiacevole da ascoltare! SOCRATE: Prendiamo dunque in esame solo questo, come il discorso sia potuto passare dal biasimo alla lode. FEDRO: Cosa intendi dire con ciò? SOCRATE: A me pare che il resto sia stato fatto realmente per gioco; ma in alcune di queste cose dette a caso ci sono due procedimenti di cui non sarebbe spiacevole se si riuscisse a coglierne con arte la potenza. FEDRO: Quali? SOCRATE: Il primo consiste nel ricondurre le cose disperse in molteplici modi a un'unica idea cogliendole in uno sguardo d'insieme, così da definirle una per una e da chiarire ciò su cui si vuole di volta in volta insegnare. Per esempio, nel discorso fatto poco fa su Eros, una volta definito ciò che è, a prescindere se sia stato detto bene o male, è appunto grazie a questa definizione che il discorso ha acquistato chiarezza e coerenza interna. FEDRO: E dell'altro procedimento cosa dici, SOcrate? SOCRATE: Esso consiste, al contrario, nel saper dividere secondo le idee in base alle loro articolazioni naturali, senza cercar di spezzare alcuna parte, alla maniera di un cattivo macellaio; ma come i due discorsi di poco fa concepivano la dissennatezza dell'animo come un'idea unica in comune, e come da un corpo unico hanno origine membra doppie dallo stesso nome, chiamate destra e sinistra, così i due discorsi hanno considerato anche la componente della follia come un'idea per sua natura unica in noi: il primo discorso, tagliando la parte di sinistra, e poi tagliandola ancora, non ha smesso prima di aver trovato in queste divisioni un certo qual amore chiamato sinistro e di averlo a buon diritto biasimato; l'altro discorso invece ci ha condotto nella parte destra della mania e vi ha trovato un amore che ha lo stesso nome dell'altro, ma è divino, e dopo aavercelo posto innanzi lo ha elogiato come la causa dei nostri più grandi beni. FEDRO: Dici cose verissime. SOCRATE: Io, Fedro, sono amante di questi procedimenti, delle divisioni e delle unificazioni, al fine di essere in grado di parlare e di pensare; e se ritengo che qualcun altro sia per sua natura capace di guardare all'uno e ai molti, lo seguo «tenendo dietro alle sue orme come a quelle di un dio». E quelli che appunto sono in grado di fare ciò, lo sa un dio se la mia definizione è giusta o meno, fino a questo momento li chiamo dialettici. Quelli che invece hanno appreso da te e da Lisia ciò di cui si è discusso ora, dimmi tu come conviene chiamarli: o è proprio questa l'arte dei discorsi, grazie alla quale Trasimaco e gli altri sono diventati abili a parlare essi stessi e rendono tali gli altri, che vogliono coprirli di doni come dei re? FEDRO: Sono uomini regali, sì , ma non esperti delle cose che chiedi. Ma mi pare che tu dia il nome giusto a questo metodo, chiamandolo dialettico; quello della retorica invece pare ci sfugga ancora. SOCRATE: Come dici? Potrebbe forse esserci qualcosa di bello, che anche senza questi procedimenti si apprende lo stesso con arte? Né io né tu dobbiamo assolutamente disprezzarlo, ma dobbiamo appunto precisare che cos'è ciò che rimane della retorica. FEDRO: Rimangono moltissime cose, Socrate, almeno quelle che si trovano nei libri scritti sull'arte del dire. 17  Platone Fedro  SOCRATE: Hai fatto bene a ricordarmelo. Per primo, credo, all'inizio del discorso dev'essere pronunciato il proemio; sono queste che chiami le finezze dell'arte, non è vero? FEDRO: Sì . SOCRATE: Al secondo posto viene una narrazione seguita da testimonianze, al terzo le argomentazioni, al quarto le verosimiglianze. Poi vengono la conferma e la riconferma, così almeno credo che dica l'eccellente uomo di Bisanzio, il Dedalo dei discorsi. FEDRO: Vuoi dire il valente Teodoro? SOCRATE: Come no? E poi sia nell'accusa sia nella difesa vanno fatte una confutazione e una controconfutazione. E non tiriamo in ballo il bellissimo Eveno di Paro, che per primo trovò l'insinuazione e gli elogi indiretti; (55) alcuni sostengono che pronunciasse persino dei biasimi indiretti in poesia per esercitare la memoria (in effetti era un uomo abile). E lasceremo riposare Tisia e Gorgì a,(56) i quali videro come il verosimile sia da tenere in conto più del vero e con la forza del discorso fanno apparire grande ciò che è piccolo e piccolo ciò che è grande, vecchio ciò che è nuovo e al contrario nuovo ciò che è vecchio, e scoprirono la brevità dei discorsi e le prolissità infinite su ogni sorta di argomento? Una volta Prodico,(57) sentendo da me queste cose, scoppiò a ridere, e sostenne di aver scoperto lui solo i discorsi di cui l'arte abbisogna: né lunghi né brevi, ma misurati. FEDRO: Parole molto sagge, o Prodico. SOCRATE: E non menzioniamo Ippia? Credo che anche l'ospite eleo voterebbe con lui.(58) FEDRO: Perché no? SOCRATE: E come parleremo dei Templi alle Muse dei discorsi innalzati da Polo, ad esempio la ripetizione o il parlare per sentenze e per immagini, e dei Templi alle Muse dei nomi di cui Licimnio gli fece dono per la composizione del bello stile?(59) FEDRO: E le opere di Protagora,(60) Socrate, non erano più o meno di questo tipo? SOCRATE: Una certa Correttezza dello stile, ragazzo, e molte altre belle cose. Ma quanto ai discorsi strappalacrime sfoderati per la vecchiaia e la povertà, mi pare che l'abbia vinta per arte la potenza del Calcedonio, uomo d'altronde straordinario nel suscitare la collera nella gente e poi nell'ammansire chi aveva fatto adirare incantandolo, come soleva dire, e potentissimo nel lanciare e sciogliere calunnie in ogni modo. Sembra poi che ci sia comune accordo tra tutti sulla conclusione dei discorsi, alla quale alcuni danno il nome di riepilogo, altri un altro nome. FEDRO: Intendi il ricordare per sommi capi agli ascoltatori, alla fine del discorso, ciascuno degli argomenti trattati? SOCRATE: Intendo questo, e se tu hai qualcos'altro da aggiungere sull'arte dei discorsi... FEDRO: Cose da poco, che non vale la pena di dire. SOCRATE: Lasciamo perdere le cose di poco conto, e vediamo piuttosto in piena luce quale potenza dell'arte hanno le cose di cui abbiamo parlato, e quando. FEDRO: Una potenza davvero forte, SOcrate, almeno nelle adunanze del popolo. SOCRATE: Infatti l'hanno. Ma guarda anche tu, o esimio, se la loro trama non sembra anche te, come a me, slegata. FEDRO: Purché tu lo dimostri. SOCRATE: Allora dimmi: se uno si presentasse al tuo compagno Erissimaco o a suo padre Acumeno e dicesse loro: «Io so somministrare ai corpi farmaci tali da riscaldarli e raffreddarli, se lo voglio, e se mi pare il caso tali da farli vomitare e persino evacuare, e moltissime altre cose del genere. E dal momento che ho queste conoscenze sono convinto di essere un medico e di far diventare medico un altro a cui comunico la scienza di queste cose», cosa credi che direbbero dopo averlo ascoltato? FEDRO: Cos'altro se non chiedergli se sa anche a chi e quando bisogna fare ciascuna di queste cose, e in quale misura? SOCRATE: E se allora rispondesse: «Non lo so affatto: ma sono convinto che chi ha appreso queste conoscenze da me sia a sua volta in grado di fare ciò che chiedi»? FEDRO: Direbbero, credo, che quell'uomo è pazzo, e che crede di essere diventato un medico per aver sentito qualcosa da qualche libro o per aver usato casualmente dei farmaci, senza avere alcuna conoscenza dell'arte. SOCRATE: E se uno si presentasse a Sofocle e ad Euripide dicendo che sa comporre discorsi lunghissimi su un argomento piccolo e piccolissimi su un argomento grande, commoventi, quando lo vuole, e al contrario spaventevoli e minacciosi, e tante altre cose del genere, e che insegnando ciò crede di trasmettere il modo di comporre una tragedia? FEDRO: Credo che anche costoro, Socrate, riderebbero se uno pensa che la tragedia sia altra cosa che l'unione di questi elementi ben connessi tra loro e accordati con il tutto. SOCRATE: Però non lo rimprovererebbero con villania, credo, ma come un musico, se incontrasse un uomo che crede di essere esperto nell'armonia, perché il caso vuole che sappia come si fa a produrre il suono più acuto e quello più grave, non gli direbbe villanamente: «Disgraziato, tu sei pazzo!», ma in quanto musico gli direbbe, in modo più affabile: «Carissimo, chi vuole essere un esperto di armonia è necessario che conosca anche questo, tuttavia nulla vieta che chi ha le tue capacità non sappia neppure un poco di armonia; tu infatti conosci le nozioni necessarie e preliminari dell'armonia, non come si produce l'armonia». FEDRO: Giustissimo. SOCRATE: Allora anche Sofocle direbbe a chi si esibisse di fronte a loro che conosce i preliminari dell'arte tragica ma non il modo di comporre una tragedia, e Acumeno direbbe all'altro che conosce i preliminari della medicina, non la scienza medica. FEDRO: Assolutamente. SOCRATE: E cosa pensiamo che direbbero Adrasto voce di miele o Pericle, (61) se sentissero parlare degli accorgimenti che abbiamo elencato poco fa, cioè parlare conciso, parlare per immagini e tutte le altre cose che abbiamo 18  Platone Fedro  scorso affermando che erano da esaminare in piena luce? Forse per villania, come abbiamo fatto io e te, si rivolgerebbero con parole aspre e rudi a chi ha scritto queste cose e le insegna spacciandole per retorica, oppure, essendo più saggi di noi, ci lascerebbero di stucco dicendo: «Fedro e Socrate, non bisogna essere aspri, ma indulgenti, se alcuni, non essendo a conoscenza della dialettica, non hanno saputo definire cosa mai sia la retorica e in conseguenza di questa condizione, possedendo le nozioni necessarie e preliminari dell'arte, hanno creduto di averla scoperta; e impartendo queste nozioni ad altri ritengono di averli istruiti compiutamente nella retorica e presumono che i loro discepoli debbano procurarsi da sé nei discorsi la capacità di esporre ciascuna di queste cose in maniera convincente e di collegare tutto l'insieme, come se fosse opera da nulla!». FEDRO: Ma può anche darsi, Socrate, che sia proprio un qualcosa del genere cio che concerne l'arte che questi uomini insegnano e presentano per iscritto come retorica, e mi sembra che tu abbia detto il vero; ma allora come e dove ci si può procurare l'arte di colui che è veramente esperto di retorica e persuasivo? SOCRATE: Riuscire a diventare un perfetto campione della retorica, è naturale, Fedro, e forse anche necessario, che sia come negli altri campi: se per natura sei portato alla retorica, sarai un retore famoso, a patto d'aggiungervi scienza ed esercizio; ma se manchi di una di queste qualità, resterai imperfetto. Quanto poi all'arte connessa a ciò, non mi sembra che il metodo proceda nella direzione in cui vanno Lisia e Trasimaco. FEDRO: Qual è il metodo, allora? SOCRATE: Si dà il caso, carissimo, che Pericle sia stato probabilmente il più perfetto di tutti nella retorica. FEDRO: Perché? SOCRATE: Tutte le grandi arti hanno bisogno di sottigliezza e di discorsi celesti sulla natura, poiché questa elevatezza di pensiero e questa capacità di condurre tutto ad effetto sembrano provenire in qualche modo da qui. E Pericle, oltre alla buona disposizione naturale, si acquistò anche questo: imbattutosi, credo, in Anassagora,(62) uomo di tal fatta, si riempì di discorsi celesti e giunse alla natura dell'intelletto e della ragione, argomenti intorno ai quali Anassagora si diffondeva ampiamente, e da qui ricavò quello che era utile per l'arte dei discorsi. FEDRO: In che senso dici ciò? SOCRATE: Il modo di procedere dell'arte medica è lo stesso della retorica. FEDRO: E come? SOCRATE: In entrambe bisogna dividere una natura, in una quella del corpo, nell'altra quella dell'anima, se tu, non solo per esercizio e in modo empirico, ma con arte, vuoi procurare all'uno salute e vigore somministrandogli medicine e nutrimento, e trasmettere all'altra la convinzione che desidera e la virtù offrendole discorsi e occupazioni rispettose delle leggi. FEDRO: è verosimile che sia così , Socrate. SOCRATE: Ritieni dunque che sia possibile comprendere la natura dell'anima in modo degno di menzione senza conoscere la natura dell'insieme? FEDRO: Se si deve dare qualche credito a Ippocrate, che è degli Asclepiadi,(63) senza questo metodo non è possibile neanche comprendere la natura del corpo. SOCRATE: E dice bene, amico; tuttavia bisogna confrontare il discorso con quanto afferma Ippocrate ed esaminare se si accorda. FEDRO: Certamente. SOCRATE: Allora esamina cosa dicono sulla natura Ippocrate e il discorso vero. Non bisogna forse ragionare così riguardo alla natura di qualsiasi cosa? Innanzitutto si deve considerare se ciò in cui vorremo essere esperti noi stessi e in grado di rendere tale un altro sia semplice o multiforme; poi, se è semplice, si deve esaminare quale potenza ha per sua natura nell'agire e su che cosa la esercita, o quale potenza ha nel subire e da che cosa la subisce, se invece ha più forme bisogna enumerarle e vedere per ciascuna di esse ciò che si vede per un'unità, cioè in virtù di che cosa è portata per sua natura ad agire e su che cosa, o in virtù di che cosa a subire, che cosa e da che cosa. FEDRO: Può essere, Socrate. SOCRATE: Dunque il metodo privo di questi procedimenti somiglierebbe all'andare di un cieco. Chi invece persegue con arte una qualsiasi cosa non è da rassomigliare a un cieco o a un sordo, ma è chiaro che, se uno vuol trasmettere ad altri discorsi fatti con arte, dimostrerà puntualmente l'essenza della natura di ciò a cui rivolgerà i suoi discorsi; e questo sarà in qualche modo l'anima. FEDRO: Come no? SOCRATE: Perciò tutto il suo sforzo è teso a questo, poiché in questo cerca di produrre persuasione. O no? FEDRO: Sì . SOCRATE: è chiaro dunque che Trasimaco e chiunque altro offra seriamente l'arte della retorica, innanzitutto descriverà e farà vedere con la massima precisione l'anima, se per sua natura è una e tutta uguale o multiforme come l'aspetto del corpo; diciamo infatti che questo è dimostrare la natura di una cosa. FEDRO: Assolutamente. SOCRATE: In secondo luogo, in virtù di che cosa è per sua natura portata ad agire, e su cosa, o in virtù di che cosa è portata a subire, e da che cosa. FEDRO: Come no? SOCRATE: In terzo luogo, classificati i generi dei discorsi e dell'anima e le loro proprietà, passerà in rassegna tutte le cause, adattando ciascun genere di discorso a ciascun genere di anima e insegnando quale anima, da quali discorsi e per quale causa viene di necessità persuasa, quale invece non viene persuasa. 19  Platone Fedro  FEDRO: Sarebbe bellissimo se fosse così , a quanto pare! SOCRATE: Pertanto, caro, ciò che verrà dimostrato o detto in altro modo non sarà mai detto o scritto con arte, né su questo né su un altro argomento. Ma quelli che oggi scrivono le arti dei discorsi che tu hai ascoltato sono scaltri, e pur conoscendo molto bene l'anima sono portati a dissimulare; perciò, prima che parlino e scrivano in questo modo, non lasciamoci convincere da loro, credendo che scrivano con arte. FEDRO: Qual è questo modo? SOCRATE: Già usare le espressioni appropriate non è cosa facile; ma per quanto mi è possibile voglio dirti come bisogna scrivere, se si intende farlo con arte. FEDRO: Dillo dunque. SOCRATE: Poiché la forza del discorso sta nella guida delle anime, chi vuole essere esperto di retorica è necessario che sappia quante forme ha l'anima. Esse sono tantissime e di svariate qualità, e di conseguenza alcuni uomini sono di un certo tipo, altri di un altro; e dato che le forme dell'anima risultano così divise, a loro volta sono tantissime anche le forme dei discorsi, ciascuna di tipo diverso. Per questo motivo gli uomini di un certo tipo si lasciano facilmente persuadere da discorsi di un certo tipo su determinati argomenti, mentre gli uomini di un altro tipo, sempre per questo motivo, sono difficili da persuadere. Perciò chi vuole diventare retore deve innanzitutto tenere in adeguata considerazione queste cose, poi, osservando il loro modo di essere e di operare all'atto pratico, dev'essere in grado di seguirle acutamente con le sue facoltà intellettive, altrimenti non avrà mai niente più dei discorsi che ascoltava quando frequentava un maestro. E quando sappia dire in modo adeguato quale genere di uomo viene persuaso e da quali discorsi, e sia in grado di accorgersi della sua presenza e di provare a se stesso che si tratta di quell'uomo e di quella natura sulla quale vertevano a suo tempo i discorsi, e poiché ora è di fatto presente deve riferirle questi discorsi nella maniera prevista, per persuaderla di determinate cose, una volta che dunque sia in possesso di tutti questi requisiti, sappia cogliere i momenti giusti in cui bisogna parlare e quelli in cui bisogna trattenersi e sappia discernere l'opportunità e l'inopportunità del parlare conciso, commovente o indignato e di tutte le altre forme di discorso che ha appreso, allora l'arte è realizzata in modo bello e compiuto, prima no. Ma se uno manca di una qualsiasi di queste cose quando parla, insegna o scrive, e afferma di parlare con arte, vince chi non si lascia persuadere. «E allora?», dirà forse il nostro scrittore. «Fedro e Socrate, la pensate così? Dobbiamo forse definire in altro modo l'arte che è detta dei discorsi?». FEDRO: è impossibile in altro modo, Socrate; eppure sembra un lavoro non da poco. SOCRATE: Hai ragione. Proprio per questo bisogna rivoltare tutti i discorsi sottosopra ed esaminare se da qualche parte appare una via più facile e più breve per giungere ad essa, così da non procedere inutilmente per una via lunga e aspra, quando è possibile percorrerne una corta e liscia. Ma se hai da qualche parte un aiuto, per averlo ascoltato da Lisia o da qualcun altro, cerca di richiamarlo alla memoria e di dirlo. FEDRO: Così , per fare una prova, potrei, ma non me la sento, almeno adesso. SOCRATE: Vuoi dunque che io riferisca un discorso che ho ascoltato da alcuni che si occupano di queste cose? FEDRO: Perché no? SOCRATE: D'altronde, Fedro, si dice che è giusto riferire anche le ragioni del lupo. FEDRO: Allora fa' così anche tu. SOCRATE: Dunque, essi sostengono che non si devono magnificare e levare così in alto queste cose, con tanti giri di parole; infatti, come abbiamo detto anche all'inizio del discorso, chi intende essere sufficientemente esperto nella retorica non deve certo partecipare della verità circa questioni giuste e buone, o uomini tali per natura o per educazione, poiché nei tribunali non importa proprio niente a nessuno della verità su queste cose, ma importa solo ciò ch'è atto a persuadere: è il verosimile, a cui si deve applicare chi intende parlare con arte. Talvolta infatti non bisogna neanche esporre i fatti, a meno che non si siano svolti in maniera verosimile, ma solo quelli verosimili, sia nell'accusa sia nella difesa, e in genere chi parla deve seguire il verosimile, dopo aver detto tanti saluti alla verità; poiché è appunto questo che, se percorre l'intero discorso, procura tutta quanta l'arte. FEDRO: Hai esposto, Socrate, proprio le ragioni che adducono quelli che danno a vedere di essere esperti nell'arte dei discorsi; mi sono ricordato che già in precedenza abbiamo toccato brevemente tale argomento, e sembra che ciò sia di enorme importanza per chi si occupa di queste cose. SOCRATE: Sicuramente hai studiato con precisione proprio Tisia: quindi Tisia ci dica anche questo, se per verosimile intende qualcosa di diverso da ciò che sembra ai più. FEDRO: E che altro? SOCRATE: E avendo fatto questa scoperta, a quanto pare, di saggezza e d'arte insieme, ha scritto che se un uomo debole e coraggioso, che ha percosso un uomo forte e vile e gli ha portato via il mantello o qualcos'altro, viene condotto in tribunale, nessuno dei due deve dire la verità, ma il vile deve asserire di non essere stato percosso dal solo uomo coraggioso, questi deve confutare ciò ribattendo che erano loro due soli, e servirsi del seguente argomento: «Come avrei potuto io, data la mia condizione, mettere le mani addosso a una persona come lui?». L'altro non ammetterà la propria viltà, ma cercando di dire qualche altra menzogna offrirà subito materia di confutazione all'avversario. E anche negli altri campi le cose dette con arte sono più o meno di questo genere. Non è così , Fedro? FEDRO: Come no? SOCRATE: Ahimè, sembra che abbia fatto la scoperta davvero sensazionale di un'arte nascosta, Tisia o chiunque altro sia e da qualunque luogo si compiaccia di trarre il nome! Ma a costui, amico, dobbiamo dire o no... FEDRO: Cosa? 20  Platone Fedro  SOCRATE: Questo: «O Tisia, da tempo noi, prima ancora che tu venissi qui, ci trovavamo a dire che questo verosimile viene a nascere nei più per somiglianza col vero; e poco fa abbiamo spiegato che chi conosce la verità sa scoprire benissimo le somiglianze. Perciò, se hai qualcos'altro da dire sull'arte dei discorsi, lo ascolteremo; altrimenti daremo credito a ciò che abbiamo esposto or ora, cioè che se uno non enumererà le nature di coloro che lo ascolteranno, e non sarà in grado di dividere gli esseri secondo le forme e di raccoglierli uno per uno in un'idea, non sarà mai esperto nell'arte dei discorsi, per quanto è possibile a un uomo. E non potrà mai acquisire queste capacità senza molta applicazione; ad essa il sapiente dovrà indirizzare i suoi sforzi non per parlare e agire con gli uomini, ma per poter dire cose che siano gradite agli dèi e fare ogni cosa in modo a loro gradito, per quanto è nelle sue facoltà. Infatti i più saggi tra noi, Tisia, dicono che chi ha intelletto deve prendersi cura di compiacere non i compagni di schiavitù, se non in modo accessorio, ma i padroni buoni e che discendono da uomini buoni. Perciò, se la strada è lunga, non meravigliartene, in quanto per raggiungere grandi traguardi bisogna percorrerla, non come credi tu. D'altronde, come dice il nostro discorso, anche queste fatiche diventeranno bellissime grazie a quei traguardi, se uno lo vuole». FEDRO: Mi pare che si stia parlando in modo bellissimo, Socrate, se davvero qualcuno ne è capace. SOCRATE: Ma per chi intraprende azioni belle è bello anche soffrire, qualunque cosa gli tocchi di soffrire. FEDRO: Sicuro. SOCRATE: Quanto si è detto a proposito dell'arte e della mancanza di arte nel fare discorsi sia dunque sufficiente. FEDRO: Come no? SOCRATE: Rimane la questione della convenienza e della non convenienza della scrittura, quando essa vada bene e quando invece sia sconveniente. O no? FEDRO: Sì . SOCRATE: Sai allora come, nell'ambito dei discorsi, potrai acquistarti il massimo favore di un dio con le tue azioni e le tue parole? FEDRO: Per niente. E tu? SOCRATE: Io posso raccontarti una storia tramandata dagli antichi; il vero essi lo sanno. E se noi lo trovassimo da soli, ci importerebbe ancora qualcosa delle opinioni degli uomini? FEDRO: Hai fatto una domanda ridicola! Ma racconta ciò che dici di aver udito. SOCRATE: Ho sentito dunque raccontare che presso Naucrati, in Egitto, (64) c'era uno degli antichi dèi del luogo, al quale era sacro l'uccello che chiamano ibis; il nome della divinità era Theuth.(65) Questi inventò dapprima i numeri, il calcolo, la geometria e l'astronomia, poi il gioco della scacchiera e dei dadi, infine anche la scrittura. Re di tutto l'Egitto era allora Thamus e abitava nella grande città della regione superiore che i Greci chiamano Tebe Egizia, mentre chiamano il suo dio Ammone.(66) Theuth, recatosi dal re, gli mostrò le sue arti e disse che dovevano essere trasmesse agli altri Egizi; Thamus gli chiese quale fosse l'utilità di ciascuna di esse, e mentre Theuth le passava in rassegna, a seconda che gli sembrasse parlare bene oppure no, ora disapprovava, ora lodava. Molti, a quanto si racconta, furono i pareri che Thamus espresse nell'uno e nell'altro senso a Theuth su ciascuna arte, e sarebbe troppo lungo ripercorrerli; quando poi fu alla scrittura, Theuth disse: «Questa conoscenza, o re, renderà gli Egizi più sapienti e più capaci di ricordare, poiché con essa è stato trovato il farmaco della memoria e della sapienza». Allora il re rispose: «Ingegnosissimo Theuth, c'è chi sa partorire le arti e chi sa giudicare quale danno o quale vantaggio sono destinate ad arrecare a chi intende servirsene. Ora tu, padre della scrittura, per benevolenza hai detto il contrario di quello che essa vale. Questa scoperta infatti, per la mancanza di esercizio della memoria, produrrà nell'anima di coloro che la impareranno la dimenticanza, perché fidandosi della scrittura ricorderanno dal di fuori mediante caratteri estranei, non dal di dentro e da se stessi; perciò tu hai scoperto il farmaco non della memoria, ma del richiamare alla memoria. Della sapienza tu procuri ai tuoi discepoli l'apparenza, non la verità: ascoltando per tuo tramite molte cose senza insegnamento, crederanno di conoscere molte cose, mentre per lo più le ignorano, e la loro compagnia sarà molesta, poiché sono divenuti portatori di opinione anziché sapienti». FEDRO: Socrate, tu pronunci con facilità discorsi egizi e di qualsiasi paese tu voglia! SOCRATE: E pensa che alcuni, mio caro, hanno asserito che i primi discorsi profetici nel tempio di Zeus a Dodona venivano da una quercia! Agli uomini di allora, dato che non erano sapienti come voi giovani, bastava, nella loro semplicità, ascoltare una quercia o una roccia, purché dicessero il vero; ma forse per te fa differenza chi è colui che parla e da dove viene. Non miri infatti solamente a questo, se le cose stanno così o diversamente? FEDRO: Hai colto nel segno, e mi sembra che riguardo alla scrittura le cose stiano come dice il re di Tebe. SOCRATE: Allora chi crede di tramandare un'arte con la scrittura, e chi a sua volta la riceve nella convinzione che dalla scrittura deriverà qualcosa di chiaro e di saldo, dev'essere ricolmo di molta ingenuità e ignorare realmente il vaticinio di Ammone, se pensa che i discorsi scritti siano qualcosa in più del riportare alla memoria di chi già sa ciò su cui verte lo scritto. FEDRO: Giustissimo. SOCRATE: Poiché la scrittura, Fedro, ha questo di potente, e, per la verità, di simile alla pittura. Le creazioni della pittura ti stanno di fronte come cose vive, ma se tu rivolgi loro qualche domanda, restano in venerando silenzio. La medesima cosa vale anche per i discorsi: tu potresti anche credere che parlino come se avessero qualche pensiero loro proprio, ma se domandi loro qualcosa di ciò che dicono coll'intenzione di apprenderla, questo qualcosa suona sempre e 21  Platone Fedro  solo identico. E, una volta che è scritto, tutto quanto il discorso rotola per ogni dove, finendo tra le mani di chi è competente così come tra quelle di chi non ha niente da spartire con esso, e non sa a chi deve parlare e a chi no. Se poi viene offeso e oltraggiato ingiustamente ha sempre bisogno dell'aiuto del padre, poiché non è capace né di difendersi da sé né di venire in aiuto a se stesso. FEDRO: Anche queste tue parole sono giustissime. SOCRATE: E allora? Vogliamo considerare un altro discorso, fratello legittimo di questo, in che modo nasce e quanto è per sua natura migliore e più potente di questo? FEDRO: Qual è questo discorso e come, secondo te, nasce? SOCRATE: è quello che viene scritto mediante la conoscenza nell'anima di chi apprende; esso è in grado di difendersi da sé, e sa con chi bisogna parlare e con chi tacere. FEDRO: Intendi il discorso vivente e animato di chi sa, del quale quello scritto si può a buon diritto definire un'immagine. SOCRATE: Per l'appunto. Ora dimmi questo: l'agricoltore che ha senno pianterebbe seriamente d'estate nei giardini di Adone (67) i semi che gli stessero a cuore e da cui volesse ricavare frutti; e gioirebbe a vederli crescere belli in otto giorni, o farebbe ciò per gioco e per la festa, quand'anche lo facesse? E riguardo invece a quelli di cui si è preso cura sul serio servendosi dell'arte dell'agricoltura e seminandoli nel luogo adatto, sarebbe contento che quanto ha seminato giungesse a compimento in otto mesi? FEDRO: Farebbe così , Socrate: sul serio per gli uni, diversamente per gli altri, come tu dici. SOCRATE: Dovremo dire che chi possiede la scienza delle cose giuste, belle e buone abbia meno senno dell'agricoltore con le sue sementi? FEDRO: Nient'affatto. SOCRATE: Allora non le scriverà seriamente nell'acqua nera, seminandole attraverso la canna assieme a discorsi incapaci di difendersi da sé con la parola, e incapaci di insegnare in modo adeguato la verità. FEDRO: No, almeno non è verosimile. SOCRATE: Infatti non lo è. Ma a quanto pare seminerà e scriverà i giardini di scrittura per gioco, quando li scriverà, serbando un tesoro da richiamare alla memoria per se stesso, nel caso giunga «alla vecchiaia dell'oblio»,(68) e per chiunque segua la sua stessa orma, e gioirà a vederli crescere teneri. E quando gli altri faranno altri giochi, ristorandosi nei simposi e in tutti i divertimenti fratelli di questi, egli allora, a quanto pare, invece che in essi passerà la vita a dilettarsi in ciò di cui parlo. FEDRO: è un gioco molto bello quello che dici, Socrate, rispetto all'altro che è insulso: il gioco di chi sa divertirsi coi discorsi, narrando storie sulla giustizia e sulle altre cose di cui parli. SOCRATE: Così è in effetti, caro Fedro: ma l'impegno in queste cose diventa, credo, molto più bello quando uno, facendo uso dell'arte dialettica, prende un'anima adatta, vi pianta e vi semina discorsi accompagnati da conoscenza, che siano in grado di venire in aiuto a se stessi e a chi li ha piantati e non siano infruttiferi, ma abbiano una semenza dalla quale nascano nell'indole di altri uomini altri discorsi capaci di rendere questa semenza immortale, facendo sì che chi la possiede sia felice quanto più è possibile per un uomo. FEDRO: Ciò che dici è molto più bello. SOCRATE: Ora che siamo d'accordo su questo, Fedro, possiamo giudicare quelle altre questioni. FEDRO: Quali? SOCRATE: Quelle che volevamo indagare e per le quali siamo arrivati a questo punto, ossia esaminare il rimprovero rivolto a Lisia circa lo scrivere i discorsi e i discorsi stessi, quali fossero scritti con arte e quali senz'arte. Ciò che è conforme all'arte e ciò che non lo è mi sembra che sia stato chiarito opportunamente. FEDRO: Così almeno mi è parso: ma ricordami ancora una volta come abbiamo detto. SOCRATE: Se prima uno non conosce il vero riguardo a ciascun argomento su cui parla o scrive e non è in grado di definire ogni cosa in se stessa, e una volta che l'ha definita non sa dividerla secondo le sue specie fino ad arrivare a ciò che non è più divisibile, quindi, dopo aver scrutato a fondo allo stesso modo la natura dell'anima, trovando la specie adatta a ciascuna natura non dispone e regola il discorso secondo questo procedimento, offrendo discorsi variegati a un'anima variegata e dalla piena armonia, discorsi semplici a un'anima semplice, non sarà possibile, per quanto è conforme a natura, maneggiare con arte la stirpe dei discorsi né per insegnare né per persuadere, come il discorso fatto in precedenza ci ha chiaramente indicato. FEDRO: Risulta in tutto e per tutto così . SOCRATE: Riguardo poi alla questione se sia bello o turpe pronunciare e scrivere discorsi, e quando un rimprovero sia rivolto giustamente oppure no, non ha forse chiarito ciò che abbiamo detto poco fa... FEDRO: Cosa abbiamo detto? SOCRATE: Che se Lisia o altri ha mai scritto o scriverà su argomenti d'interesse privato o pubblico, proponendo leggi o scrivendo un'opera politica, nella convinzione che in ciò vi sia una grande solidità e chiarezza, allora il biasimo ricade su chi scrive, che lo si dica o meno: poiché il non distinguere realtà e sogno in ciò che è giusto e ingiusto, male e bene, non può davvero evitare di essere riprovevole, quand'anche tutta la gente lo apprezzasse. FEDRO: No di certo. SOCRATE: Chi invece ritiene che nel discorso scritto su qualsiasi argomento vi sia necessariamente molto gioco e che nessun discorso con pregio di grande serietà sia mai stato scritto né in versi né in prosa (e neanche pronunciato, come i discorsi dei rapsodi che sono recitati senza essere sottoposti a vaglio e non mirano a insegnare, ma a persuadere), 22  Platone Fedro  ma che i migliori di essi siano realmente un mezzo per aiutare la memoria di chi già conosce l'argomento, e ritiene che solo nei discorsi sul giusto, sul bello e sul bene, pronunciati come insegnamento allo scopo di far apprendere e scritti realmente nell'anima, vi sia chiarezza, compiutezza e pregio di serietà; e inoltre è convinto che discorsi tali debbano essere detti suoi come se fossero figli legittimi, innanzitutto quello che reca in sé, nel caso si trovi che lo possiede, poi quelli che discendenti e fratelli di questo, sono nati allo stesso modo nell'anima di altri uomini secondo il loro valore, e ai rimanenti manda tanti saluti; bene, un uomo siffatto, Fedro, è probabile che sia tale quale tu e io ci augureremmo di diventare. FEDRO: Io voglio e mi auguro in tutto e per tutto ciò che dici. SOCRATE: Dunque, per quanto riguarda i discorsi, ormai abbiamo scherzato abbastanza: tu ora va' da Lisia e digli che noi due siamo discesi alla fonte e al santuario delle Ninfe e abbiamo ascoltato dei discorsi che ci ordinavano di riferire a Lisia e a chi altri componga discorsi, a Omero e a chi altri abbia composto poesia epica o lirica, e in terzo luogo a Solone e a chiunque nei discorsi politici abbia scritto dei testi con il nome di leggi, quanto segue: se ha composto queste opere sapendo com'è il vero e può soccorrerle quando ciò che ha scritto viene messo alla prova, e quando parla è in grado egli stesso di dimostrare la debolezza di quanto è stato scritto, una persona del genere non deve essere chiamato col nome di costoro, ma con un nome derivato da ciò a cui si è dedicato con serietà. FEDRO: Quale nome gli assegni dunque? SOCRATE: Chiamarlo sapiente, Fedro, mi sembra che sia cosa troppo grande e che si addica solo a un dio; chiamarlo invece filosofo o con un nome del genere sarebbe a lui più adatto e conveniente. FEDRO: E niente affatto fuori luogo. SOCRATE: Chi invece non possiede cose di maggior pregio di quelle che ha composto e ha scritto, rivoltandole su e giù per lungo tempo, incollandole l'una con l'altra o separandole, non lo dirai a buon diritto poeta o autore di discorsi o scrittore di leggi? FEDRO: Come no? SOCRATE: Riferisci dunque questo al tuo compagno! FEDRO: E tu? Cosa farai? Non bisogna lasciare da parte neanche il tuo compagno. SOCRATE: Chi è costui? FEDRO: Isocrate (69) il bello. Cosa riferirai a lui, Socrate? Come lo definiremo? SOCRATE: Isocrate è ancora giovane, Fedro: tuttavia voglio dire ciò che prevedo di lui. FEDRO: Che cosa? SOCRATE: Mi sembra che per doti naturali sia migliore a confronto dei discorsi di Lisia, e che inoltre sia temperato di un'indole più nobile. Perciò non ci sarebbe affatto da meravigliarsi se, col procedere dell'età, proprio grazie ai discorsi cui ora pone mano superasse più che se fossero fanciulli quanti mai si sono dedicati ai discorsi, e se inoltre questo non gli bastasse, ma uno slancio divino lo spingesse a cose ancora più grandi; giacché nell'animo di quell'uomo, caro amico, c'è una forma naturale di filosofia. Pertanto io riferisco queste cose da parte di questi dèi al mio amato Isocrate, tu fa' sapere quelle altre al tuo Lisia. FEDRO: Sarà così . Ma andiamo, poiché anche la calura si è fatta più mite. SOCRATE: Non conviene rivolgere una preghiera a questi dèi prima di metterci in cammino? FEDRO: Come no? SOCRATE: O caro Pan e voi altri dèi di questo luogo, concedetemi di diventare bello dentro, e che tutto ciò che ho di fuori sia in accordo con ciò che ho nell'intimo. Che io consideri ricco il sapiente e possegga tanto oro quanto nessun altro, se non chi è temperante, possa prendersi e portar via.(70) Abbiamo bisogno di qualcos'altro, Fedro? Da parte mia si è pregato in giusta misura. FEDRO: Fa' questo augurio anche per me; le cose degli amici sono comuni. SOCRATE: Andiamo! 23  Platone Fedro  NOTE: 1) Celebre oratore ateniese vissuto tra il quinto e il quarto secolo a.C., di cui restano 34 orazioni giudiziarie. Il discorso sull'amore che gli viene attribuito nel dialogo è probabilmente fittizio. Il padre Cefalo, originario della Sicilia, aveva una fabbrica d'armi al Pireo; nella sua casa è ambientata la Repubblica. 2) Noto medico dell'epoca. 3) Epicrate era un oratore democratico; Morico, forse il proprietario precedente della casa, era un cittadino ateniese che per le sue ricchezze e il suo lusso divenne frequente bersaglio dei poeti comici. 4) Pindaro, Isthmia 2. 5) Erodico di Megara, divenuto poi cittadino di Selimbria, era un medico famoso per il suo regime di vita "salutistico"; Platone lo menziona anche nella Repubblica e nel Protagora. 6) I Coribanti erano i sacerdoti della dea Cibele, i cui culti erano caratterizzati da una forte valenza orgiastica. 7) Piccolo fiume che scorre vicino ad Atene. 8) Il dialogo è immaginato in piena estate, a mezzogiorno. 9) Borea, vento del nord, rapì Orizia, figlia di Eretteo, re di Atene; in cambio concesse agli Ateniesi il suo favore nelle battaglie navali. Farmacea, citata poco sotto, era una ninfa cui era sacra la fonte dell'Ilisso. 10) Demo dell'Attica. 11) Letteralmente 'colle di Ares', era un'altura in Atene dove aveva sede il più antico tribunale della città, formato dagli arconti usciti di carica. 12) Sono tutti esseri mitologici. Gli Ippocentauri o Centauri, nati dall'unione di Issione con una nube, erano metà uomo e metà cavallo. La Chimera era un mostro con tre teste, una di leone, una di capra spirante fuoco, una di serpente. Le Gorgoni, mostri marini, erano Steno, Euriale e Medusa; le prime due erano immortali, mentre Medusa, che aveva il potere di pietrificare con lo sguardo, era mortale e fu uccisa da Perseo. Pegaso era il cavallo alato nato dal sangue della testa di Medusa tagliata da Perseo; con il suo aiuto Bellerofonte uccise la Chimera. 13) «Conosci te stesso» era appunto il precetto scritto nel tempio di Apollo a Delfi. 14) Tifone o Tifeo, figlio di Gea e del Tartaro, era un drago dalle molte teste che emettevano fumo e fiamme; al termine di una dura lotta Zeus lo fulminò e lo scagliò sotto l'Etna. Il suo mito è ricordato in Esiodo, Theogonia 820 seguenti. Da Tifone ha avuto origine il nome comune indicante un vento caldo portatore di tempeste. Nel testo greco c'è un gioco di parole, intraducibile in italiano, con il quale Tifone viene paretimologicamente accostato al participio di "túpho" ('fumare', 'bruciare') e, tramite l'aggettivo privativo "atuphos" a "tuphos" ('vanità', 'orgoglio', superbia'). Nel dialogo Platone fa uso più volte di simili giochi verbali, impossibili da mantenere nella traduzione, per creare paretimologie. 15) Alle Ninfe, divinità dei boschi e dei fiumi, Socrate in seguito attribuirà il dono dell'ispirazione. Acheloo, oltre ad essere un fiume della Grecia centrale, era anche dio dei fiumi. 16) Una locuzione simile ricorre in Omero, Iliade libro 8, verso 281. 17) Saffo è la famosa poetessa lirica di Lesbo vissuta tra il settimo e il sesto secolo a.C., autrice di carmi soprattutto d'amore omoerotico, divisi dagli Alessandrini in nove libri; di essi ci sono pervenuti un'ode intera, una quasi completa e parecchi frammenti di varia lunghezza. Anacreonte di Teo, lirico monodico del sesto secolo, fu autore tra l'altro di poesie amorose dal tono leggero, di cui restano pochi frammenti. Non è invece possibile sapere a quali autori in prosa si allude nel passo. 18) Gli arconti ateniesi, al momento di entrare in carica, giuravano che se avessero trasgredito le leggi di Solone avrebbero innalzato a Delfi una statua d'oro della loro grandezza e peso. 19) Cipselo fu tiranno di Corinto nel sesto secolo e fondò una dinastia di tiranni. L'offerta votiva cui si allude era forse una statua. 20) Immagine derivata dalla lotta: Fedro intende che Socrate a sua volta ha offerto il fianco a una critica. 21) Pindaro, frammento 105 Snell-Maehler (citato anche in Meno). 22) Il testo greco gioca sull'assonanza tra "ligús", 'dalla voce melodiosa', e "ligús" 'Ligure' (con lambda maiuscolo). Questo gioco paretimologico è probabilmente alla base della leggenda secondo cui i Liguri erano amanti del canto. 23) Socrate istituisce un nesso paretimologico tra "èros" e "róme" ('forza'). 24) Il ditirambo, componimento lirico corale associato al culto di Dioniso, ai tempi di Platone era in piena decadenza. Qui il termine ha una connotazione negativa, indicando una forma di invasamento non ispirata da "mania" divina, e quindi non mediata dal logos. 25) L'immagine è ricavata da un gioco fatto con un coccio (óstrakon), nero da una parte e bianco dall'altra; i giocatori, divisi in due squadre, sceglievano un colore e a seconda di quello che risultava lanciando il coccio dovevano fuggire o inseguire. La metafora significa che l'amante, prima inseguitore, ora fugge l'amato. 26) Simmia, prima pitagorico, poi discepolo di Socrate, è uno degli interlocutori del Fedone. 27) Ibico, frammnto 310, Page. Poeta lirico corale del sesto secolo a.C., di lui restano un'ode e pochi frammenti. 28. Stesicoro, poeta lirico corale, visse nel sesto secolo a.C. Secondo una leggenda perse la vista per aver accusato Elena di infedeltà in un carme omonimo e la riacquistò per aver scritto la Palinodia (la 'Ritrattazione'), in cui sosteneva che Paride non aveva portato a Troia la vera Elena, ma un fantasma con le sue sembianze; questa versione del mito fu ripresa da Euripide nell'Elena. Omero invece, non avendo fatto la stessa cosa, rimase cieco. Allo stesso modo Socrate pronuncerà una ritrattazione del discorso precedente su Eros, nella quale solleverà il dio dalle accuse che gli aveva mosso. 24  Platone Fedro  29) A Delfi, in Beozia, c'era il più famoso santuario di Apollo, che dava i responsi per bocca della sua sacerdotessa, la Pizia; a Dodona, nell'Epiro, c'era un santuario di Zeus. 30) Questo nome designava in origine una, in seguito più sacerdotesse di Apollo, di cui era nota l'ambiguità dei responsi; la più celebre era la Sibilla di Cuma, in Campania. 31) L'arte divinatoria, in greco "mantike", viene fatta derivare da "manikos" cioè 'affetto da mania'; il composto "oionoistike", di invenzione platonica, viene ricondotto a "oieris" ('opinione', 'credenza'), e accostato a "oionistike", ovvero l'"arte di trarre gli auspici" dal volo degli uccelli. Il gioco paretimologico, di cui si è provato a rendere ragione nella traduzione, è importante in quanto è funzionale al rovesciamento della tesi sostenuta da Lisia. 32) è il celebre mito dell'anima come una biga alata, metafora complessa e non facile da interpretare. Se infatti l'auriga rappresenta palesemente la ragione, non è del tutto chiaro il significato dei due cavalli; è poco soddisfacente l'interpretazione tradizionale, secondo cui il cavallo nero rappresenterebbe l'anima concupiscibile, quello bianco l'anima impulsiva, e l'intera immagine sarebbe da intendere come la tripartizione dell'anima che Platone teorizza nella Repubblica (libri 4 e 9). Infatti nel Timeo si dice che anima concupiscibile e anima impulsiva sono mortali, mentre qui i due cavalli fanno parte proprio della struttura dell'anima immortale, come prova anche il fatto che essi si nutrono di nettare e ambrosia, cibo e bevanda degli dèi, e che tale struttura è comune sia all'anima umana sia a quella divina. è preferibile pensare che i cavalli indichino due componenti opposte connaturate comunque all'anima immortale, che l'auriga ha la funzione di conciliare per trovare un equilibrio. 33) Estia, dea del focolare, nella cosmologia antica veniva identificata col centro dell'universo, che era immobile; per questo essa, unica tra gli dèi, non viaggia per il cielo. Le divinità che guidano le dodici schiere sono probabilmente quelle olimpiche. 34) L'Iperuranio, il luogo 'oltre il cielo', è il mondo delle Idee. Luogo metafisico, immagine della sfera dell'intelligibile che nella sua immutabilità trascende la realtà sensibile, esso è raggiungibile solo dell'anima. 35) Adrastea, letteralmente 'l'inevitabile', in questo caso è una personificazione del destino; in Repubblica (libro 5) impersonifica invece la vendetta. Viene qui esposto il destino escatologico delle anime e la teoria della metempsicosi, argomento che ha una più ampia trattazione con il mito di Er nel libro decimo della Repubblica. Nel Fedro l'assegnazione della vita futura è strettamente determinata dalla misura in cui le anime hanno contemplato la pianura della verità prima di tornare sulla terra, poiché ad esso corrisponde il grado di verità connesso alla vita in cui si reincarnano. 36) Altro gioco verbale basato su una paretimologia il termine "imeros" ('desiderio'), collegato per assonanza ad Eros, viene fatto derivare da i-, radice di "eiri" ('andare'), "mer-" radice di "méros" ('parte'), "ro-", radice di "roé" ('flusso'). 37. Gli Omeridi erano una scuola di aedi nell'isola di Chio che la tradizione voleva fondata dallo stesso Omero. Invenzione platonica sono sia i poemi segreti cui si allude ironicamente sia i due versi citati, nei quali c'è un gioco di parole tra "Eros" e Ptéros" (epiteto scherzosamente coniato da "pterós" ('alato'), probabilmente suggerito da quei passi omerici (Iliade libro 1, versi 403-404; libro 14, verso 291; libro 20, verso 74) in cui si dice che gli dèi chiamano le cose in modo diverso dagli uomini. 38) è impossibile conservare nella traduzione il gioco tra il genitivo "Diós" ('di Zeus') e l'aggettivo "dios", solitamente reso con 'splendente' o 'divino'. 39) Le Baccanti o Menadi erano le sacerdotesse di Dioniso. 40) Zeus, innamorato di Ganimede, bellissimo fanciullo frigio, in forma di aquila lo rapì sull'Olimpo, e ne fece il coppiere degli dèi. Per il gioco linguistico su "imeros", la nota 36. 41) L'espressione significa che né la temperanza umana esaltata da Lisia, né la follia divina di per sé bastano a costruire una scienza nel senso pieno del termine, ma occorre una giusta mescolanza delle due cose; questo, in ultima analisi, può essere il senso del mito della biga alata. L'immagine agonistica, più che a tre differenti gare, allude probabilmente al fatto che per vincere nella lotta bisognava atterrare l'avversario tre volte. 42) Figlio di Cefalo e fratello di Lisia, fu vittima delle persecuzioni politiche sotto i Trenta tiranni. 43) Ad Atene la frequenza dei processi e l'assenza del patrocinio legale, che obbligava l'accusatore o l'accusato a parlare personalmente in giudizio, avevano fatto nascere la professione del logografo ('scrittore di discorsi'), che preparava su commissione i testi da pronunciare in tribunale; le orazioni di Lisia sono appunto la testimonianza della sua attività di logografo. Il termine ha nel contesto una connotazione negativa, tanto da essere poco sotto equiparato a sofista. Il parallelo ritorna più avanti, dove si allude ai compensi che i sofisti chiedevano per i loro insegnamenti. 44) L'espressine, un po' enigmatica, significa probabilmente che da una cosa semplice ne è derivata una difficile. 45) Figura storicamente indeterminata, Licurgo fu, secondo la tradizione, il legislatore di Sparta. Uomo politico e poeta, annoverato tra i sette saggi, Solone attuò, durante il suo arcontato (594-593 a.C.), una riforma dello stato ateniese che prevedeva la divisione dei cittadini in classi in base al censo. Dario primo, re di Persia dal 521 al 485 a.C., fu il promotore della prima guerra greco-persiana. 46) Il mito che segue è probabilmente creazione platonica. Il canto delle cicale è metafora dell'ispirazione a comporre discorsi ma anche del rischio, da parte dell'ascoltatore, di lasciarsene ammaliare senza sottoporli a vaglio critico, un atteggiamento passivo che le cicale stesse, intermediarie tra gli uomini e le Muse, non approvano. 47) Sulla scia del catalogo esiodeo (Theogonia 75 seguenti), le Muse qui citate hanno nomi parlanti Tersicore è 'colei che gioisce dei cori', Erato è connessa con Eros, Calliope è 'dalla bella voce', Urania 'la celeste'. 25  Platone Fedro  48) Omero, Iliade libro 2, verso 361. 49) Per Spartano qui si intende semplicemente una persona che dice la verità in modo franco e lapidario. 50) I "figli" di Fedro sono i discorsi che ha indotto gli altri a fare. 51) Nestore, il più vecchio dei guerrieri greci a Ilio, era famoso per la sua eloquenza persuasiva. Abile, e soprattutto astuto parlatore era notoriamente Odisseo. Anche Palamede, l'eroe che smascherò un tentativo di Odisseo di non partecipare alla guerra di Troia, era fornito di capacità oratorie. 52) Gorgia di Lentini, nato tra il 485 e il 480 a.C. e morto vecchissimo dopo il 380 a.C., fu uno dei principali esponenti della sofistica; a lui è dedicato l'omonimo dialogo di Platone. Delle sue numerose opere restano pochi ma significativi frammenti. Il sofista Trasimaco di Calcedonia, vissuto nel quinto secolo a.C., è uno dei personaggi della Repubblica, dove difende in modo combattivo la sua idea della giustizia come diritto del più forte. Teodoro di Bisanzio, attivo nella seconda metà del quinto secolo a.C., scrisse un trattato di retorica. 53) Allusione ironica a Zenone di Elea (quinto secolo a.C.) e ai paradossi con i quali cercava di confutare dialetticamente i concetti di molteplicità e movimento; famosi sono i paradossi della freccia e di Achille e la tartaruga. 54) Mida era il leggendario re della Frigia che per avidità di ricchezze chiese e ottenne da Dioniso di poter trasformare in oro tutto ciò che toccava; ma poiché anche tutto ciò che voleva mangiare o bere diventava oro, pregò il dio di liberarlo da questo dono funesto. L'epigramma citato è attribuito a Cleobulo di Lindo, uno dei sette saggi. 55) Poeta e sofista contemporaneo di Socrate. 56) Tisia fu maestro di Gorgia e iniziatore, assieme a Corace, della scuola retorica siciliana. 57) Prodico di Ceo, uno dei più importanti esponenti della sofistica, discepolo di Protagora e maestro di Socrate. 58) Ippia di Elide, il celebre sofista da cui prendono il titolo due dialoghi di Platone. 59) Polo di Agrigento e Licimnio di Chio furono discepoli di Gorgia; il primo è uno dei protagonisti del Gorgia di Platone. Nel passo si allude probabilmente a opere di retorica dei due sofisti, come poco sotto a proposito di Protagora. 60) Protagora di Abdera, protagonista dell'omonimo dialogo Platonico, visse ad Atene nell'età periclea. Considerato il principale esponente della sofistica, è ricordato soprattutto per il suo agnosticismo religioso, che gli valse una condanna per empietà, e il suo relativismo, sintetizzato nella massima «l'uomo è misura di tutte le cose». Nulla ci rimane delle sue numerose opere. 61) Adrasto, il re di Argo che guidò la spedizione dei sette contro Tebe, è rappresentato da Eschilo nelle Supplici come abile oratore; l'epiteto «voce di miele» gli è già riferito da Tirteo (frammento 9,8 Gentili-Prato). Adrasto è qui usato come eteronimo di un personaggio contemporaneo, forse un sofista. Anche Pericle, lo statista ateniese del quinto secolo che radicalizzò il processo democratico della polis portandola al massimo splendore, è qui ricordato, con un tocco d'ironia, per le sue capacità oratorie. 62) Anassagora di Clazomene (quinto secolo a.C.) visse per molti anni ad Atene, dove ebbe come discepoli Pericle e lo stesso Socrate. Punto cardinale del suo pensiero è l'esistenza di un principio razionale che dà ordine al mondo, da lui chiamato "nous" ('intelletto'). 63) Ippocrate di Cos, vissuto tra il quinto e il quarto secolo a.C., fu il fondatore della medicina antica; l'epiteto di Asclepiade deriva da Asclepio, dio della medicina. Di lui e dei suoi discepoli resta un considerevole numero di scritti riuniti nel cosiddetto corpus Hippocraticum. 64) Città sul delta del Nilo, sede di un emporio commerciale greco. 65) Theuth o Thoth era il dio egizio dell'invenzione, che i Greci identificavano con Ermes; rappresentato con la testa di ibis, era scriba nel tribunale dei morti. Con questo mito Platone assegna alla scrittura un valore puramente "ipomnematico", ovvero la considera un mero supporto alla memoria, e non veicolo di sapienza; la trasmissione del vero sapere resta per lui affidata all'oralità dialettica. 66) «La regione superiore» è l'alto corso del Nilo. Thamus, leggendario re dell'Egitto, viene considerato un eteronimo dello stesso Ammone, una delle principali divinità egizie, venerata da una potente casta sacerdotale e identificata dai Greci con Zeus; poco sotto infatti, la risposta da lui data a Theuth è chiamata «vaticinio di Ammone». 67) I «giardini di Adone» erano recipienti in cui d'estate si piantavano semi che nascevano entro otto giorni e subito morivano; il rito simboleggiava la morte prematura di Adone, il bellissimo giovane amato da Afrodite. Allo stesso modo i «giardini di scrittura», ovvero i discorsi scritti, devono essere intesi come una forma di gioco, poiché i veri discorsi latori di verità sono affidati alla dimensione orale. 68) Citazione poetica di autore ignoto. 69) Il retore Isocrate (436-338 a.C.) fondò ad Atene una scuola in competizione con l'Accademia platonica; di lui restano 21 orazioni. Isocrate era fautore di un'alleanza di tutte le città greche sotto la guida di Filippo di Macedonia, in vista di una spedizione contro i Persiani. 70) Pan, figlio di Ermes, era la principale divinità agreste del pantheon greco, venerata soprattutto in Arcadia; presiedeva alla pastorizia e per questo era rappresentato con sembianze caprine. Pan compare già come protettore del luogo assieme alle Ninfe, e per questo Socrate gli rivolge la preghiera conclusiva. «Oro» è da intendersi in senso metaforico come ricchezza della sapienza.Convito  Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG http://www.esonet.org Platone Il Convito   1  Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG http://www.esonet.org I APOLLODORO Credo proprio di essere bene informato di quello che mi chiedete. Infatti, l'altro giorno, me ne stavo venendo in città, da casa mia, dal Falero, quando uno che conoscevo, vedendomi di spalle, mi chiamò da lontano e, con tono scherzoso, mi fa: «Apollodoro il falerese, m'aspetti un momento?» lo mi fermo e l'aspetto e quello: «Ti stavo cercando ansiosamente, Apollodoro, perché volevo sapere qualcosa di preciso sui discorsi che fecero Agatone, Socrate, Alcibiade e tutti gli altri, al banchetto, discorsi d'amore, a quanto pare; me ne ha accennato un tizio che ne aveva sentito parlare da Fenice, il figlio di Filippo, ma mi disse che ne eri al corrente anche tu. Lui, in realtà, non ne sapeva molto. Raccontami tutto tu, quindi, perché nessuno meglio di te, può ripetermeli, i discorsi del tuo amico. Ma, prima di tutto, c'eri o non c'eri a quella riunione?» «Si vede proprio che questo tizio ti ha male informato se credi che quella riunione di cui stai parlando è avvenuta poco tempo fa e che io, quindi, vi abbia potuto partecipare.» «Credevo di sì.» «E come hai fatto a pensarlo, Glaucone? Non sai che da parecchi anni, ormai, Agatone non s'è più visto qui e che, d'altra parte, non ne son passati ancora tre da quando io me la faccio con Socrate, che gli sto sempre dietro, per conoscere quello che dice e quello che fa? Prima d'allora gironzolavo qua e là e mi pensavo di far chissà che cosa, mentre ero l'essere più miserabile che c'era sulla faccia della terra, come te, adesso, che credi ci siano altre cose da fare meglio della filosofia.» «C'è poco da prendere in giro. Dimmi, piuttosto, quand'è che c'è stata questa riunione.» «Eravamo ancora ragazzi e fu quando Agatone s'ebbe il premio per la sua prima tragedia, precisamente il giorno dopo i sacrifici che lui e quelli del coro vollero fare per festeggiare la vittoria.» «Allora ne è passato del tempo! Ma a te chi te n'ha parlato. Proprio Socrate?» «Magari. Fu, invece, la stessa persona che ne parlò a Fenice, un certo Aristodemo, del distretto di Cidateneo, uno mingherlino, sempre scalzo. Era presente alla riunione perché era un patito di Socrate, più di tutti, a quel tempo. Ad ogni modo, di quanto mi riferì costui volli chiederne anche a Socrate che mi confermò quanto l'altro m'aveva raccontato.» «E, allora, perché non me lo racconti anche a me? Questa strada che porta in città è proprio fatta apposta per conversare.» Strada facendo, così, ci mettemmo a parlare di questo ed ecco perché, come vi ho detto in principio, sono al corrente della cosa. Se devo, quindi, raccontarla anche a voi, eccomi pronto, anche perché, quando si tratta di filosofia, sia che ne parli io o che ne senta parlare, provo sempre un immenso piacere, a prescindere dal vantaggio che penso di ricavarne. Quando, invece, sento certi discorsi, i vostri specialmente, discorsi di gente ricca, di persone d'affari, che barba, ma anche che pena, amici miei, che vi credete di far chissà cosa e poi non fate il resto di nulla. Può essere che voi, da parte vostra, mi crediate un povero diavolo e supponiate che, in effetti, io lo sia, ma di voi, io non lo suppongo soltanto, ne sono convinto. AMICO Sei sempre lo stesso tu, Apollodoro, sempre che dici male di tutti e di te stesso; io credo che per te, tranne Socrate, tutti gli altri siano soltanto dei disgraziati, tutti quanti, a   2  Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG http://www.esonet.org cominciare da te. Perché poi ti chiamino «il Tranquillo», questo proprio non riesco a capirlo, con tutti i tuoi discorsi sempre così aspri verso gli altri e te stesso, tranne, appunto, che per Socrate. APOLLODORO Ah, sì? Io, dunque, bellezza, dato che penso così di voi e di me, sarei un pazzo e un esagitato? AMICO Ma ora lasciamo perdere questo, Apollodoro, piantiamola di litigare, e, come t'abbiamo pregato, raccontaci quali furono questi discorsi. APOLLODORO E va bene, presso a poco furono questi... ma, aspettate, sarà meglio che incominci dal principio, come me li ha riferiti Aristodemo.   3  Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG http://www.esonet.org Egli mi riferì di aver incontrato Socrate tutto bello lisciato, con un paio di sandali ai piedi (cosa stranissima) e di avergli chiesto dove stesse andando tutto così bello. E Socrate: «A pranzo da Agatone; ieri, infatti, alla premiazione per la sua vittoria, riuscii a svignarmela perché tutta quella folla mi dava fastidio, ma gli promisi che, oggi, sarei andato da lui. Ecco perché mi son fatto bello: lui è un bello e, sai com'è. Ma perché non vieni anche tu, che fa, anche se non sei stato invitato?» Ed io, così mi riferì Aristodemo: «Va bene, come vuoi.» «E allora andiamo,» fece, «e cambieremo il proverbio dicendo che ‹a, pranzo, dal buon Agatone, van senza invito le brave persone›. Del resto, Omero, non solo l'ha modificato, questo proverbio, ma l'ha addirittura capovolto: infatti, mentre ci ha sempre descritto Agamennone come un guerriero in gamba e Menelao, invece, come uno smidollato, ecco che ti fa presentare quest'ultimo, senza essere invitato, a pranzo da Agamennone, che aveva allora allora fatto un sacrificio e si stava mettendo a tavola, lui, un mediocre, alla mensa di un valoroso.» E Aristodemo: «Ma Socrate, corro anch'io, allora, questo rischio, non come dici tu ma nel senso che scrive Omero, di andare, cioè, io, uomo da nulla, senza essere invitato, a pranzo da un sapiente. Vedi tu, che mi ci porti, come devi metterla per giustificarti, perché io non dirò che son venuto da me, ma che sei stato tu ad invitarmi.» «Ma sì, andiamo, ci penseremo per la strada a quello che dobbiamo dire.» Si dicevano questo, mi raccontava Aristodemo, quando si posero in cammino. Ma, lungo la strada, Socrate si fece pensieroso, meditando chissà su che cosa, e restandosene indietro e quando lui si fermava per aspettarlo, gli diceva di andare pure avanti. Quando Aristodemo giunse alla casa di Agatone, trovò la porta aperta e qui, mi disse, gli capitò un fatto curioso: un servo gli corse subito incontro e lo condusse dove i convitati erano già tutti seduti, in procinto di mettersi a pranzo. Appena Agatone lo vide: «Oh, Aristodemo,» fece, «arrivi proprio al momento giusto, per mangiare un boccone con noi; se è per qualche altro motivo che sei venuto, lascialo per dopo. Ieri ti ho cercato, proprio per invitarti, ma non sono riuscito a trovarti. E Socrate? Come mai non è con te?» «Io mi volto indietro,» continuò a raccontarmi, «e, infatti, non lo vedo più. Dissi, allora, che ero con lui e che, appunto da lui ero stato invitato a quel pranzo.» «Hai fatto benissimo, ma dov'è che s'è cacciato?» «Un attimo fa era dietro di me; sarei proprio curioso di sapere anch'io dove può essere andato.» «Suvvia, ragazzo, non ti sbrighi?» fece Agatone, «va a vedere dov'è Socrate e tu, Aristodemo, siediti là, vicino a Eressimaco.»   II 4  Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG http://www.esonet.org Continuò a raccontare così, che mentre un servo gli dava da lavarsi per mettersi a tavola, un altro venne a dire che quel bel tipo di Socrate se ne era andato nell'atrio della casa vicina e se ne stava lì tutto immobile: «L'ho chiamato,» riferì, «ma lui non vuol venire.» «Ma che sciocchezze stai dicendo?» gridò Agatone. «Torna a chiamarlo, insisti.» «Allora, intervenni io,» mi raccontò sempre Aristodemo, «pregandolo di lasciarlo tranquillo perché era una sua abitudine quella di isolarsi tutt'a un tratto, e di restarsene immobile dovunque si fosse trovato: ‹Vedrete che verrà, ne sono certo, ma ora non lo disturbate, lasciatelo tranquillo›.» «Ah, va bene, va bene, se lo dici tu,» commentò Agatone. «Però voi, ragazzi, ora portateci da mangiare. Voi mi mettete in tavola sempre quello che vi passa pel capo, se non vi si sta addosso, ed io non me ne son mai presa troppo la briga; ma oggi, fate conto come se foste stati voi ad invitare queste persone e me e quindi, trattateci bene e fatevi onore.» Così mi raccontò che si misero tutti a mangiare e che Socrate, intanto, non si faceva vivo. Spesso Agatone insisteva. perché lo mandassero a chiamare, ma lui lo sconsigliava. Finalmente Socrate fece la sua comparsa e non s'era mica fatto aspettare poi tanto tempo, come di solito faceva: cioè quando il pranzo era circa a metà. E Agatone che stava seduto in fondo: «Qua, qua,» esclamò, «Socrate vieniti a sedere vicino a me, così, gomito a gomito, con un sapiente, io potrò godere della grande scoperta che hai fatto davanti ai portoni; è chiaro che qualcosa l'hai dovuta pur sempre scoprire, altrimenti mica ti saresti mosso, tu.» E Socrate, sedendosi: «Sarebbe una bella cosa, Agatone, se la sapienza potesse scorrere da chi ne ha di più a chi ne ha di meno, soltanto che ci si mettesse uno vicino all'altro, come l'acqua che attraverso un filtro passa dal bicchiere pieno a quello vuoto. Se anche per la sapienza è così io sarò onoratissimo di starmene al tuo fianco; sono convinto che sarò colmato da parte tua di tanta e bella sapienza, perché, vedi, la mia, seppure ne ho, è ben misera, assai discutibile, vaga come un sogno, mentre la tua, invece, così luminosa, così ricca di possibilità, tanto che, proprio ieri, nonostante la tua giovane età, s'è rivelata e ha brillato in tutto il suo fulgore davanti a più di trentamila greci.» «Sei un mascalzone tu, Socrate,» fece Agatone, «ma fra poco ce la vedremo, io e te, in fatto di sapienza e giudice sarà Dioniso. Intanto, per ora, pensa a mangiare.»   III 5  Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG http://www.esonet.org E così, continuò a raccontarmi Aristodemo, Socrate si sedette e quando ebbe finito di mangiare, insieme agli altri, fece le libagioni, poi cantarono tutti in onore del dio, compirono gli altri riti dovuti e poi si misero a bere. A un tratto, mi riferì Aristodemo, Pausania se ne uscì in queste parole: «Ehi, amici, non possiamo andarci più piano? Francamente devo dirvi che mi sento male dopo la gran bevuta di ieri e che devo pigliare un po' di respiro; e così, penso anche per molti di voi: ieri c'eravate un po' tutti. Guardate, dunque, com'è che ci possiam moderare un po'.» E Aristofane: «Pausania ha ragione. Non scherziamoci troppo col vino; io mi sento ancora come una spugna zuppa, per ieri.» E allora intervenne Eressimaco, il figlio di Acumeno: «Ottima idea. Su, coraggio, voglio sentirne qualche altro; e a te, Agatone, come va col vino?» «Macché, anch'io niente bene.» «Benissimo,» s'infervorò Eressimaco; «è proprio una fortuna per me, per Aristodemo, per Fedro e per tutti quanti gli altri se voi, che in fatto di bere ce la mettete tutta, oggi non vi sentiate in forma: di fronte a voi, infatti, siamo dei pivellini. Per Socrate è un altro discorso: lui se la cava benissimo sempre; sia che oggi si beva o meno, lui è sempre a posto. Ma, dato che, mi pare, qui, oggi, nessuno ha troppa voglia di bere, io credo che se vi parlassi dell'ubriachezza e del male che fa, la cosa non vi sarebbe sgradita; come medico, è chiaro, devo dirvi che ubriacarsi fa male e che io non vorrei mai bere più di un tanto e darei lo stesso consiglio agli altri, specie quando il giorno prima s'è alzato un po' troppo il gomito.» «Sicuro,» intervenne Fedro, quello di Mirrinunte; «sai che ti ascolto sempre, specie quando parli da medico; e farebbero bene ad ascoltarti anche questi altri, se hanno un po' di giudizio.» E così si trovarono tutti d'accordo di evitare una sbornia, per quella volta e bere ciascuno per quel che gli andava.   IV 6  Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG http://www.esonet.org «E poiché, ora,» riprese Eressimaco, «siamo d'accordo che ognuno potrà bere solo quello che vuole senza che nessuno stia lì ad obbligarlo, io propongo di mandare a spasso la suonatrice di flauto, che è entrata ora (che se ne vada a suonare per conto suo o, dentro, dalle donne) e noi, invece, di restare un po' qui, oggi, a chiacchierare insieme; potrei anche dirvi di cosa, se volete.» Tutti, allora, almeno così riferì Aristodemo, approvarono e lo esortarono a proporre l'argomento. E così, Eressimaco, incominciò: «Inizio come la Melanippe di Euripide, non sono mie le parole che sto per dirvi, infatti sono di Fedro. È Fedro che ogni volta, tutto sdegnato, mi dice: ‹Non è una indecenza, Eressimaco, che i poeti si mettano a comporre inni e canti a tutti gli dei e che per Amore, invece, per un dio di quella specie, per un dio così grande, non ce ne sia uno, tra tanti, che abbia scritto un solo verso di lode? Se pigliamo i sofisti di fama, quello stesso grand'uomo di Prodico, per esempio, ti scrivono in prosa di Ercole o di altri; e questo sarebbe niente se non mi fosse capitato tra le mani il libro di un gran cervellone nel quale, costui, non faceva niente po' po' di meno che l'elogio sperticato del sale e della sua utilità: di questi elogi ne puoi trovare dovunque, in abbondanza. E pensare che si spreca tanta fatica per simili argomenti e, poi, per Amore non s'è ancora trovato nessuno, almeno fino ad oggi, che s'è sentito di celebrarlo degnamente: ecco come si tratta un dio simile.› Secondo me Fedro ha proprio ragione. Quindi, è mio desiderio fargli questo regalo e mostrarmi compiacente e, nello stesso tempo, profittando dell'occasione, niente di meglio, a mio avviso, per tutti noi, di rendere onore a questo dio. Se siete d'accordo anche voi potremmo passare il tempo così: ognuno di noi, cioè, io penso, per esempio partendo da destra, dovrebbe fare un discorso in lode di Amore, si capisce meglio che può; e che cominci proprio Fedro che è il primo della fila e che, d'altro canto, è stato lui proprio a darci l'idea per un simile argomento.» «Nessuno sarà contrario, Eressimaco,» intervenne Socrate, «a cominciare da me che affermo di essere un esperto soltanto in cose d'amore, né Agatone, né Pausania, figuriamoci poi Aristofane che tra Bacco e Venere, ci passa la vita, e nemmeno questi altri a quanto vedo. C'è un fatto però, che noi che siamo seduti quaggiù, per ultimi, veniamo a trovarci in svantaggio; comunque, se i primi diranno quel che devono dire e lo diranno bene, a noi basterà. E, allora, buona fortuna, Fedro, comincia a fare le lodi di Amore.» Al che tutti quanti approvarono e fecero eco alle parole di Socrate. Ora, quello che ciascuno disse, Aristodemo non lo ricordava bene e, dal canto mio, io stesso, ora, non ricordo più, tutto quello che lui mi riferì, tranne le cose più importanti e, perciò, vi potrò ripetere solo quei discorsi che mi parvero più degni di ricordo.   V 7  Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG http://www.esonet.org E, così, il primo a parlare, mi raccontò, fu Fedro che incominciò presso a poco col dire che Amore è un dio possente, meraviglioso, tanto fra gli uomini che fra gli dei per molte e tante ragioni ma, soprattutto, per quel che riguarda la sua nascita: «Egli ha il vanto,» continuò Fedro, «di essere, fra tutti, il dio più antico e, prova di questo è il fatto che non ha genitori e mai nessuno ne ha parlato, prosatore o poeta che fosse. Esiodo ci dice che ci fu dapprima il Caos: la Terra dall'ampio petto, sicura sede e poi per tutti sempre e, poi, Amore Insomma, secondo questo poeta, dopo il Caos ci furono queste due divinità: Terra e Amore. E Parmenide così narra la genesi: Primo di tutti gli dei creò Amore Con Esiodo concorda Acusilao. Quindi, da più fonti, si conviene che Amore è antichissimo. E, così com'è il più antico, è fonte, per noi, di grandissimi beni. Io, infatti, non so se vi sia un bene maggiore che avere, fin da giovani una persona virtuosa da amare o anche viceversa, che ci ami. E, in effetti, niente come Amore può dare all'uomo quei principi che valgono per vivere rettamente tutta la vita, non la nascita, non gli onori, non la ricchezza, niente di questo. Ma a quali principi voglio alludere?, mi chiedo: alla vergogna per le brutte azioni e al desiderio di buone, senza dei quali né stati né individui possono mai realizzare qualcosa di grande e di bello. E, inoltre, io dico che un uomo innamorato, sorpreso a commettere una brutta azione o a subirla, se la sua viltà non gli consente di difendersi, non proverà mai tanto dolore se lo vede il padre o l'amico o chiunque altro, quanto se lo vedesse la persona amata, E lo stesso è per quest'ultima, che se fa qualcosa di male si vergogna soprattutto se è vista da chi la ama. Oh, se ci potesse essere una città o un esercito composto tutto di innamorati, non vi sarebbe modo migliore di reggerlo e di vedere uomini rifuggire dal male e rivaleggiare tra loro nelle belle azioni; in guerra, poi, messi uno al fianco dell'altro, anche se in pochi, si può dire che vincerebbero il mondo intero. Perché l'uomo innamorato sarebbe disposto ad abbandonare il suo reparto, a gettare le armi sotto gli occhi di tutti, ma non dinanzi alla persona amata, piuttosto preferirebbe centomila volte morire; e, d'altronde, abbandonare la persona cara, non prestarle il suo aiuto se è in pericolo, non c'è nessun uomo tanto vile cui Amore non riesca ad infondere il necessario coraggio, come se fosse posseduto da un dio e renderlo uguale a chi è coraggioso di natura. Insomma, lo stesso soffio divino che, a quanto dice Omero, un dio infonde in taluni eroi, Amore, come un suo dono, suscita in quelli che amano.   VI 8  Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG http://www.esonet.org «E poi, solo quelli che amano sono pronti a morire per gli altri e non solo gli uomini ma anche le donne. Vedi Alcesti, per esempio, la figlia di Pelia che per noi greci è la più bella prova di ciò che dico, la quale fu la sola a voler morire al posto del suo sposo che aveva pure un padre e una madre; costei fu tanto più sublime, nel suo cuore di donna, acceso, appunto dall'amore, da far apparire i parenti di lui quasi degli estranei al loro stesso figliolo, legati a lui soltanto dal nome. E questo gesto fu giudicato così bello non solo dagli uomini ma anche dagli dei, che questi, pur concedendo solo a pochi, tra i tanti che compiono belle imprese, il privilegio di vedersi restituita alla luce la loro anima, consentirono a questa fanciulla il ritorno alla terra, commossi del suo gesto; questo dimostra che gli dei apprezzano moltissimo lo zelo e la virtù che nascono dall'amore. Orfeo, invece, il figlio di Eagro, te lo rimandarono fuori dall'inferno senza che avesse ottenuto nulla, mostrandogli solo la falsa immagine della sua donna, per la quale egli era sceso nell'Ade e non gliela restituirono, considerandolo un debole (suonatore di cetra com'era) perché non aveva avuto il coraggio di morire per amore, come Alcesti, ma, vivo, era riuscito a penetrare nell'Ade e con l'astuzia. Ecco perché gli inflissero questa punizione e lo fecero morire per mano di donne. Non così Achille che onorarono invece e mandarono alle isole dei beati perché per quanto egli fosse già stato avvertito dalla madre che se avesse ucciso Ettore sarebbe morto mentre se l'avesse risparmiato sarebbe ritornato in patria e lì avrebbe finito vecchio i suoi giorni, preferì scendere in campo per Patroclo, per l'amico che amava e vendicarlo e morire per lui, non solo, ma per lui morto; per questo gli dei profondamente ammirati gli resero onori grandissimi, come quello che aveva tenuto così alto nel suo cuore l'amico amato. Eschilo dice un'inesattezza quando afferma che era Achille l'amante di Patroclo, lui che non solo era più bello di Patroclo ma di tutti gli altri eroi, imberbe ancora e quindi molto più giovane di lui come dice Omero. La verità, però, è che gli dei pur onorando assai questo sentimento d'amore, volgono più la loro ammirazione, le loro lodi a colui che ricambia l'amore di chi lo ama, piuttosto che a quest'ultimo. Colui che ama è cosa più divina di chi si lascia amare, perché un dio lo possiede; per questo gli dei onorarono maggiormente Achille che non Alcesti e gli dischiusero le isole dei beati. Per concludere io affermo che Amore è il più antico degli dei, il più degno di onori, quello che più può infondere agli uomini virtù e felicità, sia mentre vivono che dopo la loro morte.»   VII 9  Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG http://www.esonet.org Questo, presso a poco, a quanto mi riferì Aristodemo, fu il discorso di Fedro. Dopo di lui parlarono altri, però non ricordava molto. E così passò a riferirmi il discorso di Pausania che prese a dire: «Non mi pare che tu abbia ben impostato il tuo discorso, Fedro, così come hai troppo semplicisticamente fatto le lodi di Amore. Se, infatti, Amore fosse uno solo, la cosa sarebbe potuta anche passare; ma il fatto è che non è uno soltanto e quindi è più giusto precisare prima qual è che bisogna lodare. Ed è a questo errore che io cercherò di rimediare, in primo luogo dicendo quale Amore convenga lodare e poi facendone in modo degno l'elogio. Tutti riconoscono che non si può concepire Venere senza Amore. Se di Venere ce ne fosse una sola, lo stesso dovrebbe dirsi di Amore, ma poiché due sono le Veneri, due saranno anche gli Amori. Non sono forse due le dee? Una, la più antica, che non ebbe madre, la figlia del Cielo, che appunto chiamiamo Celeste, l'altra, più giovane, figlia di Giove e di Dione, che chiamiamo Pandemia. Ne consegue che l'Amore che convive con quest'ultima, giustamente vien chiamato Pandemio, l'altro, Celeste. Gli dei, in verità, bisogna onorarli tutti, ma ora, di questi due, occorre pur dire quali sono gli attributi. Intanto, ogni azione ha questo di caratteristico: che per se stessa non è mai bella o brutta. Per esempio: quello che noi ora stiamo facendo, cioè bere, cantare, discutere, in se stesso, non è che sia bello, ma lo diventa dal modo con cui questa azione viene compiuta: onestamente e rettamente, è bella, altrimenti, la stessa azione è cattiva. Lo stesso è quando si ama: non ogni Amore è bello o degno di lode, ma solo quello che spinge a nobilmente amare.   VIII 10  Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG http://www.esonet.org «Orbene, l'Amore che convive con la Venere Pandemia, è ovvio che sarà anch'egli Pandemio, cioè volgare e si comporta un po' alla carlona; questo tipo d'Amore vien prediletto dai mediocri che non fan differenza a giacersi con donne o giovincelli di cui amano, oltretutto, più il corpo che l'animo, anzi preferiscono gli esseri sciocchi, tutti presi come sono dall'atto carnale, senza un briciolo di buon gusto, e accade così che finiscono per comportarsi come capita, bene o male che sia. Questo perché un simile Amore deriva dalla Venere più giovane che, nascendo, s'ebbe i caratteri della femmina e, insieme, quelli del maschio. L'altro Amore, invece, deriva dalla Venere Celeste che anzitutto non partecipa della natura femminile ma solo di quella maschile (e questo è l'amore per i giovinetti) e, in secondo luogo è più antica e immune da ogni forma di libidine. Così, quelli che sono infiammati da questo Amore, volgono le loro predilezioni al sesso maschile presi come sono da ciò che, per natura, è più vigoroso e dotato di più aperto intelletto. E in questa passione per i giovani è facile riconoscere quelli che sono nobilmente infiammati da questo Amore; costoro, infatti, non si legano ai giovani se non quando questi hanno già una loro maturità intellettuale e vedono spuntare la prima barba. Io penso, infatti, che chi per amarli attende che essi giungano a questa età, lo fa per poter convivere poi tutta la vita con loro in una dolce intimità e non per ingannarli, per approfittare della loro ingenuità e sbeffarli, piantandoli poi in asso per correre dietro a un altro. Anzi ci vorrebbe proprio una legge che vietasse di aver relazioni amorose con i minorenni, per evitare che si sciupi tempo e fatica per un esito incerto; con i ragazzi, infatti, non si sa mai come vada a finire, se faranno una buona riuscita o meno, sia per quel che riguarda le doti fisiche che per quelle morali. I galantuomini se la pongono da sé questa legge, ma per i dongiovanni da quattro soldi, sarebbe proprio necessario far qualcosa in proposito, così come abbiamo impedito, meglio che s'è potuto, che avessero rapporti intimi con donne di condizione libera. Sono questi che han fatto degenerare la cosa a tal punto che ora c'è gente che afferma che è brutto corrispondere chi ci ama; e lo dice proprio perché ha davanti agli occhi l'esempio di questi tipi, privi affatto di buon gusto e di un minimo di pudore, giacché nessuna cosa, se è fatta nei dovuti limiti e secondo onestà, può giustamente tirarsi dietro un qualche biasimo. Negli altri Stati, intanto, le leggi sull'amore non sonio di difficile interpretazione, regolate da principi assai semplici, così come concettosi e ingarbugliati sono da noi. Nell'Elide, per esempio o a Sparta o anche in Beozia, dove la gente non è abituata a far bei discorsi, viene, molto semplicemente, riconosciuto che è bello corrispondere chi ama e nessuno, giovane o vecchio che sia, si sognerebbe di dire che è cosa brutta; questo, a mio avviso, perché non vogliono pigliarsi troppo la briga di persuadere i giovani, inesperti come sono nell'arte del dire. Nella Ionia, invece, e in molte altre parti dove predominano popolazioni non greche, la cosa è ritenuta vergognosa; presso i popoli stranieri, del resto, proprio per i loro regimi tirannici, anche l'amore che uno può portare alla sapienza o alla ginnastica, è cosa disonesta. Infatti, io penso che ai governanti non convenga che sorgano tra i sudditi nobili e forti proponimenti o salde amicizie o identità di vedute, tutte cose, queste, che è proprio l'amore, di solito, a far   IX 11  Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG http://www.esonet.org nascere. E questo l'hanno imparato anche qui da noi i nostri tiranni, come l'amore di Aristogitone e l'intrepida amicizia di Armodio, abbiano distrutto il loro potere. Pertanto, là dove si ritiene che è cosa disonesta corrispondere chi ama, ciò è dipeso dalla mediocrità dei legislatori, dall'arroganza dei governanti e dalla viltà dei sudditi; laddove, invece, la cosa è ritenuta senz'altro bella, in linea assoluta, è stato per la pigrizia di chi ha fatto la legge. Quindi, da noi, vige una consuetudine più bella che altrove ma, come dicevo prima, non è facile, però, interpretarla.   12  Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG http://www.esonet.org «Si pensi, infatti, che da noi si reputa più bello amare alla luce del sole che di nascosto, amare, poi, soprattutto, chi è virtuoso e nobile anche se è più brutto degli altri e che si dà un incoraggiamento straordinario a chi ama, non ritenendo affatto che la sua sia un'azione vergognosa, anzi è motivo di orgoglio riuscire nel proprio intento ed è quasi un disonore, invece, fallire nella conquista e che la legge accorda all'amante, per le sue imprese amorose, la libertà di fare cose addirittura straordinarie e di riceverne lode, cosa che se uno facesse con altre intenzioni e per altri fini, si tirerebbe addosso il biasimo di tutti. Se uno, infatti, volendo farsi dare del denaro da qualcuno o desiderando ottenere un pubblico impiego o qualche carica, si mettesse a fare quel che gli amanti fanno per i loro fanciulli, suppliche, scongiuri, per ottenere quello che bramano, i giuramenti che fanno, tutte le notti che passano fuori davanti all'uscio del loro amore, tutti i servizi a cui si piegano, quelli più infimi, cui nessuno schiavo s'adatterebbe, costui si vedrebbe ostacolato in questo suo modo di fare, non solo dagli amici ma anche dai suoi avversari che gli rimprovererebbero queste smancerie e questo servilismo, richiamandolo al dovere e vergognandosi per lui; se tutto questo uno, invece, lo fa per amore, acquista addirittura pregio e la nostra legge glielo consente, senza che su di lui ricada biasimo alcuno, come se, in effetti, compisse una cosa bellissima. Ma quello che è ancora più straordinario è che, a quanto dicono i più, solo a chi ama è concesso, quando giura e poi non mantiene il giuramento, di ottenere il perdono degli dei perché, a quanto si dice, in amore non c'è giuramento che valga. È per questo che sia gli dei che gli uomini hanno concesso, a chi ama, un'assoluta libertà, come ci provano le nostre leggi. Tutto questo autorizzerebbe a credere che in questa nostra patria, amare e corrispondere chi ama è ritenuta cosa bellissima. Eppure quando i genitori ti mettono alle calcagna dei loro figlioli un pedagogo, col preciso incarico di tenerli lontani dai loro corteggiatori, quando i compagni e i coetanei fanno quasi succedere uno scandalo se si accorgono di qualcosa del genere, mentre i più anziani lasciano che dicano e non intervengono a queste esagerate reazioni, a guardar bene tutto questo sembrerebbe proprio che qui da noi l'amore sia considerato cosa del tutto disonesta. Il fatto è, a mio avviso, che la cosa sta invece così: non c'è nulla di assoluto, come accennai prima, e niente è bello o brutto per se stesso, ma diventa l'uno o l'altro a seconda che sia fatto bene o male. Così, l'amore diventa cosa spregevole se, senza alcun buon gusto, uno si concede a un essere spregevole, è cosa bella, invece, quando lo si fa onestamente con persona onesta. Ed amante del tutto indegno, volgare, è colui che ama più il corpo che l'animo, perché costui, infatti, non è costante, preso com'è da cosa che non dura. Quando, infatti, sfiorisce la bellezza del corpo, di quel fiore che amava, egli ‹fugge lontano, scompare› e addio promesse e belle parole. Chi, invece, ama qualcuno per la bellezza del suo animo, gli resta fedele per tutta la vita, perché s'è congiunto a cosa che dura. Perciò le nostre leggi si prefiggono di ben individuare tutti costoro per accordare, agli uni, ogni favore e mettere al bando gli altri e per questo si esortano gli amanti a insistere nelle loro profferte e gli amati a schermirsi, cercando così, per questa specie di gara, di stabilire a quale delle due categorie appartengano gli uni e gli altri. Per questo   X 13  Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG http://www.esonet.org motivo è ritenuta gran brutta cosa, prima di tutto, lasciarsi sedurre, così, in quattro e quattr'otto, senza dar tempo al tempo, che, in fondo, si sa, per tante cose è un gran maestro; in secondo luogo, lasciarsi incantare dal denaro o dalle prospettive di cariche politiche, sia che il giovane per qualche violenza subita si intimorisca e si metta in condizione di non reagire, sia che, prospettandogli la possibilità di far denaro o di avere successo in politica, egli non vi rinunci sdegnosamente: infatti, nessuna di queste cose è sicura e durevole, oltre al fatto, poi, che da esse non potrà mai nascere una lunga amicizia. Quindi, secondo la nostra legge, non c'è che una strada perché l'amato possa onestamente corrispondere e compiacere l'amante, ed è questa: come non è affatto vergognoso e umiliante, per chi ama, sottoporsi per il suo amore, a ogni sorta di schiavitù, così c'è una sola servitù volontaria, non indecorosa o infamante: quella che ha per oggetto la virtù.   14  Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG http://www.esonet.org «Ed è norma ancora, da noi, che se uno si mette al servizio di un altro ritenendo che ciò possa contribuire a renderlo migliore nel campo del sapere o in qualche altra virtù, questa sottomissione volontaria non è vergognosa, né servile. Occorre, pertanto, che queste due norme, quella sull'amore dei giovinetti e quella sul desiderio di acquistar sapienza o qualsiasi altra virtù, si fondano insieme se si vuole che sia veramente una cosa bella che il giovane conceda le sue grazie a un amante. Infatti quando l'amante e la persona amata s'incontrano, ciascuno, ligio a una sua precisa condotta, cioè l'uno disposto a servire il giovane che gli ha concesso i suoi favori e a servirlo onestamente, l'altro, con la stessa onestà, a seguire la volontà di chi lo rende sapiente e migliore e quando il primo sia veramente capace di dare senno e virtù e l'altro veramente desideroso di educarsi e d'acquistar, in ogni modo, sapienza, quando questo avviene, quando queste due direttrici convergono a un unico fine, oh, allora, si è cosa bella che la persona amata conceda i suoi favori a chi l'ama, altrimenti niente da fare. In questo caso essere ingannati non è nemmeno mortificante; in tutti gli altri casi, ingannati che si sia o meno, c'è da arrossir di vergogna. Se un giovane, infatti, in un miraggio di ricchezza, si è lasciato sedurre per denaro e poi resta ingannato perché s'accorge che il suo seduttore è povero, questo giovane, compie un'azione molto spregevole, perché s'è rivelato quel che egli era: un uomo capace di darsi a chiunque per sete di denaro e questo non è bello. E per un ragionamento analogo, se lo stesso giovane, invece, si fosse concesso a persona virtuosa, riconoscendo che sarebbe divenuto migliore proprio in virtù di quella corrispondenza e poi fosse stato ingannato perché il suo amante s'è rivelato persona del tutto mediocre, priva di qualsiasi virtù, ebbene questa delusione è motivo di compatimento; infatti, egli ha dimostrato di esser pronto a dar tutto se stesso a chiunque, ma per la virtù e pur di diventar migliore, e questo, certo, è tra tutte, cosa bellissima. In conclusione, il concedersi per ottenere, in cambio, virtù, è bello. Questo è l'Amore della dea celeste, celeste egli stesso, degno in tutto di venerazione da parte dello stato come dei singoli individui, che spinge gli amanti e le persone amate, ciascuno per quel che gli compete, a preoccuparsi soltanto d'essere virtuosi. Quanto agli altri amori, provengono tutti dalla Venere Pandemia, volgare. Questo è quanto ho improvvisato, Fedro, così su due piedi, a proposito di Amore.» Dopo la pausa di Pausania (guarda un po' che giochetti di parole ti sto a fare, che m'insegnano i dotti), a quanto ebbe a riferirmi Aristodemo, toccava ad Aristofane, senonché, vuoi per la pienezza di stomaco, vuoi per qualche altra causa, costui aveva il singhiozzo e, quindi, era nell'impossibilità di parlare. Si rivolse, allora a Eressimaco, il medico, che gli era seduto accanto: «Cerca di liberarmi da questo singhiozzo, Eressimaco,» gli disse, «o, almeno, prendi tu la parola, finoa quando non si sarà calmato.» «Cercherò di venirti incontro in un modo e nell'altro; parlerò io al tuo posto e poi interverrai tu quando ti sarà passato; intanto cerca di trattenere il respiro per qualche minuto e vedrai che il singhiozzo se ne andrà, oppure bevi un sorso d'acqua, fai dei gargarismi e, se persiste, prendi qualcosa che ti solletichi il naso e cerca di starnutire e vedrai che, con un paio di starnuti, per quanto   XI 15  Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG http://www.esonet.org ostinato, ti passerà.» «Sì, ma tu sbrigati a parlare,» insistette Aristofane, «intanto io cercherò di fare come tu dici.»   16  Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG http://www.esonet.org E così Eressimaco incominciò: «A mio avviso, mi par necessario che cerchi di concludere il discorso che Pausania ha iniziato così bene ma che poi non ha portato a termine. Che Amore sia duplice, ci sembra distinzione esatta; ma che esso non alberga solo negli uomini attratti dalle belle creature, ma in tutti gli altri esseri, a loro volta presi per altre forme, negli animali, per esempio, nelle piante e comunque in tutte le creature viventi, io credo di averlo dedotto dalla medicina, la nostra arte e, altresì, come Amore sia grande e meraviglioso iddio, presente ovunque in ogni cosa umana e divina. Comincerò, quindi, a trattar l'argomento da un punto di vista medico, anche in omaggio a questa arte. La natura dei corpi è tale che essi hanno in sé questo duplice Amore; infatti, per il corpo, malattia e salute sono, come tutti sanno, due condizioni diverse e contrarie e, come tali, perciò, non appetiscono e non desiderano mai le stesse cose. In poche parole, altro è il desiderio che prova la parte sana, altro quello che sente la parte malata. E come Pausania diceva poco fa che è bello concedersi a un amante virtuoso e vergognoso è, invece, darsi a un dissoluto, lo stesso è anche per i corpi per cui è cosa bella, anzi doverosa, favorire lo sviluppo delle parti sane di ciascun organismo (e, in fondo, proprio questo è il compito del medico) ed è male, invece, farlo per le parti malate per le quali occorre agire con intransigenza, se si è veramente capaci nell'arte medica. Infatti, la medicina, per dirla in breve, è la scienza che studia le tendenze affettive dell'organismo nel suo riempirsi e svuotarsi e chi sa distinguere in queste tendenze, le buone dalle cattive, costui è un gran medico; chi, poi, queste tendenze le sappia anche modificare o suscitarne una al posto dell'altra o stimolarne qualcuna laddove non ve ne siano e invece dovrebbero esservi o, addirittura, cancellare quelle che vi sono, costui, allora, sarà proprio un maestro eccellente. Bisogna, infatti, che le parti di un organismo che sono tra loro incompatibili si riconcilino e trovino una loro reciproca armonia. E gli elementi più incompatibili sono quelli contrari, freddo e caldo, amaro e dolce, secco e umido e così via; e poiché ad aver saputo conciliare ed armonizzare tutti questi contrari è stato nostro padre Asclepio, egli, come dicono questi poeti e come anch'io sono convinto, è il fondatore di questa nostra scienza. Tutta la medicina, dunque, come vi sto dicendo, è governata da questo dio, come del resto la ginnastica e l'agricoltura. Quanto alla musica, poi, basta un minimo di riflessione perché tutti comprendano che essa si comporta alla stessa stregua delle altre arti, come anche Eraclito, del resto, forse vuol dire, sebbene non si esprima in termini molto chiari: ‹L'unità in sé discorde,› dice, ‹con se stessa s'accorda, come l'armonia dell'arco e della lira.› Ora, è assurdo pensare che l'armonia sia mancanza di accordi o che nasca da elementi ancora discordanti tra loro. Egli, forse, voleva dire che essa nasce da elementi prima discordanti, l'acuto e il grave, per esempio, che si son poi accordati per virtù della musica; infatti, non è certo possibile che l'armonia risulti da suoni tuttora discordi tra loro quali l'acuto e il grave. In verità, l'armonia è consonanza e la consonanza è accordo; non è possibile, ora, che vi sia accordo da cose discordi finché restino tali, come impossibile è che vi sia armonia quando gli elementi discordanti non abbiano trovato il loro accordo; così come anche il ritmo, del resto, che risulta dal veloce e dal lento prima discordi tra loro ma poi   XII 17  Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG http://www.esonet.org armonizzati insieme. E l'accordo fra tutti gli elementi, come per quelli di prima era dato dalla medicina, così per questi è dato dalla musica che produce, quindi, tra loro, reciproca armonia e corrispondenza. La musica, quindi, per quanto riguarda il ritmo e l'armonia, è scienza d'amore. Non è difficile, poi, individuare nella stessa costituzione del ritmo e dell'armonia questa sua peculiarità, in quanto in essa non vi sono le due specie d'amore. Quando però si compongono ritmi e armonie per la gente (ed è questa, propriamente, ciò che si chiama composizione musicale) o si eseguono fedelmente melodie e partiture altrui (e questo è virtuosismo), allora sì che viene il difficile e occorre un bravo artista. E qui si torna al discorso di prima, cioè che bisogna compiacere alle persone per bene o a quelle che ancora non lo sono ma vogliono diventarlo e conservarsi il loro amore che è poi quello bello, quello celeste, l'amore di Afrodite Urania; quello di Polimnia, invece, è l'amore pandemio, volgare, cui bisogna concedersi con prudenza e che dobbiamo, a nostra volta, con prudenza concedere per goderne senza tuttavia farne abuso. Del resto, anche nella nostra scienza è molto importante sapersi ben destreggiare con i desideri per la buona cucina in modo da saperla gustare senza poi ammalarsi. E così nella musica, nella medicina e in tutto il resto, sia nelle cose umane come in quelle divine, occorre tener presenti, per quanto possibile, l'uno e l'altro amore, dovunque contenuti entrambi.   18  Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG http://www.esonet.org «E anche le stagioni dell'anno, nella loro successione, son colme di questi due amori e quando gli elementi contrari di cui parlavo prima, il caldo e il freddo, il secco e l'umido, cadono sotto l'influenza dell'amore benigno che li armonizza e li compone sapientemente, allora le stagioni recano abbondanza e salute agli uomini, agli animali e alle piante e non portano alcun danno. Quando, invece, ha il sopravvento l'altro amore, con tutta la sua violenza, ecco, allora, rovine e distruzione ovunque, ecco la causa di pestilenze e di molti altri simili morbi per gli animali e le piante; e, infatti, il gelo, la grandine, la rubigine derivano dalla violenza e dal disordine con cui si manifestano queste tendenze d'amore. La scienza che, attraverso il moto degli astri e il succedersi delle stagioni indaga questi fenomeni, si chiama astronomia. Inoltre, tutti i sacrifici e i riti a cui presiede l'arte profetica, nel loro insieme (sono essi a mantenere un rapporto tra gli uomini e le divinità) non hanno altro scopo che di custodire e salvaguardare l'Amore; ogni scelleratezza, infatti, nasce perché non si dimostra buona disposizione nei riguardi dell'amor benigno, né, in quel che si fa, lo si tiene nella dovuta stima e lo si onora. Cose, invece, che si concedono tutte all'altro amore, sia per quel che riguarda i rapporti con i propri genitori, vivi o morti che siano, sia quelli con gli dei. A queste cose, appunto, l'arte profetica è destinata, per cui deve sorvegliare gli amori e apprestarne i rimedi; e la divinazione è all'origine dell'amicizia tra gli dei e gli uomini in quanto, delle tendenze umane, conosce quelle che si volgono alla giustizia e alla pietà. Dunque, tanto grande e vasta, anzi, universale è la forza d'Amore, ma quello che si volge al bene con saggezza e giustizia sia nei nostri rapporti umani che in quelli degli dei tra loro, ha forza ancora maggiore e ci dà la felicità e ci fa vivere nella concordia e nell'amicizia con tutti e con chi è migliore di noi, cioè con gli dei. Forse anch'io ho tralasciato molte cose, mio malgrado, in questo elogio d'Amore; se l'ho fatto, è compito tuo Aristofane rimediarvi; se, invece, vuoi onorare il dio in altro modo, fallo pure, dato che il singhiozzo t'è passato.» E così, mi riferì Aristodemo, cominciò a parlare Aristofane che disse: «Veramente è passato ma solo con lo starnuto, tanto che io mi meraviglio come il corpo umano, così ben fatto, abbia proprio bisogno di tanto rumore e solleticamenti, come lo starnuto. Sta di fatto, però, che il singhiozzo è cessato appena ho starnutito.» «Ma, mio caro Aristofane,» ribatté Eressimaco, «sta un po' attento a quel che fai; ti metti a far dello spirito proprio ora che devi parlare e così mi costringi a stare sul chi va là per ogni tua parola, nel caso ti saltasse in mente di dirle grosse, e sì che potresti parlar tranquillamente.» «Hai ragione, Eressimaco,» ammise Aristofane, ridendo, «fingi come se non avessi detto nulla. Ma non stare sul chi va là mentre parlo perché io ho proprio paura, non tanto perché, forse, con quello che sto per dire, farò ridere, il che potrebbe essere anche piacevole e coerente con la mia musa, ma perché mi farò invece deridere.» «Sì, sì, va bene, Aristofane, tu prima lanci il sasso e poi nascondi la mano; mettici attenzione, invece, e parla come se dovessi dar conto di quello che dici; da parte mia, intanto, vedrò di lasciarti tranquillo.»   XIII 19  Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG http://www.esonet.org «Per dir la verità, Eressimaco,» cominciò Aristofane, «io avrei in mente di fare un discorso diverso da quello tuo e di Pausania. Io credo, infatti, che di tutta questa potenza dell'Amore, gli uomini non se ne siano accorti per niente, altrimenti gli avrebbero innalzato templi grandiosi, altari, gli farebbero sacrifici magnifici e, invece, nulla di tutto questo mentre sarebbe la prima cosa da fare. Nessuno come lui, tra tutti quanti gli dei, è amico degli uomini, viene in loro aiuto, cerca di curarne i mali, la cui guarigione, forse, sarebbe la più grande felicità del genere umano. Quindi, io cercherò di svelarvi la sua potenza e voi, a vostra volta, la rivelerete agli altri. Per prima cosa, dovete rendervi conto cosa sia la natura umana e quali siano state le sue vicende; per il passato, infatti, essa non era quella che è oggi. Nel principio, tre erano i sessi dell'uomo, non due, il maschio e la femmina, come ora: ce n'era un terzo che aveva in sé i caratteri degli altri due, ma che oggi è scomparso e del quale resta soltanto il nome: l'ermafrodito. Esso, infatti, era un essere a sé stante che, nell'aspetto esteriore e nel nome, aveva dell'uno e dell'altro, cioè, del maschio e della femmina; oggi, ripeto, non resta che il nome che, per di più, ha un significato infamante. Inoltre, la figura di questo essere umano era arrotondata, dorso e fianchi formavano come un cerchio; aveva quattro mani e quattro erano pure le gambe; aveva anche due facce, piantate su un collo anch'esso rotondo, completamente uguali e attaccate, in senso opposto, a un unico cranio; aveva quattro orecchie, doppi gli organi genitali e, da tutto questo, possiamo immaginarci il resto. Camminavano in posizione eretta, come noi, volendo potevano spostarsi in qualunque direzione e, quando correvano, facevano un po' come i nostri saltimbanchi che gettano in aria le gambe e capriolettano su se stessi: e poiché gli arti erano otto, appoggiandosi su di essi, procedevano, a ruota, velocemente. I sessi erano tre, perché quello maschile aveva avuto origine dal sole, quello femminile dalla terra e l'altro, con i caratteri d'ambedue, dalla luna, dato che quest'ultima partecipa del sole e della terra insieme: perciò avevano quell'aspetto e si spostavano rotolando, perché somigliavano a quei loro progenitori. Avevano una resistenza e una forza prodigiosa, nonché un'arroganza senza limiti, tanto che si misero in urto con gli dei e quel che dice Omero di Efialte e di Oto, che tentarono di scalare il cielo, va riferito a costoro.   XIV 20  Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG http://www.esonet.org «E così Giove e gli altri dei si consigliarono sul da farsi ma non seppero risolversi: non era il caso di ucciderli, infatti, come i Giganti, e di estinguerne la specie a colpi di fulmine (il che sarebbe stato come far sparire onori e sacrifici agli dei da parte degli uomini) e del resto non era possibile continuare a sopportare oltre la loro tracotanza. A furia di pensare, Giove, finalmente, ha un'idea: ‹Ho trovato il sistema,› esclamò, ‹perché gli uomini sopravvivano ma, nello stesso tempo, divengano più deboli e la smettano con la loro prepotenza. Ecco che li taglierò, ciascuno, in due,› continuò, ‹così diventeranno più deboli, e, dato che aumenteranno di numero potranno esserci anche più utili. Cammineranno su due gambe e, se non si metteranno tranquilli e faranno ancora i prepotenti, li taglierò ancora e cosi impareranno a camminare su una gamba sola, come nel gioco degli otri.› Detto fatto, si mise a tagliare gli uomini in due come si tagliano le sorbe quando si mettono a seccare, o come si divide un uovo col crine. E via via che tagliava, poi, raccomandava ad Apollo che a ciascuno gli rivoltasse il viso e la metà del collo dalla parte del taglio in modo che l'uomo, vedendosi sempre la sua spaccatura, diventasse più mansueto; Apollo, infine, provvedeva a chiudere le altre parti. Girava la faccia e, tirando la pelle, tutta verso quel punto che noi ora chiamiamo ventre, come chi fa per chiudere coi lacci una borsa, faceva una specie di groppo, che legava proprio in mezzo alla pancia, quello che noi chiamiamo ombelico. Spianava, poi, le molte rughe e modellava il petto usando un arnese un po' simile a quello che adoperano i sellai per spianare, sulla forma, le grinze del cuoio: ne lasciava, però, qualcuna, nei paraggi del ventre e intorno all'ombelico, in ricordo dell'antico castigo. Fu così che gli uomini furono divisi in due, ma ecco che ciascuna metà desiderava ricongiungersi all'altra; si abbracciavano, restavano fortemente avvinti e, nel desiderio di ricongiungersi nuovamente, si lasciavano morire di fame e di accidia, non volendo far più nulla, divise com'erano, l'una dall'altra. Quando, poi, una delle due metà, moriva, quella rimasta in vita, se ne cercava un'altra e le si avvinghiava, sia che le capitasse una metà di sesso femminile (che oggi noi chiamiamo propriamente donna) che una di sesso maschile; e così, morivano. Allora Giove, impietosito, ricorse a un nuovo espediente: spostò il loro sesso sul davanti; prima, infatti, l'avevano dalla parte esterna e generavano e si riproducevano non unendosi tra loro, ma alla terra, come le cicale. Dunque, trasferì questi organi sul davanti e, così facendo, rese possibile la procreazione attraverso l'unione del maschio nella femmina; lo scopo era quello di far generare e di perpetuare la specie grazie a un simile accoppiamento tra maschio e femmina; se, invece, l'unione fosse stata fra maschi, dopo un po' sarebbe venuta sazietà da questo connubio e così, una volta separatisi, sarebbero potuti ritornare al lavoro e alle altre cure della vita. Da tempi remoti, quindi, è innato negli uomini il reciproco amore che li riconduce alle origini e che di due esseri cerca di farne uno solo risanando, così, l'umana natura.   XV 21  Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG http://www.esonet.org «Quindi, ciascuno di noi è come la metà di un unico contrassegno, dal momento che fu tagliato in due, come le sogliole, e va continuamente in cerca dell'altra metà. Ora, tutti quegli uomini che son derivati dalla divisione di quel doppio essere, cioè, dall'ermafrodito, come l'abbiamo appunto chiamato, sentono tutti l'attrazione per le donne e da lì provengono anche la maggior parte degli adulteri; così pure hanno la stessa origine le donne che vogliono il maschio e le adultere. Invece, le donne che son derivate dalla divisione di un essere di sesso femminile, sono frigide nei riguardi dell'uomo e sentono, piuttosto, attrazione per le altre donne e da qui sono nate le lesbiche. Quegli uomini, infine, che son nati dalla divisione di un essere maschile, van dietro ai maschi e, finché son ragazzi, per il fatto che son parti di maschio, amano gli uomini e godono di giacersi stretti abbracciati con loro. Questi sono i ragazzi, i giovinetti più in gamba, dotati di un'indole virile; c'è della gente che dice che costoro sono degli svergognati, ma sbaglia: non per impudenza, infatti, fanno questo ma perché sono arditi, valorosi e virili e, come tali, cercano il loro simile. E questa è la prova migliore: in età matura, soltanto costoro diventano dei veri uomini e partecipano alla vita politica. Da adulti, poi, sono loro ad amare i fanciulli e se non fosse perché la consuetudine un po' ve li costringe, se dipendesse dalla loro natura, certo non penserebbero affatto a sposarsi e ad avere dei figli, anzi sarebbero contentissimi di vivere così da scapoli. Insomma, da qui nascono quelli che amano gli uomini o si lasciano da essi amare, preferendo sempre chi ha la loro stessa natura. E quando uno incontra quella che fu la sua metà, non solo chi si sente attratto verso i fanciulli, ma anche ogni altro, sente allora nascere in sé quel sentimento di amicizia, di intimità, di amore per cui non sa più vivere separato dall'altro, nemmeno un istante, tanto per dire. E questi che passano insieme la loro vita non ti saprebbero nemmeno più dire quello che vogliono per loro; e io penso che nessuno crederà che sia soltanto l'attrazione fisica a tenerli così appassionatamente uniti; è certo che l'anima loro cerca qualcos'altro, che non sa definire ma che vagamente intuisce. Se, per esempio, mentre stanno dolcemente insieme, comparisse Efesto, con gli strumenti del suo potere e chiedesse loro: ‹Cosa vorreste, uomini, l'uno dall'altro?› e vedendoli incerti chiedesse ancora: ‹Non desiderate, forse, diventare una cosa sola in modo che non possiate mai separarvi, né di giorno né di notte? Se è questo che volete, io vi unirò, vi fonderò in una stessa natura così che da due voi diventiate uno e la vostra vita la viviate come un essere solo e quando morrete, anche laggiù, nell'Ade, possiate essere uno solo invece di due, uniti da un'unica morte. Vedete un po', allora, se è questo che desiderate, se è questo che vi basta ottenere.› Dunque. se udissero queste parole, siamo convinti che nessuno dei due rifiuterebbe, nessuno mostrerebbe di voler altro, anzi, ognuno penserebbe di aver finalmente udito le parole che da tanto tempo sognava di ascoltare, diventare cioè di due una sola cosa, unirsi, confondersi nella creatura amata. E la ragione di tutto questo è che tale era la nostra antica natura e che noi eravamo uniti; e lo struggimento per quella perduta unità, il desiderio di riottenerla, si chiama amore. Ripeto, noi, prima eravamo un essere solo ma poi, per i nostri falli, da dio siamo stati divisi, un po' come gli Arcadi lo   XVI 22  Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG http://www.esonet.org sono stati dagli Spartani. E c'è da temere che se non saremo obbedienti verso gli dei, verremo ancora tagliati e vagheremo un po' simili a quelle figure in bassorilievo, segate in due lungo la linea del naso, che si vedono sulle steli, ridotti come dadi a metà. Occorre, perciò, che ogni uomo consigli gli altri ad essere pii verso gli dei, sia per evitare questo male, sia per ottenere quel bene al quale Amore ci volge e ci guida. Nessuno sia ostile ad Amore (chi lo è, è inviso agli dei); perché se gli saremo amici, se ci riconcilieremo con questo dio, noi riusciremo a trovare e a congiungerci con la nostra anima gemella, cosa che oggi capita a pochi. E non insinui Eressimaco, canzonandomi per questo che sto dicendo, che io voglio alludere a Pausania e ad Agatone (molto probabilmente essi sono tra questi pochi e hanno entrambi natura virile). Ad ogni modo io dico, in generale, di tutti, uomini e donne, che la razza umana sarà felice nella misura in cui ciascuno realizzerà il suo amore e troverà la sua creatura amata, ritornando così all'antica condizione. Se questo è il bene più grande, ne consegue che, nelle presenti condizioni, la cosa migliore è quella che più gli si avvicina: incontrare l'amante che meglio ci sappia corrispondere. Se, dunque, vogliamo levar lodi al dio che ci può dar tutto questo, è ad Amore che dobbiamo inneggiare il quale, per ora, favorisce il nostro incontro con chi ci è affine e, un domani, ci darà le più grandi speranze che, se noi ci mostreremo riverenti verso gli dei, ci restituirà l'antica natura e, risanandoci, ci renderà felici e beati. Questo, o Eressimaco,» concluse, «il mio discorso su Amore, diverso dal tuo, a quanto vedi. Come ti ho pregato, non starmelo a canzonare, dato che dobbiamo ancora sentire quel che diranno gli altri, anzi gli ultimi due, perché non sono rimasti che Agatone e Socrate.»   23  Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG http://www.esonet.org «E va bene, t'accontento,» rispose Eressimaco, «anche perché il tuo discorso m'è proprio piaciuto; anzi, se non sapessi che Socrate e Agatone son ferratissimi in fatto d'amore, avrei proprio paura, con tutto quel che s'è detto, che rimanessero a corto d'argomenti. Ma, nonostante questo, invece, mi sento sicuro.» E Socrate, intervenendo: «Eh, già, Eressimaco, perché tu hai già detto la tua e bene anche; ma se ti trovassi qui, al mio posto o meglio nella posizione in cui mi troverò quando Agatone avrà finito anche lui di fare il suo bel discorso, saprei immaginare la tua paura, e quanta anche, come ce l'ho io adesso.» «Non m'incanti, Socrate,» fece, di rimando, Agatone, «tu vuoi proprio confondermi facendomi credere che queste persone son tutte qui ad aspettare chissà cosa dal mio discorso.» «E io, allora, sono uno smemorato, Agatone,» replicò Socrate, «se credessi che ora tu hai paura di noi che siam qui in pochi. Ho visto il tuo coraggio, la tua sicurezza quando sei salito sul podio con gli altri attori e hai abbracciato con uno sguardo tutto il teatro pieno zeppo, poco prima di rappresentare la tua opera.» «Ma che c'entra, questo, Socrate?» ribatté Agatone. «Non mi crederai mica tanto infatuato per una rappresentazione teatrale, da non capire che per uno che abbia un po' di buon senso, poche persone intelligenti fan più paura di una folla di sciocchi?» «Non sarebbe bello da parte mia, Agatone,» insisté Socrate, «se ti pensassi capace di un pensiero volgare. So benissimo che se ti venissi a trovare fra persone che tu ritenessi sapienti, ne saresti preoccupato più che se fossi in mezzo a un mucchio di gente; il fatto è che noi non siamo tali e, del resto, c'eravamo anche noi, lì, non più che folla tra la folla. Se tu, invece, ti incontrassi veramente con dei sapienti, ti vergogneresti davanti a loro, se ti accorgessi di far qualche brutta figura, non credi?» «Certo, dici bene,» ammise. «E se tu la brutta figura la facessi davanti alla folla, non ti vergogneresti?» A questo punto intervenne Fedro e: «Mio caro Agatone,» disse, «se stai lì a rispondere a Socrate, te le saluto le cose che stavamo dicendo, ma tanto a lui non gliene importa niente, basta che abbia qualcuno con cui discutere, specie poi se è un bel ragazzo. Con questo non è che io non ascolti volentieri una discussione di Socrate, ma certo che ora mi sta più a cuore l'elogio di Amore e avere, da ciascuno di voi, il rispettivo discorso. Pagate al dio il vostro debito e poi discuterete come vi pare.» «Dici proprio bene, Fedro,» esclamò Agatone; «niente mi impedisce di parlare; con Socrate non mancheranno certo le occasioni per discutere.»   XVII 24  Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG http://www.esonet.org «Io desidero prima dirvi com'è che intendo impostare il mio discorso, dopo entrerò nel vivo della questione. A me pare che tutti quelli che hanno parlato finora non abbiano celebrato il dio ma soltanto posto l'accento su quanto gli uomini siano felici per quei beni di cui, appunto, quel dio è la causa; nessuno ha detto chi sia propriamente costui che ci offre tutti questi beni. Orbene, l'unico metodo giusto per far qualsiasi elogio, di qualunque cosa, è quello di illustrare prima chi sia, in effetti, quello di cui si parla e poi di quali beni sia la causa. Ecco perché noi dobbiamo prima lodare Amore per quel che egli è, poi per i doni che ci reca. Intanto io affermo che tra tutti i beatissimi dei (se m'è lecito dirlo e non è peccato) Amore è il più beato perché è il più bello e il più buono. Il più bello soprattutto perché è il più giovane degli dei, Fedro. Egli stesso ce ne dà la prova migliore fuggendo dinanzi alla vecchiaia che, tutti sanno, è veloce e ci casca addosso più presto di quel che dovrebbe. Naturalmente Amore la odia e non le si avvicina nemmeno da lontano. Giovane com'è, invece, sta sempre con i giovani e ha ragione l'antico detto che il simile s'accompagna sempre al suo simile. Ed io, pur consentendo con Fedro in molte cose, non condivido il fatto che Amore sia più antico di Crono e di Giapeto. Ripeto, invece, che è il più giovane di tutti gli dei, eternamente giovane e tutti quei vecchi fatti tra gli dei che raccontano Esiodo e Parmenide, accaddero per opera di Necessità, non di Amore, ammesso pure che quei due abbiano detto il vero. Non ci sarebbero state, infatti, mutilazioni, catene e tutte quelle altre violenze se Amore fosse stato in mezzo a loro, ma solo amicizia e concordia come è ora, da quando egli regna sugli dei. Dunque egli è giovane e non solo, è gentile. Il fatto è che gli manca un poeta, un poeta come Omero che ne esalti la delicata bellezza. Di Ate, per esempio, Omero dice non solo che è una dea ma che, appunto, è delicata (almeno i suoi piedi sono tali), quando scrive: morbidi sono i suoi piedi che non accosta alla terra ma ella procede sfiorando le teste degli uomini. E mi pare che egli ci abbia dato una bella prova della sua delicatezza col dirci che non cammina sul duro ma sul morbido. Serviamoci, anche noi, per Amore, dello stesso indizio a conferma che è delicato; egli, infatti, non cammina per terra e nemmeno sulle teste degli uomini che, poi, tanto morbide non sono, ma tra le più tenere delle cose che esistono egli procede e dimora: egli, infatti, ha posto la sua sede nel cuore e nell'animo degli uomini e degli dei;  non però in tutte le anime indistintamente. Se, infatti, ne trova una rozza, fila via, se gentile invece, vi resta. Dato, quindi, che egli è sempre a contatto, e non solo con i piedi ma anche con tutto se stesso, con le più tenere tra le tenerissime cose, necessariamente deve essere delicatissimo. Il più giovane, dunque, e il più delicato; ma oltre a questo è duttile. Non potrebbe piegarsi in tutte le direzioni e entrare di soppiatto nelle anime e così uscirne se fosse rigido; la leggiadria, per consenso comune, è la prova evidente delle fattezze armoniche e flessuose che Amore possiede. Infatti, fra l'amore e la bruttezza c'è sempre reciproca guerra. La bellezza del suo incarnato ci dice che egli   XVIII 25  Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG http://www.esonet.org indugia tra i fiori, poiché Amore non resta dove non v'è cosa in fiore o che sia avvizzita, sia essa corpo o anima o altro, ma dove tutto è fiorito e olezzante, là si posa e dimora.   26  Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG http://www.esonet.org «Sulla bellezza del dio può anche bastare, per quanto ce ne sarebbe ancora da dire. Ma ora parliamo delle sue virtù. La cosa che prima di tutto bisogna notare è che Amore non fa torti a nessuno, né a uomini né a dei e nemmeno ne riceve. Egli non subisce violenza (ammesso che subisca qualcosa), perché essa non lo tocca, né con prepotenza fa quel che fa, ma ognuno serve Amore spontaneamente in ogni cosa; e quando c'è accordo reciproco tra due volontà, ‹le Leggi che sono le regine degli Stati›, dicono che è giusto. Oltre che la giustizia, Amore possiede in sommo grado anche la temperanza. Tutti son d'accordo nell'affermare che la temperanza consiste nel dominio delle passioni e dei piaceri. Ma non c'è nessun piacere più intenso dell'Amore e quindi se tutti gli altri sono meno intensi, sono inferiori a lui che, perciò, trionfa e ha il dominio sulle passioni e sui piaceri e, come tale, è in sommo grado, temperante. Per quanto riguarda la forza, ad Amore ‹neanche Marte può stargli a fronte›. Non è, infatti, Marte che conquista Amore, ma Amore che seduce Marte, amore di Venere a quanto si dice; e chi possiede è più forte di chi si lascia possedere: quindi, vincendo chi è più forte degli altri, egli è il più forte di tutti. Della giustizia, quindi, della temperanza e della fortezza del dio, s'è già detto; resta ora da dire della sua sapienza: per quanto è possibile, bisogna cercare di non tralasciare nulla. Intanto, per prima cosa per rendere onore alla nostra arte, come Eressimaco ha fatto per la sua, dirò che questo dio è poeta cosi sapiente da far diventare tali anche gli altri; in effetti, ognuno diventa poeta se è toccato da Amore, anche se non ha mai avuto prima a che fare con le Muse. Da qui possiamo trarre la conferma che Amore, in generale, è buon poeta in ogni genere di produzione artistica. Infatti, ciò che uno non ha e non conosce, non può certo darlo, né insegnarlo a nessuno. E, infatti, chi è che vorrà contestare che la creazione di tutti gli esseri viventi non avvenga per la sapienza d'Amore che genera e fa crescere tutte le creature? E, inoltre, nell'attività artistica non sappiamo forse che chi ha per maestro questo dio diviene famoso e illustre, chi invece non è toccato da Amore resta oscuro? L'abilità nel tiro dell'arco, la sapienza nella medicina, l'arte profetica, Apollo le ha scoperte sotto l'impulso del desiderio e dell'amore, così che anch'egli può dirsi discepolo di questo dio, come le Muse per le loro arti, Efesto per l'arte di forgiare metalli, Minerva per quella del tessere e Giove, infine, per quella di governare sugli dei e sugli uomini. Fu cosi che tutte le questioni tra gli dei si appianarono, da quando Amore comparve in mezzo a loro, si capisce, Amore della bellezza, perché delle cose brutte non c'è amore; mentre, come ho detto, prima d'allora, molte e orribili cose, a quanto si dice, accadevano tra gli dei, perché regnava Necessità. Ma dopo che nacque questo dio, si amarono le cose belle e ne venne per gli dei e per gli uomini abbondanza di beni. Così, Fedro, mi sembra proprio che Amore, bellissimo e buonissimo com'è, rechi anche agli altri bellezza e bontà. Quasi quasi mi vien da dire in versi quello che fa, per esempio così: pace agli uomini reca, calma sul mare tregua ai venti e, nel dolore, il sonno.   XIX 27  Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG http://www.esonet.org Egli ci libera dal timore di essere estranei a noi stessi, ci dà un senso di calda intimità, ci invita a partecipare a riunioni come questa, a feste, a danze, a sacrifici di cui diventa un po' l'auspice, assicura la benevolenza, allontana ogni rancore, largo in favori, incapace di malvagità, benigno, buono, esempio ai saggi, ammirato dagli dei, invidiato dagli infelici, posseduto dai fortunati, padre della Delizia, dell'Eleganza, del Fasto, della Grazia, del Desiderio, della Bramosia, sollecito verso i buoni, incurante dei malvagi, nelle fatiche, nelle paure, nelle passioni, nelle conversazioni, è guida, guerriero, compagno di lotta, salvezza provvidenziale, ornamento di tutti gli dei e di tutti gli uomini, duce meraviglioso e perfetto che ognuno deve seguire e celebrare con inni degni di lui, partecipando al suo canto col quale egli ammalia il cuore degli uomini e degli dei. Questo, Fedro, il mio discorso in omaggio al dio, svolto un po' celiando, un po' con ben dosata gravità, secondo le mie capacità.»   28  Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG http://www.esonet.org Quando Agatone ebbe finito di parlare, raccontò Aristodemo, ci fu uno scroscio di applausi da parte di tutti i presenti che riconobbero come il discorso del giovane fosse stato degno di lui e del dio. E, allora, Socrate volgendosi ad Eressimaco: «E così, figlio di Acumeno, ti sembra ancora fuori posto il mio timore di prima o non ho forse previsto giusto, poco fa, quando ho detto che Agatone avrebbe parlato benissimo e che io mi sarei trovato in un bell'imbarazzo?» «Per il primo punto,» rispose Eressimaco, «ti do anche ragione, cioè quando dici di aver previsto che Agatone avrebbe parlato bene, ma che tu, poi, ti trovi nell'imbarazzo questo proprio non lo credo.» «Ma come faccio a non esserlo, mio caro, e come me chiunque altro dovesse parlare dopo un discorso così bello e così interessante? Certo in qualche parte non è stato stupendo come nel resto, ma verso la fine chi non sarebbe rimasto sbalordito di fronte a tanta bellezza di vocaboli e di espressioni? Quasi quasi, pensando che non sarei mai stato capace di dire qualcosa che solo si avvicinasse a tanta bellezza, stavo per fuggirmene dalla vergogna. Perché il suo discorso m'ha fatto venire in mente Gorgia, tanto da farmi sentire nella stessa situazione di cui parla Omero, temevo proprio, cioè, che alla fine Agatone con il suo discorso, gettasse sul mio la testa di Gorgia, di quel formidabile oratore, togliendomi l'uso della favella e facendomi diventare di pietra. E ho capito, allora, di essere stato proprio un ingenuo quando ho accettato di celebrare, insieme a voi, Amore, dicendo che ero un, esperto su questo argomento, mentre invece, e me ne accorgo adesso, non sapevo un bel niente, persino come si fa un elogio qualunque. Da quell'ingenuo che sono credevo che nel fare l'elogio di chicchessia o di qualcosa si dovesse dire la verità e che questa era la cosa fondamentale; poi pensavo che bisognasse scegliere, tra le cose vere, le più belle e disporle nel modo migliore; ed ero tutto contento del fatto mio, sicurissimo che avrei fatto un figurone dato che conoscevo esattamente il modo di imbastire un elogio. E, invece, a quanto pare, non è così che si fa un bell'elogio: bisogna al contrario fare le lodi più sperticate e più belle, corrispondano o meno al vero: si vede che eravamo d'accordo di lodare Amore, così, per burla, non di farne l'elogio seriamente. Ed è per questo, credo, che voi tirate in ballo ogni sorta di argomenti e li affibbiate ad Amore e affermate che egli è questo e quello ed è la causa di un sacco di cose in modo che appaia bellissimo e perfettissimo ma, è chiaro, a chi non lo conosce, non a quelli che ne sanno qualcosa. Sfido io che, così, il bel panegirico è presto fatto. Ma io non conoscevo un simile sistema di far gli elogi e proprio per questo fui d'accordo con voi di pronunciarne uno anche io, seguendo il mio turno: la lingua lo promise, non il cervello. E, allora, statevi bene, perché io un elogio con questo sistema non ve lo faccio, è più forte di me. La verità, invece, se volete, eccomi qua, pronto a dirvela, a modo mio, senza far gare con nessuno perché non ho proprio voglia di farmi ridere dietro. Vedi tu, quindi, Fedro se è proprio necessario un discorso di questo genere e sentire come veramente stanno le cose, a proposito dell'Amore, con quei termini e con quello stile poi che lì per lì mi passeranno per la mente.» Ma Fedro e gli altri, mi riferì Aristodemo, lo invitarono a parlare come volesse. «E va bene, Fedro, però lasciami prima fare una piccola domanda ad Agatone, perché voglio mettermi un po'   XX 29  Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG http://www.esonet.org d'accordo con lui e poi parlerò.» «Ma figurati,» commentò Fedro, «fa pure.» E allora Socrate cominciò presso a poco così:   30  Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG http://www.esonet.org «Dunque, mio caro Agatone, m'è parso proprio buono l'inizio del tuo discorso quando hai detto che prima di tutto bisogna esporre quale sia la natura d'Amore e poi passare alle sue opere; un esordio che mi è proprio piaciuto. Ma ora, dato che hai così magnificamente parlato su tutto quel che riguarda la natura d'Amore, dimmi una cosa: Amore, è amore di qualche cosa o amore di nulla? Bada che non ti chiedo se amore per una madre o per un padre (sarebbe ridicolo chiedere se Amore sia amore verso la madre o il padre), ma come se ti chiedessi a proposito del padre: il padre è padre di qualcuno o no? tu, certo, mi risponderesti, se volessi darmi una risposta appropriata, che il padre deve essere necessariamente padre di un figlio o di una figlia, non ti pare?» «Ah, certamente,» ammise Agatone. «E la stessa cosa è per una madre?» Era d'accordo anche in questo. «E rispondimi ancora,» proseguì Socrate, «a una piccola cosa per capire meglio dove voglio arrivare: se ti chiedessi: e allora, un fratello, come tale, è fratello di qualcuno?» «Sicuro che lo è.» «Fratello di un fratello o di una sorella?» «D'accordo.» «Prova a dire la stessa cosa a proposito di Amore: Amore è amore di qualcosa o amore di nulla?» «Certo amore di qualcosa.» «Ebbene,» riprese Socrate, «questo tientelo per te bene a mente e dimmi, invece: Amore desidera o meno ciò di cui è amore?» «Certo,» rispose. «E quel che egli desidera e ama, l'ama e lo desidera perché lo possiede o proprio perché, invece, gli manca?» «Probabilmente perché non lo possiede,» rispose. «Sta attento,» insisté Socrate, «che non si tratta di probabilità, ma è necessariamente logico che si desidera quello che non si possiede; quando si ha una cosa, invece, non la si desidera affatto. Di qui non si scappa ed io ne sono assolutamente convinto, tu no, invece?» «Ah, anch'io lo sono,» fece. «Ben detto. Ed effettivamente uno che lo è già potrebbe desiderare di essere grande? E essere forte uno che è già tale?» «Dopo quel che s'è convenuto, è impossibile.» «Effettivamente, non può essere privo di queste qualità chi le ha già.» «È chiaro.» «Eppure,» osservò Socrate, «se uno che è forte, volesse esser forte o se è veloce, volesse essere veloce o, ancora, se è sano, volesse esser sano, dato che qualcuno potrebbe pensare, di fronte a un esempio simile o a casi del genere, che vi siano persone che pur possedendo tutte queste qualità, tuttavia le desiderano sempre (ti sto dicendo questo per non lasciarci trarre in inganno); ebbene, Agatone, se ci pensi, costoro che al momento posseggono queste qualità, è inevitabile che le abbiano, lo vogliano o meno, e se le posseggono già, come possono desiderarle? Ma se uno dicesse: ‹lo che son sano voglio essere sano o, pur essendo già ricco, voglio essere ricco e desidero questo che già posseggo,› gli potremmo rispondere: ‹Tu, caro mio, che hai già ricchezze, salute, forza, vuoi continuarle ad avere anche per l'avvenire, giacché, per il momento, tu voglia o non voglia, già le possiedi; pensa un po' se, quando dici che desideri le cose che hai, tu non voglia dire, invece, semplicemente, che desideri di possedere anche per l'avvenire quello che oggi già possiedi.› Credi che non sarebbe d'accordo?» E Aristodemo mi riferì che Agatone lo ammise. Socrate allora proseguì: «E desiderare che per l'avvenire ci siano preservate le cose che noi già possediamo oggi, non vuol forse dire amare quel che ancora non si possiede o di cui tuttora non si dispone?» «Certo,» ammise. «E quindi, se Tizio o Caio desiderano qualcosa, sarà sempre ciò di cui ancora non   XXI 31  Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG http://www.esonet.org dispongono, che ancora non hanno o quelli che essi stessi non sono o di cui si sentono privi; non è tutto qui il loro desiderio e il loro amore?» «Senza dubbio,» fece. «Bene, ricapitoliamo, allora, quanto s'è convenuto. Amore, prima di tutto è amore di qualcosa e, in secondo luogo, di ciò di cui si è privi?» «Sì, sempre.» «E adesso ricordati quello che hai detto poco fa, che cioè l'Amore tende a qualcosa. Se credi cercherò io di ricordartelo: se non sbaglio, tu hai detto, su per giù, che le questioni tra gli dei s'aggiustarono grazie all'Amore del bello e che per le cose brutte non c'è amore; non è questo che hai detto?» «Sì, questo,» ammise Agatone. «E l'hai detto molto opportunamente, mio caro,» riprese Socrate; «e se le cose stanno così, Amore, che altro è se non amore del bello e non del brutto?» «D'accordo.» «Ma non abbiam detto che si ama ciò di cui si è privi, ciò che non si ha?» «Sì,» fece. «Dunque, l'Amore, non ha la bellezza, ne è privo.» «Per forza.» «E allora? Chi è privo di bellezza, chi non ne ha, tu lo chiami bello?» «Affatto.» «Se le cose stanno così, tu sei sempre del parere che Amore sia bello?» «Temo proprio, Socrate, di non capir più niente di quel che ho detto,» esclamò Agatone. «Eppure hai parlato bene, Agatone,» incalzò Socrate. «Ma dimmi un'altra cosetta: quello che è buono, secondo te, non è anche bello?» «Per me sì.» «Se, dunque, Amore non ha la bellezza e se quello che è bello è anche buono, egli sarà anche privo di bontà.» «Io non sono in grado di contraddirti, Socrate e quindi sia pure come tu dici.» «È la verità, Agatone carissimo, e tu non puoi contestarla; Socrate, invece, sì, lo puoi contraddire e la cosa non è per niente difficile.»   32  Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG http://www.esonet.org «Ma sì, via, ora ti lascerò in pace. Vi racconterò, piuttosto, quello che sull'Amore, mi disse un giorno una donna di Mantinea, Diotima, molto dotta sull'argomento e su un'infinità di altre questioni. Figuratevi che una volta, con i sacrifici che fece fare agli ateniesi, prima della peste, riuscì a ritardare l'epidemia di dieci anni. Fu lei a erudirmi nelle questioni d'amore e quindi, partendo dalle conclusioni che Agatone ed io abbiamo tratto, cercherò di ripetervi, come posso, a parole mie, il discorso che ella mi fece. Ebbene, proprio come tu dicevi, Agatone, bisogna definire prima chi sia Amore, quale la sua natura e poi le sue opere. Ora io penso che la cosa più facile per me, sia quella di seguire lo stesso metodo che usò quella straniera quando discusse con me. Anch'io, infatti, le dicevo un po' le stesse cose che ora mi ha ripetuto Agatone, cioè che Amore è un grande dio, che è amore di cose belle ed ella cominciò a confutarmi con gli stessi argomenti, precisamente, che io ho usati ora con costui, cioè che Amore non è né bello (per usare le mie parole) né buono. Ed io: «Ma com'è che dici questo, Diotima? Allora Amore è brutto e malvagio?» «Ma che? Ora ti metti pure a bestemmiare?» fece lei. «Credi forse che ciò che non è bello debba necessariamente essere brutto?» «Sicuro, io sì.» «E credi anche che chi non è sapiente, sia ignorante? Ma non ti accorgi che c'è sempre una via di mezzo tra sapienza e ignoranza?» «E quale?» «Avere un'opinione giusta, ecco, ma senza poterne dare una spiegazione; non sai,» fece «che questo non è sapere (e come può esserlo se non se ne sa dare una spiegazione?), ma non è nemmeno ignoranza (e come, infatti, potrebbe se coglie nel vero?). Insomma, la retta opinione è qualcosa di simile, una via di mezzo tra la sapienza e l'ignoranza.» «È vero quello che dici,» ammisi io. «E quindi non insistere a credere che ciò che non è bello debba essere, a tutti i costi, brutto e ciò che non è buono, debba esser malvagio. E così anche a proposito di Amore, visto che anche tu sei d'accordo che non è buono né bello, non pensare che debba essere malvagio e brutto,» concluse, «ma qualcosa tra questi due estremi.» «Eppure,» obbiettai io, son tutti d'accordo che è un dio potente.» «Tutti chi?» ribatté lei, «quelli che non sanno o anche quelli che sanno?» «Tutti quanti.» «Ma come fanno, Socrate, a dirlo un gran dio,» fece lei, ridendo, «se affermano che non è nemmeno un dio?» «E chi sono questi?» «Uno, intanto, sei tu, l'altra sono io.» «Ma come fai a dir questo?» «Semplice. E tu, infatti, rispondimi: non affermi che gli dei son tutti beati e belli? avresti il coraggio di dire che qualcuno non è bello o non è beato?» «Santo cielo, io no,» risposi. «E beati, secondo te, non sono quelli che hanno bontà e bellezza?» «Sicuro.» «Ma non hai convenuto che Amore desidera le cose buone e belle, proprio perché ne è privo?» «Già, certo.» «E, allora, come può essere un dio chi non ha né bellezza né bontà?» «Ah, no, assolutamente.» «Vedi, dunque,» concluse, «che anche tu affermi che Amore non è un dio.»   XXII 33  Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG http://www.esonet.org «Ma, allora,» chiesi, «chi sarebbe Amore? Un essere mortale?» «Ma niente affatto.» «Ma allora?» «Come nel caso precedente, qualcosa di mezzo, tra, il mortale e l'immortale.» «E cioè, Diotima?» «Un demone possente, Socrate, che come tutti i demoni, sta tra il divino e l'umano.» «E qual è il suo potere?» chiesi. «Quello di interpretare e di recare agli dei le preghiere e i sacrifici degli uomini e, agli uomini, i comandamenti e i premi degli dei per i sacrifici compiuti; nel suo ruolo di intermediario, egli colma l'enorme distanza tra gli uni e gli altri, così l'universo risulta in se stesso collegato. Da lui procede tutta l'arte della divinazione, tutta la scienza sacerdotale, per quel che riguarda i sacrifici e le iniziazioni e poi gli incantesimi, ogni sorta di profezie e la magia. Dio non scende a contatto con l'uomo ma è attraverso i demoni che egli parla e ha rapporto con gli uomini, sia quando sono svegli, sia durante il sonno; e chi è sapiente in queste cose è un ispirato chi invece s'intende d'altro, esercita, per esempio, una diversa arte o un mestiere qualsiasi, non è che un manovale. Molti sono i demoni e di ogni specie. Amore ne è uno.» «E suo padre e sua madre,» chiesi, «chi sono?» «È, una cosa lunga,» fece, «ma te la racconterò ugualmente. Quando nacque Afrodite, gli dei si trovavano a banchetto e, tra gli altri, c'era anche Poro, il figlio di Metide. Avevano già finito di pranzare, quando giunse Penia, per elemosinare, dato che sontuoso era stato, il banchetto e se ne rimase sull'uscio. In quel mentre Poro, gonfio di nettare (il vino infatti non era ancora conosciuto), se ne uscì nel giardino di Giove e, mezzo ubriaco com'era, s'addormentò. Allora, Penia, sempre afflitta dalle sue angustie, pensò se non le fosse possibile avere un figlio da Poro e così gli si stese al fianco e restò incinta di Amore. Per questo Amore è compagno e ministro di Afrodite, perché fu concepito nel giorno della sua nascita ed è, nello stesso tempo, amante del bello perché bella è Afrodite. D'altro canto, per il fatto che Amore è figlio di Poro e di Penia, si trova in questa condizione. Anzitutto è sempre povero e tutt'altro che delicato e bello, come i più se lo figurano; anzi è grossolano, mezzo selvatico, sempre scalzo, vagabondo, dorme sempre per terra, allo scoperto, davanti agli usci e nelle strade, sotto il sereno, perché ha la natura della madre ed è tutt'uno con la miseria. Per parte del padre, invece, è fatto per insidiare ciò che è bello e buono, essendo di natura virile, audace, violento, gran cacciatore, sempre pronto a tramare inganni, amico del sapere, ricco di espedienti, tutta la vita dedito a filosofare, abilissimo imbroglione, esperto di veleni, sofista. Inoltre né immortale, né mortale, ma, in uno stesso giorno, sboccia rigoglioso alla vita e muore, poi torna a vivere grazie a mille espedienti e in virtù della natura paterna; sfumano tra le sue dita le ricchezze che si procura, così che Amore non è mai al verde e mai ricco. Inoltre è a mezzo tra sapienza e ignoranza. Ecco come: nessun dio s'occupa di filosofia, né ambisce a diventar sapiente (ché già lo è), né, del resto, chi è sapiente, si dedica alla filosofia; d'altra parte, nemmeno gli ignoranti si dedicano alla filosofia, né ambiscono a diventar sapienti; e questo è il brutto dell'ignoranza, che chi non è né bello, né buono, né saggio, crede, invece, di esserlo abbondantemente; naturalmente chi non si accorge di esser privo di qualcosa, non desidera quello di cui non sente il bisogno.» «Ma, allora,» feci io, «chi sono, Diotima, quelli che si dedicano alla filosofia, se non sono né i sapienti, né gli ignoranti?» «Ma è   XXIII 34  Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG http://www.esonet.org chiaro,» mi rispose, «anche un bambino lo capirebbe che son quelli che stanno in una posizione intermedia, tra, i primi e i secondi e, tra questi, c'è anche Amore. La sapienza, infatti, è tra le cose più belle e Amore ama le belle cose e, quindi, necessariamente, è anche filosofo e, come tale, sta fra il sapiente e l'ignorante. E la sua origine è un po' la causa di tutto questo: suo padre è sapiente e pieno di estro, ma sua madre, invece, non lo è affatto, è ignorante. Tale, Socrate, è la natura di questo demone. Come poi tu immaginavi che fosse, non c'è da meravigliarsi; per quel che ho potuto capire dalle tue parole, credevi che Amore fosse colui che si ama, non colui che ama. Ecco perché, io penso, ti sembrava così bello. Infatti, chi è amato è veramente bello, seducente, perfetto, degno di ogni felicità; colui che ama, invece, ha un altro aspetto, quale io ti ho descritto.»   35  Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG http://www.esonet.org Ed io: «E sia, straniera, tu parli bene, ma se tale è Amore, che utilità arreca agli uomini?» «È questo che ora cercherò di chiarirti, Socrate. Tale, dunque, è Amore e così è nato: Amore del bello, come tu dici. Se qualcuno, ora, domandasse: ‹In che senso, Socrate e Diotima, l'Amore è amore del bello› o più precisamente, ‹chi ama le cose belle, ama, ma ama che cosa?›» «Che diventino sue,» risposi. «Ma questa tua risposta,» mi precisò, «esige che si ponga un'altra domanda, di questo genere, per esempio: ‹Che cosa gliene viene a chi possiede le cose belle?›» Io risposi che, a una domanda simile, non sapevo sul momento che dire. «E immaginiamo, allora, incalzò, che uno al posto del bello mettesse il bene e che chiedesse: ‹Via, Socrate, chi ama il bene, ama, ma ama che cosa?›» «Che diventi suo,» risposi. «E che cosa gliene viene a chi possiede il bene?» «A questo,» dissi, «mi è più facile rispondere: sarà felice.» «E, infatti, concluse, è proprio per il possesso del bene che le persone felici sono tali e non è proprio il caso di star lì a chiedersi perché uno vuole essere felice. Mi pare che la domanda abbia già avuto la sua risposta definitiva.» «È vero quello che dici,» ammisi. «E allora, questo desiderio e questo amore, credi siano un po' comuni a tutti gli uomini e che tutti desiderano sempre possedere il bene o pensi diversamente?» «Sì, io credo proprio che siano comuni a tutti,» feci. «E, allora, Socrate,» continuò, «come mai non diciamo che tutti quanti gli uomini amano dato che tutti desiderano sempre le stesse cose, ma diciamo, invece, che solo alcuni amano ed altri no?» «Anch'io me ne meraviglio,» ammisi. «E non devi stupirtene,» riprese, «siamo noi, infatti, che prendiamo, dell'amore, soltanto un aspetto e a questo solo diamo il nome generico di ‹amore›, mentre per il resto usiamo altri appellativi.» «Cioè,» chiesi. «Ecco, tu sai che la poesia è creazione ed ha un significato quanto mai vasto; tutto ciò, infatti per cui qualcosa passa dal non essere all'essere, è poesia e, quindi, ogni attività creativa è poesia e tutti i creatori sono poeti.» «È vero.» «Ma intanto,» continuò lei, «sai che non tutti sono chiamati poeti, ma con altri nomi; di tutte le attività creative, solo alcune e precisamente quelle che si occupano della musica e della metrica, noi chiamiamo poesia; solo questa è poesia e poeti, solo quelli che si dedicano a questo particolare aspetto della poesia.» «È vero,» ammisi. «E così è anche per l'amore. In genere ogni desiderio di bene e di felicità è, per ognuno, ‹possente e ingannevole amore›, ma mentre quelli che cercano di realizzarlo per altre vie, come per esempio attraverso i guadagni o l'educazione fisica o la filosofia, noi non diciamo che amano né che sono amanti, gli altri, invece, quelli che seguono e preferiscono un particolare tipo d'amore, ne prendono anche il nome generico: amore, amare, amanti.» «Sembra proprio che tu abbia ragione,» confermai. «Eppure va in giro un certo discorso secondo il quale gli amanti sono quelli che cercano la loro metà. La mia opinione, invece, è che non esiste amore né per la metà, né per l'intero, a meno che, mio caro, non si tratti di un bene; perché gli uomini si lascerebbero tagliare volentieri e mani e piedi se li credessero dannosi per loro, perché io credo che nessuno ami le cose proprie a meno che ciò che ci appartiene non sia il bene e ciò che ci è estraneo, invece, il male; infatti, gli uomini non amano altro che il bene. Non pare anche a te?» «Per Giove, a me sì,» ammisi. «E, dunque, possiamo senz'altro affermare che gli uomini amano il bene?» «Sì,» confermai. «Ebbene,   XXIV 36  Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG http://www.esonet.org non bisogna aggiungere che essi, questo bene, desiderano anche possederlo?» «Sicuro.» «E non solo possederlo per un momento, ma per sempre?» «Sicuro, anche questo bisogna aggiungere,» feci. «Per concludere, l'amore è possesso perenne del bene.» «È verissimo quello che dici,» feci.   37  Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG http://www.esonet.org «Ora, se questo è l'amore,» proseguì, «quando è che la sollecitudine e lo sforzo di quelli che, in ogni modo e in ogni azione, lo perseguono, può chiamarsi, appunto, amore? Quand'è, insomma, che questo succede? Sai rispondere?» «Se lo sapessi, Diotima, non sarei così pieno di meraviglia per la tua sapienza, né sarei venuto da te per imparar tutto questo.» «E, allora, te lo dirò io: quando si concepisce nel bello, sia da parte del corpo che da parte dello spirito.» «Bisognerebbe essere indovini,» azzardai io, «per capire quello che dici ed io, proprio non lo sono.» «Mi spiegherò più chiaramente,» fece. «Tutti gli uomini, Socrate, hanno in loro, nel corpo come nell'anima, un seme fecondo e quando giungono a una certa età, come per un bisogno naturale, desiderano produrre qualcosa; concepire nel brutto, però, non è possibile, nel bello, invece, sì. Così l'unione dell'uomo con la donna è procreazione ed è veramente quest'atto una cosa divina, questo concepire e generare è veramente ciò che di immortale ha la creatura che pure ha vita mortale. Ma tutto ciò non può avvenire nella disarmonia; e disarmonia, rispetto a tutto ciò che è divino, è il brutto, come il bello è armonia. Quindi la bellezza fa da Parca e da Ilitia al miracolo della vita. Per questo, quando chi ha dentro di sé un seme fecondo, si avvicina al bello, diventa sereno, atteggia a letizia l'animo suo e allora crea, produce; quando, invece, s'accosta al brutto, allora, s'incupisce, si chiude in se stesso tutto afflitto, si ritrae, si ravvolge e non genera ma resta col suo seme fecondo e ne soffre. Di qui, nella creatura feconda e già ricca, sorge un intenso desiderio per tutto ciò che è bello perché il bello soltanto libera chi lo possiede da atroci doglie. Infatti, Socrate,» concluse, «Amore non è amore del bello, come tu credi.» «Ma, allora, cos'è?» «produrre e creare nel bello.» «E sia,» ammisi. «Sicuro,» confermò lei. «E perché questo generare? Perché generare è quanto di sempre rinascente e immortale vi possa essere in una creatura mortale. E l'immortalità è naturale che si desideri come il bene, almeno da quel che abbiamo convenuto se è vero che amore è possesso perenne del bene; ne consegue, inoltre, da tutto questo discorso che l'amore è amore di immortalità.»   XXV 38  Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG http://www.esonet.org Queste cose ella mi insegnava, quando indugiava a parlarmi di questioni d'amore e, un giorno, mi chiese: «Quale pensi, Socrate, sia la causa di tutto questo amore, questo desiderio? Non vedi in che terribile stato son tutti gli animali, sia quelli che camminano sulla terra che quelli che volano nel cielo, quando son presi dal desiderio di generare, malati tutti d'amore, prima per il desiderio d'accoppiarsi tra loro, poi per la cura e per l'allevamento dei loro nati, e son pronti a combattere per essi, perfino i più deboli contro i più forti e a dare la vita oppure a lasciarsi morire di fame per nutrirli e a far qualunque altra cosa. Gli uomini, si può dire, che facciano tutto questo perché dotati di ragione ma, negli animali, donde proviene questa disposizione all'amore? Sai dirmelo?» E io ancora ad ammettere di non saperlo. «E credi,» continuò ella, «allora di diventare un esperto nelle questioni d'amore se non sai nemmeno questo?» «Ma proprio per questo, Diotima, come t'ho già detto, io son qui, perché so che ho bisogno di maestri. Dimmela tu, dunque, la causa di queste cose e di tutto ciò che riguarda l'amore.» «Orbene, se tu sei convinto che l'amore, per natura, tende a ciò su cui più volte s'è discusso, non devi meravigliarti; anche ora vale il discorso di prima che cioè la natura mortale tende, sempre, per quanto le sia concesso, di essere immortale. E le è possibile in un modo soltanto, attraverso la procreazione, per cui essa lascia sempre un essere nuovo al posto del vecchio, il che succede anche nella vita di ogni creatura, quando si dice che resta sempre la stessa; si dice, per esempio, che uno è sempre la stessa persona, da quando è bambino fino a che è vecchio; in effetti, si dirà che è sempre lo stesso individuo, benché in lui molte cose si mutino; ma si rinnova continuamente, perdendo sempre qualcosa, nei capelli, nelle sue ossa, nel suo sangue, insomma in tutto il suo corpo. E non solo nel corpo, ma anche nell'animo: sentimenti, abitudini, modo di pensare, desideri, piaceri, dolori, timori, ognuna di queste cose non resta sempre la stessa in un individuo, ma si rinnova e poi muore. Ma quel che è ancora più straordinario è che anche le nostre cognizioni non solo nascono e periscono e quindi noi non siamo sempre gli stessi nemmeno per quel che riguarda il nostro sapere, ma ciascuna, presa in se stessa, segue, anch'essa sempre la stessa sorte. Infatti quel che si dice esercitarsi nello studio presuppone che qualche cognizione possa sfuggire; dimenticare, infatti, vuol dir perdita di cognizioni, l'esercizio nello studio, invece, suscita un nuovo ricordo al posto di quel che s'è perduto e salva il sapere in modo che esso appaia sempre eguale. Del resto è in questo modo che si perpetua tutto ciò che è mortale, non col rimanere sempre e immutabilmente se stesso, come ciò che è divino, ma lasciando - ciò che invecchia e vien meno - qualcosa di nuovo al suo posto in tutto simile ad esso. Ecco, Socrate,» concluse, «in che modo tutto ciò che è mortale, sia esso corpo od altro, ha la possibilità di partecipare dell'immortalità; diversamente non c'è altro mezzo. Non stupirti, quindi, se ogni creatura, per legge naturale, cura e protegge il suo seme, perché in tutti, questo zelo e questo amore nascono dal desiderio dell'immortalità.»   XXVI 39  Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG http://www.esonet.org Ed io sentendola parlare così, tutto stupito, le chiesi: «Ma sapientissima Diotima, sono proprio vere queste cose?» Ed ella con un fare tipicamente cattedratico: «Persuaditi pure, Socrate, che è proprio così; basta che tu faccia caso al desiderio di onori che hanno gli uomini; se tu non riflettessi a quel che ho detto, ti meraviglieresti della loro follia, considerando quanto grande è il loro desiderio di diventar famosi e acquistar gloria immortale per l'eternità e come per questo siano disposti a correre tutti i rischi, più che per i loro figli e sperperare ricchezze, sopportare fatiche, sacrificare perfino la loro vita. Credi proprio che Alcesti sarebbe morta per Admeto o Achille per Patroclo o il vostro Codro per conservare il regno ai figli, se essi non avessero creduto che sarebbe rimasta immortale la loro memoria, quale oggi noi la serbiamo? Assolutamente,» disse. «Invece, credo che ognuno faccia di tutto per ottenere merito imperituro le fama gloriosa (e questo quanto più si è migliori) affascinato com'è dall'immortalità. E così quelli che han fecondo il corpo si volgono essenzialmente alle donne e il loro modo d'amore si risolve nel generare figli e così procurarsi secondo loro, immortalità, memoria e felicità per tutto il tempo a venire. Quelli, invece, che han feconda l'anima (e ve ne sono fecondi spiritualmente più di quanto non lo siano nel corpo), di una fecondità, beninteso che si addice all'anima, ma quale? la saggezza e ogni altra specie di virtù,» diceva, «di cui tutti i poeti sono gli artefici, insieme a quegli artigiani che hanno il nome di inventori; la più alta e più bella forma di saggezza è quella relativa all'ordinamento dello Stato e di ogni organismo sociale, quella che prende il nome di prudenza e di giustizia. Dunque, quando uno di quelli, quasi esseri divini, fin da giovane, ha l'animo fecondo di tali cose e quando, giunto all'età giusta, desidera creare e produrre, io credo che anche lui vada alla ricerca del bello in cui generare; perché nel brutto non lo farà mai. Quindi, fecondo com'è, sentirà maggiore attrazione per le belle sembianze che per le brutte, figuriamoci poi se, in più, incontra un'anima bella e gentile; quando si rallegra di questo felice connubio, accanto a una simile creatura egli sentirà tutto un fervore di ammaestramenti sulla virtù e sul come un uomo per bene debba comportarsi, iniziando, così, la sua opera di educatore. Infatti, penso che a contatto con una bella creatura, convivendole accanto, egli esprima e dia alla luce ciò che da tempo custodiva dentro e, o che le stia vicino o che le stia lontano, sempre la porta alla memoria e nutre, insieme con lei, ciò che è nato dalla loro unione; e tra loro nasce un'intimità, un legame molto più profondo di quello che lega i genitori ai figli, un affetto più intenso dato che hanno in comune figlioli più belli e immortali. Ognuno preferirebbe figli simili piuttosto che creature umane e guardando a Omero o a Esiodo o agli altri grandi poeti non può non provare invidia pensando quale progenie, immortale essa stessa, essi hanno lasciato, che ha loro assicurato memoria e gloria eterna o, se tu vuoi, diceva, figli come quelli che Licurgo lasciò a Sparta, a salvezza di Sparta o meglio ancora di tutta la Grecia; così presso di voi è onorato Solone per avervi dato le leggi e così altrove, altri grandi uomini, sia in   XXVII 40  Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG http://www.esonet.org Grecia che nei paesi stranieri, che hanno compiuto molte e belle opere, realizzando ogni sorta di virtù. Per questi loro fieli sono già stati tributati ad essi molti onori, il che mai nessuno s'ebbe per quelli di carne e di ossa.»   41  Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG http://www.esonet.org «Ebbene, Socrate, io penso,» continuò, «che anche tu potresti essere iniziato alle cose d'Amore, ma fin qui; a un grado più alto, a quello contemplativo, cui si giunge appunto passando attraverso questi stadi, sempre che si proceda sulla via giusta, non credo tu sia adatto. Tuttavia te ne parlerò egualmente e farò del mio meglio,» disse; «tu cerca, intanto, di seguirmi come puoi. Dunque,» incominciò a dire, «è necessario, prima di tutto che chi vuol tendere a questo fine, debba, fin da giovane, avvicinarsi alla bellezza fisica e, sin dall'inizio, se chi lo guida lo dirige bene, amare una sola persona e ad essa rivolgere i migliori discorsi; successivamente dovrà pur rendersi conto che la bellezza che alberga nel corpo di una persona, è sorella di quella che può esservi in ogni altra e che quindi se bisogna ricercare quella bellezza che è insita nelle forme visibili, sarebbe sciocco pensare che essa non sia identica e uguale per tutti i corpi; convinto di questo deve, allora, sentire trasporto per tutti quelli che hanno belle sembianze e frenare un po' la sua passione nei riguardi di una sola persona, riconoscendo come ciò sia meschino e mediocre. Ma, infine, deve ben comprendere che la bellezza spirituale ha pregi assai maggiori di quella fisica, di modo che se dovesse incontrare una creatura dall'anima bella ma dal corpo non florido, se ne contenti egualmente ed ugualmente se ne innamori e le mostri sollecitudine e sia l'autore di discorsi tali che rendano migliori i giovani, per cogliere poi, da qui, la bellezza che è nelle azioni e nelle istituzioni umane e comprendere come essa sia, ovunque, sempre se stessa e persuadersi come la bellezza fisica sia ben piccola cosa. Dopo le attività umane, si rivolga alla scienza per conoscerne la bellezza e ammirarne l'ampio dominio sul quale ormai ella si spande: così non sarà più come uno schiavo, preso d'amore per un sol giovinetto o per un solo uomo o per una sola attività, non sarà più succube inetto e meschino ma, rivolto allo sterminato oceano della bellezza e contemplandolo, potrà dar vita a molti e bei discorsi, a splendidi pensieri concepiti nell'amore infinito per la sapienza finché egli stesso, rinvigorito e arricchito, non riuscirà a scorgere che una scienza unica che ha per oggetto la stessa bellezza. Ma cerca, ora,» continuò, «più che puoi, di farmi attenzione.   XXVIII 42  Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG http://www.esonet.org «Chi è stato, via via, guidato fin qui nelle questioni d'amore attraverso la contemplazione delle cose belle, quando sarà giunto al termine di questa iniziazione, scorgerà, Socrate, a un tratto, una meravigliosa bellezza, quella stessa che era un po' la ragione di ogni sua precedente fatica, una bellezza, anzitutto, eterna, che non ha origine né fine, che non cresce né si consuma e, inoltre, che non è per un verso bella e per un altro brutta o che a volte sì e a volte no, né bella da un punto di vista e brutta da un altro, né bella qui e brutta là, come se lo fosse per alcuni e per altri no, né, questa bellezza, gli apparirà con un volto o con due mani, né come qualcosa che possa riferirsi ad alcunché di corporeo e nemmeno come discorso o come dottrina, né come quella che possa esistere in qualche altra cosa, in altri esseri viventi, per esempio, o nella terra o nell'aria o altrove, ma quale essa è, in sé e per sé, sempre uniforme e mentre tutte le altre cose belle che di quella partecipano, nascono e periscono, essa non ha alterazione di sorta, in più o in meno, non subisce mutamento. E così, quando sollevandosi dalle cose terrene, in virtù anche dell'amore che si porta ai giovinetti, uno comincia a scorgere questa bellezza, allora potrà dire di essere vicino alla meta. Infatti questo è il retto cammino per procedere da soli o insieme a una guida verso le questioni d'amore, cominciare, cioè, dalle cose belle di quaggiù e, avendo come fine ultimo questa bellezza, innalzarsi continuamente, come su una scala, da uno a due, da due fino a tutti i bei corpi e da questi alle belle occupazioni e poi alle belle scienze, finché non si giunga a quella scienza che di null'altro è scienza che della stessa bellezza e finché non si conosca, giungendo, così, alla meta, il Bello in sé. Questo, caro Socrate,» diceva la straniera di Mantinea, «è il momento della vita che più di ogni altro, per un uomo, val la pena di vivere: quando giunge alla contemplazione della Bellezza in sé. Se una volta sola tu riuscirai a vederla, oh, ti sembrerà assai più preziosa dell'oro o di una veste o degli stessi bei fanciulli e giovinetti che ora guardi non senza un palpito e per i quali, tu e molti altri, se fosse possibile, rimarreste anche senza mangiare e senza bere, pur di poterveli sempre contemplare e stare in loro compagnia. Cosa succederebbe allora,» continuava a dire, «se uno riuscisse a vedere la Bellezza in sé, in tutta la sua adamantina purezza e non già quella offuscata dalla carne, dai colori, da tutte le altre vanità terrene, se gli riuscisse, insomma, di scoprire la Bellezza in sé, divina e uniforme? Credi forse che sarebbe miserabile la vita di quest'uomo che fissasse quel punto, lassù e lo contemplasse come va contemplato, congiunto con esso? Ed è soltanto in quel punto,» continuava, «contemplando la bellezza con quella facoltà che la rende visibile, che egli potrà dar vita non a parvenze di virtù, dato che non è a una falsa immagine di bellezza che egli si è accostato, ma a una virtù vera, per il fatto che egli è nella verità; non pensi, del resto, che avendo dato vita alla virtù vera e avendola continuamente alimentata, costui potrà diventare caro agli dei ed essere anch'egli immortale, se mai altro uomo lo è stato?» Queste cose, Fedro e anche tutti voi, Diotima mi ha detto ed io ne sono rimasto persuaso e come tale, quindi, cerco ora di persuadere gli altri che per il conseguimento di tanto bene, non è facile che l'uomo trovi chi possa meglio soccorrerlo dell'Amore. Per questo io affermo che ogni uomo deve onorare Amore, come io stesso faccio,   XXIX 43  Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG http://www.esonet.org esercitandomi nelle sue discipline ed esorto gli altri a fare altrettanto ed ora e sempre esalto la potenza e la forza d'Amore, nel modo che ne sono capace. Ed ora, Fedro, questo discorso giudicalo, se credi, come un elogio d'Amore, altrimenti definiscilo pure come meglio ti piace.»   44  Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG http://www.esonet.org Quando Socrate ebbe concluso, continuò a riferirmi Aristodemo, e mentre tutti ne elogiavano il discorso, Aristofane stava per intervenire, perché Socrate aveva a un certo punto, fatto un'allusione sul suo conto a proposito di una certa teoria. Ma ecco che, a un tratto, si sentì picchiare alla porta dell'atrio e, poi, un gran vociare, come di gente allegra e la voce di una suonatrice di flauto. «E, allora, ragazzi, non correte a vedere?» esclamò Agatone ai servi; «se è gente di casa, fatela pure entrare, altrimenti dite che abbiam già finito di bere e stiamo riposando.» Dopo un po' si udi nell'atrio la voce di Alcibiade, ubriaco fradicio, che urlava a squarciagola chiedendo dove fosse Agatone e che lo conducessero da lui. Egli, infatti, comparve sulla soglia, sostenuto dalla suonatrice di flauto e da alcuni della compagnia e s'avanzò verso i convitati, incoronato da una folta ghirlanda di edera e di viole e con la testa piena di nastri. «Salve, amici,» esclamò, «lo volete con voi, a bere, un uomo già completamente ubriaco? Oppure possiamo soltanto mettere questa corona in testa ad Agatone, dato che siamo venuti per questo e poi filarcela subito? Ieri non mi è stato possibile venire e così eccomi qua ora, con questi nastri in testa, per passarli su quella di uno che, senza offesa per nessuno, è il più sapiente e il più bello di tutti. Ma voi ridete perché sono ubriaco? E ridete pure, tanto lo so; ma, piuttosto, ditemi, posso o non posso entrare? Berrete con me, o no?» Tutti allora si misero ad applaudirlo e gli dissero di entrare e di prender posto in mezzo a loro. Anche Agatone lo invita ed egli si fa avanti sorretto dai suoi amici e, togliendosi dal capo i nastri, fa le mosse di incoronarlo senza accorgersi che Socrate era proprio lì, sotto i suoi occhi, al punto che, quando egli si pose a sedere in mezzo a loro, questi dovette scostarsi per fargli posto. Non appena si fu accomodato, cominciò ad abbracciare Agatone e a cingerlo di ghirlande. «Ragazzi,» veniva, intanto, dicendo Agatone, «slacciate i sandali ad Alcibiade, ché si metta comodo e sia terzo tra noi due.» «Benissimo,» approvò Alcibiade, «ma chi è questo terzo?» e così dicendo si volse e vide Socrate; a quella vista fece un balzo: «Santi numi,» esclamò, «ma chi è questo? Proprio Socrate? Ti sei messo qui per giocarmi ancora qualche tiro e mi compari davanti, al tuo solito, quando meno me l'aspetto. Che sei venuto a fare? E perché ti sei messo qui e non vicino ad Aristofane o a qualche altro che voglia fare lo spiritoso? Ma tanto hai fatto che ti sei piazzato vicino al più bello.» E Socrate: «Vedi un po' di difendermi tu, Agatone, perché l'affetto di quest'uomo mi sta dando non pochi fastidi. Da quando, infatti, mi sono legato a lui, non posso più guardare una persona di bello aspetto, né stare un po' a conversare con nessuno perché, geloso e invidioso com'è, mi salta su e me ne dice un sacco e poco ci manca che non mi metta le mani addosso. Sta attento, quindi, che anche ora non me ne faccia una delle sue e cerca di mettere un po' di pace tra noi e difendimi, se egli vuol farmi ancora qualche sfuriata, perché comincio proprio ad aver paura delle sue manie e del suo temperamento eccessivo.» «Niente affatto,» gridò Alcibiade, «fra te e me, nessuna pace e di quello che hai detto faremo i conti dopo. Ora tu, Agatone,» riprese, «dammi un po' di questi nastri, ché incoroni anche lui, questa testa meravigliosa, in modo che non s'abbia poi a lagnare che ho cinto te di ghirlande e lui niente, lui che nel parlare vince tutti e sempre, non una volta sola, come te, ieri.»   XXX 45  Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG http://www.esonet.org E così dicendo prese dei nastri e incoronò Socrate, mettendosi, poi, comodo.   46  Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG http://www.esonet.org «E allora signori,» esclamò quando si fu messo a suo agio, «mi sa che qui volete fare gli astemi; non ve lo posso permettere; bisogna, invece, bere, così eravamo d'accordo. Fino a quando non avremo preso l'avvio, i brindisi li dirigo io. Avanti, Agatone, fa portare una bella coppa, di quelle grandi, anzi, anzi, non ce n'è bisogno; invece, ragazzo, dà qui quel vaso per tener il vino in fresco.» Ne aveva, infatti, intravisto uno che conteneva più di otto quartini abbondanti. Dopo esserselo riempito, se lo scolò per primo; poi disse di riempirlo per Socrate, soggiungendo: «Amici belli, con Socrate, però, non c'è niente da fare: più gli se ne versa e più ne beve e non c'è caso che si ubriachi.» Infatti, appena il servo versò, Socrate prese a bere. Ma Eressimaco, intervenendo. «Ma così che facciamo, Alcibiade? Vogliamo proprio starcene coi bicchieri in mano, senza dire una parola, senza cantare un po', vogliamo proprio darci sotto come tanti assetati?» «Salve, mio caro Eressimaco,» esclamò allora Alcibiade, «ottimo figlio di ottimo e assennatissimo padre.» «Salute anche a te,» rispose Eressimaco, «e, allora, che facciamo?» «Ai tuoi ordini, siamo qui per obbedirti: poiché un medico regge da solo il confronto con molti. Perciò, comanda quello che vuoi.» «Stammi a sentire, allora,» fece Eressimaco; «prima che tu venissi si era stabilito che ognuno di noi, partendo da destra, facesse un discorso in lode di Amore, come meglio ne fosse capace. Noi abbiamo già tutti quanti parlato, tu, invece, no e dato che hai bevuto, è giusto che ora tocchi a te; dopo, potrai proporre a Socrate quello che vorrai e lui, a sua volta, passerà l'invito al compagno che è alla sua destra e così gli altri.» «Oh, un'ottima idea la tua, Eressimaco,» fece Alcibiade, «solo che non puoi mettere a confronto il discorso di un ubriaco con quello di gente che s'è mantenuta sobria; e poi, mio caro, tu ci credi a quello che Socrate ha detto un momento fa? Non lo sai che è invece, tutto il contrario? Questo qui, se io mi metto in sua presenza a fare le lodi di qualcuno, uomo o dio che sia, solo per il fatto che non si tratta di lui, mica me le risparmia le legnate.» «Ma la vuoi piantare?» fece Socrate. «Per mille tempeste,» rimbeccò Alcibiade, «è inutile che protesti; in tua presenza io non posso lodare nessun altro.» «E allora, fa così,» intervenne Eressimaco; «se vuoi, loda Socrate.» «Come dici?» fece Alcibiade. «Vuoi proprio, Eressimaco, che io me la pigli con questo tipo e mi vendichi davanti a voi?» «Ma che ti salta in testa,» intervenne Socrate, «di prendermi in giro con la scusa dell'elogio? Ma che intenzioni hai?» «Dirò la verità e tu vedi se ti garba.» «Allora, sicuro, la verità te la concedo, anzi voglio che tu la dica.» «Eccomi subito a te,» fece Alcibiade, «e tu, intanto fa una cosa: se io non dico il vero, interrompimi se vuoi e dì pure che sto mentendo, per quanto io, di bugie, non ho intenzioni di dirne. Se, poi, nel riferire i fatti, io non andrò per ordine, non meravigliarti, perché non è certo facile, nello stato in cui sono, fare l'elenco ordinato e completo di tutte le tue stranezze.»   XXXI 47  Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG http://www.esonet.org «Ebbene, signori, io, Socrate comincerò a lodarlo così, per immagini. Lui, crederà che io voglia continuar nello scherzo e invece, le immagini mi serviranno per precisare la verità, non per scherzare. Comincio col dire, infatti, che egli somiglia a quei sileni che si vedono nelle botteghe degli scultori, che hanno in mano zampogne e flauti, fatti in modo che, aprendosi a metà, mostrano, all'interno, immagini di divinità; e soggiungo anche che somiglia al satiro Marsia. Eh, sì, Socrate, ci somigli proprio, almeno nell'aspetto, tu stesso non puoi negarlo; e sta a sentire come poi ci somigli anche nel resto. Non sei forse petulante, e ti posso portare i testimoni se non vuoi ammetterlo. E non sei un suonatore di flauto? E come assai più portentoso di Marsia. Lui aveva bisogno dello strumento per incantare gli uomini a forza di fiato e così, anche oggi, deve fare lo stesso chi vuol suonare le sue melodie; (quelle che suonava Olimpo, infatti, erano di Marsia, che gliele aveva insegnate). Insomma le sue melodie, sia che le suoni un flautista di vaglia o una suonatrice di mezza tacca, sono le sole a commuoverci, a farci quasi sentire il desiderio di dio, divine come sono e di iniziarci ai suoi misteri. Tu soltanto in questo gli sei diverso, che senza strumento, con le sole parole, ottieni lo stesso risultato. Infatti noi, quando ascoltiamo qualcuno che parla, fosse pure il più bravo oratore di questo mondo, di quello che dice, non ce ne importa niente, per così dire, proprio niente di niente; quando invece ascoltiamo te, o anche soltanto un altro che riferisce i tuoi discorsi, fosse pure un buono a nulla, quanti ne siano, uomini, donne o giovani, restiamo tutti sbalorditi e affascinati. Quanto a me, signori, se non temessi di passare completamente per ubriaco, vi direi, dietro giuramento, quello che ho provato e provo ancora quando questo qui comincia a parlare. Quando lo sto a sentire, il cuore mi si mette a battere forte, peggio di quello dei Coribanti, alle sue parole mi vengono giù le lacrime e vedo tutti gli altri, ma tutti, quanti ne sono, che provano la stessa impressione. Quando invece sentivo parlare Pericle o altri bravi oratori, mi rendevo conto che anch'essi parlavano bene, eppure non provavo niente di simile, non mi sentivo l'anima in tumulto, né turbata al pensiero di essere una ben povera cosa. Ma per costui, invece, per questo Marsia qui, quante volte mi son sentito come se non mi fosse più possibile vivere come vivevo. E non dirai mica, Socrate, che tutto questo non sia vero? Ed io sono convinto che anche adesso, se decidessi di ascoltarlo, non riuscirei a resistere e proverei le stesse emozioni. Egli, inevitabilmente, mi farebbe persuaso delle mie molte deficienze e che, perciò, invece, di badare un po' a me stesso, m'intrigo dei fatti degli Ateniesi. E così, mio malgrado, io mi tappo le orecchie, come se fossi in mezzo alle sirene e scappo via perché non voglio mica invecchiare vicino a lui. Soltanto davanti a quest'uomo io ho provato una cosa che nessuno mi sospetterebbe: quella di vergognarmi. Davanti a lui solo, io mi vergogno, perché riconosco che non ho la forza di contraddirlo, di oppormi a quello che mi dice di fare, ma poi, appena mi allontano da lui, ecco che mi lascio nuovamente prendere dal favore popolare; così lo evito e lo fuggo e quando lo vedo, solo a pensare a tutte le cose di cui mi ha convinto, arrossisco dalla vergogna. Tante volte mi farebbe addirittura piacere che non fosse più a questo mondo, anche se poi, so benissimo   XXXII 48  Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG http://www.esonet.org che questo mi addolorerebbe assai di più e così, con un uomo simile, non so proprio come fare.   49  Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG http://www.esonet.org «E così, questi sono gli effetti che io e tanti altri proviamo per le melodie che questo satiro sa tirar fuori dal suo flauto. Ma state ancora a sentire come egli somiglia anche nel resto a quelli cui l'ho paragonato, e quale straordinario potere egli ha. Mettetevelo bene in testa, costui nessuno lo conosce: ma ve lo farò conoscere io, dato che mi ci trovo. Guardatelo qui, Socrate, pronto sempre a innamorarsi dei bei giovanotti, a corteggiarli, a perdere addirittura la testa; mica poi che capisca qualcosa, non sa proprio niente, almeno dall'apparenza. E questo non significa essere un sileno? Altro che: lo stesso aspetto esterno di una di quelle statuette di sileni; ma dentro, se lo aprite, ve la immaginate, commensali miei, la saggezza che ha? E poi, dovete sapere che a lui, non gliene importa niente se uno è bello, anzi lo tiene in così poco conto, che non ne avete l'idea; e se uno è ricco e ha tutto quello che, secondo la gente fa beato un uomo, egli dice che tutto questo non vale un bel niente, anzi che noi stessi siamo addirittura delle nullità, questo ve l'assicuro io. E per giunta passa la vita, poi, a fare il finto tonto e a pigliarsi un po' gioco di tutti. Se poi fa sul serio, però e si lascia veder dentro, non so se l'avete mai viste le bellezze che ha. Io però le ho viste, una volta, e mi son sembrate così divine, così preziose, stupende e straordinarie, che mi sentii soggiogato e pronto a fare tutto ciò che Socrate avesse voluto. Credendo che egli s'interessasse alla mia bellezza, pensai che era proprio un'occasione e una bella fortuna la mia se, cedendogli i miei favori, avessi potuto apprendere da lui tutte le cose che sapeva: io infatti andavo tutto superbo della mia bellezza. Con queste intenzioni, allora, io che prima non ero solito restarmene da solo con lui, senza la compagnia di un servo, un bel giorno congedai il mio schiavo e rimasi solo con lui. Bisogna che ve la dica tutta la verità e voi fate attenzione e se dico bugie, Socrate, smentiscimi pure. E così me ne rimasi solo soletto con lui ed io credevo che egli avrebbe subito attaccato con quei discorsi che di solito un innamorato fa al suo ragazzino, quando si trovano a tu per tu ed ero tutto contento. Invece, niente da fare ma, come al solito, parlò con me e giunta la sera, se ne andò. Vedendo questo, lo invitai, allora, a far ginnastica insieme a me, cominciai a esercitarmi con lui e speravo di concludere qualcosa. Anche lui, in verità, faceva i suoi bravi esercizi con me e lottavamo insieme, spesso senza che nessuno fosse presente. Ebbene, ve lo devo dire? Non ne cavai un bel niente. E quindi, visto che in questo modo non combinavo nulla, pensai che con un uomo simile bisognasse adoperare le maniere forti, altro che lasciar perdere, dato poi che mi ci ero messo, e vedere un po' come andava a finire la faccenda. E così lo invita a cena, addirittura come fa uno spasimante quando vuol far cascare la persona amata. Macché, mica accettò subito; tuttavia, dopo qualche tempo, si convinse. La prima volta che venne, però, volle andarsene subito, appena mangiato; quella volta io mi vergognai un po' e lo lasciai andare. La volta appresso, però, gli tesi il laccio e dopo che finimmo di mangiare, gli impiantai una discussione che si protrasse fino a tarda notte e così, quando fece le mosse di congedarsi, io gli dissi che ormai s'era fatto tardi e quindi lo convinsi a fermarsi. Così egli si mise a riposare in un letto accanto al mio, lì dove aveva cenato: nella sala, nessun altro avrebbe dormito tranne noi due. Fin qui niente di male nel mio racconto e anzi potrei continuare a parlare di fronte a tutti ma, a questo   XXXIII 50  Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG http://www.esonet.org punto, io non vi darei più nulla se, anzitutto, nel vino, come dice il detto (aggiungeteci pure i bambini o meno) non vi fosse la verità e poi perché mi sembrerebbe proprio una cosa ingiusta, dal momento che sto facendo l'elogio di Socrate, passare sotto silenzio il suo nobilissimo comportamento. Oltre a questo, ancora, io mi sento come uno che è stato morso da una vipera che, a quel che si dice, non vuol raccontarlo a nessuno, tranne a quelli che sono stati anch'essi morsi, ai soli, cioè, che potrebbero comprendere e compatire i suoi gesti e tutte le frasi che si dicono sotto l'influsso del dolore. Ed io che sono stato punto dal morso più doloroso e nella parte che più duole... al cuore o all'anima o come vuoi chiamarla, trafitto e punto dai ragionamenti filosofici che penetrano più profondamente del dente di una vipera specie quando afferrano l'anima di un giovane non mediocre e lo spingono a fare e a dire qualunque cosa... io che mi vedo dinanzi un Fedro, un Agatone, un Eressimaco, un Pausania, un Aristodemo, un Aristofane (e bisogna anche nominarlo Socrate?) e tanti altri, tutta gente un po' patita e fuori di sé per la filosofia... Eh, sì, per questo, ora, voi tutti, mi starete a sentire. E mi compatirete per quello che è accaduto allora e per quanto sto per dirvi ora. E voi, famigli e quanti ne siete, rozzi o villani, tappatevi con grossissime porte le orecchie.   51  Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG http://www.esonet.org «Dunque, signori, quando la lampada fu spenta e i servi se ne furono andati, pensai che non era più il caso di star lì a gingillarsi ma di esprimergli chiaramente le mie intenzioni. «Dormi, Socrate?» perciò gli chiesi scuotendolo. «Nient'affatto,» mi rispose. «Sai cos'ho pensato?» «Cosa?» «Che tu mi sembri l'unico amante degno di me, però mi pare che tu esiti a dichiararti. Però, sai, io ho deciso; credo proprio che sia da sciocchi non esserti compiacente in questo, come in tutto il resto, se tu ne avessi bisogno, dei miei amici per esempio, delle mie sostanze. Perché, vedi, niente mi sta più a cuore che diventare il più possibile migliore e nessuno, io penso, può far meglio di te al caso mio. Anzi mi vergognerei molto di più, di fronte alle persone intelligenti se non compiacessi un uomo simile, che non dinanzi alla gente ignorante se gli cedessi.» E lui, dopo essere stato lì a sentirmi, col suo solito fare un po' ironico: «Mio caro Alcibiade,» rispose, «può darsi proprio il caso che tu non sia uno sciocco se è vero che io ho tutto quello che tu dici e se c'è in me una specie di potere che ti possa far diventare migliore. Se è così, devi aver visto in me un'irresistibile bellezza, di gran lunga superiore alla tua e, rendendotene conto, ora cerchi di far comunella con me, di metterci le mani addosso e barattar bellezza con bellezza e così concludere, alle mie spalle, un affare non poco vantaggioso; cerchi, insomma, di pigliarti una bellezza vera in cambio della tua che è apparente e pensi proprio di scambiare oro con rame. Ma benedetto figliolo, fa più attenzione, ché tu non t'inganni nei miei riguardi, dato che io non sono proprio nulla. Il fatto è che l'occhio della mente comincia a veder chiaro quando s'affievolisce quello del corpo e per te, ce ne vuole del tempo.» Ed io dopo averlo ascoltato: «Per quel che mi riguarda, le cose stanno cosi ed io non ho detto nulla di diverso da quello che penso. Tu, piuttosto, devi decidere quello che è meglio per te e per me.» «Così va bene,» mi rispose. «In seguito vedremo e faremo quello che ci sembrerà meglio per tutti e due a proposito di questa faccenda e anche per il resto.» Quanto a me, dopo quello che aveva detto, e ora che avevo udito la sua risposta, come se gli avessi lanciato un dardo, pensavo d'averlo già bell'e trafitto. E così, senza dargli la possibilità di dire una parola di più, balzai su e gli gettai addosso il mio mantello (infatti eravamo d'inverno) ficcandomi, poi, sotto quello suo, logoro, e stringendolo nelle mie braccia (sì, proprio costui, questo essere veramente divino e meraviglioso) e tutta la notte gli stetti disteso vicino. Nemmeno questo, Socrate, puoi dire che non è vero. Ebbene, nonostante che io avessi osato tanto, si dimostrò superiore e mi disprezzò beffandosi della mia bellezza, schernendola; e si che io credevo di non essere mica poi tanto male, o giudici (sì, giudici dell'insolenza di Socrate); ebbene, sappiate, ve lo giuro su tutti gli dei e le dee, che io dopo aver passato la notte accanto a Socrate, mi alzai come se avessi dormito con mio padre o con mio fratello maggiore.   XXXIV 52  Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG http://www.esonet.org «Dopo tutto questo, ve lo immaginate come ci rimasi. Da una parte l'idea di essere stato disprezzato, dall'altra la mia ammirazione per le sue qualità, per la sua saggezza, per la sua forza d'animo. Mi resi conto di aver proprio incontrato un uomo quale non avrei immaginato, per rettitudine e per fortezza. E così non riuscii né a pigliarmela con lui e, quindi, troncare ogni rapporto, né, d'altro canto, a trovare il modo di conquistarlo. Sapevo benissimo che col denaro non c'era niente da fare: era più invulnerabile d'Aiace di fronte alle frecce, ed ora anche l'unico modo con cui pensavo di poterlo conquistare, m'era fallito. Privo così d'argomenti, schiavo quasi di quest'uomo, come nessuno lo fu mai d'alcun altro, gli stavo sempre dietro. Tutto questo accadde prima della campagna di Potidea, durante la quale combattemmo insieme e fummo anche compagni di mensa. Ricordo che alle fatiche era più resistente non solo di me ma di tutti quanti gli altri; quando poi si restava bloccati, tagliati fuori, come capita spesso in guerra e così ci toccava patir la fame, la capacità di resistenza degli altri non era niente al confronto della sua; quando invece c'era abbondanza, lui era il solo a godersela veramente; e a bere, poi, vinceva tutti, non perché ci fosse portato, ma solo quando ve lo spingevano e quello che è straordinario è che mai nessuno ha visto Socrate ubriaco e di questo, io credo che ne avrete anche ora una prova. Quanto poi a sopportare i rigori dell'inverno (e lì il gelo non scherza), era addirittura straordinario. Ricordo che, una volta, durante una gelata terribile, mentre tutti se ne stavano chiusi dentro e se qualcuno usciva, s'infagottava fino all'inverosimile e si fasciava i piedi con panni di feltro e pelli di pecora, lui se ne andò in giro con quel suo solito mantelluccio che porta sempre, camminando sul ghiaccio, a piedi nudi, assai meglio di quelli che avevano le scarpe; e i soldati lo guardavano un po' in cagnesco credendo che, così, egli li volesse umiliare.   XXXV 53  Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG http://www.esonet.org «E a questo proposito, bisogna proprio sentire ‹quello che ancora fece e sostenne quest'uomo animoso,› laggiù, durante la spedizione. Tutto preso non so in quali pensieri, una volta se ne rimase in piedi, immobile a meditare, fin dal mattino presto e, poiché non riusciva a venirne a capo, non la smise, ma continuò a restarsene tutto assorto nelle sue riflessioni. Era già mezzogiorno e i soldati cominciarono a farci caso e a passarsi la voce, tutti stupiti che Socrate, pensando a chissà cosa, se ne stava lì dal mattino presto. In conclusione, col calar della sera, alcuni soldati della Ionia, dopo il rancio, portarono fuori, all'aperto, i loro pagliericci (s'era, infatti, in estate) per dormire al fresco ma anche per star lì un po' a vedere se quel tipo se ne fosse rimasto immobile tutta la notte. Ed egli lì se ne restò fino a che non si fece mattino e non spuntò il sole; dopo di che, fece al sole una preghiera e se ne andò. E in battaglia, poi, se volete sentire, perché anche questo bisogna riconoscergli. Quando ci fu quello scontro in cui i generali mi dettero una ricompensa al valore, nessun altro mi salvò tranne costui che non volle lasciarmi lì ferito ma riuscì a portarmi in salvo con le mie armi. Ed io, Socrate, in quell'occasione, insistetti perché la ricompensa la dessero a te (neanche in questo caso tu potrai riprendermi e dirmi che sto mentendo). E poiché i generali, considerando il mio rango, volevano dare a me la ricompensa, tu fosti più zelante di loro perché venisse a me attribuita invece che a te. E non è finita, signori miei, perché bisognava vederlo Socrate, quando il nostro esercito fu rotto a Delio. In quell'occasione io ero col mio cavallo, lui a piedi, con tutte le sue armi. Tra lo scompiglio delle truppe in fuga, dunque, egli ripiegava insieme a Lachete. Io per caso sopraggiungo e, vedendoli, grido di farsi coraggio, assicurandoli che non li avrei abbandonati. In quella occasione meglio che a Potidea, potetti ammirare Socrate, anche perché, a cavallo come ero, avevo meno da temere. Prima di tutto dimostrava un controllo superiore a quello dello stesso Lachete; secondariamente parve anche a me quello che tu stesso, Aristofane, hai detto di lui che cioè anche là egli camminava come qui, ‹tutto altero gettando occhiate di traverso›, tenendo sempre sott'occhio amici e nemici, facendo capire a tutti, anche a distanza, che se qualcuno lo avesse attaccato, egli era il tipo che si sarebbe difeso strenuamente. E così procedeva sicuro insieme al compagno, perché è proprio vero che quelli che si comportano così in guerra, i nemici nemmeno li toccano, mentre incalzano chi si dà a gambe levate. E ancora per molte altre cose, tutte straordinarie, Socrate andrebbe lodato. Probabilmente, però, queste altre qualità si possono anche trovare in qualche altro; quello che invece è meraviglioso è il fatto che lui non è simile a nessun uomo del passato né del nostro tempo. Ad Achille, per esempio si potrebbe avvicinare, in un certo qual modo, Brasida e altri e per Pericle potrebbe trovarsi una certa somiglianza con Nestore o Antenore e non con questi soltanto e altri paragoni se ne potrebbero far sempre. Ma quanto a quest'uomo, per il suo modo di fare, per i suoi discorsi, è impossibile trovare uno che gli somigli, nemmeno lontanamente, né tra i viventi, né tra gli antichi, a patto che uno non lo volesse paragonare, appunto come dicevo, lui e i suoi discorsi, ai sileni e ai satiri, ma non certo a un uomo. Anzi, a proposito, i suoi discorsi (me ne ero dimenticato di precisarvelo prima) sono proprio come i sileni che si aprono.   XXXVI 54  Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG http://www.esonet.org   55  Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG http://www.esonet.org «Infatti, se uno si mette a sentire i discorsi di Socrate, all'inizio, gli sembreranno addirittura ridicoli, come sono tutti inviluppati per il di fuori, da termini e da sentenze, una specie di pelle di satiro petulante; infatti, non fa altro che parlare di asini da soma, di fabbri, di sellai, di conciatori e sembra che dica sempre le stesse cose, tanto che se uno non se ne intende o è uno sciocco, gli riderebbe dietro. Ma se cerchi di aprirli, i suoi discorsi, e di guardarvi dentro, prima di tutto ti accorgerai che sono i soli, tra tutti, ad avere un loro senso profondo, poi che sono addirittura divini, ricchi di ogni virtù possibile e immaginabile, volti al sublime o meglio a ciò che deve tener presente chi voglia diventare un vero galantuomo. Questo è quanto ho da dirvi in lode di Socrate, amici miei. Quanto al biasimo io ve l'ho già mescolato, riferendovi le offese che mi ha fatto; del resto egli non s'è comportato così solo con me, ma ha fatto lo stesso con Carmide, il figlio di Glaucone e con Eutidemo, il figlio di Diocle e con molti altri, tutta gente che egli ha ingannato fingendo, appunto, la parte dell'innamorato, con la conseguenza che furono, invece, costoro ad innamorarsi di lui. E questo lo dico anche per te, Agatone, ché non debba cascarci anche tu in modo che, fatto esperto dalle nostre disavventure, tu possa stare in guardia da costui e non debba imparare, da citrullo, a proprie spese, come dice il proverbio.»   XXXVII 56  Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG http://www.esonet.org Appena Alcibiade ebbe concluso, l'ilarità fu generale, proprio per quel suo modo franco di parlare, anche perché, così, aveva fatto capire di essere ancora innamorato di Socrate. «Mi sembra, invece, che tu, Alcibiade, non abbia proprio bevuto per niente,» esclamò a un certo punto Socrate, «altrimenti non l'avresti rigirata tanto abilmente, nascondendo il vero scopo del tuo discorso e alludendovi solo alla fine, come un di più, come se tutto il tuo parlare non fosse stato per seminar zizzania tra me e Agatone, fissato come sei che io debba amare solo te e nessun altro e che Agatone devi amarlo soltanto tu e gli altri niente. Ma non t'è andata bene e questa tua farsa a base di satiri e di sileni è apparsa evidente. Mio caro Agatone, costui non deve spuntarla e bada tu che, tra me e te, nessuno venga a mettere disaccordo.» E Agatone, di rimando: «Ah, sì, Socrate, forse hai proprio ragione. Ora capisco perché s'è venuto a piazzare tra me e te, proprio per dividerci. Ma sta fresco, anzi, eccomi qua che ti torno vicino.» «Oh, benissimo,» fece Socrate, mettiti qua, al mio fianco.» «Santo cielo,» esclamò Alcibiade, «quante me ne fa passare quest'uomo. Vuole sempre stravincere; ma, almeno, mio straordinario amico, lascia che Agatone resti tra noi due.» «Impossibile,» fece Socrate. «Infatti tu hai fatto, in questo momento, le mie lodi ed ora tocca a me farle a quello che mi sta a destra. Quindi, se Agatone se ne viene vicino a te, non può mica mettersi a fare il mio elogio prima che io non abbia fatto il suo, ti pare? Piantala, quindi, tesoro, e non essere geloso se elogerò questo giovane: io desidero molto tesserne le lodi.» «Iuh, iuh, Alcibiade,» si mise a fare Agatone, «non è proprio il caso che io me ne resti qui, anzi, mi alzo subito perché le lodi di Socrate io le voglio avere.» «Eh, già,» commentò Alcibiade, «la solita musica; quando c'è Socrate, niente da fare con i belli. Guarda un po' anche adesso, come ha saputo trovarsela facilmente la sua ragione, in modo che costui gli si strofini al fianco.»   XXXVIII 57  Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG http://www.esonet.org E così Agatone si alzò per mettersi vicino a Socrate, quando a un tratto, una numerosa brigata di buontemponi si fece sulla soglia e trovando la porta aperta perché qualcuno era uscito, irruppe dentro di filato verso di noi e ognuno si trovò comodamente il suo posto. Ne nacque un baccano dell'altro mondo e si perse ogni misura, tanto che ci demmo a bere a più non posso. Allora Eressimaco, Fedro e qualche altro se ne andarono, continuò a raccontarmi Aristodemo; quanto a lui fu vinto dal sonno e dormì profondamente anche perché le notti erano lunghe; si svegliò ch'era giorno e che i galli cantavano. Quando aprì gli occhi, vide che gli altri o dormivano ancora o se n'erano andati e che solo Agatone, Aristofane e Socrate erano svegli e bevevano da una grande coppa che si passavano da sinistra a destra. Socrate stava discorrendo con loro, ma Aristodemo disse che non ricordava quello che si dicevano dato che non li aveva seguiti fin dal principio e, poi, perché (almeno così disse) era tutto insonnolito, ma che, in conclusione, Socrate stava persuadendo i due amici ad ammettere che uno può comporre ugualmente sia commedie che tragedie e che chi, per vocazione, è poeta tragico, sarà anche poeta comico. Quelli, costretti ad ammetterlo, ma senza capir molto, sonnecchiavano. E ci disse che fu Aristofane ad addormentarsi per primo, poi, a giorno fatto, anche Agatone. Socrate, quando li vide addormentati, si alzò e se ne andò e lui, Aristodemo, com'era sua abitudine, lo seguì. Giunto al Liceo si lavò e, come al solito, trascorse il resto della giornata, poi verso sera se ne andò a casa a riposare.   XXXIX 58. Educazione guerriera Il filosofo Gallo Galli, voce narrate dell'educazione fascista scriveva: "La possibilità, la necessità della lotta armata è immanente alla coscienza nazionale, è presente in ogni momento di questa. …E non c'è dunque educazione veramente, vigorosamente nazionale, che non sia ache educazione guerriera."Una delle caratteristiche fondamentale – e forse la piu nuova e significative – che la scuola italiana e andata gradatamente acquistando e che sta per trradursi in aao nella piena chiarezza e precision delle idee direttive e della organizzazione tecnica, e l’impronta guerriera. Nel dominio dell’educazione, in cui tutta la vita di un popolo si riflette e da cui insieme trae alimento e vigorose affermazione, si fa valere, cosi, quell’attuarsi categorico della coscienza nazionale, che e la missione del Fascismo nella storia d’Italia … La coscienza militare, lo spirito guerreiero, non e qualcosa di diverse della coscienza nazionale; bensi costituisce con questa un duplice aspetto della elevazione dell’individuo al disopra del bene proprio particolare, per attuare le ragioni ideali della vita: un duplice aspetto in quell concetto della vita come missione, onde l’individuo perisce nelle sue forme superficiale e caduche e si sostanzia de realta universal ed eterna … Al dispora della nazione non esiste, invero, non puo esistere una organizzazione che equamente diriga e governi l’atttivita dei singoli gruppi sociali-nazionale e instauri, attraverso la composizione dei contrasti, un armónico equilibrio. … La possibilita, la necessita della lotta armata e immanente alla coscienza nazionale, e presente in ogni momento di questa; e la coscienza di essa e la preparazione dell’animo atto a combatterla sono; diremmo quasi, una seconda facia della coscienza nazionale. E non c’e dunque educazione veramente, vigorosamente nazionale, che non sia anche educazione guerriera. Ma non basta. Il compito specific dell’educazione guerriera, la preparazione alla lotta armata, ha un suo proprio carattere – in connessione con la natura e le esigenze di tale lotta – per cui non e soltanto il riflesso o, direbbesi, l’ombra dell’educazione nazionale, ma da questa in certo modo si distacca e su essa reagisce, aumentandone e integrandone il valore; e aumentando e integrando, inoltre, il valore anche dell’educazione generale. La preparazione alla lotta armata e in vero preparazione: 1) alla rinunzia piu complete al proprio io particolare; poiche si tratta di ninunzia alla vita, il primo ed il massimo dei beni e da tutti presupposto; 2) alla rinunzia – sia pure momentanea e quale mezzo a una superior affermazione – anche alla propria personalita spirituale, mediante l’obbedienza pronta ed intera: poiche la lotta e azione e nulla v’ha di piu dannoso e folle che discutere quando e il momento d’agire. Fornisce quell’agilita e pronezza di movimenti e quella resistenza alle fatiche e forza muscolare, in cui la lotta armata ha uno dei suoi mezzi piu essenziali. Non solo; per il riscio che e inerente a molti esercizi ginnastici, anche si rifugga dale acrobazie – con le quali si sarebbe fuori dal dominio educativo – essa e buon addestramento dell’animo alla lotta. L’educazione guerriera ha un contenuto per ricchezza ed importanza infinitamente superior a quello dell’educazione fistica; ma include questa necessariamente dentro di se. Giovera in ultima accentare agli sports, in quanto non significhino virtuosismo, ossia abilita tecniche e capacita fisiche prese come fine a se stesse, ma si dispongano nel Quadro generale dell’educazione quale stimolo allo sviluppo dell’uomo. Essi in questo caso sono il naturale sbocco dell’educazione fisica, o meglio l’educazione fisica nella pienezza della sua attuazione; poiche accentuano il momento del rischio e del consequente necessario dominio di se. Ma non bisogna esagerare riguardo al valore degli sports in ordine all’educazione guerriera. Questa ha il suo fondamento in un mondo ideale che a quelli e compiutamente estraneo; e si riferisce ad una condizione di cose in cui ben altro sir ischia che non qualche slogatura ed ammaccatura, e in cui l’Eroe non attende il plauso, ma si vota sereno e deciso al sacrifizio che, anche, rimanga oscuro.” Gallo Galli. Galli. Keywords: il fedro, sull’amore, metafisica dell’amore, fisiologia dell’amore, dialoghi dell’amore, dialoghi sull’amore, sul bello, l’uno e i molti, unum et multa – the one and the many – Plato – Aristotle – Parmenides’s aporia – D. F. Pears, “Universals” in Flew, Rosmini, Bruno, ermetico, Galileo, Serbati, Carlini, idealismo, idealismo critico, dialettica dello spirito, Renouvier, educazione guerriera, Sparta, Platone, Siracusa, dorio, guerriero, sacrifizio.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Galli” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51759002761/in/dateposted-public/

 

 

Grice e Galluppi – filosofia italiana – Luigi Speranza (Tropea). Filosofo. “Gallupi is a great one; and much can be philosophised about his philosophy of the ‘parola come segno del pensiero’” – Grice: “On top, he was a Baron!” -- Eessential Italian philosopher. Figlio del barone Vincenzo e della nobildonna Lucrezia Galluppi, entrambi della stessa famiglia Galluppi, una delle antiche famiglie patrizie di Tropea.  Dopo lo studio della lingua latina, apprese filosofia sotto Ruffa. Trasferitosi a Santa Lucia del Mela, compì il corso elementare di filosofia e presso il Seminario vescovile della cittadina peloritana. Intraprese dunque lo studio a Napoli sotto Conforti.  Sposa Barbara d'Aquino, da cui ebbe quattordici figli, otto maschi e sei femmine.  Trascorreva le giornate di libertà nella residenza privata di famiglia, cioè Palazzo Galluppi, sulla Strada Provinziale a Caria, frazione di Drapia, alla biblioteca o al giardino. Pubblicò a Napoli “Sull'analisi e la sintesi”. Durante i moti aderì alla causa liberale sostenendo la riforma costituzionale dello Stato e protestando quindi contro l'intervento repressivo degli Austriaci. Si riavvicina alla monarchia. Insegna Filosofia a Napoli. Membro dell'Accademia Sebezia e dell'Accademia Pontaniana di Napoli, dell'Accademia degli Affatigati di Tropea, di quella del Crotalo di Catanzaro e della Florimentana di Monteleone.  Il suo merito maggiore consiste nell'avere introdotto in Italia Kant. Le Lettere filosofiche furono definite il primo saggio in Italia di una storia della filosofia.  A Pasquale Galluppi sono dedicati il Convitto nazionale, il Liceo Classico di Catanzaro e il Liceo Classico di Tropea. A Tropea, la sua città natale, è attivo il Centro studi Galluppiani, associazione culturale dedita alla ripubblicazione dell'opera omnia del filosofo e che di recente ha decretato l'ampliamento dei fini statutari, fino ad accogliere e curare altre interessanti iniziative di un certo spessore culturale.  Periodicamente, il Centro organizza il Congresso degli Studi Galluppiani, importante appuntamento di respiro nazionale, animato da studiosi e saggisti provenienti da tutta Italia.  L'attuale presidente è Luciano Meligrana. Altre personalità di notevole importanza nella storia del Centro studi Galluppiani sono stati Pugliese e Cane, filosofo, appassionatissimo studioso dell'opera di Galluppi.  Una vera dedizione, la sua che non è mai venuta meno fino alla fine della sua vita. Organizzatore infaticabile di seminari, simposi e conferenze, ha cercato di far conoscere il pensiero del Galluppi, favorendo la pubblicazione dell'opera inedita "La Filosofia della Matematica" la cui edizione lo ha visto anche quale curatore. Su Galluppi ha pubblicato numerosi saggi ed articoli in quotidiani e riviste specializzate.  Altre opere: “Memoria apologetica” (Napoli, Vincenzo Mozzola-Vocola); “Grice, ovvero, Sull'analisi e la sintesi” (Napoli, Verriento); “La conoscenza, o sia analisi distinta del pensiere umano, con un esame delle più importanti questioni dell'Ideologia, del Kantismo e della Filosofia trascendentale” (Napoli, Sangiacomo); “Filosofia” (Messina, Pappalardo); “Lettere filosofiche sulle vicende della filosofia, relativamente a' principii della conoscenza umana da Cartesio insino a Kant inclusivamente” (Messina, Pappalardo); “Logica”; “Metafisica” (Firenze, Tipografia della Speranza); “La volontà” (Napoli, Giachetti); “Storia della filosofia” (Napoli); “Opera compresa in nove capitoli a cui si aggiunge l ‘Elogio funebre scritto da Errico Pessina, autore del Quadro storico dei sistemi filosofici” (Milano, Gio. Silvestri); “Autobiografia”, “Scritti”  (Milano, Dumolard); La filosofia del Galluppi e le sue relazioni col Kantismo, (Napoli, Morano); “Lettere filosofiche” (Bonafede, Palermo); “Epistolario Lettere private. Inedite e rare, Franco Ottonello, Milano, Franco Angeli ("Filosofia e scienza nell'età moderna" Collana a cura della Sezione di Milano dell'Istituto per la storia della filosofia. Dizionario biografico degli italiani.  Quella  specie  di  deduzione  con  cui  da  una  causa ,  che  cade  sotto  i sensi , deduciamo  un  efletto  , che  sotto  i  sensi  non  cade  , o da  un  elTetto  , che  cade  sotto  i sensi , de-  duciamo una  causa  , che  sotto  i sensi  non  cade  , quando  la  connessione  fra  la  causa  e l' elTelto  non  si  presenta  a noi  come  necessaria  , è fondata  su  questa  verità  sperimentale,  le  carne  simUi  producono  o son  accompagnate  da  effetti  simili;  ed  ef-  fetti simili  suppongono  cause  simili.  Tutti  e due  questi  mo-  di di  dedurre  i fatti , che  immediatamente  non  si  sperimentano ,  costituiscono  r argomento  detto  di  analogia.  Si  argomenta  dunque  per  analogia  , quando  dairosservazionc  disoggetti  si-  mili si  deducono  qualità  simili,  e quando  da  cause  simili  si  de-  ducono efletti  simili , o da  elTetti  simili  si  deducono  cause  simili.   Ma  r esistenze  , che  si  deducono  , sono  di  due  maniere,  alcune  possono  essere  oggetto  di  esperie  tua  , altre  non  pos-  sono esserlo.  Sebbene  quando  vedo  l’acqua,  che  non  ho  an-  cora bevuto , e che  giudico  di  aver  essa  la  qualità  di  estin.  guermì  la  sete,  non  abbia  ancora  sperimentato  in  questo  ca-  so particolare  la  qualità  di  cui  parlo;  pure  è essa  un  ogget-  to di  esperienza  , poiché  posso  di  fatto  sperimentarla , be-  vendo l’acqua  che  ho  presente.  Sebbene  prima  di  vedere  la  liquefazione  della  neve , io  la  deduco  dalla  vicinanza  del  fuo-  co ; pure  questa  liquefazione  può  colpire  i mici  sensi,  ed  es-  sere un  oggetto  di  esperienza.   Ma  vi  sono  infiniti  casi  , in  cui  1’  esistenze  che  si  deduco-  no , non  possono  divenire  oggetto  di  esperienza.  Domandato  ad  un  uomo  perchè  egli  crede  un  fatto,  che  succede  in  luo-  ghi ove  non  è , per  esempio  , che  il  suo  amico  soggiorna  alla  campagna  , o viaggia  per  la  Francia , egli  vi  darà  per  ragione  un  altro  fatto  : allegherà  una  lettera  che  ha  da  lui  ricevuto  , alcune  risoluzioni  che  gli  vide  prendere  , alcune  promesse  che  gli  ha  sentito  fare.  Ora  in  tutte  queste  dedu-  zioni , si  suppone,  che  alcuni  dati  moti  dipendono  dalla  vo-  lontà dell’  amico  ; si  suppone  in  conseguenza  , che  il  suo  .  corpo  sia  animato  da  uno  spirito  simile  al  nostro.  Ora  lo  s[iiito  dell’ amico  , c le  modificazioni  inieinc  di  esso,  non    Digitized  by  Googlc    58   possono  giammai  divenire  un  oggetto  di  esperienza  : noi  non  possiamo  giammai  sortire  da  noi  stessi  , e sentire  1’  anima  sua  , e ciò  che  in  essa  acca(k  ; noi  dunque  qui  argomentia-  mo da  una  esistenza , che  è un  oggetto  sperimentale,  ad  un  altra  esistenza  , che  per  noi  non  può  giammai  divenire  un  oggetto  di  esperienza.  Quando  vedo  la  lettera,  di  cui  si  parla  io  giudico  , che  fu  l’ effetto  de’  moti  del  corpo  dell’  amico  ,  giudico  inoltre  , che  questi  moti  furono  1’  effetto  della  sua  volontà.  Ora  questa  volontà  io  non  la  posso  sentire  giammai,  risalgo  dunque  qui  da  un  effetto  che  colpisce  i sensi  miei  ad  una  causa  , che  non  può  giammai  divenire  un  oggetto  di  es-  perienza. Similmente  se  vedo  piangere  un  uomo  giudico  che  egli  è afflitto  , ora  T afflizione  di  lui  non  può  giammai  dive-  nire un  oggetto  di  esperienza  per  n>e;  io  dunque  deduco  qui  da  ciò  che  sperimento  una  causa,  che  non  posso  sperimenta-  re. Ora  si  domanda  : una  tal  deduzione  è esM  legittima?   Allora  che  vedo  un  uomo,  io  vedo  un  corpo  simile  al  mio:  se  lo  vedo  camminare  vedo  questo  corpo  eseguire  certi  moti  simili  a quelli , che  io  fo  quando  voglio  camminare , da  ciò  concludo  , che  i moti  del  corpo  che  vedo  suppongono  una  causa  simile  a quella,  che  ho  sperimentato,  vale  a dire  uno  spirito, che  vuole  tali  moti.  Pare  dunque, che  questo  caso  possa  ridursi  alla  stessa  spezie  di  quello  di  sopra  , cioè  alla  deduzione  di  una  causa  simile  da  un  effetto  simile.   Ma  vi  ha  qui  una  differenza,  di  cui  bisogna  tener  conto.  Quando  dal  vedere  un  orologio  deduco  1’  esistenza  di  un  ar-  '  tc6ce,  io  ho  osservato  non  solo  gli  effetti  simili,  ma  anche  le  cause  simili , vale  a diro  , ho  veduta  molti  orologi  fra  i  quali  ho  trovato  della  similitudine,  ed  Ito  veduto  ancora  molti  artefici  di  orologi,  fra  i quali  ho  trovato  ancora  della  simi-  litudine. Ciò  non  accade, quando  da’  moti  del  corpo  di  un  uomo  deduco  l’ esistenza  di  uno  spirito  simile  al  mio,  da  cui  questo  corpo  è animato.  Io  non  ho  giammai  sperimentato  un  altro  spirito  , all’  infuori  del  mio  , quindi  non  lio  giammai  sperimentato  la  similitudine  delle  cause  , da  cui  derivano  gli  effelti  de'  quali  si  parla,  io  dunque  esco  qui  fuori  deirespc-    \    Digitized  by  Google    59   nenia  : se  avessi  ^erimontato  piìi  volte  che  alcuni  moti  di  altri  corpi  simili  al  mio  derivano  da  spiriti  simili  al  mib  ,  allora  la  mia  deduzione  avrebbe  lo  stesso  fondamento  dell’  ana-  logia , la  quale  mi  autorizza  a dedurre  da  effetti  che  speri-  mento , simili  a quelli  che  ho  sperimentato  , cause  simili  a quelle  che  ho  sperimentato.  Ma  qui  siamo  in  un  caso  di-  verso; io  sono  racchiuso  nella  sola  osservazione  di  una  cau-  sa sola:  ho  sperimentato  in  me  solo  che  alcuni  dati  moti  pro-  cedono da  un  atto  di  volontà.  Ma  non  1’  ho  sp^imentato  in  altri , nè  posso  giammai  sperimentarlo;  or  chi  mi  autorizza  a concludere  da  un  caso  solo  una  legge  costante,  ed  univer-  sale della  natura?  Nell'  argomento  di  analogia  si  conclude  per  un  caso  ciò  che  abbiamo  sperimentato  costantemente  in  tutti  gli  altri  , che  ci  son  occorsi  : ho  sperimentato  mólte  volte,  che  il  fuoco  posto  in  vicinanza  della  neve  la  liquefa , nè  mi  è occorso  alcun  caso,  in  cui  non  abbia  ciò  sperimentato:  ve-  dendo del  fuoco  posto  in  vicinanza  della  neve  concludo,  per  questo  caso  particolare,  ciò  che  ho  sperimentato  costante-  m«ite  nella  moltitudine  degli  altri  casi.  Ma  quando  al  veder  muovere  gli  altri  uomini  giudico , che  sono  animati  da  uno  spirito  simile  al  mio , procedo  tutto  al  rovescio  dell’  analo-  gia , poiché  da  un  solo  caso , vale  a dire  da  ciò  che  speri-  mento in  me , giudico  tutti  gli  altri.   Questa  obbiezione  merita  di  esser  esaminata,  poiché  l’ ana-  lisi dei  motivi  de’  nostri  giudizi  è 1’  oggetto  della  logica.  Io  ho  camminato  un  numero  incalcolabile  di  volte  , per  varie  direzioni,  ed  in  vari  luoghi:  ho  sperimentato  questo  fatto  co-  stantemente unito  al  mio  volere:  ho  sperimentato  fra  il  cammi-  no di  una  volta  e quello  di  un  altra  una  similitudine,  ed  una  similitudine  fra  l’  atto  di  volere  di  una  volta  e quello  di  un  altra  : ho  dunqiK  qui  sperimentato,  che  effetti  simili  procedono  da  cause  simili,  vale  a dire,  che  il  camminare  consiste  in  moti  volontari  ; quando  dunque  veggo  camminare  un  altro  uomo  io  concludo  per  questo  caso  particolare  quello  che  ho  sperimentato  nella  moltitudine  de’casi  particolari  occorsi  in  me  stesso;  non  esco  dunqtic  dell’aualogia,  con  cui  si  concludeda  molli  ad  uno.    Digitized  by  Google    60   È nondimeno  incontrastabile  , che  l' illazione  non  può  giam-  mai divenire  sperimentale,  poiché  1’esistenza  della  volontà  in  un  altro  uomo',  che  io  deduco  dal' vederlo  camminare,  non  può  giammai  divenire  per  me  un  oggetto  di  esperiaiza  come  può  divenirlo  questa  illazione  : il  fuoco  che  vedo  liquefarà  la  neve  a cui  è vicino:  Ma  ciò  mi  sembra  , che  non  tolga  al-  cuna forza  alla  deduzione,  che  esaminiamo.   Quando  dal  vedere  il  fuoco  posto  in  vicinanza  della  neve  deduco  la  liquefazione  di  questa  , io  giudico  prima  dell'es-  perienza ; r essere  perciò  l’ illazione  di  natura  a poter  dive-  nire un  giudizio  sperimentale  , non  influisce  nella  deduzione  :  r illazione  è vera  per  me  per  la  sua  connessione  colle  pre-  messe ; non  già  perchè  è un  giudizio  , il  quale  può  confer-  marsi coll’esperienza.  Sinnlmcntc  l’illazione  di  analogia,  con  cui  giudico  che  gli  altri  corpi  umani  , fuori  del  mio  , sono  animati  da  uno  spirito  simile  al  mio  , è vera  in  forza  della  sua  connessione  colle  premes.se , e l’ impossibilità  che  ha  questo  giudizio  di  divenire  immediatamente  sperimentale;,  non  toglie  mica  il  valore  della  deduzione.   §,  28.  Ma  qui  conviene  aggiugnere  qualche  cosa  molto  im-  portante. Che  i moti  chiamati  volontari , e che  scorgo  ne’  cor-  pi umani , non  dipendano  da  una  causa  meccanica  , ma  da  una  causa  intelligente  , mi  sembra  una  verità  necessaria  della  stessa  natura  delle  verità  necessarie , che  esprimono  le  leggi  del  moto,  di  cui  abbiamo  di  sopra  parlato.  Se  io  sono  ric-  co o potate,  e deadcro  d'innalzare  un  edifìzio , mille  braccia  agiscono , e la  mia  volontà  ha  il  suo  effetto.  La  mia  voce  non  .ha  fatto  impressione  sul  corpo  de’  travagliatori , se  non  die  per  mezzo  dell’  aria , e no  n ha  prodotto  nell’  atmosfera  on’  agitazione  suflìciente  a muovere  de’  corpi  molto  piìi  pic-  coli di  quelli  , che  eseguono  gli  ordini  miei  ; la  mia  voce  dun-  que non  produce  1’  elfetto  come  causa  meccanica  ; bisogna  perciò  che  un  principio  diverso  dall’  agitazione  dell'  aria  , o  dalla  mia  parola  abbia  prodotto  questo  moto  ne’ corpi , e che  la  mia  parola  abbia  detcrniiiiato  questo  princijiio  a produrre  i  moti , che  chiamiamo  voloiitai  l.  Non  si  può  riguardar  la  mia    Digitized  by  Google    61   parola  , se  non  che  o come  un  molo  eccitato  nell’  aria  , o  come  r espressione  della  mia  volontà  ; la  mia  parola  non  ha  potuto  come  causa  meccanica  produrre  i moti , de’  quali  par-  liamo , perchè  ciò  come  abbiamo  veduto  , è contrario  alla  le^e  del  moto , che  un  piccolo  moto  ne  produca  uno  mag-  giore ; al  che  si  aggiunga  , che  la  mia  parola  non  avrebbe  prodotto  moto  alcuno  nell’Ottentotto , o in  un  altro  individuo  che  parla  un  linguaggio  diverso  dal  mio:  per  la  sola  espres-  sione della  mia  volontà  ha  dunque  potuto  la  mia  parola  de-  terminare ad  agire  il  principio  del  moto  de’  corpi  die  mi  hanno  ubbidito.  Questo  principio  è perciò  un’  intelligenza  ,  poiché  ha  conosciuta  la  mia  volontà  nelle  mie  parole.  i   La  proposizione  dunque  : vi  tono  alcuni  moti  ne’  corpi  u-  mani  dieerti  dcU  mio  corpo,  i quali  ^ hanno  per  cauta  una  cauta  intelligente  , mi  sembra  di  verità  necessaria.  La  pro-  posizione poi:  vi  sono  alcuni  moti  ne"  corpi  umani  dècer  si  dal  mio  corpo  i quali  hanno  per  causa  la  volontà  di  uno  spirito  simile  al  mio , e per  conseguenza  tali  corpi  tono  animati  co-  me il  mio  , è di  verità  contingente  , e poggiata  sull’analogia.  Concludiamo  nell’  argomento  di  analogia  si  deducono  spes-  so cause , (M  non  possono  divenir  giammai  un  oggetto  di  es-  perienza , sebbene  sieno  simili  ad  altre  cause  , che  si  speri-  mentano. 2.°  Vi  tono  nondimeno  alcune  deduzioni  di  esistenze ,  che  non  possono  divenire  sperimentali,  le  quali  deduzioni  danno  verità  necessarie  in  risultamento.   Questa  seconda  parte , della  conclusione  enunciata , si  con-  ferma da  quello  che  abbiamo  detto  nell’  Ideologia  circa  resisten-  za dell’  assoluto.  Questo  non  può  certamente  divenire  un  og-  getto di  esperienza  , intanto  la  sua  esistenza  è il  risultamento  di  un  raziocinio  legittimo,  in  cui  una  delle  premesse  è una  verità  sperimentale.  Noi  diciamo  ; se  vi  è il  condizionale , et  dee  essere  l’  assoluto.  Questa  proposizione  esprime  un  giudizio  analitico  , e necessario  : vi  e il  condizionale  : questa  secon-  da proposizione  esprime  un  giudizio  sperimentale  ; vi  è dunque  r assoluto.  L’ illazione  è una  verità  necessaria.   L’  empirisnto  ci  riserra  nel  solo  circolo  dell’ esistenze,  im-    Digilized  by  Google    62   mediatamente  sporimetitali  ; nè  ci  permette  di  passare  da  ciò  , che  cade  immediatamente  sotto  1’  esperienza , a ciò  che  sotto  la  stessa  immediatamente  non  cade.  Io  vi  ho  fatto  ve-  dere il  contrario  ; vi  ho  dunque  dimostrato  la  falsità  dell’em-  pirismo.   L’  argomento  di  analogia  è fondato  sul  rapporto  d’ iden-  tità ; ma  T identità  può  fra  due  cose  essere  ma^^iore  o mi-  nore. L’  identità  fra  il  mio  corpo  ed  il  corpo  di  un  altro  individuo  , che  io  chiamo  uomo  , è maggiore  di  quella  che  passa  tra  il  mio  corpo  ed  il  corpo  di  un  cavallo.  Ora  si  do-  manda : tino  a qual  grado  d idetUilà  V analogìa  è un  argo~  mento  valevole  , cioè  «n  argomento  certo  ì È questo  un  pro-  blema di  difllcile  soluzione  : l’ esamineremo  in  altro  capitolo.   §.  29.  U analogia  ci  rivela  dunque  1'  esistenza  degli  altri  q)ìriti  simili  al  nostro.  L’  esperienza  c’  ins^a  , che  alcuni  moti  volontari  in  noi  nascono  , o sono  accompagnati  da  al-  cune affezioni  interne  del  nostro  spirito  ; vedendo  in  conse-  guenza moti  siniili  in  altri  corpi  umani , attribuiamo  agli  spi-  riti animatori  di  tali  corpi  affezioni  simili  a quelle  che  ab-  biamo sperimentato  in  noi.  Allora  che  sono  affetto  dal  sen-  timento della  sete , corro  a bevere  ad  una  fontana  , che  a  me  si  presenta.  Se  dunque  vedo  un  altro  nomo  camminare  verso  una  fontana  , e bevere  , giudico  , appoggiato  su  l’ana-  logia , che  egli  sia  modificato  dal  sentimento  della  sete  , e  che  voglia  bevere.   In  queste  deduzioni  analogiche  dovete  osservare  ciò  che  vi  ho  detto  nel  §.  16  circa  1'  aspettazione  del  futuro  simile  al  passato,  i^li  bisogna  distinguere  il  sentimento  della  deduzio-  ne meditativa.  La  dottrina  generale  che  ivi  vi  ho  spigato ,  può  applicarsi  all’  oggetto  che  ci  occupava.  Noi  supponiamo  ne’  nostri  simili  delle  anime  alla  nostra  simile  : noi  facciamo  tali  sup^izioni  in  forza  della  I^gc  della  nostra  immagina-  zione , non  già  in  forza  de’  raziocini , che  abbiamo  sviluppato.  Io  suppongo  r incontro  di  due  uomini  , privi  sino  a questo  momento  di  ogni  commercio  , ancora  cògli  animali  ; ridotti  per  conseguenza  al  circolo  stretto  de’  propri  sentimenti,  e delle    Digilized  by  Google    63   proprie  operazioni  : ciascuno  di  essi  vede  nell’  altro  un  essere  che  gli  rassomiglia  in  tutte  le  cose  , che  presenta  le  stesse  forme  , possiede  gli  stessi  organi  , ne  fa  un  simile  uso  ; egli  crede  dunque  il  corpo  che  lo  colpisce,  animato  da  uno  spirito.  Or  ecco,  secondo  la  mia  dottrina,  come  si  opera  questo  fatto  intellettuale.  Io  suppongo,  che  un  di  questi  uomini  vegga  I'  altro  camminare , questa  percezione  risveglia  i fantasmi  simili  del  proprio  corpo  camminante  in  varie  volte , e perciò  anche  i  fantasmi  del  ])roprio  me  affetto  in  tali  circostanze  da  tali  e  tali  modificazioni:  queste  riproduzioni  si  fanno  con  somma  ra-  pidità in  modo  che  non  posson  essere  fissate  dall'  attenzione,  esse  sono  perciò  obbliate  l' istante  appresso,  in  cui  si  s«n  avu-  te, intanto  la  percezione  del  corpo  simile  al  proprio  detemù-  na  r attenzione  non  solamente  ad  essa  sola , m’  ancora  alla  percezione  simultanea  del  proprio  me , e lascia  fu^ire  le  per-  cezioni successive  simili  del  proprio  corpo  camminante  in  varie  volte  ; la  piercezione  del  me  riprodotta  si  lega  perciò  a quella  del  corpo  presente  del  mio  simile , invece  di  legarsi  a quella  riprodotta  del  proprio  corpo  camminante  , che  si  è obbliata,  e questo  legame  costituisce  il  sentimento  interno  di  questa  specie  di  credenza.  L'  obblio  delle  percezioni  riprodotte  del  proprio  corpo  camminante  in  varie  volte,  neH’atto  che  rimane  quella  riprodotta  del  proprio  me , fa  si,  che  questa  ultima  si  associi  a quella  presente  del  corpo  simile.  La  .percezione  ri-  prodotta del  proprio  me  rimane,  perchè  la  percezione  del  cor-  po camminante  e quella  del  proprio  me  son  legati  naturalmente  in  una  comune  attenzione;  essendo  associate  dalla  natura  stessa;  qnella  riprodotta  del  corpo  camminante  si  ccclissa,  perchè  quel-  la del  corpo  simile  camminante  richiama  l’ attenzione.  Lo  spi-  rito trasporta  dunque  fuor  di  lui  col  pcnsiere  l’ idea  del  proprio  me  , che  egli  immagina , e che  stabilisce  nel  seno  di  quelle  forme,  che  colpiscono  i suoi  sguardi,  ed  a traverso  delle  quali  il  suo  sentimento  immediato  non  può  penetrare.  Egli  presta  dunque  il  suo  me  al  suo  simile  , 1’  anima  della  vita  che  re-  spira in  se  stesso,  e concepisce  1’  esistenza  di  un  altro  uomo.  Tale  mi  sembra  la  spiegazione  del  sentimento  della  credenza.    Digitized  by  Google    C4   che  esaminiamo. Risulta  dalla  stessa,  che  noi  concependo  ciò  che  |>ensano  gli  altri  uomini,  non  usciamo  mica  da  noi  stessi.  Nel'  le  nostre  proprie  idee  noi  vediamo  le  loro  maniere  di  essere,  la  loro  stessa  esistenza.  Da  ciò  avviene,  che  1’  uomo  misura  dal  proprio  spirito  quello  degli  altri,  dal  che  nascono  molti  orrori , come  a suo  luogo  diremo.   Noi  non  possiamo  accuratamente  determinare  lo  stato  dei  fanciulli  ; e conoscere  perciò  1’  epoca  in  cui  hanno  luògo  le  loro  abitudini  intellettuali.  Ma  egli  mi  sembra  incontrastabile,  che  queste  abitudini  si  formano  in  loro  mediante  la  rapiditll  di  talune  associazioni.  I fanciulli  percepiscono  negli  altri  nomi-  ni de’  corpi  simili  al  proprio:  &si  sperimentano  alcuni  moti  spontanei  del  loro  corpo  ed  altri  simili  ne  percepiscono  nei  corpi  degli  altri  nomini  ; queste  similitudini , ed  altre  , che  si  manifestano  piìi  tardi , determinano  le  associazioni  di  cui  ho  parlato.  Legete  il  capitolo  degli  abiti  nella  Psicolgia.   Ma  non  solamente  i moti  volontari  che  osserviamo  negli  altri , ci  menano  a supporre  nel  loro  spirito  alcune  medin-  cazioni  ; ma  ancora  certi  moti  e cambiamenti  necessari,  che  son  gli  stessi  elTetti  meccanici  i quali  accompagnano  i senti-  menti interni  dell'  anima , come  il  tremore  e la  pallidezza  nello  spavento  , le  grida , e le  lagrime  nel  dolore  , il  riso ,  e il  tripudio  nella  allegrezza.  Questi  si  manifestano  incontanen-  te da  se  medesimi , anche  ne’  fanciulli  appena  nati , princi-  palmente i gridi  ed  il  lamento,  che  accompagnano  il  dolóre.   Concludiamo  : noi  poniamo  per  mezzo  di  alcuni  cambiamen-  ti , che  osserviamo  ne'  corpi  altrui  pervenire  a conoscere  ciò  che  accade  nel  loro  spirilo.  Questa  eonoscenza  può  essere  mec-  canica o sia  il  risultamenlo  del  sentimento  prodotto  da  alcune  rapide  associazioni,  e può  essere  ancora  V illazione  di  un  ra-  ziocinio legittimo  di  analogìa.  Possiamo  dir  la  stessa  cosa  in  modo  breve;  questa  conoscenza  può  essere  o istintiva  o ragionata.   Da  ciò  si  vede,  che  non  è necessaria  una  prima  convenzione  fra  gli  uomini  acciò  s’  incomincino  a intendere  fra  loro.  La  natura  ha  reso  gli  uomini  tali , che  conversando  insieme  essi  s’iiit  elidono  naturalmente  anche  senza  l’istituzione  del  linguaggio.    Digilized  by  Coogle    «5   §.  30.  Seguiamo  la  supposizione  de’  due'solitari.  Sebbene  1'  uno  abbia  compreso  ciò  che  accade  nello  spirito  dell’  altro,  non  tì  è ancora  un  lii^uaggio  propriamente  detto  ; perchè  non  si  parla  , se  non  quando  si  cerca  di  farsi  intendere  ,ese  1’  uno  de’  due  individui  ha  penetrato  il  pensiero  dell’  altro  ciò  è accaduto  senza  che  questi  cercasse  a farglielo  conoscere.!  due  individui  di  cui  parliamo,  osservano,  eh’  eglino  sono  stati  compresi , ed  allora  cercano  di  farsi  comprendere  , e nascerà  cosi  il  primo  linguaggio.  Sviluppiamo  questa  dottrina.   Abbiamo  veduto,  che  il  corpo  degli  altri  uomini  ci  presenta  alcuni  avvenimenti,  la  percezione  de’  quali  ci  fa  conoscere  ciò  che  accade  nel  loro  spirito.  Ciò  la  cui  idea  eccita  l’ idea  di  un’  altra  cosa  chiamasi  segno.  Nel  corpo  di  un  altro  nomo  vi  sono  dunque  de’  segni  delle  interne  modificazioni  dello  spirito  animatore  di  questo  corpo.  Siccome  tali  segni  son  tali  per  la  costituzione  della  nostra  natura  , cosi  si  chiamano  segni  nor  turali.  Vi  sono  , in  conseguenza  , de’  segni  naturali  de’  pen-  sieri o modi  di  essere  delio  spirito  degli  altri  uomini.   Ma  non  solamente  vi  sono  di  questi  segni  naturali  de’  pen-  sieri altrui  ; ma  1’  uomo  può  conoscere  , che  vi  sono , cioè  può  conoscere  , che  con  alcuni  dati  mezzi  si  può  manifestare  altrui  ciò  che  si  sperimenta  internamente  nello  spirito  proprio.  Supponiamo,  che  uno  de’  due  nomini  supposti  pianga,  gridi,  si  lamenti,  senza  avere  l’ intenzione  dì  manifestare  all’  altro  il  dolore,  che  egli  sente;  intanto  1’  altro  sapendo,  che  questi  gridi,  e questi  lamenti  sono  soliti  ad  accompagnare  il  dolore,  conoscerà  da  questi  segni  il  dolor  dell’  altro , ed  accorrerà  al  soccorso  di  lui,  questi  perciò  comprenderà  da  tutto  questo,  che  egli  è stato  compreso  ; e se  avviene  altra  volta  , che  si  trovi  affetto  dal  dolore , ed  in  bisogno  del  soccorso  dell’  al-  tro, piangerà  e griderà  coll’  intenzione  di  manifestare  all’al-  tro il  proprio  dolore.  Così  gli  uomini  incominciano  dal  com-  prendersi scambievolmente  ; in  seguito  conoscono , che  sono  stati  compresi,  e finalmente  si  determinano  a farsi  compren-  dere. Cosi  si  osserva  in  tutt’i  fanciulli  comunemente.  A prin-  cipio essi  gridano  , e si  lamentano  costretti  unicamente  dalla  Gall.  Vol.  II.  8    Digitized  by  Coogle    C6   forza  del  dolore , senz’  aver  l’ intenzione  di  manifestarlo  con  questi  segni  agli  altri , anzi  senza  sapere  neppure , che  cosa  alcuna  si  possa  esprimere  col  pianto,  e colle  grida;  ma  ap>  presso  avendo  imparato , che  con  tali  s(^i  si  ottiene  1’  altrui  soccorso,  cominciano  a valersene  avvertitamente  per  manife-  stare il  loro  dolore,  e ricevere  il  soccorso  che  bramano.  Ciò  di  cui  gli  uomini  si  servono,  per  manifestare  agli  altri  i pro-  pri pensieri , chiamasi  ugno  artificiale.  1 segni  naturali  di-  vengono dunque  naturalmente  s^ni  artiGciali.   Qui  ha  termine  T educazione  della  natura  per  le  nostre  scam-  bievoli comunicazicmi.,  La  natura  ha  insegnato  all’ uomo,  che  egli  può  farsi  intendere  ; e l’ uomo  può  non  solamente  ser-  virsi de’  mezzi,  che  la  natura  gli  ha  mostrato  per  la  comu-  nicazione de’  propri  pensieri  ; ma  può  ancora  ritrovarne  de-  gli altri  simili.  Il  primo  e più  semplice  mezzo  di  comunica-  zione che  si  offre  allo  spirito,  si  è quello  di  ripetere  con  ri-  flessione ciò  eh’  egli  fece  dapprincipio,  senza  prevederne  le  con-  seguenze, cioè  di  riprodurre  quelle  azioni,  per  mezzo  delle  qua-  li ^li  si  è fatto  comprendere.  Così  si  formerà  un  primo  lin-  guaggio, che  può  chiamarsi  linguaggio  della  natura,  poiché  esso  non  si  compone  se  non  che  de’  s^i  naturali,  vale  a  dire  di  quei  s^ni  di  cui  la  natura  aveva  già  senza  di  noi  ri-  vestito i nostri  pensieri  spreti,  per  renderli  sensibili  agli  altri*   §.  31.  Il  lingua^io  della  natura  è insnlHc^te  per  mani-  festare agli  altri  tutt’i  nostri  pensieri.  Noi  abbiamo  al  pre-  sente il  linguaggio  de’suoni  articolari  : i filosofi  disputano  su  l’ origiiK  di  esso  : la  quistione  si  versa  su  l’ esistenza,  e su  la  possibilità,  cioè  si  cerca  ; gli  uomini  hanno  esH  da  se  stes-  si istituito  il  linguaggio  1 Questa  ricerca  suppone  quest’  altra-*  gli  uomini  abbandonati  a u stusi  potevano  istituire  il  linguag-  gio’l  \ nostri  sacri  libri  c’  insegnano,  che  Adamo,  ed  Èva  fu-  rono creati  da  Dio  in  uno  stato  adulto  con  delle  conoscenze  in  istato  di  riflettere,  e di  comunicarsi  i loro  pensieri.  Iddio  ù maqiiestò  all’  uomo  innocente  ne’  primi  istanti  della  crea-  zione. Iddio  è dunque  l’ autore  primitivo  del  lingm^io.  Ma  io  suppongo',  dice  Condillac,  che  qualche  tempo  dopo  il  di-    Digitized  by  Google    67   luvio  due  bambini  dell’  uno,  e dell’  altro  sesso  siensi  trariati  ne’  deserti,  avanti  che  conoscessero  1’  aso  de’  vocaboli.  A fare  questa  supposizione,  egli  dice,  io  sono  spinto  dal  fatto  del  giovane  di  Chartres  rapportato  nelle  memorie  dell’  accademia  delle  scienze,  anno  1703.  Era  questi  dell’età  di  23  a 24  anni  sordo  c muto  di  nascita  : cominciò  con  gran  sorpresa  di  tutta  la  città  tutto  ad  un  colpo  a parlare.  Si  seppe  da  lui;  che  tre  o quattro  mesi  prima  egli  aveva  udito  il  suono  delle  campane,  ed  era  stato  estremamente  sorpreso  da  questa  sen-  sazione novella  ed  incognita.  In  seguito  gli  era  sortita  una  spe-  cie di  acqua  dell’  orecchia  sinistra,  cd  aveva  acquistato  l’udi-  to in  tutte  e due  le  orecchie.  Egli  impiegò  tre  o quattro  mesi  ad  ascoltare  senza  nulla  dire,  assuefacendosi  a ripetere  sotto  voce  le  parole,  ch’ali  udiva,  ed  esercitandosi  nella  pronun-  ciazione,  e nelle  idee  legate  a’  vocaboli.   Io  non  so  come  questo  fatto  possa  autorizzare  il  filosofa  francese,  a fare  la  supposizione  di  cui  parla,  se  non  perché  ciò  mena  a poter  supporre  , che  due  giovani  di  sesso  diverso  sordi  c muti  di  nascita,  possono  traviarsi  ne’  deserti  o ne’  bo-  schi, indi  incontrarsi,  e dopo  l’ incontro  ricever  tutti  e due  r udito.  Questa  supposizione  non  ha  niente  di  assurdo  ; ed  è  perciò  lecito  al  filosofo  di  cercare , se  in  una  tale  supposi-  zione questi  due  giovani  possano  istituire  una  società,  ed  un  linguaggio.  A ciò  si  può  aggiungere,  che  si  rapporta,  esser-  si in  vari  tempi  vari  fanciulli  trovati  ne’  boschi  ; uno  ne  fu  sorpreso  nell’  Asia  l’ anno  1334  in  compagnia  de’  lupi,  un  al-  tro dell’età  di  circa  12  anni  in  Weteravia,  un  altro  di  16  fu  scontrato  fra  una  torma  di  pecore  selvatiche  nell’  Irlanda ,  verso  alla  metà  del  passato  secolo,  un  altro  di  nove  fra  gli  orsi  nelle  selve  della  Lituania  nel  1662  : in  questo  secolo  me-  desimo uno  ne  fu  scoperto  presso  ad  Hamelen  nella  Sasso-  nia, una  fanciulla  presso  a Lwlla  nella  provincia  di  Utrecht,  ed  un’altra  fu  arrotata  presso  Chalons  nel  1731.  Io  per  al-  tro non  comprendo,  come  questi  fanciulli  abbiano  potuto  vi-  vere, se  sono  stati  abbandonati,  o perduti  prima  di  potersi  alimentar  da  se  stessi,  ed  m conseguenza  prima  di  avere  una    Digitized  by  Google    68   lingua.  Si  potrebbe  supporre,  che  avevano  principiato  a par*  lare,  quando  si  smarrirono  ; ma  che  poi  nella  solitudine  ave*  vano  interamente  obliato  quanto  avevano  imparato.   Or  si  domanda  : se  due  di  questi  di  sesso  diverso,  si  fos-  sero per  avventura  incontrati  nella  stessa  foresta , che  sareb-  be egli  avvenuto  ? E per  limitarci  all’  ometto  delle  nostre  ricerche  , domandasi  : avrebbero  essi  istituito  una  lingua  7  Tralitsciando  dunque  , su  l’origine  del  linguaggio,  la  quistio*  ne  di  fatto  , è egli  lecito  di  esaminare  quella  della  possibili-  tà , o di  cercare  se  gli  nomini  abbandonati  a loro  stessi  avreb-  bero potuto  istituire  una  lingua  ? L’  esame  di  una  tal  qui-  stione  è molto  utile,  per  ben  conoscere,  e misurare  le  for-  ze dello  spirito  umano,  e queste  ricerche  ipotetiche  ci  menano  ancora  a risultamenti , che  hanno  luogo  nel  fatto  reale.   Io  aggiungo  dippiìi , che  alcuni  autori  anche  su  l’autorità  de’  nostri  libri  divini , hanno  creduto  , che  le  lingue  attuali  sieno  state  istituite  dagli  uomini  coll’uso  delle  loro  forze  na-  turali : ecco  come  può  essere  accaduta  la  cosa.  Nel  famoso  avvenimento  della  costruzione  della  torre  di  Babele,  per  for-  za miracolosa,  fu  cancellata  dalla  mente  degli  uomini  la  me-  moria intera  del  primitivo  linguaggio:  in  seguito  di  un  tale  miracolo  , gli  uomini  si  divisero  a torme  secondo  i rapporti  di  parentela  e di  amicizia , e si  stabilirono  hi  diverse  parti  della -terra  : furono  dunque  abbandonati  a se  stessi,  per  isti-  tuirsi un  linguaggio  ; e così  perduto  interamente  il  linguag.  gio  primitivo  , dì  cui  era*  stato  autore  Iddio  stesso  , le  nuo-  ve lingue , che  nacquero  su  la  terra  , furono  un  prodotto  dello  spirito  umano.  In  questo  modo  si  spiega  come  gli  uo-  mini perduto,  per  forza  del  miracolo,  il  primitivo  linguag-  gio , non  si  sieno  più  scambievolmente  intesi  ne’  linguaggi  •rispettivi.  Questa  opinione  ammette  un  solo  miracolo,  quale  è quello  della  memoria  perduta  del  linguaggio  primitivo , lad-  dove nell’opinione  contraria  bisogna  supporre  una  gran  mol-  titudine di  miracoli,  l’uno  in  forza  del  quale  gli  uomini  ab-  biano perduto  la  memoria  del  lingua^io  primitivo,  e gli  al-  tri con  cui  Iddio  abbia  istituito  i diversi  linguaggi  , che  eb-    DigiliZL  by  Google    69   bero  luogo  dopo  dell’  avvenimento  ; ora  si  potrebbe  dire  ,  non  e^r  verisimile , che  Iddio  moltiplicasse  inutilmente  i  miracoli.   Checché  ne  sia  di  tale  opinione  , noi  esamineremo  qui  la  quistione  della  possibilifb.  11  rispetto  che  il  filosofo . debbe  alla  religione  divina , che  c’  illumina , mi  ha  condotto  a que-  sta digressione.   §.  32.  Per  esaminar  la  quistione  proposta  continuiamo  la  supposizione  di  sopra , e partiamo  dal  punto  ove  siam  ri-  masti. Abbiamo  veduto  l.°che  gli  uomini  per  natura  si  com-  prendono scambievolmente , 2.°  che  conoscono  di  essere  stati  compresi  ; 3.°  che  con  ciò  si  fanno  naturalmente  un  linguag-  gio artificiale  , che  è il  linguaggio  della  natura.  Vale  a dire  che  fanno  uso  de’  segni  naturali  , per  manifestare  agli  altri  i propri  pensieri.  .Ma  il  bisogno  non  potrebbe  spingere  gli  uomini , a migliorare  , cioè  ad  acrescere  questo  linguaggio  della  natura  , ritrovando  de’  segni  analoghi  ?   n pianto  ed  i gemiti  manifestano  agli  altri  il  dolore  da  cui  un  individuo  è affetto  ; ma  non  manifestano  lyica  la  causa  del  dolore.  Ora  gli  uomini  hanno  spesso  bisogno , per  essere  soccorsi , dì  manifestare  agli  altri  la  causa  del  loro  dolore  :  per  tale  oggetto  alcune  volte  bastano  le  circostanze  : uno  de’  due  suppposti  solitari  cade  in  una  fos.«a  : egli  non  può  senza  l’al-  trui soccorso  cavarsene  fuora  : egli  grida  --  1’  altro  accorre  ,  e si  avvede  della  causa  del  dolore  del  suo  simile.  Parimente  se  uno  de’  due  è inseguito  da  una  bestia  feroce  , e grida  :  l’  altro  conosce  dalla  circostanza  la  causa  del  dolore  del  com-  pagno. Spesso  nondimeno  la  causa  del  dolore  non  apparisce  dalle  circostanze.  Tutti  generalmente  acquistiamo  l’abito , al-  lorché ci  sentiamo  in  alcuna  parte  addolorati,  di  recare  colà  la  mano.  Se  dunque  uno  de’  due  supposti  solitari  sentirà  do-  lore in  qualche  parte  ; egli  griderà , c la  mano  correrà  na-  turalmente alla  parte  addolorata  : l'altro  accorrendo  alle  grida ,  e spingendo  per  avventura  lo  sguardo  là  , dove  è corsa  la  mano  dell’  altro  conoscerà  il  luogo  del  dolore  c se  la  causa  del  dolore  fosse  una  ferita  , o una  contusione , o qualche  al-    Digitized  by  Google    70   tra  cosa  visibile  ; allora  conoscerà  chiaramente  questa  causa.  Qualora  l’ uno  vorrà  porgere  all’  altro  alcuna  cosa,  amendue  stenderanno  la  mano  T uno  per  darla , e l’ altro  per  prenderla .  Questi  moti  della  mano  potranno  da  s^i  naturali  divenire  segni  artificiali  , così  si  potrà  indicare  la  causa  del  dolore  re-  cando la  mano  su  la  parte  addolorata  ; e si  potrà  da  uno  de’  due  individui  volendo  dire  all’ altro  che  non  è vicino  qual-  che cosa  ; e non  volendo  o non  potendo  muoversi , stendere  la  mano  con  entro  la  cosa  che  gli  vuol  porgere.  L’altro  si^  milmente  se  cosa  alcuna  bramerà  aver  dal  compagno , por-  gerà la  mano  vòta  per  prendere  ciò  che  desidera.   Fin  qui  non  si  esce  ancora  dal  linguaggio  della  natura;  ma  già  siamo  al  termine  di  un  altro  linguaggio,  a cui  il  primo  ci  mena..  Vi  sono  due  specie  di  cose,  di  cui  gli  nomini  han-  no bisogno  di  eccitare  le  idee  negli  altri:  alcune  possono  nel  momento  stesso  colpire  i sensi  tanto  di  colui  che  vuol  par*  lare , quanto  di  colui  a cui  si  vuol  parlare;  altre  sono  lon-  tane o almeno  invisibili , e non  esistono  nel  momento,  se  non  che  nello  spirito  di  colui  che  vuol  farsi  comprendere:  riguar-  do alle  prime  basta  , che  colui  che  vuol  parlare,  cioè  che  vuol  farsi  comprendere  ecciti  T attenzione  del  suo  compa-  gno , e la  diriga  su  1’  oggetto  che  gli  vuol  mostrare.  Ab-  biamo veduto  , che  il  gesto  può  esser  naturale  e divenire  un  segno  artificiale  ; ma  alcune  volte  non  è cosi  : supponiamo ,  che  uno  de’  due  solitari  voglia  mostrare  all’  altro  un  ogget-  to lontano  ma  che  può  esser  veduto  ; egli  avvertirà  il  suo  compagno  per  un  grido , ed  allora  che  questi  volgerà  a lui  gli  sguardi , il  primo  dirigerà  Io  sguardo  su  l' oggetto , che  vuole  mostrare  all’altro , e farà  uso  del 'dito  , per  meglio  mostrargli  la  direzione , che  prende  Io  sguardo  suo  : l’ altro  r imiterà,  e la  sua  curiosità  lo  porterà  ad  osservare  ciò  che  occupa  il  suo  compagno.  Questi  gridi,  questi  gesti , formano  una  prima  spezie  di  segni  istituiti,  che  si  possono  chiamare  ugni  indicatori.  Osservate  , che  i segni , di  cui  parlo , non  sono  segni  naturali,  perchè  il  grido  è naturale  nel  dolore  e  nel  piacere:  esso  diviene  da  naturale  artificiale  per  denota-    Digitized  by  Coogle    71   re  il  dolore  , o il  piacere.  Ma  l’ uno  de’  due  solitari  aven-  do osservato  , che  1’  altro  , quando  egli  manda  fuori  il  grido  , diriga  a lui  il  proprio  sguardo , fa  uso  del  grido  per  obbligare  il  compagno  a fissare  su  di  lui  lo  sgiiardo:  cos)  il  grido  si  estende  a denotare  ciò  che  denota  ({uesta  proposizione  : volgiti  a me:  inoltre  lo  stendere  il  dita  verso  1’  oggetto  che  si  vuol  mostrare  non  è un  segno  naturale,  ma  un  segno  analogico,  poiché  vi  ha  Una  similitudine  fra  il  mo-  to che  fa  il  dito , ed  il  moto  che  far  dovrebbe  il  proprio  corpo  per  ginngerc  all’  oggetto , che  si  vuol  mostrare;  que-  sti due  moti  avendo  la  stessa  direzione,  o pure , la  direzio-  ne del  dito  è - identica  colla  direzione,  che  prende  lo  sguardo.  Per  tal  ragione  io  credo  , che  il  gesto , di  cui  parlo  , do-  vrebbe riguardarsi  piuttosto  come  un  segno  mitalko,  poiché  il  moto  del  dito  imita  nella  direzione  il  moto  che  far  dovreb-  be il  proprio  corpo  per  giungere  pel  cammino  più  corto  al-  1’  oggetto , che  si  vuol  mostrare , o pure  imita  la  direzione  dello  sguardo  ; ma  servendo  tal  gesto  ad  indicare  un  (^et-  to, che  può  nello  stesso  momento  colpire  i sensi  de'  due  so-  litari, gli  si  pùò  dare  il  nome  di  segno  indicatore.  Questi  due  segni  indicatori  , di  cui  parliamo,  equivalgono;  a queste  diK  proposizioni  : volgiti  a me  e guarda  là.   Vi  ha  inoltre  de'  segni  imitativi , i quali  servono  a deno-  tare alcune  cose  future,  od  altre  cose  che  nel  momento  non  possono  colpire  i sensi  di  tutti  e due  i solitari.  Supponiamo,  che  uno  di  questi  sia  in  A , 1'  altro  sia  icmtano  ma  a vista  del  primo  in  B,  che  1’  oggetto  lontano  ma  a vista  di  tutti  e  due  sia  in  C ; inoltre  cl»  il  primo  non  potendo  muoversi  per  andare  io  C voglia  manifestare  all’  altro  che  vada  in  C,  e che  prendendo  I’  oggetto  bramato  ivi  posto,  lo  rechi  a lui  in  A ; ecco  come  io  immagino , che  la  cosa  potrà  farsi  : il  primo  con  un  grido  ecciterà  1'  attenzione  del  compagno:  indi  stenderà  il  dito  nella  direzione  della  linea  fra  A e B:  poi  la  muoverà  nella  direzione  di  una  linea  parallela  a quella 'fra  B e C:  con  questo  moto  egH  dirà  al  compagno  che  vada  da  B in  C,  c questo  moto  sarà  un  sogno  imitativo  del  moto  che    Digitized  by  Google    72   il  compagno  dee  fare  , per  secondare  il  desiderio  dell’  altro  ' io  A : questo  moto,  che  H compagno  dee  fare , è una  cosa  futura,  che  non  pnò  nel  momento  colpire  i sensi  de’ due  so-  litari : ecco  dunque  come  con  de’  segni  imitativi  si  possono  denotare  gli  oggetti  assenti.  Supponiamo  inoltre,  che  l' indi-  viduo posto  in  B si  conduca  in  C:  l’ altro  che  si  trova  in  A  stenderà  il  suo  braccio  da  A verso  C in  posizione  orizzonta-  le, indi  farà  un  moto  col  braccio,  imitativo  di  quello  che  dee  fare  il  compagno  per  prendere  T oggetto  posto  in  C : dopo  di  ciò  ritornando  a mettere  il  braccio  nella  stessa  posizione  orizzontale,  lo  ritrarrà  a se  con  un  moto  contrario  a qfuello,  con  cui  r ha  steso  , e che  sarà  imitativo  di  quello , che  dee.  fare  il  compagno  per  venire  da  C in  A.  Con  i s^ni  imitati-  vi dunque  si  pò^no  denotare  le  cose  invisibili  nel  momen-  to. Questi  s^i  imitativi  si  possono  eseguire  in  vari  modi  :  così  per  denotare  una  serpe  si  può  su  l’arena  designare  la  sua  forma,  o il  suo  moto  tortuoso.   §.  33.  Abbiamo  veduto,  che  vi  sono  de’  s^i  naturali  delle  nostre  interne  modificazioni , e che  questi  segni  possono  di-  venire artificiali , e così  costituire  un  primo  linguaggio,  che  abbiamo  chimato  linguaggio  della  natura.  Abbiamo  detto  inol-  tre nel  §.  antecedente , che  1’  uomo  può  con  altri  s^ni  ac-  crescere questo  linguaggio  della  natura;  ed  abbiamo  chiamato  i s^i,  che  accrescono  il  linguaggio  della  natura,  segni  in-  dicatori , e segni  imitativi.  Ora  qual  principio  può  guidare  r uomo  a ritrovare  le  ultiqie  specie  di  segni  ?   Nella  logica  pura  vi  ho  detto  , che  lo  spirito  è naenato  nel  passare  analiticamente  da  una  proposizione  ad  un’  altra,  ad  una  certa  similitudine  che  passa  fra  1’  una  e 1’  altra;  il  prin-  cìpio della  similitudine  è dunque  un  principio  d’ invenzione,  e questo  principio  ha  condotto  gli  uomini  , partendo  dal  lin-  guaggio della  natura,  a ritrovare  i segni  indicatori,  ed  i se-  gni imitativi,  queste  due  specie  di  segni  possono  perciò  chia-  marsi segni  analogici.  Difatto  fra  il  moto  del  miodito  , con  cui  mostro  l’ oggetto  lontano,  ed  il  moto  che  dovrei  fare  col  mio  corpo  , per  arrivare , pel  cammino  più  breve  , all’  og-    Digitized  by  Google    73    getto,  vi  si  osserva  una  similitudine:  una  certa  similitudine  si  os-  serva eziandio  trai  segni  imitativi  e ciò  di  cui  sono  l'imitazione.   X>e  interne  modìGcazioni  dello  spirito  possono  manifestarsi  per  mezzo  de’  moti  del  corpo.  Il  desiderio  , il  rifiuto,  l’ av-  versione, il  disostosi  esprimono  per  mezzo  de’moti  del  braccio,-  della  testa,  e per  mezzo  di  quelli  del  corpo  intero,  moti  piò  o meno  vivi,  secondo  la  vivacità,  con  cui  ci  portiamo  verso  di  un  (^getto,  o ce  ne  allontaniamo.  Tutti  i sentimenti  del-  1’  anima  possono  esser  espressi  dalle  posizioni  del  corpo.  Esse  dipingono  di  una  maniera  sensibile  l’ indifferenza,  l’ incertezza,  r attenzione  , e le  altre  affezioni  interne.  Ora  se  ripetendo  queste  azioni,  e posizioni  del  corpo,  si  denota  insieme,  che  esse  non  si  riferiscono  ad  affezioni  presenti  , allora  denoteranno  le  modificazioni , da  cui  siamo  stati  affetti.   L’  analògia  acquista  spesso  una  grande  estensione.  Cosi ,  per  esempio , quando  voglio  attendere  ad  un  oggetto  , die  colpisce  i miei  occhi,  dirigo  lo  sguardo  verso  di  esso:  questa  direzione  è segno  dell’  attenzione  dello  spirito  ; ma  io  posso  ancora  rivolgere  la  mia  attenzione  ad  oggetti  invisibili  : se  dunque  per  denotare  questa  ultima  attenzione,  mi  servo  della  -  direzione  dello  sguardo  ; questo  segno  si  estende  al  di  là  di  ciò,  che  naturalmente  denota.  Allora  che  io  peso  un  corpo,  lo  paragono  ad  un  altro  ; pesare  è dunque  paragonare  ; ma  paragonare  non  è sempre  pesare;  perciò  quando  per  esprimere  l’azione  intellettuale  che  paragona,  io  prendo  nelle  due  mani  de’  corpi , come  fo  quando  viglio  pesarli , questa  azione  è  trasportata  a denotare  più  di  quello  che  denotava  in  origine.  Questa  terza  specie  di  segni,  che  l’analogìa  somministra  agli  nomini , si  possono  chiamare  segni  figurali.   L’  unione  de<  segni  indicatori  , imitativi , o figurati  costi-  tuisce il  linguaggio  analogico.  Cosi  i segni  naturali , divenendo  artificiali , costitoiscono  il  linguaggio  della  natura  : gli  uomini  guidati  dal  principio  della  similitudine,  partendo  dal  principio  della  natura , inventano  il  linguaggio  analogico.   §.  34.  Ma  fa  d’uopo  considerare  l’ultimo  linguaggio,  di  cui  abbìam  parlato  , in  colui  che  per  parlarlo  lo  trova:  ed    Digilized  by  Google    74   in  colui  che  l’intende.  Nel  primo,  il  principio  della  simili-  tudine guida  la  meditazione  a produrre  nuove  idee  ; nel  se-  condo il  principio  della  similitudine  riproduce  alcune  idee  si-  mili a quelle  , che  modiBcano  attualmente  lo  spirito.  Quando  .  colui  che  vuol  parlare  fa  uso  il  primo  di  alcuni  gesti , per  denotare  alcuni  dati  pensieri,  ^li, guidato  dall’analogia,  in-  venta questi  segni , e qu^ti  s^ni , e questa  invenzione  è un  prodotto  della  meditazione  ; ma  colui  che  ascolta  intende  questi .  s^ni  in  forza  del  principio  meccanico  deH’associazione  dellé  idee.   Fra  i principi  particolari  compresi  sotto  questo  principio  generale,  si  contiene  come  abbiamo  detto  nella  Psicologia,  il  principio  della  similitudine  : in  forza  di  questo  principio  il  moto  del  dito  riproduce  l' idea  del  moto  simile  del  corpo  in-  tero , e questa  riproduce  quella  delle  modificazioni  interne  dello  spirito  legate  col  moto  del  corpo  intero.  Colui  che  istituisce  il  linguaggio  per  farsi  intendere  è attivo  : quegli  che  intende  il  linguaggio  btituito  è passivo.  I gesti  , i moti  del  vbo,  ed  i suoni  inarticolati  costitubeono  il  linguaggio  chia-  mato da  CondxUac  linguaggio  di  aziona.  Su  di  esso  debba  fare  ancora  due  osservazioni.  1..°  un  tal  linguaggio  esiste  ancora*.  esso  accompagna  quello  de’  suoni  articolati  ; un  oratore  parla  eziandio  coi  gesti  , colla  posizione  del  corpo  , co’  moti  del  vbo  , e principalmente  co’ moti  degli  occhi.  Ciò  che  si  chbma  mimica  consiste  appunto  nell’  arte  di  far  concordare  il  lin-  guaggio di  azione  con  quello  de’ suoni  articolati  : 2.°  col  solo  linguaggio  di  azione , anche  dopo  T istituzione  di  quello  de’  suoni  articolati, alcune  nazioni  incivilite  esprimevano  de’  lunghi  discorsi.  Presso i Romani  i pantomimi  rappresentavano  de’ pezzi  interi,  senza  proferire  una  parola,  ^li  bisognava  dunque , che  i pan-  tomimi , partendo  dal  linguaggio  della  natura  prendessero  l’  analogb  per  guida , e così  poterono  pervenire  a farsi  in-  tendere. La  scrittura  santa  ci  somministra  ne’  profeti  molti  esempi  di  questo  linguaggio  analogico  di  azione.  Così  , per  darne  un  esempio , ad  (^getto  di  denotare  che  la  Giudea  ch’era  imita  con  Dio , sarebbe  poi  stata  da  Dio  rigettata  c dispersa  per  la  sua  superbia  ed  idolatria  , il  profeta  Geremia  *,  per    ■0:-    Digitized  by  Google    73   ordine  di  Dio  , si  cinge  con  una  cintura  di  lino  i lombi , indi  si  toglie  questa  cintura  , e presso  T Eufrate  in  un  forame  di  una  pietra  la  nasconde  : dopo  molti  giorni  ritorna  a prendere  la  nascosta  cintura  , e la  trova  infracidita  in  modo  , cf)’  era  inutile  per  qualunque  uso.  Nella  profezia  di  Geremia  si  possotm  trovare  molti  esempi  di  questo  linguaggio  analogico  di  azione.   §.  35.  Se  i moti  del  nostro  corpo  da  segni  naturali  diven*  gono  segni  artificiali  , e se  questo  linguaggio  può  essere  ac-  cresciuto dall’analogia,  quello  de’ suoni  che  da  naturali  sono  ancora  divenuti  s^ni  artificiali,  non  potrà  similmente  essere  accrescinto  dall’  analogia  stessa  7 Se  il  selvaggio , per  deno-  tare il  moto  che  dee  fare  , secondo  il  suo  desiderio , il  suo  compagno  , può  servirsi  del  moto  simile  del  suo  dito , per-  chè per  denotare  il  muggito  del  bove  , il  belare  delle  peco-  re , il  rumore  del  tuono , non  potrà  egli  adoperare  un  suo-  no simile  7 L'  analogia  che  1’  ha  menato  all’  invenzione  dei  primi  segni , dee  menarlo  ancora  all’  invenzione  de’  secondi.  Il  bisogno  di  denotare  questi  suoni  degli  oggetti  sonori,  me-  na il  sdvaggio  a produrre  fuori  de’  suoni  imitativi  , e così  nascono  le  -prime  voci  radicali  del  linguaggio  de’  suoni  arti-  colati. Questi  suoni  non  poterono  essere  dapprincipio  se  non  che  monosillabi , come  lo  prova  l’ esempio  de’  fanciulli.  Ma  l’analogia  non  fu  il  solo  principio  del  linguaggio  de’ suoni  alticolati,  poiché  non  sempre  si  debbono  denotare  suoni,  o  cose  sonore.  Per  denotare  dunque  le  cose  che  non  mandano  suono , l' analogia  fece  però  conoscere  agli  uomini , che  po-  tevano servirà  de’  suoni  articolati , per  farà  comprendere.  Ciò  posto  se  il  selvaggio  si  trovò  nel  bisogno  di  farsi  com-  prendere , se  non  trovò  altro  mezzo  per  ottenere  il  suo  fi-  ne , se  non  quello  dei  suoni , perchè  non  potè  egli  produr-  re un  suono  arbitrario , il  quale  poi  compreso  dall’altro  di-  venne un  segno  comune  7   Per  rendere  sensibile  ciò  che  dico , supponiamo  , che  ì  due  solitari  immaginati  siensi  perduti  di  f bta  , e che  l’ uno  voglia  ritrovar  1’  altro  , egli  conoscerà  certamente , che  non  potrà  far  comprendere  all’  altro  questa  sua  volontà  , se  non    Digitized  by  Coogle    76   che  per  mezzo  di  un  suono.  Egli  manderà  dunque  fuori  un  grido  ; questo  grido  da  principio  non  sarà , come  ognun  ve-  de, se  non  che  un  puro  effetto  naturale.  Se  il  dolore  è na-  tiiralinente  sonito  da  un  suono  inarticolato  , dal  pianto  e  dal  gemito  ; perchè  il  bisogno  di  spiegarsi , e di  mandar  fuori  un  suono  , non  potrà  esser  seguito  da  un  suono  quale  che  siasi  ? Noi  non  poliamo  determinar  la  ragione  , per  cui  il, selvaggio  manda  fuori  un  tal  suono  piuttosto  che  un  altro  , come  volendo  camminare  non  possiamo  conoscere  la  ragione  , perchè  abbiamo  mosso  il  piede  diritto  anzi  che  il  sinistro , o questo  anzi  che  quello.  Questa  ragione  può  consistere  , almeno  in  parte , nella  varia  posizióne  meccr-  nica  del  nostro  cervello  , e generalmente  di  tutto  il  no-  stro corpo.  Ma  saniamo  lo  sviluppa  della  nostih  ipotesi.  L’  altro  selvaggio  sentendo  il  grido  , di  cui  si  parla , ac-  corre a ritrovare  il  suo  compagno,  e come  amendue  avran-  no osservato,  che  un  tal  grido  ha  la  forza  di  fs^r  che  l’uno  ritorni  all’  altro  , i due  solitari  se  ne  serviranno  appostata-  mente.  lu  tal  caso  la  voce  di  cui  parliamo  ha  lo  stesso  si-  gnificato del  verbo  vieni.  Può  dunque  1'  uomo  ritrovare  dei  suoni  articolati  non  imitativi , per  denotare  agli  altri  le  sue  interne  modificazioni.  Egli  può  trovarsi  nel  bisr^no  di  farsi  comprendere  dal  suo  simile  con  un  suono  : da  un  tal  biso-  gno nasce  la  volontà  di  mandar  fuori  un  suono:  questa  vo-  lontà avrà  il  suo  effetto  , ed  un  suono  sarà  da  lui  mandato  fuori;  questo  suono  sarà  tale  e non  altro,  perchè  tale  e non  ^Itro  è lo  stato  fisico  del  corpo  , che  produce  il  suono  , e  lo  stato  morale  ancora  dello  spirito  animatore  di  questo  cor-  * po.  Ecco  spigata  la  nascita  de’  suoni  arbitrari.  Ciò  che  ho  detto  è provato  coll’  esempio  de’  fanciulli:  eglino  innanzi  che  abbiano  appreso  a parlare,  quando  bramano  alcuna  cosa  ar-  dentemente, nell’atto  che  si  sforzano  di  acceimarla  co’gesti ,  e co’  movimenti  del  corpo , per  lo  più  proferiscono  insieme  una  qualche  voce  ; poiché  lo  spirito  quando,  si  trova  in  qual-  che grave  bisogno  mette  ad  un  tempo  tutte  le  sue  facoltà  in  azione.  Questo  è comune  alle  bestie  ancora.  Anzi  i sordi  muti    Digilized  by  Google    77   medesimi,  benché  nemmeno  sappiano  di  aver  voce,  ciò  non  ostante  per  non  so  qnal  movimento  meccanico,  mentre  s'im-  pegnano di  spiegarsi  co’lorogesti,  principalmràtc  quando  si  trat-  ta di  cose  , che  molto  l’ interessano  , e che  non  possono  fa-  cilmente farsi  comprendere  , mandano  anch’essi  quando  una,  e quando  un’  altra  voce.   §.  36.  Gli  uomini  possono  dunque  istituire  de’  suoni  arti-  colati analogici,  e possono  istituire  ancora  de’  suoni  articola-  ti arbitrari.  Io  li  chiamo  arbitrari,  non  già  perchè  son  pro-  dotti senza  una  ragion  sufficiente;  ma  perchè  non  sono  imi-  tativi, o analogici.  Qiìal  similitudine,  per  esempio,  può  mai  trovarsi  fra  questo  suono  Cielo,  ed  il  complesso  delle  sensa-  zioni visuali  , che  ci  desta  in  una  notte  tranquilla  il  firma-  mento 7 £ perchè  la  costituzione  fisica  e morale , in  cui  si  son  trovati  gl’  inventori  delle  lingue  , allora  che  furono  ndl  bisogno,  di  denotare  con  un  suono  uno  stesso  oggetto,  è sta-  ta varia  non  solamente  per  la  natura  , e per  gli  abiti  con-  tratti , ma  eziandio  per  i climi,  ed  i siti  ; perciò  in  diversi  luoghi  di  questo  globo  terraqueo  nacquero  diversi  suoni  pri-  mitivi, come  è provato  per  le  radici  di  tutte  le  lingue  co-  gnite. V .   §.  37.  n fatto  de’  fanciulli  prova  senza  replica  , che  gli  uomini  possono  arrivare  a comprendere  il  linguaggio  arbitra-  rio. E meditando  attentamente  su  di  questo  fatto  st  può  in-  tendere come  ciò  possa  avvenire.  Supponiamo  che  un  fanciul-  lo' abbia  appreso  il  significato  del  vocabolo  gallina  , il  che  può  accadere  unendosi  da  alcuno  alla  prouunciazionc  del  vo-  cabolo gallina  l’ indicazione  del  volatile  dal  vocabolo  deno-  tato : supponiamo  inoltre,  che  il  fanciullo  abbia  veduto  una  gallina  morta  e che  il  giorno  seguente  ascolti  da  uno  della  famiglia  questa  proposizione:  la  gallina  jeri  morì,  si  accor-  gerà che  si  vuole  denotare  1’ avvenimento,  del  la  morte  della  gallina , accaduto,  il  giorno  innanzi.  Supponiamo  ancora  che  la  proposizione:  la  gallina  jeri  mori  siasi  udita  più  volte  dal  fanciullo  in  modo  che  egli  1'  abbia  impressa  nella  sua  me-  moria ; « che  avendo  veduto  ima  cagna  partorita  il  giorno    Digitized  by  Coogle    78   avanti , c sapendo  il  signifìcato  del  vocabolo  tagm  , ascolti  la  seguente  proposizione  : la  cagna  jeri  partorì',  ecco  la  se-  rie de’  fatti  intellettuali  che  in  tal  caso  avranno  luogo  nello  spirito  del  fanciullo:  l.°  egli  intenderà  che  colla  proposizone,  la  cagna  jeri  partorì,  si  denota  il  parto  della  cagna  da  lui  il  giorno  antecedente  osservato:  2.*  la  pronunciazione  del  vo-  cabolo jeri,  per  la  le^  dell’associazione  delle  idee,  riprodur-  rà nel  suo  spirito  l’altra  proposizione  , la  gallina  jeri  mor\\  3.°  volendo  intendere  il  significato  di  ciascun  vocabolo  delle  due  proposizioni,  il  fanciullo  dirigerà  la  meditazione  su  le  stes-  'se;  4.”  paragonando  le  due  proposizioni  fra  di  esse  , e coi  fatti  dalle  stesse  denotate,  non  meno  che  i fatti  stessi  fra  di  loro  , il  fanciullo  vede  che  le  due  proposizioni  sono  identi-  che nel  vocabolo  jeri]  e che  i due  fatti  significati  sono  iden-  tici nella  circostanza  del  tempo  in  cui  sono  accaduti;  essen-  do tutti  e due  accaduti  nel  giorno  precedente  a quello  in  cui  si  parla:  5.°  con  questi  paragoni  il  lànciullo  intenderà  il  significa-  to del  vocabolo  jeri  isolatamente  considerato,  6.°  dopo  di  ciò  comprenderà  eziandio  il  significato  isolato  de’  vocaboli  mori  « partorì  ; poiché  avendo  compreso  il  significato  in  confuso  delle  due  proposizioni,  ed  indi  il  significato  distinto  del  vo-  cabolo jeri,  e sapendo  dall’  altra  parte  il  significato  distinto  de’  vocaboli^  gallina,  e cagna,  conoscerà , che  i vocaboli  mo-  ri e partorì  sono  destinati  a denotare  i due  avvenimenti,  e ne  apprenderà  perciò  il  loro  distinto  significato.   Questo  esempio  fa  vedere  che  i fanciulli  meditano  prima  di  apprendere  il  linguaggio  più  di  quello  che  comunemente  si  crede  ; e che  le  nozioni  soggettive  d’ identità  , e dì  diversità  sono  antecedenti  alla  conoscenza  della  propria  lìngua,  e ser-  vono ai  fanciulli  per  farla  loro  apprendere.   §.  38.  Nell’  Ideologia  vi  ho  detto , che  i vocaboli  o de-  notano gli  oggetti.de’  nostri  pensieri , o l’ azione  dello  spirito  su  di  questi  oggetti  : Pietro  è con  Paolo  , i vocaboli  Pietro  e Paolo  denotano  gli  oggetti  de' nostri  pensieri  ; i vocaboli  ^,  con  denotano  I’  azione  dello  spirito  su  dì  questi  (ggetti.  Ma  ciò  richiede  ancora  una  ma^iore  spiegazione.  Il  vocabolo  4    Digitized  by  Google    79   significa  r azione  dello  spirito  , che  attribuisce  a Paolo  il  rap-  porto di  compagnia  con  Pietro.  Ma  acciocché  lo  spirito  avesse  la  nozione  soggettiva  di  tal  rapporto , è necessaria  la  com-  parazione di  Pietro  con  Paolo'  riguardo  alla  loro  esistenza  in  un  certo  tempo , ed  in  un  certo  spazio  ; questa  comparazione  aggiunge  all'  idea  assoluta  di  Paolo  il  rapporto  di  compagnia  con  Pietro  : la  voce  con  esprime  un  tal  rapporto , e per  questa  ragione  un  tal  vocabolo  può  riguardarsi  eziandio  come  segno  dell’  azione  dello  spirito  che  compara.  Pur  tuttavia  essendo  il  rapporto  uq  prodotto  della*  comparazione  preliminare  all’  atto  del  giudizio , pare  che  sia  ma^ior  esattezza  il  di^nguere  i  vocaboli  , che  denotano  1’  azione  dello  ^irito , in  vocaboli  di  giudizio  ed  in  vocaboli  di  rapporto.  £ questa  distinzione  si  trova  in  un  opuscolo  di  Mariano  Gigli,  ìatÀUAato-Metafùica  del  linguaggio. Secondo  questa  osservazione  i vocaboli  si  distinguono  in  vocabbli  di  cosa,  in  vocaboli  di  giudizio  ed  in  vocaboli  di  rapporto.  Così  nella  proposizione:  Pietro  è con  Paolo , i vo-  caboli Pietro,  c Paolo  son  vocaboli  di  cosa,  il  vocabolo  i,  espri-  mendo l’atto  del  giudizio,  è vocabolo  di  giudizio,  ed  il  vo-  cabolo con  è vocabolo  di  rapporto  : esso  denota  insime  l’azione  comparativa,  ed  il  rapporto  di  questa  azione.   Secondo  la  grammatica  generale  e ragionata  di  Portoreale,  ■  ■ vocaboli  si  distii^cno  in  due  classi,  alcuni  significano  gli  oggetti  de’  nostri  pensieri , altri  significano  la  forma  , e la  maniera  de’ nostri  pensieri  di  cui  la  principale  è il  giudizio.  Questa  distinzione  mi  sembra  giusta , cd  in  seguito  di  ciò  che  abbiamo  detto  è chiara.   I vocaboli  materialmoite  considerati  sono  o radicali , o de~  rioati , 0 toHituiti.  Radicali  , o primitivi  son  quelli , che  non  nasc<mo  da  altra  voce  conosciuta  ed  usata  nella  medesima  lin-  gua , come  tote  , dolce  , fuggire  ec.  Derivati  son  quelli,  che  provengono  da  voci  conosciute , ed  usate , nella  medesima  lin-  gua , come  talare,  dolcezza,  fuggitivo ee.  Sostituiti  son  quelli,  che  per  maggiore  chiarezza  , e per  brevità  si  pongono  in  luo-  go di  altre  voci  conosciute  , ed  usate  nella  medesima  lingua,  come  mio  pensante  ec.  per  di  me,  che  pensa  ec.    Digitized  by  Google    80   È facile  a eomprendei  si  , che  ritrovati  i vocaboli  radicali  r analogia  ha  menato  gli  uomini  a ritrovare  i vocal>oti  deri-  vati, e sostituiti,  e cosi  ad  accrescere  notabilmente  il  linguaggio.  Difatti  quanti  nomi  sostantivi  non  si  possono  trarre  dagli  aggettivi,  quanti  aggettivi  da'  sostantivi,  quanti  nomi  da'verbi,  quanti  verbi  da'  nomi  ? I sostantivi  nerezza , bianchezza  ,  lunghezza  ec.  tutti  vengono  da  nero,  bianco,  lungo;  gli  ag-  gettivi celeste,  terrestre,  marmo  ec.  derivano  da  cielo,  terra,  mare;  i nomi  speranza  , amore , dolore,  volontà  ec.  derivano  dai  verbi  sperare,  amare,  dolere*  volere.  1 wirbi  velare,  ve-  stire ec.  nascono  da  velo,  veste.  Inoltre  quante  parole  formar  non  si  possono  dall’  unione  di  due  o più  altre?  I latini  unen-  » do  il  verbo  esse  a varie  proposizioni,  ne  facevano  adesse,  ab-   esse , obesse  ,*  inesse  , processe  , prodesse  , subesse;  superesse,  interesse.  Dall’  unione  poi  di  un  nome  e di  un  verbo,  quanti  altri  composti  facessero  i greci  e gli  ebrei,  e quanti  ne  faccia-  no i cinesi,  e tutti  gli  orientali,  è abbastanza  noto  agli  eru-  diti. Tutte  le  lingue  originali,  che  diconsi  lingue  madri,  han-  no pochissime  radici  primitive , per  mezzo  delle  varie  com-  binazioni di  queste  compongono  un  gran  numero  di  vocaboli.   §.  39.  Gli  uomini  dunque  , per  manifestare  agli  altri  i  propri  pensieri,  hanno  potuto  istituire  il  linguaggio  dei  suo-  ni articolati.  Questa  invenzione  è la  causa  principale,  che  ha  condotto  il  geqere  umano  a quel  grado  di  coltura  e di  per-  fezione , in  cui  oggi  lo  vediamo.  Nell'  Ideologia  vi  ho  fatto  conoscere  come  il  lir^uaggio  faccia  1'  analisi  del  pensiere , e  come  sia  un  valevole  soccorso  per  la  meditazione.  Ma  indi-  pendentemente dalla  influenza  che  ha  pel  progresso  delle  nò-  stre conoscenze,  considerato  riguardo  all’  individuo  che  se  ne  serve,  ne  ha  una  notabilissima  considerato  riguardo  alla  so-  cietà , e relativamente  all’  individuo,  che  ascolta  e riceve  le  altrui  conoscenze.  Il  linguaggio  può  essere  considerato  come  un  mezzo  , che  fa  progredire  lo  spirito  nella  propria  medi-  tazione ; ed  ancora  come  un  mezzo  di  comunicazione  scam-  bievole de’  pensieri  degli  uomini:  nel  primo  caso  serve  d’ is-  trumento  all’  azione  meditativa , per  ritrovare  la  verità;  nel    Digilized  by  Google    81   secondo  presenta  allo  spirito  de’  nuovi  materiali  per  le  sue  conoscenze.  Nell’  Ideologia  1’  abbiamo  considerato  sotto  il  pri-  mo aspetto;  qui  fa  d’ uopo  considerarlo  sotto  il  secondo.   Gli  uomini  non  potendo  esistere  in  tutti  i luoghi  > nè  in  tutti  i tempi  ; segue  che  non  tutti  possono  osservare  tutti  i  fatti  ; un  Uomo  può  perciò  aver  osservato  de’  fatti , che  un  altro  non  ha  osservato.  Se  dunque  il  primo  comunica  al  se-  condo le  sue  osservazioni,  questi  conoscerà  de’  fatti  che  non  ha  osservato  ; e questa  conoscenza  avrà  per  motivo  1’  altrui  testimonianza,  e costituisce  ciò  che  si  chiama  certezza  morale^  Domandate,  per  esempio,  ad  un  napolitano,  il  quale  non  sia  mai  uscito  di  questa  città  , perche  egli  creda  l’  esistenza  di  tante  altre  città  , di  Roma  , di  Milano,  di  Parigi,  di  Madrid  di  Londra  ec.;  vi  addurrà  per  motivo  la  testimonianza  di  al-  tri uomini,  che  hanno  veduto  le  città  nominate,  ed  egli  sa-  rà tanto  certo  dell’  esistenza  di  queste,  quanto  lo  sarebbe,  se  le  vedes»  co’ propri  occhi.   Non  basta,  che  un  uomo  conosca  un  fatto,  che  un  altro  ignora,  è necessario  che  abbia  la  volontà  di  narrare  il  vero,  afllnchè  l’altro  non  fosse  dalla  testimonianza  del  primo  in-  gannato. Per  disgrazia  dell’  umanità  la  volontà  d’ ingannare  i  propri  simili  si  trova  non  poche  volte  negli  uomini  ; e non  poche  volte  ancora  accade,  che  gli  uomini  ingannino  non  già  perchè  vogliono  ingannare;  ma  perchè  o non  hanno  conosciuta  esattamente  il  vero,  o sono  stati  da  altri  ingannati.  Da. ciò  lo  scetticismo  ha  preso  il  motivo  di  combattere  la  certezza  mo-  rale. Ma  dicano  quello  che  vogliono  gli  scettici,  l’esperien-  za ci  manifesta  queste  due  verità,  l,°un  uomo  può  aver  co-  nosciuto de’  fatti,  che  un  altro,  o non  ha  potuto  conoscere,  o non  ha  conosciuto;  2.°  vi  sono  alcuni  fatti  di  tal  natura,  su  de’  quali  non  si  trova  giammai  concordemente  fallace  la  te-  stimonianza di  coloro,  che  gli  hanno  osservati.  Non  si  è tro-  vata giammai  fallace  la  testimonianza  di  coloro  che  sono  stati  in  Napoli , nello  assicurarmi  dell’  esistenza  di  questa  città  ;  r esperienza  stessa  me  ne  ha  assicurato  , poiché  essendo  io  stato  in  Napoli,  ho  ammirato  io  stesso  co’ miei  occhi  questa  Call.  Vob,  IL  6    Digilized  by  Google    82   magnifica  città  , ed  ho  così  trovata  verace  l’ altrui  testimo-  nianza: la  stessa  esperienza  ho  ripetuto  circa  molti  altrifat-  ti. È dunque  una  verità  di  esperienza  quella  che  stabilisce  ,  essere  la  concorde  testimonianza  di  altri  nomini,  circa  alcu-  ni fatti , un  motivo  leggittimo  dei  nostri  giudizi  Vi  sono , è vero , degli  uomini  che  narrano  de'  fatti , de’  quali  non  sono  stati  testimoni  oculari,  e su  de’ quali  sono  stati  da  altri  ingannati  ; e vi  sono  ancora  di  quelli , che  volontaria-  mente mentiscono.  Ma  vi  sono  eziandìo  de’  testimoni  non  so-  lamente oculari  di  alcuni  fatti  ; ma  testimoni  tali  che  non  somministrano  alcun  motivo  di  dubitare  della  loro  veracità.  È questa  una  verità  che  la  propria  giornaliera  esperienza  ci  manifesta.  Chiunque  non  ha  veduto  Napoleone  Bonaparte,è  sicuro  nulla  dì  meno , per  la  testimonianza  di  altri , che  vi  sia  stato  un  uomo  così  chiamato , il  quale  ha  esercitato  il  som-  mo potere  nella  Francia , ha  perduto  poi  il  trono , ed  è morto  prigioniero  nell’  Isola  di  S.  Siena.  A suo  luogo  parleremo  de’  limiti  della  certezza  morale  : qui  mi  son  ristretto  a stabi-  lire la  sua  esistenza  : per  istabilirla  ho  stimato  di  salire  a’suoi  pri-  mi princìpi.  Ho  fatto  vedere , che  un  uomo , può  intendere  un  altro  , che  l’ nomo  può  voler  essere  inteso  ; e che  da  ciò  nasce  il  primo  linguaggio  chiamato  linguaggio  della  natura  ;  che  r analogia  può  accrescere  un  tale  linguaggio  , e far  na-  scere ancora  alcuni  vocaboli  radicali  analogici  ; che  il  biso-  gno può  menare  poi  gli  uomini  a stabilire  altri  vocaboli  ra-  dicali arbitrari  ; e che  così  ha  potuto  nascere  il  linguaggio ,  de’  suoni  articolati.  L’esperioiza  m’insegna , che  vi  sono  delle  cose  circa  le  quali  altri  non  s’ ingannano  , nè  si  propongono  d’ ingannarmi.  Da  ciò  concludo,  che  l’altrui  testimonianza  ,  cioè  il  linguaggio  volontario  degli  altri  nomini, può  in  molti  casi,  circa  ì fatti , essere  un  motivo  legittimo  de’ nostri  giu-  dizi. Io  non  posso  coesistere  a tutte  le  generazioni , ed  a  tutti  i luoghi.  La  mia  durata  è breve  : il  mio  luogo  è quasi  un  punto  nello  spazio.  Intanto  vi  sono  moltissime  cose , die  m’ importa  di  conoscere , e che  sono  accadute  prima  della  mìa  nascita, o che  accadono  in  luoghi  più  o meno  lontani  da  quello    Digitized  by  Coogle    83   ove  io  mi  trovo.  La  testimonianza  altrui  mi  è dunque  neces*  saria  per  1’  acquisto  di  tali  conoscenze.   §.  M.  Il  linguaggio  de’  suoni  è un  linguaggio  passeggierò  e limitato  ad  alcuni  luoghi.  Un  uomo  , che  per  mezzo  delle  parole  comunica  agli  altri  i suoi  pensieri , non  può  farlo , se  non  che  nel  tempo  in  cui  egli  parla , e ne’  luoghi  ne’  quali  può  estendersi  il  suono  delle  sue  parole.  Un  gran  problema  presentai  al  genere  umano  : il  problema  consiste  a trovare  il  mezzo  di  estendere  a tutti  i tempi , ed  a tutti  i luoghi , il  lingua^io  limitato  della  parola.  Voi  già  comprendete  l' im-  portanza del  problema  enunciato , e che  la  soluzione  di  esso  dee  formare  la  seconda  epoca,  del  progresso  delle  umane  co-  noscenze ponendo  la  prima  nella  nascita  del  linguaggio  parlato.  I fatti  ovvi  e ripetuti  incessantemente  sogliono  destar  poco  r attenzione  del  volgo  degli  uomini  , e perciò  non  gli  recano  sorpresa  . Vi  ho  fatto  sopra  osservare  quale  studio  fanno  i  fanciulli  per  apprendere  , sin  da’  loro  primi  anni , il  linguag-  gio della  parola  ; intanto  si  crede  forse , che  essi  non  me-  ditino affatto  ; appunto  perchè  comunemente  iiiuno  cerca  di  conoscere  come  i fanciulli  apprendano  tal-  linguaggio.  Vi  ho  detto  nel  secondo  capitolo  della  logica  pura , essere  un  errore  il  credere  , che  le  cose  sieno  state  in  tutti  i tempi , come  sono  in  un  certo  tempo;  e qui  è il  luogo  di  fare  uso  di  questa  importante  osservazione.   La  nostra  educazione  letteraria  incomincia  , dal  fare  ap-  prendere a’  fanciulli  le  lettere  dell’  alfabeto;  ma  v’ingannereste  credendo , che  la  scrittura , vale  a dire  , l’arte  di  dipingere  la  parola  e di  parlare  agli  occhi  , sia  stata  conosciuta  nella  prima  fanciullezza  del  genere  umano  : ^no  scorsi  de’  secoli  prima  che  siensi  trovate  le  lettere  dell'  alfabeto  : la  scrittura  non  è stata  conosciuta  che  molto  tardi.  Siccome  questa  ci  somministra  un  motivo  molto  fecondo  di  conoscenze  , cosi  è  necessario , dopo  di  aver  cercato  l’origine  del  linguaggio  parlato ,  di  cercar  quella  del  linguaggio  scritto.   §.  41.  Qual  mezzo  si  può<  presentare  agli  uomini  , per  perpotuafc  la  memoria  de’  fatti  accaduti  ? In  primo  luogo  si    Digitized  by  Google    81   può  osservare  un  tal  mezzo  nello  stesso  linguaggio  parlato.  La  propagazione  del  genere  umano  si  fa  in  modo,  che  gl’indi'  vidui  di  una  età  vivono  insieme  per  qualche  tempo  coi  loro  antenati , e coi  loro  discendenti.  Un  uomo  può  dunque  nar-  rare alla  sua  fìgliuolanza  tanto  quello  che  egli  stesso  ha  ve-  duto , quanto  quello  che  c^Ii  ha  udito  da  suo  padre,  da  suo  avo,  e da  tutti  coloro,  che  sono  stati  testimoni  oculari  de’fatti  accaduti  prima  della  sua  nascita,  e del  tempo  in  cui  egli  aves.se  potuto  osservarli*,  questo  uomo  essendo  il  primo  testimone  di  udito,  costituisce  il  secondo  anello  della  testimonianza;  gli  altri  che  ascoltano  il  fatto  da  lui  narrato  ne  costituiscono  il  terzo,  il  quarto  ec.  Così  si  forma  una  serie  non  interrotta  di  testimoni  oculari,  e costituisce  ciò  che  chiamasi  tradizione  orale.   La  maniera  più  generalmente  adoprata  ne’  primi  tempi ,  per  osservare  la  tradizione  orale , era  quella  di  comporre  una  specie  di  ode  o di  cantico.  Cotesta  sorte  di  poesia  racchiudeva  le  principali  circostanze  degli  avvenimenti , che  volevano  alla  posterità  tramandarsi.  Vedasi  questo  uso  stabilito  ne’  secoli  più  remoti  appo  tutte  le  nazioni,  tanto  dell’  antico,  che  del  nuovo  continente.  Dopo  la  sommersione  dell’  esercito  di  Faraone  nel  mare  rosso,  Moisè,  e gli  Istraditi  composero  un  cantico  di  lode,  e di  ringraziamento  al  Signore,  nel  quale  cantico  era  espres-  so questo  memorabile  avvenimento,  come  si  legge -nel  capo  XV.  dell’  esodo.   Al  mezzo  della  tradizione  orale  , per  conservare  la  memo-  ria degli  avvenimenti  passati , si  è aggiunto  quello  di  alcuni  grossolani  monumenti.  L’ uso  dei  primi  secoli  era  di  piantare  un  bosco  , d’ innalzare  im  altare  , o un  monte  di  pietre  , di  stabilue  delle  feste  , e di  comporre  de’  cantici  in  occasione  di  avvenimenti  riguardevoli.  Quasi  sempre  davasi  a’  luoghi  ove  erano  accaduti  de’  fatti  memorabili , un  nome  relativo  ai  fatti  ed  alle  circostanze.  L’ istoria  di  tutte  le  nazioni  somministra  molte  prove  , ed  esempi  di  queste  antiche  costumanze.  Si  vedono  i patriarchi  innalzare  un  altare  nei  luoghi , ove  era  loro  apparso  il  Signore , piantare  de’  boschi  , fare  dei  monti    Digitized  by  Google    85   di  pietra  in  memoria  de’  principali  ancnimenti  della  loro  vita  c dare  a’  luoghi , ove  erano  accaduti  de’  nomi  che  ne  ri-  chiamassero la  memoria.  Se  si  consultano  gli  scrittori  pro-  fani , questi  attestano  lo  stesso.  Ne’  contorni  di  Cadice  vede-  vansi  in  altri  tempi  delle  pietre  ammassate,  le  quali  si  dicevano  essere  i monumenti  delia  spedizione  di  Ercole  nella  Spagna.   Tutte  queste  diiTerenti  pratiche  hanno  servito  a rinfrescare  la  memoria  de’  fatti  memorabili , e a perpetuare  le  scoperte  importanti.  La  tradizione  suppliva  allora  alla  mancanza  della  scrittura  ; i padri  spiegavano  a’  loro  figliuoli  l’ origine  di  que-  sti monumenti , e gl’  istruivano  de’  fatti , i quali  ne  erano  stati  la  cagione.  Io  chiamo  tradizione  tanto  la  tradizione  orale  ,  quanto  1’  unione  della  tradizione  orale  coi  monumenti.   §.  42.  Fra  lo  spezie  de!  monumenti  composti  dagli  uomini,  ad  oggetto  di  perpetuare  la  memoria  de’-  fatti  passati , untt.  delle  principali,  che  siasi  presentata  al  loro  spirito,  è stata  la  rappresentazione  degli  oggetti  corporali.  I primi  uomini  pen-  sarono naturalmente,  d’ impiegar  questo  mezzo,  per  rendere  i loro  pensieri  sensibili  alla  vista,  e cominciarono  dal  presen-  tare agli  occhi  il  ritratto  degli  oggetti , dei  quali  volevano  parlare.  Per  fare  conoscere , per  cagione  di-esempio,  che  un  uomo  aveva  ucciso  un  altro , eglino  disegnavano  una  figura  umana  stesa  per  terra,  ed.  una  altra  in  faccia  di  quella  dritta  con  un’  arma  alla  mano.  Per  fare  intendere,  che  alcuno  era  abbordato  per  mare  in  un  paese,  rappresentavano  un  uomo  assiso  sopra  una  barca  , e così  del  resto.   Da  quello , che  degli  antichi  monumenti  è rimasto  , puà  assicurarsi,  che  in  prima  origine  I’  arte  dello  scrivere  consi-r  steva  ili  una  rappresentazione  informe  e grossolana  degli  og-  getti. corporali.   L’ uomo  di  sua  natura  imita  facilmente,  ed  in  ogni  nazione  vedesi  la  gente  portata  a ricopiare  gli  oggetti  che  le  si  presen-  tano. Le  nazioni  più  selvagge,  o quello  le  quali  hanno  minor  relazione  e commercio  con  i popoli  colti,  possiedono  con  tutto  ciò  una  certa  idea  dell’  arto  del  disegnare,  vale  a dire  di  rap-  presentare, beiichò  rozzamente,  gli  oggetti  della  natura.  L’ onir    Digitized  by  Google    8«   bra  che  produce  ogni  corpo  sopra  una  superficie  che  gli  sia  opposta,  quando  il  corpo  si  oppone  al  passaggio  della  Ince,  ha  somministrate  le  prime  idee  del  disegno.  Tirando  su  i li-  miti dell’  ombra  alcune  linee  , allora  che  1’  ombra  sparisce,  la  figura  descritta  con  queste  linee  sarà  simile  alla  figura  del  corpo  che  getta  I’  mnbra.  Dopo  le  prime  esperienze  i primi  popoli  avranno  tentato  di  rappresentare,  e di  copiare  gli  oggetti  senza  I’  ajuto  della  loro  ombra.  Avranno  a poco  a poco  av-  vezzata la  mano  a lasciarsi  guidare  dall’  occhi  o,  ed  a seguire  le  proporzioni  suggeritele  dalla  vista.  Il  disegno  nella  sua  ori-  gine consisteva  solamente  nella  circoscrizione  del  contorno  es-  teriore degli  oggetti.  Si  tentò  dopo  di  esprimere  le  parti  in-  teriori , che  T ombra  non  disegnava  , come  per  cagione  di  esempio  una  testa , gli  occhi , il  naso  ec.   Il  carbone,  la  creta  ec.  avranno  potuto  somministrare  a’  pri-  mi uomini  la  maniera  di  disegnare  sopra  il  legno,  sopra  la  pie-  tra ec.  come  ancora  si  saranno  eglino  esercitati  in  ciò  su  la  sabbia,  su  la  terra  molle  ec.  Avranno  in  seguito  con  l’ ajuto  dei  sassi,  e di  altri  strumenti  taglienti  procurato  d’ imprimere  de’s^i  sopra  le  materie  solide.   La  forma  che  prendono  i corpi  molli  insinuati  ne’  corpi  duri,  e l’ impronta  che  lasciano  i corpi  duri  applicati  a’  corpi  molli , avranno  su^rito  a’  primi  uomini  I’  arte  del  model-  lare. Questa  avrà  a poco  a poco  prodotta  quella  dell’  intagliare  nel  1(^0.  nella  pietra , e nel  marmo.  In  questa  maniera  il  dis^o,  la  scoltura,  l’intaglio  avranno  avuto  la  loro  origine;  questo  arti,  a mio  credere,  hanno  preceduto  la  pittura.  Hanno  queste  rappresentazioni  degli  oggetti  corporali  servito  per  molto  tempo  invece  della  scrittura  propriamente  detta.  Io  chiamo  la  rappresentazione  degli  oggetti  corporali  , della  quale  ho  parlato , scrittura  figurativa.   Questa  maniera  di  scrivere  richiedeva  molto  tempo;  si  pensò  perciò  di  renderla  più  semplice , ed  invece  di  dis^nare  per  intero  a cagion  d’  esempio,  un  uomo,  un  albero,  un  cavallo,  si  disegnavano  le  parti  principali  che  li  facevano  conoscere;  come  per  esempio  la  testa,  la  mano  ec.    D^itized  by  Google    87   §.  43.  Ma  questa  scrittura  fìgurativa  non  poteva  essere  suf>  fìcieute  per  esprimere  tutti  i pensieri  degli  uomini.  Vi  sono  molte  cose,  che  non  si  possono  dipingere,  come  sono  lo  spirito,  le  sue  facoltà,  le  sue  modificazioni.  È impossibile  di  |>arlare  delle  cose  materiali,  senza  unirvi  delle  idee  die  non  sono  capa-  ci d’ immagini  ; come  per  esempio , descrivere  l’ immagine  dell’  affermazione,  e della  negazione?  Fa  d’  uopo  dunque  in-  ventare i segni  di  queste  idee  intellettuali  e 1’  analogia  guidò  gli  uomini  a trovarli.   Si  concepì  una  certa  similitudine  fra  alcune  qualità,  che  si  osservano  negli  uomini,  e quelle  che  si  osservano  negli  animali,  e per  esprimere,  che  un  uomo  è in  queste  qualità  simile  ad  un  certo  animale,  si  disse  più  brevemente,  che  il  tale  uomo  è un  tale  animale  ; cosi  per  dire  di  un  uomo  , che  ^li  è  prudente,  che  ^li  è astuto,  che  è fiero  e crudele , si  dice ,  che  è un  serpente,  una  volpe,  una  tigre;  disegnando  dunque  l’immagine  di  questi  tali  animali  si  disegnano  mediatamente  le  im-  magini delle  qualità  spirituali,  di  cui  si  tratta.  Una  tale  rap-  presentazione costituisce  ciò  che  chiamasi  geroglifico.   I Cinesi  per  cagion  di  esempio  , per  denotare  che  FoAt,  primo  fondatore  del  loro  impero,  era  dotato  di  prudenza,  e  di  sagace  ingegno,  lo  disegnano  col  capo  umano  unito  ad  un  corpo  di  serpente.  Il  successore  di  FoA»  di  nome  Xino  , ad  oggetto  di  denotare,  che  egli  si  applicò  all’  agricoltura  , ed  in-  cominciò a porre  i bovi  sotto  il  giogo  , lo  disegnano  col  capo  di  bove  unito  al  corpo  umano.   Gli  antichi  denotarono  la  giustizia,  dipingendo  una  vergine  cogli  occhi  bendati  , tenendo  in  una  delle  mani  una  bilancia,  ed  in  un'  altra  una  spada.  La  vergine  figura  la  giustizia  ; la  bilancia  denota  che  la  giustizia  consiste  a dare  a ciascuno  il  suo  dritto,  la  spada  significa,  che  la  giustizia  dee  infligger  la  paia  do-  vuta a’delinguenti,  gli  occhi  bendati  finalmente  denotano,  che  la  giustizia  non  dee  avere  alcun  riguardo  alle  persone,  ma  deve  agire  conformemente  alla  legge,  senza  esser  mossa  da  motivi  estrinseci.  Si  vede  qui  che  la  similitudine  concepita  fra  alcuni  modi  de’  corpi ,  e le  qualità  dello  spirito,  dettò  questo  geroglifico.  La  giusti-    Digitized  by  Google    88   lia  è una  nozione  astratta  , e le  nozioni  astratte  sussistono  sole  nello  spirito  ; passa  perciò  nna  certa  similitudine  fra  T as-'  trazione  eia  personiGcazione,  una  vergine  non  è macchiata  da  alcuna  impurità  corporale  , e ia  giustizia  dee  esser  monda  da  qualunque  difetto.  Quando  per  dare  ad  un  altro  una  quan-  tità di  merce  , questa  si  pesa  , ciò  si  fa  per  dargli  ciò  che  gli  appartiene.  Le  similitudini  fra  alcune  modificazioni  del  cor-  po , e quelle  dell’  animo  si  deducono  da  ciò , che  le  prime  sono  i segni  naturali  delle  seconde.  Denotando  le  prime  si  denotano  mediatamente  le  seconde  ; e siccome  le  prime  son  capaci  d’ immagini  corporali;  così  lo  sono  mediatamente  anche  le  seconde  ; e questa  rappresentazione  mediata  costituisce  il  geroglifico.  Da  ciò  si  vede,  che  la  scrittura  geroglifica  si  è  unita  alle  volte  alla  scrittura  figurativa,  come  si  vede  ne’  due  esempi  di  Fohi , e di  Xino.  Alle  volte  è stata  impiegata  solq  come  nell’  esempio  recato  della  giustizia.   Si  vede  inoltre,  come  questo  modo  di  scrivere  fa  le  veci  delle  proposizioni  verbali.  Cosi,  per  cagion  di  esempio,  i ge-  roglifici rapportati  valgono  pel  significato  quanto  queste  pro-  posizioni verbali  : F(M  fu  dotalo  di  sagacità.  Xino  pronwtse  ¥ agricoltura , e pose  « bovi  sotto  il  giogo  , fa  giustizia  dà  a ciascuno  U tuo  dritto,  infligge  la  pena  dovuta  a'delinguenti,  né  si  lascia  muovere  da  molivi  estrinseci.   Osservate  , che  ne’  geroglifici  enunciati  si  trovano  i segni  relativi  al  soletto , al  predicato , ed  al  verbo  delle  propo-  sizioni rapportate.  Così  il  capo  di  forma  umajia  nel  primo  geroglifico  donata  il  soggetto  delia  proposizione  cioè  Fohi , i{  corpo  serpentino  denota  il  predicato,  cioè  la  segacità,  e l’ unio-  ne del  capo  umano  al  corpo  serpentino  denota  l’ unione  del  predicato  al  soggetto  significato  dal  verbo  fà.  Nel  secondo  ge-  roglifico , il  corpo  di  figura  umana  denota  il  soggetto  della  proposizione  cioè  Xino  , il  capo  bovino  denota  il  predicato  cioè  l’aver  promosso  l’agricoltura,  e l’aver  posto  i bovi  sotto  il  gio-  go; l’unione  poi  del  capo  bovino  alla  forma  umana  denota  l’u-  nione del  predicato  al  soggetto,  espressa  dal  verbo  promosse.   Nel  terzo  geroglifico  , il  soggetto  della  proposizione  è sw    Digitized  by  Google    89   gnificato  dalla  vergine  ; la  bilancia  , la  spada,  la  benda  de>  notano  i predicati  della  proposizione  , e T anione  di  queste  cose  al  corpo  della  vergine  denota  T unione  de^  predicati  al  soggetto.   Da  ciò  segue,  che  un  geroglifico  può  esprimere  diverse  pro>  posizioni,  0 sia  una  proposizione  composta.  Ciò  si  vede  chia-  ramente nel  geroglifico  recato  della  giustizia.  Wolfio  riferisce  che  un  certo  Comenio  , volendo  formare  il  geroglifico  del-  r anima , dispose  de'  punti  in  modo  da  formare  una  figura  simile  a quella , che  presenta  1’  ombra , prodotta  dal  corpo  umano  su  di  un  piano  perpendicolare  all'  orizzonte, ed  opposto  direttamente  al  corpo  umano,  ed  al  lume.  I punti,  secondo  i  geometri,  essendo  privi  di  estensione,  denotano  la  semplicità  dell’  anima.  La  figura  del  corpo  umano  costruendosi,  per  mez-  zo de'  soli  punti,  senza  l' intervento  di  alcuna  linea,  denota  la  sostanzialità  dell’  anima  umana,  la  quale  sussiste  indipen-  dentemente dal  corpo.  I punti,  essendo  disposti  in  modo,  che  necessariamente  formano  la  figura  del  corpo  umano,  denotano  l’  unione  dell'  anima  col  corpo,  la  quale  unione  si  forma  dal-  r autore  della  natura , indipendentemente  dalla  volontà  del-  r anima.  Finalmente  questi  punti , essendo  dispersi  in  tutta  la  figura  del  corpo  umano , denotano  la  dottrina  degli  sco-  lastici, cioè  che  r anima  è tutta  in  tutto  il  corpo  e tutta  in  ciascuna  parte.   ir  geroglifico  comcniano  equivale  perciò  alle  scienti  pro-  posizioni : l.°  l’anima  è semplice:  2.°  l’anima  è una  so-  stanza: S.**  1’  anima,  indipendentemente  dalla  sua  volontà,  è  unita  al  corpo  : 4.”  1'  anima  esiste  tutta  in  tutto  il  corpo,  e  tutta  in  ciascuna  parte.   §.  44.  Dopo  r invenzione  della  scrittura  geroglifica  por-  tata al  più  alto  grado  di  perfezione,  di  cui  era  capace,  restava  .  ancora  àgli  uomini  di  farp  1’  ultimo  sforzo  per  ritrovare  i  caratteri  alfabetici,  che  sono  i segni  del  suono  non  già  d(^li  oggetti.  Vi  sono  stati  in  ogni  tempo  degli  spiriti  sublimi , i  quali  colle  loro  invenzioni  hanno  ampliato  notabilmente  la  sfe-  ra delle  umane  cognizioni,  ed  hanno  spinto  velocemente  il    Digitized  by  Google    90    genere  umano  verso  quel  grado  di  coltura , in  cui  (^gi  te  vediamo.   Un  vocabolo  è un  suono  o composto,  o semplice:  per  ren-  dere durevole  questo  segno  basta  dunque  stabilire  de’  segni  permanenti  de’  suoni  semplici , che  compongono  i vocaboli  ;  e per  tale  oggetto  basta  stabilire  per  segni  de’  suoni  semplici  alcune  Ggnre , e la  scrittura  alfabetica  è trovata.   Ma  (pianto  tempo  è egli  trascorso,  priachè  una  verità  cotanto  semplice  si  presentasse  allo  spirito  de’  padri  nostrii  Si  voleva  render  permanente  il  lingua^io  passaggiero  della  parola  ; e  non  si  pensò  di  decomporre  i suoni  articolari,  e di  stabilire  de’  segni  permanenti  de’  suoni  semplici  che  compongono  i vo-  caboli. Lo  spirito  intraprese  de’  cammini  lunghi  e tortuosi ,  per  tramandare  alla  posterità  la  somma  delle  sue  conoscenze.  La  scrittura  fu  prima  figurativa  perfetta  indi  figurativa  im-  perfetta. poiché  si  designarono  prima  gli  oggetti  interi , indi  le  loro  parti  principali  : in  seguito  divenne  geroglifica , indi  tiUabica, e finalmente  alfabetica,  lo  dico  prima  sillabica  , e  ' poi  alfabetica  , poiché  penso  coll’  illustre  Goguel  autore  del-  r opera  su  1’  origine  delle  leggi,  delle  arti,  e delle  scienze,  che  dopo  la  scrittura  geroglifica  furono  trovati  i segni  de’  suo-  ni delle  sillabe  de’  vocaboli  , prima  che  si  trovassero  i segni  de’  suoni  semplici  che  compongono  i suoni  delle  sillabe.  In  questa  maniera  di  scrivere  , la  quale  chiamasi  scrittura  sU-  labica  non  s’ impiega  se  non  che  un  solo  carattere  per  iscri-  vere ciascuna  sillaba,  di  cui  vien  composta  una  parola.  Non  si  esprimono  allora  né  vacaboli,  né  consonanti.  Noi,  per  esem.  pio,  per  iscrivere  la  voce  pane  impieghiamo  quattro  lettere;  nella  scrittura  sillabica  non  vi  bisognano  se  non  che  due  caratteri.   Ora  supponiamo  che  la  pronuuciazione  del  vocabolo  pane  risvegli  r idea  del  suono  cane,  e questo  quella  del  suono  sa-  ne , e che  lo  spirito  mediti , e paragoni  fra  di  essi  questi  suoni  : egli  li  decompone  in  sillabe  , e trova  , che  la  silla-  ba ne  è la  stessa  in  tutti  e tre  questi  suoni , il  che  gli  vie-  ne ancora  insegnato  dalla  stessa  scrittura  sillabica  , poiché    Digilized  by  Google    91   Io  stesso  carattere  indica  il  suono  della  sillaba  ne  in  tutti  e  tre  i vocaboli  enunciati.  Questa  identità  conosciuta  mena  lo  spirito  a notare  la  diversità  de’  suoni  pa,  ea,  sa,  che  sono  le  prime  sillabe  di  questi  vocaboli  ; ma  in  questa  diversità  lo  spirito  trova  ancora  una  identità  nella  desinenza  : tutte  e  tre  queste  sillabe  cadono  nel  suono  a : ciò  conduce  lo  spi-  rito a separare  nelle  sillabe  pa,  ca,  sa,  il  suono  a dagli  al-  tri suoni  che  vi  si  uniscono;  e siccome  egli  ha  trovato  i ca-  ratteri de’  suoni  pa,  ea,  sa,  così  troverà  il  carattere  del  suo-  no a,  e quelli  de’  suoni  p,  c,  s,  e la  scrittura  alfabetica  è  già  trovata.   Ecco  dunque  i passi , che  ha  dovuto  fare  lo  spirito  per  ritrovare  la  scrittura  alfabetica  , l.°  egli  ha  conosciuto  che  la  maggior  parte  de'  vocaboli  erano  de’  suoni  composti,  e che  potevano  perciò  decomporsi  in  altri  snoni  ; 2.°  egli  ha  co-  nosciuto, che  poteva  stabilire  segni  di  segni,  e segni  perma-  nenti di  segni  passaggieri;  3.°  egli  ha  stabilito  de'  caratteri,  che  fossero  segni  permanenti  del  suono  delle  diverse  sillabe,  e così  nacque  la  scrittura  sillabica  : 4.°  ^li  ha  conosciuto  che  la  maggior  parte  delle  sillabe  erano  de’  suoni  composti  ancora,  e siccome  ha  trovato  de’  caratteri,  che  fossero  segni  delle  sillabe,  ha  trovato  ugualmente  de'  caratteri,  che  fossero  segni  de’  suoni  semplici;  c così  è nata  la  scrittura  alfabetica.   Alcuni  eruditi,  frai  quali  il  citato  Goguet,  pretendono  che  i caratteri  alfabetici  sieno  derivati  da'  segni  geroglìGci,  e che  questi  ultimi  abbiano  a poco  a poco  introdotto  il  metodo  brè-  ve delle  lettere  alfabetiche.  Questa  opinione  è falsa  sotto  un  certo  riguardo,  sebbene  possa  esser  vera  sotto  di  un  altro.  Per  presentacela  quistione  sotto  un  aspetto  filosofico,  può  cercarsi:  l.°:  Lo  spirito  umano  poteva,  senza  passare  per  la  scrittu-  ra figurativa,  e geroglifica,  passare  immediatamente  dal  lin-  guaggio della  parola  al  linguaggio  permanente  della  scrittu-  ■  ra  alfabetica  ? È certo,  che  poteva  , poiché  fra  i passi , che  egli  doveva  fare,  partendo  dalla  considerazione  della  parola,  per  giungere  alla  scrittura  alfabetica,  e che  abbiamo  di  so-  pra sviluppato  , non  vi  sono  certamente  quelli  della  scrittu-    Digitized  by  Google    92   ra  figurativa  e geroglifica.  Si  può  cercare  S.'':  La  scrittura  figurativa  e geroglifica  doveva  condurre  naturalmente  lo  spi-  rito alla  serittura  alfabeticaì  La  scrittura  figurativa  e ge.ro-  glifica  non  hanno  relazione  alcuna  con  le  lettere  dell’  alfabeto,  e per  tal  ragione  non  hanno  potuto  condurre  lo  spirito  a ri-  trovare la  scrittura  alfabetica.  Ma  hanno  sotto  un  altro  ri-  guardo potuto  influire  a questa  invenzione;  queste  due  scrit-  ture , come  or  ora  vedremo , sono  imperfette  assai,  e com-  plicate; lo  spirito  accorgendosi  della  loro  imperfezione  e dif-  ficoltà, ha  potato  da  ciò  rivolgere  la  meditazione  a rendere  più  semplice,  c facile  il  sistema  de’  segni  permanenti.  Si  può  cercare  3.°  La  figura  de’  segni  geroglifici  Jta  potuto  servir  allo  spirilo,  per  concepir  la  figura  de'  primi  caratteri  alfa-  beticil  Le  ragioni  addotte  da  Goguet  provano,  che  lo  ha  po-  tuto. Paragonando  , egli  dice  , con  attenzione  quello,  che  a  noi  rimane  dei  caratteri  ^iziani  , con  le  figure  geroglifiche  intagliate  sopra  gli  obelischi,  e gli  altri  monumenti,  si  rica-  va che  le  lettere  egiziane  tirano  da’  geroglifici  la  loro  origi-  ne. Nell’  alfabeto  degli  etiopi  , e nelle  lettere  majus  cole  de-  gli armeni  si  trovano  i vestigi  assai  chiari  della  scrittura  an-  tica geroglifica.   A queste  ragioni  se  ne  può  aggiungere  un’altra.  Col  pro-  gresso del  tempo  il  rapporto  di  similitudine  tra  il  geroglifico  e la  idea  da  esso  significata , non  si  è piu  ravvisato.  Ciò  è  accaduto  per^due  ragioni  l.°  alcuni  rapporti  di  similitudine  erano  troppo  lontani  ; si  esprimeva  , per  esempio  , l’ impu-  denza per  una  mosca  , la  scienza  per  una  formica  : 2.°  al-  lorché furono  moltiplicati  i volumi,  si  cercò  il  modo  di  ab-  breviare , e perciò  invece  del  geroglifico  primitivo  si  fece  uso  di  un  altro  carattere,  che  noi  possiamo  chiamare  la  scrittu-  ra corrente  de’  geroglifici  : esso  rassomigliava  a’  caratteri  ci-  nesi ; dopo  d’essere  stato  da  principio  formato  dal  solo  con-  torno della  figura  , divenne  in  stanilo  una  sorta  di  nota,  hi  questo  stato  il  geroglifico  poteva  riguardarsi  come  il  segno  del  vocabolo.  Tosto  che  si  ebbero  da’segni  permanenti  de’vo-  caboli , poteva  pensarsi  di  dare  de’ segni  permanenti  alle  sil-    Digitized  by  Coogli    93   )àb«  , ed  indi  a’  suoni  semplici  di  cui  è composto  il  snono  delle  sillabe.   §.  45.  L’  essenza  de’caratteri  alfabetici  si  è l’ essere  iso-  latamente considerati , segni  solamente  di  suoni , non  già  di  idee  : i caratteri  , per  esempio  ,a,e,i,o,  u,b,c,  ec.  , isolatamente  considerati  nuli’  altro  significano  , se  non  che  alcuni  suoni.  I caratteri  poi  della  scrittura  fìgurativa,  e  geroglifica  , non  denotano  suoni  ma  idee,  l’ immagine  di  un  serpente  denota  l’idea  del  serpente,  quella  della  prudenza  ec.   Le  nostre  cifre  arabe  ,1,2,  3,  4,  5,  6,  7,  8,  9,   0 , sono  ugualmente  segni  d’ idee,  non  di  suoni:  essi  si  leg-  gono diversamente  presso  le  diverse  nazioni,  sebbene  sieno  ì  segni  delle  stesse  idee.   Questa  differenza  è della  massima  importanza.  Colla  divci^  sa  combinazione  di  un  piccol  numero  di  caratteri,  si  possono  scrivere  tutti  i vocaboli  di  una  lingua  parlata.  Ma  quando  i  segni  della  scrittura  sono  segni  d’ idee  non  già  di  suoni , il  ^  numero  di  questi  segni  dee  corrispondere  al  numero  de’  vo-  caboli ; il  che  rende  il  numero  de’  caratteri  molto  grande  ,  e perciò  esige  uno  studio  lungo  , e difficile,  per  apprendere  a l^gere  , e scrivere , come  è provato  per  l’esempio  de’Ci-  nesi.  È questo  un  grande  ostacolo  al  progresso  della  cono-  scenza : ,Ia  gente  di  studio  è obbligata  a sottrarre  il  tempo  necessario , per  apprendere  le  scienze  , ed  impiegarlo  a sa.  per  leggere  e scrivere.  L’ arte  di  leggere  e scrivere  essendo  di  molto  poche  persone  , il  resto  della  nazione  dee  restare  nella  ignoranza.  Dello  stesso  inconveniente  partecipa  anche  in  parte  la  scrittura  sillabica  , poiché  il  numero  de’  caratte-  ri , per  signiGcare  ciascuna  sillaba  è di  gran  lunga  maggio-  re di  quello  , che  è necessario  per  denotare  i suoni  sempli-  ci, di  cui  il  suono  di  ciascuna  sillaba  è composto.  Così  ,  per  cagion  di  esempio  con  questi  tre  caratteri  alfabetici,  a,  b , c , si  possono  scrivere  le  seguenti  sìllabe , ab  , ba  , ac,  ca,  bac,  cab.  In  questo  esempio  il  numero  dei  caratteri  sil-  labaci è doppio  del  numero  de’  caratteri  alfabetici.  Se  sup-  '  ponete  quattro  caratteri  ahabetici  , a , b , c , e , il  nume-    Digilized  by  Google    94   ro  ddle  combinazioni  di  questi  caratteri,  presi  due  a due,  è  maggiore  del  doppio,  cosi  avremo,  ab,  ba,  ac,ca,  ae,eb,be,  ec.   Uno  de’  vantaggi  dunque  della  scrittura  alfabetica  su  le  al-  tre scritture  si  è il  piccol  numero  de’  segni , di  cui  ha  bi-  sogno la  prima  scrittura.   È vero , che  le  nostre  cifre  arabe  sono  per  tale  oggetto  perfettissime , mentre  con  dieci  caratteri  possono  scriversi  tutti  i numeri  possibili , ma  un  tal  vantaggio  lo  debbono  alla  formazione  delle  idee  da  queste  cifre  designate  ; poiché  que-  ste idee  si  formano  tutte  colla  ripetizione  della  stessa  idea  che  è quella  dell’  unità.   Un  altro  inconveniente  della  scrittura  geroglifica  si  è l’ inr  certezza  del  significato.  Uno  stesso  geroglifico  può  denotare  co-  se molto  diverse  fra  di  esse.  Cosi  la  immagine  del  serpente  dinota  questo  animale,  la  prudenza  , e ^’universo:  l’imma-  gine del  lepre  dinota  questo  animale,  il  candore,  e la  timidità.   §.  46.  L’ invenzione  del  linguaggio  della  parola , e l’ in-  venzione della  scrittura  alfabetica , che  rende  permanente  il  primo  linguaggio  di  sua  natura  passeggierò  , fanno  che  l’ uo-  mo possa  gettare  il  suo  sguardo  in  tutf  i luoghi , ed  in  tut-  ti i tempi.  L’ esperienza  c’  ins^a , che  gli  uomini  possono ,  per  mezzo  della  scrittura  trasmetterci  dei  fatti  che  son  veri  e che  la  concorde  testimonianza  degli  scrittori  circa  alcuni  fatti  non  si  è giammai  trovata  fallace.  Tutte  le  gazzette  del-  r Europa  all’  epoca  , in  cui  Napoleone  Bonaparte  scese  al  trono  della  Francia  annunciarono  questo  avvenimento.  Tutte  le  gazzette  ugualmente  hanno  annunciato  la  morte  del  som-  mo Pontefice  Pio  VII.  L’ esperienza  dei  propri  occhi  avreb-  bo  potuto  assicurare  colui  , che  avesse  dubitato  , della  veri-  tà di  tali  fatti.   I fatti  consegnati  negli  scritti  possono  colla  conservazione  degli  scritti,  che  li  contengono,  trasmettersi  alle  future  ge-  nerazioni. È questa  eziandio  una  verità  di  esperienza.  Vi  so-  no dunque  de’ fatti  accaduti  in  tempi  lontani,  de’ quali  fatti  noi  possiamo  conoscere  la  verità.  Il  linguaggio  passaggiero  della  parola  ; quello  permanente  della  scrittura  alfabetica  , e.    Digilized  by  Google    95   quello  dei  monumenti  , possono  dunque  circa  alcuni  fatti  ,  essere  motivi  legittimi  dei  nostri  giudizi.  Tutti  questi  motivi  concorrono  a stabilire  la  certezza  morale.   Credo  utile  di  addurvi  un  altro  esempio  , in  conferma  di  ciò  che  vi  ho  detto.  Nel  giorno  cinque  di  Febbraro  1783  un  terribile  tremuoto  , poi  seguito  da  altri  , cagionò  dei  danni  notabili  alle  Calabrie,  ed  ancora  alla  città  di Messina.  Gliabitan-  ti  dei  paesi  danneggiati  furon  obbligati  di  uscire  fuori  dalle  loro  abitazioni  , e dì  costruirsi  delle  baracche  per  abitarvi  ;  alcuni  le  hanno  costruite  in  lontananza  dei  paesi  diruti  ^ ■  quali  rimasero  perciò  deserti.  Cosi  accadde  , per  esempio  ,  a Briatico , che  fu  costruito  di  nuovo  vicino  al  mare , e  Briatico  antico  presenta  allo  spettatore  i segni  delle  sue  mi-  ne: altri  hanno  costruite  le  nuove  abitazioni  in  un  suolo  con-  tiguo all'  antico  abitato.  Cosi  accadde  a Tropea,  le  cui  nuore  abitazioni  furono  costruite  lungo  ed  all'  intorno  della  strada  detta  dell’  Annunciata.  Molti , che  sono  stati  testimoni  oculari  dell’ avvenimento  , vivono  ancora  •*  molti  altri  appartengono  alle  seguenti  generazioni  : i primi  narrano  ai  secondi  l’orì-  gine delle  mine  che  colpiscono  i loro  occhi , non  meno  che  l’orìgine  delle  nuove  abitazioni,  ciascuno  testimone  oculare  è  istruito  dalla  esperienza, che  tantoegli,che  gli  altri  testimoni  ocu-  lari narrano  il  vero,eche  coloro  i qualinarrano  il  fatto  ad  altri,  per  averlo  eglino  inteso  narrare  da’  testimoni  oculari , nar-  rano il  vero.  L' esperienza  dunque  c’  insegna  , die  vi  sono  dei  testimoni  di  udito,  la  di  cui  testimonianza  è verace,  e che  la  tradizione  orale  unita  ai  monumenti  può  trasmettere  alle  generazioni  future  i &tti  accaduti  ne’  tempi  da  queste  gene-  razioni lontani.   La  memoria  di  questa  tremuoto  si  trova  depositata  in  una  moltitudine  di  scritti , i quali  ancora  rimangono  , ed  i cui  autori  più  non  sono.   La  propria  esperienza  istruisce  dunque  cisscun  testimone  oculare  di  questa  importante  verità:  che  per  mezzo  de’ mo-  numenti , della  tradizione  orale  e della  scrittura  alfabetica ,  si  può  conservare  la  conoscenza  di  alcuni  fatti  passati.  PASQUALE GALLUPPI  GIACOBINO ?     Intorno alle idee politiche del Galluppi ’, e più sulla  condotta da lui tenuta nell’alterna vicenda degli avve¬  nimenti politici di cui è piena la storia di Napoli nel  periodo della sua virilità, non si può dire davvero che  abbondino i documenti, né che abbiano fatto tutta la  luce desiderabile gli studi consacrati a questo lato della  biografia galluppiana dal Tulelli, dal Guardione e ulti¬  mamente dal prof. Nicola Arnone. Il quale ha scritto  in proposito una memoria molto accurata, ma per giun¬  gere a una definizione del Galluppi considerato sottol’aspetto politico, la quale è in aperto contrasto coi docu¬  menti più sicuri da noi posseduti. Anche il Galluppi,  secondo l’Arnone, sarebbe stato un giacobino!   Della sua dottrina liberale e del suo atteggiamento  risoluto in favore delle pubbliche libertà e contro 1 in¬  tervento austriaco nel 1820-1821 non è possibile che  dubiti chi conosca i frammenti che diè il Tulelli de’ suoi  Pensieri filosofici sulla libertà compatibile con qualunque    1 P. E. Tulelli, Intorno alla dotte. ed alla vita politica del bar. P. G.,  notizie ricavale da alcuni suoi scritti inediti e rari, negli Atti della li.  Accad. delle scienze mar. e poi. di Napoli, voi. I (1865), pp- 101-21,  F. Guardione, Due opuscoli di P. Galluppi, prec. dallo studio critico  Dei concetti civili e politici apportati da P. G. nella rivoluzione del 1820,  Messina, D'Amico, 1906; a proposito di questo opuscolo, G. Gentile  nella Critica, V (1907), pp. 229 sgg.; N. Arnone, P. G. Giacobino, negli  Studi dedicati a Francesco Torraca nel XXXVI anniv. della sua laurea,  Napoli, Perrella, 1912, pp. 129-52.     112    ALBORI DELLA NUOVA ITALIA    forma di governo, e i due opuscoli Della libertà di coscienza  e Lo sguardo d' Europa sul Regno di Napoli, ristampati  dal Guardione. Ma da quel liberalismo al giacobinismo  c’è un bel tratto.   Né i documenti dell’Amone riscoperti 1 nell'Archivio  provinciale di Catanzaro bastano a superarlo. Da questi  documenti apprendiamo che nell’ottobre 1799 il Galluppi  chiedeva un passaporto per recarsi a Palermo « per atten¬  dere ad alcuni di lui affari litigiosi ». Il Re faceva rispon¬  dere dal Segretario di grazia e giustizia al Preside di  Catanzaro, che al Galluppi si sarebbe accordato il passa¬  porto, « quando non vi sia niente contro il medesimo ».  Il Preside si rivolse per informazioni al Vescovo e al  Governatore di Tropea. Il Vescovo, il 16 ottobre, rispose:  « Quantunque apparentemente il suddetto sembri un  giovane morigeratissimo, e studioso anche di materie  teologiche, pure non gode buona fama, perché si pre¬  tende aversi ingoiato con lo studio vari errori della vana  filosofia, per cui fu, anni sono, denunziato sino a Roma,  e ne’ pochi giorni della falsa assunta Repubblica fu im¬  piegato a far traduzioni, per cui stiede lungo tempo trat¬  tenuto nel Pizzo: timoroso poi all’eccesso, si andiede in  Cosenza dopo liberato dal Pizzo; ed ora vorrebbe andarsi  in Palermo, dove ha degli interessi; ma per questi me¬  glio sarebbe andarvi il padre don Vincenzo [il padre del  Galluppi], mentre non debbo io, né V. S. 111 . mettersi  deve in compromesso nelle circostanze nelle quali siamo ».   Tropea tra il gennaio e il febbraio aveva avuto an-  ch’essa il suo albero della libertà e un governo repub¬  blicano. Ma per pochi giorni. AH’avvicinarsi delle schiere    1 Gli è sfuggita la comunicazione che ne aveva fatta Gaetano  Capasso, nel 1896, alla Riv. Stor. del Risorg. ital., I, pp. 794-95. [Vedi  ora, per un'altra denunzia di pretesi discorsi giacobini del Galluppi,  F. Scandone, Il Giacobinismo in Sicilia (1792-1802), nell'A refi. Stor,  sic., 1922, pp. 327-28].     PASQUALE GALLUPPI GIACOBINO ? 113   del Ruffo la plebaglia aveva abbattuto albero e governo,  e uh comitato di cittadini era andato incontro, il 24 feb¬  braio 1799, al Ruffo a Mileto, a prestargli ubbidienza.  Per la quale il Ruffo volle alcuni ostaggi, che fece tra¬  sportare a Pizzo. Tra essi venne incluso il Galluppi, che  per altro dopo alcuni giorni fu rilasciato senza nessuna  condanna. Aveva, secondo il vescovo sanfedista ', tradotto  qualche documento francese, forse qualche proclama o  decreto dello Championnet; ma la stessa voce raccolta  dal vescovo della gran timidezza del filosofo, ci spiega  molto facilmente perché il Galluppi, invitato dai giacobini  della piccola città, dove forse era solo a conoscere il fran¬  cese (e non lo conosceva né pur lui molto) * e quando  costoro tenevano il campo, non potesse esimersene, pur  non avendo un grande entusiasmo per la causa repub¬  blicana. Certo, non si compromise, se nella ristaurazione  non patì nessuna noia; e se il tenente colonnello don  Giovanni de Mendoza, governatore di Tropea, pur dopo  diligenti investigazioni, non riusciva a trovare nulla a  carico di lui. « Mi sono informato », scriveva costui il  19 novembre al Preside di Catanzaro, « dalle persone  più probe e timorate di Dio di questa ... città; però ho  chiamato il decano don Saverio Polito, il teologo don  Michele Grillo, il penitenziere don Vinc. M. Mazzitelli,  il P. M. Carmelitano fra Carmelo Maria Collia ed il par¬  roco di San Demetrio di questa .... città, e dalle di costoro  estragiudiziali deposizioni, che presso di me si conser¬  vano, rilevai che il don Pasquale Galluppi è un giovane  onesto, probo, e di morigerati costumi; che frequenta  spesso li Santi Sacramenti e la chiesa, ove si fa vedere  attento, e pieno di divozione; e che ad altro non bada,  se non allo studio, essendo anche un giovane virtuoso,   1 Su lui vedi la stessa memoria dell'ARNONE, p. 134.   5 Vedi la mia pref. al voi. del Toraldo, Saggio sulla filos. del Gal¬  luppi, Napoli, 1902, p. ix, n. 1.     ALBORI DELLA NUOVA ITALIA    ”4   e da bene, e che mai diede veruno scandalo; ma, per quanto  cercai sì dalli stessi testimoni, che da altri sapere l’og¬  getto per cui si volesse portare in detta città di Palermo,  non fu possibile sapersi la cagione, perché da ognuno  s’ignorava. Soltanto ho risaputo, che il di lui padre don  Vincenzo è siciliano, ed ivi tiene degli effetti, per cui  suole spesso andarvi anche col suddetto don Pasquale  suo figlio : ma non posso fame a meno farle presente esser  stato, per quanto pubblicamente si dice, il detto don Gal-  luppi uno degli ostaggi di questa città chiamati dal sig.  Vicario generale nel Pizzo, ove [si] trattenne molti giorni  e poi fu liberato senza veruna pena ».   Il Preside di Catanzaro si attenne al Consiglio del  prudente vescovo, e propose al Segretario di Stato che  il passaporto non fosse accordato. E non fu accordato.  Ma lo chiese poi, invece del figlio, il padre, Vincenzo,  che l’ebbe. Segno che a Palermo avevano realmente  bisogno di recarsi, l’uno o l’altro, per loro interessi di  famiglia. Pei quali forse egualmente il Galluppi, reduce  da Pizzo, invece di fermarsi in Tropea, recossi a Cosenza,  di dov’era la moglie, Barbara d’Aquino.   Non credo pertanto che questi documenti catanzaresi  bastino a farci annoverare il filosofo calabrese nella nu¬  merosa schiera dei giacobini contemporanei. Certo nei  Pensieri filosofici sulla libertà, propugnando il principio  della libertà di coscienza e di tolleranza religiosa, egli  ha parole forti contro coloro che dimenticano lo spirito  del Vangelo e «non hanno ritegno di tramutare la reli¬  gione nell’ istrumento del disordine, della persecuzione  e della strage»; e non dubita, ricordando i recenti fatti  del Regno, di scrivere che « se l’universalità del clero e  del popolo di questo bel regno avesse conosciuto il vero  spirito del cristianesimo e la purità delle massime del  Vangelo, non si sarebbe visto un cardinale comandare  delle masse di ribaldi e di fanatici, ed innalzare il vene-    PASQUALE GALLUPPI GIACOBINO ?    1I 5    rando vessillo della Croce per segno dell’assassinio e  d’ogni sorta di iniquità; né si vedrebbero oggi con orrore  tanti preti e frati alla testa delle masnade degli uomini  i più infami e più scellerati » Ma quando il Galluppi  scriveva di queste parole — che pur dimostrano bensì  il liberale, ma non il giacobino — a Napoli erano tornati  i francesi con Giuseppe Bonaparte, il cui governo, nel  1806 J , gli aveva conferito 1’ ufficio di controllore delle  contribuzioni; e a Giuseppe era anche successo il Murat.   Tutt’altro che giacobino era apparso a me qualche  anno fa da un suo brutto sonetto pubblicato in un gior¬  nale di Tropea 3 dal prof. Carlo Toraldo 4. Il sonetto in¬  fatti diceva:   Della Patria il dolore, il lutto, il pianto.   La rea sorte fatai veder non voglio.   Di Marte, di Bellona il fier orgoglio.   L’augusto trono di Minerva infranto, —   Spesso sedendo al bel Sebeto accanto  Col cor trafitto dal più fier cordoglio,   Pria che de' Franchi vacillasse il soglio.   Dico nel mio pensiere, e piango intanto.   Un ferro io prendo. — Occhi miei, non piangete, —  Grido nel mio furore; — io corro or ora  Sollecito a varcar l'onda di Lete. —   Ma già l’Angiol divin, che accanto giace.   Di man mi toglie il ferro, e grid’allora:   — Verrà Fernando : tornerà la pace !   Il primo editore faceva precedere al sonetto le seguenti  notizie : « Dal manoscritto rilevasi che il sonetto mede-   1 Tulelli, op. cit., pp. 109, in.   * Arnone, p. 141.   3 L’ Eco di Tropea, a. II, n. 35, 30 agosto 1902.   4 E da me ristampato con qualche correzione di punteggiatura,  per renderlo un po' meno oscuro, nell’opera Dal Genovesi al Galluppi,  Napoli, 1903, pp. 218-19, n. 1 (2 a ed. in 2 voli., col titolo di Storia  d. filos. ital. dal Genovesi al Galluppi, Milano, 1930; ora in Opere  complete di G. Gentile, a cura della Fond. G. Gentile, XVIII-XIX,  Firenze, Sansoni, voi. II, p. 31).     H6 ALBORI DELLA NUOVA ITALIA   simo fu letto alla nostra Accademia degli Affatigati  (assorta allora ad altissima fama), alla quale il Galluppi  apparteneva col distintivo il Furioso, e apparisce dedi¬  cato a Ferdinando, come chiusura di un discorso, letto  all’Accademia anzidetta, sul medesimo argomento. Dalla  parte opposta ove è scritto il sonetto, si legge:   ‘ Ferdinando Augusto, principe magnanimo, nell’ impetuoso  turbine che minaccia l'indipendenza nazionale, corri a salvarci.  I destini della nostra nazione son legati alla tua esistenza. — Ferdi¬  nando viene. Napoli è salvo. Il mio discorso accademico è ter¬  minato’. Firmato: Pasquale Galluppi fra gli Affatigati il Furioso.  Siegue dietro il sonetto dello stesso Accademico.    Riproducendo il curioso documento, mi parve che di¬  scorso e sonetto si potessero riferire alla reazione del 1799;  e, dietro a me, anche il De Cesare ritenne che il sonetto  alludesse alla restaurazione di quell’anno *. Ma non  tutto a quella prima impressione mi restava chiaro degli  accenni contenuti nel sonetto; e le difficoltà ora oppo¬  stemi dall’Arnone mi persuadono che sonetto e discorso  vanno spostati di sedici anni. « Prescindendo », dice  l’Arnone che non ha potuto vedere il giornale di Tropea,  al quale io mi riferivo, e le cui notizie ora qui integral¬  mente riportate mi pare che tolgano ogni dubbio intorno  alla paternità del discorso e del sonetto, « prescindendo  dalla loro autenticità maggiore o minore (?), il sonetto  e il brano del discorso accademico non possono mai rife¬  rirsi alla reazione del 1799. Infatti, nel sonetto stesso si    J R. De Cesare, Taranto nel 1799 e mons. Capecelatro, Martina  Franca, 1910 testr. dalla Riv. Apatia ), p. n: «Il Capecelatro non fu  solo a non aver fede nella durata della Repubblica. Se egli non andò  a Napoli, non vi andò neppure Melchiorre Delfico, chiamato a far parte  della Giunta del Governo, mentre Pasquale Galluppi, che pure aveva  da giovane principii liberali, recitava, all'Accademia degli Affaticati  di Tropea, un brutto sonetto, che si chiudeva: Verrà Fernando : tor¬  nerà la pace ».     PASQUALE GALLUPPI GIACOBINO ? II7   trova la designazione del tempo a cui si riferisce ; giacché,  col verso Pria che de’ Franchi vacillasse il soglio, l’autore,  stanco del fier orgoglio di Marte e di Bellona, deve asso¬  lutamente alludere alla prossima caduta del trono di  Gioacchino Murat » 1 . Io guardavo bensì al settimo verso  del sonetto, su cui giustamente ha fermato la sua atten¬  zione l’Amone; ma guardavo anche al quinto: Spesso  sedendo al bel Sebeto accanto, che contiene anch’esso una  determinazione cronologica non trascurabile. E poiché  era noto che il Galluppi fu a studiare a Napoli dal 1788  al 1794, pensai che per soglio dei Franchi si dovesse in¬  tendere per l«appunto il trono di Francia di Luigi XVI,  che cadde quando il Galluppi dimorava al bel Sebeto  accanto. E vedevo nel sonetto un’enfatica e grottesca  rievocazione delle ansie, da cui l’animo dell'autore sarebbe  stato assalito fin dall’ 89 quasi presago dei lutti che la  Rivoluzione francese preparava alla sua patria. Non  tutto, di certo, restava chiaro, come non tutto precisa-  mente diventa chiaro se s’intende, come propone ora  l’Arnone, che col soglio dei Franchi l’autore designi il  trono del Murat. Ma vien colmato il grande intervallo  che rimaneva, secondo la mia ipotesi, tra il 1789 e il  luglio del ’99, quando avvenne il ritorno di Ferdinando IV  a Napoli, che il Furioso avrebbe celebrato.   Ma, se accetto che il v. Pria che de’ Franchi vacillasse  il soglio alluda alla prossima caduta del trono di re Gioac¬  chino, — e ne argomento in conseguenza che tra la fine  di marzo 1815, quando il Murat dichiarò la guerra al¬  l’Austria, e il 3 maggio (battaglia di Tolentino) il Galluppi  dovette essere a Napoli — non capisco perché l'Arnone  soggiunga : « A me parrebbe che il discorso accademico  potesse riferirsi al tempo del viaggio di Ferdinando I  Borbone pel congresso di Lubiana, quando appunto    1 Op. cit., p. 139.     il8    ALBORI DELLA NUOVA ITALIA    l’indipendenza del Regno di Napoli era minacciata dal-  l’intervento austriaco ». Quando il Galluppi recitava il  suo discorso accademico è chiaro che Ferdinando non  era più lontano, ma già tornato a Napoli (« Ferdinando  viene, Napoli è salvo ») ; e l’accademia celebra la ristau-  razione. È vero che il Galluppi nel '21 trepidò per l’in¬  dipendenza nazionale, a causa dell’ intervento austriaco  a Napoli; ma nel ’2i gli austriaci eran chiamati da Ferdi¬  nando, che non avrebbe potuto perciò essere cantato come  il salvatore dell’indipendenza; laddove nel '15 il Murat  alla legittimità, a cui s’appellavano gli ambasciatori del  Congresso di Vienna e tutti i principi delle vecchie dina¬  stie, opponeva in Napoli il principio dell’ indipendenza >;  e al Galluppi, già murattiano, i disastri dell’esercito  napoletano e l’entrata degli austriaci nel Regno dovettero  realmente parere la più pericolosa minaccia alla indi-  pendenza di questo, finché non si ripresentò Ferdinando,  a riavere, dopo il trattato di Casalanza (20 maggio),  dalle mani dell’ imperatore d’Austria le redini del suo  Stato due volte abbandonate. E le preoccupazioni che  il Galluppi, come quanti altri avevano servito il governo  francese, dovette, prima di quel trattato, nutrire gra¬  vissime e angosciose per la propria sorte, o almeno per  l’uificio che da nove anni teneva, possono anche spie¬  garci la disperazione da cui nel sonetto dice d’essere  stato preso per l’imminente crollo di quel governo.   E l’osanna al Borbone, dopo il trattato di Casalanza,  in cui l’imperatore d’Austria garantiva la sorte di tutti   1 «Volse i suoi maggiori pensieri alle cose interne; reputando che  più dei maneggi e dei discorsi valere gli dovesse il voto dei soggetti  e la forza dell'esercito, in tempi nei quali menavasi vanto dell’amore  dei popoli e della pace. Raccolse in quattro adunanze i migliori in¬  gegni napoletani, e lor disse che per gli ultimi avvenimenti, acqui¬  stata da noi piena indipendenza politica, era suo debito riordinare il  regno senza o soggezione, o somiglianza,, o gratitudine ad altro stato,  così adombrando le tollerate catene per nove anni»: P. Colletta,  Storia del Reame di Napoli, lib. VII, c. IV, § 68.     PASQUALE GALLUPPI GIACOBINO ?    119    i funzionari del passato regime, era pel controllore delle  contribuzioni dirette nella Provincia di Calabria ulteriore  l’espressione d'un sentimento sincero l 2 .   Né giacobino, dunque, né antigiacobino. Ma liberale  e patriota, se non nel senso del 1799, in quello più antico  della tradizione paesana di Napoli e della posteriore  storia italiana.   Del suo patriottismo e liberalismo son documento  bastevole gli opuscoli politici che il Galluppi scrisse nel  1820-1821 in cui ripigliava le idee dei Pensieri filosofici,  rimasti inediti, e scendeva in campo a difesa della libertà  e dell’ indipendenza minacciata dall’Austria. Ma la lettura  di questi opuscoli, o almeno dei due a noi pervenuti  e qualche anno fa ristampati dal Guardione, induce  piuttosto a ricollegare il Galluppi alla tradizione del  Giannone, del Tanucci, del Vico e del Filangieri, anzi  che a ricondurlo sotto l’influsso esotico del giacobinismo  rivoluzionario.   Nei Pensieri filosofici (di cui si conoscono soltanto  alcuni frammenti pubblicati dal Tulelli) egli aveva già    1 II sonetto pare tuttavia debba riferirsi non al 1815, ma all’anno  seguente. Perché l'Accademia degli Affaticati in cui esso fu letto, dopo  il 1783, come ci è fatto sapere da un suo storico, « riunivasi raramente;  anzi dal 1801 il silenzio sostenne sino a quando nel 1816, nella Chiesa  dei Liguorini, cantò del Santo fondatore dell’Ordine » (forse il 2 agosto  quando ricorre la festa del Liguori) : N. Scrugli, Discorso storico  intorno all’Accad. degli Affaticati, annesso alle Notizie archeologiche  e storiche di Portercole e Tropea, Napoli, Morano, 1891, p. 132. Ma le  notizie raccolte dallo Scrugli non sono esattissime. Infatti, secondo  lui, l’Accademia degli Affaticati sarebbe stata vietata nella reazione  del '31, e non sarebbe più risorta fino al '48; laddove nel gennaio 1831  vi fu certamente recitato il discorso del Galluppi che qui appresso si  pubblica.   2 Opuscoli filosofici della libertà individuale: Della libertà di coscienza  e delle conseguenze che ne derivano riguardo al matrimonio, dell’Autore  del Saggio filosofico sulla critica della conoscenza, Messina, 1820,  presso Antonino D’Amico Arena; Lo sguardo d'Europa sul Regno di  Napoli, di Pasquale Galluppi di Tropea, in Messina, presso  G. Papparlardo, 1820. Entrambi gli opuscoli sono stati ristampati  dal Guardione, op. cit., e della sua ristampa io mi son qui servito.     120    ALBORI DELLA NUOVA ITALIA    aderito a quelle dottrine liberali, che il Filangieri aveva  propugnate nella Scienza della legislazione. « Per fissare »,  aveva detto, « i dritti del pubblico potere, bisogna partire  dal considerare lo stato di natura come anteriore  allo stato politico, se non in ordine di tempo,  almeno in ordine di ragione.... Tutti gli uomini sono per  natura in uno stato di libertà, in cui ciascuno può fare ciò  che gli piace, senza dipendere da un altro, posto ch’egli  non offenda gli altrui diritti. Ogni uomo non ha dunque  altro dritto per rapporto ad un altro che di non farsi  molestare nell’esercizio dei propri dritti. Or questo dritto  che ciascuno ha per rapporto agli altri, nella civil società  è confidato al pubblico potere, il quale è custode e vin¬  dice dei dritti di ciascun cittadino contro gli attentati  degli altri ». Movendo da questo principio, a differenza  del Rousseau, il Galluppi separa nettamente il dominio  giuridico-politico da quello della religione. Riconosce che  « la potestà politica dee curare che i cittadini sieno vir¬  tuosi. Ella dee riguardare come un male la depravazione  del loro spirito; dee mettere in opera quei mezzi che  promuovono la virtù ed arrestare i progressi del vizio »;  e però può parere che abbia bisogno del soccorso della  religione. Ma è d’uopo distinguere tra virtù e virtù. « Le  leggi, dice Portalis, non dirigono che alcune azioni deter¬  minate; la religione regola il cuore. Le leggi sono relative  al cittadino; la religione s’impadronisce di tutto l’uomo.  Ma se le leggi arrestano il braccio e la religione regola  il cuore, dico io, dunque, che la depravazione del cuore  non dee punirsi che dalla sola religione, vai quanto dire,  dal solo Dio che n’è l’autore; ella è dunque estranea  alla sanzione della legge. Se le leggi non son relative  che al cittadino, e la religione s’impadronisce dell’uomo,  le leggi devono dunque contentarsi della sola virtù civile  e lasciare alla religione le virtù dell’uomo.... Egli bisogna  distinguere l’uomo giusto agli occhi dell’eterno, che tutto    PASQUALE GALLUPPI GIACOBINO ?    12 I    vede, dall’uomo giusto civilmente. Chi è giusto innanzi  a Dio, lo è anche civilmente, perché la sua legge vuole  che si obbedisca alle potestà costituite; ma si può esser  giusto civilmente, senza esserlo, naturalmente, secondo  la religione ».   Le opinioni religiose pertanto non cadono sotto la san¬  zione delle leggi, e l’irreligiosità non può esser punita  Ogni maniera di persecuzione del resto è contraria allo  spirito del Cristianesimo. Intorno al quale il Galluppi  scrive una delle poche pagine eloquenti, che siano uscite  dalla sua penna. « Questa religione divina », egli dice,  « annuncia agli uomini una morale che perfeziona la  natura. Lo spirito del Vangelo non è che imo spirito di  fratellanza e di amore. Esso è contrario allo spirito di  persecuzione e di ferocia. Se non siete ricevuti ed ascol¬  tati, dice G. C. ai suoi discepoli, scuotete la polvere delle  vostre scarpe e partite. I primi banditori del Vangelo  non impiegarono altre armi per la sua propagazione, che  la forza della parola. La religione deve avere la sua sede  nello spirito, e lo spirito non rigetta l’errore e non ab¬  braccia la verità, se non a proporzione dei lumi che egli  riceve, e trattandosi di religione, a proporzione della  grazia celeste che il Padre de’ lumi gli dispensa. Le pri¬  gioni, le forche, le mannaie, i roghi non cambiano certa¬  mente lo spirito dell’uomo, e l’incredulo non lascia d'esser  tale, ancorché vada ad esalare il suo spirito fra i tor¬  menti più crudeli.... L’uomo abusa di tutto. La ministra  della pace e della pubblica tranquillità divenne col pro¬  gresso del tempo in mano del superstizioso e del fanatico,  l’istrumento del disordine, della persecuzione e della  strage. Questo mutamento di condotta, non della reli¬  gione, che in se stessa è santa ed immutabile, ma ne’  suoi ministri, fu sorgente d’incredulità ».   Nell’opuscolo del 1820 sulla Libertà di coscienza la  stessa questione è ripresa e approfondita sì dal rispetto    9 - Gentile, Albori. I.    122    ALBORI DELLA NUOVA ITALIA    speculativo e sì da quello politico. Vi ritroviamo quella  morale kantiana, che è professata negli Elementi, nelle  Lezioni di filosofia e nella Filosofia della volontà : «La  regola della moralità delle azioni è la coscienza uniforme  alla legge»: legge puramente formale anche pel Galluppi.  Il quale infatti soggiunge : « Si può agir male seguendo  una coscienza erronea, ma si agirà male ancora facendo  il bene in contraddizione dei dettami di una coscienza  erronea ». E su questi principii, rannodandosi alle dot¬  trine liberali del Filangieri, fonda la sua dimostrazione  del diritto del matrimonio civile abolito nel Regno dal  codice del 1819: il quale aveva stabilito non potersi  celebrare matrimonio legittimo « che in faccia alla Chiesa,  secondo le forme prescritte dal Concilio di Trento ». Già  nell'opuscolo precedente aveva provato che « la libertà  del pensiero è il primo diritto inalienabile dell’uomo»;  e che tale libertà è illimitata. Ora, se questa libertà è  illimitata, se la moralità consiste nella conformità della  coscienza alla legge, o meglio, della volontà alla legge  della coscienza, ne viene per conseguenza che quelle  azioni, le quali debbono essere necessariamente in armonia  col pensiero, non possono giammai essere forzate; ma  debbono rimanere nel campo libero del privato cittadino.  Potrà intervenire il diritto positivo nel culto religioso  esterno; ma non nel culto interno. E in quello esterno  non potrà di certo intervenire per obbligare il cittadino  ad un culto contrario alla propria credenza, bensì per  permettere un dato culto e impedire quindi che venga  offeso e turbato da chi non vi si conformi ». Ma deve   10 Stato permettere tutti i culti ? Tra il Montesquieu  contrario e il Marmontel favorevole alla libertà dei culti,   11 Galluppi dichiara di non voler esaminare di proposito  1’ « importante questione », poiché egli si occupa piuttosto  della libertà individuale, e però della sola libertà di co¬  scienza, laddove la libertà del culto supporrebbe un gruppo    PASQUALE GALLUPP] GIACOBINO ?    123    sociale che abbia abbracciato un culto diverso da quello  di altri gruppi, ed esce quindi dalla sfera del diritto indi¬  viduale. Tuttavia ritiene conveniente che si possa « per  ragioni politiche non permettere l’esercizio pubblico di  un culto diverso da quello stabilito ».   Quanto al matrimonio, dato il suo interesse pubblico,  esso rientra nella sfera di attività del potere politico:  che « ha il diritto di far leggi positive sul matrimonio,  le quali, lasciando illeso il diritto naturale, determinino  ciò che la natura non determina, e che ha influenza su  la felicità nazionale»; ma deve limitarsi a «prescrivere  le condizioni per la validità del matrimonio come con¬  tratto civile, e lasciare alla libertà del cittadino, se vuole  al contratto unire la forma religiosa, che T innalza a  sacramento ». Altrimenti verrebbe ad esser lesa la libertà  di coscienza, ossia quell’ essenza della morale, che il  Galluppi chiama legge di natura o diritto naturale.   Tale principio a Napoli fu riconosciuto dal codice  francese durante il decennio; e certo quella legislazione,  « tranne il mormorio di qualche fanatico, che osava chia¬  marsi teologo, non produsse fra noi il menomo disordine ».  Ma, tornato Ferdinando, « i superstiziosi spaventarono la  sua coscienza ». Quindi il matrimonio rientrò nel puro  dominio ecclesiastico. E « si fece dippiù », dice il Galluppi:  «il Concordato diede alla Chiesa il potere giudiziario  sul matrimonio; potere, che dee esercitarsi in conformità  del codice del Vaticano, e così la sovranità temporale  rimase spogliata de’ suoi sacri ed inalienabili diritti sul  matrimonio ». Il Galluppi, nelle cui parole è agevole  sentire l'eco della tradizione giannoniana, ora che Napoli  sembra risorta a più libera tuta per l’ottenuta costitu¬  zione, parla in nome della filosofia («la filosofia non dee  oggi temere di alzar la voce contro di questi abusi ») ;  e chiede che il matrimonio torni ad essere per lo Stato  contratto civile; e protesta contro la censura preventiva.    124    ALBORI DELLA NUOVA ITALIA    stabilita nella Costituzione spagnuola, per i libri che  trattino di religione.   Il secondo opuscolo, assai più importante per la cono¬  scenza delle sue idee politiche, quantunque rechi anch’esso  sul frontespizio la data del 1820, non par che possa essere  anteriore ai primi del febbraio 1821. Infatti v’ è detto  che « un’armata austriaca si fa vedere in volto minac¬  cioso nella bella Italia » 1 2 ; con accenno evidente, se non  erro, all’ordine del giorno del barone di Frimont (4 feb¬  braio 1821), di cui si ebbe notizia a Napoli tra il 15 0  il 20 di quel mese   In quei giorni un altro filosofo napoletano, Pasquale  Borrelli, componeva un inno di guerra, che, messo in  musica dal Rossini, fu cantato al San Carlo la sera del  21 febbraio. La seconda strofa diceva:   O straniero, che guerra ci porti,   Chi ti offese ? quell’ ira perché ?   Va, rispetta la terra de' forti....   Ma sprezzante 1 ’ iniquo c’ invade,   Ha di sangue nell’occhio il desir.   Cittadini, tocchiamo le spade:   Qui si giuri svenarlo o morir !   Il Galluppi dal fondo delle Calabrie rivolge all’ Europa  (ma fin dove sarà giunto ?) il suo opuscoletto, enfatico  nella forma, ma savio ed acuto nella sostanza, per scon¬  giurare anche lui l’invasione straniera e la soppressione  delle libere istituzioni. Rifa brevemente, con giudizi  che ricordano l’alta intelligenza storica di Vincenzo  Cuoco, la storia di Napoli dal 1789 in poi, a conferma  del principio, che oppone alle prepotenti pretese del-    1 Rist. cit., p. 47.   2 Vedi De Nicola, Diario napoletano dal 1798 al 1823, III, pp. 252  253 (in calce all'Arch. slor. napol., 1905, fase. 3).     PASQUALE GALLUPPI GIACOBINO ?    125    l’Austria: che la storia se la fanno i popoli da sé, e inter¬  romperla ad arbitrio è violenza, e lo stato violento non  è durevole.   Tutto, egli dice, « cangia incessantemente nel mondo ;  ma tutto cangia gradatamente... Questo principio igno¬  rato o negletto ha spesso fatto abortire i migliori pro¬  getti di riforme ». I grandi avvenimenti, che pare mutino  d’un tratto miracolosamente lo stato di un popolo, in  realtà sono l’effetto d’un « concorso di cause, al quale  l’unione di una picciola causa dà quella forza stupenda,  onde hanno origine gli avvenimenti che formano l’epoche  delle nazioni ». Come dai patiboli del '99 si potè giungere  alla libertà del '20 ? Il Galluppi studia brevemente questo  problema. La rivoluzione del '99, per lui, fu la conse¬  guenza degli errori commessi dal governo borbonico  (il Galluppi parla sempre di Ministero) dopo il 1794;  quando, dopo aver favorito in tutti i modi le tendenze  liberali promosse e alimentate dalla filosofìa, a un tratto,  spaventato dalla Rivoluzione francese, che intanto aveva  accelerato il movimento degli animi verso la rigene¬  razione politica, esso volle violentemente arre¬  starsi, e tornare indietro, e dichiarò guerra al liberalismo,  e si propose di ripiombare la nazione nella barbarie.  La venuta dei francesi fu la piccola causa che fece rovi¬  nare il trono, le cui fondamenta erano state da lunga  pezza lentamente scavate da’ suoi ministri. Così i Giaco¬  bini del 1799, che s’appigliarono alla massima della  perfetta imitazione dei francesi, senza chiedersi se Napoli  fosse preparata alla democrazia, e alla democrazia fran¬  cese, come 1 ’ Issione della favola, invece di Giunone,  abbracciarono la nuvola. — Giudizio che non è certo  quello di un giacobino.   Successe la reazione; e il governo, anzi che mostrarsi  ammaestrato dagli avvenimenti passati, tornò cieco, feroce,  dispotico; e accrebbe quindi sempre più il desiderio d’un    126    ALBORI DELLA NUOVA ITALIA    cangiamento. Aggiungi l’azione continua della Francia  sulle cose d' Italia, e gli errori della diplomazia: ed ecco  Giuseppe Bonaparte e Gioacchino, che non sono più i  francesi del '99, ma i correttori e moderatori dispotici  della libertà, i quali compiono l’abolizione del feudalismo  nel Regno, e vengono via via elevando la coscienza civile  della nazione. Questa al ritorno di Ferdinando è già  matura per la Costituzione: la cui richiesta per altro è  affrettata dagli errori che toma sempre a commettere il  Ministero pur dopo il '15. Fra i quali il Galluppi non  manca di ricordare il « concordato ignominioso, che  annienta tutte le riforme dall’epoca dell’augusto genitore  di Ferdinando fino al suo ritorno fra noi ».   Mostrata la necessità storica della rivoluzione del 1820  e della costituzione che Napoli s’era con essa conqui¬  stata, il filosofo protesta contro l’intervento straniero,  e minacciosamente esclama : « Un’ invasione è ella facile  nelle attuali circostanze della nostra nazione? Il '99, il  1815 sono gli stessi tempi per noi del 1820 ? Si è mai  veduto in altri tempi, allorché il nemico ci minacciava,  l’agricoltore, l’artista, il prete, il monaco stesso doman¬  dare l’iniziazione nelle società patriottiche per emettere  il giuramento di vincere, o di morire per la difesa della  costituzione e del trono ? ».   Siamo così abituati a rappresentarci il Galluppi, attra¬  verso i suoi libri meramente speculativi, dove non spunta  mai favilla di passione umana, o un accenno storico, o  un’allusione personale, e attraverso le memorie di quel  suo insegnamento universitario, tutto chiuso, tra il '31  e il '46 (periodo di puro raccoglimento spirituale per  Napoli), nella speculazione sopramondana.: che questa  specie di Galluppi inedito, agitato dalle preoccupazioni  politiche e storiche del mondo in cui visse, ci riesce di  uno strano sapore nuovo e d'un vivo interesse. E ne  viene aggiunta una linea caratteristica e simpatica alla    PASQUALE GALLUPPI GIACOBINO ?    127    figura del nostro vecchio e caro scrittore; che viene ad  occupare anche lui il suo posto non pur nella storia del  liberalismo italiano, ma in quella schiera di acuti pen¬  satori improntati della più schietta italianità, i quali,  rifacendosi direttamente o indirettamente dal Vico, si  opposero all’ astrattismo antistorico e rivoluzionario di  Francia.   Lungi, dunque, dall'apparirci un giacobino, il Galluppi,  pel suo modo d’intendere e giudicare gli avvenimenti  contemporanei, ci si presenta come un liberale del se¬  colo XIX, penetrato del senso della realtà e razionalità  della storia.   Né questa figura viene menomamente turbata dal  nuovo documento che qui appresso si aggiunge a queste  note: un altro suo discorso accademico, letto a Tropea  (nella solita Accademia degli Affaticati) in lode questa  volta di Ferdinando II, pel suo avvenimento al trono  Discorso che io ho avuto sott’occhio nell’autografo, e  trascritto fedelmente. Esso, ad ogni modo, non può  suscitare né meraviglia, né rammarico in nessuno che  ricordi con quali lieti auspicii salisse al trono il nipote  di quel Ferdinando, a cui il Galluppi aveva inneggiato  nel 18x5. « La giovanezza del re », scrisse lo stesso Set¬  tembrini nella sua Protesta, « la recente rivoluzione di  luglio in Francia, e i movimenti di Romagna, alzarono la  nazione a novelle speranze ». E molto meglio nelle Ri¬  cordanze: «Quando re Ferdinando II, nel novembre del  1830, saliva sul trono delle Sicilie, cominciò bene, e a  molti parve un buon principe. Ogni giovane a venti  armi è buono, come ogni fanciulla a quindici anni è bella.  In un suo Manifesto dichiarò di voler rammarginare le  piaghe che da più anni affliggevano il Regno, ristorare  la giustizia, riordinare le finanze, promuovere le industrie  ed il commercio, assicurare in ogni modo i beni dei suoi  amatissimi popoli. Quando poi diede un’amnistia, per la    128    ALBORI DELLA NUOVA ITALIA    quale tornarono a le loro famiglie molti esuli, molti pri¬  gionieri, le speranze crebbero e l’allegrezza fu grande.  Gli uomini savi dicevano che egli aveva fatto una brutta  orazione funebre a suo padre; ma gli davano lode perché  scacciò parecchi ministri e servitori, che durante il regno  di Francesco avevano fatto mercato d’ogni cosa, perché  restrinse le spese della casa sua, tolse via le cacce, e volle  vivere con certa semplicità e parsimonia, che il popolo  chiamò avarizia. Pareva a tutti cortese perché dava  udienza a tutti, domandava, rispondeva, provvedeva  subito, e ricordava i nomi di quanti aveva una volta  veduti ». Anche Nerone, uscì a dire, uno di quei giorni,  esso Settembrini tra giovani suoi amici e maggiori d’età:  anche « Nerone cominciò col quam mallem nescire scribere.  L’ è scopa nuova, ma di quella mala erba: fate che s’usi,  e vi riuscirà Borbone come il padre, e come l’avolo ».  E gli diedero del matto '. « Io che sono stato vittima del  suo insaziabile dispotismo » — scriveva Nicola Nisco  nell’accingersi alla storia del suo regno, — « e che ne  porto ancora i ricordi ai piedi ed ai polsi, rifarò con civile  orgoglio la storia dei suoi primi anni di regno, i quali  sono andati confusi con quelli che seguirono, massime  dopo il quarantotto, quando la natura borbonica, ride¬  standosi ampiamente in lui, lo menò a divenire l’avver¬  sione non pure d’Italia, ma d’ Europa ». E ricordando  la soddisfazione generale di quei primi mesi del nuovo re,  raccontava : « Alle acclamazioni dei popoli facevan eco i  prosatori ed i poeti di quel tempo, e nell’entusiasmo  della sperata redenzione, sventuratamente poi tradita,  vennero fuori giovani ed uomini egregi, fra i quali Gia¬  como Filioli, i fratelli Baldacchini, i fratelli Dalbono,  il Ruffo e quella sublime donna, che mai non si conta¬  minò di servo encomio, Giuseppina Guacci. E quando    1 Ricord., c. V.     PASQUALE GALLUPPI GIACOBINO ? I2Q   il 18 dicembre 1830, rimosso ogni ostacolo derivante da  colpe politiche al conseguimento dei pubblici uffizi, abi¬  litò all’esercizio delle pubbliche cariche gl’ impiegati ed  i militari destituiti per le politiche vicende, concedè ai  detenuti in carcere, espatriati, esiliati e condannati napo¬  letani e siciliani alle galere e all’ergastolo di ritornare  nelle loro famiglie, Saverio Baldacchini il chiamò in un  suo inno,    Padre a tutti, che il gaudio  Del perdonar provò;   e dall’animo purissimo della giovane Guacci si elevò  quella nobilissima esclamazione   Oh ! lieto il sire,   Che nell’amor dei popoli riposa »   Al coro delle lodi si unì adunque nel gennaio 1831  anche il filosofo di Tropea, tuttavia controllore delle con¬  tribuzioni, col seguente discorso; in cui l’adulazione del  suddito par s’indirizzi all’ idea dell’ottimo sovrano piut¬  tosto che alla persona del giovine monarca ; onde si direbbe  che a tratti assuma il tono dell’ammonimento anzi che  del panegirico. — Alcuni accenni di dottrine filosofiche,  che vi si mescolano, come i riferimenti ai concetti del  bello e del sublime, dimostrano il già sessantenne filosofo  incapace di distrarre la mente dalle sue astratte medi¬  tazioni. E questo è forse l’ultimo scritto, in cui gh ac¬  cadde di volgere attorno uno sguardo, per esprimere  il suo pensiero su fatti e personaggi contemporanei.   1914.    1 N. Nisco, Gli ultimi trentasei anni del Reame di Napoli, Napoli,  Morano, 1889, II, pp. i, 8.     Pel felice avvenimento  al Trono delle Due Sicilie  di FERDINANDO II   Discorso Accademico  di P. Galluppi    Di letizia ripiena, Accademia illustre, io ti rimiro. Con  la rapidità del fulmine l’arrugginita cetra riprender ti  vedo. Il tuo vivo ardore, di scioglier la lingua al canto,  espresso nel tuo volto io leggo. Sì, dell’estro che ti ac¬  cende, l’oggetto io ben ravviso. Un giovine eroe ascende  sul trono di Ruggiero: il dolore, che ingombrava i nostri  cuori, sparisce: in tutti i volti degli abitatori delle Due  Sicilie, con vivi ed espressivi colori, la gioia dipinta si  vede. Un grido di letizia dappertutto rimbomba.   Ma non è la gioia il solo effetto, che la comparsa del  giovine Re sul trono ha universalmente prodotto ne’  nostri cuori. Un vivo sentimento di ammirazione e di  devozione verso la sacra persona di lui, si è immanti¬  nente acceso ne’ popoli di qua e di là del Faro. Ferdi¬  nando II, l’augusto discendente di tanti Re, non sola¬  mente quel sentimento fa nascere, che, in una ridente  primavera, l’aspetto d’una deliziosa campagna, negli  animi sensibili alle bellezze della natura e dell’arte, suole  produrre; ma quel sentimento eziandio produsse, che  in una vasta pianura, la veduta dell’azzurra volta del  cielo, in una notte serena, l'anima colpisce dell’osser¬  vatore attento a contemplar l’universo.   Ferdinando II è dunque un oggetto non solamente  bello, ma sublime. Come bello, la sua    PASQUALE GALLUPPI GIACOBINO ? I3I   comparsa sul Trono ha inondato di letizia il cuore de’  suoi popoli ; come sublime, di ammirazione e di  devozione gli ha colpiti. Il bello ed il sublime producono  diverse affezioni morali: l’uno rallegra, ed in certe cir¬  costanze fa pianger di tenerezza. L’altro l’ammirazione e  la devozione produce. Nondimeno, quando il sublime si  riguarda come una causa, che su la nostra felicità influisce,  all’ammirazione ed alla devozione fa esso succedere la  confidenza e la letizia. Tale è il sentimento, che provano i  soldati di un’armata, quando sanno che il loro generale  è uno Scipione, un Alessandro, un Camillo ; e tale appunto  è quello che in noi produce la vista di Ferdinando II  sul trono delle Due Sicilie.   Se il bello ed il sublime l’oggetto sono dell’eloquenza  e della poesia, se senza un oggetto, che sia defl’una e  dell’altra qualità fornito, il genio dell’oratore e l’estro  del poeta languiscono; se l'alto personaggio, che è l’og¬  getto di questa letteraria adunanza, è dell’una e del¬  l’altra qualità eminentemente adorno, con ragione, Con¬  sesso illustre della città di Alcide *, di estro animato ti  veggo, per fare oggetto de’ tuoi canti l’augusto prin¬  cipe, che al Trono ascende di Carlo III. Con ragione,  cogli occhi a me affissi, che dell’onore di esser tuo oratore  son fregiato, attento ti miro. Tu vuoi udir dal mio labbro  la dipintura dell’alto personaggio, che verso di lui attira  i nostri sguardi. Tu brami, che i motivi io ti esponga,  che dalla velocità incalcolabile del pensiero aggruppati  insieme, i sentimenti di gioia, di ammirazione e di devo¬  zione ne’ nostri cuori producono.   Ferdinando II è bello: nel suo volto dipinto si vede  la candidezza deH’anima sua, ed una certa misteriosa  espressione del buon senso, del buon umore, del brio,    1 Tropea, città, secondo la leggenda, di Ercole. Vedi Nicola Scrugli,  Notizie archeologiche di Portercole e Tropea, pp. 15-17.     132    ALBORI DELLA NUOVA ITALIA    della benevolenza, della sensibilità e delle altre amabili  disposizioni. Con questa sua bella fisonomia e colle sue  belle maniere, la letizia egli sparge ne’ nostri cuori. Ma  non è questo il punto di veduta, sotto di cui io mi pro¬  pongo di dipingerlo. Ferdinando II ci ha colpiti di ammi¬  razione e di devozione, ed a questi sentimenti è successa  la speranza e la letizia. Egli è dunque un oggetto sublime.  Un oggetto sublime è grande. Egli è, per conseguenza,  grande. Ma qual grandezza siam noi costretti ad am¬  mirare in lui ? Sarà forse quella degli Alessandri, e de’  Cesari ? Quella vera grandezza, che in questi gravi capi¬  tani dell’antichità noi ammiriamo, si trova bensì nel  nostro Eroe. Ma questa non è quella, che più immediata¬  mente ci colpisce, e che più in lui risplende. Una gran¬  dezza guerriera può trovarsi negli uomini i più nefandi.  Siila non era insieme un gran capitano, ed mi mostro  di crudeltà ? Ferdinando II è grande, perché conosce i  doveri di un Re. Egli è grande, perché adempie i doveri  di un Re. È questo l’oggetto del mio discorso.    Parte Prima   Un pensiere è grande, allora che esso è esteso. Un  pensiere che, nella sua espressione la più semplice, com¬  prende tutti i pensieri particolari, che vi si rapportano,  è un pensiere grande; e l’anima, che lo sente in sé, spe¬  rimenta un sentimento di grandezza. Il sentimento della  grandezza è il sentimento della forza o del potere. Colui  che possiede una verità generale, sente che ha in suo  potere tutte le verità particolari che vi son comprese.  Egli è simile a colui che, posto su la cima di un alto monte,  comprende, con un semplice sguardo, un vasto e variato  orizzonte. Floro ci desta un pensiere grande quando ci  rappresenta, in poche parole, tutti gli errori di Annibaie    PASQUALE GALLUPPI GIACOBINO ?    133    dicendo : « Allora che poteva servirsi della vittoria, amò  meglio goderne ». Una consimil grandezza si ravvisa  nell’ idea, che egli ci dà di tutta la guerra di Macedonia,  quando dice: «Il vincere fu l’entrarvi». Uno spirito  sublime racchiude le verità particolari in una che sia la  più generale, e per conseguenza la più semplice.   Ferdinando II, asceso sul trono de’ suoi antenati, vede,  con un colpo d’occhio, tutti i doveri di un Re: egli li  racchiude in un principio generale. Il suo pensiere è  grande: egli che lo concepisce, è grande in conseguenza.  La prima parte del mio discorso accademico è terminata.   È terminata ?   Accademia illustre, ti credi tu forse, con questo mio  breve parlare, delusa nella tua aspettazione ? Hai tu forse  sperimentato un sentimento dispiacevole, simile a quello  che sperimentar suole uno spettatore di un’azione tea¬  trale, allora che una causa improvvisa lo chiama in altro  luogo, ed interrompe il suo piacere ? Ma cesserà in te  questo momentaneo doloroso sentimento. La rapidità  incalcolabile del sentimento mi ha fatto attraversare, in  un baleno, un vasto spazio. Io non ho potuto arrestare  la sua impressione. Lo scotimento prodotto nell'anima  da qualche grande oggetto, l’alza notabilmente sopra il  suo stato ordinario. Si desta in lei una specie di entu¬  siasmo piacevolissimo finché dura, che le fa compren¬  dere, con uno sguardo, una moltitudine di oggetti, ma  da cui l’anima tosto ricade nella sua ordinaria situazione.  Percorrerò dunque di nuovo, ed a passi osservabili, lo  spazio trascorso.   Iddio, eh’ è il legislatore dell’intero universo, diede  all’uomo una legge, e la impresse nel cuore di lui. L’uomo  è dalla sua natura determinato allo stato della civil so¬  cietà. In questo stato solamente può egli perfezionar se  stesso, ed adempiere la sua destinazione. L’uomo ha in se  stesso le tendenze, i mezzi e la legge di vivere nella civil    J 34    ALBORI DELLA NUOVA ITALIA    società. La società civile non può sussistere senza un  essere morale, dotato del potere legislativo ed esecutivo.  Un tal essere è il Sovrano. Nelle monarchie semplici,  il sovrano è il Re.   Ma Iddio ha voluto l’esistenza della civil società su  la terra, per la felicità degli uomini; 1’esistenza dunque  della sovranità, come ordinata a quella della civil società,  è voluta da Dio per la felicità degli uomini. Queste sem¬  plici riflessioni ci menano infallibilmente alla conoscenza  del principio generale della morale de’ Re. La desti¬  nazione dei Re su la terra è di rendere,  per quanto è loro possibile, felici i  loro sudditi. Ecco il principio luminoso e sublime,  che tutti racchiude i regi doveri.   Ma non udiamo noi forse questa sublime e consolante  filosofìa annunciarsi a’ popoli delle Due Sicilie, nel primo  momento del suo avvenimento al trono, dall’augusto  Ferdinando II ? Ascoltiamo la sua voce sovrana in quel-  l’ammirabile proclama, che destò ne’ nostri cuori l’am¬  mirazione e la devozione per la sua sacra persona, e che  di vera gioia gl' inondò. Il giorno otto di novembre dello  scorso anno 1830 Ferdinando II ascese sul trono, ed in  quell’ istesso giorno egli così parlò a’ suoi sudditi :   « Avendoci chiamato Iddio ad occupare il Trono de’ nostri  augusti Antenati, sentiamo l’enorme peso, che il supremo Di¬  spensatore de’ regni ha voluto imporre sulle nostre spalle, nel-  l'affidarci il governo di questo Regno. Siamo persuasi che Iddio,  nell’ investirci della sua autorità, non intende che resti inutile  nelle nostre mani, siccome neppur vuole che ne abusiamo. Vuole  che il nostro Regno sia un Regno di giustizia, di vigilanza, e di  saviezza, e che adempiamo verso i nostri sudditi alle cure paterne  della sua Provvidenza « *.    1 II proclama si può leggere nella Collezione delle leggi e de' decreti  reali del Regno delle Due Sicilie, a. 1830, sem. II, Napoli, Stamp.  Reale, 1830, pp. 143-.45.     PASQUALE GALLUFPI GIACOBINO ?    135    A voi, gran Dio, che avete nella vostra mano il cuore  de’ Re, per inclinarlo secondo la vostra volontà sempre  santa, grazie siano rese del prezioso dono, che nella vostra  misericordia ci avete concesso. Non mica nel furore del  vostro giusto sdegno, ma nelle vedute imperscrutabili  della vostra misericordia, voi ci avete inviato a reggere  i nostri destini il giovane eroe, che ci sorprende colla  sua sublime sapienza. Egli riconosce che non dee punto  abusare dell’autorità di cui voi l’avete rivestito; che  è suo sacro dovere, di far che regni fra di noi la giustizia,  e che egli sia il felice istrumento delle cure paterne  della vostra provvidenza su di noi. Ciò è lo stesso che  riconoscere esser egli destinato da voi  a render felici i suoi sudditi. Ciò è lo  stesso che proclamare il principio generale della mo¬  rale de’ monarchi. Il principe, che così parla a’ suoi  popoli, non ha mica il crine canuto: egli è un giovanetto,  che ha appena compiuto il quarto lustro della sua età.  Egli è dunque dotato di un’anima grande ; ed è con ragione,  che qual Grande è salutato da’ popoli delle Due Sicilie.  Un’anima grande ha solamente potuto concepire il pen¬  siero sublime, che tutta racchiude la morale de’ Re;  ed un’anima grande ha potuto, invece di essere distratta  dallo splendore del Trono, specialmente in un’età gio¬  vanile, concentrar tutta se stessa nell’espressione de’  propri doveri, ed esserne profondamente penetrata.   Nell’ammirabile proclama il nostro gran Re non sola¬  mente conosce la sua augusta destinazione nel governo  de’ suoi popoli, ma vede ancora i mezzi principali, che  debbono fargli conseguire il gran fine. Egli scovre nel  principio le illazioni. Egli vede, in primo luogo, che gli  uomini non possono esser febei, senza esser virtuosi:  egli conosce T intima relazione, che passa fra la virtù  e la Religione; che i sentimenti rebgiosi conducono alla  virtù, come la virtù conduce alla Rebgione. Egli com-     I36 ALBORI DELLA NUOVA ITALIA   prende che la vera religione viene in soccorso della pub¬  blica autorità, e per estendere la sanzione delle leggi,  e per ottenere ciò che esse non possono prescrivere, e  per evitare ciò che esse non potrebbero sempre giugnere  ad impedire; ed egli conclude, che dee proteggere la  divina Religione, che c’ illumina. « I grandi », dice il  celebre Massillon, « non son grandi se non perché eglino  sono le immagini della gloria del Signore, ed i deposi¬  tari della sua potenza. Eglino dunque debbono sostenere  gl’ interessi di Dio, di cui rappresentano la maestà, e  rispettare la Religione, che sola rende rispettabili loro  stessi ».   Dalla Religione volge il nostro gran Re lo sguardo alla  giustizia. Egli vede che la felicità de’ cittadini richiede  una gelosa custodia de’ loro diritti. Egli conosce che  questa custodia è il sacro dovere del potere giudiziario.  Egli è convinto che il Re nell' istituzione di questo potere,  e nell’elezione de’ membri, che debbono comporlo, deve  porre la maggiore attenzione che gli sia possibile. Il cit¬  tadino dee, sotto la protezione della legge, e del pubblico  potere, vivere tranquillo: egli non dee temere che i suoi  diritti sieno violati. Magistrati, a cui la regia maestà  consegnò la spada di Temi, ascoltate la voce del sapiente  legislatore. Tutti i miei sudditi, egli dice, debbono essere  uguali agli occhi della legge '. I tribunali debbono essere  un santuario, che la corruzione, la prepotenza, T intrigo,  non debbono giammai profanare. Se i giudici debbono  essere indipendenti nelle loro sentenze, eglino non deb¬  bono essere legislatori. L'accordar grazie ed eccezioni è  una funzione estranea al loro potere. L’impero della  legge dee essere universale.   1 « Noi vogliamo — dice il Proclama — che i nostri tribunali  siano tanti santuari, i quali non debbono mai essere profanati dagl' in¬  trighi, dalle protezioni ingiuste, né da qualunque umano riguardo o  interesse. Agli occhi della legge tutti i nostri sudditi sono uguali, e  procureremo che a tutti sia resa imparzialmente la giustizia ».     PASQUALE GALLUPPI GIACOBINO ?    137    I cittadini non possono essere felici, se lo Stato non  è ricco. Uno Stato, dice un celebre politico, non si può  dire ricco e felic.e, che in un solo caso, allorché ogni cit¬  tadino con un lavoro discreto di alcune ore può como¬  damente supplire a’ suoi bisogni ed a quelli della sua  famiglia. Un lavoro assiduo, una vita conservata a stento  non è mai una vita felice. I dazj eccessivi sono contrarj  alla felicità di cui parliamo; ed i dazj debbono essere  eccessivi, allora che il Tesoro generale dello Stato pre¬  senta un voto. E qui l’anima grande di Ferdinando II  ci si mostra allo scoverto. Egli non dirige il suo sguardo  su le pompe de’ Re, su i palagi de’ Grandi, ma lo dirige  su i cenci, e su i tugurj de’ poveri e degl’ infelici. Al suo  penetrante sguardo tosto si svela lo spettacolo doloroso  della soma pesante de’ dazj, che gravita sul suo popolo.  La sua grande anima ne è profondamente penetrata,  ma non abbattuta. Le grandi passioni innalzano l’anima,  e scovrire le fanno degli oggetti incogniti agli uomini  ordinari. Ferdinando II vede quasi nel momento stesso  il voto spaventevole del Tesoro generale, ed i mezzi di  ripararlo. La grande opera della instaurazione delle reali  finanze, è tosto nella gran mente del Principe magnammo  già delineata. La felicità de’ cittadini richiede ancora,  che lo Stato sia temuto e rispettato al di fuori. Ad un  si grande oggetto conferisce un’armata disciplinata,  valorosa ed animata dal nobile ardore di gloria. E Fer¬  dinando II si fece già ammirar da capitano, prima di  farsi ammirare da Re.   Augusta filosofia! Se io a te consagrai sin da  primi anni la mia vita, se non ho avuto altro scopo ne  miei scritti, che di annunciare la verità al genere umano,  se tu vedi che io ardisco di parlare ad un Re, da te non  si concepisca contro di me alcun sospetto, che mi avvi¬  lisca a’ tuoi sguardi. No, l’adulazione non ha profanato  il mio linguaggio. Io non ho prestato al mio Eroe i miei    10 - Gentile, Albori. I.    138    ALBORI DELLA NUOVA ITALIA    pensieri, per formarmi un prototipo di mia immagi¬  nazione. Io gli ho osservati in lui, che nel suo proclama gli  esprime. Io ho dunque, senza rimorso di arrossire al suo  cospetto, il diritto di concludere : Ferdinando II  è grande perché egli conosce i doveri  di un Re.    Parte Seconda   Ferdinando II adempie egli i doveri di un Re ? Il tempo,  in cui 1 ’ Eroe di questo discorso regna su di noi, non è  ancora di tre mesi; ed egli ha tali e tante cose operato,  che con ragione i sudditi suoi, nella sincerità del loro  cuore, 1' hanno unanimemente acclamato per Grande.  Ferdinando II è un personaggio straordinario. Pe’ per¬  sonaggi di tal fatta i giorni sono anni, e gli anni sono  de’ secoli. I loro passi sono di una rapidità incalcolabile,  ed agli occhi degli uomini ordinar] sembrano de’ pro¬  digi- Eglino, quando anche la loro vita fosse molto corta,  formano l’epoche della storia; perché producono quei  memorabili avvenimenti, che cambiano lo stato de’  popoli, e fanno a questi percorrere un cammino diverso.  I loro nomi resistono al furore del tempo, che tutto di¬  strugge. Ferdinando II ascende al trono de’ suoi antenati,  nell’aurora della sua vita. Un uomo ordinario sarebbe  stato sedotto dallo splendore del Trono: egli avrebbe  sdegnato le penose cure del governo di un Regno; egli  sarebbe stato colpito dal fasto de’ grandi. Il giovin Eroe  chiude gli occhi alle pompe incantatrici del Trono, ed  attento gli rivolge su i mah del suo popolo. Egli non  vuol assidersi in mezzo de’ grandi pria di piangere cogl’ in¬  felici. Una serie d’infausti avvenimenti produce torrenti  di mali, ed immerge nel dolore e nel pianto gli abitatori  di queste belle contrade. Un muro di separazione s’in¬  nalza fra di noi. Esso divide i sudditi da’ sudditi. Quelli    PASQUALE GALLUPPI GIACOBINO ?    139    della parte sinistra son privi della vita civile, nell’atto  che la necessità ne chiama degli altri, che sono insuffi¬  cienti, alle pubbliche cariche >.   Il potere giudiziario perde tanti ragguardevoli magi¬  strati. L’amministrazione tanti prudenti e savj ammini¬  stratori. La indizia tanti valorosi campioni. Gran Dio,  chi riparerà i nostri mali ? Voi avete udito i gemiti de  buoni e virtuosi cittadini di questo bel Regno: la vostra  voce finalmente dal Cielo si è udita. Popoli delle Due  Sicilie, rasciugate le vostre lagrime : i vostri cuori si aprano  alla gioja. Un Re di un’anima eroica ascende sul Trono:  egli sanerà le vostre piaghe : egli vi farà risorgere a nuova  vita. Sì, il core magnanimo di Ferdinando il Grande è  commosso all’aspetto de’ mah di una gran parte de  sudditi suoi. Egli sente, nella sua clemenza, che, essendo  l’immagine di Dio e del Redentore divino su la Terra,  dee qual padre correre ad abbracciare il figliuol prodigo.  Egli vede, che la discordia in un Regno è la sorgente di  mali deplorabili, e che un principio saggio dee farla ces¬  sare. Egli conosce, che i Re debbano regnare su i cuori  de’ loro sudditi. Il memorando decreto del 18 dicembre  del 1830 è pubblicato. Il muro di separazione è rove¬  sciato. La gloria di Ferdinando II sarà immortale ».   Tacete, animucce infelici, in cui la calunnia ha posto  la sua sede, tacete. Che cosa mai dir vorrete ? Che il  Reai Decreto or ora citato è una finzione ? Che esso non  avrà alcuna esecuzione ? No, l’anima eroica di Ferdi¬  nando II non cape siffatta bassezza. I reali Decreti del  dì 11 del corrente gennaio 3 vi ammutoliscano. Ferdi-    1 A questo punto d'altra mano, in margine: «La tempesta politica  fa traviare dal retto cammino anche i migliori talenti ».   1 L’atto sovrano del 18 dicembre 1830 portava un indulto in favore  dei condannati come rei di Stato, e di coloro che per ragioni politiche  si trovavano esclusi dagli impieghi civili e militari.   3 Allude ai due decreti nn. 104 e 106, emanati con quella data da  Ferdinando II, col primo dei quali si cercava di curare le piaghe      140    ALBORI DELLA NUOVA ITALIA    nando II regna senza distinzione, su i cuori di tutti i  sudditi suoi. Tutti si riguardano quasi fratelli, perché  vivono sotto T impero di un Re, che è loro Padre.  DalTuna all’altra estremità delle Due Sicilie una sola  voce si ascolta : Viva l’Eroe! Viva Ferdi¬  nando II il Grande! Tutti sì, tutti son pronti  a versare per un tanto clemente Monarca il loro sangue.   La virtù non dee amarsi che per se stessa, e sarebbe,  in buona filosofìa, un distruggerla il riguardarla qual  mezzo per la felicità. Ma è essa una verità incontrasta¬  bile, che l’uomo virtuoso sarà felice, ed il vizioso infelice.  Quale spettacolo più commovente per l’anima di Fer¬  dinando II di quello che gli presentò la capitale ne'  giorni ix, 12 e 13 di gennajo, e la relazione, che certa¬  mente gli pervenne, della letizia universale innalzata  sino al più vivo entusiasmo di tutto il Regno ? Il piacere  di rendere milioni di uomini felici, e di vedersi da essi  adorato ne ha esso forse un eguale su la terra ? Il Principe  magnanimo intese nel suo cuore, che egli ha tanti sol¬  dati, quanti sudditi conta il suo regno. Egli vide il suo  Trono immobile, la sua gloria immortale.   La grand’opera della rassicurazione delle reali finanze  la dicemmo già delineata nella gran mente del nostro  Eroe. La mano incomincia tosto ad eseguire il disegno    profonde che erano nelle finanze del Regno, sopra tutto dei do¬  mimi continentali, per « le conseguenze fatali della straniera usurpa¬  zione: gli avvenimenti disgraziati del 1820#; si esponeva con leale  franchezza il deficit della tesoreria generale di Napoli, che am¬  montava a 4 345 251 ducati; per colmare gradualmente il quale si  annunziava una serie di lodevoli economie nella milizia e nei ministeri,  oltre straordinari rilasci della cassa privata del Re e dell'assegnamento  della R. Casa; l’abolizione del cumulo degli stipendi; l’imposizione  di una ritenuta ai soldi e pensioni superiori a 25 ducati mensili; e in  compenso pel « sollievo della parte più bisognosa del popolo » si dimi¬  nuiva della metà il dazio sul macino. Con l’altro decreto veniva pre¬  scritta « una generale economia nelle spese a carico dei comuni di qua  del Faro per invertirla nella diminuzione de’ più gravosi dazi  comunali». Vedi Collezione cit., a. 1831, sem. I, pp. n-17, e 18-20.       PASQUALE GALLUPPI GIACOBINO ? I4I   del pensiere. I Re imprimono alle loro azioni un carat¬  tere di gloria, che spinge i sudditi ad imitarle. L’idea  di grandezza si associa a quella delle azioni de’ grandi,  e l’impero delle idee associate sul cuore umano è molto  esteso. Quindi la virtù, quando si scorge nelle azioni  de' grandi, di qualunque grandezza essi sieno adorni,  rende la virtù rispettabile su la terra.   Guidato da questo sublime pensiere, Ferdinando II  incomincia da sé la nobile impresa. Que’ insti spazj di  terra riserbati alla caccia de’ Re son tosto restituiti al¬  l’agricoltura ». Questa misura diminuisce le spese relative  alla persona del Re, ed aumenta la pubblica ricchezza.  Un rilascio è conceduto dalla borsa privata del Principe:  altro ne è fatto dall’assegnamento della Casa reale. La  classe degl’ impiegati è chiamata ad imitar l’esempio del  Reggitor supremo dello Stato: ed il reai Decreto del di  11 gennaio contenente una diminuzione di dazj, vien  tosto a colpirci di ammirazione e di gioja.   Se tali sono le imprese di Ferdinando II in men di  tre mesi, che cosa non dobbiamo noi sperare in un lungo  regno, che gli auguriamo felice ? Egli ha promesso la  restaurazione della giustizia. La sua promessa è sacra  ed immutabile. Il passato ci autorizza a sperare il futuro.  Sì, il cittadino vivrà tranquillo sotto 1 * impero della legge.  Il regno di Astrea rinascerà su le nostre contrade. Ed io  non posso trattenermi di finire col poeta latino:   lam redit et virgo, redeunt Saturnia regna,  lavi nova progenies caelo demìititur alto.    1 « Con la pubblicazione del suo proclama il Giornale ufficiale  annunziava le sue disposizioni per l’abolizione delle cacce »: N. Nisco,  Gli ultimi trentasei anni del Reame di Napoli, voi. II, p. 67.  PASQUALE GALLUPPI. ( 1770-1816 ). 1. Il Galluppi è stato detto a ragione gran riformatore della filosofia italiana ; e aspetta ancora un degno illustratore della sua vita e del suo pensiero . Noi ne diremo soltanto quanto è neces sario al disegno di questo lavoro . Nacque a Tropca, in Calabria , il 2 aprile 1770 ( lo stesso anno di Hegel) dal barone Vincenzo e da Lucrezia Galluppi, una delle più antiche famiglie patrizie di quella cittaduzza. Fattii primi studi di latino, tredicenne fu mandato a scuola di filosofia e ma tematica da « un abile maestro » ( 1 ) , tal Giuseppe Antonio Ruffa, che gli pose in mano la Logica del Genovesi e la Geometria di Euclide; e l'innamorò talmente di questi autori e di queste disci pline, che il Galluppi , anche innanzi negli anni , non rivedeva quei libri senza una certa commozione. Ma non si fermò al Ge novesi ; perchè alcuni suoi compagni l'indussero a leggere la Teodicea del grande avversario di Bayle. E il Galluppi ne fu in vogliato a studiare tutto il sistema nelle opere del Wolff, come anche ad applicarsi alla teologia , poichè nella scuola « si era in trodotto, scrive egli stesso , un certo misticismo » . 2. Studi teologici e metafisici continuò a coltivare a Na poli , dove si recò nel 1788 , da Palermo, ove il padre qualche anno prima aveva condotto la famiglia . Frequentò le lezioni di teologia di Francesco Conforti, il Sarpi napoletano, e quelle di greco di Pasquale Baffi ; entrambi vittime gloríose del 1799. Studiò la Bibbia, la storia antica , l'ecclesiastica, la patristica, ( 1 ) Vedi il brano autobiografico pubblicato dal prof. F. PIETROPAOLO nella Rivista di filosofia scientifica di E. Morselli, &. 1887, e ripubblicato da CARLO TORALDO nel suo Saggio sulla filos. del Galluppi e le sue relazioni col kantismo, Napoli , Morano , 1902, p. 29 ( dove per una gvista è stampato amabile per abile ) . PASQUALE GALLUPPI 217 specialmente s . Agostino. Ma, per la morte del suo minor fratello Ansaldo, dovette nel 1794 rimpatriare per attendere all'azienda do mestica ; e sposò Barbara d'Aquino di Cosenza , dalla quale ebbe quattordici figli ! Negli Elementi di psicologia ( 1 ) egli stesso ricorda la sua numerosa figliuolanza, che nella sua casa non grande gli avrebbe impedito co'suoi strepiti infantili di studiare la filosofia e le matematiche, senza la sua grande passione per questi studi. Persistetti, egli dice, e « l'esercizio mi pose in istato , che io me ditavo tranquillamente, non ostante i giuochi strepitosi, i pianti e le grida de ' ragazzi > ( 2 ) . Nel 1795 , per rispondere alle censure che certi ecclesiastici avevano fatto di alcune sue proposizioni , pubblicò una Memoria apologetica (3) Nè tralasciava frattanto di coltivare la filosofia : « ma i libri filosofici che leggeva, com'egli c’informa, erano tutti della scuola cartesiana » . Intorno al 1800 lesse Condillac, e « qui cominciò la seconda epoca della sua vita filosofica . Le opere di questo filosofo fecero cambiare la direzione dei suoi studi nella filosofia » , « lo compresi , - ci dichiara il Galluppi, – che prima di affermare qualche cosa su l'uomo, su Dio e su l'universo , bisognava esaminare i motivi legittimi dei nostri giudizi e porre una base solida alla filosofia ; che bisognava perciò risalire all'origine delle nostre co noscenze, e rifare in una parola il proprio intendimento » ( 4) . 3. Così egli scriveva nel 1822 , quando era molto progredito nella critica della conoscenza , e aveva, si può dire, approfondito il problema. Forse la prima lettura di Condillac non gli diede quella netta coscienza, che parrebbe da queste parole , dell'im portanza della questione gnoseologica . Certo, l'avviò per questa strada, che è la strada maestra delle filosofia moderna, facendolo ritornare sul Saggio del Locke. E primo frutto di questi nuovi studi fu nel 1807 un opuscolo Sull'analisi e la sintesi ( 5 ) ; le due ( 1) § LVI ; 2.a ed. , Firenze, Pagani, 1832, p. 103 . ( 2) Anche il Vico nella sua vita ricorda con quella sua disinvolta vanità di esser * uso sempre a leggere o scrivere, o meditare » tra lo strepito de' suoi non pochi figliuoli. ( 3 ) In Napoli , pei torchi di Vincenzo Mozzola - Vocola . ( 4 ) Autobiografia citata. (5) Napoli, Giuseppe Verriento , 1807. Tirato in pochi esemplari non messi in vendita, quest'opuscolo è divonuto oggi rarissimo. Una copia è conservata dalla Biblioteca Univer sitaria di Napoli, nella Miscellanea Imbriani. 218 CAPITOLO I facoltà che occuperanno un posto primario nella filosofia dello spirito galluppiana. Tutto intento a' suoi studi , e senza allontanarsi mai da Tro pea, se di là « con l'occhio e col pensiero » , come immaginava in un suo affettuoso elogio Luigi La Vista, non si sarà rivolto « alla prossima Cotrone, ed ai suoi costumi ed alle sue idee trovato un modello nella vita e nella sapienza del divino Pita gora » ( 1 ) ; certo avrà seguito gli avvenimenti politici dei for tunosi tempi del decennio francese in Napoli , com'è certo che partecipò vivamente con l'animo alle riforme liberali allora at tuate o vagheggiate. Scrisse anche un opuscolo Su la libertà com patibile con ogni forma di governo, rimasto inedito . E nel 1809 da re Gioacchino fu nominato controllore delle contribuzioni della provincia di Catanzaro ( 2) . Della parte da lui presa alla vita pub blica contemporanea si ricorda pure un opuscolo stampato nel 1820, Lo sguardo dell'Europa sul Regno di Napoli, in difesa degli ordini costituzionali napoletani minacciati dal Congresso di Lai bach, e contro l'intervento straniero . E altri due opuscoli avrebbe indirizzati al Parlamento napoletano , l'uno Sulla libertà dell co scienza e l'altro Sulla libertà della stampa ( 3) ; opuscoli ora irrepe ribili, ma che non dovevano contenere niente di diverso dallo scritto Su la libertà compatibile con ogni forma di governo, di cui larghi squarci e transunti furono pubblicati nel 1865 ; nei quali il Nostro mostrasi largo fautore di ogni libertà (4) , 4. Quando scrisse l'opuscolo Sull'analisi e la sintesi il Gal luppi ancora non conosceva nulla di Kant, secondo che egli stesso ci attesta. « La conoscenza di questa filosofia, egli dice, non cam biò punto la direzione dei miei studi ; io continuai le mie appli ( 1 ) Memorie e scritti di L. LA VISTA, Firenze, Le Monnier, 1863, pag. 257. ( 2) Vedi quel che no dice P. E. TULELLI in un'interessante memoria Intorno alla dottrina ed alla vita politica del bar . P. G. - Notizie ricavate da alcuni suoi scritti ine diti e rari, negli Alti della r. Acc. delle scienze mor . e pol. di Napoli, I ( 1865 ), 201 e sgg. Il TULELLI pubblicò un'altra memoria : Sopra gli scrilli inediti del bar, P. G. negli stessi Atti del 1867, III, 81 e sgg. ( 3) Vedi l'opuscolo più sotto citato di F. S. BISOGNI, Omaggio , p. 9. (4) Vedi la prima delle due memorie del Tulelli. Pare tuttavia che nella reazione del '99 il Galluppi , che allora trovavasi a Tropea , non abbia mantenuta quella condotta che si conveniva a un amico della libertà . Nell'Eco di Tropea del agosto 1902 II , n. 35 ) il prof. C. TORALDO , al quale pure si deve il citato Saggio sulla filosofia del Gal luppi con appendice di scritti inediti, ha pubblicato questo bruttissimo sonetto recitato dal Nostro noll'Accademia degli Affaticati di quella città : PASQUALE GALLUPPI 219 cazioni su l'intendimento umano, ma profittai molto delle fati che del filosofo di Koenisberg ; io riconobbi il merito dei problemi elevati dalla filosofia critica , sebbene trovai insufficiente la so luzione che questa ne avea dato . Le meditazioni da me por tate su la filosofia critica , elevarono molto più alto i miei pensieri e mi presentarono delle nuove vedute nella scienza dell'intendi mento umano » ( 1 ) . E vedremo infatti quanta parte del criticismo kantiano si rispecchi nel Saggio filosofico sulla critica della co noscenza , di cui il Nostro pubblico i primi due volumi a Napoli nel 1819 ( 2 ) , Questa prima conoscenza di Kant provenne al Galluppi dalle esposizioni nè complete nè esatte del Villers ( 3 ) e del Kinker ( 4 ) e Della Patria il dolore , il lutto , il pianto , La rea sorte fatal veder non voglio , Di Marto, di Bellona il fler orgoglio , L'augusto trono di Minerva infranto , Spesso sedendo al bel Sebeto accanto Col cor trafitto dal più fler cordoglio , Pria che de' Franchi vacillasse il soglio , Dico nel mio pensiere, e piango intanto. Un ferro io prendo. Occhi mici, non piangete, Grido nel mio furore ; io corro or ora Sollecito a varcar l'onda di Loto . Ma già l'Angiol divin , che accanto giace, Di man mi toglie il ferro , e grid'allora Verrà Fernando : tornerà la paco ! Il sonetto è conservato su un foglio volante, che reca dalla parte opposta queste parole che sono la conclusione di un discorso accademico : « Ferdinando augusto , principe ma gnanimo, nell'impetuoso turbino che minaccia l'indipendenza nazionale, corri a salvarci. I destini della nostra nazione son legati alla tua esistenza . Ferdinando viene, Napoli è salvo. Il mio discorso accademico è terminato » . E poi : « Pasquale Galluppi fra gli Af fatigati il Furioso . Siegue dietro il Sonetto dello stesso accademico » A me pare che discorso e sonetto possano riferirsi alla reazione del 1799 . ( 1 ) Le frasi in corsivo di questo passo meritano particolar considerazione per quel cho si dirà più innanzi del pensiero galluppiano. ( 2) Pei torchi di Domenico Sangiacomo. Seguirono altri 2 vol. Messina , Pappalardo , 1822 ; poi un 5.° e un 6. ° , per cui l'opera fu compiuta, nel 1832 , presso lo stesso Pappalardo. Nel 1833 in Napoli fu incominciata la 2.a edizione migliorata ed accresciuta . ( 3) Philos. de Kant, ou principes fondamentaux de la philos. trascendentale, Metz, 1807. ( 4) Essai d'une exposition succincte de la Critique de la Raison pure ; trad. du l'ol landais par. J. le F. , 1801; vedi su questi e gli altri primi scritti francesi sul Kant l'im portante memoria del PICAVET, La philos. de Kant en France de 1773 à 1814 , proposta alla sua trad. della Critica della Ragion pratica (Paris, Alcan, 1888 ). 220 CAPITOLO VII dalla Storia comparata dei sistemi filosofici ( 1803) del Degerando. Egli non seppe mai il tedesco ( 1 ) , nè mai conobbe la traduzione latina di alcune opere kantiane, già ricordata, fatta dal Born ( 1796-98 ) ; nè era uscita peranco la traduzione che il cav. Man tovani fece della Critica della ragion pura ( 1820-26) , e che sarà poi la sua fonte principale. 5. Nel 1820 pubblico i primi due volumetti di Elementi di filo sofia contenenti la Logica pura e la Psicologia , e prometteva l'Ideologia , La logica mista , la Filosofia morale, che infatti uscirono in altri tre volumetti nel 1826 ( 2) , e una Storia filosofica ragionata, che un avvertimento dell'editore al quinto volumetto annunziava non si sarebbe piu pubblicata avendo l’autore « su l'oggetto intra presa un'opera estesa » ( 3) . E questi libri , i migliori testi di filo sofia per le scuole che si siano avuti finora in Italia , per i loro squisiti pregi didattici d'ordine e di chiarezza , si divulgarono presto per tutta Italia , procacciando molta fama al benemerito autore . Intorno al 1821 scrisse alcune lettere sulla storia della fi losofia moderna, indirizzate al canonico don Goffredo Fazzari, che nel seminario vescovile di Tropea insegnava gli Elementi di lui e desiderava da lui stesso di essere orientato in mezzo al « caos delle opinioni , che al presente scrive il Galluppi nella prima lettera — agitano il mondo filosofico » , e di essere sovrattutto informato della filosofia critica. E queste lettere l'autore nel 1827 raccoglieva in un bel libro, piccolo di mole ma che è il primo degno saggio di storia della filosofia in Italia ( + ) , il quale diede ( 1 ) Nè soppe tanto di francose da tradurre da questa lingua sonza errori di senso . Vodi per un esempio curiosissimo la mia prefazione al Saggio citato del prof. C. TO RALDO , p. IX, n . 1 . ( 2) Aggiunse più tardi gli Elementi di teologia naturale. Nel 1835 si fece a Firenzo una edizione di tutti questi Elementi di filosofia con aggiunte dell'autore e note di P.(OMPILIO ) T.(ANZINI) S. ( COLOPIO ), pubblico lettore ; ristampata a Bologna nel 1837. ( 3) Di questa Storia della filosofia non fu pubblicato poi che il primo volume conte nento il primo dei duo libri di Archeologia filosofica , che l'autore intendeva premettere al l'opera. Ne conosco solo l'odizione di Milano, Silvestri, 1847, nella quale precode l'Elogio funebre scritto da ENRICO PESSINA . ( 4) Lellere filosofiche sulle vicende della filosofia relatiramente ai principii delle cono scenze umane da Cartesio sino a Kant inclusicamente , Messina, Pappalardo, 1827. Le let tere in questa edizione erano tredici. Una 14. ne aggiunse l’A. alla 2.a edizione (Napoli, 1838) , con un Discorso di LUIGI BLANCH per venire fino al Cousin e al Rosmini. E questa 2. edizione fu riprodotta in quella di Firenze, Fraticelli, 1842 , che noi citeremo. PASQUALE GALLUPPI 221 occasione al Romagnosi ( 1 ) di scrivere una Esposizione storico -cri tica del kantismo e delle consecutive dottrine ( 2) . E altre cinque Lettere sull’ontologia indirizzd a un amico tra il 1820 e il 1822 , dove si adoperò a mettere in chiaro, da un punto di vista kan tiano, la futilità dell'ontologia wolfiana ( 3) . Ma queste lettere non sono venute in luce che recentemente . 6. Per tutti gli scritti già divulgati il Galluppi s'era reso noto per tutta Italia ; e il giovane Rosmini l'11 novembre 1827 , ap pena stampato il primo volume de' suoi Opuscoli filosofici, glielo inviava da Milano, dichiarandoglisi obbligato se egli , che aveva « arricchita la filosofia , quella scienza avvilita e profanata nei no stri tempi, anzi distrutta » , avesse voluto aggradire l'opera e comunicargli « qualche lume relativo alle materie che sono in esse contenute » . E si stabilì fra i due filosofi un carteggio assai istruttivo per chi voglia conoscere le relazioni storiche delle ri spettive loro dottrine ( 4 ) . Varie accademie fin da prima del 1822 l'avevano aggregato a’loro soci ; fra esse la Sebezia e la Pontaniana di Napoli. Quivi il Galluppi tornò il maggio del 1831 ; e subito vi pubblicò una traduzione dei Frammenti del Cousin , con una prefazione e una « Dissertazione del traduttore , in cui si confuta il domma del l'unità della sostanza » , ove però son comprese le osservazioni del Galluppi intorno alle altre dottrine del Cousin non accettate ( 5 ) . « Avendo meditato su di questo sistema filosofico, ho creduto di trovare in esso delle vedute sublimi, ed insieme un errore pe ( 1 ) Che ne aveva scritto prima una recensiono nella Biblioteca Italiana , di Milano, vol. L, p. 163 e ss . ( 2 ) Nella stessa Biblioteca , LIII, 180 e ss . Vedi Opp. filos . ed . e ined . , di G. D. R. con annotazioni di A. DE GIORGI, Milano, 1842, pp. 575-605. Su questo scritto e in generale sul Kantismo in G. D. Romagnosi vedi l'art. del CREDARO nella Riv. di filos. italiana , an . 1887, vol . II . ( 3) Vedi ciò che ne ho detto nella prefazione al citato Saggio del Toraldo. Dovo que ste lettere sono stato tutte cinquo pubblicato per la prima volta . Solo le prime due erano state edito da F. PIETROPAOLO , Scritti inediti di P. Gall. nella Riv, filos. scient., VII ( 1888 ), 128-44. ( 4) Vedi il nostro Rosmini e Gioberti, pp. 75-82 ( Pisa , Nistri , 1898 ). ( 5) La filosofia di V. Cousin , trad . dal francese, ed esaminata dal bar. P. Galluppi , a spese del N. Gabinetto lotterario, 1831 , vol. I. Il vol. II è del 1832. A pag. 197 del vol. I si incontra anche una postilla del tradut tore relativa ad alcune massime morali del Cousin , 222 CAPITOLO VII ricoloso » . Quindi, accompagnando la traduzione con la detta dis sertazione, ei credeva di porre « il lettore filosofo in istato di conoscere non solo la filosofia del sig . Cousin , ma di giudicarla » . Il libro frutto presto molto favore all'eclettismo francese a Na poli , e specialmente al suo capo , che dal canto suo fece conoscere il Galluppi in Francia ( 1 ) , e anche fuori per mezzo dell'amico Ha milton, che in un giornale filosofico di Edimburgo scrisse un ar ticolo sul Nostro . 7. A Napoli nello stesso anno 1831 fu persuaso da amici a chiedere la cattedra di logica e metafisica vacante nell'Univer sità . Presentato al ministro degli interni marchese di Pietraca tella, questi , udito il suo desiderio , l'invito a cimentarsi a un esame. Ma egli con sdegnosa semplicità calabrese rispose : E chi c'è a Napoli che possa esaminare Pasquale Galluppi? – L'amico che l'aveva presentato , rimase sconcertato . Ma il 4 ottobre 1831 il nostro filosofo aveva il suo decreto di nomina ( 2 ) . « Con che festa noi giovani , narrava il Settembrini con quanta calca tutte le colte persone si andò a udire la sua prolusione, e poi le lezioni che egli appollaiato su la cattedra dettava con l'accento tagliente del suo dialetto ! Ci sono sempre i maldicenti, i quali dicevano che egli era mezzo barbaro nel par lare, ma in quel parlare era una forza di verità nuova , ma l'in gegno cra grande, e il cuore quanto l'ingegno » ( 3 ) . Quell'anno stesso aveva dato una novella prova delle sue atti tudini didattiche dando alle stampe un'opericciuola : Introduzione allo studio della filosofia per uso dei fanciulli. Ma nel seguente anno, primo del suo insegnamento , coi primi due volumi della Filosofia della volontà dedicati al marchese di Pietracatella, poi e --- ( 1 ) Si conservano nella biblioteca del Cousin , appartenente alla Ropubblica, le lettere a lui del Galluppi. Vedi l'art. da me pubblicato su V. Cousin e l'Italia nella Rassegna bibliograf. della letter. ital. del 1898, VI , 213. Il Cousin fece tradurre in francese dal Peisse suo discepolo le lettere del Galluppi ; o questi da F. Trinchera le Lezioni del Cousin Sulla filosofia di Kant, aggiungendovi cgli delle note, come sarà notato a suo luogo . Un'affettuosa commemorazione del Galluppi fece il Cousin nel 1847 all'Accademia di Francia , o pubblicò nel Journal des Économistes del febbraio 1847, riportato nell'Omnibus di Napoli del 29 maggio 1847, dove il Galluppi aveva scritto sul Cousin, anno III ( 1835) , pag. 225 . ( 2 ) Vedi FIORENTINO, Man . di storia della filos., Napoli, 1887, pag. 609 ; L. SETTEM BRINI, Ricordanze , Napoli , 1898 , I , 75, e il Discorso cit . del BORRELLI, p . 6 . ( 3) Op. cit . , vol. I , pag. 76. PASQUALE GALLUPPI 223 ammontati a quattro , già composti a Tropea, cominciò a puh blicare le Lezioni di logica e metafisica, dettate all'Università , vero modello di quel lucidus ordo tanto raccomandato dal Veno sino . Nel 1834 ne compì la stampa in tre volumi ; di cui fece nel '40 una seconda edizione e una terza nel 1846 ; ristampata nel 1853 dal Tramater ; e questa stampa noi citeremo. 8. A proposta del Cousin il 30 dicembre 1838 , in concorrenza coll'Hamilton che ebbe un solo voto , veniva nominato socio cor rispondente dell'Accademia delle scienze di Francia. E il 28 aprile 1841 , a proposta del Guizot , Luigi Filippo lo insigniva della croce della Legion d'onore (1) Ei se ne sdebitava con le sue Considerazioni filosofiche sul l'idealismo trascendentale, ossia sul sistema di Fichte , memoria presentata il 1839 all'Istituto di Francia , accademia delle scienze morali e politiche ( 2) ; e mandando più tardi , poco prima di mo rire , uno scritto su la teodicea dei filosofi antichi, che fu inserito come il precedente negli Atti dell'Accademia. Nel 1842 pubblico il primo volume della Storia della filosofia , annunziata fin dal '26 . Vi si tratta della filosofia greca , non però secondo la successione delle scuole , sibbene « considerando e cri ticando le diverse opinioni dell'Antichità » su l'origine dell'uni verso e del genere umano fino ai neo-platonici . « Una siffatta opera, dice in un elogio funebre dell'autore un affettuoso discepolo saria stata monumento novello di gloria italiana , se a nostra disavventura la vecchiezza , le malattie , le sciagure non avessero di tale infievolito l'animo di lui , ch'ei non potè vederla compiuta, ed a perfezione condotta » (3) 9. Infatti gli ultimi anni della vita del nostro filosofo furono amareggiati da sciagure che ne affrettarono la morte . Già uno dei figli maschi era caduto , com'ei narra , « vittima del furore d'un giovane sconsigliato » . Ed egli ne aveva scritto e stampato (Mes sina, 1818) l'elogio . Nel 1834 poi gli era morta la moglie . Ora, nel 1844 in una insurrezione scoppiata a Cosenza perdeva la vita un altro suo figlio, Vincenzo, che era capitano . Il vegliardo ( 1) Vedi la lettera del Guizot in LASTRUCCI, P. G. studio critico , Firenze, Barbèra , 1890 , p. 112. ( 2) Stampate in italiano nel 1841 , da' torchi del Tramater ; un vol. di p. 159 in 4.° Negli Atti dell'Accademia francese furono pubblicato come la successiva memoria in francese. (3) Elogio funebre di P. G. , per E. PESSINA, in Op. cit . , p. XIII. 224 CAPITOLO VII ne fu profondamente addolorato e agli amici che tentavano con fortarlo disse : « Avrei desiderato che morisse per una causa più nobile e giusta » Morì il 13 dicembre 1846. P. Borrelli , come sopra s'è visto , ne disse degnamente le lodi presso al letto funebre, il 14, fra una folla di giovani discepoli , che recarono a spalla la salma compianta alla chiesa di S. Nicola ; e il giorno 21 gli celebrarono funerali solenni nella chiesa di Sant'Orsola a Chiaia , in cui recitò un'ora zione il gesuita Carlo Maria Curci . Giuseppe Campagna piangeva la morte del filosofo in un sonetto filosofico, lamentando che con lui si partisse dalla terra Una favilla dell'eterno lume ( 1 ) . Il 14 marzo 1867 dall'Accademia delle scienze morali e politiche al Galluppi veniva eretto un busto nella Università degli studi, da lui onorata con molti altri spiriti magni . 10. Molti scritti aveva ancora in animo di pubblicare , oltre i ricordati, e molti manoscritti di lui ci son rimasti , ora in depo sito presso la Biblioteca nazionale di Napoli, i quali fan testimo nianza della larga estensione degli studi fatti da lui in teologia , storia dell'antica e moderna filosofia , filologia greca e latina, sto ria , matematica, astronomia ( 2 ) . Meno vita modesta e di grande raccoglimento : assorto negli studi, visse veramente per la scienza , in cui riuscì ad imprimere orme profonde, rinnovando la filosofia italiana . Egli infatti fu il solo dei filosofi napoletani da noi studiati, dopo il Genovesi, che esercitasse una influenza molto notevole al di fuori del regno , su tutti gli studi filosofici nazionali ( 3 ) , ( 1 ) Pubblicato nel Museo di scienza e lett., X, 348 ; v. DE SANCTIS, La letter . ital. nel sec. XIX , Napoli, Morano , 1897, p. 96 , e nota del CROCE, p. 208 . ( 2) Oltre la memoria ricordata del Tulelli , vedi l'olenco dei mss. galluppiani nel l'opuscolo citato dell'avv. Pietropaolo . ( 3 ) Per la biografia v. anche L. PALMIERI, Elogio stor . del bar. P. G. con alcuni poe tici componimenti recitati in un'adunan za tenuta per cura di L. Palmieri in Napoli il di 10 del 1847 , di pp. 32. V'è oltre l'elogio un sonetto del Campagna, un carme latino di A, Mirabelli, alcune sestine di D. Anzelmi, un'ode latina di Quintino Guanciali e un so netto « improvvisato dall’egregio poeta sig . Giuseppe Regaldi che per una congiuntura si trovò presente alla nostra adunanza » , - Vedi anche la necrologia Morti e morenti di C. CORRENTI, pubbl. nella Rivista europea del decembro 1846 , ristamp. in Scritti scelti , ed. Massarani, Roma, tip . Sonato, 1891 , I , 481-83. L'articolo dell'ab. ANTONIO RACIOPPI, Il Bar, P. G. , nel Poliorama pittoresco, an. XI ( 1847 , 13 marzo e 20 marzo) , n. 32 e 33 ; l'opu scolo di F. S. BISOGNI , Omaggio alla memoria del b. P. G. nell'occasione che in Tropea il Munic. e la Prov. innalzano una statua all'illustre filosofo , Napoli, Morano, 1877 ( in PASQUALE GALLUPPI 225 11. Nella quattordicesima delle Lettere filosofiche il Galluppi, vo lendo determinare le relazioni della sua filosofia, ch'egli chiama sperimentale, col criticismo kantiano, si fa a descrivere le varie fasi attraverso le quali era passato il suo pensiero . Ma la de scrizione non è molto accurata ed esatta. Abbiamo visto come fino circa ai trent'anni ( al 1800) suoi autori fossero Leibniz, S. Agostino e i filosofi della scuola di Cartesio ; e si può dire che egli fosse in un periodo di dommatismo metafi sico , che rimase poi sempre nel fondo del suo pensiero ; non solo perchè molto più tardi, quando aveva studiato anche Kant , con tro di questo egli affermava che « la filosofia è essenzialmente dommatica, e non può essere che dommatica. Essa dee contenere delle verità assolute » ( 1 ) ; ma anche per altre ragioni: La lettura di Condillac gli fece intendere , che c'era una que stione preliminare dą risolvere prima di ogni metafisica : ricer care, cioè , i motivi legittimi dei nostri giudizi , quindi risalire all'origine delle nostre conoscenze , rifare, egli dice , l'intendimento. Condillac e Locke cangiarono insomma la direzione de' suoi studi . Segue perciò dal 1800 fino circa al 1810, quando venne a cono scenza del Villers e del Degerando, un periodo prekantiano di revisione della conoscenza ; al quale periodo appartiene l'opuscolo Sull'analisi e la sintesi, 12. In questo egli concedeva al Locke e ai suoi seguaci, che « tutte le nostre idee hanno origine da' sensi » , che pertanto « tutte le nozioni universali vengono a formarsi dal paragone degli oggetti particolari , e ... che le cognizioni particolari ci menano alle no zioni universali , e non già viceversa » ( 2) . Ma si proponeva la questione « se lo spirito , tosto che ha for mate le nozioni universali, possa paragonarle, scovrirne i rapporti, e quindi applicare questa cognizione universale alle idee parti colari , racchiuse nell'idea universale , che si è paragonata colle questo opuscolo è pubblicato uno scrittorello inedito del GALLUPPI Sulla semplice appren sione, pag . 17 e segg. ) . Uno studio biografico ha pure dato in luce il sig. F. PIETROPAOLO, nel Pensiero contemporaneo di Catanzaro , an. I , 1899, fasc . 6, 7 e 8. Non c'è riuscito di vedere la biografla pubblicata nel Giornale dell'equilibrio, 1841, n. 1 (citata dal Palmieri) scritta da P. E. TULELLI « sopra note comunicatemi questi diceva, accennando molto probabilmente a questa biografia dall'autore medesimo > ; Atti della R. Accad . d. scienze morali e polit ., 1865, I , 203. ( 1 ) Letl . filos. , p. 342 . ( 2) Sull'analisi, p. 20 . 15 226 CAPITOLO VII altre » ( 1 ) . Per es . , delle due proposizioni generali ogni cerchio ha tutti i suoi raggi uguali e ogni corpo è grave, nella seconda tra corpo e gravità non havvi una connessione necessaria e il loro rapporto non può affermarsi se non mediante il soccorso dell'espe rienza ; nella prima invece è nell'idea del cerchio la ragione di affermare l'uguaglianza de' suoi raggi; e fra le due idee v'è un legame necessario, che non dev'essere attestato dall'esperienza. V'ha dunque , conchiudeva il Galluppi, verità generali cui lo spi rito non perviene dalle verità particolari (sensazioni), « ma per mezzo del semplice paragone delle idee universali, ch'egli si ha formato » ; e v'ha poi verità generali che derivano dalla cognizione delle singole verità particolari , che ci fornisce l'esperienza. Le une costituiscono le conoscenze a priori e necessarie ; le altre le conoscenze a posteriori e contingenti. Le prime sono principii ana litici, in quanto si devono all'analisi delle idee“ generali già ac quisite per l'esperienza ; laddove le seconde sono un prodotto della sintesi delle verità particolari, non altrimenti che le idee universali . 13. Sicchè già nell'opuscolo del 1807 il Galluppi era arrivato a quella forza analitica e forza sintetica di cui farà nel Saggio ( lib . I , § 18 , 34) il fondamento di ogni giudizio, distinguendolo net tamente dalla sensibilità . In quell'opuscolo si poteva egli dire an cora puro empirista ? Certo, egli faceva ancora, come il Locke , derivare dalla sensazione ogni idea universale, e puramente speri mentale faceva ancora la materia delle conoscenze a priori . Giac chè le idee generali , fra cui può ammettersi un rapporto neces sario a priori, sono esse stesse sperimentali a posteriori . Tutta quanta la materia della nostra cognizione deriva dall'esperienza. Ma un a- priori si ammette nella sintesi , che, elaborando il dato immediato dei sensi , ci conduce alle idee universali e alle cono scenze contingenti, e più nell'analisi che ci fornisce conoscenze indipendenti dall'esperienza . In quell'opuscolo adunque l'empiri smo crudo cui il lockismo per mezzo dei sensisti francesi era stato ridotto , non era accettato. E notevole sovrattutto era in esso questa netta distinzione tra conoscenze a priori necessarie e co noscenze a posteriori contingenti , fatta dal Galluppi quando igno rava affatto la distinzione kantiana di giudizi analitici e sintetici alla quale corrisponde precisamente. Ne pare ch'egli allora cono scesse i Saggi filosofici sull’intelletto umano dell'Hume , nel quarto ( 1 ) Ivi , ibid . PASQUALE GALLUPPI 227 dei quali ritrovasi quella distinzione tra i legami di causalità, fon damento delle cose di fatto e relazione d'idee, scoperte per mezzo di semplici operazioni della mente, che giustamente si è voluto preluda alla teorica di Kant ( 1 ) . 14. Nel 1819 , nel libro I del suo Saggio, la posizione del Gal luppi si determina assai più chiaramente. Egli , bene o male, ha già studiato Kant, e combatte l'empirismo di Condillac, di Elvezio , di Destutt - Tracy ; di quel Tracy , che ancora nel 1827 a Firenze , al dire d'un arguto scolaro del Cousin, rappresentava le chef et maitre, celui qui l'a dit ( 2 ) ; e dichiarava che la geometria, « questa scienza pura , razionale, è la pietra immobile su cui va a rompersi la macchina debole dell'empirismo » (S 36 ) ; e che, infine, « non è vero esattamente » ciò che egli aveva ammesso o , almeno, non aveva combattuto, nell'opuscolo del 1807 : derivare cioè tutte le idee universali dal paragone delle particolari (S 40) . 15. Parve a lui che la critica di Kant fosse una vera rivolu zione . « La rivoluzione kantiana , scrisse nella prefazione del Sag gio (3 ), merita , più di quel che si crede , l'attenzione dei pensa tori » . Asseriva bensì , che il criticismo non fosse altro che un neo logismo, sotto il quale non si faceva passare che una questione vecchia, quella dell'origine delle nostre idee. Ma le prime parole della sua prefazione erano tuttavia le seguenti : « L'oggetto di quest'opera è la Critica della conoscenza , o l'esame della realtà della scienza dell'uomo . Che cosa posso io sapere ?... Son io ca pace di conoscenze reali ? Quali sono i motivi legittimi di queste conoscenze ? Quali sono i limiti prescritti al mio spirito , limiti che non gli è permesso di oltrepassare senza precipitare nell'abisso dell'errore ? Tali sono le ricerche sublimi ed importanti che mi occuperanno » ( 4) . Ora queste sublimi ricerche, come tutti sanno, sono appunto quelle del criticismo kantiano ; che se è una rivoluzione, sarà cer tamente una novità. ( 1) Vedi D. JAJA , Saggi filosofici , Napoli, Morano, 1886 , pag . 189 e sgg. E a quel saggio di Hame fu il Galluppi ricondotto dal Kant, nella IX delle sue Lettere filosofiche, per spiegare, esponendo la critica del concetto di causa fatta da D. Hume, perchè la lettura di essa svegliasse Kant dal suo sonno dommatico . Ma ivi ( p. 171 ) , ricordando la distin zione di Hume tra cose di fatto e relazione d'idee, non ne avverte punto la parentela con la divisione kantiana dei giudizi. ( 2 ) Vedi il mio Rosmini e Gioberti, pag . 14. ( 3) Tom . I , p. 9. Cfr. lib . III , § 76 ; tom . III , p. 268. ( 4) Cfr. lib. IV , $ 1 . 228 CAPITOLO VII Se non che, a giudizio del Galluppi , la critica di Kant , « lungi dallo stabilire la realtà della conoscenza , tende radicalmente a distruggerla » ; che i suoi risultati sono essenzialmente scettici ; e quindi una buona dottrina della conoscenza non può costruirsi se non in opposizione a quella critica . Una critica, insomma, ci vuole ; ma non quella di Kant. E quale dunque ? 16. Noi non esporremo ne' loro particolari le teorie del Gal luppi e le critiche delle altrui dottrine ond'egli stabilisce le pri me. E poichè col Saggio filosofico la sua dottrina è già fissata , senza seguire l'ordine cronologico delle opere , possiamo dall'una e dall'altra di esse raccogliere i tratti caratteristici della sua fi losofia e farne un corpo compiuto. 17. Il Galluppi, come gli antichi psicologi metafisici ammette un sistema di facoltà dello spirito ; e a capo di tutte pone la co scienza o sensibilità interna . Questa è la facoltà per la quale lo spirito percepisce , sente se stesso , il me, la cui esistenza è una di quelle verità primitive, che ci sono attestate dall'esperienza, ma non si possono dimostrare ; come già pensarono Cartesio e Leibniz . Nè vale l'obbiezione che noi non percepiamo se non le nostre modificazioni, e che l'idea del me si dedurrebbe percið da quella delle modificazioni, pel principio che non v'ha atto senza soggetto . Non v'ha sentimento delle proprie modificazioni donde si possa separare quello del proprio essere ; perchè non si può percepire l'astratto, ma il concreto, non il dolore, ma il me dolente . Il me adunque è un dato dell'esperienza, che bisogna ac cettare come una verità primitiva di fatto ; e l'atto con cui lo si apprende , è la percezione immediata. 18. Qui il Galluppi, ritornando alla posizione cartesiana, ne sente tutta l'importanza. Egli osserva nel Saggio filosofico, che il defi nire , come si fa comunemente, l'idea per la rappresentazione dell'oggetto nella mente, separando cosi l'oggetto dalla mente , e il far consistere quindi la norma della verità nella conformità della nostra rappresentazione con l'oggetto esteriore, apre irrepa rabilmente la porta allo scetticismo. « Se gli oggetti , se la re gione dell'esistenza son separati dallo spirito , chi getta un ponte per passare dal pensiero all'esistenza , all'oggetto ? Questo ponte si fa consistere nelle immagini degli oggetti. Lo spirito, dicesi , possiede le immagini degli oggetti ; ma in questo caso lo spirito non potrà giammai conoscere la conformità di queste immagini cogli originali, e la verità andrà sempre lungi da lui » ( 1 ) . Me ( 1) Saggio , lib . I , 8 15 ( I , 37) . PASQUALE GALLUPPI 229 morabili parole , per cui il Galluppi non solo non è un prekan tiano , come credono i più , ma va innanzi al Kant dei neokan tiani ; del quale egli in questo luogo discopre espressamente il vizio principale , notando che il fenomenismo critico è una con seguenza della falsa posizione volgare dell'oggetto rispetto al sog getto , presunta dalla definizione dell'idea testé riferita . 19. L'idea del me, a proposito della quale l'autore fa queste osservazioni, non ci deve esser data da una percezione che sup ponga il termine percepito opposto al soggetto percipiente : « L'Io ed i suoi modi non sono separati dall'atto della coscienza , ma gli sono presenti . La coscienza li prende dunque immediatamente, e fra questa percezione e gli oggetti percepiti non v'ha alcun intervallo . Questa coscienza , questa percezione è dunque l'appren sione e l'intuizione della cosa percepita » (§ 16) . E le intuizioni, secondo il Galluppi , « son vere , non perchè son di accordo cogli oggetti , ma perchè elleno agiscono immediatamente sugli oggetti , e li prendono » ( 1 ) . Nè bisogna cercare di definire la percezione, perchè non se n'ha se non una nozione semplice, e ognuno pud solo rimettersene alla propria coscienza per istruirsene . Il semplice, adunque , il principio da cui parte il Galluppi, è questa immediata coscienza di sè , che egli dice percezione o in tuizione ; la cui verità è fondata nella identità dell'essere e del pensiero, come in Cartesio . « Tutta la scienza dell'uomo riposa su la base unica della coscienza di se stesso » ( Saggio, lib . IV, § 3) . 20. Sicchè la filosofia del Galluppi è un vero soggettivismo , come si può vedere anche dal suo concetto della filosofia . « Che cosa è mai la filosofia ? Ella è , rispondono alcuni filosofi, la scienza di ciò che è . In conseguenza ella è la scienza dell'uomo , del mondo, di Dio. Una tal definizione suppone, che l'uomo possa giugnere a conoscere se stesso, il mondo e Dio. Ma, dicono altri filosofi, bisogna prima esaminare se l'uomo può saper qualche cosa ; e su qual fondamento può egli saperla . La conoscenza dei nostri mezzi di conoscere è certamente una conoscenza prelimi nare alla scienza delle cose . Da ciò segue che la filosofia pud riguardarsi sotto due aspetti , o come la scienza delle cose , o come la scienza della scienza umana . Considerata sotto il primo aspetto , ella può chiamarsi scienza oggettiva ; considerata poi sotto il se condo, può chiamarsi scienza soggettiva. Ma se la filosofia è la scienza prima, la quale dee contenere la legislazione di tutte le ( 1 ) Li investono, dice più innanzi. 230 CAPITOLO VII - altre scienze , voi vedete bene esser necessario di considerarla nel secondo aspetto . A cið tende la celebre massima dell'antichità conosci te stesso . Io dunque la riguarderò come scienza sogget tiva » ( 1 ) . E « scienza della scienza » la definisce già negli Ele menti di ideologia (S III). Negli Elementi di filosofia morale (SI) la dice : la scienza del pensiere umano, distinguendola in teoretica e in pratica , secondo che studia l'intelletto o la volontà . Egli ha insomma un concetto moderno della filosofia, giustificato dal suo principio : che è la coscienza di sè . 21. Ma come, partendo da tale principio, egli costruisce la realtà conoscitiva ? E qual carattere dà al suo soggettivismo la sua costruzione ? Prima di tutto , avverte giustamente il Galluppi , bisogna di stinguere l'ordine cronologico delle nostre conoscenze dall'ordine scientifico ( 2) , Noi abbiamo con la prima sensazione e come fonda mento di essa la coscienza del nostro Io ; ma essa non è certo una coscienza di riflessione ( 3 ) . Vale a dire , c'è di fatto questa co scienza che è il Primo scientifico ; ma non si rivela se non alla riflessione filosofica posteriore , molto posteriore, cronologicamente. Perchè questa coscienza primitiva si rivelasse effettivamente, lo spirito dovrebbe cominciare da un giudizio ( lo esisto ), ed essere già in possesso dell'idea astratta di esistenza , laddove ei comincia invece da una percezione o sensazione che voglia dirsi . Comincia da una percezione complessa : dalla percezione del me che riceve delle modificazioni, dalla percezione del me che percepisce il fuor di me. Ora lo spirito presta successivamente la sua attenzione ai diversi elementi che compongono l'oggetto di questa prima percezione, decompone , divide questo oggetto ; poi lo ricompone di nuovo e forma il giudizio, che è perciò il pro ( 1 ) Lett. filos., lett . I ; ediz . cit. , p. 37-8 . Questo stesso concetto è svolto nella Prolusione del 1831: Introduzione alle lezioni di logica e di metafisica del bar . P. G. , Napoli, Ga binetto bibliografico e tipografico , 1831, di pp. 30 in-8. ° (ristampata in fronte alle Le zioni di logica e di melafisica , vol. I) e nelle primo tre di questo lezioni. Vedi puro il suo articolo Filosofia nella 1." dispensa dello Ore solitarie del 1838 (rivista diretta al lora da Lorenzo Riola , P. S. Mancini e Luigi Curion , più tardi dal solo Mancini), pp. 9-11. Nella Continuazione delle Ore solitarie ovvero Giorn . di scienze morali, legislat. ed econom. , 1842, fasc . I e II , pp. 7-14, è un altro scritterello del GALLUPPI: Sul panteismo del signor Lamennais. ( 2) Saggio filos., lib. I , § 22 ; tom . I , p. 49. (3) Ivi, $ 20 ; I , 45 . PASQUALE GALLUPPI 231 dotto dell'analisi e della sintesi della percezione complessa ( 1 ) . Sic chè bisogna ammettere nello spirito , oltre la facoltà della sensibi lità ( interna o coscienza, ed esterna) , quelle dell'analisi e della sintesi. 22. Il fuor di me ci viene offerto adunque dal me, da quella coscienza che cogliendo il me lo coglie modificato dal fuor di me. Questa coscienza, che il Galluppi dice pure sensazione, corri sponde , come bene osservò lo Spaventa, alla coscienza sensibile dell'Hegel ; è l'unità ancora confusa ed indistinta di soggetto ed oggetto. Allorchè, dice il Galluppi, la modificazione esterna « è percepita col me, che modifica , io non ho ancora che una per cezione ; ma quando ella è riguardata come distinta dal me, e poi riunita a lui dall'atto dello spirito , io allora giudico » ( 2 ) ( Saggio, lib . I , § 18) . Ora, se conoscere è questo distinguere e unire , è chiaro che conoscere pel Galluppi non è sentire ( percepire) , ma giudicare . Quindi egli combatte i sensisti, insistendo sulla dif ferenza sostanziale che corre tra sentire e giudicare, notando come giudicare importi necessariamente un rapporto , e come non sia possibile indicare l'impressione esterna, l'organo sensorio che ci manifesta la conoscenza del rapporto ( 3) . La forza analitica e la forza sintetica dello spirito sono distinte dalla sensibilità (4) ; come già aveva sostenuto nell'opuscolo del 1807 . 23. La coscienza sensibile è adunque l'unità fondamentale del conoscere ; l'unità che è condizione dell'analisi e della sintesi , ne cessaria a tutti i nostri giudizi . Ma come si giustifica questa unita ? Il fuor di me è sentito , dice il Galluppi , come un molteplice del quale ciascuna parte è distinta dall'altra e le modificazioni di una parte non sono, nel mio sentimento, le modificazioni delle altre . Il tronco di un albero è distinto dai rami : ciascun ramo è distinto da un altro : il moto di un ramo può stare senza il moto di un altro e di tutto l'albero ( 5 ) . Questa molteplicità si raduna nel me, il quale alla coscienza si rivela sempre lo stesso , sia che ( 1 ) Saggio filos. , lib . I , § 18, ed Elem . di Psicologia , & VIII . ( 2) Lo stesso è detto negli Elem , di Psicol., 8 VIII in fine. ( 3) Saggio, lib. I , § 32 ; I , 69. II Galluppi riferisce un notevolissimo passo dell'Emilio di Rousseau ( lib . IV) sul valore del giudizio ; passo che conferma la parentela che col fllosofo ginevrino ha quello di Koenigsberg . ( 4) Ivi, 8 34 ; I , 73. (5) Elem . d'Ideologia , 8 XXIV , ediz . cit ., p. 56 . 232 CAPITOLO VII ragioni, che giudichi, o che percepisca ; talchè « il soggetto di un giudizio può avere una composizione fisica ed una unità logica ( 1 ) che gli vien conferita dal pensiero , che appunto sintetizza nella sua unità il molteplice fisico . Questa unità del pensiero s'addi manda unità sintetica , la quale se si ravvicina a quella forza analitica e forza sintetica che s'è accennata , s'intenderà come un'attività distintiva e unitiva insieme . E un'attività sintetica originaria dell'essere conoscitore appunto è ammessa dal Gal luppi ( 2 ) . 24. Ora la coscienza di sè coglie adunque l'Io che sintesizza , uno e semplice, indivisibile. E l'unità sintetica del me, suppone percið l'unità metafisica del me stesso che « è la semplicità o spi ritualità del principio pensante. Senza di essa non sarebbe possi bile la scienza, poichè la scienza suppone la riunione di tutti i pensieri da' quali si compone ; ed essendo un pensiere distinto dall'altro , come si farebbe l'unione di questi pensieri senza un centro di unione ? Ove si incontrerebbero i diversi raggi del sapere ?... L'agente che costruisce, è necessario che abbia tutti i materiali della costruzione » . « L’io di Newton , ripete qui il Galluppi, che ritrova il calcolo sublime è lo stesso io che ha ap appreso la numerazione aritmetica. Senza l'unità metafisica del me non sarebbe possibile l'unità sintetica del pensiere, e senza l'unità sin tetica del pensiere non sarebbe possibile alcuna scienza per l'uomo ( 3) . Questa unità sintetica della coscienza originaria ha una intrin seca parentela , come ognun vede, coll'appercezione originaria di Kant. Col quale il Galluppi s'accorda nel ritenere che « l'essenza particolare specifica dello spirito umano > ci è ignota affatto ( 4 ) . 25. Ma data questa coscienza originaria, che forza analitica e sintetica insieme , tutte le nostre conoscenze derivano , secondo il Galluppi , dai sensi ? Nel libro I del suo Saggio filosofico egli , rife rendosi allo scritto del 1807, scrive : « Io suppongo in tale opu scolo che tutte le idee universali derivano dal paragone delle particolari ; ma cið non è vero esattamente, poichè vi sono alcune idee soggettive > (8 40) . La tesi degli empiristi che non ammettono nella nostra conoscenza se non elementi oggettivi, è insostenibile . ( 1 ) Elem . d'Ideol., ivi. ( 2 ) Lettora ad A. Rosmini, Tropea , 23 aprile 1830, nella Sapienza, rivista di filos. e lettere , fasc . del 15 marzo 1885, p. 165. Cfr. il mio Rosmini e Gioberti, p. 79. ( 3 ) Elem . d'Ideol., & XXV, pp. 61-2 ; cfr . Saggio, lib . III , SS 50-1 . ( 4) Saggio, llb. IV , 8 98 , V, 418. PASQUALE GALLUPPI 233 ma In quell'autobiografia intellettuale che è nella quattordicesima delle sue Lettere filosofiche il Galluppi dice, che il problema della sua filosofia dell'esperienza fu questo : « Ma lo spirito umano è un agente ; e colla sua azione non potrebbe forse sviluppare dal suo interno qualche elemento che egli non riceve , ma che produce ? E questo elemento soggettivo non potrebbe forse esser tale , che lasciasse intero l'elemento oggettivo , che cooperando collo stesso non recasse alcun nocumento alla realtà della conoscenza , l'estendesse e la fecondasse ( 1 ) ? 26. Infatti, questa rimaneva la più grave difficoltà del Gal luppi contro l'a priori: che l'a priori con la sua soggettività scalzasse la realtà della conoscenza, come rimproverava a Kant per le forme dell'intuizione e dell'intelletto e come rimproverava al Rosmini per la idea dell'Ente indeterminato ( 2) . Perchè egli non ebbe il giusto concetto delle categorie kantiane , ritenendole quasi preformazioni dell'intelletto . Del resto , nella critica che fa delle idee innate , pure avendo combattuto nel primo libro del Saggio l’in natismo di Leibniz , si può ben dire che ne accetti il principio ne gli Elementi di ideologia (8 XXIII) . Egli distingue idee accidentali all'intelletto e idee essenziali. Le une non tutti gli uomini possono formarsele, perchè non a tutti è dato di avere le sensazioni che sono il materiale donde l'analisi può ricavare coteste idee . Le altre non mancano a nessun uomo, perchè derivanti da sensazioni co muni a tutti . Sicchè anche le idee essenziali dell'intelletto pre suppongono l'esperienza ; e « se per idee innate si vuole intendere idee , che non sono il prodotto della meditazione (analisi) su i sentimenti (sensazioni) , tali idee non hanno esistenza » . Ma, « se per idee innate s'intendono quelle idee , di cui ogni uomo porta costantemente in se stesso i germi per isvilupparle , e che ogni uomo capace di meditare pud in qualunque luogo ed in qua lunque tempo acquistare , idee che ho chiamato idee universali all ' intelletto, l'esistenza di siffatte idee mi sembra incontrastabile ... Noi conveniamo con Locke, che tutte le nostre idee hanno la loro origine ne' sentimenti : conveniamo ancora, che tutte le idee sono acquistate ; ma crediamo di dover fare distinzione fra idee generali , e di ammettere alcune idee per l'acquisto delle quali ogni uomo porta costantemente in se stesso i materiali necessari; da questi germi, che sono nello spirito si sviluppano le idee essen ( 1 ) Op. cit . , p. 343. ( 2) Vedi il mio Rosmini e Gioberti, p. 79 e sgg. 234 CAPITOLO VII ziali al pensiero umano, e che si ritrovano in tutte le lingue » . Donde è chiaro che il Galluppi tiene per innate nel senso leibni ziano , di attitudini, disposizioni, germi, coteste idee essenziali all'intelletto , quali sarebbero le idee di corpo , spazio, causa, unità , numero, ecc .; comecchè tutta la sua Ideologia sia una deduzione di queste e altre simili idee dalle sensazioni. 27. Ma, quali sono queste sensazioni o sentimenti portati costan temente da ogni uomo in se stesso ? Se ogni uomo li possiede co stantemente, essi sono necessari , essenziali costitutivi dello spi rito . Lo spirito è questi stessi sentimenti. E come potrebbe es sere altrimenti, se tali sentimenti devono servire alla formazione di idee essenziali all'intelletto ( facoltà conoscitiva in generale) ? Il Galluppi dice, che essi sono i sentimenti « che in qualunque luogo, ed in qualunque tempo modificano lo spirito di ogni indi viduo del genere umano » ( 1 ) . Dunque, essi sono immanenti real mente allo spirito , nè questo si può concepire senza di essi . Ora tal carattere nella filosofia del Galluppi compete solo ai senti menti del me e del non me inscindibilmente legati fra loro , costi tuenti il gran fatto , il Primo, dal quale deve cominciare la filosofia . « Questo fatto è universale per tutti gli uomini, per tutti i luoghi, e per tutti i tempi. Il complesso de ' sentimenti racchiusi in questo fatto dee dunque riguardarsi come essenziale all'umano intendi mento » ( 2 ) . Il quale, fornito della forza di analisi e di sintesi , può con la sua azione feconda sviluppare da questi sentimenti e così produrre tutte le idee che gli sono essenziali ( 3) . Ma la stessa produzione è essenziale , se i prodotti sono essenziali ; tal chè lo spirito , partendo dall'indistinta e oscura coscienza del me e del fuor di me, non raggiunge il grado dell'intelletto , se non per questa spontanea produzione che fa , mediante l'attività ond'è for nito , delle idee di sostanza, causa , corpo, spazio , tempo , unità , numero , ecc. , di cui ha in sé i germi indefettibili. 28. Intorno al valore di questo virtuale a priori del Galluppi si può esser tratti in inganno da certe sue espressioni, dalla sua polemica contro l'innatismo, dal bisogno da lui così spesso e for temente affermato dell'esperienza, che è esperienza sensibile, come unica sorgente delle conoscenze reali . Ma bisogna attender bene al valore della sensibilità nella teoria del Galluppi . La sua sen sibilità è coscienza , è sentir di sentire , è l'unità ancora indistinta di soggetto ed oggetto, che egli concepisce come Primo attivo e ( 1 ) Saggio , lib. III , § 49. Ivi. ( 3) Ivi. PASQUALE GALLUPPI 235 produttivo ; di cui vedremo quanto si gioverà a fondare l'ogget tività del conoscere . Ora , dato questo Primo come coscienza sen sibile , egli non può ammettere più un intelletto opposto al senso e ricco a priori di determinazioni dal senso indipendenti. Perchè l'intelletto è uno sviluppo del senso e le sue determinazioni es senziali non possono non essere contenute virtualmente nel senso insieme con l'attività che possa dallo stato virtuale portarle al l'attuale , fecondandone i germi. E questo è , come tutti sanno ora o dovrebbero sapere, il vero concetto dell'a -priori kantiano , preparato dalle virtualità innate di Leibniz ; e in que sto concetto il Galluppi evidentemente sorpassa e si lascia addietro il kantismo volgare, com'egli l'intese e come tuttavia si vuol sostenere dai neocrịtici , che concepiscono senso e intelletto in assoluta opposizione , in un dualismo inconciliabile . Questo punto della filosofia del Galluppi non è stato studiato e apprezzato ancora abbastanza ( 1 ) . La idea essenziale del Galluppi corrisponde preci samente all ' acquisitio originaria , con cui Kant definiva il suo a priori nella famosa lettera all'Eberhard, come l'idea accidentale all'acquisitio derivativa . Sono idee acquisite le idee essenziali come tutte le altre idee ; ma esse sono le acquisizioni originarie che la coscienza fa per la sua propria attività salendo al grado del l'intelletto . 29. Fermata questa teoria , il Galluppi ha ragione di scrivere : « Io non ho ammesso idee anteriori a ' sentimenti, in modo che non gli suppongano neppure come condizione ; ma ho ammesso alcune idee essenziali all'intendimento , ed ho stabilito questa dottrina sopra solidi fondamenti... lo nego le idee innate nel senso di idee anteriori ed indipendenti assolutamente da' senti menti ; io le ammetto nel senso di idee naturali, o d'idee per l'acquisto delle quali si possiede una disposizione o virtualità naturale » ( 2) . E poichè così viene a dire il medesimo del Kant bene inteso , a me pare che abbia pur ragione di soggiungere : « Io dunque credo di aver trovato il mezzo di conciliazione fra i due sistemi contrari su la formazione delle nostre idee » ; come è merito reale di Kant, che naturalmente il Galluppi non poteva riconoscere , di avere operato siffatta conciliazione del puro em pirismo e del puro intellettualismo . ( 1 ) Il meglio che se ne sia detto sono le tre pagine dello SPAVENTA, nella sua mo moria Kant e l'empirismo ( 1880) , rist . in Scrilti filosofici, Napoli, Morano, 1900, pp . 81-114. (2) Saggio , lib. III , 8 86 ; tom . III , pag. 303. 236 CAPITOLO VII 30. Per fare intendere meglio la propria dottrina il Galluppi la raffronta a quella del Leibniz. Conviene con l'autore dei Nuovi saggi sull’intelletto che lo spirito non è tabula rasa ; « che vi sono molte idee, che lo spirito ricava dal fondo del proprio essere , meditando (1) sul sentimento di se stesso » ; non solo gli accorda che sono in noi queste disposizioni e virtualità naturali, ma am mette certe modificazioni passive o sia i sentimenti, che contengono i materiali o le condizioni di tutte le idee naturali ( 2) . E, dichia rando meglio la dottrina del Leibniz , ripete che riconosce con lui esservi « molte idee essenziali all'intendimento , che l'anima non ha bisogno di ricavare dalle impressioni de ' sensi esterni, ma che può ricavare dal proprio fondo » ( 3) . Le idee sono innate come attitudini o virtualità naturali. E questo ritiene anche il Gal luppi. « Ma io non mi contento di rimanermi in idee vaghe : io determino le mie espressioni. L'anima nostra ha un'attitudine , una preformazione naturale per alcune idee ; poichè : 1. ° ella ha originariamente ed incessantemente i sentimenti necessari a for marsi tali idee ; 2. ° questi sentimenti sono i materiali delle idee , o le condizioni indispensabili per le idee ; 3.0 l'anima ha origi nariamente nella sua natura le facoltà necessarie per formarsi tali idee ; 4. ° l’anima ha in sé originariamente la disposizione, che pone in esercizio le facoltà elementari della meditazione » ( 4 ) . 31. Data questa dottrina, ch'egli ben dice non potrebbe esser contrastata dalla stessa scuola di Locke , s'intende agevolmente perchè il Galluppi continui sempre , in tutte le opere sue , a com battere l'a - priori kantiano , inteso come parte di conoscenza già formata avanti all'esperienza ; esperienza , che era per lui , come vedremo, la sorgente dell'oggettività, della realtà del sapere umano . La filosofia è essenzialmente dommatica, egli ha detto ; e kan tismo per lui significava scetticismo, in grazia appunto di quel l'a -priori soggettivo, anteriore ad ogni esperienza, onde reste rebbe inquinata, secondo la teoria di Kant, tutta la conoscenza. Pure riuscì anch'egli a certe idee soggettive , che ammise come costitutive della conoscenza , e innocue , benchè soggettive, allá realtà di essa . Quali sono cotali idee ? 32. Per rispondere a questa domanda bisogna dare un cenno delle sue teorie dell'analisi e della sintesi . Queste due facoltà non sono soltanto , come s'è visto , il fondamento di ogni giudizio , ma ( 1 ) Meditazione dice il Galluppi l'analisi e la sintesi insieme. ( 2) Ivi, pp. 305-6 . ( 3) Ivi, p. 309. (4) Ivi, pag . 812. PASQUALE GALLUPPI 237 il fondamento anche di ogni idea universale. Giacchè ogni idea universale nasce dalla sintesi degli elementi comuni che l'analisi discopre in più percezioni simili. L'analisi e la sintesi sono quindi le forze produttive di tutto il conoscere. L'analisi precede ; segue la sintesi . L'una si presenta sotto quattro forme : come atten zione propriamente detta , quando lo spirito si ferma a considerare un solo degli oggetti fornitigli dal senso , escludendo tutti gli al tri ; come attenzione parziale, quando lo spirito contempla soltanto una parte dell'intero oggetto , che gli si rappresenta ; come astra zione modale , quando lo spirito separa il modo dal soggetto cui inerisce ; e come astrazione del soggetto, nel caso inverso (1), 33. La sintesi è di tre specie : sintesi reale, quando lo spirito unisce ciò che gli vien dato congiunto dalla esperienza, cioè la relazione tra il soggetto e le sue modificazioni, o quella tra causa ed effetto ( epperò v'ha propriamente due specie di sintesi reale) ; sintesi ideale oggettiva, quando scopre relazioni logiche tra oggetti reali ; sintesi ideale soggettiva , quando scopre , come avviene nelle matematiche pure, relazioni logiche tra idee nostre , non imme diatamente forniteci dall'esperienza ( 2) ; cioè le relazioni tra le idee generali . 34. La siņtesi non può riunire se non per rapporti , le cui no zioni devono essere possedute dallo spirito , a mo' di categorie . E alle quattro maniere di sintesi corrispondono quattro nozioni di rapporti , le quali, per ciò che s'è osservato, dovrebbero essere di lor natura tutte soggettive : e sono le nozioni di sostanza , causa , identità e differenza ; idee essenziali all'intelletto umano, « sem plici vedute dello spirito , le quali derivano dalla sua facoltà di sintesi » (3) . 35. Rapporto, come aveva notato il Laromiguière nelle sue Le zioni di filosofia, è l'atto della comparazione o l'idea che risulta da questo atto . « Ora se la comparazione , dice il Galluppi, è una sintesi , e se il risultamento di questa sintesi è un'idea che non ( 1 ) Elementi di psicologia , $ 25 ; Saggio , lib. II , capo , $ 139 . ( 2) Saggio , lib. II , cap . XI, $ 147. Il Galluppi distingue ancora la sintesi immagi nativa come « la facoltà di riuscire in una percezione complessa , alla quale non corrisponda alcun oggetto naturalo, diverse percezioni di cui ciascuna ha un oggette naturale fuori dell'attuale combinazione ( Saggio , ivi, $ 148, e Psicologia , $ 35) . Ma s'intende cho questa sintesi non ha valore teorico o conoscitivo, ma solo pratico od estetico . ( 3 ) Saggio, lib. III , § 46. Alcune dello idee semplici, dice ivi più sotto , « sorgono dall'attività sintetica e queste sono i rapporti > . 238 CAPITOLO VII risulta da un'impressione, e che non ha percið un oggetto reale al di fuori, segue che vi sono idee semplici, le quali sono sola mente soggettive ed un prodotto della sintesi » ( 1 ) . Suppongono le sensazioni, ma sono prodotti semplici dell'attività sintetica dell'in telligenza. Infatti seguono, come ogni idea di rapporto , al para gone , che è un'azione dello spirito . « Pel paragone non basta che si abbiano nello spirito insieme due percezioni : è necessaria l'a zione che riferisce l'una all'altra » ( 2 ) . Parrebbe adunque, che le idee dei rapporti, queste vedute dello spirito , o modi della sua attività sintetica, non differissero punto dalle categorie kantiane . Ma l'autore afferma recisamente il contrario . Non vuole aver nulla di comune con Kant; vuol fondare una vera filosofia dell'esperienza , e afferma come una delle esigenze ineluttabili della filosofia , che la connessione fra le esistenze , per cui è possibile la scienza , non deve essere una creazione dello spirito , bensì un dato dell'esperien za ( 3 ) ; cioè del senso , che per lui , come vedremo, è norma dell'og gettività del conoscere . Insomma, nota un suo critico , gli elementi soggettivi ammessi dal Galluppi son sempre determinati da qualche cosa di reale che si trova negli oggetti ; e Kant percið è scettico , Galluppi no ( 4 ) . 36. Ed in verità esso, il Galluppi, scrive che la stessa connes sione deve essere un dato dell'esperienza , quando si tratta di og getti esistenti che dan luogo alla sintesi reale : e che questa sin tesi « riunisce gli elementi reali di un oggetto reale ; e li riunisce perchè li trova realmente riuniti. Così, dicendo : Io son sensitivo, riunisco al me le sensazioni : ora tanto l'io che le sensazioni son cose reali , e realmente le sensazioni son cose reali, c realmente le sensazioni sono unite al me. Quest'unione non è dunque l'opera del mio spirito : io non posso fare altro che conoscerla distinta mente . Questa sintesi copia dunque, dirò così , la realtà delle cose, ed è per cid che io la chiamo sintesi reale » ( 5) . 37. Or dunque, queste idee di rapporti sono o non sono un pro dotto dell'attività sintetica del soggetto ? Qui , s'è detto , havvi una flagrante contraddizione. Sentire un rapporto, secondo il Galluppi è un espressione assurda ; e la connessione delle esistenze , che è un rapporto necessario , non si potrebbe sentire ; eppure si deve . « Se fosse creata da noi cotestà connessione , scrive il Fioren ( 1 ) Saggio, lib. III , § 47. ( 2) Saggio , lib. II , 8 147. ( 3) Saggio, lib. II , & 74. ( 4) LASTRUCCI, Op. cit . , p. 213. ( 5) Saggio , lib . II , § 146 ; cfr . Psicologia , & XXXI. PASQUALE GALLUPPI 239 tino (1), la realtà della scienza sfumerebbe ; e Galluppi , impaurito delle conseguenze, contraddice ai suoi principii . Il nesso tra il me, sostanza , e le sue sensazioni , tra la sensazione e la causa esterna, cotesto doppio rapporto è sentito . Ei non osa dire sen tito , e dice : è dato » . La questione è importante e merita ogni più seria considerazione . 38. Prima di tutto bisogna distinguere , come fa il Galluppi , le due nozioni di causa e di sostanza , da quelle di identità e diver sità. Le une sono un prodotto della sintesi reale , le altre della ideale ; le une sono dei veri rapporti reali , le altre semplici rap porti logici . Ora questi rapporti logici sono veramente creati dallo spirito , nascono per l'attività di questo , sono idee dello spirito e nulla fuori di queste idee ( 2) . Di esse l’autore dice che « lo spi rito non riceve dal di fuori questi elementi semplici ed essenziali delle sue conoscenze , ma li ricava dal proprio essere » ( 3) , cioè li produce . Esse corrispondono appuntino alle categorie kantiane . Nè vale opporre , come altri ha fatto ( 4) , che anche questi rapporti presuppongono l'esperienza, e ricevono da questa i termini , fra cui intercedono . I termini fuori del rapporto , ho detto altrove, cioè prima del rapporto , sono termini del rapporto ? E si badi che dell'esperienza il Galluppi ha un concetto tutto kantiano, perchè essa consiste , secondo lui , « nel giudizio , il quale vede un rap porto fra i nostri sentimenti » ( 5) . 39. Il solo errore del criticismo , che ha de ' semi preziosi di verità, consiste nell’aver troppo generalizzato riguardando « tutti i modi di connessione fra le nostre percezioni come soggettivi » , negando la sintesi reale, confondendo l'esperienza primitiva, cui la sintesi reale dà luogo, con l'esperienza secondaria , scientifica e comparata , che è produzione soggettiva della sintesi ideale . Dunque, a confessione del Galluppi stesso ( 6) , egli è schietta mente kantiano nella teoria della sintesi ideale , come attività sin tetica generatrice delle due idee di rapporto , identità e diversità , all'occasione delle sensazioni , che ne sono condizione indispen sabile . ( 1 ) La filos. contemp. in Italia, Napoli , Morano , 1876, p . 195. ( 2) Psicologia, 8 32. ( 3) Saggio, libro III , § 77. ( 4) LASTRUCCI, p. 213. Il GALLUPPI ( lib. III , $ 77 del Saggio) non parla di esperienza , ma di sensazioni, supposte cronologicamente como a condizione indispensabile » delle idee d'identità e diversità . (5) Saggio , III, 76. ( 6) Vedi anche Lettere filosof ., XIV , p. 347. 240 CAPITOLO VII - 40. Soggettive pur sono le idee di causa e di sostanza . Ma il Galluppi distingue fra soggettivo e soggettivo . V'ha, egli dice , il soggettivo rispetto all'origine, e v’ha il soggettivo rispetto al valore ; e altrettanto dicasi dell'oggettivo. Altra è la questione dell'origine delle conoscenze , altra è la questione della realtà loro . « Io dichiaro , scrive l'autore , che per oggettivo in tendo ciò che nelle nostre cognizioni deriva dagli oggetti che si conoscono, e per soggettivo ciò che nelle stesse deriva dal soggetto conoscitore . Questi due vocaboli si prendono ancora in un altro senso, quando si parla della realtà delle nostre conoscenze : l'og gettivo dinota allora quell'elemento della nostra conoscenza , a cui corisponde una realtà in sè , ed il soggettivo dinota ciò a cui non corrisponde nessuna realtà » ( 1 ) . Dunque le idee di causa di sostanza sono soggettive per l'origine, ed oggettive rispetto alla realtà, epperò si dicono relazioni reali , laddove, quelle di identità e di diversità sono soggettive , e per l'origine e pel valore , e son dette perciò semplici relazioni logiche . E però resta fermo, che anche le idee di sostanza e di causa siano un prodotto dell'attività sin . tetica dell'intelligenza, perchè da essa derivano ; il senso è inca pace di darcele . Se non che esse, invece di avere un semplice valore logico , hanno una corrispondenza nella realtà , pel nesso, che è tra la sostanza e i modi, tra la causa e l'effetto . 41. Ma il Galluppi dice che il rapporto della sintesi reale ( sia di causa , sia di sostanza ) è dato dall'esperienza . Si , ma devesi inten dere, dato rispetto alla realtà oggettiva di cotesto rapporto. Dato in quel luogo del Galluppi , che pur bisogna metter di accordo con tutta la sua dottrina, vale solo oggettivo (rispetto al valore). 42. La difficoltà vera è la seguente : come ciò che è soggettivo rispetto all'origine , può essere oggettivo rispetto al valore ? Que sto è lo scoglio della filosofia della esperienza propugnata dal Gal luppi ; ma è pur uopo notare i grandi sforzi fatti da lui per evi tarlo. S'egli si fosse sempre ricordato dell'osservazione, dianzi ac cennata , relativa alla comune definizione delle idee : che cioè non bisogna separare ed opporre oggetto a soggetto, ove non si vo glia incorrere nello scetticismo , non avrebbe avvertita nessuna dif ficoltà in questa questione della sintesi , circa la soggettività della sua origine e l'oggettività del valore. Egli non avrebbe concepito un'oggettività distinta dalla soggettività. ( 1 ) Saggio, lib . III , $ 46 ; tom . III , p. 159-60 . PASQUALE GALLUPPI - 241 43. Di quell'osservazione fondamentale si ricorda certamente nella sua teoria dell'oggettività di tutte le sensazioni, quando af ferma che la sensazione è la intuizione dell'oggetto , e sog giunge : « Per non far nascere equivoco in una materia molto importante, io chiamo intuizione la percezione immediata dell'og getto , in modo che l'esistenza della percezione supponga neces sariamente quella dell'oggetto . Se ogni sensazione è di sua na tura la percezione di un oggetto esterno al principio sensitivo ( 1 ) , se quest'oggetto non è rappresentato dalla sensazione, esso è dunque reale, come è reale la sensazione. La realtà dunque del l'oggetto sentito mi è data dall'atto della coscienza ; il quale mi . dà la realtà della sensazione : ecco dunque la realtà esterna fra le verità primitive di fatto ; ecco risoluto uno dei problemi fon damentali nella critica della conoscenza » ( Saggio, lib . II , § 71 ) . In tutta la teoria dell'oggettività del conoscere si può dire adun que, che il Galluppi confermi ciò che aveva detto fin dal primo capitolo del suo Saggio circa la coscienza, o conoscenza prima , conoscenza del me e dei suoi modi ; coscienza fatta consistere appunto in un'intuizione immediata, tale che « fra questa perce zione e gli oggetti percepiti non v'ha alcun intervallo » . Pare che per tutta la sfera della conoscenza immediata ei sia disposto a chiedere, come aveva chiesto infatti a proposito della comune definizione delle idee in generale: « Se gli oggetti, se la regione dell'esistenza son separati dallo spirito , chi getta un ponte per passare dal pensiero all'esistenza , all'oggetto ? » - Argomento insolubile, com'egli dice , ai filosofi dommatici. 44. Senso ed oggetto , sia che si tratti di senso intimo o di senso esterno , non si possono scompagnare. Il senso è la misura adeguata e sicura della realtà, comecchè il dato del senso debba poi venire elaborato dalla forza analitica e sintetica dello spirito onde si perviene alle idee e a'giudizi. Il senso costituisce , per le idee e i giudizi cui dà luogo, l'esperienza primitiva o imme ( 1 ) Il Galluppi non ammette l'incosciente : « La scuola di Leibniz ammotte delle percezioni di cui non si ha coscienza : alcuni Allosofi adottano questa opinione ; ma molti altri, co' quali io son d'accordo, non ammettono alcuna percezione, di cui non si abbia coscienza ... Non si può percepiro alcun oggetto come un fuor di me, senza perco pire il me, poichè la percezione di un di fuori è ossenzialmente la porcezione di più oggetti ; se non vi ha due oggetti , non vi è un di fuori. Se la percezione di un ſuor di me non è possibile senza quella del me, segue che non possono esservi nello spirito delle percezioni senza osser sentite ) . Elem . di psicologia , 8 XVII. 16 242 CAPITOLO VII diata ( 1 ) ; immediata rispetto all'oggetto , in cui s'appunta imme diatamente nella intuizione. Dall'esperienza primitiva va distinta poi la comparata, o derivata o secondaria , la quale consta dei giu dizi d'identità o diversità che noi portiamo sulle idee offerteci dalla primitiva esperienza : giudizi d'un valore puramente logico e soggettivo . I giudizi della esperienza immediata hanno per og getto gl'individui . Questa acqua ha la qualità di estinguer la sete . Questo calorico liquefà la neve vicina . Sono giudizi particolari, che non si possono generalizzare, nè possono costituire l'esperienza secondaria , fondamento delle scienze , se con le impressioni sensibili , coi dati oggettivi non si combinano quegli elementi soggettivi , che sono le due vedute dell'identità e diversità . Per dire la propo sizione generale : l'acqua estingue le sete , - io devo, in seguito alle successive esperienze delle varie acque che m'hanno estinto la sete , comprendere sotto una nozione generale tutte queste acque , e le azioni loro di estinguer la sete ; il che significa che lo spirito dee vedere un rapporto d'identità fra questi soggetti particolari e fra le loro particolari qualità ( 2) ; rapporto d'identità che il senso non mi può fornire ; perchè esso non mi dà che successivamente le singole acque. 45. Della scienza si potrà dire giustamente che è una costru zione soggettiva per mezzo dei materiali offerti dalla esperienza primitiva. Il Galluppi, in verità , non può attribuire altro valore che questo , che è il kantiano , alla scienza. Se la conoscenza vera della natura ci vien fornita dalla scienza , anch'egli deve dire.col Kant, che lo spirito , legando gli sparsi caratteri datigli dal senso , costruisce il gran libro dalla natura . Eppure.egli ritiuta ( Saggio , III , S 83) una tal soluzione. « La distinzione delle due esperienze, egli dice , è della più alta importanza, per determi nare il valore delle nostre conoscenze » ( $ 78) . È della più alta importanza, perchè se i rapporti di sintesi ideale nell'esperienza derivata sono soggettivi , quelli di sintesi reale nell'altra espe rienza sono essenzialmente oggettivi; in questa esperienza (pri mitiva ) l'esistenze son date allo spirito : egli ne è spettatore , e non il conoscitore : una connessione fra l'esistenze gli è anche data : egli dee conoscerla , non ispiegarla o comprenderla » (S 83) . Ma questa distinzione non tocca punto la soggettività della scienza , in quanto prodotto della sintesi ideale ; anzi la conferma. Il Gal ( 1 ) Saggio , lib. III , $ 78, tom . III , p. 275 . ( 2) Soggio, loc . cit. PASQUALE GALLUPPI 243 luppi nella epistemologia è un kantiano puro. Checchè egli ne dica , tale è la sua dottrina. 46. Ed ecco la stridente contraddizione cui lo condusse il suo voluto sperimentalismo. La scienza , la parte più certa della cono scenza, è soggettiva ; e la conoscenza sensibile è di sua natura oggettiva ; che , per lui , è come dire che la scienza è rosa dal tarlo dello scetticismo , laddove l'esperienza sensibile è certa e reale . Le conoscenze necessarie ed universali , che sono il pernio di ogni specie di conoscenze, hanno un valore puramente logico, e le conoscenze contingenti e particolari sono reali . Il che avrebbe dovuto condurre il Galluppi al più schietto nominalismo ; perchè se le nostre conoscenze veramente oggettive , sono quelle dateci dai giudizi particolari dell'esperienza immediata, sfuma la realtà dell'universale . E un realista il Galluppi certamente non Egli combatte tuttavia l'empirismo nominalistico di taluni seguaci del Locke, come l'Helvetius , i quali negano le idee universali , asse rendo che quelle, che tali appariscono , non sono se non termini generali , vocaboli vôti di senso . « Perchè , dice il Galluppi , al ve dere un uomo che non abbiamo giammai veduto , noi diciamo è un uomo ? Se non avessimo un'idea universale di questa specie, come vi rapporteremmo quest'individuo ? L'esistenza delle idee universali nello spirito è talmente attestato dalla intima coscienza , che si dura fatica a supporre che vi sia stato chi l'abbia contra stata » ( Saggio, $ 27 , lib . I ) . Nè anche il Locke , secondo il Gal luppi ( 1 ) , nega le idee universali ; e come Locke egli è concettua lista . Siamo sempre lì : la cognizione universale , scientifica ha sì un valore , ma un valore logico . 47. E al Rosmini , che gli dichiarava in una sua lettera di non vedere « come dal soggetto possa venire l'universalità e la neces sità delle cognizioni . Il soggetto è essere particolare e contingente, e non può produrre un effetto maggiore di sè » ; egli rispondeva, che la necessità che ha luogo nelle cognizioni, è una semplice « legge logica del pensiero umano » , da non confondersi con la ne cessità metafisica; legge logica espressa dal principio di contrad dizione , e , come ogni altra modificazione dell'anima nostra , me ramente soggettiva . E aveva un bel ribattere il Rosmini , che la necessità logica e la necessità metafisica non sono in fondo che una sola necessità ( in questo punto è tutta la novità, non pic ( 1 ) Cita il lib. III , cap. 3. ° del Saggio , dove il Locke spiega la gonesi delle idee universali . 244 CAPITOLO VII cola , – del Rosmini verso il Galluppi) : « Io non suppongo mica, replicava il Galluppi, che vi sia una necessità metafisica distinta dalla necessità logica ; ma solamente combatto quei filosofi che riguardano quella necessità, che è meramente logica , come una necessità metafisica , che trasformano la prima nella seconda..... L'origine di tal necessità ( logica ) mi sembra già determinata ; essa è nella natura del soggetto ..... noi non dobbiamo cercarne la causa efficiente, ma arrestarci alla causa formale di tal neces sità » ( 1 ) . La sua scienza , perciò abbiamo detto altra volta , come quella di Kant, s'è chiusa nella cerchia invalicabile del fe nomeno ; sicchè egli riesce , per la scienza, a quel criticismo che voleva correggere . 48. Gli sarebbe bastato estendere la - sua teoria della sensibi lità o meglio dell'esperienza primitiva alla esperienza secondaria . Non l'ha fatto , perchè gli premeva salvare la realtà del mondo esterno ; e così s'è messo in disaccordo con se stesso , accoppiando al criticismo puro dell'epistemologia il più crudo dommatismo nella gnoseologia. I due elementi in lui non si fondono, e un'in tima contraddizione travaglia tutta la sua filosofia. 49. Infatti ammessa giustamente come soggettiva l'origine della nozione che abbiamo della connessione reale delle cose ( come sostanza o come causa , sussistenza, egli dice per lo più, ed effi cienza ), il valore oggettivo delle medesime non può essere e non è infatti nel Galluppi, che una semplice affermazione dommatica. La percezione del me è la percezione di un soggetto con le sue modificazioni. Sicchè, egli dice , nella coscienza del me , – che è il principio della nostra filosofia , è data « 1. ° la connessione fra la percezione e l'oggetto ; 2.º fra il soggetto e la modificazione ; 3." fra la causa e l'effetto , il che vale quanto dire , che in questo fatto primitivo ci è data la base della filosofia , e la realtà delle nostre conoscenze » ( 2 ) . Su per giù , è sempre questa la dimostra zione data dal Galluppi della realtà delle connessioni tra sostanza e modi, tra causa ed effetto. Le connessioni sono reali, perchè il me, termine reale della coscienza è soggetto (sostanza ) di modifi cazioni, e queste modificazioni a lor volta sono effetto dell'azione del mondo esterno . Ma i termini noi possiamo percepire, non i rapporti: e i termini in quanto connessi nel loro rapporto non pos siamo percepirli , se non applicando ad essi quelle nozioni di rap ( 1 ) Rosmini e Gioberti, pp. 77-80 . ( 2 ) Saggio , lib . II , 8 74 ; tom . II , p . 161-2. PASQUALE GALLUPPI 245 porto , onde già dobbiamo essere forniti. Chi ci garantisce che i rapporti, che con queste nostre vedute, di origine soggettiva , noi scorgiamo tra i termini percepiti , abbiano un fondamento ogget tivo ? Chi ci costruisce questa volta il famoso ponte di passaggio dal soggetto all'oggetto ? Chi ci sottrae a quell'argomento inso lubile ? Il dommatismo è evidente . 50. C'è un passo, nel terzo libro ( 1 ) del Saggio, contro la sin tesi a priori di Kant , che merita qui speciale considerazione. « Il filosofo di cui parliamo, – scrive il Galluppi, ha confuso l'operazione sintetica co'suoi prodotti, che sono le percezioni del rapporto fra le idee paragonate. Allora che lo spirito rapporta un termine della relazione all'altro, egli esegue una sintesi, la quale è il principio efficiente che pone un termine rapportato. Lo spi rito nel termine rapportato vede un rapporto, ed esegue con ciò un'analisi , indi unisce questo rapporto , che aveva separato dal termine rapportato allo stesso termine, e compie il giudizio. Lo spirito , prima della comparazione, non aveva che il termine della relazione : dopo la comparazione ha un termine rapportato : l’atti vità sintetica ha dunque posto dal suo fondo, nel termine della relazione , il rapporto , e questo rapporto è un elemento sogget tivo aggiunto all'oggettivo » . - Quale che sia il valore di questa osservazione contro il giudizio sintetico a priori ( io non credo che ne abbia alcuno ; chè il giudizio è già avvenuto con quella prima operazione dell'attività sintetica , che consiste nel rapportare i termini), certo è notevole e giusto il concetto del soggettivismo dei rapporti accennato qui dall'autore ; ma vi apparisce pure evidente falso concetto che ei s'è formato dell'oggetto . Ter mine e termine rapportato son cose differentissime; il primo è un dato , il secondo è il prodotto di quel principio efficiente, che è la sintesi . Ma il termine è termine in quanto è termine rapportato ; sicchè il termine si può dire che venga posto , rità , dall'attività sintetica dello spirito . E questa è la dottrina di Kant. Ma se il Galluppi ne avesse piena consapevolezza , non do vrebbe dire , che lo spirito PRIMA della comparazione non aveva che il termine della relazione. No , non aveva niente : non c'è prima il termine , l'elemento oggettivo, a cui dopo venga ad ag giungersi l'elemento soggettivo, il rapporto : termine e rapporto nascono ad un parto, nè lo spirito può percepire il termine della relazione , senza il rapporto , nè questo rapporto è nulla di con ( 1 ) $ 81 ; tom. III , pag. 283. 246 CAPITOLO VII creto fuori dei termini ai quali viene applicato . Questo prima e questo dopo, di cui parla il Galluppi, accusano quella separazione di oggetto e soggetto, quella opposizione da lui già criticata come punto di partenza donde non sia dato arrivare a una conoscenza certa . 51. Sicché , anche per le nozioni di identità e diversità ( alle quali , s'intende , egli si riferisce nel passo ora citato) il Galluppi si di batte nelle strette della soggettività , come qualcosa di differente e assolutamente opposta a quella oggettività , che s'era proposto di fondare contro il criticismo kantiano. Ma le sue velleità empi ristiche rompono sempre in quel principio fondamentale della co scienza di sè , preso dalla filosofia di Cartesio, onde si nutrì , come abbiamo notato , la mente di lui nel suo primo periodo speculativo . E la conclusione del Saggio filosofico è che tutti i motivi dei no stri giudizii (senso intimo, sensi esterni, evidenza, memoria, razio cinio e testimonianza degli altri uomini) « hanno per motivo me diato ed ultimo il senso intimo » : e quindi « tutta la scienza dell'uomo riposa su la base unica della coscienza di se stesso, e chiunque tenta di toglier questa base è indegno, che si ragioni con lui ; poichè non si ragiona col nulla » ( 1 ) . E così nella chiusa delle Lettere filosofiche: « Io ho poggiato – dichiara l'autore su la veracità della coscienza la veracità di tutti gli altri nostri mezzi di conoscere ... ; non si può supporre la veracità di alcun mezzo di conoscere senza supporre la veracità della coscienza, e supponendo la veracità della coscienza , la veracità di tutti gli altri nostri mezzi di conoscere segue necessariamente . Così , secondo me, l'aliquid inconcussum è nella coscienza, ed essa è la base di tutto il sapere umano » ( 2) . 52. Ma se si ricordasse sempre, che principio e aliquid incon cussum è la coscienza, il Galluppi non dovrebbe parlare mai di quella oggettività indipendente dal soggetto , alla quale vuol ripor tare le relazioni di sostanza e di causalità ; e in verità non riesce a scoprirne che una origine soggettiva e a darne una giustifi cazione, come s'è visto , fondata unicamente sul sentimento del me. Si potrebbe dire , che egli parla di un oggetto soggettivo for nitoci dalla sensazione, che da lui è detta di sua natura oggettiva . Egli , infatti, rigetta la distinzione di qualità primarie e secondarie, come arbitraria e falsa , e sostiene che tutte le nostre sensazioni ( 1 ) Saygio, lib . IV, § 3 ; tom . V , p. 58 . ( 2) Ediz . cit. , p. 348 . PASQUALE GALLUPPI 247 soggettive , nè più nè meno di quel senso del tatto , in cui Con dillac indicava il filo d'Arianna col quale si potesse uscire dal labirinto della soggettività, « convengono in ciò , che tutte sono le percezioni di un soggetto esterno ; son differenti, poichè sono i modi diversi di percepir questo soggetto : questi modi diversi di percepirlo costituiscono per noi le diverse qualità degli oggetti esterni , le quali sono perciò i diversi rapporti di questi oggetti con noi » ( 1 ) ; e che, « qualunque ipotesi si adotti su la natura de ' corpi , è incontrastabile che il mondo dei corpi non esiste nel modo in cui ci apparisce ; e che noi non conosciamo dei corpi se non le qualità relative » , talchè il pensiero bensì è una realtà in sè ( 2) , « ma l'estensione non è almeno certo se sia una realtà o un fenomeno » ( 3 ) e addirittura « la conoscenza che noi abbiamo de ' corpi è meramente fenomenica > ( 4 ) . E però il Galluppi non può parlare se non di un oggetto soggettivo , di un oggetto termine essenziale del soggetto . 53. Ma allora perchè contrapporre oggetto a soggetto , e sin tesi reale a sintesi ideale ? Siamo sempre nella sfera del soggetto, e l'attività sintetica dello spirito darà luogo sempre a una sin tesi ideale . Dov'è il punto di separazione tra la res e l'idea ? Non rampollano entrambe dalla coscienza di se ? 54. Per metter d'accordo Galluppi con se stesso dovremmo dire , che quello che ei dice sintesi reale e sintesi ideale non siano se non due gradi della sintesi soggettiva, qualche cosa di simile della sintesi di primo e di secondo grado, che lo Spa venta e il Tocco han rilevate in Kant. Vale a dire , bisognerebbe anche la sintesi reale ritenere pura operazione soggettiva; ma non tanto soggettiva quanto la ideale, perchè l'una si esercita su una relazione che la coscienza , questo ultimo motivo , questa. norma suprema della verità , attribuisce al mondo esterno, lad dove l'altra non ragguaglia che termini aventi un valore logico . La sintesi reale coglie, diciamo così , i rapporti degli individui , in cui , secondo il Galluppi, consiste la realtà ; la sintesi ideale co glie , invece , i rapporti che intercedono tra le idee generali, già formate per la forza analitica e sintetica dello spirito . Di modo che la materia della sintesi reale è oggettiva, nel senso che di ( 1 ) Elem , di Psicologia , S XVII , pp. 27-28 . ( 2) Non vi ha fenomeni nel santuario del mio essero , dice il GALLUPPI, Saggio, lib . IV , § 4 ; tom . V, p. 63. ( 3) Iri. ( 4) Saggio , lib. IV , S 100 ; tom . V, p. 420. 248 CAPITOLO VII cemmo poter avere pel Galluppi l'oggetto ; e la materia della ideale è una pura formazione soggettiva. E se la coscienza ha da es sere sempre la fonte della verità , se noi non possiamo parlare di altra verità , se non di quella che tale apparisce alla coscienza , i rapporti che si scoprono dall'attività sintetica nella materia og gettiva saranno rapporti reali, e si potrà pur dire che siano og gettivi pel valore ( poichè il valore è attestato dalla coscienza) ; e i rapporti che dalla stessa attività sintetica si scoprono nella materia soggettiva, non possono avere più che un valore logico , perchè sono rapporti di concetti, ci concetti nel concettualismo del Galluppi non sono reali . Alla coscienza i rapporti appariscono tali quali appariscono i termini che essi connettono ; fra termini oggettivi , rapporti reali; fra termini astratti e soggettivi , rap porti ideali . I termini infatti non possono essere percepiti per quel che sono, se non coi loro rapporti, coi quali e pei quali vengono ad essere quei dati termini. 55. Ma allora non bisogna separare la facoltà dell'analisi e della sintesi da quella della sensibilità ( o coscienza ), come fa il Galluppi ; perchè la sensibilità come tale non potrà mai percepire un rapporto , come bene ha avvertito il Galluppi stesso . Allora bisogna andare molto più addentro , che questi non sia andato , nel concetto dell'unità del me. 56. Certo è che il Galluppi, mosso a scrivere il suo Saggio, che è la sua opera capitale , dal bisogno di assodare la realtà del cono scere contro la Critica di Kant , non riesce a distrigarsi dal sog gettivismo nella epistemologia ; e nella gnoseologia vi riesce solo contrapponendo al criticismo kantiano un oggetto , che non è tale se non per un dommatismo preso dalla coscienza volgare , e che non può non metter capo nella tesi scettica del criticismo, appena venga innanzi alla riflessione scientifica ( 1 ) . La sua stessa critica perpetua al Kant, e quell'oscillare continuo tra le lodi più sincere e il biasimo più acerbo del criticismo, dimostrano l'acutezza del suo spirito, che intende la gravità del problema sol ( 1 ) Il Rosmini il 3 giugno 1840 scriveva al p. Giacomo Maso & Roma : « Pare a lei che la filosofia del prof. Galluppi sia veramente sana ? Noti bene, non metto in dubbio le intenzioni dell'ottimo calabrese, a cui professo sincera stima ; parlo solo della sua filo sofia ; di questa dubito , o piuttosto non dubito ; perocchè agli occhi miei ella si volge in circolo perpetuo dentro al soggetto -uomo, e nel soggetto -uomo non vi ha nulla d’immu tabilo : manca il punto fermo a cui appoggiare la leva » . Vedi La Sapienza del 1883, vol. VIII , p. 402. PASQUALE GALLUPPI 249 levato dal Kant , e insieme la sua impotenza ad uscire da quel cer chio sconfortante segnato dal filosofo di Koenigsberg attorno allo spirito umano ; l'impotenza in cui rimase per non essere salito al concetto adeguato di quella coscienza, che è il Primo della sua costruzione filosofica . E dopo quattro libri di discussioni, di polemiche contro quei filosofi, trascendentali, che non si sa « se siano filosofi che ragionano , oppure frenetici che delirano » ( 1 ) , il Saggio filosofico finisce anch'esso nella tristezza del mistero : « La scienza umana è limitata . Essa può successivamente perfezionarsi. Ma essa non può oltrepassare certi limiti » . Non fu più reciso l'ignorabimus del Du Bois Reymond ( 2) . 57. E il primo limite dello spirito umano , secondo il Galluppi, è questo : « noi abbiamo una nozione generale della sostanza , ma noi non conosciamo affatto la natura , o come suol dirsi , l'es senza di ciascuna sostanza in particolare ( 3 ) . E fin qui ha ragione Kant. Secondo limite : « ignorando le prime sostanze, ignorar dobbiamo il come le cause efficienti producono i loro effetti ; e l'efficienza è per noi un mistero » . Dunque nè anche nel ritener soggettivo il rapporto di causalità aveva poi un gran torto Kant! ( - ) . Ma « tutto quello , che è incomprensibile, non è mica assurdo » , avverte il Galluppi ; e questo basta a salvare la crea zione. Terzo limite : « noi ignoriamo affatto le qualità assolute de ' primi componenti de'corpi ; noi conosciamo alcune qualità rela tive di alcuni aggregati delle prime sostanze della materia ... I corpi non sono tali quali a noi si manifestano » ( $ 100 ). E que sto , in verità, è un po ' più di quel che sostiene Kant : pel quale, se il noumeno va distinto dal fenomeno, appunto perchè ignoto , non si può dire che differisca dal fenomeno stesso . Differirà ? Non differirà ? Se a queste domande si desse una risposta, non si avrebbe più un noumeno . Qui , dunque, Galluppi è più kantiano di Kant. Quarto limite : la conoscenza importa successione, processo , passare da un principio a ciò che ne procede : ma Dio è ne ( 1 ) Passo del Saggio che il prof. CREDARO raccomanda « a coloro che fanno del Gal luppi un kantiano » ; ni kantismo in G. D. Romagnosi, in Riv. ital. di filos . del 1887, vol . II , p. 59, n. 2. ( 2) Vedi il celebre opuscolo Ueber d. Grenzen d . Naturerkenntniss, Lipsia , 1872 ; e LANGE, Gesch . d . Materialismus, 3." ediz ., Iserlohn , 1876 , pp . 148 sogg. ( 3 ) Saggio , lib . IV , cap. X ed ultimo, & 98 ; tom . V, p . 418. ( 4) Saggio , ivi, $ 99. 250 CAPITOLO VII lui > gazione assoluta di ogni successione : « in questo essere infinito non vi è alcuna cosa che precede l'altra ; perciò la sua natura ci è perfettamente inesplicabile ed incomprensibile. I metafisici intanto non si credono tutti incapaci di comprendere la natura Divina > ; ma uno di essi , e de' più moderati, il Genovesi , avendo tentato, per esempio , di concepire in che modo questo mondo fosse architettato da Dio , non è riuscito che a una spiegazione contraddit toria . « Il volere spiegare l'atto creatore intelligente è una con traddizione ; poichè è un supporre qualche cosa antecedente a (come il Genovesi era costretto a porre in Dio prima l'essere e poi il conoscere , prima il conoscere e poi il volere o l'ope rare) . Questo è incomprensibile, e lo scrutatore della divina maestà resta oppresso dalla sua gloria Proposizioni che non hanno forse il rigore scientifico della Dialettica trascendentale, ma che riescono , mi pare , al medesimo risultato . Che più ? Kant riconosce come tutti i filosofi moderni il grande valore delle matematiche; ma anche in esse il Galluppi trova dei limiti. Noi conosciamo esattamente, egli dice , le relazioni logiche tra le nostre idee astratte ; e ne son prova l'aritmetica e la geo metria . « Ma noi non conosciamo tutte queste relazioni, perchè il loro numero è inesauribile; e la conoscenza di queste relazioni non si estende quanto le nostre idee » « La nostra scienza è percið molto limitata sotto tutti i riguardi » ( 1 ) egli conclude : ed è la conclusione del Saggio intero , vale a dire della sua filosofia sperimentale . 58. Questo mi pare criticismo schietto , sufficiente di certo a fare ascrivere il Galluppi alla direzione kantiana , pur con tutte le sue più o meno ragionevoli invettive contro il soggettivismo del Kant ; se anche Alfonso Testa , che altri disse « l'unico kantiano, che abbia avuto l'Italia » ( 2) , era pur persuaso che il Kant , distrug gendo il sensismo, non fosse riuscito a sostituirvi altro che « un sistema soggettivo che distrugge la scienza verace » ( 3) . 59. Molto ha contribuito a mascherare il kantismo galluppiano , e ben più che le sue dichiarazioni e le sue proteste , che non ( 1 ) Vedi il capo X ed ultimo del lib. IV del Saygio . ( 2) L. CREDARO, A. Testa e i primordii del kantismo in Italia , in Rendic. Acc. Lin cei, 1886, S IV, III , p. 241. Vedi dello stesso CREDARO Il kantismo in G. D. Romagnosi ( in Riv . it. d. filos., 1887, vol. II, p. 59 n. ) , dove si oppone a chi fa del Galluppi un kan tiano, uno dei soliti passi del Saggio contro il trascendentalismo. ( 3) Come scrisse nel suo ultimo libro La mente dell'ab. G. Taverna , Genova , 1851 , p. 82. PASQUALE GALLUPPI 251 hanno o non dovrebbero avere molto valore per la valutazione del critico -, alcune speciali dottrine , che basta accennare bre vemente. 60. E in primo luogo : rifiuta nientemeno che la stessa sintesi a priori , che è come dire il nocciolo sostanziale del kantismo . « La distinzione , che la scuola trascendentale pone fra i giudizii analitici ed i giudizii sintetici (a priori) è assurda » . Queste son parole del Galluppi . E qui non si tratta di una semplice afferma zione. C'è anche la prova. « Se le due idee A e B non hanno alcuna identità fra di esse , lo spirito non può riguardarle che come distinte, e senz'alcun legame fra di loro : è impossibile , dun que, ch'egli vi percepisca un rapporto necessario di convenienza fra di esse : dire in conseguenza che lo spirito dee percepire neces sariamente un rapporto di convenienza fra due idee diverse , è affermare, che lo spirito pud pronunciare una contraddizione evi dente... Tutt'i giudizi necessarii debbono, in ultima analisi , risol versi nel principio di contraddizione : essi son dunque tutti ana litici , ed i giudizii a priori non possono essere che necessarii. Ammettere dei giudizi necessarii non poggiati sul principio di contraddizione , è un assurdo manifesto . Se lo spirito non vede alcuna contraddizione nell'opposto di un suo giudizio, egli non può certamente riguardarlo come necessario . I giudizi sintetici a priori non possono dunque esistere » ( 1 ) . Somiglia non po ' , a dir vero, al ragionamento di quel tale aristotelico restio agl'inviti di Galileo di guardare attraverso il cannocchiale ; ma è il ragio namento del Galluppi ; e questo basta allo storico, il quale dirà che il filosofo di Tropea, chiuso nel cerchio della logica formale e nel ferreo apriorismo delle sue regole , non poteva ammettere e non ammise il risultato principale della Critica kantiana, che è la sintesi a priori. « In effetto , – egli dice negli Elementi di logica pura (S XV) , – un principio sintetico, puro , a priori come Kant lo suppone , è una cosa contraria alle nozioni fondamen tali di una sana logica » . Infatti, egli soggiunge , prescindendo dall'esperienza , nella sfera delle mie idee , io non posso unire B con A, se non riconoscendo che B è uguale ad A, o ne fa almeno parte . Che se B eccedesse realmente A in estensione , in valore , come potrei attribuire ad A, come sua proprietà, tale eccedente di B, non ritrovato in A ? ( 1 ) Saggio , lib. I , cap . IV , s 116 ; tom . I , p. 241-2. 252 CAPITOLO VII 61. Così la critica del Saggio è confermata negli Elementi con esplicito appello alle leggi della logica formale, per la quale cer tamente non è possibile la sintesi a priori kantiana, perchè l'iden tità non è conciliabile con la differenza, e se la necessità richiede l'identità , rifugge dalla differenza ( 1 ) . 62. È inutile mostrare il valore della critica galluppiana , fon data come quella del Degerando con cui va raffrontata , e quella stessa del Rosmini, sopra l'intelligenza della sintesi a priori de sunta dalla sola Introduzione alla Critica della ragion pura (nella 2.a edizione) coi famosi esempii: 7 + 5 12 ecc. Giova piuttosto ricordare che la vera sintesi a priori non con siste propriamente nell'unione di predicati a soggetti, onde siano già belli e formati i concetti ; bensi nella formazione medesima dei concetti: problema, di cui non s'accorse affatto il Galluppi, a proposito di Kant , ma riprodusse, del resto , e risolvette egual mente nella sua teoria dell'analisi e della sintesi , che , munite dei rapporti soggettivi dell'identità e diversità , servono anzi tutto alla formazione delle idee , e nella sua teoria del giudizio, essen zialmente distinto dal sentire, e necessario alla percezione di qualsiasi rapporto . 63. Questa della sintesi a priori è uno dei motivi prediletti della critica italiana intorno alle dottrine del Kant, e ricorre spesso nei libri del Galluppi ( 2 ) . Ma non è la sola teoria kantiana che egli ( 1 ) Ma, so sintesi a priori e logica formale sono assolutamente inconciliabili , non biso gna conchiudore : dunque, aut aut : o si rifiuta la sintesi a priori, o si rifiuta la logica formale . Su questo punto si fa , secondo me, molta confusione. Vi tornerò su in un mio prossimo lavoro ; qui voglio solamente aggiungere, che la dottrina della sintesi a priori fa parte della teoria della formazione delle conoscenze ; laddove la logica formale studia i rapporti delle conoscenze già formate o delle conoscenze in sè ; e notare, che se il pon siero non ha da essere un quissimile del vano lavoro delle Danaidi, non s'ha da far consistere solo in un accroscimento delle conoscenze , ma anche in un'intuiziono delle già acquisite. ( 2) Un anonimo già nel 1832 notava in un opuscolo molto arguto e tagliente contro il nuovo professore dell'Università, che le belle ed acute riflessioni, con cui il Galluppi combatte nel § XVII degli Elementi della logica pura il giudizio sintetico a priori, sono tolte da LAROMIGUIÈRE, Leçons de philos. , p. I , 1. 3 e 5. Vedi : Degli Elementi e della Introd . allo studio della filos. del celebre Bar. Galluppi, giudizio dato all'editore da un suo amico, Napoli , De Bonis, 1832, 8 37 , p. 42. · L'opuscolo reca la data di Napoli, 14 di cembre 1831. Scritto con molta vivacità e castigatezza di lingua, rimprovera al Galluppi l'inesattezze di certi suoi esempii presi dalla geometria e dall'algebra , l'ignoranza in ge nerale delle scienze fisiche e naturali, la scarna o niuna cognizione dei classici antichi PASQUALE GALLUPPI 253 combatta. Anzi, non v'è quasi teoria esposta nella Critica della ragion pura che venga risparmiata nel lib . III del Saggio gal luppiano e nelle parti delle altre opere che ne dipendono . Lo spa zio, il tempo, le categorie, lo schematismo, la dialettica trascen dentale gli offrono materia di lunghe e energiche discussioni, il cui scopo è sempre la confutazione del Kant. Aggiungi le fre quenti proteste contro il trascendentalismo e l'idealismo, che pel Galluppi equivalgono allo scetticismo, proteste nelle quali il Gal luppi unisce al Kant il Fichte e lo Schelling ( 1 ) , per quel poco che ne poteva conoscere da traduzioni o esposizioni francesi ; cd è evidente , che il lettore sbadato e il critico ottuso non potes sero e non possano vedere il filosofo di Tropea che agli antipodi di quello di Koenigsberg. 64. Il vero è che per un'esatta intelligenza delle dottrine di questo , il primo incontrava insormontabili difficoltà nei limiti della sua cultura ; la quale non si estendeva oltre la letteratura filosofica italiana e francese e alle traduzioni (allora pochissime e affatto insufficienti) che c'erano in queste lingue delle opere tedesche. Quello che poteva intravvederne indirettamente, era na turale che gli dovesse riuscire oscurissimo, e restargli innanzi con tali lacune, che s'egli ne avesse avuto coscienza, non sareb besi certo provato alla critica della filosofia tedesca. Egli, scrit tore chiarissimo e pensatore analitico per eccellenza , manifesta mente soffriva nello studio che poteva fare di quegli scrittori. Nella critica del Fichte, sforzandosi d'intendere il vero signifi della filosofia , la leggerezza nell'appigliarsi alla moda francese, e quindi la pedanteria e confusione del metodo analitico imitato dagli ideologi, e perfino i barbarismi e le im proprietà di espressione. L'opuscolo pare facesse una certa impressione. Il Galluppi ri spose col silenzio ; ma i suoi scolari con due opuscoli : Di un giudizio dato da ignoto giudice sur alcune parole del chiarissimo B. P. G. appella VINCENZIO MORENO , Napoli, Trani, 1832 ; Al giudizio dato da un anonimo su talune opere del chiarissimo P. G. risposta di GIUSEPPE PISANELLI, Napoli, Ruberto o Lotti, 1833. Curioso l'opuscolo del Pisanelli nella parte in cui difende il Galluppi scrittore, per l'enfatica digressione che vi è contro il purismo ( pp. 28-36 ). Per questa parte invece il Moreno riconosceva che il G. non fosse puro elegante e gentil dicitore ( p. 17) ; il che non toglieva ch'ei fosse, alla sua volta , pessimo scrittore . ( 1 ) Vodi le Considerazioni filosofiche su l'idealismo trascendentale e sul razionalismo assoluto ( Napoli , 1841 ). Di Schelling non pare che conoscosse nulla di originale , all'infuori della trad . francese del Bruno. Del Fichte cita la trad . francese della Bestimmung des Menschen . 254 CAPITOLO VII cato della costui dottrina dell'Io puro, dichiarava ai colleghi del l'Accademia francese : Qui l'oscurità alemanna comincia ad affliggermi; io che non amo ne' discorsi filosofici, se non che la chiarezza e la precisione , son qui circondato dalle più dense te nebre » ( 1) . E terminava la sua memoria invocando le regole wol fiane De stylo philosophico, e domandando agli amici della verità e del progresso della filosofia , se « lo scrivere i trattati filosofici in un modo più oscuro di quello , in cui è scritta la Teogonia di Esiodo, è esso un segno di progresso verso la verità o pure verso l'errore » (2) 65. Altri più recentemente si son lagnati dell'oscurità di alcuni scrittori filosofici, e si son levati in difesa del bello stile . Ma, come nel caso del Galluppi , molto spesso l'oscurità che si vede negli autori , non dipende da un loro difetto, sibbene dalla insufficienza nostra a intenderli ; chè nessuno è chiaro a chi non sia preparato e non procuri in ogni modo e con ogni mezzo d'intendere . Comunque, la dottrina del Galluppi è cosa ben distinta e diversa dalla sua intelligenza e dalla sua critica del Kant ; e della prima è indubitabile che s'ispira al Kant e non riesce a risul tati essenzialmente differenti ( 3 ) . 66. In sostanza egli è più kantiano di Kant. Questi , criticata la ragion pura , nega il valore scientifico , oggettivo, della meta fisica , ma le riconosce un ufficio regolativo , e scrive una meta fisica della natura come una metafisica dei costumi. Ma il Gal luppi si rinchiude in un assoluto psicologismo, per usare parola giobertiana ; e , pienamente conseguente alla sua filosofia dell'esperienza, tiene fermo alla dottrina dei limiti della scienza umana ; e alla metafisica sostituisce l'ideologia. La sua cattedra ufficiale era di logica e metafisica ; ma egli nella Prolusione an nunzia che tratterà della filosofia teoretica, ossia della scienza dell'umana scienza , e darà pertanto la legislazione suprema di tutte le scienze ( 4 ) . « La metafisica tratta , egli dice , delle idee essenziali all'umana ragione » ). Nella prima lezione rifiuta la definizione della filosofia data dal Wolf, sostenendo che egli volle una ( 1 ) Op. cit . , pag. 23. ( 2) lvi , pag. 133. ( 3 ) Ricordo per semplice curiosità che sostenne il kantismo del Galluppi CARLO Ro DRIQUEZ , Lett. su la filos . sogg . ed oggettiva del bar . Galluppi, Messina , 1833, p. 22 ; cui rispose ONOFRIO SIMONETTI, Analisi critica della Lettera ecc . ( Napoli ), Fernandes (1834 ), p. 31 e sgg. ( 4) Lezioni di log . e metafsira , p. XI. ( 5) Iri, p . XIV . PASQUALE GALLUPPI 255 definire piuttosto l'infinita sapienza conforme a quel suo enun ciato che Deus est philosophus absolute summus, e attribuendo alla filosofia wolfiana il difetto ascrittole appunto dal Kant, di confondere la cosa con l'idea della cosa. Nella seconda lezione commenta il suo concetto della filosofia come scienza del « pen siere umano ne' suoi elementi , nelle sue funzioni e nelle sue leggi » ; nozione , fa notare , della più alta importanza . 67. Prevede la possibile osservazione : ma è il pensiero il solo oggetto della filosofia ? E la ontologia, la cosmologia, la teologia naturale , la fisica ? — Queste scienze, risponde il Galluppi , in parte si riducono alla ideologia, scienza del pensiero , e in parte escono fuori dal campo della filosofia . L'ontologia studia « alcune nozioni universali , essenziali all'umano intendimento » ; e la dottrina delle nozioni , delle idee non appartiene forse alla scienza del pensiero ? Lo stesso dicasi della cosmologia e della teologia naturale. Sic chè il Galluppi conchiude : « Tutte le parti dunque della meta fisica appartengono alla scienza del pensiere umano » . Quanto alla fisica , in parte è filosofia ( psicologia, per le relazioni che que sta scienza studia tra i fatti fisici quali sono in sè e i fatti fisici quali appariscono a noi , e teologia) ; e in parte , quale si tratta comunemente nelle scuole, se non può ridursi a rigore alla scienza del pensiero , « è nondimeno una scienza che le è contigua , e che serve a rischiarare, ed a perfezionare la filosofia intellet tuale » . Sicché la metafisica, nel sistema del Galluppi, è bella e ita assolutamente. E se la filosofia per lui si divide com'è detto nella 3.4 lezione – in filosofia speculativa o teoretica , che studia l'anima ( soggetto del pensiero) in quanto conosce , e in filosofia pratica , che studia l'anima in quanto vuole , è chiaro che nè an che questa potrà essere fondata su alcun principio metafisico. Il Kant non era arrivato a questo punto. Ma prima di accennare i principii del Galluppi nella filosofia pratica , bisogna fare un'altra osservazione generale, che ci pare di non poca importanza . 68. Nella Prolusione il Galluppi , vantando le ragioni del me todo sperimentale , avvertiva che non bisogna però mutilarlo ; anzi prenderlo tutto intero nelle sue specie e ne ' suoi risultamenti ; ne confonderlo con l'empirismo ; giacchè la filosofia intellettuale, co me egli chiama quella che dovrà insegnare , < non ammette so lamente quelle esistenze , che cadono immediatamente sotto l'espe rienza ; ma quelle ancora , che le esperienze sperimentali suppon gono necessarie . Quindi ella deduce tanto dall'esistenza del mondo materiale , che da quella del mondo intellettuale, che a noi si ma 256 CAPITOLO VII nifesta, l'esistenza eterna di un ' Intelligenza creatrice . E ciò in modo simile a quello in cui l'astronomia , partendo dal cielo em pirico , pone un cielo razionale » ( 1 ) . Il cielo razionale sarebbe il cielo costruito dall'astronomo mercè la forza portentosa del cal colo, della geometria e del raziocinio , onde si « sbalza dal cen tro del planetario sistema la terra , e vi si pone il sole ; si tra sforma in masse di meravigliosa grandezza quei piccolissimi corpi , che sembrano tanti chiodi affissi nel firmamento, si determina le distanze , le orbite ed i tempi delle rivoluzioni de' pianeti » ( 2 ) . 69. Sicché, pel Galluppi, anche la filosofia intellettuale, la ideologia , la filosofia dell'esperienza, con tutti i suoi limiti , ha il suo cielo razionale ; come l'ha del resto il criticismo con la sua cosa in sé . Ma la cosa in sè per Kant è un puro concetto limite, di cui s'afferma l'essere non il come ; che si afferma, non si conosce; laddove il Galluppi dedica tutta la seconda parte della sua Ideologia, che intitola Teologia naturale , allo studio dell'Asso luto e de ' suoi attributi , come se Kant non fosse mai esistito . Il nome di questo qui non ricorre se non nelle ultime pagine, dove è detto insensato il suo « impegno di contrastarci la possibilità di una Teologia naturale e filosofica » ( 3 ) , 70. Ma tutta questa parte evidentemente è non solo in con traddizione con la Critica kantiana, ma anche con lo stesso Sag gio dell'autore, la cui conclusione riesce a quella dottrina dei limiti della scienza che sopra vedemmo. Che dire adunque del vero pensiero del Galluppi ? È vero , come è detto nel Saggio, che lo scrutatore della divina maestà resta oppresso dalla sua gloria ? O è vera la teologia delle Lezioni ? Le due dottrine sono certa mente inconciliabili. E io non dubito d’asserire , che se il Galluppi non avesse scritto le Lezioni per i giovani dell'Università in uno de ' periodi di più cupa servitù intellettuale che abbia attraversato il pensiero italiano, la seconda parte della Ideologia non sarebbe stata scritta . 7i . « Questa opera , diceva l'autore nella prefazione delle Le zioni, non è mica la ripetizione dei miei Elementi di filosofia pub blicati in cinque volumi, nè di altra mia opera antecedente » . E notava altresì che « serbando le leggi essenziali di un metodo, può questo ricevere delle variazioni accidentali » . Intendeva egli alludere alla teologia naturale, di cui trattava per la prima volta ( 1 ) Op. cit . , p. XIX . ( 2) Ivi , p, XVII . ( 3) Op . cit . , III , 306 . PASQUALE GALLUPPI 257 . in queste Lezioni ? ( 1 ) . Si noti che non parlava di nuovi svolgi menti del suo pensiero , ma di variazioni di metodo; onde non poteva accennare a parti ora per la prima volta trattate della sua filosofia che non importassero alcuna modificazione di principii . Si noti anche, che la seconda parte dell'Ideologia è come appiccicata alla prima. Solo alla fine della 108. lezione (1. della Ideologia ) l'autore dice : « L'essere è o finito o infinito ; io divido perciò l'ideologia in due parti , nell'ideologia del finito ed in quella del l'infinito » E in questa distinzione così accennata è tutta la ra gione della teologia naturale o ideologia dell'infinito , cui son de dicate le ultime dieci lezioni del corso universitario . Le dottrine non essoteriche hanno ben più stretti legami coi principii sostan ziali dello spirito d’un pensatore ; e questi le fa sempre sgorgare specialmente quando siano dottrine così importanti , rispetto a quella filosofia dell'esperienza, onde il Galluppi si proclamo sempre assertore le fa sempre sgorgare, bene o male , dalle dottrine per l'innanzi professate, le pone, bene o male , in ac cordo con esse , per rimanere esso stesso d'accordo con sè mede simo. Nell'opera del Galluppi nulla di tutto questo . 72. Io propendo pertanto a non attribuire alcun valore a quella parte delle Lezioni nel sistema delle idee galluppiane. Non penso già che egli le dettasse e le pubblicasse contro la sua coscienza, ma certo contro la sua coscienza filosofica . Egli pensava certamente quanto scrisse e insegno degli attributi divini ; ma quella parte del suo pensiero non era stata da lui elaborata filosoficamente ne coordinata quindi alla sua speculazione . Chi ha insegnato e non s'è trovato nel caso del nostro filosofo , di esser costretto da un programma a insegnare anche ciò che il suo spirito non ha ma turato e fatto suo , e insegnarlo quindi nella forma in cui ordi nariamente si dà , e in cui è pur bene che sia offerto all'intel letto dei discepoli ? Chi non si trova a dover insegnare qualcosa di più di quello che in buona fede e a rigore potrebbe dir di sapere , o di quello ond'egli può dirsi veramente persuaso ? Chi oltre a ciò che, per sè e per altrui , deduce chiaramente da ' propri principii non ha insegnato qualcos'altro, che da quei principii sinceramente non sa derivare nè per altrui nè per sè ? Il Galluppi non aveva per sè una teologia più filosofica di quella che è esposta nelle ( 1 ) Della religione tratta anche negli Elementi di filos. morale. Ma se la sbriga in un breve capitolo , che non ha nessuna pretensione filosofica , e si limita a una semplice notizia molto compendiosa del concetto della religione cristiana. 17 258 CAPITOLO VII sue Lezioni; in questa fermavasi il suo pensiero ; ma stimo che non vi s'acquetasse ; perchè una consapevole o inconscia insoddi sfazione doveva fargli sentire che nella sua filosofia dell'esperienza non c'era posto per quella teologia . 73. S'è accennato che sulla fine della teologia naturale l’au tore si ricorda dell'impegno insensato del Kant di contrastare la possibilità di una teologia. E che fa egli per combattere l'assunto kantiano ? Scrive così : « Kant insegna che i giudizii su cui ella ( teologia naturale e filosofica ) poggia, sono sintetici a priori e fenomenici, privi di una assoluta realtà. Egli dice che le verità necessarie della teologia naturale non sono mica identiche, ma sintetiche ; e che le verità di fatto non sono che mere apparenze, che fenomeni privi della realtà noumenica ed assoluta, indipen dente dal nostro modo di vedere. Io , nella mia Critica della co noscenza ( 1 ) ho seguito passo passo la dialettica kantiana ; e vo lendo parlar con giustizia , non può negarmisi, che l'ho invinci bilmente distrutta. Io ho mostrato, che i giudizii sintetici a priori sono assurdi ; ho mostrato eziandio , che le verità sperimentali ci danno pure delle conoscenze delle cose in se stesse considerate » ( 2) . Questo è tutto. Ora, poniamo che sia esatta l'esposizione del pen siero del Kant . Ma la critica della sintesi a priori non giustifica , tutto al più , che la posizione dell'assoluto, come avviene per l'ap punto nel Saggio dello stesso Galluppi ( lib . III , cap. XII) ; dove partendo dalla pretesa impossibilità dei giudizii sintetici a priori , si dice , contro Kant, che non è tale neppure il principio : dato il condizionale, si deve dare l'assoluto ; e si conchiude quindi che il condizionale dell'esperienza è reale in sé , non fenomenico, e che nella sua realtà è pur data quella dell'assoluto ( 3 ) . E nel Sag gio tutto finisce li . E la conclusione dell'opera è quella che ab ( 1 ) Acoopna al Saggio filosofico . ( 2) Lez ., III , 306. Quindi accenna alle critiche che alla sua confutazione della sin tesi a priori aveva mosse il MAMJANI nol Rinnovamento e lo ribatte. ( 3 ) Un'ottima osservazione contro questa deduzione fa col suo solito acume il Tesia , il quale crede come il Rosmini che il Galluppi non mova un passo fuori del soggetti vismo. È falsa , egli dice, la premessa che il condizionale sotto il rispetto del condizionale sia un termine dato dall'esperienza. Quosta non ci dà che sensazioni e sentimenti. Ma le sensazioni non sono il condizionale ? - Si , sono, ma non ci sono date come tali dall'esperienza . La qualità d'essere condizionale è una veduta dello spirito , non è nella sensazione, opperò non è trovata nella sensazione. Vedi Le ricerche apolog. del crist, del popolo dall'ab. G. Bignami esaminate, Lugano, 1841, p. 33 e seg . PASQUALE GALLUPPI 259 biamo vista. Gli attributi divini son dichiarati incomprensibili. Nè quell'assoluto del Saggio differisce molto dalla cosa in sè kan tiana . Ma nelle Lezioni non c'è solo l'assoluto, bensì la scienza del l'assoluto ; e non viene giustificata. La conclusione dell'opera si limita ad affermare che « mostrando l'oggettività delle nozioni di sostanza, di causa e dell'assoluto , il criticismo è rovesciato , e la realtà della conoscenza è stabilita » . Sono le ultime parole delle Lezioni; ma potrebbero essere a miglior ragione le ultime del Saggio, perchè in quelle s'era cercato di provare qualcosa più dell'oggettività della nozione che la mente possiede dell'as soluto. 74. Se la teologia naturale avesse avuto nella mente del Gal luppi la stessa saldezza dei principii più genuini della filosofia dell'esperienza, la sua etica non avrebbe mancato di esservi su bordinata. Invece ne è assolutamente indipendente . Anzi, pure inspirandosi , come si vedrà , all'idealismo kantiano , non tiene af fatto conto delle esigenze sentite dal Kant nella Critica della ra gion pratica e nella Fondazione della metafisica dei costumi. Forse egli non conobbe nulla direttamente di queste opere , e della mo rale kantiana non dovette avere che l'indiretta notizia fornitagli dalle solite esposizioni francesi. Non per questo si può dire con certi critici , che i suoi quattro volumi della Filosofia della volontà « non contengono nulla di nuovo, anzi , di fronte a Locke ed Hume, ed a tutta la specula zione contemporanea, segnano un sensibile regresso verso il vec chio rancidume metafisico e teologico » . Chi giudica così , non deve avere grande familiarità con questo rancidume, e certo è asso lutamente falsa la sua sentenza, che la morale galluppiana sia ispi rata all'idealità patristica e scolastica ( 1 ) . Non si potrebbe dire nulla di più inesatto intorno a quella morale. 75. Basta una sommaria esposizione per convincersene. Bisogna prima di tutto osservare , che il Galluppi insegnava nell'Università, come s'è visto , filosofia teoretica o , com'egli dice , intellettuale ; e non v'ebbe quindi occasione di trattar mai la morale. Ma egli aveva pubblicato nel '26 , nel quinto volumetto del suo ma nuale scolastico , gli Elementi della filosofia morale ; e prima d'as sumere l'insegnamento aveva scritto La filosofia della volontà , ( 1 ) Vedi l'art. La speculazione di P. G. , nella Rivista di filos, e sc. affini di Bolo gna , an. III , vol . V (ottobre 1901), p. 276 . 260 CAPITOLO VII in quattro volumi, che cominciò a pubblicare nel 1832 ( 1 ) . In essa , secondo che egli dichiara nella Prefazione , si proponeva di trat tare in un'opera estesa lo stesso argomento di quegli Elementi, ma col metodo stesso del Saggio filosofico, ossia con la discussione e l'esame delle varie dottrine relative ad ogni materia . Ma non do veva aver compiuto il lavoro prima di salire la cattedra di logica e metafisica ; e non pare che vi sia potuto più tornare ; sicchè non tutte le parti del volumetto degli Elementi vi sono riprese e no vellamente trattate con quella maggiore larghezza, che l'autore s'era proposta. E il disegno di essa , delineato sulla traccia degli Elementi, gli rimase colorito meno che a metà . 76. Nella Filosofia della volontà comincia dal distinguere nel l'uomo l'agente fisico della natura , « disposto o mosso ad operare pel fine della propria felicità , >> e l'agente morale, disposto o mosso ad operare dal principio del proprio dovere » . Distingue anche i movimenti « che nel corpo umano si osservano » , in mec canici, che non dipendono dalla volontà , e volontari, per cui sol tanto l'uomo può dirsi agente. Chiama quindi filosofia della vo lontà « quella scienza che fa conoscer l'uomo considerato come un agente » ; e divide questa scienza in quattro parti : « nella prima, dice , esamino l'uomo considerato generalmente come un agente ; nella seconda l’esamino sotto l'aspetto di agente morale ; nella terza sotto l'aspetto di agente fisico ; e nella quarta finalmente l'esamino riguardo alla sua esistenza in uno stato futuro, dopo il fenomeno della morte ; e ciò in conseguenza della sua virtù e de' suoi vizi » ( 2) . Questo il disegno. Ma delle quattro parti ideate i primi tre volumi dell'opera e il primo capitolo del quarto trattano solo la prima ; gli ultimi due capitoli di questo quarto volume e del l'opera iniziano appena la trattazione della seconda, com'è svolta negli Elementi; e della terza e della quarta non c'è nulla ; laddove negli Elementi l'una ( intitolata De' mezzi per esser felice, cap . VI) è trattata con relativa larghezza , e dell'altra c'è pure un cenno col titolo : Della religione. Sicché, quantunque l'autore appaiasse questa sua Filosofia della volontà col Saggio filosofico, come l'opera con tenente la sua filosofia pratica accanto a quella contenente la ( 1 ) I primi due volumi , pp. 338 0 452, nel 1832 presso C. L. Giachetti in Napoli ; il 3. ° vol , di pp. 388 nel 1839 presso la stamperia Tramater in Napoli; e il 4.° di pp. 361 nel 1840 ivi . La dedica del 1. ° vol. , a S. E D. Giuseppe Cova Grimaldi, marchese di Pie tracatella , reca la data di Napoli 30 aprile 1832. ( 2) Ed. cit. , I , 6-7 . PASQUALE GALLUPPI 261 a sua filosofia teoretica ; è evidente, che se la Filosofia della volontà presenta discusse con grande ampiezza questioni brevemente accennate negli Elementi, di questi non può fare meno chi voglia acquistare un concetto compiuto delle teorie pratiche gal luppiane ; e in essi deve principalmente attingere quella parte di coteste teorie , che spetta più propriamente alla morale. 77. Dal disegno stesso dell'opera maggiore si scorge un pre gio non comune in questo ramo della filosofia del Nostro : voglio dire la pienezza del suo concetto dello spirito pratico . Egli, com'è chiaro già da quelle semplici indicazioni, non vede tra la felicità e il dovere quella dualità inconciliabile, in cui si dibatte l'etica prima di Kant e nello stesso Kant; quella dualità che finisce ine vitabilmente, secondo l'uno o l'altro pensatore , o con la nega zione dell'uno o con la negazione dell'altro principio , o nel con cetto puramente utilitario o in quello del puro disinteresse . Il Gal luppi vede che sono due i fini dell'umano volere : due fini però conciliabili tra loro , sì che uno non importi la negazione dell'altro . L’uomo infatti è agente fisico e agente morale insieme ; e per es sere agente fisico non cessa di essere agente morale ; e viceversa : segno manifesto , che tra i due fini non c'è opposizione assoluta. La confutazione perentoria dell'utilitarismo dal punto di vista etico sta in questo concetto , che il Galluppi vide nettamente, come apparrà meglio dalla notizia che ora ne daremo. 78. Tutta la prima parte della sua filosofia pratica s'aggira adunque intorno all'attività in generale dell'uomo : è, come noi diremmo, una semplice psicologia pratica. Parla quindi del desi derio, della volontà, dell'influenza della volontà sull ' intelletto, e viceversa, e in generale dei principii motori della volontà , e della libertà umana . Questa è la trattazione più ampia, e occupa quasi per intero il secondo e il terzo volume della Filosofia della volontà ; non avendo voluto il Galluppi lasciare senza risposta nessuno degli argomenti che sono stati addotti contro l'esistenza del libero volere . 79. Della volontà il Nostro dice che non può definirsi. Ne fa una facoltà, avvertendo bensì , che « le diverse facoltà , che concepiamo nel nostro spirito , non sono certamente tanti agenti diversi : esse non sono che lo spirito stesso considerato relativa mente ad una determinata specie di modificazioni, che avvengono in lui » ( 1 ) (I , 15-16) . Si potrebbe intendere per volontà la facoltà ( 1 ) Quindi, secondo l'autore, è volontà « il nostro spirito stesso considerato relativa 262 CAPITOLO VII di volere ; ma questo come ogni atto semplice non può definirsi, e non se ne può altrimenti avere la nozione che « dirigendo la nostra attenzione sul sentimento che abbiamo di questo atto » , ossia ricorrendo alla nostra personale coscienza. La volontà senza gli atti di volere è indeterminata come volontà ; è lo spirito stesso in generale . La determinazione della volontà è la produzione de ' voleri particolari ; e siccome, dice Galluppi stesso, lo spirito è il principio efficiente de ' voleri , così può dirsi tanto che lo spi rito determina se stesso , quanto che la volontà determina se stessa ( I , 51 ) . 80. La volontà, come notò gia Locke, va ben distinta dal de siderio. Un idropico , malgrado il desiderio di bere , si astiene dall'acqua . Egli dunque desidera di bere , ma non vuol bere . In tali casi vi sono desiderii opposti , fra i quali la volontà si deter mina. Pel Galluppi tra desiderio e volere c'è una recisa differenza . Quello non è , come ordinariamente si crede , un fatto d'attività dello spirito , ma, come oggi si direbbe , un fatto puramente emo tivo ; quel misto di piacevole e di spiacevole onde lo spirito è af fetto per la percezione d'una sensazione in se stessa piacevole , ma assente , e però causa d'un dispiacere tanto maggiore, quanto più lontano è il futuro, in cui si pensa che essa sarà provata ( 1 ) , Quando, come fa il Wolff ( 2) , si vede nel desiderio uno sforzo, un'avversione, un'inclinazione, o ci si contenta di metafore fallaci, o si confonde col desiderio il volere, onde i movimenti corporei sono l'effetto. Sforzo, tendenza, inclinazione , allontanamento son tutti vocaboli, che applicati all'anima non presentano alcun senso ( 8) . ( I , 65) . 81. Come dal desiderio, la volontà va distinta dall'intelletto ; sicchè può parlarsi di un'influenza esercitata dalla volontà sul l'intelletto , come di un'influenza esercitata dall'intelletto sulla volontà. Quanto alla prima , il Galluppi vede un potere della vo lontà perfino nelle sensazioni, in quanto lo spirito « può esporre o pure sottrarre i propri sensi all'azione de ' corpi esterni ; e quindi procurarsi o privarsi di alcune date sensazioni » ( 4) . Quindi mente a quella specie di modificazioni, che abbiam chiamato voleri » ( I, 24 ). Insomma, gli atti singoli presuppongono un quid nella natura dello spirito ; o questo quid è la volontà . ( 1) Filos. d. vol., I , 63 e ss . (2) Psych , emp., SS 279 e 281. ( 3) Filos. d . vol. , I , 65 . ( 4) I , 112. L'autore s'accorge che questo potere della volontà si esercita indiretta PASQUALE GALLUPPI 263 ci parla di sensazioni volontarie e sensazioni involontarie ; e come i desiderii sono un effetto delle sensazioni , trova che vi sono e desiderii volontari e desiderii involontari; e come anche i fan tasmi seguono le sensazioni , anche tra i fantasmi pone la stessa distinzione nel campo dell'immaginazione. 82. Quando si passa dalla sensibilità alle facoltà dell'analisi e della sintesi , non si tratta più di un potere indiretto , ma im mediato della volontà sull'intelletto ; e dicesi attenzione ; nel cui studio l'autore si trattiene con diligenza e acutezza , che fan degne quelle pagine di esser lette ancora , pur dopo tanto progresso nella conoscenza dei fenomeni psicologici . E come l'analisi e la sintesi sono le due attività spirituali onde vengono prodotte tutte le conoscenze, l'impero su di esse vale l'impero su tutto il co noscere . 83. Che più ? L'associazione è anch'essa volontaria e involon taria. L'abito , questa seconda natura morale , può dirsi anch'esso volontario , quando consta della ripetizione volontaria di atti vo lontari ; e conferisce a quell'educazione onde ognuno è responsa bile , poichè egli ne è l'artefice. I giudizii temerarii sono colpevoli, perchè volontari ; in essi l'attenzione si volge a fantasmi , cui non dovrebbe rivolgersi , e l'uomo vuol manifestare i giudizii che da quei fantasmi deriva , confondendo l'immaginare col giudicare. Infine , da questo impero della volontà sull’intelletto la distin zione dei moralisti di ignoranza vincibile e invincibile ( 1 ) . 84. In quanto all'influenza dell'intelletto sulla volontà , è chiaro : che la vita dello spirito , come nota il Galluppi , comincia dalle sensazioni . Ora queste , secondo che sono piacevoli o no , deter minano lo sviluppo dell'attività dell'anima ( 1 ) ; suscitano i desiderii che influiscono sulla volontà. Quindi nasce il problema : in quanti modi l'intelletto influisce sulla volontà ? E se ciò che nel no stro spirito dispone o eccita la volontà all'atto di volere, dicesi principio attivo della volontà, si domanda : quanti sono i prin cipii attivi della volontà ? E non sono riducibili tutti ad un solo principio , come sue varie modificazioni ? 85. Elvezio concentrò tutti i principii dello spirito nella fi sica sensibilità . Ma, « annientata così tutta l'attività dell'anima, e mente ; ma non vede che pertanto in questi casi trattasi d'un impero del volere sul corpo , e non propriamente sull'intelletto . ( 1) Tutta questa dottrina dell'influenza della volontà sull'intelletto è anche negli Elem . , capp. II-VII. 264 CAPITOLO VII l’uomo riguardato come solamente sensitivo ed animale , la virtù negli scritti di Elvezio scomparve dall'universo, e vi fu rimpiaz zata da un grossolano egoismo » ( 1 ) . L'uomo per Elvezio è tutto ciò che le cause esterne lo fanno essere . Egli ricava le conse guenze logiche più rigorose dal sensismo del Condillac, che uso tutti i riguardi per la morale e per la religione, ma non ragionò coerentemente al suo principio della sensazione trasformata . Elvezio parte dallo stesso principio , e ne deduce illazioni che fanno or rore (2 ) 86. Ma, come è falso nella filosofia intellettuale che tutto sia sensibilità fisica o da essa derivi , com'è falso ridurre il giudizio che è attività sintetica e analitica, al mero fatto passivo della sen sazione, così è falso nella filosofia pratica non distinguere dalla passività del senso l'attività e la libertà della volontà , e non ri conoscere l'origine soggettiva del dovere ( 3) . 87. Non è vero che tutto lo spirito sia sensibilità ; e perciò il presupposto elveziano è privo di fondamento . Non è vero che i piaceri e i dolori che agiscono sul volere , sieno in ultima ana lisi sempre piaceri o dolori fisici provenienti da sensazioni ; è incontrastabile, che vi sono anche piaceri o dolori intellettuali provenienti da pensieri ( 4) . Quindi una prima divisione dei prin cipii motori della volontà o motivi : desiderii inriflessi, quelli in cui lo spirito è passivo , e principii riflessi, in cui lo spirito è at tivo. I primi si possono dire anche semplicemente desiderii, gli altri , ragioni ( 5) . I principii irriflessi si possono ridurre a sette ; appetito fisico ( fame, sete , amor fisico ), desiderio della propria ec cellenza, curiosità , sociabilità, desiderio della gloria , emulazione e potere, affezioni. 88. La ragione è principio di atti volitivi come principio eco nomico e come principio morale ; o , come il Galluppi dice , in quanto esamina ciò che conviene alla nostra felicità , fa il cal colo dei beni e dei mali , e dirige le nostre azioni a produrre un certo stato dell'anima ; e allora si chiama prudenza ; e in quanto ci mostra il bene e il male morale , e ci comanda di far l'uno e non far l'altro ; e allora può dirsi ragione legislatrice della nostra volontà (6) 89. I principii della prudenza sono quattro : un piacere che ci priva di maggiori piaceri è un male ; un piacere che ci pro ( 1 ) Op. cit . , I , 175. ( 2) I , 193. ( 3) I , 194. ( 4) I , 238 . ( 5) I , 286-7. ( 6) I , 318. PASQUALE GALLUPPI 265 duce maggiori dolori , è un male ; un dolore che ci libera da mag giori dolori , è un bene ; un dolore che ci produce maggiori pia ceri , è un bene ( 1 ) . 90. A questo punto l'autore si propone la questione della li bertà , alla quale , come s'è detto , dedica la maggior parte del l'opera sua , ma della quale noi ci sbrigheremo in poche parole . Questa è la parte più vecchia della sua filosofia, e una delle meno logicamente dedotte dai principii della sua speculazione . In essa egli sentì la forza del pregiudizio come impedimento insormonta bile alla visione della verità più evidente ; e ci si vede la soprav vivenza di una vecchia dottrina, che mal si connette all'orga nismo del nuovo pensiero ; anzi vi rimane aggiunta e giustap posta come membro morto che l'artificio collochi al posto di quello che manca in un corpo vivo . 91. Dal suo concetto dell'unità metafisica dell'Io, dal suo con cetto delle facoltà come semplici principii costitutivi della natura dello spirito , il Galluppi avrebbe dovuto esser condotto a più elevato e concreto concetto della libertà, che non sia quello da lui ancora difeso a forza di sottigliezze ingannevoli e d'illusorii ragionamenti. Egli vede la distinzione tra sensibilità , intelletto e volontà, di cui fa tre facoltà distinte , ma pur facendole scatu rire dall'unico Io , non giunge a scorgerne la recondita unità . E veramente , separato l'intelletto dalla volontà, da cid che v'ha di umano, di spirituale nella volontà , non è possibile altro con cetto di questa , all'infuori di quel vuoto volere , che è il fonda mento della libertà bilaterale. 92. Questa è la libertà a cui giunge il Galluppi : la libertà per cui nell'atto stesso che vogliamo , potremmo non volere ; quel po tere, che non si esercita , e la cui essenza stessa è di non esercitarsi nel momento stesso che lo sentiamo ( 2) . Questa libertà del volere è determinata nettamente dal suo confronto con la necessità del sillogismo . La coscienza ci attesta, che noi non siamo liberi di tirare o non da due premesse quella data conclusione , laddove ci attesta il contrario rispetto ai singoli atti del volere . E siccome ( 1 ) I , 318. Nella Filosofia della volontà tutto finisce con la enumerazione di queste leggi. Negli Elementi invece, come si disse, tutto il capitolo VI è dedicato ai Mezzi per esser felice ( pp. 210-292). Quivi fra i piaceri intellettuali si annovera il piacere estetico ; e quindi i 88 71-85 contengono una breve trattazione di estetica. ( 2) Elem . , V, 123. « La libertà , io dico, è il potere di volere, o di non volere un og getto percepito ; Filos. d. vol. , II , 811. 266 CAPITOLO VII la coscienza è quel fatto fondamentale, a cui il filosofo deve sem pre far capo, la sua testimonianza basta a provare la realtà della libertà ( 1 ) . Tutti gli argomenti contrari non reggono alla critica 93. Ma negli Elementi il Galluppi , prima di appellarsi al te stimonio della coscienza, ricorre a un argomento , che rivela su bito la paternità kantiana. Nella coscienza del dovere e del pre mio o delle pene che spettano alle azioni si comprende , egli dice, la coscienza della nostra libertà . « Non si comandano le azioni necessarie , come non si comanda ad un sasso il cadere se non è sostenuto . Le azioni necessarie non sono riguardate come meri tevoli nè di premio, nè di pena.... La coscienza della legge in teriore contiene la coscienza della propria libertà . Il comando suppone in colui , a cui è diretto , il potere di eseguirlo e di non eseguirlo » . Devi ; dunque , puoi, aveva detto Kant . 94. Non bisogna , del resto , porre il Galluppi fra le anticaglie pel suo concetto della libertà . L'indeterminismo anzi è una delle con cezioni oggi alla moda ; e non manca in Italia di rappresentanti ; i quali si sforzano di combattere il concetto della direzione unica ed unilineare degli atti del volere , ponendo nello spirito un irri conciliabile dualismo, che lacera internamente l'unità dell'indi viduo umano, e sta quasi condizione necessaria, se non sufficiente , della libertà morale ( 2) . E ancora uno dei più acuti psicologi che abbia l'Italia , afferma che il concetto del volere libero , « cioè non coatto estrinsecamente (libertas a coactione), nè intrinsecamente (li bertas a necessitate) è una verità , la quale, sebbene accanitamente combattuta da molti e sotto molti rispetti , resterà sempre incon cussa per chi , scevro da pregiudizii e forte nelle convinzioni morali , non si lascia smuovere da' sofismi ne turbare dalle difficoltà » ( 3) . Il vero è , che una questione mal posta non può aver mai la sua vera soluzione ; e potrà sempre far accettare or l’una or l'altra di due opposte soluzioni. Quella del libero arbitrio è stata ap punto una questione mal posta, per l'indeterminatezza del con cetto del volere , su cui si fondava. Giacchè, se si determina rigoro samente il volere, è impossibile escluderne la ragione , e non vedere quindi , che se han torto gl’indeterministi a difendere la libertas ( 1) Filos., II , 21 , 329 e passim ; cfr. gli Elem ., V, 123. ( 2) Vedi la lodata opera del prof. IGINO PETRONE, I limiti del determinismo scienti rico , Modena, 1900, pp. 105-6 ; 2.a ed ., Roma, 1903, pp. 110-111; cfr . BOUTROUX, De la con lingence des lois de la nature, Paris, 1895 , pp . 123 e sgg. ( 8) BONATELLI, Elem . di Psicologia e logica , Padova, 1895 , p. 210. PASQUALE GALLUPPI 267 a necessitate, non hanno minor torto i deterministi a combattere la libertas a coactione : gli uni perdendosi in una vuota creazione dell'intelletto astratto , gli altri rompendo nello scoglio fallace del meccanismo. E dire che non è mantato chi ponesse bene la questione , e le desse quindi una soluzione da soddisfare le oppo ste esigenze e dissipare tutte le difficoltà ! 95. Stabilita , comunque , l'esistenza della libertà morale, si tratta pel Galluppi di risolvere questo problema: esiste un bene e un male morale ? E ne chiede la soluzione , anche questa volta, alla coscienza . L'esistenza del bene e del male morale, e per conseguenza di una legge morale naturale, è una verità primitiva attestataci dalla nostra coscienza ( 1 ) . Darne una dimostrazione è impossibile, senza avvolgersi in circoli viziosi , al pari di chi vo lesse provare allo scettico l'esistenza e la realtà del nostro cono scere . La coscienza ci dice che esiste una legge morale naturale, ossia necessaria ed originaria che si dice dovere : indipendente dalla legge positiva , come dall'opinione altrui , valida nel segreto dell'anima nostra . Donde viene a noi la nozione di essa ? Chi indipendentemente dalla legge positiva mi comanda di non ucci dere un uomo, di rendergli il deposito , che mi ha confidato ? È la mia ragione , la quale comanda alla mia volontà . « Son io che comando interiormente a me stesso . Questo comando non mi viene dunque dal di fuori ; ma dall'interno del mio essere » . Il predi cato dei giudizii morali è l'idea del dovere ; e questa idea viene da noi , dice il nostro filosofo , non dagli oggetti. « La nozione del dovere , egli dice anche esplicitamente , è una nozione soggettiva essenziale alla nostra ragione » ( 2) . Meglio non si potrebbe dire. Altro che rancidume, e idealità patristica e scolastica ! Nessuna più esplicita e più coraggiosa proposizione avrebbe potuto pro nunziarsi in omaggio al moderno, al vero soggettivismo . Sog gettivo il dovere , ma anche essenziale : questa è la giusta defini zione non solo del vero soggettivo, ma anche del vero oggettivo , dopo Kant, quando bene s'intenda . E nella morale il Galluppi riproduce Kant bene inteso , senza esitazioni e senza limitazioni. Annunziata la soggettività del dovere egli dice con accento di sincerità commovente : « È questa una verità per me evidente , e credo che tale sembrerà a chiunque vi rifletta di buona fede » ( 3) . ( 1 ) Filos. d. vol ., IV , 38. ( 2) IV, 41 . Il corsivo è dello stesso Galluppi. ( 3) Ivi . Tutto ciò trovasi anche negli Elementi, V, 91 . 268 CAPITOLO VII 96. La nozione del dovere rende la ragione ragion pratica o legislativa (tutta terminologia kantiana, come si vede). Essa è essenziale alla ragione, e perciò potrebbe dirsi innata. Ma non sono già innati i principii della morale , ossia i singoli doveri . Non uccidere : se questo precetto fosse innato , dovrebbe esser tale anche l'idea di omicidio, la quale ci viene invece dall'esperienza. « L'uomo è però costituito di tal natura , che la nozione del do vere sorte, nelle occasioni , dal suo proprio fondo » ( 1 ) . Insomma, quel che vi ha di a priori in Galluppi, come in Kant , è la forma del giudizio pratico ; e la materia è data dall'esperienza . In che consista il dovere, non è determinato in quella nozione sogget tiva ed essenziale , che costituisce la Ragion pratica. Di a priori nello spirito e quindi di essenziale nei fatti etici non havvi che il predicato onde si giudicano le azioni morali : cioè appunto la forma. Soggettivista come Kant, Galluppi è del pari formalista nella morale . 97. « La nozione del dovere, egli dice , sorte dall'interno di noi medesimi, ed applicandosi alle azioni che si presentano allo spirito costituisce quei giudizii, che sono precetti o comandi » ( 2) . « Questi precetti, in conseguenza, son proposizioni sintetiche; poi chè essi sono un prodotto necessario della sintesi della ragione, che aggiunge ad alcuni dati atti liberi l'elemento del dovere... Questi giudizii , sebbene suppongano alcuni dati sperimentali, non sono però sperimentali; essi possono, in conseguenza, riguardarsi come giudizii a priori » ( 3) , - Questa dottrina non ha bisogno di commento. In essa l'implacabile avversario del Saggio filosofico riconosce la verità del sistema di quel grande uomo, com'egli lo chiama nella Morale , che fu Kant ( 4) , « In varie parti delle mie opere filosofiche, dice nella Filosofia della volontà ( 5) , io ho mo strato l'assurdità de' giudizii sintetici a priori , ammessi dalla scuola di Kant ; ma i giudizii sintetici di cui ho io parlato nelle mie opere di filosofia teoretica, sono giudizii teoretici , non già giudizii pratici » . E negli Elementi di morale, al $ 37 : « I giu dizii sintetici a priori teoretici mi sembrano assurdi . Ma dal l'esame profondo della nostra facoltà di volere son forzato di am mettere i giudizii sintetici a priori pratici, i quali son precetti. Mi sembra impossibile lo stabilire altrimenti la moralità delle azioni » . ( 1 ) Elem ., V, 92. (2) Ivi, ibid. (3) Filos. della vol. , IV , 46 ; Elem . , V, 120. ( 4) Elem ., V, 75. ( 5) IV, 46 . PASQUALE GALLUPPI 269 98. Fuori di questo soggettivismo morale il Galluppi , come il Kant, non vede altro che eudemonismo, o morale dell'interesse, come egli dice ; e questa gli pare soltanto una morale apparente (1). Quando s'intende la giustizia come un interesse bene inteso, si fi nisce necessariamente col sommettere la giustizia a qualche cosa che non è la giustizia . Distinguendo l'interesse bene inteso dal male inteso , « non si pongono in opposizione due interessi diffe renti ; al contrario, si pone in fatto, che non vi ha che un in teresse unico , che l'uomo giusto e l'uomo ingiusto hanno egual mente in veduta ; e che fra essi non vi ha che questa differenza , che l'uomo giusto è un uomo accorto , e l'ingiusto un imbecille » ( 2) . 99. Ora contro questa concezione morale militano tre argo menti. 1. ° « La volontà dell'uomo virtuoso differisce intrinseca mente da quella dell'uomo vizioso » . Laddove nella morale del l'interesse la volontà di entrambi è unica ; perchè entrambi vo gliono la cosa stessa : il proprio utile . 2. ° La virtù vera è una dote del volere ; e nella morale dell'interesse, invece , sta tutta nell'accortezza dell'operare ; poichè col cuore più perfido si può saper fare il proprio utile ( 3 ) . 3. ° La legge morale dee essere asso luta ed universale . Invece la morale utilitaria « è fondata su la situazione ipotica dell'uomo , la quale, cambiandosi, cambia pari menti nell'uomo il principio di direzione, e la virtù diviene vizio , il vizio virtù » . Sicché la morale utilitaria è falsa , distruggi trice di ogni vera virtù si privata che pubblica ( 4 ) . La virtù è causa della felicità ; poichè , se diviene mezzo, cessa di essere virtù ( 5) . 100. La morale è essenzialmente disinteressata : la virtù è amabile per se stessa, indipendentemente dal premio, che la segue. Ma « la coscienza di averla praticata dev'essere un piacere puro distinto dal piacere preveduto dal premio , ed indipendente da questo » ( 6) . Nella Filosofia della volontà ( 7 ) l'autore sostiene che se il principio dell'utile non può produrre la virtù , nondimeno può concorrere col principio del dovere a produrla. Non manca tuttavia di notare che tale concorrenza « non impedisce, che l'azione sia prodotta dal principio disinteressato del dovere; poichè il princi ( 1 ) Filos. d. vol., IV , 104. ( 2) Op. cit . , IV , 105 . ( 3) Il Galluppi non ammetto che dall'utile proprio possa nascere l'utile altrui , che l'egoismo, come ora si direbbe, possa generare l'altruismo . « L'uomo nulla può amare fuori di se stosso se non per se stesso » . Fil. d . vol ., IV, 105 . ( 4) Op. cit . , IV, 107-9 ; Elementi, V, 8 32, pp. 98-103. ( 5) IV , 113. ( 6) IV , 147. ( 7 ) IV, 164. 270 CAPITOLO VII pio dell’utile in tal caso toglie solamente o diminuisce gli ostacoli all'esercizio della virtù » ( 1 ) . Sicché , insomma, non è una vera e propria concorrenza : l'azione morale è effetto unicamente del principio del dovere assoluto e universale, categorico. Pare che il Galluppi si opponga alla rigidezza razionalistica della morale del Kant ; ma in realtà sono d'accordo nella medesima dottrina. 101. Negli Elementi l'autore pare accenni veramente al Kant, dove dice ( § 33) : « Alcuni filosofi alemanni hanno preteso che l'ubbidienza al dovere dee esser l'effetto del puro rispetto della ragione per la legge , senza alcuna specie di piacere , nè di amore. Una tal dottrina è falsa , e contraria alla testimonianza irrefraga bile della coscienza » . Ma egli spiega così il suo pensiero : « Non si dee esser giusto e benefico , per esser felice ; poichè anche quando la moralità non fosse una sorgente di felicità , non si do vrebbe abbandonare . Ma più la virtù sarà pura e disinteressata, più vivo sarà il piacere , che risulta dalla coscienza di averla praticata ..... Il piacere unito all'esercizio del proprio dovere di spone all'azione doverosa la volontà dell'essere ragionevole..... Ma non bisogna confondere le conseguenze di un fine col fine stesso .... L'uomo virtuoso vuole il dovere per se stesso : e questo è il fine ultimo della sua volontà ; egli , in conseguenza, non fa il dovere per lo piacere ; ma il piacere non lascia di accompa gnare la pratica del dovere » . Ora questa dottrina è in opposi zione a un kantismo mal inteso : al kantismo cui s'allude dallo Schiller nel famoso epigramma sullo Scrupolo di coscienza . Ma il Kant, in verità, non ammetteva meno del Galluppi quel piacere che consiste nella soddisfazione che ci dà la coscienza d'aver adem piuto il proprio dovere; ma come il Galluppi teneva a distinguere questo piacere morale consecutivo all'azione virtuosa dal piacere patologico a cui uò essere ispirata un'azione non virtuosa (2) ; ad affermare che il sentimento morale è conseguenza non principio ( 1 ) IV , 165. ( 2) P. es. nella prefazione alla Tugendlehre scrive : « Ich habe an einem Orte ( der Berlinischer Monatsschrift) den Unterschied der Lust, welche pathologisch ist, von der moralischen, wie ich glaubo, auf die einfachsten Ausdrücke zurückgeführt. Die Last nähmlich , welche vor der Befolgung des Gesetzes hergeben muss, damit diesem gemässgehandelt werde, ist pathologisch , und das Verhalten folgt der Naturordnung ; diejenige abor , vor welcher das Gesetz hergeben muss, damit sie empfunden werde, ist in der sittlichen Ordnung » . Werke ( ed . Rosenkr. ), IX , 221; cfr . Krit. pr. Vern . , in Werke, VIII , 152-3. PASQUALE GALLUPPI 271 della moralità . Il Kant bensì osservava che il piacere per l'atto virtuoso compiuto e il rimorso per il delitto presuppone che si sappia apprezzare il valore del dovere e l'autorità della legge mo rale'; ond’è che la legge morale è il fondamento di questi senti menti, non viceversa. Si deve essere , dice il Kant , almeno per metà di già galantuomini per potersi fare un'idea di tali senti menti . Osservazione che mi pare perentoria contro ogni specie di eudemonismo ( 1 ) . – Sicché, anche per questo rispetto, la morale del Galluppi riproduce quella del Kant. 102. Nella morale il Galluppi si attiene al criticismo del Sag gio filosofico . La sua morale, come quella di Kant , è indipendente dall'esistenza di Dio. All'ateo, con la sola considerazione dell'umana natura può provare l'esistenza del bene e del male morale, in dipendentemente dalla considerazione dell'utile ( 2) ; perchè l'ateo , qualora non voglia esser sordo alla voce della coscienza, non può non riconoscere una legge morale, che gli comanda di esser giu sto e benefico . Giacchè il dovere si conosce per se stesso , è un elemento semplice di tutte le verità morali , che sgorga dall’in timo di noi stessi . Le difficoltà da altri incontrate a dedurre dalla natura umana per sè considerata la legislazione morale, derivano dalla inesatta e incompleta comprensione di questa natura ; cui si attribuisce solo il principio dell'utile e si nega il principio mo rale . « Si parte dal principio che nella natura umana non vi può essere altro principio razionale di azione che quello della pro pria felicità ; ora qual meraviglia che partendo da un principio insufficiente a generare il dovere non si giunga ragionando con conseguenza ad una verità pratica ? » ( 3) . Anzi , secondo il Gal luppi , l'idea di Dio non è sufficiente a spiegarci l'origine del do vere : perchè una conoscenza teoretica non è sufficiente a generare un principio pratico. 103. Ma, diceva il Genovesi, la ragione umana è fallibile : è spesso traviata dal personale interesse ; epperd i suoi dettami non possono essere norma delle nostre azioni . E il Galluppi replica , che questo scoglio non si evita certo con la tesi dell'origine di ( 1 ) Cfr. del resto questo passo del GALLUPPI: « I difonsori della moralo dell'interesso bene riguardano il rimorso come motivi , che debbano determinar l'uomo a fare il proprio dovero ; ma noi sostenghiamo, che l'uomo virtuoso dee fare e fa il proprio dovore per se stesso , indipendentemente dagli effetti che seguono dalla pratica della virtù e da quelli del vizio » Filos. d. vol. , IV , 241. ( 2) Filos. d. vol. , IV , 238. ( 3) IV , 250 . 272 CAPITOLO VII vina della morale . Perchè la legge morale bisogna sempre che sia conosciuta dagli uomini ; e conosciuta , naturalmente, per mezzo della loro ragione . Nè maggior valore ha l'argomento a cui ar restavasi il Tamburini : che non si può concepire legge senza legi slatore . Il legislatore , dice il Galluppi , è essa la ragione , in quanto ragione pratica . 104. Un ultimo punto d'incontro del Galluppi col Kant è il seguente . Secondo il filosofo italiano è un principio essenziale della ragion pratica che la virtù è degna di premio , il vizio è degno di pena : giudizio sintetico a priori. Ora, se noi crediamo a questo principio , dobbiamo pure credere all'immortalità del nostro spirito ; perchè l'uomo virtuoso in questa terra non è sempre felice, nè sempre sfortunato il malvagio. Che il vizio dev'esser punito intanto è indimostrabile, come che la virtù debb’esser premiata : è indimostrabile, perchè è un giudizio sintetico . Ma è legge inalte rabilmente impressa nella realtà del mio essere ; è la voce di quella ragion pratica, che è la legislatrice delle nostre azioni , e che non ci pud ingannare, se la virtù non è nome vano . Uno stato è ne cessario in cui quel principio abbia il suo valore reale , la sua piena esecuzione . Inoltre , io trovo nel santuario del mio essere la necessità d'una ricompensa della virtù e d’una punizione del vi zio ; vi trovo pertanto la necessità di un giudice supremo. Vi è dunque un'intelligenza suprema, infinita , assoluta , che si manifesta a tutti gli esseri intelligenti . Questo supremo legislatore e giu dice è Dio ( 1 ) . È, comesi vede , su per giù , la teoria kantiana dei postulati della ragion pratica. 105. Ma il Galluppi sente la difficoltà che s'oppone a una de duzione teoretica da un'esigenza morale, e si domanda : possiamo noi su la semplice esistenza delle nostre affezioni in noi, stabilire la realtà degli oggetti di esse ? Anche al Kant si affacciava un problema simile ; e faceva escogitare quella teoria del primato della ragion pratica sulla ragion teoretica, che è una vera rinun zia a ogni diritto di vero e proprio filosofare , e perciò a ogni fondamento filosofico della stessa morale ( 2) . Il Galluppi non fa motto di questa teorica , forse convinto della sua manchevolezza, e tenta ogni via per distrigarsi dalla difficoltà ravvisata . Ma non pare che le ragioni trovate lo persuadano bene. Giacchè , infine, ( 1 ) Elem ., V, § 42, pp. 138-40 . ( 2) Vedi le ottime osservazioni del prof. SEBASTIANO MATURI , Principii di filosofia , Napoli, 1837-98, pp. 14 e sgg . PASQUALE GALLUPPI 273 1 si prova a dimostrare l'immortalità dell'anima, indirettamente, dimostrando che non si può provarne la mortalità . Se pure que sta può dirsi dimostrazione. 106. Egli dice in sostanza, dopo qualche esitazione : l'esperienza ci mostra che gli oggetti delle nostre affezioni sono reali ; ma fra le nostre affezioni c'è la tendenza alla immortalità ; dunque l'anima è realmente immortale. Bisogna riconoscere che in gene rale le nostre tendenze naturali non sono defraudate del loro oggetto . Una di queste tendenze è la curiosità . E « non possiamo noi forse, dice il Galluppi, spesso soddisfare la nostra curiosità ? » . Questo spesso , veramente , guasta, e non poco , l'argomentazione dell’autore ; il quale si contenta di constatare con l'esperienza : « non vi ha alcuna tendenza nel cuore umano la quale non possa qualche volta raggiungere l'oggetto cui ella tende » . Qualche volta ! Dunque l'asserzione dell'immortalità dell'anima non è nulla d'apodittico : è meramente problematica . Per dirla schietta, il nostro filosofo è convinto che « il domma dell'immortalità » im porti alla filosofia morale « come il più fermo sostegno della virtù infelice ed un freno potente alla licenza del vizio » ; ma chiuso nel suo sperimentalismo, ignaro degli espedienti mal fidi del Kant, non sa fondare teoricamente il suo principio , non sa darne una giustificazione filosofica ; più filosofo nella sua impo tenza degli odierni prammatisti, che con la maggiore disinvoltura creano una metafisica per uso e consumo della morale, quasi che lo spirito avesse fine più degno del vero ; quasi che il bene potesse fare a meno di essere il vero bene. 107. Stabiliti comunque i suoi principii generali della morale, che , come s'è notato , sono principii essenzialmente formali, come tutti i principii soggettivi, si può rimproverare al Galluppi ch'egli ne deduca i singoli doveri ( 1 ) . Ma anche in questo egli s'accorda col Kant, la cui Dottrina della virtù , nella seconda parte della Meta fisica dei costumi, per quanti sforzi facesse l'autore di salvare il suo formalismo , è in assoluta contraddizione col principio for male da cui si vuol derivare . Il formalista così nella logica come nella morale deve lasciare alla storia il compito di dare un con. tenuto alle leggi soggettive , epperò necessarie ed universali, dello spirito . 108. Certo , con tutti i suoi difetti , che non sono solamente suoi, anche nella morale il Galluppi rappresenta un progresso immenso ( 1 ) Elem . della filos. morale, cap. V. 18 274 CAPITOLO VII sui filosofi precedenti. In conchiusione , egli con le sue ispirazioni kantiane, co'suoi studi accuratissimi su tutta la moderna gno seologia post-cartesiana si libera dalle angustie del sensismo e dello spiritualismo dommatico ; e inizia in Italia un nuovo periodo speculativo ; nel quale il nostro pensiero, rinsanguato delle idee più vitali della filosofia tedesca . si solleva col Rosmini e col Gio berti a un'altezza non più toccata da noi dopo i grandi pensatori del Rinascimento.Galluppi. Pasquale Galluppi. “Galluppi errs in calling natural semiotics, ‘il linguaggio dell natura,’ since no tongue is involved!” But we can forgive him for that since he genially realizes, unlike King Alfred, that one can use ‘dire’, ‘con questo moto del ditto, egli dice al compagno che vada da B in C” Segno figurato, motto dei bracci quando imito il moto de pesare para figurar paragonare. – Grice: “Gallupi’s scheme is a complex, and much better than Locke. He notes that ‘natural’ can apply to ‘sign’, and it is a natural fact that men will start using ‘natural’ signs in an artificial way – this he calls ‘natural sign’ – in that it is already an utterer making the gesture, as when he sneezes, intentionally. Galluppi has always in mind the dyad, what he calls il ‘compagno’ – so he plays with fifty variants on a theme. A makes a gesture – with the finger, with the arm --. Galluppi speaks of the ‘proposizione’ being communicated even in these cases – a ‘grido’ is equivalent to the proposizione that the compagno is to ‘turn his attention towards the utterer’ – In the ‘natural’ sign, as used in communication, we are already in the realm of the artificial – only a black cloud naturally means rain – Galluppi hardly dwells on a ‘grido’ signifying pain in a natural way. He notes that we progress. And he keeps looking for the reasons in the utterer and the addressee for all this. So like me, he looks for a motivational rationale – a ‘semantic’ freedom – or ‘prammatica’ as he would say. Since he is an illuminista, he is only concerned about this in terms of a minimal taxonomy of signs. So between the signs used in communication he distinguishes three types: the imitative, the indicative (different criteria) and the figured sign – not figurative – ‘segno figurato’ – when a lot of pantomime takes place. It is only THEN that he explores the arbitrariness: one loses one’s compagno, and utters, “Where are you?” – so since this worked, they agree that ‘Where are you’ will mean, “I lost you – where are you?” --. And then we have a full lingo – or semiosis. He rightly thinks that his is an improvement over Lucrezio!”  Pasquale Galluppi. Galluppi. Keywords: gesto, grido, gemito, moto del ditto, dolore, causa del dolore, circustanza, segno naturale, segno istituito, segno commune (istituito per la comprensione mutua), segno arbitrario, segno artificiale, segno imitative, segno indicatore, segno figurato, segno analogico, segno figurativo -- gesto della mano, lo sguardo, communicare, sentire, volere, Gentile, il canone nella storiografia filosofica italiana – Gentile su Galluppi. Refs.: Luigi Speranza, "Grice e Galluppi," per Il Club Anglo-Italiano,The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51758115582/in/dateposted-public/

 

Grice e Galvano – arte naturale – filosofia italiana – Luigi Speranza (Torino). Filosofo. Grice: “I like Galvano; he has philosophised on aesthetics, on ‘spirit and blood,’ and on polytheism, citing Sallust!” Frequenta la scuola a via Galliari, animata da Casorati.  Fonda L'Unione Culturale di Torino.  Promuove il “Movimento Arte Concreta” – cf. Arte Astratta – Insegna all’Accademia Albertina. Dizionario Biografico degli Italiani.  FONDAZIONE GIORGIO AMENDOLA E ASSOCIAZIONE LUCANA CARLO LEVI    Pino Mantovani  Luca Motto       Albino Galvano  Fare, pensare, vivere la pittura                "i P____—_ mm gr s_———m dz de __—2zpA—A_t}    PA    "o    Scritti di    PINO MANTOVANI  LUCA MOTTO  ALESSANDRO BOTTA  ADRIANO OLIVIERI    ALBINO GALVANO    Fare, pensare, vivere la pittura    Aver puntato il senso della propria vita sui segni e sui colori    sarà stata magari una puntata inutile ma non elusiva e non insincera  | [ALBINO GALVANO, 1980]    FONDAZIONE GIORGIO AMENDOLA    AssociaziIoNE LUCANA IN PieMONTE Carto LEVI    MOSTRA D'ARTE  TRENTENNALE DI ALBINO GALVANO    Torino, marzo-giugno 2021  presso la Sala Mostre dell’Associazione Lucana Carlo Levi e della Fondazione Giorgio Amendola    Con il Patrocinio di Con la collaborazione di    REGIONE CONSIGLIO wc I GALLERIA | NE }  CITTA DI TORINO olii  MIN FEONIE DEL PIEMONTE att Sen    DEL PIEMONTE   Il 2020-21 è stato un biennio segnato dalle notevoli difficoltà imposte dalla pandemia da  Covid-19. Alla luce delle molte restrizioni, la Fondazione Giorgio Amendola ha cercato, nel limite  del possibile, di proseguire con le proprie attività di divulgazione e promozione culturale adattando  spazi e metodologie alle esigenze del periodo, rispondendo all'emergenza coronavirus con iniziative  dinamiche e creative, passando per la fruizione digitale per permettere agli utenti di restare a casa,  come le disposizioni prescrivono, senza perdersi dei contenuti culturali.   Sotto questa prospettiva e, nonostante le molteplici difficoltà, il lavoro svolto per ricordare, a  trent'anni dalla sua scomparsa, l'artista torinese Albino Galvano (1907-1990) è stato importante.  La Fondazione Giorgio Amendola ha ritenuto opportuno offrire alla città di Torino e non solo, la  possibilità di accedere gratuitamente all'incontro con l’opera artistica e intellettuale di una delle figure  di spicco del panorama artistico italiano della seconda metà del novecento. L'iniziativa, di rilievo  nazionale, ha permesso di raccogliere artisti e intellettuali di tutta Italia che hanno collaborato con  Galvano e che tuttora ricoprono un ruolo fondamentale nella produzione culturale del nostro Paese.          Prospero Cerabona  Presidente della Fondazione Giorgio Amendola    Studi, Convegni, Ricerche  della Fondazione Giorgio Amendola e  dell’Associazione Lucana Carlo Levi    54  Presidente Fotografie delle opere  PROSPERO CERABONA MARCO CORONGI  Curatore mostra e catalogo Direttore Responsabile  PINO MANTOVANI PROSPERO CERABONA  Scritti di Redazione  PINO MANTOVANI, LUCA MOTTO, ALESSANDRO BOTTA, ADRIANO OLIVIERI DOMENICO CERABONA, MARIA SOFIA FERRARI    Progetto ed allestimento    PINO MANTOVANI, LUCA MOTTO, EDITRICE IL RINNOVAMENTO —”  Fotocomposizione    © EDITRICE IL RINNOVAMENTO    Ente promotore  Fondazione Giorgio Amendola VIDEOIMPAGINAZIONE GRAFICA DI TESTI E IMMAGINI  Associazione Lucana in Piemonte Carlo Levi VIA TOLLEGNO 52 - 10154 TORINO TEL. 0112482970 — cerabona@libero.it    Si ringraziano per il prestito delle opere e la collaborazione: Galleria del Ponte (Torino), Civica Galleria d'Arte Contemporanea Filippo Scroppo  (Torre Pellice), Stefania e Stefano Testa, Liliana Dematteis, la famiglia Maggiorotto e tutti gli altri prestatori che hanno preferito restare ano-  nimi. Si ringrazia Francesca Barzan per la realizzazione delle docu-interviste.    Sommario    Albino Galvano e la pittura Pino Mantovani  Albino Galvano: la fedeltà alla pittura Luca Motto  Da discepolo a interprete. Albino Galvano e Felice Casorati Alessandro Botta    Gli occhi fervidi e il sapore di cenere.  Albino Galvano: Decadentismo, Simbolismo, Art Nouveau Adriano Olivieri    Opere esposte       ARTE DI VENEZIA 1954    GATMAZH TEAOZ GANATOZ    XXVI: ESPOSIZIONE INTERNAZIONALE D    GALVANO ALBINO    BIENNALE    (267) Foto Giacomelli - Venezia    FOTOTECA ASA.    Albino Galvano e la pittura  Pino Mantovani    Da pittore, Albino Galvano pone tre livelli d’inda-  gine; come qualsiasi artista intelligente, se non fosse  che, nel caso suo e di non molti altri, i tre livelli si  presentano specialmente complessi e coltivati con con-  sapevole separatezza e problematica interconnessione:   Il primo livello comporta chiedersi che pittore  Galvano sia stato e, ovviamente, interrogarsi sulla  specie e sulla qualità della pittura (delle pitture) che  ha messo in opera nel lungo percorso, sicuro e tortuo-  so, che lo ha impegnato pressoché ininterrottamente  dalla fine degli anni Venti (era nato nel 1907) fino alla  morte, nel 1990.   Il secondo livello comporta mettere a fuoco la  concezione (le concezioni) ch'egli ha elaborato della  pittura, in quanto da critico (e autocritico: nella sua  scrittura, l’autoritrattoè un vero e proprio genere!) si è  occupato dell’arte, in particolare della pittura, conuna  intensità, una pervicacia, una curiosità sempre sveglia,  direi aggressiva, in un'epoca provocatoria e insieme  minacciata dalla condiscendente banalizzazione.   Ma, forse, il nodo più difficile da sciogliere è  quale rapporto ci sia tra il praticante pittura (‘[...]  è questa l’arte — scrive di sé nel ‘46 — della quale ab-  biamo, bene o male, una qualche esperienza vissuta  e [...] non crediamo se non ai discorsi che nascono  da questa esperienza”, dove si radica anche la mi-  litanza del critico) e il teorico che usa gli strumenti  del filosofo, dell’antropologo, dello psicanalista, dello  storico (da competente, eppure mai imprigionato  dallo specialismo? e anche meno dall’appartenenza'*)       1 Sipuòdaffermare che ogni suo scritto è occasione per una au-  toanalisi. Come, d'altra parte, che l'autobiografia non è mai cro-  naca contingente, invece occasione per andare oltre la cosiddetta  evidenza dei fatti, per indagarne radici e proiezioni.   2 A. Galvano, La pittura, lo spirito e il sangue, in “Tendenza” n.1,  Torino, ripubblicato in A. Galvano, La pittura, lo spirito e il sangue,  a cura di G. Mantovani, Il Quadrante, Torino 1988; in A. Galvano,  Diagnosi del moderno, a cura di A. Ruffino, Aragno editore Torino,  2018.   3. G. Gallino, in Attraverso il Novecento: Albino Galvano, Atti del  Convegno, Torino 1997 a cura di M. Pinottini. Bulzoni editore,  Roma 2004, pag. 45: "Se ... l’eclettismo diventa una condizio-  ne dell'esercizio dell’arte, è anche la qualificazione dello status  dell’intellettuale, che, in ogni specifico ambito d'indagine, è sol-  lecitato a non perdere di vista la visione d'insieme dei problemi.  La polemica di Galvano contro la specializzazione, quale esclusiva  procedura del sapere, risponde a tale regola metodologica. In-  dubbiamente, in ogni attività culturale, è necessaria una partico-  lare competenza, ma, al di là del suo confine, s'impone l'esigenza  del controllo unitario dei suoi esiti e delle sue interpretazioni”.  A. Ruffino, (Com)plessi galvanici, introduzione a Diagnosi del mo-  derno, cit., pagg. XIII-XIV: “Contro lo specialismo, ... Galvano ha  sferrato una controffensiva senza tregua e a tutto campo: sul pia-  no pratico, opponendo al tecnicismo la tèchne (nel suo caso quella  pittorica); sul piano morale, opponendo alla provvisorietà della  posa il rigore della presa di posizione (ma mai irrigidita in partito  preso); sul piano estetico, opponendo ai miraggi di progresso illi-  mitato espressi dal Funzionale le ragioni dell’Organico, capace di  suscitare creazioni vive”.   4 Interessato “da una parte all'eredità del tardo romantici-       A. G. con Mariacarla e Pino Mantovani, Racconigi, 1980.    per affrontare la pittura, alla quale riconosce una  singolare centralità.   Tutti questi temi mi hanno per decenni accom-  pagnato e sollecitato. I miei primi interventi su  Galvano pittore risalgono, infatti, all’inizio degli  Ottanta: data 30 novembre 1980, la presentazione  ad una personale presso la Galleria Maggiorotto  di Cavallermaggiore, seconda di una serie dedi-  cata ai protagonisti del MAC torinese; ma già nel  marzo dello stesso anno avevo tracciato, con la  collaborazione dei miei allievi in Accademia, un  quadro della pittura degli anni Cinquanta a Torino  nel Museo Civico di Casa Cavassa a Saluzzo’, sulla  falsariga delle indicazioni che Galvano aveva for-  nito a T. Sauvage? per una storia ancora regionale  dell’arte italiana nel Dopoguerra; e nel 1983 sul  catalogo della mostra Arte a Torino, 1945-1953” nel          smo e del decadentismo: Mallarmé e Bergson, ‘esoteristi e filosofi  della vita’, psicanalisi ed esistenzialismo, dall'altra alla severità  dello storicismo crociano e all'esempio del rigoroso metodo cri-  tico negli studi di storia dell’arte [...] Lettore di Klages, di Jung o  di Guénon, ma anche studioso di Kant e di Hegel” (A. Galvano,  Perché non possiamo non dirci crociani, in “Numero”, n. 3, 1953. At-  tento a Freud come a Jung. Curioso delle storie, nel tempo e nello  spazio, pronto a coglierne, nella comune umanità, le differenze e  le istruttive potenzialità.   5 PitturaaTorinoneglianni cinquanta, a cura di G. Mantovani, cata-  logo della mostra, Museo Civico di Casa Cavassa, Saluzzo 1980.   6 T. Sauvage (pseudonimo di A. Schwarz) Pittura italiana del  Dopoguerra; Ed. Schwarz, Milano 1957, il testo fu ripubblicato con  integrazioni e il titolo La pittura a Torino dal ‘45 ad oggi, in “Let-  teratura”, n. 1, Torino 1960, successivamente in A. Galvano, La  pittura..., cit. pag. 135 segg; e A. Galvano, Diagnosi..., cit., pagg.  393 segg.   7 Arte a Torino, 1945-1953, a cura di M. Bandini, G. Mantovani,  F. Poli, catalogo della mostra, Torino 1983    salone d’onore dell’Accademia Albertina, dedicavo  a Galvano il mio intervento, anche oltre gli anni  definiti nel titolo. Mi troverò, pertanto, a incro-  ciare in queste pagine scritti pubblicati in un arco  di tempo di circa quarant'anni, con il proposito,  spero non solo narcisistico, di organizzare in di-  scorso unitario contributi sparpagliati e spesso di  non facile reperimento.   Proprio dalla presentazione Maggiorotto — poi  variamente elaborata per occasioni ulteriori dedicate  appunto al MAC, come il catalogo per la esposizione  del MAC torinese sempre curata dalla galleria Mag-  giorotto alla Expo Arte — Fiera Internazionale di Arte  Contemporanea di Bari (1982), la presentazione del  catalogo Albino Galvano, Proferio Grossi, Luiso Sturla,  Artecentro, Milano 1994, fino al saggio sul movimen-  to torinese nel volume per la mostra MAC/ESPACE    TORINO  È VIa S. GIULIA 12 TORINO    370    ‘    Pre.       A. PARISOT  |F. SCROPPO    Bollettino «Arte Concreta» n. 9, 1952 e n. 12, 1953.    all’Acquario di Roma, 1999°—mi parlogico cominciare,  non tanto perché uno dei primi approcci al tema —  allora potevo anche contare sul rapporto diretto con  Galvano, ma devo dire che la sua disponibilità non  era invasiva e tanto meno arcigna rispetto alle inter-  pretazioni che venissero proposte del suo impegno  — quanto perché vi si pongono i fondamenti del mio  interesse per l'artista /critico / filosofo. L'incipit che  sceglievo allora mi pare sia ancora il migliore possibile;  non mio, intendiamoci, invece proprio di Albino che    8. Loscrittosarà rielaborato come prefazione a A. Galvano, La  pittura, lo spirito e il sangue, cit.   9 P. Mantovani, Pittori concreti a Torino, in MAC-ESPACE - Arte  concreta in Italia e in Francia, 1948-1958, a cura di L. Berni Canani e  G. Di Genova, catalogo della mostra, l'Acquario Romano, Roma,  ed Bora, Bologna 1999, pagg.60 e segg.       così aveva concluso un asterisco sul Bollettino “Arte  Concreta”, n.12, 195310 ;   “E scopriremo che è un programma [quello del  MAC le cui premesse erano già nei romanzi dei tempi  della nonna? Tanto meglio, almeno avremo evitato  l'equivoco più antipatico che grava sull'arte astratta:  che si tratti di cosa moderna 0, peggio, d'avanguardia”.  Una fulminante risposta al nemico Leonardo Borgese  che sul Corriere della Sera, aveva definito A’ rebours  di Huysmans, “un vecchio romanzo dell’800”, fonte  peraltro “di tuttele velleità estetiste dell'avanguardia”:  fornendo unovvio spunto polemico — non saprei quan-  to consapevole, nel caso addirittura masochistico — a  chi da anni si occupava del rapporto tra le cosiddette  “avanguardie” ela linea dal Romanticismo al Simboli-  smo; ma anche agli amici di Milano che si riconoscevano  nel programma di Sintesi delle Arti pubblicato nello    H    |    FIL    sintesi allo studio b 24 dal 21-2 al i:    se  ?  i    fi  5  5!  È    s7       A. G. riproduzione di Verso Occidente, Biennale di Venezia 1952.   stesso Bollettino, che prevedeva “il diretto concorso  di tecnici e artisti, sul piano della stretta collabora-  zione, per il raggiungimento finale d’un concreto il  quale aderisca alla funzione in armonia di colleganza  fra il mondo della forma, lo spazio e l'applicazione  pratica dell’opera collettiva”! viva il design, la grafica  e l'estetico diffuso, dunque. Come non bastasse, Gal-  vano conclude l'asterisco citato rigettando qualsiasi  attualismo:” Che bel giorno quello in cui potremo  lavorare in pace al compito che la storia ci ha affidato,  certi che nonè sulla misura della contingente attualità       10  L'asterisco, cioè l'osservazione, la messa a punto marginale  è il contributo che Galvano sceglie per intervenire criticamente  liberamente sui Bollettini del MAC (e altrove).   11 E Passoni, Le arti e la tecnica, “Arte Concreta” 12, 1953, pag. 65,  ried. anastatica, a cura della galleria Spriano, Omegna, 1981.    ,    ,    che il nostro lavoro verrà giudicato!”. Il fatto è che  Galvano non intende escludere tutta la complessità  di rimandi e proiezioni, soggettivi ed oggettivi, che i  linguaggi dell'immagine — specialmente quando non  siano troppo condizionati da tecniche o ideologiche  motivazioni — si portano dietro e dentro, e che, del  resto, la cultura moderna indaga con particolare  impegno e analizza con rinnovata strumentazione,  mentre altri linguaggi dell’immaginario—la poesia, la  narrativa, lamusica — stanno sperimentando a tentoni  forme “nuove” (o vecchie !? o antiche, al punto d’essere  “originarie”!). Neppure, d'altra parte, egli intende  abbandonare la pittura come linguaggio specifico,  proprio quella tradizionale (tela, carta o qualunque  supporto piano, disegnoe colore, gesti e tracce a formar  figure !4); per quanto metta in conto uno spostamento  dall’iconico all’aniconico, dal descrittivo all’evocativo,  dall’allusivo all’emblematico, dal geometrico al rit-  mico al gestuale; ciò che non precluderebbe peraltro  “la possibilità di uno scambio e di una penetrazione  sempre possibili nell'esercizio di una lettura figurativa  per elementi — segno, colore, movimento, materia ecc.    12. “Confessiamo di essere segretamente d'accordo con Bor-  gese [quando invita a rileggere A’ rebours]. Perché... l'essere agli  antipodi [delle scelte di Huysmans e delle preferenze in pittura  del suo eroe Des Esseintes] è troppo vitalmente legato a ciò che  rifiuta per non riprenderlo su di un piano meno esterno: e le cita-  zioni dalla Blavatzky e da Steiner del Kandinsky della ‘Geistige’,  l'appartenenza a circoli teosofici di Mondrian giovane, il fatto che  uno dei primi scritti italiani sull'arte astratta sia di J. Evola sono  ben significativi di un rapporto ambivalente — di rifiuto per la ca-  rica letteraria, moralistica o immoralistica, del simbolismo speso  alla spicciola nell’allusività delle immagini e della messa in scena,  e insieme di accettazione di quel gusto di allusioni e suggestioni,  di segrete corrispondenze tra immagini e speculazioni — che — nel-  le sue due facce: sensualmente umbratile l'una, simbolicamente  intellettuale l’altra — tra il 1890 e questa metà del nuovo secolo  hanno ostinatamente tentato di aprirsi una strada — sia pure af-  fidandosi alla romantica barca ‘ebbra’- dalle varie forme di resa  alla prosasticità del realismo”. Ancora dall'asterisco citato di Gal-  vano in “Arte concreta” 12, 1953.   13. Azzardo un'ipotesi (certo suggestionato dal recente catalogo  della mostra La regione delle Madri. I paesaggi di Osvaldo Licini, Elec-  ta, Milano, 2020, in particolare dal saggio di S. Bracalente, Licini  oltre la geometria: una primordiale genesi del mondo): che Galvano non  abbia ignorato “Valori primordiali”, e in particolare l’opera di F.  Celiberti, anche lui proveniente da studi di storia delle religioni,  tanto importante per Licini proiettato dalla fine degli anni Trenta  oltre la geometria, specialmente nell’incrocio tra teosofia, esisten-  zialismo e fenomenologia (Paci e Banfi), e per comuni interessi per  Spengler, Klages, Guénon ... e per l'alta poesia romantica.   14 “Dipingere con colori e pennelli ... è stata una costante del  mio lavoro nei suoi vari cicli, anche quando come spettatore ho  pregiato e difeso esperienze varie e opposte. Ma è certo che, se  tra il '75 e il ’78 ero venuto via via recuperando alla mia pittura  quell’attaccamento alle gidiane nourritures terrestres che confessa-  vo in un altro mio scritto, nei quadri qui presentati esse hanno  perso ogni ghiottoneria che non sia quella dell'occhio contemplan-  te: in bocca è solo sapore di cenere. Ciottoli, fossili: l'eco della vita  in ciò che non ha vita o non l’ha più”. A. Galvano, Autopresenta-  zione della Personale, Piemonte Artistico Culturale, Torino 1985).       Libretto di iscrizione a magistero.    — non diversi da quelli che consentono la valutazione  di ogni buona pittura”! Perfino le ‘’ giuste ragioni”  concesse ai concretisti milanesi sembrano far parte di  un gioco alquanto provocatorio, portando il discorso  dal livello tecnico a quello culturale ed etico, di una  eticità sempre esposta, in un certo senso negativa  (“demoniaca”, nella cultura occidentale, di radice  inevitabilmente cristiana anche nella più spinta laicità).  Già l’anno precedente, nelnovembre del ’52, firmando  con Biglione, Parisot e Scroppo quello che a ragione  o a torto è considerato il manifesto del movimento  torinese, Galvano aggira gli ottimistici programmi dei  milanesi, espressi nei manifesti dell’ Arte Organica, del  Macchinismo, del Disintegrismo, dell'Arte Totale!’  che sanno ancora tanto di Futurismo, e dichiara che  carattere essenziale nella scelta dei nuovi adepti è la  “responsabilità liberamente assunta sul limite più  impegnativo ... di lotta contro ogni conformismo e  pigrizia intellettuale” nel campo della pittura come  in diversa applicazione estetica e pratica, senza com-  promessi e “senza pudore”. Il fatto è che Galvano (e       15. A. Galvano, presentazione della collettiva, Bordoni, Galva-  no, Jarema, Parisot, Scroppo, Galleria del Fiore, Milano 1954.   16 Cfr. “Arte Concreta n. 10.   17. “L'unico atteggiamento ragionevole è quello di lavorare at-  tendendo colla sincerità di chi sa che lo spirito ama le posizioni  estreme ed attive , non i compromessi”. (A. Galvano, L'evasione, in  “Il Selvaggio”, 15 gennaio 1940, ripubblicato in A. Galvano, Dia-  gnosi del moderno (a cura di A. Ruffino), cit., pag. 28.    con lui i pressoché coetanei Adriano Parisot, Filippo  Scroppo, Paola Levi Montalcinie i più giovani Anniba-  le Biglione e Carol Rama, per nominare tutti i torinesi  che aderiscono più o meno convinti al MAC)ha dietro  le spalle una ventina abbondante d’anni di lavoro non  ovviamente mirato allo sbocco astratto. Basta pensare  alla frequenza orgogliosamente esibita fino all'ultimo  della scuola di Felice Casorati (sul quale elabora una  piccolamaimportantemonografia che punta non poco  sulla stagione simbolista — sull'argomento si rimanda  all'intervento in questo catalogo di Alessandro Botta),  al rapporto con il neoimpressionismo dei Sei, in va-  riante espressionista; al fatto che egli medita, continua  a meditare sul significato e sul valore della scelta  “moderna”, essenziale, inevitabile, ma problematica  nelle ragioni, nei modi, negli obiettivi; infine, che ha  una formazione teorica e storica — aggiungerei una  struttura psicologica ed una educazione — che non  gli consentono di utilizzare a cuor leggero la strategia  del manifesto, di ascendenza futurista, e in genere le  dichiarazioni programmatiche!8: una questione di  carattere e di stile oltre che di metodo e di cultura.  Del resto, Albino Galvano aveva già affrontato il  tema in testi antecedenti di alcuni anni, ne utilizzo uno  in particolare:” La pittura, lo spirito e il sangue”, che  uscì nel 1946 sul primo ed unico numero della rivista  “Tendenza”, nell’ambiziosa prospettiva dei direttori  responsabili — lo stesso Galvano e Pippo Oriani — Ri-  vista mensile di Arti figurative!. Certo esistono di  Galvano saggi più importanti come quelli che elenco  innota?°, dove il tema è affrontato con argomentazioni  analitiche e storicamente complesse, ma continuo a  trovare snodo esemplare nella vicenda dell'artista il  brevesaggio citato. Anche la data è importante, a guer-    18. Il dubbio, lo scetticismo, l'ambiguità come tensione fra op-  posti sono fondamenti del suo metodo, che non è irrazionale, in-  vece di un razionalismo critico che mai cede allo schema ideolo-  gico o alla rigida consequenzialità.   19 Nonacaso ho scelto il titolo del saggio come titolo per la  citata Antologia di A. Galvano, edita dal Quadrante, Torino 1988.  20 Diversi saggi di grande respiro, Galvano pubblica negli anni  immediatamente successivi alla seconda Guerra mondiale. Elen-  co in ordine cronologico quelli ripubblicati sull’Antologia citata,  consenziente l’autore: Aspetti del problema estetico dell’esistenziali-  smo, Atti del Congresso internazionale di Filosofia, Castellani e C  ed., vol II, Roma, 1946; L'esistenzialismo, a cura di E Castelli, Mi-  lano 1948; Storicità e significato dell’arte “astratta”, in “Archivio di  filosofia”, vol. I, Milano 1953, “Galleria di Lettere ed Arti”, n. 4-5,  1953; Medioevo e Romanticismo, “Questioni” n. 2, 1955; Vita e forma  in alcune ricerche di estetica contemporanea, Atti del IIl Congresso In-  ternazionale di Estetica, Venezia 1956, edito dalla “Rivista di Esteti-  ca”, Torino 1957; Le poetiche del simbolismo e l'origine dell’Astrattismo  figurativo, Studi in onore di L. Venturi, vol. II, Roma 1956. All'elenco  si aggiungono i saggi pubblicati in successive occasioni: in partico-  lare sul catalogo della Antologica postuma: Omaggio a Albino Galva-  no, a cura di P. Fossati, F. Garimoldi, M. C. Mundici, catalogo della  mostra, Circolo degli Artisti, Torino 1992 e, con scelta assai più am-  pia ma ancora lontana dalla completezza, sulla recente antologia:  A. Galvano, Diagnosi del moderno, cit.    ra appena finita; come significative le collaborazioni,  che elenco per segnalare la ricchezza e la varietà dei  contributi, intesi a coprire in tutta la loro estensione  le cosiddette Arti figurative: C. Mollino e U. Mastro-  ianni, Monumento ai Caduti per la liberazione d'Italia;  R. Chicco, ... et le tableau quittè nous tourmente et nous  suit; I. Cremona, Dal cannone alla Secessione; A. Dra-  gone, Disegni, acqueforti e acquerelli di Cino Bozzetti; P.  Oriani, Franco Costa; C. Mollino, Gusto dell’Architettura  organica; O. Navarro Il messaggio della cultura; ancora  A. Galvano, Woyzeck di Georg Biùchner, P. Oriani, Breve  discorso su due films di Cocteau. Aggiungo — e non è un  dato secondario—dopo una pagina redazionale, quindi  di Pippo Oriani “che proviene dall'esperienza futuri-  sta” e dello stesso Albino “che proviene dal purismo  casoratiano e dal neoimpressionismo venturiano”,  dove si rivendica, dalle due parti inconciliabili (ma  l’inconciliabilità è segno di forza, di utile tensione)  la gratuità dell'atto creativo rispetto alla riflessione  critica, e l'autonomia del giudizio critico rispetto alle  generalizzazioni dell'estetica, in un tempo storico che  minaccia di deludere chi aveva sperato che la fine del  regime politico e culturale comportasse il recupero  pieno della libertà e la sua pratica esplosiva.  L'avvio del saggio è forte, al solito compromesso,  e ancora una volta lo propongo: “L'appello della pit-    ‘LA PITTURA, LO SPIRITO E IL SANGUE    L'appello della pittura risuona dal profondu del  nostro sangue — ancora con quell’urgenza — come  nei quindici anni quando sostituiva in camuff:imenti  impegnati sino alle estreme ragioni della possibile  azione, gli slanci religiosi o i presentimenti sessuuli.  Ma le vie dell'Eden sono perdute, e sarà vano lo  sforzo di ricostruire un itinerarioche approdi al-  l’innocenza d'allora, che vi riscatti la sin troppv  chiara coscienza del carattere composito e compro.  messo di ogni atto umano che non sia di rinunzia:  il peccato fondamentale dell’arte. Invano da anni  l'estetica crociana, non per nulla irritata con  il « fanciullino »  pascoliano troppo chiaramente  preanunciante le scoperte freudiane {e contro  Freud i erociani si armeranno della più ipocrita in-  comprensione) cerca di riprendere e di legittimare,  con la sterilizzata convinzione del carattere « teore.  tico» dell’arte, il troppo scoperto « alibi » kan-  tiano del « bello come simbolo del bene morale ».  Credo siu venuto il momento di confessare schiet-  tamente che il bello, proprio questo bello artistico  che ci brucia sin dalla giovinezza ogni possibilità di  rassegnazione e di conformismo, è piuttosto il « sim.  bolo del male morale ». Tanto, anche eticamente.  dla questa franchezza non perderemo nulla.   Soltanto Nietsche ha insistito con sufficiente chia-  rezza su questo carattere, profondamente « vitale »  e perciò profondamente « immorale » dell'attività  artistica: contro il quale assai poco mi paiono va-  lere le due obiezioni che implicitamente o esplici-  tamente vengono mosse dagli idealisti e dagli spiri.  tualisti. Se per i crociani — ma credo che in Gen-  tile l'implicita ammissione, inevitabile data l’iden-  tificazione di arte e sentimento e l’inseparabilità  dell'agire dal conoscere, di quanto sì è detto, fosse  più che sospettata dall'autore anche se la reto.  rica di cui sempre fu ammalato gli impedì di am-  metterlo in termini chiari; che tuttavia non man-  cano nei più diversi fra i suoi seguaci o avversari-  seguaci: dal primissimo Abbagnano disciogliente  tatto il reale in irrazionalità, appunto con una re-  ducetio ad absurdum dell’attualismo, all'Evola, al  più recente Spîrito — se per i crociani, si diceva,  la scappatoia di ridurre l’arte a pura conoscenza,  giocando sul doppio ruolo confuso insieme del-  l’« intuizione » permette di evitare lo spinoso prò-    blema, i recenti spiritualisti — ma anche fra di.    loro lo Stefanini, ad esempio, ammettendo una.« in-  sufficienza dell’arte alla vita» — pur nella auto-  ì enza in ordine al proprio valore peculiare,  finisce collo svalutare moralmente l’arte — candi-  damente invece sermoneggiano sulle comuni radici  del bello e del buono (nel secolo scorso queste  niaiseries di solito avvenivano su di uno sfondo  ontologistico vagamente giobertiano, oggi lo gnoseo-  logismo idealistico generalmente è rispettato anche  dagli spiritualisti che dell’idealismo dovrebbero es-    ser avversari) e ci avvertono che il tormento del-    l'urtistu che insegue con il diuturno lavoro il fan-  tasma che sempre gli sfugge è profondamente mo-  rale! ;   Dio volesse che fosse veramente così. E che si  potesse sul serio sperare che all'artista, dopo la  conquista su cui ha tutto giocato, della propria  immagine, fosse anche riservato per soprappiù il  paradiso delle religioni e delle etiche!   Sarà meglio invece guardarci chiaramente in fac-  cia e chiederci se veramente per il puradiso provvi.  sorio della bellezza non giochiamo la salvezza della  nostra anima — ammesso che «questa espressione  abbia un senso: quello cristiano, + quello di una  etica « laica » (ma generalmente è cripto-eristiana  anch'essa) — riconoscere per che cosa abbiamo  scommesso; chè le conseguenze del nostro « pari »  atiche se lo avremo perduto non diventerunno duv-  vero peggiori per quest’atto di franchezza.   Rimane inteso che su questa rivista, che non è  dedicata a studi filosofici, non potremo farlo che  sotto l'angolo della pittura; ma poichè è questa  arte della quale abbiamo, bene 0 male. una qual  che esperienza vissuta e poichè d'altra parte non  crediamo se non ai discorsi che nascono da questa  specie d'esperienza, la cosa non sarà fuori posto.   La coscienza rimane inquieta. E poichè sente  che tutto nel problema implica la discussione delle       CAROL RAMA Disegno - 1944    Da «Tendenza», 1946, disegno di Carol Rama.    tura risuona dal profondo del nostro sangue — ancora  con quell’urgenza — come nei quindici anni quando  sostituiva in camuffamenti impegnati sino alle estre-  me ragioni della possibile azione, gli slanci religiosi  o i presentimenti sessuali”. Geniale, perché collega  direttamente, intimamente la pittura (ma in genere  i linguaggi creativi) alla natura, al sangue appunto,  affermando “il carattere profondamente immorale  dell'attività artistica” già sostenuto da Nietzsche,  negato o perlomeno arginato invece da Idealisti e  Spiritualisti; e insistendo sulla “presenza di una  volontà — non risolta nella pura contemplazione, né  risolvibile, dato ilsuo orientamento verso l’immagine  [...] La cosaè particolarmente evidente nelle arti figu-  rative e la multiforme e aperta a direzioni divergenti  attività [...] ne è il paradigma [...] Ed è appunto ciò  che è sfuggito all’idealismo, a causa della artificiosa  distinzione [...] di teoretico e di pratico, come al confu-  sionismo attualistico che confinando l’arte nella sfera  dell’immediato sentimento cade di fatto in un troppo  semplicistico naturalismo. La distinzione fra teoretica  e pratica è certo valida, ma all’interno di ogni singolo  atto spirituale nella sua integrità, ché la vita spirituale  presenta questi due aspetti come facce sempre distinte,  sì, ma sempre inseparabili”.   Conclude Galvano (e in questa direzione trova  sostegno nella fenomenologia di Alain?!, ne “L'Imma-  culée Conception” dei surrealisti e in Breton, più che  nella poetica di Valery, almeno quando troppo insiste  sul pieno controllo cosciente dell'artista nell’elabora-  zione dell’opera): ‘Qui [...] bisogna pensare [...] ad  una volontà tutta inconscia, individuante e non ancora  individuata (come[...] Schopenhauer presentiva) e ad  unopposto momento rappresentativo che solo giustifi-  ca il valore estetico dell'immagine raggiunta negando  nel sogno l’ebbrezza del movimento fisiologico”.   Con un salto di parecchi anni, dal 1946 de La  pittura, lo spirito e il sangue ad una autopresentazione          21 Utilissimal’ampia citazione in proposito da uno scritto ine-  dito di A. Galvano, riportata da F. Garimoldi Albino Galvano: pro-  getto di una nuova cultura, in Omaggio a Albino Galvano, cit., nota 12:  “[in Alain ovvero Emile Chartier] l'accento cadrà ... molto più  che nell’estetica idealistica, sul momento del fare che su quello  del conoscere , e sulla resistenza del mezzo sentita come condizio-  ne positiva ed essenziale al sorgere del fantasma artistico, fanta-  sma che non sarà più un'immagine al tutto congiunta a priori ad  una materiale estensione che la traduce, ma che sorgerà insieme  all'atto di esecuzione e che soltanto a posteriori rispetto a que-  sto avrà la sua concretezza “ ... “L'opera non nasce nella testa o  nel cuore, nell’intelletto o nel sentimento, per poi essere realizzata  nella pietra o sulla tela, ma, direi, nel vivo pulsare del sangue al  polso quando questo gioca le resistenze e le tensioni, gli scatti e  le flessioni del pollice e della mano nell’urto con il resistente ma-  teriale. La scultura e la pittura sono meno la realizzazione visiva  di un'immagine mentale che la materiale traccia lasciata da un  gioco di ritmi fisiologici”. Sarà in particolare Merleau-Ponty a  sviluppare il tema, per esempio negli studi dedicati a Cézanne.    lino Vieeate  colla (o crlize pus (olenda,  cuni (aza sr net&uk' a fr suina  und la gut rin % NAM (dA  Pene più 0 me0 Ara la rr tn he Ut    forata ME TISHOI: RE Peas LA LALA Les    al caso TU fi  e fa dii  Lo val poco comi pila est;  ua dn AA    Prima pagina della lettera di A. G. a Adriano Villata, 1980.    del 1980 — scritta a mano “quasi si trattasse di una  lettera destinata solo all'amico [il “Caro Villata”,  gallerista], nella quale ci si può confidare e divagare  come l'umore o la nostalgia suggeriscono” —, Galvano  ritorna sul rapporto fra il concepire e il fare, tra il fare e  il decodificare il senso in più o meno risolutive lettere;  ancora una volta mettendosi in gioco, ma senza alcuna  intenzione di assumere valore esemplare o chiedere  scusa 0 simpatia, esponendosi in tutto lo spessore  di sensibilità e intelligenza, di impossibilità (a meno  che non si scelga o si accetti la rinuncia) di sottrarsi  all'impulso profondo. E anche senza compiacimento  narcisistico: ci si esprime non per coltivare l'emozione  ma per darne testimonianza e, per quanto possibile,  esporla a sé e ad una analisi non priva di crudeltà,  comunque oggettiva. È interessante seguire il filo  del discorso, che nella scelta del tono dimesso non è  meno teso del solito.   Prima motivazione del movimento pendolare tra  pittura e scrittura, così esposto al giudizio e all’ironia  dei colleghi dell'una e dell'altra banda: l'appartenenza  “ad una generazione [quella di Cremona, di Maccari,  di Mollino, per restare tra amici] e ad un ambiente       22 Ripubblicata in A. Galvano, La pittura, lo spirito e il sangue,  cit., pag. 29 e segg.; e in A. Galvano, Diagnosi del moderno, cit. ,  pagg. 13-17.       All'inaugurazione di una sua personale, inizio anni ‘70.    in cui questo male, se male, era quasi una ragione di  orgoglio”. Era la generazione dei nati all’inizio del  secolo, che raccoglieva dai protagonisti del rinno-  vamento dell’arte (secessionista o avanguardistico,  rappresentato per Albino, in primo luogo e per sempre,  dal maestro Felice Casorati), una eredità che era non  meno di esperienza materiale che di elaborazione  intellettuale, un atteggiamento aperto, anzi tentato  da molteplici contraddittorie curiosità e linguaggi  espressivi (ma il quasi suggerisce l’affacciarsi di qual-  che incrinatura nella certezza adamantina esibita dai  predecessori, forse anche per il confronto inevitabile  con una generazione successiva che tornerà a proporre  arroccamenti specialistici).   Seconda motivazione: ‘[...] Tutto quantohai odiato  o amato nei giochi e nella noia dell'infanzia alimenterà  peruna vita quanto produrrai, buono o meno chesial....]   I nutrimenti terreni avranno un bel essere filtrati  in parole, in segni e colori, in note, in spettacolo, il  loro repertorio non muta, non lo hai scelto, ma ne  sei stato scelto, e tu sei quello che essi ti hanno fatto,  la tua libertà non può consistere che nell'essere loro  fedele sino alla fine, libertà di adesione non di ripudio,  e libertà nella misura in cui con il tuo ripensamento e  il tuo scavo li trasformi da passivo esser fatto in attivo  assecondamento della sorte che essi ti hanno assegnato,  in obbiettivazione in cui il loro oscuro sgorgo, la loro  inconscia matrice, si chiarisce nell'opera, nel segno  formato e consegnato all'oggetto che ti rivela agli  altri e in cui assumi responsabilità di confessione e di    10    proposta”. Insomma, è proprio il rilancio dal fare al  pensare e dal pensare al fare che definisce una identità  intuita come destino e accettata come scelta.   Ma se rimane “ovvio” il rapporto fra i nutri-  menti terreni e ciò che uno diviene e fa nel tempo, è  anche vero che “una immagine retrospettiva di sé  è sempre un’interpretazione che porta il peso della  mutata identità dell’interrogante, del penoso carico  di nostalgie, ricordi, rimpianti e rimorsi [...] e ogni  interpretazione, specialmente nell'impegno auto-  biografico, è anche una falsificazione”, per quanto  cerchi di evitare tanto l’apologia ideologica quanto  la “disgustosa e mimetica” confessione personale.   Giusto nel mezzo, fra le due citazioni del 1946  e del 1980, nel 1960 (è il caso di ricordare che è il  tempo della svolta neodada e pop che mette in crisi  e addirittura annichilisce alcuni dei pittori più con-  vinti), Galvano mostra d’avere di questo destino  ironica e malinconica ma anche dura consapevolezza.  Del fallimento egli tesse un sistema, secondo i miti  di Prometeo e Sisifo, riscoperti come”moderni” dal  Romanticismo all’Esistenzialismo. “Finis picturae?  [...] Il punto si identifica [...] con questo estremo di  coscienza contraddetta e irritata: la certezza che la  via senza uscita dell’arte oggi non ha [...] nemmeno  l'alibi della professione, del successo, del guadagno, ma  soltanto il fascino senza illusioni di una fedeltà a un  impegno individuale, quasi di una scommessa con la  propria intelligenza e con la possibilità e i limiti del  nostro stesso temperamento!”.   Diventano così esemplari l’ultima e penultima  produzione di Galvano pittore, alla quale viene dedi-  cata in questa mostra una intera sezione, iniziata verso  la fine degli anni ’70 con i ciottoli le foglie i frutti, i relitti,  proseguita con “i paesaggi (rocce, alberi, isole), i nudi, le  macchie[|...]”:esemplare neltentare una trascrizione di  archetipi, congelati inluoghi comuni della pittura, tipi,  generi e maniere (il fascino baudeleriano dei luoghi  comuni!). Ma già muovevano nella stessa direzione  ireos e cespugli d'inizio ‘70 — tracce che regrediscono  attraverso lamemoria nella gesticolazione elementare  — e prima i segni asemantici, prima ancora (siamo nella  seconda metà dei ‘60) le bandiere, i nastri, i nodi e così  via: tutte figure emblematiche, primarie e coltissime,  che niente hanno a che fare con la semplificazione, la  banalizzazione pop.   La pittura ivi coincide con la costruzione delle im-  magininominabili (nona caso varianti dell'icona della  cosa, anzi del frantume, astratta da qualsiasi contesto,  su un fondo bianco che è il segno di una definitiva  separazione dallo scorrere fenomenico), e insieme la  pittura è automatismo oggettivo, registrazione fredda  della emozione costruttiva (se non creativa): infatti  presentata tipicamente come nodo, descrizione dell’a-    23 A. Galvano, La pittura a Torino dal ‘45 ad oggi, cit.    »m®)  da cor. 4 È  "ut me rematori) E  ua Br su :    Pa    ù  LE  a       Con Gino Gorza a Palazzo Te, Mantova, 1988.    zione dell’annodare, avvolgere, intricare-intrigare, 0  dello sciogliere e liberare (vedi la bellissima immagine  scattata, credo, alla galleria Martano).   Ma è tutta la vicenda di Galvano pittore e critico  che val la pena di ripercorrere in mostra, sia pure per  cenni e con discutibili tagli.   Danotarel’uso ch'egli fa dell’insegnamento casora-  tiano: del maestro, Galvano non assume passivamente  il “platonismo”, consapevole che il rapporto di Felice  con la pittura è dal principio e resta nel tempo un  rapporto “decadente”, che diventa eticamente “sano”  e formalmente “classico” solo per un atto di volontà  tanto mirabile quanto falsificante; sarebbe meglio dire  critico, con vettore opposto, sia pure, a quella che sarà la  scelta di Galvano. Che il travestimentosia storicamente  giustificato su un modello rispettabilissimo come quello  gobettiano, non vuol dire che la sua sostanza più vera  non debba essere riconosciuta nonostante, attraverso  la corazza ideologica e formale ritrovando il nucleo  profondo, ’malato”ma straordinariamente vitale.    11    Del Galvano degli anni’30-inizio ‘40, sarebbe da  approfondire l’espressionismo — che del resto condivi-  de con altri della sua generazione: Nella Marchesini,  Paola Levi Montalcini, Piero Martina, Italo Cremona,  Carol Rama. In tal senso ci si potrebbe chiedere che  peso abbia avuto, localmente, Spazzapan che esaltava  l'ispirazione e deprecava l'istinto (viene in mente la  teoria di Klages, che insiste sulla attrazione magnetica  traimmagine e “anima”, ben distinta, l’anima ispirata  e creativa, dall’istinto che è del corpo, come dalla  volontà decidente e dotata di facoltà riflessiva che è  dello spirito”); e anche Carlo Levi, l’unico dei Sei che  partecipi intimamente all’espressionismo europeo, e,  fuori sede, i romani, Scipione in particolare al quale  Albino dedicò una bellissima recensione nel ‘40, che  è lo stesso anno della prima edizione del Casorati.   In un saggio intitolato Perché non possiamo non  dirci crociani, in “Numero”, 3, 1953, Albino Galvano  sottolinea che la sua generazione “decadente” deve  a Croce specialmente questo: d'essere stata messa  nella condizione di “accettare senza malafede e senza  rimorsi i dati di quella cultura di tardo romanticismo  che, così feconda quanto a ricchezza e sottile sensibi-  lità di ricerche particolari, tanto si è dimostrata inca-  pace di una sistemazione totale... [insomma di poter  essere] decadente malgrado Croce, grazie proprio  al riscatto che il metodo crociano offriva”. Che è un  modo ottimo anche per comprendere come coerenza  di sistema e incoerenza pragmatica siano in Galvano  strettamente congiunte in dialettica tensione: la co-  erenza consistendo nella allarmata coscienza critica,  nella responsabilità che non può consentirsi “nessuna  comoda complicità”, l’incoerenza nell'essere ogni  scelta un esito che, per quanto imperfetto, è sempre  compromesso e rappresentativo. Come a dire che la  vitalità della ricerca costituisce un valore, non meno  che l'aspirazione ad una sistemazione che finalmente  rappresenti una “identità”, forse meglio “la libertà  di essere identici al proprio destino”. Perciò Galvano  non intende, tanto meno come pittore, tagliare i ponti  col passato (il suo passato, oltre che la storia); invece  semina il cammino di tracce, di residui, vorrei quasi  dire fisiologici, di lapsus, così che in ogni momento  il cammino sia ripercorribile o almeno riconoscibile,  ma anche sostituibile. Egli, in effetti, sa che nulla  va distrutto e non consuma sacrifici liberatori. Per  lui in particolare (adatto il titolo di un importante  saggio del ’63), La sublimazione astrattista non liquida  l'erotismo del Liberty, semmai ne prende le distanze,  per poterlo rimettere in circolo, come in un processo  alchemico in perenne rinnovamento.   Così Galvano passa necessariamente da un con-  cretismo geometrizzante, che di fatto ironizza — ma  non banalizza - la geometria come privilegiata ma-       24 A. Galvano, Per un'armatura, Lattes, Torino 1960, pag. 87.    nifestazione della razionalità e della chiarezza, ad  un concretismo informale che libera la possibilità  di una pittura scritta usando il campo come tabula  rasa 0 pagina intonsa, dove il gesto può scorrere ed  intricarsi, e/o come dimensione praticabile in tutto il  suo spessore magmatico, a sua volta ironizzato dalla  scoperta di una ritmica, di una metrica essenziale.  Come adire che è nella pittura (nell'arte) chesi realizza,  assumendo evidenza di mito visivo — feticcio laico —  l'unico progetto possibile senza illusioni razionaliste  e moralismi ideologici.   Un momento certamente fondamentale, sarei  tentato di dire il perno sul quale ruota il resto è quello  attorno al’60: quando la “natura” del gesto s'incontra  felicemente conlo schema, generando una concrezione  araldica, l'intenzione simbolica con il simbolo ricono-  sciuto nella memoria collettiva; ennesima variante  della tradizione dell’ornato, raccolta e riavviata dal  Liberty: insieme puro gesto e automatismo assolu-  tamente impuro. In questa mostra, il momento avrà  adeguata evidenza. Ma è anche vero che Galvano  si guarda bene dal protrarre artificiosamente quel  momento (diciamolo pure, straordinario, quasi senza  confronto in Italia), tanto che si prenderà negli anni  immediatamente successivi, dal ‘62 al ‘65 circa, una  pausa di riflessione che produrrà anziché pittura saggi  teorici che culminano in Artemis Efesia, per riprendere  il filo (la matassa) della pittura con proposte (in appa-  renza) assai differenti: le bandiere, i nastri, 1 padiglioni,  gli anelli di Moebius.   Che cos'è la pittura per Galvano, allora?   Scrive di lui nel 1974 l’amico / avversario Giulio  Carlo Argan, che ha scommesso sul progetto ideolo-  gico, vincente almeno per un certo periodo storico:  “Egli non risponde una volta per sempre, con una  definizione filosofica: infatti ciò che vuol sapere è  che cosa sia la pittura in questa precisa condizione  della cultura, della coscienza, dell’esistenza, e quale  sia il suo grado di vitalità, quali le sue possibilità di  sopravvivere in uno spazio ogni giorno più ristretto”.   Non gli si potrebbe dar torto, se non fosse che  proprio l’opera e ciò che la sottende, l’opera come atto  critico, questo è appunto il suo contributo filosofico, e  anche la sua testimonianza sapienziale, che trascrivo  da una autopresentazione del 19822:   “Dunque [la pittura], una meditazione sulla morte  imminente [...] o il recupero della gioia ottica nello  spazio ripercorso in termini di colore e di luce, sia  pure della luce irreale della memoria e del sogno? O  la scenografia di ambigue emersioni dall’inconscio?  Davvero non saprei dirlo, e, forse, è inutile porsi le  domande. Forse anche soltanto la monotona iterazione       25. G.C. Argan, in catalogo della personale, Galleria Unimedia,  Genova, 1974.   26 A. Galvano, Autopresentazione, in catalogo della mostra,  Piemonte Artistico Culturale, Torino 1982.    12    di una passione per il dipingere, che ripercorre con  insistenza sigle che non è più capace di vivificare colla  curiosità e il gusto avventuroso della giovinezza”.  Tante pitture, allora, e però tutte mirate ad essere  presenza di pittura e non illustrazione di concetti.  Pittore concettoso, a volte, mai concettuale nel senso di  illustratore di concetti : aggiungo,nel segno di una ine-  ludibile, per quanto mascherata vocazione poetica.”   Devo citare, almeno una volta, Edoardo Sangui-  neti, allievo e amico, grande estimatore di Galvano:  “Mi trovo [...] forzato a pensare che, alle radici del  lavoro di Galvano, come artista e come studioso,  stia un'immagine — è la parola giusta — che accenna  all'uomo come animale che è capace di immagine.  E dunque un’antropologia fondata sopra la facoltà  della visione”,   In formula perfetta, a conclusione di Storicità e  significato dell’arte astratta (1953), Galvano aveva già  precisato:“L'opposizione affermata da Mallarmé tra  la concretezza della vue e l’allusività delle visions,  l'affermazione di Alain che il poeta è l'opposto del  visionario perché sa di non vedere sino a che la mano  non abbia realmente costruito nello spazio l'oggetto  che la passione progettava, sono divenute nella co-  scienza del pittore concreto l'imperativo di una scelta  tra il peso della memoria e la libertà pericolosa di una  iniziativa tutta affidata al risultato”. F. Garimoldi,  nel saggio più volte citato”, sottolinea che Galvano  pone come centro dell’arte “l’insoluto rapporto fra  espressione ed enigma” (che cosa di più chiaramente  collocato sulla linea romanticismo-simbolismo come  la vede Albino?), citando una autopresentazione del       27, La seconda parte di questo scritto elabora liberamente tre  miei testi: in ordine cronologico, Témoignage de notre dignité, in Fi-  gure d'Arte, artisti a Torino dagli anni ‘50, a cura di A. Balzola, R.  Cavallo, E. Ghinassi, P. Mantovani, Alberti ed., Pescara 1991; A  proposito del pittore Albino Galvano, in Attraverso il Novecento. Albi-  no Galvano, 1907-1990, a cura di M. Pinottini, Bulzoni ed., Roma  2004; Albino Galvano pittore, catalogo della mostra, Galleria del  Ponte, Torino, 2010.   28 E. Sanguineti, Contro la ragione, “La Stampa”, 10 marzo 1990.  Un libro singolare, dove Sanguineti è figura nodale nella messa in  circolo della “linea liberty” ancora nella seconda metà del ‘900; li-  nea che Casorati, Cremona, Mollino e Galvano avevano mantenu-  ta viva con originali apporti nella prima metà del secolo, è L'altra  faccia della luna — Origini del neoliberty a Torino di Elvio Manganaro,  Libria ed., Melfi 2018. Al libro citato devo la conoscenza di un te-  sto di Galvano: Processo alla pittura in “Il Selvaggio”, 15 novembre  1938, che dà originale contributo alla interpretazione della vicenda  artistica della sua generazione, che “si gioca tutto nello spazio che  separa le Uova del 1914 da quelle del 1920, o tra l’”Icaro senza ali e  le ali senza volo del Sogno...”, di Casorati naturalmente, perché  proprio Casorati era “appartenuto paradigmaticamente ai due  mondi [...] quello della figlia di Iorio e quello della Jeune Parque”...  (E. Manganaro, L'altra faccia della luna, cit., pagg. 168-170).   29 A. Galvano, Storicità... cit., 1953.   30 EF Garimoldi, A. G. Progetto di una nuova cultura, in Omag-  gio..., cit., pag. 15.    ‘77%:"Si dà arte solo quando il non differente operare  a fini strumentali o di puro edonismo è impedito e  stravolto dai sedimenti di una vicenda individuale che  s'insinuano e dominano dove pretendeva condurre il  gioco la razionalità del progetto decisionale. A que-  sta condizione in ogni tempo si è cercato di opporre  la dignità dell’autocontrollo [...], certo vanamente,  ma anche proficuamente perché [...] la possibilità di  coinvolgere gli altri [...] non consiste se non nel pun-  tualizzato istante di tensione in cui lascia materiale  traccia di segno o di tocco quel gioco d’insidie; l'istante  in cui l’inspiegata vicenda interiore si fa immagine ed  emblema”.       Con Francesco Bartoli a Palazzo Te, Mantova, 1988.    Nota bibliografica    La discutibile scelta di privilegiare la pittura  come via di accesso alle molteplici attività di Albino  Galvano, obbliga a segnalare gli autori che hanno af-  frontato il caso con particolare intelligenza e puntuale  cultura filosofica.   E. Sanguineti, in catalogo Antologica, 1979; R.  Tessari, nello stesso catalogo, e Galvano e il mito, in  Figure d'Arte, cit. 1991; G. Carchia, Prefazione a Arte-  mis Efesia, nella riedizione del 1989, cit.; P. Fossati, F.    31 Autopresentazione, mostra personale, Galleria Weber, Tori-  no 1977.       13    Garimoldi, M.C. Mundici (a cura di), catalogo della  mostra al Circolo degli Artisti, cit. 1992; A. Balzola,  Galvano e D'Adda: l'immagine matrice, in Figure d'Arte,  cit. 1991; G. Gallino, pagg. 27-46 e F. Salza, Albino  Galvano e Jung, in“ Attraverso il Novecento”, cit. 2004;  A. Ruffino, Introduzione in Albino Galvano — Diagnosi  del moderno, cit. 2018.   A parte, segnalo il “ritratto” che ne fa Paolo Fos-  sati, con riferimento prevalente agli anni Sessanta e  Settanta, presentando Omaggio a Albino Galvano nel 1992;  e le memorie che in circa trent'anni di colloqui — non  di rado centrati su Casorati, Cremona e Galvano — ho  potuto raccogliere da Gino Gorza, l'unico artista di  generazione successiva che per cultura e gusto potesse  essere accostato a Galvano. Fu proprio Gino a volere una  mostra comune — con il significativo titolo di Sincronie  — a Mantova in Palazzo Te, nel 1988; riannodando il  filo della presentazione che Albino gli aveva dedicato  dieci anni prima, per l’Antologica nello stesso luogo.  Ricordo all’inaugurazione del 1988 la presenza di  Francesco Bartoli, documentata anchein una fotografia  dove il geniale interprete di Licini sembra inchinarsi al  geniale interprete di Artaud. Più recentemente, sempre  al Te, una giornata di studio dedicata a Bartoli è stata  anche l'occasione per rievocare la figura di Galvano  con Roberto Tessari. Anche Tessari è mancato.    Prova di ritratto    Uomoriservatissimo, comea volte chi non si neghi  alla mondanità, anzi se la imponga come esercizio.   La leggendaria disponibilità (senza ombra di  debolezza) realizza una delle forme più aristocratiche  dell'etica (per discrezione in maschera di rigore pro-  fessionale). Essenziale un fondo di malinconia, come  misura di una perdita irreparabile, e di nostalgia per  una totalità irreversibilmente frantumata.   Tra distacco soggettivo e oggettiva commozione  scorre l’impurità di un continuare a vivere, si scrive in  tracce stenografiche il diario di un sedotto ... e di un  seduttore per forza (di un gentiluomo piemontese).   Sensualissimo lettore; scrittore capace di costruire  macchine logiche come trebbie di tortura, e di avvolgere  in sontuose inestricabili ragnatele (costante una specie  di dolcezza, cui tanto meno resistono rigidi baluardi):  trascurabile vi è l'inganno, perché la circonvenzione è  ignobile, specialmente d'incapace.   Come un dovere coltiva il diletto: su questo piano  potrebbe essere magistrale se non fosse troppo fine e  pericoloso un tal modello. Nel suo sistema, la pittura  rappresenta il “concreto”. Distratto semmai da irridu-  cibile curiosità, non è mai astratto.   Ireos, sassi e conchiglie sigillano una storia so-  stanzialmente coerente, perché osano confronto con il  principio e la fine: così su una pietra tombale si posano  cose e il tempo vissuto, relitti nudi, epifanie senza velo.    Omaggio a Albino Galvano       Catalogo mostra antologica, Palazzo Chiablese, Torino, 1979.  Catalogo mostra antologica, Circolo degli Artisti, Torino, 1992.  Atti del convegno, a cura di M. Pinottini, Torino, 1997.   Antologia di scritti di A. G., a cura di A. Ruffino, Aragno editore, 2018.    Electa Piemonte    ATTRAVERSO  IL NOVECENTO:  ALBINO GALVANO  (1907-1990)    a cura di    Marzio Pinottini    BIBLIOTECA DI CULTURA / 657    BULZONI EDITORE       14    Albino Galvano: la fedeltà alla pittura    Luca Motto    Il magistero casoratiano e la prima figurazione  1928 — 1944    Albino Galvano nacque a Torino il 16 dicembre  1907, l’anno d'esecuzione delle Demoiselles d'Avignon  di Picasso che segnò l’imporsi e il susseguirsi delle  avanguardie: « che nel bene e nel male problematico  [...]dovevanocaratterizzare, inconcomitanza concrisi  umane, politiche e sociali ben più gravi, ilnostro secolo  sino a porre oggi il problema della “morte dell’arte”  qualunque cosa si intenda sottolineare con questo  termine apocalittico»!. Galvano pur muovendosi nel  solco della modernità, affondava le sue radici in una  meditata e personalissima assimilazione di riferimenti  pittorici dell'Ottocento e del primo Novecento, ben  lontano dalla reazione e dall’inattualità. Apparteneva  all'ambiente casoratiano e alla sua scuola «divenuta il  centro di un'opposizione cortese, tacita che non esclu-  de — la cosa è molto torinese — rapporti amichevoli o  per lo meno corretti con gli avversari»?.   Nel decennio 1918-1928 venne segnata la tempe-  rie di una Torino moderna (tuttavia non futurista) di  seguito enunciata in pochi assunti utili a comprendere  l’ambiente artistico nel quale il giovane Galvano s'in-  trodusse: la comparsa di Felice Casorati alla Promotrice  del 1919 come artista rivoluzionario e di rottura; la  «breve esistenza » di Piero Gobetti e il suo cenacolo  antifascista; le polemiche e la reazione dell'ambiente  cittadino alle scelte di «gusto» antinovecentiste di  Lionello Venturi rivolte all'arte di nuovi «primitivi»,  gli impressionisti; il fugace percorso del gruppo dei  Sei di Torino (coagulato e promosso dal duo Persico e  Venturi)che rinunciarono a «Roma madre» per «Parigi  amica»; e la vitalistica apertura culturale europea del  finanziere, collezionista e mecenate Riccardo Gualino.   Dopo un precoce apprendistato con il pittore  Giovanni Pisano e il maestro di disegno Vannini,  l'educazione di Galvano all'arte contemporanea si svi-  luppò suriviste di settore (in particolare”“Emporium”  e “L'art vivant”) e attraverso la frequentazione delle  Biennali veneziane. Alla rassegna del 1928 Galvano  poté osservare dal vivo la pittura di Felice Casorati  che rappresentò «la scoperta del mondo nuovo e spre-  giudicato che si apriva alla nostra cultura: l'ingresso  del mondo “moderno”»*.   Al termine del 1928 si iscrisse alla Scuola Libera di  Pittura di Casorati (sorta a Torino nel 1921 e struttu-  ratasi maggiormente dal 1927 nella nuova sede di via  Galliari, antistante l'abitazione di Riccardo Gualino) e  la frequentò fino al 1930. Il suo magistero, lontano da       1. A. Galvano, Autobiografia, in N. Pizzetti e G. Givone (a cura  di), Albino Galvano, catalogo della mostra, Palazzo Chiablese, Re-  gione Piemonte, Torino 1979, pp. 17 — 18.  2 A. Galvano, Torino e i «Secondi futuristi», in A. Galvano, Dia-  gnosi del moderno. Scritti scelti 1934 - 1985, a cura di A. Ruffino,  Nino Aragno editore, Torino 2018, p. 344.    15       Albino Galvano (al centro, seduto) e (da sinistra, in piedi, tra gli altri)  Filippo Scroppo, Daphne Maugham, Rina Galvano, Danila Cremo-  na, Felice Casorati, Carol Rama, Leopoldo Bertolè, Valpellice 1949.    «Ogni sistematicità d'accademia»°, non fu solamente  estetico ma anche pregno dell'eredità etica e politica  gobettiana: un debito verso quel «fanciullo puro» che  esigeva «fedeltà e non lacrime»®. Per Galvano il punto  fondamentale della sua formazione fu il trovarsi par-  tecipe di un ambiente che lo salvò «tanto dal rischio  di un'adesione acritica al regime imperante [...] e da  quello ben più grave [...] di un'immersione o som-  mersione nella Torino di quel tipo di borghesia che  amava in pittura Giacomo Grosso». L'insegnamento  del «platonico» Casorati, pervaso «d’una signorile  severità», verteva su l’«insieme» e il «tono». Dalla  monografia Felice Casorati di Galvano (1940, editore  Hoepli, Milano) si legge che il Maestro consigliava  agli allievi di «imparare a vedere il più semplicemente  possibile [...] la forma di quella determinata massa  tonale, di quella determinata massa chiaroscurale,  non la forma dell'oggetto» [...]. La forma serve qui  a distruggere la linea ed a passare al colore [...]»*.   Il clima della scuola di via Galliari fu efficacemente  narrato da Lalla Romano ne Una giovinezza inventata:  «Verso sera venivano sovente visite: Alberto Rossi,  Mario Soldati, Carlo Levi. Levi ridacchiava — con  noi — sull'indirizzo classicistico della scuola, dove gli  allievi più ambiziosi preparavano un bozzetto per il  quadro. Rideva ma affettuosamente. C'era una base  culturale comune: il disprezzo per il fascismo».I  nomi citati sono solo una parte delle personalità con  cui Galvano, all’inizio degli anni Trenta, instaurò un  duraturo rapporto amicale sulla via del confronto  artistico, tra gli altri: Paola Levi Montalcini, Sergio  Bonfantini, Riccardo Chicco, Italo Cremona, i Sei e       5 P. Gobetti, Iniziative d'arte a Torino, in “L'Ordine Nuovo”, 27  dicembre 1921.   6 F. Casorati, in “Il Mondo”, 20 marzo 1926.   7. A. Galvano, Autobiografia cit., p. 17.   8 A. Galvano, Felice Casorati, cit. pp. 369, 371.   O) L. Romano, Una giovinezza inventata (1979), Einaudi, Torino  2018, p. 185.       Giulio Carlo Argan, ma anche Carlo Mollino, Massimo  Mila, Leone Ginzburg e Franco Antonicelli.   La pittura postimpressionista di Galvano del  decennio Trenta e fino al 1945 si orientava in un «con-  traddittorio intento di tenere insieme i valor plastici  di Casorati e quelli dei Sei» il cui risultato «pesante e  impastato» fu autocriticamente espresso dall'artista  stesso!°. Anche una certa l’arte d'oltralpe praticata da  stranieri fascinò Galvano (Maurice de Vlaminck, Ko-  stia Terechkovitch, Christian Krog), mentre i rimandi  nostrani furono indirizzati alchiarismo lombardo eai  tonalisti romani. «Quei loro mezzi [...] misi sfasciava-  no ed intorbidivano tra le mani, rimanendo parentele  d’accatto o esperimenti di lettura, ed enorme riusciva  la dispersione e la perdita di tempo»"!.   Un repertorio antinovecentista di temi iconogra-  fici ricorrenti segnò quel periodo: «pesci, molluschi,  conchiglie, vecchi libri accartocciati, crocefissi e  acquasantiere barocchi, nudi tortili come molluschi  e paesaggi incerti tra quegli andamenti sinuosi e un  modesto cezannismo che era nell’aria»!“.   Galvano s’inserì nel circuito espositivo nel 1929,  anno in cui le arti si avviavano verso la loro fasci-  stizzazione di forma con l'istituzione del Sindacato  Fascista a cui venne affidato il compito di gestire le  manifestazioni espositive periodiche sul territorio  nazionale. Il rapporto con la società artistica di un  Novecento sarfattiano (a un passo dallo smantella-  mento definitivo) e della retorica celebrativa di Stato  era destinato tuttavia a un sostanziale fallimento.   A Torino Galvano esordì nell'alveo casoratiano  in due mostre della scuola nel 1929 e nel 1930. Dal  1930 al 1942 furono regolari le sue presenze alle espo-  sizioni annuali della Promotrice di Belle Arti con più  sporadiche puntate alla Società degli Amici dell’arte  (1931, 1932, 1934).   Il critico Emilio Zanzi, in una recensione riguar-  dante un'esposizione di vendita torinese del 1934,  sagomava i tratti pittorici del giovane Galvano: «[...]  sfuggito anzitempo alla disciplina rigorosa della  scuola di Casorati. Il Galvano in certe composizioni di  nature in silenzio ricorda la chiara e sapiente pittura  del Maestro, in altri quadroni ricerca l’effetto della  pennellatona agile ed abile, cara passione di qualche  post-impressionista»".   Alle rassegne di carattere nazionale Galvano  prese parte alla I e alla Il Quadriennale romana (1931  e 1935) dove vi fu una discreta rappresentanza torine-  se e piemontese: Felice Casorati e il suo discepolato  (Paola Levi Montalcini, Nella Marchesini, Sergio  Bonfantini, Emilio Sobrero), Daphne Maugham,          10 A. Galvano, Autobiografia cit., p.18.   11 A. Galvano, in catalogo della mostra, Galleria La Giostra,  Asti 1952.   12. Ibid.   13 E. Zanzi, in “La Gazzetta del popolo”, 1934    16       Albino Galvano e Filippo Scroppo alla I Mostra Internazionale  dell'Art Club, Palazzo Carignano, Torino 1949.    parte dei Sei (Carlo Levi, Francesco Menzio, Enrico  Paulucci), Giulio Da Milano, Umberto Mastroianni,  Italo Cremona. Alla Biennale di Venezia del 1930  Galvano presenziò con un’opera nella stessa sala di  Casorati e allievi, mentre nell'edizione 1936 espose  isolato (a Gigi Chessa scomparso nel 1935 venne  dedicata un'ampia retrospettiva, Menzio e Paulucci  comparivano attigui).   In questo periodo sono da indagare infine le par-  tecipazioni alle quattro edizioni del Premio Bergamo  (1939-1942). Fuuna manifestazione, insieme al Premio  Cremona, che svelò la dialettica artistica italiana: due  componenti antitetiche dello stesso volto del regime.  Il primo (promosso da Giuseppe Bottai), più elitario,  «si riallacciava a un versante dell’arte italiana colto,  internazionale e post-impressionista»!* suscitando  polemiche nell’ala più intransigente del fascismo; il  secondo (voluto da Roberto Farinacci) era sintonizzato  sull'onda delle mostre hitleriane.   AII Premio Bergamo del 1939 (in giuria Casorati,  Funi, Longhi e Argan) il terzo riconoscimento venne  suddiviso tra cinque concorrenti: si evidenziava la  presenza romana di Giuseppe Capogrossi e quella  piemontese con Menzio, Paulucci, Galvano e Piero  Martina (era presente anche Nicola Galante, non  premiato). Al secondo Premio Bergamo del 1940  Galvano ricevette una particolare menzione e il suo  dipinto fu acquistato dal Ministero dell'Educazione  Nazionale. Galvano espose anche alla terza (1941) e alla  quarta edizione (1942, vincitore l’intimista Menzio),  la rassegna scandalo della Crocifissione di Guttuso,  reinterprete drammatico e rabbioso di un’iconografia  mutuata dal sacro: anticipazione in chiave cubista  della militanza postbellica.   Il ventennio Trenta-Quaranta contrassegnò inol-             14 AA.VV, Gli anni del Premio Bergamo: arte in I talia intorno agli  anni Trenta, catalogo della mostra, Bergamo, Electa, Milano 1993,  p. 58.    tre il compimento della formazione intellettuale di  Galvano che si laureò nel 1938 (con Angiolo Gambaro  e Nicola Abbagnano) con una tesi sulla pedagogia  della religione: primo atto dell’approfondito con-  fronto con le tematiche spiritualiste, antropologiche  e filosofiche (in primis l'influenza di Benedetto Croce  e Henri Bergson).   Tra le sue prime prove di critica d’arte si possono  menzionare il breve scritto del 1932 su Armando Spa-  dini in “L'Arte” diretta da Venturi; il saggio del 1934  su Luigi Spazzapan in “Orsa”; le collaborazioni con il  periodico milanese “Le arti plastiche (1933) e la reda-  zione delle cronache d’arte torinese per “Emporium”  (1938-1942). Si ricordano inoltre i volumi del 1938 (per  l'editore fiorentino Nemi) L'arte egiziana antica, L'arte  dell'Asia occidentale e centrale, L'arte dell'Asia orientale;  la monografia Felice Casorati edita da Hoepli (nel  1947 uscirà una seconda edizione) e Tre nature morte:  Casorati, Menzio, Paulucci pubblicato a Torino nel 1942.   Fu assistente alla Cattedra di pittura di Paulucci  all'Accademia Albertina di Belle Arti di Torino nel  1942 e da quell’anno, fino al 1978, insegnò storia e  filosofia negli istituti liceali. Tra inumerosissimi allievi  con i quali mantenne profondi legami si ricorda in  particolare Edoardo Sanguineti.    Dalla fase espressionista verso l'astrattismo 1945-1951    AI termine del conflitto bellico per Galvano e gli  artisti della sua generazione s'impose il confronto con  l'avanguardia, l'Europa e il moderno. «Moderna non  è soltanto l’arte prodotta nel periodo in cui viviamo,  ma quella che di voler essere moderna ha program-  matica intenzione! [...] Che assume come categoria  predicativa l'affermazione di “novità” rispetto ad  una situazione di cultura storicamente conclusa.  [...] Il concetto di moderno si chiarisce, così come un  concetto “etico” [...] per cui l'avversario non è un  modesto o nullo artista, ma il traditore di una causa  totale, il reazionario che non merita pietà e al quale  non giova la buona fede». Queste lucide affermazioni  di Galvano aiutano a delineare un settore della sua  linea di pensiero che contribuì ad animare il vivace  dibattito degli intellettuali torinesi, fautori di quel  compatto blocco culturale che, tra il 1945 e il 1947 tentò  una ricostruzione «morale e civile» della società. La  posizione politica di Galvano dopo la Liberazione fu  abbastanza distante dall’ideologia estetica del fronte  comunista. L'urto «non era tanto fra tradizione e  innovazione, anche meno tra astratto (o concreto)  e figurativo [...] ma tra militanza “costruttiva” ed  autonomia “critica” [...]»!9.          15 A. Galvano, Moderno, in Enciclopedia Universale dell'Arte, vol.  IX, Fondazione Cini, Roma-Venezia 1963.   16 G. Mantovani, Il malessere dell'arte, in A. Galvano, La pittura,  lo spirito e il sangue, a cura di G. Mantovani, Il Quadrante edizioni,    E;    Negli anni postbellici il complesso confronto-  scontro con Croce era ineludibile e la posizione di  Galvano (sviluppata in anni più tardi nel fondamen-  tale scritto Perché non possiamo non dirci crociani, 1953)  merita qui qualche breve accenno. L'intuizione pura,  come atto teoretico astorico, non poteva prescindere  dalla soggettività dell’«opera manuale». La polarità  non sussisteva tra il bello crociano, simbolo del bene  morale e il suo opposto, quanto tra lo «spirito» (il  momento razionale - contemplativo) e il «sangue» (il  principio vitale inconscio che in ultimo concretizza  l’opera con il linguaggio scelto). Scriveva Galvano  nel numero unico del periodico “Tendenza” (1946,  coideato con Pippo Oriani): «Questo bisogno del  sangue che ignora l’astratto spirito e gli anatemi e  le accuse di “naturalismo” degli idealisti o quelle di  “immoralità” degli spiritualisti è essenziale all'opera  di pittura. Essa cade o sussiste con il sangue non con  lospirito»!. L'attività di critico d’arte seguitò in quegli  anni anche su quotidiani come “La Nuova Stampa”  (nel 1946) e “Mondo Nuovo” (nel 1947 e 1948).   Tra il 1945 e il 1949 la pittura di Galvano si aprì  ad una fase espressionista slargandosi e semplifi-  candosi in campiture bidimensionali dai contorni  lineari marcati e attraverso l’uso di un cromatismo  timbrico. In un testo di autopresentazione del 1952  l'artista esplicò: «Così quando, intorno al 1941, Guttuso  guardando a Picasso, Birolli e quelli di “Corrente”  sbirciando l’espressionismo, diedero altro indirizzo  alla pittura italiana, mi trovai in ritardo rispetto a quei  coetanei e ai loro discepoli molto più giovani di me, e  con un bilancio piuttosto negativo. [...] Tentavo così  una soluzione in un breve periodo di esasperazione  “espressionistica” del segno, dove l’“illusivo” si tra-  sformava in “allusivo” a quelle immagini che potevo  considerare mie».   Galvano puntualizzava inoltre di essere stato  tentato verso «esperienze varie di carattere cultu-  ralistico, fra cui un primo richiamo al liberty che  allora fu aspramente rimproverato da certi critici (A.  Podestà) come incomprensibilmente anacronistico  ma che almeno come recupero critico, rappresentava  un'anticipazione di interessi e recuperi diventati di  moda un ventennio più tardi».   Nella Torino della Ricostruzione gli spazi esposi-  tivi erano esigui; molto spesso sorgevano in simbiosi  con una libreria come per esempio la Galleria Faber,  dove Galvano nel 1945 partecipò ad una Antologica  di Maestri contemporanei. Alla personale di Galvano  del 1946 presso la Libreria del Bosco «ci troviamo di  fronte ad un artista dalle varie esperienze», denotava          Torino 1988, p. 18.   17 A. Galvano, La pittura, lo spirito e il sangue, in “Tendenza”,  n.1, 1946.   18. A. Galvano, Galleria la Giostra cit.   19 A. Galvano, Autobiografia cit., p. 18.    Salvatore Gatto su “L'Unità”, e proseguiva: «riesce  spesso a lievitare le acquisizioni culturali ed a tradurle  in efficienti risultati creativi». Il molteplice approccio  stilistico, confessato dallo stesso Galvano nell’auto-  presentazione del 1979, è qui confermato: «leggero  impressionismo, [...] decorativismo un po’ orientale,  [...] motivi che tendono a risolversi in figurazioni quasi  astratte». La fase pittorica più recente, concludeva  Gatto, «pare indirizzarsi verso una pittura dominata  da una volontà ed un’ansia di sintetismo formale»?.   Alla Biennale di Venezia del 1948 (la prima edi-  zione al termine del ventennio fascista nella quale  emersero le linee essenziali degli sviluppi dell’arte  moderna europea) Galvano partecipò su invito con  cinque opere (nudi e nature morte del 1947-48) in sala  con Martina e Paulucci. In quell’edizione fu parecchio  vasta la partecipazione di artisti torinesi sulla via  dell’astratto: Sandro Cherchi, Mario Davico, Franco  Garelli, Gino Gorza, Paola Levi Montalcini, Umberto  Mastroianni, Mattia Moreni, Adriano Parisot, Carol  Rama, Filippo Scroppo. All’edizione del 1950, nuova-  mente su invito, Galvano fu presente con tre opere (in  sala con Birolli, Corpora, Moreni, Morlotti, Turcato,  Vedova, Zigaina).   Nel quadriennio 1948-1951 si registrarono nume-  rose partecipazioni dell'artista a rassegne nazionali di  verifica diretta degli sviluppi artistici contemporanei,  tra cui la Quadriennale romana del 1948 e la mostra  collettiva Arteastratta e concreta presso la Galleria Nazio-  nale d’arte moderna di Roma nel 1951(il comitato ese-  cutivo era composto da Joseph Jarema, Palma Bucarelli  e Giulio Carlo Argan). Il testo di Galvano in catalogo  analizzava la ricerca concretista propria e dei torinesi  verso una direzione lontana dal «formalismo astratto»  insenso stretto e intesa attraverso la «‘“proiezione” nelle  strutture dell'oggetto stesso di una carica emotiva, che  asua volta presuppone la totalità spirituale dell'artista  impegnato, ed impegnato “responsabilmente”, in una  prospettiva, in una scelta, in una “Weltanshaung”, cioè  in ultima analisi in un punto di vista etico e metafisico  [...]. Non può perciò stupire che anche a Torino siano  proprio gli artisti più responsabili di fronte a un loro  mondo interiore a volgersi a questa pittura. Superfluo  cercar nel dato estrinseco del gusto un’unità “munici-  pale” o di gruppo: se mai l’unità “torinese” di questi  pittori è nella condizione di cultura cui lo stesso schivo  etalvolta un poco scontroso raccoglimento della città in  cui essi lavorano, è, per taluna delle ragioni accennate,  propizia»”!.   Rilevanti furono inoltre le sortite extranazionali  del 1951. In occasione della mostra nizzarda, Peintres  de Turin, Galvano definì forme e colori delle sue com-       20 S.Gatto, Mostra d’arte. Galvano al Bosco, in “L'Unità”, 31 mag-  gio 1946.   21 A. Galvano, in Arte astratta e concreta, catalogo della mostra,  Galleria Nazionale d’arte moderna, Roma 1951.    18       Con Enrico Paulucci, Albino Galvano e Filippo Scroppo. Confe-  renza al Circolo degli Artisti, Torino 1967.    posizioni come «feticci laici», «costanti di sentimenti  e impulsi» che non necessitavano di riportarlo «a una  rappresentazione esteriore e imitativa». «La topografia  spirituale di questo mondo che non è né meccanica né  architettonica, ma piuttosto organica e determinata  soprattutto dalla tensione tra le forze elementarie vitali  pressanti, da una parte, e l'aspirazione religiosa o me-  tafisica dall'altra, che vuole dominarle e oggettivarle  nello spirito delle tradizioni filosofiche e religiose alle  quali nei miei quadri faccio a volte allusione anche  attraverso i titoli stessi».   Al Premio Parigi (itinerante anche a Cortina  d'Ampezzo) il critico Luigi Carluccio seguitava di  rimando: «[...] L'artista si è portato sempre su posi-  zioni di ricerca mantenendo tuttavia vivo il dialogo  fra i suoi istinti pittorici e le sue meditazioni. [...] Il  temine “feticcio laico” [...] annota con felice incidenza  che all'origine degli impulsi e dei sentimenti è sempre  vivo lo stesso dibattito tra la pressione vitale di forze  elementari, naturali, e l'aspirazione ad ordinarle in  una ragione metafisica»?3.   Il rivolgersi all'arte d'oltralpe (già a partire dalla  mostra Arte francese d'oggi, Roma e Torino 1947) ebbe  degli echi a Torino con le sei edizioni della rassegna  Pittori d'Oggi Francia- Italia (1951-1961) promosse da  Carluccio e alle quali Galvano partecipò alla prima  (1951) e alla terza (1953), così come figurava ai due  Premi Saint Vincent (1948-1949) messi in piedi dalla  fronda democristiana capeggiata da Carluccio in re-          1951.  23 L. Carluccio, in Mostra Nazionale del Premio Parigi 1951, cata-  logo della mostra, Cortina d'Ampezzo 1951 e Parigi 1951-1952.       Con Mauro Chessa e Liliana De Matteis.    azione al Premio Torino del 1947, troppo polarizzato  a sinistra secondo il critico.   È di vitale importanza ricordare infine il ruolo  di Galvano come animatore culturale nel clima  di fermento postbellico, dapprima impegnato  attivamente come promotore dell’Unione Culturale  (sorta nel 1945, raccolse intellettuali antifascisti tra cui  Giulio Einaudi, Massimo Mila, Franco Antonicelli,  Lionello Venturi e tra gli artisti Casorati, Menzio,  Levi) e nel 1949 come propugnatore di due rassegne  artistiche: la I Mostra Internazionale dell'Art Club a  Torino e la Mostra d’arte contemporanea di Torre Pel-  lice. La prima — con presidente Casorati e segretario  Scroppo, organizzata dalla sede torinese dell'Art  Club, un'associazione apartitica internazionale —  mirava a presentare le nuove voci artistiche italiane  e di diversi stati esteri. La seconda, aveva sede a  Torre Pellice, che «pur nella modestia delle proprie  possibilità, possiede, come centro delle Valli Valde-  si, una secolare tradizione di cultura che ha i suoi  particolari caratteri di pensiero e di ispirazione»”4.  Era stata ideata insieme a Filippo Scroppo, artista  e critico valdese, (nativo della Sicilia ma inseritosi  dalla metà degli anni Trenta nell'ambiente cittadino)  e da Leopoldo Bertolè notaio e illuminato collezio-  nista di moderno. La Mostra d’arte contemporanea  — appuntamento estivo annuale protrattosi per un    24 Mostra d'arte italiana contemporanea, catalogo della mostra,  Collegio Valdese, Torre Pellice 1949.    19    quarantennio (1949 - 1991) al quale Galvano espose  assiduamente—trasformòla cittadina della provincia  torinese in un polo culturale aggiornatissimo sulle  ricerche artistiche nazionali e con qualche non rara  puntata internazionale.    Il Movimento Arte Concreta 1952-1955    Il «confuso ribollire di tendenze astratteggianti»?,  che imperava tra il 1947 e il 1951, andò delineandosi  verso l’elusione dell’astrazione su base mimetica in  favore del concretismo. Una lucida definizione della  corrente venne offerta da Gillo Dorfles in uno scritto  del 1951, il così detto manifesto del Movimento Arte  Concreta, (MAC) fondato a Milano nel 1948 insieme  a Bruno Munari, Gianni Monnet e Atanasio Soldati.  Dorfles precisava il concetto di concreto «che non cer-  cava di creare delle opere d’arte togliendo lo spunto  o il pretesto dal mondo esterno e astraendone una  successiva immagine pittorica, ma che anzi andava alla  ricerca di forme pure, primordiali, da porre alla base  del dipinto senza che la loro possibile analogia con  alcunché di naturale avesse la minima importanza»”.   L'adesione formale al MAC di Galvano eun gruppo  di giovani torinesi — Annibale Biglione, Adriano Parisot,  Filippo Scroppo e in seguito Carol Rama e Paola Levi  Montalcini — avvenne nel 1952. A Torino il coagulo del  Movimento rappresentò una sfaccettata unione di poe-  tiche, abbastanza distante dal rigore costruttivista delle  soluzioni compositive lombarde che fondava le sue basi  nell’Astrattismo storico internazionale e locale degli  anni Trenta. In questa sede non è possibile analizzare  la presa di coscienza sulle radici dell'avanguardia delle  personalità torinesi e ci si limita al solo caso di Galvano.   Nel 19471] distacco di Galvano dal comitato promo-  tore del Premio Torino (la prima manifestazione locale di  arte attuale italiana dopola fine della guerra)non avven-  ne solo per posizioni politiche. Come chiariva Giuliano  Martano, nel catalogo della mostra Arte concreta a Torino  1947-1956, per una parte di artisti si trattava di una scelta  di «lettura in quelle matrici dell'avanguardia europea  [...]quasiin contrapposizione alle matrici trovate allora  in un neonaturalismo e del “Fronte nuovo delle arti”»”.   Per Galvano e il discepolato della scuola di Caso-  rati, alla quale riconoscevano la creazione di «una terra  concimata pronta a recepire, stratificazione di cultura  altezzosasevogliamo, maattenta[...]. Aveva purelasciato  ineredità una figurazione latente, una scansione dell’og-  getto che verrà dai torinesi lentamente e sofferentemente  decantata»°. Unosmarcamento, dunque, intotalebuona       25 T.Sauvage, Pittura italiana del dopoguerra 1945 — 1957, edizio-  ni Schwarz, Milano 1957, p. 129.   26 G. Dorfles, Manifesto del MAC, ora in Arte concreta a Torino  1947 — 1956, catalogo della mostra, Sala Bolaffi, Torino 1970.   27, G. Martano, in Arte concreta a Torino 1947 — 1956 cit.   28. Ibid.    pace del Maestro, che anche Galvano intraprese: la via  verso l’astrattismo ben circoscritta e lineare.   La sua poetica, tra i torinesi, era la più distante dal  concretismo «proprio perché non è mai d'origine speri-  mentale ma la sua “avanguardia” si pone sempre come  una verifica dello sperimentalismo. Si pone insomma  come contrasto immediato fra una realtà esterna [...]  ed una realtà interna quasi avida di controllare im-  mediatamente sul terreno stesso dell’accadimento, la  validità dell’accadere, e di controllarlo appunto in via  sperimentale»?   Gli aspetti strettamente contenutistici della pittura  di Galvano della prima metà degli anni Cinquanta  erano in diretto contatto con i suoi interessi in quanto  studioso di filosofia e storia delle religioni.   Andreina Griseri notava che gli entusiasmi per  il Kandinskij volto all’astratto e per il primo Kupka  giungevano «a una presa di posizione nell’ambito  dell’arte non figurativa, chiarita in numerosi scrit-  ti, in cui il Galvano lumeggia la derivazione dalla  secessione di Klimt di molta arte contemporanea in  una interpretazione nuova dei rapporti art nouveau-  Liberty e astrattismo»?°. Degli scritti galvaniani degli  anni Cinquanta ai quali Griseri si riferisce citiamo  almeno: Storicità e significato dell’arte “astratta” (1953),  Dal simbolismo all’astrattismo (1953), Le poetiche del  Simbolismo e l'origine dell’Astrattismo figurativo (1956).   Gli intendimenti del manifesto del MAC torinese  del 1952 furono piuttosto netti. Più in generale erano  incontrapposizione con il dibattito dilagante in quegli  anni che scindeva gli artisti tra formalisti e realisti, con-  tro il neopicassismo ed estranei al «pudore» del com-  promesso dell’astratto-concreto di Venturi. A livello  localelalororicerca era indirizzata all'emancipazione  dall’orbita casoratiana, dal neoimpressionismo dei Sei  e dal secondo futurismo con il quale condividevano  lo spirito avanguardistico, ma certamente non gli in-  tenti. Biglione, Galvano, Parisot e Scroppo firmarono  il testo programmatico, con la responsabilità di «lotta  contro ogni conformismo pigrizia intellettuale». «Se  il nome stesso di “arte concreta” [...] sta a significare  il desiderio di rigore di chi ha rotto ogni ponte con  tradizioni storicamente esaurite [...] per sostituire la  loro ricerca d'una diretta “presentazione” di oggetti  in cui si vengano obiettivando i bisogni spirituali  dell’uomo, come negli strumenti del suo lavoro quo-  tidiano si proiettano i suoi bisogni materiali [...]»®.   Galvano, pur immerso in una personalissima  ricerca non figurativa, nel periodo che all'incirca si    estende tra il 1952 e il 1954, sviluppò una maggior    29. Ibid.   30 A. Griseri, Albino Galvano, in Dizionario Enciclopedico, Utet,  Torino 1957.   31. A. Biglione, A. Galvano, A. Parisot, F. Scroppo, in “Arte con-  creta” n. 9, 15 novembre 1952, ora in L. Caramel, Mac Movimento  Arte Concreta 1948 - 1958, Electa, Milano 1984, p. 58.    20    adesione al MAC. Lo spazio dei suoi dipinti, asciugato  dall'andamento curvilineo delle partiture, si popolò  di forme squadrate dalla linearità spigolosa. Tutta-  via, la freddezza costruttivista e il rigore logico del  concretismo erano solo apparenti; l'artista puntava  al contrario «ad un'arte che preservi il dialogo tra gli  schemi astratto-geometrici e quelli compositivamente  più liberi, moduli grafici e forme archetipiche non  direttamente razionalizzate»”.   Un precoce avvicinamento ai concretisti lom-  bardi lo si data già al 1950. Galvano fu presente a  Milano in due collettive: con Filippo Scroppo (1950,  presentati da Gianni Monnet) presso la Libreria Il  Salto, cenacolo della pittura concreta milanese e  alla Terza mostra di pittura astratta italiana. Astrattisti  milanesi e torinesi allestita alla Galleria Bompiani  (1951, dove esponevano i piemontesi Costa, Davico,  Mastroianni, Parisot, Scroppo, Spazzapan). I mag-  giori rappresentanti della corrente di entrambe le  regioni figuravano, Galvano compreso, anche alla  II e III Mostra d’arte contemporanea di Torre Pellice  del 1950-51.   L'allineamento al MAC di Galvano fu palesato  anche dalla sua presenza ad esposizioni promosse  dal gruppo. La sortita d'esordio dei torinesi (Biglio-  ne, Galvano, Parisot, Scroppo ai quali si aggiunsero  anche Mario Davico, Mario Merz e Ugo Giannattasio)  avvenne alla Saletta Gissi di Torino con la mostra  Pittori astratto-concreti di Milano e Torino. Non fu  però la prima presenza organica del concretismo in  città poiché già nel 1950 presso la Galleria il Grifo  si affacciarono alcuni esponenti milanesi così come  alla Quadriennale Nazionale d’Arte di Torino dove  comparve una nutrita schiera di astrattisti tra cui  anche Galvano. Commentando la mostra presso  Gissi, sul bollettino “Arte concreta” n. 9, Galvano  esibiva la profonda sicurezza di una non superficiale  accoglienza nell'ambiente cittadino e rilevava la  sfaccettatura di posizioni della compagine torinese  che collimavano in una base comune di principi.  «Principi che possono riassumersi in una profonda  fiducia nella capacità dell’uomo ad esprimersi e a  comunicare con gli altri uomini, attraverso il puro  linguaggio delle forme, attraverso l’organicità e la  coerenza ch’esso sa imprimere ad un discorso i cui  vocaboli non hanno bisogno di essere immagini e  finzioni per legarsi a una sintassi espressiva e, nei  casi più felici, poetica»®.   La politica espositiva del gruppo torinese non       32. L Mulatero, in P. Mantovani, I. Mulatero (a cura di), Lucide  inquietudini. Storie singolari dell’astratto-concreto tra il '50 e il ‘70,  Civico Museo d’arte Contemporanea di Calasetta, Calasetta 2016,  p. 26.   33 A. Galvano, Mostra di pittori concreti di Milano e Torino alla  Saletta Gissi, in “Arte concreta” n. 9 cit., ora in L. Caramel, Mac  Movimento Arte Concreta 1948 — 1958 cit., pp. 58-59.       Con un'opera dalla serie i Nastri.    ebbe seguito se non l’anno successivo alla Galleria  5. Matteo di Genova. L'eccezione è rappresentata da  Galvano che figurò in svariate mostre organizzate  dal MAC, si ricordano qui le principali: Pitture di  Albino Galvano in un esperimento di sintesi, presso lo  Studio b24 di Milano nel 1953 (valla pena rimandare  agli «asterischi» galvaniani di quel periodo, quasi  «privati manifesti» sui bollettini “Arte concreta” n.  12 e 14 che chiariscono la sua posizione all’interno  del movimento) e lo stesso anno a Torino da Gissi  esposero pittori concretisti italiani e francesi (Gal-  vano presentò collages polimaterici di ascendenza  prampoliniana); sempre al Torino l’anno successivo  Galvano fu presente ad una mostra allestita dallo  Studio b 24 in occasione del Salone dell'Automobile.  Si menziona a parte la collettiva presso la Galleria  il Fiore di Milano del 1954 dove Galvano espose  insieme a Bordoni, Jarema, Parisot e Scroppo. Nello  scritto introduttivo al catalogo elaborò stringenti  analisi nei riguardi di un’«arte figurativa che non  ripeta ma continui la natura», invitando il visitatore  a riflettere «che l'apparente chiusura ad una più  ovvia comunicazione di queste opere nulla intende  precludere alla possibilità di uno scambio e di una  penetrazione sempre possibili nell'esercizio di una    21    lettura figurativa per elementi, segno colore, mo-  vimento, materia, ecc., non differenti da quelli che  consentono la valutazione di ogni buona pittura»*.   Non sono da dimenticare infine le presenze alle  Biennali veneziane del 1952 e del 1954 con la sua  produzione concretista e la ripresa espositiva alle  rassegne della Società Promotrice di Belle Arti di  Torino (1951, 1953, 1954).    Dall'Informale al neoliberty floreale 1955- 1965    Il «logico passaggio all’astrattismo»” di Gal-  vano culminò tra il 1952 e il 1954 in una fase di  «tensione tra impaginatura attenta alle squadra-  ture neoplastiche e colore tonale impastato». La  vibrazione cromatica delle campiture, ottenuta  attraverso una libera stesura di pennellate, lo portò  a un lento e graduale sfaldamento delle sue strut-  ture geometrico-architettoniche a favore dell’indi-  pendenza dell'immagine e al protagonismo di una  componente espressiva. Sul piano formale il gesto  pittorico si faceva emancipato e l’organicità della  materia riprendeva vigore.   Si segnò qui il definitivo passaggio di Galvano  all’Informale, lontano dall’interpretazione del neona-  turalismo propugnata dal duo Carluccio-Arcangeli  (è proprio nel 1955 che furono presentati a Torino i  giovani artisti informali presso la Galleria La Bussola  nell'esposizione Niente di nuovo sotto il sole, titolo che  rivelava la volontà di mantenere una continuità con  il passato e la natura).   L'evoluzione del concretismo impose a Galvano (e  alla compagine torinese del MAC) un binario doppio  di direzioni che nonsiindirizzò all’antipittura quanto  piuttosto alla scelta di rimanere «dentro la pittura»  nell’opzione di un astrattismo lirico che lo condurrà  verso l’Informale. Un Informale, sosteneva Galvano,  affine alla «declinazione di un linguaggio asemantico  in cui tuttavia potessero trovare esito quelle allusioni  simbolistiche che già avevano un posto ben rivelato  dai titoli dei miei quadri del periodo astratto-concreto  Rica pe   Una delle prime esposizioni che offrirono un  Galvano smarcato dall’astrattismo di matrice con-  creta fu la personale (undici opere del 1954-56) alla  Biennale di Venezia del 1956 mirabilmente introdotta  da Giulio Carlo Argan. «La radice comune della sua  pittura [...]è la distinzione netta tra i concetti di forma  e immagine. L'idea di forma è inseparabile dall'idea  di arte come rappresentazione, implica sempre un  contenuto di nozioni, un riferimento alla natura, un       34 A. Galvano, in Bordoni, Galvano, Jarema, Parisot e Scroppo,  catalogo della mostra, Galleria Il Fiore, Milano 1954.   35 A. Galvano, Autobiografia cit., p. 20.   36 A. Galvano, in Bordoni, Galvano, Jarema, Parisot e Scroppo cit.   37 A. Galvano, Autobiografia cit., p. 20.    processo dioggettivazione. L'idea diimmagine supera  ildualismo dioggetto e soggetto, la relatività costante  di quod significat e quod significatur; mira a designare  un assoluto valore d’esistenza, a sostituire alla rap-  presentazione un'immediata semantica». Seguitava  Argan: «La sua è la ricerca di un'immagine che non  abbia determinazioni dirette o indirette nel mondo  esterno, che non si manifesti per via di similitudini o  allegorie, che dichiari esplicitamente le sue origini e  le sue ragioni esclusivamente umane, che si ponga ad  un tempo come noumeno e come fenomeno. [...] Così  la materia, non la forma, diventa mito ed immagine;  e la materia è il colore, ma anche il segno, la linea, il  punto».   Nel 1957 Galvano venne invitato da Carlo Lu-  dovico Ragghianti per una personale alla Galleria La  Strozzina di Firenze. Nell’autopresentazione l'artista  tenne a ribadire ancora una volta le convinzioni e la  coerenza del suo percorso pittorico che lo avevano  condotto all’Informale. La «formazione spirituale»  si era compiuta, esplicava Galvano, «attraverso la  mia adesione alle correnti non figurative, a quel-  l'inversione” del simbolismo nell’astrattismo che ho  cercato di spiegare storicamente in sede critica. Perciò  a Kandinskij e al Kupka del 1913 [...] agli americani  Pollock e Tobey, ai polimaterici di Prampolini. [...]  L'unico germe di “manifesto” è quello sul “feticcio  laico”. “Feticcio” cioè metafisica, ma “laico” cioè an-  timetafisica”. Credo si possa essere antimetafisici solo  nella misura in cui si è contro le false metafisiche. Nel  caso dell’arte contro la falsa “ispirazione”, l'evasione  sentimentale...»°.   Tra il 1956 al 1962 il mezzo informale di Galvano  virò verso accezioni neoliberty. La copertura totale  della tela della prima fase si distillò per mezzo di uno  sfondo neutro solcato da grafismi pittorici orientati  sempre meno verso un'immagine quanto in direzione  di archetipi floreali e calligrammidi scrittura gestuale.  Galvano recuperava, seppur allusivamente, attraverso  una nuova definizione di immagini, la figuratività  «trasformando o meglio puntualizzando i ‘feticci  laici” in “emblemi”»‘° esplicitati in forme larvali di  iris, i fiori paradigmatici del Simbolismo.   Sul finire del decennio Cinquanta e fino al 1965,  oltre alle regolari presenze alle Promotrici torinesi e  alle mostre annuali di Torre Pellice, si segnalano la  puntata alla collettiva berlinese presso la Maison de  France del 1957, le partecipazioni al V Premio Bergamo    dell’anno successivo, ai Premi Arezzo (1960) e Fiorino.    (Firenze 1960) e alla Quadriennale romana del 1963.  Di particolare rilevanza in quel periodo furono       38. G. C. Argan, in catalogo dell’ XXVIII Biennale di Venezia,  Venezia 1956.   39 A. Galvano, in catalogo della mostra, Galleria La Strozzina,  Firenze 1957.   40 A. Galvano, Autobiografia cit., p. 20.    22       Nel 1972.    due mostre. La personale del 1960 presso Galleria Il  Canale di Venezia presentata da Edoardo Sanguineti  che così ultimava il suo scritto: «I fiori Mallarmé ci  costringono anche a riguardare di nuovo in faccia la  posizione dell'artista las que la vie étiole, portando cosìla  pittura ad assolvere a un compito, molto forte e molto  importante, di smascheramento dell'avanguardia,  nella forma, secondo le possibilità “moderne” di uno  “estraniamento”»*!.   Nella collettiva (Galvano, Scroppo e Levi Mon-  talcini) alla Galleria il Quadrante di Firenze, Gillo  Dorfles, accogliendo gli enunciati di Sanguineti, alluse  altresì ad un significato orientaleggiante delle pitture  di Galvano che avevano: «accolto nella loro matrice  compositiva quasi il “vuoto” il sunyata di certa arte  zenista, purrimanendo lige a una composta scansione  di ritmi dell’Abendland»”.   Pittore dunque in «senso tradizionale» si definiva  Galvano che ricusava le forme antipittoriche, schiuse  alla strada dell’arte-oggetto (della quale si interessò  in sede teorica), per abbracciare una «simulazione  d'avanguardia». Un profondo disagio lo condusse,  tra il 1962 e il 1965, a compiere una pausa dalla pittura  causata probabilmente dal cortocircuito innescato a  causa di intendimenti antitetici perseguiti dal parallelo  mestiere di critico e di artista. Come rimarcava Argan:       41 E. Sanguineti, in catalogo della mostra, Galleria Il Canale,  Venezia 1960.   42 G. Dorfles, Tre pittori torinesi, in Albino Galvano, Paola Levi  Montalcini, Filippo Scroppo, catalogo della mostra, Galleria Il Qua-  drante, Firenze 1962.   43 A. Galvano, Autobiografia cit., p. 21.    Con Filippo Scroppo.    «la confluenza dei due percorsi di pensiero (e la sua  pittura è tutta pensiero) sono difficili e interiormente  sofferte[...]»*.   Assumono infine un ruolo fondamentale nella  produzione saggistica di Galvano i due volumi  pubblicati in quel periodo: Per un’Armatura (Lattes,  1960) e Artemis Efesia. Il significato del politeismo greco  (Adelphi, 1966). Sono opere difficilmente classificabili  che attingono alla filosofia, alla storia delle religioni,  alla psicoanalisi e all’antropologia. I due studi affron-  tano il problema dell’interpretazione sia culturale che  psicologica di un passato che ci coinvolge direttamente  e sono al tempo stesso «processo di autoanalisi in me-  rito al rapporto tra una figura-feticcio — un’armatura  tardomedievale e un idolo greco — e l’area psichica  della coscienza».   Il decennio 1955 -1965 fu certamente per Galvano  la fase più feconda di collaborazione con periodici e  riviste tra cui le torinesi “Sigma”, “Cratilo” e come  redattore di “Questioni” (già “Galleria di Arti e Lette-  re”)con Vincenzo Ciaffi, Mario Lattese Oscar Navarro  per l'editore Lattes. Una menzione a parte merita il    44 G. C. Argan, in catalogo della mostra, Galleria Unimedia,  Genova 1974.   45M. T. Roberto, Albino Galvano, Dizionario biografico degli  italiani, Treccani, Milano 1988.          23    contributo Le tigriimpagliate (1959) peril primo numero  della rivista “Azimuth” fondata da Piero Manzoni ed  Enrico Castellani. Per “Letteratura” nel 1960 Galvano  pubblicò La pittura a Torino dal ‘45 ad oggi, un lucidissi-  mosaggio che inquadrava, da testimone diretto, l’arte  torinese del dopoguerra. Successivi furono i notevoli  contributi sulla situazione artistica cittadina tra cui:  Per lo studio dell'Art Nouveau a Torino (1960), Torino e  i “secondi futuristi” (1962) e il più tardo La pittura a  Torino all’inizio del secolo (1897-1918) (1978)?°.    Bandiere, Nastri, «Griffonages» e Segni asemantici  1966- 1974    Nel 1966 con l'esposizione Erbe e Bandiere, presso  la Galleria Botero di Torino, Galvano sentì «il bisogno  di affiancare e poi sostituire gli emblemi ispirati alla  natura con quelli di carattere artificiale più spogli e  tendenti in qualche modo a una nuova astrazione».  In mostra le forme organiche dai tratti guizzanti  dell'ultimo Informale di Galvano furono accostate,  in un felice trait d'union, con la nuova produzione  attraverso la serie delle Bandiere. In uno scritto critico  perla suddetta mostra Gilda Chepes sottolineava: «Le  sue erbe alghe, le sue flammulae, più che bandiere,  sembrano, ad analizzarle, vive, agitate da sentimenti,  da spasimi da aneliti, da desideri»**.   L'artista perseverò nella coerenza linguistica della  sua ricerca che ancora una volta, nei più nuovi risvolti,  non si collocò in un'immediata e netta inserzione in  correnti o gruppi operativi. Gli estesi panneggiamenti  svolazzanti dai colori accesi che si stagliavano su fon-  di neutri riecheggiavano quasi un'antica tradizione  araldica. I riferimenti pittorici non erano di certo  estranei al linearismo sensuale del Liberty, anche nella  sua declinazione decorativa, rammentando inoltre  suggestioni neobarocche. Un commento di Carlo  Mollino, riguardante un'architettura baroccheggiante  di Galvano dipinta degli anni Quaranta, potrebbe  restituire puntualmente le atmosfere delle recenti  Bandiere espresse in uno: «scenario di questo tempo  immobile nella chiara decisione di un arabesco che  non si placa che in un ordine senza indulgenza, ma  vivo di un amore disincantato»?   Furono ancora le Bandiere ad essere esposte nel  1968 per una personale a Cremona alla Galleria d’arte  I Portici. Gli stendardi svolazzanti davano la prova di  una profonda conoscenza degli allora attuali linguaggi  pop e forniscono anche un «grave riverbero di anti-  chità» rendendo l’immagine «imminente e insieme  assente che par scelta e fabbricata per un pubblico          46 Tutti gli scritti qui citati sono reperibili in A. Galvano, Dia-  gnosi del moderno, cit.   47 A. Galvano, Autobiografia cit., p. 21.   48. G. Chepes, in “Borsa Arte”, 1966.   49 C. Mollino, in S. Cairola, Arte italiana del nostro tempo, 1946.    senza tempo e d’ogni tempo [...]. Proprio per questo  [...]è significante perché carica di intenzioni contrad-  dittorie e fortemente drammatiche, nella dialettica che  stabiliscono tra l’esperienza passata e l'avvento, e la  necessità del presente»”.   Dal1968Galvanosirivolse alla nuova serie pittorica  dei Nastri mantenendo una viva tangenza allo sviluppo  formale del periodo MAC. L'oggettivazione del dato  geometrico si sostituì con una figurazione elementare  di armonica tridimensionalità sull’estensione della tela.  Le masse sventolanti e libere, nelle quali si evidenzia  una ben nota propensione per l’ellissi e il semicerchio,  proseguivano l'indagine sullo spazio volumetrico.  Giuliano Martano asseriva appunto di un'«astrazione  intellettuale, in cui i segni, i ghirigori, sono veri e pro-  pri simboli codicillari, incognite d’equazione, libertà  della memoria. [...] Nastri che si dipanano nel quadro  senza né capo né coda e sono le bandiere di prima rese  a brandelli, sono una forma chiusa che si apre, che da  circonlocuzione diventa interlocuzione»?”!.   Presso la Saletta d'Arte contemporanea di Cu-  neo, nel 1972, Galvano presentò questa figurazione  elementare di volute concave e convesse di recente  produzione, che si palesavano, secondo Giorgio Brizio,  «dall’uso parco e strettamente pensato delle timbrici-  tà cromatiche. Basandosi su toni primari, operando  esclusivamente sulla opacità della parte in ombra,  Galvano può, in una suddivisione doraziana dell’in-  fluenza tonale, usare la direttrice cinetica del timbro  per equilibrare il dinamismo globale della partitura  spazio-occupato, spazio-vuoto»”.   Nel 1974 la personale alla Galleria Martano di  Torino assunse il significato di una ricapitolazione,  dal MAC al presente, in cui gli elementi nastriformi si  erano evoluti, tra il 1973 e il 1974, in forme dall’aspet-  to cellulare e in moduli verticali e curvilinei. Tracce  realizzate a carboncino, impreziosite da lievi velature  scariche di colore, campeggiavano solitarie sulla tela;  la dimensione gestuale fu affiancata dall'espressione  intellettiva dell'atto primario del dipingere. Questi  moduli nella linea filogenetica della sua pittura non-  figurativa «appaiono anche maggiormente legati  ai dettami grafici di una cultura passata attraverso  “quell’inversione del simbolismo nell’astrattismo”  [...] che riaffiora con l’organicità delle sue forme così  tese ed essenziali, rispondenti ancora una volta a  quella logica interiore che resta come la matrice vera  di ogni opera di Galvano»”.    Lostesso anno una sala personale della 25° Mostra    d'arte contemporanea di Torre Pellice venne dedicata a    50 E. Fezzi, in catalogo della mostra, Galleria d’arte I Portici,  Cremona 1968.   51. G. Martano, Albino Galvano, in “Pianeta”, 1968.   52. G. Brizio, in catalogo della mostra, Saletta d'arte contempo-  ranea, Cuneo 1972.   53. A.Dragone in “Stampa sera”, 1976.    24    Galvano che vi espose una ventina di opere. L'artista  presentò efficacemente al pubblico la sua recente svolta  pittorica: «ho sentito il bisogno di logorare la forma,  di intercettarne la presunzione di organicità, sgranan-  done il supporto disegnativo in pochi cenni grafici su  cui il colore nonagisse più come elemento qualificante  ma soltanto come sottolineatura allusiva. [...] Come  nel ritmo stesso delle vicende vitali, a una stagione  di estroversa aggressione della percezione dello spet-  tatore si avvicendava una fase di ripiegamento sulla  discrezione, sulla riserva, sultono contenuto». Coevi  furono i Griffonages e i Segni dell'alfabeto asemantico  lavori con scritte quasi illeggibili rese «come puro  segno e gioco lineare [...] non senza un, fra ironico  e intenerito, strizzar l'occhio al “concettualismo”»59.   Sempre nel 1974 si ebbe la personale genovese  alla Galleria Unimedia per la quale Saguineti imple-  mentò la troppo riduttiva definizione del Galvano  “doppio”, critico e pittore, trascendendo anche nella  saggistica e nella filosofia e invitando a vedere «con  totale persuasione [...] la forza della sua lezione [...]  rispecchiata, con eguale fedeltà, nelle sue pagine e  sopra le sue tele». Il discorso si reiterava anche nello  scritto critico di Argan che chiudeva con un interro-  gativo dal quale Galvano non si discostò mai: «Che  cos'è la pittura?». «Ciò che vuol sapere è che cosa sia  la pittura in questa precisa condizione della cultura,  della coscienza, dell’esistenza, e quale il suo grado  di vitalità, quali le sue possibilità di sopravvivere in  uno spazio ogni giorno più ristretto»”.   Tra la ripresa dopo l'interruzione pittorica e  il 1974 si ricordano infine le puntuali presenze a  collettive con cadenza annuale come la Promotrice  delle Belle Arti e le mostre del Piemonte Artistico e  culturale di Torino; le rassegne estive di Torre Pellice  e due edizioni dell’Incontro di artisti piemontesi e liguri  a Bordighera (1967, 1969).    Il periodo ultimo 1975-1990    Dal 1975 si reimpose per Galvano un nuovo  approccio rivolto alle forme naturali: la ripresa  di una figurazione espressionista pervasa d’un  realismo quasi visionario e il fascino recuperato,  come confessò lo stesso artista, per le gidiane  «nourritures terrestes». Galvano sembrò sentirsi  quasi responsabile d'un tradimento verso la pittura  allorché, per coerenza, operò una «sintesi tra l’ele-  mento naturale e il non figurativo che gli consentì       54 A. Galvano, Personale di Albino Galvano, in 25° mostra d’arte  contemporanea, catalogo della mostra, Scuole comunali, Torre Pel-  lice 1974.   55 A. Galvano, Autobiografia cit., p. 21.   56 E. Sanguineti, in catalogo della mostra, Galleria Unimedia,  Genova 1974.    57 G.C. Argan, in catalogo della mostra Galleria Unimedia, cit.       SZ    Nella bottega dell'antiquario.    un'impaginazione astratta servendosi di forme non  inventate, non di natura cerebrale ma veramente  esistenti»,   Riemerse, con la serie dei Cespugli (fino al  1977 circa), la fascinazione per i cespi di iris, tema  dominante di inizio anni Sessanta, ma questa volta  non più giocato con la «gestualità irruente» del  colore spremuto direttamente sulla tela, eredità del  linguaggio informale, ma attraverso un sedimen-  tato approccio di sottili velature di pittura a olio  utilizzata come gouache che si rifaceva alle delicate  tinte dei moduli di qualche anno precedenti. Gli  sfondi bianchi svuotati erano percorsi esplicita-  mente da segni grafici e scritte che sembrarono  dischiudere uno spiraglio perfino alla poesia  visiva. Fu Galvano stesso, riferendosi a questi la-  vori — esposti in una personale del 1977 presso la  Galleria Weber di Torino — a parlare di «archetipo  floreale» dove «il fiore dell’iris scandisce l’intrico  dei segni, grafismi di parole o di immagini, altre  volte rigidamente modulari o, almeno non anco-  ra piegati all’allusione significativa. ‘“Cespugli”          58 A. Spinardi, in catalogo della mostra, Piemonte Artistico e  Culturale, Torino 1982.       25    perciò in contrapposizione ai glifi dell’”alfabetico  asemantico” e dei griffonages che li avevano, verso  la fine del 1974, preceduti»®?.   Dal 1978 e fino al concludersi del decennio seguì  la serie dei Motivi vegetali (Ciottoli, Foglie, Frutti, Relitti).  La riappropriazione di una rappresentazione ottica-  mente realistica fu solo apparente; il candore neutro  dei fondiesaltava una suggestione di tridimensionalità  attraverso la scansione prospettica degli oggetti. Tali  elementi solitari erano estraniati dal loro contesto  naturale e inseriti negli spazi illusori di questa pittura  d’assenza.   Sul cadere diogni riferimento a contenuti simboli-  ci «o anche solo sentimentali» della pittura di Galvano,  ne scrisse Renzo Guasco in un testo che introduceva  lagrande mostra retrospettiva dell'artista organizzata  a Torino nel 1979 dalla Regione Piemonte. Tali opere,  per Guasco, «non sono più emblemi né simboli che  rimandano a un ulteriore significato. Per essi si può  forse parlare di “sospensione di senso” (per usare un  termine di Barthes), di un muto stupore di fronte alla  vita e alla natura. Le foglie morte e i relitti di Galvano  rifiutano il significato, e quindi ogni commento, o  spiegazione. Il cespuglio spezzato è solo un cespuglio  spezzato; le foglie, anche se rosse, autunnali, non sono  les feuilles mortes»®.   Con avvio del decennio Ottanta ne i Paesaggi  (Rocce, Alberi, Isole) vi fu il riutilizzo di una stesura  cromatica che spesso occupava l’intera tela con un  conseguente recupero dell'effetto tonale. Gli spazi  desolati, le «muse inquietanti», che Galvano propose  in questa fase suggerirono a Paolo Fossati richiami alla  pittura metafisica. «Luoghi, intanto, vuoti, svuotati di  allotrie presenze, come è giusto siano le radure vuote  e silenti, per il camminante che vi si ferma a pensare  e meditare. Luoghi di pensiero e di inconsci sofismi:  con i relativi feticci oppure archetipi, teste in gesso  di eroi, manichini nel pictor optimus; rami sassi acque  per Galvano»®!.   L'artista in età avanzata, provato dalla difficoltà  dell’offuscamento della vista, con le serie di guazzi su  carta di Nudi e Macchie sperimentò infine, una pittura  liquida fatta di segni colantiin un'inversione di «sgor-  bi cromatici di netta matrice informale»? Nel 1988  confessava ai lettori del catalogo della Galleria Micrò  (una delle sue ultime mostre): «Ancora una volta ho  voltato gabbana e me ne scuso a chi può dare fastidio,       59 A. Galvano, in catalogo della mostra, Galleria Weber, To-  rino 1977.   60 R. Guasco, in N. Pizzetti e G. Givone (a cura di), Albino Gal-  vano cit., p. 16.   61 P. Fossati, Per un omaggio a Galvano, in P. Fossati, F. Garimol-  di e M. C. Mundici (a cura di), Omaggio a Albino Galvano, catalogo  della mostra, Circolo degli Artisti, Torino, Electa, Milano 1992, p.  iz.   62 A.Galvano, in catalogo della mostra, Galleria Micrò, Torino  1988.    ma vorrei ricordare che vi è stata una mia stagione di  “eriffonages” [...] che a questi fogli ultimi molto si  apparenta, anche se là il segno prevaleva, monocromo  [...]. Perciò dico a mia difesa — il diritto di difendersi  è sempre riconosciuto ai colpevoli — “versatilità, ca-  pricciosità sì, incoerenza no”»®.   Molti furono gli spazi espositivi torinesi che ac-  colsero le personali di Galvano inquadrando la sua  ultima fase pittorica, tra cui: la Galleria Weber (1977),  il Piemonte Artistico e Culturale (1982), la Galleria  Cittadella (1981 e 1984) e la Galleria Micrò (1988).  Occasioni extracittadine rilevanti furono presso la  Galleria Morone di Milano (1979), la Galleria Villata  a Cerrina Monferrato (1980) e la bipersonale insieme  a Gino Gorza presso Palazzo Te a Mantova (1988). Si  rammentano poi l’antologica presso la Galleria La  Cittadella di Torino con opere dal 1930 al 1950 (1976);  la vasta esposizione del 1979 organizzata dalla Regio-  ne Piemonte presso Palazzo Chiablese di Torino che  esplorava l’intera carriera dell'artista (corredata da  un notevole apparato critico in catalogo) e le mostre  retrospettive del 1989 e 1990 alla Galleria Accademia  di Torino.   Costanti furono inoltre le partecipazioni a collet-  tive come alla Promotrice torinese (dal 1975 al 1979),  alla Galleria Martano (1976) e all'esposizione Torino  tra le due guerre presso la Galleria d’arte moderna di  Torino. Infine, nell’ambito della rinnovata attenzione  perlostoricizzato Movimento Arte Concreta, Galvano  figurò in svariate mostre a: Cavallermaggiore (1980),  Torre Pellice (1983), Gallarate (1984), Aosta (1987).   Albino Galvano morì il 18 dicembre 1990 a Torino  all’età di ottantatré anni.   La dichiarazione conclusiva sugli intendimenti  di una pratica pittorica perseguita per l'arco di una  vita intera è affidata a Galvano stesso e permette di  afferrare almeno un aspetto di questa multiforme e  primaria figura di artista, critico e intellettuale italiano  del Novecento. «Di una sola coerenza credo di poter-  mi vantare, ma è coerenza che in qualche modo mi  sequestra al di fuori di tanta arte contemporanea: la  fedeltà alla tela, al colore ai pennelli. In parole povere  ho sperimentato molto, forse troppo e troppo disper-  sivamente, ma non mi sono mai sentito vicino alle  ricerche di chi avevarifiutato o cercato un'alternativa ai  mezzi tecnici — che poi vuol dire anche espressivi — di  una tradizione che va dal Cinquecento agli impressio-  nisti, ai fauves, agli espressionisti. Fedeltà o incapacità  di uscire dalla routine? Non sta a me deciderlo. Ne  rivendico la responsabilità o il merito».    63 bid.  64 A.Galvano, in catalogo della mostra, Palazzo Te, Mantova 1988.       26       Seconda metà anni Settanta.       Alla presentazione del volume "La pittura, lo spirito e il sangue", 1988.    Da discepolo a interprete. Albino Galvano e Felice Casorati    Alessandro Botta    “Quando, a vent'anni, mi presentai alla Scuola di  via Galliari, cioè allo studio di Felice Casorati, avevo  dietro le incerte aspirazioni dettate da una pretesa mia  attitudine al disegno [...]. Poco, ma abbastanza, insie-  me alla passione per la storia dell’arte, perché seguis-  si con attenzione sulle riviste (specialmente “Empo-  rium”) le Biennali veneziane del 1926 e del 1928 che  mi educarono al gusto per l’arte contemporanea”.  Con queste parole Albino Galvano apre la sua auto-  biografia scritta per una mostra retrospettiva torinese  del 1979, definendo sin da subito le proprie origini di  formazione e circostanze di aggiornamento. Nato nel  1907, “anno in cui, con le Demoiselles’ di Picasso, l’arte  occidentale vedeva chiudersi il ciclo iniziatosi alla fine  del duecento”? si iscrive al liceo classico Cavour insie-  me a Giulio Carlo Argan (“eravamo vicini di banco”),  e presto interrompe gli studi per dedicarsi interamente  alla pittura, seguendo inizialmente le indicazioni di ar-  tisti intercettati attraverso le conoscenze familiari.‘   Un temperamento vivo e curioso, il suo, che più  che seguire le letture e gli studi che il percorso scola-  Stico gli impongono, preferisce accrescere le proprie  conoscenze con una formazione isolata, fatta di letture  personalissime: “Mi seppellivo cinque-sei ore al giorno  in biblioteca — sostiene in un'intervista —. Lì incomin-  ciai a leggere ‘La Critica’. Nel’25 avevo letto Bergson” 5  Nell’atteggiamento che caratterizza il giovane artista,  concentrato ad inseguire le proprie passioni piuttosto  che le strade già battute, si può forse leggere una conti-  nuità nella scelta di rivolgersi a Casorati come maestro,  una decisione non così scontata in una Torino dove gli  orientamenti estetici erano ancora influenzati dall’in-  gombrante figura di Giacomo Grosso e dall’insegna-  mento della paludata Accademia Albertina.   Galvano ha una fascinazione improvvisa verso  l'artista torinese, arrivata attraverso l'osservazione di-          1 A. GALVANO, Autobiografia, in N. PizzETTI, G. Givone (a cura  di), Albino Galvano, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Chia-  blese, 21 dicembre 1979 - 13 gennaio 1980), Regione Piemonte,  Torino 1979, p. 17.   2 Ibidem.   3 G. C. ARGAN, Albino Galvano [presentazione], in XXVIII Bien-  nale di Venezia, catalogo della mostra (Venezia, giugno - ottobre  1956), Alfieri Editore, Venezia 1956, p. 213; “Non eravamo tra i pri-  mi della classe: troppe cose c'interessavano, che non avevano nulla  a che fare col programma, e ne discutevamo per interi pomeriggi,  dimenticando le versioni di latino e i problemi di matematica. For-  se quell’amicizia di ragazzi ci costò qualche esame a ottobre ma,  almeno per me, non fu un'esperienza inutile” (Ibidem).   4 Galvano parla di “un apprendistato presso il Vannini, ma-  estro di disegno a cui ero stato indirizzato dal pittore Giovanni  Pisano amico di famiglia, che avevo avuto spesso occasione di  veder al cavalletto” (A. GaLvano, Autobiografia [1979], cit., p. 17).  ©) [Intervista di L. Lanzardo ad A. Galvano], in P. Fossati, F.  GarmoLpi, M. C. Munpici (a cura di), Omaggio a Albino Galvano,  catalogo della mostra (Torino, Circolo degli Artisti, 23 gennaio - 1°  marzo 1992), Electa Piemonte, 1992, p. 140.    Ud       Albino Galvano alla mostra personale di Palazzo Chiablese, Torino,  1979. Archivio Storico della Città di Torino, fondo "Gazzetta del Popolo".    retta di alcuni suoi dipinti presenti nelle collezioni del  museo cittadino: “Alla Galleria di Torino — sostiene egli  stesso nell’autobiografia del 1952 — mi erano cioè pia-  ciuti piuttosto i bianchi di tempera con il rosso dei co-  ralli o il cielo spugnoso del bozzetto per il ‘Ritratto del-  la signora Wolf” che il neoquattrocentismo del ‘Ritratto  della sorella’”.. Prime indicazioni attestabili dopo il  1926, sintomatiche di un interessamento che si rafforza  man mano e che è destinato a diventare decisivo per il  suo ingresso nella scuola dopo la visita alla Biennale  veneziana del 1928, nella quale Casorati espone,” oltre  ad otto dipinti, anche due statue destinate al proscenio  per il teatro Gualino. Galvano è colpito, in questa occa-  sione, ‘“[dal]l’azzurro o il paglierino di stoffe e legni in  ‘Daphne’ che le pose ricercate dei nudi”.       6 A.GALVANO, [autobiografia], in Albino Galvano, catalogo del-  la mostra (Asti, Galleria La Giostra, 1952), Asti 1952, p.n.n.; rela-  tivamente ai dipinti di Casorati citati si veda il catalogo generale  dell'artista G. BERTOLINO, F. PoLi, Felice Casorati. Catalogo generale.  I dipinti (1904-1963), 2 voll., Allemandi & C., Torino 1995, nn. 188  (1922), 250 (1925). Da qui in poi citato come (Bertolino, Poli).   7 A. GALVANO, [autobiografia] [1952], cit., p. n.n. Relativamen-  te alla Biennale del ‘28 scrive: “Quella del 1928 volli visitarla di  persona e vi fui impressionato specialmente da Felice Casorati,  sicché decisi, scoperto che abitava a Torino, di iscrivermi alla sua  scuola.” (Ip., Autobiografia [1979], cit., p. 17).   8 Ibidem;inquell’occasione, oltre al Ritratto di Daphne (1928) (Ber-  tolino, Poli 328), Casorati espone l’opera Ragazze dormenti (o Mozart)  (1927) (309), ricordata da Galvano nel suo racconto autobiografico.    L'ingresso alla scuola, avvenuto probabilmente  verso la fine dell’anno o all’inizio di quello successivo,  lo vede inserirsi in un ambiente già consolidato, ac-  cresciuto notevolmente d’iscritti rispetto al nucleo  fondante di stretto discepolato del suo studio “che sta  tra l'accademia e il monastero” del 1921.!° La “Scuola  libera di pittura”, inaugurata nel 1927 in via Galliari  33, è ormai una realtà pubblica, che riunisce maestro  e allievi e li vede impegnati come fronte coeso nelle  esposizioni cittadine e nazionali.!   La serietà e la dedizione alla pittura sono le ca-  ratteristiche fondamentali che danno l’accesso alla  scuola: lo si ricava dalle impressioni che risuonano  con continuità tra i commenti e i ricordi degli allievi  che in tempi diversi affrontano l’alunnato casoratia-  no.! Galvano non fa eccezione: “L'accoglienza fu,  come era nel suo stile, di una signorile severità”.!  Ma, al di là delle incertezze iniziali, il maestro sem-  bra essere più colpito dalla spiccata vivacità intel-  lettuale del giovane allievo piuttosto che dalle sue  capacità pittoriche: “credo che — sottolinea Galvano  raccontando di se stesso — abbia avuto subito per  l’uomo la simpatia e la stima che poi sempre mi di-  mostrò, forse assai più scarsa la fiducia nelle mie  possibilità di pittore, il che mi fu ottimo stimolo a  intestardirmi e ad impegnarmi a fondo”!   Tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre del  1929 lo scolaro “intelligente ma noioso, predicatorio”,  secondo il ricordo di Lalla Romano (anche lei discepola  di Casorati),'° presenta le sue opere per la prima volta  con il gruppo di allievi alla II Esposizione d’arte allesti-  ta nello studio di via Galliari. L'esposizione “intima”,  alla sua seconda edizione, è aperta al pubblico di inte-  ressati (a visitarla, sono perlopiù personalità del milieu  intellettuale antifascista cittadino) e vuol essere una  “raccolta dei lavori più notevoli eseguiti dagli allievi  nello scorso anno”.!° La prova generale della scuola  non sembra però garantire a Galvano l’accesso all’im-    9 Galvano, a molti anni di distanza, fissa la sua presenza nella  scuola “dalla fine del 1928 a quella del 1930” (A. GaLvano, Auto-  biografia [1979], cit., p. 17).   10 P. GOBETTI, Felice Casorati pittore, Torino [1923], p. 91.   11 Perunostudiosulla scuola di Casorati e sulle vicende espo-  sitive della stessa si veda V. CavaLLaro, La scuola di Casorati, tesi  di laurea, Facoltà di lettere e filosofia, Università degli Studi di  Torino, 2012, relatore: F. Rovati; F. Poi, V. CavaLLaro (a cura di),  La scuola di Felice Casorati ed Andrea Cefaly, catalogo della mostra  (Catanzaro, Complesso monumentale di San Giovanni, 26 ottobre  — 26 novembre 2017), Rubettino, Soveria Mannelli 2017.   12  testimonianze e memorie dei suoi discepoli, in C. Pianciola (a cura di),  Il critico e il pittore. Gobetti, Casorati e la sua scuola, Aras Edizioni,  Fano 2018.    13 A. GALVANO, Autobiografia [1979], cit., p. 17.   14 Ibidem.   15. L. Romano, Una giovinezza inventata, Einaudi, Torino, 1979,  p. 192.   16 E. PauLuccCI, Cronache torinesi. Scuola di Casorati, in “Le Arti    Plastiche”, 16 novembre 1929, p. 2.    Su questo argomento si veda A. BOTTA, Felice Casorati nelle.    28    minente esposizione alla Galleria Valle di Genova — or-  ganizzata probabilmente da tempo e inaugurata nel  gennaio del nuovo anno -, che vuol essere l’occasio-  ne per riunire una selezione più stretta degli allievi.!”  Dovrà attendere ancora qualche mese, in primavera,  prima di assistere alla presentazione di un suo dipinto  (accolto per accettazione dalla Giuria) alla Biennale del  1930.!* Riuniti attorno al maestro, gli allievi di Casorati  — otto in totale — occupano la sala 30, attigua alla fortu-  nata e discussa retrospettiva di Modigliani ordinata da  Lionello Venturi, che non manca di far nascere alcune  corrispondenze e letture parallele con le opere dei ca-  soratiani.   Da questo momento in poi Galvano incomince-  rà ad essere presente con continuità alle mostre della  scuola. Una conferma che arriva già a poche settima-  ne di distanza con la partecipazione alla 88° esposizione  della Società Promotrice delle Belle Arti con ben quattro  dipinti. Ancora alla fine dell’anno il suo nome si regi-  stra tra gli allievi presenti alla III Esposizione d’arte di  via Galliari,' mentre nel gennaio del 1931 viene segna-  lato come uno dei “casoratiani” che espongono - que-  sta volta senza il maestro — alla mostra torinese degli  “Amici dell’ Arte”.   Se fino a questo momento le opere di Galvano  non sembrano sollecitare più di tanto l'interesse della  critica — forse perché il modello del maestro è troppo  riconoscibile nella sua pittura —, l'occasione della I Qua-  driennale d'Arte Nazionale di Roma del gennaio 1931  apre ad un interessamento che coinvolgerà da lì in poi  anche il giovane artista torinese, presente con il dipinto  Estate, riprodotto per l'occasione sulla nota rivista mi-  lanese “La casa bella”?!   Galvano, ancora coeso al gruppo almeno fino al  marzo di quell’anno (la sua presenza è confermata in  una mostra di “scuola” allestita alla galleria Milano),       17 Esposizione dei pittori Casorati, Bay, Bionda, Bonfantini, Mar-  chesini, Maugham, Mori, prefazione di G. Pacchioni, catalogo della  mostra (Genova, Galleria Valle, 20 gennaio - 3 febbraio 1930), Ge-  nova 1930.   18. Sitratta del dipinto Paese con un ponte; cfr. Catalogo XVII Espo-  sizione Biennale Internazionale d'Arte 1930, catalogo della mostra  (Venezia, maggio - novembre 1930) Venezia 1930, sala 30, n. 18.   19 Cfr. E. Pautucci, Cronache torinesi. Scuola di Casorati, in “Le  arti plastiche”, 16 gennaio 1931, p. 2.   20 Cfr.E. ZANZI, Cronache torinesi. La mostra degli “Amici dell’Ar-  te”, in “Emporium”, vol. LXXIII, n. 433, gennaio 1931. pp. 50-51.  21. P. Torriano, Cronache d’arte. Note alla I Quadriennale, in “La  casa bella”, marzo 1931, p. 57. Relativamente alla partecipazione  degli artisti piemontesi alla rassegna romana si veda L. IAMURRI,  Levi, Paulucci e gli altri. Presenza torinesi alla Quadriennale, in M.  Cossu, C. MicHELLI (a cura di), Cultura artistica torinese e politiche  nazionali 1920-1940, catalogo della mostra (Roma, Galleria Nazio-  nale d'Arte Moderna, 16 dicembre 2004 - 13 febbraio 2005), Electa,  Milano 2004, pp. 58-60.   22. Cfr. Bay, Bionda, Bonfantini, Casorati, Chicco, Cremona, Donati,  Galvano, Levi, Maugham, Marchesini, Mennyey, Mori, catalogo del-  la mostra (Milano, Galleria Milano, 1° - 15 marzo 1931), Milano  1931.       Copertina del catalogo della mostra alla Galleria Milano, Milano 1931.    incomincia a dar segni di cedimento rispetto allo sta-  tuto casoratiano e nei confronti della scuola. Un di-  Stacco progressivo che si rende evidente nell'esercizio  Stesso della pittura, che lo vede ricercare una propria  indipendenza e nuove vie di espressione. La Promo-  trice del 1931 diventa per lui un terreno di confronto  nel quale presentare le più recenti ricerche, filtrate at-  traverso nuovi modelli nel frattempo subentrati e ma-  turati, chiariti con lucidità — a distanza di anni — dallo  Stesso artista:    Mi affascinavano il tentativo di ricostruzione formale  del mio maestro e, contemporaneamente e contradditto-  riamente, gli esiti dell’impressionismo e postimpressio-  nismo, sia nelle loro accezioni originali sia nelle riprese  locali dei Sei e, in genere, la pittura di colore e di tocco,  ovviamente legata a una visione naturalistica. Nel du-  plice e, in certo senso, contraddittorio intento di tener  Insieme i valori plastici di Casorati e quelli cromatici dei  Sei il risultato diveniva naturalmente pesante, impasta-  to, anche perché subivo fortemente l'influenza di una  certa pittura francese [...], o meglio di una pittura che  si faceva in Francia spesso da stranieri, [...] che allora  agli inizi degli anni trenta mi affascinava dalle pagine di  “L'Art Vivant”.®    Assente il maestro, Galvano è presente con tre ope-  re. La Composizione con figura, in particolare, riprodotta       23. A. Galvano, Autobiografia [1979], cit., p. 18.    29    sia in catalogo che sulla rivista “Emporium”,’° mostra  gli esiti dell'aggiornamento condotto sugli esempi dei  post-impressionisti francesi e sulle proposte figurative  dei “Sei” (sciolti ufficialmente, come gruppo, proprio nel  731), che si riconoscevano nella linea di rinnovamento  dell’arte contemporanea tracciata da Lionello Venturi.®   Il passaggio, da questo momento in poi, è breve.  Complice un disfacimento generalizzato della scuola  stessa, il pittore, alla mostra degli “Amici dell'Arte” al-  lestita nell'autunno del medesimo anno, è considerato  già da tutti un ex allievo.?? Ma la sua fedeltà al maestro  e l'amicizia che li lega lo vedranno partecipare ancora  ad una mostra di “scuola”, allestita nel teatro di Pavia  all’inizio del 1932. Accanto agli ex compagni, Galva-  no diventa una presenza eccentrica. Le sue opere, che  spaziano tra i generi (dalla natura morta al paesaggio),  mostrano la sua indecisione circa la strada da intra-  prendere, alla luce delle più recenti scoperte, passando  “da l’espressionismo a l'impressionismo senza un atti-  mo di esitazione”.   La “rottura” con Casorati — 0 presunta tale —, coin-  cide con il suo esordio di critico e con il suo avvicina-  mento a Lionello Venturi, al quale viene introdotto dal  suo compagno di studi Giulio Carlo Argan.* Nel lu-  glio del 1932 Galvano pubblica il suo primo contributo  sull’illustre rivista trimestrale “L'Arte”, che a partire  dal 1930 vede Lionello impegnato nella condirezione  accanto al padre Adolfo. La presenza del figlio, pro-  fessore all’Università di Torino, apre il periodico al di-  battito sulle arti contemporanee, fino a quel momento  escluso dai contenuti tradizionali della rivista. Il saggio  Armando Spadini e il gusto degli impressionisti? mostra  l'avvicinamento di Galvano alla critica venturiana, già  evidente nel titolo del contributo (che riecheggia il più  celebre volume del 1926)" e che si conferma nei conte-  nuti e nel soggetto stesso dell'articolo.    24 E. ZANzZI, Cronache torinesi. Dopo ottantanove anni... L'Esposi-  zione Interregionale della Promotrice di B. A., in “Emporium’”, vol.  LXXXIV, 443, novembre 1931, p. 307.   25 Alberto Rossi, sulle pagine de “L'Italia letteraria”, sottolinea  come Galvano sia ormai “teso a tutt'uomo alla ricerca di costru-  zioni personali” (A. Rossi, Una mostra interregionale, in “L'Italia  letteraria”, 12 luglio 1931, p. 4), mentre Emilio Zanzi, su “La Gaz-  zetta del Popolo”, rileva come la distanza -tra allievo e maestro-  sia ormai sensibile sia da un punto di vista cromatico che formale:  “Il giovane Galvano - fa notare - sta liberandosi dai grigi e dalle  tristezze casoratiane e ora si esperimenta, con accortezza e con  gusto, nelle esperienze di Matisse e di Friesz” (E. z. [E. Zanzil],  L'arte al Valentino. La terza Mostra regionale del Sindacato delle Belle  Arti, in “Gazzetta del Popolo”, 14 maggio 1931, p. 6).   26 Cfr.e.z. [E. Zanzi], Agli “Amici dell'Arte” pittori, scultori, ar-  chitetti, decoratori. La mensa degli avieri ideata da S. E. Balbo, in “Gaz-  zetta del Popolo”, 10 ottobre 1931, p. 7.   27, P.A.Sornini, Alla mostra Casorati II, in “Il Popolo di Pavia”,  27 gennaio 1932, p. 3.   28 Cfr. A. GALVANO, Autobiografia [1979], cit., p. 17.   29  In., Armando Spadini e il gusto degli impressionisti, in “L'Arte”,  vol. III, nuova serie, IV, luglio 1932, pp. 318-331.   30 LL. VENTURI, Il gusto dei primitivi, Zanichelli, Bologna 1926.    Accanto all'impegno pittorico, piuttosto in crisi  in questo periodo (“per una dozzina d'anni, mi mossi  un poco a casaccio”), Galvano intraprende gli studi  universitari presso la Facoltà di magistero. Una scelta  che è dettata non tanto dalla sua ben nota passione per  le materie letterarie e filosofiche o dalla sua curiosità  innata, ma più semplicemente da “problemi economi-  ci” che lo obbligano “in fretta e furia a prendere una  laurea e ad iniziare l'insegnamento in istituti privati”  La fine del suo percorso di studi, che si conclude con  una Tesi sulla pedagogia della religione discussa con  Angiolo Gambaro e Nicola Abbagnano, coincide con  la ripresa dell'attività di critico ma anche di saggista,”  che si fa particolarmente intensa a partire dal 1938 e  che lo vede collaborare con le riviste “Il Selvaggio” ed  “Emporium”.   AI di là dell'abbandono della scuola di Via Gal-  liari, Casorati resta per Galvano un solido punto di  riferimento, non tanto come esempio figurativo o di  pratica pittorica da seguire, ma come rappresentate di  un modello culturale autorevole e indipendente pre-  sente in città. L'amicizia tra i due, avviata alla fine degli  anni Venti e riconfermata in più occasioni, sembra in  questo giro di anni intensificarsi ulteriormente, antici-  pando il sodalizio che porterà alla pubblicazione della  monografia per la collana “Arte Moderna Italiana” di  Scheiwiller nel 1940, dedicata integralmente al mae-  stro.”   A partire dal 1938 (fino al 1942) incomincia a col-  laborare con “Emporium” occupandosi di curare la  sezione Cronache torinesi del mensile. Questo nascente  incarico gli permette di affrontare e commentare l’atti-  vità artistica piemontese, confrontandosi con un uni-  verso legato ad una rivista nota ed ampiamente diffusa  e discussa. Casorati è sempre presente nei suoi articoli:  viene seguito passo passo da Galvano sia nelle vesti di  pittore che di organizzatore culturale, offrendo in spe-  cial modo la propria attenzione all'impresa della galle-    31 A.GALVvano, [autobiografia] [1952], cit., p. nn.   32. [Intervista di L. Lanzardo ad A. Galvano], cit., p. 138.   33. Da ascriversi sempre al rapporto con Venturi sono i tre vo-  lumi di Galvano, apparsi a partire dal 1938 per l'editore Nemi  di Firenze (L'arte egiziana antica [1938]; L'arte dell'Asia occidentale  e centrale [1938]; L'arte dell'Asia orientale [1939]), pubblicati nella  collana “Novissima enciclopedia monografica illustrata”.   34  “Casorati [...] sapeva rispettare la personalità dell'allievo  anche quando non era affatto d'accordo sulla visione dell’allie-    vo. Infatti quei pochi che sono venuti fuori tra i molti che c'erano -    Bonfantini, Chicco, Paola Levi Montalcini, ed io, ci siamo subito  allontanati da Casorati pur restando suoi amici, pur essendo sem-  pre aiutati da lui sul piano pratico per mostre ed esposizioni. [...]  Ma la Montalcini ed io siamo passati negli anni Cinquanta all’a-  strattismo, poi all’informale, tutte cose che Casorati... ma non ci  ha mai tolto né la sua amicizia né la sua protezione. In questo era  veramente un grandissimo signore” ([Intervista di L. Lanzardo  ad A. Galvano], cit., p. 141).   35 A. GALvano, Felice Casorati, Arte moderna italiana n. 5, Serie  A - Pittori - n. 4, Ulrico Hoepli, Milano 1940.    30    ria “La Zecca”, avviata dal maestro a Torino insieme a  Enrico Paulucci in via Verdi 15.5   Se appare piuttosto chiaro come Galvano tenti —  con i mezzi a sua disposizione — di promuovere e so-  stenere l’amico Casorati nelle sue molteplici attività, il  maestro, dal canto suo, cerca di aiutare il suo ex-allievo  nel suo percorso di pittore. È lo stesso Galvano a di-  chiarare apertamente, molti anni più tardi, come la sua  affermazione al Premio Bergamo sia in realtà frutto di  un aiuto arrivato dallo stesso maestro: “Casorati era  molto potente [...] mi fece accettare [al Premio Berga-  mo], mi fece sempre dare qualche premio, per cui mi  trovai agganciato”. Presente con continuità dal 1939  al 1942, Galvano si aggiudica per ben tre anni i pre-  mi in denaro del concorso. Solo nella seconda edizio-  ne non compare tra i vincitori, ma la sua opera viene  acquistata dal Ministero dell'Educazione Nazionale a  titolo di incoraggiamento.    Il.    Verso la fine del 1940 è data alle stampe la mo-  nografia “Felice Casorati” scritta da Albino Galvano,  apparsa per le edizioni Hoepli di Milano.* La pub-  blicazione si inserisce all’interno dell’ambiziosa col-  lana “Arte Moderna Italiana” inaugurata nel 1925 e  coordinata da Giovanni Scheiwiller, immaginata per  raccogliere — uno dopo l’altro — gli artisti italiani più  noti del tempo, attraverso piccole monografie illustra-  te, introdotte da un testo critico che viene di volta in  volta scelto dall'editore o dall'artista protagonista del  volume. In questo caso, è infatti Casorati a suggerire il  nome del giovane critico a Scheiwiller, incaricandolo  di aggiornare radicalmente la precedente edizione di  Raffaello Giolli, ormai vecchia di quindici anni.”   La piccola monografia di Galvano non si colloca,  all’epoca, come una novità di genere nella letteratura  artistica del pittore, ma rientra in un panorama già  piuttosto sedimentato di studi sul maestro, che si oc-  cupano di fornire uno sguardo complessivo sull'intera  produzione raggiunta sino a quel momento. Il volume       36  Ip., La collezione Della Ragione, in “Emporium”, vol LXXXVII,  520, aprile 1938, p. 220; Ip., Torino. Maccari alla “Zecca”, in “Em-  porium”, vol. LXXXIX, 531, marzo 1939, pp. 161-162. In., Torino.  Mostre alla “Zecca”, in “Emporium”, vol. XC, 537, settembre 1939,  pp. 161-163; Ip., Torino. Mostre alla “Zecca”, in “Emporium”, vol.  XC, 538, ottobre 1939, pp. 203-204.   37. [Intervista di L. Lanzardo ad A. Galvano], cit., p. 138.   38. A. GALVANO, Felice Casorati, cit. Per uno studio sulla mono-  grafia si veda A. Botta, Albino Galvano e Felice Casorati. La mono-  grafia per la collana “Arte Moderna Italiana” di Giovanni Scheiwiller,  tesi di specializzazione, Università degli Studi di Udine, 2014-  2015, relatore: F. Fergonzi.   39 R. Giotty, Felice Casorati, Arte moderna italiana n. 5, Serie  A - Pittori - n. 4, Ulrico Hoepli, Milano 1925. lo studio di Giolli,  infatti, limitava necessariamente l'indagine sull'artista alla prima  metà degli anni Venti.    di Gobetti del 1923,‘ che si propone come una rico-  struzione cronologica del percorso artistico (nonostan-  te la limitatezza della produzione casoratiana) apre la  strada a numerosi tentativi di interpretazione e ordi-  namento dell’opera del maestro, non limitati alle pub-  blicazioni di carattere monografico (il caso successivo  — come si è detto — è quello di Giolli) ma rintracciabili  anche all’interno di contributi meno estesi che, a par-  tire dal saggio di Venturi uscito il medesimo anno su  “Dedalo”, diventano sempre più frequenti nei tempi  a venire, anche sotto forma di presentazioni nei catalo-  ghi delle esposizioni.”   La critica contemporanea studia la produzione di  Casorati secondo principi e approcci molto differen-  ti che, verso la metà degli anni Venti, tendono a farla  rientrare in quel processo di costituzione di un'arte  nazionale ufficiale: un’annessione ai “pittori del Nove-  cento” (non pienamente condivisa dall'artista) che sarà  esplicitata nell'articolo di Margherita Sarfatti apparso  su “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia” nel marzo  del 1925* e che contribuirà a determinare una lettura  della pittura di Casorati divisa “tra estetica e lettera-  tura”, destinata a rimanere ancora per molto tempo  identificativa del suo lavoro.   Intorno agli anni Trenta il lavoro di Casorati rien-  tra già nell'ottica di una ricostruzione storica più am-  pia dell’arte italiana ed internazionale: le pubblicazioni  della Sarfatti, di Virgilio Guzzi, di Vincenzo Costanti-  ni, di Anna Maria Brizio e — poco più tardi - di Ugo  Nebbia, esaminano Casorati secondo una prospettiva  generale (con le inevitabili ed ulteriori opinioni con-  traddittorie), ma sono tutte piuttosto concordi a identi-    40 P. Gost, Felice Casorati pittore, cit..  41 L. VENTURI, Il pittore Felice Casorati, in “Dedalo”, IV, fasc. IV,  Settembre 1923, pp. 238-261.   42 Ip., Mostra individuale di Felice Casorati, in XIV Esposizione  Internazionale d'Arte della Città di Venezia, catalogo della mostra  (Venezia, aprile - ottobre 1924), Carlo Ferrari, Venezia 1924, pp.  88-89; G. PACCHIONI, Felice Casorati, in Exposition d'’artistes italiens  contemporains, catalogo della mostra (Ginevra, Musée Rath, feb-  braio 1927), Stabilimento grafico Foa, Torino 1927, p. n.n.; A. Rossi,  Felice Casorati, in 21 Artistes du Novecento Italien. Deuxième exposi-  tion du Novecento italien, catalogo della mostra (Ginevra, Galerie  Moos, giugno-luglio 1929), Richter, Ginevra 1929; M. BERNARDI,  25 opere di Felice Casorati nel salone de La Stampa, catalogo della  mostra (Torino, gennaio 1937), Tipografia del giornale “La Stam-  pa”, Torino, 1937, p. n.n. Per una ricognizione sulla fortuna critica  Casoratiana si veda P. THeA, La critica e Casorati: profilo e antologia,  in M. M. LAMBERTI, P. Fossati, Felice Casorati 1883-1963, catalogo  della mostra (Torino, Accademia Albertina, 19 febbraio - 31 marzo  1985), Fabbri Editori, Milano 1985, pp. 141-167.   43. M. SARFATTI, Pittori d'oggi. Felice Casorati, in “Rivista illustra-  ta del Popolo d’Italia”, 15 marzo 1925.   44 In. Storia della pittura moderna, Paolo Cremonese Editore,  Roma 1930; V. Guzzi, Pittura italiana contemporanea. Origini e aspet-  il, Bestetti & Tumminelli, Treves, Roma-Milano 1931; V. COSTAN-  TINI, Pittura italiana contemporanea dalla fine dell’800 ad oggi, Ulri-  co Hoepli, Milano 1934; A. M. Brizio, Ottocento Novecento, Utet,  Torino 1939; U. NEBBIA, La pittura del Novecento, Società editrice  libraria, Milano 1941.       31    ARTE MODERNA ITALIANA N. 5    ALBINO GALVANO    FELICE CASORATI       1940 - XIX  ULRICO HOEPLI .  MILANO    EDITORE    Felice Casorati, Ulrico Hoepli, Milano 1940.    ficare nell'opera del medesimo una tendenza interna e  personalissima alla corrente novecentista.   Le difficoltà nel rintracciare una linea condivisa  per la sua arte era già stata evidenziata da Giacomo  Debenedetti (intellettuale torinese, come Gobetti, “pre-  stato” anche lui alla critica d’arte) con l'articolo Casorati  e la critica d'arte del 1933, nel quale sottolineava come  “L'arte di Casorati pare fatta apposta per isconcerta-  re gli schemi che la più ‘scientifica’ critica d'arte s'è  data come sicuri oramai ed incontrovertibili”,’° evi-  denziando nelle conclusioni tutte le contraddizioni di  una generazione: “Linea, dunque, no: forma plastica,  no: colore, no: o quanto meno né la linea, né la forma,  né il colore intesi come schemi esclusivi ed esaurien-  ti, nell'accezione data dai critici, che di quegli schemi  si sono fatti, non pure gli interpreti, ma i banditori. E  questa è l’involontaria polemica del Casorati contro la  critica d’arte”.   Davanti a questo insieme di opinioni e approc-  ci differenti, Galvano si dimostra sin da subito molto  perplesso verso i suoi predecessori, affermando in  maniera categorica come “Ciò che è mancato più ad  una critica concludente su Casorati è appunto [...] una  comprensiva ‘lettura’ delle sue pitture”,‘ e sintetizzan-          45 G. DEBENEDETTI, Casorati e la critica d'arte, in “L'Italia lettera-  ria”, 15 gennaio 1933, p. 4.   46 Ibidem.   47 A.GALVANO, Felice Casorati, cit., p. 28.    do poi, nelle prime pagine della monografia, i termini  di questa fortuna critica — che è anche incomprensio-  ne — sedimentata verso l’artista, almeno fino alla metà  degli anni Venti:    Casorati ha goduto di un momento di fortuna quando la  sua pittura, forse proprio perché meno urtante a prima  vista di quella di altri pittori di avanguardia, ebbe tutti  i suffragi e specialmente a quelli della critica che voleva  essere alla pagina, ma salvando il rispetto per la tradi-  zione [...] Erano i tempi in cui la pittura del novecento  appariva come uno sforzo neoclassico in polemica con  l’arte futurista da una parte, con l’aneddotismo elegante  dall'altra, [...] la pittura di Casorati [...] ebbe una sua  funzione in Italia per liberare il medio pubblico dagli en-  tusiasmi per Grosso, per Sartorio, per Dall’Oca Bianca.*    Rispetto ai precedenti studi la posizione di Gal-  vano è fin da subito ben chiara: risiede nell'approccio  preferenziale con cui affronta l’opera di Casorati, total-  mente inedito sino a quel momento, che viene ribadito  in più punti della monografia.   In apertura del volume il critico-pittore sottolinea  come la sua analisi non si circoscriva a una rilettura  analitica e distaccata della produzione casoratiana, ma  si sviluppi attraverso una consapevolezza fondata sul  ricordo della propria formazione: “Casorati pittore —  scrive richiamandosi ai suoi rapporti col maestro — è  stato per molti della mia generazione una esperienza  di importanza capitale in ordine alla formazione del  gusto e all'orientamento di una cultura non soltanto  limitata a fatti di specie figurativa. La pratica di di-  scepolato presso di lui e la frequente consuetudine  di Casorati uomo, hanno valso ad alcuni di noi come  un'esperienza fra le più profonde e decisive anche per  quanto riguarda la vita morale”!   L'insegnamento di Casorati, oltre a fornire una  solida base di rudimenti pittorici insieme agli stru-  menti per uno sviluppo individuale delle personalità  artistiche, è la chiave — sempre secondo Galvano — per  la comprensione stessa dell’opera del maestro, chiarita  metaforicamente in un passaggio del testo: “Casorati  è uno di quei pochissimi artisti che dopo il rapimen-  to delle muse non rimangono incoscienti di quanto  in loro è avvenuto; lo capiscono ed aiutano a capirlo  agli altri”.°° Un concetto che viene ribadito, in maniera  ancora più chiara, verso la fine del suo lungo contri-  buto per Scheiwiller: “Non molti di noi [allievi] hanno  saputo da quelle parole imparare a dipingere decente-  mente, ma certo tutti a leggere i suoi quadri un poco  meglio”.   Con queste premesse Galvano vuole dimostra-  re come la vicinanza al maestro gli permetta di avere    48 Ivi, p.7.  49 Ivi, p.d.  50 Ivi, p. 6.  51. Ivi, p.32.    32    una visione privilegiata, lucida e fedele del suo lavoro,  elevando la lettura delle opere ad un’originalità vicina  alle intenzioni del maestro, più di quanto gli altri pos-  sano avere.   AI di là degli schieramenti e dei tentativi di cate-  gorizzazione che, a più riprese, hanno interessato il la-  voro di Casorati — tra assimilazione al gruppo novecen-  tista, ascendenza neoclassica 0, ancora, appartenenza  alla poetica metafisica —, Galvano sceglie il sostantivo  “Platonismo” per riassumere gli esiti figurativi ottenu-  ti dall'artista a partire dagli anni Venti," un’indicazio-  ne che gli permette di liberarsi da ingombranti etichet-  te sino a quel momento attribuite all'opera del pittore.   È un'affermazione di Casorati a suggerire a Gal-  vano le basi per un'interpretazione platonica delle sue  opere: il critico recupera esplicitamente una dichiara-  zione del maestro che risale al 1921 espressa a margine  di un catalogo della Galleria Pesaro, nella quale chiari-  sce le proprie intenzioni —quasi programmatiche — di  esercizio pittorico: “Dipingere la verità, dimenticando  la realtà superficiale” 5° Un concetto che viene succes-  sivamente ribadito da Casorati, spogliato delle sue im-  plicazioni categoriche (rinnegate in un secondo tempo  dallo stesso pittore)? in una successiva dichiarazione,  fatta a dieci anni di distanza e riportata nel catalogo  della prima Quadriennale romana, con la quale l’ar-  tista sottolinea ancora una volta come il suo distacco  dalla realtà dei soggetti sia prerogativa fondante del  suo lavoro: “la mia pittura è staccata dalla vita”.>   La posizione “platonica” di Galvano pone il la-  voro di Casorati in netto contrasto con la pittura degli  Impressionisti (che godono invece di una notevole for-  tuna, verso gli anni Trenta, a Torino), collocando il mo-  vimento francese e il maestro torinese su due fronti op-  posti — sia da un punto di vista lirico che tecnico —: un       52  sto di Casorati preferiremmo ad ognuna quella di ‘Platonismo  (Ivi, p. 6).   53 F. Casorati, [Dichiarazione], in Arte italiana contemporanea,  catalogo della mostra (Milano, Galleria Pesaro, ottobre - novem-  bre 1921), Alfieri & Lacroix, Milano 1921; ora in In., Scritti intervi-  ste lettere, cura di E. Pontiggia, Abscondita, Milano 2004, p. 11.   54 “Scrissi allora nel catalogo alcune parole per spiegazione  del mio lavoro e quasi per contrappormi all'arte di quel tempo:  affermavo di voler dipingere la verità, dimenticando la realtà  apparente; di voler indulgere agli errori che spesso sono la sola  ragione dell’opera d’arte... Queste parole furono definite un’ere-  sia estetica; in fondo, però, esse volevano spiegare il carattere di  immobilità, di impassibilità dei contorni decisi di forma, in con-  trapposto al più o meno degenere impressionismo di sfarfalleg-  giamenti colorati, di indecisione ottica, di ricerca del movimento  nel vibrare continuo della luce” (F. CASORATI, in G. MascHERPa [a  cura di], Felice Casorati e il religioso, catalogo della mostra [Milano,  Galleria San Fedele, Milano, 1 marzo - 8 aprile 1983], Milano 1983,  p. 12).   55 E. CASORATI, Presentazione, in Prima quadriennale d'arte nazio-  nale, catalogo della mostra (Roma, Palazzo delle esposizioni, gen-  naio - giugno 1931), E. Pinci, Roma 1931; ora in In., Scritti interviste  lettere, cit., p. 23.    “E infatti se dovessimo trovare una parola per definire il gu-    IN    rifiuto che è categorico e si muove sulla falsariga delle  indicazioni già enunciate dall'artista nella citata pre-  sentazione del 1931: “non ho mai capito il movimento  ‘qui déplace les lignes’, e adoro invece le forme statiche  [...] la mia pittura nasce -per così dire- dall'interno e  mai trova origine dalla mutevole ‘impressione’ }° consi-  derazioni che vengono caricate di significati filosofici,  anche in questo caso, da Galvano:    Al Protagorico impressionismo per cui misura di tutte le  cose è l'uomo individuale, si contrappone dunque il Pla-  tonico Casorati richiamandoci all'ordine di una pittura  dove le cose appaiono reali in quanto hanno la maneg-  giabilità di ciò che dal flusso delle sensazioni è ritagliato  per opera dell'intelletto. Scodelle o uova, teste o seni var-  ranno come categoria.”    Al “degenere impressionismo” Casorati contrap-  pone, secondo Galvano, “i suoi caratteri di immobilità,  di impassibilità, di contorni decisi, di ‘forma’”.*   Alle premesse teoriche fanno seguito le prime  verifiche sulle opere che, a differenza dei precedenti  Studi, non seguono uno sviluppo strettamente crono-  logico ed organico della produzione casoratiana, ma si  Muovono più liberamente, procedendo secondo l’an-  damento del discorso.   | Come nelle antecedenti occasioni di studio, l’ini-  z10 dell'attività pittorica viene fatta coincidere con le  Opere del 1909, che gli valgono le prime attenzioni da  parte della critica alla Biennale di Venezia ed alla mo-  Stra degli Amatori e Cultori di Roma. Le considerazio-  ni che investono il dipinto Le vecchie (1909) e La cugina  (1909)? sottolineano nelle ricerche di Casorati “un sen-  so drammatico della vita teso in un’acuta analisi psico-  logica in cui non manca una punta di sensualità [...],  Ma temperata in una specie di serenità letteraria”’,9  Motivi che si pongono in continuità con le formulazio-  Ni espresse in precedenza sia da Gobetti che da Ventu-  Il, attenti entrambi a rilevare l’attenzione psicologica  ed il senso letterario di queste prime composizioni.‘   ._ Il salto a questo punto si fa subito brusco: l’esclu-  Silone di tutta la produzione degli anni della guerra  (che coincide con il suicidio del padre di Casorati e con  le nuove responsabilità di capofamiglia verso le due  Sorelle e la madre) è in linea con le volontà dell'artista,  che sceglierà di non conservare le opere di quel perio-  do, contraddistinte da un simbolismo e sintetismo de-  Corativo piuttosto anomalo.       56 Ibidem.  957 A. Galvano, Felice Casorati, cit., p.7.  98 Ivi, p. 6.    59 (Bertolino, Poli 40, 50).   90 A. GALvaNnO, Felice Casorati, cit., p. 9.   01 Cfr. P.Gosetti, Felice Casorati pittore, cit., p. 93; L. VENTURI,  Mostra individuale di Felice Casorati, in XIV Esposizione Internazio-  nale d'Arte della Città di Venezia, cit., p. 88.    33    Un passaggio su Le signorine (1912), che “libe-  ro questa volta da preoccupazioni di ordine realistico  ed orientato verso una completa subordinazione alla  composizione”, permette a Galvano di transitare di-  rettamente su Tiro al bersaglio del 1919, anticipando i  problemi di annullamento della terza dimensione già  evidenti nel dipinto.   Per Galvano Tiro al bersaglio rappresenta un’opera  cruciale, da cui parte tutta la produzione più celebrata  dell'artista, quella del periodo immediatamente suc-  CESSIVO:    l’opera significativa ‘Tiro al bersaglio’ (1919) [...]. In essa il  colore e la linea collo scomparire di ogni ricerca della terza  dimensione assumono per la prima volta una organicità che  è davvero il segno dell’impostarsi nella pittura di Casorati  dei problemi di cui anche oggi essa si nutre. Ridotto il qua-  dro, colla completa scomparsa delle ricerche chiaroscurali  e mancando ancora l'ulteriore ricerca spaziale, ad un sem-  plice tappeto di tinte piatte, si comprende facilmente come  linea e colore divengano funzione l'uno dell'altro, tendendo  a uno stato in cui la visione inquietante del pittore raggiun-  ge uno dei più intensi suoi momenti”    Il dipinto, in realtà, aveva sino a quel momento  goduto di una fortuna alterna: tacciato di futurismo  nella prima presentazione pubblica del 1919, è per  Gobetti un’opera dai “rapporti formali [...] indecisi”  ancora legata alla produzione dalla prima metà degli  anni Dieci, un lavoro insomma, che Casorati realizza  come “prova per testimoniare a se stesso la fine del  suo estetismo e la sua incapacità di fermarsi ormai  all'episodio”. La rivalutazione di Tiro al bersaglio,  nei fatti trova, prima di Galvano, un precedente mol-  to prossimo all'uscita della monografia Scheiwiller:  nell'agosto del 1940 Italo Cremona (anch’egli vicino a  Casorati, pur non essendo mai stato allievo della sua  scuola), in maniera analoga a Galvano ragiona sull’im-  portanza del colore e sul principio di astrazione pre-  sente nel dipinto, che anticipa le opere più compiute e  celebrate degli anni Venti:    sottrarre le cose dai variabili accidenti della luce per pe-  netrare invece il colore secondo un processo di intelli-  gente astrazione. [...] In quella curiosa vetrina di oggetti  [...] vivono infatti quei bianchi spettrali, quei colori —fin-  ti-, che sovente ritroveremo nell'aria rarefatta dove re-  spirano le sue figure, anche quelle delle parate familiari  che Casorati ha sovente composto con sincera affettuosi-  tà ma che appaiono pur sempre affacciate a una ribalta,  in uno scenario freddamente preordinato, sul mondo  dal quale l’artista le ha volontariamente allontanate.”       62 (Bertolino, Poli 71).   (Bertolino, Poli 140).   A. GALVANO, Felice Casorati, cit., pp. 10-11.  65 P. GOBETTI, Felice Casorati pittore, cit., p. 96.    Ibidem.  I. CREMONA, Felice Casorati, in “Primato. Lettere e arti d’Ita-    La rivalutazione del dipinto si pone verosimil-  mente in linea con le volontà dello stesso Casorati: l’o-  pera, che dal 1919 trova collocazione stabile nell’abita-  zione dell'artista, è ripresentata nel 1929 ad una mostra  degli allievi e riprodotta per volere dello stesso mae-  stro come prima tavola nella monografia Scheiwiller.®  Un interessamento che viene letto da Galvano come un  “Segno che una pittura senza volume ed una pittura di  colore sembra ancora a Casorati rivelatrice del senso  profondo della sua arte”.   Le opere realizzate a partire dal 1921 aprono la di-  scussione sulla funzione e l’importanza del colore per  Casorati, che viene ampiamente discussa nel testo e  che caratterizza da qui in poi tutta la monografia come  lettura univoca del decennio successivo. Accanto ad  una premessa platonica, che si confronta nuovamen-  te con le opere Meriggio (1923), Lo studio (1923) e Con-  certo (1924), allontanandole da facili letture estetiche,”  Galvano vede in “quegli slarghi formali” di pittura un  anticipo di “un’esperienza di tono che sarà chiarissima  intorno al 1931-32”.   Contrapponendosi alle interpretazioni — che vede-  vano nella linea e nella forma plastica le caratteristiche  fondanti dell’opera di Casorati — Galvano valuta la pit-  tura del maestro come una pittura essenzialmente di  colore,” spingendosi a verificare le intenzioni dell’arti-  sta e giustificare la scelta di determinati soggetti e for-  me piuttosto che altre, proprio in funzione del colore:  “Vi sono dei quadri di Casorati, e talvolta proprio i più  formali a prima vista, come ‘Daphne”? [...] che non si  afferrano in tutto il loro valore se non riferendoli al co-  lore. Casorati ama le forme semplici perché sono quelle  che permettono al colore di stendersi con la sua miglio-  re ampiezza. È strano come questa semplice verità sia  stata tanto spesso fraintesa, non mancando del resto di  contribuirvi la stessa interpretazione che il pittore ha  dato della propria opera”. Una sensibilità tonale che  porta il critico ad accostare come esempio di ‘“straordi-          lia”, I, 11, 1 agosto 1940, p. 19.   68 ‘è quanto mai significativo a questo proposito il fatto che  il pittore abbia tenuto in tempi recenti non lontani ad esporre, ad  introduzione e quasi chiave di sue opere più recenti, quel ‘Tiro  a segno’ piatto e ritagliato fra tutti che volle anche ad inizio di  queste riproduzioni” (A. GALVANO, Felice Casorati, cit., p. 24).   69 Ibidem.   70 “Il ‘nudo’ e gli analoghi ‘Concerto’, ‘Meriggio’, ‘Studio’, ci  presentano un mondo che si presta ad essere interpretato in modo  equivoco, come estetistico, da chi non tenga presente che per Ca-  sorati quelle platoniche accolte di figure femminili ignude, anche  se esse presentano molta eleganza, non hanno veramente valore  per questa eleganza ma solo per lo snodarsi ritmico dei volumi”  (Ivi, p. 12). Cfr. (Bertolino, Poli 212, 215, 226).   71. A.GAlvano, Felice Casorati, cit., p. 13.   72 “La forma serve [...] a distruggere la linea ed a passare al  colore: essa è, se si vuole, il punto di partenza, ma è proprio il  colore è il punto di arrivo” (Ibidem).   73. (Bertolino, Poli 328).   74 A.GALVANO, Felice Casorati, cit., pp. 13-14.    34       ARTE MODERNA ITALIANA N.5    ALBINO GALVANO    | FELICE CASORATI       II ed. del volume Felice Casorati, Ulrico Hoepli, Milano 1947.    nario pre-casoratismo” l’opera di Jan Vermeer e di Ge-  orges de La Tour piuttosto che quella di Ingres, riferita  dallo stesso pittore come modello di riferimento alla  propria pittura nel “Referendum sul quadro storico”  del 1929.   A sostegno di questa sua tesi sul colore Galvano  recupera ancora una volta i ricordi dell’insegnamento  del maestro, affrontando questioni di metodo e di pra-  tica pittorica vissuta nello studio dell'artista, dove l’os-  servazione dei modelli veniva condotta non tanto sulla  forma degli oggetti, ma sui valori tonali dei medesimi:    ci limiteremo a notare come quanto resti nel ricordo di  chi è stato alla scuola di Casorati verta essenzialmente  su due punti: l'insieme e il tono. E soprattutto l’insie-  me come forma il più sintetica possibile in funzione del  tono. La forma intellettualistica di un oggetto, proprio  ciò che interessa di più al pittore formale o classico, è ciò  che Casorati consiglia all'allievo di disimparare, la for-  ma che l'allievo deve imparare a vedere il più semplice-  mente possibile è la forma di quella determinata massa  tonale, di quella determinata massa chiaroscurale, non  la forma dell'oggetto.”       75 F. CASORATI, [Risposta al referendum sul quadro storico], in  “Le arti plastiche”, 16 dicembre 1929; ora in Ip., Scritti interviste  lettere, cit., p. 22.   76 A.GALVANO, Felice Casorati, cit., p. 14. Analoghe impressioni  sì ritrovano in L. RoMAnO, La scuola di Casorati, in “L'Arte”, XXXIII,    La discussione sul colore offre a Galvano il punto  di partenza per affrontare le influenze cézanniane che,  secondo una critica assodata ormai da tempo, avrebbe-  ro avuto un ruolo capitale nell'evoluzione del lessico  pittorico casoratiano, soprattutto per il genere della  natura morta.”   È Venturi, nel 1923,” a offrire per primo quest'in-  terpretazione, individuando nell'esperienza diretta  di Casorati alla Biennale del 1920 (dove, su 28 dipinti  di Cézanne presenti, erano ben sette le nature morte)  il passaggio di svolta tra Le uova sul tappeto verde del  1914 e Le uova sul cassettone del 1920:”? “Le ‘uova’ [...]  del 1913 sono un motivo di bianco su verde, le ‘uova’  del 1920 sono un motivo di forma geometrica solida e  chiara sopra un volume scuro”.8°   Per Galvano, l'avvicinamento al maestro di Aix  è da intendersi come “esperienza più morale che  pittorica”, nella quale l'evoluzione delle sue natu-  re morte rappresenta un processo interno alla pittu-  ra stessa piuttosto che il risultato di quest’incontro:  “[Uova sul cassettone] non si spiega con un riferimento  al costruire tonale del Provenzale nella sua essenza sti-  listica” — puntualizza Galvano - “ma solo col metterlo  In relazione a quello che la pittura di Casorati fu prima  d'allora” 8 Secondo il critico, più che un precedente sti-  listico, la lezione di Cézanne offre la verifica di nuove  possibilità espressive; un punto di vista che trova con-  ferma — più tardi — nelle stesse dichiarazioni del pittore,  che ripercorrono l’incontro con i dipinti alla Biennale  del 1920:    Tutta la grandezza del Maestro di Aix mi si manifestò im-  provvisa. L'emozione che ne provai fu enorme e non fu  un'emozione di sbalordimento o di stupore, che anzi mi  sentii preso da quel senso di calma, di fermezza, di equi-  librio, che solo le opere dei grandi può dare. Equilibrio!  Compresi che nella sua pittura trovava il giusto equilibrio il  problema posto e sviluppato in un senso dell'Impressioni-  smo e il grande opposto risolto da tutta la tradizione; com-  presi l'aberrazione di una certa critica che non si staccava  di insistere sui problemi di Cézanne: capii che proprio, che  Specialmente in quei difetti era il germe della sua grandez-       fasc. IV, luglio 1930, p. 380.   77. Relativamente a questo genere si vedano P. Fossati, Nature  morte di Casorati, in M. M. LamBERTI (a cura di), Casorati. Mostra  antologica, catalogo della mostra (Milano, Palazzo Reale, 27 mar-  ZO - 20 maggio 1990), Electa, Milano 1989, pp. 29-38; G. BERTOLINO,  Dal repertorio di oggetti alle prime nature morte (1910-1920), in ID., F.  PoLI (a cura di), La natura morta nella pittura di Felice Casorati, cata-  logo della mostra (Iseo [Brescia], Sale dell’ Arsenale, 24 maggio-20  luglio 1997), Electa, Milano 1997, pp. 11-22.   78. L. VENTURI, Il pittore Felice Casorati, in “Dedalo”, cit.   79 (Bertolino, Poli 114, 162); relativamente alle opere si veda  In particolare M. M. LAMBERTI, Scherzo: uova (o Le uova sul tappeto  verde) e Le uova sul cassettone, in In., P. Fossati, Felice Casorati 1883-  1963, cit., pp. 62-64; 79-80.    80. L. VENTURI, Il pittore Felice Casorati, in “Dedalo”, cit., p. 254  ù A. GALVANO, Felice Casorati, cit., p. 33.    Ivi, p. 16.    35    za. Compresi che Cézanne era il pittore della rinuncia e che   la rinuncia era la forza della pittura moderna. Non cambiai  modo di dipingere, ero troppo inconsciamente orgoglioso  per tentare un cambiamento di rotta che non avrei potu-  to fare in alcun modo. Credetti allora di approfittare della  grande lezione di Cézanne proprio irrigidendomi sulle  mie posizioni e cercando solo in profondità.*    La monografia Scheiwiller, pensata per aggiorna-  re la precedente di Giolli, in realtà affronta solo margi-  nalmente la più recente produzione del maestro, soste-  nendo per le opere più prossime la piena attuazione del  proposito coloristico în nuce già nei primi anni Venti.   Ai ricordi della Biennale del 1924, e soprattutto a  quella del 1928,* Galvano contrappone le opere espo-  ste nei primi anni Trenta: per La lezione (1929), Susanna  (1929) e Lo straniero (1930) pone l'accento su come pre-  valgano in questi dipinti “certe note di rossi improvvisi,  il taglio in controluce, il gusto, almeno nei due primi, di  accostare il nudo ad una figura maschile vestita, un de-  siderio di atmosfera serena che suggerisce lontananze  chiare e assolate” .8# Motivi pittorici che, spogliati degli  elementi accessori (come la copertina del “Selvaggio”  nella Lezione o, ancora, le pantofole rosse di Susanna),  trovano un'ulteriore compiutezza in Daphne (1934) e  Ragazza in collina” delle collezioni dei Musei Civici di  Torino, “soluzioni più aneddoticamente umane [...]  dove il motivo del controluce sulla finestra aperta so-  stituisce figure familiari o umilmente umane ai mani-  chini, mentre il paesaggio si fa sereno [...] ricavato da  quei campi di Pavarolo ormai cari all’artista”.*   Come già sottolineato da Maria Mimita Lamberti,  l'apporto di Galvano si dimostra poi piuttosto illuminan-  te nell'individuare nel tema del nudo una possibile linea  di lettura della sua produzione, sino a quel momento tra-  scurata rispetto al genere più discusso della natura morta.       83 Il passo è riportato in L. Caruccio, F. Casorati, quaderni  d'arte del Centro Culturale Olivetti, Ivrea, All'insegna del pesce  d'oro, Milano 1958, p. 22.   84 ‘Noi veniamo dall'esperienza della generazione per cui i  quadri del ‘24 rappresentarono lo scandalo dell'adolescenza che  ancora confondeva la classicità coll’accademismo e che scorgeva  in quei quadtri, visti alle esposizioni colla famiglia deplorante o  pronta al riso di fronte alle stranezze dell'arte moderna, pur qual-  che cosa di inquietante e di tentatore che non si poteva dimenti-  care [...] i quadri della biennale del ‘28 rappresentarono invece  la scoperta del mondo nuovo e spregiudicato che si apriva alla  nostra cultura” (A. GaLvano, Felice Casorati, cit., p. 15).   85 (Bertolino, Poli, 366, 368, 396). Erroneamente Galvano attri-  buisce il titolo Lo studio al dipinto La lezione esposto alla Biennale  del 1930. L’opera verrà distrutta nell'incendio del Glaspalast di  Monaco del 1931.   86 A.GAlvano, Felice Casorati, cit., p. 22.   87 (Bertolino, Poli 531, 592). Galvano, in realtà, indica il secon-  do dipinto con il titolo Estate. Cfr. A. Galvano, Felice Casorati, cit.  p.iz.    88 Ibidem.  89  M.M.LAMBERTI, I nudi nello studio, in Ip. (a cura di), Casorati.    Mostra antologica, cit., pp. 13-28 (13).       Galvano vi riconosce una traccia di continuità che,  a partire dalle Signorine del 1912 (opera che, secondo il  critico, non è da intendersi come “gruppo” ma come  insieme di figure isolate), arriva sino alla Venere bionda  del 1934, “punto di arrivo e di dissoluzione di quello  che si potrebbe chiamare il ‘tonalismo’ di Casorati”:”  secondo Galvano il motivo del nudo in Casorati si  presenta “come figura essenziale, come una forma ele-  mentare, categorica, simile a quelle delle scodelle, delle  uova, dei libri”, caratteristiche che, alla pari dei sem-  plici oggetti che popolano i suoi dipinti, permettono  quegli “slarghi formali” di pittura, oltre alla “possibi  lità di un tono uniforme”? capaci di confermare la sua  sensibilità di colorista.    III.    A distanza di sette anni dalla pubblicazione la  monografia di Galvano su Casorati viene ristampata,”  aggiornata in alcune sue parti e rivista totalmente per  quanto concerne l'apparato iconografico. È il 1947.   Tra la prima uscita e la riedizione, l’interessamen-  to che il discepolo dimostra nei confronti del maestro  è continuo e si attesta già dall'inizio del 1941 con mo-  dalità simili a quelle che avevano contraddistinto il    suo precedente impegno sulle riviste nazionali. Vi si    affiancano però nuove prospettive lavorative. Proprio  nel 1941, accanto alla sua attività di pittore e di critico  (che in questi anni, oltre alla corrispondenza per “Em-  porium” e alla collaborazione per “Il Selvaggio”, si  amplia con due contributi sulla rivista “Le Arti”) Gal-  vano è impegnato nella nuova veste di assistente alla  cattedra di “Pittura” di Enrico Paulucci presso l’Acca-  demia Albertina di Torino, assegnata contestualmente  anche a Felice Casorati per l'insegnamento di “Com-  posizione pittorica”. Incarichi che vengono entrambi  costituiti ad personam dal Ministero dell'Istruzione nel  contesto dei provvedimenti avviati da Bottai a favore  delle Accademie artistiche. Sono questi, inoltre, gli  anni nei quali Galvano va consolidando una sicurezza  economica stabile — tanto auspicata negli anni Trenta —  grazie all'insegnamento nelle scuole superiori: prima  come professore di figura disegnata nei licei artistici  piemontesi e poi, dal 1942, come docente di filosofia e  storia nei licei classici e scientifici.   La mostra Casorati Menzio Paulucci, inaugurata nel  novembre del 1940 alla Galleria Cigala di Torino, è l’oc-  casione per tornare a parlare di Casorati sulle pagine di    90 A. GaLvano, Felice Casorati, cit., p. 18; cfr. (Bertolino, Poli  501).   sa: «Ivi, p. 20.   92 Ibidem.   93 Ip, Felice Casorati, Arte moderna italiana n. 5, Serie A - Pitto-  ri - n. 4, Ulrico Hoepli, Milano 1947.   94 Cfr. F. Darmasso, Casorati e l'Accademia Albertina, in M. M.  LAMBERTI, P. Fossati, Felice Casorati 1883-1963, cit., pp. 199-205.    36       Copertina e pagine del volume Tre nature morte. Casorati Menzio Pau-  lucci, Carlo Accame, Torino 1942.    “Emporium”, presente in questa circostanza con due  pittori torinesi protagonisti della scena artistica citta-  dina (reduci entrambi dall'esperienza del gruppo dei  “Sei” ), sicuramente vicini a Casorati ma mai allievi di-  retti del maestro: il quarantaduenne Francesco Menzio  e il più giovane (di poco) Enrico Paulucci, con il quale  Casorati ha intrapreso da tempo un rapporto di stretta  collaborazione.”   Il sodalizio dei tre artisti, che non vuol essere un  principio di ricerca comune ma piuttosto un impegno  di politica culturale condivisa, si ripropone più tardi,  in modo analogo, con una mostra allestita alla Galleria  Genova del capoluogo ligure nel febbraio del 1942. La  circostanza è anticipata da una pubblicazione autono-  ma di Galvano, intitolata Tre nature morte e stampata  dalla tipografia Accame di Torino (che pubblica, nello       95 A. Galvano, Casorati, Menzio, Paulucci, in “Emporium”, XCI-  II, 554, febbraio 1941, pp. 93-95.    Stesso anno, la monografia su Casorati di Italo Cremo-  na), in un elegante edizione in folio che riporta come  Sottotitolo i nomi dei tre pittori torinesi.’ In questa oc-  casione — che si propone di presentare sinteticamente  tre opere dei rispettivi pittori, con tanto di riprodu-  zioni a colori — Galvano sceglie la natura morta come  genere esemplificativo della produzione degli stessi.  Un'operazione che nell’introduzione viene definita  come “didattica”” e che si pone in aperta polemica nei  confronti della tendenza a considerare questo genere  come motivo poco adatto alla pittura moderna: “ad  Ogni esposizione abbiamo sentito deplorare l'eccessiva  presenza di nature morte o esaltare per il loro scom-  parire di fronte ai quadri di figura”. Una difesa per  l'autonomia e dignità del genere pittorico, che non si  risparmia nel chiamare in campo i precedenti noti di  Cézanne, Manet ed ancora Renoir.   La questione, in realtà, non è nuova, ma prende  le mosse da un pensiero espresso dal maestro quasi  quindici anni prima, che rappresenta verosimilmente il  pretesto per il contributo di Galvano, che mostra que-  sto taglio così inaspettato. Sulle pagine del quotidiano  torinese “La Stampa”, Casorati lamentava nell’artico-  lo La crisi delle arti figurative i medesimi problemi di  accettazione della natura morta da parte di pubblico  € critica, con presupposti che sembravano essere gli  stessi avanzati ora da Galvano nella sua introduzione:   Ho sentito dire ed ho letto purtroppo parecchie volte  questa frase: troppe nature morte, troppe mele, troppi  aranci, troppi pomodori ecc. [...] poveri oggetti, [...]  vo1 siete i modelli più docili e più esigenti degli artisti  [...] Nei momenti più disperati della mia vita di arti-  Sta, io ho potuto riconciliarmi con la pittura dipingen-  do umilmente una scodella, un uovo, una pera”.?   . La scelta della natura morta casoratiana — vero-  sImilmente selezionata da Galvano — ricade su Le pere  verdi del 1941,!% presentata probabilmente per la prima  volta in questa sede: un’opera che gli permette di riba-  dire il principio coloristico sostenuto nella monografia  del ‘40, che viene qui chiarito con un'attenta analisi          96 Ip., Tre nature morte. Casorati Menzio Paulucci, Carlo Accame,  Torino, 1942.  97 “La presentazione di ‘Nature morte’, dovute a tre fra i più  autentici pittori operanti oggi a Torino, potrà anche apparire, ed  essere criticata, come una iniziativa a carattere tendenzioso e po-  lemico. Non sarà forse il caso di affermare che essa ha piuttosto  un intento didattico? E proprio di educazione del pubblico: degli  intelligenti (almeno in potenza, chè degli ostinati per limitazione  Naturale di possibilità, per passione di parte o per difficoltà di  Sclogliersi da presupposti culturali privi di validità non occorre  Hr a comprendere le ragioni per cui, su di una falsa impo-  azione di presupposti, può passare per atteggiamento polemico  9, peggio, di conventicola, il semplice intento di chiarificazione  Intellettuale e critica” (Ivi, p.n.n.).  8 Ivi, p.nn.  "i F CASORATI, La crisi delle arti figurative, in “La Stampa”, 29  ra raio 1928; ora in Ip., Scritti interviste lettere, cit., pp. 19-20.  (Bertolino, Poli 682).    CY    della sua pittura (non priva di tecnicismi del mestie-  re), che si concentra sui valori tonali e sugli accordi  cromatici presenti nel dipinto, che sottendono sempre  — secondo Galvano — a problemi ed equilibri di natura  compositiva:    Sul fondo rosa e paglia un accordo di due verdi: crudo e  spento, e le chiazze rugginose e calde della putredine che  intacca i frutti; solo dal colore prende realtà il fascino di  questa natura morta, eppure il colore qui non evocherà a  nessuno la categoria della ‘forma aperta’ o la scioltezza di  un pittoricismo abbandonato: chè Casorati è anche ora il  pittore delle forme assolute e degli elementari geometrici,  ma il colore ne rivela, per distinguersi dei campi continui e  dilatati, la purezza, anzi il purismo, di impaginazione e ce  ne propone la più castigata presenza.   [...] i colori si subordinano ad una ragione compositiva  a priori [...] in essa si giustifica quel disporsi graduale di  intensità pittorica che può far apparire persino sordo (e  tale veramente sarebbe se non servisse a concentrare ogni  attenzione sull’interno ordinarsi del gruppo centrale, ma  pretendesse di disporsi sul medesimo piano di ‘bel colo-  re’ dei toni vicini) il colore locale; necessario a staccare nel  castigato e serrato gioco compositivo della frutta ritagliati  sul fondo chiaro, dove più i toni non si distinguono nella  vibrante luminosità, la bruciata profilatura delle foglie.!®!    Di respiro ben diverso, invece, è il contributo Fe-  lice Casorati (e i torinesi) apparso un anno più tardi, nel  1943, sulla rivista “Pattuglia” di Forlì.!® Nel numero di  maggio-giugno, dedicato interamente alle arti figura-  tive e curato da Giovanni Testori, Galvano traccia un  bilancio della situazione artistica torinese: accanto a  considerazioni su Casorati in linea con la monografia  Hoepli del 1940, abbandona i ricordi della scuola di via  Galliari proponendo una lettura totalmente rinnovata,  alla luce dei più recenti sviluppi espositivi. Menzio e  Paulucci rappresentano qui (insieme agli altri “Sei”,  che però non vengono nominati) i “giovani pittori che  si erano stretti intorno a Casorati” e che, seppur non  direttamente allievi dell'artista, non “rinnegavano il  debito contratto col primo ideale maestro, né erano da  lui sconfessati: anzi la stima, l'amicizia e la valutazione  dei diversi ed ugualmente validi risultati, da parte del  più anziano rimanevano intatti od accresciuti”."° Una       101 A.GALVANO, Tre nature morte. Casorati Menzio Paulucci, cit., p.    n.n.  102  In., Felice Casorati (e i torinesi), in “Pattuglia”, 7-8, maggio-  giugno 1943, pp. 15-16. La rivista, mensile del Guf di Forlì, viene  inaugurata nel 1941 e riporta nel sottotitolo la dicitura “Mensile  di politica, arti e lettere”. L'articolo di Galvano viene pubblicato  nell'ultimo numero della rivista, curato Giovanni Testori e in-  titolato “Omaggio alla pittura”, che si proponeva di fornire un  bilancio dell’arte italiana del ‘900. La rivista viene interrotta e se-  questrata da Mussolini per i suoi contenuti non in linea con le  direttive -in campo figurativo- imposte dal regime.   103 Ivi, p. 16.    07 ee    (E I TORINESI)    E condizioni che determinarono a To- ‘20: sei anni dopo l'altra polemica fra  rino l'orientarsi della pittura degna L. Venturi, a proposito del  di quest'ultimo,       di eu- proposito del valore positivo  tentici pittori. Condizioni in cui la eri. tivo delle influenze parigine sull'arte  tica ai pose di per se stessa come po- —ita'iana non ebbe significato diverso. Ora  lemica: © in cui da polemica fu l'one- —P. Gobetti e L. Venturi furono appunto  stà stessa della critica. La guerra del tra | primi ad esaltare l'opera di Ca  14-18 era terminata. Lo stile «libe- sorati. A dispetto danque delle av  ty » in architettura, il neo-pre-ralfuel- versioni del borghese e delle ammira  lismo tipo «In arte libertas» da cui zioni dell'aggiornato, che esalta insie  pure avevano mosso î primi passi pit- e Carrà 0 © Casorati, l'e  tori validi come Modigliani e Spadini figurativa di quest  uveva esaurita ogni pretesa alla forma- —srebbe un significato diverso, e in certo  zione di una coscienza figurativa nella senso opposto, n quello in cui si è  banalità di un'acquiescenza in cui i svolta la comune esperienza della più  fermenti di possibilità che più tard' vi viva pittura italiana? In parte si deve  scoprirà l'accorto senso del « perver- rispondere affermativamente  pEr eg sai 16 gin   lettuale per quello Hgurativo sano  ogni evasione dal fatto pittorico, E che sioo al 1928 la pittura di Casorati  quanto per queste esperienze avveniva —anche nelle punte di estrema avanguar-  ordine a le possibilità della linea cur- —.ija come in certi distrutti. di-  me di questo è quel complesso frea- —pinti, n quanto si dice. sotto l'influenza F. Casorati: “Ragazza,. (1937)  diano avveniva, in modo anche più vol- —gel gusto di Kandiski, cerca i proprii  gare è fatuo, mancati Sant'Elia e Boocio riferimenti non in un mondo mediterra-  : ma in uno nordico {quasi a fedeltà    i  H  È  È;  i    figurativo di Martino Span-  Torino poi: Thover seguitava a eredere viti e di Defendente Ferrari che guard    Memet o di Bestlovea, a confeadero assai più che quello, volto verso il       l'eleganza lineare di Modigliani con di Gaudenzio), non in un'umanità  l'imperizia del bambino (e se mai si assertrice di proporzionata statura mul  sarebbe dovuto rimproverargli un'ele- rondo det orizzonte, ma nel  panza sin troppo vicina » preoccupazio- tormento di sentirai oppressa da È  ni ostetistiche e contenutistiche simili amine mirror  quelle che limitavano fl eritico) inau- ciò di dramma per la propria persona,  guraodo quella tradizione di contenu- in quanto finita, Il sottile Tinguaggio  tismo ad oltranza e di cauto e garbato, formale, la ricerca d'equilibrio compo-  ma fondamentalmente deciso, « fin de sitivo, l'astratto rigore della sintesi po-  non recevoie » mel riguardi di una vi- Loveno sì! suggerire, insieme @ certo  conda pittoricamente valide a cui si at- codenze illustrative (i libri aperti, i  tiene con un'ostinazione che ha per io csrtigli) o agli accorgimenti ‘tecnici,  meno 2 merito della consequenzialità come l'uso della tempera verniciata, ri-  quel poco di csi valga la pena di (91 —rorimenti al quattrocento, mostro. sn  menzione della critica d'arte del quo- non poteva sfuggire ad ‘una  tidiani oggi ancora a Torino. più accorta l'assoluta continuità spi-  Un panorama, come si vede, sostan- rituale che legava il mondo d'allusioni  rialmente simile a quello del resto crepuscolari è le eleganze cstotizzanti  d'Italia, in cui tuttavia, in quegli delle « Vecchie» o delle « Signorine»  anni dell'immediato dopoguerra, Tori. attraverso 1 paradossi pseudoformali  ba ipo ipa delle « Scodelle » è delle « Uova » nella  maniera particolare e gerto senso, doppia redazione, a tappeto ed s vo-  fispetto al resto d'Italia, polemica, su tume. a questo muovo mondo di non  di un doppio piano, intellettuale e figu: —1meno quintessenziate definizioni umane  Rene a pi o spaziali, anche se nel silenzio di  IO) essere esemplificata PO quelle quinte prospettiche ora quei pro-  sizioni reciproche de «La Ronda fili proponessero le loro cadenze non  di « Rivoluzione Liberale ». Cinscuno più per la via analitica dei compisci  vede quanto diversi gli orientamenti menti particoleristici, ma per quella  umani e culturali. Ma è tipico che pro? —delle sintesi ellittiche.  prio fra Cardareti un'occe. Eppure una così diversa afferma-  sione polemica, sul Leopardi, portò a zione in ordine a scoperte pittoriche,  una discussione do andava ben una tanto dialettica decisione nel de-  oltre i termini della cortesia. Siamo nel finire il proprio mondo indipendente. F. Casorati: “ Bambina. (1932)    Felice Casorati (e i torinesi), "Pattuglia", 7-8 maggio-giugno 1943.    lettura della scena artistica cittadina che esclude total-  mente i primi discepoli dell'artista — che continuano  nel frattempo a dipingere ed esporre, non solo a Torino  — preferendo invece soffermarsi poi sulle “anomalie”  figurative (intese rispetto al tracciato casoratiano) pro-  poste da Luigi Spazzapan e Italo Cremona.   Il rapporto tra allievo e maestro, che è innanzi-  tutto di amicizia, rimane solido negli anni a seguire,  nonostante le scelte di Galvano si avviino, nel frattem-  po, verso un fronte non figurativo della pittura, che lo  vedono abbracciare l’astrazione ed aderire nel 1950 al  Mac (Movimento Arte Concreta), fondando insieme  ad Annibale Biglione, Paola Levi Montalcini, Adriano  Parisot, Carol Rama e Filippo Scroppo la sezione tori-  nese del gruppo.   Accanto alla sua attività di critico militante, più  orientata verso le verifiche nel frattempo ottenute con-  testualmente in pittura, tornerà solo raramente ad inte-  ressarsi di Casorati, soprattutto in occasione di letture  complessive e bilanci di un'epoca, che sembra ormai  essere lontana nel tempo.!%       104 Cfr. A. Galvano, Felice Casorati, in S. CAIROLA (a cura di),  Arte italiana del nostro tempo, Istituto Italiano d’Arti Grafiche,  Bergamo 1946, pp. 18-20; In., La pittura a Torino dal '45 a oggi, in  “Letteratura. Rivista di lettere e di arte contemporanea”, 43-45,  gennaio-giugno 1960, pp. 55-76; ora in Ip., La pittura, lo spirito e    38    mente da ricerche solo per certi riguar- questi sforzi di giovani della cultura mona, Anch'egli amico di Casorati: ma pre riuscito a cogliere il momento di    di parallele, grazie all'autenticità della universitaria e in tutt'altra la lezione che ne ha appreso. spontanen concretezza pittorica. Senza  realizzazione figurativa è della schiet ritorno! Un rigore, un'incisività, un'analitica nì- che del resto questo gli abbia impedito  tezza di linguaggio fantastico da essa Nacque così il gruppo dei «Sei»: —tidenza di segno, una predilizione per quell'accorta coscienza teorica della po-  presupposia, s'inseriva nel dialogo della —Menzio, Chessa, Levi, Paolucci, Galanta —quei profili nettissimi che gli permettono sizione di gusto in cui il suo mondo fi-  italiana di quegli anni con una © Jessie Boswell.,Fntro e fuari le vi- di dare evidenza allucinante di inganno gurativo sì determina e del rapporti di  validità di proporzioni che tuttavia man. —cende del gruppo, Francesco Menzio isivo alla riproduzione dei i og- esso col movimento «surrealista», (di  tiene integro il valore dell'esperienza risultò allora e tale si mantiene, come i: distribuiti poi questi in un ardine cui, per una curiosa ‘e significativa  » a della la personalità più dotata che fosse ap- di fantasia di rara coerenza suggest vicenda gli interessi destati a Torino  memoria 0 più rigorosa- parsa, da Casorati in qua, fra i pit- rispondere a furono proprio nella cerchia dei col  monte impegnata in un bilanelo della tori torinesi. Un mondo di compiaci- più profondamente che gene- laboratori dell'originariamente  pittura. Tutti da « Fanciullo ad- —menti delicati, di edonismo controllato —rano l'inquietante mondo delle ansocia» sano» Seleaggio, per brev'ora torinese  dormentato » del "21, allo « Studio » del —© schivo, sceglie usa sun umanità d'ele- i oniriche e dei senza si ppunto, sino alle recenti realizzazioni  122, al « Concerto » del ‘24. ne henno zione in volti di giovani donne 0 di gnilicato, dei soprasensi di cui non si itettoniche, nella sede della società  nti i risultati più vivi. Poi el si bambini. Da questo punto di partenza —dà lettura , ma « cl Ippica di Carlo Mollino) che tatti 1 suoli  hnocorse che i valori di tono e di ero appena le due esperienze opposte, ma frata» per via di quegli emblemi pit- lettori conoscono,  ma erano pur utilizzabili în assai più —concordanti nella dissoluzione di ogni e- —torici in cui però Cremona è quasi sem- ALBINO GALVANO  concreto discorso di quanto non si lamento estrinsecamente contenutistico,  facesse dagli epigoni del peggior otto- del rigoriamo formale casoratiano in-  cento. Si affermò che i Macchiaioli tu- torno al ‘23, e del fervore cromatico de  rono fra gli artisti autentici della no- gli impressionisti intorno al ‘29 per- ===  stra tradizione; si riconobbe che un ar- —misero a Menzio di scontare in puro  tista ostile o almeno appartato di fron- sollecitazioni pittoriche quei dati del  te a ricerche futuriste, metafisiche © sentimento, si defini una visione tanto  neoclassiche era un grande pit- personale quanto coerente dove la mu  i si riscopri l'im- sicalità del colore e la freschezza del  pressionismo. Îl necclassiciamo, nel    È  È       «po  vecento » milanese, che qualcuno git si che delicati non impedirono, anzi fa-  definiva nooromantico, sì innestava, con vorirono lo spiegarsi di una confes-  Tosi, in una tradizione di pittura a- —sione umana piena di melanconica no-  perta. Soffici non più cubista predicava —biltà nel reiterato e come ansiosamento  ed esemplificava un ritorno alla natura interrogato indagare intorno alla con-  in cui l'esperienza di Cézaane non eselu- sistenza pittorica di quelle persone di  deva quella di Fattori: a Torino, do- drumma, così sottilmente lirico e di  ve già ‘intorno a Casorati una scuola cosi pausate parole, che si muovona  tendeva a ridurre a grammatica il sua nelle composizioni famigliari di Menzio.   figurativo, attraverso l’inse- Tanto Casorati che Menzio del resto  guamento universitario, Îl mecenatiamo —qutt'altro che paghi o chiusi nell'au  di un collezionista, i più rapidi con- tosoddisfazione: anzi entrambi sempre  tatti con Parigi, rapporti col gruppo sofferenti dei limiti 0 della  milanese di Persico anch'esso partito —contiagenti stanchezze che potessero cc-  in battaglia contro il neoclassicismo, appannare il gelido speo-  la lezione degli impressionisti fu at- chio di formalismi eidetici del primo,  tinta direttamente ai grandi modelli: ©  Manet, Renoir, Cézanne, in un preciso pida dell'altro. inquietudine che ci spie  senso importante due notevoli carollari). ga il piegare verso più riscntite ao Enrico Paolacei: * Piazza Navona ..   l'affermazione che Cèzanne non meno nitide pro-  veva reagito all'impressioniamo, ma lo filature lineari di Casorati dopo il ‘30,  veva continuato e che perciò la tradi- —come le | ritorni, e, meno  zione più viva di movimento an- , da monotonia le ripetizioni  dava proprio cercata in quel discorso —1delle cose meno valide di Menzio. ln  rapido ed atmosferico si, ma tutt'al. modo assai diverso, ina con accanita  tro che occasionale e vedutistico che era commovente dedizione ad un'ideale  stato proprio dei pittori che abbiamo di pura pittura che escludesse tanto  citato piuttosto che dei Monet, dei Pis- ogni intrusione intellettualistica  quento  surro, del Sisley. Secondo: che quel- ‘ ogni dispersione decorativa Enrico Pao  l'adesione all'impressionisno non po. Iucci è venuto sempre più approfon  teva che importare, da una parte, con- dendo una visione grata © improvvisa,    Van Gogh al più libero «fsuvinmo », rivivere il gusto degli impros-  che-dn qualche modo e sia pure unilate; sionisti, proprio di questa fase della  ralmente, il linguaggio di Cizanne ave- pittura torinese, possono essere riat-  ivano continuato, Gli strilli dei varii taccati, in senso diverto, Piero Mar-  Ojetti per i «salti in lunghezza da tina, temperamento delicato di colorista  Giorgione n Braque » naturalmente non eu cui è stata decisiva l'influenza di  si contarono! Ma intanto quello che te nf gie gi  importava fu che la esemplificazione cento personale una trepida, ©  vitale dei frutti di quest'esperienza cul- come smorzata, elaborazione di ogni da-  turale fosse data proprio da quei gio- to tonale degli oggetti, e Luigi Spazza-  vani pittori che sì erano stretti intorno pan la cui origine è le cui esperienze  è Casorati, pur non più così ragazzi istriano diedero ad una veramente pro  da diventar suoi allievi nel senso sco- digiosa capacità di trasfigurare |pit-  lastico della parola, © che ora nell'inì- —1toricamente, attraverso la rapidità della  ziare un lavoro diversamente orientato, —acchia e del segno, ogni dato ogget-  e vano il debito contratto col tivo una truculenza cspressionistica re-  primo ideale macatro, nè erano da Jui =—mota dal raccoglimento degli altri to-  sconfessati: anzi la stima, l'amicizia rincsi e dalla pacata visione dell'im-  © la valutazione dei diveral ed ugual. =—pressioniamo. È di questo suo pecu-  mente validi risultati, da parte del —liare atteggiamento ci restano molti mo-  più anziano rimanevano intatti od ec- menti d'espressione mirabile, speci       cootrapporre ai della mano facile è dell'illustra  < incomprensioni fra chi incegue un me- tone occasionale.  desio sforzo d'arte, ala pur attra- Opposta invece, per intento e per ri  verso divergenti esperionze di gusto. È all'impressionismo l'esperienza    i sultato,  altrettanto si può dire dell'attenzione a —Dittorica inieressantiesima di Italo Cre- Francesco Menzio: ‘ Ritratto ,,    Nel 1963, alla scomparsa del pittore, Galvano  traccerà un ricordo del maestro, a margine del catalo-  go della 14° mostra d'arte contemporanea di Torre Pelli-  ce. Non più il colore o il tono, ma quei valori umani  e di rispetto per le diversità appresi durante gli anni  di via Galliari animeranno, in conclusione, questo suo  “omaggio” di discepolo: “poiché fu anche la coscienza  di questa libertà, prima ancora morale che estetica, che  da Felice Casorati alcuni di noi ricevettero come l’inse-  gnamento più prezioso, ci è caro chiudere col richiamo  ad esso questo saluto al Maestro. Chè le sue opere par-  lano, per il rimanente, senza bisogno di commento”!°.    il sangue, a cura di G. Mantovani, Il Quadrante Edizioni, Torino  1988.   105 A. GaLvano, Omaggio a Felice Casorati, in 14° mostra d'arte con-  temporanea, catalogo della mostra (Torre Pellice, Collegio Valdese,  3 - 28 agosto 1963), Tipografia Subalpina, Torre Pellice 1963.    Gli occhi fervidi e il sapore di cenere    Albino Galvano: Decadentismo, Simbolismo, Art Nouveau    Adriano Olivieri    Approssimarsi all'opera letteraria di un uomo di  cospicua cultura quale fu Albino Galvano, significa  penetrare in una eletta densità speculativa sorpren-  dente se commisurata a un intellettuale defilato in vita  e ricorrente oggi nella ferma e attenta riflessione di  pochi storici. Come ebbe a dichiarare Galvano stesso  In una autopresentazione del 1980, non gli si perdonò  l'ambiguità di essere scrittore e pittore aggravata dalle  stigmate dell’intellettuale, categoria in cui finì suo  malgrado per giovanile quanto vocazionale passione  per la cultura. Proprio nell’ambiguità, nel marcare un  confine ideologico sottile, ordinandosi orgogliosamen-  te in disparte insieme alla generazione degli eclettici  Cremona, Mollino e Maccari, ci pare che Galvano  trovi un eccentrico terreno di appartenenza sul quale  edificare una propria filosofia personale sistematica-  mente relata all’erudizione antropologica, filosofica,  religiosa e pedagogica. Formazione altresì integrata  agli interessi misteriosofici - Galvano stesso ebbe a  definire le proprie opere “evocazioni esoteriche”  — vagamente connessi alla cultura torinese d’inizio  secolo e, in modo maggiormente probante, con lo  Studio di Casorati in via Galliari dove conobbe Daphne  Maugham che, dopo avere respirato l’aria mistica della  parigina Académie Ranson, si era trasferita a Torino  dove la sorella Cynthia con Cesarina Gurgo Salice,  Bella e Raja Markman si dilettavano già, oltre che di  danza, di teosofia. Redattore e pubblicista prolifico,  Galvano — che inizia allora ad interessarsi a Rudolf  Steiner e Madame Blavatsky — batté gli argomenti  indigesti alla cultura del suo tempo facendo di sé un  Intellettuale atipico che, come ricordava Sanguineti,  ISpirò idee ereticali nei propri allievi. Autore di pochi  libri, che punteggiarono una carriera meno prodiga  di quella del compagno di studi liceali Argan, nel  1932 conobbe Lionello Venturi che lo accolse come  collaboratore de “L'Arte” facendogli inoltre pubblicare  alcuni studi sulle civiltà extraeuropee?.   L'equivocità tra critica militante e pratica pittorica  fu un banco di prova sul quale verificare, tra continui  rilanci e azzardi, la reciproca tenuta delle parti. In  questo assiduo riversarsi delle specificità discipli-  nari consiste per Galvano il senso estremo della sua  Pittura, votata alla vanità dell'atto privato, smagata  da Ogni velleità economica e promozionale ma cro-  S!uolo rovente dal quale estrarre i concentrati succhi    di un'urgenza creativa. L'incessante ritorno all'arte  . ni n GALVANO, La pittura a Torino dal ‘45 a oggi, in “Letteratura”, I,  “n 0, p. 99-76. Poi in: “La pittura, lo spirito e il sangue”, P.MAN-  ia la cura di), Il Quadrante Edizioni, Torino, 1988, p. 155. Poi  R i ALVANO, Diagnosi del moderno. Scritti scelti 1934-1985”, A.  UFFINO (a cura di), Nino Aragno Editore, Torino, 2018, p. 393.    | L'arte egiziana antica, Firenze, 1938; L'arte dell'Asia occidentale  centrale, Firenze, 1939; L'arte dell'Asia orientale, Firenze, 1939.    39       è,    Al Liceo Gioberti di Torino, 1961-62.       dA EdO a  ad.    come artificio, come fare in sé autosufficiente, fu per  Galvano un difettivo rimedio all’insanabile scissura  della natura umana divisa tra spirito e materia, tra  razionalità e intuizione, e un’imperfetta occasione  di confronto tra individui sul piano partecipabile ed  empirico dell'immagine che, pur sempre aderente  alla condizione fabrile, trova la propria natura più  autentica nell'essere essa stessa divisa tra creazione  e imitazione. L'attività poietica, l'agire sulla materia  intesa sui presupposti estetici gettati da Alain (pen-  satore scomunicato da Croce), sottrae il discorso di  Galvano dall’osservanza teoretica idealistica come  dall'impegno etico esistenzialista e, abrogando di  fatto la condanna platonica dell’arte, accetta il va-  lore estetico come simbolo del “male”. L'arte trova  allora la propria eretica ragion d'essere nella forma  materiata, così come l’idolo o il feticcio sarebbero la  divinità in presenza e non l’ipostasi divina. Per questo  la pittura per Galvano rappresenta enigmaticamente  il “dio visto di spalle”. Quando Mosè chiese al Signo-  re di mostrargli la sua Gloria il Signore gli rispose:  «Farò passare davanti a te tutto il mio splendore e  proclamerò il mio nome” [...]. Soggiunse: “Ma tu  non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo  può vedermi e restare vivo [...]. Tu starai sopra la  rupe: quando passerà la mia Gloria, io ti porrò nella  cavità della rupe e ti coprirò con la mano finché sarò  passato. Poi toglierò la mano e vedrai le mie spalle,  ma il mio volto non lo si può vedere”». L'espediente  divino narrato nell’Esodo biblico?, fatto laicamente       3 i La Sacra Bibbia, cap. 33, vers. 19 e segg.       Cesare Saccaggi, Alma Natura, Ave!, pastello su carta applicata su tela, 68x125 cm., 1898, GAM Torino.    reagire con esperienze disposte alle “proiezioni”, tra  cui l’idea del dio pagano che non tace non parla ma  accenna, sarebbe da intendersi per Galvano — che si  era laureato presso la facoltà di magistero di Torino  discutendo con Gambaro e Abbagnano una tesi su  “La pedagogia della religione” — come metafora  dell'immagine (il “dio visto di spalle” appunto), quale  unica possibilità mondana di riconquistare l’unità  primigenia dell’uomo. L'azione esercitata dall'artista  nelle condizioni oggettive della materia è, più di una  tecnica operativa, un’alchimia - ai filosofi Galvano  preferisce Jean Baptiste van Helmont e Cesare Della  Riviera — che permette il verificarsi di un'unione  tra l'esperienza concreta bloccata nell'immagine e  l’'epifania del dio inteso non in senso devozionale.  Sì tratta in sostanza dell’allontanamento dall'idea  crociana di un'arte che esisterebbe autenticamente  solo nell’intuizione e non nella funzione estrinsecante  della materia. L'arte sfugge così al concetto di rap-  presentazione candidandosi come opportunità che  contemporaneamente apre allo sguardo rinserrandosi  nell’enigma, nella manifestazione del trascendente.  Galvano percorrerà incessantemente questa terra di  frontiera: come filosofo, come storico, come pittore.  Prodromo del percorso pittorico fu l’alunnato  presso Felice Casorati, scelto peril linguaggio sufficien-  temente decantato, sintetizzato e affrancato dal dato  naturalistico per mezzo di un'operazione intellettuale  capace di conferire un ordine platonico agli oggetti  dispensati dalla polverizzazione cromatica impressio-    40    nistica. Una lezione estetica essenziale quanto l’austero  contesto della scuola. Esemplarità che si concretizza  inunalto profilo morale e umano che Galvano ritiene  in dissolvimento nell'arte moderna con la quale si  conclude un ciclo plurisecolare aprendosene un altro,  tumultuoso nel bene ma anche nel male, dal quale si  sentì definitivamente estraneo dall'inizio degli anni  Sessanta. Il mondo del secondo dopoguerra sarebbe  affetto da una crisi di moralità alla quale potrebbe  unicamente fare fronte una presa di responsabilità  politica, artistica, religiosa, speculativamente limpida  ed esente da posizioni compromissorie e accomodanti  come quelle sostenute dagli artisti che vogliono salvare  i valori della tradizione pur dichiarandosi moderni.  L'intera modernità e l’idea stessa di progresso tecnico  aGalvanorisultano ree di edificare, intorno a un fulcro  di ragioni economiche (Marx) e sessuali (Freud), un  presente depauperato dall’opportunità della variazio-  ne imprevista. A una totalità di costruzione legata alla  forma, tipica del Medioevo, si avvicenda insomma  una totalità d'impiego legata allo scopo, decisamente  avvilente come comproverebbe per inverso il moder-  no carattere apologetico della narrazione tecnica e  scientifica. Giudizio estendibile al fatto estetico per  cui all'arte come atto fabrile, tipico del Medioevo,  si avvicenda l’arte come atto intellettuale, peculiare  del Rinascimento e dei secoli successivi fino al XVIII.  Seguirà il periodo reazionario e tradizionalista del  Romanticismo, caratterizzato dal recupero program-  matico degli archetipi (Jung) medievali ma rivissuti    Per un'armatura, Edizioni Lattes, Torino, 1960.    Senza il contesto sociale entro il quale quegli ideali  Sl erano formati. La spontaneità medievale diviene  nel Romanticismo programma culturale e come tale  sarà ereditata dal Decadentismo e dal Simbolismo,  il Soggettivismo dei quali impronterà di sé l'Espres-  Slonismo. Le avanguardie appaiono dominate dalla  pulsione oppositiva alla tradizione elevando a sistema  l'efficienza produttiva di un “nuovo” codificato come  autoreferenziale, programmatico e inintelligibile ma  ‘ncapace di emanciparsi dal dato naturale nonostante  esaurirsi dell'esperienza storica dell’arte illusiva. Gli  €pigoni dell’astrazione storica, i concretisti, sarebbero  Invece esonerati da questa soggezione insieme alle  Tetoriche idealistiche riuscendo, in piena ricostruzione  etica e umana, a calarsi completamente nel dato resi-  duale figurativo, ossia all'evidenza del fatto pittorico.  Fu l’esperienza che Galvano intraprese dal 1948 al  1953, con l'adesione alla branca torinese del MAC,  €sauritasi per lui nella spontanea affermazione delle  forme curvilinee tipiche del Liberty su quelle rette e  Spigolose dell’astrazione concretistica.   In una sorta di personale contropartita agli inte-  lessi spiritualistici e antropologici, Galvano pensa a    41       Artemis Efesia, Edizioni Adelphi, Milano, 1966.    un'arte come luogo del verificarsi del mito capace di  portare a definitiva decantazione la sua inclinazione  espressionistica (rubricata dal Pallucchini) estraendo-  ne la forza panica trasfigurata in una rinnovata spinta  metafisica. Sein ambito artistico risulta evidente come  egli abbia risolto insé l’apprendistato casoratiano non  assorbendone che un clima d'insieme, metabolizzando  l'aspetto decadentistico della pittura del maestro celata  sotto la rigorosa adesione a una norma di cristallina  evidenza estetica ed etica, sul piano dell'esercizio  critico volle incrinare dialetticamente il sapere con-  solidato al fine di cogliere unitariamente il senso più  autentico della modernità. Accostandosi ai testi suoi  maggiori, nei quali dispiega un cospicuo sforzo storico  ma editati in un periodo a loro sfavorevole — “Per una  armatura” (1960) e “Arthemis Efesia” (1967), si hala  sensazione di essere dinanzi a un affascinate quanto  indefinibile prodotto letterario —saggio, disquisizione  filosofica, colta divagazione, eccentrico soliloquio,  introspezione analitica — che, pensando alla continua  permutazione tra scrittura e pittura, indurrebbe a  pensare a una creazione letteraria con statuto indipen-  denteecreativo rifiutato da Galvano incline, viceversa,    a una critica intesa come emanazione di un'attività  immanente all'atto creativo. Permane tuttavia l’eco  dell'idea crociana della storiografia e della critica che,  pur non aggiungendo nulla all'opera ma limitandosi  a sancirne la validità poetica secondo l’idea del philo-  sophusadditusartifici- contrapposta all'idea dell’artifex  additus artifici sostenuta da Gabriele D'Annunzio e  Angelo Conti sulla scorta di John Ruskin e Walter  Pater -—, attribuisce facoltà filosofiche e artistiche alla  soggettiva sensibilità intuitiva dello storico.   Coscienza “temuta e avversata”* Croce è, per  Galvano, un'autorità intellettuale che in cambio  di una piattaforma teoretica esige la partecipata  condanna delle opere che, passate al vaglio di un  accurato approccio metodologico, risultino prive  di valore poetico. Nell’acido corrosivo dell'ironia e  dialettizzando gli argomenti con lo storicismo, Croce  condanna il Decadentismo nelle accezioni mistiche,  estetizzanti, irrazionalistiche e in quella che crede  inconsistenza filosofica e spirituale, includendo in  quel termine tutto ciò che tende a sviluppi formali  astratti e condannando di fatto la fitta rete culturale  e relazionale della modernità. Nonostante ciò Croce  avrebbe il merito di avere reso accessibile e ripercor-  ribile questa fitta topografia anche nella declinazione  contraddittoria e fragilmente raffinata del vituperato  Decadentismo. Accettando la condanna crociana,  Galvano confessa la propria passione per decadenti,  esotici, erotici e apostoli misteriosofici, ponendosi  scientemente in una giurisdizione infernale come  critico e come artista nato dalla linea evolutiva del  Simbolismo. Identifica anzi quello straordinario mo-  mento storico come un estremo malinconico balenio  della civiltà al crepuscolo, un'epoca di transizione  divisa tra spirito e carne, abitata da alcuni tra i più  eletti spiriti dell'umanità capaci di creazioni difformi  ma compiute e che lo sperimentalismo modernista  delle avanguardie esaurirà.   In una sorta di ribellione alla figura paterna,  Galvano trasgredisce la raccomandazione crociana  di non leggere Rimbaud, Mallarmé, Valéry e risco-  pre, anteriormente a Cremona?, il modernismo e la  linfa vitale del Decadentismo attraverso il quadro  metodologico del filosofo abruzzese inclusivo di fatti  estetici anche diametralmente opposti alle sue idee.  A Galvano, come alla sua generazione, fu quindi im-  possibile non dirsi crociano proprio per l'opportunità    4 A. GALVANO, Perché non possiamo non dirci crociani, in “Nu-  mero — Arte e letteratura”, V, n. I-II, gennaio-marzo 1953. Poi in:  “Omaggio a Albino Galvano”, catalogo della mostra, Circolo de-  gli Artisti, Torino, gennaio-marzo 1992, P. Fossati, F. GARIMOLDI, M.  C. MunpiCI (a cura di), Electa, 1992, pp. 116-120. Poi in: A. GALVA-  NO, “Diagnosi del moderno”, cit., p. 37.   5 I. CREMONA, Il tempo dell'Art Nouveau, Firenze, 1964.    42    che quella metodologia offriva nel sistematizzare  l’intera storia. Quello che invece depose fu lo spirito  conciliante dell'estetica di Croce buona, al più, a ba-  nalizzarsi nell’idea diunmuseoimmaginario.Quando  negli anni Sessanta ebbe il proposito di approfondire  l’immagine cultuale e psicologica dell’efesina Arte-  mide, partì dalla fascinazione prodotta su di lui da  un pastello di Cesare Saccaggi, “Alma Natura, Ave!”  (1898), opera collocabile allora, quando uscì il libro, e  tuttora, in un filone di gusto piuttosto sospetto. Con  una serie di pubblicazioni’, si renderà così protago-  nista, a partire dagli anni Cinquanta, del rinnovato  interesse per l’arte Liberty dalla quale trarrà ben più  diuna semplice ragione di studio quanto invece, nella  pratica pittorica, una viva permutazione in allusioni  enigmatiche irriducibili a ogni interpretazione, quali  il fiore di iris, destituite dal ruolo di metafore e sim-  boli. Questa continuità formale si chiarisce anche  come continuità semantica quando si consideri come  Galvano e Cremona abbiano ricondotto l’arte astratta  in un comune svolgimento con il Simbolismo e con il  Liberty che, di quest’ultimo, ful’espressione impiegata  sul piano della fabbricazione. Da cui il transitare di  Galvano dalla fase concretistica a quella informale  e, più in là negli anni, a quella araldica di nastri e  bandiere per giungere appunto agli iris. Trascorrere  stilistico da non leggersi come eclettismo quanto piut-  tosto come legittimo susseguirsi tra la carica allusiva  assegnata ai reticoli cromatici astratti e la sensibilità  decorativa trasformata in materia fermentata fino alla  disgregazione dalla quale estrarre infine nuovamente  il ritmo danzante delle forme arabescate. Il Simbolismo  gli consente di riversare il misticismo nella propria  opera di pensatore e, soprattutto, di pittore. L'arte  assume quindi un valore emersivo di forze morali  (leggi spirito) — del “bene” nel momento crociano,  del “male” più tardi in modo nietzschiano — prima  ancora che estetiche (leggi sangue); diade debitrice al  suo filosofo di riferimento Ludwig Klages, altro intel-  lettuale trascurato in Italia quanto sospettato di avere  incubato l'ideologia autoritaria tedesca quando invece  più coerentemente dovrebbe essere pensato come un  epigono del romanticismo intuizionista. L'arte tenta  un'indiretta conciliazione tra spiritualità e artificio  consegnando alla storia un’estrinsecazione autentica-  mente creatrice e non solo la copia di una copia; non  una rappresentazione ma un esserci immanente. La  volontà di accogliere quel “male” come necessario gli  viene dalla presa coscienza di un'’artisticità, che arde       6 A. Galvano, Dal simbolismo all'astrattismo, in “Galleria di  lettere ed arti”, n. 4-5, 1953; Le poetiche del simbolismo e 1 ‘origine  dell'Astrattismo figurativo, in “Studi in onore di L. Venturi”, vol. II,  1956. Articoli specifici ai quali aggiungere: L'erotismo del liberty e la  sublimazione astrattista, in “Cratilo”, n. 3, 1963. i    Gabetti Isola, Casa di Erasmo, Torino, 1953-1956.    inlui fin dalla giovinezza, radicata proprio nelle opere  Create tra XIX e XX secolo e nelle elaborazioni più  irrazionalistiche. Come quella immoralità sia aperta  a fertili risultati lo si comprende appoggiandosi all’in-  terpretazione che Galvano offre delle Artemis: bianca  come simbolo coadiuvante di perfezione conchiusa ma  Statica, nera come simbolo avverso di imperfezione  e INCompiutezza ma dinamica e che in potenza può  Jenerativamente aprirsi a una riserva di possibilità  eventualmente immanifeste. Per traslato, quindi, la  hegatività del Simbolismo si apre a una plenitudine di  risultati. Permane tuttavia il concetto di fondo che la  Pittura, come prodotto di una volontà impossibilitata  a realizzarsi nell’ideale, sia il risultato di una caduta la  Cul spoglia materiale sarebbe prova di vanità e disvia-  mento. Come s'accennava sopra, Galvano si smarca  dall'idea di un'arte quale esempio del bello estetico  e del bene morale, per lui non più coincidenti, ma  accetta la disperata affermazione dell'immagine come       43    “  ”  a  »  l  Me.  È  È  n  IS  18  la .  t   :  LI  è»  ®  î    unico possibile risultato dell'impulso proiettivo delle  aspirazioni individuali o sociali. Pittura che in ultima  istanza è anche piacere sensoriale, vocazionale istinto  a testimoniare (Baudelaire), “vizio assurdo”, vanitas;  pittura come atto cultuale che mantiene in gioco la  proiezione degli archetipi, la ricchezza delle imma-  gini aderenti al mistero, almeno per quel poco che la  contemporaneità consente, poiché ilmondo nega ogni  giorno più spazio alla pittura mentre il pensiero bor-  ghese, incapace di slanci estetici e metafisici, permette  che in questa duplice assenza si innesti la tecnica, la  pianificazione, la sterile sistematicità. Per Galvano la  nostra epoca è irrimediabilmente scissa dal significato  iù autentifico della vita, dalla sua forza feticistica  poiché ha fatto di quel mondo, in cui la presenza del  dio era costante, una favola bella l'iconografia della  quale non è che una lontana immagine idealizzata  priva, per i moderni, di ogni accenno oracolare.  Queste ragioni filosofiche, di estremo interesse,    dovettero apparire perlomeno eterodosse all'atto della  loro formulazione, divise tra esistenzialismo e fenome-  nologia e affacciate all’abisso del mondo preclassico,  alle profondità eraclitee. Scostatosi dall’irrazionalismo  di Klages, Galvano non intese fare di sé un anti-razio-  nale quanto piuttosto un convinto a-razionale, come  indica la personale concezione di arte in equilibrio  tra ragionevolezza e vaticinio, secondo un fare né  pienamente consapevole poiché eroticamente privo  di volontà intellettiva, né tantomeno completamente  incosciente poiché contemplativo. Pertanto l'ipotesi  di Galvano fu più aderente alla poetica di Mallarmé  piuttosto che al pensiero di Valery, perché dove il  primo disidratando e affinando la parola poetica  pose le condizioni per un superamento del modello  simbolistico aprendo di fatto alle avanguardie, il  secondo immaginò la creatività come un processo  logico ricondotto alla piena luce della razionalità, alla  consapevolezza dell'atto. Esaltando cartesianamente  l’intellettoela coscienza, il processo creativo per Valery  è un'attività spiegabile analiticamente senza ricorrere  a misticismo, vitalismo e spiritualismo. Carnalità,  sessualità e sensualità - Croce aveva biasimato la sen-  sualità nell'opera di Mallarmé come priva di “anelito  d’innalzamento”” — furono invece le pulsioni vitali  del Simbolismo che interessarono Galvano e che la  razionalità, in un prolifico ripiegamento autoanaliti-  co, dovrebbe avocare a sé integrandole senza ripulse  pregiudiziali. Speculazione intellettuale e artistica che  rivela tutta l’enigmaticità di Galvano che oscilla tra i  termini affermati da Mallarmé, e ripresi da Alain, di  “vision”, intesacome vaghezza di ispirazione, e “vue”,  intesa come concretezza dell'oggetto in sé risolto. Se  da una parte, sull'esempio di Mallarmé — il quale pre-  cipitò le parole nell’assoluta perentorietà delle pure  idee aspirando infine a una “poésie sans les mots”®  -, Galvano pare decidersi per la “vue” aderendo al  concretismo astratto come pars construens dalla quale  pretendere risposte formali di esito certo, dall'altra,  per mezzo del multiforme divenire della sua pittura,  apre obliquamente alla possibilità allusiva dell’appa-  rire, accettando di fatto unesito provvisorio prossimo  al concetto di “vision”. L'oscillazione dalla vaghezza  creativa all'evidenza intellettuale di forme e colori è  l’unica risposta contingente possibile per Galvano che  decide di non decidere tra i termini antitetici asseriti,  approfondendolo sguardo nell'oscurità della creazio-  ne e della vita. Medesimamente il Galvano scrittore  affronta il passato eludendo la descrizione analitica  delle epoche storiche portandone bensì all’emersione    7. B. CROCE, Poesiae non poesia, Laterza, Bari, 1950, 5° edizione  riveduta, pp. 318, 319.   g S.MALLARMÉ, Divagations, Bibliothèque-Charpentier, Eugène  Fasquelle Éditeur, Parigi, 1897, p. 297.    i reconditi meccanismi, le contraddittorie spinte pul-  sionali; un’organica prassi opportuna a increspare la  ricerca storica attraverso una molteplicità di punti di  vista culturali posti in reciproco dialogo e liberamente  sollecitati.   Il rischio nell’approcciare oggi la figura di Galvano  è quello di appiattirne il pensiero, come già avvertiva  Sanguineti nel 1990°. L'illustre allievo aveva compreso  come il decadentismo pittorico di un Moreau o lette-  rario di un Huysmans fossero considerati dal maestro  un indispensabile momento storico. Galvano mostra  insomma un’idiosincrasia per quelle “mortificazioni  crepuscolarmente schifiltose”!° che avevano impedito  ai Campana, agli Onofri, agli Ungaretti e ai Montale di  superare, senza rifiutarne la “carica panica e mitica”,  il naturalismo panteistico dell’Alcyone dannunziano.  InItalia, l'assenza del dissolutivo lavacro simbolista si  era in sostanza ripercosso nella crociana deplorazione  categoriale per l’arte moderna insieme all’illusione di  potere produrre un'opera estetica autenticamente nuo-  vaeludendo il peccato originario del Decadentismo. Il  tentativo di emanciparsi dal prestigio delle autoritates  latine che aveva tentato D'Annunzio richiamandosi  ai romantici tedeschi, apriva gli occhi di Galvano ai  presocratici e alla filosofia moderna (dall’irrazionali-  smo alla scuola ermeneutica) che del classicismo aveva  assunto il senso vitalistico, indefinibile e misterioso  di una natura come rivelazione del divino. Da cui  l’idea di una suprema ragion d'essere trascendente  alla quale l’arte, per Galvano, dovrebbe aprirsi ma  che invece nelle enunciazioni contemporanee gli  pare, con buona pace di Eco, rinserrarsi in un'opera  chiusa. Con un piglio da lettura sociale dell’arte,  Galvano scrive dell’esaurimento dei rapporti storici  tra committenti e artisti e di come ciò abbia mutato  l'originaria destinazione d'uso delle opere, ridotte  così a gratuite provocazioni. Conseguentemente  proponeva le dimissioni delle categorie di giudizio  elaborate perle arti visive del passato da sostituirsi con  un equivalente delle letture psicanalitiche tentate da  Sartre su Baudelaire e da Lacan su Poe. Restato sempre  un pittore tradizionalista, Galvano si dichiara disin-  teressato a certi sviluppi artistici lasciando intendere  come il problema dell'effimerità dell’arte contempo-  ranea—compreso l'amato astrattismo geometrico—sia  anche un problema della storia dell’arte come disci-  plina. Su come debba essere poi questa storiografia  Galvano non si pronuncia se non dichiarando che il  problema della storia dell’arte debba essere anche e       9 E. SANGUINETI, Contro la ragione, in “La Stampa”, 10 marzo  1990, p. 7.   10 A. GALVANO, catalogo della mostra, Palazzo Chiablese, Tori-  no, dicembre 1979-gennaio 1980, p. 108.   11 Ibidem.    soprattutto il problema dell’uomo! Sovvengono le  parole destinate a grande fortuna critica che avrebbe  scritto Hans Belting nei pamphlet intitolati “La fine  della storia dell’arte o la libertà dell’arte” (1983) e  nel successivo “Das Ende der Kunstgeschichte. Eine  Revision nach zehnJahren” (1995)nei quali auspicava  la fine della storiografia artistica tradizionale a favore  di proposte olistiche e antropologiche avvedute delle  mutate circostanze sociopolitiche, del rimescolamento  di cultura alta e bassa, della suggestione determinata  dai linguaggi mediali, dell’emergere di realtà culturali  prima marginalizzate, dell’obsolescenza della funzio-  ne assegnata al lavoro manuale, dell’alterato ruolo di  musei e gallerie d’arte. La prospettiva delineata da  Galvano si tinge di accenti acri quando denuncia la  pacifica cittadinanza ottenuta dagli ismi ridotti alla  non nocenza di prodotti da supermarket immersi in  una rete di opportunità economiche e di complicità  professionali. Un terreno culturale desolante che  assume una disillusa trasposizione nella sua pittura  ultima, nei paesaggi desertificati, nella scelta estrema  del silenzio creativo come opzione possibile nonché  parzialmente intrapresa. Facendosi anticipatore di  posizioni storiografiche di superamento della cano-  nica divisione tra antico e moderno e concentrando  il periodo rivoluzionario dell’arte d'avanguardia tra  il 1907 e il 1925, in una sorta di personale à rebours  Galvano esprime l'opinione secondo cui i movimenti  artistici successivi si sarebbero attestati su posizioni di  assimilazione manieristica piuttosto che di irriverente  Sovversione peculiare degli ismi nei riguardi della  tradizione rappresentativa. Delinea unastoria dell’arte  moderna parallela più complessa e connettiva come  avrebbero potuto scriverla gli artisti ai quali infine  delega idealmente il compito futuro di creare un'ar-  te che, restando nell’ambito non figurativo e senza  Impossibili riflussi, riesca coerentemente a ristorare i  Valori artistici e umani del passato. Galvano insomma  invoca il diritto anon essere moderno, o peggio ancora  d avanguardia, evitando di lavorare sulla contingenza  e rifiutando l'egemonia della critica per privilegiare,  In senso dichiaratamente anticrociano, la poetica degli  artisti che al lavoro intellettuale uniscono la prassi.  Insieme alla proposta per un rinnovamento della  Storiografia artistica Galvano ne affianca un’altra di  Natura conservativa consistente nell’idea di salvaguar-  dare le opere minori del modern style, perlomeno gli  Oggetti e gli arredi non ancora distrutti (di Cometti  Per esempio). Immagina la documentazione degli  edifici Liberty finendo per invocare l'allestimento di  Una retrospettiva sull’Art Nouveau internazionale, ma    ù A. Gauvano, «Cosa nostra», in “Sigma”, Ln1, primavera  64, pp. 63-70. Poi in: “Omaggio a Albino Galvano”, 1992, cit.,  Pp. 130-133. Poi in: “Diagnosi del moderno”, cit., p. 59.          45    avveduta del caso italiano e piemontese nel dettaglio,  da allestirsi nella rinata Galleria di Arte Moderna di  Torino (1960). Caduta nel vuoto la proposta sarà pro-  prio Galvano a scrivere un articolo sull’Art Nouveau  a Torino! e poi, insieme a Giorgio Balmas e Lorenzo  Guasco, a curare nel 1978 al foyer del Piccolo Regio  una mostra dedicata alla pittura torinese all’inizio  del secolo. Sorta di doveroso omaggio a uno stile di  vita prima ancora che d’arte nel quale confluirono la  vita delle forme collettive e l’individualità creativa.  Dissentendo da Croce, l'interesse di Galvano per gli  oggetti si approssima alle idee espresse da Giovanni  Gentile nella prolusione al corso universitario di storia  della ceramica pronunciato nel Palazzo Comunale  di Faenza nel 1928 nel quale il filosofo, saldando  arte e vita, rivendica la dignità estetica dei prodotti  artigianali e industriali di qualità. Si consuma qui  l'ennesima contraddizione di un crociano affine alle  idee di Gentile che pur biasima per densità retorica.  Sensibile alle arti dei periodi di transizione e avvedu-  to della caducità dei giudizi, compresi i propri, per  Galvano ogni critica obiettiva deve essere sempre  un’autocritica. Augurandosi l'avvento di un esegeta  capace di rileggere l’arte tra i due secoli, così come  Sanguineti seppe fare con la letteratura, Galvano  rammenta come la sua generazione abbia vergato  parole sferzanti su Bistolfi fino a pochi anni addietro  valutato un artista di statura europea. Ma fu anche  la generazione di quei giovani i quali, raggiunti i  vent'anni nella terza decade del XX secolo, quando  dovetteroimmaginare una ribellione la fantasticarono  conle parole di Rimbaud, Gide, Lawrence e Huysmans  il cui Des Esseintes sembrò essere allora il prototipo  di un esteta come Carlo Mollino. Dell’amico, stimato  oltre che come professionista di genio anche come  dilettante d'eccezione, Galvano ammirò la capacità  di governare con la formazione culturale crociana  e il rigore razionale tipico della sua professione,  gli umori sensuali, avventurosi e ambigui del suo  animo capace di rievocare il ritmo aperto e biologico  del Liberty restituendolo nella voluttà degli interni  arredati, nell'armonia architettonica dei pieni e dei  vuoti, nella eterogenea e immaginosa commistione  di elementi organici e funzionali. Un'omogeneità  che il termine “surreale” illustra solo parzialmente  e che trova una segreta corrispondenza nelle opere  di Cremona come nei molluschi, nelle conchiglie,  negli antichi libri accartocciati e nelle acquasantiere  barocche che Galvano dipinge negli anni Trenta e  Quaranta. L'identità autopoietica generata da Torino  si manifesta nella condivisione spirituale prodotta da       13 A. GALVANO, Per lo studio dell'Art Nouveau a Torino, in “Bol-  lettino della Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti”, nn.  14-15, 1961.    questa generazione d’eccentrici intelletti, nella speci-  fica formazione di un genius loci come Galvano e nel  progetto della Bottega d’Erasmo che Gabetti e Isola  disegnano in forme intellettualistiche neo-liberty nel  1953. Proprio in quell’anno, “A Rebours” di Huysmans  diverrà per Galvano il pretesto per puntualizzare le  proprie posizioni all’interno del Mac e più in generale  nel modo di intendere il Decadentismo!. Quando  Leonardo Borgese consigliò agli astrattisti concreti,  in chiusura della recensione alla mostra di Galvano  allestita presso lo Studio B 24 di Milano nel 19535, di  rileggersi il celebre romanzo di Huysmans nel quale,  a suo parere, ci sarebbe stato il necessario per decodi-  ficare la loro poetica, gli aderenti al gruppo accolsero  l'esortazione come una blasfemia da respingersi inte-  gralmente. Galvano ritenne legittima la protesta dei  compagni astrattisti apparendogli chiaro come Borgese  incaricasse l’ipocondriaca, solitaria ed estetizzante vita  del protagonista narrato nelromanzo, diesprimere un'e-  pidermica quota di edonismo e di sensualismo ribelle  ai disvalori della società positivistica industrializzata  e scientifica, votata al profitto, al commercio, al nuovo  capitale borghese. Dopo di che Galvano, confessando  di aderire parzialmente al pensiero del capitano della  brigata anti-astrattista Borgese, s'inalvea in una lettura  sorprendentemente sincretica aperta al riconosci-  mento dell’ambivalenza del rapporto tra astrazione  e Simbolismo. Al rifiuto delle suggestioni emotive  del Simbolismo, l’astrattismo, secondo Galvano, ne  intellettualizzerebbe le allusioni ele “corrispondenze”  (termine apertamente rimontante a Baudelaire) come  strumento oppositivo al dilagare prosastico del reali-  smo. L'astrattismo del dopoguerra ridurrebbe quindi ai  minimi termini la carica letteraria aumentando quella  metafisica, riscattando la tradizione dei padri nobili  dell’astrazione primonovecentesca e tesaurizzando nel  contempo (sulla scorta della ricostruzione filogenetica  di Pevsner) la lezione di Toorop, Gauguin, Munch  e Klimt insieme a quella degli antesignani Runge,  Blake, Antonelli, Ciurlionis, Kupka; in sostanza dei  precursori che evocarono ancora le leggi del mondo  fisico consentendo agli evoluti linguaggi non figurativi  di divincolarsi più recisamente dalla mimesi. Negli  anni tra le due guerre, sull'onda della fenomenologia  e della psicologia della forma, si assisté a un aurorale  revisionismo storiografico dell'Art Nouveau — anche  Edoardo Persico ebbe in animo di scriverne una storia!°    14. A. GALVANO (asterisco di) in, ‘Pitture di A. Galvano in un  esperimento di sintesi” (testo anonimo), Milano Studio B 24,  “Arte Concreta”, bollettino n. 12, seconda serie, febbraio 1953. Poi  in: P. Fossati, “Il movimento arte concreta 1948-1958. Materiali e  documenti”, Martano Editore, Torino, 1980, pp. 62, 63.   15 L. BorcEse, “Corriere della Sera”, 1° gennaio 1953.   16 A. Pica, Revisione del Liberty, in: “Emporium”, a. XLVII. n. 8,  vol. XCIV, n. 560, agosto 1941, p. 66.    46    — ma sarà con gli anni Sessanta e Settanta che diverrà  condivisa acquisizione la carica anticipatoria ricoperta  da Mackmurdo e dalla cultura figurativa a partire da  Blake. Anima nera del concretismo, Galvano assume  un ruolo sovversivo nel movimento proponendo ine-  dite e intelligenti aperture di senso che tuttavia non  giungeranno a ispirare un prolifico dibattito all’interno  del gruppo infragilito dalle difformità tra la posizione  intellettuale rigorosamente metodica dei milanesi e  gli arrovellamenti sulla materia fortemente allusiva  espressi dalla linea torinese. Risalendo alle sorgenti  dell’arte astratta, Galvano riannodò, in antitesi alle let-  ture formalistiche, le affinità con le fonti spiritualiste di  Decadentismo e Simbolismo e — pensando alla densità  mistica nell'opera di Huysmans sfogata in occultismo  e cattolicesimo — con le citazioni della Blavatsky e di  Steiner scritte da Kandinsky, con la prossimità di Mon-  drian ai circoli teosofici, con il lirismo magico di segni e  colori dell’orfismo di Kupka e, non ultimo, con uno dei  primitesti dedicati all’astrazione scritto da Julius Evola.   Dandy autoironico votato alla marginalità, Galva-  no disseminò il proprio percorso di tracce sulle quali  indugiare, trascorrendo liquidamente da una disciplina  all'altra in modo stupefacente per un intellettuale ani-  mato da pura vocazione pedagogica ma riottoso alla  metodicità dello studio scolastico. Attribuire un senso  univocoal suo pensiero equivarrebbe a fraintenderne la  filosofia e l’idea stessa di un'arte come autosufficiente  e spontaneistico operare nella ferita aperta tra vitali-  smo e intelletto che l’atto artistico non riesce tuttavia  a cicatrizzare. La civiltà intera corrisponde per lui alla  fenomenicità delle immagini da essa prodotte che, in  sostanza, aprirebbero al mistero quale autentico even-  to metafisico. Intendendo come piani dell’emersione  archetipica i segni dell’arte — della quale l’idealismo  si limiterebbe a coglierne l'aspetto teoretico, Alain  quello pratico e l’Esistenzialismo quello etico — sarebbe  troppo semplicistico archiviare la passione di Galvano  per Decadentismo, Simbolismo e modern style, come  l'infatuazione culturale per un'epoca vesperale. Egli  si sente invece custode ed erede di quella lacerante  contraddizione, di quella genesi oppositiva, di quella  disperata tensione verso uno spirituale fatalmente  arreso alle forme dell’estetismo, di quella magnifica e  perduta sfida, tanto da riversarne la forza vitale nella  personale proteiforme pittura così come nelle pro-  gressive illuminazioni della sua letteratura filosofica  e artistica.    Opere esposte                   1 Lettrice sdraiata -— 1931 — olio su tela — 63,5x81 cm       2 Autoritratto - 1940 ca — olio su tela — 23,5x18 cm       3 Astrazione - 1950 — olio su tela — 50x60 cm    et adi       4 Il giorno — 1952 — olio su tela — 100x80 cm       5 Pacato — 1954 — olio su tela — 90x110 cm       6 Composizione in nero — 1954 — olio su tela — 90x110 cm       / S.t.-1956-olio su carta — 34x48 cm       $ Ercole ed Anteros — 1956 — olio su tela — 85x115 cm       9 Omaggio a Van De Velde - 1959 — olio su tela — 80x90 cm       10 Ir1s — 1960 — olio su tela — 105x95 cm    58       10Y1-1960- olio su tela — 95x110 cm    3 F       12 Calligramma — 1960 — olio su tela — 100x85 cm       13 Fiori di lago — 1962 — olio su tela — 100x120 cm       14 Le jardin de cet astre — 1962 — olio su tela — 132x116 cm       15 Ireos — 1962/65 — olio su tela — 130x115 cm       16 Proposta — 1965 — olio su tela — 135x122 cm       17 Pavese — 1967 — olio su tela — 120x110 cm       18 Farfarello e Malambruno — 1967 — olio su tela — 80x60 cm       19 Gonfaloni — 1968 — olio su tela — 95x80 cm       20 Nastro n. 25 — 1968 — olio su tela — 90x80 cm       21 Nastri — 1969 olio su tela — 60x50 cm       22 Nastri colorati — 1969 - olio su tela — 110x100 cm       23 Nastri — 1970 — olio su tela — 60x50 cm       24 Nastri — 1970 — olio su tela — 60x50 cm    MALI       25 Nastri — 1970 — olio su tela — 60x50 cm       ter» IG    MOFBEE sie  Tre  ir" Saitta    Sl          26 Segni asemantici (dittico) - 1973 — olio su tela — 110x90 cm    pari #1 =$    Re    |a te n ;       26 Segni asemantici (dittico) - 1973 — olio su tela — 110x90 cm       27 Artemis — 1974 — olio su tela — 120x110 cm          28 Maioresque cadunt - 1974 — olio su tela — 90x80 cm    —____    TITO       sal - 1974 — olio su tela — 70x50 cm       30 s.t. 1974 - olio e carboncino su tela — 80x60 cm       31 Ireos - 1977 — olio su tela — 70x60 cm    —_—— mr LIIII:5          ——_—_ T=—r-—-r®x    (i    32 Iris n. 2 - 1975 - acquarello su carta — 40x30 cm       Sa Cespu glio — 1974 — acquarello su carta — 40x30 cm                   34 Glotre du lon g desir idees —- 1975 — acquarello su carta — 40x30 cm       35 Fiori — 1975 — acquarello su carta — 40x30 cm       VRREET L6 LL AIA USD GOG VE o VERDE IL I BEILET DART DIG SPARI DIO RR pia I I LITIO ODE LIL    36 Fiori — 1975 — acquarello su carta — 40x30 cm          37 Une Fleur — 1975 — olio su tela— 70x70 cm          38 Scrittura - 1976 — acquarello su carta — 60x50 cm       39 Sassi e foglie — 1978 — olio su tela — 80x80 cm       40 Foglie morte — 1978 — olio su tela — 80x80 cm       41 Ciottoli — 1980 — acquarello su carta — 40x30 cm          Labrit, © di DASIO LT R EDLI u DILODIAT    42 Ciottoli e rocce — 1980 — acquarello su carta — 48x35 cm       43 Ciottoli — 1980 — acquarello su carta — 48x35 cm    ”  —    hu    ro iiriiRRRE       44 Rocce e ciottoli — 1981 — olio su tela — 80x80 cm       45 Rocce e sassi — 1981 — olio su tela — 80x80 cm       46 Rocce e sassi — 1981 — olio su tela — 80x80 cm       47 Rocce e sassi — 1982 — olio su tela — 80x80 cm    Opere in mostra    01 — Lettrice sdraiata — 1931 — olio su tela — 63,5x81 cm   02 — Autoritratto — 1940 ca — olio su tela — 23,5x18 cm   03 — Astrazione — 1950 — olio su tela — 50x60 cm   04 — Il giorno — 1952 — olio su tela — 100x80 cm   05 — Pacato — 1954 — olio su tela — 90x110 cm   06 — Composizione in nero — 1954 — olio su tela — 90x110 cm  07 — s.t.-— 1956 — olio su carta — 34x48 cm   08 — Ercole ed Anteros — 1956 — olio su tela — 85x115 cm   09 — Omaggio a Van De Velde — 1959 — olio su tela — 80x90 cm  10 — Iris-— 1960 — olio su tela — 105x95 cm   11 — Fiori - 1960 — olio su tela — 95x110 cm   12 — Calligramma — 1960 — olio su tela — 100x85 cm   13 — Fiori di lago —- 1962 — olio su tela — 100x120 cm   14 — Le jardin de cet astre — 1962 — olio su tela — 132x116 cm  15 — Ireos — 1962/65 — olio su tela — 130x115 cm   16 — Proposta — 1965 — olio su tela — 135x122 cm   17 — Pavese — 1967 — olio su tela — 120x110 cm   18 — Farfarello e Malambruno — 1967 — olio su tela — 80x60 cm  19 — Gonfaloni — 1968 — olio su tela — 95x80 cm   20 — Nastro n. 25 - 1968 — olio su tela — 90x80 cm   21 - Nastri — 1969 — olio su tela — 60x50 cm   22 — Nastri colorati —- 1969 — olio su tela — 110x100 cm   23 — Nastri — 1970 — olio su tela — 60x50 cm   24 — Nastri - 1970 — olio su tela — 60x50 cm   25 — Nastri - 1970 — olio su tela — 60x50 cm   26 — Segni asemantici (dittico) — 1973 — olio su tela — 110x90 cm  27 — Artemis — 1974 — olio su tela — 120x110 cm   28 — Matoresque cadunt — 1974 — olio su tela — 90x80 cm   29 — s.t.- 1974 -— olio su tela — 70x50 cm   30 — s.t.— 1974 — olio e carboncino su tela — 80x60 cm   31 — Ireos — 1977 — olio su tela — 70x60 cm   32 — Iris n. 21975 — acquarello su carta — 40x30 cm   33 — Cespuglio — 1974 — acquarello su carta — 40x30 cm   34 — Gloire du long desir idees — 1975 — acquarello su carta — 40x30 cm  35 — Fiori —- 1975 — acquarello su carta — 40x30 cm   36 — Fiori - 1975 — acquarello su carta — 40x30 cm   37 — Une Fleur — 1975 — olio su tela — 70x70 cm   38 — Scrittura — 1976 — acquarello su carta — 60x50 cm   39 — Sassi e foglie — 1978 — olio su tela — 80x80 cm   40 — Foglie morte — 1978 — olio su tela — 80x80 cm   41 — Ciottoli — 1980 — acquarello su carta — 40x30 cm   42 — Ciottoli e rocce — 1980 — acquarello su carta — 48x35 cm  43 — Ciottoli — 1980 — acquarello su carta — 48x35 cm   44 — Rocce e ciottoli - 1981 — olio su tela — 80x80 cm   45 — Rocce e sassi — 1981 — olio su tela — 80x80 cm   46 — Rocce e sassi — 1981 — olio su tela — 80x80 cm   4/ — Rocce e sassi — 1982 — olio su tela — 80x80 cm       Finito di stampare nel mese di marzo 2021  da GARABELLO ARTEGRAFICA (SAN MAURO TORINESE). Grice: “I don’t see why Italians are obsessed with art, but Speranza is Italian, so let it be. Speranza thinks conceptual artists are the only ones – such as Keith Arnatt – worth analysing. In his more snobbish ways, he thinks to mould the male body was Pliny’s idea of art – bronze statuary of the ‘nudo maschile’ – Painting comes only second or third, and only because of the desegno – i.e . the line of beauty, which is – as shape, where ‘kallon’ resided for the Greeks!” -- Albino Galvano. Galvano. Keywords: arte naturale, Gallupi, Peirce, Grice. By uttering x (gestus), U means that p” gesto, gestus, Grice’s use of gesture. il concreto, l’astratto, Sraffa’s gesture. Il gesto di Sraffa, l’implicatura di Sraffa. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Galvano: implicatura concreta”– The Swimming-Pool Library. Luigi Speranza, “Grice e Galvano”. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51701743649/in/photolist-2mQtVUe-2mPdwPf-2mPdwwX-2mMQbzj-2mLzoXX-2mLzpRF-2mLzqdc-2mLGX8g-2mPsfT9

 

Grice e Gangale – il dia-letto e la dia-lettica – filosofia italiana – Luigi Speranza (Cirò Marina). Filosofo. Grice: “I like Gangale; the fact that I taught for years in front of the martyrs memorial helps!” Porta a termine gli a San Demetrio Corone. Si iscrive alla facoltà di Filosofia di Firenze. Si laurea con “La logica della probabilita”. Iniziato in Massoneria, nella Gran Loggia d'Italia.  Porta avanti la difesa dell’idioletto e del dialetto.  Opere "Rivoluzione Protestante" (Torino, Gobetti); “Calvino (Roma, Doxa); “Apocalissi della cultura arabresca” (Roma, Doxa); “Il Protestantesimo in Italia” (Roma, Doxa); “Il dio straniero” (Milano, Doxa); “Giacomo della Marca” (Napoli); “Salve regina”; “Fragmenta ethnologica arberesca medio-calabra, Soveria Mannelli, Rubbettino. “L’arbërisht: l’utopia.  According to Louis Hjelmslev, semiotics is first and foremost a hierarchy. Its distinguishing feature is that it is guided by a dynamic principle by which it is split into dichotomies at all levels, yielding expression and content, system and process, denotative and non-denotative semiotics, and, within the latter, metasemiotics and connotative semiotics.  This text may be reproduced for non-commercial purposes, provided the complete reference is given: Sémir Badir (2006), « The Semiotic Hierarchy », in Louis Hébert (dir.), Signo[online], Rimouski (Quebec), http://www.signosemio.com/hjelmslev/semiotic-hierarchy.asp.  2. THEORY top 2.1. OVERVIEW The terms  semiotics and semiotic [n.] designate two a priori dissimilar things. By semiotics, we mean a field of study in which we can formulate a method for analyzing signifying phenomena, as well as a theory including all the particulars of this analysis. By semiotic [sg.], we mean the result of a semiotic analysis. So for example, there is a musical semiotics that seeks to map out music as a comprehensive signifying phenomenon. And furthermore, from a synchronic perspective (the music of a given period and culture), if not from a panchronic perspective (music in general), we can say that music is itself a semiotic [sg.], being possessed of both a system (distinctions in pitch, duration, timbre, and so forth) and a process (consistent relations between sounds in their various aspects).  According to Hjelmslev, the acceptations of semiotics and semiotic must be articulated in relation to one another. Semiotics as a field of study is (ideally) conformal to the results of its analyses. As such, it is also endowed with a system and a process. In order to preserve the distinction between the two terms, we must understand that semiotics as a whole contains specialized individual semiotics [pl.], some of which are useful in developing theories and methods (the ones that Hjelmslev calls metasemiotics), while others are meant to be articulated into semiotic hierarchies (this is the role of what he calls the connotative semiotics).  Francis Whitfield, the English translator of Hjelmslev's works, drew up a chart showing the semiotic hierarchy with its constituent parts (in Hjelmslev, 1975, p. XVIII; also translated into French in Hjelmslev, 1985, p. 17).  The class of objects The class  of objects NOTE: THE LIMITS OF GRAPHICS  The above chart shows only one aspect of the functions identified between semiotic components: their paradigmatic functions (the relations between classes and their members). A more complete diagram designed to include the distinguishing features of semiotics would also show the syntagmatic functions (relations of implication) that operate between the different components. Tree diagrams do not really lend themselves to this kind of representation. This is one difficulty that Hjelmslev himself was unable to completely resolve.  2.2. SEMIOTICS AND NON-SEMIOTICS In his first work, Principes de grammaire générale, written in French in 1928, Hjelmslev sets out the principle of classification that is operative in any language [langage]. "Categories as such", he writes, "are a fixed quality of language. The principle of classification is inherent in all idioms, all times and all places" (trans. of Hjelmslev, 1928, p. 78). Thus linguistics, with its three levels of analysis (phonology, grammar, and lexicology) is a science of categories.  However he adds that "the science of categories must disregard the categories established in logic and psychology and venture right into language's territory to find the categories that are characteristic of it, that are specific to it, and that are not found anywhere outside language's domain" (trans. of Hjelmslev, 1928, p. 80). Hjelmslev soon extended this domain to include languages other than verbal ones, but not to the point of including any system of classification.  The semiotics [pl.] make up this larger domain, and they are distinguished from other systems of classification by a certain uniformity (or homogeneity) that forms the basis of their analysis at all levels.  2.2.1 EXPRESSION AND CONTENT We find this uniformity first between the components of any semiotic. By custom, these components are called the expression plane and the content plane. The reason for this is that as a general rule, expression forms are visible in the object (they are "expressed"), whereas it is in the content forms that signification resides (the semiotic object "contains" content forms). However, this is beside the main point, which is that we always analyze a semiotic object (usually a text) uniformly, with an initial distinction between two components. In other words, for Hjelmslev, as for Saussure, neither expression nor content can be given predominance; they must both be analyzed together (Hjelmslev, 1928, p. 88).  NOTE: ISOMORPHISM AND NONCONFORMITY  It is true that Hjelmslev subsequently states that the semiotic planes must also not be conformal to one another; otherwise the distinction between them is nullified (Hjelmslev, 1963, p. 112). It would require too many theoretical details to explain the principle of nonconformity here. Suffice it to say that this principle is not directly related to the issue addressed in this chapter, which is hierarchical organization, and that, furthermore, nonconformity does not in any way interfere with the isomorphism of the semiotic planes (that is, their structural parallelism).   NOTE: SYMBOLIC REPRESENTATION  Although it doesn't simplify matters any, we must acknowledge that the diagram of semiotics given above actually postulates a classification that is itself non-semiotic: It is a symbolicclassification, for it can be seen as either an expression plane (the terminology Hjelmslev adopts in his theory) or a content plane (the meaning assigned to each of the terms it presents), and each of these planes is conformal to the other.  2.2.2 PARADIGMATIC FUNCTIONS In one aspect of semiotic analysis, we use paradigmatic functions to establish distinctions within the individual semiotics. A paradigmatic function can always be expressed as two elements in an either... or...relation: "either this or that". In a semiotic, any element of any magnitude (a sound, word, sentence, idea, or abstract feature) can be analyzed in terms of these functions. There are three possible results: (1) two constants are identified; (2) there is no constant identified, so that the elements involved remain as variables; (3) one of the elements is considered to be the variable of the other.  The three types of paradigmatic functions either this or that, one excludes the other  constant ↓ constant  complementarity  either this or that, it makes no difference  variable ↑ variable  autonomy  either this, or more specifically that  constant –| variable  specification  For example, in French, the masculine and feminine are two constants (of content) with respect to animate beings. Conversely, with respect to inanimate elements, they are regarded as variables. In French we refer to cities, which have no designated grammatical gender, sometimes as feminine and sometimes as masculine. And finally, with respect to the class 'sex' itself, each one has a variable, since sex has been selected as the constant of content.  Naturally, linguistics aims first to establish constants, in either a relation of complementarity or of specification. From a paradigmatic standpoint, the expression plane and the content plane are complementary in semiotics (e.g., in a verbal language), whereas in a symbolic system (e.g., in a computer programming language) they are autonomous.  2.2.3 SYNTAGMATIC FUNCTIONS  Another aspect of semiotic analysis identifies relations between elements. A syntagmatic function can be expressed as two elements in a both... and... relation: "both this and that". Once again, three kinds of syntagmatic functions may be identified: (1) if one element is present, the other must also be present, and vice versa; (2) one element does not have to be present for the other to be present; (3) one element is required for the other to be present, but not the reverse.  The three kinds of syntagmatic functions both this and that, by necessity  constant ↔ constant  solidarity  both this and that, by contingency  variable – variable  combination  this necessarily accompanied by that   variable → constant  selection  A verbal sentence is the necessary association of a noun phrase and a verb phrase; they are the two syntagmatic constants of the sentence. Conversely, there is no consistent relation between the categories of verb and adverb: the verb can be present without the adverb, and the adverb can modify something other than a verb (an adjective, such as pretty, in very pretty). The verb and the adverb are variables relative to one another. On the other hand, an article requires a noun, but the reverse is not true; in this relation, the noun is the constant and the article is the variable.  From a syntagmatic perspective, there is always solidarity between expression and content. If the analysis identifies an expression plane for a given object, then it must also identify a content plane, and vice versa; otherwise, the object in question would not be a semiotic object (something we are not supposed to know before we begin our analysis).  NOTE ON LINGUISTIC LAWS  Necessity in syntagmatic functions is quite relative; it depends on the corpus under study. Caution would prompt us to speak of consistency rather than necessity, as language is replete with exceptions, and its rules are subject to rhetorical non-compliance. We are keeping this term nevertheless, if only to emphasize the predictive intent of linguistic analysis: whatever consistencies have been recorded in attested texts must still be valid for future texts.  2.3 DENOTATIVE SEMIOTICS AND NON-DENOTATIVE SEMIOTICS Natural languages are the first object of semiotic analysis. Their systems are identified through the paradigmatic functions, and their processes through the syntagmatic functions on both planes, expression and content. When analyzed, texts are equivalent to processes, since they constitute chains of semiotic elements that are put into relation with one another.  Semiotic analysis can be applied secondly to other kinds of language, with no theoretical adjuncts, and it is from this extension that it has earned the name  semiotics.  But in addition, semiotic analysis can be applied to a third kind of target: forms of language that cannot be reduced to two planes (their components are not even in number). These languages [langages] are termed non-denotative. There are two kinds: the metasemiotics and the connotative semiotics.  2.4. THE METASEMIOTICS A metasemiotic is rooted in a semiotic equipped with a control plane, so to speak. Through this plane, each element of content takes on an expression in a denominative capacity.   This is what we are doing when we say that in a certain advertisement for French pasta (to take a famous example used by Roland Barthes), the yellow and green colours on a red background (the colours of the Italian flag) signify "Italianicity" (Barthes, 1985, p. 23). Italianicity is a metasemiotic expression used to designate the signification of visual elements (colours).  The same function is in operation when we say that the expression arbor signifies "tree" (Saussure, 1959, p. 67), except that in this case, both expression and content take on metasemiotic expressions through the use of distinct typographical markers (italics and quotation marks) and different languages (Latin and English). In this case they are called autonyms. Metasemiotic control helps us to avoid any equivocation between expression and content in our analysis.  Finally, metasemiotic expression also has a power of generalization, by allowing categories to be designated. When we talk about the verb, as we do in linguistics, we are attributing a name to several syntagmatic functions grouped under this common denominator. To put it another way, the metasemiotic expression verb can be used to describe a syntagmatic function that is analyzed in each particular verb (Badir, 2000, pp. 122-123).  It can be helpful to include this control plane in a specific semiotic, for the human mind seems to be adept at juggling metasemiotic expressions (writing being the prime evidence of this, and so very complex). This is how a metasemiotic is formed: one of the planes is the control plane, and the other is the object semiotic. By doing this, the metasemiotic once again becomes a binary structure, but with two tiers (in the table below, E stands for expression, C for content).  Metasemiotic structure metasemiotic  control plane (E)  object semiotic (C)     expression plane (E)  content plane (C)  2.5 CONNOTATIVE SEMIOTICS The plane that is affixed to a semiotic does not always perform a control function, however. In fact, we can always affix a third plane to a semiotic in order to account for anything that has been missed by the analysis, anything that is considered to be a special case or exception.   Variants are the evidence of this analytical shortcoming. If we wish to account for them in some way nonetheless, then we define them as invariants within special or narrowed parameters that Hjelmslev calls connotators. The third plane, then, is formed by considerations that were not selected in the first-tier analysis (called  denotative). This plane is ordinarily held to be a content plane, since it is assumed that semiotic objects cannot be intrinsically modified by these considerations. (One senses a delicate point here, that is admissible only at the discretion of the analyst).  Connotative structure connotative semiotic  denotative semiotic (E)  plane of connotators (C)  expression plane (E)  content plane (C)     For example, Hjelmslev maintains that any given language may be analyzed equally well through its written texts or its oral utterances; in other words, that its rules of syntax, its morphological formations and vocabulary are common to oral as well as written productions. Certainly anyone can see that this assessment is not ill founded. Nevertheless, there are distinctions, which have inevitably been left as variants in the linguistic analysis. Ensuring compatibility between the analysis of these variants and the first-tier analysis is a matter of establishing a plane in which orality and writing can be included as two paradigmatic invariants of content of a particular type: orality and writing are set up as connotators. In this way, the first-tier analysis remains valid, although it can always be customized with respect to the newly established paradigmatic function (Hjelmslev, 1963, pp. 116-119).  From a broader perspective, we can use connotative semiotics to specify which tier of specialization to use for a particular semiotic analysis, as semiotic analysis is not apt to be applied indiscriminately to any element of language (this is only true of its theoretical components, in particular, the ones presented here). In linguistics we begin by recognizing the plurality of verbal languages, basing our analyses on distinct corpora for each language. It is the role of connotative semiotics to establish each language as a connotator. So when we speak of the "linguistic analysis of French", French is a connotator, as it determines in which particular case the analysis is valid.  3. APPLICATION top At this time, the theory of semiotic hierarchy has been developed extensively only in the application for which Hjelmslev initially intended it: the metasemiotic hierarchy of verbal languages (as illustrated in Whitfield's tree diagram, reproduced in section 2.1).  Metasemiotic hierarchy with languages [langues] as the object semiotics       expression plane analysis  content plane analysis  internal semiologies  paradigmatic perspective  phonology  lexicology  syntagmatic perspective  "morphology"  grammar  external semiologies  paradigm of historical and geographic connotators  historical and dialectal phonology  historical lexicology and dialectology  comparative and historical grammar  paradigm of social connotators  sociolinguistics, linguistics of written language  paradigm of psychic connotators  pedolinguistics, psycholinguistics, study of language disabilities  paradigm of cultural connotators  rhetoric, stylistics, narratology  internal metasemiologies  phonetics  semantics  external metasemiologies  physics and physiology of sound  extrinsic interpretations  We will start by discussing the table entries. In the hierarchy there are two columns dividing the analysis into two components, labelled expression plane and the  content plane. However, this subdivision does not hold throughout (as in the case of comparative grammar), either because two different semiotic analyses bear the same name in practice, or because the analysis is non-semiotic, as it turns out. The hierarchy is divided into rows representing the object semiotics. First they are divided by their rank in the hierarchy (semiotic or metasemiotic), next by distinguishing the denotative semiotics (addressed by the internal semiologies) from the connotative semiotics (described by the external semiologies). Lastly, the denotative semiotics are divided into paradigmatic and syntagmatic functions. It should be noted that the hierarchical structure shown here is reversed in actual practice, where one always proceeds by progressive expansion, beginning with denotative analysis, or more specifically, paradigmatic analysis.  In this table, languages are denotative semiotics from the standpoint of the internal semiologies and metasemiologies; however, they are treated as connotators from the standpoint of the external semiologies and metasemiologies. The operation of the latter is dependent on the former.   In addition, the metasemiologies regulate the semiologies by allowing us to verify whether they are adequate to account for the facts of language [langage]; however, there is no one-on-one correlation between internal semiology and internal metasemiology, nor between external semiology and external metasemiology. For example, a semantic analysis can provide the basis for a lexical derivation or for a narrative schema. And the physiological analysis of sound can be used as a descriptor for a phonological invariant (e.g., using the physiological feature palatal to designate an invariant) or as a means to describe child language (e.g., the term "labial click", which describes the onomatopoeia produced by babies 12 months old, also known as the "kissing sound" – this example is cited in Jakobson, 1968, pp. 25-26, footnote).   Morphology should be understood in a specific sense, not entirely removed from the common meaning, but in a narrower sense. Morphology deals with what Hjelmslev calls the functions between grammatical forms in his Principes de grammaire générale (1928, pp. 112-127).  Finally, note that while linguistics can be considered as one metasemiotic among others, there can be no objection to adopting the point of view that semiotics provides cultural connotators for a comprehensive linguistic analysis. These two perspectives are compatible in glossematics (Hjelmslev's theory of language) and are even seen to be complementary, to the benefit of semiotics.  4. LIST OF WORKS CITED top BADIR, S., Hjelmslev, Paris: Belles-Lettres, 2000. BARTHES, R., "Rhetoric of the Image", in The Responsibility of Forms. Critical Essays on Music, Art, and Representation, trans. R. Howard, New York: Hill and Wang, 1985, pp. 21-40. HJELMSLEV, L., Principes de grammaire générale, Copenhagen: Bianco Lunos Bogtrykkeri, 1928 [1929]. HJELMSLEV, L., Prolegomena to a Theory of Language, trans. F. Whitfield, Madison: University of Wisconsin Press, 1963 [1943]. HJELMSLEV, L., Résumé of a Theory of Language, Madison: University of Wisconsin Press, 1975. HJELMSLEV, L., Nouveaux essais, Paris: Presses universitaires de France, 1985. JAKOBSON, R., Child Language: Aphasia and Phonological Universals, The Hague: Mouton, 1968. SAUSSURE, F. de, Course in General Linguistics, trans. W. Baskin, New York: Philosophical Library, 1959 [1916].Grice: “I like Gangale. Of course, the Italians adored him because he got Danish citizenship; also because he understood Hjemlslev as nobody does! Gangale was practical; he was into his ethnic minority. He formed good philosophical bond with Gobetti, against Croce and Gentile. It is obvious that those who know the Gangale of the Albanian studies won’t make a connection with his fight for protetantism and his adventures with Italian philosophy, with Doxa and Conscientia – but he got his doctorate and he was able to immerse in Hjelmslev’s glottology like nobody else did!” Giuseppe Gangale. Giuseppe Tommaso Saverio Domenico Gangale. Gangale. Keywords: il dia-letto e la dia-lettica, idiolect, dialect, ethno-lect, idio-letto, dia-letto, ethno-letto. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gangale: dall’idioletto al dia-letto” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51758920461/in/dateposted-public/

 

Grice e Garbo – la fisiologia dell’amore -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Firenze). Filosofo. Grice: “I like Garbo; for one I like Firenze, for another I like a Renaissance man – I’m one!” Grice: “Garbo is extremely interesting at a time when physis did mean ‘nature’ – the physicist and the physician were the natural philosophers! At Oxford Transnatural philosophy was created against Natural Philosophy,” – Grice: “Garbo made the greatest comment on “Love unrequited” by G&S – by focusing on a ditty by Cavalcanti – Boccaccio loved the pretentious prose by Garbo on ‘eros,’ ‘amore,’ and ‘cupidus.’ –“ Studia sotto Alderotti a Bologna. Figlio di Bono, medico e chirurgo. Sotto il consiglio del padre, fu allievo a Bologna di Alderotti, suo cognato, poi uno dei più importanti rappresentanti di un riorientamento della filosofia, all che Garbo diede un contributo importante. Studia sotto Alderotti per un breve period. Torna presso la casa paterna a Firenze a seguito della guerra tra Bologna e Ferrara e fu iscritto, a fianco del padre, nella gilda di Firenze di medici e farmacisti. Le condizioni politiche migliorate gli consentirono di riprendere i suoi studi e si laurea, successivamente si sposta a Bologna, dove insegna. Quando Orsini scomunicò Bologna e, quindi, escluse i cittadini bolognesi dal frequentare lo studio generale, fu, ancora una volta, costretto a lasciare Bologna. Si transferice a Siena, con l'insolitamente alto stipendio di 90 fiorini d'oro come "dotore del chomune di Siena". Saltuariamente si recasse a Bologna nonostante la scomunica. E fu a Bologna che completa il suo commento su una parte del libro IV del Canon di Avicenna, tanto da guadagnare il soprannome di "espositore.” Torna a Bologna, inizia la sua “Dilucidatorium totius pratice scientie” un commento sul Libro I del Canon. Insegna a Padova, a causa del "propter malum statum civitatis Paduae" (come afferma nel suo commento ad Avicenna), riprese a peregrinare tra un'università e l'altra (anche se è un percorso poco chiaro, a causa delle scarse informazioni fornite dai biografi e dell'assenza dei documenti). Torna a Firenze e completa Dilucidarium. Sulla scia dell'esodo della Facoltà di Filosofia da Bologna a Siena, venne nuovamente nominato dal Comune di Siena, questa volta con uno stipendio annuo esorbitante di 350 fiorini d'oro, più 100 fiorini, perché teneva letture a casa sua, la sera. Lavora al suo commento al trattamento con piante medicinali nel libro II di Avicenna, Canon, cioè "l'Expositio super canones generales de virtutibus medicamentorum simplicium secundi canonis Avicennae", che complete dopo il ritorno a Firenze. Commenta sul “Donna mi prega” di Cavalcanti. Questo commento è conservato in un manoscritto di Boccaccio ed è stata tradotta in una versione in lingua “volgare”.  A causa dell'invidia dei suoi colleghi di Bologna, fu accusato di essersi appropriato del commento a Galeno di Torrigiani.  Le lezioni riscuotevano molto successo, allora i suoi colleghi, invidiosi, dettero il compito a un allievo che viveva con il medico di spiarlo; quest'ultimo scoprì che prepara le sue lezioni basandosi sul comment a Galeno di Torrigiani, che conserva segretamente. Il plagio e reso pubblico, addiruttura Cecco D'Ascoli ne fece scherno con i suoi allievi, e Garbo e costretto a allontanarsi da Bologna. Sia Tiraboschi che Colle notarono delle incongruenze cronologiche della vicenda. Torrigiani e co-etaneo e collega del medico alla scuola di Aldreotti, e successivamente si fece certosino in tarda età e solo da quel momento, o dopo la sua morte, avrebbe potuto prendere i suoi scritti.  L'episodio, probabilmente, indica l'atmosfera ostile – tossica -- in cui era immerso Garbo a Bologna, per questo è plausibile che decidesse di accettare l'offerta di Padova, che dopo la crisi causata dalla guerra contro Enrico VII, cerca insegnanti di fama. Tornato a Firenze, incontra Mussato in preda a un malanno, che probabilmente aveva conosciuto in precedenza a Padova e che era a Firenze in veste di ambasciatore di Padova. A Firenze, la sua stima di filosofo si riprese dai colpi bassi inflitti dai bolognesi; mostra un ritratto cordiale, sapiente ma non scontroso, con un atteggiamento affidabile e umano, che cercava di capire i segreti della natura e molto disponibile, questa era la maniera in cui appariva ai fiorentini. Descritto come una persona arguta in episodi riportati da Petrarca, che non conosceva direttamente, ma che aveva avuto contatti con Garbo. Pesso un cimitero, rispose a dei vecchi che lo volevano schernire con queste parole. La disputa è ingiusta, qui: infatti voi siete più coraggiosi perché siete a casa vostra. (Rerum memorandum libri, risposta simile a quella di Cavalcanti nel Decameròn. Un altro episodio, invece, fu la volta in cui un uomo prende in giro il suo piccolo cavallo dicendogli: "e gli insegni a camminare, ma dove hai imparato quest'arte?", e Garbo rispose: "A casa tua".  Quanto torna scrisse le "Recollectiones in Hippocratem de natura foetus" (Venezia), con la "Expositio super capitula de generatione embryonis" di Tommaso Del Garbo, suo figlio, e la "Expositio in Avicennae capitulum de generatione embrionis" di Torre. Il trattato di Garbo mostra quanto fosse dipendente dall'astrologia araba. Distingue l'anatomia dalla fisiologia. Indaga la causa delle malattie ereditarie, dicendo che dipendono da un vizio organico del cuore, dal quale ha origine lo spirito che il seme del padre trasmette al nascituro. Tratta anche di argomenti molto discussi dai filosofi del secolo, come la trasmissione dell'intelligenza tra generazioni, dell'origine del calore animale e della nascita di piante e animali per “fermentazione.” Dice nell'Expositio che torna a Firenze non per la crisi di Siena, ma per altri motivi di cui non si hanno documentazioni. Per Tiraboschi e Colle, Garbo non sarebbe mai uscito dall'Italia, mentre De Sade dice che ad Avignone  avrebbe incontrato Ascoli. Quest'ultimo è il motivo della grave colpa di cui Garbo, insieme al figlio, fu macchiato dopo il plagio già nominato. Ascoli venne allontanato da Bologna e sospeso dall'insegnamento poiché accusato di eresia, successivamente giunse a Firenze con la fama di mago e negromante, al servizio del duca Carlo di Calabria. Ascoli scrisse "Commentarii in Sphaeram Mundi Ioannis de Sacrobosco", che si ritiene fosse trattato che egli porta sul rogo, trattato che fu aspramente criticato da Garbo che gravemente accesi di rabbia e d'odio contro di lui, perché invidiosi che d'Ascoli fosse preferito come medico dal duca Carlo. I. Garbo accusa Ascoli di fronte al vescovo d'Aversa e successivamente lo denuncia all'inquisizione. Questo spinse il duca di Calabria ad allontanare Ascoli dalla sua corte e dopo fu arrestato dall'inquisitore Bonfantini. L’accusa era di essere "alieno dal vero dogma della fede". Ascoli fu bruciato sul rogo. E evidente la responsabilità di Garbo in questa condanna, per invidia e non per motivi religiosi. Garbo muore poco dopo l'esecuzione d’Ascoli. Questo, dice Grice, e causato da un incantesimo di vendetta lanciato da Ascoli.  Altre opere: La figura di Del Garbo campeggia se non come il più grande filosofo di Firenze, sicuramente come quello più nominato, sia nel bene che nel male, a prescindere dal valore che possono avere le sue opere a livello della storia della filosofia, infatti rappresenta, nell'opinione comune, il tipo ideale di filosofo, sia con i suoi pregi, che con i suoi difetti.  Tra le opere che sicuramente possiamo attribuirgli ci sono ricettari, commenti e trattati.  Tra i vari, ci sono i "Super IV Fen primi Avicennae praeclarissima commentaria, quae Dilucidatorium totius practicae generalis medicinalis scientiae noncupatur" (Venezia), dedicati agli studenti bolognesi che l'avevano seguito a Siena; "Chirurgia cum tractatu eiusdem de ponderibus et mensuris nec non de emplastris et unguentis" (Ferrara) insieme ad un trattato sulla lebbra di Gentile da Foligno e uno sulle giunture ossee di Gentile da Firenze, ampio commento ad Avicenna, Abū l-Qāsim az-Zahrāwī e ar-Rāzī. In questo e in altri testi, rileva molte inesattezze di Avicenna e parla con tono di ammirazione dei antichi greco-romani.  Altre opere invece non sono state stampate: "De militia complexionis diversae"; una "quaestio" sulla flebotomia secondo Ugo da Siena (Bergamo, Biblioteca civica)  "Recolectiones super cirurgia Avicennae" (Modena, Bibl. Estense); Tractatus podagre (San Candido, Bibl. della Collegiata). E non va dimenticato il commento alla canzone "Donna mi prega" di Cavalcanti: "Scriptum super cantilena Guidonis de Cavalcantibus" ("De natura et motu amoris venereis cantio cum enarratione Dini de Garbo", Venezia, introvabile). Il commento riguardo a “Donna mi prega” considera l'amore (eros) da un punto di vista strittamente patologico, come passione, e anche se a volte tende a sovrapporsi a “Donna mi prega”, esponendo le idee sull'amore di se stesso (“amore proprio”) che quelle di Cavalcanti, resta un importante document. Suddivide il testo in tre parti. Nella prima parte, Garbo dimostra quante e che sono le cose, che dello amore si dicono. Nella seconda parte, Garbo filosofa di quelle, che esser ne determina. Nella terza parte, la chiusa, Garbo dimostra la sufficienza di quelle cose, ch'egli ha dette. Nella seconda parte, la più importante, si segue la dimostrazione sulle *otto* caratteristiche dell'amore: I) dove si produce (nell’appetito sensitivo); II) chi lo genera? la disposizione naturale del corpo dell’amante – per non fare menzione digli influssi di Marte su Venere. III) quale virtù ha l’amore, dato che è passione d'appetito? Nulla. IV) Quale e l’effetto dell’amore? La  morte che impedisce le operazioni della virtù vegetativa; V) quale e l’essenza dell’amore? E una passione naturale. VI). Che alterazione provoca? Infermità, malinconia, morte. VII) Che spinge a filosofare sull’amore, dato che non si può celare la passione? Lo spirito platonico. VIII) Se l'amore (o strittamente, l’amare) si dimostri via il sentire? Si. È evidente che parli come filosofo aristotelico. Per Garbo, l'amore è una malattia, una passione dell'appetito sensitivo, che può causare a sua volta molte altre malattie, e per questo va curata, con la dimenticanza e l'allontanamento, l'"accidente fero" di Cavalcanti è il maligno influsso di Marte, in congiunzione col Toro e la Bilancia, quando si trova nella casa di Venere.  Altre opere: “Dynus super quarta Fen primi cum tabula” (Venezia: Lucas Antonius Giunta Florentinus); “Expositio super tertia, quarta, et parte quintae fen IV. libri Avicennae” (Venezia: Johann Hamann für Andreas Torresanus); “Dilucidatorium totius pratice medicinalis scientie Expositio super canones generales de virtutibus medicamentorum simplicium secundi canonis Avicennae (Venezia); “Recollectiones in Hippocratem de natura foetus; “Dilucidatorium Avicennae (Ferrara) Expositio super parte quintae Fen quarti Canonis Avicennae (Ferrara, André Beaufort); “Super IV Fen primi Avicennae praeclarissima commentaria, quae Dilucidatorium totius practicae generalis medicinalis scientiae noncupatur (Venezia); Chirurgia cum tractatu eiusdem de ponderibus et mensuris nec non de emplastris et unguentis (Ferrariae); “De militia complexionis diversae; di cui un saggio è pubblicato da Puccinotti; Recolectiones super cirurgia Avicennae (Modena, Bibl. Estense); De generatione embrionis; Dizionario biografico degli italiani.  Boccaccio, Cavalcanti’s Canzone “Donna me prega” and Dino’s Glosses The enigmatic, indeed disturbing figure of Guido Cavalcanti (1259– 1300) exercised the imagination of his contemporaries, especially of his fellow poets. Without naming him once, Dante talks about Guido in his youthful work, the Vita nuova, telling us that Cavalcanti was the “primo de li miei amici” (VN III), and that he was one of those who replied poetically to Dante’s first sonnet. Dante also refers to Guido’s senhal, Gio- vanna/Primavera (VN XXIV). The whole of Dante’s treatise, as a specifi- cally vernacular composition, is dedicated to this first friend (VN XXX). Amongst Dante’s Rime, also, there is a companionship sonnet addressed to Cavalcanti, “Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io,” to which the older poet responded in verse. The most memorable mention by Dante occurs in canto X of Inferno, where Guido is the “grand absent,” asked after by his damned father, Ca- valcante de’ Cavalcanti. The accent in the exchange is on Guido’s implied “altezza d’ingegno,” shared with Dante (X.59), and his disdain for some- thing — unspecified — which Dante by now was pursuing (poetry? theol- ogy?). The poet later resurfaces as an allusion in Purgatorio XI.97–99, where, in an object lesson in humility, literary primacy is passed through the Guidos, presumably from Guinizelli through Cavalcanti, and on to (perhaps) Dante himself. Guido Orlandi, who wrote the enquiry sonnet, “Onde si move e donde nasce Amore?” which occasioned Cavalcanti’s famous reply, the doctrinal canzone “Donna me prega,” paints a picture of the poet in “Amico, i’ saccio ben che sa’ limare,” stressing Guido’s verbal prowess, but also his consid- erable intellectual ambition, verging on vanity. Cino da Pistoia, however, in “Qua’ son le cose vostre ch’io vi tolgo?” reacts angrily to an accusation of plagiarism coming from Guido, and hints that his own humility is more appropriate than Cavalcanti’s self-importance. Amongst the other, almost contemporary poets who mention Cavalcanti is Cecco d’Ascoli (Francesco Stabili), in whose astrological apology the Acerba (III.1), dated to 1327, he seemingly takes Guido to task, in detail, for an erroneous analysis of love’s http://www.heliotropia.org/02-01/usher.pdf 1  Heliotropia 2.1 (2004) http://www.heliotropia.org workings (particularly the function of the irascible appetite, Mars) con- tained in “Donna me prega.” Chroniclers, too, were fascinated by him, but as much for his propen- sity to engage in partisan violence as for his intellectual eminence. His contemporary Dino Compagni refers repeatedly to the powerful Cavalcanti clan’s readiness for street-fighting, and refers specifically to Guido’s ex- ploits, including his failed attempt on the life of Corso Donati, who had re- portedly organised an assassination plot against the poet on the pilgrimage route to Compostela. Dino characterises Guido as “cortese e ardito, ma sdegnoso e solitario e intento allo studio.” Giovanni Villani, writing con- siderably later, draws attention to the prickly nature of Guido’s intelli- gence: “era, come filosofo, virtudioso uomo in più cose, se non ch’era troppo tenero e stizzoso,” a description of the philosopher-poet which al- most exactly parallels Giovanni’s description of Dante himself. Amongst the later novella writers, Sacchetti would include Cavalcanti as the butt (literally) of a practical joke by a small child (Trecentonovelle LXVIII), a jape which in turn is reminiscent of a Boccaccio novella (Decameron VIII.5). Cavalcanti figures in the early commentary tradition of the Comedy, in particular as a response to the pilgrim’s discussion with Cavalcante de’ Ca- valcanti in Inferno X, and the reference to the two Guidos in Purgatorio XI. He also figures to some extent in elucidations of the two lonely, anon- ymous Florentine “giusti” in Inferno VI.73. Commenting upon Inferno X, Guido da Pisa (1327–28) says of Cavalcanti “Fuit enim iste Guido scientia magnus et moribus insignitus, sed tamen in suo sensu aliqualiter inflatus. Habebat enim scientias poeticas in derisum” [This Guido was great in knowledge and celebrated in character, but nevertheless somewhat puffed up as to his opinion of himself. For he despised the poetic discipline]. Guido da Pisa’s interpretation of Cavalcanti’s “disdegno” (Inferno X.63) as essentially poetical will be influential amongst subsequent commentators. The Ottimo commentary (1334) points to Guido’s common intellectual in- terests with Dante (“similitudine d’abito scientifico”). Later, when discus- sing the two Guidos passage in Purgatorio XI, the commentator opines: “E Guido Cavalcanti si può dire, che fossi il primo, che [le] sue canzoni fortifi- casse con filosofi[ch]e pruove, come si mostra in quella sua canzona, che comincia: ‘Donna mi prega, perch’io deggia dire.’” The Selmiano (1337), commenting upon Inferno X, again points to Cavalcanti’s intellectual im- pact: “Guido fu tenuto del maggiore ingegno e più alto che allora fosse uomo di Firenze.” The greatest contribution to the myth of Guido Cavalcanti comes from Boccaccio, who views the poet essentially through the distorting prism of http://www.heliotropia.org/02-01/usher.pdf 2  Heliotropia 2.1 (2004) http://www.heliotropia.org Dante and the early Dante commentators. In the “Introduzione alla quarta giornata” of the Decameron, Boccaccio justifies his own persistence with amorousness, even in his more mature years, by claiming that such a trait was shared with Guido Cavalcanti, Dante and Cino da Pistoia in their old age. He even suggests that he could supply the biographical justifications to prove it (“istorie in mezzo”). The most consistent account of Cavalcanti, however, occurs in Decameron VI.9 where Boccaccio applies to Guido a widespread anecdote, with a “lethal” punch-line, which Petrarch, amongst others, had used some ten years previously in the Rerum Memorandarum (II, 60) about Dino del Garbo, the famous Florentine physician. The tale, now firmly attached to Cavalcanti, thanks to Boccaccio, will subsequently pass into the Dante commentary tradition when Benvenuto da Imola glos- ses the two Guidos passage in Purgatorio XI. The Decameron tale has been frequently discussed and minutely ana- lysed: what concerns us here is Boccaccio’s preliminary portrait of the poet: oltre a quello che egli fu un de’ migliori loici che avesse il mondo e ottimo filosofo naturale [...], si fu egli leggiadrissimo e costumato e parlante uom molto e ogni cosa che far volle e a gentile uom pertenente seppe meglio che altro uom fare; e con questo era ricchissimo, e a chiedere a lingua sa- peva onorare cui nell’animo gli capeva che il valesse. [...] Guido alcuna volta speculando molto abstratto dagli uomini divenia; e per ciò che egli alquanto tenea della oppinione degli epicuri, si diceva tralla gente volgare che queste sue speculazioni erano solo in cercare se trovar si potesse che Iddio non fosse. (Decameron VI.9.8–9) Creatively interpreting Dante, in order to give the punch-line extra signifi- cance, Boccaccio deliberately confuses (or rather suggests that the vulgar throng confuses) Guido with his father, Cavalcante de’ Cavalcanti, for it is effectively the latter who is amongst the “Epicureans” who “l’anima col corpo morta fanno” (Inferno X.15). A very similar portrait of the poet is given in the Esposizioni, where Guido is described as: uomo costumatissimo e ricco e d’alto ingegno, e seppe molte leggiadre cose fare meglio che alcun altro nostro cittadino: e oltre a ciò, fu nel suo tempo reputato ottimo loico e buon filosofo, e fu singularissimo amico dell’autore [scil. Dante], sì come esso medesimo mostra nella sua Vita nuova, e fu buon dicitore in rima; ma, per ciò che la filosofia gli pareva, sì come ella è, da molto più che la poesia, ebbe a sdegno Virgilio e gli altri poeti. (Esposizioni X.62) The phrase “ebbe a sdegno” clearly shows Boccaccio’s debt to Inferno X.63: “Forse cui Guido vostro ebbe a disdegno,” and to the view amongst early commentators, initiated by Guido da Pisa as we have seen, that the http://www.heliotropia.org/02-01/usher.pdf 3  Heliotropia 2.1 (2004) http://www.heliotropia.org disdain was for poetry, not theology. It is this Boccaccian portrait, with a distinctly Dante colouring, which will inform Filippo Villani’s much later biography of Cavalcanti in the Liber de origine civitatis Florentie [Book of the Origin of the City of Florence]. As we have seen, the anecdote in Decameron VI.9 had been previously used by Petrarch, who places Dino del Garbo as its protagonist. Dino was, in addition to being a notable physician (a pupil of Taddeo Alderotti at Bologna), a lecturer on materia medica at various universities. He had a number of commentaries to his credit, including a reading of the third and fourth fen of the fourth book of Avicenna’s Canon, dealing with surgery (a relatively new area for medicine, traditionally hostile to the knife). He also wrote a general handbook, based on book one of Avicenna, the Dilucidato- rium totius pratice medicinalis scientie [Clarification of the Whole Prac- tice of Medical Knowledge]. According to Giovanni Villani, Dino was very touchy about his academic standing, and took a mortal dislike to Cecco d’Ascoli, at the time a lecturer on the astronomy of Sacrobosco and Alca- bitius at Bologna, who publicly accused him of having plagiarised a dead colleague, Torrigiano de’ Torrigiani’s commentary on Galen. Indeed, Vil- lani suggests that Dino was instrumental in the passing of the death sen- tence on the astrologer: “molti dissono che ’l fece per invidia” (Cronica X.41). Popular opinion had it that Dino’s own puzzling death, very shortly after the astrologer’s execution, was the result of a posthumous necro- mantic revenge on Cecco’s part. Cecco wasn’t the only one to have an interest in Guido Cavalcanti’s canzone “Donna me prega.” Dino del Garbo wrote a detailed Latin com- mentary on the poem, heavily indebted to Avicenna, Haly Abbas and Ar- istotle, which was partially imitated and adapted in a vernacular version unconvincingly attributed to Egidio Romano. Medical and philosophical interest in Cavalcanti’s canzone would continue into the Renaissance, with Ficino, amongst others, clearly in debt to it. Dino’s commentary (no later than 1327) was certainly known to Boccaccio. Indeed, it has been con- vincingly argued by Antonio Enzo Quaglio (“Prima fortuna della glossa garbiana a ‘Donna me prega’ del Cavalcanti,” in GSLI 141 (1964): 336–68) that the unique surviving manuscript of the commentum (an insert in Vatican Chigiano L. V. 176, ff. 29r–32v) is a Boccaccian autograph. This particular transcription, one of the later documents reinserted into the manuscript, dates from approximately 1366, judging by the evolution of Boccaccio’s handwriting studied by Pier Giorgio Ricci (Studi sulla vita e le opere del Boccaccio, Milan-Naples: Ricciardi, 1985, p. 295 [and plate XIII]). The entire MS is reproduced phototypically in colour by Domenico http://www.heliotropia.org/02-01/usher.pdf 4  Heliotropia 2.1 (2004) http://www.heliotropia.org de Robertis (Il codice Chigiano L. V. 176 autografo di Giovanni Boccaccio, Rome-Florence: Alinari, 1974). However, already in the Teseida (1339–41), Boccaccio shows some fa- miliarity with the commentary. Perhaps he had obtained the glosses from Dino’s close acquaintance, the poet and jurist Cino da Pistoia, who had known and corresponded poetically with Cavalcanti, and who had been teaching Roman law in Naples whilst Boccaccio was a student canonist there. The commentary, entitled Scriptum super cantilena Guidonis de Cavalcantibus [Writing on the Canzone of Guido Cavalcanti] has been ed- ited and published as an appendix by Guido Favati (Guido Cavalcanti, Rime, Milan-Naples: Ricciardi, 1957, pp. 359–78). An earlier, sectionalised English summary translation and secondary commentary can be found in Otto Bird, “The Canzone d’Amore of Cavalcanti According to the Com- mentary of Dino del Garbo” (Mediaeval Studies 2 (1940): 150–203 and 3 (1941): 117–60). In Italian, there is a fine translation and commentary of the glosses by Enrico Fenzi (La canzone d’amore di Guido Cavalcanti e i suoi antichi commenti, Genoa: Il Melangolo, 1999, pp. 187–219). In the Teseida, Boccaccio furnishes substantial ecphrases of the abodes of Mars and Venus, the tutelary deities of the two rivals for the hand of Emilia, Arcita and Palemone. The description of the temple of Venus in book VII, octaves 50 ff., prompts an immensely long authorial gloss, part of which is on the nature of love itself. In keeping with Boccaccio’s implied fiction that the glosses are by somebody else, he refers to himself in the third person as the “author” and reserves the first person for the fictive commentator. The gloss labours on through the various symbolic, almost personified qualities (à la Roman de la Rose) propitious to erotic passion till it reaches the figure of Cupid, or desire: Alcune ne pone quasi confermative dello appetito eccitato per le sopra- dette: tra le quali pone Cupido, il quale noi volgarmente chiamiamo Amore. Il quale amore volere mostrare come per le sopradette cose si ge- neri in noi, quantunque alla presente opera forse si converrebbe di di- chiarare, non è il mio intendimento di farlo, perciò che troppa sarebbe lunga la storia: chi disidera di vederlo, legga la canzone di Guido Caval- canti Donna me priega, etc., e le chiose che sopra vi fece Maestro Dino del Garbo. (Teseida, gloss to VII.50) What is important here is that, for Boccaccio, the poet’s canzone and the physician’s glosses were already intimately linked, presumably in a single document (as would be the case in the much later Chigian MS transcribed by Boccaccio himself). The Teseida self-commentary then continues, after this parenthesis, with further enumeration of the “author’s” selection of symbolic qualities, beginning with an elucidation of Cupid’s darts. But the http://www.heliotropia.org/02-01/usher.pdf 5  Heliotropia 2.1 (2004) http://www.heliotropia.org first sentence of this continuation shows that Boccaccio was still thinking in terms of technical definitions of love borrowed from other sources: Dice sommariamente che questo amore è una passione nata nell’anima per alcuna cosa piaciuta, la quale ferventissimamente fa disiderare di piacere alla detta cosa piaciuta e di poterla avere. The phrasing about fervent desire, in this definition, is reminiscent of a remark in Dino’s commentary: est passio quedam in qua appetitus est cum vehementi desiderio circa rem quam amat, ut scilicet coniungatur rei amate. (Favati, 371) [it is a certain passion in which there is appetite along with fervent desire concerning the thing which it loves, so that it may join with the thing be- loved] But the presence in Boccaccio’s gloss of the adjective “nata” (even though it could be construed here as meaning merely “arising”) almost certainly betrays an older source, namely the opening definition in Andreas Capel- lanus’ De arte honeste amandi (late 12th cent.): Amor est passio quedam innata procedens ex visione et immoderata co- gitatione formae alterius sexus, ob quam aliquis super omnia cupit alte- rius potiri amplexibus et omnia de utriusque voluntate in ipsius amplexu amoris praecepta compleri. (De amore I.1) [Love is a certain inborn passion arising from the beholding of and un- controlled thinking about the beauty of the other sex, on account of which the person desires above all else to enjoy the embraces of the other person and, by common desire, fulfil all the commandments of love in this embrace] Andreas uses the term “innata” to describe erotic passion twice more, in quick succession, clearly wanting his readers to understand that its endo- genesis is an important part of his theory of love. “Innata” in the De amore is clearly adjectival in function, as shown by the following participle “pro- cedens”: but “nata” in the Teseida may be more in the nature of a past participle. The lexical fragment survives, however, despite its possible change of status, as a tell-tale sign of Boccaccio’s prior reading. For Boc- caccio, conflating the two sources was tempting, because Dino is clearly indebted, for substantial elements of his treatise, to the chaplain’s opening remarks on love, as the characteristic initial combination “passio quedam” already demonstrates. Boccaccio was not reading Cavalcanti and Dino del Garbo as an inno- cent, then, but rather as somebody who had already come across authori- tative, if somewhat obsolescent definitions. The problem for the compiler of the Teseida glosses is that the two definitions do not match. Andreas http://www.heliotropia.org/02-01/usher.pdf 6  Heliotropia 2.1 (2004) http://www.heliotropia.org believed that love was intrinsic (“innata”), the line which Guinizzelli would famously take in his canzone “Al cor gentil,” whereas Dino, following Ca- valcanti, declares that this passion was definitely exterior in origin “cau- sans ipsum principaliter est res extrinseca” (Favati, p. 360). Boccaccio at the time of his writing of the Amazon epic seems totally unaware of the in- consistency between these auctoritates. One might doubt that Boccaccio had anything more than circumstantial knowledge of the existence of Dino’s commentary. In other words possibly he hadn’t read it. But certain of the key words (“appetito” and “generare,” markedly Aristotelian terms, though present in the De amore, are simply not used as technicisms in An- dreas) imply that he has a good idea of the philosophical slant of Dino’s vocabulary. Unlike Cino da Pistoia, who is quoted unambiguously in the Filostrato (V.62–65) and Rime (XVI.8 and 13), textual traces of Cavalcanti in Boc- caccio’s fictional and creative works are rare and tantalising. The meagre harvest of possible (and hardly provable) intertextuality has been traced by Letterio Cassata, passim in hisedition of Cavalcanti (Guido Cavalcanti, Rime, Anzio: De Rubeis, 1993, esp. index, p. 353). Vittore Branca furnishes more detailed examples (Rime I, IX, XI, XIII, XXIV; Teseida X.55–57 etc.) in Boccaccio medioevale e nuovi studi sul Decameron (Florence: Sansoni, 1992, pp. 254–57). One could add to this list, tentatively, perhaps. There is possibly a hint that Boccaccio had a “cultural memory” of the opening of “Donna me prega” when writing the Filocolo, for Florio’s love is there de- scribed by an experienced Ascalion as “sì nobile accidente” (III.5.2). It could be, however, that this particular use of “accidente” (generically a very common term in the early Boccaccio) derives from a reading of Dante’s Vita nuova, where the distinction between substance and accident in love theory, probably as an echo of Cavalcanti, is also made (VN XXV.1). Another possible reprise of Cavalcanti occurs in the Teseida sequence which generates the gloss which mentions “Donna me prega” and Dino del Garbo’s glosses. In octave 53 of the seventh book, Boccaccio describes the musical and visual environment of Venus’ garden, indicating Palemon’s soul in prayer as it visits the bower: ripieno il vide quasi in ogni canto di spiritei, che qua e là volando gieno a lor posta... (VII.53.6–8) Though “spiritus” was a technical term in medicine, referring to the transmission of vital and animal forces through the body, the diminutive “spiritelli” is a characteristic Cavalcantian usage, denoting the hypostatic emanations of fragmented consciousness characteristic of the “anima http://www.heliotropia.org/02-01/usher.pdf 7  Heliotropia 2.1 (2004) http://www.heliotropia.org sbigottita.” Guido even parodied this verbal tic in a sonnet, “Pegli occhi fere un spirito sottile.” More persuasive again, in terms of intertextuality with Cavalcanti, is one of Boccaccio’s early Rime (XXI): Biasiman molti spiacevoli Amore e dicon lui accidente noioso, pien di spavento, cupido e ritroso, [...] Though Vittore Branca does not expressly say so in his commented edition of the Rime in volume V of Tutte le opere (Milan: Mondadori), this sonnet seems to parodically contrast a pessimistically Cavalcantian view of love in the first quatrain with a more Guinizellian, positive stance in the remain- der. All in all, though, compared with the massive early presence of Dante, and later of Petrarch, the verse of Cavalcanti seems to have had little prac- tical impact on Boccaccio. He seems to have been much more interested (as the layout of the glosses and the title of the autograph Chigiano LV 176 transcription shows) in “Donna me prega” as a vehicle for Dino del Garbo’s commentary, rather than as a composition in its own right. The Dino del Garbo commentary became more useful to Boccaccio when he came to write the Genealogie (ca. 1360 in its first version) and the Esposizioni (1373). By this time, his appreciation of the question of sub- stance and accident, and of intrinsic and extrinsic causality, had markedly improved, though his interest is still anything but scientific. The Genealo- gie passage occurs in the biography of Cupid, begotten from the illicit cou- pling of Mars and Venus, in IX.4. Cupid had been the figure, as we have seen, who had given rise to the mention of Dino del Garbo’s glosses on “Donna me prega” in the Teseida. This time, though used much more ex- tensively, the Garbian source is not explicitly acknowledged. Est igitur hic, quem Cupidinem dicimus, mentis quedam passio ab exte- rioribus illata, et per sensus corporeos introducta et intrinsecarum vir- tutum approbata, prestantibus ad hoc supercelestibus corporibus aptitu- dinem. Volunt namque astrologi, ut meus asserebat venerabilis Andalo, quod, quando contingat Martem in nativitate alicuius in domo Veneris, in Tauro scilicet vel in Libra reperiri, et significationem nativitatis esse, pretendere hunc, qui tunc nascitur, futurum luxuriosum, fornicatorem, et venereorum omnium abusivum, et scelestum circa talia hominem. Et ob id a phylosopho quodam, cui nomen fuit Aly, in Commento quadri- partito, dictum est quod, quandoque in nativitate alicuius Venus una cum Marte participat, habet nascenti concedere dispositionem phylocap- tionibus, fornicationibus atque luxuriis aptam. Que quidem aptitudo agit ut, quam cito talis videt mulierem aliquam, que a sensibus exterioribus commendatur, confestim ad virtutes sensitivas interiores defertur, quod placuit; et id primo devenit ad fantasiam, ab hac autem ad cogitativam http://www.heliotropia.org/02-01/usher.pdf 8  Heliotropia 2.1 (2004) http://www.heliotropia.org transmictitur, et inde ad memorativam; ab istis autem sensitivis ad eam virtutis speciem transportatur, que inter virtutes apprehensivas nobilior est, id est ad intellectum possibilem. Hic autem receptaculum est specie- rum, ut in libro De anima testatur Aristoteles. Ibi autem cognita et intel- lecta, si per voluntatem patientis fit (in qua libertas eiciendi et retinendi est) ut tanquam approbata retineatur, tunc firmata in memoria hec rei approbate passio (que iam amor seu cupido dicitur) in appetitu sensitivo ponit sedem, et ibidem, variis agentibus causis, aliquando adeo grandis et potens efficitur, ut Iovem Olympum relinquere, et tauri formam su- mere cogat. Aliquando autem minus probata seu firmata labitur et adni- chilatur; et sic ex Marte et Venere non generatur passio, sed, secundum quod supra dictum est, homines apti ad passionem suscipiendam secun- dum corpoream dispositionem producuntur; quibus non existentibus, passio non generaretur, et sic large sumendo a Marte et Venere tanquam a remotiori paululum causa Cupido generatur. (Genealogie IX.4.6–9) Rather than provide a translation into English here, we can go straight to Esposizioni V litt., 162–67, which is an outstanding example of Boccaccio’s self-volgarizzamento. The passage occurs in Boccaccio’s literal commen- tary on the episode of Paolo and Francesca, and is occasioned by Dante’s famous line “Amor ch’al cor gentil ratto s’apprende” (Inferno V.100). Whereas in the Teseida Boccaccio indulges in a long account of Cupid’s iconography and dismisses (“per ciò che troppa sarebbe lunga la storia”) the aetiology of love with a curt reference to Cavalcanti and Dino del Garbo, here in the Dante commentary he inverts the process, omitting the lengthy account of details Cupid’s portrait (“alle quali voler recitare sarebbe troppo lunga storia”) so as to concentrate on the explanation of love’s workings. The passage is prefaced with an apparently perfunctory explanation of Aristotle’s tripartite distinction of the kinds of love (Ni- comachean Ethics VIII.3), of which more later. Only the very last periods suffer any change from the content of the earlier Genealogie text. The cor- responding passage in the Esposizioni, the volgarizzamento of the Gene- alogie text, reads: Ma, vegnendo a quello che alla nostra materia apartiene, dico che questo Cupidine, o Amore che noi vogliam dire, è una passion di mente delle cose esteriori e, per li sensi corporei portata in essa, è poi aprovata dalle virtù intrinseche, prestando i corpi superiori attitudine a doverla rice- vere. Per ciò che, secondo che gli astrologi vogliono, e così affermava il mio venerabile precettore Andalò, quando avviene che, nella natività d’alcuno, Marte si truovi esser nella casa di Venere in Tauro o in Libra, e truovisi esser significatore della natività di quel cotale che allora nasce, ha a dimostrare questo cotale, che allora nasce, dovere essere in ogni cosa venereo. E di questo dice Alì nel comento del Quadripartito che, qualunque ora nella natività d’alcuno Venere insieme con Marte parti- cipa, avere questa cotale participazione a concedere a colui che nasce una http://www.heliotropia.org/02-01/usher.pdf 9  Heliotropia 2.1 (2004) http://www.heliotropia.org disposizione atta agl’inamoramenti e alle fornicazioni. La quale attitu- dine ha ad aoperare che, così tosto come questo cotal vede alcuna femina, la quale da’ sensi esteriori sia commendata, incontanente quello, che di questa femina piace, è portato alle virtù sensitive interiori e questo pri- mieramente diviene alla fantasia e da questa è mandato alla virtù cogita- tiva e da quella alla memorativa; e poi da queste virtù sensitive è tra- sportato a quella spezie di virtù, la quale è più nobile intra le virtù apren- sive, cioè allo ’ntelletto possibile, per ciò che questo è il recettaculo delle spezie, sì come Aristotile scrive in libro De anima. Quivi, cioè in questo intelletto possibile, cognosciuto e inteso quello che, come di sopra è detto, portato v’è se egli avviene che per volontà di colui nel quale è que- sta passione, con ciò sia cosa che in essa volontà sia libertà di ritenere dentro questa cotal cosa piaciuta e di mandarla fuori, questa cotal cosa piaciuta sia ritenuta dentro, allora è fermata nella memoria la passione di questa cosa piaciuta, la quale noi chiamiamo Amore, o vero Cupido. E pone questa passione la sedia sua e la sua stanza ferma nell’appetito sen- sitivo e quivi in varie cose adoperanti divien sì grande e fassi sì potente che egli fatica gravemente il paziente e a far cose, che laudevoli non sono, spesse volte il costrigne; e alcuna volta, essendo meno aprovata questa cotal cosa piaciuta, leggiermente si risolve e torna in niente. E così non è da Marte e da Venere generata questa passione, come alcuni stimano, ma, secondo che di sopra è detto, sono alcuni uomini prodotti atti a rice- vere questa passione secondo le disposizioni del corpo: la quale attitu- dine se non fosse, questa passione non si genererebbe. The translation diverges only at the end. Out goes the Ovidian reference to a love-struck Jupiter preparing to ravish Europa (Metamorphoses II.846– 75), clearly inappropriate for a commentary to a Christian poem, and in comes a limp and vague reference to shameful behaviour. Similarly, the very last concessionary formula of the Genealogie passage, conceding at least the indirect operation of Mars and Venus, is removed in its entirety, leaving the earlier categorical denial of astral influence intact. But what of the content? The making of such contentious horoscopes, predicting a libidinous disposition, could be dangerous. Villani intimates that one of the reasons for Cecco d’Ascoli’s misfortune at the stake was his disconcertingly accurate prognosis for his patron, the duke of Calabria, that his daughter Giovanna, the grand-daughter of Robert the Wise and future queen of Naples, would be subject to scandalous erotic excesses on account of her birth under the sign of Mars in the house of Venus. Though at first sight, Boccaccio is implying that his source in both pas- sages is the Genoese astronomer Andalò del Negro (almost certainly dressed up as Calmeta in Filocolo V.8) and that he is quoting from Ptol- emy’s commentator Haly Abbas and from Aristotle’s De anima, a large section of this treatment, including the reference to these auctoritates, is in fact lifted from various, almost contiguous places in Dino’s glosses. The http://www.heliotropia.org/02-01/usher.pdf 10  Heliotropia 2.1 (2004) http://www.heliotropia.org opening sentence is an extremely reductive paraphrase of a section of Dino’s commentary where the physician indicates the role of the stars in creating the dispositions of the soul. Dino writes: Alia res concurrit ad causandum aliquam passionem, que est res ex- trinseca que suam ymaginem vel speciem causat in virtute sensitiva, ad quam cognitionem vel apprehensionem consequitur appetitus talis vel talis, in quo appetitu iste passiones fundantur. Ideo auctor, ut complete ostenderet que est res generans istam passionem, primo ostendit que est dispositio naturalis corporis que reddit hominem aptum ut faciliter istam passionem incurrat; secundo ostendit que est res extrinseca ex cuius ap- prehensione consequitur in appetitu passio amoris. Secunda ibi: “Vien da veduta forma”; vel posset incipere ibi: “D’alma costume.” In prima parte quod dispositio naturalis, per quam aliquis inclinatur ad incurrendum faciliter in aliquam passionem, ex principiis proprie nati- vitatis hominis contraitur et, inter ista principia nativitatis alicuius, pre- cipua et principalia sunt corpora celestia: nam, ut dicit Philosophus in Phisicis, homo hominem generat et sol; et in De Generatione Animalium dicit quod in spiritu genitivo est natura existens proportionalis ordina- tioni astrorum. (Favati 363) [Something else is involved in causing any passion, and that is an exte- rior thing causing its image or “species” in the sensitive faculty, upon the cognition or apprehension of which there follows an appetite for this or that, in which appetite these passions are established. So the author, in order completely to show what is the thing which generates this passion, first demonstrates what is the natural disposition of the body which makes man suitable for incurring this passion easily; secondly he demon- strates what is the external thing from whose apprehension the passion of love follows in the appetite. The second starts “Vien da veduta forma”; or can start at “D’alma costume.” In the first part he shows that the natural disposition, by which some- body is inclined to incur some passion, is contracted from the principles of a person’s own birth, and, amongst these principles of a person’s birth, the foremost and most important are the heavenly bodies: for, as Aris- totle says in the Physics, man and the sun generate man; and in The Ge- neration of Animals, in the generative spirit a nature exists proportion- ally to the ordering of the stars] Boccaccio’s reference to his astrological mentor, Andalò del Negro, is an opportunistic amplification of a far less specific passage in Dino. The Garbian passage, commenting on line 18 of the canzone, reads: Hoc autem ostendit in verbo illo quod premisit cum dixit “La quale da Marte viene et fa dimora”: nam ista passio dicitur procedere a Marte isto modo, quoniam astrologi ponunt quod, quando in nativitate alicuius Mars fuerit in domo Veneris, ut in Tauro vel in Libra, et fuerit significator nativitatis eius, significabit natum fore luxuriosum, fornicatorem et om- nibus venereis abusivis scieleratum; unde quidam sapiens qui dicitur Aly, http://www.heliotropia.org/02-01/usher.pdf 11  Heliotropia 2.1 (2004) http://www.heliotropia.org in “Comento Quadripartiti,” dicit quod, quando in nativitate alicuius Venus participat cum Marte, dat inamoramentum, fornicationem, luxu- riam et talia similia, que omnia pertinent ad passionem amoris de quo loquitur auctor in hac cantilena. (Favati 363) [He shows this, however, in that word he placed before when he said “La quale da Marte viene et fa dimora”: for this passion is said to proceed from Mars in this way. Astrologers claim that, whenever, at the birth of somebody, Mars is in the house of Venus, as in Taurus or in Libra, and there is a person to do the child’s horoscope, he will signify that the child will be lustful, a fornicator, and wicked in all venereal excesses. Whence a certain sage called Haly in his commentary to the Quadripartitum says that, when at the birth of somebody Venus participates with Mars, it grants enamourment, fornication, lust and such like, which all are con- cerned with the passion of love which the author talks about in this can- zone.] Boccaccio’s reference to Andalò is rather disingenuous, if the evidence of the Calmeta episode of the Filocolo is to be believed. For there the empha- sis in that passage is almost entirely astronomical, with no hint of judicial astrology, and the authorities consulted are almost certainly limited to Ptolemy’s Almagest, Andalò’s own Introductorium, rather than the simi- larly titled work by Alcabitius, and to the Alfonsine Tables. Of Haly’s commentary to the Ptolemaic Quadripartitum there is not a trace. Boccac- cio’s early astrological culture, under the sway of Andalò, has been exam- ined in an important study by Antonio Enzo Quaglio (Scienza e mito nel Boccaccio, Padua: Liviana, 1967) and its narrative consequences (possibly more tending towards judicial astrology) in the Filocolo have been investi- gated by both Janet Levarie Smarr and Stephen Grossvogel. The adventi- tious references to Haly in the love definition in the Genealogie and Espo- sizioni are a sure sign that the late Boccaccio, whilst acknowledging his youthful enthusiasms, was now passively accepting and reproducing Dino’s quotes and mentions, rather than referring to material he knew and remembered intimately and at first hand. What then follows in Boccaccio’s account, namely the sequence of inter- iorisation, comes from Dino’s gloss to line 21. Dino’s ordering of the inner processes is, according to Otto Bird, untypical, yet Boccaccio accepts it without demur: Hic autem est ordo in apprehensione humana, sicut declaratum est in scientia naturali: quod primo species rei pervenit ad sensus exteriores, ut ad visum vel auditum vel tactum vel gustum vel olphatum, deinde ab illis pervenit ad virtutes sensitivas interiores, sicut pervenit ad fantasiam primo, deinde pervenit ad cogitativam et ultimo ad memorialem. Ab istis autem virtutibus procedit postea ista species ad virtutem nobiliorem, que http://www.heliotropia.org/02-01/usher.pdf 12  Heliotropia 2.1 (2004) http://www.heliotropia.org virtus in homine est altissima inter virtutes adprensivas, et ista est virtus possibilis. (Favati 364–65) [For this is the sequence in human apprehension, just as it is declared in natural science. First of all the “species” of the thing reaches the exterior senses, for instance sight or hearing, touch, taste or smell, thence from these it reaches to the inner sensitive faculties, so it comes to fantasy first, then comes to the cogitative and lastly to the memorative faculty. From these faculties this “species” reaches to the nobler faculty, which in mankind is the highest amongst the apprehensive faculties, and this is the possible faculty] Dino then provides a brief explanation of the difference between the intel- lectus agens [active intellect], the reasoning function of individuation and universals, and the passive or possible intellect, merely concerned with the processing of species resulting from sensibles. The discussion is not otiose, for Dino is aware of Cavalcanti’s dramatic positioning of love right at the crucial borderline between rational and sensitive activity. Boccaccio is not at all interested in such technicalities, and moves on to a matter of much greater concern, namely the question of the relationship between love and will. The relevant passage from Dino glosses Guido’s assertion that love is “di cor volontate,” but Boccaccio characteristically leaves out Dino’s pro- fessionally inspired mention of the difference of opinion between Aristotle and Galen concerning the seat of the sensitive faculties, in the heart or in the head. Dino writes: Et nota quod istum appetitum vocavit voluntatem, que videtur intellectui attinere, ut ostenderet quod, licet amor fiat in aliquo ex dispositione na- turali per quam quis inclinatur ad incurrendum faciliter hanc passionem, tamen fit etiam ex proposito et per electionem, quod pertinet ad volun- tatem, que est libera et liberi arbitrii, cum se habeat indifferenter ad op- posita; et est simile hic, sicut etiam est in aliis passionibus ut, verbi gra- tia, de ira. Nam aliquis, licet sit dispositus ex natura ad faciliter incurren- dum in iram, tamen per voluntatem potest se retrahere ab ea, et potest etiam in eam incurrere; et simili modo etiam de amore. (Favati 364) [And note that he calls this appetite the will, because the latter is seen to appertain to the intellect, in order to show that, although love can happen to somebody through a natural disposition whereby that person is in- clined easily to incur this passion, that person does so nevertheless on purpose and by choice, and so that is a case of will, which is free and by free choice, when it is faced equally with opposites. And it is the same here, just as it is with the other passions, like anger, for instance. For somebody, even though he may be disposed by nature to get angry easily, nevertheless through his will he can draw himself back from it, and he can even indulge in it; and it is the same with love.] http://www.heliotropia.org/02-01/usher.pdf 13  Heliotropia 2.1 (2004) http://www.heliotropia.org For Dino, the question is one of classification: given the working of erotic passion specifically in the sensitive appetite, it follows that engaging in or disengaging from love is necessarily a voluntary act, and therefore in part subject also to the operations of the rational soul, where choices are made. Boccaccio’s rewording changes the emphasis substantially towards moral philosophy: love is no longer an ineluctable force, and the potential lover, being free to choose, is therefore responsible for his own actions in this field as in any other. Love, as a phenomenon of the soul, is consequent on an initial act of the will, by accepting or refusing to be drawn further into passion. Though Boccaccio’s direct quotations from the Garbian glosses are all located in a compact area, he may have been encouraged to under- line this aspect by his reading further on in the commentary, for Dino re- fers to the will obliquely later on, drawing on Haly’s Pantechne, to state more clearly than elsewhere the voluntaristic nature of passion: amor est sollicitudo melanconica, similis melanconie, in qua homo iam sibi inducit incitationem cogitationis super pulcritudinem quarundam formarum et figurarum que insunt ei. (Favati 371) [love is a melancholic anxiety, similar to melancholy, in which a man ac- tually brings upon himself the rousing of cogitation upon the beauty of certain forms and figures which are within him.] A fragment of this reading of Dino can be found in the Decameron, when Boccaccio describes the aegritudo amoris of the pharmacist’s daughter Lisa (X.7.8), as she struggles with cumulative “malinconia.” What is more important in the Garbian gloss is the accent on the will. The lover “sibi inducit incitationem.” And later again, Dino will return to the topic, to explain why nobles have a greater propensity for erotic pas- sion than those whose existence is marred by the struggle for economic survival: Secunda causa est quia, licet in amore, quando est multum impressus, appetitus non sit liber, imo est servus et ducitur secundum impetum huius passionis, tamen in principio, quando incipit hec passio in appe- titu, adhuc appetitus est quasi liber, ita ut possit amare et possit desistere ab amore. Et ideo initium huius passionis incipit multotiens ex proposito. (Favati 373) [The second cause is because, though in love for instance the appetite, when it is much pressed, is not free, indeed it is enslaved and is led by the impetus of this passion, nevertheless in the beginning, when this passion starts in the appetite, at that point the appetite is almost free, so that it can love or desist from love. And so the beginning of this passion fre- quently starts from choice.] http://www.heliotropia.org/02-01/usher.pdf 14  Heliotropia 2.1 (2004) http://www.heliotropia.org Whereas in the Genealogie the highlighting of the question of free will served no particular purpose, and was not set within a moralising context, in the Esposizioni the moral discussion is crucial. Boccaccio has a precise task, for he is explaining the sin of those who “la ragion sommettono al talento” (Inferno V.39). Boccaccio’s own prior interpretation of this line is rather odd: Eran dannati i peccator carnali, Che la ragion sommettono al talento, cioè alla volontà. E come che questo si possa dire d’ogni peccatore inten- dere, per ciò che alcun peccatore non è che non sottometta, peccando, la ragione alla volontà, vuol nondimeno l’autore che per quel vocabolo “carnali” s’intenda singularmente per i lussuriosi. (Esposizioni V litt. 46) Boccaccio, never very consistent when adopting others’ philosophical sys- tems or terminology, seems to see no difference here between “will” and “desire.” He seems to have no real understanding of the complexities of appetition. Perhaps he was thinking of the passage in Dante’s Vita Nuova XXXIX, where the poet admits to a struggle between appetite (“cuore”) and reason (“anima”). Maybe he is using “volontà” to stand for “voglia,” the term Meo Abbracciavacca uses when he writes “e qual sommette a voglia operazione” (Gianfranco Contini, Poeti del Duecento, Milan-Naples: Ricciardi, 1960, vol. I, p. 337). It is no surprise, therefore, to find that Boc- caccio now moves straight from his paraphrase of Dino del Garbo on love and will to a discussion of whether Paolo, “atto nato ad amare” (Espo- sizioni V litt., 168) was obliged to fall in love with Francesca. Boccaccio freely admits that Paolo was “flessibile,” in other words easily swayed, be- cause of his complexion. It is the same concept Boccaccio applies to Dante’s amorous disposition in the Chigi version of the Trattatello: “inchinevole molto a questo accidente” (again a fairly Garbian formula), but when it comes to the famous line: “Amor, ch’a nullo amato amar per- dona” (Inferno V.103), the moralist suddenly swings into action: Questo, salva sempre la reverenzia dell’autore, non avviene di questa spezie di amore, ma avvien bene dello amore onesto (Esposizioni V litt. 169) Here Boccaccio is returning to the Aristotelian distinction between the three varieties of love (Nicomachean Ethics VIII.3) with which he had prefaced his discussion in the Esposizioni. There, he had indicated that the sensual love indulged in by Paolo and Francesca is the morally inferior “amore dilettevole,” where the pleasure principle is foremost. It is a defi- nition totally missing from the Genealogie account of Cupid, even though it had been promised much earlier (III.22.8). Now he claims that Fran- cesca’s declaration of the inevitable reciprocity of love is misplaced, for http://www.heliotropia.org/02-01/usher.pdf 15  Heliotropia 2.1 (2004) http://www.heliotropia.org such reciprocity can only happen with “amore onesto.” He backs this up with the definition to be found in Purgatorio XXII.10–12 (where Statius’ love for Virgil causes a corresponding affection in the older poet). But the lovers of Inferno V are seekers of pleasure only, not seekers of goodness (the “amore onesto” of Aristotle). But why did Boccaccio, between the Genealogie and the Esposizioni accounts, suddenly introduce the Aristotelian distinction? What does it have to do with Dino’s commentary? Once again, Boccaccio has been searching around in the glosses, and has found that the next argument Dino engages in is concerned with is the dual nature of love. One is the common definition: uno modo comuniter et large, secundum quod est quedam passio per quam inclinatur et movetur appetitus in aliquam rem que videtur sibi bona propter complacentiam eius, ratione cuiuscumque actus illius rei: et isto modo non accipitur hic: nam amor est circa multa, de quo amore non est presens intentio. Et de omnibus amicis ad invicem est hoc modo amor: quia amici amant se ad invicem, et tamen non amant se amore de quo est hec presens intentio; et potest etiam esse amore in uno respectu alterius, et tamen non erit amicitia inter eos: omnis enim qui est amicus alicui amatur ab illo, sed non omnis qui amat aliquem amatur ab illo; et ideo, licet omnis amicitia sit cum amore, non tamen omnis amor est cum amicitia. (Favati 371–72) [one way commonly and widely defined, according to which it is a certain passion by which the appetite is inclined and moved towards something which seems good to it on account of its pleasurability, by reason of whatever agency of that thing: and it is not accepted in this way here: for love concerns many things, about which love it is not Guido’s present in- tention to speak. Concerning all mutual friends, love is of this kind: for friends love each other reciprocally, and yet they do not love each other with the kind of love which is the topic here; and it can be a question of love in one regarding the other, and yet there will not be friendship between them: for everybody who is a friend to somebody is loved by that other person, but not everybody who loves somebody is loved by that person, and so, even if every friendship is with love, not every love is with friendship.] In his round-about way Dino is dealing here with the distinction between love “per concupiscentiam” [for desire’s sake] and “per amicitiam” [for friendship’s sake]. The first is properly the subject of Guido’s canzone, whereas the second is Aristotle’s true friendship, what Boccaccio calls “amore onesto.” Dino’s purpose is to go on to define the pathology of the illness that derives from amorous excess, the so-called “ereos,” richly in- vestigated by Massimo Ciavolella (La “Malattia d’Amore” dall’Antichità al Medioevo, Rome: Bulzoni, 1976) and before that by John Livingston http://www.heliotropia.org/02-01/usher.pdf 16  Heliotropia 2.1 (2004) http://www.heliotropia.org Lowes (“The Loveres Maladye of Hereos,” Modern Philology 11.4 [1914]: 491–546). Boccaccio, uninterested in the minutiae of such medical matters (though he refers to them in his Valerius Maximus inspired episode of Giacchetto Lamiens in the novella of the Count of Antwerp (Decameron II.8.44–48), retains the distinction but uses it for a moral purpose. Paolo and Francesca were free to retreat from their passions, as theirs was an “amor dilettevole.” Their obstinate refusal to avail themselves of the free- dom of choice inherent in the birth of such sensual passion led to their damnation. This issue of free will clearly exercised Boccaccio, for he re- turns to it belatedly in the allegorical exposition to the canto. The com- mentator has been explaining why carnal sinners, guilty of excess in what is otherwise a natural process, are punished more lightly than the other damned souls, in a circle further from the pit of hell and nearer to God. He then has another go at defining the relative roles of astrological disposition and free use of the rational faculty of choice: L’origine del quale, secondo che di sopra è mostrato, par che sia nell’attitudine a questa colpa datane da’ cieli; la quale parrebbe ne do- vesse da questo scusare, se data non ci fosse la ragione, la quale ne dimo- stra quel che far dobbiamo e quel che fuggire, e, oltre a ciò, il libero albi- trio, nel quale è podestà di seguire qual più gli piace. (Esposizioni V all. 78) But this moralistic view of erotic passion, prompted by a public reading of the Paolo and Francesca episode and shaped, selectively, by Dino del Garbo’s glosses to Cavalcanti’s canzone, represents a very late position, beginning with the first redaction of the Genealogie, and perhaps impli- citly coeval with some of the thinking behind the remedia amoris of the Corbaccio. Boccaccio’s earlier allusions to the Inferno V episode seem to show, instead, that the involuntary nature of love, propounded by Fran- cesca, prevails. In the Filostrato, for instance, after much sighing and tearful pillow-soaking, Troiolo finally admits to his friend Pandaro the cause of his melancholy: he has fallen in love. Boccaccio’s writing at this point is saturated with reminiscences of the Paolo and Francesca passage from Inferno V. Troiolo is grateful that Pandaro is inclined to hear of his “martiro,” rhymed with “sospiro” (Dante: “sospiri” and “martiri”) and is responding to Pandaro’s “priego” since he is incapable of opposing a “nie- go” (Dante: “priega” and “niega”). Troiolo then indicates how love took over: Amore, incontro al qual chi si difende più tosto pere ed adopera in vano, d’un piacer vago tanto il cor m’accende, ch’io n’ho per quel da me fatto lontano http://www.heliotropia.org/02-01/usher.pdf 17  Heliotropia 2.1 (2004) http://www.heliotropia.org ciascheduno altro, e questo sì m’offende, (Filostrato II.7.1–5) This is a clear echo of Francesca speaking of how love “al cor gentil ratto s’apprende [...] e ’l modo ancor m’offende” (Inferno V.100–02). Boccaccio in paraphrasing “Amor, ch’a nullo amato amar perdona” here, further em- phasises the involuntary nature of such passion. The same emphasis can be seen in the Filocolo: in the “court of love” in book four, Clonico has asked the queen for a judgment on whether an unrequited or a jealous lover should be more pitied. The queen passes sentence, saying that the unrequited lover will finally get his reward, for true love induces inevitable reciprocity in the beloved: ché, ben che ella si mostri verso voi acerba al presente, e’ non può essere ch’ella non vi ami, però che amore mai non perdonò l’amare a niuno amato. (Filocolo IV.38.11) The same concept lies behind that other enamourment clearly inspired by Dante’s Paolo and Francesca, the Ovid-inspired passion of Florio and Biancifiore in Filocolo II: their love, too, is caused by Cupid’s agency, they too are apparently coerced by mutual delight. Florio clearly considers that such a situation is universal, and affects not only mortals but gods: Padre mio, sì come voi sapete, né il sommo Giove né il risplendente Apollo, da voi ora davanti ricordato, né alcuno altro iddio ebbe all’amorevole passione resistenza; né tra’ nostri predecessori fu alcuno tanto di virile forza armato, che da simile passione non fosse oppresso. (Filocolo II, 15, 1–2) But perhaps the most memorable examples of such love apologies come in the Decameron. In the novella of the count of Antwerp, the queen of France lays bare her passion for the count: Egli è vero che, per la lontananza di mio marito non potendo io agli sti- moli della carne né alla forza d’amor contrastare, le quali sono di tanta potenza, che i fortissimi uomini non che le tenere donne hanno già molte volte vinti e vincono tutto il giorno, essendo io negli agi e negli ozii ne’ quali voi mi vedete, a secondare li piaceri d’amore e divenire innamorata mi sono lasciata correre. (Decameron II.8.15) Though the power of love is emphasised, a subtle change has now taken place. We now get at least a fleeting admission that an element of volition was involved (“mi sono lasciata correre”). When we come to look at the famous justification of Ghismonda, caught in flagrante with Guiscardo by her jealous father (Decameron IV.1.31–45), we see the same refined con- cession. Her speech begins with a reminiscence of the Paolo and Francesca episode, audible in the pairing “né a negare né a pregare sono disposta.” http://www.heliotropia.org/02-01/usher.pdf 18  Heliotropia 2.1 (2004) http://www.heliotropia.org Ghismonda, at various points, then outlines the sheer power and durabil- ity of the passion which has overtaken her: Egli è il vero che io ho amato e amo Guiscardo, e quanto io viverò, che sarà poco, l’amer e se appresso la morte s’ama, non mi rimarrò d’amarlo. (Decameron IV.1.32) Though the wording has been altered, the influence of Francesca’s per- during love in Inferno V is clear: “ancor non m’abbandona” (105) and “che mai da me non fia diviso” (135). But then the speech gets down to detail. It is Ghismonda’s youthful appetite, whetted by previous marriage and now enforced celibacy, which causes her to cede to her desires: Sono adunque, sí come da te generata, di carne, e sí poco vivuta, che an- cor son giovane, e per l’una cosa e per l’altra piena di concupiscibile disi- dero, al quale maravigliosissime forze hanno date l’aver già, per essere stato maritata, conosciuto qual piacer sia a così fatto desidero dar com- pimento. Alle quali forze non potendo io resistere, a seguir quello che elle mi tiravano, sí come giovane e femina, mi disposi e innamora’mi. (Decameron IV.1.34–35) Yet, here again, we can see that Boccaccio clearly imagines there to be a moment of decision, an instance of rational choosing, even if the flesh (and the sensitive faculties) are predisposed to “incur such passion.” To sum up then, the evidence for Boccaccio having read Dino del Garbo early on in his career, earlier than the Teseida, is quite strong. The gloss on “Donna me prega” is not associated, as one might imagine, with an interest in Cavalcanti’s vernacular verse, but rather with its availability as a con- venient manual, accessible to a non medical scholar, on the “maladye of hereos.” For this reason, perhaps, it became associated with Boccaccio’s constant re-reading of the Paolo and Francesca episode from Inferno V. What changed over time was the quality of Boccaccio’s reading of Dino, starting from an opportunistic level, where the distinction between Capel- lanus and Del Garbo is hardly felt, and ending with an interpretation which consciously develops the potential in Dino’s understanding of the role of the will. The moment of transition, however timid, seems to take place in the years of the Decameron. Grice: “So here is charming Cavalcanti writing a charaming love lyrics (Donna mi preigha) and Garbo in his worst Aristotelian jargon destroying it. I dealt with Blake (“love that never told can be”) and the best thing is to leave poetry to poets (cf. Austin rebuffing Nowell-Smith’s inability to understand Donne). The physiology of love is beyond philosophy. But in philosophy, unlike any other discipline, we respect history, and the longitudinal history of philosophy ensures that every philosopher will be familiar with the idiocies Plato makes Socrates says in Convitto about Cupido, Cupidine, Amore, Eros, Erote, Anterote, and Mars, qua symbol of maleness. In Italy they were concerned about astrology. Since the future queen of Naples had been born under the House of Mars, she will possibly be a whore!” --  Aldrobrandino Del Garbo. Garbo. Keywords: appetitus, appetitus sensitivo – spiegatura dell’amore in termine aristotelichi – amare, sentire, il patico – fornicazione – latino/volgare – Boccaccio – Petrarca – Alighieri – Cavalcanti --. de militia complexionis diversae, eros, amore, malattia, Aristotele, passione, ragione, appetite sensitive, amore, sentire – re-cognosenza da parte dell’amato dell’amore dell’amante – via senso? Marte – self-love, other-love, amore proprio, amore a se stesso, amore all’altro. Refs.: Luigi Speranza, “Garbo e Grice: amore, passione, implicatura” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51690528577/in/photolist-2mJq2uE-2mLzoFz-2mKHtgX

 

Grice e Gargani – Eurialo e Niso; ovvero, dell’empatia – filosofia italiana – Luigi Speranza (Genova). Filosofo. Grice: “I like Gargani; many of his essays are pretty interesting: he’s written on the ‘sense’ of ‘true,’ and on the ‘endless phrase,’ – la frasse infinita – which according to Griceian principles, must rely on implicature, since it involves a communicational impossibility!” -- «È un fatto che gli uomini hanno prodotto assai più cose di quanto siano propensi ad ammettere; ma ciò che essi hanno eretto nella forma di costruzioni concettuali elevate e sublimi, come se fossero separate dal caso e dal disordine, corrisponde ad un uso che essi hanno fatto della propria vita.” Aldo Giorgio Gargani (Genova), filosofo. Si laurea a Pisa sotto Barone. Collaborando con Lepschy, allora professore all'University College di Londra, e conducendo le sue ricerche al Queen's sotto la guida di Geordie McGuinness.  È stato il massimo studioso italiano di Vitters, e ha contribuito alla diffusione della filosofia di D. F. Pears. I suoi ambiti di studio sono stati prevalentemente la filosofia del linguaggio, l'estetica, l'epistemologia, e la psicoanalisi. Di particolare interesse è anche il suo tentativo di una scrittura filosofica narrativa, come in Sguardo e destino” (Laterza, Roma-Bari); “L'altra storia” (il Saggiatore, Milano); Il testo del tempo” (Laterza, Roma-Bari).  Altre opere: “Esperienza in Vitters” (Le Monnier, Firenze); “Hobbes” (Einaudi, Torino); “Vitters” (Laterza, Roma-Bari); “Il sapere senza fondamenti. La condotta intellettuale come strutturazione dell'esperienza commune” (Einaudi, Torino ); “Vitters a Cambridge” (Stampatori Editore, Torino); “Kafka” (Guida, Napoli); “Lo stupore e il caso” (Laterza, Roma-Bari);  “La frase infinita” (Laterza, Roma-Bari); “Il coraggio di essere” (Laterza, Roma-Bari); “Stili di analisi” (Feltrinelli, Milano); “L'organizzazione condivisa. Comunicazione, invenzione, etica” (Guerini, Milano); “Il pensiero raccontato” (Laterza, Roma-Bari); “Una donna a Milano” (Marsilio, Venezia); “Il filtro creative” (Laterza, Roma-Bari); “Dalla verità al senso della verità” (Plus, Pisa); “Mondi intermedi e complessità” (Ets, Pisa); “Il gesto” (Cortina, Milano); “La filosofia della cura” (ASMEPA Edizioni, Bentivoglio); “L'arte di esistere contro i fatti” (Lamantica Edizioni, Brescia); “Crisi della ragione. Nuovi modelli nel rapporto tra sapere e attività umane” (Einaudi, Torino). Altri contributi Relazione d'aiuto, sintonia comunicativa e organizzazione sociale, in Il vaso di Pandora, Dialoghi in psichiatria e scienze umane, Fondazionalismo e antifondazionalismo, Relativismo e nuovi paradigmi filosofici, Inquietudine, empatia, identità e narrazione (Pordenone). Eurialo e Niso coppia di amici, guerrieri troiani nella mitologia greca e nell'Eneide di Virgilio Lingua Segui Modifica Ulteriori informazioni Questa voce o sezione sugli argomenti mitologia romana e personaggi immaginari non cita le fonti necessarie o quelle presenti sono insufficienti. Eurialo e Niso Nisos Euryalos Louvre LL450 n2.jpg Eurialo e Niso (1827) di Jean-Baptiste Roman, Louvre SagaCiclo Troiano ed Eneide Nome orig.Euryalus e Nisus Epitetoinsigne per bellezza (Eurialo), fortissimo in armi (Niso), Irtacide (patronimico di Niso) 1ª app. inEneide di Virgilio, I secolo a.C. circa (Eurialo)  Sessomaschi Luogo di nascitaTroia (Eurialo), monte Ida (Niso) Eurialo e Niso (in latino Euryalus e Nisus) sono due personaggi che compaiono in due episodi dell'Eneidedi Virgilio. Giovani guerrieri profughi di Troia, costituiscono un grande esempio di amicizia e di valori che Virgilio teneva a riportare in vita con la sua opera.  Il particolare rapporto che li lega è definito dall'autore "amore", ciò che nel contesto dell'epoca va inteso come serena manifestazione di continuità tra l'amicizia fraterna e l'affettuosità omoerotica. Non è l'unico caso nel poema: anche tra gli italici nemici dei troiani vi è una coppia siffatta, quella costituita dai due giovani latini Cidone e Clizio.  Il mito «… Appresentossi in prima Eurïalo con Niso. Un giovinetto di singolar bellezza Eurïalo era; e Niso un di lui fido e casto amico.»  (Virgilio, Eneide, traduzione di A. Caro, V, 425-428) Eurialo                                                   Modifica Eurialo (figlio di Ofelte, un troiano morto durante la guerra di Troia nonché lontano parente di Priamo) è il più giovane dei due amici, poco più che un fanciullo, e con la sua grande bellezza riesce sempre a ottenere il favore degli altri.  Partecipa alla gara di corsa a piedi durante i giochi funebri per Anchise, nel quinto libro dell'Eneide, a fianco dell'amico Niso e riesce a vincerla grazie all'aiuto del compagno. Nonostante le proteste di Salio, un altro corridore, che è inciampato a causa di Niso, Eurialo sfrutta le sue lacrime e il suo bell'aspetto per far sì che gli spettatori parteggino per lui.  Nel nono libro affianca nuovamente Niso nel tentativo di raggiungere Enea, passando per l'accampamento dei Rutuli addormentati. I due giovani, approfittando dell'occasione favorevole, compiono un'ingente strage di nemici. L'inesperienza di Eurialo si dimostra quando il giovinetto ruba nell'accampamento nemico diversi oggetti di valore, tra cui uno splendido elmo. Saranno proprio quei trofei a mettere a repentaglio la vita di Eurialo; da una parte il riflesso dell'elmo attirerà l'attenzione del nemico Volcente sui due compagni, dall'altra il peso del bottino ostacolerà il giovane in fuga dai soldati nemici. Eurialo muore trafitto dalla spada dello stesso Volcente in un bosco vicino all'accampamento rutulo.  In quel momento Virgilio richiama alla mente un altro paragone con il candido corpo esanime di Eurialo, ossia l'immagine di un fiore purpureo reciso da un aratro o un papavero che abbassa il capo durante la pioggia.  NisoModifica Niso appartiene a una famiglia illustre: è infatti figlio - al pari di Ippocoonte e dell'omerico Asio - del nobile troiano Irtaco che aveva sposato Arisbe, la moglie ripudiata da Priamo, chiamata anche Ida. Egli è, rispetto a Eurialo, più maturo ed esperto, avendo combattuto insieme ai fratelli nella guerra di Troia. Nel poema è ricordata tra l'altro la sua passione per la caccia, trasmessagli da entrambi i genitori. Compare per la prima volta nel quinto libro al fianco di Eurialo nella gara di corsa, in cui scivola, ma aiuta il compagno a vincere grazie a uno stratagemma.  Successivamente, nel nono libro, Niso si fa avanti per uscire dall'accampamento dei troiani assediati dai Rutuli e raggiungere Enea, ma Eurialo vuole seguirlo. Dapprima Niso non acconsente ritenendo il ragazzo non ancora pronto per affrontare un'impresa tanto rischiosa, ma, data la sua insistenza, parte con lui. Entrato nel campo nemico, Niso vi uccide parecchi giovani italici sopraffatti dal sonno, dal vino e dall'inesperienza, imitato poi da Eurialo.  Tenterà invano di salvare l'amico fatto prigioniero dai cavalieri di Volcente. Il suo affetto per il giovinetto lo spinge a vendicarne la morte; egli riuscirà nell'intento cadendo però a sua volta.  Quinto libro - La gara di corsaModifica La prima apparizione di Eurialo e Niso risale al quinto libro dell'Eneide, durante la gara di corsa a piedi svoltasi a Erice nei giochi in onore di Anchise, il defunto padre di Enea. L'episodio è peraltro tratto dalla gara avvenuta nell'Iliade fra Odisseo, Aiace d'Oileo e Antiloco, vinta da Odisseo. Niso si porta in testa, ma scivola inavvertitamente su una pozza di sangue sacrificale, probabilmente sparso da Eneaprima della celebrazione dei giochi.  A quel punto Salio, un altro partecipante, tenta di correre per il primo posto, ma Niso, mosso da un profondo affetto per l'amico, fa uno sgambetto all'avversario che finisce a terra.  Di conseguenza Eurialo sorpassa Salio e vince la gara.  Irritato per la vittoria ingiusta di Eurialo, Salio si lamenta da Enea, ma il pubblico, commosso dal pianto e dal bell'aspetto di Eurialo, parteggia per il giovinetto.  Enea consegna comunque un premio di consolazione a Salio e a Niso, rispettivamente una pelle di leone africano e uno scudo forgiato da Didimaone, e offre al giovane vincitore il premio che gli sarebbe spettato di diritto, ossia un cavallo con borchie.  Nono libro - La sortita notturna e la morte dei due giovani                                 Modifica Nella sortita notturna del nono libro, Virgilio s'ispira a quella di Diomede e Ulisse nel decimo libro dell'Iliade, dove i due achei sorprendono nel sonno il giovane re trace Reso e dodici suoi guerrieri.  L'esercito di Turno sta cingendo d'assedio la cittadella dei Troiani sbarcati nel Lazio; Enea, alla ricerca di alleati, si è recato tra gli Etruschi. Niso si propone di uscire per andare a raggiungere Enea e avvertirlo del pericolo imminente, ma Eurialo vuole rimanere al suo fianco, pur sapendo di essere ancora molto giovane per un'impresa così rischiosa e di poter avere ancora una lunga vita davanti a sé. Dopo aver ricevuto il consenso dei compagni riguardo alla loro proposta, Eurialo e Niso si preparano a partire per la loro missione. Ascanio, il figlio di Enea, promette loro grandi premi, tra cui tazze e cucchiai d'argento, cavalli, armature, donne e schiavi, mentre gli altri troiani li equipaggiano con armi adatte all'impresa.  I due amici penetrano nel campo dei Rutuli addormentati. Niso mette al corrente Eurialo della sua intenzione di farne strage e passa immediatamente all'azione, aggredendo un amico intimo di Turno, il borioso re e augure Ramnete, che stava russando nella sua tenda su un cumulo di sontuose stuoie, e con la spada lo colpisce alla gola; introdottosi quindi negli alloggiamenti di Remo, altro importante condottiero italico, sgozza l'auriga disteso sotto i cavalli per poi staccare la testa al suo signore coricato nel letto e ancora al bellissimo giovinetto Serrano riverso a terra nel suo sonno di ubriaco dopo aver dedicato al gioco dei dadi buona parte di quella che sarebbe stata la sua ultima notte. Questi sono i più noti tra i numerosi guerrieri che finiscono vittime di Niso.  Anche Eurialo non resiste alla tentazione di uccidere qualche italico; un certo Reto, svegliatosi improvvisamente, cerca di nascondersi dietro un cratere, ma viene ucciso proprio da Eurialo. A questo punto Niso esorta il compagno a cessare la strage; i due troiani escono dal campo nemico. Eurialo porta via con sé alcuni oggetti di valore, tra cui l'elmo di Messapo (un alleato italico dei Rutuli, che non è tra le vittime).  Proprio per la vanità di Eurialo i due amici vengono avvistati da un drappello di trecento maturi cavalieri rutuli guidato da Volcente; accade infatti che i bagliori dell'elmo e il suo vistoso pennacchio attirino l'attenzione dei nemici, che incominciano allora a inseguire la coppia di troiani, rifugiatasi nel bosco.  Gli uomini di Volcente si sparpagliano quindi attraverso passaggi sconosciuti a Eurialo e Niso, che cercano una via di fuga.  Improvvisamente Niso si ritrova da solo e, correndo a ritroso per cercare l'amico, lo vede circondato da soldati italici. A quel punto, disperato, scaglia le sue armi contro i nemici e riesce a uccidere Sulmone e Tago, due cavalieri di Volcente, il quale, non capendo chi possa essere l'autore di quelle uccisioni, si scaglia su Eurialo con la spada, trafiggendolo mortalmente.  (LA)  «Talia dicta dabat; sed viribus ensis adactus transabiit costas et candida pectora rumpit. Volvitur Euryalus leto, pulchrosque per artus it cruor, inque umeros cervix conlapsa recumbit: purpureus veluti cum flos succisus aratro languescit moriens lassove papavera collo demisere caput, pluvia cum forte gravantur.»  (IT)  «Mentre così dicea, Volscente il colpo  già con gran forza spinto, il bianco petto del giovine trafisse. E già morendo  Eurïalo cadea, di sangue asperso  le belle membra, e rovesciato il collo, qual reciso dal vomero languisce purpureo fiore, o di rugiada pregno papavero ch'a terra il capo inchina.»  (Traduzione di Annibal Caro) Niso allora grida disperato e si scaglia con tutta la sua violenza contro Volcente, conficcandogli quindi la spada nella bocca spalancata e uccidendolo. Il giovane viene però attaccato dagli altri soldati presenti e, morendo, si getta sull'amico e si dà finalmente pace.  (LA)  «At Nisus ruit in medios solumque per omnis Volcentem petit in solo Volcente moratur. Quem circum glomerati hostes hinc comminus atque hinc proturbant. Instat non setius ac rotat ensem fulmineum, donec Rutuli clamantis in ore condidit adverso et moriens animam abstulit hosti. Tum super exanimum sese proiecit amicum confossus placidaque ibi demum morte quievit.»  (IT)  «In mezzo de lo stuol Niso si scaglia  solo a Volscente, solo contra lui  pon la sua mira. I cavalier che intorno  stavano a sua difesa, or quinci or quindi  lo tenevano a dietro. Ed ei pur sempre  addosso a lui la sua fulminea spada  rotava a cerco. E si fe' largo in tanto  ch'al fin lo giunse; e mentre che gridava,  cacciogli il ferro ne la strozza, e spinse.  Così non morse, che si vide avanti  morto il nimico. Indi da cento lance  trafitto addosso a lui, per cui moriva,  gittossi; e sopra lui contento giacque.»  (Traduzione di Annibal Caro) Conseguenze della morte di Eurialo e NisoModifica Sùbito dopo la morte di Eurialo e Niso, Virgilio interviene nella narrazione, assicurando ai due amici un eterno ricordo da eroi tragicamente sconfitti:  (LA)  «Fortunati ambo! Siquid mea carmina possunt, nulla dies umquam memori vos eximet aevo, dum domus Aeneae Capitoli immobile saxum accolet imperiumque pater Romanus habebit.»  (IT)  «Fortunati ambidue! Se i versi miei tanto han di forza, né per morte mai, né per tempo sarà che 'l valor vostro glorïoso non sia, finché la stirpe d'Enea possederà del Campidoglio l'immobil sasso, e finché impero e lingua avrà l'invitta e fortunata Roma.»  (Traduzione di Annibal Caro) I corpi esanimi di Eurialo e Niso vengono portati all'interno dell'accampamento rutulo, e quivi sottoposti a decapitazione.  Le teste recise dei due giovani vengono quindi conficcate su lance e portate davanti al presidio troiano con grande clamore.  In seguito la Fama avverte la madre di Eurialo della morte del figlio. Ella, sconvolta dalla notizia, corre fuori di casa strappandosi i capelli e urlando. Ha così inizio un commovente discorso in cui sembra rimproverare il figlio per non averla nemmeno salutata per l'ultima volta prima di partire per la sua pericolosa missione, e rimpiange di non aver potuto guidare le sue esequie e rivedere il suo corpo.  La donna sembra non aver più nemmeno la forza di vivere e implora di essere uccisa dai Rutuli, trafitta dalle loro frecce. L'ultima memoria a Eurialo e Niso è offerta dai troiani che li rimpiangono con gemiti e lacrime e riportano in casa la madre di Eurialo.  Vittime di Eurialo e NisoModifica Vittime di EurialoModifica Le vittime di Eurialo, tutte uccise nel campo dei Rutuli, sono perlopiù anonime; fanno eccezione:  Abari Erbeso Fado Reto (l'unico che non viene ucciso nel sonno). Colpito di spada al petto, muore vomitando l'anima insieme al vino e al sangue. Vittime di NisoModifica Cavalieri uccisi in scontro aperto (3):  Sulmone, colpito mortalmente da un dardo al petto Tago, ucciso con un dardo che gli trapassa le tempie Volcente, il comandante, cui Niso conficca la spada nella bocca spalancata Guerrieri sorpresi nel sonno (5):  Ramnete, augure e re italico Remo, condottiero rutulo Lamiro e Lamo, guerrieri rutuli al seguito di Remo Serrano, giovanissimo guerriero rutulo famoso per la sua bellezza, anch'egli al seguito di Remo In questo elenco vanno aggiunti i tre servi di Ramnete e l'auriga di Remo: ma il verso 328 «armigerumque Remi premit aurigamque sub ipsis», da alcuni tradotto «sopprime l'auriga ed armigero di Remo» è da intendersi per altri come «sopprime lo scudiero di Remo e l'auriga», quindi il numero complessivo delle vittime di Niso può variare da 12 a 13. In ogni caso Niso è, dopo Enea e Turno, il guerriero che uccide più nemici nel poema; e tra gli italici che egli sorprende nel sonno sono ben quattro quelli che subiscono la decapitazione, ovvero Remo, Lamiro, Lamo e Serrano.  Virgilio mette anche un certo Numa tra gli italici uccisi nel sonno, ma solo nella sequenza che descrive la scoperta della strage. Per molti studiosi il punto in questione sarebbe uno dei tanti sfuggiti alla revisione definitiva dell'opera: e poiché Numa viene citato insieme a Serrano, si pensa che il poeta abbia scritto erroneamente "Numa" in luogo di "Lamo" o "Remo". Peraltro in un passo del libro X il nome Numa ritorna, insieme a quelli di Volcente e Sulmone: quest'ultimo viene detto padre di quattro giovani guerrieri catturati da Enea, che poco dopo appunto uccide, in mezzo ad altri nemici, un guerriero chiamato Numa, e il figlio di Volcente, Camerte, biondo signore di Amyclae.  Raffronto con l'IliadeModifica Nel compiere la strage, i due giovani vengono paragonati dal poeta a un leone vorace che entrato in un ovile affonda i denti sulle inermi pecore; la similitudine proviene dal modello omerico con la strage dei Traci. La pagina del massacro compiuto dalla coppia troiana si caratterizza però soprattutto per la presenza di particolari cruenti, come l'immagine di Reto che vomita la sua anima intrisa del vino bevuto, e le decapitazioni operate da Niso (Diomede riserva questo trattamento a Dolone e non ai Traci addormentati); il giovane eroe tuttavia si astiene dall'incrudelire sulle teste recise delle sue vittime, divergendo in questo da altre figure epiche (Agamennone e Achille nell'Iliade; Turno e lo stesso Enea nell'Eneide). L'immagine di Eurialo morente, col giovinetto che piega il capo come un papavero, è anch'essa mutuata dall'Iliade, ma richiama un altro passo, quello dell'agonia di Gorgitione, uno dei figli di Priamo, ucciso in battaglia da Teucro nell'ottavo libro del poema. Il testo virgiliano contiene anche alcuni tratti di comicità nera (l'augure Ramnete, amante del fasto, che non riesce a prevedere la propria morte; e l'uccisione del bizzarro auriga di Remo, sorpreso mentre giace tra i suoi stessi cavalli).  Benché l'episodio della sortita notturna sia modellato su quella compiuta da Odisseo e Diomede, i troiani presentano tratti che rimandano più ad Achille e Patroclo per il rapporto che li unisce, ovvero quello di due guerrieri-amanti. In Niso peraltro si può riscontrare una personalità molto simile a quella di suo fratello Asio nell'Iliade, caratterizzata da audacia e irruenza; oltretutto anche Asio soccombe dopo aver tentato di vendicare un commilitone caduto, Otrioneo, al quale però non è sentimentalmente legato, così come non risulterebbe avere un coinvolgimento erotico col proprio auriga, destinato a perire subito dopo di lui. [1].  Interpretazione dell'episodioModifica Affiora in questi versi lo sgomento di Virgilio di fronte agli orrori della guerra, che miete lutti su lutti. La guerra non è tra buoni e cattivi: i troiani cercano una nuova patria, gli italici si sentono minacciati. In nessun altro punto del poema soccombono così tanti eroi giovani: se si eccettuano Volcente e i suoi due cavalieri, padri di famiglia, tutti gli altri personaggi dell'episodio vanno incontro a morte prematura, non ci sono solo Eurialo e Niso, dato che i guerrieri che i due troiani uccidono nel sonno sono più o meno loro coetanei: in IX, 161-63 si dice infatti che Turno sceglie per l'assedio 1.400 giovani («bis septem Rutuli muros qui milite servent / delecti, ast illos centeni quemque sequuntur /purpurei cristis iuvenes auroque corusci»). Gioventù che va di pari passo con l'imprudenza: i Rutuli si lasciano sopraffare dal sonno, un elmo sottratto da Eurialo ai nemici sarà all'origine della sua morte. Ma morire giovani in guerra significa anche guadagnarsi la fama eterna, e a questo provvede Virgilio che manifesta lo stesso senso di rispetto per tutti i caduti: guerrieri aristocratici come Niso, Remo e Ramnete (che pur bollato dal poeta in un primo tempo come superbus per l'ostentazione del suo doppio potere è uno degli italici che Virgilio metterà tra le vittime maggiormente rimpiante dall'esercito italico, essendo indiscutibile la sua amicizia per Turno), e soldati di estrazione non nobile come Eurialo e Serrano.  Fortuna dell'episodioModifica Nell'Orlando furioso di Ludovico Ariosto i due giovani soldati saraceni Cloridano e Medoro compiono una sortita notturna nel campo dei cristiani per cercare il cadavere di Dardinello, il loro signore caduto in battaglia, e vi uccidono diversi nemici sorpresi nel sonno. Fin qui Ariosto segue Virgilio: diversa è la conclusione, che vede soccombere il solo Cloridano, mentre Medoro è destinato a essere salvato dalla bella Angelica; inoltre mancano descrizioni relative al ritrovamento dei guerrieri uccisi nella strage.  Eredità culturaleModifica A Eurialo e Niso sono stati dedicati due crateri di Dione, uno dei satelliti di Saturno. Massimo Bubola ha preso ispirazione dall'episodio virgiliano per una sua canzone scritta in collaborazione con i Gang e da questi incisa in primis, intitolata Eurialo e Niso, in cui si narra di due giovani partigiani - omonimi della coppia di personaggi virgiliani - autori di una sortita notturna contro i nazisti. Anche in questo caso la vicenda si conclude con la morte di entrambi gli amici. FontiModifica Publio Virgilio Marone, Eneide, libri V e IX. NoteModifica ^ Asio è invece molto più legato al principe troiano Deifobo, che subito dopo la sua morte decide di vendicarlo Iliade (Monti)/Libro XIII - Wikisource, su it.wikisource.org. URL consultato il 23 giugno 2021. Voci correlateModifica Temi LGBT nella mitologia Irtaco Arisbe Asio (figlio di Irtaco) Ippocoonte (figlio di Irtaco) Salio Volcente Cloridano Medoro (Orlando furioso) Ramnete Remo (Eneide) Serrano (Eneide) Lamiro e Lamo Reto Cidone e Clizio Decapitazione Reso Altri progettiModifica Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Eurialo e Niso   Portale Letteratura   Portale Mitologia Scienza e filosofia della complessità. Studi in memoria di Aldo Giorgio Gargani A cura di Angelo Marinucci, Stefano Salvia, Luca Bellotti Collana “I Tempi e le Forme” (Carocci 2020) INDICE Prefazione. Aldo G. Gargani: la filosofia come analisi delle possibilità di Alfonso Maurizio Iacono Introduzione di Angelo Marinucci e Stefano Salvia 1. Determinismo, linearità, prevedibilità. Il problema dei tre corpi da Newton a Poincaré di Stefano Salvia Genesi e sviluppo di un problema scientifico/La prima formulazione esplicita del problema/Dalla geometria analitica all’analisi algebrica/La controversia intorno a 1 r2/Il problema dei tre corpi ristretto/Il Sistema solare è stabile?/Dall’analisi algebrica alla meccanica analitica/La meccanica razionale e l’analisi classica/Il teorema di Poincaré: limite invalicabile o nuovo spazio di possibilità? 2. Il problema della previsione in un sistema deterministico classico di Andrea Cintio Introduzione/Il problema dello studio delle evoluzioni temporali/Sistema dinamico/Il determinismo e il problema delle previsioni delle evoluzioni/Evoluzioni caotiche/Dalle singole orbite alle famiglie di sistemi/Il problema della previsione e la dipendenza sensibile dalle condizioni iniziali 3. Ordine e caos nella scienza moderna di Leone Fronzoni Introduzione/La riscoperta del caos/Le biforcazioni/Coerenza e autorganizzazione/La turbolenza/Stati coerenti localizzati: i solitoni/La sincronizzazione/Coerenza e disordine nella meccanica quantistica/Entropia e complessità/Network/Conclusioni 4. Su Turing, gli algoritmi, le macchine, la prevedibilità di Luca Bellotti Alan M. Turing (1912-1954): una brevissima biografia/Una digressione: Penrose contro Turing/Algoritmi/Macchine di Turing/Un’osservazione finale: sulla prevedibilità del comportamento delle macchine di Turing 5. Come il futuro dipende dal passato e dagli eventi rari nei sistemi viventi di Giuseppe Longo Introduzione/Storia e dipendenza dal cammino in fisica: qualche confronto/La memoria: un esempio d’invariante storicizzato/Gli osservabili biologici e le loro dinamiche evolutive/Verso il futuro: sapere e imprevedibilità/Tracce invarianti di una storia/Spazi relazionali costruttivi e invarianza/Conoscenza del presente e invenzione del futuro/Il ruolo della diversità e degli eventi rari/Conclusione 6. Possibilità e realtà tra fisica e biologia di Angelo Marinucci Introduzione/Fisica classica/La meccanica quantistica/La biologia/Conclusioni Bibliografia Gli autori Scienza e filosofia della complessità: Studi in memoria di Aldo Giorgio Gargani, a cura di: Angelo Marinucci, Stefano Salvia, Luca Bellotti, Carocci, Roma, 2020 Abstract Il volume raccoglie i contributi, ampiamente elaborati, presentati al convegno Possibilità al di là della determinazione. Matematica, fisica e filosofia della complessità, tenutosi all’Università di Pisa in memoria di Aldo Giorgio Gargani. Dello studioso scomparso nel 2009 sono ben noti gli interessi filosofici per la questione, nata nella fisica moderna e in altri saperi, dell’emergere – in sistemi complessi – di possibilità che vanno, irriducibilmente, al di là della determinazione.Aldo Giorgio Gargani. Gargani.  Keywords: Eurialo e Niso; ovvero, dell’empatia, scambio, organisazzione condivisa – communicazione – implicatura come condivisa – empatia – d. f. pears --. Mcguinness, Gargani on Grice – ragione – Treccani -- -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gargani” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51758901736/in/dateposted-public/

 

Grice e Garin – filosofia italiana – Luigi Speranza (Rieti). Filosofo. Grice: “Garin is a serious student of what we may call the longitudinal, rather than latitudinal, unity of Italian philosophy! If ever there is one!” --  Italian philosopher, author of a very rich, “La cultura filosofica del rinascimento italiano.” And “L’umanesimo italiano”Grice was Lit. Hum. Oxon, so he knew. Linceo. Studia sotto Limentani. Frequenta il Liceo classico Galileo. Si laurea sotto Limentani. Vari studi sull'Illuminismo che confluiranno nel volume sui moralisti inglesi. Subito dopo la laurea sostenne e vinse il concorso per insegnare nei licei, cosa che continuò a fare fino a quando vinse la cattedra da ordinario all'università. Tra i commissari del concorso liceale c'era Guzzo, una figura che costituirà un punto di riferimento per Garin quanto meno fino ai primi anni del dopoguerra. I suoi riferimenti culturali non erano costituiti da intellettuali e politici come Gramsci, ma da filosofi di matrice spiritualista e cattolica come Lavelle,  Senne, Castelli Gattinara di Zubiena, Michele Federico Sciacca e lo stesso Guzzo. Iscritto al Partito Nazionaledal 1931, pronuncia al Lyceum di Firenze una commemorazione a Gentile. Una svolta nelle prospettiva politica, filosofica e storiografica (le tre cose non vanno separate) si ha con l'uscita dei Quaderni del carcere di Gramsci, che hanno fortemente influenzato la sua filosofia nel costante riferimento alla concretezza del pensiero, e con la pubblicazione delle Cronache di filosofia italiana”, fortemente sollecitato da Laterza. Storico della filosofia molto legato al rigore filologico e al lavoro sui testi, rifiuta la definizione di filosofo; è tuttavia considerabile tale proprio in virtù delle sue polemiche anti-speculative e come influente teorico della storiografia filosofica. Insegna a Firenze. Si ttrasferì a Pisa a causa dei perduranti disordini della rivolta studentesca iniziata nel '68, di cui non condivideva le modalità di lotta e che considerava espressione di astratto rivoluzionarismo.  La sua infaticabile avidità di letture filosofiche lo rese consigliere prezioso. L’Accademia dei Lincei gli ha conferito il Premio Feltrinelli per la Filosofia. Altre opere: “Giovanni Pico della Mirandola. Vita e dottrina”; “Gli illuministi inglesi. I Moralisti; “Il Rinascimento italiano”; “L'Umanesimo italiano”; “Medioevo e Rinascimento”; “Cronache di filosofia italiana”; “L'educazione in Europa”; “La filosofia come sapere storico”; “La filosofia nel Rinascimento italiano”; “La cultura italiana tra Ottocento e Novecento”; “Scienza e vita civile nel Rinascimento italiano”; “Storia della filosofia italiana”; “Dal Rinascimento all'Illuminismo”  “Filosofi italiani”; “ Rinascite e rivoluzioni”; “Lo zodiaco della vita”; “Tra due secoli”; “Cartesio”; “L’Ermetismo del Rinascimento”; “Gli editori italiani tra Ottocento e Novecento”; “La cultura del Rinascimento”. Ciò non toglie che l'importanza della interpretazione del Rinascimento che Garin ci dà nei suoi scritti e ci documenta nelle sue edizioni, pubblicazioni, finissime traduzioni di testi umanistici di ogni tipo (filosofico, politico, critico, letterario) possa essere, senza iperbole, confrontata con l'importanza della evocazione del Burckhardt» in Cantimori, Studi di storia, Torino, Einaudi, la Repubblica, Mecacci L., La Ghirlanda fiorentina e la morte di Giovanni Gentile, Adelphi, Milano, su lincei. Fondo Eugenio Garin, Il percorso storiografico di un maestro, Firenze, Le Lettere, Marino Biondi, Dopo il diluvio. Eugenio Garin, l'ombra di Gentile e i bilanci della filosofia, in Un secolo fiorentino, Arezzo, Helicon,,Olivia Catanorchi e Valentina Lepri, Dal Rinascimento all'Illuminismo (Atti del convegno Firenze), Roma, Edizioni di Storia e Letteratura,. Michele Ciliberto, Eugenio Garin. Un intellettuale nel Novecento, RomaBari, Laterza,. Raffaele Liucci, Quelle ombre sul delitto Gentile in "Treccani Magazine", La Ghirlanda fiorentina e la morte di Giovanni Gentile, Adelphi, Milano, "Il Gramsci di Eugenio Garin", in Archetipi del Novecento. Filosofia della prassi e filosofia della realtà, Napoli, Bibliopolis, Umanesimo e umanesimi. Saggio introduttivo alla storiografia di Garin, Milano, FrancoAngeli, TreccaniEnciclopedie Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Eugenio Garin, su BeWeb, Conferenza Episcopale Italiana. Opere di Eugenio Garin EUGENIO GARIN. LA LEZIONE DI UN MAESTRO *    Negli ultimi anni della sua vita, quando con ritrosia era portato a far¬  ne un sobrio bilancio, Eugenio Garin insisteva a dire di essere stato so¬  prattutto un insegnante. «Ho sempre insegnato», ripeteva. E insegnante lo  era stato da giovanissimo, appena ventenne, dei giovani della scuola di  avviamento al lavoro di Fucecchio, delle ‘ragazze di buona famiglia’ delle  Mantellate di Firenze, alle quali faceva lezione sorvegliato, giovinetto tra  giovinette, da una severa suorina, dei suoi quasi coetanei del Liceo Can-  nizzaro di Palermo, ventiduenne nel 1931, poi di quelli del Liceo scien¬  tifico Leonardo da Vinci di Firenze, mentre, precoce in tutto, sostituiva  uno dei suoi maestri, Francesco De Sarlo, neH’insegnamento universita¬  rio di Filosofia teoretica nel 1935, appena ventiseienne. Aveva, insomma,  sempre insegnato e, come si dice, in ogni ordine di scuola dall’università  in giù. Non saprei dire di Garin insegnante di liceo. Vorrei dire solo qual¬  cosa di Garin docente universitario. Credo che ognuno possa sostenere, e  con ragione, di aver conosciuto e di aver avuto un suo Garin. Non già  perché egli avesse la facoltà di adattarsi a chi per dovere o per diletto lo  volesse ascoltare. Anzi. Ma perché ciascuno era messo in grado di reagire  a quell’incontro con il proprio carattere, con la propria formazione, con    * Nel dicembre del 2004 è scomparso Eugenio Garin. Al maestro fiorentino e alla sua  opera la Biblioteca Roncioniana aveva dedicato un convegno nel 2002 (cfr. Giornata di studi,  omaggio a Eugenio Garin, «Bollettino Roncioniano», II, 2002, pp. 45-47; del convegno sono poi  usciti gli atti: Eugenio Garin. Il percorso storiografico di un maestro del Novecento, a cura di F. Audisio  e A. Savorelli, Firenze, Le Lettere, 2003). Pubblichiamo qui un ricordo di Garin, che Maurizio  Tonini ha letto neha cerimonia svoltasi in Palazzo vecchio il 12 gennaio febbraio 2005, aha qua¬  le sono intervenuti il Sindaco di Firenze, Leonardo Domenici, Massimo Cacciali, Michele Ci¬  liberto, Mario Luzi e Paolo Rossi. Il testo è apparso neha brochure Per Eugenio Garin, Napoli,  Bibliopoli, 2055, edita a cura di Maurizio Tonini e Francesco Del Franco, che si ringraziano  per averne acconsentito la ristampa in questa sede.     6    Maurizio Tonini    le proprie attese. In altre parole egli non intendeva plasmare l’ascoltatore,  ma solo offrire occasioni, occasioni cui ognuno doveva e poteva rispon¬  dere a suo modo, liberamente. Non che il suo insegnamento fosse univo¬  co, uguale dappertutto e per tutti: era un insegnante troppo navigato per  sapere che una cosa era far lezione agli studenti di Lettere e filosofia assie¬  me, un’altra ai soli filosofi, come ci chiamava, un’altra cosa ancora ai lau¬  reati e laureandi.   Sapeva bene che era diverso rivolgersi ai colleghi in un convegno di  studio, o parlare in una casa del popolo, oppure rivolgersi a tutti, ai citta¬  dini, come spesso gli è capitato proprio qui nel Palazzo Vecchio della sua  Firenze. Cambiavano i contenuti, mutavano i toni, mai il carattere, l’alta  professionalità, medesima sempre la passione. Eugenio Garin non ha mai  spezzettato il pane della cultura: ovunque, o a chiunque avesse da parlare  o da insegnare, lo sconosciuto studente che si presentava all’esame, l’ami¬  co e collega, lo studioso straniero, il giovane laureato, tutti meritavano  sempre la stessa attenzione, il medesimo trattamento. Sì che nella sua pro¬  duzione letteraria le conferenze lincee e le lezioni al Collège de France  stanno insieme agli scritti, diciamo, d’occasione, senza che il lettore ne  colga, se non con l’aiuto di riferimenti bibliografici, la loro provenienza e  la loro destinazione.   Niente gli era più alieno, fisicamente e metaforicamente, dell’espres¬  sione ‘prendere per mano’. Garin non prendeva per mano nessuno: apri¬  va un libro, i cui capitoli andava narrando di volta in volta. Un libro sem¬  pre nuovo. Per chi sapeva apprezzarlo, quel libro conduceva a altri libri,  poi a una collana, infine a una biblioteca, spesso la sua. Un libro somi¬  gliante a quello di un autore a lui carissimo, Laurence Sterne, La vita e le  opinioni di Tristram Shandy, fatto di parentesi, di divagazioni apparenti, di  vie traverse che sembrano far perdere di vista il contenuto promesso fino  a farlo dimenticare, ma che in realtà indicano tutto ciò che è necessario  per cominciare, più tardi altrove, la lettura. Come in un libro ciascuno,  per proprio conto, doveva specchiarvisi, trovarvi, se volete, la propria  strada, senza ammiccamenti né scorciatoie. E come con un libro, ciascu¬  no instaurava con lui un rapporto individuale: per quanto paradossale, la  sua lezione non consentiva alcuna lettura corale, alcuna possibilità di di¬  spense, alcuna versione ufficiale.   Considerava la cultura, lo ha scritto, la «conquista di una più profon¬  da coscienza di sé». E l’università era cultura. In questo senso il suo non è  mai stato un insegnamento demagogicamente democratico, né si è mai  considerato un missionario, né ha considerato il proprio lavoro una mis¬  sione. Piuttosto un funzionario, come amò talora definirsi, civettando  con il motivo del trasferimento della sua famiglia a Firenze, che assicurava    Eugenio Garin. La lezione di un maestro    7         8    Maurizio Tonini    un viaggio su un treno sicuro, tecnicamente aggiornato, ben condotto,  ma che, al pari di un capotreno, non era, e non si considerava, poi re¬  sponsabile se i viaggiatori scendevano alle stazioni intermedie e prende¬  vano altre direzioni. Non credo si sia mai sentito coinvolto nelle scelte al¬  trui, né voleva esserlo. Non si prestava, pur avendone le doti, a essere il  pifferaio fascinatore di candide giovinette e di timidi giovinotti. Lo  avrebbe considerato un tradimento, un traviamento del suo compito, che  era appunto, e solo, quello di insegnare la filosofia, di insegnare a capirne  la storia, di fare cultura, ma sempre altro da convincere o da portare su  una strada che non fosse già in qualche modo segnata, e segnata indivi¬  dualmente, in chi lo ascoltava.   Un pescatore anche, ma un pescatore che gettava reti larghe e pro¬  fonde nelle quali si aspettava che i pesci entrassero spontaneamente, mai  che venissero catturati. I suoi pesci erano e dovevano essere studenti ma¬  turi — non venivano infatti da un esame che ne aveva certificato proprio  la maturità? — che egli considerava suoi pari, almeno per quel che riguar¬  da il cartesiano bori sens, la bona mens, la cosa più diffusa e più equamente  distribuita tra gli uomini, sì che la differenza tra lui e noi riguardava, ga¬  lileianamente, l’estensione del sapere, non la capacità di comprendere. Il  severo, severissimo Garin, che tanto spaventava le matricole, era un be¬  nevolo confessore dell’ignoranza dei suoi studenti. E quelli più maturi  imparavano subito che la migliore risposta alle domande che fioccavano  in aula era quella di confessarla subito quella ignoranza, anche quando si  era quasi sicuri della risposta (ma chi era sicuro di fronte a Garin?).   Certo, quell’estensione del sapere costituiva una barriera, una diffe¬  renza di cui era consapevole lui e consapevoli noi, una barriera quantita¬  tiva, ci faceva credere, scalabile e riducibile, quasi come una differenza di  età, mai come un’inattingibile diversità, che mai si trasformava in pater¬  nalistica condiscendenza. Quella barriera si sgretolava nella generosa di¬  sponibilità a fornire indicazioni e libri, al reiterato prestarsi a spiegare non  solo le tematiche del proprio corso, ma a offrirsi di guidare piccoli gruppi  alla lettura dei testi (Hegel, Kant o Husserl) dei corsi di altri colleghi che  ci risultassero particolarmente difficili. Il grande intellettuale non dimen¬  ticava in nessuna occasione la sua professione: non solo nel rigido adem¬  pimento dei suoi obblighi di docente, nella proverbiale puntualità, nella  scrupolosa preparazione dei corsi (i ‘bauli’ di libri che partivano anzitem¬  po per la montagna), nella paziente e tanto prodiga lettura dei capitoli  delle tesi di laurea, nella curiosità con cui ogni anno rinnovava l’incontro  con i suoi giovani interlocutori. Aveva trasformato una precoce vocazio¬  ne in una professione, in un affetto per il proprio lavoro, prima ancora  che per chi dovesse usufruirne, in una disciplina che scherzosamente at-    Eugenio Garin. La lezione di un maestro    9    tribuiva alle lontane origini savoiarde, ma che forse è la chiave per coglie¬  re la sua straordinaria e mai dismessa operosità, la freschezza di ogni suo  intervento.   Eugenio Garin non è mai stato altro che un insegnante: poche, mo¬  deste e occasionali le cariche accademiche, nelle quali emergevano un’in¬  sofferenza e una scontrosità imprevedibili nel professore, altrettanto rare  quelle istituzionali o editoriali e solo al termine, o quasi, della sua carriera  scolastica, nessuna, ovviamente, carica politica, in un uomo che aveva,  come sapete, una grande e perdurante passione civile, per la sua scuola,  per la sua città, per il suo paese. Credo che nulla gli sarebbe apparso più  estraneo e spiacevole di esser considerato a capo di qualcosa, fosse un isti¬  tuto, una rivista o una cordata accademica. Di fatto non c’è mai stata una  scuola di Garin, ci sono stati, e ci sono, tanti che hanno studiato e si sono  laureati con lui, che hanno lavorato con lui, che hanno condiviso aspetti  e momenti del suo lavoro, che si sono incontrati con lui, ma niente di  più. Incauti giovinetti, invidiavamo gli allievi di Dal Pra, che il maestro  radunava a S. Margherita o sul lago di Garda, cui apriva la «Rivista critica  di storia della filosofia», la collana del centro milanese di storia del pensie¬  ro scientifico e filosofico. O quelli di Paci, che si ritrovavano su «aut aut»,  che si incontravano nelle edizioni del Saggiatore, ricordavamo e ricono¬  scevamo quelli di Banfi o quelli emergenti di Geymonat, che attendeva¬  no a imponenti opere collettive, e tanti altri che andavano sorgendo vi¬  cino e lontano. Garin non aveva nulla: non ha mai diretto opere colletti¬  ve, non ha mai organizzato convegni né li ha fatti organizzare, mai colla¬  ne editoriali. Quando ciò è avvenuto, in tarda età, con l’Istituto  Nazionale del Rinascimento o con il «Giornale critico della filosofia ita¬  liana», tutto si è potuto e si può dire, fuori che fossero espressioni di una  scuola o di un gruppo che in lui si riconoscesse o che in lui fosse ricono¬  scibile. Neanche quando alla Scuola Normale di Pisa gli si è offerta l’op¬  portunità di cogliere ancora una volta una straordinaria e entusiasta messe  di giovani studiosi, è venuto meno il carattere del suo insegnamento. Lì,  come in S. Marco e poi in Piazza Brunelleschi, non ha mancato di offrire  opportunità, un’occasione irripetibile, anzi, generosamente resa disponi¬  bile, ma sempre e solo per chi aveva modo e voglia di coglierla e di rea¬  lizzarne le potenzialità, ma lasciando a ciascuno la libertà di decidere, di  interpretare quell’incontro, di farne ciò che voleva. Il severo Garin non  rimproverava mai: non gli sarebbe mai venuto in mente di riprenderci,  come capitava al suo amico e collega Cantimori o al più giovane Ragio¬  nieri, se mancavamo a una seduta di seminario e venivamo sorpresi in bi¬  blioteca o, peggio, al bar. Ma neppure gli sarebbe venuto in mente di    10    Maurizio Tonini    portarci nello stesso bar a prendere un aperitivo o un caffè, come capitava  spesso con Cantimori e occasionalmente con Ragionieri.   Non voleva essere né un padre, né un maestro di vita. Non credo  neppure che volesse additarci un modello: era piuttosto una lezione di  maturità, di piena e consapevole democrazia intesa come rigoroso rispet¬  to dei ruoli, quella a cui ci chiamava, e che per molti era anche la prima.  Il suo dovere era quello di insegnare, del nostro dovevamo rispondere  noi. Scendeva dalla cattedra per aiutarci a leggere un testo, per offrirci  un’indicazione, per mostrarci un passo di un libro, sedeva tra noi a discu¬  tere di Cartesio o di Platone, e la lezione poteva proseguire nella Biblio¬  teca di Facoltà, o vicino ai tavoli della Nazionale o tra i libri di Seeber, ma  senza mai abdicare alla sua funzione: non sarebbe mai sceso a discutere  con noi il corso dell’anno seguente, la sua organizzazione, le sue modali¬  tà. A ciascuno il suo. Non discuteva le nostre scelte di vita, i propositi di  lavoro, le carriere. Li considerava su un altro piano, nel quale l’insegnante  non doveva né poteva intromettersi: li accettava. Al massimo inarcava le  ciglia, come nei lavori che gli sottoponevamo, e abbiamo continuato a  sottoporgli, quando un impercettibile segno di lapis segnalava i dubbi e  gli errori di sintassi. Cittadino di forti passioni civili, le lasciava tutte,  fuorché quella di insegnare, fuori dall’aula. Era facile sapere come la pen¬  sava, lo leggevamo su «Paese sera», su «l’Unità», su «Rinascita», lo segui¬  vamo nelle Case del popolo, al Circolo di cultura, ma non si è mai inne¬  scata, con lui, una forma qualsiasi di intesa, di complicità, oserei dire, che  prescindesse da quella unica e prevalente di insegnante e studente.   Garin ci ha lasciato centinaia, migliaia di pagine in cui ci ha insegnato  come ricostruire figure di pensatori grandi e piccoli, da Elia Astorini a  Cartesio, da Antonio Cittadini a Giovanni Pico della Mirandola. Ha ri¬  costruito squarci del nostro passato culturale e civile, da Croce a Gentile,  da Gramsci a Labriola, da Gino Capponi a Pasquale Villari, ci ha dato testi  e momenti del nostro passato filosofico che hanno costituito e costitui¬  scono un’eredità operante, viva e vitale per ognuno che voglia fare una  professione simile alla sua. Non ci ha potuto lasciare, ed è purtroppo destinato a perdersi, quello che gli pareva più importante: la sua lezione.   Mi accorgo, nel concludere, di aver ricordato una scuola, un’università che non c’è più. Non saprei dire se l’attuale, nella quale molti di noi si  trovano ora, sia migliore o peggiore di quella. Mi auguro, e lo auguro so¬  prattutto ai più giovani, di potervi incontrare ancora un insegnante come  Eugenio Garin. L'insidia  implicita  nel  concetto  stesso  di  genere  letterario  ha  non  di  rado  contribuito  a  falsare  la  prospettiva  necessaria  a  ben  collocare  la  produzione  in  prosa  latina  del  grande  secolo  deH'Umanesimo.  Eta  in  cui  vennero  predominando  preoccupazioni  critiche,  in  cui  tutta  I'attivita  spirituale  era  impegnata  a  costruire  una  respublica  terrena,  degna  pienamente  dell'uomo  nobile,1  il  Quattrocento  trovo  la  sua  espressione  piu  alta  in  opere  di  contenuto  in  largo  senso  moralistico  e  di  tono  retorico,  in  cui  non  solo  si  consegnava  un  modo  nuovo  di  concepire  la  vita,  ma  si  difendeva  e  si  giustifi-  cava  polemicamente  un  atteggiamento  originale  in  ogni  suo  tratto.  Per  questo  chi  voglia  andar  cercando  le  pagine  esemplari  del-epoca,  le  piu  profondamente  espressive,  dovra  rivolgersi,  non  gia  a  testi  per  tradizione  considerati  monumenti  letterari,  ma  alle  opere  in  cui  veramente  si  manifest6  tutto  1'impegno  umano  della  nuova  civilta.  Cosi,  mentre  chi  prenda  a  scorrere  novelle  umani-  stiche  non  potra  non  uscir  deluso  da  talune,  piu  che  imitazioni,  traduzioni,  o  meglio  raffazzonamenti,  di  modelli  boccacceschi,  quali  troviamo,  tanto  per  esemplificare,  in  un  Bartolomeo  Fazio,  pagine  di  insospettata  bellezza,  capaci  di  colpire  ogni  piu  raffi-  nata  sensibilita,  ci  si  fanno  incontro  nei  trattati  e  nei  dialoghi  di  Poggio  Bracciolini,  e  perfino  nelle  opere  di  un  filosofo  di  profes-  sione,  dalPandamento  talora  scolasticizzante,  qual  &  Marsilio  Fi-  cino.  E  proprio  il  Ficino  della  Theologia  platonica,  presentando  gli  uomini  travagliati  dalla  malinconia  della  vita  e  desiderosi  che  tutto  sia  un  sogno  (wforsitan  non  sunt  vera  quae  nunc  nobis  ap  parent,  forsitan  in  praesentia  somniamus»),2  defmisce  nei  suoi  par-  ticolari  espressivi  un  tema  di  larghissima  risonanza  in  tutta  la  letteratura  europea.  Sempre  il  Ficino,  nel  Liber  de  Sole,  pur  para-  frasando  talora  Torazione  famosa  dell'imperatore  Giuliano,  fissa  i  momenti  di  quella  «lalda  del  sole))  che,  attraverso  Leonardo  da  Vinc,  arriva  fino  alPinno  ispirato  di  Campanella.  Leonardo  ri-  manda  esplicitamente  all'apertura  del  terzo  libro  degli  Inni  na-  turali  del  Marullo;  ma  chi  veramente,  ancora  una  volta,  in  una  prosa  di  grandissimo  impegno,  ci  offre  tutti  i  temi  di  quella  so-   i.  «L'omo  nato  nobile  e  in  citt&  libera»-  come  diii  Alessandro  Piccolo-  mini.  2.  FICINO,  Opera,  Basileae,  per  Henricum  Petri,  1576,  vol.  i,  pp.  315-17  (Theol  plat.,  xiv,  7).   lenne  preghiera  di  ringraziamento  alia  fonte  di  ogni  vita  e  di  ogni  luce,  e  proprio  Ficino.  Del  quale  e  la  non  dimenticabile  raffigu-  razione  di  una  tenebra  totale,  ove  e  spento  ogni  astro,  che  fascia  lungamente  i  viventi,  finche  di  colpo  il  cielo  si  apre  per  mo-  strare  colui  che  e  sola  forma  visibile  del  Dio  verace.  E  ficiniana  e  1'opposizione  del  carcere  oscuro  e  della  luce  di  vita,  della  te  nebra  di  morte  e  dei  germi  rinnovellati  dalla  luce  e  dal  calore  solare,  in  cui  si  articolera  il  metro  barbaro  di  Campanella.   Ma  per  rimanere  agli  scritti  di  un  medesimo  autore,  Leon  Bat-  tista  Alberti,  non  grande  imitatore  del  Boccaccio,  raggiunge  in-  vece  la  sua  piena  efficacia  quando  costruisce  i  suoi  dialoghi,  e  sa  essere  perfettamente  originale  pur  intessendoli  di  reminiscenze  classiche.  Perfino  la  tanto  celebrata  Historia  de  Eurialo  et  Lucre-  tia  di  Enea  Silvio  perde  tutto  il  suo  colore  innanzi  alle  pagine  dei  Commentarii'*  e  sono  piu  facili  a  dimenticarsi  i  casi  di  Lucre-  zia  che  non  le  stanze  delle  antiche  regine  divenute  nidi  di  serpi,  o  le  porpore  dei  magistrati  romani  rievocate  fra  Tedera  che  copre  le  pietre  rose  dal  tempo,  o  i  topi  che  corrono  la  notte  nei  sotter-  ranei  di  un  convento  e  il  papa  che  caccia  sdegnato  i  monaci  ne-  gligenti.  Per  non  dire  di  quella  feroce  presentazione  dei  cardinali,  fissati  in  ritratti  nitidissimi  con  rapide  Imee  mentre  per  complot-  tare  trasferiscono  nelle  latrine  la  solennita  del  conclave.   Poggio  consegna  a  trattati  di  morale  narrazioni  scintillanti  di  arguzia,  spesso  molto  piu  facete  di  tutte  le  sue  Facezie.  I  mari  di  Grecia  percorsi  sognando  di  Ulisse,  il  fasto  delle  corti  d'Oriente,  le  belve  africane,  i  fiumi  immensi,  «et  per  Nilum  horrifici  illi  anguigeni  crocodiliw,  si  alternano  a  discussioni  erudite  sulle  iscri-  zioni  delle  Piramidi  nelle  lettere  agli  amici  e  nel  taccuino  di  viaggio  di  quel  bizzarro  e  geniale  archeologo  che  fu  Ciriaco  dej  Piz-  zicolli  d'Ancona.  E  forse  ii  grande  Poliziano  ha  scritto  le  sue  pa  gine  piu  belle  nella  prolusione  al  corso  sugli  Analitici  primi  d' Aristotele  e  nella  lettera  alPAntiquario  sulla  morte  del  Magnifico  Lorenzo.  Lettere  dialoghi  e  trattati,  orazioni  e  note  autobiografi-  che,  sono  i  monumenti  piu  alti  della  letteratura  del  Quattro  cento,  e  tanto  piu  efficaci  quanto  meno  1'autore  si  chiude  nelle   i.  «La  novella  era  un  genere  troppo  definite,  troppo  condizionato  nelle  sue  linee  essenziali  da  una  tradizione  ormai  piu  che  secolare,  perche  il  Piccolomini  potesse  eluderne  il  colorito  e  gli  schemi»  (G.  PAPARELLI,  Enea  Silvio  Piccolomini,  Bari,  Laterza,  1950,  p.  94).  forme  tradizionali,  quanto  piii  si  impegna  nel  problema  concrete  che  lo  preoccupa,1  o  si  accende  di  passione  politica  nel  discorso  e  nell'invettiva,  o  si  dimentica  nella  confessione  e  nella  *lettera.   Poliziano,  che  della  produzione  letteraria  del  suo  tempo  fu  il  critico  piu  accorto  e  consapevole,  e  che  ha  dichiarato  con  grande  precisione  i  suoi  princlpi  dottrinali  nella  prefazione  ai  Miscellanea,  nella  lettera  al  Cortese  e,  soprattutto,  nella  grande  prolusione  a  Stazio  e  Quintiliano,  ha  visto  molto  bene  come  alPumanesimo  fossero  intrinsiche  particolari  maniere  espressive.  Proprio  nelle  prime  lezioni  del  suo  corso  sulle  Selve  di  Stazio,  con  la  cura  mi-  nuta  che  gli  era  propria,  si  sofferma  a  dissertare  abbastanza  a  lungo  intorno  a  due  forme  letterarie  tipiche,  Fepistola  e  il  dia-  logo,2  accennando  insieme  al  genere  oratorio,  da  cui  gli  altri  due  si  distaccano  pur  non  senza  svelare  un'intima  parentela.  L'epi-  stola  —  egli  dice  —  e  il  colloquio  con  gli  assenti,  siano  essi  lon-  tani  da  noi  nello  spazio  oppure  nel  tempo:  e  vi  sono  due  specie  di  lettere,  scherzose  le  une,  gravi  e  dottrinali  le  altre  («altera  ociosa,  gravis  et  severa  altera))).3  Ma  1'epistola  deve  essere  sempre    i.  In  una  compilazione  erudita  come  i  Dies  geniales  di  Alessandro  d'Ales-  sandro  la  discussione  filologica  si  inserisce  con  eleganza  fra  il  « ritratto»  e  il  «ricordo»  senza  togliere  a  questi  alcuna  grazia,  cosi  che  la  discus  sione  di  un  testo  classico  si  colloca  nella  descrizione  di  un  compleanno  del  Pontano  o  di  una  cena  di  Ermolao  Barbaro,  o  fa  seguito  a  una  lezione  romana  del  Filelfo  (cfr.  BENEDETTO  CROCE,  Varietd  di  storia  letteraria  e  civile,  n,  Bari,  Laterza,  1949,  pp.  26-33).  2.  A  proposito  del  dialogo  e  dell'epistola  come  forme  caratteristiche  dell'Umanesimo  e  da  vedere  quan  to  dice  WALTER  RttEGG,  Cicero  und  der  Humanismus,  Formate  Untersuchun-  gen  iiber  Petrarca  und  Erasmus,  Zurich,  Rhein-Verlag,  1946,  pp.  25-65,  anche  se  a  proposito  della  sua  tendenza  a  ricondurre  tutto  a  Cicerone  e  da  tener  presente  la  nota  che  Croce  stese  appunto  sull'opera  del  Rxiegg  (Mommsen  e  Cicerone,  in  Varietd  cit.,  pp.  1-12).  3.  II  com-  mento  del  Poliziano  e  nel  ms.  Magliab.  vn,  973  (Bibl.  Naz.  Firenze).  II  testo  in  questione  e  a  c.  4V-5V  («est  ergo  proprie  epistola,  id  quod  ex  Ciceronis  .  .  .  verbis  colligimus,  scriptionis  genus  quo  certiores  fa-  cimus  absentes  si  quid  est  quod  aut  ipsorum  aut  nostra  interesse  arbitremur.  Eiusque  tamen  et  aliae  sunt  species  atque  multiplices,  sed  duae  praecipuae  .  .  .  altera  ociosa,  gravis  et  severa  altera.  Atqui  neque  omnis  materia  epistolis  accommodata  est...  Brevem  autem  concisamque  esse  oportet  simplicis  ipsius  rei  expositionem,  eamque  simplicibus  verbis.  Multas  epistolae  inesse  convenit  festivitates,  amoris  significationes,  multa  proverbia,  ut  quae  communia  sunt  atque  ipsi  multitudini  accommodata.  Qui  vero  sententias  venatur  quique  adhortationibus  utitur  nimiis,  iam  non  epistolam,  sed  artificium  oratorium  .  .  .  Epistola  velut  pars  altera  dia-  logi.  .  .  maiore  quadam  concinnatione  epistola  indiget  quam  dialogus  .  .  .  imitatur  enim  hie  extemporaliter  loquentem  .  ..  at  epistola  scribitur»).    XII  INTRODUZIONE   breve  e  concisa,  semplice,  con  semplici  espressioni,  ricca  di  brio,  di  affettuosita,  di  motti,  di  proverbi  (amulta  proverbia,  ut  quae  communia  sunt  atque  ipsi  multitudini  accommodata»).  Ne  la  lettera  deve  prendere  un  tono  troppo  sentenzioso  e  ammonitorio,  altri-  menti  non  si  ha  piu  una  lettera  ma  una  elaborata  orazione  («iam  non  epistolam,  sed  artificium  oratorium))).  L'epistola  e  come  la  battuta  singola,  e  die  rimane  quasi  sospesa,  di  un  dialogo  («velut  pars  altera  dialogi»),  anche  se  deve  essere  formalmente  piu  cu-  rata  del  dialogo,  che  per  essere  schietto  deve  imitare  ii  discorso  improwisato,  mentre  Tepistola  e  per  sua  natura  discorso  medi-  tato  e  scritto.  In  tal  modo  un  carteggio  viene  ad  essere  un  dia  logo  compiuto  e  vario;  e  non  va  dimenticato  come  proprio  il  cu-  rioso  epistolario  del  Poliziano  ci  offra  un  esempio  caratteristico  di  simili  colloqui.   Non  a  caso,  con  la  sua  grande  sensibilita  critica,  il  Poliziano  batteva  proprio  su  queste  forme:  ad  esse  infatti  si  pu6  ricondurre  quasi  tutta  la  piu  significativa  produzione  latina  in  prosa  del  Quat  trocento,  poiche  anche  il  diario,  il  taccuino  di  viaggio,  si  confi-  gura  di  continue  come  lettera  ad  un  amico.  Cosi,  per  ricordare  ancora  V Itinerarium  di  Ciriaco  d'Ancona,  noi  vi  troviamo  ripor-  tati  di  peso  i  temi  e  le  espressioni  medesime  delle  epistole.1   6  stato  detto,  ma  non  del  tutto  giustamente,  che  «PUmanesimo  fu  una  rivoluzione  formale»;3  in  verita  la  profonda  novita  for-  male  aderiva  esattamente  a  una  rivoluzione  sostanziale  che  fa-  cendo  centro  nella  ((conversazione  civile)),  nella  «vita  civile)),  po-    i.  Itinerarium:  «ego  quidem  interea  magno  visendi  orbis  studio,  ut  ea  quae  iamdiu  mihi  maximae  curae  fuere  antiquarum  rerum  monumenta  undique  terris  diffusa  vestigare  perficiam  .  .  .»;  «Hinc  ego  rei  nostrae  gratia  et  magno  utique  et  innato  visendi  orbis  desiderio  ...»  Epist.  Bo-  ruele  Grimaldo  (ins.  Targioni  49,  Bibl.  Naz.  Firenze):  «cum  et  a  teneris  annis  summus  ille  visendi  orbis  amor  innatus  esset  ...»  Del  resto  tutta  1' opera  di  Ciriaco  e  una  serie  di  variazioni  di  questo  appassionato  motivo:  summus  ille  visendi  orbis  amor,  antiquarum  rerum  monumenta  vestigare,  quae  in  dies  longi  temporis  labe  .  .  .  collabuntur  .  .  .  litteris  mandare.  La  sete  di  conoscere  il  mondo,  il  bisogno  di  vincere  spazio  e  tempo,  di  riconqui-  stare  ogni  piu  lontano  frammento  d'umanita  e  di  sottrarlo  alia  morte,  e  insieme  questo  senso  concrete  del  passato  trovano  in  lui  una  espres-  sione  singolare.  Nella  medesima  epistola  a  Leonardo  Bruni  abbiarno  in  sieme  notizia  di  un'iscrizione  inviata  da  Atene  (ex  me  nuper  Athenis..,)  e  della  difesa  di  Cesare  contro  il  Bracciolini  spedita  dall'Epiro  (ex  Epyro  hisce  nuper  diebus  .  .  .).  2.  Cosl,  appunto,  il  Riiegg,  op.  cit.y  p.  26  («der  Humanismus  ist  eine  formale,  nicht  eine  dogmatische  Revolution»).    INTRODUZIONE  XIII   neva  il  colloquio  come  forma  espressiva  esemplare.1  E  se  la  let-  tera  deve  essere  considerata  velut  pars  altera  dialogi,  Fattenzione  si  polarizza  sul  dialogo:  ed  in  forma  di  dialogo  e  in  genere  il  trat-  tato,  di  argomento  morale  o  politico  o  filosofico  in  senso  lato,  che  rispecchia  la  vita  di  una  umana  respublica  e  traduce  perfetta-  mente  questa  collaborazione  voita  a  formare  uomini  ccnobili  e  li-  beri»,  che  costituisce  1'essenza  stessa  della  humanitas  rinascimen-  tale.  La  quale  celebrandosi  nella  societa  umana  tende  a  persua-  dere,  a  far  culminare  ogni  incontro  in  una  trasformazione  degli  altri  attraverso  una  riforma  interiore  raggiunta  per  mezzo  della  politia  litteraria.2-  Limiti  e  prolungamenti  del  colloquio  ci  appa-  iono  da  un  lato  la  notazione  autobiogranca,  dalTaltro  il  pubblico  discorso,  1'orazione,  che  attraverso  la  polemica  arriva  all'invettiva.  I  cancellieri  fiorentini,  Salutati  e  Bruni,  ci  ofFrono  esempi  insigni  di  questo  intrinsecarsi  di  letteratura  e  politica,  di  questa  prosa  che  deU'efficacia  e  potenza  espressiva  si  fa  un'arma  piu  valida  delle  schiere  combattenti.  La  lode  famosa  di  Pio  II  alia  saggezza  di  Firenze,  e  ai  suoi  dotti  cancellieri  le  cui  epistole  spaventavano  Gian  Galeazzo  Visconti  piu  di  corazzate  truppe  di  cavalleria,  non  e  che  la  proclamazione  del  valore  di  una  propaganda  fatta  su  un  piano  superiore  di  cultura  in  una  societa  educata  ad  acco-  gliere  e  a  rispettare  la  superiorita  della  cultura.  L'incontro  di  po  litica  e  cultura  a  Firenze  e  a  Venezia  ritrova  la  valutazione  della  «retorica»  di  un  Poliziano  e  di  un  Barbaro,  e  giova  a  defimre  un'epoca  che  cercava  i  suoi  titoli  di  nobilta  al  di  fuori  dei  diritti  del  sangue.  La  « virtu»,  che  non  e  certamente  un  bene  ereditato,  e  sempre  intelligenza,  humanitas.,  e  cioe  consapevolezza  e  cultura.  Anche  quando,  nelle  discussioni  non  infrequenti  sulP  argomento,  si  riconosce  il  valore  della  «milizia»,  s'intende  una  sottile  dottrina,  ove  il  valore  personale  del  capo  e  intessuto  di  sapienza.  Federigo  da  Montefeltro  —  e  poco  ci  importa  se  il  ritratto  sia  fedele  —  e  profondamente  addottrinato,  e  sa  che  i  poeti  descrivendo  le  bat-  taglie  possono  divenire  anch'essi  maestri  delParte  della  guerra.  Alfonso  il  Magnanimo  reca  seco  al  campo  una  piccola  biblioteca,  e  pensa  sempre  a  poeti  e  a  filosofi,  e  sa  che  la  parola  bene  ado-  prata,  ossia  veramente  espressiva,  e  piu  potente  di  ogni  esercito.   i.  C'&  appena  bisogno  di  ricordare  che  si  tratta  dei  titoli  delle  opere  di  Matteo  Palmieri  e  del  Guazzo.  2.  E  ancora  il  titolo  di  un'opera  signifi-  cativa,  quella  di  A.  Decembrio  in  cui  si  rispecchia  la  scuola  del  Guarino.  II  suo  motto,  racconta  Vespasiano  da  Bisticci,  era  che  «un  re  non  letterato,  e  un  asino  coronato  ».  II  che  non  significa,  si  badi,  che  ser  Coluccio  fosse  un  vuoto  retore,  o  Alfonso  un  re  da  ser-  mone,  ma  che  la  cultura  era,  essa,  viva  ed  efficace  e  umana,  e  perfetta  espressione  di  una  societa  capace  d'accoglierla.   L'uomo  che  nel  linguaggio  celeb ra  veramente  se  stesso  («l'uomo  si  manifesta  uomo  essenzialmente  nella  parola »),*  come  si  costi-  tuisce  in  pienezza  definendosi  attraverso  la  cultura  (le  litterae  che  formano  la  humanitas),  cosi  raggiunge  ogni  sua  efficacia  mondana  mediante  la  parola  persuasiva,  mediante  la  «retorica»  intesa  nel  suo  significato  profondo  di  medicina  dell'anima,  signora  delle  pas-  sioni,  educatrice  vera  dell'uomo,  costruttrice  e  distruttrice  delle  citta.  Tutto  e,  veramente,  nel  Quattrocento  «retorica)),  sol  che  si  ricordi  che,  d'altra  parte,  «retorica»  e  umanita,  ossia  spiritua-  lita,  consapevolezza,  ragione,  discorso  di  uomini;  perche',  vera  mente,  il  secolo  delPUmanesimo  e  il  Quattrocento,  in  cui  tutto  fu  inteso  sub  specie  humanitatis,  e  humanitas  fu  umano  colloquio,  ossia  tutto  il  regno  delle  Muse  figlie  di  Mnemosine  —  che  e  il  piu  vero  e  il  piii  bello  dei  miti.   Con  semplicita  francescana  frate  Bernardino  da  Siena,  che  ve-  deva  in  ser  Coluccio  un  maestro  e  in  Leonardo  Bruni  un  amico,  scriveva  cristianamente  le  medesime  cose:  «non  aresti  tu  gran  piacere  se  tu  vedessi  o  udissi  predicare  Gesu  Cristo,  san  Paulo,  santo  Gregorio,  santo  Geronimo  o  santo  Ambruogio?  Orsu  va,  leggi  i  loro  libri,  qual  piu  ti  piace  .  .  .  e  parlerai  con  loro,  ed  eglino  parleranno  teco;  udiranno  te  e  tu  udirai  loro».  E,  come  dice  altrove,  le  lettere  ti  faranno  «signore».  II  grande  Valla  par-  lera  di  un  sacramentum\  il  modesto  Bartolomeo  della  Fonte  dira  di  un  divinwn  mimen:  quel  «nume»  che  da  agli  uomini  anozze  e  tribunali  ed  are».2  Per  questo  le  litterae  sono  una  cosa  terri-  bilmente  seria,  e  la  responsabilita  di  un  termine  bene  usato  &  gravissima,  e  non  v'e  posto  per  Fozio.  Per  questo  la  poesia  in  senso  vichiano  e  da  cercarsi  la  dove  si  traducono  e  si  consegnano  i  discorsi  essenziali  per  la  vita  delFuomo.    i.  Cosi  FRANCESCO  FLORA,  Umanesimo,  « Letterature  moderne»,  i,  1950,  pp.  20-21.  2.  Ecco  —  secondo  il  Fonzio  —  quello  che  ottiene  la  parola:  «fidem  inter  se  homines  colere,  matrimonia  inire,  seque  in  una  moenia  cogere  viribus  eloquentiae  compulit».    INTRODUZIONE  XV    II   Per  tal  modo  quella  «poesia»  che  talora  &  lontana  dai  versi  e  dalle  novelle,  e  presente  ed  altissima  nella  pagina  di  un  filosofo  o  nell'appassionata  invettiva  di  un  politico.  La  dolcezza  del  dire  (dulcedo  et  sonoritas  verborum),  la  luce  della  forma  (lux  orationis),  che  si  invoca  per  ogni  espressione  di  vera  umanita,  vuol  far  «poe-  sia»  di  ogni  umano  discorso;  e  nel  momento  in  cui  riesce  a  tanto  toglie  ogni  privilegiato  dominio  alle  dettere  oziose».  Perfino  un  oscuro  erudito  come  Giovanni  Cassi  d'Arezzo  sa  dirci  che  in  tal  modo  nell'eloquenza  si  unificano  tutte  le  umane  attivita,  e  tutto  in  essa  si  umanizza  dawero,  e  non  perche\  come  taluno  ha  fan-  tasticato,  si  celebri  solo  il  letterato  ozioso,  ma  al  contrario  perche  1'uomo  e  presente  in  ogni  momento  dell'agire:  perche,  faccia  egli  il  matematico,  il  medico,  il  soldato  o  il  sacerdote,  sempre  e  in-  nanzitutto  e  uomo,  e  il  suo  sigillo  umano  imprime  ad  ogni  sua  opera  umanamente  esprimendola,  ossia  rivestendola  della  lux  ora-  tionis.*   Di  qui  Fimportanza  centrale  che  vengono  ad  assumere  le  trat-  tazioni  sulla  lingua,  sulla  sua  storia,  sulla  eleganza?  ove  la  discus-  sione  grammaticale  si  trasforma  di  continuo  in  discorso  finissimo  di  estetica:  e  quel  trapassare  dal  vocabolario,  e  magari  dal  reper-  torio  ortografico  —  basti  pensare  al  Perotto  o  al  Tortelli  —  nel-  Panalisi  critica  e  nella  dissertazione  storica.  Mentre,  contempo-  raneamente,  la  storia,  che  intende  farsi  vivo  specchio  della  a  vita  civile)),  e  per  eccellenza  eloquente  discorso,  ossia  prosa  politica  e  trattato  pedagogico-morale.  Bellissima  cosa  &  infatti  —  come  af-  ferma  Leonardo  Bruni  —  raccontare  1'origine  prima  e  il  progresso  della  propria  citta,  e  conoscere  le  imprese  dei  popoli  liberi  (est  enim  decorum  cum  propriae  gentis  originem  et  progressus,  turn  libe-    i .  « Quasi  unum  in  corpus  convenerunt  scientiae  omnes,  et  rursus  tem-  poribus  nostris  .  .  .  eloquentiae  studiis  studia  sapientiae  coniuncta  sunt»  (da  una  lettera  del  Cassi  al  Tortelli,  contenuta  nel  Vat.  lat.  3908  e  pubbli-  cata  nel  1904  da  G.  F.  GAMURRINI,  Arezzo  e  rUmanesimo,  Arezzo,  Tip.  Cristelli,  1904,  p.  87,  miscellanea  in  onore  del  Petrarca  dell'Accademia  Petrarca).  2.  A  proposito  delle  eleganze  del  Valla  scrivera  il  Cortesi,  De  hominibus  doctis,  ed.  G.  C.  Galletti,  Florentiae,  Giovanni  Mazzoni,  1847,  p.  229:  «  conabatur  Valla  vim  verborum  exprimere  et  quasi  vias  ...  ad  structuram  orationis».    XVI  INTRODUZIONE   rorum  populorum...  res  gestas  cognoscere).1  E  Paolo  Cortesi,  in  quel  felice  dialogo  De  hominibus  doctis  (1490),  che  e  una  vera  e  propria  storia  critica  della  letteratura  del  secolo  XV,  appunto  di-  scorrendo  delle  storie  del  Bruni,  batte  su  questo  incontro  della  verita  con  1'eleganza,  che  e  tutt'uno  con  queH'armonia  di  sapienza  ed  eloquenza  che  Benedetto  Accolti  celebr6  quale  dote  precipua  dei  Fiorentini  e  del  Veneziani  del  suo  tempo  nel  dialogo  De  prae-  stantia  virorum  sui  aevi.   Per  la  stessa  ragione  per  cui  tutto  sembrava  divenir  dialogo,  tutto  anche  e  libro  di  storia;  e  storia  e,  ancora,  colloquio  con  le  eta  antiche,  con  i  grandi  spiriti  del  passato.  II  Bruni  nell'intro-  duzione  ai  Commentarii  confessa  che  la  grande  letteratura  clas-  sica  fa  si  che  i  tempi  lontani  ci  siano  piu  vicini  e  piu  noti  dei  tempi  nostri  (mihi  quidem  Ciceronis  Demosthenisque  tempera  multo  magis  nota  videntur  quam  ilia  quae  fuerunt  iam  annis  sexaginta),  e  dichiara  che  e  compito  della  storia  immettere  nella  nostra  vita  e  nel  nostro  colloquio  il  passato,  farlo  vivo  con  noi  (quasi  picturam  quondam  .  .  .  viventem  adhuc  spirantemque).  Matteo  Palmier  i  in-  nanzi  alia  vita  di  Niccol6  Acciaiuoli  ci  insegna  che  la  storia  e  una  specie  di  immortalita  terrena  di  quanto  in  noi  e,  appunto,  vita  mondana;  la  storia  &  culto  e  salvezza  di  quella  parte  mortale  che  le  lettere  redimono  da  morte  dilatando  la  societk  umana  oltre  i  limiti  del  tempo  e  salvandola  dalPoblio  e  dal  destino.2    Ill   Si  aprono  qui,  tuttavia,  a  proposito  della  prosa  latina,  due  que-  stioni  fra  loro  strettamente  connesse  e  che  sembrano  in  qualche  modo,  gia  nella  loro  impostazione,  venir  contrastando  con  quei   i.  Cosi  nel  De  studiis  et  litteris  (in  HANS  BARON,  Leonardo  Bruni  Aretino  hu-  manistisch-philosophische  Schriften,  Leipzig,  1938,  p.  13).  Una  giusta  valuta-  zione  delPopera  storica  del  Bruni  presenta  B.  L.  Ullman,  Leonardo  Bruni  and  humanistic  historiography,  « Medievalia  et  Humanistica »,  1946,  4,  pp.  44-61  (e,  per  quanto  si  e  sopra  osservato  su  retorica,  politica  e  storia,  son  da  vedere  i  tre  saggi  di  HANS  BARON,  Das  Erwachen  des  historischen  Denkens  im  Humanismus  des  Quattrocento,  «Hist.  Zeitschrift»,  vol.  147,  1933;  di  NICOLAI  RUBINSTEIN,  The  Beginnings  of  Political  Thought  in  Florence:  A  Study  in  Mediaeval  Historiography,  « Journal  Warburg  Inst. »,  v,  1942;  di  DELIO  CANTIMORI,  Rhetoric  and  Politics  in  Italian  Humanism,  «Journ.  Warburg  Inst.»,  i,  1937).  2.  « Corpoream  vero  partem  non  om-  nino  negligendam  ducunt,  sed  tamquam  suam  in  terra  recolendam,  ideo-  que  desiderant  illam  oblivioni  et  fato  praeripere  ...»    INTRODUZIONE  XVII   caratteri  stessi  che  si  sono  voluti  definire:  come,  infatti,  parlare  della  «umanita»  di  una  produzione  che  si  serviva  di  una  lingua  che  nessuno  ormai  usava  e  che,  dunque,  gia  nel  mezzo  espres-  sivo  poneva  come  suo  canone  Timitazione;  in  che  modo  una  let-  teratura  mimetica,  ricalcata  su  modelli  (cciceroniani»,  poteva  ol-  trepassare  i  limiti  della  erudizione  ?  Ma  i  due  gravi  problemi,  del  latino  umanistico  e  della  imitazione  classic,  gia  tanto  dibattuti,  hanno  oramai  offerto  anche  1'avvio  a  una  soluzione.   Quanto  infatti  si  obbietta  intorno  alPuso  del  latino,  in  luogo  del  volgare,  e  ad  una  presunta  frattura  che  si  opererebbe  rispetto  alia  tradizione  trecentesca,  deve  essere  corretto  con  Posservazione  che  i  generi  di  prosa  a  cui  ci  riferiamo  —  orazioni,  trattati,  epi-  stole  politiche,  dialoghi  dottrinali  —  avevano  sempre  fatto  uso  del  latino.  Non  e  quindi  esatto  dire  che  da  un  presunto  uso  del  vol  gare  si  torna  al  latino;  e  vero  invece  che  al  latino  medievale  defi  nite  barbarico,  e  cioe  goto  o  parigino,  si  oppone  un  altro  latino  che  si  determina  e  si  definisce  rispetto  ai  modelli  classici.  II  quale  latino,  che  si  dichiara  —  come  dice  esplicitamente  il  Platina1  —  integrate  da  tutta  la  piu  feconda  tradizione  postciceroniana,  ivi  compresi  i  Padri  della  Chiesa,  intende  rivendicare  i  diritti  di  una  lingua  nazionale  romana  contro  Puniversalita  di  un  gergo  scola-  stico  (lo  stile  parigino),  ed  innanzi  tutto  nel  campo  di  una  pro-  duzione  costantemente  espressa  in  latino.  Giustamente  il  De  San-  ctis  sottolineava  la  frase  del  Valla  che  proclama  lingua  nostra  il  latino  vero,  che  si  contrappone  al  latino  gotico  delFuso  medie  vale.  La  quale  « nostra  lingua  romana»  degli  umanisti,  che  si  pre-  cisa  con  caratteri  propri  cosi  rispetto  al  latino  classico  come  a  quello  barbaro,  va  vista  per  quello  che  essa  veramente  e,  anche  rispetto  al  volgare:  «un  nuovo  latino,  in  cui  la  complessita  antica  cede  il  posto  alia  scioltezza  moderna)).  II  latino  degli  umanisti,  lingua  veramente  viva  che  aderisce  in  pieno  a  una  cultura  afTer-  matasi  attraverso  una  consapevolezza  critica  che  si  collocava  chia-  ramente  nel  tempo  defmendo  i  propri  rapporti  cosl  col  mondo  antico  come  con  il  Medioevo;  il  latino  deigrandi  umanisti,  lungi  dal  rappresentare  una  battuta  d'arresto  o  un  momento  di  invo-   i.  Cosi  nella  prefazione  alle  Vite,  che  riportiamo  per  intero.  Rilievi  utili  in  proposito  ha  il  Sabbadini  sia  nella  Storia  del  ciceronianismo  (Torino,  Loescher,  1886),  come  nel  Metodo  degli  umanisti  (Firenze,  Le  Monnier,  1920).    XVIII  INTRODUZIONE   luzione,  si  colloca  nella  storia  stessa  del  volgare.  «I1  latino  inse-  gnava  al  volgare  1'eleganza  la  misura  la  forza  e  1'eloquenza,  e  il  volgare  imprimeva  negli  scritti  latini  degli  umanisti  le  leggi  del  suo  andamento  piano,  della  sua  sintassi  sciolta,  dei  suoi  trapassi  intuitivi,  della  sua  eloquenza  interiore.  »*  Fra  il  latino,  in  cui  si  rispecchia  pienamente  tutto  un  atteggiamento  culturale,  e  il  vol  gare  v'e  una  collaborazione  che  del  resto  si  traduce  quasi  mate-  rialmente  nel  fatto  che  gli  autori  spesso  scrivono  1'opera  loro  in  latino  e  in  italiano.  Non  sempre  si  e  posto  mente  al  fatto  che  dal  Manetti  al  Ficino  gli  stessi  trattatisti,  siano  pur  filosofi,  stendono  anche  in  volgare  le  loro  meditazioni.2  E  come  il  loro  latino  e  davvero  una  lingua  low.,  cosi  il  volgare  che  adoperano  non  e  per  nulla  oppresso  da  una  imitazione  artificiosa  di  modelli  classici.   Giungiamo  cosi  a  quello  che  forse  e  il  punto  piu  delicato  ad  intendersi  dell' atteggiamento  di  questi  quattrocentisti:  Vimita-  zione  degli  antichi.  Che  la  posizione  assunta  dagli  umanisti  ri-  spetto  agli  autori  classici  sia  alimentata  da  una  preoccupazione  storica  e  critica;  che  essi  siano  dei  filologi  desiderosi  innanzi tutto  di  comprendere  gli  autori  del  passato  nelle  loro  reali  dimension!  e  nella  loro  situazione  concreta:  e  cosa  ormai  in  complesso  pa-  cifica.  Ora  gia  questo  defmisce  il  senso  di  quella  imitazione^  che  indica  un  atteggiamento  molto  caratteristico.  L'Accolti  dichiarera  nettamente  la  parita  di  valore  fra  i  nuovi  autori  e  i  classici.  Poli-  ziano  nella  polemica  col  Cortesi,  che  e  un  testo  capitale,  confu-  tera  tutte  le  istanze  del  ciceronianismo,  e  proclamera  il  valore  di  un'intera  tradizione  aff errata  nel  suo  sviluppo,  riven dicando  il  senso  di  tutto  il  periodo  piu  tardo  della  letteratura  romana  («  neque  autem  statim  detenus  dixerimus  quod  diversion  sit»).  Ma  dira  so-  prattutto  1'enorme  distanza  fra  una  poesia  che  fiorisce  come  li-  bera  creazione  su  una  cultura  meditata  e  fatta  proprio  sangue,  e  I'imitazione  pedestre  —  ilia  poetas  facit,  haec  simias.3   1.  RAFFAELE  SPONGANO,  Un  capitolo  di  storia  della  nostra  prosa  d'arte  (La  prosa  letteraria  del  Quattrocento),  Firenze,  Sansoni,  1941,  p.  3,  p.  10  ecc.   2.  E  cosi  sono  spesso  notevoli  le  version!  di  scrittori  celebri  come  lati-  nisti:  TAurispa  che  traduce  Buonaccorso  da  Montemagno,  Donate  Ac-  ciaiuoli  che  volgarizza  il  Bruni,  e  cosi  via.     3.  6  interessante  ritrovare,  distesi  e  volgarizzati,  i  concetti  di  un  Valla  e  di  un  Poliziano  negli  scrit  tori  francesi  del  '500.  Per  esempio  Joachim  du  Bellay,  scrivendo  a  meta  del  sec.  XVI,  dopo  aver  tratto  dal  Valla  il  concetto  che  Roma  fu  grande  per  la  lingua  ^imposta  all'Europa  non  meno  che  per  1'impero  (« la  gloire  du  peuple  Romain  n'est  moindre  -  comme  a  dit  quelqu'un  -  en  Tamplifacation    INTRODUZIONE  XIX   L'Umanesimo  fu  in  questa  singolare  « imitazione-creazione »,  come  1'ha  chiamata  il  Russo:1  umanita  fatta  consapevole  attra-  verso  il  rapporto  stabilito  con  gli  altri  uomini  nell'operoso  sforzo  di  raggiungere  una  sempre  pifc  alta  forma  di  vita.  Di  qui,  appunto,  il  particolare  carattere  delle  sue  piii  felici  espressioni  letterarie.   EUGENIO  GARIN    de  son  langaige  que  de  ses  limites»)>  eccolo  riprendere  Poliziano:  «im-  mitant  les  meilleurs  aucteurs . . .,  se  transformant  en  eux,  les  devorant,  et  apres  les  avoir  bien  digerez,  les  convertissant  en  sang  et  nouriture  ».  Solo  cosl  1'imitazione  e  giovevole  allo  scrittore ; « autrement  son  immitation  res-  sembleroit  celle  du  singe ».  Cfr.  BERNARD  WEINBERG,  Critical  prefaces  of  the  French  Renaissance,  Northwestern  University  Press,  Evanston,  Illinois,  1950,  pp.  17  sgg.  i.  LUIGI  Russo,  Problemi  di  metodo  critico,  Bari,  Laterza,  I95Q2,  PP.  126  sgg.  .  GARIN, Eugenio Antonio  Nacque a Rieti il 9 maggio 1909, figlio di Francesco e di Teresa Barbagli.  LA FORMAZIONE  Il nonno, intendente di Finanza, si era trasferito dalla Savoia in Toscana con l’Unità d’Italia; la madre era originaria di San Giustino nel Valdarno; il padre – allievo di Girolamo Vitelli, in rapporti amichevoli con Giorgio Pasquali, che scrisse il suo necrologio su Atene e Roma – era un giovane e valente filologo, con particolare interesse per la storia del romanzo greco, per Teocrito e per i commenti a Teocrito. La guerra e la fine prematura e quasi improvvisa – morì il 26 luglio 1920, a poco meno di quarant’anni – ne stroncarono la carriera e costrinsero il figlio ad assumersi, precocemente, pesanti responsabilità.  Garin ebbe, anche per questo, un'infanzia e un'adolescenza assai difficili e tormentate, che ebbero un peso nel rafforzare i toni disincantati e pessimisti del carattere, controllati, in genere, dall'ironia e anche dal sarcasmo, pronti però a esplodere nei momenti di  particolare amarezza o di maggior contrasto con i tempi in cui gli toccò di vivere e di lavorare.   Fin da quegli anni – duri e mai dimenticati – comprese però quale era la sua vocazione e individuò nei libri, e in uno studio assiduo e «disperatissimo», la bussola con cui avrebbe costruito, con tenacia, la propria vita: bruciando le tappe, si iscrisse a soli 16 anni, nel 1925, alla facoltà di lettere e filosofia dell'Università di Firenze e si laureò col massimo dei voti in filosofia il 25 giugno 1929 con una tesi su Joseph Butler, preparata sotto la guida di Ludovico Limentani. A Firenze aveva compiuto anche gli studi elementari e medi, frequentando il Liceo Galilei, nel quale aveva insegnato il padre e dove incontrò Maria Soro, nata a Sassari il 20 agosto 1908, che sarebbe poi diventata sua moglie, con rito civile, il 17 luglio 1930.   Garin era nato a Rieti in seguito al trasferimento in quella città del padre, che come professore di liceo aveva girato, si può dire, tutta l’Italia; ma si considerò sempre fiorentino e conservò per tutta la vita un ricordo assai vivo degli anni liceali e, soprattutto, di quelli trascorsi nella facoltà di lettere di Firenze. In quel periodo fece incontri decisivi dal punto di vista sia personale sia scientifico, e non solo in ambito filosofico; stabilì rapporti con personalità come Pasquali, e conobbe compagni di studi ai quali restò legato tutta la vita, italiani e non italiani: Jacob Teicher, Nicolai Rubinstein, Cesare Luporini, il quale, nel 1979, rievocando gli anni della sua formazione (Qualcosa di me stesso, in Cesare Luporini 1909-1993, a cura di M. Moneti, numero speciale de Il ponte, LXV [2009], 11), ricordò come il giovane Garin eccellesse già allora su tutti, e fosse più avanti degli altri coetanei per maturità e sapere.   In quegli stessi anni, Garin conobbe due maestri che incisero segni profondi nella sua mente e nella sua personalità intellettuale e scientifica: Francesco De Sarlo e, soprattutto, Limentani, che lo avviò agli studi sull'Illuminismo inglese pubblicati nei primi anni Trenta, confluiti poi nel volume L'Illuminismo inglese. I moralisti (Milano 1942).       L'INSEGNAMENTO NEI LICEI E I PRIMI SCRITTI  Dopo aver insegnato nel Regio Convitto delle Mantellate negli anni 1929-30 e 1930-31, Garin, ottenuta nel 1930 l’abilitazione in storia e filosofia riuscendo tredicesimo nella graduatoria generale, fece nel 1931 il concorso per l'insegnamento di filosofia e storia nei licei per «sedi determinate», e lo vinse, dopo essere stato esaminato da una commissione presieduta da Augusto Guzzo. Prese servizio il 16 settembre dello stesso anno come professore straordinario di filosofia e storia presso il Liceo scientifico Stanislao Cannizzaro di Palermo, dove rimase fino al 15 settembre 1934, quando – dopo molti tentativi giustificati da motivi sia familiari sia scientifici – fu trasferito a Firenze per insegnare, come professore ordinario, filosofia e storia al Liceo scientifico Leonardo da Vinci.  Gli anni palermitani furono assai importanti e fecondi per Garin: per gli incontri umani e intellettuali che fece e per le ricerche che condusse, preparando l'importante volume Giovanni Pico della Mirandola. Vita e dottrina, pubblicato a Firenze nel 1937, ma già pronto fin dal 1935. Fu a Palermo che scrisse in gran parte il suo primo libro di argomento umanistico, servendosi delle «eccellenti biblioteche pubbliche» della città, e frequentando la Biblioteca filosofica a Palazzo Reale, col «suo singolare fondatore e direttore, il dottor Amato Pojero, l'amico di Giovanni Gentile e primo editore dell'Atto puro, il bizzarro 'filosofo' noto dappertutto, sempre teso a cogliere una battuta e a fissarla per scritto» (Una collaborazione lunga una vita, in Belfagor, LIV [1999], 6, p. 732).  A spostare Garin dagli studi iniziali sull'Illuminismo inglese verso le ricerche umanistiche e rinascimentali contribuì una pluralità di fattori: certo agirono la presenza, e il magistero, di Limentani, che in quegli stessi anni stava studiando il Bruno 'inglese' sulla scia della importante monografia su La morale di Giordano Bruno, pubblicata nel 1924.  Ma alla base di quello spostamento ci furono due altri motivi, forse più rilevanti: la centralità assunta a quella data dall'Umanesimo e dal Rinascimento nella ricerca filosofica europea intorno a problemi decisivi come la libertà, e la dignità, dell'uomo; il rapporto tra uomo, mondo, Dio; il carattere e il significato dell'esperienza umana. È stato, peraltro, Garin, in un testo degli anni Settanta (lettera a Saveria Chemotti del 16 febbraio 1978, la cui minuta è conservata presso il Fondo Garin della Scuola Normale Superiore di Pisa), a segnalare la complessità delle questioni che, negli anni Trenta, si concentravano nella discussione sul Rinascimento: domande di ordine sia filosofico sia religioso, ma tutte convergenti in una generale interrogazione sul significato dell'uomo e del suo destino, in un momento tragico della storia del mondo.  È in questo contesto che si inseriscono sia il libro su Pico sia il saggio su La "dignitas hominis" e la letteratura patristica (in La Rinascita I [1938], 4, pp. 100-146)  in cui questo intreccio di motivi si presenta in modo esemplare, con un netto primato della problematica di tipo religioso – anzi esplicitamente cristiano – e, simmetricamente, con un consapevole distacco dalle impostazioni di tipo idealistico, comprese quelle risalenti a Gentile.   Come testimoniano anche i molteplici richiami alla interpretazione di Konrad Burdach – messa in circolazione in Italia, nel 1935, anche da Delio Cantimori –, a quella data Garin era su un'onda assai diversa rispetto a Gentile che, pure, fin dal primo momento apprezzò molto i suoi lavori su Giovanni Pico, invitandolo a collaborare al Giornale critico della filosofia italiana, sul quale aveva cominciato a pubblicare fin dal 1932 con un saggio su L’etica di Giuseppe Butler (XXXIII, pp. 281-303).  Non si trattava solo di una distanza di ordine storiografico, evidente, per esempio, nella importanza che già in questi anni Garin cominciava ad assegnare alla tradizione ermetica, avviando una ricerca che avrebbe continuato, sia pure con toni e forme assai diverse, fino ai suoi ultimi anni (il saggio su Una fonte ermetica poco nota. Contributi alla storia del pensiero umanistico, destinato a essere ripreso e profondamente modificato nel 1958, uscì originariamente in La Rinascita, III [1940], pp. 202-232). Al fondo, rispetto a Gentile, c'era una forte distanza di carattere strettamente filosofico, come risulta dai principali riferimenti filosofici di Garin in questi anni: René Le Senne, Gabriel Marcel, Etienne Gilson, Louis Lavelle, forse il più importante di tutti, quello al quale si sentì a lungo più vicino.   Sono tutti autori di area francese e di matrice cristiana, convergenti, sia pure con toni differenti, nella prospettiva di un esistenzialismo religioso che appare ben presente negli scritti storici di Garin sul Rinascimento di questo periodo, pur mediati, e filtrati, da una armatura di carattere filologico ed erudito molto forte già in quegli anni (ne è una conferma il ricco e aggiornatissimo corredo bibliografico del libro su Giovanni Pico). Mancano, invece – con l'importante eccezione di Ernst Cassirer, presente già nel libro del 1937 – riferimenti altrettanto significativi ad autori di area tedesca, a cominciare da Martin Heidegger che, in quegli anni, era invece interlocutore privilegiato di altri importanti esponenti della generazione di Garin, come Luporini, suo amico fin dagli anni della Università, ma assai diverso sia per interessi filosofici che per le strade che avrebbe poi preso sul terreno politico.  È una mancanza che non stupisce, se si considera che la cultura di matrice francese fu una componente centrale della formazione di Garin, e che essa – insieme al pensiero inglese, ma con maggiore forza – ebbe un ruolo centrale nella sua attività scientifica e anche editoriale, come testimonia l'imponente opera di presentazione e traduzione di testi capitali del pensiero francese svolta insieme alla moglie – da Rousseau a Malebranche, a d'Holbach e gli Enciclopedisti.  Il primato della cultura di matrice francese era, del resto, un tratto diffuso della generazione di Garin e, in modo particolare, dell'ambiente culturale fiorentino: quello che si esprimeva in istituzioni di notevole rilievo come il Gabinetto Vieusseux – di cui in quegli anni era bibliotecario e direttore Eugenio Montale –, e la Biblioteca Filosofica di Arrigo Levasti e Piero Marrucchi, una personalità notevole, alla quale Garin rimase sempre legato e che ricordò in pagine molto intense, rievocando quell'ambiente e quell’atmosfera, in cui viveva il ricordo di una figura come Carlo Michelstaedter, alla quale anche Garin dedicò, a più riprese, molta attenzione.  Tornato a Firenze alla fine del 1934, nell'anno accademico 1935-36 ebbe un incarico di filosofia teoretica presso la facoltà di lettere e filosofia. Nel 1937 ottenne, poi, la libera docenza in storia della filosofia.  L’INCARICO DI FILOSOFIA MORALE E GLI STUDI SUL RINASCIMENTO E GIOVANNI PICO   Nel 1938, quando per effetto delle leggi razziali Limentani dovette lasciare la cattedra di filosofia morale, la facoltà decise di non chiamare su essa un altro ordinario, ma di conferire l’incarico a Garin, come il miglior discepolo di Limentani.  Nei modi possibili in quei tempi difficili, Garin espresse pubblicamente la sua fedeltà al maestro con cui si era formato, tenendo, il 30 gennaio 1940, una conferenza presso la Biblioteca Filosofica di Firenze in cui attaccò a fondo ogni forma di storicismo – identificato con il relativismo – rivendicando, da un lato, il valore della lotta, e dell'‘ostacolo’, sulla scia di Le Senne; ribadendo, dall'altro, e con massima energia, la distinzione tra vittima e carnefice, tra perseguitato e persecutore, che nessuna Provvidenza storica avrebbe mai potuto, in alcun modo, risarcire. Dopo la morte di Limentani, ne redasse poi un commosso necrologio, pubblicato in opuscolo insieme alla bibliografia dei suoi scritti (Ludovico Limentani (1884-1940), Firenze 1941).  Aveva, intanto, cominciato a partecipare a concorsi per ottenere una cattedra universitaria, che riuscì a vincere nel 1949, quando risultò primo ternato in quello per professore straordinario alla cattedra di storia della filosofia dell'Università di Cagliari (la commissione era formata da Antonio Aliotta, presidente, Eustachio Paolo Lamanna, segretario, e da Nicola Abbagnano, Antonio Banfi, Ugo Spirito). Precedentemente, nel 1938, nel 1942 e nel 1949, aveva partecipato, venendo dichiarato «maturo», a tre altri concorsi, banditi, rispettivamente, dall'Università di Messina e dall'Università di Napoli (quest’ultimo si svolse in due tornate, per l’annullamento, a causa di un ricorso, dei risultati della prima).  Difficili sul piano accademico e anche personale, quegli anni furono però fertilissimi dal punto di vista scientifico: oltre a una serie di saggi assai importanti usciti, in genere, su La Rinascita diretta da Giovanni Papini (con il quale ebbe, allora, un rapporto intenso), Garin pubblicò due importanti antologie: la prima, Il Rinascimento italiano (Milano 1941), commissionatagli da Gioacchino Volpe e stampata nella collana dell'ISPI; la seconda, Filosofi italiani del Quattrocento (Firenze 1942), uscita come pubblicazione dell'Istituto nazionale di studi sul Rinascimento. Si tratta, in entrambi i casi di opere fondamentali, destinate a lasciare una orma profonda negli studi rinascimentali. Ma lette con attenzione – e tenendo conto della inclinazione dissimulatoria tipica dell'epoca –, esse svelano con precisione quali fossero gli atteggiamenti filosofici e politici di Garin in quel momento: una posizione nettamente antifascista, trasparente nelle pagine dedicate alla critica del tiranno; un profondo interesse di tipo religioso, già emerso nei primi saggi rinascimentali della seconda metà degli anni Trenta, e ora pienamente dispiegato nella lunga Introduzione ai Filosofi italiani del Quattrocento, a cominciare dalle pagine scritte sulla morte, discorrendo di Coluccio Salutati.   Sono anni, e temi, nei quali la nota religiosa risuona con particolare forza e vigore, e non solo nei testi sull'Umanesimo. Nel 1947 pubblicò per una piccola casa editrice fiorentina, Cya, una antologia di testi tolstoiani – Ultime parole –,  nei quali è affermato con nettezza il primato della 'riforma interiore' come condizione di ogni riforma di tipo economico e sociale. Sarebbe stato, del resto, lo stesso Garin a ricordare nel 1954 che anni prima, nel pieno della guerra, aveva attraversato una vera e propria crisi di tipo religioso, subendo a fondo l'influenza di Tolstoj. Sul terreno scientifico è una inclinazione che si rivela, oltre che sul piano del linguaggio, nel forte ruolo assegnato in quegli anni a fra Girolamo Savonarola, un autore che gli fu sempre carissimo, ma che nel 1943 arrivò ad affiancare al Platone della Repubblica per il Trattato sul reggimento di Firenze.   In questi anni spicca anche il lavoro di presentazione e di traduzione dei testi fondamentali di Giovanni Pico della Mirandola: De hominis dignitate, Heptaplus, De ente et uno (Firenze 1942); Disputationes adversus astrologiam divinatricem (ibid. 1946-52) un'impresa imponente, che contribuì a mutare in profondità sia l'immagine tradizionale di Pico, sia quella corrente del Rinascimento, ponendo le basi della interpretazione generale che Garin avrebbe proposto nel libro del 1947, Der italienische Humanismus, pubblicato nella collana diretta da Ernesto Grassi per l'editore Francke di Berna (ristampato poi nel testo originale presso Laterza nel 1952).  Furono lavori resi possibili anche dal forte sostegno di una figura singolare, ma più importante di quanto in genere si pensi, della cultura italiana di quegli anni: Enrico Castelli, il quale – oltre a pubblicare le traduzioni di Pico nell'ambito dell’Edizione nazionale dei classici del pensiero italiano promossa dal Regio Istituto di studi filosofici da lui presieduto e del quale Garin fu anche segretario della sezione toscana –, si impegnò con molta tenacia e costanza, a tutti i livelli, per fargli ottenere un distacco dal Liceo scientifico Leonardo da Vinci che gli consentisse di svolgere con maggiore tranquillità il suo lavoro.      IL DOPOGUERRA, LA SCOPERTA DI GRAMSCI, LE CRONACHE  Garin sottolineò più volte che non c'è un rapporto meccanico tra storia della cultura e storia politica, precisando, per esempio, che la crisi e la fine dell'idealismo crociano si compiono nel 1968, non nel 1945. Non c'è però dubbio che con la fine della guerra sia iniziata una nuova fase della sua lunga vita sul piano sia intellettuale sia politico.   Dopo un periodo connotato dalla vicinanza a posizioni di tipo liberal-democratico (come appare chiaro dagli articoli che nel 1946 pubblicò sull'Italiano), si avvicinò infatti, sia pur progressivamente, al Partito comunista italiano, senza mai iscriversi a esso, ma diventandone, specie negli anni Cinquanta e Sessanta, uno dei principali intellettuali di riferimento.  Alla base di questo netto spostamento di campo ci furono motivazioni di ordine intellettuale e di natura politica.   Sul primo punto, fu decisivo, nel 1947, l'incontro con le Lettere dal carcere di Antonio Gramsci, che recensì subito su Leonardo, la rivista di cui, dal 1946, era diventato redattore – cioè, in effetti,  direttore –, avviando un intensissimo colloquio che sarebbe continuato lungo tutta la sua vita e che avrebbe inciso sia sulle sue ricerche umanistiche sia sulle Cronache di filosofia italiana pubblicate per i tipi di Laterza nel 1955 (ma preparate dagli articoli usciti alla fine degli anni Quaranta su Leonardo e sul Giornale critico della filosofia italiana fondato da Gentile e diretto allora da Ugo Spirito).   Dal punto di vista strettamente politico, per quanto possa apparire paradossale, in quella scelta agì il profondo, e mai venuto meno, interesse religioso di Garin: era infatti profondamente laico, non laicista. Riteneva necessario distinguere con chiarezza ciò che è di Cesare e ciò che è di Dio, anzi pensava che dalla confusione dell'uno e dell'altro potesse derivare una degenerazione di entrambi. Dopo il 18 aprile 1948, il partito della Democrazia cristiana gli apparve come la realizzazione concreta di questo rischio, con la ripresa, e il potenziarsi, di quelle tendenze che durante il Regime si erano espresse nel clerico-fascismo, contribuendo, a suo giudizio, a corrompere il carattere morale degli italiani. Perciò considerò negativamente l'inserzione dell'articolo 7 nella Costituzione repubblicana, ma fu per questi stessi motivi che si avvicinò al Partito comunista: per una scelta di ordine anzitutto morale e, alle origini, religiosa. Pur nel dissenso con il Partito comunista nella valutazione dell'articolo 7, Garin vide in esso la forza più intransigentemente schierata a favore di una concezione laica dello Stato e, in genere, della vita, contro il riaffiorare e l'imporsi di una nuova forma di clerico-fascismo, dannosa, ai suoi occhi, sia per la politica sia per una autentica esperienza religiosa.  I due piani – quello culturale e quello politico – si intrecciarono e si potenziarono a vicenda, nella concretezza del suo lavoro, sia in quello sul Rinascimento sia nelle ricerche sulla filosofia italiana. A quest'ultima aveva già dedicato, per incarico di Gentile, due volumi pubblicati da Vallardi nel 1947 (si tratta dell'opera: La filosofia, da non confondere con la Storia della filosofia uscita per i tipi di Vallecchi nel 1945: uno de suoi libri più belli, più vivaci, più liberi).   Le Cronache di filosofia italiana del 1955 erano, in effetti, un'altra cosa: una sorta di autobiografia di una intera generazione, quella nata al tornante del primo decennio del secolo – la stessa di Norberto Bobbio, nato anch'egli, come Garin, nel 1909, e autore, nello stesso 1955, di Politica e cultura, l'altro grande testo 'autobiografico' della loro generazione. A considerare oggi quegli anni, non appare casuale che due intellettuali di quel livello abbiano avvertito, nello stesso momento, la necessità di confrontarsi con la propria storia, sia pure da punti di vista diversi e con strumenti differenti. In Garin, assai più che in Bobbio, era infatti presente la lezione di Gramsci. Sul piano del metodo, anzitutto: La filosofia come sapere storico (Bari 1959) si conclude con un lungo saggio su Gramsci, nato come relazione al primo Convegno di studi gramsciani, tenutosi a Roma l'anno prima, ma anche sul piano del merito, cioè di specifiche valutazioni di uomini e cose, come Palmiro Togliatti rilevò, nel 1955, nella sua recensione a Cronache di filosofia italiana (Rinascita, 1955, n. 6).  Non solo: la lezione di Gramsci, in forme assai mediate e controllate, è visibile anche negli scritti che Garin dedicò al Rinascimento negli anni Cinquanta e fino alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso. Nonostante che, in questo caso, i giudizi di Gramsci e Garin fossero, proprio nel merito, profondamente differenti.     L’UMANESIMO CIVILE, IL ’68, IL TRAMONTO DI UN MONDO  Quando si parla di Eugenio Garin si pensa, in genere, alla sua interpretazione del Rinascimento come 'Umanesimo civile'. È giusto, ma riduttivo per due ordini di motivi: in primo luogo, essa svolge funzioni e ruoli diversi, anche a seconda del mutare dei contesti storico-politici; in secondo luogo, a cominciare dagli anni Settanta Garin riformulò in modo profondo la sua interpretazione, dislocando l'Umanesimo civile in zone progressivamente laterali, rispetto al nucleo centrale del suo discorso (in questo senso è fondamentale Rinascite e rivoluzioni: movimenti culturali dal 14. al 18. secolo, Roma-Bari 1975: uno dei suoi lavori più importanti, insieme a La cultura filosofica del Rinascimento italiano. Ricerche e documenti, uscito per i tipi di Sansoni nel 1961, nel quale spicca in apertura il saggio – capitale dal punto di vista dell'Umanesimo civile – su I cancellieri umanisti della Repubblica fiorentina da Coluccio Salutati a Bartolomeo Scala, pubblicato originariamente  in Rivista storica italiana, LXXI [1959], pp. 185-209).  All'interpretazione del Rinascimento come Umanesimo civile Garin lavorava, in effetti, fin dagli anni Trenta, in convergenza con le ricerche di Hans Baron, del quale nel 1938 fece pubblicare su La Rinascita un importante saggio. Ma allora esso aveva una funzione parallela, anzi secondaria, rispetto ai motivi ermetici che Garin tendeva maggiormente a valorizzare, anche in relazione a quell'esistenzialismo religioso nel quale allora si riconosceva. Negli anni Cinquanta e Sessanta il quadro mutò in modo deciso, e  l'Umanesimo civile diventò il motivo dominante della sua interpretazione, come appare dall'antologia, fortemente lodata da Cantimori, Prosatori latini del Quattrocento(Milano-Napoli 1952). I motivi messi a fuoco nella seconda metà degli anni Trenta erano ripresi, e anzi energicamente sviluppati, a cominciare dalle tematiche magiche e astrologiche, cui dedicò nei primi anni Cinquanta due saggi fondamentali; ma essi ora venivano riformulati (per esempio, cambiò in modo consistente il giudizio sull'astrologia) ed inseriti in una prospettiva che privilegiava, in primo luogo, la dimensione mondana, terrestre – appunto, 'civile' del Rinascimento –, dando rilievo centrale al problema del rapporto tra 'vita contemplativa' e 'vita activa', e valorizzando in questa luce i grandi cancellieri fiorentini come Coluccio Salutati e Leonardo Bruni.   Ne scaturì, in quegli anni, una nuova immagine del Rinascimento, entro cui assunsero valore centrale discipline come la retorica, l'arte della memoria o esperienze filosofiche prima trascurate, o non comprese in modo adeguato, come, per esempio, il lullismo.   Su questo sfondo, Garin si pose in termini nuovi rispetto agli scritti degli anni Trenta anche il problema della genesi e dei caratteri della scienza moderna, sforzandosi di «mostrare come un moto di cultura strettamente legato nelle sue origini alla vita delle città italiane fra Trecento e Quattrocento debba considerarsi una delle premesse del rinnovamento scientifico moderno» (come scriveva nella Premessa al volume Scienza e vita civile nel Rinascimento italiano, p. V, pubblicato con Laterza nel 1965: una linea di ricerca, sia detto tra parentesi, che non ebbe ulteriori sviluppi, anche per i mutamenti che, di lì a poco, avrebbero sconvolto il mondo storico, coinvolgendo a fondo anche il mondo storiografico).   In questa accentuazione della dimensione civile agì certamente la lezione metodica di Gramsci, che appare con ancor maggiore chiarezza nei lavori che Garin dedicò, negli stessi anni, alla filosofia contemporanea, specie a quella italiana. Sono importanti, da questo punto di vista, sia La cultura italiana tra '800 e '900 (Bari 1962); sia, e soprattutto, quello sugli Intellettuali italiani del XX secolo (Roma 1974), che costituisce, per molti aspetti, il vertice della presenza, e della influenza, di Garin nella cultura, e anche nella politica, italiane.   Se si considera il corso della sua vita, si può azzardare un giudizio: forse furono proprio quelli gli anni in cui Garin riuscì a stabilire, nel complesso, un rapporto positivo con il proprio tempo storico, e non solo per i molti riconoscimenti pubblici che ebbe in quel periodo, dentro e fuori l'Università, in Italia e all’estero.   Nel 1952 era diventato professore ordinario di storia della filosofia medievale presso l'Università di Firenze (insegnamento che aveva tenuto per incarico dal 1941 al 1945 e dal 1947-48 al 1948-49); nel 1955 era poi subentrato a Lamanna come titolare della cattedra di storia della filosofia presso la stessa Università.   Riconoscimenti, e onori, altrettanto importanti stava avendo anche al di fuori dell'Università. Socio effettivo dell'Accademia toscana di scienze e lettere 'La Colombaria', dal 1948 ne era anche segretario generale; il 23 luglio 1965 fu  eletto socio corrispondente dell’Accademia dei Lincei, diventandone socio nazionale il 23 novembre 1979; il 10 luglio 1975 ricevette dalla British Academy la Serena medal for Italian studies (gli ultimi italiani che l'avevano ottenuta – scrisse, con orgoglio, il 5 luglio 1975 al direttore della Scuola Normale comunicandogli la notizia – erano stati Roberto Longhi e Ranuccio Bianchi Bandinelli).  Al fondo, però, pur considerandosi anzitutto un insegnante, Garin era, a suo modo, un animal politicum, e avrebbe voluto essere un cittadino. Negli anni Cinquanta e per larga parte degli anni Sessanta riuscì a esserlo come non gli era accaduto prima e non sarebbe più successo dopo, intrecciando un'attività scientifica di alto livello con un impegno civile assai intenso sui temi che gli interessavano maggiormente, a iniziare dalla scuola, su cui intervenne anche con una relazione molto dura letta al Teatro Valle di Roma  il 3 giugno 1960, pubblicandola poi in volume (La cultura e la scuola nella società italiana, Torino 1960).   Negli anni successivi la situazione mutò profondamente; quell'equilibrio, sempre fragile e precario, si incrinò e Garin si distaccò, progressivamente, fino a contrapporsi, dai movimenti culturali e politici che, a cominciare dal 1968, avevano cominciato a scuotere il paese fin dalle fondamenta, nel bene e nel male. Il punto più aspro del contrasto, anzi la vera e propria rottura, si produsse alla fine del 1971, quando – si legge in una lettera del 16 novembre al preside della facoltà di lettere, Ernesto Sestan (minuta nel Fondo Garin della Scuola Normale Superiore) – fu costretto a interrompere la lezione per il «contegno oltraggioso e provocatorio di uno studente del 2° anno».  Fu una scelta assai meditata, anche se amara, quella di lasciare l’Università di Firenze, che era stata fin dagli anni giovanili la sua Alma Mater, trasferendosi, nell'anno accademico 1974-75, alla Scuola Normale Superiore di Pisa come professore – e anche questa scelta è significativa – di storia della filosofia del Rinascimento. Come scrisse il 22 giugno del 1974 al direttore della scuola, Gilberto Bernardini, sarebbe stata quella «la conclusione migliore – certo la più onorevole – di un lungo insegnamento» (minuta, ibid.).  Questo non significa che da quel momento si sia disinteressato della filosofia contemporanea, a cominciare da quella italiana. Anzi: nel 1983 pubblicò, con l'editore barese De Donato, un libro importante, Tra due secoli. Socialismo e filosofia in Italia dopo l'Unità, riprendendo in forme nuove il problema del positivismo e riaprendo, in generale, la questione del rapporto tra eredità positivistiche e filosofia del Novecento, nelle sue varie diramazioni. Ma il libro non ebbe un successo paragonabile a quello tributato nel 1974 al volume sugli Intellettuali italiani del XX secolo. Nel giro di pochi anni, la situazione era profondamente mutata e i temi trattati in quel testo, pur così importante, avevano perso peso e rilievo nel dibattito filosofico italiano, che stava ormai aprendosi, e su vasta scala, a nuove tendenze estranee alla tradizione nazionale, nel pieno di una crisi che investiva lo Stato italiano fin dalle fondamenta. Effettivamente, un intero mondo stava cominciando a finire.  Tanto più colpisce, in questa situazione, il lungo saggio  che nel 1991, in controtendenza, Garin dedicò a Giovanni Gentile pubblicandone, con l'editore Garzanti, le Opere filosofiche. Aveva ormai 82 anni: nel 1979 era uscito dai ruoli dell'insegnamento, nel 1984 era andato definitivamente in pensione, nel 1986 era diventato professore emerito della Scuola Normale; nel 1988 aveva lasciato anche la presidenza dell'Istituto nazionale di studi sul Rinascimento assunta nel 1978. Era dunque diventato un libero studioso sciolto da qualunque vincolo di ordine istituzionale, e forse anche questo contribuisce a spiegare la libertà – e l'atteggiamento 'non conformista', si potrebbe dire – con cui si confrontò con Gentile nella lunghissima Introduzione che premise ai testi, spiegando il senso della sua scelta.  Non era un'impresa facile: i rapporti di Garin con Gentile e con Croce furono infatti assai complessi e si modificarono, e complicarono, con il tempo. Si possono però in sintesi individuare alcuni elementi di ordine generale. Dal punto di vista filosofico egli si sentì, al fondo, più vicino a Gentile: basta leggere le pagine che gli dedicò nella Storia della filosofia del 1945, e accostarle a quelle scritte nello stesso testo su Croce, per vedere come ne apprezzasse la posizione e quanto fosse invece distante da Croce. Certo, come dimostrano le Cronache, il suo giudizio sul neoidealismo italiano si approfondì col tempo e divenne assai più ricco e articolato; ma la distanza di Garin dalla 'filosofia dello spirito' non venne mai meno, perché essa coinvolgeva un punto centrale, allora e poi, della sua posizione.   Alle origini, le ragioni di quella scelta stavano precisamente qui: sul piano filosofico Gentile apparteneva a quella filosofia della libertà, specie di matrice francese, in cui il giovane Garin aveva riconosciuto il carattere principale del pensiero del nuovo secolo e anche le proprie radici, sia filosofiche sia religiose. Filosofia della libertà: cioè azione, praxis, atto, volontà. Erano i motivi che erano presenti anche nel giovane Marx, quelli che gli avevano fatto apprezzare Gramsci, sentire affine la ricerca dei Quaderni del carcere, e che, nel volume del 1991, sottolineò anche in Gentile, vedendo anzi nella sua lettura di Marx la via attraverso cui si era affermato nel nostro paese il principio della praxis, dell'azione, della volontà.  È per queste stesse ragioni – strutturali, non contingenti – che Garin fu, invece, in sostanza, lontano da Croce, pur apprezzandone il rapporto stabilito tra politica e cultura e l'immenso lavoro: non ne condivideva la concezione del circolo spirituale; lo sentiva distante per l'incapacità di afferrare la intima, e insuperabile, tragicità della vita; rifiutava la dissoluzione dell'individuo empirico, che invece per lui era fondamentale.   Certo, con il tempo maturò un giudizio assai più ricco di quello espresso negli anni Quaranta; ma alcuni elementi – in cui si esprimevano un distacco, e un dissenso, perfino di ordine generazionale – non vennero mai completamente meno. Nel 1966, in occasione del centenario della nascita di Croce, scrisse un bel saggio sui suoi rapporti con Renato Serra (Serra e Croce, in Belfagor, XXI, 1, pp. 1-13) e, pur facendogli ampi riconoscimenti, non ebbe esitazione a schierarsi, proprio per questi motivi, dalla parte di quest'ultimo.      FILOSOFIA E AUTOBIOGRAFIA: ALBERTI  Con il '68 iniziò una profonda trasformazione del mondo storico, destinata a incidere, in vari modi, nel mondo storiografico, compreso quello di Garin, che operò mutamenti profondi nella sua posizione, a cominciare dalla concezione dell'Umanesimo civile, che nel ventennio precedente era stato il centro della sua interpretazione del Rinascimento. Ora venne configurandosi come un ideale; anzi una ideologia nobile e importante, ma pur sempre una ideologia (come appare nel Ritratto di Leonardo Bruni aretino in Atti e Memorie dell'Accademia Petrarca di Lettere, Arti e Scienze di Arezzo, XL [1970-72], pp. 1-17 ), mentre assunsero rilievo essenziale altri temi, altri autori, come risulta chiaro dal libro Lo zodiaco della vita. La polemica sull'astrologia dal Trecento al Cinquecento (Roma-Bari 1976), che raccoglieva quattro lezioni tenute al Collège de France fra l'aprile e il maggio 1975. Fin dall'inizio della sua attività Garin aveva dato rilievo alle tematiche magiche, astrologiche, ermetiche, sistemandole, poi, nel contesto dell'Umanesimo civile. Ora esse ridiventarono centrali, con una particolare sporgenza dei testi e dei motivi di carattere astrologico. Alla base di questo c'era, come sempre in Garin, un convincimento di ordine teorico.   A lungo era stato persuaso che nella cultura europea fosse stata presente, e dominante, quella che egli chiamava la 'linea Pico-Sartre', secondo cui l'uomo «non ha una natura (una "specie", una "forma"), ma […] è un atto che si sceglie» (per riprendere una sua battuta contenuta nella lettera a Leonardo Amoroso del 17 luglio 1991 [minuta nel Fondo Garin della Scuola Normale Superiore di Pisa]). Era un convincimento coerente con la sua filosofia della libertà, della praxis, del primato della volontà. Negli ultimi anni furono proprio questi capisaldi che si infransero e vennero meno sbalzando in primo piano, al posto dei cancellieri fiorentini, pensatori come Pomponazzi e, soprattutto, Leon Battista Alberti, sostenitori, l'uno e l'altro, di una concezione totalmente disincantata dell'uomo e della vita, ridotta o a gioco privo di senso o a una eterna vicissitudine di uomini, di cose, di sorti. E qui si può osservare come in un microcosmo in che modo lavorava Garin, e quanto fosse profondo nella sua ricerca l'intreccio tra autobiografia e storiografia, a loro volta sostenute da una posizione teorica precisa, ma destinata, al tempo stesso, a importanti variazioni e mutamenti. Alberti era stato infatti sempre al centro della sua attenzione, ma venne a lungo inserito nella prospettiva dell’Umanesimo civile, mentre negli scritti dell'ultimo periodo si configurò come uno dei principali esponenti di una concezione che vede nell'uomo niente altro che un ludus deorum, per riprendere l'espressione utilizzata da Platone nelle Leggi e ripresa nel De fato da Pomponazzi.  Sono precisamente questi temi, e queste espressioni (citate puntualmente nello Zodiaco della vita, e rafforzate dalla scoperta che aveva fatto di alcune Intercenali inedite di Leon Battista Alberti, pubblicate su Rinascimentonel 1964), che attrassero Garin quando si convinse che la linea Pico-Sartre si era infranta ed era stata sconfitta. Né è facile dire quanto in queste posizioni storiografiche avesse inciso la crisi che fin dalla fine degli anni Sessanta stava travagliando il mondo storico, dandogli progressivamente il senso – e poi la persuasione – che una intera epoca della cultura europea stava tramontando, dissolvendo quegli ideali e quelle utopie che ne avevano sostenuto il cammino, specie nei momenti più gloriosi come il Rinascimento e l’Illuminismo.   In un intreccio profondo di autobiografia e storiografia, le pagine dell'ultimo Garin sono solcate da toni assai disincantati e pessimistici. Ma neppure in questi anni, e in questi scritti, egli si presenta al lettore in toni disarmati o vinto: troppo forte era stata la persuasione di un primato della praxis, dell'azione, della volontà perché essa potesse venire mai integralmente meno. Stava qui la sorgente originaria della sua personalità fin dagli anni Trenta, e a essa – nonostante tutto – aveva cercato di restare fedele, dipanando il filo essenziale della sua esistenza, nelle diverse situazioni in cui gli toccò di vivere, per quasi un secolo.   Quando morì, a Firenze il 29 dicembre 2004, non aveva smesso di pensare all'utopia di un mondo diverso: come gli avevano insegnato a fare i rappresentanti più eminenti dell'epoca alla quale aveva dedicato tanta parte della sua esistenza.      BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE  E. G. Il percorso storiografico di un maestro del Novecento, Giornata di studio, Prato, Biblioteca Roncioniana, 4 maggio 2002, a cura di F. Audisio - A. Savorelli, Firenze 2003 (si vedano in particolare i saggi di C. Cesa, Momenti della formazione di uno storico della filosofia (1929-1947), pp. 15-34 e di C. Vasoli, Gli studi di E. G. su Giovanni Pico della Mirandola, pp. 65-92); G. e il Novecento, numero monografico del Giornale critico della filosofia italiana, LXXXVIII [XC], (2009), 2; M. Ciliberto, E. G. Un intellettuale nel Novecento, Roma-Bari 2011;  E. G. Dal Rinascimento all’Illuminismo, Atti del Convegno, Firenze, 6-8 marzo 2009, a cura di O. Catanorchi - V. Lepri, con Premessa di M. Ciliberto, Roma-Firenze 2011; Il Novecento di E. G., Atti del Convegno promosso dalla Fondazione Istituto Gramsci in collaborazione con l’Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma, 25-27 febbraio 2010, a cura di S. Ricci - G. Vacca, Roma 2011. Grice: “Don’t expect philosophical insight from Garin. He is at most an amanuensis. But like Gentile, it is helpful, if you are into minor philosophers, or minor figures, to go through the indexes of his many compilations. As with Gentile’s Storia della filosofia italiana, Garin’s is just as boring. Garin makes it more difficult in that he uses two or three words which we don’t use at Oxford: ‘pensiero’ for philosophy, ‘intellectual’ (‘intelletuali italiani del novecento’) and ‘culture’ (cultura italiana del ottocento’). By these monickers, he is attempting to include as philosophers people who we should not!” Eugenio Antonio Garin. Eugenio Garin. Garin. Keywords: cicerone come umanista – umanesimo e unamenismi – garin, umanista del Novecento – umanisti e il ritorno dei filosofi antichi – umanesimo, ovvero, il primo secolo del rinascimento – il ritorno dei filosofi antichi – retorica umanista – castelli e garin -- le griceianisme est un humanism!” humus, human, homo sapiens, homo sapiens sapiens, human vs. person, sapientia, persona -- human, umano, umanesimo – filosofia romana -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Garin – umano, troppo umano – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51685979254/in/photolist-2mRgKq7-2mRi7qi-2mQPiYS-2mQDMyN-2mQerAd-2mPPzb6-2mPXDFp-2mPF8UJ-2mPAuFE-2mPszkp-2mN8Hgb-2mLQ1Vx-2mLLyEe-2mLEyw7-2mKMuu9-2mPsfT9-2mKMqqn-2mKGTYe-2mKw3hq-2mKxnN1-2mKCnei-2mKAsyK-2mKgN49-2mHGgw3-2mKj9Vm-DndBhH

 

Grice e Garroni – l’implicatura di Pinocchio – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo. Grice: “I like Garroni; he writes very Griceianly: on lying, on Pinocchio, on semiotics, on Kant – ‘quasi-Kant’ --, and on sense perception (‘senso e paradosso’, ‘immagine, figura, communicazione’). Inizia la sua attività in Rai, dove era entrato per un invito di Gualainsieme come intervistatore e autore di trasmissioni sulla filosofia. Affianca a questo lavoro l'opera intellettuale di critica e di riflessione sull'estetica, grazie anche alla sua frequentazione del mondo artistico dell'epoca anni cinquanta, redigendo anche presentazioni e cataloghi d'arte.  Insegna a Roma. Pur essendosi tenuto fino a quel momento ai margini della vita accademica, con “La crisi semantica dell’arte” (Roma, Officina), insegna estetica. Porta un rinnovamento dell'estetica italiana dopo Croce, culminante in una innovativa traduzione della Critica della facoltà di giudizio di Kant tesa a sottolinearne la co-appartenenza di tematiche estetiche (l’estetico) ed epistemologiche (il noetico). Cura Arnheim, Macherey, Mannoni, Lukács, Brandi, Dufrenne, akobson e del Circolo linguistico di Praga e collaborato alla rivista Rassegna di filosofia, alle riviste cinematografiche Cinema Nuovo e Filmcritica e alla Enciclopedia Einaudi.Cura Benedetto, Bottari,  Melis, Fieschi, Vacchi, Greco ecc. L’estetica è una "filosofia non speciale" il cui compito non deve limitarsi allo studio delle espressioni artistiche ("il bello", “l’arte” e “la natura”), ma è finalizzato ad una visione e ad una "costruzione" del mondo fondata sull'esperienza del “senso” (il sensibile, sentire, sensate). Ciò che va rivendicata è la portata iudicativa (e non solo volitiva) delle riflessioni kantiane, che trascendono lo stato empirico delle scienze  e vivono operanti nel meglio degli indirizzi novecenteschi, magari di ciò inconsapevoli. (L’orizzonte di senso). Altre opere: “Il mito negative” (Roma, Officina); “Semiotica ed estetica. L'eterogeneità del linguaggio e il linguaggio cinematografico” (Bari, Laterza); “Progetto di semiotica: il concetto di messagio” (Roma-Bari, Laterza); “Pinocchio uno e bino” (Roma-Bari, Laterza); “Estetica ed epistemologia. Riflessioni sulla "Critica del Giudizio"” (Roma, Bulzoni); “Ricognizione della semiotica” (Roma, Officina); “Estetica e linguistica” (Bologna, Il Mulino); “Senso e paradosso. L'estetica, filosofia non speciale” (Roma-Bari, Laterza); “Estetica. Uno sguardo-attraverso” (Milano, Garzanti); “Sul mentare e il mentire” (Castrovillari, Teda); “Altro dall'arte. Saggi di estetica” (Roma-Bari, Laterza); “Senso e storia dell'estetica: studi offerti a Emilio Garroni” (Pietro Montani, Parma, Pratiche Editrice); "Interpretare", in Il testo letterario. Istruzioni per l'uso, Roma-Bari, Laterza); “Critica della facoltà di giudizio” (Torino, Einaudi); “Immagine e figura” (Roma-Bari, Laterza); “Scritti sul cinema: pubblicati dalla rivista "Filmcritica"; Edoardo Bruno e Alessia Cervini, Torino, Aragno, Creatività, introduzione di Paolo Virno, Macerata, Quodlibet); “La macchia gialla’ (Milano, Lerici, Dissonanzen quartett. Una storia” (Parma, Pratiche); “Racconti morali, o Della vicinanza e della lontananza, Roma, Editori riuniti); “Sulla morte e sull'arte: racconti morali, Parma, Pratiche); Lettere alla TV”, Monteleone, Storia della Radio e della Televisione italiana, Marsilio; Una puntata del 1961, tratta da Rai Teche, del programma TV "Arti e Scienze", in cui Garroni parla del Bauhaus e intervista Zevi e Gropius  Presentazione della mostra dell'Autoritratto; Articolo de La Repubblica; Intervista che riassume la nozione di estetica come "filosofia non speciale". L'intervista fa parte dell'Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche.  Treccani L'Enciclopedia italiana". Legalità / Creatività.: Garroni legge Kant di Romeo Bufalo, in Studi di estetica, Bologna.  LORENZINI, Carlo (Collodi). - Nacque il 24 nov. 1826 a Firenze, primogenito di Domenico, originario di Cortona, cuoco del marchese Carlo Leopoldo Ginori Lisci, e di Angiolina (Maria Angela Carolina) Orzali, figlia del fattore dei marchesi Garzoni Venturi e nata a Veneri (frazione di Collodi). Degli altri nove figli di casa Lorenzini sopravvissero il terzogenito Paolo, Maria Adelaide, Giuseppina, e l'ultimo dei fratelli del L., Ippolito.  È probabile che il L. abbia frequentato le scuole elementari a Collodi, dove risulta ospitato fino al 1836 dagli zii materni Giuseppe e Teresa (forse per le disagiate condizioni della famiglia a Firenze); l'anno successivo, con il sostegno economico del marchese Ginori, entrò nel seminario di Colle di Val d'Elsa. Nell'agosto 1842 decise di interrompere gli studi in seminario, iscrivendosi nel maggio dell'anno successivo al corso di retorica e filosofia delle Scuole pie di S. Giovannino a Firenze. Terminato il corso nell'autunno del 1844, trovò subito un impiego nella libreria Piatti di Firenze, nella quale aveva già svolto lavori saltuari per potersi mantenere agli studi.  La libreria, anche casa editrice, era fra le più importanti di Firenze e frequentata da molti letterati e patrioti liberali, tra i quali G.B. Niccolini, principale autore delle edizioni Piatti, considerato dal giovane L. uno dei grandi scrittori italiani. Il L. aveva incarico di redigere notizie, recensioni e bollettini bibliografici per il catalogo delle novità della libreria e strinse profonda amicizia con G. Aiazzi, amministratore dell'impresa ed erudito bibliotecario della Rinucciniana, al quale restò legato tutta la vita. Aiazzi avviò il L., che già nel 1845 ottenne l'autorizzazione alla lettura dei libri proibiti, alle ricerche di biblioteca e d'archivio e ne accompagnò le prime prove come cronista teatrale nella Rivista di Firenze e come critico musicale nell'Arpa musicale, periodi co milanese animato da C. Tenca, dove il 29 dic. 1847 apparve il primo articolo firmato del L., L'arpa.  Nel marzo 1848 il L., insieme con il fratello Paolo e con Giulio Piatti, proprietario della libreria, si arruolò nel II battaglione fiorentino e combatté a Montanara: di questa prima esperienza militare rimangono, nelle Carte collodiane, tre lettere ad Aiazzi, già notevoli per lucidità d'osservazione e descrizione.  In estate il L. tornò a Firenze e dovette trovarsi un altro impiego anche per poter aiutare la famiglia colpita dalla malattia del padre, che morì alla fine di settembre a Cortona. Per interessamento di Aiazzi fu nominato "messaggiere" (segretario, commesso) del Senato toscano e arrotondò il modesto stipendio con un'intensa attività di collaborazione a diverse testate, in particolare, al periodico democratico Il Lampione (1848-49) di cui fu tra i fondatori. Qui pubblicò numerosi articoli, per lo più non firmati, tra i quali spiccano alcuni pezzi anticomunisti e antifemministi e, soprattutto, la serie di ritratti intitolata "fisiologie" in cui già con matura incisività satirica tratteggiava caratteri e tipi contemporanei, come quelli contrapposti del "codino" e del "crociato" (cioè il falso volontario): in essi più che "mazziniano sfegatato" (come lo definì Martini, p. 168), manifestava tendenze repubblicane e democratiche derivate da Mazzini solo "in termini generali" e in "modo indiretto" (G. Candeloro, C. Collodi nel giornalismo del Risorgimento, in Studi collodiani, p. 68).  Nella primavera del 1849, con il ritorno dei Lorena nel Granducato, il L. dapprima rinunciò all'impiego (o ne fu allontanato), poi, in giugno, fu reintegrato, ma la sua condizione lavorativa dovette restare precaria, tanto che l'autunno dell'anno successivo si dedicò alla traduzione dal francese del romanzo La figlia dell'archibugieredi M. Masson che apparve a puntate nel periodico milanese l'Italia musicale, per il quale nel 1850 compì un lungo giro tra Emilia e Lombardia come critico corrispondente; con quella rivista continuò a collaborare per tutto il 1851 (nell'agosto era di nuovo a Milano per i suoi impegni giornalistici) e il 1852, quando perdette definitivamente il suo impiego.  Con il 1853 l'impegno del L. come giornalista e pubblicista si intensificò ulteriormente ed egli divenne una delle firme di punta del periodico artistico-letterario e teatrale L'Arte(cui collaborava anche I. Nievo). Nel periodico fiorentino venne pubblicando articoli di critica musicale, teatrale e letteraria (tra cui, nel 1854, una feroce stroncatura del poema Rodolfo di G. Prati che anticipava di netto le prese di posizione negative di F. De Sanctis e G. Carducci sul poeta trentino) e prose umoristiche: tra l'altro, condusse una battaglia contro la pittura accademica convergendo sulle posizioni dei macchiaioli, i cui più importanti esponenti (T. Signorini, A. Tricca, S. Ussi) incontrava e frequentava al caffè Michelangiolo. Il tutto "con uno stile rapido e di presa immediata, che si segnala per il valore e la modernità del linguaggio" (Marcheschi, in C. Collodi, Opere, p. LXXX). Contemporaneamente, fondò e diresse il periodico teatrale Lo Scaramuccia, per il quale aveva reclutato collaboratori di livello, tra cui P. Fanfani e il giovane P. Ferrigni (Coccoluto Ferrigni), poi famoso con lo pseudonimo di Yorick.  Ormai dedito a tempo pieno alla sua attività di pubblicista e scrittore, estese il raggio delle sue collaborazioni giornalistiche a periodici quali Lo Spettatore (cui collaboravano, tra gli altri, G. Giusti, N. Tommaseo e R. Bonghi) e al giornale umoristico La Lente, in cui per la prima volta usò lo pseudonimo di Collodi (nell'articolo Coda al programma della Lente, 1856).   Il L. coltivava anche ambizioni di scrittore teatrale e nel 1853 compose il dramma in due atti Gli amici di casa ispirato a un episodio reale e in cui si ritrovano evidenti influssi del romanzo Beppe Arpia di P. Emiliani Giudici: tentò invano (1854-55) di farlo rappresentare, ma il testo fu bloccato dalla censura, cosicché più tardi poté pubblicarlo (Firenze 1856), ma non riuscì a farlo mettere in scena. Sempre nel 1856 scrisse e pubblicò (ibid.) Un romanzo in vapore. Da Firenze a Livorno. Guida storico-umoristica, nato come opuscolo-guida per viaggiatori in occasione dell'inaugurazione della ferrovia Leopolda, che collegava appunto Firenze a Livorno. In esso il L. contaminava e stravolgeva, tentando un'inedita forma di giornalismo umoristico ispirato al modello di L. Sterne (cfr. Marcheschi, in C. Collodi, Opere, pp. XV-XIX), il genere "popolare" del romanzo e quello "borghese" della guida di viaggio. Così la narrazione romanzesca, che procede in modo parodisticamente caotico e con l'intreccio ingarbugliato della narrativa d'appendice, è inframmezzata da divagazioni con informazioni utili o curiose per il viaggiatore sulle diverse località toccate dalla ferrovia.  Confortato dal buon esito di critica e pubblico del Romanzo in vapore, il L. si dedicò alla stesura di un'altra opera romanzesca di carattere parodistico, I misteri di Firenze. Scene sociali, che uscì a dispense dall'ottobre 1857, preannunciata dalla stampa sin da maggio ed elogiata per lo stile vivace e spontaneo. Il romanzo, che restò (forse intenzionalmente) interrotto al primo volume, intendeva essere sin dal titolo parodia della narrativa d'appendice alla E. Sue (I misteri di Parigi), ma si risolve, senza il consolante lieto fine del romanzo popolare, in un'amara critica della società fiorentina, moralmente e politicamente decaduta, condotta con uno stile fortemente espressivo e satirico, con esiti non di rado farseschi e surreali.  Durante la stesura di queste opere, il L. proseguì incessantemente la sua intensa attività di pubblicista e di operatore teatrale. Nel marzo 1856 assunse l'incarico di segretario della compagnia teatrale Romandiolo-Picena fondata da G. Servadio, facendo la spola nei mesi successivi tra Ancona, Bologna e Firenze e intrecciando una breve e tormentata relazione amorosa con il mezzosoprano Giulia De Filippi Sanchioli. Conclusa nell'ottobre del 1857 la sua attività di segretario della Romandiolo-Picena, tornò per breve tempo a Firenze, da dove ripartì improvvisamente (forse in seguito a un'altra infelice relazione amorosa) la primavera successiva, spostandosi tra Milano e Torino come critico del periodico L'Italia musicale.  Nella capitale sabauda nell'aprile del 1859 si arruolò nell'esercito piemontese e partecipò come soldato semplice alla guerra. Dopo l'umiliante armistizio di Villafranca, alla fine di agosto fu posto in congedo e ritornò a Firenze. Qui, amareggiato e depresso, iniziò a collaborare come "cronista settimanale" al giornale La Nazione, diretto dall'amico A. D'Ancona, espressione del gruppo moderato che faceva capo a B. Ricasoli. E proprio dalla cerchia di Ricasoli, tramite C. Bianchi, gli venne chiesto di scrivere una replica all'opuscolo La politica napoleonica e quella del governo toscano del conservatore federalista e neoguelfo E. Albèri, uscito (con la falsa indicazione di Parigi, in realtà a Firenze) ai primi di dicembre del 1859. In esso, con un violento attacco contro i toscani filopiemontesi, i plebisciti e il partito unitario, si propugnava l'istituzione di un Regno dell'Italia centrale, da assegnare, secondo il desiderio di Napoleone III, a Gerolamo Bonaparte. Il L. rispose con l'ironico e brioso Il sig. Albèri ha ragione!( Dialogo apologetico (scritto a Collodi e pubblicato a Firenze alla fine di dicembre), in cui, fingendo di schierarsi dalla parte del professore bonapartista, ne ridicolizzava la proposta politica, sottolineando come sull'ipotesi dell'annessione convergesse la volontà prevalente dei Toscani.  Nel febbraio del 1860, per interessamento del marchese Ginori e di Ricasoli, ricevette la nomina per il modesto ruolo di commesso aggregato della commissione di censura teatrale; in marzo condusse dalle colonne de La Nazione un'accesa campagna in sostegno dei plebisciti annessionistici. Nei mesi successivi si imbarcò nell'impresa della riesumazione (dal 15 maggio 1860) del quotidiano umoristico Il Lampione, di cui era insieme fondatore, compilatore e direttore (fino al marzo 1861, mentre il fratello Paolo ne era l'amministratore) e che, presentandosi come prosecuzione del giornale interrotto nel 1849, intendeva incarnare ed esprimere l'evoluzione (non solo del L.) dal repubblicanesimo quarantottesco al successivo e più maturo lealismo annessionistico.  A questa amara e disillusa evoluzione politica corrispondeva del resto l'insoddisfazione personale per la sua posizione lavorativa, ormai stabile ma modesta e non amata. Ai doveri del suo ufficio il L. si dedicò sempre senza entusiasmo, anche quando, nel 1864, ebbe la nomina a segretario di seconda classe nell'amministrazione provinciale di Firenze e poi, nel 1874, quella a segretario di prima classe: appena poté, nel giugno 1881, chiese e ottenne di essere collocato a riposo.   Le non onerose incombenze del suo impiego, pertanto, non gli impedirono di occuparsi con crescente intensità delle sue molteplici attività di pubblicista, scrittore teatrale e, infine, di cultore di cose di lingua. Così, nel novembre 1860, recandosi a Milano per contattare Tenca e il gruppo del periodico Il Crepuscolo, fu cooptato come segretario aggiunto nella Commissione promotrice del Panteon italiano, cui era collegato il progetto di un'edizione nazionale delle opere di Dante.  Nel 1861 pubblicò l'opuscolo La Manifattura delle porcellane di Doccia, steso (probabilmente per iniziativa del fratello Paolo, direttore della fabbrica Ginori) come guida storica e illustrativa dell'industria dei marchesi Ginori in occasione dell'Esposizione italiana che si tenne quell'anno a Firenze. L'opuscolo del L., che ripercorreva abbastanza fedelmente la linea espositiva di un analogo volumetto compilato ancora da Albèri circa vent'anni prima, era anche un "elogio della politica illuminata dei marchesi Carlo ("l'Owen della Toscana") e Lorenzo, per migliorare le condizioni di vita dei propri operai" (Marcheschi, in C. Collodi, Opere, p. XCIII).  Sempre nel 1861, ne Il Lampione, apparve la commedia Gli estremi si toccano, in seguito ampliata (probabilmente nel 1867) con il titolo La coscienza e l'impiego, amara satira politica contro l'eterno trasformismo, e in novembre poté finalmente far rappresentare il dramma Gli amici di casa, rielaborato sul modello delle opere di V. Sardou in forma di commedia in tre atti: l'accoglienza della critica fu tiepida, ma unanime consenso ricevette la vivacità linguistica del testo.  Al teatro il L. continuò a dedicarsi per tutto il decennio successivo sia per dovere d'ufficio (dal 1862 faceva parte della Società d'incoraggiamento teatrale e il 23 sett. 1867 nella Gazzetta d'Italia apparve un suo importante articolo tecnico sulla Censura teatrale in Italia) sia come critico e in qualità di autore. Nel 1870 pubblicò a Firenze la commedia in tre atti L'onore del marito, rappresentata per la prima volta al teatro Niccolini nel 1872, rivolta non tanto alla condanna dell'adulterio quanto a sottolineare la vitalità della borghesia attiva rispetto all'infiacchita e oziosa aristocrazia italiana. In quel periodo attese anche alla stesura della commedia in quattro atti Antonietta Buontalenti, che non risulta essere stata rappresentata; al 1872 risale inoltre la composizione della commedia in due atti I ragazzi grandi, rappresentata con scarso successo a Firenze nell'agosto dell'anno successivo. Subito trascritta in forma di racconto lungo (o romanzo breve), fu pubblicata a puntate nel Fanfulla nella primavera del 1873 con il significativo sottotitolo Bozzetti e studi dal vero. Con esso per un verso si indicava il registro di spietata lucidità con cui erano ritratti i protagonisti, viziati dall'ozio, dall'agiatezza e dall'opportunismo politico; per l'altro si chiariva come il "vero" che si prefiggeva il L., più che quello del naturalismo letterario, era quello nitido, rapidamente tratteggiato e nettamente chiaroscurato en plein air della contemporanea pittura toscana.  Del resto, anche nell'intensa attività giornalistica esercitata dal L. nel quindicennio che va dall'Unità al 1876 (in particolare in La Nazione, La Gazzetta del popolo e, dal 1871, nel Fanfulla), la sua attenzione di notista politico e di osservatore e commentatore di costume andò concentrandosi, con toni progressivamente amari e disillusi, sull'esame dei problemi, dei conflitti e degli scandali dell'Italia appena unificata, con attacchi sempre più ironici e velenosi contro personaggi e provvedimenti politici (come M. Coppino e la sua legge sull'istruzione elementare, Q. Sella e la tassa sul macinato, il corso forzoso e la politica fiscale dei governi della Destra) e soprattutto contro tipi, costumi e mentalità dominanti, fino all'acme paradossale e sferzante della Delenda Toscana, sarcastica lettera aperta a M. Minghetti, pubblicata il 30 genn. 1876 nel Fanfulla. Qui, in risposta alla ventata antitoscana successiva alla polemica sul privilegiato esercizio delle ferrovie, era esposta la paradossale e sferzante proposta di sopprimere la Toscana stessa, cancellandola dalla carta geografica del Regno d'Italia.  A questa oltranza polemica, pagata peraltro cara dall'impiegato L., diffidato, in quanto dipendente del ministero degli Interni, da G. Nicotera e da F. Crispi dal pubblicare articoli politici, seguì un deciso cambiamento di attività e di orizzonti.  In primo luogo, al giornalismo etico-politico militante subentrò una fase in cui il L. si dedicò al riordino e alla pubblicazione in volume del meglio della propria produzione pubblicistica (racconti e cronache) nelle raccolte, dai titoli programmaticamente eloquenti, Macchiette (Milano 1880) e Occhi e nasi. Ricordi dal vero (Firenze 1881). In esse riunì, senza alcuna revisione, semplicemente legate con il "filo di refe", come avvertiva non senza autoironica civetteria nella prefazione di Macchiette, le prove più tipiche della prosa giornalistica, caratterizzate da "sapienti scorciature e tagli narrativi" (Asor Rosa, p. 554) a formare un antinaturalistico ritratto "alla macchia" dell'Italia contemporanea, schizzato, cioè, "dal vero" non a "figurine intere" ma con i tratti essenziali dei "profili", gli occhi e i nasi (prefazione a Occhi e nasi).   Inoltre, si fece più consapevole la sua attenzione, sempre così acuta, ai fatti di lingua, e tale senso nativo della lingua venne precisandosi in una più chiara adesione al fiorentino vivo di tono medio. Proprio per questo nel 1868 fu nominato dal ministro E. Broglio membro straordinario della giunta per la compilazione del vocabolario dell'uso fiorentino, impresa alla quale, peraltro, dette scarso contributo.  Il L. si indirizzò, dapprima casualmente e occasionalmente, poi con impegno, assiduità e adesione personale sempre più convinti, verso la letteratura per l'infanzia. Questa gli offriva un terreno di illimitata libertà fantastica in cui superare la grigia realtà del presente e insieme la possibilità di una sua piena partecipazione al clima "fortemente pedagogizzante" del "mondo morale e intellettuale del tempo", dominato da un "bisogno incoercibile di guardare al di sotto della superficie" delle cose (Asor Rosa, p. 555), dal quale prendevano le mosse i due diversi ma in fondo convergenti filoni della letteratura verista e della letteratura moralistica e normativa alla De Amicis. L'occasione per quella svolta fu offerta nel 1875 al L. dalla dinamica casa editrice fiorentina dei fratelli Paggi, all'avanguardia nel fiorente mercato dell'editoria scolastica, che gli propose di tradurre i Contes e le Histoires di Ch. Perrault, nonché le favole della Contessa di Aulnoy e di Jeanne-Marie Le Prince de Beaumont. La versione, condotta dal L. con leggere variazioni rispetto agli originali e con stile piano ed elegantissimo, uscì l'anno seguente con il titolo Racconti delle fate e le illustrazioni di E. Mazzanti.  Da allora, pur riprendendo la collaborazione al Fanfulla (1878) e continuando la sua attività di critico teatrale, il L. si mosse quasi esclusivamente nel campo della letteratura scolastica e per ragazzi. Così, sempre presso Paggi pubblicò con discreto esito i due libri di lettura Giannettino (1877), che sin nel titolo riprendeva il fortunato romanzo pedagogico Giannetto di L.A. Parravicini (1837), e Minuzzolo (1878): entrambi erano storie di bambini discoli o svogliati, ricondotti alla scuola e alla normalità dalle famiglie e da esperienze che li inducevano a riflettere (lo schema è già quello di Pinocchio, ma le peripezie dei due protagonisti si svolgono sullo sfondo della Firenze contemporanea).   Ormai accreditato tra i più ricercati autori di libri scolastici e per l'infanzia, il L. (che per le sue opere pedagogiche ottenne nel 1878 la nomina a cavaliere della Corona d'Italia e nel 1880 ricevette da A. Conti, assessore alla cultura del Comune di Firenze, l'incarico di compilare i libri di testo per le scuole fiorentine) si dedicò con insolita metodicità alla compilazione di una lunga serie di opere che configuravano una sezione autonoma, personale e sistematica, all'interno della "Biblioteca scolastica" della casa editrice Paggi. Nacque così, tra l'altro, una serie di volumi imperniati sulla figura di Giannettino: il Viaggio per l'Italia di Giannettino: Italia superiore (1880), seguito nel 1883 dal secondo volume dedicato all'Italia centrale e nel 1886 dal terzo, sull'Italia meridionale; La grammatica di Giannettino (1883); L'abbaco di Giannettino(1884); La geografia di Giannettino (1885); fino a La lanterna magica di Giannettino (1890). Con la loro formula innovativa questi testi costituirono una novità ben accolta dal mondo scolastico, ma non sempre apprezzata dai vertici più austeri e arcigni del ministero della Pubblica Istruzione (cfr. Raicich, p. 74 n.): le diverse discipline, infatti, erano esposte in forma decisamente scherzosa e discorsiva, spesso apertamente dialogica nell'intento di alleggerire la finalità didascalica del testo e rendere l'apprendimento il più possibile piacevole e "naturale".  Al centro di tale intensa attività vanno inquadrate la nascita e la complessa vicenda redazionale ed editoriale de Le avventure di Pinocchio. Il libro nacque per le insistenze di G. Biagi, vecchio amico del L., che lo voleva tra i collaboratori del periodico Il Giornale per i bambini di cui era animatore e che era stato fondato nel 1881 da F. Martini con l'ambizione di rinnovare la letteratura infantile italiana. Il L., ormai stanco e disilluso, rispose controvoglia inviando all'amico i primi tre capitoli di un testo intitolato La storia di un burattino (dallo stesso L. definito, con la consueta autoironia, "una bambinata"), pubblicati nei numeri di luglio del Giornale. I capitoli successivi apparvero nei numeri dal 4 agosto al 27 ottobre: la vicenda si concludeva al capitolo XV con l'impiccagione e la presunta morte del burattino. Forse per le insistenze di Biagi e certo per il successo riscosso dalla storia, il L., dopo molti dinieghi, si decise a proseguire la narrazione, il cui seguito, con il titolo ormai definitivo di Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino, iniziò a essere pubblicato (dal cap. XVI) dal febbraio 1882. La pubblicazione proseguì a ritmo irregolare durante tutto il 1882 per concludersi (con il XXXVI e ultimo capitolo) nel gennaio 1883. Velocissima fu invece la pubblicazione in volume, che uscì nel febbraio successivo presso Paggi, con le illustrazioni, di nuovo, di Mazzanti; sempre presso Paggi apparvero, e andarono presto esaurite, una seconda edizione nel 1886 (lo stesso anno in cui E. De Amicis pubblicava Cuore), una terza (1887) di cui non restano esemplari, e una quarta (1888). L'ultima edizione uscita vivente l'autore fu quella pubblicata nel 1890 presso R. Bemporad & figlio concessionari della Libreria Paggi. Non è sicuro che il L. abbia rivisto personalmente tutte queste edizioni, che pure furono stampate con il suo consenso; è certo, però, che nel corso delle varie ristampe il testo fu alterato da refusi e banalizzazioni.  Se ci si limita alle sole circostanze esterne della composizione e della pubblicazione di Pinocchio, dunque, può risultare fondata la qualifica di "capolavoro scritto per caso" risalente a P. Pancrazi. In essa, oltretutto, è cristallizzata in un'efficace formula critica la constatazione che la straordinaria qualità espressiva della "bambinata" ha finito per mettere in ombra il resto dell'intensa carriera letteraria e giornalistica del L., il quale, se non avesse scritto il suo capolavoro, sarebbe comunque restato, al di là delle sue ambizioni teatrali, uno dei protagonisti della narrativa umoristica e soprattutto del giornalismo della seconda metà dell'Ottocento.   In realtà, nell'archetipica polisemia della fiaba e con l'enigmatica perspicuità del capolavoro, in Pinocchio convergevano, in una struttura insieme profondamente coesa, traballante e sfuggente, tutte le componenti e le esperienze della vita e della carriera letteraria del L.: dalla sua lunga militanza come scrittore satirico e bozzettista (trasfusa nelle numerose figure e figurine che animano l'universo del burattino), alla sua intensa attività di autore di testi scolastici (da cui deriva il registro scherzoso e colloquiale con cui è condotta la narrazione), alla sua ricerca di una lingua non letteraria e mediana, che trova piena realizzazione nel toscano "vivo" in cui la celebre fiaba è narrata.  Di tutto ciò non si accorsero né i contemporanei, che decretarono a Le avventure di Pinocchio un successo crescente ma circoscritto all'esiguo spazio della letteratura infantile, mentre la fortuna editoriale della "bambinata" veniva crescendo fino a farne il libro più letto e tradotto al mondo dopo la Bibbia, né gli antesignani della critica collodiana (da P. Hazard, a Pancrazi, a B. Croce, fino ad A. Savinio e A. Baldini), i quali, rivolti a indagare e rivendicare Pinocchiocome capolavoro della letteratura mondiale, non si curarono di ricostruirne i nessi con la vita e la carriera del suo autore.  Negli anni della composizione e pubblicazione di Pinocchio, il L. proseguì la collaborazione al Fanfulla (fino al 1897) e assunse parte sempre più attiva nella gestione del Giornale per i bambini, di cui divenne direttore nel biennio 1883-85 e nel quale pubblicò racconti e novelle quali Chi non ha coraggio vada alla guerra. Proverbio in due parti, La festa di Natale e Pipì lo scimmiottino color di rosa, quest'ultima confluita con altri racconti e memorie, tra cui il brioso dialogo Dopo il teatro, nel volume Storie allegre pubblicato nel 1887, sempre presso Paggi.  L'anno prima era morta la madre, presso la quale il L. ancora viveva, e per lui fu un colpo da cui non riuscì a riprendersi. Gli anni successivi furono i più tristi e solitari della vita del L. che, già minato nel fisico, venne sempre più chiudendosi in se stesso e isolandosi nel suo lavoro.   Il L. morì a Firenze improvvisamente, la sera del 26 ott. 1890.  Dopo la sua morte, su incarico del fratello Paolo, il grammatico e lessicografo purista G. Rigutini ordinò e raccolse in due volumi (Note gaie e Divagazioni critico-umoristiche, editi entrambi a Firenze nel 1892) gran parte delle prose sparse del L., intervenendo con arbitrarie correzioni e aggiunte ai testi. Rigutini e il fratello Paolo, inoltre, passarono in rassegna la vasta raccolta delle sue carte, provvedendo a distruggere quasi tutte le lettere (private o d'argomento politico) che avrebbero potuto nuocere all'onorabilità del L. e di molti viventi, e soprattutto molti inediti, al fine di salvaguardare "il buon nome del Collodi scrittore" (cfr. Paolo Lorenzini [Collodi nipote], pp. 70, 74). Le non molte carte sopravvissute furono donate dall'ultimo dei fratelli, Ippolito, alla Biblioteca nazionale di Firenze.  Fonti e Bibl.: Firenze, Biblioteca nazionale, N.A., 754: Carte Lorenzini, cassette I, II, III; un altro nucleo di carte è custodito presso l'archivio del Gruppo editoriale Giunti Bemporad Marzocco di Firenze, erede della casa editrice Paggi (cfr. M.J. Minicucci, Tra l'inedito e l'edito delle carte manoscritte di C. L., in Studi collodiani. Atti del I Convegno internazionale,( 1974, Pescia 1976, pp. 381-403). Altri documenti sono presso l'Autografoteca Bastogi della Biblioteca Labronica F.D. Guerrazzi di Livorno e presso la Biblioteca nazionale di Roma. Infine, numerosi cimeli sono conservati presso la Biblioteca Marucelliana di Firenze (cfr. i cataloghi Collodi giornalista e scrittore, a cura di R. Maini - P. Scapecchi, Firenze 1981; Pinocchio e pinocchiate nelle edizioni fiorentine della Marucelliana, a cura di R. Maini - M. Zangheri, Firenze 2000).  Tra le testimonianze biografiche contemporanee, i necrologi di E. Checchi e Yorick (rispettivamente nel Fanfulla della domenica e nella Domenica fiorentina, 2 nov. 1890; i profili premessi dai curatori a due successive edizioni delle Note gaie del L. (a cura di G. Rigutini, Firenze 1892, pp. V-XVI; a cura di I. Cortona [Lorenzini], ibid. 1911, pp. III-XL); G. Biagi, Il babbo di "Pinocchio": C. Collodi, in La Lettura, marzo 1907, pp. 184-190; F. Martini, Confessioni e ricordi (Firenze granducale), I, Firenze 1922, pp. 168 s.; inoltre P. Lorenzini, Collodi e Pinocchio, Firenze 1954; R. Bertacchini, Il padre di Pinocchio. Vita e opere del Collodi, Milano 1993; B. Traversetti, Introduzione a Collodi, Roma-Bari 1993; Cronologia, in C. Collodi, Opere, a cura di D. Marcheschi, Milano 1995, pp. LXVII-CXXIV. Manca un'edizione completa delle opere del L.: il progettato Tutto Collodi, a cura di P. Pancrazi, è rimasto interrotto al primo volume (Firenze 1948); la più ampia raccolta attualmente disponibile è quella delle Opere, a cura di D. Marcheschi, che nella Bibliografia delle opere di C. Collodi dà conto delle numerose edizioni e ristampe dei testi giornalistici e delle opere minori (narrative e teatrali) del L.: va inoltre ricordata la ristampa anastatica della Grammatica di Giannettino, a cura di F. Geymonat, Firenze 2003.  De Le avventure di Pinocchio si segnalano solo le edizioni di particolare rilievo: le due edizioni critiche, la prima a cura di A. Camilli, Firenze 1946 (basata sull'edizione Paggi del 1883); la seconda, a cura di O. Castellani Pollidori, Pescia 1983 (fondata sull'edizione Bemporad 1890 - l'ultima rivista dall'autore -, ma corredata delle varianti delle precedenti stampe e dei manoscritti dell'autore); inoltre, le tre edizioni curate da F. Tempesti (tutte pubblicate a Milano) nel 1972, nel 1983 e nel 1993, corredate da un ampio commento e da ricchi apparati documentari; infine, quella compresa nella raccolta di Opere, a cura di D. Marcheschi, cit. (pp. 359-526), con ampio corredo di note (pp. 916-1003). Tra le più recenti, quella (Torino 2002) con introd. di S. Bartezzaghi e prefaz. di G. Jervis, e quella (Milano 2002) con introd. di P. Italia (pp. VII-XXII) e prefaz. di V. Cerami (pp. XXII-XXVII).  Per il resto si rinvia (anche per la letteratura critica) alla Bibliografia Collodiana (1883-1980)di L. Volpicelli (Pescia 1980), da integrare con la citata Bibliografia di D. Marcheschi (pp. 1119-1130, aggiornata al 1994), alla consultazione del catalogo della Biblioteca Collodiana e all'Archivio digitale degli articoli su C. Collodi e Pinocchio (on-line su internet), gestiti dalla Fondazione nazionale Carlo Collodi di Pescia.  La storia degli studi critici sul L. (in gran parte contributi su Pinocchio) è ricostruita in due ampie panoramiche: Da Collodi a L.: sulla fortuna critica di D. Marcheschi, in C. L. oltre l'ombra di Collodi, a cura di G.E. Viola - F. Rovigatti, Roma 1990, pp. 55-64; Pinocchio tra due secoli. Breve storia della critica collodiana di R. Bertacchini, in C. L.- Collodi nel centenario. Atti del Convegno, Roma-Pescia( 1990, Roma 1992, pp. 121-164. Pertanto, diamo per esteso solo i riferimenti agli incunaboli della critica collodiana richiamati nel testo: P. Hazard, La littérature enfantine en Italie, in Revue des deux mondes, 15 febbr. 1914, pp. 842-870; P. Pancrazi, Elogio di Pinocchio [1921], in Id., Venti uomini, un satiro e un burattino, Firenze 1923, pp. 201-205; B. Croce, Pinocchio, in Id., La letteratura della Nuova Italia, V, Bari 1939, pp. 361-365; P. Bargellini, La verità di Pinocchio, Brescia 1942; A. Savinio, Collodi, in Id., Narrate uomini la vostra storia, Milano 1944, pp. 177-195; V. Fazio Allmayer, Commento a Pinocchio, Firenze 1945; A. Baldini, La ragion politica di "Pinocchio" (1876), in Id., Fine Ottocento. Carducci, Pascoli, D'Annunzio e minori, Firenze 1947, pp. 118-124; P. Pancrazi, Capolavoro scritto per caso[1948], in Id., Scrittori d'oggi, 5, Segni del tempo, Bari 1950, pp. 165-171. Inoltre, va ricordato l'impulso dato allo studio della personalità e dell'opera del L. dalla Fondazione nazionale Carlo Collodi, a Pescia, soprattutto con una lunga serie di congressi scientifici: Studi collodiani. Atti del I Convegno internazionale,( 1974, Pescia 1976; Pinocchio oggi. Atti del Convegno pedagogico,( 1978, Pescia-Collodi 1980; "C'era una volta un pezzo di legno". Atti del Convegno "La simbologia di Pinocchio", Pescia( 1980, Milano 1981; Folkloristi italiani del tempo del Collodi(, Pescia( 1982, a cura di P. Clemente - M. Fresta, Montepulciano 1986; Pinocchio fra i burattini. Atti del Convegno internazionale, ( 1989, a cura di F. Tempesti, Firenze 1993; Pinocchio sullo schermo e sulla scena. Atti del Convegno internazionale,( 1990, a cura di G. Flores d'Arcais, Firenze 1994; Scrittura dell'uso al tempo del Collodi( 1990, a cura di F. Tempesti, Firenze 1994; Pinocchio nella pubblicità(, Pescia( 1995, a cura di P.F. Bernacchi, Firenze 1997; Sterne e Collodi. Atti della tavola rotonda,( 1995, Lucca 1999.  Per il centenario della morte del L. vanno ricordati il volume promosso dalla Banca Toscana, C. Collodi, lo spazio delle meraviglie, a cura di R. Fedi, con introduzione di L. Comencini e Suso Cecchi D'Amico, s.l. [ma Firenze] 1990 e le citate pubblicazioni dell'Istituto dell'Enciclopedia Italiana a Roma: il catalogo C. L. oltre l'ombra di Collodi; e gli atti del Convegno C. L.- Collodi nel centenario.  Tra gli studi dell'ultimo decennio: M. Raicich, Di grammatica in retorica. Lingua scuola editoria nella Terza Italia, Roma 1996, pp. 3-7, 71 s., 74, 231; G. Cives, Pinocchio tra realtà e sogno, in F. Cambi - G. Cives, Il bambino e la lettura. Testi scolastici e libri per l'infanzia, Pisa 1996, pp. 279-314; E. Giachery, Tre compari intorno a un burattino, in Id., La letteratura come amicizia, Roma 1996, pp. 137-146; M. Gómez del Manzano - G. Janier Manica, Pinocchio in Spagna, Scandicci 1996; A. Asor Rosa, Le avventure di Pinocchio, in Id., Genus Italicum. Saggi sull'identità letteraria italiana nel tempo, Torino 1997, pp. 551-617; P. Citati, Il ritratto di "Pinocchio", in Id., Ritratti di donne, Milano 1997, pp. 148-160; G. Cives, Da "Pinocchio" a "Cuore": due fortune molto diverse, in Scuola e città, XLVIII (1997), pp. 13-23; M. Farnetti, I notturni di Pinocchio, in Id., L'irruzione del vedere nel pensare. Saggi sul fantastico, Pasian di Prato 1997, pp. 71-86; G. Gasparini, La corsa di Pinocchio, Milano 1997; D. Lanza, Lo stolto. Di Socrate, Eulenspiegel, Pinocchio e altri trasgressori del senso comune, Torino 1997, pp. 170-175; F. Tempesti, Pinocchio, in I luoghi della memoria: strutture ed eventi dell'Italia unita, a cura di M. Isnenghi, Roma-Bari 1997, pp. 115-137; V. Spinazzola, Pinocchio & C., Milano 1997 (in partic. pp. 9-97); P.M. Toesca, La filosofia di Pinocchio, ovvero l'Odissea di un ragazzo per bene con memoria di burattino, in Forum Italicum, XXXI (1997), 2, pp. 459-486; L. Pizzoli, Sul contributo di "Pinocchio" alla fraseologia italiana, in Studi linguistici italiani, XXIV (1998), pp. 167-209; R. Randaccio, La "Legge shandyana del nome" nei personaggi di C. Collodi, in Riv. italiana di onomastica, IV (1998), pp. 59-69; R. Bertacchini, Collodi poeta di teatro, in Nuova Antologia, 1999, n. 2122, pp. 244-253; G. Biffi, Alcuni interrogativi su Collodi e Pinocchio, in Studi cattolici, XLIII (1999), pp. 522-526; R. Campa, La metafora dell'irrealtà: saggio su "Le avventure di Pinocchio", Lucca 1999; Sterne e Collodi, Lucca 1999 (testi di R. Bertacchini, D. Marcheschi, F. Tempesti); E. Guagnini, Il "Romanzo in vapore" e la tradizione delle guide e della letteratura di viaggio, in Id., Viaggi d'inchiostro. Note su viaggi e letteratura in Italia, Udine 2000, pp. 69-84; T. Iermano, Da Parravicini a De Amicis: considerazioni sulla letteratura per l'infanzia tra Risorgimento e Italia umbertina, in Studi piemontesi, 2000, n. 2, pp. 345-362; M. Carosi, Pinocchio. Un messaggio iniziatico, prefaz. di G. De Turris, Roma 2001; A. Gnocchi - M. Palmaro, Ipotesi su Pinocchio, Milano 2001; S. Moret, Pinocchio e le "pinocchiate" in Francia, in Levia gravia, III (2001), pp. 77-88; L. Tamburini, Il cuore di Collodi e quello di De Amicis, in Studi piemontesi, XXX (2001), 2, pp. 295-314; M. Villoresi, La letteratura poliziesca e del mistero ambientata a Firenze. Contributo per un itinerario di ricerca, in Archivi del nuovo, 2001, n. 8-9, pp. 65-83; M. Scollo Lavizzari, Della disubbidienza in Pinocchio, in Nuovi Argomenti, s. 5, ottobre-dicembre 2002, n. 20, pp. 322-339; F. Geymonat, Una grammatica di buon senso, in C. Collodi, La grammatica di Giannettino, a cura di F. Geymonat, Firenze 2003, pp. I-XVIII; C. Marello, La dubbia efficacia del paternalismo induttivo, ibid., pp. XIX-XXII; O. Castellani Pollidori, In riva al fiume della lingua. Studi di linguistica e filologia (1961-2002), Roma 2004, ad ind.; Il giro di Pinocchio in due giornate. Convegno internazionale di studi, Pisa( 2004 (in corso di stampa).  D. Proietti Ho intervistato Emilio Garroni il 21 settembre 2004, presso la sua casa di Roma. Pochi mesi prima avevo deciso, insieme al mio relatore Prof. Leonardo Amoroso, di scrivere una tesi sull’estetica di Garroni. Garroni, molto gentilmente, non solo ha concesso l’intervista ma l’ha rivista e mi ha fornito indicazioni importanti per la stesura della tesi1. 1. Prof. Garroni, nei suoi testi c'è stato un progressivo spostamento di interesse dalla semiotica all'estetica, in che modo lo descriverebbe? Come lo motiva? Io mi sono occupato molto prima di estetica che di semiotica. Ma quando ho cominciato ad occuparmi di semiotica, l’interesse non era rivolto solo alle opere d’arte, anche se l’occasione fu questa. Perché mi sono occupato di semiotica? Sono stato attratto anch’io nel vortice della moda della semiotica, cominciata nei primi anni ’60, forse negli ultimi anni ’50. Ma forse avevo anche qualche motivo serio per farlo. Provenivo dalla cultura estetica imperante in Italia fino a tutti gli anni ’40, di tipo crociano, dove l’arte viene riportata all’intuizione, e non si dice quasi nulla di più. Non si sa in alcun modo come l’estrinsecazione di questa intuizione si strutturi e sia analizzabile. Lo stesso Croce nelle sue opere critiche conduce analisi critiche vere e proprie in modo assai esiguo. Poesia e non-poesia e quasi nient’altro. Anche i tentativi che furono fatti sulla scia 2crociana nell’ambito di arti particolari, nell’architettura da parte di Bruno Zevi , nella musica da parte di altri e così via, servirono fino a un certo punto, perché restava pur sempre quelle categoria fissa e indistinta dell’intuizione. Tanto meno si poteva sapere, come pure era nella mente di Croce, se e quando un’opera d’arte fosse veramente un’opera d’arte, se si potesse distinguere fra un’opera d’arte riuscita e un’opera d’arte non riuscita e quindi non più opera d’arte. Appunto questo intuizionismo mi urtava. Non a caso mi avvicinai in un 1 Questa intervista nasce dunque come appendice alla mia tesi di laurea, ovvero: Fiorenzo Ferrari, Estetica e filosofia in Emilio Garroni, tesi di laurea discussa presso l’Università degli Studi di Pisa, Facoltà di Lettere e Filosofia, Corso di Laurea in Filosofia, relatore prof. Leonardo Amoroso, a.a. 2004-2005. 2 Cfr. Bruno Zevi, Saper vedere l’architettura, Einaudi, Torino, 1949.   Intervista a Emilio Garroni 2  primo momento a Galvano della Volpe, citato già nel mio primo libro del ‘643 e ampiamente discusso insieme al pensiero di Anceschi, di Formaggio e di molti altri. Perché Galvano della Volpe? Perché in lui c’era l’esigenza di riportare l’opera d’arte a un uso specifico del linguaggio: in lui insomma l’opera si presentava come analizzabile, ed effettivamente della Volpe conduceva analisi semantiche, piacciano o no, più che analisi sorvolanti sulla mera forma. Tali analisi semantiche si occupavano inoltre anche di varie arti non linguistiche. L’appendice alla Critica del gusto4, che riprende il tema del Laocoonte lessinghiano, contiene infatti riferimenti, per esempio, alla pittura, e non è un caso che al proposito si citi Cesare Brandi, che non fu mai un semiotico, anzi fu un accanito antisemiotico, e tuttavia poneva le basi di un’autentica analisi dell’opera d’arte. Tra parentesi: io apprezzavo e apprezzo tuttora moltissimo Brandi, che ho sempre letto fin dall’inizio, fin dagli anni ’40. Insomma: mi interessava di poter disporre di una teoria che permettesse di analizzare, sì, la struttura delle opere, ma anche la loro struttura comunicativa. Ero tuttavia contrario al modo semplicistico allora adottato frequentemente, di prendere pezzi materiali di opere e classificarli come segni (per esempio, nell’architettura, «capitello», «colonna», «base», e così via), e ho tentato invece un’impresa molto più difficile e in qualche modo più fine, che però si dimostrò anch’essa fallimentare o piuttosto inutilizzabile. Mi sforzavo cioè di produrre una semiotica formale mediante operazioni analoghe a quelle che si conducono sul linguaggio, dove appunto si arriva a unità formali, non materiali. Monemi e fonemi, per esempio, non sono pezzetti di frase, ma unità formali costitutive della sequenza linguistica. Volevo ottenere insomma una autentica leggibilità dell’opera, non puramente retorica, ma aderente alla sua costituzione. Non pretendevo, certo, di arrivare attraverso l’analisi di un’opera a giustificare la sua bellezza o non bellezza, il giudizio estetico è un'altra cosa, volevo solo analizzare e capire l’oggetto, che poteva poi essere opera d’arte o altre cose, anche non opere d’arte, anche oggetti comuni. Ho intrapreso dunque questa impresa assai ardua, ma a un certo punto mi sono accorto che quel lavoro poteva forse essere interessante come mero esperimento, ma non portava a niente. In realtà non portava a niente né la semiotica materiale di tanti altri, né la mia semiotica formale. Ho avuto una vera e propria crisi teorica dopo aver scritto Progetto di semiotica5, libro semioticamente troppo ambizioso. La crisi si risolse con Ricognizione della semiotica6, che è una dichiarazione di abbandono sostanziale della semiotica e un’apertura più decisa, anche se già più che affiorante negli scritti precedenti, verso altri orientamenti. Una precisazione importante: mi sono distaccato dagli studi di semiotica sulla base di un accorgimento ancora più fondamentale, vale a dire: avevo tentato di utilizzare opportunamente gli strumenti linguistici anche per i linguaggi non verbali e di arrivare a soluzioni non ovviamente identiche, ma analoghe, nella definizione del loro codice, e mi sono accorto a un certo punto che neanche il codice linguistico è un vero e proprio codice. C’è, sì, una parte codificata, fonematica, monematica e grammaticale, ma nell’uso, poi, il linguaggio è creativo, continuamente si amplia, muta, e così via. E mi sono convinto che sarebbe stato assurdo pretendere qualcosa di 3 Emilio Garroni, La crisi semantica delle arti, Officina Edizioni, Roma, 1964. 4 Galvano della Volpe, Critica del gusto, Feltrinelli, Milano, 1960. 5 Garroni, Progetto di semiotica. Messaggi artistici e linguaggi non-verbali, Problemi teorici e applicativi, Laterza, Bari, 1972. 6 Garroni, Ricognizione della semiotica. Tre lezioni di, Officina Edizioni, Roma, 1977.   Intervista a Emilio Garroni 3  più da linguaggi chiaramente ancora meno codificati, come per esempio il presunto linguaggio figurativo. Mi ha allontanato dalla semiotica, inoltre, l’approfondimento del pensiero di Kant. Naturalmente, mi ero da sempre occupato di Kant e in particolare della terza Critica, almeno dagli anni ‘60 e anche prima, e ho tenuto sull’argomento vari corsi di lezioni. E via via che andavo maturando una mia interpretazione di Kant, essa era sempre più in collisione con una prospettiva semiotica. Non che le opere non siano analizzabili, ma sono analizzabili con strumenti diversi, non con strumenti propriamente semiotici. Ma questo è un altro discorso. 2. Come reputa di inserirsi nella tradizione kantiana in Italia? Quali sono stati e sono i suoi riferimenti imprescindibili in essa, e come ritiene di averli rielaborati? Chi sono stati e sono i suoi interlocutori privilegiati? Il riferimento più significativo è stato ed è Scaravelli. Scaravelli dà un’inter- pretazione fulminante della terza Critica7, mettendo in evidenza cose che non erano mai state viste, e che invece, dopo aver letto Scaravelli, risultano addirittura ovvie. Debbo citare anche un autore, un po’ più antico, che pure dice cose molto interessanti: Baratono, che sostanzialmente interpreta il principio estetico della facoltà di giudizio come un principio per la possibilità dell’esperienza particolare della natura e quindi della scienza8. È insomma una parziale anticipazione di Sca- ravelli. Un ultimo riferimento notevole è Vittorio Mathieu, che è giunto a risultati analoghi nei riguardi del cosiddetto Opus postumum9. Questi sono i miei più importanti riferimenti. Tutti italiani? Naturalmente ho letto e apprezzato anche molte opere di stu- diosi non italiani, da Cassirer a De Vleeschauwer, da Hinske a Guyer, e così via. Ma sa che cosa si dice, scherzando, ma fino a un certo punto, in Germania, proprio nell’ambiente di Hinske?, che gli studi kantiani si sono ormai trasferiti in Italia. I miei interlocutori... non è che io abbia tanti interlocutori. Insomma: molti che si occupano di Kant non si occupano molto di me, e io non mi occupo molto di loro. Alcuni interlocutori, sì, li ho, e ottimi. Per esempio Marcucci, con cui ho avuto anche una corrispondenza che, come lei sa, è stata pubblicata, mi pare, in «Studi di estetica»10. Con Marcucci sono in ottimi rapporti, abbiamo sempre scambiato idee, mi manda i suoi libri e i suoi saggi e io gli mando i miei. Insomma discutiamo, anche se non siamo sempre d’accordo, soprattutto sul punto fondamentale dell’interpretazione del principio estetico della facoltà di giudizio. Ma spesso è più 7 Le considerazioni più rilevanti sulla terza Critica sono in: Luigi Scaravelli, Osservazioni sulla «Critica del Giudizio» (1955), poi in Scaravelli, Scritti kantiani, La Nuova Italia, Firenze, 1968. 8 Cfr. Adelchi Baratono, Il pensiero come attività estetica. Introduzione alla Critica del Giudizio, in «Logos», X, 1-2, 1927. 9 Vittorio Mathieu, La filosofia trascendentale e l’ «Opus postumum» di Kant, Edizioni di «Filosofia», Torino, 1958; Immanuel Kant, Opus postumum, a cura di V. Mathieu, Zanichelli, Bologna, 1963. 10 Garroni, Silvestro Marcucci, Lettere kantiane, in «Studi di estetica», V, 1979-80.   Intervista a Emilio Garroni 4  proficuo non essere d’accordo, che l’esserlo11. E ancora: Amoroso. Con Amoroso ho scambiato idee, ho letto il suo libro su Kant che apprezzo molto12. Per esempio, ci siamo visti in occasione di un seminario kantiano a Palermo13, e abbiamo parlato a lungo. E ancora Makkreel, che ho conosciuto a Cerisy La-Salle14, e La Rocca, che mi interessa molto. A proposito di Cerisy, proprio lì Amoroso ed io scoprimmo, chiacchierando insieme, non senza stupore e forse con un po’ di disappunto, che stavamo entrambi traducendo la terza Critica15, rispettivamente: Critica della capacità di giudizio16 e Critica della facoltà di giudizio17. Ma dovrei ricordare alcuni dei miei allievi, con cui sono molto legato e con cui c’è sempre stato uno scambio molto forte su problemi kantiani: Di Giacomo, Montani, Catucci, Velotti, che ha scritto un bel libro che si occupa largamente di Kant, recentemente edito da Laterza18. E soprattutto Miki Hohenegger, con il quale ho lavorato insieme nella traduzione della terza Critica, edita da Einaudi, e nella stesura della relativa Introduzione. E altri ancora. La Rocca è un caso per me leggermente, come dire?, angustiante, perché è un ottimo studioso ed è per fortuna d’accordo con me su molti punti, abbiamo anche parlato insieme oltre che scritto reciprocamente uno dell’altro, però non accetta, al pari di Marcucci, la mia interpretazione del principio estetico come il principio stesso della facoltà del giudizio19. Eppure Kant dice, mi pare più volte e chiaramente in tutto il testo, che quello è l’unico principio costitutivo della facoltà di giudizio, mentre il principio teleologico è soltanto derivato da quello. Il caso di La Rocca è in un certo senso l’inverso del caso di Desideri, che è senza dubbio, anche lui, un studioso bravo, interessante, forse un po’ complicato qualche volta, ma bravo. Perché inverso? Perché recentemente è uscito un suo libro20, in cui lui riprende in sostanza la mia interpretazione, che a lui sta bene, al contrario di La Rocca. Ebbene, 11 Cfr. Garroni, Estetica ed epistemologia. Riflessioni sulla “Critica del Giudizio” di Kant, Bulzoni, Roma, 1976 (2a ed. con una Premessa dell’autore: Unicopli, Milano, 1998); Marcucci, Epistemologia ed estetica in Kant, in «Physis», XIX, 1977. 12 Leonardo Amoroso, Senso e consenso. Uno studio kantiano, Guida, Napoli, 1984. 13 Seminario promosso dal Centro Internazionale Studi di Estetica e svoltosi a Palermo, Grand Hotel des Palmes, 9-10 ottobre 1998. Tema del convegno: Baumgarten e gli orizzonti dell’estetica; contemporaneamente all’uscita di: Alexander G. Baumgarten, Lezioni di estetica, a cura di S. Tedesco, Aesthetica, Palermo, 1998. Hanno introdotto la discussione L. Amoroso, M. Ferraris, E. Garroni, L. Russo. Partecipanti: M. Carbone, G. Carchia, P. D’Angelo, G. Di Giacomo, R. Diodato, E. Ferrario, D. Goldoni, T. Griffero, P. Kobau, G. Lombardo, E. Mattioli, M. Mazzocut-Mis, P. Montani, P. Pimpinella, L. Pizzo Russo, R. Salizzoni, S. Tedesco, G. Tomasi, S. Velotti. La relazione di Garroni e altre relazioni e comunicazioni sono state poi pubblicate in «Aesthetica Preprint», 54, 1998. 14 A Cerisy si svolgono le attività del Centre Culturel International (www.ccic-cerisy.asso.fr). 15 Il Colloquio su L’Esthétique de Kant si svolse nel giugno 1993. Gli atti sono stati poi pubblicati in: AA.VV., Kants Ästhetik, hrsg. H. Parret, Walter de Gruyter, Berlin-New York, 1998. 16 Kant, Critica della capacità di giudizio, a cura di L. Amoroso, BUR, Milano, 1995. 17 Kant, Critica della facoltà di giudizio, a cura di E. Garroni e H. Hohenegger, Einaudi, Torino, 1999. 18 Stefano Velotti, Storia filosofica dell’ignoranza, Laterza, Roma-Bari, 2002. 19 Cfr. Claudio La Rocca, Soggetto e mondo. Studi su Kant, Marsilio, Venezia, 2003. 20 Fabrizio Desideri, Il passaggio estetico. Saggi kantiani, Il Melangolo, Genova, 2003.   Intervista a Emilio Garroni 5  curiosamente non ho mai avuto rapporti personali con lui, al contrario di La Rocca, se non di sfuggita in concorsi o cose del genere. E per di più Desideri scrive all’inizio del suo ultimo libro che questa idea gli è venuta leggendo una serie di libri, fra cui il mio, ma anche quelli di altri che negano recisamente questa tesi. Non capisco bene il perché. In ogni caso posso dire che con Desideri sono «idealmente» in rapporti di discussione. 3. Più volte Lei fa riferimento alla problematicità di una storia dell'estetica. In Estetica. Uno sguardo-attraverso21 si prendono in considerazione Burke e Batteux oltre a, naturalmente, Kant. Inoltre lì, e per un certo verso anche in Senso e paradosso22, si argomenta intorno alla possibilità di una rilettura motivata di testi definibili come «estetici» scritti prima del XVIII secolo, rilettura nella prospettiva del «senso» che è a Lei propria. Come ritiene quindi fattibile una storia dell'estetica? E con quali limiti? Non ho mai scritto una storia dell’estetica, né mi è mai venuto in mente di farlo, e ormai non la scriverò neppure in futuro. Però cominciano a uscire dei lavori interessanti, cioè esempi di una storia dell’estetica calibrata in modo diverso rispetto a quello tradizionale: una storia dell’estetica che non presume di trovare un’estetica dappertutto, tale e quale, così come si è costituita nel secolo XVIII. Si è ormai consci che si debbono fare distinzioni opportune. L’oggetto stesso della cosiddetta riflessione estetica, in senso molto lato, è diverso nei vari tempi, non è affatto identico a quello che noi chiamiamo opera d’arte bella, una categoria nata storicamente in un certo tempo. Ci sono, come dico spesso nei miei libri, somiglianze, identità parziali, ma anche differenze, talvolta molto forti, tra i vari oggetti sui quali si esercita la cosiddetta riflessione estetica. Questo significa che non si può scrivere una storia dell’estetica come storia di una disciplina e che però si può forse delineare un panorama di tutti quei fenomeni che, in qualche modo, hanno analogie con ciò che noi, poi, abbiamo chiamato opere d’arte bella e che richiedono parimenti un principio non intellettuale. Su questa base è nata una subcollanina laterziana di Cultura Moderna, da me diretta, dedicata ai problemi dell’estetica e dell’altro dall’estetica23, dove sono usciti alcuni ottimi libri, per esempio quello di Paolo D’Angelo sull’estetica della natura e dell’ambiente24. Dunque, estetica fino a un certo punto, che non si occupa di opere d’arte, ma di oggetti diversi che possono essere sottoposti a giudizi di tipo diverso, che non sono sempre, o quasi mai, puramente estetici, ma coinvolgono altri aspetti della nostra esperienza. E’ uscito poi un libro di Guastini sull’estetica antica, particolarmente interessante, perché riesce a chiarirla senza mai dimenticare che la filosofia antica non possiede una vera e propria estetica, non solo perché non sia sanzionata come disciplina, ma perché i suoi 21 Garroni, Estetica. Uno sguardo-attraverso, Garzanti, Milano, 1992. 22 Garroni, Senso e paradosso. L’estetica filosofia non speciale, Laterza, Roma-Bari, 1986. 23 La serie di Laterza si chiama: «Temi per l’estetica» ed appartiene alla collana «Biblioteca di cultura moderna». 24 Paolo D’Angelo, Estetica della natura. Bellezza naturale, paesaggio, arte ambientale, Laterza, Roma-Bari, 2001.   Intervista a Emilio Garroni 6  problemi erano alquanto diversi25. Ebbene, in quel libro si vedono bene, come le dicevo, e differenze e analogie. Insomma: questo è appunto un modo di fare storia dell’estetica senza pretendere di fare la storia di una disciplina, ma piuttosto la storia di un qualcosa di cangiante che circola nella riflessione e che tuttavia richiede una qualche condizione comune, qualcosa come il principio soggettivo della facoltà di giudizio. E del resto io stesso, il mio ultimo libro, l’ho intitolato L’arte e l’altro dall’arte, con questa precisa intenzione26. 4. Nei suoi più recenti saggi27, Lei lamenta il fatto che l'arte contemporanea non riesca più ad essere esemplificatrice di una prospettiva di senso: essa sarebbe solo una reduplicazione e sostituzione dell'esistente. In che modo valuta questi cambiamenti? Ritiene inoltre che vi siano nell'arte contemporanea propensioni opposte a questa tendenza generale? Sull’arte contemporanea ho poco da dire, ho poco da dire perché... Guardi, io mi sono interessato moltissimo di arte e storia dell’arte, occupandomi fin dagli anni ‘40 dell’arte antica e moderna, dai greci fino ai nostri giorni, compresa l’avanguardia novecentesca. Negli anni ’60 mi sono avvicinato di più all’arte che si stava facendo allora e ho scritto anche qualche saggio in onore di pittori che mi interessavano28. Ma questo interesse artistico è un po’ scemato col tempo. Perché? Un po’ per mie traversie intellettuali, non sempre testimoniate in libri e saggi, che mi hanno portato su altre strade. Un po’ perché credo che il giudizio che ho dato sull’arte attuale come riproposizione dell’esistente, con l’aggiunta di trovate e trovatine più o meno lodevoli, sia abbastanza valido. Io non so se esistano casi che facciano pensare il contrario, può darsi, non so dirglielo. Fino adesso non ne ho incontrati... qualcosa di «carino», sì, una invenzione che richiama l’attenzione... però tutto sommato mi pare che l’arte nella sua generalità tenda precisamente a quella riproposizione dell’esistente, attraverso i mezzi tecnologici oggi a disposizione. Le stesse installazioni, per esempio, che pure sono qualche volta opere di grande interesse, sono spesso la raccolta di oggetti trovati, ma con intenti diversissimi rispetto a Duchamps, e richiamano sempre l’esistente tale e quale, o quasi. In effetti è significativo che anche in quelle opere ci sia spessissimo un te- 25 Daniele Guastini, Prima dell’estetica. Poetica e filosofia nell’antichità, Laterza, Roma-Bari, 2003. 26 Garroni, L’arte e l’altro dall’arte, Laterza, Roma-Bari, 2003. Pochi giorni dopo l’intervista, Garroni mi ha inviato una e-mail con la bozza di quello che sarebbe stato davvero il suo ultimo libro: Garroni, Immagine Linguaggio Figura. Osservazioni e ipotesi, Laterza, Roma-Bari, 2005. 27 Cfr. Garroni, Relazione interna, relazione esterna e combinazione delle arti, relazione presentata al Convegno della Biennale Lo scambio delle arti nel ‘900, Venezia, 1998, poi in: Garroni, L’arte e l’altro dall’arte, cit.; Garroni, Senso e non-senso, conferenza letta a I Coloquio Latino-americano de Estética y de Critica di Buenos Aires e alla Facultad de Arquitectura Diseño y Urbanismo, novembre 1993, poi in: Garroni, Osservazioni sul mentire e altre conferenze, Teda, Castrovillari, 1994. 28 Garroni, Enrico Crispolti, Alfredo Del Greco, Biblioteca di Alternative Attuali, Roma, 1962; Garroni, Arte mito e utopia: 11 dipinti di Bice Lazzari, Tipografia Fonteiana, Roma, 1964; Garroni, Il mito negativo e la pittura di Vacchi, Officina, Roma, 1964; Silvio Benedetto, Amore Uno: 6 acqueforti, presentate da E. Garroni, Il Torcoliere, Roma, 1966; Silvio Benedetto (104 opere dal 1963 ad oggi), Galleria d’arte internazionale Due Mondi, Roma, 1966.   Intervista a Emilio Garroni 7  levisore, quasi che si volesse richiamare l’attenzione sulle comunicazioni di massa e sul fatto che quello che si mostra è proprio quello che potremmo incontrare andando in una casa che non conoscevamo. Naturalmente, non sto facendo previsioni per il futuro. Può darsi che tutto cambi, basta che emerga una personalità di talento, che faccia del nuovo diverso da quello che si fa adesso. Ma, a dire la verità, io non credo molto alle capacità taumaturgiche dei singoli talenti. I talenti sono un fatto, ma il loro emergere è condizionato dai tempi. E i nostri tempi sono tempi di degradazione, inadatti a sollecitare i talenti potenziali. Insomma, se l’arte mi pare giù di tono, non credo affatto che la colpa sia degli artisti, ma piuttosto dei nostri tempi disgraziati, che oppongono all’orrore ormai quotidiano la contemplazione dell’esistente ridotto a immagine televisiva o telematica. 5. Un filosofo citato nei suoi testi (insieme ad Heidegger e Wittgenstein) è John Dewey. I riferimenti a Dewey, pur significativi, sono più circoscritti rispetto a quelli nei confronti di Heidegger e Wittgenstein. Per quale ragione? Quali sono le sue idee ed opinioni sull'autore di L'arte come esperienza? Perché cito soprattutto Heidegger e Wittgenstein? Ognuno ha i suoi filosofi preferiti. Oltre a tutto, come è stato detto da Verra, Wittgenstein e Heidegger sono i due filosofi più importanti del XX secolo. Questo forse sarà un giudizio estremo. Senza dubbio ce ne sono altri importanti, ma sicuramente questi sono tra i pochi più importanti. Io ho trovato motivi di interesse per un certo verso più in Wittgenstein che in Heidegger. Heidegger non lo accetto per molti aspetti, ma certo ha intuizioni e riflessioni notevoli. In ogni caso mi hanno aiutato entrambi, o almeno lo spero, a capire come stanno le cose con la filosofia e con il problema stesso della filosofia. E qui allora vorrei citare ancora una volta un altro filosofo, che non cita più nessuno: Carabellese. Carabellese è stato per me un insegnamento fondamentale. Il modo di ricercare di Carabellese nell’ambito filosofico era stupefacente: la lettura del testo, lo smontaggio del testo, e lo scavare nel pensiero degli autori, talvolta non senza qualche coartazione qua e là, ma in ogni caso con serietà e profondità29. Confesso di preferire di gran lunga questo metodo a quello di certi filologi che capiscono a metà. Quella era la sua caratteristica principale. Io ho tentato di ispirarmi a quel metodo, anche se l’ammissione può nuocermi presso i filologi. Pazienza. Cito Dewey per una ragione semplicissima. Perché l’estetica di Dewey è un estetica precisamente nel mio senso più che non nel senso di molti altri. Non un’estetica dell’opera d’arte. Ha come oggetto non solo l’opera d’arte, ma certe esperienze, che rimandano ad un certo principio che è lo stesso di quello del giudizio estetico in senso stretto. Veramente, Dewey non parla esplicitamente di principi, ma fa esempi che non hanno niente a che fare con l’arte, assimilandoli tuttavia a questa sotto un comune denominatore: il pranzo in un ristorante francese, oppure la tempesta (se ricordo bene) durante una crociera, e così via. Però cito molto anche Brandi. Brandi, come le dicevo, è stato molto impor- tante per me, anche per il superamento della semiotica30, ma soprattutto per alcuni 29 Sul problema interno della filosofia, cfr. Pantaleo Carabellese, Che cos’è la filosofia?, in «Rivista di Filosofia», Anno XIII, 3, 1921. 30 Per le critiche alla semiotica, cfr. Cesare Brandi, Segno e immagine, Milano, Il Saggiatore, 1960.   Intervista a Emilio Garroni 8  aspetti filosofici della sua estetica, guarda caso proprio in riferimento allo sche- matismo kantiano, e per la sua prodigiosa capacità di lettura delle opere d’arte. Basta leggere i suoi Dialoghi31, l’Architettura barocca32, il Duccio33, eccetera eccetera, per rendersene conto. 6. Da sempre Lei ha alternato alle opere filosofiche, opere di narrativa34. C'è stata un'influenza tra i due ambiti? L’argomento dei miei scritti narrativi mi imbarazza leggermente, dato che cadono del tutto al di fuori dell’ambito dei miei lavori. Tuttavia non mi imbarazza dirle che li ho scritti con la stessa attenzione degli altri scritti, e, per di più, che essi meritavano forse un’attenzione maggiore, al di fuori della ristrettissima cerchia dei miei lettori, come dire?, «convinti». Non è uno sfogo da autore deluso. E’ una convinzione, credo non immotivata, che non nasce affatto dalla delusione. Ora lei mi chiede se c’è un’interrelazione tra i due ambiti. Senza dubbio, non può non esserci, perché sono sempre io che scrivo, quell’io che ha una certa storia, personale e culturale, e che è arrivato a certi risultati, buoni, cattivi o mediocri, questo non importa, in fatto di comprensione. E tuttavia ciò che scrivo nelle opere narrative non serve a spiegare nulla dei miei saggi. Anzi sarebbe una fonte di fraintendimento utilizzare quegli scritti per capire i miei saggi filosofici. Sono semmai gli scritti narrativi che esigerebbero una spiegazione ulteriore da parte dei saggi filosofici. Infatti si pongono in una posizione più arretrata. Sono, per così dire, una fabulazione interna di chi deve arrivare ad una vera comprensione cui non arriverà mai. Sono racconti di personaggi in qualche modo nevrotici e metafisici. Per esempio, ho usato queste due parole nel sottotitolo del libretto Racconti morali35: «lontananza» e «vicinanza». Ebbene i miei personaggi oscillano precisamente tra la lontananza dal mondo e la vicinanza al mondo, ma non si pongono mai il problema se questa oscillazione sia superabile, e quindi non arrivano mai a una comprensione critica della vicinanza con gli oggetti del mondo, né si pongono il problema se sia possibile guardare da lontano il mondo intero. In questo senso preciso sono racconti metafisici che intendono lasciare insoddisfatto il lettore con quella scrittura elaborata, saltellante, ripetitiva, cosparsa di frequenti contraddizioni, tutte intenzionali, ovviamente. Infatti questi personaggi nevrotici e metafisici sono fatalmente ambivalenti e contraddittori. Si potrebbe dire, per autocitarmi, che non hanno capito 31 Brandi, Carmine o della pittura, Scialoja, Roma, 1945; Brandi, Arcadio o della Scultura. Eliante o della Architettura, Einaudi, Torino, 1956; Brandi, Celso o della Poesia, Einaudi, Torino, 1957. 32 Brandi, La prima architettura barocca: Pietro da Cortona, Borromini, Bernini, Laterza, Bari, 1970. 33 Brandi, Duccio, Vallecchi, Firenze, 1951. 34 Garroni, La macchia gialla, Lerici, Milano, 1962; Garroni, I tasmaniani, Bucciarelli, Ancona, 1963; Garroni, Dissonanzen-Quartett. Una storia, Pratiche, Parma, 1990; Garroni, Racconti morali o Della vicinanza e della lontananza, Editori Riuniti, Roma, 1992; Garroni, Sulla morte e sull’arte. Racconti morali, Pratiche, Parma, 1994. Garroni si dedicava non solo alla letteratura ma anche alla pittura, alcuni dipinti sono riprodotti nel libro- intervista: Garroni, Doriano Fasoli, Il mestiere di capire, Edizioni Associate, Roma, 2005. 35 Garroni, Racconti morali, cit.   Intervista a Emilio Garroni 9  ciò che io chiamo «il guardare-attraverso». E tuttavia è vero che per arrivarci a capire qualcosa del genere, non dico quella formula, ma l’atteggiamento mentale che sta dietro a quella formula, forse bisogna proprio passare attraverso quelle oscillazioni tra vicinanza e lontananza. Quindi in qualche modo sono una premessa, anzi una sorta di postfazione, ai testi filosofici.  1. Emilio Garroni non è stato soltanto uno dei filosofi italiani più impor- tanti del secondo dopoguerra, ma anche una figura di intellettuale complessa e sfaccettata. Trovandosi di fronte alle sue molteplici attività e ai suoi svariati interessi, si sarebbe tentati di concentrarsi – per i fini di questo focus di «Syzetesis» dedicato ad alcuni Momenti di filosofia italiana – sui suoi contributi più convenzionalmente etichettabili come “filosofici”, quali quelli dedicati all’interpretazione del pensiero critico di Kant, tralasciando tutto il resto: le pratiche di narratore e di pittore (attraversate da specifiche auto-tematizzazioni teoriche e oggetto di riflessione saggistica), l’interesse per la psicoanalisi e la linguistica, gli interventi sulle arti visive, la letteratura e la musica – talvolta affidati a quotidiani, settimanali o cataloghi –, i numerosi saggi, sempre incisivi, su temi di grande impegno, dalla creatività alla spazialità, dalla verità alla menzogna1. A questi diversi aspetti dell’attività di Garroni potrò in effetti fa- re solo qualche cenno, tuttavia ho scelto di presentarne il pensiero se- condo un’angolazione in cui il confronto con Kant ha certamente un posto di rilievo, ma solo in funzione di quella che mi sembra la vera vocazione o passione dominante di Garroni, e che il titolo di una lunga intervista concessa a Doriano Fasoli poco prima di morire, nel 2005, mi pare colga bene: Il mestiere di capire2. L’impegno costante a capire – capire quello che la vita e la storia ci mettono davanti, capire “dove si sta”, capire “cosa si prova a essere un homo sapiens”3, capire i prodotti della cosiddetta cultura, capire o com- 1 La bibliografia più completa degli scritti di Garroni, curata da A. D’Ammando, è dispo- nibile sul sito dell’associazione “Cattedra internazionale Emilio Garroni” (https://www. cieg.info/ [14.09.2020]). 2 E. Garroni-D. Fasoli, Il mestiere di capire. Saggio-conversazione, Edizioni Associate, Roma 2005.  3 Cfr. E. Garroni, Che cosa si prova ad essere un homo sapiens?, testo introduttivo a A. B. Ferrari, L’eclissi del corpo. Una ipotesi psicoanalitica, Borla, Roma 1992, pp. 7-16; Garroni ha poi rielaborato questo testo in uno dei suoi ultimi scritti, uscito postumo, La mente, il corpo, le cose, in P. Carignani-F. Romano (eds.), Prendere corpo. Il dialogo tra corpo e mente in psicoanalisi: teoria e clinica, Franco Angeli, Milano 2006, pp. 27-36. 268   Il senso dell’esperienza: Emilio Garroni e l’estetica come filosofia non speciale   prendere la stessa attività di capire e comprendere, cioè la filosofia – è strettamente legato in Garroni alla riflessione su quel “senso dell’espe- rienza” che ho messo nel titolo di questo saggio. Un senso che non è affatto da intendersi come la pretesa metafisica di cogliere un “senso ultimo” dell’esistenza, della storia o dell’universo (su cui la filosofia, nella prospettiva critica adottata da Garroni, ha ben poco da dire), ma neppure come una dimensione immanente ma pacifica, in cui ci si installa con un po’ di buona volontà, rassicurandosi che, essendo una condizione antropologica, possiamo acquietarci nell’ordine vigente delle cose. Tutt’altro: per Garroni, come vedremo, il senso dell’espe- rienza è piuttosto un dover essere4, trascendentalmente ineludibile ma per niente garantito nei fatti, un compito etico irto di difficoltà, intima- mente paradossale, e sempre strutturalmente pronto a rovesciarsi in non-senso. 2. Per chiarire ancora qualcosa a proposito del titolo di questo inter- vento (la sua seconda parte, “l’estetica come filosofia non speciale”), è bene ricordare che per Garroni l’estetica non è affatto una filosofia dell’arte, una disciplina con un proprio oggetto epistemico o materia- le, ma riguarda le condizioni di possibilità di fare esperienze sensate in genere, nella vita quotidiana, nelle ricerche scientifiche, in tutte le attività umane, filosofia compresa. L’arte, semmai, è, o è stata per qualche secolo, un suo referente esemplare5. Per Garroni, infatti, è la stessa filosofia a doversi comprendere nella sua possibilità non empirica: la filosofia, come tutte le attività umane, è sì un’attività empirica, concreta, determinata, ma a differenza di altre attività, che mirano a produrre effetti pratici o conoscenze, ha piutto- sto il compito di «guardare-attraverso»6 le esperienze determinate, per 4 Cfr. E. Garroni, Sul dover essere del senso, in appendice a Id., Estetica. Uno sguardo- attraverso, Garzanti, Milano 1992 (seconda ed., Castelvecchi, Roma 2020, con un’in- troduzione di S. Velotti), pp. 245-270, testo presentato originariamente al convegno dell’Associazione italiana di studi semiotici “Semiotica ed epistemologia delle scienze umane” (Siena, 23-25 settembre 1988).  5 Cfr. E. Garroni, Senso e paradosso. L’estetica, filosofia non speciale, Laterza, Roma-Bari 1986, in particolare p. 179 ss. 6 Garroni usa il termine “guardare-attraverso”, con il trattino, per sottolinearne l’uso tecnico, quale traduzione del durchschauen usato da L. Wittgenstein nel § 90 delle Philo- sophische Untersuchungen, ed. by G. E. M. Anscombe and R. Rhees, Blackwell, Oxford 1953 (Trad. it. di R. Piovesan e M. Trinchero, Ricerche filosofiche, Torino, Einaudi 1967, p. 60: «È come se dovessimo guardare attraverso i fenomeni [die Erscheinungen durchschauen]: la nostra ricerca non si rivolge però ai fenomeni, ma alla ‘possibilità’ dei fenomeni»). 269   Stefano Velotti   risalire alle loro condizioni di possibilità intellettuali e non intellettua- li, tra cui appunto una condizione estetica, come orizzonte di senso dell’esperienza nella sua totalità indefinita e indeterminabile. Il com- pito di capire è inteso innanzitutto proprio come questo «guardare- attraverso» i fenomeni per comprenderli, cogliendone le condizioni di senso. Il cosiddetto «problema interno della filosofia»7 – con un’e- spressione ripresa questa volta da Pantaleo Carabellese, che Garroni ammirava e le cui lezioni aveva frequentato da studente alla Sapienza negli anni Quaranta – è infatti per Garroni un problema fondamentale, che riguarda il paradosso fondante della filosofia, cioè il suo esercitarsi dall’interno della stessa esperienza dalla quale, a un tempo, si distanzia per comprenderla, senza mai poter rivendicare un proprio altrove, un suo luogo metafisicamente appartato. 3. Vorrei partire, però, da qualche spunto di carattere biografico, ma solo per quel tanto che ci permette di intravedere l’urgenza anche contingente, socio-biografico-culturale, di quella passione per il capire stesso, che Garroni non considerava affatto un’esigenza contingente. Da giovane, Garroni aveva lavorato per diversi programmi televisivi della RAI, in parte dedicati alle arti, in parte ad altre questioni (ricor- do, per esempio, un bel documentario del 1960 su Adriano Olivetti, con quella che divenne la sua ultima intervista). Lavorava alla RAI per necessità, non per vocazione, per quanto la RAI di allora fosse cultu- ralmente molto più ricca di quella di oggi. Sono tanti i programmi che potrei citare a cui Garroni lavorò negli anni Cinquanta e Sessanta: tra gli altri, Piazze d’Italia, Musei d’Italia, Avventure di capolavori, Arti e scien- ze, Le tre arti, e soprattutto L’Approdo, iniziato come trasmissione radio- fonica nel 1944, con la direzione di Adriano Seroni e Leone Piccioni, diventato programma televisivo dal 1963 (come “settimanale di lettere e arti”), più tardi accompagnato da una sua rivista a stampa, nel cui comitato direttivo si trovavano alcuni dei più importanti intellettua- li dell’epoca (Riccardo Bacchelli, Carlo Bo, Emilio Cecchi, Roberto Longhi, Giuseppe Ungaretti, a cui bisognerebbe aggiungere altri col- laboratori di spicco)8, per non menzionare, nella RAI, la presenza di figure molto diverse tra loro ma tutte significative, come Carlo Emilio 7 E. Garroni, Senso e paradosso, cit., p. 130. 8 Cfr. A. Dolfi-M. C. Papini (eds.), L’Approdo: storia di un’avventura mediatica, Bulzoni, Roma 2006 e A. Grasso-V. Trione, Arte in TV. Forme di divulgazione, Johan & Levi, Monza 2014. 270    Il senso dell’esperienza: Emilio Garroni e l’estetica come filosofia non speciale   Gadda (tra il 1950 e il 1955) o, più tardi, di Andrea Camilleri, coetaneo di Garroni, o ancora di Umberto Eco, che di Garroni sarà, negli anni, un costante interlocutore. Garroni dà conto della sua attività televisiva in un’interessante in- tervista del 1994, da cui voglio prelevare solo una frase, apparentemente ovvia, ma credo invece rivelatrice del suo atteggiamento inflessibil- mente volto al capire: un curatore o conduttore di una trasmissione culturale, o sulle arti – dice lì Garroni – deve essere certamente colto, «ma c’è di più: deve essere, nel campo della letteratura, delle arti figura- tive, della musica, oltre che colto, anche intelligente»9. Sembra, e forse è, un’ovvietà: un conduttore di programmi culturali non deve essere uno stupido. Deve anche intelligere, deve capire. Deve insomma essere qual- cuno, precisa però subito Garroni, che sia «capace di far vivere un testo, di cogliere un problema che va a fondo, di far vedere o capire qualcosa di singolare che i più per pigrizia non vedono affatto»10. Emerge qui quell’avversione per la pigrizia, la sciatteria, la bana- lità e la semplificazione come le prime nemiche del capire, e dunque come un tratto costante di Garroni, che ha avuto conseguenze di ordi- ne diverso: non solo una prosa ritenuta spesso ardua – in realtà solo molto precisa, scrupolosa, controllata, mai fumosa o compiaciuta – ma anche l’avversione per una pratica che oggi seduce molti, anche i filo- sofi: occupare una casella nell’esistente, dare un marchio di fabbrica a se stessi, alla propria anche minima particolarità, e reiterarlo in ogni occasione, per garantirgli la massima riconoscibilità e diffusione sul mercato delle idee, al costo – naturalmente – di imbalsamarsi in un prodotto, rinunciando al compito di capire. Questo compito – inteso da Garroni come un compito intellettua- le, culturale ed etico-politico – coinvolge tutte le sue svariate attività: non solo l’estetica come «filosofia non speciale», cioè come filosofia tout-court, benché spesso praticata in una sua forma obliqua anche in relazione all’arte e alla letteratura; non solo il rapporto con la psico- analisi o lo studio del linguaggio, su cui sono nati, rispettivamente, il lungo sodalizio con Armando B. Ferrari e la duratura e profonda ami- cizia con Tullio De Mauro; ma anche l’attività giornalistica e, come vedremo – nelle modalità proprie, non certo assimilabili a quelle filosofico-argomentative – le stesse pratiche pittorica e narrativa. Garroni esordisce nel 1962 con un libro di racconti scritti negli anni 9 L. Bolla-F. Cardini, Le avventure dell’arte in TV, Nuova ERI, Torino 1994, p. 275. 10 Ibidem.  271   Stefano Velotti   Cinquanta, a cui seguiranno altri testi narrativi, pubblicando un’opera singolare, La macchia gialla11, titolo ripreso da un’incisione di Dürer, riportata sulla copertina del libro, in cui si vede la mano di un uomo che indica un punto del suo addome, e una didascalia dello stesso Dürer che dice: «Là dove c’è la macchia gialla e dove indica il dito, là mi fa male». È un dolore, direi, insieme singolare e generazionale, che nel giro di due anni metterà capo a una lunga analisi della nozione di “crisi” nel suo primo libro filosofico-estetico – La crisi semantica delle arti12, su cui non posso soffermarmi. Né mi soffermerò sulla Macchia gialla, se non per citare un primo autoritratto di Garroni, un autoritrat- to verbale dell’autore da giovane (o non più tanto giovane, dato che aveva 37 anni), a cui seguirà venti anni dopo un secondo autoritratto, questa volta dipinto (su cui tornerò in chiusura). I curatori della colla- na “Narratori” dell’editore milanese Lerici erano due nomi di grande rilievo del mondo poetico-letterario, Romano Bilenchi e Mario Luzi, i quali presentarono giustamente questa notizia biografica, o autoritrat- to semi-ironico dell’autore da quasi-giovane, come segnato da «acume» e «humour». Ne riporto qualche riga, che suggerisce una motivazione anche socio-biografica, per reazione all’ambiente di provenienza, di quella passione per il “capire” che ho indicato come la passione domi- nante di Garroni: Sono nato a Roma nel dicembre del 1925, in un ambiente ab- bastanza sciatto e approssimativo, che non posso soffrire e al quale sono legato controvoglia, tanto più che certa piccola bor- ghesia romana ha le sue asprezze ma anche le sue tenerezze. Oltrepassata la trentina mi sono accorto che anche la mia for- mazione culturale è caratterizzata dalle stesse contraddizioni: una cultura apolide e spregiudicata e nello stesso tempo lacu- nosa e assai provinciale. Mi sono laureato nel 1947 in filosofia presso la Facoltà di lettere e filosofia dell’Università di Roma, 11 E. Garroni, La macchia gialla, Lerici, Milano 1962. Il testo, con la relativa copertina, è reperibile integralmente sul sito dell’associazione “CiEG - Cattedra internaziona- le Emilio Garroni” (https://www.cieg.info/ [14.09.2020]). 12 Ma, come ha scritto A. D’Ammando all’interno di un’ottima ricostruzione del percorso filosofico di Garroni (Il circolo estetico e il guardare-attraverso: la riflessione sull’arte di Emilio Garroni – Tesi di Dottorato in filosofia discussa alla “Sapienza – Università di Roma”, febbraio 2019), a cui rimando anche per un’analisi della Crisi semantica delle arti, «[s]i potrebbe affermare, in proposito, che “crisi”, al pari di “oriz- zonte” e “senso”, è una parola cara al pensiero di Garroni, almeno sotto il profilo del problema dell’arte e del suo statuto (quanto mai incerto e problematico)». 272    Il senso dell’esperienza: Emilio Garroni e l’estetica come filosofia non speciale   con la quale intrattengo ancora rapporti abbastanza scialbi. Ho pubblicato saltuariamente saggi, note e recensioni di filosofia e storia dell’arte su riviste specializzate, settimanali e quotidiani. La saltuarietà del mio lavoro scientifico oggettivo dipende in parte da una certa attitudine alla dissipazione, e in parte dalla mancanza di tempo. Da molti anni collaboro infatti alla tele- visione dove ho fatto un po’ di tutto dedicandomi prevalente- mente in questi ultimi tempi alla redazione e presentazione di rubriche d’arte, con intenti (dico io) nobilmente divulgativi13. A queste parole si potrebbero accostare quelle scritte oltre trent’anni dopo, su richiesta del Manifesto, che aveva invitato ventisei persona- lità della cultura a raccontare la propria esperienza personale di una visita a un museo. Garroni scelse la Galleria nazione di arte moderna di Roma: Non so se fosse possibile negli anni trenta – con la cultura licea- le imperante, bene che andasse, in assenza di una mentalità più ariosa, volta a capire, non a accettare, con giornali e riviste non specialistiche di livello assai modesto – che un museo o una galleria d’arte potessero essere immediatamente formativi per un ragazzo. Anche le famiglie da cui provenivano erano per- lopiù ignoranti e disinteressate a tutto ciò che non fosse stret- tamente tradizionale, compresa la stessa tradizione, più subita come un dato eccelso e di fatto semisconosciuto, che vissuta come genuina cultura. [...] Non era un atteggiamento conservatore retrivo, ma semplice- mente passivo. Cosicché chi è riuscito poi a combinare qualco- sa ha dovuto fare quasi tutto da solo. [...] A otto-dieci anni, ero in balia della cultura e dei gusti mediocri della mia famiglia, e della cosiddetta borghesia romana cui essa apparteneva, e fui condotto più volte da certi miei zii, che si ritenevano intenditori d’arte, alla Galleria nazionale d’arte moderna [...] Voglio solo dire che quella galleria fu, negli anni trenta, il luogo della mia diseducazione. Il fatto è che una galleria o un museo non formano nessuno, se non si è già preparati a formarsi mediante ipotesi, anche sbagliate. Ma lì, in quelle visite sinistre, non erano in gioco ipotesi o sforzi per capire, ma solo meschine e dogmatiche edizioni del mondo dell’arte ne varietur. È strano che, crescendo, non mi sia allontanato per sempre dalle arti figurative. [...] [Così che la] Galleria nazionale d’arte moderna, ha avuto il me- rito, con il concorso determinante dei miei zii, di farmi capire 13 E. Garroni, La macchia gialla, cit., risvolto di copertina.  273   Stefano Velotti   come non si guarda un quadro. Che è un’abilità indimenticabi- le, come andare in bicicletta14. Abbandono ora queste incursioni biografiche – che pur nella loro rapidità credo siano indicative del modo in cui Garroni si situava nei confronti della realtà, e quindi anche della sua attività filosofica – per cercare di indicare sinteticamente il nucleo centrale della sua rifles- sione più matura, intorno a cui si raccolgono questioni complesse e interessi anche eterogenei. 4. Ho già ricordato Pantaleo Carabellese – che, al di là degli esiti del suo «ontologismo critico», Garroni considerava «uno dei pochi inse- gnanti che ho avuto all’Università che fosse anche un grande filosofo»15 – perché è probabilmente uno dei tre punti di riferimento italiani più significativi per il suo pensiero, insieme a Luigi Scaravelli – per l’inter- pretazione di Kant – e poi, su un altro piano, a Cesare Brandi. Era stato infatti proprio Carabellese, in un articolo del 1921, ad aver criticato sia Gentile, sia Croce (come poi farà anche con Spirito e Calogero) per non aver colto il «problema interno della filosofia», la domanda, cioè, con cui la filosofia diventa problema a se stessa, si interroga sul suo luogo, la sua possibilità, le sue pretese. In una postilla del 1942, Carabellese spiegava così l’incomprensione da parte di Croce e di Calogero del problema da lui sollevato: Il vero è che il Croce e il Calogero (anzi il Calogero molto più del Croce) continuano a porre il problema della filosofia come pro- blema del suo oggetto, cioè non pongono veramente il problema interno della filosofia, ma soltanto e sempre il suo problema og- gettivo, e inconsapevolmente confondono questo con quello. Indicare come la filosofia il genere di realtà che essa dimostra o consente, come Calogero (filosofia della prassi) e Croce (storici- smo) d’accordo fanno, non è risolvere il problema interno della filosofia, ma non porlo neppure, ignorarlo. Con tale indicazio- ne, infatti, non si sa e non si ricerca neppure, che cosa sia mai la filosofia entro quella realtà che essa dimostra16. 14 E. Garroni, “Il piccolo Ottocento italiano”, in F. De Melis (ed.), La scoperta del museo. Ventisei guide sulla via dell’arte, Manifestolibri, Roma 1995, pp. 111-113, corsivi miei. 15 E. Garroni-D. Fasoli, Il mestiere di capire, cit., pp. 35-36. 16 P. Carabellese, L’ontologismo critico. Primi saggi II, Che cos’è la filosofia, Signorelli, Roma 1942, pp. 78-79. 274    Il senso dell’esperienza: Emilio Garroni e l’estetica come filosofia non speciale   Il problema della riflessione sul senso, per Garroni si lega stretta- mente a quello che chiama «il paradosso della filosofia» nel suo libro del 1986, intitolato appunto Senso e paradosso. L’estetica, filosofia non speciale. È forse il libro più impegnativo che Garroni abbia scritto, e certamente uno snodo centrale nello sviluppo del suo pensiero. Lì Garroni cita Carabellese e il suo articolo del 1921, e la replica di Croce dello stesso anno, sostenendo che entrambi facciano valere un’esigenza legittima: Carabellese, quella appunto del problema che la filosofia è a se stessa; Croce, quella di ribadire, quasi con fastidio, che la filosofia si conquista il suo luogo proprio solo dall’interno della conoscenza e del fare concreti e storici. Entrambi, in sostanza, inten- devano rifiutare l’idea di un luogo separato della filosofia, ma non si rendevano conto della parzialità e complementarità delle loro posi- zioni, che se rettamente intese si compongono in quello che Garroni chiamerà appunto il «paradosso fondante della filosofia». Il dissidio tra Carabellese e Croce, infatti, prefigurava una antinomia non risol- ta, formulata da Garroni in questo modo: Un problema interno della filosofia va posto, dato che non è per niente ovvio che questa abbia un suo luogo appartato e neutra- le [e questa è la giusta esigenza fatta valere da Carabellese]; ma il porlo suppone che un luogo del genere esista e sia ovvio [e questa è la replica di Croce, che ritiene il problema di Carabel- lese insignificante]17. Garroni fa notare che il rischio che correva Carabellese, che pure po- neva un problema genuino di cui Croce si disfaceva troppo frettolo- samente, era quello di considerare la filosofia, in quanto si pone il suo “problema interno”, come una sorta di meta-linguaggio che si e- sercita su un linguaggio oggetto già compattamente costituito (una me- tafisica, o un sistema, quale era per lo stesso Carabellese il suo «onto- logismo critico»), perdendo di vista proprio quel paradosso che pure aveva fatto emergere e trasformandolo così in un paralogismo. Il modo giusto di far valere insieme le esigenze di Carabellese e di Croce è inve- ce comprendere la filosofia come «risalimento», o come quel «guardare- attraverso» che risale dalla concretezza dei fenomeni, dall’interno dell’e- sperienza concreta in cui stiamo, alle loro condizioni di possibilità, senza dar per scontato che una filosofia già si dia da qualche parte, e senza 17 E. Garroni, Senso e paradosso, cit., p. 131.  275   Stefano Velotti   però neppure vederla disciolta nelle indagini oggettive. Quel «guardare- attraverso» deve essere inteso dunque come «un guardare-attraverso nel guardare, non un semplice guardare a meno di un taciuto guardare- attraverso»18. Richiamandosi a Merleau-Ponty, Garroni riassumeva così la sua posizione: «Una filosofia di questo tipo include la propria stranez- za, perché non è mai del tutto nel mondo e tuttavia non è mai fuori del mondo»19. Questa stranezza, questo paradosso fondante, era presentato da Garroni come una posizione fedele alla tradizione critica, in quanto opposta a posizioni metafisiche, nella specifica accezione di “non criti- che”, sia di stampo razionalistico, sia di stampo ingenuamente pragma- tista o empirista. Negli anni in cui in Italia Richard Rorty e il suo neopragmatismo sembravano raccogliere numerosi consensi (La filosofia e lo specchio della natura era stato presentato da Gianni Vattimo e Diego Marconi, che aprivano la loro introduzione sottolineando come questo libro si presentasse esplicitamente come «epocale»20), Garroni vi scorgeva una delle due prospettive metafisiche, non critiche, che può assumere lo sguardo della filosofia: da un lato, infatti, è certamente da rifiutare, con Rorty (e tanti altri) la pretesa di una God’s eye view, grazie a cui si presume di stabilire come stanno “veramente” le cose nell’esperienza umana, eccettuandosene: come di chi dicesse che tra noi e il mondo c’è un filtro fatto di schemi concettuali, culturali o intuitivi, presumendo contraddittoriamente di vedere la realtà di questa situazione al di fuori del filtro che varrebbe per tutti gli altri; ma anche di chi proponeva l’e- sperimento mentale dei “cervelli in una vasca”, magari – come Hilary Putnam – per confutarlo: per Garroni, porlo e comunicarlo è già confu- tarlo; immaginarlo o escogitarlo presuppone già un linguaggio sensato, pubblico e non escogitato. Dall’altro lato, altrettanto metafisica si presentava la posizione op- posta e complementare, apparentemente demistificante, di chi, co- me il neopragmatista Rorty, ci dipingesse come insetti intrappolati nel- l’ambra, cioè inesorabilmente immersi nella realtà e nelle sue determi- natezze, culturali storiche geografiche, per cui dovremmo rinunciare ad affermazioni che avanzano pretese universali, e dovremmo conside- 18 E. Garroni-D. Fasoli, Il mestiere di capire, cit., pp. 37-38. 19 Ibidem. 20 R. Rorty, Philosophy and the Mirror of Nature, Princeton University Press, Princeton 1979 (Trad. it. di G. Millone e R. Salizzoni, La filosofia e lo specchio della natura, Bom- piani, Milano 1986, p. V). 276    Il senso dell’esperienza: Emilio Garroni e l’estetica come filosofia non speciale   rare piuttosto la filosofia come un genere letterario tra gli altri. Garroni replica: Rorty avrà anche ragione, ma commette un unico errore, affer- marlo. È questo quel «taciuto guardare-attraverso» – negato in teoria, e quindi fatto valere metafisicamente come un ritorno del rimosso – a cui alludeva Garroni nel passo citato poco sopra dell’intervista con Fasoli, cioè la pretesa di stare sempre alle determinatezze dell’esperien- za, di sbarazzarsi di ogni riferimento alla sua totalità indeterminabile, ma facendola valere surrettiziamente nella stessa pretesa di determinare tutta l’esperienza come il darsi di volta in volta di esperienze solo con- tingenti e determinate21. Per Garroni, infatti, non si tratta né di riguadagnare una posizione di sorvolo, né di muoversi sempre in aderenza assoluta alle esperienze concrete e determinate, proprio in quanto le chiamiamo esperienze concrete e determinate. Se davvero ci stessimo soltanto dentro a tali esperienze, non potremmo dirlo, ci staremmo dentro e basta, saremmo cose tra le cose22. Risalire l’esperienza concreta o guardare-attraverso i fenomeni dall’interno dell’esperienza concreta è, sì, essere come insetti nell’ambra, ma con la complicazione decisiva che anche il solo fatto di affermarlo attesta qualcosa che smentisce quell’immagine, in quanto trascende le esperienze determinate e attinge all’indeterminatezza del- l’esperienza nella sua totalità indeterminabile. 5. È questo movimento che Garroni ravvisa in Wittgenstein e, in una certa misura in Heidegger (sulla scorta dei quali la filosofia si configura, sì, come un domandare mediante domande determinate, ma che inclu- dono e rivelano un’autotematizzazione del domandare in genere23). Questo paradosso fondante è tutt’uno con la condizione di senso del- l’esperienza e può essere ricondotto a una delle forme antinomiche tematizzate da Kant, in particolare all’antinomia della facoltà di giudizio estetica, che, nel modo più schematico, Kant formula in questo modo: (1) Tesi: il giudizio di gusto non si fonda su concetti, ché altri- menti se ne potrebbe disputare (decidere mediante prove). 21 Questa argomentazione, qui appena accennata, viene sviluppata da E. Garroni nel primo capitolo di Estetica. Uno sguardo-attraverso, cit., pp. 11-53, anche in relazio- ne ad alcuni autori classici e a diversi autori contemporanei. 22 Su questo punto potrebbe aprirsi un confronto con il diversificato universo di alcu- ni nuovi realismi-materialismi oggi in voga (per esempio quello della flat ontology), che propongono una visione degli esseri umani proprio come “cose tra le cose”. 277  23 E. Garroni, Senso e paradosso, cit., p. 132.   Stefano Velotti   (2) Antitesi: il giudizio di gusto si fonda su concetti, ché altri- menti, malgrado le differenze dei giudizi, non se ne potrebbe neppure discutere (avanzare l’esigenza del consenso necessario di altri con tale giudizio)24. L’antinomia può irrigidirsi in una contraddizione, oppure essere com- posta (non eliminata, ma compresa e resa praticabile), come fa Kant, spiegando che nella prima tesi si tratta di concetti determinati, nella seconda di concetti indeterminati. Ora, la struttura di questa antino- mia, e il modo in cui Kant la compone, è omologa a quella che Garroni fa valere, per esempio, in relazione al linguaggio (il motivo per cui Rorty non può affermare quel che l’uso stesso del linguaggio confu- ta). Un saggio dedicato a De Mauro, L’indeterminatezza semantica, una questione liminare, si apre con una frase che annuncia la riproposizione della struttura dell’antinomia kantiana della facoltà di giudicare, che Garroni proporrà poco dopo: Che il linguaggio sia stato talvolta considerato atto creativo in- dividuale e irripetibile oppure realizzazione o replica, secondo regole, di possibilità già interamente previste non è semplice- mente un’alternativa fondata su due ipotesi esclusive e, prese alla lettera, perfino bizzarre. È qualcosa di più [...]25, in quanto entrambe le prospettive – inaccettabili nella loro esclusività – fanno valere «un’esigenza che [...] non può neppure essere lasciata cadere»26. E infatti poco dopo Garroni riprende anche la forma stessa dell’antinomia kantiana, enunciando una tesi e un’antitesi che esigo- no di essere composte: Tesi: l’uso del linguaggio presuppone la determinazione di uni- tà e regole, prima di ogni sua presunta possibilità indetermina- ta, ché altrimenti non potremmo usarlo e non ci intenderemmo nell’usarlo. Antitesi: l’uso del linguaggio presuppone l’indeterminatezza del- 24 I. Kant, Kritik der Urtheilskraft, in Id. Werke in zehn Bänden, vol. VIII, ed. W. Weischedel, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmastad 1975 (Trad. it. di E. Garroni e H. Hohenegger, Critica della facoltà di giudizio, Einaudi, Torino 1999, §56, p. 173). 25 E. Garroni, L’arte e l’altro dall’arte. Saggi di estetica e di critica, Laterza, Roma-Bari 2003, p. 241. Il saggio era già stato pubblicato nel volume a cura di F. Albano Leoni et al., Ai limiti del linguaggio, Laterza, Roma-Bari 1998. 26 Ivi, p. 89. 278    Il senso dell’esperienza: Emilio Garroni e l’estetica come filosofia non speciale   27 Ivi, p. 92. 28 Ivi, p. 91. 29 Ivi, p. 105. la sua possibilità, prima di ogni unità e regole determinate, ché altrimenti non potremmo neppure determinare unità e regole per usarlo e intenderci [...]27. L’antinomia nasce dal fatto che «quando parliamo, usiamo il linguag- gio così e così, in certe sue espressioni determinate, e nello stesso tempo lo usiamo nella sua totalità possibile indeterminata»28 o, detto ancora altri- menti, «per un verso il linguaggio richiede come una sua propria condi- zione l’indeterminatezza e per altro verso, proprio perché la richiede, la nega in favore delle sue determinazioni»29: non si darebbero espressio- ni linguistiche determinate, dotate di questo o quel significato, se non le comprendessimo come tali, cioè nella loro determinatezza, e dunque a condizione di un riferimento a una totalità indeterminata che le rende possibili e che esse “negano” in quanto, appunto, determinate. È questo il nodo a cui Garroni arriva sempre, che indaghi il lin- guaggio o la percezione, l’organizzazione della conoscenza o le opere d’arte, l’esperienza quotidiana o la natura dell’homo sapiens. Ed è un nodo che si è chiarito proprio nello studio assiduo e prolungato di Kant, in particolare della terza Critica, la cui dialettica presenta quella specifica forma antinomica appena esposta. C’è una pagina, in questo saggio, che credo chiarisca molto bene il nesso di queste riflessioni sul linguaggio con la rielaborazione del pensiero kantiano, e che per questo motivo mi permetto di citare dif- fusamente: Ma l’analogia tra questa antinomia [kantiana] e l’antinomia del linguaggio esposta all’inizio non si ferma tuttavia a un’analogia imperfetta tra le rispettive correlazioni “concetto determinato/ concetto indeterminato” e “determinazione/indeterminatezza” del linguaggio. C’è in Kant un problema ancora più pertinente rispetto al nostro argomento. Vale a dire: c’è la questione del rapporto tra la facoltà di giudizio, da una parte, (per cui, soltanto, la conoscenza empirica effettiva è possibile oltre i giudizi sintetici a priori dell’intelletto: ciò che Scaravelli ha chiamato “tessitura analitica di tutti fenomeni”, e il principio della quale facoltà ha tuttavia statuto non-intellettuale, ma estetico), e la ragione, dall’altra (i cui concetti non hanno appli- cazione nell’esperienza e tuttavia sono altrettanto indispensabili  279   Stefano Velotti   alla conoscenza empirica). Infatti la nostra conoscenza d’esperien- za, che è, sì, intellettualmente e sensibilmente determinata (pro- cede, per quanto le è dato, mediante costruzione di concetti, leggi e unificazioni di diversi leggi sotto leggi più potenti), non sarebbe possibile se non si inscrivesse innanzitutto nell’ambito di un’anti- cipazione della totalità indeterminata delle possibili conoscenze determinate – Kant scrive di “una conoscenza (di oggetti dati) in genere” –, se insomma, sull’occasione di rappresentazioni deter- minate, come nel caso esemplare dei cosiddetti giudizi di gusto, non avessimo coscienza forzatamente non intellettuale che una conoscenza d’esperienza è possibile. Esperienza possibile, però, non nel senso della possibilità della conoscenza in genere della prima Critica, (che ci dà appunto solo una tessitura analitica), ma nel senso che è possibile e ha in generale senso cercare di deter- minarla intellettualmente e sensibilmente nell’esperienza sotto il principio della facoltà di giudizio. Ma di questa totalità della conoscenza d’esperienza possibile né abbiamo una conoscenza a priori, né tantomeno possiamo fare una conoscenza di esperien- za. Non si fa esperienza di un’esperienza in genere. Ne sappiamo qualcosa in, non con un’esperienza determinata, cioè non la cono- sciamo, ma la sentiamo, mediante quel Gemeinsinn (senso o senti- mento comune, che abbiamo in comune, che ci assicura a priori della comunicabilità universale delle rappresentazioni e delle conoscenze), il quale esibisce sensibilmente e indirettamente ciò che non è propriamente esibibile e che la ragione può soltanto pensare. Qui la ragione, cioè l’idea indeterminata di una totalità, viene in qualche modo messa in scena sensibilmente mediante la facoltà di giudizio il cui principio riposa precisamente sul senso comune o il gusto, cioè mediante il sentire (esteticamente dunque) l’interna indeterminatezza del determinato30. «Sentire l’interna indeterminatezza del determinato» è uno dei modi per capire in che modo il paradosso fondante della filosofia fa della fi- losofia, come estetica non speciale, una riflessione sul senso dell’e- sperienza. Se vogliamo restare sul piano linguistico, possiamo dire in- fatti che dare significato ai concetti è determinarli, per esempio me- diante uno schema empirico o trascendentale, sempre a condizione di mettere in gioco un simultaneo e inevitabile riferimento all’inde- terminato, alla totalità indefinita del linguaggio o dell’esperienza, che solitamente resta implicita, e magari viene negata (come accadeva in Rorty), proprio in virtù di un surrettizio riferirvisi. 30 Ivi, pp. 110-111. 280    Il senso dell’esperienza: Emilio Garroni e l’estetica come filosofia non speciale   6. Il gioco delle parti tra senso e significati, e tra senso e non senso, è affrontato da Garroni in molte altre occasioni, ma viene tematizzato direttamente in una conferenza del 1988, poi pubblicata in appendi- ce al volume del 1992, Estetica. Uno sguardo-attraverso, con il titolo Sul dover essere del senso. Ora il problema non è tanto distinguere il senso dai significati, mettere in luce la condizione estetica di senso come anticipazione estetica dell’esperienza entro cui i significati possono significare, ma un problema ulteriore: riconosciuta questa condizione di senso che rende possibile e traspare in ogni significato determinato, non rischiamo infatti di «parificar[e] tutti [i significati] nel loro essere varianti di sensatezza, ‘seri’ nell’essere sensati come che sia, ma non altrettanto ‘seri’ nel loro proprio far senso?». Come se la filosofia critica, spinta fino a questo punto, rischi che il senso possa «riassorbire in sé la sensatezza che esso condiziona [...] Il senso, così, concederebbe sensatezza a tutti i sensi e i significati storici e proprio per questo la sottrarrebbe a ciascu- no di essi, convertendosi esso stesso in non senso»31. Un esempio concreto di questo problema, Garroni lo aveva scorto nel dilemma a cui deve far fronte l’antropologia in relazione all’etno- centrismo32: l’irrinunciabile rispetto che l’antropologia moderna ha costruito per ogni società altra rischia infatti, d’altra parte, di parifica- re ogni cultura come una variante di sensatezza, togliendole “serietà”. Il colonialismo e l’imperialismo, ovviamente inaccettabili, avevano però almeno il pregio di prendere le culture nella loro serietà33. Ma era proprio questo ciò su cui si interrogava Garroni: non tanto la questione delle culture altre, ma della nostra stessa cultura. E con- cludeva così: Le considerazioni appena svolte non hanno [...] una vera e pro- pria conclusione. Si può dire solo questo: che si è forse messo in luce qui un nuovo ossimoro, o una forma ulteriore del paradosso 31 E. Garroni, Estetica. Uno sguardo-attraverso, cit., p. 268. 32 Cfr. E. Garroni, Senso e paradosso, cit., p. 268 ss. 33 Si potrebbe sostenere che negli anni Novanta questo imperialismo della sensatezza sia stato proclamato (e poi smentito) da Francis Fukuyama nel suo libro The End of History and the Last Man (1992), mentre l’opposto – cioè il prendere la diversità delle culture nella loro serietà, e tuttavia prenderle così “seriamente” da negargli una dimensione comune di senso – veniva proposto di lì a poco da Samuel Huntington nel suo The Clash of Civilizations and the Remaking of the World Order (1996). Le due posizioni, insomma, potrebbero rappresentare tesi e antitesi di una antinomia non composta. Cfr. S. Velotti, Dare l’esempio. Cosa è cambiato nell’estetica degli ultimi trent’an- ni, «Studi di estetica» 1-2 (2014), pp. 339-367. 281    Stefano Velotti   in cui consiste la filosofia, vale a dire: che il senso pare che debba essere considerato nello stesso tempo come non-senso, in quanto il suo dare sensatezza è nello stesso tempo un sottrarla [...] Forse il senso si profila ora come il dover essere-sensato. E qui, forse, ritroviamo – come già in Kant – la più profonda congiunzione tra le radici estetiche del senso e le radici etiche del dover-essere34. Il problema del “prevalere” della sensatezza sui significati e quindi del rovesciarsi del senso in non-senso è strettamente legato al problema spinoso della perdita di esemplarità dell’arte, della questione, cioè, se l’arte, a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso, non abbia pro- gressivamente ceduto a un’aderenza sempre più spinta alla realtà fino a confondersi semplicemente con la sua ottusità, il suo darsi di fatto, come mero “accompagnamento” del senso, avendo per lo più rinun- ciato al rischio di dare corpo e forma a quella «regola che non si può addurre» di cui parlava Kant nel §18 della terza Critica; una «regola» indeterminata che, non potendosi “addurre” – formulare o esplicitare – può essere, appunto, solo “esemplificata” in un esempio singolare, inassimilabile a un esempio inteso come membro di una classe. 7. Nell’ultimo, breve e denso libro di Garroni – Immagine Linguaggio Figura35 – troviamo spunti inediti, ma anche una nuova sintesi di decenni di studi e ricerche. È un libro bello e importante, che attende ancora di essere esplorato a fondo, in tutta la sua fecondità, anche in relazione a ricerche in atto nel panorama nazionale e internazionale, ma che qui non posso affrontare in modo minimamente adeguato. Ricorderò solo che il perno intorno a cui ruota è la nozione di «im- magine interna» che ha preso forma attraverso «l’assiduo ripensamento del cosiddetto “schematismo” kantiano»36, e che non è confondibile in alcun modo con l’idea di poter spiegare qualcosa – della percezione o del riferimento al mondo – rimandando a immagini che avremmo nella testa. Distinte dalle «figure» (che nell’uso comune chiamiamo “imma- gini”, ma che non possono essere altro che elaborazioni, esteriorizza- zioni e riduzioni delle «immagini interne»), le «immagini interne» sono innanzitutto ispezioni attive e mobili, per scorci sempre diversi, degli oggetti percepiti, o di queste percezioni riprodotte, rielaborate e ricordate nell’imma- ginazione. È da escludere quindi ogni obiezione legata alla presuppo- 34 E. Garroni, Estetica. Uno sguardo-attraverso, cit., p. 270. 35 E. Garroni, Immagine linguaggio figura. Osservazioni e ipotesi, Laterza, Roma-Bari 2005. 36 E. Garroni, Immagine linguaggio figura, cit., p. ix. 282    Il senso dell’esperienza: Emilio Garroni e l’estetica come filosofia non speciale   sizione indebita e circolare di un homunculus che sarebbe a sua volta spettatore di “figure nella testa”. Figure nella testa non ce ne sono. In questo libro tornano anche temi antichi – come quello, centra- le, della metaoperatività, un concetto già introdotto oltre trent’anni prima, in Ricognizione della semiotica37. Era l’anticipazione di uno dei temi più dibattuti, oggi, in ambito cognitivo, sotto il titolo di “metarappresentazioni”38, ma che in Garroni si estendeva già all’in- tero ambito dell’operare umano (un operare che è senso-motorio, pragmatico e corporeo, percettivo e cognitivo). In analogia e in corre- lazione con la funzione metalinguistica – che è sempre implicata nelle funzioni di primo livello del linguaggio, così come quella costituisce pur sempre una funzione operante solo mediante un linguaggio di primo livello – Garroni introduce la nozione di metaoperatività come interna e presupposta in tutte le operazioni umane e praticabile solo mediante esse. È ciò che distingue, in sostanza, un’operazione del tipo “stimolo-risposta” da un’operazione che include già dentro di sé una generalizzazione. Piantare un chiodo con un martello è sì un’opera- zione determinata, concreta, e dotata di uno scopo preciso, ma – come operazione umana – contiene già dentro di sé una famiglia o una classe di operazioni possibili (qualcosa, dunque, che potrebbe essere chiamato uno «schema operativo»39). In Immagine linguaggio figura la nostra capacità metaoperativa viene reinterpretata e specificata40 pro- prio in relazione al lavoro di quella che Garroni chiama complessiva- mente «facoltà dell’immagine», che è responsabile sia delle sensazioni (come precedenti di un’immagine), sia delle percezioni (le immagini interne prodotte in presenza degli oggetti del mondo), sia dell’imma- ginazione nella sua specificità (delle immagini in quanto riprodotte o ricordate-rielaborate). Sensazione, percezione e immaginazione sono tutte «immagini interne», costitutivamente dinamiche, non fissabili in un’icona o figura materiale, e abitate da qualcosa di non sensibile, 37 E. Garroni, Ricognizione della semiotica, Officina, Roma 1977, p. 70 ss. 38 Cfr. per esempio D. Sperber (ed.), Metarepresentations. A Multidisciplinary Perspective, Oxford University Press, Oxford 2000. 39 Una formulazione molto simile dei rapporti tra linguaggio e metalinguaggio, tra operazione e metaoperazione – all’interno di una prospettiva “enattiva” sulla perce- zione, a cui credo sia riconducibile per molti versi anche quella proposta da Garroni – è possibile riscontrarla nei lavori di A. Noë. Per un confronto, su questi temi, tra Garroni e Noë, cfr. S. Velotti, Tecnica, in G. Ferrario (ed.), Estetica dell’arte contempora- nea, Meltemi, Milano 2019, pp. 149-170. 40 E. Garroni, Immagine linguaggio figura, cit., p. 18 ss. 283    Stefano Velotti   dunque distinte dall’immagine-segno materialmente intesa, la «figu- ra», appunto, e che è invece sostanzialmente statica. Proprio l’attività artistica, che mette pur sempre capo a «figure» (per quanto possano essere mobili, processuali, evanescenti, eventuali) è considerata da Garroni come il venire in primo piano di questa dimensione metao- perativa – una rielaborazione della kantiana «conformità a scopi senza scopo» – interna a ogni operazione determinata. Ma nel corso di questo «ripensamento del cosiddetto “schematismo” kantiano» vengono in primo piano questioni spesso prima trascurate, come quella della corporeità, e viene messa a punto una nozione che mi pare non fosse stata tematizzata in altri lavori, se non di sfuggita e appoggiandosi a elaborazioni di diversa provenienza41, come quella di «aggregato». Un aggregato, direi, costituisce una sorta di antecedente di uno schema, essendo qualcosa di pre-linguistico e pre-concettuale, che deve dunque precedere – in linea di diritto e ipoteticamente anche di fatto – anche il costituirsi di famiglie, in senso wittgensteiniano, oltre che di classi vere e proprie. Un aggregato è ciò che offre una prima pos- sibilità di riconoscimento degli oggetti, non come membri di una fami- glia o di una classe (che presuppongono appunto una caratterizzazione di tratti linguistici o una pertinentizzazione di note concettuali), ed è invece costituito «solo percettivamente» da «un insieme di casi effettiva- mente sperimentati o di oggetti effettivamente usati, quindi di numero finito, anche se via via crescente»42. Un aggregato può essere costituito da oggetti assai diversi, legati da una minima somiglianza e tal- volta da nessuna somiglianza, ma solo da un cortocircuito tra disparati che stabiliscono tra loro un’unità non chiaribile in- tellettualmente di tipo affettivo, emozionale, fantasticante, vol- to al padroneggiamento di eventi e cose amate, preoccupanti, esaltanti 43. Né la funzione dell’aggregato si esaurisce all’interno della prima infan- zia, o nelle ipotesi relative a una “infanzia dell’umanità” o in forme di “pensiero magico”, se, come nota Garroni, [A]ncora oggi, nello stesso pensiero occidentale, non possono es- 41 Alludo alle considerazioni dedicate agli oggetti transizionali di D. W. Winnicot in Senso e paradosso, cit., p. 274. 42 E. Garroni, Immagine linguaggio figura, cit., p. 11. 43 Ibidem. 284    Il senso dell’esperienza: Emilio Garroni e l’estetica come filosofia non speciale   sere evitati paradossi liminari, che denunciano in un certo sen- so la persistenza dell’ufficio, pur intellettualmente controllato, dell’aggregato, cioè dell’unione di due termini diversi e addirittu- ra opposti, in una proposizione unitaria e non più risalibile. Ba- sterebbe pensare alla kantiana comprensione dell’opposizione tra incondizionato e condizionato, di soprasensibie e sensibile, e insieme del loro richiamarsi l’un l’altro necessariamente, all’he- geliana unità di essere e non-essere, alla questione russelliana di “classe e classe di tutte le classi”, e così via44. 8. Voglio però, in conclusione, mostrare un altro autoritratto di Garroni, molto diverso da quello, verbale, ricordato all’inizio e consegnato, con «acume» e «humour» alla bandella della Macchia gialla, perché credo che nelle pagine di Immagine linguaggio figura si trovi, su un altro regi- stro, una sua importante eco. È un polittico dipinto da Garroni tra il 1983 e il 1984, sulla soglia dei sessant’anni – dopo aver subito una seria operazione chirurgica –, composto da 13 comparti, che formano un quadrato di 115 cm per lato.  Collezione privata 44 Ivi, pp. 12-13.  285   Stefano Velotti   Alcuni comparti rappresentano frammenti del proprio corpo, vis- suti come oggetti estranei e familiari a un tempo. Figurano anche stru- menti di studio e di affezione – dalla Critica del giudizio a Tempo e rac- conto di Ricoeur –, “cose” amate, come il Dissonanzen-Quartett di Mozart (che dà anche il titolo a un suo romanzo-saggio45). Ma questo è solo un primo riconoscimento di figure presenti nel dipinto, non certo l’inizio di un’interpretazione46. Quando dicevo che la passione dominante di Garroni era quella di capire, di comprendere, pensavo anche a questo dipinto, che credo tro- vi una sua ricomprensione filosofica proprio in un passo del suo ultimo libro, nelle riflessioni sul corpo e su “cosa si prova ad essere un homo sapiens”. Un’operazione chirurgica diventa nelle mani di Garroni un’oc- casione per elaborare, anche operativamente e metaoperativamente, e non solo linguisticamente e intellettualmente, l’esperienza fatta o subi- ta, anzi proprio per non subire soltanto l’esperienza comunque subita, ma per esercitare, appunto, quel “dover essere del senso” già articolato verbalmente. Quel che mi interessa è mettere in contatto questa ope- razione pittorica, con un passo che, mi pare, le corrisponde almeno in parte, e che rimanda a quella complementarità tra determinatezza e indeterminatezza che è al cuore del suo pensiero. Non è possibile, scri- ve Garroni in alcune notevoli pagine del suo libro47, mirare a cogliere l’indeterminato in quanto tale; è possibile farlo solo attraverso il deter- minato. E poi si pone una possibile obiezione: È vero: momenti di apparente non-riconoscimento e totale in- determinatezza percettiva intervengono in modo tipico quando ci risvegliamo e a volte pare che non riconosciamo neppure il nostro piede che spunta fuori dal lenzuolo aggrovigliato. Forse “vedremmo”, per così dire, solo l’indeterminato e ci sfuggirebbe affatto il determinato connesso con il riconoscimento di ogget- ti? Si può rispondere tranquillamente di no. Salvi i casi di pato- logie gravi, quando il mondo può forse divenire solo un magma indecifrabile e viene meno perfino il senso della nostra identità (ma parimenti dovremmo escludere il caso estremo del coma, se non addirittura dell’essere già morti), il riconoscimento non 45 E. Garroni, Dissonanzen-Quartett. Una storia, Pratiche, Parma 1990. 46 Una densa e attenta interpretazione di quest’opera è stata avanzata da A. Olivetti, dice [...]. Primi appunti su un Autoritratto di Emilio Garroni, pubblicato nel catalogo della mostra Emilio Garroni – Un Autoritratto, 4-15 dicembre 2006, Sala Santa Rita dell’Assessorato alle Politiche Culturali del Comune di Roma. 47 E. Garroni, Immagine linguaggio figura, cit., p. 33. 286    Il senso dell’esperienza: Emilio Garroni e l’estetica come filosofia non speciale   viene meno neanche nel caso di un risveglio depresso e confu- so. Si tratta piuttosto di una sensazione di estraneità degli og- getti e delle nostre stesse parti del corpo percepite come oggetti indipendenti e in qualche modo estranei. E l’idea di estraneità modifica il riconoscimento, non lo annulla. Anzi, l’idea di estra- neità del nostro piede presuppone un riconoscimento proprio in quanto lo riteniamo estraneo – è il nostro piede e per questo ci è estraneo. Solo che il riconoscimento viene depotenziato e in certo senso avversato. Infatti il nostro piede non dovrebbe esserci estraneo, ma il fatto è che ci pare assurdo che quel piede sia cosiffatto e ci appartenga. E insomma la sensazione della stranezza delle cose del mondo, esterne e nostre. Il che implica un riconoscimento sgradito, languoroso e stupefatto48. Nelle ultime pagine, poi, il tono sempre controllato di Garroni, tenden- te piuttosto all’ironia e allo humour che allo scoramento, si lascia anda- re anche a parole amare sul nostro presente (sono gli anni del venten- nio berlusconiano, che abbiamo sperimentato quanto fossero destinati a cambiare i parametri della vita pubblica, «la “mente” dei cittadini»): Ormai si è istituzionalizzato il banale ed espulso ciò che più con- ta, non tanto l’arte, di cui ci importa fino a un certo punto e solo a certe condizioni, ma soprattutto il comportamento civile, le ir- rinunciabili esigenze etiche, l’interesse alla comprensione delle cose, insomma: la “mente” dei cittadini, di cui invece ci importa molto in primissima istanza. E con una specie di apologo politico di trista attualità ho messo termine a questo breve saggio49. La “facoltà dell’immagine” di Emilio Garroni e il suo contributo alla ricerca  contemporanea sulla percezione   , i “contenuti non concettuali”    e l’immaginazione  . 1   L’ultimo libro di  Emilio Garroni,  Immagine Linguaggio Figura  2 , è in parte  una ripresa e un ripensamento di alcuni temi trattati quasi trent’anni prima in  Ricognizione della semiotica  3 . Da una rielaborazione dei problemi abbozzati in questo  volume del 19 77, e grazie a un’assidua  interpretazione e rielaborazione del pensiero kantiano, Garroni arriva a precisare il rapporto tra le due dimensioni irriducibili della sensibilità e  dell’intelletto   in termini di «“facoltà dell’immagine”» 4 , da un lato, e  di linguaggio e concetti, dall’altro. Nonostante  Immagine Linguaggio Figura   nomini fin dal titolo il problema della relazione tra queste due dimensioni correlate ma kantianamente irriducibili  dell’esperienza umana , lo statuto del linguaggio non è qui affrontato nella sua problematicità complessiva  all’interno di tale esperie nza, ma  solo in relazione all’«immagine interna», che deve essere considerata «la premessa e  la garanzia della realtà del significato delle parole del linguaggio» 5 . Naturalmente,  1   Relazione tenuta al convegno di studi “Emilio Garroni: determinazioni e dissonanze”, Chieti,  29-30 marzo 2012.  2  E MILIO  G  ARRONI ,  Immagine Linguaggio Figura. Osservazioni e ipotesi  , Roma-Bari, Laterza 2005.  3  I D .,  Ricognizione della semiotica. Tre lezioni  , Roma, Officina 1977.  4  I D .,  Immagine Linguaggio Figura  , cit. p. ix, dove Garroni precisa: «Chiamerò complessivamente  ‘immagine interna’ sia il precedente di un’immagine (sensazione), sia l’immagine in quanto  attualmente prodotta (pe rcezione), sia l’immagine in quanto riprodotta o ricordata -rielaborata  (immaginazione), per distinguerle complessivamente dalla ‘figura’ esteriorizzata, per esempio, mediante un disegno. […] Perciò […] mi capiterà di chiamare la facoltà che ne è responsabi le  ‘facoltà dell’immagine’, tale da riunire in sé sensazione, percezione, immaginazione».   5  I D .,  Immagine Linguaggio Figura  , cit. p. 57non bisogna cadere nell’errore di considerare le «immagini interne» come «fig  ure», (  Bilder  ,  pictures   ) che avremmo nella mente. Garroni conosce bene la critica   wittgensteiniana a quest’idea tradizionale e insostenibile. Anzi, si potrebbe considerare la teoria dell’«immagine interna» come una lunga  e meditata replica a chi confonde la critica di Wittgenstein con un rifiuto di attribuire ogni valore cognitivo o semantico alla nostra attività percettivo-immaginativa, per attenersi al solo linguaggio. Per integrare quanto è implicito nel libro a questo riguardo, credo sia oppor tuno tenere presente l’articolo che Garroni ha  dedicato a   Minisemantica  di  Tullio De Mauro 6  nel 1998, caratteristicamente intitolato  L’indeterminatezza semantica,  una questione liminare  7 . Sia sul versante della percezione e dell’immagine, sia su quello  del linguaggio e dei concetti, troviamo infatti  in quest’articolo  quella correlazione di determinato e indeterminato che è forse il nodo teorico che Garroni ha pensato più a fondo e nelle sue molteplici articolazioni: il «paradosso fondante» della filosofia, ma a nche dell’esperienza comune  - di cui Garroni parla prima nella voce i  Paradossi  dell’esperienza   scritta per  l’Enciclopedia Einaudi  , e poi in  Senso e paradosso 8   - non è altro  che un’a ntinomia inevitabile, modellata  sull’antinomia della facoltà di giudiz io della terza  Critica   kantiana. La relazione paradossale tra determinatezza e indeterminatezza è  al centro sia della trattazione della facoltà dell’immagine, sia  della facoltà del linguaggio. Qui vorrei, per un verso, mostrare quale aspetto abbiano assunto  nell’ultimo libro certi problemi già impostati in  Ricognizione della semiotica     –   creando  6  T ULLIO  D E  M  AURO ,   Minisemantica  , Roma-Bari, Laterza 1982.  7  E MILIO  G  ARRONI ,  L’indeterminatezza semantica, una  questione liminare  , in A  A .V   V  .,   Ai limiti del linguaggio , a cura di F EDERICO   A LBANO  L EONI ,   D  ANIELE  G  AMBARARA ,   S  TEFANO  G ENSINI ,   F RANCO  L O  P IPARO ,   R   AFFAELE  S IMONE , Roma-Bari, Laterza 1998, poi in E MILIO  G  ARRONI ,  L’arte e l’altro dall’arte. Saggi di estetica e   di critica  , Roma-Bari, Laterza 2003, pp. 89-115, da cui cito.  8  E MILIO  G  ARRONI ,  I paradossi dell’esperienza   ,  in A  A .V   V  .,   Enciclopedia Einaudi  , vol. XV,  Sistematica  , Einaudi, Torino 1982,  pp. 867-915 ;  I D .,  Senso e paradosso. L’estetica, una filosofia non  speciale  , Roma-Bari, Laterza 1986così un asse verticale, o di profondità temporale, all’interno de lla ricerca stessa di Garroni; per altro verso, però, vorrei tentare qualche rapido confronto tra alcuni temi fondamentali affrontati in  Immagine Linguaggio Figura   e la filosofia contemporanea, soprattutto di area analitica, con qualche riferimento anche all ’ambito  della psicologia cognitiva e discipline affini. Con il corrodersi della  “ filosofia linguistica ” , infatti, - o, se si vuole , con l’apertura della  linguistic turn   al non linguistico   –    quest’area di ricerca emersa negli ultimi 40 -50 anni ha permesso di riscoprire il problema della perc ezione e dell’immaginazione, creando  ambiti disciplinari anche molto specialistici su questioni strettamente interconnesse: dal problema della natura della  mental imagery  9   a quello dei cosiddetti “contenuti non concettuali”  della percezione (in cui un ruolo di rilievo assume anche la percezione e la cognizione degli animali non umani, da sempre tenuta presente da Garroni); da quello della natura delle rappresentazioni mentali a quello delle numerose prestazioni assegnate oggi in ambito analitico e cognitivistico  all’immaginazione.   A  lungo considerata in area analitica come una “facoltà” nebulosa, indeterminata e quindi sospetta, da qualche anno a questa parte l’immaginazione è al centro di  molte aree di ricerca: se ne parla i n relazione ai “giochi di far finta” (   games of make believe   ) 10    –    sia nel campo delle arti che in quello più generale dell’esperienza comune  9   Cfr. l’ampio  contributo di N IGEL   J.T.    T HOMAS ,   Mental Imagery  , in  The Stanford Encyclopedia of Philosophy  , (Winter 2011 edition), a cura di E DWARD  N.   Z  ALTA , URL = http://plato.stanford.edu/archives/win2011/entries/mental-imagery/. Si tratta di un buon contributo, ma è sintomatico che proprio allo schematismo kantiano Thomas dedichi uno spazio molto ridotto, e limitato alla schematismo trascen dentale dell’intelletto della prima  Critica  :  aggrappandosi alla famosa asserzione kantiana secondo cui lo schematismo è «un’arte nascosta nella profondità dell’anima umana, il cui vero impiego difficilmente saremo in grado di strappare  alla natura per esibirlo patentemente dinanzi agli occhi» (B181), Thomas mette da parte il problema concludendo che Kant, «in attempting to grapple with problems about the nature of mental representation that the Empiricists had failed to solve, left the process of image formation, and the nature of image itself, deeply misterious» (ivi, p. 14).  10  Cfr. K  ENDALL   W   ALTON ,   Mimesis as Make-Believe. On the Foundations of Representational Arts  , Cambridge (MA), Harvard University Press 1990 (trad. it. di M  ARCO  N  ANI ,   Mimesi come far finta  , Milano, Mimesis 2011- , alle ricerche sull’autismo (considerato da alcuni come una “patologia dell’immaginazione”), a quelle sull’empatia  e sulla simulazione, ai cosiddetti  “paradossi della ‘finzione”, della “suspense” o della “resistenza immaginativa” , e ai tentativi, o alle rinunce, di fornire una nozione unitaria di immaginazione che ne comprenda le varie declinazioni: u n’immaginazione pr oposizionale e non proposizionale, una  “ricostruttiva”  e una  “creativa” , e così via 11 .  Immagine Linguaggio Figura   è stato scritto senza note e senza riferimenti espliciti ad altri autori o ad altre ricerche contemporanee. Ma  è tutt’altro che un  libro estemporaneo o isolato. Anzi, Garroni lo ha potuto scrivere liberamente,  quasi “di getto”, solo perché erano almeno trent’anni che andava elaborando quei  pensieri.   Abituati ormai a pensare, come è d’uso nella filosofia analitica,  sotto  l’ombrello di etichette generalizzanti, che identificano certi assunti teorici di fondo  nei confronti dei quali occorrerebbe definirsi   –   nel caso della  mental imagery  , per esempio, il primo discrimine che troviamo è quello  fotografato dall’annoso e  fuorviante dibattito tra sostenitori delle  teorie “analogiche”  e delle teorie  “proposizionali”  -, la riflessione di Garroni sembra condotta in isolamento, e risulta  difficile da collocare sotto un’etichetta  univoca. Mentre non credo che le etichette servano davvero, in quanto tali, a far progredire la comprensione dei problemi, credo invece che un confronto sostanziale tra le proposte di Garroni e quelle elaborate in ambito anglosassone sarebbe molto proficuo per entrambi gli schieramenti. In ogni modo, se proprio volessimo collocare le posizioni di Garroni in quel dibattito   –   che nel bene e nel male è sempre più ristretto, specialistico, talvolta accecato dai propri tecnicismi, ma altre volte utile a chiarire i problemi in gioco e a suggerire soluzioni che lì, magari, non sono contemplate -, potremmo  orientarci verso l’ambito delle teorie “enattive” (  enactive   ) della percezione e delle  11   Per il nuovo interesse suscitato dall’immaginazione in ambito anglosassone negli ultimi decenni,  e le relative indicazioni bibliografiche, rimando a S  TEFANO   V  ELOTTI ,  La filosofia e le arti. Sentire,  pensare, immaginare  , Roma-Bari, Laterza 2012, in particolare il cap. 3immagini mentali, che costituiscono una “terza via” –   non computazionale -  rispetto a quelle “analogiche” e  a  quelle “proposizionali”.  Come che stiano le cose rispetto a questi orientamenti, il confronto approfondito e sostanziale tra le riflessioni di Garroni e le teorie della percezione,  delle immagini mentali, dell’immaginazione –   nel loro ruolo in ambito cognitivo, semantico, estetico, artistico   –   è un lavoro ancora da fare. Qui offrirò qualche spunto in relazione al problema dei cosiddetti  “contenuti non concettuali” della percezione, cominciando però dallo sviluppo  interno al pensiero di Garroni stesso, e in particolare d all’insoddisfazione per  la  semiotica denunciata nel ’77 . Alla domanda se «la semiotica [sia] sufficiente a se stessa», Garroni rispondeva di no, perché la semiotica non poteva indagare «il problema delle condizioni» grazie a cui «un qualcosa diviene segno» 12 . Lì Garroni invocava la costruzione di una «semantica trascendentale» come metateoria di una «semantica empirica» e di una «semantica logica», e indicava il suo «oggetto  specifico» nei «significati trascendentali», cioè negli «“schemi dell’immaginazione” , affrontati in sede di schematismo trascendentale nella  Kritik der reinen Vernunft  » 13 .  Garroni, d’altra parte, già avvertiva –    avendo pubblicato l’anno prima   Estetica ed epistemologia  14    –    l’insufficienza dello schematismo trascendentale della prima  Critica  ,  valido solo per (le condizioni de)la conoscenza in genere (  überhaupt   ), ma non per comprendere la conoscenza effettiva o determinata, e rimandava al «  principio trascendentale soggettivo, creativo e costruttivo » 15  indagato da Kant nella terza  Critica.  Nella Premessa a  Immagine Linguaggio Figura    si dice che l’enigma dell’immagine interna, il  12  G  ARRONI ,  Ricognizione  , cit., p. 33.  13  G  ARRONI ,  Ricognizione  , cit., p. 37.  14  E MILIO  G  ARRONI ,   Estetica ed epistemologia. Riflessioni sulla  Critica del Giudizio  di Kant  , Roma, Bulzoni 1976, nuova ed. con una nuova Premessa, Milano, Unicopli 1998.  15  G  ARRONI ,  Ricognizione  , cit., p. 38, c.vo nell’originale.vero e proprio tema centrale del libro, ha preso forma attraverso « l’assiduo  ripensamento del co siddetto ‘schematismo’ kantiano» 16 . Dunque, una continuità  con l’opera del ’77, ma certamente anche un’importante discontinuità: lo schematismo trascendentale, quello dei concetti puri dell’intelletto, passa decisamente in secondo piano nell’ultimo libro, mentre a venire in primo piano  sono lo schematismo empirico - quello cioè che permette di pensare la costruzione dei concetti empirici a partire dalla percezione, che Kant nella terza  Critica   chiama «esempio» - e lo schematismo «simbolico»   –   quello che funziona per analogia, in relazione a concetti non propriamente esibibili e che è responsabile non solo delle  cosiddette opere d’arte bella, ma anche del funzionamento del nostro lin guaggio 17 . Naturalmente, questi diversi schematismi, pensabili grazie alla distinzione - disponibile solo a partire dalla terza  Critica     –   tra uno schematismo «oggettivo» e un «libero schematismo», si intrecciano sempre nella produzione effettiva di enunciati e figure significanti, ma devono essere distinti a livello analitico. Già nella  Ricognizione della semiotica   Garroni metteva in chiaro come lo schematismo kantiano costituisse il superamento di ogni concezione ingenuamente referenzialistica del linguaggio. Lì si indicava una direzione di ricerca che poi si preciserà nel tempo. Si diceva:  Il ‘referente’ non è la cosa s tessa, ma il nostro modo di operare sulle cose, di manipolarle e  configurarle come il correlato implicito del linguaggio; l’ ‘operazione’ a sua volta è questo stesso  concreto manipolare, che non può essere disgiunto peraltro dal nostro rappresentarci le cose e le  nostre manipolazioni delle cose, cioè dal nostro ‘prendere le distanze’ dagli stimoli immediati, e  che suppone quindi in qualche modo il nostro conoscerle e parlarne 18 .  16  G  ARRONI ,  Immagine Linguaggio Figura  , cit., p. ix.  17  Cfr. I MMANUEL  K   ANT ,  Critica della facoltà di giudizio , ed. it. a cura di E MILIO  G  ARRONI  e H  ANSMICHAEL  H OHENEGGER  , Torino, Einaudi 1999, in particolare §49 e §59,  e l’ introduzione dei curatori. Sull’analogia in Kant v.  M IRELLA  C  APOZZI ,  Le inferenze del giudizio riflettente in Kant:  l’induzione e l’analogia  , “Studi kantiani”, XXIV (2011), pp. 11 -48.  18  G  ARRONI ,  Ricognizione  , cit., p. 69.È evidente, mi pare, che «l’operazione»  di cui si parla include anche la nostra nativa attività percettiva che verrà poi indagata attraverso il problema della costituzione, della natura e della funzione delle «immagini interne». Distinte dalle «figure» (che non possono essere altro che elaborazioni, esteriorizzazioni e riduzioni delle immagini interne), le immagini interne sono innanzitutto dinamiche, sono cioè ispezioni attive e mobili, per scorci sempre diversi, degli oggetti percepiti,  o di queste percezioni riprodotte, rielaborate e ricordate nell’immaginazione. È da  escludere quindi ogni obiezione legata alla presupposizione indebita e circolare di un  homunculus    che sarebbe a sua volta spettatore di “figure nella testa”. Figure nella  testa non ce ne sono. È invece questa operazione percettiva, dinamica e attiva, che impedisce ogn i regresso all’infinito, anche se naturalmente non pretende di dare  una  spiegazione  , in termini oggettivi, di come ciò avvenga. Un ruolo decisivo gioca qui   la nozione di  metaoperatività  introdotta in  Ricognizione della semiotica  19   e poi ripresa, anche terminologicamente, in tutta la sua  importanza, solo trent’anni  anni dopo. È interessante come, anche in questo caso, Garroni anticipasse uno dei temi più dibattuti, oggi, in ambito cognitivo, sotto il t itolo di “metarappresentazioni” 20 , ma che in Garroni si es tende già all’intero ambito dell’operare umano  (un operare che è pragmatico e corporeo, percettivo, cognitivo). In analogia e in correlazione con la funzione metalinguistica   –   che per Garroni è sempre implicata nelle funzioni di primo livello del linguaggio, così come quella costituisce pur sempre una funzione che può essere solo interna al linguaggio di primo livello   –   Garroni introduce la nozione di metaoperatività come interna a qualsiasi o perazione umana. È ciò che distingue, in sostanza, un’operazione del  19   G  ARRONI ,  Ricognizione  , cit., p. 70 sgg.   20  Cfr. A  A .V   V  .,    Metarepresentations. A Multidisciplinary Perspectiv  e, a cura di D  ANIEL  S PERBER  ,   Oxford, Oxford University Press 2000genere stimolo- risposta da un’operazione che include  già dentro di sé una generalizzazione. P iantare un chiodo con un martello è sì un’operazione  determinata, concreta, e dotata di uno scopo preciso, ma   –   come operazione umana   –   contiene già dentro di sé una famiglia o una classe di operazioni possibili (qualcosa, dunque, ch e potrebbe essere chiamato uno “schema operativo”  ):  “ piantare questo ch iodo”, per l’uomo, suppone “piantare i chiodi in generale” , cioè un comportamento operativo   –   metaoperativo rispetto a quello   –   volto alla fabbricazione di strumenti e alla determinazion e di variabili operative; e il “piantare chiodi in generale”  suppone ul teriormente l’“ operare in generale in vista d i possibili variabili operative” , cioè un comportamento specificamente metaoperativo. 21   Persino l’operare per prova ed errore –   tipico del comportamento animale non umano -  suppone nell’uomo un piano, una consapevolezza di operare  per prova ed errore. S appiamo che proprio l’attività artistica è considerata da Garroni come l’esemplificarsi di questa dimensione metaoperativa, e che questa dimensione  metaoperativa non è altro che una riformulazione della kantiana «conformità a scopi senza scopo». La terza parte di  Ricognizione della semiotica   è tutta incentrata sui cosiddetti linguaggi artistici, che linguaggi propriamente non sono, non solo in  quanto privi di un codice, ma in quanto strettamente condizionati da un’operatività  e da una metaoperatività irriducibili a linguaggio. Tutte le arti di cui Garroni lì parla brevemente   –    dall’architettura alla musica, dalla poesia alla narrativa alla pittura –   sono indagate a partire dal modo in cui in esse prende corpo questa nostra capacità metaoperativa, di per sé inosservabile, ma rilevabile in indici empirici in tutti i  prodotti umani, e in modo esemplare nelle opere d’arte. La stessa nozione di “ stile ”   viene riletta alla luce del manifestarsi concreto di indici metaoperativi. In estrema sintesi, questa capacità metaoperativa viene caratterizzata come una condizione  21  G  ARRONI ,  Ricognizione  , cit., p. 94nozioni diverse, quali gli oggetti che Donald W. Winnicott ha chiamato «transizionali» 27 , di quelli che Michael Dummett ha chiamato «proto-pensieri» 28 , che sono analoghi poi a quelli che alcuni studiosi   –   a partire da Gareth Evans 29    –    chiamano “contenuti non concettuali” della percezione (c ontraddicendo, dunque,  l’idea  fatta valere da Maurizio Ferraris secondo cui la tradizione kantiana avrebbe  decretato l’equivalenza tra epistemologia e ontologia, cioè l’assimilazione di tutt o il  reale, di quel che c’è, a quel che possiamo conoscerne grazie ai nostri “schemi concettuali” , gettando così le premesse del radicale prospettivismo e costruzionismo  nietszscheano secondo cui “non esistono fatti ma solo interpretazioni”, e di qui del p ostmoderno, del neopragmatismo alla Rorty, del decostruzionismo secondo cui niente è fuori dal testo, e così via) 30 .  affidata a un principio estet ico che esprime un’originaria adesione del soggetto all’esperienza, e insieme un’anticipazione distanziante di questa».   27  Già in  Senso e paradosso , cit. p. 274, G  ARRONI  si era riferito in un altro contesto agli oggetti transizionali di Winnicott («mediatori tra il narcisismo infantile, o primario, e le relazioni  oggettuali», obbedienti a «“quel principio di confusività” […] che violerebbe appunto “il principio aristotelico di non contraddizione”») accostandoli da un lato all’ Unheimliches    freudiano e, dall’altro, alla paradossale unità di determinato e indeterminato che ha nell’opera d’arte e nell’esperienza estetica una sua manifetsazione esemplare: «Non c’è esperienza ben determinata, apparentem ente solo ovvia, che non presupponga una condizione di transizionalità o, insomma, un paradosso-senso. E certi tipici oggetti transizionali non sono che concretizzazioni di un paradosso-senso.  Qui si legittima […] anche la creatività […] che viene esemplar mente e più tipicamente esibita  oggi, per noi e dal punto di vista di una riflessione estetica, da ciò che chiamiamo “arte” ed “esperienza estetica”», ivi, p. 275.   28  M ICHAEL  D UMMET ,   Origins of Analytical Philosophy  , Cambridge, Harvard University Press 1994, ed. it. a cura di E  VA  P ICARDI ,  Origini della filosofia analitica  , Torino, Einaudi   2001, cap. XII: «Il   proto-pensiero si distingue dal pensiero vero e proprio che è esercitato dagli esseri umani per i quali il linguaggio ne è il veicolo per il fatto di non essere separabile dalle attività e circostanze  presenti. […] non possiamo dare una spiegazione soddisfacente della nostra capacità di base di  apprendimento e di orientamento nel mondo trascurando il livello dei proto-pensieri» (ivi, pp. 138-139).  29  G  ARETH  E  VANS ,  The Varietis of Reference  , Oxford University Press, Oxford 1982.  30  Di M  AURIZIO  F ERRARIS , tra i tanti testi e articoli in cui sostiene questa tesi, si veda da ultimo il   Manifesto del nuovo realismo , Roma-Bari, Laterza 2012. Per una discussione più articolata di questadel l’esperienza che funziona come « unità costruttiva di un insieme di determinazioni linguistiche e operative», in dichiarata corrispondenza a « quell’unità  estetica delle rappresentazioni di cui si occupa Kant nella  Kritik der Urteilskraft  » 22 .   A questo punto abbandono il libro del ’77 per vedere come queste  problematiche vengano riformulate e rielaborate, in modo più adeguato, nel libro del 2005. Il nuovo strumento teorico che Garroni ha messo a punto, al di là del riferimento al principio di una «conformità a scopi senza scopo» quale senso e sentimento comune (il  Gemeinsinn   kantiano), è la nozione di «immagine interna», proprio a partire da una rielaborazione del libero schematismo della terza  Critica.  Qui la nostra capacità metaoperativa resta una nozione importante, ed è esplicitamente richiamata nel testo 23 , ma viene reinterpretata e specificata proprio in relazione al lavoro di quella che Garroni chiama complessivamente «facoltà  dell’immagine» , che è responsabile sia delle sensazioni (come precedenti di  un’immagine), sia delle percezioni (le immagini interne prodotte in presenza degli oggetti del mondo), sia dell’immaginazione nella sua specificità (delle immagini in  quanto riprodotte o ricordate- rielaborate). Quella che nel ’ 77 veniva chiamata per lo più «operazione» è qui inn anzitutto l’attività di questa «facoltà dell’immagine» , dal livello senso-motorio e non ancora associato effettivamente al linguaggio e ai concetti, fino al suo pieno intrecciarsi con linguaggio e concetti, ma pur sempre  all’interno di una non riducibilità dell’una dimensione all’altra. Sensazione,  percezione e immaginazione sono tutte «immagini interne» costitutivamente  dinamiche, non fissabili in un’ icona o figura materiale, e abitate da qualcosa di non  sensibile, dunque distinte dall’immagine -segno materialmente intesa, che Garroni chiama «figura», e che è invece sostanzialmente statica.  22  G  ARRONI ,   Ricognizione  , cit., p. 147.  23  G  ARRONI ,   Immagine Linguaggio Figura  , cit., p. 18 sggUna delle nozioni di maggior interesse che emerge subito   –   assente, direi, negli scritti precedenti   –   è quella di «aggregato». Si tratta di qualcosa di pre-linguistico e pre-concettuale, che deve dunque precedere   –   in linea di diritto e ipoteticamente anche di fatto   –   il costituirsi di famiglie, in senso wittgensteiniano, e di classi. Un aggregato è ciò che offre una prima possibilità di riconoscimento degli oggetti, non come membri di una famiglia o di una classe (che presuppongono appunto una caratterizzazione di tratti linguistici o una pertinentizzazione di note concettuali). Un aggregato è invece costituito «solo percettivamente» e costituisce «un insieme di casi effettivamente sperimentati o di oggetti effettivamente usati, quindi di numero finito, anche se via via crescente» 24 . Un aggregato può essere costituito  da oggetti assai diversi, legati da una minima somiglianza e talvolta da nessuna somiglianza, ma  solo da un cortocircuito tra disparati che stabiliscono tra loro un’unità non chiaribile  intellettualmente di tipo affettivo, emozionale, fantasticante, volto al padroneggiamento di eventi e cose amat e, preoccupanti, esaltanti” 25 .  Mi sembra di poter dire che Garroni stia cercando di dar conto, con una  rielaborazione di quella che Kant avrebbe chiamato una “sintesi dell’apprensione” 26 ,  ancora priva di un’unità conc ettuale, della comune radice di  24  G  ARRONI ,  Immagine Linguaggio Figura  , cit., p. 11  25  Ibidem.  26  Ma G  ARRONI  segnala una revisione  tendenziale dell’estetica trascendentale kantiana a un livello  molto più radicale e produttivo, già da  Senso e paradosso , (cit., p. 226): «Con la riflessione estetica della  Critica del Giudizio , il problema dell’immaginazione viene in primo piano: nasce u n nuovo schematismo   –   lo schematismo libero, senza concetti,   dell’immaginazione     –   come capacità originaria di organizzazione delle percezioni. Di conseguenza tende a ridimensionarsi notevolmente la primitiva   Estetica trascendentale  , nonché la stessa  Logica trascendentale  , della  Critica della ragion pura  . Per esempio, che qualcosa possa essere dato ai sensi solo alle condizioni dello spazio e del tempo non è che  un  aspetto, forse non il più originario appunto, della questione dell’intuizione e della sua  elab orazione nell’immaginazione (non più soltanto ‘produttiva’ e ‘riproduttiva’, ma anche ‘creatrice’), non esauribile in termini di ‘forme’ spazio - temporali rispetto a una ‘materia’ sensibile. Il centro della questione, di fronte a quell’aspetto, è ora la lor o interna capacità organizzativa Quanto alla relazione tra «aggregato» e «oggetto transizionale», mi sembra che uno degli esempi portati in  Immagine Linguaggio Figura   non lasci adito ad alcun dubbio. Nella primissima infanzia, scrive Garroni, «prima che il linguaggio costituisca un vero e proprio ambiente e quindi sotto la condizione di  un’intelligenza prev  alentemente senso-motoria», si può ipotizzare che si producano,  nel la manipolazione degli oggetti, […] riconoscimenti, usi e aggregati di oggetti in essi variamenti  disposti. Un burattino può essere riconosciuto come un burattino e nello stesso tempo come un   vivente, oggetto d’amore o mostro persecutorio che sia; una cope rtina o un lenzuolino possono  essere riconosciuti come oggetti d’uso, adatti per coprirsi e stare al caldo, e insieme come utero  della madre, il suo abbraccio, il suo stesso seno e quindi come una difesa dal mondo esterno non ancora propriamente conosciuto  e dominato; e così via. In questi casi l’aggregato è lontanissimo  dalla formazione di una futura tassonomia intellettuale, e tuttavia una tassonomia non potrebbe più tardi formarsi se non fosse preceduta da quello. 31   Se queste forme prelinguistiche di aggregazione e riconoscimento sono  però contrassegnate da una vocazione al linguaggio e all’organizzazione  concettuale, ci si può chiedere se siano pensabili anche senza questa teleologia  evolutiva e se non siano per caso da pensare come l’analogo più prossim o, con le opportune specificazioni, delle rappresentazioni che dobbiamo attribuire ad alcune specie di animali non-umani. A questi, infatti, Garroni riconosce non una vera «percezione interpretante»   –   come quella umana -, ma neppure si sente di relegarli in un «ambiente» nettamente distinto da un «mondo» 32    –   come avevano fatto Scheler e Heidegger sulle orme di von Uexküll. Forse la distinzione vale per  l’ambiente sensoriale della zecca, ma sarebbe diff  icile dire la stessa cosa di un cane o delle grandi scimmie.  tesi rispetto a Kant, rimando a S  TEFANO   V  ELOTTI ,  Storia filosofica dell’ignoranza  , Roma-Bari, Laterza 2003, in particolare i capp. 3, 4 e 7.  31  G  ARRONI ,  Immagine Linguaggio Figura  , cit., pp. 12-13.  32  G  ARRONI ,  Immagine Linguaggio Figura  , cit., p. 44Un mondo, senza darne qui un’impossibile definizione e accettando della parola solo l’indicazione di un senso complessivo della vita e delle cose che la avvolgono, è attribuibile anche  agli animali non-umani. Solo che sembra presentarsi non come mondo in immagine, ma come comportamento, in cui la sensazione, visiva o non visiva, svolge una funzione segnaletica e non formativa, essenziale, ma non caratterizzante propriamente una co siddetta “immagine del mondo”. 33   Mi sono soffermato brevemente sul tema della percezione infantile e degli animali non-umani perché è diventato  forse l’argomento più forte  portato dai sostenitori dei contenuti non concettuali della percezione 34 . Questo confronto tra le  posizioni di Garroni e quelle dei sostenitori dei “contenuti non concettuali” (un’espressione che Garroni non usa mai)  richiederebbe uno studio specifico, come anche la relazione  tra l’ «aggregato» e i «proto -pensieri» di Dummett, una nozione elaborata proprio per dar conto di rappresentazioni che non sono dipendenti dal linguaggio, proprie sia dunque degli infanti, sia degli animali non-umani (anche se credo che sia necessario, anche per Dummett, distinguere tra proto-pensieri suscett ibili di diventare pensieri, o “vocati’  a diventarlo, e quelli che non lo sono). Se menziono i possibili punti di convergenza della riflessione di Garroni sulla irriducibilità della percezione al linguaggio con quella di alcuni filosofi di tradizione analitica e psicologi cognitivi, non è per mostrare che il pensiero di Garroni sta al passo con i tempi, o li ha precorsi, cosa che sarebbe di pochissimo interesse. Il fatto è che Garroni mette in luce   –   spesso senza portare fino in fondo i  dettagli dell’analisi –   aspetti, implicazioni e dimensioni del problema che potrebbero essere molto fecondi se messi a contatto con la ricerca contemporanea propria di quelle diverse tradizioni. Vorrei sottolineare che non si tratta solo di un generico auspicio di integrazione di prospettive diverse, ma di confronti concreti  33  G  ARRONI ,  Immagine Linguaggio Figura  , cit., p. 44-5.  34  Non solo in E  VANS , cit., ma soprattutto, tra gli altri, in C HRISTOPHER  P EACOCKE ,   Does perception have a nonconceptual content?  , in “Journal of Philosophy”, 98 (2001), p p. 239-264 e I D .,  Phenomenology and nonconceptual content  , in “Philosophy and Phenomenological Research”, 62 (3) (2001), pp. 609 -15, e già anche in F REDERICK   D RETSKE ,    Naturalizing the Mind  , Cambridge (MA), MIT Press 1995che potrebbero portare a risultati sorprendenti forse anche in termini di nuove acquisizioni conoscitive. Farò due esempi: il primo, già accennato, riguarda proprio  i contenuti non concettuali. Il secondo riguarda invece l’indeterminatezza delle  immagini mentali  A. È indubbio che le principali ragioni che hanno portato la filosofia della  linguistic turn   a occuparsi di fenomeni non linguistici, e in particolare di contenuti percettivi non concettuali, è legata a una serie di ragioni che trovano corrispondenze abbastanza puntuali in Garroni. E tuttavia, nonostante la loro raffinatezza, spesso queste analisi sono incapaci di vedere aspetti della questione che una riflessione filosofica come quella di Garroni aiuta a scorgere. Le ragioni che hanno dato il via al dibattito sui contenuti non concettuali sono svariate: 1. La possibilità, riconosciuta da Garroni con la nozione di «aggregato», di rappresentare nella percezione stati di cose contraddittori o impossibili da un punto di vista proposizionale e concettuale:  l’esempio che si fa di s olito sono le figure di Escher, o la « l’illusione della casca ta» di Tim Crane 35 ,  ma l’aggregato di  Garroni, come abbiamo visto rapidamente, coglie questa possibilità percettiva  innanzitutto al livello dell’immagine interna, e nella sua  necessità     –   non solo come fatto accidentale ed episodico, o artatamente escogitato e realizzato in una figura 36 . 2. Un secondo argomento è stato proposto da Peacocke, il quale ha sostenuto che il contenuto della percezione è « unit-free  » 37 : percepisco una distanza  35  T IM  C RANE ,  The Waterfall Illusion  , in “Analysis”, 48  (1988), pp. 142-147.  36  Cfr. il capitolo 8 di  Immagine Linguaggio Figura  , in cui G  ARRONI  analizza la differenza tra la interpretabilità plurima di alcune   figure  , e il «ruolo primario nei riguardi della varia interpretabilità del percepibile» giocato dalla «indeterminatezza percettiva» propria delle  immagini interne   in relazione al mondo reale.  37  C HRISTOPHER  P EACOCKE ,   Analogue content  , in “Proceedings of the Aristotelian Society”, 60  (1986), pp. 1-17determinata tra me e un oggetto senza per questo dover  usare un’unità di misura. E  queste rappresentazioni sono irriducibilmente non-concettuali. Garroni, di nuovo appoggiandosi   –   qui implicitamente - a Kant 38 , usa  un’ argomentazione analoga per mostrare come la percezione ci appaia legittimamente come soggettiva e oggettiva a un tempo, senza che ci sia nulla di contraddittorio o ossimorico, in quanto la percezione «fornisce valori oggettivi delle cose, per esempio quantitativi, tali da poter essere   poi   esplicitati in rapporti metrici, in un modo che non è ad evidenza delle cose stesse: lo stesso avvertimento di quei valori  oggettivi   è  nostro  [e questo avvertimento è non concettuale: nota mia] e, tanto più, la  nostra misurazione   non sta  nelle cose  , ma dipende  da un’unità di misura da noi stabilita    idonea per l’esplicitazione  [concettuale] di quei rapporti» 39 . L’avvertimento dei valori quantitativi privo di un’unità di misura è dunque la condizione, non concettuale (estetica, direbbe  Garroni con Kant) di ogni misurazione oggettiva e concettuale. 3. Un terzo argomento, avanzato da Gareth Evans e poi ripreso da molti, è la maggiore «finezza di grana» della percezione rispetto alla  “ grana ”  dei contenuti degli atteggiamenti proposizionali. Qui è facile riferirsi di nuovo a Garroni nella sua rielaborazione del pensiero kantiano, ma non tanto in relazione agli aggregati, quanto al libero schematismo e a quelle che Kant chiamava «idee estetiche» (una modalità esemplare di «immagine interna», che Kant stesso designa come «intuizione interna»: « dal punto di vista estetico l’immaginazione è libera, al fine di fornire, ma in modo non ricercato […] una copiosa e inesplicita materia [  Stoff   ]  all’intelletto, che questo,  nel suo concetto, non prendeva in considerazione  » 40  ) . E l’analisi,  centralissima, che Garroni dedica al libero schematismo, non si limita a un riferimento alle ope re d’arte (che sono, per Kant, « espressioni  di idee estetiche»), ma  38  V. K   ANT  ,   Critica della facoltà di giudizio , cit. § 25.  39  G  ARRONI ,  Immagine Linguaggio Figura  , cit. p. 6.  40   K   ANT  ,   Critica della facoltà di giudizio , cit., § 49, c.vo mio si allarga alla stessa costruzione di schemi per concetti empirici. Garroni precisa infatti che  lo stesso schema [lo schema empirico, l’immagine -schema o, nel linguaggio della terza  Critica    kantiana, l’  «esempio»  ] è possibile dentro il quadro del rapporto dell’intera immaginazione e dell’intero intelletto: è una scelta di certi tratti caratteristici nell’insieme di tutti i tratti caratteristici  percepibili di un oggetto, il quale a sua volta non sarebbe possibile se non sullo sfondo di tutti i tratti caratteristici possibili, percepiti o no, percepibili o no, c onfusi nell’indet erminatezza della totalità 41 .  Non si tratta, è vero, di una percezione non relazionata ai concetti (dato  il rapporto dell’immaginazione con l’intelletto) , ma è anche vero che qui nessun concetto determinato può corrispondere ai tratti caratteristici percepiti, e anzi un concetto empirico può formarsi solo su progressive selezioni a partire da una totalità indeterminata di tratti non già linguisticamente o concettualmente  classificati. Nella prospettiva di Garroni, la maggiore “finezza di grana” della  percezione verrebbe vista in un quadro più ampio di quello analitico e cognitivista,  che ha conseguenze antropologiche, semantiche, di teoria dell’arte, mentre  probabilmente potrebbe guadagnare a sua volta in precisione e articolazione da un confronto serrato con il dibattito analitico. 4. Un quarto argomento strettamente collegato al precedente è stato di nuovo messo in evidenza da Peacocke e da Michael Ayers 42 , e riguarda la possibilità di acquisire e apprendere concetti empirici. Se non si dessero contenuti non concettuali, o il nostro ragionamento sarebbe circolare (coglieremmo già concettualmente contenuti percettivi di cui invece, per ipotesi, dobbiamo costruire i concetti), oppure dovremmo supporre un innatismo fortissimo e insostenibile. La  41   G  ARRONI ,  Immagine Linguaggio Figura  , cit. p. 98.   42 C HRISTOPHER  P EACOCKE ,   A Study of Concepts  , Cambridge (MA), MIT Press 1992, e I D .,   Does   perception… , cit.; M ICHAEL   A  YERS ,   Sense experience, concepts, and content   –   objections to Davidson and  McDowell  , in R.   S CHUMACHER  , a cura di,  Perception and Reality: From Descartes to the Present  , Paderborn, Mentis 2004, pp. 239-262ripresa da parte di Garroni delle considerazioni svolte da Umberto Eco nel suo  Kant e l’ornitorinco  (che a sua volta si riferiva a Garroni) fornisce un modello per la formazione dei concetti empirici proprio a partire dai contenuti non concettuali, in forma di aggregati, che permette un riconoscimento percettivo anteriore alla costituzione di uno schema empirico, correlato a un nome comune 43 . B. Veniamo al secondo esempio. Discutendo di immagini mentali, alcuni autori di provenienza analitica hanno sostenuto che una delle caratteristiche che le differenzia dalle figure (   pictures   ) è la loro indeterminatezza. Sembrerebbe, questo, un tratto che li avvicina alla tesi di Garroni sul reciproco correlarsi di determinatezza e indeterminatezza. Ma non è così. Lo scopo di chi usa questa argomentazione 44  è quello di sostenere che le immagini mentali, essendo indeterminate, sono più simili  a descrizioni che a figure. L’argomento di Dennett è abbastanza noto, e rig  uarda il numero delle strisce del manto di una tigre:  in un’immagine mentale il numero delle  strisce di una tigre può essere indeterminato, mentre in una figura le strisce devono essere numerabili, e dunque determinate. In una descrizione, il numero delle strisce  può essere indeterminato (“questa tigre ha numerose strisce sul manto”), dunque le immagini mentali sono più vicine alle descrizioni che alle figure. Un’autorità sulla  mental imagery   come Thomas   –   insieme a molti altri - sostiene che questo argomento  non è valido, perché un’immagine mentale di una tig  re potrebbe avere un numero determinato di strisce, solo che uno potrebbe non fare in tempo a contarle perché  l’immagine mentale svanisce velocemente dalla coscienza. Inoltre, anche una figura  di una tigre potrebbe rendere impossibile contarle, in quanto sfocata o sommaria, e  43   G  ARRONI ,  Immagine Linguaggio Figura  , cit. p. 58, sgg.   44  Tra gli altri D  ANIEL  D ENNETT ,  Content and Consciousness  , London, Routledge & Kegan Paul 1969, pp. 135-7; Z ENON  P  YLYSHIN ,  What the mind’s eye tells the mind’s brain: A critique of mental  imagery  , “Psychological Bullettin”, 80 (1973), pp. 1 -25; tra i critici di questa argomentazione, M ICHAEL   T  YE ,  The Imagery Debate  , Cambridge (MA), MIT Press 1991anche una tigre reale   –   presente alla percezione attuale e non immaginata -, data la natura frammentaria, confusa e sfuggente delle sue strisce, porrebbe molti dubbi quanto al loro numero 45 . A me sembra evidente come Dennett e gli altri autori abbiano colto solo di sfuggita un carattere delle immagini mentali o interne e ne abbiano tratto una conclusione affrettata. E come le contro-argomentazioni di  Thomas (insieme a quelle di molti altri) si mantengano sullo stesso livello, senza prendere neppure in considerazione la relazione, ben altrimenti pregnante e ricca di conseguenze, colta da Garroni tra determinatezza e indeterminatezza delle  immagini    interne   e il loro rapporto con le   figure  . L’indeterminatezza dell’immagine interna –   così come viene pensata da Garroni - non è una figura sfocata o mancante di alcuni particolari, o addirittura una figura che sarebbe determinabile se solo avessimo il tempo di esaminarla nella nostra mente. La correlazione essenziale tra determinatezza e indeterminatezza che la caratterizza è condizionata dal fatto che è  un’immagine dinamica e multimodale (visiva, olfattiva, tattile, uditiva, mnemonica,  affettiva, viscerale, e così via) e dunque non è in nessun modo una figura, neppure una figura sfocata o sbiadita o evanescente . È piuttosto un’operazione nativa e  attiva, che, nel caso della percezione visiva, è non solo filtrata dalla gamma limitata di raggi luminosi a cui è sensibile il nostro occhio, ma è resa possibile dai  movimenti saccadici e di altro genere dell’occhio, senza di cui non ci sarebbe neppure un’immagine retinica. E quest’immagine retinica è a sua volta attivamente  e selettivamente rielaborata dalla nostra «percezione interpretante» sullo sfondo di un contesto   –   oggettivo e soggettivo - che si allarga da quello visibile a quello non  visibile, fino ad estendersi alle altre caratteristiche non presenti (associazioni con altri oggetti e memorie percettive). I l problema dell’indeterminatezza condizionante dell’immagine  interna non è tanto se possiamo contare o meno certi suoi elementi, quanto quello di darne un resoconto teorico adeguato, che, per esempio, non si  45  T HOMAS ,   Mental Imagery  , cit., nota 31illuda di poterla considerare  come l’imma gine interna di un oggetto già definito e isolato dagli altri oggetti, dal mondo soggettivo e oggettivo e dal sentimento della  totalità dell’esperienza in cui siamo avvolti. Si possono anche costruire modellini  della percezione più semplici, avendo in vista la costruzione di macchine per il riconoscimento automatico di certe caratteristiche oggettuali nel mondo, ma senza illudersi che quei modellini riproducano effettivamente la percezione umana. Per concludere, vorrei citare per esteso quel che scriveva Garroni nel già citato articolo sulla indeterminatezza semantica a proposito del senso stesso di una riflessione filosofica. Credo che quel che diceva allora a proposito del linguaggio e dei linguisti, potrebbe essere ripetuto per la percezione e i percettologi, come  suggerisce l’ultimo esempio che ho portato:   Si metteva in dubbio prima che potessero esistere puri linguisti [o puri percettologi,  potremmo dire]. Forse è proprio vero: non esistono. Anzi, se l’antinomia che essi  inevitabilmente incontrano e si sforzano di comporre è sempre presente esteticamente in  loro e in tutti noi, linguisti e non linguisti, nell’anticipazione, all’interno dello stesso uso, del  linguaggio in genere nella sua totalità indeterminata, è forse addirittura possibile sostenere  […] che la cosiddetta ‘filosofia’ si inscrive necessariamente in ciò che abbiamo detto ‘coscienza implicita del linguaggio’. È infatti difficile dire cosa sia la filosofia istituzionalmente […] ma che essa nasca da un qualche sforzo di comprensione dell’esperienza   e del linguaggio, consustanziale all’esperienza e a linguaggio, nella stragrande  maggioranza dei casi solo una precomprensione o un avvertimento oscuro di una  comprensione, questo sembra tutt’altro che campato in aria.  Ciò comporta una differenza rispetto a una linguistica che non vuole saperne, di  filosofemi? Forse no, se la differenza va cercata in positivo, in una determinazione dall’alto di principi e metodi. Forse sì, se invece va cercata in negativo, nell’esclusione che principi e  metodi possano essere qualcosa di assoluto e unilaterale, si ispirino poi alla indeterminatezza o alla determinazione. Ciò pare plausibile soprattutto se essa fa emergere  più nettamente la coscienza implicita che ogni nostro uso del linguaggio […] non è solo un  uso particola re […] ma contiene una componente di indeterminatezza che lo fa essere paradossalmente proprio quell’uso e permette di descriverlo proprio come quell’uso  determinato,  nello stesso uso effettivo , in tutti i sensi. Non sarebbe per caso anche un contributo non del tutto insignificante, da un punto di vista etico e politico, non sospettabile di ideologismo, alla promozione di una cultura non dogmatica, non settaria e non particolaristica? 46   46  G  ARRONI ,   L’indeterminatezza semantica  …, cit. p. 112Emilio Garroni. Garroni. Keywords: l’implicatura di Pinocchio, Freges Sinn – Germanic ‘sinn’ *not* via Latin cognate ‘sentire’ -- senso, senso fregeiano – senso freegan – “Fregean sense” – Do not multiply senses --  mentire/mentare/meinen/mean -- messagio, message, semiotic – sender, recipient, message, emittente, mittente, recipiente, message, emission, utterance, emitire, to utter – to ‘out’ --  ‘to ex-press’ Lorenzini---- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Garroni” – The Swimming-Pool Library.  https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51639513764/in/photolist-2mRGVwA-2mQ8kJS-2mLQyAA-2mLTVsg-2mFd1md-E4u3XA

 

Grice e Gatti – poetica – filosofia italiana – Luigi Speranza (Napoli). Filosofo. Grice: “I like Gatti. Gatti is a good’un; for one, he philosophised on Aristotle’s Poetics, something we hardly do at Oxford! And many other things, too!!” -- Nato di Stanislao e Marianna De Nigro. Studia a Napoli sotto Puoti ed ebbe, come colleghi, Cusani e Sanctis. Collabora  a “Il concetto di progresso.” E a “Filosofia,” il baluardo del hegelianismo a Napoli. Le fondamenta del suo pensiero sono da ritrovarsi nell'eclettismo di Cousin, sul quale scrisse “Di una risposta di Cousin ad alcuni dubbi intorno alla sua filosofia.” Sostiene che vi sia un fondo di verità comune a tutte le scuole filosofiche e reputa indispensabile fonderle in un'unica sintesi. Abbandona la filosofia cousiniana avvicinandosi in maniera decisa all'Idealismo tedesco. Dall’idealismo nasce la convinzione secondo la quale lo sviluppo interiore della coscienza e l'evolversi della storia provengono entrambe da un principio comune: la legge universale della ragione. Influenzato da Hegel e da Schelling, considera la filosofia attuabile solo all'interno della realtà storica in quanto è la scienza generale di tutto l'esistente. Si indirizza verso l'estetismo in “L’arte.” Critica la dottrina aristotelica secondo la quale l'arte è una riproduzione (mimesi) della natura, contrapponendole la filosofia hegeliana che ritiene l'arte riproduzione (mimesi) del sovra-sensibile, delle idee, del noetico. (“L’estetico e mimesi del noetico). In “Della filosofia in Italia” si sofferma sul pensiero e la cultura italiani contestualizzandoli nella filosofia europea. Esauritosi il periodo florido della diffusione della scuola hegeliana, la rivista del Gatti andò incontro ad un lento declino e fallì anche nella creazione di una nuova testata editoriale chiamata Rivista napoletana di politica, letteratura, scienze, arti e commercio.  Altre opere: “Della fenomenologia”; “Fichte e il concetto di scienza; “La filosofia della storia in Grecia”;“Filosofia”. Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. treccani.   Si è detto,ora non saprei più da chi la prima volta,e poi da mol tisièsoventeripetutocheGian BattistaVicoautorediunsistemache isuoi contemporanei non poteano intenderecome quello che dovea esse re la scienza di un'altra età , e il frullo di nuovi germogliamenti dello spirito,nonaveaperquestaragionepotuto raccogliereinvitailpre. miodiquellagloriacheinepotipiù idoneiagiudicare dellapoteoza dellasua menteedelvaloredellesuedottrine,glidoveanoalarga mano prodigaredopolamorte.Orquestomododiconsiderarlacosaè senza fallo giustissimo quando vel filosofo napoletano ,come in tutti i filosofidelmondo,anziintuttiquelliuominichesonosi piùchemez zanamente sollevati sull'universale , si voglia sceverare due parti es senzialmente diverse insieme , e che congiunte solo per accidente, co. stituiscono una dualità permanente nell'unità stessa dell'individuo.Di queste due parti,l'una tulla relativa è determinata dalle condizioni e. steriori della vita,da'luoghi eda'tempi a cui siappartiene ,dagli uo. mini da'qualisiècircondato,dall'educazionestessachesièricevuta, daglistudiiacuipiùsièpiegatalamente,dal primo librochesiè letto,dalleprimeimpressionid'infanzia,dalle seguenti occupazioni  G. BATTISTA VICO   dallafamiglia,da'parenti,dagliamici.L'altra parte sottrattaatul te queste contingenze non si appartiene veramente a njun luogo o tempo determinato ma a tutti del pari,nè ha da farsullacon alcunaspecialecondizionedivita.Laprima diquesteduepartiscen de insieme col corpo nel sepolcro e dopo della morte non se rimango no più tracce, la seconda per contrario sopravvive all'ultimo giorno ed assicura all'uoino coll'immortalità la perpetuità della sua presenza fra'più lontani nepoti. Similmente in ogni sistema per quanto nuovo e profondoefruttifero essosia,trovasiunapartecheèdireltamentede terminata non solo dalle proprie particolarità dell'indole e dell'ingegno delsuoautore,ma siancoradaquelledelluogoedeltempoincui vennefuori,inmodochediquesticonservandosempre laspecialfiso nomia , ne parlecipa spesso agli errori e a'pregiudizii. Questa è quella p a r t e c a d u c a d e ' s i s t e m i, l a q u a l e n o n s o p r a v v i v e m a i a q u e l l e c o n d i zionispezialichelehannodatoorigine,eche,quandoquelleson cam biate,non ba più niun valore, ed è condannata all'obblio imman. cabile delle età posteriori,quando caduta nel dominio dell'istoria, non fapiùpartedellascienzavivaefeconda di conseguenzeediap plicazioni le cui tracce si scorgono presenti, quasi all'insaputa di tutti, in ogni ramo del sapere e in ogni manifestazione della vita.Concios siachènonsoloogninazione,ma ognisecolohaunasuaimpronta particolare, ha uno special modo di veder le cose , una sua propria lo gica,perlaqualeancheaquellecose chetieneperveredalleetàpre cedenti,nongiungeperimedesimi procedimenti,ma peraltrevie, per altri melodi, per argomentazioni e prove di diversa natura . L'altraparte,quasi l'altroelementocostitutivodiognigran sis tema , è per contrario indipendente da ogni condizione di luogo e di tempo,nonhainsénullachesiamomentaneoorelativo,ma stadi per se come un frammino della verilà assolula che mai non rivelasi lulla intera e nella sua irionfatrice purità nè alla mente di piano uo m o , nè alle investigazioni di niun secolo , imperciocchè è la conquista ideale dell'umanità che a fierissimo sudore della sua fronte ne va a po co a poco conquistando ora una ora un'altra parte in mezzo a errori ed acolpe,amensogneedaviolenze,ainganni ed a pregiudiziid'ogni maniera.L'edifiziointantodelsapere insepsibilmentema irreparabil.  268 MUSEO DI SCIENZE E LETTERATURA   m e n t e s i a c c r e s c e ,a t t e s o c h e l o s p i r i t o u m a n o n o n d ' a l t r a c o s a a i u l a t o c h e dall'opera del tempo , va d'ogni sistema sceverando le parti false e vane e relative a cerle determinate contingenze,va spogliando della superflua ed incomoda scoria quella parte di eterna verità che in ciascuno si rac chiude,la fa diffinitivamente sua e la trasmetle come sacro deposito e in dubitabile acquisto alla seguente ,che facendone suo pro,l'arricchisce di nuovi progressi,ne'quali quelli che vengono dopo di essa banno ad esercitare il medesimo lavoro di purificar l'eredità ricevuta e di accre s c e r e il p a t r i m o n i o . C o s i l a p i a n t a f e c o n d i s s i m a d e l l a s c i e n z a c r e s c e d i secolo in secolo con non interrotta germinazione , non altrimenti che cresceunalberofraleassiduecure dell'agricoltore cheneinnaffiae lelama diligentemente le radici ,e a suo tempo ne taglia colla scure i sermenti vecchiedisutili.Questaèquell'aureacatenadicui,senon vado errato , parlava Platone , per la quale l'un secolo trasmette all'al tro l'eredità del sapere , come un sacro deposito che esso è tenuto di accrescereasuopotereetramandarloalsusseguente;benchènon tutti isecolipossonougualmenteaccrescere queldeposito,non intuttigli elementi secondarii e contingenti che circondano i frammenti della v e rità eterna son della medesima natura e nella medesima proporzione con essa. E questo è pure quell'ecletismo pon artificiale , quale può farloun uomoounascuolaecheomancadicriteriooneha uno in cerloesirisolvepiù tostoinsincretismo,ma reale edistoricoilqua lehapersuo autorelospiritoumano stessochedisecoloinsecolova sceverando da sistemi la parle condizionata e temporanea da quella che come frammento della verilà assoluta dee restare senza alterazione niusa in suo perenne dominio . Cosi il frullone abburrattando la farina de discevera il fiore dalla crusca inutile , e cosi molte verità da' tempi nondicodiArislotilemadiParmenide ediZenone diElea,sonori maste tuttavia sulla terra , dove che tutto l'insieme di que'sistemi non è adeguato nè alla forma nè al fondo del pensiero di generazioni cosi lontanead essiperdistanzadiluoghieperdiversitàditempi. Secondo queste considerazioni è indubitato che in tutto l'insieme del sistema del Vico trovasi una parte di un valore assoluto che è ri masta per sempre nella scienza ,ed a cui eran troppo immature le menti de'suoiconleinporanei,iqualionoa neinlesero affattoosolone  G. BATTISTA VICO 269   $ 270 MUSEO DI SCIENZE E LETTERATURA frantesero e ne misconobbero la vera importanza. M a accanto a que staun'altracenehaper laqualeilfilosofonapoletanolegasi diretta menteco'suoitempi,echemeglio intesaeviepiùapprezzatada'coe. lanei non ha più per noiniun valore , ed è caduta come cosa vieta in dimenticanza. Sicché a lui , come a tutti igrandi uomini,è avvenuto che per una parteè uomoassolutamentede'suoi tempi,econessi perquella partesièmorto,dove cheperun'altraè contemporaneo de'suoi nepoti , e per essa a se medesimo sopravvive. Non giả che i puovi filosofi da lui abbiano preso il concetto della filosofia dell'isto ria,come alcunisono andatidicendo,credendo cosidiaccrescere, quando invece diminuivan la gloria e impicciolivan lavera grandez za di colui che voleano magnisicare. Conciossiache picciolissima glo ria,eche soloapochi,eforseaniuno anche dei mediocrissimie mancata,sièquelladicomporreun sistemache adaltriinunaltro secolo piacerà poi di seguire. M a grandissima si è quella d’indovina re e quasi divinare tutta una scienza per la quale la pienezza de' tempi non è ancor venuta , ed a cui un'altra età dovrà essere condotta per i nuovi progressi dello spirito , comunque per altre vie , per altri metodi e come per dialettica deduzione di principii di diversa natura , siccome appunto èavvenutoperlafilosofiadell'istoria moltotempo dopodel Vico,cheprimolapresenti.Manonpotendo,com'eranaturale, presentir tutto ,procedette senza metodo e senza principii proporziona. ti da cui dedurla ,sol per induzione da fatti troppo speciali ,e in mez zo a tali tendenze intellettive che rendeano impossibile qualunque ancorchè immaturo saggio diquelle costruzioni speculativesu cui solo potea la nuova scienza solidamente stabilirsi.Sicché cadde e rima. se infruttifero l'isolato tentativo sino a che la stagione più propizia non fu giunta ,a cui non furono nascoste levere vie che poteano condurre allanuova terrapromessa,scovertadalungida unarditissimonavi. gatore che per difetto de'necessarii aiuti appena vi avea potuto appro dare,manon prendernesicuramentepossesso.Quasiparechelospi ritotravedendo dilontanolanovellascienza,avesse fattoun primo tentativo per conseguirla , m a destituito degli altrezzi e delle armi che a q u e l l a c o n q u i s t a si r i c h i e d e a n o , a v e s s e d o v u t o t e m p o r p e a m e n t e m e t tersi giù dell'opera per fornirsi in silenzio de'mezzi che gli abbisogna    G. BATTISTA VICO 271 vano, e quando ebbeli tutti presti ed apparecchiati, ritornare con m a g giorconfidenzaall'interrottaimpresa,eriuscirvicon migliorsuccesso. Non si vede egli talora quando già la fióe dell'inverno si avvicina m a ancora la primavera è di lungi ,un solitario fiorellino quasi racco gliendoiprimicalorichesicominciano amuovereperlegelateaiuole, spuntare tra'bronchi eirovi ancora arsidal freddoebianchidalla Deve? M a quel primo sforzo e troppo precoce della natu ra riman solo, nèèseguitoda altri sinoacheallastagioneavanzata,nuovitorrenti di calore tutte compenetrando le zolle più mature ,covrono di famiglie innumerevoli di fiori la faccia de'prati e i dossi delle colline. Qui m a g gioreèlacopiaelabellezza,ma piùammiratoèilfiore delfebbraio, infrulluoso e solitario indizio d'una ricchezza a venire di cui tutti lar gamente godranno , m a che poca o niuna maraviglia non saprà più ri svegliareaglisguardiassuefatti. Se poi prendiamo quel sistema del Vico nel quale appunto ha tra scesoiconfini del suotempodivinandol'avvenire,vitroveremoma pifestada pertuttolapresenzadelgiureconsultonepoletano dellafine del decimo settimo secolo , e accanto a que'principii che si veggono diventati proprietà eterna della scienza e son passati quasi nella c o scienza universale del genere umano,ne troveremo altria cui nessuno piùnonsaprebbeattribuirealcunvalore,echesipossondire caduti per terra e dispersi come cadono e sono disperse dal vento le poche fo glieseccheche ancorasitrovanoinsu'ramideglialberiamezzono vembre per lasciare nudo il tronco che alla nuova primavera di più rigogliosa vegetazione si dovrà rivestire. Troveremo lui aver messo a capodelsuosistemaundualismoicuiduetermininon possonostare insieme , quello cioè di una mente ,di una ragione, di un mondo delleideechefacollesueproprieleggiilmondo de'fatti,equellodi unavolontàestraneadicuilascienzanonpuòtenere niunconto,es ·sendocheisuoiattiappuntoperessere volontarii nonsipossonosot tomettere a niuna costruzione scientifica,cioè a priori,ma sono essen zialmente contingenti. Troveremo lui aver detto che la sua scienza del lastoria è una vera teologia delle idee divine , la qual cosa se può es serverainaltrisistemi,appuntonelsuoèfalsa.Troveremo averegli traveduto il principio che la storia dell'umanità si va facendo per m e z    zo di un successivo passaggio da una fortuna più materiale a una più spirituale,dauna piùoscuraeincertadisèauna più chiaraepiù c o n s a p e v o l e , m a n o n a v e r p o t u t o v e d e r e n é il c o m e n è l e l e g g i d i q u e sto cammino , nè tutte le sue conseguenze, nè tutto l'insieme delle sue applicazioni. Troveremo che dopo di aver veduto la correlazione che è tra le idee e i fatti , la concepi però a rovescio dicendo che l'ordine delleideedee procederesecondol'ordine dellecose,ilche sepureè veroinunsenso tutto psicologico eaposteriori,è falsissimo,anzi privo affatto di senso,negli ordini dell'ontologia e dell'istoria.Or lutto quanto illibro della scienza nuova procedendo a questo modo svela costantemente agli occhi del riguardante la presenza di due uo mini,l'uno giureconsulto napolelanodeldecimo settimosecolo,e l'altro filosofo divinatore di un pensiero che dovea esser quello di al tri secoli a venire , e predicente una scienza che egli stesso non in tendeacheamezzo.Ma nellealtreoperequestadualità scomparisce, oalmenoilsecondoenuovouomo sieclissatantodarestarquasi tuttointeroilcampoalprimo,cioèall'uomodottodell'età incuigli era sortito di vivere. Le opere contenute nel volume il cui titolo è in capodiquestoscrittosonopiùtostodiquestaseconda specieche del la prima , quantunque non bisogna dimenticare quello che del resto è quasi inutile di dire , cioè che la parte più universale dalla sua mente non si nasconde mai tanto che e'non si veggano sempre e da per tut topresenti le traccediquello spiritoche ha pensatoilprimo sulla terra una scienza dell'istoria. Io non parlerò delle diverse orazioni suvariisubbietti,dellequalilelatineson tradotteinitalianodalPo. modoro , che con tanto amore si è volto il primo tra noi a dare una raccolta compiuta delle opere del filosofo napoletano. Neppure parlerò della sua vita scritta da lui medesimo e che anche trovasi nel presente volume,importante sopra tutto per questo,che in essa trovasi delinea -la la storia intima della mente del Vico , e vi si assiste alla generazio ne di tutto il sistema nato nel suo pensiero ( cosa straordinaria e quasi incredibile ) non di un principio metafisico , che dee essere la sua vera sorgente , m a più tosto da particolari considerazioni sull'insieme del dritto romano e sull'istoriadi Roma. L'opera di cui più particolarmente mi propongo di ragionare è  272 MUSEO DI SCIENZE E LETTERATURA   G. BATTISTA VICO 273 38  quella dell'antichissima sapienza degli Italiani,la quale se pure io non m'inganno stranamente , non solo ci rappresenta più chiaro il Vico del suosecolo,ma noncirappresentaaltrochequesto,nèmaisenzalei dee e le teoriche che erano in voga a quell'età,e fino senza i pregiudi zi i e gli errori del tempo non sarebbe stata concepita , nė mai , neppure iltitolo,potrebbeorasaltarenellamentediniuno.Io non parlo delle speciali teoriche professatevi,di cui alcune si hanno o poco o niun v a lore, e altre ne hanno uno grandissimo m a non si appartengono al V i co propriamente,anzi a tutta la filosofia da Parmenide al Leibnitz e dal Leibnitz all'Hegel, ma quello che merita di esser considerato come pro prio di lui , si è il modo di deduzione e il procedimento con cui vi è pervenuto , pel quale una volta messosi,ne ha tirato delle conseguenze istoricheecredutodigiungereaunaseriascovertafilosologica, quan tutto riposava sopra due o tre falsi supposti che sono il perno intorno a cui si aggira tutta l'opera, e ne formano non meno la conchiusione che labase.Or ecco in che consiste tutto ilsistema.Nell'uso di alcune vo ciemodididirede'LatiniilVicoha vedutoo credutodi vedere un profondo significatometafisico, che dimostrava un gran progresso fatto in questa scienzapressoilpopolo che in quelmodo parlava; dall'uso che essi facevano delle voci causa eeffetto vero e fallo , ed altre simili egli deduce il sistema metafisico di cui quelle lo cuzioni erano l'immagine e che dovea trovarsi nelle menti dico loro che le avean irovale e che cosi le adoperavano. A questa prima scoverta poi tutta filosofica di sua natura,se ne veniva ad accoppiarecome perconsegnenza un'altrafilologicao istorica intorno alpopolo che era giunto a cosi profonda sapienza,a cosi riposta dottri na da essere autore e di quella filosofia e di que'modi di parlare.Certo ilromanononpotèessere,delqualesisaindubitatamentenon avere attesoad altro sino al tempodiPirro che all'agricoltura ed alla guerra, diche è mestieri di risalire più indietro sino al popolo da cui quello di R o m a ricevette con la lingua quelle locuzioni ,e lui senza più dichiarare popolodiprofondadottrina,epressoilqualelametafisicaavea dovuto giungere a uno non comune grado di eccelleoza.Nè lastoria ci può la sciarelungamenteincertinellascelta,sapendosiche iduepopoliconcui iRomani ebbero ab antico più strelte relazioni si furono i Joni della Apao XVII,Vol.VII.   Questa serie di dedazioni ci mena alla giustificazione nel titolo dell'o pera,dell'antichissimasapienzadegl'Italiani,ciòsonoiJoniegli Etru schi,iquali per questa via si scovre aver dovuto essere dollissimi in m e tafisica,epoichèdaessipreseroiLatinigran partedellalorolingua,si trovò questa come per eredità o più presto per invasione straniera picha di concelli metafisici,comunque ilpopolochelaparlavanefosseesso medesinioinconsapevole, ničsipotessedasèsolosollevarea tanlaal tezza.Ne qui le deduzioni istoriche si arrestano,anzi partendo da quel lepremesse,siècondottiassaipiùlungi,fino acongetturarechegli Egiziani quando fioriva appresso di essi e l'imperio e la potenza e l'ar. dimento delle lontane spedizioni,navigando per il mare interno che lut to signoreggiavano,avessero doyuto dedurre floride colonic per le cosle diquelle,ecosiportareinToscanalalorofilosofia.Quivi poiessendo s u r t o u n a s s a i g r a n r e g n o c h e d i e d e il n o m e a l u l t o q u e l t r a t t o d i m a r e che Lagna di Toscana fino a Reggio l'Italia,anche la lingua degli Etru schi si dovette per quello diffondere, e di questa più dovellero prendere i popoli più vicini del Lazio. Per la qual cosa non si dec credere che Pitagora avesse dalla Ionia portato in Italia la sua filosofia, m a sibbene esser venuto in Italia ad impararla , e sol dopo di essersi ammaestrato nellametafisicaitaliana,cioèetrusca,laqualenoneraaltroche l'egi ziana,essersistabilitoinCotrone e quivifondatolascuola.Diquila sua filosofia si sparse, cando necessariamente imprimendo le sue trac ce nella lingua, della quale gran parte passò poi a'Latini,iu guisa che sc ci ha vocc latina di filosofica signicazione,quella si dee tenere essere stala prima in Egillo,poi in Toscana e quindi passala in Magna Grecia. Perquestomodo ne'fossilidellalingualatinasitrovatuttalasapienza degli Etruschi, e dalla notomia di quelli noi possiamo ricavare tutta la anctafisica che era in voga sulle rive di Arno prima che il Tevere ba  e 274 MUSEO DI SICENZE E LETTERATURA magna Grecia e gli Etruschi,dei quali d'altra parte si sa che furon pc. poli dottissimi, gli uni avendo dato nascimento alla filosofia italica dell'antichissima sapienza degli altri facendo ampia fede la purità del la loro religione, l'augusto concetto che essi aveano dell'ente supremo, i sontuosi sagrisizii, la teologia civile onorata , la naturale praticata, e con questo l'architettura antichissima e semplicissima,a far testimo. nianza che essi furon dotti nella geometria prima de'Greci.   G. BATTISTA VIC ) 278 ! gnasse la città de'sette colli. Con un passo di più m a senza allontanar ci dal sistema del Vico,anzi seguendolo fedelmente, solo affidandoci al l'uso di poche parole latine, noi possiamo esser sicuri di essere in pie no possesso della cosmologia e teogonia egiziana.  6 1 1 Ho volutoinsisterealquantopiùalungosullevere pretensioni di questo libro del filosofo napoletano ,sol perchè basta l'esporle nettamen leperchèsenevegganochiaroilatideboliche sononè più nèman co che tutti isuoi lati,la cui poca consistenza połea essere nascosta un secolo e mezzo fa, m a ora non ha più scudo che la possa difendere da piun colpo della moderna critica. In alcuni punti poi esso ha contro di sè un inimico domestico e cognato nel Vico della scienza nuova,ilquite lecondotto da altre divinazioni più vicino alla scienza de'nostri tempi epiùlontano a quella de'suoi,poevade'principiiiqualinegano le basi su cui poggia tutto il libro dell'antichissima sapienza degl'Italiani. E in fatti in quel sistema che più lo ravvicina a noi e più lo stacca da'suoi contemporanei , egli riconosce tutta l'opera del popolo nella formazione delle lingue , e quasi lo riguarda senza ambagi come una creazionespontancadiquello,quandospiegatuttelediversitàchesono fra le une e le altre per mezzo della diversità che passa fra la natura o icostumi de'differenti popoli.Ma questo principio che veduto in tutta lasuaplenitudineesvoltosecondoilrigoredellalogicasarebbe stato fecondissimo d'importanti conseguenze, non gl'impedi di arrestarsi m a ravigliato innanzi alle locuzioni che a lui parvero troppo metafisiche dellalingualatina,pertalmodochedimenticodel popolo edelmon do delle nazioni, ostinatamente volle vedere in quelle l'opera meditata de'filosofi che dopo di averlo composte e sanzionate coll'autorità del loro sapere, le sparsero e le feccio adottare al popolo , da cui poi le c b beroineredità gli altri che la dottrina e ingran parte la lingua diquelloereditarono. Ora non iprincipii,comunque ancora incerti, dellascienzanuovacondusseroilVicoaquestascried'idee,ma sibbc ne la filosofia del suo tempo , contro la qualc egli in gran parte prote stava,etuttoilgeneralmodo concuisiriguardavanoalloralecose,e cheeglisenzasaperloesenzavolerlo,etalvoitapurvolendo ilcontra rio,avca comune con tutti.Ora uno de'punti principali della filosofia   del secolo passato si è il non aver riconosciuto in piente l'opera sponla nea dell'umanità e l'aver veduto da pertutto il prodotto volontario e riflesso e però consapevole e determinato dello spirito. Nel fatto della società civile non vide altra cosa che un contratto con cui gli uomini si eranovolontariamenteconvenutifrasèdivivereinsieme per ilmag giorcomodoelamaggiorsicurezzaditutti;nellereligioninon vide cheiltrovatode'pochipercontenereimolti,e farlipiegare coll'au torità di esseri superiori agli umani , a quelle cose che essi avean risoluto essere di universale vantaggio o di loro particolare utilità; nella poesia e nelle arti non vide che l'occupazione di alcuni uomini di più squisita immaginazione e di maggiore ozio che gli altri, i quali perloropropriodilettoeperaltruisidecideano didarsiaquell'eser cizio, seguitando delle regole parte tirate dalla natura stessa delle co se,e parte stabilite per reciproca convenzione fra quelli che si era no volti al medesimo non so se mestiero o passatempo ; finalmente nellelinguenon iscorse altro cheunsottilritrovatoeunauniversa. le convenzione degli uomini , iquali essendosi accorti di avere l'organo delle voce vie più pieghevole che quello degli altri animali , si erano risolutamentedecisi,non senzaesame,divolermettereaprofittoquel Ja flessibilità della gola , e servirsene senza più a render più facili e speditelelororeciprocherelazioni.Daquestateoricanon eralungo il cammino da percorrere per giungere all'ipotesi,o per dir meglio,al laconchiusionedelVico,ilquale,come primasifuimbattutoinlo c u z i o n i c h e g l i p a r v e r o a v e r e d e l f i l o s o f i c o i n s é , s u b i t o g i u d i c ò n o n il popolo ignorante,ma sibbene ifilosofiaverne dovuto esseregliautori. Di che senza por tempo in mezzo,si diede a ricercare dove doveano poter esser que'filosofi da cui eran venuti parlari filosofici a un popo lo che non aveva filosofia , e trovolli nell'Etruria e nella Magna Grecia e,risalendo,nellapatriade'Faraoni.Maisistemi talvoltasoncuriosi davvero;ecuriosissimisieran questi,iquali negavanolecosepiù ovvie,ilfatto,lastoria,lavita,l'uomo,peraccordar tuttoa'filosofi; razzanobilissimaed'ogniconsiderazionedegnissima,ma cosipocodi sua natura operativa e fattiva da non poter creare non che tutta una Jingua,un solverbooun articolo.Ora ilfattosiècheilpopolo,equi, intendiamocibene,popolovalquantogenereumano ospiritoumano ,  276 MUSEO DI SCIENZE E LETTERATURA   G. BATTISTA VICO 277 il popolo adunque in cerle cose non è da meno e in certe altre è da più de'filosofi. Ancora non si dee credere che nello spirito de'filosofi trovi siassolutamentepiùdiquello che ènello spiritodiogniuomo,cioè nel popolo.E se nelle coloro menti trovasi tutta chiara ed aperta la teorica della ragione e degli elementi che la costituiscono,e la scienza delle sue leggi e del nodo come esse operano,la mente del popolo per mancare di quella teorica o per ignorar quellascienza non è men ri. schiarata dalla medesima ragione , nè men costituita dagli stessi ele. menti,nè men regolata dalle medesime leggi , conciossiache se cosi non fosse, la filosofia non sarebbe più la scienza dello spirito umano , ma lascienzadellospiritode’filosofi;ilche,seiononm'inganno,do vrebbe sufficientemente nuocere alla sua importanza ;la sola differen• za che passa tra il filosofo e colui che non è filosofo ,si è che l'uno sa quelcheegliha,laddovel'altroloha senzasaperlo;l'unopossiedee pur possedendo e usando della sua possessione,non ha mai posto mente a quel che egli possiede,dove che l'altro non solo possiede ma si è oc cupatodisapere lanatura,ilvalore,leleggi,l'importanza,gliele menti,ilmodo dioperare,lerelazioni e le condizionidiquelloonde egli è in possesso. Oralelinguesoncomefigliuoledidue madri,cioèsonoilpro. dotto di due cause che operano ngualmente nella loro formazione, v a le a dire delle attitudini naturali e delle fisiche condizioni degli orga ni della voce da un lato, e dall'altro della natura morale dell'uomo e delleleggisostanzialidellospirito.Dicheogni lingua senella parte puramente esternae fonetica de'suoni,della lorotrasformazione e cor ruzione,edel loropassaggioadaltrisecondariiederivati,eintutto quello che riguarda l'istoria naturale della parola , segue invariabil mente le leggi naturali dell'organizzamento fisico della gola, in quanto al contenuto interno di essa parola rappresenta tutti i principii psicolo gici del pensiero,tuttiglielementi ontologici che in esso si rinchiudono, esecondoleleggilogichedelpensierostessocoordinaedispone l'e s p r e s s i o n e e s t r i n s e c a d i t u t t o q u e l l o c h e il p e n s i e r o h a l a v o r a t o , e c h e nelle misteriose profondità della mente è stato apparecchiato.Certo si nella formazione che nell'esplicamento delle lingue non tutto si può ridurre e principii razionali,e qualche cosa ci ha che si sottrae all'ana    lisi e dipende da quella parte inesplicabile dello spirito umano ,che senza essere ilprodotto o l'espressione di una o di un'altra sua legge determinata,risultadall'azione nė descrivibile nè determinabiledi tutte quante insieme , e dall'opera simultanea di tutte quelle forze in cui si appalesa la vita nelle sue infinite manifestazioni.M a oltre a q u e sta parte che si sottrae ad ogni investigazione e ad ogni esplicazione scientifica,l'edificiodiognilinguaèlegatoper la parteestrinsecaal le leggi anatomiche e fisiologiche del corpo,e per l'intrinseca alle leg. gi morali dello spirito, in modo che siccome ogni sintassi nel coordina mento delle parole e delle frasi è regolata dalle leggi logiche del pen siero, e cosi ogni etimologia rinchiude in sè un sistema compiuto di tutte le categorie dellaragione ; e siccome non può trovarsi nello spiri to più o m e n o di quel che trovasi nella lingua , in cui talti i suoi ele menti raggiungono un'esistenza estrinseca ed oggettiva, e cosi non tro vasi nelle lingue nè più né meno di quel che sia nello spirito nel qua leesseelecategoriedicui esse sono l'espressionehannolaloroesi stenzaintrinsecaesoggettiva.Perlaqual cosa nonciè nullachesia meno arbitrario e meno convenzionale delle liogue ,nè ci la lingua di popolo così barbaro o selvaggio che non rappresenti e non contenga in sé un intero sistema di logica,e un intero sistema delle più recondite categorie della ragione. Ben si vede da quesle cose che egli è possibile di rendere ragiona di quelle parole latine che sembrano contenere un significato più a stratto e metafisico , senza avere a ricorrere all'ipotesi di un popolo progredito assai oltre nelle vie della dottrina e deHa filosofia, da cui i Romani nè dottiné filosofiabbiano dovuto ricavarle.Già l'ipotesidel Vico incontra nel fatto di tali difficoltà che niuno oggidi ancorchè men che mediocramente iniziato in certi studii, non avrebbela concepita nella mente senza voler che di lui si dicesse col proverbio che egii fossesi posto a pestar l'acqua nel mortaio.E in prima le parole su cui spezialmente cadono lo investigazioni filosofiche e istoriche del Vice sono di origine e di formazione cosi puramente latina che e'non si ve de che cosa abbian da fare con esse gli Etruschi o įJonii ,o come a b bia poluto saltare altrui in mente che iRomani lc abbiano prese dalle costorolingue,oalmenoimitatoda essiilmodo diadoperarle.Tan!e  278 MUSEO DI SCIENZE E LETTERATURA 1   G. BATTISTA VICO 279 più che se in ana lingua si possono trovar parole di origine straniera, ilmododiadoperarlenonèmaistraniero opresoinprestanzadaal tri,ma propriodelpopolochelaparla,ilquale nell'usarne,imprime in esse il suggello della propria nazionalità e le fa sue , senza dire che un popolo per imparare da un altro ad usare secondo un concello metafisico lesue proprie o le altrui parole,dovrebbe innanzi imparare daquellotuttoilsistemadellasuametafisica,quando nonsivuolri conoscere che ogni lingua, qualunque siesi il popolo che la parla, e indipendentemente da ogni dojtrina acquisita,è naturalmente e sponta neamente l'espressione di un sistema di metafisica riposto nel fondo dellaragione,echecostituiscel'essenzastessadiessaragione. PerilVico intantoiLatiniaveanoaogni modo dovutoimparar qnelle parole e que'modi di dire du altri popoli più dotti che essi non erano , e questi popoli non poteano essere che iJonii e gli Etruschi popoli dottissimi e con cui i Latini aveano strette relazioni. Vediamo oraquelchenongiàioounaltroma tuttoilsaperedelsecoloincuivi. viamo oppone senza paura di contradizione al più dotto napoletano del XVIII secolo. Ne è possibile d'incominciare questo esame senza fermarsi in primo luogo ad un'improprietà di linguaggio che niente nonpuò giustificareecheinnessunsistemaeinnessuna ipotesi non si può difendere. E veramente non vi è niuno il quale abbia mai p e n satoa'Joniioaldialettojonicoper sostenerelaparenteladifiliazio netra ilGrecoeilLatino,elecolonic grechedicui parlail Vico, ca cui attribuisce nella formazione della lingua latina un'importanza che nonsihanno maiavuta,noneranodiJuniima diDori.Ilfatto sloricochelastoria latinaèposterioreallagrecaunitoall'altrofatto della relazione di simiglianza fra le due lingue avca condotto alla con chiusione che l'una lingua dovesse essere derivata dall'altra,nè lasciato alcunluogoadubitarequalesidovesse esserelamadreequalelafi gliuola fra la più giovine e la più vecchia. La stessa argomentazione poi avea fatto determinare più particolarmente questa relazione di m a ternitàfraillatinoeildialettoeolico,che èquellofra'dialettidella Greciachepiù diaffinitàsihacollalingua delLazio.Intantolenuo vescovertedellascienzadellelinguehanno dimostratoquestaipotesi impossibile , havno scoverto nel Latino tracce di maggiore antichità    che pel Greco si nel sistema de'suoni e si nelle forme grammaticali non che nella genesi etimologica e nello stato attuale delle parole ; hanno scoverto la stessa specie e lo stesso grado di aslioilà , e talvolta anche maggiore,che è tra ilGreco e ilLatinotrovarsi eziandio fra le duelin gue classiche ed altre ancora o meno conosciute o quasi del tutto igno te prima di a questi ultimi tempi, sicchè è stato forza di ricorrere all'ai. tra ipotesi di una lingna più antica di esse lulte , da cui come da comune stipitetuttequanteesse,elealtreadessesimilidiscen dessero , allontanandosene quale più e quale meno , quale in una e quale in un'altra cosa, ma ritenendone tutte e la general fisonomia, eilsistemagrammaticale,eilcomune materialedelleradici,in mezzo a quelle differenze che debbono fra’i varii rami di uno stesso tronco essere cagionale dalle speziali condizioni fra cui ciascuno di essi si è venuto separatamente formando ed esplicando , sicché la relazione di parentela è rimasta , anzi la famiglia si è trovata cre sciutadimoltialtrimembri creduliprimaaffattoestranei,masiè trovato quella parentela essere di fraternità e non già di filiazione. N ė si può negare che il dialetto eolico sia quello tra gli altri dialetti dell'anticaGreciachepiùsirassomigliaalLatino,ma invecedi con chiuderne che questo sia nato da quello,si è dovuto inferirne che esso è come l'anello intermezzo, ilpunto di passaggio tra le due diverse forme di una medesima lingua, appunto come la storia naturale ci dimostra molte specie di animali , molte famiglie di piante, le quali sono l'anello intermezzofraduespeciediversedelmondoanimaleotra due diverse famigliedelvegetabile,equasicome ilponte percui mezzolanatura che non procede per salti,dall'una è passata all'altra.Cerlo molte paro le si possono trovare nel Latino che vi si sono introdotte direttamente dalGreco,ma questeosonodidataassaipiù recente o sirisesconoa oggetti speciali,ad usi e invenzioni,a trovati comunicati dal conımercio e dalle esterne relazioni tra due popoli in quell'epoca e a quella parte della lingua a cui si riferiscono le investigazioni etmologiche e istoriche delVico.Diparolestranierecheperaccidentesienpassatedauna lin gua a un altra ancorché di diversa indole e di diverse famiglie se ne trova in tutte le lingue, m a si è questo un fatto tutto contingente di cui sirenderagionepermezzodelfattodelleesternerelazionisenzachenulla  280 MUSEO DI SCIENZE E LETTERATURA   G. BATTISTA.VICO 281 se ne possa conchiudere per la forniazione della lingua stessa. La parola kalamos che è ab antico nel Greco per dinotare la penna o uno stru mento aguzzo , una capna qualunque da scrivere,non è di origine greca,nèsenetrovalaradicenellelingueaffinialgreco,ma èdi patriaaffattostraniera,parendoesserenèpiùnèmanco che ilsemi ticoKalem che inArabodinotalapenna.Certoverisimilmente è da crederecheavendoiGreciantichissimiappresoda'Fenici,po poli di stirpe e di lingua semitica , l'arte dello scrivere abbian preso a n c h e d a e s s i il n o m e d e l l o s t r u m e n t o d a e s e r c i t a r e , l a n u o v a a r t e . M a dove sono le parole greche , eoliche, e joniche, come impropria mente ilfilosofo napoletano direbbe, corrispondenti a quelle con cui i Latini esprimeano non già un utensile materiale,lo strumento di un'ar te ignola prima e poi appresa , m a i concetti più intimi e più astratti dello spirito senza di cui il pensare stesso è impossibile? Lemedesimecose,ma adassaipiùforteragionesivogliono ripetere per l'Etrusco. Che da questa lingua si sieno potute intro durreuel Latinodelleparolerelativeadusidellavitaeacerimonie sacre , è cosa che facilmente sipuò concedere massime chi pensi che molti riti religiosi dall'Etruria hauno dovuto passare in R o m a , m a non èpossibileditrasformare questaazionetuttaestrinseca,questa introduzione accidentale di alcune speciali parole , in un'azione più internaequasi primitivadell'EtruscosulLatino.Veroèche questa non è propriamente l'idea del Vico , nè la conchiusione a cui egli intende di giungere coi suoi procedimenti etmologici. E già la qui. stione delle lingue era così poco avanzata , anzi così poco sopposta a' tempi del Vico, che non ad essa la sua mente si rivolse , non di es sa egli si occupò come conseguenza e coronamento della sua ipote si,masibbenediquelladellafilosofia.Einfaltinon altrovechein questo punto egli vide l'importanza della sua scoverta , e assai più che nel libro stesso v'instette nelle sue riposte a varie obbiezioni mossegli allora contro con una critica , che non vedea,e in gran parte non poteavedereiveripuntidebolieimpossibiliasosteneredi tutto ilsistema. Quivi si vede che il Vico pensava di aver fatto una stupenda sco verta istorica , perocchè vi è detto chiaramente che essendo gli Etru. Apno XVII.Vol.VII.  36   schi cosi doltissimi in cosi remotissima eti , come si vedea manife. b'o da' modi di dire metafisici che sol dalla loro lingua avean poluto passare nella latina , si dovea credere fermamente che la dottrina non avea poluto passare dalla Grecia in Italia, ma si da questa , cice dall'Etruria in quella , e quindi coordinando tutte le parti del siste na , ne conchiude che Pitagora non avesse portato allronde la soa fi losofia inItalia,quando alcontrariosiavea dacredere che venulo quivi ad appararla , riuscitovi poi dottissimo , si fosse fermato nella Magna Grecia a formar la sua scuola , sicchè quest'antichissima silo. sofia che la rappresentava avea dovuto passare dall' Etruria nel La. zio e dal Lazio nella Magna Grecia , e in Etruria avea dovuto primitivamente venire dall'Egitto. Ecco perchè io diceva più sopra che secondo questo sistema, le vere origini di certe parole e modi di dire della lingua latina si convengono cercarle senza più nella patria deiFaraoni.Ma tuttequeste ipotesiriposano sul falsoconcelloche ogni vocedi un contenuto edi un valore metafisico supponga un sistema metafisico divenuto popolare nel popolo che la parla , ogni sistema metafisico debba essere stato da un popolo portato nel l'altro. Se i Greci non avean potuto escogitarlo da sè , ma riceverlo da'Latini,eiLatini dagliEtruschi,egli EtruschidagliEgiziani, non so perchè non si abbiano da spingere anche più oltre le investi gazioni,ecercare daquale angolopiùremoto dellaterra avessedo vato venir trapiantata sulle rive del Nilo.  282 MUSEO DI SCIENZE E LETTERATURA La scienza moderna che è meno corriva alle ipotesi , e comunque sia spesso accusata di sognare , più riconosce l'importanza de' fatti prima di edificare un sistema , va più guardinga in questa qui stione degli Etruschi, e non ostante la grande abbondanza de'falli che sono a sua disposizione ,non ha sapulo per anche decidere che cosa eglino fossero stati e donde venuteci , nè che cosa si fosse la loro lin gua ,se cioè semitica o di origine arja ,nè che relazioni si abbia avu ta la loro civiltà coll'egiziana. A ogni modo le induzioni per cui giungeva ilVico allesue opinioni intorno all'Etruria niunoè ora cheardirebbedicrederledialcun peso o diprenderle in sulserio. Ben sonostatialcunipiùmodernichelehannosostenute,e avregnac chè l'istoria dimostri come cosa quasi indubitata che la civillà tenga   G. BATTISTA VICO 283 nel suo corso ilmedesimo cammino che il sole cioè da oriente în occidente,hanvolutocheiprimiprincipiidiessa fosseropassatidal l'Etruria nellaGrecia,ma han cercato con fatlieargomenti edo cumenti che al Vico mancavano di sostener la loro teorica ,comunque non sieno mai riusciti a sostenerla tanto da farla aceellare almeno permediocremeuteprobabilea'piùdottiinquestematerie. Enonha guari abbiam veduto mancare a'viviio Napoli uno deisuoi ultimi sostenitori,uomo picchissimodiabbondanteerudizione istorica,ina corrivo non so se ad:ingegno o per la natura stessa del suo spirito. ad abbracciar le opinioni più strane e le meno simili alle più comune . mentericevute.Spessosièripostocome unaspeciediamorproprio Nazionale a sostenere colesta emigrazione del sapere dall'Etruria nella Grecia.quasiperaggiungereunaltroperiodo digloriaallegloriedel l'istoria italiana E veramente pjente non è più giusto o più sacro quantoquel sentimentoper cui un popolosistudia diaccrescerei tesoro delle sue grandezze non meno presenti che future o passate, diquesteperpetuarelaricordanza nellamemoria degliuomini.Ma per esser gelosi custodi di questo tesoro noi altri Italiani non abbiamo afarviolenzaallaistoria,evolervendicareanoiquelche nonciap partiene,tantopiùchequellodicui non sipuòdubitarechesiano stro è più che bastevole a non farci desiderosi di altro.Or la nostra ve ra e indubitata istoria incomincia da Peoma ; ilche mi sembra itd'an lichitàabbaslanzaremota,eunagrandezzaabbastanza gloriosapera. verseneacontentare.Tuttoquellocheèprima diRoma,egiàèassat incertochecosafosse,nonci appartiene.E veramenteItalia nonera ancorailpaeserinchiuso traleAlpieilmare,nėHalianieranoi Grecidell'estremitàmeridionale,iSiculiogliAborigeni delLazioo gliEtruschi,Celtiogl'Iberi,sealcun trattogl'Iberineoccupavano, ma beneeranoessiglielementiprimordialiiqualistrituraliefasiin sieme dall'opera del tempo e dalla forza assimilatrice di Roma ,d o veano comporreilpopolo dicui ha fattol'istoriaTitoLivio,Niccolò Macchiavellie Carlo Botta;lavoro lentoe gigantescoele con diver se proporzioni e solto diverse condizioni si è operato per altri popoli ancora;perquestasolaragioneiMacedoni eranGreci,eAlessan droche sefossenatodu'secoliprimasarebbestatobarbaro,fualsuo    Innanzi di conchiudere questo scritto che avrebbe potuto esser piùbreve,machepotrebbeprolungarsi ancora dimolto,noncredo essereinutilepermegliofarcomparirelavera naturadelleobiezioni chehomossealfilosofonapoletano,ilricordarecomeeglinon a veapercosaaffattonuovailmodo dellesueinvestigazionietimologi che , anzi fin dal principio del suo scrillo afferma che egli è per fare quel medesimo per la lingua latina che avea già fatto Platone per la greca,ilqualedalleetimologieecomposizione delle parolediquella avea voluto scourire l'antichissima sapienza de'popoli che l'avean parlata.SenonchesiformavailVico un conceltoassairistrettodal C r a t i l o s e c r e d e a a q u e s t o s o l o o r d i n a t o q u e l d i a l o g o , il q u a l e a b b r a c cia tutta quanta la quistione della lingua ,della sua origine e del suo valore,coordinandola colla teorica socratica delle idee.Ben è vero che Platone anche delle etimologie si occupa in quel dialogo , e che ,ove non il fa ironicamente e come per istrazio , intende di cavare delle in . duzioni intorno a'primitivi concetti del popolo fra cui quelle parole a . veanoavutonascimento.Ma adonoredelfilosofoateniese,siconviene confessareche ilmetododellesuericerchenondeviavada'giusticon fini,nèpoteacondurload induzioniofalseoimmaginarieo arbitra rieocontrarieallagenesi delle lingueoripugnantialla vera palura. dellametafisicacheinquellesipuò trovare.Non abbiamnoiveduto che ogni lingua contiene in sè un intero sistema di metafisica , ma di netafisica spontanea che in quella si trova all'insaputa dello stesso p o  281 MUSEO DI SCIENZE E LETTERATURA t e m p o il r a p p r e s e n t a n t e d e l l o s p i r i t o e d e l l a c i v i l t à d e l l a G r e c i a , e u n a delle più alte figure dell'istoria greca.Cosi le felci gigantesche del mondo antidiluviano non sono ilcarbon fossile ma debbono divenirlo, poiché , collo scorrere del tempo e coll'azione invisibile delle forze naturali si macerano a poco a poco , le differenze scompariscono, e da ultimo si trovano riunite in una sola massa che dee poi divenire uno de'motoripiù irresistibilinelle mani dell'uomo; ma leproprie tà che fanno onnipotente il carbon fossile non si appartengono alle umide foglie delle piante naufragate nel diluvio . Così le glorie q u a si mitologiche de'Pelasgi e de' Rasena , de' Tirreni e de'Siculi non siappartengonoa'discendenti delpopolo di GiulioCesaree di Tra jano.   G. BATTISTA VICO 285 polo che la parola , e che ve l'ha senza saperlo , depositata ? Imperocchè le lingue figliuole tulle dell'identica natura dello spi rito e dell'identica struttura degli organi della voce sol differisco no nella loro composizione in quanto che quell'identica natura vede da diversi o opposti lati le cose , e diversamente concepisce le relazioni obbiettive che passano fra quelle.Per la qual cosa si può dalla natura di una lingua scovrire il modo in cui il popolo che prima l'ha parla la concepiva le relazioni fra le cose,e ilmodo con cui iconcetti meta fisici che presiedono segretamente alla composizione di essa si presen taronoalsuospirito.E sequestolavoroèancora oggi pienod'incer tezzeedidifficoltà,seeraimpossibilea'tempi diPlatone,che fae glicotesto?BastacheildiscepolodiSocrateabbia vedulounaverità che solo ilontanissimi nepoti poteano dimostrare ,e tentato un lavoro per compiere ilquale,moltissimi secoli di esperienze e di scoverte non han potuto somministrare finora tuttiimezzi necessarii.Ma non cre dea Platone che una setta di filosofi avesse introdotto nella lingua i concettimetafisici,apziliattribuivaalpopolo stesso,cheegliperle esigenzedelsuolinguaggio filosofico,chiamaillegislatore,ilquale nellasuccessivacostruzionedellalinguave livenivaspontaneamente e però inconsapevolmente trasfondendo.Në pensò mai Platone che da filosofi di altra nazione dovessero quelle parole tirar la prima loro ori gioe,e quindi esser passate a'primitivi abitatori della Grecia,che per essereancoraignoragtinonleavrebberopotutemaipiù ritrovareda sèmedesimi.Sonquesteledue ipotesisucuièfondatoillibrodel l'antichissima sapienza degl'Italiani,ma nè dell'una nè dell'altranon è colpevole l'autore del Cratilo, Seiohotroppoinsistitosuquestecose,non ègià perdesiderio eheioavessidiappiccareun'inutilegiornata colmaggiore de'filosofi napoletani,ma sipervolermostrarecolsuoesempiocome camminan d o il s a p e r e c o l l a n d a r e d e l t e m p o ,e t r a s f o r m a n d o s i q u a s i i n o g n i s e c o l o lasuafisonomia,evedendo gliuomininellediverseetàsempre diver samentepurlemedesimecose,lagrandezzade'grandiuomininon si vuol misurare dal numero delle verità che eglino possono ancora inse guarea'lontaninepoli,acuipureessendo grandissimi,nonpossono    lalvolta insegnare più niente,ma sibbene dal grado a cui eglino si so no innalzati al di sopra de'loro contemporanei , dalle nuove vie che prima degli altri hanno aperle allo spirito, nelle quali altri c a m m i p a n do sonosi arricchiti di verità ad essi rimaste ignote , e dagli sforzi con cui hanno potuto faticosamente e oscuramente veder da lungi quel che alle seguenti generazioni è stato poi agevole di veder chiaramente e di loccare con mano , senza che per questo si possano dir sempre seguaci de'primi, alleso che avviene soventi volte che una verità giunta alla sua maturità e alla pienezza de'tempi, si mostri per nuove e più facili vieancheaspiri!imenoalli,quando altempocheeratuttaviaimma lura appena si era svelata per astrusissi mi sentieri alla potenza divina trice di solitarii ingegni. Chi è più grande di Aristotile ? m a quale è oggiscolarecheintutte lespezialiquistioni non ne sappiaepiùe meglio del maestro di coloro che sanno ? O quale è scuola filosofica a cui basterebbe il proporre la massima parte de'problemi della scienza inquelmodoappuntoincuisitrovanoproposti nell'Organoene'libri della Melafisica, anche in quei punti in cui il pensiero arislolelico quanto alla sostanza delle cose è identico col moderno ?  236 MUSEO DI SCIENZE E LETTERATURA L'altra cosa su cui io voleva insistere siè questa ,che un uomo pec quantograndeeglisia,perquantos'innalzialdisopra de'suoicon temporanei e de'suoi tempi , par non si può mai taplo da questi sepa rare che la più parle delle sue idee , anzi esse tulle non abbiano in quellilalororadice,siche eglinon puòmaisepararsi dalgeneral modod'intenderedell'etàchelovidenascere,anziappuntoperque slo ègrande , che egli tutta la compendia ed esprime , aprendole le vie agli altri nascoste che la legano coll'avvenire. Se non che se tul teleideede'suoitempiinlujsiriflollono,insiemeconquelle anche gli errori e i pregiudizii comuni penetrano nel suo spirito , nè per quanto egli se ne distacchi può giunger mai ad emanciparsene intera menle . Di che si vede quanto sia grande la semplicità di coloro che siappoggianoall'autoritàde'grandi uomini inque'punticheeglino. hanno in comune con tutta la loro generazione e che non costituisco no la loro vera e più squisita individualità.Molle volle mi è avvenuto di udir dire a proposito di speziali quistioni ; o siele voi più grande   G. BATTISTA VICO 287 di Dante Alighieri il quale pensava appunto cosi come voi negate di consentire.Or cerloilcanlore de'tre regni dellamorle si fuilpiù grande uomo del suo secolo,nè ci ha oggidi chi in potenza di menle e grandezza di comprensione poelica possa venire con lui in paragone , ma ilpubblicislaeilfilosofodelXIII secolo era figliuolo delmedio eroeaveacinquesecolidieducazione filosoficaed isloricamenodi noi, e il cilladino di Firenze nato l'anno di grazia mille duecento sessantacinque in molte cose non potea non pensare come frale Cipolla e Guccio Imbralta.Or chi è che vorrebbe piegarsi innanzi all'autorità di questi nomi ?Cerlo,che io mi creda,niuno. Quesle cose poi che si dicono dell'antorità de'grandi uomini van . no deltealmedesimo modo dell'autorità dell'istoriaingenerale.La sentenza di Tullio che dice l'istoria maestra della vita è veris ima se s'intendeinunsenso,ma fontedimoltierrorises'intendeinun altro. Verissima è in un senso universale e scientifico in quanto che l'istoria facendoci come assistere allo spellacolo delle diverse generazioni clic si sono succedute sulla terra,ci rende quasi contemporanei del pas sato.Permezzodiessanoipossiainoalloraformarciunconcello ge nerale del cammino del genere umano ,e delle leggi ideali che presie dono alsuccedersi dellecivilti,delleleggi,degliistituti,delle religio ni, degli stati e di tutte quante sono le manifestazioni dello spirito u - mano.Allora noi partendo da queste considerazionipossiainocom p r e n d e r e il p o s t o c h e a n c h e n o i o c c u p i a m o n e l l a s t o r i a d e l m o n d o , d e terminare le nostre relazioni con le generazioni che si sono prima di noi affaticalesullaterra,edivinarquellecheabbiamocollealtreche dopo di noi bagneranno col loro sangue e coloro sudori la patria dell'uomo. In questo senso veramente la sloria è maestra della vita, c o m e q u e l l a c h e n e p o r g e il p i ù s t u p e n d o a m m a e s t r a i n e n t o c h e si p o s . sa , la comprensione della vila slessa in tulle le sue manifestazioni, in tuttelesuerelazionicolpassalo,colpresenteecoll'avvenire.Ma inet ta e principio d'inganni è quella sentenza presa in un senso più ristrello edempirico,quasivolessedireche lastoriainsegnaagliuominico. gli esempii de'tempi passati a sapere come eglino si abbiano da con durre ne'casi agli antichi simiglianti,Il credere a questa specie di    aulorilàistoricadipendedallafalsa supposizioneche gliavvenimenti si ripelano o si possanoripeterenellemedesimecondizioni,ilcheè tantofalsoquanto èfalsoilcrederecheilgenereumanononsimuo va , e che l'istoria non cammini. Ora ogni clà ha suoi proprii fatti e un'indole sua propria per la quale anche i fatli che sembrano rasso migliarsi in certe esterne condizioni, sono diversissimi di significato e divalore.Ilprincipiochenienteèma luttosi fa,nientepermanema tultosimuove,spezialmentenellastoriaenelcammino delgenereuma no si verifica.Ben la nalura fisica ne'rivolgimenti cosmici e tellurici si ripete,la natura morale dell'umanità non mai.A coloro iquali dicono: bencosìdeeavvenireperchècosìaltravoltaèavvenuto,ben sipuò rispondere che appunto perchè altra volta così è avvenuto non può più avvenire al medesimo modo.Dove il genere uinano cosi continua. mente agitandosi finalmente abbia da giungere , chi è che possa pre vederlo,oqualeèfilosofiachelopossaalmeno verisimilmentepre dire? Ma quando si pensa quel che era la famiglia umana al tempo delre de'reAgamennone,pernon salirepiù alto,equaleog gi è divenuta , chi non si sente di naufragare coll'anima in uti O c e a n o s e n z a f o n d o , a l l o r c h è v o l g e il p e n s i e r o a c o l o r o c u i s e p a r e r à d a noi la medesima distanza che divide noi dagli eroi dell'Iliade  L'Italia era pervenuta al decimosesto secolo e nella letten ratura e nelle arti ad una eccellenza , che niuna delle mo derne nazioni ha forse potuto raggiungere e che emulava se non uguagliava quella de' giorni più felici della Grecia. La poesia, la pittura, la scoltura e l'architettura quasi facea no a garaper adornare di opere eternamente duratureun pae se che già per tanti riguardi parea prediletto dal cielo , e le interne agitazioni e le discordie civili di tanti piccoli e fio renti stati pareano quasi cote che affilavano gl' ingegni, af forzavano gli spiriti e rendeanli più pronti a concepire e a ritrarre squisitamente il bello . Intanto , fra queste potenti pa lestre che aveano esercitato l'infanzia e l'adoloscenza delle no stre menti,venne l' età più matura e quasi la virilità dell' in tendimento , nella quale l'uomo, ovvero lo spirito umano, chè qui suona il medesimo, si rivolgein sè stesso per conoscere da presso quello ch 'egli è , e quello che le altre cose sono, le quali in fino a quel punto è stato contento ad ammirare ed a servirsene per sè e per le sue immaginazioni. Allora inco mincia la filosofia, la quale di necessità dee sorgere dopo la poesia, siccome la Grecia e l'Italia col fatto ne fanno pro va . Nè si potrebbe addurre in contrario la scolastica che è 13 194 antichissima , e certo precedente alla poesia, perchè quella , oltre che confinava da presso con la teologia, più presto che esser l' effetto spontaneo , per così dire , del pensiero nazio nale , lavoravasi nel seno della chiesa e nel silenzio de' chio stri , senza che il pensiero laicale vi avesse alcuna parte . Il quale , quando fu venuto il tempo propizio, si fece da sè una filosofia che veramente dalla scolastica fu diversa. Costantinopoli non cadde in vano per noi; perchè la sua rovina che fu quasi l'ultimo crollo della civiltà antica servi ad arricchirci di gran numero di monumenti dell'antica sa pienza a noi tuttavia ignoti , e a compensar con usura i nostri padri dell ' ospitale accoglienza per essi accordata ai fuggitivi figliuoli d'una nazione illustre e generosa , che dopo quattro secoli d'oppressione, dovea riacquistar l'indi pendenza , e , bella delle memorie passate e del presente trion fo, ricomparire sul fortunoso teatro del mondo, sorgendo , come Lazaro , dal polveroso sepolcro che avea accolto il suo cadavere . So bene che da alcuni si è creduto il risorgimento degli studii classici e la conoscenza più intera dell'antica civiltà essere stati più presto di nocumenlo che di utile alla mo derna , parendo loro esserne stato impedito il libero cam mino degli spiriti, e turbata l'originalità del pensiero mer cè l' innesto violento d' un vecchio ramo sovra un più gio vane tronco . Ma costoro non pensano che la civiltà di un secolo non è e non può esser un fatto isolato e da sè ma che è iotimamente legata a quella de' precedenti mercè l' aurea catena delle tradizioni , e che ogni secolo dee, in quanto può , legarsi col passato e argomentarsi di perfezionarne l'opera, piuttosto che separarsene e disdegnare di riconoscerlo , o pretendere superbamente anzi puerilmente di incominciar tutto da capo , e rifar da sè l'opera a cui le generazioni pre cedenti han lavorato .Però il risorgimento degli studi classici . e la conoscenza dell'antichità , innanzi che nuocere, ha do vuto perfezionar l'edifizio della civiltà moderna , nè in fatto pud negarsi che a risorgimento delle antiche lettere sieno 1 195 dovuti in gran parte i subiti progressi che le scienze fecero tra noi . Quando si furono rotli i cancelli un po' stretti fra cui la scolastica volea talora chiusa l'intelligenza , quando si fu meglio e vie più direttamente conosciuto il pensiero dell'an tichità , ed ecco sorgere di presente una nuova filosofia, alla quale si può dire che avessero posto mano di conserva il pensiero antico e il moderno, la sapienza greca e lo spirito italiano. I più profondi ingegni della penisola si misero a quest' opera, lavorando insieme, quale in uno e qualein un altro modo , al comune e nobilissimo scopo, e tosto si vide venir fuori dal loro numero il celebre triumvirato di Telesio, Campanella e Bruno , i quali tutti e tre videro la luce in questa meridional parte d’Italia . Comune ebbero la forza della volontà , l'ardire dell'inge gno e la potenza della mente; ma il primo restò indietro agli altri due , imperciocchè la sua opera fu puramente ne gativa , laddove questi poterono crear de sistemi che nè il tempo nè i seguenti sforzi dello spirito umano non giunse ro a far dimenticare. A così bei cominciamenti fu possibile di sperare splendidi destini per la filosofia italiana , ma la speranza anche allora, siccome spesso è, fu ingannatrice, e l'avvenire mancò a così lieti principii . Del qual fatto non si può trovare altrove la ragione che nelle condizioni della storia italiana e nella intima natura della nostra filosofia . E, in vero se, come abbiam veduto, la filosofia comparve in Ita lia quando il pensiero era abbastanza maturo per siffatta ma niera di studii , quando questo momento fu arrivato, la na zione incominciò a declinare . Quella maravigliosa abbon danza di vita che avea alimentato il movimento dello spi rito e favorito l'innalzamento di tante piccole nazionalità, nel cui seno eran comparse prima la poesia e le arti , e poi la scienza , incominciava a indebolirsi e venir meno. AL XVII secolo la conquista era compiuta; le antiche forme di reg gimento eran cadute o avean perduto della loro importan za; e le nostre sorti incominciarono ad esser , quando più e quando meno , legate a quelle di altre nazioni. Strana 196 cosa è l'ammirazione di taluni storici , siccome il Denina , per la beata tranquillità , per i giorni di serenità e di pace che spuntarono a rallegrare il bel cielo dell' Italia . Più stra na ancora è la maraviglia del Tiraboschi il quale non sa comprendere come la letteratura , le arti e in gran parte le scienze sien volte in basso stalo allora a ppunto che la pa ce di cui finalmente godea l'irrequieta terra italiana , facea sperar nuovi progressi e quasi un novello secol d'oro al nostro paese . Costoro non intendevano che quando una nazione cade, cade di necessità con essa tutto quello che è intimamente collegato con la sua vita e col suo essere . E in fatti allora la bella prosa italiana fini, allora la poesia spirò sulle labbra del Tasso , e le arti andarono ogni di più declinando. Allora incominciò la corruzione onde il sei cento è rimasto celebre nella memoria degli uomini , sic come età di decadenza. E' sembra che l'antico spirito let terario si rifuggisse un momento in Toscana per morir no bilmente nel paese stesso che l'avea veduto sorgere , sic come la pittura cercò un asilo in Bologna e parve di nuo vo levar il capo fra le mani de' tre Caracci, di Guido Reni , del Guercino e d'altri. Ma questo fu come l'ultimo sforzo del gladiatore ferito , o come l' ultimo canto del cigno che si muore . Egli è facile il concepire come una filosofia, la quale derivava da un movimento al tutto italiano, e che pe rò era legata alla fortuna del pensiero onde ella avea da nascere, dovesse cader di necessità il giorno stesso che quel pensiero veniva a perdere la nazionalità e l'indole origina le . Il medesimo senza fallo sarebbe avvenuto nell'antichità, ove la Grecia fosse caduta il giorno stesso che il gran disce polo di Anassagora bevè la cicuta , perciocchè allora a Pla tone e ad Aristotile sarebbe mancato il tempo di compari re , siccome mancò tra noi dopo la morte de Socrati italiani. Dopo questo tempo non comparve, si può dire, nessuno il cui nome fosse degno delle antiche glorie, e le menti ita taliane sembravano comprese da una mortale stanchezza, quando venne fuori tra noi Gian Battista Vico quasi a pro 197 testare in nome di tutti e mostrare al mondo che il fuoco sacro del pensiero non era già spento nel bel paese ma solo nascosto sotto tiepide ceneri. Tra una gran folla di eccel lenti giureconsulti che fiorivano di quel tempo in Napoli, dalla meditazione del diritto romano egli seppe innalzarsi alla scienza delle leggi universali che reggono il cammino del genere umano sulla terra , e dalla meditazione d'una sola città alle leggi supreme della civiltà e del corso di tut ta quanta l'umana famiglia. Ma poichè egli precorreva di due secoli i suoi contemporanei, fu non curato e poco avuto in pregio da quelli , ed è stato sol da' posteri onorato condegnamente alla sua grandezza ; gloriosa ma pur tar da e , che è più , inutile ricompensa al merito degli uo mini veramente grandi , e a' sudori per esso loro sparsi in pro di chi o non li comprende e per ignoranza o per mali gnità li dispregia , ovvero di chi più non può giovarli . Parecchi anni dopo del Vico , e immensamente a lui infe riore , comparve in Napoli l'abate Antonio Genovesi . Del quale spiacemi di dover parlare in modo che a molti sem brerà per avventura o affatto ingiusto o troppo severo . Im perciocchè io penso che il suo merito, almeno comefilosofo, chè in quanto economista non so , sia stato più del giusto esagerato de' suoi compatriotti, i quali eran pure que' me desimi che avean veduto il Vico morir nella miseria , e poco o niente avean creduto alla sua grandeza. Genovesi poi, sendo prete , credeasi in certa guisa mail'obbligo di rico noscer l'antica metafisica,ma nè seppe intender quello che veramente di più profondo trovavasi in essa , nè il più delle volte seppe spogliarla dell' aridità delle forme, non ostante che non poco pretendesse alla leggerezza dello stile , e fino alle facezie e alle arguzie il più spesso di cattivo gusto e di sdicenti alla gravità delle materie per esso lui trattate. Nato poi nel XVII secolo e fiorendo ne' principii del XVIII , credeasi parimenti obbligato di seguir le dottrine del suo secolo , senza scorgere le conseguenze a cui quelle menavano . Per tal guisa mentre come teologo avea in 198 napzi san Tommaso , intendea come filosofo seguitare il Locke e il Cartesio , allora nuovi e in voga oltremonti , e a cui l'alta mente del Vico avea mosso infin dal principio potentissima guerra. Diviso fra due estremi così opposti in sieme , e' travagliavasi pure a volerli conciliare , e parvegli che l'autore del sistema delle monadi potesse maravigliosa mente servire al suo scopo , e così volea conseguir la gloria , tanto per lui ambita , di libero pensatore e di teologo ; ma il tentativo riescì vano alla prova . Chi in fatti apra i suoi libri di leggieri si potrà accorgere d'un continuo vacilla re e di una enorme confusione, per la quale il lettore si tro va , siccome l'autore dovea essere , in una strana tenzone di discordanti dottrine che ben sono accoppiate insieme , ma non sono e non posson essere ricondotte all'accordo e all'armo nia . E, in vero, quale è la teorica onde egli ha arricchito la scienza ? quale è il sistema che si chiama dal suo nome ? quale la scuola che ha fondata ? Se pure non voglia dirsi , come si potrebbe in certo modo affermare, che egli sia sta to il primo che incominciasse a introdurre fra noi la filoso fia del XVIII secolo , la quale dovea poi più largamente spandersi e acquistar quasidiritto di cirtadinanza . Concios siachè , spezzato il legame sacro che avrebbe dovuto legarci a' nostri più antichi, rotta la tradizione e in certo modo spenta presso il più gran numero la ricordanza delle passa te glorie filosofiche, parve più facil cosa il domandare ol tremonti bella e fatta la filosofia , innanzi che travagliarsi a crearla da sè; tanto più che tra noi l'uso delle profonde me ditazioni era venuto meno , ei sistemi che lavoravansi oltre le alpi , tra per la loro comoda facilità e per la popolarità che la letteratura francese ogni di più andava acquistando, divenivano anch'essi popolari in gran parte dell' Europa. Or questa filosofia era derivata direttamente da' sistemi del Bacone e del Locke , e più indirettamente da quello del Car tesio . . 199 II . Renato Descartes avea continuato nelle astratte regioni della filosofia l'opera incominciata dalla Riforma in quelle della religione, più astratte eziandio e al tempo stesso più positive delle prime, che era senza più l'idea della libertà del pensiero . Cosiffatta idea era nata da prima in Italia , do ve non chiedea altro che la libertà del pensiero filosofico; anzi in sulle prime si fu contenti a quella solo della libera discussione contro l'Aristotile delle scuole, salvo a costruire un nuovo edifizio con le vere dottrine dello stesso Stagirita ovvero di altri filosofi dell'antichità, siccome spesso si vide fare . Ma la Riforma, confondendo i limiti di cose diverse , domandò la libertà della discussione religiosa , il che era distrugggere la religione medesima , la quale per sua es senza è fondata sulla fede , sulla credenza e sul mistero, talchè sì tosto che la discussione e l'esame incomincia, la religione finisce, dove tra il credere e il non credere , tra il si e il no , alcuna transazione non è possibile, e ogni ana lisi l' uccide. Della religione avviene lo stesso che d'una leggiadra fanciulla dalle guance rosee e da' capegli dorati , la quale sembra contaminata dal solo sguardo troppo cupi do e indagatore dell'uomo; ma non si tosto l'abbiam pos seduta e contemplati a nudo i misteri della sua bellezza , ogni prestigio è finito . Così accade delle religioni , e tutte quelle che finora hanno imperato in su la terra, vere e fal se , ne son argomento. I libri sacri degli Ebrei eran conser vati nel luogo più recondito e segreto dell' arca ; l ' Egitto che può dirsi per eccellenza il paese della religione , è la patria de' simboli e de' geroglifici , e in Grecia solo pochi savi dopo faticose prove erano iniziati a' misteri di Samo tracia e diEleusi . In somma è strana cosa il credersi obbligato ad aver pure una religione e non volerla fondata sul principio dell'autorità. E in questo veramente il principio cattolico è superiore alle dottrine de protestanti e a quelle delle altre selte del cristianesimo , come quello che non soffre di discen 200 dere ad alcuna transazione , ma riconosce in sè la fonte di ogni vero , poggiandosi in sulla autorità che è potentissi ma, come quella che ha per sè la costante tradizione e l'im mutabilità delle dottrine. Ben cammina lo spirito umano , ben fa spesso de' progressi nel suo cammino, e le scoperte si succedono e i costumi s' ingentiliscono e le scienze si arricchiscono, e quasi pare che ogni verità sia destinata a cedere il luogo ad un'altra nuova, e che lo spirito dell'uo me sia in continuo movimentoed agitazione per avvicinarsi il più che a lui è conceduto all' unico e immutabile vero , Ma dove è questo vero ? chi mai può dire di averlo ve duto , o chi mai potrà vederlo e indicare agli uomini la meta di tutti i loro sforzi in su la terra , siccome il sepolcro di Gerusalemme a' Crociati e le coste di S. Domingoa Cristo foro Colombo ? Cotesto continuo moto , coteste secolari agi tazioni stancano l'anima , la quale ha sovente bisogno di fermarsi pure a qualche cosa di fermo e indubitabile, e di trovar come un'oasi in cui riposarsi dalle fatiche del suo penoso viaggio fra le certezze e i dubbi , fra le affermazioni e le negazioni dell' intelligenza . Or la Riforma distrugge questa proprietà assoluta ed es senziale d'ogni religione, gettandola in un pelago più con trastato ancora che quello della scienza , e in una bolgia di più inestricate e spaventevoli quistioni. Ma queste ardue pretensioni della riforma furono rendute ancor più estreme dal Cartesio , il quale spinse tant' oltre il desiderio della li bertà che volle quella stranissima di dubitar di tutte quanle sono le cose create e le increate fipo delle sue conoscen ze , delle sue idee e quasi di sè medesimo, per cercar poi, se gli fosse riuscito, di costruir da sè quello stesso che erasi dilettato con una nuova voluttà a distruggere. E veramente uno smodato desiderio di azione sernbrami dover esser in chi si piace di distruggere quello che egli ha intorno , per aver poi l'illusione del creare , e , che è più strano ancora, creare partendo dal dubbio ; nuovo e titanico esempio d' un sublime veramente dinamico, 201 Che cosa è egli quindi avvenuto ? Cartesio dovea egli so . lo ricostruir da sè l ' edifizio della realtà e dell'universo con solo i mezzi che il ragionamento gli porgea . Ora e' ci ha nella realtà delle cose alcuni fatti, siccome la religione , l'isto ria , le arti, i quali non sono opera dell'intendimento ovve ro della logica. E' ci ha nella vita delle cose e degli avve nimenti che non potrebbero derivare e non derivano dalla intelligenza individuale dell'uomo , quale essa alla logica e alla psicologia apparisce, ma sibbene da altri principii e da altri motori , a cui non si può che per diverse strade per venire . Per la qual cosa chi si argomenti di costruir la realtà delle cose con solo le armi che quelle più ristrette scienze gli concedono , e' non ginngerà mai ad avere essa realtà , quale nel fatto è, ma si quale con i suoi mezzi la si può formare, e priva delle sue più nobili parti, come quel le che di gran lunga son superiori ad ogni costruzione in dividuale . La quale difficoltà si può muovere a quasi tutta quanta la filosofia moderna, e nonsolamente a quella del Car tesio a cui essa è indubitamente debitrice di si superbe pre tensioni. Or delle due cose l' una può avvenire; o che la fi losofia riconosca la sua impotenza e rinunzii alla superba impresa, ovvero che presumendo troppo altamente di sè, nieghi di riconoscer come vero quello che essa non ha po tuto creare. Egli è inutile il dire che non potendo la prima ipotesi verificarsi per esser la scienza troppo superba di sua natura e troppo sicura del fatto suo , resta che la seconda si avveri . Pur tuttavia il Cartesio , siccome suole avvenire, per essere il primo, non giunse alle assolute negazioni di cui era pure nel suo sistema il germe , che poi seppe altri logicamente tirarne , allorchè si vide al fatto qua' si erano le estreme , ma pur legittime conseguenze delle dot trine cartesiane. Succedeva intanto in Inghilterra qualche cosa di simile a quello che in Francia , comunque le forme potessero esser diverse. Quivi il Bacone avea dichiarato quasi vana ogni scienza , il cui obbietto non potesse cader sotto l' impero de' 1+ 202 - sensi, quando il Locke cercò modo di applicar questo me todo alla conoscenza dell'intendimento umano , e fu di necessità costrello a vedervi solo quello che ci ha in esso di più apparente, cioè il fatto stesso della sensazio ne . Dalla quale , per sofismi che la scienza adoperi , non giungerà mai a cavare altro che fatti singolari con cui è impossibile di venire ad alcuna spiegazione probabile di fatti più alti e di più riposta natura, siccome sono le religioni , le arti , l' istoria . Pure il Locke si ostinò nel suo cammi no ma non seppe o non volle o temè di venire al termine estremo a cui quello conducea . Non io vorrei entrar mal levadore della verità d'alcun sistema , nè far l' apologista di una più presto che d'un' altra filosofia , ma mi sdegno di certi acciecamenti della scienza e della cieca sicurtà con cui sovente si ostina a perdurare in una via , quando bene si vegga ch'essa non possa condurre se non alla negazione assoluta di certi fatti i quali essa scienza dovrebbe bensì spiegare ma negare giammai, ove non volesse , come Ales sandro fece del nodo gordiano , non sciogliere ma tor di mezzo, negandole , le difficoltà. Pertanto quando il sistema del Locke ebbe passato lo stretto e ſu giunto sulla terra a lui ospitalissima della Francia, non fu chi non gli facesse buon viso , e venne accolto non già siccome quegli che giunge nuovo in terra straniera , ma come un antico amico che dopo lunga lontananza si riduce in patria . E veramen te sua patria era per esso quella del Cartesio . E' si dice che ogni idea cerca per per sua natura di venire ad atlo ed es ser messa in pratica. Or se ci ha filosalia al mondo, de la quale si può affermare che abbia raggiunto il suo scopo, è certamente quella della sensazione . Conciossiachè la rivolu zione di Francia si argomento di rifare la civil comunanza secondo quelle dottrine, e tulto un paese e una nazione no bilissima per amore di quelle fu veduta pronta ed apparec chiata a rinunziare un bel giorno alla sua istoria , alle sue tradizioni, alle sue antiche grandezze e alle passate glorie . Concessioni senza fallo enormi , ma pur logiche , e per le - 203 quali può dirsi che Marat, Danton , Robespierre e gli altri fossero gli estremi e più conseguenti discepoli del Locke, del Condillac, del Voltaire e dell' Elvezio; sebbene al fatto siasi veduto ove quelle teoriche peccassero, e come è pur mestieri di tener saldi certi altri e più antichi principii , chi vuol conservare in vita le umane società . Tale si era lo stato delle cose in Francia quando l'Italia legata oggimai a' destini della politica straniera ,cercò ezian dio fuori disua casa una filosofia bella e fatta , e potè leg germente trovarla , siccome l'abbiamo descritta , in Francia dove come in un nuovo Eden, cercammo l'albero della scien za e della verità, benchè il frulto che ci regalo fosse morta le per noi , come quello che fini di distruggere ogni germe di forza e di natio vigore nella patria di Gregorio VII e di Dante . Vero è bene che la filosofia della sensazione non può dirsi che in Italia fosse stata accettata ciecamente e compiu tamente , ma pur tuttavia ebbe abbastanza di forza per in sinuarsi nell' universale, e produrvi certa maniera di debo lezza morale che è l'effetto della mancanza d' ogni idea più elevata e più generosa . Ma comunque avesse avuto fra noi gran numero di ammiratori e di adepti, pure , come dicevo più sopra, le più alte menti italiane non si piegarono ad ab bracciarla compiutamente ancorchè non avessero saputo di scostarsene del tutto.Solamente più tardi e quando già quel la filosofia incominciava a venir meno nella sua stessa patria, si videro comparir tra poi i libri di Paolo Costa , di Mel chiorre Gioia e del napolitano Pasquale Borrelli che a quel le dottrine più da presso si accostavano; tre menti temprate in modo da non intendersi come abbiano potuto nascere nel la patria di Dante , Michelangelo e Vico . I due ultimi, scri vendo in una lingua a mezzo barbara , intendevano l'uno di spandere e divulgar nell' universale la parte più positiva della logica del Condillac, e l'altro di rianimare le teoriche del Cabanis , mercè qualche dottrina , già forse combattuta e dimenticata, del Locke. D'altra parte il primo, dico il Costa , purista ma pedante in letteratura , crede che la me 20% desima lingua che era servita a Dante per narrare i tre re gni misteriosi della morte, e descriver fondo a tutto l'universo ; la medesima lingua che era servita al Macchiavelli per disve lare i segreti della politica del medio evo , e al Vico per di vidare il passato e l'avvenire , e far la Divina Commedia della vita , siccome l'Alighieri avea fallo quella della morte; polesse impunemente esser condotta a raccontare le lepide trasformazioni della celebre statua , che a forza di odor di rosa dovea tornare uomo , come quella dell'antico Prome teo , mercè la fiamma del sole . Tolta per tal modo al pensiero l'originalità e l'indole na zionale , la letteratura di rimbalzo dovea sentire i cattivi ef fetti dello stato morale del paese . Già essa avea perduto la sua antica grandezza al XVII secolo , la sua fulgida stella era tramontata , e quel soffio divino che ne' secoli prece cedenti avea animato le nostre lettere parea si fosse ritira to dal cielo dell'Italia in mezzo alla corruzione che invadea d' ogni parte. Per la qual cosa il XVIII secolo , trovatici in queste condizioni, ci polè facilmente vincere , chè la strada era fatta, aperta la breccia , e agevolmente si potea una cor ruzione sostituire ad un'altra , un nuovo ad un antico vi zio . Allora si giunse perfino a sostenere che l'italiana era quasi una lingua morta la quale non potea più bastare ne alle nuove esigenze, nè alle nuove idee del secolo , nè agli andamenti più svelti e più liberi del pensiero moderno, sic chè bisognava al postuito rifarla , provvedere che ringiova nisse e sopperire alla sua manifesta povertà . Non è chi ignori come l'abate Cesarotti si fu il massimo campione di questa infelicissima scuola , e come con questo scopo dettò certo suo trattato che intitolo: Saggio sulla filosofia delle lingue. Se non che giunta la cosa a questo estremo punto , bisognava di necessità che , secondo il corso ordinario degli umani eventi, ritornasse indietro. E già nella Francia in un altro ordine 205 di cose una maniera di reazione era incominciata , concios siachè l'opera dell'impero può affermarsi non essere stata altro che una possente reazione contro gli anni prossima mente passati, e una ricostruzion di quello che negli eccessi della rivoluzione stato era distrutto e che pur meritava di esistere. In Italia , strana cosa ! questa reazione incominciò dalla lingua . Già poco innanzi il Parini, l'Alfieri e qualche altro aveano incominciato a levar la voce contro la servitù dell'imitazione straniera , ma poichè il male non era an cor venuto a quel punto estremo a cui le cose um ane deb bono arrivar per ritornar indietro, le loro parole furono im produttrici di effetti immediati in su le menti de' loro con temporanei , perchè le parole eriandio de' più grandi uomini non possono riescir proficue ove non trovano gli animi ap parecchiati a riceverle, e la pienezza de' tempi non è giunta per esse. E in vero quando le cose furon più mature, del le voci men possenti di quelle che ho citate poterono ope rare ciò che a'primi fu negato, chè trovarono un eco più fa cile nell' universale . Vero è che quelli i quali osarono per i primi di opporsi alla corruzion generale furon coverli di ogni maniera di ridicolo da' dotti del tempo e regalati, per più derisione, de’ titoli di pedanti (che forse erano) e di pu risti . Ma tutto fu indarno, perchè i puristi mostrarono un coraggio da onorar qualunque eroe , e niente valse contro di essi. Or e' bisogna confessare che costoro, non si credendo che i paladini delle parole , combatteano veramente , senza pur sospettarlo, l'invasione dello spirito straniero , e, se eran pedanti , significa che anche i pedanti possono talora aver ragione contro le pretensioni della filosofia. III . Duraya giá da alcun tempo questa reazion grammaticale contro la letteratura allora corrente , quando dalla remota Calabria s' intese risuonare una voce , che protestava contro la filosofia del senso e le sue eccessive pretensioni. Colesta 206 da voce era quella del barone Galluppi da Tropea , rapito pur testè alla scienza a cui avea consacrato religiosamente la sua vita. Per ben giudicar questo filosofo è d' uopo distinguere esattamente ciò che egli ha negato da ciò che ha affermato , cioè la sua polemica col sensualismo dal suo sistema . Con ciossiachè il suo vero merito si è quello d' essere stato il pri mo in Italia a sentir la necessità d' una filosofia più ampia opporre alle minute investigazioni del Condillac,delTracy e degli altri di quella scuola . Cotesto è il vero merito del Galluppi , e per questo solo gli è dovuto un posto nell' isto ria della filosofia italiana. Vero è che le sue armi erano il più delle volte domandate alla scuola scozzese , o eziandio à quel medesimo Locke che era il vero padre delle dottrine le quali egli volea combattere ; ma cotesto non diminuisce nè il suo merito , nè l'obbligo che la filosofia italiana gli dee avere. Medesimamente egli si è il primo che abbia in cominciato a divulgare fra noi il nome e il sistema del Kant, e comunque non manchi chi sostiene che egli me desimo non fosse giunto a penetrare compiutamente in tutti i misteri e gli andirivieni e i tragetti della psicologia kan tiana , pure è cosa indubita che egli si fu il primo ad occu parsene seriamente . Certo è , come innanzi vedremo, che altri è riescito meglio di lui nell' investigar la mente del fi losofo prussiano e nel misurar tutto il valore e le possibili applicazioni di quelle teoriche, ma certo è pure che il vanto di essere stato il primo,eziandio in questo , non può negarsi al calabrese. Quanto poi al suo proprio sistema composto in parle dalle teoriche delLocke e in parte da quelle del Reid, non credo che volendo esser giusti si potrebbe parlarne con alcuna ammirazione . Conciossiachè debolissima è la sua psicologia , e quasi nulla l' ontologia , la quale egli spesso non sa distinguere da quella , e sì confonde stranamente le quistioni che all'una e all'altra scienza si appartengono. Più confusa eziandio è la logica , che egli discerne in logica pura e mista ovvero applicata, mercè della qual distinzione che in niun modo non saprebbe sostenersi , è riescito a trattar 207 della prima delle pure forme del raziocinio, e ad ammassar nella seconda un gran numero di quistioni di psicologia e di ontologia, che non sapea come allogare altrove . Non parlo dello strano metodo con cui movendo dalla logica pura e passando per la psicologia e l' ideologia, giunge alla mista, perchè quello in cui mostrasi chiaramente tutta la debolezza delle sue teoriche , è l'applicazione che pure si argomenta di farne alla morale e all'estetica . Nell'estetica , per esempio, di cui si occupa sol di volo a proposito della teorica della volontà , senza punto curarsi de' più alti problemi che in essa si possono discutere , s'in trattiene a sostener l'opinione , un po' veramente troppo vo luttosa , che il bello può esserci rivelato dalla sensazione del tatto non altramenti che da quelle della vista e dell'udito, quasi non fosse chiara la differenza che è tra certi sensi più altaccati alle necessità della vita e però men nobili, da certi altri che servendo meno immediatamente al corpo son più liberi, e, se così può dirsi , più spirituali . Del resto e' si può dire che il Galluppi non ha veramente una certa teori ca sul bello e sulle arti , ovvero se pur l'ha , dubito forte non sia quella del Blair e del buon padre Soave , autore di un'intera enciclopedia d'istituzioni elementari per l' educa zione della povera gioventù italiana , filosofo , matematico , grammatico, relore, novelliere , moralista e Padre Somasco, che per molto tempo continuò e continua ancora in gran parte, ad infestar co' suoi libri , i seminarii, i licei e le scuo le italiane. Quanto poi al suo sistema sulla morale e sul di ritto, il Galluppi non può dirsi che siane uscito più felice mente che nelle altre parti della sua filosofia , e chi volesse prendersi giuoco di lui potrebbe leggermente qui , come al trove, trovarlo ad ogni pagina in contraddizione con sè me desimo. Non son molti anni passati che il nostro filosofo in cominciò a pubblicare per le stampe un'istoria della filosofia , ma sembra che per mancanza di soscrittori l'edizione non potesse andare innanzi , sicchè dovette smetterne il pensie ro , e l' opera morì ia sul nascere . Se in questa , come nelle 208 altre cose , l'induzione è buona, e si può indovinare che la scienza non vi abbia perduto gran fatto ; chè l'autore vi fa cea mostra d' un'erudizione non molto riposta. E' mi ricor da fra l'altro che nell'introduzione tentava ancora egli un'in terpetrazione del mito di Prometeo, e giunse per non so che strane congetture a persuadersi che il celebre prigioniero del Caucaso si era un anticore dell'Attica, che aveaprima insegna to a quelle genti i primi rudimenti di agricoltura e sopratut to la coltivazione del grano . Davvero mi sembra enorme non veder altro che questo in Prometeo inchiodato al Caucaso, per le mani di Mercurio , per comando di Giove e per decre to immutabile del destino, e mi sembra più che enorme di struggere il più profondo mito dell'antichità , e conver tire il figliuolo di Giapelo in un mietitore , con una rovinosa metamorfosi che trasforma di botto il capo d'opera del teatro di Sofocle in poco più di un' egloga. Del 1830 il barone Galluppi fu chiamato a dettar lezioni di filosofia nella regia Università di Napoli , e la scelta del governo fu facilmente accompagnata dagli applausi unanimi di tutti , imperciocchè si aspettavano cose grandissime da un uomo la cui riputazione potea dirsi gigantesca tra noi , e sul cui merito tanto più si giuraya, in quanto niuno avea ardito di dubitarne o di esaminarlo seriamente. Ma ora dopo se dici anni di esperienza deve esser conceduto di affermare che l'aspettazione pubblica è stata delusa , ed anche il suo insegnamento non ha condotto a nulla di durevole. Quale si è in fatti la scuola che egli ha fondata ? quali le verità che ha dato a svolgere a' suoi scolari ? quali applicazioni si son potute fare della sua filosofia al diritto, alle arti, alla politi ca , all'economia ed alle scienze naturali ? Per me io tengo che una filosofia la quale non è feconda di applicazioni di ogni maniera, e che si condanna a restare nel circolo delle quistioni puramente psicologiche, non meriterebbe il super bo nome a cui aspira , e più presto dovrebbe aversi quello di logomachia di scuola. Or tale si è quella del professor na politano. Però non dee arrecar maraviglia se le sue parole 209 uon hanno avuto un eco , se il suo insegnamento è stato per duto , e se, fra tanti discepoli che han frequentato la sua scuo la , non ce ne ha pure uno di cui si possa dire : costui conti nuerà l'opera del maestro ; chè nessun'opera il maestro ha incominciata, nessuno scopo si era prefisso, e niente vi ha di più inutile che le parole da lui pronunziale per sedici anni sulla cattedra. IV . Non ricorderò che di volo i nomi del Mancini , del Tede schi, del De Grazia e del Winspeare. De’quali i due primi , si ciliani, non possono dirsi , e sopratutto il primo, che seguita tori , ma nè interi nè profondi, dell' eclettismo francese, e, poveri non meno di erudizione che di potenza di mente, possono rassomigliarsi più presto a due scolari che non si ardiscono dilungarsi dalle peste del maestro. Il terzo , cala brese di patria, è un antico militare che ha finito per consa crare i suoi giorni alla filosofia , ed ha , già sono qualche anni passati, dato fuori per le stampe un'opera in cui intende a richiamare in onore e il Locke e la filosofia dell'esperienza , ma pur con tali modificazioni che agli occhi dell'autore do vrebbero allontanar le conseguenze a cui que' sistemi finora han condotto , e che agli occhi degl' intendenti di ta' discipli ne servono solo a metter l'autore , a sua insaputa , in con tradizione con sè medesimo , e l' un principio del suo siste ma in opposizione con l'altro . Il barone Winspeare, giureconsulto di rinomanza in Na poli , si è ancora egli rivolto agli studi della filosofia, e come frutto delle sue meditazioni ha incominciato da tre o quat tro anni a pubblicare una sua opera col titolo di Saggi di filosofia intellettuale. Della quale il primo volume, che l' au tore ha chiamato Introduzione allo studio della filosofia, con tiene un compendio dell' istoria di cotesta scienza da Talete in fino al Kant . Il secondo col titolo di Dizionario della Ra gione , dev'essere un dizionario di filosofia che si proponga 14 210 lo scopo di fermare per sempre le parole della scienza e il loro significato , affine di renderne il valore così certo e in dubitato come è quello delle matematiche, e distrugger così alla loro sorgente le quistioni e le difficoltà che lacerano da tanti secoli il seno della filosofia. Imperciocchè e' sembra che l'autore abbia per ferma la celebre opinione di quasi tutto il XVIII secolo , e che ora alcuno non oserebbe di sostenere, esser cioè le più profonde quistioni filosofiche niente altro che controversie di parole, sicchè, fermato bene il valore di queste , abbiano quelle immantinente da cessare . Il terzo vo lume poi dovrà contenere una traduzione de' Nuovi Saggi del Leibnizio , nella quale il traduttore si propone di dare un vero modello della lingua filosofica italiana, ancora così povera tra noi ( non credano i lettori che io esageri) , pro ponendosi di più di venir mostrando ne' suoicomenti quello che ci ha di buono e quello che ci ha di vieto e di rancidu me metafisico nelle pagine del filosofo tedesco . Ancora qui non fo quasi che ripetere le modeste parole dell'autore . Da ultimo il quarto volume dovrà contenere un'esposizione del sistema del Reid . E qui immagini il lettore il sistema del fi losofo scozzese , che non suole esser creduto , ch' io mi sap pia, de' più oscuri ed astrusi, esposto compendiosamente dal nostro barone , in un gran volume in quarto; chè questa è la dimensione dei suoi fratelli già venuti alla luce. Secon do il Winspeare e' non ci ha che due uomini al mondo a cui la scienza abbia veramente da essere obbligata; e di costoro il primo visse , già sono trenta secoli passati, in Atene, e l' altro nacque in Iscozia l'anno di nostra salute 1710. Questi due uomini sono Socrate e il Reid . Solo il Leibnizio potreb be esser terzo tra costoro , ma egli è troppo lordato di me tafisicume per essere accettato interamente dall' illastre giu reconsulto ; e però, come è detto , e' si propone di purgarlo . Salvo adunque il greco , Jo scozzese e il tedesco , così purificalo , tutti gli altri uomini che han consacrato la loro vita alla scienza e che son giunti a rendere immortali i loro nomi, voglionsi tenere comepericolosivisionarii, i quali ov 211 vero s'ingannano per difetto di giustezza di mente , ovvero si lasciano strascinare dalla loro immaginativa. A purgar la scienza da questi malaugurati sogni è sopra tutto ordinata ľ opera del Winspeare. Innanzi di lasciar Napoli non posso trascurar di ricordare il nome di un uomo , forse poco conosciuto altrove, e che eziandio tra noi non risuona molto , ancorchè il meritasse . Ma in tutte le cose la fortuna è signora , ed anche per giun gere alla gloria è necessaria certa maniera d'impostura. Co stui è l'abate Ottavio Colecchi, il quale, sendo già profondo matematico , allorchè si rivolse seriamente alla filosofia non si potè star contento all' empirismo che forse prima avea seguito, e si rivolse in quella vece al sistema del Kant. Con ciossiachè non ci ha niente in quella filosofia che possa ap pagar la mente di un matematico usata alle astrattezze e a ricercar le proprietà più essenziali e immutabili delle cose, laddove le analisi severe ed aride del Kant più ritraggono da' metodi matematici e vie meglio possono contentare le menti che a quelle sono avvezze. Il Colecchi seppe penetrarvi così addentro , che quasi le fece sue proprie , e spesso osò modificarne alcune parti e mutarne alcune altre : tanta è la dimestichezza che egli ha acquistata col suo autore , ancor chè ardisca di rinnegarlo e levi alto la voce a sostener che e' non è kantista, per alcune divergenze che separano in sieme le loro dottrine . Ma, che che egli si dica, non si po trebbe seriamente da altri dubitare seegli sia o pur no. Due sono i punti principali della filosofia del Kant, e l' uno si è la sua teorica della ragione soggettiva, e l'altro dove distin gue la parte mutabile e l'immutabile delle umane conoscen ze, quella cioè che da' sensi deriva e quella che trae altron de la sua origine ; cominciando egli dal porre come fonda mento del suo sistema che tutto il sapere incominci con l'esperienza ma non tutto da quella derivi . Cotesto è forse il più importante e il più vero di tutti i principii kantiani , comunque sia assai più antico della critica della Ragion Pura . Il Leibnizio, fra gli altri, avea già insegnato l'anima escir dal 212 le mani del Creatore con tutte quante le idee necessarie ed assolute, come quelle che compongono la sua propria essen za ; ma che, oscurate e quasi sepolte sotto il peso della ma teria , han bisogno che l'esperienza venga a discovrirle e quasi a far che lo spirito se ne avveda, benchè da quelle non derivino. A questa guisa appunto lo scultore, se una figura fosse impressa da natura nelle parti più interne d' una pie tra, ove questa tagliasse e levigasse, non sarebbe egli autore di essa figura , ma si cagione che quella fosse manifestata. E, assai prima del Leibnizio, la medesima dottrina può tro varsi insegnata da altri più elegantemente e con maggior di sinvoltura. Platone nel suo nobilissimo dialogo del Fedone, nel quale narra , come tutti sanno , della morte di Socrate e delle cose da lui discorse con i discepoli e con gli amici in nanzi di ber la cicuta , dimostra siccome è nelle nostre menti un' idea prima dell' uguaglianza (autò pò trov ) così astratta e generale che non si può in niun modo confondere con l'idea di duecose qualunque che sieno eguali insieme, come due pietre, due leyni o altro. Perchè dove quella è tale che noi sempre allo stesso modo la concepiamo e di necessità non possiamo comprenderla altrimenti col pensiero , questa per contrario è mutabile , sendo che il fatto quotidiano ne mo stra che quelle medesime cose , che pur ieri ne pareano uguali, ne sembrano altra volta disuguali, senza dire della differenza de' giudizii de' diversi uomini, a cui le stesse cose appaiono diversamente. Onde egli conchiude l'uguaglianza assoluta non si dover confondere con quella delle singole cose a cui questo attributo ci sembra di convenirsi. Le medesime cose Platone dimostra del bello , del giusto , del vero e di altre cosiffatte idee, che non si possono confondere con gli obbietti sensati , a cui si trova che solo per contin genza alcuno di que' modi di essere si può attribuire, e che sono come un debil raggio di quegli eterni tipi che sopra di esse cose mutabili vengonsi a riflettere , e che di quelli solo per accidente partecipano ( METÈYouTQ ). Se non che que sti obbietti mutabili e contingenti son come lo strumento 213 per cui mezzo l' anima giunge ad aver coscienza delle idee , sendo che, ogni volta che le cose uguali, belle, vere e giuste le son mostrate da' sensi, si vengono risvegliando in lei itipi eterni a quelle corrispondenti , i quali pur erano in lei ab eterno, ma si vennero oscurando il giorno che ella , lasciata la sua celeste dimora , discese nella prigione del corpo la tal guisa, secondo il divino Platone , il sapere è solo ricor danza, e l'apparare è ricordarsi. L'altro punto principale della filosofia del Kant, e pro prio a lui solo , si è la teorica della ragione che egli tiene per subbiettiva e inetta a farne conoscere altro che le appa renze, e non mai la sostanza delle cose . Teorica d'importanza principalissima, come quella da cui dipende il sapere se l' uo mo ha diritto a credere di poler giungere alla conoscenza di qualche verità , ovvero se, condannato a vivere fra illusioni e apparenze, dee rendere immagine del cane della favola, il quale credea un altro cane da lui distinto la sua propria immagine che vedea riflettuta nelle onde del ruscello . Chi concede questo punto al Kant, gli dee conceder tutta la sua filosofia e dee esser tenuto per kantista, siccome io affermo del Colecchi , quali che fossero in parti secondarie le loro di vergenze . II Colecchiha pubblicato un gran numero di articoli su di versi subbietti di filosofia speculativa e morale che poi ha raccolti in due volumi col titolo di quistioni filosofiche, ove assai spesso prende a combaltere il Galluppi , e se il faccia con buon successo , e se gli avvenga sempre di riportar facile vittoria sul nemico èinutile il dirlo. Conciossiachè il si stema slegato e debole del filosofo calabrese mal potrebbe resistere a colpi serrati della dialettica del suo avversario. A questi due volumi dovea tener dietro un terzo di quistio ni estetiche , di cui mi riesci di aver le bozze di stampa per le mani , poichè il libro non potè veder la luce . Cotesta este tica , come tutto il sistema del nostro filosofo , è quella me desima del Kant; un deserto di astrazioni senza mai incon trare un'oasi ove lo spirito possa alquanto rinfrancar le for 214 - ze . Egli è quasi che inconcepibile come quel divino rag gio che domandiamo bellezza, e che risplende misteriosa mente nelle volte de' cieli e negli occhi delle fanciulle , pos sa esser materia su cui s'innalzino de' formidabili edificii di aride astrattezze , con le quali è al postutto impossibile di dar pure una spiegazione del bello e dell'arte, alla guisa che è impossibile di trovare il mistero della vita nel cada vere , o quello della luce nelle tenebre . V. Mentre questa fortuna si aveano in Napoli le discipline filosofiche , nelle altre parti d'Italia non mancarono di esse re , ove più e ove meno, splendidamente coltivate, e in que sti ultimi tempi videro levarsi chi di gran lunga si lasciò in dielro i Napoletani. In Italia è succeduto al nostro vivente un fatto il quale è in manifesta opposizione con quello erasi veduto finora nell' istoria della nostra filosofia , la quale in fino dalla più remota antichità , ha avuta nel mezzodì della Penisola un' indole diversa che nel settentrione. Colà il ra zionalismo ha dominato , qui la scienza ha più presto incli nato al positivo e alla pratica; quasi queste due diverse ten denze della filosofia si fossero geograficamente diviso il ter reno . E in vero mentre nell'una parte venivan su la scuo la di Pitagora e quella degli Eleatici, nell' altra la sapienza etrusca s'introducea in Roma, che può dirsi il paese per ec cellenza della politica, della guerra e della legislazione. Vero è che in processo di tempo i due estremi si andarono ravvi cinando , e l' idealismo si accostò al suo contrario e quindi risultò l'indole vera della filosofia italiana, che è insieme speculativa e pratica , come quella che domanda i principii ma non dimentica le applicazioni , e , se intende di levarsi. sino al cielo in su le ale della speculazione non perde però di vista la terra . Se non che è innegabile che non ostante il ravvicinamento di queste due maniere di filosofare, pure la differenza non fu mai cancellata del tutto, e i filosofi del 215 - mezzodi restaron sempre più razionalisti , e più pratici quel li del settentrione ; testimonii il Vico e il Bruno da una parte, il Macchiavelli e il Pomponazzi, per non citarne in fioiti, dall'altra . Ora al nostro vivente , come dicevo , il fat to inverso si è veduto avvenire , chè i filosofi Napoletani non si son saputi dipartire dalla psicologia , e quelli della più alta Italia hanno ardito di sollevarsi infino all' ontologia ; quasi il coraggio delle ardue speculazioni , venuto meno a noi , si fosse rifuggito appo gli altri. E questi sono l'abate Rosmini , Terenzio MamianieVincenzo Gioberti . Antonio Rosmini ricorda in certo modo i nostri buoni fi losofanti del medio evo , i quali chiusi fra le mura di un chiostro , alternavano la vita fra la preghiera e la meditazio ne , e vedeano scorrere in silenzio i loro giorni senz'altro pensiero che quello della chiesa e della scienza . Così il no stro abate, pievano di un piccolo villaggio in quel di Nova ra, si è dedicato tutto quanto alla religione e alla filosofia, con una fede e un' anbegazione che ricordano altri tempi ed altri costumi . Egli era già conosciuto per altri scritti di fi losofia speculativa e di diritto pubblico e naturale , quando nel 1830 pubblicò per le stampe una sua opera sull'origine delle idee la quale per la profondità delle dottrine , per la forza della dialettica e per l'erudizione non comune di cui è ricca nel fatto dell'istoria della filosofia, e massime della scolastica, merita bene di essere allogata fra le più importanti che in questi ultimi anni han veduto la luce. Gran danno che sia di faticosa lettura per l'abbondanza non felice e del lo stile e delle parole . Il problema che l'autore principal mente discute in questo suo libro è quello onde è travagliala tutta la filosofia, e che più specialmente occupa la moderna, dico la questione della realtà della conoscenza. Gran cosa è veramente cotesta che molesta siffattamente la scienza . Noi siam circondati anche a nostro malgrado da una tur ba infinita di diversi obbietti ordinati quale alla soddisfazio ne de' nostri bisogni , e quale a render lieti o miserevoli i pochi giorni che dobbiam passare su' lagrimosi campi della - 216 - terra , che pur tanto amiamo ed a cui niente non ci avrebbe da legare. Or chi mai ha dubitato della realtà di tutte queste cose ? Certo se a taluno venisse talento di farlo e di dubitar seriamente se esista la donna che egli ama , l' inimico che odia , le catene che legano i suoi piedi o l'oro che brilla nella sua scarsella , e' non si dubiterebbe pure un momento di di chiararlo mentecatto , e condurlo di presente all' ospedale dei matti . Or la filosofia si è condannata di buona voglia a du bitar di queste cose e ad ignorar quello la cui ignoranza fa rebbe stimar folle un uomo agli occhi de' poveri di spirito. Nè è da credere peròche vengada modestia questo dubbio della scienza , anzi è figliuolo della superbia. Conciossiache la filosofia non vuol già conoscere le cose alla guisa medesi ma che gli altri uomini, ma si bene rendendosi ragione e chie dendo una spiegazione possibile di tutto che l'uomo pud sa pere. Quindi è addivenuto che essendo gli obbietti esterni parte della conoscenza, la si è imposto il dovere di non cre dere diffinitivamente in essi , o almanco seriamente dubitar ne in fino alla dimostrazione. E però si è messa con una calma edificante a discutere la questione di sapere se ci ha niente che esista fuori dello spirito. Soventi volte le armi le son mancate per provar quello che volea sapere, e allo ra più presto che essere incredula a sè medesima o infedele alla sua divisa , ha consentito ad accettare il nulla con una rassegnazione da disgradare un anacoreta , e a conchiudere che il genere umano s'inganna visibilmente allorchè crede alla realtà delle cose . O alliludo ! Or l'opera del Rosmini è precipuamente ordinata all'esame di una cosiffatta quistione, a cui egli giunge incominciando da una rassegna istorica de' varii sistemi antichi e moderni che su lo stesso problema si son travagliati , i quali tutti esamina con gran sottigliezza e con mirabile profondità ed erudizione . Di scute da prima la quistione dell'origine delle idee nella mente; quistione strettamente legata con quella della realtà della conoscenza, e fa vedere in una maniera non tolta da altri , come i filosofi di lutti i tempi sono andati errati in questo , - 217 o per eccesso o per difetto , dappoichè alcuni non vollero riconoscere alcuna idea primiliva nello spirito , ed altri cre dettero di vederne in maggior numero che veramente non sono . Lontano dall'errore degliuni e degli altri , il Rosmi ni ne ammette sol' una , cioè ľ idea dell'essere , forma uni versale de' nostri pensieri, idea primitiva e necessaria dello spirito , la quale non ne suppone alcun'altra prima di sè , ma bene da tutte quante le altre è supposta , come quella che alla loro formazione è necessaria . Or su questa idea riposa la realtà delle conoscenze, sendo che essa rinchiude il con cetto dell'esistenza , anzi è l'esistenza medesima ; per suo mezzo noi possiamo giungere dal mondo de pensieri a quel lo dell'esistenza, da' concetti a ' fatti. Non io qui intendo di difender l' una ovvero l'altra opi nione, ma poichè mi propongo solo di raccontare, non posso tralasciar di riferire una opposizione cheè stata fatta alla teo riea detta di sopra . Quale si è la difficoltà arrecata in mezzo dagli avversarii della realtà ? Noi non sappiamo le cose , e'di cono, ma sì le idee che ne abbiamo; o come si passa all' obbietto da quella rappresentato ? su qual ponte si supera la distanza che è da un'idea ad un fatto ? Or la vostra idea dell'essere, si è opposto al Rosmini, non è punto diversa dalle altre , e indarno vi dibattereste a dimostrare che è di differen te natura; e, se è vero, come è, che la è generale e necessa ria , non è però vero che a differenza delle altre idee di que sta medesima natura , sia di per sè stessa obbiettiva e atta a porci in relazione con le cose reali . Sicchè l' antica quistione non è stata per voi risoluta , anzi rimane tultavia intera , po tendosi opporre all'idea dell' essere le medesime difficoltà che alle altre idee, non ostante i vostri sforzi per sostenere il con trario . Vero è che l'autore , dopo cinque faticosi volumi , con una rara, non so se io dica superbia o modestia , dichiara che non è leggiera cosa l'intendere la sua dottrina , e che egli in vano si è studiato, per l'impossibilità della cosa , di esser chiaro e intelligibile . Non tacerò che a taluno è sembrato di vedere nell' opi passa dall'idea 218 - e nione del Rosmini una pericolosa teorica da cui agevolmen te si può sdrucciolare nel panteismo . Ma a questo proposito fa d'uopo por mente a tre cose; la primache siffatte conse guenze senza fallo non sono state pensate dal suo autore , e che se egli giungesse mai a persuadersi che quelle legitti mamente si possono far discendere dalle sue opinioni , certo pon indugerebbe pure un momento a ritirarle. La seconda cosa si è che non si vogliono tormentar troppo le parole le sentenze degli scrittori per condurli in una maniera o in un'altra a certi estremi punti a cui quelli non vogliono giungere e a cui regolarmente non si potrebbe menarli sen za i sottili sforzi d'una dialettica che può divenire per que sto petulanti ; chè da tutto si può giungere a tutto. Ultima mente non bisogna dimenticare che il panteismo oggidì è lo spauracchio universale, e che troppo facilmente si crede di poterlo trovare in tutte le opinioni; e se è vero che parecchi de'sistemi moderni v’inchinano, è pure strano vederlo sem pre e da per tutto. VI . Terenzio Mamiani della Rovere del 1834 pubblicò in Pa rigi un'opera di filosofia intitolata : Rinnovellamento dell'an lica filosofia italiana. Oltre al nome dell'autore che già ri suonava nella nostra penisola , cotesto titolo contribuì non poco a chiamar l'attenzione dell'universale sul libro del Mamiani . Conciossiachè si credette di vedere certo orgoglio nazionale , e quasi una bella virtù cittadina nell'idea di ri chiamare in onore e in vita la nostra antica filosofia . La ste rilità pedantesca de' nostri filosofi non avea fatto escir le loro scritture dai limiti della scuola , e privatili così d' ogni ma niera di popolarità in un paese in cui gli uomini consa crati specialmente agli studii filosofici, non sono abbastanza numerosi, perchè levi gran grido nell' universale un libro di malerie così speciali ; ma questa difficoltà il Mamiani riesci a superar felicemente . Or vediamo qual sia la sua idea . - 219 I filosofi italiani del XVI e del XVII secolo , non solo sono slati primi nell ' ordine del tempo a incominciar la guerra contro la scolastica , da cui poi dovea venir fuori la filosofia moderna , ma ancora sono entrati innanzi agli altri per la profondità e dottrina con la quale seppero eziandio trovare il vero metodo con cui unicamente le scienze speculative possono giungere a glorioso porto, riconducendole all'osser vazion della natura , da cui le astrattezze della scuola aveanle allontanate; metodo di cui il pensiero moderno mena gran vanto come della più bella delle sue invenzioni , e della sola armecon cui sipossa giungere alla scoperta della verità . An cora fecero di più, e non contenti ad indicare altrui la strada che si ha da tenere, si posero animosamenle in quella , e ri ducendo ad atlo il pensiero del loro metodo , riescirono a crear de ' sistemi a niuno secondi di quanti ne ' tempi posle riori si son veduti venir fuori. In questi sistemi certamente molte cose sono da rigettare, molte da correggere e da mo dificare , ma molte sono eziandio accanto alle prime, le quali meritano ben altra cosa che dispregio e noncuranza . La fi losofia moderna avrebbe da studiare attentamente in quelli per tirarne tutto il buono che vi è , e far tesoro delle altis sime verità che soventi volte han costato a' loro scoprilori la libertà o la vita . Sopratutlo gl ' Italiani non dovrebbero lasciar perire sotto a' loro occhi la grande opera incomin ciata da' loro avi con tanto ardire e potenza di mente, anzi dovrebbero alacremente continuarla , e in vece di tener die tro astraniere filosofie e trapiantarle siccome piante di al tro clima della loro patria, dove mai non potrebbero alli gnare siccome frutto indigeno e nazionale, bisognerebbe che si adoperassero a tult' uomo di richiamarli in vita e risve gliar la nobile tradizione d'una scienza pur nata fra essi . Le altre parti del libro del Mamiani son destinate a svol ger la vera natura di questo metodo , che , secondo lui , è quello dell ' osservazione , il quale a molti può parere non acconcio a condurre la scienza là dov'essa dee pervenire , e che a me sembra egli confonda troppo con i procedimenti i 220 delle scienze naturali. Ancora ne viene mostrando l' appli cazione a parecchie quistioni speciali , che egli si studia di risolvere seguendo per lo più le orme de' nostri antichi filo sofi. Per menon esaminerò sino a che punto i grandi filo sofi italiani del risorgimento abbian seguito il metodo di os servazione, siccome il Mamiani l' intende, nè se questo me todo, sì utile d'altra parte alle scienze fisiche, sia sufficiente alle metafisiche, chè cotesto mi menerebbe lungi dal mio pro ponimento e getterebbe in quistioni che non ho in animo di discutere ; solo dirò qualche cosa del proposto risorgimento della nostra antica filosofia . L'idea del Mamiani si è di ri chiamar in vita tra noi le nostre tradizioni filosofiche, per chè la scienza si abbia nella penisola un tipo veramente ita liano e un'indole nazionale. Egli è indubitato che ogni pae se ha da natura una particolar fisonomia,per la quale si di stingue da tutti gli altri , e che siccome è impossibile di can cellare del tutto così è vil cosa di non rispettare come up dono della Provvideoza, e di non custodir gelosamente come un sacro pegnocontro ogoi invasione straniera. Nè questa differenza d'indole si mostra solamente ne' costumi e nelle abitudini di ogni popolo, negli istituti e nelle maniere este riori della vita ma eziandio in un modo speciale di vedere e d' intendere e di rappresentarsi le cose . Gli obbietti sì del mondo fisico che del morale , si possono giustamente chia mar poligoni, in quanto che ciascuno ha molti diversi lati, e può , rimanendo sempre il medesimo , esser considerato in mille guise diverse , e produrre , secondo queste diversi tà , mille diverse impressioni. Or quanlo più le cose posso no essere variamente riguardate , tanto più vasto campo ha l'indolenazionale di ogni popolo di spaziarsi e mostrarsi aper tamente. Nella letteratura, per esempio , esercita vastissimo impero, perchè quella abbraccia tutta la vita , nè ci ha cosa che possa esser considerata sotto più diversi aspetti che la vita umana e i suoi infiniti accidenti , da cui ogni letteratu ra direttamente sorge , facendo ritratto dalle più intime qua lità di essa vita . Per contrario poi quanto meno di realtà è 221 negli obbietti che cadono sotto la considerazione e Y opera dello spirito , e quanto più essi son semplici o astratti; tanto più si viene a restringere il campo in cui l'indole nazionale si può mostrare. Cosi, appena se ne può scorgere le tracce nelle matematiche e nelle scienze naturali, occupandosi quel le di astrazioni nude e di semplici concetti e queste delle qualità fenomeniche ed esterne de'corpi, quali cadono sotto i sensi. Ma altrimenti avviene della filosofia perchè i prin cipii comunque razionali di cuiessa si occupa, son pieni di vitae di valore, comequelli che debbonoservire alla spiegazio ne di tutti i fatti umani e cosmici dell'universo , dell'uomo e delle civili comunanze. Certamente non ci ha nè ci po trebbe essere una verità italiana e una tedesca, ma ci ha una diversa maniera per gli Italiani e per i Tedeschi d'intendere i medesimi veri , di considerar gli stessi fatti generali , sic come di dare più importanza a una specie di essi innanzi che ad un'altra. Di qui deriva che si può giustamente parlare d'una filosofia inglese, francese o tedesca , dicendosi, per esempio, che la tedesca èpiù idealista e razionale, dove che l'inglese inclina in quella vece a starsene più dappresso a ' faiti ed è quindi più sperimentale o empirica ; differenze che trovandosi nell'indole della scienza, mostrano che ci ab bia da esserne un'altra corrispondente nell'indole delle due nazioni. In questo modo solamente si può intendere la na zionalità della filosofia , sendo però necessario di far due os servazioni su tal proposito. La prima si è che non bisogna credere alla necessità di un intero isolamento scientifico , ov vero credere che ogni idea straniera possa esser contagiosa e opporsi al libero procedimento del pensiero indigeno e na zionale. La verità non è pianta che germoglia in un solo paese, ma in tutta la terra, nè è proprietà di un solo uomo o d'un solo popolo ma di tutto quanto il genere umano; ciascuno può trovarne una parte, e tutti gli uomini sono ob bligati di riconoscerla per tale, ove che la sia , e di abbrac ciarla e farle plauso e festa. E' bisogna cercarla da per tutto, e lo spirito allorchè è forte e sicuro di sè medesimo , le da - 222 - rà a sua insaputa quell' atteggiamento particolare ,e quasi direi quel colore morale cheèfigliuolospontaneo dell'indole di uno o di un altro paese. Laseconda avvertenza da fare è che ogni consiglio su tal proposito dee tornare quasi inu tile , e che quindi debba riescir vano il raccomandare ad un popolo di custodir la sua nazionalità nella filosofia . Basta es sere veramente un popolo sano e robusto e sentirlo e glori arsene per avere untipo da sè e conservarlo senza fatica, e quasi non avvedendosene , in tutte le parti della vita ed eziandio nella filosofia. Ma se un paese è debole e corrotto , se già ha perduto la sua indole nativa , i consigli de'dotti saran vani, perchè avendo quelloperduto la suaoriginalità nelle al tre cose,non gli sarà possibile dicustodirla nella filosofia più presto che nella letteratura , nella politica e nelle arti . Del resto ho voluto dir queste cose più presto a proposito del Mamiani che contro di lui perchè nè l'uno nèl' altro de' due rimproveri gli si può fare. Quanto poi all'idea d' incomin ciar la scienza ove l'hanno lasciata i nostri maggiori , certo gl' Italiani d'oggidi avrebbero ben torto di dimenticare i no bilissimi lavori de'loro padri e le dottrine onde hanno splen didamente arricchito la scienza , ma è da vedere se per far questo si convenga rinunziare a tutto quello che lo spirito umano ha scoperto in processo di tempo, perchè non è ve rosimile che sieno tornati vani tutti i suoi lavori per tre se coli e più. Credo che non sia questa strettamente l'opinione del nostro autore, ma domando se vi si potrebbe giungere partendo dalla sua. VII . Eccomi finalmente arrivato a quello de' filosofi italiani no stri contemporanei che è giunto ad ottenere una fama uni versale fra noi. Ciascuno intende che io parlo dell'abate Vin cenzo Gioberti, il cui nome da qualche anno risuona univer salmente dall' uno all'altro estremo della penisola . Quindi è che ciascuno si è creduto in diritto di dar la sua opinione e 223 11 giudicarlo a sua posta , onde egli si è trovato esposto a ' più contraddittorii giudizii , alla più inetta critica , alle noiose esagerazioni del dispregio ed a quelle ancor più no iose della stupida ammirazione. Quanto a me, nemico come io sono d'ogni opinione eccessiva che si lasci volenlieri ac cecare all'odio e all' amor di parte , a' nuovi ed a' vecchi pre giudizi , dirò franco il mio parere per un uomo di un merito grandissimo, quantunque io credo che sia ancor troppo pre sto per poterlo ben giudicare, e che di lui meglio i posteri che i contemporanei potranno portar sentenza , perciocchè intorno a molte sue dottrine bisognerebbe aspettare i suoi nuovi schiarimenti e la prova del tempo . Intanto per por tare in fin da ora un giudizio più o meno esatto di quello che egli è, sarebbe mestieri di esaminare sottilmente il suo yalore come scrittore, come filosofo e come politico. Io, se condo il mio istiluto, non posso toccare che pe' generali della due prime parti e quasi niente della terza . Come scrittore, il Gioberti appartiene senza fallo alla no bilissima schiera de'Botta, de’Leopardi e degli altri che in questi ultimi tempi han cercato, ritirando la lingua italiana a'suoi principii, di renderle l'antico splendore , la forza, l'e leganza e la vivacità che ammiriamo ne'nostri grandi scrit tori de'secoli passati , e che le aveano negato la fiacchezza degli animi e i pregiudizi comuni del secolo XVIII e de’pri mi anni di quello in cui noi viviamo , e che ancora regnano appo la maggior parte de ' filosofi di cui innanzi è discorso , la cui lingua , e più ancora lo stile , si penerebbe a crederlo italiano , e si direbbe compassionevole , se la pretensione non non lo rendesse più tosto ridicolo. Il Costapuò dirsi il primo che in questi ultimi tempi abbia trattato di filosofia con cor rezione di lingua ed eleganza di stile, ma oltre a questi pre gi , non si può dire che abbia nessuna di quelle doti che co stituiscono il grande scrittore . La medesima cosa può affer marsi del Mamiani la cui lingua è pura , lo stile esalto ed elegante ma invano si cercherebbe altro nella sua prosa . Il Rosmini , senza aver nè l'uno nè l'altro di questi pregi, è di 224 una tale abbondanza, che e'si potrebbe comodamente ridar re alla metà i volumi delle sue opere senza chiedergli il sa grifizio pur d'una idea . Tull'altra cosa è del Gioberti nelle cui pagine si trova ben altro che purezza ed eleganza sola mente; qui è ricchezza smisurata , nobiltà e vera eloquenza , tanto che si potrebbe citar de' passi da valer come modello da imitare . Conservando il tipo originale e l'antica grandez za della nostra lingua , e’la tratta pur tultavia come la lingua d'un popolo che è ancor vivo , che ancora ha uno splendido posto nel mondo, e che forse a nuove e più luminose sorti è destinato da Dio . Chè nella nostra penisola accanto a quelli che nel fatto della lingua si lasciano andare ad ogni maniera di novità, ci ha degli altri che per paura di corromperne la natia purezza , non si vorrebbero allontanare da' limiti del tre cento , e si spaventano d'ogni innovazione , come se fosse morta la lingua parlata da ventiquattro milioni d'uomini . Niuno di questi rimproveri non può farsi al Gioberti, a cui niente manca per esser giustamente allogato tra gli scrittori di prim'ordine . Pure non saprei negare che, sia effetto del l'ardente immaginativa, sia naturale impazienza e difficoltà di contenersi , si abbandona talora un po ' troppo alla sua ine sauribile abbondanza, sì che si sarebbe inclinati a trovare il suo stile in certi luoghi aleun poeo declamatorio . Non su che spirito di sofisma viene talora segretamente a turbarne l' ordinaria chiaroveggenza , per modo che per volere aver troppo compiuta vittoria de' suoi avversarii e spingerne le opinioni alle più lontane e assurde conseguenze, scaglia con tro di essi ogni maniera di opposizioni e di ragioni e di ar gomenti , della cui perfetta convenienza si potrebbe talora dubitare. Ma questo non giunge ad oscurare per niente gli altri pregi grandissimi che sono in lui . Dalle cose che abbiamo così brevemente discorse intorno alla presenle filosofia italiana, si può vedere come i nostri filosofi, attenendosi strettamente solo alle questioni psicologi che , ovvero non osando che modestamente occuparsi di quelle di altra natura , si son tenuti lungi da' più alti pro 225 - 1 blemi ontologici sull'origine , l' essenza e le leggi della realtà , quistioni in cui risiede tutta la grandezza e l'importanza della filosofia e che l'hanno sollevata a un sì alto posto nel l'antichità e nel medio evo. In questi ultimi tempi i Tede schi sono stati i primi ad avvedersi che la scienza si era messa per vie troppo ristrette , e che per renderle il suo antico valore bisognava senza più ricondurla sul terreno che altra volta avea occupato , da cui le modeste pre tensioni della psicologia l'aveano scacciata , e in cui solo potea incontrarsi con quelle quistioni che più potentemente importano al genere umano, e riacquistar così la vita e l'im portanza primiera. Quest' obbligo la scienza deve indubitata mente a ' moderni Tedeschi, quali che siano state le conse guenze a cui sono giunti . Il Gioberti ha tenuto il medesimo cammino , ma con mezzi alquanto diversi , ed è venuto a conchiusioni di ben altra natura . Anch'egli vuol giungere ad una scienza più compiuta che esca dalle aridità psicolo giche, e che, piena del senso della realtà e della vita, cerchi di pervenire alla causa prima e reale d'ogni causa e d'ogni fenomeno , riproducendo nell' ordine ideale della scienza l'ordine reale della generazione. Movendo dalla teologia cri stiana, egli si è sforzato di ricondurre la scienza all' ontolo gia , in modo da conservarla d'accordo con la religione, e in vece di adoperar come i Tedeschi che fanno entrar la reli gione nella filosofia e vogliono col mezzo di questa spiegar la , egli , per opposto cammino, seguendo i più antichisistemi ortodossi, ha voluto sottomettere la filosofia alla religione , in guisa che fosse questa obbligata a riconoscer da quella ogni suo valore . Il suo punto di partenza è una formola sin letica , la quale , benchè d'accordo col Cristianesimo , anzi, appunto perchè è di accordo con esso , spiega l'uomo e l'u niverso e le loro relazioni con Dio , onde poi discendę ogni ordine d'idee e di fatti, il pensiero e la natura , le società e le civili istituzioni , la scienza a l'arte . Io non mi fermerò su ' varii punti del sistema , nè sulle varic applicazioni che egli va facendo del suo principio , nelle quali dimostra una po 15 226 tenza di mente mirabile e delle conoscenze non punto ordi narie , ma non posso tacere che soventi volte, siccome è moda oggidì, si lascia strascinar troppo all'amore del sistema, e a certa smania di costruzioni a priori , le quali son certamente del dominio della scienza , ma che oggi si sogliono condurre fino all'esagerazione. Per questo rispello gli antichi mi pa iono ben superiori a 'moderni, perchè Platone ed Aristotile si occupano anch'essi di costruire l'universo a priori e per mezzo delle idee , ma sanno bene fermarsi alle generalità senza discendere a taluni troppo minuti particolari , i quali sfuggono alla scienza e non si possono senza esagerazioni far discendere comodamente da' principii generali. E chi sa se nell'universo , come nell'uomo, non ci ha un punto in cui l'impero assoluto della legge ha termine , e quello dell' arbitrio , del capriccio e dell'accidente incomincia ? Certo è giusto di volere co' principii razionali spiegar le leggi e le . generalità delle cose, ma è strano il pretendere di spiegare ugualmente i più piccioli fatti, la cagione necessaria e razio nale d'ogni avvenimento , d'ogni legge, d'ogni fenomeno, d'ogni istituzione, d'ogni onda che la forza de'venti scaglia contro le rive , d'ogni foglia che la brezza dell'autunno fa . cadere dal ramo ; allora si potrebbe ripetere il detto di Na poleone, che un brieve limite separa dal sublime il ridicolo . Vediamo ora qual sia la formola suprema e creatrice del sistema del Gioberti. Ogni filosofia , egli dice, la quale muova dalla nozione semplice e astratta dell'essere, dee necessaria mente smarrire la diritta via . Siffatla nozione , come quella che si può applicare al Creatore e alle creature, senza alcuna diversità, e che però nulla può produrre, conduce all'ipotesi d'una sostanza unica , cioè al panteismo. Ora la teorica del panteismo è falsa perchè non risponde a tutte le esigenze della scienza , nelle applicazioni non trovasi d'accordo con la vera natura delle cose, distrugge la morale, ed è contraria al cristianesimo che è la veritàperfetta ela parola stessa di Dio. Però è mestieri trovar modo di escire di questa peri colosa ipotesi, la quale ha potuto soventi volte sedurre le più 227 belle intelligenze e i più profondi spiriti. Ove la causa che conduce al panteismo eziandio quelli che meno vi vorrebbe ro pervenire , chi ben guardi la troverà nel punto stesso onde muovono, giacchè la nozione dell'essere in astratto non può menare alla realtà. Per la qual cosa a fio di cansar l'errore , è d'uopo aggiungere all'idea dell'essere qualche altra nozione che sia nello stesso tempo primitiva e sottopo sta all'altra. Se non fosse primitiva rispetto al nostro spiri to , non potremmo acquistarla altrimenti, essendo la nozione dell' essere di sua natura improduttiva; d'altra parte se non fosse sottoposta ad essa nozione dell'essere e quasi da essa ingenerata, e' si cadrebbe io un dualismo assoluto non meno assurdo dello stesso panteismo. Ma fortunatamente è facil cosa trarre l'essere dal suo stato astratto , considerandolo siccome concreto e creatore , perchè l' essere così conside rato rinchiude in sè l'idea di un effetto, cioè di un'esistenza che non fa parte della natura di quello , ma che essendo un libero prodotto della sua volontà , è legato con esso lui mercè il vincolo della creazione . Per tal modo e ' si avrebbe un sol principio da cui partirebbe lo spirito , cioè l'idea dell' essere puro e necessario che crea l'esistenza contingente, e questa verità -principioprodurrebbe un principio-fatto, cioè la realtà dell'esistenza. Così l'autore invece di partire dalla nozione astratta dell'essere , è partito da quella dell'essere che per mezzo della creazione produce altre esistenze a lui sottopo ste, ed ha espresso il suo principio supremo con la formola: l'essere crea l'esistenza; e con questo mezzo ha evitato ilpan teismo , ponendo il concetto della creazione come il lega me fra l'essere assoluto e l'esistenze contingenti. Pur tutta via questo mezzo non è paruto a tutti soddisfacente; già non è mancato chi ha detto che il suo sistema era la teorica dello Schelling battezzata e fatta cristiana , ed altri altre difficoltà hanno arrecato in mezzo. Cone è egli possibile di costruire a priori una filosofia mercè diun principio il quale contie ne in sè un dato essenzialmente contingente e di fatto, quale è quello della creazione ? 228 Se si considera l'idea della creazione legata di necessità con quella dell'essere, e allora si cade senza più nel pantei smo, o almeno nella sentenza assai vicina a quello della ne cessità della creazione ; se poi si considera essa creazione come un fatto empirico e contingente, è impossibile allora di farla discendere dal concetto dell'essere , e dedurla da esso ; anzi , essendo essa libera e volontaria , il principio si dovrebbe esprimere altrimenti, dicendosi piuttosto: l'essere vuol creare l'esistenza ; nel qual caso potrebbe domandarsi : chi v'insegna questa volontà dell'essere ? domanda a cui è difficile di soddisfare senza cadere in Cariddi per evitare Scilla . Conciossiacchè se si risponde che l'insegna il fatto , la formola a priori è distrutta, e si cade in uo circolo vizio so , col quale si verrebbe a dire che l' essere ha voluto crear l'esistenza , perchè esiste , e che l'esistenza esiste , perchè l'essere ha voluto crearla . Se poi, mutando strada, si rispon de che non già il fatto ma la nozione stessa dell' essere rin chiude il concetto della creazione, e allora si giunge diritto , come inpanzi dicevamo, alla necessità di essa creazione. Non insisterò più a lungo su questa discussione, che, come tutte le altre , ho voluto toccar solo di passaggio, ma osser verò invece alcuna cosa sull'indole generale della dottrina del Gioberti. Nati in un tempo che è succeduto ad un altro di strani rivolgimenti ed inuditi rumori, e che ancora è in certo di sè medesimo e più incerto del suo avvenire , noi possiam dire di assistere al contrasto di due opinioni , le quali si disputano ostinatamente l'impero dell'intelligenza . L'una, che è la meno seguitata, è essenzialmente conserva trice, e non crede nè al presente nè all'avvenire, ma sogna caldamente il passato , i secoli scorsi e quasi il secol d'oro della favola. L'altra, che domina appresso l'universale, non ha fede che nel presente e nell' avvenire, dispregia e deride tullo quello che non è nato pur ieri, e ciecamente crede al progresso infinito delle umane generazioni , al cammino dello spirito sempre trionfanle e vittorioso. Il Gioberti non può essere accusalo nè dell'una nè dell'altra estrema opinione, e 229 il suo modo di vedere e giudicar le cose può dirsi essenzial mente conciliatore dell'antico e del moderno. Non egli du bita che lo spirito umano cammini , ma non crede che lutto quello ci ha di bene sulla terra sia nato ieri ; nè dubita che lo spirito progredisca, ma non crede che ogni suo mo vimento sia un progresso; in somma il passatonon è per lui unicamente l'antecedente cronologico del presente, o un ca davere senza vita e senza importanza, anzi egli vuole che se ne faccia altamente conto come di cosa che contiene in sè i germi del nostro essere presente, e che non venga punto messo in dimenticanza nelle nuove combinazioni si della scienza e sì della vita pratica. Nè punto diverso da questo è il principio delle sue opinioni politiche, nelle quali ammira il passato ma non lo crede bastevole a corrispondere a tutte le esigenze del presente , ammira il medio evo in tutto quello che ha di grande, di nobile e digeneroso ma pon vuole per questo la ricostruzione del castello feudale; vuol bene che la politica italiana sia degna del nostro secolo ma non chiama ugualmente degne del secolo tutte le utopie . VIII. Questi sono i filosofi italiani degni di essere ricordati da chi voglia tessere un quadro dello stato in che trovasi oggi la scienza fra noi . Il quale , come si può vedere, se non è da esserne troppo superbi, non è neppur tale da doyercene ver gognare, perchè accanto a nomi mediocri o poco maggiori della mediocrità, se ne trova pure altri , come quello del Ro smini e del Gioberti, degni di fare onore a qualunque tempo e a qualunque paese. Un'osservazione però sorge natural mente da tutto quello che finora abbiamo discorso, cioè che se ci ha de sistemi e de'filosofi italiani, non ci ha però una filosofia o una scuola italiana da mostrar le dottrine domi nanti universalmente, poichè dottrine comuni veramente non ce ne ha, ma ciascuno ha le sue proprie , e nessuno giunge a diffonderle in modo da formare una scuola forte ed upita da contrapporre ad un'altra . 230 La medesima cosa mi ricorda d'aver fatto osservare a pro posito del teatro , ove dicevo che ci ha bene de' drammi e dei drammaturgi in Italia , ma non un dramma italiano , da po terne indicare l'indole generale. Sarebbe lungo cercar le ra gioni di questo fatto , ma quanto a' sistemi filosofici, non può nascondersi che ciha un punto essenzialissimo in cui tutti o almeno i più importanti si accordano , e questo è l' essere ugualmente ortodossi e cattolici. I nostri antichi non erano generalmente così solleciti di trovarsi d'accordo con la reli gione , e spesso con le prigioni, con l'esilio e co' roghipa garono la pena del loro ardimento . Oggi in mezzo alla co mune eterodossia delle scuole moderne, e soprattutto delle tedesche , i filosofi italiani si studiano di mantener collegate amorevolmente la fede e il pensiero, la religione e la scien za , e compensano con la propria ortodossia gli errori de'loro predecessori , i quali signoreggiano oltremonti e trovano nuovi seguaci e arditi rinnovellatori massimamente nelle scuole di Germania . Certamente sarebbe cosa assurda il negare che la filosofia tedesca in questi ultimi anni abbia renduti straordinarii ser vigi alla scienza, e fattole fare de'passi che mai non saranno perduti per il pensiero umano. Certamente in que' sistemi sono altissime verità, profonde escogitazioni, fortunate e fe conde applicazioni a tutti i diversi ramidel sapere e della vita , ma accettarli interamente come veri è cosa enorme ed insoffribile. Insoffribile soprattulto per poi Italiani la cui mente è dotata da natura di forme troppo originali per sofferire qualunque maniera d'imitazione , senza che tosto ritorni in caricatura, ed al cui pensiero, naturalmente chia rissimo e bisognoso di realtà e di vita , mal si convengono le astrazioni soventi volte troppo vôte de' Tedeschi, e la col trice di tenebre onde al concello alemanno piace spesso di avvilupparsi. Oltre a ciò si potrebbe dire che assai male prova ha fatto la filosofia tedesca , quando dopo tante pro messe e sì grandi rumori , si è mostrata inetta a fermar niente d'intero e di durabile, e ora quasi venuta meno , tace pro - 231 fondamente , e quasi non ha un'idea o una parola comuni per farsi intendere, e le scuole deboli e divise internamente o più non vivono o vivono di una vita che molto si rasso miglia alla morte. Forse che il dottor Fausto ha ragione tut tavia di lagnarsi della loro impotenza e della vanità degli sforzi per esse fatti. Prima di conchiudere sentomi spinto come di viva forza a ricordare un nome, che pochi forse sanno e che niuno ha obbligo di conoscere ma che io non voglio tacere , solamen te perchè colui che il portava ora più non vive , e perchè al tra meno sterile testimonianza di amicizia non gli posso ren dere. Io non so se le poche pagine scritte da Stefano Cusani giungeranno a'posteri, e molto più dubito delle mie , ma de sidero che i contemporanei sotto i cui occhi potrà cadere questo scritto , sappiapo che fra’giovani che ora fra noi si oc cupano di filosofia nessuno forse fu fornito più di lui di mente veramente filosofica, la quale con più sodi studii e con la malurità degli anni avrebbe forse , anzi senza forse , dato frutti degni di vera gloria . Nè vorrei che di lui si giudicasse da quello che finora avea stampalo , perchè chi il conobbe può far giudizio sicuro di quello che un giorno avrebbe potuto fare se gli fosse bastata la vita. Non so altri che faccia bene e splendidamente sperare di sè , ma non dubito che fra tanti dovrà sorgere alcuno degno degli antichi e de' nuovi nomi , perchè giovami di credere, e i fatti mi confermano nella mia opinione, che la sacra fiaccola della scienza non sia , non che spenta, affievolita nella patria del Vico , del Campanella e di Giordano Bruno. Grice: “Gatti is a difficult one to catalogue – not at Oxford! He is a man of letters and action, by man of letters we mean Lit. Hum. And Gatti, being the snob he was, would rather be seen dead than referred to as merely a ‘philosoopher’ – He edited the Museo di FILOSOFIA e letterature – and his passion (if he had one) was Vico – and more, to criticse oters. He would not speak of ‘italian philosophy,’ but of ‘philosophy in Italia’! – He wrote on Rovere, and other philosophers – but he was always ready to grade them: “Genovesi, infinitely inferior to Vico” – Incredibly that this philosopher is talking the same lingo as Machiavelli or Dante!” – His exegesis of Vico is good – he refers to the Bruno, Campanella and Telesio as the celebrated triunvirato, and there are references to some obscure philosophers in his prose – about which he writes little to enthusiase his reader!” -- Stanislao Gatti. Gatti. Keywords: poetica, Vico, Filosofia Italiana, Scritti filosofici – implicature italiane – il vico di Gatti -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gatti” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51689398126/in/photolist-2mRyRFD-2mLN3xV-2mLJBAD-2mLEwLN-2mLEvWg-2mLJzAr-2mLN4xk-2mKBFeq-2mKBG8V-2mFYSKW-2mFTkXC-CnaT3p-BK5eka-iKAuj9

 

Grice e Gelli – sulla difficultà di mettere in regole la nostra lingua – filosofia italiana – Luigi Speranza (Firenze). Filosofo. Grice: “I like Gelli; he is a difficult philosopher, in a typical Italian fashion, mixing semiotics, philosophy, philology, and literature! His reflections on Adam’s tongue (lingua adamitica) is genial – and he proposes a distinction, which I often ignored, as Austin did, between ‘sweet language’ (lingua dolce, qua expression, or materia) and ‘content’ (forma) – The issue was central for Italians: Tuscan Italian was THE lingua because it was the sweetest – at least to Florence-born Gelli’s ears!” “Ricordati un poco di Matteo Palmieri, che era tuo vicino, che fece sempre lo speziale, e non di manco s'acquistò tante lettere ch'e' fu mandato da' Fiorentini per imbasciadore al Re di Napoli; la quale degnità gli fu data solamente per vedere una cosa sì rara, che in un uomo di sì bassa condizione, cadessono così nobili concetti di dare opera agli studi, senza lasciare il suo esercizio; e mi ricorda avere inteso che quel re ebbe a dire: pensa quel che sono a Firenze i medici, se gli speziali vi son così fatti.”. Figlio di Carlo, un agiato mercante di vini originario di Peretola e trasferitosi a Firenze col fratello, nacque in San Paolo.  Esercita per tutta la vita il mestiere di calzolaio e studia filosofia da amateur – cf. Grice, “Gioccatore di cricket amateur e filosofo profesionale” -- Discepolo di Francini, Verini, 3 Ficino e poeta di ispirazione savonaroliana, e vicino alla filosofia piagnona, participa, anche se in disparte, alle riunioni dell'Accademia, agli Orti Oricellari. Fedele a Cosimo I, ricopre cariche pubbliche di scarso rilievo, dapprima in qualità di magistrato delle arti, poi come membro del collegio dei dodici Buonomini, organo consuntivo del governo mediceo. Membro degli Umidi. Ne approva la trasformazione in Accademia Fiorentina l'anno successivo e ne fu console. Ivi tenne la sua prima lezione, commentando un passo sulla lingua di Adamo, tratto dal canto XXVI del Paradiso di Dante. Tenne saltuariamente lezioni su Dante e Petrarca. Le sue opere più famose sono I capricci del bottaio, ragionamenti fra un bottaio e la propria anima (inserito nel primo indice dei libri proibiti) e La Circe, un dialogo fra Ulisse e i propri compagni trasformati in animali. Tra le tesi sostenute nelle sue opere vi sono quelle della discendenza diretta da Noè dei fondatori di Firenze, dovuta probabilmente all'influenza sul Gelli degli “Antiquitatum variarum volumina XVII”; un falso confezionato da Annio da Viterbo, e quella della superiorità della lingua fiorentina sulle altre.  --- nominato da Cosimo I lettore ordinario della Commedia presso l'Accademia e recita nove letture dantesche, pubblicate con cadenza annuale, che ebbero grande influenza sugli interpreti di Dante durante tutto il Cinquecento fiorentino. Altre opere: “L'apparato et feste nelle nozze dello Illustrissimo Signor Duca di Firenze et della Duchessa sua Consorte”; “Egloga per il felicissimo giorno 9 di gennaio nel quale lo Eccellentissimo Signor Cosimo fu fatto Duca di Firenze”; “La sporta” “Dell'origine di Firenze”; “I capricci del bottaio”; “La Circe”; “Ragionamento sopra la difficultà di mettere in regole la nostra lingua”; “Lo errore”; “Polifila”; “Lezioni pubblicate”; “Il Gello sopra un luogo di Dante, nel XVI canto del Purgatorio della creazione dell'anima rationale”; “La prima lettione di Gelli fatta da lui l'anno, sopra un luogo di Dante nel XXVI capitol del Paradiso”; “Il Gello sopra un sonetto di M. Franc. Petrarca”; “Il Gello sopra que'due Sonetti del Petrarcha che Lodano il ritratto Della Sua M. Laura” “Il Gello sopra ‘Donna mi viene spesso nella mente’ di M. F. Petrarca, Tutte le lettioni di Gelli, fatte da lui nell'Accademia Fiorentina, Letture sopra la Commedia di Dante, Delmo Maestri, Opere di Giovan Battista Gelli, POMBA, Claudio Mutini, I dialoghi morali di Giambattista Gelli in "Storia generale della letteratura italiana V", Federico Motta Editore, Delmo Maestri, op. cit.  Claudio Mutini, op. cit.  Giovan Battista Gelli, Dialoghi, Scrittori d'Italia 240, Bari, Laterza, F. Reina, Delle opere di G. B. Gelli, Società tipografica de' classici italiani, B. Gamba,, G. B. Gelli, La Circe, Venezia, Tip. d'Alvisopoli, G. B. Gelli, La Circe e i Capricci del Bottaio (Milano, Silvestri); A. Gelli, Opere di G. B. Gelli, Firenze, Le Monnier, C. Negroni, “Lezioni petrarchesche” (Bologna, Romagnoli); C. Negroni, Letture edite e inedite di sopra la Commedia di Dante, Firenze, Bocca, A. Fabre, La Circe di G. B. Gelli, Torino, Tip. Salesiana, M. Barbi, “Trattatello dell'origine di Firenze” di Giambattista Gelli (nozze Gigliotti-Michelagnoli), Firenze, Tip. Carnesecchi, A. Ugolini, Le opere di Giambattista Gelli, Pisa, Tip. Mariotti, C. Bonardi, Giovan Battista Gelli e le sue opere, Città di Castello, Tip. Lapi, A. Ugolini, G. B. Gelli, Scritti scelti, Milano, Vallardi, U. Fresco, G. Battista Gelli. I Capricci del Bottaio, Udine, Tip. Del Bianco. M. Bontempelli, G. B. Gelli. La Circe e i Capricci del Bottaio, Istituto editoriale italiano, I. Sanesi,Opere di G. B. Gelli (Torino, POMBA, R. Tissoni, G. B. Gelli, Dialoghi, Bari, Laterza,  A. Corona Alesina, G. B. Gelli, Opere, Napoli, Fulvio Rossi, Bonora, “Retorica e invenzione” (Milano, Rizzoli); A. Montù, “Gelliana”. Dizionario biografico degli italiani.  cheesserescaciato,& fuggitodaogni Àno,comesifarebbe una fiera.A. tuparli come unfilosofoGiusto;chel'inuidiaèquela,laqualepiu chealtracosaguastailconfortiohumano;& tanto peggioriefetiproducequantoelaèinhuomini p i u ingeniosi p i u ualenti, m a eglie di giaaltoilsole,ionochetutilieui, pieno.  . > 0 wadi à letue faccende , con un'altrauoltara gioneremodi questopius   ellamipare?sie.Orgliètroppoinnanzi giornoà leuarsi,questifratiminorihannoquesto costume,disonarsempreilmattutinoinsulamez sarameglioleuarji,machefaroiopoi,egli ètantodiquiàleuatadisole,chemirincrefcera, ma iopotreiuedere,fel'animamiauolesseparlar meco.Anchoracheiocomincioadubitare,chefe joseguito,elanonmifacciimpazzare,& non èdafarsebeffe,perchesecondome,tutiqueiche impazzano,impazzan'nel'anima, nelcorpo, etcosifaràforsequestamiaàmeseiolecredocosi ognicosa.Eccoelam'hacominciatoàdire,chesi puoesseresauioe dottosenzasaperelinguagrea carolarinascheènnacosaches'ioladiceßifraque stidotimoderni,iosareiucelatopropriocomeun. gufo, iopermenonhomaisentitodire,cheesipos faeferefanioinwolgare,mapazzofibenesetnon   75 Y. > 4 1 OVELLA lasquiladisantaCroceco E una dimostrationegrandißimad'undisagio nonpicolo,esaràdunquebeneraddormentarsi unpocobenecheiltempochesidorme,ècomeper duto,anzièpocomeno,chesel'huomofufemorto, Operò S 0 an zanottechel'hucmoéapuntoinJulbuondeldors mire;bencheàlorocheneuannoàletocomeipol tidae'pocanoia, nientedimanconell'uniuersa lefar . i fi   n'homainedutohuomoalcunochenefiaftatofat tostimagrande,senonsaqualcosaingrammatica; ficheiononleuòcosicredere,maiopotreiforseno l'hauereintesabene,e'faradunquemegliouedere seelauoleseragionarealquantomeco,& potrò dimandarnela,Animamia,òanimamiacara,uo gliãnoifauelar'ancshotamaneunpocoinsieme A. DigratiaGiusto,cheiononhopiacerealcuno maggiordiquestoperchementrecheiomiftòraç coltainmemedesimaàparlareteco,ionounengo astareoccupatainqueiconcettinili,& bası,che tuhailamaggiorpartedel tempo;nemancot’hoa ministrarespiritietforze,finarequeituoizoccoli, etqueituoibariglioncin.iG.Iononmimarauiglio puntodicotesto,cheiolauoroanchoraiomalsolen tieri;anzinonfocosachemisiapiugraue,ale i nonchemelofafarelamaledettfaorzy,iononda reimaicolpo.A. Erchevoreftitu?startisempre, Guruerotiosamente?G. No, maioconsumereial tempoinqualcosa, chemidiletafsejdoueilavorare mied'affannoetdifatica. A. Opensaqueloche eglièàmè,essendomoltopiucontroalanatura mia,chealatua.G.Iononsòcotefto,coueggoche Idiodapocihel'huomohebbepecato,uoledodar glipartedelapenitentia,cosi   > comeeglihaueuada. toaladonnailpartorircondolore;glidiffestuman geraiilpanedelsudoredelupleotuojdandogliilla   let pocoapoconelopinionemia.Otutimarauigliaui, quandoiotidicenaľaltrogiorno,cheeglieraprufa tica,àunhuomfoareunpaiodizoccoli,che AiAhahuediuedi,chetuuienià vorareperlapiugraue,& piufaticosacosachpeo To tessedargli studia * remezoAristotile,eccolaragione;tul'hardetta da uuere. A.Eglièiluero,mailfato la stacontentarsidiquelocheènecessariosolamente n o n cercareilsuperfluo,cheèquello,chereca cada millepensieridifutiliàl'huomo,& lotienesempre occupatointerra,neglilasciamaialzarelafacia ra,acontentarsidelpoco;perchechifacosiguruecon * pochipensieri,etèlietoilpiudeltempo uatoinme,quãtomisiastatoutileilcontentarmidi o quelocheioho,accomodădolauogliaalafortuna, be etseiohauesiuolutouiuer,òueftirmeglio,e'miera a forza,òfarqualcosadishonesta,òandarastarecon me altri.A. Malperigranmaestri,Giufto,feglihuo 2.1 il gode al  1 da teàtesperchelostudiareenaturale,Qvé pro Pas priodel'huomo,gloinuiaalaperfetionesua,& bra 'illauoraregliè'unapenitentia.G. E bisognapur ancohauer alcielo;dondeusciprimieramentel'animasua,eo - doueeladesideradiritornar';&fappiGiustoche ilmaggiorbene,& lapiuutilcosachesipossafaro * agl'huominiinquestauita,è'auezargliabuon'ho pernondir o sempre, G. Iolocredocertamentepercheiohopro minifußindicotestauogliatuti,chebisognarebbe >   pochicheglirestano,ul mendoinferuitisperognipicoloprezzo,laqualeco Sanonsolsegiafarequelsapientißimofilosofodi Diogene,che   cheesiseruissindaloro,perchee'nonsonosenonle moglieimmoderate,òdelladegnità,òdelpoterben mangiare,& beresuntuosamenteuestire;che fanno,cheunbuomo,cheragionevolmentepuoui uereunsessantianni(dequalinedieci,òdodecipri mi,nonconoscequelcheèfifacia;& delrestone dormelametà)uendeque essendoglidettoda AlessandroM 5 gno,cheeichiedesequellocheuolena,Orchetue toglisarebbedatorisposecheancorchefußicosi ponero e'nonglimincauacosaalcuna,machesegle leuaffed'innanzi,percheglitoleusilsole,laqual cosanonerainpotest:suadidargli. G. Certa mentecheildependeredasestessoe'unacosabellis fima,etuorrebbesieseramicodesignori,minor giaseruo,honorandoglioubbidendogliperòfem pre,comequeglicherēgonointerrailuogodiDio, etquandounpuruuoleinnalzarsi,debbecercardi farloconlevirtù,& nonconferuire,pensandonon dimcno,chien ognistato,glihabbiaàmancarjem prequalcosa.A. Nontidoleradunquedeltuo; & sappicertamentechenonèstatoalcunoinque stomondo,douenonsiaqualcheincômodo,&aqual checosachedispiacciaaltrui.nesipuoritrouareal cuno,checometuhaidetto,nonglimanchiqual ,  ز 210 ,chetutiglistatidaglıhuominiera noàunmodo;Etdiceuaàciaschedunomancaso lamenteunacosa,e quelleprimieramentedeside ra.Verbigratia,unpoucrostropiatodesiderasola mentediesersano,dapotereguadagnarsilauita, pernonhauereàireaccatando;chréfano& non hanulla,hauerdichepoteruiuere;pernonhauerà lauore;chihadicheuiųerecommodamente,has uer tanto che eipossatenere una caualcatura c u unragazzo,& chihaquestohauerqualchedigni tà,àmaggioranzasopraglialtri;& dipoessere Principe,& chiePrincipefinalmente,potereper petuarsiinquelloStato,& nonhauereàmorire. A. Non'tidolereadunquetu,dihauereàlavorare un pocosedognunomancaqualcosa. G. Lha sereàlauorareunpocosarebbeunpiacere,mafem prezcomehoàfareio,chehopocoènulla;e >  cosa. G. Conquestaragioneuoleuagiaprouare unoamicomio 'undi Spetto.A. Eccochetufaipurancortu,comegli altri, m a dimmi un poco che uorrestitu ? che ti manch'egle? A. Cinquanta ducatid’ıntrata. & staremmipoiaffaiacconciamente.A. E quandotuhaueßicotestoanchorpoitimanchereb bequalchealtracosa,e desiderereftıla,cometu faihorquestaperchecometuhaidetodatsetesso, inqualsiuogliastato,sihasemprequalcosainanzi agliocchi,chseidesiderapensandocomel'huomo 79  tha, dhauersiacontentare;nientedimancopoi quandotul'haitunonticontenti,macomincia.de siderarneun'altra;ficheprudentementediseun trattounuostroCittadino,aunocheentrauainun disordinegrandißimopercomperareun podere', cheglieraaconfino.Tudonerestipensare,chetu haihauercanfini,e checomperatoquesto,tun'ha raiaconfinoun'altro,delqualetíuerralamedefi 2 ma uoglia.G.Iocredocertamente,cheinogni statosiadepensieri;mapiue maggioriinuno cheinun'altro.A.E'nonègiailtuoundiquegli chen'habbiao demaggiori fidianzifudatoal'huomoperpenitētiadesuoipeç C a t .t A . s i d i q u e g l i c h e h a n n o l e u o g l i e d i s o r d i nate,& chenon sicontentanodiquclchesiconuie nealostatoloro,comehauenaAdam ,quandogli duuennequesto,maachisiaccomodailcamminar patientementeinquellauitacheeglièstatochia mato;nonauuiengiacoli   ,G.Comenò,hauen doioaniveresolamentedellauorare,checom’iodir 2 ,qualpuoeserepuidolce cosa,cheuiueredellafaticadellesuemaniwediche DauitProfetach'erapurRe,cometusai,chiamò questifimilibeati,& fappifinalmentequesto,che quantepiucosefihajatantepiufihahauercura; Brèmoltopiugraue& faticosoilpensierodigo Hernarelecosesuperflue,cheladolcezzadelpolle derle;& quantipiuserpiòpiulaworatorisihatan tipin  ,cheognibuo mon'haunramo;benfai,cheèl'hamaggioreuno cheun'altro;Ma ecciquestadifferentiadaifaui,a imatti;cheifauiloportancoperto,& ipazziin manodifortechelouedeogn’uno. G.Ehtuuuoi tábaid.A. Stafermo,iotelouoprouareinte stesso,quanteuoltefetuandatoaspasopercasa,po nendoipiedinelmezodemattoni,& cercando, conognidiligentiadinon toccareiconuenti? G. Omilleuolte,& fommipostoàcontareicorenti delpalco,& àfareseialtrecosedabambini.A. o dimmiunpoco,setuhauesifattocotestecosefuo riifanciullinontisarebboncorsidietro,comefan noàipazzi? G. Permiafe,chetudiiluero;car non uòpiu negare dinonhauere ilmio capriccio anch'io;anzitengohoraperuerißimoquelprouen bio,cheiohopiuvoltesentitodire,che و + > tiprunimicisiha,comebendiceuaquelPhilosofo, Mi lasciamoandarequestiragionamenti,e'mipa rechenoin'habbiamoparlatoàbastanza,Tornia mounpocoàqueglidihiermattina,chenoilasciam 2 momperfetti;perälchetudubitauidianzi,chese tumicredesi,ionontifaceßitenerepazzo;come seancortunon'hanesilatuaparte,comeglialtri. G. Otoquest'altrafeelatipiace;cheuorraitu dire,cheognounosiapazzo?A. Pazzono; M a che ogn'uno n e sentasi. G . O questo è quafi quelmedesimo. A. SappiGiusto .0 selapazzia F  A. lotiuodireancorapiula,chetutrouueraipo chihuomınıalmodochehabbinolasciatofama,che setuconsideribenelauitaloro,nonhabbinoqual cheuoltaportatoilramoloroscoperto,maperche ceglieriuscitolorobenfato,nesonostatilodat,ima iononuòchenoifauelliamopiudiquesto,torniamo alragionamentonostro,dimmiunpocodondehar tusaputo,chenonsaigrammaticaa nonhaistu; diato,cheilauorarefuffedatodaIddio .G.Siquantoàleparole;maapenetrar poibeneisensibilognaaltro.A. Eibafta,che tunonharestidificulànelintendereleparolė; masolamentenellainteligentiade'fenfi;laqual cosasel'hannoancorquegli,cheleleggonoingre cooinlatinochetunonticredesiche dereunalinguayé's’intendinoancututigliAu. tori,tuttelescientiechesonoinquela,perche àfarequesto,bisognal'aiutodepreccettori de  fuffeundoloreinognicasasisentirebbestridere.'! ,anostropri mipadriperpenitentia& paritionedeladisúbi dientialoro? G. O non losaitu,chelaitanteuol teletomcoquelitBibiacheioho.A. Ocomela intenditu?G. Perchenonuuoitucheiolainten da?non sartucheel laeinuolgare? A s i sò. G. Operchemenedomandi?A. Perfarticonfeffa requelchetuhaidetto,eccodunquecheselescien tic,& laferiturafacrafußınoinuolgare,tulein tenderesti per inten. 2   you  4  2 gliinterpreti, anchepors'intendonoconfati cagrande,simileauuerebbemedesimamente, s'elefußınoinuolgare;maamebastaperhora, chetuconosca,chenonsonolelingue,chefanno glihyominidoti,malescientie;& chelelingue s'imparano,peracquistarlesciencie,chesonoin quelle. G.Etperònonsipuoeglieseredotto senzaintenderelalingualatina,doueelefontut te,cheuuoituimpararenellanoftra A. Mera 1 cedeRomanicheneletraduffono,selalinguala tinaneèricca;& colpadeToschani,chenonhan no maifattocontodelaloro,feelaneèpouera: G. ilfatostà,felacolpaviendzlalingua,che nonsiatantocopiosadiuocaboli,ch'elenon nifi poßinoscriuere.A. Oefenefadinuouo;e mettonfiinuso,dimanoinmanosecondoibiso-. gni.G. oèeglilecitofaredeleparolenuoueina unalingua?A siinquellechenonfonomorte; G dacolorosolamentedichielefonopropri.e G. Etqualichiamitumorte?A. Quellechenon siparlanonaturalmenteinluogoalcuno;comeso-, nohoggi,lagreca,e lalatina,e inquestaàco lorocheniseriuonpoernonesereelalaloronatit àpropria,nonèlecitofareparoledinuouo. G. O perchenonèegliancorlecitoà queiforestieri,che lafanno?A. Perchenonelsendoelalornatu rale;nonlefannoinmodo chel'habingratia,   selanaturaproducessetuttelesuecoseper fette,nonbisognerebbel'arte,& fel’artepotese farle perfettedasestessa non bisognarebbe lana tura,machebisognapiu,non ,e gliHebrei dagliEgitti,nonhaitumarsentitochee'nosipuo direcosialcunachenonsiastatadettaprimamai Romani,chieranoaltrihuomini,& d'altrogiudi cio,chenonsonohoggiiToscan,amandopiuleca   Ponmente alcuneche n'hannofattecertimoderni nellanostra,comemedesimitàgioucuolezza,mar, cigione& fimili.G.Tugiudichiadunqueche nonsarebbeerrorefarnenellanostrae?A. Non dechilaparlanaturalmente,anzisarebbecosalo-, deuole.Dimmiunpoco,credituchelalinguagre ca,òlalatina,fusincosiperfete& copiosediuoce. bolidaprincipio,comeelefurnopoinelcolmoloro, & quandofiorirnoinlorotantipregiatiscrittori? G 'Noncredere.io. A. Sianecerto,perchee nonsiritrouacosaalcuna 2 fra queste chesonoeserci tatedanoi;chesiastatenelprincipio,òprodotta perfettadilanatura,òritrouatada l'arte;perche sequestosipotesefare,l'unadilorofarebbeinus no;che fecionoancordelepa rolenuoueCicerone Boetioseeuolseromettere. nellalinguaRominalecosediPhilosofia,& diLo gica?G. Chelecauoronodaaltrenationi? A. Bensaichesi. G. Etdachi?A. DaiGreci, EriGrecilhebbenodaglıHebrei   OPINTO 85 feloroproprie(comeègiustoragioneuole)che Paltrui,studiauansolamentelelingueesterne,per Canarne,seuieranulladibuono, arrichirnelai loro. G. Inueritàcheinquestomiparecheefuf finomoltodalodare. A.Ricercaunpocobene tuttelecoseanticheconuedraichesitrouapochis fimiRomaniche .G.Inquestomeritonoeglinoalquantod'ef ferescusatinonessendocome tudiquellalalingua loro.A. Anzimeritonod'essereripresidoppia mente,nontiricordaeglihaucrmaisentitodire cheM. Catoneleggendocerte cosescritedaA l binoRomanoinlinguagreca,t&rouādonelprin cipiochesiscusauadelnonhauerlescriteconquel laeleganzachedoueua,dicendocheeracittadin. RomanoOrnatoinItalia,e moltoalienodalla linguagreca;non , o lofare.G.Veramentechequestesonoragions tantouerecheiopermenonsapreicontradirti. i A. VediquantoiRomanicercauanodinobilita relalingualoro,chee'nonistımauanomancolar recareinquelaqualchebelaopera,chesotopore, scriuesjeingreco,comfeannoque fliToscaniinlatino,chenonèlalingualoro.perche faccinoquantoeifannoeinonfiuedemaineiloro scrittiquelcandore,ne quelostilechee'neilatini proprii 2 . solamentenonloscusò;masene vise,dicendoherAlbino,tuhaiuolutopiurostoha wereàchiedereperdonod'unoerrorefato,cheno > 3    coloroiqua lihaueuasottopošoconlaforzaqualcheCità,è qualcheprouinciaàl'imperioRomano.G. Oani mieapensieriueramentesanti,& paroledegne d'unCittadinRomano,perchel'ufitiouerode Cnta dinièsempreinqualunchemodosipuogiouareàla patriaalaqualenoinonsiamomancoobligati,che, apadrıQ àlemadrinostre. A. Etperquesto èhoogiinpregiotantolalingualoro,cheritrouan dosiinquellabuonapartedelescientie,chiuuole, acquistarle,bisognaprimacheimparı;quelladoue, seinostriToscanitraduceßinomedesimamětequel lenellanostra,chidesiderad'imparare,non hareb, beaconsumarequattroòseideprimisuoimigliori anniinimparareunalinguaperpoterpoicolmez: zodiquellapassarealescientie,oltradiquestolefi imparcrebbonopiufacilmente conmaggiorfis curta,perchetuhaiàsaperequestocheenons'im paramaiunalinguaesterna,inmodocheelasi  plega bene,comelasuapropria,& fimlmente  al'imperiolovoqualcheCità,òqualcheRegns, chequestosiailnero,leggafiilproemiochefaBoe tionellasuatradurrionedepredicamentideAria, Storiledouee'dicecheessendohuomoconsulare,et n o n atto à la guerra ,cercherebbe di instruire i fuor Cittadiniconladottria; chenonfperaudmeri faremanco,neejeremenoutileàquegli,insegnan dolorol'aridelagrecafapientia,che 2 e 2   non siparlamaitantosicuramente,necontantai facilità,a setunonmicredi,pontrenteaquesti. chetuconosci,chedannooperaàlalingua.latina, chequandoe’uoglionoparlareinquellaèparpro-, priocheeglihabbinoàaccattareleparole,contan-> tadificultà,etantoadagiofauel'ano.G. Tudi; ilnero,maquestodeRomanifucertamenteunmo) dobelissimo,àtradurenellalingualoro,dimolte cosebele;acciochechedesiderauaintenderlefuf seforzatoàimpararla, cosielaueniseàfpar-, gersipertutoilmondo.A. Enonfecionsola mentequesto;mainmentrecheétennonol'impe riodelmondo,eilafaceuanoancoraimparareàla maggiorpartedelorosudditiquasiperforza. G. Et comefaceuano? A.Haueuanofattoperlegge, chequalseuolesseimbasciaderenonpotesseellere uditoinRomaseeinonparlauaRomano, oltre àquestochetutelecauseche > perlaqualcosatutiNobilidiqualsiuogliare grone,& tuttigliAuuocati,& tuttiiProcura forieranoforzatiadimpararla.G. Oiononmi marauigliopiucheRomadiuentassesigrande,fe. teneuandiquestimodinel'altrecose. A.Diquelo nonuoloragionarti,perchelecosebellechecausa noditutoilmondo,nefannochiaratestimoniázs:  11 EMA 3 siagitauanoinqual a fiuogliapaese,sotoiloroGouernatori,& turtii i procesisidouessinoscriuereinlinguaRomana; F irü   .nessunochescrineseinEgittio,ne. GrecochescriuefleinHebreo,neLatino(comeio t'hodeto)chsecriueffeingreco,f& e purecen’e's nostatisonopochissimi,G.Odondehannocauato aduncheiToscaniquestausanzadiscriuereingră matica,perdireamodotun A. Daloinordi natoamorproprio,n o n delapatria,òdellalin gualoro,imperòchecofifacendo,fisonocredutief Jerestatitenutipiuualenti   àchiunqueleconfidera.G. Ocostume'uerämen telodeuole,òCittadiniueramenteamatoridellapa trialoro.A. OquestocostumeGiustononfuso lamentedeRomani;madituttelealtregenti:cer capurequantotuuoi,chetunontroueraiquasi maiHebreo mequelMedico cheiobaueuagia?ilqualeperpa rore dotto,mi ordinaua certe ricctte con certinomi tantodifusati,chemifaceuonmarauigliare,infra lealtreiomi ricordounamattina chemiordinòno sochericetaperquelapostemationfeaicheroheb bi,doue infral'altrecosene n’entrauauna,chee' chiamauaRob,un'altraTartaro,e un'altraAl tea,perlequalimicredettiiochebisognasseman darepereseinquesteIsolenuouega porlunaera. Sapa; l'altraGrommadebotte,conl'altraMal ud.A. OtulhaipropriodettoGiusto,concofil mondo,fetuconsideribene,nonèaltro,tutto,che unaciurma,maferToscaniattendefinoatradur. N . G. Chefannoe',co > 2 2   relefcientienellalorolingua,10nonfodubbioalcu no,cheinbreuissimotempo,elauerrebbeinmag giorreputationecheelanonè,percheefiuedeche zao bontà gliauuienesolamenteperlabellez.   2 me elapiacemolto,G ehoggimoltoatesadefide rata,& questo fuanaturale,laqualcosanonconoscen doiforestieri,bensepessocoluolerlatropporipulire laguastano,ondeauuienproprioàlei,comeà unadonnabela,checredendosifarpiubellaconil lisciarsi,piufiguasta.G. Ocomepuoauueni-. requesto? A. Dirottelo,mentrecheecerca noperfarlapiuornata difareleclausulesimilia quelladelalatinaevengonoàguastarequelasua facilità& ordinenaturale,nelqualeconsistela bellezzadiquella, oltreaquestopiglierannoal cuneparolenfatequalcheuoltadalBoccaccio,òdal Petrarca,benchedivado,lequaliquantomancole trouanousatedaeßi,tantopaionolorpiubele;co efarebbongouari,altrefi,fouente,adagiare,fouer chio,& fimili, perchee'nonhannopernatura neiluerosignificato,neiluerofuononell'orecchio, lepongonquasiinogniluogo@bene spesofuor dipropofito,& cofileuengonoàtorelasuabel lezzanaturale.G. 1odubitochefee'nonglisan noimmitareinaltro,e’nonsipossadirelorocome disePippodiferBruncllescoàFrancescodela Luna,cheuolendosiscufared'unoarchitrame,ch'e   olihaueuafattosopralaloggiadegl'innocenti, chelaruvigneinsinointerra,coldirechel'haueua CauatodeltempiodesanGrouanni,glirispose,tu, l'haiimitatoappuntonelbrutto.Maselalinguae diquellaperfettionechetudizdondeuiene,chemot tidiquestiliteratibiasimantantocoloro,chetra duconoqualcosainquela? A :Etconcheragio mi? G. Diconchelalinguanonèatta,nedegna chesitraducainleicosesimil,& chesitoglielo vodiriputatione,& auxilisconsimolto. A. Tut telelingupeerleragionicheiotidißidianzi,sa n o a t t e a d e s p r i m e r e i c o n c e t t i, G i b i s o g n i d i c o l o socheleparlano;& quandopureelefußınoal trimenti,queichel'usanolefanno,sichenonmial. legarepiuquestascusa,cheelanonuale.G. O qualcagioneadunchepuoesere,cheglimuonaa direchelecoseche   liscono, fitraduconoinuolgarefiauui & perdondiriputatione?A. Quellache iotidissil'altrogiorno,cheeracagioneditantial trimali,malainuidiamaladetta,e ildesiderio ch'eglihannodeesertenutidapiudeglialtri. : G. Certamenteiocredochetudicailnero,perche iomiricordocheritrouandomiaquestigiornidoue eranocertilitterati,& dicendounocheBernardo SegnihaueuafattouolgarelaRhetoricad Aristo tele,unodilorodise cheeglihaueuafatoungran male;& domandacodelaragionerispose,perche:   enoistabene,ch'ogniuoloarehabbiaasaperequel lo,che un'altrofiharaguadagnatoinmoltianni congranfática;supelibrigrec.latini. A.O paroledisconuenienti.Iononnodirfolamentea u n C h r i s t i a n o ,m a a c h i u n c h e é h u o m o , s a p e n d o c h e quantonoisiamoobligatiadamarciascunocagio uarcl'unàl'altro,etmoltopiual'animachealcon poalaqualenonsipuofarmaggiorbenechefaci kitargliilmododelointendere.G. Maftafalda emiricordachediconoun'altracosa.A. Etches G.Diconochelecosechesitraduconod'unalingua inun'altra,nonhannomaiquellaforzanequella bellezza,cheelehannonellaloro. A. Eleron hannoanchequellanellaloro,chel'hannonel’als tre,percheognilinguahalesueargurie,& lefue. capresterie, laToscanaforsepiuchel'altre,et chinenuolsedere,leggadoueDāte,òrlPetrarcha handettoqualcosachel'abiaanchoradetoqual che Poetagreco,òlatino,etuedràchepassaronlor dimoltevolteinnāzi,etcherarissimifonquelliche Jonrimasti.adietro.G. Si,maneletradutionifa debbeattēderepiualsensochealeparole.A.1056 chesitraducepercagionedelesciēze,etnõperue. derlaforzaèlabellezzadellelingue,etse'non  gr | fur fecofiiRomani,cheteneuonlalorlinguaperlapru belladelmodo,nöharebbonotradottolecosediMa goneCartaginese,& dimoltialtrinelaloro,nei   nonlofaperaltro,senonpen chelecosefueessendoconferuaredallelettere,che non uengonmenoleuoci,fienointesedatuttoil mondo G. Tugiudicheadunchecheilcondurre lescientienelanostralinguafiabenee?Ai An ziaffermochenonsiposafarcosapiautilenepin lodeuole,perchelamaggiorpartedeglierrorina  • sconodal'ignorantia,& douerebbonoiPrincipiat tenderci,conciòsiachesienocomepadridepopolis Etalpadrenons'appartienesolamente  Grecfimilmente chfeurontantsouperbi,& tan 92 tofiuanaglorianadellaloro,chechiamanontut tialtrebarbare,quelledegliEgittij;odeCaldei. Nientedimancoesidebbecercareneltradurre oltreal'eferfideledidirlecosepiuornatamente chesepuo,eoperòènecesarioaunochetraduce Saperbenel'unalingual'altra,G dipoipoffe derbenequelecose,òquelescientiechseitraduco 30,perpoterledirebeneGornatamentesecondo imodidiquellalingua,percheàuolerdirelecose inunalinguaconimodidel'altre,nonhagratis alcuna,da sequestofioferuaffe,iltradurenonfaa rebbeforsetantobiasimato- G. E diconooltredi questochesifacontroal'intentionedel'authore. A. O comepuoesserequestochesifacontroàl'in tentionedellauthore.A. Ocomepuoessereque Stosechiunquescriue gouernare ifigliuoli,mainsegnarloro coregerli, seno   2 STŮ VINbyCo. 93 noglionfarquestoditutelecosee'douerebbonals mancofarlodiquele chesononecessarië 2 e .G.Et qualisonqueste? A. Leleggi,cosilediuineco melehumane. G. Etcheutilitàarecherebbeque stoaglihumani?A. Comecheutilita!quantofa rebbonoeglinpiuamatori& piudefenforidele coseappartenentialaReligioneChristiana?sele cominciasinoàleggeredaputi,etdimaninma nofiesercitasinoinquele,comefannogliHebrci; laqualcosanonsipuofare,nonlehauendobentrở dotteinuolgare,& beneacconcie:G Nonma rauigliafeglihebreifannotutisiben'parlaredel lecosedelaleggeloro,òuadinsiàuergognarei Christiani,cheinsegnonleggeredilorofigliuoli òinsuleleteredimercantia,òınsucerteleggende danopoterimpararuisucosanessuna;doueedoue rebbonolaprimacosainsegnarloroquello,cheap partieneal'esereChristiano,sapendochequeleco sechesimparanoneprimianni,sonoquele,chesi ritengonosēprepiuchel'altrenellamemoria.A. Etoltreaquesto,conquantapiureuerentia, attentionesisarebbeàgliuficidiuini  see's’inten defequelchedicono.G. Certamentechequesto èuero.A. Dimmiconchediuotione,òconcheani mololodanoglihuominiIddio,nõintendendoquel chesidicono,tufaipurilfauellaredeleputte,ca depapagalinonsichiamafauellare;mammita   gratiadisam Girolamochetraduseloroognicosainquellaline gua;comeueroam.storedellapatriafunt.G. Cene tamenteAnimimia,chequestainaopinionemi piacemolto.A. Ellatipuòpiacerecheelaé'an choradiPauloApostolo, chescriveàCorintiche doueuonoancoresidirealcuniloroofitijinhes breo,com.diroloidiora Amen,sopralabenedition uostra,seeglinonintendequelchesidice che fruttonecauerae’mu? G. o dachevenne adun que,chequandoquestecosefuronocanatelaprima uoltadihebreo,elenonfuronomoffeinvolgare? A. Percheall'horaperlamescolanzadelemolte gentiBarbare,cheeranoinqueitempiperlaItas tia,noncieraaltralinguachelalatina,laqualefuf seintesa,quafipertutto,Guedichee'nonsitrous  fcrituraalcunadiqueitempifenoninquestame  tionedisuonosolamenteperchee'nonintendono quelcheesidicono(conciosiachefanelareproa priamentesiaesprimereparole,chefagnifichinoi conceti,quello,cheintendecoluichefanela) adunqueilnostroleggere,òçantaresalmi,nonin tendendoquelchenoicidiciamo,èsimileaungrac chiarediputte,ècinguettaredipapagallinesoia ritrouarealcunaaltrareligionechelanostra,che tengaquestimodi,imperòchegliHebreilaudande noiddiainhebreo,i Greci,ingreco;iLatini; inlatino,conglisciauoniinistiauone, 2 ; .   0. ' 95 . wolgare,cosilesacrecomeleciuili.A. Dala maritiadePreti, defrati,chenonbastandolos roquellaportionedelledecimechehaueuaordina, toloroIddioperlegge,àuoleruiuertantofurtuo: Jamentecomee'fanno,celetengonoafcolecce deuendonoàpoco poco,comesidiceàminuto, inquelmodo,peròchee'uogliono,spauentandogli huominiconmillefalfiminacci,iqualinonsuonan cosinelaleggecomeegliinterpretano',dimas nieracheeglihannocanatodimarioà pouerises colaripiuchelametadiquel >  desima,chseonolecosesacre,maquestobastu,circa àleleggidiuine.Veniamohoraalehumanefe ele, fonoquellechehannoàregolareglihuomini,& secondol'arbitriodellequalisidebbeuiuere,perche hannoelenoaesereinunalingua,chesiintenda perpochi?IRomanichelefeciono,& n'ebbonotā tedaGreci,nonlefecionperòinaltralinguache laloro;& cofisimilmenteLigurgo,Solone,& gli altri,chedettenoleleggiatuttala Grecia,nonle fecionperòinaltralingua,cheinquelacheusana noipopoliloro.G.O s’elefonocosinecessarie cometudi,dondeuienėcheelenonsitraduconoin che eglihaueuano. G. Eh questoèunmalechemiparechesidia nonsolamenteàisacerdoti,ma aognuno,anzi noncehnomchepensiadaltrofenoninchemodo &potefjecauareedánaridelescarfeled'altri,e    sto 96  metterglinelasua,egliebëuero,cheiPretieFra ti,egoiNotaichelofannoconleparolesonpiuuse lentideglialtri. A. Ehimeenosarebbeuenuto lorfatrocosiagevolmente,seglihuominihanesi nohauutopiucognitione delescrituresacre, chee’nonhanno.Etlacagionechenonfitraduco no l'humane,èfimilmentelampietàdimoltidotto rij@ auocati,checiuoglionuenderelecosecommu ni,& perpoterlofarmeglio ,hannotrouatoquesto belghiribizzo,cheicontrattinonsipoßinfarein uoloare,misolamenteinquelalorobelagramma tica,chelaintendonpocoeglino,comancoglialtri; somemurauigliocertamente,cheglihuominihat binmaisopportatotantouna cosasimile,sotola qualesipuofaremilleinganni. G. Etchee'non senefaforse,esarebbemoltopiuutile,cheefifaces finonellanostralingua,perchel'huomointende rebbequelchee'facese,& cosiitestimoniquello cheeglihannoàtestificare& vorrebbonouederlo fcriuereal'hora,nòchepigliaßinoinomisolamēte, etpoilodestēdesinoinsulprotocoloàloropiacimë to,mettendoàogniparolaunacetera,chesecondo me nonèaltroch'ununcino,dovenon intendendo quelchefifaccino,bastalorosolamentediresi,ego nonpensanoaleconditionichespessouisicomprë dono;dondenasconopoimillepiatt.A , Etper questomicredoiochelofacino;ondetiuodirque    ' G47 totu uuoi.M a dePreti,ede Fratinon udio gia chetudicamale;perchesecondocheiohointeso purdaloro,enons'appartieneàisecolari,ilripren dergli ftochenoinon cipoßiamomancodoleredeSacere dotic,ordegli Auuocati,chesifarebbonoisuddi tidiqueiPrincipi,cheuolesinucderelorol'acquç GilSole.G. Diquestitilasceròiodire . A. Eccounadiquelleopinionicheficre deilmondoessereuera,pernonhauerl'intendimen todelleleteresacre.Dimmiunpoco,nonsiamonoi tutifigliuolidiDio,e conseguentementefrate. glidiChristo? G. Sifiamo. A. Etifrategls nonsonoequaliinquantofrategi? G. Sisono. A AdunqueancoranoicomeChriftianifi gliuolidiDio,fiamoequali,e àl'unfratelos'ap partieneriprenderel'altro.G. Corestoèuero;ma eglihannoquelladegnitàdelsacerdoria,cheglifa piudegnidinoi.A. Oqualpuoesseremaggior dignitàchel'eserefigliuolidiDio;uuoitucheilmi norlumecuoprailmaggiore?eglièmaggiordegni tàl'efferChristiano,chel'eferSacerdote,òPrin. 2 cipe,iqualisonoofituidatidaDio,& fannogli huominiministridiDio,tusaipurecheeglièpiues ferfeigliuolod'unprincipe,cheesseresuominifiro. G. Adunque iosonodapiucheilPapa.A. Que stonò;cheeglièprimieraměteChristianocometes i n questonoisiateequali;mapoiperesesreta   toeletoparticularmětedaIddio,persuominiftróz eglivieneaesereinuncertomododapiudite,per laqualcosatudebbihonorarlo,cometuomaggiorez manonperquestoperòtièprohibitodipotereriprē dereglierrorichee'fa,c&ommettecomehuomo, e comeChristianopurch'efifacia,conquellari uerentiacheinsegnalacaritaGloamoredelprof fimo,etchequestosiailuero,tunehailoesempioin PauloApostolo,ilqualedicecheripresePietro,che erafuomaggiore,percheeglierariprensibile subitoòeglimiraculosamětecadeuamor to,òeglin'eraportatodaDrauoli farebbedafarlorocomequelsoldato,che hauendotoltoàunFratelametà dicertopanno, cheeglihaueuaaccattatoperueftirsi,etminaccian doloilFratedirichiedergliloildidelGiuditio,gli tolequelresto;dicendo;poicheiohotantotempoà pagarlo,iouoglioancorquest'altro  .G. Inueritachequestatuaopinionenonmidispiace, maiononuogiadırlazpercheoltreàl'autoritàegli hannoancoralaforza,& fannodipoiconl'arme, ueggiēdochenonuaglionpiulorolescommuniche; comenellaprimitiuachiesa;chequädoeimaledina nouno,di senonhaueßinoaltrearmi te che cheleloromala ditioni,e .G.Ehime,che nonpossonoancorfaredeglialtrimiracolich'eifa Ceuano. A. Benlodises.Thomasod'Aquino quandoessendoglidettodaPapaInnocētio,cheha .A. Certamen e '   OK gustatopartequádoe'furapito elterzeÇıelo)dicellechenodesiderauaaltro,che  2 Heuaunmontedidanariinnanzi,& contauagli; TuuediThomaso,laChiesanopuopiudirecomeel ladiceuaanticamente;Argentum& aurumnon eftmihi,Eglirispose;Ne anchefurge etambula.G . . Otufaitantecoseanimamia,chetumifaiueramë temarauigliare,& seimoltopiudotta,etpiuualen te;cheiononcredena;ma dimmiunpoco;comehai tufatoàsaperlesẽzame;chemihaipurdetto,che noisiamounacosamedesima,etchementrechetu seiunitamecononpuooperarefenoninme?A.O Giufto,quesatarebbe cosatroppolungt;10uoglio chenoiindugiamoaunaltrauolta,cheeglègiadi, tempochetunadialefacendetueG. ohime. tudiiluero,egliedichiaroaffatto,ohcomepaffa uiailtempochel'huomononseneauueddequando sefa,òsiragionadiqualcosachepiaciaaltrui.  V andoio considero taluota meco med RAGIONAMENTO   IH   FRA   cosmo  BÀRTOLI  E  GIOYAN  BATISTA  GELU   SOPRA  LE  DIFFICOLTÀ  DI  NEHERE  IN  REGOLE   UL  NOSTRA  UNCSVA.    25    J    AL  MOLTO  REVERENDO   MESSER  PIERFRANCESCO  6IAHBULLARI    amico  SUO  canssuno    GIOVAN   BATISTA    GELLI.    Da  poi  che  voi  volete  pure,  messer  Pier  Francesco  mio  onoratissimo,  che  io  vi  racconti  il  ragionamento  stato  tra  messer  Cosimo  Bartoli  ^  e  me  quello  stesso  giorno  che  voi  novamente  fusto  rieletto  nel  numero  di  quegli  uomini  che  debbono  riordinare  e  ridurre  a  regola  la  nostra  lingua  fioren-  tina; ed, a  gli  amici  non  si  può  né  debbo  negare  cosa  alcuna  che  giusta  sia,  mi  sono  risoluto  in  tutto  porlo  in  iscritto,  ma  semplice  e  puramente  come  e'  nacque  allora  in  fra  noi ,  e  a  guisa  pure  di  dialogo,  a  cagione  che  e  la  cosa  sia  meglio  intesa,  e  si  fugga  il  lungo  fastìdio  di  quella  tanto  noiosa  re-  plica: disse  egli,  e  risposi  io.  E  perchè  voi  sapete  come  noi  altri  la  occasione  in  su  che  egli  è  nato,  senza  replìcarvela  ora  altrimenti,  dico  solamente  che  usciti  de  la  Accademia  accompagnando  messer  Cosimo  a  casa  sua,  sopraggiuntovi  da  la  sera,  e  desiderando  fuggire  quella  crudezza  de  Farla  che  comunemente  apporta  la  notte,  passammo  in  casa,  e  appressò  ne  lo  scrittojo.  Dove  ragionando  di  varie  cose,  e  eadendo,  non  so  in  che  modo,  in  su  quello  che  si  erd  il  di  fatto  ne  l'Accademia,  voltatosi  messer  Cosimo  a  me,  riguarda-  tomi alquanto,  cominciò  sorridendo  a  dirmi  cosi  :   BariolL  Io  ho  bene  assai  chiaramente  conosciuto  oggi,  GeUo  mio  caro,  esser  sommamente  vero  quanto  disse  il   '  Cosimo  Bartoli,  contemporaneo  del  Gelli ,  fu  uomo  di  molta  dottrina  e  di  molta  fama  a' suoi  tempi.  Fu  ambasciatore  per  Cosimo  I  alla  Repubblica  di  Venena.  1a  c^ere  die  lasciò  son  degne  di  escer  tenute,  pia  che  non  si  fa,  in  pregio.    292  mAGIONAMBNTO  INTORNO  ALLA  UNGOA.   diyinìssimo  nostro  Dante  in  persona  di  Adamo  nel  XKYI  del  Paradiso:   Che  nullo  effetto  mai  razionabile,  Per  lo  piacere  uman ,  cbe  rinovella  Seguendo  il  cielo,  fu  sempre  durabile.   Gonciossiach'  io  ho  veduto  dispiacerti  oggi  si  fattamente  ciò  che  Fanno  passato  tanto  ti  piacque,  che  con  ogni  tao  stu-  dio e  ingegno  hai  pur  fatto  quasi  che  forza  di  non  esser  di  nuovo  eletto  in  quel  piccol  numero  e  scelto,  che  debbo  ordinare  e  formare  le  regole  di  questa  lingua  ;  non  per  vie-  tare o  tórre  ad  alcuno  la  libertà  e  la  facoltà  di  parlare  e  di  scrivere  a  senno  suo,  ma  solo  perchè,  essendoci  alcuni  Accademici  assai  differenti  ne  la  pronunzia  e  ne  la  seri  tia-  ra ,  chi  vorrà  pure  apprendere  la  vera  e  natia  lingua  fioren-  tina, abbia  almanco  dove  ricorrere  a  vedere  il  modo  e  la  forma  de  V  una  e  de  V  altra  cosa  comunemente  iisata  in  Fi-  renze. Il  che  nascendo  pur  da  sincerità  di  mente  e  da  de-  sio di  giovare  altrui,  non  può  essere  giustamente  se  non  lo-  dato. E  perchè  le  «ose  degne  di  loda  si  debbon  sempre  far  volentieri,  non  so  io  veder  la  cagione  che  ti  abbia  fatto  cosi  fuggire  una  impresa  tanto  onorata.  Ricordandomi^  averti  sentito  più  volte  dire,  che  tu  porti  si  grande  amore  a  questo  nostro  parlare,  il  quale,  quando  egli  è  favellato  puro  e  senza  mescuglio  di  forestiero  ne  la  nostra  pronunzia  propria,  ti  pare  si  bello,  che  tu  non  puoi  in  maniera  alcuna  credere  o  ima-  ginarti  che  e'  fusse  più  beilo  udire  o  Cesare  o  Cicerone  o  qoal  altro  Romano  si  sia ,  che  alcuni  di  veri  e  nobili  citta-  dini di  Firenze,  i  quali  per  la  loro  grandezza  abbino  avuto  il  più  del  tempo  a  trattare  di  cose  gravi ,  e  a  mescolarsi  poco  col  volgo,  che  ha  lingua  molto  più  bassa  e  parole  tìIì  e  plebee  :  dove,  per  V  opposi to,  costoro  hanno  parole  scelte  e  fa-  cili, che  oltre  a  la  naturale  dolcezza,  di  questa  lingua,  ap-  portano un  certo  che  di  grandezza  e  di  nobiltà  ;  e  massima-  mente quando  essi  parlatori  hanno  atteso  a  le  lettere,  eser-  citandosi ne  gli  studj,  come  ne'  tempi  de  la  tua  fanciallezza   *  Qnesto  periodo  soTercfaiamente  lungo  è  guasto  andie  per  questo  gerundio  ;  invece  del  quale  dicendosi  ricordami,  tornerebbe  meglio.    BÀ6I0NÀÌIB1IT0  INTOBNO   ALLA  UNtìUA.  293   erano  Bernardo  Bucellai,  Francesco  da  Biacceto,  Giovanni  Canacci,  Giovanni  Corsi,  Piero  Martelli,  Francesco  Vettori  e  altri  litterati  che  allora  si  raganavanoaTorto  de'Rncellai,  doye  to,  quando  ponevi  tal  volta  penetrare  io  maniera  alca-  na,  stavi  con  quella  reverenza  e  attenzione  a  udirli  parlare  tra  loro,  che  si  ricerca  proprio  a  gli  oracoli,  E  di  più  mi  ricorda  ancora  averti  sentito  dire  che  andavi  si  volentieri,  quando  ci  venivano  ambasciadori,  a  udirli  fare  V  orazioni,  essendo  in  qoe'  tempi  usanza  che  parlassino  la  prima  volta  pubblicamente.  Di  che  sopra  modo  ti  dilettavi,  si  per  la  dif-  ferenzia che  tu  senlivi  tra  le  lingue  loro  e  la  nostra,  e  si  per  udire  la  maniera  de  le  risposte  che  si  facevano  o  per  il  Gonfaloniere  che  fu  un  tempo  Piero  Sederini,  o  per  il  segre-  tario de  la  Signoria,  che  era  messer  Marcello  Virgilio,  uo-  mo non  meno  elegante  e  facondo  ne  la  nostra  lingua  che  ne  la  latina,  e  non  manco  bel  parlatore  che  si  fosse  Pier  Soderini.  Sovviemmi  oltre  a  questo,  che  vivendo  Ruberto  Ac-  cia joli  e  Luigi  Guicciardini,  andavi  spesso  a  starti  con  lo-  ro, dii;endo  che,  oltra  i  dotti  ragionamenti,  essendo  e  T  uno  e  r  altro  litteratissimi,  ti  pigliavi  si  gran  piacere  de  lo  udir-  gli favellare,  parendoti  che  e'  si  fusse  cosi  ben  conservata  in  loro  la  grandezza  e  la  bellezza  di  questa  lingua.  De  la  qual  cosa  lodi  ancor  oggi  Jacopo  Nardi  per  le  lettere  che  e'  ti  scrive  ;  e  messer  Francesco  Vinta,  agente  ora  de  lo  illustrissi-  mo ed  eccellentissimo  Duca  nostro  appresso  la  eccellenzia  del  signor  don  Ferrante  Gonzaga ,  parendoti  (  secondo  che  tu  affermi)  che  egli,  ancora  che  Volterrano,  scriva  in  quella  pura  e  sincera  lingua  fiorentina  che  tu  hai  sempre  tanto  pregiata.  Queste  cose,  Gello  mìo  caro,  per  parermi  tutte, con-  trarie a  quanto  oggi  ti  ho  visto  fare,  mi  inducono  a  maravi-  gliarmi si  grandemente  di  questa  tua  mutazione,  che,  se  non  eh'  io  considero  che  tu  sei  uomo,  cioè  variabile  e  mutabile  come  è  la  natura  di  tutti,  io  non  saprei  quello  che  avessi  a  dirmi  di  te,  se  non  (parlandoti  piacevolmente  e  liberamente,  come  noi  sogliam  fare  insieme)  che  tu  medesimo  non  sai  ancora  quello  che  tu  ti  voglia.   Gelli.  Messer  Cosimo  mio  carissimo,  voi  mi  siete  venuto  a  dosso  improvisamente  col  principio  d' una  orazione  tanto   25»    294  KAGtOHAHUITO  IMTOKIIO  ALL4  UK«UA.   consideraia  e  cosi  bene  affortificata  da  tante  praoTe,  ehe  io  non  80  qoasi  donde  avenni  a  pigliare  il  Inogo  o  la  via  da  poter  rispondere.  Tattavotta,  concedendoTÌ  quello  che  è  da  concedere,  cioè  che  io  sono  umuo,  la  natora  de'  quali  non  è  fidamente  yariabile  e  matahile,  come  yoi  diceste,  ma  e  tanto  sottoposta  e  atta  ad  errare,  come  voi  forse  voleste  dire  e  per  modestia  non  lo  diceste,  che,  si  come  canta  la  santa  Chiesa,  ogni  nomo  è  mendace  e  pieno  di  errori  ;  e  negan-  dovi, per  Topposito,  ciò  che  è  da  negare,  cioè  che  tale  mala-  mente sia  nato  in  me  dal  non  sapere  io  medesimo  quello  che  io  mi  voglio,  vi  rispondo,  per  isgannarvi,  che  se  mai  approvai  per  vero  quel  detto  che  Umvìo  dMe  mnUar  proposito^  lo  ap-  provo ora  e  tengo  verissimo;  poiché,  eletto  io  ancora  lo  anno  passato  (come  voi  dite)  a  dare  regola  a  questa  lingua,  co-  minciai a  considerare  la  cosa  miAio  più  diligentemente  che  io  non  aveva  fotte  sino  a  qnell'  era.   Bartoli.  Egli  è  il  vero  che  questo  detto  è  molto  spesso  in  bocca  a  quegli  uomini  che  pare  che  abbino  qualche  qua-  lità più  de  gli  altrL  Nientedimanco,  se  e'  si  considera  bene  il  significato  di  questo  nome  Sapiente,  non  pare  a  me  che  e'  si  debbia  cosi  approvare  questo  motte  come  tu  di'.  Perchè,  non  volendo  dire  altro  lo  esser  savio,  che  le  avere  una  vera  scienzia  e  certissima  cognizione  de  le  cose,  a  chi  è  savio,  perchè  egli  ha  di  già  conosciate  il  vero  essere  di  quelle,  non  accade  mutar  proposito.  Perchè  il  mutarsi  conviene  so-  lamente a  colui  che  senza  aver  conosciuto  0  vero,  rùsolutosi  troppo  tosto,  vede  poi  finalmente,  o  per  sé  e  per  T altrui  am-  maestramento, di  avere  errato  ;  e  non  volendo  mantenersi  nel  preso  errore,  è  costretto  a  mutar  proposito.   OeìU.  Voi  dite  il  vero.  Ma  il  conoscere  perfettamente  la  verità  de  le  cose  non  è  si  agevole,  come  voi  forse  vi  imagi-  nate  :  anzi,  per  il  contrario,  è  tanto  difficfle,  che  alcuni  filo-  sofi usaron  dire  che  di  ciò  che  dicevan  gli  uomini  non  era  vera  cosa  alcuna  ;  ma  che  quello  che  e'  chiamavano  vero,  era  quel  che  pareva  loro.  De  la  quale  opinione  non  è  però  da  curarsi  molto  ;  si  perchè  e'  si  leverebbon  via  tutte  le  scienzie  ;  e  si  ancora  per  averla  e  dottamente  e  argutamente  riprovata  e  annullata  Aristotile  col  dire  che  non  essendo  vera    BAGIONÀMBNTO  INTORNO  ALLA  LIN«OA.  295   cosa  alcuna,  veniva  ancora  similmente  a  non  esser  vero  qael  che  dicevano  eglino.  Sì  che,  se  bene  si  paò  chiamare  solamente  savio  chi  conosce  le  cose  secondo  il  vero  esser  loro,  e'  non  è  però  inconveniente  che  a  questi  tali  ancora  bisogni  a  le  volte  mutare  proposito,  se  non  per  il  non  aver  conosciuto  la  verità,  per  la  occasione  almanco  de' tempi:  i  quali  continovamente  vanno  si  variando  tutte  le  cose,  che  assai  manifestamente  si  vede  esser  tal  volta  bene  il  fare  uno  effetto  in  un  tempo,  che  in  un  altro  non  è  ben  farlo.  Benché  questa  non  è  propriamente  la  causa  per  la  quale  io  ho  mu-  tato proposito  ;  ma  solamente  lo  aver  considerata  la  cosa  molto  più  che  io  non.  ave  va  prima,  e  lo  averla  discorsa  fra  me  medesimo  molto  più  diligentemente  che  in  sino  al-  lora.   Bariolù  E  con  quali  ragioni  ?  Perché  io  so  molto  bene  che  il  discorrere  non  è  altro  che  una  esamina  che  fa  sopra  le  cose  quella  nostra  parte  superiore ,  da  ia  quale  noi  acqui-  stiamo il  nome  di  animali  ragionevoli ,  considerando  non  meno  ciò  che  fa  per  una  parte,  che  tutto  quel  eh'  appartiene  a  V  altra.   GeUù  Le  ragioni  e  le  diflicultà  che  non  solo  mi  hanno  fatto  levar  via  V  animo  da  questa  impresa ,  ma  ancora  giu-  dicarla quasi  impossìbile,  sono  e  molte  e  molto  potenti;  e  quanto  più  vi  pensava  intorno,  più  mi  se  ne  offerivano  sem-  pre a  la  mente  de  V  altre  nuove.  Di  maniera  che  io  posso  dire,  che  e' sia  avvenuto  propriamente  a  me  in  questa  cosa,  come  avviene  a  chi  vede  da  lontano  una  torre  o  altra  cosa  simile  ;  che  quanto  egli  la  riguarda  più  di  discosto,  tanto  gli  pare  minore  e  più  bassa;  e  dipoi,  appressandosele,  quanto  più  la  guarda  da  presso,  tanto  gli  apparisce  continovamente  maggiore  e  più  alta.  Cosi  ancora  io,  mentre  che  io  stava  lontano  al  mettere  in  atto  questa  formazione  de  le  regole,  me  la  imaginava  piccola  cosa  ;  ma  quando  poi  tentammo  porla  ad  effetto,  quanto  più  la  considerai,  tanto  più  mi  parve  difficile.  Imperocché,  dovendo  principalmente  esser  questa  opera  d'una  Accademia  Fiorentina,  mi  si  appresentava  subito  a  l' animo,  che  e'  bisognava  che  ella  fusse  con  tanta  arte  e  con  tal  dottrina,  che  gli  uomini  non  avessino  a  dispreizarla.    !   296  BAQIORAUSNTO  INTORNO  ALLA   LINGUA.   e  ridendosi  di  noi  e  di  quella,  dire  con  Orazio  in  nostra  ver-  gogna:   Parturient  tnontes;  nascetur  ridieuhu  mtu.   Sovveniyami  dipoi,  che  questo  nome  di  Accademia  era  per  generare  ne  gli  animi  de  le  persone  una  espettazione  tanto  grande,  che  e'  sarebbe  al  tutto  impossibile  il  corrispon-  derle:  laonde,  ove  egli  è  consueto  non  solamente  scusare  gli  errori  che  qualche  volta  si  riconoscono  ne  le  composizioni  de'  privati,  ma  difendergli  arditamente,  affermando  che  chiunque  opera  merita  di  esser  lodato,  in  questa  nostra  im-  presa comune  avverrebbe  tutto  V  opposito.  Perchè  i  fore-  stieri, che  ci  vogliono  esser  maestri,  per  far  vero  il  detto  del  vulgo  che  t  più  dotti  manco  sanno,  si  porrebbono  con  ogni  industria  a  cercar  di  attaccar  lo  uncino  ;  e  gli  errori,  ancora  che  minimi,  chiamerebbono  sempre  gravissimi.  E  il  farla  in  ogni  sua  parte  con  tanta  considerazione,  che  alcune  cose  non  potessino  esser  chiamate  da  molti  errori,  credo  che  sia  al  tutto  impossibile.   Bartoli,  O  questo  perchè?   Getti.  Per  la  diversità  de'  nomi  e  de  le  pronunzie  che  si  traevano  per  le  città  di  Toscana  ;  ciascuna  de  le  quali  pre-  giando più  le  sue  cose  che  quelle  d'altri,  stimerebbe  e  ter-  rebbe errore  quello  che  in  Firenze  sarebbe  regola.  Ma  per  meglio  esplicarvi  ancora  questo  capo,  mi  bisogna  comin-  ciarmi da  un  altro  principio.  Ditemi  chi  fa  l' una  l' altra;  o  le  regole  le  lingue ,  o  le  lingue  1q  regole?.   Bartoli.  £  chi  non  sa  che  le  lingue  fanno  le  regole,  es-  sendo quelle  innanzi  che  queste;  e  non  essendo  fondate  queste  m  altro,  né  avendo  altra  pruova  che  le  confermi,  se  non  r  autorità  di  esse  lingue?   GeUL  E  da  questo,  essendo  egli  come  egli  è  vero,  nasce  che  e'  non  si  può  far  regola  alcuna  che  sia  veramente  rego-  la non  solo  a  la  lingua  toscana,  ma  ancora  a  la  fiorentina:  e  uditene  la  ragione.  Tutte  le  lingue  del  mondo  sono,  come  voi  vi  sapete,  o  variabili  o  invariabili.  Le  invariabili  sono  quelle  che  non  si  mutarono  mai,  per  tempo  o  cagione  alcuna,  ma  da  quel  di  che  elle  ebbero  principio,  insino  a    BAGIOMÀMEMTO  INTOBMO  ALLA  LINGUA.        297   che  elle  furono  al  mondo,  sì  favellarono  sempre  in  qoel  me-  desimo modo:  come  è  quella  che  gli  Ebrei  stessi  chiamano  sacra,  cioè  quella  de  la  Bib))ia,  la  quale  dal  suo  nascimento  sino  al  di  d' oggi  si  è  conservata  sempre  la  medesima  ap-  punto. E  se  bene  Esdra,  loro  sacerdote,  dopo  la  servitù  ba-  bilonica vi  aggiunse  punti  ed  accenti  per  farla  più  agevole  a  leggere,  non  mutò  egli  per  questo  né  lo  idioma  né  la  pro-  nunzia; laonde  la  mede<iima  lingua  favellano  ogfl^i  tutti  gli  Ebrei,  in  qualunche  parte  del  mondo  e' si  truovino,  che  fa-  vellarono i  loro  scrittori,  e  particularmente  Mosè,  il  quale  è  il  più  antico  che  elli  abbino.  La  qual  cosa  è  veramente  maravigliosa  :  perché,  non  si  mutando  quasi  le  lingue  per  altro  che  per  mescolarsi  que'cbe  le  parlano  con  genti  d'al-  tro idioma,  quale  è  quella  che  dovesse  essere  più  alterata  e  più  variata  che  la  ebrea?  Gonciossiachè  i  Giudei,  dopo  la  cacciata  loro  di  Jerusalem,  sono  già  MGGGG  anni,  senza  regno,  senza  patria  e  senza  luogo  dove  fermarsi,  sieno  andati  continovamente  errando  sino  agli  estremi  fini  della  terra,  e  mescolandosi,  a  guisa  di  peregrini,  con  tutte  le  generazio-  ni che  il  sol  vede  sotto  il  suo  cielo.  E  nientedimanco  quella  lor  lingua  é  per  tutto  quella  medesima.   Bartolù  Ger lamento  che  ella  è  cosa  fuori  di  natura,  e  che  non  può  attribuirsi  se  non  a  Dio.  Il  quale,  avendo  dato  la  legge  in  quella,  e  fattovi  scrivere  tutte  le  cose  sacre  e  divine,  ha  voluto,  per  indubitata  testimonianza  de  la  santis-  sima fede  nostra,  che  ella  duri  incorrotta  sempre.   GeUi,  Di  queste  dunque  si  fatte  lingue  non  occorre  che  noi  parliamo,  essendo  manifestissimo  a  ciascheduno,  che  elle  possono  agevolmente  ridursi  a  regole,  o  pigliandole  da  gli  scrittori  o  prendendole  pure  da  V  uso,  perchè  è  tutt'  uno.  Ma  le  lingue  che  io  chiamai  variabili  non  si  favellano  sem-  pre in  un  modo  ;  anzi  vanno  variando  e  mutandosi  di  tempo  in  tempo,  quando  in  peggii^  e  quando  in  meglio,  secondo  gli  accidenti  che  accaggiono  in  quelle  provincie  a  chi  elle  sono  e  private  e  proprie,  é  secondo  che  e' vi  vengono  ad  abitare  genti  d' un'  altra  lingua  :  come  avvenne,  verbigrazia,  in  Italia,  ne  la  venuta  dei  Gotti  e  Vandali,  a  la  lingua  lati-  na. E  queste  tali,  od  elle  sono  morte,  cioè  mancate,  e  non  si    298  hagionambnto  intorno  alla  lingoa;   parlano  più  in  laogo  alcuno,  ma  si  truovono  solamente  su  pe' libri  de  gli  scrittori;  od  elle  sono  vive,  e  si  parlano  an-  cora e  usano  in  qualche  paese,  come  è,  verbigrazia,  a  Firenze  la  lingua  nostra.  Di  queste  ultime  due  maniere  tengo  io  per  cosa  certa  che  le  morte  si  possine  agevolmente  mettere  in  regola;  ma  de  le  vive,  che  e' non  sia  solamente  difiQcile  il  farvi  regola  alcuna  perfetta  e  vera ,  ma  che  e'  sia  quasi  al  tutto  impossibile.   Bartoli.  £  per  che  cagione?   Gellù  Dirowelo.  Né  voi  né  altro  mai  di  sano  intelletto  mi  negherà  che,  avendo  a  farsi  regole  d' una  lingua,  e'  non  si  deU)a  pigliarle  da  lei,  quando  ella  fu  favellata  meglio  che  in  alcuno  altro  tempo;  essendo  cosa  pur  ragionevole,  quando  si  hanno  a  pigliare  per  regola  le  operazioni  d'una  cosa,  pigliarle  quando  ella  opera  meglio;  il  che  le  avviene  quando  ella  è  nel  suo  perfetto  essere.  E  chi  sarebbe  mai  quello,  se  non  forse  qualche  stolto,  che  avendo  a  pigliare  per  esemplo  le  operazioni  d' un  uomo,  pigliasse  quelle  che  e'  fa  ne  la  puerizia,  quando  i  sensi  suoi  interiori,  per  essere  di  troppa  umidità  ripieni  quelli  organi  ne'  quali  e'  fanno  lo  ufizio  loro,  non  potendo  porgere  a  lo  intelletto  la  facultà  che  a  per-  fettamente operare  gli  è  necessaria,  non  ha  esso  uomo  libero  V  uso  de  la  ragione,  e  vive  più  tosto  secondo  la  natu-  ra, che  secondo  la  mente  sua?  o  veramente  le  azioni  che  egli  fa  in  quella  parte  de  la  vecchiezza,  ne  la  quale  i  sangui,  per  il  mancamento  del  caldo  e  de  V  umido  naturali,  raffred-  dati e  diseccati  più  del  dovere,  non  somministrano  a'  me-  desimi sensi  gli  spiriti  atti  ed  accomodati  a  le  loro  opera-  zioni? Ninno  certamente,  mi  penso  ;  ma  sì  bene  quelle  che  egli  fa  ne  la  sua  età  migliore  :  la  quale  indubitatamente  sarà  nel  mezzo  e  nel  colmo  de  la  sua  vita;  come  poeticamente  lo  mostra  il  divinissimo  nostro  Dante,  dicendo  essersi  accorto,  che  la  vita  nostra  era  una  oscurissima  selva  di  ignoranzia  :   Nel  mezzo  del  cammin  di  nostra  vita  ec.   Bartoli.  Bella  certo  e  dottissima  considerazione.  Ma  sta  saldo,  Gello;  e  prima  che  tu  proceda  più  oltre,  dimmi:  come  si  potrà  egli  trovar  già  mai,  parlando,  come  e' pare  che  la    BAGIONAMBNTO  1NT0BN0  ALLA   LINGUA.  299   faccia,  propriamente  ed  esattamente,  questo  colmo  de  la  vita  e  questo  essere  più  perfetto,  ne  le  cose  generabili  e  corruttì-  bili? Le  quali  si  come  misurate  dal  tempo,  essendo  sempre  in  moto  continolo,  non  vengono  a  stare  già  mai  in  uno  stato  medesimo,  se  non  in  uno  instante  si  indivisibile,  che  e'  non  è  possibil  segnarlo  in  maniera  alcuna  :  per  il  che  viene  a  essere-  più  che  impossibile,  che  e'  vi  si  troovi  dentro  fer-  mezza.   Gellù  Confesso  io  ancora  che  questo  è  vero ,  se  voi  in-  tendete per  la  fermezza  il  mancare^d'  ogni  moto.  Ma  questo  non  è  quello  che  io  voglio  inferire.  Anzi  dico,  che  in  tutte  le  cose  le  quali  dopo  il  principio  loro  salgono  al  sommo  e  sapremo  grado  de  la  loro  perfezione,  conviene  di  necessità  concedere,  avanti  che  elle  comincino  a  scenderne,  un  certo  spazio  di  tempo ;  nel  quale  elle  non  salghino  e  non  ìscendi-*  no,  ma  stiano,  in  quanto  ad  essa  perfezione,  quasi  che  ferme,  e  in  uno  stato  medesimo:  essendo  di  necessità  che  in  fra  due  moti  contrari  si  truovi  sempre  un  po' di  quiete;  perchè  altrimenti,  o  non  finirebbe  mai  l'uno,  o  non  comincerebbe  mai  l' altro  moto.  E  questo  lo  potete  voi  chiaramente  cono-  scere in  un  sasso  tratto  a  lo  in  su  ;  il  quale,  poi  che  con  la  sua  gravitade  ha  superato  la  forza  di  quella  aria  che,  fessa  violentemente  dal  braccio  di  chi  lo  trasse,  correndo  con  grandissima  celerità  a  richiudersi  perchè  quel  luogo  non  restì  vóto,  continovamente  lo  pigne  in  su,  se  egli  non  si  fermasse  alquanto,  non  tornerebbe  mai  a  lo  in  giù.  Goncios-  siachè,  non  si  fermando,  egli  anderebbe  sempre  a  lo  in  su;  e  andare  in  su  e  tornare  in  giù  in  un  tempo  medesimo  (rispetto  a  la  natura  de'  contrari,  che  non  patisce  che  eglino  stiano  insieme  in  un  medesimo  tempo,  in  un  subietto  medesimo)  non  è  possibile.  Adunque  egli  è  necessario  in  tutte  le  cose  che  dopo  il  principio  loro  hanno  accrescimento  e  dicresci-  mento  di  perfezione ,  che  e'  si  ritraevi  tra  V  uno  e  l' altro  nn  certo  spazio  di  tempo,  nel  quale  elle  restino  di  acqui-  starne più,  e  non  comincino  ancora  a  pèrderne:  il  qual  tempo  è  chiamato  da' filosofi  lo  stato,  ed  è  cosa  osservata  molto  da'  medici  ne  le  infermità  umane.  Ma  se  voi  volete  vedere  ancor  meglio  questo  che  io  dico,  leggete  quella  parte  del    900  BAGIONAMBNTO  INTORNO  kthk  LIN6CA.   Convivio  del  nostro  Dante,  dove  e'  tratta  de  la  etÀ  de  V  ac-  ino,  e  resteretene  capacissimo.   Bartolù  Orsù,  sta  bene:  ma  che  vnoi  ta  dire  per  questo?   GeUi,  Yo'dire,  tornando  al  nostro  proposito,  che  non  si  potendo  sapere  ne  le  lingue  vive  quando  sia  questo  loro  stato  e  questo  colmo  de  la  loro  perfezione,  egli  non  si  può  ancora  conseguentemente  farne  regole  perfette  e   intere.  Perchè,  se  bene  e'  si  può  sapere  mediante  gli  scrittori  di  quelle  quando  meglio  che  mai  elle  si  siano  favellate  per  il  passato ,  nessuno  è  però  che  si  possa  promettere  per  il  futu-  ro, che  insino  a  che  elle  non  mancano,  elle  non  si  possino  favellar  meglio,  e  cosi  che  e' non  possino  surgere'  ancora  alcuni  scrittori  che  le  scrivine  molto  meglio.  Come  potete  voi  mai  sapere  quale  sia  il  mezzo  o  lo  stato  d' una  cosa,  de  la  quale,  se  bene  voi  avete  il  principio  noto,  voi  non  potete  però  non  solamente  sapere  quando  abbia  ad  essere  il  fine  suo  determinatamente,  ma  né  anco  imaginarvelo  per  con-  ìetture  ;  come  forse  la  vita  e  de  V  uomo  e  di  molte  altre  cose,  le  quali  quando  sono  arrivate  a  la  lor  vecchiezza,  age-  volmente si  può  farne  la  coniettura  quando  abbia  a  essere  la  morte  loro  ;  non  essendo  però  di  quelle,  a  chi  è  concesso  da  la  natura  il  rinovellarsi, come, verbigrazìa,rerbe  e  le  pianle  la  primavera.  Ma  le  lingue  non  sono  di  queste.  Resta  dunque,  non  si  potendo  saper  lo  stato  de  le  lingue  che  vivono,  che  e'  non  se  ne  possa  ancora  formar  regola  alcuna  ferma  e  vera:  il  che  non  avviene  de  le  già  morte,  come  ne  avete  lo  esemplo  chiaro  ne  la  latina.  Ne  la  quale  considerando  i  gramatici  cbe  ne  hanno  scritto  quale  fusse  stato  il  processo  suo,  e  giudican-  do, come  è  il  vero,  il  colmo  di  quella  essere  stato  ne  la  età  di  Cesare,  Cicerone  e  Virgilio  ;  perchè  ne'  tempi  di  Ennio  e  di  Plauto  si  vede  che  ella  era  ne  lo  augumento,  e  in  quegli  poi  di  Svetonio  e  di  Tacito,  nel  discrescimento ,  fondarono  tutte  le  regole  loro  sopra  il  parlare  di  Cesare,  Cicerone  e  Virgi-  lio, affermando  che  ciò  che  si  dicesse  per  lo  avvenire  ne  la  maniera  de'  sopra  detti,  sempre  sarebbe  detto  bene  e  lati-  namente ,  e  massime  secondo  Cesare  e  Cicerone  ;  per  esser  lecito  e  conceduto  a'  poeti  lo  usare  spesso  molte  cose  ne' versi  loro,  che  non  si  comportano  ne  la  prosa.  Ma  questo  non  si    RAOIOIUMBNTO  INTORNO  ALLA    LINGUA.  301   può  fare  ne  la  lingua  fiorentina,  e  molto  manco  ne  la  to-  scana, che  ^  vivono  ancora,  e  non  hanno  scrittori  da  fon-  darvi lo  intento  sno,  non  si  sapendo  se  elle  sono  ancor  per-  venute al  colmo  de  V  arco.   Bartoli,  E  se  questo  non  si  può  fare  per  via  de  gli  scrit-  ti ,  chi  vieta  che  e'  non  si  faccia  almanco  per  via  de  lo  uso?   GeUi.  E  di  quale  uso?  Oh  questa  è  l' altra  difficultà,  e  non  punto  minore  de  la  precedente.   Bartoli.  E  perchè?   GeUi.  Perchè  ne'  tempi  nostri  non  avviene  di  questa  lìngua  quello  che  ne'  tempi  de'  Romani  avveniva  de  la  la-  tina; che  essendo  propria  d'una  nazione  che  dominava  allora  ad  una  grandissima  parte  di  questo  mondo,  era  tanto  stimata  e  onorata  da  ciascuno  de'  soggetti  loro,  e  in  Italia  massimamente,  che  e' non  si  trovava  nohile  alcuno  e  da  farne  stima,  per  qual  si  voglia  città,  il  quale  non  si  ingegnasse  di  parlar  la  lingua  romana.  SI  perchè  chi  non  sapeva  era  da  essi  chiamato  barbaro,  cioè  persona  inculta  e  di  rozzi  e  aspri  costumi;  e  si  ancora  per  ì  bisogni  che  occorrevano  giornal-  mente ne  le  faccende  é  private  e  publiche  ;  avendo  coman-  dato i  Romàni  in  tutte  le  loro  Provincie,  che  e'  non  si  potesse  agitare  causa  alcuna  criminale  o  civile,  né  far  procèsso  od  ìnstrumento  alcuno,  se  non  in  lingua  latina.  Ad  imitazione  de'  quali,  per  quanto  io  n'ho  inteso  dire  da  Amerigo  Benci,  che  da  venticinque  anni  in  qua  ha  usato  molto  la  Francia,  e  come  voi  vi  sapete,  oltra  le  pratiche  mercantili  ha  qualche  cognizione  ancora  de  le  speculative,  ordinò  il  padre  di  questo  re,  che  e' si  facesse  cosi  in  franzese  per  tutto  il  dominio  suo:  il  che  osservatosi  fino  ad  ora,  ha  tanto  migliorata  e  fatta  più  bella  e  ricca  quella  lingua,  che  è  una  maraviglia  a  chi  lo  considera.  £  il  re  che  vive,  Arrigo  II,  imitando  le  ve-  stìgio del  padre,  oltra  il  fare  osservare  quello  ordine,  fa  ancora  e  carezze  e  cortesie  grandissime  a  chi  traduce  in  essa,  0  fa  opera  di  arricchirla  e  farla  perfetta.   Bartoli.  Bella  impresa  e  degna  veramente  d'un  principe,  amare  e  onorare  la  sua  lingua:  atteso  massimamente  che  nessuna  può  sormontare  e  venire  in  riputazione  senza  il  favor  del  principe  suo.   *J6    302  RA6I0NAMBNT0  INTOBNO  ALLA  LINGUA.   GeUi.  Non  sarebbe  dunque  stato  diflScile  a  ehi  avesse  voluto  mettere  in  regola  la  lingua  latina  in  que'  tempi  ehe  ella  era  yiva,  poi  che  gli  bastava  osservare  solamente  Io  uso  e  il  modo  che  tenevano  i  cittadini  romani  :  p^chè  non  era  in  que'  tempi  ehi  ardisse  pre^rre  la  sua  lingua  a  qoeUa,  e  non  confessare  che  la  vera  pronunzia  e  il  vero  modo  del  favellare  era  quello  de'  Romani,  altrimenti  detto  latino.  Ma  non  può  questo  avvenire  a  noi  de  la  nostra,  essendo  in  To-  scana tanti  principati  e  tanti  signori;  li  stati  de' quali,  se  non  in  tutto,  hanno  pure  in  parte  ciascuno,  come  io  dissi  in  quella  mia  traduzione  *  a  lo  illustrissimo  e  reverendissimo  Cardinale  di  Ferrara,  qualche  favella  e  pronunzia  propria,  varia  e  diversa  da  tutte  le  altre,  e  parendo  a  ciascuno  che  la  sua  sia  meglio.  Perchè  noi  non  ci  abbiamo  imperio  alcuno  cosi  grande,  che  e'  muova  (come  i  Romani)  le  città  sottopo-  steli a  cercare  spontaneamente  di  favellare  e  onorare  quella  lingua  che  favella  chi  le  comanda.  Gonciossiachè,  quando  ben  la  Toscana  tutta  fusse  comandata  da  un  signor  solo,  lo  imperio  suo,  per  avere  ì  confini  si  presso,  non  sarebbe  mai  di  tanta  grandezza,  che  e'  fusse  oiiorato  e  temuto  quanto  era  allora  quel  de' Romani.  Imperocché  i  suggetti  a  loro,  essendo  privi  d' ogni  speranza  di  «scir  mai  di  tale  servitù,  non  aveado  principe  aieuno  a  lo  intorno  dove  ricorrere  quando  e'  pensassero  di  ribellarsi ,  erano  necessitati,  se  non  per  amore,  almeno  per  timore,  a  far  ciò  che  piaceva  à'  Ro-  mani.   Bar  Ioli*  Io  cedo,  e  confesso,  quanto  a  la  grandezza  e  forza  romana,  che  egli  è  vero  tutto  quel  che  tu  di'.  Niente  dìmanco,  e'  si  vede  pur  manifestamente  ne'  tempi  nostri,  che  molte  persone  di  quakhe  spirito,  i»8i  fuor  d' Italia  come  in  Italia,  s' ingegnano  con  molto  situdio  di  apprendere  e  di  favellare  questa  nostra  lingua  non  per  altro  che  per  amore.   GelU.  Egli  è  vero  che  quello  che  ne  la  età  de'  Romani  faceva  la  forza ,  lo  fa  oggi  la  bontà  e  la  bellezza  di  questa  lingua.  Ma  perchè  coloro  che  la  desiderano  e  cercano  per  loro  stessi  come  cosa  buona, la  appetiscono  edamano  in  quella   *  Intende  la  tradniione  dell'  operetta  di  Simone  Porzio  del  modo  di  orare  cristianamente.  Qui  parla  di  cose  dette  nella  lettera  dedicatoria.    BAGIONAìIBNfo  INTORNO  ALLà  UNGUA.  .      303   maniera  che  si  desidera  ed  ama  il  bene,  ella  è  ancora  dipoi  seguitata  e  adoperala  come  esso  bene,  cioè  da  ì  meno,  e  non  da  i  più.  Ma  datò  che  e'  fosse  il  vero  che  ognuno  cer-  casse di  favellare  in  lingua  toscana ,  e  desiderasse  che  e'  se  ne  facessi  regole,  donde  si  arebbe  poi  a  cavarle,  non  ci  essendo  ciltade  alcuna  che  signoreggi  tutta  Toscana?  Perchè  i  Luc-  chesi, i  Pisani,  i  Sanesi,  gli  Aretini,  e  qualunque  altra  città  di  questa  provìncia ,  direbbe  sempre  che  la  vera  lingua  e  pronunzia  losca  fusse  veramente  la  sua;  e  il  cavare  una  parte  di  esse  regole  da  una  città  e  V  altra  da  un'  altra,  sce-  gliendo, come  dicono  alcuni,  il  meglio,  per  fare  un  composito  di  tutte  quante,  sarebbe  cosa  molto  difiScile,  e  poi  forse  anche  non  approvata  e  non  osservata,  non  ci  essendo  chi  la  comandi.   Bartoli.  Oh,  io  non  penso  però  che  il  luogo  donde  cavare  le  regime  abbia  molta  difBcultà  ;  non  essendo  se  non  raris-  simi que'  che  volendo  imparar  la  lìngua  piglino  altri  autori  che  Dante,  il  Petrarca  e  '1  Boccaccio  ;  i  quali  essendo  pure  tutti  e  tre  di  Firenze,  mostrano  assai  manifestamente  donde  sì  debba  imparar  la  lingua.  Non  ostante  che  alcuni,  poco  amici  per  avventura  del  n<Mne  nostro,  hanno  voluto  privarci  del  Petrarca  e  del  Boccaccio,  facendo  questo  ultimo  da  Certaldo  e  quello  altro  Aretino,  senza  avertire  che  ser  Pe-  tracco  padre  di  messer  Francesco,  come  cittadino  che  egli  era,  ebbe  per  moglie  una  de'Ganigiani,  e  luogo  tempo  fu  cancelliere  alle  Riformagioni  ;  e  che  il  Petrarca  stesso  dice  di  sé  medesimo:   SMo  fossi  stato  fermo  a  la  spelonca  Là  dove  Apollo  diventò  profeta,  Fiorenza  avria  forse  oggi  il  suo  poeta;   e  che  Matteo  Villani  dice  ne  la  Cronica  che  e'  seguitò  dopo  Giovanni  suo  fratello  :  «  Questo  anno  furono  coronati  poeti  due  nostri  cittadini  fiorentini;  messer  Francesco  di  Petracco,  vecchio;  e  Zanobi  da  Strata,  giovane.  »  E  che  il  Boccaccio,  nel  suo  libro  de' Fiumi,  quando  e' ragiona  de  l'Elsa,  dice:  et  quum  oppida  plura  hinc  inde  ìabens  videai,  a  dexlro,  modico  elatum  tumulo,  Certaldum,  vetus  msiellum,  Unquii:  cujus  ego    304  RÀGIONAMMTO  DlTOBNO  ALLA  UHGUA.   libens  memorùiffi  celebro,  sedes  qtUppe  et  natole  solum  nu^o-  rum  meorum  futi,  anUquam  illos  susciperet  FloretUia  eives.   GelH,  Egli  è  vero  che,  non  si  stimando  qaanto  a  la  lin-  gna,  altri  scrittori  che  questi  fiorentini,  rispetto  (credo  io)  al  non  si  esser  trovato  mai  in  queste  altre  favelle,  non  sola-  meate  ehi  gli  pareggi,  ma  nò  par  chi  si  appressi  loro,  e' pare  certamente  da  confessare  che  la  lingua  fiorentina  tenga  il  principato  ne  la  Toscana  ;  nìentedimanco......   BartolL  Sta  fermo,  Gello,  e  non  dir  cosi;  che  noi  ci  recheremo  a  dosso  una  invidia  troppo  grande.  Perchè  e'  non  si  può  nò  debBè  negare  che  ne'  tempi  nostri  medesimi  non  ci  siano  stati  de'  forestier,  *  e  fuor  di  Toscana,  che  abbino  scritto  in  questo  idioma  si  eccellentemente,  che  e'  ne  sono  stati  lodati..   Geìlu  Si,  ma  se  voi  avvertite  bene,  vedrete  che  i  più  celebrati  fra  questi  tali  sono  selamenle  quegli  stessi  che  hanno  saputo  più  e  meglio  imitare  gli  scrittor  fiorentini  ;  e  non  son  però  stati  molti  :  e  di  questi  ne  avete  alcuno,  che  per  aver  si  bene  imitato  ed  espresso  i  concetti  altrui  con  gli  stessi  modi  e  parole  de  gli  autori,  que'  dotti  de  V  Orto,  pi-  gliando la  metafora  da  quegli  scultori  che  attendono  più  a  improntar  V  altrui  che  a  sculpire  di  loro  artifizio,  usavano  di  dir  tra  loro:  costui  ha  formato.  Ma  voi  ci  avete  ancora  un'  altra  cosa,  che  dimostra  meglio  e  più  chiaramente  quel  che  voi  dite:  che  tutti  o  la  maggior  parte  de' forestieri  con-  fessano e  acconsentono  tacitamente,  che  la  lingua  che  e'  cer-  cano e  tengon  buona  ò  solamenle  la  Fiorentina;  io  intendo  di  quella  che  favellano  i  nobili  e  veri  cittadini  fiorentini  che  hanno  qualche  cognizione  o  di  lingue  o  di  scienzie  ;  e  non  di  quella  che  usano  i  plebei,  e  gli  uomini  che  hanno  cognizione  di  poche  altre  cose  che  di  quelle  che  si  conven-  gono loro  come  animali.  Perchò,  non  vi  crediate  però  che  la  plebe  di  Roma,  quando  fiori  la  lingua  latina,  favellasse  con  quella  leggiadria  che  facevano  e  Cesare  e  Cicerone.   Bartolù  Certamente  no  ;  anzi  si  legge  di  Cicerone,  che  i  Romani  stessi  lo  ammiravano,  maravigliandosi  grandemente   *  H  monicipalismo  a  que'  tempi  faceva  non  conoscere  che  non  son  forestieri  fra  loro  quelli  che  abitano  il  paese  fra  le  Alpi  e  il  lilibeo.    RAQIOMJJIENTO  INTORNO  àthk  LlNGOl.  SOtt   de  la  8oa  eloquenzia.  Ma  quale  è  questa  cosa  che  ta  volevi  dire?   GeììL  II  non  si  esser  trovato  ancora  scrittore  alcuno  di  Toscana,  che  abbia  avuto  ardimento  a  dire  di  avere  scritto  ne  la  sua  lingua  propria,  come  dissero  Dante  e  il  Boccaccio,  r  uno  nel  Convivio,  e  V  altro  nel  Decamerone,  e  come  fanno  ancor  oggi  molti  Fiorentini.  Di  maniera  che  e'  non  si  truova  opera  alcuna,  che  si  dica  scritta  in  lingua  Pisana,  Sanese,  Lucchese,  Aretina,  o  di  qual  si  voglia  altro  luogo  toscano:  e  pure  hanno  avute  queste  città  scrittori  di  non  piccola  fama.  Laonde  non  può  avvenir  questo  per  altro,  se  non  perchè  questi  tali  conoscono  molto  bene  la  lor  lingua  naturale  non  esser  quella  che  si  stima  oggi  e  pregia  cotanto.  E  se  bene  essi  hanno  ancora  imitato  gli  scrittor  nostri,  quanto  è  loro  stato  possibile,  e'  npn  V  hanno  però  voluto  confessare  aper-  tamente e  liberamente,  giudicando,  per  avventura,  che  ciò  non  fusse  molto  onor  loro.  Anzi,  perchè  se  e' l'avessero  chiamata  Fiorentina,  e'  non  sarebbe  parato  loro  avervi  parte  alcuna  o  pochissima ,  e'  l' hanno  chiamata  Toscana  o  vulgare;  volendo,  col  chiamarla  cosi,  dare  a  intendere  a  le  persone,  che  ella  si  parli  vulgarmente  per  tutta  la  Toscana.  Il  che  si  vede  che  non  è  vero.  E  altri  dipoi  non  Toscani,  per  avervi  ancor  eglino  parte,  V  hanno  chiamata  italiana.   Bartolù  Sta  fermo.  Cello,  che  Dante  ancora  egli  fu  di  opinione  che  ella  si  dovesse  chiamare  Italiana,  in  quel  li-  bretto suo  De  vulgari  eloquerUia,  se  io  mi  ricordo  bene.   Gellù  Ehi  messer  Cosimo,  non  vi  ho  io  detto  più  volte  che  cotesto  libro  non  può  essor  di  Dante,  ma  che  e'  conviene  che  qualcun  altro  l'abbia  finto,  sotto  il  colore  di  quella  pro-  messa che  ne  la  Dante  nel  suo  Convivio?  Il  che  non  può  veramente  esser  nato  da  altro,  che  da  lo  avere  troppo  arden-  temente desiderato  chi  ne  fu  lo  autore,  che  V  onor  de  la  lingua  fusse  generalmente  comune  di  tutta  la  Italia ,  e  non  particulare  di  Firenze  solo.  Ma  se  voi  forse  non  ve  ne  ricor-  date, avvertite  che  que'litterati  de  l'Orto  de'Rucellaì,dispuT  tando,  ne  la  venuta  di  Papa  Leone,  col  Trissino  (perchè  egli  fu  che  ci  condusse  la  prima  volta  questa  opera}  sopra  lo  essere  o  non  esser  ella  di  Dante,  gli  facevano  centra    308  MifiioMAMBaro  irtouio  alla  limooa*   quella,  non  variati  né  alterati  in  maniera  akona,  come  omo,  Urrà,  mare  e  simili  ;  e  ana  grandissima  quantità  di  quegli  altri  dove  si  varia  scrfo  una  lettera,  come  leggo  e  aequa,  che  a'  Latini  son  lego  e  aqua,   GeUL  Questa  fo,  come  dite  voi,  nua  esposixione  assai  stravagante,  e  da  uomini  che,  desiderando  introdurre  cose  nuove,  volsero  mostrare  che  ciò  fusse  fatto  con  qualche  mo-  tivo ragionevole.  Ma  non  è  già  venuta  di  qui  la  diversità  della  pronunzia,  la  quale  molto  prima  si  variò,  che  e'  venisse  a  campo  si  stran  precetto.   BarioU.  E  donde  venne  dunque  la  orìgine?   GeUi,  Dicono  alcuni  diligentissimi  osservatori  de  le  cose  di  questa  lingua,  e  io  lo  confermo  con  esso  loro,  che  in  al-  cune città  e  luoghi  particolari  di  Toscana,  per  naturale  pro-  prietà si  costuma  di  mettere  Vo  in  quelle  parole  ne  le  quali  in  Firenze  si  mette  l' u;  di  maniera  che,  dove  noi  di-  ciamo suslanza,  singutare,  particulare,  speculare  e  specular-  tivo,  quivi  si  dice  sostanza,  singolare,  parlicolare,  speco-  lare  e  specoUUivo:  e  cosi  ancora  di  mettere  Ve  dove  noi  altri  mettiamo  V  i ,  costumandosi  ordinariamente  dire  in  Fi-  renze, principe  e  UUerato;  e  quivi  prendpe  e  letterato:  la  quale  pronunzia  arreca  a  gli  orecchi  de' Fiorentini  un  suono  cosi  sgarbato  e  tanto  spiacevole,  che  e'  non  si  traeva  tra  noi  chi  l' usi,  se  non  alcuni,  e  ben  pochi,  che  per  proprio  comodo  loro  seguitano  la  pronunzia  così  fatta  ;  non  si  curando  non  solamente  di  dare  od  accomunare  ad  altrui  quello  che  era  solamente  de'  Fiorentini,  ma  di  adulterare  e  imbastardire  una  lingua  mantenutasi  pura  e  schietta  sino  a'  di  nostri,  e  solamente  bella  e  leggiadra,  quando  manco  vi  si  accompagna  voci  o  pronunzie  di  forestieri.   Bartolù  Certamente  che  questa,  né  a'  tempi  nostri  né  a  quegli  de  li  antichi,  per  quanto  se  ne  vegga  da  le  scritture,  non  fu  mai  pronunzia  fiorentina.  £  chi  non  lo  crede,  av-  vertisca  e  osservi  bene,  come  coloro  che  V  anno  1527  fecero  stampare  in  Firenze  quel  Cento  novelle,  avuto  poi  univer-  salmente in  tanta  reputazione  e  tanto  pregiato,  essendo  tutti  cittadini  fiorentini  nobili  e  veri,  e  avendo  cotanti  testi  antichi  e  buoni,  e  tra  gli  altri  uno  che  é  oggi  in  guardaroba    RÀGIOMÀIIBMTO  INTOBNO  ALLA  UNGUÀ.  309   di  Sua  Eccellenza,  scritto,  vivendo  ancora  il  Boccaccio,  da  uno  de' 'Mannelli,  e  non  solamente  copiato  da  lo  originale  de  lo  anlore,  ma  riveduto  ancora  e  corretto  da  lui  medesimo;  avyertisca,  dico,  e  osservi,  come  sempre  dissero  principe^  liUerato,  iustanzia  e  partieulare,  come  ordinariamente  si  dice  in  Firenze.   Getti,  Ritrovandosi,  adunque,  in  Padova  alcun  di  questi  tali  nel  principio  deHa  Accademia  de  gli  Infiammati,  dove  non  era  per  buona  sorte  alcuno  veramente  Fiorentino  (che  e'  non  sarebbe  forse  seguito  questo  disordine)  ;  e  mettendo  in  uso  col  favellare  e  con  lo  scrivere  questa  lor  naturai  pronunzia,  scoperta  però  primieramente  fra  gli  Intronati  ;  i  Lombardi  e  i  Yeniziani,  che  cercavano  di  pronunziare  toscanamente, credendosi  che  quella  fusse  la  vera ,  cominciarono non  solo  a  celebrarla,  ma  ad  usarla,  ed  a  trasferirla  ne  le  loro  stampe.  A  la  qual  cosa  si  aggiunse  presto  che  alcuni  altri  non  Toscani,  per  ispogliare  la  Toscana  di  questa  gloria,  cominciarono  a  mescolare  in  essa  molte  parole,  le  quali,  al  giudizio  mio,  né  si  favellarono  nò  si  scrissero  mai  in  Toscana;  e  oltre  a  questo,  cercarono  ancora  dì  mutarle  nome.  £  perchò  se  ella  si  dicesse  lingua  Tosca,  essi  che  erano  forestieri  non  ci  avevano  parte  alcuna,  cominciarono  a  chiamarla  chi,  come  il  Trissino,  Cortigiana,  e  chi  Itala  o  Italiana,  come  il  reverendissimo  Sadoleto;  persona  dottis-  sima veramente  e  eloquentìssima,  ma  appartata  e  in  tutto  aliena  da  questa  professione.  E  di  costoro  non  voglio  io  ve-  ramente dir  cosa  alcuna;  ma  solo  che  io  mi  maraviglio  oltre  a  modo  di  alcuni  Toscani,  che  avendo  molto  più  rispetto  al  comodo  proprio,  che  a  la  verità,  per  la  servitù  forse  che  e'  tengono  con  alcuni  di  questi  tali,  sono  concorsi  a  chiamarla  Italiana  essi  ancora  l  non  si  curando  di  vendere  per  si  vii  pregio  l'onore  e  la  gloria  propria;  e  non  avendo  avver-  tenza che  i  Genovesi,  i  Milanesi,  que'  del  Lago  Maggiore,  i  Bergamaschi,  una  gran  parte  de' Romagnuoli,  i  Marchigiani,  i  Norcini,  gli  Abbruzzesi,  i  Pugliesi,  i  Calabresi  e  altri  infi-  niti popoli  de  la  Italia,  fanno  fede  manifestissima  a  chiun-  que favella  loro,  che  a  gran  torto  ò  posto  nome  a  la  lìngua  nostra  Italiana.    310  BACIOHAMSino  mOUO  ALLk  LU60A.   BarlatL  E  come  potette  più  in  cotesti  tem|M  (lasciando  or  le  querele  da  banda)  V  antorità  di  cotestoro,  che  ifoella  de' Fiorentini,  se  il  principio  de  la  lingua  e  il  fonie  è  in  Firenze,  e  fondato  in  sa  gli  scrittori  fiorentini?   GtXtL  I  Fiorentini,  attendendo  in  cotesti  tempi  quasi  tutti  a  la  mercanzia,  a  la  quale  sempre  è  stata  molto  incli-  nata la  città  nostra,  e  forse  |mù  per  bisogno  che  per  natura,  rispetto  a  la  magrezza  del  paese  ;  non  davano  opera  alcuna,  se  non  pochissimi,  a  la  lingua  latina,  e  molto  meno  a  la  greca  ;  e  cosi  non  venivano  a  considerare  la  propria  »  e  a  riconoscer  l'arte  e  lo  studio  che  avevano  usato  in  essa  Dante,  il  Petrarca  e  il  Boccaccio:  anzi,  quando  leggevano  questi  autori,  attendevano  pio  le  istorie,  che  altra  cosa.  Di  maniera  che,  se  vi  ricorda  bene,  crono  molto  più  stimati  allora  i  Trionfi  del  Petrarca,  che  le  Canzoni  e  Sonetti  suoi.  Ma  In  alcune  altre  città  toscane,  dove  per  la  fertilità  e  grassezza  del  lor  paese  non  è  il  guadagno  si  necessario,  attendendo  que'  cittadini  a  gli  studj  de  le  buone  lettere,  cominciarono  a  considerare  molto  (Nrima  di  noi  ne'  nostri  scrittori  la  bel-  lezza di  questa  lingua,  e  ad  osservare  ne  lo  scriverla  quelle  terminazioni  e  quelle  concordanzie  de'  singolari  e  de'  plura-  li che  que'  nostri  avevano  usate.  Bene  è  vero  che  per  la  lor  favella  natia  pronunziando  non  come  noi,  e  mescolandoci  ancora  qualche  parola  de  le  loro,  ce  l'hanno  condotta  a  r  essere  che  voi  medesimo  vi  vedete.  Lo  avere  adunque  i  nostri  atteso  a  la  mercatura  e  non  a  le  lettere ,  e  la  molti-  tudine de'  travagli  che  sempre  ci  sono  stati,  fecero  per  lungo  tempo  restare  in  dietro  e  quasi  che  perdersi  interamente  gii  avvertimenti  e  l'arte  usata  da' tre  sopra  detti  ne  la  nostra  lingua;  e  i  primi  che  cominciassero  in  Firenze  a  rios-  servargli,  e  ne  la  fovella  e  ne  la  scrittura,  furono  quegli  stessi  litterati  che  usavano  a  l' Orto  de'  Rncellai.  E  ricordami  che  e'  non  potevano  restare  di  maravigliarsi  di  alcuni  litte-  rati poco  avanti  la  loro  età,  che  avevano  composto  in  versi  e  in  prosa  di  questa  lingua  senza  alcuna  osservazione;  parendo  loro  impossibile  che,  avendo  pur  veduti  gli  scritti  di  que'  tre  famosi,  e'  non  avessero  aperti  gli  occhi  a  le  loro  osservazioni,  e  non  si  fossero  accorti  in  quanta  corruzione    BAfilOllAXBIfTO  IMT(MmO  ALLA  UKSUA.  311   fosse  incorsa  la  beHìssima  lingua  che  noi  inrliamo.  Da  co-  storo avvertiti  Cosimo  Rocellaì,  Lnigfi  Alamanni,  Zanobi  Baondelmonti,  Francesco  Guidetti  e  aiconi  altri,  i  qaali»  praticando  con  esso  Cosimo»  si  trovavmo  spesso  a  rOrU»  con  qoe'  più  vecchi,  c«ninciarono  a  cavar  foori  le  dette  consi-  derazioni, e  a  metterle  tanto  in  atto,  che  la  lingua  n'  è  poi  tornata  in  quel  pregio  che  voi  vtdele.   BarloU,  Tu  di'  il  vero,  GeUo  mio  caro;  perchè  e'mi  rioor*  da  che  da  venticinque  anni  in  dietro  non  erano  versificatori  io  Firenze,  se  non  tre  o  qoattro;  a'  qnali,  senza  avere  altri-  menti oensiderazione  akana  di  terminazioni  di  parole ,  di  concordanzie  di  numeri,  o  d' altra  cosa  che  faccia  bello,  ba-  stava solamente  che  e'  rimassero  e  fusser  versi.  £  chi  lo  vuol  vedere  e  toccar  con  mano,  legga  le  rappresentazioni  che  si  facevano  in  que'  tempi  :  le  quali  quando  io  considero  chenti  elle  sono,  e  quanto  non  solamente  poco  verisimili,  ma  impossibili  e  mostruose,  mi  fanno  tenere  per  di  poco  giudizio  e,  per  dirla  cosi  fra  noi,  molto  goffi  tutti  coloro  che  potevano  stare  a  udirle  ;  e  mi  iinno  credere  che  se  elle  si  facessero  oggi  cosi,  i  fanciulli,  non  che  altri,  uccellerebbono  si  a  la  scoperta  i  compositori,  che  e'  se  ne  rimarrebbono  in-  teramente per  lor  medesimi.   eretti.  E  da  che  vi  pensate  die  nasca  questo,  se  non  da  r  essere  oggi  in  Firenze  cosi  gran  numero  di  persone  che  hanno  bonissima  cognizione  de  la  lingua  latina  e  greca?  le  quali  essendo  state  necessitale  ne  lo  impararle,  a  vedere  i  veri  poeti,  hanno  assai  chiaramente  conosciuto  che  cosa  sia  poesia,  e  quanto  sia  verbigrazia,  centra  i  precetti  de  Tarte  il  ridurre  tutta  la  vita  di  uno  uomo,  o  pur  le  azioni  di  venticinqoe  o  trenta  anni,  in  due  o  tre  ore  di  tempo  che  •  si  consuma  nel  recitare.  E  a  cagione  che  e'  non  si  abbia  a  dire  de'  casi  loro  quel  motto  di  Orazio   Delfinum  silvis  appingit,  fluctibus  aprum,   non  hanno  solamente  lasciali  cotesti  errori,  ma  sbanditili  ancora  in  tuUo  da  le  loro  composizioni,  e  si  sono  ridotti  a  quello  uso  buono  che  avevano  i  Latini  e  i  Greci.  Olire  a  questo,  avendo  appreso  per  via  di  regole  quelle  due  lingue.    31S  miaoiiAanno  ummo  aua   c4HMM6eiido  quante  e  quali  nano  le  parti  del  pariare,  e  in  cbe  modi  elle  debbino  accompagnarsi ,  cominciano  a  favel-  lare tanto  rettamente  e  con  tanta  leggiadria,  che  io  mi  persuado  gagliardamente,  la  nostra  lingua  esser  molto  Tidna  a  quel  sommo  grado  de  la  perfexione,  oltra  il  quale  non  si  può  salire.   BartoU.  E  se  cori  è,  die  cosi  la  tengo  io  ancora,  perehè  non  si  può  eDa  adunque  mettere  in  regole,  e  farla  perfetta  alilittoT   GM.  A  le  cagioni  che  io  ve  ne  ho  di  già  assegnate,  si  aggiagne  questa  altra  ancora,  che  non  è  di  poco  momento:  ed  è  il  non  avere  in  su  che  fondare  e  formare  esse  regole;  eonciossiachè  in  su  gli  scrittori  non  si  può,  non  avendone  noi  alcuno  che  si  possa  tenere  per  bello  e  per  buono  tutte  quello  che  egli  ha  usato.  Perchè,  cominciandoci  da  qne'  tre  primi  che  sopra  gli  altri  sono  approvati,  Bante,  oltra  lo  esser  poeta,  ebbe  dal  secol  suo  rozzo  e  duro  molte  e  molte  pa-  role lasciate  oggi  in  tutto  da  Y  uso.  H  medesimo  avviene  al  Boccaccio,  nel  qoal  sono  e  modi  e  parole  che,  se  ben  fìiron  belle  in  quel  secolo,  l' oso  di  oggi  non  le  riceve.  E  il  Petrar-  ca, se  bene  ha  la  sua  lingua  assai  più  purgata,  per  essere  (come  io  dissi  in  Dante)  poeta,  per  le  molte  licenzie  che  a' poeti  son  concedute,  non  è  materia  conveniente  a  formarne  le  regole  per  la  prosa.   BarUAL  Io  non  so,  Gello  mio,  come  questo  sia  da  conce-  dere;  perchè,  se  bene  da  que'  primi  due,  rispetto  a  le  licen-  zie poetiche,  non  si  posson  trar  buone  regole,  il  Boccaccio  è  por  tanto  bello  e  tanto  pregiato  universalmente,  ch'io  non  so  perchè  tu  lo  sfugga.   GéUU.  11  Boccaccio,  per  quanto  ne  dicono  questi  suoi,  si  imaginò  di  usare  i  tre  stili:  T  alto,  nei  Filocolo  ;  il  mediocre,  ne  la  Fiammetta;  e  il  basso,  nel  Decamerone.  Il  che  se  bene  gli  successe  o  no,  non  ci  accade  ragionarne  ora.  Basti  che  la  più  approvata  de  le  sue  cose  è  il  Cento  novelle  ;  opera  beila  certo  e  piacevole,  ma  non  da  essere  in  tutto  imitata  rispetto  ad  alcune  costruzioni  che,  per  non  esser  piaciute  a  Toso,  son  restate  del  tutto  in  dietro,  e  ad  una  infinità  di  parole  che  sono  oggi  aborrite  e  fuggite  da  gli  scrittori:  come,    lAGIOMAMKlITO  ISITOINO  ALLA  LINGUA.  313   yerbigrazla,  bwma  pezxa^  ìa  Intogna,  gravenza,  abUawBa,  niquUoso,  avaecio,  autorevole,  contezza,  deliberanza,  sez-  zaio»  Ma  che  sto  io  a  contarle  a  toì  che  ri  faceste  sopra  la  tavola y  e  le  notaste  già  taile  quante?   BartoU.  Certamente  queste  si  fatte  voci  non  solamente  si  usano  oggi  da  molto  pochi ,  ma  elle  non  sono  ancora  più  accettate  per  fiorentine,  e  pare  che  elle  offendine  altrui  r  orecchie,  se  pur  si  truova  qualcuno  che  V  usi.   Getti.  Non  si  possono  adunque  le  regole  toscane  cavare  da  gli  scrittori.   Bariolù  Gavinsi  le  fiorentine  (che  de  V  altre  non  tocca  a  noi)  da  V  uso  di  Firenze.   GeUù  £  questo  anche  mal  si  può  fare;  dovendosi  (come  io  dissi  non  molto  avanti)  pigliar  V  uso  non  d'ogni  tempo,  ma  de  la  età  dove  la  lingua  fu  nel  suo  colino.  Il  che  non  possiamo  saper  noi  altri,  poi  che  e  la  è  viva,  e  va  a  T  insù  ;  avvenga  che  voi  forse,  come  alcuni  forestieri,  vi  persuadia-  te che  ella  fusse  nel  sommo  grado  ne  la  età  di  que'  tre  scrittori.   Bartolù  Questo  no;  anzi  tengo  per  fermo  che  ella  fusse  nel  nascimento,  e  che  ella  avesse  quasi  principio  da  essi  tre,  per  essere  stati  Dante  e  1  Petrarca  i  primi  in  questi  paesi  che  cominciassero  avere  tanta  notizia  de  la  lingua  latina  più  de  gli  altri  uomini ,  che  e'  ne  furono  chiamati  suscita-  tori e  ritrovatori  ;  come  apertamente  si  può  vedere  nel  pri-  vilegio conceduto  ad  esso  Petrarca,  quando  publicamente  fu  coronato  nel  CamfMdoglio  :  e  il  Petrarca  e  il  Boccaccio  de  la  greca,  de  la  quale  non  si  aveva  in  Italia  notizia  alcuna  ne  la  età  loro,  se  non  piccola  e  defettiva.  Laonde  braman-  dola questo  ultimo  sommamente,  condusse  a  Firenze  un  Greco,  per  quanto  si  legge  ne  la  sua  vita,  che  glie  la  inse-  gnasse, e  una  quantità  di  libri  greci,  lasciati  poi  da  lui  stesso  dopo  la  morte  a  la  libreria  del  nostro  Santo  Spirito.  Costoro  adunque,  mediante  la  cognizione  di  queste  lingue,  cominciarono  a  parhire  rettamente  e  ordinatamente,  miglio-  rando e  inalzando  tanto  il  nostro  idioma  da  quello  che  egli  era,  per  quanto  veder  se  ne  può  in  que'  che  scrissero  avanti  a  loro,  che  noi  possiamo  liberamente  tenere  e  dire,  che  il   27    314  BA6I0NAMB1IT0  IMTO&NO  ALLA  LINfiOA.   vero  nascimettto  e  principio  di  questa  libgtta  fa  solunente  dalor  tre:  ma  che  e'  non  foron  già  poi  segniti  né  imitati  ne  lo  allegarla  secondo  i  modi  posti  da  loro,  imperoceliè  chi  venne  dopo,  non  essendo  dato  a  gli  stadj^  noA  eomiderò  le  costrocioni  e  le  terminazioni  osate  da  lèro»  e  iMcMla  di  tempo  in  tempo  cadere  in  ^ella  barbarie  die  iMd  eenllm-  mo  non  son  molti  anni.  Ma  io  dico  bene>  che  poi  the  g^i  uomini  hanno  ricomincialo  a  considerarla,  come  fecero  qnegli  de  r  Orto,  e  ad  osare  i  modi  de*  tre  nostri  Inmi^  ella  é  tanto  migliorata  a  poco  a  poco,  che  io  la  tengo  oggi  nsolto  piA  bella  universalmente,  che  eOa  non  era  ne'  tempi  loro  ;  e  che  se  eglino  scrissero  cosi  bene  allora  (^il  che  fn  molto  più  da  impotare  a  lo  ingegno  loro  che  a  4a  bontà  de  la  Ikigoa),  scriverebbero  molto  meglio  oggi  :  non  essendo  necessitati  da  la  povertà  Òe  la  lingua,  che  oggi^  è  ricchissima^  ad  osare  quelle  parole  che  più  non  piacciono,  e  qoe'  modi  ohe  son  fuggiti  da'  nostri  orecchi  ;  di  modo  c^e  nel  volto  ancora  del  Petrarca  non  si  scorgerebbero  q«e'  pochi  avvegnaché  pic^  eolissimi  nei,  che  i  ben  purgati  giudizj  vi  riconoscono.   GelU.  Io  credo  che  voi  giudichiate  bene,  e  che  la  cosa  stia  come  voi  dite*  Ma  io  voglio  andare  un  passo  più  là,  e  dire,  che  essendo  ancor  vìva  la  lingua  nostra,  e  in  maggiore  speranza  di  avere  a  vivere,  che  eUa  fosse  fom  ancor  mai,  egli  non  si  può  affermare  che  la  nstnra  (la  quale  iton  si  stracca  e  non  invecchia  mal,  anzi,  se  bene  ella  varia  talora  alquanto,  è  por  sempre  quella  medesima  )  non  possa  e  non  abbia  ancora  a  produrre  de  gì'  ingegni  simili  a  loro;  i  qoali,  trovando  la  nostra  lingoa  in  molto  maggior  perfezione  che  non  la  trovmrono  i  sopradetti,  serivino  non  solamente  bene  cernie  qoelli,  ma  forse  ancora  assai  meglio  di  loro»   Bartolù  £  questo  similmeiite  mi  par  di  credere,  essen-  dosi veduto  ne'  tempi  nostri^  che  in  quaiuncàe  faciità,  e  particnlarmente  ne  la  architettura,  pittura  -e  scoltura,  ha  la  nostra  città  generati  aiconi  che  non  solo  haano  paseggiaU  i  famosi  antichi,  ma  forse  ancora  avanzatili  in  ^oalohe  cosa»   GellL  Non  si  poò  donqoe  dire  dM  ella  sia  ne  lo  stato  Mio>  veggendosi  come  di  giorno  in  gèomo  olla  va  «i  soo  augomento;  e  potendosi  agevdmente  far  conieltara  da  te lA^IOMAVCNTO  INTORNO  ALLA   LINGUA.  315   cose  che  soprareiigoDO,  ehe  ella  abbia  ancora  a  farsi  più  ricca  e  saolto  più  beUa.   MartoU.  E  q«ali  Mm  questo  cose»  Gello?   GeUù  Molte  e  molte  sono,  messer  Cosimo;  e  dae  sopra  tatto  l'altre.  L'nna  de  le  quali  è  la  moltitadine  grande  di  ei^oro  che  oggi  si  danno,  in  Firenze  a  la  lingna  latina  e  greca;  i  quali  imparando  quelle  con  re-  gola, avellano  dipoi  ancora  reg<^tamente  la  nostra,  e  con  leggiadria;  e  da  questi  imparando  gli  altri,  mossi  da  quello  ingenito  desiderio  ohe  ha  ciascuno  di  non  volere,  in  quello  che  egli  può,  essere  in  maniera  alcuna  soprayanzato  da  i  suoi  pari,  faranno  di  mane  in  mano  la  lingua  più  bella  ^  più  onorata,  si  col  parlare  e  si  col  tradurre,  arrecando-  ci le  scienzie  e  V  arti  che  elli  imparano  ne  l' altre  lingue.  L'a&tra  è  il  cominciare  i  principi  e  gli  uomini  grandi  e  qualificati  a  scrivere  in  questa  lingua  le  importantissime  cose  de'  governi  de  gli  Stati,  i  maneggi  de  le  guerre  e  gli  altri  negozj  gravi  de  le  faccende,  che  da  non  molto  in  die-  tro si  scrivevano  tutti  in  lingua  latina.  Perché,  non  vi  date  a  intendere  ehe  una  lingua  diventi  mai  ricca  e  beila  per  i  ragionamenti  de'  plebei  e  de  le  donniciuole,  che  faveUan  sempre  (rispetto  a  lo  avere  concetti  vilis6imi)di  cose  basse:  chò  e'  sono  solamente  gli  uomini  grandi  e  virtuosi,  quelli  ehe  inalzano  e  fanno  grandi  le  lingue;  imperocché,  avendo  sempre  concetti  nobili  e  alti,  e  trattando  e  maneggiando  coae  di  gran  momento,  e  ragionando  bene  spesso  e  discor-  rendo sopra  quelle  in  prò  e  in  contro,  persuadendo  o  dis-  suadendo, accusando  o  lodando,  e  talvolta  ancora  ammo-  nendo e  insegnando,  fanno  le  lingue  loro  copiose,  onorate,  ricche  e  leggiadre.  Per  queste  due  cose  adunque,  ancora  che  altre  cagioni  non  ci  fossero,  si  può  giustamente  sperare  ^M  la  nostra  lingua  abbia  a  essere  ancora  un  giorno  tanto  pregiata  appresso  molti  che  nasceranno,  quanto  sono  oggi  appresso  di  noi  e  la  greca  e  la  latina.  £  conseguentemente  concludo,  che  non  essendo  ella  ancor  pervenuta  a  lo  stato  suo,  non  se  ne  possa  far  regola,  che  in  tempo  non  molto  lungo  non  abbia  a  scoprirsi  defettuosa,  e  non  più  tale  quale  oggi  forse  ci  apparirebbe.  Si  come  avviene,  per  esemplo,  ne    316  BAGioNAMBirro  nrroBHo  alla  libcua.   la  pittura  ;  dove  i  ritratti  de*  giovanetti,  se  bene  gli  sonii-  gliono  interamente  quando  e'  son  fatti  y  non  vi  corre  però  gran  tempo  che,  cambiandosi  lo  aspetto  del  ritratto  nel  farsi  egli  nomo,  tanto  varia  la  effigie,  che  non  lo  somiglia  più,  né  apparisce  più  qnel  medesimo.   BartolL  Orsù,  pongbiamo  per  le  tante  cose  allegate  da  te,  cbe  a  r  Accademia  non  si  convenga  il  fare  queste  regole  :  vuoi  tu  però  affermare  al  tutto,  che  una  persona  privata  e  particolare,  lasciando  favellare  ad  arbitrio  loro  qualonche  città  e  luogo  de  la  Toscana,  senia  difettargli  o  ripotargli  da  meno  per  questo,  non  possa  almanco  da  i  tre  primi  nostri  scrittori  e  da  T  uso  di  Firenze  formare  le  regole,  che  a' tempi  d' oggi  insegnino  favellare  rettamente  a'  Fiorentini  stessi,  e  a  chi  pur  volesse  imitar^?   GeìU.  Oh  questo  no,  messer  Cosimo;  perchè  io  mi  credo  pure,  che  un  solo,  in  suo  nome  proprio  e  non  di  Accade-  mia, con  tutte  quelle  avvertenzie  che  voi  avete  dette,  sicu-  ramente le  possa  fare.   Bartoli,  E  con  qoal  ordine?  o  in  che  maniera?   Geìli,  Dirovvelo:  ma  perchè  voi  mi  intendiate  più  facil-  mente,  avvertite  che  questa  lingua,  come  quasi  tutte  l'altre  cose  di  questo  mondo,  ha  due  parti  principali;  la  materia,  cioè,  e  la  forma  :  la  materia  sono  le  parole  de  le  quali  ella  è  fatta  ;  e  la  forma  è  qod  modo  e  quell'  ordine  col  quale  son  conteste  e  tessute  insieme  l' una  parola  con  Y  altra,  che  si  chiama  ordinariamente  la  costruzione.  Di  queste  due  parti  la  materiale,  o  de  le  parole,  non  tengo  io  per  molto  difficile  a  metterla  in  regola;  ancora  che  ella  abbia  forse  bisogno  di  lungo  tempo,  rispetto  a  lo  aversi  a  fare  un  vocabolista  di  tutte  le  voci  che  si  usano,  come  aveva  già  cominciato  il  nostro  Norchiaio,  prima  che  morte  gli  troncasse  il  volo.  Ma  de  la  costruzione,  o  volete  dire  de  la  forma,  ne  la  quale  consiste  tutta  la  bellezza  e  la  leggiadria  de  la  lingua ,  e  ap-  presso di  noi  è  per  avventura  molto  più  dolce  che  ne'  no-  stri vicini,  non  so  io  come  ella  possa  mostrarsi  meglio  che  da  gli  esempi  de'  tre  scrittori   Bartolù  Oh  Gello,  e'  mi  ricorda,  a  questo  proposto  de  la  dolcezza  de  la  testura  del  parlar  nostro,  che  messer  Ales-  1À6I0NAMB1ITO  INTORNO  ALLA  LIN6DA.  317   Sandro  Piccolaomini,  persona  dottissima  e  tanto  rara  qaanto  lo  sai,  ritrovandosi  in  casa  mia,  e  leggendo  aicani  scritti  dì  questi  nostri,  rivoltatosi  a  me,  disse:  come  può  e'  mai  essere,  messer  Cosimo  mio,  che  non  essendo  le  patrie  nostre  più  lontane  V  ttna  da  V  altra  che  trenta  miglia,  noi  altri  non  abbiamo  le  clausole  cosi  dolci  e  gli  andari  tanto  piani  e  si  ordinati,  quanto  gli  veggiamo  e  sentiamo  in  voi  Fiorentini?   GéìU.  £  voi  vedete  bene  che  tutti  costoro  che  fino  ad  oggi  hanno  fatto  le  regole  del  parlar  toscano,  distendendosi  ne  le  declinazioni  solamente,  si  hanno  passato  la  costruzio-  Be  senza  parlarne  se  non  pochissimo,  come  cosa  troppo  difficile  e  ad  essi  forse  mal  riuscibile.  Laonde,  circa  il  for-  mare queste  regole,  non  mi  affaticherei  molto  ne  là  prima  parte  ;  ma  dichiarate  le  parti  de  la  orazione,  e  dimostrate  le  declinabili  e  le  indeclinabili,  e  gli  esempli  de'  verbi,  mas-  simamente con  quella  diversità  che  è  tra  V  uso  moderno  e  quello  che  e'  dicono  de'  nostri  antichi,  me  n'  andrei  tutto  a  la  costruzione.  Ne  la  quale,  consistendovi  (come  ho  detto)  tutta  la  importanzia  di  questa  lingua,  vorrei  io  certamente  usare  una  diligenzia  più  là  che  estrema,  togliendo  da'  tre  sopra  detti  tutto  quel  che  fusse  ben  detto.  Il  che,  al  giudizio  mio,  solamente  sarebbe  quello  che  V  uso  di  oggi  si  ha  man-  tenuto;  essendo  V  orecchio  nostro  inclinato  naturalmente  a  lasciar  sempre  le  cose  aspre,  dure  e  difficili,  e  seguitare  le  dolci  e  le  facili.  Per  la  qual  cosa,  giudicando  io  che  oggi  si  favelli  meglio  in  Firenze  che  in  nessun  de'  tempi  passati,  attribuisco  molto  a  l' uso,  non  di  Mercato  e  del  vulgo  vile,  ma  de'  nobili  e  qualificati  de  la  nostra  città,  come  io  dissi  poco  di  sopra.   Bartoli.  Questo  è  appunto  l' ordine  stesso  e  il  modo  che  il  nostro  GiambuUari  tenne  in  quelle  sue  regole,  che  egli,  già  son  tre  anni,  donò  a  lo  illustrissimo  signor  Don  Fran-  cesco de'  Medici  primogenito  di  Sua  Eccellenza.   Gellù  Voi  dite  il  vero,  che  il  GiambuUari  che  mi  è  quello  amico  che  voi  sapete,  me  le  conferi  molte  volte,  e  massi-  mamente r  anno  passato,  quando  eravamo  in  questo  maneggio:  e  perchè  e'  mi  parve  sempre  che  egli  avesse  trovato  la  vera  via,  e  con  una  diligenzia  maravigiiosa  fatto  ciò  che   27»    KAGIONAMBIITO  INTORNO  ALLA  LINGUA.   fosse  possibile  farsi  in  questa  naterìa,  però  metto  io  a  campo  di  nuovo  lo  stesso  modo  die  egli  ha  tenuto»  Ma  per-  chè non  le  comunica  egli  oramai  con  la  stampa  a  taUe  le  genti  che  le  desiderano?   BartoìL  Sta  di  buona  TogUa,  Geiio,  che  io  ne  Tho  tanto  contaminato»*  che  egli  finalmente  mi  ha  dato  non  solo  esse  reg(^9  ma  e  libera  e  pimia  licenzia  che  io  ne  &ccia  la  vo-  f^ia  mia.  E  cosi  fra  non  molti  giorni  comincerò  a  fturle  stampare,  che  di  tanto  son  convenuto  col  Torreatmo.   GM.  Sollecitate  dunque,  messer  Cosimo  mio,  perché  farete  gran  benefizio  a  chi  desidera  imparar  dal  buono.  Ma  perchè  noi  siamo  oramai  vicini  a  l'ora  de  la  nostra  cena,  rimanetevi  con  Dio,  che  a  casa  sono  aspettato.   Bartolù  Dì  grazia,  cena  con  esso  meco.   GellL  Non  questa  sera,  messer  Cosimo,  che  dovendo  tro-  varmi in  un  altro  luogo,  non  posso  mancar  de  la  mia  pro-  messa. Restate  con  la  buona  notte.   BmtkdL  Poi  che  cosi  ti  piace,  va'  ool  oom»  di  Dio.   Tanto  fu,  messer  Pierfranoesoo  mio  onorando,  il  ragio-  namento che  avete  chiesto  ;  e  messer  Cosimo  nostro  ve  ne  può  render  testimonianza:  Catene  adunque  come  di  cosa  vostra,  che  io  ve  ne  fo  un  presente,  e  vivete  felice^  ricordan-  dovi che  il  GeUo  è  vostro.   Di  Firenze,  il  xvm  di  febraio  MDLL   *  Come  ora  si  direbbe  importunato,  o  seccato.  Velia  Crusca  non  è  con  que-  sto significato.  Io non credo, magnifico signor Consolo,prudentissimi Consi glieri, e voi altri virtuosissimi Accademici e maggiori miei ono randi, ? che con voi, i quali sapete i nostri ordini, e come più per imparare esercitandomi,che per insegnare ad altri,io sia salito oggi in questo luogo,sia di bisogno che io ne faccia seusaalcuna.Ma perchèforsequalcundiquest'altriuditoripo trebbeingiustamente incolparmidipresunzione,essendoioil primo che dopo due si dottissimi e famosissimi uomini, mes ser Francesco Verini filosofo eccellentissimo, e Andrea Dazi tanto nella greca e latina lingua celebrato, sia salito sopra que sta onorata cattedra, non vi sarà grave comportare che in escusazione e scarico mio io dica loro alquante parole. Nobilissimi uditori, iquali tirati dalla fama dei valenti uomini che insino a questo giorno hanno letto in questa nostra Acca demia siate venuti qui,se ilritrovarci in cambio di quegli oggi m e , il q u a l e s a r e i m o l t o p i ù a t t o a t a c e r e c h e a p a r l a r e , v i a r recherà maraviglia,non dovete perciò incolparmi di presunzione. Imperò che avendo ordinato questi miei maggiori Accademici, che per esercizio nostro,per esaltazione di questa nostra lin gua nativa,e per imparare a esprimere in quella inostri con cetti, ciascuno di noi legga una volta quello che più gli piace, ha voluto la sorte che io sia ilprimo a dar principio a così lode devole,eseionon me neinganno,utilissimoesercizio.Nè debbe · Le parole e maggiori miei onorandi mancano nella 2^ T.  La 1a T., ingiustamente potrebbe. 3 La fa T., auditori.   certamente esser preso questo se non per buono e felicissimo augurio di questa nostra Accademia.Perciò che se le cose che fa la natura sono più ferme e più stabili che quelle della fortuna, per procedere quella con ordine e questa senza,ed essendo l'or. dine della natura 'andare sempre dallo imperfetto al perfetto (si come noi manifestamente veggiamo verbigrazia ? nella creazione d e l l ' u o m o, d o v e e l l a f a p r i m i e r a m e n t e u n p e z z o d i c a r n e , il q u a l e è solamente animato d'anima vegetativa come le piante,da im e dici chiamato embrione, e secondariamente infondendovi l'anima sensitiva*lo fa animale,e finalmente gli dà l'anima razionale,la quale è l'ultima perfezione sua),dovrà senza dubbio questa nostra impresa aver anch'ella felice successo,da che io,che sono il più insufficiente di sì bel numero, sono il primo a darle principio. Se dunque voi non,udirete oggi da me cosa degna de'passi spesi da voi a venire in questo luogo,non mancherete però di venire a udire quest'altriche dopo me leggeranno ; da i quali, per esser queglio e per natura e per professione di gran lunga più sufficienti che non sono io, caverete tal frutto, che di que. stie di quelli vi ristorerà largamente.La lezione nostra sarà unluogodiDantenelXXVI capitolodelParadiso;ilquale, per trattare alcune cose del parlare, mi è parso molto al pro posito nostro,essendo questa nostra Accademia stata principal mente ordinata per utilità di questa lingua,o per dir meglio, usando le parole stesse del nostro Boccaccio nella quarta gior nata,di questo nostro fiorentino,volgare. Presterretemi adun que grata udienza come avete cominciato, se non per altro, almeno per dare animo a coloro che dopo me leggeranno; da i qualisenzacomparazionecaveretemaggiore dilettoSemaggior frutto.Ma vegnamo alla nostra lezione. 6  616 LETTURA DUODECIMA La 1a T.,di quella. ? verbigrazia è della 2a T. 3 La 1a T., solamente è. 4 Nella 2a T. manca sensitiva. s La 1a T., l'ultima sua perfezione. quegli è della 2a T. 7 La 1a T.,che io non sono. 8 La 11 T., caverete e diletto maggiore ecc.   LEZIONE UNICA 017 conosciuti,dico,iviziiepurgatosi”da essi,asceseper contem plazione sopra i cieli alla gloria de'beati. Intra i quali trovato il primo nostro padre A d a m o, 4 come desideroso di sapere, lo . dimandò di alcune cose ; fra le quali fu questa,che io oggi ho preso per materia del nostro ragionamento, cioè qual fusse lo idioma o vero il linguaggio nel quale, quando ei fu fatto da Dio,egliprimieramente parlò.Allaqualedimanda rispose Adamo in questa maniera: La lingua ch'io parlai fu tutta spenta Innanzi che all'opra 5 inconsumabile  Libero, sano e dritto 3 è tuo arbitrio, Fosse la gente di Nembrot intenta.6 Che nullo effetto ? mai razionabile Per lo piacer uman,che rinnovella, Seguendo il cielo, fu sempre & durabile. Avendo il divino nostro poeta Dante, poeticamente parlando, nel suo discendere allo Inferno conosciuto tutti i vizii e i p e c cati, che cosi per malizia e per matta bestialità come per umana incontinenza e fragilità si possono commettere,ed essendosene nel passare del Purgatorio in cotal modo purgato, ch'egli era tornato1in quello stato della innocenza nel quale fu creata da Iddio l'umana natura ; là dove la parte nostra inferiore, irra . zionale e mortale, alla superiore, razionale e immortale, stava obbediente, nè punto ardiva la sensitiva e carnale, dalla origi nale giustizia regolata,levarsi e combattere contro allo spirito; tal che dal suo precettore gli fu detto: fallo fora non fare a suo senno; | La 1a T.,che tornato era. 2Cr.Libero,dritto,sano. •La 1aT.,purgato. * La 1a T., Adam . 5Cr.oora. 8Cr.lagentediNembrotteattenta. • Cr, affetto. 8Cr.semprefu.   Opera di natura è ch'uom favella;' Poi fare a voi,secondo che viabbella. Pria ch'io scendessi all'infernale ambascia, Donde s vien la letizia che mi fascia. Elle*sichiamò poi,eciòconviene; Però che l'uso umano 5 è come fronda In ramo,che sen va,ed altra viene. Da queste parole di Adamo caviamo noi oggi tre principali conclusioni.La prima è,come la sua linguasispenseemancò tutta, innanzi che Nembrot cominciasse a edificar la torre ; cosa molto contraria alla volgare oppenione.La seconda,la ragione perchè si mutino i parlari. La terza, la risposta a una obie zione che se gli potrebbe fare,dove egli adduce alcuni esem pli in confermazione di quanto egli ha detto,come largamente si vedrà nel nostro ragionamento.Cominciamo ora adunque a esaminare la prima,con l'aiuto di Colui dal quale depende ogni nostra sufficienzia. Avendo l'onnipotenteIddio,nellaproduzione delmondo,creato tutte le cose insieme con l'uomo,non perchè elle fossero in lor medesimesolamente,maperchèellefosseroancor principiodel l'altre, ciascheduna di quelle della sua specie, non tanto nel generarle, quanto nell'instruirle e governarle,bisognò ch'egli le .creasse nel loro perfetto essere.Dalla quale ragione mossi dis sero alcuni dottori ebrei che il mondo fu creato di settembre; perciò che allora pare che tutti gli alberi,insieme con l'erbe, abbianocondottoaperfezioneifruttiloro.Fu adunque(lasciando stare l'altre cose) creato l'uomo da Dio nel suo stato più per fetto, e in quanto al corpo e in quanto all'anima. In quanto al corpo,sano,bene complessionato,e di età di trenta o tren +Cr.Operanaturaleèch'uom favella. 2Cr.El. öCr.Onde.  618 LETTURA DUODECIMA M a , cosi o cosi, natura lascia Un : s'appellava in terra il sommo bene, Cr. El. 5 Cr. Chè l'uso de'mortali. ancor è della 2a T. 1 6   LEZIONE UNICA 619 tacinque anni, secondo la maggior parte dei dottori, acciò che ei fusse atto alla generazione.E in quanto all'anima, ripieno di tutte quelle scienze, alla cognizione delle quali si può na turalmente pervenire, acciò chè ei potesse insegnare a quegli che nascessero di lui tutte quelle cose che sono necessarie alla vita e al bene esser nostro. Con questa cognizione pose Adamo inomi convenientiatuttelecose,secondolaloronatura;eformò uno idioma,o vogliam dire uno parlare,con ilquale ei po tettemanifestareaidescendentiisuoiconcetti.Ma qualfusse questa lingua, non si sa già manifestamente per alcuno scrit tore. Gli Ebrei, come si legge ne’loro dottori sopra lo XI del Genesi, ove il testo dice che alla edificazione della torre di N e m brot si parlava in terra d'una sola lingua, dicono questa essere stata la loro, ed essersi così dal principio del mondo miraco losamente conservata intera e incorrotta (la qual cosa a nes sun'altra è avvenuta giammai "), per avere parlato Iddio sem p r e -m a i a M o i s è e a g l i a l t r i s u o i p r o f e t i i n q u e l l a ; e q u e s t o è ancora confermato da loro'con l'autorità dei loro Cabalisti,la quale può molto appresso di loro.Il che nasce dalla opinione ch'egli hanno, che quando Iddio dette la legge a Moisè sopra ilmonte Sinai,egli:glidesseancoralainterpretazionediquella, e gli manifestasse molti altri profondi misterii, contenuti e n a scosi sotto la lettera di quella, si come scrive Esdra nel suo primolibro.Ma dicano ch'egliglicomandòsch'einonscri vesse altro che la Legge,e l'altre cose dicesse a bocca a quelli che reggevano ilpopolo.Per laqual cosa,disceso dal monte, solamente le rivelò a losuè;e Iosuè dipoi a i settantadue più vecchi del popolo;e quelli dipoi per ordine successivo le re velaronoailorodiscendenti.E questadicanoesserelascienza Cabala,che non vuol dire altro che ricevuta a bocca per suc cessione. Questa oppenione ebrea ha molte difficultà. Primiera  1 giammai è della 2a T. · La 18 T., e questo ancora confermano. 3 La ja T., esso. * Cioè, dicono ; cosi, appresso , scrivano per scrivono, e simili. 5La14T.,eglicomando.   mente,sicomescrivanoiloroTalmudisti,'e'non parech'eisia vero che questa lingua ch'egli usano,e nella quale è scritta? la Legge, sia la lor prima e antica lingua.Imperò che Esdra, loro sommo sacerdote, nella restaurazione del tempio dopo la servitù Babilonica,5 temendo che se gli avveniva loro un'altra avversità simile, la Legge totalmente non si perdesse, ragunò tutti i savi loro; e fece scrivere quella, e ciò ch'ei sapevano appartenente a quella, in settantadue volumi. Ne'quali si legge che, per essere stati tanto tempo in quella servitù, mutarono molto il modo dello scrivere e dell'antica favella loro, e tro varono nuovi caratteri e nuovi punti, i quali sono quelli ch'egliusano oggi;equesto ancorapare,chesentaS.Girolamo nel prologo sopra i Libri dei Re. La ragione, per la quale ei dicano che Iddio parlo in quella, non è d'alcuno valore; i m però chè quasi tutti i loro scrittori, o la maggior parte, sopra iProfetidicanoIddiononaverparlatomai aquellivocalmente, ma quando egli ha voluto manifestare qualcosa o a Moisé a aglialtri,avere loro formato nella mente uno concetto,per il quale egli hanno inteso pienamente la volontà sua.'L'autorità Cabalistica,dalla servitù Babilonica in qua,non ha avuta molta fede; imperò che allora molti di loro, e per la servitù, e per la loro natura ch'è molto superstiziosa,come scrive Apuleio nel primo libro de'Floridi, scrissero di molte cose (dicendo di averle avute da iloro Cabalisti),che sono manifestamente contro alla lorleggeecontro alla ragione naturale;come sileggenelloro TalmutBabilonico,ilqualenonèaltrocheunoraccoltodi sen tenzie dei loro sapienti di quel tempo.Aggiugnesi ultimamente a questo, che secondo essi medesimi la loro lingua, con loro insieme, ebbe così nome da Eber figliuolo di Sem ,figliuolo di N o è , a l q u a l e n e l l a d i v i s i o n e d e l l a t e r r a t o c c ò l a G i u d e a ; il c h e ·La 1aT.,pererrortipografico,ha Tamuldisti;diquilosconciodella2a, che ha Tamulisti. 2 La 18 T., hanno scritto. i La 1a T., la Babilonica servitù. mai è della 2a T. La 1a T., la sua volontà. delle.  620 LETTURA DUODECIMA 6 La 1a T.,   LEZIONE UNICA 621 I Caldei,o vero Assirii,dall'altra parte dicono similmente che la lor lingua fu la prima che si parlasse mai ; e certamente ellaètantosimileallaebrea,come diceSanGirolamo?nelpro logo di sopra allegato,ch'ei si potrebbe fare coniettura ch'elle fussero già stateo una medesima.E in confermazione di questo adducanoquesteragioni,conl'autoritàdiBerosoCaldeo,'ediMna seae Damasceno, e d'Ieronimo Egizio.Primieramente e'dicano che non si truovano scritture innanzi al diluvio,se non nella lingua loro;e queste esser certe cose di astronomia, insieme con la pre dizione del diluvio scritta da Enoc,figliuolo di Iared,bene cin quecento anni innanzi a quello,in certi pezzi di terra cotta, ac ciò che leacque non l'offendessero.E similmente dicano essere nel MonteGordeo’inArmenia,incertisassi,dovedopo quellosifermò l'arca, scritte in quel luogo da Noè in memoria di tanto caso alcune cose;"e illuogo ancor nella loro lingua chiamarsi Mirmi Noa, che tanto vale uscita di Noè. Aggiungano a questo,che Abramo,ilquale fu primo a dare principio al popolo ebreo, fu da Dio primamente cavato di Caldea.Plinio pare che fusse ancor egli di questa oppenione, scrivendo che le lettere assirie 3 Male le stampe Masea ; e la 12 T., con errore più grave, facendo di due scrittori uno solo,Masea Damasceno.Anche nel Giambullari,Origine della lingua fiorentina (Fir.,1549,p.19),trovasi quasi l'errore stesso, cioè Mnassea Damasceno. Mnasea,geografodellafinedel3°sec.avantia Cristo, e Niccola di Damasco o Damasceno, storico dei tempi di Augusto, sono citati,insieme con Beroso Caldeo e con Girolamo Egiziano,da Giu seppe Flavio nel primo libro delle sue Antichità Giudaiche, là dove ei parla del Diluvio.  fu'circa trecento anni dopo ildiluvio.Si che ei pare più ra gionevole, ch'ella avesse principio allora quando ella ebbe il nome,ch'ellasifusseparlataprimatantotempo.E così,come voi vedete, questa loro oppenione è molto dubbiosa. 1 il che fu non si legge nelle 1a T. La 1a T., S. Ieronimo. 3 La 1a T., che ella fusse già stata. 4 Caldeo manca nella 2a T. 6 cotta manca nella 2a T. ? Giuseppe Flavio, loc. cit., lo chiama Monte de'Cordiei. 8 alcune cose manca nella 1a T.   sono eterne:la quale non di manco non è senza molte diffi cultà. Imperò che molti istoriografi degni di fede, e particular mente Iustino nel secondo della sua Istoria,tengono che la prima terra che fusse abitata sia la Scizia,e conseguentemente la lor lingua parimente sia stata o la prima. Il nostro Dante,parendogli che ciascuna di queste oppenioni fusse dubbiosa e incerta,sicome per il testo si vede,fu d'un altro parere diverso ; e a ciò lo indusse la esperienzia, maestra delle cose.Imperò che vedendo egli per lescritture le lingue d i t e m p o i n t e m p o v a r i a r s i, i n m o d o t a l e c h e c o m e e g l i s c r i v e nel suo Convito) se quei che morirono cinquecento anni sono, risuscitatitornasseroallelorocittadi,eicrederebbonoche quell fosserodastranegentioccupate,perlalinguadaloro discor dante.E non potendo però per questo persuadersi che dal prin cipiodelmondo allaedificazionedellatorre diNembrot,dove corsero circa due mila . anni, sempre si conservasse un m e d e simo modo di parlare, induce Adamo a rispondere che quella lingua,la quale eiprimieramente parlò,sispense e mancò tutta, innanzi che le genti di Nembrot cominciassero a edificare la torre. Per la quale risposta si può chiaramente vedere che il libro Della volgare eloquenza,tanto da alcuni Lombardi lodato,e tra dotto (per dire come loro) in lingua italiana, non è di Dante, ma da qualcuno altro stato cosi composto,e col nome di esso Dante mandato fuora.Con ciò sia cosa che quivi sidicas che la prima lingua,che parlasse Adamo,fuquella che usano oggi gli Ebrei, e che ella durò insino alla edificazione della torre di Nembrot ; dove qui dice Dante il contrario. Oltr'a di  5 La 1a T., 022 LETTURA DUODECIMA que sto, quivi si biasima il parlare fiorentino, il quale Dante nel suo Convito loda massimamente. Le quali contradizioni non credo iomai che Dante non avesse vedute, o vedutole, accon 1 La 1a T. ha soltanto stata . ? Le stampe hanno dalloro ;ma parrebbe qui meglio convenire dalla loro. i della torre, manca nella 2a T. *La 1aT.,dumilia. dice .   LEZIONE UNICA 623 sentite e scritte.E questo basti per intelligenza della nostra prima conclusione.Or vegniamo alla seconda: Che nullo effetto 1 mai razionabile, Per lo piacere uman,che rinnovella Seguendo il cielo, fu sempre ? durabile. Rende la ragione Adamo perchè si mutino e variino i par lari; e comincia da questa dizione che, dicendo che nullo effetto razionabile,cioè nessuna cosa fatta dall'uomo, il quale si chiama animal razionale,per lo piacere umano,cioè per il desiderio e per loappetitoumano:questovocabolopiacerehanellanostra lingua duoi significati; primieramente e'si piglia per ogni sorte di diletto; e appresso, perchè a tutte quelle cose che noi de sideriamo, ottenute che noi le abbiamo, ne seguita la diletta zione e il piacere, ei si piglia ancora per il desiderio e per loappetitochenoiabbiamodiunacosa;sicome noiveggiamo usarlo dal Boccaccio in molti luoghi,e particularmente nella novella di Rustico e di Alibec,dove ei dice:cheper disporla a ' s u o i p i a c e r i, c i o è a l l e s u e v o g l i e : e d i n q u e s t o s i g n i f i c a t o l ' u s a qui Dante, dicendo:per lopiacere umano,cioè per ildesiderio umano,che sirinnova esimuta,seguendo ilmoto del cielo, fu sempre durabile.E qui con grandissima arte egli aggiunse sempre; imperò che ei si truovano molti effetti dell'uomo, si come sono le scritture,le statue e la fama, Che trae l'uom del sepolcro e'n vita il serba, come disseilnostroPetrarca,lequaliduranotantotempo,che gli uomini,per non vedere ilfineloro,l'hanno chiamate eterne; ma non però sono durabili sempre.La qual cosa mirabilmente espresse Dante medesimo in un altro luogo, dicendo: Tutte le vostre cose hanno la morte 3 Come che voi;* ma celasi in alcuna Che vive 5 molto, e le vite son corte.  1 Cr.affetto. 2Cr.semprefu. ö Cr.Le vostre cose tutte hanno lor morte. i Cr. Siccome voi. 5 Cr. Che dura.   E cosiharendutolaragioneperchèiparlarisimutino.Ma per maggiore intelligenza di questa sua ragione, è di necessità vedere per quello che l'uomo si chiami razionabile,e in che modo le sue voglie, seguendo i moti del cielo, si mutino. D e vetedunque saperecheilCreatorediquestouniverso,perfarlo più bello ch'ei poteva, fece in quello di ogni sorte creature ; e quelle dispose tra loro con tanto ordine,cominciandosi dalla prima materia che riceve lo essere di tutte le cose,e salendo d i g r a d o i n g r a d o i n s i n o a l l ' u l t i m a f o r m a , c h ' è I d d i o , il q u a l e 1 dà l'essere a tutte,che ifilosofi l'assimigliarono a i numeri;i quali sono tra loro disposti con tanto ordine, ch'ei non si può tra loro inframettere unità alcuna senza variargli. Intra queste cose,  624 LETTURA DUODECIMA alcune o furono da lui fatte perfette, e alcune imperfette. Perfette si chiamono : quelle che furono da lui create incor ruttibili,e in certo modo eterne, ed ebbero tutte le perfe zioni che si convengono alla loro natura insieme con lo essere, sì come sono, infra i corpi, i cieli, e infra gl'intelletti, quello dell'angelo.Imperfette poi si chiamono quell'altre,che furono da luicreate corruttibili e mortali,e che non ebbero da prin cipiotuttalaloroperfezione,ma sel'hannoacquistataconil moto e con il tempo,e oltr'a questo sono sottoposte a tutte le alterazioni che arrecano seco imoti celesti; si come sono, tra i corpi, le piante e gli animali, e tra gl'intelletti, quello del l'uomo,per essere col suo corpo mirabilmente unito.E questo fece il sommo Fattore, perchè a questo universo non mancasse alcuna sorte di creature, acciò che le perfette con la loro bel lezza e perfezione di natura ci tirassino alla contemplazione di esso Iddio sommo,e le imperfette, poste a lato a quelle,ci ren dessino la loro bellezza più maravigliosa e più desiderabile. L a qual cosa veggiamo noi che usano ancora 6 nei loro canti i m u . sici,mescolandovi delle consonanze imperfette, perchè quelle r e n dino poi le perfette più dolci e più grate a gli orecchi de gli iLa 1aT.,che. 2 2a T., alcune ne furono. 3 La 1a T., chiamo io. * La 1a T., Imperfette chiamo io ecc. 5 La 1a T., che ancor fanno.   LEZIONE UNICA 625 ascoltanti.Ma perchè questo sommo benefattore e padre volle che ogni cosa potesse acquistare la perfezione sua, dette a cia scuna un valore e una virtù per la quale ad essa si conducessi, e una voglia e un desiderio ardentissimo che a quella le ti rassi; si come agli elementi uno valore che gli spigne a quei luoghi dove ei sono sempre perfetti, come alla terra lo andare alcentro,ealfuocoalconcavodellaluna,làdoveegliève ramente fuoco; (imperò che,come noi abbiamo da Aristotile nel primo delle Meteore, questo che noi veggiamo non è fuoco, m a è una soprabbondanza di calore,sicome è ilghiaccio nell'acqua una soprabbondanza di freddo); e alle piante uno principio in trinseco,' per il quale elle si nutrissero ed aumentassero e po tessero generare dell'altre simili a loro;? e agli animali uno principio di moto intrinseco, per il quale ei potessero fuggire quelle cose che fossero nocive e disconvenienti alla natura loro, e seguir quelle che fosser loro salutifere e convenienti, insieme con un desiderio innato che gli spingesse a cercarle. Questo principio nelle piante e negli animali è stato chiamato dai filo sofi natura, che altro non vuol dire, che quella potenza onde ha origine e principio quel moto,per il quale egli acquistano le loro perfezioni.E desiderando similmente ancor che l'intel letto dell'uomo acquistasse la sua perfezione, gli diede una po tenza o vero facultà, con la quale ei potesse similmente acqui starla,chiamata dai filosofi discorso o vero ragione.Imperò che l'intelletto dell'uomo non ha da natura altra cognizione che quella dei primi principii,insieme con ildesiderio dello inten dere,ch'è lasua perfezione:iquali,sìcome noi abbiamo da Ari stotile nel quarto della sua Prima filosofia,' sono le conclusioni che sono parimente chiare e note a tutti gl'intelletti, subito ch'egli hanno inteso itermini loro,come sarebbe questa:egliè impossi bile che in un medesimo tempo una cosa medesima sia e non sia; perchè ciascuno intelletto,subito ch'eisa che cosa è essere,e che 1La 1aT.,uno intrinsecoprincipio. ? La 1a T., dell'altre a loro simili. 3 La 1a T., valore. 4 La 2a T., della sua Filosofia.  40. Vol.II.   626 LETTURA DUODECIMA cosa è non essere,sa che questa conclusione è vera per proprio lume intellettuale, e non l'impara per esperienza o per eserci z i o a l c u n o . O n d e b e n d i s s e il n o s t r o D a n t e n e l s u o P u r g a t o r i o : Da questa cognizione intellettuale de iprimi principii,come da cosa nota,partendosi l'intelletto dell'uomo,con una potenzia ch'egli ha va discorrendo e raziocinando (se così dir si puote) all'intelligenzia delle cose ch'ei non intendeva,ed empiesi di intelligibili,doveprimaeracome una tavola rasa;ecosìviene ad acquistare la sua perfezione. Questa potenzia nella nostra lingua si chiama ragione; e da lei è l'uomo poi chiamato ra zionale, così come quell'altre cose, che io prima vi dissi, per acquistare la loro perfezione con la natura, son chiamate n a turali. Questo nome razionale ? non si può dare all'Angelo, a n cora ch'egli abbia lo intelletto,per essere quello • d'una natura pura intellettuale; la quale fu creata da Dio con tutte le sue perfezioni, cioè piena di tutte le specie intelligibili (onde non sel'haacquistare conalcunasuaoperazione,comel'uomo);e che oltra di questo è 8 di tanta virtù,che quando Iddio gli a p presentasse qualche nuovo intelligibile, ei lo intenderebbe s u bito per semplice lume dell'intelletto,nel modo che intendiamo noi iprimi principii,e senza alcun discorso,e tutto perfetta menteinunoinstanteeinuno tempo indivisibile;enonprima una parte e poi l'altra, si come fa l'intellettonostro ne l’in tender suo,o per non essere di tanta perfezione; m a farebbe in quel modo che fa uno lume,quando egli è portato in una stanza buia,che la illumina tutta in uno istante, e non prima una parte e di poi un'altra.E per questo dicano alcuni teologi che gli A n g e l i c h e p e c c a r o n o n o n si s o n o m a i p o t u t i p e n t i r e ; i m p e r ò c h e ne l'intender suo, non è nella 1a T.  Però là onde nasca 1 l'intelletto Delle prime notizie,uomo non sape. 1Gr. vegnd . ? La 1a T. manca di questa parola. 3La1aT.ha:perchèegliè. ·La18T.,enonsel'haavuteacquistare. 5La1aT.hasolo:Oltraadiquestoeglièecc.   LEZIONE UNICA 627 intendendo quegli ciò ch'egl'intendano per semplice 'apprensione d'intelletto, lo intendano immutabilmente, e senza mai potere variareemutare illoro intendimento;sicome ancora noi non possiamo mutarci di quelle cose che noi intendiamo per sem plicelume d'intelletto,come sonoiprimiprincipii;ilchenon avviene di poi di quelle che noi intendiamo per discorso di ra gione.E peròsichiamal'Angelocreaturaintellettuale,el'uomo creatura razionale e discorsiva.E perchè,in quanto al corpo, l'uomo è composto di questa materia elementare della quale sono composte tutte le altre cose sotto la luna, la quale m a teria è obligata e sottoposta alle alterazioni che inducano i moti celesti in lei,egli è da quegli insieme con l'altre cose di versamente disposto.Onde cosi come la terra altra disposizione riceve dai cieli il verno, quando ella ha a corrompere i semi e generare le cose, e altra la primavera, quando ella si ha a vestire di erbe e di fiori, così la complessione nostra altrimenti è disposta in uno tempo,e altrimenti in un altro;onde l'anima nostra razionale,in quanto ellaè fondata in su questa nostra complessione corporale,altre voglie ha in un tempo,e altre in un altro. Imperò ch'ella è tanto mirabilmente unita con quello,che l'operazioni che ancor totalmente dependono da lei mentre ch'ella è in esso corpo, si attribuiscano al tutto; onde dice il Filosofo nel primo Dell'anima, che chi dicesse : l'anima mia odia,o l'anima mia ama, sarebbe come dire:l'anima mia fila,ol'animamiatesse.E seciònonfusse,cioèchel'anima seguisse la disposizione del corpo,egli ne avverrebbe,sicome apertamente pruova Galeno in una operetta ch'ei fa di questa materia, che l'operazioni degli uomini sarebbero tutte a un modo medesimo;3di che manifestamente si vede ilcontrario. Imperò che le anime nostre nella loro sustanzia,e,come dicono questi teologi, in puris naturalibus, sono tutte in un medesimo modo e d'una medesima virtù;ma pigliano poi diversi costumi, secondo la complessione de'corpi ne'quali elle sono incluse,  1La1aT.,perunasemplice. 4 La 1a T.,con manifesto errore,mutabilmente. 3La1aT.,aunmodo.   e hanno diverse voglie, secondo che quegli si variano per i moti celesti.E questo basti per la seconda parte del nostro ra gionamento. Or vegniamo alla terza e ultima. Risponde dottissimamente in questa ultima parte Adamo a una tacita obiezione, che se gli sarebbe potuto fare; la quale Ma,cosiocosi,naturalascia Poi fare a voi secondo che v'abbella. Per le quali parole voi avete a considerare che l'uomo è c o m posto di due nature,o vogliam dire di due parti;con l'una delle quali,laqualeèl'animaincorporea,immortale,razionalee li bera,egliè simile alleIntelligenzie celesti;econ l'altra,laquale è ilcorpomortaleeirrazionale,èsimileaglianimalibruti.E ciò fu dalla natura fatto con mirabile artificio; imperò che avendo ella fatto in questo universo delle creature irrazionali,corporee e m o r t a l i , e d e l l e r a z i o n a l i, i n c o r p o r e e e d i m m o r t a l i , e n o n v o lendo che siandasse da l'uno estremo all'altro senza mezzo,le fu necessario fare l'uomo, che con una parte communicasse con  628 LETTURA DUODECIMA 1 Opera di natura3 è ch'uom favella; può,non leggesi nella 2a T. ? naturale, manca nella 2^ T. 3 Cr. Opera naturale. è questa. Potrebbe dire alcuno:A me non pare che questa tua ragione, Adamo,conchiuda e sia bastante;imperò che tudi'che iltuo parlare mancò per essere effetto dell'uomo,e gli effetti dell'uomo col tempo mancano tutti,per esser esso uomo ,ch'è la loro causa , caducoemortale;enessunoeffettopuò esseredimaggiorperfe zione che la sua causa. Questo è ben vero, che gli effetti che procedano semplicemente dall'uomo non sono sempre durabili; m a il p a r l a r e n o n è d i q u e s t i . I m p e r ò c h e n o n è s u o e f f e t t o t o talmente, ma è sua propietà naturale;' le quali così fatte pro pietànon siseparano mai dallaspecie loro,sìcome lacalidità dal fuoco, e la frigidità dall'acqua. Dunque come di'tu ch'ei mancasse per esser suo effetto ? Alle quali parole così risponde Adamo :   LEZIONE UNICA 629 q u e s t e , e c o n u n ' a l t r a c o n q u e l l e . E p e r ò il p a r l a r s u o , i n s i e m e con l'altre sue operazioni, si può similmente considerare in due modi.Primieramentesipuò considerarecomesuaproprietàna turale; e questo è il parlare istesso in genere,non si ristrignendo piùaunomodocheaunoaltro;'einquestomodoeglinon mancherà mai all'uomo,ma sempre che saranno uomini,sempre parleranno;e di questo non parla qui Adamo.Secondariamente si può considerare come cosa dependente dalla parte libera e r a zionale dell'uomo ;e questo è il modo del parlare (e non il par lare),come sarebbegreco,latino,o toscano;e in questo modo è egli effetto dell'uomo, e variasi e mutasi secondo che pare a gli uomini.E però disse il Filosofo che i nomi sono stati posti alle cose,secondo ch'è piaciuto a gli uomini.E questo è quello chedicequiAdamo,chemancòemutossi.Onde diceneltesto: Opera di natura è ch'uom favella, cioè : egli è cosa naturale all'u o m o il parlare ; m a così o così, m a più in questo modo che in quello,natura lascia poi fare a voi, secondo che vi abbella, cioè secondo che vi piace;chè cosi si gnifica questo verbo.Il quale è verbo provenzale,che a quei tempi era in uso ; e dal medesimo Poeta ancora fu usato,? nella medesima significazione, nel Purgatorio in persona di Arnaldo di Provenza, che fu nei tempi suoi compositore molto famoso, sì come noi veggiamo per le parole del Petrarca ne'suoi Trionfi. E così è soluta questa obiezione.Ma per maggiore dichiara zione di questo testo, voglio che noi veggiamo per quello che il parlare sia stato dato dalla natura solamente all'uomo, e non ad alcun'altracreatura,ese egliènecessarioono;imperò che la natura, così com'ella non manca mai nelle cose necessarie, non abbonda ancora mais nelle soverchie. ' La 1a T., non si ristrignendo più a questo modo che a quello. 1La 1aT.hasolo:ancorausato.  Avendo la naturà fatto l'uomo, in quanto al corpo, il più imperfetto e debole di alcun altro animale (il che forse le fu 3 ancora mai, non è nella 1a T.   forza, per volerlo fare più prudente che alcun altro,donde gli bisognò farlo di più temperata complessione),ne avviene che ogni minima cosa l'offende; il che non fa così agli altri animali.Oltr'a di questo,avendogli dato lo intelletto in certo modo imperfetto e ilminimo tra le intelligenze,come noi abbiamo dal Filosofo nel libro Dell'anima,e desiderando ch'ei potesse conseguire la perfezione e dell'uno e dell'altro,le fu necessario concedergli il parlare, con il quale ei potesse chiedere i bisogni del corpo, e apparare le cose necessarie alla perfezione dell'anima. Voi vedete,inquantoalcorpo,ch'einasceignudo,ehassia ve stire della pelle degli altri animali, a procacciarsi il cibo, e a fabricare le case,dov'ei possa difendersi da quegli incommodi che arrecano'seco le varie stagioni de'tempi.Vedete ancora di poi,in quanto all'anima,che gli bisogna apparare molte cose,se non necessarie allo essere,almanco al bene essere della sua vita, senzalequaliellasarebbemiseraeinfelice.Ilchenon avviene a gli altri animali;' perciò che ei sono vestiti dalla natura, e per tutto truovano i cibi convenienti alla lor vita ; e senza alcuno maestro, ma solamente da naturale instinto guidati, si sanno fare le case, e ciò che fa loro di mestieri a conservarsi. Vedete la rondine, che quando viene il tempo di fare i suoi figliuoli, sa per natura fare il nido ; e di poi, veggendogli nati ciechi,vaacercare lacelidoniaperguarirgli.Eleformiche similmente sono da lei spinte,quando ifrumenti sono sparsi su per l'aie, a pigliarne e riporgli nelle lor buche. Che bisogno adunque avevano glianimali di parlare? Chè,seeisono d'una specie medesima,hanno bisogno di sìpoche cose, e tutti a un modo,e son spinti dalla natura a cercarle:e se ei sono di varie specie,non convengonoinsieme.Ma all'uomoèeglicertamente stato necessario ;imperò che egli ha bisogno di tante cose,e quanto al corpo e quanto all'anima,che nessuno se le può procacciare per sè solo; e però è stato bisogno che si accozzino insieme molti, e che l'uno sovvenga al bisogno dell'altro. Il che non 4 La 1a T., Il che a gli altri animali non avviene. 2 La 1a T., è dalla natura spinta a cercare. 3 La 1a T., hanno di sì poche cose bisogno.  630 LETTURA DUODECIMA   LEZIONE UNICA 631 si saria potuto fare senza questo mezzo del parlare,con ilquale l'uno possa manifestare all'altro i suoi bisogni ; e per questo la natura l'ha dato solamente all'uomo,come quella che non manca mai'nellecosenecessarie.E peròèquichiamatodalPoetail parlare operazione naturale dell'uomo, cioè necessaria alla n a tura sua.E se alcuno mi opponesse,dicendo che ci sono an cora de gli animali che parlano,si come gli stornegli, le gazze, i papagalli,e non solamente l'uomo,si risponde che il loro non èparlare,ma èunaimitazionedivoce;imperòcheeinonin tendono ciò che ei dicano,e dicano sempre quelle parole che egli hanno nell'udire imparate,o a proposito o no ch'elle si sieno. E se alcun altro dicesse : C o m e di'tu che il parlare è solamente dell'uomo ?non abbiamo noi nelle sacre lettere,in molti luoghi, ch'e'parlanoancoragliangeli?dicocheilparlarenon s'appar tiene all'angelo,come angelo.Imperò che gli angeli sono spiriti, e sono loro manifesti iconcetti l'uno dell'altro; ma se eglino alcuna volta hanno parlato, ei l'hanno fatto per manifestarsi a noi e per bisogno nostro, e hanno preso corpi, dal ripercoti mento de i quali hanno formate le voci o vero suoni,e con la lor virtù le hanno poi terminate e fatte significative; si come ei fecero nell'asina di Balaam, la quale coi suoi strumenti natu rali faceva la voce,e l'angelo la terminava e faceva significativa. A v e t e d u n q u e v e d u t o c o m e il p a r l a r e è s o l a m e n t e d e l l ' u o m o , e com'ei sia sua operazione e proprietà naturale.Della qual conclusioneioprobabilmentecavo una particularlodedellano stra lingua;equesta siè,ch'ellasiapiùpropria all'uomo,che alcun'altrachesiparli.E chequestosiailvero,lopruovocosì. Tanto quanto una operazione è all'uomo più propria e secondo lasuanatura,tantoglièancopiùfacileemen faticosa;ilpar lare nostro gli è men faticoso e più facile che alcun altro; adunqueglièpiùproprio,epiùsecondolanaturasua.E che •La1aT.ha:imperòcheeinonintendonociòcheeidicano,cheèil propriodelparlare.E cheeisiailvero,avvertitechee'diconosempre quelle parole ecc.  i La fa T.,che mai non manca. ? La 1a T., gli storni.   questosiailvero,ponetementechenessunalinguaèpiù fa cile a imparare,che la nostra.Pigliate uno che non sappia altra lingua che lasua,emenateloinTurchia,nellaMagna,fraSpa gnuoli,Francesi o Schiavoni,o tra quale altra gente sivoglia; e poi lo menate tra noi. Voi vedrete (e questo ne dimostra la esperienzia) ch'ei non imparerà di qual si voglia lingua tanto in uno anno, quanto ei farà della nostra in uno mese. Il che non avviene per altro, che per la facilità d'essa, e per la pro prietà ch'ella ha con la natura umana.Un'altra cagione si po trebbe forse ancor dire che fusse quella, per la quale questa nostra lingua s'impara così facilmente.E questa siè,per avere tutte le sue parole che finiscono in lettere vocali ; le quali per essere, come scrive Macrobio, quasi che naturali all'uomo, si mandon più facilmente alla memoria che l'altre,e ancora più lungamente si ritengono.Donde nasce forse ancora quella m a ravigliosa bellezzach'ellaha,scrivendoQuintiliano,chequante più lettere vocali ha una parola, tanto è più dolce e più grato il suo suono. Seguita Adamo ilparlar suo;e per confermazione delle cose ch'egli ha dette adduce per esemplo,che innanzi ch'ei morisse, gliuominimutaronoilnomeaDio;edoveprimalochiama vano Uno,gli posero nome El.Nelle quali parole ei fa quella bellaargomentazione cheilogicichiamanoamaiori;laquale io credo che noi potremo ? chiamare dalla parte più importante. Fa dunque Adamo questa argomentazione, per volere provare che la sua lingua mancò, dicendo: Se Iddio, il quale è sola mente stabile e immutabile in tutto questo universo, a mio tempo mutò nome, che credete voi che facessero l'altre cose, le quali sono in sempiterno moto e continuamente si variano ? Di poi dice che noi non ci debbiamo maravigliare diquesto; con ciò sia cosa che l'uso umano continuamente si muti e si varii in ciascuna operazione nostra. E assomigliandolo alle frondi, fa una comparazione tanto dotta e tanto bella, che io  632 LETTURA DUODECIMA 1La1aT.,eifaunaargomentazione. 2 Così le stampe; ma forse la lezione vera ha da essere potremmo. 3La 1aT.hasolo:conciòsiachel'usoumanocontinovamentesimuta.   LEZIONE UNICA 633 Pria ? ch'io scendessi all'infernale ambascia, cioè: prima ch'io morissi e discendessi nel Purgatorio,o vero nel Limbo,dove andavano tutte l'anime di coloro che crede vano l'avvenimento di Cristo.Ambascia è quella infermità che iGreci e iLatini chiamano asma,e ancora da noi toscanamente si chiama asima;la quale è una difficultà di alitare, che, se condo Aezio nell'ottavo, nasce dall'avere ristretti i meati del polmone (cioè quei luoghi dove passa lo spirito a rinfrescamento del cuore),e ripieni di materie grosse eviscose;'o veramente nasce da debolezza di virtù naturale. Galeno nel quarto libro De'luoghiinfettidicech'ellapuòancorprocedereda infiamma zione di cuore;e dà lo esemplo di coloro che hanno la feb bre,e di coloro che si sono affaticati nel correre, i quali, per avere acceso ilcalore nel cuore ed eccitatolo,'patiscono que sta difficultà di respirare. E perchè ancora coloro che sono rinchiusi in luoghi che non abbino esito,o son ripieni di vapori grossi, patiscano questa difficultà, si dice per similitudine che gli hanno l'ambascia. Ora perchè ilLimbo,come voi avete da Dante medesimo, è un luogo appiccato con l'Inferno nel ventre della Terra; e ne'luoghi che sono sotterra,per esser ripieni di vapori,che il sole continuamente tira da quella, si respira con difficultà, dice qui Adamo: Pria ch'io scendessi all'infernale ambascia, cioè,al Limbo tra gli altri santi padri.Questo luogo ancora nelle s a c r e l e t t e r e è c h i a m a t o il s e n o d i A b r a m o ; e l a c a g i o n e è , p e r chè Abramo fu il primo,che lasciati gl'Idoli venissi al cultos  perme nonsapreichealtralodedarmele,senondirech'ella' è di Dante ; perciò che io non ho mai visto ancora autore al cuno che in questo l'avanzi.Dice adunque il testo: 1 La 18 T., che dire ella ecc. ?Malela2aT.,Prima. 3 La 1a T.,di materia grossa e viscosa. · La 1a T., escitatolo. 5 La 1a T., venne al vero culto.   di Dio;onde gli fu promesso che del seme suo uscirebbe la redenzione del mondo.E però coloro che morivano,andando in questo luogo, si diceva che gli andavano a riposarsi nel seno di A b r a m o, cioè nella promissione che fu data da Dio ad A b r a m o . Dice adunque Adamo:pria ch'io scendessi a questo luogo,il sommo bene, cioè Iddio, Donde vien la letizia che mi fascia, cioè, da cui viene la mia beatitudine (imperò che, come noi a b biamoinSanGiovannialXVIIcapitolo,altrononèvitaeterna chevedereIddio),erachiamato dagliuominiUno.Ilqualenome glifupostodaqueglipersimilitudine,eper alcune proprietadi cheha l'unità con Dio,sìcome è,essere semplice,indivisibile, non essere numero, ma principio di tutti,e mantenere tutte le coseinessere;perchè,come voi avete da Boezio,tantoèuna cosa,quantoellaèuna;lequalituttecosesonoinDio.Im però che egli è semplice e indivisibile; non è alcuna di queste cose che noi veggiamo,ma principio di tutte,e mantienle in essere continuamente ; e molte altre proprietà simili al l'unità , comesileggenelladottrinapitagorica.E perògliposerogli uominiquestonomeUno;perchènonpotendoporglinomi che significassero la sua sustanzia (perchè nessuno conosce il Padre , se non ilFigliuolo,come noi abbiamo in San Matteo allo XI ), gli ponevano di quegli che significano ? qualche sua proprietà. Dipoi,lasciandoquestonome Uno,lochiamaronoEl,cioèDio; il quale nome gli fu ancora posto per una proprietà sua. I m però che considerando gli uomini la maravigliosa potenza de le opere sue, lo assimigliarono a l'ardere del fuoco, non si ritro vando infra l'operazioni delle cose naturali potenzia alcuna che superiquelladelfuoco.Onde diceiltesto:Ellesichiamdpoi. Avvertite che tuttiitesticheiohovistidicano:Eli sichiamo poi; ilche non può stare;imperò che Eli vuol dire Iddio mio; 1 La 28 T., ha ;ma la lezione è mal sicura,poiché il passo nella stampa è guasto, e potrebbe non essere stato emendato interamente nelle correzioni a detta edizione. In quella del Doni, le parole a l'unità mancano.  634 LETTURA DUODECIMA •La faT.,significavano.   LEZIONE UNICA 635 donde la sentenza non quadrerebbe a dire:ei si chiamò poi Iddio mio.Anzi sichiamò El, che vuol dire Iddio.E per fare il verso intero disse Elle,e non El,come ei devea;e usò qui lo Elle in quel modo ch'egli usò nel XXIII canto del Pur gatorio lo m , dicendo : Ben avria quivi conosciuto l'emme. Questo nome El fu ancora posto a Dio per una sua proprietà; perchè tanto è adireEl,quanto potenteeconservatore.E per questa cagione una gran parte degli angeli,per essere stati da Dio ordinati e deputati a governare e mantenere questo uni verso,hanno incluso nel nome loro questo nome diIddio El; nè senza quello si possono nella ebraica lingua proferire, si come è Gabriel,che vuol dire grazia o vero virtù di Dio, Raf fael,medicina di Dio,e così va discorrendo de gli altri.La qual cosa non è senza gran misterio,come potrà ben vedere chi vorrà diligentemente esaminarla nel santissimo Reuclino e nell'uni versalissimo'Agrippa.Di poiseguitailtesto:eciòconviene,e questa è cosa conveniente;però che l'uso umano Dottissimamente e con grande artificio assomiglia il Poeta i c o stumi dei mortali alle fronde.Imperò che,come voisapete,le fronde si generano e cascano da gli alberi per la disposizione che fa il sole con l'altre stelle, appressandosi o discostandosi da quegli; e così le nostre voglie, sì come noi abbiamo a suf ficenzia di sopra dichiarato, si mutano e si variano secondo la disposizionecheilcieloinduceneinostricorpi.E questobasti per dichiarazione di questo testo. Se altra volta ne fia data occasione,noi c'ingegneremo di sodisfarvi maggiormente per la grata audienza che voi ne avete prestata; della quale somma mente vi ringraziamo. 1 La 1a T., e universalissimo. Grice: “The issues Gelli addresses are interesting, but hardly Oxonian.” Grice: “Gelli is considering ‘our tongue’ (nostrra lingua) and conversing on how difficult it is to set it to rules – not impossible, though. Cf. my procedures. Gelli is confused about ethnicity. The Roman ethnicity is different from the Latin ethnicity, -- or rather the Latin ethnicity involved more than the Roman ethnicity – yet he uses freely and undistinnctly ‘lingua romana’ and ‘lingua latina’ – or ‘latino’ meaning sermone – otherwise, he refers to ‘i romani’ – never to ‘I latini’ – the thing is – with who is he contrasting them? With the fioreusciti fiorentini like himself, the flourished Florentines – lingua fiorentina – but he seems to prefer lingua toscana – he accepts that lingua napoletana is quite a different thing, since he himself cared to translate from ‘lingua napoletana’ to ‘lingua toscana’ – more interestingly, he is into Toschani (thus spelled) --. And here comes the myth which some have called evangelist. Etruria as the cradle of Tuscany, and Hebrew and Adam’s tongue as the ‘lingua primigenia’. Gelli is clear about the nature of language – made for ‘uno possa manifestare all’altro i suoi bisogni. Like Plato, he revels in the dialogic form, of a cooper with his own soul – what about Boezio and Cicerone, he asks. They are different. Cicero tried to ENRICH (make piu ricca) the lingua he thought was the ‘piu bella del mondo’ – Boezio the same. But the Toschani are not Romani – and so the cooper can do as he wishes!” Giovan Battista Gelli. Gelli. Keywords: sulla difficultà di mettere in regole la nostra lingua, lingua, linguaggio, Grice on English, idiolect, dialect, Language, ---. Noe – origine della lingua, la lingua di Adamo – la lingua fiorentina -- Accademia agli Orti Oricellari; Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gelli” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51690118940/in/photolist-2mPC6Zb-2mLKeCe-2mKC3nj-2mKFnvf-2mKA5tC

 

Grice e Gemmis – il console – filosofia italiana – Luigi Speranza (Terlizzi). Filosofo. Grice: “I love Gemmis.” Grice: “Gemmis is a good example of how an Italian philosopher differs from a philosophy don at Oxford – ‘don’ is derogatory; whereas de’ Gemmis is a barone! – And he writes about ‘reason,’ ‘ragione’ – with Abate Genovesi --; unlike a ‘don’ at Oxford who would over-do reason to keep a post at his college!” – Grice: “In them days, Italian illuminists took reason very seriously, and possibly ‘light,’ too!” Ferrante de Gemmis (Terlizzi), filosofo. Figlio del Barone di Castel Foce Tommaso de Gemmis e di Francesca Bruni dei baroni di Cannavalle, fu fratello di Gioacchino, rettore dell'Altamura, di Giuseppe de Gemmis, Presidente della Regia Camera della Sommaria, e di Giovanni Andrea, Consigliere della Suprema Corte di Giustizia.  Si trasferì in Napoli affidato al prozio, il potente Ministro Ferrante Maddalena, dove studia dai più prestigiosi precettori. Fu allievo di Genovesi, di cui divenne amico e con cui mantenne una cospicua corrispondenza epistolare raccolta nelle Lettere familiari del celebre illuminista. Si laurea a Napoli, il ministro Maddalena lo introdusse negli ambienti più esclusivi della corte partenopea istituendolo erede universale con la clausola di aggiungere il suo cognome, obbligo mai rispettato dai discendenti. Morto il pro-zio, e nominato dal sovrano giudice a Cava de' Tirreni e fu malvisto a corte poiché rinunzia alla carica per ritirarsi a Terlizzi, per stare vicino al padre malato. Qui si dedica ai suoi studi di filosofia e da vita ad una fervida attività culturale rivelandosi l'esponente primario dell'illuminismo. Istituì una Accademia, vero e proprio cenacolo culturale con scopo di ricerca scientifica e di attuazione pratica di conoscenze in campo agricolo. Purtroppo, non ottenendo l'approvazione Reale perché sospetto centro di idee liberali, l'Accademia dovette chiudere, ma gli incontri culturali proseguirono ufficiosamente per anni grazie anche all'incoraggiamento epistolare di Genovesi. Sposa Caterina Lioyi, di nobile famiglia di orientamento massonico. Fu governatore de promosse il riscatto della città dal diritto di molitura che aveva la duchessa di Giovinazzo donna Eleonora Giudice. Fonda il Conservatorio delle Orfanelle a la scuola pubblica con reale approvazione. Fu inoltre incaricato da Ferdinando I di Borbone al riordinamento dell'amministrazione della Città, che fu divisa in tre ceti in base ai ranghi. Ebbe sette figli, tra cui Tommaso de Gemmis Maddalena, capitano dei R. R. eserciti e governatore militare di Terlizzi; Elisabetta, moglie di Giuseppe de Samuele Cagnazzi, fratello del celebre Luca de Samuele Cagnazzi; Cecilia, sposatasi con Pietro Lupis e Giuseppe, sposato a Donna Maria de Introna, dalla cui discendenza avrà origine il ramo di Gennaro de Gemmis. De Gemmis scrive numerose opere letterarie e filosofiche, che volle pubblicate anonime per modestia e che oggi sono andate perdute, salvo “Tavole cronologiche della Storia Universale” (Napoli, Stamperia della Soc. Letteraria e tipografica). Gaetano Valente Feudalesimo e feudatari Terlizzi nel Settecento, Molfetta, Mezzina, Cabreo de Gemmis, Biblioteca Provinciale de Gemmis, Bari Ruggiero Di Castiglione, La Massoneria nelle Due Sicilie e i fratelli  meridionali del '700, Gangemi Editore, Roma.  FERRANTE DE GEMMIS Figlio di Tommaso de Gemmis e di Francesca Bruni dei baroni di Cannavalle, fu fratello di mons. Gioacchino de Gemmis, rettore dell'Università di Altamura e di Giuseppe de Gemmis, Presidente della Regia Camera della Sommaria. All'età di undici anni si trasferì nella capitale affidato al prozio, il potente Ministro Ferrante Maddalena, dove studiò grammatica, eloquenza greca e latina, logica e matematica dai più prestigiosi precettori dell'epoca. Fu anche allievo dell'Abate Antonio Genovesi, di cui divenne amico e con cui mantenne una cospicua corrispondenza epistolare raccolta nelle Lettere familiari del celebre illuminista. Laureatosi in diritto all'Università di Napoli il ministro Maddalena lo introdusse nella pratica forense e negli ambienti più esclusivi della corte partenopea istituendolo, alla fine, erede universale con la clausola di aggiungere il suo cognome al proprio, obbligo mai rispettato dai discendenti. Morto il prozio nel 1752 fu nominato dal Re giudice a Cava de' Tirreni e fu malvisto a corte poiché rinunziò alla carica per ritirarsi a Terlizzi nel 1754. Qui si dedicò ai suoi studi di filosofia e diede vita ad una fervida attività culturale rivelandosi esponente primario dell'illuminismo della regione. Istituì una Accademia a Terlizzi, vero e proprio cenacolo culturale con scopo di ricerca scientifica e di attuazione pratica di conoscenze in campo agricolo. Purtroppo, non ottenendo l'approvazione Reale perché sospetto centro di idee liberali, l'Accademia dovette chiudere ma gli incontri culturali proseguirono ufficiosamente per anni grazie anche all'incoraggiamento di Antonio Genovesi. Ebbe un grave incidente per la caduta da un calesse, per cui subì una difficile operazione e a stento salvò la vita. Prese in moglie nel 1757 Donna Caterina Lioy di Terlizzi. La nobile famiglia Lioy, di orientamento massonico, si trasferirà in quegli anni a Vicenza dove avrà i natali il nipote Paolo Lioy. Fu governatore di Terlizzi e promosse il riscatto della città dal diritto dell'ius moliendi, diritto di molitura, che aveva la duchessa di Giovinazzo donna Eleonora Giudice. Fondò il Conservatorio delle Orfanelle nel 1769 e nello stesso anno aprì le scuole pubbliche con reale approvazione. Fu inoltre incaricato da Francesco I di Borbone al riordinamento dell'amministrazione della Città, divenuta regia nel 1774. Ebbe sette figli, tra cui Tommaso de Gemmis Maddalena, capitano dei R. R. eserciti e governatore militare di Terlizzi; Elisabetta, moglie di Giuseppe de Samuele Cagnazzi, fratello del celebre Luca de Samuele Cagnazzi; Cecilia, sposatasi con Pietro Lupis e Giuseppe, sposato a Donna Maria de Introna, dalla cui discendenza avrà origine il ramo di Gennaro de Gemmis. Scrisse numerose opere letterarie e filosofiche, che volle pubblicate anonime per modestia e che oggi sono andate perdute, salvo il libro storico intitolato "Tavole cronologiche della Storia Universale" pubblicato a Napoli nella stamperia della Soc. Letteraria e tipografica nel 1782. Ne scrisse la biografia Vitangelo Bisceglia pubblicata nel "Dizionario degli uomini illustri del Regno". Morì a Terlizzi, largamente stimato, il 21 aprile 1803, e fu sepolto nella cappella nobiliare de Gemmis di Terlizzi.Ferrante de Gemmis. Gemmis. Keyowords: il console, tavola cronologica della storia universal. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gemmis” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51758773591/in/dateposted-public/

 

Grice e Genovese -- tribù – filosofia italiana – Luigi Speranza (Napoli). Filosofo. Grice: “I like Genovese; for one, he has explored the philosophy of ‘vincoli,’ which is all that my theory of communication is about!” Grice: “Genovese has explored the etymology of ‘tribe,’ as originating with Romolo!” Gricce: “Genovese has punned on Kant’s silly ‘pure reason,’ surely what Kant meant was a pure critique of reason – since ‘pure’ is hardly synonymous with ‘theoretical,’ which the treatise is all about! When Kant goes on to write Part II, he qualifies ‘reason,’ as ‘practical,’ HARDLY impure!” – Studia a Pisa e Parigi sotto Foucault al Collège de France. Interessato alla teoria dei sistemi, entra in contatto con Luhmann. La teoria sociologica costituirà da allora una parte importante della sua riflessione. Membro della Fondazione per la critica sociale, fa parte della redazione della rivista La società degli individui e lascia la redazione di Il Ponte per contrasti sulla direzione della rivista.  Formatosi in una prospettiva hegelo-marxista vicina alla Scuola di Francoforte, se ne allontana progressivamente (come si può osservare già in “Dell’ideologia inconsapevole. attraverso Schopenhauer, Nietzsche, Adorno” (Napoli, Liguori), assumendo sempre più nettamente una postura scettico-relativista con un’attenzione alle scienze sociali e, in esse, alla funzione, appunto relativistica, svolta dall’antropologia culturale. Indicativo di questo passaggio è l’articolo su “Hume e la filosofia antropologica” in “Tra scetticismo e nichilismo” (Pisa, Ets), in cui nel contempo si nota l’interesse per la teoria dei sistemi.  La forma compiuta dell’evoluzione della sua filosofia si trova in “La tribù occidentale”, “Per una nuova teoria critica” (Torino, Bollati Boringhieri), e:Un illuminismo autocritico. La tribù occidentale e il caos planetario” (Torino, Rosenberg e Sellier), in cui, nella presa di distanze dalla soluzione di Habermas (v. Speranza, “Grice e Habermas”), si profila una logica dell’ibridazione e del paradosso come fuoriuscita dalla dialettica di marca hegeliana.  Questa linea è approfondita, in senso più strettamente politico con il rilancio di un’idea di socialismo, nel successivo “Convivenza difficile” (Milano, Feltrinelli), “L’Occidente tra declino e utopia” (Milano, Feltrinelli), e soprattutto, facendo i conti finali con la teoria dei sistemi, nel “Trattato dei vincoli. Conoscenza, comunicazione, potere” (Napoli, Cronopio),  a tutt’oggi la sua opera teoricamente più significativa. Si è dedicato in modo particolare ai temi politici e civili con “Che cos’è il berlusconismo” (Roma, Manifesto); “Il destino dell’intellettuale” (Roma, Manifesto), “Totalitarismi e populismi” (Roma, Manifesto) -- tutti pubblicati dalla casa editrice Manifesto di Roma, e intervenendo regolarmente in rete nel sito “Le parole e le cose” e in quello della rivista Il Ponte. I suoi interessi estetico-letterari si esprimono dapprima con “Teoria di Lulu. L’immagine femminile e la scena intersoggettiva” – keywords: scena intersoggetiva – (Napoli, Liguori), in cui, nel rivisitare il mitico personaggio teatrale, e poi anche filmico, creato da Wedekind, affronta il tema della cosiddetta lotta dei sessi, ripreso con un romanzo breve in forma epistolare (“L’anti-eros”, Firenze, Ponte alle Grazie) in cui sono presenti sia una chiara vena satirica sia il tentativo di fare filosofia in altro modo, in una vaga ispirazione kierkegaardiana. Seguono i libri di viaggio, o apparentemente tali nella miscela di finzione narrativa e saggismo, Falso diario e Tango italiano (Torino, Bollati Boringhieri); “L’Occidente (“Roma, Manifestolibri), e ancora quello che probabilmente è il suo libro più sofferto, insieme documento di una crisi e stravolta autobiografia visionaria, “Ci sono le fate a Stoccolma. Dal diario dell'esilio mentale” (Reggio Emilia, Diabasis). Altre opere:  “Modi di attribuzione” (Napoli, Liguori); “Figure del paradosso” (Napoli, Liguori); “Critica della ragione impure” (Milano, Bruno Mondadori); “Gli attrezzi del filosofo” (Roma, Manifesto). “L'idea, o forse dovrei dire il gesto, mi sembra felice: invece di scrivere un saggio su x (ideologico, politico, storico) scrivere di sé come turista a disagio che vorrebbe scrivere un libro su x», G. Bollati a R. Genovese, leGiulio Bollati. Lo studioso, l'editore, Torino, Bollati Boringhieri, A. Tricomi, La Repubblica delle Lettere, Macerata, Quodlibet. “Genovese è quasi costretto non semplicemente ad alternare, ma addirittura a sovrapporre, ad arricchire l'uno con le peculiarità degli altri, e infine a rendere, più che reversibili, indistinguibili, registri argomentativi e stilistici tra loro assai diversi. Ci sono le fate a Stoccolma diventa perciò il libro di un  filosofo, senza che mai si possano individuare luoghi del testo in cui una delle anime che lo ispirano prenda nettamente il sopravvento».  MEMORIE I.Ledueleggendetroianaeromulea.– I.Ilprimopopolo,ossia iRamni,iTiziieiLuceri.– IV.Laplebe. Dopo la rivoluzione portata nella storia tradizionale romana dal l'olandese Perizonio, con le sue Animadversiones historicae, e dal Beaufort con la sua famosa Dissertation sur l'incertitude des cinq premiers siècles de l'histoire romaine, lavori che si succedettero alla distanza di mezzo secolo (1), la critica, che era rimasta ne gletta nell'evo antico e nel medio, perchè riguardata o inutile o incapace di produrre frutti fecondi, comparve un elemento neces sario nello studio di quella storia tradizionale. E di quei due critici va detto ciò che in una pubblicazione recentissima (2)sidisse,senza (1)La prima edizione delle Animadversiones venne in luce ad Amsterdam nel 1685,equelladella Dis sertation beaufortiana ad Utrecht nel 1738. (2 ) S t o r i a d i R o m a n a r r a t a d a R . B o n g h i, v o l . I , M a n i f e s t o d i F r . B r i o s c h i, G . B . G i o r g i n i e M . M i n ghetti.QuestitresignorirecanoilseguentegiudiziosullaStoriaRomanadiB.G.NIEBUHR: Amalgama felice di erudizione e di critica, l'opera del Niebhur (sic) era fatta col sentimento che vi domina, non tanto per dare una nuova direzione allo studio delle antichità, quanto per ispirarne l'amore ». Questo giudizio dimostra che gli autori del Manifesto non sono storici. Ma appunto perchè non sono tali, avreb bero potuto astenersi dal profferire sul fondatore della critica storica moderna un giudizio che dilàdelle Alpi fará un'impressione tutt'altro che lusinghiera per noi. Al giudiziodegli scrittori del Manifesto, con trapponiamoquellodelSavignyedelloSchwegler,lacuicompetenzainsiffattoargomento nonèscono sciatadaalcuno.IlSavigny,ne'suoi Vermischte-Schriften,IV,216,cosìparladellaStoriaRomanadel Niebuhr:«L'opera del Niebuhrhaimpressoallatrattazionedellastoriadell'antichitàuncarattereaf fatto nuovo (Niebuhrs Werk hat der Behandlung der Geschichte des Alterthums einen ganz neuen Cha r a k t e r v e r l i e h e n ); e s s a h a i n a l z a t o l ' i d e a l e d e l l a s t o r i o g r a f i a e f i s s a t o l ' i n d i r i z z o d i o g n i r i c e r c a n e l c a m p o Rivista di Storia Italiana.  Origini Romane. 13 I. I critici: loro scuole: Niebuhr, Schwegler, Mommsen , Bonghi. I. <   ragione,aparernostro,delNiebuhr;che,cioè,questisi propo nesse più d'inspirare l'amore allostudiodelleantichitàromane,che di dare a quello studio un indirizzo nuovo. L'opera del Niebuhr mirasoprattuttoaquesto secondoscopo;quantoall'altro,delde stare l'interesse per lo studio delle antichità,esso rampollava natu ralmente dal primo ; mentre la critica del Perizonio e del Beaufort, pel suo carattere negativo, non poteva prefiggersi che quest'ultimo scopo. Sebbene però ilconcorsodellacritica fosse,dopolacomparsadel l'opera del Perizonio,generalmente ammesso,esso non fu usato da tutti secondo l'ufficio suo. E se i più se ne giovarono per ret tificare od anche per abbattere del tutto la tradizione romana, non mancarono anche coloro che se ne servissero in senso op posto, che è a dire, in difesa di essa tradizione. Fra questi ultimi vanno segnalati il Kobbe (Römische Geschichte, 1841),il Gerlach e Bachhofen (Geschichte der Römer, 1851),il Newmann (Royal Rome,ecc.1852)eilDuruy(HistoiredesRomains). Gli altri scrittori, e sono il maggior numero, si divisero in due scuole:all'una vanno ascritti iseguaci del Niebuhr,all'altraisuoi correttori. Oggi il campo è tenuto dai secondi , in mezzo ai quali spiccano le due splendide figure di Alberto Schwegler e di Teodoro Mommsen.Costoro sono pure campioni di due metodi diversi nel l'applicazione della critica alla storia tradizionale romana. Il metodo dello Schwegler è severamente analitico. Egli espone prima la tra dizione in tutti i suoi minuti particolari e con le sue varianti ; poi, nel paragrafo successivo, assoggetta la tradizione ad un rigoroso esame critico, diretto a scovrirne la genesi,e ilcarattere degli ele menti che concorsero a crearla. In questa diagnosi spicca, colla potenza di acume dello scrittore, la sua meravigliosa erudizione. Dopo di avere ben fermato il concetto della leggenda e del mito, e fissate del secondo le categorie diverse (mito etiologico, etimo l o g i c o , e c c . ), e g l i p r o c e d e a c l a s s i f i c a r e g e n e t i c a m e n t e i s i n g o l i e l e menti della tradizione romana, e ci dice quali debbano ascriversi delleantichitàromane»,- EloSchwegler(Röm.Gesch.,I,145)aggiunge:«La StoriaRomanadel Niebuhr, opera sotto ogni rispetto classica, non solo diede una nuova direzione allo studio dell'antichità fatto sinora, ma è ancora il punto di partenza e il fondamento a tutte le ricerche future, alle quali egli segnòl'indirizzoediedeilpiùfecondoimpulso (SeinerömischeGeschichte,eingrossartiges,injeder Beziehung classisches Werk,ist nicht nur der Brennpankt und Abschluss der bisherigen,sondern auch der Ausganzspunkt und die Grundlage aller spätern Forschungen , zu denen es den Anstoss und die fruchtbarste Anregung gegeben hat).  188 MEMORIE   F. BERTOLINI ORIGINI ROMANE 189 alla leggenda, quali all'una o all'altra forma del mito, e quali deb bano aversi in conto di storici.Non oseremmo asserire che in questa minuta classificazione lo Schwegler cogliesse sempre nelsegno;ma dobbiamo pur dichiarare che in essa nulla apparisce mai di co scientemente arbitrario; di maniera che si potrà dissentire da una data sua opinione, perchè faccian difetto gli argomenti con cui c o m provarla, non già perchè gli argomenti siano stati usati a sproposito. L'opera dello Schwegler,comparsa or fanno 30 anni, è rimasta, a parer nostro, fino ad oggi insuperata. E fu una sventura irrepara bile per la scienza, che la vita di quell'uomo dottissimo si spegnesse asoli38anni(n.1819,m.1857). IlmetododelMommsen ètuttol'oppostodiquellodelloSchwegler. Qua il racconto tradizionale è preso in esame capo per capo ; là di esso non è fatto nemmen parola : in luogo della tradizione,abbiamo un racconto ricostruito dalla critica, senza però che estrinsecamente apparisca traccia di siffatto lavoro.Non vi è dubbio che questo m e todo presenti maggiori attrattive dell'altro,perocchè escluda ogni processo dimostrativo; ma appunto perciò porta anche maggiore responsabilità a chi lo segue ; e offre più largo campo alle censure. La Storia romana del Mommsen ne incontro difatti di vive ed acerbe, sebbene il valore generale della sua opera fosse da tutti rico nosciuto. La polemica suscitata da essa tornò poi a grande profitto della critica storica,perchè essa diè occasione al Mommsen di lumeggiare alcuni luoghi oscuri della Storia romana, mercè una serie di monografie storico -critiche, che egli raccolse poi in due v o lumi col titolo di Ricerche romane (Römische Forschungen). Il metodo dello Schwegler trovò in questi ultimi giorni un am plificatore fra noi,in Ruggiero Bonghi.La sua Storia di Roma, da molti anni aspettata, ha cominciato ora a comparire in luce col primo volume. Il chiarissimo autore premette ad esso una lettera in risposta al manifesto dei triumviri che aveano promosso la pub blicazione della sua opera.In questa lettera egli dice, che « gli pa reva strano e vergognoso che una storia tutta nostra non avesse mai ritrovato in Italia chi dopo gli antichi avesse intrapreso di nar rarla ». Veramente, gli storici nazionali di Roma antica non m a n carono, come non mancarono i critici, e da Lorenzo Valla ad Atto Vannucci trovasi una schiera numerosa di dotti che a quello studio applicarono l'ingegno e la dottrina. In questa schiera spiccano i nomi di Francesco Orioli, di P. Uccelli,di Fr. Rossi, dell'ab.Canal, di L. Canina, le cui opere dimostrano, che noi non ci eravamo con    190 MEMORIE tentati, come afferma il Bonghi, di tradurre prima il Rollin, poi il Niebuhr e il Mommsen . E se la letteratura nostra mancasse pure di codeste opere, non basterebbero le pagine inspirate che sulla Storia romana dettarono il Machiavelli e il Vico, per ismentire il basso concetto che il Bonghi reca della storiografia italiana? Il volume che abbiamo davanti non contiene sufficiente materia, perchè si possa dire fin d'ora in quale misura l'aspettazione dell'o pera sia stata soddisfatta. Perché l'autore, amplificando, come si è detto, il metodo dello Schwegler , premette alla critica storica la critica letteraria della tradizione. All'esame di ciò che vi può es sere di storico nella tradizione e della genesi sua, egli manda in nanzi la ricerca della sua forma primigenia. Per ora non abbiamo che la sua dichiarazione di avere scoverto « in una selva selvaggia ed aspra e forte di dissensi, di congetture, di questioni d'ogni fatta qualche sentiero non ancora battuto »; lo che acuisce il desiderio diaveresott'occhilasecondapartedelvolume,che avrebbedo vuto comparire insieme con la prima , con la quale ha comune il subbietto, e della quale è l'anima. L'autore stesso riconosce che lo scompagnare le due parti, come si è fatto, « avrebbe reso meno facile ai lettori di comprendere il suo disegno ». E così appunto è avvenuto ; ed io devo confessare che questa difficoltà è nata anche in me, sebbene il lungo esercizio mi abbia reso in certo modo fa migliare questo studio.Dopo illavoro diligentissimo dello Schwegler, a me era parsa meno necessaria quest'opera « di gran pazienza e fatica»,come l'Autore stesso chiama e con ragione,l'esameminu tissimo cui sottopose la tradizione.E perchè a ciò solo non si rimane l'opera sua nel volume pubblicato,ma qua elàeglifuindottodallo sviluppo della sua analisi, ad entrare nel merito storico della tra dizione, la separazione della seconda parte dalla prima è ancor più deplorata.Senza di essa noi avremmo,per esempio,chiaritosubito la teorica, con la quale l'Autore chiude il suo discorso sulla leg gendadiRomolo,echemessafuoriamo'diassiomastorico,anoi è parsa mancante della necessaria chiarezza, per poterci risolvere ad accettarla. Eccola con le parole stesse dell'Autore : « Del rima nente,ènecessario,dic'egli,tenerebendistintequeste tredimande: prima,seunaleggenda contengaelementistorici;seconda,quale  Sebbene perd l'Italia abbia fatto il dover suo in questo impor tante studio, ciò non iscema l'interesse che desta nei dotti la com parsa di un'opera, dettata da una mente che della sua grande potenza avea dato saggi copiosissimi nelle discipline più svariate.   la storia sia stata ; terza, come la leggenda sia nata. Noi abbiamo obbligo di rispondere di no alla prima dimanda,se ci si prova che debba essere negativa, pur quando non abbiam modo - e moltissime volte anche a tempi molto più vicini ai nostri, che non sono quelli dellafondazionediRoma,nonneabbiamoilmodo— dirispondere nè in tutto nè in parte alla seconda ed alla terza ». Come si vede, questo giudizio riesce alquanto oscuro, particolarmente perché gli manca una dichiarazione di termini, senza la quale non se ne può m i s u r a r e il v a l o r e . C h e c o s a i n t e n d e il B o n g h i p e r l e g g e n d a ? C i d Ciò che noi chiamiamo Leggenda, i Tedeschi chiamano Sage, ma la differenza sta tutta nella forma, mentre un solo ne è ilconcetto. Ora ilconcettodellaleggendaèquesto;cioè,ilricordodiunevento notevole trasmesso oralmente, soprattutto per mezzo di canti popo lari,dall'una all'altra generazione,e colorito dalla fantasia per modo da imprimere ad esso un carattere prodigioso. Il nucleo della leggendaèadunque storico.Ilmito,invece,ètutt'altracosa;in luogo del fatto storico che costituisce l'essenza della leggenda,nel mito abbiamo come elemento essenziale e come motivo genetico una data idea, resa concreta e sensibile per mezzo di un intreccio di fatti immaginarii.Ora,nella tradizione romana leggenda e mito tro vansi mescolati insieme, e il lavoro della critica consiste in cið ap punto, di sceverare l'una dall'altro, e liberare entrambi dagli invo lucri che hanno impresso a ciascuno il carattere proprio. Questo lavoro, che non è meno improbo, e per la storia è assai più utile di quello fatto dal Bonghi nel primo volume della sua opera , fu già tentato da molti ; ed è in esso che apparirà nel vero valor suo l'opera dell'illustre storico. Il presente volume si chiude all'anno 283 della fondazione di Roma. Ed ecco la ragione che il Bonghi dà di questa fermata: « N e l l ' a n n o 2 8 3 , è s u c c e d u t o , d i c e e g l i , n o n a d d i r i t t u r a il p r i m o fatto certo della storia interna di Roma , ma quello de'suoi fatti certi più antichi da cui tutta la sua storia anteriore è spiegata, e tutta la sua storia posteriore,è,se mi si permette la parola, pre formata ; l'elezione dei tribuni nei comizii tributi > Per ciò che riguarda la certezza del fatto accennato, notiamo che esso, tanto rispetto alla sua cronologia, quanto rispetto al suo stesso contenuto, è tutt'altro che sicuro.Fatti certi dei primi secoli di Roma non ponno chiamarsi che quelli i quali sono attestati da documenti autentici. Ed essi sono : la fondazione del tempio federale di Diana sull'Aventino, avvenuta sotto il regno di Servio Tullio : il trattato  F. BERTOLINI ORIGINI ROMANE 191   federale stipulato da Tarquinio il Juniore coi Sabini : il primo trat tato di navigazione e commercio conchiuso da Roma con Cartagine subito dopo il bando di quel re ; e il patto federale conchiuso da Roma colle città latine sotto il secondo consolato di Spurio Cassio. Questi sonoifatti,chesiponno chiamarcerti,perchèqualcunodegli storici maggiori dichiarò di avere visto il documento originale in cui erano consacrati. Tale qualifica non può essere data alla lex Publilia, il cui contenuto forma ancor oggi obbietto di disputazioni fra i critici. Il Bonghi ci dice fin d'ora com'egli spieghi il tenore di quella legge, ed io sono curioso di sentire con quali nuovi ar gomenti egli suffragherà una opinione,che oggi è abbandonata dai più; e cioè, che prima della lex Publilia i tribuni della plebe fos sero eletti in altra sede fuorchè nei comizii tributi.Nei nostri Saggi critici noi esprimemmo il nostro avviso sul tenore della lex Publilia, e rimandiamo il lettore a quel nostro libro, non essendo il caso di ripeterquiciòchescrivemmoaltrove.— Un'ultimaosservazione.Il Bonghi dice, che il fatto del 283 è quello dei fatti certi più antichi di Roma, che spiega tutta la sua storia anteriore.Aspetto di avere la dimostrazione di questo asserto prima di giudicarlo. Per ora, la mia opinione, è che al disopra di quel fatto (badisi che qui si parla di fatti interni) ci stia l'altro della creazione del tribunato della plebe, da cui tanto la lex Publilia, quanto le successive leges tri buniciaeemanaronocome prodottinecessariidiunfattorecomune. II. Il primo problema che si affaccia alla critica nello studio delle romane origini,è come avvenisse l'innesto della leggenda troiana nella leggenda romulea, perchè è fuor d'ogni dubbio che l'una e l'altra traessero origine da fonti diverse; e mentre la romulea è creazione paesana, nata sui luoghi stessi che sono la scena del suo racconto,latroianaèindubbiamenteimportazione straniera.Però non tutti gli elementi di questa seconda leggenda sono nati di fuori. Dal momento che l'eroe troiano ha posto piede nel Lazio, la leg genda lo mette in relazione con le popolazioni indigene,facendogli imprendere una serie di guerre coi Latini, Sabini ed Etruschi.Ora, se tolgasi il protagonista che è un personaggio favoloso, il racconto di quelle guerre racchiude indubbiamente elementi storici, che la sciati inavvertiti da Catone e da Dionisio,furono segnalati e lumeg  192 MEMORIE   F. BERTOLINI ORIGINI ROMANE 193 giati dall'autore dell'Eneide.Infatti,mentre presso idue primi,le lotte combattute da Enea si presentano come guerre dinastiche, nelle quali i popoli appariscono come stromento delle ambizioni di questo o di quel principe;presso Virgilio quelle lotteassumono fin da principio la proporzione di una guerra di stirpi italiche,in cui sono adombrati gli sconvolgimenti politico-sociali onde il Lazio fu teatro nella età preromana . Quel Turno che negli altri racconti figura come capo dei Rutuli,nell'Eneide comparisce come duce di una intera confederazione di città italiche e di popoli di diversa stirpe. Alla sua chiamata accorrono iguerrieri di Laurento,Ardea,An tenne, Crustumerio , Tiburi , Atina , Preneste , Gabii , Anagnia , e con essi gli Aurunci,i Volsci,i Sabini, i Falisci. Per tener fronte a tanta oste, Enea , seguendo il consiglio di Evandro, rivolgesi ai Tirreni,iquali eransidirecenteliberatidal tirannoMezenzio, divenuto ora alleato di Turno ; e col loro ausilio, conquista L a u rento. Ora,levando da questo racconto la parte leggendaria che è la intromessadiEnea,chiaro apparisce ilcontenuto storicodiesso.Ivi troviamo adombrati, da un lato,iprogressi della conquista etrusca nella valle inferiore del Tevere, e dall'altro, gli sforzi operati dai popoli del Lazio per redimere il paese dalla servitù straniera.Alla quale impresa iLatini trovano ausiliarii non pure nelle città fini time del Lazio, ma ancora in un popolo di stirpe sabellica che la primavera sacra ha già portato sulla frontiera latina, e a cui la parte avuta nella liberazione del Lazio frutterà una stanza nel Set timonzio. Così per mezzo di Virgilio noi siamo posti in grado di spiegare lapresenza dei Sabini sul Quirinale e sul Capitolino, comple tando la tradizione romana, il cui contenuto storico, purificato da gl’innesti leggendarii,consiste nel presentarciidue popoli,latinoe sabino,viventi già l'uno presso l'altro sul Settimonzio,e riusciti a pacificarsi e ad unirsi insieme dopo di essere stati lungamente in guerra fra loro. Ancora nei tempi storici, noi troviamo gli Etruschi imperanti nella Campania ; prima di arrivare nella valle del Vol turno, essi aveano dovuto trarre in loro potere la valle inferiore del Tevere, che è a dire , il Lazio. Senza l'Eneide non sapremmo come questo paese ricuperata avesse la sua libertà.L'Eneide ci apprende che ricuperolla per mezzo di una insurrezione popolare capitanata da un eroe. Quest'eroe è Turno. Enea gli ha strappato dalcapoillaurodeiprodi.Ma l’Eneaitalicoèunmito;Turno invece è persona rimasta viva nella tradizione di un popolo. Ed è singolare, che dal gran cantore di Enea la critica storica sia stata    messa sulla via di riconoscere in Turno un eroe italico, e di ren dergli la sua corona. Dopoquestadigressione,che nonc'èparsafuoridiluogo,ve niamo ora a risolvere il problema della confusione avvenuta di due leggende,tanto diverse l'una dall'altra,siaperlafontedacuiema nano, sia pel loro contenuto. La tradizione romana nella sua forma più antica, non  194 MEMORIE (1) « Ennius dicit Iliam fuisse filiam Aeneae,quod si est,Aeneas arus est Romuli » Servio,ad Æn.,VI,778. sa nulla nè dell'una nè dell'altra leggenda. Prima che la boria destata dalla p o t e n z a d i R o m a , i n t r o d u c e s s e il t r o i a n o E n e a n e l l e r o m a n e o r i g i n i , a che nascesse il bisogno di spiegare riflessivamente l'origine nomi, di instituti e di consuetudini di antiche che si trovavano esistenti da tempo immemorabile, senza che fosse stato riferito ab antiquo come fossero nate,la fondazione di Roma erasi spiegata in quel modo semplice, in cui l'antichità si figuró la origine di tutte le città greco-italiche, vale a dire,per mezzo di un fondatore epo n i m o . U n a c i t t à c h e n o m a v a s i R o m a , d o v e a a d u n q u e , s e c o n d o il c o n cetto dell'antichità, avere avuto per fondatore un Romo, progenie divina al pari di tutti i fondatori eponimi. Ed a noi fu serbata questa tradizione semplice della origine di Roma, la quale biamente la più antica. Ne dobbiamo è indub la conoscenza al grammatico Festo , che la tolse dallo storico Antigono. « Antigonus, italicae historiae scriptor,ait,Rhomum quemdam nomine,Jove conceptum urbem condidisse in Palatio , ,Romae eiquededissenomen».Così Festo all'articolo Romam .La tradizioneromulea,nellaqualel'epo nimo Romo diventa Romolo e gli è dato Remo per fratello,e l'uno e l'altro sono aggregati alla dinastia dei Silvii che regnava ad Alba Lunga e ripeteva la sua origine da Enea; questa tradizione era dunque ignota all'antichità.Lo stesso poeta Ennio,che visse nel VI secolodiRoma (239-169 a.C.)non laconoscecheinunostato ancora embrionale,giacchè egli dà allamadre diRomolo,Ilia,Enea per padre (1). Pero , il concetto inspiratore della leggenda è già nato col poeta rudiese, come è nato l'intrecciamento delle due leggende Ora come avvenne questa sovrapposizione . della leggenda troiana alla romulea? La ragione psicologica del fatto fu data già dal Vico in quella boria delle nazioni, le quali appena son pervenute leggenda ad un alto grado di potenza, non sdegnano loro origini oscure, e aspirano a fastose e insigni. Il Vico accennò anche la capitale ca   F. BERTOLINI ORIGINI ROMANE 195 gione che indusse i Romani, quando andarono in cerca di origini fastose, a fissare la mente sulla leggenda di Enea.Ei laattribuisce alla fama strepitosa che ebbe per lo mondo la guerra di Troia, a cagione del poema di Omero e della introduzione dell'Occidente nel ciclo troiano, dovuta alla via che si fece percorrere al reduce Ulisse. Però se la boria nazionale fu la causa inspiratrice della fusione delle due leggende, a questa non mancarono altri impulsi. Quando il Senato romano, verso la fine della prima guerra punica, inter venne nella contesa fra gli Etoli e gli Acarnani, e giustificò la sua intromessa in favore dei secondi, osservando che gli Acarnani erano il solo popolo greco, il quale non avesse partecipato alla guerra contro i Troiani progenitori dei Romani , era l'orgoglio nazionale che ispirava quella dichiarazione. Similmente, quando ilSenato ac cettò l'amicizia offertadal re Seleuco,ponendovi per condizione che liberasse i Troiani da ogni tributo ; e quando Flaminino , nel pre sentareidonativideiRomani aiDioscurieadApollo,chiamòisuoi concittadini col nome di Eneadi, è sempre l'orgoglio nazionale che inspira la fusione delle due leggende. Ma allorquando la politica militare di Roma ebbe prodotto in seno  Altri fattori vanno considerati. E , soprattutto, la parte che nella propagazione della leggenda di Enea in Italia ebbero le numerose colonie greche dell'Italia meridionale, e più specialmente Cuma,che oltre ad essere la più antica e la più vicina al Lazio, era di pro venienza diretta dall'Asia Minore, e precisamente dalla Misia, luogo finitimo alla Troade. E come le colonie greco-italiche divennero al trettanti centri propagatori del culto di Afrodite Alveias, dea dei naviganti, con cui la leggenda di Enea è intimamente collegata, cosi l'oracolo della Sibilla cumana divenne ilcentro propagatore dei fausti vaticinii, onde la religione della dardanica Afrodite confor tava nel suo esilio la famiglia degli Eneadi.Già nell'Iliade è fatta allusione a quei vaticinii, dicendosi che la famiglia di Enea era serbata ad un nuovo e splendido avvenire, mentre quella di Priamo era stata destinata alla perdizione. Ora , in questa promessa di un glorioso avvenire serbato alla progenie di Enea giace il motivo riflesso dell'amalgama delle due leggende troiana e romulea.Roma costitui se stessa obbietto dei vaticinii sibillini, e dichiarò avvenute in se stessa le promesse fatte ai discendenti di Enea.Già il poeta E n n i o p r e s e n t d i n q u e s t o m o d o il f a t t o , d i c e n d o c h e T r o i a e r a r i s o r t a in Roma, e non andrà guari che la Repubblica innalzerá a domma nazionale l'origine troiana della potente metropoli.   alla Repubblica i suoi effetti liberticidi, e la maestà quiritaria che era in bocca a tutte le nazioni straniere, ed era oggetto di terrore e di riverenza universale, scomparve dal popolo per riassumersi in un uomo, l'orgoglio nazionale passò in seconda linea per cedere il primo posto all'interesse dinastico creato da un usurpatore.Il grande anello di congiunzione fra la leggenda di Enea e la dinastia dei Cesari è quel famoso Julo,che comparisce nella genealogia degli Eneadi,or quale figlio, or quale nipote di Enea. E cosi nell'uno,come nell'altro grado, sembra siavi stato introdotto dai Giulii stessi, dopo che fu sorto il giorno di loro grande fortuna. Infatti, gli scrittori più an tichi della leggenda non conoscono quel nome , sebbene più nomi attribuiscano al presunto figlio di Enea,chiamandolo ora Eurileone, ora Ascanio, ora Ilo. Forse quest'ultimo nome, che ricorda quello della patria Ilio,suggerì l'idea della finzione genetica,ed Ilo diventò facilmente Julo progenitore degli Julii. Ciò spiegherebbe il fatto del comparir di quel nome per la prima volta negli scrittori cesarei. C o m u n q u e s i a d e l l ' o r i g i n e s u a , v e n n e u n g i o r n o c h e il p o p o l o r o m a n o apprese per bocca di Caio Giulio Cesare, ch'esso avea nel suo seno una progenie di Celesti,e che dalla morte di Romolo in poi essa avea camminato fuori del diritto divino, nel cui sentiero era ora chia mato a ritornare. Il giorno in cui Cesare, essendo questore,recitò dalla tribuna del Foro il panegirico di sua zia Giulia, fu decisivo per le sorti di Roma e del mondo. Fu là che egli annunzið al popolo stupito,che lasuafamigliaeraaduntempoprogeniedidèiedire.«Amitae meae Juliae maternum genus ab regibus ortum,paternum cum Diis immortalibus conjunctum est.Nam ab Anco Marcio sunt Marcii reges, quo nomine fuit mater, a Venere Julii, cujus gentis familia est nostra. Est ergo in genere et sanctitas regum qui plurimum inter homines pollent, et caerimonias deorum, quorum ipsi in pote state sunt reges » (1). Quando Cesare recitò questa orazione non avea che 32 anni di e t à , e n o n a v e a f a t t o a n c o r a il s u o i n g r e s s o n e l l a p o l i t i c a m i l i t a n t e , comecchè avesse già coperto parecchie magistrature.Ma l'uomo che avea osato fare pubblicamente l'apologia della regia potestà e pro clamare la origine divina della sua famiglia, avea già intuito il futuro e divisato di rivolgerne a suo profitto il realizzamento. Nel seguente anno , infatti, lo vediamo stretto in lega con Pompeo , e (1) SVETONIO, Caes ., cap. 6.  196 MEMORIE   F. BERTOLINI ORGINI ROMANE 197 avviato a compiere il cammino trionfale che da Farsaglia lo con durrà a Munda, e metterà nelle sue mani l'impero del mondo. Riassumendopertantolecoseinsinquidette,noteremo,che se la leggenda romulea è anteriore alla troiana, all'una e all'altra so vrasta per antichità la leggenda semplice,riferitada Antigono,che Roma avesse avuto per fondatore un eroe eponimo progenie di ce lesti, e cioè, che fosse nata nello stesso modo in cui l'antichità si figuró l'origine di tutte le città greco-italiche: che la leggenda ro mulea, sebbene nata sul suolo romano, mostrasi nelle sue parti es senziali come il prodotto di una invenzione riflessa, avente in mira di spiegare sistematicamente le origini di nomi,d'instituti e di con suetudini antiche che si trovavano esistenti da tempo immemorabile, senza che fosse stato riferito come avessero avuto nascimento : che la leggenda troiana, divulgata in Occidente per mezzo delle colonie greco-italiche e degli oracoli sibillini, fu introdotta nella leggenda romulea, quando la boria destata nei Romani dalla loro potenza li obbligo ad andare in cerca di origini fastose da sostituire alla ori gine volgare trasmessa loro dai maggiori. E come la discendenza di Enea era stata creata per soddisfare l'orgoglio di un popolo con quistatore, cosi essa fu scaltramente usufruita da Giulio Cesare per legittimare la sua opera liberticida. Un altro problema non meno interessante della fusione delle due leggende troiana e romulea,per mezzo della quale si spiegò l'ori gine della città di Roma,è quello che concerne la formazione del suo primo popolo. La tradizione romana spiega questa formazione in un modo semplicissimo. Romolo, dopo che ebbe per la morte di Tito Tazio raccolta nelle sue mani la sovranità sui socii Sabini del Settimonzio, parti il popolo in tre tribù, e pose a ciascuna ilnome del duce che aveala capitanata. Ai suoi pose pertanto il nome di Ramnenses ; ai seguaci di Tazio il nome di Titienses, e a quelli diLucumone,cheavealoaiutatonellaguerra contro iSabini,il nome di Lucerenses. Quanto alla nazionalità, la tradizione ne at tribuisce una propria a ciascuna tribù.I Ramnenses di Romolo sono per lei Latini ; i Titienses di Tazio sono Sabini, e iLucerenses di Lucumone sono Etruschi. Però, se la tradizione è concorde ri spetto alla origine dei due primi nomi, non lo è rispetto a quella  III.   del terzo. Il Lucumone di Cicerone diventa presso Plutarco illucus asyli, e presso Paolo Diacono il titolo dignitario e il nome topico si trasformano in una persona, in Lucero re di Ardea. Queste va rianti attestano per se stesse la mal ferma base su cui riposa co desta tradizione. Livio se la sbriga, dicendo il nome dei Luceri di incerta origine. Ma se lo storico maggiore di Roma qualifica d'in certezza l'origine dei Luceri , la filologia dichiara impossibile la d e rivazione dei Ramni da Romolo, avendo questi due nomi radicali affatto diverse. Pure la origine dei nomi sarebbe cosa di poco interesse, quando ad essi non si annettesse la origine della nazionalità. Il Lucumone o il re Lucero da cui si è derivato il nome della terza tribù ro mana, si è prodotto come testimonio della origine etrusca di questa tribù, e da ciò si trasse la conclusione, che la nazione romana uscisse fuori da tre elementi etnici, il latino, il sabino e l'etrusco, e fosse quindi una nazione mista. Diciamo subito che questa opinione è oggi abbandonata (1), e che la critica moderna, dopo di avere impugnato la provenienza etrusca deiLuceri,non arrestandosiaquestoresultamentonegativo,hapur risoluto positivamente la questione, dimostrando che iLuceri devono essere tenutiincontodiunaschiattalatina;ondelanazionero mana sarebbe stata composta di due elementi etnici omogenei , il latino e il sabino, ramificazioni entrambi del gran ceppo italico,che (1) Prima della pubblicazione della Storia Romana di A. SCHWEGLER,l'origine etrusca dei Luceri era ammessa dalla maggior parte degli storici. Tra i fautori di essa vanno ricordati:Feodor Eago, Untergang der Naturstaaton,1812,pag.181,195. WACHSMUTH,AeltereGeschichtedesrömischenStaats,1819, GÖTTLING,GeschichtederrömischenStaatsverfassung,1836,p.55.— USCHOLD,Geschichtedes trojanischen Krieges,1836,pag.347.– KORTÜm,Römische Geschichte,1852,pag.41. BECKER,Hand bruch der römischen alterthümer,1853,II,18,38,135. WALTER, Geschichte des römischen Rechts, 1845,I,II. SCHÖMANN,DeTulloHostilio,1847,p.8.- P.U.(P.UCCELLI),Altrevistesugliantichi popoliitaliani,Cortona,1853,p.172.– A.VANNUCCI,Storiadell'Italiaantica,Fir.,1863,I,pag.392. L'originelatina,anzialbana,deiLucerièammessadalNiebunR,RömischeGeschichte,I,315—- dallo SCHWEOLER,Römische Geschichte,I,505,515 –dalNIEMEYER,De equitibusromanis,p.9esegg. BREDA,Centurie-VerfassungdesServiusTullius dalKLAUSEN,AeneasunddiePenaten-  198 MEMORIE pag. 197. -dal RömischeAlterthümer,dritteAuflage,I,99. IlMommsen silimitaadosservare,nonesseircvhinailcchutns ostacolo ad ammettere la origine latina dei Luceri (Ueber die Herkunft der Lucerer lässtzu erklären), sagen,als das nichts in Wege steht die gleich den Ramnern für eine latinischequeGlelmaeidnidaendare in cerca Röm .Gesch., I,43. L'Ihneinvece èscettico,edicecheèfaticasprecata dall'ag del vero su una questione nella quale le fonti ci lasciano al buio, e che non si gu2a0d.agna nulla g i u g n e r e u n ' o p i n i o n e n u o v a a q u e l l a d e g l i a n t i c h i , R ö m . G e s c h ., L e i p z i g , 1 8 6 8 , I , dalLANGE, parer nostro, che l'Ihne non ha bene studiato la quistione, altrimenti troverebbe che si guadagna qualche cosa da questa aggiunta. Il primo guadagno che si fa è quello di avere chiarito il significato del nome di questa terza tribù.Luc-ere vuol dire risplendere;Luceri equivarrebbe adunque ad illustres:equestoap pellativo ben si addice alla nobiltà di Alba, la quale, dopo la distruzione della loro patria, fu trasferita nel Settimonzio ed ebbe per sua stanza il Celio. Cid dimostra,a   F. BERTOLINI ORIGINI ROMANE 199 immigroinItaliadopoiljapigicoeprimadeiRaseni.Noi diremo gli argomenti coi quali si impugnò la origine etrusca dei Luceri ; indi ci faremo a dire quelli coi quali si dimostró la loro origine latina, e la loro provenienza da Alba Longa. Prima di tutto, vuolsi avere presente, che la origine etrusca dei Luceri non è che una mera presunzione, mancante di una tradi zione positiva, e desunta da dati estrinseci ed accidentali,che pas sati sotto il crogiuolo della critica, non danno alcun frutto. L'uno di questi dati fu somministrato da certa analogia che si riscontra fra il nome della terza tribù e quello di Lucumone , che è titolo gentilizio e dignitario presso gli Etruschi. E come il nome del colle Celio si è voluto spiegare derivandolo da un duce etrusco per nome Cele Vibenna,ilquale,secondo alcuni (Varrone),altempo di Romolo, secondo altri (Tacito), al tempo di Tarquinio Prisco, sarebbesi sta bilito con una grossa schiera dei suoi connazionali nel Settimonzio; cosi il nome Luceri che portavano gli abitanti del Celio si spiego per mezzo del titolo di Lucumone che portava il Vibenna. L'altro dato è ancor più arbitrario, in quanto che fu desunto dalla ubica zionegeograficadiRoma,quasicheilfattodeltrovarsiRoma in mezzo a tre schiatte diverse, generar dovesse necessariamente l'ef fetto, che essa componesse la sua cittadinanza con ciascuna delle tre schiatte, per modo che esse vi fossero rappresentate tutte pro porzionalmente. A questo concetto subbiettivo si contrappone vitto riosamente per ciò che riguarda il contingente etrusco, il famoso motto del trans Tiberim vendere, e del senso latissimo che esso acquisto e mantenne per lungo volgere di secoli, anche dopo che gli Etruschi erano caduti sotto la dipendenza di Roma, ed il Te vere avea cessato di essere un confine politico. In verità,che se gli Etruschi avessero dato a Roma un contingente proporzionale della sua cittadinanza, quel motto diverrebbe uno strano enimma. Perchè esso non si riferisce tanto alla divisione politica dei due Stati, romano ed etrusco, quanto alla differenza di nazionalità,ay vertita e vivamente sentita nella lingua, nelle istituzioni politiche e civili, e nei costumi dei Romani. Ma se i dati estrinseci su cui fu eretta l'ipotesi della origine etrusca dei Luceri non giustificano siffatta conghiettura, le prove intrinseche dimostrano addirittura la sua falsità.Queste prove si de sumono dalla lingua e dalla religione dei Romani. È ovvio,che se gli Etruschi avessero dato un proprio contributo alla formazione del popolo romano, in tal caso la lingua latina dovrebbe somministrare    200 MEMORIE lachiaveperdecifrareleinscrizioni etrusche,edessastessado vrebbe contenere tale copia di voci etrusche da assumere il carat tere di una lingua mista, ossia, di una lingua formata di due diversi organismi ; ma nè il latino aiuta a spiegare l'etrusco, nè nella co stituzione organica della lingua del Lazio apparisce alcun vestigio di miscele eterogenee;chè,anzi,la caratteristica peculiare della lingua latina è la straordinaria uniformità della sua struttura; lo che attesta la uniformità della sua formazione. Alla stessa conclusione conduce l'esame delle istituzioni religiose diRoma.SeiLucerifosserostatiunatribù etrusca,lareligione romana conterrebbe traccie di divinità e di culti etruschi,come ne presenta di divinità sabine. Imperocchè il pareggiamento successivo della terza tribù alle due prime dovesse avere per effetto la mutua comunicazione dei rispettivi culti, come cið era avvenuto prima fra i Ramni e i Tizii, ossia fra Latini e Sabini. Ora, la religione ro mana non presenta una sola divinità e un solo culto che vesta un carattere etrusco. Anche lo stato d'inferiorità, in che,rispetto alla tribù dei Ramni e dei Tizii,trovasi la tribù dei Luceri,portato al grado da tenere costoro fino al tempo di Tarquinio Prisco esclusi dal Senato, contraddice alla ipotesi che i Luceri entrassero fin dal l'origine di Roma a formar parte del primo popolo,e compissero di questo la compagine etnica recando nel suo seno l'elemento etrusco. Questo stato d'inferiorità si spiega invece in modo semplice e na turale, quando ammettasi che la tribù dei Luceri fosse costituita dai nobili d'Alba tramutati a Roma, e che quindi entrasse più tardi a formar parte del primo popolo. Alla posteriore aggregazione dei Luceri alle due primitive tribù, e allo stato d'inferiorità dei primi rispetto alle seconde accenna il verso di Properzio (IV, 1, 31): «HincTatiesRamnesqueviri,Luceresquecoloni».— Nonmancano poi le prove dirette, dimostranti che i Luceri , oltre ad essere e n trati posteriormente nel consorzio dei Romani e dei Tizii,sono pure di origine albana. Tito Livio (II, 33), parlando degli stanziamenti condotti dal re Anco Marcio sul colle Aventino, osserva che egli assegnò ai vinti Latini per sede quel colle, perché gli altri quattro, il P a l a t i n o , il C a p i t o l i n o , il Q u i r i n a l e e il C e l i o (il V i m i n a l e e l ' E s q u i lino furono aggiunti alla città solo dal tempo di Servio Tullio) erano già popolati ; e cioè, il colle Palatino dai Romani primitivi, ossia dai Ramni ; e il Capitolino e il Quirinale dai Sabini, e il Celio dagli A l b a n i . O r a , s e q u e s t i u l t i m i e b b e r o p e r l o r o s t a n z a il C e l i o , n o n saprebbesi davvero dove collocare iLuceri,quando non siammet    F. BERTOLINI ORIGINI ROMANE 201 tesse che i Luceri e gli Albani fossero la stessa cosa. La critica adunque negando la origine etrusca dei Luceri, ha messo in sodo il fatto che la nazione romana venne composta di due elementi etnici,anzichè di tre,il latino,cioè,e ilsabino.Questa composizione spiega il carattere che distingue la nazione romana dalle altre na zioni italiche. Questo carattere è il prodotto della fusione di due stirpi che parevano fatte apposta per completarsi a vicenda. Dall'e lemento sabino il popolo romano riceverà la frugalità, lo spirito religioso, la severità dei costumi, il principio della patriapotestas lasciata senza freno dalle leggi. Sono la base di granito e il duro cemento che i Sabini apporteranno all'edifizio romano (1). Se nel sabino prevale lo spirito di conservazione, nel latino predomina lo spirito di sviluppo. Ma come il primo non è inflessibile, così il se condo non è radicale. E dal contrasto fra la mobilità latina e la stabilità sabina derivò quel lento, ma pur continuo e sicuro sviluppo della costituzione romana, che formd di essa la più grande creazione politica della civiltà antica (2). Ma le tribù dei Ramni, dei Tizii e dei Luceri non formano t u t t o il p o p o l o r o m a n o . A c c a n t o a l o r o c o m p a r i s c e , c o m e p a r t e c o stitutiva di esso popolo,la plebe,la quale,dopo di essere rimasta a lungo in uno stato di semi-dipendenza dal primo popolo , ossia dal patriziato, fini col prevalere su di esso, ed obbligarlo a seguire la sua via. Ora, come sorse questo ceto sociale? Ecco il terzo problema che ci proponiamo di risolvere in questo breve nostro lavoro (3). (1) I Romani non erano ignari di questo prezioso patrimonio che avevano ricevuto dai Sabini. Ce lo attesta Catone per bocca di Servio : « Sabinorum mores populum romanum secutum Cato dicit ». SERVIO a d E n ., V I I I , 6 3 8 . (2)Vedi Devaux,Étudespolitiquessur lesprincipauxévénementsdel'histoireromaine,Paris,1880,I,25. (3) La quistione dell'origine della plebe fu studiata particolarmente dallo STRESSER, Versuch über die römischen Plebejer der ältesten Zeit, Elberfeld, 1832. PELLEGRINO, Ueber den ursprünglichen Reli gionsunterschiedderPatricierundPlebejer,Leipzig,1842. -lune,Forschungenaufdem Gebieteder römischenVerfassungsgeschichte,Frankfurta.M.1847. KRUSZYNSKI,DierömischePlebsinihrerpo litischenEntwickelungvom UrsprungebiszurvölligenGleichstellunngmitdenPatriciern,Lemberg,1852. SCHWEGLER,Römische Geschichte,I,628. TOPHOFF,Depleberomana,Essen,1856. WALLINDER, De statu plebejorum Romanorum ante primam inmontem sacrum secessionem quaestiones,Upsaliae,1860. - Lange, Verbindung der plebs mit dem patricischen Staate (nei Römische Alterthümer, Berlin, 1876, 1 , 4 1 4 ).  IV.   Gli storici antichi erano affatto all'oscuro intorno il fatto della origine del ceto plebeo di Roma. La sola cosa che essi sapessero era che la plebe erasi trovata sempre in uno stato d'antagonismo verso il patriziato: da ciò la definizione negativa che essi davano della plebe, chiamandola il ceto in cui gentes civium patriciae non insunt.Perqualviapoil'antagonismo fossenato,oinaltriter mini, come la plebe avesse avuto origine,ciò essi riguardavano come una quistione oziosa, imperocchè a loro paresse assurda l'idea che fossemai esistito uno Stato romano senza plebe;onde per loro era un assioma, che patriziato e plebe fossero nati e cresciuti insieme collo Stato romano. Contro questa presunzione stava però il fatto, non considerato, della condizione giuridica diversa in che trovavansi due ceti sociali all'infuori del patriziato, la quale attestava che essi non erano nati insieme nè allo stesso modo. Accanto alla plebe,trovasi, cioè,neiprimi tempi delloStato romano,laclientela,caratterizzata e distinta dalla plebe dalla forma speciale della sua dipendenza. Mentre la dipendenza della plebe avea un carattere impersonale e comprendeva ilcetonellasuageneralità,quelladellaclientelaimpe gnava giuridicamente l'individuo come persona e non come consorte, ed appunto perciò esso nomavasi cliente (da cluere, klúeiv, dipen dere),in quanto che fosse ascritto alla gente di un patrono,e da questo dipendesse. Che se nel giure politico plebei e clienti trovansi originariamente costituiti nella stessa condizione negativa ; nel giure privato, la condizione loro era assai diversa. Il cliente nè possedeva del proprio, nè poteva stare in giudizio; mentre ilplebeo possedeva s u q u e s t o c a m p o p i e n a p e r s o n a l i t à g i u r i d i c a ( c i v i t a s s i n e s u f f r a g i o ); di guisa che, quando per la costituzione di Servio Tullio, il censo divenne il fattore del diritto di suffragio,questo diritto iplebei con s e g u i r o n o , m e n t r e i c l i e n t i n e r i m a s e r o o r b i c o m e p e r il p a s s a t o ( 1 ) . Ora, questa differenza esistente fra i due ceti inferiori non si pud altrimente spiegare fuorché ritenendo,che l'origine loro fosse,rispetto al tempo e al modo, diversa. La clientela deve certamente avere preceduto la plebe, e l'inferiorità della prima rispetto alla seconda dimostra che la forza, che creò la sottomissione dei due ceti, eser citò sui vinti ridotti in clientela un impero più assoluto che su quelli ridotti in istato di plebeità. (1) Perchè il cliente conseguire potesse iljus suffragii faceva mestieri che il dominium ,che egli te nevacome peculium,glifosse assegnatocomeliberaproprietàexjure Quiritium.Ilqualeattoequiva leva in certo modo ad una manumissio censu .  202 MEMORIE   F. BERTOLINI ORIGINI ROMANE 203 Ora, se l'istituzione della clientela è più antica che quella della plebe, è forza cercarne l'origine nella prima conquista che frutto ai Ramni edaiTiziiildominiodelSettimonzio.Gliabitantiprimitivi di quella regione devono avere formato il nucleo della clientela romana, che le ulteriori conquiste vennero via via ingrossando. Ma tra la prima e le ulteriori conquiste, corse, rispetto agli ef fetti sociali, forte differenza. Se la prima non produsse che dei clienti e degli schiavi, le successive produssero particolarmente dei plebei. Già l'interesse politico consigliava i conquistatori a tempe rare verso i nuovi vinti il rigore dell'antico jus gentium ; e noi non abbiamo memoria della piena applicazione di quel diritto che verso la città di Collazia (1). E se alle famiglie imperanti fosse pur piaciuto di partire i novelli sudditi fra le genti romane, traducen dole sotto la loro clientela, la monarchia dovea opporsi a questo uso della conquista che avrebbe con pregiudizio della regia potestà accresciuto in modo esorbitante la potenza dell'aristocrazia. E chi erano poi questi vinti? Erano Latini : appartenevano, cioè, a quella stirpe che avea coi Ramni formato il nucleo della cittadi nanza romana ; erano dunque connazionali dei Romani. Che se co storo aveano avuto pei vinti Albani tale riguardo, da ammetterli nel loro consorzio religioso e politico, perchè vorrassi ammettere che verso gli altri popoli latini,sottomessi pure colle armi,applicas sero in tutto il suo rigore il diritto della guerra? E ove pure si ammettesse che questo rigore fosse usato, come ci renderemmo ra gione del sorgere di questa plebe e della importanza sociale che venne improvvisamente acquistando, così da presentarsi come un potente appoggio della monarchia, e da ricevere da questa servigi e beneficî che schiuderanno all'avvenir suo il più vasto orizzonte? Non dimentichiamo che questi plebei son Latini.La tradizione stessa ci dice quando e per opera di chi i popoli del Lazio caddero sotto ladizionediRoma.La distruzionediAlbaLonga,eiltramuta mento dei nobili Albani nel Settimonzio , portarono per effetto lo scoppio di ostilità fra le città latine, erettesi a vindici della loro antica metropoli, e Roma che pretendeva, come conquistatrice di Alba Longa, di essere riconosciuta anche come erede della sua (1) Livio ci ha trasmessa la formula deditionis di Collazio, che egli attinse verisimilmente dai C o m mentarii Pontificum : « Rex interrogavit: dedistisne vos populumque Conlatinum,urbem ,agros,aquam, terminos, delubra, utensilia, divina humanaque omnia in meam populique romani dicionem ? Dedimus ». Livio, I, 38. La domanda del re è rivolta ai deputati di Collazia. Rivista di Storia Italiana.    egemonia sulla confederazione latina. La grossa guerra scoppiò sotto Anco Marcio.Non èdubbiochequesti,primadiscendereincampo, approfittasse delle gelosie esistenti fra l'una e l'altra città latina, e che sono effetto di ogni confederazione a base ristretta, per r o m pere il fascio con promesse e lusinghe date a tempo e a luogo. Senza ciò, non potremmo avere ragione della sua facile e completa vittoria.Ora che cosa fece Anco Marcio di questi nuovi vinti?Gli storici antichi ce lo apprendono in modo chiaro : « Ancus Marcius, dice Cicerone (1), quum Latinos bello devicisset, adscivit eos in ci vitatem».ELivio,completando ilraccontodiCicerone,osserva che Anco segui rispetto ai vinti Latini il costume regum priorum , onde anche allora parecchie migliaia di Latini furono introdotti nellacittadinanzaromana:«tum quoquemultismillibusLatinorum i n c i v i t a t e m a c c e p t i s » ( 2 ). N o n c i c u r i a m o d e l r a c c o n t o t r a d i z i o n a l e , chefamaterialmenteintrodurredaAncoinRoma questivinti,eas segnare ad essi per sede il colle Aventino e la valle Murcia . In questo racconto,laprolessistoricaèmanifesta:chesappiamo in modo in contestabile,chefinoallafinedelIII°secolodiRoma,l'Aventino fu disabitato (3). Ma lasciando da parte questo particolare, ciò che va considerato nel racconto tradizionale è il fatto della cittadinanza c o n cessa da Anco Marcio ai vinti Latini. E perchè, nè questa era la prima guerra combattuta vittoriosamente da Roma contro i Latini,e nemmeno era la prima volta che della vittoria fosse fatto quest'uso; ne emerge,e Livio avvalora l'induzione nostra,che se laconquista di Ancodiedeilmaggiorcontingentealcetoplebeo,essanon neinizio la formazione, come suppose ilNiebuhr,seguito in cið dallo Schwegler, dal Lange e da altri. Il Bonghi, per ora si limita a dire, che non credechela plebedovesse lasuaorigine adAnco,e promette,che «procurerà altrove di esporre donde sia nata l'opinione di una condottarispettoa'vintineirediRoma,cosidiversa da quella che per molto tempo appare propria della città nel seguito della sua storia ».E perchè insin d'ora egli dichiara esposta a molti e gravi dubbii cosi larga concessione di cittadinanza, il desiderio di sapere quale opinione l'insigne storico porti sul gravissimo tema della ori (3) Lo fece abitare la « les Icilia de Aventino publicando » dell'anno 298. Il tenore di questa legge ci è dato da Dionisio, il quale attesta di aver letto il testo originale di essa inciso in una colonna di bronzo che sorgeva nel tempio di Diana sull'Aventino. Drox ., X , 32 .  204 MEMORIE (1)DeRep.,II,18,33. (2 ) L i v ., I , 3 3 .   F. BERTOLINI ORIGINI EOMANE 205 ginedellaplebe romana rimane più fortemente sentito.Comunque sia perd dell'opinione del Bonghi su ciò, noi rimaniamo saldi nella nostra,laquale,oltreadavereilsuffragiodellefonti,hapure insuo favore la condizione sociale da cui la romana plebe fu costituita. Il plebeo romano è agricoltore; egli non è nè commerciante nè indu striale;queste arti,che nell'antichità erano assai meno considerate dell'agricoltura,sonoprofessateinRoma peculiarmente daiclientie dai liberti.Codesta condizione sociale della plebe romana è attestata dallatradizioneinpiùmodi.Ora,essacidiceche Servio Tullio,per poter avere l'appoggio della plebe alla sua esaltazione al trono, chiamòincittàirurali,eperboccadiCatone ci dice,che gliagri coltori formavano il nerbo della fanteria romana (1). Ma un testi monio che serve per tutti, è l'antica istituzione che le adunanze plebee,ossiaicomiziitributi,non sipotessero tenere cheneigiorni di mercato (nundines), e che ogni proposta di legge dovesse pubbli carsi tre giorni di mercato (trinundines) prima di essere messa a partito (2) Anche la condotta tenuta dalla plebe nella sua lotta col patriziato conferma questa condizione sua.Gli storici qualificano siffatta con d o t t a c o l l e p a r o l e m o d e s t i a , v e r e c u n d i a e p a t i e n t i a ( 3 ). S o n o d o t i codeste che appariscono più proprie di coloro che attendono alla col tura dei campi, che di coloro che praticano l'industria e il com mercio (4). E se le contese sociali di Roma non degenerarono in ( 1 ) « E x a g r i c o l i s v i r i f o r t i s s i m i e t m i l i t e s s t r e n u i s s i m i g i g n u n t u r » , C a t o n e , D e r e r u s t i c a , P r a e f ., $ 4 . (2) MACROBIO TEODOSIO, Saturnalia , I, 16, 34 : « Rutilius scribit Romanos instituisse nundinas, ut octo quidem diebus in agris rustici opus facerent,nono autem die intermisso rure ad mercatum legesque acci piendas Romam venirent,et ut scita atque consultafrequentiore populo referrentur,quae trinundino die proposito a singulis atque universis facile poscebantur ». (4) Ci sia permesso di riportare su l'influenza educativa dell'agricoltura un brano di una conferenza che tenemmo nel 1881 all'Esposizione Nazionale di Milano, col titolo : L'industria nei suoi rapporti colla civilta. «Gli economisti,dicevamo,sogliono distinguereduespeciedilavoro:quellocheagiscesullecose,e quello che agisce sugli uomini. Questa distinzione non è esatta. Se tolgasi il lavoro puramente intellet tuale,ogni altro agisce ad un tempo su gli uomini e su le cose;questa duplice azione viene esercitata sopratutto dall'agricoltura e dall'industria. Dal raffronto fra queste due arti ritrarremo la ragione psico logica del nesso intimo che esiste fra l'industria e la libertà. « L'agricoltore riguarda la terra come fonte unica della ricchezza ; essa è per lui una provvidenza e un mistero ad un tempo. Perciò noi lo vediamo affezionato al suo suolo, ivi fissato in istabile sede,ed unito in pacifico consorzio co' suoi conterranei. Da questo legame contratto dall'uomo colla terra che lo nutre nacque ilprimo concetto di patria,come dai consorziigeneratidall'agricolturaebberooriginoiprimi Stati. « Ma la terra, come dicemmo, non è per l'agricoltore solo una provvidenza, essa è per lui anche un mistero. E questo lato misterioso sarà una sorgente feconda di superstizioni, che egli porterà facilmente anche nei negozi civili, o nelle maggiori contingenze della vita pubblica. Quei soldati di Nicia e D e mostene,chelanottedel27agosto413a.C.ricusaronodilevareilcampoda Siracusaerifugiarsia  (3)Livio,III,52. 3:V,25,12. CICERONE,de Rep.,II,36,61.   Riassumendo pertanto le cose dette intorno la formazione della plebe romana,diremo,che sebbene la genesi di quel ceto non possa esserechiaritaintuttiisuoiparticolari, tuttavia hannosi datiposi tivi,iquali rilevano di che elementi fosse formato, e la ragione po litica che indusse i vincitori a trattare i vinti con una generosità di cui non si ha esempio nella storia dell'antichità. Questi dati ci dimostrano ancora che la istituzione della clientela precedette quella della plebe, e ci spiegano il diverso trattamento avuto dai primi vinti rispetto ai secondi. Catania, perchè quella notte comparve in cielo un ecclisse lunare, erano agricoltori dell'Attica. E l'es sere essi rimasti in quel luogo portò per effetto lo sterminio della flotta e dell'esercito ateniese,e la ro vina di Atene. « Del resto, non è da meravigliarsi che l'agricoltore sia superstizioso. Quel grano che egli consegna alla terra per riceverlo moltiplicato, non gli dice come sia avvenuto il fatto della moltiplicazione sua. mentre questo evento che ogni anno si rinnova gli stordisce l'intelletto, altri fenomeni del mondo fisico, dinaturadeleteria,gliriempionol'animodisgomentoediterrore.L'uragano cheglidevastailcampo; la grandine che gli distrugge le messi, gli appariscono mandatarii di forze arcane che gli fanno la « Dallo stesso principio che aveva dato nascimento alle gerarchie ipercosiniche ebbero origine le ge rarchie sociali, trasformate ben presto in tirannidi. Il despota non è un uomo come un altro. Egli è il mandatario di un ente superiore che gli affida l'incarico d'imperare in suo nome. E l'agricoltore subisce rassegnato il suo imperio, e comprende nel suo culto mandatario e mandante, dai quali altro non impetra che la sua pace. « Quanto diverso è il magistero civile che si consegue dall'industria ! Anche l'industriale ritrae dalla naturafisicalamateriadelsuolavoro.Ma questamateriainluogodiessereperluiunmistero,èinvece una rivelazione. Essa gli rivela che egli coll'opera della sua intelligenza non solo può trasformare i pro dotti della natura e adattarli a'suoi bisogni,ma può anche sorprendere isegreti di essa e svelarli.Si, l'intelligenza gl'insegna,ch'egli può perfino combattere contro la natura,ora congiungendo mari da lei divisi, ora atterrando baluardi da lei inalzati fra l'una e l'altra regione, ora sopprimendo colla vaporiera e coll'elettrico le distanze. Se l'agricoltore può chiamarsi servo della natura, l'industriale può dirsi suo ribelle. Ed è mai possibile che quest'uomo, al quale l'impero della natura è troppo grave,possa rassegnarsi a sopportare l'impero di un suo simile ? »  206 MEMORIE guerre civili, come avvenne in tutti gli altri Stati dell'antichità con jattura della loro libertà, cið fu particolarmente dovuto al carattere longanimeepazientedellapleberomana,laquale,convinta delsuo diritto, lasciò che il tempo ne facesse maturare la coscienza anche nei suoi avversarii, e transigette sopra uno scacco patito oggi per essere più sicura della vittoria domani. guerra , e contro le quali egli non sa difendersi. Da ciò il suo ricorso ad una tutela che lo educherà alla sommes sione per prepararlo alla servitù. In questi misteri del mondo fisico è riposta quindi la genesi tanto delle religioni, quanto delle teocrazie. Le due specie divine, l'una delle quali risiede in cielo in mezzo alla luce, l'altra negli abissi del tartaro, sono emanazioni antropomorfe delle forze benefiche e malefiche della na tura.Createlespecie,erafacilecreareunasimbolica,permezzodellaquale spiegareidiversifenomeni e momenti della natura fisica. In questa simbolica vediamo attribuita una importanza affatto speciale al fenomeno della fecondazione terrestre. I Latini simboleggiarono quel fenomeno in una festa nuziale divina chesirinnovava ognianno nelmesedidicembre,quandolanaturasiraccoglieinsè,eserbainistato latente le sue forze per ispiegarle rigogliose tra poco. Così ebbero origine in Roma i Saturnali, la più popolare delle feste romane, durante la quale era concesso anche agli schiavi di ricordarsi di essere uomini. La chiesa cristiana sostituì ai Saturnali la nascita del Cristo,e non poteva collocare in migliore luogo la comparsa dell'uomo che veniva ad insegnare, essere tutti gli uomini eguali davanti a Dio.   F. BERTOLINI ORIGINI ROMANE 207 La clientela sorse colla conquista del Settimonzio, ossia,colla for mazione del primo Stato ; e clienti diventarono i prischi abitatori di quella contrada. La plebe surse invece col primo sviluppo che con seguì lo Stato romano fuori del Settimonzio, nelle altre contrade del Lazio. Una eccezione fu fatta cogli Albani, e fu eccezione di privilegio dovuta al primato che Alba Longa possedeva verso le città della lega latina. Sia la riverenza che tributar si volle all'antica metropoli;sial'interessepolítico,che consigliavalalarghezzaverso i vinti Albani, per poter più facilmente ridurre le città latine ad accomodarsi alla nuova padronanza ; e l'una e l'altra ragione por tarono per effetto, che gli Albani venissero dai vincitori accolti nel loro consorzio religioso e politico,e costituiti in una nuova tribù. Questa larghezza non poteva essere usata verso le altre città la tine, e cið per più ragioni. Prima di tutto, va considerato il carat tere d'inferiorità che, rispetto alla loro importanza, si manifesta fra esse città e Roma.Se eccettuisi Alba Longa,che ha una posi zione privilegiata rispetto alle città latine confederate, queste son tutte sul piede di una piena eguaglianza vicendevole ; e però, nes suna di esse poteva invocare dal vincitore un trattamento eccezio nale accampando privilegi anteriori che non erano stati posseduti. Però, se la eguaglianza delle città vinte fra loro non dava luogo a sperare che iljus gentium non sarebbe stato applicato verso di esse in tutto il suo rigore, vi erano altre ragioni che creavano questa speranza, la quale ebbe poi nel fatto sua piena conferma. L'una di queste ragioni era riposta nella connazionalità esistente tra vinti e vincitori, Roma, dovesse la sua origine all'atto geniale di un fondatore, o alla deliberazione di un'assemblea, non poteva dimenticare che dal Lazio erano partiti i suoi primi fondatori, i Ramni; e che dal Lazio , essa avea tolto i suoi costumi e le sue primitive istituzioni. Dopo il tramutamento in Roma dei vinti Al bani, la latinità di Roma ebbe rafforzato il suo contingente,onde avvenne che i rapporti morali fra lei ed il Lazio si facessero più forti e più sentiti. I quali rapporti non poterono rimanere senza influenza il giorno in cui la vittoria trasse le città latine sotto la dipendenza di Roma. Anche l'interesse monarchico concorse a mitigare la sorte dei vinti. Importava ai re di rivolgere a loro profitto questa novella forza che ora introducevasi nello Stato, per potere col mezzo di essa mettere un freno alle tendenze invaditrici del patriziato. Cosi, pel concorso di due circostanze, che apparentemente contraddiceansi,    i vinti Latini ebbero pur essi da Roma un trattamento eccezionale. Non furono ascritti nel consorzio gentilizio come i nobili Albani , ma non vennero nemmeno degradati allo stato di clientela. Diven tarono invece plebe, che vuol dire massa disorganizzata (da pleo, plenus); ma non sarà lontano il giorno, che essa conseguirà pure un organismo suo ; e allora il nome non rappresentando più la cosa, non le rimarrà che come ricordo storico. E sarà il giorno, in cui, per opera di Servio Tullio,al principio teocratico che cinge in nome del diritto divino di una cerchia di ferro i privilegi del patriziato, si sostituirà il principio timocratico, che aprirà quella cerchia per attribuire il privilegio al censo. Fu questa la prima breccia aperta nella cittadella del patriziato; dopo di essa,la espugnazione della fortezza diventava quistione di arte strategica, che è a dire, qui stione di tempo. Bologna,giugno 1884. FRANCESCO BERTOLINI.  208 MEMORIE M a se la plebe nel suo nascere non avesse posseduta la persona litàgiuridicacheimplicavailjuscommercii,essanonavrebbe po tuto pervenire per mezzo del diritto di proprietà a quello del suf fragio, e la riforma di Servio Tullio sarebbe rimasta sterile per lei, come sarebbe mancata la ragione politica di crearla.Rino Genovese. Genovese. Keywords: tribù, attribution, self-ascription, ascription, labelling, power, language, illuminism, critical illuminism, critical theory, critica della ragione impura; tribu occidentale; Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Genovese” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51758754166/in/dateposted-public/

 

Grice e Genovesi – logica pei giovanetti – filosofia italiana – Luigi Speranza (Castiglione del Genovese). Filosofo. Grice: “I like Genovesi.” Grice: “Genovesi is a good’un – he reminds me of Oxford – his treatise on logic he called ‘per gli giovenetti,’ which is, as Piaget would say, as it would.” Grice: “Genovesi reminds me of Strawson, or rather of myself teaching logic to Strawson back in that infamous term of 1938!” – Grice: “I like Genovesi; I don’t think Socrates taught logic to Alcebiades; he couldn’t teach since the ‘dialogue’ is hardly the way to do it; and then Socrates did not teach logic to Plato; Plato did not teach logic to Aristotle, since the dialogue is not the way to go – so it is possibly Aristotle who first ‘taught’ logic to Alexander – this would indicate that he felt the need to change the form from silly dialogical exchanges to actual propositions that Alexander could swallow – “Sign” is what stands for something – a word is the sign of an idea – the idea is the sign for a thing.” – and so on. “Some things imply others; others IMPLICATE others.” – Grice: “Genovesi has an interesting bunch of things to say about logic, but then any writer of a ‘tractatulus’ in logic would: so he explores the natural/conventional distinction as applied to signs, and then the affirmation and negation, and pragmatic concerns with obscurity and ambiguity – and sophismata – and complex ‘causal’ propositions, -- quite a genius – and if a palaeo-Griceian, if I may myself say so!” Figlio di Salvatore, calzolaio e piccolo imprenditore, e di Adriana Alfinito di San Mango. Il padre lo indirizza in tenera età verso gli studi. E affidato agli insegnamenti di Niccolò Genovese, un congiunto, medico tornato da Napoli, il quale lo istruì in filosofia peripatetica per due anni e in quella cartesiana per un anno. Nel corso degli studi filosofici, si innamora di Angela Dragone. Questo amore non trovò l'approvazione del severissimo genitore il quale condusse immediatamente il figlio a Buccino, dove abitavano alcuni parenti, presso il convento dei Padri Agostiniani dove seguì gli insegnamenti filosofici di Abbamonte, appassionandosi al latino di Catone e Varrone. Insegna retorica a Salerno dove incontra Doti, dal quale riceve lezioni di perfezionamento nel latino.Si trasferì a Napoli, dove intraprese dapprima la carriera forense, che lasciò presto. Fonda una scuola privata di metafisica e teologia. A Napoli fu in contatto con Vico e ottenne la cattedra di metafisica. Alcune sue posizione contenute in “Elementa Metaphysicae” furono dai suoi nemici considerate eretiche, e dovette servirsi dell'intervento dell'arcivescovo di Taranto Celestino Galiani, e di Benedetto XIV per conservare l'abito talare. In seguito a queste denunce lascia l'insegnamento della metafisica a Napoli, per passare all'etica, cattedra che era stata tenuta in passato da Vico.  L'evoluzione dalla metafisica- all'etica prosegue con il passaggio all' “economia” quando si compì la trasformazione 'da metafisico a mercante', come egli stesso ebbe a scrivere nella sua autobiografia. Insegna'commercio e meccanica, con fondi privati da Intieri, la prima cattedra di economia di cui si abbia traccia in Europa, se non consideriamo cattedre di economia quelle istituite negli anni venti Professorei n Prussia nell'ambito della tradizione camerale. Il suo lavoro come economista è stato quello più fecondo, tanto che Genovesi divenne un autore fondamentale. Si diffondevano in quel tempo i primi accenni di rivolta allo spirito e al costume della Contro-Riforma: gli spunti di polemica antigesuitica e anticlericale, la ripresa della lotta in difesa dell'autonomia di un sato laico contro ogni interferenza del cattolicesimo, ai primi elementi di una teoria delle monarchie illuminate e del regime paternalistico, nonché, sul piano letterario, l'avvento di una poetica e di una critica più aperte e coraggiose.  In pratica, fu l'inizio della vera rivoluzione culturale che si attuò nella seconda metà del Settecento sotto il segno dell'Illuminismo caratterizzata dalla necessità di trasformare integralmente i cardini dciviltà in tutte le sue manifestazioni. In questo ambito, la filosofia politica di Genovesi e decisamente di tipo riformatore, un anglofilo sotto spoglie francesi. Nella sua filosofia, persegue un compromesso tra idealismo ed empirismo, cercando ad ogni costo di salvare gli essenziali valori religiosi della filosofia cristiana. Riceve l'influenza del nuovo panorama culturale italiano, con la voglia di cercare con studi ed esperimenti il concetto della pubblica felicità, consistente nel far uscire l'uomo dallo stato di "oscurità" (Illuminismo, che in Francia era già in atto: Les Lumières). Prese coscienza della decadenza culturale, materiale e spirituale dopo il periodo d'oro del Napoletano e, quindi, si rese conto della necessità di intervenire per riportare le arti, il commercio e l'agricoltura a nuovi splendori. “Io, che era cominciato a tediarmi di questi intrighi teologici e che cominciava ad avere in orrore studi si turbolenti, e spesso sanguinosi, feci di più: mi ripresi i miei manoscritti, e deliberai permanentemente di non pensare più a queste materie.»  Per tale motivo, abbandona la metafisica e si dedica all’economia affermando tra le altre cose, che l’economia deve servire ai governi per alimentare la ricchezza e la potenza del stato. Ritiene che per favorire il benessere “sociale” sia necessario promuovere la cultura e la civiltà, per questo motivo è il primo cattedratico ad impartire le sue lezioni in italiano. Docente di economia politica, occupa una cattedra istituita appositamente per lui di “commercio e meccanica” a Napoli da Intieri. Soggiorna più volte nel palazzo proprio di Intieri a Massaquano per lunghi periodi dove si rifugiava per trovare "la musa ispiratrice" e lì infatti scrisse alcune sue opere. Sostiene che anche le donne e i contadini abbiano diritti alla cultura poiché questa è uno strumento fondamentale per realizzare l'ordine e l'economia nelle famiglie, e di conseguenza nella società, è inoltre importante anche l'educazione degli uomini e in particolar modo lo sviluppo delle arti e delle scienze, contrapponendosi all'idea di Rousseau per il quale il progresso costituisce la fonte di tutti i mali. Denuncia anche la presenza di un numero eccessivo di persone che vivono esclusivamente di rendita e affronta tematiche importanti come problemi di debito pubblico, inflazione e circolazione monetaria.  Il suo pensiero economico è espresso in Lezioni di commercio o sia di economia civile  e considerate una delle prime opere di filosofia economica. Cerca, così, di indicare la via per alcune riforme fondamentali: dell'istruzione, dell'agricoltura, della proprietà fondiaria, del protezionismo governativo su commerci e industrie.  Tenne sempre le sue lezioni in italiano grazie alla sua passione per il civile: viene ricordato per essere stato il primo docente a esprimersi in italiano durante i suoi corsi e per essere stato tra i primi a scrivere trattati di metafisica e di logica in italiano. Così operò, anche e soprattutto, per diffondere lo studio dell'Economia e delle scienze nel popolo: in questo atteggiamento Genovesi è ancora una volta in piena continuità con gli umanisti, giudicando anche questo un mezzo di incivilimento. Altre opera: Lezioni di commercio (Milano, Fondazione Mansutti). Altre opera: Elementa metaphysicae mathematicum in morem adornata, Napoli; Elementorum artis logicae-criticae libri quinque Gli elementi dell'arto logico-critica, Venezia) Meditazioni filosofiche; Lettere filosofiche;  Lettere Accademiche; Memorie Autobiografiche; Lezioni di commercio o sia d'economia civile; Della diceosina o sia della Filosofia del Giusto e dell'Onesto; Delle Scienze Metafisiche per li giovanetti 1767; Altre opere da ricordare sono La logica per i giovanetti, Istituzioni di Metafisica per Principianti e Lettere familiari, che testimoniano l'intensa corrispondenza epistolare tra l'abate e il letterato dell'epoca Ferrante de Gemmis, uno dei pochi testimoni dell'illuminismo pugliese. Corpaci, F., Antonio Genovesi; note sul pensiero politico, Giuffrè, Peter Jones, Reception of David Hume in Europe, Continuum, Palatano, Rosario; Genovesi, Antonio. Antonio Genovesi: teoria del commercio, LUISS University Press,.Antonio Genovesi, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. 10 maggio.  Lucio Villari, Il pensiero economico di Antonio Genovesi, Le Monnier, Chines, Loredana. Su alcuni aspetti linguistici degli scritti di Genovesi, Pensiero politico, Davide Alessandra, Antonio Genovesi: uno dei padri dell'illuminismo meridionale, su historiaiuris.com,. M. Bonomelli (a cura di, Quaderni di sicurtà. Documenti di storia dell'assicurazione, Fondazione Mansutti, schede bibliografiche di C. Di Battista, note critiche di F. Mansutti. Milano: Electa, Luigino Bruni, Voce "Antonio Genovesi" in Il Pensiero Economico Italiano, Istituto dell'Enciclopedia Italiana Treccani.  Luigino Bruni e Stefano Zamagni, Economia civile, Il Mulino, Bologna,. A. M. Fusco, Antonio Genovesi e il suo mercantilismo "rinnovato", in A. M. Fusco, Visite in soffitta. Saggi di storia del pensiero economico, Napoli, Editoriale Scientifica, Giuseppe Galasso, Il pensiero religioso di Antonio Genovesi, Rivista storica italiana, G. Genovese, Contro le "Penelopi della filosofia". Note sulle Lettere accademiche di Antonio Genovesi, L'acropoli, G. Genovese, Tra Vico e Rousseau: le autobiografie di Antonio Genovesi, L'acropoli, D. Ippolito, Antonio Genovesi lettore di Beccaria, Materiali per una storia della cultura giuridica, C. Passetti, Una fragile armonia: felicità e sapere nel pensiero di Antonio Genovesi, Rivista storica italiana, M.L.Perna, Eluggero Pii e l'edizione delle opere di Antonio Genovesi Dialoghi e altri scritti. Intorno alle Lezioni di Commercio, Il pensiero politico: rivista di storia delle idee politiche e sociali, A. M. Rao, Etica e commercio: i Dialoghi di Antonio Genovesi nell'edizione di Eluggero Pii, Il pensiero politico: rivista di storia delle idee politiche e sociali,  Wolfgang Rother, Antonio Genovesi, in Johannes Rohbeck, Wolfgang Rother: Grundriss der Geschichte der Philosophie, Die Philosophie des 18. Jahrhunderts, Italien. Schwabe, Basel, Rosario Villari, Antonio Genovesi e la ricerca delle forze motrici dello sviluppo sociale, «Studi Storici», E. Zagari, Il metodo, il progetto e il contributo analitico di Antonio Genovesi, Studi economici, 2V. Gleijeses, Napoli nostra e le sue storie, Società Editrice Napoletana, Napoli, Pietro Napoli Signorelli, Treccani, Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Antonio Genovesi, sConferenza Episcopale Italiana.  Opere di Antonio Genovesi / Antonio Genovesi (altra versione), su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Antonio Genovesi,.  Luigino Bruni, Genovesi, Antonio, in Il contributo italiano alla storia del Pensiero: Economia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,  Saverio Ricci, Genovesi, Antonio, in Il contributo italiano alla storia del Pensiero: Filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,. 13 novembre. Corrado Barbagallo, Antonio Genovesi, Estratto da: Rassegna Storica Salernitana.  Antonio Genovesi 1 2 non è uno di quei filosofi, che  fanno compiere un passo innanzi al pensiero filosofico.  A paragone del grande Giambattista Vico, che si gloria di  aver avuto maestro e la cui Scienza Nuova cita nelle sue  opere con profondo rispetto : , il Genovesi apparisce come  uno di quei mille ammiratori, più o meno sinceri, che il  Vico ebbe tra i suoi contemporanei e tra gli uomini più  illuminati delle generazioni successive; i quali ebbero un  certo sentore di alcune teorie di lui, concordanti o no  con dottrine congeneri di altri pensatori e da annoverare  tra le parti accessorie del suo sistema, ma pei quali i  problemi originali posti e risoluti dal Vico, si può dire,  non ebbero senso. Se pertanto nella storia del pensiero  il Vico rappresenta quello che egli rappresenta a’ nostri  occhi di storici che han penetrato il significato di quei  problemi, il Genovesi dopo di lui è un arresto o una de¬  viazione. Quella vena speculativa altissima nello scolaro    1 Discorso tenuto al Teatro Verdi di Salerno, il 17 gennaio 1932,  ì n occasione del monumento inaugurato lo stesso giorno a Castiglione  del Genovesi.   2 « L’illustre Giambattista Vico, uno de’ fu miei maestri, uomo  d’immortai fama per la sua Scienza Nuova » (Lez. di Comm.,  Napoli, 1783, IX, p. 12; parte II, c. I, § 5); «Il nostro Vico nella  Scienza Nuova, libro maraviglioso e uno dei pochi che in queste ma¬  terie [su Omero] facciano onore all’ Italia » (Logica e Metafisica, Mi¬  lano, Classici italiani, 1835, p. 208. Cfr. ivi, p. 331).        72    ALBORI DELLA NUOVA ITALIA    è inaridita. Il pensiero ha cambiato strada, abbandonando  gli ardui argomenti con cui s’era cimentato.   Ma il paragone col Vico storicamente non è giusto.   I due pensatori in verità appartengono a due piani  storici, da uno dei quali non si passa all’altro direttamente.  Se il Genovesi non ebbe occhi per vedere i problemi del  Vico, neanche il Vico, dalla parte sua, ebbe occhi per  vedere quelli del Genovesi. Uomini di tempra diversa,  con diversi interessi spirituali, si può dire che il maestro  abbia pensato sempre al cielo, e lo scolaro alla terra.  L’uno non si guarda mai attorno se non come uomo  privato, che, quando dai pensieri ordinari si rivolge alla  sua scienza e alle cure più nobili del suo intelletto, vi si  assorbe tutto, estraniandosi affatto dai pensieri, dalle  gioie e dai dolori della vita quotidiana. Dove non sono  in verità gli attori del dramma che egli ama studiare e  nel cui studio concentra infatti le energie più potenti  della sua intelligenza. Passa perciò tra i suoi e tra i coe¬  tanei come l’uomo astratto, il filosofo, l’uomo che non  è di questo mondo. Quantunque il suo animo, propria¬  mente, sia a questo mondo legato così strettamente come  nessun altro mai, e di questo mondo, scrutato con sguardo  penetrante fino al profondo, aspiri appassionatamente  a intendere il significato, e in questo mondo appunto  agogni con titanico sforzo a conquistarsi razionalmente,  col pensiero, un suo posto. Ma questo mondo egli vuol  vederlo sub specie aeterni, come mondo che è sempre lo  stesso, in ogni luogo e tempo; e che assume bensì aspetti  sempre diversi, ma per l’interna virtù che lo muove con  immutabile legge.   L’altro invece è tutto occhi pel mondo che si agita  intorno a lui, nella scuola e fuori della scuola; nelle città  e nelle campagne; nello Stato e nella Chiesa; a Napoli,  per tutta Italia, e di là dalle Alpi. L’istruzione del  popolo e l’educazione dei giovani; l’agricoltura e il com-    ANTONIO GENOVESI    73    mercio; l’economia del Regno, e i problemi della feudalità  e della manomorta; il problema della moltitudine degli  ecclesiastici eccessiva in rapporto alla popolazione; e poi  la questione giurisdizionale e l’ardente lotta anticuria-  lista in difesa dei diritti dello Stato; e via via tutte le  questioni che erano all’ordine del giorno nella Napoli del  tempo, o che uno spirito alacre ricavava da quelle a cui  la pubblica opinione s’interessava. E poiché i paesi  allora alla testa della cultura europea erano insieme  Inghilterra e Francia, e i libri che si pubblicavano in  quelle lingue i più letti, celebrati e discussi, ecco quelle  lingue, insieme con le classiche, a cui il Vico si era limitato,  studiate e possedute con animo pronto a seguire il movi¬  mento della letteratura straniera in ogni campo di ri¬  cerche filosofiche e sociali. Allargato quindi enormemente  l’orizzonte. Non più quel carattere antiquato e accade¬  mico della scienza tradizionale, nel cui cerchio si muove  ancora il Vico, modernissimo per la sostanza de’ suoi  problemi, arcaico per la forma (lingua ed erudizione)  E la modernità segna la fine di quel chiuso provincia¬  lismo, onde lo scrittore napoletano si era sentito sempre  cittadino di Napoli. Genovesi guarda più in là del  Garigliano e del Tronto. Egli si sente italiano; e come  italiano, partecipe dell’unica società europea della cultura.  Italiano e moderno, si lascia alle spalle il vecchio mondo  tradizionale dell’accademia fratesca e teologizzante e  dell’angusta provincia, e respira largo, apre le finestre  della scuola della letteratura e del pensiero, e vive nel  tempo suo e si sforza d’interessare gli uomini, tutti, al  sapere e al lavoro dell’ intelligenza.   Siamo, come dicevo, in un piano diverso da quello  della pura filosofia. Qui si può dire che la filosofia ri-  nunzii alla sua propria forma, e quasi si annulli per  risorgere in forma più adeguata alle sue esigenze più  profonde. Ciò che è tante volte avvenuto nella storia;    6 - Gentile, Albori. I.    74    ALBORI DELLA NUOVA ITALIA    e avviene continuamente nella vita. Il pensiero sale, sale,  si purifica, si libera dal rappresentare fantastico e cor¬  pulento, e si libra da ultimo in un’astrazione diafana,  per ridiscendere tosto al concreto della realtà che con  quell’astrazione ha cercato di definire e più perfetta¬  mente possedere: alla realtà che è corpo e fantasma,  e passione e sentire, e quell’oscuro misterioso impeto  dell’essere che tende a realizzarsi, scaturigine ascosa di  ogni esistenza e di ogni luce. Il progresso è pur sempre  in certo modo regresso; e se si volesse andare avanti,  avanti sempre, si finirebbe col precipitare nel vuoto.  Bisogna a volta a volta rifarsi da capo. Bisogna toccare  la terra per rialzarsi. Toccare la terra, s’intende, come  l’Anteo della favola, da gigante che ha già la forza per  rialzarsi: che ha, in altri termini, un certo grado di co¬  scienza filosofica.   2. — Vogliamo sentire dallo stesso Genovesi qual fosse il  suo ideale di cultura ? Basta leggere un suo Discorso sopra  il vero fine delle lettere e delle scienze, che nel 1753 pubblicò  innanzi a un Ragionamento sopra i mezzi più necessari  per far rifiorire Vagricoltura dell’abate Montelatici, quasi  per giustificare la nuova via per cui egli si metteva, dopo  aver anche lui pubblicato i suoi libri di Logica, di Me¬  tafisica e di Teologia in lingua latina. In questi stessi  libri, per altro non è difficile scorgere le tendenze innova¬  trici del Genovesi e il carattere dominante del suo pen¬  siero filosofico, del quale ci proveremo qui appresso a  dare un sommario cenno ; ma ancora non è avvenuta la  radicale conversione per cui la mente dello scrittore, dopo  che ebbe trovato negli studi economici e sociali una ma¬  teria più adatta al suo genio, raggiunse la sua forma  storica, e ritrovò propriamente se stesso.   In questo Discorso il Genovesi propugna una sorta di  filosofia « reale », com’egli dice, e cioè pratica ed appli-    ANTONIO GENOVESI    75    cativa: come dire una filosofia non propriamente specu¬  lativa e filosofica; e prende a partito tutti i più celebrati  filosofi della tradizione e le loro dottrine. Esalta bensì  la ragione come quella che << più di tutte le nostre doti  ci rassomiglia a Dio », « la sola cosa, per cui l’uomo si  solleva sopra tutto ciò ch’è in terra»: la ragione, «arte  universale » governatrice di tutte le arti e strumenti onde  l’uman genere arricchisce la vita e viene ogni dì perfe¬  zionando il sistema dei mezzi diretti ad accrescerne il  benessere. Ma ne addita nelle astratte speculazioni e  schernisce i deviamenti già nell’antichità derivati appunto  dall’abuso che l’uomo fa della ragione in questioni oziose,  sottili, astruse e atte nondimeno a suscitare la stima e  l’ammirazione dei semplici e a procacciare una riputazione  fallace.   « Poiché gli uomini quanto son più semplici, tanto so¬  gliono più stimare quel che meno intendono, i dialettici  ed i metafisici. I don Chisciotti della repubblica delle  lettere, combattenti con gli indistruttibili giganti delle  chimere, per la gloria vanissima di sottilissimo ingegno,  loro Dulcinea del Toboso, salirono in alta stima, ed usur¬  parono il premio doTTito al vero sapere; ciò che fu l’esca  fatale, che riempì ne’ vecchi tempi d’indiscreti sofisti  la Grecia, e ne’ secoli assai più vicini buona parte del-  1 ’ Europa ».   Eppure, la prima e più antica filosofia era stata una  « filosofia tutta cose ». I più antichi filosofi erano stati i  legislatori, i padri, i sacerdoti delle nazioni, studiosi di  etica, economica, politica; persuasi anch’essi, al pari di  tutti i buoni cittadini, che, « come partecipavano a’ comodi  della società, così dovevano aver parte alle cure e alle  fatiche » pel bene pubblico e domestico. Vennero dopo i  tempi di corruzione, in cui prevalse la massima che l’ozio  fosse un nobile e onorato mestiere. E quindi la genia infi¬  nita di coloro che sono «peste del vero sapere e della      76 ALBORI DELLA NUOVA ITALIA   virtù»; «i quali si credettero nati o per garrire inutil¬  mente, o per disputare di cose inintelligibili, o per met¬  tere empiamente in ridicolo le sante ed utili cognizioni,  le leggi ed i precetti della giustizia e dell’onestà ». Ven¬  nero i grammatici (oggi diremmo i critici) « interpreti  de’ sogni dei poeti, o mercanti de’ propri»; vennero i  metafisici, «Penelopi della filosofia, implicati in disciorre  quelle tele, che eransi tessute colle loro mani » ; verniero  i dialettici, che « tendevano indissolubili lacciuoli alla  ragione istessa per cui andavan fastosi, e come seppie  gittavan del negro, sotto cui il vero e il falso prendesse  un sol volto ». Socrate, — il gran Socrate, di cui fu detto  che richiamò la filosofia dal cielo in terra e a cui infatti  gli uomini devono di sapere che tutto quello che si vuole  intendere essi non lo possono cercare se non nel pensiero,  cioè in se medesimi, — dal Genovesi non è ricordato qui  se non come colui che insegnò la più ricca e la più bella  possessione dell’uomo essere l’ozio. Dei suoi scolari non  gli giova menzionare altri che Aristippo e Diogene il  Cinico, corruttori del costume. Di Pitagora a scherno  ricorda la monade e il binario; e l’uno di Parmenide; e  l’omeomeria di Anassagora, e le astratte forme di Platone  e le entelechie di Aristotele; ed altre cosiffatte «bambole  di ragione » degli altri più celebrati filosofi.   Che dire poi della filosofia medievale ? Non si può  leggerne la storia « senza aver pietà della debolezza del-  l’ingegno umano ». Poveri scolastici ! «Vestono corazze  di carta, che stimano del più fino metallo; e combattono  con i mulini a vento, come con i Giganti distruttori del-  l’uman genere. Un estro ignoto gli rapisce fuor del nostro  mondo. Sembra che sieno i maestri di ogni altra cosa,  fuor che di ciò che ci appartiene o c’ interessa ».   In questa caricatura della storia della filosofia super¬  fluo avvertire lo strazio che il Genovesi fa delle più im¬  portanti dottrine dei maggiori pensatori. Voglio solo rife-        ANTONIO GENOVESI    77    rire in proposito un altro periodo, tipico documento  degli stravolgimenti storici di questa invettiva, e insieme  dello spirito che la moveva:«La materia prima,  che Aristotele fantasticò, animata dal fuoco dagli Arabi,  fu di sì vivi e vaghi colori arricchita in mano di Abelardo,  e di alcuni altri, che divenne una Divinità, la quale poi  il più empio e il più freddo de’ filosofi del passato secolo,  si studiò di adornare con un sistema geometrico ». Allu¬  sione a Spinoza, che pure Genovesi aveva studiato con  grande interesse ’.   « Alle quali cose quante volte io penso », conchiude il  nostro filosofo, « forte mi meraviglio, come gli agricoltori,  i pastori e tutti gli altri coltivatori delle arti per cui l'uman  genere si sostiene, abbian potuto tollerare in pace una  razza di uomini, i quali, lungi di dar loro il menomo ri¬  schiaramento e aiuto nel tempo medesimo che de’ frutti  della loro industria godevano, pare che si ridessero delle  loro fatighe, o che gli riguardassero come animali di  altra specie, fatti da Dio in forma umana per servire  a’ loro piaceri ».   Lode a Bacone, che proclamò la necessità di ristaura-  zione dalle fondamenta tutto il sapere, e dimostrò che  « si poteva essere filosofo con assai gloria, senza essere  peso inutile agli altri uomini ». Lo studio della natura,  l’esperienza, « gran maestra delle utili cognizioni », la  geometria « nutrice di tutte le arti » vennero in grande  onore. L’ Europa cambiò faccia. Ogni nazione ebbe il  suo Ercole, uccisore dei mostri che la infestavano. L'Italia  ebbe Galileo. Napoli, sì, rimase lungo tempo chiusa a  questa nuova scienza, forse perché con maggior vigore  questa potesse irrompervi a rendere più glorioso il rin-    1 Cfr. la sua lettera dell' u sett. 1756 a R. Sterlich; dove racconta  come potè studiare, quando aveva 28 anni, 1 ’Etica di Spinoza: Leti,  fam., ed. Napoli, 1788, I, 124.     78    ALBORI DELLA NUOVA ITALIA    novamento che il Regno, ristaurato dal primo dei Bor¬  boni, doveva promuovere. Genovesi ha qui un concetto  che rammenta l’hegeliano spirito del mondo. « Egli è  veramente un certo Genio, che discorre per le nazioni,  e che in dati intervalli le anima, e le raccende, quello  che o primamente mena, o estinte ravviva le lettere e  le belle arti ». Ma questo Genio, secondo il Genovesi,   « vuol essere sempre accarezzato, sollecitato e alimen¬  tato. Può dirsi che la curiosità, la più utile molla del-  l’animo umano, il dischiuda dal suo guscio, la gloria  l’animi e gli dia della grandezza, l’emulazione l’aguzzi  e ’l rinforzi: ma certamente il premio il sostiene e l’ali¬  menta ». Insomma, il rinnovamento del pensiero richie¬  deva a Napoli le più propizie condizioni create dalla  nuova vita impressa allo Stato dal nuovo Regno.   Grande infatti il progresso già avvenuto in Napoli,  delle arti, delle scienze, della ragione che le alimenta.  Ma « un certo lezzo dell’antica barbarie » (prisci vestigia  ruris) è rimasto tuttavia attaccato agli scrittori. La  ragione non è pervenuta ancora alla sua maturità: è  ancora tutta nell’ intelletto, e deve passare nel cuore e  nelle mani. È bella, non è operatrice; adorna, non utile.  Bisogna che diventi pratica e realtà; come può solamente  quando « tutta si è così diffusa nel costume e nelle arti,  che noi l’adoperiamo come sovrana regola, quasi senza  accorgercene » : come accade alle bestie, in cui « la cogni¬  zione è tutta uso, perché è l’arte di Dio lavorante su la  materia, ed in Dio non ci sono Enti di ragione»:  cioè le astrattezze che si annidano nel cervello dei filosofi.  I dotti napoletani hanno bensì coltivato lo studio delle  leggi; ma vi hanno portato le argutezze dei dialettici:  questioni sottili, speciose, aliene dalla pratica e dalla vita.  Tutta una forma di sapere, in cui, insomma, secondo il  Genovesi, c’è forza bensì e intelligenza; ma non c’è cuore;  e c’è cattivo gusto. Manca, diremmo oggi, il senso scien-    ANTONIO GENOVESI    79    tifico; e gl'ingegni si credono più grandi quando sono  ammirati come incomprensibili, che quando stimati come  utili.   La pratica dell' insegnamento (insegnava già egli da  sedici anni) aveva dimostrato al Genovesi che Napoli era  un semenzaio di nobili e glandi ingegni ; ma i migliori  ingoiavano avidamente la nuova filosofia prima di di¬  gerir la vecchia. Avvezzi alle sottigliezze vane e alla  « ciarleria », troppo ancora se ne compiacevano per fare  il debito onore alle scienze sode, feconde, che avevano  già trasformato la cultura inglese, francese, olandese.  Sacrifichiamo dunque « una volta la seduttrice e vana  gloria dell’astratta speculazione al giusto desiderio della  parte più grande degli uomini, i quali ci vogliono men  contemplanti e più attivi. Dio ha fatto a tutti il divin  dono della ragione perché intendiamo, che il vero sapere  non è di sì gelosa natura che voglia essere di pochi ». Esso  deve giungere al popolo. Il quale ha bisogno di essere illu¬  minato, e non seguito nella sua naturale ritrosia alle  novità, ancorché utili, e nel suo attaccamento tenace  alla tradizione. Deve essere indotto a profittare delle  osservazioni e delle invenzioni dei dotti. Deve essere in¬  gentilito, rianimato, spronato ad elevarsi. E si deve quindi  operare su di esso non con le leggi che non cambiano gli  uomini, sì con la « savia educazione e coltura di questa  sì preziosa derrata dell'uomo, da che egli comincia a  sbucciare dal suo guscio ».   Curare l'educazione. È uno degli articoli principali  dell’apostolato del Genovesi 1 ; poiché i contemporanei,  a suo giudizio, curavano più i « testi di fiori » e le piante    1 Sulla educazione e istruzione popolare vedi Lez. di Comm., parte I,  cc. VI e Vili; e Logica, ed. cit., pp. 271-72. Senza educazione «oltre¬  ché non è possibile, che la popolazione si aumenti.... ma, pure dove  avviene che cresca, la repubblica si potrà ben dire aumentata di semi¬  uomini, ma non di forze» (Lez. di Comm., t. I. p. 121).     8 o    ALBORI DELLA NUOVA ITALIA    peregrine che avevano per avventura ne’ loro giardini,  che non i figli. E raccomandava la massima diligenza  nella scelta dei maestri, poiché molto, a suo giudizio,  mancava per questa parte il Regno di Napoli. Bisogna  sentire il ritratto vivo che ce ne ha lasciato:   « I maestri di scuola pongono poca cura a studiar l’ur¬  banità e l’aria nobile, piena di verecondia e de’ tratti  d’onore: sovente i loro moti, gesti, tuono di voce e tutto  il lor volto, che suol esser lo specchio dei ragazzi, spira  tutt’altra cosa che gentilezza: la loro lingua è più fre¬  quentemente un gergo corrotto de’ vari dialetti del nostro  Regno, che la bella e nobile della pulitissima Italia: final¬  mente, dirò io che il lor costume sia sempre il più puro  e il più santo ? Inoltre, quasi tutti si studiano di coltivar  assai più la memoria de’ loro allievi che la ragione e il  cuore. Un solecismo o barbarismo in lingua latina è da  loro più severamente punito, che molti a’ gentiluomini  sconvenevoli barbarismi e irragionevolissimi solecismi di  ragione e di costume. Si adirano anche spesso, gridano  e fanno dei schiamazzi in testa a’ loro allievi; gli battono  senza misericordia, e gli trattano più da servi, che da  figli: tutte cose più atte a fare o stupidi o villani o zotici  e feroci i ragazzi, che ad allevargli nel sapere, nelle virtù,  nella nobiltà. Questi medesimi difetti trovansi ben anche  spesso ne’ padri o nelle madri di famiglia. Io ho sentito  dire a molti di coloro un proverbio, che fa disonore agli  esseri ragionevoli : che i fanciulli si curan  colle mazze».   3. — Un filosofo che parla questo linguaggio umano,  familiare, e che pensa come s’è veduto, dei filosofi e dei  loro sistemi, evidentemente non è un filosofo di professione.  Sarà un filosofo che avrà qualche cosa da dire più e meglio  dei filosofi di professione; ma non potrà facilmente an¬  dare d’accordo con questi. Così poco rispettoso di quelle    ANTONIO GENOVESI    Si    che sono le idee e le maniere per loro più rispettabili e  venerande, con così scarso interesse, anzi con tanto fa¬  stidio verso le questioni che formano il nutrimento e il  vanto dei loro cervelli, certo potrà, per caso, trovarsi in  mezzo ad essi: ma vi starà a disagio, e se ne trarrà fuori,  spontaneamente o per necessità, appena se ne presenti  l’occasione.   L’abate Genovesi, nato nella terra di Castiglione 1 ’ Ognis¬  santi del 1713 *, fu avviato quattordicenne agli studi di  filosofia da un suo stretto congiunto, che gli insegnò per  due anni filosofia scolastica e per un terzo anno filosofìa  cartesiana (filosofìa di moda allora nel Napoletano);  quindi, poiché il padre lo volle ecclesiastico, obbligato ad  apprendere Canoni e Teologia, e ammesso agli ordini  minori nel 1730, promosso suddiacono nel settembre '35.  Chiamato questo anno a insegnar rettorica nel seminario  di Salerno, vi rimane due anni, studiando per suo conto  con gran fervore ; finché nel '37 sarà ordinato prete J'e  un’eredità allora conseguita gli consentirà di recarsi l’anno  appresso a Napoli, per appagare in quella Università e  nella consuetudine degli illustri letterati della metropoli  la sua sete ardentissima di sapere. A Napoli frequentò  molti corsi; tra gli altri, fino al *41, quello di Giambattista  Vico; di cui, ci racconta un anonimo biografo, aveva  già da un anno letta la Scienza Nuova : « Il perché corse  ad ascoltarlo; a cui avendo dedicato la sua servitù, ebbe  l’onore della sua amicizia » 1 2 . Insoddisfatto della filosofìa  che s’insegnava, disegnò programmi suoi, e aprì una sua  scuola privata; finché nel '41 il Cappellano Maggiore  monsignor Galiani, che era l’uomo che poteva intenderlo,  gli affidò l’incarico d’insegnare nell’ Università Meta¬  fìsica. Aveva letto Malebranche, Locke, studiato Spinoza    1 Note di A. Cutolo alle Memorie autobiogr. del G., in Ardi. stor.  nap., 1924, p. 261.   2 Cutolo, Noie cit., p. 260.     82    ALBORI DELLA NUOVA ITALIA    e Leibniz; e dettava agli alunni, come volevano i rego¬  lamenti del tempo, le sue lezioni in latino. Ne nacquero gli  Elementi di Metafisica in lingua latina, in cinque tomi; il  primo dei quali pubblicato nel '43, pel metodo geometrico  con cui la dottrina era esposta (metodo, si sussurrava, caro  ai protestanti), per le novità che conteneva, per le con¬  cessioni che faceva al razionalismo, per quello scetticismo  moderato che vi dominava, procurò all’autore ire e per¬  secuzioni dei censori ecclesiastici, aprendo una serie di  contestazioni teologiche, che alienarono sempre più il  suo animo dagli studi che rimanevano in Italia, e sopra¬  tutto nel Mezzogiorno, monopolio quasi esclusivo dei  frati.   Ma ecco che nel '44 il Galiani gli viene in aiuto pas¬  sandolo dall’ incarico di Metafisica alla cattedra ordinaria  di Etica : insegnamento più conforme all’ ingegno del  Genovesi, e da lui infatti tenuto per un decennio con  grande efficacia per l’eloquenza delle sue lezioni, la mo¬  dernità della dottrina, la ricchezza e praticità delle que¬  stioni trattate. Pure alla Metafìsica nel '45 s’aggiungeva  in cinque libri un'Arte logico-critica, anch’essa in latino.  E queste opere si ristampavano e si diffondevano in  Italia e fuori d’Italia. Nondimeno l’autore nel '65 poteva  scrivere a un amico : « La Metafìsica (mia) fatta pei teo¬  logi e frati, non può piacere ai fìsici e ai matematici, come  neppure piace a me. E con tutto ciò, la Logica e la Meta¬  fìsica s’insegna in molti collegi di Francia, e in quasi  tutte le scuole di Germania» '. Avevano fortuna; poiché  questi libri rispondevano al bisogno delle scuole, e nel  loro andamento eclettico e largamente informativo ben  s’adattavano alla tendenza media degli studiosi non ri¬  solutamente moderni ma neppur ciecamente chiusi nella  tradizione, e disposti quindi a conciliare nova et vetera    1 Leti, jam., II, 67.     ANTONIO GENOVESI    83    e farsi una filosofia senza compromettersi; ma, come  si vede, non finivano di contentare l’autore stesso. Anche  i due libri De iure et officiis (1764) eran nati dalla scuola  e per la scuola (in usum tironum) ; e del pari altri due  brevi compendii latini di Logica ('5 2) e di Metafisica (’68).   Ma quando al Genovesi sarà possibile avere una scuola  a modo suo, intorno a materie nuove, indirizzate a pub¬  blica utilità, non contemplate nei vecchi quadri, egli non  scriverà più latino. Che gioia quando fu istituita per lui,  nell’ Università, la cattedra di « Commercio e Economia »,  fondata dal suo vecchio amico, facoltoso e autorevole,  il fiorentino Bartolomeo Intieri, studioso di macchine  agricole e di questioni economiche: ingegno pratico alla  toscana, avverso a ogni oziosità speculativa ! Allora il  Genovesi si sentì davvero maestro, e veramente filosofo.   Grande l’attesa nel pubblico per il nuovo insegnamento ;  ma potente altresì l’estro del nuovo insegnante e l’im¬  peto e il calore della sua eloquenza. Quando il 5 novembre  del ’54 tenne la sua prima lezione, fu un avvenimento  nella vita del Genovesi e nella storia non soltanto della  cultura napoletana ma della scienza europea. Poiché que¬  sta del Genovesi fu la prima cattedra istituita in Europa  di Economia politica: dovuta, s’intende, non al semplice  intuito d’un privato ma al movimento degli studi che la  situazione economica del Regno di Napoli aveva prodotto.  In una lettera dello stesso mese il Genovesi scriveva a  un amico 1 : « Nel dì 5 corrente feci il mio discorso pre¬  liminare, 0 sia l'apertura alla nuova Cattedra del Com¬  mercio con uno straordinario concorso, tuttoché io non  avessi fatto invito. Parlai un’ora, non solo senza niente  aver mandato a memoria, ma senza aver niente scritto  di quello che dissi. Con tutto ciò il discorso fu ricevuto  con applauso, e subito diffuso per tutta la città. È stata    Leu. falli., I, 108.     84    ALBORI DELLA NUOVA ITALIA    bella ! Alcuni volevano copiarselo, e io non ho potuto  lor dire, che dopo averlo letto n’aveva perduto anche  l’originale.... Il giorno seguente cominciai a dettare.  Grande fu la meraviglia in sentir dettare italiano ; sicché,  essendomene accorto, nello incominciare la spiegazione  dovetti cominciare dai pregi della lingua italiana, e urtar  di fronte il pregiudizio delle scuole d’Italia.... La scuola  è stata sempre piena in guisa che molti non ci hanno  trovato luogo ; ma la maggior parte sono uditori di barba,  e di vari ceti. Gli scriventi sono circa cento.... Gran moto  è nato da queste lezioni nella città, e tutti i ceti domanda¬  vano libri di economia, di commercio, di arti, di agri¬  coltura ; e questo è buon principio ».   Da questo corso, che il Genovesi proseguì finché le  forze gli bastarono (morì il 23 settembre 1769, ma un  anno prima per malattia aveva dovuto lasciare la cat¬  tedra), trassero origine le belle Lezioni di Commercio ossia  di Economia civile in due volumi (1766 - 67), che rimar¬  ranno tra le opere classiche della nuova scienza: opera  riboccante d’ingegno, di erudizione, di brio e di amore  del pubblico interesse, dall’agricoltura alla pubblica istru¬  zione. Ma uscì prima la traduzione della Storia del com¬  mercio della Gran Bretagna di John Cary con un Ragio¬  namento del Commercio in universale e lunghe e impor¬  tanti annotazioni del Genovesi sul commercio del Regno,  e altri scritti minori. In questi stessi anni il laborioso  scrittore riprese bensì in italiano gli argomenti delle sue  opere latine. Sono del '58 le sue Meditazioni filosofiche,  che arieggiano quelle di Cartesio; ed ebbero l’ammira¬  zione del Baretti 1 ; e del '59 le Lettere filosofiche ; come    1 Da leggere l'articolo che gli dedicò nel 2 0 numero della Frusta  Letteraria (15 ottobre 1763): dove il Baretti giudica il libro con questi  termini di alto elogio (ed. Piccioni, Bari, 1932, I, p. 40) :   « Fra le tante migliaia e migliaia di libri scritti nella nostra lingua,  io non ne conosco assolutamente neppur uno, dopo quelli del Galileo,     ANTONIO GENOVESI    35    del '64 le Lettere accademiche. Nel '65 imprese a scrivere  in italiano un Corso di filosofia. E volle scriverlo per i  giovani (com’egli stesso faceva sapere a un amico) « che  son curiosi di sapere se le scienze potessero così parlare  italiano come una volta parlarono greco e latino. Il mo¬  tivo che mi muove, è una massima, che può stare che  sia falsa, ma 1’ ho nondimeno per vera, cioè che ogni  nazione che non ha molti libri di scienze e di arti nella  sua lingua è barbara ». Perciò in Francia nell’età di  Luigi XIV s’era cominciato a scrivere di filosofia in  francese. Perciò aveva seguito l'esempio l’Inghilterra.  E altrettanto si cominciava a fare in Germania. Dove  non si scrive nella propria lingua, dice il Genovesi, si  accenderà magari mi lume grande e brillantissimo, ma  questo resterà « nondimeno sepolto in que’ lanternoni da  antiquari d’onde non tralucono che pochi tenebrosi  raggi » 1.   E nelle stesse Lezioni di Commercio inculcava come    che sia tanto pregno di pensamento e di vera scienza quanto è questo  primo tomo di questo nostro ampio, sublime ed aggiustatissimo pen¬  satore Antonio Genovesi ».   Al Baretti non andava lo stile del Genovesi, seguace della scuola  toscaneggiante del Di Capua: «Una cosa però disapprovo in lui asso¬  lutamente, e questo è lo stile suo.... perché troppo a studio intralciato  e rigirato si, che non poche volte abbuia il pensiero. — Com' è pos¬  sibile, ho detto tra me stesso mille volte leggendo queste sue tanto  stimabili meditazioni, — com’è possibile che un uomo il quale è una  aquila quando si tratta di pensare, si mostri poi un pollo quando si  tratta di esprimere i suoi pensieri ? Come mai un Genovesi ha potuto  avvilirsi tanto da seguire i meschini voli terra terra di certi secchi e  tisici uccellacci di Toscana ? Eh, Genovesi mio, adopera gli abbin¬  dolati stili del Boccaccio, del Bembo e del Casa quando ti verrà ghi¬  ribizzo di scrivere qualche accademica diceria, qualche cicalata, qualche  insulsa tiritera al modo fiorentino antico e moderno; ma quando scrivi  le tue sublimi Meditazioni, lascia scorrere velocemente la penna....;  e lascia nelle Frammette e negli Asolani e ne’ Galatei, e in altri tali spre¬  gevolissimi libercoli i tuoi tanti conciossiacosacché e i perocché.... e tutte  quell’altre cacherie e smorfie di lingua, che tanti nostri muffati gram-  maticuzzi vorrebbero tuttavia far credere il non plus ultra dello scri¬  vere ».   1 Cfr. la pref. alla Logica italiana.     86    ALBORI DELLA NUOVA ITALIA    « certissimo assioma politico » che una nazione non sarà  mai perfettamente culta nelle scienze, nelle arti, nelle  maniere, « se non abbia le leggi, le scienze, le scuole e i  libri di arti parlanti la propria lingua; perché ella dovrà  dipendere da una lingua forestiera; la quale, non essendo  intesa che da una picciolissima parte del popolo, tutto  il resto sarà fuori della sfera del lume delle lettere....  Le lingue sono come vasi, che contengono le nostre idee  e la nostra ragione. Or qual pazzia è pretendere di essere  in un paese uomini, e aver la ragione in un altro ? ». 1 * 3  Finché in un paese le scienze saranno in un gergo stra¬  niero alla maggior parte del popolo, avremo sempre, dice  il Genovesi -, « molte scuole inutili, molto tempo perduto,  molti cervelli stupiditi; e mancheremo delle necessarie,  né ha possibile di avere delle buone teste ».   Con questo ideale di una scienza che penetri il popolo  per svegliarne e metterne in moto tutte le forze morali  ed economiche, il Genovesi voleva scuole e quando  furono da Napoli espulsi i Gesuiti e riordinata la pubblica  istruzione ed egli a tal fine invitato a scrivere un Piano  di riforme 3, non dimenticò nelle sue proposte le scuole  del popolo —; voleva metodi razionali e semplici perché  fossero efficaci gl’ insegnamenti accostati al popolo c ai  giovinetti; voleva accademie, che, abbandonando la vec¬  chia letteratura e le discussioni vane della filosofia in¬  feconda, si rivolgessero alle ricerche sperimentali e alle  arti più necessarie alla vita; e voleva, come sè visto,  libri in italiano, attraenti e di facile lettura. Ma aveva  pure il suo ideale di una dottrina che, liberando il popolo  dalle superstizioni e dai pregiudizi, e rinvigorendo nelle  coscienze i convincimenti morali e la fede religiosa che ne    1 Parte I, c. Vili, § 24.   = Op. cit., I, IX, p. 13.   3 Per questo Piano, vedi gli appunti che ne pubblico G. M. ga¬  lanti, Elogio stor. di A. Genovesi, Firenze, 1781, p. 108.     ANTONIO GENOVESI    37    è sempre il fondamento, potesse aprire la strada a quel  rinnovamento che egli auspicava: potesse infondere negli  uomini e nelle nazioni la fede nella ragione, di cui egli  era l’apostolo. Tutto il suo sistema riformatore era in¬  somma ispirato a una filosofia.   Della qual filosofia nelle Meditazioni e nei trattati di  Logica e di Metafisica, che, bene accolti dai contempo¬  ranei e più volte ristampati (è almeno da ricordare 1 edi¬  zione che della Logica volle curare, nel 1832, il Roma-  gnosi), sono entrati a far parte della letteratura filosofica  nazionale, si scorgono i lineamenti anche da chi non ri¬  cerchi i ponderosi volumi latini, che li precedettero e  prepararono.   Il Genovesi è un empirista t , ma non e un sensista, e  tanto meno un materialista. Combatte le idee innate,  ma cartesianamente mette il pensiero a capo di tutto,  e la ragione, che l’uomo che medita trova in se stesso  come attività sovrana, libera, signoreggiatrice, col suo  giudizio, dell’universo, vede conforme a una ragione  creatrice universale, divina 1 2 . L’uomo per essa è immor¬  tale. Per essa destinato a vincere il dolore, a superare  ogni difficoltà, a viver felice. Questa ragione infatti non  è fredda astratta intelligenza. Essa è energia ( energetico ,  dice Genovesi) perché è anche passione, cuore i. Non    1 Come empirista, Genovesi, pur non ripudiando ogni metafisica,  insiste sempre sulla necessità di limitare le ricerche speculative alle  questioni essenziali per una concezione sana e morale della vita. Insi¬  stenza che ha fatto pensare al criticismo kantiano. Vedi Gentile,  Stona della filos. ital. dal Genovesi al Galluppi, Milano, Treves, 1930,  c. I’ dov'è particolarmente studiata la dottrina della conoscenza  di Genovesi. Oltre i luoghi ivi citati (voi. I, p. xm), e le frequenti di¬  chiarazioni che ricorrono nelle Lettere familiari circa 1 infecondità  delle più astruse ricerche metafisiche e teologiche, vedi Logica, ed.  cit., pp. 250-51, 255. Notevole in special modo la lett. del 2 aprile 1763   a P. Saffiotti. ,   2 Vedi Meditazioni filosofiche, Milano, Silvestri, 1846, pp. 53 -° 3 .   Logica, p. 252.   1 Vedi Logica, pp. 260, 274-75.      83    ALBORI DELLA NUOVA ITALIA    distrugge la passione; una passione infatti si combatte  con un’altra passione. E poiché ogni essere è ragione, e  soffre e aspira a godere, essa, non essendo individuale,  ma comune e universale, stringe in un vincolo di amore  gli uomini.   Intuizione ottimistica, che s’inquadra in una concezione  leibnizianamente spiritualistica del mondo. Poiché anche  per Genovesi i corpi, scomposti negli elementi semplici  di cui sono formati, si riducono a sostanze spirituali,  attive. E tutte le qualità sensibili dei corpi non sono  altro che fenomeni, nostre sensazioni.   Lo spirito è attività : è quella stessa forza che è in tutte  le cose che sono in natura, e che tende ad espandersi.  In noi questa forza si svela nella ragione, che è prima di  tutto coscienza, affermazione di sé. Questa forza è attiva  e tende perciò a svilupparsi, ad estendere il suo dominio,  a trionfare. Il mondo non è, infine, se non questo svol¬  gimento della ragione, che nel suo progressivo prevalere  è cultura sempre più intensa e sempre più diffusa; è  benessere in cui lo spirito viene ritrovando e procuran¬  dosi le condizioni più favorevoli al suo sviluppo ; è amore  degli altri, insieme coi quali ogni uomo viene adempiendo  in comune il destino della sua natura, la libera vita della  ragione.   Questa la fede del Genovesi. Questa la sorgente dell’en¬  tusiasmo col quale egli attese con ferventissimo zelo dalla  cattedra e cogli scritti, malgrado la sua malferma salute,  infaticabilmente alla sua opera di apostolato. Questo il  segreto della potente azione da lui esercitata sul suo  tempo, promovendo nuovi studi, animando i giovani alla  lotta contro il vecchio mondo: contro la feudalità in fa¬  vore dei lavoratori della terra e della nascente borghesia;  contro la Curia per lo Stato autonomo e laico; contro il  pregiudizio per la critica; contro la superstizione per la  religione; contro tutto ciò che nel pensiero e nelle isti-    ANTONIO GENOVESI    89    tuzioni impedisse 0 ostacolasse il libero sviluppo del  lavoro, della civiltà, della ragione.   Antonio Genovesi non fu un rivoluzionario; ma fu  un educatore di rivoluzionari, che quando scoppierà  in Francia la grande Rivoluzione, o crederanno di obbe¬  dire alla voce del vecchio maestro accogliendone una  scintilla anche a Napoli, e quindi suscitando il glorioso  incendio della Repubblica Partenopea, celebrazione di  una grande fede idealistica ancorché astrattamente gia¬  cobina, santificata dal martirio 0, uomini di grande  accorgimento ed equilibrio, come Galanti e Cuoco, con  più profonda intelligenza dell’ insegnamento del Genovesi,  ne trarranno argomento a una più realistica concezione  politica della libertà necessaria al popolo napoletano:  poiché vedranno come il maestro aveva veduto, che  questa libertà non poteva essere vitale, se non era forte  della forza di uno Stato ben ordinato e potente: di uno  Stato infine in cui tutta l’Italia, prima o poi, doveva  unirsi tutta in un corpo solo tra l’Alpi e il mare.   Questa idea di un’ Italia unificata dal Galanti, il più  fido dei discepoli del Genovesi, passò al Cuoco, e dal  Cuoco, come oggi sappiamo, passerà al Mazzini; ma era  stata preconizzata a Napoli dal Genovesi. La cui com¬  memorazione io non potrei meglio concludere che rileg¬  gendo una sua pagina del 1757, a proposito della sicurezza  necessaria al commercio, e impossibile senza una fiotta  militare adeguata. Impossibile perciò allo stesso Regno  di Napoli, che era tuttavia il maggiore e più potente  Stato d’Italia: «Vorrei io», scriveva nel detto anno il  Genovesi, «in questo luogo dire un pensiero, che ho  sempre meco d’intorno all’animo avuto, ed hollo tut¬  tavia; ma io temo ch’egli non sia per incontrar male   1 Sulla scuola del Genovesi e la sua importanza storica, A. Simioni,  Le origini del Risorgimento politico dell' Italia meridionale, voi. I, Mes¬  sina, Principato, 1925, pp. 152-99.    7 - Gentile, Albori. I.     90    ALBORI DELLA NUOVA ITALIA    presso coloro, che niuno amore hanno e niun zelo nutri¬  scono per l’Italia, come madre nostra. Ma il dirò pure  in qualunque parte sia per prendersi da chi non guarda  più in là del proprio utile.   « A voler considerare l’Italia nostra, e dalla parte del  suo sito, e da quella degl’ ingegni, e per quello che ha ella  altre volte fatto e fa eziandio, tuttoché divisa e come  dilacerata, si converrà di leggieri, ch'ella tra tutte le na¬  zioni di Europa sia fatta a dominare; perocché il suo  clima non può esser più bello, né più acconcio il suo sito  rispetto alle terre e al mare che la circondano, né più  perspicaci e accorti e destri e capaci di scienze e di arti  e duranti di gran fatiche, e oltre a ciò più amanti della  vera gloria, i suoi popoli, di quel ch’essi sono. Ond’ è  dunque, ch’ella sia non solo rimasta tanto addietro al-  l’altre nazioni in tutto ciò, che par suo proprio, ma dive¬  nuta in certo modo serva di tutte quelle che il vogliono ?  Ella non è stata di ciò causa la sola mollezza, che le con¬  quiste de’ Romani v’apportarono; perocché questa mor¬  bidezza, che le ricchezze e la pace v’avevano introdotta,  non durò lungo tempo; ma la vera cagione del suo avvi¬  limento è stata quell’averla i suoi figli medesimi in tante  e sì piccole parti smembrata, ch’ella n’ ha perduto il suo  primo nome e l’antico suo vigore.   « Gran cagione è questa della ruma delle nazioni. Pur  nondimeno, ella potrebbe meno nuocerci, se quei tanti  principati, deposta ormai la non necessaria gelosia, la  quale hanno spesse volte, e più ch’essi non vorrebbero,  sperimentata e al comune d’Italia e a se medesimi fu¬  nesta, volessero meglio considerare i propri e i comuni  interessi, e in qualche forma di concordia e di unità ri¬  dursi. Questa sarebbe la sola maniera di veder rifiorire  il vigore degl’ Italiani.   « Potrebbe per questa via aver l’Italia nostra delle  formidabili armate navali, e di tante truppe terrestri.    ANTONIO GENOVESI    91    che la facessero stimare e rispettare non che dalle po¬  tenze d’oltremare, che pure spesso l'infestano, ma dalle  più riguardevoli che sono in Europa. Ella non vorrebbe  ambire altro imperio, che quello che la natura le ha cir¬  coscritto: ma ella dovrebbe, e potrebbe difendersi il suo.  Potrebbe veder rinascere in tutti i suoi angoli le arti e  le industrie, dilatarsi il suo commercio, e tutte le sue parti  nuovo abito e la pristina bellezza prendere. Se questi  sensi s’ispirassero ai pastori di tutte le sue parti, forse  che non sarebbe questo un voto platonico. E mi pare che  i principati d’Italia non siano sì gli uni degli altri gelosi,  che per massime vecchie che son passate ai posteri più  per costume che per sode ragioni. Non son ora i tempi  ch'erano: e quelle cagioni di reciproci timori, che pote¬  vano una volta essere ragionevoli, sono ora non solo vane,  ma nocevoli e al tutto e alle parti, se ben si considerano.  Egli è per lo meno certo, ch’ella non può, come le cose  sono al presente, sperare altronde la sua salute, che dalla  concordia e dall’unione de' suoi principi. Il comune e  vero interesse suol riunire anche i nemici: non avrà egli  forza da riunire i gelosi ?   Rettor del Cielo, io chieggo  Che la pietà che ti condusse in terra.   Ti volga al tuo diletto almo paese » ».    Al Genovesi dunque, il più filosofo dei grandi riforma¬  tori italiani del Settecento, spetta il merito di essere stato  il più italiano di tutti. Egli scosse il petto dei giovani, e  vi infuse una fede nella civiltà che è scienza ed è libertà.  Egli indicò agl’ Italiani 1 * Italia, che non c’era, ma co-    1 Carv, Storia del Comm. della Gran Bretagna, Napoli, 1757, II, p. 35.  Pagina celebre dacché il Carducci l’ebbe inclusa nelle sue Letture del  Risorgimento Italiano.        92    ALBORI DELLA NUOVA ITALIA    minciava a presentirsi, ed egli l’annunziò, insegnando  come le si potesse preparare la via. E la sua voce si riper¬  cosse di generazione in generazione, finché l’Italia venne.  E venne per la via che egli aveva aperta: riavvicinando  la letteratura alla vita, la filosofia all'uomo, ammaz¬  zando l’accademia e l’ozio ancorché dotto ed elegante,  educando il popolo a credere nella cultura, a servire  l’ideale, andando incontro per esso anche alla morte.  Fulgido esempio i martiri del '99. Stato laico e veramente  sovrano, religione tutta rivolta alla vita dello spirito,  libera da ogni cupidigia e pretesa mondana; libera la  ragione, rispettata come cosa sacra la scienza, e la scuola  che la promuove. E di là dal breve confine della provincia,  per l’Italiano, l’Italia grande, laboriosa, armata, consa¬  pevole di una sua missione civile. Questa la scuola del  Genovesi. Perciò gl’ Italiani devono ricordare il suo nome;  perciò devono annoverare Antonio Genovesi, lui così  modesto, così riservato e chiuso tra la scuola e i libri, tra  i padri della patria. E nella scuola italiana particolar¬  mente deve esser ricordato come esempio ed ammonimento  contro la pseudoscienza astratta dalla vita sempre rina¬  scente. Poiché i frati, che punzecchiarono in vita Antonio  Genovesi e furono perseguitati dalla sua dialettica e dal  suo frizzo, hanno cambiato veste, e non natura. E contro  di essi bisogna ancora combattere, ancora difendersi.  Perciò Genovesi è vivo.  GENOVESI, Antonio. - Nacque il 1° nov. 1713 a Castiglione (ora Castiglione del Genovesi), piccolo paese dell'Appennino campano a pochi chilometri da Salerno, primogenito dei quattro figli di Salvatore e di Adriana Alfenito. La famiglia, un tempo benestante, era decaduta da "civile" in "basso" stato, e viveva con i modesti proventi del lavoro del padre calzolaio e di una piccola proprietà. Allo sforzo di recuperare una condizione economicamente più solida e socialmente più prestigiosa, nonché alle strategie familiari in uso nella società del tempo e della zona, si deve la precoce destinazione del G. alla carriera ecclesiastica, realisticamente accettata dal ragazzo come unica strada percorribile per accedere agli studi superiori e a una professione intellettuale, per la quale si sentiva particolarmente tagliato, poi vissuta sempre con autentica adesione a una religiosità profondamente sentita. Affidato a parenti membri del clero locale, il G. compì i primi studi nel paese natio, praticamente da autodidatta, completando il corso di lettere latine a tredici anni. Seguirono tre anni dedicati alla filosofia, dapprima quella scolastica, per la quale maturò un rapido rifiuto, poi quella cartesiana, sotto la guida di un medico suo parente, Niccolò Genovesi, a sua volta allievo del medico cartesiano napoletano N. Cirillo. Le due autobiografie redatte dal G. e rimaste incompiute e inedite in vita (la prima si ferma al 1748: Autobiografia I, in P. Zambelli, La formazione, pp. 797-916; la seconda al 1755: Vita di A. G., in Illuministi italiani, pp. 47-83) ci trasmettono il ritratto di un adolescente vivace, intelligente e ricettivo, fortemente motivato allo studio per curiosità intellettuale e desiderio di primeggiare, ambizioso e abile nella dialettica. Nello stesso tempo fu iniziato al gusto della letteratura dai consigli di un altro amico del luogo, S. Parrilli; gliene derivò una passione, che durò tutta la vita, per i poemi cavallereschi, per Dante e Petrarca, alla quale seguì il nascere di un altrettanto intenso interesse per la storia.  Ma il padre sorvegliava attentamente che il ragazzo non si concedesse distrazioni. La rigidezza paterna ebbe modo di manifestarsi più duramente quando il giovane si innamorò, ricambiato, di una giovane compaesana, Angela Dragone. Per impedire che questo amore cambiasse i programmi di vita del giovane, il padre gli impose il trasferimento a Buccino (sempre non lontano da Salerno), in casa di parenti, mentre la ragazza fu costretta al matrimonio con un pastore. Il G., pur profondamente addolorato e deluso, trovò conforto nella maggiore apertura e possibilità di contatti che il nuovo ambiente, sempre provinciale ma più aperto e animato, gli offriva, e nell'amicizia con l'arciprete G. Abbamonte, che migliorò la sua preparazione classica e stimolò l'interesse per la teologia e il diritto civile e canonico.  Nel settembre 1735 il G. prese gli ordini minori. Nel frattempo, spinto dalla necessità di rendersi indipendente economicamente, con l'appoggio dell'arcivescovo di Salerno G.F. Di Capua, che ne aveva apprezzato le doti esaminandolo per il diaconato, ottenne l'insegnamento di retorica presso il seminario della città, dove rimase due anni. Ordinato sacerdote nel Natale del 1737, l'anno seguente, fornito del modesto capitale di 600 ducati ereditato da uno zio materno, insieme con il fratello Pietro, destinato alla carriera forense, si trasferì nella capitale del Regno, dove avrebbe trascorso tutto il resto della vita, allontanandosene solo per brevi periodi di villeggiatura. Abbandonato rapidamente il progetto di intraprendere anche la professione forense, che gli parve avere "poca conformità […] con le massime del puro cristianesimo" (Vita, p. 53), insofferente del formalismo giuridico e dell'ambiente del foro, scelse definitivamente gli studi filosofici. Frequentò le lezioni di N. De Martino e dell'ormai anziano Vico - di cui già conosceva la Scienza nuova -, conobbe P.M. Doria, si legò di amicizia con Appiano Buonafede, che lo descrive, in quei primi anni napoletani, in un acuto ed efficace profilo (Ritratti poetici, storici e critici di vari uomini di lettere, Venezia 1788, p. 266). Lasciò inattuato il progetto di un'opera ispirata a Platone, La repubblica divina, per rivolgersi avidamente alla cultura anglo-olandese, ai neoplatonici di Cambridge, a J. Le Clerc, a Newton, a Locke (progettando una traduzione dal francese del Cristianesimo ragionevole), al giusnaturalismo. Nel 1739 aprì una scuola privata, in cui insegnare i suoi "nuovi piani di filosofia e di teologia", in particolare il "piano di un'etica" (Vita, p. 53), frutto delle riflessioni di quegli anni. Cominciò a maturare in quest'esperienza - che durerà tutta la vita - la vocazione pedagogica che caratterizzerà tutta l'attività del G. e che si realizzerà in un metodo d'insegnamento dinamico, in cui l'ampliarsi dell'orizzonte culturale del docente sollecitava e promuoveva l'apprendimento in interazione costante con i giovani. Il carattere innovativo e il successo della scuola gli procurarono l'amicizia e la protezione di M. Cusano, di G. Orlandi e, soprattutto, del cappellano maggiore C. Galiani, autentico iniziatore della nuova cultura newtoniana a Napoli, fondatore dell'Accademia delle scienze e promotore della riforma universitaria, da poco avviata.  Attraverso il Galiani, il G. ottenne il primo incarico universitario, come professore straordinario di materie metafisiche, e cominciò a insegnare nel novembre 1745. Era nel frattempo approdato a una visione filosofica fondata su un "eclettismo programmatico", che tendeva alla serena composizione di un costante atteggiamento apologetico con la più totale disponibilità verso i portati della cultura innovatrice, di cui si appropriava con onnivora curiosità. Ne dette la prima dimostrazione nel manuale degli Elementa metaphysicae (Napoli 1743), prima tappa dell'ambizioso progetto di un corso completo di filosofia. Proprio per queste caratteristiche, nonostante la sostanziale ortodossia e l'approvazione del revisore regio G. Orlandi, l'opera fu duramente attaccata dagli ambienti ecclesiastici. La protezione del Galiani e la disponibilità ad accettare di chiarire le proprie posizioni in una Appendix pubblicata nel 1744 salvarono il G. dalla denuncia al S. Uffizio. La polemica però accrebbe la sua notorietà a Napoli e fuori del Regno; divenne abituale frequentatore del salotto letterario di M. Di Sarno, bibliotecario di José Joaquín marchese di Montealegre (duca di Salas dal 1740), primo segretario di Stato. Le tesi esposte nella Metafisica attirarono l'attenzione di A. Conti, con il quale il G. avviò uno scambio di lettere filosofiche sulla natura delle idee, stampate nel 1746 (poi in Letterefamiliari, Venezia 1774). Nel 1745 il G. era passato alla cattedra di etica, con buon successo per la rinnovata affluenza di studenti. Nello stesso anno pubblicò, in collaborazione con G. Orlandi, cui si devono le note scientifiche, gli Elementa physicae di P. van Musschenbroek, ai quali premise una Disputatio physico-historica de rerum corporearum origine et constitutione, agile e precisa sintesi delle idee scientifiche dall'antichità al presente. La manifesta adesione al newtonismo si colloca tuttavia ancora all'interno di una visione spiritualizzante e ortodossa, che connette la visione del cosmo di Newton al vitalismo di Cardano e di Campanella e con la platonica anima mundi. L'opera ebbe grande fortuna, come pure il contemporaneo manuale di logica Elementorum artis logico-criticae libri V(Napoli 1745), che gli procurò gli elogi di L.A. Muratori, con il quale avviò un carteggio, quasi totalmente perduto, destinato a durare fino alla morte del modenese. Ma altri e più pericolosi attacchi si andavano preparando nel clima di scontro determinatosi a Napoli a causa del tentativo, peraltro fallito, di introdurre il tribunale dell'Inquisizione, messo in atto dall'arcivescovo cardinale G. Spinelli nel 1746.  Nel 1747 il G. pubblicava la seconda parte della Metafisica, dedicandola a Benedetto XIV con l'evidente scopo di garantirsi un'autorevole tutela, e nel contempo portava a compimento la stesura del manuale di teologia cui attendeva dai primi anni Quaranta: gli Universae theologiae elementa. Quando, nel 1748, si rese vacante la cattedra di tale disciplina, il G. ritenne di avere giusto titolo per concorrervi con buone probabilità di successo. Ma la sua candidatura provocò violente opposizioni. In base alla denuncia di un altro concorrente, l'abate I. Molinari, la Curia romana volle esaminare il manoscritto, mentre la corte di Napoli ne affidò la revisione a un gesuita spagnolo, G. Barba. Nonostante i suoi timori, anche questa volta il G. riuscì a evitare la denuncia per eresia, soprattutto in virtù dell'appoggio dei gesuiti, ostili all'arcivescovo Spinelli, della sua personale amicizia con il padre provinciale della Compagnia e del fatto che, sul piano dottrinale, si definiva "mezzo molinista" in materia di grazia. Ma in questa occasione fu assai tiepido l'appoggio del Galiani, che gli impose la rinuncia non solo alla cattedra, ma anche all'insegnamento privato della teologia e alla pubblicazione degli Universae theologiae elementa, provocando la decisione del G. di abbandonare "studi sì turbolenti e spesso sanguinosi" (Vita, p. 70).  Il G. continuò a insegnare etica fino al 1753, mentre proseguiva il completamento della Metafisica con un quarto volume (1752), dedicato al giusnaturalismo. Reinterpretando Grozio e soprattutto Pufendorf, il G. vedeva nel giusnaturalismo le basi per rinnovare un'etica razionalmente e scientificamente fondabile, in grado di definire il quadro di valori di una società mercantile, i cui problemi si venivano ormai collocando al centro dei suoi interessi. La persecuzione di cui era stato oggetto, oltre ad allargare la cerchia delle sue frequentazioni amichevoli a personaggi come Raimondo di Sangro principe di Sansevero e F.P.B. De Felice, gli aveva offerto infatti l'occasione di entrare a far parte del cenacolo che in quegli anni si era venuto a creare intorno a B. Intieri.  Ormai avanzato nell'età, questo abile e fortunato imprenditore toscano, amico di C. Galiani e cofondatore dell'Accademia delle scienze, ritiratosi a poco a poco dalle sue multiformi attività, aveva raccolto intorno a sé vecchi e soprattutto nuovi esponenti dell'intellettualità napoletana, come A. Rinuccini, G. Orlandi, F. Galiani, con i quali aveva avviato una fruttuosa consuetudine di discussione, tesa a stimolare non solo la circolazione delle idee in rapporto con la cultura internazionale, ma anche l'attività di collaboratori più giovani e la loro concreta azione nel contesto politico e sociale del Regno. Il cenacolo dell'Intieri fu infatti tra i primi a leggere e commentare l'Esprit des loisdi Montesquieu. Dalle opere e dai carteggi di quegli anni emerge con chiarezza l'autorappresentazione di questo gruppo di intellettuali come forza operante nel nuovo contesto politico: la ritrovata indipendenza del Regno, che appare loro come conditio sine qua non per l'avvio di un processo di cambiamento e di modernizzazione.  Vero e proprio manifesto del programma riformatore del gruppo, incentrato sull'ineludibile nesso teoria-prassi, che ne costituì la novità immediatamente percepita dai contemporanei, fu il Discorso sopra il vero fine delle lettere e delle scienze, maturato durante la villeggiatura dell'autunno 1753 nella villa intieriana di Massa Equana, e pubblicato all'inizio dell'anno seguente a Napoli insieme con il Ragionamento sopra i mezzi più necessari per far rifiorire l'agricoltura di U. Montelatici e con la Relazione dell'erba orobanche di P.A. Micheli. Il G. operava così la sua scelta di campo, presentandosi come l'interprete più convinto di quel programma e il più attivamente impegnato nella sua realizzazione.  Requisito indispensabile per il progetto di riforma era la diffusione di una nuova cultura scientifica, economica, tecnologica, posta al centro degli interessi di una intellettualità nuova. A essa, come campo di indagine, ma anche di azione, doveva rivolgersi la "studiosa gioventù" del Regno, distolta dagli studi forensi e da speculazioni astratte, e avviata da un lato a una conoscenza cosmopolita di idee e linguaggi, dall'altro a sviluppare capacità di osservazione e di studio dei fenomeni naturali e sociali della realtà in cui viveva.  A questa istanza della cultura intieriana corrispose il progetto che meglio ne rappresentò la realizzazione istituzionale: la costituzione presso l'Università di Napoli di una cattedra di "meccanica e commercio" - cioè la prima di economia politica in Europa -, che Intieri volle finanziare con un lascito di 7500 ducati che garantisse una rendita di 300 ducati annui, a condizione che essa venisse affidata al G., che l'insegnamento fosse svolto in lingua italiana e che anche in futuro ne fossero esclusi rappresentanti del clero regolare. La nuova cattedra fu inaugurata il 5 nov. 1754, con grande affluenza di pubblico. Il G. presentò il nuovo corso con una prolusione che avrebbe poi sviluppato nel Ragionamento sul commercio in universale, pubblicato in estratto nel 1756 e poi in apertura della Storia del commercio della Gran Brettagna scritta da John Cary (Napoli 1757).  Questo grosso centone in tre volumi conteneva pure la traduzione dell'Essai sur le commerce d'Angleterre di V. de Gournay e G.-M. Butel-Dumont (Paris 1755), i quali avevano a loro volta tradotto e aggiornato l'Essay on the state of England di J. Cary (Bristol 1695), e la traduzione-rifacimento genovesiana dell'England's treasure of commerce di T. Mun (London 1664), corredate dalle ampie e ricche annotazioni dello stesso G. e da altri suoi saggi (Ragionamento filosofico sulle forze e gli effetti delle gran ricchezze e Ragionamento sulla fede pubblica) destinati a ricomparire negli Elementi del commercio e nelle posteriori Lezioni di commercio o sia di economia civile.  Contemporaneamente il G. procedeva alla stesura del suo corso biennale (1757-58) di Elementi del commercio, che anche nel titolo riecheggiavano gli Eléments du commerce di F.-L. Véron de Fortbonnais.  Ambedue le opere avevano un palese carattere propedeutico, non solo per i destinatari, ma in certo modo per lo stesso autore, che nel suo sforzo di informazione e acquisizione di nuove competenze sembra lavorare in parallelo con i suoi allievi e lettori. Il discorso genovesiano assolveva a una duplice funzione: definire contenuti e linguaggi della nuova cultura economica; tracciare le linee di un programma di politica economica per il governo, nel quadro dell'assolutismo illuminato, che viene considerato come la garanzia istituzionale delle riforme. Esso si articola sulla polarizzazione tra il cosmopolitismo culturale, perseguito con la consueta ampiezza e tempestività di letture, e il patriottismo, consistente nell'attenzione alle specifiche condizioni del Regno, su cui misurare l'effettiva validità degli interventi. Sul primo versante i termini di confronto scelti dal G. furono la Spagna e l'Inghilterra. L'una, studiata attraverso le opere di G. Uztáriz e B. de Ulloa, per le evidenti analogie con la situazione del Regno; l'altra, proposta come il modello più avanzato di economia mercantile, nel quale erano ormai operanti le strutture della moderna circolazione di merci, monete e idee. Su di essa il G. si documentava con ostinata puntualità, trovando la referenza più significativa nei Political discourses di D. Hume. L'elemento di mediazione culturale, approdo dei riformatori napoletani alla koinè illuministica degli anni Sessanta, era costituito dalle opere e dai dibattiti francesi, da J.-F. Melon a Fortbonnais, a Plumard de Dangeul. Sull'altro versante, il G. articolava una serie di proposte operative per una conoscenza sperimentalmente e statisticamente fondata delle reali condizioni del Regno (andamento demografico, natura e produttività dei terreni, configurazione della proprietà attraverso il catasto, strade e comunicazioni ecc.), cui dovevano collaborare gentiluomini e parroci, intellettuali e proprietari, creando una rete di società agrarie e scientifiche diffuse sul territorio e radicate nella società provinciale. La politica economica di un paese povero di materie prime e del tutto marginale nel commercio internazionale doveva puntare allo sviluppo qualitativo e quantitativo della produzione agricola, destinata al mercato reso libero dai vincoli interni.  L'adesione piena del G. alla liberalizzazione del commercio interno dei grani si manifestò, in concomitanza con la grave carestia che colpì il Regno nel 1764, attraverso la pubblicazione dell'Agricoltore sperimentato di C. Trinci (Napoli 1764) e delle Riflessioni sull'economia generale de' grani (Napoli 1765; traduzione della Police des grains di C. Herbert, Berlin 1755), da lui prefati e commentati. La fiducia nella possibilità di realizzare le riforme si scontrava, tuttavia, con la crescente consapevolezza della natura strutturale degli ostacoli che vi si opponevano. La concentrazione delle terre nelle mani di una nobiltà feudale ancora detentrice di poteri giurisdizionali e di un clero numericamente eccessivo, attaccato ai propri privilegi, impediva la formazione di una proprietà contadina, che ormai appariva al G. la condizione necessaria perché si sviluppasse non solo l'iniziativa economica, ma pure l'auspicata mobilità sociale. Sono quindi i problemi della società civile quelli cui il G. guarda con maggiore attenzione nell'ultimo quinquennio della sua vita, che rappresenta un'ulteriore scansione della sua attività.   Tra il 1764 e il 1769 il suo impegno politico e culturale si caratterizzava per una sempre più accentuata polivalenza di funzioni, legata alla sua ormai consolidata posizione di maître à penser. All'insegnamento universitario e privato si aggiunsero infatti le consulenze per B. Tanucci e per la giunta degli Abusi, sui problemi più scottanti del momento: dalla liberalizzazione del commercio dei grani ai trattati di commercio, dalla monetazione alla redazione dei nuovi piani di studio per le scuole ex gesuitiche (nel quadro di una vigorosa ripresa della battaglia giurisdizionalistica per l'abolizione della cattedra delle decretali); per l'istituzione di nuove cariche in difesa delle prerogative regie, per la lotta alla manomorta. Si intensificò soprattutto l'attività editoriale, relativa alla pubblicazione di opere proprie e altrui, che investì tutti gli aspetti della sua attività di studioso e di insegnante. Ne fece parte un corso completo di "istituzioni filosofiche per i giovanetti", in italiano, articolato nella Logica (Napoli 1766), nellaDiceosinao sia della filosofia del giusto e dell'onesto (ibid. 1766), nelle Scienze metafisiche(ibid. 1767). Contemporaneamente, il G. stendeva i Dialoghi morali e le note all'Esprit des lois (pubblicate postume nel 1777).  In questo contesto si collocano le tre edizioni delle Lezioni di commercio o sia di economia civile, cui il G. lavorò direttamente: le due napoletane, rispettivamente 1765-67 e 1768-70 e quella intermedia del 1768, promossa a Milano dall'allievo T. Odazi. Alle Lezionifanno da contrappunto, su un tema specifico carissimo al G., le due edizioni delle Lettere accademiche sulla questione se sieno più felici gli scienziati o gl'ignoranti, in cui la ripresa della polemica con Rousseau si amplia a un riesame critico dello sviluppo delle società umana. I testi che nascono da questa attività multidisciplinare rappresentano l'espressione più compiuta di un modusoperandi già sperimentato, fondato su una memoria interna, attraverso la quale il G. riutilizza e riorganizza continuamente i materiali della sua riflessione, in uno sforzo onnicomprensivo che tende a coagulare in una sintesi complessa, pur se talvolta ridondante, tutte le tensioni intellettuali e politiche degli ultimi anni di vita. Le ampie varianti recepiscono anche le spinte di circostanze esterne: per queste caratteristiche, le Lezioni si presentano come l'autentica summa del pensiero genovesiano, un vero e proprio "work in progress" di letteratura militante.  Il G. colloca le problematiche dell'economia in un più ampio quadro di considerazioni sulla società, sulle sue dinamiche, esaminate negli aspetti antropologici e psicologici, secondo una linea storicizzante alla quale contribuisce con una sua versione della teoria stadiale, per approdare a un più ampio affresco della situazione del Regno. Il confronto tra gli Elementi e le tre edizioni delle Lezioni mette in luce l'evoluzione del suo pensiero sui temi più caratterizzanti, dalla popolazione al lusso alla tassazione, e l'intensificarsi della polemica antifeudale e anticuriale. Diventa centrale il problema della comunicazione, elemento caratterizzante della società e del vivere civile e di conseguenza della lingua, alla quale dedica anche una riflessione teorica nella Logica, e dei mezzi, delle sedi, delle modalità attraverso le quali essa può realizzarsi e costituire l'asse portante della formazione dell'opinione pubblica.   La morte lo colse a Napoli il 12 sett. 1769.  Negli anni seguenti la sua opera fu oggetto di aspri attacchi e di appassionate difese, culminate nell'Elogio storico dedicatogli dall'allievo G.M. Galanti (Napoli 1772). Larga ma diversificata fu l'eco della sua opera nelle altre aree d'Italia e di Europa. Nonostante la fortuna dell'edizione milanese delle Lezioni, sulla quale furono esemplate tutte le successive ristampe, in realtà l'opera genovesiana non venne apprezzata nella Lombardia asburgica, proiettata verso la fisiocrazia, perché considerata troppo farraginosa e legata ai problemi di una società sottosviluppata. In Francia l'annunciato progetto di J. Pingeron di tradurre le Lezioninon ebbe seguito. In Germania, invece, vennero tradotti sia la Storia del commercio(Leipzig 1788), sia le Lezioni (ibid. 1776), a cura rispettivamente di A. Witzmann e di C.A. Wichmann. Molto più ampia fu invece la diffusione dell'opera genovesiana, sia filosofica sia economica, nella penisola iberica. In Spagna, infatti, apparve una traduzione in castigliano delle Lezioni (1785-86), a cura di V. de Villava, mentre nei paesi di lingua portoghese i suoi corsi di filosofia costituirono la base dell'insegnamento universitario per tutto l'Ottocento.  Edizioni: Illuministi italiani, V, Riformatori napoletani, a cura di F. Venturi, Milano-Napoli 1962, pp. 3-330; Autobiografia, lettere e altri scritti, a cura di G. Savarese, Milano 1962; Della Diceosina o sia della filosofia del giusto e dell'onesto, a cura di F. Arata, Milano 1973; Scritti, a cura di F. Venturi, Torino 1977; Delle lezioni di commercio o sia di economia civile, Varese 1977 (rist. anast. dell'ed. Milano 1768); Scritti economici, a cura di M.L. Perna, Napoli 1984; Se sieno più felici gl'ignoranti che gli scienziati. Lettere accademiche, a cura di G. Gaspari, Carnago 1993; Lezioni di commercio o sia di economia civile con gli "Elementi del commercio", a cura di M.L. Perna, Napoli 1998; Dialoghi e altri scritti. Intorno alle "Lezioni di commercio", a cura di E. Pii, Napoli 1998.  Fonti e Bibl.: Le carte genovesiane conservate si trovano a: Napoli, Biblioteca nazionale, ms. XIII.B.39; ms. XIII.B.92; ms. XIV.B.53; Arch. di Stato di Napoli, Casa reale antica. Diversi, f. 868; ibid., LII, Affari gesuitici, ff. 1297, 1298, 1302, 1304, 1307, 1473; Altamura, Archivio Biblioteca Museo civico, Fondo Serena, Carte Genovesi; Arch. di Stato di Milano, Piani di economia pubblica, Autografi, 164; Arch. segr. Vaticano, Nunziatura di Napoli, 279, 291, 292, 372; Arch. di Stato di Torino, Materie economiche. Zecche e monete, n. 9. Inoltre, copie manoscritte della Theologia sono conservate a Bari, Biblioteca nazionale, ms. III.16; Ibid., Biblioteca provinciale De Gemmis, Fondo De Gemmis; Fano, Biblioteca civica Federiciana, Fondo Collegio Nolfi, ms. 9; Macerata, Biblioteca comunale Mozzi Borgetti, ms. 340; Napoli, Biblioteca oratoriana dei gerolamini, ms. M.XXVIII-210. Varie lettere sono conservate a: Firenze, Arch. stor. dell'Accademia dei Georgofili, Carteggio, b. 23; Ibid., Biblioteca nazionale, Autografi Gonnelli; Forlì, Biblioteca comunale, Autografi Piancastelli; Milano, Biblioteca Ambrosiana, Mss. Beccaria, B.231; Modena, Biblioteca Estense, MC.103.1; Ibid., ArchivioMuratoriano, filza 65; Ibid., Autografoteca Campori; Torino, Biblioteca civica, Collezione Nomis di Cossilla; Vienna, Österreichische Nationalbibliothek, Mss. Lettere XLI.26.   G. Racioppi, A. G., Napoli 1871; G.M. Monti, Due grandi riformatori del Settecento, A. G. e G.M. Galanti, Firenze 1926; Studi in onore di A. G., Napoli 1956; L. Villari, Il pensiero economico di A. G., Firenze 1959; A. Potolicchio, Postille autografe inedite alla "Logica" di A. G., in Atti dell'Accademia di scienze morali e politiche della Società nazionale di scienze, lettere ed arti in Napoli, LXXIII (1962), pp. 1-67; F. Corpaci, A. G. note sul pensiero politico, Milano 1966; O. Nuccio, Un grande riformatore napoletano. A. G.: scienza economica e problemi di rinnovamento sociale a Napoli nella seconda metà del XVIII secolo, Roma 1966; M. Agrimi, A. G. e l'Illuminismo riformatore del Mezzogiorno, in Belfagor, XXII (1967), pp. 373-410; N. Badaloni, Antonio Conti, Milano 1968, ad indicem; M. De Luca, Gli economisti napoletani del Settecento e la politica di sviluppo, Napoli [1968], passim; M.T. Marcialis, Note sulla "Disputatio physico-historica" di A. G., in Annali delle facoltà di lettere, filosofia e magistero dell'Università di Cagliari, XXXII (1969), pp. 301-333; F. Venturi, Settecento riformatore, I, Torino 1969, pp. 523-644; II, ibid. 1976, pp. 163-213; V, 1, ibid. 1987, pp. 289-300; M. De Luca, Scienza economica e politica sociale nel pensiero di A. G., Napoli 1970; E. Garin, A. G. storico della scienza, in Id., Dal Rinascimento all'Illuminismo, Pisa 1970, pp. 301-333; R. Villari, A. G. e la ricerca delle forze motrici dello sviluppo sociale, in Studi storici, XI (1970) pp. 26-52; E. De Mas, Montesquieu, G. e le edizioni italiane dello "Spirito delle leggi", Firenze 1971; P. Addante, A. G. e la polemica antibayliana nella filosofia del Settecento. Contributo di ricerche storico-filosofiche, Bari 1972; P. Zambelli, La formazione filosofica di A. G., Napoli 1972; Economisti italiani del XVIII secolo, Roma 1974, pp. 51-160; F. Arata, A. G.:una proposta di morale illuminista, Padova 1978 (rec. di G. Imbriglia, in Boll. del Centro di studi vichiani, X [1980], pp. 225-232); P. Zambelli, A. G. and eighteenth-century empiricism in Italy, in Journal of the history of philosophy, XVI (1978), pp. 195-208; E. Piscitelli, Il pensiero degli economisti italiani nel Settecento sull'agricoltura, la proprietà terriera e la condizione dei contadini, in Clio, XV (1979), pp. 245-292; D. Demarco, Il dibattito settecentesco sulla popolazione in Italia, in La popolazione italiana nel Settecento. Relazioni presentate al Convegno su: La ripresa demografica del Settecento, … 1979, Bologna 1980, pp. 539-590; A. Pennisi, Filosofia del linguaggio e filosofia civile nel pensiero di A. G., in Le forme e la storia, I (1980), pp. 321-380; V. Ferrone, Scienza, natura, religione, Napoli 1982, pp. 609-674; L. Taranto, Il progetto di G. e l'economia civile di V.E. Sergio: un modello di sviluppo borghese, in Nuovi Quaderni del Meridione, XXI (1983), pp. 29-50; M.T. Marcialis, G. tra Wolff e Locke. Metafisica ed empirismo nella "Ontosophia" genovesiana, Cagliari 1984; E. Pii, A. G.: dalla politica economica alla politica "civile", Firenze 1984; F. Di Battista, La storiografia su G. oggi, in Quaderni di storia dell'economia politica, III (1985), pp. 277-296; M. Bazzoli, Il pensiero politico dell'assolutismo illuminato, Firenze 1986, pp. 486-498; E. Garin, A. G. metafisico e storico, in Giorn. critico della filosofia italiana, LXVII (1986), pp. 1-15; R. Bellamy, Da "metafisico" a "mercatante". A. G. and the development of a new language of commerce in eighteenth-century Naples, in The languages of political theory in early-modern Europe, a cura di A. Pagden, Cambridge 1987, pp. 277-299; F. Di Battista, Sul popolazionismo degli economisti meridionali prima di Malthus, in Le teorie della popolazione prima di Malthus, a cura di G. Gioli, Milano 1987, pp. 237-260; M. Fatica, Il lavoro come mediazione tra l'uomo "civile" e la natura: alcuni problemi di "police" in G. e nei suoi referenti culturali, in Prospettive Settanta, IX (1987), pp. 325-340; M.T. Marcialis, Natura e sensibilità nell'opera manualistica di A. G., Cagliari 1987; A. Pennisi, Grammatici, metafisici, mercatanti. Riflessioni linguistiche sul Settecento meridionale, in Teorie e pratiche linguistiche, a cura di L. Formigari, Bologna 1987, pp. 83-107; Id., La linguistica dei mercatanti, Napoli 1987, pp. 137-198; V. Ferrone, I profeti dell'Illuminismo, Bari 1989, pp. 187-203; G. Galasso, La filosofia in soccorso de' governi, Napoli 1989, pp. 369-451; A. Pagden, La distruzione della fiducia e le sue conseguenze economiche a Napoli nel secolo XVIII, in Le strategie della fiducia. Indagini sulla razionalità della cooperazione, a cura di D. Gambetta, Torino 1989, pp. 166-169, 173 s., 177-181; M.T. Marcialis, Legge di natura e calcolo della ragione nell'ultimo G., in Materiali per una storia della cultura giuridica, XXIV (1994), pp. 315-340; J. Robertson, The Enlightenment above national context: political economy in eighteenth-century Scotland and Naples, in The Historical Journal, XL (1997), pp. 667-697; M.L. Perna, L'universo comunicativo di A. G., in Atti del Convegno Editoria e cultura a Napoli nel XVIII secolo, Napoli 1998.Antonio Genovesi. Genovesi. Keywords: logica per gli giovanetti, critica della ragione economica, scambio conversazionale --. Refs.: Luigi Speranza, "Grice e Genovesi: critica della ragione economica” --  per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51759585870/in/dateposted-public/

 

Grice e Gentile – Enea all’inferno – filosofia italiana – Luigi Speranza (Taggia). Filosofo. Grice: “It seems every philosopher has a catabasis – as Eneas did!” “Falamonica spends a ‘stagione’ in hell, too!” -- “I do like Falamonica – the way he makes ‘Aristoteil’ rhyme! “E vidi alfin colui, che fra’ mortali / più degno par di tutto quell Collegio, / levarsi contra tutti, e batter l’ali; / dico Aristotil.” – Grice: Falamonica is interesting: there is Socrates teaching Alcibiades, and Socrates teaching Plato, and Plato teaching Aristotle, and Aristotle teaching Alexander!” Figlio di Pancrazio Falamonica Gentile e Violantina Piccamiglio. Venne in contatto coll’astrologia. Compose i Canti, poema dottrinale in terzine di 42 canti, chiaramente derivato dalla Commedia di Dante. Grice: “It is a fun philosophical comedy: “E vidi alfin colui, che fra’ mortali / più degno par di tutto quell Collegio, / levarsi contra tutti, e batter l’ali; / dico Aristotil.” Opere: “Canti. Dizionario Biografico degli Italiani. FALLAMONICA GENTILE, Bartolomeo. - Di antica famiglia genovese, che negli anni 1460-1480 entrò nell'"albergo" dei Gentile (e da qui è l'origine del doppio cognome con il quale è conosciuto: cfr. Grendi), nacque a Genova, nella contrada di S. Pancrazio, intorno al 1450, da Pancrazio e da Violantina Piccamiglio.  Nulla si sa intorno alla sua formazione ed ai suoi studi. Il primo documento nel quale è nominato è il testamento del padre, del 1469. In una data incerta della fine del sec. XV si trasferì in Spagna, dove svolse attività mercantile. Durante il soggiorno spagnolo fu tra i protagonisti della rinascita del lullismo, partecipando alle attività della scuola di Jaume Janer a Valencia. Fu promotore di iniziative editoriali, fra le quali la pubblicazione del Liber artis metaphisicalisdello stesso Janer, una sorta di summaenciclopedica del lullismo, stampata a Valencia nel 1506; dalla dedicatoria apprendiamo che il F. studiò le dottrine di R. Lullo con Janer. Da un'altra dedicatoria, quella di Alfonso Proaza, un altro importante membro della scuola lulliana di Valencia, alla Disputatio Remondi christiani et Homerii sarraceni del 1510, apprendiamo che il F. si era dedicato anche a studi di astronomia e di medicina, e che sollecitò Proaza a pubblicare testi di Lullo. Il F. fu inoltre in possesso di manoscritti di Lullo, del quale subì l'influenza anche nei testi letterari di cui fu autore.  Diciotto sonetti di argomento religioso, appartenenti alla tipica tradizione poetica catalana fra XV e XVI secolo e nei quali è anche rilevabile l'influenza delle opere poetiche di Lullo, furono pubblicati per la prima volta nell'edizione di Valencia del 1514 del Cancionero general. Nell'edizione del 1520 del Cancionero (quella da noi consultata) sono suddivisi in cinque sonetti "sobre ecce homo", un sonetto "in dialogo de Dio", un sonetto "de trinitate", un sonetto "a la verge Maria par les guerres dela sglesia", cinque sonetti "en llor del glorios nom de Iesus" e cinque sonetti "en llahor del nom dela gloriosa verge Maria".  Non si sa di preciso quando il F. rientrò a Genova, dove morì presumibilmente in una data compresa fra il primo e il secondo decennio del sec. XVI.  In vecchiaia ("Lasciando a dietro il sessagesim anno") si dedicò alla stesura di un poema, che ci è stato tramandato ed è stato pubblicato con il generico titolo di Canti. In quarantadue canti in terzine, di cui il primo ha la funzione di proemio, il F. costruisce un poema dottrinale secondo il modello dantesco del viaggio nei regni oltremondani. Ma la particolarità del testo del F., cui non manca una certa abilità nella costruzione del discorso in poesia, è data dall'aver scelto come guida del viaggio proprio Raimondo Lullo, il filosofo cui aveva dedicato molti dei suoi studi durante il soggiorno spagnolo. Nei quarantadue canti troviamo trattati i temi più caratteristici della filosofia lulliana. I primi canti sono dedicati alla divisione e descrizione dell'universo ("de' cieli, de' elementi, de' minerali, de' vegetali, degli animali, dell'uomo, de' morali"), cui seguono canti sulla divinità e sul messaggio cristiano ("pronostico della cristiana religione, della divina essenza, della generazione e spirazione eterna, della creazione del mondo, della natura angelica, della incarnazione, della concezione, della passione, de' sacramenti, della predestinazione"), sull'uomo e i suoi peccati ("del divino e mondano amore, dell'usura, del giuoco, dello scandalo e della fama"), e, in ultimo, i canti del vero e proprio viaggio nei regni dell'oltretomba ("dell'inferno, del purgatorio, del final giudizio, del paradiso"). La storia del testo dei Canti è stata piuttosto tormentata: ricordati negli Annali della Repubblica di Genova di Agostino Giustiniani, già Uberto Foglietta nei Clarorum Ligurum Elogia lamentava l'inaccessibilità del testo, che si credette perduto durante i secoli XVII e XVIII. Nel 1821 venne data la notizia del ritrovamento del poema, che venne descritto nella Storia letteraria della Liguria da Giambattista Spotorno. Dopo alcuni saggi di pubblicazione, i Canti vennero finalmente editi, in una veste non particolarmente curata, a cura di Giuseppe Gazzino (Genova 1877). In questa edizione i Canti sono accompagnati da un canto in terzine Alla Vergine e da tre sonetti In nome di Lei, che fanno parte di quelli già pubblicati nel Cancionero.  Fonti e Bibl.: R. Soprani, Li scrittori della Liguria, Genova 1687 (reprint, Bologna 1971), p. 49; (segnalazione in G. Spotomo, Storia letteraria della Liguria, II, Genova 1824, pp. 189-204; Giorn. stor. della letteratura ital., XIV [1889], p. 333); S. Caramella, B. G. F. (contributo alla storia del lullismo nei primordi del Cinquecento), in Dante e la Liguria. Studi e ricerche, Milano 1925, pp. 127-176; E. Levi, Un poeta italo-catalano del Quattrocento, in Estudis Universitaris catalans, XXII (1936), pp. 681-685; M. Battlori, El lulismo, en Italia, in Revista de filosofia, II (1943), pp. 504 ss.; D.W. McPheeters, The Italian poet and lullist B. G. in XVIth century Valencia, in Symposium, VII (1953), pp. 375-379; P. Zambelli, Il De audito cabalistico e la tradizione lulliana nel Rinascimento, Firenze 1965, p. 127; L. Grillo, Seconda appendice ai tre volumi della raccolta degli Elogi di liguri illustri, Genova 1976, pp. 183 s.; M. Pereira, Bernardo Lavinheta e la diffusione del lullismo a Parigi nei primi anni del '500, in Interpres, V (1983-1984), p. 256; E. Grendi, Profilo storico degli alberghi genovesi, in Mélanges de l'Ecole Française de Rome, M.-A., - Temps modernes, LXXXVII (1975), 1, pp. 241-302 (spec. pp. 246-254).  CRIT ICA. SOPRA UN POEMA di Bartolommeo Falamonica. N o n sono che pochi anni dacchè si scopri un poema di B a r tolomeoGentile Falamonica,uomo ligure,daluiscritto tra il 1470 e il 1490. Il Giustiniani e qualche altro G e novese aveano parlato di quell'uomo con assai lode ; m a deploravano la perdita di quella Opera sua , che andava smarrita. Il sig. Spatorno nella recente sua Storia lette raria della Liguria dà un'analisi di quel Poema,che merita per,ognirispetto d'essere conosciuto.Il manoscritto oggi trovasi presso il marchese Giancarlo di Negro , p a trizio genovesc, amatore e cultore di ogni ottimo studio. Il poema del Falamonica non ha titolo; la materia diceilcitatoGiustiniani ėtuttafilosoficaeteologica, con interpretazione di leggi pontificie e cesaree. Lo stesso attesta ilsig.Spatorno. L'A.incomincia dal favellare de'Cieli; e iprimi suoi versi sono questi: Nel tempo che s'inclina ilfiore e l'erba, 38 TARIETA': WY > Perdar lecarespoglieal'aspraterra, Partendo dalla età dolce e superba ,  CRITICA . Lasciando addietro il sessagesim ' anno ... Vedea che l'error m 'avea condotto 39 Aristotil ... Intanto gli apparve dalle parti occidentali una gran Stella in formadiromito,dinome Raimondo (Lullo) spiegò il suo desiderio di conoscere la verità , e di lasciare alcun vestigio di sè dopo morte ; e Raimondo disse:stasecuro. e lo condusse al Sole,acciò lo guidasse ne'Cieli. Per man mi prese  Tornava senza onor dallamia guerra Con tutte mie speranze sparse al vento , De'miei passati giorni indarno spesi, Ch'ogni piacere in me restava spento... 2 motor che mi costrinse il senso E mi condusse in una oscura valle. Iviilpoetaudìprimaun suonodiguerra;poiunaltro come di favelle che parlavano del Cielo e della Terra. e > NelIlCantovedeSaturno,poiMarte,poiGiove; e il Sole gli dice : Già presso al fin che tutto il mondo atterra. Allor mi ritrovai tutto scontento A volgerealmioverobenlespalle... Ed eccouscirdelCiel,nonsosiofalle Un gran E vidi ch'eran Spirti in quel deserto Qual dicea in prosa, e qual cantava in versi. E conobbe tutti esser poeti , e in tanto numero E vedi alfin colui che fra'mortali Più degno par di tutto quel Collegio , Levarsi contra tutti e batter l'ali , Questa è la introduzione , e costituisce il primo Canto del Poema. Nel II Canto si trova in luogo , dal quale si vede sotto i piedi la Luna e i Pianeti; e sentiva il movimento delle sfere.VideilcerchiodelleStellefisse edaciòprende occasione di parlare degli Astronomi , il più moderno dei quali è il Regiomontano ,morto nel 1476, ed afferma non essere possibile l'eternitàdel mondo. Ma qui conviene omai fermar le piante Ch'ionon potreidituttiinomidirti. Ne dice però una lunga lista di greci e latini: nd ram menta alcun italiano. "Ei li lasciò tutti per gire a' filosofi, tra i quali dà il primo luogo ad Aristotele, di cui dice   Perquellestradeluminose e.terse Ch'ionon potealasciarlaviaserena. Il Sole dà al poeta un de'suoi rai, onde possa vedere gli oggetti terreni. E inquesto Canto, e nel VI parla dell'aria,!della dell? E la lussuria il buon smeraldo affrena; Vedi l'assenzio,ch'apre e scalda e sciolve: Che già della bell'arte han fatto vizio... Vacuando idenari,e non gli umori. Nel Canto IX ragiona della vitasensitiva degli animali e delleproprietà delle varie specie. E le cicogne d'empietà nemiche... ecc. d'onde prende occasione di parlare della empietà degli u o mini, Che gli uomini son fatti fere ed orsi: Qual strazia , qual uccide, qual graffigna. Cosi servate son le sacre norme. Le cose accennate formano la prima cantica del poema ; ed incomincia la seconda parlando dell'uomo. Alzato già del Ciel a tanto lume ,  ! 49 CRITICA. acqua edelfuoco. Nel VII parla de minerali,e delle supposte aque? tempi meravigliose virtù delle pietre preziose ,dicendo terra , Stringel'acanto> e falevenesalde; Tempo era omai d'entrar nel mio volume : Dove trovai del mondo tanta parte· Finchè io ti mostri la mia casa propria. Nel Canto IV visita Venere , Mercurio, e la Luna ; e famoltedimandedifisica,elerisolvecolla dottrinape= ripatetica che alloracorreva. N e l canto V. parla degli elementi ; e vi s'introduce così: Era mia vista di luce si piena, Son gli ametisti incontro all'ebriopoto , Contra ilvenenoilgran giacinto è noto. Nel Canto VIII parla della vegetazione, e delle proprietà vereo immaginarie dellepiante. Torna l'altea la gran durezza in polve. cec. E contro i Medici. Falcon leale,eladralaperdice... Adulterate son le cose sante ... La genteritornatasimaligna, Come si mostra in le passate carte , Ch'io vidi in lui siccome linea al punto Quanto Dio crca , e quanto poi comparte ,   Ogni mondana ed immortal bellezza ... Nel Canto Il parla della immortalità e libertà dell'ani ma ,e delle idee e degli affetti. Ogni pensier, e quanto qui s'adopra opra In questa nostra carne per sua forina (l'anina ) Il lume della vita è la scienza .. Questa partefilosoficaè chiusa con un pronostico della Religione cristiana. Il Genio del Sole lascia finalmente il poeta ;e come questi nell'accomiatarsi sentendo una voce terribile, abbraccia spaventato il suo duce , esso sdegnato Come uomo irato qui fra noi s' incende , si volge al'Eterno, e lo prega di far sentire l'indigna zionesuaalla Terrapienaditirannide,disimoniayd'inu gratitudine e di avarizia. Han fatto un altro Dio tutto mondano ; Creato per usanza un'altra legge; E posto in terraallorquando s'aggiorna  O somma vita, dove son raccolte Ligate qui col tempo , e là disciolte ; Eterno libro , in cui si nota e scrive E posto già il tuo nome tutto in vano. E commette al poeta di palesare queste cose a tutto il mondo escriverlealettered'oro;minacciandochese gliuomini non ritornano buoni, saranno preda dei Maomet tani,che alloraaveano presa Otranto.Questa secondaCan ticatermina coi seguenti versi. Che nulla per di fuora par si scopra. Nel I I I Canto espone il difetto delle virtù , e spezialmente della carità , onde l'anima va dannata. Chiudendo incrudel pianto sua giornata. 1. C a n t i I V , V e V I t r a t t a n o d i c o s e m o r a l i . CRITICA. 45 Nobil naturà , in cui si trova giunto Le vitenostrepriache insesienvive, Per l'alme che lassù si fanno dive ; Fammi sentir sìcome dentro s' Mortal non è colui che mai non erra . C h e p e r r i c c h e z z a l' u o m n o n è g i o c o n d o : 1 : Un fonte di sospetti è signoria... Seguilipochi,e non lavolgargente... Da poimi vidituttii sensi presi: Con un gridar che uscia da que'paesi Oh ! mondo pravo , torna , tornia, torna.   Ed ecco allor m'apparve quel divino Miomastroantiquo(Raimondo Lullo). I Canti I e II trattano della essenza divina secondo la dottrina e le sottigliezze degli Scolastici. Nel Canto III il poeta si sforza di mettere in versi la generazione del Verbo, e la spirazione eterna,giusta gli astrusi concetti delle scuole. NelIVragionadellacreazionedelMondo;nelV della natura angelica con tutte ledivisioni gerarchiche. Nel VI e VII tratta della incarnazione del Verbo. Poi dellaconcezione, seguendolanotasentenzadiScoto Più degno , più eccellente, più gentile , Di non veder la sua vision divina fermazione,dellaEucaristia, delaPenitenza,edelleIna dulgenze. Nel Codice autografo , dice il sig. Spatorno , è Jasciato in bianco ciò che apparteneva agli altritre Sacra menti.Favellaposciailpoeta dellapredestinazioneedel l'amore divino emondano. Quest'ultimo lo ispira contro Usura in pravi volentier s'annida ... E cresce questa piaga al mondo ognora. Quanto son pianegià le vie di morte ! Ne’susseguenticanti inveiscecontro ilgiuoco; indi ra. giona delloscandalo e della fama. La terza parte del Poema ha per soggetto ilMondo ir. visibile, e comincia dall'Inferno.  42 CRITICA . E più decente ancora all'Infinito. Della più mite dottrina poi si mostra seguace rispetto ai fanciulli morti senza battesimo. Che poco curan giàdiveder Dio Di quanto in sè contien filosofia. In due Canti espone la passione del Redentore ; nè pia. ceranno a tutti le disperazioni della Vergine a piè della croce.In duealtriCanti ragiona delBattesimo, dellaCon I La Cantica terza abbraccia la parte teologica ; e comin cia così. Eragià fattosicom'uom selvaggio. Non hanno danno alcun , se non quel bando Giocando insieme tutti e giubilando , Non hannopiù sospiro alcun,nè stento, E sono al lor parer si gloriosi Siccome fanno al mondo i più viziosi. E lisuppone occupati M Busura.   Secondo differenzia di peccati. A guardiade'superbistannoileoni,de'lasciviiporci; de'golosi gli orsi: Viensi poial Giudizio universale Così montaro inCiel disquadrein squadre. Ilpoema si chiude col Paradiso partito in seicapitoli. Nel I si parla dellafelicità de'Giusti. Nel IIsono ricor datituttiipiùcelebripersonaggi dell'anticaalleanza;fra quali ètaciuto diSaloinone,che secondo l'opinionedel b.Alessandro Sauli si teneva per dannato. NelIII si trattadegli Apostoli, dei Discepoli e degl'Innocenti, Nel IV parlandosi de' Martiri cosi dice di S . Lorenzo . Felice tu , mia Genoa , che l'onori , Eccelsocavalier di Cristo atleta. Giorgio chiamato, e vera insegna e duce Di nostra gran Liguria.  CRITICA. 43 Flegias,Cocito,furie d'Acheronte, Aletto con Megera e Tesifone. Lascio la Stige , e Lete , e Flegetonte , Ed ogni simulacro de Poeti Seguendo solo l'ortodossa fonte. Ne fu già l'occhio mio cotanto ardito Il Purgatorio delFalamonica ha forma di anfiteatro; le grotte che rinchiudono le anime , sono dispostesotto gli scaglioni, e sopra questistanno demonii in sembianza di animali. La valle tenebrosa ed ipfelice D'ogni ben priva,e d'ogni male carca E le corone d'uno e d'altro impero Correr fra l'onde , e naufragar con elle ... E come il balenar seconda il tuono. M a l'invito del Giudice eterno agli Eletti, dice il signor Spatorno,sa troppodiquellelicenzedantesche pena si perdonano all'Autoredella incomparabil Commedia. E Roma,ovefursparsiisuoidolori. E di S. Giorgio. > cheap Cerbero lascio , Minos e Plutone , Da riveder qual fosse quello e questo. Cið gli frutterà guerra presso gli adoratori d'ogni cosa di Dante. Venite a me del nome mio maacipio, Diletti e benedetti dal mio padre. Che come miei fratelliio vi recipio. Felice ancor la Spagna , dov'ei nacque ,   Nel V Canto si parla ancora de martiri. Nel VI de' dottori,monaci,ronitieconfessori,ediquesti l'ul timo è s. Bernardino di Siena. Di Bernardino parlo ,che a l'uscita Di questa schiera il più moderno parve , Fra tanta moltitudine infinita. E chiama s.Anna Ava del Figlio , e Socera del Padre Miserere di un cuor che in tes'adombra ! e dichiarando di sottomettere l'Opera sua al giudizio di Santa Chiesa. G. B.  44 CRITICA. Nostro celeste in Ciel... Chiude poi ilcapitolo e tutto il poema , volgendosi a Dio , e pregandolo Ch'io la rimetto a lisuoi santi piedi. Tale è l'analisi che ci ha data del poema del Fala monica ilsig.Spatorno.Non potevaquestaesserepiùam pia dovendo costituire parte di un articolo della sua Opera. Ma egli ha lasciato maggior desideriodel medesimo, poi chè pare anoi, che altri passi, e forse più felici, dovreb b'essocontenere,se,comedicegli,questo poemadopola CommediadiDante,eprima dell'Orlandofuriosodee tenersi per la migliore composizione poetica che in quel l'intervallo l'Italia abbia avuta. Noi speriamo che il signor di Negro lo comunicherà al Pubblicocolle stampe. E vidi alfin colui che fra’ mortali/più degno par di tutto quell collegio/levarsi contra tutti e batter l’ali./Dico Aristotil posto in sì gran pregio/di lor filosofanti un lume acceso/E pur dal ciel si trova dato in spregio/si ch’io restai fra me tutto sospeso/con l’alma or.  Falamonica. Bartolomeo Fallamonica Gentile. Gentile. Keywords: Enea all’inferno, parodies of the Divine Comedy, Raimondo Lullo, Bruno e Lullo, il libro dell’amante e dell’amato, ars amative. Commedia filosofica.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gentile” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51758709006/in/dateposted-public/

 

Grice e Gentile – implicatura dell’atto – filosofia italiana – Luigi Speranza (Castelvetrano). Filosofo. Grice: “Do not multiply the senses of ‘state’ (normative, prerogative) beyond necessity.” Grice: “It’s difficult to assess the philosophy of Gentile; he is a Peirceian, like me –. He ie into ‘conventional sign’ and ‘natural sign’ – and considers intersubjectivity as a way to suprass the type of Berkeleyan idealism – his tradition is Plathegel, mine is Ariskant!” Grice: “The roots of Gentile’s philosophy are in Hegel’s logic, as are Bradley’s, Bosanquet, and Collingwood’s! – and Croce’s!” -- idealist philosopher. He taught philosophy at Pisa. Gentile rejects Hegel’s dialectics as the process of an objectified thought. Gentile’s actualism or actual idealism claims that only the pure act of thinking or the transcendental subject can undergo a dialectical process. All reality, such as nature, God, good, and evil, is immanent in the dialectics of the transcendental subject, which is distinct from the empirical subject. Among his major works are “La teoria generale dello spirito come atto puro” and “Sistema di logica come teoria del conoscere.” Gentile sees conversation is a concerted act that overcomes the apparent difficulties of inter-subjectivity and realizes a unity within two transcendental subjects. Actualism was pretty influential. With Croce’s historicism, it influenced two Oxonian idealists discussed by H. P. Grice: Bernard Bosanquet and R. G. Collingwood (vide: H. P. Grice, “Metaphysics,” in D. F. Pears, The Nature of Metaphysics, London, Macmillan). Insieme a Croce uno dei maggiori esponenti del idealismo, nonché un importante protagonista della cultura, fonda L’Istituto dell'Enciclopedia Italiana e artifice della riforma della pubblica istruzione (Riforma Gentile). La sua filosofia è detta attualismo.  Inoltre fu figura di spicco del fascismo italiano. In seguito alla sua adesione alla Repubblica Sociale Italiana, fu assassinato durante la seconda guerra mondiale da alcuni partigiani comunisti dei GAP. «Era un omone che ispirava grande simpatia; con la pancia incontenibile, i bei capelli brizzolati sopra un faccione rosso acceso, di carnale cordialità. Tutto fuorché un filosofo: così mi apparve, benché fossi pieno di entusiasmo per i suoi Discorsi di religione, freschi di lettura. Bonario, familiare (paternalista), mi fece l'impressione di un vigoroso massaro siciliano, che fonda la sua autorità sull'indiscusso ruolo di patriarca” (Geno Pampaloni, Fedele alle amicizie. Figlio di Giovanni e Teresa Curti. Frequenta il ginnasio/liceo "Ximenes" a Trapani. Vince quindi il concorso per posti di interno di Pisa, dove si iscrive alla facoltà di lettere e filosofia. A Pisa ha come maestri, tra gli altri, Ancona, professore di letteratura, legato al metodo storico e al positivismo e di idee liberali, Crivellucci, professore di storia, e Jaja, hegeliano seguace di Spaventa, che influirono molto su Gentile. Dopo la laurea, con massimo dei voti e ottenimento del diritto di pubblicazione della tesi, ed un corso di perfezionamento a Firenze, ottiene una cattedra in filosofia presso il convitto nazionale Pagano di Campobasso. Si sposta a Napoli.  Sposa Erminia Nudi, conosciuta a Campobasso: dal loro matrimonio nasceranno Federico Gentile, i gemelli Gaetano Gentile e Giovanni Gentile junior, Giuseppe Gentile, e Tonino Gentile Ottiene la libera docenza in filosofia teoretica. Ottiene poi la cattedra a Palermo, dove frequenta il circolo di Pojero e fonda “Nuovi Doveri.” A Pisa e Roma. Insegna a Palermo, Pisa, Roma e Milano. Durante gli studi a Pisa incontra Croce con cui intratterrà un carteggio continuo. Uniti dall'idealismo (su cui avevano comunque idee diverse), contrastarono assieme il positivismo e le degenerazioni dell'università italiana. Insieme fondano “La Critica”  al rinnovamento della cultura italiana. L'attualismo ha configurazione sistematica. Divenne membro del Consiglio superiore della pubblica istruzione. All'inizio della prima guerra mondiale, tra i dubbi della non belligeranza, si schiera a favore della guerra come conclusione del Risorgimento. Rivela a sé stesso la passione politica che gli stava dentro e assunse una dimensione che non era più soltanto quella del filosofo che parla “ex cathedra”,  ma quella dell'"intellettuale" militante, che si rivela al pubblico. Partecipa attivamente al dibattito politico e culturale. E tra i firmatari del manifesto del “Gruppo Nazionale Liberale”, che, insieme ad altri gruppi nazionalisti e di ex combattenti forma l' “Alleanza” per le elezioni politiche, il cui programma politico prevede la rivendicazione di uno stato forte, anche se provvisto di larghe autonomie regionali e comunali, capace di combattere la metastasi burocratica, il protezionismo, le aperture democratiche alla Nitti, rivelatosi «inetto a tutelare i supremi interessi della Nazione, incapace di cogliere e tanto meno interpretare i sentimenti più schietti e nobili».  Fonda il “Giornale critico della filosofia italiana”.  Diviene consigliere comunale al Municipio di Roma, mentre l'anno successivo viene nominato anche assessore supplente alla X Ripartizione, A. B. A., ovvero alle “Antichità” e alle “Belle Arti”, sempre del Municipio di Roma. Diviene socio dell'Accademia dei Lincei.  Gentile non mostra particolare interesse nel confronto del fascismo. Fu solo allora che prese posizione in merito, dichiarando di vedere in Mussolini un difensore di un “liberalismo” risorgimentale nel quale si riconosce.“Mi son dovuto persuadere che il ‘liberalismo’, com'io l'intendo e come lo intendeno gli uomini della gloriosa destra che guida l'Italia del Risorgimento, il liberalismo della libertà nella legge, e perciò nello stato forte, e nello stato concepito come una realtà etica, non è oggi rappresentato in Italia dai ‘liberali’, che sono più o meno apertamente contro di Lei, ma per l'appunto, da Lei.” (Lettera a Mussolini). All'insediamento del regime viene nominato ministro della Pubblica Istruzione, attuando La Riforma Gentile, fortemente innovativa rispetto alla precedente riforma basata sulla legge Casati di più di sessant'anni prima! Diviene senatore del Regno. Si iscrive al Partito Nazionale con l'intento di fornire un programma ideologico e culturale. Dopo la crisi Matteotti, date le dimissioni da ministro, Gentile viene chiamato a presiedere la Commissione dei Quindici per il progetto di riforma dello Statuto Albertino (poi divenuta dei Diciotto per la riforma dell'ordinamento giuridico dello stato). Resta fascista e pubblica il “Manifesto degli intellettuali” in cui vede la filosofia come un possibile motore della rigenerazione degli italiani e tenta di collegarlo direttamente al Risorgimento. Questo manifesto sancisce l'allontanamento di Gentile da Croce, che gli risponde con un tipico “contro-manifesto”. Promuove la nascita dell'Istituto di Cultura. Per le numerose cariche, esercita un forte influsso sulla cultura italiana, specialmente nel settore filosofico. È imembro dell'Istituto Treccani. A Gentile si devono in gran parte il livello culturale e l'ampiezza della visione dell'Enciclopedia Italiana. Invita infatti a collaborare alla nuova impresa 3.266 filosofi di diverso orientamento, poiché nell'opera si deve coinvolgere tutta la cultura italiana, compresi molti studiosi notoriamente anti-fascisti, che ebbero spesso da tale lavoro il loro unico sostentamento. Riesce in tal modo a mantenere una sostanziale autonomia, nella redazione dell'Enciclopedia Italiana, dalle interferenze del regime. È coinvolto nell'istituzione del Giuramento di fedeltà al regime che causerà l'allontanamento di alcuni dall'Università.  Inaugura a Genova l'Istituto mazziniano. Fonda il Centro nazionale di studi manzoniani. Fonda la Domus Galilaeana a Pisa.  Non mancano comunque i dissensi col regime. In particolare, la sua filosofia subisce un duro colpo alla firma dei Patti Lateranensi tra il cattolicesimo e lo stato. Sebbene riconosca il cattolicesimo come una forma della spiritualità, ritiene di non poter accettare uno stato NON laico. Questo evento segna una svolta nel suo impegno politico militante, è inoltre contrario all'insegnamento del cattolicesimo nel ginnasio e nel liceo. Il Sant'Uffizio mette all'”Indice” le sue opere a causa del loro riconoscimento, nel solco dell'idealismo, del cattolicesimo come una mera "forma dello spirito” -- totalmente inferiore alla filosofia: ‘theologia ancilla philosophiae.” “La mia religione, in cui vi sono anche alcune velate critiche al cattolicesimo e ispirata da Alighieri, Gioberti e Manzoni.” Degna di nota anche la sua difesa di Bruno, il filosofo eretico condannato al rogo dall'Inquisizione, al quale dedica una apologia, impegnandosi anche presso Mussolini perché la statua di Bruno in Campo de' Fiori e opera dello scultore anticlericale Ettore Ferrarinon fosse rimossa, come richiesto da alcuni cattolici. Comincia una lunga polemica contro Vecchi, che Gentile accusa di “inquinare la cultura”.“Roma non ebbe mai un'idea che fosse esclusiva e negatrice.”“Roma accolse sempre e fuse nel suo seno, idee e forze, costumi e popoli.” “Così poté attuare il suo programma di fare dell'urbe, l'orbe.” “La Roma antica volgendosi con accogliente simpatia e pronta e conciliatrice intelligenza a ogni persona a ogni forma di vivere civile, niente ritenendo alieno da sé che fosse umano.”“Sono i popoli – come i longobardi! -- piccoli e di scarse riserve quelli che si chiudono gelosamente in se stessi in un nazionalismo schivo e sterile.”In La mia religione dichiara di essere credente nello stato laico – ‘stato no laico e una contradictio in terminis’ --  Nel Discorso del Campidoglio esorta all'unità. Si ritira a Troghi, dove filosofa su la “Genesi e struttura della società” nel nel quale teorizza su la politica dell’umanesimo. Considera “Genesi e struttura della societa” il coronamento dei suoi studi speculativi tanto che mostrando il manoscritto, scherzando disse. "I vostri amici possono uccidermi ora se vogliono.”“Il mia missione nella vita è compietata.”La caduta di Mussolini non preoccupa particolarmente Gentile che intese il tutto come un avvicendamento al governo. Inoltre la nomina nel primo governo Badoglio di alcuni ministri che precedentemente erano stati suoi collaboratori lo conforta. In particolare la amicizia con Severi spinse Gentile ad inviargli una lettera di auguri per la nomina e a sottoporgli alcune questioni rimaste in sospeso con il governo precedente.  Severi rispose a Gentile lanciandogli un duro e inatteso attacco. Travisandone volontariamente i contenuti evitando però di renderli noti avvalorò l'idea che Gentile gli si fosse proposto come consigliere ponendolo quindi in obbligo a respingerne la proposta. Gentile replica a Severi e rassegna le dimissioni da Pisa. Gentile respinse in un primo tempo la proposta di Biggini di entrare al Governo, dopo un incontro con Mussolini sul lago di Garda si convinse ad aderire alla Repubblica Sociale Italiana. Divenne presidente della Reale Accademia d'Italia, con l'obiettivo di riformare L’Accademia dei Lincei che fu assorbita dall'Accademia. “Venne qui tempo fa un amico a cercarmi, ed io dissi francamente i motivi politici per cui desideravo restare in disparte.”“Ma egli mi assicurò che io potevo benissimo restare in disparate.”“Ma dovevo fare una visita al mio amico che desidera vedermi ed era addolorato di certe manifestazioni recenti, ostili alla mia persona.”“Negare questa visita non era possibile.”“Feci comodamente il viaggio con Fortunato.”“Ebbi un colloquio di quasi due ore, che fu commoventissimo.”“Dissi tutto il mio pensiero, feci molte osservazioni, di cui comincio a vedere qualche benefico aspetto”“Credo di aver fatto molto bene all’Italia.”“Non mi chiese nulla, non mi fece offerta.”“Il colloquio fu a quattr'occhi.”“La nomina fu poi combinata col ministro amico e portata qui da me da un Direttore generale.”“Non accettarla sarebbe stata suprema vigliaccheria e demolizione di tutta la mia vita.”Sostenne la chiamata alle armi e la coscrizione militare dei giovani nell'esercito della RSI, auspicando il ri-pristino dell'unità nazionale sotto la guida ancora una volta di Mussolini.  Intanto il figlio, Federico Gentile, capitano d'artiglieria del Regio Esercito, era stato internato dai tedeschi in un campo di prigionia a Leopoli in condizioni particolarmente severe.Federico Gentile e l'unico ufficiale italiano del campo a non ricevere la posta di ritorno. Federico Gentile aveva aderito alla RSI, ma non aveva accettato l'arruolamento nell'Esercito Nazionale Repubblicano, preferendo tornare in Italia da civile.Gentile elogia pubblicamente al "Condottiero della grande Germania", e lodando l'alleanza italiana con le Potenze dell'Asse.Pochi giorni dopo, Federico Gentile, venne trasferito in un campo meno duro.Infine, gli fu permesso il ritorno. Per il suo appoggio dichiarato alla leva per la difesa della RSI, riceve  diverse missive contenenti minacce di morte. In una in particolare era riportato: "Tu sei responsabile dell'assassinio dei cinque". L'accusa era riferita alla fucilazione di cinque renitenti alla leva rastrellati dai militi della R. S. I. -- fucilazione orchestrata da Carità, che detesta Gentile, ricambiato. Ha infatti minacciato di denunciare le eccessive violenze del suo reparto allo stesso Mussolini.Gentile non e assolutamente collegato con tale evento. Il governo repubblicano gli offre quindi una scorta armata che però Gentile declina.“Non sono così importante, ma poi se hanno delle accuse da muovermi sono sempre disponibile.”Considerato in ambito resistenziale come il filosofo del regime, apologo della repressione e di un regime ostaggio di un esercito occupante, e ucciso isulla soglia di Villa di Montalto al Salviatino, da gappisti di ispirazione comunista. Il commando si apposta circa nei pressi della villa.Appena giunse in auto, il gappista Fanciullacci si avvicina, tenendo sotto braccio un libro di filosofia – “Apperance and Reality,” di Bradley -- per nascondere la rivoltella e farsi così credere un filosofo.Abbassa il vetro per prestare ascolto.E subito raggiunto dai colpi della rivoltella. Fuggito il gappista in bicicletta, l'autista si diresse all'ospedale Careggi per trasferirvi il filosofo moribondo.Gentile, colpito direttamente al cuore e in pieno petto, in breve spira.Fu un episodio che divise lo stesso fronte di resistenza e che è al centro di polemiche non sopite, venendo infatti già all'epoca disapprovato dal CLN toscano con la sola esclusione del Partito Comunista, che ri-vendicò l'esecuzione. Fu sepolto nella basilica di Santa Croce, il foscoliano tempio dell'itale glorie. Dopo l'attentato, le autorità della R. S. I.,  dopo aver sospettato all'inizio lo stesso Mario Carità promisero mezzo milione di lire in cambio di informazioni su Fanciulacci.Venne disposto l'arresto di cinque, indicati da come i mandanti morali.Grazie al diretto intervento della famiglia, gli arrestati sono rimessi in libertà. All'interno di Santa Croce si inaugura un convegno di studi gentiliani. La filosofia di Gentile fu da lui denominata “attualismo” o idealismo attuale.L'unica vera realtà è un “atto” puro del «pensiero che pensa», cioè l'auto-coscienza, in cui si manifesta lo spirito che comprende tutto l'esistente.Solo quello che si realizza tramite lo spirito rappresenta la realtà in cui il filosofo si riconosce. Il Pensiero è attività perenne in cui all'origine non c'è distinzione tra “soggetto” e “oggetto” – dunque l’intersoggetivita e un pseudo-problema. Avversa pertanto ogni dualismo rivendicando il monismo e l'unità di natura (corpo, materia) e spirito (anima, forma) (monismo).Al'interno, assieme al primato, la auto-coscienza è vista come “sintesi” della tesi del soggeto e l’antitesi dell’oggetto.Questo e un atto in cui il primo, la tesi, il soggetto, pone se stesso e pone il secondo (auto-concetto).In ciò consiste l'”autoctisi” –Non hanno quindi senso un orientamento solo spiritualista o solo materialista (naturalista).Non ha senso la divisione netta tra spirito (l’astratto) e materia (astrazzione) del platonismo, in quanto la realtà è Una.Qui è evidente l'influsso dell’aristotelismo (hyle-morphe) e il panteismo rinascimentale e anche dell’ “immanentismo” (contro il transcendentalismo) più che dell'hegelismo.Di Hegel, a differenza di Croce, che era fautore di uno storicismo assoluto (o idealismo storicista), per cui tutta la realtà è “storia” e non “atto” in senso aristotelico (energeia/dunamis – actus – cf. Grice, “What is actual”), non apprezza tanto l'orizzonte storicista, quanto l'impianto idealistico relativo alla auto-coscienza.La auto-coscienza è considerata il fondamento del reale. Anche vi è un errore in Hegel nella formulazione della “dialettica”. Ma questo non consiste unicamente, come afferma Croce. Croce infatti sostiene che "tutto è Spirito". La critica di Croce non è sufficiente.Gentile sostiene che Hegel confunde la dialettica del “implicare” (‘impiegare”) (che ha individuato correttamente) con la dialettica dell’ “implicatum” ‘empiegato’. Lascia forti residui della dialettica dell’impiegato,cioè quella del determinato e delle scienze. Gentile inoltre non accetta la “dialettica dei distinti” (A distinto da B) che Croce, in base al adagio che "non ogni negazione è opposizione") introduce posto accanto alla “dialettica degli opposti" (A opposto B). Infatti Gentile  ritiene la ‘dialettica dei distinti’ un'aggiunta arbitraria, che snatura la dialettica propria.Questa invece si esplica in un “atto” in cui utilizza la dialettica (A opposto B, sintesi C) in un atto puro.Questa dialettica si esplica quindi nel rapporto dell’impiegare e l’impiegato.Recuperando La Dottrina della scienza di Fichte, Gentile afferma che lo spirito (anima, forma) è fondante in quanto unità di autocoscienza, atto; l'atto puro –, è il principio e la forma della realtà diveniente, non esistente (Gott im Werden – dall’divenire all’essere). La dialettica dell'atto puro e l’opposizione tra la soggettività (il soggeto) rappresentata dall'espressione --  intention-based semantics -- (tesi) e l'oggettività (oggeto) – cf. inter-soggetivo -- rappresentata dal positivism scientism. (antitesi), cui fa da soluzione nell’atto puro (sintesi). L'atto puro si fonda sull'opposizione della «logica del pensiero pensante» e la «logica del pensiero pensato” – cfr. implicans – implicatum. impiegatore – impiegante – impiegato --. La prima è una dialettica materiale– implicans/impiegante --, la seconda una logica formale – l’impiegato --.Gentile dedica la sua attenzione al tema della soggettività dell'espressione nel vivere del spirito. Se da un lato l'espressione è il prodotto di un sentimento soggettivo o una intenzione, dall'altro l’espressione è un atto puro “sintetico” – “composito” -- non analitico – or divisso -- che coglie tutti i momenti della vita dello spirito, acquistando dunque alcuni caratteri del questo che Grice chiama il discorso razionale o la conversazione come cooperazione razionale. Sviluppando fino in fondo la filosofia di Spaventa, la filosofia dell’atto puro, per il quale la realtà esiste solo nell'atto puro che pensa la realta.è stato interpretato come un idealismo soggettivo (una forma di soggettivismo – o intersoggetivismo), sebbene Gentile tende a respingere tale definizione, non essendo quell'atto preceduto né dal “soggetto” né tantomeno dall'”oggetto” -- bensì coincidente con l'Idea stessa, e a differenza di Fichte, in cui l'Infinito (come aveva già affermato Hegel) è un "cattivo infinito" è in realtà immanente (non trascendente) all'esperienza, proprio perché l’atto puro e creatore d una esperienza (datum). Gentile e un ideologo del regime.La filosofia politica di Gentile è  fortemente attivista e attualista (cioè trasponte l'attualismo del atto puro nel campo veramente inter-soggetivo dello scambio sociale.La politica coniughi «prassi e pensiero» (lo pratico e lo speculative) che sia insieme «una azione a cui è immanente una ‘dottrina’ condivisa.’”Essendo insoddisfatto di fronte alla realtà, in Gentile troviamo il primato del futuro, l’utopia, l’ideale regolativo. Ma, allo stesso tempo, un recupero della concezione romantica illuminsita di una Ragione intesa come Spirito universale che tutto pervade, avversa al materialismo e alla ragione meramente strumentale mezzo-fine. In questo, l’analogia con Grice e obvia. Per Gentile, ad esempio, il «modo generale di concepire la vita» proprio della sua dottrina è di tipo «spiritualistico». La dottrina non è la sola qualificazione politica che dà dello speculative.Gentile infatti e un ‘liberale’ -- nonostante sembri respingere quasi in toto il ‘liberalismo ottocentesco’ ne La dottrina del regime.Difatti la sua concezione politica riprende la concezione di Hege di un stato etico o morale -- per cui ‘libero’ (free) non è primariamente l'individuo o persona atomisticamente e materialisticamente inteso, ma soltanto lo stato stesso nel suo processo storico. Un individuo e  ‘libero’ se esplica la sua moralità nella forma istituzionale di suo stato libero -- come chiarisce nella 'Enciclopedia italiana. L'individuo esprime la sua libertà individuale personale solo all'interno di un stato libero ("libertà nella legge" – lo giuridico -- ), con ciò a dire in un contesto istituzionale organizzato (positivismo kelseniano). Un esempio di questa concezione lo si può trovare nella destra storica, la quale governa l'Unità d'Italia.Impone un governo autoritario (concezione ereditata poi dalla sinistra storica di Crispi) che riusce a moderare l'individualità dei singoli, quella che Gentile definisce come la spinta alla disgregazione.Questo modello di governo forte è giusto (lo giuridico) in quanto, per definizione, un stato libero e un stato etico, definito alla Mazzini come "stato educatore". Se Gentile voglia uno stato totalitario vero e proprio è questione invece incerta.Di certo nella sua fase prettamente del regime, Gentile fa riferimento a un ‘stato totale", l'organismo che accoglie tutto in sé.Con il regime si può avere vero "liberalismo" in quanto riporta al valore primigenio del Risorgimento. Gentile dimostra un forte approccio storicistico, secondo il quale il regime trade la sua legittimazione dalla storia, sarebbe appunto una vera fase storica, non una mera mistica o dottrina o ideologia. Il Risorgimento non e olo un'operazione politica, ma un "atto di fede".Il campione di suddetto atto di fede e Mazzini: anti-illuminista e romantico, anti-francese, spiritualista e nemico dei principi materialistici. Lo stato giolittiano rappresenta invece un tradimento dei valori risorgimentali.Per rompere questo “status quo” degenerativo del processo italiano e necessario una rivoluzione. Porta un nuovo assetto, ma anche statale, perché va a colmare una lacuna che vige nel sistema del stato. Insiste molto sulla novità di questa rivoluzione. è un modo nuovo di concepire una nazione, ha una consapevolezza mistica di ciò che sta compiendo. Un duce viene perciò dipinto come un vero eroe idealistico. La missione della rivoluzione è quella di creare l'Uomo nuovo: un uomo di fede, spirituale, anti-materialista, volto a grandi imprese. Questo nuovo tipo di uomo e anti-tetico al carattere che Giolitti tentò di imprimere a una nazione e che connota l'Italia come una nazione scettica, mediocre e furbastra. In quanto ideologo, Gentile sostiene che la dottrina revoluzionaria si deve istituzionalizzare: ciò avverrà nei fatti attraverso l'istituzione del Gran Consiglio. La dottrina si deve inoltre far assorbire dall'italianità (e non il contrario). Il fine è che nella società italiana non vi siano più contra-dizioni, nessuna differenza tra cultura italiana e cultura della dottrina. Bisogna arrivare ad una comunità omogenea e compatta anche in ambito lavorativo.  Attraverso l'istituzione della  cooperative e la corporazione, la quale deve sanare la frattura sindacati-datori di lavoro tramite la collaborazione o cooperazione di classe. Anche qua Gentile riprende le teorie di Mazzini, oltre che il distributismo. Il corporativismo (di cui le estreme realizzazioni saranno la democrazia organica e la “socializzazione” dell'economia, progettate nella R. S. I.) permette di giungere ad uno stato di fatto in cui i problemi economici si risolveranno all'interno della corporazione stessa, senza provocare fratture all'interno della società, ed evitando una lotta di classe (classe bassa, casse media, classe alta) grazie alla “terza via” della dottrina. Gentile sostenne, opponendosi all'ala estrema e intransigente l'idea una riconciliazione, la più ampia possibile, di tutti gli italiani.Pur riconoscendosi nella R. S. I., invita pubblicamente il “popolo sano” ad ascoltare “la voce della Patria”, esortandolo alla pacificazione e ad evitare una “lotta fratricida", di cui comunque non vedrà la fine.  Il gentilismo fu una delle cinque correnti culturali del regime, assieme alla sinistra "rivoluzionario" di Malaparte, Maccari, Bottai, e Marinetti; la dottrina clericale; la mistica di Giani, Arnaldo, e Mussolini; e il neo-ghibellinismo pagano di Evola. Per l'idealista Gentile, a differenza di Croce, che ritene il Marxismo solo "passione politica", causata da uno sdegno morale a causa delle ingiustizie sociali, il marxismo è una filosofia della storia derivata da Hegel. Gentile afferma infatti che la concezione materialistica della storia è costruita da Marx sostituendo la Materia -- la struttura economica -- allo Spirito. Per Hegel lo Spirito è l'essenza di tutta la realtà, che comprende la materia (all'interno della Filosofia della natura), come momento del suo sviluppo.Secondo Marx invece, avendo scambiato il relativo con l'assoluto, si finisce con l'attribuire a un mero momento (la materia, cioè, il fatto economico) la funzione dell'Assoluto che per Hegel si sviluppa dialetticamente ed è determinato a priori rendendo così determinato a priori l'empirico: la struttura economica. Nonostante che la filosofia della storia marxiana sia pertanto una errata filosofia della storia hegeliana "rovesciata", però la filosofia di Marx possiede ugualmente un pregio: è una "filosofia della prassi". Nelle Tesi su Feuerbach, che Gentile cura, il "Moro" infatti critica il materialismo volgare.Questo concepisce metafisicamente l'oggetto come dato e il soggetto come mero ricettore dell'essenza-oggetto. Nonostante ciò, secondo Gentile, Marx, attribuisce alla “prassi”, considerata come attività sensibile umana, la funzione di far derivare a torto il pensiero medesimo.I filosofo di Treviri infatti considera il pensiero una forma derivata dell'attività sensitiva e non un atto che ponga l'oggetto. Gentile sostiene invece (contro Marx e il Marxismo) come sia l'atto del pensiero,come atto puro a porre l'oggetto, e quindi, in ultima istanza, a crearlo.Gentile riflette a lungo sulla funzione pedagogica e unisce la pedagogia con la filosofia, avviando una rifondazione in senso idealistico della prima, negandone i nessi con la psicologia e con l'etica. L'educazione deve essere intesa come un attuarsi, uno svolgersi dello spirito stesso che realizza così la propria autonomia. L'insegnamento è spirito in atto, di cui non si possono fissare le fasi o prescrivere il metodo.Il metodo è il maestro o tutore, il quale non deve attenersi ad alcuna didattica programmata ma affrontare questo compito sulla scorta delle proprie risorse interiori. Programmare la didattica sarebbe come cristallizzare il fuoco creatore e diveniente dello spirito che è alla base dell'educazione. Al maestro o tutore è richiesta una vasta cultura e null'altro.Il metodo verrà da sé, perché il metodo risiede nella Cultura stessa che si forma continuamente da sé nel suo processo infinito di creazione e ri-creazione.Il dualismo scolaro-maestro (tutore/tutee) deve risolversi in unità – il dialogo socratico -- attraverso la comune partecipazione alla vita dello spirito che tramite la cultura muove l'educatore (tutore) verso l'educando (tutee – Gentile qui usa una forma romana, ‘educando’ – cfr. ‘implicandum’ -- e lo riassorbe nell'universalità dell'atto spirituale. «Il maestro è il sacerdote, l'interprete, il ministro dell'essere divino, dello spirito». Il maestro incarna lo spirito stesso, l'allievo (l’educando, il tutee, lo scolareo) deve allora entrare in sintonia nell'ascolto col maestro, proprio per partecipare anche lui dell'attuarsi dello spirito, per farsi libero ed autonomo, e in questa relazione arriva ad auto-educarsi (auto-diddatica), facendo del tutto propri i grandi contenuti presentati.Questi concetti ispirano la riforma scolastica attuata da Gentile in veste di ministro della Pubblica istruzione, anche se solo una parte furono applicati secondo i suoi desideri. Altri principi della filosofia di Gentile presenti nella riforma scolastica sono in particolare la concezione della scuola come membro fondamentale dello stato (viene infatti istituito un esame di stato che sancisce la fine di ogni ciclo scolastico, anche se gli studi sono effettuati in un istituto privato) e il predominio delle discipline del gruppo umanistico-filologico.Gentile fu ministro della pubblica istruzione e mise in atto la sua riforma scolastica, e definita da Mussolini "la più riformante delle riforme", in sostituzione della vecchia legge Casati. Essa era fortemente meritocratica e censitaria; dal punto di vista strutturale Gentile individua l'organizzazione della scuola secondo un ordinamento gerarchico e centralistico. Una scuola di tipo piramidale, cioè pensata e dedicata ai migliori e rigidamente suddivisa a livello secondario in un ramo classico-umanistico per i dirigenti e in un ramo ‘professionale’ per il popolo. I gradi più elevati erano riservati agli alunni più meritevoli, o comunque a quelli appartenenti ai ceti più abbienti. Furono istituite borse di studio perché gli studenti dotati di famiglia povera potessero proseguire gli studi (cf. Grice, a “Midlands scholarship boy bound to Corpus!”). La logica e messa in secondo piano, poiché e una materia priva  di valore universale, che ha la sua importanza solo a livello ‘professionale’.Difatti Giovanni Gentile, a differenza di Croce che sosteneva l'assoluta preponderanza sociale delle materie classiche sulla scienza, pur criticando gli eccessi del positivismo e considerando anch'egli le materie letterarie come superiori, intrattenne anche rapporti, improntati al dialogo, con matematici e fisici italiani (come Majorana, collaboratore di Enrico Fermi nel gruppo dei "ragazzi di via Panisperna", che divenne anche amico del figlio Giovanni Gentile jr., coetaneo del Majorana) e cercò di instaurare un confronto costruttivo con il scientism.L'”obbligo” scolastico fu innalzato a 14 anni e fu istituita la scuola elementare da sei ai dieci anni. L'allievo che termina la scuola elementare ha la possibilità di scegliere tra il ginnasio/liceo classico e la scuola scientifica oppure un istituto tecnico.Solo il ginnasio-liceo permette l'accesso alla faculta di filosofia nella universita di Bologna.In questo modo però viene mantenuta una profonda divisione tra classi – l’elite, la classe alta, la classe media, e la classe basssa (questo vincolo fu rimosso completamente). Ciò anda incontro alla visione patriarcale del Duce.Anche Gentile nel complesso mostrò posizioni poco ricettive verso il femminismo ("il femminismo è morto" dirà), sebbene più sfumate, sostenendo che i licei dovessero formare i "futuri capi" guerrieri.Nel triennio dell'istruzione classica viene poi introdotta, in sostituzione, la filosofia, adatta alla elite o classe dominanti e alla futura classe dirigente, ma non al popolo minuto. Gentile è un filosofo della secolarizzazione e della risoluzione della trascendenza in prassi in ciò accomunato a Marx -, determinante addirittura per lo stesso comunismo italiano attraverso la ripresa che ne fece Gramsci. Da sottolineare che già sulla rivista L'Ordine Nuovo, Gobetti nota sche Gentile «format la cultura filosofica italiana.”. Di tutt'altro avviso Sasso, secondo il quale a dover essere rivalutata non è affatto la disastrosa prassi politica di Gentile, la cui «passionale» adesione alla dottrina «fu filosofica, forse, a parole ma nelle cose no». Ciò che merita ancora di essere studiato, sostiene Sasso, è invece «la filosofia dell'atto in atto», e tra essa «e la dottrina non c'è, né ci può essere, alcun nesso». La filosofia di Gentile e la «fascistizzazione dell'attualismo» e pertanto una «deformazione dell'idealismo”. Al di là della sua appartenenza politica, si attribuisce comunque a Gentile un notevole spessore filosofico. Gentile fu fascista e pagò con la vita la sua fedeltà alla dottrina. Ma fu anche profondo pensatore. Lo riconobbero, nel primo dopoguerra, persino Gramsci e Togliatti. Per approfondire gli studi sull'opera di Gentile e create l' “Istituto di studi gentiliani” e la "Fondazione Giovanni Gentile" a Roma. La filosofia gentiliana è stimata anche dal Severino, che ravvisandovi una condivisione del sostrato filosofico tecno-scientifico del nostro tempo la considera uno dei tratti più decisivi della cultura mondiale. Gentile e certamente un romantico, forse l'ultima più vigorosa figura del Romanticismo europeo.Gli venne dedicato un francobollo delle Poste italiane, unico tra le personalità di primo piano del regime ad avere questa celebrazione da parte della Repubblica Italiana.  L'assassinio di Gentile fu una carognata ingiusta e vigliacca. Gentile non era fascista. Che gli antifascisti furono dei acasotto perché uccisero un grande e inerme filosofo mentre non ebbero il coraggio di sminare i ponti di Firenze che i tedeschi avevano minato.Cavaliere di gran croce insignito del gran cordone dell'ordine dei Santi Maurizio e Lazzaronastrino per uniforme ordinaria Cavaliere di gran croce insignito del gran cordone dell'ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro, Cavaliere di gran croce insignito del gran cordone dell'ordine della Corona d'Italianastrino per uniforme ordinaria Cavaliere di gran croce insignito del gran cordone dell'ordine della Corona d'Italia, Cavaliere di II classe dell'Ordine dell'Aquila Tedesca (Germania nazista)nastrino per uniforme ordinaria Cavaliere di II classe dell'Ordine dell'Aquila Tedesca (Germania). “L'atto del pensare come atto puro; La riforma della dialettica hegeliana” (Firenze, Sansoni); La filosofia della guerra; Teoria generale dello spirito come atto puro, Firenze, Sansoni); I fondamenti della filosofia del diritto; “Sistema di logica come teoria del conoscere; Guerra e fede (raccolta di articoli scritti durante la guerra) Dopo la vittoria (raccolta di articoli scritti durante la guerra) Discorsi di religione; Il modernismo e i rapporti tra religione e filosofia; Frammenti di storia della filosofia”; “La filosofia dell'arte”; “Introduzione alla filosofia”; “Genesi e struttura della società” “L'attualismo V. Cicero e con introduzione di E. Severino, Bompiani, Milano  Di carattere storiografico Delle commedie di Antonfrancesco Grazzini detto il Lasca”; “Rosmini e Gioberti”; “Marx”; “Dal Genovesi al Galluppi”; “Telesio; “Studi vichiani” “Le origini della filosofia contemporanea in Italia”; “Il tramonto della cultura siciliana; Giordano Bruno e il pensiero del Rinascimento; Frammenti di estetica e letteratura; La cultura piemontese; Gino Capponi e la cultura toscana del secolo XIX; Studi sul Rinascimento; I profeti del Risorgimento italiano: Mazzini e Gioberti; Bertrando Spaventa; Manzoni e Leopardi; Economia ed etica; Giovanni Gentile un filosofo scomodo; L'insegnamento della filosofia nei licei; Scuola e filosofia; Sommario di pedagogia come scienza filosofica” “I problemi della scolastica e il pensiero italiano; Il problema scolastico del dopoguerra; La riforma dell'educazione, Bari, Laterza); Educazione e scuola laica; La nuova scuola media; La riforma della scuola in Italia; “Manifesto degli intellettuali”; Che cos'è la cultura? Origini e dottrina”; “La mia religione”; “Discorso agli Italiani”; “Essenza” la prima parte si trova nella Civiltà Fascista, Torino U.T.E.T.: la prima e la seconda si trovano in l’Essenza del Fascismo, Libreria del Littorio, Roma; un'altra opera in cui si trova questo testo è in Origini e dottrina del fascismo, istituto nazionale fascista di cultura, Roma; altro testo in cui si trova si intitola Lo stato etico corporativo). La filosofia del fascismo (Origini e dottrina del fascismo; si trova in Politica e Cultura, oppure lo si può trovare le libro intitolato L’Identità” un altro libro in cui si trova si chiama, Italia d’oggi, edizioni de Il libro italiano del mondo, Roma); Che cosa è il fascismo-discorsi e polemiche (Firenze, Vallecchi). Fascismo al governo della scuola; Giovanni Gentile Scritti per il Corriere. Note  Vi è chi attribuisce al neoidealismo di Gentile e Croce il motivo che avrebbe posto l'istruzione scientifica in un ruolo subordinato rispetto a quella filosofico letteraria (L'Italia della scienza negata, in Il Sole; altri invece respingono questa interpretazione, ricordando che durante l'egemonia gentiliana nacquero numerosi enti scientifici (Croce e Gentile amici della scienza, in Corriere della Sera. 10 giugno.).  Cit. di Geno Pampaloni tratta da Nicola Abbagnano, Ricordi di un filosofo, Marcello Staglieno, Milano, Rizzoli. Manifesto cit. in Eugenio Di Rienzo, Storia d'Italia e identità nazionale. Dalla Grande Guerra alla Repubblica, Firenze, Le Lettere, Cfr. Vito de Luca, Un consigliere comunale di nome Giovanni Gentile. Attività amministrativa a Roma e linguaggio politico, "Nuova Storia contemporanea", Dello stesso autore,cfr. "Giovanni Gentile. Al di là di destra e sinistra. Il linguaggio politico del filosofo, dell'assessore e del ministro", Chieti, Solfanelli,,Scheda senatore GENTILE Giovanni  Paolo Simoncelli41.  Amedeo Benedetti, "L'Enciclopedia Italiana Treccani e la sua biblioteca", Biblioteche Oggi, Milano, Testo qui  Ripubblicato nel 1991 come Giordano Bruno e il pensiero del Rinascimento, ed. Le Lettere, collana La nuova meridiana. S. saggi cult. cont.  Giordano Bruno. LE VICENDE DELLA STATUA  «De Vecchi, Cesare Maria», Treccani  Paolo Simoncelli207.  La scelta di campo, Marco Bertoncini, Giovanni Gentile, la razza e le bufale, l'Opinione, 30 marzo   Paolo Mieli, Gentile criticò in pubblico l'antisemitismo del regime. Uno sforzo vano  Paolo Simoncelli43.  Paolo Simoncelli40.  Paolo Simoncelli34.  Francesco Perfetti, Assassinio di un filosofo; "Giovanni Gentile" di Gabriele Turi; Giovanni Gentile in “Il Contributo italiano alla storia del PensieroFilosofia”Treccani  Francesco Perfetti, Assassinio di un filosofo23.  Francesco Perfetti, Assassinio di un filosofo24.  Francesco Perfetti, Assassinio di un filosofo, Luciano Canfora, La sentenza. Concetto Marchesi e Giovanni Gentile, Palermo, Sellerio, Francesco Perfetti, Assassinio di un filosofo26.  Vittorio Vettori, Giovanni Gentile, Editrice Italiana, Roma, Simonetta Fiori, dirigere la casa editrice Sansoni esecondo la testimonianza dell'ex interermania.html Io, italiano prigioniero in Germania, in La Repubblica, Antonio Carioti, Quando Gentile s'inchinò a Hitler per salvare il figlio, in Corriere della Sera, Renzo Baschera, "Chiese la grazia per molti partigiani ma non riuscì a salvarsi", "Historia", Raffaello Uboldi, Vigliacchi perché li uccidete?, Storia Illustrata; Arnoldo Mondadori Editore, Milano56: "Gentile, sdegnato, ha minacciato di denunciarlo a Mussolini"  Elio Chianesi, La Benvenuti non volle mai raccontare i precisi particolari, dal suo punto di vista: «Questa è una cosa che non dirò mai. Perché potrei fare rovesciare tutte le cose. Perché non è come è stato detto. Come è andata l’azione dei Gap io non lo voglio dire. Me l’hanno chiesto in tanti ma non l’ho rivelato mai a nessuno». Vedi un intervento della Benvenuti anche in M. C. Carratù ().  Paolo Paoletti, "Il Delitto Gentile" esecutori e mandanti, Ed. Le Lettere, L'omicidio raccontato da Giuseppe Martini "Paolo" uno dei due esecutori materiali"...Sicuramente (Fanciullacci l'altro esecutore) gli chiese se era il professore e subito dopo gli sparammo insieme dalla stessa parte, non attraverso i due finestrini posteriori..."  Resistenza: "Angela", la ragazza col fiore rosso  Antonio Carioti, Sanguinetti venne a dirmi che Gentile doveva morire, in Corriere della Sera,  «Per fare in modo che i gappisti incaricati dell'agguato potessero riconoscerlo, alcuni giorni prima li accompagnai presso l'Accademia d'Italia della Rsi, che lui dirigeva. Mentre usciva lo indicai ai partigiani, poi lui mi scorse e mi salutò. Provai un terribile imbarazzo.»  (Teresa Mattei)  Luciano Canfora, "Giovanni Gentile nella RSI" in La Repubblica Sociale Italiana Poggio, Annali della Fondazione Luigi Micheletti, Brescia, Antonio Carioti, Sanguinetti venne a dirmi che Gentile doveva morire, sul Corriere della Sera,: "L'omicidio di Gentile, anziano e inerme, suscitò una forte impressione e fu disapprovato dal CLN toscano, con l'astensione dei comunisti. Tristano Codignola, esponente del Partito d'Azione, scrisse un articolo per dissociarsi."  Maria Cristina Carratù, E dopo 70 anni nuovi scenari dietro l'esecuzione di Giovanni Gentile, La Repubblica, 24 aprile   Renzo Baschera, "Chiese la grazia per molti partigiani ma non riuscì a salvarsi", articolo su "Historia", Ecco le carte che assolvono l'archeologo  Romano302.  Gabriele Turi, "Giovanni Gentile" Così Gaetano Gentile ricordò il suo intervento presso la prefettura: «Quella sera stessa, per desiderio di mia Madre, io mi recai dal capo della Provincia e gli parlai della voce [di rappresaglie] diffusasi in città, esprimendogli la ferma e calda preghiera di mia Madre che quel proposito, se effettivamente esisteva, venisse abbandonato e anzi gli arrestati rilasciati. Dissi anche, naturalmente, come a me sembrasse in fondo superfluo dover esprimere tale preghiera proprio in quella stanza in cui ancora quella mattina la voce di mio Padre si era levata a deplorare la tragica inutilità di un metodo, dal quale non poteva seguire che il ripetersi indefinito di una crudele successione di attentati e rappresaglie. Era ovvio poi che, indipendentemente dalla eventuale giustificazione politica o militare di atti simili, nulla del genere poteva aver luogo in occasione della morte di mio Padre, alla quale si doveva da parte del Governo e delle autorità fiorentine questo gesto di rispetto delle sue convinzioni e del suo costante atteggiamento».  Firenze: due consiglieri, via tomba Giovanni Gentile da Santa Croce, su liberoquotidiano. 15 novembre  16 novembre ).  «Attualismo», Enciclopedia Treccani  Diego Fusaro, Giovanni Gentile  Sull'importanza della riforma della dialettica idealista di matrice hegeliana in Gentile, si veda quest'intervista a Gennaro Sasso. L'intervista è compresa nell'Enciclopedia Multimediale delle Scienza Filosofiche.  Bruno Minozzi, Saggio di una teoria dell'essere come presenza pura, Il Mulino, Gentile quindi contestava a Fichte la trascendenza dell'Io assoluto rispetto al non-io, e di restare così in un dualismo,che non viene mai superato dall'attualità del pensiero, ma solo da un agire pratico dilatato all'infinito ("cattivo infinito"), fermo alla contrapposizione fra teoria e prassi, per la quale Fichte «s'irretisce in un idealismo soggettivo in cui invano l'Io si sforza di uscire da sé» (Discorsi di religione, Firenze, Sansoni).  Giovanni Gentile, Benito Mussolini, La dottrina del fascismo.  Nicola Abbagnano, Ricordi di un filosofo, Marcello Staglieno, Nella Napoli nobilissima, Milano, Rizzoli, Vito de Luca, Giovanni Gentile e il liberalismo, Mussolini, Gioacchino Volpe, Giovanni Gentile, Fascismo, Enciclopedia Italiana.  Augusto Del Noce, L'idea del Risorgimento come categoria filosofica in Giovanni Gentile, in "Giornale Critico della Filosofia Italiana", G. Belardelli, Il fascismo e Giuseppe Mazzini  Giovanni Gentile, Manifesto degli intellettuali fascisti  Giovanni Gentile, "Ricostruire" in Corriere della Sera, Cfr. Libertà e liberalismo ("Conferenza tenuta all'Università  di Bologna"), in Scritti Politici, tratti da Politica e Cultura H.A. Cavallera, Firenze, Le Lettere, Il pensiero pedagogico di Giovanni Gentile  La riforma Gentile, su pbmstoria. Si veda anche ne Il fascismo al governo della scuola, in Annali, Milano, Istituto Giangiacomo Feltrinelli,  «[Boffi:] Qual è il criterio su cui si è fondata Vostra Eccellenza nella limitazione delle iscrizioni? — Gentile: Questa limitazione non c'è nella scuola complementare come non ci sarà nella scuola d'arte e nelle scuole professionali; essa è propria delle scuole di cultura e risponde alla necessità di mantenere alto il livello di dette scuole chiudendole ai deboli e agli incapaci; dipende anche dalla riduzione del numero degli scolari nelle singole classi fatta per evidenti ragioni didattiche, quelle stesse che hanno consigliato l'abolizione delle classi aggiunte; ma soprattutto dalla necessità di consigliare agli italiani un diverso indirizzo nella loro attività.  Noi abbiamo troppi ed inutili, quando non son valenti, professionisti, ed abbiamo invece molto bisogno di industriali, di commercianti, di artieri, di minuti professionisti, che portino nella esplicazione delle loro arti e dei loro mestieri quello spirito fine della Nazione che finora li ha spinti a disertare le scuole industriali, commerciali e professionali per seguire la scuola umanistica.»  (R.Sandron, Il fascismo al governo della scuola, iscorsi e interviste, Ferruccio E. Boffi, Giuseppe Spadafora, Giovanni Gentile: la pedagogia, la scuola: atti del Convegno di pedagogia e altri studi, Armando Editore, 1997261.  Enrico Galavotti, La filosofia italiana e il neoidealismo di Croce e Gentile, Homolaicus.  Il mistero di Ettore Majorana  Eleonora Guglielman, Dalla scuola per signorine alla scuola delle padrone: il Liceo femminile della riforma Gentile e i suoi precedenti storici, in Da un secolo all'altro. Contributi per una "storia dell'insegnamento della storia" (M. Guspini), Roma, Anicia, Una parte del lavoro è stata in precedenza pubblicata, con alcune varianti, sulla rivista "Scuola e Città" con il titolo Il liceo femminile Manacorda D'Amico, Katia Romagnoli, Donne, la Resistenza "taciuta". L'esclusione delle donne nella società fascista  G. Gentile, La donna nella coscienza moderna, in La donna e il fanciullo. Due conferenze, Firenze, Sansoni, De Grazia, Le donne nel regime fascista,  G. Ricuperati, La scuola italiana e il fascismo, Bologna, Consorzio Provinciale Pubblica Lettura, De Grazia, Le donne nel regime Giovanni Gentile, La riforma della scuola in Italia, Milano citata in: Manacorda Le omissioni, qui tra parentesi tonde, sono nel testo di Manacorda. Noce, Gentile. Per una interpretazione filosofica della storia contemporanea, Bologna, il Mulino,  Giovanni Bedeschi, Il ritorno del maestro, sta in Il Sole 24 ore Domenica, 1Gennaro Sasso, Le due Italie di Giovanni Gentile, Bologna, il Mulino,  Martin Beckstein, Giovanni Gentile und die 'Faschistisierung' des Aktualismus. Zur Deformation einer idealistischen Philosophie, in «Acta Universitatis Reginaehradecensis, Humanistica I» Filosofia: A Firenze Convegno Studi Gentiliani  Fondazione Gentile | Dipartimento di Filosofia | SapienzaRoma Liberiamo la filosofia di Giovanni Gentile dalla faziosità del '900  Emanuele Severino: Ecco perché la giovane Italia sta andando in malora, da Il Fatto Quotidiano  È Gentile il profeta del la civiltà tecnica.  «I nemici di Giovanni Gentile», puntata de Il tempo e la storia, documentario Rai  Emanuele Severino, dalla quarta di copertina de L'attualismo, Milano, Giunti,   Nicola Abbagnano, Ricordi di un filosofo, Nella Napoli nobilissima, Milano, Rizzoli, "La partigiana Fallaci fa a pezzi l'antifascismo", pubblicato da Il Giornale.  Monografie principali Armando Carlini, Studi gentiliani,  VIII di Giovanni Gentile, la vita e il pensiero a cura della Fondazione Giovanni Gentile per gli Studi filosofici, Firenze, Sansoni, Aldo Lo Schiavo, Introduzione a Gentile, Bari, Laterza, Sergio Romano, Giovanni Gentile. La filosofia al potere, Milano, Bompiani, Luciano Canfora, La sentenza. Concetto Marchesi e Giovanni Gentile, Palermo, Sellerio,Augusto del Noce, Giovanni Gentile. Per una interpretazione transpolitica della storia contemporanea, Bologna, Il Mulino, Hervé A. Cavallera, Immagine e costruzione del reale nel pensiero di Giovanni Gentile, Roma, Fondazione Ugo Spirito, Gennaro Sasso, Filosofia e idealismo. IIGiovanni Gentile, Napoli, Bibliopolis, Hervé A. Cavallera, Riflessione e azione formativa: l'attualismo di Giovanni Gentile, Roma, Fondazione Ugo Spirito, Giorgio Brianese, Invito al pensiero di Gentile, Milano, Mursia, Gennaro Sasso, Le due Italie di Giovanni Gentile, Bologna, il Mulino, 1998 Gennaro Sasso, La potenza e l'atto. Due saggi su Giovanni Gentile, Firenze, La Nuova Italia, 1998 Hervé a. Cavallera, Giovanni Gentile. L’essere e il divenire, SEAM, Roma, Paolo Mieli, Una rilettura liberale di Giovanni Gentile, da "Le storie, la storia", Milano, Rizzoli,  Daniela Coli, Giovanni Gentile, il Mulino, Sergio Romano, Giovanni Gentile, un filosofo al potere negli anni del regime, Milano, Rizzoli, Francesco Perfetti, Assassinio di un filosofo. Anatomia di un omicidio politico, Firenze, Le Lettere, Gabriele Turi, Giovanni Gentile. Una biografia, Torino, POMBA, Hervé A. Cavallera, Ethos, Eros e Tanathos in Giovanni Gentile, Pensa Multimedia, Lecce, Hervé A. Cavallera, L’immagine del fascismo in Giovanni Gentile, Pensa MultiMedia, Lecce, Marcello Mustè, La filosofia dell'idealismo italiano, Roma, Carocci, Alessandra Tarquini, Il Gentile dei fascisti. Gentiliani e antigentiliani nel regime fascista, Bologna, il Mulino, 2009 Davide Spanio, Gentile, Roma, Carocci,. Paolo Bettineschi, Critica della prassi assoluta. Analisi dell'idealismo gentiliano, Napoli, Orthotes,. Paolo Simoncelli, "Non credo neanch'io alla razza". Gentile e i colleghi ebrei, Firenze, Le Lettere,. Luciano Mecacci, La Ghirlanda fiorentina e la morte di Giovanni Gentile, Milano, Adelphi,  A. James Gregor, Giovanni Gentile: Il filosofo del fascismo, Pensa, Lecce,  Guido Pescosolido, Ancora sulla morte di Giovanni Gentile. A proposito di un recente volume, in Nuova Rivista Storica, Carmelo Vigna, Studi gentiliani,  Orthotes, Napoli-Salerno. Valentina Gaspardo, Giovanni Gentile e la sfida liberale, AM Edizioni, Vigonza (PD). Altri studi  Charles Alunni, Giovanni Gentile ou l'interminable traduction d'une politique de la pensée, Paris, Lignes, Michel Surya, Les Extrême-droites en France et en Europe Charles Alunni, Ansichten auf Italien oder der umstrittene Historismus, in Streuung und Bindung über Orte und Sprachen der Philosophie, Wolfenbüttel, Herzog August Bibliothek, 1987  Charles Alunni, Heidegger, la piste italienne, Paris, in Libération, (en collaboration avec Catherine Paoletti pour l'interview de Ernesto Grassi), Charles Alunni, Giovanni GentileMartin Heidegger. Note sur un point de (non) ‘traduction’, Paris, Cahier nº 6 du Collège International de Philosophie, Éd. Osiris Charles Alunni, Archéobibliographie. Eugenio Garin, Paris, Préfaces, Charles Alunni, Giovanni Gentile, Ernesto Grassi & Bertrando Spaventa, Paris, Dictionnaire des Auteurs Laffont-Bompiani, Robert Laffont Charles Alunni, Attualità, attuosità (le vocabulaire italien de l'actualité-réalité) Paris, Vocabulaire européen des philosophies. Dictionnaire des intraduisibles, [dir. Barbara Cassin], Le Seuil-Robert,  Antonio Cammarana, Proposizioni sulla filosofia di Giovanni Gentile, prefazione del Sen. Armando Plebe, Roma, Gruppo parlamentare MSI-DN, Senato della Repubblica, Pagine, Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze Antonio Cammarana, Teorica della reazione dialettica: filosofia del postcomunismo, Roma, Gruppo parlamentare MSI-DN, Senato della Repubblica, Pagine, Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, Nicola D'Amico, Un libro per Eva. Il difficile cammino dell'istruzione della donna in Italia: la storia, le protagoniste, Milano, Franco Angeli, Vito de Luca, Un consigliere comunale di nome Giovanni Gentile. Attività amministrativa a Roma e linguaggio politico in "Nuova Storia Contemporanea", Vito de Luca, "Giovanni Gentile. Al di là di destra e sinistra. Il linguaggio politico del filosofo, dell'assessore e del ministro", Chieti, Solfanelli,. Antonio Fede, tra attualità e attualismo, Pagine Alessandro Ialenti, La Logica come Teoria del conoscere in Gentile. Un'opera anticipatrice di istanze postmoderne?, Dialegesthai. Rivista telematica di filosofia, Mario Alighiero Manacorda, Storia dell'educazione, Roma, Newton & Compton, Vittore Marchi, La filosofia morale e giuridica di Giovanni Gentile, Stabilimento Tipografico F.lli Marchi, Camerino, Myra E. Moss, Il filosofo fascista di Mussolini. Giovanni Gentile rivisitato, Armando Editore, Antonio Giovanni Pesce, La fenomenologia della coscienza in Giovanni Gentile, in Quaderni Leif, Antonio Giovanni Pesce, L'interiorità intersoggettiva dell'attualismo. Il personalismo di Giovanni Gentile, Roma, Aracne,. Antonio Giovanni Pesce, La filosofia della nuova Italia. Il progetto etico-politico del giovane Gentile, Viagrande, Algra,. Vincenzo Pirro, Regnum hominisl'umanesimo di Giovanni Gentile, Roma, Nuova Cultura,  Vincenzo Pirro, Dopo Gentile dove va la scuola italiana, Firenze, Le Lettere  Vincenzo Pirro, Filosofia e Politica in Giovanni Gentile, Roma, Aracne,. Rossana Adele Rossi, La presenza e l'ombra. La pedagogia del giovane Gentile, Roma, Anicia, Giovanni Rota, Intellettuali, dittatura, razzismo di Stato, Milano, Franco Angeli, 2008 Primo Siena, Gentile. la critica alla democrazia, Volpe editore, 1966 Primo Siena, Giovanni Gentile. Un italiano nelle intemperie, Solfanelli,  Michele Tringali, L'attualismo è sempre attuale. Saggio su Giovanni Gentile nel 130° della nascita, Vittorio Vettori, Giovanni Gentile, Roma, Editrice Italiana, Marcello Veneziani, Giovanni GentilePensare l'Italia, Le Lettere, Firenze,   Attualismo (filosofia) Fascismo Idealismo italiano Manifesto degli intellettuali fascisti Riforma Gentile Uccisione di Giovanni Gentile Ugo Spirito, TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Giovanni Gentile, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Giovanni Gentile, in Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,. Giovanni Gentile, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc.  Giovanni Gentile, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Giovanni Gentile, su accademicidellacrusca.org, Accademia della Crusca. H  Questa soluzione della trascendenza è cara, s'intende, ai :filosofi che per la loro indole amano starsene alla fine­ stra a godere dello spettacolo che essi contemplano, ma di cui non hanno la responsabilità (né merito, né demerito). Nella strada la gente ignara soffre, combatte, muore; alla .lìnestra il filosofo (che come tale deve essere puro pensiero) imperturbato, spiega, si rende conto e si frega le mani. Il vecchio ideale di Lucrezio, che è alla base della eterna leggenda del filosofo che si libera delle passioni e rinunzia all'azione per chiudersi nel pensiero: Suave, mari magno turbantibus aequora ventis e terra magnum alterius spectare laborem; non quia vexari qucmquam'st iucunda voluptas sed quibus ipse malis careas quia cernere suave'st: suavc ctiam belli certamiua magna tueri per campos instrncta tua sine parte perieli: sed nil dulcius est, bene quam munita tenere edita doctrina sapienlum tempia serena, despicere unde queas alios passimque videre errare atque viam palantis quaerere vita.e, certarc ingenio, contendere nobilitate, noctes atque dies niti praestante labore ad summas emergere opes rerumqne potiri. O miseras hominum mentes, o pectora caeca I T.ucR. Il, 1-14.L'etica come legge . . p. 9 1. Disciplina. - 2. Positivismo ed empirismo. - 3. Legge. - 4. Prammatismo. - 5. Prassi e teoria. - 6. Oggetto del volere. - 7. Volontà- autoctisi. - 8. Praticità del conoscere. - 9. Unità cli teorico e pratico. - 1a."L·atto. JJ}-L'individuo ............... p.II i) Senso realistico e senso idealistico della individualità. - 'i; Individuo e società. - _J) Comunità immanente ali' individuo come sua legge. - ,f.) La comunità ideale e la gloria. - ; Vox populi. - 6:)La concretez1.a dell'individuo. - Ì} La conquista dei valori. - 8) li processo d<>IJa individualità. - g. La parti­ colarità dell'individuo nello spazio e nel tempo. III.-Ilcarattere. . . . . . . . p. 25 1. Velleità, volere, carattere. - 2. 11 carattere attraverso la condotta emJ?irica. - 3. Critica del concetto della molteplicità degli atti o l'unità del volere. - 4. Presente ed estemporaneo nel carattere. - 5. Trascendentalità del carattere. - 6) Il coraggio civile. - i> La socialità origmaria. \r:v1-Società trascendentale o società in interiore homine. . . . . . . . . . . . . . . .!' Alte" e socius. - Dalla cosa al socio. - 5. Il dialogo intemo, o trascendentale. - G'. Il momento dell'alteriEà. - 7. La dialettica pratica. - 8. La crisi dell'Universo. sare più al clovere che ai doveri - 0. Il bene e il male Avvertenza V. - La categoria etica e l'esperienza. . 'z. Dialettica dell'Io. - 3. li nulla. - 4. p. H 1. Unicità della categoria logica. 2. La legge dell'uomo: Pett.sa/ 3. Intendere e amare. - .4., Intendere pratico. - 5. La categoria etica. - 6. li senso morale e la sua inattualità. - 7. Dovere e doveri. - 8. Errore di metodo nell'etica. -'..i Necessità cli pen­ --,_ p. 33    190 INDICE VI. - Lo Stafo. p. 57 1. Concetto dello Stato. - 2. Nazione e Stato. - .3. Diritto. - 4. Governo e governati. - !1· Autorità e libertà, -f Il liberalismo. - 7. Etica e politica. 8. Stato etico. - 9. Moralismo, VII1 - Stato ed econoraia . . . . . . . . . . . . p. 71 t. Economicità dell'uomo e quincù dello Stato. - 2. Umanità dell'operare economico. - 3. Operare utilitario o utile? - 4. Umano e subumano. - 5. Il corpo e l'anima. - 6. Naturalità dell'utile. - 7. Le scienze della logica dell'astratto. -8. Lo schema del naturalismo nella logica dell'astratto. - q. La forma mate­ matica dell'economia. - ro. [L'utilitarismo. - n. L'edonismo. - 12. Moralità ed eudemonia.-13. Natura e Spirito. -14. Economia e politica. I VIII. - Stato e religione. . . . . . . . . . . . . p. 88 1. Rapporto essenziale tra i due termiai. - 2. Laicità. - 3. Rel-igio 1nstntme111u,n regni. - 4. Immanenza della religione nello Stato. IX. - Stato e scienza . . . . . . . . . . . . 1. Scienza e filosofia; e rapporto di questa con lo Stato. - 2. Necessità cli questo rapporlo.-31 Cultura. -4.Scienze naturali. - 5. L'obbligo dj critica della filosofia. - 6. Immanenza della .filosofia nrlla politica dello Stato. 'X.-LoStatoegliStati............ p.101 u Libertà e infinità dello Stato. - 2. P!ui:alità degli Stati, unità dello Stato. - 3. Critica del punto di vista intellettualistico. - 4. Concreto punto di vista pratico. - .'i_- Il riconoscimento degli altri Stati e il Diritto internazionale, - 6,_ )La guerra. -7.) La pace e la collaborazione umana. -fil Impero e ordine nuovo. Xl.-LaStoria................ p.106 r. La Storia come storia dello Stato. - 2. Storia dell'uomo. - 3. Statolatria. - 4. Autocritica dello Stato. - 5. Rivoluzione. - 6. L'Unico. - 7. Umaoesùno del lavoro. - 8. Famiglia - 9. Categorie di lavoratori e rappresentanza politica. 1XII.-LaPolitica............... p.u5 'I) Definizione della politica. j':)Etica e politica. -;) Im­ possioilità cli un'etica apolitica. -:;,:11 privato e il pubblico. - 5) La teoria dei limiti dello Stato.- Stato atoritario e demo­ crazia. - L'anarchismo e il Jiberalis1:no. - 8. Bellum omnium contra 01mies. - 9. Guerra e pace. - ro. Ordine. - u. Senti­ mento politico. - 12. Genio politico. - 13. La politica del fanciullo. - 141 La politica in ogni forma di attività umana. - 15. Politica dell'arte. - 16. Politica della scienza.- 17. Politica della lede. - 18. Chiesa e proselitismo. - 19. La dottrina della tolleranza. - 20, La politica diritto e dovere. p. 93   l:).'DICE 19r XIII. - La Società trascendentale, la morte e l' im­ mortalità.................. p.138 1. 11 motivo della fede ncll' immortalità. - 2. Immortalità e religione. - 3. L'equivoco. - 4. Illusioni. - 5. Fuga tn01-t1s. - 6. La difficoltà del problema e la soluzione. - 7. La morte. APPENDICE: L'immanenza dell'azione.NUOVI INDIZI DI (( IIEGELLOSIGKEIT )) ITALIANA    11 prof. Bollami dell' Università di Leida in un suo inte¬  ressante opuscolo *, qualche anno fa mettev a in, mostra una  lunga fdza di evidenti spropositi commessi da filosofi con¬  temporanei di ogni risma nel parlare di Hegel. E dopo  avere rilevato con 1 ’ Herbart, con l’Alexander, col Barth.  col Taggart, che Hegel non concepì mai la follìa 4 Lde-  durre dal pensiero auro ciò che non è puro pensier o (realtà  naturale e realtà storica), ma volle solo sistemare logica¬  mente, — comunque poi si giudichi questa sistemazion e e  la sua possibilità. — la cognizione necessariamente empi-  rica della natura e della storia, soggiungeva: «Intanto  anche F. Paulsen in vólliger Hcgellosigkeit afferma (nel  suo Kant, p. 177) che Hegel deduce a priori la stessa  natura ». *" L -      yOVt      Di questa Hegellosigkeit, che non saprei davvero come  tradurre in italiano, di questo stato d' hegeliana innocenza,  cosi caro tuttavia agli studiosi di filosofia italiani, fu dato  recentemente dal Croce 2 qualche cenno' significativo dove  si mostrò con quanta competenza sia stato spesso giudi¬  cato in Italia 1 Hegel da quelli che volevano passare per    1 Alte I ernunft unii netto I’erstami, Leiden, 1002,  3 Critica, IV, 410-11.    n — Saggi critici.          i    — /»x4it'w® \    TU) , Kvuf^vru?    - xtiekW^o * ** '   — 162 —    jpt uJQy>^òfjO    suoi avversari. Una prova recentissima ne ha avuta però  lo scrivente per aver curata una nuova ristampa degli Lh -  menti di filosofia 1 di Francesco Fiorentino secondo la pri¬  mitiva edizione del 1877, dall’autore più tardi parzialmente  rifatta e radicalmente mutata nell’ indirizzo dottrinale. Al¬  cuni (tra i quali uomini dotti nella storia della filosofia)  han rimproverato il nuovo editore di aver voluto dare un  Fiorentino hegeliano, laddove il Fiorentino dagli studi  degli ultimi anni della sua vita era stato costretto ad ab¬  bandonare le dottrine di Hegel per accostarsi al neokan¬  tismo. E un insegnante di liceo, a chi proponeva il libro  per testo scolastico, opponeva senz'altro ch’egli non po¬  teva adottare «un libro prettamente hegeliano!)).   Molto probabilmente l’unico fondamento di quest’as¬  serzione, che io denuncio soltanto per richiamare ancora  una volta l’attenzione sulla comune Hegellosigkeit, è in  ciò, che questo libro è stato ristampato per cura mia, e  da me consigliato ai colleghi dei nostri licei. Ma, trala¬  sciando i motivi che mi hanno indotto ad additare il ma¬  nuale del Fiorentino, nella sua forma originaria, come  l ’unico , fra quanti ne abbiamo in Italia, degna , ancoraci  es ser m esso nelle mani dei giov ani e tolto a base d’un  p j nmp~ìnsegnamento filosofico (motivi che credo di avere  sufficientemente accennati nella mia prefazione alla detta  ristampa), qui voglio solo annunziare, col debito  permesso dei colleglli accusatori, che il libro del Fioren¬  tino nella prima edizione non è punto hegeliano;  e che la differenza tra la prima e la seconda edizione non è  divario tra hegelismo e kantismo, ma tra kan¬  tismo ed empirismo spenceriano.   Poiché ne avevo l’occasione, a me parve opportuno to¬  gliere di mano ai giovani, che cominciano a riflettere su  cose filosofiche, un libro, — raccomandato al nome di  Francesco Fiorentino, per tanti titoli benemerito della cul¬  tura filosofica italiana, — nel quale s’insegnava a riflet¬  tere su verità di questo genere : « Kant intende • per a  priori soltanto ciò che non‘è derivato dalla sperienza, ma  che invece è condizione indispensabile, perchè la sperienza    1 Torino, Paravia, 1007: voi I: Psicologia e Logica       i63 —    sia possibile. Egli non investiga, se questo a priori abbia  potuto originarsi da una associazione di esperienze ante¬  riori accumulate, trasmessa poi per eredità; nè poteva ai  suoi tempi, e prima del Darwin, porre il problema in questi  nuovi termini. L ’q trio ri kantiano è una funzione dell o  spinto , non già un dato : e questo ritenghiamo anche noi :  ma ciò non toglie, che pure di questa funzione si possa  cercare di spiegare la genesi», un libro, in cui si dichia¬  rava che l’d priori kantiano è una semplice fer¬  mata al concetto dell’ attività preformata a  compiere certe funzioni, senza di cui la  sperienza non si farebbe; e che « la filosofia  moderna.... domanda: come si è preformata ? E cerca di  trovar la risposta in due fattori: l’asso¬  ci a z i o n è e la eredità; la prima che accumula, la  seconda che trasmette. Per loro mezzo, l’a priori  dell’individuo sarebbe ciò ch’è poste¬  riori per la specie» (23* ed., pp. 30-31 n.).   E altrove : « Se il fine etico, che è la vita comune, è  stato il risultato di una lunga lotta per l’esistenza, è pur  sempre vero che cotesto primo acquisto viene  oggi trasmesso come eredità, che gl’in¬  dividui trovano, e non debbono più riacquistare »  tp. 288 n.). Proposizioni che si equivalgono nei due campi  della conoscenza e della pratica, e di cui lo stesso Fio¬  rentino. ci dice la fonte, dove avverte (p. 304) che «nella  filosofia dello Spencer ogni a priori è sbandito, e tutto è  spiegato con l’adattamento, o con la trasmissione eredita¬  ria ». E tutta la seconda edizione è ispirata a questo prin¬  cipio della negazione di ogni assoluto a priori: onde si  costruisce nèi primi capitoli una teoria psicologica della  conoscenza che non occorre qui valutare. Quello che non  ha bisogno certamente d’ulteriore schiarimento, è che tale  negazione dell'a priori e tale confusione del problema psi¬  cologico con lo gnoseologico, non può a niun patto ac¬  cettarsi come integrazione del kantismo.   C’era un Fiorentino, che pur poteva presentarsi ai gio¬  vani, e che io ho rimesso in luce; un Fiorentino che non  s’era lasciato sfuggire il vero punto di questa questione  fondamentale dell'a priori, che è pòi il problema di vita        — i&4 —    o di morte per Io spirito, e quindi della scienza e della  moralità Nella prima edizione lo stesso Fiorentino aveva  detto « Vuoisi avvertire, che l’o priori non si deve inten¬  dere come qualche cosa di preesistente, di preformato.... ma  come una funzione essenziale dello spirito » (nuova ediz.,  P 33 )- Aveva discusso, opponendole l’una all altra, le dot¬  trine di Kant e di Spencer intorno all’apriorità o aposterio¬  rità della coscienza, e aveva dimostrato che non se ne può  dare nessuna derivazione empirica perchè « la coscienza è un  rapporto tale, di cui nel mondo esterno non si trova il cor¬  rispondente; ed è un rapporto semplice, che non si può de¬  durre dalla risultante delle nostre rappresentazioni. L’Io, la  coscienza è originaria » (51). « 11 fondamento dell'esperienza  non può essere attinto mediante l’esperienza » (57). E que¬  sto fondamento è nella coscienza e nelle sue categorie.  « Se tutto derivasse davvero da dati sperimentali, nè l’idea  di sostanza, nè quella di causa, quali noi le concepiamo,  sarebbero ammissibili » (63).   Questo mi pare puro e schietto kantismo ; e se. il con¬  cetto d’una possibile integrazione di Kant per via delle  ricerche psicogenetiche è uno sproposito, che oggi non ha  più bisogno d'essere dimostrato tale, mi pare anche evi-,  dente che ricondurre il manuale del Fiorentino a’ suoi  principii fosse dovere imprescindibile d’ ogni nuovo edi¬  tore, hegeliano o non hegeliano. Perchè, dato e. non con¬  cesso che empiristi si possa essere per proprio conto,  certo per nessuno è più sostenibile una svista di questo  genere per cui, appunto a proposito dell interpretazione  di Kant, una questione gnoseologica si scambia con una  questione psicogenetica.   Hegel, dunque, non c’ è entrato proprio per nulla, be  ci fosse stata del Fiorentino un’edizione hegeliana ante¬  riore alla kantiana, chi sa!, avrei preferito il Fiorentino  hegeliano al kantiano. Ma gabellare per hegeliano quello  che ho dovuto e potuto scegliere, francamente, mi pare  indizio di Hegellosigkeit ! Pur troppo, anche nella prima  redazione del suo manuale il Fiorentino rende omaggio  al fantasma della materia opposta all’attività formale dello  spirito; e nell’etica, invece di correggere il timido forma¬  lismo kantiano col formalismo assoluto, crede di compierlo      — 165 —    con l’eudemonismo aristotelico. Non importa: sempre me¬  glio, infinitamente meglio Kant, anche se non perfezio¬  nato, che Spencer!   Si sente, per esser sinceri, negli Elementi del Fioren¬  tino un’eco lontana dei Principii di filosofia (1867) dello  Spaventa. Ma non più che un'eco, nel paragrafo sull’auto¬  coscienza (pp. 66-7). Ma, se Hegel s'avesse a rannicchiare  in quell'a u t o c t i s i della coscienza accordata con tutto  il formalismo astratto accettato e difeso dal Fiorentino,  io ritengo che potrebbero andare a braccetto con lui tutti  i kantiani più scrupolosi del mondo.   1907. LA FILOSOFIA A NAPOLI  DOPO G. B. VICO (1750-1850).   1. Nel 1743 A. Genovesi cominciò a pubblicare in  Napoli i suoi Elemento, metaphysicae. Nel 1744 morì G. B.  Vico. Questi aveva avuto due profonde intuizioni fon¬  damentali: una intorno alla potenza costruttiva dello  spirito, per cui anticipò il principio di soggettivismo  kantiano; P altra intorno al concetto dell’ assoluto come  sviluppo nella natura e nel pensiero, per cui anticipò  il principio della nuova metafisica dimostrata dalla Lo-  >jica di Ucgel. Ne’ 6tioi Elementi di metafisica il Geno¬  vesi invece si mostra seguace di un incoerente sincre¬  tismo, in cui la monadologia leibniziana s’ accoppia con  l’empirismo di Locke. Così la tradizione del grande  pensiero di Vico è spenta sul nascere, e finita con  1’ uomo che nella solitaria meditazione del diritto, anzi  di tutto lo spirito come vive nella storia, aveva attinto  una forza speculativa che lo pose al di sopra e fuori  del tempo suo, episodio solenne nella storia del pen¬  siero italiano. Gl’ interpetri del pensiero di Vico non  furono nè i suoi coetanei, nè i suoi immediati successori  nella filosofia italiana in genere e napoletana in ispecie.        58    STORIA DELLA FILOSOFIA   La vera interpetrazione cominciò in Germania col Jacobi, 1  dopo Kant, e fu compiuta in Italia in quel fervore di  pensiero nuovo, che venne suscitato dall’ hegelismo, da  Bertrando Spaventa.* *   2. Tra Vico e Spaventa — i cui primi scritti cadono  attorno al 1850, — per tutto un secolo, c’ è un’ inter¬  ruzione nello sviluppo dell’ idealismo iniziato dalle opere  di \ ico ; nella quale il pensiero napoletano si appropria ed  elabora per conto suo la moderna filosofia europea. Questo  movimento, che riempie tutto il secolo che va dalla  metà del secolo XVIII alla metà del XIX, può essere  designato dai nomi dei due pensatori che aprono e chiu¬  dono tale periodo, Dal Genovesi al Galluppi. E così  appunto s’intitola la monografia, nella quale ho cercatq  d’illustrare tutti gli studi speculativi più notevoli di  cotesto periodo. 3   Può recar meraviglia, che la ricerca sia così limitata  dentro i brevi confini di spazio accennati dai nomi stessi  del Genovesi e del Galluppi, e corrispondenti ai confini  del reame di Napoli, ila chi ponga mente alle condizioni  d Italia per tutto il tempo del dominio borbonico, alle  piofonde differenze civili e politiche e letterarie, in una  paiola, storiche, tra la parte meridionale e il resto della  penisola, troverà ovvia e storicamente esatta la linea  da me tracciata intorno ai pensatori che ho studiati e    Vedi lo scritto Voti den gòtlUchen Lìingen unii ihrer Offenbarung  (1811), in Werke, Leipzig. 1816, III, 358. Sul kantismo vicinano cfr.  specialmente Tocco, Descartes jugé par Vico in Reme de métaphy-  sigue et de morale del luglio 1896, pp. 568-78, e gli scritti da me  citati nel Discorso premesso agli Scritti filosofici di B. Si’avknta Na-  poli, 1901, p. LXXV.   • Vedi tfli Scritti cit., pp. lxxxiv lxxxix, 139-45, 303 e segg.   3 Studi di letteratura , storia , filosofia , pubbi. da B. Crock, voi. I  (Napoli, Edizione della Critica , 1903 ).         LA FILOSOFIA A NAPOLI 59   considerati come formanti una speciale serie storica  a sé.   3. Pel carattere generale della loro filosofia questi  pensatori costituiscono una continuata corrente di em¬  pirismo, a cominciare dal Genovesi stesso, in cui ben  presto il principio critico dominante nell’ empirismo  lockiano corrode ogni concetto metafisico, fino ad Ottavio  Colecchi (1773-1847), filosofo abruzzese pochissimo noto  — benché i suoi scritti consacrati all’ interpretazione di  Kant, quelli specialmente relativi alla filosofia pratica,  possano ancora esser letti con profitto — il quale, pur  combattendo la «filosofia dell’esperienza» del Galluppi  dal punto ili vista del kantismo, insiste tuttavia su  talune correzioni eh’ ei vorrebbe apportare alla Critica  Mia ragion pura in un senso decisamente empirico¬  oggettivo.   Ma tutti quosti empiristi si potrebbero dividere in  due generazioni: 1 una di ideologi e l’altra di criiicisti;  e tra mezzo a queste un gruppo di seguaci della filosofia  scozzese e di eclettici. Tra gl’ ideologi scrittori come  Melchiorre Delfico (1744 - 1835), Pasquale Borrelli (1782-  1849) e Francesco Paolo Bozzelli (1786-1864) meritano  certamente di esser posti accanto agl’ ideologi contem¬  poranei francesi, ai Cabanis, ai Destutt de Tracy, coi  quali essi formano quasi una sola famiglia, rispecchian¬  done spesso il pensiero pur senza ripeterlo. Anzi il Bor-  relh e il Bozzelli stanno, 1’ uno per la sua genealogia del  pensiero (com’ ei chiamava la sua filosofia dello spirito) e  per la sua critica di Kant, e 1’ altro pel suo tentativo di  morale intellettualistico-utilitaria, al di sopra dei francesi;    di 8 ‘ ba,la a " a dala di P“*»bUM*lone delle opere   di quest! filosofi e al tempo (leir influenza da essi esercitata; giacché  per a nascita due degli ideologi furono più giovani dei criiicisti.       60 STORIA DELLA FILOSOFIA   il cui valore nondimeno fu giustamente rivendicato nella  storia della filosofia dall’ ottima monografia del profes¬  sore F. Picavet su Les idéologues pubblicata nel 1891.  Una pari rivendicazione in prò dei confratelli italiani  vuol essere in parte il mio lavoro, mediante una larga  notizia e uno schiarimento delle loro dottrine. Onde ci  son rimasti documenti notevolissimi in libri ed opuscoli  estremamente rari, nelle riviste del tempo e in mano¬  scritti ancora inediti.   4. In mezzo alle due generazioni alcuni pensatori le-" '  vano la voce contro le tendenze materialistiche, palesi   o nascoste, proprie del pensiero speculativo di questi  ideologi, traendo autorità e argomenti dalla filosofia del  senso comune del Reid o dall’ eclettico spiritualismo del  Cousin e della sua scuola. Non hanno nessuna origina¬  lità di dottrine : ma con le loro esposizioni e coi loro  commenti di molti libri francesi, eco, per quanto fioea,  di celebri filosofie europee, valgono a suscitare o pro¬  muovere un moto di studi e di partecipazione al lavoro  filosofico straniero, onde a poco a poco si ringagliardisce  la fibra del pensiero napoletano, e si prepara una scuola  di veramente alto e libero filosofare: da cui uscirà l’e¬  stetica di Francesco De Sanctis e la metafisica e la  storia della filosofia di Bertrando Spaventa. In questa  parte la mia monografia studia scrittori mediocri, testi¬  moni di cotesta preparazione al risveglio filosofico po¬  steriore.   5. Nella seconda generazione campeggiano due figure  principali: P. Galluppi e 0. Colecchi: due kantiani, di  cui si può dire che la vita speculativa si consumi tutta  nella meditazione del criticismo. Ed entrambi riescono  per due vie opposte al medesimo risultato, che è di  accettarlo sostanzialmente e di farne penetrare profonda¬  mente lo spirito nella filosofia del loro paese. Il Galluppi   À            61    LA FILOSOFIA A NAPOLI   combatte sempre, o quasi sempre, un Kant immaginario  con le armi del Kant reale ; e il Colecchi combatte con  le armi stesse un immaginario Galluppi, o almeno un  Galluppi che non è il vero, poiché non vede di lui che  la dichiarata opposizione al kantismo, e non scorge mai  il valore intrinseco delle dottrine da lui professate. Dalla  curiosa situazione di questi due pensatori, che genera  altre false posizioni nella filosofia italiana successiva,  nascono, com’è agevole pensare, due conseguenze: 1°  che la scuola dei galluppiani continuerà a combattere  Kant e tutta la filosofia tedesca posteriore, sempre meglio  conosciuta in grazia dell’influsso francese già accennato;  2° che la scuola del Colecchi e dei tedescheggianti con¬  tinuerà per un pezzo a disconoscere il vero valore del  pensiero del Galluppi e di quella filosofia italiana, che  da lui prende le mosse : ossia della rosminiana e gio-  bertiana.   6. Se da queste ricerche si sottrae la parte che con¬  cerne il Genovesi e il Galluppi, si può dire che esse  scoprano una regione presso che sconosciuta nel campo  della filosofia moderna. E poiché anche del Genovesi e  del Galluppi questo studio analitico della serie in cui  essi rientrano, pono sotto una luce in parte nuova e in  parte più chiara il significato e il valore, può pure af¬  fermarsi, che l’insieme di queste ricerche colmi una  lacuna nella storia della filosofia italiana, anzi della  europea. Vico, infatti, e l’interpetrazione di Vico, i due  termini al cui intervallo coleste ricerche si riferiscono,  non sono due capitoli della storia della filosofia italiana,  ma due capitoli della storia della filosofia europea: ed  è difetto gravissimo quello che può notarsi in proposito  in tutte le recenti storie straniere della filosofia moderna.  A. Genovesi, M. Delfico, P. Borrelli, F. P. Bozzelli,  P. Galluppi e 0. Colecchi sono nomi ai quali, una     62    STORIA DELLA FILOSOFIA    volta conosciuti gli scritti a cui sono legati, devesi pur  rovare un posto, e non degl’ infimi, nel quadro degli  u imi tentativi dell’empirismo naturalistico e materia¬  listico del secolo XVIII e delle feconde discussioni  suscitate dalle Critiche di Kant in ogni paese civile.   1903. DOCUMENTI INEDITI  SULL’ HEGELISMO NAPOLETANO 1    « Il trionfo dell’ Idea » in Italia :   Antonio Tari e Floriano Del Zio   Fin dal 29 ottobre 1860 B. Spaventa era stato nomi¬  nato professore di Filosofìa nell’ Università di Napoli ;  e la sua nomina — scriveva a lui stesso il De Meis, da  Napoli — era stata accolta in questa città « con una  commovente impazienza dai giovani e dal pubblico ». Ma   10 Spaventa chiese ed ottenne di tornare e restare qualche  tempo a Bologna, dove nel maggio era passato, da Mo¬  dena, a insegnare Storia della filosofìa, per farvi almeno   11 primo corso semestrale e « non mancare al suo dovere  verso quella Università». A Napoli, dopo una rapida  corsa nel novembre, non andò se non negli ultimi  mesi dell’ anno appresso. Era a Torino dall’aprile, perchè  eletto deputato di Atessa (ma la sua elezione fu annul¬  lata il 25 giugno per eccedenza del numero legale di  deputati professori, * quando gli pervenne la seguente    1 Già pubblicato nella Critica del 1906; ma qui ristampato con  molte aggiunte.   * Vedi per questi particolari il mio B. Spaventa, Firenze, Vai-  lecchi, 1925, p. 109.     182    STORIA DELLA FILOSOFIA    lettera di Floriano Del Zio, che è un curioso documento  delle disposizioni degli animi verso 1’ hegelismo nella  gioventù colta di Napoli, da cui lo Spaventa era atteso :   Napoli, 30 giugno 61.   Amico carissimo,   Mi prendo licenza di togliervi con questa mia una piccola  parte del tempo che cosi lodevolmente sacrate alla scienza.   E per due ragioni. Per procurarmi il bene di aver vostre  novello, e per dirvi poi alcunché sul trionfo dell’ Idea, alla  qualo abbiamo data la nostra fede.   Sono pervenute qui in Napoli parecchie copie del nuovo  libro di Vera (V Hégélianisme et la Fhilosophie). T. lavoro  scritto con molta spiritosità, e che non solo porrà a dovere  1’ intelletto superficialissimo degli ecclettici francesi, ma farà  pure il suo buon effetto in mezzo al dilettantismo filosofico  de’ nostri dominatici. Si comincia a sentire come il Pensiero  sia P infinita misura e forza, che, battuto ogni positivismo  storico e morale, eleverà ad armonia vivente Essere e Spirito,  Natura ed Umanità. — Son persuaso p. es. che il signor Pes¬  ame, che tanto ride dell’ Jissere-per-si — e della Fila ridotta  a Pensiero da De Meis, cesserà di sparlarne così frequeu-  temeute, dopo che avrà contemplato il gaio spettacolo che ha  dato di sé Monsieur Jauet.   Come Hegel disse che ai tempi della Rivoluzione francese  una nuova vita, un nuovo sole sorgevano per risplendere in  mezzo agli uomini, noi possiamo dire che oggi il suo proprio  principio filosofico, l’Assoluto Spirito, è la forza che dovrà  consapevolmente invadere ogni cosa, e chiarificare le creature  tutte quante di un raggio della idealità infinita. Affrettatevi,  amico, a partecipare alla gran vittoria. Felice voi, che siete  sì bene apparecchiato a questa lotta, che chiude nel proprio  grembo 1’ adempimento della libertà assoluta dell’ Uomo, e  quel regno di giustizia e di amore, a cui tutte cose corrono  come al bacio dell’ Universo, giusta il bel dotto di Schiller:  Diesen Kur der ganzen IVelt !   Il punto però che nel libro del Vera avrei desiderato più  estesamente sviluppato, è quello della pluralità dei mondi. I,a  dottrina di Hegel su questa materia non può essere difesa  che movendo dal principio dell’ Unità della Coscienza di si    L’ HEGELISMO NAPOLETANO    183    dello Spirito, unità che, nel presupposto della pluralità de’  mondi, avrebbe fuori di sè i circoli della vita siderea oltre¬  tellurici ; e cesserebbe d’ essere in conseguenza la pieua ed  una Coscienza di sè. A questa è necessario che tutto 1* essere  sia suo sapere.   La dottrina poi dello Spirito assoluto, ne andrebbe, in quel  presupposto, interamente falsata. Noi non conosceremmo pili  l’Assoluto, come vuole Hegel, ma l’Assoluto umano. E, non  potendo darsi ripetizioni nello spirito, si dovrebbero porre,  post’ i mondi come innumerabili, intellezioni intinite, infinita¬  mente diverse, dell’ istesso Assoluto. E dove sarebbe l’idealità,  1’ unificamento di esse? Se si risponde: nell’Idea medesima  dell’Assoluto — , altri potrebbe osservare che quest’ idea ap¬  punto è quella che deve essere concreta nell’Umanità. L’U¬  nità della Rivelazione universale dello Spirito sarebbe sempre  un postulato. Krause immagina una sintesi superiore do’  pianeti e delle stelle; ma la comunione dell’Umanità terrestre  colla solare è sempre data da lui come un’ intuizione, come  un desiderio!   Anche il signor Tari, riconosce nella sua Lettera la necessità  della pluralità de’ mondi. Ma in questa ipotesi vedo sempre  che 1’ indeterminato piglia il Inogo del sistematico, e che il  fantastico si sostituisce alla scienza. Diventa oramai neces¬  sario di approfondire maggiormeute 1’ infinito matematico nel-  1’ influito filosofico, e sottomettere cosi 1’ astronomia al con¬  cetto della finalità assoluta, lo Spirito.   La lettera però del Tari appunto perchè, com’ ei dice,  tiene il germe del suo proprio sistema, avrebbe dovuto essere  più lunga e scritta più chiaramente.   Vi prego intanto mandarmi una copia della vostra prolu¬  sione alla storia della filosofia italiana, perché n’ ebbi ili dono  nell’anno scorso una copia dal vostro fratello D. Silvio; ma  quando scesi in Basilicata per 1’ insurrezione, la sperdei a  Potenza, e non ho potuto procurarmene un’ altra. Se poi con  questa mia preghiera dovessi riuscire indiscreto, allora usa¬  temi la cortesia dirmi presso chi è vendibile a Torino, perchè  sarà mia cura farla richiedere da librai napoletani.   Quando portate a stampa il vostro libro su Gioberti f Esso  dovrà levar grido straordinario, secondo che mi accennano i  comuni amici, e per quanto ancor io presagisco dal vostro  ingegno. Date presto ; e nel frattempo compiacetevi di tenermi         184 STORIA DELLA FILOSOFIA   di tanto in tanto consapevole de’ vostri stndii, e segnatemi •   quelle opere che possono concorrere all’ aumento vero della  scienza.   I miei ossequi a Tari ed all’ egregio De Sanctis. Se posso  attestarvi in alcunché la uiia devozione, comandatemi libe¬  ramente.   Vostro amico  Flokiano Dei. Zio.   AH’ Egregio Bertrando Spaventa   Deputato al Parlamento Italiano in  Torino.   II libro, da cui il Del Zio prende le mosse, è 1 ’ Hé-  gélianisme et la Philosophie (Paris, Detken 1861), che il  Vera, allora professore di Storia della filosofia nell’Ac¬  cademia di Milano, aveva pubblicato poco innanzi per  ribattere le critiche mosse ali* hegelismo da Paul Janet  e da altri scolari del Cousin. — Enrico Pessima, già di¬  scepolo del Galluppi, dal Galluppi era passato al Gio¬  berti e dal Gioberti al Krause; e mormorava contro  Hegel e gli hegeliani 1 .   La lettera di Antonio Tari, a cui il Del Zio accenna,  è un articolo, uscito appunto nel fascicolo di giugno  del 1861 della torinese Rivista contemporanea, col titolo:   De’ rapporti del Kantismo collo stato della filosofia in  Alemagna, Lettera filosofica. Il difetto di chiarezza la¬  mentato in questo scritto dal Del Zio, e divenuto  poi sempre maggiore e sempre più caratteristico del-  P ingegno del Tari, — che ingegno ebbe e una certa  bizzarra genialità — aveva fatto dire allo Spaventa, in  una lettera a suo fratello Silvio, dell’8 marzo 1858:   «Ho letto molti mesi fa un articolo di Totonno... Un    1 Vedi il mio B. Spaventa, p. 114; Spaventa, La fllos. ital. in re¬  lazione con la fllos. europea,' p. 275 e una lettera dello stesso Pes-  sina nella Critica V (1907), 494-5.   ♦        L’HEGELISMO NAPOLETANO 185   articolo filosofico, come puoi immaginarti, sopra un  punto di estetica. Mi pare che abbia studiato finora per  imparare a non farsi capire. I tedeschi non sono facili  a comprendersi, e la colpa è un po’ anche loro. Ma i  più difficili tedeschi sono facilissimi di fronte a Totonno;  il quale mi pare che abbia preso da costoro più i di¬  fetti che i pregi. Ti dico, in confidenza, che sono ri¬  masto trasecolato; e che, dopo tanti anni e con tanto  ozio, mi aspettavo qualcosa di meglio da lui »*.   « Dopo tanti anni ! » S’erano conosciuti a Cassino, quando  Bertrando insegnava a Montecassino (tra il 1838 e il  1840); e il secondo giorno, seduti fraternamente sulla  sponda d’ un letto, Bertrando apriva così la conversa¬  zione: «Dunque, che ne pensate delle categorie kan¬  tiane?»-. Da lui lo Spaventa aveva appreso i rudimenti  del tedesco ; e, col suo aiuto, acquistato familiarità con  la letteratura filosofica tedesca. Nella quale il Tari,  chiuso dal 1849 al 18G0 nella solitudine di un villaggio  (Terelle, in provincia di Caserta), s’era sprofondato,  accumulando una meravigliosa erudizione. Questa però  non valse in verità a rischiarare il suo pensiero. Il  quale dall’assoluto idealismo di Hegel finì nell’agno¬  sticismo del suo cosidetto Innominabile ; in cui credette  si '_ lovesse fondere in una unità superiore lo spinozismo  e 1’hegelismo; in quanto il divenire della logica pre¬  suppone un principio, che, essendo fuori del divenire,  è fuori della logica; e non si può chiamare Volontà, nè  Monade, nè Inconscio, nè Noumeno, nè altro; poiché  ogni nome importerebbe conoscenza, quindi un movi¬  mento di pensiero, quindi il divenire. È un’ essenza    p 'ri SPAVBNTA ’ Dal 184i al i8G1 < leU < scruti e (toc., ed. Croce,»   R. Cotuono, Le lettere di A. Tari in diresa dell’ « Innomina¬  bile», Iranl, Vecchi, 1905, p. XVI.     186    STORIA DELLA FILOSOFIA    non battezzata e non battezzatile, l’Innominabile. « An-  ch’ io, Bpecie di Lohengrin, difendo il santo Graal.  Sapete qual’ è? La dotta ignoranza, che Hegel chia¬  mava l’ignoranza dotta».   Non è questo il luogo di chiarire questo innominabi-  liBmo o limitiamo, — com’ egli anche lo chiamò, — del  Tari *. Giova piuttosto ricordare un aneddoto dello Spa¬  venta. Il quale, richiesto di consiglio da uno scolaro  del Tari per una dissertazione di laurea circa il diritto  di punire, il 29 settembre 1882, gli scriveva : « Ti vo¬  levo suggerire di chiedere consiglio al nostro caro Tari.  Chi sa, l’Innominabile! Ma come cavare da lui il di¬  ritto di punire? Mi ricordo di aver detto a Tari, quando  fu nominato professore ordinario (nel 1873), che la sua  nomina era in contradizione coll’ esistenza dell’Innomi¬  nabile, principio, essenza, natura, causa di ogni cosa  e avvenimento. Figurati il diritto di punire!» 1 . — Il  Tari, che di questa lettera doveva aver notizia dallo  scolaro, rispondeva a questo, il 23 ottobre 1882 : « Par¬  liamo ora un pò del quesito, con cui mi tenta 1’ ami¬  cissimo Bertrando Spaventa. Eccolo: —Come concilie¬  remo il diritto di punire con la dottrina dell’ Innomi¬  nabile? — Se fossi profeta, o figlio di profeta, di  rimbecco direi : Vade retro, Satana. Noli tentare Tariiim  admiratorem tuum! —- Ma, non essendo Gesù, nè gesuita,  mi contento di rispondere con un tibi quoque. Ossia: —  Anche a te, o pensatore liberissimo, fa intoppo questa  pietra di giuridico scandalo? Anche a te metterebbe  conto salvar capra e cavolo ; cioè la capra della Feno¬  menalità di ogni fatto umano, ed il cavolo della pretesa    * V. le mie Orig. della / Uos. contemp. in Italia, III, pari. II,  pp. 28-37.   * COTI’GNO, Leu. cit M p. 43.        L’HEGELISMO NAPOLETANO 187   Giustizia Assoluta? — Eppure ricordo che, disputando  con me di questo brocardico, uscisti in questa categorica  sentenza: — La pena non è che una valvola di sicu-  rezza che la società impiega a garentirsi di chi la in¬  sidia 1 . E di fatto, il voler costruire a priori un ma¬  nifesto modus rivendi essenziale, epperò cangevole etno-  crono-topograflcamente è marcia follia. La Idea Giustizia  Assoluta anzidetto, s’ ha a lasciare nel natio concavo  della luna, insieme al cervello dei tanti Astolfì dell’in¬  natismo. Chi ben pensa, riconosce la deplorevole povertà  di siffatte deduzioni... Diritti e doveri, Pene e ricom¬  pense non giacevano in seno a Giove, a mo’ delle uova  dell’aquila esopiana, ad aspettare che lo scarafaggio  umano le facesse rotolare nel basso mondo; ma si for¬  marono, con un quasi stillicidio psicologico, a poco a  poco scavandosi un bucherello nel naturale egoismo...   E tutta la giustificazione delle pene, da quella del ta¬  glione e quella penitenziaria, che è ancora in Werden  si riduce a formare la necessità di salvarsi al bosco  dalle belve accoppandole, ed alla città dai birboni ren¬  dendoli incapaci di nuocere. Ora quali sono i birboni?  ** U1 e 11 busil tis; e qui interviene P Innominabile a  comporre la gran lite, illuminando i legislatori sul da  fare in sullo sdrucciolo del dispotismo, dove si trovano  sempre... Il codice penale, non che un bene in sè, è un  necessario male, presso a poco simigliante alla chirurgica  estirpazione di un arto, il quale, se curabile, anche a  dilungo, l’operatore rispetta religiosamente... Un inno-    mi 'n^ 10 S , paventa avrà l )ure " sa[0 '(«està frase. Ma la valvola per  del delino, ! V ? Cbe neCessaria ' c °“>« necessaria era l'insidia   dello s r n e a,,a | S0Cie,A: d ’"' ,a necf8sUà Andata su"» natura  o spirito, ossia sul concetto concreto del bene. Il genuino pensiero  dello spaventa intorno all'assoluta giustificazione della pena é ne  suoi Principi di dica, ed. Gentile, p. 102 sgg.        188    STORIA DELLA FILOSOFIA    minabilista può solo affermare, in barba a tutti i dot¬  trinari criminalisti del mondo, come qualmente il bar¬  baro Kedivè egiziano funzionerà legalmente, da par suo,  fucilando e forse impalando 1’ eroe Arabi pascià, reo di  non aver saputo nascere dove e quando dovea. Ed in-  neggerà al magnanimo Umberto, il quale, facendo grazia  all’abietto Passannante, confondeva molti tirannelli stra¬  nieri e mostravasi anche dappiù del Re Galantuomo  suo padre, cioè filantropo e progressista. In Oriente il  palo, in Occidente 35 legislazioni che aboliscono il car¬  nefice (v. ult. lett. di Victor Hugo): chi ha ragione?  Secondo l’illustre prof. Vera ha ragione il palo!... 1  Insomma, le cose anzidette tumultuariamente, a modo  mio, rispondono su per giù al caro mio tentatore Asmo-  deo Spaventa »*. — Avviatosi per la sua striida, il Tari,  dunque, negava coraggiosamente jT diritto come diritto.  Poeto-1’ assoluto di là dal divenire, nel divenire, ch’egli  vedeva indirizzato a un Nirvana iperindividualistico, non  poteva trovare niente d’ assoluto. Per lui il magnifico  proemio dello Spaventa ai Prineipii di etica (1869) in¬  torno al rapporto dell’assoluto col relativo, e quindi al  concetto dell’ assoluta relazione (per cui 1’ assoluta giu¬  stizia non solo comporta, ma richiede per la propria  realizzazione tutti i modi di esistema cangevoli etno-crono-  topouraficamentc), non era stato scritto. E come in quel  concetto è il segreto dell’ hegelismo, era naturale che  egli non riuscisse ad orientarsi e a vedere la nullità  del suo Innominabile in quanto tale, in quanto sostanza,  cioè di qua dallo spirito.   Il Tari fu insomma de’ tanti che girarono attorno a    1 A. Vbra nel 1883 pubblicò un opuscolo La pena iti morte (risi,  nel Sappi filosofici, Napoli, Morano, 1883. pp. 37-381, dove svolgeva le  ragioni del sistema hegeliano in sostegno della pena di morte.   * COTUONO, pp. 22-6.      189    L’HEGELISMO NAPOLETANO   Hegel, ricevendone magari ispirazione e suggestioni fe¬  conde, senza scoprire il principio vero del suo pensiero.  Molti si ritrassero presto sconfortati dall’impresa; etra  questi il Del Zio, che con tanto entusiasmo nel ’61  studiava le opere e la letteratura hegeliana; e ansiosa¬  mente aspettava gli scritti dello Spaventa (la prolusione  letta a Modena sul Carattere e sviluppo della filosofia  italiana del secolo A VI sino al nostro tempo ‘ e la Filo¬  sofia di Gioberti, di cui il I» volume usci nel 1863) per  fede vaga che indi potesse venirgli la luce.   Il Del Zio allora si preparava a un corso di lezioni,  sulla Enciclopedia di Hegel. Al quale infatti proluse  alcuni mesi dopo con una enfatica lettura, la quale,  come documento aneli’ essa de’ tempi, merita d* essere  ricordata: Prolusione al corso di lezioni sulla Enciclopedia  delle scienze filosofiche di Hegel; letta in privato con¬  vegno ne’ dì 16 e 18 novembre 1861*: scritto pieno di  giovanile entusiasmo e di ardore filosofico. Oltre le opere  del Vera, fin allora pubblicate, l’Autore vi cita ed esalta  1 aurea operetta di Karl Werder (Logile, als Commentar  u. Ergdnzung zu Hegels ÌViss. der Logik, 1 Abili, Ber¬  lino Idèi) « restuta incompiuta con grave danno di co¬  loro che s’ iniziano alla filosofia hegeliana » (p. 22);  i Esquisse de logique di K. L. Michelet (Paris, 1866); e    1 Risi, in Scritti filosofici, ed. Gentile pp. 115 sgg. Giorgio Pallavi¬  cino, a una figliola del quale lo Spaventa aveva privatamente Im¬  partito qualche lezione, gii scriveva per questo opuscolo:   Amico pregiatissimo,   l.a ringrazio della sua Prolusione — un magnifico lavoro — il quale  rnfiìf. -u- l Sn me . *' (le ?. l . ller ‘° di vp| ter presto pubblicata la grande  Opera eli Ella sta meditando. Ammiratore di Vincenzo Giohprti. posso  io non ammirare il suo degno interprete: II. Spaventa? lo l’ammiro  e i amo!    Giorgio Palla vicino.   * Napoli, S. Marchese, IMI, di pp. 8-1 In 16». Reca quest'epigrafe:  « Essere, sapersi e volersi come la Personalità eterna dello Spirito,  ecco il line della lilosofla ».       190    STORIA DELLA FILOSOFIA    di questo le lezioni Ueber die Persònliehkeit Oottes u.  Unsterblichkeit der Seele, oder die ewige Persònliehkeit des  Geistes (Berlin, 1841) ; le quali « quando furono pub¬  blicate, tenevano aspetto di polemica negativa in rap¬  porto a certi donimi dell’ intelletto ; ma 1’ avanzato  sviluppo della scienza ha tolto loro il senso irreligioso,  che gli avversarti accaniti dell’ hegelianismo volevano  a forza vedervi dentro. E debbono così considerarsi come  la teorica potente della nuova sintesi dall’ umanità »  (p. 41): ciò che appare, nota il Del Zio, dell’opera  maggiore del Michelet, Die Epvphanie der ewigen Per-  sònlichkeit des Geistes (in tre diali., 1844, 47 e 52). A  proposito del problema hegeliano del punto di partenza  fenomenologico e logico della filosofia, l’Autore dichiarava  di sperare che le difficoltà sarebbero state da lui sciolte  più chiaramente nelle note a una sua traduzione del  System der Wissenschaft, ein philosophisches Eincheiridion  (Koenigsberg, 1850) del Rosenkranz : « che avrei di già  pubblicata senza la tirannide borbonica, o la guerra che  tutto il mondo ha fatto e fa presso noi al libero pensiero»  (p. 23). Un altro suo lavoro concerneva la filosofia di  Krause, la quale, specialmente per mezzo di Ahrens  (il cui Corso di diritto naturale , 1838, era molto letto  dagli avvocati di Napoli, ed era stato anche tradotto  già due volte in italiano, da Francesco Trincherà e da  Vincenzo De Castro 1 ) poteva dirsi « in qualche modo  popolare nelle nostre province ». « Le sue Lezioni sul  sistema della scienza (Vorlesungen nb. System der Philos.,  1828)», dice il Del Zio, « e 1’ampio sviluppo enciclo-    1 Corso Ul Diruto naturale o della ftlos. del dir. traci, da Fr. Trin¬  cherà, Napoli. 18-11, e Capolago, 1812. Nuova trad. eseguita sulla  quarta ed. dal prof. V. De Castro, 2. voli., Napoli, Stab. Tip. dell'An¬  cora, 1860. Più tardi la sesta ed. (uscita in ted., Vienna, 1870-71) fu Irad.  in italiano da A. Margllieri, Napoli 1872.     191    L’HEGELISMO NAPOLETANO   pedico eh’ egli tentò dare a tutto lo scibile rivelano in  classico modo il fermento incommensurabile dal quale  era travagliata 1’ intera Allemagna alla vigilia dell’ ap¬  parizione d’ Hegel sul teatro della scienza. Ma in Krause  c’ è il presentimento della scoperta, che fu fatta invece  da Hegel »; e questo giudizio era il « risultamento di una  conveniente disamina » . « A tanto speriamo di adempiere  più tardi, pubblicando un nostro lavoro, che ha per ti¬  tolo: Studii sul rapporto del Sistema della scienza di  Krause a quello di Hegel » . Appunto per quella certa  popolarità che il Krausismo aveva acquistata anche nel  Napoletano, il Del Zio stimava opportuno che fosse di¬  scussa la sua teorica generale da’ cultori della filosofia.  « Se non cominciamo a disputare pubblicamente sulle  nostre convinzioni speculative, il trionfo della scienza  e il progresso della nazione non saranno nè liberi nè  universali » (pp. 27-8).   L’opuscolo era dedicato Alia gioventù napoletana con  parole di questo tono : « A voi dedico, o fratelli, questo  piccolo lavoro, il quale non è altro che il programma  dell andamento scientifico, a cui dovrebbe avviarsi, se¬  condo le mie convinzioni, il nostro paese, per essere  in armoniu coll’ indirizzo generale della scienza in Eu¬  ropa. Se vi parrà vero, Voi, più che me, potrete con¬  durlo ad atto, perchè 1’ amico vostro, comechè giovane,  è già percosso dai dolori dell’ animo e dalle sofferenze  lei corpo che 1’ opera dissolutrice della tirannide seppe  in molti generare negli anni scorsi». Continuava an¬  nunziando che, accettato il suo programma, tre fiamme  divine sarebbero venute ad accendere 1’ anima dei gio¬  vani napoletani : tre sedendovi d’ un unico sole, il libero  Pensiero ; le tre fiamme della Filosofia, della Rivoluzione,  dell’Amore. «Colla prima darete fine alla superstizione  del Papato, la più maligna fra quelle che ancora cor-    192    STORIA DELLA FILOSOFIA   rodono lo spirito moderno. Colla seconda scrollerete il  Dritto divino ed ogni altra specie d’irragionevole im¬  perio. E coll’ ultimo tramuterete le rovine in creazione  eterna di bellezza e di verità ; costituirete I* Italia, e  getterete il fondamento alla fratellanza democratica di  tutta Europa».   Svolto brevemente il concetto della Fenomenologia  dello spirilo, per mostrare come lo spirito sia necessa¬  riamente condotto dalla sua interna dialettica al punto  di vista del sapere assoluto, il Del Zio schizzava con  pochi tratti l ’ideale della scieina, a cui egli invitava  con molto calore : « Deliberando di seguirmi fraterna¬  mente nel mondo del sapere, renderete testimonianza  dell’ istinto divino che move lo spirito del nostro tempo,  e della vita novella d’Italia resa a sè stessa ed alla  sua naturale grandezza... Il nuovo metodo dell’insegna¬  mento filosofi co è il metodo della morte e dell’ amore  assoluto», della morte alle cose finite e a se stesso, e  dell’ amore per 1’ assoluto, in cui lo spirito deve rina¬  scere. Quindi combatteva le obbiezioni mosse all’ hege¬  lismo «dalla corta vista dell’intelletto 1 o del sentimen¬  talismo ipocrita della santocchieria » . Ai filosofi dell’ in¬  telletto, del pensare finito addebitava la loro incosciente  predilezione dello scetticismo e del nullismo: e dimo¬  strava che « non solo il sapere assoluto è possibile, ma  che esso è 1’ unicamente possibile » ; poiché ninna realtà  finita, naturale o spirituale, può dirsi conosciuta fuori  del sistema, in cui essa va concepita. Ai mistici di  buona o di mala fede, cercava d’ additare il carattere  intrinsecamente religioso della filosofia hegeliana, nella  quale la verità della religione non è negata, ma trasfi¬  gurata e fatta valere per la ragione, assolutamente. In-    1 Intelletto (Verstand), nel senso di Hegel.      L' HEGELISMO NAPOLETANO    193    fine, combattendo anche lui il pregiudizio, allora sal¬  dissimo tra i giobertiani di Napoli, del primato italico-  e della filosofia nazionale, sosteneva, a simiglianza dello  Spaventa, ohe « la grandezza del nostro spirito non è  tanto nel sapersi precursore di tutto l’incivilimento  occidentale, quanto nel prevedere che dev’ esserne il  successore eterno ». Si ammira Vico: ma egli « travagliò  por tutta la vita per provare che uno spirito solo regge  il mondo delle nazioni, che una è la mente dell’ Uma¬  nità, e che un piano ideale stringe in armonia assoluta  la totalità de’ fatti politici e le forme svariatissime del-  1’ intera vita sociale». «La storia della filosofia è dav¬  vero un’ opera unica, una sola attività produttrice...  Le frutta abbondanti di quei primi pensieri filosofici,  che gl’ italiani del XV e XVI secolo destarono nella  coscienza umana sono appunto i grandi sistemi della fi¬  losofia moderna... Nutricandoci del supere e della vita  europea, noi vendicheremo lo spirito de’ padri nostri,  celebreremo la festa di commemorazione a quel Risor¬  gimento, che il papato e l’Impero soffocarono nel sangue  di tutta la Penisola» : sopra tutto a Bruno, la cui vita  randagia per 1’ Europa, ma cominciata in Italia e in  Italia tragicamente finita, sembra al Del Zio il sim¬  bolo divino del corso storico della filosofia mo¬  derna nel mondo. E col ricordo della vita del Bruno e  un invito a vendicarne la morte facendo tornare in  Italia la sua filosofia arricchita nel suo secolare viaggio,  termina questa prolusione.   Cinque giorni dopo leggeva nell’ Università la prolu¬  sione al suo corso lo Spaventa, tornando a trattare il  tema : Della nazionalità nella filosofia.    13 — Gentile. Storia della filosofia.      194    STORIA DELLA FILOSOFIA    2 .   Marianna Fiorenti Waddingtoìi e D. Spaventa   Affrettando col desiderio la pubblicazione dell’ impor¬  tante carteggio della marchesa M. Fiorenti Waddington  tuttavia posseduto dalla famiglia di Francesco Fio¬  rentino, gioverà spigolare tra le carte dello Spaventa,  alcune lettere e ricordi di questa egregia donna, che  non ci paiono inutili alla storia della fortuna di  Hegel in Italia. Quando la Florenzi entrò in rela¬  zione con lo Spaventa aveva passata la sessantina,  essendo nata nel 1802: da Schelling era giunta fino a  Hegel : dall’ ammirazione del Mamiani, per la conver¬  sazione frequente col Fiorentino, che da Bologna andava  spesso a Perugia ospite suo, era potuta passare a quella  del critico severo della prefazione, che il Mamiani nel  1844 aveva premessa alla sua traduzione del Bruno di  Schelling 1 . Prefazione desiderata da lei, che ne caròla  promessa con un certo imperio di belletta che. ancor pos¬  siede, come il Mamiani scriveva al suo fratello Giuseppe  il 7 aprile 1844 ;* prefazione piaciuta già allo stesso  Schelling. 3 Ma ben presto la marchesa tedescheggiente  e libera pensatrice e il conte italianissimo e cantore dei  santi cattolici, s’ erano accorti di non potersi intendere.  Già in una lettera del 1846, 4 il Mamiani le rimprove-    ' Vedi B. Spaventa, Saggi di critica. Napoli, Gliio. 1867, pp. 366 sgg.  Intorno alla Florenzi v. le mie Origini della, fllos. contemp. in Italia  III, parte II, pp 37-50.   * Mamiani, Leti, dall’ esilio a cura di E. Viterbo. Roma, 1809. 1, 211.   * In una sua lettera a un suo amico, del 26 dicembre 1845, il Ma-  raiant scriveva: «Quantunque lo vi discorra della tllosolla tedesca  moderna con gran franchezza di giudicio, lo Schelling non se ne tiene  punto mal soddisfatto, e scrivendo alla traduttrice, che è la march.  Florenzi, ha detto di me parole onorevolissime » (op. cit. I, 320). Cfr.  il Bruno stesso, ed. I.e Monnier, 1859, p. 213.   * Leti, cit.. Il, -10. Cfr. la lett. al fratello del 28 ag. 1846 (II, 33).     L'HEGELISMO NAPOLETANO    195    rava di ragionare un po’ alla tedesca, e , non avendo alla  mano ragioni ferme ed evidenti, essersi rairolta della  nebbia del suo grande maestro, lo Schelling. L’ anno ap¬  presso le scriveva: « ìli congratulo molto con voi dello  studiare indefesso che fate e dello involgervi coraggiosa  tra le tenebre sacre della metafisica dello Schelling». 1  Era quasi un addio dalla spiaggia a chi si avventurava  per il rischioso viaggio!   Sul principio del 18GB, la Fiorenti aveva pubblicato  i suoi Filosofemi di Cosmologia e di Ontologia (Perugia,  V. Bartelli) ; e il Fiorentino, che doveva scriverne una  recensione, nella Rivista Italiana (o Effemeridi della P.  di Torino, del 20 aprile 1863, a. IV, pp. 250-52), la  incitò a mandarne un esemplare allo Spaventa. Quindi  la seguente lettera :   Signore,   Se un nostro amicissimo, e molto suo conoscente, non m’ in¬  coraggiasse a mandarle il mio libretto testé stampato, io non  oserei inviarglielo. Esporlo al giudizio d’ uno de’ più distinti  lilosofi è al certo temerità più die grande. Ma io mi affido  più assai all’ indulgenza di cui sono capaci i grandi uomini,  e temo maggiormente i piccoli. Ardisco ancora dimandare il  suo leale, franco giudizio e la sua severa censura; ed ancbo  la disapprovazione mi sarà più cara assai di qualsiasi com¬  plimento.   È dunque sotto l’egida del nostro amico che il mio libretto  vieue a cercarla. Mi abbia per iscusata s’ io l’incomodo por  cosa di sì poco valore; ma, le ripeto, io riposo nella indulgenza  sua. Me le offerisco e raccomando.   Perugia, li 20 marzo 1863.   Obb.ma   M. Marianna Florbnzi WAnDiNcroN.   Lo Spaventa in ricambio le mandò il suo volume  Prolusione e introduzione alle lezioni di filosofia, starn-    1 Lett., li, 314.     196    STORIA DELLA FILOSOFIA    pato 1’ anno innanzi ; a cui la Florenzi fece gran festa,  diffondendolo nel circolo di letterati e filosofi, 1 che si  raccoglievano intorno a lei.   € Dono prezioso, scriveva all’ autore il 9 maggio  del '63, di cui mi valgo per miu istruzione e per  ammirare uno de’ più grandi filosofi (o il più grande),  che ora dia fama alla nostra nazione » .   Da altre lettere della colta gentildonna si rileva che  tra gli ammiratori guadagnati da lei allo Spaventa, de¬  siderosi di leggere i suoi scritti, v’ erano anche delle  donne. Tanto poteva 1’ esempio della Florenzi !   Il 25 maggio questa mandava allo Spaventa un suo  piccolo discorso sojrra l' Eleroyenia che doveva essere stam¬  pato coi Filosofemi. Era instancabile : quando, nel giugno  1864, lo Spaventa le ebbe mandata la memoria su Le  prime categorie della logica di Hegel, ella poteva annun¬  ziargli un suo nuovo lavoro, che avrebbe toccato anche  quell’argomento (Saggio di psicologia e di logica, Fi¬  renze, 1864): «Mi preme sempre di leggere le cose sue,  e per questo ho indugiato a dirmene grata e ricono¬  scente. Non ho parole per esprimerle quanto quella  lettura mi abbia soddisfatta. Un ingegno come il suo  non poteva a meno di escogitare fino al fondo l’argo¬  mento trattato, ed in vero non c’ è nessuno che abbia  penetrato tanto addentro la dottrina e le intenzioni di  llegel, il più formidabile dei tedeschi filosofi.   «Ella ha ragione: chi è mai entrato sì puramente  nella scienza del filosofo?   « Tanto più piacere mi ha recato il suo scritto in  quanto che io aveva già compiti due capitoli del libro  che scrivo ora : Il divenire e V essere e il non essere, pen-    1 Cfr. la Necrologia che scrisse di lei il Fiorentino, in Scritti vari,  Napoli, 1876, p. 410-1.        L' HEGELISMO NAPOLETANO    197    siero ed essere. Quanta istruzione io posso ricavare da  lei ! Dunque, per tutto il piacere e per tutto 1’ utile ri¬  cevuto io ne la ringrazio di cuore ed anima » (Lettera  del ló giugno ’64).   In una poscritta d’ una delle sue lettere la Florenzi  scriveva allo Spaventa: «Vi prego di fare il grande  sforzo di rispondermi al pili presto » . Lo Spaventa, in¬  fatti, era tardissimo a scrivere, anche se chi aspettava  era una dama così gentile. Il Fiorentino badava a fare  le sue scuse. Così, in una lettera allo Spaventa del 19  novembre 1804, gli scriveva : « Alla marchesa Florenzi  ho parecchie volte detto quale sia la vostra indole, perciò  non ho durato fatica a persuaderla della vostra trascu-  ranzn nello scrivere. Ella ha sotto i torchi due saggi,  uno di logica e 1’ altro di psicologia, ed aspetta di averli  in pronto per rispondervi. Credo che li avrà prima che  il mese finisca. Li ha composti con l’intendimento di  dare due lavoretti elementari, e mi sembrano molto giu¬  diziosi e precisi e chiari, da qualche capitolo almeno  che ho scorso, correggendo gli stamponi che le venivano  quando io ero colà. A proposito di lei, che cosa avete  fatto per l’Accademia, di cui mi parlaste costà? Io non  le ho detto nulla, com’ era vostro desiderio ; e sarebbe  cosa ben fatta se si potesse effettuare, perchè veramente  è una donna meravigliosa per 1’ ardore che ha per la  scienza » .   Lo Spaventa aveva pensato di premiare la nobilissima  operosità e il virile animo, onde la Florenzi proseguiva  gli studi filosofici, facendola ascrivere all’Accademia  delle scienze morali e politiche di Napoli. Nomina che  la scrittrice gradì molto, e ne fregiò il frontespizio  de’ suoi libri pubblicati dopo il 1865. Primo il Saggio  sulla natura (Firenze, 1866), che è dedicato appunto allo  Spaventa: non per orgoglio , ma soltanto perla fiducia...       198    STORIA DELLA FILOSOFIA    che gl’ ingegni, quanto più sono alti , tanto maggiore in¬  dulgenza tisano alle persone di buona volontà. Gliene chiese  licenza il 14 dicembre 1865 con una lettera molto mo¬  desta, dove sono espressi gli stessi sentimenti della de¬  dica a stampa, e da cui s’ apprende che il Saggio era  da tre mesi in tipografia.   Nell’aprile del ’G6 fu a Napoli il'cav. Evelino Wad-  dington, marito della marchesa, ed ebbe dallo Spaventa  liete accoglienze. «Egli se n’è tornato», scriveva il  Fiorentino, « contento di aver conosciuto un uomo  del vostro ingegno e con quella franca ed ingenua indole,  che è segno infallibile». E come a Napoli si prepa¬  rava, in occasione d’ una esposizione di cotone, un Con¬  gresso scientifico italiano, la Florenzi contava di venirci  anche lei; come infatti ci venne: «Ebbi la vostra me¬  moria 1 che ho letta con grande attenzione per racco¬  glierne quell’ utile che sogliono apportare i vostri scritti.  Evelino fu molto contento di conoscervi e lo sarò pur  io fra poco, perchè ai primi di agosto contiamo di essere  costì nuli’ ostante gli eventi del monito.   « Mi faceste dire di fare un qualche piccolo discorso  per 1’ occasione del Congresso; e 1’ ho tracciato alquanto,  e per distenderlo vorrei la certezza se si fa o no codesto  Congresso.   « Io presumo che no, stante 1’ imminenza della  guerra ; nulla di meno vi prego a scrivercene una riga ;  ed ancora più mi preme sapere se vi troverete in Na¬  poli a quell’epoca, o alla campagna, ed in quale cam¬  pagna, od in quale città ; infine, mi direte dove dimo¬  rerete » (15 giugno ’6G).    1 La dottrina della conoscema di G. Bruno, pubbl. negli Atti  dell'Acc. delle Se. mor. e poi. di Napoli del 1865; risi. In Saggi di cri¬  tica pp. 100-S55.     199    L'HEGELISMO N U'OLETANO   Un’ ultima lettera del 8 agosto 1867, ha un certo in¬  teresse, per l’accenno che vi si fa al discorso Della  immortalità dell’ anima umana, che la Florenzi pubblicò  nel maggio 1868 :   « Io mi preparo o mi sono già preparata a scrivere  un opuscolo sulla immortalità dell’anima: problema  scabroso! ma che voglio sostenere perchè sento 1’ im¬  mortalità dentro di me e voglio essere immortale a tutti  i costi. Sarà dolorosa ai feuerbachiani miei amici 1 la  mia assoluta opposizione».   Nè anche gli amici hegeliani, non feuerbachiani, d’ I-  talia fecero plauso all’ assunto della marchesa. E lo  Spaventa alluderà forse, con quell’ ironia che gli era  propria, al discorso poco persuasivo della Florenzi,  quando nello stesso maggio 1868, scrivendo al De Meis,  la chiamava: « la nostra immortale Marchesa, — immortale  almeno come, socia della Beale nostra Accademia » . !   L’intimo pensiero dello Spaventa sull’ immortalità  dell’ anima individuale apparisce dal principio d’ una  malinconica lettera da lui scritta al De Meis il 13  luglio 1880 ; dove ricorda la sua prima figliuola morta  a tre anni :   Napoli, 13 luglio 80.   Mio caro Camillo,   Spero che la festa di quel sant’ nomo del De Lellis, 3 tuo  omonimo concittadino e la tua, ti riconoilieranno cogli amici.  In particolare io conto sulla reminiscenza, anche involontaria,  di que’ maccheroni al pomidoro; di quella Irittata e di quelle  cocozzelle, oramai divenuti celebri no’ nostri annali domestici.  Via de’ Fiori a San Salvario, n... 4 . Il numero non lo ricordo    1 II Ff.ii* *riiach, coni' è noto, nel Gcdanhen iiber Tod und Sterb-  li chheil (183(1) sostenne la mortalità dell'anima.   J v. scritti filoio/lci. ed. Gentile, p. 303 n.   8 San Camillo De I.ellis, di Bucchianico, patria del De Meis.   • Recapito dello Spaventa a Torino. Il numero era 23. Isabella  Scano. moglie dello Spaventa, a lui sopravvissula, morta il 18  die. 1001.      200      STORIA DELLA FILOSOFIA   più, e non ho tempo (li consultare la signora Isabella, che  attende alle faccende di casa. Non lo ricordo; ma fa lo stesso:  ricordo il luogo, il prato, la soala, il piano, le stanze e il  mio tavolino da lavoro, e tutte le miuchionerie che scrivevo :  le cose futili e le serie; il mio chiodo Bolare e i misturi he¬  geliani svelati ; e te che venivi ogni giorno, angelo consola¬  tore, e le chiacchiere che facevamo insieme; e la mia povera  prima Mimi e lo sue ultime parole: — Papà lavorai — Papà  lavora! — Io non so so (|uella casa sia rimasta ancora in piedi;  oramai non vedo piti Torino da circa vent’ anni : ma ella sus¬  siste tuttora qui, come forse non ha mai meglio esistito iu  realtà, nel mio cervello, o, come (licevano una volta, nell’ a-  nima mia; o non si dileguerà se non quando questo cervello  (Papà lavora, Papà lavora), non ci sarà piti. E che ne sarà!  Che significa nou esserci pi fi i Diverrà proprio nullaf Eppure  è stato ed è. O ci è proprio uu modo di essere che non è  sussisterei E sussistere cos’ài 1/orgoglio e la balordaggine  umana ha trovato lo consolazione: — tutto nasce e perisce, è  vero, ma gli atomi restano, e son sempre quelli, non mutali  mai. — Bella scoperta! me li fo fritti gli atomi, io.   Troppo serio per la festa di San Camillo ; troppo malinco¬  nico, anzi. Ma va e freua la mia fantasia!...   Lo Spaventa, non occorre dirlo, non era materialista.  Ma nella concezione hegeliana della natura e dello spi¬  rito non trovava posto per lo spiritualismo astratto, e  quindi neppure per l’immortalità personale.   3.   Il primo scolaro (li B. Spaventa (F. Fiorentino).   Battaglie carducciane ancddote.   Nella nota polemica del 1876 con l’Acri il Fiorentino  dice di aver conosciuto tardi lo Spaventa, e poco prima  i suoi libri. « Letti i suoi libri, intravidi un altro  mondo, e mi parve rinascere. Allora (1861-1862) ero  professore a Maddaloni, e stavo a Napoli. Tra i molti            L’HEGELISMO NAPOLETANO    201    che si preparavano a combatterlo c’ero io; ma, lettolo,  mi sentii tirare verso lui, e capii che i suoi avversarii  non valevano neppure i suoi calzari. Quale fu la mia  maraviglia, quando dai più sinceri riseppi, ch’ei non  avevano lotto nulla di lui, e che lo combattevano,  perchè volevano combatterlo, senza sapere perchè! ». 1  Allora infatti egli si presentò allo Spaventa. Ma, quando,  sullo scorcio del ’62, andò a Bologna professore di Storia  della filosofia, non E aveva visto che due volte o tre. * *  L’ultima di queste ne ebbe consigli e suggerimenti  circa gli studi per cui la Biblioteca Universitaria di  Bologna avrebbe potuto offrirgli E opportunità. Giacché  dallo Spaventa egli fu stimolato a intraprendere quelle  ricerche sui nostri filosofi del Risorgimento, da cui pro¬  vennero le sue opere più importanti. E quando si di¬  visero, lo Spaventa dovette annunziargli il libro, che  allora stampava, Prolusione e introduzione alle lezioni  di filosofia , dove il Fiorentino avrebbe trovato uno  schema della storia della filosofia italiana. Glielo inviò  poi infatti con una lettera, della quale possediamo la  risposta :   Mio carissimo amico,   La vostra lettera e il vostro libro lungamente aspettati  mi sono arrivati carissimi. Mi son messo subito a leggerlo,  e posso dirvi di averne scorsa quasi la metà; se non che  intendo rifarmici sopra, come prima avrò satisfatto l'impa¬  ziente desiderio con questa prima lettura. Voi mi riuscite  sempre profondo e stringato ragionatore ; oogliete nel criticare  il nodo del sistema, c ne mostrate lo scioglimento cosi luci¬  damente che meglio non si può. lo vi ho sempre tenuto, e  vi tengo a ninno secondo nell’arto difficilissima della critica  filosofica, eh’ è quella appuuto, di cui noi Italiaui abbiamo    ' La fllos. contemp. in Italia, Napoli, 1876, p. 150.   * O. c., p. 152.        202    STORIA DELLA FILOSOFIA    specialmente bisogno, serondochè voi avete maestrevolmente  notato. Le considerazioni su la lìlosofia nazionale sono esatte,  e l’indole della filosofìa del Risorgimento, che io ho letta  fino al Bruno, è scolpita cou molta fiuezza, e contorni assai  rilevati. Le osservazioni su l’antichissima sapienza degl’i¬  taliani del Vico, e ricavate qunuto al fondo dalla Scienza  nuova, sono inappuntabili ; ed a rifiutarlo bisognerebbe di¬  sconoscere la teorica della parola dal Vico medesimo adottata.  Io mi rallegro di tutto cuore con voi, mio carissimo amico,  ed auguro all’ Italia molti uomini che vi rassomiglino.   Negli scrittori, come negli uomini, a me piace la lealtà del  manifestare le proprie convinzioni, quali che si fossero; la  coscienziosa ricerca nel formarsele, ed il saldo proposito del  sostenerle. Ora invece si scrivacchia e si cinguetta a spro¬  posito, e più ilei nomi e dell’autorità si fa caso, che non  della verità eterna ed immutabile. Voi siete molto opportuno  nelle condizioni poco prospero del nostro paese, e gran bene  potrete fare. Esperto come siete di gran parte delle nostre  città, dovete conoscere meglio di me, che cotesta o nessuna  può spingere e continuare il movimento della italiana filo*  sofìa. Qui se ne ha pochissima cura: alla mia scuola usano  pochi uditori, alle altre della mia facoltà meno che pochi,  o nessuno. Per buona ventura è venuto qua a continuare i  suoi studi filosofici un bravo giovane delle provincia meri¬  dionali, un tal Donato Jaja, quel medesimo che mi accom¬  pagnava, quando presi commiato da voi. Ila buon ingegno,  e buona volontà, eh’è ancora più rara no’ nostri giovani.  Altri vanno e vengono più per curiosità che per vaghezza ili  studio: sono le comete di tutte le cattedre.   Tra pochi altri giorni vi manderò la Prolusione che lessi  qui, e che ho fatta inserire sul Progresso che si stampa costà.  Me no aspètto vostro giudizio, che quanto so che sia com¬  petente, altrettanto voglio che sia ingenuo e franco. Voi  sapete che io non mi sdegno dell’essere appuntato e corrotto:  amo la verità più del mio amor proprio...   A libri filosofici qui si sta molto male, e sebbene mi sia  stato promesso che qualcheduno dei più necessari si farebbe  venire, pure io ci conto molto poco per la scarsezza dell’as¬  segnamento di cui gode questa Universitaria Biblioteca. Avrei  bisogno di buoni espositori di Platone e di Aristotile, perchè  questo anno mi occupo della filosofia greca, e intanto, tranne    L’HEGELISMO NAPOLETANO    203    alcuni commentatori antichi, non si trova altro. Ho fatto ve¬  nire «lei mio la esposizione della Logica aristotelica di Bar-  thólemy; ina a far venire tutto a proprie spese come si riescef  ìi questo per me un gran contrattempo, c, senza le vostre  prevenzioni, quasi inaspettato o iuusputtabile. Chi diamine  poteva credere che la dotta Bologna viveva ancora in pieno  Medio Evo»   pi Pomponazzi ci è il solo libro dell'Immortalità. I mano¬  scritti di Boccaferrato versano più su la tisica aristotelica, che  su la metafisica: ed oltre a ciò sono poco agevoli a leggere,  e a parer mio ili poco giovamento. Ho trovato pori» Scoto  Krigena, e Patrizzi, che costà non mi era riuscito avere. Oopo  che avrò letti questi, mi metterò a studiare la storia della  filosofia indiana del Colebrooke, che voi mi diceste buona. * 1  Mi dimenticai l’altra volta di dirvi, che Vittorio Cousin  scriveva alla Florenzi una lettera sn quel mio lavoretto in¬  torno al Bruno, dove sentenziava degl’italiani a modo suo.  È piuttosto una lunga lettera, di cui io ho copia, che vi  manderò, se vi aggrada leggerla. Parla altresì del Vera.®  Ecco quante ve no ho dette, e forse vi avrò annoiato: ma  io sentiva il bisogno di trattenermi con voi, e P ho fatto alla  mia usanza, e senza riserva. Io, oltre all’ammirarvi, vi amo  assai, e stimo che questo all’etto che vi porto renila più  scusabili le molte ciarle che faccio nello scrivervi. Quando  avrete tempo scrivetemi, perchò mi è caro comunicare con  qualche spirito privilegiato ed amico in tanta solitudine in  cui vivo. Se potessi in qualche cosa adoperarmi per voi, mi  terrei fortunatissimo di farlo. Addio, adunque, mio carissimo  amico, ed amate   Di Bologna, 12 del 1863.   Il tutto vostro  Francesco Fiorentino.    1 Enrico Tommaso Colebrooke (1765-1837), celebre indianista, pre¬  sidente della Società Asiatica londinese, autore degli Kssai/s on thè  Vedas and on thè phtlosophu of thè llindous nel I voi dei Miscclla-  neous Essaj/s (London, 1837, 3.» ediz., 1873); — e a parte: Essays on  thè relii/ion and phtlos. of thè Hlndous, 3.» ediz., London, 1858.   1 Tra la corrispondenza Inedita del Cousin ci sono lettere del  Fiorentino: vedi Gentile, Albori delta nuova Italia, I, 150.           204    STORIA DELLA FILOSOFIA    La Prolusione al corso di storia della filosofia (letta  il 25 novembre 1862) fu dal Fiorentino pubblicata nel  Progresso di Napoli (a. IL voi. II, 1863, pp. 22-33) ;  ma non venne più ristampata. È infatti ancora un do¬  cumento della fase giobertiana del pensiero del Fio¬  rentino, quantunque vi appariscano le prime tracce dei  nuovi studi e delle nuove tendenze dell’ autore. Giova  riferirne qualche brano:   Il pensiero, o signori, regola il mondo o lo riempie, perché  esso è la pienezza ed il vigore dell’ essere : è la sua compe¬  netrazione, e la sua identità. L’ essere senza il pensiero è spar¬  pagliato, disterminato, e però incompiuto e Unito. Imperocché  l’essere compie se medesimo geminandosi, vale a dire facen¬  dosi principio e fine; ed il mezzo, pel quale esso si pone e  conclude, è il pensiero, la relazione, l'identità suprema...  (p. 23).   Se non che esso nel mondo inorganico si occulta inconsa¬  pevole, eil in certo modo seppellito, comincia ad agitarsi  operoso nel vegetale, si va sempre pifi disimpacciando dal  grave involucro della materia nella forma dell’animale; e si  sveglia libero e padrone di sé filialmente nella coscienza  umana... Il pensiero divino che trasparisce attraverso tutto  il creato, si che ogui cosa, secondo la frase biblica, appaia  piena dello spirito di Dio, non parla poi e non si rivela am¬  piamente, se non nella coscienza dell’uomo. Il resto della  natura è parola scritta, rinchiusa, direi quasi cristallizzata:  l’uomo solo è parola viva e palpitante... (p. 24)   La dualità di natura e spirito non è insuperabile.  Essa inette capo « nell’ unità cosmica ». E in virtù di  questa la natura tende allo spirito; che comincia bensì  aneli’ esso come forza individua partecipante all’ uni¬  versità del cosmo ; ma esso si generalizza pensandosi.   ...Do spirito è l’attuazione compiuta dell’unità cosmica, e  ciò che questa è in potenza, ed esso è in atto. Or quando  lo spirito si abbia assimilato la natura e sé stesso per quella  serie di sviluppamenti che va spiegata nella Fenomenologia,       L'HEGELISMO NAPOLETANO    205    egli, a rendere scientifico il suo processo spontaneo ed in-  cosoio di sé, si rifà sopra il cammino fatto. E può rifarsi in  tre modi. Quando rigira sè in sò, dà luogo a quel ripensa¬  mento che si dice riflessione psicologica; e quando si ripete  su la natura, partorisce la riflessione detta dal Gioberti ontolo¬  gica. Ma sopra eoteste due guise di riflettere, ve u’ ba una  terza, che lo vince di pregio e di amplitudine, vale a dire  la riflessione logica, nella quale lo spirito si rivolgo su la  sua azione medesima, sul proprio pensiero... su la natura e   10 stesso spirito è Dio, ossia l’unità vera, l’unità che non  è il moltiplico, ma lo fa. Se l’unità cosmica fosso tutto, 1’ ul¬  timo grado del pensiero sarebbe la riflessione psicologica e  l’ontologica, e la logica non sarebbe possibile. V’è logica,  perché v’ha un assoluto perfettamente uno; v’è la logica,  perchè v’è Dio... Da logica è dunque l’unità finale della  cosmologia e della psicologia, come la protologia n’ era stata  1’ unità primitiva. L’ unità assoluta, 1’ unità cosmica, 1' anima,   11 concetto; ecco le quattro gradazioni, per le quali passa il  pensiero speculativo, produceudo una scienza eh’è la prima  e la massima, e che comprende la protologia, la cosmologia,  la psicologia e la logica. . (p. 2fi)   Venendo alla storia della filosofia, il Fiorentino di¬  chiara che il disegno della storia si deve modellare  su quello della scienza : sicché la storia dev’ essere essa  medesima un sistema. « Una storia che non fosse un  sistema ma un’ imbastitura di fatti racimolati qua e là,  non sarebbe meritevole di tanto nome». Quindi la con¬  nessione da preferire tra i vari sistemi è quella logica.   So bene io essersi talvolta tenuto conto o della successione  cronologica, o della continuità etnografica; confesso che  queste maniere contengono qualche parte di vero ; che il  tempo maturi ed incalzi le deduzioni della logicn ; che la  scienza alcune volte si sviluppi come un dramma vivente in  una nazione: nondimeno il pensiero, essendo di natura estem¬  poranea ed eslraspaziale, mal si potrebbe acconciare tra questi  angusti cancelli... Egli è da maravigliaro intanto come fra  tanti che hanno trattato la storia della filosofia quasi uiuno  abbia fatto capo dellu genesi logica dei sistemi, salvo l’Hegel    206    STORIA DELLA FILOSOFIA    in cui celesta legge si appalesa inflessibile come il fato; e  nelle cni mani la storia si trasforma in una geometria, dove  nulla viene lasciato all’arbitrio del pensatore. Hegel accorcia  e distende i sistemi come il Procuste della favola, affinché  tutti ripetessero costantemente il ritmo prescelto della trico¬  tomia. Il Richtor inchina per contrario a sostenere l’au¬  tonomia delle scuole e dei sistemi ; sminuzza, taglia i nervi,  e leva di mezzo ogni addentellato. Nel primo 1’ uniformità ò  monotona, nell’altro la varietà rimaue disordinata ed inor¬  ganica. Contemporaro però questi due estremi, badare alla  continuità del pensiero universale, senza disconoscere l'in¬  fluenza individuale, è proprio mettersi sul giusto mezzo, ed  in postura convenevole, onde si possa portar giudicio sopra  i sistemi. E qnando dico sistemi, io non guardo alla breccia (f),  ma alla radice: non all’aspetto subbiettivo, o nlla convinzione  del filosofo, ma alla materia, eli’ è stata fondamento della  sua opinione. Voglio vedere non quel ch’egli crede, ma quali  cause lo abbiano sforzato a questa credenza... (p. 29)   La storia della filosofia presuppone un sistema, che  sia come il regolo con cui conviene riscontrare e mi¬  surare le dottrine. E dalla maggiore o minore ampiezza  del criterio di una storia, dipende il valore di questa.   Hegel ha immedesimato la storia della filosofia col suo si¬  stema, affermando non essere tutti gli altri se non momenti del  suo, e (singolare ardimento!! egli non si è peritato di pian¬  tare le colonne di Ercole della filosofia ! L’avvenire giudicherà  di lui, provando coi fatti, se dopo la grande Enciclopedia  ancora allo spirito umano qualche cosa rimarrà da fare.   Infine il Fiorentino toccava la questione di una filo¬  sofia italiana contestata dagli storici stranieri.   Mettendo n rassegna le nazioni filosofiche di Europa, Hegel  tripartisce il mondo della filosofia moderna, maiorasco ina¬  lienabile, tra l’Inghilterra la Germania e la Francia... Il  Cousin di poi, n cui non tornava conto una terza nazione,  non avendo una tripartizione a fare, ridusse le partite, e  diede luogo a due nazioni soltanto, alla Germania ed alla  Francia... Il professore di Berlino e quello della Sorbona si       L’ HEGELISMO NAPOLETANO    207    trovano peri» d’accordo nel diseredare l’Italia. E perchè 1  Forse Telesio e Galileo non parlarono mai del metodo spe¬  rimentale ? Giordano Bruno non mosse dall’unità della sostanza  prima ancora dello stesso Spinoza? Campanella non iniziò la  osservazione psicologica? K Vico non partì dalla conversione  del vero col fatto, statuendo il fondamento più solido cito  potesse avere la filosofia? Nulla di tutto questo, o signori;  tre termini bisognarono all’ Hegel, due al Consin, e per noi  non rimase luogo. L’Italia, se diamo retta alle divisioni di  oltremonte non ha fatto mai nulla, non ha pensato mai a  nuli», e sola, spogliata del comune retaggio dell’urnan go-  nero, ella è costretta a stare spettatrice stupida od ingloriosa  delle maraviglie altrui. Troppo beata, se il passato della Ger¬  mania o della Francia potesse diventare il suo presente;  troppo venturosa se, chiamata dalla straniera magnanimità, le  venisse consentito di spigolare nel campo, ove a si larghi  manipoli hanno gli altri mietuto.   Mi rincresce, o signori, di dover prorompere in parole  amare verso uomini al cui ingegno porto di cuore molta ri-  vegenza; me ne rincresce ancora più forte per dover rinfre¬  scare titoli lunga stagione abusati, quando la gloria dei padri  fu chiamata a coprire la riprovevolissima inerzia de’ figli. No,  io protesto, signori, die noi non vogliamo addormentarci sugli  allori dei nostri padri, che noi non vogliamo farci belli della  loro gloria, fragile schermo alle immeritate rampogne... (p. 31)   Il Fiorentino ricordava la « gran sollecitudine » che  a Napoli egli aveva visto « affaticare gl’ intelletti traen¬  done argomento a bene sperare e ad asserire che forse  la filosofìa era « deputata a maturare i fati della patria».  Faceva voti cho quel « desiderio ardentissimo » si dif¬  fondesse da Napoli per tutta Italia ; « lieto di poter  proseguire l’impresa, che qui (a Bologna) inaugurava il  suo illustre predecessore»; cioè lo Spaventa. Infine,  una patriottica perorazione :   Por gli altri, o signori, la scienza può essere forse un ad¬  dobbo ed un decoro, por noi italiani è desiderio di riscossa,  è condizione indispensabile di vita. Noi non sapremmo pas¬  sarcene senza tralignare dalla nostra antica fierezza, senza    208    STORIA DELLA FILOSOFIA    disconoscere la missione nostra nella storia. E poi grandi  cose ancora ne avanzano a fare, nè potremmo meglio allenarci,  che fortificandoci la mento di profondi studi. Nella infanzia  dei popoli era la fede che operava prodigi, e remica possibili  le Crociate; nella loro virilità non si possono aspettare altri  miracoli, che lineili della scienza... Un pensiero che non fosse  progenitore fecondo di magnanimi fatti, io lo disdegnerei;  ma esso avventurosamente non sarebbe nemmeno da dire  pensiero, si bene fantasma vano, e passeggero capriccio. Io  nel filosofo anzi tutto voglio guardare l’uomo coni’esso è, e  voglio trovarcelo vergine, schietto, maschio e vigoroso. Io  batto le mani a Socrate che combatte u Potidca, sento un cotal  orgoglio di coltivare la scienza elio mantenne serena la fronte  di Giordano Bruno avanti al rogo: applaudo a Kicbte che  lascia la cattedra di Jena e corre sui campi di Lipsia; e non  so rifinire di ridurmi nella memoria Sl’acteria, Mestre e Cur-  tatouo, ove siete caduti voi, Santarosa, Poerio e Pilla, va¬  lorosi ingegni, valorosissimi cittadini.   Sì, o giovani, di profondi veri e di magnanimi fatti noi  abbiamo bisogno, e 1’ Italia sarà. Addoppiate gli sforzi... Per¬  corriamo di conserva e con alacrità 1' arduo arringo della  scieuza, e siamo certi di cooperare in tal guisa potentemente  al riscatto della patria nostra. La scieuza lo iniziò, ed essa  indubitatamente lo coronerà, snebbiando le nienti, aprendo il  cuore a piò candidi alletti ed utlbrzando le braccia della no¬  vella ed adulta generazione. Un ultimo sforzo ancora, e quanto  prima il Ponte di Rialto risuouerà dell’ eco dell’ inno nazionale  cantato sulle serve lagune dell’Adriatico, e le piume dei nostri  bersaglieri si agiteranno al vento che spira dai sette colli  (pp. 32-33).   Dagli studi sulla filosofia greca pel corso universitario  annunziato nella lettera del 12 gennaio 1863, fatti sotto  l’ispirazione dello Spaventa, uscì il Saggio storico sulla  filosofia greca (Firenze, Le Monnier, 1864), dove il gio-  bertiuno di tre anni innanzi, autore dell’ opuscolo 11  Panteismo e G. Bruno, si palesava hegeliano e scolaro  dello Spaventa, di cui infatti metteva a proposito la  memoria su Le prime categoi'ie della Logica ili Hegel (1864).   Così il Fiorentino si staccava coraggiosamente da’          L* HEGELISMO NAPOLETANO    209    vecchi amici di Napoli : onde nella conclusione del Saggio  (p. 302) accennava: «Devoto alla verità, non mi ter¬  ranno del certo impastoiato nè vecchie preoccupazioni,  nè codarde paure». Non gli mancarono, infatti, silenzii  sdegnosi e tacite rampogne, seguite da una rottura,  che fu la prima origine della polemica scoppiata dodici  anni dopo con l’Acri e il Eornari. Nella seguente lettera  ne abbiamo il più antico documento:   Mio carissimo amico,   Vi so infinitamente grado di llo coso gentili che mi dito  del mio libro, o non vi nascondo che le vostro parole mi  sono valso di sprone efficacissimo a seguitare. Voi sapete di  quanto peso io tenga il vostro parere? o come lo anteponga  ad ogni nitro che potessi avere in Italia, o anche (V oltre¬  mente 5 onde me n* è venuta allegrezza o buona voglia da  non potersi misurare. Per me la filosofìa è stata sempre un  amore, e perciò mi vi sou messo in buona fede, e senza preoc¬  cupazione di partigiano. Non timido amico del vero, io  dirò sempre aperto il mio modo di vedere; ed in ciò debbo  confessare che voi mi siete stato esempio e conforto. Delle  altrui dicerie non mi brigo; conserverò P amicizia a chi me  la continua non ostante il dissidio delle opinioni, coni’ è mio  costume; uon mi dorrà di perdere amici, i quali pretendessero  d impormi un treno, e di vincolarmi con pastoie, che Panimo  mio, non che nou comportare, anzi disdegna.   Questo anno mi occuperò «Iella filosofìa tedesca, e epocial-  nmnte di Kant, lo cui opere ho già tutte, oltre ad altre espo¬  sizioni, tra le quali quella del Cousin. Sopra tutto ho in  pn.'gio il vostro lavoro su Kant e Rosmini, dove mi pare ve¬  dere il kantismo scolpito con tutP i suoi pregi e le sue la¬  cune.   Mi vo procacciando i nostri filosofi «lei Risorgimento, per  occuparmene in un lavoro che ho in animo di stendere que-  st’anuo medesimo. Ditemi voi se le biblioteche di Torino,  dove siete stato, ne hanno qualcuno, e quale; perchè potrei  chiedere al Ministro che fossero di mano in ninno mandati a  questa hibliot«^ca por studiarli...   Vi ricordo e rnccomando da ultimo l’affare della Metafisica  1-1 — Gentili:. Storia della filosofia.      210 STORIA DELLA FILOSOFIA   Aristotile del Bonghi, avendo egli ora il tempo di de¬  dicarsi alla continuazione di quella stampa. Add.o, uno ca¬  rissimo amico, e ricordate ed amate    Di Bologna, 19 novembre 1864.    Il tutto rostro        £—5S-Svt*-- —   Addio.   Dal lavoro su Kant e Rosmini dello Spaventa ossia  La filosofia di Kant e la sua relazione con la filosofie  italiana (Torino, 1860, rist. in Scritti filos pp. 1- 9)  il Fiorentino aveva mostrato nel Saggio di avere ben  compreso il valore della categoria kantiana. Ma poco  vantaggio potè certo cavare dalla esposizione <  Cousifr^Li «fe filosofìa di Kano che - 18«  era stata pure tradotta in italiano da F. Irmctiera  eredità, probabilmente, dei primi studi di Napoli, avan  alla conoscenza dello Spaventa. Della tradurne della  Metafisica di Aristotele, di cui il Bonghi aveva pubblicati  i primi sei libri a Torino nel 1854, il Fiorent.no in¬  sieme col Bonatelli, che allora gli era collega a Bologna  procurava di rendere possibile, con una sottoscrizione .  resto della stampa, anzi la pubblicazione completa, con  hTristampa della prima parte; ed è a deplorare che non  ‘ S riusci», e che Jop» il Bonghi ne .1*» *»b.n.  donato il pensiero, quantunque la sua interpretazione   non sia senza difetti.   TTT^ale che allora pubblicavano a Napoli il De Sancii» e .1  Settembrini.           L’HEGELISMO NAPOLETANO    211    Il corso 1864-65 fu in effetti consacrato a Kant. Della  prolusione è notizia in quest’ altra lettera, dove il Fio¬  rentino torna a lagnarsi del silenzio del Fornari, dando  a divedere quanto pur ne soffriva il suo animo affettuoso':   Carissimo amico,   ...Io sono venuto qua a passarvi le feste, ed ieri, appena,  arrivato, vi ho trovato la vostra lettera rinviatami da Bologna.  Aspetto con premura la vostra lunga lettera, ora che le va¬  canze ve ne lasciano il tempo.   Ho letto a Bologna una prolusione su Kant, di cui questo  anno mi occupo precipuamente. Sarà stampata a Firenze in  un nuovo giornale scientifico, elio ha per titolo La civiltà  italiana, e eh’è diretto da De Gubernatis. Quando ne avrò  gli estratti, ve ne manderò uno subito. Se voi voleste scrivere  qualche rosetta, o in qualche modo valervi di questo nuovo  giornale, so che De Gnbernatis no sarebbe lietissimo, fc un  bravo giovane, che io ho conosciuto, e che vi ammira molto.   Sapete voi, che, avendo mandato il mio libro ad alcuni a  Napoli, non ne ho avuto neanche risposta! Che voglia dire,  non so ; ma mi par barbara usanza il voler imprigionare la  mente umana. La mia, non si lascia inceppare, e rinunzio vo¬  lentieri ad alcuno amicizie, quando queste non possono con¬  ciliarsi con l’amore della verità.   Por la soscrizione ili Bonghi vi rinnovo le premuro, perchè  egli sta aspettando che io gli rimandi i manifesti. So come  si vada incontro ad inconvenienti, ma noi non assumiamo  nessun obbligo personale. Addio, mio carissimo amico, ed  amate   Di Perugia, 26 dicembre 1861.   Il vostro afet.mo sempre  F. Fiorentino.   La Civiltà italiana pubblicò nei primi tre numeri (I  trimestre, gennaio 1865) il discorso del Fiorentino : Em-  manuele Kant ed il mondo moderno; come pubblicò di  lui stesso il 19 febbraio 1865 (n. 8) lo scritto su I dia-    1 Cfr. quello che se ne dice nella Filos. contemp., p. 139.       212 STORIA DELLA FILOSOFIA   Ioghi di Orazio Rucellai; dall’aprile al giugno dello  stesso anno (II trimestre, nn. 1, 2, 5, 7, 11 e 12), le  lettere Stilla Scienza Nuova di Vico / e nel luglio, il  discorso Dell’armonia del concelto di Dante come filologo,  come storico, come statisla (II semestre, nn. 1 e 2): lavori  tutti ristampati più tardi dall’ autore, salvo il primo,  negli Scritti vari (1876).   Del discorso su Kant dimenticato conviene riferire  qualche pagina, la quale dimostra quanto il fiorentino  avesse profittato della lettura degli scritti dello Spaventa.   Ecco, per esempio, come poneva il problema kantiano :   jjji sperienzu prima di Kant era stata smaltita siccome il  fondamento più stallilo della scienza, o come le colonne di  Ercole, di là dalle quali non era dato allo spirito umano  travalicare senza pericolo d’imminente naufragio. Kant ri¬  flette, clic la sperieuza è tiu fatto, e ebe perciò non può  essere primitivo; essendo un risultamento, del quale si può  e si deve cercare la guisa e la ragione del nascimento. Egli  adunque propone una domanda nuova nella storia della tìlosoiìa.  coni’è possibile la sperienzat E più generalmente ancora:  coni’ è possibile il conoscerei Con la quale domanda 1 oriz¬  zonte della scienza si trova onninamente cangiato, e i vecchi  filosofi seriamente imbrogliati. Il Galluppi, che primo in Italia  giudicò convenevolmente il movimento kantiano, si accolse  di questa novità di problema, e con la Bolita sua semplicità  di linguaggio la espose così: — Prima di Kant la filosofia era  dommutio .1 o scettica: con lui comincia una nuova forma, la  critica. E prima, difatti, i filosofi o ammettevano la sperieuza,  o no; Kant uè l’nmmise, nè la rifiutò; ma disse: come si  formai II problema così mutato non versava più sull’esi¬  stenza del fatto, ma sul suo nascimento; e cotesto è la mu¬  tazione più sostanziale che Kant avesse recato in mezzo nella  scienza filosofica.   I.a Scolastica mutuava or dalla tradizione religiosa, or dalla  storia, or finalmente dalla filologia il contenuto della sua  scienza: presupponeva l’anima, il mondo, Dio, i loro attributi,  la loro origine, e vi attagliava una forma scientifica per pal¬  liare l’intrinseco difetto. Cartesio se ne sdegnò, e sopprimendo       213    L’ HEGELISMO NAPOLETANO   quel vuoto ingombro, fece capo alla coscienza, dove credette  trovare il punto stabile, sul quale puntellando la leva onni¬  potente del pensiero si mettesse in grado di smuovere il mondo  antico, e di sfasciarlo. La filosofia sperimentalo sotterra¬  tagli ridusse lo spirito a tavola rasa, e vi disegnò sopra le  prime linee della scienza nascente. Kant sorpassò l’uno e  l’altra, e soffiò su tutto il sapere precedente, perfino su la  coscienza di Cartesio, pertìuo su la sperienza di Locke ; es¬  sendoché entrambe contenevano degli elementi variabili,  ed egli, messo su l'avviso dalle rigide deduzioni di limile]  non voleva più far entrare nella scienza nulla elio avesse  sembianza di mutabilità.   Esposte rapidamente la unificazione del molteplice,  onde nell’esperienza kantiana s’intuisce il sensibile e  onde si giudica per mezzo delle categorie le intuizioni,  il fiorentino dimostra come la vera unificazione ancora  non sia compiuta, essendosi passati dall’ opposizione  della materia e della forma dell’intuizione a quella di  intuizione e categoria.   Il legame primitivo, ove si rannoda il multiplo sì della  sensibilità, come della intuizione, è l’unità trascendentale  della coscienza. E badiamo che non ci tragga in inganno il  nome medesimo di coscienza, di cui Kant si vale in due si¬  gnificazioni ben differenti. Questa coscienza trascendentale ò  primitiva ed originaria; producondo gli opposti, non può ella  essere un opposto; se no, si andrebbe all’infinito. L’altra  coscienza di soconda muno vien oontraseguata con la giunta  di empirica, ed è una fattura di quella primo, come ogni  altro fenomeno: va costruita con la forma del tempo, con le  categorie di possanza, di causa, di relazione, e via via. La  coscienza empirica, insomma, ò posteriore assai alla coscienza  trascendentale, la quale sola ò unità originaria e feconda.   L non è senza ragione se ho ribadito questa distinzione,  essendo capitalissima nel sistema che stiamo abbozzando, il  vero merito di Kant non è di avere trovato i concetti a priori,  ma di avere posto a capo della sintesi quella eli’ ei chiama  energia porlentota, vale a dire la unità sintetica originaria della  coscienza. L’illustre prof. Spaventa lia con molto aocorgimento      214    STORIA DELLA FILOSOFIA   messo in sodo questo punto, criticando la esposizione che il Ro-  smiui aveva fatto del Kant. Non è gii che gli opposti sieno  dati, e che lo spirito, trovandoli, se ne impadronisca e li  vada elaborando: questo processo ci era prima di Kant, ed  egli lo ha sorpassato, vedendone la insufficienza. Imperocché  quale conoscenza potessi avere, posto che i termini, ond ella  si compone, fossero stati accoppiati per caso e alla rinlusaf  Data da uua parte la intuizione, dall’altra la categoria, e  poi lo spirito che le sforza ad un’ unione innaturale, o per  lo meno arbitraria ; non si vede che il giudizio sarebbe  un’imbastitura come quella che descrive Orazio, e non già  un processo dello spirito, il cui carattere specialissimo è  l’intimità? Se lo spirito adunque unisce gli opposti, è perchè  entrambi scaturiscano da una sorgente comune, e perchè il  riunirli è per lui una scria necessità.   Ma Kant non fu coerente a questo concetto della sua  energia portentosa. Confusa la coscienza trascendentale  pura con l’empirica, ritenne impossibile la deduzione  logica delle categorie, che ripescò perciò empiricamente  attraverso i giudizi ; stralciò il pensiero dall’ essere, fa  cendo della sua attività una forma affatto vuota ; e finì  nel noumeno inconoscibile.   E la conseguenza è giusta, ogni volta che si ammetti' un  pensiero che non pensa nulla, e, di rincontro, un essere che  non può essere pensato. Se non che lo sbaglio sta appunto  in questa concessione. Un pensiero vuoto non è : un essere  non pensato non è: sono due astratti, ai quali voi accordate,  con soverchia larghezza, forma e persona. Che vuol dir mai  cotesta cosa in sè, che fatalmente sfugge al nostro intelletto?  Cotesto essere oscuro, che brilla per la sua mancanza, e dopo  balenato alla mente, si cela per sempre? Voi diti' di non co¬  noscerlo ed io vi replico con 1’ Hegel, chi' nulla è più Incile  a conoscere di questo punto oscuro. Esso è l’oggetto del  pensiero spogliato di ogni determinazione, vuotato di ogni  contenuto, ridotto alla mingherlina condizione il’ identità pu¬  ramente astratta. Or dunque non raffigurate in lui uuu crea¬  tura vostra?....     L’HEGELISMO NAPOLETANO    215    Nè le altre due Critiche riescono a sanare pienamente  le conseguenze prodotte da questa opposizione risorta  tra pensiero ed essere nella Critica della ragion pura.   Nella stessa Civiltà italiana (II sem., n. 10, 17 set¬  tembre 1865) il Fiorentino inserì una recensione del  primo di quei tanti libri che poi Ruffaele Mariano venne  compilando sui libri altrui : Lassalle e il suo Eraclito,  € saggio di filosofia hegeliana » (Firenze, 1865). Recen¬  sione benevola verso il giovine autore, nella quale giova  rilevare due osservazioni, che mostrano già nel ’65 ben  determinate le due direzioni divergenti degli scolari del  Vera da una parte e di quelli dello Spaventa dall’ altra.  Una è questa : « Perchè chiamate rivoluzionaria, in senso  di... retriva la filosofia di Rosmini? Perchè dir filastrocca  quelln del Gioberti? Questo acerbo procedere verso due  illustri italiani, quando anche si fondasse sul vero, non  sarebbe certo modesto consiglio il tenerlo. Nè veggo che  l’essere hegeliano debba di necessità far avere in poco  conto le loro dottrine, perchè la critica imparziale e  seria, che P illustre prof. Spaventa ha fatto dell’ uno e  dell’altro, prova il contrario».   L’altra è anche più notevole: «Ammesso come pre¬  feribile [a quello di Lassalle] il giudicio di Hegel sopra  Eraclito, non v’ha proprio nulla a ridire, specialmente  su la relazione che P Hegel pone tra Eraclito e P ultimo  degli Eleatici? E forse vero che Eraclito segni un  progresso sopra Zenone? Pare che, Eraclito essendo stato  prima di Zenone, la dialettica obbiettiva di quello sa¬  rebbe apparsa alla coscienza speculativa prima della  dialettica zenoniana ; onde l’andamento storico, per lo  meno, sembra essere stato da Hegel capovolto. Dico ciò,  allinchè l’egregio Mariano si tenga in guardia inverso  la eccessiva fiducia nell’ autorità di maestri, per grandi  che fossero. Le colonne di Ercole dell’ ingegno umano.     216 STORIA DELLA FILOSOFIA   bisogna tenerle discoste più che si può ; e se si potesse  affondarle nell’Oceano, tanto meglio. Anche lo Spa¬  venta era di quest’avviso.   Nel 1865 il Fiorentino si accinse al suo lavoro sul  Pomponazzi, pur continuando all’Università i corsi sulla  filosofìa tedesca moderna. E scriveva allo Spaventa:    Mio carissimo amico,   È trascorso gran tempo che manco <li vostre nuovo, non  ostante die vi abbia scritto durante le vacanze, quando il  Settembrini mi fece sapere ch’oravate a diporto nella cam¬  pagna. Ora che il oholèra si sente a Napoli, io sono divenuto  inquieto per causa di qualche amico elle vi ho, e più d ogni  altro per causa vostra. Levatemi da questa iuquietitudine  scrivendomi due parole che m’informassero della vostra salute.   Io sono tornato qui prima della riapertura della Università,  e vi ho riprese le mie lozioni. Ho passate le vacanze qualche  giorno a Ravenna, un po’ a Firenze, un po’ a Perugia, e poi  il più del tempo in villa.   Sto esponendo la filosofìa tedesca da Kant in qua ; e ciò  alla Università. Sto preparando una biografia ilei Pomponazzi  ricavata dalle sue opero medesime, per leggerla nella Società  di Storia Patria, di cui faccio parte. Se questa prima non  dispiacerà, o non parrà inutile, ne farò qualche altra di  qualche pensatore più importante che abbia insegnato a Bo¬  logna. Oltre l’Acbillini, chi altro mi suggerireste voif Forse  potrei farla ancora del Cromonini, che, stato a Ferrara, può  dirsi delle stesse provinole di Emilia: del Zabarella no, eh’è  stato soltanto a Padova. Io poi a queste biografie, elle leggerò  nella Deputazione di Storia Patria, aggiungerò per conto mio  la esposizione e la critica del contenuto filosofico dei loro  libri, compiendo di ciascuno una monografia. Che ve ne  pare t   ...Col medesimo ordinario vi spedisco un libretto conte¬  nente alcune mie lettere su la Scienza Nuova. Le scrissi per  compiacere a De Gubernatis, che mi chiese qualcosa per la  sua Civiltà italiana. Non sapendo se abbiate o no avuto quel  periodico, ve le mando così radunato, come le feci estrarre;      L’HEGELISMO NAPOLETANO 217   e vi prego di accettarla come testimonianza della mia sincera  stima ed amicizia.   Addio adunque, datemi presto vostre nuove, e ricordate ed  amato   Di Bologna, 30 novembre 1865.   Il vostro afi.mo amico  P. Fiorentino.   E questo il primo disegno del Pomponazzi, la cui  biografìa fu prima inserita negli atti della Deputazione  di Storia Patria per le provincie di Romagna (1867), e  poi riprodotta in capo al volume pubblicato nel maggio  1868. Il 19 giugno 1867 il Fiorentino, che diventava  sempre più intrinseco dello Spaventa, tornava a darne  notizia all’ amico : « Io aspetto la nuova ristampa [della  tua memoria] sul Campanella, 1 perché essendomene  quest’ anno occupato nel corso scolastico, sono desideroso  di vedere come tu l’hai trattato. Ora sono attorno ad  una monografia sul Pomponazzi, attorno a cui raggrup¬  però i più celebri suoi contemporanei. Me lo stampa il Le  Monnier... Me ne dà cinquanta copie e 150 lire pei libri  che mi sono occorsi ». E il 26 aprile 1868: « La stampa  del mio libro è finita, e sono attorno a scrivere due  parole di conclusione, per le quali ho aspettato di ri¬  leggere tutto il libro, che non avevo riletto, nè ricopiato,  dopo scrittolo. A Firenze, nella Magliabechiana, trovai  di Pomponazzi un manoscritto inedito col titolo di Quae-  sliones ammostiate : * le chiesi al Napoli. 3 Mi promise di  spedirle subito, ed ancora non le vedo. Ciò mi turba  non poco, non potendo sbrigare subito la stampa. Ma¬  ledetta fiaccona degl’italiani! ».    1 III Saggi ili critica, Napoli, 1867.   5 Cfr. Fiorentino, Pomponazzi, p. 509.   «Federigo Napoli, allora segretario generale del Ministero della I. P.         218    STORIA DELLA FILOSOFIA    Uscito il libro, il Fiorentino, mandato che l’ebbe allo  Spaventa, ne attendeva con la solita ansietà un giudizio.  E giudice, in altro campo, era stato quell’anno lo Spa¬  venta a Bologna, tra ire, sospetti e timori, di cui un’eco  risuona anche nella lettera qui appresso riferita del  Fiorentino. Era stato col Brioschi e il Messedaglia a  fare quella ispezione alla Università, di cui parla il  Carducci in Ceneri c faville ; e aveva riferito lui al Mi¬  nistero.   Mio Carissimo amico,   Ilo ricevuto i manoscritti del Gatti, che ho consegnato  subito al Siciliani, uonchè lo due dispense che mi mancavano,  e di cui ti ringrazio vivamente... Non ho visto incora l>e  Meis, ma fari) di tutto per leggere la lettera di venti pagine: 1  ci dovrà essere una epopea intera.   Qui si fa un grati dir male di te per la famosa relazione: *  io uon l’ho letta, e se non la leggerò, non me ne sto al detto  di nessuno. Mi si è detto cose, alle quali, come puoi pensare,  non ho potuto dar credito: tra le altre cose che voi avete  dato una patente d’ignoranti a tutta l’università in massa,  e che in difetto di scienza, si va in cerca di popolarità nello  associazioni politiche, lo per me, se fosBe vero il detto, nou  protesterei per l’ignoranza, che sento di averne una grossa  dose in corpo, nm protesterei per la popolarità, perchè non  no ho avuto mai gran voglia ; e se si acquista nei cliilie, ci  vorrà un pezzo prima che me ne tocchi un briciolo. Manco  male se si acquistasse dormendo, perchè allora potrei averci  delle pretensioni. Fuori di scherzo, quello che si bucina qui,  e che ha prodotte molte ire, nò senza ragione se fosse vero,    1 La lettera al De Meis che fu pubblicala col titolo Paolotttsmo,  positivismo e raslonallsmo , c che é qui appresso citata.   « Si allude a una Relazione da lo Spaventa presentata al Ministero  della P. I. in seguito ad una inchiesta da lui fatta in commissione  col Brioschi e col Messedaglia, nell’ Università di Bologna, iter ragioni  d'ordine politico, nel 1868. Un articolo del Carducci su questa faccenda,  pubblicato Dell'Amico del popolo, di Bologna, del 29-H0 luglio iami. si  può vedere nel volume teneri e faville, serie I: Opere, V, 61 sgg.     L’HEGELISMO NAPOLETANO    219    è qnell’aver messo sotto nini tuie cntegorin, e tutti in un  fascio, i professori bolognesi, lo sono nn mezzo proscritto, perchè  sapendomi tuo amico, o si guardano di me, o mi tempestano  a tutta furia.   Lasciamo questa miseria. Ho letto i documenti che il Berti  lui stampato della vita di Bruno. Il processo veneto, se  non e stato adulterato il contenuto, fa mostra di poca fer¬  mezza, o non so persuadermene. Che cosa ne dici tu! Gli hai  visti! 1   Ho tra le mani pure la seconda edizione delle opere di  Comte, e voglio leggerla tutta, perchè ne ho Ietto soltanto  esposizioni, benché assai larghe.   Il mio libro è (inito, almeno le correzioni ultime le mandai  una settimana fa, ma ancora noi vedo. Appena uscirà, scriverò  a Firenze, che di là stesso te ne mandino mia copia, per far  più presto. Tu poi leggila col tuo comodo, e dimmene il tuo  parere, quando potrai. Capisco che hai molto da fare, o che  non puoi tutto quello che vuoi.   Mi prometto di avere qualcosa di tuo pel giornale; qualcosa  del Settembrini, fosse anche tuia pagina. Il Siciliani spesso  me ne fa premura... Io non solo non ti ammazzo, ma ti rin¬  grazio, e col vecchio adagio ti ripeto: meglio tardi che inai.  Non credo però a quel « subito », con cui vuoi darmi ad in¬  tendere che mi scriverai del lavoro di Labriola.* * Sii contenterei  che fosse tra nn mese.   Hai avuto il libro del De Meis! 3 Dopo il Don Chisciotte non  ho letto libro che mi avesse fatto rider tanto : le cause del  riso sono spesso gravide di grandi pensieri. Mi piace molto,  ma molto. Qui l’hanno con lui tutti, il dott. Rossi perchè  noi trova abbastanza filosofo, le donne per essere state chiamate  animali domestici, e portino i bambini per essere stati ingiuriati    1 II Fiorentino, esaminali più lardi gli atti del processo veneto,  si confermò Infatti nel sospetto che fossero adulterati. Vedi un suo  scritto nel Oiorn. napol. di fllos. e teli., luglio 1878.   * Non saprei dire a qual lavoro si alluda.   * Il Dopo la laurea del l)e Meis (1808-69).       220    STORIA DELLA FILOSOFIA    per tignosetti. La contessa Gozzadiui 1 gli scrisse una lettera,  nella quale si firmava: « l’animale domestico di Gozzadini*.   Addio, mio carissimo Spaventa, veglimi bene come te ne  voglio io   Di Bologna, 19 maggio ’68.   Aff.mo tuo amico  F. Fiorentino.   Lo Spaventa dovette rassicurarlo sul contenuto della  famosa Relazione. Quindi quest’ altra lettera del Fio¬  rentino :   Mio carissimo amico,   Ero capacitato anche prima, che tu non potevi aver detto  tutta quella roba da chiodi di questa Università, che altri  diceva, ed i pih credevano, lo perù, come amico, mi tenui  in obbligo di informartene, non per conto mio, ma per tua  regola. Tu puoi già pensarti, che con gli altri ho detto, e  gridato, e asseverato, esser impossibile che tu avessi voluto,  e potuto dire quello che non era; e elio la verità poi non si  può, nè si dove tacere. La tua lunga lettera mi ha fatto bene,  perchè mi ha snebbiato adatto la meute: il cuore, già s’in¬  tendo, propendeva sempre a darti ragione, e non ci era bi¬  sogno di altri eccitamenti. Io dunque non solo non ti ammazzo,  ma neppure ti muovo un rimprovero, molto meno poi per  mie personali considerazioni, lo sono un misto di stoico, di  cinico, e di scettico, che di questi tre elementi non so quale  prevalga pih. Dal Ministero non voglio nastri, dagli studenti  non voglio applausi; dunque, mi sento in grado di resistere  ad ogni tentazione. Ad una sola cosa non resisto, ed è il  bisogno di voler bene agli amici, e di dir loro franca, ed  anche brusca la verità.   Tu avrai dovuto ricevere a quest’ ora una copia del mio  Pomponazti; perchè io, vedendo il ritardo di Le Monnier a  spedirmene le copie, commisi ad un mio amico di spedirne    1 Maria Teresa G., di cui scrisse la Vi la 11 marito, Giovanni Goz-  zadini (Bologna, Zanichelli, 1884), con pref. di G. Carducci. V. pure  Carducci, Opere, III, 369 ss.         221    L’HEGELISMO NAPOLETANO   una copia almeno a te ila Firenze stessa. Fa il tuo commotlo  nel leggerlo, ma poi dammene il piìl severo giudizio die tu  possa, perchè da nessuno me lo aspetto piìi aspro e più  istruttivo. Chi mi dica: bravo, non ini mancherà; ed anzi  più me lo dirà chi meno me ne crederà degno, nè io ho da  peccar contro la modestia per accettarli, o per pronunziarmeli  io stesso; ma chi mi mancherà di certo sarà chi mi dica: qui  hai sbagliato, là avresti dovuto pensar meglio: queste pagine  avresti dovuto bruciarle intere intere. Kbbene, voglio che  quest’uno non mi manchi, e dovrai essere tu. Mettiti al naso  l’inseparabile occhiale, aggrotta le ciglia, prendi quel cipiglio  mezzo tragico che hai nella fotografìa di Napoli ; e per dir  tutto in una parola, figurati di scrivere una pagina di quella  relazione, per la quale vivrai eterno tra gli archivi del Mi¬  nistero, e poi scrivimi un letterone quanto quello che scrivesti  a De Meis. Più male parole ci troverò, e più te ne renderò  grazie.   A proposito, quella tua lettera, con partito unanime, fu li¬  cenziata alla stampa, riseoandone certi nomi propri, e certe  espressioui che ricordavano il Candelaio di Brano... Io mi oc¬  cuperò in alcuni articoli successivi dei tuoi lavori. Vorrei  farne tre o quattro, o quanti me ne verranno, per far notare  lo sviluppo della filosofia italiana secondo la tua critica, che  a me pare una vera scoperta. Ma aspetto prima di finire le  lezioni, perchè tu sai che questa rivista non è tanto facile...  Addio, mio carissimo Spaventa, e veglimi bene come te no  voglio io   Di Bologna, 3 giugno 1868.   Ajff.mo tuo amico  F. Fiorentino.   La lettera dello Spaventa, stampata nella Rivisiti Bo¬  lognese, , che allora il Fiorentino pubblicava con l’Al-  bicini, il Siciliani e il Panzacchi, è quella al De Meis,  col titolo Paolottismo, positivismo e razionalismo (rist.  in Scritli filosofici, pp. 291 sg.). Gli articoli che il Fio¬  rentino aveva in animo di scrivere sulla scoperta dello  Spaventa, non furono più scritti. Ma egli se ne occupò  qualche anno più tardi in quello inserito nell’itoh'a  dell’ Hillebrand.       222    STORIA DELLA FILOSOFIA    E poiché abbiamo accennato alle brighe universitarie  bolognesi del 1868, di cui fu tanta parte il Carducci,  diamo pure un altro curioso brano di lettera del Fioren¬  tino, diretta allo Spaventa poco dopo la sua partenza  da Bologna, dove si serba il ricordo d’una polemica  del Carducci col De Meis e col Fiorentino:   « Io sono stato poco bene, parte per la stagione che  corre, parte ancora per una certa polemica, nella quale  ci siamo trovati De Meis ed io, e di cui non so se ti  è pervenuto rumore. Or dunque, hai da sapere, che il  Carducci, credendo dall’articolo di De Meis, intitolato  Il sovrano, 1 offesa la dignità del suo partito, gli scrisse  contro nell’-Amico del popolo parole aspre. Gli diede del-  l’imbecille, chiamò citrullerie le cose dette dal De Meis...  L’ articolo non era firmato ; ma io sapeva esserne stato  autore il Carducci, per aver questi scritto le stesse cose  in una lettera particolare al Siciliani. s Risposi io, di¬  cendo... potersi combattere le opinioni, senza insultare  le persone. Il Carducci si rivolse contro di me una prima  volta ; ed io lo avvertii privatamente, che lo avrei jHinto  sul vivo. Non si stette a questo avviso, e ripigliò da  capo una tirata contro di De Meis e di me ad un tempo »  (18 marzo 1868).   Il Fiorentino replicò, ed ebbe, a quel che sembra,  l’ultima parola. Ma, «tutto ciò mi ha irritato», egli  scriveva nella stessa lettera, « ed il povero De Meis  n’era rimasto seriamente afflitto : dopo avuta la rivincita,  che tutta Bologna ha approvato, si è rinfrancato ; ed ora    * Pubbl. nella Rivista bolognese del 1868.   * Documenti dell’amicizia del Carducci per P. Siciliani sono i  giudizi del primo sul Rinnovamento della filosofia positiva in Italia  del Siciliani, In Ceneri e faville, 8. II, Opere , VII, 362-68: e le af¬  fettuose parole Alla bara di P. Siciliani, in Ceneri e faville, s. Ili,  Opere, XI, 313-316.      L’HEGELISMO NAPOLETANO    223    è allegro e sta bene... Eccoti descritta la nostra battaglia,  eh’è finita con nostro decoro».   Quegli articoli il Carducci non li volle pili ristampati.  Ma insieme con quelli del Fiorentino sono stati rin¬  tracciati dal Croce, che ha così potuto tessere la storia  di questo aneddoto. 1   In un’altra lettera di due anni appresso (25 maggio  1870) del Fiorentino allo Spaventa si legge ancora: « Io  sono sul punto di rientrare in lizza col Carducci, che  mi ha provocato con una nuova lettera insolentissima.  Questa nuova contesa, alla quale non ho potuto sot¬  trarmi, mi fa crescere il desiderio di allontanarmi de¬  finitivamente da Bologna ». Nel novembre 1871 il Fio¬  rentino, infatti, si fece tramutare nell’ Università di  Napoli, come professore di Filosofia della storia.   Ma non aveva lasciato Bologna quando cominciò a  lavorare intorno al Telesio. Ecco infatti che cosa scriveva  allo Spaventa il 14 gennaio 1869:   Mio carissimo amico,   Sono passati sei lunglii mesi che uè ti ho piti visto, nò ho  avuto tue nuove, tranne questa che mi diede tuo fratello,  che tu eri stato a villeggiare negli Abruzzi. Ora è cominciato  un anno nuovo, e voglio ritentare se tu, chi sa, volessi pure  incominciare una vita nuova. Dalla parte mia non voglio  mancare di mandarti i miei augnrii, tra i quali non ultimo  quello di scrivere un poco più frequentemente agli amici. Vedi,  che non ho detto di pensare o di voler bene ad essi, perchè  so che per questo riguardo non ci è bisogno di miglioramenti.   Io quest’ anno mi occupo di Leibniz o di Spinoza princi¬  palmente, poi dei seguaci, e, se mi avanzerò il tempo, di Ma¬  lebranche. Mi servo, oltre alle opere loro, di varii espositori  e critici, tra i quali della stupenda storia di lCuiio Fischer.    1 Vedi B. Crocb, Documenti carducciani: una dimenticata potè-  mica tra II Carducci, F. Fiorentino e A. C. De Mele, nella Critica  vili (1910), pp. 401-421.       t    224 STORIA DELLA FILOSOFIA   Avrei intenzione di scrivere quulclie cosa sul movimento  telesiano, ed ho scritto per avere alcuni manoscritti che ri¬  guardano Telesio, e che si trovano parte costà, parte a  Firenze. 1 lo aspetto sempre il tuo parere sul mio libro;  parere, che per essere più aspettato, e piìì pregiato di tutti,  si fa lungamente desiderare. Ma verràf Lo spero.   Hai letto che cosa ne scrisse Franti sul Centralblatt? Egli  stesso mandommi con molta cortesia un numero di quel gior¬  nale, dove ci era la sua rivista sul mio libro.   Con De Meis ci vediamo spesso, ma egli non è in grado di  darmi tue nuove, più che io non sia riguardo a lui. La  neve ieri si è fatta vedere la prima volta in città: tu però  quest’anno non verrai a goderne lo spettacolo. Io quasi quasi  sarei tentato di pregare che a qualche professore saltasse in  capo di tribuneggiare per la tassa del macinato, per vederti  comparire in commissione straordinaria. Ma non vorrei poi il  danno del prossimo: in questo sono cristiano.   Tra questi giorni scriverò a Vera per invitarlo a scrivere  qualche cosa su la nostra Rivista. 11 Siciliaui, con le suo  velleità ortodosse, n’ò uscito, come saprai, ed io e l’Albicini  vorremmo tenerla in piedi, anche uu po’ più decorosamente.  Con te non ci vogliono inviti; ma, lo so purtroppo, non c’è  neppure da far grande assegnamento.   Addio, mio carissimo, scrivimi qualche riga, anche per dire  a chi mi doumnda di te, che sei vivo o sano.   Di Bologna, 14 del 1869.   Aff.mo tuo amico  F. Fiokentino.   L’articolo del Franti sul Pomponazzi uscì nel Cen-  tralblait del 30 ottobre 1868, e fu tradotto dal Tocco e  pubblicato in Italia, in una difesa dell’opera del maestro  contro gli attacchi della Civiltà Cattolica (nella Rivista  contemporanea di Torino, a. 1860, voi. LVI, pp. 247 58).   Del Telesio si torna a parlare in una lettera del 9  novembre 1869 : « Tocco ti ha mandato la prima dispensa    1 Vedi L. Settembrini, Epistolario, con pref. e note di F. Fio¬  rentino, 3.* ed. Napoli. 1898, pp. 285-88S. 835-8.     225    L’HEGELISMO NAPOLETANO   delle sue Lezioni, * 1 e so che aspetta il tuo giudizio. Io  ho cominciato a scrivacchiare le prime pagine di un  lavoro sul Telosio, che non so come mi potrà riuscire.  Aspetto la tua memoria completa su P Etica di Hegel. 1  Quanti più ne conosco, tanto più ti stimo e ti voglio  bene. Dimmi ora una cosa; vorrei dedicare a te ed  a De Meis questo mio lavoruccio sul Telesio, quando'  sarà finito: accetteresti tu la dedica? Tra me e te non  ci sono timori di adulazione, o di altri secondi fini :  è una pubblica professione di stima e di amicizia, che  mi piacerebbe di fare...». Il primo volume del Telesio  (18<2) fu dedicato, infatti, allo Spaventa: non solo  come testimonianza di amicizia, ma come dovere di gra¬  titudine e di giustizia: di giustizia verso chi aveva  scritto i saggi sul Bruno e sul Campanella ; di grati¬  tudine per l 'insolita luce che scintillava da essi, e da  cui il I iorentino era rimasto colpito. In questi studi  storici sui filosofi italiani del risorgimento il Fiorentino  infatti non fu, come s’è detto, se non uno scolaro dello  Spaventa: da lui avviato e da lui guidato.   Ecco come cou lo Spaventa si consigliava per pre¬  pararsi al primo corso di Filosofia della storia da tenere  a Napoli :   Camerino, 26 luglio 1871.   Mio carissimo amico,   Ti Borivo da Camerino, per sapere come stai, poiché non  mi iti dato di rivederti a Bologna, dove sperava poter passare  qualche giornata cou te. Avevo anzi desiderio di discorrere    1 F. Tocco, Lezioni di filosofia ad uso de’ Licei, Bologna, R. Ti¬  pografia, 1889, con pref. del Fiorentino.   1 il proemio a gli Studi sull'mica di Hegel era uscito nel 1869 nella  Riv. bolognese; ma l’anno stesso fu ristampalo con gli Studi negli  Atti della R. Acc. delle se. mor. e poi. di Napoli; e il tutto fu ripub¬  blicato da me nel 190-1 col titolo di Principti di Elica (Napoli, Pierro)..   15 - Gkntilb. Storia della filosofia.       226    STORIA DELLA FILOSOFIA   teco seriamente, per sapere che cosa avresti creduto meglio,  ch’io potessi insegnare nel corso dell’unno venturo in coleste  Università. Tu sai meglio di me i bisogni, i desideri!, ed  anche i gusti di costà, lo per me vorrei far poche chiacchiere  sui generali, e, detto quel tanto eli’è indispensabile come in¬  troduzione, entrare a dirittura nel tema, che sarebbe, salvo  tuo avviso in contrario, il mondo grimo. Dol mondo orientale  so poco: avrei bisogno di studiare prima; ed il tempo, per  questo anno almeno, mi manca. Della Grecia conosco qualche  cosa, e con questi tre mesi di studio mi preparerei suffiiiien-  temente. Che cosa ne dici tu? Quali libri mi consigli di leg¬  gere ? lo sto rileggendo gli storici greci ; e dopo averli riletti  testualmente, uii gioverò del Grote e del Curtius. Per la parte  letteraria ho il Milller (Ottofrodo); per le religioni, la Storia  di Alfredo Minirv; per la parte filosofica, il Zeller; per arte  greca forse mi gioverebbe il Winckelmann, ...a noi so, perchè  ancora non lMio lotto.   Da tutti questi potrei attingerò, si sa, i materiali; ma U  resto è da fare. Le poche linee di Hegel nella Filosofia Mia  storia mi servirebbero di traccia: sui tuoi consigli poi faccio  largo assegnamento. Intanto comincia dal darmene qualcuno,  e fa presto...   Tutto tuo  F. Fiorentino.    Aggiungo qui appresso un altro gruppetto di lettere  o frammenti di lettere dello stesso Fiorentino allo Spa¬  venta, di cui trassi copia alcuni anni fa dalla carte  dello Spaventa ora depositate presso la biblioteca della  Società napoletana di storia patria ; poiché anche queste  lettere e frammenti / gettano qualche luce sugli studi,  sulle passioni, sulle idee, che si agitavano in Italia in¬  torno allo Spaventa.   (Pisa, 14 aprile 1873). — Ieri sera parti di Pisa Silvio, ed  a quest’ora sarà a Milano, e domani parlerà a Bergamo. Si  trattenne con me la giornata d’ ieri, ed arrivò qni avantier-  sera. Sta benissimo, e me ne sono consolato tanto. Gli dissi     L’HEGELISMO NAPOLETANO 227   elle ti avrei scritto stamattina ed al solito ti mando queBta  lettera col liciti. 1   K la tna lunga lettera? 15 rimasta tra i pii desiderii, di  cui è lastricato, dicono, 1’ inferno.   Io ho scritto una risposta all' accademico linceo Pietro Hu-  cione. 1 Si sta stampando a Napoli, e vorrei che tu ne guardassi  le prove prima di pubblicarsi. Ne ho scritto al Zumbini,  perchè te la mostrasse. Gli ho fatta una lavata di capo delle  mie solite. La presunzione e P ignoranza nel Ferri si bilan¬  ciano tanto, che non so a quale delle due dare la preferenza.   Aspetto tua lettera dopo letto questo articolo: mi preme  sapere il tuo giudizio, e ti do piena facoltà di mutare, e di  cancellare anche qualche cosa, die non ti paia conveniente,  o inesatta.   (Portici, 9 settembre ’73). — Ieri tornai da Soma, dove la¬  sciai Silvio che stava benissimo. Ho trovato qui una lettera  dello Zeller, clic mi annunziava la sua venuta a Napoli. Oggi  P ho visto, ed ho insieme saputo dal Labriola, che tu sei a  Maddaloni. Vuoi vederlo? Oggi si è parlato di te, ed egli de¬  sidererebbe di conoscerti di persona, come ti conosce di fama.  Dimora questa settimana...   (Pisa, 31 dicembre ’7(i) — Prima che tramonti l’ultimo sole  ili questo anno, e sta già per tramontare, voglio scriverti. Il  tuo ostinato silenzio avrebbe scoraggiato ogni altro, non me,  ohe quando si tratta di te, il peggio che possa pensare è,  che il calamaio l'abbi o smarrito, o asciutto come la sabbia.  Kccoci ora intesi : tu taci, io scrivo.   Io sto bene, e tutti di casa pure, salvo la Tuta 3 eh’è un  po raffreddata. E tu? E donna Isabella? E Camillo e la  Mimi f 4 Speriamo che stiate bene, ed auguriamo che stiate  meglio.    Pisa 1501 ** 0 ’* malenla lico, che insegnava nella Università di   lll0R0, '° Luigi Ferri, cui era sialo tra gli amici dello Spaventa  applicato tale nomignolo dopo elle Vittorio Imbruni nel Olorn  Napol. di filo.,, e leu , I (18 2) 397, aveva rilevato lo strafalcione dal  j ,, commesso nel trascrivere f.V. Antologia, voi. XX, 1872) l'epitrrafe  della tomba del Cusano in S. Pietro In Vincoli leggendo: Promise*  Pelei lìucionts [invece di retri — bucionisj non fefetut eum »   HestItuta Trebbi, moglie del Fiorentino.   * Isabella Scano moglie dello Spaventa; Camillo e Mimi tigli.        228    STORIA DELLA FILOSOFIA   Ln disfatta del nostro partito mi ha commosso non por me,  che sai quanto io stimi il genere umano in massa; ma pe  miei amici, per tuo fratello specialmente, che non ha alte  vita, si può dire, che la politica. Ne sono stato costernato,  ancora è scemata l’impressione. Nicotor» è dunque 1 arbitro  dell’Italia, e tutti, o quasi, gli si curvano, gl. si prosternano  innanzi. Quanta viltà 1 Quanta corruzione! Vaie il pregio <  curarsi del prossimo! E una terribile domanda : piò si conosce  il moudo, e piti si devo disprezzare: Leopardi non aveva  torto. Ma... c’ è un ma; ed io ti confesso che non mi “ ,re “ do -  con tutte le ragioni in contrario. Mi sono chiuso, vivo tra.  miei ed i libri, non vedo nessuno, non conosco e “   conosciuto, e mi sento beato in questo silenzio ed in questa  oscurità. 11 mio Niuarello cresce eh’è una delizia, ad ha tonto  alletto e tanto accorgimento, che mi diverte e mi ristora,  tess’io vederlo giovane fatto come il tuo (.umilio   Non Io perchè, mi sento ora più legato alla vita, come non   Cì iTn povero 1 Settembrini f ■ A casa mia ci fu lutto come  se fosse morta persona nostra: lessi la notizia su la Gazze a  dell’Emilia, ed insieme appresi la scondita di bihio.  colpi in una volta. Ma Silvio tornerà alla Camera, e al Mi¬  nistero, se il senso dell’ onestà non sarà spento nel nostro  nomilo ; il povero Settembrini non tornerà piu .   • Penso di scrivere per lui un articolo sul Giornale napoletano;  è la sola cosa ch’io possa fare per lui. Ma lasciamo questo   tr Che3 U rfacendo t lo sto scrivendo certe lezioni di  filosofia pei Licei: il Morano mi è stato addosso, e finalmente  mi ci sono piegato. È cosa molto ardua, ed il noti poterti  allargare quante vorresti, toglie gran parte della scioltezza  del pensiero, ed anche dello stilo. Farò alla meglio e quel  eli’è peggio, in fretta. 11 Morano commise lo sbaglio di un   f..U, munirò ...» »». «■,•«•*>   fogli, ora con la spada alle reni ni’...calza per la tonti   n u azione.   i n settembrini mori addi 3 novembre 1878. Il Fiorentino non   scrisse poi l'articolo di cui parla in questa lettera; del rimpianto  scrisse P°' ,, u Scriui va .u di tener, polii, ed atte   (Napoli, Morano. 1873; e V Epistolario (ivi, 1883), premettendo agl.   uni e all'altro belle e affettuose prelazioni.      L’HEGELISMO NAPOLETANO    229    All’ Università faccio nu corso di Etica, ed lio riletto la  tua memoria su l’Etica di Hegel. Hai visto il giudizio  portato dal Berlini 1 su di te, o di Hegel f Ci ho avuto molto  gusto, perchè la sua autorità non è sospetta, come In mia,  appresso la filosofia italiana. Povero Bortini, spento anche lui 1   Scrivimi, se puoi, e se vuoi: lascio la cosa al tuo arbitrio ;  non cosi, il volormi bene che in mezzo a tanti disiugauni  mi preme e mi giova assai.   Alla tua famiglia di tanti augurii anche da parte della  mia, e tu credimi sempre, e non a parole.   S. — Vedi se puoi sorivere qualche cosa pel Giornale  napoletano.   (Samhinse, 25 agosto 1877). — Ed ora un’altra notizia.  L’arciprete Pompa mi perseguita per causa tua: ha scritto  su l' Eburino, giornale che si stampa ad Elicli, una recensione  di un uuovo capolavoro artistico dell’Acri, e dico che io sono vo¬  tato a te anima e corpo. Fin qui non erra : ma il reverendo, pos¬  sessore de’ documenti della storia antidiluviana, non sa farsi  capace della mia polemica contro il vice-gesh, ed il vice-  Fornari; cioè contro il Fornari, e l’Acri.   Quest'ultimo, dopo di aver ponzato altri 14 mesi, è venuto  fuori con un opuscolo su Spinoza ; non so che cosa dica, e  come c’entri coi giudizi su la filosofia italiana, ch’egli doveva  convalidare. Non ho nessuna intenzione di rispondere, qua¬  lunque sia il libro, che ancora non conosco, se non per la  receusione dell’arciprete noetico».    1 Su G. M. Berlini (1818-1876) v. lo mio Origini della fllos. contemp.  in Italia. 1,* 129-201. Il giudizio cui alludo 11 Fiorentino, é contenuto  in una lettera del Berlini al prof. P. Merlo, pubblicala nel Giornale  napoletano di fllos. e letl. (ottobre 1876) IV, 823, dov’é detto: « Vi ringra¬  zio di avermi mandato lo scritto dello Spaventa, che io considero corno  il più serio e il più chiaroveggente degli Hegeliani d'Italia. Volendo lo  terminare un corso di filosofia elementare ad uso de’ licei... mi sono  creduto in obbligo di tener conto delle dottrine di quel valentuomo,  tanto più che io sono sempre in questa persuasione, che II restringere  il vocabolo scienza a significare puramente i risultati dell'esperienza,  dell'osservazione e dell’induzione, come si fa oggidì, negando ogni  valore scientifico alle discipline speculative, sia non solo arbitrario,  ma contradittorio... Quindi io credo che sla salutare un ritorno ad  Hegel, o per dir meglio, al suo metodo, e a quella sua assoluta, e  direi quasi eroica fiducia nelle forze della ragione umana ».       230    STORIA DELLA FILOSOFIA    (Pisa, 16 giugno 1878). — Prima di scordarmi, ae hai por¬  tata la Vita di Giordano Urlino, 1 dalla al Betti che me la  porterà: se no, mandala a Domenico Morano, affinchè me  la l'accia pervenire.   li Bruno si sta copiando, e dentro questa settimana co-  mincerò a mandare il manoscritto. Spero che tu hai con¬  certato pei caratteri, pel formato, per la carta. Se non avessi  ancora stabilito niente, scrivo che aspettino Beuz’altro il tuo  ritorno.   Il Peipers mi ha risposto che a Gottinga si conserva sol¬  tanto il manoscritto delP Oratio coneolatona ; ma non mi dice  neppure s’è autografo. Quest’ orazione io la trovai a Roma  tra la collezione degli opuscoli del Cardinal Valenti, ed è  rarissima. Vale la pena di far veniro il manoscritto? Nota  che a Gottinga, la copia stampata non l’hanno neppure.   L’edizione del Gfrorer ! non si trova in commercio : il  Zeller uii ha mandato la sua, la quale però è mancante della  quinta dispensa. Ne ho data commissione, ma non so se mi  riuscirà pescarla.   Ho scritto per l’edizione del Tugiui, Ve Umbrie idearum.   Ho riscontrato il Buhle : non dice nulla di manoscritti : porta  un catalogo delle opere abbastanza esatto. Ho trovato qualche  altra notizia sul Bruno uelPAoidalio. 3   Dopo che tu partisti di Roma, riseppi che nell’archivio  della congregazione di San Giovanni decollato c’ era la no¬  tizia del giorno della esecuzione del Bruno, e che questa  data non corrisponde a quella generalmente ritenuta (17 Feb¬  braio 1600).* * Mi è stata promessa una copia, benché quei  fratacchioni non vogliano far supero nulla. La notizia ag¬  giunge, che a nessun patto si volle convertire. Come sai,  questa notizia è un documento autentico, perchè finora non  c’ è altro che la lettera di quel furfante dello Scioppio.    ■ I.a Vita scritta da D. Berti (Torino, Paravia, 1888).   * Ossia il volume degli Scritti latini del Bruno, pubblicati nel 1838  (frontespizio 1831) da A. Kr. Gfrorer a Stoccarda.   * Cfr. la pref. dello stesso Fiorentino alle Opere latine del Bruno,  ed. naz , I, p. XX.   * Il doc. pubbl. in facsimile nel voi. Ili delle Opere latine del  Bruno a cura di F. Tocco e G. Vitelli (Firenze. 1891).     L’HEGELISMO NAPOLETANO    231    Inoltre il cav. Podestà 1 * mi disse, che a lui orati venute sot-  t’occhio parecchie carte mauoscritte concernenti il Bruno: non  sapeva però dove. Cercai una giornata intera, ma ce ne vo¬  levano delle dozzine di giornate, ed io avevo fretta di tornare.  Il Podestà mi promise di continuare le ricerche: se no, ci  andrò io per lina settimana.   Mi ci sono messo, o voglio riuscire.   Tornato tjiti, trovai Nino ammalato di febbre gastrica: com¬  parvero lo macchie difteriche; in un giorno si pennellarono tre  volte; due altre volte il giorno appresso: disparvero. Ma come  fossi stato io d’animo, tu puoi pensarlo. I nervi mi ballano  ancor», o tra giorni andremo in campagna, in una villa che  ho trovata in iptel di Lucca.   Ilo avuto i titoli di Bàrbera, 5 quelli del Siciliani non ancora:  conosco gli uni e gli altri; ma r/itid agenduml Sono tra l’in¬  cudine e il martello, e non so a qual partito appigliarmi.   E tu dimorerai a Napoli? Ovvero andrai in campagna, e  dovei Vorrei saperlo.   Il Labriola mi ha mandato un suo articolo su la libertà; 3 * e  vorrebbe ne dicessi qualche parola: mi ci trovo imbrogliato.  Capisco il Labriola, quando parla, non lo capisco quando  Bcrive. Non ha stabilità di pensiero, ondeggia in aria, ed  ha la pretensione di parere elaborato, come egli mi scrive.  Capisco Herbart, non capisco lui. L’oscurità non è nelle  parole, o nello stile, è dentro la testa.   Ilo letto il discorso di Silvio, e poi Insita sdegnosa lettera  all’Opinione, tritai maturità ili pensiero nel primo, e qual forza  di carattere nella seconda! Il discorso appartiene al mondo  moderno, ma la lettera è di altri tempi, ed ora non tutti  possono gustarla.   Salutamelo tanto, anche da parte della mia famiglia, che  fa lo stesso con te.    1 11 bibliotecario Bartolomeo P. <m. noi 1910), allora nella Vltt.   Emanuele di Roma.   ’ Luigi Bàrbera, che fu professore di Filosofia morale nella R. Uni¬  versità di Bologna.   * Del concetto della libertà, studio psicologico, nell'Archivio di sta¬   tìstica del 1S78 (risi, in Lakkiola, Scritti cori, ed. Croce, pp. 135-189).        232    STORIA DELLA FILOSOFIA    /). 5. M’ero dimenticato di raccomandarti il Persiani. È  impaurito, perché il relatore 1 non sei tn, ina un lombardo  (forse il Teneaf), e par che dalla Lombardia non si riprometta  gran che di bene. Son certo però che tn potrai njutarlo  sempre.   (Pisa, 22 marzo 1877). — Avantieri ti scrissi a Napoli,  ed ora avendo saputo che il Betti ò stato chiamato per tele¬  grafo, ti rescrivo da capo, e ti manderò questa lettera per mezzo  suo. Io non gliela posso portare di persona, perchè sono al¬  quanto infreddato a causa della lezione d’ieri.   Tu che sei la fenice dei Presidenti, specialmente quanto  a prudenza, vedi se non entra fra le attribuzioni presidenziali  quello che ti chiedo io.   Ho bisogno di venire a Roma, perchè il primo volume è  finito, e per continuare la stampa voglio esser certo che il  ministro non adduca cavilli : nel qual caso pianterei 11 la  baracca. Premesso ciò, e visto e considerato che il Ministero  ha premura pel Siciliani, e poca o punta premura pel concorso  di Torino, visto e considerato, che sta alla chiaroveggente  perspicacia del Presidente il decidere se necessiti la convo¬  cazione del concilio: io riproporrei che tu ci convocassi; che,  convocati nell’ interesse del pubblico erario, stimoli i padri  ecumenici di Roma a finir la eterna questione di Torino; e  son certo, come ogni dottor Pangloss, che tutto andrò per lo  meglio in questo perfettissimo mondo, tranne il mio raffreddore  che sempre piò s’ inasprisce.   Ed ora che ti ho detto il mio desiderio, tu con quell’occhio  critico che ti rende (che cosa dico!) che ti rende piuttosto  singolare che raro, farai quel che crederai.   Ed orn da capo, ma su di un altro argomento, una notizia.  Nell’ultima puntata (stile mamianico) della Filosofia delle  scuole italiane, il sullodato Conte scrivendo all’amico Ferri,  sai che cosa gli dico f Che in tutta Europa (le pelli rosse e gli  Zulus non ci vanno compresi) a parlare di Platouo e delle  idee non ci sono rimasti altri che loro due. Povero Platone !  Chi glielo avrebbe detto, che dopo tante feste, e tanti conviti,    1 Nel Consiglio Superiore della P. I., di cui Carlo Tenca, come lo  Spaventa, faceva parte, e da cui il Persiani aspettava 1’ abilitazione  all' insegnamento.       L'HEGELISMO NAPOLETANO    233    <• tanti commensali (a 20 franchi l’uno) che lo ringiovanirono,  lo restaurarono, lo rinnovarono, oramai, finita la digestione del  pranzo, ognuno lift preso la sua via e di idee non ne vuol  sapere nessuno più? Chi avrebbe creduto che perfino quello  ragazze, tanto belline, tanto plutoniche, si son buttate anche  loro al materialismo 1 1 Ah ragazzo, ragazze: da voi me lo  aspettavo, che sareste rimaste platoniche lino ad aver  trovato un marito, o un facente funzione; ma il Finali, il  Monabrea, il Borgatti, tutta gente massiccia, chi avrebbe mai  creduto ohe avrebbero lasciato nelle peste il Conte ed il suo  illustre oommilitonef   Vista la brutta china, direbbe il Sella, io proporrei (il  raffreddore mi ha dato un diluvio di proposte) che il Ma-  miani ed il Ferri siano impagliati, e ben conservati nell’atrio  dell’Accademia de’ Licei con questa memore iscrizione:   QUESTI BIPEDI IMPLUMI  ULTIMI DELLA SPECIE ESTINTA  RIMASERO platonici,   ESSI SOLI IN EUROPA  DOPO IL PRANZO PLATONICO* *   DEL 1874.   Dopo della qual cerimonia vorrei che l’Accademia prelodata  a voti unanimi incaricasse il poeta pindarico B. Spaventa  perchè ne celebrasse condegnamente l’eroismo. E diamine 1  Alle Termopili furono treceuto finalmente, eppure Simonide  s’incaricò di cantarne: qui si tratta di line soli, in Europa,  non contro schiere barbariche, ma contro eserciti di dotti, e non  ti paro che ci sia più materia di canto? Ridettici bene, e poi  dimmi il tuo avviso.   Tu duuque hai leggicchiato il mio amico Marino! 5 Beato te,    1 Scolare dell’ Istituto superiore di Magistero, allora fondato a  Roma: le quali — era la prima volta che si vedevano tante signorine  in una Università — frequentavano alla Sapienza le lezioni di D. Berti.   * Su questo pranzo v. le mie Orig. della fllos. contemp., I, 1 p. 117.   * Una critica che I.uigi Marino (che fu poi professore di Filosofia  morale nella Università di Catania) aveva pubblicata degli Elementi  di flloso/la del Fiorentino.       234    STORIA DELLA FILOSOFIA    che hai tanto tempo da marineggiare. Io l’ho qui il suo  libro, ma non mi è avanzato un briciolo di tempo: ed ho una  sua lettera autografa, che impaglierò pure. Povero giovane!  Mi ha scritto con una ingenuità, ohe se mi fosse vicino, lo  abhraccerei. Abbracciarlo sì, ma leggere no. Non gli ho neppure  risposto, ed ho fatto male. Volevo leggere prima e poi scri¬  vere. La bestia che sono stato! Bisogna fare il rovescio: uè  senza un perchè i metodi moderni fanno precedere la scrittura  alla lettura. Berti, p. es., fondatore della moderna pedagogia  prima lm scritto lo suo opere, e solo da qualche mese iu qua,  a quanto mi assicurano, si sta esercitando nella lettura.   A proposito, vorrei venire a Berna per informarmi da lui,  perchè Camoeraceneie, che vuol «lire di Cambrai, egli l'ha  tradotto della Sorbona : facendo poi una dottn osservazione,  che cioè il Bruno or* saltato a piè pari dentro la rocca dol-  1’ aristotelismo eco.   E poi vorrei sapere, perchè dice che il De immenso, è un  libro, uno tA’ tanti in cui è divisa l’opera De monade, nu¬  mero et figura; quando il De immenso ole. contiene otto libri,  ed il De monade, che sarebbe il contenente, non contiene nè  otto, nè due, perchè è un libro solo, unico tiglio di madre  vedova.   Sono piccoli nèi, lo so, ma che dimostrano una piccolissima  cosa: il precetto pedagogico che testò avevo 1’onore di dirti,  cioè ch’egli prima scrisse, poi lesse ; o forse scrisse, e poi  spese, nello stampare, il tempo che doveva impiegare nella  lettura.   11 Barzelletti 1 però assicura eh’è il gran capolavoro della  critica italiana : così mi han dotto, perchè io, al solito, non  1’ ho visto ; e poiché 1’ articolo sarà tradotto certamente dnl-  l’inglese nella lingua degli Zulus, io mi tiguro la festa che  faranno quegli eruditi di laggiù.   A furia di scrivere, mi sono snebbiato un poco il capo,  ina temo forte di averlo annebbiato a te; legge di compen¬  sazione. Quando io mi trovavo a discorrere di lilosotia col  Berti, rimanevo muto: tu eri più fortunato di me, avevi il  pretesto di andare a fumare. Io che ho abborrito sempre il    1 Nell’ art. sulla Filoso/la in Italia pubbl. in una rivista inglese,  e poi tradotto nella Muova Antologia del 15 febbraio 187».     L’ HEGELISMO N APOLETANO    235    tabacco, »e tornassi deputato, per non dovermi ingoiare quelle  forti dosi di filosofia scientifica, che mi somministrava il nostro  Berti, m’imparerei a fumare. Meglio lo stomaco sconvolto,  elle il cervello come un mulino. Spero bene però che non  sarò costretto a nessuno di questi tormenti.   Non mi dicesti se il Morano ti diede o no la prima parte  del Manuale ili moria della filosofia. Fattelo ilare, e leggic¬  chialo: invece di Marino, potresti dure un’ occhiata al libro  mio. Vorrei sapere se quel tanto è sullìciente per la coltura  generale, o s'ò dippiit, o di meno. Mi servirebbe di norma  per le altre duo parti.   (Portici 26 settembre 1873). — Ebbi lettera dal Zeller,  che ancora ò a Roma, e seppi del viaggio che faceste insieme  felicemente. M’incaricò pure di dirti tante cose per la lettera  che poi gli scrivesti da Napoli. Egli è in giro dalla mattina  nlla sera, e crede che noi ci vediamo quotidianamente, e non  che siamo a due poli opposti.   Ebbi la ricetta : si è fatta la bobba, ma non li’ è venuta  fuori la storia delle prove dell’esistenza di Uio.   Per un concorso a una cattedra universitaria, della  cui commissione faceva parte il Fiorentino ed era pre¬  sidente io Spaventa, questi lo aveva pregato di rac¬  cogliere gli appunti per una relazione sulla voluminosa  Storia delle prove dell! esistenza di Dio di Romualdo Bobba.  Il Fiorentino, il 19 aprile 1879, da Pisa gli rispondeva:   Letto il tuo, piò volte espresso, desiderio, ho posto mano  alla lettura del Itobbu. Un corto estro maccaronico mi invase  alla prima pagina; ma ho lasciato il poema lutino ai primi  due versi e mezzo. Eccoteli:   Iufainem, liertrunde, iubes supportare laborcm,   Insipidimi scilicet putidumqiie ingoiare bobatam ;   Obediain tamen etc.   E sto prendendo appunti; ma che diavolo vuoi appuntaret  Finirà prima la pazienza mia, che le sue sciocchezze. È un  pover’ uomo, e noi uccideremo un morto.      236 STORIA DELLA FILOSOFIA   (Pisa, 8 dicembre 1879). — E poi c’è il secondo libro della  Legge morale del De Crescenzio: il titolo è Francesco Fiorentino.  Te lo saresti sognato eh’ io dovessi diventare nn secondo libro  della legge morale! Neppure per idea: la Puglia fa miracoli.   Ma la cosa non Unisce qui : il terzo libro sarai tu. 1 u  in persona! con gli occhiali, con gli stivali alla prussiana,  tu sarai un libro di un’ opera.   Non so se l’opera avrà molti altri libri : a congetturare  dall’opera de intellectn dello stesso autore, ch’era divisa in  100 libri, par checi debbano entrare il mellifluo D’Èrcole, il  veronese Bertinaria, ed il truculento Ferri, con parecchi altri  personaggi minori. Ogni libro costa 20 centesimi : ed io per  ora sono venduto a questo prozzo : tu iorse salirai a cinque  soldi ; o calerai a tre, secondo che P opera seguirà il processo  ascensivo o il discensivo.   Il bello consiste ne' documenti. Nella copertina 1 autore di¬  mostra che io sono causa di parecchie depredazioni e gras¬  sazioni nei pressi di Casale. La mia influenza venefica s è  esercitata, per non so quale selezione, su la provincia di Ales¬  sandria: e la tua! Probabilmente verso Girgenti, o in quei  pressi. Che non ci sii stato non preme, l’etica hegeliana è come  la filossera, si estende per salti di 70 chilometri la volta.   Delle stroncature, come oggi si direbbe, dei De Cre¬  scenzio ormai chi se ne ricorda più ? Ma c’ è sempre  qualche De Crescenzio in giro, pronto a dimostrare,  come quattro e quattro fanno otto, che il tal filosofo o  il tal altro sovverte la legge morale, il buon senso, o  le leggi fondamentali della logica ecc. Ma il filosofo può  accogliere siffatte dimostrazioni con lo stesso buon umore  del Fiorentino. 1    * Intorno al Fiorentino v. le mie Origini della fllosofla Conlem-  poranea in Italia , III, part. I, pp. 7-50.  Giovanni Gentile. Keywords: Reale Accademia d’Italia, what does ‘fascista’ applies to – philosophically? To ‘state’ – how is it defined philosophically? Opera complete frammenti di storia di filosofia 3 volls -- - Refs.: Luigi Speranza, The Swimming-Pool Library, Villa Grice – Luigi Speranza, “Grice e Gentile: implicatura conversazionale” -- Conversation and inter-subjectivity. – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51748250462/in/photolist-2mQPiYS-2mQUPa3-2mQUPbR-2mQUPcs-2mQY4Qg-2mQWSKX-2mQTy2s-2mQWSML-2mQWSMR-2mQPj6k-2mQY4Qb-2mQTy4X-2mQUPeX-2mQUPew-2mQTy5D-2mQTy53-2mQWSMa-2mQY4R3-2mQUPem-2mQDMyN-2mQtVUe-2mQerAd-2mQfWLw-2mQmZZv-2mQ81kz-2mPY4jk-2mPRG8i-2mPQGvz-2mPPzb6-2mPTwCM-2mPJLpp-2mPJYbw-2mPF8UJ-2mPyn68-2mPyUzx-2mPukhq-2mPnrMV-2mPmmR4-2mN34bs-2mN8u25-2mN8ym7-2mN8nen-2mNbFJE-2mN36eA-2mMYDFF-2mMV4pg-2mMP5LF-2mLP4Rj-2mLLZRD-2mLFBT9

 

Grice e Gentile – filosofia italiana – Luigi Speranza (Trieste). Filosofo. Grice: “I love Gentile; like me, he is interested in Aristotle’s immotum motor, and the idea of number in Plato – but he extends his views to all the rest of philosophy of language; if Vitters wrote a ‘trattato,’ so did Gentile!” – Si laurea a Pisa sotto Carlini. Insegna a Mantova, Vigevano, Padova e Trieste. Fonda il Bollettino filosofico. Considerato il fondatore della "scuola padovana" di metafisica neo-aristotelica.  Altre opera: “La dottrina platonica delle idee numeri e Aristotele” (Pisa: Tip. Pacini-Mariotti); “I fondamenti metafisici della morale di Seneca” (Milano: Vita e pensiero); “La metafisica presofistica; con un'appendice su Il valore classico della metafisica antica, Padova: MILANI); “La politica di Platone, Padova: MILANI); Institutio: sommario storico di filosofia dell'educazione, Verona: La Scaligera); “Umanesimo e tecnica, Verona: Arti grafiche Chiamenti); “Bacone, Brescia: La Scuola); “Didattica: testo ad uso degli istituti magistrali e dei giovani maestri, Milano: Marzorati); “Filosofia e umanesimo, Brescia: La scuola); “Il problema della filosofia moderna, Brescia: La scuola); “Come si pone il problema metafisico, Padova: Liviana); I grandi moralisti, Torino: Edizioni Radio Italiana); “La riforma silenziosa della scuola: il completamento dell'istruzione primaria ma inferiore, Bologna: G. Malipiero); “Se e come è possibile la storia della filosofia, Padova: Liviana); “Storia della filosofia (I: Periodo antico e medioevale;  II: Dal Rinascimento fino a Kant;  III: La filosofia contemporanea), Padova: RADAR); Saggi di una nuova storia della filosofia, Padova: MILANI); Breve trattato di filosofia, Padova: MILANI). Dizionario biografico degli italiani.  Marino Gentile (1906-1991) occupa sicuramente un posto importan-te nella storia della filosofia del secolo scorso, ma – se fin dall’inizio non vogliamo avanzare discorsi di carattere celebrativo o commemorativo, quanto innanzitutto teoretico – forse dovremmo dire, più correttamente e semplicemente, che egli occupa un posto importante nella storia della filosofia. Il senso di questa affermazione, e la ragione per cui vale la pena di rinnovare, anche in questa sede, la riflessione sul maestro patavino, è che egli ci rimette davanti alla struttura essenziale del filosofare.La sua concezione della filosofia come “problematicità pura” si di-mostra infatti quale dice di essere, veramente “classica”, in quanto, evidenziando in tale problematicità quella che non può non essere con-siderata la caratteristica fondamentale e imprescindibile del filosofare, mostra di possedere essa stessa un valore permanente ed attuale.Ricordato come fondatore della scuola padovana della metafisica clas-sica, Marino Gentile, proprio in virtù del riconoscimento dell’attitudine problematica del filosofare, poté affrancarsi dalla sua formazione idealisti-co-attualista e aderire alla scoperta aristotelica dell’Atto puro quale princi-pio divino trascendente l’esperienza. Egli sviluppò così una posizione ori-ginale che, giunta a maturità speculativa negli scritti padovani del secondo dopoguerra, si distingueva, oltre che dalla corrente neoidealista, ancora attiva soprattutto nel pensiero di Ugo Spirito, anche dalle due filosofie di ispirazione cristiana allora prevalenti, la filosofia neotomistica, nelle sue va-rie declinazioni (Vanni Rovighi, Fabro, Giacon), e la filosofia neoclassica di Gustavo Bontadini. Le sue opere più significative, in particolare  Come si pone il problema metafisico  (Padova 1955),   Breve trattato di filosofia  (Pa-dova 1974) e  Trattato di filosofia  (Napoli 1987), non sono tuttavia solo innovative per l’epoca in cui sono state concepite, ma, come si accennava, restano a tutt’oggi testi vivi e parlanti, che, nella radicalità del domandare su cui si fondano, appaiono in grado di raccordare la prospettiva metafisica anche alla sensibilità esigente e inquieta del nostro tempo   Sent from the all new AOL app for iOSLa fecondità della problematicità pura non è peraltro esaurita dai suoi esiti metafisici: il “domandare tutto che è un tutto domandare” è ben più che una formula descrittiva della natura della filosofia, è un vero e proprio “metodo”, che il maestro patavino dispiega nei più diversi ambiti del suo impegno teoretico. E che anche nel nuovo millennio merita attenzione. Di questo domandare filosofico vogliamo dunque continuare a va-gliare la profondità speculativa, a cominciare dai “saggi” qui raccolti, che intendono sviluppare i motivi di interesse riscontrati nel pensiero di Gentile da alcuni studiosi che lo hanno, direttamente o indiretta-mente, conosciuto. Questa stessa problematicità può del resto essere assunta anche come chiave di lettura dei contributi che presentiamo, essendo ravvi-sabile quale principio animatore, ora espressamente tematizzato, ora silenziosamente sottostante l’opportuno ripensamento dei vari aspetti dell’opera filosofica del nostro Autore. Il nesso risulta subito evidente nell’articolo di Enrico Berti, uno dei primi e forse il principale tra gli allievi, che in un saggio denso di ricor-di, si sofferma su uno scritto apparentemente secondario tra gli ultimi pubblicati dal Maestro, forse l’ultimo, dedicato alla possibilità di pre-gare il Motore immoto. Si tratta infatti sicuramente di un’occasione per ripercorrere nei suoi tratti essenziali l’interpretazione gentiliana della metafisica aristotelica, per ripensare le due caratteristiche fondamentali del “Dio” dello Stagirita, la trascendenza e l’intelligenza, ma anche – ci sembra di poter aggiungere – per ritrovare in quel pregare l’espressione estrema, e forse più autentica, del “domandare tutto-tutto domanda-re”, che, di fronte alla Causa suprema ordinatrice del cosmo, poteva, e forse doveva, assumere connotazioni affettive e oranti. Il tema del domandare puro e integrale è ancor più pienamente al centro del saggio di Maria Cristina Bartolomei, che di tale domandare indaga le potenzialità, sia come ineludibile punto di partenza di ogni ricerca filosofica, sia come fulcro di “fruttuosi collegamenti” con alcu-ni pensatori contemporanei, evidenziandone, pur nella distanza e di-vergenza delle posizioni, la comunicabilità e l’inaspettata consonanza su punti fondamentali. È quanto si verifica con Adorno, a proposito della legittimità della problematica metafisica e delle caratteristiche di apertura e processualità che connotano la conoscenza dei suoi oggetti, i concetti; con Badiou, per la specifica intenzione di verità che distin-gue la filosofia dagli altri saperi; con Weischedel, sotto il profilo della necessaria radicalità dell’interrogare filosofico, che, anche laddove non giunga ad esiti metafisici o teologici, non può non avvertire la realtàdel mistero che lo sollecita. In tutti questi casi – conclude l’Autrice – la posizione di Gentile, interloquendo costruttivamente con linee di pensiero profondamente differenti da quella propria della metafisica classica, dimostra una inesausta vitalità filosofica.Il terzo saggio, redatto da Gabriele De Anna, affronta il problema del valore morale dell’azione cercandone la soluzione nelle pagine del  Trattato di filosofia , e rinvenendola nel ricorso all’uso pratico dell’intelli-genza che coglie il principio nell’esperienza, e quindi una normatività nel reale. In questa lettura l’importanza della problematicità gentiliana emer-ge specialmente nel farci intendere come il manifestarsi del principio, e quindi del “valore”, sia inseparabile dall’esperienza, intesa come atto che precede e trascende continuamente la distinzione soggetto-oggetto nella sua costitutiva tensione al sapere. Ma essa ci fa anche meglio compren-dere la prospettiva metafisica di Gentile, che si presenta come ripresa della concezione aristotelica, ma allo stesso tempo accoglie dal pensiero moderno l’attenzione al ruolo del soggetto, si dice “classica”, ma non è per questo “oggettivista”, come altre, più note, versioni della stessa. Una particolare declinazione dell’azione morale è costituita dalla pra-tica pedagogica, un altro dei grandi temi della riflessione filosofica gen-tiliana, cui è dedicato il quarto e ultimo saggio, frutto della riflessione comune di Carla Xodo e Mirca Benetton. La pedagogia di Gentile è una pedagogia umanista, poiché «l’umanesimo – egli scriveva – che è ricerca di classicità, si attua come   paideia , cioè come sforzo di realizzare nelle più diverse situazioni storiche l’essenza dell’uomo», e pertanto non è un si-stema compiuto, ma una sollecitazione a riprendere instancabilmente la ricerca speculativa sulla verità della persona, ulteriore espressione di quel domandare radicale in cui si traduce ogni serio impegno filosofico. Le Autrici sottolineano come in questa prospettiva, considerando l’essere umano nella sua integralità, l’umanesimo, anziché contrapporsi, si possa intrecciare fecondamente, anche in ambito scolastico, con la scienza, la tecnica, e le attività professionali, persino manuali. L’indicazione è di preziosa attualità e ci fornisce un’altra conferma della potenza del domandare filosofico, che percorre tutti questi testi. In essi possiamo infatti vedere tale domandare vigorosamente rinno-varsi tramite la voce di Gentile. D’altra parte, a sua volta, lo stesso Gentile, in un necessario scambio di ruoli, tramite questo domandare, persiste a interrogare e a interrogarci. Ci auguriamo che possa profi-cuamente interrogare anche l’attento lettore. Marino Gentile. Gentile. Keywords: storia della filosofia period antico – filosofia romana, la preghiera, segno dei romani – italici antici – pre-sofistica – pre-Georgia –l’uso di ‘classico’ in latino classico ---- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gentile” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51689595451/in/photolist-2mJvNUU-2mJx5ao-2mJvNWn-2mJvNU3-2mJrG6h-2mJAknd-2mJx5a8-2mJx5aP-2mJAkke-2mJzfSc-2mJzfUG-2mJq2uE-2mJ4GHU-hSTpSd-2mKCFTz-2mLEPqL-2mLF5SC-2mKQ3hR-2mKCVmS-2mKSbL6-2mKzRPk-2mKbRVb-2mKjoDU-2mKj6Hp-2mKkwb6-2mKjpwa-2mKhhHU-2mKgWR9-2mKjphT-2mKhhve-DvhhWW-DhRHD2-CcSX6Q-Ck5UQW-CcC1aL-BUZEEQ-rpCCQN-nMb3Qx-nurrdd-nupnpX-ncRws1-nu4v1p-nw7T5i-ncRvsK-nw7Qo6-nu57jS-nnvnLQ-nr43e9-nmysSN-nokWCo

 

Grice e Gentili – filosofia italiana – la filosofia romana arcaica -- Luigi Speranza (Valmontone). Filosofo. Grice: “I love Gentile, and Austin and Ryle do too – he is a classicist – from central Italy therefore he FEELS Roman – he has explored the beginnings of philosophical thinking in Lazio, as opposed to the old schools of Velia, Crotone, and Agrigento --.” Si laurea  a Roma sotto Mercati e Perrotta. Isegna a Urbino. Fonda Il Centro di studi sulla metrica latina. Figlio di Attilio e Giuseppina Cicciarelli. Frequent il Liceo Classico "Ovidio" di Sulmona. Studia a Roma sotto Romagnoli, laureandosi sotto Mercati con “Un Studio critico intorno alla storia di Agatia e alla sua tradizione manoscritta”. Insegna a Roma, al Liceo Classico "Virgilio" di Roma.  Quando Perrotta si avvicendò a Romagnoli a Roma, Gentili ne fu subito conquistato e Perrotta lo  volle come assistente.  Dal suo maestro Gentili apprese l'arte della filologia e la passione per la metrica latina (“Metrica e ritmica”). Influenza significativamente gli allora giovani della filologica latina capitolina, tra cui Rossi e Privitera che ricorda come quelle "lezioni non avevano il tono pacato delle lezioni ex cathedra. Come docente, Gentili era bifronte. Si può, anzi, dire che bifronte fosse sempre; secondo i casi poteva essere flessibile o intransigente, giocoso o severo". Le sue erano esercitazioni, erano seminari. Bbasava l'insegnamento sulle sue ricerche.  Gli anni '50 non sono facili, sono anni di studio intensi e febbrili per lo studioso che culmineranno, insieme ai volumi sulla metrica, con una serie di lavori sui lirici: oltre alla già ricordata antologia Polinnia, il saggio Bacchilide. Studi e l'edizione di Ancreonte, Insegna a Lecce dove ebbe modo di frequentare Prato insieme al quale divenne coautore della teubneriana edizione dei Poetae elegiaci.La svolta decisiva, tuttavia, fu rappresentata dalla chiamata a Urbino dove nello stesso anno venne inaugurata la Facoltà di Lettere grazie all'impegno di Bo. Cura la Medea di Seneca (Istituto Nazionale del Dramma Antico, Mazara del Vallo). Altre opere: “Lo spettacolo nel mondo antico, Roma, Bulzoni); “Storia e biografia nel pensiero antico” Bari-Roma, Laterza. Cfr. Bruno Gentili, Eric R. Dodds mentitore? “La idea della comunicazione nella tradizione classica" Treccani.  La cultura e l’opinione pubblica: anche nel mondo romano antico il rapporto è stato difficile, spesso conflittuale. Le origini della retorica e della filosofia a Roma lo testimoniano, e non solo in un dato momento storico; l’arco di tempo della difficoltà dei rapporti va almeno dall’inizio del secondo secolo a.C., al principio del primo. E non solo: tensioni, incomprensioni e scontri non mancarono anche in epoche successive. Basta pensare alle poche voci di dissenso da Nerone, che erano le voci dei filosofi stoici, in contrasto anche con ciò che la mentalità comune pensava dell’imperatore: ma qui la nostra analisi si limita alla fase iniziale di questo rapporto. La filosofia per prima aveva trovato resistenze nella concretezza tradizionale dei Romani: l’astrazione filosofica di origine greca suscitava sospetti diffusi, come se si trattasse di un imbroglio, un raggiro. Non mancarono le espulsioni dei filosofi a partire almeno dal 190-180 a.C. Celebre la cacciata di Carneade, Critolao e Diogene nel 155 a.C., perché giudicati pericolosi per la società romana: soprattutto tale appariva quel Carneade sul quale si interrogava don Abbondio nella notte degli imbrogli. Ma insieme alla filosofia venne colpita la retorica, cioè la tecnica del parlare bene, che pure era d’importazione greca. Svetonio ci racconta delle difficoltà iniziali per questa disciplina e sappiamo che nel 161 a.C. un decreto del Senato bandiva dalla città insieme retori e filosofi greci. Ma la novità culturale non si arrestava per decreto: e la tecnica retorica riprese fiato, poi un po’ di vigore, progressivamente apprezzata anche dai Romani: purché fosse rigorosamente controllata dall’aristocrazia. E così accadde che nel 93 a.C. venne aperta la prima scuola di retorica a Roma, per iniziativa di un personaggio non molto famoso: Plozio Gallo. Era la scuola dei rhetores Latini, della quale parla anche Cicerone, per testimoniarci dei successo che essa riscontrava presso i giovani di allora e del suo rammarico per non potervi accedere: il giovane Arpinate era infatti trattenuto da altri maestri, che lo indirizzavano allo studio della retorica solo in greco, come una volta si faceva. Ma per quali motivi questo allontamento dalla scuola di Plozio Gallo? Oggi sappiamo dare una risposta alla domanda e possiamo affermare che i consiglieri di Cicerone agivano in tal senso per motivi non solo o non tanto didattici, quanto politici: la scuola dei retori latini rischiava agli occhi loro, e agli occhi di altri benpensanti romani, di trasformarsi in un pericoloso centro di democratizzazione del sapere, e, quindi delle vie di accesso al potere sociale e politico. Sappiamo infatti dell’amicizia del maestro, cioè di Plozio Gallo, col popolare Mario, in anni di contrasti fortissimi in Roma, culminati nella guerra del 91 a.C. per il diritto di cittadinanza degli Italici. È sempre Cicerone a informarci, nel trattato intitolato De oratore , dell’esistenza di questi maestri e del loro insegnamento, e lo fa per bocca di Lucio Licinio Crasso che, allora censore, li aveva colpiti con un editto di chiusura della scuola. Era una scuola di impudenza e di perdita di tempo, agli occhi di Crasso e dei suoi amici: essi andavano ripetendo che la mente dei ragazzi diveniva ottusa e si rafforzava la loro pericolosa sfacciatagggine, mentre i nuovi retori si proponevano esattamente il contrario: aprire la mente degli alunni, farli ragionare, spiegare il perché delle cose e dei problemi. Il nuovo genere di insegnamento consisteva sostanzialmente in una sintesi di retorica e filosofia, in vista della formazione di un uomo di cultura completa. Si doveva trattare quindi del superamento di una preparazione esclusivamente tecnica e precettistica, a vantaggio di una formazione globale dell’oratore: questi diveniva così il depositario di una cultura in grado di fargli reggere con competenza il timone della repubblica romana. È in questo contesto culturale e sociale pieno di fermenti e di stimoli nuovi che si formò il giovane Cicerone.  E. Badi?n, nella recensione al volume Gli storiografi latini tra mandati in frammenti, Atti del Convegno, Urbino 9-11 maggio 1974, a cura di S. Boldrini, S. Lanciotti, C. Questa, R. Raffaelli (Studi Urb. n.s. B n. 1, 1975), pubblicata in Am. Journ. Philol. 99, 1978, p. 137 sg., una recensione per altro biliosa e insieme presuntuosa, nella stragrande maggioranza dei contributi, dedica al mi? saggio 'Storiografia greca e storiografia ro mana arcaica' appena due parole: "the long essay in unoriginal medio crity, e.g. a potted survey by B. Gentili": un giudizio dr?sticamente negativo, non sorretto da un'ombra di argomentazione; diverso eviden temente il par?re di D. Musti, che ne ha inserito un lungo brano nel reading, da lui curato, La storiografia greca. Guida storica e critica, Bari 1979, pp. 151-157'. Certamente ognuno, nel recensire un libro, ha il diritto di giudicare come crede Topera che recensisce, ma ha il dovere di motivare con una qualche analisi il proprio punto di vista, se non altro per mettere in grado il lettore di comprendere il senso critico del discorso. Se ilBadi?n si fosse soltanto limitato ad esprimere il suo dissenso o il suo scetticismo sulle mie tesi, non avrei ritenuto necessario que quale liquida molto perentoriamente la sto mio intervento. Ma quando egli definisce sic et simpliciter "non ad una "rassegna raffazzonata", il suo giudizio in uno stato originale" ilmio discorso, debbo pensare che egli d'ira, provocato forse dal fatto che io non ho citato il suo saggio riducendolo abbia espresso 'The Early Historians', in Latin Historians, edited by T.A. Dorey, London 1966, pp. 1-38, che, esso si, ? realmente una rassegna, certo ben informata e corretta ma senza alcuna pretesa di originalit?. Egli stesso del resto lo presenta come un'esposizione panor?mica intesa a riproporre alla storiografia di lingua inglese una tem?tica da essa obli terata (cfr. p. 27 sg.). Faccio notare, d'altra parte, che questo suo sag gio ? stato da me citato, a proposito della cronaca pontificale, nel vo This content downloaded from 128.6.218.72 on Thu, 22 Oct 2015 07:06:10 UTC All use subject to JSTOR Terms and Conditions    148 lume che ho scritto in collaborazione scorso storico nel pensiero greco e B. Gentili con G. Cerri, Le teorie del di Roma mie 1975, ricerche la storiografia p. 82 n. 2 e che rappresenta Pedizione arcaica, delle dettato infon certa ricon "prag definir? Dunque, giudizio dato mente dotta m?tica" "non sulP argomento. solo un risentimento che, prima ancora che agli effettivi contenuti di questo ingiusto, del mio tipo appare un rispetto sa che la studio. alla t?cnica di tipo Come quella da nel soleo ? me allora ed tucidideo-polibiano. una nuova tesi, Topera storiografia 'isocratea'? possibile proposta illustrata, indico come originale" che riconduce di Che cosa io intenda quella che con questa storiografia degli Annales di Fabio Pittore Pontificum di Fabio chiarito in un precedente saggio, sulla rivista II Verri (2, 1973, pp. 53-76), al quale di proposito avevo rinviato alPinizio del mio intervento nel Convegno di Urbino ora ripubblicato in Communication Arts in the Ancient World, ed. by E.A. Havelock and J.P. Hershbell, New York 1978, pp. 137-155. E avevo esaustivamente pubblicato frammento delle varie ancora: pu? dirmi programma tico di il Badi?n se la mia Sempronio Asellione interpretazione del con una ? nuova A questo punto sarebbe doveroso da parte del Badi?n tornare sul Pargomento per dimostrare, se ? in grado di farlo, che Pimpostazione del mio discorso ? effettivamente priva di qualsiasi originalit? e non ? altro che una rassegna rabberciata di idee altrui. Universit? di Urbino  Letteratura: addio al grecista Bruno Gentili, insigne studioso di metrica Aveva 98 anni, era accademico dei Lincei e professore emerito ad Urbino Roma, 9 gen. - (Adnkronos) - Il grecista Bruno Gentili, insigne studioso della letteratura classica e in particolare della metrica greca, e' morto ieri a Roma all'eta' di 98 anni. L'annuncio della scomparsa e' stato dato dall'Accademia dei Lincei di cui era socio dal 1984. Nato a Valmontone (Roma) il 20 novembre 1915, Gentili era professore emerito dell'Universita' di Urbino, dove ha insegnato letteratura greca dal 1963, nella Facolta' di Lettere che insieme al rettore Carlo Bo ha contribuito a istituire. E' stato fondatore nel 1966 della rivista ''Quaderni urbinati di cultura classica'', di cui e' stato a lungo direttore.  Filologo rigoroso, Gentili si e' dedicato allo studio della lirica e della metrica greca arcaica, curando anche edizioni critiche di testi di diversi poeti. Tra i suoi libri ''L'Iliuperside nelle figurazioni anteriori a Virgilio'' (1941), ''Metrica greca arcaica'' (1949), ''La metrica dei greci'' (1952), l'edizione critica di Anacreonte (1958), ''Bacchilide. Studi'' (1958), ''Aspetti del rapporto poeta, committente, uditorio nella lirica corale greca'' (1965); l'antologia ''Polinnia. Poesia greca arcaica'' (in collaborazione con G. Perrotta, 1966).  La vasta bibliografia di Gentili comprende anche ''Le teorie del discorso storico nel pensiero greco e la storiografia romana arcaica'' (in collaborazione con G. Cerri, 1975), ''Storia della letteratura latina'' (in collaborazione con E. Pasoli e M. Simonetti, 1976), ''Lo spettacolo nel mondo antico. Teatro ellenistico e teatro romano arcaico'' (1977), ''Storia e biografia nel pensiero antico'' (in collab. con G. Cerri, 1983) e ''Poesia e pubblico nella Grecia antica'' (1984), che che e' valsa all'autore il Premio Viareggio-saggistica 1984.  (Sin-Pam/Ct/Adnkronos) CLASSICITÀ E CONTEMPORANEITÀ:BRUNO GENTILI NEGLI STUDI CLASSICI ITALIANI DEL NOVECENTO «Kein Volk der Geschichte, auch das begabteste nicht, läßt sich isoliert betrachten. Ein jedes wird durch äußere Anstöße aus zuständlichem Dasein in geschichtliches Leben übergeführt. Weder seine äußere noch seine innere Geschichte kann verstanden werden, ohne die Fäden zu verfolgen, die es mit außen verbinden».(Usener 1907, 11).«Il senso vero di una vita piena è quello che essa imprime di più anche sulla quotidianità: la ricerca. Ricerca. Ricerca. Ricerca. Il possesso che noi abbiamo di certi principi (che a loro modo sono verità) è labile e sfuggente – e non appena noi ci illudiamo di stringerlo, ecco scom-pare».(  Diari Anceschi/2  2006, 55).1. Il periodo successivo alla morte di Bruno Gentili nel suo novanta-novesimo anno d’età, il 7 gennaio 2014, ha visto comparire vari ampi e impegnati ricordi ad opera di alcuni tra i colleghi e allievi più vicini. Con attenzione e devozione vi sono evocati i momenti e i contributi più signi-ficativi nella carriera scientifica del grande grecista scomparso; nel riper-correrla si dà davvero la possibilità di posare lo sguardo su ottant’anni di storia della filologia classica, via via italiana europea e mondiale, sin dagli anni Trenta del Novecento. A tutti comune è il riconoscimento del forte valore innovativo nell’incessante attività critica e filologica di Gentili, a partire soprattutto dalla metà degli anni Sessanta con la fondazione dei «Quaderni Urbinati di Cultura Classica», «vera e propria officina intellet-tuale» dove su impulso del fondatore e direttore «la filologia classica, sen-za mai smarrire la dimensione tecnica e specialistica, si apre al confronto serrato non solo con l’archeologia, la storia e l’ermeneutica, ma anche con discipline emergenti quali l’antropologia, la semiotica, la linguistica e la sociologia della letteratura» 1 . A tale sensibilità può ben connettersi la visione che sino ai suoi ultimi anni Gentili elaborò della traduzione, nel- la ricerca e nell’asserzione di una «teorica eminentemente pragmatica»,  1  Così Catenacci 2014, 450e quindi «una poetica non astratta, non prefigurata su schemi di modelli già esperiti», così sempre tendendo a «una poetica aperta che si costrui- sca gli strumenti adeguati ad una maggiore portata di comunicazione»: il problema del tradurre è così definito nei termini «di quell’idea cui aspira l’antropologia contemporanea della traduzione come comunicabilità fra culture, visioni del mondo, strutture linguistiche e sistemi grammaticali diversi e distanti nel tempo» 2 . Una prospettiva che nello studio e nella ‘traduzione’ dall’antico (e dell’antico) a Gentili certo si schiuse in relazio- ne e risposta alle sfide prodotte dai grandi mutamenti culturali e sociali, di rilievo antropologico appunto, degli ultimi quattro decenni del XX se-colo: una prospettiva di ‘apertura’ nell’analisi e negli strumenti applicati all’interpretazione dei testi antichi, e in particolare della Grecia di età ar-caica, che mi è sembrato potesse essere bene espressa dalla prima citazio-ne in esergo, di un altro grande innovatore degli studi classici al volgere di un secolo, Hermann Usener (1834-1905). Il passo proviene da un discorso rettorale bonnense del 1882 riproposto in occasione del Congresso inter-nazionale della FIEC tenutosi a Bonn nel 1969 3 , e richiamato da Gentili nel famoso saggio   L’arte della filologia  (1981). A differenza della for-tunata citazione nietzschiana d’incipit («filologia è quella onorevole arte che esige dal suo cultore soprattutto una cosa, trarsi da parte, lasciarsi tem-po, divenire lento»), il rimando a Usener è passato piuttosto inosservato. Gentili si rifà alla   Rede  bonnense, dal titolo   Philologie und Geschichts- wissenschaft  4 , discutendo della prevalente natura ‘storica’ o ‘scientifica’ della filologia classica e rinvenendo «una impostazione sostanzialmente corretta del problema» nella distinzione attribuita a Usener, «che delimitò i due campi specifici della ricerca, riservando alla filologia la critica e la ricostruzione del testo e all’indagine storica l’interpretazione globale del mondo antico» 5 . La prolusione di Usener si apre con un panorama della storia degli stu-di classici sin dal XVI secolo francese e ugonotto 6 , subito poi riservando  2  Gentili 1989, 61, dalla relazione presentata al convegno   La traduzione dei testi classici .  Teoria prassi storia  (Palermo 6-9 aprile 1988), nei cui Atti poi comparve (Gentili 1991).  3  All’interno della   Festschrift   per il convegno curata da W. Schmidt (Schmidt 1969, 13-36); al congresso bonnense Gentili presentò il fondamentale intervento   L’interpretazione dei lirici greci arcaici nella dimensione del nostro tempo. Sin-cronia e diacronia nello studio di una cultura orale  (Gentili 1969). 4  Usener 1907.  5  Gentili 1984 (2006 4 ), 299. 6  Che la riflessione sulla storia della filologia classica sia strettamente connessa ai temi trattati nella prolusione rettorale è ben chiarito nella postilla che la intro-duce: «Die Geschichte einer Wissenschaft verzeichnet nicht bloß Leistungen. In ihrer Geschichte entfaltet sich ihr Begriff, der nicht unberührt bleiben kann von dem Wandel der Generationen. Die wissenschaftliche Arbeit bedarf der Selbstbe-sinnung, will sie nicht ziellos in der Unendlichkeit des Einzelnen umhertreiben." grande rilievo al genio di Bentley («zur Grundlegung einer Wissenschaft […] die Wege dazu hat erst das Genie Rich. Bentleys gebahnt»), pur rico-noscendo solo alla cultura tedesca, nel fatale trapasso tra XVIII e XIX se-colo, la decisiva spinta perché lo studio dell’antichità classica si costituisse «zu einer geschlossenen philologischen Wissenschaft». Grazie soprattutto all’impegno di dotti come Melantone e Camerarius, la centralità della Pa-rola proclamata dalla Riforma si era rivelata determinante per assicurare la presenza dell’insegnamento del greco nelle nuove scuole volte primaria- mente alla formazione dei pastori evangelici, finché nei rifondatori della letteratura tedesca del XVIII secolo (Klopstock, Lessing, Hamann, Herder) «der gottergebene idealistische Sinn des norddeutschen Protestantismus», laicizzandosi, risultò fecondo per la rinascita della cultura e della scienza tedesca grazie a figure come Winckelmann, Reiske, Heyne 7 . L’organica sistematizzazione delle varie discipline volte al fine della   Rekonstruktion des Altertums  secondo l’intuizione dei grandi edificatori e teorizzatori dell’  Altertumswissenschaft  , Wolf e soprattutto Boeckh, nel corso del XIX secolo si fece altresì modello per le nuove filologie applicate alle varie letterature d’Europa, come pure per le discipline storico-filologiche volte allo studio del ben più antico patrimonio di cultura e civiltà delle lingue mesopotamiche, semitiche e arie. A fronte dell’enorme ampliarsi delle co-noscenze non solo all’interno dell’  Altertumswissenschaft  , con diretto rife-rimento al mondo classico nelle sue varie epoche e aspetti, ma soprattutto all’esterno, negli orizzonti aperti dalle antiche civiltà del Vicino Orien-te rivelate dall’archeologia, Usener riconosce l’impossibilità di isolare la civiltà greca dall’attenta considerazione di quegli influssi, certo determi-nanti nella genesi almeno dell’arte greca: «heute zeigen die Reste Babylons und Ninivehs verglichen mit den griechischen und italischen Gräberfunden  jedem, der Augen hat zu sehen, von wo jene hellenische Kunst […] ihre Anstöße und auf lange hin nachwirkenden Vorbilder empfangen hat». In realtà a Usener preme soprattutto mettere in rilievo che il concetto stesso di storia si è enormemente ampliato, al di là della tradizionale identificazio- ne nella «pragmatische Entwicklung der Haupt-und Staats-aktionen von Fürsten und Völkern», ormai annettendo territori ignoti, nati dall’indagine delle origini delle lingue, dei credi, dei costumi, dei miti («die unbegrenz-te Ferne einer vorgeschichtlichen Geschichte»). In tale condizione appare al professore bonnense ormai impossibile aderire a una costruzione della filologia quale quella boeckhiana. La filologia, egli afferma, non può più essere intesa come scienza storica, perché radicalmente mutata è la visione stessa della storia propria del tardo XIX secolo 8 . La filologia è piuttosto da  7  Onde se «la moderna poesia italiana e francese è figlia degli studi umanistici, la letteratura tedesca è invece legata alla nostra filologia in uno stretto rapporto di sorellanza» (Usener 1907, 7). 8  Usener è in proposito molto chiaro: «Es bleibt also dabei: eine geschichtlicheconsiderarsi «ein Studienkreis», un insieme di discipline che vertendo sulla parola scritta, e così assolvendo alla funzione di arte o metodo di decisivo valore nel fissare i contenuti della conoscenza storica, costituisce «die le-tzte Voraussetzung aller geschichtlichen Forschung» 9 : una filologia come tecnica dell’interpretazione che, potenziata dalla prospettiva comparatista, assunse forse agli occhi di Usener i tratti di «una sorta di antropologia» 10 . Ho indugiato sul saggio di Usener perché l’insieme della sua opera, spesso poco apprezzata dal mondo filologico tedesco contemporaneo, gode da anni di crescente attenzione 11 , anche in ragione degli interessi ‘trasversali’, comparativi e  religionsgeschichtlich  che l’attraversano e innervano, non privi di influssi sullo sviluppo della teologia dapprima protestante e poi cattolica nella Germania del XX secolo 12 , e forse anche sulle origini degli studi novecenteschi italiani di storia delle religioni e di storia del cristia-nesimo 13 . Notevole è, nelle pagine di Gentili sull’arte della filologia, il suo ri-farsi a Usener. Sin dal titolo, a Nietzsche esse intendono forse associare proprio il filologo bonnense, quasi provocatorio (in una prolusione retto-rale del 1882!) nel definire   Kunst   l’essenza dell’attività filologica 14 , pri- Wissenschaft ist die Philologie nicht. Sie konnte und mußte als solche erschei-nen zu der Zeit, als die Geschichtswissenschaft in ihrem heutigen Begriff noch nicht vorhanden war […]. Es war die Zeit, wo die moderne Geschichtswissenschaft zuerst ihre Blüten trieb. Alles hat seine Zeit». 9  «Wenn es also wahr ist, daß der Boden aller geschichtlichen Wissenschaft das geschriebene Wort ist, so folgt, daß die Kunst, welche dasselbe feststellt und deutet mittels ihres grammatischen Vermögens, die letzte Voraussetzung aller geschicht-lichen Forschung ist. Diese Kunst haben wir in der Philologie erkannt» (Usener 1907, 26). 10  Così Momigliano 1985, 166. 11  A partire soprattutto dal seminario del febbraio 1982 presso la Scuola Nor-male di Pisa coordinato da Arnaldo Momigliano e subito pubblicato come   Aspetti di Hermann Usener filologo della religione  (Arrighetti [et al.] 1982). Sono apparse negli ultimi anni edizioni italiane di varie opere di Usener, tra le quali Usener 1993; Usener 2008; Usener 2010. 12  Assai notevole e davvero anticipatrice, nonché oggi di particolare attualità, è la lettera del dicembre 1888 al teologo bavarese I. von Doellinger, nella quale Use-ner afferma che «lo scopo ultimo ed inespresso dei miei sforzi è quello di aiutare a preparare l’unità della Chiesa della nostra nazione», passo su cui attira l’attenzione Momigliano 1985, 147. 13  È opportuno ricordare l’attenta, e assai poco nota, presentazione che del   Le-benswerk  di Usener, «grande maestro che l’Italia colta quasi ignora», diede Pesta-lozza 1909 (che cito dall’estratto), sulla rivista del modernismo cattolico milanese «Il Rinnovamento» cessata quello stesso anno: su Pestalozza, in quegli anni presso l’Accademia scientifico-letteraria di Milano primo libero docente e poi primo do-cente in Italia di Storia delle religioni, vd. i riferimenti in Benedetto 2008. 14  Non sorprende il dissenso, rispettoso ma chiaro, che subito espresse il trenta-quattrenne Wilamowitz circa la visione della filologia presente nella   Rektoratsre-de , prospettandone una ben diversa: «Die alte Poesie (und natürlich ebenso Rechtmariamente volta a fondare l’affidabilità della   parola scritta . La centralità del testo, oggi preferiamo dire: quel testo visto da Gentili come «struttura complessa di materiali linguistici, di implicazioni metrico-ritmiche, refe-renziali e pragmatiche» 15  nel cui processo interpretativo «una pluralità di discipline» è coinvolta (uno  Studienkreis , appunto) 16 . Senza qui proporsi di passare in rassegna l’ampia, varia, settantennale attività scientifica di Bruno Gentili 17 , si cercherà piuttosto di soffermarsi su alcuni aspetti, quali soprattutto il rapporto con la figura di Gennaro Perrotta e in genere con gli studi italiani di filologia classica nella prima metà del Novecento, la produzione degli anni ’50 e ’60, e la serie di saggi «di portata fondativa» 18  scritti da Gentili tra la metà degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70, nei qua-li evidente è una svolta per gli studi sulla lirica greca, e notevole l’interesse verso temi e problemi della traduzione dall’antico.2. L’esordio di Gentili si ebbe nel pieno della Seconda guerra mondiale con un articolo nato dalla tesi di laurea con Silvio Giuseppe Mercati, dedi-cato soprattutto a passare in rassegna quattro inesplorati codici delle  Storie  di Agazia conservati in biblioteche italiane (tre Vaticani e un Marciano) 19 . In quegli anni drammatici il giovane studioso li collazionò in parte, avendo in animo di preparare una nuova edizione critica dell’opera 20 , in vista del-la quale non tace anzi l’intenzione di provvedere a «un nuova collazione accurata» di un manoscritto Vulcaniano conservato nell’allora inaccessi-bile Leida 21 . Il netto cambiamento di interessi e «una decisa virata ver- und Glaube und Geschichte) ist tot: unsere Aufgabe ist, sie zu beleben […] dann  empfinde ich, daß Philologie doch etwas für sich ist, oder wenigstens ihr τέλος  hat» (lett. del febbraio 1883 in Dieterich – Hiller von Gaertringen – Calder III 1994 2 , 28), e cfr. Sassi 1982, 79. 15  Gentili 1984 (2006 4 ), 301. 16  «Philologie in dieser Auffassung ist nicht eine Wissenschaft, sondern ein Stu-dienkreis» (Usener 1907, 16). 17  Sin d’ora rimando alle molte informazioni e osservazioni desumibili dal   Ri-cordo di Bruno Gentili  di Angeli Bernardini 2013; Catenacci 2014; Cerri 2014; Lomiento 2014; G. A. Privitera, commemorazione lincea dell’11 aprile 2014, ac-cessibile on line presso  www.lincei.it/files/documenti/Privitera_commemorazio-ne_Gentili.pdf  ; Tedeschi 2014. 18  Cerri 2014, 230. Non si tratterà di Gentili editore e critico del testo, tema che di per sé richiederebbe apposita discussione. 19  Gentili 1944. 20  Come chiaramente lascia intendere la chiusa dell’articolo: «Da quanto abbia-mo detto appare chiaro che la sola finora ad avere almeno l’aspetto di edizione cri-tica ed anche il metodo è quella del Niebuhr, in quanto si fonda sul valore effettivo di una parte della tradizione. Ma l’uso di tutto il materiale manoscritto, secondo gli intendimenti che ho esposto, trae con sé la necessità di una recensione del testo di Agatia, che si fondi su basi più complete e quindi più solide. E questo compito, se le forze non mi verranno meno, spero di poter assolvere». 21  Vd. in particolare p. 168: «occorrerebbe perciò una nuova collazione accurata  Sent from the all new AOL app for iOSso la poesia greca arcaica» 22  si legano all’incontro con Gennaro Perrotta (1900-1962), dal 1938 sulla cattedra romana di Greco come successore di Ettore Romagnoli (1871-1938) 23  e nel corso degli anni ’30 impegnato nel rinnovamento su modello crociano dello studio della lirica greca ( Saffo e  Pindaro. Due saggi critici  uscì presso Laterza nel 1935), ma attento altresì all’esegesi puntuale di frammenti e ritrovamenti papiracei, in particolare con interventi accolti nei pasqualiani «Studi italiani di filologia classica» (nota è in particolare la polemica intorno al ‘poeta degli epodi di Strasbur-go’) 24 . Un’importante rassegna ad opera di Perrotta su   La filologia classica nell’ultimo ventennio , apparsa per il Natale di Roma del 1943 in un volu-me promosso dal Ministero dell’Educazione Nazionale (Perrotta 1943), se è priva non solo di elogi ma si può dire di qualsiasi menzione del morente Regime, è peraltro chiarissima sin dalle prime righe nell’affermare che il «vero progresso» segnato nel precedente ventennio dalla filologia classi-ca in Italia è spiegabile perché essa «ha sentito profondamente l’influsso dell’estetica moderna, anzi di tutto il pensiero moderno», con sicuro ri-ferimento al crocianesimo e in genere agli orientamenti antipositivistici: «superate le polemiche del periodo precedente, la filologia classica ha preso un nuovo indirizzo […] vivificata dalle correnti nuove della cultura moderna, è divenuta meno arida e pedantesca», e finanche «abbondano i saggi critici, che una volta avrebbero destato scandalo». Dopo un rapido ma attento ragguaglio di commenti, edizioni critiche ed edizioni di papiri pubblicati nel periodo considerato, l’articolo si conclude appunto notando che mentre «in qualunque campo la filologia classica italiana può sostene-re dignitosamente il confronto con quella delle altre Nazioni», proprio «nel campo della critica letteraria, essa supera di gran lunga la filologia classica di qualunque altro Paese del mondo» 25 . Cinque anni dopo, nell’Italia e nell’Europa del 1948, presentando ai let-tori insieme al condirettore Gino Funaioli la nuova rivista «Maia» («nome caro a due grandi poeti, a Gabriele d’Annunzio e a John Keats»), in sostan-ziale continuità e coerenza con se stesso Perrotta indicherà la via della ripresa dello «studio della civiltà antica, per noi moderni» in un «rinnovato umanesimo», fondato sull’incontro tra l’eredità del classicismo europeo  del manoscritto, che mi propongo di fare quanto prima»; si tratta del Cod. Vulc. 54, usato da Bonaventura Vulcanius per l’ editio princeps  del testo greco del   De impe-rio et rebus gestis Iustiniani imperatoris libri quinque , uscita a Leida nel 1594 (cfr. Dewitte 1981, 196). B. Vulcanius (B. de Smet), fu dal 1578 (in effetti dal 1581) professore nella nuovissima università di Leida. 22  Lomiento 2014, 1. 23  Su circostanze e contesto della successione illuminanti scorci in Canfora 2005, 19-20 e   passim . 24  Sulla quale, e sulla persuasiva identificazione in Ipponatte sostenuta da Per-rotta, vd. Gamberale 1994, 75; Sisti 1994, 43-45; Morelli 1996, 24. 25  Perrotta 1943  Sent from the all new AOL app for iOSdegli ultimi due secoli («la tradizione gloriosa di Goethe e di Humboldt, di Gioacchino Winckelmann e di Federico Schlegel, di Shelley e di Keats, di Hölderlin e di Nietzsche, di Foscolo e di Leopardi, di Carducci e di Pasco-li») e una pratica filologica che, nutrita di adeguata consapevolezza critica e storica, trascendesse le mai del tutto sopite conseguenze delle polemiche, e dei connessi schieramenti, che avevano lacerato gli studi classici italiani d’inizio secolo: Il nostro ideale è il filologo che abbia l’abnegazione d’un grammatico alessandri-no e l’entusiasmo d’un umanista del Quattrocento, la tecnica filologica e il senso storico dei grandi filologi dell’Ottocento, il senso artistico e la coscienza critica dei migliori critici letterari dell’età nostra. L’ideale della nostra rivista è la storia senza lo storicismo, la filologia senza il filologismo, la critica estetica senza l’estetismo e il vacuo filosofismo 26 . Non manca subito di séguito una citazione da Nietzsche, dalla qua-le risulta «la filologia nel suo senso più elevato rappresentata, come me- glio non si potrebbe, con alta fantasia poetica» 27 . Né manca un richiamo a Nietzsche, in quella stessa prima annata di «Maia», nell’ampia e intensa commemorazione che Perrotta dedicò nel decennale della morte a Ettore Romagnoli 28 , accostato a Nietzsche nell’accesa e ‘immaginifica’ giovinez- za di filologo 29 , quindi rievocato come professore universitario a Catania  26  Funaioli – Perrotta 1948. Che punto nodale del «discorso sulla filologia» sia «la divisione o meno delle competenze tra filologia e critica letteraria in senso lato» rimarrà, con altra prospettiva, costante elemento di riflessione per Gentili: cfr. Gentili 1984 (2006 4 ), 300 sgg. 27  L’ammirazione di Perrotta per Nietzsche filologo è messa in rilievo da Gi-gante 1996, 150-151, il quale anche suggerisce che mediatore per il filologo ita-liano della conoscenza di Nietzsche possa essere stato Croce; un’emendazione del giovane Nietzsche («oltre a giudicare il carme nel suo insieme con la finezza e la profondità ch’erano proprie del suo genio») è lodata e accolta in Perrotta 1951, 83.  28  Un certo paradossale irrigidimento di Perrotta «negli ultimi tempi in cui poté ancora esercitare un sensibile influsso negli ambienti culturali», onde «egli affermò sempre più polemicamente e rigidamente la sua fedeltà al verbo crociano […] com-memorò entusiasticamente il Romagnoli, proclamò ripetutamente la indipendenza dei supremi valori poetici da ogni condizionamento ambientale e culturale» noterà Paratore 1963b, 6 (appunto a intendere «quella sopravvalutazione della critica let-teraria che è sembrata così singolare in un uomo di così severa formazione filolo-gica» è dedicata la commemorazione lincea di Paratore 1963a, in gran parte rifusa nel profilo  Gennaro Perrotta  in Grana 1969, IV, 2591-2601). 29  È utile citare il passo: «Federico Ritschl soleva dire che Federico Nietzsche giovinetto concepiva una dissertazione filologica come un romanzo. Il grande filologo non intendeva certo, con queste parole, spregiare l’attività filologica di Nietzsche giovane, del quale egli presagì il genio. Ma un intuito profondo gli face-va scoprire in Nietzsche qualche cosa di singolare, di acceso e di appassionato, che non faceva assomigliare le sue dissertazioni, pur dottissime e condotte con metodo impeccabile, a quelle degli altri. Poichè un uomo dotato di molta immaginazione(attraverso la testimonianza del fraccaroliano e romagnoliano F. Gugliel-mino), in particolare quando  leggeva con predilezione i lirici greci, e, traducendoli, comunicava agli uditori con la scelta felice delle parole e delle espressioni, che potessero rendere con maggiore adesione il pensiero e il sentimento dell’antico poeta, e anche con l’inflessione della voce, quello che egli stesso sentiva. Il commento era sobrio, scevro d’in-gombrante erudizione: accennava a questioni controverse dibattute dai filologi solo quando avevano importanza innegabile per la retta interpretazione di un passo dub-bio, e in tal caso riduceva la questione all’essenziale 30 . Il 1948 fu anche l’anno in cui, a cura di Gennaro Perrotta e del suo as-sistente Bruno Gentili, uscì   Polinnia , antologia della lirica greca ad uso dei licei destinata a grande fortuna nella scuola italiana della seconda metà del Novecento, sino alla recente e rinnovata terza edizione del 2007. Non fu la prima antologia dei lirici greci destinata alla scuola e impostata con rigore scientifico. Dopo che i programmi del 1923, con la riforma Gentile, più decisamente aprirono ai lirici le porte dei licei, si diffusero antologie sco-lastiche «nate in un periodo di estetica esasperata, di olimpico dispregio per tutto quello che si chiamava (e la parola era oltraggio) filologia», come vollero osservare prefando i loro   Lirici greci scelti e commentati  (1940) Giuseppe Ugolini e Alessandro Setti che a quell’andazzo con efficacia e serietà reagirono, avendo per modello essenzialmente   Aglaia , la  nuova an-tologia della lirica greca da Callino a Bacchilide  pubblicata nel 1937 da Bruno Lavagnini (1898-1992) 31 . In sede di valutazione storica è giusto rilevare che «ad   Aglaia  si sono ispirate tutte le antologie successive che si  finirà sempre per mettere, anche senza averne affatto il proposito, perfino in una dissertazione filologica, un po’ della sua immaginazione. Questo avveniva spesso a Romagnoli giovane» (Perrotta 1948, 93). Le pagine di Perrotta sono in parte ripro-dotte nella sezione su Romagnoli in Grana 1969, II, 1448-1459. 30  Nel   Profilo di Bruno Gentili  premesso da Carlo Bo al I volume dei ricchissimi  Scritti in onore di Bruno Gentili , Romagnoli ricorre accanto a Perrotta come pre-senza utile a comprendere in Gentili l’«uomo dotato di spirito creativo, quale ge-neralmente posseggono soltanto gli scrittori e in modo più specifico i poeti. La sua straordinaria perizia filologica è strettamente collegata al suo gusto e alle sue doti di creatore. Tutte cose che si possono riscontrare nella storia della sua formazione, perché accanto a uno dei suoi primi maestri, Ettore Romagnoli, a un certo punto si è accostato uno studioso come Gennaro Perrotta» (in Pretagostini 1993b, I,  XXVIII ). 31  Nella   Prefazione  a Ugolini – Setti 1940 due sono «tra i lavori scolastici» quelli citati dai curatori perché risultati utili «per il loro carattere più spiccatamente scientifico»: oltre all’antologia di Lavagnini si fa cenno a un’opera di A. Taccone, in cui è da ravvisarsi l’  Antologia della melica greca  pubblicata nel 1904 con pre-fazione del maestro G. Fraccaroli, attenta e informatissima ma ormai invecchiata a fronte delle scoperte papiracee accumulatesi nei decenni successivi. Del libro di Ugolini e Setti oltre trent’anni dopo uscirà un’edizione ampliata e rinnovata, in seguito ristampata: Ugolini – Setti 1972possono definire serie, a cominciare da   Polinnia » 32 , senza dimenticare che in pieni anni Trenta la volontà di chiarire agli alunni di liceo l’«enigma psicologico» di Saffo e della sua passione dettò all’antologia di Lavagnini toni ben più diretti 33  di quanto dieci anni dopo accadrà a Perrotta (cui si deve la sezione su Saffo in   Polinnia ), e più in linea con le posizioni cui Gentili espressamente approderà negli anni Sessanta. I cenni di Perrotta alle «gioie leggere del tiaso di Saffo» insieme a un certo riemergere delle preoccupazioni per la difesa della poetessa dalle accuse di immoralità   tor-nano a riflettere ambagi e premure proprie peraltro dei più noti studiosi di Saffo tra metà del XIX e metà del XX secolo, da Welcker a Valgimigli 34 : impostazione da Perrotta stesso a suo tempo esplicitamente confutata in  Saffo e Pindaro 35 . 32  Così Degani 1995, 30. 33  Nell’introduzione alla sezione su Saffo in Lavagnini 1937, 116, si dice che «Saffo visse facendo della sua casa un centro di culto ad Afrodite, alle Muse, e alle Cariti. Le più nobili e le più belle fanciulle di Lesbo e dell’Asia vicina venivano a lei per essere ammaestrate nella poesia e nel canto, ed essa vive tutta in questa compagnia di fanciulle. Anzi l’affetto per le scolare assume un trasporto così im-petuoso e sa trovare accenti così caldi da prendere i colori della passione di sesso, sicché la Lesbia resta ancora, almeno in parte, un enigma psicologico per noi, che siamo così lontani da quel suo mondo». Ivi è inoltre il rimando alla trattazione che del tema Lavagnini aveva dato nella sua precedente   Nuova antologia dei frammenti della lirica greca  (Lavagnini 1932, 171), dall’ incipit  e dalle tesi assai esplicite, e con esplicito rifarsi a Freud nell’individuare in Saffo «una  invertita : essa trasferì sopra creature del medesimo sesso il potenziale affettivo ( libido  secondo la termi-nologia di Freud) che avrebbe dovuto normalmente rivolgere su persone del sesso opposto». Al di là dell’interpretazione di Saffo, le pagine di Lavagnini meritano di essere particolarmente segnalate in relazione alla prima (s)fortuna italiana della psicanalisi, quando si pensi che la «Rivista italiana di psicoanalisi», diretta da E. Weiss, fu fondata in quello stesso 1932 e soppressa due anni dopo: ricco di infor-mazioni in proposito, benché talora disorganico e confuso, Zapperi 2013. 34  Per più ampi riferimenti su molti dei temi qui e di seguito trattati rimando a Benedetto 2012. 35  Cfr. Perrotta 1935, 28-31, in pagine non prive di sarcasmo e oggi dimenticate: «Infine, non giovano a nulla le discussioni, interminate e interminabili, sull’amo-re e sulla purezza di Saffo. I Welcker e i Wilamowitz hanno difeso la poetessa nobilmente, ma non si sono accorti che nel loro zelo appassionato essi stessi non erano troppo lontani dai grammatici dell’età romana, da quel Didimo che disser-tava dottamente  an Sappho publica fuerit   […] In realtà, Saffo non ha bisogno di essere giustificata: essa che, se potesse udire i suoi accusatori e i suoi difensori, non intenderebbe neppure i termini della questione. La soluzione dei Welcker e dei Wilamowitz non risolve nulla […] Quando per spiegare il tiaso amoroso di Saffo, si parla di un convento, di un pensionato di fanciulle, di un conservatorio di musica e di declamazione, e perfino d’un salotto letterario, e perfino d’un  club  estetico di donne, non si spiega nulla; e per giunta non si mostra né senso storico, né gusto irre-prensibile […]. E, ancora peggio, si è costretti a ridurre ad elemento secondario, ad ammettere a mala pena, facendo di tutto per togliergli ogni importanza, l’amore di Saffo per le amiche; ma per Saffo l’amore era tutto». Significativo il pieno consen   Sent from the all new AOL app for iOSLa parte curata da Gentili comprende tra gli altri Alceo, Anacreonte e Bacchilide, i tre autori di cui più egli si occupò tra la fine degli anni ’40 e la fine degli anni ’50. Nella difesa che Gentili fa (come già Coppola e Perrotta negli anni ’30) dell’allegoricità del famoso frammento alcaico ora 208a V. citato da Eraclito stoico («nella nave è rappresentato lo Stato, cioè la città di Mitilene, minacciata dalla rovina») 36 , tra affinità e differenze piace scorgere lo spunto delle future pagine sulla ‘pragmatica dell’allegoria della nave’ 37 . Superando i vincoli ancora operanti in   Polinnia  connessi al tradi-zionale confronto ‘estetico’ con Orazio, tramite l’approccio pragmatico-espressivo Gentili giungerà lì a riconoscere nell’allegoria lo strumento co-municativo strategicamente più idoneo e perciò scelto in varie occasioni da Alceo poeta e politico al fine di «trasmettere il messaggio in un linguaggio velato e allusivo  comprensibile solo  dall’uditorio dei compagni» 38 . Crocia- namente priva di introduzione sia generale, sia ai singoli poeti 39 ,   Polinnia  riserva particolare attenzione alle presentazioni dei singoli carmi. Spiccano lo spazio e il ruolo assegnati all’esposizione della metrica, «quelle sequenze di lunghe e di brevi, che avevano pari dignità grafica rispetto ai caratteri del testo, e apparivano ben in evidenza, non erano nascoste a fondo pagina, magari in una nota», sì da divenire per un liceale «il primo impatto reale con la metrica greca» 40 . Ciò appunto dovettero prefiggersi i curatori, con quella passione per gli studi metrici che la scarna premessa   Ai lettori  rivela: Riteniamo che l’accurata interpretazione metrica sarà accolta con favore. Essa ha per suo fine principale la lettura metrica, senza la quale non è possibile sentire e gustare un poeta greco. La metrica greca non è, come purtroppo credono ancora molti, né una scienza inesistente, né una scienza che permetta ad ognuno d’inter-pretare i versi come vuole, ma una scienza che è facile imparare, purché sia studiata sul serio. Per agevolare la lettura metrica, ci siamo presa la libertà di segnare gli  ictus  dei piedi, benché agli  ictus  non crediamo: certo i Greci non avevano l’accento dinamico, ma l’accento musicale. Poiché la lettura metrica è indispensabile: coloro che traggono, dalla giusta constatazione che la nostra lettura con gli  ictus  non corri-so riservato in nota alle posizioni esegetiche di Lavagnini: «Una pagina coraggiosa scrive, invece, nel senso contrario, il Lavagnini, col quale consento in tutto, benché abbia meno fiducia di lui nella psicanalisi».  36  Perrotta – Gentili 1948, 198-199. Sulle   Allegorie omeriche  del non altrimenti noto Eraclito nell’àmbito dell’esegesi antica di Alceo, e in particolare sul tema delle immagini marittime e il loro uso con significato politico da parte del poeta di Mitilene, rimando alla messa a punto di Porro 1994, 22-23, 55 sgg. e 105 sgg. 37  È il capitolo XI in Gentili 1984 (2006 4 ), 257-283. 38  Gentili 1984 (2006 4 ), 279. 39  Si ricordi per confronto la collana laterziana degli  Scrittori d’Italia , priva d’introduzione e di qualsiasi apparato interpretativo. Senza introduzione generale e ai singoli poeti sarà anche la successiva edizione del 1965: Perrotta – Gentili 1965. 40  Sono parole dalle pagine molto belle, di tono e sapore memorialistico, che alla metrica di   Polinnia  dedica Di Benedetto 2001, 141 sggsponde alla lettura degli antichi, la pessima conclusione dell’inutilità di ogni lettura metrica, fanno un’imperdonabile rinunzia, che generalmente tende a nascondere la pigrizia o l’ignoranza. Non diverse considerazioni, e non diversa passione didattica, animano la prefazione a   La metrica dei Greci  (1952), il libro che rappresentò «lo sdoganamento» di tale disciplina «nella scuola e, più in generale, negli studi classici italiani» 41 . Val la pena rileggere l’inizio di quella prefazione: È sentita in Italia la mancanza di un manuale di metrica ad uso dei non iniziati. Tale mancanza ha nociuto sino ad oggi all’insegnamento di questa disciplina soprattutto nelle scuole medie, poiché spesso i docenti, mossi da uno strano scetticismo […] considerano di scarso interesse la conoscenza della metrica greca, talora ritenen-dola del tutto estrinseca alla poesia, pura invenzione di alcuni studiosi moderni 42 anche perché già vi si rinvengono temi e motivi che ispireranno per decen-ni l’indefessa indagine metrica di Gentili: In realtà la metrica non è né estrinseca alla poesia, né invenzione dei moderni. Come ho già dimostrato nella mia   Metrica greca arcaica , alcune teorie metriche dei moderni, quelle più attendibili, sono già contenute nella migliore tradizione dei metricologi antichi. La metrica è necessaria, non solo ai fini della critica testuale, ma anche ad una più compiuta intelligenza del testo poetico. Poiché metrica e poe-sia furono nell’antica Grecia intimamente connesse, in funzione reciproca. È un errore avvicinarsi allo studio delle forme metriche con pregiudizi scolastici […] Soltanto dimenticando gli schemi e seguendo i metri nel loro sviluppo storico, si può davvero intendere il valore e la necessità dello studio di questa disciplina. Notevoli sono il precoce apprezzamento per il valore dei metricisti antichi 43  e la visione non ancillare degli studi metrici, da intendersi non  41  Catenacci 2014, 448. 42  Gentili 1952,  VII - VIII . Circa venticinque anni dopo, tra le cause dell’isolamento in Italia dello studio della metrica greca «nel ghetto degli specialisti e guardato al pari di una disciplina esoterica con sospetto e diffidenza», Gentili tornerà a cita-re l’idea largamente diffusa «della impossibilità di costruire per la versificazione greca una teoria coerente ed univoca», inoltre aggiungendo l’influsso avuto dalla nostra cultura degli anni Trenta «che aveva reciso alla radice ogni altro impulso all’indagine critica che non procedesse nel solco della teoria estetica dell’arte»: cfr. Gentili 1979a, 681. 43  Sensibilità critica in cui Cerri 2014, 232 ravvisa l’indizio di una attitudine ‘an-tropologica’ già allora in qualche modo operante nella filologia di Gentili: «Contro l’orientamento che era invalso tra i metricisti di allora, non solo rivaluta le teorie e le analisi dei metricisti antichi, ma basa costantemente su di esse la propria trat-tazione […] è del tutto evidente che ciò avviene non solo e non tanto perché le ritenga ipotesi scientifiche acute e azzeccate, ma soprattutto perché le assume come testimonianza diretta di una sensibilità ritmico-musicale diversa dalla nostra, di un linguaggio fonico-gestuale specifico di quella civiltà e di quell’orizzonte mentalecome meramente funzionali o subordinati alla critica del testo, ma in-dispensabili innanzitutto per una piena comprensione dell’antica poesia, nella convinzione «che la metrica non sia un fatto esteriore, ma in funzio- ne della poesia stessa», come è poi ribadito all’inizio dell’  Introduzione . Lì è anche subito affermata l’unità ritmica del verso antico, la sua strutturale unione con la musica, onde «posta l’unità del verso greco, non sarà più legittimo parlare di piedi, ma soltanto di  cola » 44 . Rievo-cando di recente le lezioni di metrica tenute da Gentili alla Sapienza nell’immediato dopoguerra, G. A. Privitera ha colto nella «prospetti-va storica» l’aspetto che in quelle esercitazioni più colpiva, quando «a differenza dei trattatisti, che nei manuali si limitano ad esporre le loro interpretazioni, Gentili citava anche le opinioni dei metricisti antichi e dei metricisti moderni» 45 : come con ampiezza appunto avviene in   Me-trica greca arcaica , il volume del 1950 dedicato a Gennaro Perrotta, anch’esso aperto dalla rivendicazione della metrica come «una scienza al pari delle altre discipline classiche», tutta «nella migliore tradizione della filologia ellenistica» 46 . Conoscenze ampie sugli studi metrici degli ultimi centocinquant’anni attestano i primi due capitoli del libro, dove dapprima ( Studi metrici: brevi cenni ) Gentili delinea con ricchezza di esempi e osservazioni lo svolgersi delle principali analisi e teorie me- triche da Hermann (con cui «la scienza metrica nacque nel secolo scor-so» sulle orme di Bentley e di Porson) a Westphal 47 , a Usener 48 , a Wila- 44  Gentili 1952, 1-2. 45  G. A. Privitera, commemorazione lincea, cit.  supra , n. 17. 46  Gentili 1950. Ho consultato la copia conservata presso la biblioteca del Cen-tro di papirologia ‘Achille Vogliano’ (Dipartimento di studi letterari, filologici e linguistici dell’Università degli Studi di Milano), con  ex libris  dello stesso Voglia-no (segn. Vgl.II.B.61), in quegli ultimi anni di vita alle prese con lo studio rimasto incompiuto   La lirica eolica e Pindaro nella critica di Gottfried Hermann .  47  La cui «Entdeckung eines indogermanischen Urverses» già è lodata in Usener 1907, 15. 48  Di Usener è rammentato con interesse il trattato   Altgriechischer Versbau: ein Versuch vergleichender Metrik   (Usener 1887), con la sua «analisi comparativa del-la metrica greca con la metrica germanica». I capitoli IV e V dell’opera di Usener consistono di una rassegna, desultoria ma affascinante, volta a dimostrare la predi-lezione dei popoli indoeuropei per una struttura metrica base in otto sillabe ancor ravvisabile nei testi sanscriti, avestici, nelle più antiche ricostruibili forme metriche greche e latine, nei canti popolari germanici, slavi settentrionali e meridionali, li-tuani: nota è l’icastica reazione negativa di Wilamowitz alla lettura del libro («In metrischen Dingen vermag ich nicht in kurzem meine Differenz auszudrücken, weil sie zu tief geht […]. Ich kann überhaupt das einheitliche griechische Volk nirgends finden, also auch keine urgriechische Sprache und keinen urgriechischen Vers und keine urgriechische Religion», lett. del 13 ottobre 1887 in Dieterich – Hiller von Gaertringen – Calder III 1994 2 , 46). Dal punto di vista della linguistica storica e della metrica comparativa indoeuropea severo giudizio sul lavoro di Use-ner dà Campanile 1982, cfr. anche Morelli 1996, 50 sgg. e 83-87   Sent from the all new AOL app for iOSmowitz, a Schroeder, a Maas 49 . Il successivo capitolo (  Metrica e musica ), prendendo spunto dai lavori di R. Westphal volti a «applicare le leggi dell’isocronia musicale ai metri greci», tentativo fallito ma assai noto in Italia per l’applicazione che ne diede Romagnoli nei suoi   Poeti lirici 50 , si segnala per la riflessione sulla centralità del rapporto metrica-musi-ca, cioè poesia e musica, e sulla necessità di considerarlo storicamen-te, alla luce delle svolte nella storia della cultura greca dall’arcaismo sino a Timoteo e poi all’età ellenistica, quando «il distacco della musica dalla poesia è definitivo; questa sarà destinata quasi sempre alla lettu-ra» 51 . Noti sono i meriti di Perrotta nella rinascita degli studi italiani di metrica antica 52 , nei quali «egli raggiunse una competenza che lo pose in una condizione di assoluto predominio in Italia». Così Ettore Para-tore all’indomani della morte del collega grecista nell’ateneo romano, rimarcandone la visione della metrica quale «premessa indispensabile per l’intelligenza di un altissimo testo poetico» e osservando la pro-fonda coerenza della «esemplare e severa scienza metrica del Perrotta» con l’intera sua concezione degli studi classici («nella metrologia del Perrotta veramente filologia e critica si dànno la mano in una sintesi tra le più feconde») 53 : nel timbro certo ‘romano’ ma già storiografica- 49  Cui già allora Gentili imputa gravi limiti metodologici, per la sopravvaluta-zione ‘empirica’ dell’ observatio metrorum  e il connesso «profondo scetticismo per tutti i problemi metrici di  Urgeschichte »: Gentili 1950, 20 sgg. 50  Particolarmente il secondo volume (  I Poeti Lirici. Terpandro, Alceo, Saffo , Bologna 1932) è costellato di «traduzioni in segnatura moderna della realizzazione sonora», cioè vere e proprie trascrizioni per musica dei frammenti dei tre antichi autori; almeno da un punto di vista storico non a torto Stella 1972, 171 indica come merito di Romagnoli «quello di avere richiamato l’attenzione fin dai primi anni del Novecento sul binomio   poesia-musica , in stretta interdipendenza di nota e parola, nei poeti greci fino all’età ellenistica», e di aver così dato «avvio ad una compren-sione profonda e meno letteraria di Saffo e di Pindaro, di Eschilo e Aristofane: indicava nuove strade per future ricerche». 51  Gentili 1950, 33. Le indagini sulla musica greca anche in età ellenistica cono-scono oggi nuovo impulso: vd. Martinelli 2009. 52  Messi in rilievo da Albini 1963, 111, il quale anche ricorda che «quando la morte lo sorprese, Perrotta stava ultimando un libro sul saturnio», sul contenuto del quale vd. la ricostruzione di Morelli 1996, 70 sgg. Resta il paradosso, segnalato da Morelli sin dall’inizio del suo studio, che «nella produzione di Gennaro Per-rotta, anche tenendo conto delle notazioni occasionali e delle scansioni fornite in   Polinnia , i contributi di carattere metrico risultano nel complesso piuttosto scarsi ed esigui, specie se rapportati all’importanza che egli annetteva notoriamente alla materia e agli anni spesi nelle relative ricerche fin dall’adolescenza». 53  Paratore 1963b, 7-8. È visione che si ritrova bene espressa anche nell’esordio del I capitolo di   Metrica greca arcaica : «Critica testuale, metrica, interpretazione estetica sono problemi che devono essere affrontati contemporaneamente dal fi-lologo classico; essi rappresentano una unità indissolubile, inscindibile. È merito grandissimo dei grammatici alessandrini se essi, unitamente all’esame critico delmente atteggiato della valutazione di Paratore, «la più grande scuola di metrologia classica fiorente in Italia», derivata da Perrotta, si ricapitola e si identifica nel nome di Bruno Gentili. L’esperienza di Perrotta me- tricista non può disgiungersi dal magistero pasqualiano 54 . Con il ricordo di conversazioni avute con Pasquali «su problemi importanti di metrica greca» Gentili scelse di aprire il suo contributo su Pasquali e la metrica nell’àmbito del convegno del 1985  Giorgio Pasquali e la filologia clas-sica del Novecento : Ricordo con perfetta lucidità l’esame metrico cui fui sottoposto al nostro primo incontro: mi chiese se ero in grado di scandire un carme di Bacchilide o di Pindaro; risposi affermativamente. Non ne fu del tutto convinto; mi porse il testo di Bacchi-lide e mi invitò a leggere metricamente il quinto epinicio, chiedendomi prima in quale metro fosse composto. Risposi: «Dattilo-epitriti» e lessi tutta intera la prima triade strofica. Ne fu sorpreso, forse perché dubitava che un giovane non formatosi alla sua scuola fosse in grado di superare questa difficile prova 55 . I colloqui con Pasquali, avvenuti a Firenze nell’immediato dopoguerra, si incentrarono (continua Gentili) quasi esclusivamente su un problema che particolarmente angustiava il grande filologo, quello cioè «delle re-sponsioni impure nei lirici corali e nei  cantica  della tragedia e della com-media del quinto secolo», in relazione soprattutto alla soluzione data da P. Maas in due articoli del 1914 e del 1921, dove «egli crede di poter negare le responsioni impure in Bacchilide e in Pindaro, correggendo ar-bitrariamente il testo nei luoghi dove esse appaiono» 56 . Ciò che qui conta mettere in rilievo è la persuasione che Gentili trasse da quegli incontri dell’esigenza, in Pasquali riconoscibile, «di affrontare il tanto discusso problema delle libere responsioni fra strofe e antistrofe non più nella pro-spettiva astratta e schematica indicata da Paul Maas ma in una prospettiva più attenta alla fenomenologia del rapporto metro-ritmo melodico» 57 : che cioè, più in generale, Pasquali già avesse  testo, curarono nelle loro edizioni critiche la divisione in strofe, in στίχοι e in κῶλα  dei cori lirici, tragici e comici […]. Se oggi il filologo moderno dissentirà da essi nell’interpretazione, non potrà certo dissentire nel metodo. Conoscere, dunque, la metrica di un poeta significa poter intendere più profondamente la sua stessa poe-sia, significa poter penetrare nell’intima armonia e musicalità del verso».  54  «Tratto ereditato da Pasquali» lo dice Gamberale 1994, 77. 55  Gentili 1988, 79. Per la centralità nella ricerca metrica di Gentili dell’inter-pretazione dei dattilo-epitriti, «così denominati nel secolo scorso da R. Westphal», nella dialettica tra individuazione di  cola  unitari e sistematizzazione metrica otto-centesca di origine boeckhiana vd.  e. g.  Gentili – Giannini 1977, 13 sgg. 56  Così Gentili 1950, 21, in un passo e in un contesto che sembrano conservare qualche traccia delle conversazioni con Pasquali di quegli anni (la prefazione reca la data del 30 settembre 1949, ma Gentili informa il lettore che la prima parte del libro era già in bozze nella primavera del 1948). 57  Si ricordino le polemiche degli anni seguenti con Maas circa luoghi bacchi   Sent from the all new AOL app for iOSnetta e chiara l’idea che la poesia lirica sia essa monodica o corale e la musica erano i mezzi di comunicazione di una cultura che, attraverso il linguaggio poetico, i ritmi e le melodie, trasmetteva oralmente i suoi messaggi in pubbliche audizioni 58 . In parte riguardante l’àmbito delle responsioni, e in polemica con Maas, fu l’intervento di Gentili compreso nella raccolta di contributi in memoria del maestro («Maia» 15, 1963) 59 : «alcuni problemi qui discussi», è detto in apertura, «furono non di rado il tema preferito da Gennaro Perrotta nelle  conversazioni con i suoi allievi, i μετρικώτατοι», particolarmente negli  anni 1947-1951. L’articolo è interessante anche per l’attenzione che di-mostra, pur con vari dubbi, verso la colometria antica quale attestata dai pa-piri di Anacreonte e di Bacchilide, già in qualche modo preludendo a quel- lo che diverrà, soprattutto dagli anni Ottanta, uno degli àmbiti di studio più cari a Gentili e alla sua scuola 60 .3. Come per l’Italia e il mondo, così per Bruno Gentili gli anni Sessanta videro prepararsi e poi compiersi svolte decisive. Poco dopo la precoce scomparsa di Perrotta (settembre 1962), Gentili divenne all’Università di Urbino ordinario di Letteratura greca, insegnamento tenuto per incarico da alcuni anni, sin dall’istituzione della locale Facoltà di Lettere di cui fu subito «figura cardine» 61 . La prolusione urbinate del 18 giugno 1964, pub- blicata l’anno successivo con il titolo   Aspetti del rapporto poeta, commit- lidei in cui «la presunta corruttela del metro, per la responsione non perfetta» aveva condotto il filologo tedesco a ritenere corrotto il testo, difeso ammettendo la re-sponsione impura in Gentili 1958, 20 sgg. 58  Gentili 1988, 80-81. Il racconto di Gentili va naturalmente letto tenendo pre-sente la frattura tra Pasquali e Perrotta su cui vd. Morelli 1996, 33 sgg.; dal no-vembre 1948, su sollecitazione di Pasquali, erano ripresi i rapporti epistolari con il filologo tedesco: cfr. Bossina 2010. 59  Gentili 1963 (poi nei monumentali  Studi in onore di Gennaro Perrotta ). Nella stessa  Gedenkschrift   non manca un breve contributo di P. Maas, una nota metrica di argomento ‘moderno’ datata Oxford, 31 ottobre 1962: Maas 1963. Anche per Maas metricologo molto si potrà trarre dall’esame delle carte segnalate in Lehnus 2010a e Lehnus 2010b. 60  Una quindicina d’anni dopo Gentili osserverà: «Si ritiene che la dottrina me-trica degli antichi sia di scarso valore e di nessuna utilità per noi […]. Ma, ch’io sappia, nessuno sino ad oggi ha realmente dimostrato la validità di questa asser-zione. Il disprezzo e il totale rifiuto delle teorie antiche è una moda invalsa negli studi metrici del Novecento» (Gentili 1979a, 688). Dello sviluppo degli studi sulla colometria antica guidati da Gentili negli anni successivi sono testimonianza molti contributi nei «Quaderni Urbinati di Cultura Classica»: come sguardo d’assieme vd. Pretagostini 1993a, Gentili – Perusino 1997 e più di recente la  Tavola rotonda  2008; breve consuntivo del dibattito in corso in García Novo 2008, 408-409. 61  Sugli studi classici a Urbino dapprima nella Facoltà di Magistero (dall’a. a. 1937/38) poi in quella di Lettere e Filosofia (dall’a. a. 1956/57) vd. il profilo di Colantonio – Bravi 2006tente, uditorio nella lirica corale greca , presenta un chiaro carattere pro-grammatico 62  e introduce quell’insieme di temi che «nel tempo si rivelerà più produttivo e tipicamente ‘gentiliano’» 63 . Fin dalle prime righe del sag-gio è messo in evidenza il valore di «strumento di conoscenza del reale» proprio della produzione poetica nella cultura greca del tardo arcaismo, il suo farsi «guida orientativa nell’evoluzione della società greca, nelle forme del linguaggio e dell’arte del poetare» per motivi non estrinseci ma stret-tamente connessi alla centralità del rapporto diretto tra il committente e il poeta che particolarmente connota la poesia corale. La funzione del mito, e dunque il tessuto dei contenuti stessi del carme, si svela quando ci si rifaccia al professionismo del poeta e alla funzione celebrativa costitutiva-mente propria della sua attività, volta a «scegliere una leggenda appropriata all’occasione», a trovare cioè e rendere intelligibile all’uditorio la relazio- ne tra racconto e celebrando, cosicché «il mito avesse un reale significato e un valore esemplare». Solo in tale contesto, a un tempo storicamente determinato e aperto alla necessità dell’interpretazione, possono corretta-mente configurarsi il rapporto mito-attualità e il rapporto mito-gnome, e può considerarsi superato «il problema dell’unità dell’epinicio e in genere del carme corale sul quale per più di un secolo dal Boeckh in poi la critica si è tormentata nella disperata ricerca di un’unità logica o estetica». Era, quello dell’unità dell’epinicio, il problema centrale della critica pindarica quale intuíto e sviscerato dalla grande filologia tedesca del XIX secolo, e che Perrotta aveva posto tematicamente al centro della sezione pindarica in  Saffo e Pindaro  (1935), dedicandovi una rilettura di oltre cento pagine attraverso l’intera produzione del poeta di Tebe, frammenti compresi, infi-ne giungendo alla constatazione dell’assenza di unità sia estetica sia logica nelle odi pindariche. Sostanzialmente riprendendo la visione romagnolia-na di Pindaro come «poeta del mito» 64 , l’interpretazione di quel «poeta puro, più che poeta-moralista o poeta-filosofo» 65  è infine da Perrotta per intero riportata all’interno della dicotomia crociana poesia/non poesia, senza arretrare dinanzi alle necessarie conseguenze di quella scelta critica: Non poeta dei giuochi, nè della gnome; non poeta dell’etica e della politica dorica; non poeta della saggezza di Apollo delfico. Ma poeta grandissimo del mito sentito religiosamente come miracoloso eroismo e miracoloso prodigio. Questa defini-zione dell’arte pindarica costringe a ripudiare come non poesia buona parte dei versi del poeta. Questo forse dispiacerà; e si dirà che Pindaro è ridotto ad essere, a questo modo, un poeta frammentario, e si deplorerà ch’egli è stato rimpicciolito e diminuito. Ma una più serena considerazione convincerà, che, anzi, il poeta è  62  «Una specie di manifesto per la Scuola urbinate» lo definisce Angeli Bernar-dini 2013, 16. 63  Catenacci 2014, 449. 64  La cui derivazione da Burckhardt sottolinea Paratore 1963, 300. 65  Perrotta 1935, 107-108stato accresciuto, perchè l’unico modo di onorare un poeta è quello di esaltare la sua poesia. Isolare le parti impoetiche, non che fargli torto, è un servigio reso al poeta stesso 66 . Non a caso subito Perrotta richiama per confronto il caso della poesia dantesca («naturalmente continueranno ad esistere gli ammiratori dell’architettura, dell’unità, dell’armonia dell’epinicio pindarico, proprio come non mancano gli ammiratori dell’architettura, della struttura, della concezione del mondo dantesco») 67 , a proposito della quale con maggior valenza paradigmatica Croce aveva teorizzato e applicato la necessaria dis-tinzione – valida per ogni autore e opera letteraria – tra la dimensione pro-priamente ‘poetica’ e quella ‘allotria’, attinente «una varia interpretazio- ne filosofica e pratica» 68 .Trent’anni dopo, nel 1965, disegnando il percorso per un profondo rinnovamento degli studi italiani su Pindaro e i lirici che definitivamente li sottraesse alle ipoteche critiche della prima metà del secolo, Gentili in certo modo proietterà all’esterno il tema dell’unità dell’epinicio, rinvenen-dolo «nel mondo dei valori che il poeta in rapporto al suo pubblico e alla funzione sociale della poesia era portato a interpretare» 69 . Discernere nella orazione urbinate i fili di una nascosta dialettica con Perrotta è operazio-ne non priva di giustificazioni, quando si pensi che il saggio   Aspetti del rapporto poeta, committente, uditorio nella lirica corale greca , nato da quella prolusione e poi pubblicato in più sedi, per la prima volta comparve nel volume di «Studi Urbinati» contenente gli  Scritti in onore di Genna-ro Perrotta 70  aperti da una pagina di presentazione di Gentili stesso, alla quale segue un inedito perrottiano, una nota critico-testuale a un passo di Lucano, in duello con una atetesi di Housman nel pasqualiano baluginare di «due varianti antiche» 71 . Significative le parole introduttive di Gentili, che indicano nel maestro un modello di «vivo impegno a dare un senso di attualità ai nostri studi», mentre pur non si può tacere l’esigenza di porre nuove domande alla grecità arcaica e classica: 66  Perrotta 1935, 227-228.  67  E così prosegue: «gli uni e gli altri si riterranno i soli capaci d’intendere i poeti, pur essendo incapacissimi d’intendere qualunque poesia, perchè per poesia intendono l’allegoria, oppure la così detta ‘poesia d’idee’, oppure perfino una rac-colta di massime belle e utili». 68  Mi limito a rimandare in proposito, come testo esemplare, all’  Introduzione  di Croce 1921, che cito da una ristampa laterziana sostanzialmente immutata del 1943. 69  Saranno poi i temi fondamentali di molte, famose pagine di   Poesia e pubblico nella Grecia antica , soprattutto nel cap. VIII   Poeta-committente-pubblico, ovvero la norma del polipo . 70  Gentili 1965a. 71  Perrotta 1Chi gli fu vicino e poté, anche fuori della scuola, ascoltarlo nella conversazione abi-tuale, sempre viva e piena d’intelligenza umana, apprese, oltre che il rigore scien-tifico della ricerca, il vivo impegno a dare un senso di attualità ai nostri studi, oggi, nelle prospettive del nostro tempo, diremo l’impegno a comprendere nell’inesauri-bile mondo della grecità arcaica e classica la problematicità dei rapporti di valore culturali e civili, quali uomo-scienza, uomo-natura, uomo-società, che sono alla base della nostra inquietudine e per i quali sentiamo l’urgenza di una soluzione se dobbiamo, tra i rottami inutilizzabili del vecchio umanesimo e tra gli automi della odierna civiltà industriale, riproporre una nuova dimensione dell’uomo, dell’uomo non come strumento ma come fine 72 . La seconda parte del saggio discute un buon numero di passi, perlopiù di Pindaro, anticipando traduzioni destinate all’antologia   Lirica corale greca. Pindaro Bacchilide Simonide , che uscì per Guanda nel 1965 73 ; il saggio originato dalla prolusione urbinate sarà lì riproposto in versione sostanzialmente immutata, a mo’ di introduzione dal titolo   Poeta e com-mittente . Nuovo è però l’avvio (ripreso nel retrocopertina), che intercetta le curiosità ‘d’avanguardia’ di quegli anni di profondi mutamenti, un po’ provocatoriamente invitandoli a una nuova lettura dei poeti della lirica co-rale greca: In un momento di crisi, oggi, della poesia, tra sperimentalismi d’avanguardia, giu-stificati, entro certi limiti, dalla buona intenzione di trovare linguaggi più idonei ad interpretare la realtà presente, ha forse un senso riproporre una nuova lettura dei poe- ti della lirica corale greca, Pindaro, Simonide, Bacchilide. La scelta non è casuale, ma ha un suo significato che sarebbe stato eluso se ci si fosse limitati a ripresentare i poeti della lirica monodica, troppo consunti dalla tradizione ermetica. Premeva invece offrire, nei limiti consentiti dall’indole della collana, un panorama delle op-poste tendenze ideologiche e artistiche che animarono la poesia del tardo arcaismo greco, cioè di un’epoca culturale caratterizzata da una profonda crisi evolutiva nella quale la poesia, come solo rare volte nella storia della cultura occidentale, divenne strumento di conoscenza del reale […] 74 . Si tratta dunque di una affermazione di ‘contemporaneità’ della lirica greca ancorata a solide e rinnovate basi filologiche e storiche, proposta in un’epoca di crisi e trasformazione tra le più incisive e impetuose del se-colo, come oggi sappiamo. Se può forse anche rimandare qualche eco dei  72  Parole che in parte torneranno trent’anni dopo nell’introduzione premessa da Gentili alle  Giornate di studio su Gennaro Perrotta . Si può aggiungere che nella premessa agli Scritti urbinati in onore del maestro, Gentili segnalava che alcuni di essi costituivano i primi contributi di collaboratori del neocostituito «Centro di studi sulla lirica greca e sulla metrica greca e latina» presso l’Università di Urbino. 73  Gentili 1965c. Ho consultato presso la Biblioteca centrale dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano una copia appartenuta a Luigi Alfonsi, con dedica manoscritta di Gentili datata «Urbino 18.11.1965». 74  Con l’ultimo periodo si apre il saggio in «Studi Urbinati» clamori suscitati dalla  beat generation  di A. Ginsberg, il cenno iniziale agli «sperimentalismi d’avanguardia» nell’àmbito della poesia contempora-nea, ai loro eccessi e alle loro ragioni, essenzialmente rinvia alla neoavan-guardia italiana di quegli anni, la cui fase preparatoria si suole riconoscere nel dibattito culturale sviluppato sulla rivista milanese «Il Verri», fondata nel 1956: sin dall’inizio diretta da Luciano Anceschi (1911-1995), se n’era avviata nel 1962 una seconda serie presso l’editore Feltrinelli, sedendo nel comitato di redazione letterati poeti e studiosi destinati a fama e fortu-na nei successivi decenni (Nanni Balestrini, Renato Barilli, Umberto Eco, Alfredo Giuliani, Angelo Guglielmi, Antonio Porta, Edoardo Sanguineti). I nomi appunto intorno a cui nel 1961 si era aggregata l’antologia poetica   I  Novissimi: poesie per gli anni Sessanta  (con testi di N. Balestrini, A. Giu- liani, E. Pagliarani, A. Porta, E. Sanguineti), con il successivo passaggio al Gruppo 63, più eterogenea e conflittuale formazione: intorno alla metà degli anni Sessanta poli entrambi di definizione e diffusione della neoa-vanguardia italiana,   poetae novi  avversi contemporaneamente a ermetismo e neorealismo 75 , volti (i più) alla destrutturazione sperimentale di lingua e forma come unica modalità di espressione di/in una realtà svuotata di sen-so e accettata come tale 76 . Presentando il primo numero della nuova serie de «Il Verri» (febbraio 1962), L. Anceschi salutava il determinarsi di un evidente mutamento nel panorama della poesia italiana contemporanea. A una maniera «che fu giustamente detta  anacoretica , o  ermetica , o  chiusa , non senza certe tentazioni di involuzione neoclassica» e che intendeva la poesia «come fuga o rifugio; come estrema voce del soggetto nascosto e introverso […] come sintesi illuminante, pregnante, e veloce nel rigore calcolato, coltivatissimo, e raro della parola», si sostituiva ora il diverso atteggiamento e sentimento «di una poesia dissacrata, estroversa, che si ritrova in un mondo di oggetti reali, affidata talora alla casualità del sin-tagma, talora ad un ritaglio significante dell’effimero, di modi analitici, a struttura complessa e multipolare, tale che […] può farsi capace di una critica di vita, di un’azione per la trasformazione dell’uomo»: egli avver-tiva insomma il farsi avanti di una poesia, e di una stagione di poesia, «come  accrescimento della vitalità , e nuove tecniche, e volontà di for-me aperte, e speranze di una maggior portata di comunicazione…» 77 . Il saggio già apparso in «Studi Urbinati» fu da Gentili subito ripubblicato  75  Nonché «uniti e avvinti (per impulso d’Anceschi) nel programma di approfit-tare della prima congiuntura economica favorevole dopo secoli – il famoso  boom »: così Alberto Arbasino in Anceschi – Campagna – Colombo, 338. 76  «Sganciato il linguaggio da intenti determinati e da precise responsabilità semantiche, lo scrittore appare attirato non tanto dalla mancanza di senso quanto piuttosto da ciò che sembra lecito chiamare il possibile verbale, ossia l’estrema libertà di invenzione linguistica. La parola comunica non dei significati, ma le pro-prie avventure e peripezie, percorre lo spazio senza fine del desiderio, del gioco e del godimento», come efficacemente sintetizza Curi 2014, 100.   Sent from the all new AOL app for iOS appunto su «Il Verri» 78 , all’interno di un numero monografico  Classicità e contemporaneità  contenente contributi anche di altri studiosi del mon-do antico 79 . Il fascicolo era introdotto da un intervento di Anceschi, da sempre attento a «scoprire in modi non fortuiti una zona antica e nuova della classicità» 80 , qui volto a riflessioni di singolare lucidità e preveggen-za, oggi certo più inoppugnabilmente attuali di cinquant’anni fa: Le infinite maniere con cui nel secolo son stati sentiti i classici testimoniano già esse di un continuo vivere dei classici al di fuori della astrazione, ormai incredibile, di eterne, immobili esemplarità. Che senso avrà la lettura dei classici in un mondo in cui l’Europa non sia più il “cervello del mondo” ma solo, se sarà possibile,  una  delle sue fibre,  una  delle voci di una cultura che si è aperta, aperta al riconoscimen-to delle ragioni di tutti i popoli, di tutte le tradizioni? La cultura europea in certi suoi esponenti della metà del secolo scorso sembra aver intuito la possibilità del determinarsi di una situazione di questo genere […]. Questa è la situazione in cui siamo, qui dobbiamo vivere, e in questo ordine recuperare i nostri antichi 81 . Particolarmente appropriati, nel contesto del numero de «Il Verri», ri-sultano dunque sin dall’inizio del saggio di Gentili i rilievi sulla ‘lontanan-za’ dal gusto moderno specialmente della lirica corale, tra le varie forme della poesia greca arcaica, e sull’almeno apparente maggiore accessibilità dei grandi poeti della lirica monodica (Saffo, Alceo, Anacreonte) anche se il loro volto è apparso spesso da noi alterato da un certo estetismo deca-dentistico che ha ancor più accentuato, a suo modo, quell’idea astratta e astorica della lirica greca che abbiamo ereditato dalla nostra cultura classicistica. Il culto della “poesia pura” idoleggiò in essi quella che fu ritenuta l’espressione essenziale, irripetibile, poetica per eccellenza, o addirittura la “poesia del frammento” conden-sata in un’immagine di pochi versi superstiti. Il riferimento è qui alla importante, benché spesso indiretta presenza dei maggiori lirici monodici nella letteratura italiana dalla seconda metà  77  Anceschi 1962, in partic. 14 sgg.  78  Gentili 1965, 80-97. 79  C. Del Grande ( Grecità ); C. Diano (  Ritorno a Plutarco ); E. Pasoli (  Per una lettura dell’epistola di Orazio a Giulio Floro ); G. C. Giardina (  Note per l’esegesi di Orazio lirico ); A. Mele ( Orazio e il significato culturale del classicismo latino ). 80  Cit. in Nisticò 1997. 81  Anceschi 1965, 4-5. Quanto una ben diversa visione della Grecia come «anti-ca madre comune» fosse in àmbito filosofico italiano ancora viva pochi anni prima testimonia ad esempio il volume di Barié – Sini 1959, dove a fronte del «senso della crisi dei valori oggi tanto diffuso nella coscienza dei contemporanei, che nessuna generazione del passato potrebbe probabilmente reggerne il paragone», si propugna un ritorno alla Grecia, che «vagheggiata dall’Umanesimo al Romanticismo come il felice e radioso mattino della nostra storia, sembra non avere mai deluso chi ricerchi in essa i germi del modo occidentale di considerare e vivere la vita» (17dell’Ottocento, non solo e non primariamente nelle traduzioni 82 . A Car-ducci in particolare, e per vari aspetti già al Foscolo 83 , si deve «la riscoper-ta, nelle immagini e nei metri, dei lirici greci, di Alceo e Saffo, già di leo-pardiana memoria, e poi di Alcmane […] come modelli di poesia pura» 84 , all’origine di un ricco e complesso processo di ricezione, ancora non ade-guatamente studiato, che attraverso Pascoli 85  e D’Annunzio conduce sino ai   Lirici greci tradotti da Salvatore Quasimodo , usciti a Milano in prima edizione nella tragica primavera del 1940, introdotti da un saggio critico del ventinovenne Luciano Anceschi. A Milano Anceschi si era formato con Antonio Banfi, subito segnalandosi con il volume   Autonomia ed ete-ronomia dell’arte  (1936) 86 , radicale presa di distanza dall’intuizionismo estetico crociano e dalla sua incapacità di comprendere le poetiche del Novecento 87 . Come il coetaneo Carlo Bo (1911-2001) per la corrente ‘fio-  82  Tra le quali per più ragioni merita ricordare quella che Felice Cavallotti (1842-1898), allora già famoso deputato dell’  Estrema , dedicò a  Canti e frammenti di Tirteo. Versione letterale e poetica con testo e note preceduta da un’ode a Gio-suè Carducci , Milano 1878, con prefazione, interessante per il rifiuto della ‘metrica barbara’ («il tentativo – che non data da oggi – di ricondurre la poesia italiana alla esteriorità dei metri greci e latini, mal saprebbe giudicarsi alla stregua di alcune splendide ispirazioni di Enotrio»), e per l’attenzione alla fortuna di Tirteo anche fuori d’Italia, in particolare nel mondo tedesco (lingua che Cavallotti aveva appreso nell’ancor asburgico liceo milanese di Porta Nuova), finanche citando «la versione olandese in versi di Bilderdijk»: ma nella costituzione del testo adottando «per base la volgata di Enrico Stefano – del 1566 – che ancora oggi fra tutti i distillamenti di cervello della critica germanica rimane la guida del testo più fida e più sicura». 83  Del Foscolo si ricordi almeno la visione dei versi della  Coma  catulliano-calli-machea come   poesia lirica  sin dalla dedica a G. B. Niccolini («non credo che l’an-tichità ci abbia mandata poesia lirica che li sorpassi, e niuna abbiano le età nostre che li pareggi») della traduzione e commento de   La Chioma di Berenice poema di Callimaco tradotto da Valerio Catullo  (1803): ivi il   Discorso quarto. Della ragione  poetica di Callimaco  si chiude nel nome di Pindaro dopo aver esaltato Alceo e Saf-fo nei superstiti  rari vestigi  a fronte di Orazio e di Catullo. Sul ‘pindarismo’ fosco-liano dal commento alla  Chioma di Berenice  attraverso i  Sepolcri  sino alle  Grazie  come riflessione sul nesso che lega lirica antica e moderna vd. Benedetto 2006. 84  Nava 2007, 90; qualche utile elemento si trae da Tomasin 1997. 85  Fondamentali soprattutto i   Poemi Conviviali  (del 1904 la prima edizione in volume) sin dal liminare  Solon  (1895), su cui vd. le considerazioni introduttive e il dettagliato commento in Treves 1980, I 555-569. Un àmbito di particolare interesse è quello della sperimentazione pascoliana ispirata ai metri della lirica greca, cfr. Giannini 2009 e ora Capone – Giannini 2015. 86  Lo stesso anno de   La poetica del decadentismo  di W. Binni, per il cui influs-so sugli studi pindarici degli anni Quaranta di M. Untersteiner (1899-1981) vd. Lehnus 1989. 87  Sui fondamenti filosofici e critici del precocissimo anticrocianesimo di An-ceschi vd. Lisa 2007, cap. I (  La nuova fenomenologia e la nozione di poetica ); su Anceschi, la critica di ispirazione fenomenologica e la sua connessione con la neoavanguardia (come già con l’ermetismo critico) utile profilo in Orvieto 2003, 1090-1095 e 1104-1110rentina’ dell’ermetismo, sul versante ‘milanese’ Anceschi fu figura di spicco tra i giovani critici che si fecero interpreti e banditori della singolare intensità della parola nella poesia di Quasimodo: ‘poetica della parola’ sul-la cui centralità Anceschi torna nell’introduzione ai   Lirici greci  del 1940, dicendola erede dell’«esperienza complessa della poesia dopo Hölderlin, Poe, Baudelaire, e, per noi in special modo, Leopardi» e, soprattutto, scor-gendone l’antecedente nella «pura e libera voce dei lirici greci». Anceschi si mostra consapevole del fecondo lavoro filologico svoltosi per secoli intorno a quegli antichi poeti, ma del pari afferma che nella cultura euro-pea «non ci fu mai la felice e piena stagione dei lirici greci». Quella stagio- ne ora è giunta, cosicché «nella ricerca di una poesia veramente  nuova  e  contemporanea » e soprattutto «nella aspirazione al raggiungimento di una rigorosa   purezza lirica » l’‘ermetico’ Quasimodo può pienamente espri-mere se stesso traducendo Saffo Alceo Archiloco e Alcmane, ritrovando cioè «la purezza di quell’antica sensibilità in una condizione di linguaggio attuale della poesia». Senza sentimentalismi – va detto – ma nutrito di una chiara percezione della terribile crisi della civiltà europea 88 , risuona l’appello alla lirica greca come depositaria dell’assolutezza della parola, paradossalmente assicurata dalla condizione frammentaria di quella tra-dizione testuale: Questa aspirazione di purezza in un riconoscimento della relativa «brevità» di ogni composizione poetica, che, per raggiungere il suo scopo, deve presentarsi alla no-stra coscienza come  un tutto  è, appunto, la lirica – per la prima volta nata all’u-manità nella Grecia. Di essa solo la   parola  (qualche parola altissima, e interrotta) ci resta, là dove era anche danza e musica: parola, danza, musica in un’invisibile armonia unitaria di ritmi. E solo l’immaginazione più libera può darci un’approssi-mazione felice a quel segreto. Se pregevole appare la sottolineatura del concorrere di parola, danza e musica nel definire la particolare natura della lirica greca, è indubbio che il suggerire compatibilità o addirittura sovrapponibilità tra ‘poetica della parola’   cara agli ermetici novecenteschi e scarni testi dei lirici greci conservati   per fragmina  («qualche parola altissima, e interrotta») si risolve in una forzatura critica a danno del concetto e della realtà di ‘frammento’ propri della filologia classica: all’indomani della guerra pubblicamente lo segnalò Manara Valgimigli (1876-1965) 89 , peraltro con Quasimodo e  88  Consapevolezza che ad esempio si esprime nel richiamo a un’illuminante frase di P. Valéry: «… une civilisation a la même fragilité qu’une vie. Les cir-constances qui enverraient les oeuvres de Keats et celles de Baudelaire rejoindre les oeuvres de Ménandre ne sont plus du tout inconcevables: elles sont dans les  journaux» (22-23). 89  Valgimigli 1946 (1957). Dopo aver ricordato che dei lirici greci «per tra-dizione medioevale diretta, oltre la silloge teognidea e quella pseudofocilidea, e oltre i quattro libri degli Epinici di Pindaro […] tutto il resto lo abbiamo o per ciAnceschi in rapporti epistolari già in quel 1940, e da subito ben disposto verso l’impresa traduttoria del poeta ermetico e i suoi risultati 90 . Quan-do Gentili, nel saggio pubblicato nel 1965 su «Studi Urbinati» e su «Il Verri», polemicamente alludeva a quell’impresa nei termini su citati («il culto della “poesia pura” idoleggiò in essi [ scil . i grandi poeti della lirica monodica] quella che fu ritenuta l’espressione essenziale, irripetibile, poe- tica per eccellenza, o addirittura la “poesia del frammento” condensata in un’immagine di pochi versi superstiti»), i   Lirici greci  di Quasimodo erano nel pieno della loro fortuna: mentre proprio nel 1965 era definita la for-ma  ne varietur  delle versioni dai lirici nell’edizione mondadoriana degli  Opera omnia  del poeta, tra vivaci polemiche di recente laureato dal Pre-mio Nobel (1959), quelli erano gli anni in cui se ne radicava e diffondeva la presenza nelle scuole italiane, particolarmente dopo l’istituzione della Scuola media unica. Soprattutto dai primi anni Sessanta e nel successivo decennio si può dire che in Italia nella percezione comune, anche gene-ricamente colta, la lirica greca coincise con i   Lirici greci  di Quasimodo, opera anzi che già all’indomani della morte del poeta (1968) si prese a riconoscere come la sua migliore 91 . La stessa scelta da parte di Gentili di  tazioni indirette, oppure, dove siamo stati più fortunati, per ritrovamenti papiracei; a ogni modo, per frammenti» e che in realtà anche la lirica era «tutta intessuta e ragionata nel mito», Valgimigli pienamente riconosce le ragioni storico-culturali di quell’equivoco, il ‘fascino singolare’ esercitato sui ‘lirici nuovi’ dagli antichi poeti in frammenti: «ora, se io penso a quelle che furono ai principi del Novecento le teoriche dell’intuizionismo, del futurismo, del frammentismo, non credo peccare di temerità né di irriverenza se tra le cause di questo incontro di poesia greca e poeti nuovi oso porre anche questa umile e strana combinazione, cioè del casuale stato frammentario e quindi, in certo senso, alogico, anticontenutista, antisintattico, e, vorrei aggiungere, anticantato di certa poesia lirica greca». 90  Quanto sopravvive dei carteggi Quasimodo-Valgimigli e Anceschi-Valgimi-gli è ora raccolto nel volume Benedetto – Greggi – Nuti 2012. Val la pena qui trascrivere almeno la breve missiva (da Padova, 6 giugno 1940, su carta intestata «R. Università di Padova/Seminario di Filologia Classica») con cui Valgimigli rin-graziava il poeta per l’invio di una copia degli appena pubblicati   Lirici greci : «Caro Quasimodo / Ho avuto il libro. Grazie. Certi versi mi hanno ridato la consolazione di un nuovo cantare. Sopra tutto, come già Le scrissi, c’è quel pudore schietto, quel pudore senza inganni, quella limpidezza liquida, che erano e sono qualità insolite e ignote. Di alcuni punti e modi, di alcuni suoni di parole, assai mi piacerebbe par-lare con Lei. Anche mi piacerebbe scrivere di questo suo libro. Ma dove, in questi giorni feroci? Addio, caro Quasimodo. E auguriamoci bene. E auguriamo bene al nostro paese e alla nostra civiltà. / M. Valgimigli» (in Benedetto – Greggi – Nuti 2012, 100-101). 91  Così per primo E. Sanguineti, uno dei protagonisti della neoavanguardia, che in chiusura dell’  Introduzione  alla sua importante antologia einaudiana   Poesia italiana del Novecento  (1969) accomuna in iconoclastico dileggio antiermetico le versioni quasimodee al famoso saggio di Carlo Bo   Letteratura come vita  (1938); appunto perché gli antichi lirici risultano «volgarizzati, mediante il Quasimo-   Sent from the all new AOL app for iOSantologizzare e tradurre per Guanda i poeti della lirica corale (Pindaro, Bacchilide, Simonide) fu con ogni evidenza determinata dal fatto che si tratta appunto degli autori non presenti tra i   Lirici  di Quasimodo perché non compatibili con l’idea di lirica sottesavi, come peraltro Anceschi ave-va a suo tempo esplicitamente affermato: Entro i limiti di una pura (attuale e antica)  idea   della poesia  perciò fu osservata la scelta dei testi […]. Naturalmente è ben definito il senso anche delle esclusioni di poeti disposti a mettere a servizio della «celebrazione» la magnificenza di uno stile espertissimo, come Pindaro; o, come Bacchilide, abile e colto in una dolcezza di analisi descrittive. E sempre, poi, un rigore senza concessioni ha voluto la esclu-sione, o, almeno, la limitazione nella presenza di poeti «semi-lirici» (giambici o elegiaci, gnomici o politici) troppo disposti alla  sentenza , all’ esortazione  o alla  narrazione : a indubbie condizioni di prosa 92 . Venticinque anni dopo la comparsa dei   Lirici greci  prefati da Anceschi, Gentili propugnava e realizzava il rovesciamento di quella prospettiva cri-tica 93 ; ci si può quindi chiedere perché il grecista urbinate abbia scelto pro-prio la rivista diretta da Anceschi per ripubblicare e più ampiamente divul-gare il saggio   Aspetti del rapporto poeta, committente, uditorio nella lirica corale greca . Quanto si è prima accennato circa i convincimenti maturati da Anceschi nel corso degli anni Cinquanta, e poi sempre più all’inizio dei Sessanta, rende chiara la risposta: «nemico di ogni posizione cristallizza-ta» 94 , Anceschi soprattutto con «Il Verri» individuò come primario compi-to del critico «quello di risolvere la situazione in cui si trova, e di cui sente l’ansia e l’instabilità» 95 . Non solo sin dai primi anni del dopoguerra egli si  do, con i tratti deformanti della poetica ermetica», su quindici poesie antologizzate da Sanguineti tredici sono tratte dai   Lirici greci , definiti «il suo più vero contribu-to originale alla poesia del nostro secolo» e «uno dei documenti più significativi dell’intiera stagione ermetica». 92  L. Anceschi,   Introduzione  in Quasimodo 1940, 22. 93  Con espressioni che sembrano anche direttamente rispondere a quelle di An-ceschi del 1940: «per questa via era difficile accostarsi ai lirici corali del tardo ar-caismo greco, particolarmente a Simonide, Pindaro e Bacchilide, più elaborati, più consapevoli delle loro possibilità espressive, più ricchi nei contenuti etici, politici e artistici, indissolubilmente legati a un particolare ambiente e ad una determinata occasione che stimolarono e condizionarono il loro canto» (Gentili 1965c, 15). 94  Anceschi – Campagna – Colombo 1998, 331: «Anceschi – si sa – era nemico di ogni posizione cristallizzata […]. Non sconfessava l’ermetismo, in cui si era riconosciuto e che lo aveva visto nascere come critico militante, ma non intendeva lasciarsi rinchiudere in esso. E magistrale […] era la sua capacità di muoversi in territori ambigui, d’incerta definizione, non ancora riconosciuti, e di porsi come punto di riferimento per chi cercava la sua strada». 95  Anceschi 1956, saggio con cui si apre il primo numero de «Il Verri» nell’au-tunno di quell’anno, riproposto nella nuova serie de «il verri» nel 1996; sulla con-dizione della letteratura italiana dopo la metà degli anni ’50, chiusa tra le ultimeera convinto (come Quasimodo del resto) dell’esaurimento della stagione ermetica, ma tornò ad affrontare i   Lirici greci  e la sua stessa introduzione dieci anni dopo, riscrivendola nel 1951 per una nuova edizione mondado-riana. Molte qui sono le novità, sin dall’avvio. Anceschi lascia intendere di essere all’origine dell’incontro di Quasimodo con la lirica greca (come peraltro già le pagine del 1940 lasciavano sospettare) 96 , prende atto del de-finitivo isterilirsi dell’ermetismo, contestualizza la traduzione quasimodea nel suo valore e nei suoi limiti storicamente determinati: Ma che cosa si son fatti i lirici greci nella lettura di Quasimodo? Essi furon letti, è evidente, nel gusto particolare di una certa tendenza alla poesia del tempo […]. Era un momento in cui la verità della poesia ci sembrava tutta compresa nella veloce intensità della lirica in una estrema lucidità di contatti tra oggetti lontanissimi e lon-tanissimi tempi della memoria; e gli antichi   frammenti  (la giustificazione della vali-dità del frammento è sempre la prova di resistenza delle estetiche) ci confermavano con la loro forza che la poesia  non  sta nella struttura,  non  sta nella «musica esterio-re»,  non  sta nel «contenuto morale» o nella «narrazione» e nel «discorso»…: tutto ciò può andar perduto, eppure una bellezza intensa e veloce resta, e ci commuove. 4. Importante novità rispetto all’introduzione del 1940 è il richiamo al saggio «incompiuto e bellissimo» di Renato Serra (1884-1915)   Intorno al modo di leggere i Greci , pubblicato postumo da Valgimigli nel 1924 su «La Critica». Ispirate dalle contradditorie reazioni che il primo volu-me della traduzione commentata dei   Lirici greci  del Fraccaroli (1910) gli avevano suscitato 97 , le pagine di Serra sono soprattutto una riflessione sulla fine del vecchio classicismo («il calco in gesso dell’Ellade serena, dell’Ellade perfetta, che aveva fatto le delizie di tante generazioni, dagli umanisti fino al Carducci, è andato in frantumi»), sul nuovo «desiderio di realtà» suscitato dall’incessante lavoro di filologi e archeologi, sulla inquie-  manifestazioni dell’ermetismo e il dogmatismo neo-realista, e sulla risposta libera-toria che la rivista trovò in una ‘fenomenologica’ concezione della letteratura «che rinnova continuamente la propria consapevolezza in rapporto al concreto mutare delle situazioni» torna ad esempio Anceschi 1967. 96  «Non dimenticherò certo facilmente il giorno – davvero molto lontano, or-mai – in cui, parlando con Quasimodo, mi venne fatto di associare, secondo certe ragioni, due idee familiari e carissime, che, in quel momento, sollecitavano in modo singolare la mia mente; voglio dire: l’idea della prima lirica greca, e quella della poesia italiana contemporanea. Fu, credo, un giorno dell’autunno 1938»: l’introdu-zione anceschiana del 1951 è ristampata in Quasimodo 2004, 321-333. 97  «Ho davanti a me i Lirici del Fraccaroli. Che cosa è dunque l’interesse di que-sto libro? L’intendimento nuovo di mettere sotto gli occhi dei lettori comuni questi avanzi venerabili della lirica greca, sì che ognuno possa vedere e giudicare senza scrupoli quel che sono sostanzialmente e quel che valgono. Con questo animo l’au-tore ha dato e il pubblico ha ricevuto, molto lietamente, come sapete, il libro. Per-ché dunque invece di partecipare a questa lietezza io resto malinconico e dubitoso  ad ascoltare l’eco beffardo di una ironia lontanissima. ὁρᾶς τὸν πόδα τοῦτον;»   Sent from the all new AOL app for iOSta grecità da loro rivelata, consentanea al gusto   fin de siècle  («coi prefidi-aci, con la civiltà micenea e con la cretese, con le fasce delle mummie e con gli ostraka dei monticoli egiziani, e insomma con l’insistenza su tutto ciò che la Grecia può dare di più crudo, barbaro, romantico, positivo, con-trastante col vecchio ideale gelato»), e soprattutto sulle opportunità svelate da questo diverso, modernissimo ‘bisogno di antico’: Realtà, come dicevo, di cose, e non di parole. Questa è la differenza profonda fra la nostra generazione e quelle che l’han preceduta. Le statue, le fotografie, le imma-gini, i processi, i costumi, in somma la vita nella sua indifferente nudità ha preso il posto degli aoristi del maestro di seminario e delle figure di Longino […]. Una cosa è chiara, direi quasi  a priori ; che con tanta voglia di appropriarsi solo il grosso e l’essenziale della grecità, i pensieri e i motivi e le immaginazioni piuttosto che le frasi e le formalità, quest’ora dev’essere propizia per i traduttori. I passi ora citati del saggio di Serra provengono dal fascicolo de «Il Verri» dedicato a  Classicità e contemporaneità , che si apre con estratti da   Intorno al modo di leggere i Greci 98 . Sugli appunti di Serra si sofferma il liminare   Intervento  di Anceschi. Nel giovane critico cesenate caduto sul Podgora, Anceschi indica colui che «intuì una crisi del modo di sentire e vivere i classici, in cui noi ancora siamo», la crisi di chi ha compreso «che non ha più alcuna utilità per noi una lettura  assoluta  dei classici», ma che esistono ancora molti modi, altri modi, con cui i classici ci possono rispon-dere, molti e diversi piani su cui essi vivono ancora per noi, e che molti e diversi possono essere i gesti del nostro rapporto con loro. E su questa fenomenologia va forse ormai posato l’accento. Sono evidenti le consonanze tra un così attento bisogno di fondare una diversa presenza dei classici in un futuro avvertito come totalmente ‘altro’, e l’attività di Gentili in quegli anni come filologo e come docente. Ne è conferma la scelta di continuare a pubblicare su «Il Verri» gli articoli di maggior impegno teorico e programmatico già apparsi nei «Quaderni Urbinati di Cultura Classica»: in particolare i due saggi   L’interpretazione dei lirici greci arcaici nella dimensione del nostro tempo  e   Prospettive critiche nell’interpretazione della cultura greca dell’età dei lirici . Il primo (Gentili 1970) 99  pienamente si presenta al lettore ‘nella dimensione del nostro tempo’, subito prospettando l’ineludibile «grosso problema di fon-do che è il problema stesso della sopravvivenza del mondo classico nella nostra cultura», letto all’interno del più radicale tema della ‘morte della storia’ nelle società a tecnologia avanzata e pervasiva degli ultimi decenni  98  Serra 1965. 99  Già in «QUCC», con il sottotitolo  Sincronia e diacronia nello studio di una cultura orale : Gentili 1969del XX secolo. Quaranta e più anni dopo, sono riflessioni che colpiscono per lungimiranza, e per estraneità agli ideologismi allora correnti come a qualsivoglia ‘umanistica’ retorica consolatoria o deprecatoria: In concreto, quale senso può avere la grecità arcaica nell’odierna civiltà tecnolo-gica che rifiuta la storia e s’impone come civiltà nuova, integrata e alienata come è definita dai sociologi, perché ha tolto al mondo, irrevocabilmente, le sue proprie dimensioni storiche? Il risultato di questa situazione irreversibile è a tutti noto: la grande crisi dei valori etici, politici, espressivi. Se volgiamo per un attimo lo sguardo alla cultura contemporanea e agli ultimi movimenti delle neoavanguardie europee, lo stato di crisi dell’espressione ha forse toccato i suoi limiti. L’articolo enuclea e propone con chiarezza i principali elementi caratte-rizzanti il rinnovamento a livello internazionale degli studi sulla lirica gre-ca arcaica, sulla spinta soprattutto dei lavori di E. A. Havelock, muovendo dal riconoscere che «dato comune alla lirica greca, e in generale alla poesia greca sino alla fine del V sec. fu il tipo di comunicazione cui fu affidata, comunicazione non scritta ma orale», e che una poesia orale «comporta modi di espressione e atteggiamenti mentali diversi dalla poesia di comu-nicazione scritta». Si è di fronte a una ‘tecnologia di scrittura’   rinvenibile «in contesti poetici di altre culture orali», solita affidarsi a periodi brevi e figurazioni paratattiche, estranea all’«uso dell’io idiosincratico», cioè appunto all’‘io lirico’ della poesia latina e poi moderna, connessa invece a una «psicologia della   performance  poetica che mira a pubblicizzare il personale e il soggettivo per renderlo immediatamente percepibile e coin-volgere emozionalmente l’uditorio» attraverso la ricca serie di immagini e metafore proprie del linguaggio della lirica arcaica. La presenza del mito ne riflette la funzione, «tessuto connettivo della cultura orale e strumento sociale di interazione tra passato e presente, fra tradizione e attualità, tra poeta e uditorio», sì da delineare un tipo di poesia prammatica per la sua funzione e i suoi scopi parenetici, didattici e celebrativi, sollecitata nella scelta dei temi dalle vicende della vita militare e politica, dalle reali situazioni della vita sociale, dei simposi, delle feste religiose e degli agoni atletici, vincolata alle richieste di un committente o a un uditorio di “amiche” e di “amici” di un thiaso di ragazze o di una consorteria politica di identico rango sociale. Si trovano qui compendiate e illustrate con efficace consapevolezza critica le linee guida che per mezzo secolo ispireranno l’amplissimo la-voro di Gentili e della sua scuola sulla lirica greca arcaica 100 . È opportu-no sottolineare la volontà di Gentili di legare l’interpretazione dei lirici greci, così rinnovata, a una prospettiva particolarmente ampia e ambizio- sa, protesa sul futuro e infatti più volte ribadita nei decenni successivi,  100  Esemplare l’esposizione in Gentili 1990   Sent from the all new AOL app for iOSl’idea cioè «cui aspira l’antropologia contemporanea, dell’interpretazione come comunicabilità fra culture diverse e distanti nel tempo». Il rifiuto, all’inizio dell’articolo, sia della «interpretazione umanistica tradizionale della poesia greca come eterna storia naturale del gusto e dell’arte» sia del ‘neoumanesimo etico’, e in definitiva la presa d’atto della «crisi profon-da dell’umanesimo tradizionale» in un contesto culturale dominato dalle nuove scienze dell’uomo, mira all’affermazione di un diverso paradigma (identificabile nei nomi diversi ma variamente concordanti di Dodds e di Finley, di Vernant e di Havelock) con «lo sforzo di capire in concreto la mentalità dell’uomo greco arcaico», secondo una linea critica attenta all’oggi e al domani: nella quale cioè «convergono le domande, le cate-gorie e gli strumenti delle moderne scienze dell’uomo: dalla lessicologia semantica alla psicologia sociale e alla psicologia della storia, dalla socio-logia all’antropologia», e il vero tema risulta infine «il problema concreto dell’uomo nella sua vita individuale e sociale» 101 .Allo scopo evidentemente di segnalare nell’attività critica ed esegetica la necessità di una costante riflessione concernente passato (dell’oggetto) e presente (dell’interprete), «contro il pericolo di arbitrari travestimenti» 102 , il saggio si chiude con una breve citazione da T. S. Eliot 103 , cara a Gentili, che la ripeterà in futuro. Si tratta di un passo proveniente da un saggio del 1920 (  Euripides and Professor Murray ), violento attacco dello scrittore contro le traduzioni euripidee approntate per la scena dal famoso grecista, accusato di adottare per le proprie versioni un obsoleto stile tardo-otto-centesco incapace di trasmettere la sostanza del testo greco e di renderlo comprensibile nel presente (opinione ben espressa dalla devastante frase finale: «è per il fatto che il professor Murray non ha istinto creativo che lascia Euripide lì, proprio morto»): è giusto aggiungere che, quali siano stati moventi e intenti della stroncatura di Eliot, le traduzioni di Murray proposte  on the stage  furono grandemente popolari per decenni, e anzi «it was largely due to Murray that Greek tragedy established itself as a permanent feature of the theatrical landscape» 104 . L’intervento fu incluso  101  Sul significato di fondo dell’opera di Gentili da individuarsi nella «applica-zione alla filologia testuale dell’antropologia culturale», al fine di porre «la spiega-zione dei testi, della loro struttura e dei singoli passi, nel quadro illuminante della cultura complessiva cui furono funzionali» vd. soprattutto le osservazioni di Cerri 2014. 102  Con riferimento a quanto sembra alle interpretazioni idealistiche e estetiz-zanti della lirica greca contro cui più polemizza Gentili. 103  «Abbiamo bisogno di un occhio che possa vedere il passato al suo posto con le sue definite differenze dal presente e tuttavia in modo così vivo che esso sia tanto presente a noi come il presente». 104  Cfr. Garland 2004, in partic. 161-163. Su   Euripides and Professor Murray  vd. ora i rilievi di Morwood 2007, 139 sgg.; sui ben noti, profondi interessi di Eliot per le letterature classiche e soprattutto per Virgilio, e sull’importanza nella costru-zione e nell’autorappresentazione del poema  The Waste Land   (1922) del concetto   Sent from the all new AOL app for iOSda Eliot nella raccolta   Il bosco sacro  ( The Sacred Wood  ), rivelata nel 1946 alla cultura italiana dalla traduzione di Luciano Anceschi, che premise una lunga introduzione (datata marzo 1945!) 105  dove non manca di essere menzionato   Euripides and Professor Murray , da Anceschi accostato al saggio «incompiuto e bellissimo di Serra   Intorno al modo di leggere i Greci » per la comune avversione verso «quel tipo ambiguo di traduttore-poeta-filologo-professore che fu di moda nei primi anni del secolo e che […] non soddisfò né le ragioni pure della filologia, né tanto meno quelle, certo più rigorose, dell’arte» 106 . Bersaglio di Anceschi, subito dichiarato, è «il prof. Romagnoli», esempio più noto della «filologia poetica di fine secolo», appunto quella «  filologia poetica , che è riuscita a ridurre i liri-ci greci ad una farsa domenicale» a suo tempo già attaccata dallo stesso Anceschi (direttamente coinvolgendo Romagnoli, da poco scomparso) nell’introduzione ai   Lirici greci  del 1940 107 , priva invece di riferimenti al certo in Italia ancora ignoto intervento di Eliot contro Murray traduttore: lo si troverà poi citato, in chiusura, nella rielaborata, quasi palinodica pre-fazione anceschiana del 1951 108 . Il terzo ampio e importante contributo che Gentili in quegli anni ripropose sulla rivista di Anceschi (  Prospettive critiche nell’interpretazione della cultura greca dell’età dei lirici : Gentili 1972) è per intero dedicato a discutere i radicali mutamenti intervenuti tra la prima e la seconda metà del Novecento nel definire «l’orizzonte della critica sui lirici greci». Il saggio prima di tutto registra con soddisfazione il venir meno «dei miti e dei luoghi comuni della vecchia critica idealistica e delle sue estreme frange estetizzanti», particolarmente forti in Italia «per oltre un trentennio» proprio nell’àmbito degli studi sui lirici, e nelle tradu-zioni. Come traccia dell’estremo persistere della «critica del gusto» e in  di   fragment   («these fragments have I shored against my ruins») vd. il profilo di Martindale 1999. 105  Anceschi 1946. 106  Anceschi 1946, 32. 107  L. Anceschi,   Introduzione  in Quasimodo 1940, 24-25. Questo il passo: «Quasimodo sembra perciò essere veramente il più adatto – oggi – per una impresa così ardua – necessariamente – difficile […] in reazione a certa   filologia poetica , che è riuscita a ridurre i lirici greci ad una farsa domenicale (e si veda Romagnoli da un frammento bellissimo:  Tramontata è già Selene / e le Pleiadi: il ciel tiene /  Mezzanotte: l’ora vola; / io son qui sopita e sola )», dove il riferimento è natural-mente al famoso frammento saffico 94 D. =   168b V. 108  In Quasimodo 2004, 333, dove Eliot «nel saggio su Euripide» è menzionato accanto a pensieri sul tradurre di Leopardi e di Pound. Pochi mesi prima della comparsa in italiano de   Il bosco sacro , il richiamo al Murray di Eliot a proposito delle traduzioni dai lirici greci prodotte in Italia tra Ottocento e Novecento da «certi filologhi non so come invasati dal dio» era già in L. Anceschi,   Presentazione  in Anceschi – Porzio 1945, 15-16 (dove come traduttore di poeti antichi oltre a C. Sbarbaro, da Sofocle, compare in realtà il solo S. Quasimodo, con testi da Omero, Saffo, Alceo, Erinna, Eschilo, Virgilio, Ovidio, Catullo).generale di «quel gusto del lirismo novecentesco che ha dominato la cul-tura italiana tra il 1920 e il 1940» è indicata l’ancora presente «tendenza a ricondurre il testo originale al gusto del lettore e non viceversa a guidare il lettore verso il testo originale», così procedendo a un’operazione «che an-nulla le categorie del tempo e dello spazio in vista di una contemporaneità falsa ed artificiale». A rinforzo dell’osservazione e come monito «contro il pericolo di arbitrari travestimenti» in cui possano cadere le traduzioni, Gentili torna a menzionare il passo di Eliot  contra Murray  già citato al termine dell’articolo di due anni prima (  L’interpretazione dei lirici greci arcaici nella dimensione del nostro tempo ). È interessante notarlo, inte-ressante e paradossale. Originario intento del brano, e in genere di   Euri- pides and Professor Murray , era l’accusa dello scrittore Eliot al grecista Murray di essere privo dell’‘occhio creativo’ 109  capace di render vivo Euri-pide con una traduzione inglese adeguata ai tempi e alla perduta centralità dell’educazione classica 110 . Anceschi nel presentare la traduzione italiana ravvisò in Murray l’equivalente inglese di Romagnoli, cioè dell’esponente più illustre di quella ‘filologia poetica fine di secolo’   a lungo di voga in Italia, colpevole di aver travestito gli antichi poeti nelle  forme di un linguaggio che non sappiamo collocare né storicizzare: un inafferrabile linguaggio di Utopia che ci ha sempre meravigliato con certi moti di umore, e oggi ancor più ci meraviglia e diverte; solo in qualche caso si potrà parlare di uno sfatto e maldestro residuo di discepolato carducciano 111 . 109  È opportuno citare per intero nel contesto originario il brano, con cui il sag-gio di Eliot si conclude: «Abbiamo bisogno di una digestione che assimili insieme Omero e Flaubert; abbiamo bisogno (come ha incominciato Pound) di uno studio accurato degli umanisti e dei traduttori del Rinascimento. Abbiamo bisogno di un occhio che possa vedere il passato al suo posto con le sue definite differenze dal presente, e, tuttavia in modo così vivo, che esso sia tanto presente a noi come il presente. Questo è l’occhio creativo; ed è per il fatto che il professor Murray non ha istinto creativo che lascia Euripide lì, proprio morto». 110  Eliot 1920 (1946), 142-143: «Negli ultimi anni del diciannovesimo secolo e fino ad oggi, i classici han perduto il loro posto di pilastri del sistema politico-socia-le […]. Se i classici devono sopravvivere e giustificare se stessi, come letteratura, come elementi del pensiero europeo, come fondamento per la letteratura che spe-riamo di creare, sono proprio sfortunati per il bisogno che hanno di persone capaci di chiarirli. Se di Aristotele si può dire che è stato un pilota morale dell’Europa, noi abbiamo bisogno di qualcuno […] che ci spieghi come sia materia vitale per noi il rinunciare o no a tale pilota. E abbiamo bisogno di un gruppo di poeti colti che abbiano, almeno, opinioni sul dramma greco, e se esso sia o no di qualche utilità per noi. Si deve dire che il professor Gilbert Murray non è l’uomo adatto per ciò. I poeti greci non avranno il più insignificante effetto di sollecitazione per la poesia inglese, se appariranno solamente travestiti in un volgare avvilimento dell’idioma troppo risentitamente personale di Swinburne». 111  Anceschi 1946, 32 n. 1: discorso che, Anceschi tiene a precisare, «non si rife-risce ad un letterato di bella educazione e di civilissimo spirito, come il Valgimigli»Per l’Anceschi del 1945, come per quello del 1940 e parimenti del 1951 (e poi sempre), la risposta alle illeggibili e a tratti grottesche traduzioni di Fraccaroli e di Romagnoli 112  venne dai   Lirici greci  di Quasimodo, frutto di «acuto, inatteso, e ormai da molti anni pressoché desueto contatto tra l’antico e il contemporaneo» 113 , fonte di poesia nuova e antica a un tempo: proprio l’opera cioè implicito (e di lì a poco esplicito) obiettivo polemi-co di Gentili, in quanto espressione più nota e fortunata di quel ‘lirismo novecentesco’ che indebitamente assimilò alle proprie categorie critiche ed estetiche la realtà incommensurabilmente altra della lirica greca, pie-gandola alle attese e ai gusti del moderno lettore. Riscoperto da Anceschi a sostegno di una resa dei classici antichi affine a quella operata da Quasi-modo con i lirici greci,   Euripides and Professor Murray  è invece evocato da Gentili come alleato contro gli «arbitrari travestimenti» realizzati da traduzioni quale quella di Quasimodo. Lo si nota non per ossessione ‘fon-tistica’ 114  o gusto della minuzia paradossale, ma come indizio – insieme a tanti altri più rilevanti – del ruolo che nei decenni centrali del Novecento la versione quasimodea dei   Lirici  ebbe, come presenza immanente e come termine di confronto positivo o negativo, non solo nel mondo letterario italiano, ma anche in quello filologico e accademico 115 . Nel caso di Gentili una tale presenza e un tale confronto dovettero sin da giovane caricarsi di più intense risonanze, quando si pensi che la prima (e pressoché unica) re-censione dei   Lirici greci  di Quasimodo ad opera di un grecista accademico fu di Gennaro Perrotta, nell’ottobre 1940. Dimenticata dopo la guerra in  112  Ottime in proposito le osservazioni di U. Albini,   Prefazione , in Perrotta – Al-bini 1972,  V : «Le due traduzioni dei lirici greci che hanno contrassegnato la prima parte del Novecento sono opera di G. Fraccaroli ed E. Romagnoli, due studiosi di seria dottrina, impegnati nello sforzo di rievocare la bellezza e la grandezza dei classici antichi […]. Si voleva spalancare una grande finestra sul mondo antico, offrire le chiavi di un mondo paradigmatico, richiamare al passato come premessa e garanzia per l’avvenire. Se le riprendiamo in mano oggi, tali versioni si rivelano sconfortantemente indecifrabili. Lessico, movenze, stilemi ci sono estranei, ignoti, quasi…». 113  Dall’introduzione di Anceschi del 1951 ora in Quasimodo 2004, 324. 114  Pare certo che Gentili sia giunto al saggio di Eliot attraverso Anceschi, che lo propose al pubblico italiano, e di cui nel saggio poche righe più avanti è del resto citata l’introduzione all’edizione 1951 dei   Lirici greci . Ancora nella postuma   Premessa  di L. Anceschi,   Brevi parole, su un modo del tradurre  a Mariotti 2001, le versioni di Mariotti sono lodate come «ben lontane dalle effusioni floreali del prof. Murray, non meno che da quelle di certi nostri professori-poeti», e si ha un interessante ricordo personale delle «traduzioni dai   Frammenti dei tragici greci  [1925] che lessi ai tempi del liceo, lontane ormai, ma non dimenticate, di Mario Untersteiner, un traduttore che rimase esente dalle rumorose, eccitate, e un poco illusionistiche euforie degli esuberanti traduttori  liberty  del suo tempo». 115  Anche in questo senso non è fuori luogo osservare, come più volte fece Marcello Gigante, che «la traduzione dei   Lirici greci  ha conquistato un posto ben definito nella storia degli studi classici ragione della sede in cui fu pubblicata 116 , la recensione di Perrotta non si limitò a rilevare errori e spropositi della traduzione («Bella cosa, se Quasi-modo sapesse un po’ meglio il greco!»), ma soprattutto seppe cogliere nell’impresa di Quasimodo quella di «un poeta, un modernissimo poeta che vuol tradurre i lirici greci modernamente, e riesce così a conservare ad essi la semplicità antica»: da contemporaneo Perrotta comprese cioè il ‘novecentismo’ dei   Lirici greci , la loro pertinenza (come Anceschi dirà del «classicismo post-simbolista» di Eliot) a «una zona di dignità anticamente moderna, di classiche aspirazioni, che è movimento proprio a gran parte dell’Europa civile tra gli anni 1919-1939» 117 .Sono osservazioni utili, credo, a contestualizzare e meglio valutare l’attenzione, pur critica, che Gentili spesso manifestò verso i   Lirici greci  quasimodei nonché verso significato e influsso nella cultura italiana del Novecento di quella modalità di accesso alla poesia greca. Nel saggio di Gentili compreso nell’annata 1972 de «Il Verri» alle versioni di Quasimo-do dai lirici è accostato il   Pindaro  di Leone Traverso, cioè la traduzione delle odi e di una scelta di frammenti che il grecista e germanista L. Tra-verso (1910-1968) aveva pubblicato nel 1961 per Sansoni 118 . Va ricordato che sede originaria di   Prospettive critiche nell’interpretazione della cul-tura greca dell’età dei lirici  fu l’imponente numero in due tomi di «Studi Urbinati» (1971) per intero dedicato a ospitare  Studi in onore di Leone Traverso 119 , con   Dedica  di Carlo Bo, di cui è altresì presente il saggio   La cultura europea in Firenze negli anni ’30 . Vi si rievoca il clima degli anni di formazione fiorentina di Traverso, poi professore di Lingua e letteratura tedesca nell’Ateneo urbinate, tra i giovani poeti e scrittori (Bo, Bigongia-ri, Luzi, Macrí) che raccolti intorno a «Il Frontespizio» e a «Letteratura» diedero vita all’esperienza dell’ermetismo, prima di tutto come esigenza di apertura a una cultura di carattere europeo e organicamente volta perciò alla traduzione 120 : «anni lontanissimi dove la poesia era una sorta di religio-  116  Si tratta de «Il Bargello. Foglio d’ordini della Federazione fiorentina dei Fasci di combattimento», periodico cui collaborarono molti giovani intellettuali anche vicini all’ermetismo. La recensione ai   Lirici greci  è comunque segnalata nelle bibliografie di Perrotta in  Studi Perrotta  1964, 663 e in Perrotta 1978, 397; sul tema vd. Benedetto 2012,   40 sgg. e   passim . 117  Anceschi 1946, 21; ricordo in proposito il recente, ricco catalogo Mazzocca 2013.  118  Traverso – Grassi 1961. 119  Gentili 1971. 120  Cfr. Bo 1971 (in origine conferenza pronunciata a Firenze nel 1967); nel I tomo è l’ampio saggio di Macrí 1971, dove particolare attenzione è riservata alla rigorosa formazione filologica classica di Traverso («addetto, nella distribuzione dei nostri compiti generazionali, alla specula ellenico-germanica»), alla sua ammi-razione per Perrotta e alla intrinsichezza con Pasquali, alla lunga consuetudine con Pindaro, letto e tradotto «non con un rifacimento o rimpasto contemporaneizzante di tipo idealistico pseudostoricistico (poesia e non poesia, ciò che è vivo e ciò chene e la critica sposava le stesse passioni e le stesse ricerche dei poeti» 121 . Già coinvolto in una polemichetta con Quasimodo ( duce  Lavagnini) ancor prima dell’uscita dei   Lirici greci , intorno all’interpretazione di ὤρα come  giovinezza  nel famoso fr. 94 Diehl di Saffo ( Tramontata è la luna ) 122 , Tra-verso fu uno dei primi recensori dell’opera, su «Primato» dell’1 luglio 1940. Pur notando qualche «arbitrio» e «difetto» nella resa del greco, sin dall’ incipit  egli aderisce alla scelta effettuata sui lirici («perfettamente adeguata al gusto del nostro tempo»), alla sua modalità e ispirazione: Tralasciati i pezzi gnomici e oratorii o comunque ristretti al giro d’una polemica occasionale (Callino, Tirteo, Focilide,Teognide, Solone, Senofane, ecc.) e insieme le manifestazioni illustri – a prima vista un po’ estranee al nostro spirito – di poeti considerati, ma non sempre a ragione, come ufficiali quali Pindaro e Bacchilide  – egli isola di quella poesia una zona che più evidente offre il carattere di una «pu-rezza» rarissima in tutte le civiltà letterarie. (E l’ha aiutato efficacemente in questa selezione anzitutto lo stato in cui più di frequente furono tramandate quelle reliquie  – naturalmente per ragioni diversissime dalle sue: frammentario) 123 . Forse memore di quei lontani trascorsi, e certamente del retroterra erme-tico di Traverso, Gentili assimila   Lirici greci  di Salvatore Quasimodo e   Pin-daro  di Leone Traverso come «prove più rappresentative di un’esperienza letteraria intesa come problema d’immagini, d’invenzione linguistica, di ricerca di stile». Mentre in Quasimodo la «vera “fedeltà” di traduttore è nella libertà del movimento linguistico e ritmico» con il conseguente scarso valore attribuito al reale rapporto originale-traduzione 124 , l’assai più ricca  è morto, ecc.) ma di colpo, al centro e al cuore dell’assoluto e del sublime pindari-co, che fu operazione tipica della critica ermetica nel contatto con l’opera d’arte»: notandosi inoltre che «non diverso (pur computata la diversità della preparazione filologica) fu il possesso della lirica greca da parte di Quasimodo». In una vivace intervista del novembre 1981 O. Macrí ebbe a ricordare Traverso all’inizio degli anni Trenta come parte «del primissimo gruppo pre-ermetico al caffè San Marco […] infusi del demone delle letterature straniere», insieme naturalmente a Carlo Bo, che «venne alla Facoltà di Lettere fiorentina per seguire gli studi classici, poi ci ripensò e divertì sulla letteratura francese, maestro Luigi Foscolo Benedetto, anche di Luzi» (Tabanelli 1986, 65). 121  Sono parole a proposito di Quasimodo e degli anni Trenta da un articolo di Carlo Bo,   Ma dove va la poesia? , apparso sul «Corriere della Sera» dell’11 marzo 1987, ora in Bo 1994, 1610. 122  I testi della disputa, avvenuta su «Corrente di vita giovanile» del 29 febbraio 1940, sono ora disponibili in Benedetto – Greggi – Nuti 2012, 138-140. 123  Traverso 1940; la recensione è ora ripubblicata in Benedetto – Greggi – Nuti 2012, 143-144. Di fronte alle versioni di Quasimodo anche a Traverso, come a tutti i primi recensori, «preme anzitutto riconoscere la validità di poesia italiana, indipendente, che ne risulta». 124  E quindi, come da molti è stato osservato, «il tradurre diviene un momento essenziale del poetare   Sent from the all new AOL app for iOStrama letteraria e filologica sottesa, nonché l’influsso di Hölderlin traduttore di Pindaro e di Sofocle, ha come effetto in Traverso un maggiore rispetto «per gli usi della lingua greca che per lo spirito della propria lingua», con il paradossale scivolare «in una sorta di ermetismo di scrittura che rende inintelligibile il senso e in un preziosismo linguistico che tradisce l’impegno della trasparenza anche se il calco raggiunga in qualche caso la fedeltà auspicata» 125 . Pur tra loro sotto molti aspetti differenti, le versioni di Quasimodo e di Traverso sono agli occhi di Gentili accomunate dall’inadeguatezza a riproporre «la totalità umana e artistica dei lirici greci», vittime della loro stessa ricerca di una «fedeltà emotiva» incapace di rendere l’attuale lettore consapevole della distanza che lo separa da quegli antichi e frammenta-ri testi. Allora e per i successivi decenni della sua intensissima attività scientifica, di filologo e di traduttore, la risposta scelta da Gentili fu ri-nunciare a soffermarsi sul «problema teorico, e in un certo senso ozioso, della traducibilità o intraducibilità in assoluto», e invece, per così dire ‘fenomenologicamente’, «investire sul piano prammatico il problema del-la traducibilità» 126 . Si tratta di pagine di grande rilievo, dove sono indi-viduate priorità e finalità concernenti «il discorso della traducibilità dei lirici, dei modi e delle tecniche del tradurre», nel rifiuto dell’assunzione a modelli di specifiche poetiche del tradurre, affermando l’impossibilità di «prescindere dalle reali situazioni di cultura del mondo contemporaneo e dalle richieste che al traduttore pone il lettore moderno», e definendo esigenze di vasto e pur rigoroso valore comunicativo, destinate (come già si è visto) a essere ribadite e di continuo inverate nel lavoro di Gentili dei decenni a venire: Una poetica non astratta e irreale, non prefigurata su schemi di modelli già espe-riti, ma una poetica aperta del tradurre che si costruisca gli strumenti adeguati a una maggiore portata di comunicazione e riproponga il problema del tradurre dai  125  Gentili 1972, 23-24. Le considerazioni a proposito di Traverso, e delle tra-duzioni di Hölderlin come «esempi mostruosi» di fedeltà all’originale, torneranno in B. Gentili,   Introduzione , a Gentili – Angeli Bernardini – Cingano – Giannini 1998 2 ,  LXVIII . 126  Gentili richiama in nota «il pregevolissimo saggio» di Mattioli 1965, com-preso nel numero speciale  Classicità e contemporaneità , dove anche si aveva la fondamentale prolusione urbinate   Aspetti del rapporto poeta, committente, uditorio nella lirica corale greca . Il saggio di Mattioli si conclude con alcune considera-zioni di tipo teorico, a partire dalla convinzione che «la soluzione univoca (tra-ducibilità assoluta o intraducibilità assoluta che sia) nega il concreto del vissuto», e che perciò risposta sul piano teorico non si può dare ma «il problema si risolve soltanto in un contesto prammatico», cioè sul piano delle molteplici risposte della storia. Alla tradizionale domanda ‘si può tradurre?’ Mattioli propone di sostituire domande quali ‘come si traduce?’ e ‘che senso ha il tradurre?’, cioè «sostituire alla domanda di tipo metafisico la domanda di tipo fenomenologico» greci non nei limiti dei vecchi modelli privilegiati della traduzione letteraria e della traduzione poetica, ma nella prospettiva più ampia di quella idea cui aspira l’et-nografia contemporanea della traduzione come comunicabilità fra culture, visioni del mondo, strutture linguistiche, sistemi grammaticali diversi e distanti nel tempo […]. Poiché fedeltà alla poesia o fedeltà alla qualità letteraria è un problema che investe la comprensione totale del testo, non soltanto di tutte le sue connotazioni, dei suoi registri linguistici e metrici […] ma anche di tutta la realtà extralinguistica e situazionale dell’enunciato poetico 127 . Senza passare dettagliatamente in rassegna l’intero saggio, bastino al-cuni richiami a temi che in futuro variamente continueranno ad occupa-re Gentili. Così l’interrogarsi su una versificazione italiana adeguata alla complessa struttura metrica delle strofe di Pindaro e di Bacchilide conduce Gentili a sostenere la preferibilità del verso libero delle grandi odi dannun-ziane 128 , finanche segnalando le possibilità aperte dal «verso “dinamico” e “atonale” della poesia dei Novissimi», e in effetti nell’antologia   Lirica corale greca  del 1965 lo stesso Gentili aveva tentato «di risolvere il movi-mento dei metri simonidei con le tecniche metriche della poesia contem-poranea dei Novissimi» 129 : va detto che un profondo interesse per le strut-ture metriche della poesia italiana soprattutto ottocentesca e novecentesca sin dall’inizio caratterizzò i «Quaderni Urbinati di Cultura Classica» 130 . La  127  Gentili 1972, 25. Sono affermazioni che ritorneranno, insieme a parte dell’intero saggio, nell’  Appendice II. La traduzione dai lirici. Alcune osservazioni sul problema del tradurre  in Gentili1984 (2006 4 ), 313-320 (e cfr. anche  supra  n. 2). 128  Si ricordi la scelta del verso libero per la traduzione delle   Pitiche , con l’os-servazione che «le grandi odi delle   Laudi  del D’Annunzio, particolarmente il verso libero della   Laus vitae , scandito da strofe di 21 versi, offrono sotto il profilo tecnico un modello esemplare di versificazione per l’esuberante dovizia delle forme ritmi-che, tali da riecheggiare […] i molteplici schemi della metrica pindarica» (Gentili,   Introduzione , a Gentili – Angeli Bernardini – Cingano – Giannini 1998 2 ,  LXIX - LXX ); e si ricordi altresì la lunga citazione da   Maia , con l’apparizione del «monarca de-gli Inni», al principio dell’  Introduzione  alla postrema fatica Gentili – Catenacci  – Giannini – Lomiento 2013. 129  Lo rileva Bernardini 1966, 144. In àmbito diverso ma non estraneo si tenga presente, dello stesso Gentili, l’importante e innovativo lavoro  Cultura dell’im- provviso. Poesia orale colta nel Settecento italiano e poesia greca dell’età arcaica e classica  (Gentili 1980), poi riproposto in altre sedi: nella conclusione si esprime vivo interesse per esperienze contemporanee quali «l’affermarsi, in America, di un’avanguardia poetica, che si definisce “postmoderna” e trae il suo alimento dai contributi sulla poesia orale forniti, in questi ultimi decenni, non solo dall’antropo-logia culturale, ma anche e soprattutto dalla più autorevole filologia classica ameri-cana, rappresentata dagli studi del Parry, del Lord e dell’Havelock» (poi in Gentili 1984 [2006 4 ], 29-30). 130  Già nel primo numero si ha l’articolo di Pinchera 1966, 92-127, che si apre lamentando l’effetto negativo sulle «indagini critiche relative alla storia delle forme metriche» prodotto dalla «dittatura culturale esercitata per vari decenni in Italia da Benedetto Croce».riflessione sull’eclissarsi nel secondo dopoguerra del neoumanesimo di W. Jaeger è occasione per evocare il contemporaneo «crollo dell’esperienza critica crociana», la cui presenza più autorevole nel settore della classicità e più coerente con l’orientamento crociano è riconosciuta in G. Perrotta, particolarmente per  Saffo e Pindaro  (1935) 131 . Circa la più generale posi-zione critica del maestro, Gentili tiene a mettere in rilievo che «pur ade-rendo senza riserve al canone dell’interpretazione estetica dei lirici, aveva tuttavia saldissime basi filologiche e storiche, non era in altri termini una critica del gusto», giacché il crocianesimo operava in lui come una sorta di sovrastruttura, sul tronco più vi-tale di quella viva metodologia critica introdotta in Italia da Giorgio Pasquali, che portava in sé già latenti i fermenti di un approccio linguistico, psicologico e antro-pologico alla cultura classica: la ricerca filologica costituiva soltanto il momento preliminare e necessario di un’indagine il cui fine era l’intelligenza del mondo an-tico nella viva concretezza della sua cultura 132 . Nel prosieguo del contributo, Gentili brevemente si sofferma sull’innova- tivo apporto soprattutto degli indirizzi di Dodds e di Vernant allo studio della cultura greca arcaica, infine indicando il problema cardine della ricerca sulla cultura e la poesia di quell’età «nel corretto rapporto tra livello sincronico e livello diacronico della ricerca», il che è stimolo per accennare alle note riserve verso gli studi pindarici di E. L. Bundy, e poi di D. C. Young. Ad essi Gentili rimprovera un’analisi limitata ai soli aspetti sincronici delle strutture linguistiche e formali, tale da precludere «la possibilità di comprendere gli aspetti situazionali ed extralinguistici della   performance  della lirica pindarica». Alcuni anni dopo, più ampia- mente e duramente Gentili assocerà a questa nuova critica «il fastidio che suscita inevitabilmente un’analisi soltanto formale, intesa a repe-rire le costanti intertestuali, senza riguardo all’articolazione dei singoli contesti ed alla impostazione ideologica dei diversi autori» 133 : è per noi interessante il confronto lì istituito con «quella critica estetica che ebbe in Italia come suo massimo esponente G. Perrotta», a tutto vantaggio  131  In nota è menzionato il contemporaneo saggio su Saffo di M. Valgimigli (1933), «da noi la prova più rilevante di una critica del gusto permeata di evoca-zioni e suggestioni letterarie della cultura italiana fra i due secoli». Significativo è, nella stessa nota, il richiamo invece favorevole all’intonazione anticlassicistica dei frammenti dal saggio di Serra   Intorno al modo di leggere i Greci  pubblicati da E. Raimondi nel numero de «Il Verri» 1965 su  Classicità e contemporaneità ; si consi-deri anche che del 1965, in occasione del cinquantenario della morte, è il saggio di Carlo Bo   La religione di Serra , poi accolto nel volume   La religione di Serra e altre note di lettura , Firenze 1967. 132  Gentili 1972, 30. Su crocianesimo e Pasquali in Perrotta, analoghe espressio-ni vent’anni dopo in Gentili 1996, 12. 133  Su questi temi vd. poi almeno Gentili 1984 (2006 4 ), 156-157dell’approccio del maestro, «una critica estetica che non è puro estetismo impressionistico ed intuizionistico, ma una critica del gusto corroborata da un’acuta sensibilità storica» 134 . L’articolo del 1972 si chiude confer-mandosi come «proposta di una diversa lettura dei lirici, che recuperi nella storicità delle relazioni fra poeta e uditorio il significato originario del loro messaggio». Una proposta di cui si tiene a sottolineare il caratte-re antidogmatico, inteso a rispondere alle esigenze critiche del presente: «Ma, di là da una falsa pretesa di un equivoco oggettivismo metasto-rico, essa non presume di essere definitiva. Al contrario, consapevole del divenire storico della critica, si affianca alle precedenti proposte, già esperite, in una modalità di lettura più coerente con l’orizzonte culturale del nostro tempo» 135 .Assai più dei due precedenti interventi accolti su «Il Verri», nel 1965 e nel 1970,   Prospettive critiche nell’interpretazione della cultura greca dell’età dei lirici  è attento al tema della traduzione, e alle ricadute delle varie correnti critiche del Novecento su teoria e prassi delle traduzioni dai lirici greci. Al ‘piano prammatico’ e all’impostazione ‘aperta’ della traduzione, di taglio antropologico, Gentili rimarrà fedele, ulteriormente approfondendo la riflessione negli anni, sì da scorgere nel traduttore «uno “sciamano” che non conosce confini sino al punto da divenire un altro da sé e di cogliere il momento puntuale in cui significante e significato si compenetrano» 136 , nella fedeltà alla «norma dannunziana di avvicinare il lettore all’opera e non viceversa» 137 . La presenza di contributi di Gentili  134  Gentili 1979b; sul conflitto tra gli indirizzi di E. L. Bundy e della scuola ur-binate di B. Gentili, le considerazioni di Lehnus 1988. Ampia analisi delle posizioni di Bundy e di Young, con frequenti richiami a Perrotta e in nome (come noto) della riproposizione di una ‘lettura estetica’ degli epinici, è nel lavoro di Bonelli 1987, con ricca bibliografia. 135  Gentili 1972, 38. Analogamente, e fenomenologicamente, si concludeva il già citato Mattioli 1965, 128: «Altre risposte (traduzioni e idee del tradurre) segui-ranno in futuro per le quali sarebbe arbitrario stabilir regole o far previsioni come lo sarebbe per l’arte del futuro», e perciò «a questo punto si può fermare il discorso, non solo perché si presenta come abbozzo di una futura ricerca, ma anche perché i  discorsi conclusi  in questo àmbito di studi sono palesemente insensati». Si veda già Mattioli 1963 per la proposta di «una impostazione fenomenologica della ricer-ca», considerata particolarmente necessaria e opportuna nel campo dell’antichità classica proprio in ragione dello «scacco che ha ricevuto il tentativo, compiuto in Italia, di trasportare sic et simpliciter l’estetica crociana nella interpretazione delle letterature classiche». 136  Gentili,   Introduzione , a Gentili – Angeli Bernardini – Cingano – Giannini 1998 2  ,  LXIV . 137  Così in Gentili 2002, dove anche è ricordato il giudizio di Perrotta 1935, 97, per il quale D’Annunzio fu «non solo il traduttore ideale di Pindaro, ma il poeta italiano che meglio di tutti ha saputo riecheggiarne l’arte, intendendola pienamen-te». Più positivo si fa nel citato articolo il giudizio sulla traduzione pindarica di L. Traversosu «Il Verri» non andrà oltre i primi anni ’70 138 , ma sino alla vigilia del-la morte di Anceschi (maggio 1995) durarono i rapporti epistolari, come oggi sappiamo grazie alla pubblicazione dei diari riferiti agli ultimi anni del professore bolognese 139 , che molte volte sino agli estremi suoi giorni continuò a tornare con il pensiero alla traduzione di Quasimodo dei   Lirici greci  e al suo significato storico e culturale 140 .A quella stessa seconda metà degli anni ‘60 fecondissima di idee e di propositi appartiene il numero d’avvio dei «Quaderni Urbinati di Cultura Classica» (1966), come espressione del  Centro di studi sulla lirica gre-ca e sulla metrica greca e latina  diretto da Bruno Gentili   e connesso al CNR. Un effettivo riesame dell’attività scientifica di Gentili comportereb-be una sistematica rilettura non solo dei contributi e degli interventi del direttore dei  Quaderni  ma più in generale delle principali linee di ricerca espresse dalla rivista, del loro permanere, mutare ed evolvere nel corso di cinquant’anni. Mi limiterò a richiamare due contributi di Gentili su Saffo ospitati nei «Quaderni Urbinati di Cultura Classica» a distanza di oltre quarant’anni l’uno dall’altro, per così dire ai due poli cronologici dei  Qua-derni  di Bruno Gentili. Il primo è   La veneranda Saffo , del 1966 141 , che  138  Sino a Gentili – Cerri 1973: sull’importanza dell’articolo per successivi lavo-ri di Gentili sulla storiografia antica vd. Angeli Bernardini 2013, 16. 139  Oltre a un cenno in un’annotazione del 3-5 settembre 1989 («Eccellente scritto di Bruno Gentili sulla “Repubblica”. Lo riporto integralmente. Ancora una volta acu-te considerazioni sulla oralità – e sulla situazione degli studi umanistici», cfr.   Diari  Anceschi  2006, 109), si veda soprattutto quella del 2 gennaio 1993 («Lettera molto lusinghiera di Bruno Gentili. Conosco l’ironia, ed è tale da non accettare ambiguità. Ecco un uomo che dice quello che pensa», cfr.   Diari Anceschi/2  2006, 9). Nell’Ar-chivio Anceschi presso la Biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna sono conservate 26 lettere di Bruno Gentili: cfr. Campagna 1998, 513; si tratta della presenza più am-pia per un filologo classico, insieme a M. Barchiesi (parimenti 26 lettere), del quale sulla rivista anceschiana vd.   Plauto e il “metateatro” antico  (Barchiesi 1969), con la premessa: «sulla tentazione erudita […] prevalse l’idea di tenere aperto, in perfetta modestia, il discorso su quello che è più che mai il nostro tema cruciale, e che può designarsi con la formula stessa del “Verri”, “classicità e contemporaneità”». 140  Così l’11 marzo 1995, a meno di due mesi dalla morte: «Con Quasimodo ho avuto una frequentazione amichevole molto prolungata e, mi pare, serena aperta ai problemi con vivi impulsi di collaborazione e di conoscenza. Certo sono passati tanti anni; per altro, l’affetto del ricordo non diminuisce. Quale che sia la forza della mia vita letteraria, per me si è trattato di un risvolto capitale […]. La traduzione dei   Lirici Greci  fu una esperienza radicale alle origini, che ci portò a rivivere il proble-ma del tradurre come un problema fondamentale della poesia. Da quel momento la discussione è aperta, e mi pare con qualche frutto, mi pare anche che in questo senso l’impulso continui. Penso che questa esperienza nel mettere in rilievo tanti motivi della relazione complessa tra traduzione e poesia – sia, o almeno sia per quel che mi riguarda, costitutiva di un modo di vedere che continua ad operare» (  Diari  Anceschi/2  2006, 92). 141  Gentili 1966 (confluito in forma abbreviata nel cap. XII di Gentili 1984 [2006 4prende spunto dal famoso fr. 384 V. (verosimilmente) di Alceo ἰόπλοκ’ ἄγνα μελλιχόμειδε Σάπφοι, forse (si è supposto) «l’ incipit   di un car-me dedicato all’illustre concittadina» 142 . Era il frammento cui s’era volto Perrotta dopo aver espresso il proprio rifiuto verso «la soluzione dei Wel- cker e dei Wilamowitz» a difesa della ‘purezza’ di Saffo: Molto meglio, per chi voglia davvero intendere e onorare Saffo, ricordare il fram-mento di Alceo che dice (63 D.): «Saffo pura, dal dolce sorriso, dal crine di viola». L’omaggio devoto dell’insolente cavaliere di Lesbo basta a farci sicuri che né bia-simi né malignità aduggiarono mai la vita mortale di Saffo. Altro non è da ricercare: non si può pretendere di giudicare con le nostre idee moderne, né giudicare una donna di Lesbo con i pregiudizi di un Ateniese […]. Ognuno vede quanto sarebbe ingiusto rimproverare alla poetessa i suoi amori per le amiche, mentre nessuno rimprovererà al suo compatriota e contemporaneo Alceo gli amori per Lico. Ma più importa questo: Saffo è soprattutto una poetessa, anzi è soltanto una poetessa per noi; soltanto la sua poesia noi dobbiamo giudicare, e soltanto in essa noi possiamo trovare la sua immagine. Ora, alla sua poesia possiamo accostarci con animo puro: essa è pura, perché poesia, e altissima poesia 143 . Al passo, per molti aspetti paradigmatico dell’interpretazione perrottia-na di Saffo, Gentili non fa diretto riferimento, rifacendosi invece all’ultimo articolo di Walter Ferrari, l’allievo prediletto di Pasquali «inviato come as-sistente di Perrotta a Roma ma morto assai giovane nel 1940» 144 . Se merito dell’intervento di Ferrari era stato sottrarre l’interpretazione dell’epiteto  ἄγνα all’àmbito della «castità profana» 145 , caro a «tutte le mitiche specula-zioni sulla purezza degli amori di Saffo» e a tutte le «moderne idealizzazioni della sua poesia» 146 , dimostrandone invece il senso arcaico «limitato esclu-sivamente alla sfera del sacro», d’altra parte – rileva Gentili – l’indagine di Ferrari sfociava in una idealizzazione di Saffo sostanzialmente coerente «con l’orientamento critico di stretta osservanza crociana prevalente in quei tempi», rappresentato al meglio dal  Saffo e Pindaro  di Perrotta, «scritto appena cinque anni prima» 147 . Nel varare la fortunata avventura dei «Qua-derni Urbinati di Cultura Classica», dalla ‘purezza’ di Saffo Gentili decide  142  Degani – Burzacchini 2005, 241. 143  Perrotta 1935, 31. 144  Canfora 2005, 216. 145  L’articolo di Ferrari era ricordato a proposito del «significato di ἀγνός»  anche nella I edizione di   Polinnia , 202  ad loc . 146  «Questo verso famoso, che sarà da attribuire ad Alceo, è innocentemente responsabile di tutte le mitiche speculazioni (soprattutto da noi) sulla personalità di Saffo che poeti, critici e filologi ci hanno somministrato a partire dalla Saffo “dal riso morbido, dall’ondeggiante | crin di viola” del Carducci sino alla casta Saffo del Valgimigli»: così Gentili l’anno prima, in occasione del rifacimento della sezione su Alceo per l’edizione di   Polinnia  del 1965, 224 (anche in Gentili – Catenacci 2007a, 196). 147  Gentili 1966, 37-38di prendere le mosse: da quello stesso frammento, si può aggiungere, scelto ad introdurre la sezione su Saffo nei   Lirici greci  di Quasimodo («o coro-nata di viole, divina / dolce ridente Saffo»). In conformità ai principî deli-neati nel saggio dell’anno precedente   Aspetti del rapporto poeta, commit-tente, uditorio nella lirica corale greca , dove si poneva in primo piano la necessità per il moderno lettore di comprendere la funzione e il fine proprio del carme lirico, il senso dell’apostrofe è rintracciato attenendosi «al senso reale del contesto alcaico», così leggendo nel saluto di Alceo «un reverente omaggio alla dignità sacrale della poetessa quale ministra d’Afrodite», con precisa allusione «alla funzione religioso-sociale nell’ambito del tiaso» 148 . L’inveterato tema degli amori di Saffo è radicalmente riesaminato alla luce di carattere, aspetti, scopi del tiaso saffico «nelle sue giuste proporzioni storiche e sociali anche mediante l’apporto di analoghe esperienze di altre culture». Il riconoscimento dell’esistenza nella dinamica del tiaso di «pre-cise “unioni” per così dire ufficiali fra le ragazze» tali da non escludere «probabilmente un rapporto di tipo matrimoniale» è posto da Gentili in relazione a una testimonianza di Simone de Beauvoir circa la presenza a Singapore e a Canton ancora in anni recenti «di molte comunità femminili che nelle convenzioni e nelle pratiche di culto sembrano ripetere antichi modelli culturali molto simili a quelli delle comunità della Lesbo arcaica», e cioè «des lesbiennes reconnues […] se marient entre elles et adoptent des enfants». Gentili offre qui un geniale esempio di «interpretazione dei lirici greci arcaici nella dimensione del nostro tempo», come suonerà il ti-tolo dell’intervento al congresso di Bonn del settembre 1969: al di là di eventuali dubbi circa la sostenibilità del confronto, comunque verosimile, conta mettere in luce l’efficacissima reazione ermeneutica che lega antico e contemporaneo illuminando entrambi. Né manca l’apertura sul futuro, quando si pensi in che misura a distanza di pochi decenni in molti Paesi oc-cidentali quegli antichi modelli culturali si siano concretizzati nella rifles-sione giuridica, nella legislazione e nella prassi sociale. Esempio forse tra i più chiari di quanto i classici, e il rinnovamento della loro interpretazio- ne, abbiano contribuito a porre lontane, e meno lontane, basi della (post)moderna  sexual revolution 149 , con tutte le forzature e gli arbitrî propri di tali ardui e complessi intrecci di tempi e di culture. Dell’attenzione di Gen- 148  Gentili 1966, 46 sgg. Importanti in quest’àmbito anche i numerosi contributi ospitati nei «Quaderni Urbinati di Cultura Classica» a proposito di significato e contesto del partenio di Alcmane, a partire soprattutto da Gentili 1976 (poi rifuso nel cap. VI   Le vie di Eros nella poesia dei tiasi femminili e dei simposi  in Gentili 1984 [2006 4 ]); sul più ampio tema delle iniziazioni femminili l’assai più recente volume Gentili – Perusino 2002. 149  In luogo di rifarmi alla sovrabbondante bibliografia anglosassone in proposi-to, spesso ideologicamente determinata, ricordo il capitolo   Klassieken en seksuele vrijheid   nel bel libro di Veenman 2009, 273-291: con particolare riferimento a una cultura, quale quella dei Paesi Bassi, cui in differenti epoche, sino alle più recentitili a questi temi e alle loro ricadute e implicazioni, è infine testimonianza  Saffo ‘politicamente corretta’  , l’articolo del 2007 (in collaborazione con C. Catenacci) dove la ribadita posizione critica che ammette la presenza nei carmi saffici di elementi avvaloranti la pratica dell’omoerotismo in àmbito iniziatico e paideutico 150  è volta a contrastare «una nutrita serie di lavori ispirati ai  gender studies » di recente diffusisi soprattutto negli (e dagli) Stati Uniti, e intesi a sostenere che «Saffo non si rivolgeva a giovinette, ma a sue coetanee in una forma di libera attrazione omosessuale, e non svolgeva nessun ruolo né paideutico né religioso all’interno del gruppo». Un corag-gioso intervento, di grande valore metodologico e rilevanza storiografica, per il quale una tale Saffo   politically correct   va respinta, al pari della Saffo otto-novecentesca votata alla purezza, giacché «rappresentazione astorica e forgiata su istanze manifestamente attualizzanti» 151 .Nel quadro del crescente interesse nei «Quaderni Urbinati di Cultura Classica» dell’ultimo ventennio per questioni di storia e metodologia degli studi classici, alcuni anni fa apparve un articolo di C. Miralles, dal titolo  The use of classics today , aperto dall’indubbia constatazione «the huma-nities are losing ground and classical studies are in retreat» 152 . Al di là dei suggerimenti proposti, e dell’enorme differenza di tempi e condizioni, torna in mente «il vigile e costante impegno a dare un senso di attualità ai nostri studi» caro a Perrotta, da Gentili più volte ricordato nelle com-memorazioni del maestro. Nel salutare la recente rinnovata edizione di   Polinnia  è stato giustamente e autorevolmente rilevato che «in tanto rin-novamento, Gentili e la sua scuola non hanno dimenticato né che la poesia greca si può avvicinare solo attraverso la storia e la filologia, né che essa ha comunque uno straordinario valore estetico. Gentili non ha rinnegato le sue radici, semplicemente da esse è nato un albero capace di produrre fiori non prevedibili all’inizio – se Perrotta sarebbe contento di lui? Difficile dirlo» 153 . Forse, e per molti motivi, si può azzardare una risposta positiva. Giovanni Benedetto si devono determinanti apporti nell’elaborazione di teoria e prassi della moderna sessualità ‘liberata’, Veenman mostra quanto soprattutto negli ultimi due secoli «i classici hanno aiutato a capire e denominare l’omosessualità» («de klassieken hielpen homoseksualiteit te begrijpen en te benoemen»). 150  Gentili – Catenacci 2007b; circa la storia della fortuna e della ricezione di Saffo mi limito a rinviare alle incisive osservazioni di Most 1996. 151  Va detto che in generale la critica più recente sembra avvertire una quantità crescente di aporie circa il significato del contesto comunitario, il gruppo ristretto e omogeneo tradizionalmente attribuito a Saffo, il ‘tiaso’, e torna ad osservare che «mentre nel caso di Alceo la dimensione di gruppo ristretto è evidente e spiega ade-guatamente gran parte – se non la totalità – della sua poesia, nel caso di Saffo è più difficile da delineare senza rischiare attualizzazioni indebite» (Michelazzo 2007).  152  Miralles 2009, in partic. 23-24. 153  Bettini 2010, 336Albini 1963 = U. Albini,  Gennaro Perrotta † , «Gnomon» 35, 1963, 110-112.Anceschi 1946 = L. Anceschi,   Primo tempo estetico di Eliot  , in T. S. Eliot,   Il bosco sacro. Saggi di poesia e di critica , con uno studio di L. Ance-schi, Milano 1946, 9-42.Anceschi 1956 (1996) = L. Anceschi,  Critica e immaginazione , «Il Verri» 1, 1956, 8-20 (= «il verri» N. S. 1, 1996, 7-16).Anceschi 1962 = L. Anceschi,  Orizzonte della poesia , «Il Verri» s. II, 1, 1962, 6-21.Anceschi 1965 = L. Anceschi,   Intervento , «Il Verri» s. II, 19, 1965, 3-5.Anceschi 1967 = L. Anceschi,   Del “Verri”, perché lo abbiamo fatto e lo  facciamo , «Il Verri» s. IV, 25, 1967, 3-13 (= L. Anceschi,   Interventi  per «il verri» [1956-1987] , a cura di L. Vetri, Ravenna 1988, 11-22, da cui si cita).Anceschi – Porzio 1945 =   Poeti antichi e moderni tradotti dai lirici nuovi , a cura di L. Anceschi e D. Porzio, Milano 1945.Anceschi – Campagna – Colombo 1998 =   Il laboratorio di Luciano Ance-schi. Pagine, carte, memorie , a cura di M. G. Anceschi – A. Campagna  – D. Colombo, Milano 1998.Angeli Bernardini 2013 = P. Angeli Bernardini,   Ricordo di Bruno Gentili , «QUCC» N.S. 105, 2013, 13-23.Arrighetti [et al.] 1982 =   Aspetti di Hermann Usener, filologo della reli-gione . Seminario della Scuola normale superiore di Pisa, 17-20 febbra-io 1982, a cura di G. Arrighetti [et al.]; prefazione di A. Momigliano, Pisa 1982.Barchiesi 1969 = M. Barchiesi,   Plauto e il “metateatro” antico” , «Il Ver-ri» s. IV, 31, 1969, 113-130.Barié – Sini 1959 = G. E. Barié – C. Sini,   I Greci e noi , Milano 1959.Benedetto 2006 = G. Benedetto,   I Sepolcri nella storia della fortuna di  Pindaro , in Dei Sepolcri  di Ugo Foscolo , a cura di G. Barbarisi – W. Spaggiari, Milano 2006, 281-311.Benedetto 2008 = G. Benedetto,   Filologia classica e storia antica: pre-messe e sviluppi (1914-1964) , in AA.VV.,   Per una storia dell’Univer-sità di Milano , Bologna 2008, 161-183 (già in «Annali di storia delle università italiane» 11, 2007, 179-201).Benedetto 2012 = G. Benedetto,  Tradurre da poesia classica in frammen-ti: note di Manara Valgimigli ai Lirici greci di Quasimodo (1940) , in   Lirici greci e lirici nuovi. Lettere e documenti di Manara Valgimigli,  Luciano Anceschi e Salvatore Quasimodo , a cura di G. Benedetto – R. Greggi – A. Nuti; introd. di M. Biondi, Bologna 2012, 33-86.Benedetto – Greggi – Nuti 2012 =   Lirici greci e lirici nuovi. Lettere e documenti di Manara Valgimigli, Luciano Anceschi e Salvatore Quasimodo , a cura di G. Benedetto – R. Greggi – A. Nuti; introd. di M. Biondi, Bologna 2012.Bernardini 1966 = P. Bernardini,   Rassegna critica delle edizioni, traduzio-ni e studi pindarici dal 1958 al 1964 (1965) , «QUCC» 2, 1966, 136-193.Bettini 2010 = M. Bettini,  Una nuova  Polinnia, «QS» 72, 2010, 331-340.Bo 1938 = C. Bo,   Letteratura come vita , «Il Frontespizio» 9, sett. 1938 (poi in Bo 1994, 3-16).Bo 1971 = C. Bo,   La cultura europea in Firenze negli anni ’30 , «Stud- UrbB» 45, 1971, N. S. II 573-588.Bo 1994 = C. Bo,   Letteratura come vita , antologia critica a cura di S. Pau-tasso, Milano 1994.Bonelli 1987 = G. Bonelli,   Pindaro. Formalismo e critica estetica , «AC» 56, 1987, 26-55.Bossina 2010 = L. Bossina,  «Textkritik». Lettere inedite di Paul Maas a Giorgio Pasquali , «QS» 72, 2010, 257-306.Campagna 1998 = A. Campagna,   Appendice I. Elenco di consistenza per autore dell’epistolario Anceschi , in   Il laboratorio di Luciano Anceschi.  Pagine, carte, memorie , a cura di M. G. Anceschi – A. Campagna – D. Colombo, Milano 1998, 506-523.Campanile 1982 = E. Campanile,   La metrica comparativa di Hermann Usener , in   Aspetti di Hermann Usener, filologo della religione . Semi-nario della Scuola normale superiore di Pisa, 17-20 febbraio 1982, a cura di G. Arrighetti [et al.]; prefazione di A. Momigliano, Pisa 1982, 137-145.Canfora 2005 = L. Canfora,   Il papiro di Dongo , Milano 2005.Capone – Giannini 2015 = A. Capone – P. Giannini,  Gli appunti di metrica classica di Giovanni Pascoli tratti dalle lezioni di Girolamo Vitelli , Firenze 2015.Catenacci 2014 = C. Catenacci,   Ricordo di Bruno Gentili , «Eikasmós» 25, 2014, 447-454.Cavallotti 1878 = F. Cavallotti,  Canti e frammenti di Tirteo. Versione let-terale e poetica con testo e note preceduta da un’ode a Giosuè Carduc-ci , Milano 1878.Cerri 2014 = G. Cerri,   Ricordo di Bruno Gentili , «Maia» 66, 2014, 227-234.Colantonio – Bravi 2006 = M. Colantonio – L. Bravi,   La tradizione classi-ca , in   L’Università di Urbino 1506-2006 , a cura di S. Pivato, II,   I saperi  fra tradizione e innovazione , Urbino 2006, 43-52.Croce 1921 = B. Croce,   La poesia di Dante , Bari 1921.Curi 2014 = F. Curi,   Il critico stratega e la nuova avanguardia. Luciano  Anceschi, i Novissimi, il Gruppo 63 , Milano-Udine 2014.Degani 1995 = E. Degani,   La poesia greca antica , in  Giornate di studio sull’opera di Bruno Lavagnini. Palermo, 7-8 maggio 1993. Atti , a cura di G. D’Ippolito – S. Nicosia – V. Rotolo, Palermo 1995, 19-31Degani – Burzacchini 2005 = E. Degani – G. Burzacchini,   Lirici greci , seconda ed. con aggiornamento bibliografico a cura di M. Magnani, Bologna 2005.Dewitte 1981 = A. Dewitte,   Bonaventura Vulcanius Brugensis (1538-1614). A bibliographic description of the editions 1575-1612 , «Lias» 8, 1981, 189-201.Di Benedetto 2001 = V. Di Benedetto,   Ricordo di Polinnia , «Lexis» 19, 2001, 141-145 (ora in Id.,   Il richiamo del testo. Contributi di filologia e letteratura , Pisa 2007, I, 39-43).  Diari Anceschi  2006 =   I diari di Luciano Anceschi 1986-1990 , «il verri» a. 51, 31, 2006.  Diari Anceschi/2  2006 =  “I diari di Luciano Anceschi”/2 1993-1995 , «il verri» a. 51, 32, 2006.Dieterich – Hiller von Gaertringen – Calder III 1994 2  =  Usener und Wila-mowitz. Ein Briefwechsel 1870-1905 , hrsg. von H. Dieterich, F. Hiller von Gaertringen, mit einem Nachwort und Indices von W. M. Calder III, Stuttgart-Leipzig 1994 2 .Eliot 1920 (1946) = T. S. Eliot,   Euripides and Professor Murray , in  The sacred wood. Essays on poetry and criticism , London 1920, 64-70 (trad. it.   Il bosco sacro. Saggi di poesia e di critica , Milano 1946).Funaioli – Perrotta 1948 = G. Funaioli – G. Perrotta,   Ai lettori , «Maia» 1, 1948, 1-3.Gamberale 1994 = L. Gamberale,   Le scuole di filologia greca e latina , in   Le grandi Scuole della Facoltà , Roma 1994, 28-125.García Novo 2008 = E. García Novo,   Métrica , in  Veinte años de filología griega (1984-2004) , ed. F. R. Adrados [et al.], Madrid 2008, 397-412.Garland 2004 = R. Garland,  Surviving Greek tragedy , London 2004.Gentili 1944 = B. Gentili,   I codici e le edizioni delle “Storie” di Agatia , «Bullettino dell’Istituto storico italiano per il Medio Evo e Archivio Muratoriano» 58, 1944, 163-176.Gentili 1950 = B. Gentili,   Metrica greca arcaica , Messina-Firenze 1950.Gentili 1952 = B. Gentili,   La metrica dei Greci , Messina-Firenze 1952.Gentili 1958 = B. Gentili,   Bacchilide. Studi , Urbino 1958.Gentili 1963 = B. Gentili,   Problemi di metrica. I  , «Maia» 15, 1963, 314-321 (poi in  Studi in onore di Gennaro Perrotta , Bologna 1964, 308-315).Gentili 1965a = B. Gentili,   Aspetti del rapporto poeta, committente, udi-torio nella lirica corale greca , «StudUrbB» N.S. 39, 1, 1965, 70-88.Gentili 1965b = B. Gentili,   Aspetti del rapporto poeta, committente, udito-rio nella lirica corale greca , «Il Verri» s. II, 19, 1965, 80-97.Gentili 1965c =   Lirica corale greca. Pindaro Bacchilide Simonide , con testo a fronte versioni introduzione e note di B. Gentili, Parma 1965.Gentili 1966 = B. Gentili,   La veneranda Saffo , «QUCC» 2, 1966, 37-62.Gentili 1969 = B. Gentili,   L’interpretazione dei lirici greci arcaici nelladimensione del nostro tempo. Sincronia e diacronia nello studio di una cultura orale , «QUCC» 8, 1969, 7-21.Gentili 1970 = B. Gentili,   L’interpretazione dei lirici greci arcaici nella dimensione del nostro tempo , «Il Verri» s. IV, 32, 1970, 6-19.Gentili 1971 = B. Gentili,   Prospettive critiche nell’interpretazione della cultura greca dell’età dei lirici , «StudUrbB» 45, 1971, N. S. II 817-836.Gentili 1972 = B. Gentili,   Prospettive critiche nell’interpretazione della cultura greca dell’età dei lirici , «Il Verri» s. IV, 38, 1972, 22-39.Gentili 1976 = B. Gentili,   Il Partenio   di Alcmane e l’amore omoerotico  femminile nei tiasi spartani , «QUCC» 22, 1976, 59-67.Gentili 1979a = B. Gentili,   Metrica greca. Problemi di metodologia e rap- porto metrica-musica , in  Storia e civiltà dei Greci , direttore R. Bianchi Bandinelli; III. 6,   La crisi della polis. Arte, religione, musica , Milano 1979, 681-694.Gentili 1979b = B. Gentili,   Poeta, committente, pubblico , in  Storia e civil-tà dei Greci , direttore R. Bianchi Bandinelli; II. 3,   La Grecia nell’età di  Pericle. Storia, letteratura, filosofia , Milano 1979, 209-254.Gentili 1980 = B. Gentili,  Cultura dell’improvviso. Poesia orale colta nel Settecento italiano e poesia greca dell’età arcaica e classica , «QUCC» NS 6, 1980, 17-59.Gentili 1984 (2006 4 ) = B. Gentili,   Poesia e pubblico nella Grecia antica , Roma-Bari 1984 (2006 4 ).Gentili 1988 = B. Gentili,  Gli studi di Giorgio Pasquali sulla metrica gre-ca e sul saturnio latino , in  Giorgio Pasquali e la filologia classica del  Novecento . Atti del Convegno Firenze-Pisa, 2-3 dicembre 1985, a cura di F. Bornmann, Firenze 1988, 79-99.Gentili 1989 = B. Gentili,  Tradurre poesia , «Aufidus» 8, 1989, 61-73.Gentili 1990 = B. Gentili,   Die pragmatischen Aspekte der archaischen griechischen Dichtung,  «A&A» 36, 1990, 1-17.Gentili 1991 = B. Gentili,  Tradurre poesia , in   La traduzione dei testi clas-sici: teoria, prassi, storia . Atti del Convegno di Palermo (6-9 aprile 1988), a cura di S. Nicosia, Napoli 1991, 32-40.Gentili 1996 = B. Gentili,   Introduzione , in  Giornate di studio su Gennaro  Perrotta . Atti del Convegno (Roma 3-4 novembre 1994), a cura di B. Gentili – A. Masaracchia, Pisa-Roma 1996, 11-13.Gentili 2002 = B. Gentili,   Leone Traverso traduttore di Pindaro , «QUCC» N. S. 70, 1, 2002, 127-134.Gentili – Angeli Bernardini – Cingano – Giannini 1998 2  = Pindaro,  Le  Pitiche , introd., testo critico e trad. di B. Gentili; comm. a cura di P. An-geli Bernardini – E. Cingano – B. Gentili – P. Giannini, Milano 1998 2 .Gentili – Catenacci 2007 =   Polinnia. Poesia greca arcaica , terza ed. a cura di B. Gentili e C. Catenacci, Messina-Firenze 2007.Gentili – Catenacci 2007b = B. Gentili – C. Catenacci,  Saffo ‘politicamen-te corretta’  , «QUCC» N. S. 86, 2007, 79-87Gentili – Catenacci – Giannini – Lomiento 2013 = Pindaro,  Le Olimpiche , introd., testo critico e trad. di B. Gentili; comm. a cura di C. Catenacci  – P. Giannini – L. Lomiento, Milano 2013.Gentili – Cerri 1973 = B. Gentili – G. Cerri,  Strutture comunicative del discorso storico nel pensiero storiografico dei Greci , «Il Verri» s. V, 2, 1973, 53-78.Gentili – Giannini 1977 = B. Gentili – P. Giannini,   Preistoria e formazione dell’esametro , «QUCC» 26, 1977, 7-51.Gentili – Perusino 1997 =   La colometria antica dei testi poetici greci , a cura di B. Gentili – F. Perusino, Pisa-Roma 1997.Gentili – Perusino 2002 =   Le orse di Brauron. Un rituale di iniziazione  femminile nel santuario di Artemide , a cura di B. Gentili – F. Perusino, Pisa 2002.Giannini 2009 = P. Giannini,   Pascoli e la lirica corale , «QUCC» N. S. 93, 2009, 25-37.Gigante 1996 = M. Gigante,  Gennaro Perrotta e Benedetto Croce , in  Giornate di studio su Gennaro Perrotta . Atti del Convegno (Roma 3-4 novembre 1994), a cura di B. Gentili – A. Masaracchia, Pisa-Roma 1996, 129-152.Grana 1969 =   I critici. Per la storia della filologia e della critica moderna in Italia , collana diretta da G. Grana, I-V, Milano 1969 [repr. 1987].Lavagnini 1932 = B. Lavagnini,   Nuova antologia dei frammenti della liri-ca greca , Torino 1932.Lavagnini 1937 = B. Lavagnini,   Aglaia. Nuova antologia della lirica gre-ca da Callino a Bacchilide , Torino 1937.Lehnus 1988 = L. Lehnus,   Pindaro , in   Dizionario degli scrittori Greci e  Latini , Milano 1988, III, 1619-1634.Lehnus 1989 = L. Lehnus,   Rileggendo Untersteiner interprete di Pindaro , in   L’etica della ragione. Ricordo di Mario Untersteiner , a cura di A. M. Battegazzore – F. Decleva Caizzi, Milano   1989, 55-65 (ora in L. Lehnus,   Incontri con la filologia del passato , Bari 2012, 151-163).Lehnus 2010a = L. Lehnus,   Repertorio di libri ed estratti postillati da  Paul Maas , «QS» 71, 2010, 221-245 (ora in L. Lehnus,   Incontri con la  filologia del passato , Bari 2012, 735-761).Lehnus 2010b = L. Lehnus,   Repertorio di carte di Paul Maas e di docu-menti da lui provenienti o a lui indirizzati , «QS» 71, 2010, 247-272 (ora in L. Lehnus,   Incontri con la filologia del passato , Bari 2012, 763-792).Lisa 2007 = T. Lisa,   Le poetiche dell’oggetto da Luciano Anceschi ai No-vissimi. Linee evolutive di un’istituzione della poesia del Novecento , Firenze 2007.Lomiento 2014 = L. Lomiento,  Ricordo di Bruno Gentili , «Lexis» 32, 2014, 1-8.Maas 1963 = P. Maas,   Ein seltsames Versmass in Schiller’s ‘Jungfrau von Orleans’  , «Maia» 15, 1963, 45-46 (poi in  Studi in onore di Gennaro  Perrotta , Bologna 1964, 43-44) Macrí 1971 = O. Macrí,   Leone Traverso e l’esperienza ermetica , «Stud- UrbB» 45, 1971, N. S. I 15-57.Mariotti 2001 = I. Mariotti , Da Saffo a Ovidio. Con un priapeo,  Lecce 2001.Martindale 1999 = C. Martindale,   Ruins of Rome: T. S. Eliot and the pre-sence of the past  , in   Roman presences. Receptions of Rome in European culture, 1789-1945 , ed. by C. Edwards, Cambridge 1999, 236-255.Martinelli 2009 =   La Musa dimenticata. Aspetti dell’esperienza musicale greca in età ellenistica , a cura di M. C. Martinelli, Pisa 2009.Mattioli 1963 = E. Mattioli,   Prospettive fenomenologiche per lo studio dell’antichità classica , «Il Verri» s. II, 11, 1963, 93-97.Mattioli 1965 = E. Mattioli,   Introduzione al problema del tradurre , «Il Verri» s. II, 19, 1965, 107-128.Mazzocca 2013 =   Novecento. Arte e vita in Italia tra le due guerre , a cura di F. Mazzocca, Milano 2013.Michelazzo 2007 = F. Michelazzo,   Alceo e Saffo: risorse (e insidie) ese-getiche di un contesto comune , in   I papiri di Saffo e di Alceo . Atti del Convegno internazionale di studi Firenze, 8-9 giugno 2006, a cura di G. Bastianini – A. Casanova, Firenze 2007, 127-147.Miralles 2009 = C. Miralles,  The use of classics today , «QUCC» N. S. 93, 2009, 11-24.Momigliano 1985 = A. Momigliano,   Hermann Usener , in Id.,  Tra storia e storicismo , Pisa 1985, 145-168.Morelli 1996 = G. Morelli,   Metrica greca e saturnio latino. Gli studi di Gennaro Perrotta sul saturnio , Bologna 1996.Morwood 2007 = J. Morwood,  Gilbert Murray’s translations of Greek tragedy  in  Gilbert Murray reassessed. Hellenism, theatre, and interna-tional politics , ed. by Ch. Stray, Oxford 2007, 133-144.Most 1996 = G. W. Most,   Reflecting Sappho , in   Re-reading Sappho. Re-ception and transmission , ed. by E. Greene, Berkeley-Los Angeles-London 1996, 11-35.Nava 2007 = G. Nava,  Cultura e poesia del mito tra Otto e Novecento , in   Pascoli e la cultura del Novecento , a cura di A. Battistini – G. Miro Gori – C. Mazzotta, Venezia 2007, 85-95.Nisticò 1997 = R. Nisticò,   Luciano Anceschi , «Belfagor» 52, 1997, 287-301.Orvieto 2003 =  Storia della letteratura italiana , diretta da E. Malato. XI,   La critica letteraria dal Due al Novecento , coordinato da P. Orvieto, Roma 2003.Paratore 1963a = E. Paratore,  Commemorazione del corrispondente Gen-naro Perrotta , «RAL» s. VIII, 18, 1963, 291-301.Paratore 1963b = E. Paratore,  Gennaro Perrotta , «RCCM» 5, 1963, 3-11.Perrotta 1935 = G. Perrotta,  Saffo e Pindaro , Bari 1935.Perrotta 1943 = G. Perrotta,   La filologia classica nell’ultimo ventennio , in  Scienza e Università italiane in un ventennio di Regime fascista ·  MCMXXII-MCMXLII  , Roma 1943, 40-47.Perrotta 1948 = G. Perrotta,   Ettore Romagnoli , «Maia» 1, 1948, 85-103.Perrotta 1951 = G. Perrotta,   Il Lamento di Danae , «Maia» 4, 1951, 81-117.Perrotta 1965 = G. Perrotta,   Lucano, VII, 746-749 , «StudUrbB» N.S. 39, 1, 1965, 7-17.Perrotta 1978 = G. Perrotta,   Poesia ellenistica. Scritti minori II  , a cura di B. Gentili – G. Morelli – G. Serrao, Roma 1978.Perrotta – Albini 1972 =   Lirici greci , introd. e trad. di G. Perrotta; a cura di U. Albini, Firenze 1972.Perrotta – Gentili 1948 = G. Perrotta – B. Gentili,   Polinnia. Antologia della lirica greca , Messina 1948.Perrotta – Gentili 1965 = G. Perrotta – B. Gentili,   Polinnia. Poesia greca arcaica . Nuova edizione a cura di B. Gentili, Messina-Firenze 1965.Pestalozza 1909 = U. Pestalozza,   Ermanno Usener , «Il Rinnovamento» 3, 1, 1909, 3-33.Pinchera 1966 = A. Pinchera,   L’influsso della metrica classica sulla me-trica italiana del Novecento (da Pascoli ai “novissimi”) , «QUCC» 1, 1966, 92-127.Porro 1994 = A. Porro,  Vetera Alcaica. L’esegesi di Alceo dagli Alessan-drini all’età imperiale , Milano 1994.Pretagostini 1993a = R. Pretagostini,   Le teorie metrico-ritmiche degli an-tichi. Metrica e ritmo musicale , in AA.VV.,   Lo spazio letterario della Grecia antica. Vol. I.2 , Roma 1993, 369-391Pretagostini 1993b = R. Pretagostini,  Tradizione e innovazione nella cultu-ra greca da Omero all’età ellenistica: scritti in onore di Bruno Gentili , a cura di R. Pretagostini, I-III, Roma 1993.Quasimodo 1940 =   Lirici greci , tradotti da S. Quasimodo, Milano 1940.Quasimodo 2004 = S. Quasimodo,   Lirici greci , a cura di N. Lorenzini; con tre scritti di L. Anceschi, Milano 2004.Sanguineti 1969 =   Poesia italiana del Novecento , a cura di E. Sanguineti, Torino 1969.Sassi 1982 = M. M. Sassi,   Dalla scienza delle religioni di Usener ad Aby Warburg , in   Aspetti di Hermann Usener, filologo della religione . Se-minario della Scuola normale superiore di Pisa, 17-20 febbraio 1982, a cura di G. Arrighetti [et al.]; prefazione di A. Momigliano, Pisa 1982, 65-91.Schmidt 1969 =  Wesen und Rang der Philologie. Zum Gedenken an Her-mann Usener und Franz Bücheler . Für den 5. Internationalen Kongreß der Fédération Internationale des Associations d’Études Classiques Bonn, 1-6 September 1969, hrsg. von W. Schmidt, Stuttgart 1969.Serra 1965 = R. Serra,   Intorno al modo di leggere i Greci , a cura di E. Raimondi, «Il Verri» s. II, 19, 1965, 6-15.Sisti 1994 = F. Sisti,  Gli scritti sulla lirica greca arcaica , in  Giornate di studio su Gennaro Perrotta . Atti del Convegno (Roma 3-4 novembre 1994), a cura di B. Gentili – A. Masaracchia, Pisa-Roma 1996, 41-54Stella 1972 = L. A. Stella,   Ettore Romagnoli umanista nel centenario della sua nascita , «StudRom» 20, 1972, 169-180. Studi Perrotta  1964 =  Studi in onore di Gennaro Perrotta , Bologna 1964.Tabanelli 1986 = G. Tabanelli,  Carlo Bo. Il tempo dell’ermetismo , testi-monianze di C. Bo – M. Luzi – C. Betocchi – O. Macrí – P. Bigongiari  – A. Parronchi – E. Vallecchi – V. Pratolini – F. Ulivi – G. Caproni, Milano 1986.Tedeschi 2014 = G. Tedeschi,   Ricordo di Bruno Gentili , «A&R» n. s. II, 8, 2014, 94-102. Tavola rotonda  2008 =  Tavola rotonda , «QUCC» 90, 2008, 119-199.Tomasin 1997 = L. Tomasin,  Varia (s)fortuna di Alceo in Italia , «ASNP» s. IV, 2, 2, 1997, 637-666.Traverso 1940 = L. Traverso,   Lirici greci , «Primato» 1, 9, 1940, 10.Traverso – Grassi 1961 = Pindaro,  Odi e frammenti , trad. e prefazione di L. Traverso; note introduttive e note al testo di E. Grassi, Firenze 1961.Treves 1980 = G. Pascoli,   L’opera poetica  scelta e annotata da P. Treves, Firenze 1980.Ugolini – Setti 1940 =   Lirici greci ,   scelti e commentati da   G. Ugolini – A. Setti, Firenze 1940.Ugolini – Setti 1972 =   Lirici greci e poeti ellenistici , antologia a cura di G. Ugolini – A. Setti, Firenze 1972.Usener 1887 = H. Usener,   Altgriechischer Versbau: ein Versuch verglei-chender Metrik  , Bonn 1887.Usener 1907 = H. Usener,   Philologie und Geschichtswissenschaft  , in Id.,  Vorträge und Aufsätze , Leipzig-Berlin 1907, 1-35.Usener 1993 = H. Usener,  Triade. Un saggio di numerologia mitologica , a cura di M. Ferrando, Napoli 1993.Usener 2008 = H. Usener,   I nomi degli dèi. Saggio di teoria della forma-zione dei concetti religiosi , a cura di M. Ferrando, Brescia 2008.Usener 2010 = H. Usener,   Le storie del diluvio , a cura di I. Sforza, Brescia 2010.Valgimigli 1946 = M. Valgimigli,   Poeti greci e «lirici nuovi» , «La Fie-ra Letteraria» 1946 (poi in M. Valgimigli,   Del tradurre e altri scritti , Milano-Napoli 1957, 159-166).Veenman 2009 = R. Veenman,   De klassieke traditie in de Lage Landen , Nijmegen 2009.Zapperi 2013 = R. Zapperi,   Freud e Mussolini. La psicoanalisi in Italia durante il regime fascista , Milano 2013. Grice: “I know Gentili’s type – once in love with Greek, you cannot be a honest Latinist. So he found that everything Roman had to be Hellenistic, -- see his notes on the Saturnio – this of course irrirtates and rightly so Latinists – there are Roman ways which are not Hellenistic ways. Geymonat has analysed this in social-class terms in his history: Athens remained the finishing school for the ‘figli’ of the ‘migliore famiglie romane’ – and the circle of Scipione Emiliano was pro-hellenic, but Cato won: Latin remained the lingo!” Grice: “It also shows the unfairness of academia for the poor – only the poor learn at Oxford, and I was fortunate enough to have Hardie – but imagine you are born near Urbino and decide to study classics at Urbino and you have Bruno Gentili as your teacher in “Latin literature” and all he teaches you is how Hellenistic it all is! I hope you are not poor and that you don’t have to LEARN at Urbino!” -- Bruno Gentili. Gentili. Keywords: implicature. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gentili” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51758048183/in/dateposted-public/

 

Grice e Gerratana – il contratto sociale – filosofia italiana – filosofia siciliana -- Luigi Speranza (Scicli). Filosofo. Grice: “I like Gerratana; for one, he translated Rousseau, and I have been called a contractualist, if not like Grice [G. R. Grice].” Grice: “Gerratana carefully edited Pintor’s oeuvre.” – Grice: “I like Gerratana; they – Italian philosophers, generally -- philosophise on the working people – operaio --; at Oxford we usually do not!” Partecipa alla resistenza a Roma, nelle file dei GAP, legandosi a Salinari e Pintor, conosciuto al corso allievi ufficiali di Salerno, e ricordato in “Sangue d'Europa.” Prende parte alla ricostruzione del PCI romano e si laurea a Roma. Insegna a Salerno e Siena. Studioso sobrio e rigoroso del marxismo, cura Labriola e Gramsci. La sua edizione, con un'accurata ricostruzione cronologica, archiviò definitivamente l'edizione tematica. Gerratana mette in luce lo stile "frammentario" e "antidogmatico" di Gramsci. Altre opera: “L'eresia di Rousseau, Roma, Editori Riuniti), Il marxismo, Roma, Editori Riuniti); “Labriola di fronte al socialismo giuridico, Milano, Giuffrè editore); “Gramsci. Problemi di metodo, Roma, Editori Riuniti); “Quaderni dal carcere. Treccani L'Enciclopedia italiana". Biografia di Gerratana nel sito dell'ANPI Associazione Nazionale Partigiani d'Italia.  Si è svolto a Roma il 18 e 19 novembre nella Facoltà di Scienze della Formazione dell'Università Roma Tre, un convegno di studi in memoria di un importante esponente del pensiero politico italiano, Valentino Gerratana, a dieci anni dalla sua morte. Essenzialmente noto per aver curato nel 1975 l'edizione critica dei Quaderni del carcere di Gramsci, Gerratana fu in realtà uno studioso politicamente appassionato e uomo politico di estrema cultura. Merito di questo convegno è stato l'aver messo in luce tanto l'impegno politico e morale di un uomo quanto l'eclettismo, la vivacità intellettuale e la serietà di un pensatore troppo poco conosciuto in fin dei conti, la molteplicità variopinta dei suoi contributi scientifici e la continuità e coerenza del suo impegno, politico ed intellettuale.  Il convegno è stato organizzato dalla International Gramsci Society-Italia – di cui Gerratana fu co-fondatore nel 1996, assieme ad Aldo Tortorella, Giorgio Baratta e Guido Liguori. Le giornate, divise per sessioni tematiche, hanno ricordato la figura di Gerratana nella sua complessità: partigiano antifascista a Roma negli anni della Resistenza, giornalista negli anni giovanili, curatore e studioso di molti classici della storia della letteratura, della filosofia e del marxismo (dalla cura dell'edizione critica degli Scritti politici di Labriola a quella degli scritti estetici di Marx ed Engels, ai contributi su Rousseau, Machiavelli, Lukács, Lenin), ma noto in tutto il mondo anzitutto come curatore e studioso del pensiero di Gramsci (dall'edizione critica dei Quaderni, all'approfondimento dell'indagine sulle categorie sociali e politiche della riflessione gramsciana e la cura – assieme al suo più stretto collaboratore, Santucci – del volume sugli scritti gramsciani dell'Ordine nuovo). Non è facile informare esaurientemente sul convegno, credo proprio per la personalità e la grande vivacità intellettuale di Gerratana, emersa nella sua complessità lungo la due giorni di lavori.  L’evento ha messo alla prova intellettuali e ricercatori, ha dialettizzato l'ascolto reciproco di relatori e pubblico, fra i quali si è avuto un confronto sereno ma anche serrato, indubbiamente appassionato. Ne è risultato – e ne va il merito agli organizzatori – un evento generoso per ricchezza e poliedricità delle tematiche affrontate, per l'eterogeneità degli accenti che si sono avvicendati (secondo l'esperienza politico-culturale di relatori e pubblico), quanto infine per la vastità dei territori culturali esplorati (dalla storia – italiana e internazionale, alla filosofia, alla politica). Su tutta l'iniziativa s'è aggirato lo spettro benevolo di Antonio Gramsci, della sua vicenda umana come anche di quel lascito inesauribile che è la sua produzione culturale. E di Gramsci Gerratana non è stato solo il curatore e il promulgatore, ma anche un indimenticabile interprete. Gli anni e la formazione giovanile: partigiano antifascista ed intellettuale engagé Questa introduzione credo consenta di comprendere forse più chiaramente il contesto e lo spirito in cui il convegno di questi giorni ha trovato spazio.   Anche la presenza e il saluto delle istituzioni che con la IgsItalia hanno permesso il convegno – contrariamente al solito – sono stati sentiti ed interni al tema in oggetto dell’incontro. La figura di Gerratana è stata difatti ricordata con stima sincera e rispetto da Cecilia D'Elia (Assessora alla cultura della Provincia di Roma) e Gaetano Domenici (Preside della Facoltà di Scienze della Formazione dell'Università di Roma Tre). Cecilia D'Elia ha sottolineato la rilevanza di questo convegno su Gerratana – figura complessa, in cui ricerca politica e ricerca della libertà si intrecciano –, studioso che sempre volle tener connesso l'impegno pratico e l'impegno teorico, combattente antifascista negli anni della Resistenza, uomo che diede un contributo decisivo alla costruzione della democrazia in Italia. Sulla stessa linea d'onda Gaetano Domenici ha salutato con piacere l'evento in ricordo di Gerratana, anzitutto perché questa facoltà contribuisce a "formare i formatori": ed è stato forse fra i più grandi meriti di Gerratana l'aver decisamente contribuito a divulgare la genesi del pensiero pedagogico-educativo di Gramsci, a partire dalla cura dell'edizione critica dei Quaderni di Gramsci. Non pochi interventi hanno messo in luce i meriti di Gerratana riguardo la divulgazione del pensiero pedagogico-educativo di Gramsci. In particolare ricordiamo qui l'intervento di Donatello Santarone, Coordinatore del CESME di Roma Tre, che ha messo in luce il valore generale degli studi di pedagogia della tradizione marxista che delineano quella fondamentale concezione della formazione umana come "sviluppo onnilaterale dell'uomo". Un tale impegno risulta ancora più fondamentale in epoca di globalizzazione capitalista, sottolinea Santarone, in cui il lavoro dell'uomo e la sua formazione paiono ormai finalizzati unicamente ai processi di valorizzazione di capitale, i centri di formazione ed istruzione di massa vengono de-finanziati mentre nel contempo si sostengono economicamente scuole e "poli di eccellenza" privati, volti a creare le future élite e classi dirigenti. L'impegno di Gerratana come intellettuale engagé è stato sottolineato in molti interventi nel corso del convegno, fra cui quello di Guido Liguori che – in apertura dei lavori – si è soffermato sulle ragioni della scelta dell'espressione gramsciana filosofo democratico come carattere fondamentale dell'animo e dell'impegno di Gerratana. Tale formulazione sta ad indicare un pensatore che non si chiude nella propria torre d'avorio, ma contribuisce attivamente alla creazione di un senso comune di massa, un uomo «convinto che la sua personalità non si limita al proprio individuo fisico, ma è un rapporto sociale attivo di modificazione dell’ambiente culturale» (Q 10, § 44, p. 1332). É questa essenzialmente l'immagine che Liguori ci ha voluto restituire di Gerratana: un pensatore che non si accontentò del «pensiero proprio, "soggettivamente" libero, cioè astrattamente libero», ma che operò per l’unità di scienza e vita come «una unità attiva, in cui solo si realizza la libertà di pensiero», secondo un «rapporto maestro-scolaro, filosofo-ambiente culturale in cui operare, da cui trarre i problemi necessari da impostare e risolvere», un uomo che concepì la propria attività intellettuale come rapporto di «filosofia-storia» (ibidem), un uomo il cui impegno politico e la cui elaborazione teorica sono stati la testimonianza della migliore tradizione del comunismo e del marxismo italiani.   Ha fatto seguito l'intervento di Paola Demurtas, che ha illustrato i criteri e i temi sulla base dei quali si è svolto l'intervento di riordino dell'archivio di Gerratana assieme alla collega Lorenza Salvatori (di cui è stato letto un contributo), e che ha sottolineato come grazie al riordino delle carte e dei documenti sia ora possibile svolgere ricerche e approfondimenti sull’attività di Gerratana. I documenti archiviati, difatti, coprono un arco di 61 anni, sono circa 300 fascicoli, che si è deciso di suddividere in 8 partizioni tematiche fra studi e attività, e fra queste risultano particolarmente rilevanti le quantità di fascicoli dedicati a Gramsci e a Labriola e da cui si evince una grande meticolosità nell'elaborazione. Ha concluso la prima parte di introduzione ai lavori del convegno la lettura della lettera di saluto del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano in cui è stato espresso «il più vivo apprezzamento per la scelta di ricordare un insigne studioso, cui va il merito di aver contribuito, con l'edizione critica dei Quaderni del Carcere di A. Gramsci. È stata poi la volta del primo relatore, Alfonso Musci (giovane studioso dell'Istituto Gramsci per gli studi storici) che ha ricostruito gli anni giovanili di Gerratana, in particolare quelli degli studi universitari e della polemica con Benedetto Croce, sottolineando una tendenza di Gerratana a considerare gli eventi storici attenendosi ai fatti, alle formule logiche e alla loro riproducibilità, ma senza prescindere del tutto dalla "situazione psicologica" in cui questi si svolgono e che spesso si maschera in concetti. Ma Gerratana non fu solo un intellettuale impegnato. Fu un partigiano. Questo hanno ricordato le successive relazioni della mattina proseguite con i due contributi "di memoria storica" di Alfredo Reichlin e Giuseppe Prestipino–, significativi per la nota autobiografica in essi contenuta, che ha permesso una comprensione più articolata del senso dell'impegno politico di Gerratana negli anni della lotta di liberazione nazionale dal regime fascista. Medaglia d'Argento per l'impegno negli anni della lotta di Liberazione dell'Italia dal regime fascista, la narrazione di quei mesi è stata emozionante nell'intervento di Alfredo Reichlin. Che ha ricordato gli anni giovanili della "passione politica" (tema che è stato ripreso anche da Tortorella in chiusura dei lavori del convegno) e le vicende dell'inverno '44 in cui, nella Roma occupata dai tedeschi, Reichlin incontrò Gerratana; con Pintor formarono una cellula, e Gerratana divenne loro dirigente, nome di battaglia "Santo". Furono quelli gli anni in cui nacque un sentimento nuovo, l'antifascismo, ed una nuova cultura, quella dell'impegno. Come allora – ha concluso Reichlin – il popolo italiano, nonostante appaia fiacco e corrotto, tuttavia continua ad esprimere degli intellettuali, e questi dovrebbero anch'essi prendere il proprio posto di combattimento. Gerratana fu dunque un partigiano antifascista con un deciso interesse per la storia e la filosofia politica. Ma anche un giornalista. La tendenza all'impegno culturale trovò uno sbocco concreto in questa attività – su cui si è soffermata la relazione di Giuseppe Prestipino –, quando cominciò a scrivere su "La voce della Sicilia" fra il '45-'48. Prestipino ha raccontato di un "comunista", un uomo di «innata modestia», che non firmava i suoi articoli, direttore di giornale cordiale ma austero, «un intellettuale pensoso». Gerratana: uomo di cultura, filosofo democratico, marxista Non solo di politica, ma anche di letteratura e di filosofia si occupò Valentino Gerratana.   La sua natura di intellettuale a trecentosessanta gradi è stata ben messa in luce da tre relazioni in particolare, quelle di Voza, Savorelli e Burgio. Pasquale Voza ha ricordato come a metà degli anni '50 si svolse in Italia un ricco dibattito sul tema della "lotta per il realismo", che nel dopoguerra espresse una "tendenza" la quale si affermò in molta parte dell'intellettualità. Nacquero le poetiche neorealistiche della "cronaca" e del "documento" come ricerca di un massimo di "oggettività" di contro all'influenza di suggestioni lirico-decadentistiche. Nel passaggio dalla crisi del neorealismo al realismo si colloca il contributo di Gerratana, che riteneva quest'ultimo un fondamentale strumento teorico-culturale. In risposta all'intervento polemico di Croce De Sanctis-Gramsci? (“Lo Spettatore Italiano”, 1952, n. 5), Gerratana stende per "Società" (1952, n. 3) De Sanctis-Croce o De Sanctis-Gramsci? Appunti per una polemica e sviluppa il ragionamento nell'Introduzione all'estetica desanctisiana desanctisiana (“Società”, 1953, nn. 1-2). Egli ha come riferimento la positiva valutazione di Gramsci del realismo desanctisiano, fondato sull’analisi del contenuto artistico in connessione alla lotta culturale. Difatti Gramsci coglie nel De Sanctis un modello di critica letteraria che lo rende emblema della concezione di un'estetica realista e anticipatore di una concezione marxista dell'estetica. Alla base della sua concezione vi sarebbe la ricerca di unitarietà fra La Scienza e la Vita (titolo di un famoso saggio desanctisiano del 1872, più volte citato da Gramsci nei Quaderni), cosicché De Sanctis si discosta dalla concezione speculativa dell'estetica di Hegel. In tal senso la tendenza estetica di De Sanctis, secondo Gramsci, era "istintivamente materialista", ciò perché la sua attività critica non era «frigidamente estetica» (Q 4, § 5, p. 426). Per tali ragioni De Sanctis resta, per Gramsci, un modello di come nella stessa coscienza critica, pur rimanendo distinti, possano confluire convenientemente giudizio estetico e valutazione di una tendenza artistico-culturale, cosicché Gerratana condivide l'appello gramsciano del «ritorno al De Sanctis» (Q 23, § 1, p. 2185), intendendo con ciò la necessità di assumere verso il rapporto arte-vita un atteggiamento di stretta connessione, così come lo intendeva De Sanctis ai suoi tempi. Nella seconda parte del suo intervento Voza ha ricordato come sempre nel '53 Gerratana abbia steso il saggio Lukács e i problemi del realismo (“Società, 1953, n. 4). Si ricordi che con la pubblicazione di Il marxismo e la critica letteraria di Lukács nel '50 giungeva anche in Italia quella poetica dell'estetica marxista che si poneva come obiettivo la costituzione di una nuova letteratura in una società socialista – dunque la necessità di definirne la natura e il ruolo che in essa avrebbero dovuto ricoprire gli intellettuali. Gerratana mise in luce due diverse idee di realismo: come metodo (di impronta lukácsiana) e come tendenza (di memoria gramsciana), specificamente come tendenza culturale che esprime un atteggiamento programmaticamente orientato verso la realtà piuttosto che verso la sua evasione. La lotta di Gerratana per il realismo, conclude Voza, alla luce del carattere complesso che intendeva conferirgli, alludeva in certo modo alla "lotta per l'egemonia" così come delineata da Gramsci e alle nozioni di "progresso intellettuale di massa" e "riforma intellettuale e morale".  Se l'intervento di Voza ha posto in luce la capacità di Gerratana di dar conto anche di questioni legate alla scienza estetica, l'intervento di Alberto Burgio ha affrontato la lettura critica da parte di Gerratana del pensiero di Rousseau, ripercorrendo le tappe di sviluppo ed il senso della sua produzione del ginevrino. Burgio ha illustrato come Gerratana e Rousseau siano stati legati da un "lungo rapporto di fedeltà", particolarmente significativo per il fatto che Gerratana scelse di leggere una parte degli scritti rousseauiani – quelli politici – e perché non mancò mai d'interrogarsi sull'attualità di questi testi, pur leggendoli entro una prospettiva storica. Questa è la ragione per cui si tratta di un Rousseau sempre "diverso" a seconda delle diverse fasi della ricerca di Gerratana, che possono delinearsi anzitutto secondo un ordine cronologico: gli anni '40, '60 e '90. È degli anni '40 la Prefazione di Gerratana al Contratto sociale, in cui egli denota il maggior valore di questo testo rispetto ai Discorsi – «reazione sentimentale al compromesso della cultura illuministica con la realtà sociale iniqua e corrotta del tempo». Il moralismo di Rousseau appare tuttavia a Gerratana storicamente attuale in forza dei valori sui quali si impernia – un valore sopra ogni altro, la libertà. D’altra parte, sottolinea Gerratana, «non la libertà estenuata dal completo esautoramento da cui sembrerebbe condannata da una lunga e ormai logora tradizione liberale, bensì una libertà resa concreta dalla stretta connessione con l'uguaglianza»; piuttosto una libertà la cui essenza costitutiva è precisata dal riferimento all'idea di eguaglianza e di legge, ciò che consente a Gerratana di riformulare il tema della libertà in chiave collettiva, sociale, vincolandolo al criterio della giustizia e della autonomia politica della società. Negli anni '60 – caratterizzati sul piano teorico dalla polemica fra il PCI e Bobbio ('61-'62) – Gerratana prende parte alla discussione sul tema della transizione dalla democrazia al socialismo (rispetto al quale Rousseau veniva chiamato in causa da Della Volpe come ispiratore dello stato democratico e socialista). Egli interviene con una prosa misurata e sobria: Rousseau è il tramite teorico-pratico dell'evoluzione della democrazia borghese in senso socialista; quello di Rousseau è dunque un programma di «massimizzazione della democrazia», non di "anticipazione" del socialismo. Il discorso di Gerratana muta decisamente nella seconda parte degli anni '60, quando stende l'Introduzione alla traduzione del Discorso sull'ineguaglianza (Editori Riuniti, 1968), sullo sfondo della quale pare di intravedere le lotte sociali che sfoceranno nel '68 studentesco ed operaio. Non si tratta più del tema della transizione, nota Burgio, ma della trasformazione sociale nel suo complesso e non è più il Contratto al centro della riflessione di Gerratana, ma il secondo Discorso. Infine, nel '90 Gerratana stende un saggio con al centro nuovamente l'interesse per il Contrat (Sul nesso Rousseau-Hobbes, in “Studi politici in onore di Luigi Firpo”, Angeli 1990): Rousseau è ancora il padre della democrazia moderna (costituzionalismo) e viene contrapposto a Hobbes, teorico dell'oppressione assolutista. Burgio indica infine un possibile mutamento di prospettiva nella lettura di Rousseau da parte di Gerratana, facendo perno sul testo rousseauiano: se gli scritti degli anni '40, '62 e '90 privilegiano il Contrat (classico del costituzionalismo e del governo della legge, letto – nota Burgio – in chiave fondamentalmente montesquieuiana), il contributo del '68 trova il suo oggetto nel secondo Discorso e qui emerge la consapevolezza di Gerratana del versante distruttivo del progresso, della civilizzazione e della cieca tendenza degli uomini a far valere le proprie istanze particolaristiche.   Infine ricordiamo il contributo di Alessandro Savorelli sul “Labriola di Gerratana”, che si è soffermato sull’intento di Gerratana di sottrarre il pensiero di Labriola dalla lettura che ne faceva la tradizione crociana e liberale. Negli anni '60 Gerratana riconsidera Labriola alla luce della polemica con lo spontaneismo dei movimenti e con la contestazione del marxismo ‘storicista’, mentre negli anni dell'arretramento del movimento operaio, mentre si profilava la crisi del PCI – Gerratana si preoccupa per le degenerazioni della politica («sistema di aggregazioni corporative di interessi locali», per l’emergere in Italia della «disinvoltura pragmatica» di spregiudicati «mestieranti», «avventurieri» e «giocolieri»), destinate a spingere le masse verso il riflusso e l’apatia. Savorelli sottolinea come le attualizzazioni cui Gerratana volse il pensiero di Labriola non furono una forzatura; al contrario il richiamo a Labriola, al critico sferzante della società italiana e delle sue classi dirigenti, era sinistramente profetico dell’accelerazione impressa in quel decennio ai fenomeni degenerativi di lungo periodo. Infine nell’ultimo Labriola Gerratana scorse l’intuizione di problemi (imperialismo, globalizzazione, regresso della democrazia, «crisi della cultura popolare», ritorno del misticismo), che sarebbero ancora i nostri (V. Gerratana, Antonio Labriola e la politica, “Studi storici”, 1985, n. 3, p. 578). Vittorio Diniha concluso la serie di testimonianze sulla vita e l'impegno culturale di Gerratana raccontando della comune esperienza negli anni dell'insegnamento universitario a Salerno nel 1971. Dini ha letto una pagina dedicata da Roberto Racinaro a Gerratana nella quale quest’ultimo è descritto come uomo poco diplomatico, amante di una verità da pronunciare senza mediazioni, uomo poco tenero anche con i cari, amante della filosofia illuminista, in particolare del Kant di Cassirer; e la sua stessa vita accademica si caratterizzava per la puntualità "kantiana", il forte senso del dovere e il rigorismo morale, quasi draconiano, che fu messo in luce anche durante gli anni del ’68 all’Università di Salerno. D’altra parte il rigorismo morale di Gerratana, secondo Dini, sarebbe stato trasferito in modo eccessivamente rigido contro quella società che si stava rivoltando in quegli anni di sommovimenti sociali e popolari, dacché ne risultava un rigorismo spesso astratto. Dini ha inoltre ricordato che Gerratana riprese l’attività universitaria a Salerno sotto sollecitazione di Lucio Colletti, che ne promosse l’ingresso, ritenendo questo rapporto GerratanaColletti un esempio del minimo “rigorismo ideologico” di Gerratana, della sua concezione “aperta” del marxismo – evidente anche nella ricostruzione non sistematica dei Quaderni.   Il quadro non sarebbe completo se non si accennasse a un altro tema (assieme all'indagine su Gramsci) che ha attraversato l'evento: l'impegno di Gerratana come intellettuale marxista. Questo aspetto è stato messo in luce essenzialmente da due relazioni, quella di Fabio Frosini e quella di Michele Filippini. Quest'ultimo ha discusso due aspetti peculiari della cultura filosofica di Gerratana, l'esser insieme democratico e marxista, e si è soffermato soprattutto su due esempi emblematici di ciò, un dialogo fra Gerratana e Colletti del 1958-59 ed un lungo articolo di Gerratana del 1971 sul saggio di Althusser sugli Apparati ideologici di Stato.   Ma è stato soprattutto Fabio Frosini a ricostruire le linee del marxismo di Gerratana, a partire dal volume del 1972, Ricerche di storia del marxismo. Il testo, che è in realtà una raccolta di saggi già pubblicati altrove, ha una sua sistematicità. Nella Prefazione al volume Gerratana sottolinea che il principale denominatore comune degli otto saggi è il rapporto fra marxismo e movimento operaio, fino ad affermare che «marxismo e storia del marxismo fanno tutt’uno» (Ricerche, p. VII). La loro unitarietà sarebbe dunque nell'idea stessa di storia del marxismo. Il marxismo di Gerratana pare a Frosini ben sintetizzato da un passo della Prefazione: «Nei confronti della pratica sociale l’analisi scientifica si distingue dalla raffigurazione ideologica perché non è solo, come questa, funzionale alla prassi, ma al tempo stesso è funzionale alla comprensione di questa prassi» (p. X), che mostra l'imprescindibile reciprocità di prassi e teoria scientifica atta comprendere la prassi. In conclusione, secondo Frosini il marxismo di Gerratana che emerge dalle Ricerche è confinato nel piano di una generalizzazione sempre provvisoria e da riprendere ogni volta in condizioni solo parzialmente ripetibili; e questa sarebbe l’unica condizione per rispettare l’apertura costitutiva di una verità che si definisce nella pratica, a contatto con la politica di massa.   Gerratana, politico (e) gramsciano   La terza sessione del convegno si è incentrata essenzialmente sul rapporto fra Gerratana e l'impegno politico per un verso, la cura delle opere e lo studio del pensiero di Antonio Gramsci dall'altro. Presieduta da Giuseppe Vacca, la mattinata si è aperta con l'intervento di Albertina Vittoria sull'esperienza di Gerratana alla Fondazione Gramsci – con cui il filosofo ha collaborato sin dagli anni della sua fondazione e che abbandonò negli anni '90 –, esperienza complessa e non esente da dissidi teorico-culturali. Vittoria ha messo in luce di Gerratana l'impegno di studioso e insieme quello di "organizzatore della cultura", come anche l'attività di uomo politico di partito. Non si può dunque isolare l'attività di Gerratana all'Istituto Gramsci dal resto dell'impegno: quello editoriale come anche quello nella Commissione culturale del PCI. Già dal '44 egli era considerato un militante anche sul piano culturale e subito dopo la Liberazione, Gerratana collaborò a "L'Unità", a "Rinascita", fece parte del Comitato Stampa e Propaganda del PCI. Nel '47 fu, con Platone e Trombadori, collaboratore di Onofri, allora responsabile della Commissione Propaganda del PCI; nel '49 fu responsabile delle “Edizioni Rinascita” e dopo la fusione fra queste e gli “Editori Riuniti” cominciò la sua collaborazione con la "Fondazione Gramsci" (fondata a Roma nel 1950) come studioso di filosofia. Sono questi anche gli anni del rapporto con Colletti e Cerroni. Nel '54 l'Istituto Gramsci diviene “Fondazione”, nel '56 – anno della "svolta" del XX Congresso del PCUS, degli eventi di Ungheria e del «Manifesto dei 101» – Gerratana resta in accordo con le posizioni di Alicata e Togliatti. Nel '58 si organizza il primo convegno di studi gramsciani, evento che dà il via all'opera di divulgazione del pensiero di Gramsci, alla cui base era la necessità di riarticolare teoricamente il legame fra movimento operaio e democrazia. Gli anni '60 sono per Gerratana gli anni dell'impegno per l'Edizione critica dei Quaderni del carcere (di cui cominciò ad occuparsi sin dal '58), impegno che aveva a monte l'intento di offrire un contributo alla garanzia dell'indagine critico-filologica. Gerratana divenne poi direttore del "Centro studi gramsciani" dell’Istituto Gramsci, avente come obiettivo la cura degli scritti di Gramsci nel loro insieme e dal '77 l'attività "gramsciana" ebbe soprattutto come fine un riordino in quindici volumi dell’opera del comunista sardo. Sono degli anni '80-'90 i dissapori con la nuova direzione dell'Istituto, quella di Vacca (la diatriba che si incentrò soprattutto su una diversa datazione dei Quaderni sul piano metodologico, ma Vittoria rileva anche come il dissenso fosse in generale culturale e politico). Nel '93 la crisi giunge all'apice: Gerratana vuole dimettersi, dimissioni successivamente ritirate, sebbene da allora in poi continui a lamentare il fatto che vi fosse un tacito dissenso sul suo lavoro. Furono questi gli eventi che infine condussero Gerratana all’abbandono dell'Istituto Gramsci.   É pur vero che Gerratana sarà essenzialmente ricordato per esser stato curatore, interprete e divulgatore del pensiero di Gramsci, con l'edizione critica dei Quaderni del 1975, ciò che l’ha reso noto in tutto il mondo. Da questo evento, difatti, si è avviato a livello internazionale un approfondimento dei testi e della riflessione di Gramsci, con l'edizione fra il 1992 e il 2007 negli Stati Uniti dei Prison Notebooks (curati da Joseph A. Buttigieg, intervenuto su questo tema) e l'avvio in America Latina degli studi su Gramsci come scienziato politico, tema su cui è intervenuto Carlos N. Coutinho. I due contributi hanno mostrato ciò che in apertura di questa relazione si è tentato di individuare come spirito del convegno: poliedricità degli accenti pur su tematiche affini, partecipazione rispetto al tema affrontato (giacché il pensiero di Gramsci è indagato come cosa viva), esigenza di dialettizzare la riflessione di Gerratana con gli eventi politico-culturali che vedono oggi coinvolti i paesi di provenienza dei relatori. Cosicché se per Buttigiegl'edizione critica si è rivelata uno stimolo per dar vita ad una ricerca che appagasse l'esigenza di riscoprire il pensiero di Gramsci come cultura "aperta" e dei riferimenti validi per il pensiero democraticoprogressista; per Coutinho, grazie all'edizione del '75, il pensiero di Gramsci si è mostrato come nuova fonte per indagini di scienza politica alla luce della contemporaneità – dal marxismo alla "filosofia della prassi", al rapporto di questi con i processi di trasformazione sociale. In particolare Coutinho – docente di teoria politica all’Università Federale di Rio de Janeiro –, ha messo in luce come il valore dell'edizione del '75 dei Quaderni stia essenzialmente nella capacità di porre in luce come Gramsci nel suo operare filosofico adotti, come marxista, il punto di vista della totalità. Negli scritti di Gerratana che Coutinho prende in esame emerge la trattazione prevalente, non casuale, di due tematiche gramsciane, rivoluzione ed egemonia. Le due nozioni sono a tal punto interconnesse che quella di egemonia consente a Gramsci di «arricchire e sviluppare il concetto marxiano di rivoluzione» (V. Gerratana, Sul concetto di “rivoluzione”, 1997, p. 100). A questi due concetti gramsciani principali se ne dialettizza un terzo (che in certo modo li tiene insieme entrambi), quello di stato allargato, che – secondo Gerratana – viene adoperato da Gramsci per «allargare il ruolo politico delle masse», per «concepire un processo di estensione delle democrazie, in connessione con il concetto di egemonia» (V. Gerratana, Stato, partito, 1977, p. 48). Come nel pensiero di Marx e di Lenin, anche in quello di Gramsci vi è un nesso filosofico-politico che tiene assieme egemonia e Stato da un lato, la rivoluzione dall'altro. Secondo Gerratana Gramsci modificò la propria concezione della rivoluzione nel corso dell'evoluzione del suo pensiero: se negli anni giovanili questa venne intesa come volontarismo soggettivista, già negli anni de L’Ordine Nuovo Gramsci avrebbe dato vita a una vera e propria «teoria organica della rivoluzione» (Gerratana, Sul concetto di “rivoluzione”, cit., p. 88), in particolare a seguito dell’influenza del pensiero di Lenin. In questo secondo momento Gramsci avrebbe tenuto conto anche del peso delle condizioni oggettive in cui opera la volontà. In generale secondo Gerratana sia Gramsci che Lenin concepirono l'egemonia come superamento della dimensione corporativa in cui opera la classe; ma quel che Gramsci riconosce a Lenin è anzitutto l’aver integrato questo concetto (la teoria dello Stato-forza) con la dottrina dell’egemonia. Secondo Coutinho Gramsci dà vita in tal modo ad una generale teoria dell'egemonia, ed è qui che Gerratana offrirebbe il suo più importante contributo: «per Gramsci le forme storiche dell’egemonia non sono sempre le stesse e debbono variare a seconda della natura delle forze sociali che esercitano l’egemonia. Egemonia del proletariato e egemonia borghese non possono avere le stesse forme né possono utilizzare gli stessi strumenti» (ivi, 123). Sviluppando l'elemento del "consenso" proprio dell'egemonia gramsciana, Gerratana distingue l’egemonia borghese, che si basa su un consenso passivo (o manipolato), e l’egemonia proletaria, che necessita un consenso attivo. Accenniamo infine ad altre due relazioni che hanno chiuso il convegno, quella di Aldo Tortorella e quella di Chiara Meta. Tortorella si è concentrato essenzialmente su due aspetti portanti della personalità dello studioso gramsciano, la passione politica e il rigore morale. Ha indicato in Gerratana non uno studioso come altri, ma un uomo che la cui vicenda intellettuale è da porre dentro una storia specifica e collettiva: quella della Resistenza e della nascita del PCI. È proprio attraverso la storia di queste vittorie e tragedie collettive che si è sviluppata la trama della vita personale e intellettuale di Gerratana. Tortorella ha messo in luce la profonda inquietudine che s'aggirava nell'animo di Gerratana, al di là dell'apparente serenità scientifica ed il suo “rigorismo”. Se una distinzione per lui esisteva fra politica (come etica pubblica) e morale (come etica privata), tuttavia il rapporto fra queste era per lui molto stretto (non a caso si era espresso sempre in modo contrario rispetto a guerre di aggressione presuntivamente “etiche” o a qualsiasi violazione dei diritti umani per ragioni politiche). La concezione etica cui Gerratana fa riferimento non è quella di Cartesio, tantomeno quella di Spinoza, ma in diretta connessione con la sua passione politica, dove la politica era intesa come un'impresa razionale. La passione politica, difatti, poteva avere due diversi contenuti: volgersi a favore o contro le dittature, e Gerratana scelse questa seconda strada. In questi anni è nato dunque un modo nuovo di intendere la libertà come effettualità, anzitutto come libertà dai rapporti di dominio sul piano materiale. L’intervento di Meta ha infine affrontato la ridefinizione del concetto di persona nella riflessione di Gerratana. Nel corso della relazione, Meta ha mostrato come Gerratana abbia risposto positivamente all'interrogativo sull'esistenza o meno di una teoria della personalità nel pensiero di Gramsci a partire dallo scritto Unità della persona e dissoluzione del soggetto ("Critica Marxista", XXV, 1987, nn. 2-3, pp. 113). Indagando gli scritti gramsciani alla luce dell'elaborazione marxiana delle Tesi su Feuerbach e di Miseria della filosofia, Gerratana ricorda che Gramsci – in Q 10 dal titolo emblematico «Che cosa è l’uomo?» – argomenta che l’uomo è essenzialmente un processo, precisamente «il processo dei suoi atti» (Q 10, § 54, p. 1344). D'altra parte l’individuo entra in rapporti con gli altri uomini «organicamente, cioè in quanto entra a far parte di organismi dai più semplici ai più complessi». Così lo sviluppo e costituzione della "personalità" di ciascuno è da intendersi come acquisizione di coscienza di tali rapporti e insieme modificazione di sé in relazione al modificarsi di tali rapporti: difatti «ognuno cambia se stesso, si modifica, nella misura in cui cambia e modifica tutto il complesso di rapporti di cui è il centro di annodamento» (Ibidem).   Ed è proprio Gerratana, secondo Chiara Meta, uno dei pensatori che più avrebbe colto questa natura dialogico-relazionale della filosofia gramsciana, che intesse tutta la trama dei Quaderni. Sottolineiamo infine un ultimo aspetto che ha qualificato questi due giorni di confronto intellettuale: la ricchezza del dibattito. Il convegno ha messo in luce come sia possibile recuperare una trasversalità reciproca nel modo di concepire il rapporto fra relatori e pubblico, fra ricerca e scienza, fra passato e presente.   Quest'ultimo aspetto è stato la cifra indiscutibile del convegno: non si è trattato di esposizioni accademiche di "memoria", ma di un confronto vivo con l'eredità intellettuale di Gerratana, che ha riportato all'ordine del giorno l'attualità della ricerca e della riflessione sulla scienza storico-politica del passato al fine di comprendere la politica e la cultura del nostro tempo, finanche alla luce d'uno sguardo internazionale. Su molte questioni poste dai relatori il pubblico è difatti intervenuto: dal rapporto fra Gerratana e Calvino (Lea Durante), Gerratana e Rousseau (Manuela Ausilio), Gerratana e Colletti (Guido Liguori), al rapporto fra il pensiero di Gramsci e Lukács (Renato Caputo), alla dialettica fra organicità e frammentarietà nei Quaderni del carcere (Eleonora Forenza). Lea Durante ha ricordato come la stretta amicizia fra Gerratana e Calvino risalisse ai primi anni '50. Nonostante fossero intellettuali provenienti da una diversa impostazione culturale, tuttavia avevano l'uno verso l'altro reciproco rispetto ed in comune l'esperienza partigiana. Durante si è soffermata sul carteggio GerratanaCalvino in merito al suicidio di Pavese, in cui Calvino rifiutava la lettura di questo evento come d'un gesto irrazionale, ma riteneva andasse letto piuttosto all'interno di una storia collettiva, emblematico di una "faglia" di questa storia: la volontà di risolvere l'attività politica degli intellettuali entro l'orizzonte collettivo, ciò che è impraticabile. La sottoscritta è intervenuta cercando di porre in luce come la “fedeltà” di Gerratana a Rousseau nel corso di mezzo secolo possa spiegarsi anche relativamente all'unitarietà dell'opera rousseauiana, a un rapporto complementare fra i Discorsi e il Contrat, da cui emerge un pensatore che per un verso è interno alla modernità borghese, per l'altro ne comincia a cogliere, prima di altri, i rischi ed i limiti. Renato Caputo si è dialettizzato con la relazione di Voza confrontandosi sul merito della concezione lukácsiana del realismo e rilevando da un lato che l'autore fa ancora parlare di sé e dunque è tutt'altro che un "cane morto", dall'altro la necessità di riconsiderare la battaglia di Gerratana per il recupero di De Sanctis non tanto in contrapposizione a Hegel quanto in funzione dell'esigenza di liberarsi della lettura crociana dell'autore. Guido Liguori è intervenuto sul rapporto fra Gerratana e Colletti, affermando che fra i due intellettuali – sebbene legati dall’amicizia – non vi era solo una distanza, ma una radicale contrapposizione teorica. Infine Eleonora Forenza ha interloquito in particolare con la relazione di Buttigieg, sottolineando il valore dell’edizione critica dei Quaderni di Gerratana nella sua capacità di porre in luce il carattere frammentario della riflessione gramsciana dei Quaderni, l’attualità dialogica di un processo conoscitivo inteso come “ritmo” e “sviluppo”, la centralità della tensione nell’organicità dell’opera carceraria e il valore del “frammento” come elemento del processo. Ma uno dei contributi che più ha emozionato è stato quello di Mario Alighiero Manacorda, intervenuto per ricordare che in quello "Zibaldone" che pure sono i Quaderni vi è un'unità assoluta, che ritorna nelle pagine pedagogiche, e ha riguardato l’indagine gramsciana sulla formazione dell’uomo nuovo, fondata sul principio dell’unità di «braccia e cervello» (Q 4, 13, 12, 29, 22). Questa ricerca coinvolge la questione (che l'umanità si porta dietro da millenni) di cosa sia la “natura umana”. Da sempre alla base vi è una sua declinazione come duplice, cosicché quella duplicità dell'attività umana trova spazio in una duplicità sociale (gli eroi da una parte come intellettuali, la plebe dall'altro). Quell'unità fra i due elementi che si ricerca nella filosofia antica viene rotta dal cristianesimo, che ha separato drasticamente anima e corpo (così come nella struttura sociale ha diviso cleres e milites), e da allora ci trasciniamo questa duplicità, che pure oggi biologia e fisica negano esistere del tutto. Storia passata e futura: la lezione di Gerratana serve ancora In questa due giorni di convegno si sono succeduti ricercatori, storici, docenti di filosofia, intellettuali di orientamento politico affine ma niente affatto identico, esponenti di rilievo dell'odierna intellettualità italiana che sono (o sono stati) spesso insieme politici e uomini di cultura, che hanno partecipato alla costruzione della storia democratica del nostro paese; e che si sono interrogati sul contributo culturale di Gerratana come lezione viva, esempio per la storia politico-culturale dell'Italia futura. Un evento da e per Gerratana, dunque: antifascista, organizzatore di cultura, interprete di politica e filosofia, pensatore infaticabile ed aperto, sebbene saldo quando necessario nelle sue convinzioni, pronto alla lotta, all'ascolto come anche alla rottura. Gli interventi dei relatori hanno riportato alla luce (alcuni affettuosamente alla memoria) la riflessione di Gerratana come frutto della contraddittorietà della modernità: di quella terra dissestata e martoriata che è stata l'Italia negli anni della lotta partigiana, di quella storia che si è radicata nella consapevolezza dell'inaggirabile dialettica fra libertà ed eguaglianza sociale. Ecco: discutere e ricordare in questi giorni Valentino Gerratana ha significato parlare insieme della nostra storia passata e delle prospettive future per questo paese, che ha trovato in una figura come Valentino un indimenticabile esempio di caratura morale, coerenza politica, onestà e intellettuale, amore per la vita, per il progresso, per l'eguaglianza sociale, per la dignità umana e per la libertà – e questa storia, in fondo, non è di uno. Ma di tutti noi. Valentino Gerratana. Gerratana. Keywords. Rousseu, Grice on social justice, Gramsci, Labriola, Grice’s ontological Marxism, eresia di rousseau, labriola a fronte del socialismo, il metodo di gramsci – gappismo – G. A. P. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gerratana” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Geymonat – il temperamento romano – filosofia italiana – Luigi Speranza (Torino). Filosofo. Grice: “I like Geymonat – he calls himself a neo-rationalist, like Canova – whereas I go for the real thing! Plato!” – Grice: “Geymonat has explored the origin of infinity in the triangle of Tartaglia.” – Grice: “Geymonat has explored what he calls ‘the images of man’ – Grice: “Geymonat has a curious essay on darkness (‘tenebre’) – and a longer essay on ‘reason.’ – Grice: “Like me, Geymonat has explored the philosophy of probability – from Latin ‘probare’ – and he was an anti-fascista1” –Figlio di Giovanni Battista, un geometra liberale di origini valdesi, e da Teresa Scarfiotti. Frequenta la scuola privata del Divin Cuore e poi l'Istituto Sociale, un liceo classico torinese gestito dai gesuiti, dal quale fu espulso l'ultimo anno di corso a causa di un tema su Giovanna d'Arco non in linea con l'ortodossia e così conseguì la maturità nel Liceo classico Cavour.  Si laurea a Torino con “Il problema della conoscenza nel positivism” sotto Pastore e sotto Fubini lcon “Sul teorema di Picard per le funzioni trascendenti intere”. La sua scelta di unire, nella sua ricerca, filosofia e logica, tenute separate in Italia dall'imperante cultura idealistica del tempo, quella gentiliana che, con la sua riforma della scuola, privilegia la cultura umanistica, e quella crociana, con la sua concezione svalutativa della scienza, creatrice, ad avviso del filosofo abruzzese, di un “pseudo-concetto”, mostra l'apertura europea delle prospettive di ricerca intravista allora da Geymonat e la sua estraneità al provincialismo culturale italiano. Un rifiuto che egli estese anche alla politica del regime allora dominante. Assistente di Analisi algebrica nell'Torino ma avversario del fascismo, rifiutò l'iscrizione al partito fascistacio è di prendere la cosiddetta tessera del pane vedendosi così preclusa la possibilità di una carrier statale. Si avvicinò altresì a  Martinetti, non tanto per comunanza di prospettive filosofiche quanto per averlo riconosciuto un esempio di impegno civile e morale, essendo stato tra i pochissimi filosofi a rifiutare il giuramento di fedeltà al Fascismo. Come Ayer. Anda in Vienna per approfondire la dottrina del Circolo di Schlick, e  pubblica “La filosofia della natura”  e “Nuovi indirizzi della filosofia.”  e iscritto clandestinamente al Partito comunista, si guadagna da vivere insegnando matematica nella scuola privata «Giacomo Leopardi» di Torino, dove Pavese insegna italiano. Con il nome di battaglia Luca fu partigiano in Piemonte nella 105ª Brigata Carlo Pisacane e, dopo la Liberazione, assessore comunista al Comune di Torino, quando, vinto il concorso a cattedra, e nominato professore a Cagliari. Insegna a Pavia e Milano. Fonda il Centro di studi metodologici a Torino. Ebbe uno stile di pensiero razionalista ateo. La sua filosofia può essere inquadrata nel filone del neopositivismo (ebbe diversi contatti con il Circolo di Vienna), da lui ri-elaborato nell'ottica del marxismo! Nell'evoluzione della sua filosofia, si possono tracciare due fasi. Nella prima fase, approfondisce temi tipici del positivismo. Nella seconda fase, si sforza di analizzare la realtà oggettiva ed a questo scopo utilizza concetti caratteristici del materialismo dialettico.  Interpreta la concezione della matematica di Galilei come un strumento d'interpretazione della realtà. Approfondisce alcuni temi teorici come quello della causalità, il fondamento della probabilità, il continuo, l’intuizione, centrali nell'epistemologia. Politicamente fu vicino inizialmente al Partito Comunista Italiano, da cui si allontanò poi per aderire a Democrazia Proletaria e successivamente ai movimenti che diedero vita al Partito della Rifondazione Comunista. Nel corso di questo viaggio politico ha partecipato alla Fondazione, a Roma, dell'Associazione Culturale Marxista e collabora nella rivista Marxismo Oggi (editore Teti). Ha compiuto alcune ricerche sul teorema di Picard e sul teorema di Carathéodory per le funzioni armoniche. In “Neo-razionalismo”, spiega che un'indagine efficace della realtà, e svolta solamente tramite lo strumento della ragione.  Per fare questo, propose di scarnificare la razionalità di ogni verità e da ogni sistema di riferimento assoluti. Il neoilluminismo, capeggiato da Abbagnano e coinvolgente numerosi altri filosofi italiani, rappresentò per Geymonat il suo corso del neo-razionalismo, che avrebbe dovuto accogliere i metodi e i risultati della scienza, perseguendo un duplice obiettivo: ummanizare la scienza e concretizzare la filosofia – e l'utilizare un'impostazione storicistica al posto di quella metafisica. Per storicismo, intese l'analisi storica della struttura di un modello scientifico. Pur condividendo inizialmente l'anti-idealismo di Popper, sostenne che vi era la più manifesta e totale incompatibilità tra il marxismo e l'epistemologia popperiana. Alle sue accuse di essere il filosofo ufficiale dell'anti-comunismo, reo di difendere i regimi liberali, Popper gli rispose: “I nostri intellettuali dicono che vivono in un inferno, mentre di fatto questo mondo non è stato, fin da Babilonia, mai così vicino al paradiso come lo è ora il mondo occidentale. Per contrasto, in Unione Sovietica, si dice alla gente che vivono in paradiso, e tanti lo credono e sono moderatamente contenti; è questo, credo, l'unico aspetto per il quale la società sovietica è migliore della non-sovietica. Si deve a Geymonat l'introduzione in Italia di Kuhn.  Altre opera: “Il problema della conoscenza nel positivismo” (Torino, Bocca); La nuova filosofia della natura in Germania, Torino, Bocca, “Per un nuovo razionalismo, Torino, Chiantore, Neo-razionalismo. Torino, Einaudi, Galileo Galilei, Collana Piccola Biblioteca Scientifica, Torino, Einaudi, La filosofia della scienza, Feltrinelli, Milano); Filosofia nella storia della civiltà, con Renato Tisato, Garzanti, Milano, Storia della filosofia, Garzanti, Milano, Il materialismo dialettico, Editori Riuniti, Roma, Scienza e realismo, Feltrinelli, Milano); “Paradossi e rivoluzioni. scienza e politica, Giulio Giorello e Marco Mondadori, Il Saggiatore, Milano, La probabilita, con Feltrinelli, Milano, Kuhn e Popper, Dedalo, Bari. Lineamenti di filosofia della scienza, Mondadori, Milan); “Le ragioni della scienza” (Laterza, Roma-Bari, La libertà, Rusconi, Milano, La società come milizia, Minazzi, I sentimenti, Rusconi, Milano, Filosofia, scienza e verità, Rusconi, Milano, La Vienna dei paradossi. Controversie filosofiche e scientifiche nel Wiener Kreis, Mario Quaranta, Il poligrafo, Padova, Dialoghi sulla pace e la libertà, cCuen, Napoli, La ragione, con Minazzi e Sini, Piemme, Casale Monferrato, Attualità del Marxismo. Quaderni di Città Futura, Ancona); “Storia e filosofia dell'analisi infinitesimale, Bollati Boringhieri, Torino. Emanuele Vinassa de Regny, «Corrado Mangione: breve storia di una lunga amicizia», «AppendiceL'Associazone Culturale Marxista», in Attualità del Marxismo. Filosofia e dintorni, Intellettuali non fate ideologia. L'Occidente non è quest'inferno, Dario Antiseri, articolo su «Il Mattino di Padova», lincei. Geymonat Mario Quaranta, Geymonat filosofo della contraddizione, Sapere, Padova, Mangione, Scienza e filosofia. Saggi in onore di Geymonat, Garzanti, Milano, Pasini, Rolando, Il neo-illuminismo italiano. Cronache di filosofia, Il Saggiatore, Milano, Minazzi, Scienza e filosofia in Italia negli anni Trenta: il contributo di Persico, Abbagnano e Geymonat. Norberto Bobbio, Ricordo, "Rivista di Filosofia" Silvio Paolini Merlo, Consuntivo storico e filosofico sul "Centro di Studi Metodologici" di Torino, Pantograf (Cnr), Genova,  Minazzi, “La passione della ragione” Thélema Edizioni Milano-Mendrisio, Mario Quaranta, Una ragione inquieta, Seam, Formello, Minazzi, Filosofia, scienza e vita civile inGeymonat, La Città del Sole, Napoli, Fabio Minazzi, Contestare e creare. La lezione epistemologico-civile di Geymonat, La Città del Sole, Napoli, Silvio Paolini Merlo, Nuove prospettive sul "Centro di Studi Metodologici" di Torino, in «Bollettino della Società Filosofica Italiana», Bruno Maiorca,Scritti sardi. Saggi, Cagliari, Minazzi, Ludovico Geymonat, un Maestro del Novecento. Il filosofo, Edizioni Unicopli, Milano, Pietro Rossi, Avventure e disavventure della filosofia. Saggi sul pensiero italiano del Novecento, il Mulino, Bologna, Minazzi, Geymonat epistemologo, Mimesis Edizioni, Milano   Positivismo logico Circolo di Vienna Scuola di Milano. Treccani Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Geymonat, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Massimo Mugnai, Scienza e filosofia: Geymonat e Preti, in Il contributo italiano alla storia del Pensiero: Filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,. Articoli della stampa italiana su L. Geymonat, dal Sito Web Italiano per la Filosofia L'eredità intellettuale di Ludovico Geymonat (C.Preve).  La  scuola  pitagorica  rappresenta  un  movimento  di  pensiero  di  livello  scien- tifico  molto  superiore  a  quello  della  scuola  ionica.  Per  la  verità  non  tutti  gli  studiosi  sono  d'accordo  su  ciò.  Taluni  sostengono  infatti  che  Pitagora  (il  quale  non  lasciò  nulla  di  scritto)  sia  stato  il  fondatore  più  di  una  setta  religiosa  analoga  all'orfismo,  che  non  di  un  vero  e  proprio  movi- mento  di  pensiero  scientifico-filosofico. Essi  affermano  che  soltanto  mezzo  se- colo  dopo  la  morte  del  fondatore  la  setta  pitagorica  cominciò  ad  interessarsi  di  scienza  e  di  filosofia.  Oggi  però  si  ritiene  dai  più  che  l'interpretazione  ora  ac- cennata  sia  eccessivamente  critica,  e  si  preferisce  ritornare  all'interpretazione  tradizionale,  che  attribuiva  proprio  a  Pitagora  la  maggior  parte  delle  concezioni  note  sotto  il  nome  di  «  pitagoriche  ».  La  ricchezza  del  sapere  di  Pitagora  ci  è  del  resto  attestata  da  Eraclito,  che  polemicamente  lo  definiva  po!Jmathés,  «  eru- dito.” Anche  noi  dunque  ci  atterremo  alla  tradizione,  pur  riservandoci  di  trat- tare  nuovamente  nel  capitolo  v  la  reazione  pitagorica  all'eleatismo,  rappresen- tata  nel  v  secolo  da  Filolao.  Nato  a  Samo  verso  il  575,  Pitagora  abbandonò  circa  a  quarant'anni  la  pro- pria  patria  per  trasferirsi  nella  Magna  Grecia,  e  precisamente  a  Crotone  in  Calabria  (dove era  fiorita  un  'importante  scuola  di  medicina,  per  la  quale  rinviamo  al  capitolo  vn).  Qui  fondò  una  scuola  che  ebbe  un  notevole  peso  nella  vita  poli- tica  della  città,  essendo  legata  al  partito  aristocratico.  Era  organizzata  sulla  base  di  regolamenti  molto  rigorosi,  che,  tra  l'altro,  esigevano  dagli  scolari  un  lungo  periodo  di  tirocinio  prima  di  essere  ammessi  ai  segreti  più  profondi  della  setta.  Su  questa  base  si  creò  assai  presto  la  divisione  fra  «  acusmatici  »,  ascoltatori,  e  «matematici»,  partecipi  degli  insegnamenti  più  profondi,  che  in  seguito  si  accu- sarono  a  vicenda  di  non  essere  i  veri  depositari  delle  dottrine  del  maestro.  L'in- segnamento  di  Pitagora  era  circondato  da  grande  rispetto,  e  si  riponeva  in  lui  una  fiducia  illimitata,  tanto  che  a  Pitagora  per  la  prima  volta  si  riferì  il  celebre  autòs  efa  (ipse  dixit).  Fatto  notevole  è  infine  che  nella  scuola  pitagorica  fossero  ammesse  anche  le  donne. Verso  la  fine  del  VI  secolo,  una  sommossa  provocata  dal  partito  democratico  cacciò  i  pitagorici  da  Crotone.  Pare  che  Pitagora  sia  riuscito  a  fuggire  a  Metaponto,  ove  poco  dopo  morì.  Sul  grande  pensatore  sorsero  presto  numerose  leggende,  alcune  delle  quali  erano  già  note  ad  Aristotele.  Queste  accentuarono  il  carattere  religioso  della  sua  figura,  facendone  poco  meno  che  un  semidio,  e  furono  particolarmente  care  a  quel  movimento  neopitagorico  misticheggiante  che  fiorì  nel  tardo  periodo  alessandrino  e  che,  attraverso  le  opere  di  Numenio  e  di  Giamblico,  confluì  nel  neoplatonismo.  La  realtà  accertata  dagli  storici  è  che,  dopo  l'espulsione  da  Crotone,  si  organizzarono  varie  comunità  pitagoriche  nel  mondo  ellenico  e  soprattutto  nella  Magna  Grecia.  Esse  ebbero  lunga  vita  e  diedero  notevoli  sviluppi  all'opera  del  maestro.  Le  due  più  celebri  furono:  la  scuola  di  Filolao  (vissuto  nella  seconda  metà  del  v  secolo)  che  dalla  Magna  Grecia  si  trasferì  a  Tebe,  e  quella  di  Archita  (inizio del  IV  secolo)  che  fiorì  a  Taranto,  dominando  anche  politicamente  la  città.  Di  Filolao  ci  sono  pervenuti  vari  frammenti,  che  dopo  lunghe  discussioni  vengono  oggi  ritenuti  generalmente  autentici,  e  che  costituiscono  la  base  prin- cipale  per  ricostruire  la  dottrina  di  Pitagora;  su  di  lui,  come  già  abbiamo  accen- nato,  si  tornerà  con  più  ampiezza  nel  capitolo  v.  Archita,  uomo  di  straordinaria  va- stità  e  modernità  di  interessi,  fu  legato  da  amicizia  personale  con  Platone,  che  lo  ricorda  affettuosamente  nella  VII  Epistola,  ed  esercitò  per  suo  tramite  una  grande  influenza  sull'Accademia.  Di  Archita  parleremo  più  diffusamente  nel  capitolo  xn.  Né  l'influsso  del  pitagorismo  si  limitò  alla  filosofia  ed  alla  scienza,  ma  si  risentì  fortemente  in  tutte  le  manifestazioni  dello  spirito  greco.  All'acustica  pi- tagorica  si  possono  far  risalire  molte  delle  teorie  musicali  greche  tramandateci  dagli  Elementi  armonici  del  peripatetico  Aristosseno  (m  secolo  a.C.),  ed  al  pitago- rismo  esplicitamente  si  richiamò  lo  scultore  Policleto,  contemporaneo  ed  amico  di  Fidia,  che  nel  Canom  sviluppò  una  teoria  artistica  basata  sulla  concezione  della  bellezza  del  corpo  come  giusta  proporzione  delle  parti.  Legato  al  pitagorismo  fu  pure  Ione  di  Chio,  poeta  tragico  e  filosofo  del  v  secolo.  I  NUMERI  PRINCIPIO  DELLA  REALTÀ  Questa  dottrina  si  imperniava  su  di  un  pensiero  fondamentale:  i  numeri  sono  il  principio  di  tutte  le  cose.  «  Tutte  le  cose  che  si  conoscono  hanno  numero;  senza  questo  nulla  sarebbe  possibile  pensare,  né  conoscere.  »  Dovremo  ora  cercare,  innanzi  tutto,  di  comprendere  il significato  filosofico  di  questo  pensiero;  poi  di  svilupparne  le  conseguenze  matematiche  e  fisiche.  Alla  fine  del  capitolo  accenneremo  al  valore  intrinseco  della  teoria,  e  al  significa- to  della  crisi  scientifica  formatasi  nella  scuola  prima  ancora  della  cacciata  di  Pita- gora  da  Crotone. Pitagora  prese  forse  le  mosse  dalle  ricerche  ioniche  sul  principio  e  in  parti- colare  dalla  teoria  dell'àpeiron  di  Anassimandro.  Una  più  acuta  sensibilità  ai  pro- blemi  etico-religiosi  (quali  l'opposizione  del  bene  e  del  male  nel  mondo,  la  vicenda  della  colpa  e  del  riscatto),  stimolata  probabilmente  dall'incontro  nella  Magna  Grecia  con  i  culti  misterici,  e  d'altro  canto  una  maggiore  attenzione  per  le  leggi  formali  e  modali  della  realtà,  cui  diedero  impulso  le  sue  prime  ri- cerche  acustiche,  dovettero  però  fargli  apparire  inadeguato  il  principio  unico  dei  naturalisti  ionici.  Per  rendere  conto  di  questi  più  complessi  problerill,  Pitagora  sdoppiò  il  principio  in  due  opposti:  da  una  parte  il  principio  del  limitato,  del  finito,  dell'uni- tario,  che  rappresentava  l'ordine,  il  cosmo,  il  bene;  dall'altra  il  principio  dell'il- limitato,  dell'infinito,  che  raffigurava  il  disordine,  il  caos,  il  male.  La  grande  in- tuizione  di  Pitagora  consistette  nel  vedere  nei  numeri  e nei  loro  rapporti  la  chiave  e la  struttura  ultima  di  questo  assetto  dualistico  della  realtà.  Col  termine  «  numeri  »  i  pitagorici  intendevano  soltanto  i  numeri  interi,  concepiti  come  le  collezioni  di  più  unità.  Non  fecero  particolari  indagini  sulla  natura  di  queste  unità,  limitandosi  a  rappresentarle  con  punti,  circondati  cia- scuno  da  uno  spazio  vuoto.  Proprio  questa  rappresentazione  spaziale  facilitò  il  passaggio,  caratteristicamente  arcaico,  dalla  concezione  del  numero  come  «  chiave  »  e  rapporto  alla  sua  concezione  come  costituente  fisico  elementare  delle  cose.  Il  problema  essenziale  diventava  allora,  per  i  pitagorici,  quello  di  cogliere  il  modo  con  cui  dalla  collezione  di  più  unità  si  generano  tutti  gli  esseri.  Le  leggi  della  formazione  dei  numeri  venivano  considerate  come  leggi  della  formazione  delle  cose,  e.  si  riteneva  di  poter  trovare  in  esse  la  vera  ragione  esplicativa  del  mondo  fisico  e  morale.  La  più  importante  di  tali  leggi  era  costituita  - secondo  i  pitagorici  - dal- l'opposta  struttura  dei  numeri  dispari  e  di  quelli  pari.  L'antitesi  dispari-pari  ve- niva  cosi  assunta  a  principio  di  una  serie  di  altre  nove  opposizioni,  che  spezzano  il  mondo  in  due:  limitato-illimitato  (opposizione  che  era  stata,  come  s'è  visto,  il  problema  iniziale  del  pitagorismo,  ma  poteva  ora  venir  spiegata  sulla  base  del- l 'antitesi  precedente);  uno-molti;  destra-sinistra;  maschio-femmina;  luce-tenebre;  buono-cattivo;  immobile-mobile;  retto-curvo;  quadrato-rettangolo.  Alcune  di  queste  nove  opposizioni  avevano  palesemente  un  carattere  fisico  (quella  per  esempio  di  luce  e tenebre;  da  essa  scaturiva  la  raffigurazione  del  cosmo  come  costituito  da  un  fuoco  centrale,  immerso  in  un'estensione  illimitata  di  nebbia);  altre  invece  un  preciso  carattere  morale.  Questa  presenza  di  significati  multipli  finiva  con  l'infondere  ai  numeri  in  generale,  e  a  certuni  di  essi  in  parti- colare,  un  vero  e  proprio  valore  magico-simbolico.  Così  il  numero  5  veniva  assunto  a rappresentare  il matrimonio,  essendo  la somma  del  primo  numero  dispa-ri,  il  3,  con  il  primo  numero  pari,  il  2  (l'I  veniva  considerato  come  «  parìmpari  »servendo  a  generare  sia  i  numeri  pari  che  i  dispari);  il  4  e  il  9  venivano  presi  come  simboli  della  giustizia;  il  7  dell'opportunità;  e  così  via.  Di  derivazione  pitagorica  è  un  trattato  di  medicina  intitolato  Sul  numero  sette  (Peri  hebdomadon),  che  cerca  appunto  nei  rapporti  settenari  la  spiegazione  della  struttura  dell'orga- nismo  e delle  sue  affezioni.  Qualcuna  di  queste  concezioni  è  pervenuta  fino  a  noi,  onde  si  attribuisce  per  esempio  al  7  un  significato  speciale  etico  e  fisico  (nella  tradizione  cristiana  sette  sono  i  ·vizi  capitali,  sette  le  opere  di  misericordia,  in  varie  malattie  si  ha  la  «settima»,  ecc.).  La  purificazione  religiosa,  che  formava  - almeno  in  un  primo  tempo  il  fine  principale  dell'insegnamento  pitagorico,  era  cercata  essa  pure  attraverso  la  contemplazione  dei  numeri.  Questa  veniva  pertanto  a  possedere  un  doppio  aspetto:  scientifico  e  mistico.  La  peculiare  nobiltà  dell'ascesi  pitagorica  consisteva  appunto  nel  fatto  che  a  ogni  sua  tappa  doveva  corrispondere  la  conquista  di  un  più  alto  gradino  del  sapere.  Il  carattere  mistico  delle  ricerche  matematiche  co- stituì  per  molto  tempo  un  notevole  impulso  al  loro  sviluppo,  e  insieme  un  im- pedimento  al  loro  caratterizzarsi  come  ricerche  puramente  scientifiche.  III  ·  L'  ARITMO-GEOMETRIA  In  particolare,  la  concezione  ora  spiegata  spinse  i  pitagorici  a  studiare  la  geometria  per  via  aritmetica.  Ne  sorse  una  disciplina  che,  per  il  suo  doppio  ca- rattere,  fu  chiamata  «  aritmo-geometria  ».  Essa  era  fondata  sulla  convinzione  che  da  un  lato.  fosse  possibile  ricavare  le  principali  caratteristiche  delle  figure  a  partire  dal  numero  dei  punti  (supposto,  in  ogni  caso,  finito)  che  le  compongono,  e dall'altro  fosse  possibile- viceversa- ricorrere  alla  forma  delle  figure  per  illustrare  le  più  recondite  proprietà  dei  nu- meri.  Di  qui  la  distinzione  dei  numeri  in  vari  tipi;  per  esempio:  •  •  •  •  •  •  •  •  •  •  •  •  •  •  •  •  •  •  •  triangolari  polig6nali  quadrati  c~  bici  Al  numero  triangolare  10  veniva  attribuita  un'importanza  speciale,  come  somma  dei  primi  quattro  numeri  naturali.  I dispari  venivano  chiamati  «  gnomoni»,  per  la  possibilità  di  rappresentarli  informa  di  gnomone  (cioè  squadra).  Questa  rappresentazione  permise  di  scoprire  che  ogni  numero  dispari  è  la  differenza  di  due  quadrati;  per  esempio:  •  •  •  •  •  •  •  •  •  •  •  •  •  •  •  •  7  =  4 2 - 3 2  Varie  testimonianze  ·- tra  cui  quella  di  Proclo  ·- ci  dicono  che  Pitagora  fu  il  primo  a  comprendere  la  validità  generale  del  teorema  che  ancor  oggi  porta  il  suo  nome,  e  che,  per  taluni  casi  particolari  (per  esempio  quando  i  cateti  val- gono  3  e 4, e  l'ipotenusa  5),  era  noto  già  prima  di  lui.  Non  sappiamo  però  quale  ragionamento  servisse  a  Pitagora  per  provare  l'importante  teorema.  Certamente  la  dimostrazione  riferita  negli  Elementi  di  Euclide  non  fu  ideata  dal  filosofo  di  Crotone.  IV  ·  L'ACUSTICA  E  L'ASTRONOMIA  PITAGORICHE  La  dottrina  che  «  i  numeri  sono  il  principio  di  tutte  le  cose  »  trovò  pure  conferma  negli  studi  di  acustica.  Stando  alla  più  antica  tradizione  dobbiamo  infatti  ammettere  che  Pitagora  riuscì  a  scoprire  i  principali  intervalli  musicali.  Sarebbe  giunto  a  questa  notevolissima  scoperta  dallo  studio  sperimentale  delle  corde  sonore,  e  dalla  constatazione  che  nei  principali  accordi  il  rapporto  fra  le  loro  lunghezze  è  espresso  da  numeri  interi  molto  semplici.  L'acustica  venne  in  tal  modo  a costituire  una  specie  di«  aritmetica  applicata»,  come  l'astronomia  costituiva  una  «geometria  applicata».  Il  quadro  delle  ricerche  scientifiche  risultò  pertanto  suddiviso  in  quattro  rami  fondamentali:  aritmetica,  musica,  geometria,  astronomia. 1  L'astronomia  pitagorica  - come  abbiamo  accennato  nel  paragrafo  n   - partiva  dall'ammissione  di  un  fuoco  centrale  immerso  in  una  sconfinata  nebbia  di  tenebre.  Intorno  a  tale  fuoco  si  pensava  ruotassero  dieci  corpi  (notiamo  l'intervento  del  numero  10):  la  Terra,  l'Antiterra  (invisibile),  la  Luna,  il  Sole,  i  cinque  pianeti  allora  conosciuti,  e  il  cielo  delle  stelle  fisse.  I  movimenti  ciclici  di  questi  corpi  produrrebbero  - secondo  Pitagora  - una  meravigliosa  armonia,  che  noi  però  non  riusciamo  a  percepire  a  causa  della  sua  continuità.  La  loro  ciclicità  sarebbe  la  causa  del  ritorno  periodico  di  tutte  le  cose.  Nei  secoli  I  Questa  ripartizione  costituisce  il  lontano  antecedente  del  celebre«  quadrivio  »,che  starà  alla  base  dell'istruzione  nelle  scuole  del  medioevo.successivi  l'astronomia  pitagorica  portò  a  concezioni  di  grande  interesse  scien- tifico;  degna  di  particolare  menzione  l 'ipotesi  eliocentrica,  ideata  per  la  prima  volta  da  Aristarco  di  Samo  nel  III  secolo  a.C.  Ricordiamo  infine  la  teoria  secondo  cui  tutto  il  cosmo  sarebbe  sorto  dal  fuoco  centrale  e  ritornato  in  esso  per  poi  nascere  un'altra  volta.  Con  riferimento  ad  essa,  i pitagorici chiamavano  «anno  cosmico»  l'intervallo  di  tempo  impiegato  dal  cosmo  per  nascere  e  ritornare  nel  fuoco.  LA  CONCEZIONE  DELL'ANIMA  La  teoria  pitagorica  dell'anima,  malgrado  la  sua  ambiguità,  ebbe  notevoli  riflessi  sui  filosofi  posteriori.  Da  un  lato  alcune  testimonianze  ci  dicono  che  l'anima  veniva  concepita  dai  pitagorici  come  «armonia»  del  corpo,  nel  preciso  senso  in  cui  si  parla  di  ar- monia  dei  suoni  emessi  da  uno  strumento  musicale.  Secondo  questa  interpreta- zione,  l'anima  doveva  venire  necessariamente  pensata  come  mortale,  poiché  - spezzato  lo  strumento  - anche  l'armonia  viene  a  cessare.  D'altro  lato  sappiamo  però  che  uno  dei  cardini  della  filosofia  pitagorica  era  costituito  dalla  trasmigrazione  delle  anime  (metempsicosi),  e  questa  suppone  ovviamente  che  l'anima  non  muoia  con  il  corpo  che  la  ospita.  Un  frammento  del  medico  Alcmeone  (che  visse  a  Crotone  alla  fine  del  VI  secolo,  e  fu  legato  ai  circoli  pitagorici)  afferma  che  l'«  anima  è  immortale  per  la  sua  somiglianza  con  le  cose  immortali  ...  la  luna,  il  sole,  gli  astri  ». 1  Come  risolvere  l'apparente  contraddizione?  Probabilmente  bisogna  ritenere  che  i  pitagorici  ammettessero  due  specie  di  anime:  una  costituita  dal  tempera- mento  psichi  co,  legato  indissolubilmente  al  corpo  e  destinato  a  morire  con  esso;  l'altra  da  un  principio  immortale  o  «  anima-dèmone  ».  In  ogni  vita  si  avrebbe  una  stretta  rispondenza  tra  le  due  anime;  questa  rispondenza  verrebbe  però  a  cessare  coll'uscita  dell'anima-dèmone  dal  corpo.  Tale  uscita  sarebbe  da  lei  de- siderata  per  raggiungere  la  purezza  di  una  vita  interamente  spirituale.  A  tali  dottrine  si  ispirava  il  «  modo  di  vita  pitagorico  »,  altamente  lodato  da  Platone  per  la  sua  unione  di  teoresi  e  di  ascesi;  la  metempsicosi  in  particolare  determi- nava  il  più  famoso  dei  divieti  rituali  pitagorici,  quello  di  mangiare  la  carne  di  certi  animali,  nei  quali  potrebbe  essersi  incarnata  un'anima.  Anche  dio  veniva  concepito  dai  pitagorici  come  anima;  e  precisamente  come  «  anima  del  mondo  »  che  circola  continuamente  in  esso  e  perciò  è  presente  in  ogni  luogo.  Il  rapporto  dio-mondo  restò  tuttavia  molto  incerto  nella  filosofia  pitagorica,  sicché  non  possiamo  cercare  in  essa  un  vero  e  proprio  sistema  teolo- gico.  I  Ad  Alcmeone  si deve  la  notevolissima  sco- perta  che  il  centro  della  vita  organica  e  mentale  va  localizzato  nel  cervello.  Del  pensiero  scientifico  45  di  Alcmeone,  che  costituì  l'aspetto  più  significa- tivo  della  sua  personalità,  sarà  detto  più  ampia- mente  nel  capitolo  vuQuanto  abbiamo  finora  riferito  basta  per  farci  comprendere  la  complessità  dell'insegnamento  pitagorico.  Se  in  taluni  punti  esso  può  apparirci  ingenuo,  in  altri  casi  contraddittorio,  ciò  non  deve  farci  sottovalutare  l'importanza  dei  temi  ivi  abbozzati,  che  ricompariranno  ampliati  e  sviluppati  nei  più  diversi  indirizzi  filosofici  e  scientifici.  Notiamo,  per  esempio, che  l'idea  di  cercare  nei  numeri,  cioè  nella  matematica,  la  spiegazione  di  tutti  i  fenomeni,  ricomparirà  potenziata  nell'epoca  moderna  e  formerà  per  molto  tempo  la  «  spina  dorsale  »  di  tutta  la  ricerca  scientifica.  Vi  è  chi  sostiene,  esagerando  forse  le  cose,  che  le  più  celebri  teorie  della  fisica-ma- tematica  moderna  (per  esempio  la  teoria  della  relatività  generale  di  Einstein)  non  costituirebbero  altro  che  il  proseguimento  del  programma  pitagorico.  Ma,  a  parte  ciò,  noi  troviamo  nella  matematica  di  Pitagora  un  carattere  speciale  che  la  differenzia  notevolmente  da  molte  altre  concezioni  posteriori,  pur  esse  accentratesi  sulla  ricerca  matematica.  Il  carattere  cui  voglio  riferirmi,  suol  venire  indicato  col  termine  «discontinuità».  Si  dice  che  la  scienza  di  Pi- tagora  è  una  matematica  del  discontinuo,  perché  essa  si  fonda  esclusivamente  sui  numeri  interi  e  su  ciò  che  può  venire  espresso  con  i  numeri  interi  (per  esem- pio  sulle  frazioni  ordinarie,  e  non,  invece,  sui  numeri  irrazionali).  Secondo  essa,  l'accrescimento  di  una  grandezza  procede  per  «salti  discontinui»,  essendo  im- possibile  aggiungere  qualcosa  che  sia  minore  dell'unità.  Taluno  giunge  a  riconoscere  nelle  teorie  quantistiche  moderne  una  soprav- vivenza  dell'antica  eredità  pitagorica  sotto  forma  dì  concezione  discontinua  dell'energia.  LA  SCOPERTA  DELLE  GRANDEZZE  INCOMMENSURABILI:  CRISI  DEL  PITAGORISMO  Lasciando  da  parte  le  reminiscenze  pitagoriche  presenti  nella  fisica  moderna,  va  detto  però  ben  chiaramente  che  l'aritmo-geometria  di  Pitagora  non  ebbe  vita  lunga  nella  scienza  greca.  La  sua  fine  fu  provocata,  per  l'appunto,  dalla  crisi  di  quell'idea  di  discontinuità  che  costituiva  - come  s'è  detto  - uno  dei  suoi  cardini  fondamentali.  La  grande  crisi  fu  causata  dalla  scoperta  che  le  figure  geometriche  sono  co- stituite  non  da  un  numero  finito,  ma  da  una  infinità  di  punti.  (Le  teorie  moderne,  che  tornano  ad  un'idea  rinnovata  di  discontinuità,  sosterranno  implicitamente  che  la  geometria  classica  - proprio  perché  parla  di  una  infinità  di  punti  - non  trova  esatta  applicazione  nella  realtà.)  Il  primo  «  fatto  geometrico  »  che  costrinse  i  pitagorici  a  riconoscere  che  le  figure  sono  costituite  da  infiniti  punti,  è  proprio  connesso  a  quel  medesimoteorema  che  porta  il  nome  di  Pitagora.  Ed  infatti,  applicando  detto  teorema  ad  uno  dei  due  triangoli  isosceli  in  cui  è  diviso  un  quadrato,  si  dimostra  facil- mente  che  il  lato  e  la  diagonale  di  tale  quadrato  non  possono  avere  alcun  sot- tomultiplo  comune,  cioè  sono  incommensurabili.  Orbene  proviamo  a  supporre  che  un  segmento  sia  generato  dall'accostamento  di  una  serie  finita  di  punti  (pic- coli  ma  non  nulli,  e  tutti  eguali  fra  loro,  come  allora  si  immaginava):  ne  se- guirebbe  che  uno  qualunque  di  questi  punti  risulterebbe  contenuto  un  numero  intero,  e  finito,  di  volte  (per  esempio  m  volte)  nel  lato  e  un  altro  numero  in- tero,  e finito,  di  volte  (per  esempio  n  volte)  nella  diagonale.  Lato  e  diagonale  avreb- bero  dunque  un  sottomultiplo  comune,  e  non  sarebbero  - come  si  era  dimo- strato  - incommensurabili.  La  loro  incommensurabilità  esige  pertanto  che  es- si  siano  costituiti  da  una  infinità  di  punti.  La  leggenda  racconta  che  il  fatto  scandaloso,  ora  riferito,  fu  gelosamente  custodito  per  vari  anni  tra  i  segreti  più  pericolosi  della  setta.  Esso  fu  rivelato  fuori  della  scuola  pitagorica  da  Ippaso  di  Metaponto,  una  delle  figure  più  notevoli  dell'antico  pitagorismo.  Pastosi  a  capo  degli  acusmatici  per  la  moderna  irre- quietezza  del  suo  ingegno  che  mal  tollerava  il  dogmatismo della  setta,  egli  sarebbe  stato  vicino  ad  Eraclito  per  l'idea  che  il  fuoco  è  il  principio  di  tutte  le  cose,  e  si  sarebbe  schierato  dalla  parte  dei  democratici  nei  moti  che  condussero  alla  cacciata  dei  pitagorici  da  Crotone.  Per  avere  rivelato  la  natura  delle  grandezze  incommen- surabili,  Ippaso  sarebbe  stato  cacciato  ignominiosamente  dalla  scuola,  ed  a  lui  anzi  i  pitagorici  avrebbero  eretto  una  tomba  come  ad  un  morto.  Secondo  la  tra- dizione  su  di  lui  sarebbe  caduta  anche  l'ira  di  Giove,  il  quale  lo  fece  perire  in  un  naufragio;  la  sua  triste  morte  non  impedì  tuttavia  che  lo  scandalo  si  diffondesse  rapidamente  tra  i  cultori  di  matematica  e  finisse  per  scuotere  dalle  fondamenta  l'intera  concezione  pitagorica.  Questa  crisi  verrà  resa  ancor  più  acuta  - come  vedremo  - dalla  scoperta  delle  antinomie  di  Zenone  sul  movimento  e  sulla  divisibilità.  Per  uscire  da  essa,  i  maggiori  scienziati  greci  non  troveranno  altra  via  se  non  quella  di  scindere  completamente  la  geometria  dall'aritmetica,  interpretando  la  prima  come  studio  del  continuo  e  la  seconda  come  studio  del  discontinuo.  Il  rapporto  tra  continuo  e  discontinuo  resterà,  per  tutta  la  storia  del  pensiero  umano,  un  problema  molto  difficile  e  molto  dibattuto;  verrà,  anzi,  considerato  come  uno  dei  più  astrusi  «labirinti»  della  ragione.  L'averne  intuito  l'esistenza  e  la  difficoltà  va  dunque  considerato  come  un  merito,  e  molto  notevole,  dello  spirito  greco.  Il  primo  passo  della  ragione  umana  si  compie,  in  ogni  ricerca,  col  porre  a  nudo  le  difficoltà  ivi  esistenti,  per  gravi  che  esse  siano,  non  col  nasconderle.  Solo  chi  le  conosce,  non  chi  le  ignora,  può  sentirsi  spinto  a  cercare  i  mezzi  indispensabili  per  risolverle  o,  comunque,  dominarle;  e  questa  ricerca  è  la  molla  più  decisiva  del  progresso  scientifico. Oggi  si  riconosce  quale  autentico  fondatore  della  scuola  eleatica  il  grande  Parmenide,  nato  ad  Elea  verso  il  51  5  e  fiorito  nella  prima  metà  del  v  secolo.  Egli  scrisse  un  poema  allegorico  Sulla  natura  (Perì  fjseos),  di  cui  ci  sono  pervenuti alcuni  interessantissimi  frammenti  che,  integrati  da  varie  testimonianze,  ci  per- mettono  di  ricostruire  con  sufficiente  sicurezza  il  suo  pensiero.  Data  la  vicinanza  di  Elea  ai  maggiori  centri  del  pitagorismo,  è indubitato  che  Parmenide  subì,  in  forma  più  o  meno  diretta,  l'influenza  di  questo  indirizzo  di  pensiero.  Taluni  storici,  accentuando  questo  legame,  giunsero  a  presentarcelo  come  un  pitagorico,  distaccatosi  dalla  scuola  di  provenienza  per  divergenze  di  ordine  filosofico.  Tale  interpretazione  ci  costringerebbe  a vedere  in  gran  parte  degli  argomenti  eleatici,  come  ad  esempio  nelle  aporie  di  Zenone,  un  intento  polemico  soprattutto  antipitagorico.  La  gravità  di  questa  conseguenza  lascia  tuttavia  perplessi  molti  autorevoli  critici.  Si  ritiene  oggi  piuttosto  che  la  critica  di  Parmenide  fosse  rivolta  in  generale  contro  tutte  le  filosofie  ioniche  ed  italiche  del  molteplice  e del  divenire,  di  cui  egli  rilevava  acutamente  la contraddittorietà:  nel  tentativo  di spiegare  razionalmente  la  realtà,  e  di  modellare  la  ragione  sui  dati  dell'esperienza,  tali  filosofie  dovevano  ammettere  una  serie  di  opposizioni  e  di  alterità  di  cui  però  si  assumeva  la  coesi- stenza.  Ora  - osservava  Parmenide  - se  di  una  qualsiasi  cosa  si  dice  o si  pensa  che  «  è  »,  di  ciò  che  è  diverso  od  opposto  ad  essa  si  dovrà  dire  o  pensare  che  «non  è»:  e  com'è  possibile  riconoscere  realtà  alcuna  a  ciò  che  non  è,  se  non  si  vogliono  violare  le  leggi  immutabili  del  discorso  e  del  pensiero?  La  grandezza  della  filosofia  di  Parmenide,  quella  grandezza  che  costituì  un  fecondo  punto  di  partenza  per  il  pensiero  successivo  e  anche  un  difficile  problema  la  cui  soluzione  era  tuttavia  indispensabile  per  poter  progredire,  sta  proprio  qui:  nell'aver  cioè  individuato  nella  sua  radice  filosofica  l'ambiguità  della  speculazione  ionica  edita- lica,  e nell'aver  posto  in  primo  piano  il problema  della  verità  del  linguaggio  e  del  pensiero,  il  problema  della  «  via  »,  cioè  del  metodo,  che  linguaggio  e  pensiero  dovevano  percorrere  per  giungere  alla  realtà.  Il  metodo  vero  costruisce  cono- scitivamente  la  realtà,  l'essere,  perché  elimina  gradualmente  dal  pensiero  tutti  i  contrassegni  di  irrealtà,  di  non-essere,  che  vi  si  erano  infiltrati:  la  molteplicità  nello  spazio,  intesa  _come  differenziazione  di  parti,  la  molteplicità  nel  tempo,  intesa  come  differenziazione  di  momenti,  il  vuoto  inteso  come  assenza  di  realtà,  la  generazione  e  la  distruzione  intese  come  limiti  dell'essere.  Partito  dal  riconosci- mento  logico  e  metodologico  delle  esigenze  del  pensiero  e  del  discorso,  Parme- nide  giunge  al  culmine  della  «via»  a  dichiarare  l'impensabilità,  l'inesprimibilità  e  l'inesistenza  del  non-essere,  e  la  parimenti  assoluta  esistenza  dell'essere,  che  condiziona  la  possibilità  di  pensare  e  di  dire  il  vero.  All'essere  non  potrà  venir  riferito  - sempre  per  l'opposizione  or  ora  ac- cennata  - alcun  attributo,  che  possa  in  qualche  modo  diminuirne  la  positività,  assimilandolo  al  non-essere.  Ci  si  dovrà  limitare  a  dire  che  esso  è  uno,  invaria- bile,  immobile,  eterno.  Qualche  critico  moderno  però  (come  l'Untersteiner)  ha  ritenuto  che  Parmenide  avesse  concepito  l'essere  come  «totalità>>  e  non  come  «unità».  L'erronea  interpretazione  del  suo  pensiero  sarebbe  dovuta  alla  falsa testimonianza  di  Teofrasto  che  attribuisce  a Parmenide  il sillogismo:  «  Quello  che  è  oltre  l'essere  non  esiste;  quello  che  non  esiste  è  nulla;  dunque  l'essere  è  uno.»  L'attributo  dell'unità,  con  cui  polemizzò  Aristotele,  risalirebbe  solo  a  Melissa.  Come  possiamo  conciliare  la  concezione  parmenidea  dell'essere  col  fatto  incontrovertibile  che  l'esperienza  ci  presenta  ad  ogni  piè  sospinto  degli  esseri  molteplici,  variabili,  temporanei?  Di  fronte  a  questo  stato  di  cose  - risponde  Parmenide  - non  vi  è  altro  da  fare  che  respingere  la  nostra  spontanea  fiducia  nell'esperienza,  riconoscendo  che  essa  costituisce  per  l'uomo  una  via  di  cono- scenza  fallace  e illusoria.  Al  mondo  dell'esperienza  è  appunto  dedicata  la  seconda  parte  del  poema  di  Parmenide.  Confutate  «  le  opinioni  dei  mortali  »,  quali  si  erano  espresse  nelle  precedenti  cosmologie  naturalistiche  basate  sul  divenire,  Parmenide  non  rinuncia  tuttavia  a  costruire  una  propria  spiegazione  di  questo  mondo,  di  cui  aveva  di- chiarato  la  radicale  inconsistenza  di  fronte  all'assoluto  essere.  Molto  si  è discusso  fra  gli  studiosi  sul  significato  da  attribuire  a  questo  sconcertante  aspetto  del  pen- siero  parmenideo:  fra  le  più  recenti,  le  due  posizioni  estreme  sono  quella  del  Raven,  secondo  cui  l'eleata,  impegnato  nella  polemica  contro  l'indebita  confu- sione  di  razionale  e di  empirico  tipica  dei  suoi  predecessori,  avrebbe  voluto  costrui- re  una  cosmologia  a  base  puramente  empirica,  da  affiancare  alla  dottrina  logico- razionale  dell'essere  in  modo  da  isolare  ancor  più  chiaramente  i  due  momenti;  e  quella  dell'Untersteiner,  che  ritiene  che  il  mondo  dell'essere  e  il  mondo  del- l'esperienza  siano  unificati  nel  pensiero  di  Parmenide  dal  medesimo  metodo  ra- zionale,  in  grado  di  individuare  il  fondamento  di  realtà  presente  anche  nel  se- condo:  una  realtà,  tuttavia,  che  si  differenzia  da  quella  assoluta  in  quanto  immersa  nel  tempo,  e  che  ne  costituisce  perciò  soltanto  una  «  immagine  ».  In  ogni  caso  se  ne  può  concludere  che  per  Parmenide  solo  la  ragione  è  un  mezzo  di  conoscenza  veramente  efficace;  solo  essa,  rompendo  la  crosta  delle  ap- parenze,  può  farci  cogliere  l'unità  profonda  del  reale.  L'opposizione  tra  razio- nalismo  ed  empirismo,  che  tanti  sviluppi  avrà  nella  storia  della  filosofia,  trova  proprio  qui  la  sua  prima  radice.  L'essere  di  Parmenide  è  stato  interpretato  da  taluni  in  senso  idealistico,  da  talaltri  in  senso  materialistico.  Entt;ambe  queste  interpretazioni  svisano,  però,  il  pensiero  del  grande  eleata,  non  tenendo  conto  che  esso  antecede,  in  realtà,  ogni  consapevole  distinzione  tra  idealismo  e  materialismo.  L'affermazione  di  Parme- nide  che  più  si  presta  ad  una  interpretazione  materialistica  è  quella  che  ci  presenta  l'essere  come  sferico  (cioè  come  una  sfera  piena)  ; evidentemente  Parmenide  pensò  alla  sfera,  perché  la  superficie  sferica  non  è  limitata  da  alcun  perimetro  né  inter- rotta  da  alcuno  spigolo.  Non  si  può  tuttavia  negare  che  la  sfericità  ora  accennata  vada  accolta  con  la  massima  cautela;  se  infatti  la  interpretassimo  alla  lettera,  ca- dremmo  in  contraddizione  con  tutto  l'insegnamento  di  Parmenide,  perché  sa- remmo  costretti  ad  ammettere  l'esistenza  di  un  non-essere  (o  vuoto),  che  è  al  di là  dell'essere  sferico,  e lo  limita.  Essa  va  intesa invece  come  identità  e assolutezza  dell'essere  lungo  tutte  le  direzioni;  come  è  stato  recentemente  osservato,  la  sfera  di  Parmenide  è  più  simile  allo  spazio  curvo  einsteiniano  che  al  solido  euclideo  che  siamo  portati  a  raffigurarci.  L'interpretazione  idealistica  è  d'altra  parte  esclusa  perché  se  il  pensiero  scopre  l'essere,  certamente  non  lo  crea;  anzi  è  piuttosto  l'esistenza  dell'essere  a  rappresentare  la  possibilità  e  la  condizione  del  pensiero,  che  in  esso  culmina  e  con  esso  deve  identificarsi.  III  ·  CONCLUSIONE  DELL'ELEATISMO:  ZENONE,  MELISSO  Parmenide  ebbe  due  grandi  discepoli:  Zenone  e Melissa.  Il contributo  da  essi  arrecato  all'affinamento  del  pensiero  del  maestro  assicura  loro  un  posto  assai  ragguardevole  nella  storia  della  filosofia.  Entrambi  si  adoperarono  a  difenderne  le  tesi  sia  pure  svolgendo  in  direzioni  opposte  la  tensione  che  vi  era  implicita:  Zenone  cioè  approfondendo  la  problematica  dellogos  nella  sua  crescente  autono- mia,Melisso  invece  sviluppando  il  tema  dell'essere  nella  sua  assolutezza  sostanziale.  Zenone  di  Elea,  più  giovane  di  Parmenide  di  circa  venticinque  anni,  fu  un  ingegno  acuto,  sottile,  vigorosamente  polemico.  Per  gli  argomenti  ideati  a  difesa  dell'unità  (intesa  come  omogeneità  e  con- tinuità  non  divisibile  in  parti)  ed  immobilità  dell'essere,  e  per  il  suo  metodo  di  discussione,  Aristotele,  che  li  discusse  a  lungo  nella  Fisica,  lo  considerò  il  fonda- tore  della  dialettica  (dialettica  formale,  però,  non  reale).  L'originalità  del  metodo  zenoniano  consisteva  nell'assumere  a  punto  di  partenza  la  tesi  da  confutare  e  nel  dedurne  rigorosamente  tutte  le  logiche  conseguenze,  per  mostrarne  la  contraddit- torietà  e  di  conseguenza  l'assurdità  della  tesi,  Oltre  che  di  filosofia,  si  occupò  di  politica  e  contribuì  notevolmente  al  buon  governo  di  Elea.  Morì  con  grande  fierezza- non  si  sa  l'anno  preciso- per  aver  cospirato  contro  il  tiranno  della  città  (Nearco  o  Diomedonte).  Sullà  sua  fine  si  tramandano  vari  particolari  che  ne  confermano  l'eccezionale  coraggio.l  I  celebri  argomenti  di  Zenone  a  difesa  della  filosofia  di  Parmenide  mirano  a  provarci  che,  se  la negazione  del  movimento  e della  molteplicità  può  a prima  vista  apparire  assurda,  l'ammissione  di  essi  conduce  tuttavia  ad  assurdità  ancor  più  gravi,  nascoste,  ma  non  risolte,  dal  linguaggio  ordinario.  Il perno  di  tali  argomenti  consiste  nella  dimostrazione  che,  sia  nella  nozione  di  movimento,  sia  in  quella  di  pluralità,  si  annida  il  delicato  concetto  .di  infinito.  Immaginiamo  che  un  mobile  debba  spostarsi  da  un  estremo  all'altro  di  un  I  Ecco,  per  esempio,  una  versione  dei  suoi  ultimi  istanti:  «  Antistene,  nelle  Successioni,  rac- conta  che  Zenone,  dopo  aver  denunziato  (come  cospiratori)  gli  amici  del  tiranno,  fu  da  questi  in- terrogato  se  c'era  qualche  altro  complice.  Egli  ri- spose:  "  Tu,  la  rovina  della  città.  "  E  poi,  rivolto  52·  ai  presenti,  esclamò:  "  Mi  meraviglio  della  vostra  viltà,  se  siete  servi  della  tirannide  per  timore  di  questo  che  ora  io  sopporto.  "  Da  ultimo,  mozza- tasi  coi  denti  la  lingua,  gliela  sputò  addosso.  I  cit- tadini  allora,  incitati  da  questo  esempio  abbatte- rono  il  tiranno.  »dato  segmento:  prima  di  aver  percorso.  tutto  il  segmento,  dovrà  averne  percorso  la  metà;  prima  di  questa,  la  metà  della  metà,  e  cosl  via  all'infinito.  In  modo  ana- logo,  se  il  «  piè  veloce  »  Achille  vuole  raggiungere  la  lentissima  tartaruga,  che  lo  precede  di  un  tratto  s,  egli  dovrà  percorrere:  innanzi  tutto  quella  distanza  s,  poi  il  tratto  s'  percorso  dalla  tartaruga  mentre  Achille  percorreva  s,  poi  il  tratto  s"  percorso  dalla  tartaruga  mentre  Achille  percorreva  s',  e  così  via  all'infinito.  Nel- l'un  esempio  come  nell'altro,  il  fatto- in  apparenza  semplicissimo  - del  mo- vimento,  si  frantuma  dunque  in  infiniti  moti,  sia  pure  sempre  più  piccoli  ma  non  mai  nulli.  Proprio  questa  loro  infinità  è  causa  di  profonde  difficoltà  concettuali,  che  non  possono  non  rendere  perplesso  qualsiasi  uomo  disposto  al  ragionamento.  Quanto  all'argomentazione  di  Zenone  contro  la  molteplicità,  essa  si  svolgeva  così:  supponiamo  che  esistano  due  entità  A  e  B  distinte;  per  il  fatto  di  essere  distinte,  queste  due  entità  devono  risultare  separate  da  uno  spazio  intermedio  C.  Ma  C è  distinto  tanto  da  A  quanto  da  B,  e quindi  esisteranno  altri  d).le  elementi D  ed  E  che  separano  rispettivamente  C  da  A  e  da  B,  ecc.  Poiché  ciò  può  venir  ri- petuto  all'infinito,  se  ne  conclude  che l'ammissione  di  due  entità  distinte  conduce  di  necessità  all'ammissione  di  infinite  entità.  Al  fine  di  porre  luce  sulle  difficoltà  logiche  di  quest'ammissione,  Zenone  passava  poi  a dimostrare  come,  partendo  da  essa,  si  debba  giungere  a negare  l'esi- stenza  di  qualsiasi  lunghezza  finita.  Ed  infatti- così  ragionava- se  gli  elementi  che  costituiscono  un  segmento  AB  sono  infiniti,  o  essi  sono  nulli,  o  non  sono  nulli;  nel  primo  caso  la lunghezza  del  segmento  non  può  essere  che  nulla  (perché  la  somma  di  infiniti  zeri  è  zero);  nel  secondo  non  può  che  essere  infinita  (per- ché  a  suo  parere  la  somma  di  infinite  quantità  diverse  da  zero  sarebbe  infinita).  É  ingiusto  considerare  questi  ragionamenti  zenoniani  (e  gli  altri  che,  per  brevità,  siamo  costretti  a tralasciare)  quali  semplici  sofismi  o  pseudoragionamenti.  In  realtà,  essi  attirano  efficacemente  la  nostra  attenzione  su  talune  gravissime  dif- ficoltà  dei  due  concetti  di  movimento  e  di  lunghezza,  dovute  all'inevitabile  in- troduzione  dell'infinito,  sia  allorché  si  scompone  un  intervallo  di  tempo  (o  il  moto  attuantesi  in  qtJ.esto  tempo),  sia  allorché  si  scompone  un  segmento.  Questi  argomenti  - che  venivano  ad  aggiungersi  alle  difficoltà  già  ricordate  nell'ultimo  paragrafo  del  capitolo  III,  connesse  alla  scoperta  delle  grandezze  in- commensurabili  - suscitarono  presso  i  greci  una  tale  diffidenza  nei  confronti  dell'infinito,  da  persuaderli  a  compiere  qualunque  sforzo  pur  di  escludere  tale  concetto- per  lo  meno  nella  forma  di  «  infinito  attuale  »  1 - da  ogni  seria  costru- .  I  Si  dice  che  una  grandezza  variabile  costi- tuisce  un  <<  infinito  potenziale  »  quando,  pur  as- s~mendo  sempre  valori  finiti,  essa  può  crescere  al  di  là  ~i  ?gni  limite;  se  per  esempio  immaginiamo  di  suddividere  un  dato  segmento  con  successivi  di- mezzamenti,  il  risultato  ottenuto  sarà  un  infinito  pot~nziale  perché  il  numero  delle  parti  a  cui  per- ventamo,  pur  essendo  in  ogni  caso  finito,  può  crescere  ad  arbitrio.  Si  parla  invece  di  «  infinito  attuale  »  quando  ci  si  riferisce  ad  un  ben  determi- nato  insieme,  effettivamente  costituito  di  un  nume- ro  illimitato  di  elementi;  se  per  esempio  immagi- niamo  di  avere  scomposto  un  segmento  in  tutti  i  suoi  punti,  ci  troveremo  di  fronte  a  un  infinito  attuale  perché  non  esiste  alcun  numero  finito  che  riesca  a  misurare  la  totalità  di  questi  punti. zione  scientifica.  Oggi  noi  abbiamo  imparato,  con  l'analisi  infinitesimale  e  con  la  teoria  degli  insiemi,  a  trattare  con  disinvoltura  l'infinito  matematico  (sia  l'infi- nito  potenziale  sia  quello  attuale);  proprio  perciò  tuttavia  ci  rendiamo  conto  che  le  difficoltà  incontrate  dai  greci  erano  effettive,  non  artificiose,  e  possiamo  affer- mare  con  piena  consapevolezza  che  non  erano  certo  dovute  a  volgari  errori  di  logica,  non  erano  dei  «  sofismi  »  nel  senso  usuale  del  termine.  Dal  punto  di  vista  dell'eleatismo,  il  metodo  scelto  da  Zenone  per  difendere  le  posizioni  di  Parmenide  poneva  tuttavia  la  premessa  di  una  loro  crisi  e  di  un  loro  superamento.  Lo  spregiudicato  uso  logico-matematico  che  egli  faceva  del  logos  non  si  muoveva  più  sulla  via  di  una  identificazione  del  logos  stesso  all'essere,  del  riconoscimento  di  una  realtà  scoperta  dal  pensiero  ma  in  cui  il  pensiero  doveva  confondersi;  Zenone  poneva  piuttosto  le  premesse  per  uno  svincolamento  del  discorso  logico-matematico  dalla  realtà,  e  lavorava  quindi  oggettivamente  alla  rottura  di  quella  unità  discorso-pensiero-essere  che  caratterizzava  la  «vera  via»  proposta  dal  grande  maestro  di  Elea.  La  figura  di  Melissa  è  assai  diversa  da  quella  di  Zenone.  Nato  a  Samo  quasi  contemporaneamente  a  Zenone,  egli  trascorse  tutta  la  vita  nella  propria  isola,  ove  ricoprì  importanti  cariche  politico-militari.  Basti  ricordare  che  fu  capo  della  flotta  con  cui  Samo  sconfisse  gli  ateniesi  nel  440.  La  sua  permanenza  a  Samo  co- stituì,  in  certo  modo,  il  ponte  ideale  attraverso  cui  l'insegnamento  eleatico  per- venne  dalla  Magna  Grecia  nell'Asia  Minore.  La  lunga  lotta  fra  Mileto  e  Samo  può  del  resto  contribuire  a  spiegare  l'abban- dono  melisseo  della  tradizione  ionica;  una  tradizione,  tuttavia,  che  continuò  ad  operare  indirettamente  nel  suo  pensiero  condizionando  in  senso  realistico  la  sua  riforma  dell'eleatismo,  in  contrapposizione  all'indirizzo  prevalentemente  logico  che  quest'ultimo  aveva  assunto  in  Zenone.  Più  che  alla  difesa  delle  teorie  del  maestro,  Melissa  si  dedicò  infatti  al  loro  sviluppo  e  alla  loro  integrazione.  Ab- bandonatane  l'iniziale  carica  logico-verbale  e  metodica,  Melissa  si  propose  una  più  coerente  deduzione  dei  caratteri  sostanziali  e  antologici  dell'essere.  Egli  fu  il  primo  ad  insistere  sul  suo  carattere  di  unità,  che  rappresentava  più  adeguata- mente  in  senso  spaziale  e  temporale  la  «totalità»  dell'essere  parmenideo,  e  so- prattutto  sulla  sua  infinità.  Melissa  afferma  in  proposito  che  non  è  possibile  interpretarlo  come  sferico  (per  le  difficoltà  accennate  alla  fine  del  paragrafo  n)  bensì  lo  si  deve  concepire  come  infinito  o  illimitato  sia  nello  spazio  sia  nel  tempo.  Per  analoghe  ragioni  egli  negò  che  si  potesse  ammettere,.  nell'uno,  una  qualsiasi  sofferenza  o  dolore  o  altra  passione,  perché  ciò  provocherebbe  in  lui  una  specie  di  perturbazione  e  quindi  ne  diminuirebbe  l'unità  e  immobilità.  Quest'ultimo  argomento  sembra  mostrare  come  Melissa,  sulla  traccia  della  teologia  di  Senofane  e  della  tradizione  ionica,  dovette  interpretare  l  'unico  essere  come  dotato  di  vita:  una  vita,  probabilmente,  identica  al  pensiero,  secondo  l'equa- zione  parmenidea  che  abbiamo  già  esposto.  Secondo  la  tradizione,  Melissa  avrebbeanche  definito  l'essere  come  incorporeo,  il che  contrasta  con  la  sua  infinita  esten- sione  spaziale  e  con  la  negazione  eleatica  del  vuoto  :  ciò  mette  a  nudo  in  realtà  una  profonda  contraddizione  dell'eleatismo,  che  non  poteva  concepire  la  realtà  come  puramente  intelligibile  ed  incorporea,  ma  tuttavia  tentava  di  attribuirle  tutte  le  caratteristiche  di  pura  intelligibilità  richieste  da  un  pensiero  filosofico  ormai  maturo.  L'incorporeità  dell'uno  melisseo  significava  dunque  soltanto  che  esso  era  invisibile  e  illimitato  da  qualsiasi  forma  o  corpo  tangibile;  e  significava  al  tempo  stesso  il  portare  al  limite  una  contraddizione  già  implicita  in  Parmenide  del  cui  superamento  avrebbe  grandemente  beneficiato  il pensiero  posteriore.  L'avere  reso  l'essere  infinito  nello  spazio  e  nel  tempo  impediva  a  Melissa  di  accettare  la  bipartizione  parmenidea  tra  realtà  atemporale  e  mondo  sensibile  temporale:  a  quest'ultimo  doveva  venir  negata  qualunque  sia  pur  secondaria  sussistenza,  ed  è infatti  alla  negazione  dell'esistenza  e della  concepibilità  delle  cose  sensibili  che  Melissa  dedica  alcune  delle  sue  argomentazioni  più  suggestive.  Perché  una  cosa  qualsiasi,  egli  dice,  possa  essere  conosciuta,  pensata  ed  esistere,  essa  dovrebbe  essere  sempre  identica  a  se  stessa,  assolutamet?-te  immobile  ed  immuta- bile  nello  spazio  e  nel  tempo,  giacché  una  minima  modificazione  ne  farebbe  una  cosa  diversa  e  così  via  all'infinito;  dovrebbe  dunque  avere  le  stesse  caratteristiche  dell'uno.  Proprio  questo  argomento,  che egli  intendeva  come  una  sfida  contro  il  pluralismo,  sarebbe  stato  rovesciato  e  raccolto  dalla  corrente  estrema  del  plura- lismo,  quella  atomistica:  si  può  dire  infatti  che  l'atomismo  attribuì  alle  sue  in- finite  unità  fisiche  proprio  tutte  le  caratteristiche  dell'uno  melisseo,  ad  eccezione  dell'immobilità  che  non  era  più  necessaria  dato  il riconoscimento  del  vuoto.  Con  Zenone  e  con  Melissa,  l'arco  dell'eleatismo  si  conclu<i.e  così,  sia  sotto  la  spinta  di  contrapposte  esigenze  logiche  e  naturalistiche  che  esso  aveva  cercato  di  stringere  in  una  compatta  unità,  sia  per  l'insorgere  di  problemi  che esso  stesso  aveva  per  la  prima  volta  portato  in  luce  e  chiarito,  ma  che  non  potevano  essere  risolti  nel  suo  ambito.  L'eleatismo  era  comunque  destinato  a  restare  una  pietra  miliare  nel  pensiero  greco,  un  imperativo  richiamo  alla  soluzione  di  alcuni  fra  i  più  profondi  problemi  filosofici.  La  sua  importanza  fu  enorme  anche  nella  storia  del  pensiero  scientifico,  soprattutto  - come  abbiamo  più  sopra  spiegato  - per  quanto  riguarda  l'affi- namento  delle  esigenze  logiche.  Vale  la  pena  ricordare  le  parole  con  cui  questo  contributo  degli  eleati  è  sottolineato  in  una  recente,  autorevolissima,  storia  della  matematica,  Eléments  d'  histoire  des  mathématiques  del  gruppo  Bourbaki:  «Il  tenore  de- gli  scritti  filosofici  subisce  nel  v  secolo  un  brusco  cambiamento  :  mentre  nel  v~I  e  nel  VI  secolo  i  filosofi  affermano  o  preconizzano  (o  tutt'al  più  abbozzano  vaghi  ragionamenti,  fondati  su  altrettanto  vaghe  analogie),  a  partire  da  Parmenide  e  so- prattutto  da  Zenone  essi  "  argomentano  "  e  cercano  di  ricavare  dei  principi  generali  che  possano  servire  di  base  alla  loro  dialettica:  appunto  in  Parmenide  si  trova  la  prima  affermazione  del  principio  del  "  terzo  escluso  ";  e le  dimostrazioni  "  per  assurdo  "  di  Zenone  di  Elea  sono  rimaste  celebri.  »  Anzi,  il  richiamo  so- pra  ricordato  di  Aristotele  a  Zenone  come  fondatore  della  dialettica,  sembra  appunto  riferirsi  all'attribuzione  all'eleate  della  scoperta  e  dell'impiego  della  reductio  ad  impossibile  in  metafisica  (suggerito  peraltro  a  Zenone,  probabil- mente,  dall'impiego  che  di  tale  forma  di  ragionamento  veniva  fatto  dai  mate- matici  pitagorici. Nato  ad  Agrigento  intorno  al49o  e  morto  verso  H 430,  Empedocle  riassunse  nella  propria  vita  tanto  la  ricchezza  di  umori  della  sua  terra  natale,  quanto  la  grandezza  e  l'ambiguità  del  suo  pensiero.  L'entusiasmo  per  la  natura  e  la  varietà  dei  suoi  fenomeni,  il  profondo  senso  religioso  che  connetteva  uomini,  dei  e  fysis  in  intimi  legami;  la  violenza  delle  passioni  politiche,  l'ansia  della  salvezza  e  il  senso  del  tragico:  di  questi  caratteri  della  Sicilia  greca  Empedocle  fu,  prima  che  interprete,  pienamente  partecipe.  Capeggiò  la  fazione  democratica  della  sua  città;  esiliato  nel  Peloponneso,  si  recò  in  seguito  ad  assistere  alla  fondazione  di  Turi,  dove  poté  probabilmente  incontrare  Protagora,  Erodoto  ed  Ippodamo;  non  è  da  escludere  un  suo  contatto  diretto  con  gli  eleati.  Seguendo  l'uso  ar- caico,  scrisse  in  versi;  uno  dei  suoi  poemi,  Sulla  natura  (Perì  Jjseos),  trattava  argo- menti  cosmologici  e  naturalistici,  l'altro,  le  Puriftcazioni  (Katharmoi),  aveva  ca- ratteristiche  spiccatamente  mistico-religiose.  Il  rapporto  cronologico  fra  queste  opere  e  quelle  di  Melissa  e  di  Anassagora  è  incerto;  sembra  tuttavia  che  egli  le  abbia  composte  prima  di  quest'ultimo.  La  tensione  fra  i  due  aspetti  della  perso- nalità  di  Empedocle  - tuttavia,  come  vedremo,  profondamente  interrelati  - ap- pare  già  dall'argomento  dei  suoi  due  poemi;  e  si  riflette  in  quanto  ci  è  noto  della  sua  vita,  pur  attraverso  le  molte  leggende  di  cui  fu  ben  presto  ammantata.  Stu- dioso  di  fysis,  amava  presentarsi  come  profeta  e  capo  religioso,  e  vagava  per  le  città  di  Sicilia  seguito  da  turbe  di  seguaci  entusiasti;  teorico  di  biologia  e  di  micina  - anzi  fondatore  di  una  scuola  di  medicina  scientifica  - si  considerava  però  guaritore  e  iatromante  alla  stregua  di  Apollo,  e  vantava  la  capacità  di  ope- rare  miracoli;  conoscitore  attento  ed  esperto  delle  technai,  si  atteggiava  tuttavia  a  mago.  Interessante  è  il  caso  del  suo  intervento  a  Selinunte:  la  città  soffriva  di  un'epidemia,  dovuta  alle  acque  infette  del  suo  fiume,  che  veniva  attribuita  agli  dei;  accorsovi,  Empedocle  risanò  la  città  con  incantagioni  e  magia  (di  fatto  rea- lizzando  la  confluenza  di  altri  due  fiumi  a  monte  di  Selinunte  per  purificare  le  acque  del  primo).  «Sciocchi!  giacché  non  hanno  pensieri  di  larga  veduta;  essi  credono  che  possa  nascere  ciò  che  prima  non  era  o  che  qualcosa  possa  perire  e andar  del  tutto  distrutta  ...  E  un'altra  cosa  ti dirò:  non  c'è  nascita  alcuna  di  tutte  le  cose  mortali,  né  alcuna  fine  di  morte  funesta;  ma  solo  mescolanza  e  cangiamento  di  cose  commiste,  e  nascita  si  chiama  fra  gli  uomini.  »  In  queste  parole  Empedocle  esprime  limpidamente  la  misura  della  sua  accettazione  dell'eleatismo  e  insieme  le  prospettive  della  sua  soluzione.  L'impossibilità  che  ciò  che  è  derivi  da  ciò  che  non  è  o  vi  si  dissolva  si  impone  al  filosofo  di  Agrigento  come  il  requisito  fondamentale  della  realtà  e  della  pensabilità  del  mondo;  e  perciò  egli  non  può  considerare  se  non  come  follia  il  pensiero  pre-eleatico.  Tuttavia,  proprio  in  Melissa  egli  trovava  la  chiave  del  riconoscimento  della  molteplicità  del  mondo;  giacché  bastava  riconoscere  i caratteri  dell'  «uno»  melisseo  -l'identità  nello  spazio  e  la  permanenza  temporale  - a  un  certo  numero  di  realtà  distinte,  perché  da  esse  si  potesse  dedurre  l'intera  varietà  del  molteplice.  Certo,  tale  soluzione  cozzava  pur  sempre  contro  gli  imperativi  logico-metodici  di  Parmenide;  ma,  come  si  è  visto,  Melissa  aveva  già  avviato  la  loro  ontologizzazione,  cioè  la  loro  trasformazione  in  realtà  spazio-temporale:  aveva  insomma  avviato,  nel  linguaggio  dell'epoca,  la  trasformazione  dell'essere  in  «pieno».  Da  questa  prospettiva  melissea  prendeva  propriamente  le  mosse  Empedocle  - come  ha  messo  in  luce  il  Calogero  - giacché  essa  corrispondeva  alla  sua  esigenza  di  dar  conto  del  mondo,  nella  sua  varietà  quale  si  offre  ai  sensi,  nella  sua  segreta  unità  quale  è  colto  dall'anima,  nella  sua  realtà  cui  il  pensiero  non  può  rifiutarsi.  Nel  suo  presentarsi  alla  nostra  osservazione,  la  realtà  appare  indefinitamente  diversa  eppure  connessa  da  ritmi,  da  cicli,  da  permanenze  che  ne  formano  la  struttura  unitaria;  così  come  accade  per  l'organismo  vivente,  mutevole  eppure  uno,  la  realtà  appare  un  tessuto  variegato  di  poche  sostanze  semplici,  un  divenire  scandito  dal  ciclo  delle  stagioni,  della  generazione,  degli  astri.  Fedele  per  istinto  alla  verità  dell'osservazione,  Empedocle  concepiva  dunque  il  mondo  come  un  organismo  unitario  vivente  e  senziente,  del  quale  nessuna  parte  poteva  venire  arbitrariamente  amputata  e  tutte  dovevano  avere  una  loro  profonda  giustifica- zione.  Se  questo  punto  di  vista  ilozoico  doveva  trovare  una  spiegazione  non  mitica,  una  più  universale  razionalizzazione,  occorreva  infondervi  i  requisiti  melissei del  vero;  occorreva,  una  volta  reso  molteplice  l'«  uno»,  trovare  un'armonia  tra  questo  vero  molteplice  e  la  molteplicità  dell'esperito.  Da  questa  esigenza  nasce  il  sistema  cosmico  di  Empedocle,  una  delle  più  potenti  sintesi  teoriche  del  pensiero  greco.  Alla  base  del  sistema  stanno  i  quattro  elementi,  o  piuttosto  «  radici  »  come  li  chiama  Empedocle  stesso  con  un  termine  che  meglio  corrisponde  alla  sua  vi- sione  vitalistica  del  mondo:  la  terra,  l'acqua,  il  fuoco,  l'aria  (o  meglio  l'etere).  Tali  elementi  non  sono  nuovi  nella  filosofia  presocratica:  si  pensi  all'acqua  di  Talete,  al  fuoco  di  Eraclito  e  così  via.  In  tutti  questi  pensatori  il  processo  era  consistito  nell'assumere  una  zona  dell'osservazione  empirica  alla  funzione  pri- vilegiata  di  principio  o  arché  di  .fJ'Sis;  nel  rendere  quindi  assoluti  alcuni  dati  dell'esperienza  per  usarli  come  chiave  di  comprensione  e  di  spiegazione  dell'e- sperienza  nella  sua  totalità.  Identico  è  l'approccio  fondamentale  di  Empedocle:  un'analisi  dell'osservazione  lo  porta  a  scoprire  in  ciò  che  è  osservato  alcune  costanti  fondamentali,  che  una  volta  generalizzate  e  rese  assolute,  valgono  a  spiegare  l'osservato  - di  cui  sono  costituenti  essenziali  - e  l'osservazione  stessa  - di  cui  sono  canoni  imprescindibili.  Merito  specifico  di  Empedocle  è  tuttavia  quello  di  aver  isolato,  sia  dall'osservazione  diretta  sia  dalla  precedente  riflessione  naturalistica,  tutte  e  solo  quelle  costanti  che  potessero  valere  da  ra- dici,  senza  che  si  fosse  costretti,  contro  l'imperativo  eleatico,  a  postulare  il  mu- tamento  di  una  radice  in  qualcosa  diverso  da  sé  (come  avevano  dovuto  fare  i  monisti  ionici),  né  ad  immaginarne  un  numero  eccessivo,  che  avrebbe  ostacolato  la  semplificazione  e  quindi  la  possibilità  di  comprensione  dell'esperienza.  Ad  ognuna  delle  quattro  radici  Empedocle  attribuiva  dunque  lo  status  del- l'«  uno»  melisseo:  l'infinità  e  l'immutabilità  nello  spazio  e  nel  tempo,  l'essere  ingenerati  e  imperituri,  e  di  conseguenza  l'assoluta  realtà  e  intelligibilità.  Ciò  non  significava  tuttavia  negare  la  realtà  degli  infiniti  altri  oggetti  dell'esperienza:  ogni  singolo  ente  è  il  risultato  di  una  mescolanza  delle  radici,  la  sua  nascita  è  la  formazione  della  mescolanza  e  la  sua  morte  ne  è  lo  scioglimento;  benché  in  tali  mescolanze  le  radici  entrino  sotto  forma  di  porzioni  frazionali,  neppure  nella  minima  di  esse  perdono  alcuna  delle  loro  proprietà.  L'individualità  specifica  di  ogni  composto  gli  deriva  dalla  diversa  proporzione  dei  componenti  (così  ad  esempio  le  ossa  sono  formate  da  due  parti  di  acqua,  due  di  terra,  quattro  di  fuo- co;  il  sangue  dal  miscuglio  perfetto  I  :I :I  :I).  Si  è  visto  in  questa  dottrina  di  Em- pedocle  un'anticipazione  della  chimica,  il  che  può  anche  essere  accettato  qualora  non  si  dimentichi,  però,  che  le  radici  empedoclee  non  solo  erano  concepite  come  viventi  ma  anche  come  divinità  creatrici,  in  stretto  rapporto  con  la  cosmogonia  orfica.  Se  le  quattro  radici  potevano  spiegare,  nel  loro  vario  comporsi,  la  molte- plicità  del  mondo,  esse  non  davano  tuttavia  conto  del  suo  infinito  divenire,  del  formarsi  e  dello  sciogliersi  dei  composti;  unificavano  cioè  il  reale  in  senso  sin- cronico  ma  non  diacronico.  Empedocle  introdusse  quindi  altri  due  principi,  questpiù  spiccatamente  dinamici:  «  amicizia»  e  «  discordia».  Come  le  quattro  radici  rappresentavano  una  generalizzazione  dell'osservazione  naturale,  così  queste  due  «forze»  rappresentano  una  generalizzazione  dell'esperienza  psichica,  e  perciò  allargano  a  tale  settore  la  capacità  di  comprensione  e  di  spiegazione  del  sistema.  Nel  mondo  di  Empedocle  non  era  tuttavia  pensabile  una  distinzione  radicale  delle  due  sfere,  come  abbiamo  osservato  in  sede  introduttiva,  ma  piuttosto  una  diversa  funzionalità  della  medesima  realtà:  come  le  radici  sono  a  loro  volta  viventi,  così  «  amicizia  »  e  «  discordia  »  sono  coestese  e  coeterne  ad  esse,  e  dunque  non  meno  di  esse  «reali».  «Amicizia·»  simbolizza  nel  sistema  l'attrazione  del  dissimile,  cioè  l'impulso  che  spinge  le  diverse  radici  a  fondersi  reciprocamente  dando  luogo  a  composti  sempre  più  stabili;  «discordia»  rappresenta  invece  l'attrazione  del  si- mile,  cioè  la  forza  che  spinge  ogni  radice  a  restare  coesa  a  se  stessa,  sciogliendo  qualsi.asi  composto.  Questi  due  principi  sono  stati  interpretati  come  cause  in  senso  aristotelico  e  anche,  modernamente,  come  le  forze  elettromagnetiche  di  attrazione  e  repulsione.  Benché  anche  questi  siano  possibili  sviluppi  del  pensiero  empedocleo,  va  ribadito  che  nel  suo  quadro  «amicizia»  e  «  discordia»  rappre- sentavano  soprattutto  le  funzioni  essenziali  di  una  realtà  vivente,  in  cui  causa  e  causato,  forza  e  materia  non  potevano  essere  distinte  se  non  in  modo  simbolico,  non  erano  che  aspetti  profondamente  connessi  di  un  unico  mondo;  mentre  poi  esse  rappresentavano  l'aggancio  più  immediato,  come  vedremo,  alle  vedute  religiose  e  morali,  che  a  quel  mondo  non  potevano  certo  essere  eterogenee.  Funzione  primaria  delle  forze  nel  sistema  era  comunque  quella  di  promuovere  il  divenire.  Poiché  tale  divenire  non  poteva  dar  luogo  ad  alcun  mutamento  dei  suoi  contenuti  fondamentali,  secondo  il  divieto  eleatico,  esso  non  poteva  pre- sentarsi  che  come  ciclo:  solo  nel  ciclo  si  dà  infatti  ripetizione  perpetua  dei  me- desimi  eventi  e  delle  medesime  strutture,  solo  il  ciclo  concilia  le  sembianze  del  divenire  (l'esperienza  umana  non  può  carpirne  che  una  piccola  frazione  e  ha  dunque  l'impressione  del  mutamento)  con  la  verità  del  permanere,  rivelata  a  chi  penetri  nell'intimo  della  natura.  Nel  periodo  cosmico  di  assoluta  prevalenza  di  «amicizia»,  ognuna  delle  radici  è così  strettamente  congiunta  alle  altre  che  nessun  singolo  ente  sussiste  di  per  sé:  «Non  v'è  discordia  né  infausta  contesa  nelle  sue  membra  ...  Non  più  si  distinguono  in  esso  le  agili  membra  del  sole,  né  la  forza  villosa  della  terra,  né  il  mare,  tanto  fortemente  sta  legato  nei  fitti  segreti  del- l'armonia,  d'ogni  parte  uguale  e  per  tutto  infinito,"  sfero  "rotondo  che  gode  della  sua  solitudine  circolare.  »  Nello  «  sfero  »  è  facile  individuare  l'«  uno»  eleatico,  non  tuttavia  visto  come  unico  possibile  assetto  della  realtà,  ma  conquistato  dalla  vittoria  di  un'armonia  di  schietta  derivazione  pitagorica;  qui  emerge  anche  il  valore  religioso  e  morale  di  «amicizia»,  che  significa  concordia  e  pace  nel  cosmo  e fra  gli  uomini.  Agli  antipodi  sta  il  trionfo  di  « discordia»,  che  vede  ognuna  delle  radici  ritratta  in  se  stessa  e  ostile  alle  altre,  il  che  parimenti  significa  la  fine  del  mondo  quale  noi  lo  esperiamo  e  comporta  la  negazione  dei  valori  etico-religiosiFra  i  due  opposti  regni,  stanno  le vaste  regioni  in  cui  «discordia»  viene  prevalendo  su  «amicizia»,  e  quindi  scioglie  le radici  dal  loro  complesso  senza  tuttavia  contrap- porle  del  tutto;  qui  si  situa  una  prima  generazione  del  molteplice;  e  l'altra  dove  «amicizia»  si  a.dopera  a  ricomporre  l'unità  senza  poter  ancora  scacciare  del  tutto  «discordia»,  sicché  il  processo  di  unificazione  è ancora  frammentato  in  una  mol- teplicità  di  enti:  ed  è  questa  la  seconda  generazione  del  mondo  che  noi  osser- viamo.  Va  detto  che  mentre  il  ciclo  nel  suo  insieme  è  determinato  dalla  neces- sità  (ananke),  la  formazione  dei  singoli  composti  è  affidata  al  caso  (ryche)  e  che  quindi  la  natura  che  noi  esperiamo  consta  della  sintesi  di  necessità  e  di  caso.  Questa  veduta  è  importante  per  la  comprensione  di  molte  posizioni  della  scienza  naturale  greca.  Come  si  articoli  concretamente  il  ciclo  nelle  due  fasi  intermedie  è  mostrato  più  chiaramente  da  Empedocle  a  proposito  degli  organismi  viventi,  cui  andava  il  suo  prevalente  interesse  (non  a  caso  è  possibile  paragonare  l'intera  vita  cosmica  alle  sistole  e diastole  del  cuore,  e  lo  «  sfero  »  appare  assai  vicino  all'«  uovo  »  origi- nario  presente  nel  culto  orfico  ).  All'inizio  del  ciclo  di  «amicizia»,  in  un  mondo  ancora  dominato  da  «  discordia»,  si  venivano  formando  membra  ed  arti  separati:  « Sulla  terra  spuntarono  teste  senza  colli,  ed  erravano  braccia  nude  prive  di  spal- le,  vagavano  occhi  soli  sprovvisti  di  fronti»;  poi  queste  membra  si  congiungono  a  caso  dando  luogo  a  mostri  d'ogni  specie:  «e  molti  esseri  nascere  con  doppie  facce  e  petti,  e  buoi  con  facce  d'uomini,  o  invece  sorgere  busti  umani  con  teste  bovine,  e  forme  miste  di  maschi  e  di  femmine,  provviste  di  membra  villose.  »  Ma  la  gran  parte  di  queste  forme  viventi  perivano,  sopravvivendo  solo  quelle  più  adatte  alle  condizioni  di  vita  perché  meglio  organizzate  nella  propria  strut- tura.  È  interessante  notare  che  in  questo  processo  è  assente  qualsiasi  idea  di  finalismo  preordinato;  i  viventi  si  aggregano  a  caso,  ed  è  la  selezione  naturale  che  decide  della  sopravvivenza  di  alcuni  di  essi.  Nell'opposto  processo  di  «di- scordia»,  che  viene  disgregando  l'unità  cui  «amicizia»  era  finalmente  giunta,  si  formano  dapprima  creature  complete,  omogenee;  ma  una  separazione  successiva  dà  luogo  alle  creature  del  mondo  in  cui  viviamo,  differenziate  per  sessi  e  per  la  prevalenza  in  esse  di  una  delle  radici  (così  nella  costituzione  dei  pesci  prevale  l'acqua,  ecc.).  Abbiamo  già  visto  come  la  struttura  del  nostro  organismo  fosse  interpretata  da  Empedocle  mediante  la  composizione  delle  radici  in  diverse  proporzioni.  A  spiegare  la  compenetrazione  reciproca  delle  radici,  e  i  maggiori  fenomeni  vitali,  quali  la  respirazione  1  e  il  movimento  del  sangue,  Empedocle  concepiva  I  Il  resoconto  della  respirazione  va  ripor- tato  per  la  sua  originalità  e  tipicità.  Il  sangue  si  muove  entro  pori  i  cui  fori  terminali  sono  abba- stanza  piccoli  da  non  permettergli  di  fuoriuscire,  sufficienti  però  per  lasciar  entrare  l  'aria  nel  corpo.  !utta  la  spiegazione  è  costruita  per  analogia  con  ti  funzionamento  della  clessidra  o  pipetta  per  il  travaso  dei  liquidi  da  un  recipiente  all'altro.  Al- lorché  il  sangue  si  ritrae  dai  pori,  esso  attira  l'aria  che  irrompe  nel  vuoto  così  formatosi:  si  ha  così  l'inspirazione.  Quando  il  sangue  torna  ad  af- fluire,  esso  espelle  l'aria  dando  luogo  all'espira- zione l'organismo  come  percorso  da  una  fitta  rete  di  pori  o  canaletti  (una  teoria  in  parte  derivata  da  Alcmeone),  la  cui struttura  e le  cui  dimensioni  giocavano  altresì  una  parte  importante  nel  meccanismo  della  sensazione.  Esso  è  spiegato  dal  filosofo  di  Agrigento  mediante  gli  efflussi  materiali  che  ogni  corpo  emette  e  che,  giungendo  a  contatto  del  senziente,  possono  o  meno  penetrare  attraverso  i  pori  nel  suo  organismo  a  seconda  delle  reciproche  dimen- sioni;  g~i  efflussi  sono  determinati  dall'attrazione  del  simile,  che  spinge  le  radici  a  ricongiungersi  attraverso  la  varietà  dei  singoli  enti.  La  spiegazione  è da  un  lato  meccanicistica,  dall'altro  vitalistica  perché  appunto  fondata  sull'intrinseca  «ani- mazione  »  del  corporeo;  di  conseguenza  Empedocle  attribuiva  la  sensazione,  sia  pure  in  gradi  diversi,  a  qualsiasi  ente,  perché  ognuno,  anche  quelli  ai  nostri  occhi  inanimati,  era  in  qualche  misura  partecipe  della  grande  vita  del  cosmo.  Il  pensiero  non  è  per  Empedocle  qualitativamente  diverso  dalla  sensazione. Contro  le  scoperte  alcmeoniche,  ed  introducendo  una  veduta  destinata  ad  eserci- tare  profonda  influenza,  egli  pose  la  sede  del  pensiero  e  dell'attività  razionale  nel  sangue,  esattamente  in  quello più  puro,  prossimo  al cuore  che  ne  è la  fonte.  Poiché  il  sangue,  come  si  è  visto,  consta  di  una  mescolanza  perfetta  delle  radici,  esso  è  il  più  atto  a  riflettere  la  struttura  del  mondo,  essendole  più  omogeneo.  Non  v'è  ovviamente  per  Empedocle  opposizione  tra  pensiero  e  sensi,  giacché  entrambi  convogliano,  con  meccanismi  fondamentalmente  analoghi,  il messaggio  profondo  di  una  natura  che  non  può  essere  fallace  in  alcuna  delle  sue  manifestazioni.  Poiché  l'uomo  è  omogeneo  al  mondo,  la  verità  della  sua  conoscenza  del  mondo  non  di- pende  né  dai  metodi  né  dai  linguaggi  che  egli  impiega;  in  tal  senso,  sparisce  il  problema  della  «via»  parmenidea  e  del  suo  sempre  difficile  rapporto  con  il reale.  L'uomo  è generato  dalle  stesse  radici  e animato  dalle  stesse  forze  che  generano  e  animano  il  mondo  nella  sua  totalità;  egli  riflette  il  mondo  in  se  stesso,  lo  «  com- prende»  proprio  perché  ne  ritrova  dentro  di  sé  l'immagine  rimpicciolita.  Il  san- gue  è pensiero  perché  il  sangue  è principio  vitale  e secondo  Empedocle  conoscere  è propriamente  vivere  fino  in  fondo  la  vita  dell'universo,  sperimentarne  la  molte- plicità  e l'unità,  l'eternità  ciclica,  gli  intimi  legami  che  tutto  quanto  lo  connettono.  Sparita  così  la tensione  tra  vero  e reale,  tra  uomo  e  mondo,  tra  mondo  e divi- nità,  sparisce  anche  la  presunta  contraddizione  tra  i  due  aspetti  della  personalità  di  Empedocle,  quello  «  fisico  »  e quello  «  magico  ».  Ragione  e mito  non  sono  che  due  forme  di  un  identico  conoscere,  due  funzioni  di  un'unica  realtà.  La  conoscenza  razionale  è esposizione  discorsiva  ed  analitica  della  molteplidtà  del  mondo  quale  essa  risulta  dall'azione  di«  discordia?>  e ci  è rivelata  dai  sensi;  ma  il  suo  scopo  è  quello  di  rivelarci  la  verità  di  questa  molteplicità  dando  conto  dell'unità  che  la  informa  e  della  necessità  che  la  domina.  D'altra  parte,  la  conoscenza  mitica  è  penetrazione  intensiva  di  questa  unità  e necessità,  è  il  porsi  per  così  dire  dal  punto  di  vista  dello  «  sfero  »  che  simbolizza  l'unità  da  un  punto  di  vista  sia  fisico,  sia  religioso,  sia  morale;  è drammatica  consapevolezza,  tuttavia,  della  necessità  del  ci-do  e  dd  molteplice,  nel  loro  decadere  dall'età  aurea  e nel  loro  fatale  tornarvi. 1  Di  qui  le  «  purificazioni  »,  di  qui  la  dottrina  pitagorizzante  della  metempsicosi  che  adegua  la  sorte  dell'anima  al  ciclo  cosmico.  E  la  via  alla  purificazione  etico-reli- giosa  è ancora  una  volta,  per  Empedocle,  quella  di  vivere  fino  in  fondo  la vicenda  -per  il singolo  uomo,  il  dramma- dell'uno  e dei  molti,  del  tempo  e dell'eterno,  della  necessità  e del  caso;  la  via  della  purificazione  è quella  che  conduce  nel  cuore  profondo  della  natura  che  sola  giustifica  l'uomo  e  il  suo  destino,  che  sola  gli.  concede  conoscenza  e  potenza  nel  tempo,  salvazione  nell'eternità.  Sicché  la  leg- genda  della  morte  del  filosofo  sparito  nella  voragine  dell'Etna  bene  esprime,  sotto  questo  aspetto,  la  vocazione  del  pensiero  empedocleo.  Si  intende  così  anche  il senso  dell'ambiguo  atteggiamento  di  Empedocle  verso  le  technai,  e del  suo  interesse  profondo  per  quelle  che  consentissero  un  immediato  controllo  della  natura  (la.  medicina,  le  tecniche  manifatturiere,  la  fisica;  mentre  la  matematica  gli  doveva  sembrare  irrimediabilmente  lontana  dal  mondo  della  vita  e  quindi  sterile).  Non  v'è  nulla  di  più  ingiusto  dell'immagine  trasmessaci  dalla tradizione  di  un  Empedocle  abile  medico  e  tecnologo  che  ciarlatanescamente  am- mantava  di  magia  i  suoi  successi  per  guadagnarne  in  prestigio.  In  realtà,  l'oppo- sizione  fra  technai  e magia  sarebbe  sembrata  assurda  ai  suoi  occhi.  Al  culmine  della  sua  capacità  di  penetrazione  e  di  controllo,  la  techne  aderisce  così  compiutamente  all'intima  vita  del  mondo  da  diventarne,  dall'interno,  una  forza  agente:  il  «mi- racolo»  è  una  possibilità  di  fysis  che  techne  porta  alla  luce  (non  troppo  diverse  dovevano  essere  le  vedute  degli  alchimisti  rinascimentali).  Techne  si  situa  dunque  al  crocevia  di  conoscenza  razionale-discorsiva  e  conoscenza  mitico-intensiva;  come  il  problema  del  rapporto  tra  uomo  e  mondo,  tra  conoscenza  e  realtà  s'era  tendenzialmente annullato nell'unità della vita del cosmo,  così a  techne,  allorché  muova  dalla  consapevolezza  della  struttura del reale, basta foggiarsi via via ad immagine e simiglianza della  natura  per  poter  penetrare  sempre  più  profonda- mente  in  essa,  per  paterne  acquisire  un  sempre  maggiore  controllo.  Disvelandosi  all'osservazione  dell'uomo,  la  natura  gli  aveva  donato  la  conoscenza;  offrendosi  ad  una  techne  che  ne  sappia  comprendere  i  segreti,  essa  gli  concede  l'accesso  alla  potenza:  sicché  alla  fine,  nel  volgere  del  ciclo,  l  'uomo  diviene  «  profeta,  bardo,  medico  e  principe  »,  pari  agli  dei  immortali,  come  Empedocle  proclamava  di  se  stesso.  Data  la  natura  della  conoscenza  e delle  technai,  è chiaro  come  per  il filosofo  di  1  «V'è  un  oracolo  del  fato,  antico  decreto  degli  dei,  suggellato  da  larghi  giuramenti:  se  mai  alcuno  dei  demoni  (anime)  che  ebbero  in  sorte  lunga  vita,  macchi  le  sue  membra  di  sangue  col- pevole,  o seguendo  la  "discordia"  empio  spergiuri,  vada  errando  tre  volte  diecimila  anni  !ungi  dai  beati,  nascendo  nel  corso  del  tempo  sotto  tutte  le  forme  mortali,  permutando  i  penosi  sentieri  della  vita  ...  Uno  di  essi  sono  anch'io,  fuggiasco  dagli  dei  ed  errante,  perché  fidai  nella  folle  "di- scordia"  ...  Da  quale  onore  e  da  quale  ampiezza  di  felicità,  così  bandito  mi  aggiro  fra  i mortali!  »  (La  traduzione  di  questi  frammenti,  come  di  quasi  tutti  quelli  empedoclei  citati,  è  del  Mondolfo.)  Ma  v'è  la  via  del  ritorno:  «  Ma  alla  fine  essi  vengono  sulla  terra  fra  gli  uomini  come  profeti,  bardi,  me- dici  e  principi,  e  poi  assurgono  al  rango  di  dei  degni  d'onore  ...  Io  vengo  nelle  vostre  città  quale  un  dio  eterno,  non  certo  mortale,  coperto  d'ogni  onore. Agrigento  non  si  ponesse  il  problema  della  logica  e del  metodo.  Il  metodo  che  egli  in  effetti  usa  va  era  essenzialmente  analogico:  acute  inferenze  dall'osservazione  quotidiana,  sia  biologica  (il  palpito  del  cuore,  lo  sviluppo  dell'uovo,  il  meccani- smo  della  respirazione),  sia  fisica  1  (la  riflessione,  l'evaporazione,  il ciclo  stagiona- le),  sia  tecnica  (il  travaso  dei  liquidi,  la  manifattura  dei  vasi,  la  miscelazione  dei  colori),  gli  offrivano  lo  spunto  per  audaci  generalizzazioni  cosmiche.  Tuttavia  ai  suoi  occhi  queste  estensioni  non  avevano  nulla  di  arbitrario,  basate  com'erano  sulla  certezza  di  una  fondamentale  unità  e  significatività  di  tutte  le  manifestazioni  della  natura  (una  certezza,  come  abbiamo  visto  all'inizio,  a  sua  volta  ricavata  dall'esperienza  immediata,  sia  sensoriale  sia  psichica).  Allo  stesso  modo,  l'espres- sione  linguistica  di  Empedocle  non  poteva  che  tentare  di  riprodurre,  grazie  ad  una  poesia  potentemente  sintetica  e visualizzante,  la vita  del  mondo  nella  sua  ricchezza;  anche  qui,  l'immagine  poetica  (la  trasvalutazione  delle  radici  in  divinità  o  in  «membra»  del  mondo,  l'affiorare  ovunque  dello  psichico,  del  vivente,  dell'orga- nico)  riposava  sulla  profonda  verità  che  per  questa  via  si  tentava  di  rivelare.  Tale  dunque  la  risposta  empedoclea  al  nodo  di  problemi  che  si  sono  esposti  in  sede  introduttiva:  una  delle  più  grandiose  sintesi  mai  elaborate  dal  pensiero  greco  ed  anche  una  delle  più  affascinanti  ipotesi  scientifiche.  Il  rischio  che  Empe- docle  si  assumeva  era  d'altro  canto  totale  quanto  il  suo  sistema:  o  quest'ultimo  si  rivelava  davvero  capace  di  spiegare  l'intero  universo,  o  sarebbe  crollato  tutto  quanto,  perché  l'agrigentino  non  offriva  - né,  date  le  sue  premesse,  avrebbe  potuto  farlo  - alcuna  regola  di  pensiero  e  di  metodo  esterna  al  sistema  ed  atta  a  modificarlo,  a  criticarlo,  a  renderlo  più  comprensivo.  La  potenza  del  genio  di  Empedocle,  in  tutta  la  sua  ambiguità,  si  esercitò  sul  pensiero  greco  ed  oltre;  e  «  dinanzi  a  lui,  »  ha  osservato  il  Bignone,  «  le  prospettive  del  mondo  greco  si  scompongono  stranamente:  è  già  un  antico  rispetto  a  Tucidide,  che  è  di  pochi  lu- stri  più  giovane  di  lui;  e  sarà,  dopo  più  secoli,  quasi  un  contemporaneo  rispetto  a  Platino  e  Porfirio  ».  Subito  rifiutato  dal  miglior  pensiero  filosofico-scientifico  del  v  secolo,  da  Anassagora  ad  Ippocrate,  che  vedeva  nel  dogmatismo  dell'esperienza,  nel  vitali- smo  mistico,  nel  rifiuto  di  ogni  strumento  razionale  di  tipo  logico-metodologico  il  più  mortale  pericolo  per  un  libero  progresso  della  ricerca,  il sistema  di  Empedo- cle  apparve  tuttavia  a  lungo  come  l'unico  che  potesse  garantire  una  sicura  base  speculativa  alle  scienze  nascenti,  dalla  biologia  alla  fisica,  l'unico  che  ne  assicurasse  l'universalità.  Così  all'inizio  del  rv secolo  la  dottrina  dei  quattro  elementi,  la  con- cezione  organicistica  dell'universo  (che  presto  significò  anche  visione  finalistica),  il  prevalere  della  qualità  sulla  quantità,  finirono  per  trionfare  della  scienza  ionica  e  passarono  in  gran  parte  al  platonismo  del  Timeo,  all'aristotelismo,  alla  medicina  I  Il  sole  è  il  luogo  dove  l'emisfero  terrestre,  che  agisce  come  una  lente,  riflette  e  concentra  il  fuoco  emesso  dall'emisfero  etereo;  il  mare  è  il  «sudore»  della  terra:  sotto  l'azione  del  calore;  la  terra  stessa  è  stata  disseccata  dal  calore  al  pari  di  un  vaso  d'argilla;  e  così  via. siciliana  di  Filistione.  Tramite  questi  canali,  e sia  pure  con  aggiustamenti  progres- sivi,  tali  vedute  percorsero  un  lunghissimo  cammino,  fino  ad  affacciarsi  al  rinasci- mento  e alle  soglie  dell'età  moderna.  Qui  tornarono  a  scontrarsi  con  il meccanici- smo  di  tipo  democriteo,  e  risultarono  questa  volta  soccombenti  senza  però  lasciar  del  tutto  il passo. IL  MONDO  DEL  NUMERO:  FILOLAO  DI  CROTONE  Poco  sappiamo  della  vita  di  Filolao:  nato  a  Crotone  attorno  alla  metà  del  v  secolo,  e ivi  formatosi  in  ambiente  pitagorico,  egli  si  trasferì  a  Te  be  dove  sul  finire  del  secolo  lo  troviamo  a  capo  di  una  fiorente  scuola  pitagorica,  in  rapporto  con  il  gruppo  socratico-platonico  ad  Atene.  Questa  presenza  di  Filolao  a  Tebe,  congiun- tamente  all'esilio  peloponnesiaco  di  Empedocle,  ci  rivela  un  rifluire  della  filosofia  italica  nella  madrepatria  greca,  localizzato  non  a caso  nelle  poleis  che  combattevano  Atene  nella  guerra  del  Peloponneso:  il  pensiero  ionico-attico  si  trovava  così  in  qualche  modo  circondato  non  meno  di  quanto  lo  fosse,  in  senso  politico-militare,  la  sua  metropoli.  Come  abbiamo  già  avvertito,  i  frammenti  di  Filolao  sono  stati  a  lungo  con- testati  per  vari  motivi  filologici,  alla  cui  base  stava  tuttavia  la  constatazione  che essi  anticipavano  un  importante  aspetto  del  platonismo,  e  dunque  la  preoccu- pazione  che  questo  potesse  risultarne  sminuito  nella  sua  originalità.  L'autenticità  dei  frammenti  è  stata  per  fortuna  rivendicata  dal  Mondolfo  e  dalla  Timpanaro- Cardini;  ed  è  chiaro,  secondo  una  più  corretta  visione  storiografica,  che  il  genio  di  Platone  risulta  tutt'altro  che  diminuito  dalla  consapevolezza  che  egli  seppe  fondere  in  una  sintesi  critica  gran  parte  dei  risultati  del  pensiero  filosofico-scienti- fico  del  v  secolo,  pur  conferendo  ad  essi  la  propria  originalissima  impronta.  D'al- tra  parte,  già  questa  considerazione  impone  di dare  alla  figura  di  Filolao  il  posto  che  gli  compete  fra  i  protagonisti  della filosofia  preplatonica.  Il  problema  centrale  di  Filolao  è  analogo  a  quello  di  Empedocle,  ma  i  suoi  punti  di  riferimento  speculativi  sono  meglio  definiti,  e il  suo  approccio  alla  realtà  è  più  chiaramente  delimitato  dall'eredità  pitagorica  di  cui egli  si faceva  portatore.  Certo,  il  pitagorismo  originario  era  stato  travolto,  in  campo  matematico,  dalla  crisi  degli  irrazionali,  in  campo  fisico-filosofico,  dalla  critica  parmenidea  al  molte- plice  e dalla  sua  incapacità  a soddisfare  i  nuovi  requisiti  logico-metodici.  Vedremo  all'inizio  del  capitolo  xn  come  si  svolse,  attraverso  il  v  secolo  e  fino  ad  Archita,  il  processo  ricostruttivo  delle  matematiche  pitagoriche,  al  quale  Filolao  stesso  diede  un  importante  contributo.  Qui  ci  interessa  piuttosto  il  suo  sforzo  di  rico- .  struzione  del  pitagorismo  come  sistema  globale  del  mondo,  compiuto  innestando  sul  tronco  di  quella  tradizione  la  più  matura  consapevolezza  posteleatica.  Si  trattava  innanzitutto  di  salvare  entrambi  i  termini  della  diade  costitutiva  di  uno  e  molteplice,  di  limite  e  illimitato,  dove  il  primo  termine  assicurava  la verità  e  l'intelligibilità  del  secondo  ma  dove  il  secondo  garantiva  l'estensibilità  del  primo  al  mondo  del  reale,  la  sua  presa  sull'esperienza,  conferendogli  quindi  una  concretezza  e  una  funzionalità  sepza  le  quali  esso  sarebbe  stato  confinato  alla  sfera  delle  aspirazioni  etico-religiose.  Ma  non  bastava  più,  dopo  Parmenide,  con- trapporre  la  serie  dell'uno  e  del  limite  alla  serie  dei  molti  e  dell'illimitato;  giac- ché  su  quest'ultima  sarebbe  poi  gravata  la  dichiarazione  di  assurdità  e di  irrealtà,  che  avrebbe  vanificato  la  tensione  insita  nella  diade.  Il  problema  di  Filolao  era  dunque  quello  di  calare  il  principio  di  unificazione  e di  verità  profondamente  all'interno  della  struttura  molteplice  dell'esperienza,  in  modo  da  garantirne  con  ciò  stesso  la  realtà;  era  di  trasformare  i  termini  della  diade  in  modalità  e  struttura  intima  di  un  unico  mondo,  di  cui  essi  potessero  dar  conto  nella  sua  to- talità.  La  chiave  più  ovvia  per  la  soluzione  del  problema  era,  agli  occhi  di  Filolao,  quella  offerta  dal  numero.  Generato  dall'  «uno»,  e governato  da  leggi  che  sempre  all'  «uno»  potevano  riportarsi  senza  contraddizione,  il  numero  era  tuttavia  atto  a  fungere  da  limite  al  molteplice  perché  ne  rifletteva  in  sé  la  struttura;  ma  la  riflet- teva  in  modo  tale  da  renderla  omogenea  all'«  uno»  e alla  sua  legge.  Si  consideri  ad  esempio  la  decade  (il  numero  dieci):  secondo  l'analisi  di  Filolao,  essa  comprende  in  sé  tutti  i possibili  rapporti  aritmo-geometriciche  si originano  a partire  dall'unità  ed  è  perciò  stesso  atta  a comprendere  e  ad  organizzare  il  molteplice.!  Ma  Filolao  non  poteva  più  arrestarsi  alla  generica  veduta  pitagorica  del  nu- mero  come  natura  delle  cose.  Occorreva  che  fosse  davvero  possibile,  leggendo  il  libro  della  natura,  scoprirne  i  caratteri  aritmo-geometrici;  da  un  punto  di  vista  complementare,  occorreva  dare  una  più  precisa  dimensione  spaziale  al  numero  e  concretarla  di  una  sussistenza  corporea.  Perciò,  partendo  dall'assioma  aritmo-geo- metrico  secondo  cui  l 'unità  rappresenta  il  punto,  il due  la linea,  il tre  la  superficie,  il  quattro  il  solido,  Filolao  diede  un  impulso  originale  e deciso  alla  geometria  so- lida,  giungendo  a costruire  un  certo  numero  di  figure  semplici  che  si potevano  age- volmente  riportare  alle  modalità fondamentali  dei  numeri.  Queste  figure  si  assicu- ravano  una  prima  realizzazione  grazie  alla  loro  applicabilità  ai movimenti  e alla  con- figurazione  degli  astri,  e, tramite  l'astrologia  pitagorica,  allo  stesso  assetto  del  divino.  x  Più  efficaci  di  ogni  spiegazione  critica  sono  le  parole  di  Filolao  sulla  decade:  «L'essenza  e  le  opere  del  numero  devono  essere  giudicate  in  rap- porto  alla  potenza  insita  nella  decade;  grande  è  in- fatti  la  potenza  (del  numero)  e  tutto  opera  e  com- pie,  principio  e  guida  della  vita  divina  e  celeste  e  di  quella  umana,  in  quanto  partecipa  della  po- tenza  della  decade;  senza  questa,  tutto  sarebbe  in- terminato,  incerto  ed  oscuro.  Conoscitiva  è  la  na- tura  del  numero,  e direttrice  e maestra  per  ognuno,  in  ogni  cosa  che  gli  sia  dubbia  o  sconosciuta.  Per- ciò  nessuna  delle  cose  sarebbe  chiara  ad  alcuno,  né  per  se  stessa,  né  in  rapporto  alle  altre,  se  non  ci  fosse  il  numero  e  la  sua  essenza.  Ora  questo,  74  armonizzando  tutte  le  cose  con  la  sensazione  nel- l'interno  dell'anima,  le  rende  conoscibili  e  tra  loro  commensurabili  secondo  la  natura  dello  gnomone,  in  quanto  compone  o  scompone  i  singoli  termini  delle  cose,  così  delle  interminate  come  delle  ter- minanti.  Né  solo  nei  fatti  demonici  e  divini  tu  puoi  vedere  la  natura  del  numero  e la  sua  potenza  dominatrice,  ma  anche  in  tutte,  e sempre,  le  opere  e  parole  umane,  sia  che  riguardino  le  attività  tecniche  in  generale,  sia  propriamente  la  musica»  (trad.  Timpanaro-Cardini).  Da  varie  testimo- nianze  risultano  le  ingegnose  deduzioni  di  natura  sia  aritmetica  e  geometrica,  sia  fisica,  dalle  quali  Filolao  traeva  conferma  al  dominio  della  decade. A  questo  punto  tuttavia  Filolao  avvertiva  l'esigenza  di  una  semplificazione  del  mondo  fisico  che  era  assente  nella  tradizione  pitagorica,  e  riconosceva  nel  si- stema  empedocleo  il  più  potente  strumento  in  questo  senso.  È  propriamente  nel- l'assunzione  che  ne  fece  Filolao  che  le  radici  di  Empedocle  si  trasformarono  in  «elementi»,  avulsi  ormai  dalla  vita  del  cosmo  ed  inseriti  su  di  una  più  fredda  strut- tura  numerico-geometrica.  Nei  quattro  elementi,  infatti,  e  nello  «  sfero  »  che  li  riassumeva,  Filolao  vide  il  veicolo  ideale  per  la  conquista  del  mondo  fisico  da  parte  dei  suoi  solidi  geometrici.  Per  via  analogica, il  cubo  trovò  il  suo  equivalente  nella  terra;  il  tetraedro  nel  fuoco;  l'ottaedro  nell'aria;  l'icosaedro  nell'acqua;  il  dodecaedro,  infine,  nello  «  sfero  ».  Da  un  altro  punto  di  vista,  ciò  equivale  a  dire  che  gli  elementi  trovarono  il  proprio  limite,  la  propria  forma,  la  propria  armonia,  infine  la  propria  razionalità  nelle  rispettive  figure.  I  molteplici  oggetti  dell'espe- rienza  e  le  loro  mutazioni  si  presentavano  ormai  come  aggregati  degli  elementi  e  dunque  come  composizione  di  forme  geometriche  semplici;  ma,  imbrigliati  dal  limite,  armonizzati  dalla  figura,  il  loro  variare  nulla  più  aveva  di  misterioso  o  di  irrazionale,  sempre  riconducibile  com'era,  sia  pure  per  vie  complesse  e  non  tutte  esplorate,  alla  legge  del  numero.  Filolao  giungeva  dunque  a  modificare  così  l 'assioma  pitagorico  che  i  numeri  sono  le  cose:  «  Tutte  le cose  hanno  un  numero;  senza  questo,  nulla  sarebbe  possibile  pensare,  né  conoscere.  »  Le  cose  hanno  un  numero  perché,  come  in  un  universo  cristallografico,  hanno  una  figura-forma  che  le  delimita  e  che  è  riconducibile  a  rapporti  numerici;  1  e  perché  sono  inserite  in  un'armonia  cosmica  che  ne  ritma  il  divenire  e  che  è  anch'essa  riconducibile  al  rapporto  (logos)  numerico.  Nel  frammento  che  abbiamo  ora  citato  Filolao  compie  un'altra  fondamentale  deduzione:  poiché  la  nostra  conoscenza,  se  vuol  essere  ve- ra,  non  può  che  muoversi  dall'«  uno»  e seguirne  la legge,  poiché  il  nostro  pensiero  non  può  che  essere  -e  di  fatto,  nella  tradizione  pitagorica,  è  -logos  mathematikòs,  ecco  che  il  numero  instaura  la  sua  suprema  armonia  fra  pensiero  e realtà,  fra  uomo  e  mondo;  ecco  che  il  linguaggio  dell'uomo  è  identico  al  linguaggio  di  fysis,  e basterà  affinarlo  nel  medesimo  senso  per  decifrare  fysis  tutta  intiera.  Così  egli  ristrutturava  il  pitagorismo  in  modo  da  adeguarlo  alle  esigenze  posteleatiche  e  insieme  ne  allargava  l'orizzonte  fino  a  includervi  le  necessità  di  spiegazione  naturalistica.  Più  rigoroso,  sebbene  meno  ricco  di  quello  empedo- cleo,  il  suo  sistema  si  prestava  a  brillanti  deduzioni  cosmologiche,  ma,  posto  a  confronto  con  i  problemi  del  significato  e  della  vita,  era  spesso  costretto  a  sce- I  È  interessante  a  questo  proposito  la  fi- gura  di  Eurito,  un  pitagorico  del  v  secolo  spesso  associato  a  Filolao.  Eurito  era  famoso  fra  i  suoi  contemporanei  perché,  assegnato  a  qualsiasi  og- getto  reale  un  determinato  numero  (non  sappiamo  come  lo  ottenesse),  egli  dimostrava  in  un  modo  caratteristico  la  necessità  naturale  del  rapporto  fra  l'uno  e  l'altro:  si  provvedeva  di  un  pari  numero  di  sassolini,  tracciava  la figura  dell'oggetto  in  que- stione  e  incastr11va  lungo  il  suo  perimetro  tali  75  sassolini  (il  numero  atto  a  definire  la  figura  del- l'uomo  era  per  esempio  250).  Variando  le  dimen- sioni  dell'oggetto,  il  numero  di  sassolini,  che  ne  esprimevano  i  rapporti  essenziali,  non  cambiava.  In  tal  modo  Eurito  voleva  stabilire  visivamente  la  relazione,  tipica  anche  del  pensiero  di  Filolao,  tra  numero  e  forma  limitante  gli  enti  reali:  il  nu- mero,  tradotto  in  forma,  era  quindi  il principio  di  individuazione  e  anche  di  intelligibilità  della  na·  tura. gliere  la  via  del  superamento  mistico  alla  maniera  del  primo  pitagorismo;  oscil- lazione  riconoscibile  lungo  tutto  l'arco  della  riflessione  naturalistica  di  Filolao.  L'«  uno»,  ipostatizzato  fisicamente  nel  «fuoco»,  sta  al  centro  del  cosmo;  dal  suo  rapporto  con  l 'infinito  circostante- un  rapporto  paragona  bile  al processo  del- la inspirazione  ed  espirazione  - si è  generato  tutto  quanto  il cosmo,  che,  come  ab- biamo  visto,  consta  di  una  sintesi  inscindibile  di  «  uno  »  e  molti,  di  limitante  e illi- mitato.  Rinnovando  la  meccanica  celeste  della  tradizione  pitagorica,  spinto  a  un  tempo  dall'esigenza  astronomica  di  spiegare  le  eclissi  e  da  quella  mistica  di  asse- gnare  all'«  uno-fuoco»  il  posto  centrale  dell'universo,  Filolao  fece  audacemente  della  Terra  un  pianeta  eccentrico  e  mobile  come  gli  altri,  anticipando  così  di  se- coli  la  veduta  di  Aristarco.  La  medesima  ambiguità  si  riscontra  nell'ipotesi  di  un  decimo  pianeta,  l'  Antiterra,  in  aggiunta  ai  nove  conosciuti:  si  trattava,  da  un  lato,  di  costruire  un  modello  di  meccanica  celeste  atto  a  spiegare  fenomeni  quali  la  maggior  frequenza,  in  uno  stesso  luogo,  delle  eclissi  di  luna  rispetto  a  quelle  di  sole;  e,  dall'altro,  di  trovare  un  'ulteriore  conferma  al  valore  universale  della  decade.  Analogamente  ad  Empedocle,  Filolao  riteneva  poi  il  sole  percepito  dai  nostri  sensi  un  semplice  riflesso  focalizzato  del  «fuoco  »  centrale.  Filolao  fu  anche  attento  cultore  di  biologia  e di  medicina:  operando  nel  solco  della  tradizione  alcmeonica,  egli  accoglieva  da  un  lato  alcune  posizioni  del  sistema  vitalistico  di  Empedocle,  dall'altro,  grazie  proprio  a  quella  tradizione,  appariva  più  vicino  all'empirismo  esprimentesi  nella  medicina  cnidia;  né  poteva  riuscirgli  agevole  la  trasposizione  dei  punti  di  vista  aritmo-geometrici  al  campo  della  vita.  Proprio  per  questa  complessità  di  approccio,  appaiono  nel  filosofo  di  Crotone  germi  interessanti  di  teoria  medica;  essi  passeranno  in  Platone  e  in  alcune  opere  del  Corpus  hippocraticum,  e  per  un  altro  verso  nella  scuola  siciliana  di  medicina,  ma  non  troveranno  una  diretta  continuazione  per  il  progressivo  abbandono,  da  parte  del  successivo  pitagorismo,  delle  ricerche  più  propriamente  naturalistiche.  Un  primo  movimento  analogico  permette  a Filolao  di  ravvisare  nel  ritmo  della  vita  organica  una  stretta  affinità  cosmogonica.  Principio  costitutivo  della  vita  è  lo  sperma,  il  calore  originario;  principio  del  corpo  è  dunque  il calore,  così  come  il  «fuoco»  lo  era  del  cosmo.  D'altra  parte  la  respirazione  introduce  nel  corpo  l'ele- mento  freddo  necessario  ad  equilibrare  tale  calore,  proprio  come  l'inalazione  del- l'illimitato  circostante  da  parte  dell'«  uno»  originava  l'universo.  Gli  stessi  organi  principali  del  corpo  sono  racchiusi  in  uno  schema  quaternario  analogo  a  quello  degli  elementi,  ed  essi  sono  visti  come  rispettivamente  egemonici  nelle  varie  classi  di  viventi.  Il  cervello,  cui  corrisponde  il  pensiero,  è  così  egemonico  nel- l'uomo  (qui  è  chiara  l'eredità  alcmeonica);  il  cuore,  cui  corrisponde  il  principio  della  vita  sensibile,  è  egemonico  negli  animali  (prevalendo  qui  l'ispirazione  empe- doclea);  l'ombelico,  che  presiede  alla  crescita  dell'embrione  e alla  vita  vegetati  va,  contrassegna  la  classe  delle  piante;  i  genitali,  infine,  da  cui  proviene  il seme  fecon- dante,  individuano  tutti  i  viventi  in  quanto  tali.  In  senso  più  propriamente  medicFilolao  costruì  un'eziologia  in  cui  i  maggiori  agenti  patogeni,  di  derivazione  cni- dia,  erano  la  bile  (vista  come  siero  delle  carni),  il  sangue  e il  flegma  o  catarro  che  si  originava  dalle  urine  ed  era  comunque  il  prodotto  di  una  infiammazione.  I  fattori  scatenanti  i processi  morbosi  erano  poi  ravvisati,  alla  stregua  della  dottrina  alcmeonica,  nell'eccesso  o  nella  scarsità  di  alimenti,  di  esercizio  fisico,  dei  fattori  ambientali  necessari  alla  vita  dell'uomo.  La  teoria  dell'anima  era  in  Filolao  strettamente  connessa  alla  concezione  del- l'organismo:  l'anima  rappresentava  infatti  da  un  lato  il  respiro  vitale,  il  principio  di  refrigerazione  che  temperava  il  calore  corporeo  e  dava  luogo  alla  vita;  dall'al- tro  essa  era  l'armonia  che  scaturiva  dalla  tensione  degli  opposti  elementi  fisici  - come  dalle  corde  di  uno  strumento  musicale -    e  li  teneva  connessi  nel  miracoloso  equilibrio  della  vita.  L'anima  era  dunque  la  presenza  dell'armonia  universale  nel  corpo  vivente,  e  d'altro  canto  l'espressione  intrinseca  dei  diversi  fattori  che  si  componevano  armonicamente  a  dar  luogo  alla  vita  stessa.  Così  strettamente  legata  all'equilibrio  transeunte  della  vita  organica,  l'anima  individuale  non  poteva  sopravvivere  al  dissolversi  nella  morte  degli  elementi  corporei  che  essa  armo- nizzava;  ancora  una  volta,  per  giustificarne  l'immortalità  secondo  il  dettame  pitagorico,  Filolao  era  costretto  ad  un  trascendimento  religioso  della  propria  dottrina.  Al  contrario  di  Empedocle,  Filolao  veniva  così  offrendo  al  pensiero  sia  filo- sofico  sia  tecnico-scientifico  uno  strumento  d'indagine  dotato  di  una  enorme  po- tenzialità:  quello  cioè  dell'analisi  formale  e  modale  della  realtà,  e  della  sua  tradu- zione  nei  termini  della  logica  aritmo-geometrica.  In  questo  senso,  era  fondamentale  il  suo  apporto  allo  sviluppo  della  matema- tica,  che  poteva  ormai  procedere  sulla  via  della  specializzazione  arricchita  della  certezza  che  qualsiasi  sua  scoperta  avrebbe  comportato  oggettivamente  una  più  vasta  e  profonda  comprensione  della  realtà,  avrebbe  comunque  rivestito  un  signi- ficato  universale.  E  parimenti  fondamentale  - anche  se  destinato  ad  un  meno  im- mediato  successo  - era  il suo  contributo  alla  fisica,  che  per  la  via  della  matematiz- zazione  era  avviata  ad  una  intelligibilità,  ad  un  rigore  nuovi;  un  rigore  persino  superiore  a  quello  della  fisica  atomistica,  che,  come  ha  osservato  il  Rey,  avrebbe  dovuto  basarsi  sulla  meccanica,  una  disciplina  molto  meno  progredita  nel  pensie- ro  greco  di  quanto  non  lo  fosse  l'aritmo-geometria  pitagorica.  Se  in  epoca  moderna  matematizzazione  e concezione  atomica  della  fisica  erano  destinate  a riunirsi,  dando  luogo  al  «  sistema  del  mondo  »  proprio  della  scienza  a  partire  dal  Seicento,  nel  mondo  greco  pitagorismo  ed  atomismo  restarono  però  a  lungo  contrapposti.  Ciò  è  dovuto  anche  all'ambiguità  che  abbiamo  visto  sottendersi  a  tutta  la  speculazione  di  Filolao.  Il  logos  mathematikòs  non  era  soltanto,  e  non  tanto,  un  metodo  del  pensiero  quanto  la  struttura  essenziale,  garantita,  dell'universo;  il  numero  non  era  tanto  uno  strumento  euristico  dell'uomo  quanto  una  realtà  originaria,  primale,  che garantiva  la  validità  della  scienza,  ma  soprattutto  la  condizionava  al  riconoscimento  di  sé,  principio  dogmatico  del  conoscibile  prima  che  del  conoscere.  Già  per  la  matematica,  questa  natura  del  numero  creava  una  situa- zione  di  privilegio  necessariamente  ambigua:  giacché  essa  veniva  trasvalutata  in  una  sorta  di  teologia  razionale,  secondo  un  processo  che  sarà  comune  a  Platone  vecchio  e  a  tutto  il  successivo  pitagorismo,  sempre  più  alieno  dalla  ricerca  empi- rica,  sempre  più  portato  a  rifiutare  il  contatto  così  fecondo  tra  la  matematica  stessa  e  le  discipline  tecniche  e  naturalistiche.  Nel  senso  di  Filolao,  assolutizza- zione  delle  matematiche  voleva  dire  dunque  anche  loro  isterilimento  sul  piano  scientifico-tecnico,  e  contemporaneamente  condanna  ad  uno  status  non  scientifi- co  delle  technai  di  controllo  della  natura,  dalla  meccanica  alla  biologia.  L'accen- tuarsi  della  natura  mistica  del  numero  - che  all'origine  aveva anche  significato  l~  preoccupazione  di  una  saldatura  tra  uomo  e  mondo,  tra  conoscenza  e  realtà  - avrebbe  scavato  un  solco  sempre  più  profondo  tra  il pitagorismo  e le  tendenze  più  vive  del  pensiero,  conducendo  da  ultimo  alla  fusione  tra  un  pitagorismo  teologiz- zante  ed  un  parimenti  infiacchito  platonismo.  Filolao,  con  tutta  la  sua  ricchezza  di  interessi  metodici  .e  scientifici,  era  certamente  lontanissimo  da  tali  esiti.  Ma  la  sua  impossibilità  di  liberarsi  da  talune  ambiguità  di  fondo  lo  poneva  già,  nono- stante  tutto,  su  questa  via.Gorgia  nacque  a  Lentini,  in  Sicilia,  intorno  al  480.  La  tradizione  ci  rac- contà  che  sarebbe  vissuto  fino  a  108  anni,  e  sarebbe  stato  discepolo  vuoi  dei  pi- tagorici  vuoi  di  Empedocle.  Senza  dubbio  riuscì  a  conquistarsi  la  stima  dei  suoi  concittadini,  tanto  è  vero  che  fu  da  essi  inviato  come  ambasciatore  ad  Atene  per  chiedere  aiuto  contro  Siracusa.  Viaggiò  per  tutta  la  Grecia,  facendo  ovunque  sfoggio  della  sua  sottilissima  arte  dialettica  che  era  basata  su  una  tecnica  analoga  a quella  di  Zenone.  Scrisse  varie  opere,  fra  le  quali  ci limitiamo  a ricordare  l'Elena  e  il  trattatello  Intorno  al  non  ente  o intorno  alla  natura  (Perì  tou  me  ontos  é perì  Jjseos).  Nella  prima  viene  svolta,  con  molta  abilità,  la  paradossale  difesa  della  celebre  eroina,  scagionata  da  ogni  colpa  per  l'abbandono  della  casa  del  marito,  e  viene  intessuto  l'elogio  dell'onnipotenza  della  parola,  specie  quando  essa  è  guidata  dalla  retorica:  «  La  parola  è  un  gran  dominatore,  che  con  piccolissimo  corpo  e  invisi- bilissimo,  divinissime  cose  sa  compiere;  riesce  infatti  a  calmar  la  paura,  e  a  eli- minare  il  dolore,  e  a  suscitare  la  gioia,  e  ad  aumentare  la  pietà.»  Nell'altra  opera  Gorgia  espone,  una  triplice  tesi:  a)  nulla  è;  b)  se  anche  qualcosa  fosse,  non  sa- rebbe  conoscibile;  c)  se  poi  fosse  conoscibile,  non  sarebbe  esprimibile,  «poiché  il  mezzo  con  cui  ci  esprimiamo,  è  la  parola;  e  la  parola  non  è  l'oggetto,  ciò  che  è  realmente;  non  dunque  realtà  esistente  noi  esprimiamo  al  nostro  vicino,  ma  solo  parola  che  è  altro  dall'oggetto».  La  critica  della  vecchia  filosofi di  Parmenide  è  qui  evidente;  essa  si  fonda  sull'equivocità  del  termine  «  essere»  usato  ora  nel  senso  di  « esistere»  ora  in- vece  nel  senso  puramente  copulativo.  Ma  più  ancora  di  questa  critica  è  impor- tante  la  chiarezza  con  cui  si  pongono  i  problemi  della  conoscibilità  e  dell'espri- mibilità  (cioè  i  problemi  se  tutto  ciò  che  esiste  possa,  per  il  solo  fatto  di  esistere,  venire  conosciuto  e  venire  espresso).  Abbiamo  parlato,  a  proposito  sia  di  Protagora  sia  di  Gorgia,  di  critica  al- l'eleatismo.  Tale  critica  investì  certamente  il  tentativo  dell'eleatismo  di  stringere  in  una  rigida  unità  l'ordine  del  pensiero  e  del  linguaggio  con  quello  della  realtà  percepita  e  vissuta,  e  vi  contrappose  la  relativa  autonomia  di  questi  due  momenti.  Ciò  premesso,  la  critica  moderna  tende  tuttavia  a  non  sottovalutarei  legami  che  connessero  i  maggiori  sofisti  all'eleatismo,  e  non  solo  nel  senso  che  la  situazione  di  crisi  creata  da  quest'ultimo  rappresentò  il  loro  punto  di  partenza.  Nell'ordine  logico,  i  sofisti  accettarono  infatti  i  requisiti  di  verità  imposti  dall'eleatismo,  quali  l'identità  tautologica  (di  cui  la  orthoépeia  protagorea  sarebbe  una  versione  raffinata)  e  la  pregnanza  di  significati  esistenziali  e  copulativi  del  verbo  «essere».  La  rivendicata  autonomia  dell'esperienza  vissuta  si  tradurrebbe  pertanto  in  una  sizioni  professionali  variano  da  individuo  ad  in- dividuo,  sicché  ognuno,  possedendone  alcune,  è  privo  delle  altre,  la  capacità  di  contribuire  a  con- 93  servare  e  perfezionare  l'organismo  sociale  deve  essere  considerata  presente  in  tutti  gli  individui  normali. rinuncia  a  controllarla  con  strumenti  logici,  e  in  un  suo  abbandono  alla  psico- logia  dell'individuo  a  sua  volta  stratificato  nella  convenzione  sociale.  Questo  atteggiamento  si  tradusse,  da  un  lato,  in  una  certa  incapacità  della  sofistica  di  comprendere  l'originale  rapporto  di  logica  ed  esperienza  che  si  veniva  realiz- zando  nella  scienza  contemporanea  (di  qui  la  polemica  di  Protagora  e  di  Gorgia  contro  la  geometria,  la  fisica  e,  indirettamente,  contro  la  medicina);  dall'altro,  nella  tendenza  a  considerare  il  momento  irrazionale  del  profitto  e della  forza  come  primario  nell'ordine  sociale,  trascurandone  le esigenze  etico-storiche.  Questo  non  toglie  nulla  alla  fecondità  dell'atteggiamento  critico  della  sofistica,  ma  certamente  sottolinea  la  vastità  del  compito  di  ricostruzione  scientifica,  filosofica  e  storico- sociale  che  spetterà  al  pensiero  greco  dopo  il  fallimento  eleatico,  l'esaurimento  della  filosofia  della  natura  e  la  critica  sofistica.  Non  sappiamo  se  a  Crotone,  quando  vi  approdò  Callifonte,  l'asclepiade  di  Cnido,  cui  abbiamo  fatto  cenno  nel  secondo  paragrafo,  già  esistesse  una  scuola  di  medicina  o  se  la  sua  fondazione  si  debba  a questo  scienziato  venuto  dall'Orien- te.  È  certo,  tuttavia,  che  la  scuola  conobbe  una  rapidissima  fioritura.  Già  il  figlio  di  Callifonte,  Democede,  si  guadagnò  la fama  di  miglior  chirurgo  del  mondo  greco,  e,  fatto  ritorno  alla  nativa  costa  ionica,  impose  alla  corte  del  re  di  Persia  la  supremazia  della  nuova  scuola  ellenica  su  quella  tradizionale  d  'Egitto.  Toccò  al  crotoniate  Alcmeone,  nato  verso  il  540,  di  portare  la  scuola  al  suo  massimo  livello  scientifico.  E  soprattutto  toccò  ad  Alcmeqne  -che  il  Wellmann  ha  definito  a  buon  diritto  pater  medicinae  grecae  - di  rinnovare  profondamente  il  pensiero  scientifico  ellenico,  condizionandone  lo  svolgimento  lungo  tutto  il  v  secolo.  A  contatto  attraverso  la  sua  scuola  con  le  esperienze  maturate  dalla  historle  ionica  nel  VI  secolo,  egli  entrò  d'altro  canto  in  relazione  con  le  filosofie  i tali  che  che  sullo  scorcio  di  quel  secolo  si  sviluppavano  rapidamente:  il  pensiero  di  Senofane  da  un  lato,  il  pitagorismo  dall'altro.  Dalla  critica  senofanea  al  sapere  umano,  Alcmeone  derivò  la  consapevolezza,  via via  affinatasi,  che  l'osservazione  empirica  non  può  immediatamente  offrire  la  chiave  della  conoscenza,  che  la  verità  non  si  rivela  tutt'intera  a  chi  si  limiti  a  descrivere  la  natura.  Con  il  pitagorismo,  Alcmeone  mantenne  rapporti  su  di  una  base  di  autonomia,  da  scuola  a  scuola;  insofferente  del  carattere  settario,  dogmatico,  della  dottrina  e  della  prassi  pitago- rica,  egli  rivolse  contro  di  esse  la  sua  critica  teorica  e  la  sua  azione politica  demo- cratica.  Fu  tuttavia  profondamente  interessato  non  solo  dai  progressi  che  i  pi- tagorici facevano  compiere  alle.  scienze  naturali,  ma  soprattutto  dal  loro  tentativo  di  scoprire  leggi  dell'esperienza  che  fungessero  da  principio  di  organizzazione  e  di  interpretazione  dei  fenomeni  osservati.  Ecco  dunque  che  sul  tronco  dell'empirismo  ionico,  cui  per  altro  restava  solidamente  ancorato,  Alcmeone  veniva  innestando  una  problematica  e  una  consapevolezza  nuove,  la  cui  carenza  aveva  sempre  frenato,  come  s'è  visto,  i  progressi  di  quell'empirismo.  Proprio  con  la  dichiarazione  di  questa  acquisita  consapevolezza  si  apre  l'opera  di  Alcmeone:  «Delle  cose  invisibili,  delle  cose  mortali  gli  dei  hanno  immediata  certezza,  ma  agli  uomini  tocca  procedere  per  indizi  (tekmdiresthai).  »  Bastava  un  tale  punto  di  vista  gnoseologico  ad  infrangere  l'illusione  dell'immediata  trasparenza  dell'esperienza,  ad  aprire  la  via  ad  una  osservazione  critica  dei  fenomeni  e  ad  un  più  attivo  intervento  dello  scienziato  nella  loro  interpretazione.  Alcmeone  si  valeva  del  principio  così  scoperto  nel  vivo  della  propria  ricerca  scientifica,  e  d'altra  parte  era  la  ricerca  stessa,  divenuta  criticamente  più  vigile,  a  confermargliene  la  validità.  Nel  campo  dei  fenomeni  naturali  egli  non  vedeva  più  alcun  «  elemento  »alcuna  coppia  di  contrari,  alcuna  arché  che  di  per  sé  valessero  a  spiegare  la  natura  e  la  vita.  Da  biologo,  egli  riconosceva  piuttosto  nell'empirico  una  indefinita  molteplicità  di  principi  attivi  o  «  qualità  »,  vale  a  dire  di  stimoli  capaci  di  de- terminare  nell'organismo  una  certa  reazione  fisiologica  (l'amaro,  il  freddo  e  così  via);  di  conseguenza,  non  v'era  continuità  fra  organismo  senziente  e  il  suo  ambiente,  ma  il  rapporto  fra  l'uno  e  l'altro  era  quello  di  stimolo  e  reazione  (questo  è  il  significato  della  «  sensazione  per  contrari  »  attribuita  ad  Alcmeone,  in  contrasto  con  la  «sensazione per simili»  che,  come  s'è  visto,  fu  tipica  di  Empedocle).  Parallelamente,  Alcmeone  scopriva,  grazie  alla  pratica  coraggiosa- mente  scientifica  della  dissezione,  che  la  funzione  del  percepire  è  nell'uomo  bensì  diffusa  nei  vari  organi  di  senso,  ma  che  essa  viene  poi  coordinata  da  un  organo  centrale,  e  precisamente  dal  cervello.  Con  questa  scoperta  Alcmeone  non  solo  compiva  un  progresso  di  fondamentale  importanza  per  tutta  la  biologia  greca,  ma  trovava  altresì  una  decisiva  conferma  al  proprio  punto  di  vista  gno- seologico:  la  funzione  del  cervello  spezzava  di  fatto  il  legame  immediato  fra  uo- mo  e  mondo,  fra  conoscenza  e  realtà.  Ed  Alcmeone  rendeva  esplicita  questa  con- seguenza  dichiarando  che,  se  la  «sensibilità»  è  una  proprietà  di  tutti  gli  organi- smi  viventi,  la funzione  del  «  comprendere  »,  cioè  del  ridurre  a  sintesi  significa- tiva  l'esperienza,  e  del  «prender  coscienza»  della  sensibilità  stessa  è  propria  esclusivamente  dell'uomo.  Il  valore  di  queste  asserzioni  si  po.trà  intendere  appie- no  ove  si  ricordi  che  ancora  una  generazione  più  tardi la  dottrina  della  centralità  del  cuore  conduceva  Empedocle  a  conclusioni  estremamente  antitetiche.  In  ogni  modo,  profondo  era  il  solco  così  apertosi  fra  l'uomo  e  la  realtà  che  egli  vuol  comprendere  e  trasformare.  Il  mondo  dell'esperienza  riacquistava  la  sua  concretezza,  e  l'esperienza  stessa  veniva  riconosciuta  incapace  di  dare  spontaneamente  conto  di  sé.  Così,  lo  scienziato  riconquistava  un'autonomia  e una  possibilità  di  comprensione  e  di  controllo  sul  mondo,  scoprendo  un  punto  di  vista  ad  esso  eterogeneo.  Ma  Alcmeone  si  avvide  di  una  conseguenza  decisiva  di  questa  situazione:  la  realtà  si  faceva  a  un  tratto  opaca  agli  occhi  dello  scienziato;  la  sapienza,  intesa  come  perfetta  trasparenza  di  tutto  il  mondo  all'uomo,  restava  ormai  solo  una  proprietà  degli  dei.  In  termini  di  metodo  scientifico,  la  sapienza  doveva  allora  venir  sostituita  dall'indagine,  la  rivelazione  dalla  congettura,  l'os- servazione  e  le  analogie  che  essa  sembrava  offrire  dovevano  essere  integrate  dal  metodo  dell'indizio  e  della  prova.  Quando  Alcmeone  poneva  il  tekmdiresthai,  il  proceder  appunto  per  indizi,  congetture  e  prove,  come  metodo  tipico  della  conoscenza  umana,  egli  conferiva  una  consapevolezza  teorica  alla  prassi  della  me- dicina,  che  doveva  interpretare  l'esperienza  per  ritrovare  in  essa  un  significato,  un  valore  di  sintomo,  e  risalire  così  all'unità  della  malattia  e  delle  sue  cause:  una  consapevolezza  che,  come  s'è  visto,  fece  sempre  difetto  ai  cnidi.  Sulla  base  di  queste  prospettive  teoriche,  Alcmeone  poté  anche  offrire  alla  medicina  una  dottrina  fisio-patologica  e  un'eziologia  unitaria  cui  i  cnidi  non avevano  potuto  pervenire.  Le  infinite  «qualità»  (4Jnàmeis)  agenti  nell'organismo,  formano  nel  loro  stato  normale  un  composto  (krasis)  omogeneo  ed  armonico  (isonomia).  La  malattia  nasce  dalla  rottura  di  tale  equilibrio  e  dal  prevalere  patolo- gico  (monarchia)  di  uno  solo  di  questi  principi,  oltre  che  per  l'azione  di  una  mol- teplicità  di  fattori  ambientali.  È  importante  notare,  per  l'influenza  che  questa  veduta  ebbe  su  Ippocrate,  che  Alcmeone  lasciò  indefinito  il  numero  delle  4Jndmeis,  senza  irrigidirle  né  nello  schema  quaternario  degli  elementi  proprio  della  scuola  empedoclea,  né  in  quello  degli  «  umori  »  sviluppatosi  nella  tarda  scuola  di  Cos.  Queste  determinazioni  negative,  le  uniche  che  ci  restano  delle  4Jndmeis  alcmeoniche,  sono  tuttavia  importanti,  perché  gettano  il  seme  di  una  embrionale  chimica  fisiologica,  consapevole  della  molteplicità  degli  elementi  e  dei  composti  (come  ribadirà  anche  Anassagora)  e  attenta  soprattutto  alla  loro  sempre  variabile  funzionalità  nelle  sintesi  organiche.  D'altra  parte,  rompendo  anche  qui  con  tutta  la  tradizione  della_bsiologia,  Alcmeone  affermava  l'irreversi- bilità  dei  processi  biologici  e  dunque  l 'impossibilità  del  ciclo:  «  Gli  uomini  per  ciò  periscono,  che  non  possono  congiungere  il  principio  con  la  fine.  »  Troppo  innovatrici  erano  tuttavia  le  sue  intuizioni,  perché  Alcmeone  ne  potesse  trarre  tutte  le  conseguenze.  La  via  del  metodo  scientifico  era  stata  indicata,  ma  un  lungo  cammino  doveva  essere  ancora  percorso  perché  quel  metodo  potesse  essere  sviluppato  e  consolidato.  Il  problema  del  rapporto  fra  pensiero  e  realtà,  fra  teoria  ed  esperienza  era  stato  posto  senza  che  le  strutture  di  quel  rapporto  potessero  essere  compiutamente  analizzate  e  rese  esplicite.  Questa  mancanza  di  una  chiara  elaborazione  teorica  spiega  come  l'eredità  alcmeonica  si  sia  suddivisa  in  due  filoni  diversi  e  contrastanti.  Da  un  lato,  infatti,  essa  fu  riassorbita  dalla  fysiologia  italica  e  siciliana,  che  utilizzò  alcune  delle  sue  conquiste  scientifiche  contestandone  altre  e  soprattutto  annullandone  via  via  la  carica  innovatrice  dal  punto  di  vista  del  metodo.  Attraverso  Empedocle,  questo  filone  dell'eredità  alcmeonica  passò,  sul  finire  del  v  secolo,  alla  scuola  italica  di  medicina,  di  cui  diremo  più  ampiamente  al  capitolo  xr.  L'altro  filone  ci  interessa  qui  più  da  vicino:  tramite  l'autonoma  ricerca  medico-biologica,  esso  rifluì  nell'ambiente  scientifico  ionico-attico,  e  dunque  nel  suo  crogiuolo  ateniese,  destandovi  immediatamente  l'interesse  delle  più  vive  correnti  di  pensiero.  Ad  Anassagora  la  lezione  alcmeonica  apportava  la  veduta  dell'alterità  del  conoscere  rispetto  al  conosciuto,  dell'inesauribile  concretezza  del  mondo  empirico,  del  tekmdiresthai  come  metodo  della  conoscenza;  agli  scienziati  che  si  raccoglievano  intorno  al  filosofo,  ai  medici  come  lppocrate,  Alcmeone  insegnava  l'importanza  metodica  del  sintomo,  la  centralità  del  cervello,  le  basi  fisiologiche  della  patologia;  agli  uomini  di  cultura,  agli  storici  come  Tucidide,  egli  trasmetteva  analoghi  spunti  metodici,  e  ancora  il suo  rifiuto  della  ciclicità,  la  sua  concezio"ne  - così  suggestivamente  trasferibile  alle  vicende  umane- dell'armonia  come  salute,  della  monarchia  come  sua  rottura  patologica Seguendo  questo  secondo  filone  dell'eredità  alcmeonica,  occorrerà  quindi  tornare  nell'Atene  della  metà  del  v  secolo,  dove  si  venivano  intrecciando  i  nodi  di  tutto  il  pensiero  scientifico  greco  e  grazie  a  ciò  si  ponevano  le  premesse  per  le  sue  conquiste  più  alte.Nel  seguire  al  capitolo  vn  il  filone  alcmeonico  che  si  svolgeva  attraverso  Anassagora  e  culminava  in  Ippocrate,  accennammo  anche  al  permanere  di  una  scuola  medica  in  Magna  Grecia  e  in  Sicilia,  nella  quale  l'eredità  di  Alcmeone  doveva  però  esser  ben  presto  sopraffatta  dal  prepotente  influsso  della  fysiologia  di  Empedocle.  Quest'ultima  era  in  effetti  tale  da  condizionare  sia  nelle  premesse  sia  nei  metodi  la  ricerca  medico-biologica,  promuovendone  a  un  tempo  lo  svi- luppo  e  indirizzandolo  verso  esiti  estremamente  insidiosi.  La  concezione  del  inondo  come  un  organismo  vivente  pareva  infatti  assicurare  la  fondazione  più  universale  e  più  valida  alle  scienze  biologiche;  e  la  riduzione  del  mondo  stesso  a  quattro  elementi  primari,  o  archai,  sembrava  a  sua  volta  offrire  uno  strumento  decisivo  per  la  comprensione  della  struttura  del  corpo  e  delle  sue  affezioni.  La  metodica  da  porre  in  opera  era  pure  esemplificata  da  Empedocle:  si  trattava  di  battere  la  via  dell'analogia  tra  microcosmo  e  macrocosmo,  di  riportare  cioè  co- stantemente  i  fenomeni  organici  alla  struttura  di  fondo  del  corpo  e  la  struttura  del  corpo  a  quella  dell'universo,  ritrovando  in  quest'ultima  una  garanzia  di  ve- rità  e  una  premessa  per  ulteriori  spiegazioni.  Entro  tale  orizzonte  la  scuola  italica  si  sviluppò  lungo  la  seconda  metà  del  v  secolo,  finché  sullo  scorcio  di  quello  stesso  secolo  e  nei  primi  decenni  del  IV,  Filistione  di  Locri  la  condusse  al  suo  definitivo  assetto  dottrinale  e  metodico.  Importante  in  senso  dottrinale  l'elaborazione della  teoria  del  pneuma  o  «respiro»,  principio  vitale  che  animava  la  struttura  elementare  sia  del  corpo  sia  del  cosmo,  e  che  valeva  a  spiegare  molti  fenomeni  patologici  quando  la  sua  circolazione  or- ganica  risultasse  anomala.  Ma  soprattutto  importante,  dal  punto  di  vista  metodico,  era  la  traduzione  in  senso  biologico  degli  elementi  empedoclei,  che  certamente  Filistione  derivava  dalla  scuola  ma  cui  egli  conferì  una  forma  destinata  a  domi- nare  per  lunghi  secoli  il  pensiero  naturalistico.  Non  immemore  della  lettera  al- meno  dell'insegnamento  alcmeonico,  e  impegnato  più  direttamente  di  Empedo- cle  nell'osservazione  dei  fenomeni  organici,  Filistione  trasformò  gli  elementi  in  «  qualità  »  o  principi  organici  attivi  (c!Jndmeis):  così  la  terra  veniva  espressa  dalla  djnamis  «secco»,  l'acqua  dall'«  umido»,  il fuoco  dal«  caldo»,  l'aria  dal«  fred- do  »:  queste  c!Jndmeis  erano  secondo  Filistione  la  forma  specifica  con  la  quale  la  struttura  elementare  dell'universo  si  manifesta  nell'organismo  umano;  grazie  tuttavia  alloro  legame  univoco  con  gli  elementi,  esse  non  potevano  diventare,  come  in  Anassagora  ed  in  Ippocrate,  stati  relativi  e  mutevoli  degli  oggetti  em- pirici,  bensì  restavano  principi  stabili  e necessari  dell'empirico  stesso.  Il  processo  analogico  con  il  quale  Filistione  giungeva  alle  quattro  qualità  era  strettamente  affine  alla  deduzione  empedoclea  degli  elementi,  e  non  occorrerà  tornare  a  descri- verlo;  e la  sua  critica  più  pertinente,  dal  punto  di  vista  del  metodo  della  medicina  empirica,  fu  del  resto  anticipata  dallo  stesso  Ippocrate  in  Antica  medicina,  come  si  è  visto  al  capitolo  vn.  L'importanza  storica  della  rielaborazione  di  Filistione  e la ragione  del  suo  duraturo  successo  stanno  da  un  lato  nell'aver  offerto  alla  biolo- gia  uno  strumento  di  spiegazione  e  di  semplificazione  dei  fenomeni  pur  sempre  dogmatico  ma  tuttavia  assai  più  riconoscibile  nella  concretezza  dei  processi  or- ganici  di  quanto  lo  fossero  gli  elementi  empedoclei  (ad  esempio  il  «calore  vitale»  e  il  suo  eccesso  patologico  rappresentato  dalle  febbri  si  spiegano  meglio  con  le  vicende  della  qualità«  caldo»  che  con  la  materia  «fuoco»);  d'altro  lato,  toglien- do  dalla  fysiologia  empedoclea  quanto  vi  era  di  materialistico  e  in  fondo  di  mec- canicistico,  Filistione  ne  troncava  i  pur  possibili  legami  con  l'atomismo  e la  ren- deva  assai  meglio  accetta  al  prevalente  indirizzo  qualitativo  del  pensiero  platonico  e  soprattutto  aristotelico.  Un'altra  importante  evoluzione  egli  faceva  poi  subire  all'organicismo  del  filosofo  di  Agrigento.  Mentre  quest'ultimo  non  aveva  mai  compiuto  esplicita- mente  il  passo  che  portava  dalla  concezione  vitalistica  del  mondo  al  ricono.sci- mento  di  un  finalismo  in  esso  operante,  Filistione  trovava,  ad  esito  delle  sue  ri- cerche  anatomiche  sull'organismo,  proprio  questo  grande  principio  esplicativo:  che  la  natura,  e  soprattutto  la  natura  vivente,  è  organizzata  in  funzione  di  un  si- stema  di  fini,  che  questa  organizzazione  si  ritrova  allivello  di  .tutti  gli  organi,  e  che  dunque  l'indagine  biologica  non  deve  vertere  tanto  sul  «  che  cosa  »  e  sul  «come»,  quanto  sul  «perché»  finale  dell'assetto  dei  fenomeni  studiati.  Nel  trattato  sul  Cuore  (Perì  kardies)  - dove  tra  l'altro,  nonostante  la  sua  grande dottrina  anatomica,  egli  rifiuta  Alcmeone  per  Empedocle  e  pone  l'intelli- genza  nel  cuore  stesso  - Filistione  concepisce  quest'organo  come  la  costru- zione  mirabile  di  un  «  buon  artefice  »,  che  tutto  ha  predisposto  affinché  la  vita  potesse  aver  luogo  nel  migliore  dei  modi.  L'incontro  di  queste  dottrine  con  il  platonismo,  concretatosi  in  quello  fra  Filistione  e  Platone  avvenuto  in  Sicilia  ver- so  il  36o  e  dunque  all'inizio  del  periodo  di  elaborazione  del  Timeo,  doveva  ave- re  conseguenze  incalcolabili  per  la  scienza  della  natura  greca.  Attraverso  Platone,  passarono  infatti  ad  Aristotele,  che  le  adottò  ancor  più  risolutamente  del  maestro,  e  grazie  a  lui  conquistarono  una  egemonia  per  lungo  tempo  quasi  incontrastata.  Ma  prima  che  tutto  questo  avesse  luogo,  le  posizioni  della  scuola  italica  fa- cevano  sentire  la  loro  pressione  sulla  stessa  scuola  di  Cos  postippocratica,  e  oc- correrà  ora  seguire  gli  estremi  tentativi  di  quest'ultima  di  salvare  la  techne,  «l'an- tica  medicina  »,  da  così  agguerriti  avversari. Già  si  parlò  nel  capitolo  v  dell'opera  di  Filolao,;  qui  vogliamo  ancora  accen- nare  ai  progressi  compiuti,  nell'ambito  della  matematica,  dal  filosofo  e  scienziato  Archita,  vissuto  a  Taranto  tra  la  fine  del  v  secolo  e  la  prima  metà  del  IV,  ultima  figura  di  statista  pitagorico.  Egli  resse  per  lungo  tempo  la  sua  città  incrementan- done  la  prosperità  e  la  potenza  militare,  facendone  la  prima  della  Magna  Grecia.  Si  ritiene  che  Archita  abbia  applicato  la  propria  dottrina  matematica  alla  mecca- nica  militare,  e,  poiché  sappiamo  pure  che  fece  uso  di  strumenti  meccanici  per  ri- solvere  problemi  geometrici,  si  può  dire  che  per  primo  (e  sfortunatamente  con  pochi  imitatori  per  molto  tempo)  egli  intuì  la  fecondità  teorica  e  pratica  di  una  rela- zione  fra  matematica  e  meccanica.  Profonda  fu  l'impressione  che  la  personalità  di  Archita  suscitò  in  Platone  in  occasione  del  suo  soggiorno  a  Taranto  nel  3  89.  In  campo  matematico,  Archita  riprese  il  problema  di  Delo  secondo  le  linee  tracciate  da  Ippocrate  di  Chio,  e  lo  portò  a  soluzione  mediante  la  rappresenta- zione  strumentale  di  figure  geometriche  in  movimento.  La  soluzione  di  Archita  è  troppo  complessa  per  essere  qui  riportata:  da  essa  risulta  comunque  che  egli  era  familiare  con  i  processi  mediante  cui  si  generano  cilindri,  coni  e  altri  solidi  di  rivoluzione,  e  che  fu  il  primo  ad  usare  consapevolmente  il  concetto  di  luogo  geometrico.  In  questo  modo,  Archita  offriva  il  primo  esempio  di  applicazione  della  geometria  dello  spazio  alla  soluzione  dei  problemi  di  geometria  piana,  e  insieme  dava  inizio  alle  ricerche  che  concluderanno  alla  teoria  delle  coniche.  Ma  quello  che  va  messo  in  maggiore  rilievo,  è  lo  spregiudicato  coraggio  con  il  quale  Archita  faceva  ricorso  - nonostante  la  polemica·platonica  - a  tutti  i  metodi  e  gli  strumenti  che  permettessero  di  far  progredire  la  ricerca.  Parimenti  ardite  le  sue  impostazioni  in  aritmetica  e  in  acustica:  quanto  alla  prima,  egli  contribuì  a  sviluppare  il  concetto  che  il  numero  è  essenzialmente  un  rapporto,  perciò  in- dipendente  dalle  condizioni  di  commensurabilità  e  razionalità,  e  poté  quindi  tor- nare  a rivendicare  la  supremazia  dell'aritmetica  fra  le  scienze  matematiche;  quanto  alla  seconda,  egli  scoprì  che  il  suono  è  dovuto  al  movimento  e  all'urto  dei  corpi,  e  che  l'aria  è  un  corpo  atto  a  ricevere  la  vibrazione  e  a  propagarla La  tradizione,  che fa  di  Archita  uno  dei  maestri  di  Eudosso,  anche se  dubbia,  vale  certamente  a  simboleggiare  la  funzione  del  tarantino  nel  passaggio  dalla  ma- tematica  del  v  secolo  alla  grande  fioritura  che  ebbe  luogo  nel  IV I  romani,  prevalentemente  agricoltori  e  guerrieri,  non  si  occuparono  affatto,  nei  primi  secoli  della  loro  storia,  né  di  problemi  filosofici  né  di  problemi  scienti- fici.  Il  loro  interesse  culturale  si  concentrò,  tutto,  sui  problemi  giuridici,  per  l'evi- dente  importanza  del  diritto  nella  costruzione  di  uno  stato  efficiente.  Nel  168  a.C.  la  conquista  della  Macedonia  li  portò  a  contatto  immediato  con  la Grecia  e  provocò  un  rapido  incremento  nei  loro  rapporti  con  la  cultura  elle- nica.  Questi  furono,  in  un  primo  tempo,  tutt'altro  che  facili.  La  penetrazione  in  Roma  dell'arte,  della  filosofia  e  della  scienza  greche  poteva  infatti  costituire  un  vero  pericolo  per  lo  stato  romano,  minacciando  di  alterarne  quei  caratteri  cheavevano  fino  allora  costituito  la  base  stessa  del  suo  crescente  successo  politico.  Gli  elementi  ·più  conservatori  come  Catone  se  ne  avvidero  immediatamente  e  cercarono  di  opporre  una  seria  resistenza.  Un  senatoconsulto  del  161  ordinò  che  i retori  e i  filosofi,  venuti  in  Roma  come  esuli  della  Macedonia,  fossero  cacciati  dalla  città.  Cinque  anni  più  tardi  Atene  inviava  a  Roma  una  missione  diplomatica,  formata  da  tre  filosofi  (Critolao,  che  rappresentava  il  Liceo,  Diogene  di  Babilonia,  che  rappresentava  la  Stoa,  e  Car- neade,  che  era  alla  direzione  dell'Accademia);  essi  approfittarono  di  questo  sog- giorno  per  esporre  in  pubblico  le  proprie  dottrine.  Ottennero  un  enorme  successo,  soprattutto  Carneade,  la  cui  oratoria,  ricca  di  sottili  argomentazioni  dialettiche,  riuscì  in  breve  a  conquistare  la  parte  più  intelligente  della  gioventù.  Famoso  è  rimasto  il suo  discorso  sul  contrasto  fra  la  giustizia  e la  saggezza,  dimostrato  pro- prio  con  l'esempio  del  popolo  romano,  che  fondava  la  propria  potenza  sui  terri- tori  strappati  con  la violenza  ad  altri.  Questa  non  fu  l'ultima  ragione  per  cui  i filo- sofi  ateniesi,  appena  conclusa  la  loro  missione,  furono  invitati  a  lasciare  la  città.  È  noto  che  questi  ostacoli  non  riuscirono  a fermare  il  processo  iniziato.  Nel  corso  di  pochi  decenni  la  situazione  muta  radicalmente:  i  giovani  delle  migliori  famiglie  romane  accorrono  sempre  più  numerosi  a  completare  i  loro  studi  in  Grecia;  i più  celebri  pensatori  greci  vengono  invitati  a Roma,  ove  diventano  amici  di  influenti  personalità  politiche.  A  Roma  fu  per  oltre  un  decennio  il  filosofo  Panezio,  uno  dei  maggiori  rappresentanti  della  media  Stoa.  Egli  si legò  particolar- mente  al  circolo  ellenizzante  di  Scipione  Emiliano.  Questo  comprendeva  oltre  allo  storico  Polibio,  i  maggiori  rappresentanti  della.  cultura  romana  del  tempo:  Terenzio,  Lucilio,  Caio  Lelio,  Quinto  Elio  Tuberone,  ecc.  Nel  I  secolo  a.C.  Roma  comincia  a  diventare  un  centro  culturale  di  notevole  importanza.  Sarebbe  erroneo  tuttavia  ritenere  che  la  Grecia,  con  i  successi  ora  ricordati,  sia  effettivamente  riuscita  a imporre  a  Roma  la  propria  cultura.  Che  non  sia  stato  così  ce  lo  dimostra  un  fatto  semplicissimo  ma  molto  significativo:  mentre  la  lingua  greca  si  era  rapidamente  diffusa  in  tutto  il  mondo  mediterraneo  orientale  (per  esempio  in  Egitto),  tanto  da  diventarvi  l'unico  mezzo  di  comunicazione  della  cultura,  nulla  di  simile  accadde  in  occidente.  Nel  campo  linguistico  la  resistenza  di  Catone  riportò  piena  vittoria:  i  romani  continuarono  a  scrivere  in  latino  ( cer- cando  evidentemente  di  arricchire  il  proprio  vocabolario),  e  la  civiltà  mediter- ranea  finì  a  poco  a  poco  per  diventare  bilingue.  Anche  nel  campo  della  filosofia  e  della  scienza  le  qualità  più  caratteristiche  del  temperamento  romano  - buone  o  cattive  che  fossero  - non  andarono  som- merse.  Una  certa  ripugnanza  per  le  speculazioni  troppo  astratte,  l'interesse  volto  più  alle  conclusioni  che  alle  premesse,  la  spiccata  attitudine  dei  romani  alla  pra- ticità,  non  tardarono  a far  sentire  il peso  della  loro  influenza. 1  I  Per  i  notevoli  riflessi  di  questo  tempera- gogico,  rinviamo  all'ultimo  capitolo  della  pre- mento  caratteristico  dei  romani  in  campo  peda- sente  sezione.Illustreremo,  nel  prossimo  paragrafo,  le  conseguenze  di  questo  spirito  nel- l'ambito  delle  teorie  filosofiche.  Ora  può  essere  opportuno  - per  dimostrare  l'immediata  efficacia  che  tale  spirito  ebbe  sugli  stessi  studiosi  non  romani  entrati  a  contatto  con  Roma  - premettere  qualche  cenno  intorno  a  due  scrittori  partico- larmente  significativi:  Poli  bio  e  Strabone.  Il  greco  Polibio  (205-123  a.C.)  fu  invia,to  a  Roma  come  ostaggio  dalla  lega  achea  e  vi  rimase  per  oltre  sedici  anni,  nei  quali  ebbe  modo  di  assimilare  profon- damente  lo  spirito  di  quel  popolo.  Scrisse  in  greco  le  Storie  (in  quaranta  libri)  sulle  imprese  di  Roma;  opera  solitamente  considerata  come  un  grande  trattato,  oltreché  di  storia,  anche  di  geografia  descrittiva,  per  l'enorme  ricchezza  di  notizie  riferite  sugli  usi e  costumi  dei  vari  popoli  presi  in  esame.  Orbene  il  modo  con  cui  è  concepita  quest'opera  è  una  prova  evidente  che  Polibio  intende  la  ricerca  scien- tifica  in  maniera  .completamente  diversa  dai  suoi  connazionali.  Proprio  nulla,  infatti,  lo  interessano  le  teorie  generali  e  tanto  meno  le  ipotesi  sulle  zone  lontane  e  mal  note  del  mondo;  esse  non  meritano  la  sua  attenzione,  perché  prive  di  im- mediata  utilità.  Secondo  lui,  ogni  indagine  seria  deve  essere  giustificata  da  un  ben  preciso  scopo  pratico.  Il  compito,  per  esempio,  che  egli  si  propone  è  quello  di  istruire  i  romani  intorno  al  mondo  mediterraneo  in  cui  hanno  svolto  e  svolge- ranno  le  loro  conquiste:  tutto  ciò,  dunque,  che  fuoriesce  da  questo  programma  non  può  che  apparirgli  privo  di  senso  e  dannoso  allo  sviluppo  della  ricerca.  Da  un  punto  di  vista  metodologico  merita  di  venire  notato  che  la  storiogra- fia  di  Poli  bio  presenta  alcune  affinità  con  quella  di  Tucidide:  la  ricerca  tenace  della  certezza,  l'analogia- da  lui  resa  esplicita- con  il  metodo  della  medicina,  la  rinuncia  ad  ogni  abbellimento  retorico.  Ancora  più  profonde  sono  tuttavia  le  differenze  che  lo  separano  dal  grande  ateniese.  Polibio  credeva  nella  diretta  fruibilità  della  storiografia  come  magistra  vitae,  nella  autonoma  significatività  delle  informazioni  riferite  quanto  più  possibilfedelmente,  e  si  ricollegava  in  tal  modo  alle  teorie  sia  di  Isocrate  sia  di  Teofrasto.  Gli  era  ignoto  lo  sforzo  di  com- penetrazione  tra  ragione  e fatti  che  Tucidide  aveva  cercato  di  attuate  nel  suo  me- todo  storiografico,  convinto  com'era  che  solo  da  esso  potesse  scaturire  quella  essenziale  verità  della  storia  la  cui  «utilità»  era  certamente  meno  immediata  ma  più  fondata  e  più  generalmente  feconda.  In  tal  senso  la  storiografia  di  Polibio  sta  a  quella  tucididea  esattamente  come  la  filosofia  ellenistica  sta  a  quella  del  v  e  del  rv  secolo.  Strabone  visse  un  secolo  e  mezzo  dopo  (63  a.C.-25  d.C.).  Nato  ad  Amasea  nel  Ponto  da  una  famiglia  di  sangue  misto  greco-asiatico,  fu  anch'egli  fortemente  influenzato  dallo  spirito  romano  (come  ce  lo  dimostra  la  decisione  con  cui  so- stenne  il  dominio  politico  di  Roma).  Compì  lunghi  viaggi  e  scrisse  una  Geografia  (Geograftkd),  ampio  trattato  in  diciassette  libri.  Ebbene,  questo  trattato  dimostra,  non  meno  della  storia  di  Polibio,  il  nuovo  tipo  di  interessi  che  anima  il  suo  autore:  brevissima  è  la  parte  dedicata  all'aspetto  matematico  della  geografia;  ricchissimeLa  filosofia  postaristotelica  e  diffuse  sono  invece  le  notizie  sugli  usi,  le  istituzioni,  la  storia  dei  paesi  via via  presi  in  esame.  La  differenza  fra  l'indagine  di  Strabone  e quella  compiuta  dai  geo- grafi  alessandrini  di  qualche  secolo  prima  non  potrebbe  essere  maggiore.  L'og- getto  di  studio  ha  conservato  lo  stesso  nome,  ma  il  modo  con  cui  è  condotta  la  ricerca  dimostra  che  il  significato  stesso  della  scienza  è  completamente  mutato.  L  'ECLETTISMO.  CICERONE  L'espressione  più  caratteristica  dell'interesse  prevalentemente  pratico  dei  romani,  nell'ambito  delle  ricerche  filosofiche,  è  l'eclettismo.  Non  che  esso  sia  nato  per  opera  di  pensatori  latini,  né  che  tutti  i  filosofi  latini  siano  direttamente  o  indirettamente  legati  ad  esso;  ma  nell'ambiente  culturale  latino  esso  trovò  le  ragioni  del  suo  successo,  e  in  Roma  il  suo  più  illustre  sostenitore,  Cicerone.  Per  trovare  un  esempio  di  filosofo  latino  che  non  abbia  compiuto  alcuna  con- cessione  all'eclettismo,  bisogna  riferirsi  al  poeta  Lucrezio  di  cui  abbiamo  parlato  nel  paragrafo  111.  Questa  particolare  posizione  di  Lucrezio  non  è,  del  resto,  che  la  conseguenza  logica  della  sua  adesione  alla  dottrina  epicurea;  già  sappiamo,  in- fatti,  che  l'epicureismo  è  stato  l  'unico  indirizzo  dell'epoca  mantenutosi  costan- temente  fedele  alla  propria  concezione  teoretica,  senza  evoluzioni  interne,  e  questa  sua  stessa  staticità  esclude  che  abbiano  potuto  sorgere  seri  tentativi  di  conciliazione  fra  esso  e  gli  indirizzi  avversari.  A  parte  Lucrezio,  però,  è  difficile  scoprire  pensatori  latini  che  non  mostrino  qualche  venatura  di  eclettismo.  Espli- citamente  eclettico  è  l'amico  di  Cicerone,  Marco  Terenzio  Varrone;  atteggia- menti  senza  alcun  dubbio  eclettici  caratterizzeranno  i  grandi  stoici  del  periodo  imperiale  romano;  un  po'  di  eclettismo,  mescolato  con  molto  scetticismo,  potrà  venire  ritrovato  quasi  dovunque  tra  gli  uomini  più  rappresentativi  e gli  spiriti  più  raffinati  della  cultura  romana,  come  per  esempio  in  Orazio,  che  riuscirà  ad  esten- dere  la  propria  concezione  eclettica  fino  ad  includervi  anche  molte  dottrine  filo- sofiche  caratteristiche  degli  epicurei.  Come  si  è  accennato  nei  paragrafi  precedenti,  l'eclettismo  ebbe  le  sue  prime  affermazioni  nella  nuova  Accademia  e  nella  media  Stoa.  Esso  rappresentò  un  tentativo  di  soluzione  della  crisi  che  tali  scuole  stavano  attraversando,  e rispecchiò  una  diminuita  fiducia  - da  parte  di  ciascuna  di  esse  - nei  propri  principi  teore- tici.  Da  questo  punto  di  vista  possiamo  giustamente  sostenere  che  esso  esprima  un  rilassamento  dello  spirito  filosofico,  una  profonda  stanchezza  e  una  mancanza  di  originalità.  Esprime  anche,  però,  la  raffinata  consapevolezza  dei  pericoli  cui  va  incontro  qualsiasi  sistema  filosofico  astrattamente  coerente,  e  la  convinzione  di  poter  trovare,  su  di  un  piano  meno  rigido  che quello  dei  principi  generali,  la  via  per  una  comprensione  reciproca  e  per  un  sostanziale  accordo  circa  i  problemi  più  interessanti  per  l  'uomo  concreto.  Cicerone  (106-43  a.C.)  ascoltò  con  molto  interesse  le  lezioni  di  maestri  che, come  Filone  nell'Accademia  e  Posidonio  nella  Stoa,  sostenevano  la  necessità  di  un'evoluzione  filosofica  in  senso  eclettico,  e  si  lasciò  da  essi  facilmente  convincere  che  qualcosa  di  buono  si  trova  di  fatto  in  tutte  le  dottrine,  specialmente  nei  loro  precetti  d'ordine  pratico,  che  il  più  delle  volte  coincidono,  pur  venendo  fatti  derivare  da  pri11cipi  molto  diversi  e  in  apparenza  quasi  antitetici.  La  sua  adesione  all'eclettismo  fu  dunque  immediata  e  totale,  sembrandogli  che  esso  dovesse  co- stituire  il  frutto  più  maturo  dell'ormai  plurisecolare  travaglio  filosofico.  Proprio  questo  atteggiamento  largamente  comprensivo  gli  consentì  di  stu- diare  con  sincero  interesse  tutta  la  storia  del  pensiero  greco,  sforzandosi  con  impegno  e  intelligenza  di  renderlo  accessibile  ai  romani.  Il  suo  perfetto  possesso  della  lingua  latina  gli  permise,  in  particolare,  di  trovare  espressioni  eleganti  e  so- brie  per  le  più  difficili  formulazioni  tecniche  dei  greci.  «  La  filosofia,  »  scrive  nelle  Tusculanae  disputationes,  «  è  rimasta  fino  ad  oggi  negletta,  e  su  di  essa  la letteratura  latina  non  ha  portato  nessuna  luce;  ma  io  debbo  illuminarla  ed  esaltarla,  così  che,  se  io  sono  stato  di  qualche  utilità  ai  miei  concit- tadini  nelle  faccende  attive  della  vita,  potrò  esserlo  anche,  se  mi  riuscirà,  stan- domene  ozioso.  » 1  Se  Cicerone  ha  il  torto  di  dimenticare,  in  queste  parole,  il con- tributo  dato  alla  filosofia  latina  dal  suo  contemporaneo  Lucrezio, 2  egli  riesce  tut- tavia  ad  esprimerci  molto  bene  l'animo  con  cui  si  accinge  a  scrivere  di  filosofia.  È  un  dovere  che  egli  compie  per  colmare  una  gravissima  lacuna  della  letteratura  latina.  Egli  sente  che,  se  anche  non  introdurrà  nessuna  idea  originale,  il  semplice  riuscire  a  mettere  in  circolazione,  nell'ambito  della  cultura  latina,  un  patrimonio  così  serio  come  la  filosofia  ellenica,  costituirà  per  lui  un  merito  di  cui  i  concitta- dini  dovranno  essergli  grati.  E  di  fatto  gliene  saranno  grati  non  solo  i  concitta- dini,  ma  anche  i  posteri,  poiché  i  suoi  scritti  rappresenteranno  per  molti  secoli  una  delle  principali  fonti  per  la  conoscenza  del  pensiero  filosofico  antico.  Tra  le  principali  opere  filosofiche  di  Cicerone  ricordiamo,  oltre  le  Tusculanae  (Le  Tu- sculane),  il  De  legibus  (Delle  leggi),  il  De  finibus  bonorttm  et  1nalorum  (l  limiti  del  bene  e  del  male),  il  De  natura  deorum  (La  natura  degli  dei),  il  De  ojficiis  (Sui  doveri),  il  celebre  Somnium  Scipionis  (Sogno  di  Scipione),  che  è  un  frammento  del  dialogo  De  re  publica  (andato  per  gran  parte  smarrito),  l'  Hortensius  (un'esortazione  alla  filosofia,  andata  perduta,  che  influenzò  profondamente  Agostino,  e  che  era  un'imi- tazione  del  Protrettico  di  Aristotele),  ecc.  Non  è  vero,  però,  che  Cicerone  si  limiti  a  presentare  le  teorie  altrui  senza  apportarvi  nulla  di  suo;  in  realtà  egli  le  ripensa  dal  suo  particolare  punto  di  vista,  le  espone  in  modo  tale  da  poterle  utilizzare  a  favore  della  concezione  eclettica.  Ora  utilizza  Platone,  ora  Aristotele,  ora  invece  gli  scettici  o  gli  stoici;  e  conclude  I  Qui  si  accenna  al  fatto  che  Cicerone  si  accinse  a  scrivere  opere  filosofiche  solo  quando  venne  escluso  dalla  vita  politica  per  l'affermarsi  del  primo  triumvirato  e,  in  seguito,  per  il  trionfo  di  Cesare.  2  Proprio  Cicerone  aveva  pubblicato,  po- stumo,  il  poema  di  Lucrezio,  e  tale  dimenticanza  è  dovuta  probabilmente  alla  posizione  dichiara- tamente  antiepicurea  da  lui  assunta  in  sede  fi- losofica. con  un  generico  probabilismo,  che  ammette  proprio  come  unico  criterio  di  ve- rità  il  consenso  dei  filosofi  (prova  evidente  - secondo  Cicerone  - che  esistono  delle  idee  innate,  a  tutti  comuni).  In  queste  molteplici  discussioni,  non  prive  talvolta  di  incoerenze  l'una  ri- spetto  all'altra,  nel  difficile  e complesso  lavorio  di  selezione  e coordinamento  delle  tesi,  una  preoccupazione  appare  costantemente  presente  in  Cicerone:  quella  di  rendere  ogni  uomo  consapevole  dell'immenso  valore  educativo  della  filosofia.  Solo  la  filosofia,  infatti,  può  farci  cogliere  il  valore  esatto  delle  nostre  conoscenze;  solo  essa  ci  insegna  a  guardare  con  effettiva  serenità  la  morte,  mostrandoci  con  chiarezza  ove  risiedano  la  vera  felicità  e  la  vera  sventura;  solo  essa  riesce  a  farci  comprendere  che  chi  ha  giovato  alla  patria  dovrà  vivere  eternamente  libero  dalle  catene  del  carcere  corporeo.  Non  v'è  dubbio  che,  per  il  senso  pratico  dei  romani,  proprio  questa  capacità  educatrice  della  filosofia  costituiva  la  sua  più  seria  giusti- ficazione:  unica  giustificazione  veramente  sicura  e  da  tutti  accettabile Marco  Aurelio  nacque  a  Roma  nel  I  21.  Salì  al  trono  imperiale  nel  I  6  I,  alla  morte  di  Antonino  Pio  di  cui  era  figlio  adottivo;  morì  nel  I  So.  Fu  convertito  allo  stoicismo  dalla  lettura  di  Epitteto.  Scrisse,  in  greco,  una  delle  più  interessan i  opere  filosofiche  della  sua  epoca:  Colloqui  con  se  stesso  (Ta  eis  heaut6n),  ordinaria- mente  nota  col  titolo  di  Ricordi  (in  dodici  libri).  Le  note  dominanti  della  sua  filosofia- nella  quale  emergono  sempre  più  chiari  i  caratteri  dell'ultima  Stoa  - sono  un  disprezzo  ascetico  di  tutti  i  beni  esteriori  e  una  profonda  religiosità.  L'essere  divino  non  è  semplice  fato,  ma  è  soprattutto  provvidenza  universale.  Il  rapporto  dell'uomo  con  dio  è  un  rapporto  di  effettiva  parentela,  che  di  conseguenza  viene  a  legare  fra  loro  tutti  gli  uomini.  Oltre  ai  caratteri  ora  accennati,  è  tuttavia  presente  in  Marco  Aurelio  un  carattere  nuovo,  evidentemente  connesso  proprio  al  tipo  di  vita  attiva,  gravida  di  responsabilità,  che  gli  toccò  in  sorte  come  capo  dello  stato.  Non  a  caso  - egli  pensa  -l'uomo  occupa  la  propria  carica,  ma  perché  espressamente  postovi  dalla  provvidenza  divina;  l'uomo  ha  quindi  il  dovere  di  agire  con  tutta  la  necessaria  energia,  di  non  sottrarsi  ai  compiti  -- per  quanto  difficili  e  ingrati  -- affidatigli  da  tale  provvidenza.  È  la  forma  mentis  del  cittadino  romano  che  si  inserisce  in  quella  del  filosofo  stoico.  Né  fra  le  due  sorge  alcun  contrasto;  anzi,  esse  riescono  a  fondersi  in  una  mirabile  armonia,  permeate  entrambe  da  un  senso  di  vivissima  religiosità,  che  non  di  rado  sembra  dare  alle  massime  dell'imperatore  un  tono  molto  simile  a  quello  degli  insegnamenti  cristiani. Neanche  i  romani,  malgrado  il  loro  indiscusso  spirito  pratico,  seppero  svi- luppare  a  fondo  la  preziosa  eredità  degli  ingegneri  alessandrini.  Essi  rivelarono  senza  dubbio  grandi  capacità  nella  costruzione  di  strade,  di  acquedotti,  di  fastosi  edifici,  ma  non  riuscirono  a  comprendere  l 'interesse  della  vera  e  propria  ingegne- ria  meccanica,  né  avvertirono  l'importanza  pratica  di  ricerche  direttamente  o  indirettamente  rivolte  alla  scoperta  di  nuove  fonti  di  energia.  Il  fatto  appare  tanto  più  singolare,  quando  si  pensi  che  proprio  al  I  se- colo  a.C.  risale  la  massima  invenzione  tecnologica  dell'antichità:  il mulino  idrau- lico  (invenzione  non  dovuta  a  qualche  scienziato  di  particolare  rinomanza,  ma  sorta  probabilmente  - come  scrive  U.  Forti  -nell'orbita  della  civiltà  di  Ales- sandria).  È  un  fatto  che  non  sembra  spiegabile  se  non  facendo  appello,  come  già  spiegammo  nell'ultimo  paragrafo  del  capitolo  XIV,  alla  difficoltà  di  comprendere,  in  quell'epoca,  i  vantaggi  che  avrebbero  potuto  provenire  dallo  sfruttamento  sistematico  delle  varie  forme  di  energia  naturale,  mentre  esse  apparivano  :lssai  più  costose  dell'energia  umana  (schiavi)  e  animale.  Per  quanto  riguarda  lo  scarso  interesse  dimostrato  dai  romani  verso  gli  arti- ficiosi  congegni  esposti  negli  Pneumatikd  di  Ero  ne,  va  inoltre  osservato  che  la  via  da  percorrere,  onde  giungere  ad  una  loro  utilizzazione  su  vasta  scala,  non  poteva  non  apparire  troppo  lunga  e  difficile  a  uomini  - come  appunto  gli  ingegneri  ro- mani  --direttamente  impegnati  nelle  realizzazioni  pratiche  immediate.  L'abban- dono  di  tale  atteggiamento  richiederà  una  profonda  trasformazione  sociale  e  cul- turale,  che  avrà  inizio  solo  parecchi  secoli  più  tardi.  Fra  gli  autori  latini  che  abbiano  scritto  opere di  ingegneria  di  qualche  pregio,  il  più  importante  è  senza  dubbio  Vitruvio,  ingegnere  militare  del  tempo  di  Giu- lio  Cesare  e  di  Augusto;  di  lui  non  si  conoscono  con  precisione  né  la  data  di  na- scita  né  quella  di  morte.  La  sua  opera  principale,  De  architectura,  reca  evidentiUltimi  sviluppi  della  matematica  e  dell'astronomia  nell'antichità  classica  le  tracce  dell'influenza  degli  ingegneri  alessandrini.  Vitruvio  ricorda  infatti  espli- citamente  il  nome  di  Ctesibio,  riferendoci  parecchie  sue  invenzioni  (la  pompa  cui  abbiamo  fatto  cenno  nel  paragrafo  m,  una  balestra  ad  aria  compressa,  l'argano  idraulico,  ecc.).  Il  voluminoso  trattato  del  nostro  autore  si  articola  in  dieci  libri,  che  esaminano  una  gamma  assai  vasta  di  argomenti:  dalla  preparazione  culturale  richiesta  all'architetto  ai  problemi  specifici  concernenti  la  costruzione  di  edifici  pubblici  e  privati,  all'idraulica,  alle  macchine  da  guerra.  È  inoltre  ricco  di  richia- mi  storici,  di  indicazioni  giuridiche,  di  massime  morali,  e costituisce  una  preziosa  fonte  per  studiare  la  cultura  tecnologica,  e  in  generale  i  costumi  dell'epoca.  In  essa  sono  tuttavia  riscontrabili  alcuni  non  lievi  difetti.  Pur  sforzandosi  di  risultare  tecnicamente  chiaro  e  cercando  - ove  necessario  -- di  introdurre  nuove  espressioni  e  nuovi  vocaboli  adatti  al  linguaggio  tecnico,  il  nostro  autore  non  può  nascondere  talune  pretese  stilistiche,  che  spesso  rendono  oscura  la  di- zione,  ove  accanto  a volgarismi  e plebeismi  si  trovano  espressioni  ampollose  e  ri- cercate.  Inoltre  Vitruvio  non  è  padrone  sicuro  della  materia  di  cui  tratta,  onde  non  solo  non  riesce  a  portare  contributi  nuovi,  ma  spesso  suscita  anzi  l'im- pressione  di  non  comprendere  bene,  egli  stesso,  le  ricerche  che  si  sforza  di  esporre.  Gli  è  che  la  vera  tecnica  non  si  identifica  con  la  pura  e  semplice  pratica;  essa  è scienza  applicata,  e,  come  tale,  richiede  dai  suoi  cultori  una  profonda  prepa- razione  scientifica.  Ma  questa  non  poteva  essere  presente  in  chi  aveva  manifesta- mente  studiato  troppo  poca  matematica.  Più  che  di  ingegneria  la  cultura  romana  si  era  occupata  di  agricoltura,  su  cui  ci  sono  giunti  i  trattati  di  Marco  Porcio  Catone  (234-149  a. C.),  di  Varrone  e  di  Columella  (I  secolo  d.C.).  Fu  proprio  una  disciplina  tecnico-scientifica  parallela  all'agricoltura  ad  avere  in  Roma  gli  sviluppi  più  originali:  l  'agrimensura,  detta  gromatica  dalla  groma,  lo  strumento  che  gli  agrimensori  romani  usavano  nella  mi- surazione  dei  terreni.  Un  famoso  codice  latino,  il  codice  Arceriano  del  VI  secolo,  ci  ha  conservato  una  parte  delle  opere  degli  agrimensori  da  cui  si  possono  ricavare  i vari  interessi  dei  grornatici  ed  i  loro  importanti  compiti:  ad  essi era  affidato  il  com- pito  di  costruire  gli  accampamenti,  fondare  le  città  e le colonie,  misurare  le altezze  dei  monti  e le  larghezze  dei  fiumi  nelle  campagne  militari,  far  applicare  le  leggi  agrarie  e  stabilire  le  confische  ed  i  tributi.  Apposite  scuole  erano  istituite  nell'im- pero  romano  per  istruire questi  funzionari  imperiali  nella  geometria,  intesa  nel  suo  aspetto  pratico,  nel  diritto,  nell'arte  militare  e  nei  rituali  religiosi  che  accompa- gnavano  le  loro  opere.  Fra  i  maggiori  autori  gromatici  possiamo ricordare  Balbo,  famoso  per  aver  condotto  a  termine  fra  il  34  e  il  20  a.C.  l'opera  di  misurazione  di  tutto  l'impero  che  era  stata  iniziata  con  Cesare;  Igino  (fine  del  I  secolo-inizio  delu  secolo  d.C.);  e infine  Sesto  Giulio  Frontino  (40-103),  una  volta  console  sotto  Vespasiano  e  due  volte  sotto  Traiano,  autore  anche  di  un'opera  di  arte  militare  sugli  Stratagemmi  (Stratagemata)  e  di  un'opera  su  Gli  acquedotti  di  Roma  (De  aquis  urbis  Romae. Grice: “Geymonat, for some reason, is obsessed with science as we at Oxford are not. Indeed, he wrote a LOOONG history of “THOUGHT”, which is a word we don’t use at Oxford. The French and Latin types in general use it – pensée – the idea is something like science, mathematics, philosophy, you name it. So, his remarks about how the ignorant Romans started philosophy is interesting. According to Geymonat it was a generational thing. Catone did not want to do anything with it – for reasons of ‘state’, Geymonat says, i. e. philosophy would be subversive, as it indeed is. The odd thing is that it attracted the knock knock it’s the youngest generation knock knock knocking at the door. The Senate forbade philosophers in 161 and five years later Carneade and two more arrived and that changed things. Geymonat makes two comments. For one, the best youth – I figli delle migliore famiglie romane – would have something like the Americans call a Rhosdes – they would go to Athens as a ‘finishing school’. But what was interesting is that Scipione Emiliano started a club in his palazzo – more like a villa – where Polibio Terenzio, Cirilio, Tiburone, Elio, Celio attended --. The third terribly interesting comment Geymonat makes is twofold. For one, those Greek slaves who called themselves philosophers (Strabone and Polibio, are the only two he quotes) did write, respectively, history and geography, but ‘tuned to the Roman ear’. Geymonat speaks of ‘il temperament romano’ which he characterizes in a fourtfold way: concretto, interested in the conclusions – conclusive, rather than the premises – prattico --. So the history by Polibio is only one that may interest a Roman, a far cry from Thucydides philosophical prose! And the geography of Strabone has no information on calculus and measures – only bits about institutions of people the Romans might conquer – nothing about foreign distant lands! The second most notable remark is then that Scipione Emiliano paid lip service to the Hellens – Catone’s ‘resistenza’ won in the end – as is seen by the mere fact that Latin was retained as the lingua romana – in romano – unlike the Empire of the East where Greek was adopted – So with the fall of the Eastern Empire, the West became bilingual. The rough tongue of the Latins survived this fashion for things Hellenic! – Geymonat spends enough time on what Cuoco calls ‘filosofia italica antica’ – it starts with Crotone and Metoponto – where Pythagoras settled. With his theorem he underwent a crisis, and philospophy traveled to VELIA with Parmenide and his lover, Zenone, and Melisso – reductio ad absurdum, and tertium exclusum. Then there was Girgenti, and that crazy one, Empedocle, who however wrote some witty things about the four elements (in verse! Like Parmenide). Then there’s Filolao, educated at Crotone under Pyhathogras but himself from Taranto, and himself teacher of Archita of Taranto. Then there is the sophistical movement started with Gorgia of Lentini – and Siracusa – So, ‘philosophy’, as we know it, had an Italic origin, and is molded in the language of the conquering Romans! Ludovico Geymonat. Geymonat. Keywords: ragione -- temperamento romano – concretto – pratico – Catone – il trionfo di Catone con la lingua latina – la gioventu romana entusiasta con Carneade – I Scipioni ellenisante – la gioventu delle megliore familie – grand tour a Grecia! -- il teorema di Picard, il teorema di Caratheodory per le funzione armoniche. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Geymonat” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51690486990/in/photolist-2mRwP4i-2mRgKq7-2mQEv8h-2mPPzb6-2mPEDc8-2mPyn68-2mPukhq-2mPiqeP-2mPmmR4-2mPpwbZ-2mPphVq-2mKHfUW-2mKGTYe-2mKFeJo

 

Grice e Ghersi – filosofia italiana – Luigi Speranza (Celle Ligure). philosopher -- curator of The Swimming-Pool Library at Villa Grice, Liguria, Italia. Ghersi has an interest in Grice’s philosophybut finds Strawson pretty enjoyable, too!Theere’s something about the Oxonian nonsensical philosophical humour that Ghersi appreciates like none other. Ghersi often makes candid fun of some of Grice’s inventions, such as that of the conversational “common-ground status”!Ghersi enjoys the full-time paradoxes of the bald king of France. Ghersi’s favourite humorist is J. K. Jerome, but also enjoys Wodehouse.And finds Dodgson just fascinatingThe Swimming-Pool Library is mainly organised along Ghersis’s personal tastes, as a personal library should!Ghersi is not particularly appreciative of poetry, but will enjoy the ballad set to piano! Ghersi’s favourite genre is drama, since “it is so clear in implicature.” Grice is a frequent contributor to cultural circles and societies and a host like none otherVilla SperanzaSperanza appreciates Ghersi’s talent to infuse enthusiasm in all type of endeavours --. Keywords: love, soul, life, inghilterra. Refs.: Ghersi e GriceGrice e Watson --. Refs. BANC MSS 90/135c. Vide Speranza.Vide SperanzaVide SperanzaVide Speranza. – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Ghezzi – i tordi ubriachi – filosofia italiana – dirtto artificiale -- Luigi Speranza – (Milano). Filosofo. Grice: “I love Ghezzi: he has explored ‘turdus,’ as in ‘sturdy,’ ‘drunk as a thrush’ – but also a count who was condemned by the church; he has explored the history of masonry – in Italy it started in Calabria – from a semiotic point of view, ‘il segno del compassso,’ – and he has explored on Ayax’s ‘nichilismo razioale’ – among many other topics – also an ‘epistemology of willing’ – epissttemologia della volonta --.” Grice: “Typically of Italian philosophers, he has explored Italian  history, ‘ceneri del diritto,’ and a confrontation between people and ‘stato’. Si laurea a Milano sotto Bobbio con “La Filosofia del Diritto.” Gran Maestro Onorario del Grande Oriente d'Italia.  Marginalità e Società,  ell'Università degli Studi dell'Insubria (sede di Como). Sociologia della Devianza. Studia il positivism giuridico dal punto di vista del concetto di diritto. Affrontato il tema del pluralismo dei valori e degli ordinamenti giuridici, del federalismo, criminalità, devianza, marginalità e pluralismo nell'ambito della Sociologia del Diritto Penale, sulla giustizia e sulla legittimità degli ordinamenti giuridici, con particolare riferimento alla figura del "deviante giuridico", introducendo i concetti che porteranno alle teorie della "divergenza” sociale, marginalità, Si rileva essersi principalmente dedicato al tema del nichilismo giuridico, proponendo una visione nichilista, definite come “l’assenza del valore” -- del tutto neutra circa la potenzialità “regolatrice” e la potenzialita ordinatrice di una norma. L’approfondimento del nihilismo assiologico o valuativo risulta essersi svolto attraverso il confronto con filosofi contemporanei di questo ambito, tra cui Ferrari, Severino, e Giorello. Scetticismo. La Rivoluzione del Diritto come Estetica, in estensione del suo libro Il Diritto come Estetica. Nel volume è stata inclusa, come Appendice, una Raccolta di diversi saggi di filosofi contenenti riflessioni ed approfondimenti interamente riferiti a Ghezzi. Altre opera: “Socialismo e sociologia giuridica: "Centro lombardo studi socialisti, Milano, “Devianza tra fatto e valore nella sociologia del diritto” (Giuffrè, Milano); “Federalismo,  I e II, Patera Palermo Editore,  Diversità e pluralismo. La sociologia del diritto penale nello studio di devianza e criminalità, Raffaello Cortina, Milano, “Il segno del compasso. La massoneria e i suoi persecutori attraverso simboli, idee, fatti e processi, Mimesis, Milano. “Le Ceneri del Diritto. La dissoluzione dello Stato democratico in Italia, Mimesis, Milano. Le lacrime di Hiram. Autobiografia incompleta di un Libero Muratore, Edizioni della Confraternita Sufi Jerrahi Halveti in Italia, Milano “La Scienza del dubbio. Volti e temi di sociologia del diritto, Mimesis, Milano  Federalismo laico e democratico, Mimesis, Milano; “I tordi ubriachi” Un viaggio iniziatico, Mimesis, Milano,  Sociologia giuridica del lavoro, Mimesis, Milano, Il Diritto come Estetica. Epistemologia della conoscenza e della volontà: il nichilismo/nihilismo del dubbio, Mimesis, Milano Della vita e della morte. Vulnerant omnes ultima necat, Mimesis, Milano; “Nichilismo razionale e mistico. Indicazioni per il nuovo mondo, Mimesis, Milano); “Stranieri, ospiti, alieni, alienati e pluralismo culturale” (Mimesis, Milano); “Nichilismo come valore senza valori, Mimesis, Milano); “Abusi di stato: Risarcimento del danno al cittadino, Mimesis, Milano); In ricordo di Riccardo Bauer, di Ghezzi e Arduino, C.R.E.A., Milano; “Educare alla democrazia e alla pace. Bauer. Scritti scelti, L.I.D.U., edizioni Raccolto,  Alle origini dell'Umanitaria, Ghezzi e Canavero Raccolta Edizioni-Umanitaria, L'immagine pubblica della Magistratura italiana, di Ghezzi Giuffrè, Milano Curatele. “Etica contro politica”; Morris L. Ghezzi, edizione Iesi, Ferrari, Ghezzi,‘’Diritto, cultura e libertà. Atti del convegno in memoria di Renato Treves’’ (Milan), Giuffrè, Milano, Studi preliminari di sociologia del dirittoTheodor Geiger, Morris L. Ghezzi, Nicoletta Bersier Ladavac e Michele Marzulli, traduzioni di Leonie Schröder, Mimesis, Milano); “Criminologia” (Mimesis, Milan). Pubblica amministrazione. Diritto penale. Criminalità organizzata, Osservatorio permanente sulla criminalità organizzata, Carola Parano, Giuffrè Editore, Stefano Carluccio, In ricordo di Morris Ghezzi, anima della Società Umanitaria, su CriticaSociale.net. 1 Dei delitti e delle pene. Rivista dell'Agenzia del territorio, L'Agenzia, rif. Archivio Università degli Studi dell’Insubria. Cura “Studi preliminari di sociologia del diritto” (Mimesis, Milano); “Socialismo e sociologia giuridica: introduzione Arduino, Centro lombardo studi socialisti); La scienza del dubbio. Volti e temi di sociologia del diritto, Legge di Hume e tesi giusnaturalistica: un’antitesi teorica nel pensiero di Norberto Bobbio, su dialettica e filosofia.  Etica contro politica, di Elias Diaz, Ghezzi, edizione Iesi,  L' immigrato extracomunitario non marginale. Una ricerca empirica sul territorio Milanese, in ‘’Marginalità e Società’ Berzano, Renzo Gallini, Giovani E “Violenza: Comportamenti Collettivi in Area Metropolitana, Ananke, con richiamo ad art. Di Ghezzi in “Marginalità e Società, II”.  Le ceneri del diritto. La dissoluzione dello Stato democratico in Italia, Mimesis, Milano, al Ghezzi fa riferimento Rosario Minna in Crimini associati, norme penali e politica del diritto: aspetti storici, Giuffrè Editore, Morris L. Ghezzi, Federalismo Laico e Democratico, Mimesis, Milano Arturo Colombo, Franco Della Peruta “et al.”, in Carlo Cattaneo: i temi e le sfide, Ed. Casagrande, Milano, Con riferimento al Federalismo del Ghezzi: “mentre ci sarà chicome Ghezzi pur con tagli molto diversi, collegherà la prospettiva degli Stati Uniti d'Europa con l’altra formula cattaneana degli Stati Uniti d’Italia.»  Edmondo Bruti Liberati in "PostfazionePotere e Giustizia", richiama Morris L. Ghezzi 3 in: Governo dei giudici. La Magistratura tra diritto e politica, E. Bruti Liberati et al., Ed. Feltrinelli, Berzano, Gallini, cita di Ghezzi “Alle origini della labelling theory e del concetto di devianza”, da Marginalità e società, Ghezzi e Simonetta Balboni, Mimesis, Milano, Cirus Rinaldi fa suo il concetto di Devianza di Ghezzi. “come sostiene Ghezzi essa svolge un ruolo euristico [empirico] non solo nella spiegazione di fenomeni di stigmatizzazione di intere categorie, ma anche penetrando nella marginalizzazione, che agisce all’interno delle categorie” in Devianze e crimine. Antologia ragionata di teorie classiche e contemporanee, Cirus Rinaldi e Pietro Saitta, PM edizioni, Scrive M. Marzulli, BRÜCKE als sein Ordinamento sociale come ponte tra tradizione e futuro nella descrizione del diritto come estetica, in Ermeneutica del "Ponte". Materiali per una ricerca, Silvio Bolognini, Mimesis, Ferrari, in Ciò che resta. Le ultime parole diGhezzi, in Sociologia del Diritto, Fascicolo gennaio, ed. F. Angeli,   Emanuele Severino, nel capitolo 4 di Dispute sulla verità e la morte (Rizzoli) prende a riferimento un libro di Ghezzi (Il Diritto come Estetica) e s’intrattiene lungamente sul pensiero dell’autore.  Giulio Giorello si intrattiene sul testo del Ghezzi (“Il Diritto come Estetica”), lo commenta, ne riporta il pensiero, secondo cui « "la morale non è altro che una forma dell’estetica"» e ricorda la figura "nihilista" dell'autore. Da "Introduzione" di Giorello, Piacere, Diritto e Burocrazia. In ricordo di Morris Ghezzi, inGhezzi. Ciò che resta. La rivoluzione del diritto come estetica, Furio S. Ghezzi e Simonetta Balboni, Mimesis, Milano, Il Diritto come Estetica. Epistemologia della conoscenza e della volontà: il nichilismo/nihilismo del dubbio, Ghezzi. Ciò che resta. La rivoluzione del diritto come estetica (Domenico Mazzullo, ‘’Prefazione’’, “Appendice“: saggi di: Isabella Merzagora, Riflessioni di una criminologa prestata alla filosofia del diritto, Claudia Roxana Dorado, El devenir del derecho: reflexiones acerca de las concepciones jurídicas de Ghezzi,  Il futuro del diritto: riflessioni sulle concezioni giuridiche di Ghezzi,  Metodo di ricerca sul rischio sociale,  Marco A. Quiroz Vitale,  Esistenzialismo e Nihilismo come confini aperti del Giurispositivismo; Enrico Damiani di Vergata Franzetti, Il Diritto come Estetica,  Emanuele Severino, Dispute sulla verità e la morte, Rizzoli, Ghezzi. Ciò che resta. La rivoluzione del diritto come estetica, Simonetta Balboni e Furio S. Ghezzi, Mimesis, Milano, “Prefazione” di Domenico Mazzullo, “Introduzione” di Giulio Giorello, In “Appendice” saggi di: Isabella Merzagora, Claudia Roxana Dorado, Marco A. Quiroz Vitale, Damiani di Vergata Franzetti. Michele Marzulli, "BRÜCKE als sein” Ordinamento sociale come ponte tra tradizione e futuro nella descrizione del diritto come estetica." in Ermeneutica del "Ponte". Materiali per una ricerca, Silvio Bolognini, Mimesis,  Vincenzo Ferrari, Ciò che resta. Le ultime parole diGhezzi, in Sociologia del Diritto, Fascicolo, ed. F. Angeli, Cirus Rinaldi e Pietro Saitta (a cura) in Devianze e crimine, Antologia ragionata di teorie classiche e contemporanee, a cura di, PM edizioni,,Rosario Minna, Crimini associati, norme penali e politica del diritto: aspetti storici, Giuffrè Editore,  Sociologia del diritto Filosofia del diritto Criminologia.  Le doverositàstatutarie ritualirischianoc, on il passaredel tempo,di perderela lorodimensione rilevanzaoriginariap, er trasformarsi in meri adempimentrioutinari,prividi quelladimensionecreativa, c o s t r u t t i v a p, r o p o s i t i v a c, h e n e a v e v a m o t i v a t o l a n a s c i t a . D u n q u e , a n c h e p e r q u a n t o r i g u a r d a l a n o s t r a r e l a z i o n em o r a l es i r i s c h i ad i f a r s c i v o l a r el e n t a m e n t en e l l ' o b l i ol e i s t a n z es t o r i c h e c, h e n e i a c c o m a n d a r o n o I'introduzionep,eraffrontarlacomeunaincombenzan,eppuremoltopiacevolee, comunqueretoricamente orientata riempiresemplicsi paziscenograficei nonad esserestrumentodi autoriflessioninedividuale di riflessionecollettivaper la fratellanzatutta sul passato,nonchépotentestrumentodi stimolocreativoper affrontarecon consapevolezzale realtàfuture.Purtroppopiù che un rischiotale situazionesi e negliuliimi t e m p i m a n i f e s t a t ac o m e a v v e n i m e n t oC. o n s e g u e n t e m e n tpea r e n e c e s s a r i op, r i m a d i e n t r a r ed i r e t t a m e n t e nellasostanzadellequestionsiullequalirifletterer,icordarebrevementeilsignificattoradizionaleprofondo dellarelazionemoralepropriadellaliberamuratoriadelGrandeOriented'ltalia. P e r c o m p r e n d e r et a l e s i g n i f i c a t oè n e c e s s a r i oc o n o s c e r ef u n z i o n ie c o m p e t e n z ed i c h i e p r e p o s t oa l l a sua stesura;ossia del GrandeOratore.Rituali,Costituzione Regolamentdi el GrandeOriented'ltalia comeognunodi noi,al calicedivinoe assoggettarmail voleredeldestino. JohannWolfgangGoethe   a s s e g n a n oa l G r a n d e O r a t o r e c o m p e t e n z ei n c a m p o i n i z i a t i c o c , u l t u r a l e e q i u r i d i c o( e x a r t . 1 1 9 R e g . ) . I n o l t r e ilGrandeOratorei,nquantoOratoree, competenteasvolgerequestestessefunzionaincheexart.36Reg., funzionei competenzeche,peraltro,salvole elencazioneisemplificativreiportateda quest'ultimaorticolo, nellasostanzadellamateriadisciplinattaendonoa coincidereP. ertantola relazionemoraleda discuterein Gran Loggiaex art. 28, letterad, Cost.,in quantoassegnatanellasua stesuraal GrandeOratoree previamentesaminata(exart.38,letteraf, Cost.)in riunionedi GiuntadelGrandeOriented'ltalian, onpuò checonsistereinunsistematicoespletamentaonaliticoepropositivdoellefunzionei dellecompetenzedel GrandeOratore.Risalendop, oi, allatradizionestoricaall'internodellaqualenacquenell'ottocentIo'istituto dellerelazionmi orali,e facilecomprenderceomeessofosse,al contempou, nasortadi biianciocriticodelle attivitasvoltee, soprattuttod,ellaloroincisivitasia all'internos,ia all'esternodell'lstituzionen,onchéun programmaed un impegnodi attivitàper il futuro. Dunque,da un lato,il GrandeOratoree tenutonella propriarelazionemoralea richiamarel'attenzionedellaComunionesuitemi,chereputamaggiormente rilevantpi er la stessa,privilegiandonaelmenouno,e, dall'altraparte,ad analizzarela moralitàinternad, ei suoicomponentid,eifratelltiuttinelloroinsiemep, erevidenziarnleacorrettezzcaomportamentalceh,enon puòessereintesacomemeracorrettezzagiuridica. C o n s e g u e n t e m e n l t ae p r e s e n t er e l a z i o n em o r a l e v e r r à i d e a l m e n t ed i v i s a i n d u e p a r t i : I ' u n a r i g u a r d a n t e l a s i t u a z i o n em o r a l e e g i u r i d i c ad e l l a n o s t r a c o m u n i o n e e, d e . c r e d o , a t u t t i e v i d e n t eq u a n t o s i a n e c e s s a r i o ungeneralerichiamoinquestadirezionem, entrel'altrarivoltaaitemitrattatei datrattareinambitoiniziatico, filosoficoc,ulturale sociale.Permegliosvolgeresoprattuttoquestasecondapartedellarelazionemorale h o r e p u t a t o o p p o r t u n on o n f a r s c a t u r i r ei c o n t e n u t t i e m a t i c di a u n m e r o l a v o r o s o l i t a r i od e l l ' u f f i c i do e l G r a n d e O r a t o r e , c o n f o r t a t oa l p i ù d a l l e r i f l e s s i o n d i e l l a G i u n t a , m a m i e p a r s o o p p o r t u n o o, l t r e c h e m a g g i o r m e n t e proficuoai fini dell'individuaziondei un correttoquadrodi attivitae di aspettativein materia,rivolgermi direttamentaeifratelldi ellaComunioneimpegnatsiulterritorionazionalenelcampodell'elaboraziondee,lla proposizionedell'organizzaziodnelleiniziativeiniziatico/culturachli,esonopropriedellanostratradizione. A talefine,ho organizzatonellasecondametàdi novembredell'annopassatoun incontroa, pertoa tuttii F r a t e l l ci h e a v e s s e r od e s i d e r i od i p a r t e c i p a r v ai , M a s s a M a r i t t i m ap r e s s o l a R : . L : . V e t u l o n i ae c o l g o q u e s t a o c c a s i o n e p e r r i n g r a z i a r ei F r a t e l l i d e l l a R : . L : . V e t u l o n i a p e r l a l o r o c a l o r o s a a c c o g l i e n z a n , o n c h é t u t t i i p a r t e c i p a n at i l l ' i n c o n t r po e r i p r e z i o s ci o n t r i b u t f i o r n i t i a l l a d i s c u s s i o n e L . ' i n c o n t r oh a v i s t o l a p a r t e c i p a z i o n e numerosadi moltiFratellci omesingolic, omerappresentandti associazionciollegateallanostralstituzione e comeoperatoriculturali.I lavorisonostatipienamentesoddisfacentpiertuttii partecipanteid,in particolarep,er me, in quantomi hannofornitonumeroseed utiliindicazionpi er la presenterelazione morale.Nelringraziaraencora,dunque,tuttii Fratellic,hehannocontribuitaollabuonariuscitadell'iniziativa, possosin da ora comunicareche intendocontinuaresu questastradaanchein futuroed auspicouna partecipazionsemprepiuestesaa questomodellodi incontro. 2. L'immaginesternadellaLiberaMuratoria L'immagineprofanadellaLiberaMuratoriaper lunghianni,soprattuttoin ltalia,e stataoffuscatadai pregiudizid, allecalunniee, talvolta,anchedallacongiuradel silenzioperpetratacontrodi noi dai nostri nemicistorici,ossiadaiseguacidiintegralismeiditotalitarismpioliticir,eligiosei filosoficdiiognicolore. T u t t a v i ap, u r t r o p p op, e r ò ,t r o p p os p e s s op e r i n s i p i e n z ai g, n o r a n z ao d i n v i d i al a c a l u n n i ae d i l d i s p r e z z os o n o natianchedal nostrostessosenoe si sonodiffusinel mondoprofanograziead un masochisticocupio dissolvoi adundiffusoatteggiamentpoassivoedautocommiserativo,peggioancora,adunaprofanità p e n e t r a t at r a l e n o s t r e c o l o n n e a d o p e r a d i f r a t e l l i ,c h e e r a n o e s o n o r i m a s t i p i e t r a g r e z z a . F o r t u n a t a m e n t e q u e s t i f e n o m e n i ,s e b b e n e a n c o r a p r e s e n t i ,s o p r a t t u t t oa d o p e r a d i f r a t e l l i i n v e t e r a t di a l u n g h i a n n o n e g l i antichivizl,comegiustamenteha piuvoltericordatoil nostroVenerabilissimGoranMaestrot,endonoa non avere più presasull'opinionepubblicaprofanagraziesoprattuttoalla decennalepoliticadi chiarezzad, i trasparenzea di impegnocivileintrapresdaall'attualGe ranMaestranza. Se cosi si puo dire,la battagliaper I'affermazionedella nostra legittimapresenzanella società democraticaitalianae per la costruzionedi una nostraimmaginepubblicapositivaè statavinta. Oggii massmediadistinguonqouasisempreconrigoretraGrandeOriented'ltaliae massonerieirregolaroi deviate,riportanofedelmentea, nchese ancoracon non sufficientefrequenza,le nostreopinionie le nostre iniziative ci riconosconouno spazionell'informazionceh, e, sebbeneda estendere,ha tuttaviagia il caratteredellacorrettezzaA.nchele istituzionpiubblichehannomutatoatteggiamentnoei nostriconfronti, riconoscendocin taluni ambiti, che storicamenteci appartengono,come interlocutoriqualificati (partecipazionaecommissionic,omitatipubblicie, tc.);i messaggdi ellemassimeAutoritàdelloStatoalle nostremanifestazionsiono ormaidiventateuna feliceconsuetudines,emprepiu frequentementepoliticied amministratorpiubblicipartecipanoalle nostreiniziativeculturalie le Comunionimassonicheestere guardanoallanostrarealtàconrispettoedammirazioneI.nsintesil,asocietàcivileciharestituitoilruoloche   storicamentien ltaliae semprestatonostro.Poiché,però,nessunaconquistanellastoriaumanae definitiva e quandoci si fermaa contemplarecompiaciuti risultatiraggiuntisi rischiadi perderequantosi è faticosamenteconquistaton, on solo è necessarioperseverarenell'impegnosino ad ora profusonella costruzionedellanostraimmaginepubblicam, a e altresìindispensabilientensificaruelteriormente in modo operareattraversoun radicamentosemprepiu profondo semprepiù rigorosotale impegnoe, soprattutto, dellanostraimmaginenell'azionesocialeeffettiva,nellanostrarealepresenzastorica,nelleazioniche quotidianamencteiascunodinoidevecompiereperesseredegnodellamaestranzacuiappartiene. Nelle attualisocietapostmodernel'immagineè molto,talvoltaquasi tutto, ma non è tutto. Oltre all'immaginseerveanchela sostanzada cui tale immaginedovrebbederivareI.n particolarep,roprionella v i a i n i z i a t i c al i b e r o r n u r a t o r i al ' i m m a g i n en o n d o v r e b b e e s s e r e i l v u o t o s i m u l a c r od i i r r e a l i s t i c h e aspirazionoi diabiliingannim, alafedeleiconadellarealtà,diciochevogliamoesseree siamocomeLiberiMuratorei comeappartenenatil GrandeOriented'ltalia.Pertantole azionidi markefrngsonosenzadubbionecessarie inunasocietacomelanostra,percorsadaapparenzesemprepiùinvasivem, aepropriolanostranatura iniziaticae tradizionalae imporcdi i essereciochedesideriamaopparireP. erraggiungerqeuestoobiettivoe indispensabilperogettared,a braviarchitetti, unafattivapresenzanellasocietàin cuiviviamo;unapresenza che sia significativa,ttraversole nostreopere.dei valoriche da semprerappresentiamoT.arepresenza avrà la prevalentecomponenteindividuale, ciascunLiberoMuratoree chiamatoa farecomesingolola propria parte di lavoro, a dare con il proprio comportamentoil buon esempio, ma dovrà essere a c c o m p a g n a t ea s o r r e t t a a n c h e d a l l a p r e s e n z a d e l l ' l s t i t u z i o n l i e b e r o m u r a t o r i a n e l s u o i n s i e m e p e r r i s u l t a r e maggiormenteincisivae persistentenel tempo:il mondomodernoe semprepiù istituzionalizzato ed anche noi dobbiamoadeguarcia questatendenzasociologicad, el resto,la tradizionealtro non è che una istituzionliazzaziondeeisingoilcomportamenti. 3. Lo statodellaComunione La situazioneinternadellanostraComunionesi presentaa, d unaanalisai pprofonditas,ostanzialmente positivae riccadi prospettiveper il futuro,anchese le fastidioseturbolenzeprofanedi talunifratelli,più a n i m a t di a s p i r i t od i r i v a l s ac h e d i c o l l a b o r a z i o n pe o, t r e b b ef a r p e n s a r ei l c o n t r a r i oF. o r t u n a t a m e n ti er i s u l t a t i c o n c r e t ci o n s e g u i tpi a r l a n op i ù e m e g l i od i q u a l s i a s pi e t t e g o l e z z o o d i q u a l s i a s si c o m p o s t od i s s e n s o . L a C o m u n i o n es i p r e s e n t ai n c o s t a n t e q u a n t i t a t i v a , crescitasia siaqualitativea segnaI'affermarsdii un decisoringiovanimendtoeisuoiaderentiQ. uest'ultimdoatonondeveesseretrascuratononsoloe nontanto percheil futuroe dei giovani.ma soprattuttoperchesonole vecchiegenerazioni che manifestanmo aggiori difficoltàad abbandonaruen modellodi LiberaMuratorianonconsononé allanostratradizioneiniziaticane allarealtàstoricaattualmentesistente. Nel generalepanoraman, on solo nazionaled, i diffusadisaffezionveersoI'impegnoassociazionistico (RotaryClub,Lions,partitipoliticic, hiese,etc.) ed, in particolarev,ersoquelloliberomuratorioconforta constatarecome il GrandeOriented'ltaliasi ponga in controtendenzae riescaa catalizzareI'interesse l'adesionedi notevolei qualificateforzgeiovaniliO. vviamentetaliadesionsi ollecitanuon rinnovatoimpegno per garantireal nostrointernoun ambientesemprepiù favorevolead una crescitainiziaticacomune.Le a d e s i o n i s c a t u r i s c o n od a a s p e t t a t i v e e l e a s p e t t a t i v e p i u d i f f u s e s o n o p r o p r i o q u e l l e c h e h a n n o c a r a t t e r i z z a t o la nostrastoria:unaelevataqualitàiniziatico-esoterica qrande unitaad una capacitadi presenzasociale. Simbolicamentpearlandop, urtroppole noteiniziatichdeel FlautoMagicodi WolfgangAmadeusMozart sonotroppofrequentementperofanatedall'irromperneellaComunionedi comportamenatinimatidallatipica profanitàdeitreCompagndi 'ArtecheucciseroHiram. La LiberaMuratorianon puo esserené la cameradi compensazionedellefrustrazionpi rofanee neppure un campo di futili contese di natura condominialel;a Libera Muratoriaè una scuola di p e r f e z i o n a m e n t ion d i v i d u a l ef i n a l i z z a t oa l b e n e d e l l ' U m a n i t a d; i q u e s t a n o s t r a c a r a t t e r i s t i c an o n p o s s i a m o m a i s m a r r i r n el a m e m o r i a a p e n a d i n e g a r e l a n o s t r a s t e s s a n a t u r a . Per questomotivoe necessariostigmatizzarenegativamentequei comportamentcihe, nascendoda uno smisuratonarcisismopersonalep, ongonoil proprioio in posizioneassolutae tentanodi imporreil proprio modo di vedere come I'unicocorretto.Tali comportamentni on solo contrastanocon il nostro basilare principioditolleranza,mancheconquellavisionerelativam, olteplice, checi e propriada sempre. Non meno deprecabilsi ono quei profani comportamenti che mercanteggiancoarriere,grembiulie r i c o n o s c i m e n t p i , r e s c i n d e n d do a c a p a c i t à c, o n v i n z i o n i i d, e e e p r o g e t t oi p e r a t i v i D. e v e r i s u l t a r eb e n c h i a r o a tuttiche le funzioniniziatiched organizzative, chesi ricopronoin Loggiae nell'lstituzionien,genere,sono serviziprestatialla comunitàe non orpelli,gerarchieo privilegdi a esibire,se non ancheda ostentare. esibizionei d ostentazionsi i configuranocome veri e propriabusi delie funzioniricoperte.Se vissute correttamentetalifunzionidebbonoessereintesecomeonerie, pertanto,nondovrebberodareaditoad alcunlitigioin sedeelettoraleo di nominaallemedesimen; onvi dovrebbei,nfattie, sserenessuninteresse personalea ricoprire qualsiasi una funzionel;'unicointeresselecitoe quellodi servirela comunità. stratificatea cumulativadellaverità,   Ulteriorniegativitcàigiungonop,oi,dallaormainvalsabitudindeiesternariensedeprofanaiconflitti i n t e r n i a l l a n o s t r a C o m u n i o n e Q. u e s t o c o m p o r t a m e n t o c , e r t a m e n t e f a v o r i t o d a i m o d e r n l m e z z i d i comunicaziondei massa(lnternet, e m a i l s, m s , e t c . ) , i n d u c e p r e n d e r ep o s i z i o n e , i l p r o p r i op e n s i e r so e n z a i n t e r p o r r pe r i m a u n a g i u s t a p a u s a d i r i f l e s s i o n es o: n o v e r a m e n t e convintodi quello ch-escrivo?Rispondaelveroquantoaffermo?E'opportunaoffermarloF?accioilbenedellanostraComunità affermandoloE?tc..L'azionedelloscriverecostaormaicosìpocafaticaed è cosìimmediatcaheprecedeil pensierostessos: i agiscesenzaunasufficientreiflessioneI .dannid'immaginpeernoitutti,pot,a causa dell'impulsivirtàrazionaldeeipochis, i diffondono profani, trai cheleggonoiunquele nostresternazioni, spessoanchesenzariuscirea capirle,ma semprecomprendendcohe siamocoinvoltin scontri completamenpterofania,nchepeggiori dlquellpi roprdi ellanormaleprofanità. Particolarmenrtieprovevolaeppare,poi,I'usoormaidiffusodi giuridicizzariecontenziosi . -giuridica, interni, abbandonandlaonoslratradizionme oralei,niziaticea ritualep, iùche e di inasprirei tonidegli scontrbi enoltrequantodovrebbesserelecitotraFratelli nell'lniziazionSé.emprepiùspessoI,nottret,ali conflittinon si fermanoall'internodella nostragiustiziamassonicam, a fuoriesconop,er'approoare direttamenatei TribunadliellaRepubbliclatalianaD. ellaillegittimiatànchegiuridicadi talicomportamenstii diràinseguitop,erorabastisottolineariledegradomoralede-lltaradizionme-uratoria, lcomportamendtei scritti sonodecisamentreiprovevoli comeesempioluminosoI.nfattic, onestrema algradodiApprendistLaiberoMuratorreicordalrecipiendario: ll.secondo[dovere]è di praticarela virtù,di soccorrereivostri Fratellid, i prevenirele loro necessità, d i a l l e v i a r e l e l o r o d i s g r a z i e e d i a s s i s t e r l ci o n i v o s t r i c o n s i g l i e c o l v o s t r o a f f e t t o . e u e s t e v i r t ù , c h e nelmondoprofanosonoconsideratequalitàrare,sonotra ioi soltantoil compimentodi un dovere gradito. ll terzodovereè quellodi conformarvai lteleggidell'Ordinedei LiberiMuratorie ai Regolamentdii questaLoggia[...]. LanostraComunionenon.dovrebberappresentaruenospaccatodellanostrasocietà,maraccogere soloilmeglioc,heinessagiàvive,periniziareunpercorsodisemprecrescentpeerfezionamento. ll Libero Muratorenon può rappresentareil cittadinomedio,ma deve aspiraread essere l'éllfe della società. Fortunatamenltae maggioranzdaella nostracomunioneè compostada Fratellimeravigliosi, che si distinguonoperprofonditàiniziaticae generositàcivile.Pochepiete gîezzenonpossonorovinarequantoi piùhannolevigato. 4.Alcuntiemidiriflessione La giornatadi MassaMarittimhaa evidenziatIo'esigenzdai rifletterientornoad unanumerosaseriedi temi,chepaionocrucialpierlanostraComunionienquéstoparticolare momentostoricoC. ertamentietemi individuaeticheoraverrannoespostni onsononuoviallanostraTradizione,ppuresembranononancora completamenpteadroneggiati datutti. InconvergenzcaonleistanzechedapiirpartidellaComunionleiberomuratorisailevanol,apresente Gran Loggiaè dedicataall'Eticadella libertà ed all'eticadella responsabilitàN. on può sfuggire soprattuttionunambitocomeilnostroc,henon dovrebberiprodurrievizi dellasocietàprofanam, a proporsi chiaîezzial ritualedi iniziazione I'ispirazionweeberiana, cheanimaquestotema.MaxWeberfu,forse,il piùillustresociologioedescodella primametàdelsecolopassatoefucertamente -postindustriale un acutoosservatore criticodellasocietà e burocraticac'hein quegliannisi stavaformandoall'ombradellaminacciadellegrandidittatureuropee, alloranascentlil. messaggidoell'illustrseociologeovidenziava, primo poterec'hetendevanaospersonalizzare le decisionpiolitichiendividuali e lerelatrvseceltem, asubitodopo richiamavIa'attenzionaenchesullasolitudindeell'esseruemanodifrontealcrescentpeoliieismdoeivalori delmondomodernop;oliteismo, chetuttorainesorabilmente organizzazionsiociali.Tuttaviaa frontedi un politeismodilagantenell'estremosoggettivismo, Weber c o n c e n t r l a a p r o p r i a a n a l i s si u l c o m p o r t a m e n r t ao z i o n a l e e s u l m o m e n t oe t i c o , p e r m a t é i i a l i z z a r e dei valoriun comportamento o r i e n t a t oa d u n r e l a t i v i s m o o p e r a t i v oi ,s p i r a t oa à u n a o r g a n i z z a z i o n e tutta umanaedemocraticdaellèsocietàW. eberaffrontailtemafondantedellesocietàmoderÀec:omepossano funzionarele societàindustriali di massanelrispettodelleindividualitpàersonaluimane?E',dunque,in questoquadroche I'eticadellalibertàr,ivoltaallatuteladel singoloessereumano,devecoordinarsei conciliarscion I'eticadellaresponsabilità, fìnalizzatagliinteressciollettiveid istituzionalNi.ulladi più attuales, oprattuttoa, llalucedei presentpi roblemdi i sviluppoeconomicosostenibile di benessereo,t tuteladellelibertàindividuaeli di sicurezzad,i partecipazione d e m o c r a t i c ea d i e s i g e n z ed i g o v e r n o p, e r citaresolopochiesempi. Aldilà,.comunqued,egLsipecificciontenutciulturalieberianiiilsempiice richiamao questoAutoresprimeunelementfoondaniedellaTradizionleiberomuratoria: a a parlareda trasmettere cheessirivetano. in luogo,i mèccanismi burocraticdiel incalzae rischiadi sprofondàrneelnichilismloe dalnulla   I'impegno civile e sociale sostenuto da un'etica radicata nella nostra cultura iniziatica,ossia individuale,personale,propriadi ciascunLiberoMuratore. La nostraTradizioneiniziaticaci assisteed accompagnanelleimpegnativeprove,che I'attualerealta storicacipresentae, noi,peressereall'altezzaditaleTradizioned,obbiamoesserecapacidireinterpretarla a l p r e s e n t e n, o n d i r i p e t e r l a a l p a s s a t o L. a T r a d i z i o n e e t a l e p e r c h e s i p o n e f u o r i d a l l a s t o r i a i n u n a p e r e n n e attualitan, onin un richiamocristallizzato ad un singoloattimodeltempopassato. La centralitaeticadelnostrolevigarela pietragrezzadi noistessisi impiantasulleduecolonnedi una profondaconoscenzafilosoficae di unaaltrettantoprofondaconsapevolezza morale.lgrandi insegnamenti che ci giungonodai simboli,dai riti,dallasapienzae dai lavoridei nostriFratellipassatie dallanostra lstituzionehannonaturaeminentemente filosoficae morale.Dunque,ciascunodi noidevecostruirsciome un attentoconoscitoredei nostri insegnamentim, a anche come un ferreo e rigorosoportatoredi comportamentisi piratialla nostrapiu rigidamoralità.Troppospessosi sentonotalunifratellivantarsidi conoscenzesoteriche, poi,il lorocomportamenteo paragonabilae quellodei peggiorpi rofani.Troppo spesosi assistealleiamenteledi talunifratellpi erl'assenzadinsegnamenti poi, massonicei , loropersistentaessenzanonsoloadibattitei convegnim, aancheesoprattuttoaglistessilavoridiLoggia. TroppospessosiascoltanotalunifratellliamentarsdiiquellochenonottengonodallaLiberaMuratoriae non domandarsciosaessidannoallaLiberaMuratoriaT. uttiquesticomportamenti rivelanounaassenzadi vera e p r o f o n d am o r a l e l i b e r o m u r a t o r i a D. e l l ' a s s e n z da i c o n o s c e n z an o n e n e p p u r ei l c a s o d i p a r l a r e . F o r t u n a t a m e n taef r o n t ed i q u e s t ed e g e n e r a z i o nl ai g r a n p a r t ed e i F r a t e l lsi i d i s t i n g u ep e r i m p e g n oe s e r i e t à nelpercorrerelaviainiziatictaradizionaldeellaLiberaMuratoria. Perfavorirelacrescitadellanostralstituzionenecessarioin, unasocietadimassa,giuocaresuigrandi numerie, quindi,selezionaredai grandinumerii miglioriuomini,per inserirlai l nostrointerno.Se si raffrontanoquantitativameniteMassoni dell'ottocentiotalianoa quelliattualied entrambialla rispettiva dimensionenumericadellasocietà,nellaqualeviviamoe vivevanoc, i si accorgecheogginoisiamomolto s o t t o d i m e n s i o n a Nt i o. n c r e d o c h e s i p o s s a p e n s a r ec h e g l i i t a l i a n di i o g g i s i a n o p e g g i o r di i q u e l l i d i i e r i , f o r s e , comesembranotestimoniartealunenostrerealtainternealGrandeOrienteè, veroilcontrarioE.dallorae nostracarenzanon dare la possibilitai miglioridi entrarenellanostralstituzione. questa Su c o m u n i c a z i o n è e c e n t r a l e e m o l t o s i e f a t t o i n t a l e d i r e z i o n e s , i a a t t r a v e r s oi n c o n t r pi u b b l i c i s , i a g r a z i e a d u n a r i c c a p u b b l i c i s t i c as , i a , i n f i n e , a t t r a v e r s ol a p r e s e n z a s u i m a s s m e d i a . N o n s i d e v e r a l l e n t a r s l ' i m p e g n i on questedirezioni,ma tale impegnopotrebbetrovarefattoridi moltiplicazionaettraversoun sistematico coordinamentnoazionaledegliinterventiI.noltreil moltiplicarscioordinatodi una reteassociazionistica sul territorionazionalepotrebbedivenireun utilestrumentoa, l contempod, i diffusionedei nostriprincipei di informazionientornoallenostreiniziative, ma anchedi selezionedi colorocheintendonoavvicinarsai noi. A questaselezionesternadeibussantdi eveanchecorrisponderuenaselezioneinternadeiFratelli. Non casualmentegli insegnamentliberomuratorvi engonoimpartitsi u tre gradi(Apprendista, Compagno d'Arte,Maestro)p, ertantonon puo essereil merotrascorreredel tempoa determinarei passaggdi i grado. Solola conoscenzadelgradonelqualesi lavorapuodaredirittoad aumentdi i salarioc, omebeneesprime l a n o s t r a T r a d i z i o n e e, l a c o n o s c e n z as c a t u r i s c ed a l l a s o m m a d e l l a v o r o i n d i v i d u a l ec o n q u e l l o d i L o g g i a . Pertantola selezionenonpuocheavvenirea seguitodi unacostantepresenzain Loggiae di un sistematico lavoropersonaledi ricerca. Le Loggedovrebberolavorarein tuttii gradi,nonsoloin quellodi Apprendistae,d, in particolare, i lavori in terzogradodovrebberoesserevalorizzati, affinchesi possaconstatareche il GrandeOrientee composto da Maestric, he lavoranonel lorogradoe non in gradodi Apprendistal.l gradodi Maestroe il verticedella nostralstituzione, pertantod, eve informarela maggioranzadei lavoriritualidi Loggiaper evitareche le ritualitadi altrigradiprendanoil sopravvento, snaturandonleaforzainiziaticail:avoridaApprendistraestano perApprendisatinchese fattida Maestri. ln questiultimianni il GrandeOriented'ltaliaha promossouna crescenteorganizzaziondeella Comunioneal fine di potenziarnela presenzasocialee la capacitainternadi creicita qualitativae quantitativaIn.fattis,emprepiùnumerosei culturalmente rilevantsionostatii convegnil,etavolerotondee g l i i n c o n t r si i a p u b b l i c si i a p r i v a t i ; l a n o s t r a p r e s e n z a s u l t e r r i t o r i o e s t a t a r a î f o r z a t ad a c o n s i s t e n t i i m p e g n i p e r f o r n i r e a i f r a t e l l s i e d i d i g n i t o s e m; a n e c e s s i t a a n c o r a s i a u n a m a g g i o r e p a r t e c i p a z i o n i e n t e r n a a i l a v o r i d e l l a Comuniones,iaunapiuadeguataorganizzazione storiche. Rispettoal tema dellapartecipazione ai lavoridi Loggianon mi sembrasi debbainsisteremoltoper costituzionalech, e megliorappresentlei attualiesigenze evidenziarnela doverositaoltrealla necessitàT. uttaviapare opportunoribadirecome la radiceprofonda d e l l a L i b e r a M u r a t o r i ar i s i e d a n e i t r e g r a d i d e l l ' O r d i n e e n o n n e g l i u l t e r i o r gi r a d i d e i R i t i , i q u a l i , a l m a s s i m o , possonoessereconsiderati dellearticolazionsipecificheD. unque,nessunacameraritualepuo sostituire sopperireallacarenzadi lavorinei primitre gradi.Questariflessionedovrebbeconvinceretuttii Maestri Venerabilai promuovereun consistenteincrementodi lavoriin cameradi Maestro,al fine di espandere pienamentele potenzialita iniziatichdei dettacamera. R i g u a r d o , p o i , a l l a n o s t r a o r g a n i z z a z i o n ec o s t i t u z i o n a l ei n t e r n a , p a r e n e c e s s a r i o c o n s t a t a r e c o m e g l i e p i s o d i cei d o c c a s i o n a li in t e r v e n tdi i r i f o r m an o r m a t i v as, o v r a p p o s tai d u n t e s s u t o g i à di disposizioni spesÀo si constatala stradala   contraddittorio carente,abbianoormairesaevidentela necessitàdi unaorganicae completariscrittura dellanostraCostituzionee deinostrRi egolamenti. Infattir,isultasubitochiaroa chiunquestudila nostralstituzionceomeallastrutturainiziatic(aLogge, GranLoggiae, tc.)dellanostraComunionsei sovrappongaper dallanostraappartenenza precisa ad una realtàstoricau, nasovrastruttuarassociazionistica di inevitabile saporeprofanoP. oichenone possibilpeorsfiuoridalleesigenzseloriche dallasocietàc,uisiappartienae pienotitolo,la strutturainiziaticadeveper necessitàcoordinarsci on l'oîganizzazionperofanalassociazioni, societàcommerciaolib, blighfiscalei .dipubblicasicurezzaq,uoteassociativelo,cazionimi moòiliari, etc.)dalmodelloconfederale originarivoersoun modellofederalepiùo menocentralizzaìo. neirecentpi rowedimendti adeguamenatollenormative fiscalimposteallealsociazioni c i v i l e s, i a d e l l a L i b e r a M u r a t o r i a , siadelrapportocheintercorre pertanto traquesteduerealtàstoriche. dobbiamostupircci heancheil nostroapparatonormativo, quello conseguentemennteo,nscambinoi gradipercarriere,grembiuli i peronorifìcenzeelenormeperstrumenti diprevaricazionLea.LiberaMuratorisaialimentadiidealiedispiritodiserviziofraterno. 5.Inultimom, anonultimo. A chiusuradi questarelazionme oralemi sembraopportuno ricordardeuespecifichtematiche, sonodovuteaffrontarein questoprimoannodellanuovaGranMaestranza. prima intornoallatroppoeslesacontenziosigtàrudiziaria ed al degradocomportamentale, d e r i v a t o e, m e r s i i n o c c a s i o n ed e l r i n n o v od e l l e c a r i c h ed i é i u n t a e c o n t i n u a tpi e r v i c a c e m e n t e anchenel corsodelcorrenteanno.LasecondainvesteirapporttiraOrdine CorpiRitualei dhaportatoallastesuradi nuoviProtocoldli'lntesa. Procediamcoon ordine.ll primotemaaffrontaI'ormadi iffusomalcostumdei ricorrereallagiustizia ordinariaperpresuntedisarmonie in materialiberomuratoria, prima anche di esperireil forodomesticeo di cercareconcordiafraterna,come dovrebbeesserenostrodoverefare. Inolt;e,tali scontrigiudiziarisi connotanaoncheperlaviolenza, la ripetitiviteàla caparbiareiteraziondei atti,citazionei,sposti, r i c h i e s t de i accertamentin via preventivaed in via risarcitoria,querele,richiestedi prowedimentiourgenzae quant'altro consentaI'articolatoordinamentgoiudiziario si sommaancheun corrispondente di massa(giornalil,eúere,siti internet, , esigenzesocialei giuridichdeipendenti etc.)ai e giuridicarmonicae,ntrola qualesvolgereinostriarchitettonici finedi costituireunaunitàistituzionale lavoriD' elrestotaleproblemahanaturaTradizionalpeo, ichenonnasceoggrm, aciaccompagna storicdi elcompagnonaggeio dellaMassoneriOaDerativa. La Tradizionecostituzionale dellaMuratoriaUniversale, Infattil,eLoggesovranesiunisconoc,onservandlaopropriasovranitàp,erformareunaGranLoggiam, ail sistemaè lentamentsecivolato, lnoltre,ha naturaevidentemente federale. comeperaltroè awenuioanchenellecostituziosntiatal(iSvizzera, U.S.A., In sintesis, i è materialeallaCostituzionfeormaleorigtnariaC.iòha sovrappostuana,cosìdettadaigiuristiC, osîituzione prodottoincertezzeinterpretativea,d esempiointornoall'autonomidaelleLogge,comebenesi e evidenziato dalloStatoltaliano. Maanchea presclnderdealleantinomied,allelacunee dalleoscuritàdeinostritestinormativil,tempo, comeè notoai giuristiè, nemicodelleleggie: ssocorrementrele leggirestanofermec, ristallizzate nellaloro immobilitàIn. questiultimai nniabbiamoassistitaollerapidetrasfor-Àazioanni,coraínfieri,siade a società n o n adeguarsai lle nuoveesigenze.OwlamenteI'adeguamento deve esserefatto in modo organtcoe sistematictoe,nendoanchecontodelledimensioncirescendtiellanostralstituzioned,elleregolamentazioni, che si sonodate le altreMassoneriestranieree, dellenormativedegliordinamengtiiiridicistatalie sovranazionali. .. UnaultimariflessjonmeiportaaricordaraetuttiiFratelliche,comunquela,LiberaMuratorinaonpuò divenireuna organizzazionperofana.Essa è e deve restareuna lstituzioneTradizionaleIniziaticaper il perfezionamento dell'esseruemanoC. iÒp, erò,presuppone non i n i z i a t i c os , i m b o l i c oe r i t u a l e d, e b b a anchechei Fratelliavivanoinquestospiritoe, italianoP. eraltroall'iperattivismgioudiziariJprofano fenomenodi comunicazione emails, ms,etc.),perlo piùanonimot,endentea screditare lanostralstituzionaédín,particolaie, alcunsi uoi esponendtiiverticeN. onparenecessarisooffermarsui llaprofaniteà,spessoa,ncheilliceitàgiuridicdaitali comportamenstie,mbra,inveceo, pportunosotlolineare comeessirendanodi dominiopubúicole nostre c o n t e s ei n t e r n ev, i o l a n d on o n c e r t oi l s e g r e t om a s s o n i c op,o i c h én o n v i è n u l l ad i s e g r e i oi n s i m i l im i s e r i e umane,ma umiliandoil buongusto,il dirittodei fratellai d una immaginepubblica internodistesoed alla riservatezzadelle proprieproblematiche f,ositiva, di fàmiglia.La litigiositàed ancor più I'accanimenntoellalitigiosità -una sonopessimbi igliettdi a visitae forniscono immag"ine Oriented'ltalia. finedi evidenziarqeualidebbanoessereicomportamenti correùiinialematerianellanostraComunioneln. nostralstituzioneT.uttipossonopercepire idannichequestsi considerati PoichéilGrandeOratoretraipropricompitiistituzionali quello haanche di interpretare e di custodirle leggiho reputatomio precisidoverecompiereun lavorodi esegesigiuridicasullenostrefontinormativea, l chesi La riguardala riflessione chène è connessoe deteiioratdaella comportamenairirecanaol Grande daitempi ad un clima   breve,risultaevidenteche la nostraTradizionenon consenteun facilericorsoalle giustizieor6inariein materialiberomuratorie, comunquen, ontolleraunaeccessivanimositaneldifenderàl" propriepresunte ragioni.Se non e possibileparlaredell'esistenznael nostroordinamentogiuridicodi una vera e propria clausolacorxpromissoraiassimilabilaequelletipichedell'associazionismproófanoe, tuttaviaevidentecome il ricorsoallagrustiziaordinariavengacostantementveistoe vissutocomeun comportamentpoatologicoe talvoltaanchecomeunaverae propriacolpamassonicaL.asituazionesiaggravaperI'attoiequalorail g i u d i z t o m a s s o n i c oo a n c h e s o l o q u e l l o p r o f a n o d i a a l u i t o r t o ; p o i c h e i n t à l e c a s o s i e v i d e nz i a s e n z a equivocei d incertezzeuncomportamentnoonfraternoneiconfrcntdi elconvenuto. A l f i n e d i c h i a r i r ei l p i ù p o s s i b i l et a l i t e m a t i c h eh o p r o v v e d u t oa d u n a a n a l i s id e l l e n o s t r ef o n t i d i d i r i t t o , analisiche gia evidenziaquantosopraesposto,ma che raccomandapiù puntualmi odifichenormativenei nostriregolamentail finedi rendereesplicitaa, nchesul pianoassociazionistico, nostroordinamentgoiuridicodi unaclausolacompromissoria. ll pareresullefontidel dirittoliberomuratoriodel GrandeOriented'ltaliae sul vincolodei Fratellai limitarsni eicontenziosaillagiustiziadomesticavieneriportatonell'allegato n.1. ll secondorilevantetemaaffrontatoin questoannomassonicoriguardai Protocoldli'lntesatra il Grande O r i e n t ed ' l t a l i ae d i C o r p i R i t u a l ai d e s s o a d e r e n t i P. u r t r o p p oa n c h e i t o m p o r t a m e n t i c, h e h a n n o c o s t r e t t oa d affrontaretaletematicanonsonocertocommendevolei rivelanoilmaisopitotentativodellearganizzazioni ritualdi icostituirsciomeunaMassonerianellaMassoneriac,omeunlivellosuperioredicontrollòdell'Ordine Libero Muratoriodei primi ed unici tre gradi, contravvenendoin tale modo alle regole massoniche internazionalmentreiconosciute.Pertantoi nuovi Protocollid'lntesasi sono rigorotamenteispirati all'applicaziondellenormativeinternazionali in materiaed hannointeso pericolosa, correggerela anchese traOrdinee CorpiRituali nuoviProtocolldi'lntesasifondanosuquattro forseinconsapevoltee,ndenzaegemonicadeiCorpiRitualsi ull'Ordine. Al finedi ristabilirIe'equilibrio principbi enprecisi: 1) 2) 3) L'Ordineo, ssiail GrandeOriented'ltalia,svolgeuna indiscutibiled originaria'funzionieniziaticamente fondantee giuridicamentlegittimante regolarizzantreispettoai CorpiRituali. | CorpiRitualihannotuttiparidignitadi fronteal GrandeOriented'ltaliae, pertantoi, Protocolli, specifichepeculiaritdaovuteadoggettivedifferenzestoriches,onougualipertuttii CorpiRituali. Ordinee CorpiRitualgi odonodellapiùassolutae reciprocautonomiaE. ',quindi,fattoobbligoai Corpi Ritualdi i astenersdi a qualsiastiipodi interferenzaedingerenzadirettaod indirettanellavitadell'Ordine ed in modo particolarenei momentiistituzionadlii sceltae di rinnovodegliorganiinternidi governo dell'Ordinestesso.A tale fine è parso necessarioritenereincompatibili dell'OrdinedeiCorpiRituali. 4) l-e normative interne dei Corpi Rituali devono essere conformi alle normative massoniche internazionalmenrtieconosciute particolare, ed, in a quellepropriedel GrandeOriented'ltalia,nonche, ovviamentea,nchealledisposizioni di leggedellaRepubblicaltaliana. La bozzadei Protocolldi 'lntesatra GrandeOriented'ltaliae CorpiRitualivieneriportataper esteso nell'alleganto.2. A conclusiondei questarelazionemoralesia lecitoricordarecon profondodoloree fraternorimpiantoil F r a t e l l oB e n t P a r o d id i B e l s i t o g, i a G r a n d eO r a t o r eA g g i u n t o c, h e n e l l e i m m i n e n z ed e l S o l s t i z i od ' i n v e r n oe passatoall'OrienteEterno.La sua immensaculturasi univaad una profondadedizioneagli idealilibero muratori,ma soprattuttocoloroche hannoavutoil privilegiodi conoscerloda vicinohannopotutoapprezzare q u a n t a n o b i l t a g, e n e r o s i t ae d a m o r e f r a t e r n oa l b e r g a s s e r no e l s u o a n i m o . Nel rimpiantodi un fratelloed amicoscomparsovogliodedicareal suo ricordoquestemie brevi riflessiondiiuntempogiovanileormaiperduto: RINTOCHI Se le campanesuonanos, egnandoil miofato; seilgiornoe lanottecircolarmente si avvicendano; Coniltriplicefraternosaluto. se il marearrotolacadenzatriicciolbi ianchi; se i montiforzanolavoltadelcielo, lo ridoe piangoe bevoe negoildomani. L'orizzonteguidaallamadre, matuseiunrigidosegmento. IL GRANDEORATORE MorrisL. GhezziPrima di formulare alcune precisazioni intorno alle principali critiche rivolte, soprattutto in sede di postfazione, al mio scritto, voglio ribadire che sono infinitamente grato ad Emanuele Severino, ad Agostino Carrino ed a don Paolo Renner per l’attenzione, che generosamente hanno voluto de- dicare al mio lavoro. Le obiezioni, infatti, che mi sono state rivolte hanno arricchito la ricerca con contributi seri e proficui per la conoscenza umana; conoscenza che non può che scaturire da serrate critiche, severe obiezioni, profondi dissensi, diversità metodologiche ed euristiche, divergenti punti di vista e ripensamenti vari. Ma senza indugiare oltre è tempo di commen- tare queste critiche. Ogni affermazione presuppone anche la propria negazione: luce e tene- bre, dritto e curvo, finito e infinito, piace non piace, etc.. La dialettica degli opposti appare una fenomenologia, per così dire ontologica, ossia propria della struttura mentale dell’essere umano. Ciò non significa che il dualismo sia dotato di un fondamento maggiore o minore del monismo, ma sem- plicemente, che né l’uno, né l’altro sono dotati di alcun fondamento non dogmatico, non assiomatico. Conseguentemente fidare in un paganesimo monista di dei, semidei, eroi ed uomini divinizzati, come propone Carrino, o in un dualismo giudaico-cristiano, che separa il divino dall’umano, è scelta meramente arbitraria e priva di un solido sostegno logico od em- pirico, nonché, meno che mai, metafisico o religioso. Probabilmente nel pensiero o, meglio, nella rivelazione cristiana la sintesi teologica, il ponte          138 Il diritto come estetica tra fisico e metafisico avviene attraverso la figura del Cristo, che viene considerato vero uomo, ma, al contempo, espressione della trinità divina. Afferma, infatti, Massimo Cacciari, commentando Emo: Lo sforzo teologico di Emo consiste, dunque, nell’intuire nella Croce stessa (non oltre la Croce o dopo la Croce) la Resurrezione1. Si tratta, tuttavia di una Resurrezione/rivelazione di natura puramente spirituale e, conseguentemente soggettiva, poiché tale rivelazione di pas- sione e di morte nulla ha mutato nella realtà empirica del mondo, se non il modo di pensare e di credere dei fedeli e solo dei fedeli: si continua a nascere, soffrire, morire, fare violenza e guerra, elargire misericordia ed amore esattamente come nell’era precristiana. Del resto neppure la diviniz- zazione dell’’essere umano (pagana o meno), con buona pace dell’amico Carrino, nulla ha mutato nel panorama delle sciagure e delle piacevolezze empiriche, se non la superbia dell’approccio, basti pensare alla tragedia greca. Inoltre anch’essa si presenta come una conoscenza di fede (leggasi scelta arbitraria) Le affermazioni del presente saggio, per essere correttamente comprese, devono essere considerate solo come ipotesi scettiche di riflessione, tut- te possibili, ma nessuna fondabile su solide basi conoscitive, e non come asserzioni sostenibili alla luce di baluardi inconfutabili; ciò sarebbe in evidente contraddizione con il presupposto fondante tutte le ipotesi che hanno natura nihilista/nichilista. Ė ovvio che alla luce di tali presupposti teorici qualsiasi critica si voglia muovere al saggio non può che avere na- tura esterna; infatti una critica interna affonderebbe inesorabilmente nelle sabbie mobili di posizioni incerte, si velerebbe nella nebbia di affermazioni tutte possibili e nessuna certa. L’empiria vorrebbe imporre come certezze le affermazioni della perce- zione umana, ma tali percezioni derivano dalla struttura organica dell’es- sere umano, propria del mondo, che noi crediamo di conoscere e, comun- que, nel quale viviamo; ma di tale mondo nulla si conosce, salvo il nostro percepito ed il nostro percepito è presupposto di se stesso, pertanto non testabile a sua volta empiricamente. Il reale, ammesso che esista un qual- che referente empirico da attribuire a tale termine, potrebbe essere anche molto diverso e maggiormente composito, come dimostrano altre forme di percezione animale ed ulteriori possibili modalità ipotetiche percettive, da 1 M. Cacciari, “Prefazione” ad A. Emo, Il Dio negativo. Scritti teoretici 1925-1981, cit., p. VIII.           M. L. Ghezzi - P.S. Trappola senza uscita: una riflessione sulle critiche ricevute 139 come viene immaginato dall’essere umano. In altre parole, il saggio, pro- blematizzando il fondamento euristico del metodo empirico, problematizza proprio anche l’a priori kantiano e dubita delle sue categorie. Ciò tende a porre la ricerca empirica sul medesimo piano di quella metafisica in quanto entrambe fondate su un a priori indimostrabile. Infatti, giustamente Ema- nuele Severino parla di una struttura originaria, che implica per necessità l’eternità, ed è proprio e soltanto a questa struttura, che si può chiedere il fondamento dell’esistenza del soggetto e dell’empiria. In termini religiosi il problema non muta: il divino intende permeare l’umano in modo empi- ricamente comprensibile, trasformandolo? Pare che ciò sino ad ora non sia mai avvenuto. In termini filosofici si ripete il medesimo quesito: il meta- fisico riesce ad entrare nel fisico, trasformandolo dialetticamente? Anche in questo caso la risposta sembra sino ad ora essere negativa. Dunque il dualismo non può tramontare, almeno come ipotesi. Ovviamente a questi dubbi mostra il fianco anche l’indiscutibile visione morale di Kant: non fondabile teoreticamente a priori e per necessità re- lativa nella sua comportamentalità pratica umana; infatti l’illustre filosofo cerca di fondarla, pur fugacemente ed in modo quasi silente, nell’antropo- logia umana del mi piace, nell’estetica, che appare essere la dimensione più originaria (strutturale? ontologica?) dell’essere umano. Ma un macigno an- cora più grande e pesante ostruisce la strada dell’etica, della morale (kan- tiana e non kantiana) e del diritto: il tema del libero arbitrio. L’eventuale assenza di libero arbitrio nell’essere umano cancella d’un solo colpo ogni dover essere ed ogni prospettiva teleologica. Certo non si può asserire l’as- senza del libero arbitrio, ma purtroppo non è neppure possibile affermare la sua presenza. Nel dubbio, e scommettendo, fideisticamente, sulla possibile esistenza del libero arbitrio, ciascuno può scegliere la propria convinzione e, quindi, la propria strada da percorrere, ma dovrebbe anche avere ben chiaro che la sua scelta non ha alcun fondamento euristico, ma solo esteti- co, ossia soggettivo e, pertanto, è esclusivamente riferibile e vincolante per il solo soggetto, che ha compiuto tale scelta. Il tema diviene centrale nel mondo del diritto, se si attribuisce a quest’ultimo, come nella prospettiva di Carrino, una dimensione teleologica; ma il telos (τέλος) è un fine, ossia un valore, una scelta ed è proprio dell’assenza di fondamento etico o di qual- siasi altro tipo dei valori, delle scelte, che si sta discutendo in questa sede. Di fronte al tema teleologico del diritto pendono almeno due interrogativi, una di natura prevalentemente politica e l’altra di natura eminentemente teoretica: Cui prodest; a chi giova, a vantaggio di chi va la scelta compiuta? E, con affermazione ancora più radicale: per quale motivo si dovrebbe re- putare superiore, più auspicabile in assoluto il Cosmos, l’ordine rispetto al          140 Il diritto come estetica Caos, il disordine, quando, come dimostra il pur discusso, in sede di scien- za fisica, principio di entropia, è quest’ultimo quello verso cui si muove il nostro universo? Sono mere preferenze soggettive, estetiche, appunto. Il diritto è ideologia e l’ideologia è arbitrio personale o collettivo. Riguardo, in fine, all’interpretazione data da Renner delle affermazioni di Emo, penso che vi sia stato un fraintendimento, cosa, per altro, non stu- pefacente data la generale oscurità e frammentarietà dell’opera di questo Autore. Emo si muove nello spirito del Deus absconditus di Nicolò Cu- sano e, soprattutto, nel solco dell’attualismo gentiliano, pertanto compie una sorta di rovesciamento lessicale nel significato delle parole: ciò che afferma come negativo viene ad esprimere una positività, ciò che è invi- sibile assume il ruolo di realtà visibile, al contrario, il visibile si annienta, ciò che è nulla è il vero essere e ciò che appare essere è nulla, etc.. Per- tanto tra fede e scienza prevale euristicamente la fede, in quanto, negando l’apparente realtà dell’essere può accedere alla realtà reale del nulla, che si presenta come il vero essere, perché privo di presenza in quanto assoluto. A conferma di questa pur complessa interpretazione testimoniano alcune affermazioni di Emo: “L’incoscienza dei vegetali, delle specie viventi, è la loro unità panica col tutto, che è appunto il paradiso terrestre, il giardino dell’Eden. Il dramma della coscienza, che è il dramma della Presenza, è la cacciata dal paradiso dell’unità panica, è il dramma della separazione, della negazione; ma appunto perché la separazione è negazione, noi, mediante la negazione, possiamo ritornare all’unità. La fede è fede nella potenza, nella sacralità della negazione. La nostra colpa è la trasgressione e la sepa- razione; separazione cioè negazione.”2. Ed ancora: “Il Dio nascosto, il Dio negativo, è già implicito nel cristianesimo, religione antichissima che ha origine insieme all’uomo; religione del Dio sacrificato che, per la logica stessa della sua situazione, diviene religione del Dio che si sacrifica, cioè si nega. Il Dio la cui attualità ed atto e realtà è il negarsi. Ed a sua immagine e somiglianza sono gli uomini e il mondo.”3. Per quanto poi riguarda l’interpretazione che Renner attribuisce al mio concetto di estetica (mi piace/non mi piace) debbo dire che riflette esatta- mente quanto desideravo esporre. Infatti, con estetica non intendo né un fugace capriccio, né una ludica superficialità e neppure una occasionale propensione, bensì un profondo appagamento, un convinto compiacimento dell’animo, un radicato benessere spirituale, una persistente pace con se stessi. In sintesi, è un concetto che si avvicina molto al kalos kai agathòs 2 A. Emo, Il Dio negativo. Scritti teoretici 1925-1981, cit., p. 30. 3 A. Emo, op. cit., p.39.           M. L. Ghezzi - P.S. Trappola senza uscita: una riflessione sulle critiche ricevute 141 (καλòς καì αγαθός) degli antichi greci, nel quale ciò che era bello aveva buone probabilità di essere anche buono. A mero titolo esemplificativo penso possa essere utile all’interpretazio- ne fornire da parte mia uno scenario concettuale per meglio comprendere i dubbi, che permeano le affermazioni empiriche, ma anche quelle metafi- siche, che agitano questo lavoro. Naturalmente tale scenario è ispirato ad alcune convinzioni proprie di chi scrive, che, ovviamente, si presentano ar- bitrarie, soggettive, relative, come quelle avanzate da qualsiasi altra perso- na. Procedendo con ordine, pare doveroso iniziare il discorso da ciò che si crede di percepire vivendo: un continuo movimento, oscuro nel significato, ma soprattutto, senza fondamenti di certezza non solo sulla sua origine e direzione, ma addirittura anche sulla sua stessa esistenza. Il treno della vita non consente discese ai passeggeri: non possiede porte d’uscita e le finestre sono sigillate; non compie fermate; non avvertì del- la partenza, ma neppure prevede stazioni d’arrivo. I passeggeri ignorano come sia loro capitato di salirvi; non conoscono il luogo nel quale si tro- vano e non sanno neppure nulla di se stessi: come funzionino, siano solo il percepito o si sdoppino in soggetto ed oggetto; siano Tutto, un terminale del Tutto o parte tra parti. Sentono, ma non hanno accesso alle fonti del sentire. La fonte si localizza, oscillando tra spazi successivi, ed immagina le successioni, il tempo. Eppure non vi è ancora forma, ma puro sentire senza immagine: chi sente? Chi o cosa fornisce l’immagine, quando si presenta? Tuttavia una qualche forma di immagine deve pur esistere come riferimento sia del sog- getto, sia dell’oggetto, affinché anch’essi possano assumere una propria immagine. La forza, l’energia oscilla senza sosta tra se stessa ed una qualche forma, modulando la propria vibrazione, ma la forma è instabile e si liquefa con- tinuamente nella forza, come ghiaccio nell’acqua. Se la forza osserva vede la forma, che non esiste in se stessa, se non è osservata. Il mondo sembra un osservatorio permanete, che osserva se stesso in un circolo tautologico, che esiste nell’osservarsi e l’osservarsi è il solo esiste- re. Forza e forma, due volti del medesimo fenomeno. La forma si dissolve nelle metamorfosi e la forza persiste, ma non esiste come massa senza alienarsi nella forma. Tra i due enti si instaura un vizioso legame mutualistico indissolubile, nel quale il soggetto crea l’oggetto, ma l’oggetto modifica a sua volta il soggetto. L’incontro dei due enti produce il fenomeno della consapevolezza, che è solo consapevolezza di se stessi, ossia del soggetto/oggetto. Un se stesso, oscillante tra tutto e parte, tra onda e particella, tra forza e forma, tra energia e massa, che non ha identità fissa.          142 Il diritto come estetica Un soggetto indeterminato come l’oggetto privo di osservatore, che è sog- getto di se stesso. Soggetto ed oggetto sono due indeterminazioni, che si determinano reciprocamente, dando vita al percepire da parte sia dell’uno che dell’altro. Il senso è la selezione dei fenomeni, che costruisce oggetti e soggetti. Il tavolo si occulta sotto la tovaglia, ma la tovaglia è materiale coprente men- tre significa pasto per l’essere umano, ma l’essere umano è entità bipede senza piume, se avesse le piume sarebbe un capo indiano o un uccello, ma un capo indiano o un uccello esistono, il primo sia in India sia in America il secondo nel cielo, ma India, America e cielo sono solo terra ed aria e terra ed aria sono composti di elementi chimici, ma gli elementi chimici sono energia e massa, ma energia e massa sono vibrazioni. Le forme si dissolvono. La trappola è l’apparire di un ente, che fugge oltre le quinte (forse ver- gognandosi della propria oscenità – fuori dalla scena) di un essere, il quale esiste nell’oscillare del nulla, al di là dell’essere e del nulla (“[...] è nel determinato essente che il Nulla è Essere”4). L’indeterminato si determina, sentendo se stesso, ma torna indeterminato appena cessa di sentire; ecco perché non ha senso, perché è e resta indeterminato, salvo che per se stesso per un breve lampo di sensazione, non di senso.L’arco del cielo è sorretto da due colonne. Dal lato destro, la metafisica fornisce abissale profondità a stelle, galassie e mondi; dal lato sinistro, l’empiria avvicina l’abisso, presupponendone il fondo anche senza poterlo raggiungere. L’empiria ci accompagna quotidianamente, nella vita di tutti i giorni, fornendoci informazioni intorno all’ambiente, nel quale viviamo, ed a noi stessi, alla nostra nascita, vita e morte. Informazioni che, quasi sem- pre, non soddisfano per la loro oscurità ed incompletezza. L’essere umano possiede un corpo, di cui manca il libretto d’istruzioni per l’uso. I problemi del dolore e del senso dell’esistenza non trovano risposta certa e, forse, non possono neppure trovarla in quanto argomenti sottratti alla ricerca em- pirica. Non è possibile verificare/falsificare il valore di un biologico, che si decompone progressivamente e diviene nutrimento di altro biologico. Il proprio e l’altrui si fronteggiano fieramente come anelli di una catena, che li tiene separati, ma strettamente legati; come componenti, appunto, di una catena, di cui non si conosce né l’origine, né il fine e neppure il senso del suo esistere. Di fronte al mistero l’empiria si arrende e si asserraglia nelle sue deboli certezze pratiche, tecniche e strumentali, ma l’essere umano non demorde e cerca risposte con o senza verificabilità/falsificabilità empirica. Si apre a questo punto il mundus imaginalis1, ma anche l’Universo dell’i- deazione, della creatività, della fantasia umana, la cui immaterialità è un suo elemento costitutivo, proprio per sfuggire ai dubbi dell’empiria, non 1 L’espressione è usata da Henry Corbin per indicare una realtà intermedia tra fisica e metafisica, tra materia e spirito, una sorta di sintesi tra i due termini, che non relega il trascendente nell’ambito dell’inesistenza.           16 Il diritto come estetica un inconveniente. Purtroppo anche questa via si trova ostruita per l’essere umano, in quanto diretta o verso una conoscenza superiore ed incompati- bile con quella umana o verso una conoscenza individuale, soggettiva e, quindi, incerta, relativa e prospettica. In sintesi, sia l’empiria, sia la metafi- sica svelano l’unica conoscenza umana possibile, quella propria di Socrate e narrata da Platone nell’Apologia: so di non sapere2. Può la psicologia umana accettare un verdetto tanto duro sul senso della propria vita? Evidentemente no ed, infatti, le elaborazioni metafisiche si sono moltiplicate, articolate e complicate nel tempo, mentre gli studi em- pirici hanno continuato il loro corso senza aspirazione di completezza e di assolutezza. Il fondamento di qualsiasi discorso continua a sfuggire e le affermazioni fisiche e metafisiche restano come appese nel vuoto e da nulla sorrette. Forse è proprio questa loro collocazione priva di alto e di basso, che ne impedisce la definitiva caduta o, forse addirittura, che rende priva di senso la domanda stessa sul fondamento. Un dato empirico tuttavia è certo: la psicologia umana tende verso la certezza anche a costo di rinunziare al mondo dei cinque sensi. Dunque, il metafisico è, in qualche misura, conna- turato con l’essere umano come il fisico; è una componente, per così dire, strutturale dell’antropologia. Nel mondo dell’etica, cui il diritto sino ad ora è appartenuto, queste medesime problematiche hanno dato corpo all’ideologia ed all’utopia, alla norma morale ed a quella giuridica, al diritto naturale ed al diritto positivo, alla giustizia ed alla legalità, alla validità ed all’efficacia del diritto, al do- ver essere ed al mi piace/non mi piace. Tutte queste alternative esprimono la tensione tra il vissuto reale e le aspirazioni, i desideri del soggetto. In particolare, l’ultima alternativa ricordata apre la strada, che conduce dal diritto come obbligo al diritto come estetica. Lo smascheramento del dover essere avviene con la constatazione empirica, che le scelte umane sono 2 “Infatti, operando con una logica (quella apofatica) che nega ogni proposizione assertiva (ed esaustiva) in merito alla verità di qualsiasi ente – ma invece proponendovi l’inclusione di ogni possibilità – si giunge a questo risultato che auspicava Nicolò Cusano con il suo De docta ignorantia. Si giunge a un non-sapere che include ogni sapere e viceversa: allo stesso modo in cui l’Essere-Uno – che non è un essere specifico – include in sé tutti gli esseri a cui conferisce l’esistenza. Ma questo sapere non è, gerarchicamente, estraneo e al di sopra dell’uomo – che ne verrebbe in qualche modo dominato e esautorato – ma assolutamente intrinseco all’uomo stesso che ne è, pienamente, partecipe, pur essendone abissalmente lontano. Così come il molteplice è l’espressione ontologica dell’Uno di cui è la manifestazione teofanica”. C. Bonvecchio, Le meditazioni abissali di Henry Corbin, in H. Corbin, Il paradosso del monoteismo, Mimesis, Milano-Udine 2011, pp. 14-15.           Premessa 17 guidate dal piacere e non dal dovere, anche se talvolta i due termini coinci- dono. Dover essere e piacere divengono i due poli reali del disagio esisten- ziale umano e, contemporaneamente, anche il tentativo di risolverlo. Solo di un tentativo purtroppo si tratta. Il diritto come estetica non esclude, e non può escludere, la dimensione metafisica, ma rafforza la descrittività empirica del comportamento umano, consiglia maggiore consapevolezza psicologica dei limiti conoscitivi uma- ni ed apre nuove prospettive di regolamentazione sociale. Ogni demistificazione è un atto di liberazione della conoscenza, ma non è possibile illudersi di poter superare gli ostacoli ultimi, che oscurano una visione sia assoluta, sia relativa del mondo, cui apparteniamo. La dea Ananke (Aνάγκη), la dea Tyche (Τύχη), le Parche, il Fato, il Destino, la Divina Provvidenza intanto sorridono, interrogandosi intorno al determini- smo ed all’indeterminismo. Ringraziamenti Al termine di questo mio lavoro voglio rivolgere un particolare ringra- ziamento ad Emanuele Severino per la sua grande cortesia e disponibilità ad ascoltare le mie riflessioni; ad Agostino Carrino per il fraterno impegno con il quale ha setacciato i concetti del mio scritto, evidenziando proble- matiche a me sfuggite, ed a Don Paolo Renner, che, tra i moltissimi suoi impegni di misericordia, ha voluto aggiungere, con antica amicizia, anche quello verso il mio scritto. Capo di Ponte, 11 novembre 2015La frase, come risulta dalla lettera, riguarda esclusivamente l’Albero della scienza, della conoscenza del bene e del male, non anche l’Albero della vita, che pure era presente nel Giardino dell’Eden2. Di quest’ultimo, dunque, Adamo ed Eva erano legittimati a mangiarne i frutti. Per ora la no- tazione può apparire irrilevante, ma in seguito risulterà determinante, poi- ché evidenzia che nel Paradiso terreste i nostri progenitori erano immortali ed, infatti, compartecipavano della conoscenza divina. La prima evidenza che colpisce il giurista nella narrazione biblica della cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso terrestre, dall’Eden è il concetto di colpa, la quale, per necessità logica, presuppone ed è indissolubilmente legata ai concetti di conoscenza e di responsabilità. Se l’albero, del quale mangiano il frutto, è l’albero della conoscenza del bene e del male, ossia della consapevolezza morale del proprio comportamento, non si compren- de come sia possibile emettere da parte di una divinità come da parte di un essere umano un verdetto, una sentenza di condanna per azioni commesse 1 Genesi, 2, 15-17. 2 “Ora il Signore Dio sin da principio aveva piantato un paradiso di delizia; ivi pose l’uomo da lui formato. Produsse il Signore Dio dalla terra ogni albero bello a vedersi e buono a mangiarsi; inoltre, l’albero della vita nel mezzo del paradiso, e l’albero della scienza del bene e del male”. Genesi, 2, 8-9.           22 Il diritto come estetica da esseri inconsapevoli, per così dire, innocenti dal punto di vista sia del- la volontà, sia della conoscenza, in quanto, appunto, ignari dell’esistenza stessa del contenuto dei concetti di bene e di male: disobbedire poteva essere sia bene, sia male. Se la ragione, da cui la teoria giusnaturalistica ritiene di dedurre le norme giuste, è la ragione divina nell’uomo e non la ragione empirica, questa dottrina non può essere definita come razionalistica. [...]. Se è la ragione conoscitiva a statuire norme, su cui si fonda il valore del bene e quindi il disvalore del male, allora la distinzione fra bene e male è una funzione della conoscenza che statuisce norme, cioè della ragion pratica. [...]. In questa versione, il concetto risale fino al mito dell’albero della conoscenza: è infatti la conoscenza del bene e del male data a chi gusta i frutti di quell’albero. [...]. L’essenza di Dio è nel fatto di sapere ciò che è bene e ciò che è male; sapendolo, egli vuole anche che si faccia il bene e di ometta il male. Il suo sapere coincide con il suo volere e la sua ragione è una ragion pratica: è questa la ragione divina di cui l’uomo si appropria col peccato originale3. Ma è proprio questa la ragione di cui si appropria, mangiando la mela, l’essere umano o, piuttosto, esistono due diverse ragioni, quella divina, universale, e quella umana, particolare, ed è della conquista di quest’ul- tima, che il mito dell’Albero della conoscenza del bene e del male parla? Probabilmente l’interpretazione della simbologia biblica deve spingersi oltre, più in profondità, del concetto di acquisizione della responsabilità (conoscenza del bene e del male) attraverso la colpa: un colpa che non pre- suppone apparentemente l’esistenza di alcuna responsabilità e scaturisce da una disobbedienza ad un comando. Forse, è proprio la nostra cultura, ormai atavicamente assuefatta ad una eteronomia incentrata su divieti e sanzioni, a condurci sulla strada di una interpretazione colpevolizzante del mito della mela. Forse, il peccato originale altro non è che il nostro stesso esistere come esseri umani e non divini e la metafora della mela, intesa come nutrimento, atto tipico e specifico dell’essere vivente, sembra richia- mare simbolicamente questa interpretazione. Probabilmente il senso esoterico del brano biblico nasconde significati, che non sono meramente giuridici, ma sconfinano nella riflessione filosofi- ca e nella materia teologica. Ogni condanna prevede una responsabilità, che scaturisce direttamente dalla consapevolezza e dalla conoscenza sia dell’azione che si compie, sia della norma, che la vieta: so ciò che faccio e conosco ciò che si può fare e 3 H. Kelsen, Il problema della giustizia, Einaudi, Torino 1975, pp. 90-91.           La mela, il serpente ed il buon Dio 23 ciò che non si può fare; ciò che si può fare è bene, ciò che non si può fare è male. Ma bene e male possiedono almeno due diverse dimensioni: quella assoluta del bene e del male universale e quella relativa del bene e del male propria di colui che agisce, del suo modo di sentire, di vedere, di giudicare gli eventi ed i comportamenti. Dio disse di non mangiare: sembra un comando eteronomo e, quindi, in quanto tale, pare contrapporre un divieto divino ad un giudizio e compor- tamento umano. Questa interpretazione, per altro condivisa anche da Alf Ross (1899-1979)4, viene rafforzata dalla presunta sanzione comminata: se ne mangerai morirai. Ma si tratta effettivamente di una norma giuridica o morale dotata di sanzione oppure si tratta di un mero avvertimento, della descrizione di una sorta di legge naturale, come quelle che derivano da teorie scientifiche e che prevedono, ad esempio, il moto degli astri? In altre parole si tratta di un comando o di una descrizione? Per rispondere alla domanda è necessario risalire alla situazione di Adamo ed Eva rispetto a Dio nell’Eden. Non era una situazione di separazione, ma di unione; non vi era individualità, ma comunione; conseguentemente, l’unica conoscen- za esistente era quella divina, che permeava, proveniente da Dio, anche Adamo ed Eva. Conoscere e volere, dunque, erano la stessa cosa non solo per Dio, ma anche per Adamo ed Eva ed in una tale situazione un comando eteronomo è del tutto privo di senso; in primo luogo, perché non può essere eteronomo, in quanto vi è comunione, ed, in secondo luogo, perché un co- mando comporta volontà diverse, mentre, in questo caso, come vi era una sola conoscenza così vi era anche una sola volontà. Desiderando il frutto dell’albero, torniamo alla realtà del sospetto, cioè allo svincolare la conoscenza dall’amore e ad impiegarla ai fini dell’autoafferma- zione dell’individualità. Una conoscenza contemplativa è una conoscenza del buono, del bello e del vero. La conoscenza contemplativa è una conoscenza della pace, perché è la conoscenza del riconoscimento dell’altro, dunque non può essere a fin di male. La conoscenza contemplativa che Dio propone all’uo- mo, sua immagine, è una conoscenza sapienziale, che ha in sé una dimensione assiologia, cioè di valutazione del bene e del male. Ma l’uomo ha questa co- noscenza già in quanto amico di Dio, sua immagine, e può sempre contem- 4 “Il peccato nacque quando l’uomo violò il divieto, assolutamente arbitrario e irragionevole, di Dio di mangiare il frutto di un certo albero che gli avrebbe dato una conoscenza che era di Dio stesso. Peccato significa dunque disobbedienza, pura e semplice volontà propria, autodecisione e per questo peccato Adamo ed Eva e la loro discendenza venivano puniti in eterno nel modo più crudele. Tutti dovevano subire l’ira di Dio ed essere affetti dal peccato originale”. A. Ross, Colpa, responsabilità e pena, Giuffrè, Milano 1972, p. 19.           24 Il diritto come estetica plarla nell’albero della conoscenza del bene e del male. Il bene e il male sono conosciuti dall’uomo insieme a Dio, suo Creatore, e in lui. Anzi, l’unica giusta conoscenza del bene e del male è quella che l’uomo contempla in Dio. È con gli occhi di Dio che l’uomo vede il bene ed il male. Ma guardare con gli occhi di un altro e gioire di questa intimità è proprio delle persone che si amano. Nell’a- more è la tendenza a conoscere attraverso l’amore dell’altro e con il suo amore. Proprio nel fatto che l’uomo può guardare l’albero della conoscenza del bene e del male, perché proprio lì in qualche maniera si incrociano gli sguar- di tra Dio e l’uomo, c’è la possibilità dell’idolatria, quindi di una tentazione. Guardare può diventare desiderare, e desiderare prendere5. Il rapporto tra Dio e l’essere umano in quella dimensione di equilibrio creazionistico, tutto racchiuso nello spazio/tempo divino dell’Eden, era di completa compartecipazione, e non proprio di identità (a sua immagine e somiglianza). L’identità dell’immagine non appartiene ad un semplice fenomeno visivo, ma si estende anche alla dimensione cognitiva, sebbene non in modo completo (somiglianza). Il derivato non partecipa a pieno titolo di tutti i caratteri del derivante, ma certo ne incarna una rilevante porzione. Conseguentemente Adamo ed Eva non erano privi di conoscenza e, quindi, anche di responsabilità, ma partecipavano della medesima cono- scenza divina, della conoscenza propria dell’Uno e del Tutto. L’uomo abbandonerà Dio e la proposta della tentazione acquisterà sempre più un aspetto di verità [...]. Poiché l’uomo non è più nella contemplazione dell’albero della conoscenza, ma è ormai scivolato nella logica della posses- sione, gli rimane solo il male, ossia la necessità di possedere. Sganciandosi dall’amore, da quella intimità con Dio nella quale ha potuto conoscere che cosa è bene e che cosa è male per lui, finisce essenzialmente posseduto dalla necessità di possedere per salvarsi6. La conoscenza divina, della quale erano compartecipi nell’Eden Adamo ed Eva, era universale, assoluta, non prospettica, ma posseduta a tutto ton- do nella dimensione della totalità degli eventi di un Essere, che racchiude in sé ogni evento7. Il comando, dunque, di non mangiare la mela, la proibi- zione non si presenta come un atto di volontà eteronoma rispetto ad Adamo 5 M.I. Rupnik, Dire l’uomo. Persona, cultura della Pasqua, Lipa, Roma 2011, vol. I, pp. 227-228. 6 M.I. Rupnik , op cit., p. 230. 7 “Il Dio degli Dei, lo Spirito assoluto, permane in eterno, al di là della conoscenza che può averne la religione in questo mondo. La storia non è il luogo del divenire della coscienza divina suprema”. H. Corbin, Il paradosso del monoteismo, cit., p. 74.           La mela, il serpente ed il buon Dio 25 ed Eva, ma come una informazione, un avvertimento, una descrizione di ciò che avviene quando dall’unità si passa alla molteplicità, quando l’asso- luto cede il passo al relativo. Né vi è sanzione nel monito di Dio; ciò che appare come condanna altro non è se non descrizione di ciò che accade nel relativo, di ciò che produce, di ciò che è il relativo, ossia l’umano. La mela è un frutto commestibile, che allieta e nutre il palato umano, quindi potrebbe simboleggiare quella conoscenza tutta umana e relativa, richiamata anche dalla leggendaria mela di Isaac Newton (1642-1727), in contrapposizione ad una conoscenza divina ed assoluta. Adamo ed Eva, mangiando la mela, decidono di abbandonare l’unione con il divino, per vivere una propria vita separata, individuale ed autonoma, dotata, quindi, di una propria conoscenza soggettiva e prospettica, non più oggettiva e completa. Nel racconto del peccato originale, la tentazione spinge l’uomo a spostare l’attenzione da Dio all’albero – cioè dalla persona all’oggetto – e a fissarsi sull’oggetto. Prima l’uomo parlava con Dio e a Dio, poi comincia a contrat- tare con la tentazione, per finire col ritrovarsi a desiderare l’oggetto – l’albero – come se fosse la sua salvezza. L’interlocutore ontologico dell’uomo non è più un principio agapico assoluto, ma una realtà oggettuale. L’uomo diventa ciò che contempla. Come è il suo interlocutore fondamentale, così è l’uomo. Poiché l’uomo è una realtà dialogica, non può fare a meno del dialogo, ma tutto dipende da chi è l’interlocutore di questo dialogo. Se è un oggetto, l’uomo diventerà sempre più un oggetto. Percepirà se stesso come un oggetto e si rela- zionerà agli altri come ad oggetti. Anzi, li considererà come suoi oggetti. Ogni peccato commesso dopo il peccato originale sarà un passo ulteriore in questa reificazione spersonalizzante dell’uomo8. La ribellione al comando divino (meglio, l’avere ignorato la descrizio- ne divina) non consiste nell’infrangere un divieto, ma nel desiderare una propria personalità individuale, separata dal Tutto, soggettiva, ma questa soggettività si trasforma in oggetto del Tutto; abbandonata la soggettività del Tutto ciò che resta, come parte, è una soggettività relativa, ossia una reificazione rispetto al Tutto: il peccato originale, infatti, si presenta come separazione, rottura del Tutto nelle sue molteplici parti, come oggetti della soggettività universale. Una prima rottura nel creato (diversa la rottura dell’Uno prodotta dalla creazione, poiché essa fu anche rottura, salto qualitativo, di sostanze: so- miglianza con Dio, non identità) era già avvenuta con la comparsa di Eva: 8 M.I. Rupnik, Dire l’uomo. Persona, cultura della Pasqua, cit., pp. 233-234.           26 Il diritto come estetica Mandò dunque il Signore Dio ad Adamo un sonno profondo; ed essendosi egli addormentato, gli tolse una delle coste, e ne riempì il luogo con della carne. E con la costa che aveva tolta ad Adamo, formò il Signore Dio una donna, e gliela presentò. E disse Adamo: “Ecco, questo è un osso delle mie ossa, e carne della mia carne; questa sarà chiamata virago, perché è stata tratta dall’uomo. Perciò l’uomo lascerà il padre e la madre, e si stringerà alla sua moglie, e saranno due in un corpo solo”9. Tale rottura, tuttavia, non si manifesta come irrimediabile, poiché frutto di una medesima sostanza, la costola di Adamo appunto, che riconduce ad unità ciò che appare altro, diverso, separato (saranno due in un corpo solo; rebis di alchemica ispirazione). Ed, infatti, è proprio questo diverso, separato in apparenza, ma pur sempre composto della medesima sostanza, a patrocinare ed ad attivare la rottura: è il due che rompe l’unità e la rompe per attrattiva verso l’individualità, una individualità nuova, il due, appun- to. Il serpente sembra rappresentare questa attrazione verso il particolare, verso la separazione (diavolo da diabolos, διάβαλος, colui che divide). La massa della materia (il serpente) si separa nelle sue parti, forme e qualità dall’energia omogenea e priva di forme (la Divinità) o, se si preferisce, i corpi si separano dallo spirito universale. Pare di vivere nel mito l’equa- zione di Albert Einstein (1879-1955) della conversione, dell’oscillazione, della compresenza (tra?) di energia e massa in un sistema fisico, che ha su- perato la visione propria di un materialismo legato solo al visibile, all’og- gettivato: E=mc2. Henry Corbin (1903-1978) ben sintetizza il tema dell’individualizzazio- ne, dell’oggettivizzazione nel paradosso (ossimoro?) dell’unità molteplice:  9 È la visione della molteplicità nell’unità. [...]. È la visione dell’unità nella molteplicità. Le due interpretazioni si completano l’un l’altra necessariamen- te: l’ontologia integrale presuppone nel perfetto Saggio la visione simultanea dell’unità nella pluralità e della pluralità nell’unità. È attraverso questa simul- taneità che si effettua la differenziazione seconda, quella stessa in forza della Genesi, 2, 21-24.          La mela, il serpente ed il buon Dio 27 quale il pluralismo metafisico si trova fondato a partire dall’Uno – senza di esso non vi sarebbero i molti, ma caos e indifferenziazione10. I nostri simbolici progenitori, Adamo ed Eva, nell’abbandonare la cono- scenza divina, assumono, come loro conoscenza specifica, quella umana e, dunque, divengono prigionieri di tale conoscenza limitata, che comporta anche la comparsa di fatiche, dolori e morte. La separazione è un divenire altro dal Tutto, conseguentemente, all’immutabilità dell’Essere subentra il divenire con le sue opposizioni, polarizzazioni: essere e non essere, fatica e riposo, dolore e piacere, morte e vita, etc.. Il divenire non può esistere senza l’alternarsi di manifestazioni diverse, ossia, soprattutto, non può esi- stere senza la morte, intesa come termine di una manifestazione ed inizio di una nuova manifestazione. La morte, dunque, come nell’ammonimento di Dio, è indissolubilmente legata alla conoscenza umana, simbolicamente rappresentata dal cibarsi della mela. A questo punto risulta ormai eviden- te che Adamo ed Eva non potranno più cibarsi dei frutti dell’altro albero presente nell’Eden, dell’Albero della vita, dei quali sino a quel momento potevano godere. I frutti dell’Albero della vita donano la vita eterna, ma la conoscenza ed il divenire umani impediscono l’eternità, ciò che è eterno non conosce solo la parte, ma conosce direttamente il Tutto, e non diviene, ma permane sempre immutato uguale a se stesso. La parte, in quanto limi- tata non può sfuggire alla morte. Particolarmente penetrante si presenta la puntualizzazione di Friedrich W. Nietzsche (1844-1900): L’albero della conoscenza. – Verosimiglianza, ma non verità: parvenza di libertà – è per questi due frutti che l’albero della conoscenza non può venir scambiato per l’albero della vita11. Alle considerazioni mitologico-religiose sino a questo punto svolte pos- sono ora essere aggiunte altre ed ulteriori considerazioni di natura più stret- tamente filosofica. Se il divenire condanna, prima, la parte a distinguersi da un’altra parte e, successivamente, la stessa parte ad essere se stessa e, poi, a trasformarsi in altro, allora il divenire appare come un alternarsi di essere e di non essere. Il tema è antico e vide già contrapposti il pensiero di Eraclito (535 a.C.-476 a.C.), con il suo tutto scorre, panta rei (πάντα ρει), a quello di Parmenide (544 a.C.-459 a.C.), sostenitore di un Essere che non può non essere. Effettivamente anche nella realtà empiricamente rilevabile il non 10 H. Corbin, Il paradosso del monoteismo, cit., p. 39. 11 F. Nietzsche, Umano, troppo umano II, in Opere 1870/1881, Newton, Roma 1993, p. 797.           28 Il diritto come estetica essere è di problematica individuazione. Rilevabile, invece, con estrema facilità è l’essere e l’essere altro come espressione del divenire. Ma a livel- lo logico, secondo il principio di identità, l’essere è solo se stesso e l’essere altro non è continuità dell’essere iniziale, ma un diverso essere a sua volta uguale solo a se stesso. La logica parmenidea, ampiamente sviluppata ai nostri giorni da Emanuele Severino12, nega nella sostanza il divenire e co- struisce una logica di identità degli eterni, che si separa e distingue dalla logica dialettica del divenire. La logica degli eterni si addice ad un mondo metafisico, proprio del divino; mentre la logica dialettica, empiricamente verificabile/falsificabile, pare tipica degli esseri umani. Commentando Corbin, Claudio Bonvecchio in proposito ricorda: [...] oltre che teologica – la modalità catafatica [affermativa n.d.r.] di rap- portarsi al divino ha costruito una vera e propria logica (di ascendenza aristote- lico-scientifica). Anzi, si può affermare che si è affermata come la base stessa della logica occidentale in quanto sostiene (apoditticamente oltre che dogmati- camente) – nella costruzione del discorso – la possibilità di affermare in manie- ra indiscutibile le caratteristiche di un ente. Caratteristiche che ne esprimono la verità che si ritiene assoluta, se si ottemperano determinate condizioni logico- razionali (principio di non contraddizione, principio del terzo escluso, etc.). Tuttavia, questa verità [...] non consente mai un rapporto partecipativo con l’Essere. Infatti, esclude dal discorso [...] la dimensione dell’Essere che è l’u- nica che fa di un ente un ente esistente13. Ciò che conta tuttavia, ai fini delle presenti riflessioni non è tanto l’af- fermarsi nella storia umana dell’una o dell’altra logica, quanto piuttosto la constatazione che anche a livello filosofico emerge la possibilità di un dualismo logico non dissimile da quello evidenziato nell’episodio biblico del Giardino dell’Eden. Sul piano filosofico il legame tra l’Albero della conoscenza del bene e del male e quello della vita appare ancora più indissolubile che nel testo bi- blico. Infatti, è la stessa logica conoscitiva umana del divenire, che trascina con sé, come compagna inseparabile, la morte. Ciò che diviene possiede un inizio ed una fine, prima non esiste, poi esiste, quindi torna nel nulla. Non è questa la logica conoscitiva del divino, nella quale ciò che è, lo è per sempre, dall’eternità e nell’eternità. Scrive Massimo Donà: 12 Cfr. E. Severino, Immortalità e destino, Rizzoli, Milano 2006. Ed anche del medesimo Autore: L’identità del destino, Rizzoli, Milano 2009. 13 C. Bonvecchio, Le meditazioni abissali di Henry Corbin, in H. Corbin, Il paradosso del monoteismo, cit., p. 12.           La mela, il serpente ed il buon Dio 29 [...], nel testo biblico l’Albero della Vita o delle vite, al plurale, come dice in verità l’Antico Testamento – a indicare, molto probabilmente, l’infinito distin- guersi del principio – allude ad una verità che solo l’Albero della Conoscenza avrebbe potuto spingerci a ridire. Facendoci innanzitutto tradire quel senso di infinita apertura verso un futuro sempre ancora possibile che caratterizza ap- punto l’Albero della Vita. Ossia, la speranza in una rigenerazione in grado di negare la definitività connessa ad ogni supposto improbabile compimento; in primis quello costituito dalla morte. Ecco perché l’Albero della Conoscenza avrebbe reso mortale il soggetto che avesse voluto cibarsi dei suoi frutti. Perché il logos umano, troppo umano, da quest’ultimo (dall’Albero della Conoscenza) rappresentato, è costitutivamente portato a credere nell’intrascendibilità delle distinzioni e dunque a fare dello stesso distinguersi in quanto tale il principio incontrovertibile dell’esistere. Per questo, proprio dicendo tale intrascendibilità, il logos avrebbe dovuto comunque riconoscere il limite costitutivamente caratterizzante il suo stesso orizzonte, concependo anche quest’ultimo come essenzialmente limitato – os- sia, distinto. Finendo così per negare finanche la sua stessa intrascendibilità. Ed instituendo l’impossibile per eccellenza: ossia un nulla posto di là dalla po- sitività di tutto quel che è – un nulla concepito, esso medesimo, dunque come positivo. E perciò valevole come perfetta metafora del male assoluto14. Dunque, non solo la riflessione religiosa, si potrebbe dire teologica, ri- leva la presenza, almeno potenziale, nell’essere umano di ben due diverse logiche, ma anche l’analisi filosofica giunge alla medesima conclusione. Alla logica dell’Essere Assoluto si giustappone la logica del divenire, dell’essere altro. La prima si presenta meramente razionale, priva di possi- bilità empiriche di verifica/falsificazione, tutta dispiegata intorno a principi considerati indiscutibilmente veri ed evidenti senza ulteriori necessità di- mostrative; principi che nella terminologia kantiana possono essere definiti a priori. La seconda, invece, completamente costruita a posteriori, grazie alla percezione empirica del divenire, alla rilevazione, si potrebbe dire, sempre in terminologia kantiana, categoriale degli eventi. Quest’ultima lo- gica si limita a descrivere una realtà fenomenologica umana e, come tale, relativa, quindi, senza pretese di accesso conoscitivo ad ipotetiche realtà assolute e metafisiche. L’indissolubile legame, sostenuto dalla logica dell’Assoluto, tra l’Albe- ro della Conoscenza e la realtà di separazione sembra ribadito dalla Bibbia anche nell’episodio simbolico della costruzione e del crollo della Torre di Babele. L’unione tra terra e cielo, già simboleggiata dall’albero, qualsiasi albero (Yggdrasil, l’albero di Natale, etc.), viene ricercata, in questo caso, 14 M. Donà (a cura di), Parmenide. Dell’essere e del nulla, Albo Versorio, Milano 2012, pp. 94-95.           30 Il diritto come estetica attraverso un’opera di architettura, che sfida altezza e forza di gravità, ma nel crollo di questo asse umano-divino si dissolve l’universalità della pa- rola, intesa anche nella sua accezione più estesa di logos, la sua capacità creatrice e comunicatrice universale. La terra era tutta d’una sola lingua e d’una sola parlata. [...]. Ma il Signore discese per vedere la città e la torre che i figli di Adamo stavano edificando, e disse: “Ecco, è un popolo solo, ed ha una lingua sola per tutti; hanno cominciato a far questo lavoro, né desisteranno dal loro pensiero sinché non l’abbiano condotto a termine. Andiamo dunque, discendiamo, e confondiamo ivi le loro lingue, così che nessuno più comprenda la parola del prossimo suo”15. Il Tutto diviso in parti si differenzia e perde di unitarietà. Ciascuno divie- ne consapevole di sé, ma solo di se stesso; gli altri mutano in esseri ignoti, estranei. La metafora della confusione delle lingue, ancora una volta, non suona come condanna divina, ma come descrizione delle conseguenze de- rivate dalla separazione delle parti dal Tutto16. L’essere umano, in quanto parte del Tutto, non ha né colpe, né meriti, ma solo caratteri suoi propri, che si separano e divergono da quelli divini: 15 Genesi, 11, 1 e 5-7. 16 “Diventare un solo popolo, sotto una istituzione – la lingua sola – è qui, chiaramente, l’espressione della hýbris degli uomini, del loro istinto auto- idolatrico: così chiaramente che non viene nemmeno detto, ma sottinteso. Ma la questione più interessante, sulla quale ha richiamato l’attenzione Stefano Levi della Torre nel suo splendido e illuminante Zone di turbolenza, è se la misura presa da Dio – la dispersione su tutta la terra e la confusione delle lingue – sia la punizione per un grande male (come nel caso di Caino reso ramingo e fuggiasco) o la garanzia di un grande bene. L’interpretazione di Stefano Levi, in breve, è che la distruzione della città dell’onnipotenza, la moltiplicazione delle lingue, rese incomprensibili l’una all’altra, e la dispersione dei popoli in lungo e in largo sulla terra, tutto ciò è una moltiplicazione delle culture e delle istituzioni, un antidoto all’idolatria del pensiero e del potere unico, una garanzia di pluralità delle visioni del mondo e del modo di vivere nel mondo. Secondo questa profonda interpretazione, la civitas maxima non è altro che idolatria”. G. Zagrebelschy, La virtù del dubbio, Editori Laterza, Roma-Bari 2007, pp. 134-135.           La mela, il serpente ed il buon Dio 31 è relativo e non assoluto; è finito e non infinito; possiede una conoscenza limitata e non universale. In conseguenza di queste considerazioni risulta chiaro che gli avvenimenti drammatici, che videro come scenario il Para- diso terreste, non possono essere incasellati nella concatenazione di eventi, che accomuna il diritto e la morale: alla colpa consegue la responsabilità del soggetto agente, al quale, proprio in quanto responsabile, viene appli- cata la pena. Questi concetti vengono chiaramente espressi a livello sia morale che giuridico da Alf Ross (1899-1979): L’idea che esista una responsabilità morale, è identica all’idea della respon- sabilità giuridica, è l’espressione di una prescrizione normativa per cui la colpa viene collegata con le conseguenze della colpa, cioè con la pena che qui si chiama riprovazione17. Ed ancora in modo più esplicito: Quando si fa valere una responsabilità, ciò avviene sempre con la motiva- zione che qualcosa fu commessa che, secondo un determinato ordinamento normativo, non sarebbe dovuta accadere, qualcosa di riprovevole o proibito che, di conseguenza, dà motivo a quella reazione che consiste nel far valere la responsabilità18. Nel caso dell’Eden, come si è detto, non pare che ci si trovi in questa situazione, non solo perché viene meno l’uso tecnico della terminologia giuridica (colpa, responsabilità), ma anche, e soprattutto, perché manca la norma vincolante, il divieto. Infatti, l’interdetto pronunziato da Dio, proprio per il suo carattere che unisce conoscenza e volontà, non può essere considerato un comando, ossia una norma, ma più semplicemente una informazione, un avvertimento, al massimo, un consiglio. Si tratta cioè di una frase ipotetica (se mangi la mela divieni mortale) tesa a de- scrivere gli avvenimenti conseguenti all’azione segnalata come perico- losa. Del resto, come avrebbe potuto Dio formulare un comando a dei soggetti che, prima dello strappo, della rottura, partecipavano della sua stessa conoscenza e volontà? Dunque, se non vi fu comando, norma, non vi fu neppure colpa, in quanto mancò la violazione, la disobbedienza. Vi fu, invece, responsabilità per l’azione compiuta, ma la natura umana di Adamo ed Eva avrebbe potuto consentire loro di compiere una scelta diversa? La risposta deve essere rinviata, in quanto strettamente dipen- 17 A. Ross, Colpa, responsabilità e pena, cit., p. 49. 18 A. Ross, op. cit., p. 29.           32 Il diritto come estetica dente dalle convinzioni intorno all’esistenza o meno del libero arbitrio. Ovviamente, se non vi fu colpa non è neppure possibile reputare la tri- ste condizione umana come una pena inflitta dal Creatore alle proprie creature. Piuttosto si tratta di considerare la stessa natura umana come caratterizzata, nei propri intrinseci limiti, in quanto parte di un Tutto mol- teplice e differenziato, appunto, anche in qualità diverse. Per fornire un paragone pur imperfetto: rispetto alla media statistica degli esseri umani il fenomeno dell’albinismo è minoritario ed, in quanto tale, appare come uno svantaggio genetico, ma può veramente essere considerato sempli- cemente uno svantaggio esistenziale o potrebbe anche essere visto come una articolazione qualitativa del genere umano, dotata a propria volta di taluni vantaggi soggettivi, sui quali tendiamo a non soffermarci per pigrizia culturale? L’interpretazione di comando (norma), di colpa e di, conseguente, punizione (pena) divina pare prodotta da una cultura umana troppo governata da una autoflagellazione di natura, prima, etica e, poi, giuridica; del resto, questa interpretazione prevalente punitiva della cac- ciata di Adamo ed Eva dal Paradiso terrestre ed anche della distruzione della Torre di Babele e relativa confusione delle lingue non può stupire in un mondo sempre più giuridicizzato, quale è il mondo attuale. Che la parte ed il tutto siano distinguibili sia teoreticamente, sia empi- ricamente è nozione inconfutabile anche, ad esempio, a livello geometri- co; così come è inconfutabile che la parte, almeno quella umana, possieda una consapevolezza, più o meno veritiera, del proprio esistere (cogito ergo sum) e non certo solo per l’autorità di René Descartes (1596-1650); altra e ben diversa questione è comprendere se esista e che caratteri manifesti la consapevolezza di se stesso propria del Tutto. Certo la parte partecipa del Tutto e, quindi, pare arduo pensare che ad una limitata consapevolezza della parte non corrisponda una illimitata consapevolezza del Tutto, pur tuttavia nulla può essere escluso senza l’evidenza di prove comprensibili alla mente umana ed, inoltre, resta comunque impregiudicato il tema della qualità, delle caratteristiche di questa eventuale consapevolezza. Lo Spirito, Dio, l’Energia sicuramente non possiedono un carattere di autocoscienza, di consapevolezza uguale a quello proprio dell’essere uma- no, ma neppure la massa (materia individualizzata) possiede livelli omo- genei di autocoscienza, di consapevolezza, almeno per quanto si conosce attualmente, nelle sue molteplici articolazioni, nelle sue diverse parti. I minerali, i vegetali, gli animali e l’animale umano percepiscono se stessi ed il mondo a loro presupposto esterno in modi molto diversi ed in modi altrettanto diversi reagiscono, interagiscono con l’ambiente circostante. Il Tutto, come somma di tutte le singole parti o come entità ulteriore, può, e          La mela, il serpente ed il buon Dio 33 secondo quali modalità, percepire se stesso? Una possibile risposta passa attraverso il concetto di Spirito o di Energia che, permeando ogni cosa, ogni fenomeno, pur in quantità e, forse, anche in qualità diversa, consente questa generale, universale consapevolezza eterna di sé; una sorta di anima individuale, ma universale (sembra un ossimoro, ma è solo prospettiva di- versa), di anima mundi. Bene e male rappresentano una dualità, che acquista significato solo in un mondo scisso, a sua volta, in un bipolarismo oscillante tra un polo, espressione di assoluto, ed un secondo polo, espressione di relativo, il qua- le subisce il giudizio del primo: buono o cattivo, appunto, rispettivamente nelle sue singole e molteplici manifestazioni comportamentali. Quest’ulti- mo bipolarismo non riguarda solo la distinzione tra dover essere ed essere, ma si articola ulteriormente in quel dualismo del dover essere perennemen- te in tensione tra valori assoluti e valori relativi: i primi frutto della dimen- sione assoluta del Tutto ed i secondi propri della dimensione relativa delle parti del Tutto. La dimensione relativa della bipolarità etica consente solo l’espressione di formule valoriali a contenuto soggettivo, cioè proprie del soggetto, della parte che le esprime; del resto anche la dimensione assoluta non riesce a fornire un contenuto etico certo, ma si limita a proporre for- mule o dogmatiche oppure vuote di contenuto, prive di precise indicazioni comportamentali, come, ad esempio, il noto broccardo del diritto romano intorno alla giustizia: unicuique suum tribuere. Il problema irrisolto riguar- da il significato, cosa si intenda per suum, oltre, ovviamente alla discutibi- lità del principio generale, che potrebbe anche consistere nell’attribuire a ciascuno l’altrui e non il proprio o, addirittura non riconoscere l’esistenza di un proprio. Il problema può essere superato solo distinguendo la cono- scenza umana, cui si riferiscono queste aporie, dalla conoscenza divina, che, in quanto assoluta, non può incorrere in esse. Certo tale conoscenza non può competere all’essere umano se non per fede o per rivelazione, ma qui il tema si complica, poiché nella storia della cultura umana spesso l’e- sistenza stessa dell’Assoluto, del metafisico, in quanto non empiricamente percepibile e, quindi, problematico per la conoscenza umana, è stata messa in discussione. Pertanto questo argomento si è sviluppato secondo due di- versi percorsi culturali, l’uno monista e l’altro dualista; il primo sostenitore di una realtà unitaria, nella quale fisica e metafisica si sintetizzano o si escludono a vicenda, ed il secondo portatore di una visione separata dei due piani del reale, anche se in qualche modo comunicanti tra loro; ma di ciò si tratterà tra poco. Oltre alla possibilità alternativa dell’esistenza di una logica divina e di una umana si presenta anche l’ipotesi di una vera e propria assenza di lo-          34 Il diritto come estetica gica, come risultato dell’inconoscibilità dell’Assoluto; un Assoluto che è solo silenzio, oscuramento della conoscenza umana, come suggerisce Ni- colò Cusano (1401-1464) con l’ipotesi del Dio nascosto (absconditus): Né ha nome, né non ha nome, né ha nome e non nome. Ma quanto può dirsi disgiuntamente e copulativamente, per accordo o disaccordo, non gli conviene, per incommensurabilità di sua infinità, perché è principio uno, anteriore ad ogni concetto su esso formulabile19. Abbandonato il Paradiso terrestre da parte di Adamo ed Eva, non solo subentra la logica umana, il divenire e la morte al posto dell’unione con il divino, l’eternità statica e la vita eterna, ma la rottura porta con se stessa anche l’estraneazione dall’Assoluto, che assume una dimensione impe- netrabile, misteriosa. L’Assoluto creatore si pone prima di ogni creato e di ogni creatura e, quindi, anche prima di qualsiasi logica e razionalità. L’Increato non appartiene al mondo empirico, ma neppure al metafisico pensato od al metafisico alienato nella creazione. Esso appartiene solo a se stesso ed all’insondabile abisso, che separa l’Assoluto dal relativo, il Tutto dalle sue parti.  19 N. Cusano, Il Dio nascosto, Mimesis, Milano-Udine 2010, p. 37.          2. MONISMO E DUALISMO DEL MONDO Carcharias Taurus è il nome scientifico del meglio conosciuto squalo toro, il quale possiede una caratteristica, che può farlo assurgere ad icona, ad emblema della natura biologica. Lo squalo toro, infatti, è noto per prati- care il cannibalismo intrauterino; ossia l’embrione dominante si nutre delle uova e degli altri embrioni presenti nell’utero materno. Tale pratica non può stupire nel mondo biologico, giacché il biologico si nutre solo di altro biologico (salvo la fotosintesi clorofilliana). La vita è, dunque, indissolu- bilmente legata alla morte in un perenne solve et coagula, nel quale vige la locuzione latina mors tua vita mea. La fine di un essere vivente costituisce la possibilità di sopravvivenza per un altro essere vivente. Talvolta, poi, il ciclo vitale si esaurisce direttamente con la procreazione, evidenziando in tale modo l’irrilevanza della vita del singolo individuo e la sua funziona- lità esclusivamente orientata alla continuazione della specie. Lo scenario di morte, nel quale viene ambientata la vita biologica, si completa anche con la lotta per la vita, che pervade, permea ogni entità vivente. La lotta si dispiega all’esterno dei corpi per l’approvvigionamento di cibo, che si concretizza in una forma di dominio del più forte sul più debole, ma anche al loro interno, poiché miliardi di microorganismi (batteri, virus, funghi e parassiti vari) combattono continuamente, senza sosta contro le difese immunitarie dei corpi, che li contengono, per la propria sopravvivenza. Talvolta, pur nelle loro ridottissime dimensioni, riescono ad avere il so- pravvento, dimostrandosi più forti del loro ospite, ma, più frequentemente, soccombono, eppure non si estinguono, se non raramente, grazie alla loro facilità riproduttiva e sovrabbondanza numerica. Cannibalismo e lotta si presentano, dunque, come la struttura (si po- trebbe usare anche il termine ontologia se non fosse troppo compromesso con visioni metafisiche) profonda della natura del biologico. Non si creda, poi, di sfuggire a questa struttura con facili moralismi legati a forme, più o meno radicali, di alimentazione vegetariana o vegana, poiché anche il mondo vegetale, come quello animale è vivente e, come non si comprende la discriminazione etica tra animali sacrificabili e non sacrificabili, così          36 Il diritto come estetica non si comprende la sacrificabilità a fini eduli della vita vegetale, ma non di quella animale. Potrebbe esservi una spiegazione solo in una ipotetica gerarchia delle esistenze biologiche, che ponga l’essere umano al vertice e il vegetale alla base, ma allora non si giustifica perché tale gerarchia debba saltare un gradino, quello animale, appunto, nella scala delle sacrificabilità gerarchiche. Lo stato permanente di guerra, che caratterizza il mondo biologico, è aggravato dalla precarietà programmata della sua esistenza, la quale si deteriora e consuma progressivamente lungo tutto il corso dello sviluppo della vita. L’adagio latino, che indica l’inesorabile trascorrere delle ore, vulnerant omnes, ultima necat, ben descrive l’itinerario tra la nascita e la morte, funestato non solo dalla ricerca cannibalesca del cibo e dalle insidie date da malattie ed infortuni vari, ma, soprattutto, dal decorso del tempo e dal disgregarsi dei corpi, che accompagnano l’essere biologico verso la sua estinzione, la sua fine. Per sintetizzare l’orizzonte esistenziale del bio- logico basti ricordare la locuzione latina attribuita ad Agostino d’Ippona (354-430), ma molto più probabilmente di Bernardo da Chiaravalle (1090- 1153), con la quale si descrive la nascita dell’essere umano: inter faeces et urinam nascimur. La nascita, dalla cellula all’essere umano, è una cruenta rottura dell’individualità, una separazione di materiale organico, una fuo- riuscita di un ente da un altro ente, il numero uno che produce un altro uno, dando il via con il numero due alla catena dei molti. Quanto, poi, alla morte basta visitare ospedali, case di riposo per anziani e cimiteri per chiarirsi le idee intorno al dolore, al decadimento psico-fisico ed... all’approvvigiona- mento alimentare di microorganismi, vermi ed insetti vari, messi in fuga solo dal fuoco liberatore della cremazione. Il tragico disvelamento della triste condizione del biologico, in genera- le, ed umana, in particolare, è presente in quasi tutte le religioni, le quali, infatti, tendono a costruire speranze in un mondo non più biologico ed a porre al centro dei vari culti il concetto di sacrificio: sacrificio, in epoche arcaiche, non solo animale e vegetale, ma anche umano, a favore del divi- no. Il Cristianesimo, con ulteriore lucidità intorno alla condizione umana, poi, ha addirittura capovolto i termini del mistero sacrificale, rovesciando ed integrando il sacrificio umano nei confronto della divinità con il sacrifi- cio divino in favore dell’essere umano. Nell’Eucarestia rivive svelata l’on- tologia del biologico umano e la sua speranza di redenzione, liberazione attraverso il sacrificio del Cristo1. Il fedele cristiano, infatti, beve il sangue 1 “Ma se Cristo ha ripristinato il sacrificio umano e il cibarsi della vittima, questo è accaduto a lui e non a un fratello, perché Cristo ha instaurato la suprema legge           Monismo e dualismo del mondo 37 e mangia il corpo del Redentore; si nutre del divino per sfuggire all’orrore del biologico, per aspirare ad una vita priva di dolore ed eterna in Dio2. Il Cristo dovrebbe risanare la frattura tra divino ed umano, ricostruire il ponte crollato, riportare la riconciliazione e l’unione tra le parti ed il Tutto. La struttura del nostro mondo è stata descritta con estremo realismo da Baruch Spinoza (1632-1677): Per diritto e istituto naturale, non intendo altro che le regole della natura di ciascun individuo, in ordine alle quali concepiamo che ciascuno è naturalmente determinato a esistere e a operare in un certo modo. Così, per esempio, i pesci sono dalla natura determinati a nuotare e i grandi mangiano i più piccoli, onde diciamo che di pieno diritto naturale i pesci sono padroni dell’acqua e i grandi mangiano i più piccoli. È infatti certo che la natura, assolutamente considerata, ha pieno diritto a tutto ciò che è in suo potere, e cioè che il diritto della natura si estende fin là dove si estende la sua potenza, essendo la potenza della natura la potenza di Dio, il quale ha pieno diritto ad ogni cosa: ma, poiché la potenza universale dell’intera natura non è se non la potenza complessiva di tutti gli individui, ne segue che ciascun individuo ha pieno diritto a tutto ciò che è in suo potere, ossia che il diritto di ciascuno si estende fin là dove si estende la sua determinata potenza. E, poiché è legge suprema di natura che ciascuna cosa si sforzi di persistere per quanto può nel proprio stato, e ciò non in ragione di altra cosa, ma soltanto di se stessa, ne segue che ciascun individuo ha a pieno diritto, e cioè, come ho detto, ad esistere e a operare così come è naturalmente determinato. E qui noi non riconosciamo alcuna differenza tra gli uomini e tutti gli altri individui della natura, né tra gli uomini dotati di ragione e gli altri che ignorano la vera ragione, né tra i deficienti, i pazzi e i sani. Tutto ciò, infatti, che ciascuna cosa fa secondo le leggi della sua natura, questo fa di pieno diritto, dell’amore, per cui nessuno dei fratelli ne ha riportato danno, ma tutti hanno potuto gioire di questa restituzione. Succedevano le stesse cose dei tempi antichi, ma sotto la legge dell’amore. Per cui, se non hai un profondo rispetto di ciò che è stato compiuto, distruggerai la legge dell’amore. Che cosa quindi accadrà di te? Sarai costretto a ripristinare ciò che c’era prima, ossia atti di violenza, assassini, azioni illecite e disprezzo per il fratello”. C.G. Jung, Il libro rosso. Liber novus, Bollati Boringhieri, Torino 2013, p. 225. 2 Il sangue, la carne, il vino, il pane, l’acqua, il cielo sono simboli magici sino dai tempi più antichi: “Se avviene che io sia sopraffatto, quando bevi acqua o mangi pane, l’acqua assumerà il colore del sangue davanti a te, e il pane prenderà davanti a te il colore della carne, e il cielo prenderà davanti a te il colore del sangue. Horo figlio dell’Etiope stabilì dunque questi segni tra sé e la madre; poi si recò in Egitto, essendo pieno di magie”. E. Bresciani (a cura di), Testi religiosi dell’antico Egitto, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2001, p. 397. Il testo è ambientato ai tempi del faraone Ramesse II, XIX dinastia, 1293-1190 a. C.. Cfr. anche. J.G. Frazer, La crocifissione del Cristo, Quodlibet, Macerata 2007; S. Peverada, Il sacrificio del Dio Bambino. Edipo e l’essenza del tragico, Mimesis, Milano 2004.           38 Il diritto come estetica in quanto agisce nel modo a cui è determinata dalla natura, né può comportarsi altrimenti3. Non sempre la potenza coincide con la grandezza, come dimostrano i microorganismi, tuttavia il senso di Spinoza è chiaro: ciascuno è per natura se stesso e si comporta secondo la propria natura; la gazzella è gazzella ed il leone è leone (preda e predatore), ma anche l’essere umano è tale ed il pazzo od il criminale altro non sono che una particolare espressione di essere umano. La struttura della natura assegna a ciascuno caratteri ben precisi, tutti equivalenti nell’articolazione molteplice della natura, ma ta- luni dotati di una potenza maggiore di altri ed i più potenti prevalgono sui meno nel breve periodo della conquista del nutrimento, per, poi, comunque soccombere anch’essi sotto i colpi dell’invecchiamento, dell’indebolimen- to, delle malattie e della morte. Ovviamente dietro questa visione si agita un fiero determinismo, di cui ci occuperemo in seguito, per ora interessa notare che la natura non si presenta benigna ai nostri occhi, ma la sua strut- tura ci appare profondamente malevola, matrigna. Questa però è la mera visione propria della prospettiva umana, alla quale manca, come si è detto in precedenza, la prospettiva globale, quella divina, e, soprattutto, è viziata da un ragionare antropocentrico di fronte al Tutto, all’universale. Sarebbe facile ironia sbeffeggiare, dal punto di vista etico, il diritto naturale alla luce dell’empiria del nostro mondo biologico, ma, forse, è proprio la vi- sione etica, che dovrà essere messa in discussione nel rapporto tra visione monista e dualista del reale. In questo senso appaiono particolarmente il- luminanti le parole di Giacomo Leopardi (1798-1837) nel Dialogo della natura e di un islandese: Natura. Tu mostri non aver posto mente che la vita di quest’universo è un perpetuo circuito di produzione e distruzione, collegate ambedue tra se di ma- niera, che ciascheduna serve continuamente all’altra, ed alla conservazione del mondo; il quale sempre che cessasse o l’una o l’altra di loro, verrebbe parimen- ti in dissoluzione. Per tanto risulterebbe in suo danno se fosse in lui cosa alcuna libera di patimento. Islandese. Cotesto medesimo odo ragionare a tutti i filosofi. Ma poiché quel che è distrutto, patisce; e quel che distrugge, non gode, e a poco andare è di- strutto medesimamente; dimmi quello che nessun filosofo mi sa dire: a chi pia- ce o a chi giova cotesta vita infelicissima dell’universo, conservata con danno e morte di tutte le cose che lo compongono?4. 3 B. Spinoza, Trattato teologico-politico, Einaudi, Torino 1980, pp. 377-378. 4 G. Leopardi, Operette morali, Rizzoli, Milano 2008, p. 288.           Monismo e dualismo del mondo 39 La visione del mondo di Spinoza e le domande di Leopardi hanno il grande pregio di rappresentare un limpido, inequivocabile e coerente esem- pio di monismo immanentista del reale (Deus sive Natura). Nel pensiero monista non si tratta, per lo più, di eliminare uno dei due termini dell’al- ternativa, ma di ridurli entrambe ad unità, di sintetizzarli entro un unico termine. Tale unico termine può relegare il mondo empirico all’ambito del- la pura illusione (Velo di Maya, espressione con la quale Arthur Schopen- hauer – 1788-1860 – si richiama alla religione induista), all’ambito di un sogno che potrebbe appartenere anche solo al soggetto che lo percepisce; il mondo esterno potrebbe esistere solo nell’esperienza di chi lo vive (sogget- tivismo filosofico: esse est percipi). Spinoza esprime l’indiscutibile merito di unificare il mondo senza sacrificare la sua dimensione empirica, ma am- pliandolo ad un Tutto, che tutto comprende, seppure nell’incertezza di non riuscirne a descrivere ogni specificità, ogni particolarità, ogni individualità. Infatti, poiché la virtù e la potenza di Dio, e le leggi e regole della natura sono i decreti stessi di Dio, si deve senz’altro credere che la potenza della na- tura è infinita e che le sue leggi sono tanto ampie da estendersi a tutte le cose concepite dallo stesso intelletto divino5. L’intelletto umano, ma soprattutto il suo sentimento, di fronte ad uno scenario tanto deludente e tragico della vita si è posto la domanda del senso, del significato di tanto dolore. Poiché nel mondo del percepibile attraverso i sensi non fu, e non lo è tuttora, possibile trovare risposte sod- disfacenti, la ricerca si è avviata verso l’immateriale, verso un reale imma- ginato solo nella mente, ma non soggetto a verifica/falsificazione empirica. L’operazione si è fondata su un modello dualista di negazione del sensibile e di contemporanea affermazione del suo esatto contrario: soffro la morte ed allora affermo l’esistenza della vita eterna, a mero titolo d’esempio. Una approfondita descrizione ed analisi di tale operazione, applicata alla religione ed, in particolare, al Cristianesimo, la si può trovare nell’opera di Ludwig Feuerbach (1804-1872)6. Ragione e fede7 si sono contese questo mondo astratto dell’immagina- rio, che ha duplicato l’universo, spiegando il senso del percepibile senso- rialmente attraverso il non percepibile sensorialmente. 5 B. Spinoza, Trattato teologico-politico, cit., p. 153. 6 Cfr. L. Feuerbach, L’essenza della religione, Einaudi, Torino 1972; del medesimo Autore, L’essenza del Cristianesimo, Feltrinelli, Milano 1971. 7 Cfr. J. Habermas, Tra scienza e fede, Laterza, Roma-Bari 2006.           40 Il diritto come estetica Sul piano razionale sono stati elaborati assiomi, principi primi imme- diatamente evidenti, ma non dimostrabili, concetti a priori, ossia ancora non dimostrabili, ed operazioni logiche, teorie e teoremi, ossia descrizioni di una qualche realtà esistente, validi solo se vengono accolti i presup- posti non empirici, dai quali prendono le mosse. Del resto, è ormai noto dai teoremi di incompletezza di Kurt Gödel (1906-1978), che è possibile definire formule logiche, che negano la propria dimostrabilità, cioè siano autoreferenziate. Si tratta di teoremi di logica, che hanno prodotto notevoli conseguenza in ambito matematico e geometrico, ma che possono essere estesi a qualsiasi sistema formale. Particolarmente significativo ai fini delle riflessioni qui svolte sembra essere il secondo teorema di Gödel, quello relativo alla indimostrabilità di un sistema coerente attraverso la sua stessa coerenza, ossia la coerenza si presenta come una sorta di petitio pricipii (le premesse già contengono ciò che si deve dimostrare) e/o di tautologia (af- fermazione vera per definizione) indimostrabile, appunto. Sull’argomento sono interessanti anche le parole di Bertrand Russell (1872-1970): I grandi scandali della filosofia della scienza sono sempre stati, dopo Hume, la causalità e l’induzione. Ad ambedue tutti ci crediamo, ma Hume mostrò che la nostra credenza è una fede cieca che non poggia su alcuna prova raziona- le. [...]. Se noi sottolineiamo il fatto che la nostra credenza nella causalità e nell’induzione è irrazionale, dobbiamo inferire che non sappiamo se la scienza sia vera, e che da un momento all’altro essa potrebbe anche cessare di darci quel controllo sul nostro ambiente per amor del quale essa ci piace8. La ragione, dunque, duplica il mondo secondo il modello proprio di René Descartes tra res extensa e res cogitans: la prima riferibile ai cor- pi fisici e la seconda al pensiero dell’essere umano. La distinzione pare speculare a quella tra materia e spirito, ma ne diverge perché, mentre la distinzione cartesiana potrebbe sussistere anche all’interno di un sistema immanentista monistico, tutto incentrato sull’essere umano come modello di unificazione, nel quale i due termini tendano rispettivamente ad identifi- carsi con l’alternativa concreto/astratto, la separazione tra materia e spirito, invece, è per necessità dualista, in quanto le due realtà si escludono vicen- devolmente come espressione di mondi diversi: fisico e metafisico. Martin Heidegger (1899-1976) va oltre nella critica e sottolinea come Descartes dualizzi il mondo, presupponendo, ma non dimostrando, il trascendente: 8 B. Russell, Saggi scettici, Longanesi &C, Milano 1975, pp. 37-38.           Monismo e dualismo del mondo 41 Cartesio non si fa offrire il modo d’essere dell’ente intramondano da questo ente, bensì, in base a un’idea di essere non disoccultata nella sua origine e non dimostrata nel suo diritto (essere = esser-stabilmente-sottomano), prescrive per così dire al mondo il suo essere autentico. Non è dunque primariamente il ricor- so a una scienza, guarda caso particolarmente apprezzata, come la matematica, a determinare l’ontologia del mondo, bensì l’orientazione fondamentalmente ontologica verso l’essere inteso come esser-stabilmente-sottomano, alla quale la conoscenza matematica soddisfa in modo eccezionale. Cartesio opera così filosoficamente in modo esplicito la commutazione degli esiti dell’ontologia tradizionale sulla fisica matematica moderna e sui suoi fondamenti trascen- dentali9. Del resto anche Werner Heisenberg (1901-1976) rileva la problematici- tà euristica della divisione cartesiana soprattutto alla luce del principio di indeterminazione. In realtà non erano in gioco soltanto degli esperimenti fisici, ma autentiche posizioni filosofiche. Qui la vecchia concezione, radicata fin da Cartesio, del- la divisione tra un mondo oggettivo, svolgentesi nello spazio e nel tempo, e un’anima da esso separata, in cui esso si rispecchia, entrava in conflitto con le nuove vedute, alla cui luce non era più possibile compiere quella divisione nel rudimentale modo precedente10. Oltre la ragione, meglio, prescindendo dalla ragione, però, si è presenta- ta all’essere umano, come via d’uscita dalla sua malasorte e dalle incertez- ze del quotidiano vivere anche un altro strumento mentale: la fede, spesso interpretata più come un dono divino che come una conquista personale11. Nell’ambito della fede il campo sembra apparentemente occupato in modo completo dalle religioni, ma non è possibile tacere che anche talune con- vinzioni filosofiche (paradosso di Zenone, negazione del divenire di Ema- nuele Severino) od anche scientifiche (teoria delle stringhe, delle brane, 9 M. Heidegger, Essere e tempo, Mondadori, Milano 2011, p. 143. 10 W. Heisenberg, Lo sfondo filosofico della fisica moderna, Sellerio Editore, Palermo 1999, p. 95. 11 “La fede essenzialmente una negazione implicita o violenta di una realtà o della realtà. La realtà è per tutti una prigione: ma, fortunatamente, una prigione male custodita. Ora, la fede insegna a negare queste muraglie, insegna il modo di fuggirle, ecc. La scienza è invece una affermazione di questa realtà; il modo che essa ci insegna di liberarci della realtà è appunto quello di affermare la realtà. La fede invece vuole insegnarci a fuggire la realtà, insegnando a negarla. La scienza appare come superiore alla fede, appunto perché essa è una liberazione dalla negazione”. A. Emo, Il Dio negativo. Scritti teorici 1925 -1981, Marsilio, Venezia 1989, p. 5.           42 Il diritto come estetica degli universi paralleli e multidimensionali) sono sorrette più da dogmi, da assiomi logici, da teorie indimostrabili e da convinzioni personali che da prove empiriche. Esempio tipico di dualismo è rappresentato dal sistema filosofico di Pla- tone (428 a.C.-348 a.C.). Il mondo empirico si presenta come l’ombra di una realtà metafisica ideale, nella quale la perfezione dei modelli informa di sé le copie degradate della realtà in cui vive l’essere umano. Gli arche- tipi, le idee delle qualità e degli Enti emanano perfezione, immutabilità ed eternità e sono questi a presentarsi come la vera ontologia del mondo, che nelle forme terrene manifesta tutta la propria imperfezione e provvisorie- tà. Il mondo fisico, come brutta copia del mondo iperuranico, metafisico, spirituale, privo di spazio e di tempo, posto oltre la volta celeste e sede delle idee, produce una duplicazione consolatoria, sottraendo il concetto di verità alla percezione dei sensi ed attribuendolo all’elaborazione razionale. Questo sopraceleste sito nessuno dei poeti di quaggiù ha cantato, né mai canterà degnamente. Ma questo ne è il modo, perché bisogna pure avere il co- raggio di dire la verità soprattutto quando il discorso riguarda la verità stessa. In questo sito dimora quella essenza incolore, informe ed intangibile, contem- plabile solo dall’intelletto, pilota dell’anima, quella essenza che è scaturigi- ne della vera scienza. Ora il pensiero divino è nutrito d’intelligenza e di pura scienza, così anche il pensiero di ogni altra anima cui prema di attingere ciò che le è proprio; per cui, quando finalmente esso mira l’essere, ne gode, e con- templando la verità si nutre e sta bene, fino a che la rivoluzione circolare non riconduca l’anima al medesimo punto. Durante questo periplo essa contempla la giustizia in sé, vede la temperanza, e contempla la scienza, ma non quella che è legata al divenire, né quella che varia nei diversi enti che noi chiamiamo esseri, ma quella scienza che è nell’essere che veramente è12. Il mito della caverna e delle sue ombre, proiettate sulla roccia, descrive una conoscenza limitata, tutta ed esclusivamente umana, che può presen- tarsi completa solo nel momento in cui riesce ad uscire all’aperto e con- quistare la luce delle idee pure: una conoscenza, dunque, non empirica è quella sostenuta da Platone, poiché quest’ultima altro non sarebbe che una falsa conoscenza. Dentro una dimora sotterranea a forma di caverna, con l’entrata aperta alla luce [...], pensa di vedere degli uomini che vi stiano dentro fin da fanciul- li, incatenati gambe e collo, [...]. Alta e lontana brilli alle loro spalle la luce d‘un fuoco e tra il fuoco e i prigionieri corra rialzata una strada. Lungo questa 12 Platone, Fedro, in Tutto Platone, Laterza, Bari 1967, vol. I, p. 755.           Monismo e dualismo del mondo 43 pensa di vedere costruito un murricciolo, come quegli schermi che i burattinai pongono davanti alle persone per mostrare al di sopra di essi i burattini. [...]. Immagina di vedere uomini che portano lungo il murricciolo oggetti di ogni sorta sporgenti dal margine, [...]. Strana immagine è la tua, disse, e strani sono questi prigionieri. – Somigliano a noi, risposi; credi che tali persone possano vedere, anzitutto di sé e dei compagni, altro se non le ombre proiettate dal fuo- co sulla parete della caverna che sta loro di fronte?13. Come si è già fatto cenno, il pensiero religioso presuppone già di per se stesso un dualismo del reale: la realtà divina crea la realtà umana ed esse vivono separate nella costante tensione di quest’ultima verso la prima: il ritorno alla casa del Padre. Esempio particolarmente significativo in questo senso è il pensiero gnostico. Sono molteplici le correnti gnostiche, alcune risalgono al mondo antico ed altre fioriscono nell’alveo del Cristianesimo, ma comunque tutte hanno in comune alcuni caratteri identificativi. In pri- mo luogo, il mondo umano rappresenta un degrado rispetto a quello divino. In secondo luogo, lo spirito, la scintilla divina che alberga in ciascun essere umano è racchiusa, come in una prigione, dal corpo fisico, ossia nella ma- teria. In terzo luogo, è aspirazione comune di tutte le scintille racchiuse nei corpi umani di risalire al cielo per ricongiungersi con la perfezione eterna del divino. La dottrina di Simon Mago (I secolo d.C.), descritta con spirito critico cristiano da Ireneo (130 d.C.-202 d.C.) sembra particolarmente utile per rilevare gli elementi gnostici più caratterizzanti di questo pensiero: Se infatti alcuni caratteri presentano chiara impronta gnostica (ostilità degli angeli [= arconti] verso Dio e verso l’uomo, imprigionamento dell’elemento divino nel corpo umano), altri sembrano estranei a questa esperienza: diviniz- zazione di Simone, cioè del capostipite della setta, e di Elena, e la loro pretesa immortalità; mancanza di una specifica colpa che spieghi l’imprigionamento dell’elemento divino nel corpo; redenzione del credente solo grazie alla cono- scenza della natura divina di Simone, mentre nell’esperienza gnostica è fon- damentale il riconoscimento dell’elemento divino che ogni gnostico reca in sé; assenza del Demiurgo, creatore del mondo, e della componente giudaica in genere: il personaggio femminile non è Sophia ma ha nomi greci, Ennoia ed Elena. Anche tenuto conto che la notizia di Ireneo presenta una dottrina che appare influenzata da tratti tipicamente cristiani e perciò non è di facile apprezzamento, si ha l’impressione che con Simone siamo sulla via che porta allo gnosticismo vero e proprio, senza esserci ancora giunti14. 13 Platone, Repubblica, in Tutto Platone, cit., vol. II, p. 339. 14 M. Simonetti (a cura di), Testi Gnostici in lingua greca e latina, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2001, pp. 6-7.           44 Il diritto come estetica Ovviamente anche il Cristianesimo dualizza il mondo nell’attesa di una sua riunificazione alla fine dei tempi. Il non senso del mondo empirico cer- ca, dunque, spiegazione in un dualismo astratto, ma non per questo meno probabile del monismo empirico o soggettivistico. Comunque se i dualismi concreto/astratto e fisico/metafisico rappresentano probabilmente l’origine del concetto stesso di dualismo del reale, molti altri dualismi percorrono sia le visioni dualiste che moniste del mondo. Si pensi alle coppie luce/tenebre, finito/infinito, eternità/tempo, perfetto/ imperfetto, che per il loro stesso carattere simbolico aprono le porte alla via metafisica, poiché in esse è già insito, sottointeso un mondo migliore che si contrappone ad uno peggiore, ma anche la coppia vita/morte prepara a problematiche di rottura o di continuità dell’essere umano, ossia ancora a problematiche filosofiche e religiose. Del resto, è la stessa razionalità nu- merica, che indica il nascere del dualismo con la presenza del numero due dopo il numero uno; tale presenza consente l’emergere di tutti gli altri nu- meri ed, in effetti, rotta l’unicità dell’Essere, il dualismo muta rapidamente in pluralismo e nel mondo empirico prende il via il divenire e lo scorrere del tempo; lo si è già visto in precedenza nella vicenda gnoseologica del Giardino dell’Eden. Tra i molti dualismi esistenti, alcuni appena ricordati, ne emerge uno particolarmente significativo, poiché favorisce la dualizzazione del reale, sebbene venga generalmente considerato di natura metodologica e non on- tologica, quello tra giudizi di fatto e giudizi di valore15. Si tratta della nota Grande Divisione di David Hume (1771-1776), nella quale si distingue ciò che può essere predicato di falsità o di verità attraverso la verifica empirica, sono i soli giudizi di fatto, e ciò che può essere predicato di buono o di cat- tivo, di giusto o di ingiusto, di bello o di brutto, in quanto non sottoponibile a verifica empirica, sono i giudizi di valore. Il dualismo immediatamente evidente tra oggettività empirica e soggettività umana, nasconde un altro dualismo ben più rilevante per la visione dualistica del reale, quello tra valori relativi e valori assoluti; infatti questi ultimi non possono che pre- supporre per avere senso nella loro indiscutibile veridicità una dimensione a sua volta assoluta, alla quale essi appartengono. Tale dimensione può essere anche meramente razionale, ma più frequentemente ha natura tra- scendente e religiosa. Immanuel Kant (1724-1804), infatti, accanto ad una ragion pura e pratica pone anche una dimensione noumenica. 15 M.L. Ghezzi, La distinción entre hechos y valores en el pensamiento de Norberto Bobbio, Universidad Externado de Colombia, Bogotá 2007.           Monismo e dualismo del mondo 45 Nell’antinomia della ragion pura speculativa si trova un contrasto simile [impossibilità del sommo bene secondo regole pratiche e, quindi fantasiosità ed inutilità della legge morale, n.d.r.] fra necessità naturale, e libertà nella cau- salità degli eventi del mondo. Esso fu tolto col dimostrare che non c’è un vero contrasto se gli eventi, ed anche il mondo in cui essi avvengono, si considerano (come appunto si deve fare) soltanto quali fenomeni; perché un solo e mede- simo essere, agente come fenomeno (anche davanti al proprio senso interno), ha una causalità nel mondo sensibile, che è sempre conforme al meccanismo naturale; ma rispetto allo stesso evento, in quanto la persona agente si consideri nello stesso tempo come noumeno (come intelligenza pura, nella sua esistenza non determinabile secondo il tempo), può contenere un motivo determinante di quella causalità secondo leggi naturali, libero esso stesso da ogni legge na- turale16. I valori assoluti conducono direttamente nel mondo divino dell’igno- to, del noumenico, appunto17, mentre quelli relativi si situano nel giudizio morale dell’individuo umano, che tuttavia, può essere a sua volta conside- rato come una entità noumenica. Questi ultimi, dunque, rivelano immedia- tamente la propria natura soggettiva, ossia legata al pensiero del singolo essere umano, che solo una ottimistica visione illuminista può reputare espressione di una razionalità universale e, quindi, omogenea. Il sogget- tivismo valoriale apre la strada al nichilismo, ma di ciò si dirà più oltre, per ora bisogna meglio comprendere la distinzione posta alla base della separazione tra giudizi di fatto e giudizi di valore. Per quanto riguarda i giudizi di fatto il problema si presenta di sempli- ce soluzione, giacché possono definirsi tali solo quei giudizi sostenuti da percezione empirica. Ovviamente esistono delle difficoltà anche sulla stra- da dell’empiria, poiché sempre di giudizi trattasi, ossia di percezioni sog- gettive filtrate attraverso la struttura categoriale propria della conoscenza umana, che possiede almeno due caratteri limitanti la presunta oggettività esterna al soggetto: quello biologico, anatomico, e quello culturale. Potreb- be sussistere anche un terzo limite, quello psicologico, se si attribuisce una propria autonomia individuale o collettiva alla mente come entità separata dal cervello. Si pensi alla distinzione tra conscio, inconscio ed inconscio 16 I. Kant, Critica della ragion pratica, Laterza, Bari1972, pp. 139-140. 17 “[...] la realtà oggettiva della legge morale non può esser dimostrata mediante nessuna deduzione, nonostante ogni sforzo della ragion teoretica, speculativa o sostenuta empiricamente; e quindi, se anche si volesse rinunziare alla conoscenza apodittica, quella realtà non potrebbe venire confermata mediante l’esperienza e così dimostrata a posteriori; e tuttavia essa è stabile per se stessa”. I. Kant, op. cit., p. 59.           46 Il diritto come estetica collettivo18. Una ulteriore difficoltà è data dai limiti assoluti, non categoria- li, della percezione umana: le unità di misura di Max Planck (1858-1947) ed, in particolare, il tempo (tp), la lunghezza (lp) e la massa (mp) di Planck costituiscono l’attuale, e, forse, definitivo limite di rilevazione empirica, al di sotto del quale è impossibile o, ancora forse, anche privo di significato procedere19. Riguardo ai giudizi di valore si presenta qualche ulteriore difficoltà. Tra- lasciando i valori assoluti, in quanto appartenenti ad un mondo separato da quello umano, ad un mondo umano assolutizzato o all’individuo sempre assolutizzato, pare opportuno soffermarsi sulla natura dei giudizi di valore relativi, soggettivi. Questi ultimi generalmente vengono identificati come un dover essere, ma cosa significa dover essere a livello del singolo sogget- to? Parrebbe un impegno inderogabile, morale, non motivato da particolari interessi personali. Eppure la scelta di un qualche sistema etico e dei suoi 18 “[...] l’incosciente razionalmente comprensibile [...] consiste per così dire di materiali artificialmente incoscienti, è solo uno strato superficiale, e [...] sotto di questo vi è ancora un incosciente assoluto, che non ha nulla a che fare colla nostra personale esperienza, che dunque sarebbe un’attività psichica autonoma, opposta all’anima cosciente e perfino agli strati superiori dell’incosciente, non tocca – e forse non toccabile – dall’esperienza personale, una specie di attività psichica superindividuale, un incosciente collettivo, come io l’ho chiamato, in contrapposto con un incosciente superficiale, relativo o personale”. Cfr. C.G. Jung, Il problema dell’inconscio nella psicologia moderna, Einaudi, Torino 1971, p. 111. 19 “[...] la gravità quantistica è proprio la scoperta che non esistono punti infinitamente piccoli. Esiste un limite inferiore alla divisibilità dello spazio. L’Universo non può essere più piccolo della scala di Planck, perché non esiste nulla che sia più piccolo della scala di Planck”. C. Rovelli, La realtà non è come ci appare. La struttura elementare della cosa, Raffaello Cortina Editore, Milano 2014, p. 201. “Analogamente a come, secondo la teoria della relatività, non si può parlare in modo sensato di velocità il cui valore superi quello della velocità della luce, così non si può nemmeno parlare sensatamente di una indicazione di posizione la cui imprecisione sia inferiore al valore di 0,5. 1013 cm”. W. Heisenberg, Lo sfondo filosofico della fisica moderna, cit., p. 103. Ed ancora: “Se partiamo dall’idea che le leggi della natura contengono realmente una terza costante universale nella dimensione della lunghezza, e dell’ordine di 1013 cm, allora dovremmo aspettarci di poter applicare i nostri concetti usuali soltanto a regioni dello spazio e del tempo che siano grandi rispetto alla costante universale. E dovremmo attenderci fenomeni di un carattere qualitativamente diverso quando nei nostri esperimenti ci avviciniamo a regioni nello spazio e nel tempo più piccole dei raggi nucleari. Il fenomeno dell’inversione temporale, di cui si è discusso e che, fin qui, è risultato soltanto da considerazioni teoriche come una possibilità matematica, potrebbe perciò appartenere a queste minimissime regioni”. W. Heisenberg, Fisica e filosofia, il Saggiatore, Milano 2015, p. 165.           Monismo e dualismo del mondo 47 valori scaturisce da preferenze personali, legate all’ambiente in cui il sog- getto è stato educato e/o vive (consuetudinarietà del comportamento, etc.) e dalle proprie individuali attitudini (propensioni caratteriali, gusti, etc.), non certo da timore di ricevere punizioni o dal desiderio di ottenere utilità di qualche tipo per se stesso o per qualcun altro, poiché, in tale caso, non si sarebbe in presenza di un dover essere morale. Dunque, in concreto il dover essere consiste in una scelta comportamentale, che appaga il sog- getto agente almeno da un punto di vista morale. Potrebbe, infatti, in esso sussistere un conflitto tra un appagamento contrario al dover essere morale e l’appagamento dell’ottemperanza al medesimo. Ovviamente il conflitto interiore si risolverà in favore dell’appagamento più forte, della tensione emotiva più potente. Ma se di appagamento si tratta, il concetto di dover essere non presenta alcuna propria autonomia di significato, poiché si iden- tifica semplicemente con il concetto più immediatamente verificabile in via empirica di mi piace. Del resto, è lo stesso Kant a fornire indicazioni in questa direzione: Invero, ogni inclinazione e ogni impulso sensibile sono fondati sul senti- mento, e l’effetto negativo sul sentimento (mediante il danno che avviene alle inclinazioni) è anche sentimento. Quindi possiamo vedere a priori che la legge morale, come motivo determinante della volontà, perché reca danno a tutte le nostre inclinazioni, deve produrre un sentimento che può esser chiamato dolore; e qui ora abbiamo il primo, e forse anche l’ultimo caso nel quale, con i concetti a priori, possiamo determinare la relazione di una conoscenza (qui è conoscenza di una ragion pura pratica) col sentimento del piacere o del di- spiacere20. Il dover essere altro, dunque, non è che un mi piace, nobilitato dall’es- sere riferito ad una forza od ad una entità esterna al soggetto. Si riferisce la propria scelta ad un obbligo inderogabile esterno, radicato nella trascen- denza della ragione, del metafisico o del divino. Si sdoppia il mondo per dare oggettività anche alle scelte soggettive ed, in tale modo, tranquilliz- zare se stessi della bontà della propria opzione e presentare agli altri tale opzione non come un arbitrio, un capriccio personale, ma come una ogget- tiva necessità etica, come un comando eteronomo irresistibile, in quanto doveroso, a pena di riprovazione, disonore, colpa, peccato, rimorso, etc.. Esempio tipico di questo processo è il concetto di obiezione di coscien- za, proprio di taluni ordinamenti giuridici, che con tale motivazione esen- tano alcune persone dal tenere, in una data situazione, il comportamento 20 I. Kant, Critica della ragion pratica, cit., p. 90.           48 Il diritto come estetica prescritto per legge, ma contrario ai convincimenti etici delle medesime. Ciò spiega anche il tentativo di taluni autori21, che comunemente dai divi- sionisti viene definito con l’espressione fallacia naturalistica, di superare la Grande Divisione di Hume, unificando i due termini, fatti e valori, in un’unica entità di natura oggettiva. In questo modo tutti i valori divengono assoluti, gli uni perché trascendenti e gli altri perché immanenti ed empi- ricamente verificabili; l’essere soppianta il dover essere, ma quest’ultimo, sotto le sembianze dell’essere, mantiene la propria funzione di guida delle azioni umane e di giudizio morale. Un tale passaggio diviene impossibile se si prende atto che il concetto di devo coincide, semplicemente si identifi- ca, con quello di mi piace. Del resto, è Hume steso ad indicare questa come la vera e profonda natura del dover essere: Ora, niente accomuna il bello naturale e morale (entrambi causa di orgo- glio), se non questo potere di produrre piacere22. Il piacere, quindi, è all’origine del dover essere, ma, se questa è l’ori- gine, pare opportuno riportare un po’ di ordine nel vocabolario e chiama- re i concetti col proprio nome senza tentativi di mistificazione. L’etica, la morale, ma anche il diritto altro non sono che articolazioni specialistiche dell’estetica; talune diversità le distinguono, ma, in ultima analisi, sono semplicemente espressioni estetiche del soggetto agente. Inoltre questa de- mistificazione non solo opera favorevolmente sul piano pratico, in quanto, svelando la natura estetica, ossia soggettiva e relativa delle scelte umane, ne mina anche l’arroganza integralista ed intollerante, ma consente anche una migliore utilizzazione metodologica della Grande Divisione. Infatti, sostituire ai dualismi buono/cattivo, giusto/ingiusto il dualismo bello/brut- to significa conservare l’elemento soggettivo del giudizio, anzi rafforzar- lo, ed inoltre radicarlo anche in una realtà umana individuale o sociale empiricamente analizzabile. Si apre in questo modo la strada allo studio delle strutture motivazionali dei soggetti, alle psicologie individuali, all’e- ducazione, alla cultura ed alle tradizioni. Tolti i valori dall’empireo della razionalità astratta, della religione, della metafisica e ricollocati, come en- tità estetiche, all’interno del soggetto agente e della società cui appartiene, divengono fondamentali gli studi psicologici, antropologici e sociologici per spiegare le scelte comportamentali. Il dualismo della Grande Divisione permane, ma non necessità più di giustificazioni non empiriche (almeno in 21 Cfr. G. Carcaterra, Il problema della fallacia naturalistica. La derivazione del dover essere dall’essere, Giuffrè, Milano 1969. 22 D. Hume, Trattato sulla natura umana, Bompiani, Milano 2001, p. 599.           Monismo e dualismo del mondo 49 uno dei suoi due termini) e non produce più neppure quello sdoppiamento del mondo, che faceva sospettare una sua natura ontologica, e non mera- mente metodologica, proprio per l’ambiguità oggettiva/soggettiva del do- ver essere, dei giudizi di valore. La Grande Divisione, nella versione essere – mi piace/non mi piace l’essere, giudizi di fatto e giudizi di estetica, riesce a separare, a distinguere con chiarezza il primo temine come oggettivo ed il secondo come soggettivo; ossia, il primo, come empiricamente sussi- stente all’esterno del soggetto giudicante ed, il secondo, empiricamente sussistente all’interno del medesimo soggetto; ovviamente la prova empi- rica dell’esistenza e della qualità di quest’ultimo giudizio consisterà, sarà data proprio dalla espressione, dalla manifestazione di piacere o di dolore esternata del soggetto. Alla luce di quanto detto sino a questo punto pare chiaro che non esi- stano dimostrazioni affidabili per propendere decisamente a favore della tesi di una realtà monista o di una realtà dualista; d’altronde non è logico pretendere una dimostrazione empirica dell’esistenza di un mondo che, per definizione, non è empirico, né l’affermazione che il mondo empirico sia l’unica realtà esistente, in quanto verificabile empiricamente, può essere considerata qualche cosa di diverso da una tautologia. Forse, l’ontologia del mondo è e non è monista; è e non è dualista, ma oscillano e coesistono contemporaneamente entrambe le realtà, come sembra suggerire la fisica subatomica con la coppia particella/onda ed ancor più con l’equazione, già ricordata, di Albert Einstein E=mc2, nella quale energia e massa sembrano essere due aspetti della medesima realtà, come potrebbero essere anche spirito e materia. Anche in questo contesto appare significativo il fatto che, secondo la mec- canica quantistica, la conservazione dell’energia da un lato, che esprime la sua esistenza atemporale, e il manifestarsi dell’energia nello spazio e nel tempo dall’altro sono due aspetti opposti (complementari) della realtà. In verità, essi sono sempre compresenti, ma in concreto ora l’uno ora l’altro esplicano la loro azione in modo predominante23. La riflessione di Wolfgang Pauli (1900-1958), sopra riportata, apre la strada ad una visione non più oggettivizzata in modo statico del reale, ma, bensì, oscillante in modo instabile, con frequenze diverse, sia in se stessa, sia tra soggetto ed oggetto24. Se il mondo non fosse un fatto, ma una mera 23 W. Pauli, Psiche e natura, Adelphi, Milano 2006, pp. 36-37. 24 “Laddove il vecchio tipo di spiegazione della natura, partendo dal presupposto di un osservatore indipendente, assumeva un decorso totalmente determinato dei           50 Il diritto come estetica possibilità oscillante continuamente a pendolo tra dualismi indissolubili tra loro, quali soggetto/oggetto, determinato/indeterminato, assoluto/relativo, visibile/invisibile, finito/infinito, etc., allora neppure una logica dialettica potrebbe rendere ragione degli eventi, poiché mancherebbe comunque il momento di sintesi. Si aprirebbe, invece, una finestra su una visione del mondo instabile, in pendolare mutazione perenne. Una sorta di metamor- fosi continua, come nell’opera poetica di Publio Ovidio Nasone (43 a.C. – 18 d.C.): Vi sono creature, o grandissimo eroe, il cui aspetto fu trasformato una sola volta e per sempre rimase in questa trasformazione; ve ne sono altre, a cui è data facoltà di mutarsi in più aspetti, come a te, o Proteo, abitatore del mare che circonda la terra. Ti videro, infatti, ora quale giovane, ora quale leone; ades- so eri irruente cinghiale, adesso un serpente, al cui contatto si provava paura; alcune volte le corna ti fecero toro, spesso riuscivi ad apparire pietra e spesso anche albero; talvolta, assumendo l’aspetto di acque fluenti, eri fiume; talvolta, l’opposto delle acque, fuoco25. Ovviamente ad una tale visione si accompagnerebbero inevitabilmente le domande intorno alla illimitata variazione delle metamorfosi o alla loro natura evolutiva o non evolutiva oppure, ancora, alla loro ripetitività cicli- ca secondo il principio dell’eterno ritorno di nietzschiana memoria. Forse, il futuro ci riserva la necessità di una profonda revisione dei no- stri processi logici, ad iniziare dal principio stesso di identità. Per ora basti prendere atto almeno di quanto la conoscenza scientifica ha ormai empiri- camente appurato: Con l’aiuto di queste particelle [particelle α] Rutherford riuscì nel 1919, a trasmutare nuclei di elementi leggeri; poté, per esempio, trasformare un nucleo di azoto in un nucleo di ossigeno aggiungendo la particella α al nucleo d’azoto ed espellendone nello stesso tempo un protone. Fu questo il primo esempio di processi su scala nucleare che ricordassero quelli dei processi chimici ma con- dussero alla trasmutazione artificiale degli elementi. Il successivo sostanziale fenomeni naturali, la fisica odierna è giunta a un nuovo tipo di spiegazione della natura: è il caso cieco, privo di finalità, la probabilità primaria che non può essere ricondotta a leggi deterministiche. Secondo questa concezione la probabilità primaria appare legata in modo essenziale al fatto che l’osservatore influenza i fenomeni attraverso la scelta del dispositivo sperimentale, dal momento che la misurazione comporta per legge di natura interazioni incontrollabili con l’oggetto da misurare. Questa concezione sottolinea quindi con forza l’elemento della libertà nei processi naturali”. W. Pauli, op. cit., p. 163. 25 Ovidio, Le metamorfosi, Bompiani, Milano 1992, vol. I, p. 453.           Monismo e dualismo del mondo 51 progresso fu, come è ben noto, l’accelerazione artificiale dei protoni per mezzo di congegni ad alta tensione ad energie sufficienti a produrre la trasmutazione nucleare. Erano necessari a questo scopo voltaggi di circa un milione di volt, e Cockcroft e Walton riuscirono nel loro esperimento decisivo a trasmutare nuclei dell’elemento litio in quelli dell’elemento elio26. Il sogno antico degli alchimisti diviene sempre più reale, contempora- neamente, le forme si presentano oscillanti non solo a livello di particella e di onda, appaiono sempre meno stabili e l’energia sembra giuocare contro il principio d’identità.Il tema del libero arbitrio e del suo corrispondente opposto, il servo ar- bitrio, tormenta da sempre, con un dubbio sino ad ora irrisolto, i pensieri dell’essere umano e percorre tutta la storia della filosofia1. Senza presun- zione di poter risolvere tale dubbio, conviene tuttavia, per affrontare l’ar- gomento con sufficiente chiarezza, tentare qualche definizione e qualche precisazione intorno ai concetti in discussione. In via preliminare, dunque, pare opportuno prendere le mosse dal noto confronto storico tra Erasmo da Rotterdam (1466-1536) e Martin Lutero (1483-1546), rispettivamente sostenitori, il primo, dell’esistenza del libero arbitrio ed, il secondo, della sua negazione. Erasmo formula una precisa definizione di libero arbitrio: [...] noi qui definiremo il libero arbitrio come un potere della volontà umana in virtù del quale l’uomo può sia applicarsi a tutto ciò che lo conduce all’eterna salvezza, sia, al contrario, allontanarsene2. La contestazione di Lutero non si fa attendere ed è completamente in- centrata sulla salvezza operata esclusivamente dalla Grazia di Dio e non conquistata attraverso le opere umane:  1 2 Innanzitutto Dio è onnipotente non solo per il suo potere ma anche per la sua azione, altrimenti sarebbe un Dio ridicolo. In secondo luogo sa tutto e prevede tutto, perciò non può né errare né fallire. Se il nostro cuore e la nostra intelli- genza approvano pienamente questi due punti, siamo obbligati ad ammettere, per una conseguenza ineluttabile, che non siamo stati creati per nostra volontà, ma per necessità; e perciò non facciamo ciò che ci piace in virtù del nostro Cfr. M. De Caro, M. Mori, E. Spinelli (a cura di), Libero arbitrio. Storia di una controversia filosofica, Carocci Editore, Roma 2014. E. da Rotterdam, Saggio o discussione sul libero arbitrio, in F. De Michelis Pintacuda (a cura di), Libero arbitrio. Servo arbitrio, cit., p. 57.          54 Il diritto come estetica libero arbitrio, ma ciò che Dio ha previsto da ogni eternità e che fa accadere secondo il suo proponimento e il suo potere infallibili ed immutabili3. Sia Erasmo che Lutero incentrano la questione intorno alla salvezza spi- rituale ed alla Grazia di Dio, ossia si muovono in ambito religioso, teolo- gico, tuttavia, mutando i nomi e sostituendo al nome Dio quello di Natura, di scienza, di necessità causale, di assenza del divenire o di inesistenza del tempo, i termini del problema non variano e continuano a contrapporsi, anche se mascherate in Erasmo da formule religiose di stile, proprie dell’e- poca, per evitare conseguenze repressive, le due medesime posizioni: il monismo umano ed il dualismo divino. Mentre per Erasmo l’essere umano può conoscere e decidere il proprio agire, per Lutero, invece, la conoscenza non implica anche la volontà, la scelta. Una definizione estesa di libero arbitrio potrebbe essere la seguente: es- sere soggetto autoreferenziato, cioè giustificato nella propria esistenza da se stesso; autonomo, ossia legislatore in proprio delle proprie regole di vita, e detentore di una possibilità di volere e di agire incondizionata da fattori esterni al soggetto medesimo. L’autoreferenzialità risponde all’esigenza di fornire un’origine ed un senso in proprio della vita del soggetto. L’autono- mia esprime il rifiuto di regole non condivise, provenienti da altri soggetti (eteronomia). La libertà di volere e di agire intende descrive l’inesistenza di condizionamenti sia psichici, mentali, sia fisici. La definizione deve per necessità presentarsi radicale ed estrema, poiché nell’alternativa libero o sevo arbitrio sembra impossibile prendere in considerazione posizioni in- termedie, per così dire, moderate, in quanto o la libertà c’è o non c’è, una libertà limitata corrisponde ad una non libertà, sicuramente almeno rispetto ai limiti posti, ma anche in generale, poiché lede un principio, la libertà, che, per la salvaguardia della dignità umana, non può che essere assoluto, come è assoluto il soggetto individuale, unico ed irripetibile. Del resto, l’assolutezza empirica del soggetto individuale è chiaramente palesata dal fatto che è solo su di esso che si fonda ogni conoscenza del mondo ed è da esso che si manifesta qualsiasi forma di azione, ogni agire. Naturalmente per soggetto individuale non si intende esclusivamente l’essere umano, ma qualsiasi entità esistente, capace in qualche modo di conoscere ed agire (minerali, piante, animali, entità non visibili,...?). La definizione sopra illustrata parrebbe far propendere, alla luce della percezione empirica del nostro esistere, per l’inesistenza del libero arbi- 3 M. Lutero, Commento di Martin Lutero al saggio di Erasmo, in F. De Michelis Pintacuda (a cura di), op. cit., p. 158.           De libero o de servo arbitrio? 55 trio. Infatti, l’essere umano è condizionato dal suo stesso vivere entro una forma, una realtà corporea da lui non scelta, ad esempio non possiede ali per volare, può non apprezzare il proprio aspetto fisico, rendersi conto di non possedere talune abilità intellettive (difficoltà di apprendimento, scar- sa fantasia, etc.) o funzionali (carenza di arti, difficoltà respiratorie, aller- gie, etc.), etc., e l’elenco, è bene ricordarlo, si presenta come meramente esemplificativo. Ma un colpo ancora maggiore alla libertà umana è dato dall’impossibilità di scelta di quando, dove, da chi e se nascere, con il conseguente condizionamento dato dall’ereditarietà del patrimonio gene- tico e dalla casualità della condizione sociale dei genitori, inoltre neppure il momento della propria morte è frutto di libera scelta (salvo il suicidio, forse). Naturalmente tutto ciò alla sola luce della conoscenza umana, che non può escludere qualsiasi cosa si possa immaginare nella duplicazione metafisica del mondo, anche la libera scelta di nascere, si pensi alla dottrina della reincarnazione e della metempsicosi, operanti nel pitagorismo, nel mito platonico di Er, in talune sette gnostiche, nell’Induismo, nel Buddi- smo, etc.4. Comunque, empiricamente parlando, le uniche certezze che si presentano riguardano la nostra forma, il nostro inizio e la nostra fine5. Sia 4 “Secondo costoro, che appartengono alla setta cui la ragione è più amica [aristotelici], le anime beate, liberate da ogni contaminazione materiale possiedono il cielo. Ma quelle che, sotto l’effetto di un segreto desiderio, da quella dimora vertiginosa e da quella luce perpetua hanno gettato uno sguardo in basso verso i corpi e verso ciò che chiamano quaggiù la vita si sono a poco a poco trascinate verso le regioni inferiori, per il solo peso di questo pensiero terreno. Quando abbandona lo stato di perfetta immaterialità, questa vestizione del corpo fangoso non è tuttavia, per l’anima, improvvisa, ma graduale, ed essa si impoverisce impercettibilmente e con lento degrado dalla sua purezza uniforme e assoluta, mentre s’ingrossa con certi accrescimenti di sostanza siderale. Infatti, in ciascuna delle sfere situate al di sotto del cielo, l’anima si riveste di un involucro etereo, di modo che attraverso tali involucri si adatta, progressivamente, ad unirsi a questo nostro rivestimento di sostanza terrena e pertanto, per un numero di morti pari a quello delle sfere che attraversa, l’anima perviene a quello stato che quaggiù in terra è chiamato vita”. A.T. Macrobio, Commento al sogno di Scipione, Bompiani,, Milano 2007, pp. 331-333. 5 “I mortali sono gli uomini. Essi si chiamano i mortali perché possono morire. Morire significa essere capaci di morte in quanto morte. Soltanto l’uomo muore. L’animale cessa di vivere (verendet). Esso non ha la morte in quanto morte né davanti a sé né dietro di sé. La morte è lo scrigno del nulla, vale a dire di ciò che sotto tutti gli aspetti non è mai qualcosa di meramente essente, ma che, nondimeno, è essenzialmente in quanto l’essere stesso. In quanto scrigno del nulla, la morte è il riparo nascosto (Gebirg) dell’essere. Chiamiamo ora i mortali i mortali, non perché la loro vita terrena cessi, bensì perché sono capaci di morte, essendo essenzialmente nel riparo nascosto dell’essere. Essi sono il rapporto           56 Il diritto come estetica lecito il paragone, siamo come una entità di forma predeterminata, che, nel percorso della sua caduta dall’ultimo piano di un grattacielo al marciapie- de sottostante, pensa di essere libera di poter fare ciò che vuole. Ma esiste veramente questa libertà lungo il tragitto della caduta (vita)? Per poter ri- spondere a questa domanda converrà ora approfondire anche il concetto di servo arbitrio. Il determinismo comportamentale o della volontà può presentarsi sotto diverse sembianze. Quando si afferma di poter fare una certa cosa, di poter compiere una data azione si possono intendere referenti empirici diversi, come bene illustra Ross, individuando tre condizioni necessarie per la sus- sistenza dell’agire: L’agire attuale richiede quindi il verificarsi di tre gruppi di condizioni: quel- le costituzionali, quelle occasionali, e quelle motivazionali. Possiamo anche dire che esso presuppone che l’agente abbia sia la capacità, sia l’occasione, sia la volontà o il motivo per compiere l’atto6. Ad esempio, per poter nuotare è necessario saper nuotare (capacità), disporre di uno specchio d’acqua (occasione) e, finalmente anche, volere, decidere di nuotare (volontà, motivo). A rigore solo quest’ultimo requisito riguarda direttamente il tema del libero arbitrio; il tema deterministico, in- vece, coinvolge tutti e tre i gruppi di condizioni. Infatti, il determinismo non riguarda solo la volontà, ma anche le condizioni soggettive (capacità) ed oggettive (occasioni) dell’individuo. Comunque, per semplificare un tema sin troppo arduo, conviene tralasciare queste ulteriori condizioni e soffermarsi solo sulla volontà. La volontà può presentare almeno tre forme di ipotesi di condizionamento: 1) la scelta non è riconducibile al soggetto agente (volontà divina); 2) la scelta è condizionata da fattori immateriali (cultura, educazione, morale, inconscio individuale o collettivo, psicologia, etc.); 3) la scelta dipende dalla struttura biologica, biochimica dell’essere umano (si pensi all’uomo macchina di Julien Offray de La Mettrie (1709- 1751) ed agli studi medici intorno alla causalità chimica nella struttura organica umana). È possibile ipotizzare anche altri fattori di condizion- amento, ma, data la loro particolarità concettuale, sarà più opportuno trat- tarli in seguito; ora è bene tornare al fattore di condizionamento metafisico. L’esistenza di una volontà divina prevalente su quella umana presup- pone l’accettazione di una visione dualista del mondo (fisica e metafisica), essenzialmente essente con l’essere in quanto essere”. M. Heidegger, La cosa, in A. Pinotti (a cura di), La questione della brocca, Mimesis, Milano 2007, p. 63. 6 A. Ross, Colpa, responsabilità e pena, cit., p. 264.           De libero o de servo arbitrio? 57 senza la quale l’esistenza del divino non è pensabile. Se Dio tutto ha creato, quindi, tutto conosce e tutto vuole, allora la volontà umana in altro non può consistere che nella volontà stessa di Dio. Tale posizione fu compiu- tamente espressa dall’occasionalismo di Arnold Geulincx (1624-1669) e di Nicolas Malebranche (1638-1715). L’occasionalismo, negando un qual- siasi collegamento tra la res estensa e la res cogitans cartesiane, sosteneva che le azioni umane altro non erano che occasioni della manifestazione della volontà divina, l’unica ad essere libera. In questa visione le azioni umane e la dimensione psichica si presentano come due orologi perfetta- mente sincronizzati dalla volontà divina, ma indipendenti l’uno dall’altro. A rigore, data l’evidente derivazione platonica di questo pensiero, il mondo umano potrebbe essere anche inesistente oppure, seguendo la convinzione nella onnipotenza creatrice di Dio, apparso solo in questo preciso istante in cui, tu lettore, stai leggendo questo testo, con tutti i tuoi ricordi e le tue sensazioni. L’unica certezza dell’esistenza di questo mondo deriva dalla certezza della fede in Dio7. Ovviamente il determinismo appena descritto è strettamente legato ad un pensiero religioso. Prendendo ora in considerazione il pensiero immanentista, si presenta un determinismo tutto incentrato sulla concatenazione degli eventi attra- verso il nesso di causa/effetto. La prima considerazione da manifestare ri- guarda la natura di tale nesso e la sua stessa esistenza. Già Auguste Comte (1798-1857) ne metteva in evidenza la natura metafisica e lo sostituiva con delle leggi generali di comportamento degli eventi: Se, più tardi cambia [l’essere umano, n.d.r.] le sue concezioni in proposito, è unicamente perché, allontanato, attraverso l’esperienza e la riflessione, dalle illusioni primitive, rinunzia assolutamente a penetrare il mistero del modo di prodursi dei fenomeni, di cui la sua natura gli impedisce per sempre ogni cono- scenza, per ridursi ad osservare le leggi effettive. Ed invero, se anche oggi, con tutte le nozioni positive acquisite, volessimo, per il più semplice fenomeno, 7 In termini moderni questo problema è stato affrontato sotto l’aspetto dell’autoreferenzialità causale: “I fenomeni più elementari dal punto di vista biologico, incluse le esperienze percettive, le intenzioni di fare qualcosa e i ricordi, presentano nelle loro condizioni di soddisfazione una struttura logica particolare. [...]. Le condizioni di soddisfazione del ricordo non si limitano, se le esamino nei dettagli, all’occorrere effettivo dell’evento, ma richiedono che il ricordo stesso, delle cui condizioni di soddisfazione è parte l’occorenza dell’evento, sia stato causato da tale occorenza. Possiamo esprimere la peculiarità di tale struttura dicendo che sia i ricordi sia le intenzioni sia le esperienze percettive sono causalmente autoreferenziali. Ciò significa che il contenuto dello stato stesso si riferisce allo stato ponendo un requisito causale”. J.R. Searle, La mente, Raffaello Cortina Editore, Milano 2005, p. 154.           58 Il diritto come estetica tentare di concepire per quale potere il fatto che chiamiamo causa generi quello che chiamiamo effetto, saremmo inevitabilmente portati a realizzare immagini analoghe a quelle che sono servite di base alle prime teorie umane8. Il nesso causale non viene negato dalle leggi generali, ma semplicemente contenuto entro il limite del suo significato di costanza, di ripetitività negli accoppiamenti temporali dei fenomeni, senza indagare e pregiudicare il motivo, si potrebbe dire la causa, di questo legame; ossia possiede natura meramente descrittiva e non anche esplicativa: rileva il fenomeno, ma non ne spiega il senso. In altre parole, il principio causale si presenta come il risultato del principio induttivo, sul quale si fonda tutta la ricerca empirica, ma che, non essendo a sua volta verificabile/falsificabile in via empirica, deve essere accolto a priori. Un ulteriore affinamento del principio caus- ativo passa attraverso la dimensione probabilistica delle rilevazioni em- piriche9. Conseguentemente le leggi generali causali si sono trasformate negli studi scientifici in probabilità statistiche di accoppiamento dei feno- meni, trasformando il nesso causa/effetto in un mero nesso probabilistico a frequenza variabile. La potenza di questo strumento metodologico (leggi generali causali) ha creato in un primo tempo negli studiosi una baldanzosa presunzione di poter conoscere in anticipo tutti gli eventi futuri e tale pre- sunzione ha indotto a pensare che un generale determinismo governasse gli eventi10. Tuttavia ben presto il principio probabilistico, in generale, ed, ancor più, in particolare, quello fisico-quantistico di indeterminatezza di Heisenberg11 hanno, almeno in parte, ridimensionato questa presunzione e riaperto il dibattito intorno al libero arbitrio. 8 A. Comte, Opuscoli di filosofia sociale, Sansoni, Firenze 1969, pp. 182-183. 9 “Dobbiamo dire che generalmente i dati rendono il risultato probabile. La causalità regge, diremo, in ogni esempio che abbiamo potuto provare: perciò regge probabilmente anche in esempi non confermati. Ci sono gravi difficoltà nel concetto della probabilità, ma per ora possiamo trascurarle. Almeno finché è senza eccezione disponiamo così di un principio logico”. B. Russell, La conoscenza del mondo esterno, Longanesi & C. Milano 1975, p. 38. 10 “Vi sono relazioni così invariabili tra eventi diversi avvenuti nello stesso tempo o in tempi diversi che, dato lo stato di tutto l’universo in un tempo finito, per quanto breve, ogni evento precedente o seguente può essere determinato teoricamente in funzione degli eventi dati durante quel tempo”. B. Russell, op. cit., p. 210. 11 “Al posto della precisione della posizione subentra dunque in questa interpretazione l’immagine di una nuvola di materia, il cui diametro sta nell’ordine di grandezza di 1013 cm e la cui densità decresce dal centro verso l’esterno suppergiù al modo di una curva di Gauss”. W. Heisenberg, Lo sfondo filosofico della fisica moderna, cit., p. 101.           De libero o de servo arbitrio? 59 Il nesso causa/effetto degli eventi è stato per lungo tempo centrale nell’alternativa determinismo/indeterminismo, sino al punto da relegare il tema della libertà del volere ed il relativo indeterminismo nell’ambito delle questioni metafisiche e degli errori di logica. In proposito Nietzsche si esprime in modo estremamente chiaro: La credenza originaria di ogni essere organico è forse addirittura questa, che tutto il resto del mondo sia uno e immobile. Da quel grado originario del pensiero logico è lontanissimo il pensiero della causalità: anzi, ancora oggi, noi pensiamo in fondo che tutti i sentimenti e le azioni siano atti della libera volontà: se un individuo senziente si osserva, considera ogni sensazione, ogni mutamento come qualcosa di isolato, ossia non condizionato, privo di senso, che affiora in noi senza legami col prima e col dopo. [...]. Dunque, la fede nella libertà del volere è un errore originario di ogni essere organico, che esiste sin da quando esistono in esso gli stimoli del pensiero logico; e allo stesso modo è un errore originario e ugualmente antico di ogni essere organico la fede in sostanze non condizionate e in cose uguali. Ma, in quanto ogni metafisica si è occupata prevalentemente di sostanza e di libertà del volere, la si può definire come la scienza che tratta degli errori fondamentali dell’uomo – come se fos- sero però verità fondamentali12. Estremamente interessanti in merito si presentano i più recenti studi biochimici e neurologici. In particolare, poiché i neuroni per scambiarsi scariche elettriche attraverso le connessioni sinaptiche necessitano di ener- gia, che è loro fornita dal glucosio e dall’ossigeno trasportato dal sangue, è possibile misurare l’attività cerebrale attraverso l’incremento distrettuale di tale flusso. Ciò si ottiene grazie a metodologie di esplorazione funziona- le del cervello quali la tomografia a emissione di protoni per il consumo di glucosio (PET – positron emission tomography) e la risonanza magnetica funzionale, per il flusso ematico (fMRI – functional magnetic resonance imaging). Un esperimento specifico, condotto da Benjamin Libet (1916-2007) e finalizzato a misurare il, così detto, potenziale di prontezza (ossia il cam- biamento elettrico cerebrale del soggetto, ormai da tempo dimostrato, in presenza di movimenti volontari) sembra giuocare a favore di un determi- nismo inconscio. Infatti, il distretto cerebrale corrispondente al movimento volontario in esame si attiva 550 msec prima dell’atto presupposto volon- tario. Dunque, sembrerebbe che un impulso inconsapevole anticipi l’azio- ne, ma la volontà di agire diviene consapevole 100-150 msec prima della effettiva manifestazione nel mondo esterno dell’azione stessa. 12 F. Nietzsche, Umano, troppo umano I, in Opere 1870/1881, cit., p. 529.           60 Il diritto come estetica Si può ritenere che le azioni volontarie comincino con iniziative inconsce, che vengono borbottate dal cervello. La volontà cosciente quindi selezione- rebbe quali di queste iniziative possono proseguire per diventare un’azione, o quali devono essere vietate e fatte abortire in modo che non compaia nessun atto motorio13. Ciò comporta che l’esperimento consente anche di ipotizzare, in que- sti istanti consapevoli, una attività di veto del soggetto nei confronti del processo messo in atto per giungere all’azione ed il vietare è pur sempre espressione di libero arbitrio, come il fare. Tuttavia è possibile obiettare, non solo e non tanto, che il concetto di causa non coincide con quello di correlazione, ma, soprattutto, che il concetto di conscio non si identifica con quello di arbitrio. Infatti, è possibile essere consapevoli che la casa, nella quale ci si trova, stia per crollare, ma ciò non comporta né che si pos- sa agire sul crollo, né che si possa compiere liberamente la scelta di restare o di fuggire. Il punto da dimostrare, in relazione al libero arbitrio, riguar- da la scelta, ossia l’origine dell’eventuale veto, non la consapevolezza o meno dell’azione. Del resto, tale dimostrazione scientifica pare logicamen- te impossibile, poiché la verifica/falsificazione empirica può rilevare solo i nessi, gli accoppiamenti causali, ma tali nessi possono essere considerati pressoché infiniti, quindi non sottoponibili tutti ad una sistematica speri- mentazione. Soprattutto non possono essere presi in considerazione, per ovvia impossibilità, i nessi ignoti e non immaginati come possibili dallo scienziato. Conseguentemente si può solo empiricamente affermare che l’eventuale veto all’azione nei precedenti 100/150 msec all’azione stessa può essere libero, ma può anche essere determinato da un nesso causale ignoto (l’assenza di nesso causale è solo assenza di nesso noto o ipotizza- to come possibile); ciò prescindendo da tutti i molteplici condizionamenti noti14. 13 B. Libet, Mind time. Il fattore temporale nella coscienza, Raffaello Cortina Editore, Milano 2007, p. 143. 14 “Nessuna libertà assoluta dunque, bensì uno spazio di manovra limitato dalla nostra eredità biologica, dal luogo e dal tempo in cui ci siamo trovati a nascere, dalle esperienze familiari, dalla banda criminale a cui abbiamo voluto aggregarci, o dall’associazione differenziale a cui siamo stati esposti, insomma: uno spazio di manovra limitato dalla nostra storia, nostra in quanto in gran parte costruita da noi”. I. Merzagora Betsos, Colpevoli si nasce? Criminologia, determinismo, neuroscienze, Raffaello Cortina Editore, Milano 2012, p. 101. Cfr. anche E. Soresi, Il cervello anarchico, UTET, Torino 2013. L’Autore affida lo studio delle relazioni intercorrenti tra mente e corpo ad una nuova scienza, la psico-neuro- endocrino-immunologia (PNEI). Intorno a detta scienza vedere anche P. Lissoni, Teologia della scienza, Editore Natur, Milano 2003.           De libero o de servo arbitrio? 61 Vi è poi un ulteriore impedimento logico alla dimostrazione empirica dell’esistenza del libero arbitrio: quest’ultimo è caratterizzato da assenza di nessi causativi estranei alla volontà stessa del soggetto agente, ma ciò si- gnifica che la volontà dovrebbe essere indagata prima della sua manifesta- zione empirica e ciò non è possibile per definizione. L’assenza di fenomeni empirici non può essere studiata con metodologia empirica; il nulla fisico non può essere né falsificato, né verificato, ma solo rinviato o non rinviato a realtà trascendenti, immateriali, metafisiche. Cercare la causa di una vo- lontà significa già presupporre il determinismo, poiché la volontà è libera solo se priva di cause, salvo la volontà stessa del soggetto agente (autore- ferenzialità ed autonomia), ma nulla è privo di cause nel mondo fisico ed una volontà del tipo indicato non può appartenere al mondo fisico; anche la scelta soggettiva, presupposta libera, è ancorata all’essere soggettivo, alla sua psiche ed al suo corpo, ossia ai condizionamenti culturali e materiali sia ambientali, sia personali. L’indagine sul libero arbitrio è, dunque, una indagine sul nulla o sul metafisico; non è possibile ipotizzare l’esistenza di un libero arbitrio senza duplicare il reale in entità trascendenti la fisicità, si- ano esse divine o meramente mentali astratte, non risiedenti comunque nel corpo dell’individuo agente. La consolatoria conclusione di Libet in argo- mento pare indirettamente confermare le considerazioni appena formulate: La mia conclusione sul libero arbitrio – libero davvero, in senso non deter- ministico – è che la sua esistenza è un’opinione scientifica altrettanto buona, se non migliore, della sua negazione in base alla teoria deterministica delle leggi naturali. Data la natura speculativa di entrambe le teorie, quella deterministica e quella non deterministica, perché non adottare il punto di vista che abbiamo il libero arbitrio, almeno finché non compaia – ammesso che compaia – qualche evidenza che realmente lo contraddica? Questo ci permette, almeno, di proce- dere in un modo che accetta e accoglie i nostri più profondi convincimenti e il comune sentire, che ci dicono che il libero arbitrio lo possediamo15. Resta il problema che solo il determinismo può essere assoggettato ad indagine empirica e non anche l‘indeterminismo! Conseguentemente, con- scia o inconscia che sia l’origine di un’azione, il tema da affrontare resta la presenza o l’assenza di libertà nella dimensione sia conscia, sia incon- scia e questo tema rinvia, per il libero arbitrio, ad un livello immateriale privo di quell’origine deterministica propria del mondo fisico: il mondo si duplica necessariamente per rispondere alla domanda, ma la necessità, in questo caso, ha natura logica, non certo empirica. Il punto focale di questa 15 B. Libet, Mind time. Il fattore temporale nella coscienza, cit., p. 160.           62 Il diritto come estetica discussione non sembra, dunque, essere il nesso di causa ed effetto od an- che le leggi costanti e generali di comportamento e neppure le probabilità statistiche di accoppiamento dei fenomeni, ma, piuttosto, il fattore con- dizionante l’esistenza stessa del concetto di scelta, ossia il fattore tempo: se scegliere significa generare azioni successive in alternativa tra loro, le azioni di questo tipo si possono produrre solo in un sistema in movimento, ossia condizionato dal tempo. I sistemi acronici sono privi di movimento e, quindi, anche di scelte, ma di ciò si parlerà più oltre. Al determinismo neuro-biologico, appena considerato, può aggiungersi una ulteriore forma di determinismo, nel quale determinante non appare il nesso causa/effetto, ma la totalità dell’essere con i propri caratteri e le proprie qualità, già e per sempre dispiegate nelle sue parti specifiche ed individuali. Questo determinismo si presenta espresso con rigore da Spi- noza, come in parte si è già visto, nella sua sintetica espressione Deus sive Natura. La totalità della Natura, governata dalle proprie naturali leggi, determinazioni, assurge al ruolo di divinità impersonale. Il problema non riguarda più tanto la catene causativa degli eventi, ma i caratteri peculiari, con linguaggio moderno si potrebbe dire genetici, delle sue parti, i quali, per necessità, non possono che estrinsecarsi nell’attività di queste sue parti, nelle azioni, se si tratta di animali e di animali umani. Ognuno esiste per sommo diritto di natura, e conseguentemente per sommo diritto di natura ognuno fa quelle cose che seguono dalla necessità della sua natura; e perciò, per sommo diritto di natura, ognuno giudica cosa sia bene e cosa sia male, e provvede alla sua utilità secondo il suo giudizio, e si vendica, e si sforza di conservare ciò che ama e di distruggere ciò che ha in odio16. Esponente di questa tendenza deterministica di pensiero pare essere an- che Nietzsche, come risulta con evidenza dal seguente brano: Che gli agnelli non amino i grandi uccelli predatori non sorprende nessuno: ma non autorizza certo a rimproverare i grandi predatori per il fatto di cacciare gli agnelli. E se gli agnelli dicono tra loro: “Questi predatori sono malvagi; e chi è rapace il meno possibile, anzi chi è addirittura l’opposto, un agnello cioè, non dovrebbe essere buono?”, non possiamo certo biasimare questo criterio di edificazione ideale, anche se i predatori stessi considereranno la cosa con un 16 B. Spinoza, Etica. Dimostrata con metodo geometrico, Editori Riuniti, Roma 2002, p. 258. “Infatti, alla natura di una cosa non appartiene nulla se non ciò che segue dalla necessità della natura della causa efficiente, e tutto ciò che segue dalla necessità della natura della causa efficiente accade necessariamente”. Ibidem, p. 233.           De libero o de servo arbitrio? 63 certo scherno e si diranno probabilmente: “Noi non li odiamo affatto, questi buoni agnelli, anzi li amiamo, niente è più squisito di un tenero agnello”. – Pretendere dalla forza che essa non si manifesti come forza, che essa non sia volontà di sopraffazione, volontà di oppressione, di potere, che essa non sia sete di nemici e di resistenze e di trionfi, è tanto assurdo come il pretendere dalla debolezza che essa si manifesti come forza17. I rapaci e gli agnelli di Nietzsche si sovrappongono idealmente ai pesci grandi ed a quelli piccoli di Spinoza, nell’evidente tentativo di evitare, at- traverso il determinismo della forza, della potenza insita in ciascuna entità vivente, il giudizio morale. Il vivente si trasforma in un indifferenziato Tutto, nel quale minerali, vegetali, animali ed umani rivestono ciascuno il proprio ruolo predeterminato ed esplicano le diverse potenzialità volitive ed operative, che sono state loro assegnate dalla loro stessa natura, senza poter sfuggire ai limiti imposti da quest’ultima. La forza necessitante è consustanziale all’individualità: la pietra non possiede organi riproduttivi e, quindi, non può riprodursi, ma si moltiplica per frantumazione; la pianta non ha gambe per camminare e, dunque, vive sempre nel medesimo luogo; la maggioranza degli animali non possono opporre il dito pollice alle altre dita della medesima mano, conseguentemente non possiedono manualità ed hanno sviluppato inevitabilmente attività artigianali limitatissime; l’es- sere umano vive respirando ossigeno e muore se respira anidride carboni- ca. A causa di questa particolarità può abitare esclusivamente su pianeti simili, per caratteri atmosferici, alla Terra. Questo determinismo sembra paragonabile all’opera di un tiranno, che imprigiona i propri sudditi entro carceri diversi in qualità per ciascuna categoria di essi, ma anche per cia- scun individuo di ciascuna categoria (ad esempio esseri umani nati senza braccia o diabetici). L’unica differenza consiste nella fonte del vincolo: mentre nel caso della Natura il determinismo si presenta autonomo, cioè proprio della natura stessa, nel caso del tiranno esso è eteronomo, ossia proveniente dall’esterno del soggetto agente. Per descrivere la diversità dei due modelli attraverso la tripartizione sopra ricordata del significato di poter fare qualcosa, proposta da Ross, si deve dire che il modello determi- nista spinoziano non lascia spazio né all’occasione, né alla capacità, né alla volontà, mentre il modello del tiranno inibisce solo l’occasione. Oltre a questa ipotesi determinista è possibile formulare almeno altre due ipotesi. La prima strettamente legata alla visione di un mondo governa- to da rigide leggi causali in sviluppo cronologico progressivo, in sintesi, un 17 F. Nietzsche, Genealogia della morale, Newton Compton Editori, Roma 1977, p. 64.           64 Il diritto come estetica mondo programmato in via di sviluppo; la seconda, invece, frutto della vi- sione di un mondo acronico, privo di tempo. Non pare il caso di soffermarsi ulteriormente sulla prima ipotesi, già trattata in precedenza, se non per dire che tale ipotesi può essere presa in considerazione sia dal punto di vista della Totalità di un Essere (realtà, mondo) in sviluppo determinato e pro- gressivo, ed è di questo che qui si discute, sia dal punto di vista dei singoli gruppi, delle singole catene di nessi causali, come l’ipotesi è stata discussa in precedenza e come è usata in ambito strettamente scientifico. Il mondo in sviluppo causale conserva la variabile tempo, mentre l’ulteriore ipotesi determinista, che si tratterà ora, non prevede l’esistenza di tale variabile. Il tempo non esiste. L’affermazione sembra forte, controintuitiva, ma anche falsificata dall’evidenza empirica del divenire, eppure da Parmenide a Severino, molti filosofi hanno percorso questa strada. La qualità non me- ramente logica delle affermazioni di Heidegger, consiglia di orientarsi, per esemplificare il tema, verso questo filosofo: Il tempo ha sempre funzionato come criterio ontologico o, meglio, ontico nella distinzione ingenua delle diverse regioni dell’ente. Si delimita qualcosa che è temporalmente (i processi della natura e gli accadimenti della storia) rispetto a ciò che è non temporalmente (le relazioni spaziali e numeriche). Si è soliti distinguere un senso a-temporale delle proposizioni rispetto al decorso temporale delle enunciazioni. Infine si trova un abisso tra l’ente temporale e l’eterno sovratemporale e ci si ingegna nel gettare fra essi un ponte. Temporale equivale qui in entrambi i casi ad essente nel tempo, una determinazione che, tra l’altro, è abbastanza oscura18. Il panorama del tempo heideggeriano si presenta come una estensione spaziale, nella quale si manifestano gli essenti, si illuminano, per poi scom- parire nuovamente dietro il sipario del tempo. L’ente che reca il titolo di esser-ci è rischiarato. [...]. È solo in base al ra- dicamento dell’esser-ci nella temporalità che diventa intelligibile la possibilità esistenziale di quel fenomeno, che all’inizio dell’analitica dell’esserci abbiamo contraddistinto come costituzione fondamentale: l’essere-nel-tempo19. Il tempo sfuma e con esso si affievoliscono anche le sue articolazioni in passato, presente e futuro. In fondo è solo la memoria che consente una simile distinzione. Dunque, la principale prova dell’esistenza del tempo ha natura psicologica: ricordo, quindi, ho vissuto il passato, ma, a parte 18 M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 37. 19 M. Heidegger, op. cit., p. 492.           De libero o de servo arbitrio? 65 l’ipotesi di Malebranche di un mondo creato da Dio attimo dopo attimo, l’organizzazione cronologica degli eventi potrebbe essere determinata dal- la forma categoriale, di kantiana memoria, della nostra conoscenza: cono- sciamo attraverso la categoria del tempo, che in questo caso risiederebbe in noi e non fuori di noi; avrebbe una esistenza solamente gnoseologica, non anche ontologica. Russell avanza proprio questo sospetto: La differenza che sentiamo [...] tra cause ed effetti è una semplice con- fusione, dovuta al fatto che ricordiamo gli eventi passati ma non ci capita di ricordare i futuri. L’indeterminatezza apparente del futuro su cui fanno assegnamento alcuni sostenitori del libero arbitrio, è soltanto il risultato della nostra ignoranza rela- tiva ad esso. [...]. Il libero arbitrio in ogni significato importante deve essere compatibile con la conoscenza più completa. [...]. La nostra conoscenza del passato non è basata interamente sulle deduzioni causali, ma deriva in parte dalla memoria. È un puro caso se noi non abbiamo memoria del futuro. [...]. Si deve ricordare che la previsione supposta non creerebbe il futuro più di quanto la memoria non crei il passato20. Risulta evidente che Russell costruisce il proprio ragionamento sulla indifferente reversibilità dei fenomeni di causa e di effetto, proprietà che è tipica delle operazioni di fisica teorica; inoltre, nell’accogliere questa ope- razione riduce necessariamente la funzione tempo ad un indifferenziato presente. Probabilmente la posizione privilegiata di un filosofo, che è stato al contempo anche un insigne matematico, ha consentito a questo Autore di vivere pienamente le suggestioni di fisica teorica, che i tempi agitavano. Se il mondo è privo di divenire e di movimento, che rappresenta una delle possibili forme del divenire, è anche privo di tempo, poiché non è pensabile divenire e movimento senza tempo. Riappaiono i fantasmi del- la scuola eleatica e della formulazione del principio di identità assoluta, ontologica: l’essere è e non può non essere. Se l’identità non può essere nientificata nell’essere altro, ossia non essere più se stessi allora il divenire è pura illusione psicologica. Queste riflessioni di natura filosofica, nel se- colo passato hanno trovato sostegni e conforto anche in campo scientifico: L’equazione di Wheeler-De Witt, secondo l’interpretazione più diretta, ci dice che l’universo nella sua interezza è simile a una enorme molecola in uno stato stazionario e che le diverse configurazioni possibili di questa molecola mostruosa sono gli istanti di tempo. La cosmologia quantistica diventa l’estre- 20 B. Russell, La conoscenza del mondo esterno, cit., pp. 224-225.           66 Il diritto come estetica ma estensione della teoria della struttura atomica e, simultaneamente, com- prende il tempo. Domandiamoci di nuovo quali conclusioni possiamo trarne in relazione al tempo. Le implicazioni sono quanto mai profonde. Il tempo non esiste. Esiste soltanto la mobilia del mondo che noi chiamiamo istanti di tempo21. L’equazione sopra richiamata, detta anche di Einstein – Schrödinger (1877-1961), cerca di conciliare la meccanica quantistica, che necessita di un tempo definito, con la relatività generale, che lo nega, per descrivere la gravitazione quantistica. Johon Wheeler (1911-2008) e Bryce De Witt (1923-2004) nel tentare questa difficile operazione, non ancora completa- mente risolta, evidenziarono, forse anche in parte inconsapevolmente, che la funzione tempo si presentava come problematica e lo stesso concetto di tempo poteva essere messo in discussione. Del resto, già la teoria einstei- niana della relatività, proponendo la relatività, rispetto all’osservatore, del tempo, non poteva che presupporre non solo l’assenza di un tempo asso- luto, ma anche l’irrilevanza conoscitiva di un prima e di un dopo (rispetto a cosa?), di cui l’indifferenza di Russell per il passato ed il futuro ne sono una coerente espressione. Ma se passato e futuro si propongono come in- differentemente intercambiabili, la realtà nel suo insieme, il Tutto, non può che possedere un’unica dimensione temporale: il presente. Dunque, è nel solo presente che si può discutere del libero arbitrio in questa ipotesi deter- minista. Il solo presente trasforma il tempo in una sorta di spazio (spazio/ tempo, appunto), nel quale gli eventi non trascorrono, ma sono collocati, dispiegati, come tanti libri in una libreria. Ciascuno può narrare la propria storia, ma sempre quella, il cui finale è ben noto sin dall’inizio e, comun- que, immodificabile. In questa ipotesi i fenomeni possono essere solo de- scritti, non anche voluti, ed il libero arbitrio non viene meno né per catene causali predeterminate di eventi biologici, biochimici, neurologici etc., né per la natura necessitante dei caratteri e delle potenze dei singoli enti, ma semplicemente perché non esiste il tempo ed il divenire, quindi non ha sen- so parlare di scelte libere o condizionate, che siano. Il mondo si presenta come una pellicola cinematografica, il cui movimento illusorio è dato dallo scorrere della successione dei singoli fotogrammi, in se immobili, statici, o, se si preferisce un paragone più naturalistico, come una prateria unifor- me, della quale è possibile descrivere sassi, piante, animali ed umani, che vi alloggiano, ma completamente priva di ogni arbitrio umano o divino 21 J. Barbour, La fine del tempo. La rivoluzione fisica prossima ventura, Einaudi, Torino 2003, p. 247. Cfr. anche P. Yourgrau, Un modo senza tempo. L’eredità dimenticata di Gödel e Einstein, il Saggiatore, Milano 2006.           De libero o de servo arbitrio? 67 (salvo che divina non venga considerata la prateria stessa). Questa totale assenza di arbitrio e ben descritta da Ross: Ognuno deve agire esattamente a quel modo che è determinato ad agire. Il nocciolo del problema può chiarirsi con la storiella del ladro, il quale si difen- deva dicendo che, essendo egli determinato ad agire così come aveva agito, e non avendo egli alcuna possibilità di sfuggire alla necessità ineluttabile della legge della causalità, sarebbe stato assurdo e ingiusto punirlo. E il giudice gli rispondeva: sì, Lei ha ragione. Il Suo comportamento era determinato e Lei non ha potuto sfuggire alla necessità che governa tutto l’universo. Lo stesso vale però per la società e per me in quanto suo rappresentante. La società è determi- nata a difendersi da aggressioni come la Sua e perciò io Le infliggo una pena22. Il contesto della storiella si colloca all’interno di un condizionamento governato dalla catena causale, ma si adatta ancora meglio ad un mondo privo di tempo, nel quale non ha neppure senso parlare di scelte e tutti si manifestano per quelli che sono, collocati in quel luogo da sempre e per sempre, in una eternità non data da un tempo infinito, ma da una completa acronicità. Riguardo al libero o servo arbitrio ogni proposta di soluzione del proble- ma non può che essere considerata una semplice ipotesi di lavoro, poiché le eventuali soluzioni non si prestano ad una verifica empirica; pertanto l’affermazione o la negazione del libero arbitrio deve essere considerata una mera proposizione a priori. La verifica/falsificazione empirica del determinismo o dell’indetermini- smo risulta metodologicamente impossibile a causa, oltre a quanto prece- dentemente già sostenuto, anche per l’irripetibilità dell’atto presunto voli- tivo. Infatti, se nel tempo to si presenta l’alternativa tra il compiere l’azione A o l’azione B e si compie l’azione A, nel tempo t1 si potrà forse anche compiere l’azione B, ma ciò non dimostra che la si poteva compiere anche nel tempo to. Per poter raggiungere questa dimostrazione si dovrebbe poter ripetere la scelta dell’azione, questa volta B, nel tempo to, poiché la ripetiti- vità dell’esperimento in questo caso non riguarda una serie di eventi simili (solo simili: ogni evento varia rispetto ad un altro almeno per il tempo nel quale si realizza, oltre che per la sua configurazione interattiva), ma la scel- ta stessa dell’evento da mettere in essere. Poiché è la scelta, non l’oggetto della scelta, da sottoporre a verifica/falsificazione empirica, dovrà essere possibile ripetere l’atto dello scegliere, non ciò che si è scelto o non scelto, ma ciò risulta impossibile per l’unidirezionalità presunta del tempo: dal 22 A. Ross, Colpa, responsabilità e pena, cit., pp. 184-185.           68 Il diritto come estetica presente pare possibile accedere solo al futuro ed impossibile tornare nel passato, almeno per una concezione assoluta del tempo23. Il tempo in mo- vimento unidirezionale, dunque, impedisce di trasformare il libero arbitrio da concetto a priori in concetto a posteriori, condannandolo in tale modo alla dimensione metafisica. Oltre all’impossibilità empirica di raggiungere certezze in questo cam- po, si presenta anche un ulteriore impedimento, questa volta di natura lo- gica: se il determinismo descrivesse, corrispondesse effettivamente alla realtà, alla struttura del nostro mondo, allora essere monista o dualista ed, addirittura, essere determinista o indeterminista sarebbe una condizione imposta deterministicamente. Pertanto prima di affrontare il tema del com- portamento e delle convinzioni individuali si dovrebbe descrivere e spie- gare il modello di sistema, nel quale comportamenti e convinzioni sono collocati. Se il sistema è deterministico saranno condizionate, non libere, anche le azioni e le convinzioni, che in esso si agitano, ma, viceversa, se il sistema è indeterministico le azioni e le convinzioni ad esso afferenti po- trebbero essere anch’esse libere oppure vincolate da un determinismo cau- sativo interno al sistema stesso (è il caso del principio di indeterminazione, che opera solo a livello subatomico). Tuttavia, per sapere se un sistema è o non è deterministico si devono analizzare empiricamente le azioni e le con- vinzioni che lo compongono. Risulta evidente il corto circuito che si crea: per conoscere del sistema si deve conoscere delle azioni e delle convinzio- ni che lo compongono, ma per conoscere delle azioni e delle convinzioni che lo compongono si deve conoscere il sistema. Si è in presenza di una evidente petitio principi, che impedisce ulteriori conoscenze. 23 Questo esperimento mentale risulta valido solo nella realtà a dimensione umana, ove il tempo è assoluto (tempo assoluto newtoniano), a livello di fisica teorica, invece, perde di validità o perché il tempo diviene relativo e consente viaggi almeno nel futuro (teoria della relatività einsteiniana), o perché addirittura il tempo è proprio considerato inesistente (teoria quantistica a loop). “A livello fondamentale, il tempo non c’è. L’impressione del tempo che scorre è solo un’approssimazione che ha valore solo per le nostre scale macroscopiche: deriva dal fatto che osserviamo il mondo solo in modo grossolano”. C. Rovelli, La realtà non è come ci appare. La struttura elementare delle cose, Raffaello Cortina Editore, Milano 2014, p. 159. “Il tempo non è che un effetto del nostro trascurare i microstati fisici delle cose. Il tempo è l’informazione che non abbiamo. Il tempo è la nostra ignoranza”. Ibidem, p. 220.           4. DIRITTO ARTIFICIALE L’ambito culturale del diritto presenta un ulteriore dualismo rispetto a quelli precedentemente affrontati: il dualismo diritto naturale, diritto po- sitivo, meglio, artificiale. Tale dualismo non si discosta dal modello di duplicazione del mondo, ispirato ad una visione speculare, ma perfetta, della realtà empirica: al concreto corrisponde l’astratto; al particolare il generale; al visibile l’invisibile; al finito l’infinito; al relativo l’assoluto; al fisico il metafisico; all’umano il divino. Questa specularità opera anche nel campo del diritto e genera, a fronte del diritto positivo, imposto dalla forza degli esseri umani dominanti, un diritto assolutamente giusto, detto natu- rale. Ovviamente, il processo potrebbe essere interpretato anche in senso contrario: il diritto naturale, per specularità, ispira la produzione del diritto positivo, che, tuttavia, si presenta relativo ed imperfetto, ossia non necessa- riamente giusto, ma solo valido ed efficace, rispetto al modello imitato. La differenza tra i due diritti è tutta giuocata intorno ai concetti contrapposti di assoluto/relativo e di giusto/ingiusto. Si tratta, dunque, di evidenziare l’origine, la fonte di questi concetti, rispettivamente nei due tipi di diritto. Il diritto naturale propone come propria fonte la dimensione assoluta dell’Essere, sia esso Dio, la Ragione o la Natura. Non cambiano molto i caratteri di queste tre denominazioni, che, sostanzialmente, esprimono il medesimo referente; ciò che muta è solo il necessario dualismo del rea- le, implicito nel concetto di Dio, a fronte della duplice compatibilità dei concetti di Ragione e di Natura sia con la realtà dualista che con quella monista. Infatti, la Ragione può appartenere solo al mondo fisico, può dua- lizzarsi nella res cogitans e può anche risiedere nel mondo metafisico; la medesima riflessione può essere svolta intono alla Natura, che può essere vista come una realtà completamente immanente o come il corrispondente degradato di una realtà trascendente. Non conviene addentrasi nella discussione intorno ad una Natura me- tafisica, giacché non si avrebbe alcun strumento di riscontro delle affer- mazioni, se non il proprio o l’altrui personale convincimento. Conviene quindi appoggiarsi ad un concetto di Natura immanente e procedere con          70 Il diritto come estetica lo strumento della constatazione empirica. In questo limitato ambito si incontrano due diversi significati dell’espressione diritto naturale. Da un lato, si intende descrivere la costanza di comportamento degli eventi na- turali: la legge di gravità, le condizioni che fanno franare una montagna, scoppiare un temporale, sollevare le maree, morire un essere vivente, etc.. In questo significato l’espressione è semplicemente descrittiva di ciò che avviene. Dall’altro lato, invece, la stessa espressione acquista una valenza prescrittiva di comportamenti, che possono essere seguiti o violati a livello umano (se si accoglie l’ipotesi dell’esistenza del libero arbitrio), ossia sono relativi, ma che a livello dell’Assoluto si impongono come inderogabili, necessitanti, poiché a tale livello conoscenza e volontà coincidono. Detta inderogabilità si traduce nel mondo umano in valorialità assoluta sul piano morale e, tuttavia, non necessitante su quello fisico come le leggi naturali, descrittive di fenomeni. Ancora una volta la scriminante passa attraverso il libero arbitrio: se esiste, la legge naturale non è necessitante, se non esiste, lo è ed, in quest’ultimo caso, scompare la differenza tra i due significati dell’espressione, che resta solo descrittiva. A livello empirico è facilmente constatabile che i comportamenti umani non sono omogenei, uniformi, ma divergono, anche profondamente, gli uni dagli altri (ciò che è bene per gli uni è male per gli altri e viceversa) e tale constatazione è stata portata da taluni autori come prova evidente dell’ine- sistenza del diritto naturale in quanto prescrizione giuridica assoluta. Come una sgualdrina, la legge naturale è a disposizione di tutti. Non esiste ideologia che non si possa difendere con un appello alla legge naturale. E a ben vedere come potrebbe essere altrimenti, dal momento che il fondamento ulti- mo di ogni diritto naturale risiede in una immediata percezione privata, in una contemplazione evidente, in una intuizione? Non può la mia intuizione essere buona quanto la vostra? L’evidenza, assunta a criterio di verità, spiega il ca- rattere assolutamente arbitrario delle affermazioni metafisiche. Essa le innalza sottraendole alla forza del controllo intersoggettivo, aprendo completamente la porta alla libera fantasia e al dogmatismo1. La prova empirica permane in tutta la sua validità, ma mostra il proprio limite, ossia resta solo empirica, e come tale, non può escludere che il diritto naturale non sia monolitico, ma, bensì, pluralista od, addirittura, ni- chilista. In queste due ultime ipotesi la contraddittorietà dei diritti naturali non dimostrerebbe la loro inesistenza, ma semplicemente il loro carattere variabile in dipendenza da fattori a noi ignoti: tempo, luogo, individui inte- 1 A. Ross, Diritto e giustizia, Einaudi, Torino 1965, p. 246.           Diritto artificiale 71 ressati (perché mai il diritto naturale dovrebbe essere egualitario ed uguale per tutti?), etc.. L’empiria, tuttavia ci riconduce ad osservare la realtà naturale, nella quale vive l’essere umano. Come si è già detto, il panorama è desolante e fortemente immorale agli occhi della nostra attuale cultura umana: il più forte vince sul debole, il cannibalismo governa tutto il biologico, il com- portamento etico risulta indifferente alla buona o cattiva sorte umana, al premio o alla pena e la morte trionfa su tutto e su tutti. Sembra che nella natura e nella vita non vi sia alcun senso. Infatti già Giobbe, il personaggio biblico, si interrogava: Perché mai fu data all’infelice la luce, e la vita agli amareggiati d’animo? I quali anelano la morte – che pur non viene – come si cerca un tesoro [nascosto]; i quali si rallegrano oltre ogni dire, allorché hanno trovato un sepolcro? [Perché fu data la luce] all’uomo, la cui via è nascosta, avendolo Dio circondato di tenebre?2. Il senso lo si è dovuto trovare ancora una volta nello sdoppiamento del mondo, nella dimensione metafisica, religiosa. Comunque, stando alle rile- vazioni empiriche, non pare che vi sia molto da mutuare dal diritto naturale per la vita umana. Anzi, è proprio l’orrore della natura che ha indotto l’es- sere umano a cercare differenti modelli di comportamento, modelli artifi- ciali, non naturali. Il diritto positivo rientra nel novero di questi modelli. L’artificialità si è sostituita, per motivi forse deterministici, etici o forse anche utilitaristici, alla naturalità. Il dibattito intorno alla natura benigna o maligna di questo mondo appassionò in passato molti autori tra i qua- li è possibile ricordare Gottfried Leibniz (1646-1716), quale sostenitore dell’affermazione che questo è il migliore dei mondi possibili in quanto creato da Dio, e François-Marie Arouet, detto Voltaire (1694-1778), che contesta tale posizione da un punto di vista filosofico. L’affermazione di Leibniz si presenta evidentemente metafisica e teologica, ossia a priori, mentre la critica di Voltaire si muove in ambito filosofico ed empirico, ossia a posteriori, tanto che quest’ultimo Autore la affida anche ad un rac- conto satirico, Candide, ou l’Optimisme. 2 Giobbe, 3, 20-23.           72 Il diritto come estetica Signori – disse Cocambo – voi dunque pensate di mangiare un gesuita oggi; molto bene, nulla è più gustoso del trattare così i propri nemici. In effetti il diritto naturale ci insegna a uccidere il nostro prossimo, ed è così che si agisce in tutto il mondo. Se non esercitiamo il diritto di mangiarlo, è perché abbiamo altro per fare un buon pranzo; ma voi non avete le nostre stesse risorse; certo è meglio mangiare i propri nemici anziché abbandonare il frutto della propria vittoria a corvi e cornacchie. Ma signori, voi non vorreste mangiare i vostri amici 3. Si ripresenta il solito dualismo ontologico, umano/divino, e valoriale, bene/male, di cui il dualismo diritto naturale/positivo ne è una diretta de- rivazione. In ambito immanentista monistico il dualismo riesce ad essere risolto attraverso l’artificialità dell’agire umano, attraverso l’homo artifex che crea sempre e solo, pur sotto sembianze diverse, un diritto artificiale. Una delle principali caratteristiche dell’essere umano è quella di creare artefatti materiali ed immateriali, oggetti ed idee, ossia di essere un artefi- ce; è questa una sua particolarità congenita, che lo distingue da altre entità naturali, in particolare animali. Dunque, quando si tratta di esseri umani la naturalità coincide con l’artificialità. È naturale per l’essere umano essere artificiale. La mano impugnò prima il pugno, poi la spada e la pistola per difendere il proprio corpo. La mente ideò il diritto per rendere più certi i rapporti interpersonali. In questo modo nacque il diritto positivo, che è artificiale per definizione, ma anche il diritto naturale, se espressione della creazione umana di un modello ideale, è ugualmente artificiale e frutto di istanze etiche tutte umane. La coscienza è un livello di sistema, una proprietà biologica pressoché allo stesso modo in cui la digestione, o la crescita, o la secrezione della bile sono livelli di sistema, proprietà biologiche. In quanto tale la coscienza è una ca- ratteristica del cervello e perciò è parte del mondo fisico. La tradizione contro cui mi batto dice che, essendo gli stati mentali intrinsecamente mentali, non possono per ciò stesso essere fisici. Io sostengo invece che, in quanto intrinse- camente mentali, essi sono un certo tipo di stato biologico, e dunque a fortiori sono fisici4. La posizione di Johon R. Searle è evidentemente materialista rispetto alla mens cogitans, pertanto rispecchia un modello monista e immanentista del reale. Conseguentemente, in un tale modello tutto il diritto è solo arti- ficiale, ossia umano e, quindi, relativo alla cultura dei luoghi e dei tempi 3 Voltaire, Candido o l’ottimismo, Publidue, Bolzano Novarese 1997, p. 56. 4 J.R. Searle, La mente, cit., p. 104.           Diritto artificiale 73 in cui sorge. In tale visione il diritto naturale è frutto della mente umana esattamente come il diritto positivo e, pertanto, entrambe possono essere definiti diritti artificiali. Paradossalmente potrebbero essere anche definiti come naturali, poiché l’artificialità è una componente naturale, congeni- ta dell’essere umano5. È bene precisare che il carattere umano di artifex non coincide con l’espressione latina homo faber fortunae suae, poiché quest’ultima presuppone un libero arbitrio che la prima ignora: non è pre- cisabile sotto quale spinta l’essere umano crei manufatti ed idee. Ciò detto, si tratta di evidenziare in cosa si diversificano questi due tipi di diritto (naturale e positivo), che manifestano la medesima origine, quella umana. Il diritto naturale esprime la speranza, sempre viva nell’essere umano, di accedere ad un mondo perfetto ed immutabile di giustizia; aspirazione che, per altro, come si è visto, ha prodotto la duplicazione del mondo reale. In questo caso l’accento non viene posto né sul carattere della perfezione, né su quello dell’immutabilità, bensì sulla giustizia. Cosa è giusto? La ri- sposta risiede nell’origine stessa del diritto naturale artificiale. Il giudizio del singolo essere umano determina il contenuto concettuale del sostantivo giustizia. Esso, dunque, si manifesta come soggettivo e trascina con sé la relatività propria dei giudizi soggettivi. Non si tratta di un valore assolto, ma semplicemente dell’espressione di un’opinione, di una preferenza; ciò spiega ampiamente il suo, già ricordato, carattere variabile. Per approfon- dire ulteriormente il discorso, quindi, si dovrà abbandonare il giudizio in se stesso, il suo contenuto, per rivolgere l’attenzione verso il soggetto che lo ha espresso, verso i suoi interessi, i suoi gusti, la sua cultura. Infatti, è nel soggetto ed esclusivamente nel soggetto, che è possibile comprendere non solo la variabilità dei contenuti del giudizio di giustizia, ma anche la qualità di questi contenuti. Storicamente gli esseri umani hanno prodotto da sempre utopie sociali tranquillizzanti, che potessero fungere da faro verso il quale rivolgere, di- rigere la vita in comunità. Dalla Repubblica di Platone al De Civitate Dei di Sant’Agostino d’Ippona, all’Utopia di Thomas More (1478-1535), alla Città del Sole di Tommaso Campanella (1568-1639), alla Nuova Atlantide di Francis Bacon (1561-1626), alle Avventure di Telemaco di François de Salignac de La Mothe-Fénelon (1651-1715), al Comunismo di Karl Marx (1818-1883), al movimento New Age dell’Era dell’Acquario, e l’elenco è 5 Cfr. G. Barsanti, Dalla storia naturale alla storia della natura. Saggio su Lamarck, Feltrinelli, Milano 1979. Vedere anche M. Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, Rizzoli Editore, Milano 1980.           74 Il diritto come estetica solo esemplificativo, l’interesse per una società giusta si è sviluppato attra- verso i secoli, chiedendo conforto ora all’assoluto metafisico ed ora al rela- tivo immanente. In quest’ultimo caso l’accento è stato generalmente posto sui valori della libertà e dell’eguaglianza, sia in alternativa, sia in equilibrio instabile tra loro6. Il desiderio di far prevalere il valore della libertà o quello dell’eguaglianza, come il cercare un equilibrio tra i due, è espressione di precise situazioni sociali e personali indagabili empiricamente. Basti pen- sare ai diversi interessi di potere ed economici, nonché agli altrettanto di- versi gusti ideologici, culturali e religiosi, presenti nelle menti dei singoli individui e nelle relative organizzazioni sociali. Ovviamente i singoli orga- nizzati in gruppo dominante, più forte, tenderanno a far prevalere le proprie visioni nell’ambito sociale e, per raggiungere più agevolmente tale scopo, possono avvalersi non solo del diritto positivo, ma anche, in funzione di sostegno, di quello naturale. Di contro, i singoli appartenenti al gruppo dominato, recessivo, più debole, tenteranno di opporsi alle visioni valoriali dominanti e, per fornire maggiore forza alle proprie idee, faranno appello ad un ipotetico diritto naturale, giusto per definizione. Il diritto naturale, dunque, può svolgere alternativamente una funzione sociale di rafforzamento metafisico del diritto positivo vigente o di contral- tare, sempre metafisico, al diritto positivo dominante. La contrapposizione tra gruppi sociali dominati e recessivi si manifesta, quindi, già nella dua- lizzazione tra diritto naturale e diritto positivo, ma si esprime in modo più evidente intorno ai concetti di ideologia e di utopia, così come vengono espressi da Karl Mannheim (1893-1947): [...] le utopie trascendono la situazione sociale, in quanto orientano la con- dotta verso elementi che la realtà presente non contiene affatto. Ma esse non sono ideologie, non lo sono nella misura e fino a quando riescono a trasfor- mare l’ordine esistente in uno più confacente con le proprie concezioni. Ad un osservatore che abbia di esse un concetto relativamente estrinseco, questa distinzione teoretica e del tutto formale tra ideologie e utopie sembra offrire poche difficoltà. Determinare in concreto quale, in un certo caso, sia l’ideologia e quale l’utopia è invece estremamente difficile. Noi ci troviamo qui di fronte all’applicazione di un concetto che implica dei valori e dei modelli. Per riuscire a questo, uno deve di necessità partecipare ai sentimenti e alle finalità dei partiti in lotta per il potere su di una realtà storica7. In sintesi, le ideologie esprimono prevalentemente l’opinione consoli- data dei gruppi dominanti, mentre le utopie quella dei dominati; in questa 6 Cfr. C. Rosselli, Socialismo liberale, Einaudi, Torino 1979. 7 K. Mannheim, Ideologia e utopia, il Mulino, Bologna 1970, pp. 197-198.           Diritto artificiale 75 dualizzazione si manifesta all’incirca il medesimo rapporto che intercorre tra diritto positivo e diritto naturale ed anche in questo caso, sia l’ideologia che l’utopia sono realtà meramente umane, relative, pur aspirando ad una dimensione assoluta. Ovviamente la distinzione è solo indicativa, poiché non è sempre agevole individuare chi veramente domini e chi sia vera- mente dominato ed in che misura. In ogni caso, il diritto naturale, al pari dell’utopia, si presenta come una speranza, come una istanza politica od etica; se si accoglie il dualismo fisica/metafisica, umano/divino, come la voce, l’ombra empirica del metafisico, del divino. In questo modo il diritto, in quanto organizzazione della forza fisica degli esseri umani nella storia, si trasforma in forza anche morale attraverso un dover essere eteronomo, la cui fonte è superiore a quella umana. Ma proprio quando viene meno, si prosciuga, con lo svilupparsi del soggettivismo individualista, questa fonte eteronoma ed il diritto aspira a divenire autonomo (democrazia o nichili- smo, poco rileva), si indebolisce anche la sua forza morale ed il dover es- sere perde di senso in favore del mi piace, come si dirà in seguito. A questa perdita di senso corrisponde un progressivo evaporare del diritto naturale ed una corrispondente identificazione del diritto positivo tout court con la forza. Il diritto positivo, ma anche quello naturale, finalmente gettano la maschera e si svelano come espressione della potenza dei gruppi sociali dominanti, che possono agire, nel perseguimento dei propri fini, attraverso la violenza, il convincimento od il condizionamento culturale. Sotto questo profilo le differenze tra dittatura, monarchia, oligarchia e democrazia risul- tano marginali, poiché anche quest’ultima, operando attraverso il principio maggioritario, si distingue solo quantitativamente e non qualitativamente dall’uso della sopraffazione sul singolo individuo dissenziente. Un ulteriore tentativo mistificatorio trova espressione attraverso la se- parazione del concetto di ordinamento giuridico da quello di Stato, come se un diritto potesse esistere come fonte originaria di doveri, di obblighi, senza il supporto coercitivo di uno Stato, e come se le regole imposte dallo Stato potessero vivere di vita propria senza lo Stato che le ha generate. Si è ancora in presenza di una duplicazione, che assegna al diritto una propria natura trascendente rispetto all’immanenza dello Stato. Immanen- za e trascendenza continuano ad essere i protagonisti di questo dilemma tra autonomia ed eteronomia, tra relativo ed assoluto, tra umano e divino. Ma il dilemma è destinato a restare tale, poiché la scelta non può avva- lersi di prove né empiriche, né logico-razionali. Le prove empiriche sono impercorribili, incompatibili con le realtà non empiriche e quelle logico- razionali non possono descrivere un mondo governato da una logica e da una ragione diverse da quelle umane. La scelta resta, dunque, arbitraria,          76 Il diritto come estetica affidata ad assiomi, a fede, la cui origine risale sempre e solo al soggetto, alla sua personale convinzione, illuminazione ed, in quanto tale, ad esso relativa. Più in generale, tutto il mondo empirico si manifesta sempre e solo come relativo al soggetto che lo percepisce. Lo stato di natura, come si è detto, consiste in una perenne lotta per l’esistenza e la sopravvivenza, che genera una generale incertezza nei sog- getti consapevoli intono alla propria sorte. Da ciò scaturisce l’esigenza e, contemporaneamente, il desiderio di costruire una propria sicurezza di rapporti, sicurezza in gradazione crescente dal mero impegno morale al diritto. L’artificialità non si limita, dunque, all’ideazione del diritto, ma lo organizza anche in istituzione, cioè in una entità astratta permanente, che persiste nel tempo con il mutare dei soggetti umani che la compongo- no. Esempi tipici di tale organizzazione sono l’ordinamento giuridico e lo Stato, che nelle società contemporanee tendono praticamente a coincidere, anche se, come si è visto sopra, originano da un tentativo mistificatorio di duplicazione. In altre parole, il diritto, inteso come tecnica di trattamento dei conflitti intersoggettivi umani, si organizza in un sistema burocratico istituzionalizzato. Il diritto, quindi, diviene tecnica e si produce e si applica attraverso pro- cedure burocratiche, a loro volta determinate dal diritto stesso. Il diritto ge- nera se stesso attraverso procedure ed artifici linguistici, quali i concetti di doverosità e di obbligo. In realtà, può dirsi diritto solo quel comportamento concretamente messo in essere nella convinzione del soggetto di adempie- re ad un dovere giuridico. Le procedure legislative sono solo canali per convogliare o mediare il consenso dei soggetti intorno alle proposizioni normative e queste ultime sono indicazioni, segnali per l’azione o la non azione, ma la norma resta il fatto concretamente materializzato dell’azione compiuta e non perseguita da sanzione. Si potrebbe dire che il diritto altro non è che l’opinione giuridica del soggetto intorno ai comportamenti da tenere. Il comportamento conseguente a tale opinione potrà anche essere sanzionato, ma ciò non potrà cancellare la natura giuridica di tale opinione e del conseguente comportamento. Ciò spiega anche come il diritto natu- rale possa considerarsi diritto al pari di quello positivo, non solo in quanto entrambe artificiali, ma anche perché entrambe soggettivi, esistenti solo nella convinzione di obbligatorietà del soggetto agente. Tornando ora al diritto come tecnica burocratica pare opportuno preci- sare che la burocrazia si forma come strumento di garanzia della certezza e della velocizzazione delle procedure, ossia come strumento il cui fine è il raggiungimento dei fini propri dell’organizzazione, cui viene applicata. Nel nostro caso il fine dovrebbe consistere nella realizzazione della giusti-          Diritto artificiale 77 zia, ma si è già detto che, purtroppo, il concetto di giustizia resta di conte- nuto vago e, comunque, relativo al pensiero dei singoli soggetti agenti. In queste condizioni la burocrazia ha buon giuoco a fare quello che Severino denunzia essere la tendenza di qualsiasi tecnica: il trasformarsi da mezzo in fine. Tanto il capitalismo, quanto il diritto sono forme di volontà destinate a di- ventare, da scopi, mezzi della tecnica. La tecnica è destinata a prevalere stori- camente, e questo prevalere è appunto il rovesciamento in cui la tecnica – da mezzo della volontà giuridica, o capitalistica, o democratica, o di ogni altra forma di volontà – diventa lo scopo di tali forme; si che, anche per quanto ri- guarda la volontà capitalistica e la volontà giuridica, non sarà più il capitalismo a servirsi della tecnica (e della volontà giuridica) per incrementare il profitto, e non sarà più (posto che lo sia stata) la volontà giuridica a servirsi della tecnica (e del capitalismo) per realizzare un certo ordinamento giuridico, ma sarà la tecnica a servirsi della volontà del profitto e della volontà giuridica per incre- mentare all’infinito la propria potenza8. La tecnica incrementa se stessa perseguendo obiettivi sempre più estesi ed ambiziosi, sino al punto di dimenticare gli obiettivi stessi e di espandersi per una propria logica di espansione. La burocrazia segue questo medesi- mo modello espansionista e diviene la referente di se stessa. Natalino Irti, pur sollevando vari dubbi intorno alla posizione di Severino, in particola- re riguardo alla capacità di tenuta dei giuristi e della scienza giuridica, in quanto detentori della decisione e della scelta (ritorna il libero arbitrio con il diritto), riconosce il pericolo del pantecnicismo: Insomma, se l’Apparato tecnico-scientifico è incremento indefinito della ca- pacità di raggiungere scopi, chi decide, nel silenzio della politica e del diritto, i concreti e determinati scopi, a cui quella capacità può dare soddisfazione? Non rischia forse, quell’Apparato, di risuscitare gli antichi dei, i quali, risolvendo in se stessi il tutto, non hanno bisogno degli effimeri scopi dell’uomo? Così il cammino, aperto dal giusnaturalismo, si chiuderebbe nel giustecnicismo9. La risposta alla prima domanda potrebbe essere: nessuno. Le decisioni potrebbero estinguersi nel dominio di procedure, che, una volta decise, per- mangono per sempre immutate, perpetuando se stesse. La seconda doman- da si limita a proporre un inconveniente della tecnocrazia, la sua tendenza 8 E. Severino, Atto secondo, in N. Irti, E. Severino, Dialogo su diritto e tecnica, Edizioni Laterza, Roma-Bari 2001, p. 80. 9 N. Irti, Atto primo, in N. Irti, E. Severino, Dialogo su diritto e tecnica, cit., pp. 20-21.           78 Il diritto come estetica al metafisico, ma la risposta giunge dal noto broccardo latino: adducere inconveniens non est solvere argumentum. Lo sviluppo dei sistemi informatici, poi, moltiplica queste tendenze espansioniste autoreferenziate a scapito dei fini, cui erano stati preposti. Valga l’esempio dei sevizi bancari, che, svolti da persone fisiche, forni- scono informazioni e prestazioni variabili; parzialmente sostituiti dai ban- comat, ampliano il servizio sotto il profilo degli orari di apertura, ma lo complicano con operazioni a computer autogestite dalla clientela e da co- dici segreti; completamente sostituiti da sistemi informatici, obbligano la clientela entro rigidi schemi e variabili predeterminate, vincolanti per la prestazione del servizio, con limitato, se non inesistente, accesso ad un dia- logo, ad una trattativa personale intorno alle condizioni di erogazione dei sevizi medesimi. La tecnica ha cancellato il servizio in nome del suo stesso sviluppo tecnologico. Ciò che vale per la tecnica, vale anche per il diritto, in quanto tecnica: si estende senza sosta, occupando aree sociali sempre più ampie; la giuridicizzazione del mondo moltiplica le controversie civili ed i reati; si creano aspettative di certezza sempre nuove, ma sempre anche frustrate dall’inevitabile varietà del mondo, che non conosce limiti. Inutil- mente l’artificialità del diritto si affanna a prevedere futuri comportamen- ti possibili da governare, i comportamenti continuano a moltiplicarsi alla stessa velocità delle regole e l’unico risultato resta l’inflazione normativa, ossia l’estendersi della tecnica giuridica. Da un lato, la tecnica giuridica tende a soppiantare nella regolamentazione sociale tutte le altre tecniche. Dall’altro lato, accoppiata ai modelli informatici, si disumanizza e fornisce vita ad un nuovo diritto naturale, non più divino, ma pur sempre metafisico. L’essere umano, per natura, pone domande, nei sistemi informatici deve solo fornire risposte; le domande le pone il computer. I termini dei proble- mi li determina il computer e le soluzioni pure. Non si è ancora completato questo processo di disumanizzazione, ma con i ritmi di sviluppo attuali della tecnologia i tempi della sua realizzazione probabilmente non saranno lunghi. La tecnica, dunque, si assolutizza, prima, come alibi egualitarista di de- responsabilizzazione decisionale umana, poi, come vera e propria delega di decisione autonoma, in fine forse, come effettiva capacità decisionale autonoma. La regolamentazione, che indirettamente viene generata dalle decisioni informatiche, diviene diritto, un diritto completamente artificiale, che spodesta sia il diritto positivo che quello naturale. Ma questo nuovo diritto, che si appresta a nascere, ha i caratteri del suo genitore informati- co: immateriale, trascendente l’essere umano, onnipotente, onnipresente ed assoluto.          Diritto artificiale 79 Il metafisico sembra potersi materializzare su questa Terra attraverso l’informatica ed il diritto naturale riconquistare la propria autonomia tra- scendente attraverso una nuova dualizzazione: umano/informatico. Questa nuova legge naturale è meramente descrittiva, come quella divina, poiché anche in essa conoscenza e volontà coincidono: ci si deve attenere alla maschera dei comandi e delle domande o non si ottiene risposta e servizio; in metafora, devi nuotare se non vuoi affogare. Il dover essere del diritto naturale, per così dire, di derivazione etica cede il passo al dover essere dei fenomeni naturali, delle frane, delle inondazioni, della fisica e della chi- mica. Questo diritto naturale informatico non manifesta doverosità etiche o giuridiche, ma necessità empiriche. L’alienazione dell’umano avviene nella tecnica, ed in particolare in quella informatica, attraverso una etero- nomia imposta per necessità e non più per scelta. Il libero arbitrio viene negato nei fatti e nella loro ineluttabilità. Forse, nella ciclicità delle alterne vicende del futuro potrà rinascere un nuovo umanesimo, che dovrà portare con sé anche l’emergere di un nuo- vo diritto positivo o, forse, la rinascita competerà ad una nuova fede tra- scendente ed al relativo diritto naturale oppure, sempre forse, lo strumento giuridico potrà non essere più considerato idoneo a gestire le conflittualità umane, le incertezze prodotte dalla natura ed i suoi orrori. Probabilmente il mutare della prospettiva potrà dipendere da un nuovo salto culturale, da un nuovo paradigma, per usare una espressione di Thomas Kuhn (1922- 1996)10. Del resto anche Foucault, nelle sue ricerche archeologiche intorno al sapere, alla conoscenza umana ha individuato taluni di questi salti cul- turali. Essa [la natura] si rivela omicida in quello stesso movimento che la destina alla morte. Uccide perché vive. La natura non sa più essere buona. Che la vita non potesse più essere separata dall’omicidio, la natura dal male, e i desideri dalla contro-natura, era quanto Sade annunciava nel XVIII secolo, del quale egli esauriva il linguaggio, e nell’età moderna, la quale volle lungamente con- dannarlo al mutismo. Si perdoni l’insolenza (verso chi?): I 120 giorni sono il rovescio vellutato, meraviglioso, delle Lezioni d’anatomia comparata. Co- munque sul calendario della nostra archeologia hanno la stessa età11. 10 Cfr. Th. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche. Come mutano le idee della scienza, Einaudi, Torino 1978. 11 M. Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, cit., pp. 300-301.           80 Il diritto come estetica Anche il concetto stesso di natura subisce le mutazioni culturali proprie del soggettivismo e del relativismo umano: la natura ora appare madre ed ora matrigna, ora si manifesta come benefica ed ora come malefica (indif- ferente nell’ipotesi leopardiana), ora generatrice ed ora omicida, probabil- mente perché possiede contemporaneamente tutti questi aspetti. Il giudizio dipende dal punto di vista dal quale la si osserva, ossia non è possibile per l’essere umano raggiungere una conoscenza complessiva, completa, universale, si potrebbe dire olistica. La stagione, la temperie culturale delle varie società umane consente, poi, il prevalere di una visione, di un con- vincimento, di una interpretazione rispetto ad altre, diverse ma altrettanto possibili, secondo un modello di trasformazione, di sviluppo non ancora ben identificato, secondo un modello di salto culturale molto simile ai salti quantici propri della fisica teorica.          5. NICHILISMO E NIHILISMO Le strade che conducono ad una posizione nichilista o nihilista (si vedrà in seguito la differenza tra questi concetti) sono almeno due. L’una provie- ne dal riconoscimento del pieno ed insindacabile soggettivismo delle scelte umane e conduce al pluralismo, al relativismo dei valori. L’altra origina nella convinzione del divenire della storia e della vita umana e porta a quel trionfo logico del nulla, del non essere, che attualmente sembra approdare ai lidi della tecnocrazia. Entrambe le strade, tuttavia, si aggirano nel mede- simo panorama ambientale: la fine dell’Assoluto, dell’ episteme (επιστήμη – ciò che si impone), del trascendente, dell’immutabile, dell’Essere che non può non essere1. Questo panorama è stato descritto con estrema lucidità da Nietzsche e sintetizzato nell’espressione: Dio è morto. Cerco Dio! Cerco Dio! [...]. Dov’è andato Dio? – gridò – Ve lo dico io. L’abbiamo ucciso noi, – voi ed io! Noi tutti siamo i suoi assassini. Ma come ab- biamo fatto? [...]. Che cosa abbiamo fatto, quando abbiamo svincolato questa terra dal suo sole? [...]. Non vaghiamo attraverso un nulla infinito? Non avver- tiamo l’alito dello spazio vuoto? [...]. Non sentiamo il frastuono dei becchini che stanno seppellendo Dio? Non sentiamo ancora l’odore della putrefazione divina – anche gli dei si putrefanno? Non è troppo grande per noi, la grandezza di questa azione? Non dobbiamo divenire dei noi stessi, per essere degni di lei?2. 1 “Non ci si ferma più soltanto al sentimento della mancanza di valore e di senso del divenire, né a quello dell’irrealtà del divenire. Il nichilismo diventa ora esplicita incredulità per qualcosa come un mondo eretto al di sopra del sensibile e del divenire (del fisico), cioè metafisico. Questa incredulità per la metafisica si vieta ogni sorta di via traversa per giungere a un mondo dietro il mondo o a un sopramondo”. M. Heidegger, Il nichilismo europeo, Adelphi, Milano 2010, p. 75. 2 F. Nietzsche, La gaia scienza, in Opere 1882-1895, Newton, Milano 1993, pp. 121-122.           82 Il diritto come estetica Già in passato, narra Plutarco (46 d.C.-127 d.C.), all’epoca dell’impe- ratore romano Tiberio (42 a.C.-37 d.C.) correva la leggenda che un certo Thamus, capitano di una nave sulla rotta dall’Egitto verso Roma, si fosse sentito chiamare da una voce tonante, che alla sua risposta gli ingiunse di riferire a Tiberio che il Grande Pan era morto. Fine di un’epoca? Simbo- logia astrale della precessione della presunta stella fissa Sirio? Avvento del Cristianesimo al posto delle antiche divinità? Altro? Poco importa la risposta; ciò che conta è il concetto di fine di un mondo e delle sue certezze al subentrare di un altro. La morte cancella il passato ed apre le porte al futuro: nuovi dogmi, nuovi concetti, nuovi metodi di ricerca, nuove cre- denze, nuovi valori, nuove leggi. Si rinnovano le basi della conoscenza umana e delle sue modalità esistenziali, individuali e collettive. Dio è mor- to simboleggia la fine del mondo trascendente, dell’assoluto, del divino e dell’eteronomia e prepara l’avvento di un nuovo mondo immanente, rela- tivo, umano, autonomo. Il punto centrale da affrontare riguardo alla fine del vecchio mondo ed alla nascita del nuovo, ossia all’origine ed alla forma del nichilismo, è rap- presentato dal soggettivismo, che Heidegger analizza nel suo sviluppo da Protagora (486 a.C.-411 a.C.) a Descartes, sino a Nietzsche. Il soggettivi- smo genera un nuovo assoluto, quello umano, sul quale fondare il senso e le scelte, ma tale assoluto si presenta privo di certezze, di verità, poiché relativo; si è costretti dentro un ossimoro tra metafisica del soggetto e fisica del soggetto oggettivato, identificate entrambe nell’essere umano. L’alter- nativa è stringente: o si accoglie una nuova metafisica o si rinunzia al senso ed alla verità tradizionale e consolidata, per percorrere la via nichilista, sulla quale trovare un nuovo senso privo di verità e di valori. Heidegger esprime con evidenza questa difficoltà: La metafisica moderna, in balia della quale sta o sembra inevitabilmente stare anche il nostro pensiero, in quanto metafisica della soggettività fa passare per ovvia l’opinione che l’essenza della verità e l’interpretazione dell’essere si determinino per l’opera dell’uomo in quanto è il soggetto vero e proprio. A pensare in modo più essenziale, tuttavia, si vede che la soggettività si de- termina partendo dall’essenza della verità come certezza e dall’essere come rappresentazione. E prosegue in modo ancora più esplicito: Ora, che l’uomo erri, dunque che non sia immediatamente e costantemen- te in pieno possesso del vero, significa certamente una limitazione alla sua essenza; di conseguenza, anche il soggetto – come tale l’uomo funge nel rap-          Nichilismo e nihilismo 83 presentare – è limitato, finito, condizionato da altro. L’uomo non è in possesso della conoscenza assoluta, non è, pensando in termini cristiani, Dio3. Se il soggettivismo si trasforma in un nuovo assolutismo della verità, presupponendo a priori come veritiera ogni affermazione soggettiva, si è solo costruita una nuova metafisica immanentista, ossia priva di dupli- cazione trascendente. Ma una tale metafisica appare ancora più infondata di quella trascendente. Infatti, l’immanentismo fisico possiede il carattere della fattualità, ossia di poter essere sottoposto a verifica/falsificazione em- pirica. La verifica empirica del soggettivismo narra solo posizioni e scelte relative ai soggetti che le esprimono, pertanto un suo eventuale assoluti- smo verrebbe falsificato proprio in via empirica. Ci si deve rassegnare; la via soggettivista non può che avere come compagno di viaggio il dubbio e come meta l’incertezza. Si tratta di capire se la psicologia umana è in grado di sostenere un tale peso esistenziale e se è possibile organizzare una società priva di verità e di valori assoluti. Se questa è la dimensione umana sarebbe strano rispondere negativamente ai due precedenti quesiti. Tutta- via non appare strano che il genere umano abbia tentato di evitare un tale salto nel dubbio e nell’incertezza attraverso la duplicazione metafisica del mondo. Ma questa duplicazione può trovare una qualche giustificazione ed, ancor più, un fondamento, se non logico almeno antropologico. Ciò, in- vece, che è chiaro è che con l’avvento del soggettivismo, inevitabilmente, viene meno anche l’Assoluto. Infatti, l’Assoluto, creando il relativo, stacca una parte dal Tutto, genera un’altra unità, che, sommata alla prima, l’uno, risulta due, la pluralità. In tale modo, automaticamente, anche l’Assoluto diviene parte di quel Tutto composto da Creatore e Creato. Il Tutto si esten- de, si diversifica e l’Assoluto si relativizza; ossia muore. La scienza moderna esprime alle proprie origini un principio metodo- logico, che passa sotto la denominazione di Rasoio di Occam (novacula Occami) dal nome di William di Ockham (1285-1347). Questo principio ha trovato varie formulazioni tra le quali la seguente pare la più adatta al tema qui trattato: Entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem. In sintesi, si tratta di scegliere tra due alternative, a parità di fattori, quella più semplice, più immediata. La domanda, dunque, da porre potrebbe essere: è necessario duplicare il mondo per spiegarlo? In una visione immanentista sembrerebbe inutile la duplicazione, giacché i nessi causali e le leggi co- stanti, universali, nonché probabilistiche, paiono poter rispondere ad ogni quesito, salvo quello dell’origine del mondo stesso, dell’Essere; ma un tale 3 M. Heidegger, Il nichilismo europeo, cit., pp. 234 e 237.           84 Il diritto come estetica interrogativo dalla duplicazione viene solo rinviato al metafisico e, quindi, privato di risposta per non senso della domanda o, più semplicemente, per misteriosità impenetrabile del metafisico. Le risposte causali e le regolarità comportamentali, però, si limitano a descrivere i fenomeni, e non giusti- ficano né la loro esistenza, né la loro finalità, ossia non riescono a fornire senso, significato alla realtà immanente. Non è questo un difetto dell’em- piria, ma la sua naturale caratteristica, che consiste nella mera descrittività dei fenomeni osservati, i quali sono rilevati come privi di finalità nella loro immediata dimensione dell’attimo presente. Dunque, in una visione imma- nentista del mondo, a maggior ragione se priva di libero arbitrio, ma anche se dotata del medesimo (l’empiria si limita a descrivere le scelte non a mo- tivarle valorialmente), manca completamente il senso della vita, il motivo dell’esistere: ciò che esiste, esiste perché esiste. Ovviamente una simile carenza di senso non può soddisfare la presunzione umana e, tanto meno, placare i timori dell’ignoto. L’essere umano aspira all’assoluto, all’infinito per se stesso e teme la morte in quanto nulla. Per esorcizzare aspirazioni frustrate e timori è necessario trovare un senso all’esistere e, possibilmen- te, anche una sopravvivenza post mortem di questo esistere. Conseguente- mente la duplicazione del mondo diviene necessaria per giustificare, per attribuire una qualche finalità alla vita e per calmare le angosce esistenziali; è antropologicamente e psicologicamente necessaria, non certo teoretica- mente, come si è già visto. Al contrario, teoreticamente dovrebbe valere il principio del Rasoio d’Occam e, quindi, reputare inutile, o almeno, poco probabile, la duplicazione, in quanto operazione meramente mentale al pari di qualsiasi altro sogno, credenza, ideologia o fantasia. Presa confidenza con il panorama, conviene ora porre attenzione alla strada da percorrere. Max Weber (1864-1920) indica la prima (pluralismo e relativismo dei valori). Si tratta di constatare l’emergere nel mondo occi- dentale moderno di un politeismo di valori, che pone fine all’unità ideolo- gica, che fu propria della Res publica christiana4. 4 “La Entzauberung der Welt sfocia nel politeismo dei valori, con cui Weber certifica la destinale pluralizzazione degli ordinamenti della vita, ossia la perdita di universalità della ragione occidentale. Quella di Weber è la assunzione radicale della sentenza di Nietzsche Dio è morto, ossia la consapevolezza di vivere in un mondo senza dei e senza profeti tipica di un’epoca che ha mangiato all’albero della conoscenza. I valori supremi di ordine religioso che avevano avviato il processo di razionalizzazione si svalutano irrimediabilmente nell’epoca del compiuto disincanto, ossia del nichilismo compiuto”. F. Fusillo, Nichilismo e sovranità, in R. Esposito, C. Galli, V. Vitiello (a cura di), Nichilismo e politica, Editori Laterza, Roma-Bari 2000, p. 188.           Nichilismo e nihilismo 85 [...], respingendo come cosa estranea e ostile ogni santità e ogni bene, ogni legalità etica o estetica, ogni significatività della cultura o valutazione della personalità, pretenderebbe [questa concezione n.d.r.] tuttavia, ed anzi proprio perciò, la sua propria dignità immanente nel senso estremo della parola. Quale che possa essere la nostra presa di posizione nei confronti di tale pretesa, in ogni caso essa non può venire dimostrata o confutata con i mezzi di nessuna scienza. Ogni considerazione empirica di questi argomenti condurrebbe, come ha osservato il vecchio Stuart Mill, al riconoscimento di un politeismo assoluto come la sola forma di metafisica ad essi corrispondente. [...]. Tra i valori, cioè, si tratta in ultima analisi, ovunque e sempre, non già di semplici alternative, ma di una lotta mortale senza possibilità di conciliazione, come tra dio e il demonio. [...]. Il frutto dell’albero della conoscenza, frutto inevitabile anche se molesto per la comodità umana, non consiste in nient’altro che nel dover cono- scere quell’antitesi e nel dover quindi considerare che ogni importante azione singola, ed anzi la vita come un tutto – se essa non deve procedere da sé come un evento naturale, bensì essere condotta consapevolmente – rappresenta una concatenazione di ultime decisioni, mediante cui l’anima (come per Platone) sceglie il suo proprio destino – e cioè il senso del suo agire e del suo essere5. Il mondo sociologico weberiano è animato da una pluralità di soggetti individuali e collettivi, che perseguono propri interessi e proprie valuta- zioni, non richiamandosi necessariamente a legittimazioni trascendenti, Anzi cercando nell’azione razionale, ossia umana, rispetto al mezzo od al fine il senso, il significato dell’agire. Questo senso diviene in tale modo meramente immanente e, quindi, patrimonio esclusivo del soggetto agente. Il soggettivismo si impone come scelta politica e giuridica, ma anche come procedura burocratica. In Weber si possono già leggere le prime avvisaglie di quello che la burocrazia potrà generare come tecnica fine a se stessa; è possibile intravedere il fantasma della tecnocrazia disumanizzante6. Ma ai fini del nichilismo ciò che maggiormente interessa è il richiamo alla molte- plicità degli interessi, delle prospettive e delle ideologie sociali, poiché da tale molteplicità scaturisce anche il relativismo soggettivo delle stesse. Molti valori non significano certo nessun valore, ma comunque incrinano 5 M. Weber, Il metodo delle scienze storico-sociali, Einaudi, Torino 1958, pp. 331-333. 6 “La burocrazia è di carattere razionale: la regola, lo scopo, il mezzo, l’impersonalità oggettiva dominano la sua condotta. Il suo sorgere e la sua espansione hanno perciò avuto ovunque un senso rivoluzionario – che rimane ancora da esaminare – come di solito avviene per la penetrazione del razionalismo in tutti i campi. Essa annientò le forme strutturali di potere che non avevano un carattere razionale in questo senso specifico”. M. Weber, Economia e società, Edizioni di Comunità Milano 1995, p. 101.           86 Il diritto come estetica il monolitismo sociale e ne cancellano la legittimazione trascendente. Le società umane si presentano molteplici come molteplici sono gli esseri umani. Severino intraprende, invece, per giungere al nichilismo la strada del divenire che nientifica l’Essere. L’Essere è immutabile quindi non divie- ne, ciò per Severino non significa, come per Spinoza, che il movimento è illusione, ma che il nulla non esiste; ciò comporta l’assenza di tempo nel pensiero spinoziano di contro ad un emergere ed eclissarsi dell’Essere nel tempo, senza mai divenire nulla, in quello severiniano. Questa posizione di Severino incide anche sul suo concetto di libertà e di nichilismo. Il libero arbitrio dell’essere umano immutabile si fonda sulle infinite vite che po- trebbero apparire e che non sono apparse; ossia si fonda non sull’alternarsi del divenire tra essere e nulla, ma sulla possibilità di manifestasi dell’Esse- re. La libertà è in questo modo pura contingenza dell’apparire: La possibilità non è nell’essere, ma nell’apparire dell’essere [...]. Se vivo eternamente tutte le vite che avrei potuto vivere – se ho già da sempre deciso tutto ciò che avrei potuto decidere – nell’apparire entra peraltro solamente que- sta vita che vivo. Ma entra soltanto questa perché tutte le altre restano nascose, o perché non esiste alcun’altra vita? O anche: esistono altre mie vite, oltre questa che appare? E se esistono, sarebbero potute apparire invece di questa che appare? In tale possibilità risiede il fondamento della libertà dell’uomo; che dunque può essere libero, solo se è pensato come l’eterno vivere tutte le vite che potrebbe vivere7. La natura non empirica dell’Essere di Severino appare evidente, ma essa scaturisce non da una duplicazione del mondo, ma dalla negazione, operata con gli strumenti della logica, del divenire, del passare dall’essere al non essere nel tempo. La nozione di nichilismo esprime la medesima esigenza di non dare realtà al nulla. Un Essere tutto pieno ed eterno in se stesso non diviene, quindi può trovare disvalori solo nell’altro, ossia nel nulla di sé. Siamo prossimi all’autoreferenzialità chiusa delle monadi di Leibniz, ma in Severino l’accento non viene tanto posto sull’autoreferenzialità di una molteplicità di Esseri, tutti equivalenti, di pari dignità e, quindi, ingiudi- cabili nella loro autonomia, ma piuttosto sul divenire, che, consentendo il nulla, relativizza appunto nel nulla qualsiasi affermazione, qualsiasi scelta. 7 E. Severino, Essenza del nichilismo, Adelphi, Milano 1995, p. 165. Cfr., per una certa analogia di pensiero, C. Bruce, I conigli di Schrödinger. Fisica quantistica e universi paralleli, Raffaello Cortina Editore, Milano 2006.           Nichilismo e nihilismo 87 Il nulla consente la negazione dell’assoluto e rende tutto relativo, contin- gente, occasionale, in breve, nichilista. Nichilismo significa affermare che le cose sono niente, ossia che il non- niente è niente. Sin da Platone, la metafisica ha identificato le cose al niente: affermando che escono e tornano ad essere niente. Il mondo è la dimensione in cui il non-niente è niente, e ove Dio e l’Uomo hanno la capacità di operare l’identificazione del non-niente e del niente. Forza-cultura, religione-ateismo, cristianesimo-anticristianesimo, meta- fisica-antimetafisica, materialismo-spiritualimo, moralismo-immoralismo, assolutismo-democrazia, capitalismo-comunismo, servo-padrone, umanesimo- tecnicismo formano i grandi contrasti che si svolgono all’interno della comune alienazione nichilista dell’Occidente8. Severino è portatore di un monismo immanentista non empirico, nel quale libero arbitrio e nichilismo si identificano col problema del divenire e, quindi, giuocano la loro presenza o assenza intorno all’impossibilità di esistere del non essere e all’impossibilità di non esistere dell’essere; possi- bilità ed impossibilità tutte logiche ed, appunto, non empiriche. Oltre il bivio nichilista tra la strada di un pluralismo valoriale soggettivo e la negazione del divenire si presenta un ulteriore bivio, quello tra l’eguale fondamento e dignità di qualsiasi scelta, di qualsiasi valore e l’inesistenza stessa dei valori. L’equivalenza di tutti i valori conserverà il nome di ni- chilismo, mentre la vera e propria completa assenza concettuale di entità 8 E. Severino, op. cit., p. 137. In merito ai passi citati in testo, con una comunicazio- ne personale del 6 marzo 2016 via mail, Emanuele Severino precisa quanto segue: “Lei [Ghezzi] considera quanto si dice nel mio saggio Essenza del nichilismo intorno al libero arbitrio. Ma in Destino della necessità (1980) mostro che questa posizione è un residuo di nichilismo e va superata. Quando uso la parola essere (quasi sempre o sempre con l’iniziale minuscola) intendo gli essenti, qualsiasi essente, empirico o no. Mostrando che l’essere sè degli essenti (in quanto esso è ciò la cui negazione è autonegazione, ossia in quanto è la struttura originaria del destino della verità) implica l’eternità di ogni essente, si mostra anche l’essere della dimensione non empirica degli essenti. Ma il decisivo è che l’eternità non è un presupposto, ma è implicata con necessità dalla struttura originaria; ed è questa necessità che si tratta di discutere. Questa necessità esclude di essere relativizza- ta e messa accanto alle varie posizioni filosofico-culturali. Il suo saggio afferma l’esistenza del soggetto e del suo sentire. Ma la struttura originaria chiede in base a che cosa si afferma tale esistenza (e l’esistenza del ricco panorama culturale espresso dal suo saggio, e dunque l’esistenza del mondo) richieste analoghe, si intende, vanno rivolte a tutta la cultura filosofica e scientifica”. Ulteriori precisa- zioni in argomento sono presenti anche nella Presentazione di Emanuele Severino a questo saggio.           88 Il diritto come estetica definibili come valori verrà chiamata nihilismo. La distinzione potrà appa- rire più chiara se applicata al nichilismo giuridico. Nella visione dualista del mondo al diritto positivo, come si è visto, si contrappone una giustizia, la cui fonte si afferma superiore. L’Assoluto, come analizza senza timore Irti, tuttavia, si è ritirato nelle sue varie forme (Dio, la Natura, la Ragione) dalla conoscenza umana, conseguentemente, la volontà dell’essere umano è stata abbandonata ad una completa solitudine. Solitudine nelle scelte, soggettività delle medesime e relativismo dei valori perseguiti. Irti constata questo fenomeno nel diritto e, quindi, ne mette in discussione la capacità legittimante di comportamenti, che, privi di copertura giuridica, si identifi- cano con la violenza e con la volontà di potenza del più forte. Gli Dei si sono ritirati, e non offrono più al potere il fondamento di legitti- mità. Il potere rimane affidato a se stesso, alla capacità di sostenersi e di rea- lizzarsi. Il successo della volontà è, appunto, un succedere, un semplice e nudo accadere, che trae fondamento dalla propria fatticità9. Il diritto abbandona la dimensione di conoscenza, per divenire volontà, volontà di potenza e quest’ultima risulta indistinguibile dalla forza, dalla violenza10. La volontà di potenza non conosce altro imperativo che la pro- pria affermazione ed espansione. Il dover essere morale e giuridico cede il passo al confronto/scontro, alla lotta tra le diverse potenze, per determinare quale sia la maggiore11. [...] il nichilista della volontà di potenza non può auspicare alcun esito, avendo congedato la categoria del dover essere. Può solo aspettare l’esito dello scontro storico delle volontà, e non potrà condannare alcunché12. Una volta abbandonata la categoria del dover essere, il campo, da un punto di vista pratico, fattuale resta a completa disposizione della forza, ma dal punto di vista concettuale si deve affrontare il tema di come il dover 9 N. Irti, Nichilismo giuridico, Editori Laterza, Roma-Bari 2005, p. 49. 10 “Il falso contrasto tra diritto e forza deriva da una concezione metafisica del diritto, dal diritto inteso come un potere sovrannaturale, come un potere vincolante che crea ed impone dei doveri. Questo potere vincolante superiore viene opposto alla forza, cioè al potere concreto”. K. Olivecrona, Il diritto come fatto, Giuffrè, Milano 1967, pp. 107-108. 11 “Sul rango decide il quantum di potenza che sei; il resto è viltà”. F. Nietzsche, La volontà di potenza, in Opere 1882-1895, Newton, Milano 1993, p. 939. 12 V. Possenti, Nichilismo Giuridico. L’ultima parola?, Rubettino, Savoria Mannelli 2012, p. 146.           Nichilismo e nihilismo 89 essere viene meno e con cosa viene sostituito. La risposta a quest’ultimo quesito verrà affrontata nel prossimo capitolo, per ora basti concentrarsi sul primo. Il dover essere può semplicemente perdere il proprio carattere assoluto o scomparire completamente, come concetto inesistente o falso. Si è già visto come il soggettivismo renda relativi i contenuti comportamentali del dover essere e, quindi, ne vanifichi la forza vincolante, imperativa. Il dover essere resta in vita, ma persiste come valore individuale, non generalizza- bile, non imponibile a terzi. Però è dato anche il caso che il dover essere si dissolva come entità concettuale. E può dissolversi come entità solo teorica od anche come entità pratica; come affermazione priva di senso o come affermazione falsa. Il dover essere comunque scompare, ma secondo mo- dalità differenti. Un esempio articolato ed eloquente di queste tematiche è dato dalla dia- triba sviluppatasi tra la Scuola di Uppsala, che annovera tra i propri mas- simi esponenti Alex Hägerström (1868-1939) ed Karl Olivecrona (1897- 1980), e Theodor Geiger (1891-1952). La prima osservazione che Geiger muove alla scuola di Uppsala riguar- da il carattere solo teorico del nihilismo proposto. In questo caso si tratta di nihilismo e non di nichilismo, poiché il presupposto risiede nell’inesisten- za dei valori, non nella loro generale equivalenza, indifferenza. Chi è criticamente illuminato è necessariamente un nihilista teorico dei va- lori. Egli ha compreso che le idee di valore non sono altro che orientamenti emotivi indebitamente oggettivati. Egli sa che i valori non appartengono alla realtà temporale-spaziale, che i giudizi di valore non possono pertanto essere altro che oggettivazioni errate di valutazioni primarie soggettive, traduzioni di situazioni emotive in enunciazioni conoscitive teoriche13. Gaiger propugna un nihilismo anche pratico, che cioè abbandoni l’uso dei giudizi di valore anche nelle discussioni politiche intorno alle decisioni da prendere; non si tratta, in breve, per questo Autore, solo di teorizzare la fine dei valori, ma anche di operare senza l’uso giustificativo dei medesi- mi. In questo modo si potrà dare vita a quello che da Geiger viene definito illuminismo critico e che, a sua volta, può generare una democrazia sobria, ossia fondata esclusivamente su discussioni e scelte intorno ai fatti e sulla base dei meri fatti. 13 Th. Geiger, Saggi sulla società industriale, U.T.E.T., Torino 1970, pp. 553. Vedere anche M.L. Ghezzi, Un precursore del nichilismo giuridico: Theodor Geiger e l’antimetafisica sociale, in Sociologia del Diritto, 2007/3, pp. 5-46.           90 Il diritto come estetica [...] la persona criticamente illuminata deve sapere su quali questioni non si può sapere niente, quali siano i problemi sui quali non può esprimersi con la pretesa di validità oggettiva, essa deve conoscere in breve i limiti naturali posti al processo conoscitivo. Essa ha da mantenersi scettica dinanzi alle as- serzioni altrui e rigettare tutte le asserzioni presentate con intenti pragmatici. È pragmatica ogni asserzione che pretenda di motivare teoricamente una finalità dell’agire (di dimostrarne l’esattezza), o suggerisca tacitamente tali finalità14. La seconda osservazione riguarda la predicabilità o meno di verità/falsi- tà dei giudizi di valore. Mentre Hägerström, ma soprattutto i suoi discepoli e primo fra tutti Olivecrona, sostengono l’inesistenza di una teoria che for- nisca significato alla domanda sulla veridicità/falsità dei valori e, pertanto, la domanda risulta priva di senso, neppure formulabile; Geiger, invece, afferma l’esistenza di senso della domanda, in quanto la teoria esiste, ma è falsa e, quindi, anche la risposta risulta falsa. Chi asserisce la veridicità di un valore non formula una proposizione priva di senso, ma intende soste- nere l’esistenza concreta di ciò che afferma, cioè della fattualità dei valori; pertanto, per Geiger, non si tratta di una proposizione priva di senso, ma di una proposizione falsa, poiché ciò che afferma non esiste, è fantasia, è desiderio soggettivo. Chi giudica non può esprimersi sulle qualità di valore dei fenomeni, quando è dimostrato che i fenomeni non posseggono alcuna qualità di valore. Valore e non-valore non sono inerenti all’oggetto stesso, ma gli sono attribuiti dal soggetto dell’esperienza. [...]. Il giudizio di valore non è che una esplosione emotiva rivestita della forma linguistica di una enunciazione oggettiva15. È evidente che mentre Hägerström si muove su un piano meramente logico, nel quale dovrebbero operare solo teorie verificabili e la veridicità dei giudizi di valore non è verificabile, ossia su un piano sul quale le teorie non falsificabili o falsificate sono già state scartate; Geiger, invece, opera nel mondo empirico dove il primo passo da compiere è proprio la verifica/ falsificazione delle ipotesi e delle relative teorie16. Empiricamente la do- manda intorno alla veridicità dei giudizi di valore è stata posta e continua 14 Th. Geiger, Saggi sulla società industriale, cit., pp. 573-574. 15 Th. Geiger, op. cit., p. 554. 16 “Ora una ideologia è per definizione qualcosa di unilaterale perché è determinato dalla prospettiva particolare di colui che pensa. Secondo questo si dovrebbe dire che tutte le ideologie sono false . [...]. L’ideologia è determinata dalla prospettiva corrispondente alla posizione sociale di colui che la pensa quindi è pensiero unilaterale. Essa non soddisfa i requisiti dell’oggettività posti dalle scienze naturali e quindi è teoricamente falsa”. Th. Geiger, op. cit., p. 142.           Nichilismo e nihilismo 91 ad essere posta, pertanto si tratta di falsificare la teoria che la regge ed è proprio questa la conclusione a cui giunge Geiger. La differenza appare minima, ma non irrilevante e tutta impostata sul piano del discorso svolto e sui tempi cui si riferisce l’affermazione (prima o dopo la verifica empiri- ca). Del resto, il tema fu affrontato in senso generale anche da Heisenberg, riguardo alla costruzione di teorie attraverso l’accoppiamento di simboli a fenomeni: Il procedimento della scienza naturale è raffigurato come l’applicazione di simboli a fenomeni. I simboli possono, come in matematica, essere combinati secondo certe regole, in tal modo le affermazioni sui fenomeni possono essere rappresentate da combinazioni di simboli. Perciò una combinazione di simboli in disaccordo con le regole non è falsa ma priva di significato. L’ovvia difficoltà di questo ragionamento è la mancanza di un criterio ge- nerale che indichi quando una proposizione debba essere considerata priva di significato. Una chiara decisione è possibile soltanto quando la proposizione appartiene ad un sistema chiuso di concetti e di assiomi, il che nello sviluppo delle scienze naturali costituisce piuttosto l’eccezione che la regola17. L’equivoco, dipendente sia dalla difficoltà di definizione dei concetti, in quanto legati alle teorie di cui sono figli, sia dall’impossibilità di verifi- ca empirica degli assiomi su cui si fondano le teorie (concetti ed assiomi non chiusi), non può stupire. Infatti, come afferma Michel Foucault (1926- 1984), le parole (simboli) e le cose (fenomeni) non coincidono dal crollo della Torre di Babele in poi: Nella sua forma originaria quando fu dato agli uomini da Dio stesso, il lin- guaggio era un segno delle cose assolutamente certo e trasparente poiché asso- migliava ad esse. I nomi erano deposti su ciò che indicavano, come la forza è scritta nel corpo del leone, la regalità nello sguardo dell’aquila, come l’influsso dei pianeti è stampato sulla fronte degli uomini: mediante la forma della simi- litudine. Tale trasparenza fu distrutta a Babele per castigo degli uomini. Le lin- gue furono separate le une dalle altre e rese incompatibili solo nella misura in cui venne anzitutto cancellata la somiglianza alle cose, la quale aveva costituito l’originaria ragione d’essere del linguaggio. Tutte le lingue che conosciamo non vengono da noi parlate che sullo sfondo di tale similitudine smarrita e nello spazio da essa lasciato vuoto18. Riemerge il solito dualismo tra divino ed umano, tra conoscenza asso- luta e conoscenza relativa, tra certezza e dubbio. Tuttavia, ritornando ora 17 W. Heisenberg, Fisica e filosofia, cit., p. 90. 18 M. Foucault, Le parole e le cose, cit., p. 50.           92 Il diritto come estetica alla polemica tra la Scuola di Uppsala e Geiger, probabilmente essa ne sottointende un’altra ben più rilevante e di natura politica; non è possibile, infatti, dimenticare le simpatie della Scuola di Uppsala ed, in particolare, di Olivecrona per il nazismo di fronte alla posizione social-democratica di Geiger, sostenitore della Repubblica di Weimar19. In conclusione, il nichilismo come il nihilismo scaturiscono dalla fine della credenza in verità assolute, siano esse trascendenti od immanenti, ossia dalla fine della duplicazione del mondo. Questa fine può giungere attraverso una relativizzazione dei giudizi di valore od una loro completa soppressione, ma, in ogni caso, l’antica via eteronoma rispetto all’essere umano non può più essere percorsa. Si tratta, quindi di costruire una nuova strada autonoma, che tenga conto della fluidità, della varietà, dell’incer- tezza, ma anche dell’arbitrarietà dei giudizi di valore. Si tratta di capire se sono effettivamente necessari o, almeno, utili per la convivenza sociale e se non possono essere sostituiti da altre e diverse entità in grado di guidare l’agire umano, ammesso che esista la possibilità di guidarlo attraverso la volontà umana. Tralasciando ora i dubbi intorno all’esistenza o meno del libero arbitrio, chi scrive è convinto della possibilità di compiere questa ricostruzione comportamentale anche senza i giudizi di valore in ambito sia morale, sia giuridico, ma questo è argomento del prossimo capitolo.  19 Cf.r. K. Olivecrona, I problemi del tempo visti da uno svedese. Inghilterra o Germania?, in Lo Stato, 3/2014, pp. 173-195.          6. IL DIRITTO COME ESTETICA L’estetica è una disciplina che studia, dal punto di vista trascendente, il bello in sé, mentre, dal punto di vista immanente le sensazioni umane che si manifestano nell’alternativa bello/brutto. Il bello in sé, il Sublime conduce subito verso il metafisico, la perfezione delle idee, una realtà per- fetta non appartenente alla realtà umana. Il semplice bello e brutto sono, invece, giudizi tutti umani intorno a ciò che piace o non piace. Già Aristo- tele (384 a.C.-322 a.C.), nella Poetica (ποίησις, poiesis, il cui significato è fare, creare) evidenziava come il parametro attraverso il quale giudicare un’opera d’arte fosse la produzione o meno nel soggetto di una percezione gradevole, di piacere. Sembra poi in generale che la poesia l’abbia prodotta due cause, e tutte e due naturali. Infatti è proprio della natura umana, sin dall’infanzia, l’istinto dell’imitazione e che tutti godano innanzi ai suoi prodotti, e l’uomo differisce specialmente dagli altri animali come quel genere che più sa imitare, e questo è il mezzo con cui si procaccia le prime cognizioni. E che ciò sia vero è mostrato dai fatti, perché mentre certi oggetti, così come sono in natura, ci riescono sgradevoli, le loro riproduzioni invece, quanto più sono esatte, ci danno diletto, come le forme degli animali più ripugnanti e dei cadaveri1. Aristotele definisce l’arte come capacità di suscitare piacere attraver- so l’imitazione, ossia attraverso il primo strumento umano di conoscenza. Dunque, riporta al soggetto che conosce la decisione intorno al bello ed al brutto. In particolare, sottolinea che una imitazione perfetta dell’orrore naturale può risultare piacevole e questa sensazione pare essere il fonda- mento del diritto positivo come estetica. Il diritto positivo è decisamente disumanizzante in quanto generale ed astratto, mentre l’essere umano è particolare e concreto, pertanto non può essere giudicato con canoni stati- stici, medi, ma deve essere indagato in tutte le sue particolarità individuali, personali, ammesso che ciò sia possibile, se si intende comprenderne vera- 1 Aristotele, La poetica, La Nuova Italia Editrice, Firenze 1940, p. 10.           94 Il diritto come estetica mente il comportamento. Tutto vero; ma la natura, con il suo diritto natu- rale, è ancora peggiore, poiché sembra colpire a caso, in modo arbitrario, senza una qualsiasi giustificazione; giustificazione che, seppur arbitraria, spesso anche ipocrita e sempre soggetta ad errore, il diritto positivo tenta di fornire. Dunque, Aristotele ha ragione a sostenere che il bello può scaturire anche dall’imitazione del brutto naturale; in questo senso si indirizza anche un autore più recente quale Thomas De Quincey (1785-1859): Ci asciughiamo le lacrime, e abbiamo forse la soddisfazione di scoprire che un’azione disgustosa e indifendibile sotto il profilo morale si rivela, se valutata secondo i criteri del gusto, un atto meritevole2. Non deve stupire il divario tra dover essere ed estetica, perché il primo è frutto di una duplicazione metafisica o razionale del tutto estranea (sal- vo che per il concetto di Sublime) al secondo. Pertanto, abbandonata ogni duplicazione del Mondo, il vero divario esistente, che tuttavia accomuna dover essere ed estetica, riguarda la diversità che intercorre tra il sentito individuale, personale ed il sentito indotto a qualche titolo (minaccia, edu- cazione, tradizione, etc.) dall’ambiente circostante il soggetto. Ma si tratta di un divario più apparente che sostanziale, poiché sussiste solo a livello individuale, infatti, a livello collettivo, viene colmato dal gusto prevalente dei gruppi sociali, che riescono ad assicurarsi il dominio sugli altri gruppi. [...] la situazione nell’estetica non è dissimile da quella nell’etica. In en- trambe le sfere di valori i criteri di valutazione del gruppo influenzano le nostre decisioni, in entrambe sono stati interiorizzati nella voce della coscienza o in quello che gli psicoanalisti chiamano il super-io. C’è una creatura ansiosa na- scosta in noi che domanda posso fare questo?, oppure può piacermi questo?3. Questa creatura è il nostro sdoppiamento, che non ci consente aperta- mente di porci come unici giudici delle nostre azioni. È lo sdoppiamen- to dell’eteronomia. Si cerca sicurezza in un parametro comportamentale esterno ed, in quanto tale, presupposto oggettivo. L’autonomia non con- cede giustificazioni esterne all’agire; si agisce palesemente per seguire il proprio gusto, sia che esso sia originario, sia che sia stato indotto dall’am- biente o dal determinismo. Tuttavia lo sdoppiamento appare più evidente 2 Thomas De Quincey, L’assassinio come una delle belle arti, TEA, Milano 1990, p. 25. 3 E.H. Gombrich, Ideali ed idoli. I valori nella storia e nell’arte, Einaudi, Torino 1986, p. 94.           Il diritto come estetica 95 nella visione del bello metafisico, del Sublime, espresso da Platone attra- verso l’esempio di un letto inteso come mobile d’arredo, di un letto come quadro e dell’idea di letto: Questi nostri letti si presentano sotto tre specie. Uno è quello che è nella natura: potremmo dirlo, creato, creato dal dio. – Uno poi è quello costruito dal falegname. – Sì, disse. – E uno quello foggiato dal pittore. Non è vero? – Va bene. – Ora, pittore, costruttore di letti, dio sono tre e sovrintendono a tre specie di letti. – Si, tre. – Ebbene, il dio, sia che non l’abbia voluto sia che qualche necessità l’abbia costretto a non creare nella natura più di un solo e unico letto, si è limitato comunque a fare, in un unico esemplare, quel letto in sé, ossia ciò che è letto. Ma due o più letti di tal genere il dio non li ha prodotti, e non c’è pericolo che li produca mai4. L’idea del letto in sé o del bello in sé non si differenziano, sono entrambe metafisiche, assolute e perfette, quindi rappresentano il corretto parametro verso il quale rivolgere l’attenzione per sapere cosa è letto e, ciò che in questa sede più interessa, cosa è bello. In questa prospettiva la dualizza- zione del mondo si è compiuta completamente e l’eteronomia diviene un elemento strutturale del sistema interpretativo del mondo, in generale, e di quello umano, in particolare. L’ulteriore duplicazione, quella tra dover es- sere ed estetica, si è probabilmente prodotta sia per contenere l’arbitrarietà evidente del senso estetico, sia per quell’illusoria pausa che intercorre tra la constatazione che una cosa piace e l’azione che ne segue. In questa pausa potrebbe celarsi il libero arbitrio, che potrebbe far rinascere la distinzione secondo il principio: ho agito in un modo che non mi piace perché era mio dovere farlo! Purtroppo non abbiamo conoscenze idonee né per escludere che in quel momento nel soggetto il dovere coincidesse con il piacere, ma neppure che questa pausa concettuale tra sensazione ed azione esista e sia governata nella libertà. Tralasciando ora i problemi metafisici legati al Sublime, in quanto frutto della solita duplicazione del mondo già più volte discussa, pare interessan- te approfondire il termine estetica, il cui significato deriva dal sostantivo greco αίσθησις, che indica un sentire, una sensazione e dal verbo, sempre greco, αισθάνομαι, che significa percepire attraverso la mediazione dei sensi, ossia ricevere stimoli che producono sensazioni. L’essere umano percepisce in continuazione sensazioni provenienti dal mondo esterno attraverso i suoi cinque sensi fisici, ed è questa la base sulla quale si fonda il metodo empirico di ricerca; ma percepisce anche sensa- 4 Platone, La Repubblica, in Tutto Platone, Editori Laterza, Bari 1967, p. 427.           96 Il diritto come estetica zioni interiori, sentimenti provenienti da precedenti esperienze, da ricordi, da pregiudizi, da preconcetti, da convinzioni personali, da tutto ciò, in sin- tesi, che può essere considerato il suo vissuto mentale. Queste due fonti di sensazioni non sono e non possono essere rigorosamente separate, poiché insistono sull’unitarietà del soggetto che percepisce. La percezione fisica viene selezionata, filtrata e completata dalle propensioni della mente, sino al punto di rendere indistinguibile la percezione fisica in quanto tale dal percepito e vissuto mentale. La questione, poi, si complica ulteriormente, poiché la percezione occupa anche il campo del sogno e del ricordo, con i loro stati dubbi, incerti di realtà empirica. Le percezioni esterne presuppongono l’esistenza di un ambito circostan- te il soggetto, dal quale partono gli stimoli che colpiscono i sensi. Non si può, tuttavia, essere certi, che questo ambito esterno esista veramente fuori dal soggetto, poiché ciò che si percepisce altro non è che una immagine, una sensazione mentale. Del resto, non è neppure possibile asserire con certezza l’inesistenza del mondo esterno, sempre per il problema che a giu- dicare è una entità soggettiva non oggettiva. L’oggettività nella percezione umana è impossibile, per la stessa natura umana di soggetto. Si è già osservato che alla mente non si presentano che percezioni [...]. Ora, siccome le percezioni si distinguono in due generi, impressioni e idee, questa distinzione solleva una questione, con cui avvieremo la nostra indagine sulla morale: è dovuto alle idee oppure alle impressioni il fatto che noi distinguia- mo la virtù dal vizio, e dichiariamo un’azione biasimevole oppure pregevole? Questo escluderà tutti i discorsi e le dichiarazioni arbitrarie, riconducendoci a qualcosa di preciso e di esatto in merito al presente argomento5. La percezione, dunque, è legata ai sensi, l’acqua fredda produce una sensazione di freddo, mentre l’impressione esprime la predisposizione, il giudizio del soggetto verso il percepito: il freddo mi produce sollievo dall’afa estiva o mi disturba perché abbassa la temperatura dell’ambiente. Conseguentemente l’Autore non esita nella sua risposta, come del resto era prevedibile data la Grande Divisione di cui è artefice ed alla quale ha fornito anche il nome: [...] è impossibile che la distinzione tra bene e male morale possa essere compiuta dalla ragione; poiché quella distinzione ha sulle nostre azioni un’in- fluenza di cui la sola ragione non è capace. La ragione e il giudizio possono, infatti, essere la causa mediata di un’azione, destando o guidando una passione: 5 D. Hume, Trattato sulla natura umana, Bompiani, Milano 2001, p. 903.           Il diritto come estetica 97 ma non bisogna pretendere che un giudizio di questo genere, sia vero o sia fal- so, possa accompagnarsi alla virtù o al vizio6. Hume non si limita a negare la predicabilità di vero/falso all’ambito mo- rale, ma affronta anche la natura di questo ambito, di queste impressioni, ed appare con evidenza che la sua analisi conduce direttamente al principio del piacere come scriminante tra bene e male. La prossima domanda è: di quale natura sono queste impressioni, e in che modo agiscono su di noi? È qui impossibile non esitare, ma dobbiamo dichia- rare che l’impressione che sorge dalla virtù deve essere gradevole, e quella che deriva dal vizio sgradevole. In qualsiasi momento l’esperienza deve convin- cerci di questo. [...]. Una rappresentazione teatrale o un romanzo bastano a darci esempi di questo piacere, che la virtù ci procura; e del dolore, che nasce dal vizio7. Risulta chiaro che sia l’alternativa buono/cattivo, sia quella bello/brutto dipendono dalle impressioni umane, ossia sono legate alla percezione di piacere o di dolore. Nell’essere umano la percezione è unitaria, non esisto- no due diverse forme di percezione, come può dimostrare l’empiria, forse possono esistere due diverse forme di impressioni, se elaborate nella mente e quindi non sottoponibili, almeno per ora, a verifica/falsificazione empiri- ca. Dunque, se non si desidera procedere ad una ulteriore duplicazione, pri- va in questo caso di motivazione, che avrebbe un sapore formale incentrato sul mero linguaggio (dover essere o mi piace) e non su fatti, tra percezioni e conseguenti impressioni morali ed estetiche, si deve concludere che vi è un’unica percezione ed i due ipotetici tipi di impressioni coincidono tra loro e sono un solo ed unico tipo di impressione; ossia la morale altro non è che una forma dell’estetica in quanto fondata, come l’estetica, sul piacere. In questo caso la prova empirica è possibile poiché si tratta di impressioni prodotte da percezioni, sensazioni empiriche, salvo sempre, ovviamente, la duplicazione strutturale del mondo in fisico e metafisico. Se le percezioni esterne, produttrici di impressioni esterne, provengono dalla presupposta esistenza di un mondo esterno al soggetto percipiente, da dove provengono le sensazioni interne, ammesso che abbiano natura diversa da quelle esterne? La risposta potrebbe risiedere nella capacità del- la mente di apprendere, ricordare e rielaborare il percepito ed il sentito, in qualunque modo venga percepito e sentito: fisico o metafisico. Certa- 6 D. Hume, op. cit.., p. 915. 7 D. Hume, op. cit., p. 931.           98 Il diritto come estetica mente la tradizione, l’educazione, le convinzioni religiose e scientifiche dovrebbero giuocare un ruolo centrale nella determinazione delle sensa- zioni interiori e nel giudizio su quelle esteriori. Commozione, attaccamen- to, repulsione, amore, odio, etc. possono essere conseguenze di precedenti esperienze: il fuoco mi ha scottato e provo una repulsione nell’avvicinarlo. Ma anche preconcetti, superstizioni, credenze si presentano come sensazio- ni interiori e possono avere un’origine culturale: provo paura alla vista di un gatto nero, perché sono convinto che porti sfortuna; provo gioia per aver trovato un quadrifoglio, perché penso che porti fortuna. Searle affronta il tema immediatamente nel suo significato empirico; le impressioni umane determinano il comportamento, in presenza del libero arbitrio, attraverso le sensazioni di piacere o di dispiacere. Dunque, le sensazioni di piacere o di dispiacere si collocano all’origine dell’intenzionalità, che per sua stessa natura è sempre e solo cosciente; pertanto la domanda da porre diviene la seguente: come funzionano nei particolari gli stati intenzionali? L’Autore, pur reputando che resti un mistero il funzionamento dell’intenzionalità, tuttavia fornisce alcune interessanti riflessioni ed indicazioni in merito. [...] ogni stato cosciente presenta un certo grado di piacere o dispiacere. Per meglio dire, occupa una certa posizione sulla scala che include le nozioni ordi- narie di piacere e dispiacere. Così, per ogni esperienza cosciente che qualcuno abbia, è sensato chiedergli: È stato piacevole? È stato bello? Sei stato bene, male, ti sei annoiato, ti sei divertito? È stato disgustoso, delizioso o deprimen- te? La dimensione piacere/dispiacere si estende pervasivamente a tutti gli stati di coscienza8. Si deve notare che la dimensione piacere/dispiacere ha natura empiri- ca, ossia può essere sottoposta ad un processo di verifica/falsificazione, pertanto passare da un giudizio di valore ad un giudizio estetico comporta anche la reintroduzione della metodologia empirista. Ovviamente non ri- guardo all’oggettività del giudizio, ma all’impressione prodotta dalla sen- sazione percepita. Infatti, un giudizio morale, se non si identifica con un giudizio estetico, se non è un giudizio estetico, non può scaturire da una sensazione produttrice di impressioni di piacere/dispiacere, non solo per Kant, ma per sua stessa definizione, in quanto il dover essere, per essere morale, deve essere anche privo di interesse personale. In modo diverso si presenta la doverosità giuridica, che può anche essere sostenuta da un interesse personale, e, proprio per questo motivo, sembra appartenere più 8 J.R. Searle, La mente, cit., p. 128.           Il diritto come estetica 99 al mondo dell’estetica che a quello della morale. Ma è bene continuare con Searle, che precisa il concetto di percezione: Dovremmo concepire la percezione non come qualcosa che crea la coscien- za, ma come qualcosa che modifica un campo di coscienza preesistente9. Siamo vicini concettualmente alla res cogitans di Descartes, ma lontani dalla sua astrattezza; infatti in Searle tutto ruota intorno ad una sensazio- ne rapportata ad una percezione non necessariamente autoreferenziata al soggetto percipiente; in breve, soggetto ed oggetto vengono posti in cor- relazione, non rigidamente separati. Pare un timido tentativo di riduzione del dualismo soggetto/oggetto. Ma ciò che più conta riguarda direttamente lo stato mentale cosciente, che altro non è che l’espressione delle proprie condizioni di piacere/dispiacere. L’esser vera sta alla credenza come l’esser appagato sta al desiderio o l’esser realizzata sta all’intenzione. Propongo di descrivere tale fenomeno nel modo seguente: ogni stato intenzionale con direzione di adattamento non nulla pos- siede condizioni di soddisfazione. Possiamo considerare gli stati mentali come rappresentazioni delle proprie condizioni di soddisfazione10. Searle è esplicito; la separazione fatti/valori comporta, per i fatti, la pos- sibilità di rispondere a verificabilità empirica, mentre, per i valori morali o estetici, negata questa possibilità, produce la mera soddisfazione o insod- disfazione personale del soggetto agente. La Grande Divisione persiste, ma ridimensionata entro un vocabolario, che meglio la descrive. La sepa- razione tra giudizi di fatto e giudizi di valore non esaurisce la serie delle possibili divisioni. Infatti, subito subentra anche la sottodivisione giudizi di valore e giudizi di estetica, come si è già visto. Tuttavia, mentre la pri- ma divisione regge alla prova empirica come scriminante fra i due tipi di giudizio (solo i giudizi di fatto sono empiricamente verificabili/falsifica- bili), la seconda suddivisione (giudizi etici/giudizi estetici) non trova altra giustificazione che il tentativo di recuperare, attraverso il giudizio etico, di 9 J.R. Searle, op. cit., p. 141. 10 J.R. Searle, op. cit., p. 154. “Come è possibile che io abbia sete d’acqua?, vale a dire che abbia un desiderio il cui contenuto è bere acqua. [...] la risposta si fornisce mostrando la connessione essenziale tra intenzionalità e condizioni di soddisfazione. Ciò che fa del mio desiderio il desiderio di bere acqua è che sarà soddisfatto se e solo se berrò acqua. Non si tratta di un’osservazione psicologica che predice cosa mi farà sentire bene, ma della definizione del contenuto intenzionale pertinente”. Ibidem, p. 171.           100 Il diritto come estetica valore, un metafisico assoluto, trascendente od anche solo razionale. Del resto, risulta chiaro che, rispetto alla sua origine, il giudizio di valore non è altro che un giudizio estetico, poiché scaturisce da condizioni di soddisfa- zione o, se si preferisce, da sensazioni percepite e produttrici di impressioni (piacere/dispiacere). Le sensazioni, dunque, producono dei giudizi estetici (impressioni), ri- assumibili sinteticamente nell’alternativa mi piace/non mi piace. Si tratta ora di vedere se questi giudizi estetici, oltre all’origine, possiedono anche i medesimi caratteri dei giudizi di valore. Sia i giudizi estetici che i giudizi di valore esprimono una dimensione meramente mentale, ma mentre i primi dovrebbero essere finalizzati a manifestare un piacere personale, i secondi, invece, dovrebbero svolgere la funzione di governo del comportamento. Ma il giudizio di valore che cosa è? Vi è una sola alternativa possibile: o è un valore assoluto, in qualche modo trascendente, che è giunto all’essere umano dal di fuori per illuminazione, per rivelazione, per quant’altro di immaginabile; oppure è un valore relativo, nato nella mente del soggetto agente e caratterizzato dalla sue preferenze. Si tralasci ancora il primo caso, che resta indimostrabile empiricamente e che, comunque, deriva sempre dalla duplicazione del mondo, e si affronti il secondo caso. Esso non si distingue dal giudizio estetico: è soggettivo nel medesimo modo; porta giu- stificazioni solo apparentemente diverse alla propria adozione; infatti, al di là di giustificazioni autonome od eteronome, funzionali, utilitaristiche, pietistiche, anagrafiche, culturali, etc., la scelta finale altro non è che una preferenza personale, un equilibrio tra le convinzioni e le scelte possibili, che soddisfi il soggetto, lasciandolo emotivamente tranquillo. Il giudizio di valore è un giudizio estetico formulato in modo diverso, poiché pone l’accento sul comportamento da tenere e non sul piacere nel tenerlo, ma la forma non riesce a mascherare il piacere di fondo, che si colloca all’origine delle scelte etiche; dunque, poco conta la forma funzio- nale, ciò che importa è, invece, la matrice, la natura comune, unitaria, che li caratterizza. Inoltre la loro sovrapponibilità perfetta è anche confermata dal modo in cui se ne può venire a conoscenza: per sapere quali siano i giudizi estetici e di valore di un soggetto non è possibile fare altro che porre la domanda al soggetto medesimo od osservarne il comportamento, pre- supponendo (sperando) che il pensiero sia coerente con l’azione. Tuttavia i giudizi estetici presentano un vantaggio empirico su quelli di valore: il giu- dizio estetico produce un immediato senso di piacere nel soggetto, piacere che è empiricamente verificabile; al contrario, il giudizio di valore aspi- rerebbe ad essere disinteressato e, quindi, il piacere non dovrebbe essere percepibile nell’imperativo del dovere. Ciò ovviamente nasconde il piacere          Il diritto come estetica 101 originario della scelta etica, ma, soprattutto, lascia intendere l’estraneità alla verifica/falsificazione empirica del giudizio di valore, in quanto asso- luto, a priori, arbitrario. Anche il giudizio estetico è e resta arbitrario, ma esso riconosce la propria origine empirica nel piacere e, quindi, può essere studiato anche senza duplicare il mondo. Demistificare il giudizio di valore significa svelarne l’egoismo e la volontà di potenza, che nasconde. Il pathos dell’aristocrazia e della distanza [...] il duraturo e dominante sen- timento totale e basilare di una specie superiore e dominante nei confronti di una specie inferiore, di un sotto, questa è l’origine dell’opposizione tra buono e cattivo. (Il diritto signorile di imporre nomi, risale così indietro nel tempo, che si sarebbe autorizzati a ritenere l’origine della lingua stessa come espressione di potenza di chi era al potere: essi dicono questo è questo e questo e con un suono impongono il loro sigillo a cose e avvenimenti e, così facendo, se ne impossessano)11. Il giudizio di valore ha una lunga storia dietro le spalle di violenza, di persecuzioni, di soprusi, di processi, di torture, di eresie, di condanne capi- tali proprio per questa sua tendenza a porsi fuori dall’immediato giudizio umano individuale, per questa sua costante aspirazione all’assoluto, anche quando si manifesta palesemente come relativo, come appunto avviene nell’ambito del diritto. Infatti, quando il giudizio di valore prende vera- mente atto della propria relatività, si apre il capitolo del nichilismo e del nichilismo giuridico. Il giudizio estetico, invece, non sembra manifestare questa tendenza: esso è relativo e tale resta, almeno nella attuale cultura occidentale, eppure i due giudizi sono un medesimo giudizio, che, più cor- rettamente dovrebbe essere definito solo giudizio estetico12. Per continuare ora la marcia verso il diritto estetico si devono svolgere alcune considerazioni intorno al diritto. Non si tratta certo di aspirare ad una compiuta definizione di diritto, che ha affaticato vanamente genera- zioni di giuristi, quanto piuttosto di estrarne alcuni caratteri, che possono evidenziarne la natura. Kelsen individua chiaramente due aspetti diversi, ma fondamentali, del diritto: la validità e l’efficacia. 11 F. Nietzsche, Genealogia della morale, Newton Compton Editori, Roma 1988, p. 49. 12 “[...] quello che vale per i giudizi di valore sensoriali e estetici vale anche per quelli morali, di cui fanno parte quelli politici e sociali”. Th. Geiger, Saggi sulla società industriale, cit., pp. 452-453.           102 Il diritto come estetica La possibile indipendenza della validità della singola norma giuridica dalla sua efficacia indica nuovamente la necessità di distinguere con chiarezza fra i due concetti13. La validità attiene alla vincolatività giuridica della norma, l’efficacia, invece, alla sua capacità di manifestarsi nella realtà operativa umana. La validità appartiene al mondo delle convinzioni, mentre l’efficacia a quel- lo dell’empiria. Efficace è una norma che viene applicata da coloro cui è diretta, rivolta; valida è una norma che viene considerata appartenente all’ordinamento giuridico vigente, ossia in essere in un certo luogo e tempo (si tratta sempre di convinzioni personali). In entrambe i caratteri la realtà, tuttavia, non può essere tralasciata: è evidente per l’efficacia, ma è altret- tanto evidente anche per la validità dell’ordinamento giuridico, che o si impone o non si impone come efficace. Come è impossibile nella determinazione della validità di astrarre dalla re- altà, così è anche impossibile di identificare la validità con la realtà. [...]. Nel senso della teoria qui sviluppata il diritto è un determinato ordinamento (od organizzazione) della forza14. Il diritto, dunque, si presenta sia come valore (validità), sia come forza (efficacia), ma anche la validità a livello di ordinamento giuridico, ossia di cambio di regime politico o sociale, si riduce ad efficacia, in breve, a forza. Certo, la validità cerca di pilotare l’attenzione verso il giudizio di valore, verso il dover essere, verso la vincolatività, verso la doverosità, ma il depi- staggio non è sufficiente a far scomparire la forza, la violenza (sanzione), come principale carattere identificativo del diritto. È al vincitore che appartiene il vinto, con la sua donna e i suoi figli, i suoi beni e il suo sangue. La violenza è il primo fondamento del diritto, e non c’è diritto che nel suo fondamento, non sia tracotanza, usurpazione, prepotenza15. La forza del diritto è, dunque, mera forza bruta, mera violenza, alla qua- le è difficile resistere, senza subire gravi danni materiali. Il mito dell’ob- bligo giuridico, della doverosità, prima, morale e, poi, anche giuridica, non descrive fedelmente il fenomeno diritto, ma lo cela dietro un immateriale velo di spontanea subordinazione, di impegno interiore, che poco o nulla esprime del reale. Nel dover essere la fantasia imperversa libera da qualsia- 13 H. Kelsen, Lineamenti di dottrina pura del diritto, cit., p. 104. 14 H. Kelsen, op. cit., pp. 101-102. 15 F. Nietzsche, Verità e Menzogna, Newton Compton Editori, Roma 1988, p. 103           Il diritto come estetica 103 si vincolo empirico verso poli opposti di intensità, che vanno da una razio- nalità morale dubbiosa, moderata e tollerante ad un integralismo fanatico ed intollerante, e di qualità, di contenuto variegato e molteplice. Sia i giuristi che i filosofi sono perfettamente consapevoli del fatto che la forza vincolante del diritto non è un elemento del mondo spazio-temporale che li circonda, del mondo empirico. L’ovvia conclusione a cui dovrebbe portare tale constatazione è che la forza vincolante esiste soltanto nell’immaginazione degli uomini. Ma la convinzione della sua esistenza reale è talmente radicata che una simile idea non è stata quasi mai formulata. Al contrario la nozione di forza vincolante intesa nel senso tradizionale ha continuato, e continua tutto- ra, a costituire una della assunzioni fondamentali di tutte le teorie giuridiche correnti16. Il diritto è l’organizzazione della forza operata dal gruppo sociale domi- nante, sia esso politico, economico, etnico, religioso od anche solo mag- gioritario; neppure la democrazia, infatti, è estranea a questo contenuto del diritto. Pertanto, la burocrazia, come organizzatrice di questa forza, svolge un ruolo dominante nel diritto, anzi, il diritto come procedura, come applicazione procedurale e processuale è burocrazia, tecnica buro- cratica con tutti i problemi disumanizzanti, che sono già stati evidenziati nel rovesciamento della tecnica da mezzo a fine. Anche il diritto rischia e talvolta subisce tale rovesciamento. Basti pensare al detto latino: Fiat ius et pereat mundus. Il diritto, secondo questo broccardo, deve trionfare in quanto tale, costi quello che costi; si presenta come un imperativo cate- gorico di kantiana memoria, che ha perso la sua funzione di trattamento dei conflitti sociali17 e si è trasformato in un valore assoluto, metafisico, da mezzo è diventato fine. Non si tratta, dunque, di descrivere il diritto quale si vorrebbe che fosse, ma di attenersi rigorosamente al diritto quale esso effettivamente è nella realtà umana. In questa direzione il diritto si manifesta come l’espressione di una preferenza individuale, che, sommata ad altre preferenze individuali omogenee, riesce a raggiungere un punto critico di forza, a produrre una forza dominante, sulla base della quale si impone nel contesto sociale e si organizza secondo il modello burocratico. Questa scelta personale, spesso detta ideologica, altro non è che una prefe- renza estetica del soggetto, che risponde alla domanda: mi piace o non mi piace? L’organizzazione, che ne deriva, dunque, in nulla si discosta dagli stili e dai canoni estetici, che hanno accompagnato l’essere umano lungo 16 K. Olivecrona, Il diritto come fatto, Giuffrè, Milano 1967, pp. 9-10. 17 Cfr. V. Ferrari, Funzioni del diritto, Editori Laterza, Roma-Bari 1987.           104 Il diritto come estetica la storia nelle sue avventure culinarie, musicali, letterarie, architettoniche, pittoriche, scultoree, etc.. Non casualmente, infatti, non solo il nichilismo giuridico ha fatto la sua comparsa all’orizzonte delle nostre società con- temporanee, ma anche i modelli, le regole, i canoni, gli ordini estetici, con la modernità, sono precipitosamente tramontati. Il nichilismo si converte, a parte subjecti, in solipsismo giuridico. Il diritto è scelto da me; accettando l’inizio, anche accetto le procedure, con cui si svolge l’intero ordine di norme. Scegliendo l’inizio di un regime democratico accetto il criterio della maior pars, e procurerò di scendere nel conflitto e di inserirmi in una od altra delle forze in campo18. Il solipsismo è l’essenza stessa del nichilismo; la piena consapevolezza dell’autonomia individuale umana19; il riconoscimento dell’irriducibilità del soggettivismo ad oggettività; la constatazione che l’individuo è il referente ultimo ed indiscutibile di qualsiasi scelta. L’individuo osserva se stesso e, senza la duplicazione del mondo, resta solo con se stesso, con le proprie speranze, con le proprie opinioni, con il proprio senso estetico, ma anche con le proprie angosce e con un profondo senso di impotenza, che certo non riesce ad essere compensata dalla volontà di potenza insita nel nichilismo. Non deve stupire che il nichilismo ed ancor più il nihilismo dei valori terrorizzi i gruppi sociali dominanti. Sono, infatti, essi che governano più facilmente, velando la forza ed il potere con lo strumento del dover essere etico, morale e giuridico, che riescono a meglio celare i propri interessi e le proprie preferenze estetiche sotto una parvenza di universalità, di bene comune, di giustizia oggettiva. [...] la teoria del nihilismo dei valori è altrettanto pericolosa quanto alcuni secoli orsono lo è stata la nuova immagine astronomica del mondo, e cento anni fa la teoria genetica e a suo tempo ogni rivoluzionamento delle rappre- sentazioni abituali. A lungo andare tale pericolosa verità non potrà rimanere celata; gradualmente si imporrà, e sarà pericolosa soltanto nella misura in cui durante un periodo di transizione provocherà disorientamenti passeggeri. Con il graduale adattamento degli atteggiamenti pratici di vita alla nuova visione teorica il pericolo verrà superato. Per ciò che concerne in particolare l’incom- bente pericolo del nihilismo dei valori, di una disgregazione morale, io non riesco a vederlo. Nessun nihilismo dei valori potrà far sì che il nostro standard 18 N. Irti, Nichilismo giuridico, cit., p. 139. 19 Cfr. V. Frosini, L’ipotesi robinsoniana e l’individuo come ordinamento giuridico, in Sociologia del Diritto, 2001/3, pp. 5-15.           Il diritto come estetica 105 morale sia più disgregato di quanto già non lo sia a causa dello scisma delle rappresentazioni morali20. La Grande Divisione di Hume si trasforma, come si è visto preceden- temente, facendo cadere il termine giudizi di valore e sostituendolo con il termine giudizi di estetica. Ciò produce un certo vantaggio nel campo della tolleranza, poiché è a tutti noto e da quasi tutti accettato che i gusti sono personali e non discutibili (de gustibus non est disputandum), per- tanto non ha senso affaticarsi a convincere gli altri della maggiore bontà dei propri gusti, della bontà dell’arrosto piuttosto che dello stufato o del bollito, della bellezza dello stile architettonico romanico piuttosto di quel- lo gotico o barocco. Il soggettivismo appare in tutta la sua sfrontatezza e taglia la strada a qualsiasi tentativo di oggettivizzazione. Ma ciò vale tanto per il prossimo, quanto per il soggetto medesimo e questo fatto (si tratta di un fatto l’origine personale dei giudizi) mina alla radice ogni presuntuosa pretesa di verità assoluta. Solo l’ottusità cerebrale potrà consentire con- vinzioni personali certe ed intolleranti delle, altrettanto possibili quanto le nostre, scelte e ragioni estetiche altrui. Il nichilismo ha in parte contribuito a costruire questa strada ed in altra parte ne è la conseguenza. Il nihilismo, poi, ne è lo sviluppo logico più radicale, ma anche più concreto e coerente. L’inesistenza fattuale, oggettiva dei valori non poteva più trovare pudica copertura nell’ipotetica equivalenza di qualsiasi valore. Il soggettivismo non produce tante oggettività diverse, non produce alcuna oggettività. Il soggettivismo, se rende il soggetto consapevole dei propri limiti, dovreb- be guidarlo anche verso una revisione critica delle proprie convinzioni, prima che verso la censura delle convinzioni altrui. Il nihilismo non è né caos, né arbitrio capriccioso, ma semplice consapevolezza dei propri limiti conoscitivi e questi limiti, nella loro varietà, forniscono il panorama del multicolore teatro umano. La pazzia è una forma particolare dello spirito e aderisce a tutte le dottrine e le filosofie, ma ancor più alla vita di ogni giorno, poiché la vita stessa è colma di follia ed è sostanzialmente irragionevole. L’uomo aspira alla ragione solo per potersi creare delle regole per lui stesso. La vita in sé non ha regole. Questo è il suo segreto, questa è la sua legge sconosciuta. Quello che tu chiami cono- scenza è un tentativo di imporre alla vita qualcosa che risulti comprensibile21. 20 Th. Geiger, Saggi sulla società industriale, cit., p. 559. 21 C.G. Jung, Il libro rosso. Liber novus, Bollati Boringhieri, Torino 2013, pp. 227-228.           106 Il diritto come estetica La partita intorno al nihilismo la si può giuocare solo se si considera fuorviante la duplicazione metafisica del mondo; è, infatti, solo nell’ipotesi metafisica che i valori non sono giudizi, ma fatti di una oggettività assoluta, tanto assoluta da essere trascendente. Il dualismo cartesiano, razionale (res cogitans/res extensa), potrebbe anche sussistere, giacché nulla impedisce in via teorica che le scelte estetiche siano frutto di autonoma elaborazione mentale. Intorno al tema del determinismo o dell’indeterminismo, poi, la caduta della categoria del dover essere e della sua sostituzione con il giu- dizio estetico, non muta la prospettiva, che resta come scelta necessaria nel primo caso e libera nel secondo. Evidentemente si avranno due diversi giudizi estetici: l’uno condizionato dal sistema e l’altro espressione della scelta, della preferenza del soggetto singolo. Resta sempre aperto il proble- ma se il soggetto può essere completamente libero da condizionamenti di qualsiasi tipo, a cominciare da quelli culturali, ma questi condizionamenti potrebbero anche essere intesi proprio come i limiti personali, individua- li della conoscenza. Deve risultare ben chiaro che né le ipotesi trascen- denti, né quelle immanenti e neppure il determinismo e l’indeterminismo possono essere sostenuti da verifica/falsificazione empirica; al massimo è possibile affermare che ciò che si verifica empiricamente è empiricamente verificabile: una tautologia, come è evidente. Il nichilismo, tuttavia, viene visto da Nietzsche, e non solo da lui, come un mostro incombente, come una sciagura del nostro mondo occidentale, ma una tale visione negativa appare eccessiva a chi scrive: Pensiamo questo pensiero nella sua forma più terribile: l’esistenza, così com’è, senza senso e scopo, ma che ritorna ineluttabilmente senza finire nel nulla: l’eterno ritorno. È questa la forma estrema del nichilismo: il nulla (il non senso) eterno!22. È bene ripeterlo; il nichilista ed il nihilista dovrebbero mettere in discus- sione le proprie scelte, non le altrui, che rispondono ad un soggettivismo esterno ed estraneo al nostro e, quindi, si presentano insindacabili, in quan- to autonome. L’educazione in questo ambito è destinata a trasformarsi in autoeducazione, in autocontrollo, in autolimitazione, non certo in arbitrio verso il prossimo, sul quale non si potrebbe vantare alcun titolo, come il prossimo non può vantare alcun titolo verso il soggetto agente. Risulta evidente che etica, morale, diritto, sinteticamente, dover essere, in questa cornice risultano privi di senso, ma ciò non significa, che la vita 22 F. Nietzsche, Il nichilismo europeo, Adelphi, Milano 2006, pp. 13-14.           Il diritto come estetica 107 umana sia priva di senso. Significa soltanto che il senso non è dato, non può essere dato, da valori né morali, né giuridici, ma solo dal soggetto stesso, ammesso che abbia senso interrogarsi intorno al senso di un essere, di un esistere che si presenta come dato ineluttabile, ineludibile, come un dato primo, come una singolarità, si potrebbe dire con espressione propria della fisica teorica. Un diritto estetico è solo espressione di una maggiore consapevolezza intorno alla realtà, non certo di un imbarbarimento dei costumi. Se, infatti, il diritto estetico è mero frutto di una descrizione, come pare che sia, e non di una scelta valoriale, allora già esiste nei fatti, come sostiene chi scrive, e nulla muta nell’averlo smascherato, se non una maggiore chiarezza sul- la natura e i limiti del diritto. Il diritto estetico è un diritto positivo, che non si nasconde dietro né la trascendenza universalistica dello Stato, né la doverosità metafisica della norma, ma prende atto della propria origine arbitraria umana. Del resto è interessante riflettere intorno al fatto che già in epoca romana si discuteva sull’identificazione di ius come ars. L’idea di associare alle artes la conoscenza del ius appare infatti, sia pure di fuggita e in modo concettualmente marginale, in due testi di Tacito e di Gellio, entrambi, curiosamente, riferiti a Labeone [...]. La connessione fra ius e ars era stata infatti, tempo prima, una bandiera [...] degli studi giuridici di Cicerone. Quando Celso scriveva non poteva pensare che a lui23. Naturalmente, all’epoca, il termine ars non corrispondeva all’attuale si- gnificato di opera artistica, tuttavia, nella interpretazione di Marco Tullio Cicerone (106 a. C.-43 a. C.) esso descriveva l’elaborazione di un metodo, di una teoria tecnico-logica universale, di una dottrina razionale. Tale dot- trina, frutto dell’interpretazione giuridica, spostava sulla ragione umana il contenuto normativo e, quindi, consapevolmente o inconsapevolmente il diritto, pur sembrando trasformarsi in una forma di conoscenza e non di volontà, in realtà diveniva una elaborazione dei giuristi, una scelta relativa, arbitraria, soggettiva, come tutte le scelte umane. Nota infatti senza esitazioni Guido Alpa: Un po’ di sano realismo consente di dissacrare i dogmi dell’interpretazione, o, meglio, di strappare il velo dell’omertà su dogmi interpretativi. Questi dog- 23 A. Schiavone, Ius. L’invenzione del diritto in Occidente, Einaudi, Torino 2005, p. 385.           108 Il diritto come estetica mi tacitando le coscienze, restituiscono tranquillità al giudice, danno conforto al dottore. Tutti questi schemi o espedienti possono essere considerati per l’appunto schemi o espedienti da parte di altri interpreti, e quindi la linea del lecito e dell’arbitrio tende a spostarsi o a non riconoscersi. Nella più parte di casi essa coinciderà con la linea che la maggioranza degli interpreti dirà essere collocata nella posizione corretta24. Il soggettivismo, di cui l’interpretazione è un aspetto, esprime nel diritto estetico tutta la propria potenzialità delegittimante di Stati, ordinamenti giuridici e norme giuridiche non condivise, ma semplicemente subite. Poiché l’origine dell’autorità, la fondazione o il fondamento, la posizione della legge possono per definizione appoggiarsi alla fine solo su loro stessi, sono anch’essi una violenza senza fondamento. Il che non vuol dire che siano ingiusti in sé, nel senso di illegali o illegittimi. Non sono né legali né illegali nel loro momento fondatore. Eccedono l’opposizione del fondato e del non fondato, come di ogni fondazionalismo o di ogni antifondazionalismo. Anche se il successo di performativi fondatori di un diritto (ad esempio, ed è più di un esempio, di uno Stato come garante di diritto) suppongono delle condizioni e delle convenzioni preliminari (ad esempio, nello spazio nazionale o interna- zionale), lo stesso limite mistico risorgerà all’origine supposta delle suddette condizioni, regole o convenzioni – e della loro interpretazione dominante. [...] il diritto è essenzialmente decostruibile [...] perché il suo ultimo fondamento per definizione non è fondato25. Ancora una volta per discutere del fondamento si deve uscire sia dal soggettivismo, sia, conseguentemente, anche dall’empiria, per entrare in una qualche forma di duplicazione mistica del mondo. L’alternativa, sem- pre possibile resta il nichilismo/nihilismo, ma anche del nichilismo/nihi- lismo si può avere una versione metafisica ed una non metafisica legate alla sorte dell’Essere e dell’Ente: inesistente, il primo, (metafisica come affermazione infondata); in dissoluzione, il secondo, (come espressione empiricamente verificabile/falsificabile). Se l’Essere è inesistente la me- tafisica diviene priva di fondamento, mentre l’Ente, dissolvendosi nel non essere, appartiene al mondo dell’empiria. Tuttavia la dimensione metafisi- ca può anche sopravvivere, monoteisticamente, con un Essere molteplice, 24 G. Alpa, Interpretare il diritto: dal realismo alle regole deontologiche, in J. Derrida, G. Vattimo (a cura di), Diritto, Giustizia e Interpretazione, Laterza, Roma-Bari 1998, p. 210. 25 J. Derrida, Diritto alla giustizia, in J. Derrida, G. Vattimo (a cura di), op. cit., pp. 16-17.           Il diritto come estetica 109 ad esempio, nel Cristianesimo, con una Divinità una e trina e, nella Gnosi, con il progressivo alienarsi, decadere del divino nella materia, (in alterna- tiva politeista: con una molteplicità di Esseri equivalenti) oppure con un Ente cristallizzato, che si manifesta immutabile. Ma anche la negazione, il Nulla, se dotato di esistenza, di presenza e non di assenza, vincola alla metafisica. Si sarà già capito che il nichilismo rimane impigliato nella metafisica fino a che, anche solo implicitamente, si pensa come la scoperta che là dove crede- vamo ci fosse essere, c’è, in realtà, il nulla. Così, dove credevamo ci fossero principi della legge c’è solo l’arbitrio del legislatore o dell’interprete, la de- cisione infondata, e per questo essenzialmente violenta, che deve essere resa accettabile dalla finzione delle affabulazioni, o da una accettazione motivata misticamente (nella versione kierkegaardiana del nichilismo). Una definizio- ne non metafisica del nichilismo si può invece formulare richiamandosi all’e- spressione con cui Heidegger caratterizza la storia del nichilismo nietzschiano: nichilismo è la vicenda nella quale dell’essere come tale non ne è (più) nulla. Nichilismo, se non deve (e non può) intendersi come la scoperta che al posto dell’essere c’è il nulla, non può che pensarsi come la storia (senza fine – senza conclusione in uno stato in cui al posto dell’essere c’è il nulla) in cui l’essere, asintoticamente, si consuma, si dissolve, si indebolisce26. Il Nulla è entità metafisica al pari dell’Essere, tuttavia, paradossalmente, tale negazione dell’Essere, del Principio può trasformarsi, capovolgendosi, in affermazione a livello di teologia negativa. Scrive, infatti, Andrea Emo (1901-1983): Il principio. Dobbiamo cominciare con un principio. Ma, nessun principio è definibile od oggettivabile. Dobbiamo dunque cominciare con la rinuncia ad un principio, il che equivale ad una negazione del principio. Ed è appunto questa negazione che è il principio. Il cogito. Come passare da questa negazione alla presenza. Dobbiamo contemplare l’origine della negazione. L’assolutezza della presenza consiste in questo: che essa non è presenza in quanto presenza di qualcosa, ma è presenza per sé, in quanto cioè nega ogni cosa. Nega ogni cosa che non sia la presenza stessa. Il suo essere pura presenza è un essere presenza di... che è un essere presenza di nulla, quindi è un negarsi, appunto perché è un ridurre a presenza27. 26 G. Vattimo, Fare giustizia del diritto, in J. Derrida, G. Vattimo (a cura di), op. cit., p. 286. 27 A. Emo, Il Dio negativo. Scritti teoretici 1925-1981, cit., pp. 18-19.           110 Il diritto come estetica La negazione diviene, metafisicamente, affermazione proprio per la sua alienazione da qualsiasi affermazione. Ma questa affermazione negativa della metafisica si distingue dall’affermazione positiva dell’empiria, poi- ché mentre quest’ultima è oggettivata, individualizzata, è parte di un tutto, la prima, invece, è puro soggetto, privo di specificazioni e qualità empiri- che, proprio perché le trascende come puro Essere. In questa logica nega- tiva conoscenza e volontà, pur coincidendo, si connotano come non cono- scenza e non volontà. Ovviamente, l’ipotesi si capovolge nella metafisica positiva, nella quale conoscenza e volontà si presentano come assolute, e scompare nell’empiria, ove la negazione è metamorfosi, ove il nulla è essere altro. Tuttavia anche nella metafisica negativa il nulla sembra sci- volare nell’altro, tanto altro da essere al di là della fisica e della metafisica, ossia del pensiero umano, ma questo altro è a sua volta nulla, almeno per la dimensione conoscitiva umana, che non riesce a comprendere un altro non umano e fatica ad immaginare una nullità, una assenza assoluta. Tornando ora in modo più stretto al tema del diritto, è possibile riassu- mere quanto detto nel seguente modo: se conoscere e volere coincidono a livello metafisico, nella realtà fisica possono sia coincidere (Spinoza), sia non coincidere (volontà di potenza) e lasciare spazio a scelte soggettive. Il diritto, inteso come estetica, consente di non rinunziare al diritto, pur rela- tivizzandolo, e di affidare al singolo soggetto l’adesione o meno al diritto dominante, che in questo modo non rappresenta più una obbligatorietà, ma l’alternativa tra una vita omologata, ma sicura (forse), ed una vita origina- le, deviante, ma pericolosa. La norma estetica può essere obbedita o disat- tesa. Il disattenderla, senza possedere una potenza, una forza sufficiente a piegarla alla propria volontà, significa soccombere alla forza dominante. Disattendere il diritto diviene una scelta come tante altre, della quale si possono subire le conseguenze, generalmente sgradevoli. Il determinismo o la volontà di potenza governano comunque il sistema umano, ma almeno non sopravvive l’inganno di un mitologico dover essere, frutto dell’ulterio- re sdoppiamento nel soggetto che agisce e nel soggetto che guida l’azione. Nichilismo/nihilismo, in sintesi, sono la demistificazione del mondo ed il diritto estetico è ciò che resta del diritto dopo questa demistificazione, che, tuttavia, è solo empirica e, quindi, non può fornire certezze assolute. Ma l’incertezza, il dubbio sembrano proprio essere il sigillo della condizione umana. Infatti, la duplicazione del mondo, dei piani della conoscenza e del- la volontà si presenta come una possibile via di fuga dall’incertezza, dalla solitudine angosciante dell’individuo; ma, al contempo, è anche la misura fisiologica del biologico, della stirpe animale ed umana. La duplicazione, dunque, si manifesta sia come una contromisura psicologica ed artificiale          Il diritto come estetica 111 alla condizione umana di assenza di senso esistenziale, sia come naturale moltiplicarsi e perpetuarsi della vita. La singola cellula aliena parte di se stessa, scindendosi in due cellule. Dalla madre fuoriesce per espulsione viscerale la prole. Le scissioni, il sacrificio di parte del proprio corpo per generare il corpo dell’altro è un processo traumatico di riproduzione, che tendenzialmente volge verso l’infinito, salvo eventi esterni ed imprevi- sti, che ne interrompono lo sviluppo. Dall’uno scaturisce per rottura un secondo uno, il due, ed, una volta iniziata la pluralità, automaticamente, sopraggiungono gli altri numeri (3, 4, 5, 6, ..., infinito). Anche l’infinito, come idea, è richiamato da questo processo moltiplicativo, ma, come in matematica, è una duplicazione (finito/infinito) espressione di un processo al limite, che mai si compie, che, per sua stessa natura, non può compiersi, giungere al termine, altrimenti cadrebbe la duplicazione stessa e resterebbe solo il finito. La vita propone la tentazione dell’infinito, ma, subito, infligge la disil- lusione. Ogni duplicazione si presenta come speranza e si accomiata come sconforto. Resta solo un soggetto, della cui identità tutto o quasi si ignora (dell’oggetto, poi, non vi è neppure certezza della sua stessa esistenza), con il proprio sentire incomunicabile se non attraverso l’atto comportamentale. Un sentire percorso da limiti organici, stimoli, motivazioni, giustificazioni, condizionamenti, influssi misteriosi, comandi metafisici, etc., ma pur sem- pre riducibile ad una semplice alternativa: mi piace/non mi piace. Nella solitudine dell’essere è questa l’unica certezza; una certezza dal contenuto vario e variabile, come vari e variabili sembrano essere i singoli soggetti; una certezza che può essere definita estetica. Morris Lorenzo Ghezzi. Morris L. Ghezzi. Gezzi. Keywords: i tordi ubriachi, i tordi, tordo, “drunk as a thrush/newt” turdus ubriacus – sturdy – I tordi -- nihilism about values, Mackie, Inventing right and wrong, Hare, emotivism, Grice, The conception of value, valitum – valore – axiology, stato federale, federazione, fascismo, il fascismo e la autobiografia d’Italia – Gobetti – statocentrale – diritto – diritto naturale e diritto artificiale – assiologia, codice valoriale, fierezza, onore, massoni, bruno, Alighieri, conte Cagliostro, bobbio, nihilism, nichilismo, pena e castigo, Beccaria, delitto, delinquent, delinquenza, devianza, diritto come estetica. -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Ghezzi: l’implicatura del tordo” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51757983938/in/dateposted-public/

 

Grice e Ghisleri – atlante filosofico – federalismo contrarivoluzione – lo stato -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Cascina Sant’Alberto). Filosofo. Grice: “Whereas to many, Ghisleri’s best work is that on Ancient Rome and counter-revolution, I treasure the details: ‘the pen is like a sword’ – ‘the pen and the sword.’ “The pen is my sword.’ Note that the first is a mere simile – as used by Ghisleri, but his executor turns it into a metaphor just by eliding the ‘like’ (“come”). Grice: “I like Ghisleri – a typical Italian philosopher; wrote on geography, on ‘la penna d’oca,” and a fabulous history of Roman philosophy!” --  “He was into politics, too!” L'Italia non è studiata, non è conosciuta dagli italiani. Dobbiamo rifare la nostra educazione politica e civile sulla base di una nuova e più razionale conoscenza del nostro paese. Dobbiamo studiare l'Italia regione per regione nella natura del suolo, nella sua topografia, ne' suoi prodotti nelle sue industrie, ne' suoi dialetti, nelle sue tradizioni, nelle sue varie necessità politiche e sociali.” Fonda La Società dei Liberi Pensatori (L’'Associazione Nazionale del Libero Pensiero "Giordano Bruno") di chiare simpatie democratiche e repubblicane. Iniziato in Massoneria, l'anno seguente entrò nella Loggia "Pontida" di Bergamo e nel 1906 fu affiliato alla Loggia "Carlo Cattaneo" di Milano.  Ghisleri diede alle stampe una nuova rivista mensile, Cuore e critica, rivolta all'educazione civile e agli studi sociali ed espressione di un'avanguardia intellettuale impegnata nella costruzione di una coscienza repubblicana e progressista. Sorta a Savona, la redazione della rivista si trasferì a Bergamo, in coincidenza con il trasferimento del Ghislèri al Sarpi di quella città. Si dedica con assiduità agli studi di geografia e di cartografia, che aveva cominciato a coltivare quando insegnava a Matera. Allora si era sentito mortificato nel constatare che nelle scuole italiane venivano adottati atlanti stranieri, assai carenti nel trattare la geografia storica dell'Italia. Dopo aver pubblicato il “Piccolo manuale di geografia storica” (Bergamo) volle perciò cimentarsi in un'impresa che non era mai stata tentata: la realizzazione di un testo-atlante che desse il dovuto rilievo all'evoluzione storico-geografica dell'Italia. Al progetto fu interessato lo stabilimento "Fratelli Cattaneo di Bergamo" che, grazie al successo delle iniziative editoriali promosse da Ghisleri, si trasformò in Istituto italiano d'arti grafiche e s'impose nel settore della cartografia. Ghisleri concepì il suo atlante in modo da offrire per una stessa regione molteplici carte e cartine con le denominazioni e le divisioni topografiche proprie di ogni epoca. L'apparizione dell'atlante fu salutata dalle lodi di esperti e studiosi, ma suscitò anche riserve di parte del mondo accademico, che rimproverava al Ghisleri superficialità e la commistione tra la geografia fisica e la storia dei popoli, delle civiltà, delle esplorazioni, dei commerci. Commistione del resto ricercata dal Ghisleri che, in polemica con il tradizionale approccio alla geografia e senza sentirsi condizionato dai limiti angusti dei programmi scolastici di allora, perseguiva metodi nuovi nello studio e nell'insegnamento della materia. Tenne la cattedra di filosofia nel Liceo di Lugano. Giornalista, fu direttore di «La geografia per tutti» e «Le comunicazioni di un collega».Di idee mazziniane, recepite soprattutto nella versione che ne proponeva Saffi, in campo politico fu vicino ai movimenti rivoluzionari e collabora con Gaudenzi alla fondazione del Partito Repubblicano Italiano. Tuttavia Ghisleri non fu un ideologo sistematico: una sistematizzazione del suo pensiero è soprattutto opera di Conti.  Diresse la rivista Preludio di stampo filosofico positivista e progressista. Diresse L'Italia del popolo.  Al Congresso del Partito Repubblicano, tenuto a Forlì, intervenne con una relazione su La questione meridionale e la sua logica soluzione. Demofonti, La riforma nell'Italia del primo Novecento: gruppi e riviste di ispirazione evangelica, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, Vittorio Gnocchini, L’Italia dei Liberi Muratori, Milano-Roma, Mimesis-Erasmo. Altre opera: “La Scapigliatura democratica: carteggi” (Pier Carlo Masini,Milano), L'archivio di Ghisleri fu ritrovato da Pier Carlo Masini ed è depositato presso la Domus Mazziniana di Pisa. Democrazia come civiltà. Il carteggio Ghisleri-Conti, Antonluigi Aiazzi, Libreria Politica Moderna, Firenze, Tripolitania e Cirenaica dai più remoti tempi sino al presente, Emporium, novembre, Tripolitania e Cirenaica, dal Mediterraneo al Sahara, monografia storico-geografica, Società Editoriale Italiana, Istituto Italiano d'Arti Grafiche, Bergamo, Le meraviglie del globo esplorato e le zone non ancora conosciute Letture geografiche Società Editoriale Italiana, Milano, Bagdad e la Mesopotamia nel passato e nell'avvenire, Emporium, giugno, Lombroso nella vita intima, Emporium, luglio 1917 L'ultima colonia africana della Germania, Emporium, Atlante scolastico di Geografia moderna astronomica-fisica-antropologica,Istituto Italiano d'Arti Grafiche, Bergamo (a cura dei professori Magg. G.Roggero, G.Ricchieri, A.Ghisleri) Saffi. La vita, gli studi, l'apostolato, Libreria politica moderna, Roma, La questione meridionale nella soluzione del problema italiano, Libreria politica moderna, Roma, “Testo-atlante di geografia storica generale e d'Italia in particolare, espressamente compilato per le scuole italiane conforme ai loro programmi- I Mondo Antico; II Storia Romana; Fratelli Cattaneo e poi Istituto di Arti Grafiche, Bergamo. Medio Evo, Evo Moderno e contemporaneo Atlante d'Africa, Istituto Italiano d'Arti Grafiche, Bergamo, Antipode, a Radical Journal of Geography, Berardi, Verso un nuovo Risorgimento. Il Carteggio tra Ghisleri e Belloni, Acireale-Roma, Bonanno, Dizionario biografico degli italiani,  L'Italia risorgimentale di Ghisleri, Milano, Angeli, Aroldo Benini, Vita e tempi di Ghisleri, con appendice bibliografica, Manduria, Lacaita, Tomasi, Scuola e liberta in Arcangelo Ghisleri: con una scelta di lettere inedite dell'archivio Ghisleri, Pisa, Nistri-Lischi, Ghisleri: mente e carattere: L'Italia e la rivoluzione italiana, Milano, Sandron Editore, Treccani. Arcangelo Ghisleri, su siusa.archivi.beniculturali, Sistema Informativo Unificato per le Soprintendenze Archivistiche.  Opere di Arcangelo Ghisleri, su Liber Liber.  Opere di Arcangelo Ghisleri, su openMLOL, Horizons.   ANTROPOGEOGRAFIA.   21. Antiobb oe.sti b vicbndb storiodb DBLL'I-  TAbiA 6RTTKNTRI0NALB. — Avanzi di armi e di stru¬  menti di pietra primitivi, preistorioi (punte di  soioe» epeoie di asole oon.) e poi di bronzo e di  ferro» nonobè avanzi di palafitte, di abitazioni  umane, dei pasti, di oggetti diversi ritrovuti In  più luoghi nel sottosuolo, dimostrano ohe l'Italia  settentrionale fu abitata nelle età più remote,  anohe prima^ del xieriodo storioo, quand'ossa era io    gran parte oooupata da foreste e da paludi. Ma  di oodesci primissimi aoitanti ben pooo» quasi nulla   Allorché si oominotano ad avere documenti sto-  rfoi sulle popolazioni dell* Malia settentrionale  questa si trova abitata in qualche tratto delle  Alpi centrati dai Reti, di stirpe etrusoa» ohe la¬  sciarono il loro nome alle Api Retiohe; ma per  massima parte del resto, sopratutto nel bassopiano  Padano (dove sono attualmente il Piemonto, la  L/)mbardÌa»l'Bmilial» dal OtltioÒollif da ouÌ venne  appunto il nome antico éìOallia ei$alpina. Nella  attuale Liguria, invece» erano i Liguri, ohe si ore-  dono afnni alla stirpo Iberica» e nella parte orien¬  tale 1 Kensff» di stirpe Illirloa, il ouÌ nome sioon-  Borva appunto anohe attualmente.   l Romani più tardi si sovrapiiosoro agli abitanti  e li assimilarono; non oosl però ohe non si distin¬  guano anoora» soprattutto nei dialetti» le tracce  delle antiche genti nel vari oompartimenti. Pinal-  roente nel medio evo avvennero lo Invasioni bar¬  bariche. Ma i Oérmanici invaoori, rolatlvamento  I>oohl di numero» invece di far soomparire ia po¬  polazione vinta, si ooufusoro oon essa» adottan¬  done la piviltà e la lingua o lasoiando di sO ap¬  pena { ricordi in certi nomi (ad es. Lombardia dai  Longobardi).   Nell’800 d. U. Carlo Magno» re del Fronohl, vinti  i Longobardi, fu dal PonteHoe di Roma incoronato  Imperatore Augusto, considerato cioè quale erede  dell'autorità e dei diritti dell'impero Romano  d’Oecidontei il quale, almeno di nome, durò fino  al jprinoipio del 13ii0, vale a diro por diooi seooli.  H}' in baso a tali diritti ohe Carlo .Magno e i suoi  Huooessori pretesero al dominio dell'Italia e spo-  oiulmente deiritalia sottoritrioiialo e della cen¬  trale» mentre 'l' Italia meridionale oontfnuò per  oiroa due seooli a oonslderarsiinolusaneirimpero  d'Oriente» greoo-bisantino. ~ Passata» Uopo raen  di un sooolo, la oorona imperiale dai diretti di-  Noendenti dì Carlo Magno ai ro Germanioi anche  l'Italia settentrionale e oentralo fooe parte del  oosiddetio Sacro Romano Impero della nazione  Germanica e fu divisa in feudi, assegnati ai vas¬  salli dei sovrani tedoaohi. Questi però si trovarono  in lotte continue tanto oói Pontefloi di Roma,  quanto oolle popolazioni» soprattutto delle città;  le quali, cresciute in potenza e rionhezza oon le  industrie e ool oommorol. vollero ornanoiparsi e  governarsi sotto forma di liberi Comuni. Alcuni  di ouosti, oome Milano e le città marittime di Ve-  nesia e di Genova acquistarono, colla libertà» una  importanza e potenza, una gloria e prosperità  sempre maggiore. — Disgraziatamonto. però» le  lotte fra oittà o oitt.à o quello intorno tra lo olassl  scoiali, prepararono la trasformazione dei oomuni  in signorie» e mantonnero l'Italia divisa e mili¬  tarmente debole» proprio nel moatroaldi là delle  Alpi, in luogo del frazionamento dei feudi e del  oomuni, si costituivano doi forti regni unitari e  nazionali» ohe volgevano gU occhi cupidi all’UaHa»  giunta allora al colmo della floridezza eoonomioa  e oivile.   Cosi fu ohe dalla fine del 1400 Tltalia fu Invasa  Uni Franoesi. d.'igli Spagnoli» dai Todesohl. Bonza  ohe gli Stati Italiani opponessero valida resistenza  D'allora In poi soltanto*11 Piemonte sotto la Gasa  di Savoja e la repubblica di Venezia poterono  oonsorvaro la loro indipendenza» mentre 11 diioato  di Milano fu occupato dagli stranieri e anohe gli  nitri stati minori (Ducato di Parma, di Modena,  Murobesato di Mantova eoo.) orano ad essi indiret-  laiuonte soggetti.   Dulia metà del 1500 fin al prlnoipio del 1700 do¬  minò 008 ) nell'Italia settentrionalu la Spagna» a  oiG suooedette l'Austria, mentre una parte d*d-  l'RmiUa (la cosiddetta Romagna» oon Bologna, Ra¬  venna» Ferrara) apparteneva alto stat^/dolla  Chiosa. — Alla flne del 1700 1« rivoluziono Fran¬  cese e quindi l'epoca Napoloonioa portarono anohe  nell'Italia settentrionale grandi mutamenti. Pur  troppo però» il Congresso di Vienna del 1815 as¬  segnò la tradita reptibblloa di Venezia oon la Lom¬  bardia airAustria, mentre la Casa di Savoia ag-         - 39 -    U Liguria al Piemoote ed alia Sardegna,  le derivava il titolo del itegno. tla l’e-  rimento per la liberaiione nazionale trovò  nel Piemonte e nell* Italia settentrionale  mtri e focolari maggiori e s’iniziarono le  ria unità e l’indipendenza, l’ultima delle .  tra coronata dalle gloriose vittorie del  li Vittorio Veneto. (Ved. Atl. tav. VI).   22. Sdpbbfioib b popolazionb. — Sopra  una superfloio ohe si può oaloolare, entro  ai oonfiiii fisioi, di circa 132 000 kmq., ha  ora una popolazione che ei calcola di circa  18 700000 di ab.   pi codesta superfloie i oonBni del Regno inelu'  devano finora soltanto lOiUOO km> oiroa, mentre  ora ne inoludono IZ7 000 ; e includevano otre» 16  milioni 0 >/z di ab., mentre ora la popolazione,  per i nuovi acquisti (oiroa 1 milione e i/il o per il  oaturale aumento annuo, si oaloola di oiroa 18 mi¬  lioni.   Tale popolazione tende continuamente  a crescere, nonostante la forte emigrazione  di alcuni compartimenti, soprattutto del  Veneto, del Piemonte e della Lombardia.   La densità dunque dell’Italia Bettentrio-  nale entro ai nuovi oonBni del Regno ri¬  sulta in media 141 ab. per kmc^., mentre  entro ai vecchi confini sarebbe di IBO. L’I¬  talia settentrionale ha perciò una densità  superiore alla media di tutta Italia, che  nei 1921 risultò di I2fj ab. per kmq. ed è  fra le regioni d’Europa più popolose.   La densità tuttavia è inuguale, perohò in certe  province supera 200 e In quella di àlllano arriva  fino a 002 ab, per kmq. mentre in altre e speoial-  mente nelle regioni montuose può soendero a  mono di 60 por kmq. — Oltre a oio 6 da osservare  ohe, aehbeue la popolazione per le indusirie tenda  ad aumentare nello città, anche la popolazione  eparea deU'ltalia settentrionale 6 assai numerosa  e vive in case sparse e in pioooli villaggi, ohe  dànno alle sue campagne un aspetto molto dille-  rento da quello dell’Italia meridionale e della  Bioilia.   Delle città deli’ Italia settentrionale consi¬  derate nella cerchia del comune, una supera  ormai i 700 000 ab-, Milano — una e^cra  già '/; milione, Torino — una supera 300000  ab., Genova — due superano 200 000, —  Trieste e Bologna — una vi s’avvicina,  Venezia — due superano 100000, Padova e  Ferrara, mentre altre due vi si avvicinano,  Brescia e Verona. La popolazione di quasi  tutte le città dell’Italia settentrionale  tende a crescere.   83 Gruppi ni liroua ■ kazioràlitX btraviera  — Abbiamo già detto ohe nelle valli Alpine Pie¬  montesi (speoialmonte in Val d’Aosta e nelle valli  dpi Valdesi) si parla tuttora franoeee da oiroa SS  mila individui : i quali sono però di eentimenti  nazionali perfettamente italiani. — Ugualmente  legati alla nazionalità italiana sono quelli ohe par¬  lano tetteeoo nelle valli intorno al m. Rosa (Qros-  soney. Alagna, Maougiiaga) oiroa 4mila; — nell'alto-  piano dui Sette Comuni in provinola di Yioenza,  oiroa 3 mila; — e nella Gamia, circa 8 miU. mentre  inve-ie li popolazione tedeso.a dell’Alto Adig^  oompatta nelle valli superiori, oaloolata circa ZOO  mila Individtii.ò stata finora delle piò ostili contro  l'Italia. — Finalmente nel Friuli orientale si tro¬  vavano finora entro i confini del regno oiroa -tO mila    Sloeeni ispnoialmente intorno a Cividale) anoh'essi  nazionalmente fedeli all’Italia : ma oltre ad essi  si trovano Inoluai entro 1 nuovi confini del regno  d’Italia, noi baoino dell’Isonzo, nella otttà e nel re¬  troterra di Trieste, nellTstriao nello Statodi Fiume  oiroa i/i milione di Ulaoi (Sloreni e Croofi) finora  molto ostili agli Italiani.   24. OoOUFàZlONI OBOLI ABITANTI ■ PBO-  DOTTi - IsTRCzioME. (V’cd. Atl. tav. IX). —  L’agricollura occupa il maggior numero di  abitanti ed ò in più luoghi agricoltura in¬  tensiva, con vigneti (specialmente in Pi^  monte) ed orti e veri giardini per la colti¬  vazione dei fiori (in Liguria), — con campi  ohe dànno un prodotto por ettaro pan a  quello dei paesi più progrediti dollaTerra,  — con risaie (speoialmonte in provinoia  di Novara), — con prati irrigui (mar-  oite) specialmente nella bassa Lombardia,  ohe permettono il girando allevamento del  bestiame e l’industria pel cas«i;?cto (nel Lo-  digiano, come pure nel Parmigiano); — fi¬  nalmente con cana;i«/t, soprattutto nell’E¬  milia, — con la coltura della barbabietola da  zucchero (nell’Emilia, nel basso Veneto e  altrove). Gli olivi dànno copioso prodotto  nella Liguria e i gelsi diffusi in tutto il  bassopiano permettono uno sviluppo della  bachicoltura, che rendo l'Italia unode^aesi  di maggior produzione dellaseta nella'Terra.   La Venezia Tridentina darà all’Italia grande  quantità di tranarneoou i nosoni, oue si trovano uu-  nbe in altri luoghi, ma non eooossivamonte al>-  londanti nulla zona alpina. — La pesca t> fonte  abbastanza importante di guadagni lungo le coste  dell’Adriatico e nelle lagune (ealli di Gomaoohio  eco.); ò pooo frutti fra invece nel mar Ligure.   Ma l’occupazione che subito dopo all’ a-  griooltura ha raggiunto nell’ Italia setten¬  trionale uno 8vilup(K) grandissimo ò Tindu-  sfria nelle sue svariatissime manifestazioni.  Sotto questo riguardo l'Italia settentrionale  supera senza confronto il resto d’Italia e può  gareggiare con le regioni più industriali dol-  Pestero, nonostante la mancanza di mate-  ' rie prime (metalli, carbone, cotone eoc.)o)io  è uno degli ostacoli maggiori alla prosperità  eoonomioa del nostro paese. Alla mancanza  di carbone mal si provvede con le ligniti o  con il poco petrolio dell’Emilia e molto più  efficacemente, invece, ma sempre in modo  inadeguato ai bisogni, con le energie elet¬  triche ottenute dai corsi d’acqua.   Iva le industrie piti importanti e sviluppate sono  quelle metallurgiche o mecoaniohe per fusione e  lavorazione di metalli e fabbrioazione di maooliine,  di automobili, di navi, specialmente a Milano, a  Torino, a Genova e dintorni (8. Pier d’Arena. Sa¬  vona eoo.), a Venezia, a Trieste ed anche in altre  località, come nel Bergamasco e nel Bresciano.   Non meno importanti sono le induatrie teeaili:  soprattutto della eeta, a àlilano. a Como e altrove,  in modo da gareggiare con I piu progrediti paesi  della Terra sotto questo riguardo ; del ootone, pure  nel Milanese e nelle province di Torino, di Novara,  di Como, di Bergamo, di Genova. Por la lana hanno  acquistato fama soprattutto i dintorni di Biella  (prov. di Novara) o di Schio (prov. di VIoenza).   Delle induetrie alimentari ha preso grande svi-    gliingova  dalla qua  foioo mo'  appatj»^  { •uoi 06  ^crre pe  quali fu 5  Piave e d           — 40 —    luppo negli ultimi anni quella iJello xùcchero di  barbabietola specialmente nell’Elmilia, nel Veneto  o in Liguria. A (lenora sono anche numerose le  fabbrlohe di pa*r«. R nell'Sìmilia sono (famose le  t alum trix di Modena e di liologna.   Terzo grande ramo d’oootipazione degli  abitanti nell’ Italia settentrionale sono il  commercio e la navigazione ; il primo age¬  volato dalla posizione goograflna, e dalla  rete ormai assai svilupjjata ui strade, e spe¬  cialmente di ferrovie, ohe s’intrecoiano in  tutti i sensi e_ traversano, come abbiamo  veduto, le Alpi e gli Appennini. Ad esse  s’aggiungeranno Io vie d’acqua interne,  specialmente quella Padana.   La navigazione ò occupazione delle pili  antiche per gli abitanti dei litorali della  Liguria o del Veneto, dove sorsero nel medio  evo le più potenti città marinare di quei  tempi. Uenclib superati ormai sulla Terra e  nello stesso Mediterraneo da altri d’altre  regionij i porti di Genova, Venezia e Trieste  gareggiano con i maggiori od è a crederò  furmamente che avranno uno sviluppo  commerciale sempre più intenso.   Por tutte questo ragioni l’Italia setten¬  trionale supera le altre parti d’Italia in  ricchezza e in generale anche nelle varie  formo di vita civile. Wistruzione vi è no¬  tevolmente sviluppata, d’ogni ramo o grado:  gli analfabeti, sebbene pur troppo non  manchino, sono in generalo in numero mi¬  nore ohe altrove, soprattutto nel Piemonte  tu su 100 ab. d’oltre 6 anni), nella Lom¬  bardia (13 su 100) e nella Liguria (17 su    25. Rboio.vi stobiohb b divisioni aumini-  STRATivB. — Come già abbiamo detto, l’I-  tiilia settentrionale si divide in 8 compar¬  timenti 0 regioni storiche : Piemonte. Liqu-  ria ool Nizzardo, Lombardia, Canton Ticino,  che costituisce la parto maggiore della Sviz¬  zera italiana, Venezia propria, Venezia Tri-  dentina, Venezia Giulia con lo Stato di Fiume,  ed Emilia, con la piccola repubblica indipen¬  dente di S. Marino.   Di questi compartimenti o regioni sto¬  riche (delle quali il Canton Ticino o il Niz¬  zardo, oltre a S. Marino, non fanno parte  del Regno d’Italia) diamo qui sotto la su¬  perfìcie e la popolazione, secondo il cen¬  simento del 1921. Si noti, però, ohe tale  superfìcie e popolazione corrisponde alla  somma di quelle delle provinole (che sono  le maggiori oiroosorizioni amministrative  del Regno) ; ma i uonfìni di queste non  sempre corrispondono ni oonfìni fìsici, et¬  nici 0 storici dei compartimenti.   In fìne al volume diamo in una tabella  i dati statistici particolari per le varie pro¬  vinole.   Si noti poi ohe la popolazione che indi¬  chiamo fra parentesi per le varie città nella |    descrizione dei vari compartimenti corri¬  sponde a quella della cerchia del comune,  non del centro principale abitato, che h  la città vera. Tra l’una o l’altra di tali  cifre vi sono assai spesso differenze gran¬  dissime, ohe rileveremo a mano a mano  quando l’occasione se ne presenterà.    Dati statistici relativi alle ragioni  dell’ Italia settentrionale.    Entro 1 nuovi confini politioi e amministrativi.    Superficie   Popol. nel 1921    In km>   assol.   relat.   l’iemonto   29 8b6   3 88S 000   116   Liguria . . . .   S 280   1 S'IO flOO   248   Iximbardia   24 180   S uo ooo   211   Vanesia propria .   28 010   4 2IS OOO   150   Venezia 'Tridentina .   18 800   645 000   47   Venezia Giulia   8 iOO   OiO flOO   103   Emilia . . . .   21 848   3 012 000   138   RepubhItQt di 8. Marino 00   12 OOO   200   Nizzardo ool Principato     di Monaco .   600   200 OOO   290   Svizzera italiana   8 8J0   170 000   43   Dati piò speolfioati,   soprattutto per lo'province.   Si trovano in aopendioo at fasotoolo.     lo - IL PIEMONTE.   r   Confini e nosloni generali. — Il Piemonte (In S  latino ftdemontium, oioO paese > pie’ di monti) si T  può dire all'insrosso limitato a H, a WeaN dalla {  crosta dell’Appennino Ligure e dello Alpioocideu- 1  tuli 0 t'entrali fino alle sorgenti dolla Tooe e al 4  lago Maggioro. Verso R. il Ticino lo divide soloiJ  in parte amministrativamente dalla I.ombordia, <|  perohò a questa appartrngono la Lomellioa o il I  cosi detto Oltrepò Pavese, formante il curioso ou- 4  neo di Bobbio. '4   Pisioaraento ooraprondo: la sona alpina; la pla-iL  nura piemontese da Ounoo ai Ticino, Il paeso ool- J  linose del Monferrato e la pianura di Marengo. Y   Divisione in province. — II Piemonte, di oul /  sopra abbiamo indioato la suporfloie e la popole-'V  alone a>soluta o relativa, ò diviso in t province:  ili Torino (!• per superlicfe e per popolaaione) ohe 'I  abbraooia l'angolo NW del compartimento, cioè ■  gran parte delie Alpi Ponnlne, tutte le Graie ita- .  liane e parie dolio Cozie, un tratto piano luogo il  Poe le colline sulla destra del fiume; —di Cuneo  (Z» per Slip.. 4* per popolaz.) ohe oooupa l’angolo'  SW ; — di A.le%8andria (4* por sup. o 2» por pope- ’  laz.) por niussima parto formata dal Monferrato;!   — di Novara (»• por sup. e por popola:.) a NE, ,  par.e alpina e parte piana.   Occupazioiij degli abitanti e prodotti. — I vi-,  gneti ^ecialmentc del Monferrato e lo]  risaie aoì Vercellese, dànno i prodotti più  caratteristici del Piemonte. Il quale ha '  grande sviluppo anche industriale a To¬  rino e dintorni (industrie metallurgiche e >  meccaniche), nel Diellese per la tessitura di •  lana, in parecchi luoghi per filatura e les-J  silura di cotone, in Valsesia per cartiere^   Città principali. — Torino 6'20) capitale de l  Piemonte, è per alcuni anni (dal 1881 a j  1885) già capitale del regno d’Italia, o entro]  deU'tilt.i valle del Po e delle relazioni cora-J  meroiali terrestri dell’Italia con l’Buropa oc-1  cidentale à, dopo Milano, la più iniuatriale]  città d’Italia. Si distingua da tutte le^altrej            - 41 -    grandi oitt& italiane per la re^olarith delle  vie o le sue costruzioni tuoderno.   Torino Tu oiilU 'Ini risor|;irapnio itahiiiio r pa¬  tri» t' 'lliiKtrl uomini, comi- U ih'ranso, Kali'O, liio-  (mrtl. IVAmifiio e, superiore a tutti. Camlilo (;.i-  yn,,r HiiI rioinn nnlle 41 Kurerir» /> la hasllina ohe  oontiene le tomtie dei re e prinoipi di Casa Barola  flno a Carlo Alberto.   Impila provincia di Torino sono da ricordare an-  oorii: /rrea(12) allo sbocco dolla valle d’Aosta, città  d'orisine romana di notevole importanza storica  _ e Aosta I Mianch'essa d'origine romana e capo-  luogo doila bellissima valle, a oui^dà il nome.   Cuneo (30), allo sboooo delle etrmle dei  passi di Tenda e dell' Argenterà. Sostenne  oon esito felice otto assedi dei Francesi.   Nella sua provincia è Saluteo (16), giàrapoluogo  di un Uarohesato, patria di Silvio Pellioo.   Novara (60), molto commerciante. Sotto le  sue mura avvennero importanti battaglie  nel 1613 e nel 1849. Grande centro di pro-  iluzione di riso.   Nella sua provincia: ttirl/a (13), soprannominata  la àlanohostor d'Italia, per le sue numerose e Ho-  renii industrie. — VtretUi (36), antiohisaitna città  sulla ferrovia Torino-àlilano, in territorio fertilis¬  simo: centro del mercato del riso.   Alessandria (78), fondata dalla Lega Lom¬  barda contro Federico Barbarossa alla con¬  fluenza della Bormida eoi Tànaro, nella  pianti rar di Marengo : ebbe in passato no¬  tevole importanza strategica.   Nella Rum provincia: Asfi (àO), città antichissima,  repubblica dei medio evo; centro vinifero del Pie¬  monte. patria di Vittorio Autori. — Aeaui (15), fa¬  mosa per le sue aocue termali, da cui ha li nome.  — Uanal* Monferrato (35), sulla destra dei Po, già  oapiiale del ducato di Monferrato. Importante cen¬  tro vinloolo.   2o . LA LIGURIA.   Confini e nozioni generali — La Liguria fl-  slonmente oooupa il versante dell’ Appennino e  delle Alpi Idguri rivolto al mare, arrivando a W en¬  tro I oonfini politioi o amministrativi fino alla valle  della ifoja e ad K verso la Tosoana (Ino alla foce  della .Magra. Etnograficamente però ed anche am-  inliiistraciraraente la Liguriapassa in qualohepunto  al di là della cresta spartiacque. Oonlina perciò  con la Pranoia, oon il Piemonio, por breve tratto  oon la lx>mbardia, in causa del cuneo di Bobbio,  oon l'Emilia e oon la Tosoana.   Divisione In province. — Ni divide in duo pro-  rinoe : di Oenova a E (la maggioro per sup. e  par popol.) e Porto Maurizio a W.   Occupazioni degli abitanti e prodotti. — Suolo  ristretUL moatuoso e naturalmente poco  fertile. Gli abitanti però seppero trarne il  maggior profitto, ooltivandolo a giardini ed  orti, che dànno, per il clima, fiori e legumi  primatiooi, ohe si spediscono in altre re¬  gioni d'Italia od all’estero. Altri prodotti  abbondanti sono : olio, castagne, vino e a-   riimi. Le industrie prinoipali sono quelle   el ferro e dei cantieri navali a Genova, a  S. Pier (l’Arena, a Savona ed alla Spezia;  poi quelle ohiraiebe (zucoherifloi), del co¬  tone, eco.. Ma la riochozza di Genova b  il commercio marittimo, che supera quello  di tutto il resto d’Italia.    Città principali. — Genova (300), sorta nel  punto della costa ligure pili opportuno per  le oornunicazionì ool bassopiano Padano, è  il primo porto e insieme una delle pili belle  citth d' Italia. Edificata ad anfiteatro su per  il monte, ohe salo subito dal mare, manca  di spazio por allargursi ; e le costruzioni  anche per l'ingrandimento del porto furono  assai difficili e costose. Un tempo ora pure  piazp forte ; ora non pili. I molti e son¬  tuosi palazzi le meritarono il nome di Su¬  perba. Decaduta dalla sua prima potenza  e dal suo splendore dal 1600 in poi, riac¬  quistò tutta la sua importanza nel secolo  passato con l’unità d’Italia, oon l’apertura  del oanale di Suez e con i trafori del S. Got¬  tardo e del Sempione. Ora Genova è rivale  di Marsiglia e si sviluppa sempre più, anche  por le industrie Vi nacquero Cristoforo  Colombo e Giuseppe Mazzini.   Nell.a sua (Tovincla: 8. J-Her d’Arma (SOI, ò  quasi un sobborgo di Genova, oon rInoinaM fon¬  derie ed oltloiiio sidertirgioho. — àfaronaiTò), sooon-  deporto della Riviera, molto ingrandito; si può oon-  siderarooome ti porto del Piemonte — Npezia( 90),  pruno porto militaru d'Italia, si trova In fondo ad  un golfo ampio o ben riparato, cinto da ripide mon¬  tagne, o«ronato da forti,e chiuso danna diga a Ror  d'acqua ^sta diventando anche centro industriale.  — Molte altre cittadine minori, amenissime, Af-  bmga, Sestri Levante, lìapallo eoo., sono stazioni  olimatloho di fama internazionale.j   Porto Maurizio (9) è il (piooolo c^oluogo  della provincia a cui dà il nome. E’ diviso  da Oneglia{S) quasi somplioemonte dal tor¬  rente Impero, alla cui foce;fe il piooolo,porto  comune. '■* *■'   Nella provinola ben piti imiràrtante oo'me' città  ò S»N RaunlSO), rinomata stazione olimatioa, oome  la Tlolna Bordighera (li), — yentimigiia ò a pojiii'  km. dal oonflna franoese; grande mordalo di (lori.  Arcangelo Ghisleri. Ghisleri. Keywords: atlante filosofico, tavola I, tavola II, tavola III, -storia romana, eta romana – classe V ginnasiale -- storia romana e filosofia, memoria di Cattaneo, rivoluzione con Rensi – Mazzini, mazziniano – lo stato italiano – stato federale – federazione -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Ghisleri: storia romana e filosofia”– The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Giacchè – l’altra visione dell’altro – Barba, Bene, e Fellini antropologo -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Perugia). Filosofo. Grice: “I like Giacché; for one, he philosophises on theatre, which any Sheldonian should appreciate!” Grice: “Giacché is what I would call a philosophical anthropologist.” Grice:”Giacché has an ability with language: “l’altre vision dell’altro,” for example – difficult to translate, but genial nonetheless, or perhaps genial because uneasily translatable!” – “He has philosophised on spectator and participant, which is conversational in tone – there’s no monologue, but dialogue --.” “He has criticised authoritarian types of performances like traditional teaching which he has compared to religion!” Insegna a Perugia. Si occupa di varie problematiche socio-culturali quali condizione giovanile, devianza, comunicazione di massa, solitudine abitativa, politica culturale. Saggi: Una nuova solitudine. Vivere soli fra integrazione e liberazione, Roma); “Lo spettatore partecipante. Contributi per un'antropologia del teatro, Guerini, Milano, Carmelo Bene. Antropologia di una macchina attoriale, Bompiani, L'altra visione dell'altro. Una equazione fra antropologia e teatro, Ancora del Mediterraneo, Napoli, Ci fu una volta la sinistra. Ovvero il silenzio dei post-comunisti, Asino, Roma.  CURRICULUM di Piergiorgio Giacchè (Perugia, 16.04.46), Professore a contratto (incarico gratuito), docente di “Etnologia europea: patrimonio culturale immateriale” presso la Scuola di Specializzazione in Beni demo-etno- antropologici, Università di Perugia, Firenze, Siena e Torino (sede di Castiglione del Lago, PG) - anni accademici 2014-15, 2015-16. TITOLI DI STUDIO E INCARICHI ACCADEMICI Laurea in lettere (indirizzo moderno), con tesi in Etnologia conseguita nell’anno acc. 1969-70 presso l’Università degli studi di Perugia, con voti 110/110 e lode. Abilitazione all’insegnamento delle materie letterarie nelle scuole medie inferiori - titolo conseguito il 3.2.1973 con voti 100 su 100. Borsa di studio quadriennale (dal 1.11.77 al 31.08.76) per “ricerche nel campo sociale”, usufruita presso l’Istituto di Etnologia e Antropologia culturale dell’Università di Perugia. Titolare di contratto quadriennale (dal 1.11.77 al 31.10.81) presso la Facoltà di lettere e filosofia della stessa università. Addetto alle esercitazioni presso la cattedra di Etnologia della stessa Facoltà, per gli anni accademici 1974-75, 1975-76, 1977-78, 1978-79, 1979-80, 1980-81. Ricercatore confermato dal 1° settembre 1981 al 28 dicembre 2004, presso l’Istituto di Etnologia e Antropologia culturale dell’Università di Perugia; in tale ruolo ha condotto seminari, cicli di lezione, moduli didattici e progetti speciali (in prevalenza sui temi della devianza, della condizione giovanile, della società dei consumi e dello spettacolo, dell’antropologia e sociologia del teatro) fino all’anno acc. 1994-95, in cui è divenuto affidatario di un Corso di Antropologia teatrale (unico corso attivato in Italia), riconfermato per tutti i successivi anni accademici. E’ stato altresì docente affidatario del corso di Antropologia culturale presso la facoltà di Scienze della formazione dell’Università di Perugia, nell’anno accademico 1998-99. Professore associato presso il Dipartimento Uomo & Territorio – Sezione antropologica ; docente di Fondamenti di Antropologia e di Antropologia del teatro e dello spettacolo presso la  Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli studi di Perugia, dal 23.12.2004 al 31. 12. 2013. Professore a contratto, docente di Antropologia culturale presso la Facoltà di Scienze della Formazione della L.U.M.S.A. di Roma – corso per Educatori professionali, sede di Gubbio – anni accademici 2004-05, 2005-06, 2006-07, 2007-08, 2010-11, 2011-12, 2012-13. Professore invitato, nel quadro del progetto “Socrates”, presso l’Université Libre de Bruxelles - facoltà di Scienze Sociali e di Filosofia e lettere (9 - 27 febbraio 1998); (10 -15 marzo 2000). Visiting Professor presso l’Università di Malta, Facoltà di Scienze della Formazione (23 – 29 aprile 2001). Professore invitato, nel quadro del progetto “Socrates”, presso l’Université Paris VIII – Département d’Etudes théâtrales (7 - 15 dicembre 2000 ; 10 – 20 gennaio 2002; 7 – 9 aprile 2004; 12 – 14 gennaio 2005). Professore invitato dall’Université Paris VIII per un seminario da tenersi presso il laboratorio di Etnoscenologia della Maison de l’Homme – Paris Nord (15 novembre – 15 dicembre 2006). Membro della Commissione per la Procedura di valutazione comparativa per il reclutamento di un ricercatore presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Cagliari, M05X – Discipline demoetnoantropologiche (gennaio – luglio 2002). Docente del Dottorato Internazionale in Antropologia ed Etnologia (A.E.D.E.) – anni accademici 2006-07, 2007-08, 2008-09, 2009-2010. CONSULENZE, COLLABORAZIONI E ALTRI INCARICHI ISTITUZIONALI Consulente socio-antropologico per alcuni programmi R.A.I. della Sede Regionale dell’Umbria: “Decentramento e sviluppo urbanistico” (15 - 25 ottobre 1979); “Anticamera” (novembre 1980 - aprile 1981); “Aperitivo” (aprile-luglio 1982). Consulente antropologico del Centro Regionale Umbro per le Ricerche Economiche e Sociali, nel 1978 (Ricerca sulla “popolazione reale”). Consulente del Comitato Regionale Umbro Radiotelevisivo e curatore di numerose indagini sul sistema dell’emitttenza locale e sull’ascolto radiotelevisivo ( dal 1978 al 1989). Consulente e collaboratore del Festival Internazionale del Teatro in Piazza di Santarcangelo di Romagna (edizioni: 1981 e 1982). Consulente e collaboratore del Teatro Studio 3 di Perugia, dal 1981 al 1985. 2  Consulente e collaboratore della 1^ Rassegna Internazionale del Teatro di Strada (Montecelio di Guidonia, 24 - 31 luglio 1982). Consulente artistico e scientifico del festival di teatro, musica e cinema “Segni Barocchi” di Foligno (edizioni 1985, 1986, 1987). Consulente del Teatro San Geminiano di Modena, poi centro teatrale “Dramma Teatri”, dal 1982 al 1995. Consulente e assistente, in qualità di antropologo del teatro per il periodo 27 settembre- 30 ottobre 2013, della rappresentazione teatrale de “La escuela de la escena y la escena de la escuela jesuita en el siglo XVII” a cura di Bruna Filippi, nel quadro del congresso De los Colegios a las Universidades. Las ensenanzas jesuitas y sus relatos cotidianos, organizzato da la Universidad Iberoamaricana de Ciudad de Mexico (Città del Messico, 25-29 ottobre 2013). Membro del comitato scientifico dell’International School of Theatre Anthropology diretta da Eugenio Barba, con sede a Holstebro, Danimarca (dal 1981 al 1997). Membro del gruppo di lavoro internazionale di Sociologia del teatro, con sede presso l’Université Libre de Bruxelles, Belgio (dal 1992 fino al suo scioglimento nel 1995). Membro del gruppo di lavoro della Maison de Sciences de l’Homme (E.H.E.S.S.) “Spectacle vivant et sciences humaines” (dal 1996 al 2002). Membro del comitato scientifico della quinta sezione di ricerca “Créations, Pratiques, Publics” della Maison de Sciences de l’Homme – Paris Nord (dal 2002). Membro del Laboratorio di Ricerca Interdisciplinare dell’Istituto di Psicosomatica Psicoanalitica “Aberastury” di Perugia (dal 2000). Membro del Comité de Rédaction de “L’Ethnographie. Noveaux objets, nouvelles méthodes. Revue de la Société d’Ethnographie de Paris” (dal 2002). Collaboratore della rivista “Lo straniero. Arte Cultura Società” diretta da Goffredo Fofi (dalla sua fondazione – 1997 – ad oggi); già redattore della rivista “Linea d’ombra” (1982- 1997) e co-direttore de “La terra vista dalla luna” (1995-1996). Collaboratore della rivista “Gli asini. Educazione e intervento sociale”, diretta da Luigi Monti, dalla sua fondazione – 2010. Membro del Comitato scientifico della rivista trimestrale “Catarsi. Teatri della diversità”, dalla sua fondazione – 1996. Membro del Comité scientifique de la revue trimestrelle “Théâtre Public” (dal 2013) Presidente della Fondazione “L’Immemoriale di Carmelo Bene” (dal 2002 al 2005). Membro della Commissione Consultiva per il Teatro – Ministero per i Beni e le Attività Culturali (dal 2005 al 2007). Membro della Commissione di valutazione dei progetti di cofinanziamento per lo spettacolo – Ministero per i Beni e le Attività culturali. (giugno-luglio 2007). 3  Consulente della Regione dell’Umbria – Assessorato alla Cultura, con l’incarico di ricognizione ed esplorazione del settore teatro nel territorio regionale (luglio 2010 – settembre 2011). Membro della Commissione Consultiva per il Teatro – Ministero per i Beni e le Attività Culturali (dal 2011 al 2013) Membro del Comitato Scientifico della Fondazione Centro Studi “Aldo Capitini” di Perugia (dal 2012). Membro del Comitato scientifico PerugiAssisi, candidata a capitale europea per il 2019. CORSI E SEMINARI DIDATTICI SPECIALI Partecipazione, in qualità di docente, ai seguenti corsi o seminari: • Corso biennale per la formazione di tecnici della ricerca sulle tradizioni popolari nella regione umbra (Perugia, 1974-75). • Primo corso regionale di preparazione e aggiornamento per operatori socio-sanitari impegnati nell’attività di prevenzione, cura e riabilitazione degli stati di tossicodipendenza (Bologna, 27 e 28 settembre 1977). • Corso regionale per operatori culturali nel settore del cinema (Orvieto, dicembre 1977 - giugno 1978). • Corso di riqualificazione professionale per operatori audiovisivi: il videotape (Foligno, febbraio-ottobre 1978). • Corso di formazione professionale per i 28 diplomati di scuola media superiore (schedatori) previsti dal progetto di “catalogo unico regionale dei beni bibliografici” (Perugia, maggio 1978). • Corso di formazione professionale per i 46 diplomati di scuola media superiore (ordinatori di biblioteca) previsti dal progetto “sistemi bibliotecari comprensoriali” (Perugia, luglio 1978). • Corso Animatori Q/1 - Seminario sulle comunicazioni di massa (Spoleto, 23 - 26 giugno 1984). • Seminario residenziale “L’Atelier: centro internazionale di ricerche artistiche” (Volterra, 1 novembre - 23 dicembre 1984). • “Soglie: esperienze di confine tra attore e spettatore”, seminario-laboratorio per studenti e insegnanti delle scuole medie superiori (Perugia e Todi, novembre 1990 - aprile 1991). 4  • Corso di Formation Doctorale Esthetique, Sciences et Technologies des arts della Université Paris VIII à Saint Denis (lezioni del 15 e 22 gennaio 1991). • Corso di Scenografia della Facoltà di Architettura e del Dipartimento di Musica e Spettacolo dell’Università “La Sapienza” di Roma (lezione del 29 gennaio 1991). • “Teatro, gioco, narrazione”, progetto teatrale per insegnanti delle scuole materne (Perugia e Città di Castello, febbraio e marzo 1991). • “L’attore consapevole. Seminario teorico-pratico sull’arte dell’attore” (Fara Sabina, Rieti, 25 - 31 gennaio 1993). • “La società italiana del dopoguerra”. Seminario di aggiornamento per gli italianisti polacchi, organizzato dall’Ambasciata d’Italia, dall’Università Jagellonica di Cracovia e dall’Istituto Italiano di cultura di Cracovia (Cracovia, 20 – 23 settembre 1993). • Corso di aggiornamento A/41 dell’I.R.R.S.A.E. dell’Umbria (Perugia, lezioni del 4 marzo 1994). • Seminario di Antropologia del teatro per gli allievi della Scuola Civica d’Arte drammatica “Paolo Grassi” (Milano, 24 e 25 marzo 1994). • V Corso Universitario Multidisciplinare di Educazione allo sviluppo, “La cultura del confronto”, organizzato dall’Unicef di Roma (lezione del 20 aprile 1995: “Uomini e teatro: culture del mondo a confronto”). • I Corso di aggiornamento sulla didattica del teatro nella scuola - Seminario internazionale su Scuola e Teatro (Marcellina, Roma, 19 - 21 ottobre 1995). • Corso di aggiornamento per insegnanti delle scuole medie superiori della regione Lazio (Roma, novembre 1995 - giugno 1996). • III Corso Universitario Multidisciplinare di Educazione allo sviluppo, organizzato dall’Unicef di Bari (lezione del 28 marzo 1996). • Università del Teatro Euroasiano, sessione dedicata alla “Storia sotterranea del teatro contemporaneo. Solitudine, tecnica, drammaturgia e rivolta” (Scilla, Reggio Calabria, 9 - 16 giugno 1996). • “Le età del teatro. Corso triennale di storia e cultura teatrale” - II anno: Dalla Commedia dell’arte alla Riforma goldoniana - organizzato da Emilia Romagna Teatro (Modena, Teatro Storchi, ottobre - novembre 1966). • Corso Uni-Tea 1997: “Figli della storia e maestri del teatro” (Parma, 5 febbraio - 19 aprile). • Corso d’aggiornamento per docenti e dirigenti di ogni ordine e grado, organizzato dal C.I.D.I. Versilia e dal Provveditorato agli studi di Lucca e intitolato “Letteratura teatrale e scuola” (Forte dei Marmi, 21 - 23 febbraio 1997). • Convegno-seminario “La musa fra i banchi di scuola. Esperienze e modelli di relazione / incontro fra teatro e scuola” (Cervia, 11 - 13 aprile 1997). 5  • Università del Teatro Euroasiano, sessione dedicata alla formazione dell’attore e intitolata “Apprendere ad apprendere” (Scilla, Reggio Calabria, 1 - 8 giugno 1997). • Corso Uni-Tea 1998, “Oplà noi viviamo! Tecniche originarie e tecniche nuove nel teatro d’attore” - seminario interno al Corso di Sociologia dell’Educazione dell’Università di Parma (Parma, 19 marzo 1998). • “Vedere Fare Pensare Teatro, per una formazione dell’educatore teatrale”, organizzato dall’E.T.I., dal Teatro delle Briciole, dal G.S.A Fontemaggiore, dal Teatro Kismet OperA e tenutosi in tre sessioni a Bari (25 - 29 marzo 1998), a Isola Polvese - Perugia (17 - 21 aprile 1998) e a Parma (8 - 12 maggio 1998). • Corso d’aggiornamento per insegnanti degli Istituti medi e superiori su “1968 - 1969. Gli anni della contestazione” (Parma, 24 marzo 1998). • « Sulla verticalità del verso », seminario di e con Carmelo Bene, organizzato dall’Ente Teatrale Italiano (Roma, Teatro Valle, 19 maggio 1998). • “Criticando criticando. Laboratorio d’analisi dello spettacolo”, organizzata in collaborazione con l’Associazione Nazionale Critici di Teatro (sessione dedicata al Teatro Ragazzi - Bagnacavallo, 4 giugno 1998; sessione dedicata al Teatro di Ricerca - Reggio Emilia 29 giugno 1998. • “I mestieri e le lingue del teatro”, Seminario di autoapprendimento per operatori dell’area penale esterna, organizzato dal Teatro Kismet e dall’Università di Bari, con il patrocinio del Ministero di Grazia e Giustizia (Bari, 2 - 3 luglio 1998). • “Teatro e Carcere: l’esperienza della Compagnia della Fortezza” - conversazione con P. Giacchè e Armando Punzo, in collaborazione con l’E.T.I. (Volterra, 21 luglio 1998). • Ciclo di incontri organizzati dall’Istituto Sardo per la Storia della Resistenza e dell’Autonomia (ottobre-dicembre 1998) “Rivelazioni e promesse del ‘68”; relazione su “Il ‘68 e il teatro” (Cagliari, 20 novembre 1998). • “La magia del leggere”, Corso di aggiornamento per insegnanti e genitori della Scuola Elementare “Ciro Menotti”, Villanova di Modena (26 marzo 1999). • Corso di aggiornamento per insegnanti delle scuole elementari del comprensorio Valle Umbria (Foligno, 23 aprile 1999). • “Teatro e Carcere: l’esperienza della Compagnia della Fortezza”, nel quadro di “Maggio cercando i teatri” organizzato dall’E.T.I. (Roma, Teatro Valle, 19 maggio 1999). • “Il verso dannunziano e il concerto d’autore”, seminario con A. Asor Rosa, C. Bene, P. Giacchè (Roma, Teatro dell’Angelo, 24 novembre 1999). • Ciclo di incontri “La parte dello spettatore” (relatore del 1° incontro – Faenza, 22 gennaio 2000). • Corso Uni Tea 2000, “Il teatro come disagio antropologico” (Parma, 27 gennaio 2000) 6  • “Divenire teatro”, incontri su Antonin Artaud organizzati dal Centro Teatro Universitario di Ferrara. Relatore del 3° incontro: “Artaud fatto Bene” (Ferrara, 17 aprile 2000). • “Politica e società nel 2000”, ciclo di incontri di formazione politica (Roma, aprile – giugno 2000). Relatore del 5° incontro: “Minoranze e movimenti nell’Italia del dopoguerra”, insieme a G. Fofi (Roma, 29 maggio 2000). • “Incontri in scena. Per un’indagine sull’antropologia dell’infanzia” (Vicenza, Teatro Astra, 20 ottobre – 24 novembre 2000), organizzati dalla compagnia “La Piccionaia – I Carrara” con la collaborazione dell’Università di Cà Foscari di Venezia. Relatore del 2° incontro: “Antropologia dell’infanzia” (3.11.00). • “L’utopia del teatro vivente. Living Theatre” (Siena, 7 marzo 2001), nel quadro di incontri organizzati dall’Università degli studi di Siena attorno ai “Cinque sensi del teatro. Cinque trasmissioni monografiche sulla filosofia del teatro” (Rai-Pontedera Teatro). • “Strumenti innovativi per favorire l’inclusione sociale”, lezione inaugurale (“Altro è narrare”) del corso organizzato dal Centro Solidarietà di Modena (CEIS) e da Emilia Romagna Teatro (Modena, 19 ottobre 2001). • Giornate di studio per l’inaugurazione della sezione di ricerca “Créations, Pratiques, Publics”, presso la Maison de Sciences de l’Homme – Paris Nord (St. Denis, 23 – 23 maggio 2002). • Conferenza sul Living Theatre, nel quadro del seminario “Maestri del ‘900. Gli uomini e le idee che hanno fatto la storia del teatro contemporaneo” organizzato dal Teatro Nuovo “Giovanni da Udine” (Udine, 28 gennaio 2003). • Conferenza su Carmelo Bene o delle provocazioni del genio, nel quadro del seminario “Maestri del ‘900. Gli uomini e le idee che hanno fatto la storia del teatro contemporaneo” organizzato dal Teatro Nuovo “Giovanni da Udine” (Udine, 13 febbraio, 2004). • “Le risorse della diversità”, seminario organizzato da Proteo Fare Sapere e dal Movimento Cooperazione Educativa (Firenze, Educandato SS. Annunziata, 20 – 21 febbraio 2004). • Corso per attrici “Il corpo del testo”, organizzato da Emilia Romagna Teatro Fondazione; docente di Elementi di antropologia e cultura del teatro e spettacolo (30 ore di Antropologia del Teatro nel biennio 2004-2005). • Seminario sulle “Quattro lezioni sul teatro” di Carmelo Bene, organizzato dalla Fondazione L’Immemoriale di Carmelo Bene” e dall’Università di Lecce (Lecce, 19 marzo 2004). 7  • Dimostrazione-conferenza “L’attore compositore: Mejerchol’d e la biomeccanica teatrale”, organizzata dal Centro Internazionale Studi Biomeccanica Teatrale (Perugia, 30 aprile 2004). • Quattro giornate di lavoro teatrale: incontri, dimostrazioni di lavoro, spettacoli Pontedera, Teatro di via Manzoni, 7 – 10 ottobre 2004), nel quadro di “Generazioni Festival 2004”, organizzazione e cura della Fondazione Pontedera Teatro. • Seminario dell’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales, “Carmelo Bene. Voir la voix, écouter le visible”, coordinato da B. Filippi e G. Careri (Parigi, Institut National d’Histoire de l’Art, 8 novembre – 20 dicembre 2004); comunicazione Le Sud du Sud des Saints,, 15.11.04. • “Teatro in forma di libri”, incontri organizzati dal Teatro Due Mondi – Casa del Teatro (Faenza, novembre-dicembre 2004). • “Arte dello spettatore”.Corso di formazione per insegnanti, organizzato dal Teatro Stabile d’Innovazione Fontemaggiore (Perugia, Teatro Sant’Angelo, novembre 2004 – aprile 2005). • Seminario orientativo sul settore spettacolo, organizzato dalla Fondazione Emilia- Romagna Teatro nel quadro della Laurea specialistica “Progettazione e gestione di attività culturali” della Facoltà di lettere e filosofia dell’Università di Modena (lezione del 17.3.2005). • Seminario di studio nel quadro della Mostra “Carmelo Bene. La voce e il fenomeno. Suoni e visioni dall’archivio”, organizzato dalla Fondazione L’Immemoriale e dal Comune di Roma (Casa del Teatri-Villino Corsini, 29 aprile – 26 giugno 2005); comunicazione L’ultimo Bene. La verticalità del verso, 7.5.05. • Incontro seminariale “Parole chiave per il teatro” (Lecce, 22 ottobre 2005), organizzato dai Cantieri teatrali Koreja. • “Un’antropologia della memoria” Conferenza dibattito sul libro di C. Severi Il percorso e la voce (Perugia, Palazzo dei Priori, 23 novembre 2005). • Corso “Salute mentale, Antropologia e Teatro: confronto su un’esperienza di pratica laboratoriale” (Perugia, Parco di S. Margherita, Padiglione Neri, 13.12.2005), organizzato dal Centro di Formazione della ASL 2 di Perugia. • “Pasolini antropologo” (Gubbio, Biblioteca Comunale Sperelliana, 17 dicembre 2005), nel quadro del ciclo di incontri “Pasolini e la nuova barbarie. Conversazioni su un testimone del nostro tempo” organizzato dal Comune di Gubbio (dicembre 2005 – aprile 2006). • “Atelier intensif S.P.O.T. (Spectacle vivant, Opèra, Thèâtre)”, organizzato nel quadro del Master Europeen conjoint en Etude du spectacle vivant, coordinato dall’Université Libre de Bruxelles e organizzato dalla Universitad de La Coruña - Spagna (6 – 18 febbraio 2006); docente di un corso di 15 ore di Antropologia teatrale. 8  • “Teatro come impegno civile”, seminario-incontro con Marco Paolini organizzato dai Cantieri Teatrali Koreja (Lecce, 10 giugno 2006) • Laboratorio di ricerca interdisciplinare – Quello che ci fa la vita che facciamo, nel quadro del “50° Seminario di Louis Chiozza”, organizzato dall’Istituto di Psicosomatica “Aberastury” e dalla Scuola di specializzazione in Psicoterapia psicoanalitica di Perugia (Città di Castello, Palazzo Vitelli, 22 febbraio 2007). • “Quadri concettuali per l’analisi del sistema cultura – Seminari di studio”, organizzati dalla Fondazione Mario Del Monte di Modena (febbraio – aprile 2007); comunicazione su L’antropologia e il “teatro” della cultura (Modena, Teatro delle Passioni, 29 marzo 2007). • “L’ultimo Bene”, conferenza-lezione nel quadro delle attività didattiche speciali della Fondazione Accademia di Belle Arti di Perugia (Perugia, 17 maggio 2007). • Seminario di studio “Economia della cultura, sviluppo umano e politiche culturali”, a cura del CAPP (Centro di Analisi delle Politiche Pubbliche), Modena, ottobre 2007- gennaio2008; comunicazione su La domanda di teatro. Una prospettiva antropologica (Modena, Facoltà di Economia, 17 dicembre 2007). • S.P.O.T. II (Spectacle vivant, Opèra, Thèâtre) “Espectàculos y dialogo entre culturas: La adaptacioòn y la escena”, organizzato nel quadro del Master Europeen conjoint en Etude du spectacle vivant, coordinato dall’Université Libre de Bruxelles e organizzato dalla Universitad de Sevilla - Spagna (28 gennaio – 8 febbraio 2008); docente di un corso di 8 ore di Antropologia del teatro e dello spettacolo. • Laboratorio Interculturale di Pratiche Teatrali (III edizione in collaborazione con l’International School of Theatre Anthropology, organizzata dal Teatro Potlach, Fara Sabina (Rieti), 13 – 26 ottobre 2008); comunicazione su L’antropologia dello spettatore, 14.10.08. • Seminario – Convegno “Omaggio a Carmelo Bene” (Centro Teatro Ateneo – Dipartimento Arti e Scienze dello Spettacolo dell’Università “La Sapienza” di Roma, 12 – 14 novembre 2008); Prologo al seminario e comunicazione dal titolo A scuola da Bene, 12.11.08. • “Il potere di tutti. Conversazione su Aldo Capitini” (Perugia, Sala Miliocchi, 14 febbraio 2009), organizzata dall’Associazione “Vivi il borgo”, dalla Società Operaia di Mutuo Soccorso e dalla Fonoteca Regionale “O. Trotta”. • Giornata di studi “La religione dell’educazione. Don Milani e Aldo Capitini”, organizzata dalla L.U.M.S.A. di Roma, Facoltà di Scienze della Formazione (Roma, Aula “Edda Ducci”, Piazza delle Vaschette, 1° aprile 2009). • Seminario “Migrazioni. Prospettive etnografiche sullo Stato italiano”, organizzato dal Dipartimento Uomo & Territorio – sezione antropologica (Perugia, Facoltà di Lettere e Filosofia, Palazzo Manzoni, 16 aprile 2009). 9  • “Voler Bene al cinema. Omaggio a Carmelo Bene” (Bellaria, Cinema Astra, 4 giugno 2009), nel quadro di “Bellaria Film Festival 2009. • Seminario interdisciplinare su: “Grotowski e la ricerca invisibile” (Perugia, Istituto Aberastury, 20 giugno 2009. • “Bruciare la casa“, incontro-colloquio con Eugenio Barba (Isola Polvese (PG), 8 settembre 2009), nel quadro di “Terre di confine. Lo spazio del teatro”, progetto a cura di Linea Trasversale. • Séminaire doctoral collectif - Centre d'Etudes Féminines et d’Etudes de Genre/ CRESPPA-GTM : « Théâtre du genre : production, performance, spectacle » (Parigi, CNRS , 4 dicembre – comunicazione su “Travestissement à théâtre: masculin, féminile ou neutre? “). • Séminaire “SPACE-Supporting Performing Arts Circulation in Europe “- Session Paris (ONDA, Paris, 3 – 6 février 2010), Comunicazione “Europe Toolbox: quelle boîte pour quels outils?” • “Cinema e teatro non si incontrano mai, se non all’infinito” (Bergamo, 17 febbraio 2010) incontro seminariale nel quadro de “Il teatro vivo. Introduzione al teatro contemporaneo: Corso di Alti Studi Teatrali – XI edizione, 2009-2010”, organizzato dal Teatro Tascabile di Bergamo. • “La Festa nelle culture dei popoli: criteri di autenticità” (Gubbio, 19 marzo 2010), nel quadro del ciclo di incontri “La Festa nella Festa dei Ceri”, per la celebrazione del 850° anniversario della morte di S. Ubaldo. • Introduzione e partecipazione al XI Seminario Interdisciplinare dell’Istituto Aberastury su “La vocazione minoritaria”, condotto da G. Fofi (Perugia, 14 maggio 2010). • Incontro seminariale su “Lo spettatore partecipante” nel quadro del progetto “Paesaggio con spettatore” a cura di R. Vannuccini e organizzato da ArteStudio per il Festival dei Due Mondi – Spoleto 53 (Spoleto, Palazzo Comunale, 25 giugno 2010). • Coordinatore del IX Laboratorio di Ricerca Interdisciplinare dell’Istituto Aberastury “Dialogo con Sctutatori d’anime di Carlo e Rita Brutti” (Assisi, 23 febbraio 2011). • Incontro-conversazione “Radicalism: Piergiorgio Giacchè speakes about Carmelo Bene with Dora Garcia” (Venezia, Padiglione Spagnolo della Biennale Arte, 4 giugno 2011), nel quadro della performance THE INADEQUATE: ogni giorno un artista in scena (Padiglione spagnolo, 54th International Art Exibition – Venice Biennale, 1 giugno - 27 novembre 2011). • Relatore e conduttore del XIII Seminario Interdisciplinare dell’Istituto Aberastury su “L’anima del mondo viene prima del mondo dell’anima? (Perugia, 11 giugno 2011). • Dialogo teatrale – incontro tra un antropologo e un avvocato su Teatro Trattamento Carcere, nel quadro di “Stanze di teatro in carcere 2011. Rassegna intinerante di Teatro Carcere in Emilia Romagna” (Modena, Teatro delle Passioni, 29 ottobre 2011). 10  • “La congiura della creatività”, seminario pubblico con P. Giacchè e R. Sacchettini, organizzato dal collettivo Nevrosi (Agliana, PT, Teatro Il Moderno, 28 gennaio 2012). • Incontro con Marc Augè in dialogo con Piergiorgio Giacchè, organizzato dal Circolo dei lettori di Perugia (Perugia, Sala dei Notari, 29 marzo 2012). • Incontro con Piergiorgio Giacchè e Giuseppe Di Leva (Piccolo Teatro Grassi di via Rovello, Milano, 12 luglio 2012), nel quadro di “Visioni di Bene. Voce, teatro, cinema, televisione secondo Carmelo”, Milano, 12 – 15 luglio 2012. • “Memorie del sottosuolo. Il teatro raccontato da spettatori speciali: Piergiorgio Giacchè su Carmelo Bene” (Giardino del MUSAS, Santarcangelo di Romagna, 13 giugno 2012), nel quadro di Santarcangelo 12 – Festival Internazionale del Teatro in Piazza – 13-22 luglio ’12. • “Raduno degli artisti della scena: Punctum e tempo, dalla fotografia alla scena”, incontro seminariale a cura di Claudio Morganti, organizzato dal Teatro Metastasio Stabile della Toscana, nel quadro del festival “Contemporanea 12: le arti della scena” (Prato, spazio Magnolfi, 6 ottobre 2012). • Incontro-Lezione – TITOLO - per il seminario residenziale Università Elementare de Gli asini nel quadro di “Leggere la città: lo spazio pubblico” (Pistoia aprile 2014) • Seminario su “La parabola dell’animazione teatrale” nel quadro della seconda edizione della Summer School di Arti performative e Community care (Carpignano Salentino, 20 – 29 agosto 2013). • Incontro con Piergiorgio Giacchè e Alessandro Leogrande condotto da Giovanna Casadio, intitolato Vizi privati e pubbliche virtù, nel quadro della decima edizione del “Festival Lector in fabula: Privato, Pubblico, Comune” Conversano, 11-14 settembre 2014 (Conversano, BA, Auditorium di San Giuseppe, 12 settembre 2014). • Conferenza Orizzonti e vertici del “viaggio del teatro” nel quadro della XVII edizione de “IL TEATRO VIVO. Progetto di promozione e diffusione del teatro contemporaneo”, organizzato dal Teatro Tascabile di Bergamo (Bergamo, 5 dicembre 2014). • Conferenza Dal Living Theatre all’Odin Teatret, nel quadro di “Effetti collaterali. Ciclo di incontri per la formazione degli operatori e del pubblico”, organizzato dal Teatro di Sacco di Perugia (Perugia, Sala Cutu, 18 dicembre 2014). • Incontro-Lezione “Essere giovani, essere attori” (Pistoia, Piccolo Teatro Mauro Bolognini, 11 aprile 2015) per il seminario residenziale Università Elementare de Gli asini “La cultura di massa dall’emancipazione all’alienazione”, nel quadro di “Leggere la città: lo spazio pubblico” (Pistoia 9-12 aprile 2015). • Corso residenziale “Si deve, si può. Ruolo delle minoranze etiche tra globale e locale” - primo modulo Dove va il nondo? Analisi del presente: il globale e il locale (Lamezia Terme, 3-4-5 luglio 2015); Progetto Spring organizzato dalla Comunità Progetto Sud in collaborazione con le riviste Gli asini e Lo straniero. Relazione: “La mutazione antropologica: dal locale al globale e ritorno”.  11  • Corso di formazione per docenti presso l’Istituto Omnicomprensivo “D. Alighieri” di Nocera Umbra (PG): intervento formativo di due ore sul tema “Giovani Oggi” (1° aprile 2016). • Corso d formazione per docenti “Teatro come cultura delle differenze”, organizzato dal 1° Circolo didattico di Marsciano (PG) e dal Teatro Laboratorio Isola di Confine; conferenza “A scuola da Pinocchio” (Marsciano, Sala E. De Filippo, 14 giugno 2016). Curatore e ideatore dei seguenti progetti o seminari speciali: • “La casa de l’Odin”, Ciclo di conferenze sulla cultura teatrale e sull’antropologia del teatro (Valencia, Barcellona, Castellon e Madrid, marzo - aprile 1983). • “Apriamo un salotto: appuntamenti di restaurazione culturale” - tre cicli di conferenze sulle attività e sulla politica culturale (Perugia, marzo - giugno 1984). • “Storia & Geografia. Corso effimero di educazione permanente” - cinque incontri dedicati a Gabon, Germania, Iran, Argentina e Umbria, per favorire l’integrazione degli studenti stranieri (Perugia, febbraio - maggio 1985). • “La parte dell’altro. Teatro ed esperienze antropologiche” - ciclo di conferenze e seminario conclusivo con E. Barba (Perugia, febbraio - aprile 1989). • “Altro e Teatro” - ciclo di conferenze e relazioni di ricerca sugli ambiti contigui al teatro (Perugia, febbraio - maggio 1990). • “L’età dell’oro. Per un teatro giovane” - incontri e discussioni fra giovani gruppi teatrali (Parma, 17 - 20 aprile 1994). • “Il primo giorno. Scuola di teatro a scuola” - convegno/laboratorio sul rapporto tra il teatro nella didattica scolastica e la pedagogia del teatro (Parma, 5 - 8 novembre 1997). • Coordinatore del seminario “L’infanzia ritrovata. Lo sguardo dell’artista nel presente che muta” (Parma, 14 gennaio - 25 marzo 1999), all’interno del Corso Uni-Tea 1999. • Coordinatore del seminario laboratorio “Curare gli affetti. Il teatro come legame sociale. Un percorso tra luoghi e non luoghi” (Parma, 27 gennaio – 6 aprile 2000), all’interno del Corso Uni-Tea 2000. • Curatore (assieme a G. Fofi) del ciclo di incontri “L’arte contro lo stato. Lo stato delle arti” (Santarcangelo di Romagna, 8 – 16 luglio 2000), nel quadro del XXX Festival “Santarcangelo del Teatri”. • Curatore (assieme a F.Orlandi) del Corso di aggiornamento per insegnanti della Scuola Media Superiore “Oralità, Narrazione, Teatro: In Principio era il verbo”, organizzato da Emilia Romagna Teatro – Fondazione (Modena, Teatro delle Passioni, 26 gennaio – 23 marzo 2006). • Curatore (assieme a S. Cipiciani) di “Piccoli maestri. Incontri video spettacoli con il Teatro delle Albe”. (Spello, Palazzo Comunale e Teatro Subasio, 16 – 17 maggio 2006), organizzato dal Teatro stabile di innovazione “Fontemaggiore” di Perugia. 12  • Coordinatore (assieme al prof. L. Mango) del Laboratorio di osservazione dello spettacolo contemporaneo, nel quadro del Festival Internazionale ESTERNI (Terni, 20 – 30 settembre 2006). • Curatore (assieme a S. Cipiciani) di “Piccoli maestri. Incontro con Santagata o Morganti” (Terni, Officine Ex-Siri, 22 – 25 settembre 2007), organizzato dal Teatro stabile di innovazione “Fontemaggiore” di Perugia nel quadro del festival Es-Terni 2007. • Ideatore e curatore di “Bene Detto. Oratorio e Laboratorio sull’arte di Carmelo Bene” (Oratorio: Mondaino (RN), 1° settembre 2009 – Laboratorio: Mondaino (RN) luglio 2010), organizzato da L’arboreto. Teatro Dimora, con la collaborazione dell’Ass. Liminalia di Perugia e di B. Filippi e S. Pasello. • “I tagli e le ferite. La poetica della politica e viceversa”, Incontro con gli artisti italiani nel quadro di “Vie. Scena contemporanea festival”, organizzato dall’E.R.T. (Modena, Biblioteca Delfini, 16 ottobre 2010). • Curatore e conduttore del meeting “Per Ora Labora” sulla condizione lavorativa dell’attore teatrale, nel quadro del Cantiere delle Arti (Modena, Biblioteca “Delfini”, 15 ottobre 2011). • Ideatore e curatore di “InizioAzione.Vacanze scolastiche per allievi attori delle scuole di teatro” (per una ricerca sulla motivazione teatrale), nel quadro del Festival VIE 2012 dell’E.R.T. (Rubiera, Corte Ospitale – Modena, Biblioteca “Delfini”, 25 – 28 maggio 2012). • Curatore e coordinatore dei sei incontri del seminario-laboratorio “Il grande attore e il piccolo spettatore” a cura del Teatro Stabile d’Innovazione Fontemaggiore di Perugia e del Dipartimento Uomo e Territorio – sezione antropologica – dell’Università degli studi di Perugia (Perugia, Teatro Brecht, 7 marzo – 2 maggio 2013). • Curatore di “Autocritica”, quattro incontri fra critici e attori per il Cantiere delle Arti, nel contesto di Vie Scena Contemporanea Festival 2013 (Modena, Biblioteca “Delfini”, 23 maggio – 1 giugno 2013). • Curatore e coordinatore del laboratorio per spettatori “Piccolo pubblico”, organizzato dal Teatro Stabile d’Innovazione Fontemaggiore di Perugia nell’occasione delle repliche degli spettacoli del Progetto Interregionale di promozione dello spettacolo dal vivo “Teatri del presente” (Teatro Brecht di Perugia e Teatro Clitunno di Trevi, novembre e dicembre 2013). • Curatore e direttore scientifico de “Il Centro della Visione. Per un’accademia dello spettatore”, progetto organizzato da Kilowat Festival a Sansepolcro (AR), dal dicembre 2013 a luglio 2014. • Ideatore e curatore del progetto “Verso Capitini, per un Colloquio corale”, prodotto dal Teatro Stabile d’Innovazione “Fontemaggiore” di Perugia (da aprile 2014 ancora in corso: prima sessione presso il Teatro Drama di Modena 17-18-19 ottobre 2104; seconda sessione presso il Teatro Brecht di Perugia 23 dicembre.2014). 13  • Ideatore e curatore del convegno “Il teatro della critica” (Pistoia, 14 e 15 novembre 2015), organizzato dal Centro Culturale “Il Funaro” e dall’Associazione Teatrale Pistoiese. CONVEGNI • Convegno su “L’Italia e l’Umbria dal Fascismo alla Resistenza: problemi e contributi di ricerca” (Perugia, 5 - 7 dicembre 1975). • Convegno internazionale su “Droga. Dalle esperienze ad una proposta concreta. Aspetti terapeutici, sociali e legislativi” (Firenze, 14 - 17 aprile 1980). • Incontro seminariale “Musica, Possessione, Spettacolo” (Greve in Chianti, Firenze, 15 - 17 maggio 1981). • Seconda sessione dell’I.S.T.A. - International School of Theatre Anthropology (Volterra, 8 agosto - 6 ottobre 1981). • Convegno di studi su “Improvvisazione e spettacolo” (Firenze, 21 ottobre 1981). • Convegno di studi su “Vedere ed essere visti” (Volterra, 26 - 28 febbraio 1982). • Convegno di studi su “Come si potrebbe vivere. Corpo e linguaggio” (Vicenza, 22 maggio - 4 giugno 1982). • Giornate della cultura e della partecipazione (Barcellona, 17 - 18 giugno 1983). • Convegno di studi su “Elogio dei fiori: tecniche personali e creatività” (Volterra, 9 - 11 dicembre 1983). • Mostra-Convegno “Spoleto come titolo” (Spoleto, 7 - 9 marzo 1985). • Simposio “Le maître du regard”, nel quadro della terza sessione dell’I.S.T.A. (Paris, Malakoff, 20 - 21 aprile 1985). • “Incontri di lavoro con Richard Schechner” (Pontedera, 24 - 26 aprile 1985). • Convegno-seminario su “Cosa narrare e come narrare” (Bellaria-Igea Marina, 29 - 30 luglio 1985). • Convegno Nazionale di Psichiatria “Crisi e costruzione delle conoscenze” (Massa, 4 - 6 ottobre 1985). • Convegno “Le forze in campo. Per una nuova cartografia del teatro” (Modena, 24 e 25 maggio 1986). 14  • Quarta sessione dell’I.S.T.A. - “Il ruolo della donna nel teatro delle diverse culture” (Hostelbro, 17 - 22 settembre 1986). • Convegno Nazionale di Antropologia delle società complesse (Roma, 27 - 30 maggio 1987). • Quinta sessione dell’I.S.T.A. - “Tradizione dell’attore e identità dello spettatore. Dialoghi teatrali” (Otranto, 1 - 14 settembre 1987). • Convegno su “Teatro e Emergenza. Quattro incontri” (Bologna, 11 - 13 dicembre 1987). • “Natura e buongoverno del teatro. Convegno Nazionale per il rinnovamento della scena italiana” (Milano, 20 e 21 ottobre 1988). • 1° Encuentro de Artes Escenicas sobre perspectivas, necesidades, metodos, limitaciones y alternativas para la investigacion y esperimentacion (Mexico D. F., 23 - 26 gennaio 1989). • Convegno su “La presenza misconosciuta. Nuovi progetti di teatro” (Frascati, 17 - 19 marzo 1989). • Giornate di studio su “Grotowski, la presenza assente” (Modena, 6 e 7 ottobre 1989). • 2° Congresso Mondiale di Sociologia del Teatro (Bevagna, 27 - 29 ottobre 1989) • Seminario Internazionale “A la recerca d’un espai teatral contemporani” (Olot - Catalunya, 28 - 30 giugno 1990). • Sesta sessione dell’I.S.T.A. - “Università del teatro euroasiano. Tecniche della rappresentazione e storiografia” (Bologna, 28 giugno - 18 luglio 1990). • XIIth World Congress of Sociology (Madrid, 9 - 13 luglio 1990). • Convegno di fondazione di “Mantis. Centro per la ricerca sui linguaggi del comportamento funzionale” (Palermo, 15 e 16 dicembre 1990). • Convegno su “Culture immigrate e teatro in Europa. Analisi dei fenomeni interattivi fra culture immigrate e culture europee” (Bologna, 16 novembre 1991). • Seminario-convegno della Università del Teatro Euroasiano (Padova, 7 e 8 marzo 1992). • Convegno internazionale su “Teatro Europeo: quali percorsi formativi” (Torino, 14 - 17 maggio 1992). • 3° Congresso Internacional de Sociologia do Teatro (Fondazione Gubelkian, Lisbona, 30 ottobre - 2 novembre 1992). • Convegno su “La piazza nella storia. Eventi, liturgie, rappresentazioni” (Università di Salerno-Fisciano, 9 - 11 dicembre 1992). • Seminario-convegno della Università del Teatro Euroasiano - “Drammaturgie parallele” (Fara Sabina, 21 - 30 maggio 1993). • Giornate di incontri e di studi “Per Carmelo Bene” (Perugia, 13 - 16 gennaio 1994). • 1° Congresso Nazionale “L’antropologia e la società italiana” (Roma, 28 - 30 aprile 1994). 15  • Convegno “L’identità collettiva e la memoria storica: un confronto tra Italia e Polonia”, organizzato dall’Ambasciata d’Italia e dall’Università di Varsavia (Varsavia, 16 – 18 giugno 1994). • Convegno di studi su “L’altra via dell’intelligenza. Teatro e valore” (Terza Università di Roma, 11 e 12 ottobre 1994). • 1° Convegno Europeo Teatro e Carcere - “Immaginazione contro emerginazione” (Milano, 21 - 23 ottobre 1994). • Convegno su “I sommersi e i salvati. Come, perché, dove e per chi fare teatro?” (Terza Università di Roma, 4 e 5 marzo 1995). • Convegno internazionale per la fondazione del Centre International d’Ethnoscènologie (Paris, 3 - 4 maggio 1995). • Convegno su “Pacifismo, disobbedienza civile, obiezione di coscienza: il ruolo della Comunità di Capodarco” (Lido di Fermo, 13 - 14 maggio 1995). • Congresso Europeo della Biennale Théâtre Jeunes Publics - “Pourquoi aller au théâtre aujourd’hui?” (Lyon, 3 - 5 giugno 1995). • Convegno su “Teatro antropologico e Antropologia teatrale” (Scilla, 25 giugno 1995). • Convegno su “Tradizione e modernità al sud” (Gallipoli, 14 agosto 1995). • Convegno Internazionale su “Teatro e Scuola: Università ed Educazione al Teatro” (Roma, 18 - 19 ottobre 1995). • Convegno “Teatro e Scuola fra espressività e percezione” (Modena, 15 - 16 novembre 1996). • 5ème Congres International de Sociologie du Théâtre (Mons, 20 - 23 marzo 1997). • Convegno Nazionale su “Arte del narrare, arte del convivere. Incontro tra immigrati, educatori e artisti narratori” (Palermo, 3 - 5 aprile 1997). • Convegno di studio “Creativi si nasce? Teatro e creatività nei possibili percorsi della riforma scolastica” (Palazzolo sull’Oglio - BS, 16 - 17 ottobre 1997). • Convegno su “Le letterature popolari. Prospettive di ricerca e nuovi orizzonti teorico- metodologici” (Fisciano e Ravello - Università di Salerno, 21 - 23 novembre 1997). • Convegno su “Il gioco del teatro. L’animazione trent’anni dopo” (Torino, 21 - 22 aprile 1998). • Convegno “Processo federalistico delle istituzioni meridionali e mediterranee” (Messina, 24 aprile 1998). • Convegno-Seminario “Carmelo Bene e Gabriele D’Annunzio. Sulla verticalità del verso” (Roma, Teatro Valle, 19 maggio 1998). • “Acting, Life, and Style”, convegno per un progetto internazionale di ricerca organizzato dall’Italienska Kulturinstitutet “C.M. Lerici” e dal Teatervetenskapliga Institutionen della Universitet Stockholms (Stoccolma, 9 - 13 settembre 1998). 16  • 3° Convegno Europeo di Teatro e Carcere: “Verso il Duemila, il cammino di un’utopia concreta” (Milano, 27 - 31 ottobre 1998), tavola rotonda su “Il costringimento e il suo doppio” (30.10.98). • Convegno “Io sono la prima attrice. Crocevia di esperienze tra teatro e handicap” (Milano, 20, 21, 22 novembre 1998). • Convegno “Un teatro per domani”, all’interno della X edizione di Galassia Gutemberg Mostra mercato del libro e della multimedialità (Napoli, Mostra d’Oltremare, Galleria Mediterranea, 21 febbraio 1999). • Convegno di studio per dirigenti e docenti della scuola “Il Corpo - la Macchina tra avventura, traduzione, mistero” (Calcinate, Bergamo, 21 - 22 maggio 1999). • Congresso “Le Corps du Théâtre. À partir de la Méditerranée: organicité, contemporanéité, interculturalité” (Bologna, 13 e 14 ottobre 1999), organizzato dalla Maison de Sciences de l’Homme, Ente Teatrale Italiano e D.A.M.S. dell’Università di Bologna. • Encontro Internacional de Novo Teatro para Crianças e Adolescentes – “Percursos” (Lisboa – Portugal, Centro cultural de Bélem, 20 – 27 maggio 2000). • “Per un teatro popolare di ricerca”, convegno organizzato da La Corte Ospitale (Rubiera, 23, 24 e 25 giugno 2000). • Primo Convegno Internazionale di Studi “I teatri delle diversità e l’integrazione” organizzato da Ass. Cult. Nuove Catarsi (Cartoceto –Ps, 14 – 15 ottobre 2000). • Convegno Internazionale “Intrecci tra Educazione Arte Natura nella prospettiva della conversione ecologica” (Amelia, 29 marzo – 1 aprile 2001), organizzato dalla Casa Laboratorio di Cenci. • Giornate di studio e di ricerca “I Sud e le loro Arti” (Arnesano, 6, 7 e 8 settembre 2001, organizzato dal Comune di Arnesano (Le) e dall’Università di Lecce. • Convegno “Il cinema al limite, al limite il cinema” (Perugia, 9 novembre 2001), organizzato da Batik-Perugia Film Festival. • “Ho sognato che vivevo. Teatri della trasformazione e dell’esclusione. Esperienze di teatro con protagonisti non comuni (pazienti psichiatrici, carcerati, portatori di deficit, immigrati) a confronto con studiosi e amministratori”, (Arena del Sole, Bologna, 12 e 13 aprile 2002) convegno organizzato dall’Azienda USL Bologna Nord e dalla Regione Emilia-Romagna. • Convegno di Studi “Antropologia e poesia” (Fisciano-Ravello, 2 – 4 maggio 2002), organizzato dall’Università degli studi di Salerno e dall’A.I.S.E.A.- Sezione di Antropologia e letteratura. • Convegno “Per un nuovo Teatro in Italia e in Europa” (Roma, Teatro Valle, 16 e 17 maggio 2002), organizzato dall’Ente Teatrale Italiano nel quadro di “Cercando i teatri 2001-2002”. 17  • Convegno “Residui illimitati” (Bergamo, Chiesa di S.Agostino, 21 giugno 2002), organizzato da Il Teatro Prova nel quadro del festival “Non voglio perdere la meraviglia. Teatri e arti tra diversità e alterità”. • Convegno Internazionale “Le arti del ‘900 e Carmelo Bene” (Torino, Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, 24 – 27 ottobre 2002), organizzato dalla Regione Piemonte e dall’Organizzazione per la Ricerca in Scienze e Arti di Torino. • Convegno Internazionale “Performing Through – Tradition as Research at the Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards” (Vienna, Theater des Augenblicks, 28 – 29 giugno 2003. • Non solo per piacere. Pratiche teatrali. Adolescenti. Giustizia. Convegno nazionale sulle esperienze di teatro con minori in area penale interna ed esterna (Bologna, Maison Française, 28 febbraio 2003), organizzato dal Dipartimento Musica e Spettacolo dell’università di Bologna, dalla Regione Emilia-Romagna e dal Centro Giustizia Minorile per L’Emilia Romagna e Marche. • Colloque International d’Ethnoscénologie (Parigi, Université Paris 8, 12 – 14 settembre 2005) • Convegno “L’Attore”, organizzato da Primafila e InScena con il patrocinio delle Segreterie di stato per il Turismo e gli Istituti Culturali – Repubblica di san Marino (Sala SUMS, 23 e 24 settembre 2005). • Giornate di lavoro e di studio nel quadro dell’Assemblea Generale di IRIS - Associazione Sud Europea per la Creazione Contemporanea (Modena, Palazzo Comunale, 28 – 29 ottobre 2005). • “Controscuola. Riflessioni ed esperienze pedagogiche”, convegno organizzato dalla rivista “Lo straniero” (Roma, Museo di Roma in Trastevere, 4 – 5 febbraio 2006). • International symposium on tracing roads across “Living Traces – Performing as a Shared Reality” (in the occasion of the 20th Anniversary of the Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards), Teatro Manzoni, Pontedera – PI, 11 – 13 aprile 2006. • Convegno “Réécritures de Médée”, organizzato dal Centre de Recherche en Etudes Féminines – Etudes de genre del’Université Paris 8 (Saint-Denis, Musée d’Art et d’Histoire, 24 e 25 novembre 2006. • “Il disagio e chi se ne occupa. Crisi dei sistemi educativi e di cura e prospettive dell’agire sociale”, convegno organizzato dalla rivista “Lo straniero” (Roma, Sala Civita, Piazza Venezia, 12 – 13 maggio 2007. • 1° Incontro su “Travestitismo e identità di genere nelle scienze della recitazione” (Napoli, Galleria Toledo, 16 novembre 2007), organizzato dal Dipartimento di Neuroscienze, Unità di Psicologia Cilinica e Applicata e dalle Università degli Studi di Napoli Federico II , L’Orientale, Suor Orsola Benicasa; comunicazione su Il teatro e l’alterità di genere. Il caso o l’esempio di Carmelo Bene. 18  • 2° Convegno Regionale A.I.Fi Umbria su “Le alterazioni posturali: dalla conoscenza alla coscienza riabilitativa” (Trevi, Hotel della Torre, 1 marzo 2008), organizzato con la collaborazione dell’Università di Perugia; comunicazione su Postura e cultura. Il corpo della tradizione e il corpo della rappresentazione. • Convegno “Venti anni di teatro della Compagnia della Fortezza – Per un teatro stabile in carcere” (Volterra, Cortile principale del carcere, 21 e 22 luglio 2008) – coordinatore e relatore. • Convegno internazionale “Il teatro che ho in testa. Per un festival di teatro da sogno” (Ulassai e Jerzu, 8 – 9 agosto 2008), organizzato da Cada Die Teatro, nel quadro di “Ogliastra Teatro, festival dei tacchi”. • Convegno “La frontiera del teatro. Grotowski 30 anni dopo” (Milano, Teatro dell’Arte, 23 – 24 gennaio 2009), organizzato dal CRT Centro di Ricerca per il Teatro di Milano. • Convegno “Teatro e Infanzia”, a cura di G. Fofi e M. Martinelli, organizzato dal Teatro Stabile di Napoli e da Punta corsara (Scampia-Napoli, Teatro Auditorium, 28 e 29 marzo 2009. • Journée d’étude “Modes et formes d’émergence dans le théâtre” (Liegi, Belgio, 15 maggio 2009), organizzato, nel quadro del progetto Prospero, dall’Université de Liège e dal Théâtre de la Place. • “Ricordando Lévi-Strauss. Convegno di studi” (Macerata, 6 maggio 2010), organizzato dal Centro Internazionale di Studi sul Mito e dall’Università di Macerata. • Convegno seminariale “Chi è il prossimo?”, organizzato dalla rivista “Lo straniero” nel quadro del 40° Festival Internazionale del Teatro in Piazza (Santarcangelo di Romagna, Supercinema, XXXXX luglio 2010) • “Futuramente. 1° Convegno intorno alla Creatività per le future generazioni” (Pontedera, Museo Piaggio, 29, 30, 31 ottobre 2010), organizzato dall’ass. Libera Espressione e dal Comune di Pontedera (PI). • Journée d’étude “Vous ne trouvez pas ça tragique? – conversation publique sur l’art, l’esthétique et la politique” (Tolosa, Francia, 15 gennaio 2011), organizzata dal Théâtre Garonne, nel quadro di “In Extremis # 7”, 6 – 15 gennaio ’11. • “Una giornata con il Living Theatre” – conversazione pubblica (San Sisto – Perugia, Teatro Bertolt Brecht, 27 marzo 2011) organizzata dall’UILT nel quadro della Giornata Mandiale del Teatro. • Convegno Internazionale “Civiltà, culture, educazione. Le sfide della società tardo- moderna alla pedagogia” (Aula Magna della Lumsa, Roma, 5 aprile 2011), organizzato dalla Facoltà di Scienze della Formazione della LUMSA di Roma. • Convegno seminariale “Un’idea di rivoluzione” , organizzato dalla rivista “Lo straniero” nel quadro del 41° Festival Internazionale del Teatro in Piazza (Santarcangelo di Romagna, Supercinema, 16 luglio 2011). 19  • “Il n’y a pas de révolution politique possible, s’il n’y a pas d’une révolution poétique” – incontro internazionale e tavola rotonda sul rapporto tra pratiche artistiche e mutazioni politiche nelle aree interessate dalla “primavera araba” (Terni, Festival Internazionale della Creazione Contemporanea, Caos Area Lab, 18 settembre 2011). • Journée d’études “Potlach notionnel sur la performance. National potlach on performance”, organizzata dall’E.H.E.S.S., dall’Université Paris Ouest-Nanterre, dal Centre Edgar Morin e dal H.A.R. (Amphithéâtre François Furet, 105 bld. Raspail, Paris – 29 maggio 2012). • Convegno internazionale della Facultatea de Teatru si Televiziune – Universitatea Babes-Boyai di Cluj-Napoca (Romania) “The Bad Spectator. Performing Arts between Construction and Destruction / Le mauvais spectateur. Les arts du spectacle entre construction et destruction”, organizzato dal gruppo di ricerca Istoria Teatrului, Iconografie si Antropologie Teatrali a Cluj-Napoca (7 – 9 giugno 2012). • Seminario “L’esperienza del principio. Jerzy Grotowski, l’infanzia e la rinuncia all’assenza” (Cenci-Amelia, 16 giugno 2012), nel quadro della manifestazione “Sorgenti e torrenti. Omaggio a Jerzy Grotowski e al Teatro delle sorgenti” organizzata dal Laboratorio di Cenci 15 – 17 giugno 2012. • Convegno “Le théâtre et ses publics: la création partagée” - 2° Colloque International du Projet Européen PROSPERO (26 -29 settembre 2012, Salle académique dell’Università di Liegi – Belgio), organizzato dal Théâtre de la Place di Liegi e dell’Université de Liège. • “Confusion de genres. Journées d’étude en l’honneur de Jean-Paul Manganaro”, organizzato dall’Université de Lille 3, dall’Université Paris Ouest-Nanterre-La Defense e dall’Università Italo Francese (Lille, 29 novembre – 1° dicembre; Paris, 12 dicembre 2012). • Colloque International “D’après Carmelo Bene” (Parigi, Institut National d’Histoire de l’Art - Conservatoire National Supérieur d’Art Dramatique - Cinéma du Panthéon – 8, 9 e 12 gennaio 2013), organizzato da HAR, Université Paris Ouest-Nanterre, Labex Arts-H2H, Université Paris 8 Vincennes-Saint Denis, CNSAD, Dipartimento Uomo e Territorio dell’Università di Perugia (in partenariato con Union des Théâtres de l’Europe e con Emilia Romagna Teatro Fondazione). • Incontro sul tema “Memoria e Identità” (Gubbio, Biblioteca Sperelliana, 23 febbraio 2013), organizzato dal Comune di Gubbio e dal Lyons Club Gubbio Host. • “Teatro e nuovo umanesimo”, convegno nel quadro della “Giornata per Claudio Meldolesi” (Bologna, Laboratorio delle Arti, 18 marzo 2013), organizzata dal Dipartimento delle Arti visive, performative, mediali dell’Università di Bologna, con il patrocinio dell’Accademia dei Lincei. 20  • Convegno Nazionale di Teatro educativo intitolato “Scrittura e riscrittura. Da testo alla messa in scena – Esperienze a confronto” (Avigliano Umbro, TR, 27 -28 aprile 2013). • 7° Colloque international d’ethnoscénologie, organizzato da Maison des Cultures du monde, Université Paris 8, Maison des Sciences de l’Homme Paris Nord (Paris, 21 -23 maggio 2013) • Incontro sul tema “Ai confini della democrazia” (Roma, La Pelanda, 11 settembre 2013) organizzato dalle Edizioni dell’Asino nel quadro della rassegna Short Theatre n. 8 intitolato “Democrazia della felicità” (Roma, 5 – 18 settembre 2013). • Convegno Seminario “Intellettuali e riviste tra passato, presente e futuro” (Perugia, Sala della Partecipazione del Consiglio regionale dell’Umbria, 17 settembre 2014). • Convegno sulla Rete Regionale dei Teatri (Modena, Teatro delle Passioni, 27 novembre 2013), organizzato dalla Fondazione Mario del Monte e da Emilia Romagna Teatro. • Convegno “La possibilità del teatro. Un incontro di riflessione e confronto”, organizzato dalla Fondazione Pontedera Teatro (Pontedera, PI, Teatro Era, 12, 13, 14 dicembre 2014). • Convegno “Il teatro della critica” (Pistoia, 14 e 15 novembre 2015), organizzato dal Centro Culturale “Il Funaro” e dall’Associazione Teatrale Pistoiese. RICERCHE ricerche teoriche: • Il contesto sociale della criminalità e della devianza - “Le basi strutturali dei processi di criminalizzazione” (1974 - 1976). • La solitudine abitativa come fenomeno emergente (gennaio - ottobre 1980). • Riferimenti teorici ed esperienze empiriche nella fondazione di una antropologia del teatro (1984 - 1988). • Cultura dell’attore nelle tradizioni teatrali euroasiatiche (1987 - 1992). 21  • L’identità dello spettatore e i modelli di fruizione del teatro (1988 - 1990). • Sociabilità, Relazionalità, Spettacolarità (1990 - 1991). • Tecniche del corpo e azioni performative (1992 - 1993). • Studio per la realizzazione di uno spettacolo teatrale sul tema del cooperativismo (dicembre 1993 - febbraio 1994). • Elements anthropologiques dans le théâtre contemporain - nel quadro della partecipazione al Groupe international de recherche interdisciplinaire “Spectacle vivant et sciences de l’homme” - Maison de l’Homme, Paris (dal 1996 ancora in corso). • Il teatro e la scuola: le funzioni pedagogiche del teatro e i corsi di formazione degli operatori teatrali e degli insegnanti - nel quadro dell’attività dell’Uni-Tea, progetto coordinato dall’Ente Teatrale Italiano (dal 1997 al 2000). ricerche empiriche: • Gli atteggiamenti nei confronti della devianza criminale e dell’istituzione carceraria (ricerca condotta nel quartiere di P.ta Eburnea di Perugia - giugno 1974). • Le opinioni e gli atteggiamenti degli studenti dell’Istituto Tecnico per Geometri di Perugia nei confronti della scuola e della condizione giovanile (aprile - maggio 1976). • Indagine su tipologia e censimento degli organismi di democrazia di base (ricerca per il Consiglio Regionale dell’Umbria, 1976 - 1977). • Ricerca sulla definizione e le caratteristiche della popolazione “reale” (ricerca del C.R.U.R.E.S., marzo - maggio 1978). • Indagine sull’ascolto radiotelevisivo in Umbria (ricerca del Comitato Regionale Umbro per il Servizio Radiotelevisivo, maggio 1978 - ottobre 1979). • Ricerca sul comportamento elettorale in Umbria attraverso l’analisi dei risultati delle elezioni politiche ed europee del giugno 1979 (giugno - dicembre 1979). • Indagine sull’esercizio e il mercato cinematografico in Umbria (ricerca dell’Associazione Umbra per il Decentramento delle Attività Culturali, ottobre 1982 - marzo 1983). • Inchiesta sul teatro dialettale in Umbria (ricerca del Centro Documentazione Spettacolo, settembre 1983 - aprile 1984). • Analisi dei risultati delle elezioni amministrative del 1985 nel comune di Perugia (ricerca del Comune di Perugia, giugno 1985 - aprile 1986). • Ricerca sulla memoria e sulla identità dello spettatore (ricerca condotta in Salento per l’International School of Theatre Anthropology, marzo- ottobre 1987). • L’informazione televisiva in Umbria: i notiziari regionali (ricerca del Comitato Regionale Umbro per il Servizio Radiotelevisivo, novembre 1987 - giugno 1988). • Indagine sulle emittenti radiotelevisive operanti in Umbria (ricerca del Comitato Regionale Umbro per il Servizio Radiotelevisivo, novembre 1988 - settembre 1989). • Aspetti devozionali e spettacolari nelle feste religiose patronali (ottobre 1996 – ottobre 2002). 22  • “In compagnia: ricerca e analisi sulle opportunità di lavoro e di impiego nel settore teatrale” (nel quadro dell’azione pilota “terzo settore e occupazione” promossa dalla Commissione Europea D.G.V); ricerca coordinata da Emilia Romagna Teatro con la collaborazione di “Amitié”, Taller de Investigaciòn de la Imagen Teatrale di Madrid, Teatro delle Briciole, Teatro Festival, Thomas Consulting Group (dal 15 dicembre 1997 al 15 dicembre 1998). • Ricerca empirica sulla definizione e sulla’informazione e formazione dello spettatore, all’interno del progetto “100 spettatori da adottare” organizzato dalla Fondazione Pontedera Teatro e dall’ETI Ente Teatrale Italiano (aprile 2000 – aprile 2001). • “Il nuovo attore nuovo” Osservatorio scientifico sulla pedagogia dell’attore di innovazione, applicato al Progetto interregionale “Teatro – Percorsi di Alta Formazione” organizzato dalla Fondazione Pontedera Teatro, dai Cantieri Teatrali Koreja di Lecce e dal Nuovo Teatro Nuovo di Napoli, in convenzione con le rispettive Regioni (gennaio – giugno 2008). • Analisi documentale del “Cantiere delle Arti” – un cantiere transnazionale per la creazione di percorsi integrati connessi alla realtà produttiva del settore spettacolo dal vivo – costituito da Emilia Romagna Teatro Fondazione, dalla Regia Accademia Filarmonica e Musica e Servizio Cooperativa Sociale (aprile – dicembre 2011) 23  PUBBLICAZIONI Sull’opera e il pensiero degli antropologi Giulio Angioni. Tra antropologia e letteratura (recensione), “Lo straniero Arte Cultura Società”, anno VII, n. 35, maggio 2003, pp. 153 – 156. Bourdieu: l’autoanalisi di un maestro, “Lo straniero Arte Cultura Scienza Società”, anno X, n. 70, aprile 2006, pp. 90 – 92. Postfazione alla parte quinta “Dimensioni della festa” in: T. Seppilli, Scritti di antropologia culturale, (M. Minelli – C. Papa, curatori), 2 voll., Olschki Ed. , Firenze, 2008; vol. II – La festa, la protezione magica, il potere, pp. 519 – 529. Lo sguardo lontano di Lévi-Strauss, “Lo straniero Arte Cultura Scienza Società”, anno XIV, n. 116, febbraio 2010, pp. 106 - 109. Lezione e monito dell’ultimo Baudrillard, “Lo straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XVII, n. 157, luglio 2013, pp. 76 – 79. Sulla condizione e la subcultura giovanile: Dopo Licola, (in coll. con G. Baronti), “Ombre Rosse”, n. 17, nov. 1976, pp. 50 - 67. Il corpo e il territorio, “Segno critico”, anno I, nn. 2 - 3, luglio - dicembre 1979, pp. 99 - 103. Una nuova solitudine. Vivere soli tra liberazione e integrazione, (in coll. con P. Bartoli e S. La Sorsa), Savelli ed., Roma, 1981, 255 pp. Protagonismo, narcisismo e consumismo, “Ombre Rosse”, n. 33, marzo 1981, pp. 13 - 21. Forza ragazzi, “Linea d’ombra”, anno IV, n. 13, febbraio 1986, pp. 8 -10. Disagi giovanili, disagi senili, “Lo Straniero. Arte Cultura Società”, anno II, n. 8, autunno 1999, pp. 43 – 50. Il diavolo, sicuramente, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XI, n. 84, giugno 2007, pp. 33 – 37. Lo studente quotidiano, “Gli asini. Educazione e intervento sociale”, anno I, n. 3, novembre- dicembre 2010, pp. 10 – 19. La Giovane Italia, “Gli asini. Educazione e intervento sociale”, anno II, n. 7, settembre- ottobre 2011, pp. 93 – 98. Un saggio Laffi sui giovani e i vecchi, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XVIII, n. 166, aprile 2014, pp. 30 – 34. Sulla devianza e la criminalità: La ricerca dei ricercati. Sociologia dell’ordine pubblico, (in coll. con G. Baronti), “Ombre Rosse”, n. 21, luglio 1977, pp. 85 - 95. 24  La organizzazione del consenso nel regime fascista: la manipolazione ideologica della devianza criminale, (in coll. con G. Baronti), “Studi e materiali di antropologia culturale”, n. 5, Perugia, 1983, 33 pp. Sulla cultura meridionale: Mezzogiorno è già passato, in: G. Fofi – A. Leogrande (curatori), Nel sud, senza bussola. Venti voci per ritrovare l’orientamento, L’ancora del mediterraneo, Napoli, 2002, pp. 17 – 30 Sulla cultura politica e la politica culturale: Partiti e comportamento elettorale. Analisi dei risultati delle elezioni del giugno 1789 in Umbria (in coll. con A. Sorbini), Com.Reg.Umbro PSI, Perugia, 1980, 295 pp. Caro nome..., in: AA.VV., A proposito dei comunisti, Linea d’ombra ed., Milano, 1990, pp. 49 - 64. La festa dell’albero. Come ri-nasce un partito, “Linea d’ombra”, anno IX, n. 58, marzo 1991, pp. 16 - 20. Invenzione, diffusione e agonia dell’operatore culturale, “Linea d’ombra”, anno XI, n. 88, dicembre 1993, pp. 13 - 17. Ebrei e naziskin. I fatti e le notizie, in: A. Cavaglion (a cura di), Gli aratori del vulcano. Razzismo e antisemitismo, Linea d’ombra ed., Milano, 1994, pp. 59 - 64. Il punto e la linea. Maggioranze, minoranze e critica della politica, “Linea d’ombra”, anno XIII, gennaio 1995, n. 100, pp. 4 - 5. La cultura del maggioritario, “La terra vista dalla luna. Rivista dell’intervento sociale”, n. 1, febbraio 1995, pp. 4 - 7. Una merce come le altre? La fiera del libro a Torino, “La terra vista dalla luna. Rivista dell’intervento sociale”, n. 4, giugno 1995, pp. 65 - 66. Laici ed eretici, “La terra vista dalla luna. Rivista dell’intervento sociale”, n. 13, marzo 1996, pp. 15 - 16. A Perugia c’è cultura da vendere , “L’indice”, anno XV, n. 10, novembre 1998, p. 50. Sull’industria della coscienza: una questione di dettaglio , introduzione a: H.M. Enzensberger, Questioni di dettaglio. Poesia, politica e industria della coscienza , trad. di G. Piana, ediz. e/o, Roma, 1998, pp. 5 - 12. La parabola del buon rettore, “Lo Straniero. Arte Cultura Società”, anno II, n. 5, inverno 1998-99, pp. 56 – 60. L’età dello stagno , “Lo Straniero. Arte Cultura Società”, anno II, n. 6, primavera 1999, pp. 150 - 159. Cosa ci tocca vedere, “Lo Straniero. Arte Cultura Società”, anno II, n. 7, estate 1999, pp. 58 – 63. Il laico e il sacro, “Lo Straniero. Arte Cultura Società”, anno V, nn. 15-16, primavera 2001, pp. 165 – 176. 25  Qualcosa è accaduto, “Lo Straniero. Arte Cultura Società”, anno V, n. 17, settembre 2001, pp. 41 – 48. Il porto dell’università, fra la nebbia e il miraggio, “Lo Straniero. Arte Cultura Società”, anno VI, n. 21, marzo 2002, pp. 47 – 53. Toni, Bepi e san Francesco (per tacere di sant’Agostino), “Lo Straniero. Arte Cultura Società”, anno VI, n. 23, maggio 2002, pp. 24 – 27. (recensione) La sera del dì di festa, “Lo straniero. Arte Cultura Società”, anno VI, n. 28, ottobre 2002, pp. Questo Papa e quella guerra, “Lo Straniero. Arte Cultura Società”, anno VII, n. 38-39, agosto- settembre 2003, pp. 15 – 20. La controriforma e il doposcuola, “Lo Straniero. Arte Cultura Società”, anno VIII, n. 42-43, dicembre 2003 – gennaio 2004, pp. 120 – 124. Grande Papa, tanta gente, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno IX, n. 60, giugno 2005, pp. 20 –22. La questione comica, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno IX, n. 65, novembre 2005, pp. 10 –13. Il silenzio dei post-comunisti, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno X, n. 73, luglio 2006, pp. 10-14. Il viaggio di Francesco Piccolo nei divertimenti di massa (recensione), “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XI, n. 81, marzo 2007, pp. 106 –108. La mamma ha un cuore verde. Un racconto di Rosa Matteucci (recensione),“Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XI, n. 88, ottobre 2007, pp. 33 – 37. La montagna elettorale, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società, anno XII, n. 94, aprile 2008, pp. 14 – 17. Il male minore, in: M. Bon Valsassina (curatore), In fondo al male. Contributi e Iconografie sul Male, Futura ed., Perugia, 2008, pp. 81 – 85. Universitas docet, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XIII, n. 105, marzo 2009, pp. 24 – 28. Un pomeriggio tra le minoranze, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XIII, n. 110-111, agosto-settembre 2009, pp. 161 – 165. Silvio, Umberto e i giovani d’oggi, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XIII, n. 112, ottobre 2009, pp. 18 – 23. La parte dell’arte, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XIV, n. 118, aprile 2010, pp. 93 – 104. (riedito in: P. Giacchè – V. Giacopini – E. Morreale – N. Lagioia, Necessità e servitù della critica. Cosa cerca l’arte? A che serve la critica?, Edizioni dell’Asino, Roma, 2011, pp. 5 – 18). Prefazione a: Carlo e Rita Brutti, Scrutatori d’anime. La psicoanalisi che viene, Edizioni dell’Asino, Roma, 2010, pp. 5 – 19. Lo sciopero e la grève, ovvero dalla Francia con stupore, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XIV, n. 126/127, dicembre 2010-gennaio 2011, pp. 15 – 18. Il teatro del prossimo, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XIV, n. 126/127, dicembre 2010-gennaio 2011, pp. 48 – 52. 26  Teatro e politica all’italiana: l’Attore e l’Assessore, “Gli asini. Educazione e intervento sociale”, anno II, nn. 5 – 6, marzo/aprile – maggio/giugno 2011, pp. 161 -168. Via col vento, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XV, n. 133, luglio 2011, pp. 33 – 37. Specchiarsi nelle vite degli altri. Un romanzo di Emmanuel Carrère, (recensione), “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XV, n. 136, ottobre 2011, pp. 44 – 46. Il maggio è francese, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XVI, n. 144, 2012, pp. 15 – 21. Ci fu una volta la sinistra, ovvero il silenzio dei post-comunisti, Edizioni dell’asino, Roma, 2013, 149 pp. La cultura e la politica, un atto unico in due tempi, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XVII, n. 153, marzo 2013, pp. 94 – 98. Indovinala Grillo!, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XVII, n. 154, aprile 2013, pp. 15 – 18. Fazio ovvero l’ultima volta della tivvù, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XVII, n. 154, aprile 2013, pp. 71 – 76. L’università dei vavassini, “Gli asini. Rivista di educazione e intervento sociale” (numero monografico su Valutazione e meritocrazia nella scuola e nella società), anno IV, ottobre- novembre 2013, pp. 50 – 58. Il niente che avanza, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XVIII, n. 164, febbraio 2014, pp. 18 - 25. Il Giovane Renzi, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XVIII, n. 167, maggio 2014, pp. 35 – 39. I volontari dell’ottimismo. Marino Sinibaldi riflette sulla cultura, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XVIII, nn. 170-171, agosto-settembre 2014, pp. 14 – 18. Sul pensiero e l’azione di Aldo Capitini Introduzione e cura del volume: A. Capitini, Opposizione e liberazione. Scritti autobiografici, Linea d’ombra ed., Milano, 1991 (riedizione con il titolo Opposizione e liberazione. Una vita nella nonviolenza, L’Ancora del Mediterraneo, Napoli, 2003). Al servizio (civile) della coscienza, “La terra vista dalla luna. Rivista dell’intervento sociale”, nn. 5 - 6, luglio-agosto 1995, pp. 18 - 19. Aldo Capitini e l’obiezione di coscienza, “La terra vista dalla luna. Rivista dell’intervento sociale”, n. 10, dicembre 1995, pp. 45 - 49. Introduzione e cura del volume: A. Capitini, Liberalsocialismo, ediz. e/o, Roma, 1996. L’obiezione è coscienza. L’insegnamento di Aldo Capitini, “Lo Straniero. Arte Cultura Società”, anno V, n. 18, ottobre-novembre 2001, pp. 123 – 133. Introduzione e cura del volume: La religione dell’educazione. Scritti pedagogici di Aldo Capitini, Edizioni La Meridiana, Molfetta (Bari), 2008, 226 pp. 27  Capitini e i Perugini, “Studi Umbri”, n. 0, anno I, 2009, (www.studiumbri.it) Cura –assieme a G. Fofi- del volume: A. Capitini, Agli amici. Lettere 1947-1968, Edizioni dell’Asino, Roma, 2011. L’importanza di chiamarsi prete, “Gli asini. Educazione e intervento sociale”, anno II, n. 9, aprile/maggio 2012, pp. 6 – 11. Sulla cultura teatrale e la società dello spettacolo: Il teatro delle esperienze, (in coll. con S. De Matteis), “Quaderni di Teatro”, anno V, n. 20, maggio 1983, pp. 145 - 155. Diario scolastico del sussidiario teatrale, “Scenascuola”, n. 1, giugno 1984, pp. 42 - 52. Un pugno di terra. Conversazione con Eugenio Barba, “Linea d’ombra”, anno II, n. 12, novembre 1985, pp. 36 - 46. Living memories. Ricordi del Living e memorie viventi, “Teatro Festival (nuova serie)”, n. 1, dicembre 1985, pp. 4 - 9. Antropologia culturale e cultura tetrale. Note per un aggiornamento dell’approccio socio- antropologico al teatro, “Teatro e Storia” 4, anno III, n. 1, aprile 1988, pp. 23 - 50. Una bùsqueda de “antropologia teatral” sobre la identidad del espectator, “Repertorio. Revista de teatro”, nos. 9,10,11, agosto 1989, pp. 93 - 97. Memoire sociologique. Extraits de carnets d’une recherche anthropologique sur “L’identité du spectateur”, “Buffonneries”, nn. 22 - 23, 1989, pp. 177 - 197. Teatro necesario y teatro suficiente, “Màscara. Cuadernos Latinoamericanos de Reflexion sobre la Escenologia”, anno I, n. 2, gennaio 1990, pp. 105 - 108. Come lavorare in discesa. Ragionamenti e aggiornamenti sul teatro “minore”, “Linea d’ombra”, anno VIII, n. 46, febbraio 1990, pp. 86 - 90. Lo spettatore partecipante. Contributi per una antropologia del teatro, Guerini e ass., Milano, 1991, 207 pp. Uno spettacolo prigioniero e un teatro libero, in: M.T. Giannoni (a cura di), La scena rinchiusa. Quattro anni di attività teatrale dentro il Carcere di Volterra, Tracce ed., Piombino, 1992, pp. 73 - 76. Introduzione all’identità dello spettatore. Una ricerca di antropologia del teatro, “R.I.S.T. Revue Internationale de Sociologie du Théâtre”, n. 0, 1992, pp. 12 - 19. Teatro e antropologia. Note su una “canoa di carta”, “Linea d’ombra”, anno XI, n. 86, ottobre 1993, pp. 75 - 78. Una equazione fra antropologia e teatro, “Teatro e Storia”17, anno X, 1995, pp. 37 - 64. L’esplorazione antropologica e i “fines” del teatro, “Etnoantropologia”, nn. 3 - 4, 1995, Argo ed. Lecce, pp. 60 - 67. Nostalgia del teatro e simulazione della piazza, in: D. Scafoglio - M. Vitale (a cura di), La piazza nella storia: eventi, liturgie, rappresentazioni , Ed. scientifiche italiane, Napoli, 1995, pp. 201 - 254.  28  Introduzione e cura del volume: AA. VV., Per Carmelo Bene (Atti del convegno, Perugia, 14 - 15 gennaio 1994), Linea d’ombra ed., Milano, 1995, 218 pp. De l’anthropologie du théâtre à l’ethnoscènologie, “Internationale de l’immaginaire (nuovelle serie)”, n. 5, 1996, Ed. Maison de Cultures du monde, Paris, pp. 249 - 254. Il teatro “privato “del pubblico. Cenni di storia e appunti sulla fenomenologia dello spettatore, in: Le età del teatro. Corso triennale di storia e cultura teatrale, Ert (Emilia Romagna Teatro) ed., Modena, 1997, pp. 3 - 15. Carmelo Bene. Antropologia di una macchina attoriale, Bompiani ed., Milano, 1997, 185 pp. (Premio del Presidente del Premio “G. Pitrè – S. Salomone Marino). De la consommation du théâtre au théâtre dans la société de consommation, in: AA.VV., Pourquoi aller au théâtre aujourd’hui? (Actes du quatrième colloque européen - Biennale Théâtre Jeunes Publics, Lyon), Les Cahiers du soleil debout, Lyon, 1997, pp. 27 - 35. “Giulio Cesare”, teatro dei corpi, (recensione),“Lo straniero. Arte Cultura Società”, anno I, n. 1, estate 1997, pp. 122 - 126. Teatro antropologico: atto secondo, “Catarsi. Teatri delle diversità”, anno II, nn. 4 - 5, dicembre 1997, pp. 12 – 14 (ripubblicato in: E. Pozzi – V. Minoia (a cura di), Di alcuni teatri della diversità, ANC ed., 1999, pp. 57 – 65). Consumare teatro , “Teatro e Storia” 19, anno XII, 1997, pp. 349 - 369. Shakespeare e Garibaldi, (recensione), “Lo Straniero. Arte Cultura Società”, anno I, n. 2, inverno 1997/98, pp. 73 - 77. Au théâtre comme à la guerre!, in: Centre Dramatique Hainuyer - Centre de Sociologie du Théâtre, La mediation théâtrale (Actes du 5è Congrès International de Sociologie du théâtre organisé a Mons (Belgique) mars 1997) , Lansman, Carnières-Morlanwelz (Belgique), 1998, pp. 75 - 80; (ripubblicato dalla rivista “Théâtre éducation”, nouvelle serie, n. 9, maggio 1998, pp. 22 - 26). Spettatori non si nasce, in: Provincia di Modena - Emilia Romagna Teatro,Teatro e scuola fra espressività e percezione. Atti del convegno (Modena, 15 - 16 novembre 1996), Centro Stampa Provincia di Modena, ottobre 1998, pp. 126 - 136. O la guerra o il teatro. Sul film di Mario Martone (recensione),“Lo Straniero. Arte Cultura Società”, anno II, n. 4, autunno 1998, pp. 55 – 59. Politica culturale e cultura teatrale , “Primafila. Mensile di teatro e di spettacolo dal vivo”, n. 49, novembre 1998, pp. 13 - 17. Aux confins du théâtre. Sur la relation entre théâtre et anthropologie , “Diogène”, n. 186, Avril- Juin 1999, pp. 110 -123. (ripubblicato nell’edizione inglese: At the Margins of Theatre. On the Connection Between Theatre and Anthropology, “Diogenes”, n. 186, vol. 47, feb. 1999, pp. 83 – 92) Il Teatro come ‘attore’ del terzo sistema, in: “In Compagnia. Materiali per la costruzione di un quadro di riferimento per lo sviluppo dell’occupazione degli operatori artistici teatrali: il teatro quale strumento di crescita sociale”, (relazione di ricerca), Emilia Romagna Teatro, Stampa Tem, Modena, 1999, pp. 40 – 64. 29  Dell’ascolto distratto e dell’attenta lettura. I versi di Campana ripartoriti dalla voce di Carmelo Bene, (recensione), “L’indice”, anno XVI, n. 10, ottobre 1999, p. 22. Cinque domande sul presente di Danio Manfredini, (intervista), “La porta aperta”, n. 1, settembre-ottobre 1999, pp. 70 – 79. Le bugie della scuola e quelle del teatro, “Art’o”, n. 4, gennaio 2000, pp. 42 – 45 (ripubblicato in: Abbecedario della non-scuola del Teatro delle Albe, allegato a “Lo straniero Arte Cultura Società”, anno VIII, n. 45, marzo 2004, pp. 37 – 41). Il giullare fatto santo. Fo Dario fu Francesco, “L’indice”, anno XVII, n. 5, maggio 2000, pp. 24 – 25. (recensione) La settima volta di Riccardo terzo. Incontro con Claudio Morganti (intervista), “La porta aperta”, n. 5, maggio – giugno 2000, pp. 7 – 15. Tragedie nella terra, verso il mare, sotto il cielo. Incontro con Alfonso Santagata (intervista), in: S. Maggiorelli (a cura di), Tragicamente. Il teatro di Alfonso Santagata, Titivillus ed., Corazzano (PI), giugno 2000, pp. 63 – 75. (testo parzialmente ripubblicato con il titolo Teatro a cielo aperto. Incontro con Alfonso Santagata in “La porta aperta”, n. 6, luglio – agosto 2000, pp. 16 – 24) La fine dello spettatore, in: P. Giacchè (a cura di), Lo spettatore e le visioni del teatro futuro, “Prove di Drammaturgia”, anno VI, n. 1, settembre 2000, pp. 11 – 13. Entelechia del Bene. Incontro con Carmelo Bene, “La porta aperta”, n.8, novembre-dicembre 2000, pp. 48 – 59. Il teatro fuori dai teatri. Memorie di uno spettatore di provincia, in: F. Gentili (a cura di), Teatri dell’Umbria. La storia, il gioco, la memoria, Octavo, Firenze, 2000, pp. 259 – 287. L’arte dello spettatore, vedere i suoni e ascoltare le visioni, in: Città di Palermo – Assessorato alle Politiche Educative, Arte del narrare, arte del convivere (Atti del Convegno nazionale – Palermo, 3 – 5 aprile 1997), Eliocopisteria “Milone”, Palermo, 2000, pp. 123 – 138. L’identità dello spettatore. Un saggio di Antropologia Teatrale, “Etnostoria” nn. 1 – 2, 2000, pp. 57 – 86. L’art du spectateur: voir les sons et écouter les visions, “Diogène”, n. 193, Janvier – Mars 2001, pp. 100 – 113 (ripubblicato nell’edizione inglese: The Art of Spectator: Seeing Sounds and Haering Visions, “Diogenes”, n. 193, vol. 49, issue 1 2002, pp.77-87.) Carmelo Bene, attore della cultura, “Lo Straniero Arte Cultura Società”, anno VI, n. 22, aprile 2002, pp. 106 – 108. Lo spettatore del teatro e il pubblico del rito, in: A. Cappelli – F. Lorenzoni (a cura di), La nave di Penelope. Educazione, teatro, natura ed ecologia sociale. Testimonianze e proposte a partire dai 20 anni di esperienze della Casa-Laboratorio di Cenci, Giunti ed., Firenze, 2002, pp. 98 – 109. Teatro prigioniero, in: M. Buscarino, Il teatro segreto, Leonardo Arte, Milano, 2002, pp. 13 – 18. Il Sessantotto e il Teatro: un anno senza “stagione”, in: AA.VV., Rivelazioni e promesse del ’68, CUEC, Cagliari, 2002, pp. 141 – 164; (riedito con il titolo Un anno senza “stagione”: il ’68 e il teatro, “Lo straniero Arte Cultura Società”, anno VII, n. 36, giugno 2003, pp. 57 – 71). 30  L’avventura finale di Benigni (recensione), “Lo Straniero. Arte Cultura Società”, anno VI, nn. 30-31, dicembre 2002-gennaio 2003, pp. 49 – 53. Questa non è una tragedia (recensione), “Lo Straniero. Arte Cultura Società”, anno VIII, n. 44, febbraio 2004, pp. 59 – 63. L’altra visione dell’altro. Una equazione tra antropologia e teatro, L’Ancora del Mediterraneo, Napoli, 2004. Perdere un amico, “Rivista di psicologia analitica”, nuova serie n. 17, 2004, pp. 87 – 97; (ripubblicato in “Lo straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno IX, n. 59, maggio 2005, pp. 68 – 75, con il titolo Perdere un amico. Ricordo di Carmelo Bene) (ripubblicato in: B. Massimilla (a cura di), La perdita. Lutti e trasformazioni, Vivarium ed.. Milano, 2011, pp. 137 – 150). Apparire alla Madonna, postfazione a: C. Bene, Sono apparso alla madonna. Vie d’(h)eros(es). Autobiografia, Bompiani, Milano, 2005, pp. 157-159. L’identitè du spectateur. Essai d’anthropologie théâtrale, “L’Ethnographie. Création, Pratiques, Publics”, n. 3, printemps 2006, pp. 14 – 44. “Arrevuoto”: il teatro in festa (recensione), “Lo Straniero. Arte Cultura Società”, anno X, n. 72, giugno 2006, pp. 74 –77. Un Amleto di più (recensione), “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno X, n. 76, ottobre 2006, pp. 110 – 113. Dar corpo alla poesia: l’esempio e il metodo di Carmelo Bene, in: D. Scafoglio (a cura di), La coscienza altra. Antropologia e poesia, Marlin ed., Cava de’ Tirreni (SA), 2006 (Atti del Convegno di Studio “Antropologia e poesia”, organizzato dall’Università di Salerno, Salerno-Ravello, 2 – 4 maggio 2002), pp. 202 – 212. Carmelo Bene. Antropologia di una macchina attoriale – nuova edizione aggiornata e ampliata, Bompiani ed., Milano, 2007, 224 pp. Arrevuoto, n’ata vota (recensione), “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XI, n. 83, maggio 2007, pp. 107 – 109. “Arrevuoto”: quando il teatro sospende la dittatura del mondo, in: Teatro delle Albe, M. Martinelli – E. Montanari (curatori), Suburbia. Molti Ubu in giro per il pianeta. 1998-2008. Ubulibri, Milano, 2008, pp. 99 – 109. La verticalità e la sacralità dell’atto, in: A. Attisani – M. Biagini (curatori), Opere e sentieri. Testimonianze e riflessioni sull’arte come veicolo, Bulzoni ed., Roma, 2008, pp. 119 –128. La dernière Médée. Le mithe dans le théâtre contemporain: un parcours à l’envers, in: AA.VV., Réécritures de Mèdée , (sous la direction de N. Setti – Centre de Recherche en Etudes Féminines et Etudes de genre, Université Paris 8), “Travaux et Documents”, n. 37, 2008, pp. 221 – 230. Saldi di fine stagione, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XII, nn. 98-99, agosto-settembre 2008, pp. 104 – 109. Teatro: Romeo all’Inferno (recensione), “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XII, n. 100, ottobre 2008, pp. 108 – 110. 31  Un soffio di teatro, in AA.VV., In cammino con lo spettatore (Laggiù soffia – Era – In carne ed ossa), (a cura di S. Geraci), La casa Usher, Firenze, 2008, pp. 118 – 126. De la consommation du théâtre au théâtre dans la société de la consommation (nouvelle édition), “Degrés. Revue de synthèse à orientation sémiologique”, XXXVI année, nn. 134 – 135, été- automne 2008, pp. e/1 – e/19. L’effetLiving.Lavisiond’Artaudparles“Balinais”deNewYork,“Theatre/Public” (L’avant- garde américaine et l’Europe / II. Impact), n. 191, décembre 2008, pp. 9 -12. Le personnage public et l’acteur privé (entretien avec Piergiorgio Giacchè pas Ciryl Béghin), “Théâtre et Cinéma 2009. Marco Bellocchio, Carmelo Bene”, tome 20, publié à l’occasion du 20e Festival à Bobigny (18 mars – 5 avril 2009), sous la direction de Dominique Bax, pp. 141 -144. Voler Bene al cinema, in “Bellaria 27” (catalogo di Bellaria Film Festival, 27^ edizione, 2 – 6 giugno 2009), pp. 66 – 68; riedito in: “Lo straniero”, anno XIII, n. 109, luglio 2009, pp. 109 - 112. Fellini antropologo. Fra nostalgia e profezia, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XIII, nn. 110-111, agosto-settembre 2009, pp. 94 – 101. La nostalgia, merce per tutti, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XIII, n. 113, novembre 2009, pp. 129 -133. Bene Detto. Dispensa per Oratorio e Laboratorio, (a cura di P. Giacchè, con interventi di C. Bene, B. Filippi, G. Fofi, P. Giacchè, J.P. Manganaro, S. Pasello), L’arboreto – Teatro Dimora, Mondaino, 2009-2010, 143 pp. Il corpo dimenticato: Carmelo Bene, in: U. Birmaumer-M. Hüttler-G. Di Palma (curatori), Corps du Théâtre – Il Corpo del Teatro, Hollitzer Wissenshaftsverlag/Verlag Lehner, Wien (Austria), 2010, pp. 3 – 16. Los verbos transitivos del teatro. Mirar teatro, in: C. Lisòn Tolosana (a cura di), Antropologìa: horizontes estéticos, Antrhropos Editorial, 2010, pp. 153 – 182. Émergence et submersion en Italie: le système théâtral et son double, “UBU Scènes d’Europe- European stages” (numero: Emergence(s) dans le théâtre européen – in European Theatre), revue bilingue français-englais / bilingual English-French review, nn. 48 -49, 2^ semestre 2010, pp. 111 – 118. Uomini e dei in un film francese (recensione), “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XIV, n. 126/127, dicembre 2010-gennaio 2011, pp. 158 – 160. L’antropologia del teatro e il teatro della cultura, in: V. Borghi – A. Borsari – G. Leoni (curatori), Il campo della cultura a Modena. Storia, luoghi e sfera pubblica, Mimesis Edizioni, Milano- Udine, 2011, pp. 459 – 472. Homo Videns. Quella TV che si guarda da sola, “L’altrapagina”, anno XXVIII, n. 3, marzo 2011, pp. 28-29. Lo spettatore ospite, “Culture teatrali. Studi, interviste e scritture sullo spettacolo”, n.20, Annuario 2010 (Teatri di Voce, a cura di L. Amara e P. Di Matteo), giugno 2011, pp. 205- 210. 32  La parabola dell’animazione teatrale, in: D. Pietrobono – R. Sacchettini (curatori), Il teatro salvato dai ragazzini. Esperienze di crescita attraverso l’arte, Edizioni dell’Asino, Roma, 2011, pp. 46 – 65. Non fare l’amore, in: T. Cots (a cura di), Loving effects, Quodlibet ed., Macerata, 2011, pp. 17-66 (trad.inglese: pp. 175-184). Buttare il bambino nell’acqua sporca, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XV, n. 138/139, dicembre 2011-gennaio 2012, pp. 125 – 127. Les Menoventi et le Perithéâtre, in: C. Hurault – G. Banu (curatori), Frontières liquides – territoires de l’art. Emergences de la scène européenne, Editions Alternatives théâtrales / Union des Théâtres de l’Europe (n. 9 hors série de la revue “Alternatives théâtrales”), maggio 2012, pp. 75 – 76. Liquidité et/ou verticalité, in: C. Hurault – G. Banu (curatori), Frontières liquides – territoires de l’art. Emergences de la scène européenne, Editions Alternatives théâtrales / Union des Théâtres de l’Europe (n. 9 hors série de la revue “Alternatives théâtrales”), maggio 2012, pp. 32 – 33. Le public est mort. Vive le Public! Sur la poétique et la politique du mauvais spectateur, in: S. e J. Pop-Curseu – A. Maniutiu – L. Pavel-Teutisan – D. Enyedi (curatori), Regards sur le mauvais spectateur – Looking at the Bad Spectator, Presa Universitara Clujeana, Cluj-Napoca, Romania, 2012, 346 pp., cfr. pp. 21 – 29. Eugenio Barba e Carmelo Bene. Vite parallele e viaggi perpendicolari, “Teatro e Storia”, a. XXVI, vol. IV nuova serie, Bulzoni ed., n. 33, 2012, pp. 321 – 332. (riedito in francese, traduzione di Cristina De Simone in: Les Voyages ou l’ailleurs du théâtre. Hommage à Georges Banu (Essais et témoignages réunis par Catherine Naugrette), Éditions Alternatives théâtrales – Sorbonne Nouvelle-Paris 3, 2013, pp. 252 – 263). Il pubblico troppo emancipato, “Quaderni del Teatro di Roma”, n. 11, gennaio-febbraio 2013, pp. 12 – 13. O Espectador-Hòspede, “Revista Brasileira de Estudos da Presença”, Porto Alegre, v. 3, n. 1, pp. 101 – 109, jan./abr. 2013 - http://www.seer.ufrgs.br/presenca. Le public est mort. Vive le Public!, “Alternatives théâtrales” (Le mauvais spectateur), n. 116, 1er trimestre 2013, Bruxelles, pp. 16 – 19. Le “Public” trop émancipé: vers une poétique pauvre de la politique théâtrale, in: Le théâtre et ses publics. La création partagée (Actes du 2° Colloque International du Projet Européen PROSPERO - Liège, 26 -29 settembre 2012), Les Solitaires Intempestifs Editions, Besançon, 2013, pp. 57 – 72. Teatro e comunità, “Scena”, n. 74, 4° trimestre 2013, pp. 12 – 15. Sur Sieni, et surtout sur Virgilio... Trois exemples, in: V. Sieni, Trois Agoras Marseille. Art du geste dans la Méditerranée, Maschietto editore, Firenze, 2013, pp. 42 – 43. Risposte o riposte. Cinque lettere aperte su CB, “Prove di drammaturgia. Rivista di inchieste teatrali”, anno XVIII, n. 1, ottobre 2013, pp. 43 – 46. Un Pinocchio letto per Bene, introduzione a: C. Bene, Pinocchio, Bompiani ed., Milano, 2014.  33  Vers la verticalité du vers, “Revue d’Histoire du Théâtre”, LXVI année, juillet-septembre 2014-III, n. 263 (D’Après Carmelo Bene. Actualité), pp. 345-354. Il combattimento tra la teoria e la poesia (dedicato a Claudio Meldolesi), “Prove di drammaturgia. Rivista di inchieste teatrali”, anno XIX, nn. 1 - 2, novembre 2014, pp. 27 – 29. Il teatro piccolo, povero, nuovo, in: “L’Italia e le sue regioni. L’età repubblicana, vol. IV Società (a cura di M. Salvati – L. Sciolla)”, Istituto dell’Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani, Abramo Printing, Catanzaro, 2015, pp. 485 – 503. Carmelo selon Jean-Paul in: Croisement d’écritures France-Italie. Hommage à Jean-Paul (sous a direction de Camille Dumoulié, Anne Robin et Luca Salza), éd. Mimésis, 2015, pp. 177 – 182. Vêtements liturgiques et corps dévôts, in: Jean-Marie Pradier (sous la direction de), La croyance et le corps. Esthétiques, corporeité des croyances et identités (Actes du 7° colloque international d’ethnoscénologie, Paris, 21-23 mai 2013), Presses Universitaires de Bordeaux, 2015, pp. 113 – 121. Il presente curriculum comprende i titoli, le attività e le pubblicazioni al 31 dicembre 2016 Il sottoscritto è a conoscenza che, ai sensi dell‚art. 26 della legge 15/68, le dichiarazioni mendaci, la falsità negli atti e l‚uso di atti falsi sono puniti ai sensi del codice penale e delle leggi speciali. Inoltre, il sottoscritto autorizza al trattamento dei dati personali, secondo quanto previsto dalla Legge 196/03. Quanto dichiarato nel presente curriculum vitae corrisponde al vero ai sensi degli artt. 46 e 47 del D.P.R. 445/2000 Piergiorgio Giacchè. Giacchè. Keywords: l’altra visione dell’altro, Clifton, religion and education, ego et tu. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Giacchè: A Cliftonian implicature” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51757949198/in/dateposted-public/  

 

Grice e Giacomo – icona -- sensibile, imagine, presentazione, rappresentazione, formante e formato, contentente e contenudo -- l’inspiegabile – filosofia italiana – filosofia siciliana -- Luigi Speranza (Avola). Filosofo. Studia estetica. Il rapporto tra estetica e figura, immagine, rappresentazione. Si laurea sotto Garroni. Insegna a Parma e Roma. Fonda la Società Italiana d'Estetica. Nell'affrontare il concetto di ‘immagine’ è necessario rifiutare sia l'interpretazione che vede una'immagine come lo specchio di una cosa (“Fido”-Fido). E necessario rifiutare anche quella interpretazione del concetto di ‘imagine’ che la considera esclusivamente come un segno significante di se stesso. Il concetto di ‘rap-presentazione’ implica qualcosa che si mostra e nel manifestarsi resta ‘altro' dalla ‘percivibilita’ della rappresentazione stessa. Così, nel ‘presentare’ se stessa, una immagine manifesta l'altro del perceptible, del rappresentabil. Quell'altro che si rivela nel perceptibile, nascondendosi a esso. Ed è proprio così che una immagine si fa un ‘icono’ di quello che e altro il perceptibile. Afferma la tendenziale perdita di ‘figurativita’ di una immagine e del continuare a sussistere dell'immagine stessa. Una immagine, infatti, è una segno e insieme una non-segno. E il paradosso di una “irrealta reale”. Si riferisce al tentativo di scindere la natura ancipite dell'immagine negli elementi che la compongono. Da una parte in un “readymade” (come l’urinale di Duchamp), nel quale la dimensione rap-presentativa si dissolve in una dimensione puramente PRE-sentativa, e dall'altra in una pura immagine soggetiva, dotata di un debole supporto materiale. Una immagine e una meta-immgine: l’immagine di una immagine (homuncular regressus ad infinitum of Griceian theories of representation, according to Cummings, but not Grice!). Di questo modo, una immagine non e neppure propriamente immagini quanto piuttosto una ‘simul-azioni’, simile allo imperceptibile, un “simul-acro”.  Non a caso una immagine, in quanto ri-produzione (doppia) ha uno scarso valore di immagine, giacché quello a cui tende è l’assumere dell’ ‘aspetto’ di una cosa.  L’immagine perde così quella connessione di ‘trasparenza’ o ‘opacità’ che caratterizza una immagine autentica. Di qui, appunto, la questione di realizzare una immagine vera e propria. Troviamo il superamento della dimensione epifanica che è propria dell'icona, dove appunto il perceptibile è il luogo di mani-festazione di la cosa impercetibile – l’Assoluto di Bradley. Emerge una concezione dell'immagine che, nella consapevolezza dell'impossibilità di ogni pretesa di esaurire ‘il reale’ e insieme di ‘manifestare’ l'Assoluto, può essere interrogata come testimonianza di quanto non si lascia ‘tradurre’ (translation) in immagine: testimoniare, infatti, è raccontare ciò che è impossibile raccontare del tutto. In questo modo, la testimonianza fa tutt'uno *non* con la memoria in quanto conformità con l'accaduto, ma con l’immemoriale -- qualcosa che non possiamo né ricordare né dimenticare, che non è “dicibile” né “indicibile”. Insomma, il testimone “parla” (spiega, dispiega) soltanto a partire da l’impossibilità concettuale di spiegare o dispiegare. Che l'immagine valga allora come testimonianza significa che il tentativo di dire l'indicibile (spiegare l’inspiegabile) è un compito infinito. La questione dell'immagine è una questione di fidanza, di etica. In una immagine, non essendoci alcuna compiutezza, non si dà alcuna redenzione né alcuna pacificazione nel confronto col reale. Analissare l’immagine come testimonianza equivale a vedere l’immagine come il luogo di una tensione sempre irrisolta tra memoria e oblio, e quindi come l'espressione del dover essere (il possibile) del senso in un orizzonte, come l’attuale. quale sempre di più sia il mondo che l'arte sembrano essere abbando il NON-senso.  Altre opera: “Dalla logica all'estetica” (Parma, Pratiche); “Icona” “L’immagine tra presentazione e rappresentazione” (Palermo, Centro internazionale studi di estetica); Estetica e letteratura. Il grande romanzo tra Ottocento e Novecento, Roma-Bari, Laterza. Introduzione a Paul Klee, Roma-Bari, Laterza, "Ripensare le immagini", Mimesis, Milano,  "Volti della memoria", Mimesis, Milano,  Narrazione e testimonianza. Quattro scrittori italiani del Novecento, Milano, Mimesis,  "Malevic. Pittura e filosofia dall'Astrattismo al Minimalismo", Carocci, Roma,  Fuori dagli schemi. Estetica e figura dal Novecento a oggi, Laterza, Roma-Bari,  "Arte e modernità. Una guida filosofica", Carocci, Roma,  "Una pittura filosofica: l'informale", Mimesis, Milano,  "F. Nietzsche. L'eterno ritorno", Alboversorio, Milano,  Media e divulgazione  Art and Perspicuous Perception in Wittgenstein’s Philosophical Reflection, L’immagine-tempo da Warburg a Benjamin e Adorno. Il saggio più importante per il rapporto tra estetica e letteratura è Estetica e letteratura. Il grande romanzo tra Ottocento e Novecento, Laterza, Cf. "Dalla logica all'estetica”, "Alle origini dell'opera d'arte contemporanea" “Astrazione e astrazioni”,  "La questione dell'aura tra Benjamin e Adorno", Rivista di Estetica, “Volti della memoria”.  Giuseppe Di Giacomo è stato Professore ordinario di Estetica presso la Facoltà di Lettere e Filosofia della Sapienza Università di Roma fino al 2015 e, dopo il pensiona- mento, dal 2015 al 2017, è stato professore a contratto di Estetica presso stessa la Facol- tà. Sempre presso la Facoltà di Lettere e Filosofia della Sapienza Università di Roma, è stato membro del Collegio dei Docenti del Dottorato di Ricerca in “Filosofia e Storia della filosofia” e Presidente del Corso di Laurea Magistrale in “Filosofia e Storia della filosofia”. È socio fondatore e membro del Consiglio di Garanzia della Società Italiana d’Estetica (SIE). È direttore della collana Figure dell’estetica presso l’editore Albover- sorio (Milano) e della collana Forme del possibile, presso l’editore Mimesis (Milano); fa parte del Comitato scientifico della rivista Paradigmi, della rivista Studi di estetica, della Rivista di estetica, della rivista Estetica. Studi e ricerche, della rivista Compren- dre. Revista catalana de filosofia, della rivista on line Memoria di Shakespeare. A Jour- nal of Shakespearean Studies e di Aesthetica Preprint, collana editoriale del Centro In- ternazionale Studi di Estetica. Fa parte inoltre del Comitato scientifico delle seguenti collane editoriali: Filosofie (Mimesis, Milano), Caffè dei filosofi (Mimesis, Milano), Eterotopie (Mimesis, Milano). È stato Coordinatore nazionale dell’Osservatorio di Storia dell’Arte della Società Ita- liana di Estetica e coordinatore, dal 2001, di numerose Ricerche di Ateneo dell’Università degli studi di Roma “La Sapienza” relative a diverse tematiche filosofi- che, estetiche e artistiche. E’ stato inoltre responsabile di diversi progetti PRIN. Dal no- vembre 2012 all’ottobre 2015 è stato Direttore del Museo Laboratorio di Arte Contem- poranea (MLAC) della Sapienza Università di Roma. Come Direttore del Museo Labo- ratorio di Arte Contemporanea della Sapienza Università di Roma, ha ideato e coordina- to, in collaborazione con la Galleria Nazionale d'Arte Moderna di Roma e con il Teatro Argentina di Roma, numerose iniziative di carattere seminariale aventi per oggetto la filosofia, la letteratura, la musica, le arti figurative, il teatro. Dal 2015, collabora con il Teatro Eliseo all'interno del quale tiene una serie di conferenze e organizza seminari sul teatro, la musica, la letteratura e le arti visive. Collabora inoltre con la Fondazione Pri- moli di Roma e con il Museo Andersen (Polo Museale del Lazio). Tra le sue pubblicazioni: Dalla logica all’estetica. Un saggio intorno a Wittgenstein (Parma, 1989); Icona e arte astratta. La questione dell’immagine tra presentazione e rappresentazione (Palermo, 1999); Estetica e letteratura. Il grande romanzo tra Otto- cento e Novecento (Roma-Bari, 1999; trad. in lingua spagnola a cura di D. Malquori, Estética y literatura, Universidad de Valencia, Servicio de Publicaciones, 2014); Intro- duzione a Paul Klee (Roma-Bari, 2003); Alle origini dell’opera d’arte contemporanea (Roma-Bari, 2008); Beckett ultimo atto (Milano, 2009), Ripensare le immagini (Milano, 2009); Astrazione e astrazioni (Milano, 2010); L’oggetto nella pratica artistica, (Para- digmi, 2, 2010), Il Museo oggi (Studi di Estetica, 2012), Aura (Rivista di Estetica, 2013), Malevič. Pittura e filosofia dall’Astrattismo al Minimalismo (Roma, 2014), Fuo- ri dagli schemi. Estetica e arti figurative dal Novecento a oggi (Roma-Bari, 2015; trad. in lingua spagnola a cura di Juan Antonio Méndez, Al margen de los esquemas. Estética y artes figurativas desde principios del siglo XX a nuestros dìas, La balsa de la Medusa, Madrid, 2016), Filosofia e teatro (Paradigmi, 1, 2015), Tra il sensibile e le arti. Trent’anni di estetica (Studi di Estetica, 1-2/2014), Tra arte e vita. Percorsi fra testi, immagini, suoni (Milano, 2015), Arte e modernità. Una guida filosofica (Roma, 2016), 1  Una pittura filosofica. Antoni Tàpies e l'informale (Milano, 2016), Nietzsche e l’eterno ritorno (Milano, 2016). Ha partecipato a progetti di ricerca internazionali e a progetti di ricerca europei. Ha svolto attività didattica e di ricerca (tenendo conferenze, lezioni e seminari, partecipan- do a convegni di studio e svolgendo attività didattica anche in qualità di correlatore o tutor di tesi di laurea e di Dottorato) presso importanti istituzioni straniere sia accademi- che che extra-accademiche, in Spagna, Russia e Messico: Facultat de Filosofia, Universitat de Barcelona; Facultat de Pedagogia, Universitat de Barcelona; Facultat de Filosofia, Universitat “Ramon Llull”, Barcelona; Societat Catalana de Filosofia, Institut d’Estudis Catalans; Ateneu de Vic; Ateneu de Barcelona; Associació Filosòfica de les Illes Balears, Mallorca; Facultat de Filosofia i Lletres, Universitat de les Illes Balears, Mallorca; Facultat de Filosofia i Ciències de l’educació, Universitat de València; Facultad de Filosofía, Universidad Complutense de Madrid; Istituto di studi post-universitari “SS. Cirillo e Metodio”, Mosca; Russian Christian Academy for the Humanities, S. Pietroburgo; “Peter the Great” St. Petersburg Polytechnic University, S. Pietroburgo; Producciòn Artìstica Contemporànea Coloquio (PAC), Centro Cultural San Pablo, Ciudad de Oaxaca, Messico; PUBBLICAZIONI: Monografie · Nietzsche e l’eterno ritorno, Commentario a F. Nietzsche, L’eterno ritorno, Al- boversorio, Milano, 2016 · Arte e modernità. Una guida filosofica, Carocci, Roma, 2016 · Una pittura filosofica. Antoni Tàpies e l'informale, Mimesis, Milano, 2016 · Fuori dagli schemi. Estetica e arti figurative dal Novecento a oggi, Laterza, Roma-Bari, 2015 (trad. in lingua spagnola a cura di Juan Antonio Méndez, Al margen de los esquemas. Estética y artes figurativas desde principios del siglo XX a nuestros dìas, La balsa de la Medusa, Madrid, 2016) · Malevič. Pittura e filosofia dall’Astrattismo al Minimalismo, Carocci, Roma, 2014 · Narrazione e testimonianza. Quattro scrittori italiani del Novecento, Mimesis, Milano, 2012 · Introduzione a Paul Klee, Laterza, Roma-Bari, 2003 · Estetica e letteratura. Il grande romanzo tra Ottocento e Novecento, Laterza, Roma-Bari, 1999 (quinta ed., 2015; trad. in lingua spagnola a cura di D. Mal- quori, Estética y literatura, Universidad de Va-lencia, Servicio de Publicaciones, 2014); 2  · Icona e arte astratta. La questione dell'immagine tra presentazione e rappresen- tazione, «Aesthetica Preprint», Palermo, 1999 · Dalla logica all'estetica. Un saggio intorno a Wittgenstein, Pratiche, Parma, 1989 Curatele · G. Di Giacomo, L. Talarico (a cura di), Letture shakespeariane. Otello e Re Lear, «Studi di Estetica», 3, 2017 · G. Di Giacomo, L. Marchetti (a cura di), Contemporaneo. Arti visive, musica, architettura, «Rivista di Estetica», 61 (2016) · G. Di Giacomo (a cura di), Tra arte e vita. Percorsi fra testi, immagini, suoni, Mimesis, Milano, 2015 · G. Di Giacomo, L. Talarico (a cura di), Filosofia e teatro. Amleto e Macbeth, «Paradigmi», 1, 2015 · G. Di Giacomo, L. Marchetti (a cura di), Tra il sensibile e le arti. Trent’anni di estetica, «Studi di Estetica», 1-2/2014 · G. Di Giacomo, L. Marchetti (a cura di), Aura, «Rivista di Estetica», 52 (2013) · G. Di Giacomo, A. Valentini (a cura di), Il museo oggi, «Studi di Estetica», 45 (2012) · G. Di Giacomo (a cura di), Volti della memoria, Mimesis, Milano, 2012 · G. Di Giacomo (a cura di), Astrazione e astrazioni. In occasione di una mostra di Gualtiero Savelli, Alboversorio, Milano, 2010 · G. Di Giacomo, L. Marchetti (a cura di), L'oggetto nella pratica artistica, «Pa- radigmi», 2 (2010), Franco Angeli, Milano, 2010 · G. Di Giacomo (a cura di), Ripensare le immagini, Mimesis, Milano, 2009 · G. Di Giacomo, R. Colombo (a cura di), Beckett ultimo atto, Albo Versorio, Mi- lano, 2009 · G. Di Giacomo, C. Zambianchi (a cura di), Alle origini dell'opera d'arte con- temporanea, Laterza, Roma-Bari, 2008 Saggi 2018 Introduzione a D. Malquori, L’incomprensibile ambiguità dell’orizzonte. Un so- gno fatto a Ginostra, Mimesis, Milano, collana Narrativa Mele d’Oro, 2018, pp. 5-10. 2017 Il problema della forma nella Teoria estetica di Adorno, in M. Manicone (a cura di), Sostanza di cose sperate. Scritti in onore di Franco Purini, Iiriti Editore, Campo Calabro (RC), 2017, pp. 329-337. 2017 Re Lear. “Essere maturi” in un mondo abbandonato alla cecità e alla follia, in G. Di Giacomo-L. Talarico (a cura di), “Letture shakespeariane. Otello e Re Lear”, «Studi di Estetica», 3, 2017, pp. 85-108. 3  2017 Otello: la tragedia della parola e il ruolo della narrazione, in G. Di Giacomo-L. Talarico (a cura di), “Letture shakespeariane. Otello e Re Lear”, «Studi di Estetica», 3, 2017, pp. 1-18. 2017 Dostoevsky, a writer and philosopher: “The Grand Inquisitor”, in “ACTA ERU- DITORUM”, 2017, Vol. 23, Publishing house of the Russian Christian Academy for the Humanities, 2017, pp. 61-68. 2017 Tradició i innovació en l’art, in “La Tradició”, Col-loquis de Vic, Societat Catala- na de Filosofia, Institut d’Estudis Catalans, XXI, 2017, pp. 171-178. 2017 Understanding of the «image» in Plato, in «PLATO AND ANCIENT SCIENCE», Collection of materials of 25TH INTERNATIONAL CONFERENCE «THE UNIVER- SE OF PLATONIC THOUGHT», RUSSIAN CHRISTIAN ACADEMY FOR HUMA- NITIES, Saint Petersburg, June 21–22, 2017, Appendice alla rivista di Fascia A (in Russia “VAK”) “Vestnik” della RUSSIAN CHRISTIAN ACADEMY FOR HUMANI- TIES. Redattori: Svetlov R. V., Robinson T. M. (Canada), Protopopova I. A., Mochalo- va I. N., Kurdybajlo D. S., Shmonin D. V., Alymova E. V., pp. 163-170. 2016 Form, appearance, testimony: reflections on Adorno’s Aesthetics, in G. Matteucci, S. Marino (a cura di), Theodor W. Adorno: Truth and Dialectical Experience / Verità ed esperienza dialettica, “Discipline filosofiche”, XXVI, 2, Quodlibet, Macerata, 2016, pp. 79-97 2016 Antoni Tàpies e Bill Viola: un'arte che sopravvive alla mercificazione, in G. Di Giacomo, L. Marchetti (a cura di), Contemporaneo. Arti visive, musica, architettura, “Rivista di Estetica”, 61, pp. 49-64 2016 Composizione, costruzione, icona nella concezione artistica di Pavel Florenskij, in D. Guastini, A. Ardovino (a cura di), I percorsi dell'immaginazione. Studi in onore di Pietro Montani, Pellegrini Editore, Cosenza, pp. 325-334 2016 Prefazione a A. Lanzetta, Opaco mediterraneo. Modernità informale, Libria, Fog- gia, pp. 7-9 2016 Reflexions filosòfiques sobre la festa. Entre temporalitat i eternitat, in “La festa”, Col-loquis de Vic, Societat Catalana de Filosofia, XX, Vic, pp. 51-66 2015 The Myth. Aesthetic surgery clearly demonstrates what Greek myth has already taught us: beauty stems from horror, in P. Gandola, P. Persichetti (a cura di), Art of Blade. A book about surgery and humanity, T.A.M. Books, 2015, pp. 17-29 2015 La guerra i l'art, in La guerra, Col-loquis de Vic, Societat Catalana de Filosofia, XIX, pp. 11-26 2015 Arte e vita nella Recherche di Marcel Proust, in G. Di Giacomo (a cura di), Tra arte e vita. Percorsi fra testi, immagini, suoni, Mimesis, Milano, 2015, pp. 111-138. 4  2015 Lettura dell’Amleto, in G. Di Giacomo, L. Talarico (a cura di), Filosofia e teatro. Amleto e Macbeth, «Paradigmi», 1, 2015, pp. 21-36. 2015 Lettura del Macbeth, in G. Di Giacomo, L. Talarico (a cura di), Filosofia e teatro. Amleto e Macbeth, «Paradigmi», 1, 2015, pp. 111-125. 2014 Arte, linguaggio e rappresentazione nella riflessione filosofica di Wittgenstein in Comprendre. Revista Catalana de Filosofia, 16,2, pp.29-50. 2014 Icona e immagine, in G. Bordi, J. Carlettini, M.L. Fobelli, M.R. Menna, P. Poglia- ni (a cura di), L'officina dello sguardo. Scritti in onore di Maria Andaloro, Gangemi, Roma, pp. pp.33-37. 2014 El poder i les seves representacions, in L'estat, Col•loquis de Vic., vol. XVIII, pp.27-49. 2014 Dalla modernità alla contemporaneità: l’opera al di là dell’oggetto, in G. Di Giacomo, L. Marchetti (a cura di), Tra il sensibile e le arti. Trent’anni di estetica, «Stu- di di Estetica», 1-2/2014, pp. 57-84. 2013 Entre la paraula i el silenci: la filosofia com a recerca de la veritat, prefaci a An- toni Bosch-Veciana, "Imatge-Mirada-Paraula", Barcelona,Facultat de Filosofia, URL, 2013 2013 L’immagine artistica tra realtà e possibilità, tra “visibile” e “visivo”, in P. D’Angelo, E. Franzini, G. Lombardo, S. Tedesco (a cura di), Costellazioni estetiche. Dalla storia alla neoestetica. Studi in onore di Luigi Russo, Guerini e Associati, Mila- no, 2013, pp.121-134. 2013 La questione dell'aura tra Benjamin e Adorno, in «Rivista di Estetica», 52 (2013), pp. 235-256 2012 Antonio Pizzuto: tra letteratura e filosofia, in D. Perrone (a cura di), La vera novi- tà ha nome Pizzuto, Bonanno Editore, Catania, 2012, pp. 37-48 2012 Bellezza e chirurgia estetica, in «Studi di Estetica», 46 (2012), pp. 65-94 2012 Il paradosso dell'apparenza nel teatro di Jean Genet, in «Comprendre. Revista Catalana de Filosofia», 2 (2012), vol. 14, pp. 41-57 2012 La qüestió de la imatge a partir del debat sobre la icona, in «Col•loquis de Vic», Societat Catalana de Filosofia, 16 (2012), pp. 71- 89     2013 Art and Perspicuous Vision in Wittgenstein's Philosophical Reflection, in “Aisthe-  sis. Pratiche, linguaggi e saperi dell’estetico”, anno VI, n. 1, pp. 151-172  (http://www.fupress.net/index.php/aisthesis/article/view/12844/12158) 5  2012 L'opera di Kafka come narrazione infinita, in A. Valentini, Il silenzio delle Sire- ne. Mito e letteratura in Kafka, Mimesis, Milano, 2012, pp. IX-XXIV 2012 Lo statuto paradossale del museo tra globalizzazione e apertura all'alterità, in «Studi di Estetica», 45 (2012) "Il Museo oggi", a cura di G. Di Giacomo e A. Valentini, pp. 7-26 2012 Memoria e testimonianza tra estetica ed etica, in Volti della memoria, a cura di G. Di Giacomo (a cura di), Mimesis, Milano, 2012, pp. 445-481 2011 La idea d'Europa entre la cosciència de l'ocàs i l'obertura a l'altre, in Europa, in J. Monserrat, I. Roviró, B. Torres (a cura di), Societat Catalana de Filosofia, Barcelo- na, 2011, pp. 71-78 [Atti del convegno, Col•loquis de Vic, XV, Vic, 2010] 2011 Arte e mondo. A proposito di alcune riflessioni di Georges Didi-Huberman su Bertolt Brecht, in D. Guastini, A. Campo, D. Cecchi (a cura di), Alla fine delle cose. Contributi a una storia critica delle immagini, La Casa Usher, Fi- renze, 2011, pp. 200-204. 2011 Intervista sulla bellezza, in Scuderi N. (a cura di), A me la mela. Dialoghi su bellezza, chirurgia plastica e medicina estetica, Franco Angeli, Milano, 2011, pp. 128-136 2011 La produzione artistica contemporanea attraverso la riflessione di Benjamin e Adorno, in «Studi di Estetica», n. 43, 2011 , pp. 5-20 La relaciò entre imatge i temporalitat en la reflexiò de Warburg, Benjamin i Adorno, in I. Rovirò Alemany (a cura di), Estètica catalana, estètica euro- pea. Estudis d’estètica: entre la tradiciò i l’actualitat, Barcelona, 2011, pp. 9-27 L’immagine-tempo da Warburg a Benjamin e Adorno, in “Aisthesis. Prati- che, linguaggi e saperi dell’estetico”, anno 2, n. 2, pp. 73-80, (http://www.fupress.net/index.php/aisthesis/article/view/11009/10381). 2010 Arte e realtà nella produzione artistica del Novecento, in G. Di Giacomo, L. Marchetti (a cura di), L’oggetto nella pratica artistica, «Paradigmi», 2 (2010), Franco Angelini, Milano, 2010, pp. 87-104 Il percorso di Gualtiero Savelli: dall'astrattismo di Malevič e Mondrian all'astrazione geometrica, in G. Di Giacomo (a cura di), Astrazione e astra- zioni. In occasione di una mostra di Gualtiero Savelli, AlboVersorio, Mila- no, 2010, pp. 11-19 2011 2010 2010 6  2010 La bellezza. Promessa di Immortalità?, in “Medic. Metodologia Didattica e Innovazione Clinica”, vol. 18, 1-3, dicembre 2010, pp. 48-51 2010 Ripensare l'aura nella modernità, in L. Russo (a cura di), Dopo l'Estetica, «Aesthetica Preprint», Supplementa, Palermo, 2010, pp. 75-89 Il male oggi. Produzioni artistiche e riflessioni estetiche, in P. D'Oriano, D. Rocchi (a cura di), Il male e l'essere, Mimesis, Milano, 2009, pp. 247-261 2009 Arte e moda nella riflessione estetica di Adorno, in P. Romani, Percorsi teo- retici. Scritti in onore e in memoria di P.M. Toesca, Diabasis, Reggio Emilia, 2009, pp. 213-225 2009 Forma e riflessione nel romanzo moderno, in M. Fusillo (a cura di), Philoso- phie du roman, Revue Internationale de Philosophie, 63, Meyer, Bruxelles, 2009, pp. 137-151 2009 Il silenzio, il vuoto e la fine della rappresentazione, in G. Di Giacomo, R. Colombo (a cura di), Beckett ultimo atto, Albo Versorio, Milano, 2009, pp. 13-26 2009 Immagine, icona, opera d'arte, in F. Desideri, G. Matteucci, J.M. Schaeffer (a cura di), Il fatto estetico. Tra emozione e cognizione, ETS, Pisa, 2009, pp. 163-179 2009 La questione del rapporto arte-forma nella riflessione di Prinzhorn sulle "Produzioni plastiche" dei malati mentali, Prefazione a F. Bassan, Al di là della psichiatria e dell'estetica. Studio su Hans Prinzhorn, Lithos, Roma, 2009, pp. XI-XVIII 2009 La questione dell'immagine nella riflessione estetica del Novecento, in G. Di Giacomo (a cura di), Ripensare le immagini, Mimesis, Milano, 2009, pp. 367-390 2009 Le Mal aujourd'hui. Productions artistiques et rèflexions esthètiques, in «La règle du jeu», 39 (2009), pp. 153-171 2008 Adorno: arte ed estetica dopo Auschwitz, in M. Failla (a cura di), Dialettica negativa: categorie e contesti, Manifesto libri, Roma, 2008, pp. 195-207 2008 C'è ancora spazio per l'aura nella scultura contemporanea? A proposito di Luigi Mainolfi, in P. De Luca (a cura di), Intorno all'immagine, Mimesis, Milano, 2008, pp. 135-149 2008 Postfazione, in G. Di Giacomo, C. Zambianchi (a cura di), Alle origini dell'opera d'arte contemporanea, Laterza, Roma-Bari, 2008, pp. 203-222 2007 Armando Ferrari ed Emilio Garroni: un incontro, in in F. Romano, M. Ro- manini, S. Tauriello (a cura di), La metafora nella relazione analitica, Mi- mesis, Milano, 2007, pp. 21-41 2009 Modernitat, Societat Catalana de Filosofia, Barcellona, 2009, pp. 113-134 2009 Modernità e arte, in J. Monserrat Molas, I. Roviró Alemany (a cura di), La [Atti del convegno, Col•loquis de Vic, XIII, Vic, 2008] 7  2007 Dal cosmo al caos: la pittura di Paola Romano, in Paola Romano, Catalogo della Mostra, Print Company, Roma, 2007, pp. 5-7 2007 Ironia e romanzo, in P. F. Pieri (a cura di), Perché si ride. Umorismo, comi- cità, ironia, Moretti & Vitali, Bergamo, 2007, pp. 133-152 2007 La connessione arte-moda nella riflessione estetica del Novecento, in «Al- manacco Odradek», 2 (2007), pp. 174-177 2006 Arte, storia dell'arte e beni culturali, in D. Goldoni, M. Rispoli, R. Troncon (a cura di), Estetica e management nei beni e nelle produzioni culturali, Il Brennero - Der Brenner, Bolzano - Trento - Vienna, 2006, pp. 53-60 2006 Da Nietzsche a Benjamin: riflessioni sulla metropoli e dialettica del risve- glio, in R. Colombo (a cura di), «Fictions. Studi sulla narratività», 5 (2006), pp. 31-39 2006 Il "Tintoretto" di Sartre, tra presentazione e rappresentazione, in G. Farina (a cura di), «Bollettino Studi sartriani. Gruppo ricerca Sartre», 2 (2006), pp. 213-224 2006 Pietro M. Toesca: il rovesciamento della prospettiva, ovvero il doppio sguardo, in «Eupolis», 42 (2006), pp. 40-52 2006 Sul corpo. Riflessioni filosofiche e psicoanalitiche, in «Eupolis», 41 (2006), pp. 9-20 2006 Vedere e vedere-come: le "Osservazioni sulla filosofia della psicologia" di Ludwig Wittgenstein, in S. Borutti, L. Perissinotto (a cura di), Il terreno del linguaggio. Testimonianze e saggi sulla filosofia di Wittgenstein, Carocci, Roma, 2006, pp. 125-134 2005 La poesia dopo Auschwitz, in «Eupolis», 38 (2005), pp. 36-46 2005 Sul rapporto arte-vita a partire dalla "Teoria estetica" di Adorno, in «Idee», 58 (2005), pp. 93-112 2005 Visione, forma e contenuto in Arnheim e Wittgenstein, in L. Pizzo Russo (a cura di), Rudolf Arnheim. Arte e percezione visiva, «Aesthetica Preprint», Supplementa, Palermo, 2005, pp. 195-212 2004 Arte e rappresentazione nella "Teoria estetica" di Adorno, in «Cultura tede- sca», 26 (2004), pp.103-121 2004 Le idee estetiche di Stendhal, in M. Colesanti, H. de Jacquelot, L. Norci Ca- giano, A. M. Scaiola (a cura di), Arrigo Beyle "Romano" (1831-1841), Edi- zioni di Storia e Letteratura, Roma, 2004, pp. 113-135 2004 Rappresentazione e memoria in Aby Warburg, in C. Cieri Via, P. Montani (a cura di), Lo sguardo di Giano. Aby Warburg fra tempo e memoria, Nino Aragno Editore, Torino, 2004, pp. 79-112 2003 Il problema della rappresentazione in Gombrich e Goodman, in «Studi di estetica», 27 (2003), pp. 79-112 2003 Il tema della bellezza nel romanzo moderno, in F. Sisinni (a cura di), Rifles- sioni sulla bellezza, De Luca, Roma, 2003, pp. 99-117 2003 Le nozioni di famiglia, classe, individuo nella riflessione estetica di Morpur- go-Tagliabue, in L. Russo (a cura di),Guido Morpurgo-Tagliabue e l'estetica del Settecento, «Aesthetica Preprint», Palermo, 2003, pp. 75-84 8  2003 Sguardo, simbolo, mito. Viaggio in un museo immaginario, in G. Baruchello, Cosa guardano le statue, Danilo Montinari Editore, Ravenna, 2003, pp. 5-22 2001 Comprensione e rappresentazione in Wittgenstein, in «Il cannocchiale», 3 (2001), pp. 197-224 2001 Sulla rappresentazione, in U. Cao, S. Catucci (a cura di), Spazi e maschere dell'architettura e della metropoli, Meltemi, Roma, 2001, pp. 139-147 1998 Eros come narrazione nella "Ricerca del tempo perduto" di Marcel Proust, in «Almanacchi nuovi», 2 (1998), pp. 55-76 1998 Il Secondo Concilio di Nicea e il problema dell'immagine, in L. Russo (a cu- ra di), Nicea e la civiltà dell'immagine, «Aesthetica Preprint», Palermo, 1998, pp. 71-86 1995 Jean Genet e il paradosso dell'immagine, in P. Montani (a cura di), Senso e storia dell'estetica. Studi offerti a Emilio Garroni in occasione del suo set- tantesimo compleanno, Pratiche, Parma, 1995, pp. 831-853 1994 Etica ed estetica nella filosofia del giovane Lukács, Introduzione a G. Lukács, Teoria del romanzo, Pratiche, Parma, 1994, pp. 7-41 1992 Realtà e Finzione in "Dissonanzen-Quartett" di Emilio Garroni, in «La ra- gione possibile», 5 (1992), pp. 264-268 1986 Il comportamento cognitivo dell'uomo nell'epistemologia evoluzionistica di Popper, in «Terzo Mondo», 27 (1986), pp. 48-71 1984 L'epistemologia di Mach fra positivismo e costruttivismo, in «Lineamenti», 6 (1984), pp. 57-76 1984 Senso e significato nella filosofia del linguaggio di Wittgenstein, in A. Gar- gani (a cura di), Il Circolo di Vienna, Longo, Ravenna, 1984, pp. 131-156 1983 La nozione di «uso» e la funzione della filosofia in Wittgenstein, in A. Gar- gani (a cura di), L. Wittgenstein e la cultura contemporanea, Longo, Raven- na, 1983, pp. 117-127 1982 Implicazioni e aspetti epistemologici della sociobiologia, in M. Ingrosso, S. Manghi, V. Parisi (a cura di), Sociologia possibile, Franco Angeli, Milano, 1982, pp. 69-82 1982 Natura e cultura: il rapporto tra "strutture" genetiche e "processi" di ap- prendimento nel comportamento animale e umano, in AA. VV. (a cura di), L'osservazione del comportamento sociale, Regione Piemonte, Torino, 1982, pp. 37-54 PROGETTI DI RICERCA - Progetto PRIN Tema: La forma dell’immagine Ente promotore: MIUR 2003 / 24 mesi; - Progetto PRIN / Responsabile Tema: Estetica analitica ed estetica continentale: problemi, prospettive e tradi- zioni a confronto 9  Ente promotore: MIUR 2005 / 24 mesi; - Progetto PRIN / Responsabile nazionale e Coordinatore dell’unità locale Tema: Memoria e rappresentazione nella riflessione filosofica e artistica Ente promotore: MIUR 2007, 24 mesi; Coordinatore dei seguenti Progetti di Ateneo: - Progetto di Ateneo: Immagine e rappresentazione. Problemi estetici, artistici e storici Ente promotore: Università di Roma "La Sapienza” 2001 / 24 mesi - Progetto di Ateneo: Significati e usi delle immagini nella cultura dell'Otto- Novecento - Ente promotore: Università di Roma "La Sapienza" 2002 / 24 mesi; - Progetto di Ateneo: Significati e usi delle immagini nella cultura dell'Otto- Novecento - Ente promotore: Università di Roma "La Sapienza" 2003 / 12 mesi; - Progetto di Ateneo: Significati e usi delle immagini nella cultura dell'Otto- Novecento - Ente promotore: Università di Roma "La Sapienza" 2004 / 12 mesi; - Progetto di Ateneo: Memoria e testimonianza nella riflessione filosofica e artisti- ca del Novecento - Ente promotore: Università di Roma "La Sapienza" 2007 / 24 mesi; - Progetto di Ateneo: Memoria e testimonianza nella riflessione filosofica, storica e artistica - Ente promotore: Università di Roma "La Sapienza" 2008 / 12 mesi; - Progetto di Ateneo: Rappresentazione, memoria e testimonianza nella riflessione filosofica e artistica - Ente promotore: Università di Roma "La Sapienza" 2010 / 12 mesi; - Progetto di Ateneo: La questione arte-vita nella società multiculturale. Identità, immagine e implicazioni etico-politiche - Ente promotore: Università di Roma “La Sapienza” 2012/ 12 mesi; - Progetto di Ateneo: Il tema dell'"Annunciazione" come chiave di lettura degli at- tuali processi di globalizzazione - Ente promotore: Università di Roma “La - Sapienza” 2013/ 12 mesi; - Progetto di Ateneo: Memoria e rappresentazione nella riflessione estetica e arti- stica Ente promotore: AST - Università di Roma "La Sapienza" 2007 / 12 mesi; - Progetto di Ateneo: Evento e testimonianza nell'estetica del Novecento Ente promotore: AST - Università di Roma "La Sapienza" 2008 / 12 mesi; - Progetto di Ateneo: Il problema dell'aura nell'arte contemporanea Ente promoto- re: AST - Università di Roma "La Sapienza" 2009 / 12 mesi; 10  Coordinatore dei seguenti Seminari dell’Osservatorio di Storia dell’Arte della Società Italiana di Estetica, presso la Facoltà di Filosofia dell’Università degli studi di Roma “La Sapienza” - 22 settembre 2003: Seminario sul tema Estetica e storia dell’arte: necessità di un dialogo; - 27 settembre 2004: Seminario sul tema Fine (della storia) dell'arte?; - 26-27 settembre 2006: Seminario sul tema Arte, Estetica, Visual Studies; - 8-9 febbraio 2008: Seminario sul tema Oggetto artistico e oggetto comune; - 20-21 febbraio 2009: Seminario sul tema Leggere l'opera d'arte; - 18-19 febbraio 2011: Seminario sul tema Ancora l’aura oggi?; - 27-28 gennaio 2012: Seminario sul tema Che cos’è il museo oggi? Cfr. inoltre: - Sito Web ufficiale: www.giuseppedigiacomo.it - Voci su Wikipedia: https://it.wikipedia.org/wiki/Giuseppe_Di_Giacomo ; https://fr.wikipedia.org/wiki/Giuseppe_Di_Giacomo https://en.wikipedia.org/wiki/Giuseppe_Di_Giacomo https://de.wikipedia.org/wiki/Giuseppe_Di_Giacomo https://ca.wikipedia.org/wiki/Giuseppe_Di_Giacomo 11ROMANTIC PAINTERS and playwrights of the nineteenth century found rich material in the lives of the old masters. Fueled by irresistible half-truths and rumors, they created swashbuckling narratives about the personal intimacies and rivalries, as well as the career failures and triumphs, of the Italian Renaissance artists. At the Paris Salon of 1843, for instance, Léon Cogniet unveiled his grand entry, a large canvas depicting Tintoretto painting a portrait of his beloved daughter Marietta, who lies on her death bed. Three years later, the painter and playwright Luigi Marta published a melodrama about an amorous intrigue that supposedly led to the death of Marietta, who assisted her father as an artist in his workshop. The six-episode play reads like a soap opera in which the aristocratic Alfredo is pitted against Marietta’s true love, Valerio Zuccato, a Venetian mosaicist (and thus, in Tintoretto’s world, a fellow craftsman). The play circles around the inevitable showdown between the arrogant count and the sincere artist, which precipitates Marietta’s death at the hands of the entitled, privileged, and violent Alfredo.  Parallel to this love story, the reader is regaled with the homosocial rivalry between Tintoretto and Titian, with Paolo Veronese appearing as an intercessor who mediates a grandiloquent reconciliation scene in which all three masters unite to defend the honor of the Venetian state. The narrative unfolds against Tintoretto’s commission for the Last Judgment (1562–64) in Santa Maria dell’Orto. Marta’s artist was thus, in no uncertain terms, a struggling genius waiting for recognition from his fellow artists even at the height of his success. Indeed, the episode concludes with Titian’s transformative endorsement—Ora non siete più il povero Tintoretto, ma bensì il famoso Giacomo Robusti (“now you are no longer the poor ‘son of a dyer,’ but the famous Jacopo Robusti”).1  Loosely based on actual historical personages, the tale is almost entirely fantasy. Such theatrical characterizations are nevertheless of great importance, for they help give legends the veneer of history. Giorgio Vasari’s sixteenth-century notices about Tintoretto, as well as, in the seventeenth century, Carlo Ridolfi’s biography and Marco Boschini’s various writings on the artist, were the primary sources for many of these tasty morsels, and while scholars have tried to sift fiction from reality, some myths are just too delectable to give up. We still hear repeated, for instance, the unfounded story that the young Tintoretto was kicked out of Titian’s studio. It’s not entirely impossible, but there isn’t a shred of solid evidence to confirm the tale (any more than Ridolfi’s allegation that Tintoretto dressed Marietta up as a boy so that father and daughter could wander the city streets unimpeded by society’s strict gender expectations).   The image of Tintoretto-as-rebel would culminate in Jean-Paul Sartre’s essay “The Prisoner of Venice”(1964), where the artist is reinvented as an existentialist hero, a lone wolf fighting against the stultifying rules of the system:  Fate has decreed that Jacopo unwittingly expose an age which refuses to recognize itself. Now we understand the meaning of his destiny and the secret of Venetian malice. Tintoretto displeases everyone: patricians because he reveals to them the puritanism and fanciful agitation of the bourgeoisie; artisans because he destroys the corporate order and reveals, under their apparent professional solidarity, the rumblings of hate and rivalry; patriots because the frenzied state of painting and the absence of God discloses to them, under his brush, an absurd and unpredictable world in which anything can occur, even the death of Venice.2  At the other end of the spectrum, this leitmotif is perhaps best played out for comic effect in Woody Allen’s Everyone Says I Love You (1996), in which a skirt-chaser (Allen) is overheard in the so-called Tintoretto Museum (really the Scuola Grande di San Rocco) in Venice trying to impress a Tintoretto enthusiast (Julia Roberts) by lauding the artist’s immense genius for painting “outside the academic convention of sixteenth-century Venice.”   Sometimes myths are just too powerful, and the Tintoretto myth is an extremely appealing one for modern tastes, especially in the celebratory year marking the fifth centenary of the artist’s birth. Tintoretto’s anniversary has been staged as a magnificent international banquet. The festivities began last autumn in Venice with exhibitions at the Palazzo Ducale(“Tintoretto: Artist of Renaissance Venice”) and the Gallerie dell’Accademia (“The Young Tintoretto”), as well as an excellent little show at the Scuola Grande di San Marco (“Art, Faith, and Medicine in Tintoretto’s Venice”). New York, in the fall, offered “Drawing in Tintoretto’s Venice” at the Morgan Library & Museum and “Celebrating Tintoretto: Portrait Paintings and Studio Drawings” at the Metropolitan Museum of Art.  The fete continues in 2019 at the National Gallery of Art in Washington, D.C., where slightly adapted versions of the Palazzo Ducale and Morgan Library exhibitions go on view this month, fortified by a third independent show called “Venetian Prints in the Time of Tintoretto.” This is a once-in-a-lifetime opportunity for audiences in America to see some one hundred and seventy artworks by Tintoretto and other Venetian Renaissance artists, painstakingly gathered by art historians Robert Echols and Frederick Ilchman (who organized the show at the Palazzo Ducale),along with curators John Marciari (of the Morgan) and Jonathan Bober (of the National Gallery). Fans of the artist and of painting in general should take note.     IT’S HARD NOT TO get swept up in all the unbridled Tintoretto worship, but this celebration also provides us an opportunity to revisit the man, the myth, the legacy, and above all, the work. To start with the biographical elements: Tintoretto was hardly seen as a pitiful “poor dyer’s son” in the eyes of his fellow Renaissance artists, nor as a maverick who “displeases everyone.” When speaking about Titian vs. Tintoretto, one must take into account a few historical particulars. For instance, in 1519, the year after Titian installed the magnificent Assumption of the Virgin in Santa Maria Gloriosa dei Frari, Tintoretto’s only achievement was to be born. In 1545, two years before Tintoretto’s first self-portrait (with which all Tintoretto exhibitions seem compelled to begin), Titian was called to Rome by Pope Paul III; in the 1550s and 1560s he was practically a court painter to the Habsburgs, while Tintoretto was painting acres of canvas to fill the walls at the Chiesa della Madonna dell’Orto, the Scuola Grande di San Rocco, and the Scuola Grande di San Marco in Venice; Titian died in 1576 during the plague, and in 1577 a conflagration devastated the Palazzo Ducale, destroying many of his paintings there, some of which would be replaced with works by Tintoretto and his assistants in the 1580s. While there was probably no love between the two men of the kind that nineteenth-century dramatists might dream up, their careers ran parallel to each other rather than in constant antagonistic competition.   Many romantic myths are dispelled in the scholarship that went into the exhibitions and the catalogue essays, but the melodrama of this rivalry still sneaks into sections such as “The Mantle of Titian,” which, at the Palazzo Ducale, was called “Dopo Tiziano” (After Titian) thereby underlining both chronological priority as well as influence. The paintings Tintoretto did afterTitian’s death in 1576—large, powerful mythological pictures such as the Forge of Vulcan (1577) and the Origin of the Milky Way (ca. 1577–78)—are spectacular, but why filter these achievements once more through Titian? And why not have, instead, a section labeled “Dopo Tintoretto,” which would include El Greco, the Carracci, Caravaggio, and a host of other artists from the past five centuries who found inspiration in his stark chiaroscuro, raking perspective, extreme foreshortening, airborne saints, psychologically charged portraits, barefoot worshippers, elaborate banquet scenes, wraithlike angels and spirits, and busted-out straw chairs?  The oft-repeated trope that Tintoretto was an outsider also willfully overlooks his obvious status as a complete insider, born in Venice and fully embedded in its institutions from birth. Titian and Veronese, in contrast, were both provincials (practically foreigners by Renaissance standards), who came from the hills and plains beyond the lagoon. While a questionable seventeenth-century account suggested an aristocratic lineage for the Robusti family, more recent studies have emphasized instead the artist’s “working class” origins. The truth is somewhere in between. Stefania Mason’s essay “Tintoretto the Venetian,” from the catalogue that accompanies “Tintoretto: Artist of Renaissance Venice,” goes a long way to contextualize the precise socioeconomic conditions of the son of a Renaissance dyer or—to be more accurate—the son of a manager of a dye works married to a “well-born woman.” The Robusti were not wealthy by any means, but they were comfortable enough to give Tintoretto a basic education that enabled him later in life to befriend the circle of writers and intellectuals known as the poligrafi, including the notorious satirist Pietro Aretino (a friend of Titian and an early supporter of Tintoretto).   Like his father, Tintoretto married up. His father-in-law, Marco Episcopi, not only belonged to an influential family of Venetian cittadini, he was also the guardian of the Scuola Grande di San Marco, where Tintoretto—two years before his marriage—painted his finest early work, Miracle of the Slave (1548). The scene features St. Mark swooping in headfirst from the sky to protect a slave from being martyred for his faith. Current viewers need not be intimidated by the religious matter of the vast majority of Tintoretto’s pictures—they are gripping visual tales of life and death. According to seventeenth-century artist and critic Marco Boschini, one beholder of Tintoretto’s St. Mark cycle reported: “The terror makes me faint, and the piety liquefies my heart in such a manner that I lose heart and melt like wax and feel completely mad!”3 As much “Game of Thrones” as Catholic doctrine in pictures, these works were meant to move, delight, and instruct their audience. Indeed, one cannot help but feel that if Tintoretto were alive today, he would be an unapologetic fan of action films and special effects. Looking at Miracle, with its explosive light and tense shadows, its superhuman heroes and racially profiled villains, and its meticulous staging of powerful, muscular, controlled bodies, one might think he invented the genre. No wonder Boschini described him as a “thunderbolt” and the “cannons of a ship.”4  Unfortunately, Miracle of the Slave has not been allowed to cross the Atlantic. Audiences in D.C. can, however, marvel at the luminous Saint Augustine Healing the Lame (ca. 1550) and the always pleasing Creation of the Animals (1550–53), which the French philosopher Gilles Deleuze once described as an image of God as a referee “at the start of a handicapped race, in which the birds and the fish leave first, while the dog, the rabbits, the cow, and the unicorn await their turn.”5  While Miracle has been in the possession of the Gallerie dell’Accademia for many decades now, seeing it anew, rehung next to the diminutive bronze relief of the same subject by the Florentine sculptor Jacopo Sansovino, was one of the highlights of the “Young Tintoretto”exhibition. With the works placed next to each other in a darkened room, the similarities and differences were enlightening. Designed and executed between 1541 and 1546 for the north tribune of the choir at the Basilica di San Marco, Sansovino’s glowing bronze panel reduces the scene to a compact, tactile, monochromatic field of chiaroscuro with a vibrant mass of bodies emerging from the picture plane in dynamic, agitated poses. Tintoretto, just on the cusp of his thirtieth year when he painted Miracle, clearly looked closely at the dramatic effects that could be sculpted out of gesture, form, and composition alone. To this art he would add the detail of expression, the intensity of extreme lighting, the terribilità that often comes with scale, and the incomparable power of color.     WHILE THE TWENTY-FIRST CENTURY audiences might think it odd for an ambitious artist to unveil a painting so closely modeled on a recent work by another artist, the reuse of motifs was a common Italian Renaissance practice, as was made clear in an insightful section of the Palazzo Ducale exhibition simply called “The Recycler.” Tintoretto and his assistants, after all, produced more square footage of painting than any other workshop in the Venetian Renaissance. In one instance, the painter salvaged an old composition from his painting Mystic Crucifixion by cutting, splitting, and reintegrating the canvas into a new picture, The Nativity(ca. 1550s and 1570s); on another occasion, he copied, pivoted, and re-costumed a previously used figure of St. Lawrence intended for the Bonomi family altar in San Francesco della Vigna, transforming the martyr into Helen of Troy. Such shortcuts were standard in most Renaissance workshops, especially prolific ones that had to turn out hundreds of altarpieces, portraits, mythological paintings, battle scenes, and other pictures.  The juxtaposition between the Florentine sculptor and the Venetian painter also underlines Tintoretto’s connectedness with other artists. He painted Sansovino’s portrait more than once, even signing one of the works as “Jacobus Tintorettus eius amicissimus” (which, if you believe the inscription, means they were Renaissance BFFs). Tintoretto was an artist’s artist. His profound sense of community comes across in a rather touching contract found in the Venetian archives and included in the small but brilliant “Art, Faith, and Medicine in Tintoretto’s Venice” at the Scuola Grande di San Marco. In this document, drafted and signed shortly after Christmas in 1585, the artist agrees to provide works and forgo any payment on the condition that the confraternity admit four people: his son Giovanni Battista Robusti; his son-in-law Marco Augusta (the real-life husband of Marietta); the tailor Bartolomeo di Lorenzo; and another man named Angelo Girardi. His dedication to his family, friends, and students is also borne out in numerous workshop drawings, which are well represented in D.C.  Offering important opportunities for artistic communion, drawing had its pragmatic as well as pleasurable purposes. In several sketches made after a copy of the ancient bust known as the Grimani Vitellius, we see multiple hands working seemingly side by side, line by line, smudge by smudge, highlight by highlight, with the goal of mastering the visible world around them. The willful way that these graphic studies dematerialize carved stone and reincarnate the male portrait head into what looks at first glance like the image of a flesh-and-blood subject is remarkable. In this sequence, note especially the Morgan Library drawing rendered by what the curator identifies as a “left-handed draftsman.” The work seems almost too bold in its deliberate, sweeping gestures to be “workshop,” but then Tintoretto was clearly a very good master with some very capable assistants.   In Tintoretto’s drawings and paintings, one often feels that he is “sculpting” with chalk, charcoal, watercolor, oil, and pigment, ignoring the flat surface of the paper or canvas. This comes across not only in the speckled black-and-white patterns of his drawings from sculptures (which he avidly collected) but in his life studies, too. His rendering of flesh frequently seems to be rippling and quivering with animal energy, as if the artist were trying to catch the living body in motion. His is possibly the most atomistic rendering of the human form in the Renaissance. The frenetic, vibrating lines in Seated Man with Raised Right Arm (ca. 1577), for instance, exemplify this stylistic peculiarity: the contours of the mythological body can never sit still but seem to be in a constant state of flex and flux. (Indeed, Tintoretto’s figural drawings make Marcel Duchamp’s Nude Descending a Staircase and every episode of “The Incredible Hulk” seem old hat when they appear centuries later.)   One of the art-historical myths destroyed—hopefully once and for all—by the exhibitions in honor of Tintoretto is that Venetians did not really draw. Some did more than others, and Tintoretto and his assistants surely drew up a storm. On various sheets we find words such as fa (make), sì (yes), fatto (made), no (no), and bono (good) scrawled across the surface; sometimes figures are singled out by an asterisk. These marks were workshop instructions on designs that had been cleared for production by the master. Sheets such as Study of a Man Climbing into a Boat (1578–79) were frequently greased and held up to the light so that forms could be retraced on the verso, offering compositional options. Many have squaring grids drawn across them. In some instances, this facilitated the transfer of the design onto a larger surface; in other cases, it assisted in the correction of foreshortening and the adjustment of figural proportions.   Of the thirty-some drawings by Tintoretto and his workshop on display at the National Gallery of Art, the majority are on the blue paper favored by Venetian artists. The dark surface of this carta azzurra provided an ideal ground upon which to map out gestural movements, tonal subtleties, and, above all, the effects of light and shadow. It might also be compared with the darkened grounds of many Tintoretto paintings. The canvas support for The Origin of the Milky Way, for example, is prepared with a brownish layer upon which the artist sketched out his composition with white lead paint (rather than using black paint on a white gessoed surface). Once a scene had been plotted out on the canvas, however, Tintoretto was prone to further editing, altering, and redrawing of figures and forms in a variety of white, black, and even red paint until the work was completed.     PAINTERS AND people interested in the way things are made will find much to consider in these exhibitions. Tintoretto’s process is revealed in medias res through the various X-rays that accompany the didactic material in the galleries and comes across most clearly in the oil sketch Doge Alvise Mocenigo Presented to the Redeemer(1571–74, a work included in the 2016 exhibition “Unfinished: Thoughts Left Visible” at the Met Breuer in New York). Looking at the mannequinlike figures waiting to be dressed with flesh and clothes, one comes to appreciate the procedural logic that binds these drawings and paintings together (a topic expertly discussed in Roland Krischel’s essay “Tintoretto at Work” in the National Gallery of Art exhibition catalogue). The show reveals Tintoretto’s exploratory procedure: visceral, intuitive, yet ultimately studied and thought-through—but never entirely scripted.   Tintoretto is all gestalt. If the Marxist machismo of Sartre’s characterization of the artist as a rebel “born among the underlings who endured the weight of a superimposed hierarchy” is misplaced, one must admit that his phenomenological acumen regarding the works is often startlingly spot on. Sartre writes with great perspicacity about the narrow, vertical composition of Saint George and the Dragon (ca. 1553–55):  Everything is simultaneous in his canvas, he contains everything within the unity of a single instant. But to mask the over-harsh rift, he presents the spectator with the spectre of a succession of events. Not only is the route traced in advance, but each stage devalues the previous one and shows it up as an inert memory of things past. The corpse’s immobility is memory: it is prolonged and repeated from one moment to the next, identical and useless. . . . The time-trap works, we are caught: a false present welcomes us at every step and unmasks its predecessor which returns, behind our backs, to its original status of petrified memory.6  Time and space collapse in on the spectator’s embodied experience, simulating the effects of a hallucinatory drug. And indeed, as early as Boschini we find the revelatory quality of Tintoretto’s art described in pharmacological terms. Of the whirlwind of paintings on the ceilings and walls of the Scuola Grande di San Rocco, he effuses: “I feel as if I am in a drugstore. Under my nose these odors have aromas that overwhelm my heart. These fragrances remain in my mind, my mind feels so utterly purged that my heart jumps for joy in my chest, and my soul feels totally jubilant.”7  One must be in the presence of the work in order to experience the psychosomatic force of Tintoretto’s art. A black-and-white photograph of a room filled with Tintoretto’s portraits can look like a field of dull heads, but in person these works become alarmingly ghostly presences, with hands and faces that seem capable of movement. The sketches that move from light fluffy strokes to devastating valleys of black charcoal seemingly carved with a chisel, the thick ridges of impasto that rise suddenly like waves from the surface of a canvas, the glazes and scumble that modulate color and reflect light differently depending on the angle of view, the enormity of compositions that threaten to engulf the spectator’s body—these elements simply do not translate in any form of mechanical or digital reproduction. This is true not only for Tintoretto but for Venetian art in general, with its penchant for chromatic and luminous variability and richness.   In “Drawing in Tintoretto’s Venice” the difference between Veronese’s gorgeous drawings covered in elegant, spindly figures created in a torrent of quick brown ink strokes and Jacopo Bassano’s schematic black chalk sketches marked by dusty smudges of red, white, green, pink, and brown becomes immediately clear. Domenico Tintoretto, one of the master’s sons, produced oil sketches of battle scenes that look comic in reproduction, but when one stands before the flurry of red, white, and black patches on dark brown paper, these detailed compositions dissolve unexpectedly into near abstraction.  Renaissance drawings are so fragile and sensitive to light that they can be exhibited only rarely, and many  Tintoretto paintings are so large that they have remained in situ in Venice for most of their existence. Thus the current triple exhibition is the first substantial retrospective of the old master’s work in America. It is a fitting tribute on the occasion of his five hundredth birthday—and a viewing experience not to be missed.  Endnotes 1. Luigi Marta, Il Tintoretto e sua figlia: drama in sei quadri del pittore Luigi Marta, Milan, Borroni e Scotti, 1846, p. 46.  2. Sartre quoted in Laura Lepschy, Tintoretto Observed: A Documentary Survey of Critical Reactions from the 16th to the 20th Century, Ravenna, Longo Editore, 1983, p. 185.  3. Marco Boschini, La carta navegar pitoresco, edited by Anna Pallucchini, Venice/Rome, Istituto per la collaborazione culturale, 1966, p. 280.  4. Ibid., p. 4.  5. Gilles Deleuze, Francis Bacon: The Logic of Sensation, trans. Daniel W. Smith, London, Continuum, 2003, p. 7.  6. Sartre quoted in Lepschy, p. 189.  7. Boschini, p. 150.Tintoretto was too good an artist for his time’s uses; he still clamors for a proper role, seeking affirmation, four centuries later. This thought came to me as whimsy, and stayed as conviction, at the Prado, in Madrid, which has just opened the second-ever retrospective (the first was in Venice, in 1937) of Jacopo Comin, who was also known as Robusti, and called Tintoretto, or “Little Dyer,” after his father’s profession. Tintoretto (1518-94) is the most mercurial of the five undisputed immortals of Venetian painting—the others being Bellini, Giorgione, Titian, and Veronese—and I was eager to see the Prado show, because I have never managed to get a satisfying fix on him. How could someone so great, able to summon the world with a brushstroke, be so inconsistent in style, and, on occasion, so awful? Stupefyingly prolific, Tintoretto garnished the walls, ceilings, altars, exteriors, and even the furniture of Venice, performing commissions for free when that was what it took to edge out a rival. (He was not popular with his fellow-artists.) He brought off one of the world’s largest paintings—“Paradise” (1588-92), in the Ducal Palace, which, at seventy-two feet long and twenty-three feet high, is so vast as to be essentially unseeable—and perhaps history’s most sustained demonstration of sheer painterly talent, brimming the Scuola Grande di San Rocco, between 1564 and 1588, with pictures whose profusion and intensity burn the most concerted effort of looking to ashes. But he and his populous workshop also perpetrated some of the grimmest daubs—murky and slack—that you ever rushed past with a shudder. I realized, too late, that my puzzlement was a warning. Now I feel that I have acquired a brilliant, neurotic, exhausting friend who enjoins me to undertake on his behalf campaigns that he bungled when their conduct was up to him.  Nothing inferior taxes the eye at the Prado, which augments the cream of Tintorettos in European and American collections with a few loans from Venice, where hundreds of his paintings—including his greatest works, such as “The Miracle of the Slave” (1548)—reside immovably in churches, palaces, and galleries. The show more than overcomes doubts about presuming to assess the artist outside his home town, which he is known to have left just twice, briefly, in his life. The well-restored canvases, shown in good light, sparkle and blaze. Some make plungingly deep space with muscular figures of different sizes; your mind provides perspective that the artist didn’t deign to chart. Others array action on intersecting diagonals, along which someone is apt to be arriving from somewhere at terrific speed. (There is an old line that Tintoretto invented the movies; his ways of enkindling routine scenarios, with thrilling visual rhythms that seem to unfurl in time, endorse it.) He drew with his brush, light over dark—so that shadings came first, imparting a sumptuous density to forms that are hit with highlights like spatters of sun. He is supposed to have said that his favorite colors were black and white, but he could be every bit the startling and seductive Venetian colorist when a commission required it. With abject competitive fury, he was not above imitating the grand dragon of the Venice art world, Titian, and his designated successor, Veronese.  “As a matter of fact, he almost never takes the liberty of being himself unless someone builds up his confidence and leaves him alone in an empty room,” Jean-Paul Sartre wrote in a 1957 essay, “The Venetian Pariah.” For Sartre, Tintoretto is an avatar of existential anguish, who was both behind his time—as the last native-born master on a scene ruled by a cosmopolitan élite—and ahead of it, as the ideal artist for a rising bourgeoisie that was too intimidated by the pomp of the ducal republic to recognize itself in his demotic trashings of aristocratic decorum. Intellectuals of the era, while in awe of Tintoretto’s gifts, scolded him for being too fast, careless, and insolent; when Vasari credited him with “the most extraordinary brain that the art of painting has ever produced,” it wasn’t meant as unalloyed praise. (Vasari also called him the medium’s “worst madcap.”)  As a boy, Tintoretto is said to have entered Titian’s workshop as an apprentice but was thrown out after a few days, having either frightened the master with his aptitude or irked him with his personality; at any rate, Titian’s attitude toward him was plated with permafrost. Little is known of Tintoretto’s subsequent training. His earliest surviving work, from the early fifteen-forties, is anti-Titianesque—radically sculptural and draftsmanly, embracing Central Italian influences. Then something happened which the art historian Alexander Nagel compares to the bluesman Robert Johnson’s “going down to the crossroads and coming back with scary new powers.” “The Miracle of the Slave,” made for the Scuola Grande di San Marco, electrified Venice. Its unprecedented range of spatial, chromatic, and kinetic effect suggested a synthesis of “the disegno of Michelangelo and the coloring of Titian”—a contemporaneous formula, often cited, for ultimate greatness in painting. He was roundly hailed, though Pietro Aretino, Titian’s literary ally, added a caveat about his lack of “patience in the making.” Commissions came in bunches to the new hero, but solid status skittered out of reach.  He compensated by striving to engulf the town. Meanwhile, Titian refused to slacken his grip on preëminence, let alone die. When he finally expired, at the age of eighty-eight or so, in 1576, it brought Tintoretto no peace. Though he was now, by general consent, Italy’s leading painter, he responded with pictures as flailingly ambitious and various as ever. Three from the late fifteen-seventies triumph in as many styles. In “The Rape of Helen,” the hauntingly lovely captive languishes in the corner of a churning land-sea battle scene, with scores of figures, ranging in size from huge to tiny, which you can all but hear and smell. In “Tarquin and Lucretia,” the naked, lividly fleshy protagonists struggle at the edge of a bed, toppling a sculpture and breaking a necklace that rains pearls. The woman’s right hand seems to extend from the canvas, as if to be grasped by a rescuing viewer. (The Baroque, which took hold two decades later, with Caravaggio, can seem an edited ratification of tendencies already developed by Tin-toretto.) “The Martyrdom of St. Lawrence” is a sketchy and fierce nightmare of death by roasting, with an anticipatory whiff of Goya. Tintoretto strongly influenced El Greco, blazed trails for Rubens, and fascinated Velázquez, who acquired his paintings for Philip IV.  “What is a Tintoretto?” the art historian Robert Echols asks in the show’s catalogue. The answer might be almost anything touched with genius and a strange, thorny, dashing humor. Tintoretto was reported to be a witty man who never smiled. What is his “Susannah and the Elders” (1555-56) if not a grand lark? A luxuriant, glowing nude sits outdoors, surrounded by a glittering still-life of jewelry and implements of beauty, and is ogled by dirty old men (one pokes his bald pate, at ground level, practically out of the canvas) from behind a hedge that forms part of a corridor-like recession into the far background. There are distant little ducks, and the rear end of a stag. But the picture’s form is too disorienting to sustain any particular response, including amusement. The backstage space outside the hedge ignores the unity of the central perspective, bespeaking a world that rolls away in all directions, indifferent to pocket realms of mythic anecdote. The effect is stirring and confusing. “Who is Tintoretto’s viewer?” strikes me as the really compelling question. No other great artist before modern times, in which shifting contingency affects every enterprise, seems less certain of whom he is addressing, and why. It might as well be you or me as some cinquecento ingrate, and, if we happen to think of people we know who may be interested, the artist encourages us to contact them without delay. ♦La tesi di fondo di questo saggio è che l’orizzonte problematico entro il quale si muove da sempre la pittura faccia tutt’uno con le questioni dell’immagine e che la tradizione occidentale, soprattutto nella riflessione sulla storia dell’arte, abbia incentrato la sua atten- zione sul problema dell’immagine senza tenere conto in genere dei suoi aspetti iconici. Già Tommaso d’Aquino aveva posto in questi termini tale problema: l’immagine può essere considerata come og- getto particolare, o come immagine di un altro; nel primo caso l’og- getto è la cosa stessa che al contempo ne rappresenta un’altra, nel secondo l’aspetto dominante è ciò che l’immagine rappresenta. Sem- bra dunque che rispetto a un’immagine l’attenzione si rivolga o al- l’immagine in se stessa – all’immagine come fine – o a ciò che l’im- magine rappresenta – all’immagine come mezzo 1. A diversi secoli di distanza un pensatore della statura di Witt- genstein riproporrà con forza il problema dell’immagine che, a par- tire da una prospettiva iniziale fortemente improntata a concezioni logico-raffigurative, si andrà via via sempre più delineando all’inter- no della sua riflessione come un problema di natura estetica. Così egli scrive nelle Ricerche filosofiche: «E chi dipinge non deve dipin- gere qualcosa – e chi dipinge qualcosa non deve dipingere qualcosa di reale? – Ebbene, qual è l’oggetto del dipingere: l’immagine di un uomo (per esempio), o l’uomo che l’immagine rappresenta?» 2. Tut- tavia Wittgenstein porta il problema alle estreme conseguenze: «Se paragoniamo la proposizione con un’immagine, dobbiamo tener con- to se la paragoniamo con un ritratto (un’esposizione storica) o con un quadro di genere. E tutti e due i paragoni hanno senso. Se guar- do un quadro di genere, esso mi ‘dice’ qualcosa, anche se io non cre- do (mi figuro) neppure per un momento che gli uomini che vedo rappresentati in esso esistano realmente, o che uomini in carne e ossa si siano davvero trovati in questa situazione. Ma, e se chiedessi: ‘Al- lora, che cosa mi dice?» 3. La risposta di Wittgenstein suona: «‘L’im- magine mi dice se stessa’ vorrei dire. Vale a dire, ciò che essa mi dice consiste nella sua propria struttura, nelle sue forme e colori» 4. Ponendo la questione in tali termini tuttavia Wittgenstein non in- 7  tende affatto contrapporre un’immagine intesa come ‘ritratto’, il cui scopo sarebbe quello di indirizzare l’attenzione dell’osservatore esclu- sivamente su ciò che essa rappresenta, e un’immagine intesa come ‘quadro di genere’, il cui fine sarebbe quello di presentare la «sua propria struttura» e le «sue forme e colori». Del resto, continua Wittgenstein nello stesso paragrafo, «(Che significato avrebbe il dire: ‘Il tema musicale mi dice se stesso’?)». Il fatto è che per Wittgenstein queste due modalità dell’immagine: immagine intesa come mezzo e immagine intesa come fine, sono tra loro connesse, tanto da formare un unico concetto di ‘immagine’. Che il problema vada inteso e ap- profondito in questi termini, lo chiarisce lo stesso Wittgenstein, af- frontando in alcuni paragrafi successivi la questione relativa al «com- prendere una proposizione»: «Noi parliamo del comprendere una proposizione, nel senso che essa può essere sostituita da un’altra che dice la stessa cosa; ma anche nel senso che non può essere sostituita da nessun’altra. (Non più di quanto un tema musicale possa venir sostituito da un altro.) Nel primo caso il pensiero della proposizione è qualcosa che è comune a differenti proposizioni; nel secondo, qual- cosa che soltanto queste parole, in queste posizioni, possono esprime- re. (Comprendere una poesia)» 5. E subito dopo aggiunge: «Dunque qui ‘comprendere’ ha due significati differenti? – Preferisco dire che questi modi d’uso di ‘comprendere’ formano il suo significato, il mio concetto del comprendere» 6. Wittgenstein sottolinea in questo modo che i due tipi di com- prensione – quella che potremmo chiamare ‘logica’, nel senso che il pensiero espresso dalla proposizione può essere riformulato in modi diversi, rimanendo lo stesso, e quella che potremmo definire ‘esteti- ca’, caratterizzata invece dal fatto che il suo ‘tema’ non può essere riformulato in altro modo, come esemplifica il caso del ‘tema musica- le’ o della ‘poesia’ – sono imprescindibilmente connessi tra loro in un concetto unitario. È la stessa interconnessione che Wittgenstein aveva rilevato in relazione all’immagine. Il fatto è che quel particolare tipo di immagine che l’opera d’arte costituisce può rimandare all’altro da sé, soltanto in quanto in primo luogo rimanda a se stessa, ‘dice se stessa’; può essere ‘rappresentazione’ dell’altro, solo in quanto è ‘pre- sentazione’ di se stessa. Di conseguenza, ciò che nell’opera viene rap- presentato riceve la sua ‘unicità’, la sua ‘specificità’, è insomma pro- prio ‘questo’, grazie al fatto che l’immagine lo rappresenta, lo ‘dice’, secondo le sue ‘linee e colori’. Così questo qualcosa di ‘unico’ può e anzi deve essere visto come qualcosa che, seppure da sempre presen- te sotto i nostri occhi, appare come se lo vedessimo per la prima vol- ta e, proprio per questo, non può che procurarci stupore e meravi- glia. Scrive a questo proposito Wittgenstein: «Non pensare che sia cosa ovvia il fatto che i quadri e le narrazioni fantastiche ci procura- 8  no piacere, tengono occupata la nostra mente; anzi, si tratta di un fatto fuori dell’ordinario. (‘Non pensare che sia cosa ovvia’ – questo vuol dire: Meravigliatene, come fai per le altre cose che ti procurano turbamento [...])» 7. Già nel Tractatus Wittgenstein aveva affermato che «La tautologia segue da tutte le proposizioni: essa dice nulla» 8, volendo con ciò sot- tolineare il fatto che ogni proposizione dice, rappresenta qualcosa solo in quanto in primo luogo è una tautologia, ossia ‘dice nulla’, e tale tautologicità della proposizione è ciò che la proposizione ‘mostra’ in ciò che dice. Secondo Wittgenstein il carattere logico della proposizio- ne in quanto immagine 9 è dato dal suo essere ‘rappresentazione’ di qualcosa, ossia dal suo rinviare a qualcosa d’altro da sé. In questo con- siste, sempre secondo Wittgenstein, la «fondamentalità» della logica, giacché «se segno e designato non fossero identici rispetto al loro pie- no contenuto logico, allora vi dovrebbe essere qualcosa d’ancora più fondamentale che la logica» 10. E tuttavia Wittgenstein si rende con- to che «Nella proposizione qualcosa dev’essere identico al suo signi- ficato, ma la proposizione non può essere identica al suo significato, dunque in essa qualcosa dev’essere non identico al suo significato» 11. Questo qualcosa di ‘non-identico’, vale a dire di differente, tra la proposizione, o l’immagine, e il qualcosa che viene rappresentato o detto, è ciò che esse mostrano o ‘presentano’. Tale presentazione, nel suo costituire la condizione interna al rappresentato, è anche ciò che dà a quest’ultimo il suo carattere di unicità, ossia di individualità, che sfugge a ogni previsione logica, vale a dire a ogni identificazione nel già-saputo; ciò che fa, in definitiva, del rappresentato qualcosa di non-previsto e di non-saputo, qualcosa che nell’opera d’arte trova il suo luogo esemplare. E, se la logica «è prima del Come, non del Che cosa» 12, allora «Il miracolo per l’arte è che il mondo v’è, che v’è ciò che v’è» 13. C’è dunque per Wittgenstein qualcosa di più fondamentale della logica 14. La rappresentazione logica infatti implica qualcosa che si mostra, che si manifesta e nel manifestarsi resta ‘altro’ dalla visibilità della rappresentazione stessa. Così, nel presentare se stessa, l’imma- gine manifesta l’altro del visibile, del rappresentabile: quell’altro che si rivela nel visibile, nascondendosi a esso. Se questo è il tratto carat- terizzante l’icona, allora possiamo affermare che le riflessioni di Witt- genstein sull’immagine si riferiscono non all’immagine come ‘copia’ della realtà, bensì all’immagine intesa appunto come ‘icona’. Non a caso, se per Wittgenstein il silenzio, sul cui tema si ‘chiude’ il Tracta- tus, non può dirsi, giacché esso mostra sé, è proprio l’icona che ha a che fare con l’irrappresentabile, con ciò che resta sempre altro rispet- to a ogni determinazione logica e rappresentativa. Ciò che nell’opera d’arte ‘si presenta’ sfugge alla nostra cono- 9  scenza e alla rappresentazione. Non è stata l’arte ‘astratta’ a mettere per prima in opera la ‘presentabilità’ del pittorico di contro alla sua ‘rappresentabilità’, dal momento che il rapporto tra presentazione e rappresentazione appartiene all’essenza stessa dell’immagine. È pro- prio della natura dell’immagine infatti il suo presentarsi sempre chiu- sa e insieme aperta, opaca e insieme trasparente, vicina e insieme lon- tana: nell’offrirsi all’occhio, essa cattura il nostro sguardo. È necessa- rio tornare, al di qua del visibile rappresentato, alle condizioni stes- se dello sguardo, della presentazione. È questo il non-sapere che l’immagine manifesta, e tuttavia tale non-sapere non è una condizio- ne privativa, una mancanza, ma piuttosto una condizione positiva, come positivo è il ‘Niente’ dei quadri suprematisti di Malevicˇ. Si trat- ta dell’esigenza di qualcosa che costituisce l’altro del visibile, il suo al-di-là e che non va pensato come l’Idea platonica, dal momento che questo altro del visibile è nel visibile stesso. Così l’iconoclastia del Quadrato bianco di Malevicˇ annuncia non la fine dell’arte, ma ciò che l’arte deve essere, per essere tale, arte appunto. Nell’opera d’arte qualcosa è rappresentato e si offre alla vista, ma qualche altra cosa nello stesso tempo ci guarda, ci ri-guarda. Ciò si- gnifica che la visione si divide, si lacera, nel suo stesso interno, tra vedere e guardare, tra rappresentazione e presentazione. Nella visibi- lità del quadro è in opera qualcosa che non si lascia cogliere e che, come l’oblio, resta sempre altro rispetto a ciò che possiamo ricorda- re. È come se l’immagine fosse nello stesso tempo rappresentazione di ciò che ricordiamo e presentazione di ciò che abbiamo dimentica- to; per questo nell’immagine la rappresentazione deve essere pensa- ta sempre con la sua opacità. In particolare nell’icona cogliamo l’assenza di ogni immagine, in- tesa come rappresentazione logica: è questa l’ ‘astrazione’ dell’icona, astrazione come sarà intesa, teorizzata e messa in opera da tanta par- te della pittura del Novecento. Quello che l’icona mostra non è di- scorsivamente esprimibile e, se essa può far valere la propria impre- scindibile implicazione di senso di contro alla critica iconoclastica, è perché mostra l’inesprimibile in quanto inesprimibile. È proprio que- sta paradossalità dell’icona a permettere di superare l’iconoclastia, per la quale non può che porsi l’alternativa schiacciante tra un asso- luto realismo e un assoluto silenzio. L’icona è la «porta regale», come voleva Florenskij, attraverso la quale si manifesta l’invisibile e si tra- sfigura il visibile: in essa non c’è né imitazione, né rappresentazione, ma comunicazione tra questo e l’altro mondo. Così nell’icona la di- mensione epifanica finisce per coincidere con la sua dimensione apo- fatica. Da questo punto di vista si può dire che i problemi posti dal- l’icona siano gli stessi problemi che si ritroveranno nella contempo- ranea problematica dell’‘astrazione’. 10  L’arte astratta fa appello all’occhio spirituale, ossia allo sguardo, e ciò comporta il rifiuto della tradizionale distinzione soggetto-ogget- to, dal momento che l’oggetto è in tale prospettiva un soggetto che ci cattura proprio mentre lo guardiamo. Già Kandinskij con la nozio- ne di ‘composizione’ intende superare sia gli stati d’animo del sogget- to che l’oggetto come fenomeno naturale, per dare luogo a una pit- tura «iuxta propria principia», nella quale lo stesso limite estremo, la tela bianca o il silenzio, non significhi la ‘morte dell’arte’, ma la ra- dicale ‘presentazione’ di quella possibilità dalla quale ogni arte pren- de le mosse: l’essenza o, per dirla con Heidegger, l’origine dell’arte stessa. In Kandinskij l’astrattismo non è vuoto decorativismo. Al con- trario, l’astrattezza del segno, la sua non-rappresentatività, è la mani- festazione della sua «risonanza interiore», ossia della sua «spiritua- lità». La concezione dell’arte di Kandinskij è intessuta della connes- sione di interiorità e astrazione, e una componente essenziale di tale astrazione è il «misticismo». Già la mistica tedesca medievale affer- mava, con Meister Eckart, che, come Dio agisce al di là del mondo dell’essere, così l’anima, che è in grado di rappresentarsi le cose che non sono presenti, opera nel non-essere; un’analoga operazione com- pie il pittore astratto, che nientifica il mondo naturale delle cose, dando vita a un mondo di entità non-oggettive, inesistenti e tuttavia reali. Così nel principio di Kandinskij della «necessità interiore» si riflette la natura mistica del procedimento astratto di costruzione di un’opera che viene sottratta alla dipendenza delle cose esistenti. Que- sto rimando a un agire interiore dà luogo a un non-oggetto che, ana- logamente a quanto avviene nella mistica, mostra un diverso modo d’essere delle cose rispetto a quello della loro forma reale. L’eman- cipazione da qualsiasi dipendenza diretta dalla natura, della quale parla Kandinskij, è la riduzione delle cose naturali al non-essere. Di conseguenza, la necessità interiore di Kandinskij, che costituisce il tratto essenziale della sua pittura astratta, si pone come ‘altro’ rispet- to al mondo delle cose, e quest’ultimo trova in essa la sua unità e il suo senso. Del resto per Kandinskij, come per Wittgenstein, il misticismo riguarda «Non come il mondo è [...], ma che esso è» 15; esso consiste nel «Sentire il mondo quale tutto limitato» 16. Ciò significa dunque che la totalità del visibile ha un limite: lo ‘sguardo’ delle cose, ossia la loro spiritualità. ‘Astrazione’, d’altro canto, è proprio questo visi- bile limitato dal manifestarsi in esso di ciò che visibile non è: è sen- tire il non-visibile nel visibile, è cogliere la differenza nell’identità. Nell’astrattismo il segno mostra se stesso, nel senso che non riman- da all’altro fuori di sé, all’oggetto, ma all’altro che è nel segno senza essere tuttavia esso stesso segno. Così l’astrattismo rifiuta il significato 11  del segno e nello stesso tempo ne esalta il senso, che si mostra nel segno ritraendosi da esso. Non c’è dunque alcun contenuto, alcun significato manifesto dell’immagine, ma questa è l’espressione di un «contenuto interiore»: è questo a rendere il segno ‘astratto’, proprio nel suo presentarsi come ‘evento’. In definitiva, se il cubismo ha in- franto la totalità, lasciando solo frammenti, la composizione di Kan- dinskij mira non a ricomporre tale totalità, bensì a ‘presentare’ il sen- so, facendo risuonare il «contenuto interiore» del frammento stesso. Se lo ‘spirituale nell’arte’ di Kandinskij, come il suo concetto di composizione, è interno al problema dell’icona, altrettanto lo è il «mondo senza oggetto» del suprematismo di Malevicˇ. L’opera su- prematista infatti ha un’intenzione iconica: non esprime una perdita, ma una presenza, la presenza dell’‘altrimenti che essere’. Di qui quella dimensione apofatica, propria dell’icona in genere e del suprematismo di Malevicˇ in particolare, che, in opposizione ai presupposti dell’ico- noclastia – tesi a identificare la verità con la rappresentazione logico- discorsiva – mostra la verità che contiene in sé la propria negazione: la docta ignorantia è la testimonianza di tale inesprimibile coincidenza. Per questo nel colore suprematista, come nell’icona, non c’è alcuna ‘finzione’. L’essere di Malevicˇ non è l’essere secondo la necessità, ovvero secondo il concetto, ma è l’essere come evento: è qualcosa che si la- scia riconoscere solo al momento del suo apparire e, in quanto even- to, l’essere è l’altro, poiché non è soggetto ad alcuna identificazione: è l’essere così, che potrebbe anche non essere; in questo senso, affer- ma Malevicˇ, l’essere è il ‘Nulla’, ovvero il «che», lo spazio parados- sale proprio dell’opera d’arte, del tutto indipendente dal pensiero logico. Questo «che» è negazione del significato, inteso come signi- ficato logico, è negazione della rappresentazione, come rappresenta- zione logica e nello stesso tempo è affermazione del senso, in quan- to condizione dei significati possibili 17. Il «che» non può essere rico- nosciuto in relazione ad altro, ma solo per se stesso, e tuttavia por- ta in sé l’alterità, la differenza. Nel non significare nulla al di là di se stesso, l’evento – il «che» – è assolutamente singolare: accade sem- plicemente, si dà, si mostra, non come un mero oggetto per un sog- getto. Esso è il manifestarsi di qualcosa che, presentando se stessa, presenta l’altro, vale a dire si presenta come l’altro dell’essere oggetto di rappresentazione possibile. Per raggiungere infatti questo essere, che è il Nulla, Malevicˇ è uscito dal mondo degli oggetti e delle rap- presentazioni, aprendo uno spazio ‘assoluto’, in quanto spazio del- l’‘altro’. Così l’astrazione di Malevicˇ è il liberarsi dalla rappresentazio- ne per la presentazione: è questa l’autentica iconoclastia che rivela il profondo legame del suprematismo di Malevicˇ con l’icona. 12  E, se nel suo «mondo senza oggetto» il segno non è rappresenta- zione di qualcosa, ma rivela l’altro, ovvero il Nulla – in quanto Nulla di rappresentabile e di dicibile – questo Nulla non è da intendersi come nichilismo: non indica il silenzio, la fine della pittura, ma espri- me la consapevolezza che si deve continuare a dipingere perché il Nulla si riveli. È questa la radicalità della pittura di Malevicˇ. A differenza di quella di Malevicˇ, l’opera di Mondrian presenta uno spazio la cui assolutezza assume un preciso significato: tutto ciò che è, è perché si dà solo spazialmente. Per questo in Mondrian il se- gno non nasconde e in esso non ha luogo alcun ‘ritrarsi’; al contra- rio, nel segno si mostra l’essenza, l’Idea, e non a caso egli definisce l’astrattismo come la sola «arte concreta». In definitiva: nella pittura di Mondrian non si manifesta alcun ‘altro’, né alcun «contenuto in- teriore»; essa si risolve totalmente nella superficie del quadro, ossia in un piano assolutamente bidimensionale, nel quale non c’è alcuna fin- zione di profondità, ma ci sono soltanto linee in rapporto ortogonale che, tautologicamente, ‘dicono se stesse’. Così, se la ‘composizione’ di Mondrian è volta a ricostituire la totalità, tale ricomposizione si dà proprio e solo all’interno della rappresentazione pittorica, rappresen- tazione ‘assoluta’, in quanto indipendente da qualsiasi riferimento ad altro da sé. L’arte di Klee, pur interrogandosi su problemi non del tutto dis- simili, muove in direzione opposta rispetto a quella di Mondrian. Se infatti quest’ultimo vuole abolire l’elemento soggettivo – definito «tragico» – in nome dell’oggettività, Klee invece indaga proprio la presenza del mondo nel soggetto. L’oggettività di Mondrian è il ri- fiuto del mondo, in quanto particolarità e contingenza; Klee, al con- trario, non cerca una realtà più vera di quella sensibile, non cerca cioè una realtà fissa e immutabile, retta da leggi eterne, fuori dalla storia. Ciò a cui tende l’opera di Klee è ‘frugare’ nel profondo, nel- la vita sotterranea, immergendosi nel divenire delle cose stesse, nel- la genesi dei mondi possibili. Il compito dell’artista è infatti, a suo giudizio, quello di ritornare sulla creazione, portando avanti e tentan- do le vie di realtà possibili. Klee, in definitiva, non vede nel mondo qualcosa di già-concluso, ma ne ripercorre la genesi, e tale genesi si riferisce al sorgere della realtà nella percezione e quindi al costituirsi dell’essere in significa- to. I presupposti di tutto ciò vanno rintracciati nel fatto che è pro- prio sul piano della percezione che il mondo non si configura come l’insieme delle cose già date, ma come un continuo generarsi. Così l’immagine di Klee «richiama alla memoria» 18 possibilità diverse, so- miglianze e dissomiglianze, e queste trovano la loro ragione sul pia- 13  no dell’agire del pittore, che non prende le mosse da una logica pre- fissata, ma genera continuamente forme via via che procede, muoven- dosi appunto tra somiglianze e differenze. I processi di formazione di Klee sono questa sorta di «somiglianze di famiglia» – ancora una vol- ta nell’accezione wittgensteiniana – e, in quanto tali, escludono la de- finitività di ogni forma. Non a caso nell’opera di Klee la genesi dei mondi possibili riguarda l’essenza stessa della pittura: si tratta di mo- strare l’apparire di qualcosa che nessuna logica ha pre-visto, qualcosa che viene all’esistenza, apportando un «aumento di essere» 19 rispetto a tutte quelle altre possibilità che comunque sono presenti nel qua- dro come possibilità simultanee. Klee ha disvelato così l’essenza dell’opera d’arte: quest’ultima non è la rappresentazione di un fatto del mondo, ma è un evento nel qua- le si manifesta la possibilità di molteplici determinazioni del mondo, senza che tale possibilità sia riconducibile ad alcun principio logico di identità e di non-contraddizione. A ben vedere dunque tale evento, che l’opera costituisce, altro non è che il darsi del contingente, del ciò che è così ma poteva essere diversamente, in quanto condizione della stessa necessità logica che regola ciò che nel mondo è già-dato; si trat- ta di quel «che» – che si dia questo mondo e non un altro – il qua- le, come afferma Wittgenstein, precede quella logica che presiede al «come» del mondo. Si tratta insomma di quel senso che è la condi- zione dei tanti significati possibili: l’opera è la presentazione del darsi di questo senso, e non la rappresentazione del suo configurarsi come significato dato, di un senso che si può dunque soltanto sentire, stan- do al suo interno e non contemplare dall’esterno. Per questo la pit- tura di Klee ha il suo luogo d’elezione nel cuore stesso della creazio- ne, lì dove hanno origine tutte le cose. 1 Sul problema dell’immagine e del segno in genere nella riflessione filosofica medievale, si veda A. Maierù, «Signum» dans la culture médiévale, in “Miscellanea Mediaevalia”, Veröf- fentlichungen des Thomas-instituts der Universität zu Koln, Walter de Gruyter, Berlin – New York 1981; Id., Signum negli scritti filosofici e teologici fra XIII e XIV secolo, di imminen- te pubblicazione. 2 L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino 1968, § 518 (ed. or. Philoso- phische Untersuchungen, Blackwell, Oxford 1953). 3 Ivi, § 522. 4 Ivi, § 523. 5 Ivi, § 531. 6 Ivi, § 532. 7 Ivi, § 524. 8 L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, Einaudi, Torino 1968, 5.142 (ed. or. Tractatus logico-philosophicus, London 1922). 9 Nel Tractatus infatti i due termini si equivalgono, dal momento che «La proposizione è un’immagine della realtà» (ivi, 4.01). 10 Ivi, p. 87. 14  11 Ivi, p. 103. 12 Ivi, 5.552. 13 Ivi, p. 189. 14 Vedi su questo G. Di Giacomo, Dalla logica all’estetica. Un saggio intorno a Witt- genstein, Pratiche Editrice, Parma 1989. 15 L. Wittgenstein, Tractatus..., cit., 6.44. 16 Ivi, 6.45. 17 Si veda in proposito E. Garroni, Estetica. Uno sguardo-attraverso, Garzanti, Milano 1992, in part. pp. 245-270. 18 L’espressione è usata nel senso del Wittgenstein delle Ricerche filosofiche, §§ 89,90. 19 H. G. Gadamer, Verità e metodo, Bompiani, Milano 1983, pp. 168-196 (ed. or. Wahr- heit und Methode, J. C. B. Mohr (Paul Siebeck), Tübingen 1972).Giuseppe Di Giacomo. Giacomo. Keywords: l’inspiegabile, aura; ‘impiegatura como spiegatura dell’inspiegabile” sensibile, imagine, icona, segno segnante segnato presentazione rappresentazione contenente contenuto formante formato, Tintoretto, Sartre, Venezia. -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Giacomo: impiegatura come spiegatura dell’inspiegabile” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51758320754/in/dateposted-public/

 

Grice e Giametta – il volo d’Icaro e l’implicatura di Sanctis – filosofia italiana – Luigi Speranza (Frattamaggiore). Filosofo.  Grice: “Giammetta is a good’un, but you gotta be an Italian to appreciate him fully, or at least have gone to Clifton, as I did!” --  Grice: Giametta’s philosophy is full of Italianateness: ‘il volo d’Icaro,’ and then there’s his ‘Croceian heterodoxies,’ and most Italianate of all, the Dantean reference to Nisso, Chiron, and Folo in the “Inferno”! Sublime!” Cura Nietzsche a Firenze. Ha scritto saggi di critica "eterodossa" su Croce. Cura Cesare. È anche romanziere, estraneo a scuole o correnti, con storie dalla forte valenza filosofica e morale;  attitudine stilistica: la prosa di Giametta pare quella di un centauro: sorprendente incontro di letteratura e filosofia.  Nella "Trilogia dell'essenzialismo" (composta da “Il Bue squartato” --  L'oro prezioso dell'essere e Cortocircuiti), elabora un proprio sistema di filosofia erede del naturalismo rinascimentale. L’Essenzialismo è una nuova filosofia, fondata esclusivamente sulla natura, intesa nei suoi due aspetti, sia come “naturans” (cf. Grice, implicans, implicaturus)  sia come “naturata” (cf. Grice implicatum, implicatura, implicaturus, implicata). Grice: “The problem: ‘is ‘naturare’ a good verb?’ --. L’essenzialismo descrive la condizione umana come determinata dalla combinazione di due elementi eterogenei: dall’essenza di tutto ciò che esiste, che è divina, e dalle condizioni di esistenza, che sono spesso fin troppo diaboliche, a cui sono sottoposte tutte le creature. Il con-temperamento di questi due elementi (essenza ed esistenza), diverso in ogni individuo, spiega le ragioni per cui si afferma o si nega la vita, si è ottimisti o pessimisti...".  Alter opera: “Oltre il nichilismo” (Tempi moderni, Napoli); “Poeta e filosofo” (Garzanti, Milano); Palomar, Han, Candaule e altri. Scritti di critica letteraria, Palomar, Bari Nietzsche e i suoi interpreti. – cfr. ‘Grice interprete di se stesso” – “Erminio; o, della fede. Dialogo con Nietzsche di un suo interprete. Spirali, Milano); “Saggi nietzschiani” (La Città del Sole, Napoli); “Croce” (Bibliopolis, Napoli); “Il mondo” (Palomar, Bari); “Madonna con bambina e altri racconti morali, BUR, Milano); “Commento allo Zarathustra” Mondadori Bruno, Milano); “Filosofia come dinamita” BUR, Milano), “Croce, il pazzo” (La Città del Sole, Napoli); “Eterodossie crociane” (Bibliopolis, Napoli); “La caduta di Icaro” (Il Prato, Padova); Introduzione a Nietzsche. Opera per opera, BUR, Milano, Il bue squartato e altri macelli. La dolce filosofia, Mursia, Milano. L'oro dell'essere. Saggi filosofici, Mursia, Milano. Cortocircuito e implicatura -- Mursia, Milano. Adelphoe, Unicopli, Milano. Il dio lontano, Castelvecchi, Roma); “Tre centauri, Saletta dell'Uva, Napoli. Filosofi, Saletta dell'Uva, Napoli. Una vacanza attiva, Olio Officina, Milano. Grandi problemi risolti in piccoli spazi. Codicillo dell'essenzialismo; Bompiani, Milano. Colli, Montinari e Nietzsche, BookTime, Milano. Capricci napoletani. Pagine di diario (Marco Lanterna), OlioOfficina, Milano; “Il colpo di timpano, Saletta dell'Uva, Napoli); “Dio impassibile” (Babbomorto, Imola. Contromano, BookTime, Milano. Il bue squartato e altri macelli, Mursia, Milano.  La passione della conoscenza. Pensa Multimedia, Lecce,. Marco Lanterna, Le grandi oscurità della filosofia risolte in lampeggianti parole. Marco Lanterna, Contributo alla critica di Sossio (in Giametta, Capricci napoletani, OlioOfficina, Milano ).  Friedrich Nietzsche Arthur Schopenhauer Giorgio Colli Mazzino Montinari.  DE SANCTIS, Francesco. - Nacque il 28 marzo 1817 a Morra Irpina (oggi Morra De Sanctis, in prov. di Avellino), al centro di. una zona che fino a dieci anni prima era stata tutta feudale e di cui gli antichi feudatari ancora sfruttavano la scarsa ricchezza boschiva, mentre il potere era gestito direttamente dal clero e dai piccoli o medi proprietari terrieri, anch'essi strettamente legati alla Chiesa sul piano economico -, sociale e Politico. In questo ambiente il D. trascorse solo i primi nove anni, ma esso costituì sempre per lui un punto di riferimento, perché sempre egli lo ebbe presente come "polo reale" e, insieme, come "polo negativo" della storia: la realtà da cui partire e rispetto alla quale operare per tutte le conquiste del "progresso" (morale, culturale, civile).  La famiglia De Sanctis apparteneva a quel ceto di piccoli proprietari del Sud che produceva i preti, gli avvocati e i pochi medici. Avvocato era il padre del D., Alessandro (1787-1874), che però viveva del reddito della sua piccola proprietà, prima ampliata attraverso un "buon matrimonio" locale con Maria Agnese Manzi (1785-1847), poi progressivamente sempre più dissestata; preti i due zii Carlo e Giuseppe; medico lo zio Pietro (ed anche per costui la qualifica professionale servì soltanto a sostenere l'orgoglio del ceto dei "galantuomini"). Come molti esponenti del "galantomismo" meridionale, don Giuseppe e Pietro De Sanctis avevano aderito alla carboneria (in funzione patriottica e antifeudale): dopo aver partecipato ai moti carbonari del 1820-21, vissero in esilio per dieci anni, serbando intatto lo spirito antiborbonico, ma non il patrimonio. L'altro prete, invece, don Carlo, fece fortuna in Napoli come titolare di una stimata "scuola di lettere" (un ginnasio privato).  Nel 1826 il D. fu trasferito come ospite ed allievo presso lo zio Carlo.  Dai "ricordi" del D. (La giovinezza) si può ricavare l'elenco delle discipline da lui studiate, con fortissimo impegno, per tutta la durata del corso quinquennale tenuto dallo zio ("Grammatica, Rettorica, Poetica, Storia, Cronologia, Mitologia, Antichità greche e romane" e inoltre "l'Aritmetica, la Storia Sacra, il Disegno"), nonché una serie di notazioni sul metodo d'insegnamento tutt'altro che critico e innovativo ("Un grande esercizio di mernoria era in quella scuola, dovendo ficcarsi in mente i versetti del Portoreale, la grammatica di Soave, le Storie di Goldsmith, la Gerusalemme del Tasso, le ariette del Metastasio; tutti i sabati si recitavano centinaia di versi latini a memoria").  Poiché i cinque anni di studi "letterari" avevano un completamento canonico in due anni di studi "filosofici", nel 1831 fu iscritto alla scuola di don Lorenzo Fazzini, matematico e fisico illustre, di dichiarate convinzioni sensistiche. Per due anni, perciò, egli visse immerso nello studio di "Locke, Condillac, Tracy, Elvezio, Bonnet, Lamettrie", o del Genovesi, ma (e questo è un tratto molto importante, destinato a rimanere come atteggiamento mentale) nell'ottica "moderata" che era propria sia dell'ambiente familiare sia del maestro ("Il professore diceva che il sensismo en una cosa buona sino a Condillac, ma non bisognava andare sino a Lamettrie e ad Elvezio .... Voltaire, Diderot, Rousseau mi parevano bestemmiatori, avevo quasi paura di leggerli"). Lo stesso amalgama di aperture progressiste e di scarsa chiarezza ideologica fu nell'esperienza successiva (quella degli studi giuridici), in un'altra scuola privata, dove (con l'abate Garzia) il D. imparò ad apprezzare soprattutto i codici napoleonici, aprendosi così alla dialettica giuridica liberale. Questi studi avrebbero dovuto rappresentare il punto d'arrivo di tutto il lavoro precedente (poiché, scartata una primitiva ipotesi di carriera ecclesiastica, si pensava di far di lui un avvocato), ma a determinare una diversa scelta di vita intervenne una grave malattia dello "zio Carlo", in seguito alla quale il peso della scuola cadde sulle fragili spalle del D. diciottenne, ed egli divenne fonte di sostegno economico per la sua numerosa famiglia (dopo la morte della primogenita Genoviefa, restavano ben cinque tra fratelli e sorelle, che sempre in qualche modo gravarono su di lui, con molte preoccupazioni e ben poche gratificazioni affettive o sociali).  Un altro avvenimento, questo di qualche anno prima (1833), aveva preparato nel D. tale mutamento di interessi e di scelte: il suo ingresso nella "scuola di lingua italiana" del marchese Basilio Puoti: di un "maestro", cioè, che rappresentava in quel momento uno dei punti di riferimento più vivi della cultura napoletana e che presto prese a stimarlo, ad amarlo e a guidarlo. Ed è in ambito puotiano che nascono i primi scritti a stampa del D.: la sua volgarizzazione di un brano dell'Eudemia di Giano Nicio Eritreo (Discorso contro gl'ippocriti), apparsa nel 1835 sul Tesoretto, e la Dedicatoria (sua e del cugino Giovannino) al Puoti dell'edizione (da entrambi curata) del Volgarizzamento delle Vite de' santi Padri di D. Cavalca e del Prato spirituale di Feo Belcari (1836).  Non è da qui però che si può ricavare l'immagine complessiva di ciò che egli era alla fine del suo corso ufficiale di studi e all'inizio del suo primo magistero.  Certo, la competenza grammaticale e testuale e la sensibilità alle cose della lingua (alla lingua come sistema formale in cui penetrare con il rigore dell'intelligenza, della scienza e del gusto) erano allora e restarono per sempre una componente molto importante del D. studioso e maestro (questo va ribadito, anche per opporsi a una troppo lunga sottovalutazione critica dell'eredità puristica attiva all'interno della metodologia critica desanctisiana); ma dalla sua precedente esperienza culturale egli aveva ricavato anche un complessivo eclettismo nozionistico e ideologico, un evidente taglio "settecentesco" nell'impostazione del sapere e in più una vastissima pratica di letture, che egli sottolinea con forza nella Giovinezza e che si riverbera in tutta la sua opera. Ricostruendo dai suoi "ricordi", risulta che il D., diciottenne, aveva letto con profondo coinvolgimento (oltre a tanti latini, greci, filosofi, storici e giureconsulti) un'incredibile quantità di classici italiani maggiori e minori, dai trecentisti a Metastasio, e poi Parini, Alfieri, Verri, Monti, Foscolo, Manzoni, Berchet, Leopardi, e Fénelon e Voltaire, Young e Scott (ma la zona "moderna" ed "europea" andava rapidamente allargandosi: a poco più di venti anni, il suo patrimonio di lettura spaziava con sicurezza da Shakespeare a Richardson, da Milton e Klopstock a Chateaubriand, Lamartine e Hugo).  La professione dell'insegnamento diventò per il D. definitiva (grazie all'intervento del marchese Puoti) nel 1838-39, più o meno contemporaneamente nel settore della scuola pubblica (prima alla scuola dei sottufficiali; poi, dal 1841, al Collegio militare della Nunziatella, prestigiosa accademia militare borbonica) e in quello privato (con la "scuola di Vico Bisi", che il Puoti aprì per lui, affidandogli all'inizio i suoi allievi più giovani, poi di fatto - a grado a grado - la sua stessa funzione docente). A quest'ultima esperienza (di cui restano importanti documenti nei Quaderni discuola e una vasta rievocazione nella Giovinezza) si attribuisce, per tradizione ormai consolidata, la definizione di "prima scuola" del De Sanctis. Ma sarebbe forse più giusto comprendere nella definizione l'esperienza didattica complessiva del decennio 1838-48: il decennio che consacrò il successo indiscusso del D. maestro, il quale intanto (nelle diverse fasi della sua frenetica attività) metteva a punto il suo metodo e il suo atteggiamento critico, mentre andava costruendo intorno a sé rapporti affettivi e intellettuali che sarebbero rimasti centrali in tutta la sua vita, e mentre andava maturando fondamentali scelte ideologiche, filosofiche, politiche.  I numerosi Quaderni di scuola, che documentano il primo insegnamento desanctisiano, furono in massima parte scritti dagli alunni sotto dettatura del maestro e finalizzati a raccogliere il "succo" dei diversi corsi di lezioni, rispetto ai quali si configuravano come veri e propri libri di testo costruiti in parallelo con l'esperienza scolastica. Si tratta, perciò, di una testimonianza ampia e diretta del suo progressivo evolversi (a stretto contatto con la cultura del proprio tempo) dal purismo e dall'illuminismo moderato fino all'hegelismo, attraverso l'eclettismo, il neocattolicesimo, la partecipazione alla temperie vichiana e a quella dello storicismo romantico. In vista della loro funzione manualistica, i quaderni sono divisi secondo le "materie d'insegnamento" della scuola (alcune presenti fin dall'inizio, altre introdotte successivamente, come lo stesso D. testimonia nella Giovinezza). La grammatica fu l'insegnamento originario della scuola, ma i quaderni "grammaticali" più importanti che ci restano appartengono agli ultimi anni e si configurano perciò come approdo della ricerca desanctisiana in materia (con l'acquisizione dello storicismo romantico, del giobertismo, di Hegel). I più antichi tra i quaderni in nostro possesso sono quelli di Lingua e stile (1840-41), dove, dopo una serie di precetti di radice puristico-illuministica (con forte incidenza della "grande Enciclopedia" e in particolare di D'Alembert), troviamo documentato il primo impatto con il pensiero romantico tedesco (in particolare con F. Schlegel) e tracciata la prima sintesi di storia della letteratura italiana ("Sviluppo della letteratura italiana"). Questa ha già alcune caratteristiche che resteranno immutate nel D. maggiore (si muove in ambito postilluministico, con grande attenzione all'Europa e al presente letterario, ma presenta come modello privilegiato di scrittore "contemporaneo" il Manzoni, con un'accentuazione del punto di vista neocattolico, che andrà attenuandosi in seguito). Una lunga storia della poesia è nei quaderni dedicati alla Lirica (1841-42), in cui l'approdo è rappresentato dal Leopardi; i quaderni sul Genere narrativo (1842-43) hanno le loro fonti in Villemain, Sismondi, Voltaire, F. e A. W. Schlegel. Un salto di qualità notevolissimo si avverte nei corsi del 1843-44 (Estetica) e del 1844-45 (Estetica applicata), in cui l'esigenza di definire teoricamente i problemi dell'arte trova un sicuro sostegno nelle teorie estetiche di Gioberti, mentre Hegel fa la sua apparizione nel corso di Storia della critica (1845-46), che introduce una più stimolante rivisitazione della lirica. Nei due anni successivi egli presenta ai suoi allievi l'Estetica di Hegel nella traduzione francese di Ch. Bénard. Alla luce dei nuovi principî affronta inoltre l'esame della Letteratura drammatica (1846-47), soffermandosi a lungo sulle opere di Shakespeare. Dell'ultimo anno di scuola (1847-48) ci resta anche un quadernetto di Storia e filosofia della storia, che ha come punti di riferimento costanti Vico, Sismondi, Hegel e che aiuta a chiarire il senso dei "compendi" (autografi) della Storia d'Inghilterra di Hume e della Storia civile del Regno di Napoli di Giannone. Questo blocco di materiali storiografici conferma il livello criticamente e ideologicamente molto avanzato della ricerca desanctisiana alla fine della "prima scuola", attestando una visione laica della storia, un rigoroso rifiuto di ogni astrattismo e una forte rivendicazione della "concretezza" in ogni ambito d'analisi, nonché una chiara assunzione di metodo hegeliano in direzione progressista.Negli entourages di Puoti, della Nunziatella, della sua stessa scuola (e delle altre che dopo il 1830 fiorirono a Napoli, inaugurando il clima "filosofico" vichiano-hegeliano), il D. aveva finito per trovarsi al centro dell'intellettualità progressista napoletana, non si sa fino a che punto compromettendosi con le frange estremistiche di essa. Fatto sta che molti giovani della sua scuola si schierarono a combattere sulle barricate del maggio 1848 (dove fu ucciso quello che era certamente il più colto e il più ideologizzato fra tutti: Luigi La Vista) e che dopo quella data il D. fu in qualche modo implicato in una setta segreta rivoluzionaria di ascendenza musoliniana, l'Unità italiana, e in un attentato per il quale, tra gli altri, furono condannati a morte L. Settembrini e C. Poerio ("Si facevano i più matti deliri: porre una mina sotto Palazzo Reale pareva un gioco ... Fu la prima volta e sola che fui in convegni segreti"). "Espulso", perciò, dalla Nunziatella e da "ogni altra scuola anche privata" (come recitano i rapporti della polizia borbonica, che cominciava ad interessarsi di lui), nel 1849 il D. si rifugiò in Calabria presso un noto e attivo "patriota", il barone Francesco Guzolini, in casa del quale fu arrestato il 3 dic. 1850 con l'accusa di essere "uno dei principali agenti" della "setta diretta da G. Mazzini e da Ledru-Rollin". Trasferito a Napoli e rinchiuso in Castel dell'Ovo, subì due anni e mezzo di "carcere duro", e fu infine giudicato politicamente molto pericoloso ("attendibilissimo") e perciò bandito dal Regno e imbarcato per gli Stati Uniti (3 ag. 1853). 1 suoi allievi-amici napoletani (in particolare A.C. De Meis e D. Marvasi, a quel tempo già in esilio) lo aiutarono a sbarcare a Malta, per raggiungere il Piemonte, inserendosi nell'allora foltissima schiera degli illustri esuli politici ivi rifugiatisi (tra i meridionali, sono da ricordare: B. Spaventa, R. Bonghi, P. S. Mancini, S. Tommasi, M. d'Ayala, G. Nicotera, E. Cosenz).  Gli scritti del periodo calabrese e della prigionia rappresentano la punta massima della "spinta a sinistra" che segnò il pensiero desanctisiano a partire dal 1848. In Calabria furono elaborati due saggi (Introduzione all'Epistolario di G. Leopardi e Sulle opere drammatiche di F. Schiller), in cui l'interpretazione dei testi esita in senso fortemente politico (sia Leopardi sia Schiller segnano la fine di un'epoca, quella dell'individualismo, dalla quale va nascendo un'epoca nuova - dell'"Umanità" - impegnata in senso sociale). In Calabria fu probabilmente impostato anche un dramma in prosa, il Torquato Tasso, terminato negli anni di prigionia (il modello più vicino è quello goethiano; il linguaggio è leopardiano; evidente è l'identificazione personale-politica dell'autore con l'intellettuale perseguitato). Negli stessi anni il D. studiò la lingua tedesca e se ne servì sia per tradurre il Manuale di una storia generale della poesia di K. Rosenkranz, sia per leggere in lingua originale la Logica di Hegel, che ridisegnò in una serie di Quadri sinottici (praticamente una sintesi completa dell'intera opera). Ma il testo più interessante elaborato in Castel dell'Ovo (nel 1850-51) è certamente La prigione: un carme di 256 endecasillabi sciolti (l'unica prova poetica, se si esclude qualche poesia d'occasione), che rappresenta il punto massimo di "giacobinismo" realizzato dal D., con il rifiuto e la denuncia di ogni metafisica (un'inversione fortissima rispetto al neocattolicesimo degli anni della "prima scuola"), e con una proposta politico-ideologica chiaramente ispirata all'interpretazione "di sinistra" della filosofia di Hegel. Fortissima è anche la svolta di atteggiamento nei confronti del Leopardi: all'immagine sentimentalistica e scettica divulgata nel clima del primo romanticismo napoletano si sostituisce un'immagine combattiva e materialistica del poeta di Recanati (che offre, del resto, il modello stilistico e strutturale all'intero carme. costruito come storia metaforica del pensiero umano, in rivolta per la libertà, contro la tirannia, l'oscurantismo, l'ingiustizia sociale).  A Torino il D. rimase dal settembre 1853 al marzo 1856, in un vitale rapporto d'amicizia con De Meis e Marvasi e con B. Spaventa, ma molto isolato rispetto al potere politico e culturale. Il suo unico lavoro fisso fu, allora, l'insegnamento dell'italiano nell'istituto femminile della signora Eliott (dove si verificò un episodio d'innamoramento - per la giovanissima Teresa De Amicis - che riempirà d'illusioni e di malinconie gli anni successivi); ma ebbe anche alunni privati dal nome prestigioso (come Virgina Basco - futura destinataria del Viaggio elettorale -, Ainardo di Cavour, Luigi di Larissé). L'esperienza centrale del periodo torinese si realizzò, tuttavia, attraverso due corsi di "lezioni pubbliche" su Dante (1854 e 1855): conferenze organizzate dai suoi amici per soccorrerlo "nella dignitosa povertà dell'esilio" e che di fatto lo rivelarono alla cultura italiana.  Nel 1855 egli prese a collaborare alle appendici letterarie: sul Cimento di Torino pubblicò alcuni saggi fondamentali, vero e proprio punto d'arrivo della sua critica "militante". E allo stesso anno risale anche il primo episodio di giornalismo politico della sua vita: la pubblicazione, sul Diritto di Torino, di una serie di interventi contro il "murattismo" (cioè contro l'ipotesi di una sostituzione "diplomatica" della dinastia borbonica di Napoli con la discendenza di Gioacchino Murat), che rappresenta la prima fase di avvicinamento del D. alla monarchia sabauda (questa viene proposta come unico possibile strumento di unificazione della nazione, in un'ottica di "patriottismo costituzionale" cui, in seguito, egli resterà sempre sostanzialmente fedele).  Nel 1856, sempre per interessamento dei suoi compagni d'esilio, fu finalmente gratificato di un importante incarico pro- fessionale: l'insegnamento della letteratura italiana presso l'Istituto universitario politecnico federale di Zurigo, dove rimase fino al 1860. Gli anni di Zurigo furono anni di nostalgia e di isolamento (anni di réve, com'egli stesso diceva), ma produssero almeno due conseguenze molto importanti: l'elaborazione di lezioni che sarebbero rimaste come una pietra miliare della sua ricerca critica (soprattutto su Dante, Petrarca e la poesia cavalleresca) e il contatto con ambienti culturali e politici di vera e propria avanguardia in Europa (Wagner e Matilde Wesendonck, Moleschott, gli Herwegh, Burckhardt, Vischer, ecc.) che egli ebbe modo di conoscere e di valutare criticamente (per esempio, prendendo le distanze dall'irrazionalismo di Wagner e di Schopenhauer molto prima che le mode irrazionalistiche toccassero l'Italia, o cercando di capire i limiti concreti del ribellismo dei mazziniani quando Mazzini era ancora un mito in Italia).  Dei corsi danteschi di Torino non restano manoscritti, ma ciascuna lezione fu ricostruita su appunti di allievi (Marvasi, D'Ancona), in vista di una non mai realizzata pubblicazione in volume. Le conferenze torinesi (undici di argomento teorico, diciannove dedicate all'Inferno, cinque al Purgatorio) sviluppano presupposti romantico-hegeliani, con particolare riguardo ai problemi dell'"unità" e della "forma" del poema di Dante. Nell'esaltazione "passionale" dell'Inferno, emergono le grandi figure alla cui analisi è legata la fama popolare del D. dantista (Farinata, Francesca, Ugolino) e si afferma il taglio monografico che sarà proprio dei maggiori saggi desanctisiani. Semplificando la materia dei corsi, e prolungandola fino a percorrere tutta la Divina Commedia, il D. insegnò Dante a Zurigo dal 1856 al 1859 (anche di queste lezioni ci resta la ricostruzione da appunti). Da tale lavoro deriva tutto ciò che egli pubblicò successivamente su Dante e sul suo tempo (ivi compresi i capitoli della Storia, che ne tesaurizzano le idee-forza), ma i risultati metodologici più avanzati da lui raggiunti negli anni d'esilio sono testimoniati dai contemporanei scritti giornalistici (che furono poi pubblicati, a partire dal 1866, tra i Saggicritici). Il Pier delle Vigne (1855) è addirittura una lezione torinese trascritta, per LaNazione di Firenze, da A. D'Ancona: la celebre lettura del canto esalta i "grandi caratteri" e le "grandi passioni" dei personaggi e ne analizza le sfumature, le "situazioni", i contrasti; il saggio La Divina Commedia(versione di Lamennais), anch'esso del 1855, dichiara la fine dell'antico metodo retorico e il rifiuto del metodo "storico" di oscuola francese"; quello intitolato Carattere di Dante e sua utopia (1856) individua il "centro" della grandezza poetica di Dante nella sua "anima di fuoco" in cui "si riverbera l'esistenza in tutta la sua ampiezza". Il punto d'arrivo della ricerca zurighese (molto più problematica di quanto appare nelle lezioni) è suggerito nel saggio del 1857 Dell'argomento della Divina Commedia, che afferma da una parte il rifiuto del sistema e dall'altra la validità degli strumenti d'analisi hegeliani, a stretto contatto col testo letterario (un approdo, in sostanza, per il D. definitivo).  Negli scritti letterari d'argomento contemporaneo o d'occasione (destinati a giornali torinesi e anch'essi in massima parte raccolti poi nei Saggi), il D. esplicò, negli anni d'esilio, il suo impegno "militante", ma sempre a stretto contatto con i problemi di metodo critico che sono al centro dell'insegnamento dantesco. Il più esplicitamente politico di questi saggi è L'ebreo di Verona (febbraio 1855), che consacrò, a livello nazionale, la sua fama di polemista laico e liberale (l'autore del romanzo, il gesuita A. Bresciani, ignorando le conquiste del cattolicesimo manzoniano, ripropone la religione in funzione antiliberale e antiprogressista: il suo ruolo storico, dopo la sconfitta del '48, è "aggiungere i suoi colpi codardi alle mannaie del carnefice"). La militanza critica passa sempre attraverso una precisa idea (romantico-hegeliana o posthegeliana) della letteratura. In Satana e le Grazie (1855) essa è espressa con molta chiarezza: di fronte al poemetto di G. Prati "la fantasia rimane inerte: il cuore riman freddo", perché "in questo lavoro non vi è creazione e quindi non vi è fantasia ... Prati ha una viva immaginazione, e per questa facoltà è forse il primo poeta di second'ordine che sia oggi in Italia"; del resto, i suoi testi poetici hanno tutti i limiti e i difetti della "declamazione rettorica". E questa non è un difetto esclusivo degli scrittori moderati: essa è condannabile anche quando sia posta al servizio delle più ardite analisi politiche, come nella Beatrice Cenci di F. D. Guerrazzi (1855), avvolta nel "vecchio repertorio" delle "metafore" e dei "luoghi comuni". C'è un solo poeta italiano che abbia attinto i livelli della "grande poesia" nel mondo moderno, dice in un importantissimo saggio, e questo è Leopardi. Il saggio s'intitola Alla sua donna. Poesia di G. Leopardi ed è, probabilmente, lo scritto leopardiano più importante del D., che, con parametri schilleriani e byroniani, traccia qui una straordinaria immagine di poeta laico, interprete della civiltà contemporanea perché capace di farsi "critico e filosofo" e di far "scintillare" la poesia dalla "meditazione". Ma, a parte l'eccezione leopardiana, il clima del presente letterario fa temere un ritorno alla identificazione tra poesia e retorica (Sulla mitologia - Sermone di V. Monti, 1855). A questa pericolosa tendenza il D. oppone la difesa di Alfieri contro i critici francesi contemporanei (Veuillot e la Mirra, Giulio Janin, Janin e Alfieri, Vanin e la Mirra), ed evidentemente questa polemica ha un profondo retroterra politico: la rivalutazione della fase "eroica" del classicismo settecentesco, nella cultura "rivoluzionaria" dell'intera Europa. Perciò questa rivalutazione riguarda anche Foscolo (Giudizio del Gervinus sopra Alfieri e Foscolo e "Storia del secolo decimonono" di G. G. Gervinus, 1855) e la polemica colpisce anche un critico come A. de Lamartine ("Cours familier de littérature" par M. de Lamartine, 1857). Nello stesso ambito il modello di V. Hugo viene proposto come sostanzialmente positivo (Triboulet e "Le contemplazioni" di V. Hugo, 1856) ed è possibile perfino il recupero di un classico manierato come Racine, perché capace di creare dei grandi personaggi drammatici (La "Fedra" di Racine, 1856). In questo ambito, infine, si configura una delle prime, ma già precise professioni di "realismo" del D. critico (Saint-Marc Girardin, 1856): "Il sentimento astratto non è poesia, non è cosa vivente ... La poesia dee riprodurre la realtà "vivente" ... Il poeta dee rappresentarci un uomo vivo", perché questo, in quanto tale, "ègià un perfettissimo personaggio poetico".  La progressiva conquista di un punto di vista "realistico" con cui guardare al testo letterario è registrata dai ricchi appunti che ci restano (a cura di V. Imbriani) delle lezioni zurighesi sul Poema epico. Proprio in questa sede il D. usa per la prima volta il termine "realismo" (ancora nuovo nella critica francese più avanzata da cui lo deriva), mentre ribadisce il rifiuto del "sistema" hegeliano come strumento di critica letteraria e conferma la validità degli strumenti d'approccio al testo ricavabili dall'estetica hegeliana. Il messaggio filosofico più complessivo, nell'ultima fase del suo esilio e del suo vitale contatto con le avanguardie europee, fu affidato dal D. al dialogo Schopenhauer e Leopardi (1858). Anche questo testo ha una struttura leopardiana (ispirata alla provocatoria ironia delle Operette morali), ma s'interessa a Leopardi solo nell'ultima parte, dedicando molto spazio all'illustrazione del pensiero di Schopenhauer, indicato come il liquidatore di un'epoca (quella "dell'Ottantanove", "del Trenta", "del Quarantotto") che egli considera "un'illusione, o piuttosto ... una imbecillità generale". La filosofia di Schopenhauer è, perciò, "nemica della libertà, nemica dell'idee, nemica del progresso"; in politica, egli ripropone "lo Stato monarchico, la nobiltà, il clero, i privilegi", nega la libertà di stampa e odia Hegel come "corrompiteste" (la moda di Schopenhauer in Europa è, in sostanza, un grave sintomo di regresso storico: la sua tardiva riscoperta equivale a un'abiura di tutto il progressismo europeo). A prima vista, il rifiuto dell'ottimismo ideologico accosta Leopardi a Schopenhauer; ma, in realtà, c'è tra i due una vera e propria opposizione, e Leopardi è tanto interno alla fase "eroica" (progressista e rivoluzionaria) dell'umanità, quanto ad essa è estraneo e ostile Schopenhauer. La differenza non è solo nel "materialismo" di Leopardi (opposto allo "spiritualismo" di Schopenhauer) o nelle sue scelte di stile "inamabile" (mentre Schopenhauer si affida al fascino della retorica), ma anche e soprattutto nell'effetto di lettura che Leopardi produce come uomo e poeta veramente "grande" (egli "non crede al progresso, e te lo fa desiderare non crede alla libertà, e te la fa amare , è scettico, e ti fa credente").  Dopo le speranze e le delusioni della seconda guerra d'indipendenza, sulla scia dell'impresa dei Mille, il D. lasciò improvvisamente Zurigo e il politecnico e ritornò a Napoli, dove svolse un ruolo, probabilmente importante, nella mediazione che portò il "partito garibaldino" (e lo stesso Garibaldi) ad accettare il plebiscito "piemontese". Per nomina di Garibaldi, appunto in fase di preparazione del plebiscito annessionistico, fu governatore della provincia di Avellino e si mostrò attivissimo organizzatore del consenso politico, della guardia nazionale locale, della lotta al banditismo (che era già esploso violento in Alta Irpinia, recuperando antiche radici sanfediste). Subito dopo, fu direttore dell'Istruzione a Napoli e, in quindici giorni (tra l'ottobre e il novembre del 1860), tesaurizzando tutte le precedenti esperienze di riforme liberali degli studi (in particolare quella del 1848), impostò una vera e propria rifondazione della scuola napoletana. All'università chiamò ad insegnare illustri rappresentanti della cultura liberale (da Spaventa a Ranieri, a Bonghi, a Imbriani, a Villari, a Mancini); in sostituzione del liceo gesuitico istituì un ginnasio-liceo statale; per la formazione dei maestri elementari (sua grande preoccupazione di progressista ottocentesco) deliberò l'istituzione di scuole "normali" in tutte le province della luogotenenza (non senza ragione, il 1860 restò per sempre nei suoi ricordi come il periodo eroico della sua vita).  Eletto deputato al primo Parlamento nazionale unitario, fu ministro della Istruzione pubblica con Cavour e con Ricasoli (dal marzo 1861 al marzo 1862), continuando sulla linea già tracciata a Napoli, ma senza ripetere l'exploit del 1860, nell'ambito della troppo vasta e ibrida realtà nazionale (in pratica, rinunciando .all'ambizione di produrre una "legge di riforma" della scuola italiana, si limitò ad estendere con decreti all'Italia unita la legge Casati). Ciò che resta di più indicativo del primo periodo di attività come ministro è proprio la linea di tendenza teorizzata nel programma iniziale e vanificata dall'opposizione dei gruppi reazionari ("Noi abbiamo decretato la libertà in carta. Sapete, o signori, quando questa libertà cesserà di essere una menzogna? Quando noi avremo effettivamente uomini liberi; quando della plebe avremo fatto un popolo libero ... Provvedere all'istruzione popolare sarà la mia prima cura"). In questo ambito si pone anche la battaglia per istituire una rete capillare di "scuole tecniche" e "istituti professionali", nonché l'impegno per la qualificazione degli studi scientifici (ma molto avversate furono anche in questo campo le più importanti scelte progressiste, come quella che portò il materialista e "rivoluzionario" J. Moleschott ad insegnare fisiologia nell'università di Torino).  Dopo questo incarico ministeriale, pur sempre rieletto in Parlamento (con la sola parentesi di un anno, tra il 1865 e il 1866), il D. rimase estraneo e in forte opposizione rispetto ai nuovi gruppi di potere (le "consorterie", che vedeva via via riavvicinarsi ai "retrivi" e ai "codini"), su una linea mediana di progressismo monarchico e antirivoluzionario. Su questa linea si pose il giornale L'Italia (che egli diresse dal 1863 al 1867), in appoggio al gruppo emergente della Sinistra costituzionale, che nel 1865 ottenne proprio nel Sud il suo primo successo elettorale. L'appassionamento garibaldino ai tempi di Mentana, la firma del manifesto di opposizione crispina e un importante discorso di denuncia contro il riemergere del clericalismo (in campo ideologico, politico ed economico) segnarono, nel 1867, i punti più alti della sua partecipazione politica.  Nel 1863 aveva sposato, a Napoli, Maria Testa dei baroni Arenaprimo, ma il matrimonio agiato (da cui non nacquero figli) non fu sufficiente a sconfiggere la precarietà economica in cui tutta la sua vita si svolse, né fornì uno stabile nutrimento al suo complesso bisogno di réve e di comunicazione sentimentale. All'interno di una sempre meno inconfessata delusione politica e personale, egli tornò, quindi, agli studi che gradualmente ridivennero protagonisti della sua vita: dal 1866 al 1872 pubblicò in volume i Saggi critici (dove raccolse gli scritti giornalistici dell'esilio), il Saggio critico sul Petrarca, la Storia dellaletteratura italiana, i Nuovi saggi critici.  Il Saggio critico sul Petrarca (1869) ripropone un corso di conferenze tenuto a Zurigo nell'inverno 1858-59, con "pochi mutamenti" e con una "introduzione" del 1868. Esso si articola in dodici capitoli (tre dedicati alla personalità del poeta e al suo "mondo" culturale; gli altri strutturati come lettura tematica e analisi del Canzoniere) ed è finalizzato a fornire un preciso punto di vista per l'interpretazione del testo petrarchesco, sulla base della teoria elaborata dal D. a partire dalla "prima scuola" e consolidata appunto negli anni dell'esilio (tesaurizzazione dell'illuminismo, del romanticismo, dell'hegelismo; rifiuto del metodo "sistematico" e dei suoi esiti panlogistici; rivendicazione della "poesia" come "forma uscita dal più profondo della vita reale" e come "sostanza vivente", secondo i grandi modelli di Omero, Dante, Ariosto, Shakespeare). In quest'ottica, Petrarca va riscoperto, pur con i limiti che la cultura romantica ne aveva segnalato, e va rivalutato per quel che lo separa dal petrarchismo (cioè dalla sua riduzione a modello "rettorico" e "platonico"). La "poesia" di Petrarca va, quindi, individuata in particolari "situazioni" liriche (soprattutto nella "malinconia" e nei momenti di "abbandono" sentimentale), pur tra gli ostacoli frapposti dall'educazione "rettorica" e da una visione "spiritualistica" della vita. Particolare interesse è rivolto alla figura di Laura (cui sono intitolati quattro capitoli): Laura è "la creatura più reale ... che il Medioevo poteva produrre", e la sua "realtà", tutta interiorizzata nella poesia del Canzoniere, non si spegne, ma si ravviva dopo la morte del personaggio (proprio in questa "situazione" Petrarca tocca le sue rare punte di "poesia sublime").  La Storia della letteratura italiana (1870-71) nacque come testo scolastico ed è, infatti, una sintesi didattico-pedagogica di materiali in gran parte preelaborati secondo una precisa metodologia critica (quella appena illustrata a proposito del saggio petrarchesco) e utilizzati per un progetto complessivo di informazione-formazione (il progetto dell'"educazione nazionale") nel quale convergono tutte le attese (ed anche i timori) del D. "letterato" e "politico" agli inizi degli anni Settanta. Divisa in venti capitoli, la Storia disegna una linea di svolgimento della letteratura italiana che va dal XIII al XIX sec. secondo il "principio direttivo" (ufficialmente dichiarato dal D. in uno dei suoi ultimi scritti) della "successiva riabilitazione della materia" (di "un graduale avvicinarsi alla natura e al reale", in parallelo con i progressi della scienza, della cultura, del costume, della vita politica, della stessa morale). Ma la finea risulta tutt'altro che retta e univoca: sia perché l'ipotesi del "graduale" svolgimento della storia letteraria verso mete progressive è fortemente contraddetta dalle fasi di stasi, d'involuzione, di "ritorno"; sia perché continuamente emergono distanze o divaricazioni tra livello storico e livello letterario (e qui s'innesta la forte rivendicazione della "forma" come valore specifico del testo letterario); sia, infine, perché (in base alla predilezione per il metodo monografico e per l'analisi testuale) il racconto della Storia alterna lunghe soste con rapidissimi voli, grandi indugi analitici con improvvise e fortissime elisioni. La Storia procede, perciò, per grandi nodi tematici e testuali, muovendosi in un sistema "a spirale" di allusioni e richiami tra fenomeni, autori, epoche, con un disinibito oscillare del linguaggio dal familiare e dal basso all'oratorio e al patetico, non senza momenti di carattere mimetico a ciascun livello di scrittura (sono queste, del resto, le caratteristiche peculiari del suo composito stile). Seguendo il cammino della Storia a partire dai primi capitoli, troviamo anzitutto ISiciliani come "scuola poetica ... feudale e cortigiana", legata alla potenza della corte sveva e destinata a spegnersi prima che "venisse a maturità", radicandosi nelle "classi inferiori". Proprio questo processo di radicamento si analizza nel ben più complesso capitolo intitolato I Toscani, ma centrato soprattutto sulla cultura bolognese (e sulla "scienza" che si sviluppò in senso antifeudale presso l'università di Bologna). Il punto d'arrivo di questa storia del "mondo lirico" medievale è Dante. Il breve capitolo dedicato a La lirica di Dante la definisce come "la voce dell'umanità a quel tempo": Dante rappresenta (vichianamente) l'epoca della "fantasia", ed è "la prima fantasia del mondo moderno". Coi capitoli IV e V il discorso ritorna alle origini, per esaminare La Prosa e I Misteri e le Visioni del sec. XIII, che esprimono "l'idea religiosa penetrata ne' costumi e nelle istituzioni", ma che restano a livello di fase letteraria preparatoria dell'"aureo" Trecento. A questo secolo è dedicato un capitolo molto puotiano (attento ai Fioretti, al Cavalca e al Passavanti. ai testi di s. Caterina da Siena e alla "maravigliosa cronaca" di D. Compagni), che però anch'esso converge, romanticamente, verso la grande figura protagonistica di Dante. La trecentesca "commedia dell'anima" esprime, infatti, l'ordito culturale da cui nascerà La "Commedia" (cap. VII), con la sua "base ascetica" e la sua radicata abitudine alla "allegoria". Ma tutto ciò rappresenta (secondo l'ottica tipica del D. dantista) la "falsa poetica" attraverso e nonostante la quale Dante crea un'opera somma di poesia (una vasta analisi del poema tende proprio a mostrare come, per virtù di passione e di poesia, esso possa esprimere, "ancora pregno di misteri, quel mondo che, sottoposto all'analisi, umanizzato e realizzato, si chiama oggi letteratura moderna"). Il capitolo defficato al Petrarca (Il "Canzoniere") è breve, ma fondamentale: Petrarca non è solo un "artista" pieno di "grazia" e di "malinconia", ma è il rappresentante di una nuova generazione culturale che, dopo Dante, "volgeva le spalle al Medio Evo ... e si affermava popolo romano e latino". In questa scelta, secondo il D., c'è una profonda ambivalenza (da una parte c'è il "rinnovamento" inteso come nascita della coscienza laica; dall'altra la letterarietà come "erudizione", "imitazione", abito retorico), in cui si muoverà, per lunghi secoli, la storia della letteratura italiana. E in un'ottica così conflittuale il Decamerone (cap. IX) appare come "l'apoteosi dell'ingegno e della dottrina" in dimensione laica, ma anche come espressione di un "niondo borghese" che, liberatosi dai vincoli dello spiritualismo, non riesce ad innalzarsi, al di là del "comico", fino alle "alte regioni dello spirito". Il Cinquecento (cap. XII) è il secolo che vede l'arte assoldata al mecenatismo, pur quando potrebbero porsi le condizioni storiche per un avvicinamento tra cultura e "popolo" (ad esempio, nella Firenze medicea) e pur quando sono già stati raggiunti grandi vertici di raffinatezza letteraria (ad es., nelle Stanze del Poliziano, cap. IX). Infine il Seicento, simboleggiato dal Marino (cap. XVIII), produce in letteratura "idilli" ed "elegie", "voluttà" e "musica", mentre l'intellettuale italiano si fa "estraneo al movimento della cultura europea e a tutte le lotte del pensiero", stagnando "in un classicismo e in un cattolicesimo di seconda mano". Nell'arco fra '300 e '600, e sempre in chiave antifrastica, sono tanti gli episodi letterari che il D. analizza, e ad alcuni, comunemente ritenuti minori, dedica interi capitoli: a F. Sacchetti il cap. X (L'ultimoTrecento), a La Maccaronea il cap. XV, a Pietro Aretino il cap. XVI. L'opera dell'Ariosto (L'Orlando furioso, cap. XIII) è esaminata secondo i parametri zurighesi: inserita nella serialità storica, essa si propone come "sintesi dell'intero Rinascimento", mentre l'"ironia" e il "riso scettico" di Ariosto si manifestano espressione di un "secolo adulto" (cioè divenuto capace di critica e ormai maturo per la libertà "borghese", pur nell'accettazione di fatto della realtà "cortigiana"). T. Tasso (cap. XVII), autore-simbolo dell'ambivalenza ideologica e sentimentale, offre l'occasione per un discorso altrettanto ambivalente sulla Contro-riforma e sul suo significato storico-culturale. Il poema del Tasso è lo specchio della "ipocrita" cultura controriformistica italiana e i suoi valori letterari vanno individuati in senso opposto rispetto a quello programmatico e ufficiale: non nella "falsa" religiosità, ma nell'"idillio", nell'"elegia", nella "voluttà" (Tasso è, perciò, accostato al Petrarca, nella tradizione di storiografia politica risalente a Sismondi e Ginguené). Ma proprio al centro dell'arco storico fra '300 e '600 c'è una punta alta, un grande ritratto in positivo: quello di Machiavelli (cap. XV), che riesce a costruire una valida ipotesi di "rinnovamento", sia opponendo alla teocrazia "l'autonomia e l'indipendenza dello Stato" ("un presentimento dei nostri ordinamenti costituzionali"), sia rinnovando il "metodo" della conoscenza, col rifiuto della "teologia" e del principio di "autorità" (per lui "la verità è la cosa effettuale, e perciò il modo di cercarla è l'esperienza accompagnata con l'osservazione, lo studio intelligente dei fatti"). Evidentemente, il ritratto di Machiavelli (liberato da tutte le riserve moralistiche precedentemente espresse su di lui) è un caso-limite d'interpretazione "tendenziosa" di un autore: se è scelto a simboleggiare, all'inizio del '500, la politica e la scienza moderna, è perché il D.-maestro che scrive la Storia nel 1870 (l'anno della presa di Roma, a cui esplicitamente, proprio nel cap.XV, egli fa riferimento) vuol proporre ai giovani un preciso progetto di produzione letteraria che leghi indissolubilmente letteratura, "scienza" e politica laica (e che indichi anche lo strumento di una lingua letteraria "precisa e concisa", antiretorica e antimusicale, che pure a Machiavelli viene attribuita con qualche forzatura). Nel nome di Machiavelli, dunque (anche se a distanza di 4 capitoli), si apre la parte "moderna" e propositiva della Storia, che consiste nei due ultimi lunghissimi capitoli, intitolati La nuova scienza (cap. XIX) e La nuova letteratura (cap. XX). Il rapporto tra essi è derivativo: la "nuova letteratura" non potrà nascere se non dalla "scienza", che ha come obiettivo "il progresso e il miglioramento dell'uomo", e che ha come principale strumento la libertà intellettuale e politica. Perciò, "i primi santi del mondo moderno" (i primi intellettuali capaci di "lottare, poetare, vivere, morire" per la "fede" nel progresso) furono Bruno, Telesio, Campanella, Galilei; e poi Sarpi, Vico, Giannone; infine Beccaria e Filangieri, con alle spalle il pensiero laico europeo, da Bacone alla Rivoluzione francese. Come s'innesta in questo clima la "nuova letteratura"? Dopo l'affascinante ma "superficiale" opera di Metastasio, l'innesto si realizza con la scelta illuministica di utilizzare "cose e non parole". Il primo autore "vero" della "nuova letteratura" è Goldoni (ma con dei limiti di superficialità). Il primo "uomo nuovo" è Parini, e poi vengono Alfieri e Foscolo (col Monti personaggio negativo), ma con dei limiti negli eccessi e nelle scelte di stile retorico. L'Ottocento (pur con la sua tensione d'impegno e di sperimentazione) non ha ancora offerto, in Italia, modelli attendibili per il cammino da percorrere. Il nostro futuro letterario è, perciò, incerto ma la direzione da seguire è chiara: "convertire il mondo moderno in mondo nostro, studiandolo, assimilandocelo e trasformandolo, "esplorare il proprio petto" secondo il motto testamentario di G. Leopardi, questa è la propedeutica alla letteratura nazionale moderna".  Nella seconda edizione dei Saggi critici (1869) e poi nei Nuovi saggi critici (1872) il D. inserì alcuni scritti (in gran parte composti per la Nuova Antologia) che precedono o accompagnano la stesura della Storia e che nei confronti di essa risultano in diverso modo illuminanti. Il più antico è Una "Storia della letteratura italiana" di C. Cantù (1865), che, recensendo l'opera appena pubblicata, la denuncia come fondata su "pregiudizi" e "superficiale dottrina" e su valori che nulla hanno a che fare col letterario (perciò l'inevitabile sottovalutazione di autori come Machiavelli, Ariosto, Leopardi, Alfieri, Giusti, Berchet, cui si contrapporrà, appunto, la Storia desanctisiana). Fondamentale, per chi indaghi sulla genesi della Storia, è il saggio Settembrini e i suoi critici (1869), in cui il D. condanna il grave limite del contenutismo radicale settembriniano, così come aveva condannato il contenutismo cattolico-moderato del Cantù, ed afferma che una vera storia della letteratura dovrebbe essere un lavoro interdisciplinare (con contributi di "filosofia, critica, arte, storia, filologia") al quale la cultura italiana non è ancora attrezzata (risalendo queste considerazioni al periodo iniziale di stesura della Storia, esse dimostrano la problematicità del D. nei confronti della sua opera maggiore, e la profonda consapevolezza della "parzialità" di essa). Più collegati alla componente ideologica "positiva" della Storia risultano L'"Armando" di G. Prati e L'ultimo dei puristi del 1868. Nel primo si denuncia la fine dei "tempi sentimentali" e si afferma, per il presente, la necessità di un impegno tutto reale e concreto ("il materialismo è uscito trionfante dal seno stesso del mondo hegeliano" e impone la "serietà della vita terrestre"); nel secondo, la stroncatura di un purista attardato (F. Ranalli) dà luogo a una attenta e intelligente rievocazione del Puoti e della sua scuola, che fu "bandiera" di "libertà, scienza, progresso, emancipazione" nei primi decenni del secolo, ma che (a parte il valore sempre vivo del "metodo" puotiano) esaurì il suo ruolo storico alla vigilia della fase rivoluzionaria del '48 (al presente, ogni nostalgia puristica risulta storicamente e politicamente ingiustificata). Anche i grandi saggi danteschi del 1869 (Francesca da Rimini, Il Farinata di Dante, L'Ugolino di Dante) nacquero in margine alla Storia, sia come ripresa del tema-Dante (e, in particolare, delle riflessioni zurighesi), sia come esempio di quel lavoro di "monografia" che il D., all'epoca, considerava storicamente e scientificamente più valido delle "sintesi". I personaggi danteschi prediletti dalla cultura romantica ed hegeliana sono letti rispettivamente in chiave di "amore" e "pietà femminile" (Francesca), orgoglio politico (Farinata), complessità e profondità di sentimenti antinomici (Ugolino), nell'ambito di un'attenta, colta, sensibile lettura testuale (era in questo, appunto, che il D. voleva proporsi come modello di critica "attuale", "paziente" e costruttiva, ed è appunto questo l'aspetto dei Saggi che va ancor oggi rivendicato). Il saggio L'uomo del Guicciardini(1869) ripropone l'antitesi (presente anche nella Storia) fra Machiavelli, precursore del nazionalismo moderno, e Guicciardini, il cui "particulare" rifiuta ogni "vincolo religioso, morale, politico" (ma la vera funzione del saggio si esplicita nell'ultima frase, di amara denuncia della situazione politica presente: "L'uomo del Guicciardini vivit, immo in Senatum venit, e lo incontri ad ogni passo").  Nel 1871 venne affidata al D. la cattedra di letteratura comparata nell'università di Napoli, dove egli tenne quattro corsi annuali, dal 1872 al 1876 (è questa l'esperienza nota come "seconda scuola napoletana", che produsse quattro gruppi di lezioni, rispettivamente su Manzoni, Scuola cattolico-liberale, Scuola democratica, Leopardi). Contemporaneamente pubblicò una seconda raccolta di saggi (Nuovi saggi critici, Napoli 1872) e inaugurò quella serie di conferenze e articoli sugli orientamenti della letteratura contemporanea in chiave realistica che sarebbe continuata, per dieci anni, fino alla vigilia della morte. Tra il 1874 e il 1875 realizzò un nuovo momento d'impegno politico attivo, in occasione delle elezioni che prepararono l'avvento al potere della Sinistra costituzionale (in particolare, nel gennaio 1875 appoggiò, con un'avventurosa campagna elettorale, la propria candidatura - difficile e piuttosto equivoca - nella provincia d'origine, e ne rivisse il ricordo in una serie di cronache giornalistiche pubblicate prima sulla Gazzetta di Torino e subito dopo in volume, col titolo Un viaggio elettorale, 1876).  Al 1877 data il terzo e ultimo episodio importante di giornalismo politico desanctisiano: ancora un impegno battagliero, ma interno alla Sinistra (contro la gestione trasformistica e antidemocratica del potere da parte di Depretis e Nicotera), condotto soprattutto sulle colonne del Diritto di Roma. Nel 1878 Cairoli riaffidò al D. il ministero della Pubblica Istruzione che egli tenne fino al 1880, riproponendo, dopo 17 anni, i problemi della "scuola di tutti" (la "scuola per l'infanzia", la "scuola primaria", la formazione dei maestri) e quelli dell'istruzione tecnica, in un'ipotesi di cultura "scientifica" da sostituire alla "cultura retorica"; ma ancora una volta fu sconfitto nei punti più qualificanti del suo programma (la traccia più concreta che ne rimase fu l'inserimento dell'educazione fisica tra le materie d'insegnamento: un omaggio alla rivalutazione positivistica dell'uomo fisico). Nel 1880, colpito da una grave malattia agli occhi, lasciò l'incarico ministeriale e dedicò i suoi ultimi anni di vita a un lavoro di riflessione autobiografica (le Memorie che andò dettando alla nipote Agnese) e critica (soprattutto ripresa e riorganizzazione della riflessione petrarchesca e leopardiana). Morì a Napoli il 29 dic. 1883, lasciando incompiuti i suoi ultimi lavori, cui, pur tra le sofferenze della malattia, si dedicò sino alla fine.  Come tutti i principali episodi dell'insegnamento desanctisiano, anche le lezioni della "seconda scuola napoletana" sono documentate da riassunti (redatti in genere da F. Torraca), rivisti e ufficialmente accettati dall'autore. Il primo corso (gennaio-marzo 1872) fu dedicato a Manzoni e rappresenta il punto d'arrivo di una riflessione iniziata all'epoca della "prima scuola", sviluppata a Zurigo e rimasta sempre centrale nella ricerca del D., pur senza trovare una sistemazione editoriale. In queste lezioni le posizioni ideologiche e gli strumenti di ricerca sono molto cambiati rispetto agli anni della "prima scuola", ma non cambia il giudizio di valore. La grandezza del Manzoni è identificata ora nella sua capacità di "calare l'ideale nel reale": da lui escono tre "grandi idee critiche che hanno importanza universale": la "misura dell'ideale", il "vero" positivo e storico, la "forma" diretta e "popolare". Manzoni rappresenta la massima realizzazione della letteratura "moderna" in Italia e le "scuole letterarie" non segnano alcun progresso né sul piano dell'arte né su quello dell'ideologia. Negli anni successivi. il D. analizzò, appunto, lo svolgimento della letteratura in Italia a partire dal Manzoni, dividendola (secondo una traccia già seguita da Emiliani Giudici, da Settembrini e da altri) nei due filoni cattolico e laico, definiti rispettivamente "scuola liberale" e "scuola democratica". Alla Scuola liberale fu dedicato il secondo anno di lezioni universitarie (1872-73), con risultati di giudizio fortemente militanti: l'impegno dei cattolici per l'"educazione popolare" non offre risultati validi in arte e svolge un ruolo (più o meno esplicito) d'insegnamento reazionario ("nuovi Arcadi" sono Grossi, Carcano, Tommaseo, Cantú; Gioberti e Rosmini ripropongono una dimensione "metafisica" della storia e della politica; D'Azeglio resta attardato su una vecchia e superata immagine di letteratura retorica). Un interessante excursus riguarda, però, la letteratura meridionale dell'Ottocento: poeti poco noti (come D. Mauro, V. Padula, P. P. Parzanese, N. Sole) vengono esaminati con interesse e simpatia. Il corso del 1873-74 fu dedicato alla Scuola democratica, e anche in quest'ambito il giudizio globale è negativo: Mazzini, Rossetti, Berchet, Niccolini non possono fornire il modello della "nuova letteratura". Si conferma così l'esito perplesso e sostanzialmente pessimistico che caratterizza le ultime pagine della Storia e l'affermazione del principio del "realismo".  I saggi più importanti elaborati dal D. nell'ultimo decennio di vita riguardano, appunto, le tematiche del realismo (alcuni di essi furono raccolti nella 2 ed. dei Nuovi saggi critici, del 1879). Dopo la prolusione universitaria La scienza e la vita (1872), sono da ricordare: Ilprincipio del realismo (1876), Studio sopra Emilio Zola (1878), Zola e l'Assommoir (1879), Il darwinismo nell'arte(1883). L'assunto complessivo è che il "realismo" auspicato dal D. non si può confondere né col materialismo, né col positivismo, né col naturalismo di Zola (il quale, però, è molto valido come scrittore: lo studio a lui dedicato è particolarmente vasto e attento). La letteratura del "reale" dev'essere (cfr. Manzoni) "l'ideale calato nel reale", e cioè una costruzione "eticac forza morale impegnata per rinnovare la società, contro l'individualismo, la reazione, l'autoritarismo sempre in agguato.  Nell'ultima fase della sua vita il D. non si limitò a teorizzare l'importanza e la "modernità" del realismo in letteratura, né ad inserirsi con diversi strumenti critici all'interno del problema per farne emergere i pericoli (o quelli che a lui sembravano tali sul piano morale e politico), ma volle fornire delle prove concrete di narrativa realistica, utilizzando un registro di linguaggio "familiare", che già aveva usato nelle sue lettere alla moglie (con estrema semplificazione sintattica e con frequenti coloriture dialettali) e che, del resto, non era ignoto ai momenti più colloquiali della sua critica. L'operetta narrativa che elaborò in funzione di esempio e modello fu Un viaggio elettorale (1876): una serie di cronache del tragicomico attraversamento della provincia natia da lui compiuto a sostegno di una candidatura politica poco chiara e poco fortunata. Nella cronaca, il bozzettismo locale si alterna col patetico dei ricordi d'infanzia o delle esortazioni politiche; ma il senso del testo va ricercato più nella sua funzione che nei suoi esiti, né si può dimenticare che nella storia del realismo italiano esso si colloca quasi in contemporanea con Nedda (1874), quattro anni prima di Giacinta (1879), sei anni prima dei Malavoglia (1881).  Alla vigilia della morte (sempre su materiali autobiografici e sempre in ambito di racconto dal vero in linguaggio familiare), il D. perseguì un progetto molto più ambizioso: la stesura di un'autobiografia, della quale, però, non riuscì a portare a termine che la prima parte (egli l'aveva intitolata Memorie; P. Villari ne pubblicò il frammento realizzato col titolo La giovinezza). Così come ci resta, il frammento narra l'esperienza del D. dalla nascita fino al 1843, e consta di due nuclei narrativi essenziali. Il primo è legato ai personaggi bozzettistici della famiglia paesana e degli ambienti napoletani alti e bassi (preti, professori, avvocati, ragazze da marito, giovani avventurieri, vecchie serventi) e, al centro di essi, l'autore pone il personaggio "comico" di se stesso, pieno di tic, di timidezze, di chiusure, di sogni. Il secondo nucleo è legato, invece, alla formazione culturale e all'esperienza della "prima scuola". Qui il tessuto è molto serio e impegnativo: il D. (utilizzando ricordi, ma soprattutto vecchi "quaderni di scuola") vuole offrire un importante contributo alla critica di se stesso, mostrando come siano andate formandosi le linee di forza del suo metodo. In ciò la Giovinezza non è del tutto veritiera (molti sono gli imprestiti ideologici e teorici che il vecchio D. fa al se stesso giovane maestro di Vico Bisi), ma resta, comunque, il fascino di un clima in cui rivivono Puoti e Leopardi, la scoperta del romanticismo, di Vico e di Hegel, l'autoritarismo borbonico e le utopie libertarie del primo '800 napoletano.  Nell'ultimo anno d'insegnamento all'università di Napoli (1875-76), argomento delle lezioni era stato Leopardi: dagli appunti delle lezioni il D. ricavò, negli ultimi mesi di vita, uno Studio su G. Leopardi, che segue il poeta nelle diverse tappe della vita, dell'opera, del pensiero, secondo lo schema della "biografia critica" di taglio positivistico. La biografia rimane, però, incompiuta, chiudendosi al livello dei "nuovi idilli" (come il D. definisce i grandi canti del 1827-29), e proprio in questo tentativo di riduzione di Leopardi alla misura dell'idillio lo Studio è stato foriero di gravi equivoci e fraintendimenti nella successiva critica leopardiana, mentre nell'ultimo D. si giustifica come tentativo di leggere Leopardi in quella stessa chiave di "realismo" che si era rivelata funzionale per il Manzoni e il suo romanzo. Celebri, proprio in quest'ambito, le riflessioni sulle figure femminili dell'"idillio" leopardiano ("Silvia non è questa o quella donna; è il primo apparire della giovinezza in un cuore femminile", ecc.); ma, a parte questo, lo Studio non aggiunge molto né alla conoscenza del Leopardi né alla critica del De Sanctis. In sostanza, il meglio su Leopardi era stato detto nel saggio del 1855 (ma non vanno dimenticate certe importanti considerazioni della "prima scuola", né il ruolo interessantissimo, problematico e antidogmatico, che Leopardi ha nelle ultime pagine della Storia). Altri saggi leopardiani appartengono alla fase e al clima di ricerca della Storia (La prima canzone di G. Leopardi, 1869; Le nuove canzoni, 1877; La Nerina, 1877). In quest'ultimo, ancora un esame (forse uno dei più importanti) della donna nella poesia leopardiana: "La vita è tutta e solo in terra... La morte è l'altro motivo tragico di questa concezione ... Il motivo della Silvia è lo sparire. Il motivo della Nerina è il riapparire".  Lasciando da parte la fortuna del D.-maestro (un vero e proprio appassionamento suscitato nei giovani allievi di Napoli, Torino e Zurigo), per ricostruire la storia del dibattito sul D. bisogna muovere da un dato obiettivo di iniziale "sfortuna" critica: lo scarto fra i tempi della genesi dei testi maggiori (a partire dagli anni '40) e quelli della loro pubblicazione (intorno al '70). A causa di questo scarto, egli apparve subito come un idealista "attardato" (e perciò più meritevole di giudizi sommari che di attenzione testuale), nel clima di positivismo dominante in cui i suoi scritti si offrivano ad un'interpretazione globale (per es. F. D'Ovidio era convinto che il D. ignorasse "la pazienza della ricerca e dello studio", e G. Carducci gli attribuiva "difetto" di "cognizione dei fatti e dei documenti"). A sintomatico che, in un dibattito così fortemente pregiudiziale, venisse del tutto ignorato non solo il tipo di formazione del D., ma anche l'ultimo decennio della sua produzione, con la dichiarata opzione "realistica" e con la forte propensione per lo scientismo. Ma proprio a causa della pregiudizialità del dibattito di fine secolo (rilevata, fin d'allora, da qualche attento osservatore straniero, come A. Gaspary), il D. poté divenire, attraverso l'elaborazione crociana, lo strumento chiave per il rilancio di un metodo critico antipositivistico e per la progressiva riaffermazione culturale e ideologica dell'idealismo nei primi decenni del '900. Al Croce spetta, certo, il merito di aver "costretto" la cultura italiana a riconoscere nel D. un protagonista dell'800 (la sua appassionata cura di editore e di studioso del D. durò per oltre mezzo secolo); ma, contemporaneamente, Croce prese a "rielaborare" il "pensiero" del D., fino a propome la riduzione a teoria del "puro" gusto estetico (G. A. Borgese, che nel 1905 presentò il D. come punto di arrivo di "tutte le esperienze della critica romantica in Italia", fu, in realtà, uno dei primi e più autorevoli interpreti di questa tendenza riduttiva; scarsa fortuna ebbe, d'altra parte, una proposta di G. Gentile per un "ritorno al De Sanctis" di segno fascista).  Proprio dall'interno della scuola crociana (dai cosiddetti "crociani di sinistra") fu prospettata, tuttavia, l'esigenza di un dibattito diversamente impostato, volto al recupero della complessità della figura del D.: mentre L. Russo rivendicava "il significato pedagogico ed etico" dell'opera (1928) e la sua "intelligenza dell'arte" come notalità" (1931), C. Muscetta sottolineava l'importanza della sua "poetica realistica" (1931), la sua "serietà" culturale (1934), la sua visione della letteratura come "vita morale" (1940). Importanti, in questa fase, furono anche gli studi di W. Binni sull'"amore del concreto" che nutrì tutta la ricerca desanetisiana e che problematizzò i suoi rapporti con l'hegelismo (1942) e di G. Getto sulla Storia, "in cui la letteratura era studiata nel suo autonomo valore e insieme nel suo necessario legame con tutta la vita e la cultura" (1942). Infine, presentando una importante antologia di scritti desanctisiani, nel 1949, G. Contini dichiarò, a nome di un'intera generazione di studiosi, l'uscita dall'"equivoco formalistico" della "riduzione crociana" del D. e la necessità di tentare finalmente una comprensione filologica dei testi desanctisiani, con tutta la loro problematicità anche irrisolta.  Ma lo spostamento ideologico dell'intero dibattito critico mosse dalla pubblicazione dei Quaderni di Gramsci (Letteratura e vita nazionale, Torino 1950) e dalla sua celebre affermazione che "il tipo di critica letteraria proprio della filosofia della prassi è offerto dal De Sanctis". Da qui appunto si partì per un'ampia verifica dell'"impegno" del D., del carattere "militante" della sua critica, dei "saldi convincimenti morali e politici" che, secondo Granisci, la sostanziavano: era una verifica, evidentemente, molto correlata al bisogno della cultura d'incidere sul presente storico, dopo e contro il "disimpegno" teorizzato, nel ventennio fascista, da crociani e non crociani. Questo momento di dibattito produsse, fra l'altro, le iniziative editoriali, cui si deve, oggi, la possibilità di leggere il D. su testi di alto livello scientifico: le due collane avviate nel 1952 da Einaudi e Laterza (e dirette rispettivamente da C. Muscetta e L. Russo) per la pubblicazione delle "opere complete". E non a caso, negli stessi anni, apparivano fuori d'Italia (dove la letteratura desanctisiana è scarsissima) due importanti interventi critici: quello di R. Wellek (che nella sua grande Storia della critica moderna del 1957 presentò il D. come autore della "più bella storia che sia stata mai scritta di una letteratura") e quello di P. Antonetti (che nel 1963 ne pubblicò in Francia una documentata e intelligente biografia culturale). Né a caso, negli anni '50-'60, furono condotte indagini nuove e approfondite sui legami tra il D. e la cultura dell'800 (M. Mirri, S. Landucci, G. Oldrini).  Alla fine degli anni '70, in un clima culturale ancora una volta mutato, e ormai insofferente dell'insistenza sull'"impegno politico del letterato", si affermò l'esigenza di uscire dall'ottica di un D. modello per il presente, e di sottolineare (accanto ai "valori" ormai definitivamente affermati) la distanza storica e le diversità culturali che ci separano da lui. Tra gli interpreti di questa esigenza ricordiamo A. Asor Rosa e parecchi dei partecipanti al convegno napoletano del 1977 su "De Sanctis e il realismo". Con maggiore cautela, le più recenti occasioni offerte dal centenario desanctisiano (F. D. nella storia della cultura, a cura di C. Muscetta, Bari 1983 e F. D.: un secolo dopo, a cura di A. Marinari, ibid. 1985) si sono mosse su una linea di attenzione ai testi, di chiarificazione e approfondimento della vasta (ancora aperta e interessante) problematica desanctisiana, di tricollocazione" storico-culturale nel mutevole orizzonte di cultura europea in cui tutta la sua ricerca si mosse.  Il materiale manoscritto, ormai quasi tutto edito, si trova (tranne una parte di quello epistolare, sparso un po' in tutta Italia) a Napoli (Bibl. nazionale, bibl. di casa Croce e bibl. del dott. F. De Sanctis Jr.) e ad Avellino (Bibl. prov. S. e G. Capone). Restano inediti quasi solo i voll. dell'Epistolario, relativi agli anni 1870-1883.  Le raccolte degli scritti, dopo le incomplete ediz. Cortese (1931-38) e Barion (1933-411, sono oggi quella laterziana (Bari, negli "Scrittori d'Italia", a cura di L. Russo, incompleta) e quella einaudiana (Torino, Opere di F. De Sanctis, a cura di C. Muscetta, priva soltanto degli ultimi due voll. dell'Epistolario). La raccolta laterziana comprende i seguenti voll.: La letteratura italiana nel sec. XIX, I (A. Manzoni, a cura di L. Blasucci, 1953); II (La scuola liberale e la scuola democratica, a cura di F. Catalano, 1953); III (G. Leopardi, a cura di W. Binni, 1953); Storia della letteratura italiana, a cura di B. Croce 19121, 19659; Memorie, lezioni e scritti giovanili, I, a cura di F. Brunetti, 1962; Saggio critico sul Petrarca, a cura di E. Bonora, 1954; Saggi critici, a cura di L. Russo, 19521, 19656; La poesia cavalleresca, a cura di M. Petrini, 1954. La raccolta einaudiana, invece, comprende: Lagiovinezza (memorie postume seguite da testimonianze biografiche di amici e discepoli), a cura di G. Savarese, 1961; Purismo illuminismo storicismo (scritti giovanili, frammenti di scuola e lezioni), a cura di A. Marinari, 1975; La crisi del romanticismo (scritti del carcere e primi saggi critici), a cura di G. Nicastro e M. T. Lanza, 1972; Lezioni e saggi su Dante, a cura di S. Romagnoli, 19551, 19672; Saggio sul Petrarca, a cura di N. Sapegno e N. Gallo, 1952; Verso il realismo (prolusioni e lezioni zurighesi sulla poesia cavalleresca, frammenti di estetica, saggi di metodo critico), a cura di N. Borsellino, 1965; Storia della letteratura italiana, a cura di N. Sapegno e N. Gallo, 19581, 19663; La letteratura italiana del secolo XIX, Manzoni (a cura di C. Muscetta e D. Puccini, 1955), La scuola cattolico-liberale e il romanticismo a Napoli (a cura di C. Muscetta e G. Candeloro, 19531, 19722), Mazzini e la scuola democratica (a cura di C. Muscetta e G. Candeloro, 19531, 19612), Leopardi (a cura di C. Muscetta e A. Perna, 1960); L'arte la scienza e la vita (nuovi saggi critici, conferenze e scritti vari), a cura di M. T. Lanza, 1972; Il Mezzogiorno e lo Stato unitario (scritti e discorsi politici dal 1848 al 1870), a cura di F. Ferri, 1960; I partiti e l'educazione della nuova Italia (scritti e discorsi dal 1871 al 1883), a cura di N. Cortese, 1970; Un viaggio elettorale(seguito da discorsi biografici, dal taccuino parlamentare e da scritti politici vari), a cura di N. Cortese, 1968; Epistolario: 1836-1856 (a cura di G. Ferretti e M. Mazzocchi Alemanni, 1956); 1856-1858 (a cura degli stessi, 1965); 1859-1860 (a cura di G. Talamo, 1965); 1861-62(a cura dello stesso, 1969); 1863-1869 (a cura di A. Marinari, G. Paoloni e G. Talamo, in corso di stampa). Ottime antologie degli scritti del D. sono quelle curate da G. Contini (Torino 1949) e da N. Sapegno e N. Gallo (Milano-Napoli 1961).  Fonti e Bibl.: Per la bibl. delle opere e della critica, cfr. B. Croce, Gli scritti di F. D. e la loro varia fortuna, Bari 1917 (con integrazioni di C. Muscetta, in F. De Sanetis, Pagine sparse, Bari 1944) ed E. Pesce, Supplemento alla bibliografia desanctisiana 1944-65, Napoli 1965. Sono da tener presenti inoltre le rassegne: M. Tondo, La lezione di D. Rassegna degli studi dell'ultimo venticinquennio, Bari 1976; P. Tuscano, F. D. a cento anni dalla morte, in Cultura e scuola, LXXXVI (1983), pp. 32-45; G. Oldrini, La storiografia desanctisiana dell'ultimo decennio, nel miscellaneo F. D. - Un secolo dopo, a cura di A. Marinari, Bari 1985.  Per la biografia, vanno ricordati anzitutto i seguenti saggi d'insieme: E. Cione, F. D., Messina-Milano 1938 e Milano 19442; F. Montanari, F. D., Brescia 1939; P. Antonetti, F. D. (1817-1883). Son évolution intellectuelle, son esthétique et sa critique, Aix-en-Provence 1963; E. Croce-A. Croce, D., Torino 1964. Per gli anni della formazione, sono da tener presenti i seguenti scritti: B. Croce, Introd. a F. De Sanctis, Teoria e storia della letteratura, Bari 1926; A. Marinari, Introd. a Purismo illuminismo storicismo cit., nonché Le correzioni del Puoti ai primi due discorsi di scuola del D., in Belfagor, XV (1960), pp. 584-601; Id., Alcuni problemi di cronologia desanctisiana, Firenze 1963 e Il giovane D. lettore di P. Giannone, in Letteratura e critica, Studi in onoredi N. Sapegno, II, Roma 1975, pp. 643-80; G. Savarese, Primo tempo del D. e altri saggi, Bologna 1971; P. Luciani, L'"estetica applicata" di F. D., Firenze 1983; C. Muscetta, D. e i generi letterari in F. D. nella storia della cultura, a cura di C. Muscetta, Bari 1983, pp. 363-84. Per gli anni della prigionia e dell'esilio, sono indispensabili: E. Cione, F. D. dallaNunziatella a Castel dell'Ovo, Napoli 1933; B. Croce, Il soggiorno in Calabria, l'arresto e la prigionia di F. D., Napoli 1917 (ora in Aneddoti di varia letteratura, IV, Bari 1954); F. D. a Torino, a cura di C. Vernizzi, Torino 1984; M. Guglielminetti-G. Zaccaria, F. D. e la cultura torinese (1853-56) e R. Martinoni, Gli anni zurighesi (1856-60), entrambi in F. D. nella storia della cultura cit. (dello stesso Martinoni, cfr. anche La puzza della birra e del tabacco. Gli anni zurighesi di F. D. [1856-60], in L'Almanacco 1983, Bellinzona 1983, pp. 112 s.); O. Besomi, D. "in partibus transalpinis", ma non "infidelium": letture zurighesi, in Per F. D., Bellinzona 1985, pp. 89-118. Per gli anni 1836-60 sono da tener presenti i voll. dell'Epistolario (con le rispettive introduzioni). Lo stesso vale per gli anni successivi (almeno fino al 1869). Per il soggiorno del D. a Firenze, cfr. G. Spadolini, D. e Firenze capitale, in F. D. - Un secolodopo cit., pp. 437-43. Per il D. ministro, cfr.: G. Talamo, F. D. politico e altri saggi, Roma 1969; S. Soldani, Scuola e lavoro: D. e l'istruzione tecnico-professionale, inF. D. nella storia della cultura cit., pp. 451-516; G. Ciampi, Il governo della scuola nello Stato postunitario, Milano 1983, ad Indicem; A. Santoni Rugiu, Aspetti dell'ideologia formativa di F. D., nonché S. Valitutti, Il pensiero e l'azione scolastica di D. ed E. Bottasso, D. ministro e la formazione delle prime tre biblioteche nazionali (tutti in F. D. - Un secolo dopo cit.). Per la morte e le onoranze funebri, cfr. In memoria di F. D., a cura di M. Mandalari, Napoli 1884 (rist. anast., Napoli 1983, a cura della Comunità montana "Alta Irpinia").  Tra gli studi critici di carattere generale, cfr.: B. Croce, F. D., in Letteratura della nuova Italia, I, Bari 1956 (per gli altri scritti desanctisiani del Croce, cfr. G. Savarese, Croce e D., in Rassegna della letteratura italiana, CXLIV [1967], pp. 158-174; L. Russo, F. D. e la cultura napoletana, Venezia 1928 (poi Firenze 1956, ora Roma 1983); C. Muscetta, F. D., inLetteratura italiana. I minori, IV, Milano 1962 e in Letteratura italiana. Storia e testi, VIII, 1, Bari 1975, ibid 19854; M. Fubini, F. D. e la critica letteraria, in Romanticismo italiano, Bari 19653; M. Mirri, F. D. politico e storico della civiltà moderna, Messina-Firenze 1961; S. Landucci, Cultura e ideologia di F. D., Milano 1963 (sul quale cfr. M. Mirri in Critica storica, III [1964] e la risposta di S. Landucci, in Belfagor, XX [1965]); A. Asor Rosa, L'idea e la cosa: D. e l'hegelismo, in Storia d'Italia (Einaudi), IV, 2, Torino 1975, pp. 850-78 e Il "diagramma De Sanctis"... e il nostro, in Letteratura italiana (Einaudi), Torino 1982, I, pp. 22-26. Utilissime sono anche tutte le introduzioni ai singoli volumi delle edizioni cinaudiana e laterziana. Sono da tenere inoltre in grande considerazione le osservazioni di I. Svevo (in Racconti. Saggi. Pagine sparse, Milano 1968, p. 800" e G. Debenedetti (Commemorazione del D.), 1934 (ora in Saggi critici, 2a serie, Milano 1971), nonché quelle di W. Binni (L'amore del concreto e la "situazione" nella prima critica desanctisiana [1942], ora in Critici e poeti dal Cinquecento al Novecento, Firenze 1951, pp. 99-116), G. Contini (Introd. a F. De Sanctis, Scelta di scritti critici, cit.); G. Getto (Storia delle storie letterarie, Milano 1942, ad Indicem), C. Dionisotti (Geografia e storia della letteratura italiana, Torino 1967, ad Indicem) e R. Wellek (Storia della critica moderna, IV, Bologna 1969, pp. 123-55). Molto ricche sono le miscellanee: F. D. e il realismo, con Introd. di G. Cuomo, Napoli 1978; F. D. nella storia della cultura, a cura di C. Muscetta, Bari 1983; F. D. tra etica e cultura ("Riscontri", VI, 1-2), a cura di M. G. Giordano, Avellino 1984; D. - Un secolo dopo, a cura di A. Marinari, Bari 1985; Per F. D., Bellinzona 1985; F. D.: recenti ricerche, a cura dell'Ist. per gli studi filosofici, Napoli 1989.  Per i rapporti fra il D. e la cultura napoletana dell'800, cfr. gli scritti di G. Oldrini (in particolare, La cultura filosofica napoletana dell'800, Bari 1973 e gli interventi apparsi nelle varie miscellanee già citate). Per quelli con l'hegelismo, oltre allo scritto già cit. del Binni, cfr.: N. Giordano Orsini, D., Hegel e la situazione poetica, in Civiltà moderna, XIV (1942), pp. 138 ss.; M. Rossi, Sviluppi dello hegelismo in Italia (F. D., S. Tommasi, A. Labriola), Torino 1957; Il primo hegelismo italiano, a cura di G. Oldrini, Firenze 1969; M. T. Lanza, D. e Hegel, in F. D. nella storia della cultura, cit., pp. 155-84; S. Landucci, cit.  Tra i tanti altri saggi, cfr. pure: M. Aurigemma, Lingua e stile nella critica di F. D., Ravenna 1968; F. Battaglia, Parva desanctisiana, Bologna 1970; B. Moretti, La lingua di F. D., Firenze 1970; A. Prete, Il realismo di D., Bologna 1972. G. Malcangi, F. D. deputato di Trani, con Introd. di A. Lapenna e A. Marinari, Bari 1972; A. Marinari, Il "viaggio elettorale" di F. D. Il "dossier Capozzi" e altri inediti, Firenze 1973; F. Ghilardi, Il superamento del kantismo e l'esperienza politica di F. D., Napoli 1974; G. Guglielmi, Da D. a Gramsci: il linguaggio della critica, Bologna 1976; N. Celli Bellucci-N. Longo, F. D. e G. Leopardi tra coinvolgimento e ideologia, Roma 1979; M. Dell'Aquila, Giannone, D., Scotellaro. Ideologia e passione in tre scrittori del Sud, Napoli 1981; G. Nencioni, F.D. e la questione della lingua, Napoli 1984.  Per i rapporti con le altre letterature europee: per la Francia cfr. F. Neri, Il D. e la critica francese, 1922 (ora in Saggi, Milano 1964); P. Antonetti, F. D. et la culturefrançaise, Firenze-Parigi 1964; U. Piscopo, D. e la culturafrancese, in F. D. - Un secolo dopo cit.; per la Germania, cfr.: G. Bach, La cultura tedesca in F. D., in Studi e ricordi desanctisiani, Avellino 1935; F. Matarrese, Goethe e D., Bari 1975; M. Westhoff, Schiller e D., Roma 1977; M. Mazzocchi Alemanni, La "fortuna" di D. in Germania, in F. D. nella storia della cultura cit., pp. 547-76; per il mondo angloamericano, cfr.: A. Lombardo, D. Shakespeare e la letteratura inglese, in F. D. - Un secolo dopo cit., pp. 549-68; D. Della Terza, D. e la cultura anglosassone, in F. D. nella storia della cultura cit., pp. 527-45, e D. negli Stati Uniti d'America, in F. D. - Un secolo dopo cit., pp. 651-63.  Per la fortuna critica dell'opera del D., cfr. L. Biscardi, F. D., Palermo 1960; S. Romagnoli, F. D., in Iclassici italiani nella storia della critica, a cura di W. Binni, II, Firenze 19612 ; F. De Castro, F. D. nella critica italiana del secondo dopoguerra, in Problemi, LIX (1980); N. Longo, Il "ritorno" di D. Storia, ideologia, mistificazione, Roma 1980. Cfr. pure, al riguardo, le rassegne di G. Oldrini, M. Tondo e P. Tuscano citate a proposito degli scritti bibliografici.Sossio Giametta. Giametta. Keywords: il volo d’Icaro, l’implicatura di Croce – eterodossie crociane – Cosi parlo Zoroaster; cosi implico!”—cortocircuito e implicature, la pazzia di Croce, il pazzo di Croce – la caduta di Icaro? No, il vuolo di Icaro! – Colli e Montanari! --   Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Giametta: cortocircuito ed implicatura” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51716489340/in/photolist-2mRAqeJ-2mQxzwE-2mQDDPt-2mQMcti-2mQMcsB-2mQHU1f-2mQK7Hp-2mQMcs1-2mQMcr4-2mQK7Gn-2mQDDQq-2mQMcsG-2mQHTYB-2mQHU15-2mQK7GY-2mQNoEv-2mQK7HQ-2mQNoHr-2mQK7J1-2mQDDPd-2mQHU1a-2mQHTZo-2mQMct8-2mQDDPP-2mQHTYG-2mQNoEF-2mQMcqT-2mQNoFx-2mQK7Hz-2mQHTYr-2mQMcqN-2mPkhvE-2mN1wvj/

 

Grice e Giandomenico – l’apertura semantica e l’implicatura di Galilei – filosofia italiana – Luigi Speranza (Carunchio). Filosofo. Grice: “I like Giandomenico; he makes excellent commentary on Bernard’s controversial, deterministic idea of life – from amoeba to man, in Russell’s words --.” Grice: “Surely this has connections with my method in philosophical psychology, from the banal to the bizarre, which actually starts with philosophical BIO-logy!” Grice: “Giandomenico shows that while Bernard never thought he had to provide a ‘conceptual analysis’ of ‘vivente,’ he does propose this or that criterio: for one he tries to prove that self-nourishment cannot be the criterion – but I’m not sure what the positive he poes, if any!” Si laurea con Corsano all’istituto di filosofia di Bari.Insegna a Brindis, Lecce, Foggia, e Bari. Studia l'insegnamento di Filosofia  nei Licei. Studia filosofia della comunicazione. Fonda il Laboratorio di Epistemologia Informatica e il Centro per la Metodologia della Sperimentazione. Studia pragmatica computazionale e Informatica umanistica. Membro della Società Filosofica Italiana. Si occupato della storia della fisiologia, la storia sdell’informatica, l’informatica pragmatica, teoria della comunicazione, teoria dell’implicatura conversazionale, e teoria del segno. Pubblicato uno studio su Tommasi, che aderì alla sperimentazione. Ha trattato il contributo scientifico di Pende.  Analizza i fondamenti dell'informatica nei suoi rapporti con le teorie filosofiche, mettendo in evidenza le strutture epistemiche reciprocamente significative. “Filosofia ed informatica”, Inoltre, ha sperimentato applicazioni delle tecnologie informatiche nella ricerca umanistica.  Le ricerche condotte nell'ambito dell'informatica linguistica si sono proposte l'analisi linguistico-computazionale. L'obiettivo è stato quello di andare al di là del livello “lessicografico” – il filosofese – o terminologia filosofica, como ‘implicatura’ -- e di implementare una rete sintattica automatica con l'ausilio di software dedicati.  Il primo progetto ha riguardato l'analisi della conversazione nel “Dialogo sopra i due massimi sistemi” di Galileo. Usando un software, creato dal Laboratorio di Epistemologia Informatica di Bari, ricava un “vocabolario” (filosofese, terminologia filosofica, vocabolario filosofico) galileiano, procedere ad una prima valutazione dello stile ed avviare l'analisi “semantica” di un “concetto” utilizzato da Galileo. Ha raccolto, infine, questi spunti in una riflessione sui linguaggi dell'artificiale, intersecati con quelli della vita, sulle nuove tecnologie della comunicazione e sull'etica.  Altre opera: “Tommasi, filosofo, Bari, Adriatica; “Filosofia e sperimento” Bari, Adriatica; “Scienza, filosofia, letteratura, Verona, Bertani; “ Introduzione a Charcot, Fasano, Schena); “Epistemologia informatica, Bologna, Transeuropa); “ Filosofia e informatica. Bari: G. Laterza); “L'uomo e la macchina trent'anni dopo: Filosofia e informatica, Società Filosofica Italiana, Bari, G. Laterza); “Dall'offerta formativa alla creazione di un nuovo lavoro: la laurea umanistica” in Convegno per il corso "Informatica umanistica” BARI: G. Laterza); “Laboratori di psicologia tra passato e futuro, Lecce, Pensa Multimedia); “La prosa di Galileo: la lingua la retorica la storia, Lecce, Argo); “La filosofia come strumento di dialogo tra le culture, Bari, Mario Adda Editore); La Società Filosofica Italiana, Roma, Armando,. Note  M. Triggiani, Cultura, un fronte unico. Università e Comune per una rete dei contenitori, in Gazzetta del Mezzogiorno, 3 A.L., Dopo la laurea faccio il master in orecchiette, in Specchio. Supplemento di La Stampa, F. Di Trocchio, Dall'archivio al futuro, in L'Espresso,de Ceglia, l. Dibattista, Semi di storia della scienza.  Milano, Franco Angeli.  L’esperire immediato e l’esperienza mediata Affronteremo in questa lezione il difficile rapporto che s’instaura tra il mondo-della-vita e quello della scienza, tra esperienza diretta ed immediata ed organizzazione razionale. Husserl ritiene che le scienze moderne (matematiche e naturali) hanno bisogno di un nuovo fondamento, diverso e ben più solido di quello che vien loro solitamente attribuito dalla comunità degli scienziati, dei logici e dei metodologi. Per trovare questo nuovo fondamento, egli si rivolge direttamente al mondo-della -vita, cioè al mondo dell’esperienza concreta, nel quale le intuizioni si presentano al loro stato originario, non ancora elaborate in concetti: in una parola, si rivolge al mondo del precategoriale. A questo proposito egli mette in guardia gli scienziati, i quali ritengono di considerare la natura come è realmente e non si accorgono dell’astrazione attraverso la quale essa è diventata per loro un tema scientifico, non si accorgono cioè che le cose cui fanno riferimento - perfino quando parlano di oggetti empirici, di risultati dell’osservazione e della sperimentazione - sono in realtà il frutto di un precedente, assai complesso e artificioso, lavoro categoriale. Possiamo ricordare, a questo proposito, le procedure operative che oggi (in maniera più evidente di quanto si poteva percepire ai tempi di Husserl) le scienze sperimentali adottano. Ecco un esempio. Vedere, nella scienza del nostro tempo, vuol dire, quasi esclusivamente, interpretare segni generati da strumenti: tra la vista di un astronomo del nostro tempo che fa uso del telescopio spaziale Kepler e una di quelle lontane galassie che appassionano gli astrofisici ed accendono la fantasia di tutti gli esseri umani sono interposti oltre una dozzina di complicati apparati mediatori Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)  3 di 17   Università Telematica Pegaso La rivincita della conoscenza comune del tipo: un satellite, un sistema di specchi, una lente telescopica, un sistema fotografico, un apparecchio a scansione che digitalizza le immagini, vari computer che governano riprese fotografiche e processi di scansione e memorizzazione delle immagini digitalizzate, un apparecchio che trasmette a terra queste immagini in forma di impulsi radio, un apparecchio a terra che ritrasforma gli impulsi radio in linguaggio per un computer, il software che ricostruisce l’immagine e le conferisce i necessari colori, il video, una stampante a colori e così via. Questo esempio evidenzia che la scienza ha due attività fondamentali: la teoria e gli esperimenti. Le teorie cercano di immaginare come il mondo è; gli esperimenti servono a controllare la validità delle teorie e la tecnologia che ne consegue cambia il mondo. L’intero iter della ricerca scientifica si può sintetizzare con una affermazione netta: rappresentiamo e interveniamo. Rappresentiamo al fine di intervenire e interveniamo alla luce delle rappresentazioni. Dall’epoca della rivoluzione scientifica ha preso vita una sorta di “artefatto collettivo” che dà campo libero a tre fondamentali interessi umani: la speculazione, il calcolo, l’esperimento. La collaborazione fra ciascuno di questi tre ambiti porta a ciascuno di essi un arricchimento che sarebbe altrimenti impossibile. Per questo, come aveva insegnato già il filosofo inglese Francesco Bacone (ritenuto con Galilei il padre della scienza moderna), la scienza non è osservazione della natura allo stato grezzo. I sensi dell’uomo vanno ampliati mediante strumenti. I raggi dell’ottica di Newton, così come le particelle della fisica contemporanea, non sono dati in natura, sono i dati di una natura sollecitata da strumenti. Di fronte alla natura - come aveva affermato con una delle sue barocche metafore il Lord Cancelliere inglese - dobbiamo imparare a “torcere la coda al leone”. Da questo punto di vista la storia degli strumenti non è esterna alla scienza, ma ne è parte costitutiva e integrante. Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)  4 di 17   Università Telematica Pegaso La rivincita della conoscenza comune In altre parole: la definizione operativa accolta usualmente dagli scienziati tende sì a ricondurre i concetti ad un contenuto empirico, ma questo contenuto in realtà è quello filtrato da teorie e strumenti, come dall’esempio che abbiamo sopra riportato.  Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633) 5 di 17   Università Telematica Pegaso La rivincita della conoscenza comune 2 Categoriale e precategoriale La tesi di Husserl è, invece, che il fondamento di tutte le scienze - anche di quelle cosiddette empiriche - possa venire fornito soltanto dal «fiume eracliteo» delle intuizioni che precedono qualsiasi tipo di concettualizzazione e che ci coinvolgono nell’immediatezza della vita, personale e professionale, vissuta, la quale presuppone “il mondo circostante quotidiano della vita, in cui tutti noi, e anch’io in quanto filosofo, esistiamo coscienzialmente: non meno le scienze, in quanto fatti culturali inclusi in questo mondo, e gli scienziati e le loro teorie. Nei termini del mondo-della-vita: noi siamo oggetti tra gli oggetti; siamo qui o là, nella certezza diretta dell’esperienza, prima di qualsiasi constatazione scientifica, fisiologica, psicologica, sociologica, ecc. D’altra parte siamo soggetti per questo mondo, soggetti egologici che lo esperiscono, che lo considerano, che lo valutano, che vi si riferiscono attraverso un’attività conforme a scopi, soggetti per i quali il mondo circostante ha il senso d'essere che gli è stato attribuito dalle nostre esperienze, dai nostri pensieri, dalle nostre valutazioni, ecc., e nei modi di validità (della certezza, della possibilità, eventualmente dell’apparenza, ecc.) che noi realizziamo attualmente, in quanto soggetti di validità o che già possediamo da prima e che portiamo in noi in quanto abitualmente acquisiti, in quanto validità di questo o di quel contenuto che possono essere attualizzate a piacimento. -Naturalmente tutto ciò soggiace a una molteplice evoluzione, mentre ”il” mondo continua a essere un mondo unitario, e si corregge soltanto nella sua struttura di contenuto”.[...] Ora, se consideriamo noi stessi in quanto scienziati, nella funzione di scienziati in cui ora di fatto ci troviamo, al nostro particolare modo d’essere, di essere scienziati, corrisponde il nostro fungere attuale nel modo del pensiero scientifico, del nostro porre problemi e del nostro ricavare Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)  6 di 17   Università Telematica Pegaso La rivincita della conoscenza comune soluzioni teoretiche in relazione alla natura e al mondo dello spirito; ciò a cui ci riferiamo non è dapprima altro che uno degli aspetti del mondo-della-vita già precedentemente sperimentato o, comunque, già presente alla coscienza e già valido scientificamente o pre-scientificamente. Fungono con noi gli altri scienziati, che vivono con noi in una comunità teoretica, che attingono o già possiedono le stesse verità, oppure che, grazie all’accomunamento di questi atti, stanno con noi nell’unità di operazioni critiche e nel proposito di un accordo critico. D’altra parte noi possiamo essere per gli altri, e gli altri per noi, meri oggetti; invece che nella comunità dell’unità di un interesse teoretico attuale, possiamo conoscerci reciprocamente attraverso l’osservazione; possiamo conoscere gli atti del pensiero, gli atti dell’esperienza e, eventualmente, altri atti, come fatti obiettivi, ma “senza interesse”, senza partecipazione, senza un’adesione o un rifiuto critico”. (E. Husserl, La crisi delle scienze europee, cit. pp. 134-135, 139). Ogni pensiero scientifico e qualsiasi problematica filosofica, secondo Husserl, implicano sempre certe ovvietà, per esempio la certezza che il mondo esiste, che è già sempre preliminarmente, e che qualsiasi rettifica di un’opinione di qualsiasi tipo, presuppone sempre il mondo in quanto orizzonte di ciò che senza dubbio è e vale. Anche la scienza oggettiva pone i suoi problemi sul terreno di questo mondo, il quale, però, è sempre già da prima, che è già a partire dalla vita prescientifica. Essa, come qualsiasi prassi, presuppone il suo essere; ma, insieme, si pone come fine la trasformazione del sapere prescientifico (che è imperfetto sia nella sua portata che nella sua consistenza), in un sapere compiuto, conformemente all’idea della correlazione tra mondo, che in sé è ben determinato, e verità scientifiche che lo spiegano, presentandosi come delle verità in sé. In altri termini, il suo compito è quello di attuare questa esplicazione attraverso un processo sistematico, attraverso gradi di compiutezza, utilizzando un metodo che permetta un costante progresso. Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)  7 di 17   Università Telematica Pegaso La rivincita della conoscenza comune In realtà Husserl tende a realizzare una descrizione dello strato precategoriale (o antepredicativo) posto a fondamento dell’edificio logico-categoriale. Questo strato può presentarsi sia come un piano autonomo d’esperienza che ignora la destinazione predicativa, sia come un’anteriorità funzionale, cioè come un precategoriale non autonomo in quanto indirizzato verso il piano predicativo (o categoriale). In questo secondo caso, il predicativo assume il valore di interpretazione ed esposizione linguistica dell’antepredicativo cioè dell’originario d’esperienza. Il criterio che egli assume, peraltro, richiede che ogni fondazione e chiarificazione conoscitiva acquisisca, dal punto di vista fenomenologico, la forma del rinvio all’intuizione fondante. In tal modo il rapporto tra sensibilità ed intelletto (è evidente qui il richiamo critico alle due “fonti della conoscenza”, di kantiana memoria) si traduce nel rapporto tra “sensibile” e “categoriale”: il non-categoriale, il precategoriale è collocato nella sfera del sensibile con tutta la sua valenza fondativa per gli atti logici superiori.  Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633) 8 di 17   Università Telematica Pegaso La rivincita della conoscenza comune 3 Agrimensura empirica e geometria scientifica Tra le pagine più note, nelle quali Husserl analizza il rapporto fondativo del precategoriale incarnato nel mondo-della-vita ed il categoriale consacrato nei paradigmi scientifici, quelle dedicate alla genesi della geomertia e della geometrizzazione della natura sono particolarmente idonee per le tematiche che stiamo analizzando. Husserl precisa subito che la sua indagine “genealogica” non mira ad una ricostruzione “storiograficamente corretta” delle origini della geometria (emblematicamente assurta a simbolo della scienza “esatta”, ma non “rigorosa”) bensì vuole rintracciare il senso profondo, originario della sua collocazione categoriale. “Il problema dell'origine della geometria (e sotto il titolo di geometria raccogliamo qui, a fine di concisione, tutte quelle discipline che si occupano delle forme esistenti matematicamente nella spazio-temporalità) non è qui un problema storico-filologico; non si tratta quindi di reperire i primi geometri che·abbiano formulato proposizioni, dimostrazioni, teorie geometriche, né quelle determinate proposizioni che essi possono aver scoperto, ecc. Il nostro interesse mira invece a risalire al senso più originario in cui la geometria si è costituita, in cui si è sviluppata attraverso millenni, in cui è ancora viva per noi e in cui continua a evolvere; noi indaghiamo cioè il senso in cui si è presentata per la prima volta nella storia - il senso in cui dev’essersi presentata, anche se nulla sappiamo, né cerchiamo di sapere, sui suoi creatori. Partendo da ciò che sappiamo della nostra geometria, oppure dalle sue forme più antiche tramandateci (per es. dalla geometria euclidea), cerchiamo di risalire agli inizi originari e ormai sommersi della geometria, a quegli inizi “originariamente fondanti” così come devono necessariamente essersi prodotti. Questo tentativo di risalire al senso originario si mantiene necessariamente nell’ambito delle generalità, ma, come Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)  9 di 17   Università Telematica Pegaso La rivincita della conoscenza comune risulterà tra breve, si tratta di generalità ricchissime, la cui esplicitazione offre la possibilità di attingere problemi particolari e constatazioni evidenti che a loro volta si configurano come problemi. La geometria, per così dire, compiuta, a cui occorre rifarsi per risalire al suo senso, è una tradizione. La nostra esistenza umana si muove nell’ambito di un numero enorme di tradizioni. Tutto il mondo culturale, in tutte le sue forme, è per noi in base alla tradizione. Perciò le forme culturali non sono soltanto divenute causalmente: noi sappiamo anche che la tradizione è appunto una tradizione che si è costituita nel nostro spazio umano e in base all’attività umana, sappiamo che è spiritualmente divenuta - anche se in generale noi non sappiamo nulla della sua precisa provenienza e della spiritualità che l’ha di fatto determinata. E tuttavia, anche questo non-sapere include sempre, per essenza e implicitamente, un sapere che può essere esplicitato, un sapere di un’evidenza incontestabile”. (E. Husserl, ibidem, p.381). Questo sapere, continua Husserl, affonda le radici, nell’esempio specifico che egli illustra, nell’impiego empirico dei concetti geometrici. A questo livello possiamo certo accontentarci di determinazioni piuttosto vaghe, di una vaga tipicità; e dunque di confronti sommari, a occhio e croce. Ci possiamo contentare, ma beninteso secondo i casi. Vi sono situazioni in cui non ci contentiamo affatto. Se, ad esempio, dobbiamo vendere il nostro campicello o scambiare il nostro con quello di un altro, presumibilmente non saremo affatto soddisfatti da determinazioni tra il più e il meno. Cercheremo di escogitare metodi più precisi di confronto, dunque metodi di misurazione. Si vede subito allora in che senso la pratica della misurazione abbia a che fare con la geometria, e in particolare con la sua origine. Pur essendo motivati da interessi pratici, cominciamo tuttavia ora a porci problemi teorici, continua Husserl, sia pure in una forma relativamente disorganica. Per escogitare metodi di misurazione abbiamo bisogno di operare una certa Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)  10 di 17   Università Telematica Pegaso La rivincita della conoscenza comune classificazione delle forme, scoprire certe relazioni tra esse o inventare dei ben determinati congegni per stabilire tra esse una relazione. In tutto ciò sono implicite numerose riflessioni teoriche che preparano la riflessione propriamente geometrica. Lo stesso problema di una classificazione tenderà, ad esempio, ad un certo ordinamento che prefigura la distinzione tra forme elementari e forme derivate e che non solo richiede un preciso intervento teorico, ma configura altrsì un possibile campo di indagine con fini propriamente ed esclusivamente conoscitivi. Questa origine della problematica geometrica non ha evidentemente un carattere “storiografico” nel senso consueto del termine. In altri termini, non ci sono “documenti” che mostrino che le cose siano andate proprio così, e questo è un altro elemento di notevole interesse che emerge dalle riflessioni di Husserl e che riguarda il concetto della storicità. È innegabile infatti che siamo comunque di fronte ad una descrizione “storica”, ma essa è condotta sul filo di una logica interna ai concetti, non è un racconto più o meno leggendario. E persino l’origine della riflessione geometrica dall’agrimensura ha forse queste caratteristiche di una connessione “genetica” non storiograficamente documentata in senso stretto, ma che rientra tuttavia, in un certo senso, nel pensiero di una storia della geometria alle sue origini. Scrive Husserl: “La metodica geometrica della determinazione operativa di alcune e poi di tutte le forme ideali a partire da forme fondamentali, in quanto mezzi elementari di determinazione, rimanda alla metodica esercitata già nel mondo circostante pre-scentifico-intuitivo, dapprima in modo rudimentale poi secondo regole d’arte, alla metodica della misurazione e in generale della determinazione misurativa. Le sue finalità hanno un’origine, che è rivelatrice, nella forma essenziale di questo mondo-della-vita. Le sue forme sensibilmente esperibili e sensibilmente- intuitivamente pensabili in esso e tutti i tipi pensabili, a qualsiasi grado di generalità, si Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)  11 di 17   Università Telematica Pegaso La rivincita della conoscenza comune connettono continuamente le une con gli altri. In questa continuità essi riempiono la spazio- temporalità (sensibilmente intuitiva) che è la loro forma (Form). Ogni forma che rientra in questa aperta infinità, anche quando è data come un fatto nella realtà, è priva di “obiettività”, perciò non è determinabile intersoggettivamente da chiunque - per es. da un altro che non la veda di fatto -, né comunicabile nella sua determinatezza. Evidentemente a costui serve la misurazione. La misurazione è qualcosa di molto differenziato, il misurare vero e proprio non è che il suo momento conclusivo: da un lato si tratta di produrre concetti adatti per le forme corporee dei fiumi, dei monti, degli edifici, ecc. che di regola devono rinunciare a concetti e a nomi rigorosamente determinanti; innanzitutto per le loro “forme” (nell’ambito della somiglianza visiva), e poi per le loro grandezze e per i loro rapporti di grandezza e; ancora, per l’ubicazione, mediante la determinazione delle distanze e degli angoli che vengono riportati a luoghi e a direzioni presupposti noti e immobili. La misurazione scopre praticamente la possibilità di scegliere come misura certe forme fondamentali empiriche, che sono concretamente definite su corpi che di fatto sono generalmente disponibili ed empirico-rigidi, e, mediante i rapporti che esistono (e che devono essere scoperti) tra queste misure e le altre forme corporee, cerca di determinare intersoggettivamente e in modo praticamente univoco queste forme - dapprima in sfere ridotte (ad es. nell’ agrimensura) poi per nuove sfere di forme. Si capisce così come, in seguito all’esigenza, ormai desta, di una conoscenza “filosofica”, di una conoscenza che determinasse il “vero” essere, l’essere obiettivo del mondo, la misurazione empirica e la sua funzione empiricamente- praticamente obiettivante, attraverso la trasformazione dell’interesse pratico in un interesse puramente teoretico, potesse venir idealizzata e trapassare così in un pensiero puramente geometrico. La misurazione prepara così la geometria universale e il suo “mondo” di pure forme- limite”. (E. Husserl, ibidem, pp. 57-58). Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)  12 di 17   Università Telematica Pegaso La rivincita della conoscenza comune Naturalmente la fenomenologia rappresenta in certo senso la guida di questo pensiero. Benché l’istante della transizione non possa essere documentato, è tuttavia chiaro che molte conoscenze geometriche siano state anticipate e presupposte nella tecnica degli agrimensori. Anzi in generale i problemi che sorgono nell’ambito della soluzione di difficoltà pratiche stimolano la ricerca sul piano teoretico–conoscitivo: la prassi tecnica genera motivi di riflessione teorica. E inversamente la riflessione teorica diventa un “mezzo della tecnica”; una volta che una scienza come la geometria si è costituita, quando cioè esiste un lavoro scientifico diretto in modo autonomo ad un universo di oggetti concettualmente definito, questo lavoro si ripercuote a sua volta sul terreno dei problemi tecnici suggerendo nuove idee e nuovi progetti.  Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633) 13 di 17   Università Telematica Pegaso La rivincita della conoscenza comune 4 Logica trascendentale e mondo-della-vita Questa interconnessione tra precategoriale e categoriale non riguarda soltanto le scienze naturali e sociali, ma investono ovviamente anche le scienze formali e, tra queste, la logica, verso la quale Husserl, fin dall’inizio della sua attività filosofica, ha sempre mostrato particolare interesse. Dalle Ricerche logiche (1900) a Logica formale e trascendentale (1929) a Esperienza e giudizio (1939), egli traccia la via di una “genealogia” della logica, in polemica con il logicismo e lo psicologismo, Nello sviluppo del suo pensiero si impone a Husserl anche l’esigenza di chiarire che genere di rapporto sussiste tra la logica antepredicativa e la logica predicativa . La percezione sensibile, per quanto consista nel tendere da parte dell’io verso l’oggetto intenzionato, è sempre una conoscenza instabile, insicura, che non consente mai di possedere l’oggetto conosciuto in maniera definitiva. Questo è possibile soltanto mediante una conoscenza predicativa, cioè attraverso la logica, la quale ha la capacità di fissare l’oggetto e di conservarlo anche quando non è presente nella percezione. La conoscenza antepredicativa e quella predicativa, perciò, si differenziano nettamente e ciascuna si caratterizza per una propria specificità. Se però si analizza la genesi della logica, ci si rende conto che bisogna rifarsi alla percezione sensibile per spiegare la logica predicativa. Questo significa che la conoscenza predicativa, di cui appunto la logica è l’espressione più compiuta, riposa fenomenologicamente, cioè dal punto di vista della sua fondazione, sulla conoscenza antepredicativa, cioè si esplicita in logica trascendentale. Scrive Husserl: Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)  14 di 17   Università Telematica Pegaso La rivincita della conoscenza comune “Chiarito il contrasto tra scienza obiettiva e mondo-della- vita, occorre tuttavia localizzare la loro essenziale connessione: la teoria obiettiva nel suo senso logico (in termini universali, la scienza come totalità delle teorie predicative, dei sistemi “logici” in quanto sistemi di “proposizioni in sé”, di “verità in sé” e, in questo senso, di enunciati logicamente connessi) è radicata e fondata nel mondo-della-vita, nelle sue evidenze originarie. Proprio per questo la scienza obiettiva ha una costante relazione di senso col mondo in cui sempre viviamo, e in cui, quindi, viviamo anche nella nostra qualità di scienziati accomunati a tutti gli altri scienziati - si tratta cioè di una relazione col comune mondo-della-vita. Ma così la scienza obiettiva è un’operazione di persone pre-scientifiche, di persone singole e di persone accomunate nell’attività scientifica, di persone quindi che appartengono al mondo-della-vita. Le loro teorie, le formazioni logiche, non sono naturalmente cose del mondo-della-vita nel senso in cui lo sono i sassi, le cose, gli alberi. Sono totalità logiche e parti logiche costituite da elementi logici ultimi. Per parlare con Bolzano: sono “rappresentazioni in sé”, “proposizioni in sé”, conclusioni e dimostrazioni “in sé”, unità ideali di significato, la cui idealità logica è determinata dal loro telos “verità in sé”. Ma anche questa idealità, come qualsiasi altra, non muta nulla al fatto che sono formazioni umane connesse per essenza alle attualità e alle potenzialità umane, e che quindi rientrano nella concreta unità del mondo-della-vita, la cui concrezione dunque ha una portata maggiore di quella delle “cose”. Ciò vale, correlativamente, anche per le attività scientifiche, sperimentali, per le attività che “in base” all’esperienza plasmano le formazioni logiche, in cui esse compaiono in forma originaria e in modi originari di evoluzione, nei singoli scienziati e nella comunità degli scienziati: quale originarietà delle proposizioni, delle dimostrazioni, ecc. che sono state elaborate in comune”. (E. Husserl, ibidem, pp. 158-159). Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633) '    15 di 17   Università Telematica Pegaso La rivincita della conoscenza comune Come potete notare, si tratta di un’ampia riflessione sul come le strutture logiche siano o meno adeguate alla dimensione della realtà oggettiva. In questo senso la logica trascendentale si presenta come logica dei fondamenti, ed è in seno ad essa che si costituisce la logica come scienza formale. La logica formale tradizionale, invece, ha ignorato la propria genesi, presupponendo come ovvia la validità delle proprie leggi. Al contrario, un giudizio logico deve essere valutato come un atto soggettivo di conoscenza che si impadronisce del suo contenuto. Per questo motivo le leggi logiche formali, che siano normative del giudizio, ma che non tengono conto del fatto che sono normative anche del suo contenuto, fanno sorgere interrogativi sulla validità dei loro giudizi sul mondo naturale e sulla verità ed evidenza dei loro contenuti. Seguendo questo punto di vista, Husserl sviluppa pienamente il tema della logica trascendentale in rapporto alle categorie di verità e di significato. Conseguentemente, la logica si configura qui come teoria delle teorie: essa non è solo un discorso logico sulla logica, condotto con i mezzi della logica, ma un metadiscorso sulla logica, che tuttavia non si presenta né come una sovrastruttura né come una forma speculativa. E’, a tutti gli effetti, una regressione, un ritorno ai fondamenti che l’hanno costituita nelle sue operazioni originarie, anche storiche, nonché nelle sue operazioni attuali. Le ricerche fenomenologiche, ribadisce Husserl, risultano necessarie alla logica pura, trascendentale. Ne rappresentano la sua fondazione intuitiva e precategoriale: in quanto la logica è da ricercare nelle operazioni costitutive, diventa logica filosofica, filosofia prima, teoria della teoria. Ma, badate bene, ciò non è in contraddizione con la fondazione precategoriale: è solo l’altra faccia della questione, poiché la fondazione deve sempre essere ristabilita nella presenza e nelle modalità temporali e quindi genetiche e storiche. Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)  16 di 17   Università Telematica Pegaso La rivincita della conoscenza comune Le scienze, invece, che non prendono in considerazione ciò che costituisce il loro fondamento trascendentale, cioè le condizioni per cui si danno, si risolvono in pure tecniche di manipolazione di simboli linguistici.Mauro Di Giandomenico. Giandomenico. Keywords: l’apertura semantica, “How Pirots Karulise Elatically” – pirots karulise elatically – pirots karulise – ‘implicazione’ – aperture semantica, Galileo, la retorica di Galilei, Galilei, lo stile di Galilei, Vinci, I corpi, la filosofia positivistica italiana  -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Giandomenico: l’implicatura conversazionale: ‘Pirots karulise elatically; therefore, pirots karulise!” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51757604051/in/dateposted-public/

 

Grice e Giani – implicatura mistica – l’implicatura di Catone -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Muggia). Filosofo. Grice: “It’s hard for me to judge Giani’s philosophy because I fought against the Italians during the so-called ‘second world war,’ so-called!” Grice: “But I would be willing to expand: if Giani developed what he aptly called a ‘mystique’ – so did we at Oxford – Churchill surely held his ‘mystique.’ Of course the Italian, being more scholastic, had to call it ‘scuola di mistica,’ – and the idea was that of an all-male chivalry order – aptly set at Milan!” Fonda la corrente filosofica nota come "Mistica". Partì come volontario di guerra e morì sul fronte.  Dopo aver frequentato il Liceo ginnasio Dante Alighieri di Trieste si trasferì a Milano, dove si iscrisse a Milano e quindi ai Gruppi Universitari, laureandosi. Anticipa l'imminente apertura della scuola sul foglio dei Gruppi Universitari, "Libro e moschetto" della Scuola di Mistica. Ne divenne direttore, carica che lasciò alla fine dell'anno seguente dopo aver scritto il suo ampio discorso da tenersi a Roma in occasione dellaI iunione della Società Italiana per il Progresso delle Scienze che coincideva anche con il decennale della Marcia su Roma in cui enuncia i principi della nuova scuola.  Su impulso di Giani si comincia inoltre a pubblicare i Quaderni della scuola di mistica. Poche settimane dopo la riunionesi dimise da direttore con una lettera inviata a Mussolini, per contrasti interni con il segretario politico dei Gruppi Universitari. Imputa le dimissioni al mancato trasferimento della Scuola nella vecchia sede de Il Popolo d'Italia chiamato anche "Il covo" La richiesta di entrare in possesso de "Il Covo" puntava ad ottenere il possesso di uno degli ambienti più importanti dell'immaginario fascista. Continua quindi a collaborare con diversi quotidiani come "Il Popolo d'Italia" e "Gerarchia". "Lineamenti sull'ordinamento sociale dello Stato" gli fece ottenere la libera docenza e e quindi la cattedra di Storia a Pavia ma parte volontario per la guerra d'Etiopia arruolandosi col grado di capomanipolo della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale nel CXXVIII Battaglione"Vercelli".  Rientrato in Italia, riassunse la guida della scuola, qui in occasione della chiusura dell'anno scolastico nell'aula della casa del Fascio di Milano. Rientrato in Italia riassunse la carica di direttore della "Scuola di Mistica" lanciando due importanti iniziative, rilancia la pubblicazione della serie di "Quaderni" che affrontavano differenti problematiche e sempre per sua iniziativa fu creata nell'ambito della scuola la rivista mensile, Dottrina che divenne l'organo ufficiale della Scuola, in cui pubblica  il "Decalogo dell'italiano nuovo”. Si dedica inoltre al giornalismo diventando direttore a Varese di "Cronaca prealpina" e collaborando a diverse testate, tra cui Tempo (Direttore: Alfredo Acito). Dalle pagine di "Cronaca prealpina" prese parte alla campagna fondata sui propri convincimenti del ‘spirito’ contrapposto al "biologico"  La Cronaca prealpina dopo la nomina di Giani a direttore arriva a quadruplicare la tiratura.   L'incontro a Roma con Mussolini in cui si decise la cessione del "Covo" ai "mistici" della Scuola. Su impulso di Giani, con una cerimonia presieduta di Starace, la sede ufficiale della Scuola di Mistica si spostò nel medesimo edificio che ospitò ai suoi primordi il giornale Il Popolo d'Italia, chiamato "il Covo". Il "Covo" negli anni era stato trasformato in una galleria. La palazzina e proclamata monumento nazionale con tanto di guardia d'onore  svolta da squadristi e combattenti. Per esplicita decisione di Mussolini, fu ufficialmente consegnata ai mistici della scuola. L'evento fu vissuto come una autentica consacrazione dei insegnanti riuniti intorno a Giani. In realtà la consegna era già stata disposta come risulta da un foglio d'ordini del PNF e in quell'occasione il consiglio direttivo era stato ricevuto a Roma da Mussolini. Mussolini li aveva spro continuare nella loro attività.  A Milano, in occasione del decennale dalla fondazione della scuola, organizzò il "Convegno nazionale di mistica" che nelle sue intenzioni avrebbe dovuto essere il primo della serie. Obiettivo che sfumò a causa dell'entrata in guerra. L'incontro vide oltre 500 partecipanti ed ebbe l'adesione della maggior parte degli filosofi dell'epoca. Come gran parte dei "mistici", partecipa nuovamente come volontario alla seconda guerra mondiale, conflitto nel quale vedeva il presagio di una rivoluzione in vista di una nuova era.  Inquadrato nell'11º reggimento alpini prese parte alla battaglia delle Alpi Occidentali contro la Francia e venendo decorato con la medaglia d’argento al valor militare.Terminata la campagna di Francia in seguito all'armistizio tornò alla vita civile ma incominciata nel frattempo la guerra in nord Africa richiese più volte di partire volontario senza ottenere soddisfazione. Alla fine ottenne di partire  come corrispondente di guerra de Il Popolo d'Italia, della Cronaca prealpina e de L'Illustrazione Italiana presso i reparti della Regia aeronautica. Per quest'ultima realizza anche diversi servizi fotografici. All'attività di giornalista affiance anche quella di militare prendendo parte ad alcune azioni e ottenendo una medaglia di bronzo al valor militare. E richiamato in Italia dove riassunse la guida de "La cronaca prealpina".Nuovamente incorporato nell'11º reggimento alpini riparte infine come volontario per la campagna di Grecia, dove cadde sul fronte greco-albanese nella battaglia per la conquista della Punta Nord del Mali Scindeli. Si offre volontario per una pericolosa missione che prevede la conquista di una munita postazione greca. L'attacco ebbe inizialmente successo con la conquista della posizione ma riorganizzatisi i greci condussero un contrattacco. Nello scontro cadde. Il periodico L'Illustrazione Italiana scrisse, senza riportare dove o come avrebbe potuto registrare tali parole, che l'ufficiale greco che lo aveva colpito a morte avrebbe raccontato che nello scontro Giani gli si era parato davanti "come un dio o un demone".  Il corpo di Giani andò disperso e gli altri assaltatori che avevano preso parte all'attacco dovettero ritirarsi rapidamente incalzati dai soldati greci. Fu pochi giorni dopo incaricato delle ricerche Carati che era anche vice-direttore della Scuola di mistica. Le ricerche a causa della perdurante situazione di guerra furono nulle, e riuscì solo ad individuare il luogo in cui era caduto.  In quell'occasione, richiesta un'udienza al Duce, chiese che potessero partire per l'Albania il cognato Guido Giani e il fratello Aldo Sampietro. Questi ultimi rinvennero la salma sepolta in maniera anonima in territorio greco. Di qui la salma fu translata nel piccolo cimitero militare di Klisura.  Mussolini fu preso come principale punto di riferimento dalla Scuola di Mistica. Elabora un discorso programmatico in cui enuncia i principi fondanti della Scuola e della Mistica fascista. Compito nostro deve essere soltanto quello di coordinare, interpretare ed elaborare il pensiero del Duce. Ecco perché è sorta una Scuola di mistica ed ecco il suo compito: elaborare e precisare i nuovi valori  che sono nell'opera del Duce.  (Giani in La marcia sul mondo). Inizialmente i principi esposti da Giani facevano parte di un discorso più ampio da tenersi a Roma in occasione di una riunione della Società Italiana per il Progresso delle Scienze. L'ampio discorso fu poi pubblicato nella serie dei "Quaderni" voluti da Giani con il titolo "La marcia sul mondo della Civiltà". Si impone un ritorno alle origini, ovvero al movimentismo rivoluzionario, riallacciandosi idealmente all'esperienza delle prime squadre d'azione e degli arditi della Grande Guerra quindi, secondo Veneziani "una più radicale rivoluzione coniugata al recupero di una più integralistica tradizione". Ma più che legati agli enunciati politici del manifesto di sansepolcro i mistici di quella esperienza esaltavano soprattutto la lotta contro la borghesia affaristica del primo dopoguerra. La mistica si considera rappresentante proprio di questo mondo ispirato dall'amore di patria e posta a guardia della rivoluzione permanente e in contrasto con gli opportunisti e i trasformisti. Individuava nell'epoca contemporanea *quattro* principali mistiche, destinate ad apportare in un primo tempo dei benefici ma poi a fallire: liberale, democratica, socialista e comunista. Liberalismo, democrazia, socialismo e comunismo sono le quattro mistiche dominanti nella societa. Il bilanciolo abbiamo già visto è per tutte negativo. Il liberalismo porta all'anarchia. La democrazia porta all'instabilità politica e sociale. Il socialism porta alla otta civile. Il comunismo porta alla vita primitiva. Queste quattro mistiche sono pertanto anti-storiche. A fronte di esse l'unica mistica in grado di superare tali crisi era quella come sviluppato nel capitolo intitolato "La marcia ideale" la cui conoscenza e diffusione presso le masse era compito della élite. Medaglia d'argento al valor militarenastrino per uniforme ordinariaMedaglia d'argento al valor militare «Volontario nella guerra d'Africa ove prese parte volontario a diverse pattuglie esploratori, chiese ed ottenne di essere anche in quest guerra assegnato ad un reparto combattente. Destinato all'11º alpini volontario a due azioni del battaglione Bolzano chiese di partecipare alla ardita discesa di due compagnie del battaglione Trento effettuata in una valle occupata dal nemico e avanzò con la prima pattuglia sotto intenso bombardamento, sprezzante del grave pericolo di sorprese e di accerchiamento nemico, esempio trascinante a ufficiali e soldati, e prova di dedizione alla patria, di alta fede e di valore.» Medaglia di bronzo al valor militarenastrino per uniforme ordinariaMedaglia di bronzo al valor militare «Corrispondente di guerra presso una squadra aerea disimpegnava il suo particolare e delicato servizio con alto senso di responsabilità. Spesso presente sugli aeroporti più avanzati e maggiormente battuti dall'offesa nemica allo scopo di rendersi conto di ogni particolare, partecipava volontariamente a difficili e rischiose missioni di guerra, dando sicura prova anche nelle più critiche circostanze di sereno sprezzo del pericolo e completa dedizione al dovere.» Medaglia d'oro al valor militarenastrino per uniforme ordinaria Medaglia d'oro al valor militare «Volontariamente, come aveva fatto altre volte, assumeva il comando di una forte pattuglia ardita, alla quale era stato affidato il compimento di una rischiosa impresa. Affrontato da forze superiori, con grande ardimento le assaltava a bombe a mano, facendo prigioniero un ufficiale. Accerchiato, disponeva con calma e superba decisione gli uomini alla resistenza. Rimasto privo di munizioni, si lanciava alla testa dei pochi superstiti, alla baionetta, per svincolarsi. Mentre in piedi lanciava l'ultima bomba a mano ed incitava gli arditi col suo eroico esempio, al grido di: «Avanti Bolzano! Viva l'Italia», veniva mortalmente ferito. Magnifico esempio di dedizione al dovere, di altissimo valore e di amor di Patria.» — Punta NordMali Scindeli (Fronte greco), 14 marzo 1941. Opere: “La via della gloria, anni 20 La marcia sul mondo della Civiltà Fascista, Lineamenti su l'ordinamento sociale dello Stato, Giuffré ed. La mistica come dottrina. Perché siamo, A. Nicola. Perché siamo mistici. Mistica della rivoluzione. Antologia di scritti, Il Cinabro,  Longo, “I vincitori della guerra perduta” (sezione su  Giani), Edizioni Settimo sigillo, Roma.Carini, Giani e la scuola di mistica fascista,  Mursia, Antonellis, Come doveva essere il perfetto, su storia illustrate,Antonellis, Come doveva essere il perfetto, su storia illustrate, Tomas Carini nella prefazione su  Giani, La marcia sul mondo, Novantico Editore, Pinerolo,Carini,  Giani e la scuola di mistica, Mursia,Tomas Carini, Giani e la scuola di mistica, Mursia, Carini, Giani e la scuola di mistica fascista, Mursia, Tomas Carini nella prefazione su Giani, La marcia sul mondo, Novantico Editore, Pinerolo,Grandi, Gli eroi, Giani e la Scuola di mistica, Cfr. a tale proposito le ricerche di Enzo Laforgia, una cui sommaria sintesi è nel sito varesenews Archiviato. Tomas Carini nella prefazione su Niccolò Giani, La marcia sul mondo, Novantico Editore, Pinerolo, Il saggio, edito da Dottrina Fascista, riporta in forma integra la conferenza inaugurale tenuta da Giani per l'inaugurazione del corso per maestri della Scuola di Mistica. Cfr. a tale proposito le ricerche di Enzo Laforgia in Aldo Grandi, Gli eroi di Mussolini, BUR, Milano, Antonellis, Come doveva essere il perfetto, su storia illustrate, Veneziani, La rivoluzione conservatrice in Italia, Sugarcoedizioni, Varese, Longo, Gli eroi della guerra perduta, edizioni settimo sigillo, Roma,  L'Illustrazione italiana, Grandi, Gli eroi di Mussolini. Niccolò Giani e la Scuola di mistica fascista, cAldo Grandi, Gli eroi di Mussolini. Niccolò Giani e la Scuola di mistica fascista, cNiccolò Giani, La marcia sul mondo, Novantico Editore, Pinerolo,, Tomas Carini nella prefazione su Niccolò Giani, La marcia sul mondo, Novantico Editore, Pinerolo,Marcello Veneziani, La rivoluzione conservatrice in Italia, Sugarcoedizioni, Varese, Giani, La marcia sul mondo, Novantico Editore, Pinerolo,, Tomas Carini nella prefazione su Giani, La marcia sul mondo, Novantico Editore, Pinerolo, Tomas Carini nella prefazione su Giani, La marcia sul mondo, Novantico Editore, Pinerolo,  Tomas Carini, Giani e la Scuola di mistica, prefazione di Marcello Veneziani, Mursia, Milano, Grandi, Gli eroi di Mussolini. Giani e la Scuola di mistica, BUR Biblioteca Univ. Rizzoli, RaidoSpeciale Scuola di Mistica, Raido, Roma, Arnaldo M., Coscienza e dovere.  Niccolò Giani MISTICA DELLA RIVOLUZIONE FASCISTA Antologia di scritti, 1932-1941, pp. 302, euro 15.00 In libreria dal 27 novembre   In breve: «Siamo mistici perchè siamo degli arrabbiati, cioè dei faziosi, se così si può dire, del Fascismo, uomini [...] partigiani per eccellenza e quindi anche assurdi [...]. Del resto nell’impossibile e nell’assurdo non credono gli spiriti mediocri. Ma quando c’è la fede e la volontà, niente è assurdo». (Niccolò Giani) Un’antologia che raccoglie i più significati testi di Niccolò Giani, tra i massimi esponenti della corrente più radicale, oltranzista e universale del Fascismo, la Scuola di Mistica Fascista.         Questa antologia rappresenta la prima raccolta organica dei più significativi scritti di Niccolò Giani nel periodo che va dal 1932 al 1941. È, a nostro giudizio, il modo migliore per illustrare senza filtri la sua persona, il suo pensiero e la sua azione. È un omaggio doveroso al testimone di quello che fu il Fascismo universale e intransigente che mai scese a compromessi con la “vita comoda”, al rinnovatore spirituale e politico di una intera generazione. Esempio di eroismo che, al di là della contingenza storica, seppe essere coerente con i propri principî vivendo l’ideale sino all’estremo sacrificio; quasi innalzando il Fascismo ad una categoria universale dell’essere, come fonte inesauribile di spiritualità cui innestarsi per fare la rivoluzione dell’uomo e del mondo. Niccolò Giani, nato a Muggia il 20 giugno 1909, cadde sul fronte greco il 14 marzo 1941, nello slancio del combattimento, trasfigurato ormai nell’eroismo muto. Dimostrò con la vita affermata oltre la morte, l’armonia tra pensiero e fede, la continuità tra dottrina ed azione, e della autentica Rivoluzione rimane il puro rappresentante della giovinezza nuova: per questo il suo esempio sarà il seme fecondo dell’aspro cammino di domani. Seppe con l’azione indicare la strada, con l’intransigenza insegnare l’esempio. I «tesserati» furono i suoi avversari. Contro di essi combatté, contro cioè i falsi, i presuntuosi, gli esibizionisti, i retorici, gli arrivisti; contro coloro, insomma, che considerarono la Rivoluzione come atto di ordinaria amministrazione, sfruttabile per fini personali.    Il Cinabro Ufficio stampa ufficiostampa@ilcinabro.it   INDICE: Saggi introduttivi: - Luca Leonello Rimbotti: Mistica Fascista. L’ordine della Milizia sacra - Maurizio Rossi: La Mistica Fascista dell’Uomo Nuovo. Tra milizia politica e metapolitica la scuola rivoluzionaria del Fascismo *** Introduzione: - Fernando Mezzasoma: Niccolò Giani discepolo di Arnaldo *** Decalogo dell’Uomo Nuovo La marcia ideale sul mondo della Civiltà fascista Generazioni di Mussolini sul piano dell’Impero Civiltà fascista civiltà dello spirito Aver Coraggio A difesa dell’Europa Fuori La mistica come dottrina del fascismo Le due Europe Mistica del fascismo, Corporativismo e Autarchia Il Centro di preparazione politica per i giovani. Fucina di Campioni della Rivoluzione Valore primordiale del “Covo” I soliti imbecilli L’equivoco Perché siamo dei mistici Il volto della guerra Testamento spirituale al figlio Niccolò Giani: Presente!Mistica Della Rivoluzione Fascista “E questo diritto alla prima linea, ad essere i disperati del Fascismo, è l’unica pretesa che, oggi, domani, sempre, i mistici del Fascismo accamperanno di fronte alla Rivoluzione, come, con vena veramente squadrista, ha detto Guido Pallotta nella sua relazione che ha avuto lo spirito e la mordenza del «menefreghismo» più autenticamente fascista. Prima linea, sul fronte esterno ed interno, contro il nemico di fuori e di dentro. Contro gli attentatori della nostra integrità territoriale, ma anche, e con uguale decisione e durezza, contro gli attentatori della nostra integrità spirituale.”  (Niccolò Giani)  Le conseguenze derivate dalla fine del primo conflitto mondiale e l’immediatarossi 5 crisi strutturale delle istituzioni e dei valori che investì, con una forza che non aveva avuto precedenti nella storia, le società europee, vennero allora giudicate come l’annuncio di un radicale mutamento di tutte le forme della vita politica e civile fino ad allora conosciute e complessivamente accettate. Una deflagrazione interna dei costumi, di certezze consolidate e di mentalità che modificò in maniera irreversibile l’immaginario collettivo di popoli e nazioni.  Niente sarebbe più stato come prima. Uno Spirito nuovo si affacciava con ruvida decisione e realismo eroico reclamando il proprio posto nella Storia. L’alba delle grandi rivoluzioni si affacciava sul continente europeo e i popoli si sarebbero messi in marcia affascinati da nuove e esaltanti Weltanschauung.  Per Arthur Moeller Van Den Bruck, uno dei primi e tra i più significativi esponenti della Rivoluzione Conservatrice tedesca, si tratterà di una presa di posizione a carattere diffuso più che evidente: “Assistiamo all’evento per cui tutto quel che non è liberale si unisce contro quel che è liberale. Noi viviamo i tempi di questa agitazione mondiale, che si produce per una estrema consequenzialità, e che si esplica in una rivoluzione radicale che prospetta la perdita da parte del nemico della sua posizione di potere: tale nuova situazione mondiale esordisce con un allontanamento dall’Illuminismo.”  Il periodo che immediatamente fece seguito al termine di un conflitto di così immensa portata, venne visto dai più attenti e acuti osservatori incredibilmente saturo di una genuina e stupefacente valenza rivoluzionaria e innovatrice, ciò significò l’inizio di una nuova stagione di entusiastiche mobilitazioni che avrebbero alla fine tonificato la fibra morale e politica del continente fino ad allora logorata ed estenuata da sovrastrutture ipocrite e corrose nel loro intimo che erano riuscite, attraverso innumerevoli sotterfugi, a sopravvivere a se stesse, sempre più annichilite da un pervasivo decadentismo culturale e morale e dal predominio di una mentalità borghese e oligarchica connotata dalle sue più perniciose vedute utilitaristiche e mercantilistiche.  Le conseguenze della fine della grande guerra significarono soprattutto una presa di coscienza collettiva e un’accelerazione formidabile dei fenomeni sociali, accompagnate entrambe da una esigenza totalmente nuova di considerare l’esistenza e i rapporti umani, esigenza che venne principalmente percepita prima dai combattenti e poi dai reduci come il frutto maturo della traumatica e allo stesso tempo travolgente esperienza della guerra di trincea, insomma un insieme di condizioni imprescindibili che prepararono il terreno e l’atmosfera per l’avvento delle ondate rivoluzionarie nazionalpopolari che misero in crisi valori e regole consolidate da tempo, assestando colpi mortali alle strutture politiche, sociali e culturali delle società borghesi liberal-democratiche.  Dalle forme statiche si passava alle forme dinamiche, nel senso jungeriano del termine.  Il Fascismo sarà la matrice principale che inaugurò la feconda ed entusiasmante stagione delle insurrezioni nazional-rivoluzionarie e il primo laboratorio culturale delle ancor più affascinanti sintesi nazionali e sociali.  Furono infatti i reduci del fronte, gli ex-combattenti che avevano creduto fino in fondo ad una particolare visione eroica della vita propria di una ideologia della guerra sviluppatasi nell’interiorizzazione del sacrificio bellico e del sangue versato – subendo poi la frustrazione di una vittoria conseguita sul campo di battaglia a duro prezzo che videro mutilata negli accordi di pace internazionali – a rappresentare la spina dorsale di una innovativa e volontaristica visione politica che pretendeva di coniugare un nazionalismo intransigente e guerriero partorito nelle trincee con le più avanzate e spregiudicate chiavi di lettura sociali.  La grande guerra di popolo aveva travasato nei combattenti il senso della tensione nazionale e sociale verso scopi e missioni comuni, una nuova coscienza collettiva che sarebbe stata cementata da un formidabile sentimento di fraterno e virile cameratismo, il culto della differenza e del radicamento nella specificità etnica della Stirpe italica.  Gli squadristi fascisti non fecero altro che travasare tutti questi motivi nelle battaglie di piazza.  Sorti dalla guerra di popolo, divennero avanguardia di popolo. E il 28 Ottobre 1922 sarà il coronamento dei loro sacrifici, la loro apoteosi.  D’altronde era stato lo stesso Mussolini a dire che l’esperienza della guerra avrebbe generato le migliori condizioni per la rivoluzione sociale e politica. Anzi, ne sarebbe stata la prefazione. Era il novembre 1916 e Mussolini combatteva sul fronte del Carso, nei ranghi del 11° Reggimento Bersaglieri: “Noi vinceremo la guerra: ma poi dovremo vincere la pace. Sarà duro; ma ci arriveremo. La società italiana deve assolutamente mutare. (…) Sui giovani bisognerà contare. Questa guerra che noi combattiamo e che con tragica definizione viene detta di logoramento, porterà alla ribalta delle lotte civili una generazione che riuscirà a fare quello che la nostra non è riuscita a fare: il riscatto sociale e politico del mondo del lavoro, al di sopra e al di fuori dei dottrinarismi che oggi lo incatenano. A ciò non saremmo mai arrivati se non avessimo voluto la guerra, rovesciato i vecchi feticci sostituendo alle vuote ideologie i fatti e le loro naturali conseguenze. Questo non sarà solo di noi, ma anche di altri popoli.”  Una lucida e profetica anticipazione di quanto sarebbe poi accaduto in tutta l’Europa.  Tutto questo si pose, in maniera del tutto naturale, in totale opposizione al principio democratico in politica e a quello liberale nel campo economico, all’insegna di una rivoluzionaria concezione elitaria, fortemente gerarchica e anti-egualitaria che reclamava la valorizzazione delle minoranze attivistiche e carismatiche con la conseguente affermazione del principio guida del Capo, con il mito dello Stato totalitario come asse formante e legittimante della Comunità nazionale e non ultimo la funzione pedagogica del Partito unico, soprattutto mediante una costante mobilitazione politica delle masse, una sacralizzazione della politica attraverso il ricorso a liturgie collettive, miti e simbologie, e una crescente militarizzazione della vita sociale e civile, l’intervento statale attraverso gli istituti del Corporativismo per una razionale direzione disciplinata dell’economia che ponesse termine all’epoca del predominio delle oligarchie mercantilistiche e parassitarie e riportasse la vita economica al servizio dell’interesse collettivo subordinandola alle necessità politiche nazionali.  Infine, l’affermazione sovrana di una particolare e severa tipologia umana di nuova impronta che avrebbe rappresentato lo spirito del nuovo tempo: l’Uomo Nuovo, l’Uomo integrale come manifestazione vivente di una Tradizione atemporale che ebbe la volontà e la capacità di tradursi in Rivoluzione.  Proprio nel senso di quell’interpretazione che Niccolò Giani seppe dare, facendosi portavoce di quegli ambienti del Fascismo intransigente e rivoluzionario che vollero interpretare al meglio gli insegnamenti mussoliniani: “Il Fascismo è un richiamo violento alla Tradizione, non un ritorno o una ripetizione. Per noi fascisti la Tradizione come lo dice il significato etimologico del termine e come Evola ha documentato, è e non può essere che dinamica. Altrimenti si parlerebbe di conservatorismo o di reazione. Invece, la Tradizione è continua coniugazione, attraverso il presente, del passato e dell’avvenire; è processo inesausto di superamento, è una fiaccola accesa con la quale ogni popolo illumina la propria strada e corre nel tempo verso l’avvenire. Ecco perché, oggi, Rivoluzione e Tradizione non si escludono, ma anzi si identificano e questo spiega il culto che noi abbiamo pel passato e dice ai soliti uomini dai paraocchi che l’italiano del secolo XX non può che essere fascista.”  Questa nuova visione della politica rappresentata dal Fascismo rappresentò inequivocabilmente la radicale negazione dei principi emersi dalla rivoluzione francese, una evidente antitesi storica e culturale di quanto fu incarnato dall’illuminismo, che costituì l’essenza di tutte le manifestazioni materialistiche ed economicistiche della decadenza moderna: da quelle individualistiche, liberali e democratiche a quelle cosmopolite, genericamente progressiste e marxiste.  Il Fascismo, anche nella sua più vasta comprensione europea, intese proporre in maniera concreta ed efficace un discorso radicalmente alternativo alla politica borghese e alla società borghese richiamandosi al concetto di avanguardia delle idee, un’avanguardia rivoluzionaria che fosse in grado, senza contraddizioni, di saldare assieme passato e presente vincendo così la sfida della modernità, sostituendo il vigore giovanile della passione idealistica e volontaristica alla decadente dissolutezza del conservatorismo borghese e il cameratismo militante radicato nella coscienza popolare alla società atomizzata e polverizzata delle democrazie liberali.  Un discorso ambizioso per un’avanguardia che ambiva ad essere al contempo simbolo della genuinità politica e della resurrezione spirituale, una speranza che venne riposta nel mito capacitante dell’Uomo Nuovo creatore di nuovi valori, l’esemplare di una specifica specie umana lanciata alla conquista del futuro senza per questo dover recidere le radici culturali e spirituali che lo mantenevano legato alla propria dimensione storica, etnica e popolare; nei confronti della quale si espresse il Duce parlando nel 1933 all’Assemblea delle Corporazioni: “L’uomo economico non esiste, esiste l’uomo integrale che è politico, che è economico, che è religioso, che è santo, che è guerriero.”   Quindi questa figura particolare dell’Uomo Nuovo, capace di raccogliere in sé tutte le sue forze creative, che la cultura rivoluzionaria del Fascismo proponeva e che non mancava costantemente di ricollegare alla stagione dello squadrismo, così intrisa di eroicità e di sacrificio, riconduceva alla stessa definizione dell’Uomo integrale di mussoliniana memoria, ovvero un uomo che non esistesse unicamente perché cartesianamente pensante, ma perché arricchito di tutte quelle virtù “romanamente” intese, eroiche, civiche e politiche, sia nella ragione come nei sentimenti.  Spesso e volentieri nell’immaginario intellettuale il discorso sull’Uomo Nuovo si andava a concretizzare poi nell’ideale della gioventù, una gioventù non solamente intesa in senso spirituale ma anche come dato anagrafico, poiché il concetto di gioventù rimandava all’ansia del cambiamento e all’impeto rivoluzionario, racchiudendo in se stessa gli ideali della forza e della bellezza, di una esuberante virilità aggressiva, l’anelito vitale di un futuro tutto da conquistare, proprio l’opposto di quanto ancora proponevano i rappresentanti delle democrazie borghesi con tutte le loro desuete convenzioni e i loro logori formalismi, con tutta la loro boriosa rispettabilità e lasciva ipocrisia.  Il Fascismo fu quindi profondamente giovane e irruento, meravigliosamente violento e lo fu sia spiritualmente che anagraficamente.  Il comune denominatore della più intransigente e autentica cultura fascista, quella derivata appunto dalla passionale ed eroica stagione dello squadrismo, si trovava nell’aspirazione alla realizzazione di un originale disegno politico ed esistenziale da esplicarsi mediante cambiamenti radicali frutto di una ferma volontà rivoluzionaria che armonizzava i riferimenti alla rivolta romantica dell’interventismo e alla mistica eroica evocata dalla guerra di trincea con i nuovi miti palingenetici di trasformazione della società e dello Stato. Questa cultura dell’azione che si nutriva dello spirito barricadiero di rivolta contro l’ordinamento borghese in nome di un rivoluzionario e fascista Ordine Nuovo era la caratteristica di quell’ambiente fascista che si riconosceva, anche per esperienza diretta, nel mito capacitante delle aristocrazie del combattentismo – quella trincerocrazia più volte evocata da Mussolini – e nella scuola di vita e di coraggio rappresentata dalla militanza squadristica che venne vissuta, letta ed interpretata non solamente come una reazione organizzata e armata volta all’annientamento dei focolai dell’insurrezionalismo marxista, ma soprattutto come militanza rivoluzionaria e idealistica volta alla rigenerazione della Nazione e alla creazione di uno Stato nuovo. Una specifica rilettura che si svolgeva anche in aperta polemica con coloro che ritenevano che la nascita del governo presieduto da Mussolini, all’indomani della marcia su Roma, rappresentasse la fase risolutiva del Fascismo.  In questo modo, il Fascismo, doveva e poteva assumere una superiore valenza metafisica affermando il suo essere come un completamento naturale e organico della storia della Nazione italiana, andando ben oltre la semplice insorgenza anti-sovversiva e anti-modernista – non a caso lo stesso Niccolò Giani volle mettere l’accento sul fatto che: “La Rivoluzione Fascista infatti non è stata reazione come qualcuno ha creduto in origine e come tuttora si crede da molti all’estero; è stata invece l’ostetrica della nuova storia. Il 28 ottobre 1922 è sorta una nuova civiltà capace di risolvere tutti i problemi della società contemporanea.”  Per costoro, che in fondo rappresentavano la vasta base della militanza fascista e anche quella intellettualmente più viva, l’agire politico del Fascismo non doveva assolutamente compromettersi con i residui della vecchia classe dirigente, che in virtù del processo di normalizzazione e di pacificazione avviato dal Duce si adoperavano nell’inserimento all’interno dei gangli del regime, doveva invece mantenere e tonificare una assoluta intransigenza dottrinaria senza incorrere in alcun cedimento politico e morale, perché se il Fascismo era una rivoluzione, doveva necessariamente procedere nei suoi obiettivi con mentalità e metodi rivoluzionari, come perentoriamente affermò un autorevole esponente dell’epopea squadristica della statura di Roberto Farinacci: “Bisogna insomma che la bestia proteiforme del vecchio conservatorismo sornione sia liquidata bruscamente; che le vecchie clientele d’interessi e d’ambizioni fiorite ai margini della vita politica italiana siano messe in mora, vigilate, controllate, sopra tutto tenute lontane, bisogna che sia impedito a chiunque di rifarsi, attraverso il Fascismo, una qualsivoglia verginità e continuare, sotto mentite spoglie, le abitudini peccaminose del passato. La vittoria deve essere integrale.”  Tra gli oppositori più accaniti della deriva moderata si evidenziarono gli ideatori della Scuola di Mistica Fascista, costituitasi a Milano il 10 Aprile 1930, tutti provenienti da quella generazione di giovani dei GUF che era cresciuta respirando l’atmosfera del Fascismo, maturando così una profonda convinzione nei miti fondatori del regime e una fedeltà assoluta nella persona del Duce.  Al loro fianco si schierarono altre personalità di spicco del Fascismo rivoluzionario: Berto Ricci con il suo universalismo fascista, Alessandro Pavolini e l’esaltazione della primavera squadristica, Edmondo Rossoni con tutte le aspettative del sindacalismo rivoluzionario.  Il 29 Novembre 1931, la Scuola di Mistica Fascista verrà intitolata a Sandro Italico Mussolini, il figlio prematuramente scomparso di Arnaldo Mussolini.  Niccolò Giani, Guido Pallotta, Fernando Mezzasoma e molti altri giovani entusiasti, avvalendosi della guida orientatrice di Arnaldo Mussolini, seppero rappresentare, attraverso l’opera che fu sviluppata dalla Scuola, una autentica e intransigente avanguardia intellettuale e morale posta a difesa dei valori espressi dalla Rivoluzione Fascista, che sempre più doveva farsi rivoluzione culturale e antropologica per meglio adempiere alla consegna rivoluzionaria che il Duce del Fascismo aveva dato alle nuove generazioni.  Sarà Niccolò Giani a spiegare gli scopi dell’istituzione: “Poiché una mistica è un postulato di tanti credo, e un valore assoluto non lo si può derivare che da una fonte indiscutibile, questa fonte non può essere che il Duce. Ecco perché la fonte deve essere quella, esclusivamente quella. Compito nostro deve essere soltanto quello di coordinare, interpretare ed elaborare il pensiero del Duce. Ecco perché è sorta una Scuola di Mistica fascista ed ecco il suo compito: elaborare e precisare i nuovi valori del Fascismo che sono nell’opera del Duce.”  Quindi una rivoluzione culturale, del carattere e dello Spirito che, attraverso interessanti rievocazioni del mito della romanità e della sacralità della Stirpe – rappresentazioni metastoriche e metafisiche della migliore tradizione aryo-romana – sarebbe approdata ad una coesione organica della Stirpe italica costituitasi in Comunità nazionale e avrebbe dato all’Italia fascista il diritto-dovere di adempiere ad una missione universale facendo del Fascismo il crocevia della storia europea del ventesimo secolo e il riformatore dei tratti essenziali della Civiltà contemporanea in ogni suo aspetto, la ripresa e il rinnovamento dell’Europa all’indomani del fallimento della democrazia liberale e delle utopiche promesse marxiste. Aprire la strada al secolo fascista.  Certamente nella visione della Mistica fascista elaborata dalla Scuola vi era la ferma consapevolezza che il Fascismo fosse una autentica rivoluzione totale della società italiana: spirituale ed etica, sociale e politica, ma al contempo anche una ripresa di tutte le tradizioni essenziali, però la memoria storica proposta non si sarebbe dovuta risolvere in un ripiegamento nel passato, l’immagine del passato non finì mai per schiacciare la dimensione del presente e tanto meno si configurò come un richiamo intensamente nostalgico, bensì le potenzialità ideologizzanti della rimemorazione storica vennero fatte espandere fino a provocare una vera e propria occupazione del cosiddetto campo dei ricordi – una lotta spirituale e rivoluzionaria per il dominio del ricordo e della memoria – che conducesse ad una riscrittura della cronologia nazionale che rispecchiasse le concezioni del pensiero irrazionalista, anti-intellettualista e pragmatista dei decenni trascorsi, un pensiero profondamente permeato di sfumature di matrice nietzschiana e soreliana.  Anche i richiami alla Mistica insita nel Fascismo erano animati dallo spirito di rivolta, contro le mentalità borghesi ancora sussistenti, delle nuove generazioni cresciute ed allevate nelle organizzazioni totalitarie giovanili e universitarie, una rivolta che si manifestava con i forti caratteri di un idealismo morale ed etico qualitativamente aristocratico esprimente l’esaltazione di una giovinezza istintiva, disinteressata e piena di spirito vitale, aggressiva, pura e decisa a dare battaglia a qualsiasi forma di conservatorismo e di borghese “buon senso” pur di affermare il carattere intransigente e le finalità rivoluzionarie sociali e spirituali del Fascismo.  Non vi era nessun punto di convergenza con eventuali nostalgie reazionarie, mentre invece era presente una totale e coerente aderenza alle istanze di trasformazione rivoluzionaria che il Fascismo esigeva e che ancor di più il Duce imponeva.  Per questi giovani attivisti non vi era altra strada per uscire definitivamente dalla crisi della modernità, esplosa alla fine del primo conflitto mondiale, che con un mutamento radicale del popolo italiano e una tale mutazione antropologica poteva provenire solamente da una fede ben salda che aveva iniziato a germinare in un primo tempo con l’esperienza della guerra nel mito della Nazione in armi, della guerra di popolo, proseguendo poi con l’esaltante epopea della lotta squadristica, per approdare infine nella costruzione dello Stato fascista di popolo, corporativo e totalitario, il compimento finale del rinnovamento sociale e spirituale della Stirpe e della grandezza politica della Nazione.  Nel corso degli anni che trascorsero dal 1930 fino all’entrata in guerra dell’Italia nel 1940 la Scuola di Mistica Fascista assolse in maniera esemplare ai compiti che si era prefissata, ovvero l’ambizione di voler rappresentare l’infrangibile scudo morale, etico e dottrinario contro il quale si sarebbero dovute infrangere le velleità dei nemici del Duce e del Fascismo, soprattutto i nemici interni, i più pericolosi, quelli che si annidavano tra le pieghe del regime per minarlo alla base.  Affinché lo scudo della rivoluzione fosse solido i mistici della Scuola, i soldati politici dell’Idea, vollero essere loro stessi esempio di virtù civiche, morali e politiche, di fedeltà indiscussa nei confronti della guida della rivoluzione, il Duce, spesso descritto come il genio della Stirpe, l’Eroe che con la sua instancabile opera dava quotidianamente prova di rappresentare pienamente la coscienza e la voce dell’anima del popolo, soprattutto di un popolo a cui il Fascismo aveva restituito la dignità politica e sociale e un’unità spirituale che attingeva dalla viva coscienza di appartenere integralmente all’organismo della Nazione.  Da questa chiave di lettura emergeva, quindi, una superiore comunione mistica che legava il Duce al suo popolo, cementata dalla comune fede fascista, una fede intensa che a sua volta veniva elevata al rango di una sorta di religione mistico-popolare sacralizzata dal sangue offerto in sacrificio dai martiri dello squadrismo sull’altare della rivoluzione, una rivoluzione continua che, come affermava un giovane esponente della Scuola, procedeva impetuosamente la sua marcia: “I giovani della Mistica si sono irradiati tra le file delle generazioni vecchie e nuove e hanno dato il goccio d’acqua, il pezzo di pane del conforto, hanno sorretto i deboli, hanno convinto i pusillanimi. La Rivoluzione ha attraversato le ubertose valli della sua fase politica, ora sale. Guai a chi volesse tentare di derogare alle direttive di marcia per evitare le asprezze della salita e impedire che dalla politicità si torni alla rivoluzione piena e travolgente delle ore di audacia e di lotta.”  Per queste nobili motivazioni gli esponenti della Mistica fascista chiesero e ottennero nel 1939 che la Scuola divenisse la custode del famoso “Covo” milanese di via Paolo da Cannobio, il sacrario della rivoluzione delle camicie nere, appunto il Covo del fascio primogenito dove la fede fascista aveva mosso i primi passi e dove il Duce aveva chiamato all’adunata.rossi  Un luogo simbolico carico di suggestivi richiami emozionali, ben presente nell’immaginario collettivo della militanza squadristica, che avrebbe dovuto essere la fonte di irradiamento della Mistica fascista verso tutta la Nazione.  Il cosiddetto “Covo” del fascio primogenito rivestì sempre per i mistici fascisti un ruolo centrale nel loro immaginario dottrinario, rappresentava la fonte mitica della fede mussoliniana, il principio fondante del Fascismo, era come trascendere il tempo profano per riapprodare al tempo mitico della purezza dell’Idea, un riaccostamento di ordine metafisico a cui si poteva accedere soltanto attraverso i miti e i simboli, e la Mistica fascista era satura di richiami, di miti e di simboli: “Qui è tutta l’attualità e la contemporaneità del “Covo”. Attualità e contemporaneità che non dovranno mai tramontare. Non solo per noi, infatti, ma per i nostri figli e per i figli dei nostri figli il “Covo” deve e dovrà essere l’Arca dei valori della Rivoluzione, la bussola cui guardare nei momenti di indecisione, la guida cui ispirarsi, la stella polare che il navigante dello Spirito deve vedere sempre alta e lucente davanti a se. E ad esso oggi, domani, sempre gli italiani dovranno salire in pellegrinaggio, per meditare, per ispirarsi. Ad esso le generazioni si accosteranno sempre con stupore religioso per imparare che nulla allo Spirito è impossibile.”  Il Fascismo, come spesso ripeteva il Duce, era una fede coltivata nella lotta che aveva avuto i suoi caduti, i suoi martiri che immortalatisi vestendo la gloriosa camicia nera la avevano rafforzata e sacralizzata: “Se ogni secolo ha una sua dottrina, da mille indizi appare che quella del secolo attuale è il Fascismo. Che sia una dottrina di vita, lo mostra il fatto che ha suscitato una fede: che la fede abbia conquistato le anime, lo dimostra il fatto che il Fascismo ha avuto i suoi caduti e i suoi martiri. Il Fascismo ha oramai nel mondo l’universalità di tutte le dottrine che, realizzandosi, rappresentano un momento nella storia dello spirito umano.”  Adesso, questa fede, attraverso i mistici fascisti della Scuola aveva trovato i suoi intransigenti custodi e i suoi più appassionati apostoli.  Anche loro si stavano preparando al combattimento – nella sua duplice veste fisica e spirituale – aspirando di potere affrontare degnamente il supremo sacrificio per il Fascismo e onorare così la loro scelta di vita versando il proprio sangue per la causa rivoluzionaria.  Morire all’ombra dei gagliardetti neri: Mistica dell’azione – Mistica del realismo eroico – Mistica della fede. Fedeltà che era più forte del fuoco, come narravano antiche saghe.  Che l’intensa e interessante attività svolta dalla Scuola nell’approfondimento e nell’arricchimento della Dottrina fascista fosse il risultato di un grande impegno contrassegnato da un’altrettanto grande serietà venne comprovato dai numerosi riconoscimenti che ricevette, non ultimo l’apprezzamento e la manifesta simpatia avuta da parte di Julius Evola, ma il riconoscimento più importante, i mistici, lo ricevettero dal Duce che li encomiò pubblicamente il 20 novembre 1939, incontrando i quadri della Scuola a Palazzo Venezia, incitandoli a proseguire nel cammino intrapreso quali custodi della purezza dell’Idea e del mito rivoluzionario: “Io vi ho seguito in tutti questi anni da vicino e con vivissima simpatia perché considero la mistica in primo piano. Ogni rivoluzione ha infatti tre momenti: si comincia con la mistica, si continua con la politica, si finisce nell’amministrazione. Quando una rivoluzione diventa amministrazione si può dire che è terminata, liquidata. Potrei dimostrarvi che tutte le rivoluzioni sono passate attraverso questo ciclo: noi che conosciamo la storia dobbiamo impedire che la politica scivoli nell’amministrazione. Alle origini di ogni rivoluzione c’è la mistica: se la politica è il contingente, la mistica è l’immanente, essa rappresenta i valori eterni, essenziali, primordiali. (…) Voi dovete lavorare per l’avvenire. Per far questo occorre la fede. E’ facile ad un certo momento deviare nella politica: voi dovete essere al di fuori e al di sopra delle necessità della politica. Di queste cose ho parlato in modo molto sommario; ma tutte erano presenti in voi. Avete tempo di riflettere.”  Il secondo conflitto mondiale era però già iniziato e l’Italia sarebbe entrata in guerra l’anno successivo.  I mistici fascisti volendo essere, fino alle estreme conseguenze, la prima linea del Fascismo accolsero con felicità ed entusiasmo la notizia, chiedendo ufficialmente che gli venisse concesso l’Onore dell’arruolamento volontario “nei più rischiosi reparti di terra, di mare o di cielo”. Subito, ben 169 quadri dirigenti della Scuola partiranno per il fronte, convinti che il processo rivoluzionario fascista avrebbe avuto una formidabile accelerazione proprio per effetto della guerra. Molti altri mistici seguiranno a ruota l’esempio dei loro capi.  La loro esemplare condotta evidenzierà una magnifica esplicazione degli insegnamenti della Tradizione: se hai di fronte due strade, scegli sempre la più difficile. Poiché c’è sempre una strada per chi vuole percorrerla.  Sia Niccolò Giani, sia un’altra figura di eccezionale valore come Berto Ricci, testimonieranno la loro intransigente coerenza esistenziale e politica con la scelta del combattimento. Il primo volontario sul fronte greco-albanese dove troverà eroicamente la morte nel marzo del 1941, il secondo, sempre volontario, sul fronte africano dove coronerà la propria esistenza di credente nella fede fascista incontrando, altrettanto eroicamente, la morte il 2 febbraio 1941 a Bir Gandula sul Gebel cirenaico.  Nell’arco di un solo mese il Fascismo perse due tra i suoi migliori campioni.  Le vicende belliche decimarono di fatto il gruppo dirigente della Scuola che sarà costretta a cessare le sue attività. I pochi sopravvissuti di quell’esperienza raccolsero di nuovo la chiamata del Duce aderendo nel 1943 alla Repubblica Sociale Italiana, tra questi Fernando Mezzasoma che era stato il vicepresidente della Scuola e che ricoprì il dicastero della propaganda nella RSI, trasportando con il proprio esempio le intime motivazioni della Mistica fascista nell’esperienza repubblicana: “È questa nostra intransigenza nei confronti della Dottrina che abbiamo sposato, delle battaglie che combattemmo, delle realizzazioni che abbiamo attuate, che, se ci consente di accettare la collaborazione di qualsiasi Italiano in buona fede e di buona volontà che voglia aiutare la titanica fatica del Duce, ci obbliga tuttavia a respingere sdegnosamente qualunque patteggiamento con coloro che agiscono al servizio del nemico, uccidendo a tradimento i nostri migliori compagni di marcia e di battaglia, con coloro che nell’Italia invasa perseguitano i fascisti che a migliaia risorgono e insorgono per rendere dura la vita agli invasori e aprire la strada al nostro ritorno. Questa deve essere oggi la nostra missione di fascisti. Questo è il comandamento di Niccolò Giani. Questo è il suo insegnamento. Nel suo nome, e nel nome degli altri Caduti, i superstiti della Scuola di Mistica fascista chiamano a raccolta l’autentica gioventù italiana.”  Anche lui morirà poi nel 1945 assassinato dai partigiani.  Andarono tutti volontariamente incontro alla morte per onorare un patto di fedeltà e di fede che li legava al Duce e al Fascismo, così facendo coronarono una vita degna e ben vissuta, il loro abbraccio mistico con il Fascismo si consumò eroicamente in combattimento e di fronte ai plotoni di esecuzione.  Se ancora oggi, dopo i tanti decenni trascorsi, la loro memoria, la memoria delle tante battaglie ideali e materiali affrontate, viene nonostante tutto ancora sentita come viva, se il ricordo di questi uomini caduti con onore non in nome di una passione generica, ma per il Fascismo, per il compimento di una Rivoluzione che è rimasta scolpita nella Storia, torna ancora ad emergere non deve assolutamente avvenire perché i vivi di oggi debbano morire nel loro cuore, struggendosi nella nostalgia del ricordo, ma deve invece impetuosamente emergere affinché i morti di ieri possano tornare a vivere tra di noi.  Quella marcia, iniziata il 28 Ottobre 1922, non è ancora terminata.  Non ci consta che esistessero specifiche istituzioni pubbliclie, ma in proposito possiamo ricordare numerosi provvedimenti e diverse associazioni private. Fra quelli, le leggi agrarie, le disposizioni a favore dei debitori, le distri­ buzioni semigratuite o gratuite dì grano, fatte dagli edili; i congiari imperiali (che erano copiose elargizioni di farina, olio e carne disposte dagli imperatori). Provvidenze che mi­ ravano tutte a combattere, direttamente e indirettamente, le cause dell’indigenza o almeno a paralizzarne gli effetti, ben­ ché nella loro essenza e origine avessero carattere politico, cioè fossero prese sopratutto per cattivarsi il favore e la simpatia della plebe o evitare tumulti e sommosse. Fra le associazioni, sopratutto bisogna ricordare quelle costituite a scopo mutualistico ; e tale è il carattere dei collegia fune- raticia, dei collegia termiorum, delle casse di soccorso isti­ tuite da Giulio Cesare fra i suoi legionari. Anche nel campo dell’istruzione si devono ricordare istituti privati i quali istruivano la classe dirigente romana. E’ invece nelle opere pubbliche ohe specialmente i romani ai distinsero legando ai posteri terme e acquedotti, palestre e strade, circhi e palazzi olle ancora oggi, in parte, almeno, durano e sono efficienti. L’ORDINAMENTO SOCIALE DELLO STATO  SECONDO LA CONCEZIONE FASCISTA    Capitolo Primo    Pag.   LA TEORICA FASCISTA SULLA NATURA E SULLE   FUNZIONI DELLO STATO.' . . 3-10    Capitolo Secondo   IL CONTENUTO DELLA FUNZIONE SOCIALE DELLO   STATO .11-18    Capitolo Terzo    I PRECEDENTI STORICI DELLA FUNZIONE SOCIALE  DELLO STATO NELLA POLITICA E NELLA LEGI¬  SLAZIONE SOCIALE 19-32   Capo i - in generate .. 19   § 1. Nell’antica Grecia. 19   § 2. In Roma sino all’editto di Costantino. 20   § 3. In Roma dopo li riconoscimento ufficiale del cattoli¬  cesimo . 20   § 4. Durante il medioevo. 21   § 5. Dopo la riforma protestante. 22               XIV    Ordinamento sociale dello Stato fascista    Capo II - In Italia . 25   § 1. L’evoluzione e la trasformazione della legislazione sociale 25   § 2. La legislazione sulla beneficenza e sulla assistenza pub¬  blica e privata. 26   § 3. La legislazione sulla mutualità e sulla previdenza . . 2?   § 4. La legislazione del lavoro. ?t)   § 5. La legislazione sull’istruzione pubblica .... 30   § 6. La legislazione sull’igiene e sulla sanità pubblica . . 31   § 7. La legislazione sui servizi e sulle opere pubbliche . 31   Capitolo Quarto   GLI ELEMENTI DELL’ORDINAMENTO SOCIALE DELLO   STATO FASCISTA.33-47   Capo I - I soggetti . 33   Capo II - (Hi obiettivi . 36   § 1. Gli obiettivi relativi ai cittadini in genere .... 36   A. Gli obiettivi inerenti alle condizioni generali di vita . 36   B. Gli obiettivi inerenti in particolare alla fase di forma¬   zione e di preparazione del cittadino, a quella di  produttività e a quella di riposo. 37   g 2. Gli obiettivi relativi ai cittadini benemeriti .... 38   § 3. Gli obiettivi relativi ai cittadini non risanabili e non   rieducabili 38   Capo III - Gli strumenti . 38   § 1. Il criterio, profondamente corporativo, adottato dal legi¬  slatore fascista per la scelta degli strumenti attuanti la  politica sociale. 36   g 2. La famiglia. 40   g 3. L’associazione professionale . 42   § 4. Le istituzioni promananti, singolarmente o paritetica¬  mente, dalle associazioni professionali. 43   g 5. Gli enti locali. 43   g 6. Le opere nazionali parastatali. 43   Capo IV - I limiti . 44                     Indice-S onvmario    xv    PARTE SECONDA   LE ISTITUZIONI DEL NUOVO ORDINAMENTO  SOCIALE DELLO STATO FASCISTA  Di alcune considerazioni preliminari. 51   Capitolo Pbimo   LE ISTITUZIONI SOCIALI RELATIVE ALLE CONDI¬  ZIONI GENERALI DI VITA DEL CITTADINO . . 55-118   Preliminari .   Capo I - ha- legislazione inerente alla sicurezza, all’igiene e   alla sanità pubblica . 56   § 1. Per garantire la sicurezza. 56   § 2. Per assicurare l’igiene e la sanità ...... 58   Capo II - La legislazione inerente alla previdenza ... 62   | 1. Per incrementare il risparmio .. 63   § 2. Per potenziare la mutualità. 64   £ 3. Per favorire la cooperazione. 64   § 4. Per diffondere le assicurazioni Ubere. 65   Capo III - La legislazione inerente alla assistenza di soccorso 65   § 1. Per l soccorsi in natura e in contanti. 66   § 2. Per i soccorsi medico-sanitario-ospitalieri .... 67   Capo IV - La legislazione inerente alla propaganda, all'inte¬  grazione culturale e al perfezionamento scientìfico . 68   § 1. Per favorire il perfezionamento scientifico .... 68   § 2. Per la propaganda e l’integrazione culturale .... 60   Capo V - La legislazione inerente all’integrazione della forma¬  zione e dell’educazione fisica e sportiva . 71   Capo VI - La legislazione inerente alla costituzione e all’in¬  cremento del nucleo familiare . 72   § 1. Per favorire la costituzione della famiglia .... 72   § 2. Per facilitare l’esistenza e lo sviluppo delia famiglia . 73   Capo VII - La legislazione inerente a particolari servizi pub¬  blici. 73   § 1. Per garantire il soddisfacimento di bisogni primari . . 74   § 2. Per assicurare i rapporti e i contatti economico-sociali . 75   § 3. Per valorizzare il patrimonio nazionale ..... 76             XVI    Ordinamento sociale dello Stato fascista    *   Capo Vili - La legislazione inerente al controlla, <UVadegua¬  mento e al collegamento ielle istituzioni dell’ordinamento  sociale e alla selezione dei suoi soggetti . 77   § 1. Per assicurare il controllo e l’adeguamento delle istitu¬  zioni sociali . 78   § 2. Per ottenere il collegamento nell'ambito dell’ordina¬  mento sociale . 78   •§ 3. Per assicurare la formazione della classe dirigente me¬  diante la selezione totalitaria del cittadini .... 79    Appendice al Capo Vili   IL PARTITO NAZIONALE FASCISTA E LE ORGANIZZA¬    ZIONI DIPENDENTI.80-116   Origine, natura e funzione sociale del P. N. F . 80   I. I Fasci di Combattimento .. 86   co I compiti . gg   3 - I soggetti .• . . 87   y. L’ordinamento. 87   II. L’Associazione nazionale famiglie Caduti fascisti e Muti¬   lati e Invalidi per la Causa Nazionale . 88   a- I compiti . 88   0 . I soggetti . 88   y. L’ordinamento. 88   III. L’Unione nazionale ufficiali in congedo d’Italia ... 88   • a- I compiti .. gg   &• I soggetti . 89   y. L’ordinamento. gg   IV. L’Unione nazionale fascista del Senato . 90   a- I compiti . gg   3 . I soggetti . 90   Y- L’ordinamento. 90   V. I Gruppi Universitari Fascisti . 90   co I compiti . 90   3 . I soggetti . 91   y. L’ordinamento. 91   VI . I Fasci Giovanili di Combattimento . 92   a- I compiti . 92   3 . I soggetti . 94   y. L’ordinament*. 94                            Indice-Sommario    XVII    VII. I Fasci Femminili .....   ♦     *    95   tt . I compiti .        95   0 . I soggetti .        95   y. L’ordinamento.        96   Vili. L’Opera Nazionale Dopolavoro .        96   a- I compiti .        96   I soggetti .        97   y. L’ordmamento.        9T   IX. Le Scuole superiori femminili        00   X. Le Associazioni fasciste ....        99   a . I compiti .        99   5 . I soggetti ..        101   y. L’ordinamento.        103   XI. Il Comitato intersindacale ....        104   a- I compiti .        104   0 . I soggetti .        105   Y- L'ordinamento.        105   XII. OU Uffici di Collocamento        105   tt . I compiti .        105   0 . I soggetti .        105   y. L’ordinamento.        106   XIII. L'Ente Opere Assistenziali        106   a- I compiti .        106   g. I soggetti .        106   y. L’ordinamento.        106   XIV. L'Opera Universitaria ....        107   a. I compiti .        107   0 . I soggetti .        107   y. L’ordinamento.        107   XV. Il Comitato olimpionico nazionale italiano       108   a. I compiti .        108   0 . I soggetti .   *       108   y. L’ordinamento.        109   Di alcune considerazioni sul P. N. E. .     *   *    109   La legislazione richiamata ....   .   .    .    113    DI ALCUNE CONSIDERAZIONI SULLE ISTITUZIONI SO¬  CIALI RELATIVE ALLE CONDIZIONI GENERALI  DI VITA DEL CITTADINO.116               XVIII    Ordinamento sodale dello Stato fascista    Capitolo Secondo   LE ISTITUZIONI SOCIALI RELATIVE ALLA FORMA¬  ZIONE FISICO-MILITARE E ALLA PREPARAZIONE  PROFESSONALE-NAZIONALE DEL CITTADINO . . 119-167   Preliminari . 119   Capo I - La legislazione inerente al nucleo familiare per la   formazione fisico-militare del cittadino . 121   S 1. Per sopperire alla insufficienza relativa dei mezzi econo¬  mici della famìglia e sostituirla nella vacanza di alcune  sue funzioni. 121   § 2. Per integrare l’inadeguatezza assoluta di alcuni mezzi   della famiglia. 122   Appendice al Capo I   L’OPERA NAZIONALE PER LA PROTEZIONE DELLA MA¬  TERNITÀ’ E DELL’INFANZIA.122-189   I. L’origine, la natura e la funzione sociale deU’.O.N.M.I. , . 122   II. I compiti . 129   a- Per l’integrazione e il coordinamento dell’azione svolta   da altri enti o istituti o da privati. 130   3 - Pev la vigilanza e il controllo delle singole istituzioni   di assistenza. 131   Per la propaganda e la vigilanza suU’applieazione  delle leggi e dei regolamenti riguardanti l'assistenza  materna e infantile. 132   III. I soggetti . . 133   IV. L’ordinamento . 135   Dì alcune considerazioni suli’O. N. M. 1 . 137   La legislazione richiamata. 140   Capo II - La legislazione inerente all’istruzione e alla forma¬  zione professionale del cittadino . 142   § 1. Per garantire l’istruzione professionale del cittadino sino   al 14° anno di età. 143   § 2. Per favorire e incrementare l’istruzione professionale    Capo III - La legislazione inerente all’educazione e alla forma¬  zione fisica, premilitare, morale e nazionale del cittadino 149   Appendice al Capo III   L’OPERA NAZIONALE BALILLA PER L’ASSISTENZA E  L’EDUCAZIONE FISICA E MORALE DELLA GIO¬  VENTÙ’ .150-164                Indice-Sommario    XIX    I. L’origine, la natura e la funzione somale dell’.O.N.B. . . 150   II. I compiti . 155   III. I soggetti .. 160   IV. L’ordinamento . 161   Di alcune considerazioni sull’O.N.B. 162   La legislazione richiamata. 164   DI ALCUNE CONSIDERAZIONI SULLE ISTITUZIONI SO¬  CIALI RELATIVE ALLA FORMAZIONE FISICO-MI¬  LITARE E ALLA PREPARAZIONE PROFESSIONALE-  NAZIONALE DEL CITTADINO. 166   Capitolo Teszo   LE ISTITUZIONI SOCIALI RELATIVE ALLA FASE DI   PRODUTTIVITÀ’ DEL CITTADINO.189-100   Preliminari . 169   Capo I * La- legislazione inerente all’azione sociale attuata   dalle associazioni professionali ....... 172.   § 1. Per garantire l’azione sociale da attuarsi direttamente   dai sindacati . 174   § 2. Per assicurare l’azione sociale da attuarsi dai sindacati   a mezzo di speciali istituzioni. 175   Appendice al § 2 del Capo 1   IL PATRONATO NAZIONALE PER L’ASSISTENZA SO¬  CIALE .’ - • 176-183   I. L'origine, la natura e la funzione sociale del P.N.A.S. . . 176   II. / compiti . 179   IH. I soggetti . 181   IV. L’ordinamento . 181   Di alcune considerazioni sul P.N.A.S. 182   La legislazione richiamata. 183   Capo II - La legislazione inerente all’azione sociale attuata.   dalle corporazioni . 183   § 1. Per garantire il produttore obiettivamente e subiettiva-   mente di fronte alle condizioni del lavoro. 184   § 2. Per tutelare i reciproci rapporti fra i produttori nella   loro dualità di datori di lavoro e di prestatori d’opera . 186   § 3. Per favorire ii perfezionamento e l'elevazione professio¬  nale del produttore. 187                  XX    Ordinamento sociale dello Stato fascista-    capo III - La legislazione inerente alla conservazione dello  spirito nazionale e della preparazione fisico-militare del  produttore . 188   DI ALCUNE CONSIDERAZIONI SULLE ISTITUZIONI SO¬  CIALI RELATIVE ALLA FASE DI PRODUTTIVITÀ’   DEL CITTADINO. 189    Capitolo Quarto   LE ISTITUZIONI SOCIALI RELATIVE AL PERIODO DI   RIPOSO-VECCHIAIA DEL CITTADINO .... 191-105   Preliminari . 191   Capo I - La legislazione inerente all’obbligo delle garanzie pre¬  videnziali per la fase di riposo-vecchiaia . . . 193   Capo II - La legislazione inerente a speciali interventi statuali   a favore del vecchio bisognoso ....... 194   DI ALCUNE CONSIDERAZIONI SULLE ISTITUZIONI 'SO-  CIALI RELATIVE AL PERIODO DI RIPOSO-VEC¬  CHIAIA DEL CITTADINO. 194    Capitolo Quinto   LE ISTITUZIONI RELATIVE AI CITTADINI CHE HAN¬  NO BENEMERITATO DALLO STATO .... 197-203    Preliminari . 197   Capo I - La legislazione inerente alle benemerenze collettive 198   Capo II - La legislazione inerente alle benemerenze individuali 200   DI ALCUNE CONSIDERAZIONI SULLE ISTITUZIONI SO¬  CIALI RELATIVE AI CITTADINI BENEMERITI . . 202    Capitolo Sesto    LE ISTITUZIONI SOCIALI RELATIVE AI CITTADINI   ■ MINORATI NON RISANABILI E NON RIEDUCABILI 205-210    Preliminari . 205   Capo I - La legislazione inerente ai minorati assolutamente   non produttori . 208              Indice-Sommario    XXI    Capo II - La legislazione inerente ni minorati relativamente   non produttori . 200   DI ALCUNE CONSIDERAZIONI SULLE ISTITUZIONI RE¬  LATIVE AI CITTADINI MINORATI NON RISANA¬  BILI E NON INEDUCABILI. 209   *   PARTE TERZA   LA POSIZIONE E I RAPPORTI DI RELAZIONE DEL  CITTADINO NEL NUOVO ORDINAMENTO SOCIALE   Di alcune considerazioni preliminari ...... 213   Capitolo Primo   LA POLITICA SOCIALE PER IL CITTADINO DALLA NA¬  SCITA ALLA MAGGIORE ETÀ’.215-236   Capo I - L’anione previdenziale e assistenziale dello Stato sino   al quinto anno . 216   § l. Per la costituzione della famiglia. 215   § 2. Per la esistenza e l’incremento della famiglia . . 217   § 3. Per la donna gestante. 218   § 4. Per li cittadino neonato . 218   A. Per Viilegittimo e l’esposto ....... 210   B. Per l’orfano. 220   § 5. Per iì cittadino infante.. 220   Di alcune considerazioni sull’azione previdenziale e assisten¬  ziale dello Stato sino al quinto anno. 221   Capo II - L’azione previdenziale e assistenziale dello Stato   dal sesto al quattordicesimo anno . 223   § 1. Per la formazione e lo sviluppo fisico, militare, morale   e nazionale. 223   § 2. Per la formazione intellettuale e professionale . 225   Di alcune considerazioni sull’azione previdenziale e assisten¬  ziale dello Stato dal sesto al quattordicesimo anno . . 228    Capo III - L’azione previdenziale e assistenziale dello Stato  dal quindicesimo al ventunesimo anno .    229             xxn Ordinamento sociale dello Stato fascista   § 1. Per il cittadino elle studia. 230   § 2. Per il cittadino che lavora. 233   Di alcune considera «ioni sull’azione previdenziale e assisten¬  ziale dello Stato dal quindicesimo al ventunesimo anno 235   Capitolo Secondo   DA POLITICA SOCIALE PER IL CITTADINO PRODUT¬  TORE . 237-251   Preliminari . 237   Capo I - L’anione previdenziale e assistenziale dello Stato per   il cittadino ohe è produttore . 239   Di alcune considerazioni. 245   Capo II - L’azione previdenziale e assistenziale dello Stato per   la cittadina che è produttrice .247   § 1. Per la cittadina sposa e madre. 248   § 2. Per la cittadina lavoratrice 249   Di alcune considerazioni sull’azione previdenziale e assi¬  stenziale dello Stato per la cittadina che è produttrice 250   Capo III - L’azione previdenziale e assistenziale dello Stato   per la famiglia e i suoi membri . 251   Capitolo Terzo   LA POLITICA SOCIALE PER IL CITTADINO A RIPOSO . 253-254   Capitolo Quarto   LA POLITICA SOCIALE PER IL CITTADINO BENEME¬  RITO . 255   Capitolo Quinto    LA POLITICA SOCIALE PER IL CITTADINO MINORATO   NON RISANABILE E NON RIEDUCABILE . . . 257-258                In dioe-Sommario    XXIII    PARTE QUARTA   LA POLITICA SOCIALE DELLO STATO FASCISTA  PER GLI ITALIANI ALL’ESTERO   Di alcune considerazioni preliminari. 261   Capitolo Primo   DELL’AZIONE SVOLTA DIRETTAMENTE DALLO STATO   ATTRAVERSO AI SUOI ORGANI. 269-274   Capo I - Per la riorganizzazione, il potenziamento e l’esten¬  sione della rete consolare . 269   Capo II - Per i cittadini che emigrano . 270   Capo III - Per gli italiani all’estero . 272   Capitolo Secondo   DELL’AZIONE SVOLTA MEDIANTE LA STIPULAZIONE  DI CONVENZIONI BILATERALI E PLURILATERALI  E MEDIANTE L'OPERA DELL’O.I.L. 275-305   Capo 1 - Le convenzioni bilaterali e plurilaterali .... 275   Capo II - Le convenzioni intemazionali, le raccomandazioni e   le risoluzioni dell'O.I.L . 280   La legislazione richiamata. 294   DI ALCUNE CONSIDERAZIONI FINALI - - • ™  CAMERATI, Niccolò Giani apparteneva alla categoria dei mistici per i quali è bello vivere se la vita è nobilmente spesa ma è più bello morire se la vita è donata all'Idea. Arnaldo Mussolini fu il suo Maestro: da Arnaldo im­ parò che prima di agire e costruire è necessario ele­ varsi, purificare il proprio spirito, temprare il proprio carattere; allora soltanto si potrà essere certi che l'azione sarà feconda e l'edificio sicuro. Da Arnaldo imparò che per conoscere, giudicare e guidare gli al­ tri è prima indispensabile conoscere bene se stessi, punire inesorabilmente i propri difetti, affinare inces­ santemente le proprie virtù: allora soltanto si potrà aspirare all'onore del comando. Da Arnaldo imparò che solo il sacrificio può suscitare le opere grandi e buone e distruggere le cose piccole e vili. Ciò che —7   non costa non vale; ciò che non procura fatica e sof­ ferenza non dura; quanto è al di fuori di noi non conta; gli onori, le cariche, le ricchezze sono effimere e ca­ duche cose. Quello che importa è quanto è dentro di noi, perchè è nostro e nessuno potrà mai portarcelo via, neanche a strapparci la carne viva di dosso. Es­ sere se stessi in ogni momento, rimanere se stessi sempre: ecco la più grande conquista degli uomini. Uomo di fede Un uomo di fede fu Niccolò Giani. E la sua fede era di quelle che non vacillano mai, di quelle che restano intatte nella buona e nella cattiva sorte e che traggono anzi dalle difficoltà e dalle sfortune un più profondo contenuto e sempre nuovi motivi. La sua fede era di quelle alte cui fonti cristalline attingono le intelligenze chiare e gli animi trasparenti degli uomini puri i quali sanno che se si vuole raggiungere l'ultima cima, mol­ te vette bisogna scalare e talvolta anche scendere da alcune per risalire su aifre vette più alte ancora. In 8 i   Giani la fede nasceva da un inesausto tormento spi­ rituale, da un'ansia incontenibile di elevazione e di conquista per divenire, come dice il Poeta, «cara gioia sopra ia quale ogni virtù sì fonda ». Egli credeva in Dio, nel Dio di noi Italiani fascisti e cattoiici a cui dobbiamo non soltanto il dono misterioso della vita ma anche il privilegio di averci chiamati a continuare la missione di civiltà e di giustizia che la gente nostra svolge nel mondo da più di due millenni. Egli credeva nella dottrina politica enunciata da Mussolini, scaturita dall'azione, alimentata dalla fede, consacrata dal sa­ crificio e nella sua possibilità di instaurare un nuovo sistema di vita, di educare gli uomini a una visione vasta ed umana delle cose, di creare un nuovo tipo di civiltà italiana, ed europea. Credeva in Mussolini perchè lo considerava l'uomo della Provvidenza, l'e­ sponente di una razza eletta, il fondatore di una ci­ viltà universale, il protagonista e l'artefice di una nuòva storia, il condottiero di giovani generazioni, il DUCE, a cui non occorre chiedere prima di iniziare la marcia dove ci porta e quando si arriverà perchè dal giorno in cui un destino fortunato (o pose alla testa —9 ‘1   del suo popolo, la meta era già nei suoi occhi e la vittoria nel suo pugno. Credeva nei giovani nati e cresciuti col sorgere del Fascismo, educati alla severa scuola del Partito e li voleva rivoluzionari nello spirito e nel sangue, gene­ rosi ed audaci, pronti alla lotta e alla rinunzia. Sogna­ va una classe dirigente che sapesse dimostrare con l'esempio, nelle opere e nel sacrificio, di essere de­ gna del nostro grande popolo e del nostro grande Capo; una classe dirigente fatta di uomini integrali, forti della loro indipendenza morale — la sola ric­ chezza umana che non abbia un valore misurabile in denaro — e dotati di tutte le virtù spirituali, intellet­ tuali e fisiche che sono indispensabili per poter eser­ citare con dignità e con efficacia la missione dei co­ mando. Concepiva la famiglia nel senso più tradizio­ nalmente nostro; amava cioè la sana numerosa fami­ glia italiana, ricca di onestà e prodiga di figli, sboc­ ciata dall'amore tra l'uomo che vive lavorando o com­ battendo-per la Patria e la donna che nel piccolo gran­ de regno della casa vive nella serena ed operosa attesa del ritorno di lui; e se l'uomo non tornerà la 10 —   donna lo piangerà senza lacrime perchè egli sopravvi­ va nella fierezza dei figli, I quali continueranno, nella luce del suo esempio, l'opera sua. Credeva nella Patria come ne « la più pura, la più grande, la più umana delle realtà », amava la Patria « più della propria anima ». Tutto per la Patria: fu la sua consegna. Niente per lui valeva qualche cosa se non serviva alla Patria. Perchè la Patria è tutto e tutti; sè e gli altri; le generazioni che furono, che sono e saran­ no; la storia di ieri, di oggi e di domani. La Patria è la sintesi di tutte le più nobili aspirazioni. Essa è fatta di uomini da rendere sempre più degni e di territori da fare sempre più vasti. Per essa si lavora, si soffre, si spera; per essa si combatte, si vince o si muore. Giornalista della Rivoluzione e Maestro dei giovani Niccolò Giani fu un giornalista della Rivoluzione. Egli intendeva il giornalismo come una scuola di vita, come uno strumento di educazione e di formazione. Dalle agili colonne del suo giornale, la «Cronaca Preal- — 11   ■^ . " T T r pina », e da quelle della sua rivista « Dottrina Fasci­ sta » si battè accanitamente per la creazione di un giornalismo rivoluzionario, dinamico, coraggioso, un giornalismo che fosse in grado di svolgere una fun­ zione costruttiva di divulgazione, di propulsione e di controllo, un giornalismo che fosse degno di essere considerato un'arma affilata della Rivoluzione. Ma soprattutto maestro dei giovani egli fu. All'Inse­ gnamento si era consacrato con il religioso fervore con il quale soleva dedicarsi a tutte le attività rivolte ai giovani. All'Ateneo di Pavia, al Centro di prepara­ zione politica, alla Scuola di Mistica Fascista egli portò il contributo della sua beila cultura fatta di conoscen­ za e di azione, illuminata dalla fede, riscaldata dal sentimento, Alla Scuola di Mistica diede la parte mi­ gliore di se stesso. «Tutto quello che di buono e di meritevole è stato fatto dalla Scuola — ha detto Vito Mussolini, nostro Presidente — proviene unicamente da lui. Bisognerà ricordarlo sempre e presentarlo co­ me un mirabile esempio ai giovani che in lui potranno vedere l'espressione più sublime di obbedienza ai comandamenti del Duce ».     Era il migliore tra noi: il più limpido, ii più generoso, ii più puro. Delia nostra mistica fede fu l'aifiere più ardilo e i'apostolo più acceso. Egli voieva che dalia nostra Scuoia uscissero ì missionari, i portatori del no­ stro credo politico e fu egli stesso il più tenace e il più convinto assertore dei principi che sono a fonda­ mento deiia nostra dottrina. La Scuola sorse con lui per la volontà di un mani- poio di credenti che egli chiamava i «disperati del Fascismo », così come gli squadristi un tempo amava­ no chiamarsi « fascisti arrabbiati ». Aii'inizio la Scuola fu un'attività de! Guf milanese; divenne quindi un'attività di tutti i Gruppi Fascisti Uni­ versitari: oggi si è imposta al rispetto e ail'atten- zione di tutti i fascisti. La sua opera è rivolta ai gio­ vani, ma la sua azione è seguita ed amata anche dai camerati della vecchia guardia che vedono con in­ tima gioia esaltate e rinnovate ogni giorno, dagli al­ lievi della Scuola, le due più preziose virtù dello squa­ drismo: la fedeltà e la intransigenza. I camerati della vecchia guardia milanese sanno che il, nome di Niccolò Giani è legato alla riapertura — 13   del Covo di Via Paolo da Cannobio, prima sede del « Popolo d'Italia », prima trincea del Fascismo, che il Duce ha voluto affidare in gelosa custodia ai giovani della Scuola di Mistica perchè le giovani generazioni, accostandosi alle sorgenti genuine delia nostra Ri­ voluzione, cogliessero, dall'umile grandezza delle ori­ gini, la poesia e il fermento delia vigilia. Niccolò Giani fu soprattutto un fedele ed un in­ transigente. Taluni potrebbero chiamarlo un fanatico, ma solo I fanatici sanno dare movimento col sangue «alla ruota sonante della storia». Il suo spirito si ribellava a qualunque forma di com­ promesso; sul terreno della fede non ammetteva pat­ teggiamenti; il bello, il buono, il vero sono da un lato della barricata; dall'altra parte c'è il brutto, il male, la meschinità. Mi piace di ricordarlo ai Convegno di Mistica del febbraio 1940: eravamo alla vigilia delia nostra guer­ ra di liberazione e c'era in tutti noi una febbrile im­ pazienza di decisione. Il tema del Convegno era bru­ ciante: «Perchè siamo dei mistici?». I problemi del- 14 —   l'inteiligenza e deila cultura furono esaminati al lume della fede; i poveri dì fede furono sbaragliati e Giani dichiarò guerra a viso aperto a tutti gli spiriti troppo raziocinanti, agli innamorati della ricerca fredda e del ragionamento calcolatore. La dottrina che conquista è quella che sorge dalla fede e non quella che discende dalla indagine arida ed oziosa; la cultura che costruisce è quella che pene­ tra e trasforma e non quella che resta gelida ed inerte. li Convegno si svolse in un'atmosfera di fuoco e la risposta al tema che fu oggetto dei nostri appassionati dibattiti fu data dallo stesso Giani: « Fascismo uguale a spirito, uguale a mistica, uguale a combattimento, uguale a vittoria. Perchè credere non si può se non si è mistici, combattere non si può se non si crede, e vincere non si può se non si combatte ». Fu in quel Convegno, ò giovani camerati della Scuola di Mistica, che i giovani della generazione del Litto­ rio affermarono solennemente il loro diritto al combat­ timento, — 15   Soldato dì Mussolini Niccolò Giani fu tra i primi a partire. C'era in lui la preoccupazione morbosa di stabilire coi fatti una coe­ renza perfetta tra il pensiero e l'azione. Aveva già partecipalo come volontario alla guerra per la con­ quista dell'Impero, aveva chiesto ripetutamente di partire per la Spagna e non gli era stato concesso; finalmente sopraggiungeva la nuova prova lungamente attesa. Chi lo vide tenente degli alpini al Fronte Occidentale lo ricorda come un esempio di disciplina e di ardi­ mento. Ma la parentesi fu troppo breve: tornò insod­ disfatto, Andò in Africa settentrionale come corrispon­ dente di guerra del «Popolo d'Italia»; ma quando seppe che il suo reggimento era già sul fronte greco chiese di raggiungerlo. Non poteva vivere lontano dai suoi alpini, gli sembrava un tradimento. Partì per non tornare. Tre volte si offrì per azioni rischiose, tre volte fu appagato, la terza volta fu l'ul- 16   tima. I suoi uomini lo adoravano; con lui sarebbero andati dovunque: potenza insuperabile dell'esempio! Andò con un manipolo di 25 alpini a raggiungere una vetta lontana per compiere una ricognizione sulle po­ sizioni del nemico; assolse il suo compito felicemente e rapidamente, ma proseguì oltre: il suo programma era un altro. Aveva incontrato poco prima, lungo il cammino, un camerata di Milano e gli aveva affidato l'incarico di salutare per lui tutti gli amici di Mistica e di comunicare loro che egli era partito per un'impresa della quale si sarebbe dovuto' parlare. Mantenne la promessa. Alla testa dei suoi alpini raggiunse un'altra vetta, sulla quale alta sfolgorava la luce della gloria, e a bombe a mano assalì un presidio greco. Circon­ dato, lottò eroicamente, fino a quando una pallottola ' gli recise la gola, gli spezzò la vita, soffocò il canto della sua giovinezza. Così cadde Niccolò Giani. Egli è morto come era vissuto, non per sè ma per gli altri, Ètriste non potergli più vivere accanto, non poter più rinfrescare il nostro spirito alia polla purissima della sua fede; ma egli 17   ha chiuso la sua vita terrena in modo degno di luì, Arnaldo gli aveva insegnato che i! segreto della vita è tutto qui; saper vivere, saper morire, nel modo più degno. Niccolò Giani ha voluto insegnare ai giovani della sua generazione come deve vìvere e come sa morire un italiano di Mussolini. La nostra Scuola, o camerati di Mistica, non lo onora col pianto che egli non approverebbe. Il nostro ciglio è asciutto anche se il cuore in questo momento acce­ lera il ritmo dei suoi palpiti. Ma noi sentiamo che non un vuoto egli ha lasciato nelle nostre file, li suo spirito inquieto è con noi, dinanzi a noi, oggi come non mai, ad additarci la strada che conduce alla vittoria, ad ammonirci che il suo tormento deve essere anche il nostro tormento, la sua ansia anche la nostra ansia, il suo amore anche il nostro amore, oggi, domani, sempre. E noi sentiamo che Arnaldo, il suo ed il nostro Mae­ stro, lo ha accolto nell'altra esistenza, accanto al suo figlio prediletto e agli altri Martiri delia nostra Scuola, come il migliore dei suoi discepoli. Il mito di Roma contro Si guardi Ro- il mito di Jehova in ma repubblicana. Catone, Cicerone, Quale è il suo Tacito, Giovenale ideale? Ce lo di- e negli Imperatori ce Marco Porcio Catorie nel suo libro « De Agri cultura » laddove scrive che i romani « quando lodavano un uomo dabbene, 15   lo chiamavano buon agricoltore, buon colono. E con ciò si riteneva di dare la maggiore lode a colui che così veniva chiamato ». E ciò per­ chè « dalla classe degli agricoltori nascono gli uo­ mini più forti e i soldati più valorosi... e coloro che si dedicano a tale occupazione non concepi­ scono cattivi propositi ». Queste parole, questo saggio romano le scrive­ va più di 150 anni avanti Cristo, cioè, esattamen­ te, nello stesso periodo in cui Roma combatteva l’ultima e definitiva partita con la semita Carta­ gine. Ma, a questo proposito, ci si è mai chiesto perchè poi Cartagine era delendam, perchè Ro­ ma s’era fissata ili questo mito della distruzione totale della città di Annibaie? La risposta è una sola : la lotta tra le due rivali infatti non era solo politica ed economica : era ben di più : era lotta di civiltà, di sistema di vita. Roma rurale, Ro­ ma gerarchica, Roma guerriera ed eroica com­ batteva anche la Cartagine dei mercanti e della demagogia. Ecco perchè non è strano, ma, anzi, logico, necessario addirittura, che l’uomo che in Senato terminava i suoi discorsi col noto « cete- rum censeo Carthaginem delendam esse » fosse lo stesso che nel suo libro poneva l’ideale ro­ mano nella gente nata dai campi, cresciuta in mezzo alle bellezze e alle forze della terra, tem­ prata nelle lotte aperte e solari della natura. Più di un secolo dopo, un altro grande roma­ no, che gli ebrei aveva conosciuto perchè uno di 16   essi, Apollonio Molone, come ci dice il giudeo Lazare, aveva avuto per maestro : Cicerone, tuo­ nerà anche lui contro la loro mentalità. « Il tenere testa alla turba giudaica che spesso schiamazza nelle riunioni popolari e farlo nel­ l’interesse della Repubblica è prova di saldi prin­ cipi », diceva infatti Cicerone rivolto a Lelio, cinquanta anni prima di Cristo, nella sua orazio­ ne « Pro Fiacco ». E nel suo « De Officiis » (II, 89) si legge questo aneddoto che dice anche ai sordi in quale dispregio avessero i romani i traf­ ficanti di denaro. Ecco infatti come Cicerone rac­ conta che Catone rispondesse a chi lo interroga­ va sul miglior modo di amministrare i propri beni : « Bene pascere ». E in quale altro modo? fu richiesto a Catone. « Salis bene pascere » fu la risposta. E poi? « Arare » egli disse ancora. «£ che ne pensi del prestare ad usura?» cioè del prestare denaro a interesse. Rispose Catone : « E tu che ne pensi dell’uccidere un uomo? ». Come, quindi, i romani, con mentalità siffat­ ta, avrebbero potuto, non dico apprezzare, ma solo riconoscere la mentalità ebraica? E se è vero che nel 160 avanti Cristo con l’Ambasciata di Giuda Maccabeo si iniziano i primi rapporti di­ plomatici tra Roma e Gerusalemme, se è vero che nel 143 e nel 139 seguono altre ambasciate, se è vero che Giulio Cesare e Ottaviano li tolle­ rano, è altrettanto vero che gli ebrei anziché essere grati e devoti allo stato romano ricambia- 17 2   rio con disordini e con tradimenti la generosità dei Cesari, al punto che Claudio, da un decreto di tolleranza passa alla loro espulsione e ciò per­ chè, come testimoniano numerosi scrittori lati­ ni — da Persio a Ovidio, da Svetonio a Plinio, da Tacito a Giovenale — « gli Ebrei conside­ rano come profano tutto ciò che da noi è consi­ derato sacro » (cfr. Tacito, Hist.; V, 4, 5); per­ chè « essi hanno un culto particolare, leggi par­ ticolari, disprezzano le leggi romane » (cfr. Gio­ venale, Im. Lat.; XIV, 96, 104). Colle generazioni questo contrasto di civiltà e questa antitesi di istituzioni si acuiscono. È così che si arriva alla spedizione di Tito : all’assedio e alla distruzione di Gerusalemme. E in tal mo­ do, due secoli dopo Cartagine, anche sull’or­ goglioso regno di Giudea passa l’aratro romano e viene cosparso il sale. Così quei giudei che pretendevano di essere il popolo eletto e che per invidia di capi e per in­ comprensione ingenerosa di popolo avevano tra­ dito e condannato nostro Signore Gesù Cristo; quegli eredi del Profeta che smentirono la profe­ zia compiuta, furono dispersi per il mondo. La profezia del Golgota ebbe in tal modo realizza­ zione per mano di Tito, di quel Tito, il cui arco, forse per imperscrutabile volontà di quel Dio che egli inconsciamente servì, s’aderge ancora intatto contro il cielo eterno di Roma, quasi a testimonia­ re e ammonire le genti e il mondo intero della giu- 18   stizia e della verità che promanano dai sette colli sacrati all’Impero del Littorio e alla Chiesa di Cristo.Niccolò Giani. Giani. Keywords: implicature mistica, mistico, il mistico – la mistica del liberalismo – la mistica del comunismo – la mistica della democrazia – la mistica del socialismo – filosofia politica – dottrina liberale – dottrina comunista – dottrina democratica – dottrina socialista --. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Giani” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51756746927/in/dateposted-public/

 

Grice e Giani – la radice italica del melodramma -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Torino). Filosofo. Grice: “I love Giani; for one, he was less fanatic than Nietzsche, even if it is Nietzsche’s fanaticism that attracts Strawson! For one Giani is more careful: if ‘music’ comes from the muses, which are Apollonian, why has Nietzsche to emphasise in a piece of bad rhetoric, that tragedy has its birth in the ‘spirit’ of “music” – surely Nietzsche means ‘Dionysian,’ but there’s no ‘music’ in Dionysus, only noise! Trust an Italian to correct Nietzsche on that point!” --   Appartene ad una famiglia dell'alta borghesia torinese con spiccate inclinazioni per la musica e per l'arte: lo zio  Giuseppe (Cerano d'Intelvi) fu pittore piuttosto noto, docente all'Accademia Albertina, così come il figlio di lui Giovanni (Torino). Si dedica al violino e condusse contemporaneamente gli studi  fino alla laurea. Si interessa inoltre al fermento filosofico di fine Ottocento, a Spencer, ma soprattutto Nietzsche: di Così parlò Zarathustra eavrebbe in seguito dato una traduzione, a partire dalla seconda edizione italiana (Torino, Bocca). Si appassiona, inoltre, al teatro musicale di Wagner, così come altri intellettuali torinesi, e lo difende. Risale la fondazione, per opera sua e dell'amico editore Bocca, della Rivista musicale italiana, in cui inizialmente hanno parte preponderante gli scritti di Giani, soprattutto recensioni sul teatro musicale contemporaneo e note sui testi poetici da musicare, anche se va probabilmente ascritto a Giani anche l'editoriale programmatico del primo numero, all'interno di una rivista che si propone di ospitare scritti musicologici ispirati al metodo positivistico diffuso tra i due secoli, pur restando aperta all'apporto di altre correnti filosofiche quali quelle dell'idealismo. In “Per l'arte aristocratica”, dimostra le doti di polemista che lo avrebbero accompagnato per tutta la vita: in esso si confuta un giudizio di Torchi e si afferma che la cosiddetta "arte per l'arte" non solo non è immorale, ma è anzi la naturale evoluzione e conclusione dello sviluppo storico di questa manifestazione dello spirito umano. Dedica un saggio al “Nerone” di Boito, che egli da allora considerò incondizionatamente un maestro: al tempo Boito aveva reso pubblico il solo testo del Nerone, che venne accolto molto vivacemente e con alterna fortuna dall'ambiente letterario italiano. La posizione intorno al Nerone è singolare e indicativa di quali fossero i requisiti che la cerchia di Giani e Bocca ricercava nell'opera musicale. Questa tragedia farebbe parte del novero delle tragedie vere, quelle in cui ritmo, suono della parola, gesto, musica concorrono alla creazione di un che di superiore. Tuttavia, quando la musica del Nerone fu resa nota postuma, dichiara una certa delusione. Uomo dalla cultura enciclopedica, versato con competenza anche negli studi di letteratura, Giani cura L'estetica di Leopardi. Vede inLeopardi il luogo in cui le immagini della sua poesia si comporrebbero in un universo etico ed estetico coerente. All'interno della storia della critica leopardiana, pare avvicinabile ora alla posizione di Croce, di distinzione tra il momento della poesia e il momento della riflessione, ora a quelle positivistiche. Singolarmente,parla di musica e dell'analogia tra il ruolo del coro greco e il ruolo del coro nelle Operette morali solo nella conclusione, benché in termini acuti. Avrebbe contribuito ad un ulteriore campo degli studi letterari, quello della musica nel mondo antico. Apparve “Gli spiriti della musica nella tragedia” -- Fin dal saggio, si richiama alla nota opera di Nietzsche, “La nascita della tragedia dallo spirito della musica”. Giani non condivide l'opinione di Nietzsche secondo cui il razionalismo del teatro di Euripide avrebbe spento la portata dionisiaca della tragedia. La tragedia di Euripide permane ad un livello musicale altissimo. Per affermare questo ricostruisce il ruolo della musica nei testi tragici sulla base delle fonti antiche, dedicandosi alle singole parti e forme musicali dei drammi, sempre attento a sottolineare la valenza estetica complessiva della tragedia o melodramma, ma nel contempo senza trascurare le posizioni metodologiche della scuola filologica. Fino ad allora non aveva stretto profondi legami con i musicisti coevi (eccettuato Boito), si avvicina sempre più alle compositori. Saluta con favore Bastianelli e Pizzetti, approvandone principalmente le posizioni estetiche e la ricerca di una certa spiritualità nella music, tipica dei due esponenti del circolo fiorentino della Voce, ma prese le distanze ben presto dalle loro prove compositive, in particolare dai drammi musicali di Pizzetti, che non parvero a opere d'arte totalmente compiute.  Un legame creativo e biografico molto più stretto strinse con Ghedini, anche per via delle comuni frequentazioni torinesi: per Ghedini, che sta ancora cercando una personale posizione estetica e anda raggiungendo progressivamente le conquiste di stile e di linguaggio che lo avrebbero reso famoso, Giani valse come una sorta di pigmalione, suggerendo testi da musicare per le liriche e esaminando con occhio critico le composizioni di Ghedini.  Giani stesso fu librettista. Ridusse L'Intrusa di Maeterlinck, musicata da Ghedini ma mai rappresentata, e scrisse Esther per Pannain.Verso il termine della sua vita, divenne molto noto in tutta Italia per i suoi scritti di radicale confutazione di Croce. Non era particolarmente ostile all'idealismo di Croce, anzi considerava la teoria dell'arte come intuizione una delle chiavi per la valutazione della creatività anche musicale e teatrale. Tuttavia, a mano a mano che l'estetica di Croce veniva sistematizzata dal suo stesso autore, ma soprattutto da alcuni suoi pedestri seguaci mal tollerati dal nostro, attaccò tale concezione con il bellicoso pseudonimo di Luigi Pagano in La fionda di Davide, criticando che in essa non vi fosse posto per il lato tecnico e materiale della creazione e che addirittura la stessa musica non fosse stata debitamente considerata da Croce al medesimo livello delle altre arti che diedero lustro al passato italiano. Il posto di Giani nella storia della musicografia è tutto particolare.Pestalozza vi ha addirittura visto un predecessore della “fenomenologia musicale.”In realtà, ad un attento esame quantitativo dei suoi scritti, pare essersi dedicato assai poco a questa o quella musica in particolare, mentre il suo contributo fu assolutamente preponderante nei temi di estetica musicale.Fu una voce originale, fuori dal coro, che inizialmente difese il dramma di Wagner, quindi auspice fermamente all'interno dei testi musicati dai compositori qualità come la purezza e la letterarietà, infine spronò, pur da lontano, i compositori ad una libertà adogmatica e ad una ricerca continua di stile e di linguaggio, rendendoli attenti alla peculiarità della musica, che doveva essere cosa che egli ripete spessissimo nei suoi scrittila "figuratrice dell'invisibile", cioè l'elemento che dà corpo alle sensazioni, alle suggestioni, alle fantasie suscitate dai testi musicati e non immediatamente in essi esplicate. Una posizione la sua che può essere paragonata a quella del "critico-artista" teorizzata da Wilde, che Giani ben conosceva: un "critico-artista" nel senso di ri-creatore dei percorsi attraverso cui la composizione è venuta alla luce, e ignoti al compositore stesso, ma nei quali quest'ultimo riesce a identificarsi una volta che il critico li rivela a lui e al mondo. Dispose per testamento che i suoi libri venissero donati "ad una biblioteca di piccola Città preferibilmente Pinerolo" e proprio presso la Biblioteca Civica "Camillo Alliaudi" di Pinerolo ora si trovano, presso il Fondo che prese il suo nome.  Altre saggi: “Per l'arte aristocratica (in proposito di uno studio di Luigi Torchi), in “Rivista Musicale Italiana”, -- aristocrazia, democrazia, crazia – kratos – il concetto di potere --  Il “Nerone” di Arrigo Boito, in “Rivista Musicale Italiana”, L'estetica di Leopardi, Torino, Bocca, con lo pseudonimo di Anticlo:  Gli spiriti della musica nella tragedia greca, in “Rivista Musicale Italiana”, Milano, Bottega di Poesia, L'amore nel Canzoniere di Francesco Petrarca, Torino, Bocca, con lo pseudonimo di Luigi Pagano:  La fionda di Davide. Saggi critici (Boito, Pizzetti, Croce), Torino, Bocca. Dizionario Biografico degli Italiani Cesare Botto Micca, in morte di Romualdo Giani, in “Rivista Musicale Italiana”, Annibale Pastore, In memoria,, in “Rivista Musicale Italiana”, Massimiliano Vajro, “Rivista Musicale Italiana”, Luigi Pestalozza, Introduzione a «La Rassegna Musicale». Antologia, Luigi Pestalozza, Milano, Feltrinelli, Guido M. Gatti, Torino musicale del passato, in «Nuova Rivista Musicale Italiana». Guglielmo Berutto, Il Piemonte e la musica, Torino, in proprio, ad vocem. Stefano Baldi, “Fotografare l'anima” -- Romualdo Giani e Giorgio Federico Ghedini, in “Bollettino della Società Storica Pinerolese”, Paolo Cavallo,La vita, il fondo musicale, le collaborazioni musicologiche e gli interessi letterari, Pinerolo, Società Storica Pinerolese,. Con contributi di Casagrande, Baldi,  Betta, Cavallo, Balbo, Fenoglio.  GIANI, Romualdo. - Nacque a Torino il 28 febbr. 1868 da Francesco e da Clementina Guidoni, originari della Valle d'Intelvi.  Laureatosi in giurisprudenza non ancora ventenne, esercitò l'avvocatura patrocinando esclusivamente cause civili nel settore commerciale; allo stesso tempo si occupò con continuità di arte e letteratura. Creativo e versatile, ebbe profonde conoscenze della storia e della tecnica delle diverse arti, ampliate dai numerosi viaggi effettuati nelle principali città d'arte europee.  Nel 1894 fu tra i fondatori, con l'amico editore G. Bocca, della Rivista musicale italiana, alla quale collaborò ininterrottamente per trentasette anni, spesso valendosi di pseudonimi.  Esordì sul primo numero della rivista con la critica "I Medici". Parole e musica di R. Leoncavallo. Il dramma (Riv. mus. italiana, I [1894], pp. 86-95); sullo stesso numero diede il via alla rubrica Note sulla poesia per musica(ibid., pp. 141-143, 321-323), ove poneva in luce difetti e pregi dei testi inviati da autori sconosciuti per dimostrare che la poesia del melodramma era forma d'arte.  Nel 1896, in Per l'arte aristocratica (ibid., III, pp. 92-127), sostenne una vivace polemica con L. Torchi sull'autonomia dell'arte, alla quale parteciparono M. Pilo, D. Garoglio, A. Foulliée e altri; il G. volle dimostrare che la formula "l'arte per l'arte" o "l'arte aristocratica" non era cosa assurda e immorale, come sostenuto dal Torchi, ma l'ultimo effetto di un'evoluzione.   Nel 1901 pubblicò il saggio critico Il"Nerone"di A. Boito (Torino 1901; 2a ed. ampliata ibid. 1924; cfr. Riv. mus. ital., VIII [1901], pp. 861-1006, e XXXI [1924], pp. 199-392), che gli procurò l'amicizia dell'autore, il quale gli inviò numerose lettere in cui si dichiarava suo grande ammiratore. Nel volume L'estetica nei "Pensieri" di G. Leopardi (Torino 1904; 2a ed. ibid. 1928; cfr. Riv. musicale italiana, XXXV [1928], pp. 226-243) il G. oltre a ricostruire il pensiero estetico del poeta di Recanati, ne esaminò anche le teorie sull'arte musicale.  Nel 1899, per la "Biblioteca di scienze moderne" del Bocca, era stato pubblicato Così parlò Zaratustra di F. Nietzsche, tradotto da E. Weisel; il G., ritenendo la traduzione non fedele all'originale, ne approntò una nuova versione d'accordo con il Weisel, pubblicata, sempre dal Bocca, nel 1906. Nel 1913, con lo pseudonimo di Anticlo, diede alle stampe lo studio Gli spiriti della musica nella tragedia greca (Milano 1924; Riv. musicale italiana, XX, pp. 821-887). Nel 1917, durante il primo conflitto mondiale uscì L'amore nel Canzoniere di F. Petrarca (Torino 1917; in appendice Nota sul suono e sul ritmo), considerata dalla critica, forse, la sua opera più riuscita.  Il G. inoltre traduceva per diletto dal latino, soprattutto Tibullo e Orazio, e dal francese; come poeta pubblicò nel 1920 soltanto due libretti d'opera: Esther (Riv. musicale italiana, XXVII, pp. 611-648), tragedia lirica in tre atti ispirata dal testo biblico, mai musicata, sebbene offerta dal G. a I. Pizzetti, e L'Intrusa (ibid., pp. 340-358), un atto per musica, tratto dal dramma in prosa di M. Maeterlinck, musicato dapprima da G.F. Ghedini (1921; non rappresentato), e poi da G. Pannain (1926), che la rappresentò a Genova nel 1940.  La pubblicazione dell'articolo Il Vangelo e il Breviario,celebrazione dell'estetica crociana (in Riv. musicale italiana, XXXII [1925], pp. 571-598), apparso sotto lo pseudonimo di Luigi Pagano, rappresentò un attacco all'estetica crociana che diede origine a una polemica col Croce stesso. Il G., con logica inflessibile, dimostrò infondati alcuni concetti del filosofo, come l'eccessivo idealismo che considerava la musica estranea ai fenomeni fisici che la originano e alla tecnica, espressi in Estetica come scienza dell'espressione e linguistica generale (1902) e nel Breviario di estetica (1913), opere che il G. ironicamente chiama Vangelo e Breviario. Con Socrate e la pulce (ibid., XXXIII [1926], pp. 77-102) rispondeva allo scritto La musica e l'estetica dell'idealismo (ibid., pp. 61-76), in cui il Pannain assumeva la difesa delle tesi crociane. Questi saggi, compreso quello del Pannain, furono raccolti in seguito nel volume La fionda di Davide (Torino 1928) insieme con uno studio sul Boito, e la critica a Debora e Jaele di Pizzetti, giudicata un'opera mancata. Contemporaneamente il G. pubblicava il Sillabario di estetica (in Riv. musicale italiana, XXXV [1928], pp. 442-453), e a conclusione della polemica aggiungeva una Nota crociana, nel capitolo terzo de La fionda di Davide, in cui evidenziava ancora altre contraddizioni nella teoria del Croce. La polemica si riaprì nel 1929 con lo scritto La favola dell'aridità(ibid., XXXVI, pp. 311 s.) con il quale il G. insorgeva, in difesa del Seicento musicale italiano, contro un'affermazione del Croce che definiva "età di aridità creativa" il secolo compreso tra il 1550 e il 1650; la rettifica crociana Obiettanti e seccatori non soddisfece il G., che replicò con Il parto settimello (ibid., XXXVII [1930], pp. 249-254).  Il G. scrisse inoltre numerose recensioni e articoli sulla Rivista musicale italiana e sulla Rassegna musicale, a cui collaborò dal 1928, spesso sotto gli altri pseudonimi di H. Giraud e A. Cannella.  Il G. morì a Torino il 16 genn. 1931.  Oltre agli scritti citati si ricordano: "Savitri"Idillio drammatico indiano in tre atti di L.A. Villanis. Musica di N. Canti. La poesia, in Rivista musicale italiana, II (1895), pp. 95-112; Note marginali agli "Intermezzi critici" di I. Pizzetti, ibid., XXVIII (1921), pp. 677-690;Note Leopardiane, in Campo (Torino), n. 5, 18 dic. 1904; Estetica nuova, ibid., n. 9, 15 genn. 1905; Per una biografia di Berlioz, ibid., n. 26, 14 maggio 1905; Melodramma e dramma musicale, ibid., n. 37, 30 luglio 1905.  Fonti e Bibl.: G. Adler, R. G., Gli spiriti della musica nella tragedia greca, in Riv. mus. ital., XXXII (1925), pp. 113-115; L. Ronga, In morte di R. G., ibid., XXXVIII (1931), 1, pp. 115-124; C. Botto Micca, R. G. (Lo scrittore e il critico), in Il pensiero di Bergamo, VI (1931), 7; A. Pastore, In memoria di R. G., in Riv. musicale italiana, XLV (1941), pp. 50-53; M. Vajro, R. G., ibid., LIII (1951), pp. 337-368; A. De Angelis, Diz. dei musicisti, Roma 1928, pp. 244 s.; Diz. encicl. univ. della musica e dei musicisti, Le biografie, III, p. 189.Romualdo Giani. Giani. Keywords: implicatura.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Giani” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Giannantoni – la dialettica – filosofia italiana – Luigi Speranza (Perugia). Filosofo. Grice: “I love Giannantoni; for one, he believes, with me, that there is Athenian dialectic, Roman dialectic, Florentine dialectic and Oxonian dialectic; like me, he has explored mostly ‘Athenian dialectic,’ and he has noted that its birth (‘nascita’) is in the ‘dialogo socratico,’ so it should surprise nobody that I have based my philosophy on the facts of conversation!” Si laurea a Roma sotto Calogero. In “Il dialogo di Socrate e la dialettica di Platone” attribuisce a Socrate una concezione molto laica della divinità e della religiosità («Religiosità, che Socrate, il quale era certamente una personalità religiosa, intendeva in modo del tutto diverso da come comunemente era sentita a quell'epoca»). La sua dottrina storico-filosofica si fonda sul principio che ogni seria riflessione filosofica si debba basare su un'accurata e rigorosa ricerca filologica delle fonti.  Questo spiega l'enorme dispiego di tempo dedicato all'elaborare la sua opera monumentale, “Reliche di Socrate” (“Socratis et Socraticorum reliquiae”). Giannantoni ha sempre seguito il criterio di Croce e Gramsci, secondo cui l'esposizione di un filosofo debba avvenire tramite l'esame storico cronologico (unita longitudinale) delle sue opere, allo scopo di prendere consapevolezza dell'evoluzione della dottrina e di separare da questa ogni sovrapposizione interpretativa personale non adeguatamente basata sulle fonti.  Convinto dell'onestà intellettuale come valore fondamentale cui deve rifarsi ogni interprete della storia della filosofia, capace perciò di rinunciare di fronte alla ricostruzione filologica dei testi anche alle proprie più profonde convinzioni personali. Traccia un profilo “ideale” dello «storico autentico» della filosofia, che ha il «dovere di farsi filologo rigoroso per avvicinarsi il più possibile al mondo del filosofo da lui studiato», ben sapendo che ciò «non basta ancora se non è accompagnato da una sensibilità filosofica e da una consapevolezza teoretica e storica insieme. Di qui conclude il fascino di una ricerca che, rendendoci consapevoli di una grande quantità di problemi altrimenti inavvertiti, termina in un autentico arricchimento spirituale. Il suo insegnamento è stato caratterizzato dalla volontà di essere semplice e chiaro nell'espressione del pensiero considerando questo un dovere morale dell'intellettuale nei confronti degli altri studiosi.  Anche allo scopo di realizzare una scrittura filosofica quanto più scientificamente precisa, ha compiuto studi approfonditi sulla logica di Aristotele e sulla storia della semantica filosofica (teoria del segno).  Nella sua vita e nella dottrina si è sempre impegnato nel mettere in pratica l'insegnamento socratico, così come fece il suo maestro Calogero: insegnando la conversazione basatio sulla regola d’oro: il rispetto verso il co-conversazionalista. Cura I Presocratici di Diels e Kranz. Altre saggi: “La metafisica dei lizii” (Roma, Rai); “Che cosa ha veramente detto Socrate” (Roma, Ubaldini); Cirenaici (Firenze: Sansoni); “Filosofia romana” (Napoli: Bibliopolis); “Filosofia italica in eta antica” (Milano: Vallardi); Le filosofie e le scienze contemporanee, Torino: Loescher, I fondamenti della logica de’ lizii” (Firenze: La nuova Italia); Le forme classiche / Torino: Loescher, “Volpe / Roma: Riuniti, Socrate. Tutte le testimonianze: Da Aristotfane e Senofonte ai Padri cristiani; Bari: Laterza, Aristotele. Opere; introduzione e indice dei nomi, Roma; Bari: Laterza, Epicuro. Opere, frammenti, testimonianze sulla sua vita; Bignone;.Bari: Laterza, I presocratici: testimonianze e frammenti / Bari: Laterza, Profilo di storia della filosofia, Torino: Loescher. La razionalitàmTorino: Loescher, Socratis et Socraticorum Reliquiae. Collegit, disposuit, apparatibus notisque instruxit G. Giannantoni,  2Bibliopolis. Anthropine Sophia. Studi di filologia e storiografia filosofica in memoria di Gabriele Giannantoni; Introduzione di Francesco Adorno: per Gabriele Giannantoni: un dialogo, Editore Bibliopolis (collana Elenchos), 2009  Deputati della V, VI, VII legislatura.  Op.cit. Bruno Centrone, ed.Bibliopolis, Enciclopedia Treccani, Bruno Centrone, Bibliopolis, Edizioni di filosofia, ILIESI CNR  La traduzione dei Presocratici da parte di Giannantoni è stata criticata da Giovanni Reale nell'introduzione alla sua nuova traduzione dei Presocratici del 2006, critiche riportate in due articoli-intervista comparsi sul "Corriere della Sera" nei quali  Giannantoni, di formazione gramsciana veniva accusato come curatore della "vecchia" edizione laterziana di avervi perpetrato «una certa manomissione del sapere filosofico», in ossequio all'ideologia e all’egemonia culturale marxista. Interpretazioni del pensiero di Socrate#Socrate: l'interpretazione di Giannantoni Guido Calogero La teoria sul pensiero greco arcaico.  Per chi abbia svolto la propria attività di ricerca o abbia compiuto la propria formazione scientifica nell’ambito della storiografia filosofica negli anni ’80 e ’90, il nome di Gabriele Giannantoni (Perugia, 1932 – Roma, 1998) è legato anche al Centro di Studio del Pensiero Antico (CSPA).   dal Consiglio Nazionale delle Ricerche Roma,1 su richiesta, appunto, di Gabriele Giannantoni – in sostituzione del precedente Centro di Studio per la Storia della Storiografia Filosofica –, il Centro di Studio del Pensiero Antico si inserì nel panorama nazionale e internazionale della ricerca storica come una realtà innovativa e contribuì allo sviluppo di una disciplina, la storia della filosofia antica, appartenente al duplice contesto della storiografia filosofica e delle scienze dell’antichità. Il Centro fu attivo in modo autonomo fino al 2001, quando, a seguito di una riforma che ridisegnò la rete scientifica del Consiglio Nazionale delle Ricerche, esso fu accorpato con il Centro di Studio per il Lessico Intellettuale Europeo per dar vita all’ Istituto per il Lessico Intellettuale Europeo e Storia delle Idee (ILIESI), sotto la direzione di Tullio Gregory.2 L’attività del Centro di Studio del Pensiero Antico fu inevitabilmente legata al percorso intellettuale e di ricerca del suo fondatore, benché in modo non esclusivo. In questo breve profilo si cercherà di rievocare, in primo luogo, i motivi culturali che furono alla base della costituzione di questa realtà, nonché alcuni modelli scientifici di riferimento che ne hanno determinato in certa misura la configurazione e l’attività; in secondo luogo, i contributi originali che il Centro è stato in grado di fornire all’area disciplinare di propria competenza, in termini di pubblicazioni, progetti e formazione, sotto la guida di Giannantoni e di coloro che ne coadiuvarono la direzione. 1 Decreto del Presidente del CNR. n. 6303, ratificato successivamente da una convenzione tra il CNR e “La Sapienza”, stipulata il 21 aprile 1983 e confermata dal Presidente del CNR fino al 2001. Per il testo della convenzione si veda “Elenchos”, 1, 1980, pp. 201-202. 2 Sull’iter di riforma che portò alla nascita dell’Istituto per il Lessico Intellettuale Europeo e Storia delle Idee e per i riferimenti normativi, si veda Liburdi 2018, p. 49 e ss. Istituito nel 1979  presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università “La Sapienza” di   Francesca Alesse G. Giannantoni e il Centro di Studio del Pensiero Antico MOTIVI CULTURALI E MODELLI ISPIRATORI Come accennato, l’attività scientifica del Centro di Studio del Pensiero Antico fu comprensibilmente orientata da precise scelte critiche e metodologiche di colui che ne aveva voluto l’istituzione. Per dare ordine a questo sintetico profilo, credo sia opportuno riassumere i motivi che ispirarono la promozione di un organo di ricerca mirato agli studi storici sul pensiero antico, in tre principali indirizzi: in primo luogo, la possibilità di considerare la storia della filosofia antica come una disciplina dotata di un proprio specifico (e in certa misura autonomo) profilo quanto a materia di indagine, arco storico e metodologia; in secondo luogo, la nascita, o rinascita, dell’interesse verso scuole filosofiche dell’antichità greca e romana tradizionalmente classificate come minori, in particolare, le cosiddette scuole socratiche e le scuole ellenistiche, che dalle socratiche discendono direttamente sotto l’aspetto storico e dottrinale; infine, la rivisitazione del patrimonio dossografico – cioè del complesso della tradizione indiretta che ha conservato, per estratti, parafrasi o compendi, il pensiero di quei filosofi antichi di cui non è giunto a noi né il corpus né una singola opera completa –. Quest’ultimo indirizzo si inseriva in una tendenza di studi continentale che fece della dossografia antica una vera e propria categoria storiografica con risultati particolarmente innovativi. L’interesse portato alla dossografia, oltre a sostenere gli studi nell’ambito delle filosofie di derivazione socratica e quelle ellenistiche (delle quali, per l’appunto, non si è conservato alcun testo d’autore), apriva un percorso di studi a cui Giannantoni era particolarmente legato e che lo vide impegnato sia come direttore del Centro che individualmente, e cioè la riconsiderazione di tutta la dossografia relativa alla filosofia presocratica. Una rapida messa a fuoco di questi tre indirizzi permetterà di chiarire quali interessi scientifici di Gabriele Giannantoni abbiano maggiormente pesato sulle strategie generali e sulle iniziative specifiche del Centro, nonché sulla formazione professionale che esso ha reso possibile. Quanto al primo indirizzo, la questione del profilo specifico della storia della filosofia antica presuppose, da parte di Giannantoni, una approfondita analisi della visione storica che la cultura filosofica italiana era venuta maturando intorno alla filosofia antica. In questa analisi, i cui esiti si leggono, non a caso, nell’articolo di apertura della 6 ILIESI digitale Temi e strumenti   Francesca Alesse G. Giannantoni e il Centro di Studio del Pensiero Antico rivista “Elenchos” intitolato La storiografia idealistica e gli studi sul pensiero antico (“Elenchos”, 1, 1980, pp. 7-44), svolge un ruolo chiave la rappresentazione che del pensiero antico seppe dare l’idealismo italiano, specie con Croce, e la sua valutazione critica. L’idealismo italiano si era infatti distinto per due caratteri, l’uno teorico, l’altro metodologico, che apparentemente non favorirono lo sviluppo di una moderna storiografia del pensiero antico. Per un verso, tanto Croce che Gentile vedevano nella filosofia antica (cioè greca) i limiti di un pensiero oggettivo, astratto e naturalistico, che mai sarebbe arrivato a concepire la positività dell’idea di infinito, né quella della soggettività. I punti più alti raggiunti dalla filosofia teoretica greca, Socrate, Platone, Aristotele, coincidevano rispettivamente con la delineazione del concetto, o universale astratto, con la sua separazione dalla realtà sensibile (la teoria delle idee trascendenti e la scienza come dialettica delle sole idee) e con una logica puramente strumentale (la sillogistica), alla quale sarebbe mancata la teorizzazione del giudizio individuale, o giudizio storico,3 nonché la capacità di superare l’astrattezza e attingere l’atto stesso del pensiero.4 Nella filosofia pratica parimenti i Greci antichi, pur non mancando di intuizioni profonde, non avrebbero superato il precettismo e l’empirismo, e la loro etica ingenua non sarebbe mai giunta a distinguere etica ed economica, morale e diritto, come categorie dello spirito.5 3 Giannantoni 1980, n. 13, rimanda a Croce 19092, di cui diamo qui i riferimenti da Croce 1996a, pp. 112-116, 352-356, 396-398. 4 Ciò Giannantoni ricavava, pur senza riferimenti testuali precisi, sia dagli excursus storici che possiamo leggere in Gentile 19543, presumibilmente alle pp. 112-113, 123-125, 202-206, e in Gentile 1917, vol. I, pp. 21-32, sia da Gentile 1964. 5 Giannantoni 1980, nn. 14 e 15, rimanda a Croce 19455; si veda Croce 1996, pp. 112-114, 224-225, 367-368, e a Croce 19273, si veda Croce 2007, pp. 164-165. ILIESI digitale Temi e strumenti 7   Figura 1: copertina di “Elenchos”, 1, 1980.    Francesca Alesse G. Giannantoni e il Centro di Studio del Pensiero Antico Per l’altro verso, però, l’idealismo formulò una critica, entro certi limiti giusta e salutare, alla filologia classica – cioè alla filologia classica moderna sviluppata in Germania nel corso del XIX secolo, distintasi, tra le altre cose, per una predilezione della cultura greca rispetto alla latina –, colpevole sostanzialmente di non essere una disciplina veramente storica. La filologia classica, malgrado i grandi risultati raggiunti nella costituzione dei testi della letteratura antica, nella revisione della tradizione bizantina e nelle nuove acquisizioni, si affermò come una procedura tecnica complessa e molto raffinata ma priva della visione della storicità del documento, del suo autore, dell’ambiente della sua composizione, nonché del suo testimone. La questione, che emerse inizialmente nel campo delle edizioni letterarie,6 non è meno complessa per quelle filosofiche: i testi della filosofia antica richiedono anche una comprensione dei contenuti teorici e pretendono di essere inquadrati in sistemi di pensiero il cui senso trascende il ripristino del testo, o quanto meno se ne distingue in data misura. Questo fu il nodo che si dovette sciogliere perché si potesse cominciare a delineare una storia della filosofia antica che includesse tanto la capacità di fornire edizioni affidabili sotto il profilo testuale, quanto quella di storicizzare i documenti, cioè di comprenderne i contenuti alla luce di coordinate culturali congrue con le epoche di appartenenza. La storiografia idealistica è dunque imputata da Giannantoni di evidenti limiti interpretativi del pensiero antico, come fu ben presto mostrato, ad esempio, dalle due celebri monografie di Rodolfo Mondolfo sull’infinito nel pensiero greco e sul soggetto umano nell’antichità,7 che smentivano l’idea di un connaturato e irreparabile oggettivismo della filosofia greca. Tuttavia l’idealismo ha fornito un’importante lezione e soprattutto ha indicato con chiarezza un ostacolo da superare: 6 In particolare, la critica crociana a cui Giannantoni fa riferimento (1980, p. 18 s., n. 11) prese le mosse da edizioni di testi poetici e si volse contro la “mera filologia” e la Kulturgeschichte che, nella pretesa di restituire il senso del testo letterario, non apportavano comprensione né storica né concettuale. Cfr. ad esempio la recensione alla monografia del 1950 di Ettore Romagnoli su Aristofane e che si può leggere in Croce 2003, pp. 97-107. Dice Giannantoni al riguardo (p. 19): “...il problema del rapporto tra filologia e poesia, tra filologia e storiografia, tra filologia e filosofia sta al centro dell’elaborazione dell’idealismo italiano”. Giannantoni probabilmente pensava anche alle considerazioni gentiliane intorno al “filologismo” che affligge la storia e ostacola la costituzione di una storia della filosofia, in Gentile 19543, pp. 132-134. 7 Mondolfo 1933; Mondolfo 1958. 8 ILIESI digitale Temi e strumenti    Francesca Alesse G. Giannantoni e il Centro di Studio del Pensiero Antico Tracciando nel primo dei due volumi in onore di B. Croce per il suo 80° compleanno, quello che è tuttora l’unico panorama complessivo degli studi di filosofia antica nel cinquantennio 1896-1946, Guido Calogero non ritenne di dover prendere in considerazione né Croce stesso né Gentile (e neppure De Ruggiero) quali interpreti del pensiero antico; né altri ne hanno trattato in modo approfondito (mentre studi importanti esistono sulle loro interpretazioni di altri periodi della storia del pensiero) ... la ragione ... è da ricercare in una persistente separazione, non solo concettuale, ma anche di organizzazione degli studi, che lo stesso idealismo ha contribuito non poco a consolidare, tra considerazione filosofica, ricostruzione storica e indagine filologica. Gli studi di filosofia antica hanno infatti sofferto in modo particolare di una vera e propria scissione tra quelli che erano considerati i compiti esclusivi del filologo e quelle che erano considerate le competenze dello storico e del filosofo: con la conseguenza che questi studi sono potuti apparire troppo filologici ... ad alcuni e ad altri, all’opposto, troppo filosofici per entrare di pieno diritto nell’ambito di ciò che si era soliti chiamare la “scienza dell’antichità”.8 Quando Giannantoni scriveva queste parole (cioè nel 1980), era persuaso che la scissione non fosse superata e fosse causa, oltre che di una durevole influenza idealistica, anche di un pregiudizio nei rispetti della filologia, malgrado i grandi progressi e le messe a punto di tanta prestigiosa filologia classica italiana.9 Stante, quindi, una situazione di progresso “zoppicante”, per così dire, degli studi storiografici italiani sulla filosofia antica, Giannantoni nutrì l’aspirazione di delimitare un preciso terreno metodologico cogliendo la preziosa occasione che il Consiglio Nazionale delle Ricerche gli offriva. Il secondo indirizzo è quello che, almeno a prima vista, rivela maggiormente la stretta relazione tra il percorso scientifico individuale di Giannantoni e lo spettro di interessi messi in campo da quanti hanno operato nel o col Centro, a cominciare dai suoi allievi. Tanto più che l’attenzione rivolta non solo a Socrate ma alle tradizioni socratiche ed ellenistiche non è del tutto indipendente dalla questione dell’impatto dell’idealismo italiano sulla fortuna della storiografia filosofica dell’antichità. Il giudizio crociano sui limiti delle filosofie di Socrate, Platone e Aristotele, ad esempio, diventa un vero e proprio deprezzamento delle tradizioni “minori”.10 Ed è appena necessario 8 Giannantoni 1980, pp. 7-8. Il riferimento a Calogero è da intendersi a Calogero 1950, pp. 43-59. 9 Si veda al riguardo il chiarimento di Giannantoni relativo all’opera di Giorgio Pasquali, che pervenne ad un’unità di filologia e storia come unità di metodo, non di contenuti, e che si caratterizzò tramite uno storicismo della filologia classica, profondamente diverso dallo storicismo idealistico: questo, inteso come riconoscimento nella storia e nella cultura di figure e “categorie” del pensiero e dello spirito, quello, inteso come intima connessione tra le rigorose tecniche filologiche e la conoscenza storica (cfr. 1980, p. 37). 10 Cfr. Croce 19455, p. 201: “... col considerare principalmente il contrasto delle passioni verso la volontà razionale sorsero le scuole opposte dei cinici e cirenaici, ILIESI digitale Temi e strumenti 9    Francesca Alesse G. Giannantoni e il Centro di Studio del Pensiero Antico ricordare che la figura di Socrate, a cui deve farsi risalire il terreno di ricerca costituito dalle scuole socratiche e buona parte di quello attinente alle tradizioni ellenistiche, fu al centro di importanti riflessioni teoretiche e storiografiche di Guido Calogero,11 che di Giannantoni fu il maestro. Abbiamo poi vari segni di un’interazione di tendenze di studio comuni a più scuole anche fuori dell’Italia. L’interesse per le tradizioni dette “minori”, tali cioè in quanto paragonate alle filosofie di Platone e Aristotele e, in più, conservate solo tramite tradizione indiretta, si manifesta già alla fine degli anni ’40 con studi seminali sui Sofisti, su alcuni discepoli di Socrate, in particolare Antistene di Atene e Aristippo di Cirene, sulla tradizione scettica.12 Proprio ad Aristippo di Cirene e alla sua scuola Giannantoni dedica la sua prima importante opera scientifica (Giannantoni 1958). In essa si profilano le problematiche, filologiche e storiografiche prima ancora che concettuali, relative alla intricata questione della eredità socratica: l’edizione critica di un corpus proveniente da molti e diversi testimoni; la possibilità di dirimere le fonti storicamente attendibili dalla ritrattistica aneddotica; la contestualizzazione del filosofo all’interno di un milieu composito in cui si intrecciano le influenze della Sofistica e della retorica classica e il magistero socratico. stoici ed epicurei e altrettali; ma le dottrine di tutte coteste scuole, se serbano qualche valore empirico come precetti di vita più o meno convenienti a individui, classi e tempi determinati, non ne presentano alcuno o scarsissimo, esaminate in quanto concetti filosofici; e cinici e cirenaici, stoici ed epicurei, piuttosto che filosofi sembrano monaci, seguaci di questa o quella regola”. Sulle “scuole socratiche minori” cfr. anche il giudizio, meno sommario, di Gentile 1964, pp. 141-177. 11 Com’è molto noto, Socrate occupò un ruolo centrale nella personale riflessione teorica di Guido Calogero, che elaborò la sua “filosofia del dialogo” esattamente sul modello del Socrate dei dialoghi platonici, nel quale il filosofo italiano vide la prima formulazione di un’istanza intellettuale e morale – il dialogo, appunto, contrapposto al “logo” conclusivo e assertivo – destinata a far giustizia della pretesa di fondare l’etica sulla epistemologia e sulla metafisica, e che sarebbe stata anche alla base della moderna concezione dello stato liberale e di diritto. Ma Socrate fu anche al centro di importanti lavori storiografici di Calogero, alcuni dei quali aprirono la strada alla ricerca della posterità del magistero socratico nel pensiero tardo-ellenistico e cristiano. Una visuale critica diversa da quella di Giannantoni, ma in linea con la percezione del ruolo capitale svolto da Socrate nella storia del pensiero antico. Mi limito su tutto ciò a rimandare a Giannantoni 1987 e a Brancacci 2017. 12 Per limitarsi alle opere principali: Untersteiner 1949, con moltissime riedizioni; Dal Pra 1950; Humbert 1967; Mannebach 1961; Decleva Caizzi 1966; Patzer 1970. 10 ILIESI digitale Temi e strumenti     Francesca Alesse G. Giannantoni e il Centro di Studio del Pensiero Antico Questi elementi appaiono, nella storiografia e nella filologia europea degli anni ’70, sempre più determinanti per la comprensione delle dottrine di personalità come Aristippo, Antistene di Atene, Euclide di Megara, Eschine di Sfetto. In più, il superamento della Quellenforschung tradizionale e l’approfondimento dei contenuti filosofici aprirono nuove possibilità di delineare il percorso che dalle scuole socratiche della seconda metà del IV secolo a.C. porta alle principali tendenze ellenistiche, il Giardino, la Stoa, il Peripato post- aristotelico, la scepsi pirroniana ed accademica. A questo complesso terreno di ricerca è dedicata una iniziativa che precede l’istituzione del Centro di Studio del Pensiero Antico benché sempre sostenuta dal Consiglio Nazionale delle Ricerche: il convegno “Scuole socratiche minori e filosofia ellenistica”, organizzato nel 1976 dal Centro di Studio per la Storia della Storiografia (la cui direzione era stata affidata allo stesso Giannantoni), e i cui atti furono pubblicati nel 1977 dalla casa editrice il Mulino di Bologna. Le relazioni presentate al Convegno del 1976, mirate ad una ricognizione dello stato documentario delle filosofie riconducibili a Socrate o ad uno dei suoi discepoli, e dei rapporti concettuali tra queste tradizioni e le filosofie ellenistiche e di età imperiale,13 furono aperte dalla comunicazione dello stesso Giannantoni sul tema Per un’edizione delle fonti relative alle scuole socratiche minori, nella quale lo studioso esponeva i risultati di un già lungo percorso di ricerca, ma ancora lontano, nel 1976, dalla sua conclusione. In questa relazione vengono messe a fuoco le 13 Cambiano 1977; Celluprica 1977; Sillitti 1977; Decleva Caizzi 1977; Ioppolo 1977; Brancacci 1977; Donini 1977; Isnardi Parente 1977; Repici 1977. ILIESI digitale Temi e strumenti 11   Figura 2: copertina di G. Giannantoni, I Cirenaici. Raccolta delle fonti antiche, traduzione e studio introduttivo, Firenze, 1958.    Francesca Alesse G. Giannantoni e il Centro di Studio del Pensiero Antico peculiarità e la notevole problematicità, soprattutto sotto il profilo filologico, di una edizione di testi filosofici e di molti autori. Emerge da questo breve testo non solo uno stato dell’arte ma un criterio programmatico che non considera sufficienti, benché certamente necessarie, le sole competenze della filologia classica, ma pretende una sensibilità storica e una capacità di comprensione teorica che gli sforzi della Altertumswissenschaft tradizionale non avevano sempre garantito. L’edizione di testi filosofici di trasmissione indiretta non può limitarsi alla costituzione del testo e alla redazione di apparati critici da cui si desuma il meticoloso lavoro di collazione dell’editore, ma deve tener conto dei contesti storici e problematici nei quali sono vissuti tanto il filosofo quanto il suo testimone. Inoltre, un’edizione che sia, in più, una silloge di testi relativi a (e non provenienti da) molti filosofi, comporta di andare oltre la natura estrinseca14 della singola testimonianza (epoca e ambiente del testimone, distanza cronologica dall’autore, genere letterario della fonte, parametri stilistici, etc.) e di individuare alcune strutture di pensiero che, in un lasso di tempo abbastanza lungo, si facciano riconoscere per caratteri salienti e durevoli e, al contempo, riflettano le condizioni storiche che ne determinano la specificità (secondo i dettami dello storicismo), diventando pagine e capitoli di una lunghissima storia culturale; si configurino, cioè, come tradizioni: Il fatto è che a proposito di una raccolta di testi che riguardano uno o più filosofi, emerge molto più nettamente che in altri casi l’impossibilità di considerare la testimonianza antica come un dato puramente oggettivo, e quindi la necessità di storicizzarla fino in fondo: in realtà essa deve essere considerata come un capitolo di una vera e propria storia della cultura durata all’incirca un millennio, e perciò da ricondurre di volta in volta al suo tempo e alle tendenze storicamente determinate che la produssero: parleremmo di un Diogene irreale e mai esistito se pensassimo di poter adoperare come ingredienti mescolabili a piacere Epitteto e Dione Crisostomo, Luciano e Giuliano l’Apostata, un padre della chiesa e le epistole apocrife che vanno sotto il nome del cinico.15 Il terzo indirizzo, relativo alla dossografia, è quello che presenta, almeno in apparenza, un maggiore tecnicismo, perché volto alle problematiche ecdotiche ed interpretative attinenti allo studio di 14 Sulla cosiddetta filologia “esterna”, sul ruolo da essa svolto nelle edizioni filosofiche e sui suoi limiti, si veda Giannantoni 1980, p. 15, a proposito dell’opera di Girolamo Vitelli, la cui importanza per la storia della filosofia antica è legata specialmente alle edizioni critiche dei commenti aristotelici di Giovanni Filopono. 15 Giannantoni 1977, p. 22. 12 ILIESI digitale Temi e strumenti    Francesca Alesse G. Giannantoni e il Centro di Studio del Pensiero Antico dottrine riportate da testimoni spesso assai lontani, per cronologia ed orientamento intellettuale, dagli autori di cui si vuole conoscere il pensiero. D’altra parte, la dossografia si è rivelata un capitolo importantissimo di quella millenaria storia culturale che costituisce il terreno di indagine della storia della filosofia antica. Non si potrebbe ancora oggi redigere una storia della storiografia filosofica dell’antichità senza iniziare non solo dalle grandi raccolte di testi e frammenti allestite dalla filologia ottocentesca e comparse nei primi anni del XX secolo (le raccolte di Usener,16 Diels,17 Arnim,18 per citare degli esempi), ma anche dalla prima grande opera di analisi e comparazione dei testimoni, i Doxographi Graeci di Hermann Diels;19 come è altrettanto vero che non si può oggi fare a meno dei più recenti e sistematici contributi all’analisi della dossografia filosofica, cioè gli Aëtiana di Jaap Mansfeld e David Runia.20 I più importanti progetti editoriali varati negli ultimi decenni, inoltre, si sono strettamente legati alla problematica della dossografia e all’analisi dei testimoni, a lato di quelle condotte sugli autori e sulle tradizioni dottrinali. Allo studio di autori di grande notorietà e impatto della tradizione culturale antica, ai quali si deve gran parte della conoscenza dei filosofi precedenti, come Cicerone e Plutarco, si è venuta affiancando una sempre maggiore familiarità con testimoni meno noti ma che hanno rivelato un’importanza fondamentale, come Filodemo, Diogene Laerzio, Sesto Empirico, Galeno, Giovanni Stobeo. L’indirizzo dossografico fu quindi un segno della tempestività e della sensibilità di Gabriele Giannantoni nei rispetti di un terreno di ricerca che si veniva imponendo in ambito internazionale, e che di fatto contribuì alla dimensione internazionale dello stesso Centro, la cui attività progettuale e congressuale fu in buona misura dedicata alla dossografia di epoca tardo ellenistica ed imperiale. Si può far rientrare in questo ultimo indirizzo anche una linea di attività di studi la cui ragione storiografica fu oggetto di un vivacissimo 16 Usener 1887. 17 Diels 1903. 18 Arnim 1903. 19 Diels 1879. 20 Mansfeld-Runia 1997; Mansfeld-Runia 2009; Mansfeld-Runia 2010. È appena necessario ricordare che le parole stesse “doxographus”, “doxographia”, sono coniate da Hermann Diels. Sulla dossografia e sul suo sviluppo come categoria filologico-storiografica, cfr. Mansfeld 1998, rist. in Mansfeld-Runia 2010, Mansfeld 2002, rist. in Mansfeld-Runia 2010. ILIESI digitale Temi e strumenti 13    Francesca Alesse G. Giannantoni e il Centro di Studio del Pensiero Antico dibattito e che è nota come la questione delle dottrine non scritte di Platone. Sorta nell’accademia tedesca, in particolare a Tübingen, da un’ipotesi schleiermacheriana, la questione degli agrapha dogmata consisteva, molto in breve, nella convinzione che Platone avesse teorizzato una dottrina dei principi (Uno e Molteplice), della quale non resta traccia nei suoi scritti – perché oggetto di pura trasmissione orale all’interno dell’Accademia antica – ma solo sparsi indizi in pagine aristoteliche. Alla nascita, per così dire, del Centro, Giannantoni invitò Konrad Gaiser, ordinario di filologia classica all’Università di Tübingen e uno dei maggiori sostenitori di questa ipotesi, a tenere una lezione presso la Sapienza sul tema La teoria dei principi in Platone, il cui testo venne pubblicato nel primo numero della rivista “Elenchos”.21 Tuttavia, il punto che merita attenzione in questa sede è che la questione delle dottrine non scritte di Platone fu, oltre che un tema rilevante per se stesso, anche un “pretesto” per riconsiderare Aristotele come testimone egli stesso del passato filosofico, più precisamente per le cosiddette filosofie presocratiche. Com’è noto, Aristotele può essere considerato se non il primo testimone in assoluto delle precedenti tradizioni di pensiero, certamente il primo testimone che ne offre una informazione organizzata secondo criteri espositivi dettati dalle proprie esigenze filosofiche e che hanno inevitabilmente condizionato la visione storiografica moderna. Per quanto apparisse improprio, naturalmente, definire Aristotele un dossografo, il riesame della sua testimonianza della filosofia precedente, anch’essa una tradizione indiretta, apparve a Giannantoni una linea d’azione congrua con quelle relative alle scuole socratiche e le filosofie ellenistiche, ancorché meno visibile tra i risultati delle ricerche del Centro. A conclusione di questo primo paragrafo, ricordiamo che l’istituzione del Centro di Studio del Pensiero Antico non fu del tutto priva di modelli in Italia e fuori e che con alcuni di essi si instaurò una costante collaborazione. L’esempio più immediato, sia sotto il profilo tematico e scientifico, che sotto quello del funzionamento istituzionale, fu il – Léon Robin, una unità di ricerca del 21 Gaiser 1980. 14 ILIESI digitale Temi e strumenti  Centre de Recherches sur la Pensée Antique  Centre National de la Recherche  Scientifique (CNRS), ma operante all’interno e sotto l’egida    Francesca Alesse G. Giannantoni e il Centro di Studio del Pensiero Antico  dell’Université Paris-Sorbonne (perciò definito anche Unité Mixte de  Recherche, o UMR), in modo non troppo dissimile dai Centri di Studio  del CNR istituiti in regime di convenzione con i vari Atenei italiani. La  collaborazione con questo Centro si focalizzò sulle tematiche  socratiche e dette luogo al ripetuto scambio di studiosi tra le due sedi nel biennio 1994-1995 nell’ambito del programma di ricerca “Socrate e la storia del pensiero antico: rottura o continuità?”; i contributi  pubblicati nel 1997 sotto il titolo di Lezioni socratiche, a cura di furono   Gabriele Giannantoni e Michel Narcy, per l’Editore Bibliopolis di  Napoli. Un’altra importante istituzione scientifica a cui Giannantoni  guardò con particolare attenzione e con cui intrecciò stretti rapporti  scientifici nonché di cordiale amicizia è stata senz’altro il Centro  Internazionale per lo Studio dei Papiri Ercolanesi, oggi intitolato a  Marcello Gigante, che ne fu il fondatore nel 1969. I motivi di tale  collaborazione erano dettati ovviamente dall’interesse intrinseco per  la grande opera editoriale a cui il Centro fondato da Gigante era  votato. La pubblicazione delle nuove edizioni critiche dei papiri reperiti  nel sito ercolanese offriva alla comunità scientifica un patrimonio  inestimabile per la conoscenza dell’Epicureismo, della tradizione  socratica, dello Stoicismo. Ma furono anche ragioni metodologiche a  sancire un sodalizio importante, che si concretizzò in varie iniziative e  pubblicazioni cui parteciparono entrambi i Centri: i testi ercolanesi,  com’è molto noto, costituiscono un materiale che permette di  arricchire enormemente la conoscenza di molte importanti tradizioni  filosofiche e letterarie, a condizione di possedere un complesso di  conoscenze e tecniche interpretative che difficilmente possono  trovarsi nella medesima personalità e che però vanno applicate  contestualmente. In altre parole, l’esperienza collaborativa tra questi  due Centri, forti, l’uno, di una formazione propriamente storica e  filosofica, l’altro, di alte competenze filologiche, contribuì in modo  significativo a costituire quella storiografia della filosofia antica che  aveva, almeno per la cultura accademica italiana dei primi decenni  del ’900, faticato ad assumere uno statuto proprio.  ILIESI digitale Temi e strumenti 15  Francesca Alesse G. Giannantoni e il Centro di Studio del Pensiero Antico L’ATTIVITÀ DI RICERCA DEL CENTRO E I SUOI RISULTATI: I PROGETTI, I CONGRESSI, LA FORMAZIONE Quanto detto nel precedente paragrafo trova un riflesso, diretto o indiretto, nelle attività di ricerca del Centro, nonché nelle sue pubblicazioni. L’interesse per il consolidamento della storia della filosofia antica come disciplina autonoma, dotata cioè di un suo impianto metodologico, oltre che di un preciso confine cronologico, viene perseguito tramite l’attività progettuale, congressuale e editoriale, di cui si dà qui una descrizione sintetica. Vale però la pena di ricordare, prima di tutto, una iniziativa promossa da Giannantoni dopo l’istituzione del Centro, in conformità di un indirizzo dell’organo direttivo della rivista “Elenchos”, e dedicata alla problematica storiografica: Nelle riunioni del Comitato direttivo della rivista “Elenchos” è emersa più volte l’opportunità di aprire una discussione sul metodo o, meglio, sui metodi attuali della storiografia filosofica relativa al pensiero antico. Si è pensato perciò di cominciare con una “tavola rotonda”, chiamando a parteciparvi esponenti di orientamenti diversi e significativi, ai quali è stato chiesto di intervenire liberamente su tre questioni principali: 1) se ha senso parlare ancora di una storia della filosofia (e quindi anche di una storia della filosofia antica) come disciplina a se stante e in sé autonoma; 2) quali innovazioni si possono riconoscere all’ampliarsi e al differenziarsi delle impostazioni teoriche che sono sottese ai vari approcci metodici alla storia del pensiero antico; 3) quale è il contributo che viene, una volta tramontato il vecchio mito classicistico, dall’applicazione di categorie elaborate dalle “scienze umane”.22 Alla tavola rotonda parteciparono Enrico Berti, Mario Vegetti, Carlo Augusto Viano, e lo stesso Giannantoni, ciascuno portando un contributo molto peculiare e strettamente conforme al proprio orientamento intellettuale. L’intervento di Giannantoni rispecchia le riflessioni condotte qualche anno prima e pubblicate nel già citato articolo di apertura della Rivista (La storiografica idealistica), di cui ripropone le premesse problematiche e a cui aggiunge precise prese di posizioni sulla specificità della storia della filosofia antica e sul modo di salvaguardarla: ... senza perdere di vista il fatto che lo scopo principale (scil. dello storico della filosofia antica) resta la comprensione dei testi che ci trasmettono il pensiero antico, ritengo necessario rivendicare l’imprescindibilità di una rigorosa e metodica impostazione filologica, anche se tale impostazione non può non venire assumendo sempre più, essa stessa, una fisionomia storica: quella della storia degli studi ... ciò dovrebbe indurre a uscire da un tradizionale isolamento e a promuovere una 22 Giannantoni 1983, p. 147. 16 ILIESI digitale Temi e strumenti    Francesca Alesse G. Giannantoni e il Centro di Studio del Pensiero Antico organizzazione del lavoro diversa e meno diffidente verso i sussidi che la tecnologia moderna può offrire. In ogni caso, la storia degli studi è ormai elemento costitutivo di ogni indagine che voglia avere un minimo di serietà, non solo per le conoscenze che ha acquisito ma anche per le divergenze che ha proposto. L’alternativa a questa impostazione è o l’arbitrio nella scelta dei riferimenti o l’illusione di un ritorno alla “lettura diretta” dei testi.23 In queste parole possiamo rintracciare ad un tempo la finalità della costituzione del Centro e la visione di Giannantoni del modo di operare storiografico: più che il cenno alle nuove tecnologie e più che l’esortazione ad abbandonare l’isolamento, sicuramente importanti l’uno e l’altra, conta sottolineare, a mio parere, il richiamo alla storia degli studi come parte integrante della storia della filosofia, in particolare della filosofia antica, affidata in larghissima misura alla tradizione indiretta. La “serietà”, cioè la plausibilità dei risultati della ricerca storico-filosofica sono messi a rischio dalla “illusione” di poter leggere (e capire) le parole del filosofo, specie se antico, senza gli strumenti della conoscenza filologica, linguistica e culturale nel senso più lato, conoscenza cui si perviene ricostruendo, ove sia possibile, anche una storia intelligente delle letture altrui. Uscire dall’“isolamento” è, allora, non solo la cooperazione tra colleghi ad un progetto scientifico unitario, ma anche la conoscenza e la valutazione delle migliori offerte interpretative che di un testo e del suo contesto siano state date entro un certo arco di tempo.  23 Giannantoni 1983, pp. 182-183. ILIESI digitale Temi e strumenti 17   Francesca Alesse G. Giannantoni e il Centro di Studio del Pensiero Antico Sia nelle azioni istituzionali, che investirono e coinvolsero il complesso delle risorse del Centro, incluse le relazioni stabilite con il mondo universitario, sia nelle attività di ricerca individuali, un ruolo primario fu senz’altro svolto dalle tradizioni ellenistiche e dall’analisi della letteratura dossografica. Già nel 1980, il Centro organizza un convegno sullo scetticismo antico,24 e tra il 1982 e il 1986 coopera strettamente con l’Università degli Studi di Pavia e in particolare con Mario Vegetti, ordinario di Storia della filosofia antica di quella Università, e con i suoi più stretti collaboratori, sostenendo l’organizzazione di due importanti convegni: “La scienza ellenistica” (Pavia, 1982)25 e “ 1986).26 Ancora alla filosofia ellenistica è dedicata l’importante pubblicazione dei Proceedings del quarto simposio internazionale sulla filosofia ellenistica, che vide tra i suoi partecipanti esperti di caratura internazionale, alcuni di stretta collaborazione con il Centro stesso.27   Figura 3: copertina del primo volume di Lo scetticismo antico, Atti del convegno, a cura di G. Giannantoni, Napoli, 1981.  Le opere psicologiche di Galeno” (Pavia, 10-12 settembre 14-16 aprile    24 25 26 27 18 ILIESI digitale Temi e strumenti  Giannantoni 1981.  Giannantoni-Vegetti 1985.  Manuli-Vegetti 1988.  Barnes-Mignucci 1988.   Francesca Alesse G. Giannantoni e il Centro di Studio del Pensiero Antico Carattere sistematico ebbe anche la linea d’azione dedicata allo studio della dossografia. Il Centro organizza, nel 1985, il congresso internazionale sull’opera del biografo di età imperiale Diogene Laerzio (“Diogene Laerzio storico del pensiero antico”, Napoli-Amalfi, 30 settembre-3 ottobre 198528) e, nel 1991, il congresso internazionale sull’opera del medico scettico di età imperiale Sesto Empirico (“Sesto Empirico e il pensiero antico”, Sestri Levante, 28 maggio-1 giugno 199129). Si delinea in entrambi gli eventi un’unica prospettiva, grazie alla quale l’oggetto dell’indagine storiografica è, per così dire, duplice e contestuale: l’autore, cioè il filosofo il cui pensiero è oggetto di trasmissione da parte di un testimone, e il testimone stesso, la sua epoca, il suo orientamento, nonché la struttura formale della sua testimonianza, struttura che rivela assai spesso una tesaurizzazione delle informazioni attraverso i differenti metodi per la loro esposizione. Così, mentre l’opera di Diogene Laerzio, che già da lungo tempo aveva attirato l’attenzione della filologia classica, conserva una concezione ampia del genere biografico, restituendo non solo informazioni biografiche e dottrinali dei singoli filosofi nonché cataloghi d’autore, ma anche specifici schemi espositivi presi a prestito dalla letteratura storica (il più caratteristico è senz’altro quello delle “successioni”), l’opera di Sesto Empirico mostra le conseguenze sul piano storiografico di un modello propriamente concettuale, la diaphonia. Un altro forte sodalizio, quello con il Centro Internazionale per lo Studio dei Papiri Ercolanesi di Marcello Gigante, permise di allestire negli anni subito successivi un grande congresso internazionale sul tema “L’Epicureismo greco e romano” (Napoli-Anacapri, 19-26 ILIESI digitale Temi e strumenti 19   Figura 4: copertina di Diogene Laerzio storico del pensiero antico, Atti del congresso, “Elenchos”, 7, 1986.  28 Atti pubblicati nel volume 7 dell’annata 1986 della rivista “Elenchos”. 29 Atti pubblicati nel volume 13 dell’annata 1992 della rivista “Elenchos”.    Francesca Alesse G. Giannantoni e il Centro di Studio del Pensiero Antico maggio 1993),30 un evento di ampio spettro tematico e cronologico all’interno del quale poterono cimentarsi papirologi e papirologi ercolanesi, filologi classici, paleografi ed epigrafisti, storici, storici della letteratura e della poesia greca e romana e, ovviamente, storici della filosofia antica. Proprio di questo incontro fu il suo carattere transdisciplinare e, per quel che attiene alle attività in corso presso il Centro, la messa alla prova di molte ipotesi di lavoro anche individuali sulla relazione tra l’Epicureismo e le rilevanti tradizioni (le scuole socratiche, la Stoa, la scepsi accademica e pirroniana) che impegnavano in quegli anni sia Giannantoni in prima persona che il suo gruppo di lavoro operante presso la Sapienza e il Centro. Tra gli ultimi impegni di Giannantoni in qualità di direttore del Centro ci fu l’organizzazione di due altri convegni: “ “Empedocle e la cultura della Sicilia antica. Illustrazione di un frammento inedito della sua opera” (Agrigento, 4-6 settembre 1997).32 Il primo raccolse un gruppo consistente di esperti della cultura greco- romana e fu un raro esperimento di indagine lessicale da parte del Centro, volto a delineare l’area semantica dell’affezione (emozione, sentimento, malattia) nelle diverse manifestazioni della cultura classica antica, dalla letteratura, dal teatro e dall’arte figurativa, alla filosofia e alla medicina. Il secondo convegno fu un altro esempio del modo in cui Giannantoni intendeva inserire la vita scientifica del Centro all’interno di una rete di relazioni istituzionali, oltre che scientifiche e accademiche, perché il convegno, motivato dalla 30 Giannantoni-Gigante 1996. 31 Atti pubblicati nel volume 16/1 dell’annata 1995 della rivista “Elenchos”. 32 Atti pubblicati nel volume 19/2 dell’annata 1998 della rivista “Elenchos”. 20 ILIESI digitale Temi e strumenti   Figura 5: copertina del primo volume di Epicureismo greco e romano, Atti del congresso, a cura di G. Giannantoni e M. Gigante, Napoli, 1992.  Il concetto di  pathos nella cultura antica” (Taormina, 1-4 giugno 1994);31     Francesca Alesse G. Giannantoni e il Centro di Studio del Pensiero Antico recente scoperta del Papiro di Strasburgo contenente una porzione del poema empedocleo, fu organizzato in collaborazione con la sovrintendenza dei beni archeologici di Agrigento. Esso inoltre doveva essere una prima tappa di un più ampio progetto dedicato alle tradizioni culturali e filosofiche della Sicilia e della Magna Grecia, e che non vide la luce per la scomparsa dello stesso Giannantoni. *** Sarebbe un errore pensare che le strategie e i progetti del Centro avessero come unici interlocutori le istituzioni accademiche italiane e straniere. Certamente, uno degli obiettivi di Giannantoni era quello di costituire un piccolo ma vivace e solido bacino collettore degli interessi intorno al pensiero antico, e tali interessi erano, di fatto, collocati nelle Università e organizzati secondo i modi della didattica e della formazione universitarie. Ma il Centro partecipò anche alla realizzazione di una delle maggiori iniziative che il Consiglio Nazionale delle Ricerche abbia dedicato al settore delle scienze umane, e cioè il progetto strategico intitolato “Il Sistema Mediterraneo. Radici Storiche e Culturali e Specificità Nazionali”.33 Questo grande progetto  fu articolato in cinque linee di indagine, la  prima delle quali dedicata al mondo antico, in particolare greco-  romano.34 Fu in questo contesto che Giannantoni, oltre a scrivere il  saggio La tradizione culturale greca in Magna Grecia e Sicilia,  apparso nel 2002 nel volume che raccoglieva i risultati delle attività  promosse dal progetto,35 maturò l’idea di una linea di attività, cui si è  fatto cenno, dedicata alle tradizioni filosofiche della Magna Grecia e  della Sicilia, linea che avrebbe dovuto raccogliere e mettere a frutto le  metodologie sperimentate nella più generale attività del Centro  33 Il Progetto Strategico, svoltosi negli anni 1995-2000 e coordinato da Antonello Folco Biagini fu varato nel 1994 dal 34 “ 35 Biagini 2002. ILIESI digitale Temi e strumenti 21  Comitato Nazionale di Consulenza del CNR per  le Scienze Storiche, Filosofiche e Filologiche, allo scopo di convogliare tutte le competenze rappresentate ed espresse dalla rete scientifica costituita dai Centri di Studio e dagli Istituti afferenti al Comitato stesso, in una grande area di interesse, appunto il “Mediterraneo”. Al fondo della decisione del Comitato era la convinzione che il Mediterraneo costituisse non un’entità identitaria ma un complesso “sistema” di realtà molteplici, tradizionalmente oggetto di indagine da parte di settori disciplinari indipendenti. Si trattava perciò di conferire unità strategica e di metodo ad una  naturale e fisiologica molteplicità di fenomeni culturali.  Origine e incontri di culture nell’antichità”.   Francesca Alesse G. Giannantoni e il Centro di Studio del Pensiero Antico  (studio della dossografia e delle tradizioni indirette). Rivisse, in questo  progetto non realizzato, l’antico interesse di Giannantoni per la  trasmissione delle cosiddette tradizioni presocratiche, molte delle  quali per l’appunto fiorite nelle aree magnogreche (l’Eleatismo, il  Pitagorismo, Empedocle, Gorgia di Leontini), e per il ruolo svolto in  tale trasmissione da Platone e Aristotele. A questo più antico arco  cronologico, si sarebbe poi unito il costante interesse per  l’Epicureismo, nella forma storica dell’Epicureismo campano.  Vale la pena ricordare, infine, l’attività formativa che il Centro  riuscì a svolgere, facilitata, come è facile comprendere, dalla  posizione accademica di Giannantoni. Il Centro di Studio del Pensiero  Antico si formò infatti raccogliendo i suoi allievi, che si unirono ai  ricercatori già in forza presso il precedente Centro di Studio per la Storia della Storiografia Filosofica. L’attività progettuale, inoltre, non si limitava alla sola attività di pianificazione scientifica e ancor meno alla sola organizzazione dei convegni, ma prevedeva lavori continuativi di studio collettivo e di confronto sulle tematiche di principale interesse e di rilevanza strategica.  I maggiori convegni venivano quindi preceduti  da seminari propedeutici sulle dossografie antiche, sull’opera di  Diogene Laerzio e su quella di Sesto Empirico, e su quest’ultimo  autore, anzi, si svolse un seminario aperto anche ai dottorandi di  ricerca della Sapienza. Nell’ambito del progetto strategico  “Mediterraneo” e quindi della linea di ricerca sul Mediterraneo antico,  il Centro ottenne dal Comitato di Consulenza per le Scienze Storiche,  Filosofiche e Filologiche tre borse di studio (1995-1996).  22 ILIESI digitale Temi e strumenti  Francesca Alesse G. Giannantoni e il Centro di Studio del Pensiero Antico LE PUBBLICAZIONI DEL CENTRO  Un discorso a parte merita l’attività editoriale a cui il Centro riuscì a  dar vita. Due furono le iniziative editoriali, strettamente coerenti con  l’idea programmatica che ispirò la costituzione del Centro: la serie  “Elenchos. Collana di testi e studi sul pensiero antico”, e il periodico  “Elenchos. Rivista di studi sul pensiero antico”. La scelta del  medesimo nome per le due iniziative si spiegava facilmente in  riferimento all’orientamento intellettuale ed al bagaglio culturale dello  stesso Giannantoni, che riteneva la discussione, il confronto  (elenchos, appunto), in primo luogo, uno dei lasciti più significativi  della cultura filosofica antica, quello che maggiormente ha contribuito  alla formazione della coscienza moderna. Ma in secondo luogo, e  secondo un’angolatura più tecnica, Giannantoni vedeva nella  discussione, intesa come analisi critica, il metodo per eccellenza dello  studio del testo filosofico antico e della dottrina in esso contenuta,  come avevano mostrano i primi autori di una nascente “storia della  filosofia” ancora in forma di dossografia, Platone e soprattutto, com’è  assai noto, Aristotele. In omaggio dunque, all’ideale dialogico  trasmesso dal magistero di Guido Calogero, l’elenchos fu, nei limiti  del possibile, il contrassegno delle ricerche realizzate o promosse dal  Centro e divenne il nome delle due pubblicazioni, entrambe affidate  alla casa editrice napoletana Bibliopolis, Edizioni di Filosofia e  Scienza, di Francesco del Franco.  La collana era destinata in larga misura, benché non  esclusivamente, a premiare le ricerche individuali, le quali dovevano  concretarsi in studi monografici, edizioni di testi e strumenti per la  ricerca. Non deve stupire che in questa sede ci si limiti a mettere in  primo piano l’opera Socratis et Socraticorum Reliquiae, collegit,  disposuit apparatibus notisque instruxit Gabriele Giannantoni, 1990, 4  voll. Frutto di una ricerca individuale più che trentennale, preparato da  molte precedenti pubblicazioni, questa edizione delle testimonianze  relative a Socrate e alle scuole socratiche, corredata di apparati critici  e note di commento (e senza traduzione, secondo la prassi  dell’austera filologia classica moderna), rappresentò la più importante  espressione degli interessi tematici e dei principi metodologici che  caratterizzarono il Centro. Basterebbe infatti considerare i volumi  usciti nella medesima collana “Elenchos” votati alle tradizioni  socratiche, alle scuole ellenistiche, alla dossografia e alle edizioni di  ILIESI digitale Temi e strumenti 23  Francesca Alesse G. Giannantoni e il Centro di Studio del Pensiero Antico  testi e frammenti di autori ancora  poco studiati, per apprezzare   l’impatto delle ricerche di Giannantoni su tutto il gruppo di ulteriori interessi e accolse studi accademica.   ricerca del Centro.36 Naturalmente  la collana non fu preclusa ad   critici su tematiche di grande  rilevanza nell’ambito del platonismo  e dell’aristotelismo e delle filosofie  della tarda antichità,37 promuovendo  in tal modo uno scambio costante  con la più ampia comunità   Quanto alla rivista, è forse  opportuno rimandare direttamente  alla Presentazione che Giannantoni  Figura 6: copertina del primo volume di G. Giannantoni, Socratis et Socraticorum Reliquiae, Napoli, 1990.  antepose al primo fascicolo: essa fa  molto ben intendere tanto la  relazione essenziale tra il programma scientifico del Centro e il periodico  che di quel programma doveva essere lo strumento di diffusione; quanto  l’apertura al dibattito scientifico che la rivista (e quindi il Centro stesso) si  prefiggeva; quanto, infine, la tempestività di un’operazione culturale che  il Consiglio Nazionale delle Ricerche ebbe la sagacia di sostenere:  Questa rivista ... intende dare attuazione ad uno dei punti programmatici contenuti nella convenzione stipulata tra il Consiglio Nazionale delle Ricerche e l’Università di Roma, e che sta alla base del neocostituito Centro di Studio del Pensiero Antico ... essa non è, tuttavia, in senso stretto espressione soltanto di questo Centro: al contrario, chi ha la responsabilità di dirigerla intende farne uno strumento di studio e di ricerca aperto alle collaborazioni più ampie, un punto di incontro e di confronto e un’occasione a disposizione sia di studiosi già affermati sia di giovani ricercatori ... Questa rivista è l’unica dedicata interamente al pensiero antico che si pubblichi in Italia38 e perciò essa non può non proporsi anche un compito di promozione di questi  36 I titoli della collana “Elenchos”, corredati da schede riassuntive, sono consultabili al sito web dell’Istituto per il Lessico Intellettuale Europeo e Storia delle idee http://www.iliesi.cnr.it/pubblicazioni.shtml 37 Mi limito a citare il grande progetto di traduzione e commento della Repubblica di Platone, promosso e diretto da Mario Vegetti, e i cui primi tre volumi furono stampati quando Giannantoni era ancora in vita: Vegetti 1998, 2000, 2003, 2005, 2007. 38 Questa situazione è rimasta invariata fino al 2007, e cioè fino alla comparsa della rivista “Antiquorum Philosophia”, edita da Fabrizio Serra Editore, Roma-Pisa, e diretta da Giuseppe Cambiano. 24 ILIESI digitale Temi e strumenti    Francesca Alesse G. Giannantoni e il Centro di Studio del Pensiero Antico  studi ... Ma essa si propone anche uno scopo più ambizioso; se è vero, come è vero,  che la storia del pensiero antico è un campo in cui debbono potersi incontrare ... gli apporti e le problematiche della storiografia filosofica e del metodo filologico; e se è vero, come è vero, che tanto la storiografia filosofica quanto il metodo filologico attraversano ... una fase di ripensamento critico molto profondo dei propri presupposti e delle proprie certezze, allora ad una rivista come questa spetta, in primo luogo, il compito di proporsi come sede di verifica di discipline diverse e di modi diversi di affrontare lo studio del pensiero antico e di aprire le sue pagine ... anche a contributi che per la conoscenza del pensiero antico possono venirci da storici dell’antichità, filologi classici, studiosi delle lingue e delle letterature classiche, archeologi, papirologi ... Per questi motivi di fondo – oltre e più che per la sua origine istituzionale – questa rivista si caratterizza per l’unità del campo di ricerca, non per l’unità dell’orientamento interpretativo ...39  CONCLUSIONI: LA PERMANENZA DI UN PATRIMONIO E L’ATTUALITÀ DI UN METODO In accordo con gli obiettivi enunciati nella Presentazione della rivista “Elenchos” e nel protocollo che lo istituiva, il Centro di Studio del Pensiero Antico si dotò di un consiglio scientifico che affiancò Gabriele Giannantoni nella direzione del Centro e delle pubblicazioni che esso produsse, il quale contò tra i propri membri eminenti storici della filosofia, quali Francesco Adorno, Enrico Berti, Giovanni Reale, Carlo Augusto Viano, Anna Maria Ioppolo, Aldo Brancacci e Vincenza Celluprica, nonché eminenti filologi classici e storici della letteratura greca quali Marcello Gigante e Luigi Enrico Rossi. Il Centro poté disporre di sufficienti risorse e di una struttura organizzativa40 che gli 39 “Elenchos”, 1, 1980, pp. 3-4. 40 Fecero parte del Centro in qualità di ricercatori inquadrati nei ruoli del Consiglio Nazionale delle Ricerche: Barbara Faes (direttrice del Centro nel 1999), Gigliola Caporali, Stefano Garroni, Vincenza Celluprica (direttrice del Centro per il biennio 2000-2001 e poi responsabile della linea relativa al pensiero antico nell’ILIESI fino al 2005), Lucina Ferraria, Aldo Brancacci (poi docente presso l’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”), Bruno Centrone (poi docente presso l’Università degli Studi di Pisa), Francesca Alesse, Maria Cristina Dalfino, Luca Simeoni, Riccardo Chiaradonna (poi docente presso l’Università degli Studi di Roma Tre). Collaborarono in modo istituzionale e continuativo con il Centro Anna Maria Ioppolo (Università degli Studi di Roma “La Sapienza”), Luciana Repici (Università degli Studi di Torino); Giuseppina Santese (Università degli Studi di Roma “La Sapienza”); Giovanna Sillitti (Università degli Studi di Roma “La Sapienza”); Carmela Baffioni (Università degli Studi di Napoli l’Orientale); Emidio Spinelli (Università degli Studi di Roma “La Sapienza”) e Francesco Aronadio (Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”). Molti sono stati i giovani che, nel corso della loro formazione post lauream sono venuti in contatto con Gabriele Giannantoni e con il Centro, lavorando fattivamente alla redazione di “Elenchos” o adoperandosi in attività editoriali e scientifiche in senso proprio. Tra questi mi è gradito ricordare Rosa Maria Piccione (Università degli Studi di Torino), Michele Alessandrelli (ILIESI-CNR), Diana Quarantotto (Sapienza Università di Roma), Francesco Fronterotta (Sapienza Università di Roma), Adriano ILIESI digitale Temi e strumenti 25    Francesca Alesse G. Giannantoni e il Centro di Studio del Pensiero Antico consentirono di diventare un organismo collettore di attività di ricerca nel campo dell’edizione critica e dell’interpretazione dei testi della filosofia antica, fino al 2001. Chi scrive non crede che l’esperienza acquisita nei poco più che vent’anni di vita del Centro sia andata perduta né dimenticata. Quando, nel 2001, nacque l’Istituto per il Lessico Intellettuale Europeo e Storia delle Idee, al suo interno fu garantita la prosecuzione e l’autonomia delle indagini relative alla storia della filosofia antica, per esplicito volere di Tullio Gregory che del nuovo Istituto fu il primo direttore. Queste indagini confluirono in una linea progettuale denominata prima “Storia del pensiero filosofico- scientifico e della terminologia della cultura mediterranea greco-latina, ebraica e araba” e successivamente “  Il pensiero filosofico nel mondo  antico: testi e studi”.41 L’impegno principale della linea fu  rappresentato da una serie di progetti che in parte proseguivano le  tematiche di studio e le strategie cooperative del Centro di Studio del  Pensiero Antico, e in parte introducevano nuove tipologie di analisi,  connesse alle tecnologie digitali. La continuità culturale fu inoltre  garantita dal mantenimento delle due pubblicazioni, la collana  “Elenchos” e la rivista “Elenchos”. Da questa permanenza delle  ricerche sul pensiero antico nella nuova realtà istituzionale si deve  ricavare non solo e non tanto l’attualità di una disciplina (che si è  comunque stabilizzata nel mondo accademico con la benefica  diffusione di cattedre e centri di insegnamento, in Italia e fuori),  quanto piuttosto l’attualità di un metodo di lavoro. Questo metodo di  lavoro, che potrebbe descriversi, un po’ aulicamente, come un nuovo  diatribein socratico, cioè come la capacità di discutere in modo  competente con i “morti” prima che con i vivi, rispecchia abbastanza  bene la disposizione intellettuale e comportamentale di Gabriele  Giannantoni, uomo tanto pacato nelle discussioni con i contemporanei,  quanto fermo nelle sue strategie di ricerca sul mondo antico.  Gioè, Matteo Nucci, Mariacarolina Santoro, Francesca Gambetti e Cristina Cunsolo (a quest’ultima si deve l’allestimento della bibliografia ragionata digitale Le tradizioni filosofiche e culturali greche della Magna Grecia e della Sicilia antica, ora in fase di aggiornamento ad opera di Francesca Gambetti). 41 A questa linea, diretta da Vincenza Celluprica fino al 2005, fanno riferimento i ricercatori già operanti nel Centro, a cui si aggiunge, dal 2010, Silvia M. Chiodi, specialista in storia delle religioni del mondo antico e del Vicino Oriente. 26 ILIESI digitale Temi e strumenti   Francesca Alesse G. Giannantoni e il Centro di Studio del Pensiero Antico BIBLIOGRAFIA Arnim 1903 = Hans von Arnim, Stoicorum Veterum Fragmenta, Lipsiae, Teubner. Barnes-Mignucci 1988 = Jonathan Barnes, Mario Mignucci (a cura di), Matter and Metaphysics. Fourth Symposium Hellenisticum, Napoli, Bibliopolis. Biagini 2002 = Antonello F. Biagini (a cura di), Il Sistema Mediterraneo. Radici Storiche e Culturali e Specificità Nazionali, Roma, CNR Edizioni. Brancacci 1977 = Aldo Brancacci, Le orazioni diogeniane di Dione Crisostomo, in Gabriele Giannantoni (a cura di), Scuole socratiche minori e filosofia ellenistica, Bologna, il Mulino, pp. 141-171. Brancacci 2017 = Aldo Brancacci, Il Socrate di Guido Calogero, “Giornale Critico della Filosofia Italiana”, s. 7, vol. 13, pp. 205-226. Calogero 1950 = Guido Calogero, Gli studi italiani sulla filosofia antica, in Carlo Antoni, Raffaele Mattioli (a cura di), Cinquant’anni di vita intellettuale italiana. 1896-1946. Scritti in onore di Benedetto Croce per il suo ottantesimo anniversario, Napoli, Edizioni scientifiche italiane, vol. I, pp. 43-59. Cambiano 1977 = Giuseppe Cambiano, Il problema dell'esistenza di una scuola Megarica, in Gabriele Giannantoni (a cura di), Scuole socratiche minori e filosofia ellenistica, Bologna, il Mulino, pp. 25-53. Celluprica 1977 = Vincenza Celluprica, L'argomento dominatore di Diodoro Crono e il concetto di possibile di Crisippo, in Gabriele Giannantoni (a cura di), Scuole socratiche minori e filosofia ellenistica, Bologna, il Mulino, pp. 55-73. Croce 19092 = Benedetto Croce, Logica come scienza del concetto puro, Bari, Laterza. Croce 19273 = Benedetto Croce, Teoria e storia della storiografia, Bari, Laterza. Croce 19455 = Benedetto Croce, Filosofia della pratica: economica ed etica, Bari, Laterza. Croce 1996 = Benedetto Croce, Filosofia della pratica: economica ed etica, a cura di M. Tarantino. Edizione Nazionale delle Opere di Benedetto Croce, Napoli, Bibliopolis. Croce 1996a = Benedetto Croce, Logica come scienza del concetto puro, a cura di C. Farnetti. Edizione Nazionale delle Opere di Benedetto Croce, Napoli, Bibliopolis. Croce 2003 = Benedetto Croce, Problemi di estetica e contributi alla storia dell’estetica italiana, a cura di M. Mancini. Edizione Nazionale delle Opere di Benedetto Croce, Napoli, Bibliopolis. Croce 2007 = Benedetto Croce, Teoria e storia della storiografia, a cura di E. Massimilla, T. Tagliaferri. Edizione Nazionale delle Opere di Benedetto Croce, Napoli, Bibliopolis. Dal Pra 1950 = Mario Dal Pra, Lo Scetticismo greco, Milano, F.lli Bocca, rist. Laterza 1975. Decleva Caizzi 1966 = Fernanda Decleva Caizzi, Antisthenis Fragmenta, Milano, Cisalpina. Decleva Caizzi 1977 = Fernanda Decleva Caizzi, La tradizione antistenico-cinica in Epitteto, in Gabriele Giannantoni (a cura di), Scuole socratiche minori e filosofia ellenistica, Bologna, il Mulino, pp. 93-113. Diels 1879 = Hermann Alexander Diels, Doxographi Graeci, Berlin, Reimer. Diels 1903 = Hermann Alexander Diels, Die Fragmente der Vorsokratiker, Berlin, Weidmann. Donini 1977 = Pierluigi Donini, Stoici e Megarici nel De fato di Alessandro di Afrodisia, in Gabriele Giannantoni (a cura di), Scuole socratiche minori e filosofia ellenistica, Bologna, il Mulino, pp. 174-194. Gaiser 1980 = Konrad Gaiser, La teoria dei principi in Platone, “Elenchos”, 1, pp. 45-65. Gentile 1917 = Giovanni Gentile, Sistema di logica come teoria del conoscere, Pisa, Spoerri. Gentile 19543 = Giovanni Gentile, La riforma della dialettica hegeliana, Firenze, Sansoni. ILIESI digitale Temi e strumenti 27   Francesca Alesse G. Giannantoni e il Centro di Studio del Pensiero Antico Gentile 1964 = Giovanni Gentile, Storia della Filosofia (dalle origini a Platone), in V. A. Bellezza (a cura di), Giovanni Gentile. Opere complete, a cura della Fondazione Giovanni Gentile per gli studi filosofici, vol. X, Firenze, Sansoni. Giannantoni 1958 = Gabriele Giannantoni, I Cirenaici. Raccolta delle fonti antiche. Traduzione e studio introduttivo, Firenze, Sansoni. Giannantoni 1977 = Gabriele Giannantoni (a cura di), Scuole socratiche minori e filosofia ellenistica, Bologna, il Mulino. Giannantoni 1980 = Gabriele Giannantoni, La storiografia idealistica, “Elenchos”, 1, p. 7-44. Giannantoni 1981 = Gabriele Giannantoni (a cura di), Lo scetticismo antico, Atti del convegno organizzato dal Centro di Studio del Pensiero Antico del CNR (“Elenchos”, VI), Napoli, Bibliopolis, 2 voll., 913 pp. Giannantoni 1983 = Gabriele Giannantoni, Tavola rotonda. La storiografia filosofica sul pensiero antico, “Elenchos”, 4, pp. 179-189. Giannantoni 1987 = Gabriele Giannantoni, In ricordo di Guido Calogero, “Elenchos”, 8, pp. 5-24. Giannantoni 1990 = Giannantoni-Gigante 1996 = Gabriele Giannantoni, Marcello Gigante (a cura di), L’epicureismo greco e romano, Atti del Congresso Internazionale tenutosi a Napoli, 19-26 maggio 1993 (“Elenchos”, XXV), Napoli, Bibliopolis, 3 voll. Giannantoni-Narcy 1997 = Gabriele Giannantoni, Michel Narcy (a cura di), Lezioni socratiche (“Elenchos”, XXVI), Napoli, Bibliopolis. Giannantoni-Vegetti 1985 = Gabriele Giannantoni, Mario Vegetti (a cura di), La scienza ellenistica. Atti del Convegno di studio tenuto a Pavia (14-16 aprile 1982) (“Elenchos”, IX), Napoli, Bibliopolis. Humbert 1967 = Jean Humbert, Socrate et les petits Socratiques, Paris, PUF. Ioppolo 1977 = Anna Maria Ioppolo, Aristone di Chio, in Gabriele Giannantoni (a cura di), Scuole socratiche minori e filosofia ellenistica, Bologna, il Mulino, pp. 115-140. Isnardi Parente 1977 = Margherita Isnardi Parente, La valutazione dell’epistemologia dei peripatetici, e in particolare di Statone di Lampsaco, nell’ambito della valutazione della filosofia ellenistica, in Gabriele Giannantoni (a cura di), Scuole socratiche minori e filosofia ellenistica, Bologna, il Mulino, pp. 195-213. Liburdi 2018 = Annarita Liburdi, Materiali per una storia dell’ILIESI, “ILIESI digitale. Relazioni Tecniche”, n. 2, ILIESI-CNR. Mannebach 1961 = Erich Mannebach, Aristippi et Cyrenaicorum Fragmenta, Leiden- Köln, Brill. Mansfeld 1998 = Jaap Mansfeld, Doxographical Studies. Quellenforschung, Tabular Presentation and Other Varieties of Comparativism, in W. Burkert, L. Gemelli Marciano, E. Matelli, L. Orelli (eds.), Fragmentsammlungen philosophischer Texte der Antike – Le raccolte dei frammenti di filosofi antichi, Göttingen, Vandenhoeck & Ruprecht, pp. 16-40, rist. in Mansfeld-Runia, 2010, pp. 3-32. Mansfeld 2002 = Jaap Mansfeld, Deconstructing Doxography, “Philologus”, 146, 277- 286, rist. in Mansfeld-Runia 2010, pp. 161-172. Mansfeld-Runia 1997 = Jaap Mansfeld, David T. Runia, Aëtiana. The Method and Intellectual Context of a Doxographer, Leiden, Brill, Volume I: The Sources. Mansfeld-Runia 2009 = Jaap Mansfeld, David T. Runia, Aëtiana. The Method and Intellectual Context of a Doxographer, Leiden, Brill, Volume II: The Compendium. Mansfeld-Runia 2010 = Jaap Mansfeld, David T. Runia, Aëtiana. The Method and Intellectual Context of a Doxographer, Leiden, Brill, Volume III: Studies in the Doxographical Traditions of Ancient Philosophy. Manuli-Vegetti 1988 = Paola Manuli, Mario Vegetti (a cura di), Le opere psicologiche  Socratis et Socraticorum Reliquiae, collegit, disposuit  apparatibus notisque instruxit Gabriele Giannantoni, 4 voll. (“Elenchos”, XVIII),  Napoli, Bibliopolis.  28 di Galeno. Atti del terzo Colloquio galenico internazionale di Pavia (10-12 settembre 1986), Napoli, Bibliopolis. ILIESI digitale Temi e strumenti  Francesca Alesse G. Giannantoni e il Centro di Studio del Pensiero Antico Mondolfo 1933 = Rodolfo Mondolfo, L’infinito nel pensiero dei Greci, Firenze, Le Monnier. Mondolfo 1958 = Rodolfo Mondolfo, La comprensione del soggetto umano nell’antichità classica, Firenze, La Nuova Italia. Patzer 1970 = Andreas Patzer, Antisthenes der Sokratiker. Das literarische Werk und die Philosophie, dargestellt am Katalogen der Schriften, PhD dissertation, Heidelberg University. Repici 1977 = Luciana Repici, Lo sviluppo delle dottrine etiche nel Peripato, in Gabriele Giannantoni (a cura di) Scuole socratiche minori e filosofia ellenistica, Bologna, il Mulino, pp. 215-243. Sillitti 1977 = Maria Giovanna Sillitti, Alcune considerazioni sull’aporia del sorite, in Gabriele Giannantoni (a cura di) Scuole socratiche minori e filosofia ellenistica, Bologna, il Mulino, pp. 75-92. Untersteiner 1949 = Mario Untersteiner, I Sofisti, Torino, Einaudi. Usener 1887 = Hermann Usener, Epicurea, Lipsiae, Teubner. Vegetti 1998 = Platone. La Repubblica, traduzione Vegetti, Napoli, Bibliopolis, Voll. I-III (Libri I-IV). Vegetti 2000 = Platone. La Repubblica, traduzione Vegetti, Napoli, Bibliopolis, Vol. IV (Libro V). Vegetti 2003 = Platone. La Repubblica, traduzione Vegetti, Napoli, Bibliopolis, Vol. V (Libri VI-VII). Vegetti 2005 = Platone. La Repubblica, traduzione Vegetti, Napoli, Bibliopolis, Vol. VI (Libri VIII-IX). Vegetti 2007 = Platone. La Repubblica, traduzione Vegetti, Napoli, Bibliopolis, Vol. VII (Libro X). e commento a cura di Mario e commento a cura di Mario e commento a cura di Mario e commento a cura di Mario e commento a cura di Mario Vegetti, Napoli, Bibliopolis, Vol. VII (Libro X).  a    BS’l RATTO <Ia 1 Bollettino (ti Filologia Classica  Anno XXIV. - Fase. 2-3-1 - Agosto-Setteiiibre-Ottobre 1917      X II 6xi|iòvtov di Soorate — Como già nei tempi antichi, cosi anello  più tardi il 3 r.|iàviov di Socrate lui sempre suscitato il più vivo inte¬  resso ed è rimasto lino ai giorni nostri oggetto di studio. Ma, per  quanto sia stato scritto attorno ad essa e per quanto no sia stata ago-  volata la compronsione por merito di Seliloiormacher e dei suoi suc¬  cessori, non si può dire clic si sia linoni riusciti a trovare una spie¬  gazione soddisfacente di questo fenomeno, che fu una dèlio cause dèlia  tragica fine del grande pensatore.   Le fonti, alle quali dobbiamo attingere nella nostra ricerca, sono,  come si sa', gli scritti di Platone o di Senofonte. Ma.qui ci troviamo  subito di fronte ad una questione molto discussa c cioè; quale dei due  autori sia rispetto alla dottrina socratica il più attendibile. Poiché i  rapporti di Platono o di Senofonte si contraddicono riguardo allo ma¬  nifestazioni del Satpdviov di Socrato in un modo assai pronunciato, è  chiaro che dalla decisione alla quale arriviamo rispetto a questo divario,  deliba infine dipendere la soluzione del problema.   1 > m ,to che nel diciottesimo secolo si fece strada il parere del leib-  niziuno Brucfecr, secondo il quale gli scritti di Senofonte sarebbero  per lo studio del socratismo i più veritieri, parere che ha avuto fino  ad oggi i suoi fautori. Di quest’opinione è in linea generalo anche  Hegel (IJ. 1|S. principio del secolo passato però, Schleiermacher (2) ed  altri insistettero che por la valutazione della dottrina socratica do  vesso tenersi maggior conto delle opere di Platone. Di fronte a queste  due correnti lo Zollerai sogni un indirizzo, elio possiamo chiamare  intermediario. Senza entraro in particolari, si può dire che, sebbene  gli atti attorno a questo divario non siano ancora chiusi, diventa sem¬  pre più salda la convinzione, che senza uno studio profondo di Platone  una comprensione del socratismo non è possibile (-1). Ma con ciò il no¬  stro quesito non è ancora risolto.   Secondo Platone il Sxigóvwv agisce in modo esclusivamente inibitorio,  esso non è mai incitativo. Secondo Senofonte, però, funziona nei due  modi. Si è, è vero, creduto che la contraddizione tra lo due versioni  fosse soltanto apparente, perchè, se il «aigóviov non inibiva Socrate  nel 6uo fare, ciò equivaleva, si è detto, ad un'atrcrmaziono nel senso   «C.   (1) G. W. F. Hegel, Vorl. ti. d. Gesch. d. l'Ii tfp s. Il, 2* ed., p. 69, 1812.   (2) F. Schleiermacher, Abkdl. kad. su Berlin, 1818, p. 50 seg.   (3) E. Zm.i.ER, Die Philosophie hen li, 1, t* '.al., p. 91 seg., p. 131    Mg. 1869.     (4) Cfr. G. Zuocantb, Socrate, pòrte prima, 1909.              35    ISOLI,ETTI NO L>1 FILOLOGIA CLASSICA    di un ordine positivo. In verità, però, mi sembra, che la diversità  venga con una talo interpretazione soltanto celata, ma non eliminata,  perchè in realtà le differenze tra i rapporti doi due autori sono do¬  vute a processi psichici in sè diversi. Corto, se qualcuno mi dice, ad  es. : non andare via ! quosto equivale praticamente al comando positivo:  rosta ! Ma con ciò la cosa non è fluita. So io non distolgo qualcheduno,  che devo guidaro, da una azione, che egli è in procinto di compiere,  do, è vero, con ciò il mio consentimento al suo proposito, ma la sua  azione scaturì da motivi sorti nella sua coscienza e prosegue secondo  leggi psichiche. E so, in un altro caso, lo freno con un semplice: no!  senza però dargli altri ordini positivi, io non permetto che egli ese¬  guisca quello che stava per fare, ma con ciò non gli indico ancora  quanto devo in sua vece intraprendere. Il suo agiro dipende di nuovo  unicamente da lui o si sviluppa ancora da motivi che sorgono in lui  stesso. Ma so gli dico: fa cosi ! allora lo sottopongo in senso positivo  ad una volontà non sua o lo faccio compiere un’azione, i cui motivi  sorsero nella mia coscienza e non nella sua. Egli diventa lo strumento  del volere di un’altra persona, e, se consideriamo il fatto dal lato etico,  la responsabilità per lo conseguenze di una tale azione cado in questo  caso interamente su di rao o per nulla su di lui. Non occorrono altri  esempi : in fondo la diversità doi due rapporti si riduco presso a poco  al caso citato. Secondo Senofonte, Socrate riceve anche ordini positivi  dalla divinità, egli compie quindi azioni, che non furono da lui deciso,  secondo Platone mai. Ogni sua azione procedo, secondo Platone, in se¬  guito a motivi, che appartengono alla sua propria coscienza, ed è sem¬  pre la sua volontà che lo fa agiro anche dopo che egli ha abbandonato,  per l'intorvonto del Baijióvwv, una decisione presa.   Como si vede, la differenza non si lascia eliminare. Per quanto si  corchi di celarla, essa riappare sempre. Mi sembra quindi più savio  di riconoscerla. Ma ciò facondo ammettiamo anche che una dello due  versioni non può essere esatta e cho si deve decidere, quale delle due  si abbia da riconoscere come vera.   Delle opero cho portano il nome di Senofonte, V Apologia viene oggi  quasi da tutti riconosciuta apocrifa. Per ciò non ne teniamo conto.  Degli altri suoi scritti sono per noi importanti i Memorabili ed il Con¬  vito. Faccio qui osservare che, dopo un esame della rispettiva lette¬  ratura o specialmente in base agli studi dello Schonkl(l), sono arri¬  vato alla conclusione cho per il nostro problema soltanto i passi Meni.  1, 1, 2 segg., Meni. I, 4, 15 segg. o Conv. 8, 5 sono con tutta sicurezza  da considerarsi come autentici. Per talo ragione lasciamo da parte in  questa breve nota i passi : Mem. IV, 3, 12, IV, 8, 1 o IV, 8, 5.   Dalle opero cho vanno sotto il nome di Platone e che trattano del  Saipóviov escludiamo il Teagete, perchè oggi generalmente ritenuto apo¬    lli K. Schenkl, Xenophont. Studien. Sitzungsber. d. K. Akad. d. Wiss . i  zu Wien, 1875, 1876.        BOLLETTINO DI FILOLOGIA CLASSICA    36    orilo. L’autenticità dell'A Icibinde 1 è fortemente messa in dubbio, lo  accettiamo con riserva. Non posso decidermi di respingere 1 Fall frane,  malgrado lo obiezioni di Ueborwog (I). Dogli altri scritti platonici limino  per noi valore VApologià, YEutidemo, il Tediato, il Fedro e la Repubblica.   Senza entrare rpii noi particolari della questiono, (pialo sia I ordino  cronologico delle opere di Platone, dobbiamo intenderci sull'epoca in  cui fu scritta Y Apologia, perchè questo lavoro ci dà la più esatta in-  i rmazione intorno al Saipiviov di Socrate. La maggior parto dogli stu-  .dcigi — c ciò è per noi importante — fa salirò l’origine di quest o-  pcra ad un’epoca non molto distante dalla condanna o dalla morte del  illusolo, l’orsino autori elio sono del parere clic Platone 1 abbia scritta  a Megara, ammettono con ciò (dio questo importante documento ap¬  partiene al suo primo periodo di attivila, scientifica. Allo stesso risul¬  tato giunse Lutoslawski per mezzo del suo metodo stilometrico. Quan¬  tunque si debba riconoscere l’unilateralità di questo metodo e per  •quanto sarebbe arrischiato di fondarci unicamente su di esso, ci co-  -stringono nondimeno ragioni psicologiche di non negargli ogni valore.   Alla questione esposta si connetto quost’altra, cioè, so nell’Apologià  .di Platone si tratti di una fedele riproduzione di quanto Socrate real¬  mente disse davanti al tribunale di Atene, o se si tratti soltanto di  una riproduzione piu o meno fedele del contenuto dei suoi discorsi.  La prima opinione è quella di Schleiermacher (2), della seconda è  Stcinhart (3), elio vede nell’Apologià un'opera d'arte, in cui lo spirito  -socratico o quello di Platone si trovano armonicamente fusi insieme.  Ambedue le opinioni hanno avuto i loro fautori. Considerazioni psico¬  logiche mi hanno condotto nelle duo questioni accennato a con' inzioni  che risultano da quanto seguo.   Come si vuol spiegare l'influenza che quest'opera ha sempre eser¬  citata sui più grandi spiriti della razza umana, o come si potrebbo  comprendere la elevazione morale clic ognuno devo provare in sè,  quando vi si abbandona senza pregiudizio, so non si ammette che essa  suscita nel lettore la convinzione di sentire la parola viva di Socrate  stesso ? Quale valore potrebbo avere questo scritto, se si volesse con¬  siderarlo unicamente come una creazione d'arto, come una descrizione  dell’ideale platonico? In questo caso dovremmo bensì inchinarci da¬  vanti all’autore quale artista, ma in fondo avremmo cosi un Socrate  come Platono avrebbo desiderato che egli fosso, ma non come real¬  mente era. Non stava in Socrato piuttosto la verità incorporata da¬  vanti ad Atene decadente, davanti alla stessa Atene che egli aveva  conosciuta nello splendore del periodo di Pericle? Non era quest uomo  un idealo morale di una tale grandezza elio ogni tentativo di idealiz¬  zarlo maggiormente doveva necessariamente rimpicciolì rio ?    .y ■  ' ' V    v- V  /   f.'O-    ;!£■   : S    %     (1) P. Ueberweg, Unters. fi. d. Echtheit u. Zeitfolge piatoli. Schriflen ,  ,p. 201, 250, 1861.   (2) F. Schle i rum ache R, Plalons Werke, I, 2, 3* ed. p. 128, 1835.   (3) H. MQli.er e K. Stf.inhart, Plalons sàmmtl. Werke, li, p. 216, 1851.    — 3 —        37    BOLLETTINO DI FILOLOGIA CLASSICA    Per quali ragioni poi l 'Apologia non fu scritta in forma di dialogo?  Nessuna introduzione, nessuna descrizione dello scenario, nessun nesso  tra i singoli discorsi, nessun accenno a circostanze secondarie inter¬  rompono l'azione in questo meraviglioso documento. Non dovremo con¬  venire che soltanto forti motivi psicologici indussero l’autore ad esporre  cosi lo sviluppo del processo? Non si dimentichi neppure quanto di¬  versamente Socrate parla della morte ne\\'Apologia e nel Fedone, la  qual opera, senza alcun dubbio, fu scritta molto più tardi. Nell’yfpo/ofna  è in verità Socrate stesso che parla, mentre nel Fedone è Platone che  motto, entro la cornice della realtà storica, la propria convinzione in  bocca al suo amato maestro.   Vi sono poi altri fatti psicologici da rilevare. Ricordiamo che Platone  ascoltava un maestro, che aveva seguito con tutto l'ardore del suo en¬  tusiasmo giovanile per lunghi anni, e dal quale emanava un lascino  che faceva dimenticare a lui come ad altri giovani greci la figura di  Sileno clic nascondeva il vero essere del grande innovatore. Ricordiamo  clic Platone era penetrato nello spirito della dottrina socratica come  nessun altro e clic egli solo è stato capace di salvarla interamente  per la filosofia occidentale. Gli orano quindi lamiliari tutti i partico¬  lari esteriori che sono caratteristici por ogni personalità umana o senza  i quali non possiamo neppure rappresentarcela. Conosceva esattamente  il timbro e la cadenza della sua voce, il suo vocabolario, il suo perio¬  dare, i suoi movimenti mimici e pantomimici, in breve tutti i numerosi  fattori clic, secondo la leggo della fusione psichica, cooperano a lar  sorgere in noi l’immagine di una persona a noi nota c che, tutti quanti,  esercitano la loro influenza dormito la riproduzione di un suo discorso.   È inoltro cosa saputa che ogni riproduzione di un discorso riesce  tanto più fedele, quanto piu l'attenzione rimaneva tosa, quanto mag¬  giore era l’interesse che l'oratore suscitava in chi l'ascoltava. Si può  immaginano un’attènzione piu concentrata elio nel caso presente?   Figuriamoci lo stato d’animo del giovano Platone, che pende dalle  labbra del suo maestro e che appercepisce attivamente ogni parola  da lui pronunciata; ridestiamo nella nostra immaginazione l’uragano  di emozioni che lo travolge, le fluttuazioni della sua anima tra la spe¬  ranza ed il timore, tra l'ammirazione della grandezza sovrumana  che si palesa e lo schianto per la certezza della perdita irrimediabile,  e si dovrà convenire elio l’organismo umano forse non sopporterebbe  tali stati d’animo una seconda volta. Sappiamo che emozioni come  queste non passano facilmente, ma (die tornano sempre in nuovo on¬  dato. Sappiamo inoltro che nessun moto d'animo rimane senza espres¬  sione o elio lo singolo persone a questo riguardo si comportano diver¬  samente. Anche l’anima dell’artista lui le sue reazioni ed ogni artista  le ha a seconda dell’arto, alla quale dedicò la sua vita. Ora, anche Pla¬  tone era artista o come tale non potevano rimaner mute lesile emo¬  zioni. Ma egli era anello scienziato, uno scolaro, anzi Io scolaro per  eccellenza, ili quoH'uomo che durante una lunga vita non aveva ccr-      BOLLETTINO DI FILOLOGIA CLASSICA    :i8    rato altro ohe la verità. Oli era impossibile di rinchiudere in se ciò  clic aveva vissuto quel giorno. Cosi, appena può, prende lo stile por  dare uno slogo all'emozione olia lo soffoca. li se il suo stato non diede  luogo a fenomeni precisamente nllucinnttfri, nondimeno tutto ciò che  aveva visto e sentito, torna a vivere in lui, conio per il poeta vivono  ed agiscalo lo persone croato dalla sua fantasia.   Cosi, io penso, nacque VApologia platonica. Essa non è un rapporto  stonogralico, perché è certo olle anche questa riproduzione doveva su¬  bire quei cambiamenti che, secondo i risultati della trattazione speri¬  mentale. hanno luogo in tutti i processi riproduttivi. Perciò non ogni  parola ebbe il suo posto originario, un pensiero avrà avuto un'espres¬  sione un po' più breve, un altro una l'orma un po' più lunga, eco., ma  quanto al resto il documento è. come per il contenuto, cosi puro pol¬  la forma tanto fedele, quanto, data la mente Idi un Platone, era uma¬  namente possibile. Con ciò ho esposto II mio punto di vista rispetto  allo due questioni sovracconnatc. No risulta che dobbiamo fondarci nella  nostra ricerca4U/-quanto viene riferito in quest'opera intorno al &ti-  póviov di Socrate. Aggiungo die gli accenni contenuti negli altri scritti  di Platone non contraddicono in alcun modo i dati precisi dell’Apologià.   Per quanto concerno lo opero di Senofonte che ci interessano, bi¬  sogna ricordare che esse furono scritte parecchi anni dopo la morto  di Socrate, o die in esse i.on veniamo mai informati intorno al feno¬  meno da Socrate stesso. Desideroso di dimostrare l'innocenza del grande  filosofo, come puro la ingiustizia dell’accusa c della condanna, Senofouto  metto, convinto, beninteso, di scrivere la verità, il Saipòvcov di Socrate  in relazione colla fedo popolare nello divinazioni. Ciò non può sorpren¬  dere, quando si pensa all'abuso che il popolo di qucH'epoea, già invaso  dallo scetticismo, fece dei divinatori, c quando si tiene presente elio  Souofontc non ora filosofo, ma uomo politico. Per questa ragione non  dove recar meraviglia, se Senofonte non aveva compreso ciò che era  nuovo ed essenziale nella concezione socratica del fenomeno.   In Meni. I, I, 2 è detto clic la divinità (vi Saipòviov) dava segni a  Socrate ed in I, 4 viono aggiunto elio egli comunicava tali messaggi  a quelli clic lo ci re urlavano o elio aveva loro predetto ciò che dove¬  vano faro e ciò elio non dovevano l'aro, come puro elio quelli elio se¬  guivano questi consigli ne ebbero vantaggi, mentre gli altri elio non  li seguivano, dovevano poi pentirsene.   Meni. 1, 4 contiene il noto colloquio con Aristodemo. In 4, 11 Socrate  domanda ad Aristodemo, clic cosa gli dei dovessero l'aro per convin¬  cerlo elio si curavano anche di lui. A ciò Aristodemo, alludendo al  S-x.aó e.'j'i. risponde, un po' ironicamente, che dovevano mandargli dei  consiglieri per fargli sapere quello elio doveva faro e non fare, corno  Socrate pretendeva che fosse il caso spo.   In Cono. 8, 5 Socrate non aveva affatto parlato del suo Sxtgtìvwv o  non no parla neppure in seguito. Antistuno, però, gli fa il rimprovero,  come se egli se no servisse per trarsi d'impiccio.    5     39    BOLLETTINO DI FILOLOGIA CLASSICA    È evidente che, se non avessimo lo rispettivo, opere platoniche, il  ixigiviov di Socrate sarebbe rimasto per sompro un fenomeno inespli¬  cabile. D'altra parte però le comunicazioni di Senofonte sono di grande  valore, in (pianto che fanno vedere il modo in cui in Atene si giudi¬  cava questo fonomono, ivi assai conosciuto.   Dall' Apologia ili Piatone apprendiamo che Socrate disse nel suo primo  discorso (Apoi. 31 c-d), che egli non si era occupato di altari politici,  perchè succedeva qualche cosa di divino o di demonico (Dstov r. -/.od  Sxqidvtov) in lui, che dai tompi della sua fanciullezza (è-/. r.x'.Sif) vi era  stata in lui una corta voce (qxov^ vi?) la quale, ogni volta che gli so¬  pravveniva, l’aveva trattenuto da qualche cosa, ma che non l’aveva  mai spinto a qualsiasi azione. Nel terzo discorso (40 a-c) Socrate spiega,  come la solita divinazione (r, siioSHtà poi prmxi)) l’avesse nel passato  sovento fermato, trattandosi anche di coso molto piccole (jiàvu érti opi-  xpotg), ma che il segno di Dio (vi r.ù 9-soO a^pstov) non gli era soprav¬  venuto durante tutto il giorno c neppure durante tutto il suo parlare,  mentre durante altri discorsi l'aveva spesso frenato. Dice ancoraché  la morte non poteva essere un male per lui, perché nel caso contrario  il solito segno (vò e!i»9-ò; a^pAv/J l'avrebbe cortamente trattenuto nel  parlare. Alla fine di questo discoi-so (41 <1) ripeto che il morire doveva  ora essere per lui la miglior cosa, perché altrimenti il segno (vo oij-  pstov) l'avrebbe avvertito.   Gli altri scritti di, Platone, dei quali dobbiamo tener conto, non pos¬  sono naturalmente iù avere il valore storico, elio abbiamo attribuito  all’Apologià, ma siccome i rispettivi passi, corno fu già detto, non sono  menomamente in contraddizione con quolli dell' Apologia, essi hanno  certamente un fondamento storico. In ogni modo illustrano, come Pla¬  tone vuole che il Sxwdvwv di Socrate venga inteso.   Nell'Atò/drtde I (103 a) l’autore si servo del fenomeno per iniziare  il dialogo. Socrate dice ad Alcibiade di non meravigliarsi, se da tanti  anni non gli avesse più parlato, perchè un ostacolo di natura non  umana, ma demonica (oùx ivD-piójiswv, àX/.i vi Sxipdviov ivawttopx) gliene  aveva impedito.   ììo\VEulifrone (3 b) questo domanda a Socrate, su che cosa Meleto  abbisi l'ondato la sua accusa. Socrate dico che Meleto gli rimprovera  di introdurre nuovi dei c di non credere negli antichi. E Eutifrono  gli risponde di aver capito ora, che è perchè Socrate parla sempre  del suo Sxtpóviov.   Noi Teetelo (150 c-151 a) Socrate parla della sua maieutica e dico che  molti discepoli l'avevano abbandonato, perchè, non comprendendo la  sua arto, lo tenevano in poco conto. Egli aggiunge che, se tali giovi¬  netti tornavano da lui, il ìoupóviov (ti yiyvò|ìevóv poi Sxqwviov) gli impe¬  diva di accoglierne alcuni, mentre ad altri non era contrario e che  questi facevano di nuovo progressi.   Nell 'Entidemo (272 o), un dialogo, in cui Platone fa vedere tutto  il vuoto ed il poricolo dell'arte solistica, Critono prega Socrate di         BOLLETTINO DI FILOLOGIA CLASSICA    40    parlargli di duo solisti. Socrato consento o dico clic il giorno innanzi  ora stato seduto noi liceo od in procinto di andarsene, quando gli ora  sopravvenuto il solito sogno demonico (tò siwà-ò: ay iuCcv tò ìaqiòvt'vv}.  Poreiù ora rimasto seduto o tosto quei duo, cioè Kutidemo e Dioniso-  doro orano entrati.   Noi Fedro (241 a-d) Platone ha già oltrepassato di molto il socialismo  puro e semplice, come risulta dalla spiegazione elio dà dell’anima o  dello ideo. Dopo una meravigliosa descrizione del paesaggio vediamo  corno Socrato o Fodro si coricano sulla sponda dell’Ilisso nell'omhra  di un albero. Socrato ticno il discorso sul bel ragazzo che aveva avuto  molti amanti. Fedro vorrebbe clic continuasse su questo tema, ma So¬  crate gli risponde che, in procinto di attravorsare il fiume, gli era so¬  pravvenuto il solito segno demonico (tò ìxqiòvtòv t= usci tò siiottòs aijgEìovl,  gli era parso di sentire una corta voce (za{ tivx cpiovijv iìi-a aòTò!M=v  àzoùoai), elio lo impediva di andare via prima di essersi purificato da  un peccato commesso contro la divinità. Dice ancora che egli deve essere  veramente un divinatore, ma soltanto per ciò elio riguarda lui stesso,  e continuando rileva dm la sua divinazione rassomiglia all'arte di  quelli che leggono c scrivono male, perché anche questi possono ser¬  virsene soltanto per i propri bisogni. Con ciò egli passa man mano  agli splendidi discorsi elio tutti conoscono. — Platone si serve in que¬  st'opera con arte line del ìaqiòviov in modo similo a quello in cui so n'è  servito ncll’AHbiado e neU’Eutidcmo. Egli introduce il fenomeno per  rendere possibili i discorsi che seguono.   Nella Repubblica (VI, 496 c) Socrato dice elio il segno demonico (tò  ìaqiòviov ovjiietovJ non era stato concesso a nessuno prima di lui o quasi  a nessuno.   So analizziamo più da vicino il problema, vediamo che esso rac¬  chiudo in sé tre problemi clic dobbiamo risolvere l’uno dopo l'altro.  S’impone prima di tutto il quesito, corno mai Socrate abbia potuto  -chiamare il fenomeno in questione tò ìaqiòviov. A questo si connette  l’altro, cioè di sapere che cosa Socrate stesso abbia realmente inteso per  questo termine. In terzo luogo dobbiamo corcare, come la psicologia  empirica moderna possa spiogare questo fatto. II primo quesito e, fino  ad un certo punto, anemie il secondo fanno parte della psicologia dei  popoli, mentre il terzo appartiene esclusivamente alla psicologia indi¬  viduale.   I. Il significato del ìaqiòviov di Socrate dal punto di vista della psi¬  cologia dei popoli. — 11 concetto del demone è sorto da primitive ve¬  dute attorno all’anima. Esso ha avuto poi un lungo sviluppo, duranto  il quale, sotto l’influenza di rappresentazioni magiche, subisce molte  trasformazioni e acquista varie forme. All’epoca in cui appare l’eroe,  questi 'lue concetti si fondano man mano in una rappresentazione to-  talo, nella quale il concetto del demone perde il suo carattere imper¬  sonale, mentre l’eroe acquista dolio qualità sovrumane. Cosi nasce il  panteismo. Importante è però in tutto questo sviluppo, che la rappre-       53 BOLLETTINO L)1 FILOLOGIA CLASSICA    sontazione ilei demono non si perdo dopo la formazione degli dei pa¬  gani o elio corto qualità ili questi ultimi vengono attribuite anche ai  demoni. Per ciò accado olio lu coscienza popolare non distinguo sempre  nettamente tra dei e demoni. Nella Grecia il concetto del demone, sotto  l'influenza della poesia e della filosofia, subisce poi un’altra modifica¬  zione, in quanto i demoni vengono considerati come esseri elio stanno  tra gli dei o gli uomini. Si confronti a questo proposito la descrizione  deH'origino dell'Eros nel Convito di Platone (802 dj, come pure il primo  discorso di Socrate nel .['Apologià platonica (27 c).   Dal punto di vista della psicologia dei popoli si può diro elio col  «aipóviov di Socrate il concetto del demono torni nell'anima umana,  nella quale, per motivi psicologici e per processi di oggettivazione, è  nato, vi ritorna filosoficamente trasformato ed eticamente purificato (1).  E caratteristico per tutto questo sviluppo elio Socrate nel Convito di  Senofonte chiama l'anima umana un santuario dell’Eros (Vili, 1). ,   2. Come intende Soci'de il suo 8*i|lòviov ? — Prendo le mosse da un  punto ilei primo discorso AoW Apologia di Platone e precisamente dal  punto, ove Socrate invita Meleto a spiegare esattamente, se egli nella  sua accusa intenda di diro clic Socrate non creda negli dei dello Stato,  o so egli voglia addirittura accusarlo di ateismo. Quando Meleto an¬  nuisco a questNiltima interpretazione, l’accusato corea di far vedere  l'assurdità dell'assorziono, dimostrando dapprima che, chi crede in qual¬  che cosa di demonico, devo necessariamente riconoscere l'esistenza ili  demoni. E quando Meleto devo nuovamente ammettere che i demoni  sono figli di doi, la partila è ila Scorato quasi vinta. Comesi può ere-  dorè all’esistenza di tigli dogli dei, egli conclude, senza credere con ciò  anche a quella degli dei stessi ? Difatti, i giudici elio lo ritenevano  colpevole, erano in piccola maggioranza.   Se prendiamo questo passo insieme con quanto Socrate dice ancora  ilei suo 2xi|ióvtov o del suo concetto della divinità, abbiamo in mano la  chiave per la sua concezione del fenomeno. Faccio qui ancora notare  che intendo il termini vó ìzciivtov nelle opere di Platone, secondo l'os-  sorvaziono dello Schlcierinacher (2), nel senso di un aggettivo. Dico  questo per respingere l'opinione che Sperate abbia creduto in uno spe¬  ciale spirito custode.   Socrate scoglio il termine iò Saupòviov in conformità alla fedo popo¬  lare. Come i demoni, secondo questa, stanno tra dei o uomini e ven-  .,gono detti persino ilei, perchè da dei generati, cosi anche il demonico  in lui è generato dalla divinità. Per questo lo chiama anche tó 3-iCov,  il divino. Il nesso psicologico mi sembra qui evidente. Abbiamo qual¬  cosa di s'inilo nella designazione del suo metodo, il quale egli credeva  puro impostogli dalla divinità (Teeteto 150, o). Come a baso di tutte   (1) Clr. W. Wu.ndt, m/terpsi/eholOjfie li, 2, p, 3iìS. 19 ni; Clemente der  VSt/cerpsi/chol., p. 313. 1912.   (21 Op. cd., p. 309. — Cfr. puro B. E. Uaonaiihtks, The Ctnssical Retitelo,  XXVIII, ri, p. 185. 1911.    — 8 —        BOLLETTINO DI FILOLOGIA CLASSICA    54    lo azioni di Socrate sta il bisogno etico della cortezza(1), cosi egli è  assolutamente certo che in casi, in cui la propria ragione lo lascia in  asso, una volontà divina lo trattiene in ogni circostanza, piccola o  grande, dolla vita, quando è in pericolo di non agire giustamente, cioè  di non compiere la sua missione. In questa cortezza, che forma una  parte della sua fedo religiosa, sta la giustificazione otica dolla ironia,  colla quale egli lancia l'accusa indietro sull’avversario. Ma oltre ad  essere qualche cosa di divino, il demonico in Socrate è poi anche qualche  cosa di umano, perché si produce nell’anima umana o diventa sua pro¬  prietà, cioè un oracolo interiore. Per ciò il demonico stava veramente,  come il demone della mitologia, in mezzo tra il divino e l'umano. Si  aggiunga elio Socrate ora in fondo persuaso che prima di lui questo  dono non era stato posseduto da nessun altro mortale. Ecco ciò che  vi ha di nuovo nella concezione socratica della divinazione, di fronte  a quella della fede popolare. Como dalla Repubblica di Piatone, questo  fatto risulta anche dalle superbe parole, colle quali Socrate si esprime  sul suo valore davanti ai suoi giudici (Apoi. 31 a-38c). Tali parole  può pronunciare un ammalato di mente, che si deve compatire, ma  quando escono dalla bocca di un Socrate, sono l'espressione di una pro¬  fonda convinzione religiosa, che deve scuotere chiunque miri a tini  etici. Importante è per la fede di Socrate che egli non cerca di scol¬  parsi in quanto al non credere negli dei dello Stato, ma solo in quanto  al sospetto di avere delle convinzioni ateistiche (Apoi. 35d).   Por quanto concorno la teologia socratica, elio al pari della sua  etica doveva rimanere ili carattere pratico, anziché sistematico (2),  è importante ricordare che Socrate trovò nella sua naz.iono il poli¬  teismo ellenico, corno Cristo trovò nella sua il monoteismo giudaico.  Socrate era, come ogni essere umauo, un tiglio del suo tempo. Educato  in (inolia religione ogli si riteneva, come Cristo, esteriormente legato  allo prescrizioni religioso in vigore. Come prendeva sul serio la mas¬  sima di Delfo: conosci le stesso, cosi rispettava l'altra di ubbidire alle  leggi. L’ultima parola del filosofo morente era la raccomandazione di  non dimenticare il sacrificio dovuto ad Esculapio (Fedone. 118), e poco  prima aveva domandata all'uomo, elio gli portava il calice fatale, se  ora permesso di farne una libazione. In questo modo Socrate non rag¬  giunse l'altezza dolla dottrina del Nazareno, ma si avvicina ad essa,  perchè sulla*larga base della religione popolare si eleva, quale sintesi  della sua conoscenza, la fedo in un Dio unico, al quale si deve ubbi¬  dire più che non agli uomini (Apoi. 29 d) c di cui egli si credeva un  apostolo (Apoi. 31 a). Socrate è tolcrautc verso la fede della moltitu¬  dine, ma il suo Dio è l’intelletto che governa l’universo e per il quale  non trova neppure un nome, un Dio onnisciente ed onnipresente, che    (1) A. Labriola, Socrate. Nuova edizione a cura di B. Croce, p. 5, 35, 76,  80 seg., 86 seg., 88 sei;., 150 si>g., 176, 274 seg. 1909.   (2) Cfr. A. Labriola, op. cit., p. 151, 155, 179 segg., 250 segg., 271 segg.       55      BOLLETTINO DI FILOLOGIA CLASSICA    si cura ilei Leno di tutti gli nomini (Sonof., Meni. I, 4). Tutte le sue  pratiche religioso sono in fondo rivolto n quest'unico Dio senza nomo,  clic si rivela agli uomini in molti modi. Con una espressione di ledo  in questo Dio onnisciente, si chiudo ì'Apntoi/ia platonica(l). Tenendosi  presente questo concetto della divinità, si comprendo la sua incrolla¬  bile fede nel S»tpóvtov come in una rivelazione della medesima.   Il l'atto che il plurale oi '.Hol si trova in Platono come in Senofonte  accanto al sì neolaro 6 tei? potrebbe destare il sospotto elio Sorrato  accanto all'intelletto universale abbia ammesso ancora dolio altro forme  divino. Ma ciò è escluso. Egli sceglie il plurale in modo simile come,  per es., nella Genesi il plurale Eloliim sta por il singolare della di¬  vinità. Non è qui il luogo ili entrare in altri particolari. Ricordo sol¬  tanto elio troviamo precedenti in Senofane e che audio Anassagora  aveva già riconosciuto un unico principio immateriale che tutto or¬  dina secondo lini. Cho Socrate abbia conosciuta l'opera di Anassagora,  apprendiamo direttamente da Platone (Fedone. U7).   Non ho bisogno di rilevare che, con quanto fu esposto, sono sen¬  z’altro respinte le opinioni di Lèi ut o di altri, cho considerano Socrate  come un ammalato di mente, come pure il parere di Dii l’rel, che  mette il Sxqidvtov di Socrate in relazione collo proprio teorie mistiche (2).   3. // 8r.pó/tov di Sacrale dal punto di vista detta psicologia empirica  moderna. — So teniamo conto di tutti i fatti che Platone ci presenta,  è evidente che nel «atpivtov di Socrate si tratti ili un processo che ap¬  partiene al campo delle inibizioni psichiche. Naturalmente non può  trattarsi qui di una inibizione nel senso della dottrina intcllcttuuli-  tstica di Horbart. Ciò che nel nostro caso è inibitorio, non appartiene  all'atto al contenuto oggettivabile della coscienza umana, ma si trova  piuttosto dalla parte puramente soggettiva di essa, cioè da quella dei  sentimenti. Da questo punto di vista dobbiamo cercare di risolvere il  problema. L’inibizione procede da un sentimento totale, che si forma  in base ad un numero più o meno grande di intensivi sentimenti par¬  ziali, legati ad clementi rappresentativi che rimangono al limito della  coscienza e che non giungono all’appercezione. Con questo è inteso,  che non può trattarsi nel caso di Socrate, come è stalo ripetutamento  affermato, di processi allucinatoci (3). Nel fatto che l’inibizione parte  da un sentimento, al quale non corrisponde un contenuto oggettivo,  sta la ragione, perchè Socrato non può fare alcuna indicazione precisa    (l) Cfr. pure (I. /Cuccanti:, op. cit., pirte IV, c«p. XIII.  tX) F. I.ÉIX'T, L)it itóiiion de Si,croie ni. 1 4556. — C. Du Prel, Ine Ma¬  stiti d. alt. (ìrieclien, p. 121 seg. 1.333. E caratteristico che Du Prel l'accia uso  ilei Teapele , benché riconosca che questo non sia un'opera di Platone.   d) Cile Platone colla frase nel Fedro “ xxt -iva ipiovijv £So;a xùxcàsv ày.ofkJx: „  non vuol alludere ad una allucinazione, dimostra con molta chiarezza anche lo  Cuccante (op. cit., p. 372). Si aggiunga che. se il Szqicvtcv di Socrate avesse  tale origine, questo si rileverebbe in tutti i rispettivi racconti platonici, ciò che  non è assolutamente il caso.    - 10 —           BOLLETTINO DI FILOLOGIA CLASSICA 56    intorno al fenomeno, ma (leve in casi, in cui non lo chiama semplice¬  mente il demonico o il divino, contentarsi di termini metaforici. Parla,  ad es., di una voce, come oggi si usa il termine “ voce della coscienza,,.  Questo sentimento, sorto dapprima per via associativa, viene poi atti¬  vamente appercopito e, riferito alla divinità, acquista il carattere di  un motivo imperativo che, coll'intensità di una forza morale, lo co¬  stringe ad abbandonare un'intenzione presa. Dal fatto cho l’inibizione  viene da Socrate creduta un segno divino, si comprendo elio in lui  non possono mai nascere dei dubbi, come accadrebbe con altro persone.  Non vi è mai in un tal caso una lotta tra motivi in lui, mai alcun  conflitto tra doveri. Appena egli s'accorge dell’inibizione, è assoluta¬  mente sicuro di aver avuto trasmesso un divino “No,.. Cosi la rifles¬  sione o la fedo nel suo Sztjióv»/diventano i principi fondamentali, che  lo guidano nella sua intera attività filosòfica ed etica.   In ultima analisi si tratta qui di un fatto psichico clic si verifica in  ogni coscienza normale più o meno frequentemente, benché molte per¬  sone non lo osservino o non si lascino da esso frenare. Di James Stuart  Mill ci viene riferito elio egli osservò il fenomeno in se stesso molto  intensamente (1). A me molte persone hanno dotto di aver notato in  sè tali inibizioni sentimentali. Siccome Socrate ci informa che egli  aveva osservato il fenomeno spesso in sè dai tempi della sua fanciul¬  lezza, non è escluso che vi sia stata in lui por lo sviluppo di esso una  certa disposizione. Ma d'altra parto si devo ricordare (dio egli per tempo  si abituò a fare molto sul serio l'esame di se stesso o cho il fenomeno  era una parte integrale della sua fede religiosa. Dal momento cho egli  era corto cho il sentimento inibitorio era una rivelazione divina, questa  convinzione doveva dominare tutta l’anima sua. Dato questo continuo  autoesame in connessione collo sviluppo (lolla sua convinzione teolo¬  gica, si comprendo, come dovesse entrare in giuoco un principio che  governa ogni vita psichica, cioè quello dell’esercizio. L’ininterrotto  esercizio doveva renderlo capaco di riconoscere l'inibizione di ogni  grado appena sorta e di afferrarla coll'attenzione. Si aggiunga (die la  coscienziosità colla quale cercò continuamente di compiere la sua mis¬  sione, e colla quale mirava sempre ai medesimi lini, doveva renderlo  straordinariamente sensibile o facilitare la formazione di tali senti¬  menti. Cosi si spiega il frequente ripetersi del fenomeno in tutto lo  sue azioni. Io credo clic, con quanto fu esposto, siano trovati i punti  principali «he debbono guidarci nella spiegazione psicologica del Sacgóviov  di Socrate. Tornerò sull’argomento in un lavoro più esteso, ed in questo  sarà tenuto conto delle opinioni di altri autori più di quanto mi è  stato possibile di fare in questa breve comunicazione.    (1) G. Zuccante, op. cit., p. 378. JL ~jt    e 3    Federico Kiesow.    — 11 —                     ni            a   •n      ..t          i i ;. i •   ... »w> -ff.   '• * fl   ,<iì, i i          jT   JWi * 1 •- j- <|     *   . .ff' • . Mi l> . •         ‘                 " !   ' ' >   • 1 *' • v ‘ r • •» •• »   < OktJ     '( i tr'l ’ ! v>   fu . . ih /. J ’t. 1 1 ,    > t . ... ! i  T        Digitized by the Internet Archive  in 2016    https://archive.org/details/b24876057                  5    SOCRATE   ET    VoAmour Grec     ♦    SOCRATE   ET   IPAmour Grec   ( Socrates sanctus naiSepaatrjs )   D1SSERT ATlON DE   Jean-Matthias GESNER   Traduite en Francais pour la premiere fois  Texte Latin en regard   Par Alcide BONNEAU     PARIS   Isidore LISEUX , Editeur  Rue Bonaparte, n° 2  I 877    ^ Qt-FA-TE: f   <rv / /hio nT .•    T'pn iA /^ / ( / a_)      AVANT-PROPOS    jegg^arean-Matthias Gesner, 1’auteurde  «JgE cette curieuse dissertation, est  I S&fe l un erudit Allemand du xvm e sie-  cle, dont les travaux ne sont pas tres-  connus en France. On lui doit d’excel-  lentes etudes sur les Scriptores rei rus-  ticce , une Chrestomathie de Ciceron,  une Chrestomathie Grecque , des Lexi-  ques, une traduction Latine des ceu-  vres de Lucien, des editions de Pline  le jeune, de Claudien, de Quintilien,  de Rutilius Lupus et autres anciens    a    VI    AVANT-PROPOS    rheteurs, toutcs enrichies de notes sa-  vantes et de longs prolegomenes; plus,  un nombre formidable de dissertations  sur toutes sortes de sujets, Opuscula di-  versi argumenti (Breslau, 1743-45, 8 vol,  in-8°), parmi lesquelles son Socrates  sanctus pce der asta tire forcement l’oeil  par la bizarrerie de son titre.   Cette bizarrerie a valu au livre sa no-  toriete, et en meme temps lui a fait grand  tort. Beaucoup de gens, entre autres  Voltaire, malheureusement pour 1 ’erudit  Tudesque, n’ont pas ete au dela, et iis  ont construit sur cette minee donnee un  ouvrage tout entier de leur fantaisie, a  1 ’extreme desavantage du pauvre Gesner.  D’autres ont cru Voltaire sur parole et  sont arrives au meme resultat.   C’est Larcher, THelleniste, qui le pre-  mier chez nous mit en lumiere cet opus-  cule, dans son Supplemenl & THistoire  universelle de labbe Bapn (1767, in-8°),  en le citant parmi les ouvragcs a con-    AVANT-PROPOS    VII    sulter sur le proces de Socrate ; il se  contenta d’en faire mention, sans meme  traduire ni expliquer le titre, ne s’ima-  ginant pas qu’on put s’y meprendre, et  qu’un homme tel que Gesner fut suppose  capable d’une indecente apologie. Vol-  taire, dont le vif et alerte esprit se plai-  sait a effleurer les surfaces, sans presque  jamais approfondir, ne connaissait sans  doute pas Gesner et certainement n’avait  pas lu son Socrates. Le Supplement a  VHistoire nniverselle n’etait d 7 ailleurs  qu une refutation tres-savante, quoique  un peu lourde, de son Introduction a  1'Essai sur les maeurs , publiee d^abord a  part et sous le pseudonyme de 1’abbe  Bazin; quelques critiques justes qu’on y  rencontre le mirent de mauvaise humeur ,  et, battu sur divers points d’erudition, il  chercha une occasion de dauber Larcher,  a cote du sujet, selon son habitude. Il  crut la trouver dans le livre etrange qu’il  supposa, d’aprcs le titre cite qu’il inter-    VIII    AVANT-PROPOS    pretait mal, s’indigna de ce qu’on osait  donner comme faisantautoritedesimons-  trueuses elucubrations (le monstrueux  n’etait que dans ce qu’il imaginait), et  tantot sous le pseudonyme d’Orbilius,  tantot sous celui de M Ilc Bazin ( Defense  de mon oncle, un de ses pamphlets), il ne  cessa de poursuivre la-dessus de ses bro-  cards son inoflensif adversaire. Tres-  content d’avoir leve ce lievre, il a meme  reproduit son assertion plus que hasardee  dans le plus populaire de ses ouvrages ;  on la trouve en note de 1’article Amour  socratique , du Dictionnaire philosophi-  que. « Un ecrivain moderne, nomme  Larcher, repetiteur de college, dans un  libelle rempli d’erreurs en tout genre et  de la critique la plus grossiere, ose citer  je ne sais quel bouquin dans lequel on  appelle Socrate Sanctus pcderastes ; So-  crate saint b ! Il n’a pas ete suivi   dans ces horrcurs par 1’abbe Foucher. »  Larcher avait trop beau jeu pour ne    AVANT-PROPOS    IX    pas repliquer. II le fit dans sa Repons e .  la Defense de mon oncle (1767, in-8°),  opuscule rare, reimprime a la suite du  Supplement a 1’Histoire universelle :  « Vous m’attribuez , dit-il a Voltaire,  votre infame et infidele traduction du  titre d’une dissertation de feu M. Gesnera  Je n’ai point traduit le titre de cette dis-  sertation ; il ne pouvait se prendre que  dans un sens tres-honnete, mais il etait  reserve a M lle Bazin et a Orbilius de lui  en donner un infame. Cela ne vous suf-  fisait-il pas? Fallait-il encore me 1 ’im-  puter? »   Pour qui avait suivi toutes les phases  de la discussion, Larcher et Gesner etaient  innocentes; Voltaire restait convaincu  d’avoir note dfinfamie un livre sans le  connaitre. Mais ces temps sont loin ; per-  sonne aujourd’hui ne lit Larcher pour  son plaisir, et le Dictionnaire philoso-  phique est dans toutes les mains. Voila  pourquoi on croit generalement que Ges~    X    AVANT-PROPOS    ner a developpe le plus scabreux des pa-  radoxes et fait une apologie en regie d’un  vice honteux. Nous pourrions citer au  moins un de ceux qui, se fiant a Voltaire,  ont propage 1’erreur mise par lui en cir-  culation, et affirme que cette dissertation  n’est qu’un tissu d’invectives ; mais nous  ne voulons faire de la peine a personne.   Gesner, ecrivain des plus doctes et plus  estime encore pour son caractere que  pour son savoir, professeur de Belles-  Lettres a TUniversite de Goettingue, puis  bibliothecaire de cette universite, ne pou-  vait ecrire qu’une defense de Socrate,  une refutation des calomnies dont on a  obscurci sa memoire, et que la langue a  attachees a son nora d’une maniere en  quelque sorte indelebile par les mots de  socratisme et d 'amour socratique. Inquiet  et tourmente, comme il 1’assure, de voir  peser sur le pere de la Philosophie de si  indignes soup9ons, il a voulu remonter  aux sources, compulser tout le dossier    AVANT-PROPOS    XI    et reviser le proces sur les pieces memes.  II l'a fait d’une facon non moins inge-  nieuse que savante dans cette disserta-  tion lue a 1 ’Academie de Goettingue en  fevrier 1752, recueillie dans les Memoires  de cette academie (t. II, p. 1), dans les  Opuscula diversi argumenti de 1 ’auteur  et tiree a part en 1769 (Utrecht, in-8°).  C’est cette derniere edition que nous  avons suivie pour la reimprimer et la tra-  duire, ce qui n’avait jamais ete fait en  Francais, ni probablement dans aucune  autre langue. Gesner a-t-il reussi a dis-  culper entierement Socrate? Nous l’es-  perons; mais nous etions de son avis  avant d 7 avoir lu son livre, et, ccmme per-  sonne ne 1’ignore, c’est surtout chez ceux  qui pensent comme lui qu’un auteur, si  bon dialecticien qu’il soit, porte la con-  viction. Les esprits mal faits qui incli-  nent a 1’opinion contraire, et ceux-la  seront toujours difficiles a persuader,  persisteront peut-etre a trouver singulier    XII    AVANT-PROPOS    que Platon, interprete de Socrate, ait si  souvent parle de 1’amour; qu’il ait con-  sacre trois de ses plus beaux dialogues,  le Lysis , le Phedre et le Banquet , a cette  brulante passion; qu’il l’ait tant de fois  soumise aux analyses les plus delicates,  expliquee par les conceptions les plus  sublimes, les mythes les plus poetiques,  et que jamais, sauf un moment, dans  l’admirable episode de Diotime du Ban-  quet , il ne soit question de la femme.   Alcide Bonneau.      UEDITEUR AU LECTEUR   [TIRE DE l’eDITION D’UTRECHT, 1 768]    es hommes illustres, ceux qui sont  regardes comme tels non-seulement  par la posterite, mais par leurs  contemporains, ceux surtout dont le  plus grand eclat consiste precisement dans  leur vertu, sont souvent accuses, sur les plus  legers indices, de quelques travers, sinon  de defauts plus graves; et c’est la un travers     EDITOR L. S.    iros illustres, et non a posteris solis sed  coaevis tales habitos , eos maxime quorum  praecipua laus virtutis est , vitii alicujus  nedum criminis gravioris suspicari levibus ar-  gumentis, vitium id quidem non leve : reos agere  et condemnare crimen et piaculum ; in Christiano  homine, in homine , in barbaro.   Quanta istorum ignominia, tanta est gloria  piorum virornm qui versantur in probrosis his      XIV    l’editeur   qui Iui-meme ne manque pas de gravite. Se  faire a la fois 1’accusateur et le juge, c’est  une chose criminelle, un sacrilege, qu’il  s’agisse d’un Chretien, ou seulement d’un  homme, meme d’un paien.   L’ignominie de ceux-la rehausse d’autant  la gloire des hommes pieux qui s’appli-  quent a repousser ces odieuses attaques.  On peut le dire de Gesner, ce savant illus-  tre, du petit nombre de ceux qui depas-  sant par la science tous leurs contempo-  rains, font encore plus estimer en eux les  qualites du coeur que celles de 1’esprit ;  c’est un honneur pour lui d’avoir pris en  main la cause de Socrate, et un plus grand  peut-etre pour Socrate d’avoir dte le Client  de Gesner.   II nous a paru bon de recueillir dans  une edition nouvelle cet ouvrage de faible    conatibus coercendis. Gesnero, illustri nomini , e  numero paucorum illorum qui cum eruditione  coaevos possint excellere, animi dotibus quam  ingenii celebrari malunt, incertum an honori sit  caussam Socratis egisse, magis quam Socrati  Gesnerum habuisse patronum.   Visum fuit , memoriam brevis operae sed auro  contra noti carae nova editione colere. Docuit  vir praeclarus , scripto quidem, quam inani co-  natu virtus summi hominis sollicitata fuerit ab  obscuris obtrectatoribus , qui non solent deesse  virtuti. Docuit autem exemplo, pertinere ad    AU LECTEUR    XV    dimension, mais qui ne serait pas trop  cher paye au poids de For. Son excellent  auteur nous y montre, la plume a la main,  1’inanite des efforts diriges contre un sage  par ces obscurs detracteurs qui ne man-  quent jamais a lavertu; il nous fait voir  aussi, par son exemple, qu’il appartient a  tout honnete homme de defendre la cause  des gens de bien. II nous enseigne surtout  avec quel soin et avec quelle erudition il  est besoin d’ecrire dans de telles matieres,  ou l’on ne doit rien avancer qu’apres un  examen scrupuleux.   Profite donc, lecteur, de ce travail, plus  utile qu’il ne le semblerait au premier  abord; et si, par ignorance ou par trop  forte credulite, tu as rejetd loin de toi les  ecrits Socratiques, reprends-les maintenant  et garde-les avec amour. Il nous sera per-    bonos omnes bonorum virorum caussam : tum et  illud, in primis, ubi ejus modi res agitur, accu-  rate et docte scribendum esse, nec arripi quid-  piam absque subtili examine, et benevolo illo ,  debere.   Fruere, Lector , labore utiliori quam decet : et  si imprudentius forte abjeceris Socraticas char-  tas nimium credulus, abi continuo et in sinu  eas reconde. Integrum erit culpare qui Socratem  citant, tibi convenisset laudari Davidem et Sa-  lomonem : sed patiamur , bonum et pauperem  Socratem . , placide subridentem , sereno vultu ,    xvi l’editeur au lecteur   mis a notre tour de mettre en accusation  ceux qui font un crime a Socrate de ce  qu'ils trouveraient admirable s’il s’agissait  de David et de Salomon ; mais laissons le  bon et pauvre Philosophe s’interposer dou-  cement avec son placide sourire, son tran-  quille visage, et s’ecrier : Moi aussi, Vertu,  je t’ai honoree, Deesse !   Quant a ceux qui blameront cette apolo-  gie, non comme excessive, grands dieux,  car que pourrait-on dire de trop sur So-  crate ? mais comme inconvenante et depla-  cee, qirils prennent garde de tomber dans  Todieux de cette populace Portugaise tou-  jours prete, sinon a lapider ou a bruler,  du moins a exorciser a force de signes de  croix traces d’un doigt tremblant, le teme-  raire qui oserait croire que la Bienheu-  reuse Vierge Marie etait une Juive.    leniter interponere, Et ego te, Virtus ! colui  Deam,   Quibus fastidium movent elogia, justa Di boni!  quid enim de Socrate dici nimium potest? sed  quce magis opportune forsatn collocari potuis-  sent, videant ne in odium id evadat, quale est  plebis Lusitanae, si non rogum parantis aut la-  pides, saltim tremente digito averruncas cruces  describentis, si quis auserit credere, B. Virginem  Judaeam fuisse.      SOCRATE   ET    UaAmour Grec     IO. MATTHI. GESNERI V. C.   Socrates   SANCTUS T/E D E T{A STA    t nihil tam alte vel natura , vel  virtus , vel fortuna constituit, in  quo non vel deprehendatur ali-  quid labis et vitii , vel vires suas experia-  tur maledica invidia , cujus vocibus boni  etiam viri abripi se ad suspicandum certe  non nunquam patiuntur : ita mirum non  est , neque excelsam Socratis gloriam      Socrate   ET   L’qAMOU% g%ec    1 n’est rien de place si haut par la  nature, la vertu ou la fortune,  qui n’ait ses taches ou ses inv  perfections, ou que 1’envie ne s’efforce  d’atteindre, cette medisante envie dont  les clameurs poussent 1’homme de bien  lui-meme a soupconner le mal : c’est  pourquoi nous nc devons point nous     4 SOCRATE   obtrectatoribus suis carnis se. Ac de  Anyti Melitique criminibus, quibus op-  pressus est vir innocens , et, si forte vani-  tatis aut nugarum et cavillationum pos-  tulatus, et Scurrae nomine traductus est (i),  in prcesenti non erimus soliciti. Unum  crimen est, quod, varie jactatum, et plus  semel non sine specie in scenam reduc-  tum scepe me solicitum habuit, Fuerit ne  impuro ac detestabili puerorum amori  deditus? Hoc enim si verum sit, actum  est profecto de virtute viri, indignus est  cujus cum honore nomen usurpetur.    2. Postulatum esse hujus turpitudinis,  negari non potest. Mittimus , quae de  adolescentia viri ad libidinem proclivi    (i) Factum id esse a Zenone Epicureo, prodidit  Cic. de Nat. Deor. i, C. 34, ubi vid. Davis.    ET L’AMOUR GREC    5    etonner que lagloire si haute de Socrate  ait eu, elle aussi, ses detracteurs. Tou-  tefois nous ne voulons ni parier ici des  accusations d’Anytus et de Melitus sous  lesquelles succomba son innocence, ni  nous inquieter de savoir si ce grand  homine a ete incrimine de vanite, de  mensonge et de sophisme, affuble du  surnom de Bouffon[i). Une seule accu-  sation m’a souvent tourmente ; c’est  celle qui, sans cesse discutee, a toujours  ete remise en avant, non sans apparence  de justesse: Socrate etait-il adonne d  l’impur et detestable amour des jeanes  gargons ? Si cela est vrai, c’en est fait des-  ormais de la vertu de cet homme ; c’est  un indigne, lui dont on ne prononce le  nom qu’avec respect.   2. Qu’il ait ete accuse de cette turpi-  tude, le fait est certain. Negligeons ce  que Porphyre, d’apres Theodoret [De la    (i) Comme le fait PEpicurien Zenon, au dire de Ci-  c6ron {De Natura Deorum , i) ; consuit, la-dessus  J. Davies.    i .    6    SOCRATE    Porphyrius apud Theodoretum [Graecar,  affect. cur. ser. 4 pr.) memorat : nam  ibidem additur , illum c-ojo^ xat oioayrj  xouxou? a^aviaat xou; xurcous, impressas ve-  luti notas libidinum studio ac doctrina  abolevisse (1). Neque valde huc faciunt ,  quce ex eodem Porphyrio , qui Aristo-  xeno auctore usus sit, idem Theodore-  tus (Serm. 12 p. iy5, 8) memorat, par-  tim quod ad adolescendam primam viri,  de qua nobis sermo non est, pertinent ,  partim quod Archelaus Anaxagorae dis-  cipulus, honestus amator (spaax 7 ]$) ipsius  fuit. Ejusdem generis est, quod Cyrillus  (contra Julia. 6, p. 186, D) ex eodem  Porphyrio (in Historia Philosopha , libro  olim deperdito) refert , Socratem -po; xr ( v  twv aopootatwv yp7jatv acpo Spdxspov p.sv sivac,  aoizov os p.rj -poasTvat. t\ yap xaT;Ya[j.sxaT;, vj xat?  •/.oivat; y prjaQat fj-ovat?. Fuisse ad res venereas  aliquantum vehementem, sed injuriam  abfuisse, qui vel uxoribus solis, vel    (1) Conf. quae in fra de mali equi Socratici notis  dicentur. § 18.    et l’amour grec 7   cure des prejuges des Grecs , Disc. iv),  raconte de sa jeunesse, laquelle aurait  ete encline au libertinage ; 1’auteur  ajoute, en effet, au meme endroit qu’il  parvint a effacer en lui, par Venergie de  sa volonte \ jusqu’aux traces meme des  passions (i). Ne nous occupons pas non  plus de ce que le meme Theodoret  (Discours xn) emprunte encore a Por-  phyre, qui lui-meme suivait Aristoxene,  c’est-a-dire de ce qui se rapporte a la  premiere jeunesse de Socrate (elle n’est  pas en cause), et a ce disciple d’Anaxa-  goras, Archelaus, qui aurait ete, en tout  bien tout honneur, un ami fervent  (!pa<j-r]s) du philosophe. A la meme cate-  gorie appartient ce que S. Cyrille  [Contre Jidien, 6) a extrait de YHistoire  philosophi que de Porphyre, livre aujour-  d’hui perdu : a savoir que Socrate et ait  violemment pousse aux choscs de ia-  mour, mais qiiil s’abstint de faire tort a   (i) Voyez ce que l’on dit plus bas des marques  du « mauvais cheval Socratique. »    8    SOCRATE    (quam diu caelebs esset) communibus  uteretur. Nondum quidquam ex Por-  phyrio vel Aristoxeno, quem ille aucto-  rem sequitur, allatum est de horribili  scelere, Pcederastia : quod praetermissu-  rus non erat, qui satis hic in Philosophice  parentem iniquus est, Cyrillus. Decla-  mat igitur praeter rem Socrates alter  (Hist. Eccles. 3, 23, p. i gj, D), cum ita de  Porphyrio narrat, IIopcpupio; xou xopu^aio-  xaxoa xoiv <piXoao<ptov, Scoxpaxous, xov [3''ov oietu-  psv £v ifi YsypaixpiEvr] auxai <piA oaoow toxopta, xai  xoiauxa Tuept auxou ypa^a;xaxdXi7TEv, oia av p.7]xs  MeTaxo;, p.r[x£ v Avuxo; oi jpa^aixsvoi Swxpaxrjv  ItTictv e-zyjiprjGxv, ita traductum, ait, a  Porphyrio Socratem, talia de viro scripta,  quae neque accusatores ipsius Anytus et  Melitus dicere in ipsum ausi sint. Acci-  pimus, quod negat objectam in judicio  turpitudinem talem Socrati, quo nempe  argumento constet, famam viri hac tum  macula caruisse. Sed nec a Porphyrio  plura aut turpiora his memorata, quae  jam vidimus, satis illud argumento est ,  quod iniqui Socratis glorice homines,    9    ET L’AMOUR GREC   personne, en riusant jamais que de ses  propres femmes ou , durant son celibat,  des femmes qui apparticnnent a tout le  monde. Nulle part, soit chez Porphyre,  soit chez Aristoxene que Porphyre co-  piait, il n'est rien allegue de cet horrible  crime : Pederastie ! II ne Paurait point  passe sous silence, ce Cyrille si injuste  envers lepore de la Philosophie. IPautre  Socrate ( Histoire ecclesiastique, m, 23 )  avance donc une insigne faussete lors-  qu’il dit : « Porphyre a compose la vie  de Socrate, le coryphee des philosophes,  d’apres les histoires ecrites sur lui ; et il  nous a transmis, d Vaide de ces docu-  ments, des choses si monstrueuses que les  accusateurs de Socrate, Anytus et Meli -  tus, n’ont pas meme ose' les lui reprocher. »  Retenons seulement de ceci Taveu qu’on  n’en fit pas un grief a Socrate, lors du  jugement public, ce qui ressort de la  phrase elle-meme, et que cette tache fut  alors epargneeT a sa renommee. Mais  Porphyre n’a pas rapporte autre chose  ou des choses plus monstrueuses que ce    IO    SOCRATE    Cyrillus ac Theodoretus, non plura pro-  tulere, quibus fuerant haud dubie cau-  sam suam , si res facultatem dedisset,  ornaturi.    3. Nempe nec Aristophanes , qui cor-  ruptce ad impietatem et calumniandi ar-  tem juventutis accusat in Nubibus Socra-  tem . hujus criminis ullam mentionem  facit , non omissurus profecto , si illud  adhaerescere posse putasset. Nec forte  quisquam est ex omni antiquitate remo-  tiore illa, et temporibus Philosophi pro-  pinqua . , serius et severus accusator hujus  criminis. Lusit inter posteriores, pro  petulanti illo ingenio suo, Lucianus (de  CEco, ita enim potius dicendus erat ille  libellus quam de Domo, c. 4 , T. 3, p.  ig 2 , 83) cum accusat Socratem, qui non  erubuerit advocare Musas, virgines,  cuvsaojjiva; ia -aiBepaama, ut audirent  illos de puerorum amore sermones. At-  qui illi sermones, uti mox videbimus.    ET l/AMOUR GREC 1 I   que nous venons de dire ; nous en trou-  vons la preuve en ce que S. Cyrille et  Theodoret, deux detracteurs de Socrate,  n’en ont souffle mot, et qu’ils n’auraient  pas manque d’en orner leurs diatribes si  la chose eut ete possible.   3 . En second lieu, Aristophane qui, dans  ses Nuees , represente Socrate comme  un corrupteur de la jeunesse, comme  faisant de 1’imposture un enseignement,  n’a pas davantage mentionne cette accu-  sation; l’aurait-il omise, si elle eut pu  s’appliquer a Thomme qu’il bafouait? II  n’y a enfin personne, si l’on prend des  temoins dans cette antiquite reculee ou  dans les temps voisins du Philosophe,  qui se presente comme un accusateur  serieux et digne de foi. Plus tard seule-  ment Lucien, entraine par sa verve  moqueuse (dans 1’opuscule que l’on tra-  duit ordinairement De Domo et qu’il  vaudrait mieux traduire De CEco ,  chap. iv), reprocha a Socrate de n’avoir  pas rougi d ; invoquer les Muses, des    12    SOCRATE    reprehendant vehementer amorem : re-  spicit enim ad Phcedrum Platonis (p. 340 ,  G) de quo dedita opera dicendum erit.  Qua ? in Amoribus (c. 24. To. 2. p. 424 ,  go) in Socraticum amorem Platonicum-  que vel a Luciano, vel quicunque auctor  est, jocose et per calumniam dicuntur,  ea ad ipsum illum locum diluisse me  arbitror .    4. Sed veterum criminationes Maxi-  mus Tyrius ( Dissertat . 2S. 26. et 27  al. g. 10. 11) refutavit, ut non videatur  opus esse aliquid addi : cum praesertim  tanto magis et agnoscant innocentiam  Socratis, et illud crimen ab illo depel-  lant ut hujus, ita paullo superioris aitatis  homines, quo magis virum ex aequalium  ac paullo juniorum de illo scriptis ut  cognoscere possent, cuique contigit. Quin  ne consultum quidem judicarem veterem  litem resuscitare , nisi viderem, nuper    et l’amour grec i3   vierges, pour leur faire dcouter ces fa-  mcnx discours sur Vamour des jeunes  gargons. Mais ces discours, comme nous  allons le voir, blament fortement cette  sorte d’amour; Lucien fait, en effet,  allusion au Phedre de Platon dont nous  aurons a nous occuper. Ce que Fon dit  debamourSocratiqueet Platonique dans  les Amonrs , que ces dialogues soient de  Lucien ou de tout autre, n’est qu’une  plaisanterie ou une mechancete, comme  je\ l’ai demontre en temps et lieu (i).   4. Maxime de Tyr ( Dissertations 25 ,  26 et 27) a d’ailleurs refute toutes les ac-  cusations portees a ce sujet par les an-  ciens, etilserait inutile d’y rien ajouter.  Le meilleur argument, c’est que ceux qui  ont le mieux reconnu Tinnocence de  Socrate et repousse loin de lui avec le  plus de force 1’accusation infame, sont  les hommes de la generation qui a imme-   (1) Dans ses notes sur Lucien, dont il a fait une  edition et une traduction Latine tres-estimees. (Note  du Traducteur.)    H    SOCRATE    fuisse, et esse hodie homines eruditos, et  bonos viros, qui pravam de patre illo  Philosophia ? opinionem conceperint, quo-  rum non pono nomina, quia mihi non  cum ullo homine certamen esse volo,  sed cum opinione ea, quam praeterquam  quod falsam puto, etiam virtuti noxiam ,  praeter consilium quidem bonorum viro-  rum, humanitati certe adversam esse,  arbitror.    5. Qui autem fieri potuit, ut homines  neque indocti neque maligni in sinistram  falsamque de Socrate opinionem incide-  rint? ut apologia vir sanctus opus habeat?  Praeter naturalem illam -/.axor{0£tav nos-  tram, quae imis velut medullis fixa , et  superbiae illius nostrae nixa radicibus.    et l’amour grec i5   diatement suivi la sienne. Or, ce sont  les contemporains et leurs successeurs  immediats qui peuvent le mieux juger un  homme, en pleine connaissance de tout  ce qu’on aecrit sur lui. Je n’aurais donc  pas songe a ressusciter cette vieille que-  relle si je n’avais vu naguere, et tout  recemment encore, des hommes instruits,  vertueux, concevoir la plus mauvaise  opinion de ce pere de la Philosophie ; je  ne dirai pas leurs noms, ne voulant me  prendre corps a corps avec personne,  mais seulement avec une opinion que  je considere comme sans fondement,  nuisible a la vertu, et, contrairemcnt a  1’avis de ces gens de bien, defavorable a  1’humanite tout entiere.   5. Comment donc a-t-il pu se faire  que des personnages qui ne p£chent ni  par ignorance ni par mechancete, aient  concu de Socrate une opinion si facheuse  et si fausse? Pourquoi cet homme veri-  tablement saint a-t-il besoin d’etre de-  fendu? En dehors de cette maligni te    i6    SOCRATE    inter ultima vitia eradicatur, ceterasque  ex genere morum rationes, conveniunt  hic alia qucedam , quce facilem errandi  occasionem praebent. Magna pars docto-  rum etiam hominum legendi laborem  fugit, legendi uno tenore, continuata  attentione , totos veterum scriptorum  libros; sed satis habet decerpere quce-  dam, in quce primum incurrere oculi,  aut, quod deterius frequentius que idem,  repetere ab aliis excerpta, et e media  nonnunquam sermonum velut compage  evulsa, de quorum sic sententia non facile  sit judicare. Platonis libri , unde pleraque  Socratica peti hodie necesse est, multos  arcent ob Atticum illud sermonis genus,  breve et acutum, floridum praeterea, ac  semipoeticum, ipsamque disserendi ratio-  nem subtiliorem scepe, quam ut mediocri  attentione, non acutissimi homines illam  statim adsequantur. Nec licet , ut adhuc  res est, ad interpretes confugere ; qui  quoties vel nihil dicant, vel alia omnia  dicant, vix sine invidia licet commemo-  rare. Et tamen nisi attente legas, et to-    ET L.’AMOUR GREC    '7   naturelle qui reste fixee jusqu’au fond de  nos moelles, qui se fortifie de notre or-  gueil et qui ne s’arrache qidavec les der-  niers defauts, outre encore diverses rai-  sons tirees de nos mceurs, il a fallu pour  cela un concours de circonstances pro-  pres a faciliter 1’erreur. La plupart des  gens instruits eux-memes evitent la fa-  tigue de lire dans leur entier, avec une  attention soutenue, tous les livres ecrits  par les Anciens ; on a plus tot fait de  choisir quelques passages, les premiers  qui tombent sous les yeux, ou, ce qui est  bien pire, de s'en tenir aux passages  choisis par d’autres, a des fragments de-  taches de 1’ensemble et dont il est par  consequent difficile d’apprecier le sens  veritable. C’est ce qui arrive des livres  de Platon, d’ou il nous faut aujourd’hui  tirer toutc la doctrine Socratique ; iis  embarrassent bon nornbre de lecteurs  par leur style trop Attique, raffine et  aiguise, fleuri pourtant et semi-poetique,  par ces controverses si subtiles souvent  que, si 1’attention se relache, 1’esprit le    i8    SOCRATE    tos legas dialogos, et qua scripti sunt  lingua legas, non est ut de sententia  illorum, h. e. quam tribuat Plato sen-  tentiam Socrati, recte judices. Quare  mirum non est, si multi refugiant lectio-  nem ita laboriosam ; et illis veluti spinis  a familiari tractatione eorum librorum  deterreantur .    6. Denique si quid etiam tribuatur a  Platone Socrati, tamen, si illud Xeno-  phontis narrationi repugnet, non dubi-  taverim equidem, fidem potius adhibere  Grylli filio, memor illius, quod narrat  Laertius 3, 35, Socratem , cum Lysin  Platonis legisset, dixisse , to; tzoXKx uoj    ET l/AMOUR GREC 19   plus eclaire n’cn suit pas aisemcnt le fil.  Et il serait inutile, dans le cas present,  de recourir aux annotateurs ; ou iis  ne disent rien, ou iis disent tout  autre chose que ce qu’il faudrait ; on ne  peut s’empecher de leur en faire un re-  proche. Cependant, amoins de lire avec  un soin scrupuleux tous les dialogues de  Platon et de les iire dans la langue meme  ou iis ont ete ecrits, il n’est pas possible  de juger saineinent de leur doctrine,  c’est-a-dire de la doctrine que Platon  attribue a Socrate. Il n’est donc pas sur-  prenant que nombre de gens reculent  devant une si laborieuse lecture et  soient rebutes, comme par des epines,  du commerce familier de ces livres.   6. Enfin il faut dire que si Platon at-  tribue a Socrate une maniere de voir  contredite par la narration de Xenophon,  il n’y a pas a hesiter : c’est a Xenophon  qu’il faut se fier, si l’on se souvient du  mot rapporte par Diogene de Laerte  (ui, 35). Socrate, apres avoir lu le Lysis    20    SOCRATE    xaxe^uBeO’ 6 veavfoxo; ; Quam multa de me  mentitur adolescens! Tanto magis hoc  memorabile est , quod ille Dialogus ita  scriptus est, ut non modo tanquam per-  sona colloquens inducatur Socrates, sed  tanquam, qui ipsum illum dialogum  scripserit. Ceterum quia hic sumus, hoc  breviter indicamus, amatorium quidem  esse hunc libellum , sed nihil habere pu-  dendum ne Platoni quidem. Argumen-  tum hoc est : Queritur Lysidis amator  Hippothales, ab illo se non amari ; So-  crates ostendit, si velit amari, non adu-  landum esse puero, sic enim futurum  superbiorem ; sed illi potius ostenden-  dum, quibus rebus indigeat, et quam  parum in ipso sit boni (i). Deinde dela-  bitur in disputationem, Quis proprie  amicus sit vocandus? et, In quo insit  natura amicitia’ ? plenam illam quidem  cavillationum , sed praeclararum etiam  de amicitia sententiarum. Ceterum tri-   (i) Sic nempe ipse solebat Socrates in potestatem  quasi suam redigere adolescentulos, de quo que-  rentem audiemus Alcibiadem. § 3~.    ET L’AMOUR GREC    2 I    de Platon, se serait ecrie : « Comme ce  jenne homme invente souvent ce qu’il me  fait dire! » Le mot est d’autant plus  remarquable que, dans ce dialogue, So-  crate estpresente non comme un simple  interlocuteur, mais comme s’il avait  ecrit lui-meme tout le morceau. Pen-  dant quenous y sommes, disons brieve-  ment que cetouvrage roule sur 1’amour,  mais qu’il n’y a rien dont put rougir  Platon lui-meme. Voici le sujet : Hip-  pothales, qui aime Lysis, se plaint de ne  pas en etre aime; Socrate lui demontre  que s’il veut 1’etre, il ne faut pas qu’il  fiatte ce jeune homme, ce qui le rendrait  plus orgueilleux encore ; il vaut mieux  qu’il lui represente tout ce qui lui man-  que et le peu de bonnes qualites quhl  possede (i). On discute ensuite ces ques-  tions : Qui est digne d’etre appele un ve-  ritable ami? et, Quelle est la nature de  Tamitie? Controverse pleine, il est vrai,   (i) C’est ainsi que Socrate avait en effet coutumc  d’assujettir les jeunes gens & son autorite, et nous  voyons Alcibiade s’en plaindre. § 37.    22    SOCRATE    bui a Platone colloquentibus, de quibus  ipsi non cogitarint, vetus observatio est ,  de qua vid. Athenaeus Deipnos. i, i / ad  fin. p. 5 o 5 . Qiio dialogorum more se  excusat, etiam Varroni in Academico-  rum dedicatione Tullius. Neque ausim  Platonis ipsius, junioris praesertim, pa-  trocinium suscipere de mollioribus versi-  culis, quos Apulejus servavit (Apol.  p. 279 sq.) et Laertius Diogenes ( 3 , 2g) :  de quibus modo in neutram partem dis-  puto, causamque Platonis a Socratis  causa hac in re sejungo.    7. Quaecunque vero cum aliqua specie  testimonia Platonis contra Socratem pro-  feruntur, ea cum ex Phaedro, nescio  quam bona semper fide, corrupte quidem  et perverse non nunquam, depromi vi-  deam, propter ea pretium opera* putavi,    ET L’AMOUR GREC    23    de futilites, mais aussi de remarquables  definitions dePamitie. C ; est uneobserva-  tion qui a ete faite depuis longtemps,  que Platon attribue a ses interlocuteurs  des idees qu’ils n’ont jamais eues : on  peut consulter la-dessus Athenee ( Dei -  pnosophistes i, ii). Ciceron, qui avait le  meme defaut, s’en excuse sur le genre  meme du dialogue , dans son envoi des  Academiques a Varron. Je n’ose pas non  plus defendre Platon du reproche d’avoir  commis, surtout dans sa jeunesse, des  vers badins tels que ceux que nous ont  conserves Apulee (dans son Apologie) et  Diogene de Laerte (m, 29); vieux ou  jeune, jen’ai pas affaire a lui et je separe  completement sa cause de celle de So-  crate.   7. Entrelesdiverstemoignages fournis  par lui, ceux que Ton peut alleguer con-  tre Socrate avec quelque apparence de  justesse sont tires du Phedre ; pas tou-  jours bien scrupuleusement et quelque-  fois a 1’aide d’alterations ou de contre-    24    SOCRATE    non semel totum illum dialogum attento  animo perlegere , et uno quidem tenore ,  et lingua sua, ne quid eorum me falleret,  qua • saepe fraudi esse viris doctis, modo  dicebam. Ac spero non ingratum fore  aliis, quorum rationes non ferunt tam  longam solicitamque operam, si hic pos-  sint brevi studio cognoscere velut oecono-  miam illius libri et argumentum, inde-  que de toto consilio vel Platonis vel  Socratis arbitrari. Concedamus enim, ne  abuti videamur illa, quam modo propo-  suimus observatione, Socratis hic veram  sententiam bona fide a Platone proponi.    8 . Ac primo illud meminerimus, So-  cratem hic (p. 340, E) introduci senem,  tantum non decrepitum, quem facile ju-  venis Phaedrus viribus superet. Jam  fingitur Phaedrus audisse Lysiam dispu-  tantem, magis obsequendum gratifican-  dumque esse non amanti, quam amanti :  camque orationem Socrati prcelegere    ET L AM0UR GREC    25    sens. Cest ce qui m’a engage a lire  attentivement ce dialogue, et plutot deux  fois qu’une, dans son entier, et dans le  Grec, afin d’echapper a ces chances d’er-  reur dont j’ai parle plus haut et qui font  trebucher les plus doctes. II sera peut-etre  interessant, je 1’espere, pour ceux dont  1’esprit repugnerai-t a une besogne si  longue et si difficile, de connaitre sans  grande etude le sujet et pour ainsi dire  1’economie de ce livre, et de pouvoir  apprecier toute la theorie de Platon ou  de Socrate. Nous admettrons, pour ne  pas abuser de la reserve faite par nous  plus haut, que la doctrine de Socrate a  ete ici exposee de bonne foi par Platon.   8. Rappelons d’abord que Socrate y  est presente comme un vieillard, non  pas tout a fait tombe en decrepitude,  mais qu’un jeune homme, comme Phe-  dre, peut maitriser aisement. Phedre ra-  conte qu’il a entendu Lysias discourir  sur cette question : Un jeune homme  doit-il avoir plus de facilite et de com-    3    SOCRATE    2b   (a p. 338 , C. ad 33 g, G). Reprehendit  hanc Lysiae orationem , cante quidem et  multa cum ironia Socrates , et meliora se  audisse ait , quae dicere illum amabilis-  sime cogit Phcedrus. Incipit hic a Musa-  rum invocatione (p. 340 , G) quam calum-  niatur, ut modo dicebamus 3 ), Lu-  cianus : cum sit nihil in ea oratione non  virginum auribus dignissimum. Orditur  a definitione Amoris (p. 341, D) quem  vocat cupiditatem , quae incitate feratur  ad voluptatem ■ pulchritudinis, et inde,  quam mala res, quam noxia sit, ostendit  (ad p. 342, F) et claudit hexametro :   A'j-/.ol aova oi^ouV, ojq ~aToa epAouVjtv  1 r’ 1 !   |Sf/aTra’..   Ut cordi agna lupo est, puerum sic ardet amator.    9. Bene ista , et Musis faventibus. Sed  subito, At Amor tamen Deus est, inquit ,  et palinodiam parat , quae incipit (p. 3 43 .    ET LAMOUR GREC    2 7    plaisance pour celui qui ne 1’aime pasque  pour celui qui Faime ardemment ? II lit  ensuite ce discours a Socrate. Celui-ci,  avec beaucoup de finesse et ddronie,  trouve a blamer dans la composition  oratoire de Lysias et pretend qu'il a en-  tendu dire la-dessus autrefois de bien  plus belles choses; Phedre le conjure de  les lui rapporter. Socrate debute alors  par cette invocation aux Muses que Lu-  cien a calomniee, comme nous le disions  plus haut, car il n’y a rien dans tout le  discours qui ne soit parfaitement digne  des oreilles chastes. II commence par la  definition de 1’amour, qu’il appelle un  desir violemment entraine vers le plaisir  que promet la beaute ; il enumere en-  suite les ecarts auxquels il peut pousser  et conclut parcet hexametre :   Comme le loup aivic Vagneau , ainsi Vamoureux   [cherit le jeune garcon.   9. Voila qui est bien, grace aux Muses.  Mais aussitot : L’ Amonr est cependant  un Dieu, s’ecrie-t-il ; et il entrcprend une    28    SOCRATE    F) ab eo, uti dicat, non ideo amorem  damnandum fuisse, quod sit furor ; esse  enim furorem etiam bonum aliquem :  ipsam [jLavTixrjv 5. divinatoriam facultatem  esse a verbo [i-aiveaOai dictam , velut quan-  dam [j.avi/7]v s. furiosam. Talis furoris  plura genera enarrat , in his etiam ponit  amorem, cumque (p. 344, C ) magnae  felicitatis causa tum amantis cum amati  datum his esse divinitus, conatur osten-  dere. Ad eam demonstrationem sumit  primo hanc propositionem. Omnem ani-  mam esse immortalem, quam inde pro-  bat (quam bene vel male , nunc non dis-  putamus) quod principium motus sui in  se habeat.    1 0 . Deinde similem ait animam no-  stram, etiam antequam ea in corpus ve-  niat, bigae alatae cum suo auriga. Alte-  rum hujus biga 3 equum bonum ponit et  tractabilem (ibid. E), malum alterum ac  refractarium. Sic coelestia spatia ingre-  diuntur ista • cum suo auriga bigce, et    ET l’aMOUR GREC 2(J   palinodic en declarant tout d’abord que  1’amour n'est pas condamnable en soi,  qu’il estun delire, et que dans tout delire  il y a quelque chose de bon ; que fxavnxr],  la divination, derive du mot (jiodveaGai,  comme qui dirait [xavtxr), c’est-a-dire  folle. II compte diverses especes de  delires parmi lesquelles il place 1’amour,  et il s’efforce de montrer que c’est un  present divin fait a bhomme pour le plus  grand bonheur de celu*i qui aime et de  celui qui est aime. Sa demonstration  s’appuie sur cette proposition premiere:  Tonte dme est immortelle, dont il tire la  preuve (bien ou mal, ce n’est pas notre  affaire) de ce qu’elle a en soi le principe  de son mouvement.   io. Il compare ensuite notre ame,  avant qu’elle ne vienne habiter un corps,  a un attelage aile, compose de deux  chevaux et d’un cocher. L’un des  chevaux est excellent et docile ; 1’autre,  d’un mauvais naturel et retif. L’attelage  parcourt ainsi les espaces celestes, avec    3 .    3o    SOCRATE    Deorum aliquem secutce (Socratis anima  Jovem , p. 846 , D) ea spatia permeant.  In hoc volatu et illa equorum dissimilium  dissensione, alia; quidem anima; retinent  alas, et ad sublimia feruntur, contem-  plantur que ea etiam, qua; extra supre-  mum coeli orbem sunt (p. 345 , B). Alia;,  qua; partim in altum elata; viderunt plu-  ra, partim ab equo illo refractario impe-  dita; ac retractae, pauciora ; ruptisque  per illam equorum in diversa tendentium  luctam pennis atque amissis, cadunt, et  in corpora humana veniunt.    1 1 . Harum, pro gradu cognitionis  illius et inspectionis rerum coelestium  diverso, novem classes constituit (ibid. F).  Qua plurimum veritatis et rerum coeles-  tium vidit anima, ea inseritur semini, e  quo nascatur aliquis sapientias, pulchri,  doctrinas, et amoris studiosus, st? yovfjV    et l’amour grec 3 I   son cochcr, et s’elance a la suite de l’un  des douze dieux ( 1 ’ame de Socrate sui-  vait Jupiter). Dans cette course a travers  les espaces et malgre la lutte des deux  chevaux, si dissemblables, quelques ames  parviennent a garder leurs ailes, voya-  gent dans les regions etherees et con-  templent meme ce qui est au dela de la  voute du ciel. Les autres, parfois em-  portees jusqu'aux plus hautes regions,  parfois retenues et embarrassees par le  cheval retif, n’arrivent qu’a connaitre  une partie des mysteres ; dans cette lutte  des chevaux qui tirent en sens inverse,  elles brisent et perdent leurs ailes ; ces  ames tombent alors sur terre et sont  emprisonneesdans les corps des hommes.   1 1 . Suivant le degre de connaissance  qu'elles ont atteint dans la contempla-  tion des essences, Socrate divise en neuf  classes ces ames dechues. Celle qui a  per9u le plus de verite et de choses  sublimes, vient animer le germe d’ou  naitra un homme tont entier consacre au    32    SOCRATE    avopo? ycV7]ao[j.c'vO’j ? oiXoao^ou, 7) <pt\oxaXou, tj  fi.ouaixou Ttvos, x at spamxoy. Secundi fastigii  anima animabit regem, legibus, bello,  imperio, potentem : tertiae classis anima  civitatis familiaeque regendae et rei fa-  ciendae peritum : quartae, laboris aman-  tem eundemque in exercendis sanan-  disve versantem corporibus : quinti  ordinis animae vitam habebunt in vati-  cinando, aut in castimoniis initiisque  mysteriorum occupatam : sexti, poetas :  septimi, geometras aut fabros : octavi  sophistas aut cum factione populares :  noni denique animabunt tyrannidis cu-  pidos. Multa hic nec injucunda de hoc  ordine , de his vitee generibus, disputandi  occasio : sed maneamus in argumento  nostro.    12 . Ha’ omnes anima?, cum morte dis-  cesserunt a corporibus, in locum vel pce-    33    ET L’AMOUR GREC   culte de la sagesse, de la beaute , de la  Science et de Vamour ; Vdme du second  degre vivra dans le corps d’un roi juste ,  belliqueux et capable de commandere  celle du troisieme fonnera un homme  habile a administrer sa famille, sa cite  ou la chose publique ; celle du quatrieme  un athldte laborieux ou un medecin, tous  deux occupes soit d exercer le corps  humain , soit d le guerir ; les ames de la  cinquibme classe passeront leur vie , soit  d predire 1’avenir, soit d initier aux  abstinences et aux mysteres ; celles de la  sixieme former ont des poetes ; celles de  la septieme , des laboureurs ou des ou-  vriers,- celles de la huitieme, des sophistes  ou des chefs de factions populaires ;  celles de la neuvidme, enfin, des tyrans.  Ce serait peut-etre 1 ’occasion de dispu-  ter, et non sans agrement, des rangs  assignes a ces ames et de leur genre de  vie : mais restons dans notre sujet.   1 2.Toutes ces ames,quandle trepas les a  separees du corps, parviennent au sejour    SOCRATE    34   narum vel pr cerni orum perveniunt, et  mille exactis annis, accipiunt potesta-  tem eligendi sibi nova corpora , vitas  novas, sive hominum sive bestiarum .  Quce anima ter sibi, exactis millenis illis  annis, primam istam sedulo philoso-  phantis, sive pueros cum philosophia  amantis, vitam delegerit (p. 3g5, G) tou  <ptXocrocprjaavto; aooXc. 05, r] "atospaaxrJcjavTO;  [j.£xa <ptXoao<p''a;, ea, absoluta ista ter mille  annorum periodo , pennas denuo accipit,  quibus ut ante tolli, deum aliquem sequi,  contemplari coelestia , queat : cum reli-  quarum octo classium animae, non nisi  decies mille annorum periodo absoluta,  in primam illam conditionem restituan-  tur. Hoc ipsum quod primam et felicis-  simam classem Paederastarum philoso-  phantium constituit, quod tantum prae-  mium illis, compendium septies mille  annorum, tribuit Mythi hujus s. Allego-  ria ? auctor, sive Socrates fuit, sive Pla-  to ; hoc ipsum igitur jam satis monere  nos poterat, non posse hic sermonem esse  de re ita turpi , quam fuisse illud, cujus    ET LaMOUR GREC    35    des peines et des recompenses, et au bout  de mille annees, recoivent la permission  de choisir de nouveaux corps, soitd’hom-  mes soit de betes, et de vivre de nou-  velles vies. L’ame qui, durant trois revo-  lutions de mille annees, trois fois de  suite a choisi Texistence d’un homme  quicultive sincerement la philosophie, ou  qui aime les jeunes gens d'un amour  philosophique , a 1’expiration de cette  triple periode, recouvre les ailes qidelle  possedait autrefois et peut, comme au-  paravant, suivre l’un des dieux et con-  templer les essences celestes. Les huit  autres classes ne retournent a cette con-  dition premiere qu’apres une revolution  de dix mille annees. Ainsi la premiere  classe et la plus heureuse est celle des  philosophes amis des jeunes gens, et l’in-  venteur de ce mythe ou allegorie, que  ce soit Socrate ou Platon, la favorise  d’une exemption de sept mille annees :  cela seul nous avertit assez qu’il ne peut  etre question ici de ce vice infame dont  on accuse Socrate et que d’ailleurs les    36    SOCRATE    postulatur Socrates, ipsis etiam legibus  Atticis, paullo post ostendemus : sed ma-  gis hoc apparebit, si quis ea, qu ce sequun-  tur, apud Platonem paullo attentius  considerare mecum voluerit.   i 3 . Intelligentia hominum , ex pluribus  rebus sensu perceptis collecta, nihil est  aliud, quam recordatio illorum, quae  anima in illo volatu suo coelesti viderat,  quae sola verum illud ens sunt (t 6 ov-co;  ov, p. 346, A). Haec intelligentia maxima  est in illa prima philo sophantium paede-  rastarum classe : haec ipsa est, ob quam  alas soli recipiunt, quibus volatum illum  coelestem, deorumque comitatum tentant :  prae qua terrena hcec, et sensus externos  ferientia, ita negligunt, ut male sani  aliis et furiosi videantur, icocpa -/.ivouvts?,  quos commotos s. commotce mentis  vocat Horatius (Serm. 2, 3 , 2og et 278),  cum re vera divino quodam spiritu agi-  tentur, svOouaux^oviss, qui illos semper ad  coelestem illam pulchritudinem revocet,  quam in priore volatu viderant.    ET L AMOUR GREC 87   lois Athenicnnes reprimaient, comme je  le demontrerai tout a 1’heure ; cela de-  viendra plus evident encore pour qui  voudra bien examiner attentivement  avec moi ce qui suit dans Platon.   i3. L’intelligence humaine est formce  de la reunion des idees percues a l’aide  des sensations, et les idees ne sont rien  autre chose que les reminiscences de  ce que 1’ame a vu anterieurement dans  son vol celeste, c’est-a-dire des essences  veritables. Or 1’intelligence la plus com-  plete appartient a la premiere classe, a  celle des philosophes amis zeles des  jeunes gens, et c’est pourquoi seuls iis  recouvrent les ailes a 1’aide desquelles  iis pourront essayer de nouveau de par-  courir le ciel et suivre le cortege des  dieux. Detaches des soins terrestres et  de tout ce qui frappe les organes, iis pas-  sent pour des insenses et des hommes en  delire, -apa/ivoSvis?, de ceux qu’Horace  appelle des fren^tiqucs, des esprits trou-  bles, tandis que vraiment ce sont des en-    4    38    SOCRATE    14. Haec pulchritudo , qucc inest in  sensu, <ppov 7 ]<m (p. 846, E), in mentis  qua vult et intelligit prostantia, si ita in  oculos, ut alia quce videri his possunt,  incideret , ad mirabiles sui amores exci-  tatura esset. Jam pulchritudo sola corpo-  rum, hanc (Aotpav habet, hoc velut fatum,  et conditionem , uti subeat oculos, ut amo-  rem moveat. Hinc ponamus ipsa verba ,  ut existimare melius ac certius de tota  re possint etiam, quibus ad manus non est  Plato ipse, vel magnum volumen de pluteo  promere non lubet. c O piv oOv pu] vsoxeXt];,  ■Jj otscpQappivos, oux otjiiog evOevOs Exstas ©s'psxat  7ip6; auxo xo xaXXo;, Ostopisvo; a3xou xrjv xrjoE  smavupiiav. waxs ou as'6sxat 7rpoaopojv, aXX’  7]3ov^ 7:apaoou;, zBzpdtTzodog vo ptco (Batvstv S7Ct-  y stpsT xat 7iat8oa7EOpstv. xal u6pst x:poao|j.tXaiv,  ou os'ootxsv ou 8’ ata/uvsxai IIAPA ‘I^TXIIN ( 1 )    (1) Notabile est, Platoni etiam de Ijcgib. r .    ET LAMOUR GREC 3y   thousiastes, agites comme d’un transport  divin, qui les attire sans cesse vers cette  beaute celeste precedemment entrevue  par eux dans leur vol.   14. Cette beaute, dont Pessence reside  dans un sens particulier, la sagesse,  source de la volonte et de 1’intelligence,  s’il etait donne a l’oeil de 1’apercevoir,  comme toutes les autres choses visi -  bles, elle nous exciterait a d’admirables  amours. Mais c’est seulement la beaute  corporelle, telle est sa necessite fatale et sa  nature, qui frappe les yeux et nous porte  a 1’amour. Ici nous placerons le texte  meme afin que ceux qui n’ont point Pla-  ton sous la main ou qui ne se soucient  pas de tirer du rayon un gros volume,  puissent se faire une opinion en toute    p. 56g, E. hanc turpitudinem appsvwv np 6?  appevag, Ij OrjXsTwv xpog OrjXsix;, to ITAPA  •bTSIN To'X[j.7)p.a appellari. Non igitur Plato-  nem , vel Socratem adeo, feriunt divina illa ful-  mina Pauli Rom. /, 26 . sq., ut neque ea, qua ? in  idolatriam vibrantur.    40    SOCRATE    f,5ov7]v 0 -W.ojv. '0 8e apttteXrj?, 6 twv xdxe  TroXuGcapojv, oxav OsoEtSsg r.poaioTzov' t07), -/.aX-  Xo; eu [j.E[j.vr ( [x£vov rj uva ac;o$fj.axo ios'av —  oj? Geov a£'6sxai. Hcec ita verto, Hic ergo,  qui non est nuper illis mysteriis coeles-  tibus in illo volatu animarum initiatus,  aut, initiatus cum esset, corruptus est,  non celeriter, ut oportebat, hinc, ab hac  corporea, non vera, pulchritudine, illuc  fertur ad ipsam veram, coelestem pul-  chritudinem, cujus hic videt nomen,  umbram , similitudinem : itaque neque  inter adspiciendum eam, divinum quid-  dam colit : sed libidini se tradens, qua-  drupedis ritu inscendere formosum co-  natur, et genitale semen profundere, et  cum contumelia (vid. ad §. 18) congres-  sus formoso corpori , non veretur, nec  erubescit PRXETER NATURAM libidi-  nem persequi. At ille nuper initiatus,  qui multa eorum quae tum videbat ,  contemplatus est, ubi vultum divino  similem conspexit, qui pulchritudinem  illam veram bene imitetur, aut incor-  poream quandam illius speciem, verbo ,    ET L’AMOUR GREC    41   certitudc. « L’homme qui n’a pas un  « souvenir recent de son initiation aux  « mysteres, ou qui, recemment initie,  « s’est laisse depraver, ne s’eleve pas fa-  « cilement, comme il faudrait, de cette  « beaute corporelle, qui n’est pas la  « vraie, a cette beaute celeste, absolue,  « dont il ne rencontre ici-bas que le nom,  « 1’ombre, la ressemblance ; en 1’aper-  « cevant il n’y respecte rien de divin.  « Entraine par la volupte, il se precipite,  « comme une brute, sur 1’objet de ses  « desirs, ne cherche qu’a genitale semen  « profundere et, outrageant ce beau  « corps qu ? il etreint, il n’a pas honte, il  « ne rougit pas de poursuivre un plaisir  « contre nature ( 1 ). Au contraire, l’hom-  « me, encore plein des saints mysteres  « qu’il a longtemps contemples autrefois,    (1) 11 est remarquable que Platon, meme dans ses  Lois, appelle crime contre nature le commerce hon-  teux marium cum maribus, et feminarum cum fe-  minis. Les foudres de Saint Paul ( Ep . aux Rom. 1.  26) n’atteignent donc ni Platon ni Socrate, pas plus  que celles qu’il lance contre 1’idolatrie.    42    SOCRATE    virtutem speciosam : — Dei instar  colit.    i5. Deinde enarrat pheenomena quae-  dam hujus sancti et philosophici amoris ,  similia, ex parte Venerei, et quomodo  illa ' alce, quas amiserat anima , hinc de  novo crescant, sub Allegoria perpetua  describit, qua nihil aliud tandem indicat ,  quam enthusiasmum quendam , et injec-  tam divinitus philosopho cupiditatem  versandi cum pulchris, h. e. ingenio vel  forma potentibus, adolescentulis : quos  nempe captabat Socrates, qui sciret , cum  facilius sit formare ad sapientiam et  virtutem hanc aetatem, tum hos esse, a  quibus futura civitatis fortuna pendeat.  Hinc est quod se venari pulchros non dis-  simulabat (vid. Protagora > principium ,  frustra reprehensum Cyrillo contra  Julia, i, 6, p. i8j, A), quod Xenophon-  tem baculo etiam transverso objecto    et l’amour grec q'3   « en presence d’un visage presque divin  « ou d’un corps dont les formes lui rap-  it pellent 1’essence de la beaute, c’est-a-  « dire 1’essence de la vertu, adore comme  « en presence de la divinite. »   i5. Platon retrace ensuite quelques-  uns des phenornenes de ce saint et phi-  losophique amour, parfois peu different  de l’autre; il montre aussi comment re-  poussent les ailes autrefois perdues par  rame. C’est une allegorie perpetuelle  dont la conclusion est que le philosophe  con^oit, par une sorte de grace divine,  le plus fervent desir de vivre au milicu  des beaux adolescents distingues par la  perfection de leurs formes ou par leurs  dispositions naturelles. C’est ceux-la, en  effet, que Socrate ambitionnait de gagner ,  sachant qu’il est facile, a cet age, de les  tourner au bien et a la vertu, et que  c’est d’eux que dependent les futurs des-  tins de la Republique. II appelait cela  prendre les beaux garcons dans ses filets  (voyez la-dcssus le commencement du.    44    SOCRATE    velut exceptum, sibi adjunxit (Diog.  Laert. 2, 48). Ipsum illud hinc est , quod  gymnasia , conviviaque et deambulatio-  nes, quoscunque denique juvenum coetus,  sequebatur, quod ludos et jocos non refu-  giebat, quod se plane communem illis  faciebat , nec irrideri aut peti maledic-  tis refugiens. Ipsa illa ironia perpetua,  quod doceri se velle simularet , certe dis-  cendi causa disputare , ut accessum ad  Sophistas illi dabat , ita adolescentulo-  rum super bulae de se opinioni et praeci-  pitantiae blandiri videbatur. Sed perga-  mus Platonis Mython enarrare.    16. Philosophi illi amatores pulchro-  rum non indiscretim omnes amant , sed  (p. Sdy, C) quem quisque in illo coelesti  volatu Deum secutus est , ejus Dei si-  milem sibi quaerit amasium; qui Jovem ,  ut Socrates, Jovialem (Auvov x wa), Martia-  lem vero qui Martem, et sic Junonios.    ET L AMOUR GREC    45   Protagoras , blame a tort par Saint Cy-  rille), et il se fit de la sorte un disciple  de Xenophon qu’il arreta en lui barrant  le passage avec son baton. Voila pour-  quoi aussi il frequentait les gymnases,  les banquets, les promenades, tous les  lieux de reunion des jeunes gens, ne  fuyait ni les jeux ni les badinages, s’en-  tretenait avec tous et s’inquietait peu de  preter a rire aux medisants. Cette ironie  perpetuelle grace a laquelle il feignait  toujours de vouloir apprendre, pour  mieux enseigner, lui donnait acces au-  pres des Sophistes et flattait aussi la suf-  fisance et la presomption de la jeunesse.  Mais achevons d’exposer le Mythe de  Platon.   16. Ces philosophes amoureux des  beaux garcons ne s’attachent pas indis-  tinctement a tous ; selon le dieu quhls  accompagnaient dans les espaces etheres,  chacun d’eux choisit parmi les anciens  suivants du meme dieu celui qu’il doit  aimcr. L’ame qui etait, comme celle de    SOCRATE    46   Bacchicos , Apollineos : et talem ubi in-  ventum amare coeperint , faciunt omnia ,  uti Deo illi, quem ipsi secuti sunt, et cu-  jus jam similitudinem quandam in ipso  deprehenderunt, sibique adeo , reddant  quam similimum. Ita Socrates, Jovis in  illo volatu satelles, quaerit Joviales, ama-  tores natura sapientiae, et natos ad im-  perandum. Hactenus ergo bene res ha-  bet, sancti tales Paederaslce, J elices qui  sic amantur.    / 7 . Sed nec dissimulanda sunt quae  sequuntur apud Platonem. Redit Socrates  (p. 3 -lj, F) ad superiorem illum de Ani-  ma Mythum (’§. 10), quam triplicis na-  turae ponit scilicet. Sunt vellit equi duo,  est auriga. Equorum alter bonus, sanus,  verecundus, gloria • amator , qui sine pla-  gis, sola ratione auriga regitur : pravus  alter, qui multum ac temere una aufera-    ET L AMOUR GREC    47   Socrate, dans le cortegc de Jupiter, re-  cherche un suivant de Jupiter, et ainsi  des autres qui avaient choisi Mars, ou  Junon, ou Bacchus ou Apollon. Des  qu’ils Pont trouve, iis s’efforcent de  rendre celui qu’ils aiment semblable a ce  dieu dont iis retrouvent en eux-memes  le caractere. Ainsi Socrate, satellite de  Jupiter, recherchait pour les cherir ceux  qui avaient aussi suivi ce dieu, c’est-a-  dire ceux qui, par nature, etaient portes  a la sagesse et a la domination. Jusqu’ici  tout va bien ; de tels Pederastes sont de  vrais saints, et bien heureux ceux qui  sont aimes de la sorte !   17. Mais il ne faut pas dissimuler ce  qui vient apres dans Platon. Socrate re-  tourne au precedent Mythe de hame  qu’il a coniparee aux triples forces reu-  nies de deux chevaux et d’un cocher.  L’un des chevaux est bon, sam, plein de  retenue et d’emulation ; le cocher le di-  rige, sans avoir besoin du fouet et par  la seule persuasion : 1’autre est mechant    SOCRATE    48   tur , (impetu alieno potius feratur ,  smo judicio) dura ac brevi cervice, simus,  nigri coloris, glaucis oculis, suffusus san-  guine, petulantia contumeliaque gau-  dens, hirsutus circa aures, surdus, fla-  gello ac stimulis vix tandem concedens.  Operet ? pretium videtur mali equi notas  etiam Gra } ce ponere : cxoXt 65, ~oXu; eixrj  a'j[j. 7 :scpopr]|j.^vo?, xpaTEpauyrjv, ( 3 payuipayrjXo?,  aipLOTCpoacoro;, [xsXayypa);, yAauxop.p.a“0?, oepat-  [xo;, u6p ew; xal aXa^oveiac staTpo?, zept coxa  Xaaco; , xwipog , gaartyt p.S7a xdvxpwv [xdy.;   UTEclXOJV .   r<S\ Apposui Graeca , ut facilius judi-  cari possit , probabilisne sit conjectura, in  quam incidi , dum in hac equi mali de-  scriptione versor. Nempe, aut vehemen-  ter fallor, aut memorat hic Socrates non  tam equi mali proprie dicti signa, quam  sui corporis formam, quatenus vitiosum  inde ingenium colligebat physiognomon  ille Zopyrus. Hic enim , ut est apud Ci-  ceronem (de Fato c. 5), Stupidum esse  Socratem dixit et bardum, — addidit    ET L ; AMOUR GREC 49   et s’emporte facilement, sans raison au-  cune (c 7 est-a-dire qu’il semble dirige plu-  tot par une force exterieure que par son  propre jugement); il a 1’encolure courte  et dure, les naseaux apiatis a la maniere  du singe, le poil noir, les yeux glauques  le sang le tourmente et il est toujours en  rut et en querelles ; il a, de plus, les  oreilles velues, il est insensible a tout et  n 7 obeit qu’a peine au fouet et a 1’aiguil-  lon. Il est necessaire de transcrire, dans  le texte Grec, ces marques particulieres  du mauvais cheval.   18. J’ai cite le texte afin qu’on puisse  decider si la conjecture que me suggere  cette description du cheval retif a quel-  que vraisemblance. Ou je me trompe  fort, ou Socrate ici retrace moins les ca-  racteres d 7 un cheval defectueux que son  propre portrait, dans lequel le physio-  nomiste Zopyre trouvait les indices d’un  naturel vicieux. Zopyre, au dire de  Ciceron (Du Destin , chap. v) pretendait  en effet que Socrate etait lourd et stu~    DO    SOCRATE    etiam mulierosum. Illud de stupore con-  venire cum Homzne xpaTepau/7)v et (3payuxpa-  mox declarabitur : quod muliero-  sum dicebat, illud cum G6psa Ixatpop con-  gruit : novimus enim quos uSp-.sxa; tum  dixerit Graecia ( i ). Porro illud aipio-pd-  aw-ov plane pertinet ad notationem Socra-  tis, in quo cum deridetur a Critobulo (2),  tum ipse suaviter sibi illudit, et in eo  patulisque non modo deorsum sed in hori-  qontem naribus, non minus quam in ocu-  lis ultra frontem eminentibus, et labio-   (1) Unum ponamus exemplum e libello, quipree  manu est, Aristotelis Physignom. c. ult. p. / 18 1,  E. 01 (Jisya cpcnvotjvxs; papuxovov, OSpiaxa^. Ava-  tpspexat £~1 xoj; ovoj;. Physiognomones e simili-  tudine vocis asinina: argumentum ducunt ad libi-  dinem asininam. Conf. § 14, it. 32 .   (2) Xenoph. Sympos. c. 4, § /p, Socrates ad  Critobulum, formee sua: jactatorem, x; xoDxo ; w?  yap /a! Ip.o 0 ' zaXXtcjjv wv xauxa v.oxt.xCv.c,, Quid  istuc? quasi me quoque pulchrior esses, ita gloriaris.  Ad qua: Critobulus , Nrj Ata, rj Ttavxcov SsiX7jvwv  xmv sv aaxupixoh; alaytaxo; av eVtjv . Nisi te for-  mosior essem, ait, essem Sileuorum, qui in Satyri-  cis fabulis in scenam veniunt, turpissimus.    ET L t AMOUR GREC    5i    pide; il aurait ajoute : adonrtd anx plai-  sirs veneriens. Pource qui est dela lour-  deur, cela concorde avec 1’encolure  courte et dure ; adonne anx plaisirs ve-  neriens, repond a &'6peto; ItaTpo;. Nous  savons, en effet, quels etaient ceux que  les Grecs appelaient uSpiatat' (i). Quant a  la face simiesque, cette designation s’ap-  plique parfaitement au portrait de So-  crate ; il y a fait lui-meme agreablement  allusion en repondant aux moqueries de  Critobule ( 2 ). Il avoue que toute sa  beaute consiste en un nez epate et me-  nafant le ciel, en des yeux saillants et    (1) Contentons-nous d’un seul exemple tird du livre  que nous avons sous la main , le De Physiognomia ,  d’Aristote : Ceux qui ont la voix forte et grave  sont &6picrcai, par similitude avec Vane. De ce que  la voix £tait bruyante comme celle de l’ane, les phy-  sionomistes conci uaient qu’on devait avoir le tempe-  rament lascif de cet animal.   (2) Xenophon (Banquet, ch. IV, 19). Socrate dit il  Critobule, qui vante sa propre beautd : « Quoi donc ?  Tu crois etre plus beau que moi ? » Critobule lui  repond : « Si je n’etais plus beau que toi,je serais  le plus affreux de ces Silenes que Von voit paraitre  dans les drames salyriques. »    5 2    SOCRATE    rum tumore molli , pulchritudinem suam  prcedicat (Xenoph. Sympos? c. 5) sicut  in Platonis Convivio (vid. §. 35) Sileni  s. Satyri formam Alcibiades illi tribuit :  et in Tlieceteti Platonici principio Theo-  dorus negat pulchrum esse Thecetetum,  cum sit Socrati similis, tQ te cijxo-rjta xat  to s£w twv o[j.[j.aTtov, naso simo et eminen-  tibus oculis, licet minus quam Socrates  utraque re sit notabilis. Nempe hcec si-  gna cum haberentur, et naturales quae-  dam notce, hominis libidinosi, iracundi  et stupidi, non negabat illud Socrates,  verum eo majoris faciendam esse Philo-  sophiam ostendebat, quee tantum contra  vitiosam naturam valeret.    iy. Quoniam hic sumus, non injucun-  dum forte fuerit lectoribus nostris in  rem quasi preesentem ire, et ex artis,  qualis tum erat, praeceptis, Zopyri judi-  cium defendere. Vix autem opus est  admoneri lectores, non hoc agi, Num  veri aliquid sit in ea arte? Num ipso    ET L ? AMOUR GREC    53    des levres gonflees comme un abces ; de  meme dans le Banquet de Platon, Alci-  biade compare son masque a celui de  Silene ou d’un satyre, et au commence-  ment du Theatdte , l’un des interlocu-  teurs, Theodore, refuse toute grace a  Theatete en disant qu’il ressemble a So-  crate, qu’il est camard et que les yeux  lui sortent de la tete ; que pour etre chez  lui moins apparents que chez le maitre,  ces defauts n’ensontpas moins sensibles.  Socrate ne niait pas d’ailleurs que ces  particularites physiques n’indiquassent  un homme lascif, violent et d’un esprit  paresseux ; il en concluait seulement en  faveur de la Philosophie qui parvient a  dompter un si vicieux naturel.   19. Pendant que nous y sommes, il ne  deplaira peut-etre pas au lecteur d’aller  plus au fond sur ce chapitre et de de-  fendre les idees de Zopyre, idees basees  sur des regles alors acceptees. Il nes’agit  pas de savoir si cette Science est sure ;  est-ce que 1 ’excmplc meme de Socrate    SOCRATE    54   etiam Socratis exemplo ea refellatur, et  vanitatis convincatur? sed hoc modo ,  quod dixi, Utrum Zopyrus ex arte, et  ut oportebat, judicium de illo tulerit?  Exstat in operibus Aristotelis libellus,  <J>uaioyvoj[juxa inscriptus, quo superiorum  hujus artis consultorum collegisse prae-  cepta videtur . Hinc ea, quee ad formam  Socratis, qua ? ad equi hujus mythici na-  turam pertinent , huc transferamus.   2 0 . Igitur (c. 3, p. 1 1 j3, B) inter ’Avai-  c07j- ou hoc est stupidi , et sensu communi  pene carentis signa sunt ~'x nepl tov auysv a  aap'/.oj07) 7.ocl G'j[j.7ZB7zXsj[isva x a\ auvo£ 0 £|j.£va,  Ea quas adjacent collo carnosa, com-  plexa et colligata, itemque cervix crassa,  XGxytjkoq -ayjj;. Et (c. 6. p. I Ij8, C) Oi?  Ta "£p\ ta; xXeTBoc; aug~£pi~£cppaY(x£va £<ruv,  avodaQiyroL. Nonne totidem fere verbis  Ciceronianus Zopyrus? Stupidum esse  Socratem, et bardum quod jugula con-  cava non haberet, obstructas eas partes  et obturatas. Alia adhuc mala signifeat  ista conformatio. Olc xpd.yrj.oc r.ayyc xai    55    ET L’AMOUR GREC   ne temoigne pas du contraire ? Mais  Zopyre en a-t-il tire, en ce qui concerne  notre Philosophe, un pronostic judi-  cieux ? II y a dans les oeuvres d’Aristote  un opuscule intitule Physionomiques ou  ce philosophe parait avoir recueilli les  regles admises avant lui par les habiles.  Nous transcrirons celles qui se rappor-  tent au portrait de Socrate et au carac-  tere de son cheval mythique.   20. D ? apres Aristote (chap. m), les in-  dices d’un esprit lourd et presque prive  du sens commun sont le gonflement des  chairs qui avoisinent le cou, leur engor-  gement et leur replelion- ce qu’il con-  firme en disant au chapitre vi : « C’cst  un signe de betise que d’ avoir 1 ’cncolure  epaisse. » Zopyre, dans Ciceron, n’ex-  prime-t-il pas la meme idee? Socrate,  dit-il, etait lourd et stupide, parce quii  navait pas le cou bien degage, que ces  parties etaient cheq lui comme engorgees  et obstruees. Cette conformation indi-  que cncore bien d’autrcs dcfauts : la    56    SOCRATE    TzlioK, 0 o 1 uo£i 8 e!'s, Crassa et plena cervix  iracundos signat, exemplo taurorum : Ol?  8s [Bpayjj; ayav, irdfi ouXoi, Brevis nimium  quibus est, ii sunt homines insidiosi, lu-  porum instar. Talem modo vidimus  illum malum equum, xpaxepauyeva et [Bpa-  yuxpayjiXov. Talem nisi fallor se indicat  Socrates, aut potius talem significat  Plato Socratem, a natura fuisse.    21. Videamus reliqua. Equus malus  Socratis est — sp\ xa wxa ).asto;, hirsutus  circa aures. Libidinosi, Xayvou, apud  Aristotelem ( c . 3 extr. p. 1174, C) o t  xpdxoupot oaa$T?, densa pilis i. e. hirsuta  tempora. Deinde (c. 6. p. 1174, C) oi  xa yecXrj “aysa eyovxe; puopoi — avacpdpexai    £7ii xou; ovou;. Physiognomones crassa labia  stultitiae characterem faciunt, ob simili-  tudinem asinorum. Quid de se Socrates  (Xenoph. 1. c.) in ludicra cum pulchro  Critobulo contentione? Ata 76 r.ayla. syeiv  xa ylCkt], oux otst xa\ [xaXaxaSxspdv oou 'iyv.v xo  csfX7]p.a; Propter labia crassa suum putat  osculum mollius. Et, v Eotxa syw xaxa xov    et l’amour grec 5 7   nuque epaisse et charnue denote un  homme violent, par similitudo avec le  taure au ; ceux qui l’ont trop courte sont  ruses, par similitude avec le loup. Or,  cette indication, 1’encolure epaisse et  courte, figure parmi les marques du  mauvais cheval. Si je ne me trompe  Socrate avoue qu’il etait bati de la sorte,  ou plutot c’est ainsi que le depeint Platon.   21 . Voyons le reste. Le mauvais che-  val Socratique a les oreilles velues : Aris-  tote designe comme libertins ceux qui  ont du poil jusques sur les tempes. De  plus, les physionomistes notent les  grosses levres comme un indice de betise,  par similitude avec 1’ane. Or que lisons-  nons dans la plaisante discussion (Xeno-  phon, 1 ) de Socrate avec Critobule? —  « A cause de ses l&vres charnues il pense  que son baiser est plus sensuel », et plus  loin : « Je te par ais avoir, 6 Critobule,  une bouche plus difforme que celle de  Vane, avec ces bourrelets qui me tienncnt  lieu de levres. »    58    SOCRATE    aov Xoyov x at Ttov Ovojv aiayiov to GTOu.a lysiv,  turpius os quam habent asini illum  mollem labiorum tumorem habere tibi,  o Critobule , videor.   22 . Simus fuit, ut vidimus, Socrates :  at|jio-po'ato7:o; est malus equus. Quid Phy-  siognomones, atque adeo Zopyrus ? Si  fides Aristoteli (c. 6. p. iiyg, B.) 01  G'|j.7jV Eyovts; piva, Xayvor avacpspezai i~\ tou;  iXa^ou;, Simi sunt libidinosi, exemplo  cervorum. Patulas quoque versus nares  suas, qu£e possint odores undecunque  oblatos excipere, laudat sipojv Socrates  Xenophonteus , pra ? Critobuli naribus  humo obversis. Ot ;xev yao ao\ (xuxT7jpE; ei;  yrjv opcSat, ol 8’ eijloi ava“£"tavTat, wgte tx;  T:av~o0£v oGua; izpoa ov/yOou. At Physio-  gnomones ( I . C.), 0:; o! p.uxT7jp£$ ava"E^"a-  pL^vot, OupiojoEi;, Iracundi sunt, quorum  patula? nares, quod in ira diffundi so-  lent. Iracundum valde a natura fuisse  Socratem, non soli credamus Cy r rillo,  quamvis Porphyrium auctorem laudat ,  qui ab Aristoxeno se illud dicat acce -    ET LAMOUR GREC    59    22. Socrate, nous le savons, etait ca-  mard ; son mauvais cheval a les naseaux  ecrases du singe. Quel indice en tirent  les physionomistes et Zopyre ? Aristote  dit : « Les camards sont lascifs, par simi -  litude avec le cerf ». Socrate declare  quii a les narines lar gement ouvertes ,  comme pour subodorer de toutes parts  les parfums. Jaime mieux cela, dit-il,  que d’avoir, comme Critobule , un ne^  penche vers le sol. Mais d’apres les phy-  sionomistes, c’est 1’indice d’un tempera-  ment porte a la colere. Que Socrate ait  etedun naturel violent, nous ne nous en  rapporterons pas la-dessus seulement a  Saint Cyrille, quoique son temoignage  soit corrobore de ceux de Porphyre etd’A-  ristoxene et qu’il dise en propres termes :  « Socrate etait devenu si irritable qu’il  ne pouvait moderer ni ses paroles ni ses    6o    SOCRATE    pisse, ’'Ote <pXe-/0e't7] utzo zou TrdOou; toutou [de  ira sermo est) ostvrjv etvat xr ( v aayr][jLO(Hjvr)v •  ouoevo; yap ouxe ovopiato; azoa^saOat oSxe  -payjj.ato;, Eo importunitatis progressum ,  ut nullo neque verbo neque opere absti-  neret : sed ipsi de se credamus Socrati,  qui tam gravi ac molesto sibi, quam fuit  Xanthippe, patientia ? et mansuetudinis  gymnasio opus fuisse, fassus sit apud  Xenophontem [Sympos. 2, 10 ) BouXo'|ievo;,  dv0pco7tot; y prjoOat jcat opuXe Tv, Tauxrjv x&ttj-  ptat, sii eloco;, oxt, et lauxrjv 'j"Otaco, PAAIQS  TOIS TE AAAOIS 'AIIASIN, avOptfaoic  auveaouat, Quam ferre si posset, facilis  esset cum aliis omnibus conversatio.    23 . Unum superest : e^^OaXpto; erat  Socrates. Itaque ita jocabundus disputat  cum pulchro Critobulo, ut cum primo  convenisset, Pulchras esse res , quatenus  respondeant consilio, propter quod ha-  bentur ; roget eum , Cujus rei gratia ha-  beamus oculos? eoque, ut necesse erat ,  respondente, Ad videndum, inferat ,  Suos ergo pulchriores esse, qui Sta zo    ET CaMOUR GREC    6i    actions ». Croyons-en Socrate lui-meme;  dans le Banquet de Xenophon , il avoue  que le caractere acariatre de Xanthippe  fut pour lui la meilleure ecole de pa-  tience et de douceur; que par la suite il  lui fut plus facile de supporter la con-  tradici ion.    23 . Il ne reste plus qu’une chose : So-  crate avait les yeux saillants. Il dispute  la-dessus agreablement avee le beau Cri-  tobule, et le fait convenir d’abord que  toute chose est belle pourvu qu’elle re-  ponde au but en vue duquel elle existe.  Il lui demande alors : Pourquoi faire  avons-nous des yeux ? — Pour voir, re-  pond naturellement Critobule. — E/i bien  alors , dit Socrate, mes yeux sont les plus  beaux de tous, car iis me sortent de la    62    SOCRATE    £7it-oXatot sivat, quod emineant, non ea  modo, quas exadversum sint videant, sed  etiam quae a latere. Et cum diceretur ,  secundum hmc pulcherrime oculatum  (euo^OaXjj-GTa-ov : ) animal esse cancrum,  id ipsum affirmat. Jam Physiognomon  Aristoteles (c. 6. p. i ijg, D) "Oaoi i£6z>-  OaXjjiot, inquit , aS&vepoi, Fatui sunt, quibus  oculi eminent : rationem petit ab judicio  quodam decoris et convenientia ■ naturali ,  et ab similitudine asinorum. Male de  horum gente meritus est Stagirita :  quce videtur ex hoc prcesertim libello  contraxisse infamiam illam , qua ab eo  inde tempore, et Platonis quibusdam  dictis, onerata est : honestum superiori  cetate animal, cujus majestatem, ut Var-  roniano verbo utamur, (de R. R. 2, 5,  4) adhuc agnoscebat Homerus. De hac  re adjicietur potius huic disputationi  quoddam corollarium, quam ut longius  digrediamur a Socrate.    ET L’AMOUR GREC    63    tete, si bien que je puis voir non-seule-  ment devant moi, mais & droite et d  gaiiche. Son interlocuteur lui repond  qu’a ce compte les crabes ont de tres-  beaux yeux, et Socrate affirme que c’est  parfaitement vrai. Or, d’apres Aristote,  les yeux saillants sont 1’indice de la sot-  tise; il tire ce pronostic de certains rap-  ports naturels de convenance, de syme-  trie, et de la ressemblance que ces yeux  offrent avec ceux des anes. Le philosophe  de Stagyre a par la bien mal merite de  cette race inoffensive, et ce doit etre a  partir de ce petit traite qu’il acquit le  mauvais renoni confirme depuis par  Platon lui-meme. L’ane, cet honnete  animal, etait mieux apprecie des genera-  tions precedentes, et Homere se plaisait,  suivant le mot de Varron, a lui recon-  naitre de la majeste. Nous ferons de cela  un corollaire a cette dissertation pour ne  pas trop nous eloigner presentement de  Socrate (i).    (i) Gesner a «Jcrit un appendice intitulc De antiqua    SOCRATE    64   24. Nempe tempus est, ut videamus,  quorsum evadat ille de bono et malo  equo Myihus. Ad conspectum pulchri  (p. 34 j, F) bonus ille quidem aurigee  obsequitur, contineri se patitur, malo  alteri , quantum potest reluctatur. Simile  certamen est in pulchro, qui amatur :  repugnat malo isti equo bonus illius  jugalis, hic enim est (p. 348 , G) 6 [xo'£u£,  et ipse auriga adeo repugnat [aet’ dtSous  xat Xdyou, cum pudore et recta ratione. Si  ergo ita vincant meliora, et ad vitam  ordinatam, quae eadem philosophia est,  ducant illum currum, beatam et concor-  dem hic vitam agunt continentes se, et  decus suum tuentes, syxpatcTs auroiv xat  xdajjuot ovtss, in servitutem redacto illo  equo, cui vitiositas animae inerat; in li-  bertatem asserto eo, cui virtus. Tandem  vero alati ac leves denuo facti, sic de tri-  bus illis certaminibus (de quibus §. 12)   asinorum honestate, imprime i la suite du Socrates  sanctus pcederasta ; il ne nous a pas sembl£ otfrir  assez d’interet pour Ctre traduit. (Note Ju Traduc-  teur.)    ET L’AMOUR GREC    65    24. II est temps de voir ou il veut en  venir avec son Mythe du bon et du mau-  vais cheval. A Taspect de la beaute, ie  coursier docile obeit au cocher et se laisse  contenir; il resiste de toutes ses forces a  son mauvais compagnon. L/objet aime est  lui-meme en proie aunesemblablelutte ;  son bon cheval se defend contre les ten-  tatives de son mauvais compagnon d’at-  telage, que de plus le cocher s’efforce de  contenir par la pudeur et la raison. Si les  meilleurs instincts remportent la victoire  et conduisent le char dans les chemins de  la vie rangee, cest-d-dire de la philoso-  phie, les deux amant s vivent dans le bon-  heur et bunion, maitres d’ eux-memes  et regles dans leurs mceurs : iis ont  dompte le mauvais cheval, qui repre-  sente le vice, et affranchi 1’autre qui re-  presente la vertu. Recouvrant enfin leurs  t ailes et leur legbrete primitives , iis sor-  tent vainqueurs de ces trois luttes vrai-  ment Olympiques dont nous avons parle  plus haut. Socrate peut donc dire*sans  hesitation que ccux qui se prescrvcnt.    66    SOCkATE    vere Olympicis, unum vicerunt. Absque  hcesitatione igitur beatissimos esse dicit,  qui se puros et castos ab amore Venereo  servaverint.    25. At nunc sequitur apud Platonem,  in quo defendere illum , Platonem, in-  quam, nam Socratis causam hic segre-  gandum putamus (vid. 6) paullo diffi-  cilius est; tacuisset enim forte sapientius :  sed non iniquum (i) excusare. Nempe  his, quee modo prolata sunt, subjungit,  quee non scripta equidem malim : sed  pono, ne quid dissimulasse videar, ne  parum bona fide egisse. Quam vero caute,  quam suspensa velut manu illud ulcus  tractet, videre opera? pretium est. Eav’  os 8tatT7) <popzi7Ui)~ipx ~z xat A<I>IAO—  cptXoTtjxu) 8s yprfacjvzx'., -i/' av ~oj ev uiOat;  sitivi a)xA7) dasXsta Tci> axoXaTCto ajTOtv Gno-  JXiytco XaSovTE, xa\ tjrjya; xopojpo-j; aovaya-  yovTE et; toeutov, tf ( v u ~6 :wv -oXX oiv [xaxaot-    fi) Multum certe facilior causa Platonis, quam  alicujus Beneventani Episcopi : aut aliorum, quos  vrxterco sciens.    ET L'AMOUR GREC 67   purs et chastes, de 1’amour Venerien,  jouissent de la plus grande beatitude.    25. Ce qui suit, chez Platon, est un  peu plus difficile a expliquer; chez Pla-  ton, disons-nous, car ici nous croyons  devoir separer sa cause de celle de So-  crate; evidemment il aurait mieux fait  de se taire , mais il n’cst pas impossible  de l’excuser (i). A ces choses sublimes  que nous venons de transcrire, il en  ajoute d’autres que j’aimerais mieux lui  voir passer sous silence; je les exposerai  cependant, de peur de paraitre rien dissi-  muler et manquer un peu de bonne foi.  Il faut ici donner le texte pour qu’on    ( 1 ) Son cas est en effet moins grave que celui de  certain eveque de Bdnevent et de quelques autres que  je ne veux pas nommer. — (L’auteur fait ici allusion  a 1’archeveque Giovanni .delia Casa et a son fameux  Capitolo dei forno ; mais il ne 1’avait probablement  pas lu, et il se meprend, comme bien d’autres, surle  sens de ce celebre petit poeme. — Note du Traduc-  te ur.)    68    SOCRATE    cTr;v atpeotv £tXcTr ( v ~t /ai Ste^pa^avxo x x X.  Si vero vitam vivant LICENTIOREM  et A PHILOSOPHIA ALIENAM, ean-  demque ambitiosam, forte aliqua in  ebrietate aut qua alia negligentia depre-  hensas INCAUTAS animas equi illi  uiriusque amatoris indomiti, eodem con-  ducant, et sic illam quce beata vulgo vi-  detur electionem faciant, et (turpe illud  facimts) peragant : eoque peracto per re-  liquum tempus utantur quidem (illa  voluptate ) sed raro, quippe qui non  omnino deliberata mente (sed deprehensi  velut incauti ) hoc agant — etiam hi  praemium non parvum amatorii illius  furoris (non Venerei, de quo modo dic-  tum, sed philosophi , de quo §. i3) aufe-  runt : in tenebras enim illas et illud sub  terram iter non veniunt, etc.    ET L'AMOUR GREC 69   voie avec quelle prudence et sans ap-  puyer la main, il decouvre cet ulcere de  la civilisation Grecque. — « S’ils embr as-  sent , dit-il, nn genre de vie moins austdre,  etrangbre a la Philosophie et livree aux  passions desordonnees , il arrivera quau  milieu de Vivresse ou de quelque autre  etourderie les coursiers indomptes sur-  prendront leurs ames et les meneront l’un  et l’ autre au meme but,' iis prendront alors  le parti de faire ce en quoi , selon le vul-  gaire , consiste le supreme bonheur et  (c’est la le crime infame) satisferont leurs  desirs. Dans la suite , iis renouvelleront  leurs jouissances , mais rarement, parce  qxCelles ne sont pas approuvdes de l’dme  entiSre et qu’ils agissent comme par sur-  prise et sans defense. C’est pourquoi ce  qu’il y a encore d’excellent dans leur  amour (le pur amour pliilosophique et  non le desir Venerien) recevra plus tard  sa recompcnse ; iis niront pas, aprds leur  mort, dans ces tenebres et par ces routcs  souterraines,.., etc. »    yo    SOCRATE    26. Apertum est his, qui et sermonem  Platonis intelligunt, et non ultro qucerunt  crimina, non illum prcemium constituere  pceder astice turpi, non Philosophice genus  facere flagitiosum puerorum amorem :  sed summam c.ulpce esse hanc , quod di-  cat, si qui coelestis illius pulchritudinis,  quam in volatu illo suo viderint, deside-  rio icti, etiam pulchros amant, et dum  arctius eos complectantur, liberius cum  iis versentur, etiam ad turpe facinus ab  ebrietate, certe ex improviso, incauti,  proster deliberatam voluntatem, abri-  piantur, id quod ipsis contingat ob genus  vivendi licentius atque a Philosophia alie-  num, iis tamen prodesse primum illud7'io-  biliusque philosophandi propositum, ut  non cum reliquis ad inferos mittantur,  et ad poenarum locum (vid. §. 12) non  cogantur post ternas millenorum anno-  rum periodos , septem alias subire ete  sed facilius alas ut recipiant, quibus evo-  lare ad coelestia, deum aliquem sequi du-  cem possint. Hactenus reprehendat Pla-  tonem, si quis volet, non ut laudatorem    et l’amour grec 7 1   26. II est bien clair, pour qui veut  comprendre Platon et ne cherche pas de  griefs de son plein gre, qu J il n’assigne  pas cette recompense aux fauteurs du  vice honteux, qu’il ne fait pas de 1’igno-  minieux amour masculin un attribut  special des Philosophes. On voit, au con-  traire, combicn il blame ceux qui, les  yeux encore eblouis de cette beaute ce-  leste entrevue par eux dans leur vol an-  terieur, con^oivent des desirs pour la  beaute terrestre, recherchent les jeunes  garcons, et a force de les embrasser etroi-  tement, devivre familierement avec eux,  se trouvent entraines a 1 ’improviste, au  milieu de livresse, par surprise et sans  que leur volonte y ait part, a conimettre  l’acte immonde; cela leur arrive, parce  qu’ils ont adopte un genre de vie trop  libre et qu’ils negligent la Philosophie.  Iis tirent cependant ce profit, de s’etre  d’abord propose pour but cette noble  Science, qu’ils ne sont pas relegues aux  enfers avec tous les autres hommes ; apres  une revolution de trois mille annees, iis    SOCRATE    7 2   Pcederastice, sed ut clementem nimis ,  lentumque adeo castigatorem : qui prae-  sertim in aliis peccatis severum satis ac  durum se praebuerit (1 ).    27 . Sed , si cequi esse volumus, si de  nostris religionum doctoribus ecquos ex-  periri judices, videamus etiam , quid dici  pro ratione illa Platonis possit , quid pro  Socrate, quatenus et ipse non horribili  flagello sectari vitia id genus solebat.  Distinguamus legislatoris personam et  Philosophi. Legibus Atheniensium primo  antiquissimis illis a Cecrope , sanctitas   (1) Bona pars libri De re publica decimi in eo  consumitur, ut a"apat~r]Tou?, a^apa[xu0rjTOU?,  implacabiles sacrificiis Deos, ostendant. Vid. pras.  a p. 6 72 extr. et conf. qua: collegit Davis. ad Gic.  de Legib. 2. c. j 6 . p. i 3 j    ET L’AMOUR GREC 78   n’ont pas a en su.bir sept mille autres;  iis recouvrent plus vite leurs ailes et peu-  vent s’elancer vers les spheres celestes, a  la suite d’un des douze dieux. Que l’on  reproche donc a Platon, si l’on veut, non  pas de s’etre fait 1’apologiste de la Pede-  rastie, mais d’avoir ete trop clement,  de ne pas chatier assez ferme, lui surtout  qui pour de moindres fautes se montre si  dur et si severe (i),   27. Mais soyons equitables; prenons  d’honnetes gens pour juges de nos Phi-  losophes, voyons ce que l’on peut dire  en faveur de Platon ou de Socrate, et  jusqu’a quel point ce dernier a vraiment  neglige de flageller le vice en question.  II faut distinguer le legislateur du Phi-  losophe. Les plus anciennes lois Athe-  niennes, celles de Cecrops, proclamaient  la saintete du mariage. La loi de Dracon    ( 1 ) II emploie la majeure partie du X® livre de sa  Republique a montrer que les dieux sont insatiables  de sacrifices. Comparez avec ce qu’a <5crit Davies  sur le Tr ciite des lois , de Cicerrr.i.    7    74 SOCRATE   matrimoniorum constituta : Draconis  lex capite plectebat adulteros : Solon li-  beram faciebat marito potestatem sta-  tuendi in adulterum in facto deprehen-  sum , quidquid liberet. Itaque mirum  fuerit si masculam libidinem non punis-  sent.   28. Sed bene habet : supersunt monu-  menta Solonis hac etiam de re legum,  diligenter collecta a Sam. Petito (de Le-  gibus Att. 6, 5 et in Commentario  p. 468 sqq.) prcesertim ex vEschinis in  Timarchum (a p. 186 edit. Aurei. Al-  lobr. 1607. /•) et Demosthenis contra  Androtionem (a p. 421) orationibus :  unde hoc constat, qui vi vel persuasione  ingenuum corrupisset, produxissetve,  gravissima poena (quce ad ultimum sup-  plicium corruptoris et productoris, in-  terdum etiam corrupti, poterat progre-  di) affectum esse. Qui illam patiendi pro  mercede turpitudinem admisisset, si  effugisset poenam aliam, illi neque lice-  bat inter novem Archontas esse, neque    ET LAMOUR GREC 7 5   punissait de mort les adulteres; Solon  laissait la faculte au mari, dans le cas de  flagrant delit, de se faire justice comme  il 1’entendrait. II serait bien surprenant  que ces deux legislateurs fussent muets  a l’egard de Tamour masculin.    28. Mais nous avons mieux ; il reste  des lois portees par Solon sur la matiere  divers fragments precieusement recueillis  par Samuel Petit (voy. ses Lois attiques  et le Commentaire dont il a accompagne  cet ouvrage); ii les a surtout tires du  Discours contre Timarque, d’Eschine, et  du Discours contre Androtion, de Demos-  thene. Il y est dit : Quiconque, memesans  violence, aura debauche ou prostitue un  homme de condition libre sera passible  de la peine la plus rigoureuse. — (Le cha-  timent pouvait etre la mort, dans l’un  comme dans Tautre cas, et pour le liber-  tin, comme pour savictime.) — C elui qui  se sera prostitue pour de l’argent, s’il  echappe a toute autre peine, ne pourra ni    SOCRATE    76   fungi sacerdotio, neque syndicum creari,  neque ullum magistratum vel intra vel  extra urbem, neque sortito neque suf-  fragiis, capere, neque pro Praecone s.  oratore mitti usquam, neque sententiam  dicere unquam, neque in templa publica  intrare, neque in pompa coronata et ip-  sum coronari, neque intra sacros fori  cancellos (evto; twv t rj; ayopa? TteptppavTT]-  P’'wv) ingredi. Si quis vero damnatus im-  pudicitiae quidquam horum fecisset, ca-  pital erat. 0avato> r7)[j.'oua0w sunt verba  legis ab As schine recitata. Plura huc  transferri opus non est , cum rarum esse  Petiti opus desierit. Summa capita habet  etiam in Themide Attica ( 1 , 6) Meur-  sius.    2 q. Utrum seynpcr valuerint istce le-  ges? annon eas perruperit interdum au-    ET L AMOUR GREC    77   etre l’un des neu f archontes , ni remplir  aucune fonction sacerdotale , ni etre nomme  delegue d’une ville ; il lui est interdii  d’exercer aucune magistrature, soit en  dedans , soit en dehors de la cite , quii  ait et e designe par le sort ou par les  suffrages de ses concitoyens ; d’etre en-  voyd nulle part comme Herault, ou comme  orateur ; de prononcer aucune sentence ;  de penetrer dans les temples publics; de  faire partie des processions et d’y porter  une couronne sur la tetc; de franchir  ienceinte sacree de l’Agora. Qiiiconque,  deja condamne pour fait de prostitutiori ,  fera ou acceptera de faire une de ces  choses sera puni de mort. Puni de mort,  tel est le texte meme de la loi lue par  Eschine. II est inutile d’en transcrire ici  davantage, car Touvrage de Samuel Petit  est loin d’etre rare ; Meursius en a meme  donne, dans sa Themis Attique, les cha-  pitres importants.   29. Ces prescriptions eurent-elles tou-  jours force de loi? Ne purent-elles etre    SOCRATE    7 8   dacia , astus subterfugerit , eluserint  rhetores? annon ipsa poenarum gravitas  impunitati occasionem non nunquam de-  derit? an non professce impudicitiae ho-  minis utriusque sexus, libidinum publica-  rum victimce, toleratce sint? An denique  poetce non multa saepe impudenter scrip-  serint, fecerint? jam non quceritur. Uti-  nam non avxtxatrjyopia quadam repellere  possent veteres Attici cujuscunque vel sec-  tae vel cetatis homines, si qui acerbius ex-  probrare iis velint, quce de Comicorum pe-  tulantia sublegerunt illi apud Athenaeum  (i3, 8 p. 601 ) Deipnosophistce, et quae  colligere ex illa parentum cura apud  Platonem (Conviv. p. 3ig, E), Pceda-  gogos constituentium suis filiis, qui ne  quidem colloqui suis cum amatoribus  (turpibus nimirum et flagitiosis) eos pa-  tiantur : e. i. g. a.    3o. Ceterum severitate legum eo ma-  gis opus erat, quod obtentum fiagitiis    et l’amour grec 79   enfreintes par les audacicux, adroitemcnt  tournees par les gens ruses, eludees par  les avocats ? La rigueur du chatiment ne  favorisa-t-elle pas elle-meme Timpunite ?  Est-ce qu’on ne tolera pas des prostitues  de profession, victimes de 1’incontinence  publique et remplissant le role de l’un et  1’autre sexe ? Les poetes n’ont-ils pas ef-  frontement deerit ces turpitudes, ne les  ont-ils pas mises en action sur la scene ?  Cela ne fait aucun doute. Plut au ciel  que les Atheniens de nfimporte quelle  secte et de quelle epoque ne pussent re-  tourner Taccusation a ceux qui leur re-  procheraient trop vertement ces horreurs  etalees par les poetes comiques et recueil-  lies par les Deipnosophistes d’Athenee, ou  ce qu’on peut induire de 1’inquietude des  peres de famille confiant leurs fils, d’apres  Platon, a des precepteurs severes, pour  les empecher de s’entretenir avec leurs  amis, — des amis infames et detestables.   3o. Les lois devaient etre d’autant plus  severes, que les coutumes de la Grece    8o    SOCRATE    non nunquam praeberet (ut nempe res  sancta ? prope omnes , ut ipsce populorum  sceculorumque pene omnium religiones ,  atque ceremonice) ille puerorum amor ,  castus , legitimus, sanctus, quo tanquam  potentissimo virtutis cum bellicce tum  civilis incitamento utebantur qucedam  Grcecorum respublicce : quarum legisla-  tores, cum viderent, ignava fere esse  virtutis prcecepta, firmis licet nixa de-  monstrationibus, nisi ea affectu quodam  et tanquam spiritu animentur, nisi ev0ou-  aiaajxou quoddam genus accedat, quo acti  homines et commoda sua , et jacturas, et  salutem, et pericula et tormenta contem-  nerent. Hinc excogitata et in usum  civitatis recepta sunt splendida ista et  efficacissima remedia, Religio, Pudor,  Amor patrice, Gloria, res quondam po-  tentissimce, quod ex illarum effectibus  judicare pronum est: nunc prceclara quo-  rundam, qui sibi Philosophi videntur,  opera fere ad inanium vocabulorum stre-  pitus relata, et, dum relata sunt, etiam  redacta.    ET l’aM0UR GREC    8i    ( comme toutes les choses saintes, comme  les cultes et les ceremonies religieuses de  presque tous les peuples et de tous les  temps) donnaient plus de facilite a la  depravation. La fervente amitie entre  jeunes gens, Tamitie chaste, legitime, sa-  cree, etait favorisee, dans les republiques  de la Grece, comme le plus energique  stimulant du courage militaire et des ver-  tus civiles. Leurs legislateurs savaient  bien que ni la vertu ni le courage ne s'in-  culquent a 1’aide de demonstrations, si  bonnes qu’elles soient ; que 1’homme est  naturellement faible a moins qu’il ne soit  pousse par la passion et par 1’orgueil ou  entraine par cette espece d’enthousiasme  qui lui fait mepriser les aises de la vie, la  fortune, la vie elle-meme, et affronter les  perils et les supplices. C’est pourquoi l’on  mettait en jeu, dans Torganisme de la cite,  ces heroiques et sublimes mobiles, la Re-  ligion, 1’Honneur, 1’Amour de la patrie,  la Gloire, mobiles autrefois bien puis-  sants, comme nous pouvonsen juger par  ce qu’ils firent accomplir; aujourd’hui,    82    SOCRATE    3 i . In illis igitur rei publicce bene ge-  renda? incitamentis, an instrumentis?  erat Amor ille adolescentulorum tum in-  ter se, tum inter ipsos et natu majores :  inde illa sacra Amantium cohors The-  bis, et Cretensium. Quanta illius vis  esset, et quam metuendus esset miles  amator, svOouatwv, et ab Amore simul  atque a Marte bacchans, occurenti in  prcelio hosti, ita enarrat 2E liantis (H.  V. 3 , g) ut IvOo-jatav et furere ipse prope  videatur. Idem (c. io et 12) Laconica  qucedam circa eam disciplina? publica?  partem instituta commemorat : V. G.  ab illis multatum esse virum alioquin  bonum, ea de causa , quod nullum ha-  bere juniorem, quem amando sui si-  milem, et per hunc forte etiam alios,  redderet : itemque peccantis adoles-  centuli virum amatorem punitum , cui    83    ET l/AMOUR GREC   grace a de certains Philosophes, ou soi-  disant tels, ces grandes choses ne sont plus  que de vains mots, creux et vides, dont le  sens s’affaiblit a mesure qu’on en abuse.   3 1 . Ainsi, 1’Amour des jeunes gens, soit  entre eux-raemes, soit entre eux et leurs  ames , etait favorise partout en Grece ,  pour le bien de la chose publique ; voila  ce qui donna naissance a la cohorte sa-  cree des Amants , chez les Thebains et  chez les Cretois. Quel etait le courage de  ces sortes de soldats, quelle etait la ter-  reur qu’ils inspiraient, lorsqu’ils rencon-  traient Tennemi, ivres a la fois d’amour  et de sang : c’est ce que Elien nous a fait  connaitre, en partageant, pour nous les  mieux depeindre, leur impetuosite et  leur fureur. II nous indique aussi qu’il  y avait quelque chose de semblable dans  les institutions de Sparte ; un Lacede-  monien fut mis a 1’amende , quoique  excellent citoyen, pour avoir neglige d’ai-  mer quelque compagnon plus jeune que  lui, a qui il aurait inculque ses vertus et    SOCRATE    84   nempe illius imputari vitia posse cen  serent.    32 . Etiam illud Laconicum narrat , so-  litos ibi adolescentulos petere ab ama-  toribus , viris nempe bonis ac fortibus ,  stareveTv auTot ?, ut se adflarent. Interpreta-  tur illud verbum , Laconibus proprium,  sElianus per epav, amare : idem factum  ab Hesychio V. sp.-v£ Tjj-ou, et epa, eia7cver.  Multa similia ad utrumque Hesychii  locum viri docti , post Meursium (Mis-  cell. Lac. 3 , 6 ) sed nihil, unde ratio ap-  pellationis queat intelligi. Nec satisfacit,  quod refert, non probat Eustathius (ad  Odyss. A, 36 1 p. 1743 et ad E, 478  p. 240, 38 ) EtarevElxai yap tpaat, t 7j? pLOp^?  ti /at x i); wpa;, inspirari aliquid fornice et  pulchritudinis. Hcec enim Laconicce se-  veritati parum conveniunt, si fides anti-  quis, ipsique adeo JEliano in ipso illo,  de quo agimus , loco. Srap-ctaTT)? epio; ata-    ET LAMOUR GREC    85    qui eut ete capable, a son tour, de les  transmettre a d’autres. Lorsqu’un jeune  homme commettait une faute, les Spar-  tiates punissaientson intime ami, comme   responsable des vices qu’il lui tolerait.   /   32. Elien rapporte encore cette autre  coutume de Sparte, que les jeunes gens  exigeaient de ceux dont iis etaient aimes,  toujours choisis parmi les meilleurs et les  plus braves, ut se adflarent. II explique  le verbe ekjttvs Tv ( adflare ), propre aux La-  coniens, par cet autre : spav (aimer), et He-  sychius de meme aux mots EpjcvEtgou, ipS  et eiu7iveT. Divers savants ont accueilli cette  interpretation, a 1’exemple de Meursius;  mais je n’ai rien compris aux raisons  qu’ils en donnent. Je ne suis pas davan-  tage satisfait de Tassertion emise, sans  preuve, par Eustathe, dans son commen-  taire des chants IV e et V e de YOdyssee :  a Les inspires (i) sont guides dans leur    (i) On appelait indifTeremment ItaKVETxat, ii a-  7UvrjXa' (inspires) ou spacjiat (amants) ces couples   8    86    SOCRATE    ypov oux otosv x. t. X. Spartanus amor  turpe nihil quidquam novit. Sive enim  ausus fuerit adolescentulus pati turpia  (upo-v uzoaeivat) sive amator facere (£»|Bp6  oat) neutri quidem Spartee manere pro-  fuerit : aut enim patria privarentur, aut  vita ipsa. Quare illud ela-vetv s. s[j.7ivsTv,  illos £ta7iVTjXa;, quos eosdem aixa? vocat  Eustathius (Hesych. afcav, s-aTpov) ab in-  spirando s. adspirando divino quodam  spiritu, dictos arbitror , unde afflati, ut  7rveuu.atocpo'poi quidam et svOouaiwvTsc, divi-  no quodam furore perciti , ruerent. Hic  est ille furor, quem supra i3) tetigi-  mus, et de quo plura sunt in Platonis  Phcedro (p. 344, A. 346, A. 352, E).  Nempe spiritum 7iveSp.a quum dicebant an-  tiqui, non rem illi tantum cogitantem in-  dicabant, sed rem subtilem, magna ean-  dem movendi et agendi vi praeditam, etc.   de friires d’armes , si terribles dans les batailles.  'Etcnvelv (ad/lare) peut se traduire positivement  par meter les souffles ou metaphoriquement par  avoir des aspirations communes. ( Note du Tra-  ducteur.)    ET l’aMOUR GREC 87   choix par la beaute et 1’elegance corpo-  relle. » Cela me parait peu convenir a  cette severite Laconienne dont temoi-  gnent tous les anciens et Elien lui-meme,  a Tendroit en question : « On ignorait a  Sparte ce que detait que les impures  amours. Si quelque jeune homme eut ose  se prostituer , ou prendre 1’autre role, il  lui eut mal reussi de rester d Sparte; il  y allait pour lui de Vexilou de la mort. »  C’est ce qui me fait croire que ces inspires ,  designes aussi sous les noms de compa-  gnons, freres d’armes, par Eustathe et  par Hesychius, etaient ainsi appeles du  souffle ou de Tesprit en quelque sorte  divin qui les animait, lorsqu’ilsse ruaient  sur l’ennemi comme transportes d’une  fureur plus qu’humaine. Nous avons deja  parle de cette espece de delire, dont il est  si souvent question dans le Phedre de  Platon. Il convient en effet de remarquer  que les anciens n’entendaient pas comme  nous par esprit une faculte intellectuelle,  mais une essence subtile, douee d’une  grande forcc de mouvement et d’action.    88    SOCRATE    33. Non vagatur hcec extra oleas ora-  tio. Cum enim fuerit , quod, adhuc proba-  tum est, in Grcecia r.aiozptxizv.a. quaedam  honestissima, et sancta adeo , qua ad virtu-  tem, bellicam praesertim , et quidquid pul-  chrum est, incitari homines crederentur,  cum nomina spojvuo?, Ipaaxou, raioapaaxou,  itemque spwuivoy, -atot/.wv, et similia tur-  pitudinem nondum haberent : cum illud  raiSspaaxsTv res esset adeo honesta, ut quem  ad modum capital Romae erat servo, si  militarat, ita Solonis lege multaretur  quinquaginta plagis publice, qui servus  eXsuOspou 7ra'oo; spav, amare liberum pue-  rum, auderet : haec ita se cum haberent  omnia, nemo jam debet mirari, adoles-  centulorum esse amorem professum So-  cratem, fecisse illum, quae ante (§. i5)  dicta sunt, eaque scripsisse tanquam So-  cratis dicta Platonem, quae ex Phaedro  commemoravimus . Quod mitior est vel  Plato, vel ipse adeo Socrates, (si quis ei  tribuat, non satis ille quidem aequa ratio-  ne, quidquid apud Platonem ex ipsius  persona dictum ponitur) in hos etiam quos    ET L’AMOUR GREC 89   33. Cette digression ne nous a pas  eloigne de notre sujet. Puisqu’il existait  en Grece , comme nous venons de le  prouver, une jcatBspao-rfta tres-honnete ,  sainte, on peut dire, et reputee propre a  pousser les hommes au bien et a la vertu,  surtout a la vertu guerriere; puisque les  mots d’amants, d’amis, de 7tad>epa<jTcu et  de 7:aioi7.wv n’avaient rien de honteux ;  puisqu’il etait meme si honorable de se  livrer a cette zcaSspaardtix, que la loi de  Solon punissait de cinquante coups de  fouet, subis en pleine place publique,  tout esclave qui aurait ose aimer un jeune  homme de condition libre; puisque tout  cela est irrefutable, personne ne doit s’e-  tonner que Socrate ait professe 1’amour  des j eunes gens, qu’il ait lui-meme eprouve  cet amour et agi en consequence; que  Platon nous ait transmis, comme l’ex-  pression des doctrines de Socrate, ce que  nous avons cite du Phedre. Sans doute  Platon ou, si l’on veut, Socrate, quoiqu’il  ne soit pas equitable de lui attribuer tout  ce que son disciple lui fait dire, se montre    SOCRATE    90   mala libido ad turpitudinem transversos  abripuit 25 . 26) illud primo hanc  rationem , ut innuimus , habuit , quod nec  legislatorem hic, neque publicum accusa-  torem ageret ; sed Philosophum , sed  amatorem, amicum certe quidem, qui  non metu pcence deterrere a turpitudine  homines, sed virtutis amore revocare a  peccato vellet. Deinde erant forte, quibus  parcendum erat, juvenes a vitiis ejus-  modi non plane puri, Alcibiades , Critias ,  alii, 9[Xox''[j.o) illi quidem sed eadem «popti-  ■/Mxipcc et dcfikoaofM otattr) yprjaajxsvoi (vid.  §. 25 ) quos abscisse nimis ab omni fructu  Philosophice, ab omni ad virtutem reditu  excludere velle, et sic plane a se et a  virtute segregare, non erat consilii. Non  instituam hic comparationes, quce invi-  diam habere possunt : sed illud addam  unum, si forte aliquid veri sit ineo, quod  de liberiori Socratis adolescentia dictum  est /'§. 2) : si non mendax historia , e qua  refert Origenes contra Celsum , qui su-  periorem vitee conditionem primis Chris-  ti discipulis objecerat (l. 1. p. 5 o. pr.)    ET L AMOUR GREC    9 1   beaucoup trop clement envers ceux qu’un  infame desir pousse a Tacte honteux. Son  excuse, nous Tavons deja dit, c’est que ce  n’est pas ici un accusateur public ou un  legislateur qui parle, c’est un Philosophe,  un ami, un amant, et il essaye non de  detourner les hommes du vice en les ef-  frayant par la menaee des chatiments,  rnais de les dissuader d’une faute en leur  inculquant Tamour de la vertu. II y avait  d’ailleurs peut-etre autour de lui des  jeunes gens qui n’etaient pas irreprocha-  bles et envers lesquels il ne fallait pas se  montrertrop dur, un Alcibiade, un Cri-  tias, d’autres encore, pleins de fougue,  adonnes a une vielicencieuse et etrangere  a la sagesse; les priver de quelques-uns  des benefices de la philosophie, c’eut ete  leur fermer toute voie de retour au bien,  les eloigner de la personne du maitre et  par consequent de la vertu. Je ne cherche  pas a faire des comparaisons qui pour-  raient sembler malseantes; je veux ce-  pendant rapporter un fait, vrai ou faux,  qui a traita la jeunesse un tant soit peu    SOCRATE    9 2   Phcedonem e lupanari traductum ad  Philosophiam a Socrate : quid facere  illum oportebat in hac disputatione?    34. Nihil igitur est in Phcedro , quod  urgeat Socratem : si quid incautius dic-  tum sit , illa Platonis culpa fuerit : quam-  quam si universam circumstantiam , ut  a nobis ostensa est , quis consideret , etiam  hunc accusare , vel non excusare, ini-  quum videtur. De Convivio Platonis jam  non opus est multis disputare. Distin-  guat mihi aliquis personas loquentes : ad  universam libelli descriptionem, quam  vocamus CEconomian, ad Allegorian  denique ab amore Venereo ductam , ac  translatam ad animos, quorum lenonem  se et obstetricem ferebat Socrates : ad  hcec, inquam , mihi attendat aliquis, et    et l’amour grec q3   dereglee de Socrate. C'est Origene qui le  raconte dans son traite contre Celse.  Celse reprochait aux premiers disciples  du Christ d’avoir ete tires de conditions  abjectes; Origene repondit que Socrate  avait bien tire Phedon d’un mauvais lieu  pour le convertir a la Philosophie. J e vous  demande un peu ce que ce Phedon venait  faire dans la discussion.   34. On ne rencontre donc rien dans le  Phedre qui puisse incriminer Socrate; s’il  y a ca et la quelques paroles imprudentes,  c’est la faute de Platon. Encore, si l’on  examine bien toutes les circonstances,  comme nous 1’avons fait, il serait injuste,  tout en blamant Platon, de ne pas lui  trouver d’excuse. Nous ne nous etendrons  pas longuernent sur son Banquet. Que  l’on distingue bien les uns des autres les  interlocuteurs, que Fon fasse attention  a 1’ensemble du dialogue, a ce que nous  appelons 1’economie de 1’ouvrage, que  Fon analyse enfin cette allegorie tirce  de 1’amour physique, puis appliquee aux    94    SOCRATE    mirabor, si quid ibi sit , unde Jiagitio  ipsi praesidium, vel crimini in Socratem  jactato firmamentum peti possit. Sed est  in illo libro, quod maxime ad defenden-  dum a Socrate fagitium pertinet, quod  ut magis pateat, tota ultimee partis, et  velut actus postremi fabulae illius convi-  valis, CEconomia proponenda est, e qua  ipsa appareat, velle pro veris haberi Pla-  tonem, qua ’ in Alcibiadis personam con-  jecta de Socrate dicuntur.    35. Ebrius nempe Alcibiades ad eum  finem, ut neque pedes officium faciant,  comissator supervenit potantibus apud  Agathonem Socrati ceterisque. Hic, ex  lege compotationis , dextrum sibi accum-  bentem Socratem laudare jussus, obse-  quitur cum professione ebrietatis, ut  tamen (p. 332, G) vera se dicturum con-  firmet et redargui petat , si quid mentia-  tur. Ac primo sub imagine quadam lau-    et i/amour grec 9 5   idees, dont Socrate se donnait comme  l’entremetteur et Taccoucheur, et je serai  bien surpris si 1’on y decouvre quoi que  ce soit en faveur du vice infame ou a  1’appui de 1’accusation portee contre So-  crate. On pourra y puiser, au contraire,  les meilleurs arguments pour l’en defen-  dre ; mais il est necessaire d’exposer ici  toute 1’ordonnance de la derniere partie,  ou plutot du dernier acte de ce dialogue,  ou il est clair que Platon veut nous faire  tenir comme vrai ce qu’il a place, tou-  chant Socrate, dans la bouche d’Alci-  biade.   35. Alcibiade arrive a la fin du festin  dans un tel etat d’ivresse que ses pieds  refusent de le porter; il veut prendre sa  part de plaisir avec Socrate et les autres,  en train de boire chez Agathon. La, par  suite d’une convention adoptee entre les  convives, il est force de faire 1’eloge de  Socrate, assis a sa droite, et demande  de 1’indulgence, en se fondant sur ce  qu’il est ivre ; il affirme pourtant qu’il ne    SOCRATE    96   daturus Socratem , cum Sileno aliquo  (Conf. §. 18 J nominatim cum Satyro  Marsya , tibicine , illum comparat, cujus  figura, ex ligno, edolata ruditer atque  deformi, utebantur artifices pro theca,  quce intus haberet pulcherrimum aliquem  Mercuriolum (p. 333, F) : scilicet in  corpore deformi habitare animam pul-  cherrimam demonstrat : et esse tibicini  Marsyce similem Socratem, ob illam  vim demulcendi animos, cui resisti non  posset.    36. Deinde narrat, cum eundem pul-  chrorum sectatorem quendam ct capta-  torem videret, se, qui fiduciam fornice  haberet, sperasse, si pellicere virum ad  amorem sui (venereum nempe) posset,  eique se prceberet obsequiosum, impetra-  turum se ab illo admirabilem illam ar-  tem, et ablaturum, quce Socrates sciret,  omnia. Hinc narrat verbis quidem ho-  nestis modestisque , ct tamen venia ante    ET LAMOUR GREC    97   dira que la verite et exige, s’il se trompe,  qu’on lui donne un dementi. II com-  mence, pour louer Socrate, par le com-  parer a ces grossieres figures de bois  representant Silene ou le satyre Mar-  t syas, le joueur de flute, sculptees sans  travail et sans art, dont les statuaires se  servaient comme de gaines, et qui rece-  laient a 1’interieur quelque joli petit Mer-  cure ; ainsi, dit-il, dans un corps difforme  peut habiter une belle ame; de plus, So-  crate ressemble au joueur de flute Mar-  syas en ce qu’il a, pour charmer, une force  a laquelle nui n’est en etat de resister.   36. II raconte ensuite que le voyant  s’attacher a la poursuite des beaux ado-  lescents et s’efforcer de les prendre dans  ses filets, plein de confiance en sa beaute  parfaite, il avait essaye de lui inspirer de  1’amour, comptant bien qu’avec un peu  de complaisance pour ses desirs il obtien-  drait de lui qu’il lui communiquat son  admirable science, et qu'il gagnerait a  cela tous les talents de Socrate. Alcibiade    9    SOCRATE    98   exorata ebrietati , et pro? fatus (p. 334 ,  C) uti servi aliique profani aures obtu-  rent (zuXa<; 7: avo [xEyaXai xot; walv £7ri0E<?0s)  quam varie, et quibus veluti gradibus,  frustra continentiam Socratis, temperan-  tiamquefrecte fortitudinis hic nomen adji-  cit) tentarit. Summam facit hanc, (p.  334 , G) ut Deos Deasque testes faciat,  se cum totam noctem sub eadem veste  cum Socrate jacuisset, non aliter ab  illo, quam ut filium a patre, aut a fratre  majori frater deberet, surrexisse. Itaque  se frustratum spei esse in homine, quem  hac sola forte parte capi posse putasset.    3y. Enumeratis deinde aliis Socratis  virtutibus, bellica prcesertim , qua sibi  etiam vitam servarit, addit, non se tan-  tum contumelia tali ab eo affectum , sed  Charmiden etiam , Euthydemum et    et l’amour grec gg   place ici , mais en termes honnetes et  mesures, quoiqu’il se soit excuse sur son  ivresse et qu'il ait recommande aux es-  claves et aux profanes de se boucher les  oreilles, le recit des gradations savantes  et de tous les stratagemes vainement mis  en oeuvre par lui pour induire en tenta-  tion la continence, la temperance ou plu-  tot, comme il le dit fort justement, l’he-  roique fermete de Socrate. II conclut en  disant : Je prends les dieux et les deesses  d temoin quapres avoir repose toute une  nuit d cote de Socrate, et sous le meme  m ante au , je me levai d'aupres de lui tel  que je serais sorti du lit de mon pere ou  de mon frere aine. Ainsi, le seul point  par lequel il croyait que cet homme fut  accessible avait tout a fait trompe ses  esperances.   37. Apres avoir ensuite enumere les  autres vertus de Socrate et appuye sur sa  valeur guerriere, a laquelle il etait lui-  meme redevable de la vie, il ajoute qu’il  n’est pas le seul, du reste, a qui Socrate    100    SOCRATE    alios multos, quos ille amoris simulatione  deceptos in potestatem suam redegerit ,  ou? oiito; s^aTCatojv w; IpaartT)?, Tuatoty.a piaXXov  autos -/.aOiaTa-ai avi’ epaotou. Nempe adu-  labantur vulgo amatores , certe qui turpe  quid spectarent , pueris aetatula sua et  illa ipsa adulatione superbientibus. Alia  ratio Socratica , quae etiam supra (§. 6)  in Lysidis argumento declarata est. Sua-  vissima sunt reliqua in Symposio Plato-  nis : eo autem referuntur omnia , ut in-  telligamus Socratis hanc fuisse consue-  tudinem . , pulchrorum amorem uti prae se  ferret , cum illis suaviter et amice ut  versaretur, ut virtutis illos amore im-  pleret , reliqua omnia non tanti esse os-  tenderet , in quibus valde sibi elaboran-  dum vir sapiens existimaret.    38. Sanctus ergo Paederasta Socrates ,  et foedissimi , si quod usquam est , crimi-    ET L AMOUR GREC 101   ait fait un tel affront; que pareille chose  est arrivee a Charmis, a Euthydeme et a  bien d’autres qu’il avait feint d’aimer  tendrement, pour mieux les asservir et  les diriger. Les amis vulgaires, ceux sur-  tout qui esperaient de honteuses com-  plaisances, se faisaient les flatteurs des  jeunes garcons, et ceux-ci n’en etaient  que plus fiers de leur beaute. Autre etait  la methode Socratique, comme nous l’a-  vons montre plus haut en exposant le  sujet du Lysis. Ce qui suit, dans le Ban-  quet de Platon, est charmant ; tout aboutit  a nous montrer que telle etait la coutume  de Socrate de rechercher les bonnes gra-  ces des jeunes gens que distinguait un  exteneur gracieux, et de vivre avec eux  dans une douce et agreable intimite, afin  de leur faire aimer la vertu; ce point  obtenu, il jugeait facile de leur donner  les autres qualites qu’un sage doit s'ap-  pliquer a acquerir.   38. Ainsi, Socrate n’avait pour la jeu-  nesse qu’un amour chaste ; il etait pur du    9 -    I 02    SOCRATE    nis expers : a quo etiam alios avocare  studuit , quod Critice exemplo docet  Xenophon, ejus, qui post in triginta  tyrannis fuit , quem Euthydemi pudori  insidiari cum sentiret , utxov ti Tiaay eiv  dixit, suillo more prurire, eaque re ini-  micitias hominis factiosi et potentis sibi  contraxit; quibus carere poterat , nisi  potius fuisset officium.    3g. Sed admonet me Xenophon de  crimine alterius illo quidem generis, et  multo, ut in malis, tolerabiliore : quod  tamen ipsum etiam in illo adhaerescere,  quantum in me est, non patiar. Accusa-  tur, ut naturalis quidem , sed malce ta-  men libidinis suasor et leno quidam,  propter ea quce referuntur in Xenophon-  tis Convivio (c. 7 et g). Sed nec ibi quid-  quam est, cujus bonum Socratem, aut  illius amicos pudere debeat. Spectacula  exhibentur convivis mirabilia , partim    ET LAMOUR GREC    io3    vice infame entre tous. Bien mieux, il  s’efiforcad’en detourner lesautres, comme  Xenophon nous 1’apprend par 1’exemple  de Critias. Ce disciple de Socrate, devenu  par la suite l'un des Trente tyrans, avait  voulu attenter a la pudeur d’Euthydeme ;  lorsque son ancien maitre Bapprit : II a  le prurit du porc{ i), s’ecria-t-il ; paroles  qui lui attir£rent 1’animosite d’un homme  puissant et redoutable, ce qu’il lui eut  ete facile d’eviter, s’il n’avait mieux aime  faire son devoir.   3g. Mais Xenophon me fait songer a  une autre accusation qui a ete egalement  portee contre Socrate ; quoique moins  grave, elle n’en est pas moins facheuse,  et je l’en disculperai de toutes mes forces.  On lui reproche, a 1’occasion d’un inci-  dent rapporte par Xenophon, dans son  Banquet , d’avoir excite ses disciples a la  debauche, ce qui serait pernicieux encore,   (i) Concupiscit ad Euthydemum se affricare  quemadmodum porcelli solent ad saxa (Xeno-  phon, Memorabilia).    1 04    SOCRATE    etiam periculosa , et horrorem quendam  spectantibus moventia , inter districtos  gladios corpora saltu jactantium , aut in  figuli rota circumacta scribentium le-  gentiumque. Non placent ea Socrati, qui  aptius convivio spectaculum putat ipyjln-  Gat r.poc, tov auXov T/rJijiaTa, Iv oi; Xapixe; ts  •/.a't Qpat, xa\ Niifxcpat ypstaovtai, ad tibiam  edi motus et saltationes, eo habitu, quo  Gratiae, Horae, Nymphae a pictoribus  exhibentur.    Forte suspectum alicui fuit hoc quod  Gratice nuda; pingi solent. Sed huic sus-  picioni repugnat , quod dicitur Ariadne  illa saltatrix w; vop-sr, xcy.ocju.rjU.svr,, sponsce  autem profecto apud Grcecos nudce esse    ET L AMOUR GREC 105   bien qu’i.1 s’agisse ici de plaisirs confor-  mes au vceu de la nature, et de s’etre fait,  en quelque sorte, entremetteur. II n’y a  rien, dans ce passage, dont doivent rougir  1’honnete Socrate et ses amis. Des mimes  viennent d’executer devant les convives  toutes sortes d’exercices extraordinaires,  quelques-uns tres-dangereux et propres  a donner le frisson aux spectateurs; on  a vu les uns presenter leurs poitrines, en  sautant, a des pointes d’epees rangees en  file ; d’autres lire ou ecrire enfermes dans  une roue de potier mise en mouvement.  Ces exercices deplaisent a Socrate ; il  pense qu’il serait plus convenable, au  milieu d’un festin, de voir des danseuses  executer des poses, au son de la Jlute,  sous le costume que les pcintres pretent  d’ ordinaire aux Graces, aux Heures et  aux Nymphes.   Cela a pu paraitre suspect parce qu’on  a coutume de representer les Graces  toutes nues. Mais ce soupcon ne repose  sur rien, car la danseuse qui parut  alors, habillee en nymphe, representait    SOCRATE    I Ob   non solebant : nymphae in insectis ab  eo ipso dicta?, quod involuta? sunt. Gra-  tias decenter vestitas contemplari licet  in Grcecis monimentis apud Montfauc.  Ant. Expl. To. i Tab. iog ad p. ij6.  Movit forte eum, qui primus crimen  hinc excerpsit Socrati, a/r^a-coiv appel-  latio, qua? inter alia ad turpes figu-  ras refertur , quales olim Philcenidis et  Elephantidis commendatas libellis fuisse  constat (i), ut hic ejusmodi impudens  spectaculum suspicaretur . Sed tum inter-  jecta de amore disputatio ( 2 ) (c. 8) tum  ipsa perfectio exsecutioque consilii (c.  g) suspicionem illam eximunt. Aguntur  Ariadnes et Bacchi nuptice,sed illa ut in  scenam nihil veniat, pra?ter oscula et   (1) De quibus Spanhem. de usu et Praest.  numism. Diss. i 3 . p. 522 . sq. Hic ay 7 jfi a est  omnis gestus saltantium blandus, minax, derisor.  Vid. Lucia. de Saltat, c. 18. T. 2 p. 278 in  primis c, 36 . extr.   (2) Apertior, simpliciorque , et incautior adeo  Xenophontis de his rebus oratio , quam Plato-  nica : sed cujus summa eodem pertineat, uti ab  impura libidine ad sanctam animorum conjunc-  tionem homines revocentur.    F.T L^AMOUR GREC IO7   Ariadne, et les Grecs ne permettaient  pas le nu dans les roles de femmes  mariees. D’ailleurs, certains insectes  imparfaits sont appeles nymphes pre-  cisement parce qu’ils sont enveloppes.  On peut voir aussi, dans YAntiquite' ex-  pliquee de Montfaucon, que les Grecs,  meme sur leurs monuments, figuraient  les Graces decemment vetues. Celui qui  le premier a lance contre Socrate cette  accusation s’est peut-etre effarouche du  mot pose, qui, entre autres, est applique  a des images obscenes, du genre de celles  qu’on rencontrait dans les livres de Phi-  laenis et d’Elephantis (i); il a soupfonne  Socrate d’avoir reclame un spectacle lu-  brique. Or, ladiscussion surTarnour qui  intervient alors ( 2 ), 1’execution et l’ache-   (1) Spanheim (De prostantia et usu numisma-  tum antiquorum) parle de tout cela. On appelait  poses toute esp6ce de geste lascif, provocant ou  railleur, des mimes. ('Comparez Lucien, De la  Danse, ch. XVIII.)   (2) Le dialogue de Xenophon est bien plus franc,  bien plus simple et bien moins circonspCct que celui  de Platon ; tous les deux d’ail!eurs vont au meme    io8    SOCRATE    amplexus , cetera reservantur postsce-  niis (i).    but, qui est de detourner les hommes des plaisirs les  plus impurs et de les rapprocher dans une sainte  communion des ames.    (r) Tales saltationes s. repraesentationes etiam  pars sacrorum erant. Apud Lucia. in Pseudom.  c. 38 . To. 2 p. 244 xsXsx7]'v xtva cuvtaxaxat  Alexander , xai SaStyta?, xat tepocpavxta; —  In his mysteriis et sacris etiam est KoptoviSo?  yapto; cum Apolline — item riooaXstpiOU xai  pLTjTpo; AXs^avSpou yauo; — denique SsXrJvr^  xai AXs^avBpou spto? — Alexander ut Endymion  alter xaOsuSwv exsixo sv xw piato — cptXrjtxaxa  xs eytyvovxo xat ~£pt~Xoxa\, st 8s ar t r. oXXat  iqaav at 8a8ss, xay’ av xt xat xwv utco xoXtcou  sjxpaxxsxo. Apposui locum , quia hic etiam  7t$pt7tXoxa'i, et tamen nihil obscenum.    ET l’aMOUR GREC IO9   vernent immediat du divertissement qu’il  avait demande, enlevent toute force a  cette conjecture. Les mimes representent  les noces d’Ariadne et de Bacchus : mais  on ne voit rien de plus sur la scene que  des baisers et des etreintes amoureuses ;  le reste se passe derriere le rideau (i).   ( 1 ) Ces sortes de danses et de reprdsentations  faisaient partie des Myst6res. Dans lM lexander seu  Pseudomantis, de Lucien, on voit Alexandre, in-  troduit comme nouvel initii, passer par les 6preuves  du dadouque et de l’hi<5rophante. Parmi les scenes  religieuses auxquelles cette initiation donne lieu  figurent : les noces d’Apollon et de Coronis, celles  de Podalirius et de la mere dAlexandre, enfin les  amours d’Alexandre et de la Lune. « Alexandre,  comme un autre Endymion, etait couchd au milieu  du theatre; on dchangeait des caresses et des bai-  sers. S’il n’y avait pas eu D des torches en quan-  tite, peut-etre bien qu’il se fut laiss6 entrainer a  faire qucedam earum quce sub veste Jieri solent. »  Cest un peu ldger ; cependant il n’y a rien la de bien  obscene.   — Gesner aurait du citer Lucien plus complete-  ment ; ce passage du Pseudomantis offre un tableau  de genre exquis : « Alexandre, comme un autre  Endymion, etait couche au milieu du thdatre, faisant  semblant de dormir. II tombait de la voute, comme du  ciel, une certaine Rutilia, tr£s-jolie, qui jouait le  role de la Lune et qui dtait la femme d’un intendant  de 1'einpereur. Elie aimait vraiment Alexandre et    10    I IO    SOCRATE    40 . Finem et effectum negotii ita indi-  cat Xenophon : teXo; 0 i ol <jup.7ioToci ’.oovte;  T:ept6e6Xr]xdT:a; ts aXXrjXou c xai oj; et; euvrjv    aTr-.ovTa:, 01 (j.r,v ayauoi yaixetv £zw[xvuaav, 01  oe ysyap-rixoTec, ava 6 xvc£; Ijci xou; ? 3 C 7 COUS, a-rj-  Xauvov Tipo; xa; lauxujv yuvaTxa;, otim; xojxojv  xuy otsv . Tandem post blanditias quasdam ,  verecundas, maritales, complexi se invi-  cem sponsus et sponsa , i. e. manibus  implexis, vel brachiis mutuo cervici im-  positis, vel tergo circumjectis , velut  cubitum discedunt : ab hoc spectaculo  incalescentes , et ut paullo ante dicebat,  av£7iTEpo)|jiivoi (vid. no. ad §. i5) convivae  caelibes dejerant, se ducturos esse uxo-  res ; mariti autem equis conscensis domos  festinant, ut simili voluptate et ipsi  fruantur. Utinam vero e spectaculis et  theatris hodie ita discederetur ! utinam  Socratis hac parte disciplinam sequeren-  tur publicarum Voluptatum Tribuni.  Talia spectacula edere debebant Romani    eu 6tait aimee. Sous les yeux de son propre mari,   iis echangeaient des caresses et des baisers »   (Note du Traducteur.)    ET L’AMOUR GREC    l I I    40. Xenophon indique de la maniere  suivante la fin et les resultats de l’his-  toire. Apres toutes sortes de caresses  honnetes et maritales, les deux epoux se  tenant embrasses, c’est-a-dire, je pense,  les mains entrelacees ou les bras pas-  ses mutuellement soit autour du cou,  soit autour de la taille, s’eloignerent  comme pour aller se coucher. Echauffes  par ce spectacle et se sentant de furieu-  ses demangeaisons, comme s’il leur pous-  sait des ailes , les convives encore celiba-  taires /irent le serment de ne pas tarder  a prendre femme ; les maris monthrent a  cheval et se haterent de regagner le lo-  gis, pour gouter d leur tour de sem-  blables voluptes. Plut au ciel qu’aujour-  d’hui on quittat les spectacles et les  theatres dans de si bonnes intentions !  plut au ciel que cette partie de la disci-  pline Socratique fut pratiquee par les  ediles preposes aux plaisirs publics ! Ce  sont de tels divertissements qu’auraient  du decreter les empereurs Romains, sou-  cieux d’exciter toutes les classes au ma-    I 1 2    SOCRATE    principes , cum de maritandis ordinibus ,  et sobole Romana augenda soliciti erant :  talia conveniebant nuper Lutetia ? et Gal-  lice adeo universae, quum Ducis Burgtin-  dice natalem nuptiis mille puellarum  celebrarent : talia magnam Britanniam ,  si quid veri habent quorundam qucerelce,  Swiftiance praesertim , quas eo loco protu-  lit , ubi de abrogando clero disputat : aut  eorum , qui hodie peregrinos invitandos ,  supplendi populi causa . et civitate donan-  dos , censent.    41. Nempe incidit aetas Socratis in ea  tempora, ubi civium paucitate laborabat  exhausta bellis Persicis et Peloponnesia-  cis Attica , cui etiam lege matrimoniali  obviam ire, et afferre remedium , conati  esse dicuntur. Debemus notitiam hujus  legis ipsi Socrati, quatenus nulla forte  illius mentio extaret hodie, nisi de dua-  bus Philosophi uxoribus jam olim dispu-  tatum esset. Res cum queestioni. de qua    et l’amour GREC 1 I 3   riage ct d’accroitre la posterite de Re-  mus : iis auraient convenu naguere a  la ville de Paris et a la France entiere  lorsqu’on feta la naissance du duc de  Bourgogne en mariant un millier de  jeunes falles; iis auraient bien fait Faf-  faire de la Grande-Bretagne, s'il y a  quelque chose de vrai dans ces plaintes  dont Swift surtout s’est fait l’e'cho et qui  reclamaient 1’abolition du celibat despre-  tres; iis conviendraient encore a ces  pays ou l’on attire les etrangers en leur  conferant les droits civiques pour sup-  pleer au petit nombre d'habitants.   41. Socrate vivait a une epoque ou  1 ’Attique, epuisee par les guerres des  Perses et du Peloponese, souffrait de ne  plus avoir qu'une population clair-se-  mee ; on dit menae que les Atheniens s’ef-  forcerent de remedier a cet etat de choses  par une nouvelle loi touchant lesmaria-  ges. Nousdevons 1’unique renseignement  que l’on ait sur cette loi a Socrate , car  il n’en subsisterait aujourd’hui aucune    IO.    >4    SOCRATE    agimus conjuncta sit , illam , quam brevi-  ter jieri potest , expediemus. Duas So-  crati uxores vulgo tribui videmus, Xan-  thippen e qua Lamproclem susceperit, et  Myrto , Sophronisci atque Menexeni  matrem. In hoc conveniunt Cyrillus  ( contra Julia. I. 6. p. 186, D) et Theo-  doretus (Grcecar. Affect. curat, ser. 6 p.  ij4, 40) ac Diogenes Laertius (2, 26).  Porro de Xanthippe Cyrillus ex Por-  phyrio, 7tspi7tXa-/.asav XaQstv, clanculum in  ipsius amplexus venisse ; quod plane  repugnat Platoni et Xenophonti, qui  nullius conjugis prceter Xanthippen , jus-  tam uxorem , mentionem faciunt : tum  Theodoreto, qui tamen ipse quoque sua  debere ait Porphyrio, sed non tantum  pro TCspiTt^axetaav XaOsTv habet 7:po<j-XaxeTcjav  Xa6sTv, induxisse priori uxori, ut pereat  illa secreti , et furti amatorii notio : sed  etiam addit, solitas esse eas mulieres in-  ter se depugnare, deinde pace facta con-  junctim impetum facere in Socratem  ideo , quod is bella illarum non dirime-  ret : hunc vero utrumque genus pugna: •    et l’amour GREC I I b   mention sans la controverse autrefois  agitee au sujet de ses deux femmes.  Comme cette question tient a notre su-  jet, nous la discuterons bridvement. On  donne communcment a Socrate deux  femmes : Xantippe, dont il eut un de ses  fils, Lamprocles, et Myrto, la mere de  Sophronisque et de Menexene. S. Cy-  rille, Theodoret et Diogene de Laerte  sont tous les trois d’accord la-dessus.  Mais S. Cyrille, empruntant ce detail a  Porphyre, dit de Xantippe que son ma-  riage avec Socrate fut clandestin, qu’elle  se cachait pour 1’embrasser, ce qui con-  tredit absolument Xenophon et Platon,  puisqu’ils ne parient d’aucune autre  femme que de Xantippe, epouse legitime  de Socrate. Theodoret, qui lui aussi dit  tenir de Porphyre ses renseignements,  change 7iepi7tXoaEiaav XaOsTv en npovnXxxsT-  aav XafleTv et declare ainsi que Socrate  introduisit Xantippe chez sa premi^re  femme, ce qui ruine toute cette histoire  de mariage secret, et de furtifs baisers ;  bien mieux, il ajoutc que ces deux me-    SOCRATE    1 16   cum risu speci are consuevisse. Utri fi  dem habebimus?    42. Sed nondum est finis discordia-  rum. Theodoretum si audimus , induxit  Xanthippen suce jam Myrto Socrates :  sed Laertius negat convenire inter auc-  tores , utram prius duxerit. Idem ait ,  simul ambas habuisse Socratem , a qui-  busdam esse traditum. In hac sententia  etiam fuit auctor Dialogi Halcyon , qui  inter primos Lucianeos editur , in cujus  fine Socrates dicat , se Halcyonis amo-  rem in maritum suis conjugibus Xan-  thippee et Myrto prcedicaturum esse.  Antiqua porro esse illa relatio memora-  tur Callisthenis , Demetri Phalerei , Sa-  tyri Peripatetici , Aristoxeni Musici ,    ET L’AMOUR GREC I I 7   geres se battaient continuellement, puis  la paix faite, tombaient a poings fermes  sur le pauvre Philosophe, en lui repro-  chant de ne les avoir pas separees: pour  lui, il restait simple spectateur du com-  bat et voyait donner ou recevait lui-  meme les coups en souriant. A qui faut-  il s’en rapporter, de S. Cyrille ou de  Theodoret?   42. Et nous ne sommes pas au bout  de la querelle. Dapres Theodoret, So-  crate epousa Xantippe, dtant deja marie  a Myrto; mais Diogene de Laerte af-  firme que les auteurs ne sont pas d’ac-  cord et qu’on ne sait qui des deux il  epousa la premiere. Il dit aussi qu’il les  eut toutes les deux ensemble, et sur  quelles autorites repose cette assertion.  Elie a ete accueillie par 1’auteur du dia-  logue intitule Alcyon, imprime en tete  de ceux de Lucien; on y voit Socrate  proposer en exemple a ses deux femmes,  Xantippe et Myrto, 1’amour d’Alcyon  pour son mari. Plutarque (Vie d’Aris-    ii8    SOCRATE    Hieronymi Rhodii, apud Plutarchum  (vita Aristid. extr.) qui ceteris narrandi  auctorem fuisse ait Aristotelem in libro  de nobilitate, (rapi s-jyevsia;) qui tamen  liber an sit Aristotelis, Plutarchus dubi-  tat : narrant autem ita, Aristidis neptim  Myrto, vidua cum esset et paupercula,  domum ductam a Socrate, eique cohabi-  tasse, licet aliam uxorem habenti .    43. At non licebat a Cecrope inde  Athenis plure s una habere uxores. Qui  sit igitur, ut neque Comici exprobrarint,  neque Accusatores objecerint digamian  Socrati ? Hic nobis narrant Athenaeus et  Laertius legem, latam supplenda 1 multi-  tudinis civium causa. Exstabat Athenceo  prodente ipsum decretum a Rhodio Hie-  ronymo conservatum, wax' si-eivat xai ouo    ET 1/aMOUR GREC I i q   tide) rapporte que cettc opinion etait  ancienne, et qu ; elle fut partagee par  Callisthene, Demetrius de Phalere, Sa-  tyrus le peripateticien, Aristoxene le  musicien et Hieronyme de Rhodes;  Athenee dit de son cote qu’ils Tavaient  tous puisee dans le Traite de la No-  blesse d Aristote, livre dont cependant  Plutarque doute qu’Aristote soit l’au-  teur. Tous racontent que- Myrto, pe-  tite-fille d Aristide, etant veuve et se  trouvant dans une extreme pauvrete, fut  recueillie par Socrate dans sa maison et  qu’il cohabita avec elle, quoiquhl fut  deja marie.   4 J - Les vieilles lois de Cecrops inter-  disaient cependant a Athenes les doubles  unions. Pourquoi donc ni les poetes co-  miques, ni les accusateurs de Socrate ne  lui ont-ils reproche ou oppose ce cas de  bigamie ? Cest a ce propos qu’A.thenee et  Diogene de Laerte nous parient de cette  loi nouvelle_, edictee, disent-ils, dans le  but d’accroitre le nombre des citoyens.    120    SOCRATE    'systv yuvatxa; tov [3o'jaojj.£vov. Secundum haec  male accusaretur Socrates, qui et legi  paruerit de augenda sobole Attica , et  Aristidis progeniem viduitate et pauper-  tate extrema liberaverit.    V    44. Verum enim vero totum hoc de  duabus Socratis uxoribus , quin de lege  maritali etiam falsum esse , prcesertim  ex dissensu commemorato , itemque ex  Platonis et Xenophontis silentio arguit  Bentleius (1). Et habet , quantum est de  monogamia Socratis, magnum auctorem  Pancetium, quem laudat Plutarchus, qui  cum retulisset eam quce modo proposita  est de Myrto narrationem, satis illam  refutatam ait a Panaetio : cujus si opus  hodie extaret, facilior forte hodie esset  causa Socratis, quem tamen a turpi pue-   (/) In Dissertat, de Phalaridis et exteror.  Epistolis, § / 3 , p. /06 5 9 9.    ET l’aMOUR GREC 12 1   Athenee s’avance jusqida dire qu’il y  avait un decret, conserve par Hieronyme  de Rhodes, et ainsi concu : « 11 est per-  mis d’avoir jusqua deux femmes. » Si  cela est vrai, on accuserait mal a propos  Socrate, qui n’aurait fait qu’obeir a la  loi portee en vue de repeupler 1’Attique,  et qui de plus aurait sauve du veuvage  et de la mis&re la petite-fille d’Aristide.   44. Mais vraiment Phistoire des deux  femmes, tout aussi bien que celle  de la loi matrimoniale, paraissent en-  tachees de faussete a Bentley (1); il se  fonde surtout sur le desaccord que nous  avons signale et tire une grande preuve  du silence de Platon et de Xenophon.  Nous avons, pour ce qui est de la mono-  gamie de Socrate, une excellente auto-  rite, Pantetius, dont Plutarque fait le  plus bel eloge; apres avoir rapporte ce  que nous avons dit de Myrto, il ajoute  que cettefable a ete suffisamment refutee   ( 1 ) Dissertation sur les Epitres de Phalaris ,  Themistocle, Sacrale et Euripide (1697, iu-8").    I 22    SOCRATE    rorum amore, et a lenocinio turpi , et a  libidinosa digamia, vel sic satis libera-  tum esse confido.     123    ET L AMOUR GREC    par Panaetius. Si nous possedions son  livre, la cause de Socrate serait aujour-  d’hui plus facile a defendre; je pense  cependant avoir prouve qu’il ne fut ni  un corrupteur de la jeunesse, ni un  provocateur a la debauche, ni un bi-  game libertin.     TABLE DES MATIERES    Alcibiade; ses avances  repouss^es par Socrate,  p. 97-99.   Ame, comparde par Pla-  ton a un attelage ai!6,  p. 29, 47-65 ; — clas-  sification des ames  suivant le degrd de  connaissances acquises  avant la vie, p. 3 1 - 3 5 .   Amour philosophique,  p. 35 , 43; — raisons  qui dirigent les choix  dans cette sorte d’a-  mour, p. 45-47; — les  impuretes ou il peut  s’egarer, p. 69.   Analyse du Lysis, dialo-  gue de Platon, p. 21;  — du Phedre, p. 23 -  29; — du Banquet,  p. 95 et suiv.   Beaute morale et Beaute  physique, p. 39-41.   Bigamie; Socrate eut-il  deux femmes? p. 1 1 3  et suiv.; — la bigamie  etait-elle autorisde en  Grece ? p. 1 19.   Cohorte sacree des  amants, a Thebes et  en Crete, p. 83 .   Inspires; couples d’amis,  p. 85 - 87 -   Minies ; leurs exercices et  poses plastiques, p. io 5 .   riaiospaatsta, le mot  et la chose pouvaient  etre pris en bonne part,    chez les Grecs, p. 89.   Peines portees par les  Grecs contre les infa-  mes, p. 75.   Pronostics tirds par les  physionomistes de la  voix forte et grave, p.  5 1 ; — de lencolure  courte, p. 55 ; — des  oreilles velues, p. 57 ;   — des grosses levres,  p. 5 q; — du nez ca-  mard, p. 59; — des  yeux saillants, p. 61.   Representations mytho-  logiques et divertisse-  ments dans les festius,  p. 105-109 ; — dans les  mysteres, p. 109 (note);   — effets singuliers pro-  duits parfois sur les  convives par ces re-  pr^sentations, p. m.   Socrate; motifs ordi-  naires des accusations  portees contre lui, p.  1 5 — 1 7 ; — pourquoi il  recherchait les beaux  garcons, p. 43 ; — son  portrait physique, p.  49 et suiv.   Socrate l’ Ecclesiasti-  que ; comment il a ac-  cuse, sans preuves, So-  crate le Philosophe, p. 9.   Sparte ; coutume rappor-  t6e par Elien, p. 85 ; —  les amours impures y  etaient ignorees, p. 8.7.    Paris. — Imp. Motteroz, 3 i, rue du Dragon. Gabriele Giannantoni. Giannantoni. Keywords: la dialettica, dialettica, Epicuro a Roma, Calogero, il principio dialogo, Lucrezio, Cicerone. -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Giannantoni” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51758022139/in/dateposted-public/

 

Grice e Giannetti – corpuscolarismo – filosofia italiana – Luigi Speranza (Albiano di Magra). Filosofo. Grice: “I like Giannetti; for one, he is the only philosopher I know whose first name is ‘Pascasio.’ He taught at Pisa, but not in the tower – Oddly, while he is from Tuscany, there is a street (‘via’) in La Spezia named after him!” – Grice: “His logic was considered heretic, at least by the duke, who diligently expelled him from any obligation of teaching!” – Insegna a Pisa. Quando lascio la cattedra,  gli successe Grandi. Di formazione galileiana, fu un acceso nemico dei Gesuiti. Sollecitato da Grandi, che lo aveva anche introdotto a Newton, cura Galilei (Firenze). Rimosso da Pisa da Cosimo III de' Medici, vi fece rientro alla morte di quest'ultimo.  NC. Preti, Dizionario Biografico degli Italiani, Memorie storiche d'illustri scrittori e di uomini insigni dell'antica e moderna Lunigiana, Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 54, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  PASCASIO GIANNETTI Essendo Pascasio Giannetti tra'maestri più singolari di filosofia e di medicina dell' Universi tàdiPisa,quantoonoreaquelloStudio recasse non si può dire. Costui ebbea quelle scienze pro clive natura, e tanta forza e vivacità d'ingegno > che a sermonare e discorrere di materie mediche efilosofichepareanatoaposta.Fu e'diAlbiano di Lunigiana, e divenne lettore in detta Univer sità nel 1682 ; e così bene in cattedra sue dottri ne tratto, che per lo più savio discepolo del M a r chetti e del Bellini, cattedranti nobilissimi, tutti lo conoscevano. Nulla ignoto eragli di quanto G a   lileo e Gassendo aveansi ritrovato, e sostenitore acerrimo fu della filosofia corpusculare. Per ques stoguerra eterna pareva intimata avesse a tutti li Peripatetici e Scolastici ostinati; che ligii si di chiaravano agli antichi sistemi, quali adesso ricor dansi appenanelle scu ole de'monasteri. Per lo che il Giannetti futenuto per uno de'più arditi e co raggiosisostenitori degli insegnamenti novelli e assai molesto riuscì a'superstiziosifilosofanti, ma in particolar modo ai Gesuiti i quali, potendo al loramoltissimopressoCosmo IIIde'Medici,fece ro in grave sospetto cadere di errori di religione il Giannetti non solo, ma quasi tutta la Pisana Università. Per tale cagione , sendo state forti let tere scritte e minaccevoli ai professori con ordi nare,chenon volevasifilosofiademocratica,ilGian netti, cui sapea benissimo delle persecuzioni altrui schermirsi e rintuzzare le dicerie degli imperiti con la dotta e mordace sua lingua, difese con trion fo la causa per iscrittura,nè mai digua proposta sentenza cesso. Finalmente costretto nel 1706 di mutarcattedraedileggeremedicina,non ostan te filosofava su i nuovi sistemi anche interpretan do gliaforismid'Ippocrate e di Galeno,e men tre con eloquio squisito e con pompa di erudizio ne le materie mediche spiegavà,senza punto de nigrare alla gravità della scienza e del loco ; l' al trui cabale e leggerezze con vaghi scherzi e argu ti motti derideva. Moltissimo ancora si adoperò in fisiciani sperimenti e nelle savie cure di Michela gnolo Tilli per ogni maniera di lode famoso : nè mezzanamente sidistinse insieme con lo Zambes cari di Pontremoli suo collega a sperienze fare nti lissime su le terme del territorio Pisano e Luriena se,che servirono ad ambeduni di grande merito. Intra le altre fece minute prove su l'acqua salsa di Monzone di Lunigiana, e trovolla più efficace di quella del Tettuccio di Valdi Nievole, e poteró  183   Viri Paschasii Giannelli Albianeusis Philosoph. et Medicin, in Pisau. Acudem . Professoris logeniiacumine eloquen.et ingenua philosoph. libert. Quam difficillimis temporib, fere solus inter Acadlem. retinuit ConcesseratAun.S. MDCCXXXXII. Thomas Perelliuspraecept.et Amico DI PIER CARLO VASOLI Io non posso tacere di aver molte cose rica vato diquesto librodalle fạtiche e dagli scritti di questo Pier Carlo Vasoli di Fivizzano, il quale sembra avesse in mente d'illustrare sua patria , e però non deggio scordarmi di retribuirlo di grata inemoria, tanto più che molto distinto riuscì nel la medicina e buon coltivatore della poesia. Q u e stouomoerudito,comeraccontaincertosuoEr bariolo Lunense m . s., avendo studiato prima a Bolognae poiaPisaallascuoladelcelebreMar cello Malpighi, dove si dottorò verso la fine del  184 si estrarre il sale catartico a guisa di quel d' In ghilterra , se non venisse incautamente adulterata. Benespesso Pascasio dilettavasi d'investigare le azioni è i consigři degli uomini più che i segreti dellanatura,equasi Epicuro con aspreparoleab batteva i vizi ele inezie altrui. Mente profonda mostrò in tutto, ma poca industria: e vivendosi fino alla vecchiezza, dopo 57 anni di lettura in quella Università, nel 1742 morì in una villetta che avea a Capannoli su quel di Pisa, e sepolto nellachiesadiquellaterra,fugliperTommaso Pe relli suo scolare messo questo marmo sopra il se polcro, riferito ancora da inonsignor Fabroni in sua stor. dell'Univ. Pis. tom . 3. dove parla del Giannetti: = Pijs Manibus et Memoriae aeternae Cum paucisaetatis suae comparandi Obiit Octuagenario major in proxima Villula In quam post impetratam a docendo vacationem D. S. O. M. P.  GIANNETTI, Pascasio. - Nacque, da Polidoro, ad Albiano Magra di Aulla in Lunigiana, il 2 ag. 1661.  Avviato agli studi filosofici, li coltivò, insieme con quelli medici, presso l'Università di Pisa, dove era ben viva la tradizione galileiana e, in fisica e in medicina, era ben rappresentata la corrente meccanico-corpuscolarista. Fu il gruppo di docenti formatisi alla scuola di G.A. Borelli a istradarlo verso questa tradizione concettuale; soprattutto A. Marchetti, L. Bellini e D. Zerilli lo introdussero allo studio delle opere, oltre che di Galilei, di Gassendi e del Borelli. Parallelamente, il G. attinse da G. Del Papa gli stimoli di un diverso indirizzo, anch'esso presente nell'ateneo pisano, teso a far convivere, soprattutto in campo medico, il galileismo con esigenze di ordine pratico.  Laureatosi il 30 maggio 1682 in filosofia e medicina (promotore fu il Del Papa), il G. ottenne nello stesso anno la lettura di logica, che conservò fino al 1686, per passare poi a quella di filosofia naturale. Il suo magistero, argutamente antiaristotelico e apertamente atomistico, dovette risultare piuttosto efficace. Quando, verso il 1690, si delineò una reazione generale della Chiesa contro quelle interpretazioni dello sperimentalismo considerate arbitrarie e potenzialmente eversive dell'ortodossia religiosa, a causa dei possibili esiti materialistico-libertini, il G. fu direttamente coinvolto. Nell'ottobre 1691, insieme con altri sei lettori pisani, si vide intimare dall'auditore F.M. Sergrifi di non insegnare la filosofia atomistica. Per nulla intimidito, a detta di A. Fabroni, il G. alimentò le polemiche che seguirono con un libello, oggi perduto, in difesa dei lettori ammoniti. Poca sorpresa dovette quindi destare tra i contemporanei il provvedimento, preso dal governo di Cosimo III nel 1706, di trasferire il G. alla lettura di medicina teorica, mitigato dal permesso di tenere lezioni domiciliari di filosofia.  Come lettore di questa disciplina medica, il G. mostrò di voler tenere aperti spiragli per un discorso "moderno". Lesse gli Aforismid'Ippocrate, proclamandosi così seguace dell'indirizzo che privilegiava la pratica clinica sulle questioni di teoria medica, ma nel commentarli continuò a seguire i novatori.  In particolare, a quanto sembra, già in questa fase i motivi galileiano-gassendiani si erano venuti in lui incrociando con motivi della dottrina newtoniana. Da questa aveva recepito la tesi della struttura porosa della materia, che, attraverso l'ipotesi dei diversi ordini di combinazione dei corpuscoli, è assunta come matrice delle qualità macroscopiche dei corpi. È probabile che una delle fonti attraverso le quali il G. venne a conoscenza della teoria newtoniana sia stata il padre camaldolese G. Grandi, suo buon amico (Ortes ci riferisce che il Grandi "solea frequentemente conversare" nella casa del G.), ma, a differenza del Grandi, il G. non dovette essere pienamente in grado di coglierne l'impalcatura matematica, tanto da ritenerla conciliabile con la distinzione gassendiana tra punto matematico e punto fisico.  All'inizio del secondo decennio del XVIII secolo il G., insieme con B. Bresciani, G. Averani e altri, fu coinvolto dal Grandi nella preparazione della seconda edizione delle Opere di Galilei (Firenze 1718). Più tardi, alla metà degli anni Venti, il suo nome venne fatto in alternativa a quello del Grandi quale autore di un libretto pseudonimo (Q. Lucii Alphei Diacrisis in secundam editionem Philosophiae novo-antiquae r.p. Thomae Cevae cum notis Ianii Valerii Pansii, Augustoduni 1724), che segnò una nuova occasione di scontro tra i novatori pisani e i gesuiti del collegio di Firenze.  Il libretto, nato come replica alla prefazione del gesuita M. Dalla Briga al poemetto Philosophia nova-antiqua (Florentiae 1723), del confratello T. Ceva, fornisce una descrizione caricaturale delle forme di opposizione allo sperimentalismo che, a detta dell'autore, circolavano nel collegio fiorentino.  Non è chiaro se sia da collegarsi a questa polemica il basso profilo assunto dal G. nel quarto decennio del secolo. La relazione sullo stato dello Studio che G. Cerati presentò ai nuovi governanti nel maggio 1738, ci informa che "già da alcuni anni" il G., pur retribuito, aveva interrotto le lezioni pubbliche e si limitava a dare privatamente lezioni di filosofia. Il Cerati attribuiva ciò a non meglio precisate "indisposizioni del corpo", ma l'Ortes attesta che il G. godette per tutta la vita di ottima salute. Priva di riscontri è la notizia di una sua adesione alla loggia massonica fondata a Firenze nel 1733, loggia che però sicuramente accolse un buon numero di suoi allievi.  Il G. morì a Capannoli, presso Pisa, il 28 giugno 1742.  Quelle che sembrano essere le sue uniche opere a noi giunte si trovano a Firenze, Bibl. Riccardiana, ms. 3098 (Tractatus phisici iuxta recentiorum opinionem conscripti a Paschasio Giannetto) e a Pisa, Bibl. universitaria, ms. 177 (Philosophiae tractatus, datato 1714).  Fonti e Bibl.: Per la collaborazione del G. all'edizione fiorentina del 1718 delle Opere del Galilei vedi le lettere di T. Buonaventuri a G. Grandi, Pisa, Bibl. universitaria, Carteggio Grandi, 85, passim; sei lettere del G. al Grandi e alcune note di argomento fisico ibid., 92, cc. 19r-28v; Acta graduum Academiae Pisanae, II, a cura di G. Volpi, Pisa 1979, p. 549; G. Ortes, Vita del padre Guido Grandi, Venezia 1744, pp. 111-113, 133, 157; G.A. De Soria, Raccolta di opere inedite, Livorno 1773, pp. 190-192; A. Fabroni, Historiae Academiae Pisanae, III, Pisis 1795, pp. 410-413; F. Sbigoli, Tommaso Crudeli e i primi framassoni in Firenze, Milano 1884, p. 71; N. Carranza, Monsignor Gaspare Cerati provveditore dell'Università di Pisa nel Settecento delle riforme, Pisa 1974, pp. 85, 338, 362; Storia dell'Università di Pisa, Pisa 1993, pp. 143, 153 s., 520; M.A. Morelli, Per una storia di Andrea Bonducci, Roma 1996, pp. 14 s., 166 s., 230; Id., A Livorno nel Settecento, Livorno 1997, pp. 23, 62, 79.Pascasio Giannetti. Gianetti. Keywords: corpuscolarismo, implicature corpuscolare, Isaaco Newton, Galilei, Grandi, Giannetti -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Giannetti: implicatura corpuscolare – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51757992274/in/dateposted-public/

 

Giannetta search – another time?

 

Grice e Giannone – la terza Roma – e l’implicatura ligure – filosofia italiana – Luigi Speranza (Ischitella). Filosofo. Grice: “Giannone is an interesting philosopher. He philosophised on the ‘citta terrena,’ which is a back-fromation from ‘celestial city,’ and by which he meant Rome! – Then he compared men – in their collectivity, to apes, even if ingenious ones!”  “Non solo i corpi, ma, quel che è più, anche le anime, i cuori e gli spiriti de' sudditi si sottoposero a' suoi piedi e strinse fra ceppi e catene.” Esponente di spicco dell'Illuinismo italiano, discendente da una famiglia di avvocati (anche se il padre era uno speziale), lasciò il paese natale per intraprendere gli studi a Napoli. Si laurea entrando ben presto in contatto con filosofi vicini a Vico. Fu praticante presso Argento, che disponeva di una vasta biblioteca, la frequentazione della quale fu essenziale per la sua formazione.  I suoi interessi non si limitarono soltanto al diritto ed alla filosofia, appassionandosi anche agli studi storici e dedicandosi alla stesura della sua opera storica più conosciuta Dell'istoria civile del regno di Napoli, che gli causò tuttavia numerosi problemi con la Chiesa per il suo contenuto.  Costretto a riparare a Vienna, ottenne protezione e sovvenzioni da Carlo VI, il che gli permise di proseguire indisturbato i suoi studi filosofici.  Il suo tentativo di rientrare in patria fu ostacolato dalla Chiesa, nonostante i buoni uffici dell'arcivescovo di Napoli recatosi a Vienna per convincerlo a tornare a Napoli. Fu costretto a trasferirsi a Venezia dove, apprezzatissimo dall'ambiente culturale della città, rifiutò sia la cattedra a Padova, sia un posto di consulente giuridico presso la Serenissima. Il governo della Repubblica lo espulse, dopo averlo sottoposto a stretti controlli spionistici, per questioni inerenti alle sue idee sul diritto marittimo e nonostante la sua autodifesa con il trattato Lettera intorno al dominio del Mare Adriatico.  Dopo aver vagato per l'Italia (Ferrara, Modena, Milano e Torino), giunse a Ginevra, dove compose un altro lavoro dal forte sapore anticlericale “Il Triregno: il regno terreno, il regno celeste, e il regno papale, che gli costò nuovamente la persecuzione delle alte sfere ecclesiastiche culminate con la sua cattura in un villaggio della Savoia, ove fu attirato con un tranello.  Rimasto nelle prigioni sabaude, fu costretto a firmare un atto di abiura che non gli valse tuttavia la libertà. Fu tenuto prigioniero nella fortezza di Ceva, dove scrisse alcuni dei suoi componimenti più famosi. Trasferito alla prigione del mastio della Cittadella di Torino. +“Dell'istoria civile del regno di Napoli” ebbe enorme fortuna mentre la Chiesa ne avversò le tesi ponendola all'Indice dei libri proibiti, comminando al filosofo una scomunica la quale obbligava Giannone a riparare all'estero. I temi trattati nell'Istoria, sviluppati su precisi riferimenti giuridici, forniscono una lucida descrizione dello stato di degrado civile del Regno di Napoli, attribuendone le cause all'influenza preponderante della Curia romana. Auspica in primis con quest'opera, «il rischiaramento delle nostre leggi patrie e dei nostri propri istituti e costumi».  Nel Triregno, opera aspramente avversata anch'essa dagli ambienti ecclesiastici, presenta la religione secondo un prospetto evolutivo: la Chiesa, col suo "regno papale", si contrappone al "regno terreno" degli Ebrei ma anche a quello "celeste" idealizzato dal Cristianesimo e il superamento del male, che lo Stato Pontificio così incarna, si realizzerà soltanto attraverso un cambiamento di rotta deciso, mediante ulteriore consapevolezza individuale raggiunta dall'uomo nel corso della sua vicenda Storica. Indi teorizza uno Stato laico capace di sottomettere l'istituzione papale, anche mediante un'espropriazione dei beni materiali del clero. La Chiesa porta avanti una forma di negazione di quella libertà individuale che deve essere posta come fondamento giuridico e sociale. Al filosofo sono intestati vari istituti scolastici, tra cui lo storico Liceo classico Pietro Giannone di Caserta, quello di Benevento, quello di Foggia, e quello di San Marco in Lamis.  Nel Capitolo settimo della Storia della colonna infame, Manzoni dedica al Giannone ampio spazio elencandone i numerosissimi plagi e gli errori che anche Voltaire gli rimprovera. Inizia paragonandolo a Muratori e indicandolo come "scrittore più rinomato di lui", poi aggiunge un lungo elenco (e raffronto) delle opere plagiate e degli autori, tra cui Nani, Sarpi, Parrino, Bufferio, Costanzo e Summonte: "...e chissà quali altri furti non osservati di costui potrebbe scoprire chi ne facesse ricerca". E conclude che se non si sa se fosse "pigrizia o sterilità di mente", fu certo "raro il coraggio".  Altre opera: Autobiografia: i suoi tempi, la sua prigionia, appendici, note e documenti inediti, Augusto Pierantoni, Roma, E. Perino, I discorsi storici sopra gli Annali di Tito Livio, Apologia dei teologi scolastici Istoria del pontificato di Gregorio Magno, “L'Ape ingegnosa” “Istoria civile del Regno di Napoli. 1, Napoli, Giovanni Gravier); Pietro Giannone, Istoria civile del Regno di Napoli. 2, Napoli, Giovanni Gravier, Pietro Giannone, Istoria civile del Regno di Napoli. 3, Napoli, Giovanni Gravier, Pietro Giannone, Istoria civile del Regno di Napoli. 4, Napoli, Giovanni Gravier, Pietro Giannone, Istoria civile del Regno di Napoli. 5, Napoli, Giovanni Gravier,  aprile. Note  Pietro Giannone, Istoria civile del regno di Napoli, Capolago, Tipografia Elvetica,   l  Ibidem, note da 80 a 89  Fausto Nicolini, La fortuna di Pietro Giannone: ricerche bibliografiche, Bari, Laterza, Marini, Il giannonismo (Bari, Laterza). Vigezzi, PGiannone riformatore e storico. Milano, Feltrinelli, 1Giannoniana: autografi, manoscritti e documenti della fortuna di Giannone, Sergio Bertelli, Milano-Napoli, Ricciardi, Giuseppe Ricuperati, L'esperienza civile e religiosa di Giannone., Milano-Napoli, Ricciardi, Mannarino, Le mille favole degli antichi. Ebraismo e cultura europea nel pensiero religioso di Giannone, Firenze, Le Lettere, Giuseppe Ricuperati, La città terrena di Pietro Giannone: un itinerario tra crisi della coscienza europea e illuminismo radicale, Firenze, Olschki, TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Vita scritta da lui medesimo, Feltrinelli, testo in versione digitale della Biblioteca Italiana, 2003.//filosofico.net/giannone.htm.  De'Liguri duri e forti:loro estensioneinItalia;e come sopra tutti gli altri popoli tenesseró esercitati i Romani nella disciplinamilitare,sicchèfosserogliultimiad essersog. giogati. Livio in più occasioni parlando de'liguri,confessa che niuna provincia esercitò cotanto i romani nella virtù e disciplina m i litare, quanto la Liguria, poichè dura nelle armi , bellicosa amica di fatiche e di travagli, e di riposo impazienle , nelle sueguerrenon tostoerada’romanivintachesorgevapiùani mosaefortediprima:ishostis,velutnatus ad continendam inter magnorum intervalla bellorum romanis militarem discipli nam , erat : nec alia provincia militem magis ad virtutem acue bat(1).Nonabitavanoiliguri(eciòanche contribuivaalla loro bellicosa indole) in luoghi piani ed ameni e sotto tempe r a t o e m o l l e c l i m a , il q u a l e a v e s s e p o t u t o r e n d e r e s i m i l i a s è gli abitatori ; m a all'incontro occupando essi quella occidental parte d'Italiache ha per confine laGalliaNarbonense,vivendo in regioni montuose aspre ed inaccessibili, e per le angustie delle vie acconce a tendere aguali ed insidie; non temevano di numerosi eserciti, nè d'istromenti bellici , nè di macchine o d'altri apparati militari, difendendoli il suolo e l'arduità de'loro siti.E perciò essi militavano senza molto apparecchio mi cidiale:nihil,dice Livio,præter arma etviros,omnem spem inarmis habentes,erat, Gli antichi liguri erano divisi di qua e di là delle alpi e d e l l ' a p p e n n i n o in m o l t i p o p o l i o s i e n o c o m u n i t à , n o n a l t r i m e n t i di ciòche si èdeltodegli antichi etruschi, ed occupavano va stissime regioni. Le alpimarittime e gran parte delle medi terraneeeranodaessipopolate.Dilà dellealpiipiù celebri furono i liguri salii, i deceali e gli oxibi ; di qua furono i vedianzi,ivagienni,glistatielli,imagelli,gli eburiati, (1)Dec. IV,lib.9,inprinc.  265 >   266 i veliati , i tigulii, gl'ingauni , i salassi , i libici, i lau riniedaltri.Livio,oltrequestipopolida Pliniorapportati fa menzione di altri liguri posti di qua dell'appennino chia mati Apuani, i quali vinsero i romani e debellarono un eser cito consolare sotto Q. Marzin console , e nota che il luogo della sconfitta fino a'suoi tempi chiamavasi perciò il campo Marziano:famemoriaancora dialtriliguridilàdell'appen nino ch'egli chiama ligurifrisinati. Questi popoli aveano più città o vichi, dove dimoravano ciascuno nel proprio distretto ; e fra le città son da considerarsi alcune antiche ed illustri le quali, secondo la divisione dell'Italia fatta poi da Augusto in undici regioni, formavan parte della XI. Nella Liguria rivoltaal mare inferiorediquà delfiume Varo, che divide l'Italia dalla Gallia Narbonense , la prima città marit timaches'incontravaerade'ligurivedianzi chiamata Cime lion. Prossima a questa i massiliesi edificarono Nicea , oggi detta Nizza, alle radici delle alpi marittime, non lontana dalle foci del fiume Varo, che poi crebbe dalle ruine di Cimelio , cittàantichissima,la quale ebbe vescovi prima che da Costan tino Magno fosse stata la religione cristiana fatta ricevere nel l'imperio. Rimangono ancora le vestigia de'suoi ruderi ed il nome di Cimelio: l'anticasua cattedra fu unita a quella di Nicea, la quale non si appartiene già al la Gallia Narbonense , siccomealcunicredeltero,ma secondoPlinio,Tolomeoedaltri geografi antichi, alla nostra Italia, c o m e quella che è costrutta di qua del fiume Varo.Antipoli fondata pure da'massiliesi si appartienealla GalliaNarbonense,perchèerettadilàdelfiume: essa lungo tempo fu sotto i massiliesi loro fondatori, ed ora sotto ire di Francia è chiamata Antibo. Appresso Nicea nel mar li gustico siegue Monaco detta dagli antichi Porto di Ercole, indi AlbioInlemelio,Albingauno,Savona,Genua,Porto Delfino Tigulia, e più in dentro Segesta città de'liguri tigulii. Chiude questo confine il fiume Macra che da questa parte divide la Liguria dall'Etruria.  9 > > ? Dall'altra parte mediterranea ove si erge l'appennino ,ampio monte il quale con gioghi perpetui e continuali fino allo stretto Siciliano divide l'Italia per mezzo , avevano i liguri di qua e di l à d e l m o n t e m e d e s i m o 'n o b i l i s s i m e c i t t à ; e s p e c i a l m e n t e d a u n >   lalo del Po Libarna , Dertona , Iria , Barderate , Industria , Polentia, Potentia, Valentia,ed Augusta de'liguri vagienni. Quest'ultima città posta alle radici delle Alpi Cozie , non molto lontana dal monte Vesulo d'onde ilPo ha sua origine, fu dappoi resa colonia de'romani. Non ci rimane ora di essa alcun ve stigio, ma insua vece surse al luogo stesso ne'secoli da noi men lontani la città di Saluzzo sede un tempo di principi e capo del famoso 'marchesato di Saluzzo , la quale in fine da GiulioImeritòesserdecoratadelladignitàepiscopale.Ma sopra queste s'innalzarono nella Liguria tre città non meno antiche che illustri,Alba Pompeia,Asta,ed Aqui cittàde'liguristatielli. Alba posta nella Liguria montuosa presso l'Appennino nellarivadelfiume Tanarofudagliantichigeografichiamata Pompeia, e per distinguerla da Alba degli Elvii posta nella Gallia Narbonense, e per aver quella G. Pompeo rifatta e la sciati ivi vestigi di sua memoria e beneficenza. Ebbe vescovi antichissimi,poichè rapportasi ilprimo tra questi essere stato nell'anno 350 S. Dionigi discepolo di S. Eusebio, poi innal zato alla cattedra di Milano. E ne'secoli men remoti vi se dettero due uomini insigni che laillustrarono, uno per la pru denza civile,e fu Lazarino Fieschi de'Conti di Lavagna , al quale la regina di Napoli Giovanna contessa di Provenza nel 1350 commiseilgovernodelPiemonte,daluiquindiammi nistratoconsomma lodeecommendazione;l'altropersapienza é somma dottrina ed erudizione, qual fu il famoso Girolamo Vida,quelchiarissimopoetalatinochecilasciò l'incompara bilesuaCristeideedisuoidottidialoghiDe Republica. Acqui posta alla riva della Bormida in quella parte del Piemonte di là del Tanaro ,la quale Monferrato oggi si ap pella, fa edificatada’liguri statielli popoli potentissimi della  267 > Asla posta nella Liguria mediterranea non lontana dal Tanaro furesacoloniade'romani,edun tempofuseded’unodeglian tichi duchi longobardi. Ebbe anch'essa antichissimi vescovi,i quali quando l'imperio di Occidente passò a'germani , furono dagli imperatori molto favoriti ed a sommi onori innalzati; e non poco splendore recò a quella città aver seduto nella sua cat tedra vescovileilfamoso Panigarola,chiaroalmondo eloquenza e per tanti monumenti che lasciò di sua dottrina. > per lasua   montuosa Liguria. Fu detta Acqui dalle acque calde che quivi scaturiscono assai salutifere , siccome oltre la testimonianza diPlinio,l'istessaesperienza dimostra:efuchiamataAcqui de'liguri statielli, per distinguerla dalla Acqui sestia de' Salii posta nella provincia Narbonense . Fu anche sede di uno de'Duchi longobardi; ma la sua cattedra non è cotanto an tica quanto le due precedenti come quella che prende sua ori gine da'longobardi che furonoi primi ad erigerla. I liguri si stendevano anche di là del Po , é molte città le qualisecondoladivisioned'ItaliafattadaAugusto sono col locate nella XI regione alle radici delle Alpi , anche da'liguri traggon l'origine. Le prime che s'incontrano sono Vibiforo e Secusia, oggi detta Susa , le quali furon poi mutate in due colonie romane.Anche Torino Plinio fa derivare dall'antica stirpede’liguri;antiquaLigurum stirpe,egliscrisse(1)edisse il vero, poichè coloro che la fan derivare da'massiliesi , sica come Nicea ed Antipoli, vengono a togliere a questa città molto della sua antichità. Non è dubbio che i liguri sieno popoli d'Italiatantoantichi,chediessinon sisal'origine,onde sicredono indigeni del paese, nè mischiati con altrefore stiere nazioni , non altrimenti che Tacito credette de' ger mani : all'incontro de'massiliesi si sa l'origine ed il tempo nel quale profughi dalla Focide navigando nel mare inferiore e cercando nuove sedi,si fermarorro ne'lidi della Gallia Nar bonense innanzi detta Bracata. Ciò avvenne , secondo la te stimonianza di Livio (2), mentre in Roma regnava Tarquinio Prisco,quando laprima voltaigallipassaronoleAlpi,iquali dopo aver soccorso i massiliesi contro i salii che impedivano loro lo sbarco, se ne calaron pe' monti Taurini dalle Alpi Giulie nell'Insubria , discacciandone gli etruschi. Livio stesso ri ferisce che a'medesimi tempi i salluvii avendo passate le Alpi , si posarono intorno al fiume Ticino vicino a ’ liguri levi , anticagenteed indigenadique'luoghi.Salluvii, e'dice,qui, præter antiquam gentem Levos ligures, incolentes citra Ticinum amnem , expulere. Se dunque i liguri, chiamati da Livio gente antiea, quando i massiliesi poser piede nella Gallia Narbo (1)Lib.III,cap.17. (2 ) D e c , 1, lib . 5 .  > > > 268 >   nense tenevano questi luoghi ; più antica sarà l'origine di T o rino derivandola da’liguriche da'massiliesi,iqualisiccome molti e molti anni dappoi che furono stabiliti in Massiglia fon darono Antipoli e Nicea , molto maggior tempo appresso avreb ber dovuto fondare Torino più lungi che quelle.Si aggiunge che quando Anoibale calò per le Alpi in Italia , secondo rapporta Livio (1),Torino eragià metropoli degli antichi popoli Taurini,i quali reggendosi per se slessi aveano allora mossa guerra agl’in subri,ericusaronol'amiciziadiAnnibalecontrastandogli corag giosamente il passo, che egli sforzò a gran fatica.Inoltre Livio stesso rende testimonianza che la prima volta in cui i romani ? mosser guerra a’liguri fu per occasione che questi depredavano i campi di Nicea e di Antipoli , ciltà de'massiliesi soci de’ro mani ,e non già i campi di Torino, la qual città perciò non era de'massiliesi, ma abitata da’ liguri taurini. Furono questi popoli chiamati Tauriniche dieder nome alla città, siccome i monti a piè de'quali essa è posta furono anche detti Taurini, a cagione che dagli antichi i gioghi de *monti erano chiamati Tauri per la figura che sogliono avere simili a'dorsi o alle schiene di tori, ond'è che quel celebre monte che divide la Siria dal rimanente dell'Asia fu chiamato Tauro sic come alcuni altri popoli presso Plinio ed altri antichi geografi son chiamati anch'essi Taurini specialmente nella Scizia, per chè abitano presso i monti anticamente appellati Tauri. Ri dottipoiquesti popoliliguri sottolasoggezionede'romani, Augusto ingrandi la città, che perciò venne poi detta Augusta Taurinorum , non altrimenti che Lutetia Parisiorum da'parisii popoli della Gallia Lugdunense che l'abitavano. Ebbero i liguri salassi anche in questa XI regione un'altra città, chiamata da Strabone , Plinio, Tolomeo ed Antonino Augusta Prætoria (ora detta Aosta) per distinguerla dall'altra Augusla de'liguri vagienni già menzionata : è posta frà le due facce delle Alpi Graie e Pennine . Furon le prime dette da' greci Graie per lo passaggio di Ercole (nisi de Hercule fabulis crederelibet,comesaviamentedicePlinio),eleseconde (sic c o m e v o l g a r m e n t e si c r e d e v a ) d a l p a s s a g g i o d i A n n i b a l e c o ' s u o i  269 ! > (1)Dec. III,lib.1.   cartaginesifuronchiamatePoenine,secondoavvisòanchePlinio, benchèLivione dubiti.Checchèsiadiciò,èda osservarsi che da questa Augusta Prætoria , essendo per la sua situazione laprima cittàd'Italia,gliantichigeometriprendevanlamisura della lunghezza di questo nostro paese , tirando una linea per Capua fino a Reggio, ultima città sullo stretto siciliano (1). Fu dessa ancora città famosa ed illustre a'tempi de're longo bardi, quando questi tennero il regno d'Italia.Ad Eporedia , città posta nella stessa regione all'imbocco della Valle Augustana edalleradicidelleAlpi,oggi dellaIvrea,Pliniodà,senon così anticaorigine,nulladimenounaassaipiù illustre,scrivendo che fu da”romani fondata per impulso degli dei, secondo che da'librisibillinierastatolormostrato:Oppidum Eporediam, e'dice,SybillinislibrisaPopuloRomano condijussum(2).Fu antica colonia romana ,e perciò cotanto memorata da Cicerone, Strabone, Tacilo e da altri romani scrittori. Vercelli anche secondo Plinio dee riconoscere la sua origine da'liguri sallii poichè egli scrive: Vercelle Libicorum ex Salliis ortæ. E se dobbiamo prestar fede al vecchio Catone, Novara anche da’li guri ebbe origine, quantunque in ciò Plinio discordi, facendola derivare da' vocontii popoli della Gallia Narbonense. Questa era l'aptica Liguria che occupava tutta quella gran parte d'Italia occidentale, la quale poscia dal tempo che cangia emuta inomi,ilinguaggi,icostumi,iconfinietutto,sorti altre divisioni e nuovi domini . Furon poi queste regioni chia mateLanga,Monferrato,l'Astegiana,Piemontesuperiore,Mar chesato di Saluzzo, Piemonte inferiore ovvero tratto Torinese, Canavese,ValleAugustana,Vercellese e Biellese.Molti tra vagli i romani sopportarono per sottoporre tanti popoli liguri, poichè questi duri nelle armi e difesi da'luoghi inaccessibili si mantenner liberi, nè prima degli ultimi tempi della romana repubblica furono ad essa soltomessi. I romani cominciarono a sperimenlarli nelle armi dopo che si erangiàresiformidabili inItaliaedaltrove,dopocheebbervinto Pirro re di Epiro e lui costretto a ritirarsi nel suo regno , e dopo che nella prima guerra punica il console C. Lutazio diede  > ! (1) Plin., Hist. nat.lib. II , cap. 5. (2)Plin.lib.I,cap.17. 270   a'cartaginesi quella terribile rotta nelle isole agale, per la quale costoro furono forzati a chieder pace a'romani. Allora , finita questaguerra,ivincitoricominciaronoamuovere learmicontro i liguri intorno alla metà del sesto secolo di Roma . Livio , n e l l a s e c o n d a s u a d e c a , s e g u e n d o il s u o c o s t u m e , n e a v r e b b e certamentefattoconoscereleminute circostanze,ma questa deca interamente ci manca .L. Floro nell’Epitome ne rammenta ilprincipio dicendo: Adversus ligurestuncprimum exercitus promotus est. Ma da altri scrittori romani e da ciò che Livio stesso scrisse nella III e IV deca,lequali per buona sorte ciri mangono , è facile il conoscere che fin qui i romani non profittarono niente sopra i liguri, poichè è anche fuor di dubbio che nel principio della seconda guerra punica quando Anni bale passòleAlpi,iliguri gli prestaronoaiutocontroiromani; e Livio nel primo libro della III deca parra, che col loro fa. vore prese Annibale per insidie due questori romani con due tribuni de'soldati e cinque figliuoli de'sanniti dell'ordine eque stre.Nè dopo scacciatoAnnibaled'Italiasiperderonodianimo, sicchè non tenessero continuamente esercitati i romani nelle a r m i . D e c l i n a n d o il s e s t o s e c o l o d i R o m a , a m b i d u e i c o n s o l i C. Flaminio contro i liguri frisinati ed apuani (i quali scor r e v a n o f i n o n e ' c a m p i P i s a n i e B o l o g n e s i ), e M . E m i l i o c o n t r o glialtriliguridiqua dell'Appennino, furono destinati con due eserciti consolari a soggiogarli: e sebbene ciò avessero i consoli menato ad esecuzione, non mancaron quelli di risorger poi più animosi e forti che prima , sicchè fu d'uopo nel s e guenteannoa'successoriconsoliQ. MarzioePostumio,dopoche questi sispacciarono dalle inquisizioni de'baccanali, riprender la guerra , la quale a Q. Marzio riusci pur troppo infelice , poichè colto ilsuo esercito da'liguri apuanifraluoghistreltie dificili,fudissipatoinguisache,siccomescriveLivio(1),qua tuormilliamilitumamissa,etlegiunissecundæsignatria,undecim vexilla sociorum ac Latini nominis in potestatem hostium venerunt, et arma multa,quæ quia impedimento fugientibusper silvestres semitas erant, passim jactabantur: prius sequendi Ligures finem quam fugæ Romani fecerunt. Marzio fuggi dunque col residuo  (1)Dec.IV,lib.9. - 271   delsuoesercito:nonlamen,soggiunge Livio,obliterarefa mam reimalegestepotuit;nam saltus,undeeumLiguresfu gaverant,Martiusestappellatus.Nè minorifuronoglisforzi ne'seguenti anni de'consoli successori, Sempronio che pugnò contro iliguri apuani ed Ap.Claudio controiliguriingauni. Inbreve,diceLivio(1),eragiàridottoincostume"non de cretarsia'consolialtraprovinciasenon quellade'ligurionde erano quelli spesso intenti a formare nuove legioni per poter abbattere sì valorosi inimici;laqual cosa non ebbe effetto se non sotto L. Emilio Paolo il quale (essendogli stata proro gata la consolare potestà) con potente esercito spedito contro i liguri ingauni ottenne su questi piena viltoria, siccome più tardi M. Bebio l'ottenne su’liguri apuani .E finalmente soltanto verso la fine del secolo, insieme con gl'istri, co' galli cisalpini e con le genti alpine, furono i liguri sottomessi a'romani (2): de’liguri in fatti primieramente trionfo C. Claudio console l'apno 578 , e ne'posteriori anni furono quelli poscia del tutto debellati(3).Di questa costanzaedabitode'liguriallefatiche della milizia ed a soffrire patimenti e disagi, ben si accorse A n n i b a l e , il q u a l e p a s s a t e l e A l p i , n e l l e s u e p r i m e p u g n e c o n tro i romani, più che in altro popolo e più che ne'cartaginesi stessi,poseogni fiduciane'liguride'quali sivalse.E quando profugo da Cartagine ricovrossisotto Antioco re della Siria, il q u a l e a l l o r a a v e a g u e r r a c o ’ r o m a n i , il p i ù s a n o c o n s i g l i o c h e a quel principe pole dare, siccome Livio scrisse (4), fu che dovesse attaccare in due parti i romani dividendo in due classi lanumerosasuaarmata,eduna,dellaqualefossestato An tioco stesso il comandante e l'ammiraglio, diriger nella Grecia per discacciarne i romani , l'altra, dellả quale egli stesso A n nibale sarebbe stato il capitano supremo , dopo avere stretta lega co'cartaginesi, con le navi di questi inviare nel mar li gustico; poichè pensava che sbarcata la sua gente nella Li guria, egli fidando mollo nel coraggio e valore de'liguri osti nati difensori della loro libertà contro i romani , bene avrebbe  . 272 (1)Dec. IV,lib.10,inprinc. (2)Dec. IV,lib.10,et Dec. V, lib.2. (3)Florus Epit.,lib.7,Dec. V. (4)Dec. IV. >   273 . potuto unendo le armi liguri alle sue portar nuova formidabil guerra in Italia e porre nuovo assedio fino alle mura di Roma istessa ; m a quello stolto e vano re non appigliandosi a questo sano consiglio e volendo piuttosto seguire leadulazionide'suoi propricapitani,die'cagionealletantesue perditeesconfitte ed alla sua totale rovina. Ma riguardandosia'secolipiùanoivicini,non dovrà ta cersi un pregio che rese la ligure provincia assai più gloriosa di quante mai possano vantarsi di essere state avventurose madri di eroi e di semidei. Si celebrano cotanto presso i greci e le nazioni tutte del mondo Alcide , Bacco ed Ulisse per le lunghe loro peregrinazioni, per aver debellato i mostri , verteignoteterreescorsiincognitimari.Ma Ercolestesso Chi fu colui che rese isegni diErcolefavolavile a'naviganti industri? Chi fu colui che rese navigabili quelli che prima erano inaccessibili ed ignoti mari, e fece palesi ai noi regni non meno sconosciuli che vasti ? Chi fu colui che spiegando le fortunate sue antenne ad un nuovo polo , oscurò la fama di Alcide e di Bacco , se non il ligure Colombo ? Quanto ben gli si adattano, e con quanta maggiore proprietà e ragione con vengono à lui quelle lodi che Lucrezio diede al suo Epicuro , e che dal nostro incomparabile Torquato assai più acconcia mente furono attribuite al coraggio ed alla grandezza d'animo del Colombo, quando di lui canto : Unuom dellaLiguriaavràardimento All'incognito corso esporsi in prima: Nè ilminaccevol fremito del vento, Nè l'inospitomar,nèildubbioclima, Nè s'altro di periglio o di spavento Più grave e formidabile or si stima, Faran che il generoso entro a'divieti D'Abila angusti l'alta mente accheti (1). (1)Ger.lib.c.XV.  GIANNONE, Pietro. - Nacque il 7 maggio 1676 a Ischitella (Foggia), piccolo centro del Gargano, da Scipione (1646-1725), speziale, e Lucrezia Micaglia (1653-1709). Ebbe quattro fratelli: Francesca (n. 1680), Vittoria (1685-1735), Carlo (1688-1755) e Teresa (n. 1691).  Dopo aver compiuto i primi studi sotto la guida dell'arciprete del paese, Gaetano Serra, dal 1691 il G. studiò per due anni filosofia con un frate francescano. Fu inizialmente destinato allo stato ecclesiastico, ma la famiglia mutò parere e ai primi di marzo del 1694 il G. si trasferì a Napoli, dove, grazie all'aiuto del prozio materno, Carlo Sabatelli, iniziò a studiare diritto presso il procuratore Giovan Battista Comparelli. Nel 1696 divenne allievo di Domenico Aulisio, sotto la cui guida studiò diritto civile e canonico; iniziò poi gli studi storici nella Biblioteca Brancacciana e in quella del cardinale Gerolamo Seripando. Negli stessi anni il poeta leccese Filippo De Angelis lo introdusse alla filosofia di P. Gassendi e ai classici latini, greci e italiani.  Laureatosi il 4 sett. 1698 all'Università di Napoli, dallo stesso anno il G. iniziò a frequentare (anche se marginalmente) l'Accademia di Medinacoeli, in cui conobbe alcune delle maggiori figure della cultura napoletana, fra cui il giurista e poeta Nicola Capasso, il medico Luca Antonio Porzio, il filosofo Gregorio Caloprese e il medico Nicola Cirillo sotto il cui influsso abbandonò la filosofia gassendiana per abbracciare quella di Cartesio. Morto improvvisamente il Sabatelli nel 1700, il G. iniziò l'attività d'avvocato, conducendo il suo apprendistato presso Giovanni Musto, ma, insoddisfatto della sistemazione, si trasferì (su consiglio di don Giovanni Spinelli, che già lo aveva presentato all'Aulisio) presso Gaetano Argento. Per la formazione culturale del G. l'incontro con Argento si rivelò fondamentale, poiché a casa di questo, dal 1702, iniziò a riunirsi l'Accademia de' Saggi, che, proseguendo l'esperienza della Medinacoeli, riuniva un gruppo di giovani giuristi destinati a divenire il nerbo del governo napoletano durante il viceregno austriaco. Fu in quell'Accademia che maturò il progetto d'una nuova storia del Regno, cui il G. diede il suo contributo iniziando a lavorare all'Istoria civile del Regno di Napoli.  Grazie alla sua attività di avvocato, il G. si garantì un agiato tenore di vita che gli permise di chiamare a Napoli il fratello minore Carlo e l'ormai anziano padre. Il G. aveva nel frattempo iniziato una relazione con la popolana Elisabetta Angela Castelli, da cui ebbe due figli: Giovanni (1715) e Carmina Fortunata (1721). Anno decisivo per la sua carriera forense fu il 1715, quando divenne avvocato dei cittadini di San Pietro in Lama in una causa intentata contro il vescovo di Lecce Fabrizio Pignatelli intorno alla questione delle decime. In risposta a due allegazioni di Nicola D'Afflitto, avvocato del vescovo, il G. pubblicò la scrittura Per li possessori degli oliveti nel feudo di San Pietro in Lama contro monsignor vescovo di Lecce barone di quel feudo intorno all'esazione delle decime dell'olive, cui seguì, l'anno successivo, il Ristretto delle ragioni de' possessori degli oliveti. Tali testi, per la marcata e aperta adesione alle più avanzate tematiche giurisdizionaliste e per gli ampi riferimenti che il G. faceva alla storia del Regno, provocarono una forte e vivace discussione e possono considerarsi i suoi primi importanti lavori.  Molto scalpore suscitò nel 1719 la causa in difesa del nipote dell'Aulisio, Nicolò Ferrara, arrestato due anni prima con l'accusa di avere avvelenato lo zio. Vinta la causa, come compenso il G. ottenne dal suo assistito i manoscritti dell'Aulisio, di alcuni dei quali avrebbe poi curato l'edizione. Nel 1718 a Napoli il G. aveva pubblicato intanto, sotto lo pseudonimo di Giano Perontino (anagramma del nome del G.), la Lettera scritta da Giano Perontino ad un suo amico che lo richiedea onde avvenisse che nelle due cime del Vesuvio in quella che butta fiamme ed è più bassa la neve lungamente si conservi e nell'altra ch'è alquanto più alta e intera non duri che pochi giorni. Il breve scritto era frutto degli interessi scientifici che il G. aveva coltivato sin dal suo arrivo a Napoli (riscontrabili in tutte le opere sino a quelle del carcere) e dai quali, come avrebbe affermato nell'autobiografia, s'era dovuto allontanare perché assorbito dagli studi giuridici e storici.  Infatti il G., pur impiegando gran parte del suo tempo nell'attività forense, lavorava alacremente all'Istoria civile. Fu proprio per potervi attendere con più tranquillità che, nel 1718, comprò e restaurò una villa presso Posillipo, detta Dueporte perché si riteneva fosse appartenuta ai fratelli Giovan Battista e Niccolò Della Porta. Nei cinque anni successivi la stesura dell'Istoria lo assorbì sempre di più, tanto che i suoi continui ritiri a Dueporte gli valsero l'ironico soprannome di "solitario Piero". Alla fine del 1720, l'Istoria civile era ormai pressoché completata; il G. fece allora trasferire la tipografia di Nicolò Naso nella villa che il suo amico Ottavio Vitagliano aveva a Posillipo, vicino a Dueporte, e all'inizio del 1721 cominciò la stampa. Poiché, nonostante l'istruzione ricevuta, era più avvezzo al linguaggio giuridico (e al dialetto napoletano) che non all'italiano letterario, il G. chiese allora all'amico Francesco Mela di rileggere l'opera, volgendola, ove necessario, in buon italiano. Nel marzo 1723 l'Istoria civile del Regno di Napoli vedeva finalmente la luce, in un'edizione di 1100 esemplari (1000 in carta ordinaria e 100 in carta reale).   Scritta con lo scopo principale di difendere i diritti e le prerogative dello Stato contro la Curia romana, l'Istoria civile non intendeva tanto apportare nuovi contributi documentari alla storia del Regno, quanto offrirne una nuova interpretazione, esaminandone l'evoluzione dalla disgregazione dell'Impero romano sino al Viceregno austriaco.  Il G. non raccolse (se non per i primi libri) la documentazione direttamente dalle fonti, ma organizzò quella reperibile in altre opere, in particolare nell'Istoria del Regno di Napoli di A. Di Costanzo (L'Aquila, Cacchi, 1581), nell'Historia della città e Regno di Napoli di G.A. Summonte (Napoli 1601-43), nella Historia della Repubblica veneta di B. Nani (Venezia 1662) e nel Teatro eroico e politico de' governi de' viceré del Regno di Napoli di D. Parrino (Napoli 1692-94). Il procedimento gli causò, in seguito, l'accusa di plagio da parte di A. Manzoni nel capitolo VII della Storia della colonna infame, e poi da tutta la storiografia neoguelfa, rappresentata, tra gli altri, da G. Bonacci e C. Caristia. Il giudizio non coglieva l'importanza dell'Istoria civile, che non stava nella ricostruzione erudita degli eventi del Regno, ma nell'affermazione del principio dell'autonomia dello Stato.  In effetti, se dagli storici napoletani il G. traeva le notizie necessarie, i modelli storiografici erano però altri, italiani ed europei. Fra i primi Guicciardini, Sarpi e, soprattutto, il Machiavelli delle Istorie fiorentine: come quest'ultimo aveva attribuito alla Chiesa la responsabilità di avere impedito ai Longobardi la realizzazione in Italia di un forte regno nazionale, così il G. accusava Roma di avere troncato lo sviluppo dello Stato napoletano, distruggendo l'esperienza normanno-sveva con la chiamata di Carlo d'Angiò. L'avversione nei confronti degli Angioini è uno dei temi ricorrenti dell'Istoria civile: alla dinastia francese il G. imputava di avere diminuito il potere regio, accresciuto quello baronale, ma soprattutto di aver riconosciuto giuridicamente il Regno come feudo della Chiesa. A causa di tale acquiescenza verso il Papato, il Meridione avrebbe consumato il proprio distacco dal resto d'Italia, dove invece le dinastie regnanti contrastavano apertamente le pretese di Roma. Fra i modelli stranieri che avevano ispirato il G. erano J.-A. de Thou e U. Grozio, da cui il G. riprendeva la rivalutazione dei barbari, e in particolare dei Longobardi, visti come signori nazionali, nemici di Roma e di Bisanzio. Tanto il G. era avverso agli Angioini quanto mostrava simpatia per gli Aragonesi, i quali, pur fra incertezze e contraddizioni, avevano tentato di restituire al Regno l'autonomia dell'epoca normanno-sveva. Con il dominio spagnolo si era concluso tale tentativo e per questo il G. era fortemente critico verso Madrid, sottolineandone la politica di sfruttamento nei confronti del Regno. L'Istoria civile si concludeva con le pagine dedicate al dominio austriaco, nel quale il ceto civile riponeva le proprie speranze.  L'Istoria era dunque un'opera collettiva, non perché scritta a più mani - come malignamente sostenevano i nemici del G. -, ma in quanto "opera che raccoglieva e organizzava le esigenze del ceto civile" (Ricuperati, 1970, p. 163). Con l'Istoria civile il G. si era proposto di analizzare le ragioni del potere della Chiesa nell'Italia meridionale e in vista di ciò aveva dedicato ampio spazio all'epoca longobarda (l'unica per cui il G. ricorresse direttamente alle fonti). Per dimostrare soprusi e sopraffazioni della Chiesa sul Regno, il G. ricostruiva l'evoluzione politica del Papato, respingendone implicitamente l'origine divina; questo atteggiamento verso la religione, interpretata in chiave esclusivamente politica, rendeva l'Istoriaun'opera del tutto nuova nel panorama storiografico europeo ma motivava anche l'ostilità di Roma verso il Giannone.  Il 17 marzo 1723 il Consiglio municipale di Napoli (gli Eletti) concesse al G. una regalia di 195 ducati e lo nominò avvocato generale della città. Mentre copie dell'Istoria erano inviate a Vienna, a Napoli divampavano le polemiche. Le autorità ecclesiastiche protestarono perché l'opera non aveva ottenuto la licenza del tribunale vescovile (il G., in effetti, non l'aveva chiesta, ritenendola superflua poiché riteneva che l'opera non trattasse argomenti di giurisdizione ecclesiastica) e alcuni religiosi iniziarono a tenere prediche contro il Giannone. In seguito a ciò, il potere civile mutò atteggiamento: il viceré austriaco Friedrich Michael von Althann, che alla fine del 1722 aveva concesso al G. la licenza necessaria per la pubblicazione dell'opera, il 12 aprile, in una riunione del Consiglio del Collaterale, biasimò apertamente gli Eletti, i quali, peraltro, sin dal 7 aprile avevano congelato i provvedimenti a favore del G., nominando una commissione per valutare l'opera. Nello stesso tempo, il Collaterale ordinò la sospensione delle prediche contro il G. e la vendita dell'Istoria.  La situazione volse al peggio al momento del rito di s. Gennaro: poiché il sangue tardava a sciogliersi, il clero napoletano cominciò a sostenere che il santo fosse adirato con i Napoletani per la pubblicazione dell'Istoria civile. Contro il G. si diffusero allora in tutta la città poesie e libelli (diversi dei quali sono oggi conservati in un codice della Biblioteca nazionale di Napoli), mentre la curia arcivescovile si preparava a scomunicare l'opera. Ormai era a rischio la stessa vita del G., il quale, spinto anche dagli amici, decise di recarsi a Vienna per chiedere la protezione dell'imperatore Carlo VI. Dopo alcune esitazioni, il 1° maggio il G. lasciò Napoli per quella che sperava una breve assenza e che, invece, sarebbe stata una partenza senza ritorno. Raggiunta in incognito Manfredonia, da lì si trasferì a Barletta, riparando per alcuni giorni in una villa del fratello di Niccolò Fraggianni; nel frattempo a Napoli il sangue di s. Gennaro si scioglieva. Trovata una nave su cui imbarcarsi, il 25 maggio 1723 era a Trieste, il 27 a Lubiana e ai primi di giugno giungeva a Vienna.  In questa città il G. prese subito contatto con alcuni esponenti della numerosa comunità italiana, fra cui Alessandro Riccardi, Niccolò Forlosia e il medico e bibliotecario di corte Pio Niccolò Garelli, che portò una copia dell'Istoria all'imperatore Carlo VI. Nel frattempo, venuto a conoscenza della scomunica lanciatagli dalla curia arcivescovile di Napoli e della messa all'Indice dell'Istoria civile (1° luglio), il G. ricominciò a scrivere. Dapprima ritornò sul trattato Del concubinato de' Romani ritenuto nell'Impero dopo la conversione alla fede di Cristo, già iniziato a Napoli, poi scrisse due nuovi trattati: De' rimedi contro le proposizioni de' libri che si decretano in Roma e della potestà de' principi in non farle valere ne' loro Stati e De' rimedi contro le scommuniche invalide e delle potestà de' principi intorno a' modi di farle cassare ed abolire (che confluì nell'Apologia dell'Istoria civile). Negli ultimi mesi dell'anno la posizione del G. sembrò migliorare. Il 22 ottobre, in seguito alle pressioni viennesi, la scomunica fu revocata e in dicembre il G. ottenne udienza da Carlo VI, che l'anno seguente gli concesse una pensione annuale "sopra i diritti della Secreteria di Sicilia". Egli non riuscì, però, a ottenere un incarico ufficiale che, come aveva sperato, gli permettesse di tornare a Napoli in una posizione sicura. Decise quindi di fermarsi a Vienna e nel 1726 si stabilì nel palazzo della baronessa Therese Leichsenhoffen von Linzwal, con la sorella minore della quale, Ernestine, aveva stretto una forte amicizia.  Nel frattempo, in Italia apparivano diverse confutazioni dell'Istoria civile. Nel 1724 fu pubblicata a Roma l'Apologia di quanto l'arcivescovo di Sorrento ha praticato cogli economi de' beni ecclesiastici della sua diocesidell'arcivescovo Filippo Anastasio. In risposta Ottavio Ignazio Vitagliano pubblicò a Napoli, nel 1727, una Difesa della real giurisdizione intorno a' regi diritti su la chiesa collegiata appellata di S. Maria della Cattolica della città di Reggio, in cui, pur volendo difendere il G., finiva invece con il criticarlo. Il G. fu allora costretto a reagire con un proprio testo, diffuso a Napoli in forma manoscritta. Nel 1728 apparvero a Roma le Riflessioni morali e teologiche sopra l'Istoria civile del Regno di Napolidel gesuita Giuseppe Sanfelice: rispetto all'opera dell'Anastasio si trattava di un lavoro ben più articolato e problematico, tanto che il G. in un primo tempo aveva deciso di non replicare, ma durante la villeggiatura a Perchtoldsdorf (nei dintorni di Vienna) scrisse la Professione di fede. L'opera conobbe una vasta fortuna, testimoniata da un'imponente circolazione manoscritta, e segnò la definitiva rottura con la Chiesa cattolica. Un'altra Risposta del G. fece seguito alla pubblicazione delle Annotazioni critiche sopra il nono libro dell'Istoria civile di Napoli(Napoli 1732) del padre Sebastiano Paoli, scritte con l'aiuto dell'erudito e antiquario Matteo Egizio, esponente della parte più moderata del giurisdizionalismo napoletano, non disposta a seguire la lezione del Giannone.  Fallite le speranze di ottenere un incarico a Vienna, il G. riprese l'attività forense; oltre a diverse allegazioni per clienti viennesi e napoletani, nel 1725 scrisse il Ragionamento per il signor don Leopoldo Pilati, in cui difendeva i diritti di quest'ultimo alla nomina (poi non avvenuta) a vescovo di Trento dopo la morte di Giovanni Benedetto Gentilotti e, nell'autunno del 1727, il trattato De' veri e legittimi titoli delle reali preminenze che i re di Sicilia esercitano nel Tribunale detto della Monarchia, sulla complessa questione del Tribunale della Monarchia di Sicilia. Al 1731 risalgono due lavori di rilievo: la Breve relazione de' Consigli e dicasteri della città di Vienna, commissionatagli dal reggente Domenico Castelli, e le Ragioni per le quali si dimostra che l'arcivescovado beneventano… sia… sottoposto al regio exequatur, come tutti gli altri arcivescovadi del Regno, opera scritta su incarico della Città di Napoli.  Nel frattempo, con l'apparizione della traduzione inglese dell'Istoria civile (The civil history of the Kingdom of Naples, London 1729-31) iniziava la fortuna europea del G. e dell'Istoria. Sin dal 1728 il G. aveva cominciato a corrispondere regolarmente con gli eruditi tedeschi Siegmund Liebe e Johann Burckard Mencke, e con il figlio di questo, Friedrich Otto, iniziando la collaborazione agli Acta eruditorum Lipsensium. Nel 1729 scrisse la Dissertazione intorno il vero senso della iscrizione "Perdam Babillonis nomen" posta in una moneta di Lodovico XII re di Francia, da alcuni creduta coniata in Napoli l'anno 1502, che, tradotta in latino, uscì a Londra nel 1733 in un'edizione degli Historiarum sui temporis libri XXIV di J.-A. de Thou. All'inizio degli anni Trenta, il G. era ormai un intellettuale inserito nel contesto europeo, per i rapporti di collaborazione stretti con esponenti della cultura inglese e tedesca e per la sua conoscenza, maturata in quel periodo, delle opere che meglio rappresentavano quelle culture. In tal senso, un ruolo fondamentale aveva avuto la frequentazione con il principe Eugenio di Savoia, nella cui ricchissima biblioteca il G. aveva letto i più importanti testi del pensiero libertino e radicale europeo. Da queste sue fertili frequentazioni nei primi anni dell'esilio viennese derivò il progetto della sua opera principale, il Triregno, iniziata nell'estate del 1731, durante una villeggiatura a Medeling, e le cui prime due parti erano quasi terminate due anni più tardi, nel 1733.  Il Triregno si articola in tre parti: nella prima, il Regno terreno, il G. studia la religione ebraica e sottolinea come in essa non si conoscesse un aldilà, in quanto al popolo ebraico si prometteva esclusivamente il dominio sugli altri popoli senza alcun riferimento a mondi ultraterreni. Quello che Dio aveva promesso all'uomo nella Genesi era, dunque, esclusivamente un regno terreno. Nel successivo Regno celeste l'attenzione del G. si sposta al cristianesimo delle origini: studiando i testi neotestamentari, mette in evidenza come fosse stato il cristianesimo a introdurre l'idea di un mondo ultraterreno cui i fedeli erano destinati dopo essere stati giudicati sulla base delle loro azioni mondane. Il Regno papale, l'ultima parte, riprende il discorso iniziato nell'Istoria civile sulle origini del potere del Papato: dopo i primi secoli vissuti in conformità con l'insegnamento evangelico, i pontefici, approfittando della decadenza del potere imperiale dopo Costantino, costituirono il loro Regno sul principio della superiorità rispetto agli Stati mondani.  Nella composizione del Triregnoconcorrevano diverse tradizioni: la fondamentale esperienza del libertinismo erudito, con cui il G. era entrato in contatto negli anni della sua prima formazione napoletana, per influenza dell'Aulisio, dal quale il G. comprese l'importanza della storia ebraica. Molti temi delle Scuole sacre - l'opera di Aulisio uscita postuma nel 1723, pochi mesi dopo l'Istoria civile - ricomparivano, infatti, nel Triregno, filtrati dalle conoscenze acquisite a Vienna: la storiografia protestante tedesca (particolarmente evidente nel Regno celeste, dove forte è l'influenza delle Origines, sive Antiquitates ecclesiasticae di Joseph Bingham e delle Observationes sacrae di Salomon Deyling) e, soprattutto, il deismo europeo postspinoziano. In questo senso importante era stato il rapporto con gli scritti di John Toland (in particolare le Lettere a Serena, Origines Iudaicae e Nazarenus), dai quali il G. trasse la tesi secondo cui gli ebrei credevano nella mortalità dell'anima e non avevano idea di un mondo ultraterreno, e con la storiografia che con questi si era misurata criticamente (come le Vindiciae antiquae Christianorum disciplinae del luterano Johann Laurenz Mosheim).  Il Triregno non era, peraltro, del tutto slegato dall'Istoria civile. La matrice giurisdizionalista era evidente soprattutto nell'incompiuto Regno papale, dove il G. riprendeva il problema delle origini del potere ecclesiastico, affrontandolo, però, con gli strumenti della storiografia protestante: non più "istoria civile" del Regno di Napoli, ma di tutto l'Occidente cristiano. Di qui la persecuzione che la Curia romana mosse contro di lui, riuscendo, infine, non solo a farlo arrestare, ma a entrare anche in possesso dell'autografo del Triregno.  Si impedì così la pubblicazione dell'opera, ma non ne fu, tuttavia, impedita completamente la diffusione, che avvenne grazie a un apografo (probabilmente uscito dagli archivi romani in cui l'originale era custodito). Nel secondo Settecento diversi codici del Triregnocircolarono in Italia e in Europa, e negli anni Sessanta sembrò addirittura imminente una sua pubblicazione, poi non avvenuta, ad Amsterdam.  La conquista del Regno di Napoli a opera di Carlo di Borbone determinò la dispersione della comunità napoletana di Vienna. Ritenendo, con ragione, che fosse in pericolo la sua pensione, basata su rendite siciliane, anche il G. decise, allora, di partire. Lasciò Vienna il 28 ag. 1734, e giunse a Venezia il 14 settembre. Doveva essere solo un punto di passaggio sulla via per Napoli, ma le autorità borboniche gli rifiutarono il passaporto, temendo che un suo ritorno avrebbe compromesso le trattative per il riconoscimento papale del nuovo sovrano. L'ambiente culturale veneziano si rivelò, comunque, ricco di stimoli per il G., che strinse amicizia con il senatore Angelo Pisani, con il principe milanese Alessandro Teodoro Trivulzio, con l'abate Antonio Conti, con l'avvocato Giuseppe Terzi e con il libraio Francesco Pitteri. Con quest'ultimo, in particolare, si accordò per una nuova edizione dell'Istoria civile, per la quale approntò, come quinto tomo, quell'Apologia dell'Istoria civile cui lavorava da tempo e in cui confluirono i tre trattati composti a Vienna. In realtà, anche a Venezia il G. non mancava certo di nemici. Poco dopo il suo arrivo, Domenico Pasqualigo gli aveva offerto la cattedra di diritto civile all'Università di Padova, ma la Curia romana era riuscita a fare sospendere l'offerta. Nello stesso tempo, il nunzio a Venezia, Iacopo Oddi, faceva pressioni sul governo della Serenissima perché il G. fosse cacciato e consegnato alle autorità pontificie. Per screditare il G. venne diffusa la voce che egli avesse criticato la Repubblica veneziana in alcune pagine dell'Istoria civile, obbligandolo così a difendersi: la Risposta a tale accusa confluì anch'essa nell'Apologiadell'Istoria civile. Alla fine del marzo 1735 il G. si stabilì nell'abitazione del Pisani e un mese più tardi fu raggiunto a Venezia dal figlio Giovanni, che aveva lasciato a Napoli dodici anni prima. Riprese, allora, la stesura del Triregno, discutendone con i suoi amici veneziani. Fu nella villa del Pisani a Rovere di Crè (presso Rovigo) che, nel luglio 1735, il G. scrisse la Prefazione al Triregno. Anche questa volta, tuttavia, la tranquillità doveva rivelarsi effimera.  Dopo oltre un anno di complesse manovre sotterranee, il nunzio ottenne il risultato sperato: la notte del 13 sett. 1735, poco dopo aver lasciato, insieme con l'abate Conti, la casa dell'avvocato Terzi, il G. fu catturato da agenti del S. Uffizio, caricato a forza su un'imbarcazione e abbandonato nel Ferrarese, in territorio pontificio. Riuscì quindi fortunosamente a raggiungere Modena e vi restò nascosto per circa un mese, sotto il falso nome di Antonio Rinaldi, protetto, fra gli altri, anche da L.A. Muratori. Iniziò, allora, la stesura del Ragguaglio dell'improvviso e violento ratto praticato in Venezia ad istigazione de' gesuiti e della corte di Roma. Raggiunto, infine, dal figlio, il G. si recò a Milano, allora occupata dalle truppe sabaude, dove sperava nell'aiuto della famiglia del principe Trivulzio. Il 16 nov. 1735 fu ricevuto dal marchese Giorgio Olivazzi, gran cancelliere, il quale gli consigliò di scrivere a Carlo Vincenzo Ferrero marchese d'Ormea, ministro di Carlo Emanuele III di Savoia, per offrirsi come storico di corte. Quel che Olivazzi non poteva sapere era che l'Ormea s'era già accordato con il cardinale Alessandro Albani, offrendogli l'arresto del G. come contropartita per la concessione di un concordato favorevole allo Stato sabaudo al fine di chiudere lo scontro - aperto un ventennio prima da Vittorio Amedeo II - fra Torino e Roma. Da Torino partì quindi l'ordine di arresto del G., che però nel frattempo aveva già lasciato Milano per la capitale sabauda. Non considerando più gli Stati italiani un rifugio sicuro dopo l'esperienza veneziana, il G. aveva deciso di andare a Ginevra, dove era in contatto con l'editore Marc-Michel Bousquet (che sin dal 1729 aveva annunciato la sua intenzione di pubblicare una traduzione francese dell'Istoria civile). Mentre dava l'ordine di arrestarlo a Milano, l'Ormea non poteva immaginare che il G. fosse proprio a Torino, dove si fermò il 27 e il 28 nov. 1735. Giunse a Ginevra il 5 dicembre, dove, pur rifiutando di convertirsi al calvinismo, strinse amicizia con i teologi protestanti Jean-Alphonse Turretini e Jacob Vernet.   A causa delle sue precarie condizioni economiche, decise di pubblicare la traduzione francese dell'Istoria civile, per la quale s'era accordato già da tempo con il Bousquet. Questi, però, aveva sciolto proprio allora la sua società con lo stampatore J.-A. Pellissari, e si era trasferito in Olanda. Fu solo grazie all'aiuto di Vernet che il G. poté trovare un nuovo finanziatore nel libraio Jacques Barillot, ma, quando, all'inizio del marzo 1736, tutto era pronto per la nuova edizione dell'Istoria, il G. fu attirato fraudolentemente in territorio sabaudo e arrestato.  Sin dal 10 dic. 1735 il marchese d'Ormea aveva dato disposizioni per l'arresto al governatore della Savoia, conte Giuseppe Piccon della Perosa. La trama del rapimento è stata raccontata dal G. stesso, nella sua autobiografia, in pagine esemplari per chiarezza e drammaticità. A Ginevra egli aveva preso alloggio presso il sarto Charles Chénevé, da tempo amico di un doganiere sabaudo, tale Giuseppe Gastaldi, il cui fratello era aiutante di campo del conte Piccon. Dapprima Gastaldi si guadagnò la simpatia di Giovanni, il figlio del G., invitandolo spesso a Vésenaz (il piccolo centro savoiardo di fronte a Ginevra, dov'era la dogana) insieme con Chénevé. In questo modo egli venne a conoscenza dei movimenti del G. a Ginevra, informandone Piccon. Dopo aver rifiutato gli inviti del Gastaldi per tutto l'inverno, il G. accettò di assistere alla messa della domenica delle Palme nella chiesa di Vésenaz. Sabato 24 marzo 1736 si trasferì con il figlio a casa di Gastaldi. Questi, presi con sé alcuni soldati, irruppe di notte nella stanza del G. e arrestò lui e il figlio; il giorno dopo, Gastaldi si mise in marcia verso Chambéry. Il G. racconta la gioia del doganiere il quale, tenendo in mano un suo ritratto (probabilmente una copia dell'incisione fatta a Vienna da Jacob Sedelmayer) andava di paese in paese urlando di aver catturato "un grand'uomo".  Giunto a Chambéry la sera del 26 marzo 1736, Gastaldi consegnò i prigionieri al conte Piccon, il quale, il 7 aprile, ne dispose il trasferimento nella fortezza di Miolans, tradizionalmente deputata ad accogliere i prigionieri di Stato (quarant'anni dopo vi sarebbe stato rinchiuso anche il marchese de Sade). Ricevuta notizia dell'arresto, l'Ormea ne informò il cardinale Albani, al quale riferì anche l'intenzione di Carlo Emanuele III di non inviare il G. a Roma, ma di impegnarsi a tenerlo in carcere "perpetuamente". Per quanto la corte di Roma avrebbe preferito giudicare direttamente il G., il 5 maggio Clemente XII ringraziò il sovrano sabaudo per l'arresto del "sedizioso". Ormea e Albani si accordavano, intanto, perché il G. fosse processato dal S. Uffizio piemontese e costretto ad abiurare.  Durante la sua prigionia a Miolans (aprile 1736 - settembre 1737) il G. scrisse l'autobiografia (Vita di Pietro Giannone scritta da lui medesimo) e iniziò, aiutato dal figlio, una prima versione dei Discorsi sopra gli Annali di Tito Livio, un'opera che intendeva offrire a Carlo Emanuele III per l'educazione del principe di Piemonte, il futuro Vittorio Amedeo III. Nello stesso periodo l'Ormea riuscì, grazie al conte Piccon e ad altri agenti sabaudi, a entrare in possesso dei manoscritti delle opere del G. (compreso quello del Triregno), che, dopo esser stati esaminati da Giovanni Antonio Palazzi, abate di Selve, bibliotecario e storico di corte, furono inviati a Roma. Il 15 sett. 1737 il G., separato dal figlio Giovanni (che fece ritorno a Napoli), fu trasferito a Torino (nelle carceri di Porta Po, prima, e nella cittadella, poi). Qui fu affidato alla cura spirituale del padre filippino Giovan Battista Prever. Nel marzo del 1738 prestò formale abiura dei suoi errori di fronte al vicario inquisitoriale, Alfieri di Magliano.  Il testo dell'abiura non era quello che la Curia romana si attendeva, tanto che - contrariamente alla prima intenzione - si decise di non renderlo pubblico. A convincere il G. ad abiurare era stata la speranza di poter tornare presto in libertà, ma il 15 giugno 1738 fu trasferito al forte di Ceva, dove sarebbe rimasto sei anni. Le istruzioni impartite al conte Giuseppe Amedeo De Magistris, governatore del forte, erano per la migliore sistemazione possibile nel castello (il G. fu rinchiuso nella prigione detta "la speranza": due stanze e un anticamera interamente rivestite in legno e chiuse da una porta di pietra). Gli era permessa qualche ora d'aria al giorno (purché non parlasse con nessuno, tranne il governatore e il confessore del forte) e poteva leggere e scrivere (purché le sue opere non uscissero da Ceva se non per Torino).  Nei sei anni di prigionia cebana il G. terminò i Discorsi sopra gli Annali di Tito Livio (conclusi nel maggio 1738) e scrisse altre tre opere: l'Apologia de' teologi scolastici (1739-41), l'Istoria del pontificato di s. Gregorio Magno(1741-42) e L'ape ingegnosa (1743-44). In esse riaffioravano molti temi del Triregno, soprattutto nell'Apologia de' teologi scolastici - dove l'autorità dei Padri della Chiesa era sottoposta a una vera e propria demolizione -, e nell'Istoria del pontificato di s. Gregorio Magno. Quest'ultima, inizialmente concepita come conclusione dell'Apologia, era una vera e propria prosecuzione del Triregno, nel cui Regno papale una vasta parte doveva essere dedicata a tale pontefice. Temi tipici degli autori libertini, in particolare del Toland, grazie a un sapiente uso della Naturalis historiadi Plinio il Vecchio, tornavano anche nelle pagine dell'Ape ingegnosa, vasto e complesso zibaldone, come recita il titolo, di "varie osservazioni sopra le opere di natura e dell'arte", denso di spunti autobiografici.  Nonostante la prigionia, la fortuna europea del G. continuava: nel 1738 ad Amsterdam era apparsa la traduzione francese dei libri sulla "politia ecclesiastica" (Anecdotes ecclésiastiques contenant la police et la discipline de l'Église chrétienne depuis son établissement jusqu'au XIe siècle), nel 1742 l'intera Istoria civile era stata tradotta in francese da C.-G. Loys de Bochat e G. Bentivoglio e pubblicata a Ginevra (ma con la falsa indicazione dell'Aja). Mentre a Torino la diffusione delle opere giannoniane preoccupava le autorità ecclesiastiche, a Ceva il G. entrava in contatto con esponenti della nobiltà locale, che lo incaricarono della stesura di alcune allegazioni forensi.  Nell'estate del 1744, a causa dell'avanzata delle truppe franco-spagnole, allora impegnate contro il Piemonte nella Guerra di successione austriaca, il G. fu trasferito a Torino, dove giunse il 3 settembre. In un primo tempo le condizioni della prigionia nella cittadella si rivelarono assai più dure: il governatore Ercole Tomaso Roero di Cortanze non aveva avuto, come invece il De Magistris, ordini particolari per il prigioniero, il cui trattamento non fu inizialmente dissimile a quello riservato ai molti prigionieri che affluivano nella capitale da tutto il Piemonte. La situazione fu aggravata dalla morte del marchese d'Ormea (maggio 1745), tanto che il 14 maggio 1746 il G. inviò al sovrano un lungo e disperato memoriale sul proprio stato e sulle angherie cui lo sottoponeva il maggiore della cittadella, il conte Giovan Battista Caramelli. Da allora le condizioni della sua detenzione migliorarono sensibilmente. Il suo ritorno a Torino non era passato inosservato; in pochi mesi il G. entrò in relazione con personaggi della corte e della cultura, come i bibliotecari dell'Università Paolo Ricolvi e Antonio Rivautella, e, soprattutto, con il residente inglese, Arthur Villettes, il quale gli fece avere diversi libri della propria biblioteca, grazie ai quali, oltre a quelli avuti dalla Biblioteca reale tramite Roero di Cortanze, il G. poté aggiungere nuovi capitoli all'Apologia de' teologi scolastici e iniziare una nuova versione, rimasta incompiuta, dei Discorsi. Il nuovo interesse destato dal G. suscitò la reazione delle autorità ecclesiastiche: il nunzio a Torino, mons. Ludovico Merlini, protestò presso il sovrano, il quale gli assicurò che le condizioni del prigioniero sarebbero divenute più severe.   In realtà il G. continuò a scrivere e a ricevere libri da Villettes e da Roero di Cortanze sino alla morte, sopraggiunta il 17 marzo 1748.  Il desiderio del G., formulato in una lettera all'Ormea nel marzo 1741, che sulla sua tomba fosse posta un'iscrizione da lui appositamente composta non fu esaudito: il suo corpo fu sepolto nella fossa comune dei prigionieri della chiesa di S. Barbara, all'interno della cittadella. La chiesa fu distrutta intorno al 1860.  Opere: Opere di Pietro Giannone, a cura di S. Bertelli - G. Ricuperati, Milano-Napoli 1971 (con un'accuratissima bibliografia), in cui sono comprese la Vitascritta da se medesimo, pagine scelte dell'Istoria civile, del Triregno, del Ragguaglio del ratto, delle altre opere del carcere e alcune lettere; Istoria civile, a cura di A. Marongiu, Milano 1970; Triregno, a cura di A. Parente, Bari 1940; Dopo la "Giannoniana": problemi di edizione, nuovi reperimenti di fonti e l'introduzione perduta del "Triregno", a cura di G. Ricuperati, in L'Europa fra Illuminismo e Restaurazione.Studi in onore di Furio Diaz, a cura di P. Alatri, Roma 1993, pp. 43-88; un manoscritto del Ragguaglio del ratto è stato pubblicato in Un testo inedito di P. G., a cura di A. Denis, in Archivio storico italiano, CLIII (1995), 4, pp. 709-761. Delle altre opere del carcere l'unica sinora pubblicata in edizione critica è L'ape ingegnosa, overo Raccolta di varie osservazioni sopra le opere di natura e dell'arte, a cura di A. Merlotti, Roma 1993 (con bibliografia dal 1971, pp. CXVII-CXXI). Per le lettere: P. Giannone, Epistolario, a cura di P. Minervino, Fasano 1983; Lettere autografe, a cura di P. Minervino, ibid. 1990 (in entrambi i casi l'edizione non è del tutto affidabile, cfr. la rec. di G. Di Rienzo, in Bollettino storico-bibliogr. subalpino, XCI [1993], 1, pp. 317-322).  Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Torino, Biblioteca antica, Manoscritti di Giannone(inventario a cura di G. Ricuperati, Le carte torinesi di P. G., in Memorie dell'Acc. delle scienze di Torino, classe di scienze morali, storiche e filologiche, s. 4, IV [1962]): nel 1992 il fondo è stato arricchito da documenti autografi del G., in gran parte relativi ai periodi austriaco e veneziano; F. Nicolini, Gli scritti e la fortuna di P. Giannone. Ricerche bibliografiche, Bari 1913; L. Marini, P. G. e il giannonismo a Napoli nel Settecento, Bari 1950; B. Vigezzi, P. G. riformatore e storico, Milano 1961; S. Bertelli, Giannoniana. Autografi, manoscritti e documenti della fortuna di P. G., Napoli 1968; G. Ricuperati, L'esperienza civile e religiosa di P. G., Milano-Napoli 1970; G. e il suo tempo, a cura di R. Ajello, Napoli 1980; A. Merlotti, Settecento e "Risorgimento ghibellino": Giuseppe Ferrari lettore di P. G., in Annali della Fondazione Einaudi, XXVIII (1993), pp. 301-358; Id., Negli archivi del Re. La lettura negata delle opere di G. nel Piemonte sabaudo (1748-1848), in Riv. stor. italiana, CVII (1995), 2, pp. 332-386; G. Ricuperati, P. G.: an itinerary in European free-thinking, in Transactions of the Ninth International Congress on the Enlightenment, Oxford 1996, pp. 242-245; H. Trevor-Roper, P. G. and Great Britain, in The Historical Journal, XXXIX (1996), 3, pp. 657-675; A. Hook, La "Storia civile del Regno di Napoli" di P. G., il giacobitismo e l'Illuminismo scozzese, in Ricerche storiche, XXVIII (1998), pp. 391-402; L. Mannarino, Le mille favole degli antichi. Ebraismo e cultura europea nel pensiero religioso di P. G., Firenze 1999.Grice: “One good thing about the Roman Church (you know, there’s a Jewish Church, too) is Giannone – he was rendered an ‘impious’ by the Church and imprisoned to death. This allowed him to philosophise on the Liguri – and he did!” Pietro Giannone. Giannone. Keywords: la terza Roma, autobiografia, ego-grafia – Vico, Giannone, Genovesi – Liguria – commento su Livio – regno terreno, regno celeste, regno papale --. Storia di roma antica -- giannonismo. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Giannone” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51690283554/in/photolist-2mKGdrq

 

Grice e Gioberti – del bello – filosofia italiana – Luigi Speranza (Torino). Filosofo. Grice: “I like Gioberti; he published ‘Del bene, del bello,’ suggesting they are etymologically connected, and they are: BONUS alternates with BENE in Roman, and the dimintuvie, BENETULUS, gives ‘bellus’ – So the Roman implicature is that the ‘bello’ is a ‘little’ ‘bene’ – or gracious, comfortable, and proportionate, rather than having to do with ‘bene’ itself. – “like bene” – and affectionate diminutive, one hopes!” – Laureato, e parzialmente influenzato da Mazzini, lo scopo principale della sua vita divenne l'unificazione dell'Italia sotto un unico regime: la sua emancipazione, non solo dai signori stranieri, ma anche da concetti reputati alieni al suo genio e sprezzanti del primato morale e civile degli italiani. Questo primato era associato alla supremazia del Papa, anche se inteso in un modo più letterario che politico. Carlo Alberto di Savoia lo nomina suo cappellano. La sua popolarità e l'influenza in campo privato, tuttavia, erano ragioni sufficienti per il partito della corona per costringerlo all'esilio; non era uno di loro e non poteva dipendervi. Sapendo questo, si ritirò dal suo incarico ma fu arrestato con l'accusa di complotto e bandito dal Regno sabaudo senza processo. Andò a Parigi e Bruxelles per insegnare filosofia. Nonostante ciò, trovò il tempo per filosofare con particolare riferimento al suo paese e alla sua posizione.  Essendo stata dichiarata un'amnistia da Carlo Alberto,  divenne libero di tornare in patria. Al suo ritorno a Torino, fu ricevuto con il più grande entusiasmo. Rifiutò la dignità di senatore che Carlo Alberto gli aveva offerto, preferendo rappresentare la sua città natale nella Camera dei deputati, della quale fu presto eletto presidente.  Cadde il governo. Il re nominò Gioberti nuovo presidente del Consiglio. Il suo governo terminò. Con la salita al trono di Vittorio Emanuele II lla sua vita politica giunse alla fine. Ebbe un posto nel consiglio dei ministri, anche se senza portafoglio, ma un diverbio irriconciliabile non tardò a maturare. Fu allontanato da Torino con l'affidamento di una missione diplomatica a Parigi, da cui non fece più ritorno. Rifiutò la pensione che gli era stata offerta e ogni promozione ecclesiastica, visse in povertà e passò il resto dei suoi giorni a Bruxelles, dove si trasferì dedicandosi agli studi filosofici. I primi due licei istituiti a Torino celebrarono uno l'opera diplomatica di Cavour (il Liceo classico Cavour) e l'altro il pensiero, anche politico, di Gioberti (il Liceo classico Vincenzo Gioberti). Gli scritti sono più importanti della sua carriera politica; come le speculazioni di Rosmini-Serbati, contro cui scrisse, sono state definite l'ultima propaggine del pensiero medievale. Anche il sistema di Gioberti, conosciuto come “ontologismo”, più nello specifico nelle sue più importanti opere iniziali, non è connesso con le moderne scuole di pensiero. Mostra un'armonia con la fede che spinse Victor Cousin a sostenere che la filosofia italiana era ancora fra i lacci della teologia e che Gioberti non e un filosofo.  Il metodo per lui è uno strumento sintetico, soggettivo e psicologico. Ricostruisce, come afferma, l'ontologia e comincia con la formula ideale, per cui l'Ens crea l'esistente ex nihilo. Dio è l'unico ente Ens. Tutto il resto sono pure esistenze. Dio è l'origine di tutta la conoscenza umana (le idee), che è una e diciamo che si rispecchia in Dio stesso. È intuita direttamente dalla ragione, ma per essere utile vi si deve riflettere, e questo avviene tramite i mezzi del linguaggio. Una conoscenza dell'ente e delle esistenze (concrete, non astratte) e le loro relazioni reciproche, sono necessarie per l'inizio della filosofia.  Gioberti è, da un certo punto di vista, un platonico. Identifica la religione con la civiltà e nel suo trattato Del primato morale e civile degli Italiani giunge alla conclusione che la chiesa è l'asse su cui il benessere della vita umana si fonda. In questo afferma che l'idea della supremazia dell'Italia, apportata dalla restaurazione del papato come dominio morale, è fondata sulla religione e sull'opinione pubblica. Tale opera e la base teorica del neoguelfismo. In “Rinnovamento e Protologia” si dice che abbia spostato il suo campo sull'influenza degli eventi. La sua prima opera aveva una ragione personale per la sua esistenza. Un amico, avendo molti dubbi e sfortune per la realtà della rivelazione e della vita futura, lo ispirò alla stesura de “La teorica del sovrannaturale”.  Dopo questa, sono passati in rapida successione dei trattati filosofici. La “Teorica” è seguita dalla “Filosofia”, dove afferma le ragioni per richiedere un nuovo metodo e una nuova terminologia. Qui riporta la dottrina per cui la religione è la diretta espressione dell'idea in questa vita ed è un unicum con la vera civiltà nella storia. La Civiltà è una tendenza alla perfezione mediata e condizionata, alla quale la religione è il completamento finale se portato a termine. È la fine del secondo ciclo espresso dalla seconda formula, l'ente redime gli esistenti.  I saggi “Del bello” e “Del buono hanno” seguito l'introduzione. Del primato morale e civile degl'Italiani e Prolegomeni sulla stessa e a breve trionfante esposizione dei Gesuiti, Il Gesuita moderno, pubblicato clandestinamente a Losanna da Bonamici, ha senza dubbio accelerato il trasferimento di ruolo dalle mani religiose a quelle civili. È stata la popolarità di queste opere semi-politiche, aumentata da altri articoli politici occasionali e dal suo Rinnovamento civile d'Italia, che lo ha portato ad essere acclamato con entusiasmo al ritorno nel suo paese natio. Tutte queste opere sono state perfettamente ortodosse e hanno contribuito ad attirare l'attenzione del clero liberale nel movimento che è sfociato, sin dai suoi tempi, nell'unificazione italiana. I Gesuiti, tuttavia, si sono raduttorno al Papa più fermamente dopo il suo ritorno a Roma e alla fine gli scritti di Gioberti furono messi all'indice. I resti delle sue opere, specialmente “La filosofia della rivelazione” e la Prolologia espongono i suoi punti di vista maturi in molte parti. Tutti gli scritti giobertiani, tra cui quelli lasciati nei manoscritti, sono stati pubblicati daMassari (Torino). Il Ministero dei beni culturali ha affidato la redazione dell'edizione nazionale all'Istituto di Studi Filosofici "Enrico Castelli", presso l'Università La Sapienza di Roma. Altre opera: Prolegomeni del Primato morale e civile degli italiani, Enrico Castelli; Primato morale e civile degli italiani, Ugo Redanò; Introduzione allo studio della filosofia, Alessandro Cortese; Teorica del sovrannaturale, Alessandro Cortese; Del rinnovamento civile d'Italia; Vincenzo Gioberti, Del rinnovamento civile d'Italia, Del rinnovamento civile d'Italia, Scrittori d'Italia Bari, Laterza. Cfr. lettera di V. Gioberti a G. Leopardi  in Scritti vari inediti di Giacomo Leopardi dalle carte napoletane, Firenze, Successori Le Monnier. Gioberti visse in Rue des marais S. Germain, hotel du Pont des Arts n° 3.  In lingua latina: "dal nulla", vedi anche la locuzione Ex nihilo nihil fit di Lucrezio. Antonio, su Sistema Informativo Unificato per le Soprintendenze Archivistiche. Istituto Castelli-Roma in.  Anteprima disponibile su  Anteprima della II edizione disponibile su books.google.  Giuseppe Massari, Vita di Gioberti, Firenze, Antonio Rosmini Serbati, Gioberti e il panteismo, Milano, Spaventa, La Filosofia di Gioberti, Napoli, Achille Mauri, Della vita e delle opere di Gioberti, Genova, Giuseppe Prisco, Gioberti e l'ontologismo, Napoli, Pietro Luciani, Gioberti e la filosofia nuova italiana, Napoli, Domenico Berti, Di  Gioberti, Firenze, Giorgio Rumi, Gioberti, Bologna, Il mulino, Mario Sancipriano,  Gioberti: progetti etico-politici nel Risorgimento, Roma, Studium,  Francesco Traniello, Da Gioberti a Moro: percorsi di una cultura politica, Milano, Angeli, Gianluca Cuozzo, Rivelazione ed ermeneutica. Un'interpretazione di Gioberti, Milano, Mursia, Mustè, La scienza ideale. Filosofia e politica in Gioberti, Soveria Mannelli, Rubbettino, Mustè, Il governo federativo, Roma, Gangemi, Alessio Leggiero, Il Gioberti Frainteso. Sulle tracce della condanna, Roma, Aracne,  Dizionario biografico degli italiani,  Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Il contributo italiano alla storia del Pensiero: Filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Gioberti attuale – Il Popolo d’Italia -- Non bisogna cedere alla facile tentazione erudita di dare troppi precursori al fascismo, come si è fatto da taluno in questi ultimi tempi. Il fascismo ha molti precursori e e non ne ha nessuno. Non ne ha nessuno se alla parola « precursore » si dà un significato strettissimo o letterale, ne ha molti se la stessa parola viene interpretata in un senso più lato. ln quest'ultima categorià può esser posto Vincenzo Gioberti. Ecco un autore che appare oggi « attuale » più di quanto non fosse fra il 1840 e il 1850 o anche semplicemente venti anni fa. Ci sono nelle pagine dei suoi libri notazioni, istruzioni, moniti, previsioni che il tempo ha confermato. Si vuole oggi, dal fascismo, una gioventù studiosa, che sia forte nel corpo come nello spirito. Or ecco come il Gioberti, a proposito della necessità dell'educazione fisica giovanile, si esprimeva nel suo Primato: « I giovani indurino il corpo avvezzandolo al sole, allenandolo alla corsa e ai ginnici esercizì, rompendolo alle operose veglie e alle utili fatiche, costringendolo a nutrirsi di cibi frugali, a posare su dura coltrice e assoggettandolo in ogni cosa allo imperio dell'animo, il quale col domare i sensi; si rende libero e franco e si dispone ai nobili affetti, ai vasti e magnifici pensieri ». Il fascismo ha battuto sempre in breccia certi persistenti snobismi linguaioli, che sono ormai superstiti soltanto in piccoli gruppi. Vedete come Gioberti flagellava gli esotismi del tempo che facevano preferire le lingue straniere all'italiana, l'abietto « forestierume », come, con parola di scherno supremo, diceva il Gioberti: « Riscuotano dunque se stessi da ogni ombra di forestierume, non solo nelle cose gravi ma anco nelle leggere, perché queste concorrono a informare il costume, che in opera di mutazioni morali è la somma del tutto. E non lieve faccenda, ma gravissima e importantissima è la lingua nazionale così per la stretta ed intima congiuntura dei pensieri con le voci, onde gli uni tanto valgono quanto l'espressione che li veste (dal che segue che le parole non sono pur parole, ma eziandio cose) come perché essendo ·la favella lo specchio più compito e più vivo delle specialità morali e intellettive di un popolo, chi la trascura e disprezza non può essere veramente libero, né aver cara l'indipendenza e la libertà della patria. Perciò indizio grave di servilità e di declinazione civile e prova non dubbia di poco amore verso il luogo natìo, è il trasandare la propria loquela e il vezzo di parlare o di scrivere senza bisogno di lingua forestiera. Tale indegno costume è altresì basso e vile! ». Pochi scrittori hanno, più del grande pensatore torinese, posto in rilievo la somma importanza della lingua nella vita di un popolo e i pericoli insiti nel trascurarla o avvilirla. L'ostracismo che il regime ha dato agli eccessivi dialçttismi e ai tentativi di creare su basi regionali delle letterature dialettali, trova la sua più alta giustificazione in questo superbo brano ,di prosa giobertiana. E da ricordare che il Gioberti definisce la italiana come « la più bella delle lingue vive ». « Lo stile, dice Giorgio Buffon, è l'uomo; lo stile e la lingua, dico io, sono il cittadino. La lingua e la nazionalità procedono di pari passo, perché quella è uno dei principi fattivi e dei caratteri principali di questa, anzi il più intimo e fondamentale di tutti, come il più spirituale, quando la consanguineità e la coabitanza poco servirebbero ad unire i popoli unigeneri e compaesani, senza il vincolo morale della comune favella. E però il Giordani insegna che "la vita interiore e la pubblica di un popolo si sentono nella sua lingua", la quale "è l'effige vera e viva, il ritratto di tutte le mutazioni successive, la più chiara e indubitata storia dei costumi di qualunque nazione e quasi un amplissimo specchio in cui mira ciascuno l'immagine ·della mente di tutto e tutti di ciascuno". E il Leopardi non dubitò di affermare che "la lingua e l'uomo e le nazioni per poco non sono la stessa cosa" ». Parole queste che non saranno mai abbastanza meditate. Quanto alla missione di Roma nella storia italiana e in quella europea e universale, ecco alcune citazioni di Gioberti che hanno un sapore attualissimo. « Il genio orientale affine a quello dell'Italia, se non altro perché Roma fu una volta e sarà forse di nuovo un giorno, se posso così esprimermi, l'oriente dell'Oriente ». « Roma in effetto, nel bene come nel male, nei tempi antichi come nei moderni, è arbitra suprema e norma delle genti italiche ». La figura di Gioberti, quale filosofo e patriota, ci è giunta un poco deformata dalle polemiche del tempo. Ma bastano le citazioni di cui sopra per far vedere che la portata educatrice del pensiero giobertiano, non è diminuita con le vicende del tempo. Gioberti è « attuale », anche e soprattutto oggi, nell'Italia del Littorio. The next day in “Il Popolo d’Italia” by Scrittore Fascista. Ancora Gioberti (Pubblicato in « Il Popolo d'Italia », 11 febbraio 1934)  di Scrittore fascista  La prosa giobectiana è ricca di parole asprigne, saporose e di neologismi indovinati. Si incontrano parole come queste: schifiltà, infemminire nell'ozio, forestierume, perennare, sfasciume, smanceroso, attillature, disviticchiare, mollizie, delicature, uomini faticanti, laicocrazia, fogliettisti, ecc. Ma più importanti sono sempre i pensieri del filosofo torinese. In tutte le questioni egli ha un punto di vista, che rappresentando le verità fondamentali, vale, oggi, come nel 1850. Ecco con quali termini il Gioberti stabilisce i compiti e i doveri di un'aristocrazia degna di questo nome. Si tratta dell'educazione da impartire ai figli degli aristocratici. « Imprimano in essi la semplicità dei modi, la grandezza dell'animo, l'austerità del costume, la tolleranza nelle fatiche, la fermezza nelle risoluzioni, J'intrepidità nei pericoli, la generosità nei travagli; li assuefacciano a contentarsi del poco, a fuggire gli agi e le pompe, a tenersi per depositari anziché padroni della loro ampia fortuna, come di un tesoro da dispensarsi in opere di beneficenza e in imprese di utilità pubblica ». Nel Gioberti si trova l'incentivo e la giustificazione delle opere di ripristino archeologico, alle quali il regime si è particolarmente consacrato, non soltanto a Roma, ma in ogni parte d'Italia. Se Vincenzo Gioberti potesse vedere lo spettacolo meraviglioso della Roma di oggi, dovrebbe fare constatazioni diverse da quelle del suo tempo. Gli scavi, la esumazione e la restaurazione degli antichi monumenti, non giovano soltanto a documentare al mondo la nostra gloriosa storia trimillenaria, ma sono anche fonti di ricchezza, per il richiamo che essi esercitano su tutte le ·genti del mondo civile. Le poche decine di milioni spese per creare quei capolavori che sono la via dell'Impero, la via dei Trionfi, la via del Mare, sono già stati recuperati almeno cento volte, attraverso l'affluire ìnces.sante degli stranieri. Ma Gioberti insisteva sul lato educativo e morale delle ricerche archeologiche così esprimendosi: « Egli è doloroso a pensare che così pochi siano al dl d'oggi gli italiani solleciti di conoscere e studiare le patrie rovine e che tale inchiesta si abbandoni, come inutile, all'ozio erudito di qualche antiquario. L'archeologia non meno della filologia, ben !ungi dall'essere una scienza sterile e morta, è viva e fecondissima, perché oltre a rinnovare il passato, giova a preparare l'avvenire delle nazioni. Imperocché la risurre2ione erudita dei monumenti nazionali porta seco il ristauro delle idee patrie, congiunge le età trascorse colle future, serve di tessera esterna e di taglia ricordatrice ai popoli risorgituri, destandone ed alimentandone le speranze colla voglia e con l'esca delle memorie ». Tutta la storia d'Italia passa in rapide sintesi potenti nelle meditazioni di Gioberti. I periodi di grandezza e di miseria, gli alti e bassi del nostro popolo, trovano nel Gioberti un indagatore e un illustratore vigoroso e penetrante. Egli « sente » la storia e come s'inorgoglisce parlando dei periodi di splendore, è amaro e violento quando trae a descrivere le epoche di decadenza. Nella citazione che segue sono condensati tre secoli della nostra storia, i quali dal punto di vista politico sono stati oscuri, perché furono secoli di divisione e di servitù. « Le ultime faville di virtù e di carità patria perirono in Italia colla repubblica di Firenze; spenta la quale dalla truce e schifosa progenie dei secondi Medici, l'ingegno secolaresco, costretto a menar vita privata ed umbratile, non ebbe più altro campo dove esercitarsi che quello degli studi: in cui rifulsero ancora tre sommi laici, il Tasso, il Galilei, il Vico, che nel culto della sapienza poetica, naturale, filosofica, andarono innanzi a tutti, e risposero in un certo modo alla triade clericale e monachile del Bruno, del Campanella e del Sarpi. Ma il rinnovamento del ceto civile nella penisola e la creazione dell'Italia laicale è dovuta a Vittorio Alfieri, che, nuovo Dante, fu il vero secolarizzatore del genio italico nell'età più vicina e diede agli spiriti quel forte impulso che ancora dura e porterà quando che sia i suoi frutti ». Questa profezia del Primato si è avverata. L'impulso dato da Alfieri diede i suoi frutti col Risorgimento. Dopo una eclissi, tale impulso è lo stesso che scatenò il maggio radioso del '15 e la marcia di ottobre del '22. È l'impulso che fece vincere la guerra e trionfare la rivoluzione. Non ancora un secolo è passato e già queste parole del Primato giobertiano fiammeggiano nei cuori delle generazioni littorie. « Italiani - diceva Gioberti - qualunque siano le vostre miserie, ricordatevi che siete nati principi e destinati a regnare moralmente sul mondo! ». GIOBERTI, Vincenzo. - Nacque a Torino il 5 apr. 1801 da Giuseppe, impiegato, e da Marianna Capra. Un dissesto finanziario del padre, morto prematuramente, rese molto precarie le condizioni economiche della famiglia. Formatosi nelle scuole dei padri oratoriani, rivelò precoci interessi per la letteratura e per gli studi filosofici e teologici, e annoverò tra i suoi maestri e guide spirituali G.G. Sineo, poi ricordato come "il solo vero prete moderno" che avesse incontrato. Tuttavia il G. fu essenzialmente un autodidatta, che, nonostante la malferma salute, si dedicò con inaudita intensità alle più disparate letture, toccando anche il settore linguistico, storico, naturalistico, geografico, politico (con una precoce passione per N. Machiavelli), e lasciandone traccia in una congerie sterminata di appunti e di pensieri: in uno dei quali rivelava di essere stato "reso anti-monarchico dalla lettura dell'Alfieri, irreligioso, ma per poco, da Rousseau, pirronista dagli altri filosofi" (Meditazionifilosofiche inedite, p. 45). Tali frammenti provano come il giovanissimo G. accumulasse una rilevante cultura filosofica, in parte di tipo manualistico, ma in parte notevole ricavata da letture di prima mano (sebbene non sempre nella lingua originale) concernenti in special modo le opere di Platone, s. Agostino, F. Bacon, J.-B. Bossuet, G. Vico, G.W. von Leibniz, N. de Malebranche, G.S. Gerdil, J.-J. Rousseau e I. Kant. Quest'ultimo, unitamente alla "scuola scozzese" di Th. Reid, appariva al G. il filosofo che aveva riportato "nel campo dell'osservazione quel principio pensante, che molti aveano a tal segno obliato da confonderlo coi sensi e colla materia" (ibid., p. 167). Alla linea di pensiero che il G. definiva allora idealistica si affiancò il confronto ravvicinato, ma costellato di dissensi, con il tradizionalismo cattolico di J. de Maistre, L.-G.-A. de Bonald, F.-A.-R. de Chateaubriand, P.-S. Ballanche e delle prime opere di F.-R. de La Mennais. È da osservare che il G. conosceva bene il francese, appreso dalla madre, e, ovviamente, il latino, ma non il greco, mentre nel 1821 aveva iniziato, senza però approfondirlo, lo studio dell'ebraico e del tedesco.   In linea generale, prevalse nel giovane G. un orientamento eclettico, considerato peculiare dei "cristiani filosofi" e apertamente professato in opposizione allo "spirito esclusivo" dei sistemi, pur in un quadro teorico segnato dalla polemica antisensistica e dalla ricerca, non priva di momenti laceranti, di un punto di equilibrio tra una persistente venatura scettica e l'ancoraggio, punteggiato peraltro da corrosivi spunti anticlericali, alla religione cattolica, assunta come deposito di verità oggettive, attingibili per via razionale solo in maniera parziale e frammentaria. Oltre che sul piano teoretico, la necessità della rivelazione cristiana s'imponeva per il giovane G. sul piano pratico e politico, essendo "una religione rivelata e positiva l'organo indispensabile della morale nella società", ovvero anche "un'obbligazione sociale", chiamata a integrare "il mantenimento e l'accrescimento dei diritti", indicati come fine della politica. La ragionevolezza dell'adesione alle verità dogmatiche della fede cattolica, tenute distinte da quanto nella società religiosa vi è di accidentale e di transeunte, sostituiva, nel giovane G., l'idea di religione naturale d'impronta deistica, facendo salvi, da un lato, il principio di una rivelazione soprannaturale depositata nella Chiesa cattolica e, dall'altro, il concetto di un suo progressivo dispiegamento nella storia umana.  Membro dell'accademia ecclesiastica fondata dal Sineo e di quella dall'abate L. Solaro, il G. risentì dell'impronta - probabiliorista in campo morale e cautamente giurisdizionalista in campo ecclesiastico - della facoltà teologica torinese, da cui trasse alimento il suo vivace antigesuitismo. Addottorato in teologia il 9 genn. 1823, fu aggregato alla facoltà teologica l'11 ag. 1825, con la discussione di tre tesi: De Deo et naturali religione, notevole per la padronanza della relativa letteratura sei-settecentesca, De antiquo foedere, De christiana religione et theologicis virtutibus, la cui edizione accademica restò per quattordici anni l'unica opera del G. data alle stampe. Poco prima, il 19 marzo 1825, era stato ordinato sacerdote, dopo che la curia torinese e forse lo stesso arcivescovo C. Chiaverotti erano intervenuti per vincere la sua ritrosia all'ordinazione. Nel gennaio 1826 fu nominato cappellano di corte con uno stipendio annuo di 480 lire.  Notevoli zone d'ombra caratterizzano la fase successiva della sua biografia. La stessa renitenza del G. a tradurre in pubblicazioni l'immenso materiale accumulato, nonostante la notorietà acquisita negli ambienti colti e l'attività svolta in alcuni circoli filosofici e letterari, appare indicativa sia di una persistente fluidità del suo pensiero, sia della percezione di un sempre più chiuso clima intellettuale e politico, che il G. tendeva ad attribuire, sul fronte ecclesiastico, alle mene dei gesuiti e della "frateria" - da lui personalmente contrastati in occasione della vicenda che aveva coinvolto il teologo G.M. Dettori, allontanato dalla cattedra universitaria nel 1829 con l'accusa di giansenismo - e, sul versante politico, all'involuzione autoritaria del governo sabaudo.  Tra il 1826 e il 1833 la riflessione del G. sui rapporti tra religione e filosofia e tra religione e vita sociale seguì un percorso non lineare. Ne sono documento eloquente le lettere indirizzate a G. Leopardi (personalmente conosciuto nel 1828 a Firenze, durante un viaggio per l'Italia in cui il G. ebbe modo di incontrare anche A. Manzoni), le lettere al giovane amico e discepolo C. Verga e una lettura accademica sull'accordo della religione cattolica coi progressi della società civile (Ricordi biografici e carteggio, a cura di G. Massari, I, pp. 116-126).  Scrivendo al Leopardi da Torino il 2 apr. 1830, il G. confessava di aver professato nel passato "un puro teismo", e di aver mutato idea in seguito a nuove indagini sulla "verità del Cristianesimo (e quindi del Cattolicismo che è la sola forma invariabile di quello) come sistema dottrinale e come fatto storico", e di essere approdato a una "adesione intima, schietta, profonda alla religione cattolica", che gli aveva consentito di vincere "i fastidi, le amaritudini, i terrori, la malinconia" che fin allora lo avevano tormentato (Epistolario, I, pp. 41-44). Due anni dopo, reduce dall'aver "letto a furia" Le mie prigioni di S. Pellico, scriveva al Verga una lettera in cui, opposto "il cristianesimo di Silvio" a quello dei gesuiti, dei "nemici della filosofia e della civiltà", rivelava di essere divenuto assertore di una religione filosofica: cioè di una religione "immedesimata" e non solo conciliata con la filosofia, fondamento di una morale austera, "ispiratrice di azioni grandi e generose, e dell'oblio di se medesimo per intendere unicamente al bene della patria" (ibid., pp. 131-133).  Nei primi anni Trenta, anche in seguito alla lettura del Nuovo saggio sull'origine delle idee di A. Rosmini Serbati, il G. enunciò in modo più stringente e sistematico l'idea di una diretta connessione tra risorgimento filosofico e risorgimento nazionale, appellandosi a una tradizione filosofica autoctona, dispiegata genealogicamente da Pitagora al Rosmini, attraverso la scuola eleatica, la patristica latina, l'umanesimo e G. Vico (lettera a C. Verga, 23 dic. 1831, ibid., pp. 69-73). Dichiarandosi continuatore di questa linea ideale, il G. manifestò una speciale consonanza con il pensiero di Giordano Bruno, facendo a più riprese, in parallelo con l'evoluzione delle proprie idee politiche, professione di panteismo.  Tale collegamento è attestato da una lunga lettera, scritta probabilmente nella primavera-estate del 1833 ai compilatori della Giovine Italia e ivi pubblicata sotto lo pseudonimo di Demofilo nel 1834. Il G. vi esaltava il panteismo come la sola filosofia "destinata a fiorire un giorno col voto unanime dei buoni ingegni", affermando di avvertire nelle dottrine politiche professate dai mazziniani "un'applicazione di questi dettati" (ibid., II, pp. 5-25; cfr. anche lettera al Verga del 9 apr. 1833, ibid., I, pp. 167-172). La lettera, ripubblicata con intenti antigiobertiani nel 1849 non da G. Mazzini, come a lungo si credette, ma probabilmente da C. Cattaneo, col titolo Della repubblica e del cristianesimo, era rivelatrice di una radicalizzazione delle convinzioni del G., coinvolto in una serie di vicende destinate a mutare il corso della sua esistenza: vi si proclamava la necessità di una religione civile finalizzata alla liberazione dei popoli, ma, contemporaneamente, l'impossibilità di dar vita a "una religione veramente nuova […], tanto che i filosofi, e gli uomini universalmente cominciano a persuadersi, che fuori del Cristianesimo non v'ha religione"; e vi si accennava a una lettura escatologica, ma non solo ultraterrena, dell'idea cristiana di salvezza e di redenzione, implicante una sua dilatazione dalla sfera individuale a quella sociale, prefigurata nella promessa di un regno "da aspettarsi eziandio in questo mondo". Nell'accezione giobertiana, ispirata ora a un messianismo politico-sociale in vesti cristiane cui non erano estranei gli echi delle dottrine sansimoniane, il motto mazziniano "Dio e il popolo" diventava così il presupposto di una "cristianità novella", l'annunzio di un'epoca imminente in cui "Iddio sarà umanato non nel figliuolo dell'uomo, ma nel popolo", e destinato non alla croce, ma a un "regno stabile, a una pace perpetua, all'immortalità e alla gloria".   L'abito di prudenza e di riservatezza adottato dal G. non impedì che le sue idee destassero diffusi sospetti di ateismo anche presso i suoi superiori. Ciò lo indusse il 9 maggio 1833 a lasciare la carica di cappellano e a rinunciare al relativo stipendio. Nel frattempo si era affiliato a una società segreta, detta dei Circoli, e poi ad altra associazione patriottica di dubbia identificazione, forse i Veri Italiani; non sembra che mai entrasse nella Giovine Italia, sebbene coltivasse intimi rapporti con alcuni suoi affiliati, come l'abate P. Pallia. In seguito a delazione, fu quindi coinvolto nella repressione prodotta in Piemonte dalla scoperta della congiura mazziniana del 1833, arrestato con pesantissime accuse il 31 maggio e tenuto in carcere, senza processo, fino al settembre. Qui lo raggiunse un provvedimento immediatamente esecutivo che lo esiliava senza permettergli di incontrare alcuno dei suoi amici.  Per poco più di un anno, dall'ottobre 1833 alla fine del 1834, il G. visse a Parigi in una situazione assai precaria, che lo induceva ad autorappresentarsi nei panni di uno "sdottorato" e uno "spretato" (era privo di celebret per la messa), di uno che aveva "perduto tutto". Nonostante le relazioni intrecciate con i molti italiani insediati stabilmente o temporaneamente nella capitale francese, come il matematico G. Libri, A. Peyron, T. Mamiani, C. Botta, e con esponenti di primo piano del mondo accademico francese, come V. Cousin e J.-J. Champollion, visse in relativo isolamento, in una città che considerava il "microcosmo d'Europa" ma non amava, ascoltando le lezioni accademiche di C. Fauriel e di Th.-S. Jouffroy, impartendo per vivere lezioni private d'italiano e progettando, senza realizzarli, lavori di argomento filosofico o di polemica politica sulla sanguinosa repressione seguita alla congiura del 1833 e al tentativo mazziniano del 1834. Nella febbrile atmosfera intellettuale della monarchia di luglio il G. avvertì come sintomi di una crisi epocale, ma senza condividerne appieno i contenuti, i messaggi di rinnovamento sociale espressi dalla tarda scuola sansimoniana, da Ph.-J.-B. Buchez, dalle Paroles d'un croyant di F.-R. de La Mennais. Lo scenario parigino, che gli appariva connotato dalla totale estinzione del culto e della pratica cattolica, fornì nuovo alimento alla venatura apocalittica del suo pensiero, che gli faceva presagire come prossima la "fine del mondo; ma del mondo antico, donde sorgerà il nuovo", nel quale "gli ordini morali di Cristo" sarebbero diventati "gli ordini civili delle nazioni", compenetrando lo Stato sino a produrre "una società di uomini, retta da sé medesima, sotto la legge universale, una, libera, fiorente, morigerata, santa, ed esprimente la concordia del cielo colla terra" (lettera all'abate P. Unia, 14 maggio 1834, ibid., I, pp. 134-139). Per altro verso, si approfondiva sino a divenire inconciliabile il dissenso del G. nei riguardi della linea mazziniana e verso i movimenti insurrezionali, cui attribuiva la responsabilità di aver "impedita o spenta una metà almeno di quel civile progresso che altrimenti or sarebbe in Italia". Ne discendeva un caldo invito, rivolto ai suoi numerosi corrispondenti piemontesi, all'accorta prudenza e a un lavoro di lunga lena finalizzato a un apostolato politico basato sull'aperta propaganda delle idee patriottiche. Dall'insieme delle posizioni giobertiane dell'esilio parigino trasparivano una sostanziale sfiducia nel grado di maturazione raggiunto dalla coscienza nazionale del popolo italiano, "languido, diviso e inerte", un'attenuazione delle antecedenti pregiudiziali repubblicane e l'abbandono delle convinzioni panteistiche. Sul piano politico, il G. inquadrava ora la questione nazionale nella riapertura, ritenuta certa, del ciclo rivoluzionario in Francia e nella susseguente esplosione di una guerra europea, condizioni determinanti della liberazione dell'Italia dall'Austria e della cacciata definitiva dei "nostri tiranni".  Nel dicembre 1834 accettò, anche per ragioni economiche, l'offerta di assumere l'insegnamento di storia e filosofia nel collegio fondato a Bruxelles da P. Gaggia (un ex sacerdote italiano convertitosi al protestantesimo), che ospitava un centinaio di giovani cattolici ed evangelici. Forse anche in relazione alla più pacata atmosfera politica del Belgio, dove i cattolici erano parte attiva del sistema costituzionale sortito dalla rivoluzione del 1830, il G. proseguì nella revisione ideologica già profilatasi nel periodo parigino, prospettando più lucidamente che nel passato un'esigenza di conciliazione, che non implicasse identificazione, tra dogmatica religiosa e idee filosofiche e tra ordine soprannaturale e ordine civile. Dichiarava in proposito che, mentre in precedenza aveva immedesimato i dogmi cristiani colle idee, ora li disgiungeva, evitando di ridurre il cristianesimo a una simbolica filosofia, ma considerandolo invece "il compimento della filosofia medesima" (a P.D. Pinelli, 15 apr. 1835, ibid., II, pp. 239-243). Ne conseguì la decisione di produrre finalmente delle opere a stampa. Ai primi del 1838 vide infatti la luce a Bruxelles una sua "dissertazione religiosa" intitolata Teorica del soprannaturale, o sia Discorso sulle convenienze della religione rivelata colla mente umana e col progresso civile delle nazioni, composta in poco più di un mese sul finire del 1837 e stampata a spese dell'autore; cui seguirono, in rapida successione, l'Introduzione allo studio della filosofia (Bruxelles 1839-40), che ebbe una circolazione superiore a quella, inizialmente limitatissima, della Teorica, sebbene di entrambe le opere venisse interdetta l'introduzione nel Regno sardo; la Lettre sur les doctrines philosophiques et politiques de m. de Lamennais (dapprima anonima, nel Supplement à la Gazette de France dell'8 genn. 1841, poi con firma e con titolo leggermente mutato a Parigi-Lovanio, 1841); il saggio Del bello, composto come voce dell'Enciclopedia italiana e dizionario della conversazione (Venezia) diretta da A.F. Falconetti, e pubblicato anche come volume a sé nell'autunno del 1841, prima opera del G. edita in Italia, che doveva essere seguita da un altro testo destinato alla stessa sede, Del buono, uscito invece in forma autonoma a Bruxelles nel 1843; e le dieci lettere Degli errori filosofici di Antonio Rosmini (Bruxelles 1841; la seconda edizione, del 1843-44, portava a 12 il numero delle lettere e comprendeva altri scritti giobertiani).  Nella Teorica il G. faceva i conti con il proprio antecedente itinerario intellettuale e con le tendenze filosofico-religiose del suo tempo. L'opera, imperniata sull'analisi delle relazioni tra ordine religioso e ordine civile osservate sotto un'angolatura gnoseologica, etica e storica, aveva come principale obiettivo polemico la riduzione monistica della sfera religiosa a quella civile o viceversa, operata, secondo il G., dalle teorie razionalistiche e panteistiche, dal "cristianesimo politico" dei sansimoniani alla Buchez, dal tradizionalismo antimoderno di Maistre, Bonald e del primo La Mennais. Dalle dottrine tradizionalistiche, tuttavia, il G. prendeva, rielaborandola, l'idea di una rivelazione primitiva cui veniva fatta risalire sia l'attivazione (mediante il dono soprannaturale del linguaggio) della facoltà di conoscere e di volere e quindi l'origine della civiltà, sia l'infusione nella mente umana di verità sovraintellegibili, percepite come misteri, analizzabili razionalmente solo per via analogica, e fondanti l'ordine religioso. Ne discendeva una storia parallela, basata sul principio di distinzione e di interrelazione, della civiltà e della rivelazione religiosa, anch'essa rappresentata come progressiva, fino al suo compimento nella rivelazione cristiana, custodita integralmente e infallibilmente dalla Chiesa cattolica. Il tracciato di questo duplice cammino era per il G. contrassegnato dal progressivo incremento del ruolo della religione come "causa e stromento" di civiltà, e dal graduale accostamento degli ordini politici al modello di società organizzata costituito dalla Chiesa (visibile tra l'altro nell'applicazione alla sfera politica del sistema elettivo proprio degli ordini ecclesiastici). Emergevano pertanto dalle pagine della Teorica i lineamenti di una rilettura cattolica della genesi della civiltà moderna, in opposizione alla tesi delle sue origini protestanti, e una riaffermazione del primato della religione sulla civiltà e della Chiesa sullo Stato, che si traduceva nella confutazione dei sistemi politici, assoluti o democratici che fossero, i quali implicassero una subordinazione della religione alla volontà del sovrano. Si trattava, in definitiva, di un'apologia del cattolicesimo in senso civile, che nello scorcio conclusivo dell'opera assumeva una marcata impronta nazionale.  Tale impronta era ancora più forte nell'Introduzione allo studio della filosofia. L'opera era infatti imperniata sull'idea che toccasse all'Italia, dopo un lungo periodo di oscuramento della sua tradizione filosofica determinato dalla perdita dell'"indipendenza civile", promuovere la restaurazione della "vera filosofia", scomparsa dall'orizzonte europeo in seguito all'espulsione dell'"idea di Dio dallo scibile umano", e porre rimedio agli effetti devastanti prodotti sul piano politico dalla diffusione di falsi principî filosofici, generatori delle due contrapposte tirannidi prevalenti nel mondo moderno, quella dei despoti e quella del popoli, dipendenti "dallo stesso principio, e aventi uno scopo unico, cioè il predominio della forza sul diritto". L'Introduzione intendeva porre le basi di un organico sistema filosofico (inteso in senso molto estensivo), in grado di contrapporsi alle deviazioni psicologistiche, soggettivistiche o panteistiche della filosofia moderna generate principalmente, sul piano speculativo, dal pensiero e dal metodo analitico di Cartesio e, su quello religioso, dalla Riforma: un sistema imperniato sull'Idea, intesa, a suo dire, in un'accezione totalmente diversa da quella utilizzata dai sensisti, dagli idéologues e dai panteisti moderni (tra cui G.W.F. Hegel), e analoga invece a quella platonica e malebranchiana. Il riferimento all'Idea, intuita dalla mente umana come oggetto reale e in atto che esiste indipendentemente dal soggetto, cioè come Ente o principio ontologico e non solo gnoseologico, si realizza nel giudizio sintetico a priori o formula ideale "l'Ente crea l'esistente", che pone nell'atto creativo l'origine del mondo, e da cui scaturisce, in ragione dell'identica matrice della realtà generata e del pensiero, l'intera enciclopedia filosofica sul piano speculativo. Il principio contenuto nella formula ideale si esplica infatti in un secondo ciclo creativo che procede, a differenza del primo, dall'esistente all'Ente, e del quale è partecipe, come causa seconda, l'azione dell'uomo in quanto dotato di intelligenza e di libero arbitrio, che lo rende "in un certo modo creatore" e simile a Dio. Mentre il primo ciclo è il principale oggetto dell'ontologia, scienza dei principî, il secondo ciclo, nel quale si esplica la "vita attiva", è l'oggetto dell'etica, scienza dei fini.  Tra le molteplici applicazioni della formula ideale abbozzate nell'Introduzione assumevano un rilievo particolare quella concernente il rapporto tra religione e civiltà secondo lo schema relazionale già profilato nella Teorica, e quella riguardante la sfera della sovranità. In argomento il G., ponendo nell'Idea l'origine della sovranità, ne confutava sia il fondamento contrattualistico (visto come prodotto delle deviazioni soggettivistiche e sensistiche della filosofia moderna), sia l'identificazione con il potere assoluto di un principe. Definendo la sovranità come un processo discendente dall'Idea, ma nello stesso tempo partecipativo, il G. perveniva alla enunciazione di una formula politica (modellata sulla formula ideale), per la quale "il sovrano fa il popolo" ma "il popolo diventa sovrano", mediante "la trasformazione lenta, graduata e sicura del Demo in patriziato". Ciò si traduceva in un'apologia della monarchia civile o rappresentativa generata dal cristianesimo e già prefigurata negli ordinamenti medievali, vista come sintesi tra un potere tradizionale e un'"aristocrazia elettiva" chiamata a estendersi col progredire dell'incivilimento. Inoltre, distinguendo il diritto sovrano dal diritto del principe, il G. finiva per recuperare come "unico giure assoluto, essenziale, irrepugnabile" l'idea di sovranità nazionale, trasferendo alla nazione (una volta istituita come corpo politico) il carattere di primazia che i fautori dell'assolutismo attribuivano al principe: sino a proclamare non solo il diritto di resistenza nei confronti del principe assoluto, ma financo, in casi estremi, la legittimità della rivoluzione.   Il progetto di cui la Teorica e l'Introduzionecostituivano una prima cornice speculativa era sintetizzato in una lettera a T. Mamiani del 15 ott. 1840 (Epistolario, III, pp. 66-69), dove il G. esprimeva la convinzione che il solo modo di giovare all'Italia fosse quello di "creare una scuola di libertà temperata, morale, religiosa, italiana, una scuola di civiltà tanto aliena dal sentire dei demagoghi quanto da quello dei despoti"; indicava l'obiettivo di far della religione "una insegna nazionale" immedesimandola "col genio dell'Italia, come nazione", facendone "una di quelle idee madri che seggono in cima al pensiero degli uomini e signoreggiano ogni parte del vivere civile". Con l'aggiunta che, distinguendo "nella religione cattolica la credenza dall'istituzione" e insistendo sulla seconda, non sarebbe stato difficile convincere gli increduli che "il cattolicesimo, anche umanamente considerato, sia il migliore degli istituti religiosi possibili".  Un programma di così ambiziosa portata prefigurava un disegno in qualche misura egemonico sul piano culturale e induceva il G. non solo a entrare in diretta polemica con le opere di autorevoli esponenti del coevo pensiero europeo, come Cousin (in uno scritto concepito come appendice dell'Introduzione, ma pubblicato inizialmente a parte, a Bruxelles nel 1840, le Considerazioni sopra le dottrine religiose di Vittorio Cousin), e come Lamennais (in un opuscolo duramente critico verso le sue ultime opere filosofiche e politiche), ma soprattutto a competere con l'altro pensatore italiano, Rosmini, che aveva intrapreso a propria volta, con intenti non meno ambiziosi, un programma di edificazione di una filosofia cristiana capace di misurarsi con il pensiero moderno. Il dissenso nei suoi confronti si era già manifestato nell'Introduzione, dove alla dottrina rosminiana dell'Essere ideale era mossa la critica di perdurante e invalicabile psicologismo e perciò di soggettivismo e finanche di sensismo mascherato. Tale iniziale dissenso si tradusse in acre e prolungata polemica, specialmente in ragione dei successivi interventi dei seguaci del Rosmini, come M. Tarditi, l'abate L. Gastaldi, futuro arcivescovo di Torino, G. di Cavour, secondo i quali le tesi giobertiane menavano dritto al panteismo. Il G. ribatté colpo su colpo, incominciando dalla già citata alluvionale opera Degli errori filosofici di A. Rosmini, importante soprattutto per il fatto che l'autore vi tracciava il processo teorico attraverso cui era pervenuto alla formula ideale. Nella polemica il G. fu affiancato e sostenuto dai suoi amici e seguaci, come P. De Rossi di Santarosa, mentre risultò vano l'intervento pacificatore di N. Tommaseo.  Nella primavera del 1843, sempre a Bruxelles, il G. diede alle stampe l'opera che doveva dargli la celebrità, Del primato morale e civile degli Italiani, tirato nella prima edizione in 1500 esemplari. Concepito inizialmente come "un'operetta di non molte pagine", "un discorsetto non solo sul Papa ma sull'Italia", il Primato divenne strada facendo un ponderoso lavoro in due grossi volumi, la cui scrittura, iniziata nel 1842, procedette in parallelo con la stampa fino al maggio dell'anno successivo.  L'opera, dalla struttura sovrabbondante e magmatica, colma di formule apodittiche e di scarti lessicali, aveva tuttavia un suo asse portante nel tentativo di definire i caratteri originali e permanenti della nazionalità italiana sintetizzati in quello che il G. chiamava "genio nazionale". Plasmato da fattori naturali, come il sito geografico e la feconda mescolanza di stirpi pelasgiche ed etrusche, connotato dalla preminenza di elementi sacerdotali e aristocratici, dotato di un suo particolare "genio federativo" espresso dalla "società di popoli" realizzata dalla repubblica romana (poi tralignata in signoria imperiale), riflesso culturalmente da un'ininterrotta tradizione filosofica autoctona, il genio italico aveva trovato, secondo il G., una sua configurazione effettivamente nazionale per opera del Papato, che lungo il Medioevo gli aveva dato stabile forma avviando la traduzione in "ordini civili" dei dettati religiosi e morali del cristianesimo. Il tratto costitutivo della nazione italiana veniva così reperito in un principio ideale, convalidato tuttavia da fattori naturali di tipo etnico e confermato dalla storia: nell'essere l'Italia "nazione religiosa per eccellenza", dotata di un primato religioso determinato dal trapianto in Roma dell'Evangelo e dall'elezione provvidenziale della sede romana a sede apostolica, che si riverberava in un primato dell'Italia nell'ordine morale e civile, da cui traeva il carattere di "creatrice, conservatrice e redentrice" della civiltà europea. Il ruolo o la missione religioso-civile, che faceva degli Italiani "il nuovo Israele" e dell'Italia una "nazione sacerdotale", veniva perciò raffigurato dal G. come indivisibile da quello del Papato: il quale, mediante l'esercizio della potestà civile connaturata alla sua primazia religiosa, non solo aveva costituito la nazionalità italiana, ma le aveva altresì impresso i tratti suoi propri di nazione guelfa. Per converso, il declino della potestà civile dei pontefici, iniziato nel tardo Medioevo e culminato nell'Età moderna, si era tradotto nella decadenza, nell'asservimento politico, nella subordinazione culturale dell'Italia e nella frammentazione politico-religiosa dell'Europa. Il risorgimento italiano, concepito dal G. sullo sfondo di una riunificazione religiosa europea, veniva dunque a raccordarsi strettamente con la restaurazione della "scaduta potestà civile del Papa in modo conforme e proporzionato all'indole e ai bisogni del secolo". Tale formula conteneva il nocciolo della tesi centrale del Primato: posto che, secondo il G., l'esercizio della potestà civile pontificia, perno della più ampia potestà civile della Chiesa, era per sua natura suscettibile di assumere modalità variabili in relazione al cammino della civiltà in senso secolare, essa era chiamata a evolversi in maniera vieppiù adeguata alla propria originaria legittimazione religiosa e alla progressiva acquisizione di "indipendenza civile" e di "capacità nazionale" da parte dei popoli, assumendo le forme preminenti della forza morale, della persuasione, dell'influenza pacifica e pacificatrice. L'itinerario della potestà civile pontificia tracciato dal G. procedeva dunque dalla "dittatura", consona alle età barbariche, verso un "potere arbitrale", delimitato dal fatto di non "avere alcun effetto civile che non sia consentito alla libera [cioè liberamente] dalle parti gareggianti e deliberanti". Si realizzava così la saldatura tra la restaurazione-riforma del potere civile del Papato e il Risorgimento italiano: nel senso che la ridefinizione del primo avrebbe reso possibile l'esercizio effettivo da parte del pontefice del ruolo, mai assunto nel passato, di capo civile della nazione sotto forma presidenziale (o dogale) - un ruolo, dunque, istituzionale, analogo ma più forte di quello arbitrale -, e la contemporanea trasformazione in unità "nazionale e politica" della preesistente, ma virtuale, unità italiana senza che ne venissero toccati i legittimi poteri dei sovrani.  Quest'ultimo aspetto costituiva un altro snodo del Primato, che consentiva al G. di tracciare una via consensuale, pacifica e aliena da fratture rivoluzionarie per la costruzione dello Stato nazionale. Scartate come estranee alla natura e alla storia del genio italico le forme del dispotismo e della democrazia "demagogica" fondata sull'idea della sovranità popolare, e assumendo come punto di riferimento il riformismo settecentesco, in specie di Pietro Leopoldo e di Benedetto XIV, il G. raffigurava l'erigenda entità politica nazionale come una confederazione dei maggiori Stati italiani, retti a monarchia "consultiva" sotto la presidenza moderatrice del pontefice elettivo. La formula della monarchia consultativa veniva preferita a quella della monarchia rappresentativa per il fatto di non frammentare la sovranità, e di permettere ugualmente ai sovrani di governare secondo il voto della nazione, raccolto e filtrato da un corpo vitalizio di "veri ottimati" tratto da un'aristocrazia selezionata dal merito e dall'ingegno più che dal sangue nobiliare, agente come canale di collegamento con l'opinione pubblica. Un'attenzione particolare era dedicata dal Primato al potere dell'opinione negli Stati moderni, alle condizioni necessarie del suo sviluppo, al ruolo che il clero era chiamato a esercitarvi nel rispetto del "principio sacrosanto della libertà delle coscienze", alla funzione modernizzatrice delle élitesintellettuali. L'utopia della confederazione italiana (tale la definiva lo stesso G.) si traduceva in una forma politica composita, che richiamava in certa misura l'ordinamento ecclesiastico, caratterizzata dalla presidenza conciliatrice del pontefice, da un insieme di "aristocrazie civili e consultative, ciascuna sotto un capo ereditario investito del supremo comando", e finalizzata all'unione, all'indipendenza e alla realizzazione della libertà civile, tenuta distinta da quella politica, cioè costituzionale.  Scritto come libro "moderatissimo" per non "irritare gli animi" e consentirgli di circolare per tutta la penisola (il che accadde, nonostante gli interdetti dell'Austria e il divieto di smercio nello Stato pontificio), con l'esplicita intenzione di raccogliere i più ampi consensi, il Primato lasciava deliberatamente da parte argomenti di più immediata rilevanza politica, che pure il G. affermava di aver originariamente previsto, quali il predominio dell'Austria o la laicizzazione del governo dello Stato pontificio. Il Primatosegnava inoltre un ripiegamento rispetto ad alcune delle tesi sviluppate nell'Introduzioneallo studio della filosofia e conteneva positivi apprezzamenti nei riguardi della Compagnia di Gesù. Accolto con favore in ambienti laici ed ecclesiastici, compresi quelli gesuitici, ma stroncato da G. Ferrari nel quadro della polemica antigiobertiana che percorreva il suo saggio La philosophie catholique en Italie (uscito in due puntate sulla Revue des deux mondes nel marzo-maggio 1844, cui il G. rispose con una lettera pubblicata in appendice alla seconda edizione di Degli errori filosofici di A. Rosmini), il libro contribuì in modo rilevante alla formazione dell'opinione nazionale, pur a prezzo o forse in ragione delle sue reticenze e dissimulazioni, trovando una naturale collocazione nel contesto del riformismo moderato degli anni Quaranta, specialmente in Piemonte, grazie anche all'apologia, presente in certe sue pagine, della missione nazionale riservata allo Stato sabaudo sotto il profilo militare, e all'esaltazione del riformismo carloalbertino: temi subito ripresi e sviluppati, in senso più marcatamente sabaudista ma anche meno proclive all'idea del primato italiano, nelle Speranze degli Italiani di C. Balbo (che sul finire del 1844 ebbe parte principale nella nomina del G. a socio nazionale non residente dell'Accademia delle scienze di Torino). Di segno opposto furono le accoglienze riservate al Primato da G. Mazzini e dai neoghibellini. La prima edizione del Primato - la cui lettura era resa ancora più ardua dalla mancanza di un indice analitico - andò rapidamente esaurita, e il G. provvide tra il 1844 e il 1845 ad allestirne una seconda corretta, stampata dallo stesso tipografo belga, e comprendente un lungo testo introduttivo, che venne tirato a parte in 2000 copie col titolo di Prolegomeni del Primato. Qui il G. abbandonava alcune delle originarie cautele, con un pronunciamento a favore della monarchia rappresentativa e con un'acre denuncia degli orientamenti settari attivi nella Chiesa e identificati in particolare nell'Ordine gesuitico o, per meglio dire, nel "gesuitismo" inteso come categoria morale contrapposta al "cattolicismo" e incompatibile con la civiltà moderna e i suoi valori nazionali. Ciò innescava un'aspra controversia, destinata ad aggravarsi e a prolungarsi nel tempo, con eminenti scrittori della Compagnia, segnatamente con F. Pellico, fratello di Silvio, e C.M. Curci, non senza il sostegno e l'incoraggiamento del padre generale J. Roothaan.  I Prolegomeni segnavano una prima sterzata rispetto alle tonalità ecumeniche del Primato, e il riaffiorare nel G. di una virulenta vena polemica che trovò un successivo sfogo nella pubblicazione del Gesuita moderno, apparso a Losanna nel 1846-47. Una parte non trascurabile nella vicenda ebbe il passaggio del G. da Bruxelles a Parigi (1845), reso possibile dall'autonomia finanziaria assicuratagli dalla buona riuscita della sottoscrizione promossa a Torino da P.D. Pinelli per una nuova edizione delle sue opere complete. A Parigi, ove rinsaldò l'amicizia con G. Massari (divenuto nel frattempo suo discepolo e ammiratore), il G. si trovò nel pieno dello scontro sulle scuole delle congregazioni e nel cuore delle controversie sulla Compagnia di Gesù innescate dai corsi tenuti al Collège de France da E. Quinet e da J. Michelet. Soprattutto, suscitò grande eco nell'animo del G., che ne avrebbe tratto a più riprese corrosivi spunti antigesuitici, il coinvolgimento della Compagnia nei coevi conflitti politico-religiosi della Svizzera, sfociati poi nella guerra del Sonderbund.  Impostato come una replica alle critiche dei padri Pellico e Curci, Il gesuita moderno si trasformò strada facendo in un farraginoso lavoro in cinque volumi (l'ultimo dei quali di documenti) scritto dal G. in uno stato di tensione e di inquietudine che lo induceva a sospettare di una sistematica opera di spionaggio messo in atto da emissari della Compagnia nei suoi confronti. L'opera era un concentrato di argomenti antigesuitici ricavati dalla storia e collegati dall'idea dominante già abbozzata nei Prolegomeni: la radicale e irrimediabile ostilità dello spirito gesuitico, in quanto pervaso da misticismo, lassismo morale e autoritarismo, a un cattolicesimo civile, ispiratore del movimento nazionale. Nel rappresentare il gesuitismo come il principale e più subdolo nemico del Risorgimento, il G. prendeva anche in considerazione, in un'appendice al quinto volume, le tesi enunciate dal p. L. Taparelli d'Azeglio nel saggio Della nazionalità (1846), dove si affermava non essere l'indipendenza politica un attributo necessario della nazionalità, e veniva definito inammissibile il perseguimento di uno Stato nazionale se in conflitto con i diritti dei sovrani. Il G. vi contrapponeva un'idea di nazionalità come "creatrice di diritti", fattore sostanziale e incoercibile di identità di un popolo, in tal modo proclamando non solo l'incomponibile divaricazione tra due idee di nazionalità, ma anche prendendo definitivo congedo dalle sfumature legittimistiche del Primato.  Gli eccessi polemici del Gesuita moderno, singolarmente contrastanti con la moderazione del Primato, gli valsero un'accoglienza controversa e suscitarono non poche critiche anche da parte di cattolici liberali come Balbo, Rosmini e Tommaseo; ma assicurarono ulteriore udienza e popolarità all'autore e un'ampia circolazione, superiore a quella del Primato, all'opera, che non era stata interdetta dalla censura ecclesiastica ed era venuta a cadere in una fase in cui il vento antigesuitico spirava forte negli Stati europei (la seconda edizione, del 1847, fu tirata in 12.000 copie).  I cambiamenti avvenuti nella Chiesa e nella situazione italiana con l'elezione di Pio IX e l'accelerazione del movimento riformatore, gli atteggiamenti assai cauti, se non riguardosi, del nuovo papa, già lettore del Primato, nei confronti del G., e, viceversa, il moltiplicarsi delle critiche al Gesuita modernoin Italia e più ancora in Francia, specialmente per mano dell'archeologo Ch. Lenormant, indussero il G., sul finire del 1847, a porre mano a un nuovo lavoro, l'Apologia del libro intitolato "Il gesuita moderno", con alcune considerazioni intorno al Risorgimento italiano (Bruxelles e Livorno 1848). Qui la rinnovata battaglia contro il gesuitismo, estesa ora al partito francese dei "laici ipercattolici" capeggiato da Ch. de Montalembert, veniva a connettersi più direttamente con i progressi compiuti nel frattempo dal movimento nazionale e interpretati dal G. come una totale convalida delle proprie tesi. Sennonché, tra l'inizio della stesura e della stampa, progredita assai lentamente, e la conclusione del lavoro, compiuto nell'aprile 1848, erano intervenuti il sovvertimento della scena politica europea con la rivoluzione parigina del febbraio (direttamente osservata e idealmente difesa dal G.), la concessione degli statuti da parte dei maggiori sovrani italiani, la rivoluzione di Vienna e la crisi dell'Impero austriaco, l'insurrezione milanese, l'avvio della guerra in Italia. Inoltre la Compagnia di Gesù era stata espulsa da molti Stati, tra cui quello sabaudo, tanto da far pensare al G. che i gesuiti, dei quali aveva auspicato in lettere private l'espulsione, fossero "morti politicamente", pur continuando a sopravvivere "i loro spiriti". Tutto questo impose un rifacimento del capitolo finale dell'opera, più legato all'attualità, e la stesura di un lungo proemio, datato Parigi 8 apr. 1848, in cui i fatti italiani, a partire dalla rivoluzione siciliana del gennaio, entravano prepotentemente nella sua analisi, rendendo il libro ancor più eterogeneo nei suoi contenuti e il suo titolo ancor più inadeguato, ma accrescendone pure di molto l'interesse. L'opera vide finalmente la luce, in quattro edizioni quasi contemporanee, quando il G. era ormai ritornato a Torino.  Molteplici elementi imprimevano all'Apologiail tono di un manifesto programmatico, in linea con i numerosi interventi avviati dal G. su alcuni giornali liberali come la Patria di Firenze, l'Italia di Pisa, il Risorgimento e soprattutto la Concordia di Torino, diretta da L. Valerio: in primo luogo, l'esaltazione, condotta con toni volutamente forzati, dell'azione riformatrice di Pio IX, nel quale il G. indicava l'incarnazione provvidenziale del pontefice da lui stesso preconizzato, guida del Risorgimento nazionale interpretato come "un evento religioso, europeo, universale", promotore di "una rivoluzione fondamentale negli ordini umani del cattolicesimo" e di una metamorfosi del Papato da "aristocratico e monarcale" a "popolano e democratico come nelle sue origini"; in secondo luogo, la perorazione per la sollecita creazione di un regno costituzionale dell'Alta Italia sotto la dinastia dei Savoia, accompagnata dalla confutazione dei programmi municipalisti e repubblicani. Per altro verso, l'Apologia portò allo scoperto, sotto la sollecitazione degli eventi, venature del pensiero giobertiano in precedenza tenute in ombra, riflettendone gli approdi più recenti. Il libro era tutto attraversato dal tema della democrazia, non tanto intesa come ordinamento politico, ma quale prorompente e benefica "rivoluzione, che per la mole, l'estensione, la natura, l'importanza, la durata, non si può comparare a niuna di quelle che la precedettero, la quale avrà per ultimo esito di conferire al popolo la piena signoria delle cose umane"; rivalutava, rifacendosi alle opere di A. de Lamartine e di J. Michelet, l'opera dei giacobini nella Rivoluzione francese; assegnava a meta conclusiva del movimento nazionale, dopo la necessaria fase federativa, la costituzione di uno Stato unitario, accennando a una sua futura trasformazione in senso repubblicano; individuava il solo modo di perpetuare la monarchia pontificia in una riforma costituzionale dello Stato della Chiesa, che consentisse al papa, in quanto principe temporale, di regnare senza governare e di realizzare la "separazione assoluta del governo spirituale dal temporale".  Quando rientrò a Torino, il 29 apr. 1848, dopo oltre quattordici anni di esilio e accolto da entusiastiche manifestazioni, il G. era reduce da una prima cocente delusione politica, determinata dall'annuncio confidenziale, pervenutogli a Parigi e seguito da immediata smentita, della sua nomina a ministro dell'Istruzione nel gabinetto Balbo, fatta cadere dal veto di Carlo Alberto, che gli era e gli restò ostilissimo. In compenso, in un collegio torinese e in uno genovese era appena stato eletto a sua insaputa alla Camera subalpina, che alla metà di maggio lo proclamò proprio presidente. Fino alla fine di luglio, tuttavia, il G. non mise piede in Parlamento, perché ai primi di maggio, accompagnato da don G. Baracco, già era partito per una lunga peregrinazione politica, che lo avrebbe portato a Milano (dove ebbe un incontro col Mazzini), al quartier generale piemontese di Sommacampagna (dove fu ricevuto da Carlo Alberto), poi, attraverso la Lombardia e l'Emilia, a Genova, a Livorno, a Roma (dove soggiornò due settimane e fu ricevuto in tre diverse udienze da Pio IX), e infine, per l'Umbria e le Marche, a Bologna e a Firenze, donde rientrò, via Genova, nella capitale sabauda. Il viaggio per l'Italia, avvenuto in una fase in cui la guerra federale contro l'Austria aveva ricevuto un colpo letale dall'allocuzione di Pio IX il 29 aprile - il cui significato il G. tentò invano di minimizzare - e dalla reazione borbonica di maggio, fu tanto indicativo dei vertici raggiunti dalla popolarità del G., ovunque fatto oggetto di accoglienze trionfali e talora deliranti, e tanto ricco d'incontri con i più vari circoli politici, quanto povero di durevoli risultati. Nel corso di tale viaggio, affrontato con lena missionaria, il G. propagandò fervidamente alcune idee-guida: in nome della concordia nazionale combatté a spada tratta le ipotesi repubblicane di ogni genere, i movimenti da lui tacciati di municipalismo, i progetti per un'assemblea costituente, che finì tuttavia per ritenere inevitabile e non pericolosa a certe condizioni; invocò il pronto accoglimento dei voti di unione al Regno sabaudo del Lombardo-Veneto e la proclamazione di un forte regno dell'Italia settentrionale; tentò con la medesima energia di rilanciare la soluzione federale, contro i riaffioranti particolarismi statali e dinastici, non esclusi quelli del Piemonte; si adoperò per un consolidamento del sistema costituzionale a Roma, utilizzando anche i propri rapporti di amicizia con il ministro T. Mamiani.  Analoghi programmi il G. sostenne durante la breve vita del gabinetto Casati, al quale fu aggregato dal 29 luglio, giusto all'indomani del disastro di Custoza, in qualità di ministro senza portafoglio e poi dell'Istruzione, facendosi personalmente promotore della missione del Rosmini presso Pio IX, finalizzata alla stipulazione di un trattato confederale e di un nuovo concordato. Ma la firma dell'armistizio Salasco (9 ag. 1848) e l'interruzione della guerra con l'Austria lo colsero di sorpresa. Di fronte alla svolta che portò alle dimissioni del governo Casati, il G. abbracciò posizioni assai impopolari presso i moderati, dapprima avversando e poi perorando una richiesta di aiuto militare alla Repubblica francese, combattendo a spada tratta la richiesta di una mediazione diplomatica franco-inglese, schierandosi per una ripresa della guerra in una cornice federativa quanto mai inattuale. Le ombrosità e le ambizioni del G., che aspirava alla presidenza del Consiglio, ebbero modo di tradursi in aperto dissenso politico in occasione della formazione del governo presieduto da C. Alfieri di Sostegno (poi da E. Perrone di San Martino), che pure includeva tre amici del G. come il Pinelli, in posizione preminente, F. Merlo e Santarosa. Al nuovo ministero il G. dichiarò guerra aperta con un opuscolo dai toni aggressivi, I due programmi del ministero Sostegno (Torino 1848). Accusato il nuovo governo di spirito municipalista, cioè di disinteresse per le sorti degli altri Stati italiani, il G., che aveva lasciato il seggio parlamentare in occasione della sua nomina ministeriale, tentò, facendo appello all'opinione pubblica nazionale, di promuovere una politica alternativa basata sull'idea di una Costituente federativa con mandato limitato, da contrapporre sia all'inerzia del governo piemontese in carica, sia ai programmi di Costituente agitati dai gruppi democratici radicali. Fu quindi coinvolto nella fondazione della Società nazionale per la confederazione italiana, che tenne in ottobre a Torino il suo primo e unico congresso. Preceduto da un suo infiammato indirizzo "ai popoli italici" (dov'erano tra l'altro adombrati gli irreparabili guasti religiosi di un eventuale "funesto scisma d'Italia e di Roma") e aperto da un discorso introduttivo in cui il G. denunciò le colpe dei "repubblicani pratici" e le "disorbitanze dei democratici schietti e dei comunisti", il congresso si concluse con la faticosa elaborazione di un progetto di Costituente federativa e con la proclamazione del carattere irrevocabile della fusione delle regioni settentrionali nel Regno dell'Alta Italia.  Rieletto alla Camera nella tornata suppletiva del 30 settembre e nuovamente asceso alla presidenza dell'Assemblea, dopo le dimissioni del governo da lui accanitamente avversato il G. ebbe a metà dicembre l'incarico di presiedere il nuovo ministero, in cui assunse anche il dicastero degli Esteri. Salito alla presidenza del Consiglio non più come simbolo di unità e di concordia ma come esponente di maggior spicco dell'opposizione, nel discorso programmatico del 16 dicembre definì il proprio ministero con l'appellativo di democratico, cioè, come disse, volto a innalzare la plebe "a dignità di popolo", a serbare rigidamente l'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge comune, a provvedere agli interessi delle province, con implicito riferimento alla difficile situazione genovese, a "corredare il principato d'istituzioni popolane, accordando con gli spiriti di queste i civili provvedimenti"; manifestò inoltre l'intenzione di riprendere la guerra interrotta, di promuovere una Costituente federativa italiana, e proclamò il diritto degli Stati italiani - di fatto, il diritto dello Stato sabaudo, cui attribuiva apertamente una funzione egemonica - di intervenire negli altri Stati della penisola per evitare sommovimenti rivoluzionari o interventi militari stranieri. Il G. s'inoltrò pertanto in una politica nazionale alquanto avventurosa, seppur coerente con il principio, carico di valore ideale ma povero di forza normativa e da lui ribadito in documenti ufficiali, per il quale egli affermava la sussistenza di un diritto della nazionalità, preminente sulle vigenti istituzioni politiche e imperativo nelle relazioni tra gli Stati italiani. Venne così progettando invii di truppe sarde nei punti critici della penisola e si propose come indesiderato mediatore tra i sovrani italiani e i loro popoli. Del tutto vani si rivelarono i suoi insistiti tentativi di intermediazione tra Pio IX, rifugiatosi a Gaeta, e la commissione provvisoria di governo di Roma, intesi a ricondurre il pontefice nel suo Stato con l'appoggio di truppe piemontesi subordinato al mantenimento degli ordini costituzionali; e volti nel contempo a impedire l'ingresso del Mazzini in Roma e la convocazione della Costituente italiana.  Sul finire dell'anno il G. chiese e ottenne dal sovrano lo scioglimento della Camera e l'indizione per il 22 genn. 1849 di nuove elezioni, che videro il suo personale successo in dieci collegi del Regno, ma produssero un'Assemblea decisamente sbilanciata sulla Sinistra democratica. Poco attento agli equilibri parlamentari, che considerava con un certo disdegno, abbandonate le velleità di convincere Ferdinando di Borbone e gli indipendentisti siciliani ad affidare alla Costituente federativa la composizione del loro prolungato conflitto, s'addentrò in un'avventura militare che doveva riuscirgli fatale. Dopo aver lungamente tentato, grazie anche ai suoi buoni rapporti con G. Montanelli, di indurre il governo democratico toscano a più moderati consigli circa i ventilati progetti di Assemblea costituente, posto di fronte alla traduzione di tali progetti in legge operativa e alla successiva fuga di Leopoldo II, il G. predispose in gran segretezza un intervento armato piemontese in Toscana, per riportare il granduca sul trono preservando il sistema costituzionale. La conoscenza del disegno, rivolto contro un governo di orientamento marcatamente democratico, e degli atti compiuti per realizzarlo, provocò la sollevazione del Parlamento sardo, una frattura profonda nella compagine ministeriale e le dimissioni del presidente del Consiglio, accolte di buon grado il 21 febbraio dal sovrano, pronto a sostituirlo con il generale A. Chiodo. Per sostenere le ragioni della propria politica, invisa ormai alla maggioranza dei gruppi parlamentari di ogni orientamento, il G. dette vita, in marzo, a un giornale politico, il Saggiatore, sul quale intervenne il 17 marzo per invocare l'unità degli spiriti in occasione della ripresa della guerra con l'Austria, da lui perorata ma ora altamente disapprovata per i modi in cui era avvenuta. Dopo Novara l'abdicazione di Carlo Alberto e l'ascesa al trono di Vittorio Emanuele II, il G., su invito del Pinelli, accettò di entrare come ministro senza portafoglio nel nuovo gabinetto presieduto da G. De Launay, nonostante il solco profondo che lo divideva dal primo ministro e dai suoi orientamenti conservatori, e di assumere l'incarico di inviato straordinario del Regno sardo a Parigi. L'indeterminatezza del compito affidatogli e gli atti poco amichevoli compiuti dal governo piemontese nei suoi confron ti non appena giunto a destinazione, indicavano che il vero significato della missione era quello di togliere di mezzo l'incomodo personaggio, anche per favorire le trattative di pace con l'Austria. Il G., che aveva preso a tessere relazioni con vari personaggi della vita politica francese e inglese, tra cui A. de Tocqueville, reagì con la consueta irruenza, troncò ogni rapporto ufficiale con il Regno sardo dimettendosi da deputato, da ministro e da inviato straordinario, manifestò a chiare lettere il suo pessimismo sulla situazione italiana, espresse il suo distacco dal Piemonte anche con la decisione di restituire le somme pervenutegli per l'edizione delle sue opere, e si ritirò in un secondo, volontario esilio.  Si aprì per il G. un altro periodo operosissimo sul piano intellettuale e di riflessione, non certo distaccata, sugli eventi di cui era stato protagonista. Nella corrispondenza privata, tutta intessuta di riferimenti alla situazione italiana, francese ed europea, ebbe modo di reagire, con sarcasmo misto ad amarezza, alla condanna comminata il 30 maggio 1849 dalla congregazione dell'Indice al suo Gesuita moderno, adottando pubblicamente la linea del silenzio anziché quella della sottomissione. Sul piano politico espresse a più riprese la convinzione che le idee repubblicane, colorate di socialismo, fossero in fase di inarrestabile ascesa, affermando, in una lettera del 1851, di vedere all'opera una Provvidenza tinta di rosso "perché ordina tutto al trionfo vicino o lontano di questo colore". Si dichiarava altresì fautore di un ordinamento scolastico saldamente nelle mani dello Stato, in quanto promotore e responsabile dell'"educazione nazionale", della gratuità dell'istruzione primaria, dell'assistenza pubblica ai vecchi, agli ammalati e "alla povertà che non trova da lavorare".  Mentre nella primavera del 1851 usciva a Capolago, per iniziativa e con un'introduzione del Massari, una raccolta di lettere, interventi e discorsi dalla fine del 1847 all'inizio del 1849, con il titolo di Operette politiche, il G. riprese in mano i propri lavori di argomento filosofico e religioso, editi e inediti, ma soprattutto si dedicò alacremente alla stesura di una nuova opera di ampio respiro che volle si stampasse a Parigi sotto la sua sorveglianza, pur affidandone la pubblicazione all'editore torinese Bocca: era Del rinnovamento civile d'Italia, che vide la luce nel novembre del 1851, in due volumi, il secondo dei quali contenente anche una nutrita parte documentaria.  Il Rinnovamento si presentava come una riflessione politica che, prendendo spunto dalla ricostruzione critica e storica degli eventi del '48, affrontava il tema generale delle mutate condizioni interne e internazionali in cui l'unificazione nazionale avrebbe ripreso il suo cammino. Il libro proclamava la fine della fase del Risorgimento e l'inizio della fase del rinnovamento, concepito come parte integrante "di un moto comune a quasi tutta l'Europa": il primo si era mosso nella logica di una trasformazione graduale delle cose, il secondo avrebbe assunto "aspetto e qualità di rivoluzione"; il primo era stato movimento autonomo, governato dalle condizioni dell'Italia, il secondo sarebbe dipeso "in gran parte dai fatti esterni"; il primo aveva dovuto limitarsi all'obiettivo di un sistema federale "perché non ve n'era altro possibile", il secondo non poteva escludere una possibile, e benefica, accelerazione storica verso l'unificazione politica. Su questa falsariga il G. affrontava dettagliatamente, traendo lezione dagli errori che a suo giudizio erano stati commessi da tutte le forze nazionali, una serie di argomenti di grande impegno: l'insostenibilità del potere temporale dei papi, "la maggiore anticaglia superstite dell'età nostra", dannoso all'Italia, all'Europa e soprattutto al cattolicesimo come causa di subordinazione del Papato alle forze della reazione interne ed esterne; il posto e la natura del partito conservatore e del partito democratico nella "politica nazionale"; le condizioni alle quali il Piemonte, "il paese più scarso di spiriti italici", dominato da una classe politica di patrizi e di avvocati "inclinati al municipalismo", guidato da una dinastia "stata finora impropizia all'ingegno, aristocratica e municipale", e nondimeno l'unico ad aver preservato gli ordinamenti costituzionali, poteva svolgere quel ruolo egemonico su scala nazionale che solo avrebbe salvato la monarchia sabauda da un fatale declino. Un argomento che l'autore adduceva a convalida delle proprie tesi, e che, diversamente dal Primato, implicava l'attribuzione al Regno sardo di un ruolo anche morale (pur rimanendo una futura "Roma laicale e civile […] il principio ideale della risurrezione italica"), era la politica ecclesiastica inaugurata dalle leggi Siccardi: un passo verso la "separazione assoluta tra le due giurisdizioni", la temporale e la spirituale, costituente "la prima base della libertà religiosa, che tanto è cara ai popoli civili", cornice necessaria alla formazione di un clero "liberale e sapiente", capace di purgare la religione "dagli errori e dagli abusi che la guastano".  Ma il Rinnovamento era pure un discorso di "scienza civile", secondo la definizione giobertiana, intessuto di riferimenti a Machiavelli, ma condotto sulla base dei "bisogni principali dell'età nostra, il predominio del pensiero, l'autonomia delle nazioni e il riscatto della plebe": a soddisfare i quali il G. poneva come condizioni l'esistenza di governi liberi, la costituzione di Stati a misura nazionale, il funzionamento di ordini civili atti a promuovere l'innalzamento della plebe a popolo. Per tale aspetto una funzione determinante veniva attribuita, da un lato, all'"ingegno", cioè alle élites intellettuali, chiamate a imprimere unità e coesione alla "sciolta moltitudine", e a impedire che sotto il simulacro della democrazia trionfasse invece la demagogia dei numeri e delle masse; dall'altro lato, alle riforme economiche, "unico riparo al comunismo politico", se volte a ripartire e a regolare le ricchezze (anche con l'imposta progressiva) e non a inaridire le sue fonti. Il Rinnovamento, percorso tra l'altro da fremiti antiborghesi, rifletteva una visione del movimento nazionale quale luogo d'incontro e d'interazione tra le "aristocrazie dell'ingegno", tratte dal popolo e da questo riconosciute, e le plebi anelanti al proprio riscatto sociale, garantite da una monarchia non solo costituzionale, ma anche schiettamente popolare.  Nel pubblicare il Rinnovamento il G. era convinto che l'opera sarebbe incorsa nell'interdetto della Chiesa; quando apprese che il S. Uffizio, con decreto del 14 genn. 1852, aveva condannato tutte le sue opere, in qualunque lingua pubblicate, si consolò col rilevare che, "involgendo nella proscrizione anche quegli scritti che furono conosciuti da tutti per irreprensibili", si erano meglio manifestati il puntiglio di Pio IX e la vendetta dei gesuiti.  I pesanti giudizi su figure eminenti della classe politica subalpina di cui il Rinnovamentoera cosparso, provocarono una tempesta di polemiche, cui il G. rispose con due opuscoli del 1852, il primo dei quali conteneva una risposta (che non cambiava, ma semmai aggravava la sostanza di quei giudizi) alle risentite reazioni di U. Rattazzi, di F.A. Gualterio e del generale G. Dabormida; il secondo intitolato Ultima replica ai municipali, aveva soprattutto di mira il Pinelli e C. Bon Compagni, schieratosi a difesa del vecchio amico del G. e ormai divenuto uno dei suoi bersagli preferiti, il quale si era ammalato gravemente nel bel mezzo della diatriba. La morte del Pinelli, sopravvenuta quando già l'opuscolo era stampato, creò grande imbarazzo al G., che stese a tamburo battente un Preambolo in cui rendeva giustizia sul piano personale alla figura del defunto, decidendo in seguito, dopo vari tentennamenti, di far distruggere le oltre 1200 copie già stampate dell'Ultima replica - di cui restò un solo esemplare - e di mettere in circolazione esclusivamente il Preambolo (Parigi e Torino 1852).  Fu l'ultima opera edita lui vivente: in assoluta solitudine il G. morì infatti improvvisamente, nel suo modesto appartamento di Parigi, il 26 ott. 1852.  Tra le sue carte rimase una mole imponente di frammenti manoscritti e di opere incompiute e inedite, costituenti nel loro insieme una specie di continente sommerso, non meno rilevante, per la conoscenza del suo pensiero, degli scritti da lui dati alle stampe. Questo materiale manoscritto fu in parte pubblicato postumo, con scarso rigore, dal Massari che, nel quadro di un'edizione delle opere inedite giobertiane, di cui uscirono a Torino 10 volumi, diede alle stampe nel 1856 i frammenti Della riforma cattolica della Chiesa e la Filosofia della Rivelazione, seguiti nel 1857 dalla Protologia, forse la maggior opera filosofica del G. maturo, che ne aveva incominciato la stesura negli anni Quaranta. Nel 1910, a cura di E. Solmi, furono editi, con criteri non meno discutibili, i frammenti della Libertà cattolica e della Teorica della mente umana, insieme con il dialogo Rosmini e i rosminiani. In seguito La riforma cattolica e La libertà cattolica furono ripubblicate, in modo più corretto, da G. Balsamo Crivelli nel 1924, e da G. Bonafede, insieme con la Filosofia della Rivelazione, nel 1977 e, lo stesso anno, nell'edizione nazionale delle opere, da C. Vasale. Appartenenti per la maggior parte alla produzione che il G. aveva definito "acroamatica", le opere postume, pur nel loro stato di incompiutezza, rivelano un G. che si confrontava in maniera più diretta con la critica della religione sviluppata dalla cultura primo-ottocentesca, anche nelle sue espressioni radicali. L'obiettivo di questi lavori era la dimostrazione dell'adeguatezza del cattolicesimo, liberato dalle sue deformazioni temporalistiche, autoritarie e "iper-mistiche", nel rispondere ai bisogni intellettuali e morali dell'uomo moderno. A questo fine il G. assumeva come fondamento del suo rinnovato discorso religioso-filosofico la nozione cattolica di tradizione, facendone il criterio ermeneutico dell'evoluzione storica delle forme religiose e dello sviluppo del cristianesimo in senso secolare. Ne derivava un'interpretazione molto audace per la sua epoca del rapporto tra libertà e autorità in materia religiosa e, in generale, della dogmatica cattolica. Tali opere dimostrano che il pensiero giobertiano in materia religiosa si era vieppiù spostato dall'asse della riforma ecclesiastica o politica a quella della riforma religiosa. Ciò spiega anche la riscoperta del G. in epoca modernistica; senza trascurare tuttavia che una parte molto consistente della cultura dell'Ottocento e del Novecento si è misurata con l'eredità giobertiana, dall'idealismo al federalismo (specialmente meridionale), dal gentilianesimo al nazionalismo e quindi al fascismo, dal popolarismo di L. Sturzo alla cultura democratico-cristiana.  Fonti e Bibl.: La principale raccolta di manoscritti giobertiani è quella giunta dopo varie vicende in possesso della Bibl. civica di Torino, che li conserva in 55 voll., 54 dei quali rilegati nel 1912 in maniera alquanto arbitraria e classificati in un indice sommario: si tratta di carte che il G. aveva con sé al momento della morte, riguardanti i frammenti miscellanei giovanili, appunti ed estratti di lavoro, e gli autografi delle opere più tardive, pubblicate postume. Alla stessa biblioteca sono anche pervenute una parte della biblioteca personale del G. (il cui principale nucleo fu peraltro venduto all'incanto dopo la sua morte), poche decine di sue lettere autografe e circa 2500 lettere di corrispondenti, il cui indice è stato pubblicato nel 1928 col titolo Le carte giobertiane della Bibl. civica di Torino da G. Balsamo Crivelli, al quale risale anche La fortuna postuma delle carte e dei manoscritti di V. G. ora depositati nella Bibl. civica di Torino, in Il Risorgimento italiano, IX (1916), pp. 665-694; cfr. anche P.A. Menzio, Cenni sulle carte e sui manoscritti giobertiani, in Atti della R. Accad. delle scienze di Torino, LI (1915-16), pp. 659-675. Manoscritti autografi riguardanti Il Rinnovamento sono conservati nella Bibl. nazionale di Napoli e presso l'Istituto per la storia del Risorgimento italiano di Roma, quasi integralmente pubblicati a cura di L. Quattrocchi nel III volume (Inediti) del Rinnovamento, ed. nazionale, Roma 1969.  L'Epistolario, a cura di G. Gentile - G. Balsamo Crivelli, I-XI, Firenze 1927-37, è lungi dall'essere esaustivo; le lettere sono riprese, salvo rari casi, da precedenti edizioni a stampa come: V. Gioberti, Ricordi biografici e carteggio, a cura di G. Massari, I-III, Torino 1860-63; Il Piemonte nel 1850-51-52. Lettere di V. Gioberti e G. Pallavicino, a cura di B.E. Maineri, Milano 1875; D. Berti, Di V. G. riformatore politico e ministro con sue lettere inedite a P. Riberi e G. Baracco, Firenze 1881; Lettere inedite di V. Gioberti e saggio di una bibliografia dell'epistolario, a cura di G. Gentile, Palermo 1910; Lettere di V. Gioberti a P.D. Pinelli, a cura di V. Cian, Torino 1913; G. - Massari. Carteggio (1838-52), a cura di G. Balsamo Crivelli, Torino 1920; Carteggio Lambruschini - Gioberti, a cura di A. Gambaro, in Levana, III (1924), pp. 277-409. Un numero cospicuo di lettere al G. fu pubblicato col titolo di Carteggio di V. Gioberti, I-VI, Roma 1935-38, in un'edizione che comprende lettere di P.D. Pinelli (a cura di V. Cian), di I. Petitti di Roreto (a cura di A. Colombo), di G. Baracco (a cura di L. Madaro), di G. Bertinatti (a cura di A. Colombo), di "illustri italiani" e di "illustri stranieri", a cura di L. Madaro. L'Edizione nazionale delle opere edite e inedite, avviata nel 1938 con la riedizione dei Prolegomeni del Primato, a cura di E. Castelli e affidata nel tempo a tre editori diversi, è giunta al vol. XXXVIII, con il secondo tomo dei Pensieri numerati, a cura di G. Bonafede, Padova 1995: comprende ormai tutte le principali opere del G., pubblicate con criteri non omogenei. Materiale giobertiano continua peraltro a venire alla luce: per es., Appunti inediti di V. Gioberti su R. Cartesio. La storia della filosofia, a cura di E. Bocca - G. Tognon, Firenze 1981.  Le principali bibliografie giobertiane sono quelle di A. Bruers, G., Roma 1924, che comprende circa 1400 titoli, fino al 1923, e di G. Talamo, in Bibliografia dell'età del Risorgimentoin onore di A.M. Ghisalberti, I, Roma 1971, pp. 168-172. Tra le voci enciclopediche: G., V., di G. Saitta, in Enc. Italiana, XVII; di L. Stefanini, in Enc. Cattolica, VI; di C. Mazzantini, in Enc. Filosofica, III; di F. Traniello, in Dict. d'hist. et de géogr. ecclésiastiques, XX. Per una sintesi delle interpretazioni: G. Bonafede, G. e la critica, Palermo 1950. Tra le opere più recenti: E. Passerin d'Entrèves, Ideologie del Risorgimento, in Storia della letteratura italiana (Garzanti), VII, L'Ottocento, Milano 1969, pp. 333-364; A. Del Noce, Gentile e la poligonia giobertiana, in Giornale critico della filosofia italiana, IL (1969), pp. 222-285; G. Derossi, La teorica giobertiana del linguaggio come dono divino e il suo significato storico e speculativo, Milano 1970; F. Traniello, Cattolicesimo conciliatorista. Religione e cultura nella tradizione rosminiana lombardo-piemontese (1825-1870), Milano 1970, pp. 31-51 e passim; E. Pignoloni, G. e il pensiero moderno, in Rivista rosminiana, LXIV (1970), pp. 155-175, 231-247; LXV (1971), pp. 4-23; Id., Le postume giobertiane nel giudizio della critica, ibid., LXV (1971), pp. 167-186; G. Martina, Pio IX (1846-1850), Roma 1974, pp. 64-70, 180-189 e passim; C. Vasale, L'ultimo G. fra politica e filosofia. Appunti sulle origini ottocentesche dell'ideologia in Italia, in Storia e politica, XV (1976), pp. 201-261; R. Romeo, Cavour e il suo tempo, II, Roma-Bari 1977, pp. 238-245, 338-341, 362-368 e passim; A. Galimberti, G., Gentile, Rosmini, in Giornale critico della filosofia italiana, LVIII (1978), pp. 172-187; C. Vasale, Riforma e rivoluzione nel G. postumo, in Storia e politica, XVIII (1979), pp. 395-441, 621-665; A. Rigobello, V. G., in Christliche Philosophie im katholischen Denken des 19. und 20. Jahrhunderts, a cura di E. Coreth, I, Graz-Wien-Köln 1987, pp. 619-642; S. La Salvia, Il moderatismo in Italia, in Istituzioni e ideologie in Italia e in Germania tra le rivoluzioni, a cura di U. Corsini - R. Lill, Bologna 1987, pp. 169-310; F. Traniello, La polemica G. - Taparelli sull'idea di nazione e sul rapporto tra religione e nazionalità, in Id., Da G. a Moro. Percorsi di una cultura politica, Milano 1990, pp. 43-62; Id., Il cattolicesimo riformato di V. G., in Storia illustrata di Torino, a cura di V. Castronovo, Milano 1992, IV, pp. 1101-1120; G.P. Romagnani, V. G., A. Chiodo, G. De Launay, M. d'Azeglio, Roma 1992; C. Vasale, Il significato del federalismo giobertiano nella storia d'Italia, in Stato unitario e federalismo nel pensiero cattolico del Risorgimento, a cura di G. Pellegrino, Stresa-Milazzo 1994, pp. 215-245; L. Pesce, Peyron e i suoi corrispondenti. Da un carteggio inedito, Treviso 1997, pp. 457-471 e passim; G. Rumi, G., Bologna 1999; G. Cuozzo, Rivelazione ed ermeneutica. Un'interpretazione del pensiero filosofico di V. G. alla luce delle opere postume, Milano 1999.  INDICE LIBRO PRIMO. INTRODUZIONE. Cap. 5. La sovrintelligenza Sezione seconda.ConceTTO,METODO E DIVISIONE DELLA FILOSOFIA (Dommatismo) Sezione prima .COSTRUZIONE DEL PRIMO TERMINE DELLA FORMOLA (l'Ente ). CAP. 1. Definizione del Primo.Distinzione del Primo psicologi c o e d e l P r i m o o n t o l o g i c o . Il P r i m o f i l o s o f i c o CAP. 2. Il Primo filosofico S I.Caratteristica del Primo filosofico Giobertiano.Po l e m i c a c o n t r o R o s m i n i . p a g . 1 3 2 - 1 5 8 - ) . II . Il P r i moèl'Entereale.Cosasialarealtà.Giob.nonar riva a dirlo chiaramente. Difello e pregio del suo concello della reallà (del concreto:unità del positi 55-72 72-99 vo e del negativo).pag.158-164. CAP. 3. Deduzione della realià dell'Ente dal concetto dell'Ente. 164-185 D. I. Dal giudizio l'Ente è non si deduce la realtà del. 126-185 1 2 6 - 1 3 1 131-16%  3 1 CAP. 1. L'intuito . pag . 1-99 . O ľ Ente. Sicontradiceall'ontologismo.- Sicon 100-119 Sezionc prima.LA CONOSCENZA CAP . 2. La riflessione psicologica CAP. 3. La riflessione ontologica Cap.4.Laparola. . 3-14 14-20 21-55 LIBRO SECONDO.COSTRUZIONE DELLA FORMOLA IDEALE   fondelarealtàcolpuroesserepag.165-170.- .II. Personificazione dell'Ente pag. 170-178.- S .III. Abbozzo della vera via di dedurre la realtà dell'Ente. Realtàosussistenza= intelligibilitàoidealità.Giob. non adempiequestaesigenza.pag.179-184.-Con . . 186-264 Cap.1.RelazionetraEnte edEsistente.Processoaprioriea posteriori.(Causa ed Effetto) . II.Prova dell'intuito (Identità dei due ordini ,onlo logico e psicologico.Verità dell'atto creativo).pag. 206-246. - S.III. L'intuito come prova dell'atto creativo.Dommatismo.Gioberti,Platone,Schelling ed Hegel.pag. 216-220. CAP. 3. Prove indirelte dell'intuito 248-253.- $. I. Lo spirito è produzione di sè stesso.pag. 253-260. – S. III.Intuito dell'intuito. $.II.Falsoconcellodellalibertàenecessilàdel pen  242-247 CAP. 4. Conseguenze della dottrina dell'intuito. 540 . 198-220 S.1.OntologismoePsicologismo.pag.200-206.- S. S.I.Epilogo:mancanza didialettica.pag.272-274- o 272-282 CAP. 2. L'intuito come conoscenza dell'atto creativo . .248-264 $.I. L'intuito immediato è la conoscenza empirica.pag. CAP.1.Epilogo.Confusione del(primo)pensabile edel(pri mo )conoscibile. . 266-272 Cap. 2. Falso concello del pensiero speculativo 189-198 265-311 . . 220-247 S. I. Duplice ordine psicologico: intuitivo e riflessivo. chiusione di tutta questa Sezione pag.184-185. Sezione seconda.COSTRUZIONE DEL SECONDO E TERZO TERMINE DELLA FORMOLA . Gioberti e Rosmini.Insussistenza delle ragioni re c a t e d a G i o b e r t i p e r d i f e n d e r e il p r i m o o r d i n e c o m e condizione del secondo : il concetto dell'infinito condizione del concelto del finito (concello dell'Ente condizione del concetto dell'esistente).La relazione ei suoi termini. L'ordine intuitivo come cognizione nonèchelascienza.pag.220-234.- S.I.Nuova instanza di Gioberti: concello del Necessario e del contingente. pag.235-241.- $.III,L'intuito del l'atto creativo è lo stesso processo a posteriori pag. pag.260-264. Sezione ( il N o o ) . terza,L'INTUITOSPECULATIVO O IL PENSIERO PURO   $.I.Prima prova delloSpinozismogiobertiano.pag. Cap. 5. Epilogo sulla identità e differenza tra Spinoza e Gio berti. Sezione terza,L'INTELLIGIBILITA'. $ . I.Identilà di crcazione e illustrazione.La vera i m m a 372-381 381-390 397-415 324 349  . 541 LIBRO TERZO.CONTENUTO DELLA FORMOLA 324-333.- $.II.Seconda S. III.Si considera di nuovo l'intuilo.Caralleristica. (Contenutodell'altocreativo)(Dio-Quantilà). 350-390 CAP. I. Caralleri dello Spinozismo:loro contradizione.Concello generaledelladifferenzatraSpinozaeGioberti. 350-356 Cap.2. Anticipazionedelconcello diDiocomerelazioneasso lula.Confradizione. Doppio concello dell'esislenic (ediDio) CAP . 3. Dio Quantità. Lo spirito : contradizione. La vera dili 356-364 collà . Cap. 4. Soluzione: Dio come Sviluppo. (Prima di Kant e dopo 364-372 Kant) nenza.Difetto delloSpinozismo.Doppia intelligibi. lità delle cose.pag.398-402.- S.II.Difficoltà con tro la immanenza nel sensibile.Paragone della co " gnizione colla visione.Meccanismo nello spirito.Con cello dello spirito (del conoscere ).Kant; l'empirismo. prova. pag. 333-344. - 306-311 siero.pag.274-279. S.III.Confusionedell'lilea CAP.1. FalsoSpinozismo(Diosemplicesostanza,noncausa).317-323 CAP. 2. Vero Spinozismo (Diosostanza causa). 317-349 e della rappresentazione.pag.279-282. CAP. 3. Relazione del pensiero puro coll'esperienza . 283-300 CAP.4.IlNoopassivoèilsenso 301-306 CAP, 5. L'Innatismo . IDELAE (Spinozismo). Sezioneprima.SPINOZISMO(forma dell'alto creali vo:meccanismo) pag.344-349. Sezione secondo.DIFFERENZA TRA GIOBERTI E SPINOZA. . .[ CAP. 1. Intelligibile assoluto CAP.2. Intelligibile relativo.Fondamento dellasoluzionedel problema 391-415 391-397   Gioberti riunisce idue difetti.pag.403-411.- S.III. Rispostaalla difficoltàprecedente,everoconcetto dell'intelligibilerelativo.pag.411-415. LIBRO QUARTO .COGNIZIONE DELLA REALTÀ DE CORPI, E ORIGINE DELLE IDEE, COME PROVE INDIRETTE DELLA FORMOLA .PASSAGGIO AL MISTICISMO. Sezioneprima.COGNIZIONEDELLAREALTA'DE'CORPI. .420-467 Cap. 1. Gioberti non ammette la prova,ma l'inluito della realtà dei corpi . . 426-429.S.II.Ragioni del realismopag.429.- S. III.Necessità di un principio superiore: cos'è. Galluppi:criticatodaGioberti.pag.430-437– ). IV.Certezza e verità.Fede e Scienza.Certezza e ve denza metafisica,efisica.Critica. pag.456-467. Sezione seconda.Origine delle idee.pag. precedenti,especialmentediRosmini.La generazio 483-489.S II.La dipendenza logica.a )Distinzione delSovrintelligibile edell'Intelligibile.Significato econseguenzadiquestadistinzione.b)Ragionee So  C a p . 2 . I d e a l i s m o e R e a l i s m o ( i m p e r f e t t i ): i d e a l i s m o a s s o l u t o ; certezzaedevidenza .. . . . 420-425 .425-443 9. Ragioni dell'idealismo;e suo difello.Rosmini.pag. . . . 468-538 Cap. 1. Significato generale della quistione.Critica de'filosofi . .479-526 S. I. Distinzione de'concelli in assoluti e relativi.pag. . .468-479 ritàdelmondo pag.437-443. CAP. 3. Dottrina propria di Gioberti sulla cognizione de'corpi; 542 e certezza ed evidenza di questa cognizione ..444-467 . 1. 1. Significato e difficoltà del problema . 2. solu zione:l'Individuazione (creazione:creareèindivi d u a r e ) . G i o b . p o n e b e n e il p r o b l e m a , m a n o n l o r i solve.Anzifaimpossibileogni soluzione;incono scibilità dell'alto creativo nella sua essenza.Perples silàdiGioberti3.Critica.pag.444-456– $.II. Certezza dellacognizione de'corpi.1. Distinzione della certezza in fisica e metafisica. 2. L'evidenza come fondamento della certezza in generale.3. Evi ne ideale (analisi e sintesi )pag. CAP. 2. La produzione ideale giobertiana : attività sintetica ori ginaria. Critica di questa dottrina   vraragione ( Ente cd Essenza ); dipendenza logica e generazione.Contradizioni.Doppio sovrintelligibile: Unità delle delerminazioni razionali , e Trinilà divi na.c)L'ldea come pura ragione o unilà delle deter minazioni razionali. Moltiplicilà astralla e unilà a stratla ( pura sintesi o dipendenza logica,e pura a nalisi ).Vera unità: unità della sintesi e dell'analisi; lamoltiplicitàcome momento dell'unità;unità- pro cessoassoluto.pag.489-509. -S.Ill.Larelazione del concello relativo coll'Ente ( creazione ). a ) D u e ipotesi:generazione,e creazione.Risultato ;assur dilà dell'allo creativo come punto di passaggio tra l'Ente e l'esistente.La creazione è l'aulogenesi dello spirito. b).La creazione è in sè generazione. Conse  guenze di questa dolirina pag.509-526. C A P . 3. Risultato generale deila doitrina di Gioberti sulla p r o duzioneideale.— PassaggioalMisticismo Elenco di Opere di Vincenzo Gioberti possedute dalla Biblioteca Nazionale di Torino (*) De Deo et naturali religione, de antiquo foedere, etc. Taurini, Bianco, 1825, in-8°. Teoricadelsovrannaturale.Brusselle,Hayez,1838,in-8°. La stessa. Torino, Ferrerò e Franco, 1849, in-8°. La stessa. Accresciuta d’un discorso preliminare e inedito intorno alle calunnie di un nuovo critico. Capolago, Tip. Elvetica, 1850, 2 tomi in 1 voi., in-8°. Degli errori filosofici di Antonio Rosmini. Brusselle, Hayez, 1841, in-8°. La stessa. Brusselle, Meline, 1843, 3 voi. in-8°. La stessa. Capolago, Tip. Elvetica, 1846, 3 voi. in-8°. Del primato morale e civile degli Italiani. Brusselle, Meline, 1843, 2 voi. in-8°. (i) Elenco favorito con gentile premura al Comitato Editore dal Prefetto della Biblioteca Nazionale Cav. Avv. Francesco Carta.   284 La stessa. Capolago, Tip. Elvetica, 1846, 5 voi. in-16°. Prolegomeni del primato morale e civile degli Italiani. Brusselle, Meline, 1846, in-12°. Introduzioneallostudiodellafilosofia.Brusselle,Hayez, 1840, 2 tomi in 3 voi., in-8°. Lastessa.Secondaediz.,Brusselle,Meline,1844,4vo¬ lumi in-8° Considerazioni sopra le dottrine religiose di Vittorio Cousin. Brusselle, Meline, 1844, in-8°. Il Gesuita moderno. Losanna, Bonamici, 1846, 5 vo¬ lumi in-8°. Lastessa. Torino, Fontana, 1848, 5 tomi in 3 voi., in-8°. Lastessa.Capolago,Tip.Elvetica,1847,7voi.in-16\ Apologia del libro intitolato « Il Gesuita moderno », con alcune considerazioni intorno al risorgimento italiano. Parteprima.Parigi,Renouard,1848,in-8\ DelBuono.Brusselle, Meline,1843,in-8°: La stessa. Capolago, Tip. Elvetica, 1845, in-16°. Essai sur le Beau, ou éléments de philosophie esthétique, traduìtde l’italien par Joseph Bertinatti. Brusselle, Meline, 1843, in-8°. Del Bello. Firenze, Bucci, 1845, in-8°. Allocuzione di un filosofo cattolico a Pio IX. Torino, 1847, in-12°.   285 Discorso pronunziato nell’adunanza generale per l’aper¬ tura del Congresso nazionale federativo la sera del 15 ot¬ tobre1848nelTeatroNazionale.Torino, G.PombaeC., 1848, in-8°. IdueprogrammidelMinisteroSostegno.Torino,Fontana, 1848, in-8°. Antiprimato papale e l’automatismo romano distrutto dal VangeloedaiSantiPadri.Torino,1850,in-16°. Lettre sur les doctrines philosophiques et Politiques de Lamennais.Capolago,Tip.Elvetica,1850,in-8°. Delrinnovamentociviled’Italia.Parigi, Crapelet,1851, 2 voi. in-8°. Operette politiche. In « Documenti della guerra santa d’Italia », voi. VII. Capolago, Tip. Elvetica, 1851. Preambolo dell’ultima replica ai Municipali. Parigi, Mar- tinet, 1852, in-8°. Risposta a Urbano Rattazzi. Sopra alcune avvertenze di Filippo Gualterio. Al Generale Dabormida. Torino, Ferrerò e Franco, 1852, in-8°. Della filosofia e della rivelazione, pubblicata per cura di GiuseppeMassari.Torino,ErediBotta,1856,in-8°. Pensieri e giudizi sulla letteratura italiana e straniera, raccolti ed ordinati da Filippo Ugolini. Firenze, Barbèra, 1856, in-12°. Della protologia, pubblicata per cura di G. Massari. Torino, Eredi Botta, 1857, 2 voi. in~8°.   286 Profezie politiche intorno agli odierni avvenimenti d'Italia. Torino, 1859, in~l2°. Pensieri, Miscellanee. Torino, Eredi Botta, 1859, 2 voi. in-8°. Ricordi biografici e carteggio, raccolti per cura di Giu¬ seppe Massari. Torino, Eredi Botta, 1860-62, 2 vo- lumi, in-8°. Studi filologici desunti da manoscritti di lui autografi ed mediti fatti di pubblica ragione per cura dell’avvo¬ catoDomenicoFissore.Torino,Tip.Torinese,1867, in-8u gr. Una lettera a Terenzio Mamiani in data del 28 maggio 1834, pubblicatadaVincenzoDiGiovanni.Roma,Tip.delle Terme, di a. Balbi, 1894, in-8°. Lettera sugli errori politico-religiosi di Lamennais. Vincenzo Gioberti e Giordano Bruno. Due lettere inedite, pubblicatedaG.0.Molineri.Torino, L.Kourt:eC. 1889, in-8°. Vincenzo Gioberti e Giorgio Paìlavicino. Lettere per cura di B. K. Maineri. (Piemonte (II) negli anni 1850-51-52). Milano,FratelliRechiedei,1875,in-l&'. METAFISICA PREAMBOLO. ONTOLOGIA PARAGRAFO 1. Dell'Enle, come concreto e reale. PARAGRAFO 2. Dell'Ente, come astratto ed ideale, CATEGORIA I. 86 CATEGORIA 4 . 104 PARAGRAPO . I. Dell'atto creativo. TEOLOGIA RAZIONALE-PARTE GENERALE. PARTE SPECIALE : 143 velazione e della Civiltà colla Reli . 161 'ART. 3. D. Primo Storico CATEGORIA 2. 91 100 CATEGORIA 6 . PARAGRAFO. 2. Del tempo e dello spazio. C A P . II. Delle convenienze della ragione colla R i COSMOLOGIA PARTE GENERALE, 3& 120 ivi   LOGICA fato,della fortuna e del destino,dell'ac cidente e della necessità. PARTE SPECIALE Della sovrintelligenza e del desiderio PARTE GENERALE. PARTE SPECIALE Della diffinizione e della divisione. 269 271 ART. 5. Del metodo. PARTE SPECIALE  284 , 253 pag. 193 • 204 221 227 234 gressisti , 110230 * 233 ART. 1. ART,2. PARAGRAFO 2. Della volontà umana . 212 218 PSICOLOGIA PARTE GENERALE. CAP. II. Dellefacoltàdellospiritoumano. ART. 4. Det raziocinio e delle sue forme esteriori. 273 A r t . 6 . Dell'arte critica. 9 C A P . I. Del 1. Ciclo generativo e Cosmogonico ART. 3, della forzacosmica.. 216 • 26 278 266 ART . i. Della proprietà delle parole. . C A P , I. Delle proprietà dell'uomo . ART. 1 Art. 2. ART. 2. 280 ART. 3. Dei giudiziie delleproposizioni. FINE DELL'INDICE.E SOMMARIO ITRE ULTIMI ANNI DI VITA,E LE OPERE POSTUME Prima di esporre la filosofia acroamatica si compie il ritratto della vita dell'autore- Giobertisiritiranellavitaprivata- come eiparla disè stesso cercadirompereognilegamenonpurecolGoverno, macogliuomini-comesostienelavita– lapovertàdiluidàoccasione adunattogenerosodelRosmini— pertenersiprontoastampareal cuna opera utile all'Italia non vuole dettare un Discorso sull'Alfie ri- qualieranoicasiimprovisichepoteanoindurloastampare— perchè opinava più probabile che la repubblica francese non ca desse — concetto che egli avea di Luigi Napoleone - i n che fu fal laceilsuo giudiziosullaFrancia— nellametà del51 pone inlucc il Rinnovamenlo – intento di questo libro : sua convenienza e diffe renzacolPrimato– censuratuttietuttocoll'intendimentochefae cia pro nell'avvenire - - -rottura col Pinelli e coi municipali - pole micaconesi— mortedelPinelli--sibrucianolecopiedel'opu scoloUltimareplicaaimunicipali— l'autorelascialapoliticaeri volge il suo animo tutto al le opere nuove da pubblicare — forse la troppatensionedimenteglinocque- morteimprovisaedoloreuni versale— quantodannofuallascienzaeallareligione– vocazione diGiobertinonmancataperlamorteintempestiva— leoperepostu me– quando furono scritteprimaodopoil48?- ilconcettoeil titolo di esse furon suggerito dalle circostanze o ne sono indipen denti?– Tuttociòcheoraèstampatoappartenevaadessesecondo l'intendimento dell'autore ? - - c quale fu quest intendimento ? - gli scritti postumi sono solo l'apparecchio e imateriali delle opere che volevadarealaluce- ildisegnoperòv'apparisce:qual'èdesso?-  CAPITOLO PRIMO   ragioni che rendono difficile a cogliere la connessione e la verita della dottrina contenuta nei detti scritti---apparente antinomia di cssa dottrina -come ho proceduto io per afferrarne l'unità e la germanaintenzione inqualformamisonrisolutodiesporla-fu benecheilMassaricurasselapubblicazionediessiscritti– pote vanoperòesseremeglioordinatidariuscirepiùintelligibili– ladot trina del Gioberti è più difficile di quella dell'Hegel. CAPITOLO SECONDO PRELIMINARI La filosofia acroamatica non è contraddittoria all'essoterica , ma solo tanto diversa - nesso tra l'una e l'altra — differenze della cognizione direttaospontaneadelRosmini,edelCousindalpensiero imma nentedelGioberti Doppiostatodelpensieroumano caratteri dellostatoriflessivoedellostatoimmanente– l'intuitodell'ente differisce da quello dell'esistente — in che consiste la strellezza spe cialedell'enteintelligibilecolpensieroimmanente -comel'attività dello spirito coesiste coll'Ente senza che questo sia subbiettivato condizioni proprie dello stato immanente - si rimuove una obbiezio nc-dell'attivitàumana -suodoppiostatoedifferenzedell'unostato dal l'altro- - della personalità — l a penetrazione del pensiero nello slalo immanente è diversa dalla compenetrazione dello stato successivo triplice proprietà del pensiero immanente analoga a tre momenti dell'ente- lospiritosebbeneunapersonanelpensieroimmanente non subbicttivizza la cognizione - l'ordine psicologico è proprio della riflessione:suofondamentoontologico– anchepropriodellarifles sione è l'ordine cronologico - che fa il tempo -- onde nasce il ripie gamento della intuizione sovra se stessa— falso modo d'intendere la visioneideale cheèlavitaanterioredescrittadaPlatonenelFe d r o - d i f f i c o l t à d i c o g l i e r e il p e n s i e r o i m m a n e n t e - - - l a d i s t i n z i o n e b e n nelladellaintuizionedallariflessionecorreggeladottrinaplatonica- obiezione del Grote - come vi si risponde - - dei giudizii – doppio giul. dizioobiettivo- lospiritoescedallostatoimmanente coll'affermare eglil'Ente-comesiafferrailpensicroimmanente- delmodocome  502 3.42   possediamo le idee - le quali nascono per via didisgregazione, non di generazione— deigiudiziianaliticiesintetici- sichiarisceundub bio-delraziocinio dellafilosofia:suadefinizione--filosofiaprima qual'è;sua distinzionedall'ontologia-obiezione contro laProtologia: risposta -dellacircuminsessionedeiveri:suaradice -criteriodelve ro - onde nasce l'evidenza e la certezza scientifica— che è un siste m a scientifico - in che senso i principii dipendono e sono illustrati dalle conseguenze — le une non sono affatto eguali in valore agli al tri--dell'ipotesi,deipostulati,edegliassiomi- seiprincipiisono astratti , onde si trae la concretezza , senza di che la scienza non avrebbevalore?- IlPrimodellascienzaèlaFormola ideale-c0 me siprova che è ilPrimo -mutua collegazione e dipendenza delle verità secondarie e primato relativo della formola -- l'unità scienti fica deve salire e fondamentarsi nell'unità ideale trasparente all'in tuito - il processo non fa la scienza perfetta - questa risulta dalla in tima unionedellacognizioneriflessivacollaintuitiva--dell'Ultimo della scienza – la parola è il passaggio dal pensiero inimanente al s u c cessivo - onde si cava la necessità della parola per l'uso del pensiero riflesso - origine del linguaggio : tre opinioni - - -sentenza dell'aulo re- comepuòdirsicheilsegnodellinguaggioèunitoal'Idea unità della dottrina di Gioberti su questa materia . CAPITOLO TERZO DOTTRINA DELL'ENTE C o m e l'unità e semplicità di Dio si accorda colla moltiplicità degli a l tributi - dell'unione dei contraddittorii in Dio - - trasformazione dia letticadeidiviniattributi— Hegelcontuttiipanteisticonfondeil processopsicologicocol'ontologico-l'antropomorfismoéopera del l'imaginazionenondellaragione dellafuturizionedivina-Iddioè insieme sovrintelligibile e intelligibile- negatività di Dio- come co nosciamol'Assoluto?— Dioèpersonale:obiezioni,risposte— Dio produttività infinita-lapotenzialitàel'attualitàsonodiverseinDio enellecreature- Dioèliberoenecessario- èbuono- l'esistenza di Dio è verità intuitiva pel pensiero immanente , dimostrativa pel  503 43-94   504 DOTTRINA DELLA CREAZIONE L'ideadicreazioneportasecoperduerispettil'ideadinulla—delcan 95-124  successivo- laprovadimostrativamiglioretraggesidallanozione dell'infinito- processoprotologicoedesplicativodelleattribuzioni dell'Ente - attribuzioni esterne ed interne- doppia eptate - dell'in finito;onden'abbiamol'idea- èdeterminato;mas'intendenonsi comprendedella presunzione divina dell'infinito potenziale nel suo atto — antinomie rislessive:ipanteisti frantendono l'idea dell'infi nito - assurdità dell'infinito nunerico - distinzione dell'infinito pos sibile o potenziale dall'attuale - due infiniti: ilrelativo e l'assoluto dell'infinito aritmeticomonadico. giamento-l'atlocreativoèunoinsè anchenell'estrinsecoéper fetto-puossiconsiderarepertrerispetticomeinfinito– l'infinità potenziale del finitosuppone ilpossesso attuale,benchè finito, del l'infinitàattuale-incheconsistesiffattopossesso— l'attocreativo intervieneintutto— ècausachel'unitàdell'Ideasisparpagliain molteidee- igenerisonovari-lavarietàspecificadellecosede riva dalla maggiore o minore intensità dell'atto creativo CAPITOLO QUARTO zioneèdivisioneemoltiplicazione- rispettoall'esistentel'attocrea tiyo è sintetico e analitico - differenza della causalità finita dall'in finita-cheèilcronotopo--suaunità- comedall'unitàdell'istante edelpuntosibiforcailtempoelospazio— l'intervalloèuno-5e nesidelcronotopo- doppiovaloredelpuntoedell'istante- dell'in ternitàedell'esternità- l'unitàdelcontinuosirappresentainordine lospazioeiltempohannouncentro al discreto sotto tre aspetti— del passato , sintesi del continuo e del discreto nei modi del tempo -- del presente e del futuro- l'eternità non cresce — doppio continuo , attualeepotenziale -infinitazionedelcronotopo-inchesensoilmon do è cterno - ogni epoca e stato mondiale è una palingenesia verso il p a s s a t o , e u n a c r e a z i o n e v e r s o l ' a v v e n i r e - il c r o n o t o p o e l ' u n i v e r soinfinitisonorealicomeintelligibili– l'indivisibilitàdelcronotopo dal pensiero colto dal Kant- del pensiero divino e umano-- interio la crea   DOTTRINA DELL'ESISTENTE debbonsidiresull'esistente- questosomigliaall'entepereffettodella creazione- incheconsistel'improntadell'entecheportainsèl'esi stente diversosensodatodall'autoreallevocimetessiemimesi quale è il senso che in quest'opera si dà alla prima -- distinzione dellapotenzaedell'atto- metessipotenziale,intermedia,eattuale l a m i m e s i - e s s e n z i a l e a l l e f o r z e c r e a t e è il c o n c r e a r e e il g e n e r a r e : prove- carattere del primo momento dello sviluppo dinamico -- due 64 125-166  505 Difficoltà di esporre la materia-nesso delle cose dette con quelle che ritàeesterioritàdelpensieroumano irrazionalitàdelvero nella s u a c o n c r e t e z z a - c o m e il p e n s i e r o u m a n o c o n o s c e il c o n t i n u o - l ' i m manenzadell'eternodatocidalpensiero— l'estensioneeladurata esprimono ilimitidell'esistente — Dialettica;ildiverso,ladualità, lamoltiplicitàappartengonoall'essenzadellacreazione- incheversa ladialetticaeondetraeilnome duedialettiche:realeeideale che forma il moto o vita dialettica- la dialettica consta di due m o menti,sebbene sembra che constidi tre- glieterogenei,cioè idi versi ed opposti,non sono contraddittorii---differenza della eteroge neità dalla contraddizione –secondo un certo rispetto l'eterogeneità èinDio-l'opposizioneriguardailnegativodellecose- ilcontrap postoèdiversodall'opposizione- glieterogeneiimportanogliomoge neieviceversa-cheèilterzoarmonicoodialettico come mai il conflitto dialettico pruduce l'armonia — uell'unione dell'omogeneo ed eterogeneo quale prevale— ciò che è l'opposto in natura è l'antino mianellascienza– dellaantinomiarealeedell'apparente– della guerra- lapolemicaèlaguerranell'ordinedelpensiero- delloscet ticismo - lo scetticismo obbiettivo non è sofistico -che sono l'errore e la colpa - due periodi distinti della storia della filosofia - - -divisione eriunioneèilprocessouniversaleedialettico- diversitàdiprocesso delladialetticadell'Enteediquelladell'esistente dellaschemato logia - - -della sofistica - - - il moltiplice e il conflitto son ridotto ad unità ed armonia mediante la mediazione dell'infinito. CAPITOLO QUINTO 1   ciclidellavirtùconcreativadelleesistenze realtàd'unaintelli gibilitàrelativa- ilsensibileèlafugadell'intelligibilerelativoda sèstesso,lasuamoltiplicazione,diversificazioneerottura-prove causa percuil'intelligibilecreatosimanifestacomesolosensibile negliordinideltempo differenzadellanostradottrinadaquelladei sensisti — nozioni che racchiude l'idea del sensibile- la successiva distruzioneerinnovazione delle forme sensibilièilnisusdiessoa diventareintelligibili- ilsensibileconsisteessenzialmentenelare lazione tra l'uomo intelligente e la natura intelligibile - del sensibile interno ed esterno - se il sensibile può o no conoscersi- si chiarisce ilsignificatodellaparolasensibile- ilsensibileschiettononsipuò pensare- prova che la sensazione non è lacognizione- qual'èl'og getto della cognizione del sensibile - - come si risolve l’antinomia ap parenteditrovareinescogitabileilsensibileepurepoterlopensare la dottrina nostra è la sintesi delle diverse dottrine precedenti Galluppi,Rosmini,Platone- nelladottrinadiGiobertinonbisogna confondere l'intelligibile assoluto,l'intelligibilerelativoeilsensi bile- la teorica dell'intelligibile relativo non annienta ilsovrintelli gibile— siviendivisandopiùparticolarmentelamimesi—mimesi prevalente-esteriorità,apparenza,fenomeno,conflitto,passaggio, metamorfosi-la gerarchiamimeticadeglienticonsistenellavarietà deigradiconativi-sinotanoiprincipali dellaluce-lamaggiore intelligibilità nella natura corporea si manifesta mediante la finalità , dell'uomo;ilcorpo,chiloforma —delsonnoedeisogni—l'istinto l'anima e il corpo in parte diversi , in parte uni - doppio stato del la vita;latenteeinanilesta—duevitedell'uomo- dellepassioni:la gloria,lamalinconia,lanoia- facoltàdell'animo:ilsenso,l'imagi nazione,lamemoria,laragione— lescoperteeitrovatiapparten gono allo sviluppo metessico del Cosmo -- che cosa è la scienza- lo spirito creato è l'anima del mondo , lo spirito uniano è l'anima della lerra- gl'intelligibiliintelligentirelativinonsonogiàdellosteso generedue speciedimentalità -cheèilpensiero- inchesifonda l'identitàdelmondo- metessiprevalente:suadefinizione-doppia u n i t à , la d i v i n a d e l l ' a t t o c r e a t i v o , e l ' u n i t à m e t e s s i c a e c o n c r e a t i v a dellarelazione;essasovrastaaiterminichelacostituiscono- due relazioni--natura speciale della relazione che corre tra l'Ente e l'esi  506   CAPITOLO SESTO DECORSO DELL'ESISTENTE Del progresso : che n'è il tipo e il principio – il progresso considerato 167-250  507 stente— l'azione finita è reciproca , quindi inseparabile dalla passio no:l'unitàloroèlarelazione,larelazioneinfinitaè unamla rela zioneèilveraceassoluto cherappresentalarelazione essaè l'appicco del finito coll'infinito - riscontro del vero col mondo - le relazioni sono nelle cose,enon solo nello spiritonostro,enella mente divina -- falsità della dottrina dell'Hegel che pone l'assoluto e il concreto nelle sole relazioni - la specie non è un'astrattezza la specie non è l'idea specifica-metessicamente non si distingue il tutto dalle parti- come raffigurarci la concretezza della potenza - dellecontagionimoraliemateriali- l'armoniadellamimesierumpe sempreerisiedesostanzialmentenellametessiiniziale diversità della metessi mimetica dalla finale -dell'implicazione e dell'inter nitàdellecose- qual'èilprogressometessico- v'èunapermanenza metessica di ciò che passa mimeticamente- Idea,metessie mimesi - ilpassaggiodellamimesiècreazioneeannientamente- accordodi dueopinioniopposte- trecondizionimondiali— vanitàdellecose umane inquantopassanoesiannullano- delladottrinadiProtago ra- scienzamimeticaemetessica--Comemaiilrealepuòrassomi gliarsiall'ideale?- Comemaiilfinito,ilrelativoecontingentepuò rassomigliareilnecessario,l'assolutol'infinito? Comemailecose materiali possono rassomigliare il pensiero ? in riguardo alla metessi iniziale, alla mimesi ,e alla metessi linale lamimesièprogressivaneiparticolari,soloregressivanel genera le- ilregressoèleggedelprogresso– l'andamentocosmicosial terna di progressi e di regressi— la vita è la sintesi e il dialettismo del progresso e del regressoma conferma di ciò si trova nell'esame dell'uomo,dellareligione,dell'arteedellascienza- ilprogressoquan do è passato diventa regresso - accordo dei progressisti e dei regres sisti-delaperiodicità– ècircolareeregressivadisuanatura— ha luogo nelle parti dell'universo, non nel tutto - la forza rallenta   508 tricenecessariaallasocietàcomeallanatura seilprogressosia reale o apparente --- la periodicità perfetta è sola apparente - corso migliorativodituttol'universo- ilprogresso nascedall'intreccio deltempocollospazio- Individuoegenere--processoestrinseco dell'atto creativo- l'evoluzione è nelle idee , nella metessi , non già nell'Idea—checosaèlagenerazione- essenzialeallagenerazione è l'idea di specie, la quale non è astratta soltanto- la generazione è l'estrinsecazione più viva della metessi specifica delle cose,eap partieneallamimesi -dellasessualità—dov'èilprincipiogenerativo se nello sperma o nell'uovo- della donna e dell'uomo - la sessualità riscontratacolladialettica dellafemminilitàedellavirilità–del conjugio — dell'individuo compiuto e in che consiste la sua essenza e valore -- l'individuo e l'Idea sono nell'ordine attuale idue estre midellarealtà— influenzadelpensieroneglieffettidellagenera zione la generazione e la nutrizione sono le principali azioni tantodelcorpoquantodellospirito— altreconsonanzetrailcorpo e l'anima - del psicologismo e dell'ontologismo - come ci può essere concretamente insegnata l'attinenza del genere coll'individuo -due classi d'individui- - se l'individuo è sparito dinanzi alle masse - che cosaèlaplebe- relazionedell'ingegnocollamoltitudine -comepuò affermarsi che nell'ingegno v’abbia qualcosa del divino - Dell'amo r e , d o v ' è il s u o t i p o , e q u a l e n ' è l ' e s s e n z a - l ' a m o r e a s s o l u t o e i n finito è l'identità --ch'è l'amore rispetto all'esistente nello stato m i mctico dell'amoreattivoedelpassivo- delpuroe corrollo Ca gione dello scisma tra l'amor del cuore e quello dei sensi — che è l'idealedell'amore--delmaritaggio- deldivorzio– l'amorecorro traidissimiliarmonici-universalitàdell'amore--parenteladell'amo recolBelloecolBuono--delBelo--originedelmalc- duemorale, p a r t i c o l a r e e u n i v e r s a l e – o t t i m i s m o r e l a t i v o n o n a s s o l u t o - il m a l morale è impossibile nell'etica divina e universale - l'antinomia a p parente della natura seco stessa si risolve mediante la necessità de gli ordini --contraddizione della natura nello stato presente --dell'in felicità umana--scopodellavitaterrestre--della virtùedellalibertà umana— l'uomoèpotenzialmenteonnispecie,puòsalireescendere nella gerarchia cosmica - la giustizia cosmica procede per ragione geometrica - dell'abito- è verso l'anima ciò che l'accrescimento e  >   509 la nutrizione verso il corpo - la virtù è sforzo , è la trasformazione dellamimesiinmetessi-ed ilsagrifiziodell'individuoalaspecie- La Società ha un fondamento metessico e idealee logico-lapolizia è una metessi iniziale - la polizia dell'uomo comincia coi primi prin cipii della sua vita— individualità e polizia principiano e crescono di conserva--unitàdinamichedellanostraspecie– divisionedelgenere umanoingenericheespecifiche– dellanazionalitànaturaleearti ficiale- lamisuradell'ampliazionedell'unitàèiltermometrodella civiltà-doppiaunificazionedeipopoli--autorità morale— ilpotere sovrano è fontalmente l'Idea— formazione primordiale della socie tà- unitàprogressivadeivaricetidellasocietà— dellaplebeedel l'ingegno - intento della riforma politica moderna - nel mondo tutto èordinatoallosvolgimentodelpensiero— ciòcheaccadeorainEu ropa è in certa guisa una ripetizione di ciò che accadde in Grecia dellademagogia:dominiodellaRussia —unitàsovrannazionale- unità intermediatralasovrannazionaleelanazionale- l'egemoniamo dernadoverisiede-delPrimato,assolutoerelativo- alcunititoli del primato italiano- il Cielo che rappresenta alla mente umana - della causa e dell'effetto negli ordini finiti- attinenza della terra col c i e l o - i v a r i m o n d i f a n n o u n s o l o u n i v e r s o - il m o n d o n o n è s o l o u n aggregato, ma un aggregante - da che è prodotto l'individualità nei corpi- gerarchiadegliesseri--dellaNuidità -ilprincipioeilfine si somigliano e differiscono - della materia in astratto e in concreto -- lapotenzagenerativaessenzialeaogniforzacreata- dellapreesi stenzadeigermi--dellaleggecentripetainorganogenia- ilcentri fugismo non è la stessa cosa dell'ipotesi della preesistenza dei ger mi —laforzaprimitivaquandoerumpenell'attocominciacolladualità ocollamoltiplicità?-gradidellaforzacreatauniversalmente- dei cinque gran regni della natura - della mutazione delle specie- sunto delladottrinadell'autore- dueleggidell'esistente:leggedietero geneità,eleggediomogeneità— dellapolarità– infinitonumerico solo possibile nello stato di metessi - due soluzioni di esso - infinito aritmeticomonadico - l'infinitoèilsovrannaturale-due errorisul mondodell'ottimismo— infinitàpotenzialedellacreatura -delfu infinito e del sarà infinito.  251-349   510  mo 343-370 CAPITOLO SETTIMO SECONDO CICLO CREATIVO Palingenesia Del secondo ciclo creativo ; ritorno del'esistente al l'ente – è solo per approssimazione -- la creazione non ebbe prima, perchè fu un Pri ilsecondociclocreativoèumanoedivino- comeilprincipio e il fine sono finiti e infiniti -- che cosa è specificatamente la palia genesia--come siamcerticheesiste– lapalingenesiaèobietiva esubiettiva,cosmicaeindividuale— delprogressorelativoedel progressoassolutodellecose comesideeintenderechelostato palingenesiacosiamentalitàpura— dellamorte– dell'immortali tà--l'esistenzaeinamissibile- lamorteèunsaltoegradosecondo chesiguardaildiscretooilcontinuo— futuritàparticolaredel l'anima— la palingenesia consiste nell'acquistare la coscienza che nonsiha- èilcolmodellacoscienza– duepresunzionidel'infi nitopotenziale– delliberoarbitrio- ilprocessopalingenesiacoè unprocessogenerativo- due metamorfosi:mondaneeoltramonda ne– obiezionecontrolarealtàdellapalingenesia:risposta– igno riamol'avvenire– haancheunabasenell'esperienza--nelapa lingenesial'internitàsaràesternata- divarioerassomiglianzatrala cosmogoniaelapalingenesia- inchesensolanegazionedell'im mortalità umana è vera - unità dello stato palingenesiaco - comuni cazionedell'intelligenzaedell'amorecoll'infinito dellafelicitàe beatitudineassoluta-l'uomonellapalingenesiaopera- ideadelpro gressopalingenesiaco– larivelazionepalingenesiacanonescluderà ogni elemento misterioso. CAPITOLO OTTAVO RELAZIONE DELLA PROTOLOGIA COLLA RIVELAZIONE Il Gioberti prima cercò verificare psicologicamente l'idea di mistero poisiproposedimostrarlaontologicamente infineporgerneuna   511 prova universaleeprotologica- lametessièilsovrannaturale- unione dialettica del naturale e sovrannaturale nell'atto creatico - ilsovrannaturale èuniversale;ènelprincipionelmezzo enel fiue- la natura senza la sovrannatura è in contraddizione seco stessa- la dottrina del nostro autore toglie l'opposizione tra il naturalismo e il sovrannaturalismoesagerati- ilsovrannaturaledell'ordineattuale è la metessi anticipata nel seno della mimesi -nel sovrannaturale e nelsovrintelligibilev'haunelementonaturaleeintelligibile~-due spe ciedisovrannaturale— differenzatrailsovrannaturaleel'oltrena turale--ideadellareligione- religioneperfettaèlarivelata— ari velazione è l'apice della cognizione- necessaria ad accordare la ri flessionecoll'intuito duerivelazioni- larivelazioneimmanenteè virtuale— la potenza primitiva delle due rivelazioni è l'intuito- la rivelazione sovrannaturale spiega le potenze dell'intuito rimase in fecondepermancodiparolaacconcia- larivelazioneesterioredi vieneinteriore- treconseguenzcimportanti- intentodelGioberti- nel suo sistema la ragione e la fede entrano l'una nell'altra – l'idea d e l l'infinitoèilvincolotrailsovrintelligibileel'intelligibile- essenzadel mistero:misteriteologici,antropologici,e teoantropologici- imi steririvelatinonsonoeffetto,ma principiodiragione-esempidella feconditàrazionaledeimisteririvelati- ilmisteropertieneallara gione e la supera ad un tempo — tre membri della formola, tre es senze,tremisteri-veradottrinadelGioberti- nellavitaterrenail sovrintelligibile non diventa mai intelligibile- il vero sovrintelligi bilenoniscema- delmiracolo:sesipensa,èpossibile-checosa èilmiracolo- ogniprodigioimportaunfattoobbiettivoeunfatto subbiettivo--ilmiracoloeladisposizioneeattitudineacrederlo si corrispondononell'unitàmetessica- ilfattomiracolosononènelco smo,ma nellapalingenesia- imiracolidecrescono— lanatura(mi mesi ) e mito e simbolo del sovrannaturale (metessi, palingenesia) il cristianesimo importa un nuovo atto creativo, ciò come avviene ? - perchè si tralasciano di esporre partitamente i dogmi religiosi attinenze della rivelazione colla scienza,e della religione colla filo sofia 371-399    CAPITOLO NONO CONCLUSIONE DELL'OPERA Perchè mi son risoluto a tessere questa conclusione-- il lettore non ri  - 512 cordando più le cose lette negli altri volumi non avrebbe potuto giudi care quest'ultimo - m'è piaciuto altresi di dare uno sguardo su tutto ciòdamepensatoescritto— occasionedell'opera- caratteredela maggiorpartedegliegeliani—come èdeltatoillibrodelprof.Spa ventasullafilosofiadiGioberti- lemieConsiderazioni— suiaspra menteripreso- soliloquio- neiprimivolumimostraiunpo'diri sentimento - l'esposizione della seconda parte si fa con modi dice voliallascienza- checosamihafattoperseverarelungamentein questa opera , perchè l'idea di essa non si era prima incarnata l'Italia al la stregua della filosofia dominante oltrealpi - perchè era nomala terra dei morti— lotta interiore del pensiero di Gioberti ragione del suo tardi stampare— la lotta cessa nel 1835 : creazione d'unanuovadottrina--lacuipellegrinitàstanelnessodellareligione collafilosofia -perquattroannisecostessoesaminalabontàeve rità del nuovo sistema - tre stadi del suo processo intellettuale- le nazionicoesistonoinsiemecsigiovanoscambievolmente- lanuova vitad'Italianecessariaalprogressoumano- ciòchehannocompiuto nel mondo i Francesi e i Tedeschi — difetto della civiltà da essi pro dotta— scopodellarinascenzaitalica— caratteredellavitaitaliana dall'AlfieriaGioberti nelqualeciòcheeravirtualeeastratto divieneconcretoeeffettivo— chiudeunepocaenecominciaun'al tra - medesimezza dell'idea individuale che costituisce l'eccellenza di Gioberti coll'idea sostanziale che costituisce ilgenio nuovo na zionale - rifà in sè tutto il processo anteriore dello spirito u m a n o quando acquistò il suo spirito intera coscienza di se medesimo - sti mò che iconcetti natigli in mente erano stati indirizzali ad un alto linedallaProvvidenza– siapparecchiaadeseguireildisegnodivi no- moto dall'individuo alla nazione e alla specie- come nel divul gare la sua dottrina e farla fruttare si mostrasse tradizionale e n o vatore ad un tempo --procedette per l'antagonismo degli estremi per 1 l   513 meglio far spiccare l'armonia del mezzo—dissimulò una parte del suo pensiero -- la filosofia la religione e la nazionalità italica sono unite e connesse subbiettivamente e obbiettivamente  mosse dal l'idea al fatto, dai principi al metodo di esposizione -carattere delle opereessotericheedelleacroamatiche- Giobertipossedevauna dottrina ben divisata e armonica , di cui avea piena consapevolezza – ciòsinegadaicritici- sidiscutelalorosentenza -sigiungeaduna conclusionc lutta opposto alla loro con solo l'esame dei fat ti -- si cerca allrcsi la dottrina intrinsecamente e logicamente e si ha lo stessorisultamento, perchéquasituttiicriticihanfranteso trinadiGioberti- ilmedesimo ladot è accaduto al Prof. Spaventa - qua l'èilconcellonuovoch'ioneporgo- essoèstatoignotofin'ora; nelle scuole d'Italia s'è insegnato solo la parte essoterica- di questa ècontrappostol'Hegelianismo- venutoiltempochesistudiaecol liva la parte acroamatica che contenendo la sintesi ed armonia di questoediquella,delpresenteedelpassato apre la via alla spe culazioneavvenire- nellacontroversiaintornoaGiobertibisogna separarelatesistorica,dallafilosofica— caratterichedistinguono, la dottrina di Gioberti da quella di Hegel , e il moto civile d'Italia daquellodiGermania- solol'Italiahaoggiunaveramissionestori ca,ilcuidelineamento trovasidegliscrittideltorinese—riscontri tra le parti in cui fu divisa la dottrina c i vari periodi del rinnova - mentonazionale– comel'egemoniapiemontesehaprodottoisuoi frutti, così li produrrà il Primato – il primato è tutt'uno colla riu novazione del pensiero italiano- ogni nazione ha da natura un sito intellettivo- - che dee cavare dal suo l'Italia- oggello della scienza sulural'idealitàinfinita– riformareligiosacnuovavitadelcattoli cismo - senza una filosofia e leologia infinitesimale ogni ristorazione religiosaèindarno-provailrecentemotodiGermania- ilDöllin ger non ha ragione di biasimare gli italiani- i vecchi cattolici sono oppostosofisticodeiGesuiti– quindicontinuanolasofisticareli giosa che travaglia la nostra età-diseltano d'una teologia veramente nuova e proporzionata al bisogno- mentre coi loro ciechi colpi con tro il papismo gesuitico ne han mostrato più che mai la necessità— senza di quella non si può distinguere l'essenziale dall'accessorio nella religione, nè accordare ildivino coll'umano-carattere della 63   nuovateologia- modocomedeeprocederelariformacattolica- l'entratura di essa appartiene al laicato,e in ispezieltà all'italiano così lagerarchia non sarà annientata,nè scossa,ma condotta a ri formarsidasè— ilmoloitalicoristabiliràperfezionatal'unitàmora le e civile d'Europa – esso perciò è indirizzato ad una meta più alta diquellaacuiègiuntalaGermania— iforestierimalintendonoe mal giudicano l'Italia ; in parte ne han colpa i fautori della coltura tedesca -ragionedell'imitazionetedescatranoi--devecessareedar luogo alla produzione paesana nell'ordine dei pensieri ,dei senti menti e delle azioni.La teorica della conoscenza nel Gioberti .   Esposizione e critica.   In uno degli ultimi scritti, — certo V ultimo scritto filosofico, —  pubblicato pochi mesi prima di chiudere la sua lunga e intensa  operosità, Antonio Rosmini, discorrendo della necessità speculativa  di tener distinta nell' essere la forma ideale dalla reale, usciva in  queste solenni parole: ' L'esperienza tuttavia e la storia della fi-  losofìa dimostrano, che e' è una somma diMcoltà a distinguere e  mantenere costantenftnte distinta nella mente la forma ideale ed  obbiettiva dell'essere, dalla forma reale, e me ne somministrò non  ha guati la prova quel facondo e immaginoso scrittore che diede  a me biasimo e mala voce d'aver proposta e stabilita una tale  distinzione, dettando tre volumi col titolo de' miei errori. Laonde  con tutto lo zelo e la fidanza egli si pose di contro a me, quasi  abbarrandomi il passo, e si dichiarò perfetto realista: incolpando  gli stessi scolastici realisti, di non essere stati tali abbastanza, ec-  cetto alcuni pochi. Ma pace a quell'anima ardente: e torniamo  alla storia *) ,.   Si sa che gli avvenimenti politici del quarant' otto avevano rav-  vicinato i due grandi avversar], smorzato perfin le ire implacate e  sospettose del torinese, che faceva pubblica ammenda della vivacità  frequente delle sue polemiche, dichiarando che, appena conosciuto  di persona il Rosmini, aveva cominciato anche lui " a venerare     ') RoiKiNi, Ariat. esposto ed esaminato, Torino, 1857, pre&z. p. 36. La  prefazione di quest'opera postuma era Btnta pubblicata dal Bosmìnì Hteeao  nella Riviìta contemporanea di Torino, au, ir, voi. II, fase. 17» e 18', decembre  1854 egenoaio 1855; riprodotta poi nella Poliantea Caffo^ca di Hilauo, an.  IV, 1855.     Digitizcdby Google     Rosmini e CHoberH 247   con tutta Italia tanta sapienza e tanta virtù , ^). — Quanto al Ko-  smini, benché l' animo suo non si fosse mai inasprito, i fatti del  ' 48 lo conciliarono di più col Gioberti, e non è questo il luogo  dì ricordare le belle prove da lui date de' suoi sentimenti verso il  filosofo esule per la seconda volta '), e poi quando fa morto, e  quando prima, nel ' 49, ebbe a G-aeta a difenderne calorosamente  la fama a l' ing^no contro le insinuazioni e le malignazioni d' un  gran gesuita ^).   Ebbene, tutto ciò e il tempo corso in mezzo e il cammino in-  tanto fatto nella scienza, non lo rimossero fino al termine, come  s' è visto dall' ultimo suo scritto dianzi citato, dalla posizione già  tenuta di contro al Gioberti. E questi, dal canto suo, ìn quel di-  scorso che premise alla seconda edizione della sua Teorica del  sovrannaturale, e che si può considerare come Y ultima sua scrit-  tura di genere puramente filosofico, rimaneva anche lui al suo posto,  nonostante l' om^gio quivi reso alle virtù e alla sapienza dell' av-_  versarlo; poiché scrìveva: *U Rosmini ed io siamo d'accordo nel  recare alla riflessione la possibilità dell'errore, e il suo rimedio  all'intuito che la precede. Ma dissentiamo intorno al contenuto di  tale intuito ; il quale al parere dell' illustre Roveretano, non ci poi^e  che un ente astratto, iniziale, destituito di sussistenza ; laddove, al     ')■ Discorso preliminare tìiU 2' Bàìz.ifiìla Teorica del sovran7iaturide(i850]  I, ^ n. Vedi pure ciò ohe, quasi nel tempo atesBo, ne scriveva nobìlmeate nel  Rinnovamento àvUs, lib. I, cap. XIII; ediz. Napoli, Morano, 1864, 1, 285 e aegg.   !) Vedi quel che HCTisae Q. Uassuii, nella bua Bitiista pdiHca del 15  luglio 1855 nel Cimento di Torino (voi. VL B. 3", p. 86) commemoiando il Ro-  smini. Sono due pagine dimenticate, e che hanno tuttavia molta importansa per  le opinioni politiche e per la biografia del Rosmini; T. pure Tommaseo, A. Ro-  smini, (in Rimala Contemporanea dal 1855, voi. IV) §. 28,   ') H Liberatore. — Chi fu presente al colloquio e ne scriveva poi a Baff.  De Ceaare.attesta che le parole «eloquenti dette dalBosmini in quella occasione  lìaHciiono il più autorevole e più meraviglioso elogio del Gtiobeiti >. Tedi  Db CssAaB, Dopo la wndanna del S. Uffi,ziOt in N. Antologìa, 16 luglio  1888, p. 205.     .dbyGoosle     348 G. Gentile   mio, ci dà un concreto effettivo, che nel primo de' suoi termini  è assoluto e apodittico. Or qual'è il miglior fondamento del vero?   ^ l'astratto o il concreto? T insusaistente o il reale? l'incoato o l'as-   l soluto?, ').   I due filosofi, adunque, compiono la loro carriera filosofica con  opposta sentenza intomo al principio della loro dottrina, nonostante  la polemica vigorosa per dottrina e dialettica che s' era in propo-  sito dibattuta; talché si direbbe che essa non abbia avuta nessuna  efficacia sulle dottrine de' due filosofi. Questo però è appunto quello  che ci rimane ancor da vedere.   f~^ Come il Rosmini abbia introdotto V. Gioberti nel campo della   ' moderna filosofia, cioè della filosofia kantiana, l'abhiam veduto e  dimostrato nel terzo capitolo della prima parte del presente studio;  coachiudendo, che già nella Teorica del sovrannaturale egli ci ap-  parisce sì un rosminiano, ma un rosminiano il quale vuole andare  avanti al Rosmini. Neil' opera che seguì immediatamente dopo,  V Introduzione aUo studio della Filosofia, si delinea ben nettamente  la nuova posizione speculativa del Gioberti ; e si vede quali essen-  ziali modificazioni, secondo lui, debbono subire le dottrine del filo-  sofo roveretano.   Ma prima di studiare cotali modificazioni, vediamo come si  muove in questa nuova opera il pensiero dell'autore.  / La concezione della storia filosofica qui è l'es^erazloae di quella  donde sì rifa nel Nuovo Saggio il Rosmini; ma certamente è mo-  dellata sovra di essa. Pel Rosmini, come s'è notato, v'ha sistemi  che peccano per eccesso e sistemi che peccano per difetto di apriori  nella spiegazione del fatto del conoscere : da una parte falsi idea-     *) Op. cit, I, 2K. Cfr. Errori filoaqfiei di A. Bosmini, II, 126-134. —  L'ultima parola venunente à nel Rmnovat>ieato civile, dove al lib. n, oap. 7*,  (voi. II, pag. 191), è detto ancora uoa volta « Cosi, per cagion d'esempio, il  divorzio introdotto da un chiaro nostro psicologo tra il reale e l'ideale, non  si puA comporre stando nei termini della psicologia sola; e se si muove da  questo dato pei salir più alto, si riesce di necessità al panteismo dell'Hegel e  de' suoi seguaci >.     DigitizcdbyGOOgle     Jtosmitii e Gioberti 249   iiami, e dall'altra falsi empirismi. Ma nell'idealismo, oltre l'errore  di ammettere più elementi a priori che non ne siano richiesti a  quella spiegazione (Platone, Aristotele, Leibniz) può esservi un  più grave difetto : quello di far soggettivo, come avviene in Kant, Va  priori ricercato in seno alla conoscenza, la quale, se vuol essere vera  e certa, dev'essere invece oggettiva. Onde pel Rosmini Ì sistemi  sbagliati si riducono al postutto al sensismo o all'idealismo sog-  gettivo, cfae è una specie di scetticismo mascherato ; dacché il pla-  tonismo, a parte l'eccesso dell' a priori che va corretto, trova grazia  appo lui per l'assoluta separazione posta fra cotesto a priori e il  soggetto umano che conosce. E contro il sensismo e l' idealismo  soggettivo e si può dire (poiché pel Rosmini il senso era la fa-  coltà soggettiva per eccellenza) in genere, contro il soggettivismo  ei si proponeva di scendere in campo col Numo Saggio.   Contro questo soggettivismo insorge parimenti la filoso&a del  Gioberti; il quale raddoppiando d'ardore per le dottrine platoniche  riconosciute pure in fondo al contenuto filosofico delle dottrine  cristiane, tutti gli opposti sistemi involge in una comune condanna  con quel sensismo, che ormai, quando usciva il suo libro, era già  morto e sepolto cosi in Italia come in Francia; talché dimostrare  sensistica una teorica, era lo stesso che averla giudicata senza  appello.   E sensistica, a parere del Gioberti, è tutta la filosofia moderna  in Europa; a cominciare da Renato Cartesio; il quale, del resto,  non fece se non applicare alla filosofia il metodo che aveva già  fatto ben trista prova con Lutero, nella Protesta, proclamando la j  intimità autonoma della fede religiosa. . -J   Cartesio sensista? " Parrà strano, scrive il Gioberti, a dire che  il sensismo sia conforme ai principii cartesiani, e che il Locke,  il Condillac, il Diderot, con tutta la loro numerosa ed infelice pro-  genie, siano figliuoli legittimi del Descartes; quando questi pre-  tese nlle sue dottrine un teismo purissimo al sembiante, e volle  stabilire sopra uua salda base la spiritualità degli animi umani.  Ma il teismo del Descartes é puerilmente paralogistico. Il suo dubbio     .dbyGoosle     250 Q. OmHk   metodico e assoluto, e il riporre eh' egli fa nel fatto del senso in-  timo la base di tutto lo scibile, conducono necessariamente alla  negazione di ogni realtà materiale e sensibile , *). E che altro è  il sensismo? ' Spogliato dalle contraddizioni de' suoi partigiani, e  ridotto al suo vero essere dalla logica severa di Davide Hume,  riuscendo a un giuoco aubbiettivo dello spirito, che, rimossa ogni  realtà, è costretto s trastullarsi colle apparenze, è propriamente  scettico e si manifesta come l' ultimo esito di ogni dottrina, che   _, metta nel sentimeuto dell'animo proprio i princlpii del sapere . *).   1 II Descartes, adunque, è uu sensista, e a lui si deve tutta la   serie di errori di cui è iutessuta la storia della filosofia moderna ;  egli è l'iniziatore, purtroppo, fortunato del moderno sensismo psi-  cologico, poiché pone come principio della filosofia un fatto, che  come tale non può essere se non un sensibile ^).   Insomma il Locke e il Gondillac sono cartesiani. " Né rileva che  i successori di Locke facciano caso della sensazione sola, e non  del sentimento interiore, imperocché questo e quello convengono  nell'essere forme sensitive, destituite di obbiettività assoluta , *).   \ Il Gioberti, insomma, intendeva parlare di soggettivismo, e di-  COTa sensismo, che è pure una direzione speculativa molto diversa. La  colpa bensì non è propriamente sua, perchè risale al Galluppi ; il  quale nella sua teoria della sensazione (che qui il Gioberti ripete)  aveva con essa confusa la percezione o rappresentazione e la coscienza,  introducendo nel seno stesso di quella le distinzioni che sorgono     ') Introdwi., lìb. 1, c&p. l" (ediE. di Firenze, Poligrafia italiana, 1846)   I, m.   ») Ibid., p. m-12.   3) «... E certameiite la seoteiiEa ; io penso, dunqm sono, equivale a questa:  io sento di oaeere pensante ... e più concisamente : io sento, dunque sono . . .  n pensiero conosciuto per via della liflesaione, ò un meco fatto della coscienia,  cbe appartiene al senso interiore; onde il Cartesianismo che muove da quella,  colloca in un fenomeno della facoltà sensitiva la base della scienza >. Tntrod.,  lib. I, oap. 3" (n, T7 e segg.).   *) Op. àt., n, 78.     n     DiBiiizMb, Google     Rosmini e Qioberti 2&1   invece per cotesti fatti ulteriori della psiche '). Del resto, il Gio-  berti risente presto l' iDcooTeuiente che deriva dal fare un sensista  delio stesso Cartesio, pel quale il fatto della coscienza, invece che  un sensibile (donde, secondo il Gioberti, stesso non può derivarsi  mai l'essere) era una cosa stessa con l'essere, e quindi noD un  semplice principio psicologico '), ma una inscindibile unità del prin-  cipio psicologico e dell' ontol<^Ìco, che se fosse stata fecondata,  avrebbe già fatto procedere di molto la filosofia moderna. Infatti,  quando ai accinge a classificare tutte le scuole filosofiche figliate dal  sensismo cartesiano, comprendendo nella seconda categoria i se-  guaci del lochiamo, egli è costretto a porre &a i caratteri di questo  * il ripudio della ontologia cartesiana, come ripugnante ai principii e  al metodo del Descartes, e troppo simile all'antica, dichiarata dal  francese filosofo insuMciente e buttata fra le ciarpe ; e l'ommis-  sione e lo sfratto implicito e tacito di ogni ontologia , ').   E già da questa medesima classificazione de' sistemi resulta  cbiaro che il nemico preso di mira è precisamente quello stesso  del Rosmini: cioè il soggettivismo, il falso so^ettìvismo, che ri-  pete le sue origini da Cartesio, anzi {ed ecco l'intreccio significan-  tissimo della filosofia eterodossa con la falsa filosofia!) da Lutero.  Nelle cinque categorie, in cui dovrebbesi, secondo il Gioberti, par-  tire tutta la storia della filosofia moderna, così vengono distribuiti  i vai^ indirizzi: nella 1" Cartesio e la sua scuola: nella 2' Locke;  nella 3' Spinoza, i panteisti tedeschi e in parte Giorgio Berheley^;     ') Eppure il Gioberti stesao aveva combattuta questa teorica galluppiaaa,  nella n. 3* della Teorica (II, 319 e segg.) imputando al filosofo di Tropea  < di Bveie considerato come semplice e indivisibile ciù che è ancora composto,  Bocomunando per tal modo elsmenti svariatisaimi con una sola voce >.   *) < Il paicologiamo ed il BcnHÌaino sono identici : l' uno è il Henstsma ap-  plicato al metodo, l'altro è il psicologismo adattato ai principii »- — Introd.,  I. 30 (il, 83 e eegg.)- Gtt- p. 83 e segg. e 3^ e segg. Ha < Cartesio è sen-  sista nei principii e nel metodo * p. 83.   3) Op. cit., voi. Sf p. 85.     .dbyGoosle     252 a. Gentile   nella i* Kant e i sensisti francesi dal Condillac in poi *) ; ' infine  nell'ultima classe si debbono collocare gli scettici assoluti, che  giunsero al dubbio universale, mediante i principii del sensismo,  aiutati da una logica s^^ce ed inesorabile; ... il cui principe è  Davide Hume , *).   CapOTolgimenti, come si vede, ce n'è piti d' uno; e come va che  il Gioberti confonde il fenomenismo del Berkeley con l'idealismo  assoluto di Fichte, dì Schelling e di Hegel, e l'idealismo trascenden-  tale di Kant col sensismo di CondillacPEcco: secondo lui, " l'asso-  luto dei filosofi tedeschi non è l'idea schietta, ma bensì l'idea  mista di elementi sensitivi, e per dir meglio un concetto, un astratto,  un fantasma, frammescolato di elementi ideali , (p. 85); insomma  è un assoluto fantasticato dalla mente umana ; e cosi il Kant con-  verrebbe coi sensisti ' nel dare alla cognizione la proprietà del  senso, facendone una facoltà aubbiettiva, e quindi considerando il  vero, come relativo , (p, 86). — È chiaro che la causa della con-  fosione nel primo e nel secondo caso è la medesima; per Gioberti,  r a priori di Kant e de' suoi successori è falso perchè contraddit-  torio: è posto come a priori, perchè necessario ed universale; e  intanto lo si fa subbiettivo, e quindi particolare all'individuo che  conosce, e come esso contingente.   Questa falsa maniera d' intendere il nuovo soggettivismo, che  cominciava con la teoria della sintesi a priori dal negare definiti-  vamente quello scetticismo, cui fin allora il so^ettivismo era sempre  stato come equivalente, — è un'eredità che il Gioberti raccoglie  dal Rosmini, e rivolge subito, come or ora vedremo, contro di lui.   E già si può dire, che l'avesse raccolta nella Teorica del so-  vrannaturale, quando, a proposito dell'eclettismo francese, aveva     ') E petcbè esclndecne ì materìaliati del aec. XVIII, le cui open, come  ricorda opportunamente il Imnge, precedettero i libri e le dottrine del Con-  dillao?   ') Op. dt, p. 86.     .dbyGoosle     Bosmim e Oioberti 253   parlato dì un * razionalismo imperfetto , che consente col sensismo  ' nel so^ettivare interamente e parzialmente la conoscenza „ ^),  e meglio altrove, discorrendo dell' egoismo psicologicor cui avreb-  bero appartenuto Cartesio, Reid e Kant, e del quale * l'egoismo  ontologico metafisico di un celebre filosofo tedesco, che im  sima r ente stesso coll'esistenza individuale, sarebbe la nect  conseguenza , *).   I! Gioberti, invero, come il Rosmini, non conosce altn  gettìvismo che il falso antropometrismo individualistico  goreo, il soggettivismo, che il Rosmini combatteva in Em.  Pel soggettivismo, a parer del Oioberti, tot capita, tot senti  donde, secondo il principio di Lutero, tanti cristianesimi  cristàani, e ' tante filosofìe quanti sono i filosofanti, se et  Descartes, rinnovatore della verità subbiettiva, immaginata di  già e da Protagora , ^. Di guisa che è un errore, dice Ìl I^  paragonare la riforma cartesiana a quella socratica ; avendo 8  presentito la teorica delle idee assolute, che venne poscia es]  da Platone, e dovendosi quindi interpetrare il suo vvia^i •  quasi — contempla e studia te stesso nella idea divina.   In breve: la salvezza della scienza è nel platonismo, nella  razione dell'idea dal soggetto, nella oggettività della conos  E si deve anche far forza alla storia e in Socrate trovare PI  se in Socrate si vuol trovare un principio di sana filosofia,  menti del maestro di Platone non si fa che una ripetizione d  tagora, come sono Cartesio e Kant, — il famoso " sofista i  nisberga , !   Questa falsa interpetrazione della storia, in gran parte  fondamentalmente rosminiana, non pone del resto, il Oioberti  bene egli sei creda, fuori del criticismo kantiano, come non ne  escluso il Rosmini. Ed è davvero curioso a vedere il gran     ') NotaXH; n, 329.  *) Nota XVn i n. 338.  ») Introd., I, 3»; H, 76.     .dbyGoosle     354 Q. Gentik   glìere invano che tutti i filosofi italiani della prima metà del secolo  fanno tra loro, accusandosi TicendeTolmente di kantismo e di  so^ettivismo, intanto che ognun d'essi, senza accoi^erseae, vi  rimane impigliato. Galluppì accusa Rosmini; Testa, Galluppi e  Rosmini; De Grazia, Galluppi e Rosmini egualmente; Gioberti e  Mamiani, Rosmini; e questi, il Gioberti. — Così, il Rosmini era  persuaso che tutta la sua attività filosofica fosse una guerra con-  tinua contro il sensismo e il soggettivismo. Ebbene, vien fuori Ìl  Gioberti a proclamare che ancora il sensismo è la dottrina filo-  sofica predominante in Europa; dacché non tutti i razionalisti si  potesser dire immuni dal comun vizio, avendosi a distinguere uu  razionalismo ontologico e un razionalismo psicologico; ìl secondo  de' quali separa bensì, come non fa il sensismo, l' intelligenza dal  senso, ma a quella non dà altro fondamento che il soggetto, lo  stesso fondamento, in fine, del senso, senza perciò poter conferire  alla cognizione veruna certezza oggettiva. E in questo razionalismo  psicologico o psicologismo, che vogliasi dire, con Kant e Reid e  Stewart, va, secondo il Gioberti, annoverato anche il Rosmini, non  correndo alcun mezzo possibile Ira Io psicologismo e l'ontologi-  smo, che anche lui, il roveretano, rifiuta; sebbene né il filosofo  italiano né i due Scozzesi possano propriamente rientrare nel quadro  della quÌntnplÌG« classificazione del sensismo cartesiano, ossia della  moderna filosofia.  '"~ Oi certo il falso criterio onde il Rosmini aveva delineato una  storia della filosofia, passato al Gioberti, era agevole rivolgerlo  contro lo stesso Rosmini. Sennonché, quel che importa rilevare è  l'esigenza che l'uno e l'altro afiFermavano, ribellandosi a quel  cotale soggettivismo, in cerca di uno stabile e certo oggettivismo.  Il Rosmini, come s' è veduto, vuole introdurre nella cognizione  un elemento necessario ed universale, che sia veramente tale, e dì  cui ammette un intuito costitutivo dell'intelletto, un intuito che,  secondo una critica n^ionevole, devesì interpetrare come una sem-  plice aflfermazìone della universalità e necessità (trascendenza, e  quindi — pare — opposizione all'individuo contingente) AeWa^Hori     Digitizcdby Google     Rosmini e Gioberti 255   della cognìzioDe. E il Gioberti prende la stessa posizione di contro  all'empirismo, pur senza ripetere una critica che era stata fatta,  ma accettandone benal il resultato.   ' Oggi si tiene per certo, egli scrive nell' Introduzione, che il  Toler derivare con Locke i concetti razionali dalla sensazione e  dalla riflessione, ovvero col Condillac e co' suoi seguaci, dalla sen-  sazione sola, è un assunto d'impossibile riuscimento; e che, sì come  il necessario non può nascere dal contingente, né l' oggetto' dal  soggetto (ecco l'unica concezione rosminiana d'oc/petto e soggetto:  oggetto = necessario: soggetto = contìngente), così i sensibili od este-  riori non possono partorire l'intelligibile , •). — Pel Gioberti la  questione stessa dell'origine dell' intelligibile, di cotesta idea, in-  volge una repugnanza; giacché, essendo essa oggetto immediato  ed eterno, come necessario ed universale della cognizione, non ha  nn principio né una genesi. Potevasi senza dubbio osservare al-  l' autore, che appunto la definizione stessa che egli dà della idea,  inchìnde il teorema, che gli avversarj volevan dimostrato.   Comunque ciò sìa, egli ammette bensì un' altra questione, che  è la vera questione della ideologia rosminiana ; la quale è volta a  indiare " se derivando la cognizione dell'Idea da una facoltà spe-  ciale, che dicesi mente o intelletto o ragione, ella è acquisita od in-  genita; cioè, se l'uomo può su^atere, eziandio pure un piccolissimo  spazio di tempo, come spirito pensante, ed esercitare la facoltà cogi-  tativa, senz'avere l'Idea presente; e quindi ne va in cerca e se la  procaccia; ovvero, se ella gli apparisce simultaneamente col primo  esercizio della mente, tantoché il menomo atto pensatìvo e l'Idea  siano inseparabili , *). E tal quistione, che brevemente si può espri-  mere, se l'Idea sia o no innata (nel senso kantiano di forma si-  multanea alla esperienza) ei la risolve affermativamente, come il  Rosmini, dichiarando che a suo avviso ( * per rispetto nostro , )  non si può assegnare altra origine all'Idea, che l'origine medesima  dell' esercizio intellettivo.     «)Iiib. I, oap. 3»j n, 6. *) le     .dbyGoosle     ■m     266 O. Gentile   Questa apparizione dell'Idea simultanea al primo esercizio della  mente corrisponde per l'appunto a quello che il Rosmini avrebbe  detto propriamente nozione ■■) dell'idea dell'essere. Anche pel Gio-  berti cotesta nozione è la stessa intelligibilità, la evidenza stessa;  anche per lui " non arguisce nulla di subbiettivo, oè risulta dalla  struttura dello spirito umano, secondo i canoni della filosofia cri-  tica , *) ; anche per lui è " l' ometto della cognizione razionale in se  stesso, aggiuntovi però una relazione al nostro conoscimento , *).   L' intuito di cotesta idea è dal Gioberti stabilito con breve di-  samina del procedimento del conoscere, e benché egli non se ne  rimetta al Rosmini, è chiaro che psicologicamente la lacuna, che  egli stesso poi riconobbe in questa parte della sua teorica, devesi  alla grande efficacia esercitata sulla sua mente dallo studio di Ro-  smini ; talché, scrivendo quasi di getto, come fece, l' Introduzione,  non avrà pensato che ci volesse molta discussione a solidare     già muorevasi la mente   iegazione del conoscere.   nella esposizione, del   Ione fece il Massari nel     un'ipotesi, la quale, per l' indirizzo per cui ^  sua, era assolutamente necessaria alla spie  Si accorse di poi del mancamento ; e lo v  resto tanto piaciutali, che AeW Introdtizio  Progresso di I^apoli, quando già l' intrapresa polemica col Rosmini  cominciava a fargli guardare più attentamente ogni parte della  costruzione filosofica, cui aveva posto mano. B al Massari, ai 17  giugno del 42, scriveva: "Ho riletto quel poco che ho detto del-  l'intuito iLviW Introduzione e l'ho trovato ancor più scarso che non  credevo; tanto che la critica che vi ho fatta di non esservi steso  davvantaggio e con nu^giore precisione su questo punto manca  affatto di fondamento , *) ; e a' 20 lugho tornava a scrivergli : * Non     ') < Nozione io chiamo un'idea considerata sotto questa relazione, in quanto  doè ella mi serve, a rendermi note le cose >; Bosuini, Prindpj di acietua mo-  rale, in Optre, ed. Bstelli, TX, 2 n.   ») Inirod., I. 3"; II, 8.   ') Ibid., p. 5.   *) Cart, n, 375. Il MAasÀBi aveva fatto una analisi dell' Introduzione ( la  1* ohe ne faue fatta in Italia) in tie puntate del Frogreeso del i841.     Digitizcdby Google     Bosmmi e Gioberti 257   è come vi ho detto che uDa iBcuoa, proreniente dal mio testo del-  l' Introduzione; ODde può parere che l'intuito sia una facoltà mi-  steriosa conforme all'inspirazione dei mistici; laddove no  la cognizioae umana e ordinaria, spogliata però del repli  riflessivo. L'ho definito, credo, nel libro degli i/rrori , '). -  questa definizione dell'intuito corrisponde evidentemente i  trina già esposta del Rosmini, che l'intuito dell'idea si rit  un lavorio riflessivo sulla cognizione ordinaria, mediante  cesso d' astrazione.   Nel Gioberti non s' incontra una teoria compiuta del f  noscitivo, come si trova nel Bosmini. Ma qualche accennc  qua e là, basta a dimostrarci che, sebbene l'autore sia de  che la psicologia, per dirla con la parola sua, non debb  fondamento né propedeutica alla ontologìa, della quale egli  trattare specialmente, tuttavia l' ideologia rosminiana giace  alla sua dottrina. Egli ammette un' ' attività intima e s<  sima, che rampolla dall'unità sostanziale deWanimo, e con  primo raggia intorno a sé le molteplici potenze, donde na  varie modificazioni di esso animo , *); ripetizione, anzi de  d'un punto del rosminianismo, da noi già messo in rilii   L'intelletto, la facoltà dell'intuito secondo il Rosmini,  presso il Gioberti una " energia contemplativa „ che  venir meno, ossia non può cessar d' intuire il suo termine, se  durre,in grazia di quell'unità sostanziale dello spirito, la ce  simultanea dell'esercizio deliamente^); come nel Rosmii     •) Cart, n, 381 e aegg.   ^Infrod., I, 2° (1, 135). Animo dice il Gioberti; per castigatezz  tuna di lingua, lovece di anima, spirito.   ') < Tutte le potenze dell' aaimo amano esseDdo collegate inBieme  dosi a vicenda, è inverosimile il aupporre che l'energia contemplat  ▼eoir meno, «enza che le altre facoltà a proporzione se ne riaentan  cap. 5° (1, 138). Altrove dice che t l'intelletto è ti mezzo, con cui I  prende la manifestazione naturale del verbo ■; 1, 2° (1, 196). Ma egli no  a questo propoailo, una terminologia costante.     .dbyGoosle     258 G. Gentile   dell'intelletto vedemmo esser necessario non solo alla costituzione  dell'intelletto, ma anche, per l'unità del soggetto, a tutta la fun-  zione del conoscere.   Né pel Gioberti l' intuito ha un valore diverso da quello indi-  cato nella teoria del filosofo roveretano; come sarà agevole accor-  gersene esaminando con la brevità necessaria la teoria giobertìana  della riflessione.   L'iatuito rosminiano vedemmo essere non vera e propria cogni-  rjone, ma condizione di ogni conoscenza, e però un vero a priori  kantiano, una pura forma dell' intelletto, che come tale distruggeva  l'antica concezione di oggetto opposto e separato dal soggetto,  — avendo dimostrato che il nuovo oggetto non esisteva per sé, fuor  della sintesi, essenzialmente soggettiva, co' dati offerti dal senso ed  elaborati nel soggetto. E il Gioberti scrive: 'Egli è vero che l'in-  tuito diretto della mente non basta a fare la scienza, ma ci vuol  di pili quella ridessione che ho denominata ontologica dall'obbietto  in cui ella si adopera. La quale arreca nel suo oggetto quella di-  stinzione, chiarezza e delineazione mentale, che senza alterarne  r intima natura, lo fanno scendere, per così dire, dalla sua altezza  inaccessibile, e accomodarsi all'umana apprensiva... Se l'intuito  fosse solo, l'uomo assorbito dall'idea non potrebbe conoscerla,  perchè ogni conoscenza importa la compenetrazione del proprio  intuito, e la coscienza di noi medesimi , ; vale a dire la coscienza  dell'intuito e la coscienza del soggetto, che in fondo sono una me-  desima coscienza; dacché, anche pel Gioberti, l'intuito è costitutivo  del soggetto, e non v'ha soggetto senza l'intuizione immanente  dell'Idea. Sicché l' intuito giobertiano neanch'esso fornisce una ef-  fettiva conoscenza, ne è bensì anch'esso la pura condizione, la pura  forma a priori, la quale ha bisogno, come qui dice l' autore, della  riflessione *).   Orbene, che è questa riflessione, e qual'è l'ufficio suo? Essa     *) «La riflesBione pertanto dee accompagnue l'intuito primitivo >; I, 30,  (H 107).     DigiiizMb, Google     'l,     Bosmim e Gioberti 259   è come un intuito secODdario, cioè un replicamento cosciente del-  l'atto coatemplativo della Idea; ma, appuoto perchè cosciente, non  è più puro intuito, non è più condizione, ma atto di coscienza: essa è  già coscienza. — La riflessione importa quindi una determinazione  soggettiva e però una modificazione pur soggettiva; poiché l'intuito  è vago e indeterminato, mentre ogni atto di conoscenza è essen-  zialmente determinazione ed unità; elementi che all'intuito non  possono essere aggiunti dall'oggetto suo, che non ha in sé né de-  terminazione, . né principio veruno di determinazione. ' Nel primo  intuito la cognizione è vaga, indeterminata, confusa, si disperge,  si sparpaglia in varie parti, senza che lo spirito possa fermarla,  appropriarsela veramente, e averne distinta coscienza... L'intuito  secondario, cioè la rimessione, chiarifica l'Idea, determinandola; e  la determina, unificandola, cioè comunicandole quella unità finita,  che è propria, non già di essa Idea, ma dello spirito creato , *).   La riflessione, adunque, si deve considerare come una funzione  determinatrìce dell'intuito, o vogliam dire dell'» priori; funzione  fondata sull' unità del soggetto, di quell'attività intima e sempli-  cissima, che dianzi rilevammo. — Ma in che modo avviene la de-  terminazione? " Ciò succede, mediante l'uniOne mirabile dell'Idea  colla parola. La parola ferma e circoscrive l'Idea , ^); unione mira-  bile e ' misteriosa ,, donde s'inizia la conoscenza, come lo era quella  percezione intellettiva, per la quale Rosmini faceva sviluppare l'atto  del conoscere; ma unione necessaria, unione, come s'è visto, senza  la quale non v'ha umana conoscenza^).   E alla percezione intellettiva l'atto prodotto per la riflessione  si riconnette anche per la natura della parola, che si sostituisce  in esso alla sensazione rosminiana. Il Gioberti infatti, definendo la     ») Introd., I, 3°, (II, 11).   «) Op. cit, l. e.   3) iLa parola, easendo il priocipio determinativo dell'Idea à altreai  una condizione neoeBjacia della esistenza e della certezza rlfleasiva» I, 3°;   n, 12.     >dby Google     jm^-     2d0 0. Gentile   parola, come ogni segno, per un sensibile, osserva: * Se adunque  ella BÌ richiede per ripensare l'Idea, ne segue che il sensibile è neces-  sario per poter riflettere e conoscere distintamente l'intelligibile •).  II cbe consuona con la doppia natura dell'uomo composto di corpo  e d'animo, e annulla quel falso spiritualismo, che vorrebbe con-  siderar gli organi e i sensi, come un accessorio e un accidente  della nostra natura „ . Sulle quali parole è bene cbe meditino quanti  sono che l'intuito giobertiano sogliono appaiare con quello del  Malebranche. Anche il Gioberti, come il Rosmini fa ricorso al sen-  sibile e Io ritiene necessario alla formazione dell'Idea; e il senso  anche lui fa costitutivo dell' oi^anismo unico dello spirito.   Sennonché, sulla natura di questo nuovo sensibile proposto dal  Gioberti solvono varie difficoltà, sulle quali non è pcasibile sor-  volare, volendo fornire una idea non troppo manchevole della sua  teorica della cognizione.   Vedemmo altrove (part. I, cap. 3") come già fin nelle Miscel-  lanee, che sono sì prezioso documento della formazione della mente  del Gioberti, si accettasse e si lodasse la teoria bonaldiana del lin-  ' S^^SS^°- ^^^ 1"' nsll^ Introduzione è detto: ' Parecchi scrittori mo-  derni assai noti, fra' quali il Bonald merita un luogo particolare,  hanno avvertita la necessità del linguaggio per l'esercizio del pen-  siero , *}. Ed è senza dubbio dal Bonald eh' egli ha mutuato la sua  dottrina, che ha, pel modo come sorse, una grave ragione storica.   È noto che l' empirismo inglese e il sensismo francese sì pro-  ponevano di spiegare il linguaggio umano, come una invenzione  dell'uomo, Tommaso Reid per primo, (poiché le profonde intui-  zioni del Vico passarono inosservate), nelle sue Ricerche stdl' in-  tendimento (1763), dimostrò che il linguaggio nel suo più ampio     ') Cfr. Teor. Sovr-, II, 35 < Senaa la contezia di qualche aenaibile, le idee  non aorebbeia acceBsibili alla mente nostra*. Teoria che bÌ conferma e ai de-  fiaiace meglio nella Protoloffia, per la qaale cfr. i Inoghi dUti dallo Spàtbhti.,  nella FUoa. di Oiob., p. 53 n.   *j Introd., nota S' del voi. II, p. 213.     Digitizcdby Google     Bosmini e Qioberti 261   significato è naturale prima che artificiale. Definiva egli Ìl lin-  guaggio, — definizione, ai badi, espressamente citata e accolta dal  nostro Gioberti, '■) — ' tutti i segni onde gli uomini fanno uso per  comunicarsi reciprocamente i loro pensieri, le loro conoscenze, le  loro intenzioni, i loro disegni e i loro desiderj , *}. Pel Reid v' ba  due specie di lingu^gio : un linguaggio naturale, formato da quei  vocaboli, che non hanno un significato convenzionale, ma ne hanno  uno che tutti intendono naturalmente e per istinto; e un linguaggio  artificiale, costituito dei vocaboli non aventi altra significazione se  non quella attribuita loro convenzionalmente dagli uomini. Che vi  sia un lii^uaggio naturale è innegabile: e l'attestala sopravvi-  venza stessa di esso al linguaggio artificiale: le modulazioni della  voce, ì gesti, i tratti del viso o la fisonomia, — mezzi tutti onde  l'uomo esprime naturalmente i pensieri, — sono per l'appunto le tre  classi alle quali riduce il Reid tutti gli elementi di cotesto lin-  guaggio.   Ora è ovvio dedurre, siccome fa appunto il filosofo scozzese,  che il linguaggio artificiale presuppone ÌI naturale, senza di cui  gli uomini non avrebbero potuto intendersi per convenire nei signi-  ficati di quei vocaboli onde resulta Ìl loro linguaggio artificiale.  Di modo che se, come vuole l'empirismo, il linguaggio fosse dovuto  solver per un'invenzione umana, come la scrittura o la stampa,  tutte le nazioni, dice il Beid, sarebbero ancora mute, come i bruti.   Né meno stringente è la critica dal Bonald opposta alla teo-  rica del Gondillac ') nelle sue Eicerche filosofiche. Secondo il Bonald  il linguaggio ci è dato primitivamente con la prima conoscenza;  a causa della necessaria simultaneità della idea con la sua espras-   *) < Le parole sono i segni principkli, ma non i soli Bagni, come sa oiaaouuo;  tntti i sentimeati sodo veri segni deUe cose, secondo la bella e profonda dottrina  di Tommaso Eeid >; Introd., nota l' al voi. II, p. 211.   *) Rech. sur V entendemenf humain, trad. Jouffro;, oliap. IV, sect. 2 in  OtMvres (Paria 1828), H, 88.   ') Combatte la teoria com'era stata formulata da) CoDdiUac; ma tiene por  conto delld OBservazioni di Hobbe» di Locke e di tutti i Bensisti.     Digitizcdby Google     aione (espressione, si noti, anche semplicemente * mentale « )■ S  contro i sostenitori dell'opposta sentenza, osserva che essi comin-  ciano dal supporre, contro ogni autorità ed ogni ragione, l'uomo  in uno stato primitivo bruto e insociale, e a tal grado di barbarie,  da essere perfino privato della facoltà di conoscere e comunicare  i proprj pensieri, per attribuirgli nello stesso stato i pensieri, i sen-  timenti, le affezioni, le intenzioni, i bisogni, Io spirito d' invenzione  e d'industria dell'uomo sociale e civilizzato , ').   Lo critica del Bonald è in fondo identica a quella del Reid.  Si presuppone nell'uomo sfornito tuttavia del linguaggio, cbe gli  tocca inventare, qualità o attitudini necessarie all'invenzione; le  quali non possono non equivalere al possesso del linguaggio che  vien negato, comecché in una forma primordiale e naturalmente  rozza. E questa ingenua teoria del vecchio empirismo che fon-  dava la società io un contratto, la religione su un arbitrio dì  legislatori, e Ìl linguaggio in una invenzione convenzionale, è stata  anche in quest' ultimo campo, sconfitta dalla moderna scienza della  linguistica comparata; la quale se tra Max MuUer e il Witney  discorda intorno alia necessità delle relazioni che intercedono fra  il pensiero e la parola, ha però definitivamente e concordemente  stabilito che il linguaggio è un fatto speciale, primitivo e naturale  dell'uomo, non essendovi alcuna società, per quanto barbara e  selvaggia, che non ne sia fornita; del pari che la sociologia e la  scienza delle religioni comparate hanno provato l' originarietà, cioè  l'apriorismo, del fatto sociale e del religioso.   Ed è appunto merito della scuola teologica francese, come  osserva giustamente il Janet ^), di aver dimostrato contro i filo-  sofi francesi del sec. XVTII la vanità delle teorie intorno all'o-  rigine fattizia e riflessa di tutti i fatti i più importanti dell'uomo  sociale. Al Bonald poi spetta particolarmente la lode per quel che è  del linguaf^io; e a lui specialmente volgeremo l'attenzione, giacché     ') lUeherches phiioaophiquea, ohap. Il, in Oeuvres ( Paria 1858 ) p. 107.  *) La ph&os. de LamtnnaU, p. 18.     Digitizcdby Google     Bosmini e Oioberii 263   egli connette questa teorìa con quella della rivelazione neceasaria  per l'umana conoscenza, siccome fece tra noi il Oiobeiii.   II Bonald, con l' Histoire comparée del Degerando alla mano,  rileva che la filosofia non è riuscita peranco a fissare un punto  fermo, un criterio sicuro di certezza e di verità, anzi per tutti i  sistemi è finita nello scetticismo e nel soggettivismo; e si chiede  quindi se non fosse possibile " trovare nei fatti sociali un fonda-  mento alle dottrine filosofiche piìl solido di quello che s' è cercato  fin qui nelle opinioni personali , ') ; e questo fondamento gli pare  appunto di trovarlo nel linguaggio, che, dimostrato non potersi in-  ventare dagli uomini, deve (non essendovi, secondo lui, altra via)  essere stato comunicato da Dio alla società umana, e in questa  appresa via via dagli individui.   Si direbbe che il criterio del Bonald riesce sottosopra a quello  altrove rilevato dal Lamennais; che questa parola, che possiamo  accettare come saldo fondamento di certezza, data da Dio all'umano  consorzio, è precisamente la rivelazione. Ma quel che v'ha di ori-  ginale nel Bonald, e prova che il Gioberti ne dipende io modo spe-  ciale, è la teoria della parola coma atto o strumento necessario  del pensiero; vale a dire che, dato che il linguaggio, tutto il  linguaggio aia rivelazione divina, il pensiero dì cui il Bonald  dice che la parola è il corpo, è esso stesso tutto una rivelazione,  cioè ha tutto per se stesso un fondamento di certezza obbiettiva o  sovrumana, nel senso di universale. La quale è appunto la teoria  del Gioberti, che ammette bensì una conservazione, ma anche una  alterazione della forraola ( = contenuto della rivelazione, coni' è  contenuto dell' intuito) ; e fa che il pensiero che rimane, anche al-  teratasi la rivelazione, possa tuttavia cogliere il vero. Di guisa  che la rivelazione (l'elemento sensibile della conoscenza) non è ac-  cidentale ed esterno al pensiero, ma necesaario e quindi costitutivo  di esso ; sicché, essendo il pensiero un fatto, cotesto elemento sen-  sibile, ne dipende e gli è strettamente connesso.   *) BecA., p. 42.-     .dbyGoosle     264 O. Gentile   Questa rivelazione, adunque, ha ud valore tutto speciale, in  quanto è qualcosa d' intrìnseco al pensiero stesso, tale perciò che  il ricorrervi non sia per quello un esautorarsi o uà apprendere  dal di fuori, ma bensì uno sviluppare se stesso; laddove, presso il  Ijameanais del Saggio suW Indifferenza, il pensiero infermo per se  medesimo e incapace d' attingere il vero, si dee abbandonare, quasi  per chiederle conforto, alla rivelazione esteriore. Pel Gioberti la  rivelazione va cercata nella vita stessa del pensiero, equivalendo  alla parola, che è tale a sua volta, che senza di essa, come aveva  osservato il Bonald, il pensiero non esisterebbe. Chi rigetta la  rivelazione, viene a rigettare secondo il Gioberti, la parola, ossia  lo strumento necessario alla cognizione riflessiva dell'Idea; epperò  non può attinger questa, senza la quale — lo vedemmo già eoi  Kosmini — il pensiero cessa di essere '■). La necessità dì questo  è pertanto la stessa necessità della rivelazione, considerata unica-  mente per rispetto a quell' ufììcio che dee compiere nel fatto della  conoscenza.   Sennonché, cosi considerata, a che si riduce la rivelazione? Essa  ci deve offrire la parola, ossia i segni delle cose, Ìl dato sensibile  che circoscrive l'idea dell'essere e le dà attuale esistenza di cono-  scere; e, come dice l'autore, ' una successione di sensibili, per cui  essa Idea rivela se medesima all' intuito riflessivo dello spirito  umano, e compie l'intuito diretto, che li porge da sé *).   Non è del nostro tema trattare ampiamente di questo punto  della filosofia del Gioberti, che richiederebbe una troppo lunga di-  samina. E bisognerebbe sovrattutto discuterla, — come in parte  ha fatto, da quel gran maestro che era, lo Spaventa — nelle opere  postume, una delle quali è appunto dedicata alla filosofia della     ') B il QiOBBBTi dice: «Il ripudio assoluto della tradizione religiosa e  Bcientifica si trae dietro neceasariacoente quello della parola. Ora, siccome l'aiuto  della parola è neceaaarìo per conoscere riflessivamente l'Idea, chi lo rifiuta  dee eziandio dismetteie e gittar da sé ogni cognizione ideale. Ha tolta l' Idea,  che rimane? Nulla ».-- /«(roA, I. 3»; II, 51.   ») Op. «(., I, 3"; n, 107.     .dbyGoosle     Sosmini e Gioberti 265   rivelazione. Ma esse furono tutte scritte dopo la polemica col Elo-  amÌDÌ, e sarebbe perciò inopportuno il prenderle come un punto di  partenza, volendo discorrer di quella.   Gì basta notare, che nella stessa Introduzione la teoria della  parola va messa in relazione con le dottrine del Reid e del Bonald,  dalle quali deriva, e co' principj rosminiani già adottati nella Teo-  rica del soEiannaturale ; che deve intendersi {secondo la distinzione  di parola naturale e artificiale, ripetuta dallo stesso Gioberti) '),  come parola naturale, cioè come segno della cosa, o sua rappre-  senlanions, il che corrisponde appuntino alla teoria rosminiana della  sensazione, per la quale si determina e circoscrive l'ente indeter-  minato. Infatti, secondo il Gioberti, la parola artificiale non può  esprimere se non le idee già espresse, e presuppone quindi la pa-  rola naturale, la rappresentazione *).   Ora, se anche pel Gioberti ogni concetto si forma per una de-  terminazione che si fa per la parola dell' essere indeterminato del-  l'intuito, ciò avviene, come s'è visto, per opera della riflessione;  la quale richiamerebbe perciò, secondo s'è pur notato, la percezione  intellettiva del Rosmini. — Ma il Gioberti, come ha mutato la parola,  ha mutato anche, o crede d'aver mutato, il concetto. Alla sua fìlo-   'J 4 La potenza dell'intuito per attuarsi ha d'uopo della parola, cioè del  sensibile! La parola è di due specie: naturale e artificiale. Questo è il lin-  guaggio elle non può eaprimere che le idee già espresse. Il linguaggio del-  l'arte è sempre una traduzione del linguaggio della natura; è verso di esso db  che la scrittura verso In parola artificiale >. Kioi d. Rivela):., Toriao, Botta,  i8o6, p. 89.   ') Meglio potremmo solidare questa interpetrazione discutendo le difficoltà  che fa insorgere la teoria della parola cori com' è esposta uell' Introduzùtne, o  prima facie par che quivi debba intendersi, esaminando la critica fattane dal  Tbsta nelle sue Considerazioni aopra l' InlrodtiziorK aUo st. ddla JHo*. di  V. Q., Piacenza, Del Majno, 1845, part. n, p. 32 e segg. Ma non ist htc locus.  Con la critica del Testa consuona in alcuni punti quella di V. Db Gbaziì,  ne' suoi Discorsi au la logica di Hegel e su la Filos. speculativa { Napoli,  Tip. de' Gemelli, 1350) 2' rass.; e mutuata dal Testa pare l'obbiezione che il  critico calabrese muove all'ipotesi dell'intuito (iTÌ,p. 100) nel Gioberti.     .dbyGoosle     ^^T1     aee O. Gentile   sofìa, che per la spi^azìone della conosceoza ha bisogno del fatto  della rivelazione egli coutrappone la filosofla eterodossa, la quale,  rifìutaodo lo strumento della rivelazione, non può ammettere una  riflessione che rifaccia T intuito e conduca perciò al possesso del-  l'Idea; e deve quindi rinunciare alla Idea, appigliandosi alla per-  cezione del sensibile, il quale può essere l'oggetto del senso esterno,  come dell'interno, ossìa materiale ed estrinseco, o spirituale ed  intrinsepo. Donde, doppia eterodossia, sensismo da una parte e psi-  cologismo dall'altra; e in ambo i casi ' la sostituzione del sensi-  bile all'intelligibile, come principio, onde muove la filosofia , ');  ossia un metodo il quale, come vedemmo, conduce direttamente  al soggettivismo, allo scetticismo, al nullismo, dacché è vano lo  sforzo dei sensisti e de' psicologisti, di trarre dal sensibile l'in-  telligibile.   La filosolia eterodossa, dunque, ammette bensì anch' essa la  riflessione; ma la sua rifiessione si differenzia essenzialmente dalla  riflessione della filosofìa ortodossa, in quanto, non servendosi di  quel mezzo che solo mette in grado di tornare, dopo il primo in-  tuito, fìno al termine di questo, si deve necessariamente fermare  al fatto della mente (per parlare dello psicologismo che c'inte-  ressa) e rimaner quindi semplice riflessione psicologica, in luogo  di pervenire all'Ente intuito immediatamente e farsi, come dovrebbe,  ontologica.   ' Lo strumento, onde lo spirito umano si vale in psicologia,  è la riflessione psicologica, per cui il pensiero si ripiega sovra se  stessO; e afferma, non già la propria sostanza, ma le proprie ope-  razioni solamente. All'incontro nell'ontologia lo strumento è la  contemplazione, la quale si divide in due parti, cioè in uu intuito  primitivo, diretto, immediato, e in un intuito riflesso, che chiamar  si può riflessione contemplativa e ontologica , >). Cosicché la ri-  flessione psicologica è una operazione semplice ; l' ontologica una     ') Introd., I, 3"; II, Bi e segg.  *) Introd., I, 3»; II, 104 e aegg.     DigitizcdbyGOOgle     Boamini e Gioberti 267   operaziooe duplice; quella si esercita sopra il prodotto soggettivo  di una precedente operazione (l'intuito)-; questa sopra l'oggetto  stesso della operazione precedente, che rifa maturandola.   Si potrebbe dire perciò, che la riflessione ontologica sia la stessa  riflessione psicologica aggiuntavi la ripetizione dell'intuito. Infatti  * nell'ontologia lo spirito, ripensando, si rifa sull'oggetto imme-  diato dell'intuito stesso.. . Ma, egli è vero che nella riflessione  contemplativa •}, la mente rivolgendosi all'oggetto ideale, si ripiega  pure di necessità sull' intuito proprio, che lo apprende direttamente ;  onde il tenor psicologico del rìpensare accompagna sempre l'altro  modo di riflettere; tuttavia queste due operazioni, benché simul-  tanee, sono distinte, perchè hanno il loro termine in uu oggetto di-  verso , *).   Una critica non molto difficile qui può sorgere conti'o questa  dottrina della riflessione ontologica. Se l'intuito lascia uno stato  speciale nella mente, un fatto, tal che sia possibile coglierlo con  la riflessione psicologica, due casi si posson dare: o in esso v'ha  uno specchio fedele dell'oggetto proprio dell'intuito, e allora la  riflessione psicologica è fondamento di una conoscenza oggettiva  per eccellenza, e non soggettiva, come pretende il Gioberti; o non  si riflette affatto (ovvero, che è lo stesso, non si riflette fedelmente)  il termine dell' intuito, e in tal caso questo primo intuito è per-  fettamente inutile.   Il dilemma ci pare senza uscita. La riflessione ontologica del  Gioberti sarebbe davvero un secondo intuito, se potesse traspor-  tare la determinazione sopravvenuta con la parola (dato sensìbile)  dall'interno del soggetto, dove interviene, nello stesso oggetto; il  che è impossibile, perchè secondo la sua teoria la parola è un sen-  sibile.   E perchè dovrebbe potervela trasportare, cotesta determina-     *) Cobi è par detta dal Oìobei-ti la riflesBione ontologica; mentre la psico-  logica è pur detta osservaHva (p. 105).  «) latroduz.. l, 3", II, 104.     .dbyGoosle     868 G. Qmiile   zionep Perchè, avvenendo la determinazione nella riflessione, es-  sendo questa ontologica, il sensibile, principio della determinazione,  dovrebbe ripensarsi coli' intelligibile, e come questo (poiché si tratta  di un secondo intuito), fuori del soggetto; il che, ripetiamo, è im-  possibile.   Di certo la riflessione ontologica è l' espressione, benché non  esatta, d'una giusta esigenza del pensiero, come or ora vedremo;  ma contrapposta, com'è dal Gioberti, a una riflessione psicologica,  fallisce al suo scopo, non potendo sfuggire alle conseguenze dello  accennato dilemma. Sennonché, il Gioberti ci dice: ' La rifles-  sione psicologica non ha per termine diretto il pensiero, come pen-  siero, ma il pensiero come sensibile intemo, cioè come atto dello  spirito, e quindi non riguarda direttamente l'Intelligibile, che si  congiunge col pensiero e lo illustra. Egli è vero che la riflessione  del psicologo si connette per indiretto coli' Intelligibile ; ma cì6  non prova nulla in favore dei psicologisti; imperocché non ne  partecipa, se non mediante quell'intuito mentale, che, al parer  mio, è il vero e necessario strumento dell' ontologo , •}•   L'equivoco qui è evidente: la riflessione psicologica non coglie  il pensiero come pensiero, cioè in quanto intuisce l'Idea^, ma  lo coglie, secondo Gioberti, come un sensibile intemo ; dunque la  riflessione ontologica non fa altro che cogliere il pensiero come  pensiero.   Ora, se la riflessione psicologica presuppone anch'essa un intuito,  e (poiché, parlando contro il psicologismo, il Gioberti si riferisce  specialmente al Rosmini) un intuito, che, come vedemmo nella  esposizione della teorica rosminiana, è costitutivo del pensiero, é   ») Introi., I, 3» i U, 109.   ') Nella FUoB. iella Uivdaz., il Qioberti scrive : < Una meate aeiiEa idee,  e in igtato di tavola rasa perfetta è una contraddizione. La facoltà con cui  la meate creata afferra questa rivelaiione [la riveUsioae imuaQente, virtuale,  che diventerà attuala pei opera della riflessione; v. ivi, p. 87] che fa, la sua  assensa, è l'intuito»; p. 88 Né pia uè raeao di ci6 che dell'intuito aveva  detto il Rosmini!     DigitizcdbyGOOgle     ■^ ■»- -w'-     Rosmini e QvAerii 369   la sua propria essenza, — come può fare a ritornare sovra un  pensiero ehe non siasi già appropriato l'Intelligibile, e Io abbia  ancora fiiori di sé, e sia ancora in atto d'intuirlo? Insomma sì  può concepire un intuito immediato dell'Intelligibile come essenza  del pensiero, che pur lasci il pensiero sempre al puro stato di tcAida  rasa, sempre in atto di guardare l'Intelligibile, senza mai vederìo?  Il pensiero pel Rosmini intanto è pensiero, in quanto ha un  intelletto costituito dall'intuito dell'intelligibile; non può quindi  riflettersi su se stesso, senza trovare in sé non già Ìl semplice atto  astratto dell'intuito, ma sì l'atto concreto, ossia l'atto terminante  nell'Intelligibile: la forma, in una parola, dell'intelletto. E l'equi-  voco propriamente consiste in ciò : nel concepire l' intuito imme-  diato come una pura dualità; dove, al pari della visione corporea,  da cui immaginosamente è desunta, non può essere se non un'unità  sintetica, di soggetto ed oggetto. L' intuito ond' è fornito l' intel-  letto è una nozione, in cui Ìl soggetto e l'oggetto, come nel pro-  dotto della sensazione, sono affatto indistinti. Ora se la nozione  è qualcosa di perfettamente uno, ripiegandosi sovra di essa, lo spi-  rito non può non coglierne il contenuto, che è per l'appunto l'Intel-  ligibile. — SI' equivoco si fa manifesto quando l' autore soggiunge  che questo scambiamento di metodi (psicologico ed ontologico) gli  ' riesce un trovato cosi bello, come l'assunto di chi adoperasse le  dita e le orecchie, per apprender la luce e distinguere ì colori in  essa racchiusi „ (p. 105). Qui sì immaginano la luce e ì colori  come oggetti o segni esterni e indipendenti dell'organismo sensi-  tivo, in che si rappresentano; per modo che a noi, sapendoli lì ad  aspettare di esser da noi sentiti, sia dato scegliere lo strumento  più acconcio alla bisogna. Laddove fìa dal 1834, quando fu pub-  blicato il celebre Manuale di fisiologia di Giovanni Mailer, si sa  da tutti che non v'ha nulla di più falso. Quello che not sentiamo  e diciamo luce e colori, non è se non per la nostra sensazione e nella  nostra sensazione. Ma il Oioberti ignorava questo concetto della  soggettività della sensazione, comecché avesse già appreso dagli  scozzesi quella teoria della percezione esteriore, per la quale ve-     .dbyGoosle     270 ^ 0. Oentile   nivano per sempre seppellite le vecchie idee imniagiiii, che solo  la leggerezza filosofica di Ippolito Taine doveva più tardi esumare  nella sua haldanzosa quanto vana guerriglia contro la filosofia  classica francese in genere, e per questo punto contro il Royer-  Collard >).   Or, come è uno shaglio credere che il colore che diciamo di  vedere con l'occhio, sia fuori dell'occhio, talché se si avesse modo  di riflettere sulla visione, si rifletterebbe sul semplice atto del ve-  derlo, ma non propriamente sul colore; così soltanto un equivoco  può far pensare che nella nozione rosminiana fornita dall' intuito  dell'Intelligibile, non siavi altroché l'atto dell'intuire; di guisa  che la riflessione sovra di essa pervenga soltanto indirettamente  all'oggetto, sul quale cotesto atto si esercita. L'oggetto qui è  una cosa stessa con l' atto, siccome vedemmo altrove discorrendo  dell'intuito; oggetto ed atto sono una cosa sola nell'intuito in-  tellettivo, che è atto insieme e forma dì esso, secondo la teoria  del Rosmini.   E questa è la vera ragione che il Tarditi avrebbe dovuto op-  porre al Gioberti, per dimostrargli infondata, come tentò di fare  nella prima e nella seconda delle sue famose lettere, la distinzione  fra le due riflessioni psicologica ed ontologica *). Le quali si po-   ') Convengo pienamente nella controcritica oppostagli dal Janet nel primo  de' suoi scrìtti en La crke phUoaopMques, Paris, 1865, p. 26 e segg. Li teoria  scczzcBe toRlienda l'inutile intermediario dell'immagine tra l'oggetto sensibile  e il soggetto sensitivo, fece di certo un primo passo verso quell'unità del  tatto della sensazione, che non poteva d'altronde concepirai senza i nuovi prin-  cipj del kantismo, di cui giustamente la psicologia genetica tedesca si con-  sidera come un fedele compimento. — Vedi in proposito gli scritti del  TabÌktino in Giom Napdet. di FUob. e Lett. del 1880 e 81 e del Cm*p-  PELLi, ivi. QnelH del primo bqu pure raccolti nei Saggi fUoeofici, Napoli,  Morano, 1885, pp. 37-128. — Dopo la pubblicazione di quwto votame  il Chiappelli tornò sull'argomento nella Filosofiti delle Scude Italiane, voi.  XXSI (1885), in un art. sulle Attinenze fra il criticiamo kantiano e la pri-  coloffia inglese e tedesca.   ') « Siccome, osservava il Tarditi, noi non possiamo riflettere su ne»aa     DigitizcdbyGOOgle     Rosmini e Gioberti 271   trebberò ira loro distinguere solamente pel dÌTerso oggetto (e a  questo soltanto s'è appellato come a ragion distintiva in un passo  deìV Introduzione già citato il Gioberti); talché se l'una noa ha,  né può avere un oggetto diverao dall' altra, è chiaro che la distin-  zione non possa più farsi.   n Gioberti, veramente, negava più tardi che la distinzione si  desuma soltanto dall' oggetto ; e voleva che si fondi anche sul  metodo {Errori, I, 151 e segg.); e dava sulla voce al Tarditi, che  ciò non aveva saputo vedere •). Ma come sosteneva la sua sen-  tenza ?   ' La diversità dei metodi in ogni ordine di ricerche consiste . . .  in quella del veicolo, che si dee scegliere per conseguire l'oggetto  ricercato; e la natura del veicolo è determinata da quella dell'og-  getto medesimo, considerata non in sé semplicemente, ma nelle  sue attinenze con le facoltà e le condizioni del cercatore , *). E  più in là: ' Il punto, a cui si vuol giungere, determina l'indirizzo  che si dee tenere; l'intervallo che s'ha da correre, insegna le ope-  razioni da farsi, per superare gli ostacoli e toccare la mèta , ').   Ora^ senza dire dei caratteri differenziali che il Gioberti poi  indica nei due processi che vuol distinti, basta notare che la sua  deduzione avrebbe un valore soltanto nel caso eh' ei avesse dimo-  strato essere realmente distinti i due pretesi oggetti di riflessione,  poiché, a confessione dello stesso Gioberti, la natura del metodo     oggetto se Doa quanto da noi o intuito se ideale, o percepito se reftle; pad  la riflesBÌoDe passare egualmente dall' oggetto atl' intuito, e dn questo a quello;  anzi ta rìfleasioue sull'intuito non puA essero completa, imparziale, quale s'ad-  dice al filosofa, se non coasidera l'intuito, e nel soggetto di cui è atto, e nel-  V oggetto in cui termina, e dal quale Sformalo*; Leti, d'un Sosminiano,  Z\ p. 38 ; e si riferisce alla teorìa della rytesiione filosofica del Rosmini ; cfr.  p. S e segg. Or se si distìngue e separa, come fa il Tarditi, atta da oggetto,  il Gioberti ha cagione. H vero è ohe essi non sono afiatto distinti.   ') Leti, eit, I, 19-20.   •) Errori. I, 153.   3) Op. eit., I, .158.     .dbyGoosle     272 G. Omtile   è determinata dalla natura dell' oggetto. Contro il Tarditi che  ammetteva un atto di intuire distinto attualmente da un oggetto  intuito, egli aveva ragione; perchè se vi sono due termini di di-  versa natura, noi non possiamo giungere a ciascuno di essi con  un medesimo processo. Ma conviene prima provare quella distin-  zione di atto e di oggetto nell'intuito; la quale è, pift che altro,  presupposta dal nostro autore.   E peccando il suo ragionamento di una siffatta petizion di  principio, né potendosi altrimenti che per astrazione distinguere  r atto dall' oggetto, il Gioberti non può dire nemmeno che la re-  plicazione dell'intuito, cioè la riflessione, si differenzi! per l'oggetto  e pel metodo; poiché il metodo potrebbe esser diverso solo allof  che fosse differente l' ometto. E se il metodo trae i suoi caratteri  specifici dall'oggetto, e se l'oggetto è uno e inscindibile, come  si può distinguere una riflessione psicologica e una riflessione onto-  logica?   Il pensiero non si può riflettere se non sopra di sé, come pensiero;  e siccome è costituito tale dall'intuito dell'essere, che gli dà l'idea  dì questo, la riflessione non può non comprendere direttamente  questa idea dell' essere, che è oggetto dell' intuito.   Che se l'intuito si considera nel suo intimo e profondo signi-  ficato, secondo la critica da noi fattane, cioè io quanto esprime  l'oggettività vera (non la falsa oggettività fantasticata, con la im-  maginaria opposizione, a risolver la quale # ricercato l'intuito),  e però la vera soggettività, vedasi quanta ragione più si abbia di  volere una riflessione che, a differenza della riflessione suU' intuito,  faccia riflettere lo spirito sullo stesso oggetto dell'intuito. — E a  questo punto noi volevamo arrivare. — Perchè Gioberti distingue  una riflessione ontologica dalla riflessione dei psicologisti ? Qnesta,  egli dice, si ferma a un fatto dello spirito ; quella ci conduce fino  allo stesso oggetto ; e quella è però da preferirsi, se si vuole evitare  il soggettivismo. Or si veda che fedele rosminiano è fin nell'afferma-  zione di questa esigenza il Gioberti ! La critica sbagliata Fatta dal  Kosmini delle forme kantiane, ecco che egli la rivolge una seconda     DigitizcdbyGOOglc     Jìosmini 6 QwberH 27   Tolta contro il Rosmini medesimo. Gioberti, infatti, si accorge (  l'intuito rosminiano è una pura e semplice forma dell'intellet  ne più né meno delle forme di Kant; se ne accorge e gli pare, dìei  l'insegnamento del Itosmini, di vedersi risorgere innanzi il fosco fs  tasma del soggettivismo. Quindi non gli basta un intuito, coi  bastava al Iio3mÌDÌ, onde salvare l'oggettività, cioèl'universal  e la necessità della scienza, e gliene vogliono due, un doppio ìntu  intuito riflesso o secondario, o veramente una riflessione oni  logica. Bisogna davvero che questa Idea stia fuori del soggel  umano, stia da sé, e bisogna cbe si vada sempre fino a lei, ti  per un semplice intuito (potenza o virtualità di conoscere), vi  per un intuito riflesso, reale ed effettivo conoscere.   Ma il guajo è che se l'intuito, l'intuito scempio, sul quale  esercita la " riflessione eunuca , ^) del Rosmini, è un semplice s<  sibilo interno, o meglio, un semplice dato soggettivo (che pel G:  berti quel termine ha questo significato) — opperò individuali  contingente, — non c'è modo di provare che non sia un sempl  dato soggettivo anche lo stesso intuito doppio, che gli si vuol (  stituire. À rigor di logica, infatti, la critica stessa che il Qiobe  muove al Rosmini, si può muovere a lui, e si può continuare  l'infinito contro chi intenda l'oggettività, cioè l'universalitì  necessità delle forme di cognizione, come opposizione al sogge  conoscitore. Giacché l' intuito è sempre la stessa operazione, ed i  plica sempre la medesima relazione tra soggetto ed oggetto,  che si eserciti una sola volta, sia che si eserciti due volte,  riflessione ontologica rifa l'intuito circoscrìvendone l'oggetto  dato sensibile, offerto dalla parola. Ora, se il prìmo^intuito i  era bastato a cogliere l'intelligibile, perchè e come deve potè  cogliere il secondo ? — L'aveva evolto, dirà il Gioberti; ma appui  perciò bisogna ripeterlo, quando si vuol predicare del dato sensil  quella intelligibilità, e formare il concetto. — Ma anche a  v' ha risposta; cioè, l'intuito non è, come s' è visto un precedei   *) Errori, I, 144.     .dbyGoosle     -^?5^"     274 G. Gentile   cronologico della percezione intellettiva, dell'atto (che il Gioberti  dice riflessione) della determinazione dell'Idea, del differenzia-  mento della primitiva identità. E se non precede cronologicamente,  come non deve, né può, poiché non v'ha l'identico senza la diffe-  renza, né l'universale fuori del particolare, né l'uno fuori del vario,  é falso i! concetto d'un replìcamento dell'intuito nella percezione  intellettiva o nella riflessione; perchè il replicaraento presuppor-  rebbe l'intuito come un precedente anche cronologico, oltre che  logico ; con che si tornerebbe al vecchio concetto dell' a priori.   La riflessione ontologica, adunque, non può intendersi come in-  tuito riflesso, cioè come doppio intuito, nonostante l' esigenza che  r Intelligibile aia intuito nell' occasione stessa della percezione sen-  sitiva, oltre che solo; per la semplice ragione che da solo non è mai  intuito, se non come presupposto logico, come un quid trascendente  il fatto della conoscenza. D'altronde, il secondo intuito che si com-  prende in cotesta riflessione ontologica, non è né più né meno che  una ripetizione del primo ; talché, insuMciente il primo, non pub  non essere, e il Gioberti non dice perchè né come non debba es-  sere insufficiente il secondo, E perciò, rifiutato il primo, egli non  aveva nessuna ragione di tenersi contento al secondo, come aveva  avuto torto, a fil di logica, il Rosmini, rifiutando le forme kan-  tiane, a contentarsi di quel suo primo intuito. Ma come l'errore  del Rosmini risguardava la sua interpetrazione di Kant, ma non,  ci pare, la sua teorica, ed anzi era prova, come s' è più volte notato,  delia buona esigenza da lui avvertita di una perfetta universalità  e necessità nel conoscere; così, con la sua teoria della riflessione  ontologica, il Gioberti, se crede a torto di correggere il "Rosmini  e con esso anche il Kant, dimostra anche lui di avere avuto il  giusto concetto dei bisogni essenziali della scienza.   E v' ha di più nel Gioberti. Questi sente più forte una esigenza,  che non si può dire sia stata trascurata dal Rosmini, comecché  in lui non sembrasse pienamente soddisfatta ; vale a dire l' esigenza  dell' unità non pure come compimento della dualità della sintesi,  ma altresì come sua base, fondamento ed inìzio.     Digitizcdby Google     Rosmmi e Oioberti 275   Infatti, con la riflessione ontologica 8Ì ritrae la differenza nel  seno stesso delU identità; perchè la parola, principio determina-  tivo, aiceome è una rivelazione dell'Idea, così è strumento di quella  riflessione, che risale fino all'Idea stessa, a guisa d'un quadro, in  cui s' incornicia la vaga Idea sconfinata, tanto per lasciarsi vedere  dal finito spìrito umano. Ma quadro e Idea sono una medesima cosa;  tanto che la parola è detta rivelazione dell'Idea, ed è propria-  mente parola dell' Idea medesima. Sicché la differenza qui scatu-  risce dal fondo stesso dell'identità, dall'Idea; e la funzione dello  spirito, per cui si apprende insieme l' identico e il diverso, è pre-  cisamente la riflessione ontologica, che si rifa dal centro stesso  dell' identico ; laddove, secondo il Gioberti, la riflessione psicologica  non si rifaceva se non dall' atto stesso dell'intuito di cotesto iden-  tico, cioè da un fatto sensibile, epperò da un diverso; il quale, d'al-  tronde, se pure era un identico relativamente all' ordine dei cono-  scibili, non conteneva però in sé il principio della differenza.   Il Gioberti, adunque, senza riuscire a dimostrare l' insufficienza  della riflessione rosminiana, con la critica di questa e col volervi  sostituire una riflessione più compiuta, mirava a porre su più solido  fondamento la oggettività del conoscere, e a giustificare più sicu-  ramente quella vera sintesi a priori che per questa via accettava,  attraverso il Rosmini, da Em. Kant; fondandola su quell'unità indis-  solubile di identico e di diverso, di uno e di moltepUce, di uni-  versale e di particolare, di necessario e di contingente, nella quale  è la vita e la spiegazione del pensiero e del mondo ; unità, del resto,  di cui sentì pure il bisogno Rosmini, come in parte s'è visto e  meglio si vedrà nel capitolo ohe s^ue.   E per conchiudere intanto su questo punto, diremo che la ri-  flessione ontologica non è una operazione differente dalla riflessione  psicologica, che il Gioberti attribuisce al Rosmini; non potendone  differire pel metodo, poiché non ne differisce per l'oggetto, e non  potendo per questo differirne, poiché non esiste quella duplicità di  c^getto, che è presupposta dal Gioberti, e che ne sarebbe condi-  zione necessaria e sufficiente. L'immediatezza dell'intuito, come     .dbyGoosle     378 0. OmHle   forma del conosoere, esclude essa appunto ogni distinzione tra atto  d'intuire e oggetto intuito, siccome distrugge l'opposizione, che  pur presuppone col suo letterale significato, fra soggetto ed oggetto. Della proprietà delle parole. 1: La parola , prima che fosse scrilla,è parlata : la parola parlata fu inventata da Dio,come abbiamo detto di sopra,elascritlurafuun trovatodell'uomo,einspeciedel sacerdozio , secondo l'opinione del Gioberti, La parola artificiale, come espressione dell'Idea, non è già ilVerbo ereatore, m a l'immagine del Verbo, cioè il vero Verbo dellamente umana;e quindiilveromedialoreidealetra lo spirito e l'Idea.Se adunque lo spirito contempla l'Idea a traverso della parola, egli è chiaro, che la parola dee yelare appena e non coprire l'Idea,come terso cristallo corpi sottostanti ; quindi ella dee essere trasparente, e in ciò consiste la sua semplicità e perfezione, Dalla sempli cilà dellaparola nasce la proprietàdellevoci,lapuritàe l'eleganza dei vocaboli ; le quali doli della parola si tra yasano nelle frasi,che esprimono l'unione armonica delle yuci mediante i concetti ; e per via delle frasiriverberano quindi nello stile, e generano la bellezza del discorso. I m perocchè il discorso è bello allora quando le voci,le frasi, e quindi lo stile che ne deriva, sono semplici,proprie, pure ed eleganti. Infatti la parola è semplice, quando vela a p pena ilconcetto,e non lo copre dinanzi all'occhio della mente, nel qual caso la parola è per l'opposto materialé, e oscura.L a parola è propria , se è un ritratto fedele del concetto che esprime ; ed è sempre tale , ogniqualvolta  266 linguaggio ; della precisione dei concetti mediante le dif finizioni ,e della loro partizione mediante le divisioni dell'organismo dei concelti mediante i giudizii ; delle pruove delle verità seconde mediante i raziocinii';.e in fine del processo della mente secondo il lenore obbieltivo delle idee mediante ilmetodo. Ma poichè in tuttequeste operazioni della mente si può cadere inerrore,ogni qual volta non si fa buon uso dei canoni logici e dellaloro applicazione , quindi entra innanzi la critica a giudicar dell'uso che si è fatto dei canoni logicali , mediante il giudicatorio supremo dei principii che sovraslano alle stes. seleggi.Diche noidividiamoluttalamateriadiquesto capitolo in tanti distinti articoli . ART. 1.   conserva la suasemplicità. Quando la parola è propria mantiene a capello la corrispondenza perfetta tra l'Idea e il suo segno sensibile, se ella siguilica l' Idea increata, cioè l'Ente ;'e se ella esprime l'idea creata,cioè l'esistente è anche propria , oġniqualvolta conserva la corrispon. denza tra lamimesi e lametessi.Quindi è,che la lingua primitiva, la quale ebbe due parti, l'una divina,e l'altra umana, fu eminentemente propria ; imperocchè la parte divina di quella lingua consisiente nella rivelazione dei verbi originali manteóne,perchè divina,la corrispondenza tra l'Idea e il segno,e la parte umana,consistente nel l'invenzione dei nomi primilivi,mantenne ancora la cor rispondenza tra la mimesi e la metessi , perchè A d a m o pernominare isensibilicoiloroproprii nomi, lidedusse dagl' intelligibili, cioè dalla loro radice melessica. Quindi è,ancora , che nelladivisione delle lingue avvenuta pel fatto diBabelen,on re,che non abbia più o meno perdule e guaste molte pri. milive sue forme ; che non costi di n o m i e verbi anomali, eteroclili, difettivi, e di molte altre irregolarità di linguag gio , sicchè ogni lingua compare una rovinadel primitivo idioma. Quindi è finalmente,che gli scrillori autichiper che erano studiosissimi della proprietà delle voci c dello stile (onde le loro distinzioni dei varii generi di stile,te nué, mezzano, sublime ) perciò sono appellati classici, e sono isoli che abbianobuona scuola,cioè ispirano e pro ducono altri scrittorigrandi.  267 2. Abbiamo detto che dalla proprietà nasce la purità l'cleganza e la bellezza della lingua e dello stile;e quindi del discorso.E infattilavoce proprio nella lingua italiana importa il concelto di identità, cioè della medesimezza di una cosa con seco stessa:importa pureilpossessoche una cosa ha di sè medesima,perchè la cosaposseduta èquasi parte è in certo modo faltura eziandio del possidente. Quindi il vocabolo proprietà è spesso sinonimo di m e desimezia ;cosìl' amor proprio è l'amor di sè; è desso an, cora sinonimo di possessione ; così gli attributi specifici di una cosa,iqualine sono leproprietà,sono la cosa stessa, perchè le qualià e i modi degli esseri sono la sostanza m o dificata,valquantodirelamimesidella metessi.Adunque laproprietàdelparlarealtronon èchelacorrispondenza della mimesi colla melessi del discorso; la quale corrispoc   3. M a se la proprietà del linguaggio è la fonte di tulti i pregi del parlare e dello scrivere, la improprielà del parlare poi è una delle cause principali degli errori ontologici e logici, che producono la declinazionedellafilosofia,como avvertimino nella prima parte di questo corso. L'errore in generale altro non è che lo sviamento dell'intelletto nella cognizione della verità ; e come tale si distingue dall'igno, ranza , la quale non importa la cognizione alterata del vero,ma bensìla privazione assolutadella cognizione,E poichè al vero si oppone il falso; perciò siccome il vero si gnisica, in quanto è desso l'essere, così il falso n o n si goifica, secondo la bella espressione del Tasso, perchè € desso ilnon essere  268 denza costituisce la dialettica del linguaggio, e quindi la improprietà ne è la sofistica. Ora la purità delparlare i m porta la sua pulitezza, la quale è una speciedi proprietà; imperocchè la pulitezza,mostrando la cosa nella sua forma nativa, fa che la cosa sia identica a se stessa, yalquantodire che l'apparenza risponda allasostanza"; ilche importa in altri termini che la cosa abbia possesso di sè medesima. E poichè la politezza importa la scelta di ciò che costiluisce l'orpamento degli oggelti maleriali; cosi nella lingua l'ele ganza è inseparabile dalla purità delle voei.E siccome alla pulitezza si oppone l'immondezza, che illaidisce edeforma gli oggetti, così all'eleganza si oppone la vanità che li al. teraedeformacome sefosseunamaschera straniera:al. treltanto succede nella lingua e nello stile.Dalla stessa fonte della proprietà e semplicità del linguaggio scaturisce la bellezza dello stile e del discorso.Imperocchè quando il lin guaggio vela appena e non appanna l'idea o il concetto, se ne rende allora ilritratto fedele, come abbiamo detto di sopra ; nel quale caso l'idea increata o creata manifesta n a turalmente e senza ostacolo la sua luce diretta o riflessa n e l l a p a r o l a . O r a il b e l l o e s s e n d o l o s p l e n d o r e d e l l ' i n t e l l i . gibile, sia assoluto,sia relativo, che sirivela a trayerso il sensibile, cosi quando la parola è semplice e propria, è a n cora bella necessariamente ; e quindi la bellezza del di scorso in sè raccoglie tulle le qualilà della parola e dello stile, cioè la semplicila e la propriela , la purità e l'ele ganza. > c i o è il n u l l a c h e n o n h a , n è p u ò a . vere virtù di significare. Ora le cause degli errori sirie ducono a due principali, onde le altre derivano, cioè ally   269 l i m i t a z i o n e d e l l ' u o m o , e q u i n d i d e l l e s u e f a c o l t à , e a l l' a l terazione della parola,come espressione dell'Idea;ben'in leso però, che anche questa seconda dipende dalla prima , siccome dicemmo nella prima parte di questa Istituzione. Dalla limitazione dell'uomo e delle sue facoltà nacque lo sviamento del libero arbitrio in ordine alla legge, e quindi l'esistenza del male morale ; il quale fu cagione delmale intelletsuale, inquanto fucagione del predominio del sen sibilesuil'intelligibilee dellepassioni sullaragione,onde deriva l'alterazione dell' Idea, e quindi l'esistenza del'l e r rore.Ma qualunquesia,diceilGioberti,lacausadellacor ruzione egli è indubitalo, che in origine l'alterarsi dell'Idea è congiunto equasi coetaneo a quellodellaparola;laddove in appresso,e nelcommercio tradizionale,ildisordine tra passa nei pensieri dai segni ; sicchè l'improprietà della parola è la causa, e l'errore èl'effetto. Imperocchè,quando Ja parola è impropria , siccome ella non mantiene più la perfettacorrispondenzatra l'Ideaeilsegnochelaesprime, cosi i concetti ideali sono travisati dai concetti sensibili in. chiusi nella parola, e l'Idea viene adulterala dalla metafora o dalla etimologia . Nel quale caso i concelti ideali si c o r rompono proporzionatamente,se giả , come avvertimmo altrove,una nuovarivelazione, o un magisterioesteriore, organato dall'Idea istessa , ñón impedisce tali corruzioni della parola, serbando incorrolta quellagenuina e originale corrispondenza fral'Ideà eilsuo segno esteriore.Idea gtnerale dell'opera, e tua diritieue in due libri. — La tloria delle religioni appar- tiene a snella della Blotofia. — Si ritolrono alcune obbieiioni in contrario. — Perpe- tuità della Blotofia. — Del metodo critico aegailo dall’ autore nelle rirerebe aloriebe. — Si liepolide ai nemici delle eonpilatìoni. — Del metodo dottrinale, oaaerralo dall' auto- re; perebd egli anteponga la. linloti all’ analisi. — Cenni sopra nn’ opera precedente.— Prorotsione cattolica dell’ autore. — RUpoala a ehi te aoeuta di eiaer troppo ratlolico. •— La moderazione' nelle dottrine non è oggi di moda. — Via {utile e compendiosa, per giungere alla gloria. <—In che senso l’ antere sìa sago del progresso. —Sua pro- trata, intorno alle persone generalmente; agli scritlori risi ed ai morti, in itpeeio. — Di Giorgio Byron. — Dei sentimenti , che mosiero l' auloro a scrirere. — Contro la sella degP Italogalli. — Funesti influssi della Francia. — Della eterodosna moderna in generale, e della filosofia germanica in particolare. — Gl’Italiani debbono filosofare da sé. — Dello stile filosofico. — Importanza della lingua in ordine alle cose. — {.odi ifi An- tonio Cesari. — Contro i cattisi amatori d’idee. — Dei parolai. — Contro la barbarie dello scrirere, che domina in Italia. — Della cbiaretxa, bresild, semplicità, precisione, c purezza del dettalo. — Esempi italiani di elocuzione filosofica perfette. — Del modo, con cui si può inoorar nella lingua. — Scusa dell' autore , intorno alla lingua e allo alile da lui adoperato. — Eaorlazioue ai giorani italiani. — L’Iililà della sera filosofia. — Elsa non dee sparenlare i buoni goreroi, né i buoni principi. — Sua opportunità, Gioberti Inlrud. Voi. I. 21 Digitized by Google   r lG-2 per ristorare la religione. — La Gloa^fia dee cucre collìfaU specialmente dai cbicrici. — Lodi del chiericato italiano. - Del sacerdoiio frnncese ; sua antica dottrina, e suo virtù io ogni tempo. — Del modo, eoo <ui li coltivano le lettere da oleum chierìci franoesi. ~Della parlecipasìonc dei chierici olla vita sociulo» —Della liberti cattolica nel culto delle dottrine. » Che il clero catiolico dee essere emìnenle anche nelle scìen* se profun<’, per sortire picnamt nte rt-netlo del suo o>ini^te/io. — Di certe sette politi* che, che nocciono alla religione. ~ Dei ti elogi laici, che ioondcAO la Francia: loro tracotanza. ^ Al'eanza della filosofia colla religione. La dottrina cattolica é la sola dottrina religiosa, che abbia un valore acientifico. — Come la novità si accordi coli*anti« chità nello cose filosoticlic. — Si concbiude, esortando gl* lioliaui a I. barare le sc cuse ipecuialve dai nuovi barbari. LIBRO PRIMO. DELLE DOTTBLNE C.4P1T0L0 PU1.M0 Della dcelinaztone delle scienze spcculalive in generale. Cunirapposlo fra- lo sla o fìorcnle delle matetnatiche e fi*ichr, e lo s(|uallure della fihtsofìa ai ili nostri. » Sue cagioni gencr-chc. — Cobsidenuioui a <ju sia propos to sul'o stalo delia filosofia nelle varie parli d'Europa. —D.vario, che corre Ira le duii'ine fiancesi o U’de.-che, nato dalle loro diverse attinenze colla religione. — Di Renalo Descartes. ^ 1 semi'li moderni sono suoi d’srepoli assai piu legiilmi del Malebranche, e di altri antichi cartisiani. Dd panteismo germanico; temperalo dalle tr iduioni religiosa: l*idea «i è oscurata, non eslin a del tutto. ^ Di Emanuele Kant. Perelié t Tedeschi prot<‘Slanti furono io filosofia più a ioni dall' eaipielà, che i Francesi rallo(ici. ^ Dtver* sita d«‘ir ingegno spcculat vo, presso i Francesi e i Tedeschi. — Se ne cerca la causa nella storia, e nelle origÌr>i di queste due nazirni. — Delia tilosofia inglese : sue difie* n’nte dalla francese, e dalli germanica. — Dei fìloSvfi ftaìiaiii del secolo quiiidcciao, c del seguente. — Di Glambaitisla Vico : sue lodi. ~ Epiio{:o d.-I quadro. CAPITOLO SECONDO. Della dedinazione degli eludi specidatici, in ordine al soggetto. lufeiiurilà speculaliia e rnoralo dei popoli modcToi, verso gli antichi. — La no-a speciale dciruoQio moJeroo è Ir frivoUzza. — La cagione di questo vizio è la debolezza della faiol.à volihva. — Inlluruza dtl voli re nella cogoiziouv, e oelf ingegno delP uomo. — La modioiriià letteraria dui moderni nasce dalle hggcrizza dei loto animi. — Esempi S 2»S * Digitized by Googic  es»e bi chiude il capitolo. . - Note. Aula prima. Siti diltflanti tpleoJ Jì c Itiili, elle h fanno Ja m.eilri. 71 1 1 ptincipii dal Ufi 2^ 3. V 5. 6. T. 8. 9^ 10. 11. 12. 13. 11. 15. 16. 17. 18. 19. 20. 21. 22. Clw il inftoilo El<w>fict> »i J>e di durre dai principi!, e non I metodo. Il ig. Coiaio «.elude la «tiri» delle religioni da quella dtlU Bloiplia. Del cullo reciproco de’ moderni Rfillofi ff.nceii. Di una iKioea Enciclopedia. Sopr. OD* «poitigi. recefllo di Giorgio Djroa. 117 l'i. 1 lit 125 125 129 i6. 13t) 131 132 ii, i6. IM ii, Ai nemici delle wItiglieMf. Sullo lingua e luU' eluguenia francese. Sul primato della Fraocia. L'.terodomia modarna non i fono ancora al «uo fine. Della periiia di Paolo Luigi Cuarier nella lingua a negli icrillori italiani, Paw dal Letiinj; mila lobrielA « ammauralega degli antichi tceitlofi. Sull'uli-iU dei buoni giiirnali «ccletiailici. Pmm del Leibnu «olla libertà cattolica dcKii «eritteri, Querela del tig. Cousin eoutro il clero ffauceee. P«Mu del Leibnii contro i dùaipatori delle antiche dotUine. Sull' apoilaiia lU alconi prelati ruwù Delle cagioni della H>rorma. Che la tinceritA di Renato Denartei nel proretiani cattolico è per lo meno dubbia.- Il Malebranche non è earleeiano intorno al primo principio dellalua filoaoCa. 143 Clia il «ig. Coutin ha ao concetto mollo ineaatio dello Spinci.Mio. 144 Pawo del Courier tuH'iitiulo aotTilo dei moderni. 1^ ^ ; iò 5,  163 rcceoli e ìuliani di una Tolontà forte : Napoleooet e Vittorio Alfieri. — Lodi deli’ Al> fieli. — La fursa della volontà dipende in gran parte dall* educasioae. ^ Cbe co a sia r educatione. — Saa oeceuilA. — Delle varie forme, che prese 1’ educazione, tecoodo il ccM’to dei tempi e la varieii di'! popoli. — Po pubblica presso gli antichi ; qoasi pub- bloa nei basti tempi. » OelP opera dei chierici nell' iostitusione dei giovani. —> L’cdu* catione diveone pnvate, piesso i moderni. —Cagioni di ciò: false teorirlie in politica e IO pedagogia, inglesi e francesi. — Di G angiacomo Rousseau. — Errori del suo Emito. — Delle doUrìne poi tieba snlla liberti dell' ednratione. — Falsili loro. L’e* ducaaioQ^ manca quasi alTatto nello stato presente di Europa. » Difetti dei metodi vi* genti dell* insegnare. L’ias«gnameoto pubblico dee < ssere uno, forte, e dipendente dal* lo stalo. — Frivolezza dell' insegoamenlo cattedratico, quale si usa oggidì nei paesi più civili. » Dei giornali. — Diretti, e danni dei giornali, come per lo piò si scrìvono in Francia. *— Nuocono al'e lettere e al e sciente dalia parte di chi scrive, e di chi leg* ge. — Necessità dell’ iniìtiiuzione pubblica, e di un supremo poto<e educativo. — Quella non lìpugna ai costumi, oè questa alla libertà politica dei moderni. —> Che M»sa sia r iagfgiiu spccuUtivu. — D<2 tla setta dei sofisti moderni, e deg'ì artefici di parole. ^ Quàlìià loto. — Si chiamano a rtssrgoa le prìneipai diti diU’ ingegno sfeeulativo, e con Digìtized by Google   23. 24. 25. 26. 27. 28. 29. 30. 31. 32. 33. Pano d«l Leibnii tull’abbierion» morale JcrU onioi moderni. Sulla patria di Napoleone. Pano dfl tig. Cuusin mila balta«lia di Waterloo. Pel gioiliiio, che il tilt. Villeoiain ha recato mll' AlCeii. Sugli errori della pueriiia. ^ Sull* uUbU di tre clasii di gioroali. Soll’aliBio Jei generali. Lodi di alcuni illmiri eruditi fraaceii. Pano del Malebraoche augi’ iugegni friToli. In che modo il genio naiionale poeta imprimere la ma forma nelle icieate «peculatiee. Sull' indola morale, e lugli ulUnii UUmli del Goèlhc. Itt 143 . 149 1^ 152 132 138TAVOLA. E SOMMARIO     Diuu. Pag-   SCDU bill' iCTOKI.     Le lodi d'ililia nim sana oggi pericolose per la sua modcslio. —  Sano opportune, e perchè. — Scopo del preienle dilcorsa. —  L'aifluiui di CMO non t per ilcaa Ter» iiigiiiriUD agli tlnnieri.  — L* doUriiu del primalo itili IBO è necetMtfai per rÙHltun-  ziuie delle sci une flloMBclie neita pcniioli.   PASTE nanu.   Dell' Hlonooiia uwlnUi e rdtlin In genere. — Di qidia cbe con.  peti (He uDoni in paiticoUrc — Lt isdice dell' tiatononùi è  neDi virtù creatrice, — L'Italia è anlmMina peraccdiema; rau-  lonomia i la boM della mi* nMggionma. — DeOnitionE del pri-  mato italiano in noiTerale,— La petùxria per It ina poitora è il  centro monte del nondo civile. — Convenienu geogniGehe dell'  lUUa coir India e colla HeMpoUmia. -^-La religione b flprtndpal   / S)ndimeiito.del primato italiano. — II principio calttdieo è Ime-  panbile dal genio narionile d'Italia. — Opinione dei ghibellini  e del flloioll nominali a questo propoaiUi, e aun falsiln. — Del  Hachiavelli , del Sarpi e <li Amalitii ih ìlmcm. — Ln xt» iIiiL-  Irina naiionnle d'Italia i quella dei rufIIì e dei realisti. — ì!,s\iii-   cattolicismo e dall' Italia. — L'Italia è la nniiuuc creatrice: Suo  ing^DO inventivo, c sul) liuiilà delle sue opere. - Essa c pure la  naiione redentrice degli altri popoli, e non puA essere redenta     440     T1V0L& E SOnARIO     per open loro. —I papi non (nrono !■ caoM della divisione iT ita-  lia, and lì mottnrono benemeriti In ogni tempo ddroniU iu-  liana ed enropea. — ObUeiionl e liipoile. — .Dei don nemici  perpetui dellt penisela. — Fati perpelui e glorie di Roma in ósni  tempo. — L'Italia non dee invidiare alle altre Milani la gran-  dena e la potenia disgiunte dalla gìnitliia. — Vino a qual segno  i coiHiuisU e II dominio temporale dell' antieo imperio romano '  sinno stati legitUini.— Gmdeiie supcnliti della modema BÓma.  — Della PMpapnda c ddle mitiioni. — Puagone del SiTerlo e  dd Boonaparte.— L^Iialia/itaempTB la più co9inopoK(Ìca delle  nanoni. — li auo principato si Tonda Mrratlutto nella religione,  j la quale di sua natura suvrasla a ogui cosa umnoa. — L' Italia tal '   in si lultc le cuii<ii£i<iiii ilei ^un nai limale c politica risorgimento,  \ sema ricorrere «Ilo somniossc iiilcsthie, alle imitaiioai e inva-  j sioni Farcsilere. — Dell' umane ÌUliaoa. — Essa non può uUenersi  colio rivoluiioiii, — [l principio dcU' unità il.iliani è il Pajia; il  quale jiiiii unilìenrc h penisola, mediante una confeclemiinne  ilc'suui principi, — Vanlnggi di una lega ilaliana. — Il governo  folemlivo è connalurale all' llalia, e il pili imturale ili lutti i  goterni. — Danni della centralità cccessita. — La sicoreiia e la  prosperità d'iLalia non sì possono conseguire altrimenti che con  un' alleaniB italica. — 1 lUrcslieri non possono impedire i]uett'  alleanza, e non che opporvisì , debbono deiideratlo. — Semi dell'  autore se entra a iliscorrcrc ili caie dì stato. — L'opinione nasce   Ida pìccoli principii , ma dee essere edncato dai senno della ni-  liane, — Dna province (oprattutlo debbom cooperare a ^TOfjr  l'opim'aue Hi-iriiiatì"imieiiVTlnnii « ti Piwnnnl>. _ ^Bìj^^ )jj \f  Itoma pei popoli, e sua imparzialità fra i pedali ed i prindpi. —  I L'onilA italica sareblie di grande utilità ■iWti religione cattolica , .   loro'genio. — Deli.i (]d.s;i ili S^ii.iia e luili. — .l[lincnzc c cor-  risponderne delle famiglie regnatrid tugl' incrementi civili dei  popoli. — itrfi^ nnn^^ ^pip rtr il Piemonte, n delle sorti  c he le Mno^reDiral|e ^\]f Ptnuy^fjm. — Delta concordia fra  T'popoli 0 i principi italiani. — D difetto di osa ta la cauta     TAVOLA E SOMMARIO     principale del c)iM:atlinicnla d' Italia. — Errore ili chi .illribuÌKe  tal decadi nHMi lo nib qualità della stirpe o alla religione. — ti'in- ■  forlunia ilcgl' llaliaiii aiiehe pur quvsta parte iiarque dai fores-  tieri. — Frincipii di risurgiiiienlo nel secalo passala , e rili^nu  cìtIIì (alte dai ptiaeipi ooslrali. — Inlerratte dgfla rivolaiioiKi  rranceM , ora è il tempo opporUum di ripigiUrte. — Necessitai di  ordinare la pubblici opìaione. — Dne modi con cni quesla ai ap-  I>alc9a ; lit parola dei tmi e la alampa. — Della monarehia con-  ■ullatiia, e del Consiglio civile. — La Btarapa non dee essere  MTva , iiv liceniiusa. — La sala via per evitare amenduc gli  ccccs^ , ilà neir affidarne l'iodlriuo a un caniiglio censorio".  — nella iniportwii* della iiuapa per la civUU. — UtlliU della  signoria indivlH p« riRmnata gli siali. — Si esortai» I prineipi  ilaliani a toDdare l'amona d' Italia.— Del dirello delle rìibnne  nriii lane a leniate in Italia , dorante il secolo scorso. — Decli-   ii.ii e siitcessiva del genio iiaiiunale della penisola. — Iliscre-   iiiiiiii: 111 uiieslo genio da quello dei Francesi. — Critica del galli-  canìsmo. — Di Benigna Bassuel : censura riverente dell' ing^u  e itelle opere di qncslo gran teologo. —1 II sacardoiia primflivo  eUw dna poteri, l'ODO reHgloM e l'alln drile. — Pormola so-  ciale : La («roonui* erta MÌl gli ordini civili, — U ncerdoiio  è il Primo politico. — Ciisto rinnovA a compimenlo il sacerdoiio  primigenio. — Necessità del potere civile nel sacerdoiio cria-  liiino. — ( Lode dei Gesuiti del Paiaguai. — Il polerc civile della  Chiesa non toglie la dislùuione, che corre rra lo «lato civile e il  lacerdoiio. — Dea toma, par mi pam il poleniàTile dal Mce^  doxio, cioè la dillaliaa e failiitralo, canispondenli ai due cfcU  civili delle nazioni. — Legittimiti della dittatura ejerdiala dai  Poniclici del medio evo. — Il ciclo dittatorio Gniscc quando c   |jerioilo della dtilti'i lefulare il'lulia <■ crKiirops, — Dell'arbì-  tr.ilo, iraliiiso ilal sacerdoitn. — Il l'.ipa c l'unico [iiiocip io dell'   guerra. — La dittatura pontiScale non lurna inulìle in alcun     TAVOLA E SOMMARIO     Icinpo ; MU applicaiiane presenle e foUin. — 11 I^pa è U prin-  cipio dell' anioDe d' lUlia. — Il polcn civile del Mnrdouo non  è contrario ali* ipirìlualiU e HnUU dclb rai indole e del suo  ■nìtuslerìD. -I Del (HtiiHiiùnm. — Crilict de'snoi prÌDcipii in-  tono tU* cotUluiiom della Cb'ma e al dogma caUolico. — Dei  doveri delle varie ciani dei dUadini, in ordine all'aoioDe d'IU'  lia, -/Danni cbe nascono dalle dottrine esagerate di libertii. —  Esortaiioneagli esuli ilalìaiii. —- Del dcbilo che linririu gl'llnliani   gli adalatoridei pririi'ipi. — l>i^i wihili, -- M ji.il ri/Min i' i!i[licil-  menle srilabilc nelle soeiclà civili. — Due specie iJi palriilalo;  fendala t civile. — U primo è im^nevole, Oioesto e vitupe-  ralo. — 0 secondo pnì euer lodevole e ntik, quando venga ac-  compagnalo da eerte condiuoni. — I cattivi nobili tono la rovina  delle nontrcbie. — Dei chierici secolari. — In che modo essi  pouano partecipare alle cose politiche. — I^i del chicrieala  Italiano. — Perch6 l' episcopato dì alcune province cattoliche sia  stalo Ulvolla per l'addielro men ragguardevole degli altri ordini  derieali. —(Del frati. — Apologia del m(MMchÌ«no. — Suoi  benefiri rÌq)«llo alla drilU etirqiei. — Quando traligna ai miri  rìfonnare, non abolire. — Dd moMchlinwwientalee delPocci-  dcntale. — Como ijueila si poiH rendere fmtluoio al nodro inri-  vilimento. — Danni che nascono dai diìoiirì degeneri. — In cbs  modo irrati possano influire salutarmeate nella politica ecotqM  rare ai progresai civili. — Essi debbono mettere ndl' opinione il  precipuo fondamento della loro vHa. — D colto ddle iciauie e  dèlie lettere in generale, ma i^edalinenie della aiosoBa, ddia po-  litica e dell'istoria si addice al loro minislerìo. — La scienia  ideale i inoiiaslìca [ter ecccllcnia. — Esurlaiionc ai venerandi  alunni dei chiu;lru ilaliaiio. — Della digniu'i clericale. — Gli ec-  ctcsiaslici debbunu guardarsi cautamenle dall' impicciolire o avvi-  lire le co» della rclìgiuiic. — Si uLbiclla che Ì popoli moderni  sono men grandi degli antichi. — Risposta. — Ddla lollerann  cristiana. — Perche nei tempi addietro violala In alcuni paeii-  — Tali viotaiioDÌ non si possono imputare alla Cbieta cattolica. —     TAVOLA E tìOMMAniO     Delk àoleeiia, |)ru(1enia e risi:rva clericali: nel dtspularr a nei  conversare. — Si rancluitc moslrando che il risorgimento d'ilalia  I non pai iver luogo , sa non ri rimetlono in onora gl'ingegni pri-  I vileglati, e non «i soUrae rindiiiuo delle cose ri TOlgo degli  j nomini oiediocrì.     nn HL TONO PIIMO.   S&SlOSS   La riflessione ontologica ferma, circoscrive, determina , chia- rifica l’Idea, cioè Dio: ma nella parola si rannicchia, s'incarna, si compie l’ Idea : la parola porge l’idea cosi rannicchiata ed incorni- ciata ed incarnata e compiuta alla riflessione. Qui covano , pare , molte contraddizioni. Se la riflessione, che chiarifica e ferma l'Idea; qual bisogno ch’essa Idea si rannicchi c si restringa nella parola? qual bisogno che la parola compia l’Idea, se la riflessione arreca distinzione, chiarezza, delineazione nella medesima? Se quel che fa la parola, fa la riflessione altresì, una delle due è superflua: am- metter l’una c l'altra, è metter luna in contraddizione dell’altra : supporre cioè che l’una non basti, senza l'altra, a ciò a che basta veramente. Mavia: prendiamol’una e l’altra perdelerminalricidel- l'Idea, cioè di Dio. 11 Gioberti diceva che nell'intuito l’uomo è as- sorbito dall’Idea, non la conosce neppure. Siccome dall'altra parte diceva eziandio, che « lo spirito trova se stesso in Dio e il mon- do in se medesimo »; ne viene che anche la riflessione è in Dio as- sorbita collo spirito : che il mondo lo è pure: e col mondo la pa- rola, parte di esso. In cotale assorbimento dell'uomo, della rifles- sione, della parola ; assorbimento che toglie ogni cognizione , non è assurdo c contraddittorio il dire che la riflessione e la parola , o tulle due insieme, servano a svegliare lo spirito assopito , esse assopite; servano a chiarire e determinare, esse confuse e indeter- minate nella universale confusione ed indeterminazione del Ciclo e della terra, del Creatore c delle creature ? n) Inlrod. li. p. 136-137. b) lìti pillilo rhe li'ga. e) Errori l. p. 201. Digitized by Google  )  55 Cosa sarebbe l'intuito Gioberliano ? a) la visione -di I)io crean- te; cioè della natura divina, dell’atto creativo, de’ termini di code- sto atto. Cos'è la parola? un segno creato b). L’intuito dunque do- vrebbe pure vedere la parola: la parola sarebbe parte della formu- la, intuita per natura da tutti gli uomini; chi* l'Ente creante non può essere veduto senza gli effetti del suo operare. Ma se nell’og- getto dell’intuito è la parola, è la riflessione altresì, come cosa creata anch’essa; se l’Idea col creare illustra c), e quindi deter- mina; illustra la parola altresì e la riflessione. Ecco nuova contrad- dizione e circolo nel dire che la riflessione e la parola servono a delincare all’intuito ciò ch’egli ha ad oggetto delincalo dalla natu- ra: illustrare ciò onde vengono esse illustrate. La quale contraddizione o circolo risulta da molte altre sen- tenze del Giebcrli applicabili al proposito presente. Sentenza sua è. di frequente, che i sensibili sono per sè inconoscibili; e solo per l’intelligibile, cioè per l’Idea, siano conosciuti. « L’apprensione sen- si sitiva non è un elemento intellettivo » </). 11 sensibile non può « essere pensalo altrimenti, che nell’intelligibile » r) « L’intelli- « gibile rischiara appunto i sensibili, perché li produce, come l’En- « te e i sensibili sono illustrali dall' Intelligibile, perché ne deri- « vano, come esistenze » Avca detto prima « l’Eute è altresì « l’Intelligibile, c le esistenze sono i sensibili ». Le creature so- no per sè inintelligibili, nè s’intendono che « in virtù dcU’intcl- g Errori i. p. 56. h) Errori li. p. 141. v) Ivi p. 163. l) Ivi p. 159-160. m) lntrod. ii. p. 14. n) Errori n. p. 45. un vero sensibile >. Errori i. p. 257. g) « Il sensibile è subbiedivo è inconosci- f). « ligibililà assoluta » n bile di sua natura » A): « è per se stesso inconoscibile e sub- ii bieltivo, non intellettuale, nè obbiettivo,. è rispetto alla nostra co- se gnizione un pretto nulla » i). « L'intelligibile (l’Idea, l’Ente) ii inonda lo spirito di un continuo chiarore, e gli rende conosci- li bili tutte le cose » l). Ora « La parola come ogni segno, è un , <i sensibile » m). Dunque per sé inconoscibile-, inintelligibile. Solo l’Idea, l’Intelligibile la rischiara, la illustra, la Ja intelligibile all’uomo. « Tanto è lungi, che la parola provi l'Idea razionale, che anzi que- ll sta dimostra l'autorità di quella. » n). « Questa (la parola) e la a) Dico sarebbe, perché il Gioberti stesso Io distrugge in mille maniere, come vedemmo, e vediamo rontimitinenle. t) Siccome it sensibile appartiene alla categoria delle esistenze, e queste pro- cedono dall'atto creativo, la parola b di tua natura un effetto della c reazione. L’idea -« crea «I segno che l’esprime . Primato, il. p. 15. e) Errori li. p. 352-353. ri) lntrod. n. p, 165. e) Ivi p. 166. f) Ivi p. 562. Qui de» esserci corso errore di stampa, o nella sostituzione deila voce Iati ad esistenti; o nella punteggiatura. Perche l'Eulc non deriva dall'Intelligi- bile come esistenza. Dovrà leggersi, crrdo, il periodo: « I.’ Intelligibile rischiara ap- « punto i sensibili, perché li produce, come l’Ènte; e i sensibili ccc. » Digitized by Google   56 « riflessione stessa ripugnano, se non sono antivenute o guidate da « un lume intellettivo, da cui, (e non dalla parola che per se stcs- « sa 6 un mero sensibile) l’evidenza e la certezza provengono » a). Come pertanto può dirsi che la parola « si richiede per ripensare « l’Idea »; che « il sensibile è necessario per poter riflettere, e « conoscere distintamente l'intelligibile »? b). Una cosa inconosci- bile per sé, non conoscibile che per l’Idea; come potrà servire ad illustrare, a chinrirc l’Idea, da cui riceve lutto il chiarore che pos- siede? L'idea illumina la parola; la parola illumina l’Idea? Non v’ha circolo qui c contraddizione? Che se amiamo trarne Inora qualciin'aitra, il modo non man- ca. Il Gioberti scrive talora, che « l’idea, incarnandosi in una for- * ma sensata, scade sempre dalla propria altezza » c). L’idea dun- que, se s'incarnasse nella parola, veramente scadrebbe secondo quel testo; perderebbe di sua perfezione. Come può stare pertanto che la parola, determini, illustri l'Idea, la compia, cioè la perfezioni? come può stare che l’Idea per compiersi c perfezionarsi s'incarni in un sensibile, che la guasta e la rende imperfetta ? La parola ch’è detta in un luogo dal Gioberti « un sensibile in « cui s'incarna Vintelligihile »; diventa in un altro « una copia mon- « diale, contingente e linita del modello divino, necessario e infi- « nilo, c un individuamenlo dell’idea eterna » d). Siccome questo modello c idea eterna è l'Intelligibile stesso, Dio; quindi la parola è una copia, un individuamenlo di Dio nel quale s’incarna Dio. E notate, che « tante sorti di parole create si trovano, quante sono « le specie della esistenza »; una parola matematica meccanica ed idraulica, che sono i numeri , le figure, i movimenti; una parola fisica, cioè i fenomeni di natura; una parola estetica c sono i ti- pi fantastici; una parola storica, c sono i fatti transitori o perma- nenti degli uomini, gli eventi ed i monumenti; una parola sovran- naturale, e sono gli avvenimenti ffrodigiosi e sensibili; una parola liturgica « ordita di emblemi e simboli; c infine una parola grani- li malicale, parlata c scritta, ma per se stessa arbitraria , c però « diversa dalle specie anteriori, che sono tutte naturali e) la (piale « serve ad esprimere i concetti dell’animo e quindi a tradurre ogni « altro genere di favella » /). Di tutte pertanto le cose create dee dirsi ciò che della parola grammaticale: sono sensibili in cui s'in- carna Iddio; sono altrettanti individuamenti di lui; che lo compio- no, lo determinano, lo fermano, lo circoscrivono, lo illustrano: quan- tunque siffatta incarnazione lo umilii veramente , sconci. a) Errori i. p. 208. b) Inlvofl. u. ii. li. e) Ges. Moti, tv: p. li. d) Prima!-» li. p. 10. e) Anche la parola sovrtwnnfurtile ? fi Ivi. lo abbassi , lo r Digitized by Google   57 Nasce però curiosità di sapere, perchè mai nella parola s’in» carni l'Intelligibile; ina nou « in quanto rispleude aU’intuilo ><: *ib- bene « in quanto riverbera (cioè ridette) sulla riflessione » in quel punto famoso di contatto che lega Dio coll’uomo ? La riflessione, si è detto, che mediante la parola circoscriveva , compiva l’idea o) ; quindi la parola preceder dovrebbe la riflessione. Ma se la parola contiene l’Idea in quanto riflette mila riflessione dell'uomo ; la ri- flessione sarà preceduta alla parola: così la riflessione va innanzi alla parola; e la parola va innauzi alla riflessione nella stesso tem- po. Eccoci di nuovo ucU’uno via uno. Se la dottrina della riflessione determinatrice e illustratrice deU'iuluito fosse vera, dovrebbe dirsi che la riflessione guida per mano l'intuito, lo signoreggia. Or bene di ciò fa le risa il Gio- berti contro i psicologisti: « lo aveva credulo finora che la cecità « sia la causa principale per cui non si scorgouo gli oggetti: ora « siccome l'intuito, non che esser cieco, è la fonte della risiane, e v la riflessione non cede, se non in quanto partecipa alla luce intui- « tira, dovremmo dire, alla stregua dei psicologisti, che tocca al « cieco il guidar per mano, non mica gli altri ciechi, (il che sa- « rebbe già degno di considerazione), ma chi 6 veggente in mo- ie do perfetto; cosa per vero singolarissima ». h) Bene slà. Ma quel- li l’Ontologo, che pone per una parte l'intuito del Sole stesso Eter- no Divino; e immagina dall’altra una riflessione e un inondo di pa- role che sono necessarie a determinare, fermare, ed illustrare il so- le, da che sono esse creale ed illustrate; quegli è che s'introniBtte di far guidare i veggenti perfettissimamcnle da’ ciechi; che si pensa di accendere il sole di mezzogiorno colle tenebre della mezzanotte. 11 Gioberti consuona al Rosmini nel riconoscere la necessità della parola per la riflessione. Differisce però dal medesimo nel- l’asscgnarne la ragione : per dir meglio: il Rosmini ne dà ragione, ('impossibilità di spiegar altrimenti la formazione delle idee astrai- le: il Gioberti non ne porge nessuna, c). Imperocché non sembra- mi prova quel dire che « il punto indivisibile , di cui abbiamo « discorso di sopra, » (il punto che lega Dio e l’uomo combacian- tisi), « non può esser termine del ripiegamento riflessivo, se non ve- « stendo una forma sensibile. E siccome non è sensibile per se stes- ti so, siccome versa in una mera relazione intelligibile, l’unico mo- ti ilo, con cui possa rendersi sensato, consiste nell'incorporazione « mentale d) di un segno, cioè della parola » e). Ma perchè quel o) I.a rbiama perciò . un semplice insinimentn necessario per mettere la ri- flessione in commercio colf intuito »; Errori i. p. 200, « Strumento riflessilo * p. 215. « Semplice segno insidine male » p. 2t9. » stimolo per mi rumineia «I al- « luorsi (l'iiniiiio umano), e il polline ette lo feconda »; Primato, II. p. 15: « occs- • sione, cagione, inslrnnirntale del lero ». Necessità della parola. Bello p. 137. 6) Introd. il. p. 134. e) Rosmini, S. Saggio, sezione V. p. 2. e. 4. a. I. Filo». Polii. Voi. p. 151-153. d) Incorporazione spirituale. c) Errori i. p. 201. Digitized by Google  58 punto, rhY' puro relaziono intelligibile, ohe anzi è la cagnizinne, ro- llio vedemmo , perché « non può esser termine del ripiegamento « riflessivo, se non vestendo una forma sensibile, se non renden- ti dosi sensato, se non incorporandosi in un segno »? Il Gioberti noi dice. Altri osserverà nondimeno che non solo noi dice ma nem- meno può dirlo nel suo sistema: che perciò é impossibile al Gio- berti di provare la necessità della parola. Egli afferma, che « l’uo- « ino nou può meglio nel suo stalo attuale riflettere senza parola, « che favellar senza lingua, vedere senz’occhi, c pensare senza cor- « vello. Senza il linguaggio l'uomo ha ragione; ma non uso di ra- ti gione, ha la riflessione in potenza, non in atto » a). Il che dice essere « applicazione speciale ili una legge generale dello spirito. La qual legge si è, che la riflessione universalmente non si può cser- « citare, se non mediante il concorso del sensibile coirintelligibile » l). Ora di quale dell»* due riflessioni, già distinte da lui, parla il no- stro autore? Dell’ontologica: perchè dell’altra confessa che « il sen- sibile è l’oggetto medesimo dell'alto riflesso, onde la parola non en- ti Ira necessariamente nel suo esercizio, se non in quanto tal ri- ti flessione si connette colla riflessione ontologica; imperocché il sen- " sibilo per essere pensato non ha d’uopo di un altro sensibile, che « lo vesta e lo rappresenti » c). lo nè ammetto nè ripudio tale ra- gione: ma l'ammette il Gioberti certamente. Dunque a sola la ri- flessione ontologica è la parola necessaria. Perché? perchè « in os- ti sa il sensibile non è somministrato daH'oggello dell’operazione « il quale è il stdo intelligibile i d). Sla codesto e falso: è falso che oggetto dell’ ontologica riflessione sia il solo intelligibile, se- condo il Gioberti. Non ci ha egli appreso che « la riflessione on- « tologica, tramezzando fra le due altre operazioni (intuito e rides- ti sione psicologica), abbraccia congiuntamente il soggetto e l 'oggetto « c li contempla con un allo unico? » c); che nella riflessione Oli- ti tologica lo spirito si ripiega sovra di sé in quel punto indivisi- « bile, in cui il soggetto tocca l’oggetto , c abbraccia quindi l’og- « getto medesimo , come intuito dal soggetto? » f). Dunque non è l'intelligibile solo, l’oggetto della riflessione ontologica; ma è il soggetto eziandio, cioè il sensibile, oggetto della psicologica. Ma se questo non ha ili bisogno di sensibile, di parola, per essere ripen- salo; se non n'ha bisogno l’ intelligibile, Dio, intelligibile per se stes- so: come n'avrà bisogno il punto in che si congiungono si legano si toccano si combaciano Dio e l’uomo ? l’nione di due termini, l’uno intelligibile per sé, l’altro per l'intelligibile, unione di' è relazione intelligibile', perchè avrà d'uopo di sensibili, di segni, ad esser og- getto di riflessione ? n’ Krrnri i. p. '20 fi. JThi|I. 201). r\ hi p. ini. di Iti. e Krrori t. p. 136, [) Iti p. 201. ,.  Digitized by Google   59 Che se « prima di credere alla parola, bisogna intenderla » a); la parola a nulla servirà se non in quanto sia già in quel punto, unione, unità, eh e la cognizione. £ se altronde la cognizione dovrà esser vestila della parola , per diventar riflessione ; la veste dovrà insieme essere il vestito, perché riflessione si ottenga, cioè cogni- zione vera , come la chiama il Gioberti. Questa è una di quelle « soluzioni ed avvertenze » di cui non v’ ha « il menomo vesti- li gio » in altri sistemi prima del Giobcrliano li). Il che niuno vorrà negareDella unicertalilà ecientifica dellafarmolu ideale. Aimcoio punto. Prtamiolo. — L* formolo roiionale dee contenere I* organismo degli eie- menti ideali.—Per conoscere questa organizzazione, bisogna riscontrare essa forinola 1 coll albero enciclopedico.^-L’enciclopedia si compone di tre parti , filosofia, fisica e matematica, cko corrispondono alle tre membra della iormola.—Della filosofia in ispe- cicr si stende per tutta la formolo.—Dell* ontologia, psicologia , logica, etica e ma- tematica ; come si connettano coi rari termini di quella. — Tavola rappresentativa deiralbero enciclopedico, conforme alC organismo ideale.—Spiegazione generica del- la tavola. —Dello scienza ideale. —Della teologia rivelata e della filosofia.—Princi- pato universale della prima.—Maggioranza della seconda sulle altre scienze. — Primato dell'ontologia fra le varie discipline filosofiche ; necessario, acciò queste siano in fio- re. —Della teologia universale. . 7 Digitized by Google   Articolo secondo. Delia matematica. — La matematica tiene un lnogo mezzano tra la fi- losofìa e |a fìsica —Insufficienza della filosofia moderna, per dare una teorica soddi- sfacente del tempo c dello spazio. — Dichiarazione di queste due idee, c dell* oggetto loro, mediante la forinola ideale. 14 Articolo terzo. Della logica e (Iella morale. —Queste due scienze hanno ciò di comu- ne, che appartengono al termine medio della formolo. —Della logica in particolare, c delle varie sue parti — Dell* etica in ispccicr. — Dei due cicli creativi, e dei loro riscontri. — Convenienze, che corrono fra loro. — Della legge morale. — Dell* impe- rativo. — Del dovere, e del diritto. — Dei tre momenti dell’ imperativo. — Del mal morale, e del mal fisico, che ne conseguita. —Della pena eterna. 17 Articolo quarto. Della cosmologia. — Versa nel terzo membro della formolo. — Dei duo cicli generativi. —- Varie sintesi, di Cui si compongono. — Dell' ordine dell* universo. — Del concetto teleologico. — L* idea di fine ci è somministrata dal ciclo creativo. 26 Articolo quinto. DelCestetica. —Del sublime e del bello, t-Delle varie loro specie, e del modo in cui si connettono colla formolo. —Del inaraviglioso. 29 Articolo sesto. Della politica. — La politica moderna deriva dal psicologismo cartesia- no. — Quindi i suoi tizi. — Gli stateti odierni, non hanno veri principii, perché man- cano della cognizione ideale. — 1 difetti della teorica hanno luogo del pari nella pratica. —La civiltà moderna dee fondarsi su quella dei bassi tempi. —Dell* apof- tegma del Machiavelli, che le instituzioni si debbono filirare veto i loro principii. —In che senso sia vero..—Benefici influssi del Papato nella civiltà delle nazioni.— Di Cesare, institufore della tirannide imperiale. — Connessila della licenza colle dottrine di Lutero e del Descartes. — Della idealità delle nazioni. — L* Idea é fonte del diritto. —Attinenze del dovere col diritto, c delle varie specie loro. —Della sovranità. — La sovranità assoluta è 1* Idea. — Della sovranità relativa c ministeriale. — Non si trova in separato nel governo o nel popolo. —La società non è d’ instituzione umana, ma divina. —Cosi anche il potere sovrano. —Due doti essenziali di questo potere , intorno al modo, con cui si tramanda e perpetua di generazione in generazione. — For- inola della politica. —Assurdità del suffragio universale. —La capacità dee,accompa- gnare il potere sovrano; ma non basta a costituirlo. — Il potere sovrano dee essere indi- pendente dai sudditi. —La perfezione della sovranità consisto nell* unioqe del potere tradizionale colla sufficienza elettiva. — Il sovrano non può mai farsi da sé in nessun ca- so. — Ogni potere sovrano è divino. — Inviolabilità del potere sovrano. — Delle rivolu- zioni, e dello con’rarivoluzioni: che cosa si debba intendere sotto questi nomi. —Laverà rivoluzione, essendo 1* attentato contro una sovranità legittima, è sempre, illecita. — Lo stato politico di un popolo dee corrispondere a’ suoi ordini primitivi c anticati. —La mo- narchia é necessaria al di d* oggi alla libortà europea. — L' investitura della sovranità in una famiglia é inviolabile, corno il dominio privato. — Il potere ereditario, c la capacità elettiva importano del pari alla civiltà dei popoli. — Conformità della nostra sentenza colla dottrina cattolica intorno all* inviolabilità del potere sovrano. —1 fautori del- la licenza invertono la formula politica. 31 Asticolo settimo. Epilogo. —L* idea divina ó la suprema forinola enciclopedica'. — Universalità dell’ idea divina. — L* ontologismo non é un metodo ipotetico, corno quello dei psicologisti. — Iddio è 1* Intelligibile: é 1* alfa e 1* omega della scienza. —Si termina, riandando il primato dell’ idea divina nelle varie parti della filosofìa. Si Digitized by Google   CAPITOLO SESTO. Dtll'a conservazione dellaforinola ideale. La conservazione della forinola è opera della rivelazione. — Definizione di questa. — Suoi diversi periodi. — La confusione della filosofia colla religione nocquc in ogni tempo ab- la scienza ideale. —Analogia dei moderni razionalisti cogli antichi —Del razionali- amo teologico fiorente al di d’oggi. — Si divide in due parti. — Suoi fondatori. La cri- tica storica dei ra/ionalisti pecca per difetto di canonica. —Il razionalismo confondo insieme i rari ordini di fatti e di veri. — Sua vecchiezza. — Dei Doceti. — Il raziona- lismo è un vero naturalismo, i— Del sovrannaturale : sua definizione. — Necessità di esso, per l’ integrità dell’ Idea. — Possibilità e convenienza morale del miracolo. — Universalità dell’ ordino sovrannaturale. — L’Idea cristiana è universale, come l'Idea della ragione. — Nullità sintetica o filosofica dei moderni razionalisti. — Il Cristianesi- mo é la religione universale. — Non si può mettere in ischicra cogli altri culti. — Sua singolarità. —Le false religioni non distruggono l’ universalità del Cristianesimo. — Accordo di questo colla civiltà crescente di ogni tempo. -—Si confuta una sentenza del- lo Strausse. — Le false religioni sono lo sole, che debbano temere dei progressi civili. — Il Cristianesimo sovrasta, e non Sottostà alla coltura più squisita. — La civiltà moder- na, che lo combatte, è una barbarie attillata Delle prove interne della .rivelazione. — Sua medesimezza coll’ Idea perfetta. — La Chiesa è la parola esterna dell’ Idea. — La divinità della Bibbia risulta dalla perfezione dell' Idea, chfe vi è rappresentata. — O- scurità della Bibbia in alcune parti. — Sua mirabile semplicità, e sua differenza dai la- vori sincrctici dell' ingegno umano. — Concorso c predominio delle prove esterne od interne della rivelazione, secondo le varie ragioni. — Della inspirazione dei libri sacri. — Sua definizione, natura, estensione. — Si risolvono alcune obbiezioni dei razionali- sti. — L’ ermeneutica di questi si fonda in un falso metodo. — Etnografia della rivela- zione. — Della predestinazione degl’ individuile dei popoli. — Eccellenza delle nazioni e delle lingue semitiche. Dei popoli giapctici : loro divario dai Semiti. — Delle na- zioni madri. — Degl’Israeliti; conservatori dell’Idea perfetta, prima di Cristo. — Dei fati -del popolo ebreo. — Della scienza acroamatica ed essoterica. — Fondamento natu- rale, o universalità di questa distinzione. — Della ordinazione civile e religiosa degl' Israe- liti. — Oltre la dottrina pubblica, essi avevano una scienza secreta, acroamatica c tra- dizionale. — Ragioni, in cui si fondava questa 'distinzione presso il popolo eletto. — Il Cristianesimo rese essoterica la scienza acroamatica degl' Israeliti. — L’alternativa dcl- racroaraatismo c dclf essoterismo èia sola variazione, che si trovi nella storia dell' Idea rivelata. — Perchè Mosé non abbia insegnata espressamente i’ immortalità degli animi umani. — Gli Ebrei non tolsero dagli stranieri la loro angelologia e il dogma della ri- surrezione. — Del sensismo proprio dei razionalisti.’— Falsità del loro metodo nel cer- care 1’ origine delle idee e delle credenze. — Attinenze reciproche della dottrina esso- terica. — Differenze, che correvano, per questo rispetto, fra gl' Israeliti c i Gentili. — Del fìguralismo ebraico. — Non è un trovato recente degl’ Israeliti ellenisti. — Falso concetto dato dal sig. Salvador delle iustituzioni mosaichc. — La furinola idea- le e il telegramma , erano il nesso della scienza acroamatica ed essoterica presso gl* Israeliti. Gl • 203 Digitized by Google  CAPITOLO SETTIMO. Dell' alterazione dellaformolo ideale. La barbarie non fu lo stato primitivo dogli uomini.*—La storia delle religioni tion comincia dal sensismo, — Per quali cagioni diminuisse, o si spegnesse presso molti popoli la cultura primitiva. —Vicende civili delle nazioni. —Del patriarcato. —- Dello stato castale : sua origine. — Del predominio dei sacerdoti : sua legittimità. — Genio religioso delle società costituite sotto 1’ imperio ieratico. —'I sacerdoti autori principali della civiltà risorgente. —Effetti salutari della loro influenza nelle colonie antiche e moderne. —Il sacerdozio conservò le reliquie dell’ antica dottrina acroamatica ; fondò 1* essoterica. — In che modo la mitologia .é la simbolica potessero esser- opera della moltitudine. — La riforma ieratica dell’ acroamatismo produsse la filosofìa. — Vari indirizzi della fi- losofìa gentilesca.—Riscontri . dell’antico c del nuovo paganesimo. —Vari gradi, per cui passò l' alterazione della forinola ideale', oscurità, confusione, dimezzamento e disorga- nazione.— Cagioni dell’ alteramente : predominio del senso e della fantasia; influenza del linguaggio sull’idea, e dell’ essoterismo sull’ acroamatismo ; dispersione dei popoli, perdita dell’unità universale. — Del culto dei fetissi. Di un doppio moto contrario, re- gressivo e progressivo, delle instituzioni religiose.—Esempi.—Quattro epoche della co- gnizione ideale: intuitiva, immaginativa, sensitiva e oslrattiva.-»-Se nel vario e succes- sivo alterarsi della forinola, si mantengano i suoi tre membri, e come? Tavola delle trasformazioniontologichedellafòrmolaideale, corrispondentiaivaristatipsicolo- gici dello spirito umano. —Dichiarazione della tavola. —Dell’ epoca intuitiva; corno 1' uomo ne sia scaduto. —Il mal morale consisto nella negazione del secondo ciclo crea- tivo.— Dei mezzi sovrannaturali per conservare lo stato intuitivo. —L'essoterismo fu l’oc- casione della perdita di esso. — Dell’ epoca immaginativa. — Del naturalismo fanta- stico c dell’ cinanatismo propri di questa epoca. — Indole poco scientifica dell’ ema- natismo. — Sua forinola. —w Due sorti d’ emanatismo : psicologico e cosmologico. — Dottrina dinamica degli cmanatisti. — Della loro dualità primordiale, e delle dualità successive. — Dell’ androginismo , e delle dee madri ; loro connessione coll’ emanati- smo. I fautori di questo sistema confondono la teogonia colla cosmogonia. — Del Kincrctisino emanatistico. — Dei due cicli di tal dottrina: 1’ emanazione. *— Del ciclo remanativo: sua natura. —Corrompe la morale, c introduce il pessimismo. —Delle varie età cosmiche, secondo i miti di molti popoli Gentili. — come 1’ ottimismo c il pessimismo si accozzino insieme nel sistema degli em&ftatisti. —Degli aratori, della teofanie o logofanie permanenti e successive, e delle apoteosi. —Come il sovrintelli- gibile si trovi alterato fra queste favole. —Del politeismo; nato dall’ emanatismo. Sua indole, e sue varie forine. —Tutti i popoli politeisti conservano una reminiscen- za della unità ideale. — Dell’ idolatria : sua natura. — Del panteismo: ò una riforma ieratica dell’ emanatismo. —Il panteismo scientifico non potè essere il primo sistema nella via dell’ errore. — 1/ emanatismo e il panteismo sono sostanzialmente una mede- sima dottrina, l’uno sotto una forma fantastica e poetica, l’altro sotto una forma scientifica. —Proprietà speciali del panteismo. —Universalità del panteismo nel re* gnu dell’ errore. —Tutti i falsi sistemi vi si riferiscono. —Qual sorta di progresso possa avero Terrore. —Varie forme del panteismo* —Della condizione del sacerdozio i ——  201 Digitized by Google   dopo la rovina dello stato castale. —Dei Misteri, da cui uscì la filosofia laicale.— Dell’ateismo. —Questo sistema non potò essere anteriore al secondo periodo della fi- losofia secolaresca. —Si rigetta l! opinione di un ateismo indico antichissimo —Del sovrintelligibile. —Serbato in parte dai sacerdoti, o perduto affatto da' laici filosofan- ti, salvoclié dalle tre scuole mezzo ieratiche dell’ Italia e della Grecia. —Dei tentati- vi antichi c moderni, per riedificare umanamente il sovrintelligibile. —Si conchiude, accomando brevemente il tenia del secondo libro NOTE. IQS Nota prima. Sulle denominazioni moderne dell* Io e del Me. 159 , 160 16.1 164 I6l> & Di alcune dottrine erronee sulla bontà e pravità degli atti umani. 166 Errori di un giornalista francese sull’ amor di Dio. IL IL ÌL L IL Del tempo e dello spazio, secondo il processo ontologico. Passi del Leibniz e del Malebranche sul tempo e sullo spazio. Della importanza, che la religione dà alla vita temporale. Degli attributi divini ontologicamente considerati. 7j IL £. liL LL 14. 15. Ifii 12. 18. liL 11L 2Qi 2 1 . 22. 23. 24. 25. 26. 22. 21L Influenza della colpa primitiva in tutte le parti del pensiero e dell'aziono umana. 172. Dei vari sistemi sulla natura delle esistenze. IL Sull*infinità del mondo. 173 Sugli assiomi di finalità o di causalità. 174 Se l'abolizione della schiavitù e del servaggio si debba attribuire al Cristia- nesimo? Sull’origine della sovranità in alcuni casi particolari. Dell'orgoglio civile. Sui diversi modi, con cui si può dimostrare l’esistenza di Dio. L'idea di Dio non è solamente negativa. I7(i 112 178 179 IL 180 18J bit. Sulla voce rivelazione. Di varie spezie del razionalismo teologico. Dei miracoli posteriori allo stabilimento del Cristianesimo. Passo del Malebranche sull’idealità del Cristianesimo. Passo del Leibniz sulla rivelazione. . Sulla credenza antichissima dei Samaritani nella risurrezione dei morti. Si esamina la dottrina filosofica dello Schleiermacher c dello Strausse sull’ esi- stenza degli angeli. I razionalisti confondono la dottrina acroamatica colla essoterica. Sul fatto di Babele. . Del sincretismo dei falsi culli, doma, mito e simbolo zendico, ISci culti barbari l’ Idea è esclusa dalla religione, c non dalla scienza umana. 19^ Gioberti. Iniroduz. Voi. III. ‘Hi * « IL 1112 IL IL * 182 184- Jb. 18J Digitized by Google   206 29. 30. 31. 32. 33. 1/antropomorfismo e il psicologismo essoterico. 194 Del panteismo di Ulrico Zuinglio. 195 Passi dello Spinoza conformi alle dottrine del razionalismo teologico. 19ti Sul psicologismo degli eretici. Ib. Convenienze della dottrina pclagiana col sensismo, col psicologismo e col fa- talismo.DELLA DECLIAAZIOSE DAGLI SITUI SPECl'LATIV I, I* OHUISE ALL' UGGETTO. Della Idea. — È primitiva, indimostrabile, evidente, e certa per sé stessa. — Necessità della parola . per determinare c ripensare l'Idea. — 1 progressi della cognizione ideale rispondono alla per- fezione dello strumento, con cui si lavora, cioè della parola. — Il linguaggio fu inventato dall' Idea, clic parlò sè stessa. — 1/ evi- denza c la certezza riflessiva abbisognano della parola. — Il sen- sibile è necessario per poter ripensare l’intelligibile. — L'Idea è l’unità organica, la forza motrice, e la legge governatriec del genere umano. — L'Idea è l’anima delle anime, l'anima della società universale. — Ella può oscurarsi, ma non ispegnersi affatto. — Del suo primo oscuramento, e degli effetti, clic ne seguirono. — Perdita dell’ unità ideale , c morte morale del genere umano. — Diversità delle stirpi. — Dell’ instaurazione sovrannaturale dell’ unità primitiva. — Del genere umano secondo l'elezione, sostituito al genere umano, secondo la natura. — La Chiesa è la riordinazionc elettiva c successiva del genere umano. — Vicende storiche della Chiesa. — Colla perdita dell’ unità ideale venne meno al genere umano la sua infallibilità,chepassònellaChiesa.—Quandoil genereumano riacquisterà questo privilegio. — Chi è fuori della Chiesa, è fuori del genere umano. — Composizione organica della Chiesa. — La , Digitized by Google   474 TAVOLA E SOMMARIO. Chiesa c conservatrice e propagalrice dell’ Idea : unisce il prin- cipio della quiete a quello del molo. — Delle forinole definitive della Chiesa. — Della scienza ideale, razionale e rivelata. — Attinenze reciproche di queste due parti. — La scienza razio- nale, o sia la filosofia, si distingue in due grandi epoche, ciascuna delle quali corrisponde a una rivelazione. — Il nesso fra la rivelazione e la filosofia è la tradizione. — I.’ alteramente della tradizione, e quindi della verità, fu nella sua origine una confusione delle lingue. — L* effetto di questa confusione fu il gentilesimo. — L’organizzazione ecclesiastica è la sola via, con cui si possa conservare intatta la tradizione. — Della Chiesa giudaica, c della sua diversità dalla cristiana. — La filosofia gentilesca avea colla rivelazione primitiva una relazione diversa da quella, che corre tra la filosofia cristiana c la rivelazione evan- gelica. — Due tradizioni, religiosa c scientifica. — Due classi di sistemi filosofici; gli uni tradizionali e ortodossi; gli altri anli- tradizionali ed eterodossi. — I primi suddividonsi in progressivi, cregressivi.—Qualitàprincipali,percuii sistemieterodossisi distinguono dagli ortodossi. — La filosofia ortodossa è perpetua. — Vari modi, con cui i sistemi eterodossi possono rompere il filo della tradizione. —Tre.età della filosofia cristiana. —Dell’età moderna.—Delpsicologismo: definizionediesso,edell'onto- logismo, che gli è contrario. — Il psicologismo è l'eterodos- sia moderna delle scienze filosofiche. — Renato Descartes è il suo fondatore ; gran matematico , meschinissimo filosofo. — Paralogismi puerili del suo metodo. — Presunzione intollerabile del suo assunto e delle sue promesse. — Cagioni, per cui il Car- tesianismo invalse, ed ebbe una certa voga. — Due dottrine c due letterature in cospetto P una dell’altra, tra il secolo decimoquiuto c il sedicesimo. — Abusi e disordini, che allora regnavano. — Necessità di una riforma’ cattolica. — Tre riforme eterodosse ; due religiose, la terza filosofica. — Il tedesco Lutero, e l'italiano ocino, autori delle due prime; il francese Descartes, della terza. — Vizi della Scolastica, che prepararono gli errori più moderni. — Analogia del metodo protestante col metodo cartesiano. — Il Descartes non liberò la filosofìa, come oggi si crede, ma la ridusse Digitized by Google  TAVOLA E SOMMARIO. WS in scrvilu. —Contraddizioni ridicole della sua dottrina. —Il Descartes non somiglia a Socrate pel metodo, ne a Platone per la teoricadelleideeinnate.—Vizidelpronunziatocartesiano: io pento, dunque tono. — Il sensismo nc è la conseguenza. — Assur- dità del sensismo. — Il predominio del sensismo ha impicciolita — la filosofia moderna. — Danni recati da esso agli studi storici. — La religione è la chiave della storia. — La filosofia nata dal ('.ar- tesianismo si divide in cinque scuole. — Del razionalismo psico- logico diverso dall’ ontologico. — Due classi di filosofi francesi. — Di alcuni eclettici francesi in particolare. — Si annoverano i diversi vizi e inconvenienti dell' eclettismo, e quelli del psicolo- gismo. — Obbiezioni dei psicologisti : risposta. — Del senso ontologico. — L'ontologismo è conforme all’ indole e al processo del Cristianesimo. — llicpilogazioue delle cose dette in questo capitolo. CAPITOLO QUARTO. (IELLA FOIJIOLA IDEALI. I Che cosa s’intende per forinola ideale. — Metodo, che l’autore si propone di tenere in questa ricerca. — Del Primo psicologico ontologico c filosofico. Il Primo filosofico abbraccia i due altri. — Varie dottrine sul Primo psicologico e ontologico. — Teorica di Antonio Rosmini intorno al concetto dell’ente consideralo, come Primo psicologico : si riduce a quattro capi. — Critica del sistema rosminiano : il Primo filosofico è l’Ente reale. — L'Ente reale è astratto e concreto, generale e particolare, individuale e universale nello stesso tempo. — La filosofia moderna erra spesso, mutando il concreto in astratto. — Vari generi di astrazione c di compo- — sizione. — Il Primo filosofico contiene un giudizio. — Doti spe- ciali di questo giudizio : 1° consta di un solo concetto, che si replica su se stesso ; 2° è obbiettivo, autonomo e divino, vale a dire, che il giudicante è identico al giudicalo. — Il giudizio di- ,-   476 TAVOLA E SOMMARIO, vino essendo il primo anello della filosofia, questa è una scienza divina e non umana nel suo principio. — Il giudizio divino, con- tenuto nel Primo filosofico , non basta a costituire la forinola ideale. — Ricerca di un altro concetto per compiere la formola. — Della nozione di esistenza : analisi del concetto e della parola. — Egli è impossibile il salire logicamente dal concetto dell’ esis- tenza a quello dell' Ente. — Bisogna adunque discendere dal con- cetto dell' Ente a quello di esistenza.— Necessità di un concetto in- termedio per effettuar questo transito nel processo discensivo. — L’idea di creazione è il legame tra le due altre. — Obbiezioni controdiessa: risposta.—IIprocessopsicologicocorrispondeall’ ^ontologico. — Lo spirito umano è spettatore continuo, diretto e immediato della creazione. — L'idea di creazione contiene un fatto primitivo c divino, che è il primo anello delle scienze fisiche e psicologiche; quindi tutta l’ umana enciclopedia è divina nel suo principio. — Compimento della formola ideale. —- Altro giudizio contenuto in essa formola. — Distinzione c inseparabilità psico- logica dell’Ente e dell’esistente. — Del vero ideale e del fatto ideale.—Obbiezionecontroil nostroprocessoideale:risposta. — Dell’ organismo ideale. — Problemi metafisici, che non si pos- sono risolvere , se non colla nostra formola , e ne confermano la verità. — 1° Del necessario c del contingente. — 2“ Dell’ intelli- gibile. — 3° Dell’ esistenza dei corpi. — Cattivo metodo di molti filosofi nel combattere l’idealismo. — 1° Dell’ individuazione. — !i° Dell’ evidenza c della certezza. — Possibilità del miracolo provata a priori. — Nuove obbiezioni contro la formula ideale : risposta. — 6° Dell’ origine delle idee. — Vari sistemi dei filosofi su questo punto. — Critica della dottrina rosiniuiana, che tulle le idee nascano da quella dell’Ente, per via di generazione. Esposizione sommaria della nostra dottrina sull’origine delle idee : si riduce a tre capi. — Convenienza della nostra dottrina con un pronunzialo del Vico. — 7° Dei giudizi analitici c sinte- tici. — Esposizione della nostra dottrina sulle varie classi di giu- dizi sintetici. — 8° Della natura del raziocinio. — Cenni su altre quislioni, che si attengono alla nostra formola. — L’aver dis- messa o trascurata l’idea di creazione è la causa principale degli ^ —  Digitized by Google   TAVOLA E SOMMARIO. 477 orrori filosofici. — Vane promesse ilei moderni eclettici, c flebo- — lezza della filosofia presente. — Per ristorarla, bisogna abolire il psicologismo. — Il Cristianesimo rinnovò la forinola ideale. — Ili santo Agostino : sue lodi : fondò la scienza ideale. — Della scienza ideale cattolica : sue prerogative. — Degli Scolastici : loro difetti. — Del nominalismo e sua influenza sinistra nel rea- lismo. — In che consista il perfetto realismo. — Si critica il principio fondamentale di Cartesio colla scorta della formola ideale. — Di Benedetto Spinoza. — Tre epoche della filosofia te- desca. — L’ontologismo dei panteisti tedeschi è solo apparente. — Critica del loro sistema. — Vizi del panteismo in generale. — Convenienze del panteismo coll' eterodossia religiosa, e in ispecie colle opinioni ilei protestanti, c con quelle degli Ebrei, dopo la divina abrogazione del loro culto. 1 44» prima.. II. 4. 9. 0. 7. 8. 9. 10. 11 . 12. 13. 11 . 19. 10. Le sensazioni sono segni delle cose. Passo del Leibniz sul nesso del pensiero colla parola. 279 Sulla base ontologica della veracità. 281 Indivisibilità morale ilei Papa c della Chiesa. 282 Sullamutabilitàdelvero,secondoi panteisti. 283 Sulla universalità logica dell’errore. 285 Passo dello Spinoza sull’ ontologismo. 283 Passo del sig. Cousin sul psicologismo del Descartes. 28(1 Giudizio del Leibniz su Cartesio c sulla sua dottrina. 287 Del valore del Descartes nelle scienze fisiche. 28S Parere di Cartesio sulla speculativa dei matematici. 292 Passo del Mcujot su Cartesio. Ih. Dei furti letterari del Descartes. 293 Esame dello scetticismo cartesiano. 293 Passo dell' Aucillon sullo stile del Descartes. 29!) Della presunzione e dell’ arroganza del Descartes. 300 NOTE. 277 Digitized by Google   478 17. 18. 19. 20. 21. 22. 23. 24. 23. 26. 27- 28. 29. 30. 31. 32. 33. 34. 33. 36. 37. 38. 39. 40. 41. TAVOLA E SOMMARIO. ^ Sopra una sentenza del Vico. .706 A che e (Trito i capi della Riforma scemassero il sovrin- telligibile rivelalo. 307 Che gl’italiani hanno l’ingegno scultorio. Ib. Divario tra i Sociniani e i moderni razionalisti. Ib. Esamedell’opinionediCartesiointornoalsuorogito. 308 Sul IVo di Lutero. 328 Sul circolo vizioso del Descartes. 329 Esame dell’opinione cartesiana, che Iddio possa mu- tare le essenze delle cose. 333 Vera idea della filosofia socratica c platonica. 314 Sulle idee innate del Descartes. 343 Sopra una sentenza del Thomas. 316 Passo del Leibniz sul Cogito di Cartesio. 317 Il secolo attuale continua il precedente. Ib. Passo dello Stewart sulle sciocchezze dei filosofi. 348 Passo del sig. Cousin sugli studi forti. Ib. Sulla religione di Napoleone. 349 Critica di due opinioni del sig. Jouffroy. 331 Il sig. Cousin non conosce il sistema del Malebranche. 361 Quando nacque la filosofia moderna , secondo il sig. Cousin. 366 Dell’ ontologismo cristiano. 367 Vari passi del Malebranche sulla visione ideale. 369 Si esamina la dottrina del Rosmini sulla visione ideale. 377 Capitolo primo. L’ente ideale del Rosmini è insussis- tente, benché non sia subbiellivo. Capitolo secondo. L’ente ideale del Rosmini è obbiet- tivo c assoluto, benché si distingua da Dio. Tassi di san Bonaventura c di Gersonc sulla visione ideale. 444 Medesimezza del concreto c dell’astratto, dell'indivi- dualeedelgeneralenell’ordinedellecoseassolute. 132 Passi del Malebranche e ilei Leibniz sull’ eloquio ideale. •* 433 Digitized by Google   TAVOLA E SOMMARIO. 479 42. Sulla confusione dell’ essere coll’ esistere. 4556 13. / l’asso del Vico sul divario, che corre fra le voci 44. 43. 16. 47. 48. 49. 30. 31. 32. 33. I I essere ed esistere, e sull’ uso improprio, che ne fa il Descartes. tb. Passi del Descartes, in cui questo filosofo sinonimo l ’ essere coll’ esistere. 437 Sulla voce esistenze adoperata nella formula. 439 Sulle nozioni del necessario, del possibile, del con- tingente, e sui principii, che ne derivano. Ib. Della dualità ideale. 462 Passo del Malebranche sulla impossibilità di di- mostrare l’esistenza dei corpi. 463 Sulle convenienze del sistema cartesiano collo Spi- nozisrno. 464 Passo del Leibniz sullo stesso proposito. 468 Sopra due obbiezioni del Paulus contro il sistema dello Spinoza. Ib. Cenno sulle tradizioni panteistiche dei Rabbini. 471 Di una opinione dell' Hegel tolta dal Leibniz.DELIA LNIAERSALITA SCIENTIFICA DELI A FORMULA IDEALE. Articolo primo. Preambolo. — La forinola razionale dee contenere l'organismo degli clementi ideali. — l’er conoscere questa orga- nizzazione, bisogna riscontrare essa forinola coll'albero enciclo- pedico. — L'enciclopedia si compone di tre parti, filosofìa, fìsica e matematica, che corrispondono alle tre membra della forinola. — Della filosofia in ispecie : si stende per tutta la forinola. — Dell’ ontologia, psicologia, logica, elica c inaleinatica ; coinè si connettano coi vari termini di quella. — Tarala rappresenlalira dell’ albero enciclopedico, confórme all’ organismo ideale. — Spiegazione generica della tavola. — Della scienza ideale. — Della teologia rivelata e della filosofia. — Principato universale della prima. — Maggioranza della seconda sulle altre scienze. — Pri- mato dell’ontologia fra le varie discipline fìlusoGchc; necessario, acciò queste siano in fiore. — Della teologia universale. I Articolo secondo. Della malemalica. — La inatcmalica tiene un luogo mezzano tra la filosofia c la fisica.— Insufficienza della filo- sofia moderna, per dare una teorica soddisfacente del tempo e dello spazio. — Dichiarazione di queste due idee, c dell’ oggetto loro, mediante la furinola ideale. 17 Articolo terzo. Della logica c della morale. — Queste due scienze hannociòdicomune,cheappartengonoal terminemediodella Digifeed by Google   400 TAVOLA E SOMMARIO. forinola. — Della logica in particolare, e delle varie sue parti. — Dell’ etica in ispccie. — Dei due cicli creativi, e dei loro riscon- tri. — Convenienze, ebe corrono fra loro. — Della legge morale. — Dell’ imperativo. — Del dovere, e del diritto. — Dei tre mo- menti dell’ imperativo. — Del mal morale, e del mal lisico, che ne conseguita. — Della pena eterna. 23 Articolo qlarto. Della cosmologia. — Versa nel terzo membro della forinola. — Dei due cicli generativi. — Varie sintesi, di cui si compongono. — Dell’ordine dell’ universo — Del concetto te- leologico. — L’ idea di fine ci è somministrata dal ciclo creativo. 43 Articolo qlirto. Dell' estetica. — Del sublime e del bello. — Delle varie loro specie, c del modo, in cui si connettono colla for- inola. — Del maraviglioso. 32 Articolo sesto. Della politica. — La politica moderna deriva dal psicologismo cartesiano. —Quindi i suoi vizi. —Gli statisti odierni non hanno veri principii, perchè mancano della cogni- zione ideale. — I difetti della teorica hanno luogo del pari nella pratica. — Del governo rappresentativo. — Originato dal Cristia- nesimo; vizialo dall’eresia e dai cattivi filosofi. — Due sistemi dilibertàpolitica: l’unoeterodosso,cl’altroortodosso.—Suc- cessione storica del sistema ortodosso. — La libertà licenziosa e il dispotismo sono due dottrine recenti c sorelle. — Gloriose me- morie della seconda epoca del medio evo. — La civiltà moderna dee fondarsi su quella dei liassi tempi. — Dell’ apoftegma del Ma- chiavelli,chele«istituzionisidebbonoritirareversoi loroprin- cipii. — In che senso sia vero, — Rendici influssi del Papato nella civiltà delle nazioni. — Danni fatti alla medesima dall’ Imperio. — Di Cesare, institutore della tirannide imperiale. — Conuessità della licenza c del dispotismo colle dottrine di Lutero e del Des- cartes. — Della idealità delle nazioni. — L’ Idea è fonte del di- ritto. — Attinenze del dovere col diritto, e delle varie specie loro. — Della sovranità. — La sovranità assoluta è l’Idea. — Della sovranità relativa e ministeriale. — Non si trova in sepa- rato nel governo o nel popolo. — La società non è d’ «istituzione umana, ma divina. — liosì anche il potere sovrano. Due doti essenziali di questo potere, intorno al modo, con cui si tramanda Digitized by Google   TAVOLA E SOMMARIO. 461 c perpetua di generazione in generazione. — Forinola della poli- tica. — l.a Immissione della sovranità dee essere proporzionala alla partecipazione della scienza ideale. — Se tutti i cittadini pos- sano partecipare ai diritti politici? Assurdità del suffragio uni- versale. — l.a capacità dee accompagnare il potere sovrano; ma non basta a costituirlo. — Il potere sovrano dee essere indipen- dente dai sudditi. — l.a perfezione della sovranità consiste nell' unione del potere tradizionale colla sufficienza elettiva. —Dei due cicli generativi della politica. — 11 sovrano non può inai farsi da se in nessun caso. — Della distribuzione della sovranità fra i cittadini. — Ogni potere sovrano è divino. — Nello stato primitivo delle nazioni la sovranità non è mai posseduta da uno opochissimiindividui,nèpareggialafratullii cittadini.—In- violabilità del potere sovrano. — Delle rivoluzioni, e delle con- trarivoluzioni: checosasidebbaintenderesottoquestinomi.— La vera rivoluzione, essendo l’attentato contro una sovranità le- gittima, è sempre illecita. — La vera contrarivoluzione c onesta, se non è violenta c tumultuaria. — Lo stato politico di un popolo dee corrispondere a’ suoi ordini primitivi e anticali. — La mo- narchia è necessaria al dì d'oggi alla libertà europea. — L'inves- titura della sovranità in una famiglia è subordinata alla salute pubblica. — È inviolabile, come il dominio privato. — Il potere ereditario, e la capacità elettiva importano del pari alla civiltà dei popoli. — Delle corti. — Conformità della nostra sentenza colla dottrina cattolica intorno all’ inviolabilità del potere sovrano. — 1 fautori della licenza c del dispotismo invertono le due forinole politiche corrispondenti ai due cicli ideali. !56 Articolo settimo. Epilogo. — L’idea divina è la suprema forinola enciclopedica. — Universalità dell’ idea divina. — L’ontologismo non è un metodo ipotetico, come quello dei psicologisti. — Iddio è l'Intelligibile : è l’alfa e l’omega della scienza. —Si termina, riandando il primato dell’ idea divina nelle varie parti della filo- sofia. 144 Digitized by Google   r 402 TAVOLA E SOMMARIO. CAPITOLO SESTO. de.i.la ccmsEavAziosz deli,a rutmm.A ideale. La conservazione della forinola è opera della rivelazione. — Defini- zione di questa. — Suoi diversi periodi. — La confusione della filosofia colla religione nocque in ogni tempo alla scienza ideale. — Analogia dei moderni razionalisti cogli antichi. — Del razio- nalismo teologico fiorente al di d’oggi. —Si divide in due parti. — Suoi fondatori. La critica storica dei razionalisti pecca per di- fetto di canonica. — Il razionalismo confonde insieme i vari or- dini di fatti e di veri. — Sua vecchiezza. — Dei Doceti. — Il razionalismoèunveronaturalismo.—Delsovrannaturale: sua definizione. — Necessità di esso, per l’integrità dell’ Idea. — Pos- sibilità e convenienza morale del miracolo. — Universalità dell’ ordine sovrannaturale. — L’Idea cristiana è universale, come l’Idea della ragione. — Nullità sintetica c filosofica dei moderni razionalisti. — Il Cristianesimo è la religione universale. — Non si può mettere in ischiera cogli altri culti. — Sua singolarità. — Le false religioni non distruggono l’universalità del Cristiane- simo. — Accordo di questo colla civiltà crescente di ogni tempo. — Si confuta una sentenza dello Strausse. — Le false religioni sono le sole, che debbano temere dei progressi civili. — Il Cris- tianesimo sovrasta, e non sottoslà alla coltura più squisita. — La civiltà moderna, che lo combatte, è una barbarie attillata. — Delle prove interne della rivelazione. — Sua medesimezza coll’ Idea perfetta. — La Chiesa è la parola esterna dell’ Idea. — La divinità della Bibbia risulta dalla perfezione deli’ Idea, che vi è rappresentata. — Oscurità della Bibbia in alcune parti. — Sua mirabile semplicità, e sua differenza dai lavori smerdici dell’ in- gegno umano. — Concorso c predominio delle prove esterne od interne della rivelazione, secondo le varie ragioni. — Della inspi- razione dei libri sacri. — Sua definizione, natura, estensione. — Si risolvono alcune obbiezioni dei razionalisti. — L’ ermeneutica Digitized by Google   TAVOLA E SOMMARIO. 463 di questi si fonda in un falso metodo. — Etnografia della rivela- zione. — Della predestinazione degl’ individui c dei popoli. — Eccellenza delle nazioni e delle lingue semitiche. — Dei popoli giapetici : loro divario dai Semiti. — Delle nazioni madri. — Degl’ Israeliti ; conservatori dell' Idea perfetta, prima di Cristo. — Dei fati del popolo ebreo. — Della scienza acroamatica ed esso- terica. — Fondamento naturale, e universalità di questa distin- zione.—Della ordinazione civile e religiosa degl’ Israeliti. — Oltre la dottrina pubblica, essi avevano una scienza secreta, acroamatica e tradizionale. — Ragioni, in cui si fondava questa distinzione presso il popolo eletto. — Il Cristianesimo rese esso- terica la scienza acroamatica degl’ Israeliti. — L’ alternativa dell’ acroamatismo e dell' essoterismo è la sola variazione, che si trovi nella storia dell’ Idea rivelata. — Perchè Mosè non abbia inse- gnata espressamente l’ immortalità degli animi umani.—Gli Ebrei non tolsero dagli stranieri la loro angelologia, e il dogma della ri- surrezione. — Del sensismo proprio dei razionalisti. — Falsità del loro metodo nel cercare l’origine delle idee e delle credenze. — Attinenze reciproche della dottrina essoterica. — Differenze, che correvano, per questo rispetto, fra gl' Israeliti e i Gentili. — Del figuralismo ebraico. — Non è un trovato recente degl’ Israeliti ellenisti. — Falso concetto dato dal sig. Salvador delle institu- zioni mosaiche. — I,a formola ideale e il letragramma, erano il nesso della scienza acroamatica ed essoterica presso gl’ Israeliti. 1ì>5 CAPITOLO SETTIMO. OEll’ ALTERAZIONE (IELLA EOREOLA IDEALE. lai barbarie non fu lo stato primitivo degli uomini. — La storia delle religioni non comincia dal sensismo. — Per quali cagioni diminuisse, o si spegnesse presso molti popoli la cultura primi- tiva. — Vicende civili delle nazioni. — Cinque forme successive di stato e di reggimento politico. — Anomalie storiche nell’ effet- Digitìzed by Google  404 TAVOLA E SOMMARIO. luazione di esse. — Del patriarcato. — Dello stato castale : sua origine. — Del predominio dei sacerdoti : sua legittimità. — Genio religioso delle società costituite sotto l'imperio ieratico. — I sacerdoti autori principali della civiltà risorgente. — Effetti salutari della loro influenza nelle colonie antiche e moderne. — Il sacerdozio conservò le reliquie dell’antica dottrina acroamatica fondò l’essoterica. — In che modo la mitologia e la simbolica po- tessero esser opera della moltitudine. — La riforma ieratica dell’ acroamatismo produsse la filosofìa. — Vari indirizzi della filoso- fìa gentilesca. — Riscontri dell' antico e del nuovo paganesimo. — Vari gradi, per cui passò l’alterazione della formola ideale : oscurità , confusione , dimezzamento e disorganazione. — Ca- gioni dell' alteramente : predominio del senso e della fantasia ; influenza del linguaggio sull’idea, c dell’ essoterismo sull' acroa- matismo ; dispersione dei popoli, e perdita dell’ unità universale. — Del culto dei felissi. — Di un doppio moto contrario, regres- sivo e progressivo, delle instituzioni religiose. —Esempi. — Quattroepochedellacognizioneideale: intuitiva,immaginativa, sensitiva e astrattiva. — Se nel vario e successivo alterarsi della formola, si mantengano i suoi tre membri, c come?— Tavola delle trasformazioni ontologiche della formolo ideale, corfispondenti ai rari stati psicologici dello spirito umano. — Dichiarazione della tavola. — Dell'epoca intuitiva; come l’uomo ne sia sca- duto. — Il mal morale consiste nella negazione del secondo ciclo creativo. — Dei mezzi sovrannaturali per conservare Io stato in- tuitivo. — L’essoterismo fu l’occasione della perdita di esso. — Dell’ epoca immaginativa. — Del naturalismo fantastico c dell’ emanatismo propri di questa epoca. —Indole poco scientifica dell’ emanatismo. — Sua formola. — Due sorti d’ emanatismo : psicologico e cosmologico. — Dottrina dinamica degli emanatisti. — Della loro dualità primordiale, c delle dualità successive. — Dell’ androginismo, e delle dee madri ; loro connessione coll’ ema- natismo. — I fautori di questo sistema confondono la teogonia colla cosmogonia. — Del sincretismo emanatistico. — Dei due cicliditaldottrina: l’emanazione.—Delcicloremanativo: sua natura. — Corrompe la morale, e introduce il pessimismo. — ;  Digitized by Google   TAVOLA F. SOMMARIO. 16S Pelle varie età cosmiche, secondo i inili di molti popoli Gentili. — Come l’ ottimismo e il pessimismo si accozzino insieme nel sistema degli emanalisti. —Degli «talari, delle teofanie o logo- fanie permanenti e successive, e delle apoteosi. — Come il sovrin - telligibile si trovi alterato fra queste favole. — Del politeismo; nato dall'emanatismo. — Sua indole, e sue varie forme. — Tutti i popolipoliteisticonservanounareminiscenzadellaunitàideale. — Dell' idolatria : sua natura. — Pel panteismo : è una riforma ieratica dell’ einanatismo. — Il panteismo scientifico non poli- essere il primo sistema nella via dell’ errore. — L’emanatismo e il panteismo sono sostanzialmente una medesima dottrina, l’uno sotto una forma fantastica e poetica, l’altro sotto una forma scientifica. — Proprietà speciali del panteismo. — Universalità del panteismo nel regno dell’errore. — Tutti i falsi sistemi vi si riferiscono. — Qual sorta di progresso possa avere Terrore, — Varie forme del panteismo. — Della condizione del sacerdozio dopo la rovina dello stato castale. — Dei Misteri, da cui usci la filosofia laicale. — Dell’ ateismo. — Questo sistema non potè es- sere anteriore al secondo periodo della filosofia secolaresca. — Si rigetta l’ opinione di un ateismo indico antichissimo. — Pel so- vrintelligibile. — Serbato in parte dai sacerdoti, c perduto affatto da' laici filosofanti, salvocliè dalle tre scuole mezzo ieratiche dell’ Italia c della Grecia. — Pei tentativi antichi c moderni, per rie- dificare umanamente il sovrintelligibile. — Si conchiude, accen - nando brevemente il tema del secondo libro. 239 NOTE. Nota prima. Sulle denominazioni moderne dell’ lo c del Ile. 379 2. 3. ut. Del tempo c dello spazio, secondo il processo ontolo- gico. 380 Tassi del Leibniz e del Malebranche sul tempo e sullo spazio. 30 380 Digitized by Google   ICO 4. 8. G. 7. 8. 9. 10. 11. 13. 13. 14. 18. 16. r* i* p £ 2L. 22. 23. 24. 28. 2G. 37. 28. TAVOLA E SOMMARIO. Della importanza, che la religione dà alla vita tempo- rale. .188 Degli attributi divini ontologicamente considerati. 190 Di alcune dottrine erronee sulla bontà e pravità degli atti umani. .191 Errori di un giornalista francese sull’ amor di Dio. 393 influenza della colpa primitiva in tutte le parti del pensiero e dell’ azione umana. 405 Dei vari sistemi sulla natura delle esistenze. 4M Sull’ infinità del mondo. 406 Sugli assiomi di finalità e di causalilà. 407 Del traffico degli schiavi negli Stali Uniti. 412 Se l’ abolizione della schiavitù e del servaggio si debba attribuire al Cristianesimo? 413 Sull’ origine della sovranità in alcuni casi particolari. 410 Dell’ orgoglio civile. 418 Sui diversi modi, con cui si può dimostrare l’esistenza di Dio. 430 L’idea di Dio non è solamente negativa. Ih. Sulla voce ritelazionc. 423 Di varie spezie del razionalismo teologico. 424 miracoli posteriori Dei allo stabilimento del Cristiane- 433 simo. Passo del Malehranchc sull'idealità del Cristianesimo. 429 l’asso del Leibniz sulla rivelazione. 430 Sulla credenza antichissima dei Samaritani nella ri- surrezione dei morti. 431 Si esamina la dottrina filosofica dello Schleiermacher c dello Strausse sull’ esistenza degli angeli. Ib. 1 razionalisti confondono la dottrina acroamaliea colla essoterica. 444 Sul fatto di Babele. Ib. Del sincretismo dei falsi culti, -toma, mito e simbolo zcndico. 445 Nei culli barbari l’Idea è esclusa dalla religione, e non Digitized by Google   TAVOLA E SOMMARIO. 467 L’antropomorfismo è il psicologismo essoterico. 446 Del panteismo ili Ulrico Zuinglio. Ih. Passi dello Spinoza conformi alle dottrine del raziona- lismo teologico. Sul psicologismo degli eretici. Convenienze della dottrina pclagiana col sensismo, col psicologismo e col fatalismo. 4SI 4SS AMDELIA LNIAERSALITA SCIENTIFICA DELI A FORMULA IDEALE. Articolo primo. Preambolo. — La forinola razionale dee contenere l'organismo degli clementi ideali. — l’er conoscere questa orga- nizzazione, bisogna riscontrare essa forinola coll'albero enciclo- pedico. — L'enciclopedia si compone di tre parti, filosofìa, fìsica e matematica, che corrispondono alle tre membra della forinola. — Della filosofia in ispecie : si stende per tutta la forinola. — Dell’ ontologia, psicologia, logica, elica c inaleinatica ; coinè si connettano coi vari termini di quella. — Tarala rappresenlalira dell’ albero enciclopedico, confórme all’ organismo ideale. — Spiegazione generica della tavola. — Della scienza ideale. — Della teologia rivelata e della filosofia. — Principato universale della prima. — Maggioranza della seconda sulle altre scienze. — Pri- mato dell’ontologia fra le varie discipline fìlusoGchc; necessario, acciò queste siano in fiore. — Della teologia universale. I Articolo secondo. Della malemalica. — La inatcmalica tiene un luogo mezzano tra la filosofia c la fisica.— Insufficienza della filo- sofia moderna, per dare una teorica soddisfacente del tempo e dello spazio. — Dichiarazione di queste due idee, c dell’ oggetto loro, mediante la furinola ideale. 17 Articolo terzo. Della logica c della morale. — Queste due scienze hannociòdicomune,cheappartengonoal terminemediodella Digifeed by Google   400 TAVOLA E SOMMARIO. forinola. — Della logica in particolare, e delle varie sue parti. — Dell’ etica in ispccie. — Dei due cicli creativi, e dei loro riscon- tri. — Convenienze, ebe corrono fra loro. — Della legge morale. — Dell’ imperativo. — Del dovere, e del diritto. — Dei tre mo- menti dell’ imperativo. — Del mal morale, e del mal lisico, che ne conseguita. — Della pena eterna. 23 Articolo qlarto. Della cosmologia. — Versa nel terzo membro della forinola. — Dei due cicli generativi. — Varie sintesi, di cui si compongono. — Dell’ordine dell’ universo — Del concetto te- leologico. — L’ idea di fine ci è somministrata dal ciclo creativo. 43 Articolo qlirto. Dell' estetica. — Del sublime e del bello. — Delle varie loro specie, c del modo, in cui si connettono colla for- inola. — Del maraviglioso. 32 Articolo sesto. Della politica. — La politica moderna deriva dal psicologismo cartesiano. —Quindi i suoi vizi. —Gli statisti odierni non hanno veri principii, perchè mancano della cogni- zione ideale. — I difetti della teorica hanno luogo del pari nella pratica. — Del governo rappresentativo. — Originato dal Cristia- nesimo; vizialo dall’eresia e dai cattivi filosofi. — Due sistemi dilibertàpolitica: l’unoeterodosso,cl’altroortodosso.—Suc- cessione storica del sistema ortodosso. — La libertà licenziosa e il dispotismo sono due dottrine recenti c sorelle. — Gloriose me- morie della seconda epoca del medio evo. — La civiltà moderna dee fondarsi su quella dei liassi tempi. — Dell’ apoftegma del Ma- chiavelli,chele«istituzionisidebbonoritirareversoi loroprin- cipii. — In che senso sia vero, — Rendici influssi del Papato nella civiltà delle nazioni. — Danni fatti alla medesima dall’ Imperio. — Di Cesare, institutore della tirannide imperiale. — Conuessità della licenza c del dispotismo colle dottrine di Lutero e del Des- cartes. — Della idealità delle nazioni. — L’ Idea è fonte del di- ritto. — Attinenze del dovere col diritto, e delle varie specie loro. — Della sovranità. — La sovranità assoluta è l’Idea. — Della sovranità relativa e ministeriale. — Non si trova in sepa- rato nel governo o nel popolo. — La società non è d’ «istituzione umana, ma divina. — liosì anche il potere sovrano. Due doti essenziali di questo potere, intorno al modo, con cui si tramanda Digitized by Google   TAVOLA E SOMMARIO. 461 c perpetua di generazione in generazione. — Forinola della poli- tica. — l.a Immissione della sovranità dee essere proporzionala alla partecipazione della scienza ideale. — Se tutti i cittadini pos- sano partecipare ai diritti politici? Assurdità del suffragio uni- versale. — l.a capacità dee accompagnare il potere sovrano; ma non basta a costituirlo. — Il potere sovrano dee essere indipen- dente dai sudditi. — l.a perfezione della sovranità consiste nell' unione del potere tradizionale colla sufficienza elettiva. —Dei due cicli generativi della politica. — 11 sovrano non può inai farsi da se in nessun caso. — Della distribuzione della sovranità fra i cittadini. — Ogni potere sovrano è divino. — Nello stato primitivo delle nazioni la sovranità non è mai posseduta da uno opochissimiindividui,nèpareggialafratullii cittadini.—In- violabilità del potere sovrano. — Delle rivoluzioni, e delle con- trarivoluzioni: checosasidebbaintenderesottoquestinomi.— La vera rivoluzione, essendo l’attentato contro una sovranità le- gittima, è sempre illecita. — La vera contrarivoluzione c onesta, se non è violenta c tumultuaria. — Lo stato politico di un popolo dee corrispondere a’ suoi ordini primitivi e anticali. — La mo- narchia è necessaria al dì d'oggi alla libertà europea. — L'inves- titura della sovranità in una famiglia è subordinata alla salute pubblica. — È inviolabile, come il dominio privato. — Il potere ereditario, e la capacità elettiva importano del pari alla civiltà dei popoli. — Delle corti. — Conformità della nostra sentenza colla dottrina cattolica intorno all’ inviolabilità del potere sovrano. — 1 fautori della licenza c del dispotismo invertono le due forinole politiche corrispondenti ai due cicli ideali. !56 Articolo settimo. Epilogo. — L’idea divina è la suprema forinola enciclopedica. — Universalità dell’ idea divina. — L’ontologismo non è un metodo ipotetico, come quello dei psicologisti. — Iddio è l'Intelligibile : è l’alfa e l’omega della scienza. —Si termina, riandando il primato dell’ idea divina nelle varie parti della filo- sofia. 144 Digitized by Google   r 402 TAVOLA E SOMMARIO. CAPITOLO SESTO. de.i.la ccmsEavAziosz deli,a rutmm.A ideale. La conservazione della forinola è opera della rivelazione. — Defini- zione di questa. — Suoi diversi periodi. — La confusione della filosofia colla religione nocque in ogni tempo alla scienza ideale. — Analogia dei moderni razionalisti cogli antichi. — Del razio- nalismo teologico fiorente al di d’oggi. —Si divide in due parti. — Suoi fondatori. La critica storica dei razionalisti pecca per di- fetto di canonica. — Il razionalismo confonde insieme i vari or- dini di fatti e di veri. — Sua vecchiezza. — Dei Doceti. — Il razionalismoèunveronaturalismo.—Delsovrannaturale: sua definizione. — Necessità di esso, per l’integrità dell’ Idea. — Pos- sibilità e convenienza morale del miracolo. — Universalità dell’ ordine sovrannaturale. — L’Idea cristiana è universale, come l’Idea della ragione. — Nullità sintetica c filosofica dei moderni razionalisti. — Il Cristianesimo è la religione universale. — Non si può mettere in ischiera cogli altri culti. — Sua singolarità. — Le false religioni non distruggono l’universalità del Cristiane- simo. — Accordo di questo colla civiltà crescente di ogni tempo. — Si confuta una sentenza dello Strausse. — Le false religioni sono le sole, che debbano temere dei progressi civili. — Il Cris- tianesimo sovrasta, e non sottoslà alla coltura più squisita. — La civiltà moderna, che lo combatte, è una barbarie attillata. — Delle prove interne della rivelazione. — Sua medesimezza coll’ Idea perfetta. — La Chiesa è la parola esterna dell’ Idea. — La divinità della Bibbia risulta dalla perfezione deli’ Idea, che vi è rappresentata. — Oscurità della Bibbia in alcune parti. — Sua mirabile semplicità, e sua differenza dai lavori smerdici dell’ in- gegno umano. — Concorso c predominio delle prove esterne od interne della rivelazione, secondo le varie ragioni. — Della inspi- razione dei libri sacri. — Sua definizione, natura, estensione. — Si risolvono alcune obbiezioni dei razionalisti. — L’ ermeneutica Digitized by Google   TAVOLA E SOMMARIO. 463 di questi si fonda in un falso metodo. — Etnografia della rivela- zione. — Della predestinazione degl’ individui c dei popoli. — Eccellenza delle nazioni e delle lingue semitiche. — Dei popoli giapetici : loro divario dai Semiti. — Delle nazioni madri. — Degl’ Israeliti ; conservatori dell' Idea perfetta, prima di Cristo. — Dei fati del popolo ebreo. — Della scienza acroamatica ed esso- terica. — Fondamento naturale, e universalità di questa distin- zione.—Della ordinazione civile e religiosa degl’ Israeliti. — Oltre la dottrina pubblica, essi avevano una scienza secreta, acroamatica e tradizionale. — Ragioni, in cui si fondava questa distinzione presso il popolo eletto. — Il Cristianesimo rese esso- terica la scienza acroamatica degl’ Israeliti. — L’ alternativa dell’ acroamatismo e dell' essoterismo è la sola variazione, che si trovi nella storia dell’ Idea rivelata. — Perchè Mosè non abbia inse- gnata espressamente l’ immortalità degli animi umani.—Gli Ebrei non tolsero dagli stranieri la loro angelologia, e il dogma della ri- surrezione. — Del sensismo proprio dei razionalisti. — Falsità del loro metodo nel cercare l’origine delle idee e delle credenze. — Attinenze reciproche della dottrina essoterica. — Differenze, che correvano, per questo rispetto, fra gl' Israeliti e i Gentili. — Del figuralismo ebraico. — Non è un trovato recente degl’ Israeliti ellenisti. — Falso concetto dato dal sig. Salvador delle institu- zioni mosaiche. — I,a formola ideale e il letragramma, erano il nesso della scienza acroamatica ed essoterica presso gl’ Israeliti. 1ì>5 CAPITOLO SETTIMO. OEll’ ALTERAZIONE (IELLA EOREOLA IDEALE. lai barbarie non fu lo stato primitivo degli uomini. — La storia delle religioni non comincia dal sensismo. — Per quali cagioni diminuisse, o si spegnesse presso molti popoli la cultura primi- tiva. — Vicende civili delle nazioni. — Cinque forme successive di stato e di reggimento politico. — Anomalie storiche nell’ effet- Digitìzed by Google  404 TAVOLA E SOMMARIO. luazione di esse. — Del patriarcato. — Dello stato castale : sua origine. — Del predominio dei sacerdoti : sua legittimità. — Genio religioso delle società costituite sotto l'imperio ieratico. — I sacerdoti autori principali della civiltà risorgente. — Effetti salutari della loro influenza nelle colonie antiche e moderne. — Il sacerdozio conservò le reliquie dell’antica dottrina acroamatica fondò l’essoterica. — In che modo la mitologia e la simbolica po- tessero esser opera della moltitudine. — La riforma ieratica dell’ acroamatismo produsse la filosofìa. — Vari indirizzi della filoso- fìa gentilesca. — Riscontri dell' antico e del nuovo paganesimo. — Vari gradi, per cui passò l’alterazione della formola ideale : oscurità , confusione , dimezzamento e disorganazione. — Ca- gioni dell' alteramente : predominio del senso e della fantasia ; influenza del linguaggio sull’idea, c dell’ essoterismo sull' acroa- matismo ; dispersione dei popoli, e perdita dell’ unità universale. — Del culto dei felissi. — Di un doppio moto contrario, regres- sivo e progressivo, delle instituzioni religiose. —Esempi. — Quattroepochedellacognizioneideale: intuitiva,immaginativa, sensitiva e astrattiva. — Se nel vario e successivo alterarsi della formola, si mantengano i suoi tre membri, c come?— Tavola delle trasformazioni ontologiche della formolo ideale, corfispondenti ai rari stati psicologici dello spirito umano. — Dichiarazione della tavola. — Dell'epoca intuitiva; come l’uomo ne sia sca- duto. — Il mal morale consiste nella negazione del secondo ciclo creativo. — Dei mezzi sovrannaturali per conservare Io stato in- tuitivo. — L’essoterismo fu l’occasione della perdita di esso. — Dell’ epoca immaginativa. — Del naturalismo fantastico c dell’ emanatismo propri di questa epoca. —Indole poco scientifica dell’ emanatismo. — Sua formola. — Due sorti d’ emanatismo : psicologico e cosmologico. — Dottrina dinamica degli emanatisti. — Della loro dualità primordiale, c delle dualità successive. — Dell’ androginismo, e delle dee madri ; loro connessione coll’ ema- natismo. — I fautori di questo sistema confondono la teogonia colla cosmogonia. — Del sincretismo emanatistico. — Dei due cicliditaldottrina: l’emanazione.—Delcicloremanativo: sua natura. — Corrompe la morale, e introduce il pessimismo. — ;  Digitized by Google   TAVOLA F. SOMMARIO. 16S Pelle varie età cosmiche, secondo i inili di molti popoli Gentili. — Come l’ ottimismo e il pessimismo si accozzino insieme nel sistema degli emanalisti. —Degli «talari, delle teofanie o logo- fanie permanenti e successive, e delle apoteosi. — Come il sovrin - telligibile si trovi alterato fra queste favole. — Del politeismo; nato dall'emanatismo. — Sua indole, e sue varie forme. — Tutti i popolipoliteisticonservanounareminiscenzadellaunitàideale. — Dell' idolatria : sua natura. — Pel panteismo : è una riforma ieratica dell’ einanatismo. — Il panteismo scientifico non poli- essere il primo sistema nella via dell’ errore. — L’emanatismo e il panteismo sono sostanzialmente una medesima dottrina, l’uno sotto una forma fantastica e poetica, l’altro sotto una forma scientifica. — Proprietà speciali del panteismo. — Universalità del panteismo nel regno dell’errore. — Tutti i falsi sistemi vi si riferiscono. — Qual sorta di progresso possa avere Terrore, — Varie forme del panteismo. — Della condizione del sacerdozio dopo la rovina dello stato castale. — Dei Misteri, da cui usci la filosofia laicale. — Dell’ ateismo. — Questo sistema non potè es- sere anteriore al secondo periodo della filosofia secolaresca. — Si rigetta l’ opinione di un ateismo indico antichissimo. — Pel so- vrintelligibile. — Serbato in parte dai sacerdoti, c perduto affatto da' laici filosofanti, salvocliè dalle tre scuole mezzo ieratiche dell’ Italia c della Grecia. — Pei tentativi antichi c moderni, per rie- dificare umanamente il sovrintelligibile. — Si conchiude, accen - nando brevemente il tema del secondo libro. 239 NOTE. Nota prima. Sulle denominazioni moderne dell’ lo c del Ile. 379 2. 3. ut. Del tempo c dello spazio, secondo il processo ontolo- gico. 380 Tassi del Leibniz e del Malebranche sul tempo e sullo spazio. 30 380 Digitized by Google   ICO 4. 8. G. 7. 8. 9. 10. 11. 13. 13. 14. 18. 16. r* i* p £ 2L. 22. 23. 24. 28. 2G. 37. 28. TAVOLA E SOMMARIO. Della importanza, che la religione dà alla vita tempo- rale. .188 Degli attributi divini ontologicamente considerati. 190 Di alcune dottrine erronee sulla bontà e pravità degli atti umani. .191 Errori di un giornalista francese sull’ amor di Dio. 393 influenza della colpa primitiva in tutte le parti del pensiero e dell’ azione umana. 405 Dei vari sistemi sulla natura delle esistenze. 4M Sull’ infinità del mondo. 406 Sugli assiomi di finalità e di causalilà. 407 Del traffico degli schiavi negli Stali Uniti. 412 Se l’ abolizione della schiavitù e del servaggio si debba attribuire al Cristianesimo? 413 Sull’ origine della sovranità in alcuni casi particolari. 410 Dell’ orgoglio civile. 418 Sui diversi modi, con cui si può dimostrare l’esistenza di Dio. 430 L’idea di Dio non è solamente negativa. Ih. Sulla voce ritelazionc. 423 Di varie spezie del razionalismo teologico. 424 miracoli posteriori Dei allo stabilimento del Cristiane- 433 simo. Passo del Malehranchc sull'idealità del Cristianesimo. 429 l’asso del Leibniz sulla rivelazione. 430 Sulla credenza antichissima dei Samaritani nella ri- surrezione dei morti. 431 Si esamina la dottrina filosofica dello Schleiermacher c dello Strausse sull’ esistenza degli angeli. Ib. 1 razionalisti confondono la dottrina acroamaliea colla essoterica. 444 Sul fatto di Babele. Ib. Del sincretismo dei falsi culti, -toma, mito e simbolo zcndico. 445 Nei culli barbari l’Idea è esclusa dalla religione, e non Digitized by Google   TAVOLA E SOMMARIO. 467 L’antropomorfismo è il psicologismo essoterico. 446 Del panteismo ili Ulrico Zuinglio. Ih. Passi dello Spinoza conformi alle dottrine del raziona- lismo teologico. Sul psicologismo degli eretici. Convenienze della dottrina pclagiana col sensismo, col psicologismo e col fatalismo. 4SI 4SS AMDELIA LNIAERSALITA SCIENTIFICA DELI A FORMULA IDEALE. Articolo primo. Preambolo. — La forinola razionale dee contenere l'organismo degli clementi ideali. — l’er conoscere questa orga- nizzazione, bisogna riscontrare essa forinola coll'albero enciclo- pedico. — L'enciclopedia si compone di tre parti, filosofìa, fìsica e matematica, che corrispondono alle tre membra della forinola. — Della filosofia in ispecie : si stende per tutta la forinola. — Dell’ ontologia, psicologia, logica, elica c inaleinatica ; coinè si connettano coi vari termini di quella. — Tarala rappresenlalira dell’ albero enciclopedico, confórme all’ organismo ideale. — Spiegazione generica della tavola. — Della scienza ideale. — Della teologia rivelata e della filosofia. — Principato universale della prima. — Maggioranza della seconda sulle altre scienze. — Pri- mato dell’ontologia fra le varie discipline fìlusoGchc; necessario, acciò queste siano in fiore. — Della teologia universale. I Articolo secondo. Della malemalica. — La inatcmalica tiene un luogo mezzano tra la filosofia c la fisica.— Insufficienza della filo- sofia moderna, per dare una teorica soddisfacente del tempo e dello spazio. — Dichiarazione di queste due idee, c dell’ oggetto loro, mediante la furinola ideale. 17 Articolo terzo. Della logica c della morale. — Queste due scienze hannociòdicomune,cheappartengonoal terminemediodella Digifeed by Google   400 TAVOLA E SOMMARIO. forinola. — Della logica in particolare, e delle varie sue parti. — Dell’ etica in ispccie. — Dei due cicli creativi, e dei loro riscon- tri. — Convenienze, ebe corrono fra loro. — Della legge morale. — Dell’ imperativo. — Del dovere, e del diritto. — Dei tre mo- menti dell’ imperativo. — Del mal morale, e del mal lisico, che ne conseguita. — Della pena eterna. 23 Articolo qlarto. Della cosmologia. — Versa nel terzo membro della forinola. — Dei due cicli generativi. — Varie sintesi, di cui si compongono. — Dell’ordine dell’ universo — Del concetto te- leologico. — L’ idea di fine ci è somministrata dal ciclo creativo. 43 Articolo qlirto. Dell' estetica. — Del sublime e del bello. — Delle varie loro specie, c del modo, in cui si connettono colla for- inola. — Del maraviglioso. 32 Articolo sesto. Della politica. — La politica moderna deriva dal psicologismo cartesiano. —Quindi i suoi vizi. —Gli statisti odierni non hanno veri principii, perchè mancano della cogni- zione ideale. — I difetti della teorica hanno luogo del pari nella pratica. — Del governo rappresentativo. — Originato dal Cristia- nesimo; vizialo dall’eresia e dai cattivi filosofi. — Due sistemi dilibertàpolitica: l’unoeterodosso,cl’altroortodosso.—Suc- cessione storica del sistema ortodosso. — La libertà licenziosa e il dispotismo sono due dottrine recenti c sorelle. — Gloriose me- morie della seconda epoca del medio evo. — La civiltà moderna dee fondarsi su quella dei liassi tempi. — Dell’ apoftegma del Ma- chiavelli,chele«istituzionisidebbonoritirareversoi loroprin- cipii. — In che senso sia vero, — Rendici influssi del Papato nella civiltà delle nazioni. — Danni fatti alla medesima dall’ Imperio. — Di Cesare, institutore della tirannide imperiale. — Conuessità della licenza c del dispotismo colle dottrine di Lutero e del Des- cartes. — Della idealità delle nazioni. — L’ Idea è fonte del di- ritto. — Attinenze del dovere col diritto, e delle varie specie loro. — Della sovranità. — La sovranità assoluta è l’Idea. — Della sovranità relativa e ministeriale. — Non si trova in sepa- rato nel governo o nel popolo. — La società non è d’ «istituzione umana, ma divina. — liosì anche il potere sovrano. Due doti essenziali di questo potere, intorno al modo, con cui si tramanda Digitized by Google   TAVOLA E SOMMARIO. 461 c perpetua di generazione in generazione. — Forinola della poli- tica. — l.a Immissione della sovranità dee essere proporzionala alla partecipazione della scienza ideale. — Se tutti i cittadini pos- sano partecipare ai diritti politici? Assurdità del suffragio uni- versale. — l.a capacità dee accompagnare il potere sovrano; ma non basta a costituirlo. — Il potere sovrano dee essere indipen- dente dai sudditi. — l.a perfezione della sovranità consiste nell' unione del potere tradizionale colla sufficienza elettiva. —Dei due cicli generativi della politica. — 11 sovrano non può inai farsi da se in nessun caso. — Della distribuzione della sovranità fra i cittadini. — Ogni potere sovrano è divino. — Nello stato primitivo delle nazioni la sovranità non è mai posseduta da uno opochissimiindividui,nèpareggialafratullii cittadini.—In- violabilità del potere sovrano. — Delle rivoluzioni, e delle con- trarivoluzioni: checosasidebbaintenderesottoquestinomi.— La vera rivoluzione, essendo l’attentato contro una sovranità le- gittima, è sempre illecita. — La vera contrarivoluzione c onesta, se non è violenta c tumultuaria. — Lo stato politico di un popolo dee corrispondere a’ suoi ordini primitivi e anticali. — La mo- narchia è necessaria al dì d'oggi alla libertà europea. — L'inves- titura della sovranità in una famiglia è subordinata alla salute pubblica. — È inviolabile, come il dominio privato. — Il potere ereditario, e la capacità elettiva importano del pari alla civiltà dei popoli. — Delle corti. — Conformità della nostra sentenza colla dottrina cattolica intorno all’ inviolabilità del potere sovrano. — 1 fautori della licenza c del dispotismo invertono le due forinole politiche corrispondenti ai due cicli ideali. !56 Articolo settimo. Epilogo. — L’idea divina è la suprema forinola enciclopedica. — Universalità dell’ idea divina. — L’ontologismo non è un metodo ipotetico, come quello dei psicologisti. — Iddio è l'Intelligibile : è l’alfa e l’omega della scienza. —Si termina, riandando il primato dell’ idea divina nelle varie parti della filo- sofia. 144 Digitized by Google   r 402 TAVOLA E SOMMARIO. CAPITOLO SESTO. de.i.la ccmsEavAziosz deli,a rutmm.A ideale. La conservazione della forinola è opera della rivelazione. — Defini- zione di questa. — Suoi diversi periodi. — La confusione della filosofia colla religione nocque in ogni tempo alla scienza ideale. — Analogia dei moderni razionalisti cogli antichi. — Del razio- nalismo teologico fiorente al di d’oggi. —Si divide in due parti. — Suoi fondatori. La critica storica dei razionalisti pecca per di- fetto di canonica. — Il razionalismo confonde insieme i vari or- dini di fatti e di veri. — Sua vecchiezza. — Dei Doceti. — Il razionalismoèunveronaturalismo.—Delsovrannaturale: sua definizione. — Necessità di esso, per l’integrità dell’ Idea. — Pos- sibilità e convenienza morale del miracolo. — Universalità dell’ ordine sovrannaturale. — L’Idea cristiana è universale, come l’Idea della ragione. — Nullità sintetica c filosofica dei moderni razionalisti. — Il Cristianesimo è la religione universale. — Non si può mettere in ischiera cogli altri culti. — Sua singolarità. — Le false religioni non distruggono l’universalità del Cristiane- simo. — Accordo di questo colla civiltà crescente di ogni tempo. — Si confuta una sentenza dello Strausse. — Le false religioni sono le sole, che debbano temere dei progressi civili. — Il Cris- tianesimo sovrasta, e non sottoslà alla coltura più squisita. — La civiltà moderna, che lo combatte, è una barbarie attillata. — Delle prove interne della rivelazione. — Sua medesimezza coll’ Idea perfetta. — La Chiesa è la parola esterna dell’ Idea. — La divinità della Bibbia risulta dalla perfezione deli’ Idea, che vi è rappresentata. — Oscurità della Bibbia in alcune parti. — Sua mirabile semplicità, e sua differenza dai lavori smerdici dell’ in- gegno umano. — Concorso c predominio delle prove esterne od interne della rivelazione, secondo le varie ragioni. — Della inspi- razione dei libri sacri. — Sua definizione, natura, estensione. — Si risolvono alcune obbiezioni dei razionalisti. — L’ ermeneutica Digitized by Google   TAVOLA E SOMMARIO. 463 di questi si fonda in un falso metodo. — Etnografia della rivela- zione. — Della predestinazione degl’ individui c dei popoli. — Eccellenza delle nazioni e delle lingue semitiche. — Dei popoli giapetici : loro divario dai Semiti. — Delle nazioni madri. — Degl’ Israeliti ; conservatori dell' Idea perfetta, prima di Cristo. — Dei fati del popolo ebreo. — Della scienza acroamatica ed esso- terica. — Fondamento naturale, e universalità di questa distin- zione.—Della ordinazione civile e religiosa degl’ Israeliti. — Oltre la dottrina pubblica, essi avevano una scienza secreta, acroamatica e tradizionale. — Ragioni, in cui si fondava questa distinzione presso il popolo eletto. — Il Cristianesimo rese esso- terica la scienza acroamatica degl’ Israeliti. — L’ alternativa dell’ acroamatismo e dell' essoterismo è la sola variazione, che si trovi nella storia dell’ Idea rivelata. — Perchè Mosè non abbia inse- gnata espressamente l’ immortalità degli animi umani.—Gli Ebrei non tolsero dagli stranieri la loro angelologia, e il dogma della ri- surrezione. — Del sensismo proprio dei razionalisti. — Falsità del loro metodo nel cercare l’origine delle idee e delle credenze. — Attinenze reciproche della dottrina essoterica. — Differenze, che correvano, per questo rispetto, fra gl' Israeliti e i Gentili. — Del figuralismo ebraico. — Non è un trovato recente degl’ Israeliti ellenisti. — Falso concetto dato dal sig. Salvador delle institu- zioni mosaiche. — I,a formola ideale e il letragramma, erano il nesso della scienza acroamatica ed essoterica presso gl’ Israeliti. 1ì>5 CAPITOLO SETTIMO. OEll’ ALTERAZIONE (IELLA EOREOLA IDEALE. lai barbarie non fu lo stato primitivo degli uomini. — La storia delle religioni non comincia dal sensismo. — Per quali cagioni diminuisse, o si spegnesse presso molti popoli la cultura primi- tiva. — Vicende civili delle nazioni. — Cinque forme successive di stato e di reggimento politico. — Anomalie storiche nell’ effet- Digitìzed by Google  404 TAVOLA E SOMMARIO. luazione di esse. — Del patriarcato. — Dello stato castale : sua origine. — Del predominio dei sacerdoti : sua legittimità. — Genio religioso delle società costituite sotto l'imperio ieratico. — I sacerdoti autori principali della civiltà risorgente. — Effetti salutari della loro influenza nelle colonie antiche e moderne. — Il sacerdozio conservò le reliquie dell’antica dottrina acroamatica fondò l’essoterica. — In che modo la mitologia e la simbolica po- tessero esser opera della moltitudine. — La riforma ieratica dell’ acroamatismo produsse la filosofìa. — Vari indirizzi della filoso- fìa gentilesca. — Riscontri dell' antico e del nuovo paganesimo. — Vari gradi, per cui passò l’alterazione della formola ideale : oscurità , confusione , dimezzamento e disorganazione. — Ca- gioni dell' alteramente : predominio del senso e della fantasia ; influenza del linguaggio sull’idea, c dell’ essoterismo sull' acroa- matismo ; dispersione dei popoli, e perdita dell’ unità universale. — Del culto dei felissi. — Di un doppio moto contrario, regres- sivo e progressivo, delle instituzioni religiose. —Esempi. — Quattroepochedellacognizioneideale: intuitiva,immaginativa, sensitiva e astrattiva. — Se nel vario e successivo alterarsi della formola, si mantengano i suoi tre membri, c come?— Tavola delle trasformazioni ontologiche della formolo ideale, corfispondenti ai rari stati psicologici dello spirito umano. — Dichiarazione della tavola. — Dell'epoca intuitiva; come l’uomo ne sia sca- duto. — Il mal morale consiste nella negazione del secondo ciclo creativo. — Dei mezzi sovrannaturali per conservare Io stato in- tuitivo. — L’essoterismo fu l’occasione della perdita di esso. — Dell’ epoca immaginativa. — Del naturalismo fantastico c dell’ emanatismo propri di questa epoca. —Indole poco scientifica dell’ emanatismo. — Sua formola. — Due sorti d’ emanatismo : psicologico e cosmologico. — Dottrina dinamica degli emanatisti. — Della loro dualità primordiale, c delle dualità successive. — Dell’ androginismo, e delle dee madri ; loro connessione coll’ ema- natismo. — I fautori di questo sistema confondono la teogonia colla cosmogonia. — Del sincretismo emanatistico. — Dei due cicliditaldottrina: l’emanazione.—Delcicloremanativo: sua natura. — Corrompe la morale, e introduce il pessimismo. — ;  Digitized by Google   TAVOLA F. SOMMARIO. 16S Pelle varie età cosmiche, secondo i inili di molti popoli Gentili. — Come l’ ottimismo e il pessimismo si accozzino insieme nel sistema degli emanalisti. —Degli «talari, delle teofanie o logo- fanie permanenti e successive, e delle apoteosi. — Come il sovrin - telligibile si trovi alterato fra queste favole. — Del politeismo; nato dall'emanatismo. — Sua indole, e sue varie forme. — Tutti i popolipoliteisticonservanounareminiscenzadellaunitàideale. — Dell' idolatria : sua natura. — Pel panteismo : è una riforma ieratica dell’ einanatismo. — Il panteismo scientifico non poli- essere il primo sistema nella via dell’ errore. — L’emanatismo e il panteismo sono sostanzialmente una medesima dottrina, l’uno sotto una forma fantastica e poetica, l’altro sotto una forma scientifica. — Proprietà speciali del panteismo. — Universalità del panteismo nel regno dell’errore. — Tutti i falsi sistemi vi si riferiscono. — Qual sorta di progresso possa avere Terrore, — Varie forme del panteismo. — Della condizione del sacerdozio dopo la rovina dello stato castale. — Dei Misteri, da cui usci la filosofia laicale. — Dell’ ateismo. — Questo sistema non potè es- sere anteriore al secondo periodo della filosofia secolaresca. — Si rigetta l’ opinione di un ateismo indico antichissimo. — Pel so- vrintelligibile. — Serbato in parte dai sacerdoti, c perduto affatto da' laici filosofanti, salvocliè dalle tre scuole mezzo ieratiche dell’ Italia c della Grecia. — Pei tentativi antichi c moderni, per rie- dificare umanamente il sovrintelligibile. — Si conchiude, accen - nando brevemente il tema del secondo libro. 239 NOTE. Nota prima. Sulle denominazioni moderne dell’ lo c del Ile. 379 2. 3. ut. Del tempo c dello spazio, secondo il processo ontolo- gico. 380 Tassi del Leibniz e del Malebranche sul tempo e sullo spazio. 30 380 Digitized by Google   ICO 4. 8. G. 7. 8. 9. 10. 11. 13. 13. 14. 18. 16. r* i* p £ 2L. 22. 23. 24. 28. 2G. 37. 28. TAVOLA E SOMMARIO. Della importanza, che la religione dà alla vita tempo- rale. .188 Degli attributi divini ontologicamente considerati. 190 Di alcune dottrine erronee sulla bontà e pravità degli atti umani. .191 Errori di un giornalista francese sull’ amor di Dio. 393 influenza della colpa primitiva in tutte le parti del pensiero e dell’ azione umana. 405 Dei vari sistemi sulla natura delle esistenze. 4M Sull’ infinità del mondo. 406 Sugli assiomi di finalità e di causalilà. 407 Del traffico degli schiavi negli Stali Uniti. 412 Se l’ abolizione della schiavitù e del servaggio si debba attribuire al Cristianesimo? 413 Sull’ origine della sovranità in alcuni casi particolari. 410 Dell’ orgoglio civile. 418 Sui diversi modi, con cui si può dimostrare l’esistenza di Dio. 430 L’idea di Dio non è solamente negativa. Ih. Sulla voce ritelazionc. 423 Di varie spezie del razionalismo teologico. 424 miracoli posteriori Dei allo stabilimento del Cristiane- 433 simo. Passo del Malehranchc sull'idealità del Cristianesimo. 429 l’asso del Leibniz sulla rivelazione. 430 Sulla credenza antichissima dei Samaritani nella ri- surrezione dei morti. 431 Si esamina la dottrina filosofica dello Schleiermacher c dello Strausse sull’ esistenza degli angeli. Ib. 1 razionalisti confondono la dottrina acroamaliea colla essoterica. 444 Sul fatto di Babele. Ib. Del sincretismo dei falsi culti, -toma, mito e simbolo zcndico. 445 Nei culli barbari l’Idea è esclusa dalla religione, e non Digitized by Google   TAVOLA E SOMMARIO. 467 L’antropomorfismo è il psicologismo essoterico. 446 Del panteismo ili Ulrico Zuinglio. Ih. Passi dello Spinoza conformi alle dottrine del raziona- lismo teologico. Sul psicologismo degli eretici. Convenienze della dottrina pclagiana col sensismo, col psicologismo e col fatalismo. 4SI 4SS AMDELLE CONVENIENZE DELLA FORIOLA IDEALE COLLA RELIGIONE RIVELATA. Scusa dell’ autore. — Il sovrintelligibile e il sovrannaturale sono i due perni della religione. — Analisi del primo. — Si escludono le false origini, che si possono assegnare al concetto, che Io rap- presenta. — Della sovrintelligenza. — In che consista la natura speciale di questa facolti. — Sua analogia coll’istinto. — Del sen- timento, che l’uomo ha delle sue potenze non esplicate. — Defi- nizione delia sovrintelligenza. — Come il concetto negativo del sovrintelligibile nasca da questa facoltà. — Obbiettività del so- vrintelligibile ; adombrata dalla filosofia orientale. — Analogia del sovrintelligibile col numeno di Emanuele Kant : sbaglio del criticismo. — Dei sovrintelligibili naturali. — Attinenze del so- vrintelligibile cogl’ intelligibili. — Come il sovrintelligibile debba essere riconosciuto e rispettato dalla filosofia. — Dei sovrintelli- gibili rivelati. — Loro importanza, e armonia coi dogmi razio- nali. — I sovrintelligibili della rivelazione hanno un margine indeterminato. — Del sovrannaturale. — In che consista, e sue attinenze colla formula. — Connessione del suo concetto colla magia dei popoli pagani. — Varie spezie di sovrannaturale. — Necessità dell’ idea di sovrannaturale per la filosofia della storia : sua importanza per la filosofia in genere. — Il sovrannaturale appartiene al secondo ciclo creativo : sue relazioni con esso. — Dimostrazione a priori della realtà dell' ordine sovrannaturale. — L’ alterazione di quest' ordine costituisce il regresso. — Della   484 TAVOLA E SOMMARIO. forinola sovrannaturale : sua corrispondenza colla razionale. — Del ciclo cristiano : sua risoluzione. — Della Chiesa ; com' ella sia il perno dell’ incivilimento. — Del sincretismo delle sette cris- tiane eterodosse, e della idolatria rinnovala per opera loro. — Confutazione di un passo del sig. Guizot sull’ unità religiosa. — Della superstizione : in che consista. — Del processo a priori della fede cattolica. — Due cicli rivelativi corrispondenti ai due cicli creativi. — Necessità della fede per ben filosofare. — La fede sola colloca l’uomo nel suo stato naturale. —Ragionevolezza della disciplina cattolica. — L’ educazione ideale è impossibile fuori di essa. — Lo scetticismo esclude la vera grandezza, anche umana, dell’ ingegno. — La fede è libera, e in ciò consiste il suo merito.—Tredotidellafedecattolica, utilissimeall'uomoeal filosofo. — Efficacia di questa virtù, per avvalorare l' ingegno on- tologico. — Quanto all’ abito ontologico conferisca la credenza del sovrannaturale. — Tutte le virtù teologali influiscono profit- tevolmente nell’ uomo pensante e operatore. — Della vera misti- cità, e sue differenze dalla falsa. — Empietà dell’ autonomia razionale. — Necessità della fede per la conservazione dei princi- pii ideali. — L’ incredulità moderna è la cagione precipua della debolezza degli animi c degl’ingegni. — Utilità dei misteri in genere per l’abito filosofico. — Si considerano, per questo ris- petto, alcuni misteri in particolare. — Della predestinazione, e della eternità delle pene. — Della inviolabilità scientifica della teologia. — Di certi novellini teologi, e della temerità loro. — L’invenzione nelle cose ideali è impossibile. — Della giovinezza perpetua del Cristianesimo cattolico. — Di una certa classe di gementi, che credono morta o moriente la religione : si combat- tono i loro timori. — Della larghezza dell’ Idea cattolica : sua utilità per le scienze in generale. — Necessità della filosofia per far fiorire la teologia, come scienza — La teologia e la filosofia hanno bisogno l’una dell’altra. — Delle cagioni, per cui la teo- logia cattolica c scaduta dal suo antico splendore. — Il clero cat- tolico dee essere un concilio di sapienti. — Dee coltivare special- mente le scienze filosofiche. — Dell’ acroamatismo ieratico, ch'egli si dee proporre. — I laici, che coltivano la filosofia, debbono Digitized by Google   TAVOLA E SOMMARIO. 435 incominciare una nuova era razionale, sotto la sovranità intellet- tiva della Chiesa. — La filosofia eterodossa, che regnò finora, è morta per sempre. — Si concbiude il capitolo e il primo libro, esortando gl' Italiani a intraprendere l’ instaurazione delle scienze speculative. 2. 5. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 1S. 13. Sulla voce essenza. 15I Del sovrintelligibile presso i filosofi eterodossi. 161 Attinenze del sovrannaturale col sovrintelligibile. 16£ Del sovrannaturale iniziale c finale del Cristianesimo. 16i Del sovrannaturale transitorio o continuo. 1615 Su alcuni passi del sig. Guizot. 166 Sopra un cenno teologico del sig. Nisard. 175 Sul fatto morale della giustificazione. 174 Sulle varie epoche filosofiche della storia. 176 Delle idee pure. 178 Sul valore teologico dei razionalisti tedeschi. 179 Il decadimento della filosofia prova la verità del cat- tolicismo.Grice: “Italians find it harder than the Germans to conceal their nationalism. Hegel is studied everywhere, but Gioberti is felt to be TOO Italian, and he is. There are not two sentences in Gioberti that do not mention Italy! Hegel could philosophise on being (the absolute being is the King of Prussia) – but philosophers elsewhere took his remarks in a generalized way, not a German way. Unlike with Gioberti, who cannot hide his ‘italianita’. The fact that Mussolini wrote on him did not help. And that, along with Gentile, and the Italian mainstream intelligentsia, the Italian risorgimento is only a stone’s throw away from Fascism!” Grice: “Lorenzo Giusso, whom I like, wrote a bio of Gioberti which I thought the best, it’s in Vita e Pensiero, and in the series, “UOMINI DEL RISORGIMENTO” Gives him sense!” -- Vincenzo Gioberti. Gioberti. Keywords: del bello, estetico, il bello, metessi, implicatura metessica – mimesi – Plato on mimesis and metexis, protologia, ontologismo, statua all’aperto, Milano – nella serie uomini del risorgimento, bruno, gentile. -- Refs.: Luigi Speranza, "Grice e Gioberti," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51757919514/in/datetaken/

 

Grice e Gioia – filosofia ad uso de’ giovanetti – filosofia italiana – Luigi Speranza (Piacenza). Filosofo. Grice: “I joked with the maxim, ‘be polite’ – surely it’s difficult to make that universalisable into the conversational categoric imperative (‘be helpful conversationally) – but apparently Italians are less Kantian than I thought!” -- Grice: “I love Gioia; he is like me, an economist when it comes to pragmatics – see my principle of ECONOMY of rational effort; I studied thoroughly his fascinating account about the origin of language, before I ventured with my pritological progressions!” Dopo gli studi nel Collegio Alberoni veste l'abito talare, mantenendo tuttavia un orientamento di pensiero tutt'altro che ortodosso tanto in filosofia, per l'influenza dell'utilitarismo di JBentham, dell'empirismo di  Locke e del sensismo di Condillac, quanto in teologia per l'influenza del pensiero di Giansenio.  Il suo interesse si rivolge ben presto anche alle questioni politiche. Vince il concorso bandito dalla Società di Pubblica Istruzione di Milano sul tema "Quale dei governi liberi meglio convenga alla felicità d'Italia", alla quale partecipano 52 concorrenti. La sua dissertazione, in cui sostiene la tesi di un'Italia libera, repubblicana, retta da istituzioni democratiche e basata su comuni elementi geografici, linguistici, storici e culturali, prefigura, come la maggioranza di quelle presentate, l'unità italiana, benché questa tesi non sia gradita ai francesi che in quel periodo occupano il nord Italia. La notizia del premio ricevuto gli giunge però in carcere. Nel frattempo è stato arrestato con l'accusa di aver celebrato a scopo di lucro più di una messa al giorno, anche se sono in realtà le sue idee politiche giacobine a renderlo inviso all'autorità. Viene scarcerato grazie, forse, alle pressioni di Bonaparte, e ripara a Milano. Il Trattato di Campoformio, con la cessione di Venezia ad Austria da parte della Francia in cambio del riconoscimento austriaco della Repubblica Cisalpina, lo spinge però ben presto a diventare oppositore della Francia.  Dopo aver rinunciato al sacerdozio, si impegna nella professione giornalistica fonda "Il Giornale filosofico politico", stroncato dalla rigida censura austriaca per le posizioni sempre più apertamente patriottiche che Gioja vi sostiene. Dalle colonne del "Giornale Filosofico Politico" scrive una lettera aperta al duca Ferdinando d'Asburgo-Este, in cui denuncia i danni patiti in carcere. Bonaparte viene sconfitto dalle truppe austriache nella Battaglia di Novi Ligure e Gioia viene arrestato nuovamente dagli austriaci, per essere scarcerato in seguito alla vittoria francese a Marengo. Viene nominato storiografo della Repubblica Cisalpina: l'anno successivo pubblica "Sul commercio de' commestibili e caro prezzo del vitto", ispirato dai tumulti per il rincaro del pane, e "Il Nuovo Galateo". Viene rimosso dalla carica per le polemiche seguite alla pubblicazione e alla difesa del suo trattato "Teoria civile e penale del divorzio, ossia necessità, cause, nuova maniera d'organizzarla"  L'apprezzamento per i suoi solidi e realistici studi di economia e di statistica, ai quali sono prevalentemente rivolti il suo interesse e la sua attività, gli valgono però la nomina alla direzione del nascente Ufficio di Statistica: in questa veste inizia una febbrile attività fatta di studi corredati da tabelle, quadri sinottici, raffronti demografici, causa di nuove ed accese polemiche e della rimozione dall'incarico. Tale attività gli rese uno dei primi studiosi ad applicare i concetti di Statistica alla gestione economica dei conti pubblici (ad esempio per le tasse, gabelle, e così via). Grazie alle sue conoscenze statistiche ed economiche elabora concetti fortemente innovativi per l’epoca che ne fanno il precursore del moderno dibattito giuridico in materia di risarcimento del danno alla persona con una concezione che supera la questione patrimoniale.  Notissima in medicina legale la sua regola del calzolaio, che anticipa il concetto di riduzione della capacità lavorativa specifica:  "...un calzolaio, per esempio, eseguisce due scarpe e un quarto al giorno; voi avete indebolito la sua mano che non riesce più che a fare una scarpa; voi gli dovete dare il valore di una fattura di una scarpa e un quarto moltiplicato per il numero dei giorni che gli restano di vita, meno i giorni festivi..".  E ancora, seppur meno noti, concetti come: "Ne' casi d'indebolimento o distruzione di forze industri, considerando il soddisfacimento come uguale al lucro giornaliero diminuito o distrutto, moltiplicato per la rimanente vita utile dell'offeso, noi restiamo molto al di sotto del valore reale, giacché una forza umana può essere riguardata come Mezzo di sussistenza Mezzo di godimento Mezzo di bellezza Mezzo di difesa   Filosofia della Statistica (libro originale) “Rendendo paralitico, per es., l'altrui braccio destro o la mano, voi togliete al musico il mezzo con cui si procura il vitto divertendo gli altri, al proprietario il mezzo con cui si sottrae alla noia divertendo se stesso, alla donna il mezzo con cui gestisce e porge con grazia, a chiunque il mezzo con cui si schernisce da mali eventuali difendendosi".  Si tratta di principi rivoluzionari per l’epoca, forse frutto di quel particolare mix di cultura che deriva dalla sua formazione che inizia da sacerdote e approda a concezioni rivoluzionarie; è il primo che riesce a prefigurare nell’uomo non solo una sorta di macchina che produce reddito, ma anche un soggetto che attraverso il lavoro realizza la propria personalità. In Italia oltre un secolo e mezzo dopo, negli anni ’80 del novecento, in sede giuridica inizierà il dibattito sul superamento del risarcimento del mero danno patrimoniale per tener conto degli aspetti relazionali e dinamici della persona riassunti nel concetto di danno biologico. Sul filone di queste tematiche gli veniva intestata a Pisa un'ssociazione scientifica medico giuridica che raccoglie giuristi, medici legali e assicuratori.  Il "Nuovo Galateo" Testo fondamentale nella storia dei Galatei, il "Nuovo Galateo" di Gioja fu scritto per contribuire alla civilizzazione del popolo della Repubblica Cisalpina. Il testo conosce ben tre edizioni. La prima si sofferma in particolar modo sulla definizione laica di "pulitezza" – cf. Grice, ‘be polite’ -- intesa come ramo della civilizzazione, arte di modellare la persona e le azioni, i sentimenti, i discorsi in modo da rendere gli altri contenti di noi e di loro stessi. È divisa in tre parti: "Pulitezza dell'uomo privato", "Pulitezza dell'uomo cittadino", "Pulitezza dell'uomo di mondo".  Nella seconda edizione, Gioja ridimensiona il concetto di "pulitezza" come l'arte di modellare la persona, le azioni, i sentimenti, i discorsi in modo da procurarsi l'altrui stima ed affezione. La vecchia ripartizione è sostituita da: "Pulitezza Generale", "Pulitezza Particolare", "Pulitezza Speciale". Nella terza edizione risale, a differenza dell'edizioni precedenti, enfatizza l'importanza del concetto di "ragione sociale", considerato dall'autore il fondamento etico del galateo che avrebbe portato felicità e pace sociale mediante le buone maniere. Fu membro della Loggia massonica "Reale Amalia Agusta" di Brescia, che prese il nome dalla moglie del principe Eugenio di Beauharnais, primo Gran Maestro del Grande Oriente d'Italia. A lui è intestata la loggia N. 1114 di Piacenza all’obbedienza del Grande Oriente d’Italia. Crollato il dominio napoleonica, Gioja produce le sue opere maggiori: il "Nuovo prospetto delle scienze economiche”; il trattato "Del Merito e delle Ricompense"; "Sulle manifatture nazionali"; "L'ideologia". Gli ultimi tre libri vengono messi all'Indice e il suo fecondo lavoro è interrotto da un nuovo arresto per aver cospirato contro l'Austria partecipando alla setta carbonara dei "Federati".  Dopo quest'ultima peripezia, nonostante i sospetti da parte del governo austriaco, ha finalmente davanti a sé qualche anno di serenità e compone la sua ultima opera, "La filosofia della statistica.” Nel cimitero della Mojazza fra tante ossa ignorate dormono senza fasto di mausoleo le ceneri di Melchiorre Gioia. Prende il suo nome il Liceo Classico di Piacenza. Rosmini, suo avversario in politica come in religione, lo accusò di pretendere di proporre un codice morale, fondato su principi palesemente opportunistici, mentre con disinvoltura richiedeva sussidi e regali dai titolari del potere politico per elogiarne le benemerenze nelle proprie pubblicazioni periodiche, e lo dichiara pubblicamente un "ciarlatano". Altre opera: Del merito e delle ricompense,  2, Filadelfia, s.n., Riflessioni sulla rivoluzione. Scritti politici, Nuovo Galateo, Il Nuovo prospetto delle scienze economiche, Distribuzione delle ricchezze, Milano, presso Gio. Pirotta in santa Radegonda, Melchiorre Gioia, Produzione delle ricchezze,  2, Milano, presso Gio. Pirotta in santa Radegonda, Consumo delle ricchezze, Milano, presso Gio. Pirotta in santa Radegonda, Melchiorre Gioia, Azione governativa sulla produzione, distribuzione, consumo delle ricchezze,  2, Milano, presso Gio. Pirotta in santa Radegonda, Sulle manifatture nazionali,  Dell'ingiuria, dei danni, del soddisfacimento e relative basi di stima avanti i tribunali civili. L’Ideologia. Filosofia della statistica. Note: Francesca Sofia nel Dizionario Biografico degli Italiani.  Ettore Rota nella Enciclopedia Italiana, Cfr. Solmi, L'idea dell'unità italiana nell'età di Napoleone in Rassegna storica del Risorgimento, Fonte: Francesca Sofia, Dizionario Biografico degli Italiani, rTreccani L'Enciclopedia Italiana, riferimenti in.  Vittorio Gnocchini, L'Italia dei Liberi Muratori,Mimesis-Erasmo, Milano-Roma, Ignazio Cantù, Milano, nei tempi antico, di mezzo e moderno: Studiato nelle sue vie; passeggiate storiche, Antonio Saltini, Maria Teresa Salomoni, Stefano Rossi, Via Emilia. Percorsi inusuali fra i comuni dell'antica strada consolare, Il Sole, Barucci, Il pensiero economico di Gioia, Milano, Giuffre, Manlio Paganella, Alle origini dell'unità d'Italia: il progetto politico-costituzionale di Gioia, Milano, Ares,Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Nicola Pionetti, Melchiorre Gioia: il progetto politico per un'Italia unita e repubblicana, Piacenza, EdizioniLir,. Luisa Tasca, Galatei. Buone maniere e cultura borghese nell'Italia dell'Ottocento, Firenze, Le Lettere, Gioia (metropolitana di Milano). Treccani Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  MEnciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,.  Melchiorre Gioia, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  fare alcun cangiamentosenza indebolirla. Egli previene così i suoi lettori contro ogni idea di riforma, e svolge nel loro avimo un timor macchinale cootro ogoi innovazione delle leggi. In generale tutte le metafore, i paragoni, le parziali analogie,lesomiglianze superficiali non possono far breccia che nell'animo del volgo;agli occhi del filosofo i paragoni non sono ragioni; essi possono schiarire una proposizione , provarla mai. CAPO VII. Parlare. Abbiamo veduto che le macchine sono utili e necessarie al chimico, i telescopiall'astronomo, i disegni al meccanico, le figure al geometra. Le parole sono forse egualmente utili, egualmente necessarie all'esercizio del pensiero? Tre oggetti simili mi si presentano facilmente allo spi rito, dice Condillac; se passo al quarto, sono obbligato, per maggior facilità, d'immaginare due oggetti da una parte, due dall'altra ; se voglio fissarne sei, fa duopo che li distribuisca due a due, o tre a tre; crescendo questi oggetti, la mia vista si confonde, io non posso più numerarli.Al contrario, se dopo d'averne considerato uno gli unisco un altro, e a questa unione appongo il nome due; se a questi aggiungo un terzo,ed allanuova unione appongo ilnome tre,ecosi di seguito, caratterizzando con parole distinte ogni aumento progressivo d'unità, arriverò ad annoverare moltissimi oggetti facilmente. Alla stessa maniera,se ogoi volta che voglio pensare ad una persona,sono costretto a richiamarmi ad una ad una tutte le sue qualità, onde non confonderla con un'altra ,  Le note tracciate sulle carte di musica rappresentano i suoni che si eseguiscono daglistrumenti; le parole pronun ciate o scritte rappresentano le idee che si piagono bel l'animo. 1   mi troverò nel massimo imbarazzo.Siano,a cagione d'esem pio,come segue,lequalitàd'una persona: Fisiche= Sessomaschile,anni20,capellibiondi, fronte alta, cigli biondi, occhi neri, naso lungo, bocca grande, meoto prominente,marca nera sulla guancia destra, mano sinistra storpia,piede destro zoppo,linguaggio balbettante, accento francese. Morali= Melanconia,dissolutezza,mancanzaallepro messe, viltà,abitudine alla menzogoa, jocostanza .... Civili= Patria,Rodez inFrancia,condizione,awmo gliato, professione, possidente... Se la mia attenzione deve afferrare tutte queste idee alla volta, si troverà insufficiente al bisogno; molto maggiore si farà la difficoltà, se per pensare nel tempo stesso ad altra persona , sono costretto a schierarmi avanti alla mente con egual melodo tutte le qualità che la caratterizzano. Se al contrario chiamo la prima Pietro, la seconda Paolo , potrò facilmente richiamarmi l'una e l'altra, distinguerle tra di loro, paragonar!e insieme.... Queste parole sono poi ancora più necessarie,allorchè si vogliono esprimere le qualità comuni a molti oggetti, a cagiode d'esempio, le qualità che si trovano in tutti gli u o miniod intuttiglianimali,ilchecostituisceleideeastratte, come sidissedisopra,ovveroallorchèsivoglionoesprimere gli oggetti creati dalla nostra mente, come le idee di gloria, d'iofamia , di virtù, di vizio ... Sebbene quando pronuncio le parole uomo , animale. non mi si schiarino alla mente tutte le idee elementari che bo unito a queste parole , cionnonostante ne veggo il  140 TEORIA DELLA SENSAZIONE porto, ne seolo le differenze, ne scorgo le somiglianze, alla stessa'maniera che sebbene pronunciando i numeri 100,000 e 10,000 non vegga le unità che li compongono , so però che l'uoo sta all'altro come 100 a 10, ovvero come to a 1, e conoscendo la maniera con cui questi dumeri sono stati formali,posso,ogni voltache voglio,separarne lemaggiori masse , scendere alle minori , per arrivare alle minime e fi. palmente agli elementi.Supponete che per isbaglio qualcuno invece di dire che 1000 è decuplo di100 ,dica che 100 ė decuplo di 1000 ; ben tosto l'abitudine chenoi abbiamo acquistata d'attribuire a queste parole certe relazioni tra di esse,agisce sulloro suono, e cifa scorgere all'istante l'as surdità dell'accennata proposizione. Il linguaggio si è per rap   141 noi come quelle traccie che il piede del viaggiatore imprime sull'arena di un vasto deserto, le quali lo guidano, quand'egli voglia,al punto doode parti. Le parole che nella loro origine eranonomi propri, diveonero insensibimente nomi appellativi. Può in conse guenza accadere in forza delle associazioni ideali e sentimen taliche uo nome generalerichiami uno degli individui ai quali s'applica. Ma lungi che ciò sia necessario alla forza del raziocinio, è sempre una circostanza che tende ad illu derci.Si può paragonare uno spirito che ragiooa ad un giu d i c e c h e d e v e d e c i d e r e t r a c o n t e n d e n t i. S e i l g i u d i c e n o n conosce se non le loro relazioni al processo,s' egli ignora i loro pomi , s'egli li designa per lettere dell'alfabeto o pe’no mi fittizidiTizio,Cajo,Sempronio,eglièquasinecessaria mente imparziale.Cosi in una serie di ragiopanenti noi cor riamo medo rischio diviolare le regole della logica,allorchè la nostra attenzione si fissa sui semplici segni,e quando l'im maginazione, presentandoci oggetti individuali, non esercita sulnostro giudizio la sua influenza e non viene a sedurci con accidentali associaziooi. Le parole facilitano vie maggiormente l'esercizio del pen siero, 1.° Quando il loro suono imita il suono della cosa espressa , come sono le parole belato, cigolio,scricchiolare. Anche le parole tracotante, orgoglioso, baldanzoso .... colle vocali piese rinfiancate dalle acconce consonanti,e colla moltiplicità delle sillabe spirano una cerla audacia di suono analoga all'indole dell'oggelto che esprimono ; 2.° Quando accennano l'uso o la proprietà della cosa indicata; cosi Fieberrinde o scorza della febbre nel linguag gio tedesco, che accenna l'uso e laproprielà di questo ve getabile , é preferibile alla parola Quin-quina. Per la stessa r a g i o n e l e p a r o l e c u i il n u o v o s t i l e i n d i c a v a i m e s i n e l l ' a n n o , avevano più pregi che quelle dell'antico: fiorile ossia il mese d e ' f i o r i, v e n d e m m i a t o r e o s s i a il m e s e d e l l a v e n d e m m i a , e r a n o nomi ben più espressivi che maggio e oltobre.... ATTENZIONE ERAZIOCINIO.  Al contrario, allorchè si dà il nome di Pino del Nord al'alberoprezioso chetuttelenazionimarittimeriguardano come migliore per le alberature , si fa supporre che questi bei pininon possono crescere s e donne'climi glaciali, mentre trovansi nella Lituania,in altre provincie più meri dionali, in quelle stesse i cui fiumi corrono verso il Mar Nero.   La parola Gallo d'India rammentando che questo ani male è natio d'America, fu ignolo ai Romani , venne uel l'Europa oel 16.° secolo, è per più titoli preferibile all'insi gnificante parola pollo. Coquetterie infrancese(civetteria)rappresentaalvivo ilcarattere d'una donna galante, che tiene a bada mille amanti,a guisa d’no gallo che vezzeggia cento galline ad un tempo (1). Al contrario allorchè gli antichi chimici ci parlavano del fegalo di zolfo, del butirro d antimonio dei fiori di zinco .... spingevano il pensiero sopra immagini non applicabili agli oggettiche volevano iudicare; 3.° Quando le parole serbano tra di esse un cerlo rap porto costante,come leparole quaranta,cinquanta, sessan ta,sellanta,Ollanta,novanta,ciascuna dellequaliavendo la stessa desinenza , è formata dalla moltiplicazione del fat. comune dieci, ne'numeri naturali quattro, cinque, sei....dello stesso ordine progressivo de numeri nalurali. Siano i nomi delle nuove misure Myriametro uoilà di Kilometro unità di Ectometro unità di (2) L'influenza del linguaggio sulle operazioni del pensiero si scorge sulla nazione chinese ; la quale , a fronte delle altre incivilite,  142 TEORIA DELLA SENSAZIONE 0.01 di metro Centimetro unità di 0.001 di metro Si vede che dalla massima alla minima misura v'è una pro. gressione decrescente che segue la stessa legge, di modo che essendo data una di esse, si possooo ritrovare le prece deotie lesusseguenti.Alcontrarioleantichemisuredipo sla,lega,lesa,pertica,passogeometrico,passo ordinario, braccio,auna,piede,pollice,linea,punto....non es sendocrescentio decrescentinellastessaproporzione,D00 aveodo tra di esse rapportocomune, confondono la m e m o ria ( V. p. 80 , 81 ), e colla notizia d'una di esse non si può giungere alla cognizione d'alcun'altra;dicasi lo stesso dellealtremisure ede'pesi puovi ed antichi,calcolati iprimi in ragione decupla e costante, i secondi senza nessuna ra gione graduata e regolare (2). (1) Cesarolti. tore Decimetro unità di 0.1 di metro Metro upità di 10 metri 10,000 metri 1,000 metri Decametro 100 metri unità di   ATTENZIONE E RAZIOCINIO. 143 diritla,ne avrò ildoppio in questa.Dimando qual è il u nunero de'gettoni che avevo da principio in ciascuoa 6 mano? « Qui si banno due condizioni note, o , per parlare « come i malematici, due dati; l'uno, che se fo passare 6 un gellone dalla diritta alla sinistra , ne avrò egual o u u mero in ambe le mani ; l'altro che se lo fo passare dalla « sinistra alla diritta, ne avrò il doppio in questa. Ora roi «vedete,che,s'eglièpossibiletrovareilnumero ch'iovi u dimando , ciò non può farsi, se non osservando le rela « zioni che haono i dati fra loro; e comprendete che tali « relazioni saranno più o meno sensibili, secondo che i dali « saranno espressi in un modo più o meno semplice. quan u do le si toglie un gellone , è eguale a quello che avete u nella sinistra, quando a lei se ne aggiunge uno , esprime « reste il primo dato con molte parole. Dite dunque più ubrevemente:ilnumero dellavostradestra,scemalod'una unità,è uguale a quello della sinistrapiù un'unilà;ov « vero:ilnumero della destra meno un'unità è uguale a si può dire quasi barbara, sottomessa ai pregiudizi più assurdi, sta zionaria da più secoli,altesa l'imperfezione della sua lingua.Mentre le nostre liogue d'occidente e le più belle d'oriente riproducono lulle leparole con un solo numero di lettere diversamente combinate , nella lingua chinese, quasi ciascuna parola ha il suo segno partico lare; lo studio della scrittura esige quindi un tempo infinito. L'in certezza e l'indeterminazione del senso delle parole passando a vi cenda dal linguaggio orale alla scrittura,dalla scrittura al linguaggio orale, producono una confusione da cui i più dotii possono appena schermirsi colla più grande fatica.Egli è evidente che siffattalingua non è buona che a perpetuare l'infanzia d'un popolo , desaligando seoza 'frutto le forze degli spiriti più distinti, ed offuscando nella loro sorgente ipriini Jampi della ragione. Gioja. Elein, di filosofia. « Se voi diceste : il numero che avete nella destra  4. Acciò il discorso faciliti l'esempio del pensiero,è necessario che sia minimo il numero delle parole,invariabile l'oggetto indicato,precisata, ovunque è possibile, la quantità · trarrò l'esempio da Condillac: isAvendode'gelloninellemiemani,senefo passar « uno dalla mano dirilla alla sinistra, ne avrò tanti nell'una « quanti nell'altra; e se nefo passar uno dalla sinistra alla « Non si tratta d’indovinare codesto qumero , facendo « delle supposizioni ; bisogna trovarlo ragionando e passando « dal cognito all'incognito per uoa serie di giudizi. 11   quello della sinistra più un'unità ; o infine ancor più bre «vemevle:ladestraweno unoegualeallasinistrapiùuno. pio in questa. Dunque il numero della mia sinistra sce malo d'una unità è la metà di quello della destra accre « sciuto d'una unità; e per conseguenza esprimerete il se « condo dato dicendo : il numero della vostra mano diritta « accresciuto d'una unità è uguale a due volte quello della 6 vostra sioistra scemato d'una unità. « Tradurrete questa espressione in un'altra più sem “ plice , se direte : la destra accresciuta d'un'unità è uguale « a due sinistre scemate ciascuna d'uu’unità ; e giungerele “ a questa espressione la più semplice di tutte : la dirilla « più uno uguale a due sinistre meno due. Ecco dunque le « espressioni, alle quali abbiamo ridotti i dati : u Questa sorta d'espressioni chiamasi equazioni in m a «tematica.Sono compostediduemembriuguali.Ladirilla u m e n o u n o è il p r i m o m e m b r o d e l l a p r i m a e q u a z i o n e : l a « sinistra più uno, il secondo. « Le quantità incognite sono inescolate alle cognite in 6 ciascuno di questi membri. Le cogoite sono meno uno più uno , meno due : le incognite sono la diritla e la sini “ sira, coo cui espriaiete idue numeri che andate cercando. « Finchè le cognite e le incognite sono cosi mescolate w in ogni membro delle equazioni,non è possibile risolvere u ilproblema.Ma nou v'è bisogno d'un grande sforzo du « riflessione per osservare, che se vba un mezzo di traspor “ tare lequantità d'un membro all'altro, senza alterare « l'eguaglianza che passa tra loro, possiano , bon lasciando « in un membro che una sola delle due incogaite; sepa “ l'arla dalle cognite, colle quali è mescolala. Questo mezzo si preseula da sè stesso; perchè se la « diritlameno uno è uguale alla sinistra più uno, duoque  144 TEORIA DELLA SENSAZIONE « Per tal guisa di traduzione in traduzione arriviamo « alla più semplice espressione del primo dato. Ora quanto « più abbreviarete il vostro discorso, più si ravvicioeranno « le vostre idee,e quanto più saraono vicine, più vi sarà « facile di conoscere tutte le loro relazioni. Ci resla a tral * tare il secondo dato come il primo , e bisogna tradurlo u nella più semplice espressione. « Per la seconda condizione del problema, s’io fo pas “ sare un geltone dalla sioistra alla diritta, ne avrò il dop « La diritta meno uno uguale alla sinistra più uno. « La dirilta più uno uguale a due sioislre meno due.   ATTENZIONE E 'RAZIOCINIO. 145 « La diritta uguale alla sinistra più due. « La diritta uguale a due sinistre meno tre. « li primo membro di queste due equazioni è laslessa quantità; la dirilta; e vedete che conoscerete questa quan lità, quando conoscerete il valore del secondo membro e dell'altra equazione. Ma ilsecoodo membro « della prima è uguale al secondo della seconda , poiché « sono uguali l'uno é o altro alla stessa quantità espressa “ dalla dritta; duoque potete formare questa terza equa u ziove: « La sinistra più due uguale a due sinistre meno tre. « Due più tre uguale a due sinistre meno una sinistra. « Due più treuguale ad una sinistra. “ Cinque ugualead una sinistra. « Il problema è sciolto. Avete scoperto che il numero de'geltooi che ho nella mano sinistraè cioque.Nelle equa u zioni , la diritta uguale alla sinistra più due , la diritla uguale a due sinistre meno tre, troverete che sette è il nu 6 Inero chc ho vella diritta. Ora questi due numeri cioque 6 e sette,soddisfanno alle coodizioni del problema. quando un problema è così facile,come quello scioltopur 6 ora, essa ne abbisogna maggiormeote, quando iproblemi  66 65 56 dell'una « la diritla jolera sarà uguale alla sinistra più due: e se la “dirittapiùunoèugualeadue sinistremeno due,dun « que la diritta sola sarà uguale a due sinistre meno tre: « Sostituirete dunque alle due prime le due seguenti equa zioni. 6.Allora non vi resta che una incognita, la sinistra, e a ne conoscerele il valore , quando l'avrete separata, vale a » dire,falte passare tutte lecogoite dalla stessa parte. Di - rete dunque Voi vedete sensibilmente in queslo esempio come la asemplicitàdelle espressionifacilitailraciocinio,ecom ú prevdele che se l'analisi ha bisogno di tal linguaggio sono complicati. Così il vantaggio dell'analisi nelle male 6 m a t i c h e n a s c e u n i c a m e n t e d a l p a r l a r e s s e il l i n g u a g g i o p i ù “ semplice.Una leggiera idea dell'algebra basterà per farlo 6 ipleadere » (1). (1) « In questa lingua non si ha bisogno di parole. Il più si «esprimecolseguoto,ilmeno cou--;iuguaglianzacon « siindicaou le quantitá con lellere o citre:Ý , per es.,sarà ilnu 6 mero de'geltoni che ho nella destra, e Y quello della sinistra. e   Non sarà fuoridi proposito l'osservare che non alla sola semplicità del linguaggio, come pretende Coodillac , sonodebitricidellaloroperfezionelematematiche,ma anche 1.o alla prudenza de'loro seguaci, la quale consiste nel rite nersi nei limiti delle sensazioni e loro rapporti; 2. all'inva riabilitàde’rapportitraglioggettidaessichiamatiad esa m e ; 3.o alla possibilità di sottomettere le loro conclusioni alle verificazioni de'sepsi e degli strumenti. Cominciamo dal 1.°:esistono degli oggetti estesi;ecco la sensazione: glioggetti estesi possono misurarsi gli uni per gli altri; ecco l'osservazione che produce la geometria. L'es. senza dell'estensione, gli elementi che la compongono, s o n o indagini che i matematici abbandonano agli oziosi metafisici, e quindi non si espongono ai loro errori. Dite lo stesso delle altre quantità esaminate dai matematici. a « Cosi X – 1 = Y to 1, significa che il numero de'gettoni che ho « nella destra, scemato d'un'unità è uguale a quelloche ho nella asinistra,accresciutod'un'unità,e X41 =2Y -2,significache « ilnumero della mia destra accresciuto d'un'unità è uguale due volte a quello della mia sinistra diminuito di due vuità.Ï due dati « del nostro ploblema sono dunque rinchiusi in queste equazioni: 5Y •FinalmentedaX = Y+ 2,caviamoX = 5 to 2= X = 2 Y - capiamo egnalıneote X = 10  146 TEORIA DELLA SENSAZIONE 2. « X fo 1 = 2 Y - 2 che diventano, separando l'incogoitadel primo membro “Y +2= 2Y - 3 a che diventano successivamente 9 6X uX 2.Y -3 « De'due ultimi menibri di queste equazioni facciamo 662 2Y "2*3=2Y-Y “2of3= Y lamatematicanonvisonocircolipiùomeno ro tondi, linee più o meno perpendicolari,superficie più o meno quadrate , la misura di tutti i triangoli è uguale alla base moltiplicata per la metà dell'altezza....E quando un rapporto come quello del diametro alla circonferenza, cagiond'esempio,nonpuòessereespressoconesattezza i matematici continuano ad essereesatii,additando la quan tità relativa all'uso che se ne debbe fare, e che i seosi più 6X – 1 = Y to 1 66 Y+2 0 7;cda 3   ATTENZIONE E RAZIOCINIO. 147 fini non potrebbero additare con precisione maggiore.I m a tematici non dicono,ilcircolo sirassomiglia al triangolo come un oratore dirà, l'uomo si rassomiglia al lione, e sarà costretto a lunga circonlocuzione per fissare la specie di ras somiglianza ch'egli annunzia, CAPO VIII. Allasorpresadeve succedereinciascunolapersuasione divedereun essereinteramentesimilealui,essendosimili le forme e i moti esteriori (pag. 25 , 26 ). Infatti meolre it selvaggio A,acagioned'esempio,staccaun frattodalvi cino albero, il selvaggio B , che si ricorda d'avere fatto più vollelostesso,spintodallafame,conchiudecheA èmosso (1) I tre antecedenti riflessi dimostrano falsal'asserzionedi Con dillac, cioè che « le matematiche non bando sulle altre scienze altro «'vantaggio che di possedere una migliore lingua,e che si procure “ rebbe a queste uguale simplicità e certezza , se si sapesse dar loro « de'segnisimili».Languedu Calcul,pag 7,8,218.  Continuazione dello stesso argomento. 3.° Le ideematematiche possono essere rese esteriori, cioè visibili, palpabili, misurabili, in una parola sono suscel tibilid'esseregiudicatedai sensiedaglistrumenti.Coll'ajuto delle cifre e delle figure tracciale sulla tavolta,o rappre sentate da corpi solidi,iconcetti matematici compariscono rivestiti di forme visibili per chi ha gli occhi , tangibili per chi ne è privo. L'espressione dei rapporti di quantità è sol tomessa ad una verificazione sensibile, facile, immediata ; n i s s u n o h a f i n o r a o s a t o r i g e t t a r e il g i u d i z i o d ' u n a b i l a n c i a , o sospettare l'imparzialità d'una tesa, o la veracità del gra fomeiro ... (1). 9 1. Cenno sull'origine delle lingue. Colla scorta de'principii esposti nell'antecedente sezione, ci sarà agevole cosa il seguire i filosofi nelle congetture con cui spiegarono l'origine delle lingue. Si suppongano due selvaggi A e B che s'incontrano la prima volta. Il primo sentimento che si svolgerà oel loro animo,sarà lasorpresa sempre figliadella novilà. !   Queste conclusioni si rinforzano in ragione de'movimenti e delle azioni che ciascuno eseguisce, perchè a queste azioni sono associate idee e sentimenti uguali. B inteude dunque le azioni di A , leggeodo nel proprio animo e consultando la propria memoria. A intende le azioni di B per gli stessi motivi ; si può dire che l'uno è specchio all'altro. B accorgendosi che comprende le azioni di A ,conchiude che A comprende le sue. B compresii sentimenti di A ,vedeodogli eseguire certe azioni;eglicercherà di far comprendere isuoi,ripetendo le azionistesse:ecco illinguaggio de'gesti. I sentimenti da comunicarsi o riguardano oggetti esterni presenti o lontani, ovvero riguardano gli interni sensi del l'animo. Allorchè l'oggetto è presente, gli occhi direlti verso di esso,ildito che loaccenna,labacchettachelolocca,il corpo che si slancia verso di esso o se ne allontana , for mano tutto ildizionario della lingua:questi segni possono essere chiamati indicatori. Allorchè si tratta d'oggetti lontani , per esempio , d'un animale che si riuscì ad uccidere, o d'un altro da cui si fu morsi,ilselvaggio ne ripete l'accento,l'urlo,ilgrido,e ne esprime cogli atteggiamenti delle mani, delle braccia, della testa le forme piùrimarchevoli. Questi segni possono essere chiamati imitatori. Il rumore prodotto da un torrente che precipita, da un monte che scoscende, dal vento che fischia,  148 TEORIA DELLA SENSAZIONE da uguale sentimento. A porta alla bocca il frutto e lo m a stica; B rammentando ilpiacere che provò mangiandolo, con chiude che A lo prova ugualmente. Ad improvviso rumore A sospende l'operazione del mangiare, alza il capo immota col guardo fisso dal lato donde proviene il romore ed in attodi chi tende l'orecchio; B colpilo dallo stesso rumore e dagli atti di A , sente sorpresa e timore , e conchiude che A è sorpreso e intimorito.Cessato il rumore, A riprende tranquillamente l'operazione del mangiare; la calma che suc cede nell'animo di B gli dice che A si è calinato. Dopo questa scoperta il bisogno reciproco di comuni. carsi a vicenda i propri sentimenti sembra naturale , perchè è naturale la reciproca debolezza e comuni i pericoli. I due selvaggi intendendosi reciprocamente, possono sperareun ajuto ne'loro bisogni, un sollievo de loro dolori, una difesa contro gli assalti delle beslie feroci,   ATTENZIONE E RAZIOCINIO. 149 I segni indicatori, imitatori, figurati, divengono triplice canale dicomunicazione pe'sentimenti e leidee in forza delle leggi d'associazione. Classificando gli elementi di questo linguaggio secondo la natura de materiali che servono a formarlo, se ne distin gueranno tre specie, i gesti, le parole, la scrittura sim bolica. (1) La storia antica ricorda spesso l'uso de'simboli anche presso nazioni già uscite dalla barbarie e sopratutto pressole nazioni orien tali. Dario essendosi inoltrato nel territorio della Scizia colla sua ar mata,ricevettedalredegliSciti un messo che,senza parlare,gli  daltuonochescoppia. ilcantodegliuccelli,gliaccenti delle passioni sono altretanti suoni che il selvaggio ripete per farneiolendere l'oggetlo ad ogni momento di bisogno,ac compagnandoliperlopiùcoigesti. Se91 Allorché sitratta di esprimere i propri bisogni, i pro pri timori,in somma le affezioni che von simostrano ai sensi, il selvaggio ripete dapprima quelle attitudini del corpo c h e le a c c o m p a g n a n o ; p e r e s e m p i o , B v e d e o d o il l u o g o o v e rimase spaventato , ripeterà i gridi e i moti dello spavento , accidA nonsiespoogaaldaonocuifuespostoeglistesso. Un sordo e muto volendo indicarci,che fu calpestato da un cavallo, esprime dapprima con ambe le mani,il moto preci pitoso de'piedi del cavallo, quindi accenna ilproprio corpo c h e c a d e s u l s u o l o ; p o s c i a r i p e t e il m o t o d e l c a v a l l o , e s c o r r e colle mani le varie parti del corpo nelle quali fu calpestato. Dopo i segni esterni che accompaguano gli affetti, il sel vaggio,aguisade'sordie muti,coglielasomiglianzache scorge tra i sentimeoti dell'animo e le qualità de'corpi esterni, e si serve di queste per indicare quelli; per es., le passioni vive s'assomigliano alla fiamma, il loro contrasto allatempesta,la loro calma a cielo sereno,l'animo dubbioso a due mani che pesano due corpi...; ecco i gesti simbo lici e figurati. La prima specie comprende le azioni e le attitudini del corpo impiegate per imitare le forme e i moti degli oggetti esteriori;la seconda , gli accenti della voce con cui si ripe tono i gridi degli animali, e i suoni che accompagnano il moto degli esseri inanimati ; la terza, la pittura che si farà soventi sulla sabbia , sulla corteccia degli alberi, od altro , sia degli oggetti che si vuole indicare ,sia delle azioni che vi si riferiscono (1).   I suoni della voce altrondee le articolazioni che gli ac compagnano , possono, sia per sè stessi, sia per la loro c o m binazione, presentare colleidee molteanalogie che non col piscono a prima vista, ma che sono facilmente sentite ed avidamente accolte dalle società che si pregiano di dire molte cose nel ininimo tempo, e colla minima fatica possi bile. Il linguaggio articolato dovette dunque arricchirsi di giorno in giorno. L'invenzione delle parole indicatrici de generi e delle specie,impossibile aspiegarsi agiudizio di Rousseau, sem bra facilissima, giacchè se un albero particolare A in dato luogoe tempo fu iodicato colla parola albero, è cosa natu. rale che la stessa parola venisse applicata ad un albero sia m i l e , q u i n d i a d u n t e r z o , a d u n q u a r t o . . . . C o s i c c h è si per mancanza d'altra parola che io forza della legge d'aoa. logia (pag. 24 e 25)il nome proprio dovette divenire no me appellativo. Si giunse finalmente a far uso di segoi affatto arbitrari e vi si giunse in due maniere; dapprima per la degenera zione successiva del linguaggio primitivo e imitatore, poscia per convenzioni espresse. dodicipezziilcadavere,e glispedi alle dodici tribù di I s r a e l e , i n t e n d e n d o c o s i d i r e n d e r e c o m u n e a d e s s e il s u o d o l o r e , e chiamarle alla vendetta. Il suo linguaggio fu inteso e il suo desiderio soddisfatto:la tribù di Beniamino fu sterminata.  150 TEORIA DELLA SENSAZIONR De'gesti non si può fare grande uso nelle tenebre de con persone alquanto distavti;la scritlura simbolica,benchè più perfetta de'gesti e permanente, soggiace agli stessi in convenienti, oltre di essere più difficile: al contrario gli accentidella voce,pronti,facili,variabiliintuttelemaniere, pon tolgono dall'occupazione chi ne fa uso, e lasciano il potere di parlare e diagire; queste ragioni fecero prevalere i suoni articolati. De'dotti laboriosi hanno spiegato come la lingua pri mitiva alterata dal tempo, dallamischianza del popolo, e da diverse altre cause, si trasformò nelle nostre liogue moderne ; presentóun uccello, un sorcio, una rana e cinque freccie; col quale simbolo il re voleva dire che se i Persiani non fuggivano come gli uccelli,nonsinascondevanointerracomeisorci,nonsisommer. gevano nell'acqua come lerane,cadrebberovittimedellefrecciedegli Scili Il Levila d'Efraim volendo vendicare la morte della sua sposa , ne fece   ATTENZIONE E RAZIOCINIO. 151 e come questa alterazione seguendo un corso differente nei differenti paesi, rese le lingue sì dissimili tra di loro. Quanto alle convenzioni che furono fatte,non è neces sario molto schiarimento. Si osservò che le parole non erano segni d'idee e di sentimenti, se non perchè gli uomini ac consentivano a prestar loro lo stesso senso. Allorchè dunque conveone esprimere delle idee nuove, pulla si trovò di più semplice che d'intendersi per scerre loro una parola. Questa convenzione, formata dapprima tra di quelli che avevano più pressante bisogno di designare questa idea, divenne in seguito comune agli altri. Ciascuna arte, ciascuna scieoza presentò le sue parole alla società , e lingue particolari. I segni arbitrari dovettero laloro forzasolamente alla doppia abitudine di quelli che gli impiegano e di quelli a cui si dirigono. S 2. Cause de'diversi sensi associati alle stesse parole. II Queste azioni,questi segni esteriori,che il ragazzo imita, sono uniti (nella mente di quelli che gli servono di m o dello)a deisentimenti;questi sentimentilosonoadalcune idee ; i sentimenti e le idee a suoni articolati. Il ragazzo imita dapprima i movimenti, ripete poscia i suoniarticolatio leparole,acagione d'esempio,padre, madre, vizio, virtù, religione, demonio ....  Il ragazzo non ha bisogno d'inventare i segni artificiali delle idee; egli gli impara soltanto; ciò che per gli antichi fu un lungo sforzodi genio, non è per lui che un esercizio meccanico della memoria . Bentosto il ragazzo deve provare un principio disenti mento , ridendo all'altrui riso, piangendo all'altrui pianto, fremendo all'altrui fremilo ... benchè ne igoori la causa. Ma l'idea,s'ellaesiste,essendosemprelapiùdiffi cile, la più lontana, la meno interessante a conoscersi, il ragazzo èimitatore come lascimia (pag.41).Gli a l t r u i m o t i , i g e s t i , l ' a c c e n t o , P a r i a , il t o n o , t u t t i g l i a t t esteriori lo colpiscono nei primi anni della sua vita e d o c cupano la sua attenzione;egli è spinto ad imitare ed arió petere tutto ciò che vede, ed isuoi organi mobili cootrag. gonol'abitudinedimolte azioni,priache ilpensierosia capace di penetrarne lo scopo e d'osservarne ilmotivo (ins ginocchiarsi,fareilsegnodella croce,piegarela fronte, giungere le mani , levarsi il cappello, fuggire nelle tenebre, baciar l'altrui mano , fare inchini.... )   La ripetizione frequente diquesti suoni,gesti,sentimenti gli unisce con stretti nodi e taliche quando i suoni vengono a colpirel'orecchio o sipresentano alla memoria,spingono gli organi motori ai gestirelativi, e il sistema sensibile agli associati sentimenti.Questa è la cagione per cui esempi ripe tuti, antiche abitudini forzano la maggior parte degli uomini ad ammirare , fremere, tremare,sdegnarsi, passionarsi in tutti imodi al suono delleparole le più insignificanti,le più va ghe , le più vuote d'idee, e che appunto per la violenza dei sentimenti associati si sottraggono alla apalisi. Conviene a n che osservare che più le parole sono confuse ed oscure, più piacciono e soddisfanno il gusto degli ignoranti (1). Queste ragioni ci spiegano il motivo per cui le stesse cose fanno impressioni diverse, secondo che sono pronunciate in una lingua o in un'altra. Si osservò , dice Rayoal , che i Giudei stabiliti in gran numero alla Giamaica si facevano giuoco d'ingannare itribunali di giustizia.Un magstrato so spettò che tale disordine potesse provenire d a ciò che la B i b bia,su'dicuidovevanogiurare,eratradottainidioma in glese;fu quindi decretato che per l'avenire iGiudeigiure. rebbero sul testo ebraico.Dopo questaprecauzione glisper giuri divendero infinitamente più rari.Per simile motivo A u gustolasciòsussislereeademmagistratuum vocabula,acciò ilpopolo conchiudesse che sussisteva ancora la repubblica, s u s s i s t e n d o i n o m i d e l l e s u e m a g i s t r a t u r e , e il r i s p e t t o m a c chioale eccitato neglianimi popolari dalle parole si,fis sasse sulle nuove cariche che ritenevano le antiche denomi nazioni. (1) Nel 1666 trovandosi Leibnizio a Nuremberg seppe che ri era in quella città,una compagnia di chimici , che col più profondo se greto travagliavano alla ricerca dellapietrafilosofica.'Ildesideriod'en t r a r v i, g l i s u g g e r i o y ' i d e a c h e p r o d u s s e l ' e f f e t t o b r a m a t o ; e g l i e s t r a s s e dagli antichi alchimisti una serie di frasi oscure , la cui unione for mava una lettera più oscura ancora e non intesada luistesso.Questa lettera divenne un titolo peressere accolto: Leibnizio, tanto più a m mirato quanto meno inteso, fu riconosciuto addetto esegretariodella società.Bailly, Éloge de Leibnitz.  152 TEORIA DELLA SENSAZIONE ragazzo o non la verifica che tardi, come l'idea di padre, o non la verifica che in parte, come quella di vizio, o,non la verifica mai nè può verificarla, come l'idea di demonio , magia,angelo,fortuna esimili.   Per eguale ragione, allorchè le idee più belle e più su blimi vengono tradotte in lingua usuale,bassa, plebea, per dono parte di quel pregio che conservano in una lingua an tica o straniera. Quella specie di spregio che si attacca agli usi volgari e quella specie di rispetto che va unito alle lin gue morte od estere, sembra comunicarsi all'idea e degra darla a'nostri occhi o sublimarla. L'indeterminazione del linguaggio più in morale e legi slazione ha luogo,cbe nelle arti e nella storia naturale:gli oggetti di queste sono verificabili e misurabili coi sepsie cogli strumenti , quindi le stesse parole risvegliano in tutti presso a poco lestesse idee:al contrario gli oggetti morali non essendo verificabili con eguale precisione, restano nella nebbia della fantasia; le parole, da cui vengono indicati, partecipano della loro oscurità ed incostanza,eper lopiù risvegliano idee diverse nelle diverse teste in ragione delle circostanze in cui furonoapprese (V.pag.27-29).Pre tendere che le slesse parole ( principalmente se trattasi di cose morali)risveglinointuttele stesseidee,eglièpre tendere che quando è mezzo giorno a Milano sia mezzo giorno dappertutto. Nei giardini d'Epicuro la parola virtù risvegliava idee ridenti e piacevoli; sotto i portici di Zenone, idee fosche e melanconiche. Legge significava la volontà di lutti per un Greco , la volontà d'un solo per un Persiano. le indicava per l'addietro un despota sciolto da ogni legge, attualmente quest'idea è più limitata , ed ha diversi signifi, cati a L o n d r a , A m s t e r d a m , C o p e n h a g u e. Libertà nella m e n t e del filosofo indica la somma delle azioni non vincolate dalla Jegge;nellamentedel volgo,lafacoltàd'invadereibeni de'ricchi e di far nulla. Il massimo danno dall'indetermina zione delle parole si fa sentire ne'trattati tra,le nazioni, in cui la loro ambiguità diviene,causa o pretesto di guerre, nei codici criminali in cui l'oscurità d'una frase estende Barbi. trio del giudice a danno dell'innocente ( ),ne?contratti, nei codici civili, nelle tariffe daziarie, in cui l'incertezza d'un'e spressiooe è fonte di mille liti tra i cittadini, e vessazioni al (1) Havvi alla China noa legge che condanna a morte quegli che non mostra sufficiente rispetto alsovrano. Comparve un giorno nella gazzetta della Corte un aneddoto non raccontato con perfetta esaltezza : il redattore fu arrestato, e i tribunali décisero'che mentire nelle gaz zelte della corte era non mostrare sufficiente rispetto al sovrano , quindi il redattore fu messo a morte,  ATTENZIONE E AAZIOCINIO.“ 153   commercio. La divisione uniforme del regno in dipartimenti, distretti, cantoni,comuni, l'uniformità de'pesi, inisure, monete , gli stessi libri nelle università , la stessa educazione ne'licei.... lendono a dare alle parole la stessa significa zione, a diminuire le dispute, e quindi una somma noo de. finibile di coilisioni sociali. Oltre l'indeterminazione del linguaggio proveniente dal modo con cui l'impariamo e dalla natura dell'oggello che esprime,bisogna dire che in ogni lingua non v'baquasi una parola che rappreseoti sola una idea chiaro-distinla da se stessa;lutte prendono sensidiversi dal posto che occupano nel discorso,dalle parole che le seguono o le precedono, dall'accento, dal gesto, dagli atti che le accompagnano. La medesima parola unita ad alcune ti mostra un dato espelto d'idee,uo altro,sesicollegaconaltre;piùavanti,piùin dietro le ne farà vedere dei diversi; detta con un tuono as severante, ha un senso; con un tuono di meraviglia, un allro; con irrisione, un terzo; con inlerrogazione, un quar to. ..cosicchèsipotrebbeassomigliareleparoleaicolori delle peone d'un colombo, che variano secondo ilmoto del s o l e , d e l c o l o m b o , 'd e l l ' o s s e r v a l o r e . Sono quindi quovi,footi d'errori i diversi sensi che le stesse parole esprimono passando da un ordine di cose ad un altro. Un oratore, dopo avere esaltato i nomi di molti personaggi illustri dell'antichità, si dirige così a'suoi udi iori:ingrati chenoisiamo!noi cilngniamo della brevita della vita, mentreiè innostro polere di renderci immortali. Egli è evidente che questa argomentazione confonde due m a niere di vivere che sono distiolissime e diverse. : Lo stesso difetto sifa vedere nella seguente massima di Rousseau :.... se la natura ci ha destinati ad essere sani, l'uomo che medita è un'animale depravato. Perchè questa sentenza fosse'vera,converrebbe provare che il primo ed unico destino dell'uomo è di essere sano ; che la virtù consiste nella sanità, e che la meditazione è in compatibile coi buoni costumi. Allora un dollo sarà un es sere depravato come ilsoldato che espone la sua sanità e la sua vita in difesa della patria : si potrà dire che ogni a m malato è uno scellerato,un mostro; che un monco è un  154 TEORIA DELLA SENSAZIONE Sano è qui'addiettivo del corpo,e significa uno stato fisico; depravalo è addiettivo dell'auimo,e significa uno stalo morale.   ATTENZIONE ERAZIOCINIO. 157 animale depravalo, avendoci la natura destinati ad essere sani come ci ha destinati ad avere due braccia ... Aliro esempio. Bernardin de Saint Pierre vuole che as. solutamente sibandisca l'emulazione dallescuolepubbliche; e per provarech'ella è inutile,argomenta così: Analizziamo questo argomento: l'emulazione per im parare la lezione, per fare dei temi, per studiare le scienze è inutile ugualmente che per giocare, bere, mangiare. L'e mulazione è dunque da una parte e dell'altra la ripetizione della stessa inutilità, e per conseguenza si devono ritrovare pelll'un caso e nell'altro le medesime cause di questa dop pia inutilità. Le funzioni dell'animo non son esse egualmente natu r a l i, e g u a l m e n t e a g g r a d e v o l i c h e q u e l l e d e l c o r p o ? - - E g u a l mente naturali? lo rispondo di no , se per naturali inten desi necessarie ed imperiose. Egualmente aggradevoli ? Q u e stoèpossibile,ma lacausasirifondenelpiacered'essere applaudito, ammirato, ricompensato; quindi l'autore non s'accorge che coi buoni effetti dell'emulazione lepla di pro varne l'inutilità. Finalmente l'interesse, la mala fede, le passioni lulle a b u s a n o d e l l e p a r o l e , p e r c i ò , a l d i r e d i P a r i n i , il m e r c a n t e è « Pronto inventor di lusinghicre fole 6 E liberal di forastieri nomi 6'A merci che non mnaivarcaro imonti.  уоро campagna,come sono necessarie talvolta per farli stu diare? Questa piccolapopolazione ha forse immaginato delle astuzie, e inventati degli artifizi per allungare gli studi, e per ottenere un tema più difficile? 1 Ho io avulo bisogno nell'infanzia di sorpassare i miei compagni nel bere, mangiare, passeggiare, e per corvi pia cere?E perchèèeglislatonecessariocheimparassiasor passarline'mieistudi,pertrovarcidilello?Non hoiopo. tulo instruirmi a parlare e ragionare senza emulazioni ? Le funzioni dell'animo non son esse egualmente naturali, «gual mente aggradevoli che quelle nel corpo? Ora l'emulazione è inutile oel bere e nel mangiare , per che queste operazioni sono comandate dal più pressante,dal più imperioso de'bisogoi,l'awore della vita;ma quantivi e conciliano la santità e la grassezza coll'inerzia e l'ignoranza ? Gli scolari temono forse tanto le ricreazioni quanto temono la dieta? Sono mai state necessarie le mi nacce ed i castighi per condurli al refettorio o farli partire per la   Cromwel, per coprire le sue viste atobiziose col manto della religione,aveva dato alla maggior parte de'suoi reg. gimentiinomi deisantidelTestamentoVecchio.Cromwel, dice uno scrittoreanonimo di quel tempo,ha ballulo illam buro in tutto ilVecchio Testamento; sipuò imparare la ge nealogia del nostro Salvatore dai nomi de'suoi reggimenti. Il commissario di guerra non aveva altra lista che ilprimo ca pitolo di S. Matteo. In tutti itempi, in tutte le religioni,in tuttiipartili,ilfanatismo,ilquale non sipiccò mai diequità, diede a quelli che voleva perdere, non i nowi che merita vano,ma inoai che potevano loro nuocere.Socrate,che depurando le idee superstiziose, le conduceva all'unità di D i o , r i c e v e t t e il t i t o l o d ' a l e o d a i s a c e r d o t i d i C e r e r e : e m p i o chiamavasi presso gli Egiziani chi von adorava un gatto,un bueourcoccodrillo;sidava daiCartaginesilostessoti toloachiabborrivailsacrifiziodelleumane vittime.Ne'pri mi secoli della chiesa i Pagani davano a lutti i Cristiani il nome di Giudei, sforzandosi direuderli odiosi non potendo dimostrarlı irragionevoli. Alla China i nostri missionari che diffondeodo lareligione di Cristo diminuiscono ilconcorso ai tempii de'falsi idoli, e quindi i proventi de'sacerdoti, ven gono da questi dipinti come ribelli ed accusati di congiura coutro loStato.Le espressioni odiose sono uo'arma troppo favorevolealla calunnia perchè ella non s'affretti a farne uso. Egli è sempre un vantaggio l'avere pronta una parola di sprezzo per caralterizzare i torti che si riaproverano ai propri avversari. Con una di queste parole si prova lutto, si risponde a tutto, si difende la propria opinione, si distrugge l'altrui....APascal,che contantasagacitàsvelònellesue lettere provinciali la corruzione della morale gesuitica, fu ri sposto ch'egli era quattordici volte eretico. Gli uomini saggi si guarderaono sempre dalle espressioni dipartito ed esclu sive, e che traggono seco idee accessorie infinitamente varia bili e talvolta cootrarie. Essi dirapoo, a cagione d'esempio, questa legge è conforme all'interesse pubblico,elo prove r'anno svolgendo la somma de'beni di cui è feconda , ma non diranno , per es., questa legge è conforme al principio della monarchia o della democrazia, giacchè se vi sono delle persone nelle cui teste queste parole risvegliano idee d'appro vazione, ve ne sono altre nelle quali succede tulto l'opposto ; quindi se i due partiti si mettono alle prese, la disputa non finirà che colla stanchezza de'combattenti, e per cominciare  156 TEORIA DELLA SENSAZIONE   ATTENZIONE E RAZIOCINIO. 157 CAPO IX. Combinare od inventare. La ninfa della tignuola d'acqua che si trova ne'nostri fiumi, dice Darwin , e la quale s’involge in cerle casucce di paglia, di sabbia, di gusci,s a ben far si che questa sua abi lazione sia alla ad equilibrarsi coll'acqua ; e perciò quando èsoverchiamentepesante,viaggiungeun bocconcellodipa 'gliaodilegno,equando troppoleggiere,unpezzellodi grossa rena.  il vero esame, converrà rinunciare a queste parole appas sionate ed esclusive, per calcolare gli effetti della legge in bene e in male. Osservano gli storici che nel corso della guerra del P e loponneso successe taletrambusto nelleidee e ne'priocipii, che le parole più usuali cambiarono di senso; si diede il nome didabbenaggineallabuonafede,didestrezzaalladu plicità, di debolezza alla prudenza, di pusillanimità alla m o derazione, mentre i tratti d'audacia e di violenza passavano per slaoci d'animo forte e di zelo ardente per la causa pub. blica. Una tale coofusione del linguaggio è forse uno de'sin tomi più caratteristicidella depravazione d'un popolo.Jo altri tempi si può offendere lavirtù; ciò non ostante se ne riconosceancoralasua autorità,quando lesiassegnano de'limiti; ma quando si giunge sido a spogliarla del suo nome, ella perde i suoi diritti al trono, e il vizio se ne im. padronisce e vi si asside tranquillamente. Per capire ciò che succede allora in una nazione, basterà osservare ciò che succede nelle società de'viziosi e scellerati. I ladri, gli ag. gressori , i monetari falsi, i contrabandieri si formano un linguaggio o uo gergo tutto proprio che confonde tutte le idee di vizio e di virtù. Uniti da sentimenti uniformi, volendo vendicarsi dell'opinione pubblica che li rispioge da sè, si compiacciono ad affrontarla; quindi nel loro dizionario sono escluse tutte le impressioni del rossore, alterati i sentimenti del giusto e dell'ingiusto, associate idee scherzevoli ad atti criminosi e nefandi. Una vespa, continua lo stesso scrittore, aveva colla una mosca grossa quasi com'era ella medesima. Posi le ginocchia a terraper meglio osservare,evidiche ellaseparòlacoda e la tesla da quella parle del corpo a cui sono annesse le   ale. Prese ella quindinelle zampe questa porzione di mosca, e s'alzò con essa dal terreno circa due piedi, ma un venti cello leggiere scuotendo le ale della mosca,fece capovolgere l'animale nell'aria, ed egli scese ancora colla sua preda a lerra. Osservai allora distintamenle che colla bocca letagliò primieramente un'ala, e poi l'altra, e quindifuggi via non più molestata dal vento. Questi due animalelti,che sanno disporre le cose in modo , ossia ritrovare mezzi tali da oltenere il fine bramalo, ci danno le prime idee dell'arte di combinare o invenlare. Duhamel osservò che il felore delle sale degli spedali cresceva, avvicinandosi al soffitto; egli immaginò quindi uo ventilatore che facendo comunicarequesta parte delle sale con l'aria esteriore, caccia laria guasta. La combinazione di Dubamel oon suppone nella disposizione dei mezzi più cognizionidiquelledellatigauolaedellavespa:ma ilfine ottenuto essendo molto vantaggioso all'umanità, la combi nazione è più pregevole ; il pregio di questa combinazione cresce, se siriflette ch'ella è applicabile ad altri oggetli, a cagione d'esempio,ai vascelli in mare. lo fatti vi sono delle combinazioni saggissime profondis, sime , e che suppongono infinita destrezza nell'esecuzione; ma siccome non arrecano alcun vantaggio,non hanno alcun pregio agli occhi del saggio. Boverick,meccanico d'uva de, strezza e d’upa perseveranza prodigiosa, fabbricò una catena di duecento anelli che col suo catenaccio e la sua chiave pesava circa un terzo di grano. Questa calena era destinata ad iocatenare una pulce.Egli fece una carrozza che s'apriva e si chiudeva a inolla, era tratla da sei cavalli, portava quattro persone e due lacchè,era condolia da un cocchiere, ai piedi del quale stava assiso un cane, e il lutto veniva strascioato da una pulce esercitata a questo travaglio.L'in. venzione e l'esecuzione di questa macchina puerile fanno desiderare che Boverick avesse impiegalo meglio i suoi la- lenti.Grice: “”Si suppongano due selvaggi” – exactly my way of proceeding. Gioia has a lot of sense. An engraving’s caption has it: ‘statistico e filosofo’ – And I like the fact that like Socrates he did ‘elementi di filosofia ad uso de’ giovanetti’!” -- Melchiorre Gioia, Melchiorre Gioja. Gioia. Keywords: filosofia ad uso de’ giovanetti, galateo, pulitezza, Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gioia” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51758072475/in/dateposted-public/

 

Grice e Giorello – il libertino – filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano). Filosofo.  – Grice: “I like Giorello: he philosophises on evil and good – the devil wrestles with the angel – but also on Mickey Mouse that he calls ‘topolino’ – “la filosofia del topolino” – and perhaps ore exotically for us Oxonians, on ‘la filosofia di Tex,’ a ‘fiumetto’ of 1948!” –Si laurea a Milano sotto Geymonat). Insegna a Milano. Membro de la Società Italiana di Logica” e de la Societa Italiana di Filosofia della Scienza. Giorello divise i suoi interessi tra lo studio di critica e crescita della conoscenza con particolare riferimento alle discipline fisico-matematiche e l'analisi dei vari modelli di convivenza politica. Dalle sue prime ricerche in filosofia e storia della matematica, i suoi interessi si erano poi ampliati verso le tematiche del cambiamento scientifico e delle relazioni tra scienza, etica e politica. La sua visione politica e di stampo liberal democratico e si ispira, tra gli altri, a Mill.  Si occupa anche di storia della scienza in particolare le dispute novecentesche sul "metodo"e di storia delle matematiche (“Lo spettro e il libertino”). Cura “Sulla libertà” di Mill. Ateo, filosofa in “Senza Dio. Del buon uso dell'ateismo.” Altre opere: Opere  Filosofia della matematica, Milano, L’nfinito, Milano, UNICOPLI, Lo spettro e il libertino. Teologia, matematica, libero pensiero, Milano, A. Mondadori,  Le ragioni della scienza, Roma-Bari, Laterza,Filosofia della scienza, Milano, Jaca Book, Le stanze della ricerca, Milano, Mazzotta, Europa universitas. sull'impresa scientifica europea, Milano, Feltrinelli, La filosofia della scienza, Milano, R.C.S. libri & grandi opere, Quale Dio per la sinistra? Note su democrazia e violenza, Milano, UNICOPLI, La filosofia della scienza, Roma-Bari, Laterza, “Lo specchio del reame: riflessioni sulla comunicazione: Longo, Epistemologia applicata. Percorsi filosofici, e Milano, CUEM,  I volti del tempo, e Milano, Bompiani, Prometeo, Ulisse, Gilgameš. Figure del mito, Milano, Cortina,  Di nessuna chiesa. La libertà del laico, Milano, Cortina, Dove fede e ragione si incontrano?, con Bruno Forte, Cinisello Balsamo, San Paolo, La libertà della vita, Milano, Cortina,  Il decalogo. I dieci comandamenti commentati dai filosofi, II, Non nominare il nome di Dio invano, Milano, Albo Versorio, Giulio Giorello relatore al convegno internazionale "Science for Peace", Milano, La scienza tra le nuvole. Da Pippo Newton a Mr Fantastic, Milano, Cortina, Kos. Rivista di medicina, cultura e scienze umane,  4: Dio, Patria e Famiglia, Milano, Editrice San Raffaele, Libertà. Un manifesto per credenti e non credenti, Milano, Bompiani,  Il peso politico della Chiesa, Cinisello Balsamo, San Paolo, Viaggio intorno all'Evoluzione, Mascella, Zikkurat Edizioni & Lab, Harsanyi visto da Giorello, Milano, Luiss University press, Lo scimmione intelligente. Dio, natura e libertà, Milano, Rizzoli, Ricerca e carità. Due voci a confronto su scienza e solidarietà, Milano, Editrice San Raffaele,  Introduzione a Apostolos Doxiadis e Christos H. Papadimitriou, Logicomix, Parma, Guanda,  Lussuria. La passione della conoscenza, Bologna, Il Mulino,. Senza Dio. Del buon uso dell'ateismo, Milano, Longanesi,. Il tradimento. In politica, in amore e non solo, Milano, Longanesi,. Premio Nazionale Rhegium Julii Saggistica. La filosofia di Topolino, Parma, Guanda,.  Noi che abbiamo l'animo libero. Quando Amleto incontra Cleopatra, Milano, Longanesi, TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.   CULTURAAddio a Giulio Giorello, filosofo della scienza e difensore della libertàBy Vincenzo VillarosaPosted on 16 Giugno 2020 È morto all’età di 75 anni il filosofo Giulio Giorello, per le conseguenze dell’influenza da COVID-19, dopo aver trascorso due mesi di degenza in ospedale ed essere stato dimesso alla metà di maggio. Successore del maestro Ludovico Geymonat alla cattedra di Filosofia della Scienza dell’Università Statale di Milano, il 12 giugno scorso il filosofo aveva sposato la compagna Roberta Pelachin. Il Premier Giuseppe Conte lo ha ricordato, in un messaggio sui social, come un pensatore che ha saputo riflettere sui rapporti tra etica, politica e religione.  Nato a Milano nel 1945, Giorello si laureò in Filosofia alla fine degli anni Sessanta e in Matematica, qualche anno dopo, seguendo la tradizione antifascista e marxista del maestro Geymonat e il difficile tentativo di contrastare le divisioni tra pensiero scientifico e umanistico. In seguito, fu docente di Meccanica razionale all’Università di Pavia e poi alla Facoltà di Scienze presso l’Università di Catania, a quella di Scienze naturali all’Università dell’Insubria e, infine, al Politecnico di Milano.  L’accademico milanese fu presidente della SILFS (Società italiana di Logica e Filosofia della scienza), ma i suoi studi spaziavano dalla mitologia all’antropologia e alla psicologia evolutiva fino alla bioetica e alle neuroscienze. Uno tra i più bravi epistemologi italiani, insomma, capace di unire il rigore per gli studi sul metodo della scienza alle riflessioni sull’ambiente sociale e politico nel quale si muove la ricerca scientifica.  Accanto all’attenzione per le discipline fisico-matematiche e all’accrescimento della conoscenza scientifica, Giulio Giorello analizzava le modalità complesse e contraddittorie della convivenza sociale e politica. Sulla scia del pensiero del filosofo John Stuart Mill – di cui aveva curato l’edizione italiana dell’opera Sulla libertà, nel 1981 –, scrisse, in particolare, pagine illuminanti sulla natura, i limiti e la possibile difesa della libertà umana.  La sua instancabile attività di saggista era basata su un’approfondita conoscenza della produzione saggistica e del dibattito internazionale intorno al discorso scientifico. La testimonianza di questa ricchezza culturale è rintracciabile nella preziosa direzione editoriale della collana Scienza e idee per Raffaello Cortina Editore e nella capacità di divulgazione espressa, tra l’altro, nella collaborazione alle pagine culturali del giornale Corriere della Sera.  Tra le opere di saggistica, ricordiamo Filosofia della scienza (Jaca Book, 1992) e due contributi recenti di divulgazione scientifica come La filosofia della scienza nel XX secolo (con Donald Gillies, Laterza, 2010) e La matematica della natura (con Vincenzo Barone, Il Mulino, 2016). Nelle opere Di nessuna chiesa. La libertà del laico (Cortina, 2005) e Senza Dio. Del buon uso dell’ateismo (Longanesi, 2010), infine, Giorello parlò del valore della laicità in maniera antidogmatica e rispettosa della visione del mondo dei credenti.  La curiosità intellettuale e la personalità liberale del filosofo e matematico milanese si espresse anche nell’interesse sul rapporto tra la cultura definita alta e quella popolare presente, ad esempio, nel mondo dei fumetti. Il suo saggio pop su La filosofia di Topolino (con Ilaria Cozzaglio, Guanda, 2013) ne è una divertente ma non banale rappresentazione.  La perdita di Giorello toglie alla scena italiana e internazionale uno dei più attenti conoscitori dell’articolato cammino della filosofia e del sapere scientifico e, allo stesso tempo, un difensore delle libertà individuali e collettive, senza le quali non è possibile alcun accrescimento e consolidamento del patrimonio culturale dell’umanità.  RELATED TOPICS:FILOSOFIA, LETTERATURA, PRIMA-PAGINA, SOCIETÀIndice 0. Introduzione... p.7 1. Il paradigma dei sette vizi capitali nel Medioevo... p.11 1.1. Il settenario... p.11 1.2. Il vizio della lussuria... p.12 1.2.1. Origine e delineazione del vizio nel Medioevo... p.12 1.2.2. Vizio del corpo... p.13 1.2.3. Vizio dell anima... p.15 1.2.4. I coniugati e la lussuria. «Se non riescono a contenersi si sposino, meglio sposarsi che ardere (I Cor. 7,9)»... p.17 2. La lussuria come potenza nel Canto V dell Inferno... p.19 3. La lussuria come potere nel Canto V dell Inferno... p.31 4. La lussuria come piacere e dolore nel Canto V dell Inferno... p.44 5. La lussuria come filosofia nel Canto V dell Inferno... p.52 6. La lussuria come inganno e come sovversione nel Canto V dell Inferno... p.61 7. La lussuria nel Canto V dell Inferno: conclusione... p.66 Bibliografia... p.70  0. Introduzione Non v è dubbio che fra gli insegnamenti che Dante può riservare agli uomini del terzo millennio ci sia anche quello di puntare su un solo profondo amore al centro di tutta un esistenza, persistente anche oltre la soglia della morte, capace di rinnovare la vita di una persona, di orientarla al meglio. Come afferma Emilio Pasquini nel suo libro Dante e le figure del vero. La fabbrica della Commedia, la lettura della Divina Commedia dantesca si mostra rilevante anche nel terzo millennio. Ovviamente, un opera di qualche secolo fa rischia di non essere più adatta alle generazioni contemporanee. Ogni epoca conosce tendenze critiche differenti per quanto riguarda la Commedia, ogni generazione [ ] legge il suo Dante 2, e quindi, come lo pone Renzi, siamo prigionieri anche noi del nostro tempo 3. Pasquini segnala che, di tutti gli episodi della Commedia, soprattutto quello di Paolo e Francesca risulta molto interessante per i lettori di oggi 4. L amore-passione che forma il nucleo della storia continua a intrigare. Rappresenta una delle idee riguardanti l uomo tra cui Dante, in un modo meraviglioso, stabilisce legami nei suoi versi. Quelle connessioni creano la celebre feconda ricchezza di Dante, la quale fa sì che tanto all epoca (quando si trattava della fede, della relazione tra Creatore e creatura) quanto oggi (ormai importa la nostra coscienza etica) si scoprono delle idee sorprendenti e chiarificatrici nell opera 5. Accanto a questo, la storia dei due lussuriosi illustra pure la persuasione [di Dante] della presenza, nella vita di ognuno, di un gesto decisivo che sanziona la sorte eterna dell uomo [ ]. Oggi, asserisce Pasquini, una simile prospettiva riguarda (e riguarderà in futuro), su un piano totalmente terreno, le scelte radicali che decidono il corso di un esistenza, le svolte cruciali che imprimono alla vita di un individuo una precisa e irreversibile direzione, decidendo del suo destino in terra 6. 2 Emilio Pasquini, Dante e le figure del vero. La fabbrica della Commedia, Paravia, Bruno Mondadori Editori, 2001, pp.257. 3 Lorenzo Renzi, Le conseguenze di un bacio. L episodio di Francesca nella Commedia di Dante, cit., pp.12. 4 Emilio Pasquini, Dante e le figure del vero. La fabbrica della Commedia, cit., pp.259. 5 Ibidem, pp.269. 6 Ibidem, pp.275. 7  Introduzione Si può aggiungere che, in generale, la ricerca della sapientia mundis del giovane Dante s inserisce perfettamente nella visione contemporanea del mondo, la quale è completamente fissata sull acquisizione di nuove conoscenze e su uno sviluppo personale completo. Parallelamente, si rivela adatto alla società di oggi l avvertimento di Dante adulto che tale ricerca deve essere interrotta quando rischia di condurre non alla magnanimità ma alla folia. 7 D altronde, Inglese segnala che il carattere realistico del poema, dei suoi personaggi e delle sue scene illustra che Dante utilizza il mondo terreno come una metafora dell oltremondo, l altro mondo è reso sensibile e leggibile con le forme del nostro mondo 8. Anche questo aspetto della Commedia fa sì che i lettori di oggi possono capire abbastanza facilmente il mondo sotterraneo evocato dal poeta. La conoscenza del mondo, inoltre, stabilisce il legame tra il commento di Pasquini e quello del filosofo Giulio Giorello, la cui teoria riguardante la lussuria non concorda con la visione cristiana del fenomeno, esposta nel primo capitolo della presente tesi. Ne risulta che la lussuria, dal punto di vista cristiano, si presenta come un fenomeno disprezzabile. Si tratta di una caratteristica umana da combattere e da eliminare. Il filosofo, invece, adotta un punto di vista molto differente nella sua recente monografia Lussuria. La passione della conoscenza 9. Propone un analisi molto originale del vizio, mirata a provocare, nel ventunesimo secolo, una sensazione di liberazione nel lettore della letteratura d ispirazione cristiana sul soggetto. Giorello considera la lussuria non solo come un peccato, ma anche, e in primo luogo, come una libertà: E per ciò [la lussuria] può costituire il nucleo di una società aperta e libertaria, insofferente di qualsiasi costellazione di dogmi stabiliti 10. Anche se il concetto centrale della tesi vi è inquadrato in un contesto quotidiano, universale e laico, non viene trascurato il significato cristiano del termine. L autore approfondisce il concetto di lussuria descrivendo come il desiderio lussurioso può manifestarsi in varie forme: parla della lussuria come potere, come filosofia, come inganno Andando al fondo della nozione di lussuria, stabilisce delle relazioni significative tra vari testi, autori e concetti. 7 Ibidem, pp.271-273. 8 Giorgio Inglese, premessa, in Commedia. Inferno di Dante Alighieri, Roma, Carocci editore, 2007, pp.9. 9 Giulio Giorello, Lussuria. La passione della conoscenza, il Mulino, Bologna, 2010. 10 Ibidem, risvolto della sopraccoperta. 8  Introduzione A mio giudizio la lettura del Canto V dell Inferno dantesco nell ottica proposta da Giorello può offrirmi, e con me a tutti i lettori del capolavoro di Dante Alighieri, una lettura fresca e interessante di questi versi già ampiamente commentati. Vorrei dimostrare che le sue idee nuove permettono di attualizzare questa parte del testo dantesco anzi, tutta la Commedia- e di agganciarlo alla società del ventunesimo secolo (cf. Pasquini, cf. supra). Tutte le manifestazioni della lussuria contemplate dal filosofo verranno applicate al Canto V, poiché i suoi ragionamenti permettono di gettare nuova luce sul testo dantesco e di presentarlo a una società diventata quasi completamente laica, nella quale la religione cristiana è diventata un vago ricordo di altri tempi, un fenomeno soltanto latente (cf. supra). Anche nel libro di Giorello l aspetto religioso della lussuria non è quello più importante, ma è sempre presente in modo velato. Ciò significa che predomina la ricchezza rappresentata dalle varie manifestazioni del concetto denominato lussuria, a scapito della visione cristiana del fenomeno, la quale predica la restrizione di questo vizio. Tutto ciò spiega perché i concetti delimitati da Giorello, in combinazione con commenti da parte di Pasquini, mi faranno da filo conduttore per redigere la presente tesi. L accostamento evidenzierà paralleli e complementi interessanti. Dato che il mio scopo è l elaborazione di una nuova analisi della lussuria nel celebre Canto V prendendo come guide alcuni studiosi contemporanei, l aggiunta di pensieri e di ragionamenti provenienti dal libro Le conseguenze di un bacio. L episodio di Francesca nella Commedia di Dante di Lorenzo Renzi arricchirà ancora l esposizione, tra l altro la parte nella quale si tratta della colpevolezza o dell innocenza di Paolo e Francesca. Renzi, nel suo libro, vuole reagire sia alla retrocessione di Francesca in generale, sia all interesse privilegiato mostrato dai critici per la tirata lirica di Francesca 11. L autore specifica che l episodio di Francesca forma, infatti, una metonimia della Commedia, cioè la parte per il tutto: [ ] drammatizza e presenta in exemplo la palinodia di Dante, il suo abbandono degli errori giovanili, del mondo dell amore terreno e della sua poesia (lo Stil novo), per cominciare l ascensione. Riferendosi a Paolo Valesio, afferma però anche che il personaggio di Francesca si rivela tanto intrigante che la palinodia rischia di diventare il suo contrario, una palinodia della 11 Lorenzo Renzi, Le conseguenze di un bacio. L episodio di Francesca nella Commedia di Dante, cit., pp.12. 9  Introduzione palinodia: una nuova esaltazione dell amore terreno 12. Accanto al riferimento a Valesi il testo di Renzi offre ancora molte informazioni sorprendenti riguardanti altri autori e commentatori. Giorgio Inglese, poi, è il quarto critico principale che sarà evocato. Il suo commento all Inferno mi ha procurato vari elementi chiarificatori, distinguendo, nella Commedia, una struttura e una poesia, per esempio, o puntando sull importanza, nel Canto V, di contrasti forti. Anche lui si mostra un difensore di una dantistica del terzo millennio. La maturità della disciplina ( la quantità [dei studi] è ormai misurabile solo con i mezzi dell elettronica ) non implica però stagnazione, e lo dimostra bene, per quanto riguarda la Commedia, proprio la vitalità del genere commento 13. In ogni capitolo della presente tesi, una nozione filosofica evidenziata nel libro già citato di Giorello si trova alla base delle idee sviluppate nel capitolo relativo. A quei ragionamenti s intrecciano varie riflessioni dalla parte di Pasquini, Renzi, Inglese e alcuni altri commentatori. 12 Ibidem, pp.7-8. 13 Giorgio Inglese, premessa, in Commedia. Inferno di Dante A lighieri, cit., pp.12. 10  1. Il paradigma dei sette vizi capitali nel Medioevo Come capitolo introduttivo presenterò un resoconto generale del paradigma dei sette vizi capitali nel Medioevo, incluso un attenzione particolare per la storia del vizio della lussuria. Baserò questa visione d insieme sul volume I sette vizi capitali: storia dei peccati nel Medioevo di Carla Casagrande e Silvana Vecchio, pubblicato dalle Edizioni Einaudi nel 2000. 1.1. Il settenario Anzitutto si deve segnalare che il sistema dei vizi capitali non è un invenzione di un individuo. Si tratta piuttosto di una raccolta di idee che si è sviluppata attraverso secoli, continenti e persone diversi; di un enorme enciclopedia nella quale si trova di tutto, un efficace schema classificatorio per parlare [...] del mondo 14. Un topos, per così dire. Una volta che il paradigma aveva ottenuto la sua forma definitiva, ben circoscritta, ha avuto un successo immenso, tanto presso i chierici quanto presso i laici. Si potrebbe dire che, per quanto riguarda l Occidente, la storia medievale di questi sette vizi inizia con gli scritti di tre ecclesiastici: Evagrio Pontico, Giovanni Cassiano e Gregorio Magno. Cassiano (V secolo), avendo delineato nelle sue opere l insieme delle teorie del suo maestro Pontico sui sette vizi capitali, ha scritto una delle opere più significative per la cultura tanto religiosa quanto laica del Medioevo. Fino al XV secolo, il settenario dei vizi capitali, al quale Cassiano ed Pontico attraverso gli scritti del suo allievo- ha contribuito, ha avuto grande successo. Dante, quindi, ha vissuto in un epoca che accordava molto importanza all idea dei sette vizi capitali. Si deve specificare che tanto Pontico quanto Cassiano distinguono otto vizi capitali, al posto di sette: gola, lussuria, avarizia, tristezza, ira, accidia, vanagloria e superbia (elenco tratto dall opera di Casagrande e Vecchio). Magno, nella sua opera Moralia in Job (fine VI secolo), ne distingue sette; non menziona più l invidia come vizio capitale. Anche Moralia in Job costituisce un opera di notevole importanza per la cultura medievale: è molto più di un 14 C. Casagrande, S. Vecchio, I sette vizi capitali: storia dei peccati nel Medioevo, Torino, Einaudi, 2000, pp.xvi. 11  Il paradigma dei sette vizi capitali nel Medioevo commento: esegesi, teologia, etica si mescolano a comporre un disegno di larghissimo respiro 15. Il paradigma dei vizi capitali porta, naturalmente, l impronta dell ambito nel quale è stato lavorato, cioè l impronta della società monastica non solo quella occidentale. Infatti, Cassiano aveva apportato all Occidente conoscenze orientali egiziane, siriane-, adottate dalla cultura monastica orientale, raccolta nell Egitto. Anche il suo maestro, Pontico, aveva imparato molto sui vizi capitali in quel crogiolo culturale che fu Alessandria d Egitto alla fine del IV secolo 16, e nelle sue riflessioni, idee della filosofia occidentale si sono confuse con questa sapienza proveniente dall Oriente. Di più, le idee rappresentate dai sette vizi capitali risalgono, infatti, alle difficoltà proprie alla vita nel monastero: Per i monaci essi rappresentano gli ostacoli da superare lungo il cammino di perfezione al quale si sono votati, in una continua battaglia contro se stessi e contro quel mondo che si sono lasciati alle spalle 17. Detto questo, si può inquadrare la nascita e lo sviluppo del settenario, almeno per quanto riguarda il Medioevo. In quello che segue tratterò più in dettaglio la storia medievale di uno dei vizi capitali, cioè di quello che costituisce il nucleo centrale della mia tesi: la lussuria. 1.2. Il vizio della lussuria 1.2.1. Origine e delineazione del vizio nel Medioevo Non solo il cristianesimo ha trattato il desiderio sessuale con diffidenza. Già nella cultura pagana, gli individui si sfidavano da persone che riconoscevano apertamente di sentire tali voglie. La religione cristiana si è adeguata molto abilmente a queste preoccupazioni, riunendole in un vizio capitale chiamato lussuria. Denominando così sentimenti vari e irrequieti, la fede calma, crea ordine nel mondo, nella società, nella vita particolare di ogni persona che si riallaccia alla tradizione cristiana. Diventa molto attraente in questo modo. Lo sviluppo di paradigmi simili contribuisce alla popolarità di una concezione di vita, tanto di visioni di tipo religioso come di concezioni pagani. 15 Ibidem, pp.xi. 16 Ibidem, pp.xii. 17 Ibidem, pp.xv. 12  Il paradigma dei sette vizi capitali nel Medioevo Cassiano descrive la lussuria, situandola nell ambito della natura propria agli uomini, come un vizio intrinseco, come un aspetto essenziale della specie umana. Magno monaco e papa-, anzi, pone che essa sarebbe un attività tutto naturale del corpo, che, per di più, sarebbe intento da Dio. Da un punto di vista laico (nel senso di ateistico), si vede apparire, in questo discorso, una concezione molto moderna della sessualità umana. Rimanendo nel contesto cristiano, il papa, sviluppando una tale visione, crea infatti un idea che spiana la via per la lussuria: se forma un desiderio proprio all uomo tanto naturale quanto il bisogno di mangiare e di bere, non si può evocare più niente per intimargli l alt. Ma, a dire il vero, la visione della lussuria divisa in modo più ampio durante i secoli medievali è quella ideata da Agostino. Secondo lui, l elemento chiave che trasforma la sessualità dell uomo in un attività peccaminosa, sarebbe stato il peccato originale. Prima della ribellione di Eva e Adamo contro Dio, i due primi esseri umani sarebbero stati i padroni assoluti dei loro organi sessuali, presenti per rassicurare la procreazione della specie umana. Dopo, invece, come punizione reciproca per la loro disubbidienza a Dio, queste parti dei loro corpi diventano insubordinati, non li possono più controllare. Anzi, sono quegli organi del corpo a poter dominare l anima dell essere umano. Lì si ritrova il primo vero aspetto della pena imposta ad Adamo ed Eva. La seconda è rappresentata da una conseguenza irrimediabile del fatto che si sta parlando dell attività responsabile per la generazione: l uomo trasmette quel peccato di padre in figlio, per l eternità. Per forza, i figli nascono peccatori. Nonostante il fatto che la visione agostiniana della lussuria era molto diffusa durante il Medioevo, si comincia già a rivederla nel XII secolo. Si osserva infatti un processo di desessualizzazione del peccato originale 18. Implica l accettazione della concupiscenza come una delle conseguenze del peccato originale, non come l effetto principale di questo. Tuttavia, la sessualità non viene tolta dall ambito peccaminoso nel quale era stata introdotta: La natura era ormai inevitabilmente corrotta 19. 1.2.2. Vizio del corpo Cassiano attribuisce alla lussuria (denominata, in un primo momento, la fornicazione), tutto come alla gola, lo statuto di vizio carnale, un vizio cioè che implica 18 Ibidem, pp.151. 19 Ivi. 13  Il paradigma dei sette vizi capitali nel Medioevo necessariamente la partecipazione del corpo 20. Rivendica non solo la cooperazione degli organi sessuali, ma pure quella di tutti gli organi legati alle esperienze sensoriali: gli occhi, le orecchie, il naso, la bocca e le mani. La lussuria, infatti, si presenta come il solo vizio capitale che coinvolge ognuno dei cinque sensi. Nel Medioevo, la collaborazione tanto versatile del corpo umano alla fornicazione approda all idea che questo corpo non solo partecipa allo svolgimento del vizio, ma ne subisce anche le conseguenze. Quelle, naturalmente si tratta di conseguenze di atti peccatori-, non appaiono sotto forme agrevoli: terribili mali di testa che i medici non sanno come curare, progressiva perdita delle forze, vita breve e, su tutto, l immonda malattia che attraverso piaghe ripugnanti e maleodoranti consuma lentamente ma inesorabilmente il corpo, la lebbra 21. Per di più, il debole corpo umano è inestricabilmente connesso con il vizio della fornicazione: senza la presenza di un corpo, non si può manifestare la lussuria. Il vizio rivendica la sussistenza della carne umana per poter apparire. Si tratta quindi di un peccato intrinseco al fisico umano. A dire il vero, la lussuria non tocca a qualsiasi corpo. Si ritrova essenzialmente in fisici maschili. Questo aspetto della fisionomia della fornicazione non deve sorprendere: si parla di un peccato il quale carattere ed essenza sono stati messi a punto negli monasteri abitati da ecclesiastici maschili (fra le altre i padri fondatori del settenario dei vizi 22 : Pontico, Cassiano e Magno). A lungo, le donne non entravano nel discorso sulla fornicazione, tranne come oggetti degli impulsi lussuriosi maschili. Non vengono mai considerate capaci di intervenire come iniziatrici per quanto riguarda questo peccato. La femmina, invece, ritenuta un essere più debole che il maschio, era creduta molto suscettibile delle avance peccatori esibite dal suo corrispondente maschile. Inoltre, l insieme di gioielli, profumi, tenute ecc. (l ornatus, come scrivono Casagrande e Vecchio) che mette l accento sull eleganza femminile si considerava un tutto che serviva essenzialmente a rendere i corpi delle donne ancora più attraenti e, di conseguenza, più sensibili ai suggerimenti lussuriosi dalla parte dei maschi. Peraldo descrive le donne che si vestono e si truccano per andare a ballare tramite una metafora memorabile: [sono 20 Ibidem, pp.152. 21 Ibidem, pp.153. 22 Ibidem, pp.155. 14  Il paradigma dei sette vizi capitali nel Medioevo come] un esercito di soldatesse del Diavolo che si prepara a dare battaglia per strappare a Dio l anima degli uomini 23. Quindi, nonostante il fatto che le donne non possono esibirsi come istigatrici del vizio della lussuria, sono consapevoli degli effetti che hanno i loro fisici sui loro complementi, si avvalgono di queste loro qualità, e così, inconsapevolmente, incitano negli uomini gli impulsi che li portarono ad atti lussuriosi. 1.2.3. Vizio dell anima Fin qui, la lussuria è stata dipinta come un vizio essenzialmente corporale. A dire il vero, la sua origine non è soltanto carnale, ma si trova nell interiorità più profonda dell anima umana. Proprio i monaci abitanti dell ambito nel quale è cresciuta l idea del vizio capitale abbordata- hanno (tra l altro) riconosciuto che il nucleo della fornicazione sarebbe di natura spirituale. Nel vangelo secondo Matteo si può leggere una frase che non lascia adito ad alcun dubbio: Chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore (Mt. 5, 28) 24. Ma questa idea non implica che il corpo non potesse essere lussurioso. Inserisce piuttosto una fase intermedia nell insieme di fasi propri all azione peccaminosa. In primo luogo nascono le idee lussuriose nell anima dell uomo; in seguito si osserva che, da questi pensieri, sorge una specie di corpo virtuale (questa costituisce quindi la tappa alla quale si riferisce nella sentenza evangelica); infine l atto adultero si svolge per quanto riguarda il corpo reale, di carne e ossa. A proposito della nozione di carne, si dovrebbe ancora specificare la differenza, quanto al peccato della lussuria, tra carne e corpo, vale a dire: quando l anima cessa di pensare, immaginare, ricordare, assecondare, ascoltare, in una parola servire il corpo, il corpo cessa di essere carne, oggetto e strumento di quel desiderio eccessivo e disordinato che ha colpito l uomo dopo il peccato originale, per tornare a essere solo corpo, un aggregato di materia che garantisce la vita dell individuo 25. 23 Ibidem, pp.157. 24 Il nuovo testamento, a cura di Giuliano Vigini, revisione di Rinaldo Fabris, Milano, Paoline Editoriale Libri, 2000, pp.47. 25 C. Casagrande, S. Vecchio, I sette vizi capitali: storia dei peccati nel Medioevo, cit., pp.160. 15  Il paradigma dei sette vizi capitali nel Medioevo Si potrebbe dire, dunque, che, riguardo alla fornicazione, non ci entra il corpo umano vero e proprio, ma un suo equivalente virtuale, come l hanno formulato Casagrande e Vecchio. In effetti, già nell ottica agostiniana della lussuria è inclusa l idea che gli impulsi concupiscenti corporali, da soli, non costituiscono sensazioni peccaminose. È precisamente la condiscendenza dell anima alle pulsioni carnali che trasforma queste ultime in impulsi peccatori. In seguito, si deve segnalare, in questo capitolo, il punto di vista piuttosto sorprendente di Pietro Abelardo (XII secolo) sul vizio capitale della lussuria, soprattutto per quanto riguarda la relazione tra anima e corpo. Abelardo sosteneva che tanto la concupiscenza quanto l atto sessuale e i compiacimenti che lo accompagnano avevano fatto parte della natura dell uomo a partire dal peccato originale. Affermava che l elemento vizioso stava solamente nella transigenza dell anima umana al corpo (carne, infatti) corrispondente. Con questa teoria, Abelardo sviluppa, a dire il vero, una concezione molto moderna della sessualità umana. Non per niente le sue asserzioni hanno provocato moltissime reazioni alla sua epoca. La notevole importanza dell anima in quest ambito viene confermata dalle conseguenze che ha il vizio della lussuria non solo per il fisico dell uomo ma anche, e specialmente, per la sua anima immortale. La fornicazione corrompe il corpo umano, lo rende impuro e infangato; ma è ancora molto più dannosa all anima: una volta imbrattata da questo peccato, lo spirito dell essere umano, debilitato e confuso, incoerente, è sull orlo della rovina. Si tratta di un vizio talmente onnicomprensivo che abbraccia tutti i livelli e strati dello spirito; si espande in tutti gli angoli della mente. Il danneggiamento dell anima dalla lussuria si rivela incontestabilmente il più grave nell indebolimento della ragione, componente più nobile e preziosa dello spirito umano. Mina il potere della capacità più eccezionale dell uomo, cioè la potenza di dominare tutti i suoi sentimenti, emozioni e impulsi facendo appello alla ragione. In effetti, non solo la Chiesa si preoccupava dalla decadenza della ragione sotto l influsso di attività sessuali. Prima della tradizione cristiana, un ampia tradizione pagana aveva cercato di offrire uno sfogo a simili preoccupazioni. In questo modo, ha potuto crescere, fra le altre prima in ambito pagano, poi in contesto cristiano-, l idea che l intelligenza concetto concepito come positivo- dovrebbe essere capace di mettere l uomo nella 16  Il paradigma dei sette vizi capitali nel Medioevo possibilità di controllare gli impulsi carnali concepiti come negativi. Dato che gli ultimi avvicinavano l essere umano dall animale, il contrasto tra questi di una parte, e la nobiltà incontestabile della ragione umana d altra parte, si rivelava grandissimo. Se è vero che tale opposizione si presentava palesemente in contesto scientifico, per dirlo così intellettuale, filosofico ecc.-, la sua importanza per la vita quotidiana dell uomo medio è inequivocabile, visto la funzione [della ragione] di garantire la misura, la compostezza, l equilibrio nella vita di ciascun individuo 26. Trasposto in ambito letterario, il dualismo fra la ragione e gli stimoli carnali, e, più in particolare, la follia nella quale può sfociare la vittoria riportata dalla carne alla ragione, s impadronisce dei protagonisti dei romanzi cortesi. Il fenomeno rappresenta il culmine assoluto dell incostanza confusa che può essere provocata in varie misure dalla lussuria. 1.2.4. I coniugati e la lussuria. Se non sanno vivere in continenza, si sposino; è meglio sposarsi che ardere (I Cor. 7,9) 27 Tra tutte le persone che non scelgono la castità come cura della lussuria, i coniugati formano un gruppo speciale. Il matrimonio, in effetti, non elimina la lussuria, ma nella misura in cui vieta tutti i rapporti extraconiugali e limita quelli coniugali [a quelli che servono alla procreazione e quelli che sono necessari per soddisfare le sensazioni concupiscenti dei coniughi ed evitare, in questo modo, che commettono il peccato della fornicazione], la contiene e la riduce 28. La storia del concetto di matrimonio, per quanto riguarda il vizio della lussuria, si rivela alquanto complicata. In primo luogo si deve segnalare che la ragione per la quale certi cristiani propendevano per la castità e non per il matrimonio consisteva nel fatto che il matrimonio limitava solamente la lussuria; non poteva escluderla. Ma, allo stesso tempo, questo fatto veniva anche rivendicato dai credenti che volevano proteggersi dalla lussuria: il matrimonio, dopo tutto, delimitava la portata del vizio. Poi, Agostino aggiunge che considera l unione coniugale un bene, certamente inferiore a quello della castità, ma comunque un bene, e questo non solo per la procreazione dei figli 26 Ibidem, pp.167. 27 Il nuovo testamento, cit., pp.603. 28 C. Casagrande, S. Vecchio, I sette vizi capitali: storia dei peccati nel Medioevo, cit., pp.172. 17  Il paradigma dei sette vizi capitali nel Medioevo ma anche per la società naturale che l unione tra i due sessi comporta 29. Di più, pone che Dio avrebbe previsto l unione carnale tra gli uomini e i loro complementi femminili prima del peccato originale, visto che entrambi i sessi erano già dotati di organi sessuali chiaramente visibili e differenti prima che Eva ed Adamo disubbidivano a Dio. Il peccato non sta dunque nel coito [...] ma nell uso che gli uomini [...] ne fanno. 30 Queste idee agostiniane sono state molto diffuse durante tutto il Medioevo. Finalmente, si deve ancora segnalare che il legame stabilito tra il vizio della lussuria e il matrimonio fa sì che il peccato si estende dall essere umano individuale alla comunità intera. Può corrompere tutta una società; non si tratta più di un vizio dannoso alla vita e all anima di una singola persona, a tal punto che minaccia tutta la specie umana. Da questo punto di vista, il peccato occupa una posizione particolare, anzi unica nel settenario dei vizi capitali. 29 Ibidem, pp.173. 30 Ivi. 18  2. La lussuria come potenza nel Canto V dell Inferno Nella sua esposizione sulla lussuria come potenza (o impotenza) Giorello asserisce che la lussuria [ ] è mescolanza di tutte le cose del mondo, rotture d ordine, spezzatura 31. Nel caso di Paolo e Francesca, di certo, la lussuria è stata responsabile di una rottura dell ordine quotidiano, anzi, dell ordine del mondo come i due innamorati lo conoscevano. La spezzatura della loro realtà viene causata direttamente dalla potenza (cioè, dalla potenza nel senso filosofico della parola: potenza come volontà) che costituisce una parte essenziale del desiderio lussurioso che sperimentano. Dal momento in cui cedono alla loro volontà lussuriosa, Francesca, consapevolmente, abbandona suo marito, pone fine al suo matrimonio. Nel v. 107 Caìn attende chi a vita ci spense 32 il nome di Gianciotto è taciuto per disprezzo, non certo per femminile riserbo 33. Neanche Paolo può più tornare indietro; la relazione tra lui e suo fratello è irrimediabilmente danneggiata. Il bacio dei due lussuriosi segna un passaggio chiave nella loro storia lussuriosa. Dopo una fase di dubbi e di disperazione, è arrivato il momento in cui decidono di rinunciare a tutto quello che è familiare, e di perdersi in un avventura della quale sanno che gli porterà sia la felicità assoluta sia la perdizione. La tragica combinazione di tenerezza e di rovina è illustrata dal v. 106 Amor condusse noi ad una morte 34 : la prima e l ultima parola del verso si rispondono fonicamente AMOR condusse noi ad una MORte. Inglese chiarisce che, in questo modo, il verso s iscrive nella lunga tradizione di una diffusa paretimologia (Federigo dall Ambra, son. Amor che tutte cose: Amor da savi quasi A! mor si spone ). Per di più, la parola morte, nel Canto V dell Inferno, conclude la serie di proposizioni principali il cui soggetto è Amore 35. In questo senso, la lussuria si presenta come una mescolanza di tutte le cose del mondo: ogni diritto ha il suo rovescio. Di rado, la realtà nella quale vivono gli esseri umani offre una gioia senza che, contemporaneamente, appaia anche qualcosa che tempera questo sentimento. È un dato che si manifesta in modo particolarmente chiaro in situazioni 31 Giulio Giorello, Lussuria. La passione della conoscenza, cit., pp.23. 32 Dante Alighieri, Commedia. Inferno, revisione del testo e commento di Giorgio Inglese, Roma, Carocci editore, 2007, pp.90. 33 Giorgio Inglese, commento al testo in Commedia. Inferno di Dante Alighieri, Roma, Carocci editore, 2007, pp.90. 34 Dante Alighieri, Commedia. Inferno, cit., pp.90. 35 Giorgio Inglese, commento al testo in Commedia. Inferno di Dante Alighieri, cit., pp.90. 19  La lussuria come potenza nel Canto V dell Inferno lussuriose. Paolo e Francesca propendono non solo per la felicità (lussuriosa) ma anche per l aspetto penoso che essa implica. Da quanto appena enunciato risulta che la dimensione della lussuria identificata come la volontà forma una caratteristica fondamentale del fenomeno. Se manca una forte volontà, non si può parlare di lussuria. È appunto dalla volontà umana che procede il desiderio di qualcosa. Dal testo di Giorello emerge che il desiderio an sich deve, infatti, considerarsi come essenzialmente lussurioso. Nel caso di Paolo e Francesca, si tratta del desiderio dell altro. Dante presta molta attenzione all espressione di tale potenza. È probabilmente una delle più belle manifestazioni dello spirito umano: unica, forte, ma anche tragica. Forse la bellezza risiede, appunto, nella tragicità. Quello che un essere umano può realizzare grazie alla volontà commuove solo quando si mescola con altre caratteristiche come, in questo caso, il tragico. Il desiderio umano, giudicato lussurioso per definizione, è presente nel Canto V non solo nella decisione presa da Paolo e Francesca. Ci troviamo nella prima parte dell Inferno, cioè all inizio del viaggio sotterraneo di Dante personaggio. E siccome Dante parla, infatti, di ognuno di noi, ci troviamo all inizio del viaggio che ogni peccatore potrebbe desiderare, un giorno. Anche lui sperimenta un forte desiderio. Si trova sulla via della perdizione, e vuole ritrovare la retta via. Vuole andare verso la luce divina, è in cerca di una direzione nella sua vita. Questa aspirazione predomina su tutto il suo essere, come il desiderio di Francesca domina su Paolo e vice versa. Inoltre, Giorello pone che la laicizzazione è la lussuria dell emancipazione dalla soggezione alla natura e/o alla divinità emancipazione che costituisce la premessa di una società politica matura 36. Secondo me, l autore suggerisce che l assunto che la laicizzazione sia un processo lussurioso sarebbe ovviamente consono alla visione cristiana della lussuria che la considera un vizio capitale. Classificare la laicizzazione tra le varie forme in cui può manifestarsi la lussuria le conferirebbe lo statuto di un azione peccaminosa. L idea principale che vuol esprimere il filosofo in questa frase, però, è che il desiderio umano di venir liberati dall assoggettamento a un potere superiore si rivela lussurioso, poiché si tratta di un desiderio. Dante personaggio, tuttavia, desidera di esser assorbito completamente dalla luce divina del Dio cristiano. E aspira alla stessa sorte per tutti i suoi contemporanei. L opposizione 36 Giulio Giorello, Lussuria. La passione della conoscenza, cit., pp.26. 20  La lussuria come potenza nel Canto V dell Inferno tra la volontà evocata da Giorello e quella di Dante personaggio illustra il punto di vista del filosofo sulla lussuria. Che il carattere di un fenomeno sia o non sia lussurioso non dipende dalla sua religiosità o laicità. Uno degli aspetti essenziali della lussuria è la forza immensa della potenza umana che fa sì che la lussuria può esistere. Oltre a ciò, l autore menziona che la lussuria istituisce il nesso tra conoscenza e oblio 37. L aspetto della lussuria che è analizzato e commentato in questo capitolo, la potenza, costituisce la forza che spinge un essere umano ad avere curiosità e a cercare risposte alle proprie domande. In questo senso, forma, infatti, l anello che lega l ignoranza e la conoscenza. Dante personaggio vuole conoscere il mondo sotterraneo, e desidera sapere se e come si può salvare. Dalla sua curiosità, quindi dalla sua volontà, sorgerà la comprensione dei fenomeni che vuole capire. Si può pure trasformare la conoscenza in oblio per il tramite della lussuria. Una volta che la conoscenza è ottenuta, è possibile che essa provochi l oblio di altri fatti conosciuti nell essere umano che la ottiene, com è illustrato dall epopea mesopotamica la Saga di Gilgames alla quale si riferisce Giorello. Nel Canto V, tuttavia, si osserva il contrario. Quello che era conosciuto nel passato non è dimenticato, come pone appunto Francesca dopo che Dante le ha chiesto di raccontare come lei e Paolo si sono rivelati i sentimenti amorosi reciproci: E quella a me: Nessun maggior dolore/che ricordarsi del tempo felice/nella miseria: e ciò sa l tuo dottore. Chiaramente, i due lussuriosi si ricordano benissimo quello che sapevano prima del momento in cui la loro volontà di conoscere li ha messi sulla via della perdizione, cioè, prima del momento in cui si baciavano e s appropriavano la conoscenza dell altro. Anzi, in questo passo, Dante autore utilizza letteralmente il verbo conoscere: Ma, s a conoscer la prima radice/del nostro amor tu hai cotanto affetto/dirò come colui che piange e dice 38. Ciò illustra l importanza ardente del significato del termine. Per di più, Giorello pone che la potenza della dea [Venere] è quotidiana [ ], non solo eccezionale 39. Si potrebbe sostenere, quindi, che la caratteristica della lussuria rappresentata da questa volontà incredibilmente potente non si manifesta unicamente in situazioni o momenti eccezionali. Costituisce una forza sempre presente nell essere 37 Ibidem, pp.28. 38 Dante Alighieri, Commedia. Inferno, cit., pp.91-92. 39 Giulio Giorello, Lussuria. La passione della conoscenza, cit., pp.35. 21  La lussuria come potenza nel Canto V dell Inferno umano, gli appartiene. Non sarebbe capace di liberarsi da essa, se lo volesse. Questo, però, gli è connaturale: si tratta di una parte dello spirito umano troppo essenziale. Senza di essa non sarebbe più un uomo. Per di più, rappresenta un impulso troppo gradevole. All uomo piace infinitamente provare una tale energia dentro di se. Gli dà l idea che potrebbe, infatti, realizzare il progetto che ha in mente, che potrebbe trovare la risposta alla sua domanda. Gli dà il coraggio necessario per dare ascolto ai sentimenti che lo sopraffanno e per arrischiarsi in una ricerca o una situazione che possibilmente finirà male. È questo il momento in cui la volontà lussuriosa, quotidiana, alleggiando, diventa eccezionale. Questo momento speciale si osserva pure nella storia di Paolo e Francesca. Dopo un lungo tempo di voler esser insieme (da solo), arriva quel punto in cui il desiderio di Paolo di sapere come sarebbe di trovarsi nelle braccia della donna amata, diventa troppo forte. La bacia. Un momento riempito in modo molto eccezionale di volontà lussuriosa. Giorello menziona anche che la dea Venere (e quindi la lussuria) può rivelarsi maestra di inganno 40. Certo, nel Canto V, si osservano delle azioni ingannevoli: Francesca tradisce suo marito, Paolo suo fratello. All aspetto ingannevole della lussuria, però, sarà dedicato un altro capitolo della presente tesi. Ciò che colpisce nelle pagine sulla lussuria come potenza in Lussuria. Passione della conoscenza, e che potrebbe dar luogo a una riflessione interessante, è un idea che deduce da un testo di Agostino, Città di Dio. Secondo Giorello si può capire da quest opera che, secondo Agostino, la fiacchezza della nostra volontà (contrapposta alla forza di quella divina) sia ben peggio [ ] di qualsiasi fisica impotentia coeundi 41 perché nell ordine naturale l anima è anteposta al corpo. Agostino descrive la lotta della passione [il corpo] e della volontà [l anima] parlando della lussuria, affermando che esiste almeno l imperfezione della passione nei confronti della pienezza della volontà 42. Ciò pone l accento sul valore più grande della forza mentale che è la volontà dell uomo a paragone del suo corpo fisico. Rileva la preziosità e la versatilità della potenza, la quale è valutata non solo dai fedeli cristiani ma anche da laici. Si potrebbe sostenere, quindi, che si tratta di un punto di vista comune e, di conseguenza, unificatore. L unione d idee 40 Ibidem, pp.36. 41 Ibidem, pp.39-40. 42 Agostino, Città di Dio, Introduzione, traduzione, note e apparati di Luigi Alici, Milano, Bompiani, 2001, pp.684-685. 22  La lussuria come potenza nel Canto V dell Inferno cristiane e laiche (nel senso di provenienti dagli antichi) si ritrova, appunto, nella Commedia dantesca. A mio giudizio questa fusione è una delle caratteristiche più meravigliose dell opera. Si rivela in modo splendido nel passo su Paolo e Francesca. La ricchezza del Canto V proviene, tra l altro, dall enumerazione dei nomi di Semiramide, Cleopatra, Tristano, e di tutti gli altri personaggi lussuriosi della mitologia classica menzionati dalla guida di Dante, Virgilio. Inglese spiega che sono donne antiche e cavalieri (v. 71): insomma, l intero mondo del romanzo epico-amoroso, che aveva, di fatto, connesso in un ciclo unico Troianorum Romanorumque gesta et Arturi regis ambages [ avventure ] pulcerrime (Dve I x 2) 43. La loro apparizione conferisce un atmosfera unica all Inferno cristiano. Evocano la grandezza delle storie antiche di alcune coppie famosissime. Risulta dai versi quanto sono care a Dante, tutto come la sua fede. Il ricordo della disperazione, dell amore e della perdizione caratteristico di queste storie si mescola, nel Canto V, ai sentimenti (simili) di Paolo, Francesca e Dante. Per quanto riguarda quella relazione emotiva triangolare tra Dante, Paolo e Francesca, si può segnalare che la sua forza emozionale è ancora aumentata dal fatto che, per Francesca, la visita del pellegrino forma un opportunità unica per confessarsi (dal punto di vista dei colpevolisti di Renzi) o per comunicare e quindi rendere immortale la sua tragica storia d amore (secondo la visione dei giustificazionisti di Renzi, cf. infra). Inglese afferma che gli incontri fra il P. [Dante personaggio] e i dannati si presentano come un momento affatto eccezionale nello svolgersi (che non ha però vero svolgimento) della pena di questi ultimi [ ]: per un motivo superiore ossia, per l edificazione del P. e poi dei viventi che leggeranno il resoconto del viaggio la Provvidenza suscita in alcuni dannati un estremo atto di personalità (v. 84) [ vegnon per l aere, dal voler portate 44 ]. Sul piano poetico, ciò si traduce in una forte drammatizzazione degli episodi: Francesca, per esempio, non avrà mai un altra occasione di confessarsi, di dare forma verbale al proprio tormento 45. 43 Giorgio Inglese, commento al testo in Commedia. Inferno di Dante Alighieri, cit., pp.87. 44 Dante Alighieri, Commedia. Inferno, cit., pp.88. 45 Giorgio Inglese, commento al testo in Commedia. Inferno di Dante Alighieri, cit., pp.89. 23  La lussuria come potenza nel Canto V dell Inferno Da quello che precede, risulta che un estremo atto di personalità implica una volontà potente, dato che la volontà costituisce una parte essenziale dell essere umano. Si potrebbe dire che, con l ultima frase, Inglese si presenta come un colpevolista, poiché dare forma verbale al proprio tormento può significare dare forma verbale al suo peccato e al modo in cui lo strazio della punizione infernale la tortura. La seconda parte della frase di Inglese, però, potrebbe anche essere interpretata come dare forma verbale al modo in cui entrambi il ricordo del tempo d i dolci sospiri 46 e quello della fine tragica della sua storia d amore la tormentano. Allora, per quanto riguarda Francesca, Inglese si presenterebbe non solo come un colpevolista, ma anche come un giustificazionista. Ritornando alle donne antiche e cavalieri, Renzi asserisce quanto segue: Se ci sarà ancora una critica letteraria dedita a leggere con attenzione i testi, qualcuno noterà, per esempio, che la pietà di Dante per Francesca, primo segno della sua partecipazione emotiva alla storia di Francesca, seguita poi dallo svenimento, era già cominciata al v. 72 e si riferiva alle donne antiche e cavalieri, dunque a tutti quei fantasmi letterari che prima sono definiti peccator carnali. Dunque Dante non solidarizza solo con Francesca. 47 Mentre Virgilio annovera nome dopo nome, Dante personaggio sente come, nel suo cuore, cresce la compassione. Ascoltando la sua guida, diventa sempre più commosso, triste e silenzioso per tutto quell amore disperato, perso. Anche lui ha amato e perso la persona amata. Pasquini pone che non si ha soltanto il dramma cruento dei due giovani amanti riminesi; c è anche il dramma interiore di Dante che si sente personalmente coinvolto in quella tragedia 48. Questo dramma interiore che sperimenta il pellegrino di fronte alla tragedia romagnola si spiega, secondo Pasquini, dall atto d accusa di Beatrice nel Purgatorio (cf. infra). Qualcosa di Francesca ritorna in Dante e nel suo personale traviamento, sotto la spinta del rigoroso atto d accusa cui lo sottopone Beatrice; il che spiega con chiarezza, quasi completandolo, il suo turbamento che non è solo pietà di fronte alla tragedia romagnola. 49 46 Dante Alighieri, Commedia. Inferno, cit., pp.91. 47 Lorenzo Renzi, Le conseguenze di un bacio. L episodio di Francesca nella Commedia di Dante, cit., pp.11-12. 48 Emilio Pasquini, Dante e le figure del vero. La fabbrica della Commedia, cit., pp.259. 49 Ibidem, pp.262. 24  La lussuria come potenza nel Canto V dell Inferno Secondo Pierre-Louis Ginguené (1748-1815), autore di Histoire littéraire d Italie, non è stato il Dante filosofo e teologo che si rivela in altri passi della Commedia che ha scritto l episodio di Paolo e Francesca, ma è stato il Dante innamorato di Beatrice. 50 In questo senso, il Canto V parla da Enea e Didone, Tristano e Isotta, Paolo e Francesca, e pure di Dante stesso. Di conseguenza, tratta anche di ognuno di noi, poiché il passaggio di Dante personaggio attraverso l inferno, il purgatorio e il paradiso celeste rappresenta il viaggio simbolico di ogni peccatore che desidera ritrovare la retta via. Ginguené, per di più, non evidenzia la pietà di Dante, ma nota che la pena in fondo, se non è mite, è la più piccola fra tutte quelle previste dal poeta 51. Renzi spiega come questo non sembra una grande osservazione, ma la riprenderanno, in genere senza conoscersi l uno con l altro, molti critici, da Foscolo [Discorso sul testo della Commedia 52 ] a Teodolinda Barolini [Dante and Cavalcanti (On Making Distinctions in Matters of Love): Inferno V in Its Lyric Context 53 ]. E ci aggiunge: Bruno Nardi [Filosofia dell amore nei rimatori italiani nel Duecento e in altri 54 ], che era l unico che di queste cose se ne intendeva davvero, ha notato che, tra i peccatori nella carne, Dante ha punito i golosi più gravemente dei lussuriosi, invertendo l ordine di San Tommaso 55. Forma un argomento che sostiene la tesi di Ginguené secondo la quale l unico vero autore dell episodio di Francesca sarebbe stato il Dante amante di Beatrice, e certamente non il Dante teologo. Anche per Francesco De Sanctis (in Francesca da Rimini 56 ) e per Benedetto Croce (La poesia di Dante 57 ), segnala Renzi, Dante, come teologo e come cristiano, disapprova i peccati dei lussuriosi. Inglese definisce la pietà di Dante ( pietà mi giunse e fu quasi 50 Pierre-Louis Ginguené, Histoire littéraire d Italie, citato da Lorenzo Renzi in Le conseguenze di un bacio. L episodio di Francesca nella Commedia di Dante, cit., pp.134. 51 Ibidem, pp.135. 52 Ugo Foscolo, Discorso sul testo della Commedia, in Id., Studi su Dante, a cura di Giovanni Da Pozzo, Firenze, Le Monnier, 1979, pp.175-573. 53 Teodolinda Barolini, Dante and Cavalcanti (On Making Distinctions in Matters of Love): Inferno V in Its Lyric Context, in Dante studies, 116, 1998, pp.31-63. 54 Bruno Nardi, Filosofia dell amore nei rimatori italiani nel Duecento e in altri, in Id., Dante e la cultura medievale, Bari, Laterza, 1929, pp.1-88, il passo che interessa con i riferimenti a san Tommaso è alle pp.81-82. 55 Lorenzo Renzi, Le conseguenze di un bacio. L episodio di Francesca nella Commedia di Dante, cit., pp.135. 56 Francesco De Sanctis, Francesca da Rimini, in Id., Lezioni e saggi su Dante, a cura di Sergio Romagnoli, Torino, Einaudi, 1967, pp.633-652. 57 Benedetto Croce, La poesia di Dante, Bari, Laterza, 1966, pp.73-75. 25  La lussuria come potenza nel Canto V dell Inferno smarrito 58 ) un profondo turbamento in cui sono fusi l orrore per il peccato e il dolore per l umanità peccatrice giustamente punita 59. Per De Sanctis e per Croce, da un punto di vista emozionale, invece, Dante non condanna i lussuriosi. Croce sottolinea pure il potere estasiante che ha avuto il libro narrando la storia di Lancillotto e Ginevra sui due peccatori. Asserisce però che Dante, al contrario di altri poeti, riesce a rompere e a superare l incantesimo dolce dell amore. Così, afferma Renzi, il critico italiano è riuscito a ottenere un momento di sovrano equilibrio nella storia della critica [della Commedia], e in particolare dello scontro tra colpevolisti [quelli che considerano Francesca una peccatrice integralmente responsabile delle vicende] e giustificazionisti [quelli che si fanno paladino della donna] 60. D altronde, per quanto riguarda la colpevolezza o l innocenza di Francesca, Inglese segnala che la donna, affermando che Amor, ch al cor gentil ratto s apprende 61, da un punto di vista psicologico si rivela sincera, ma che, nella prospettiva etica del poema, [è] obiettivamente falsa poiché Amore [è] sempre soggetto delle azioni determinanti [ prese costui della bella persona/che mi fu tolta: e l modo ancor m offende./amor, ch a nullo amato amar perdona/mi prese del costui piacer sì forte/che, come vedi, ancor non m abandona./amor condusse noi ad una morte ] 62. Da quest angolatura, infatti, tutte le due ipotesi (tanto quello della colpevolezza quanto quello dell innocenza di Francesca) rientrano nelle possibilità. Si può considerare Amore come il vero colpevole, o giudicare che la donna si è arresa a lui, caso in cui lei si rivela responsabile per le vicende. Secondo Inglese, l aggettivo leggieri che si trova nel v. 75 e paion sì al vento esser leggieri 63 farebbe parte di un idea esclusivamente poetica (e quindi non strutturale) che vuole dimostrare, al lettore, il peso carnale del peccato d amore. Tutto come questo formerebbe un suggerimento puramente poetico, Francesca, nella poesia, vive come anima tormentata dalla passione d amore, mentre dalla struttura è dannata per adulterio incestuoso 64. Quindi, quello che De Sanctis e Croce attribuiscono a Dante teologo e 58 Dante Alighieri, Commedia. Inferno, cit., pp.87. 59 Giorgio Inglese, commento al testo in Commedia. Inferno di Dante Alighieri, cit., pp.87. 60 Lorenzo Renzi, Le conseguenze di un bacio. L episodio di Francesca nella Commedia di Dante, cit., pp.144. 61 Dante Alighieri, Commedia. Inferno, cit., pp.89. 62 Giorgio Inglese, commento al testo in Commedia. Inferno di Dante Alighieri, cit., pp.89. 63 Dante Alighieri, Commedia. Inferno, cit., pp.87. 64 Giorgio Inglese, commento al testo in Commedia. Inferno di Dante Alighieri, cit., pp.87. 26La storia di Giulio Giorello  In Articoli04-08-2020di Marco Ciardi Dopo la scomparsa di Giulio Giorello, ho letto molti ricordi a lui dedicati. Uno dei migliori è senz’altro quello di Vincenzo Barone, che compare nelle pagine di questo numero di Query . Ringrazio sentitamente Enzo per avere accettato di scriverlo.   image Io vorrei contribuire alla memoria del nostro grande studioso (e amico) sottolineando soltanto uno tra i molti suoi meriti. Giulio era anche un ottimo storico della scienza e delle idee.   Tale merito gli è stato riconosciuto da uno dei maestri del Novecento in questo settore, Paolo Rossi Monti (il cui nome ricorre spesso in questa rubrica e al quale è stato dedicato il primo numero di “Parastoria”, su Query n. 9, ormai otto anni fa). Recensendo uno dei tanti bellissimi libri di Giorello, Prometeo, Ulisse, Gilgameš. Figure del Mito (2004), Rossi scriveva: «Giorello è stato, da giovane, allievo di Ludovico Geymonat. Insegna (e si è prevalentemente occupato di) filosofia della scienza. Attualmente è anche Presidente della Società Italiana di logica e filosofia delle scienze. Come il suo libro dimostra, non solo utilizza una grandissima quantità e varietà di testi, ma anche conosce come pochi (e minutamente) la storia e i luoghi dell’Inghilterra e, più ancora, dell’Irlanda. Giorello è del tutto consapevole del fatto che il suo libro è una sorta di labirinto. Dentro quel labirinto (che ha una struttura geometrica) egli conduce (a volte trascina) il lettore. Le avventure di idee hanno la strana (per alcuni insopportabile) caratteristica di essere un po’ avventurose: di portare molto lontano dall’idea che la filosofia abbia il compito di mettere ordine nel mondo, di trasformarlo (come diceva il mio antico maestro Antonio Banfi) in “una linda casetta”. Una parte consistente della filosofia italiana sembra impegnata a confrontare accuratamente fra loro i testi di cinque o sei rispettabili filosofi di lingua inglese, a commentarli, a commentare i risultati del confronto, a polemizzare con gli altri commentatori tentando, nel più dei casi, arzigogolate mediazioni fra tesi contrapposte. Di una cosa non mi pare lecito dubitare: Giulio Giorello non fa parte della vasta, soporifera e innocua schiera degli oscuri e instancabili “roditori accademici”».[1]   L’espressione “roditori accademici” era un rimando a quanto scritto sul tema da Paul K. Feyerabend,[2] un pensatore con cui Rossi ha spesso polemizzato, ma per il quale nutriva profonda stima.[3] E che anche Giorello, non a caso, come ha ricordato Barone, ben conosceva. Sua la prefazione all’edizione italiana di Against method. Outline of an anarchistic theory of knowledge, edito in originale nel 1975, e pubblicato da Feltrinelli nel 1979.[4]   Rossi citava spesso, con orgoglio, che il suo libro che compendiava decenni di ricerche sui rapporti tra scienza e magia, Il tempo dei maghi. Rinascimento e modernità (2006), fosse uscito nella collana “Scienza e idee” diretta da Giorello per Raffello Cortina.[5] Perché sapeva quanto Giulio avesse chiaro cosa significasse fare storia della scienza, come ricordava nell’analisi del libro di Enrico Bellone, Molte nature. Saggio sull’evoluzione culturale (2008): «La parola chiave del processo storico – come nota Giulio Giorello nella brillante prefazione che ha scritto per questo libro – è imprevedibilità. Accade infatti spesso nel presente (ed è accaduto spesso nel passato) che gli scienziati siano stati costretti a “vedere” cose diverse da quelle che avrebbero invece dovuto scorgere sulla base delle proprie credenze personali».[6]   Come ci ha ricordato Barone, Giulio Giorello era laureato sia in filosofia che in matematica. Per questo motivo, come aveva presente Paolo Rossi, Giorello non ha mai pensato che il semplice fatto di essere scienziati equivalga, per coloro che svolgono tale professione, ad una autorizzazione «a parlare di testi che non hanno letto, a prendere posizioni su questioni che non conoscono, ad esprimere opinioni su problemi che non hanno mai avvicinato».[7] Del resto, già oltre un secolo fa il matematico Paul Tannery, uno dei padri fondatori della storia della scienza come disciplina specifica, affermava che «per essere un buono storico non basta essere scienziato. Bisogna prima di tutto volersi dedicare alla storia, cioè averne il gusto; bisogna sviluppare in sé il senso storico che è essenzialmente differente da quello scientifico; bisogna infine acquisire una serie di conoscenze particolari, di ausilio indispensabile per lo storico, che sono invece del tutto inutili allo scienziato che si interessa solo al progresso della scienza».[8] Anche per questo, Giorello era un fautore delle collaborazioni. Come quella (tra le innumervoli) con il fisico Elio Sindoni, che ha portato alla realizzazione dell’affascinante Un mondo di mondi. Alla ricerca della vita intelligente nell’Universo(2016), dove Giulio, nella parte storica di sua competenza, mostra (anche in questo caso) una conoscenza approfondita e raffinata degli argomenti trattati. Mostrando, ad esempio, in nome di quella “imprevedibilità” alla quale si accennava poco fa, come il “romanziere” Jules Verne avesse, sul tema dell'abitabilità dei mondi, idee molto più chiare e precise dello “scienziato” Camille Flammarion.[9]   Del rapporto tra “le due culture” Giorello ha sempre preso il meglio (non dimentichiamo che il celebre testo di Charles P. Snow sull’argomento fu introdotto in Italia dalla prefazione di Ludovico Geymonat). Ed era consapevole del ruolo decisivo della scuola nello sviluppare un processo di apprendimento diverso rispetto a quello tradizionale: «C’è soprattutto da vincere la scommessa circa “l’avvenire delle nostre scuole”, come direbbe Friedrich Nietzsche. Chi guarda attentamente alle grandi svolte del pensiero scientifico e alla stessa innovazione tecnologica non può non constatare come gli aspetti più creativi abbiano travolto qualsiasi steccato disciplinare. Valeva ieri per le dottrine di Copernico o per quelle di Darwin, vale oggi per le frontiere della cosmologia o per quelle della biologia, per non dire dell’informatica e dell’alta tecnologia. Potremmo dilungarci su non pochi esempi di virtuose contaminazioni nelle scienze come nelle lettere. Ma ci limitiamo qui a ricordare che la separazione delle culture è l’effetto più deplorevole dell’atteggiamento che concepisce le acquisizioni dell’avventura umana come entità fisse, sospese nel cielo platonico delle idee.»[10] Perciò Giulio (sempre utilizzando le parole di Paolo Rossi) provava «una invincibile ripugnanza» per «gli elenchi di scoperte e di ritrovamenti tecnici, per le sfilate di risultati eternamente veri e di errori eternamente falsi».[11] Ancora Giorello: «Cosa c’è di meglio per qualsiasi creazione dello spirito umano che venire utilizzata, contestata, magari stravolta in un dibattito (come è appunto quello scientifico), in cui in linea di principio nessuna opinione è immune da critica o revisione? L’ospitalità che la scienza offre a qualsiasi “straniero” (ricordiamoci delle parole di Milton) è di questo tipo. Non c’è miglior rispetto che quello che prende forma nelle modalità del conflitto».[12] Grazie di tutto, Giulio   Note   1) P. Rossi. 2018. A mio non modesto parere. Le recensioni sul “Sole-24 ore”, a cura di R. Bondì e M. Rossi Monti. Bologna: Il Mulino, pp. 224-225. 2) P.K. Feyerabend. 1981. La scienza in una società libera. Feltrinelli: Milano, p. 213. 3) P. Rossi. 1999. Paul K. Feyerabend: un ricordo e una riflessione, in Un altro presente. Saggi sulla storia della filosofia.Bologna: Il Mulino, pp. 161-167. 4) P.K. Feyerabend. 1979. Contro il metodo. Abbozzo di una teoria anarchica della conoscenza (1975). Prefazione di G. Giorello. Milano: Feltrinelli. 5) Cfr. ad esempio, P. Rossi. 2018. A mio non modesto parere, cit., p. 259. 6) Ivi, p. 389. 7) P. Rossi. 1999. Ci sono molti Galilei?in Un altro presente, cit. p. 134. 8) P. Tannery. 1904. De l'histoire générale des sciences, in “Revue de Synthèse”, 7, n. 12, p. 3. 9) G. Giorello. 2016. Flammarion, lo “scienziato”, sconfitto da Verne, il romanziere, in Un mondo di mondi. Alla ricerca della vita intelligente nell'Universo. Milano: Raffaello Cortina Editore, pp. 62-68. 10) G. Giorello. 2005. Per una Repubblica delle Scienze e delle Lettere, in Le due culture, a cura di A. Lanni. Venezia: Marsilio, pp. 116-117. 11) P. Rossi. 1967. Considerazioni conclusive, in Atti del Convegno sui problemi metodologici di storia della scienza. Firenze: Barbera, p. 182. 12) G. Giorello. 2005. Per una Repubblica delle Scienze e delle Lettere, cit., p. 118.Grice: “The etymology of libertine ruins it! – or ruins the concept. A slave liberated, being of a low class condition, would be criticized for his excesses of freedom!” Giulio Giorello. Giorello. Keywords: il libertino, implicatura speculativa – specchio e il reame: la communicazione -- “il fantasma e il desiderio” “lo spettro e il libertino” “lo specchio del reame” – “il libertino” “lo scimmione intelligente” lo specchio di Narciso, Bruno, Leopardi-- -- -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Giorello” – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51756347867/in/dateposted-public/

 

Grice e Giorgi – l’implicatura di Bacco – filosofia italiana – filosofia leccese -- Luigi Speranza (Cavallino). Filosofo. Si laurea a Perugia con Givone con “L’estetico” --. studia con Seppilli e Arcangeli Studia etnomusicologia della “Grecìa salentina”, rivalutando i brani in "grico". Altre opere: “Pizzica e rinascita”, La Gazzetta del Mezzogiorno”. Cura “La danza delle spade e la tarantella. Insegna a Lecce. “Le strade che portano al Subasio passando dal Salento” (Ed. Del Grifo, Lecce), “Tarantismo e rinascita: i riti musicali e coreutici della pizzica-pizzica e della tarantella” (Lecce, Argo); “La danza delle spade e la tarantella: saggio musicologico, etnografico e archeologico sui riti di medicina” (Argo, Lecce). “Pizzica-Pizzica, la musica della rinascita. La tarantella del tarantismo e la sua resurrezione: struttura musicale, stato dell'arte e neotarantismo” (Lecce, Pensa MultiMedia); “L'estetica della tarantella: pizzica, mito e ritmo, Congedo Editore, Galatina); “Pizzica e tarantismo: la carne del mito dall'etnomusicologia all'estetica musicale, Galatina, Edit Santoro); “Il tarantismo come mito: dagli errori di De Martino alla rivalutazione del pensiero mitico, Galatina, Congedo); “Il mito del tarantismo: dalla terra del rimorso alla terra della rinascita, Galatina, Congedo); “I poeti del vino, Galatina, Congedo); “La pizzica, la taranta e il vino: il pensiero armonico, Galatina, Congedo, “La rinascita della pizzica, Galatina, Congedo);  Husserl e la Krisis, 3ª in “Segni e comprensione”, Milano); Il francescanesimo tra idealità e storicità, 3ª in “Segni e comprensione”, Porzincula (S.Maria degli Angeli); “Il canto popolare salentino, in Convegno Di Studi Demologici Salentini, Copertino. F. Noviello e D. Severino, Capone, Cavallino Pierpaolo De Giorgi, Il tarantismo secondo Schneider: nuove prospettive di ricerca, in, Quarant'anni dopo De Martino: il tarantismo, Atti del Convegno, Galatina, La iatromusica carne del mito: la pizzica pizzica tra etnomusicologia ed estetica musicale, in, Mito e tarantismo Pellegrino, Pensa MultiMedia, Lecce, La pizzica pizzica immensa risorsa culturale del Sud, in, Terra salentina: i Sud e le loro arti, materiali del Convegno di Arnesano, La Stamperia, Leverano, Pierpaolo De Giorgi, “Il ritorno di Dioniso” a proposito di un libro diPellegrino, in “Segni e comprensione”, Fra aborigeni e tarantismo, in, Settimana di promozione culturale pugliese C. Minichiello, Pensa MultiMedia, Lecce, Le tradizioni popolari nei disegni di Nino Severino, greco, Copertino, Diario di bordo, in, La czarda e il vento: antologia di autori salentini, G. Conte, Congedo Pierpaolo De Giorgi, Poesia sintetica, in, Il cuore di Amleto: testi, grafiche e fotografie di autori contemporanei salentini e ungheresi, nota introduttiva di G. Conte, traduzioni di F. Baranyi e A. Menenti, Veszprém, Pierpaolo De Giorgi, I fogli, in “L'Immaginazione”; Chiedendo e schiodando, La vita amico è l'arte dell'incontro e Maestà delle volte, in Omaggio al Salento, Torgraf, Galatina, In marcia di pace verso Assisi e Trilogia del molto e ben comunicare, in  Omaggio a Maglie cuore del Salento, Torgraf, Galatina, Fantastica pizzica, in, Salentopoesia, festival nazionale di poesia con musica e danza, Gallipoli, Conte, Lecce, Gheriglio in disegno e preghiera, in, Salentopoesia,  festival nazionale di poesia con musica e danza, Lecce, 5Conte, Lecce,  Isola nel Trasimeno, in, Salentopoesia, festival nazionale di poesia con musica e danza, Monteroni, Conte, Lecce, Pierpaolo De Giorgi, S'è cambiato il mondo? e Leggeri Cieli da Leggere, in Luigi Marzo: mostra di pittura, Spello, catalogo, Spello, Lascio un cielo di luce cinica, in Sulle ali di Pegaso senza mai cadere. Marzo: mostra di pittura, Città della Pieve, Tipografia Pievese, Città della Pieve 1998. Discografia Album Fantastica Pizzica (MCDiscoexpress) Pizzica e Trance (MCDiscoexpress) Pizzica e Rinascita (CDSorriso) Il tempo della taranta: pizzica d'autore (CDDrim) 5Pizzica grica: to paleo cerò (CDPlanet Music Studio) Pizzica e RinascitaRistampa (CDC&M) Taranta Taranta (CDIrma records). La pizzica la taranta e il vino. Il pensiero armonico – Pierpaolo De Giorgi  4 Gennaio 2022   G.B.  Il libro è stato pubblicato la prima volta nel corso del 2010 e dopo undici anni riteniamo particolarmente ricordarlo per la sua attualità culturale. Pierpaolo De Giorgi, peraltro, è socio della nostra ASSOCIAZIONE APSEC e collaboratore di questa nostra rivista.  “La ricerca innovativa e serrata compiuta da Pierpaolo De Giorgi, in tanti anni di impegno nelle acque agitate dell’etnomusicologia e dell’estetica, approda finalmente al porto sicuro dello studio La pizzica, la taranta e il vino: il pensiero armonico.    Accade allora che scoperte e sorprese, esposte con cura e rigore scientifico, si susseguano qui continuamente e senza soluzione di continuità, offrendo una concezione finalmente reale del tarantismo e della sua musica terapeutica, la pizzica pizzica, come pure del decisivo ruolo simbolico e religioso del vino nella civiltà mediterranea. Sono esperienze direttamente connesse con quelle antecedenti del dio Dioniso, il nume più significativo della Magna Grecia e dei territori da essa influenzati, archetipo dell’adesione entusiastica alla vita, della reciprocità e del dialogo.   Tramite Dioniso, nella musica e nella danza, come pure nel vino e nell’ebbrezza, l’uomo recupera il contatto con le radici più profonde dell’essere, che si manifestano armoniche, duali e complementari. Per questo i simboli della taranta, della pizzica pizzica e del vino sono rimedi psicologici che restituiscono l’armonia perduta e che si pongono come un’efficace risorsa anche oggi, per costruire un nuovo umanesimo. Sono simboli mitici, che collaborano con quelli della festa e del rito, e vengono prodotti da un soggetto collettivo. Devono essere considerati come arte tradizionale, alla stessa stregua dell’arte individuale. Nel delineare i confini di queste concezioni, De Giorgi rimedita il brillante ma non del tutto sufficiente “pensiero meridiano” di Nietzsche, di Camus e di Cassano.   In Puglia, come in gran parte del mediterraneo, “il pensiero armonico” è il pensiero della rinascita e della misura, valori indispensabili anche oggi per un corretto cammino della coscienza verso la comprensione di se stessa e dell’uomo verso la propria natura divina.”  Indice CAPITOLO I IL PENSIERO ARMONICO E LA RICERCA IN PUGLIA La Puglia e il pensiero armonico Il mare, l’armonia degli opposti e la luce mediterranea Il pensiero armonico come incontro di mythos e di logos Le radici elleniche della tradizione pugliese Archeologia e storia. Etnomusicologia ed estetica della tarantella La ricerca comparativa sui brindisi e le analogie con la pizzica pizzica Il mito e il pensiero armonico del Mediterraneo nella contemporaneità L’ambivalenza del mito e la misura armonica La misura armonica e il cristianesimo Monoteismo e panteismo Noi e i miti del tarantismo e del labirinto. Verso un nuovo umanesimo  CAPITOLO II I BRINDISI E LA PIZZICA PIZZICA COME SIMBOLI DI RINASCITA I brindisi e la pizzica pizzica come simboli di rinascita in Puglia La festa e il pensiero mitico della rinascita La forza estetica di un’arte speciale del leccese, la pizzica pizzica Pizzica pizzica, tarantella e bellezza L’umanesimo mediterraneo e la bellezza mitica della pizzica pizzica e della tarantella Le civiltà del vino e l’ambiente poetico tradizionale della Puglia I brindisi, la tradizione popolare e il soggetto collettivo La ricerca etnomusicologica ed estetica e i brindisi tradizionali Il ritmo armonico della pizzica pizzica e la gestione delle contraddizioni  – La cumbersazione e i brindisi  CAPITOLO III IL TEMPO CICLICO, LA RIVOLTA COLLETTIVA E IL PENSIERO ARMONICO TRA ARTE E MITO Il tarantismo come rito di rinascita e il tempo ciclico come attività psichica collettiva di rivolta Nietzsche, l’eterno ritorno e il recupero del pensiero arcaico del Mediterraneo  – Le analogie dello Zarathustra con il tarantismo La vita come conoscenza: grandezza e miseria di Nietzsche.  – L’eterno ritorno dell’identico e l’eterno ritorno dell’analogo Gli errori di De Martino e le intuizioni di Camus. La rivolta come lotta contro il negativo e come affermazione dell’essere e della vita I brindisi, la pizzica pizzica e il rito del tarantismo come affermazioni della vita  – La ierogamia e la rinascita I simboli della rivolta e dell’inversione terapeutica Il ruolo di inversione della pizzica tarantata: mito, ritmo e analogia La pizzica scherma di Torrepaduli e la rivolta mitica I risultati dell’analisi etnomusicologica: la biritmìa simbolica. La pizzica pizzica come analogon della dynamis armonica universale  CAPITOLO IV PENSIERO ARMONICO E SOGGETTO COLLETTIVO Il ritorno al cielo del Sud e i fraintendimenti di Nietzsche. Dioniso e il pensiero armonico L’aióresis dionisiaca e la Processione dei Misteri di Taranto.  – Il mare come simbolo armonico e come terapia L’intenzionalità collettiva: il teatro tragico del tarantismo e la tragedia greca Il tempo ciclico e la Magna Mater: l’evoluzione della coscienza La Grecia e il governo rituale degli archetipi. Pizzica pizzica e labirinto I brindisi tradizionali e la pizzica pizzica come arte tradizionale collettiva L’arte collettiva tradizionale come arte del mito. L’umanesimo della misura  CAPITOLO V IL SIMPOSIO, I BRINDISI E L’UMANESIMO DELLA MISURA La tradizione pugliese e il simposio greco e magnogreco Il brindisi e il simposio L’ethos del vino come armonia degli opposti La sperimentazione del divino e l’etica della misura Il pensiero armonico, l’agape e il rischio della dismisura La sublimazione del simposio La dismisura e la degenerazione del simposio  CAPITOLO VI L’EMERSIONE DEL PENSIERO ARMONICO DALLA RICERCA E DALLA COMPARAZIONE La danza, le uova e le corna come simboli simposiali di rinascita Il gesto dionisiaco delle corna nelle musiche e nelle danze della rinascita I saperi tradizionali dell’equilibrio mensurale del pensiero armonico: il ritmo e la benedizione La città di Brindisi, l’origine del nome brindisi e il Bacco in Toscana La cena della spillazione Il porto di Brindisi e le corna rituali come simbolo di rinascita. Il brindisi di Dioniso e di Semole come benedizione Indice dei nomi Iconografìa comparativa  Lecce Tarantula. Antropologia simbolo e iniziazione dalla Tradizione alla Contemporaneità Incontri culturaliINCONTRI CULTURALI Tarantula. Antropologia simbolo e iniziazione dalla Tradizione alla Contemporaneità Da Ernesto De Martino ad oggi la Pizzica Salentina, la Taranta e tutto quel mondo che attorno ad essa ruota in maniera spettacolare e folklorico, in realtà nasconde studi e tradizioni che affondano le loro radici in un passato lontano. In una prospettiva più ampia si può dire che in Europa c'è un luogo che da qualche tempo a questa parte ha espresso una incredibile sequenza di suoni, stili, artisti, esperimenti e contaminazioni culturali. Questo luogo è il Salento. La Terra del Rimorso - come la definì Ernesto de Martino - si è trasformata nella Terra dello spettacolo delle tradizioni. Riportando con forza la cultura popolare, l'attenzione per le radici, al centro dell'immaginario giovanile e del consumo pop, il Salento si è rivelata una meta a cui non si può rinunciare. A cinquanta anni dal viaggio della troupe di Ernesto de Martino nel Salento, quei luoghi si sono trasformati in altro, dimenticando l’Oltre. Negli ultimi vent'anni il Salento è stato spettatore della nascita delle dance hall del Sud Sound System, e dell'irruzione sulla scena della pizzica, sottratta da un lato al folklore, dall'altro all'accademia sino poi al più grande world music festival del mondo, la Notte della Taranta. Degli aspetti antropologici dell’argomento e di quelli iniziatici, simbolici ed esoterici se ne occuperanno Maurizio Nocera e Pierpaolo De Giorgi in un incontro dibattito senza precedenti  Mail Presidente Ass. Thorah – piscopo.grazia@libero.it    Biografie relatori   Pierpaolo De Giorgi, laureato in Filosofia, è etnomusicologo, filosofo, musicista e poeta. Ha fondato e guida “I Tamburellisti di Torrepaduli”, con i quali ha suonato in Italia e in tutto il mondo, provocando la nascita-rinascita del genere musicale pizzica. Ha inciso sette dischi, che hanno venduto più di centomila copie, scrivendone i testi poetici e le musiche. Sue liriche sono state tradotte in greco e in ungherese. Assieme al pittore Luigi Marzo, ha pubblicato il noto volume Le strade che portano al Subasio passando dal Salento (Del Grifo 1991). Ha tradotto in italiano La danza delle spade e la tarantella di Marius Schneider (Argo, 1999) e ha pubblicato numerosi volumi di ricerca, tra i quali Tarantismo e rinascita (Argo, 1999), L’estetica della tarantella (Congedo 2004), Pizzica e tarantismo (Edit Santoro, 2005), I poeti del vino (Congedo 2007), Il mito del tarantismo (Congedo, 2008), La pizzica, la taranta e il vino: il pensiero armonico (Congedo 2010), La rinascita della pizzica: testi, poesia e storia dei Tamburellisti di Torrepaduli. La via della Taranta (Congedo 2012) che riformulano radicalmente le indagini sul tarantismo e sulla tarantella iatromusicale.  Maurizio Nocera - “Maurizio Nocera (classe 1947) … è un eccellente rappresentante di quella genia … di intellettuali militanti, che sono sempre di meno, oggi, in giro. “Impegnato” dalla punta delle (consumate) scarpe fino alla radice dei (pochi) capelli, infaticabile viaggiatore, talent scout, esploratore di mondi diversi, inguaribile sognatore, gran parlatore, insegnante, politologo, promoter culturale, contastorie, indefesso ricercatore e divulgatore di patrie memorie, bibliofilo, collezionista, scrittore, salentino al cento per cento eppure cittadino del mondo, giornalista, poeta, saggista, storico, critico letterario, editore.” (Paolo Vincenti, Io e Maurizio Nocera, in http://spigolaturesalentine.wordpress.co m/2010/07/03/spigolautori-maurizio-nocer a/). Maurizio Nocera è segretario provinciale dell'ANPI di Lecce.Grice: “Giorgi is not an Italian philosopher; he is a Leccese philosopher. You have to be Leccese to be a Leccese philosopher, and only a Leccese philosopher will NOT appropriate TARANTA – as Martino did – misunderstanding it – The idea of Nietzsche on Bacco is all very well, but Giorgi notes that you have to have the Leccese experience to understand all this”. Pierpaolo De Giorgi. Giorgi. Keywords: l’implicatura di Bacco, il ritorno di Dioniso; mito. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Giorgi” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51756207767/in/datetaken/

 

Grice e Giorgi – fiducia nella fiducia – filosofia italiana – Luigi Speranza (Vernole). Filosofo.  Grice: “Giorgi discovered a phenomenon I often overlooked: meta-trust: ‘la fiducia nella fiducia e, alla Parsons, la fiducia di ego con alter, e alter con ego. Grice: “I love Giorgi, for various reasons; unlike Sir Geoffrey Warnock, or me, who base our Kantian-type morality on trust, Giorgi recognises a very apt distinction between trust and ‘meta-trust’ – fiduccia nella fiduccia: fiduccia nell’altro!” Insegna a Salento. Si laurea a Roma con “il giuridico e il deontico” – Fonda il Centro Studi sul Rischio a Lecce. Studia i sistemi sociali. Altre opera: “Sociologia del diritto” Manuale di diritto del lavoro e legislazione sociale” “Azione e imputazione” “La società”; “Diritto e legittimazione” “Mondi della società” o, con Stefano Magnolo” “Filosofia del diritto” “Futuri passati”  Fiducia è un meccanismo, un dispositivo di riduzione della complessità. Fiducia non è un valore positivo dell'agire o dell'esperienza; non rappresenta una preferenza rispetto al suo opposto, non ha valore morale di preferibilità. Fiducia e sfiducia sono grandezze non convertibili. Dare fiducia ad altri o suscitare fiducia in altri non sono qualità morali, disposizioni buone, né preferibili o migliori in assoluto. Il riscontro della loro preferibilità è la situazione, la conferma della validità dell'orientamento alla fiducia può essere reperita solo nella dimensione temporale, l'accertamento dell'opportunità può essere dato solo dal futuro. La funzione della fiducia, infatti, si dispiega nella tensione fra presente e futuro. In questa tensione si proietta nel presente il dramma dell'incertezza e il rischio del non sapere. Il sapere, infatti, esclude il rischio e rende inutile la fiducia. Il non sapere, invece, impone al singolo, al sistema personale o sociale, la necessità di reperire un dispositivo di assorbimento dell'incertezza che rischia di paralizzare l'agire. Il problema, allora, è il tempo; lo spazio di questo tempo è il presente, una estensione temporale della cui durata ci si rende conto soltanto quando è finita, cioè quando è già diventata un passato. Lo spazio della fiducia è questo. Solo in questo spazio si può avere fiducia. In esso cioè si può costruire, sviluppare, mettere alla prova quella inevitabile avventura che è l'anticipazione delle aspettative dell'altro. Fiducia non è altro che questa anticipazione che orienta l'agire e l'esperire. Ma è un'avventura del presente che anticipa il futuro nella rappresentazione di colui che ha fiducia, perché si serve solo delle risorse di una propria prestazione effettuata in anticipo e costruita su una propria rappresentazione del mondo. Una risorsa esterna, una certezza, renderebbe inutile dare fiducia [...]. La fiducia costituisce una mediazione tra la complessità del mondo e l'attualità dell'esperienza. Una mediazione drammatica, rischiosa, che si sostiene sul sapere di non sapere, che produce da sé le risorse che investe e con le quali si espone al futuro anticipandolo e all'altro rappresentandosi le sue aspettative [...]. Fiducia non è affidamento all'altro. Fiducia non è il racconto dell'altro. Non ci sarebbe il dramma, non ci sarebbe neppure la possibilità di raccontare l'altro, se fiducia avesse a che fare immediatamente con l'altro. Fiducia ha a che fare con la propria rappresentazione dell'altro; essa è affidamento alle proprie aspettative dell'altro. Fiducia è esposizione del sé. Fiducia è abbandono al sé, per questo c'è il rischio, il dramma, la tensione. (R. De Giorgi, Presentazione dell'edizione italiana, in N. Luhmann, La fiducia, Bologna, il Mulino, Riferimenti Bibliografici  - P. Berger, T. Luckmann, La realtà come costruzione sociale, Bologna, 1969;* - N. Luhmann, Illuminismo sociologico, Milano, 1983;* - A. Schütz, La fenomenologia del mondo sociale, Bologna, 1974.*La semantica del rischio Decisione razionale e azione sociale  Raffaele De Giorgi Docente di Filosofia del diritto - Università di Lecce  venerdì 22 gennaio 1999 - 17,30 Centro Culturale. Sulla situazione delle scienze sociali  Se si osserva il panorama delle scienze sociali oggi, si può affermare che esse sono alla ricerca di temi attuali riferiti alla società, ma che per questo non dispongono ancora di una struttura teorica adeguata, in particolare non sono pervenute ancora a una adeguata descrizione della società moderna. Le discussioni teoriche vengono effettuate in relazione ad autori, in particolare in relazione a classici. Questo comporta, nel modo di porre i problemi, la presenza di un sovraccarico di vecchie prospettive e l’implicito orientamento ad una società che in virtù del suo ottimismo sul progresso aveva raggiunto i suoi limiti, ma poteva tener presente solo in misura limitata le conseguenze della società moderna e le poteva trattare solo come problemi della distribuzione del benessere. Le acquisizioni alle quali si è pervenuti sono date da un atteggiamento scettico verso l’organizzazione e la razionalità (M. Weber) o da una critica della struttura di classe della società moderna. Di queste acquisizioni vive ancora oggi la discussione teorica.  La società moderna ha reso urgenti problemi completamente diversi: il problema dell’ecologia, il problema delle conseguenze che derivano dalle nuove tecnologie, dalla ricerca biologica e genetica: ma anche il problema delle conseguenze legate a determinate politiche di investimento o quello relativo al rapporto tra uso del denaro per fini speculativi o per fini produttivi. Si tratta solo di alcuni indici degli ambiti problematici con i quali continuamente si confronta la società contemporanea e rispetto ai quali la soglia di attenzione, e quindi di preoccupazione, sembra essere più alta.  Negli anni più recenti è sembrato che la scienza sociale riuscisse ad andare oltre la discussione sui classici: si è elaborato così un orientamento problematico che può essere descritto mediante concetti quali complessità, problemi del controllo e guida, possibilità dell’azione ed altri ancora. Così la società viene descritta dalla prospettiva dell’agire politico e quindi dalla prospettiva della pianificazione, la quale ha davanti a sé campi di realtà altamente complessi, in cui tutte le azioni scatenano “conseguenze perverse” e producono problemi che danno motivo a nuove forme dell’agire. Tuttavia anche questa discussione ha raggiunto in modo incontestabile i suoi limiti, non dispone di potenziale esplicativo dell’agire reale e ripropone ormai solo l’originaria formulazione dei problemi. All’ottimismo del progresso si è sostituita la paura del futuro, all’ansia della pianificazione e del controllo, la rassegnazione verso le conseguenze perverse dell’agire che, non potendo essere previste, vengono rese oggetto di analisi empirica: un motivo ulteriore per considerare il presente con disappunto e per tentare di risolvere mediante il ricorso alla morale ciò che sembrava impossibile risolvere mediante la razionalità.   Non si può affatto prevedere che nel prossimo futuro la scienza sociale riuscirà a colmare il deficit teorico che la caratterizza e a pervenire ad una convincente descrizione della società moderna. E’ possibile però isolare temi speciali, che in questa direzione sono fruttuosi e possono essere utilizzati perché le ricerche si concentrino su di essi. Il tema rischio può costituire un tema cosiffatto. Esso è un tema nuovo rispetto alla discussione sui classici e mantiene considerevole distanza rispetto alle teorie sulla decisione razionale o sulla pianificazione razionale. Esso attualizza la dimensione del tempo, una dimensione centrale per la società moderna da tutte le prospettive. Esso altresì ha particolare riferimento rispetto ai temi che nell’opinione pubblica hanno acquistato un significato considerevole e che, gradualmente, diventano dominanti. Esso ha quindi tutte le chances di fornire un contributo rilevante alla comprensione delle condizioni sociali nelle quali oggi inevitabilmente viviamo e delle quali in un qualunque modo dobbiamo tener conto.  2. Stato della ricerca.  Negli ultimi vent’anni il tema rischio ha stimolato una mole immensa di ricerche ed ha raccolto una letteratura che ormai non è più possibile controllare. Nella letteratura meno recente il tema si è sviluppato prevalentemente sotto la voce: insicurezza. La ricerca però si è concentrata su alcuni punti cruciali e non è pervenuta all’elaborazione di una chiara concettualità teoretica.   Da una parte è dato di trovare ricerche sulla valutazione delle conseguenze prodotte dalle nuove tecnologie; queste ricerche presentano ramificazioni molto concrete: ad esempio la valutazione degli effetti cancerogeni che derivano da alcuni prodotti chimici o la valutazione delle possibilità che si verifichino eventi particolarmente improbabili ed insieme altamente catastrofici. Questa letteratura è orientata nel senso delle teorie della casualità o nel senso della statistica: essa ha prodotto a sua volta altra letteratura che si occupa della posizione e del ruolo degli esperti rispetto alla politica e che di conseguenza individua una perdita di prestigio e di credibilità della scienza e degli esperti nelle diverse tecnologie, qualora questi, sotto la pressione e l’urgenza delle decisioni siano costretti a rendere manifeste le loro insicurezze o le controversie interne alla scienza stessa.   Si tratta di una letteratura e di un insieme di ricerche che tematizzano i problemi della sicurezza rispetto a situazioni di pericolo oggettivo, ma che non riguardano la prospettiva di chi, nell’agire concreto, deve decidere se rischiare o non rischiare e a quali costi.   Accanto a queste ricerche è dato di trovarne altre che sono orientate in misura crescente in senso psicologico e che indagano i modi in cui i singoli si comportano in situazioni di rischio. Risultato di queste ricerche è una distinzione di variabili che influenzano il comportamento, come ad esempio l’influsso della fiducia di sé o del controllo di sé sulla disponibilità di colui che agisce verso il rischio.   Un altro orientamento di ricerca si occupa dei deficit di razionalità e degli “errori” statistici che è possibile individuare nel comportamento decisionale quotidiano. La disponibilità al rischio dipende, secondo queste ricerche, non da ultimo dal modo in cui colui che decide pone il problema col quale deve misurarsi.  Questi orientamenti ai quali si sostiene la ricerca sul rischio permettono di comprendere perché gli esperti che si occupano della percezione e valutazione del rischio e delle strategie del suo trattamento, siano essenzialmente studiosi di scienze naturali, di statistica, di economia (in particolare per i settori relativi alle teorie della scelta razionale, del calcolo dell’utilità, ecc.) o di psicologia. Persino il tema “comunicazione sul rischio” viene trattato da specialisti che hanno questa formazione.  La sociologia si è occupata fino ad ora prevalentemente degli aspetti limitati dei nuovi movimenti che si formano nella società a seguito della accresciuta percezione del rischio. La scienza politica ha manifestato scarsa attenzione per i problemi che derivano dal fatto che le questioni legate al rischio sovraccaricano gli interessi politici. Accanto alla medicina si è stabilizzata un’etica che si occupa dei modi in cui la morale dovrebbe affrontare questioni che sembrano sottrarsi al calcolo razionale.  Nonostante la sua ampiezza, l’attuale ricerca sul rischio non riesce a pervenire a risultati utili sia alla descrizione dell’agire decisionale che alla determinazione di possibilità ulteriori degli stessi ambiti decisionali, perché è legata da vincoli che derivano dal modo stesso in cui il problema del rischio viene tematizzato. Questi vincoli sono definiti dai modelli derivati dalle teorie della decisione razionale e dalle teorie psicologico-individualistiche.   3. Integrazione teorica.  Tanto dal panorama delle ricerche quanto dall’eterogeneità dei diversi approcci scaturisce un considerevole bisogno di integrazione teorica. Le prestazioni innovative che è possibile effettuare in rapporto allo stato attuale della ricerca dipendono dal fatto che si riesca ad elaborare e a rendere disponibile una concettualità teorica capace di rendere possibili questi riferimenti.  Il concetto di rischio è stato definito essenzialmente in relazione agli ambiti della relazione razionale, per così dire, come concetto per la elaborazione dei problemi del calcolo razionale. Da qui derivano considerevoli difficoltà di delimitarne significato e contenuto. Nella letteratura si scambiano e si utilizzano come equivalenti e fungibili con il concetto di rischio formulazioni quali pericolo, danger, hazard, insicurezza e simili. Proprio per questo, sul piano metodologico è necessario mettere in chiaro nel contesto di quali distinzioni il rischio acquista il suo contenuto e significato proprio.  La distinzione tra rischio e sicurezza sembra inutilizzabile. Sicurezza in quanto opposta a rischio, indica solo un posto vuoto che non può certo essere riempito empiricamente. Sicurezza, nello schema rischio-sicurezza, indica solo un concetto riflessivo: esso esibisce solo la posizione dalla quale tutte le decisioni possono essere analizzate dal punto di vista del loro rischio. Sicurezza, in questo senso, universalizza solo la coscienza del rischio; d’altra parte non è un caso se, a partire dal XVII secolo, tematiche della sicurezza e tematiche del rischio si sviluppano insieme.   Per questo sarebbe necessario provare se sia possibile intendere il concetto di rischio utilizzando le prospettive fornite dalla teoria attributiva. Nel generale contesto di una insicurezza rispetto al futuro e di un danno possibile, si potrebbe parlare di rischio quando un qualche danno venga imputato ad una decisione, cioè quando questo danno debba essere trattato come conseguenza di una decisione (o da colui che decide o da altri). Il concetto opposto sarebbe allora il concetto di pericolo, che è applicabile quando danni possibili vengano imputati all’esterno. Una tale concettualizzazione permetterebbe di utilizzare la problematica dell’attribuzione che si è rivelata fruttuosa e saldamente sperimentata. La concettualizzazione proposta dà insieme plausibilità al fatto che nella società moderna la maggiore coscienza del rischio sia correlata all’accrescimento delle possibilità di decisione.  Riferimenti Bibliografici   - Ulrich Beck, Risikogesellschaft. Auf dem Weg in eine andere Moderne, Frankfurt a.M., 1986;* - Ulrich Beck (Ed.), Politik in der Risikogesellschaft. Essays und Analysen, Frankfurt a.M., 1991; - Vincent T. Covello, J. Mumpower, Environmental Impact Assessment, Technology Assessment, and Risk Analysis, NATO ASI Series, Berlin-Heidelberg, 1985; - Mary Douglas, Come percepiamo il pericolo. Antropologia del rischio, Milano, 1992;* - Mary Douglas, Aaron Wildavsky, Risk and Culture. An Essay on the Selection of Technological and Environmental Dangers, California UP, 1983;* - Adalbert Evers, Helga Nowotny (Eds), Über den Umgang mit Unsicherheit. Die Entdeckung der Gestaltbarkeit von Gesellschaft, Frankfurt a.M., 1987; - Anthony Giddens, The Consequences of Modernity, Stanford UP, 1990;* - Alois Hahn, Willy H. Eirmbter, Rüdiger Jacob, Le Sida: savoir ordinaire et insécurité, «Actes de la recherche en sciences sociales», 104, pp. 81-89, 1994; - Toru Hijikata, Armin Nassehi (Eds), Riskante Strategien. Beiträge zur Soziologie des Risikos, Opladen, 1997; - B.B. Johnson, Vincent A. Covello (Eds), The Social and Cultural Construction of Risk, Dordrecht, 1987; - Franz-Xaver Kaufmann, Sicherheit als soziologisches und sozialpolitisches Problem. Eine Untersuchung zu einer Wertidee hochdifferenzierter Gesellschaften, Stuttgart, 1970; - Roswita Königswieser, Matthias Haller, Peter Maas, Heinz Jarmai (Eds), Risiko-Dialog, Köln, 1996; - Georg Krücken, Risikotransformation. Die politische Regulierung technisch-ökologischer Gefahren in der Risikogesellschaft, Opladen, 1997; - Niklas Luhmann, Sociologia del rischio, Milano, 1996;* - Charles Perrow, Normal Accidents. Living with High-Risk Technologies, New York, 1984; - Aaron Wildavsky, Searching for Safety, New Brunswick-London, 1988. (*) I titoli contrassegnati con l'asterisco sono disponibili, o in corso di acquisizione, per la consultazione e il prestito presso la Biblioteca della Fondazione Collegio San Carlo (lun.-ven. 9-19)  Presso la sede della Biblioteca, dopo una settimana dalla data della conferenza, è possibile ascoltarne la registrazione.Grice: “Giorgi understands trustworthiness perfectly. However, he does not seem to care to provide a moral background for it, which is okay with me, since being trustworthy and expecting others to be trustworthy is what an honest chap does! It’s different with PERJURY, and Giorgi has shed light on the notion of legitimacy – an oath of trustworthiness becomes a LEGAL BOND – not just moral. It is however better to consider the moral trustworthiness as PRIOR conceptually to the legal trustworthiness – even if conceptual priority can go both ways. EPISTEMICALLY, to have a law that condemns perjury may be the best way NOT to have faith in faith (fiducia nella fiducia) but PRESUPPOSE that the other has a moral-legal bond to be trustworthy. The perjury figure in Roman law has to be considered historically, since if there was something the Italians are good at is Roman law!” -- Raffaele De Giorgi. Giorgi. Keywords: fiducia nella fiducia, il giuridico, il deontico, imputazione, azione, fiduzia nella fiducia. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Giorgi” – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51757844030/in/dateposted-public/

 

Grice e Giovanni – la civetta di Minerva – filosofia italiana – Luigi Speranza Napoli). Filosofo.  Grice: “The Italians love ‘divenire’ as in ‘being and becoming’ – but if I say Mary is becoming a princess, ain’t Mary being?” Grice: “I like Giovanni; only in Italy, you write an essay on Marx on cooperation and on Kelsen; and then of course an Italian philosopher HAS to philosophise on Vico: ‘divvenire della ragione,’ Giovanni calls what I would call a critique of conversational reason!” Ha aderito successivamente alla Rosa nel Pugno.  Simpatizzò per la monarchia e l'11 giugno 1946 fu tra coloro che presero parte agli scontri che causarono la strage di via Medina; in seguito avrebbe spiegato la sua partecipazione con queste parole: “Già leggevo Hegel ero monarchico perché credevo all'unita dello Stato.” “Scappai quando la situazione s'incanaglì». Si laurea a Napoli con la tesi “Vico: natura e ius.” Insegna a Bari.  Direttore di “Il Centauro. Rivista di filosofia". Altre saggi: “L'esperienza come oggettivazione: alle origini della scienza”; “Il concetto di classe sociale in Cicerone”; “La borghesia italiana”; “Il concetto di prassi”; “Marx dopo Marx”  (cf. Luigi Speranza, “Grice dopo Grice.” Impilcature: Not Grice! --; “La nottola di Minerva”; -- il guffo di Minerva – la civetta di Minerva -- “Dopo il comunismo”; il comune -- “L'ambigua potenza dell'Europa”; “Da un secolo all'altro: politica e istituzioni” – istituzione istituzionalismo istituismo “La filosofia e l'Europa”; “Sul partito democratico. Aristocrazia, democrazia crazia cratos concetto di potere -- -- Opinioni a confronto”; “A destra tutta. Dove si è persa la sinistra?” “Elogio della sovranità politica, -- il sovrano – lo stato sovrano – Machiavelli --  Editoriale scientifica, “Le Forme e la storia. Scritti in onore di Giovanni, Napoli, Bibliopolis,  La parabola di Giovanni.  Il dibattito Un saggio di de Giovanni paragona Severino al filosofo del fascismo. Ma a tutte le sue obiezioni è possibile rispondere È Gentile il profeta della civiltà tecnica Ne rende possibile il dominio planetario. Eppure la legge del divenire è eterna di EMANUELE SEVERINO Giovanni Gentile fu assassinato per- ché era la voce più autorevole e con- vincente del fascismo. Ep- pure la sua filosofia è la ne- gazione più radicale di ciò che il fascismo ha inteso essere. Non solo. Essa è tra le forme più potenti — non è esagerato dire la più potente — del pen- siero del nostro tempo. Di tale potenza lo stesso Lenin si era accorto — forse gli assassini di Gen- tile non lo sapevano neppure. Tanto meno lo sa la cultura filosofica oggi dominante, che mai rico- noscerebbe a un italiano un così alto rilievo. Non solo. Contrariamente agli stereotipi che vedono in Gentile un avversario della scienza, l’attuali- smo gentiliano è l’autentica filosofia della civiltà della tecnica: rende possibile il dominio planeta- rio della tecno-scienza, ancora frenato dai valori della tradizione. Altrove ho mostrato il fonda- mento di queste affermazioni. Il recente libro di Biagio de Giovanni Disputa sul divenire. Gentile e Severino (Editoriale Scientifica, 2013) è un grande e suggestivo contributo al loro approfon- dimento — come d’altronde c’era da attendersi dalla statura culturale e sociale dell’autore. Va facendosi largo nel mondo la convinzione che l’uomo non possa mai raggiungere una verità assolutamente innegabile; che, prima o poi, ogni verità siffatta resti travolta da altri modi di pensa- re, da altri costumi, cioè si trasformi, muoia: di- venga. Travolta, anche la certezza che esistano le cose che ci stanno attorno; essa è innegabile solo fino a che esse non vanno distrutte: era innegabi- le solo provvisoriamente. Esser convinti dell’ine- sistenza di ogni verità assoluta è quindi, insieme, esser convinti dell’inesistenza di ogni Essere im- mutabile ed eterno. «Dio è morto», si dice. La negazione di ogni verità assoluta e innega- bile non investe dunque l’esistenza del divenire del mondo. Anzi, proprio perché si fa largo la convinzione che il divenire di ogni cosa e di ogni stato sia assolutamente innegabile (ed eterno), proprio per questo è inevitabile che ci si convinca dell’impossibilità di ogni altro innegabile e di ogni altro eterno. Gentile lo mostra nel modo più rigoroso (mentre il fascismo, come ogni assoluti- smo politico, intendeva essere la configurazione inamovibile dello Stato). Ma è appunto per quell’estremo rigore che de Giovanni rileva, a ragione, l’incolmabile contra- sto tra il pensiero di Gentile e il tema centrale dei miei scritti, l’affermazione cioè che la verità asso- lutamente innegabile esiste e che tutto ciò che esiste (nel presente, nel passato, nel futuro) è eterno, ossia non esiste alcunché che esca dal proprio esser stato nulla e che sia travolto nel nulla. Certo, la più sconcertante delle affermazio- ni. Che però de Giovanni considera fondata con altrettanto rigore. Infatti, mi sembra, egli è inte-ressato al contrasto Gentile-Severino perché vede in ogni forma di contrasto una conferma della propria prospettiva di fondo, per la quale l’esi- stenza umana è, da ultimo, un contrasto insana- bile tra il desiderio dell’uomo, finito, di esser sal- vato dall’Infinito e la problematicità del rapporto finito-Infinito. Quindi, a suo avviso, per quanto rigorose possano essere la posizione filosofica di Gentile e la mia, ci dev’essere in entrambe un vi- zio o più vizi di fondo che non possono venir estirpati. Attraverso una finissima procedura in- terpretativa de Giovanni lo fa capire rivolgendo domande, obiezioni sotto forma di domande. So- prattutto a me. Provo a rispondere ad una soltan- to. In modo adeguato risponderò in altra sede. Ma prima rivolgo anch’io una domanda a de Giovanni. La sua prospettiva — qui sopra richia- mata in modo molto sommario — intende essere una verità assolutamente innegabile o una pro- posta dove non si esclude che la verità innegabile esista da qualche parte? Propendo per la prima alternativa. Mi sembra infatti che anche per de Giovanni l’unica verità indiscutibile sia la «stori- cità» del reale, cioè il divenire che travolge ogni altra presunta verità. La sua distanza da Gentile tende così a vanificarsi nonostante le obiezioni, che a questo punto hanno un carattere subordi- nato. E infatti de Giovanni mi chiede se non ci sia «qualcosa di ineluttabile» «nella condizione mortale dell’uomo», se la morte non sia «la prova inconfutabile», l’«irrefutabile cogenza» che «l’ente uomo nasce dal nulla e va nel nulla» — e anzi, lasciando da parte il domandare, afferma che il mio discorso «si scontra con il fatto che l’uomo muore» (pp. 83-84, corsivo mio). Il conte- sto in cui de Giovanni avanza queste domande- affermazioni è incommensurabilmente lontano dall’ingenuità con cui a volte queste domande mi vengono rivolte. Ma in questa sede può essere opportuno richiamare — ancora una volta — che i miei scritti, ovviamente, non hanno mai negato che l’uomo muoia e come muoia e resti il suo ca- davere, ma hanno sempre negato che la nascita dell’uomo e delle cose sia un venire dal nulla e che la morte sia un andare nel nulla; e lo negano perché mostrano che questo andirivieni non è un «fatto». Provo a chiarire. Che il dolore, l’agonia, la morte dell’uomo (e il perire dei viventi e delle cose) sia un «fatto» si- gnifica che se ne fa esperienza. Certo: si fa espe- rienza dell’orrore della morte — che è sempre la morte altrui. Ma chi crede che la morte sia un an- dare nel nulla non crede (è impossibile che cre- da) che l’uomo vada nel nulla ma, insieme, conti- nui ad essere un «fatto» che appartiene al conte- nuto dell’esperienza: gli appartenga nello stesso modo in cui gli apparteneva prima di annientar- si. Nell’esperienza rimane il ricordo di coloro che sono andati nel nulla, e il ricordo è un «fatto»; ma non rimane il fatto in cui consisteva il loro es- ser vivi, non si fa più esperienza del loro esser stati vivi. Chi, dunque, crede che la morte sia an nientamento crede che — pur avendo avuto espe- rienza dell’agonia e del cadavere — ciò che è di- ventato niente sia diventato anche qualcosa che non appartiene più all’esperienza, che non è un fatto. Ma allora è impossibile che l’esperienza mostri che sorte abbia avuto ciò che è uscito dall’espe- rienza, e quindi mostri che esso è diventato nien- te. Di questa sorte l’esperienza non può che tace- re. Cioè l’annientamento non può essere un «fat- to». (E se il cadavere viene bruciato e, come si di- ce, «diventa cenere»; allora anch’esso, come tutta la vita passata di chi è morto, esce dall’esperienza —anche se ne rimane il ricordo. Daccapo: che es- so, diventando cenere, sia diventato niente non può essere l’esperienza ad attestarlo). Ci si convince dunque che la morte è annienta- mento non sulla base dell’esperienza, ma sulla ba- se di teorie più o meno consistenti. All’inizio i vivi si fermano atterriti di fronte alle configurazioni orrende della morte dei loro simili e restano col- piti dalla loro assenza; i morti non ritornano, vivi, come invece il sole torna a risplendere al mattino. Anche su questa base, quando si fa avanti la rifles- sione filosofica sul nulla, si pensa che ciò che non ritorna sia diventato niente e si crede di sperimen-tarne l’annientamento. Gentile sta al culmine di tale fede e, con la propria «teoria generale dello spirito», dimostra nel modo più radicale l’impos- sibilità di ogni realtà esterna all’esperienza, sì che l’uscire dall’esperienza è per ciò stesso l’andare nel niente. Ma, appunto, si tratta di una dimostra- zione, di una «teoria», non della constatazione di un fatto. Dunque, la sconcertante affermazione, al cen- tro dei miei scritti, che tutto ciò che esiste è eter- no, non è un «paradosso» che «si scontra» con l’esperienza, cioè «con il fatto che l’uomo muo- re». All’opposto, a scontrasi con l’esperienza sono coloro che — affermando la sua capacità di atte- stare l’annientamento degli uomini e delle cose — vedono in essa ciò che in essa non c’è e non può esserci. Sono molti, moltissimi? Non importa. An- che quando qualcuno ebbe a mostrare che è la Terra a girare attorno al sole e non viceversa, tutti gli altri lo negavano, sconcertati. A questo punto de Giovanni deve mostrare per- ché (una volta escluso lo «scontro con il fatto») non accetta la fondazione che di quella sconcer- tante affermazione ho indicato nei miei scritti. At- tendo. Ma anche tutte le altre sue domande atten- dono la mia risposta.Il tramonto del principe: "Fin dall'inizio della sua attività Biagio de Giovanni ha accompagnato al suo discorso teorico e politico una notevole attività di carattere storico-filosofico. Si può dire, anzi, che per certi versi questi sono tre aspetti di una medesima ricerca che, secondo una tipica 'tradizione' italiana, ha intrecciato, in modo consapevole, filosofia, storiografia e politica. Ma questa è una considerazione preliminare, di carattere generale. Ciò che distingue la posizione di de Giovanni è il modo con cui ha istituito questo intreccio - il suo 'punto di vista' - e i risultati che è riuscito a conseguire." (dalla prefazione di Michele Ciliberto). Con una postfazione sulla storia de "Il centauro" di Dario GentiliBiagio di Giovanni. Giovanni. Keywords: essere/divenire – dall’essere al divenire -- divenire della ragione conversazionale: Vico, Hegel, Marx, nottola di Minerva; monarchia – stato -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Giovanni: il divennire della ragione conversazionale” – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza.

 

Grice e Giraldi – filosofia italiana – filosofia ligure -- Luigi Speranza (Ventimiglia). Filosofo. Grice: “Only a Ligurian philosopher would philosophise on Hegel’s real logic and lobsters!” -- Grice: Grice: “One good thing about Giraldi is that he is from Ventimiglia and moved to Noli – the most charming corners of Italy!” – Grice: “Giraldi calls his position ‘romatnic essentialism;’ having born in Ventmiglia he would, wouldn’t he?”“I like Giraldi; nobody in England would dare write “The son of Peter Pan,” but Giraldi, otherwise known as the author of ‘Essenzialismo,’ did write ‘Il figlio di Pinocchio’”! Il padre di Giovanni Giraldi, originario di Dolceacqua e di estrazione contadina, dopo il servizio militare riuscì la scalata del successo al Casinò di Monte Carlo, affermandosi anche come uomo di grande saggezza e religiosità. La madre invece era originaria di Ventimiglia, dove Giraldi stesso nacque e trascorse la sua infanzia. Sebbene la famiglia fosse benestante, egli soffriva per la grande conflittualità interna, continuamente vessato dalla sorella maggiore che non esitava ad usare violenza nei suoi confronti, mentre la madre non faceva parola con il padre di quanto assisteva. Racconta che in questo periodo riusciva a trovare pace solo in chiesa.  Con una bugia astuta riuscì a scappare di casa, entrando in un collegio, dunque l'anno successivo si trasferì in un altro collegio di Roma, ove tuttavia non riuscì a trovare la tranquillità sperata. Riuscì a compiere studi classici a Roma, iscrivendosi poi all'Università. Non frequenta le lezioni delle materie filosofiche curricolari, ma studia per conto proprio. Tuttavia sigue abbastanza regolarmente le lezioni di Ponzo, anche se non era materia d'esame. Si laurea e presta servizio militare durante la seconda guerra mondiale. Si laurea in filosofia discutendo molto animatamente la tesi con  Spirito, il quale ironizzò sulle sue pretese di "fare una nuova filosofia". Insegna a Milano. Partendo dalla teoria gentiliana, che vede in tutto una “mediazione”, e da quella di Consentino, che sostiene al contrario la totale "immediatezza", afferma che anche l'atto puro, in quanto nuovo e spontaneo, non può che nascere senza alcuna mediazione, quindi è l'equivalente dell'immediatezza, o del sentire puro. Pertanto prova a risolvere le contraddizioni di entrambe le posizioni in una sintesi hegeliana che possa superare sia il “divenirismo,” sia il coscienzialismo antidivenirista. La soluzione è che l'immediatezza sarebbe sostanziata di mediazione, e viceversa.L'immediatezza è così colma di mediazione, perché senza di essa sarebbe cieca e una mediazione senza una immediatezza sarebbe nulla. Inoltre, per avere una identità distinguibile, si dovrebbe avere già dentro di sé quanto necessario per identificarsi e per distinguersi.  In Etica del sentiment, ancorando il principio morale proprio alla sfera sentimentale, si focalizza sul sentimento di libertà e propone nuove argomentazioni alla tesi di derivazione stoica del sentirsi responsabili, pur entro un tutto già dato. In Gnoseologia del Sentimento,  parte proprio dalla posizione del Consentino per ripercorrere gli itinerari di una filosofia dell'essere indiveniente e per affrontare gli aspetti dinamici e volontaristici dell'Io. In Filosofia giuridica espone la concezione di diritto naturale quale sentimento fondamentale giuridico, condizione trascendentale di ogni diritto positive. Pertanto il diritto naturale non sarebbe un codice sovrapponibile ad altri codici, ma la precondizione che permette alle leggi positive di essere leggi e non atti religiosi, estetici, scientifici o di altro tipo. Si occupa anche della riflessione su temi politici. L'opera Storiografia come rettorica tende ad inquadrare l'unitarietà artistica e scientifica della ricostruzione storica, coerentemente con la tesi di Cicerone della historia opus oratorum maxime e con quella aristotelica dell'entimema, in altre parole quel sillogismo retorico che si differenzia da quello della necessità. In Epistemologia invoca una "demitizzazione" anche delle teorie cosmologiche e scientifiche più accreditate (l'evoluzionismo, la teoria del Big Bang, la meccanica quantistica), poiché tenderebbero pure esse a cadere in paralogismi e contraddizioni logiche, nonostante gli apprezzabili sforzi a riferirsi alla filosofia da parte di alcuni notevoli scienziati. Ad esempio nota che anche i migliori epistemologi che irridono il concetto di sostanza, di fatto, riferiscono i dati sperimentali ad una sottintesa sostanza soggiacente. In numerose opere dedicate alla religione, analizzata nelle molteplici forme di spiritualità, avanza la tesi che il proprium della religione sia la soteriologia, quindi non tanto il contenuto di una dottrina, ma la speranza di salvazione dal negativo della vita e della morte. Il principio cardine diventa dunque la speranza, e non più la fede, che viene ricondotta ad un ruolo funzionale alla realizzazione della salvezza.  L'analisi della religiosità tenta perciò di emanciparsi dagli usuali preconcetti filosofici: se alla religione è stato assegnato per oggetto l'uomo immediatamente e Dio mediatamente, alla teologia Dio si dà immediatamente e l'uomo mediatamente. Altresì in Immortalità dell'anima mostra come sia improponibile lo sforzo di svincolare l'unità del Pensiero con la determinazione individualizzata della persona. Il Dizionario di Estetica e Linguistica generale, con alcune integrazioni filologiche presenti in alcune successive pubblicazioni, alcune in Sistematica, si distingue anche per l'attenzione dedicata all'estetica e sulle concezioni dei primitivi "di ieri e di oggi".  La proposta avanzata per una filosofia della scelta e decisione si apre con una riflessione sul dogmatismo e l'agnosticismo, dalle quali l'autore vuole prendere le distanza. Non si considera dogmatico, perché il suo metodo gli consente di aderire ad un'idea solamente dopo la caduta di ogni riserva, ma ciò non lo porta neppure ad approdare ad una concezione scettica né agnostica, in quanto la non possibilità di dimostrare (ad esempio l'immortalità, la vita ultraterrena o l'esistenza di Dio) non equivale ad affermare la loro non esistenza.  Tra le numerose acquisizioni che lo difenderebbero dalle accuse incrociate di scetticismo e agnosticismo enumera la consapevolezza di un patrimonio di verità circa le possibilità di pensiero; la ricchezza dell'atto di conoscenza anche nelle forme meno esplicate; l'emancipazione dalla divisione del conoscere in intuizioni e concetto, sensazione e concetto; la pretestuosità di coloro che esigono una purezza del conoscere senza inquinamenti sentimentali; le aporie di una scienza oggettivante e insieme soggettivante al massimo e dell'arte che, mentre il mondo odierno nega il reale, si riferisce continuamente ad essa, particolarmente nella negazione.  Non potendosi dare una irruzione nel trascendente, è tuttavia possibile affermare la vasta pregnanza del trascendentale, in altre parole di un terreno comune per l'esperienza e il pensiero. Si considera pertanto idealista, nel senso che non esiste pensiero senza pensiero, spirito senza spirito, “ideato” (significato) senza “ideante” (significans). Tuttavia, differentemente dalle posizioni di Gentili, non crede che affatto il pensiero sia liquido, tutt'altro; proprio perché l'idea diventa comune, e in essa il Pensiero trova la sua pace, occorre una verità fondamentalmente ferma, non mobilizzabile. Da questi presupposti sorge così una debita attenzione per la scelta e la decisione.  Distinguendo le scelte apparenti, che sono totalmente arbitrarie, da quelle reali, quando al termine dell'analisi si opera con un atto di buona volontà, una decisione autentica ci si trova di fronte ad un bivio metafisico: impossibilità di afferrare la realtà dei tre nominati reali (Dio, Anima e Mondo) e impossibilità di negarli. Sorge appunto la decisione autentica, cui si arriva solamente secondo una corretta formulazione di intenti e seguendo una fine immanente ad ogni forma di scelta. Aristotelicamente e anche kantianamente la causa finale riveste una primaria importanza. Se ogni uomo sceglie per sé, nessuna scelta avrebbe una portata teoretica di cogenza, ma aprirebbe le vie della libertà vera, dalla quale ne derivano conseguenze radicali e speculazioni abissali a partire da una decisione, che può essere quella dell'anima unica immortale, o quella del pensiero che viene ad essere dopo la materia, o la non esistenza di Dio. Ciò permetterebbe anche di evitare il depauperamento culturale, con una rivitalizzazione delle esperienze antiche.  La decisione personale propende per una concezione dell'anima unitaria, di stampo aristotelico. Se l'immortalità naturale di tomistica memoria è da lui considerata "la più materialistica, e più grezza", preferisce pensare ad una immortalità conseguita, oppure chiesta a Chi può donarla e concessa a chi la chiede. Sul mondo reale fisico resta una indecisione, ma propende verso un residuo di natura mentale, una sorta di noumeno mentale sulla scia di Kant e Galluppi oltre il grande telone dei fenomeni. In questo caso però occorrerebbe rapportarlo ad una mente divina, perché parlare di mondo senza Dio non avrebbe connotazioni filosofiche. Infine, riguardo l'esistenza di Dio, punto in cui la scelta diviene decisione pura, egli tende a negare la validità delle dimostrazioni, pur scorgendo in esse una bella prova della potenza della mente umana. La conclusione non è però la non esistenza di Dio, ma la non dimostrazione della sua esistenza.  Chi ammette l'esistenza di Dio, tuttavia, deve assumere la radicalità di tale affermazione "guardando il mondo dagli occhi di Dio" e non facendo etsi deus non daretur. Chi prendesse la scelta teistica dovrebbe tacersi per sempre e rinunciare ad intenderlo. Giraldi mette in risalto anche la Volontà, definendola potenza fattiva dell'Idea, e constatandone il carattere generativo-spermatico, per collocare in una prospettiva differente il vitalismo dell'élan vital bergsoniano e della Wille di Schopenhauer. Questo permette di pensare l'Idea non solo quale conoscenza filosofica, ma anche negli aspetti attivi, vitali e di sentimento. Ad essere eroicamente divini non sono pertanto solo i pochi giunti al massime vette di autocoscienza teoretica, ma anche gli umili che vivono inconsapevoli della propria dignità divina, folgoranti però di una autocoscienza morale.  Bàrel Dal punto di vista poetico, l'opera principale di Giovanni Giraldi è il Bàrel, iniziato negli anni trenta e sorto dall'ispirazione di un progetto di Papini esposto nell'autobiografia Un uomo finito per un poema apocalittico, mai scritto. Altri spunti furono la lettura di Lord of the World di Robert Hugh Benson e dell'Apocalisse.  Il primo dei tre volumi di cui si compone il Bàrel, terminato in versi nel 1937, fu presentato a Eugenio Giovannetti de Il Giornale d'Italia, che propose come titolo Il Dio Eroico. Gli anni seguenti, segnati dalla Seconda Guerra Mondiale, furono l'occasione per trasporlo in prosa. Questa versione, appena terminata la guerra, fu proposta a vari editori ma che per una serie di sfortunate coincidenzeMondadori non disponeva della carta, e dopo alcuni anni, quando la carta è disponibile, cambia idea sulla pubblicazione; la casa editrice Api di Mazzucchelli nel frattempo fallìl'idea di pubblicazione venne temporaneamente accantonata. Nel frattempo alcuni versi furono pubblicati frammentariamente. Il 1964 fu l'anno del riordino delle due versioni in un unico libro che contenesse sia versi, sia prosa, in uno spiccato pluristilismo sperimentale. La pubblicazione avverrà, in tre libri, tra gli anni sessanta e gli anni settanta sotto lo pseudonimo I. Tanarda e poi in raccolte unitarie successive.  Il tema è insolito e il contenuto, con riferimenti religiosi e culturali di ogni tipo, non è di semplice accessibilità. Se il primo libro può essere collocato in un momento simbolico dell'arte, il secondo è classico e il terzo romantico, nei canoni dell'estetica hegeliana. Nel primo, Apocalisse grande, il protagonista Bàrel sovrappone le passioni alle idee; nel secondo, La cerca di Barel, ritorna in proporzioni umane e nel terzo, La morte degli dèi, scende negli abissi vertiginosi del Pensiero, che la poesia tenta di inseguire. È stato tradotto anche in lingua francese dalla poetessa e latinista Geneviève Immè dell'Pau. Saggi: “Organon Philosophicum”, Ironia, morale, educazione, Gheroni, Torino, “Etica del sentimento”  Filosofia dell'Unicità, Gnoseologia del sentimento, Pergamena, La filosofia giuridica, Filosofia dell'Unicità, Milano “Filosofia della religione”. Filosofia dell'Unicità, Epistemologia. Una nostra riforma della Logica Hegeliana, Pergamena, La Metafisica. Pergamena, Iesous Eléutheros. La liberazione di Gesù: lettera sistematica ai miei figli, Pergamena Dizionario di Estetica, Pergamena Studi successivi anel periodico Sistematica. Res Publica. Educazione civica, Pergamena Res Publica. Teoria dell'Ineguaglianza, Pergamena Nel Pleròma. Da Dio alla Materia, Pergamena Storiografia come rettorica. Autobiografia come filosofia, Pergamena Memoriale Ambrosiano e Memoriale Italico, Pergamena Dio, Pergamena  Estetica della Musica, Pergamena scon Colloquia Edizioni. Meditazioni Hegeliane, Editrice, Meditazioni Platoniche, Pergamena Capitoli sulla Scienza Moderna, Pergamena L'immortalità dell'anima, Pergamena Ricerche filosofiche La filosofia del sentimento di A. Consentino, in Quaderni, Milano, Rabelais e l'educazione del principe, Viola, Milano; ora in Paideia grande. Un mistico bergamasco: Sisto Cucchi, Secomandi, Amiel Morale, Saggiatore, Torino, L'educazione dei ciechi, Armando Roma, Società e Stato da Spedalieri a Marx, Pergamena L'estetica italiana nella prima metà del secolo XX: figure e problemi., Nistri-Lischi, Pisa, Storia della pedagogia, Armando Roma  "le edizioni successive alla X sono state scempiate da interventi dell'Editoreriporta Giraldi in Sistematica). Il pensiero politico tra Ottocento e Novecento, Pergamena, Adolfo Ferrière. Psicologia, attivismo, religione, Armando Roma, Giuseppe Lomabardo Radice tra poesia e pedagogia, Armando Roma, Gentile. Filosofo dell'educazione Pensatore politico Riformatore della Scuola, Armando Roma Raffaello Lambruschini. Armando Roma, Silvio Tissi filosofo dell'ironia, Pergamena Moralistica francese, Pergamena Saggi su Francesco di Sales, il Quietismo, La Rochefoucault, Prevost. Filosofi teoretici e Morali, Pergamena saggi su Condillac, Senancour, Rensi, Hume, Camus, Barié, Galli, Lazzarini, Castelli, Capitini. Gramsci e altri miti, Pergamena Storia della filosofia, Trevisini Milano L'Italia nella dittatura e nella non democrazia, Pergamena Paideia Grande, Pergamena Rabelais, Rosmini, Boncompagni, Gentile. Storia del Liberalismo nel sec. XX, Pergamena Riviste Moltissimi saggi e studi di politica, religione, filosofia, filologia e critica sono stati pubblicati nelle seguenti riviste fondate da Giraldi stesso:  L'Idea Liberale, Sistematica, attiva sino al. Filologia Giovanni Michele Alberto Carrara, De fato et fortuna. Tipografia A. Ronda, Milano,  Studi sul Rinascimento, Pergamena Saggi su: Seneca e la filologia; Petrarca viaggiatore; Leonardo da Vinci scrittore; Le fonti del Pontano lirico; Gli errori di Dante Alighieri in un poema umanistico inedito; Il Rinaldo di T. Tasso; Il T. Tasso corregge il Floridante; Rime inedite di Cecco d'Ascoli. G. M. A. Carrara,  Pergamena, G. M. A. Carrara, Armiranda. Inedito umanistico, Pergamena Commedia inedita, testo latino e traduzione G. M. A. Carrara,  III, De choreis Musarum, Pergamena Testo sistematico latino. Segue un Saggio monografico sull'umanista. G. M. A. Carrara, Sermones objurgatorii, Pergamena Sui tragici greci. Da mio diario filologico, Pergamena Filologia. Teoria e saggi, Pergamena Su Dante con verità, Pergamena Il Manzoni, in Sistematica, Pergamena Gesù, Pergamena Poesia e prosa d'arte Collana dei "Tredici". La Scala, novelle e poesie; Mutarsio, Torino Bàrel. I. Apocalisse grande, La cerca di Bàrel, La morte degli dèi; Pergamena Hendecasyllabi aliaque scripta, Pergamena L'aragosta. Romanzo Ligure, Pergamena Il figlio di Pinocchio, Pergamena Fratelli Frilli,  Il dono delle Muse. Cento novelle, Pergamena Quadri Intemelii, Pergamena Miniature. Codex aureus, Codex recens. Codex quadraticus, Pergamena Cento tavole, alcune con testi latini parzialmente editi in Hendecasyllabi. Il Codex recens presenta soggetti del Bàrel; il Codex aureus è a soggetto libero e vario; il Codex quadraticus comprende le figure degli scacchi. Con rubriche annesse che spiegano tempi, temi, tecniche. Pergamene Musa latina, Pergamena Il ramo d'oro, Pergamena Scritti in Italiano, Latino, Francese, Romanesco, Biblico. Profili di gente nel mio tempo, Pergamena Splendido novellare, Pergamena Cento racconti e novelle. Musis amicus, Pergamena Versi e prose in Latino. Mimì o E tutto è amore, Pergamena Sorridono i gigli. Liriche e restauro filologico di Saffo, Pergamena Tevere amico, Pergamena, Pedagogia e Filosofia esposte nel dialetto Romanesco da un popolano di Trastevere. Paradiso, Pergamena Editrice, Faust mediterraneo, Pergamena Editrice, Atlantidos persis, Pergamena Editrice, François Villon, Il Testamento, traduzione e saggio critico Giovanni Giraldi, Pergamena Editrice, Amitiés françaises, Pergamena Editrice, Nel Sublime, Pergamena Il mio Ponente, Pergamena Letture belle, Pergamena Piero Pastorino, Pinocchio, un figlio nato da una bugia, in La Repubblica, sez. Genova. Docente universitario a Milano di Storia generale della filosofia, è stato ripetutamente consulente all'Accademia di Svezia per il conferimento dei Nobel per la letteratura. Ha al suo attivo un dizionario di estetica e linguistica, una storia della pedagogia e ha scritto novelle raccolte in due volumi. Vive a Noli, di cui è cittadino onorario. Piotr Zygulski, Filosofo liberale, in Termometro Politico. Giraldi4. Pierre-Philippe Druet, Silvio Tissi, filosofo dell'ironia, Revue Philosophique de Louvain,  John Dudley, Sui tragici greci. Dal mio diario filologico, Revue Philosophique de Louvain, Da "Autobiografia come filosofia" (Milano) e pagine integrative in Sistematica, Milano, Pergamena, Angelo Grimaldi, Illuministi inglesi e francesi, in Disegno storico del costituzionalismo moderno, Roma, Armando, Giancarlo Ottaviani, La scuola del Risorgimento. la scuola italiana Roma, Armando, G. Semerano, La favola dell'indo-europeo, Milano, Paravia Bruno Mondadori. Grice: “Giraldi is obsessed with ‘essenza’, which is a coinage by Cicero – essentia, meaning essentially nothing!”  Grice: “Giraldi, who defended Gentile, rightly, as a ‘pensatore politico’ – was obsessed with idealism – his essentialism was supposed to supersede it, but he spends some time analysing the situation in Italy with idealism, ‘a la catedra – but is dead – he refers to Croce, Gentile, and the roots of  idealism in Vico, Sanctis, and Spaventa --.” Giovanni Battista Giraldi. Giovanni Giraldi. Giraldi. Keywords. essenzialismo, essenzialismo romantico, storia della filosofia romana, etica del sentimento, autobiografia come filosofia, mio ponente, filosofia ligure, ‘l’aragosta’ – romanzo ligure -- Riviera di ponente, nel pleroma: da dio alla materia,  gentile, filosofo politico -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Giraldi” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51757510024/in/dateposted-public/

 

Grice e Girgenti – la metrica del filosofo – filosofia italiana – Luigi Speranza (Girgenti). Filosofo. Grice: Ritter thinks Girgenti is related to the Velia – and Pareto to the Crotone – so it’s amazing that Bruto never liked those three Greeks of the Athenian embassy seeing that most pre-Platonic philosophy came from Magna Grecia, that is, Italy! Some must have remained in the genes!” -- Grice: “I like Girgenti; obviously Mussolini didn’t!” Grice: “I love Girgenti – he philosophised in verse, not prosa – rhyme being unexistant, it was all about the metre – he talks of ‘amicizia,’ which is none other than Love that unites all things! And then he fell in the Etna!” “Mussolini thought it was rude of the Girgentians to call their land ‘Girgenti,’ so he formulated a self-referential ‘decretto’: “From now on, Girgentians shall be called Agrigentians.’” Peano objected: “Your decree is self-contradictory or invokes a vicious regressus ad infiniutum!” -- filosofo italiano. Siceliota. Nacque da una famiglia antica, nobile e ricca di Girgenti.Come suo padre Metone, che ebbe un ruolo importante nell'allontanamento del tiranno Trasideo, egli partecipò alla vita politica della città, schierandosi dalla parte dei democratici e contribuendo al rovesciamento dell'oligarchia formatasi all'indomani della fine della tirannide, un governo chiamato dei "Mille".  La tradizione gli attribuisce uno spirito severo verso gli aristocratici. Dai suoi nemici fu poi esiliato nel Peloponneso. Tra i suoi discepoli vi fu anche Gorgia.  Successivamente Empedocle abolì anche l'assemblea dei Mille, costituita per la durata di tre anni, sì che non solo appartenne ai ricchi, ma anche a quelli che avevano sentimenti democratici.  Anche Timeo nell'undicesimo e nel dodicesimo libro - spesso infatti fa menzione di lui - dice che Empedocle sembra aver avuto pensieri contrari al suo atteggiamento politico. E cita quel luogo dove appare vanitoso ed egoista. Dice infatti: 'Salve: io tra di voi dio immortale, non più mortale mi aggiro'. Etc. Nel tempo in cui dimorava in Olimpia, era ritenuto degno di maggiore attenzione, sì che di nessun altro nelle conversazioni si faceva una menzione pari a quella di Empedocle. In un tempo posteriore, quando Girgenti era in balìa delle contese civili, si opposero al suo ritorno i discendenti dei suoi nemici; onde si rifugiò nel Peloponneso ed ivi morì. Si iscrisse alla Scuola di Crotone, divenendo allievo di Telauge, il figlio di Pitagora. Seguì la dieta pitagorica e rifiutò i sacrifici cruenti. Secondo la leggenda, dopo una vittoria olimpica alla corsa dei carri, per attenersi all'usanza secondo cui il vincitore doveva sacrificare un bue, ne fece fabbricare uno di mirra, incenso ed aromi, e lo distribuì secondo la tradizione. Secondo altri seguì gli insegnamenti di Brontino e di Epicarpo.  La sua oratoria brillante, la sua conoscenza approfondita della natura, e la reputazione dei suoi poteri meravigliosi, tra cui la guarigione delle malattie, e il poter scongiurare le epidemie, hanno prodotto molti miti e storie che circondano il suo nome. coppiata una pestilenza fra gli abitanti di Selinunte per il fetore derivante dal vicino fiume, sì che essi stessi perivano e le donne soffrivano nel partorire, pensò allora di portare in quel luogo a proprie spese le acque di altri due fiumi di quelli vicini. Con questa mistione le acque divennero dolci. Così cessa la pestilenza e mentre i Selinuntini banchettavano presso il fiume, apparve Empedocle; essi balzarono, gli si prostrarono e lo pregarono come un dio. Volle poi confermare quest'opinione di sé e si lanciò nel fuoco. Si diceva che fosse un mago e capace di controllare le tempeste, e lui stesso, nella sua famosa poesia Le purificazioni sembra avesse affermato di avere miracolosi poteri, compresa la distruzione del male, e il controllo di vento e pioggia.  I sicelioti lo veneravano come profeta e gli attribuivano numerosi miracoli.  Le numerose testimonianze che riguardano la sua biografia sono alquanto discordanti e non consentono di attribuire un'identità precisa alla sua figura. A conferma di ciò sono le numerose leggende sul suo conto. I suoi amici e discepoli raccontano ad esempio che alla morte, essendo amato dagli dèi, fu assunto in cielo. Mentre Eraclide Pontico, Luciano di Samosata e Diogene Laerzio sostengono che si suicidò gettandosi nel cratere dell'Etna. Il vulcano avrebbe eruttato, dopo qualche istante, uno dei suoi famosi sandali di bronzo.In realtà non sappiamo neanche se sia morto in patria o forse nel Peloponneso. Si afferma che visse fino all'età di 109. Una biografia di Empedocle scritta da Xanto, suo contemporaneo, è andata perduta. A Empedocle la tradizione attribuisce numerose opere, fra cui anche alcuni trattati – sulla medicina, sulla politica e sulle guerre persiane – e tragedie. A noi sono giunti però solo frammenti dei due poemi: “Sulla natura” e “Purificazioni”. Di “Sulla natura”, di carattere cosmologico e naturalistico, sono rimasti circa 400 frammenti. Delle “Purificazione”, di carattere teologico e mistico, abbiamo poco meno di un centinaio. Il timore di Girgenti appare fin dalle prime righe di “Sulla natura”.  “O dèi, stornate dalla mia lingua follia di argomenti, e da sante labbra fate sgorgare una limpida sorgente, e a te, musa agognata, o vergine dalle candide braccia, io mi rivolgo. Ciò che spetta agli effimeri ascoltare, tu porta, guidando avanti il carro ben governato dell'amore devoto. Ma non ti turbi il cogliere fiori di nobile gloria fra i mortali con un discorso, ricolmo di santità, che sia ardimentoso; e allora tu giunga leggera alla vetta della saggezza. La filosofia di Empedocle si presenta come un tentativo di combinazione sintetica delle precedenti dottrine ioniche, pitagoriche, eraclitee e parmenidee. Distingue la realtà che ci circonda, mutevole, dagli Quattro elementi primi, immutabili, che la compongono. Chiama tali elementi "radici", non nate ed eternamente uguali  e afferma che sono in tutto solo quattro, associando ognuno di essi a un particolare dio, sulla base di concezioni orfiche e misteriche proprie dei riti iniziatici allora in uso presso la Sicilia. I quattro elementi (e i rispettivi dèi associati) dunque sono:  fuoco (Giove), aria (sua moglie, Era), terra (Edoneo), ed acqua (Nesti). L'unione delle quattro radici (Giove-Era-Edoneo-Nesti) determina la nascita di una cosa. Si tratta perciò dell’ *apparente* nascita di una cosa, dal momento che l'Essere (le quattro radici) non si crea. “Ma un'altra cosa ti dirò: non vi è nascita di nessuna cosa. Solo c'è mescolanza.”  In questo modo, i primi principi si empiono così dell'essenza e del soffio vitale del potere divino. In Empedocle, Amore (Φιλότης) e la «natura divina che tutto unisce e genera la vita. Are, o Marte, e il dio del conflitto. Per Empedocle, l'uomo, essendo di origine divina, raggiunge la vera felicità che quando si riune alla compagnia di Deo. Accanto alle quattro "radici", e motore del loro divenire nei molteplici cose della realtà, si pongono due ulteriori principi: Amore ed Odio (Discordia, Contesa). Amore ha la caratteristica di "legare", "congiungere", "avvincere" («Amore che avvince.” L’Odio ha la qualità di "separare", "dividere" mediante la "contesa".   Così Amore nel suo stato di completezza è lo Sfero, immobile, uguale a se stesso e infinito. Amore è Dio e le quattro "radici" le sue "membra", e quando Odio distrugge lo Sfero, tutte, l'una dopo l'altra, fremevano le membra del dio. Infatti sotto l'azione dell'Odio, presente alla periferia dello Sfero, le quattro radici si separano dallo Sfero perfetto e beante, dando origine al cosmo e alle sue creature viventi. Prima bi-sessuate e poi sotto l'azione determinante di Odio, si differenziano ulteriormente in maschi e non-maschi, e ancora in esseri mostruosi e infine in membra isolate. Alla fine di questo ciclo, Amore riprende l'iniziativa e dalle membra isolate, nascono esseri mostruosi e a loro volta maschi e non-maschi, poi esseri bi-sessuati che finiscono per riunirsi, con le quattro radici che li compongono, nello Sfero. Nelle Purificazioni, sostiene la metempsicosi, affermando l'esistenza di una legge di natura che fa scontare agli uomini le proprie colpe attraverso una serie continua di nascite, tramite cui l'anima, di origine divina, trasmigra da un essere vivente all'altro. In questo poema gli esseri viventi, parti costitutive dello Sfero di Amore divengono dèmoni errando nel cosmo.  “È vaticinio della Necessità, antico decreto degli dèi ed eterno, suggellato da vasti giuramenti: se qualcuno criminosamente contamina le sue mani con un delitto o se qualcuno per la Contes abbia peccato giurando un falso giuramento, i demoni che hanno avuto in sorte una vita longeva, tre volte diecimila stagioni lontano dai beati vadano errando nascendo sotto ogni forma di creatura mortale nel corso del tempo mutando i penosi sentieri della vita. L'impeto dell'etere invero li spinge nel mare, il mare li rigetta sul suolo terrestre, la terra nei raggi del sole splendente, che a sua volta li getta nei vortici dell'etere: ogni elemento li accoglie da un altro, ma tutti li odiano. Anch'io sono uno di questi, esule dal dio e vagante per aver dato fiducia alla furente Contesa.” L'Amore non interviene nella storia delle peregrinazioni del demone decaduto? Con ogni probabilità, è l'Amore stesso che ci parla in questo frammento. L'"io" dei due ultimi versi è l'autore del poema. Ma è anche, se andiamo più a fondo, l'Amore. I demoni esiliati lontano dagli dèi saranno allora dei frammenti espulsi dalla massa centrale dell'Amore e condannati a errare tra i corpi cosmici sotto l'influenza separatrice del suo nemico, la Discordia. Quando le parti dell'Amore che sono i demoni si riuniscono nell'unità immobile della sfera, il mondo stesso diviene un essere vivente.  Sotto l'influenza di Amore il mondo stesso si trasforma in dio. Questa concezione conduce al rifiuto assoluto dei sacrifici, poiché in ogni essere vivente vi è un'anima umana, che sta compiendo il suo ciclo di reincarnazione. Se nel corso di questo ciclo l'anima si è comportata secondo giustizia, al termine potrà tornare nella sua condizione divina. Dal che, come Pitagora, anche a Empedocle ripugnano i sacrifici animali e l'alimentazione carnea. “Onde, uccidendoli e nutrendoci delle loro carni, commetteremo ingiustizia ed empietà, come se uccidessimo dei consanguinei; di qui la loro esortazione ad astenersi dagli esseri animali e la loro affermazione che commettono ingiustizia quegli uomini «che arrossano l'altare con il caldo sangue dei beati», ed Empedocle dice in qualche luogo: Non cesserete dall'uccisione che ha un'eco funesta? Non vedete che vi divorate reciprocamente per la cecità della mente?” “Il padre sollevato l'amato figlio, che ha mutato aspetto, lo immola pregando, grande stolto! e sono in imbarazzo coloro che sacrificano l'implorante; ma quello sordo ai clamori dopo averlo immolato prepara l'infausto banchetto nella casa. E allo stesso modo il figlio prendendo il padre e i fanciulli la madre dopo averne strappata la vita mangiano le loro carni.” Rispetto alla sua precedente opera vi sono delle contraddizioni che è stato difficile per i suoi esegeti conciliare. Ad esempio, ad una visione naturalistica del poema Sulla natura si contrappone la teoria della reincarnazione delle Purificazioni: nel primo scritto l'anima è anche detta mortale, mentre è definita immortale nel secondo. C'è chi ha spiegato tali incongruenze con la versatilità di Empedocle, scienziato e profeta al tempo stesso, medico e taumaturgo. C'è invece chi ha ipotizzato una paternità diversa delle due opera. Uno dei busti ritrovati nella Villa dei Papiri a Ercolano, identificato dapprima come Eraclito, solo più recentemente con Empedocle. Lo stile di Empedocle viene lodato dagli antichi. “Dicantur ei quos physikoús Graeci nominant eidem poetae, quoniam Empedocles physicus egregium poema fecerit» «Siano pure detti poeti anche coloro che i greci chiamano fisici, dal momento che il fisico Empedocle scrisse un poema egregio»  (Cicerone, De Oratore 1, 217) «padre della retorica»  (Aristotele fr. 1, 9, 65) Lucrezio (De rerum natura 727 ss.) lo prende addirittura come modello.  Renan lo definisce «uomo di multiforme ingegno, mezzo Newton e mezzo Cagliostro» Gli viene intitolato il Regio Liceo Classico di Girgenti, dove studiarono, fra gli altri, Pirandello e Camilleri.  Secondo le discordanti fonti sulla vita di Empedocle la cronologia andrebbe fissata tra il 484-1 e il 424-1.Cfr. Gabriele Giannantoni, I presocratici. Roma-Bari). Secondo Bignone (“Empedocle”, Torino) Empedocle sarebbe vissuto tra il 492 a.C. e il 432 a.C. Anche Robin ritiene che la sua vita sembra sia scorsa tra il primo decennio del secolo V e il 430 circa. Schiefsky ritiene che Empedocle sia nato nel 490 a.C. e morto nel 430 a.C. Platone, Parmenide, 127 B  Platone, Parmenide, 127 C.  Diogene Laerzio, VIII. 51  Diogene Laerzio, VIII. 73.  Timeo, ap. Diogene Laerzio, VIII. 64, comp. 65, 66.  Aristotele ap. Diogene Laerzio, VIII. 63; cfr. Timeo, ap. Diogene Laerzio, 66, 76.  Diogene Laerzio, VIII, 66, 67.  Mannucci, La cena di Pitagora, Carocci editore. Satiro, ap. Diogene Laerzio, VIII. 78; Timeo, ap. Diogene Laerzio, 67.  Diogene Laerzio, VIII. 60, 70, 69.  Plutarco, de Curios. Princ., Adv. Colote, Plinio, HN XXXVI. 27, e altri.  Così nella letteratura antica, come riferisce Bertrand Russel nella sua Storia della filosofia occidentale, citando un poeta anonimo: «Grande Empedocle che, l'anima ardente, saltò in Etna, ed è stato arrostito intero».  Diogene Laerzio, VIII. 67, 69, 70, 71; Orazio, ad Pison. 464, ecc. Ippoboto riferisce che egli, levatosi, si diresse all'Etna e, giunto ai crateri di fuoco, vi si lanciò e scomparve, volendo confermare la fama che correva intorno a lui, che era diventato dio. Successivamente fu riconosciuta la verità, poiché uno dei suoi calzari fu rilanciato in alto. Infatti, egli era solito usare calzari di bronzo.”  (Diogene Laerzio, Vite dei Filosofi, 8.68-69). Cfr. anche Eraclide Pontico, fr. 83 Wehrli. “E questo tutto abbrustolito chi è? - Empedocle. Si può sapere perché ti gettasti nel cratere dell'Etna? Per un eccesso di malinconia. No: per orgoglio, per sparire dal mondo e farti credere un dio. Ma il fuoco rigettò una scarpa e il trucco fu scoperto. (Luciano di Samosata, I dialoghi). Timeo ci attesta esser lui finito di morte naturale. Dicono alcuni che trovandosi egli in Messina a cagion di una festa sia ivi caduto da un carro, e rottasi la coscia, sia morto. Credono altri che in mare naufragasse: altri che si fosse strangolato da sé. Scinà, Memorie sulla vita e filosofia d'Empedocle gergentino, GERENTI – no GIRGENTI -- ed. Lo Bianco, Palermo – empedocle gergentino -- Apollonio, ap. Diogene Laerzio, VIII. 52, comp. 74, 73.  Wolfgang Haase, 2, Principat; 36, Philosophie, Wissenschaften, Technik 6, Philosophie (Doxographica [Forts.]), ed. Walter de Gruyter, Franco Volpi, Dizionario delle opere filosofiche, Bruno Mondadori). Jori, Empedocle in Dizionario delle opere filosofiche, Milano, Bruno Mondadori. Avverte infatti il Jaeger. Dobbiamo guardarci dal prendere per pura metafora poetica l'espressione della religiosità che lo trattiene dal seguire sino in fondo i predecessori troppo sicuri di sé.” Cardin, Empedocle, in Enciclopedia filosofica, Milano, Bompiani, Reale, Storia della filosofia greca e romana, vol.1 p.213  D-K 31 B 7.  D-K 31 B 17  Kingsley, Misteri e magia nella filosofia antica. Empedocle e la tradizione pitagorica, Il Saggiatore, In corrispondenza con le quattro primarie anti-tesi del caldo (fuoco), del freddo (aria), dell'asciutto (terra), e dell'umido (acqua). Le quattro radici di Empedocle risultano essere poi i quattro elementi di Aristotele e Tolomeo.  Edoneo  è un appellativo proprio del dio degli inferi Ade, cfr. in tal senso Esiodo Teogonia, 913; o anche inno omerico A Demetra.  Forse si riferisce a Persefone; per una dotta riflessione su questo nome, certamente un teonimo poco conosciuto, si rimanda a Gallavotti in Empedocle, Poema fisico e lustrale, Milano, Mondadori/Lorenzo Valla. Secondo Empedocle (B 62; 63) i due sessi (maschi, non-maschi) furono determinati dalla separazione di creature "di natura integra", che si erano a loro volta evolute da forma di vita più primitive. Un papiro di recente ritrovamento, contenente aforismi di Empedocle, ha consentito tuttavia di integrare le due versioni, portando a ritenerle complementari. Le due opere, quindi, farebbero forse parte di uno stesso trattato o poema filosofico. In tempi più recenti, è stata avanzata l'ipotesi che si tratti di Empedocle gergentino. Tale proposta trova conforto sia nella notizia di Diogene Laerzio in merito alla folta chioma del personaggio sia alla specifica collocazione del bronzo all'interno della villa dove faceva pendant con il bronzo raffigurante Pitagora (inv. 5607), che fu suo maestro» (Museo archeologico Nazionale di Napoli.  “Sulle origini”. Ne conservavamo trecentocinquanta versi.”Martin ha consegnato complessivi settantaquattro esametri dei quali venticinque coincidono con quelli già posseduti.  “Ma da ogni parte è uguale a se stesso, e ovunque senza confini, lo sfero rotondo che gioisce di avvolgente solitudine.»  (Empedocle, D-K 31 B 28, Poema fisico e Lustrale, Milano, Mondadori, 1975.  Tonelli,  Empedocle di Agrigento. Frammenti e testimonianze. “Origini,” “Purificazioni,” con i frammenti del papiro di Strasburgo” (Milano: Bompiani). Bignone, Empedocle. Studio critico, traduzione e commento delle Testimonianze e dei Frammenti, ristampa, Roma, L'Erma di Bretschneider, [Torino: Bocca]. Colli, Empedocle, Pisa, La Goliardica, Traglia, “Studi sulla lingua di Empedocle” Bari, Adriatica, Bodrero, “Il principio dell’amore nella filosofia d’ Empedocle” Roma, G. Bretschneider, La lingua di Empedocle, Bari, Levante, Volpi, Empedocle: i suoi misteri rivelati in una biblioteca, 13 novembre 1996.  Empedocle di Agrigento (PDF), su Università di Milano,1.  Filosofi: Empedocle, scoperto papiro a Strasburgo. Per gli studiosi è l'unica testimonianza diretta, Strasburgo, Adnkronos,  Pigliando il nostro Empedocle a trattar le cose naturali, cui sopra d'oga ' altro in tendea, ebbe egli a sdegno di seguir set ta e maestro. E come egli era franco di animo, e grande d'ingegno; così immagi nò giusta la moda de' tempi, e l' usanza de' filosofi un sistema novello. Questo di vulgato gli acquistò tal fama, ch'emulo ei divenne per gloria e per sapere de' fisici più famosi di sua età Democrito e Anassa gora. I Greci di fatto accolsero con ammi razione i suoi belli poemi; e chi vennero poi ricordarono con onore Empedocle e i pensamenti di lui. Incerta fra tanto, manca, é corrotta è venuta la sua dottrina sino a noi. Man cate per l'ingiuria de' tempi le opere del nostro Gergentino, chi ha voluto conoscer ne lo spirito, è stato costretto di rintrac 6 ciarlo presso gli storici dell'antica filosofia. I quali non ebbero affatto cura di notare il vincolo, con cui destramente iva quegli legando i suoi pensieri. Anzi costoro così disparati li rapportano, che si possan te nere non altrimenti che rottami, da' quali non si pud il disegno ricavar dell'edifizio, cui prima apparteneano. Però eglino non che han male e tortamente fatto conoscere Ja fisica d'Empedocle; ma nè pur bene e dirittamente apprezzare la forza e la virtir della sua mente. Giacchè l'eccellenza de' sistemi è riposta nell' union delle parti, che si rispondon tra loro; e da questo le. game si misura l'ingegno di chi l'hanno inventato. Empedocle inoltre scrisse in versi, e ‘abbellì le sue idee, come fanno i poeti. Per lo che pigliando alcuni letteralmente le finzioni della sua fantasia gli apposero o pinioni assurde e grossolane. Illusi altri dal le immagini poetiche, che per lo più sono equivoche, travidero; e più presto ci tra mandarono le loro illusioni, che i pensa - 7 menti del nostro filosofo. Varie di fatto so. no le forme, sotto cui ci presentano Em pedocle gli antichi e i moderni scrittori. Ora egli è dualista, e ora è scettico: ora pla tonizza ', e or favoleggia: e non ha gnari fu, non so come, anche gridato qual pre cursore di Newton (1 ). Sicchè Empedocle, tra biasimato, lodato, e sfigurato, è stato sempre mal conosciuto, e sempre calunniato. Volendo adunque richiamare in luce la filosofia di lui, ho cercato e raccolto i frammenti de' suoi poemi, che per avvene. tura ci restano, e sparsi qua e là si leg gono presso diversi scrittori. Coll ' ajuto di questi, che sono gli onorati avanzi della sua vera fisica, son ito raccapezzando pri e poi restituendo la sua filosofia, Per chè tra le opinioni, che gli storici appon gono ad Empedocle, ho quelle scelto, che ben s'adattano, e naturalmente si legano colle idee, le quali si traggono da? fram menti di lui, e le altre rigettato, che a queste si disdicono, o ne sono contrarie. Ho fatto in somma ciò, che suol praticara ma 8 si da chi 'voglioso di restaurare un'antica statua o colonna raccoglie e mette insieme que' pezzi,, che tra loro s' incastrano, e ben si connettono. Questo metodo che stimerà diritto chiunque non è privo di senno, deve specialmente poter convenire ad Empedocle. Poichè Aristotile ci atte sta: colui più che altro fisico della sua età, aver detto delle cose, ch' eran tra loro ben legate e concordi (2 ). Ho quin di fatto ogni sforzo per richiamare alla sua purezza e integrità la dottrina del nostro filosofo quando da lui stesso, quando dall' autorità degli antichi scrittori, sempre met. tendo in accordo le idee, che si traggono da questi e da quello. Però non è da ma ravigliare, se con sì fatto accorgimento, ab. bia liberato il nostro fisico di non poche assurdità, e se mi sia venuto fatto d'ab bozzare almeno il vero sistema di lui. La prima origine, e i primi elementi delle cose, sono, per quanto pare, fuori la sfera del nostro intelletto, perchè oltre: passano la sfera de' nostri sentimenti. Pure. i Greci, cominciando da Talete, s' occupa ron tutti in si fatta vana ricerca, e tutti si smarrirono. Alcuni degli Jonici coll'acqua, altri coll' aria, altri col fuoco formaron le cose, e fabbricarono presto l'universo. Non così piacque a Parmenide, e a Pittagora. Costoro, lasciato il mondo materiale, come indegno delle loro meditazioni, si misero per strade diverse in un mondo astratto ed intellettuale. Parmenide spiritualizzò l'u nico elemento degli Jonici; e pose unica, e terna, immutabile sostanza. Uno è tutto, dicea egli, e tutto è uno; sicchè le mu tazioni della materia non altro eran per lui', che modi e semplici apparenze. Pit tagora dal mondo materiale rifuggi alla Geo metria. E se bene questa scienza non fos che un parto della nostra mente; pú re l’ehbe quegli, non si sa come, per lo modello, e 'l vero esemplar dell'universo. Però nella Geometria leggeya i rapporti e le proporzioni, che debbono aver le co se, ch'eran materiali; e vide nell'unità i primi e veri principj de' corpi. Furon gli se 8 b 10 ingegni presi da prima di maraviglia così pel filosofo di Flea, come per quello di Samos; e corsero tutti a ' loro insegnamen ti. Ma stanchi di poi di contemplare un mondo o metafisico, o geometrico, ritor narono naturalmente alla materia; e nac que la filosofia corpuscolare. I primi a far questo ritorno furono Empedocle; Anassagora; Leucippo e Demo crito. Costoro calando dal mondo di Pit tagora alla materia materializzarono le u nità di costui. Atomi chiamarono Leucip po e Democrito i principj delle cose (3 ); particelle simili Anassagora; ed Empedocle col nome li distinse di elementi degli ele menti (4). Ma in verità i loro principi altro non erano, che le unità di Pittago ra fatte materiali, espresse e indicate con vocaboli diversi. Democrito lasciò a suoi atomi l'indi visibilità, di cui le unità di Pittagora eran fornite nello stato suo intellettuale. Questa stessa indivisibilità secondo alcuni, negd al le parti simili Anassagora. Differente dall' uno e dall'altro fu per Aristotile l'opinio. ne d’Empedocle (5 ). Costui cercò nella materia le sue unità, e dividendo e sud dividendo i corpi giunse a quelle moleco le, che più non si potean dividere. Ma dove i sensi mancarono, suppli colla ra gione, e proseguendo la division delle mo. lecole col suo pensiero, s'accorse potersi queste sempre pit di nuovo dividere. Ven ne però affermando che i suoi elementi de gli elementi eran divisibili; ma solo colla mente non gia col fatto. Distinse, così di cendo, le unità di Pittagora dalle sue, ch'eran materiali; e provvida in bel mo do alla durata della natura '. Perchè essen do i principi delle cose incapaci, secondo lui, d'ogni fisica alterazione, quelle deb bono sempre durare come al presente sono: Tennero tutti tre que' fisici non che per cosa assurda, ma impossibile, la crea: zione dal nulla. Ne venne loro in mente, come ad alcuni indi piacque, di supporre la materia nuda d'ogni qualità. Chiama vano essi la materia senza forma, e senza 3 b 2 12 qualità ciò che non è (6): Ciò ch'è, dicea Empedocle, è impossibile venire da quello, che non è (7 ). Ma diverse furon le quali tà, ch ' attribuiron costoro alle loro unità secondo che diversamente riguardò ciascun di essi i corpi e la natura. Anagsagora ebbe le sue particelle non altrimenti che briccioli minutissimi, ma simili in propieta a corpi, ch'eran destinati a formare. E come varj sono i corpi e differenti le lor propietà; così yarie e differenti pose in corrispondenza le qualità delle sue particelle. Per lo che tras portò egli le qualità delle masse a' fram menti di esse, e,e ristandosi alle apparenze ricayò, come suol dirsi, da grande in pic colo. Gli atomi per Democrito erano al contrario tutti della stessa natura; e solo differiyan tra loro per sito, ordine, e fi gura. Idea, che ben si conviene alla sem plicità della natura; la quale con pochi mezzi suol produrre fenomeni, che sono pressochè infiniti, attesa la lor varietà, la lor moltitudine. Empedocle, ciò non o stante, rigettò il pensier di Democrito; e 13 or 1 volendo spiegare la varietà materiale, de? corpi, piglio, com ' egli dovea, e genno consiglio dall'esperienza.. Gli Jonici addensando o rarefacendo acqua, or l'aria, or l'aria insieme e ' l fuoco, diedero forma e qualità a ' cor pi dell'universo. Da questi e dal loro me: todo si dilungo il nostro fisico. Studiava egli i corpi, e separandone le particelle cer cava prima, e raccoglieva poi i loro com. ponenti. Però in luogo di fingere, ritro vava ne' corpi i loro elementi; nè i corpi a capriccio componea alla maniera degli Jo nici, na li analizzava come fanno i chi. niici. Le sue esperienze, furono egli è ve. ro, incerte e imperfette, come si leggono ne' versi di lui. Perchè dirizzandosi per una via non ancora usata nelle fisiche ri. cerche, mancava d'ajuti e di stromenti; massime che la fisica era allora metafisica e bambina. Ma ciò non pertanto que' pri mi e rozzi saggi del nostro Empedocle so no da stimarsi un chiaro testimonio del suo metodo, ch'era tutto pratico e sperimen. 14 tale. Coll'ajuto in fatti delle sue esperien ze agginnse, a giudizio d' Aristotile ', la terra all' aria, all' acqua, al fuoco, e ' l primo stabilì la dottrina de' quattro ele menti (8 ). Quattro, dicea egli, son le radici di ogni cosa: Giove, Giunone, Plu tone e, Nesti, figurando, sotto questi sim, boli il fuoco, la terra, l ' aria,, ee l'acqua '. Per lo che nella sua fisica le unità mate riali eran le parti, che diconsi integranti de quattro elementi; e questi le costituen ti di tutti i corpi, che si trovano in na tura, Sebbene il fisico di Gergenti avesse di stinto l' aria, l'acqua e la terra per le diverse lor qualità '; pure in riguardo al fuoco l'ebbe e' tutte tre, come se state fossero d' unica e medesima natura. Le particelle dell'aria e dell'acqua tendono, secondo lui ', a condensarsi, come fa la terra. E al contrario credea Empedocle es sere propietà del fuoco d'assottigliare, se parare, e levare ogni solidezza alle parti celle dell' aria e dell' acqua. Di fatto fu C 1 15 sua opinione che la luna si condensò a ca gione del fuoco, che da essa si partì, non altrimenti che avviene nell'acqua, quando si riduce in gelo (9 ). E se il fuoco indu. ra i corpi umidi, e vetrifica talvolta i so lidi, ciò accade per Empedocle, perchè scioglie e separa l'aria e l' acqua in quel li dimoranti (10 ). Gli elementi dunque aria e acqua sarebbero stati solidi, se la forza dissolvente del calore portato non l' avesse alla liquidità, che lor si conviene Non conobbe, egli è vero, così pensando, qualunque corpo per via del fuoco poter pigliare, passare, ritornare allo stato soli do, o liquido, o aerifornie; ma giunse a comprendere l'aria e l'acqua dovere al fuoco la loro fluidità. Questa verità, che in tempi più felici avrebbe potuto gene rarne tant' altre, fu allor qual baleno in notte huja, che illumina in un attimo, poi l' oscurità lascia più grande. Tal veri ta o affatto non fu avvertita, o punto non fu ben compresa da’ filosofi d' allora. Ari stotile si lagna d’Empedocle, come di chi e 16 avesse usato de quattro elementi, non al trimenti che fossero stati due; contando quegli per uno i tre, che questi avea real. mente diviso aria, terra, é acqua (11 ). Anzi chi furon dopo (quasi Empedocle non già quattro, nia un solo elemento avesse stabilito nella sua filosofia ) si diedero fal samente a credere il fuoco essere stato te nuto dal nostro fisico per lo principio, da cui ogni cosa veniva, e in cui ogni cosa doveasi risolvere (12 ). Ma comunque ciò, sia, egli è certo, da che. Empedocle manifestò quattro po ter essere gli elementi delle cose, tutti abbracciarono la sua opinione. Di leggieri ciascun' s'avvide l'aria, l'acqua, la terra il fuoco aver gran parte nella composizio ne de' corpi, e ne' cangiamenti più notabi li, che avvengono nel nostro globo e nel la nostra atmosfera '. Di fatto non più a capriccio come prima si solea, s' accrebbe o diminui il numero degli elementi, e tol ta ogn'instabilità tra le scuole, comune fu, e ferma rimase la sentenza de' quattro ele 17 Conta area la dem fial menti. Sicchè su questa dottrina, qual ferma base, venendo assai dopo a posare la moderna fisica; questa Empedocle ricono scere deve', e lui onorare qual suo capo e fondatore. Hanno le scienze, come ogni cosa umana i lor giri, e le loro vicende, che si distinguono da' metodi, dalle opi. nioni, dalle verità, ed eziandio dagli er rori che son dominanti. La fisica nella sua infanzia nise tra gli elementi l' aria, l' acqua, il fuoco, la terra. Questi, non ha guari, ha gia scomposto la chimica. Altri ne sostituiranno i nostri posteri, ch' al presente non si conoscon da noi. Ma niuno negherà la debita lode al nostro fi losofo, che fondo il primo periodo della fisica colla dottrina de' quattro elementi, e regoló i primi debolissimi passi dello spiri to umano nello studio non che vasto ma difficile delle cose naturali. - Più alto senno, e più forza d'in, gogno mostrò Empedocle, quando si mise a cercar le forze, che mettono in movie mento la materia e gli elementi. Si fatta 2, D i leta plaža matukio ered ܐܐ F Table tol fue ele 8 1 ricerca, siccome molto ardua, non era sta. ta sin allora impresa d'alcuno. Anassago ra, attese le sue particelle prive di moto e di vita, non sapendo altro che specola re, ricorse a Dio; e colla forza onnipoten te di lui agitò e sospinse le sue parti si mili, o loro impresse quel moto, che que. ste naturalmente non aveano. Fece costui, come chi a muover la macchina, in luogo di peso, o di molla, cerca la man dell' artefice. Però Aristotilo contro lui si sde gna, e giustamente il rampogna (13 ). Ba sto a Democrito di fornire il moto a' suoi atomi, nè curò di saper come e d'onde quello venisse. Al più facilitò il movimen to immaginando un voto, ove ogni sorta d'atomi avesse potuto agevolmente dime narsi; e particolarmente attribuendo agli atomi del fuoco la figura sferica, come quella, che avesse questi potuto render atti a scorrere e sdrucciolare. Ma Empe docle fu il primo al dir d' Aristotile, che con molto senno in natura conobbe due come cagioni del moto degli ele St & © S forze C 19 menti (14). Una di quelle chiamò amo. re, amicizia, concordia, o l'altra come contraria o lio, inimicizia, lite. L'amore d'Empedocle non è quel del la favola, di Parmenide, d' Esiodo, o d ' altri fabbri di cosmogonia. Era forse per costoro un principio attivo che vivificava 1 universo. Ma questa era un'idea, vaga, generale, e nulla utile alla fisica. Non è così l'amicizia d'Empedocle. La quale è una forza, fornita di particolari propietà, e tanto intriseca alla materia, quanto si stima da noi la sua gravità. In virtù di sì fatto amore le particelle simili tendono a unirsi tra loro, e congiungendosi forma no a mano a mano le masse. Masse che vie più van sempre crescendo; perchè la maggiore sempre ne trae a se la minore, e l'una all'altra infallibilmente s' unisce. Aria, diceva Einpedocle, si aggiunge ud aria, etere a etere, fuoco a fuoco in mo do che il minore al maggiore s’ accoppia. Sospinte del pari dall ' amore le particelle di natura diversa tendono a unirsi tra lo C 2 E ro, e compongono gli aggregati colla loro unione. L'amore in somma unisce la ma teria si fattamente, che se in natura si gnoreggiasse la sua sola forza diverrebbe l' universo unica męssa, unica sfera (15 ). Perchè è propietà peculiare dell ' amicizia di ridurre le cose, che son più, a una so la. La forza quindi per Empedocle simbo leggiata dall' amore, amicizia, e concordia non è se non quella stessa, che oggi da' Chimici si chiama affinità. L'odio, non altrimenti che l'amore, è parimente intriseco agli elementi de' cor pi, ma le qualità d'uno son del tutto op poste a quelle dell'altro. Tende l'inimis cizia a disunir le particelle congiunte; scio gliendo le masse, e scomponendo gli ag gregati. E' singolar propietà di quella ri durre l ' uno in più: tal che se l'universo fosse una sola massa e unica sfera, que sio in forza dell'odio si dovrebbe tutto quan: to sciogliere in minutissimi briccioli. Odio in somma, inimicizia, lite per Empedocle son e valgono forza dissolvente, o 1 tutt'uno 21 repulsiva. Di fatto chiamava egli anche il fuoco inimicizia; perchè questa come quel lo distrugge e separa ogni cosa (16 ). Dą ambidue queste forze tra loro op poste, d'ailinità una, e dissolvente l' al tra, significate dall' amore e dall'odio, il nostro Empedocle ne ricava il moto ne' cor pi. L'amicizia sollecita gli elementi all' u nione tra lor l' avvicina, e nell' avvicinarli tra loro parimente li muove. L'inimicizia all'incontro cospinge le molecole unite, so spintele a poco a poco le stacca, staccate le del pari le muove. Forze adunque so no l'amore, e l'odio del nostro fisico; co me quelle che avvicinando o respingendo gli elementi cagionano lor movimento. Fors ze ch'egualmente son chimiche, conie quel le, che uniscono e separano; compongono e scompongono i corpi in natura. Ma co me furono esse adombrate sotto le forme morali d'amore e odio, di lite e concora dia; sono state mal comprese e capriccio samente interpetrate. Alcuni videro in quel. le due forze la divinità e la materia (17): 22 altri: l'ordine e'l disordine; il bene e ' l male (13 ): chi la luce e le tenebre; chi l' Oromaze e l'Arimanio de' Persiani, o altre cose simili (19). Tanto egli è vero, che il suo linguaggio, come poetico, ha recato ingiu ria a' suoi pensamenti e alla sua filosofia. L'amore e l' odio, siccome dice il no stro fisico, han que signorie; ma alternan ti e separate tra loro. Comincia l'impero dell'odio, quando finisce quiel dell'amore, e declinando la signoria dell' inimicizia, l' amicizia ritorna a' suoi primieri onori. E come una sifatta vicenda non ha mai fi ne; così costante si mantiene il movimen to in natura, e gli elementi in eterno s' uniscono e separano. Esprime egli tal con tin: io e scambievole impero dell'odio e dell' aniore coll'immagine, e somiglianza d'un cerchio, che si revolve. Perché il cerchio la periodi finiti, che all'infinito si posso no rinovare. Ma tolte le voci d'impero e signoria, che son propie della poetica, si potrebbe il pensiero d'Empedocle raſfigura re nella vicenda delle forze, mercè la qua. 23 bene i ebre; chi ni, oabe ero, chei ell'aur Onn '. le i pianeti si'movono. In questi or preva le la forza centripeta e viene a farsi mag. gior la centrifuga; or prevale la centrifu ga, e viene a farsi maggior la centripeta. Sicchè alternativamente prevalendo le due forze centrali, i pianeti s' accostano e dis costano dal sole, e costantemente si mo vono nelle loro orbite ellittiche. Tale dellº amicizia, e inimicizia d'Empedocle. Come gli elementi s' uniscono; comincia a preva ler l' inimicizia, che tende a separar le cose unite. E come gli elementi dividonsi; principia a superar l'amicizia, che tende a unir le separate. Per lo che ambidue sempre operano, e si a vicenda prevalgono, che gli estremi dell'odio occupa l'amore, e l' inimicizia que' dell' amicizia. Giusta questa legge Empedocle fa e ternaniente operar l'amore e l'odio. Così, e ' dice, comanda o il füto, o la necessi tà, o l'antico giuramento degli Dei. Ma il fato del nostro filosofo non è quello de. gli Stoici, o degli Eleatici. Egli null’ al tro indica colla parola necessità, che l'ins etarr Itale ம் care PA umpert 2.  la que 24 tima natura di quelle due forze. Siccome eterna ei reputava la materia, ed eterne le forze, da cui essa era animata; così l ' amore e l'odio volea dover sempre e ne cessariamente operare. Gli elementi secon do lui o son separati, e ſrettolosa corre l ' amicizia a unirli; o sono uniti, e impa ziente va l'inimicizia a separarli. Se per poco lascerebbe l' una o l ' altra di congiun gere le cose separate, o segregar le con giunte, l'amore e l'odio, mutata natura, non sarebbero più nè odio, nè amore. E' quindi pel nostro fisico così necessaria l'e terna vicenda delle due forze, come invin cibile si stima il decreto del fato e della necessità. Il fato adunque nel dizionaria del nostro filosofo altro non significa, che l' intima indole, e l'immutabile natura delle due forze senza più. Però a torto Aristotile riprende lui, come chi avesse introdotto nela la fisica il fato é la necessità (20 ). Posti questi principj va Empedocle squa dernando il suo sistema, qual poeta, qua si collocato su d'un eminenza, di la con 25 ta; ON ie. Sasa templando la natura dichiara agli uomini le sublimi lezioni di sua filosofia. Nulla, egli dice, manca, nulla ridonda nell'us niverso; perchè la quantità della materia nè cresce nè manca. Tutto nasce, tutto muore, tutto in altra forma trasformato ri sorge, L'accozzamento di parti, che son disgiunte, n'è la nascita; e la separazion di quelle, che sono accozzate, n'è la morte, La natura quindi null altro è, che ” se parazione e miscuglio. Essa è eterna; per che l'amore e l'odio sempre fa e disfà, strugge e compone. Mancherà il presente ordine di cose, sorgerà subito un altro. Questo distrutto, di nuovo, e sotto altra, guisa si verrà a formare. Così senz' alcuna fer posa uno in un altro ordine successivamena te, e sempre sarà permutato. Nè per que: sti continui giri si cangia la natura, ne ha od te luogo o confusione, o simmetria. La materia non è stata, nè sarà mai senza moto. La natura è stata sempre qual sempre sarà: cioè amore e odio, separazione e union d' elementi. Cosi parlava Empedocle nel suo d ali 200 € c). och eta, Jade 26 poema sulla natura, o per dir meglio cosi egli smentì anzi tempo chi dopo lui dovean supporre aver lui voluto il caos immagina to sol da' poeti (21 ). Lo stato di confu sione e di caos pel nostro fisico, o non è stato, nè sarà mai, o sempre egli è stato e sarà. La natura quella è ora, ch'è sta ta, e sempre sarà: miscuglio e separazio ne: amicizia e inimicizia: nascita e morte. Passando Empedocle d'una in un ' al tra idea strettamente legava i suoi pensie ri. Siccome la materia è tutta divisa ne' quattro elementi; così i corpi per lui eran composti presso a poco de'medesimi. Ma perchè ciò nulla ostante quelli tra lor son tutti diversi; quindi andava ricercando in che, e.come si differisser tra loro. Tal difie renza ei rinvenne con gran perspicacia nella njaniera diversa, con cui gli elementi com binansi. Però non è nè l'aria, nè l'acqua, nè la terra, nè ' l fuoco che distingue le co se; ma la misurata lor mescolanza; in bre. ve, la proporzione in cui trovansi due o piti di quelli componenti. Rappresentando da € st CL T 1 C 27 c2003 de poeta le sue idee ch'eran fisiche, dicea: i dipintori mischiano colori diversi, e col mi schio di questi van figurando uomini, pian te, fabbriche, uccelli, e anche gli stessi Dei. Non altrimenti fa la natura. Ha el la, come quattro colori, che sono i quat tro elementi, e va coll ' accozzare un poco di questo, di quello, e quell' altro forman do uomini, piante, animali, donne leg giadre, e chiarissimi Dei. Tutto lo studio d'Empedocle era quel di scomporre i corpi, e scomponendoli cercava la ragione, in cui stavan tra loro le parti componenti. Per chè era persuaso, che la loro varietà veni va, ed era tutta riposta nella varia pro porzion degli elementi. Aristotile che am mira un sì bel pensamento da ad Empedo cle il vanto d'aver lui il primo conosciuto una tal verità (22 ). Non si può quindi negare il metodo d’Empedocle, come quel lo, che volea l'analisi de' corpi, esser chi mico; chimiche esser le forze amore e os dio, che inprimean moto alla materia; e chimica esser tutta la sua fisica; perchè tra lai arch nemt 22 نماز کی P.; Det ue opad ando de d 2 28 P ch for pa me pre me an CO fondata sulla proporzion delle parti, che compongono i corpi pressochè infiniti della natura. Può ora essere a chiunque manifesto Empedocle il primo aver delineato il siste. ma dinamico, che oggidi leva tanto rumo re in Alemagna. Pone questo sistema al cune sostanze semplici e primitive, che col le loro diverse combinazioni producono la varietà de'corpi. Questo stesso fece Empe docle ammettendo i primi elementi, e com binandoli in varia e differente lor propor zione, Forze attrattive e repulsive vogliono i Dinamici; ed Empedocle immaginò affini tà e forza dissolvente, o sia odio e amo re. Che se quegli a spiegare gli stati e i volumi de' corpi si fondano sul contrasto e rapporto, in cui si tiene la forza attratti va colla repulsiva; anche Empedocle dicea, che l'inimicizia sta appiattata nelle parti de' corpi pronta a vincer l'amicizia nel tem po opportuno. Ma io non mi maraviglio punto di tal corrispondenza tra Dinamici e il nostro fisico. Gli uomini gireranno sem at c ) in D gi ti 29 pre nella stessa orbita, e torneranno sem pre a riunirsi nelle medesime ipotesi ogni qual volta, che si aggireranno sì oggetti, che illustrar non si possono con osservazio. ni, e co' fatti. Perchè limitate essendo le forze del nostro spirito, limitato sarà del pari il numero delle sue combinazioni. ' I metafisici di fatto sogliono ricondurre sem. pre in iscena più o meno vaghe, più o meno adornate le opinioni medesime. Gli antichi vollero rappresentar l'essenza de' corpi. Però Democrito immagind il sistema atomistico; Empedocle il dinamico. Oggi, che alcuni han pensato di tentar lo stesso, in Francia è risalito in alto il sistema di Democrito, e quel d'Empedocle in Aloma gna. Dobbiamo persuaderci una volta che le scienze s' accrescono non già colle nostre opinioni, che sono semplici fantasmi della nostra mente, ma coll' esservare, ed espri mere co' nostri pensieri i fatti e le consue. tudini della natura. Questo metodo per avventura non era ignoto in quella stagione in Gergenti. An 30 [ a crone l'amico d'Empiedocle, poste giù le ipotesi, fondava la medicina sull'esperien za, e fu capo della setta empirica. Il no stro fisico cercava e stabiliva la varietà de' corpi cercando e stabilendo la proporzion de' lor componenti. Ma i tempi imprimono nel nostro spirito la lor forma, il lor caratte re, le loro opinioni; operando su noi non altrimenti dell' aria la qual si respira. Non è quindi da maravigliare se Empedo cle s'occupò, come allor si facea, su i principi delle cose, e sulla generazion dell' universo. Il romanzo della nascita del mondo era in que' tempi un'introduzione, che si stimava necessaria alla fisica. Niuno affat to potea meritare il titolo di sapiente, se non prima avesse ordito la sua cosmogonia. Quindi i filosofi cominciavano allora i lor poemi dalla creazione del mondo; molto più, che a ciò fare non dovean perdere gran tempo, nè durar molta fatica. Le loro cosmogonie erano un lavoro più di fan tasia, che di ragione. Si fatti lavori me 31. glio che cosmogonie potevan chiamarsi ro manzi, in cui i paragoni tenendo luogo di raziocini affermiare è lo stesso che dimostra re; e le capricciose finzioni si scambiano come opere della natura. Empedocle dun que al par degli altri intese alla formazion dell' universo; svolgendo e dichiarando l' impero della sua inventata amicizia. Diede prima nascita all'etere, indi al fuoco, poi alla terra. Da questa trasse l'acqua, l'a ria, l'atmosfera; indi le piante, gli uomi, ni, e gli animali (23 ). Pose più diligen za e più tempo a formar dalla terra; ma per opera dell'amore il genere umano. Rimescolando gli uomini colle piante, e co gli animali, tenne costoro come unica ma teria, in cui tutti si fossero contenuti qua si in ischizzo, ma senza che distinta aves ser presentato la irma, leggiadria, e ata titudine delle loro membra. Queste a po co a poco ideò egli essersi sviluppate, ed esserne venute fuori delle immagini, prive di noto e di vita, simili alle pitture, ale le statue. Nella terza generazione di poi 32 furon distinti i maschi dalle femmine. Nel. la quarta s' ebbero degli uomini, che na. scono gli uni dagli altri; perché, distinto il sesso, si mosse il carnale appetito (24). Le piante secondo lui fitte restarono in ter ra per trarne l'alimento; e gli animali qua e la si divisero per cercare un abituro con veniente alla loro natura (25 ). Queste co se sconce, incredibili, e simiglianti sognò il nostro fisico, che dovrebbero passarsi sot to silenzio, se non giovasse d'accennarle per dare șin' utile lezione allo spirito uma no. Il quale ardito, com ' egli è, malgrado gli assai folgoranti brillantissimi lumi non che della religione, ma della moderna de parata filosofia, a dì nostri va sempre fi sicando geogonie e cosmogonie. Darwin di fatto adottò gli errori del nostro Empedocle, e certamente da lui ebbe a trarre l'idea della successiva perfezione, e a grado a grado del regno animale. L'uno e l'altro fece nascere i vegetabili prima degli anima li nel tempo e nello stato, che le cose e rano imperfette. Entrambi del pari segna 33 # rono gli animali essersi a poco a poco svie luppati, e aver tratto tratto acquistato quel. la perfezione, di cui oggidi son forniti. Vogliono tutti due, che dal principio i ses si fossero stati confusi si negli animali che negli uomini. Ambidue affermano che l ' universo giunse al grado di sua perfezione, allorchè separati i sessi nacquero gli ani mali gli uni dagli altri. Darwin in somma dice unica essere stata la specie dei fila menti', che diede origine a tutti i corpi, che sono organizzati (26). E parimente fu opinione d'Empedocle, che unica fu la pasta, da cui vennero vegetabili, animac li, uomini, e Dei (27). Tanto egli è ve ro, che i nostri pensatori sempre, o al men per lo più copiano, e s ' arrogano le speculazioni degli antichi. Nella cosmogonia d'Empedocle sicco me a chiunque è maniſesto, non intervie ne, ne opera alcuna cosa la Divinità. Ma così pensando, intendea egli di recarle 0 nore più presto che ingiuria. Avendo egli ' la materia, come allor si pensava, per co 34 I sa vilissima, temeva che la sapienza si fos se bruttata, se avessé preso a ordinare co se, che son del tutto materiali. Per lo che a intendere la formazione dell'universo, lasciata la mente divina, invocò il caso, e commise gli elementi in poter della for: tuna. In sì fatti grossolani sciocchissimi er rori s' imbatte chi stoltamente, e senza una precedente saggia e matura riflessio ne, vuol togliere il supremo artefice dal la fabbrica del mondo. Il caso, fantasti cano essi, siccome racchiude in se tutte le combinazioni possibili ad avvenire; così tra le molte, e assai e infinite, che son mo struose, quelle poche ancora contiene, che son regolari. Infinite, dicea Empedocle, sono state le forme, che ha preso teria ', e senza numero le combinazioni de. gli elementi. Ma queste si son succedute senz' alcuna. posa sin dall'eternità, e forse non han potuto durare perchè prive so no state di regola e simmetria. Dopo tan. te é tante strane vicende, gli elementi in fine, conchiude egli, essersi disposti in la ma 35 quell'ordine, che il mondo ritiene, e da tutti con ragione, s ' ammira. Dal caso a dunque Empedocle formò l'universo. Al caso attribui egli quel, che privativamente è sol propio della sapienza, e dell'infinito potere d'un esser supremo. Da un acci dente sogna egli essersi condotto il presen te ordine, ma dopo lungo, vario, e suc cessivo disordine. Queste idee và Empedocle adornandh colla sua fantasia vivace, e poetica. Figir ra egli mani, piedi, gambe, busti, oc chi, braccia, spalle, teste di animali, di uomini, che tra lor misti é confusi si por tan qua e là únendosi- senza regola, e sen za misura. Ora egli vede petti senza spalı le; teste senza cervici; e fronti prive d' occhi. Or egli osserva piedi congiunti a colli, occhi a spalle, teste å gambe, di ta a fronti, e altre irregolari unioni. Quando immagina egli de' tori in volto u e uomini colla testa di bue; e quando nota nell'uomo l'impronta della pecora ', e in questa quella dell'uomo. Em mano e 2 36 1 1 a i pedocle in somma finge, trasfornia, è com pone mille e mille specie di mostri, che per lui una volta furono, e di quando in quando appariscono. Ma dopo forme si sconce é fuor di natura dispone egli ca guialmente quelle membra nelle proporzio ni, e misure che al presente veggiamo. Che maraviglia è dunque, ei conchiude, che dopo tanta varietà di mostri sieno a sorte venute le belle e ben disposte mac chine degli uomini e degli animali? In tal modo si sforzava il nostro fisico di render credibile ciò ch'è falsissimo; facendo come chi gli occhi s'acceca per meglio e più chiaramente vedere, Ma i suoi sforzi tutti quanti gli tornarono vani. Non cape ne capirà in intelletto umano, che il mondo il quale spira ordine, sapienza, e nia, sia l'opera del cieco, e dello stolto accidente. Ciascuna parte d'un essere forma un sistema; un sistema formano tutte le sue parti; un sistema tutti gli esseri, che tra loro legati corrispondono tutti al gran di fi armo 37 c scuna, segno dell'universo. I moti varj e multi plici de corpi celesti son regolati da poche e semplicissime leggi; le quali nascono e de rivano da unica propietà della materia. Se dunque ogni sistema indica combinazione, e questa suppone disegno e architetto; chi contemplando la fabbrica dell'universo, ch ' è un grande e maraviglioso sistema in cia. e in tutte le sue parti, potrà non ammirar la mente di chi seppe non che idearlo, má farlo? Se il mondo è così per fetto, qual dovrebbe essere, se fosse l'o pera d'un supremo fattore; se l'universo non mostra in ciascuna sua parte, avvegna chè minima, alcun segno o piccolo o lon. tano di casualità; chi senza empietà o stol. tezza, potrà riconoscerlo per opera del ca. so e non della mente d'un Dio? Ma senza più travagliarci a dimostrar cid ch'è chiarissimo; l'esistenza d'un som. mo fattore, oltre all'essere scritta nell' ani. mo nostro, si.legge ne' cieli, e a noi per viene da ogn'angolo della terra. Da che Anassagora disse agli uomini la mente di l 38 SO vina con singolar magistero è giusta leggi invariabili, áver ordinato la materia, niu. no vi fu, che nol consentisse. Il popolo d'Atene alzò allora un tempio a Dio, qual supremo fabbro degli esseri, e onorò quel filosofo del soprannome di mente. Anzi la ragione del volgo ha vinto in cið, e vincerà sempre i lunghi ragionamen ti di qualunque filosofo. Il volgo non lo rigetta con orrore le cavillazioni degli atei, che tentano invano negar l'esistenza d'un eterno fattore, ma poco o nulla cura altresì le speculazioni di que' sapienti, che vogliono dimostrarla. E in vero tal verità alla classe appartiene, attesa la somma evi denza, di quelle che sdegnan le pruove, e che si possono guastar più tosto che ras sodare co' lunghi e sottili raziocinj d'una filosofia illuminata. Empedocle e Democrito sebbene fossero stati superati da Anassagora, perchè non già una mente divina, ma il caso avesser posto, come autor dell'universo; pure son degnissimi d'onore per i loro metodi, o bel 39 osta k.. ** dias li pensamenti nelle fisiche discipline. Poté Democrito per sua particolar virtù concepi re egli il primo un sistema meccanico del mondo, fondato sulle propietà de' corpi, o sulle leggi del niovimento. Valse Empedo. cle per forza di sua mente a immaginare anch'egli il primo un sistema chimico dell' universo, che posando su i quattro elemen ti, è regolato da forze, e sottoposto alle leg. gi dell'affinità. Ambidue tennero in onor l'esperienza, che certo e naturalmente con duce alla scoperta della verità. Se chi do po lor filosofarono, fossero stati poco più sensati; avrebber dovuto mettersi dietro la loro scorta, e collegare insienre i modi chi mici d'Empedocle e i meccanici di Demo: crito. Si sarebbe allora abbreviato il corso degli errori, e anticipato il principio di quella filosofia naturale, che fa tant' onore a ' nioderni. Ma le sette smarrirono i filoso fanti d' allora, e costrinser costoro tanto più a errare, quanto più essi s' attennero alla metafisica, e si scostarono dall'esperi. mentare e asservare. Dovettero scorrer piů Dice? 17 bile su 40 secoli, perchè venisse in grande stato lo studio della natura. S'apparteneva veramen te a'nostri tempi, che congiunte chimica e meccanica avesser portato la fisica a quel grado d'altezza, in cui oggi si trova. Ma è sempre da confessarsi Empedocle e De. mocrito aver gettato i primi semi di que' vantaggi, che cal favore del tenipe la fi. sica ha oggi ottenuto. Le opinioni d’Empedocle sų gli ele menti, e sull'origine delle cose, se non son vere, almeno non sono ingiuriose nè al la sua mente, nè alla sua filosofia. Splen dono tra gli abbacinamenti chiari i lampi d'ingegno, e un metodo sopra ogn' altro riluce, che l'avrebbe guidato alle più bel, se gli errori de' tempi non gliel' avessero contrastato. Ma non è così, quando il nostro filosofo alle cose si rivol ge, che trattan d'Astronomia. I suoi sen timenti su gli astri sono altrettanti assurdi. Empedocle il fisico pare altr' uomo, e tut. to diverso da Empedocle astronomo. Tal differenza, che veramente è notabile, se 1 le scoperte, 41 non m'inganno, nasce da ciò, che la sua fisica si trae in gran parte da' frammenti de' poemi di lui; là dove le sue opinioni astronomiche ci vengon quasi tutte dagli Storici degli antichi filosofi. ' Non senza ra gione quindi si può sospettare, che i suoi pensieri non sono strani e deformi, quan do egli stesso l'annunzia; e al contrario pajono sconci ee mostruosi,, allorchè altri parlano in vece di lui. E ' maggiore tal congettura, qualor si considera que com pilatori essere stati grossissimi delle cose a stronomiche. Costoro affastellano in confu 90 le opinioni de ' filosofi, e o abbreviando le mozzano, o interpolando le allungano, o pure in qualunque altra manieria, senz' alcuno intendimento, ogni cosa deformando's le alterano. Non è quindi duro a com prendersi, gli storici del nostro filosofo, tra per l'imperizia delle cose del cielo, e per l'espressioni di lui, ch'eran tutte fi gurate e poetiche, averne contraffatto la sua astronomia. Non si negan con ciò gli errori, in cui egli per avventura avesse po f 42. tuto cadere. So benissimo l' astronomia dei Greci, sfornita.com'era in que' tempi d ' osservazioni, ridursi, tolto il nascere o trae montar d' alcune stelle, a una raccolta d' antiche tradizioni, o di opinioni bizzarre. Si conviene pure Empedocle aver potuto di: re il movimento del Sole essere stato da prima più lento, che a' suoi tempi non e. ra. Si concede altresi aver lui potuto opi nare l'asse della terra aver pigliato una po sizione all' Eclittica inclinata, che prima non avea: (usanza de' cosmogoni acconciare a lor talento le parti dell'universo, e condur le allo stato, in cui ne' suoi tempi si trora no ). Ma non si può affatto credere, Empe docle aver tenuto i tropici quasi due mura glie, cui giunto il Sole, essere stato stretto a torcere il suo cammino; e aver segnato și fatti circoli non altrimenti che due confi. ni, che impediscono il Sole camminando verso i poli d'oltrepassare il suo termine. Chiamò egli que circoli con linguaggio fi. gurato i confini del Sole; perchè a quel li il Sole giungendo par che il suo cam, 1 43 mino rivolga. In breve intese egli indica re l'obbliquità dell'eclittica, e segnar lo spazio in cui il Sole fornisce l'anquo ap parente suo corso. Giacchè l'anno si com putava allora da’ solstizj, i quali dall'om bre osservar comodamente si possono coll? ajuto dell'ago. Con tali e simili sconcezze si è guastata l ' astronomia d’Empedocle; Però se tra per difetto di memorie di lui, e per ignoranza degli storici, ė, ben diff cile d' indagar ciò ch' Empedocle penso sul. le cose del cielo; è assai più difficile sa per, ciò ch'egli non disse, e a torto a lui appongon gli storici, Temendo gli Ateniesi, che la terra fosse stata un'abitazione mal soda, furon solleciti della sua stabilità. Provvidero e glino alla propią sicurezza, e a quella del genere umano: ma colla sola fantasia a modo del volgo. S'appresentarono la ter ra in forma d'un monte, le cui barbe vanno a profondare e perdersi negli ultimi lontani confini dello spazio. Assegnarono ina sieme alla terra già divenuta nionte il suo f 2 44 co vertice di forma rotonda; e quivi loc:arono ferma sicura l'abitazione degli uomini. A mente dunque di quel popolo il Sole e gli astri non givan mai sotto la terra, che nol poteano; ma spuntavano e tramonta vano girando intorno intorno a quel verti. ce. Questa opinione, che in Atene era un pubblico dogma, non si potea contra star da filosofi senza grave lor danno. Il popolo pigliava alto sdegno di chi osava sen tirne in contrario, e contro lui si scaglia va, come contro chi avesse tentato di som. muover la terra é perdere a capriccio.il genere umano. I filosofi d'allora tra per che adularan la plebe, come chi più che gli altri soglion fuggire i pericoli; o per ehe su ' ciò nulla dissimili dal volgo crede van lo stesso; non mai vi fu alcuno, che avesse ardito negare il monte, le radici, il vertice, e la finta figura della terra. Non cosi fece il nostro filosofo, che molto perito nelle cose naturali, anche da Sici lia si scaglid contro sì fatta sentenza. Ri dea egli del monte, delle radici, del ver 45 tice.e aspramente ripiglio, Xenofane, che avea per immensa la profondità della ter ra (28 ). Chi, dicea Empedocle, tali co se divulgano, o poco veggono, o nulla san. no dell'universo.; Altri e lontani da quelli del volgo fu. rono i sentimenti d' Empedocle intorno al la terra. Fu opinione di lui, che fuoco bruciasse nel centro di questa. I sassi i dirupi, gli scogli, ei riguardò come sco rie, che la virtù di quel fuoco avea in alto levato. L'acque, che sorgon terma li, quelle sono, a suo credere, che sotter ra scorrendo piglian calore dal quel mede simo fuoco (29 ). Empedocle in somma im maginò sin d'allora l'ipotesi del fuoco cen. brale, che Buffon, non è guari, più bel la e vistosa ha richiamato alla luce. Pensavano gli Jonici, che la terra sospinta dal vortice che occupava tutta la sfera, era stata condotta nel centro di ques sta. Ma non sapeano essi comprendere, come quella, sfornita d' appoggio, ben li brata si stesse nel punto di mezzo. Timi 1 46 di quindi i filosofi al par del volgo, ne dilatavan la base, e tormentando i loro ingegni si sforzavan di sostenerla colle ipo: tesi. Talete avvisò la terra restar sospesa nell'aria, non altrimenti che un galleggian te sull'acqua, Democrito e Anassagora ne fecero la base non che larga, ma conca va; aifinchè l' aria quivi sotto racchiusa la potesse sostentar con sodezza. Parmenide credette sostenerla col principio della ra gion sufficiente. La terra a suo pensare stava nel centro, perchè non avea ragio ne, che la portasse per questo più tosto, che per quel verso, Ma il nostro fisico si dilung) da co storo, e con altri principj prese a spiegar sie la stabilita. L'acqua nella cosmogonia di lui s' era separata dalla terra per l'im peto del giro, che questa facea (30 ). Pe. rò la terra nel suo sistema rotaya. Rota va del pari secondo lui il cielo; è altra differenza non pose nella rotazion dell' una e dell' altro, che nella velocità, Minore la yolea nella terra, che stava nel centro; 47 1 rola, ando il cla colo come star galo raal Po maggiore nel cielo, che in giri smisurati si volgea. Da cid appunto egli ne trasse e perchè quella stesse in aria sen za cadere. Se girate, egli dicea, con pre stezza una secchia; l'acqua non cadrà, ancorchè nel girarsi si tenga capovolta (31 ). Tal è nella sfera i La conversion celerissi ma del cielo vince ogni peso e ritiene la terra. Al moto dunque del cielo egli in catenava la posizion della terra nel cen. tro, il suo rotare, e lo starne, Si sihar rì, egli è vero, in quella spiegazione al par degli altri; perchè allor s'ignorava la gravità della terra esser diretta al suo cen. tro. Ma il suo metodo di ridurre più fe nomeni a un solo, e ripescare ne' fatti la ragione di quelli, è molto degno di lode. Dall'esperienza della secchia, che pre stamente si volge, han preso argomento chi son portati per l'antichità, aver co nosciuto il nostro filosofo la forza centrifu. ga, Ma a pensar giusto, ignorandosi allos ra le leggi del moto, niuno ebbe, nè as ver potea l'idea vera e matematica di quel, 1 ajd a $ permas 30, ho murah ento: 48 d he Te la forza. Egli è vero essersi saputo in que' tempi, e da Empedocle essersi ben dimo strato la velocità del girare impedir la ca duta de' gravi. Ma questo era fatto, non forza, e più esempio, che principio. Eran sì lontani Empedocle e gli antichi di cono scer quella forza, che presso loro fu fer ma e costante opinione, i corpi a cagion di circolazione avvicinarsi al centro se pe santi, fuggir dal centro se leggieri (32 ). Ma se'a lui si può contrastare la co gnizion della forza centrifuga, gli si deve certamente quella concedere della rotazion della terra. Opinione era questa comune presso noi ne' tempi greci, e propia in ve rità della nostra Sicilia · Giacchè Ecfanto e Iceta la divulgarono in Siracusa; ma sin da tempi antichissimi Empedocle l' insegno nella nostra Gergenti. Avea il nostro Astronomo il Sole e le Stelle, come se fossero della stessa natura. Opinava egli quello e queste esser di fuo co (33 ). Ma non perciò è da credere, ch ' ei tenesse la luce per eguale o simile al R te te e 1 49 1 fuoco terrestré. Non sapendo egli qual fose se la natura della luce, che per altro è ignota anche a noi, tenea il Sole come una massa ignita, che lanciava nella sua sfera le sottili sue particelle (34). Queste ei credea, che dal Sole si moveano, e pro gressivamente propagandosi giungeano agli occhi. La luce, dicea, va prima nel mez zo, e poi perviene sino a noi (35 ). An ticipava così la scoperta bellissima della pro pagazione della luce, che i Satelliti di Gio ve doveano in tempi avvenire rivelare a Roemero. La vide, egli è vero, coll' in telletto, e senza ridurla a fatto, la lascið nel posto di semplice opinione. Ma nel tempo de' sogni e dell'ipotesi è degna cer to d'ammirazione quella opinione, che coll' andar de' tempi è stata condotta al grado eminente di fisica verità. L'emission della luce fu l'ipotesi, ch' allor tenne Empedocle', e cui oggi s' acco stano chi non vogliono vaneggiar per no velle bizzarie. Questa a dì nostri d ' alcu ni è rigettata, e in que' tempi era ancor مه 50: contrastata. L'ipotesi che il Sole quanti raggi manda, altrettanti ne perde, fece al lora, e ha fatto oggi credere a parecchi, ch ' egli raggi mandando, e raggi perden do sì gradatamente impoverirà di luce, che collo scorrer de' secoli giungerà sino a spe. gnersi. Newton all'incontro dimostra in sensibile essere stata la perdita della luce solare dal principio delle cose sino a noi. Anzi egli quasi sforzandosi d'assicurar la luce alle future generazioni, cerca di sup plir la massa solare con quella delle co mete. Le quali attratte dal Sole, quan do nel suo giro sono vicinissime a lui, e su lui cadendo, colla loro materia vanno a risarcire la perdita diurna delle particel. le solari. Ma Empedocle in un modo, che se non sarà forse il più vero, è certamente assai più ingegnoso, s' industrið provedero alla durata del Sole. Siccome i raggi lan. ciati dal Sole son poi riflessi dalla terra; cosà egli pensd, che quelli dopo la rifles, sion concentrandosi, ritornano al Sole (36). 51 Però questi per riflessione acquista quel, che per enuission perde; e atteso un sì fat to circolo durerà sempre lo splendore del Sole. Empedocle quindi potė ben dire la luce essere al presente una riflessione di quella che fu una volta lanciata dal Sole: Ma i compilatori dell'antica filosofia non capirono i sensi del nostro filosofo. Credette ro essi due essere i Soli d'Empedocle, uno invisibile, visibile l' altro, che collocati in due opposti emisferi si guardavan tra lo ro. La terra, eglino dissero, riflette al se condo i raggi invisibili lanciati dal primo; e quello poi in forma di luce li rimanda alla terra (37). Ecco con quali sconcez ze quegli storici guastarono i divisamenti del nostro filosofo sull' emission della luce. Non meno speziosa fu la difficoltà, che s'oppose a Empedocle ne' suoi tempi contro la succesiva propagazion della luce. Siccome nel tempo che la luce viene a noi, il Sole si move; così l'occhio astretto a seguire la direzion della luce, vedrà il Sole in un punto, in cui fu, e poi non g 52 è più. Empedocle a rispondere, non prese scampo nella prodigiosa velocità della luce, o in qualche sottigliezza, cui i fabbri di si stemi soglion rifuggire. Non è il Sole, ei di cea, ma la terra che in ventiquattro ore si volge: La terra' dunque nel rotare s’im hatte ne' raggi solari, ed essa prolungan doli va a trovare il Sole nel punto, in cui egli sta. Non si potrebbe di certo a di nostri in miglior forma rispondere a chi in quel modo vclesse attaccar l ' emissione e successiva propagazion della luce (38 ). • Empedocle ebbe la Luna come opaca, perchè frapponendosi tra il Sole e la ter ra cagiona l' ecclisse. Plutarco a lui so lo (39), mettendo in non cale tutti gli altri, da il vanto d' aver divolgato la Lu. na essere un corpo privo affatto di luce, che riflette i soli raggi solari. La chiarez za della Luna' ei chiamava non che dolce e bénigna, ma insieme straniera. Una lu ce straniera, dicea Empedocle qual poeta, circola intorno alla 'terra (40). Ma Empe docle ebbe la disgrazia d' aver avuto gua 53 stato ogni suo sentimento. Achille Tazio dall' epiteto di straniera dato alla luce lunare da Empedocle, ricavo, non so come, il medesi mo aver tenuto la Luna qual pezzo svelto dal Sole. Ma buon per noi che ci sia re stato il verso d'Empedocle, che smentisca l'interpetrazione di Tazio (41 ): Anassagora per dare una misura del So le riferì la grandezza di quest' astro al solo Peloponneso. Il nostro filosofo fu il primo, cui venne in pensiero di comparar Sole e Luna tra loro. Egli credea che il Sole fosse stato più della Luna distante dalla terra so pra due volte (42). Ciò non ostante affermo quello essere stato assai più grande di que sta; sebbene ambidue fossero appariti dello stesso diametro (43 ). In somma l'ineguale distanza fu per lui certo argomento della lo ro diversa grandezza. Parrà ad alcuno ciò essere stata cosa di lieve momento; e pure fu un passo, e un avanzamento che allora fece la scienza del cielo. Giacchè niun altro prima d'Empedocle, ed egli fu e il solo e il primo, che insegnò gli astri lontani 54. doverci comparire piccoli più de' vicini. E gli pure fu il primo che pose in confronto tra lor gli astri non solo, ma i loro diame tri. Dopo hui in fatti prima Eudosso misu rò i diametri apparenti della Luna e del Sole; e poi cominciarono i Greci a stabili re i periodi lunisolari, da cui nacque, e s’ avanzò l'astronomia de' medesimi. Si potrebbe quì aggiungere a formar tutto il quadro dell'astronomia del nostro fi losofo, aver lui forse conosciuto che la Luna rotando intorno a se stessa si mova circa la terra. Ma punto non conviene dar a Empe docle una gloria o dubbia o sospetta (44). Basta aver levato a suoi pensieri astronomici quella ruggine, di cui li bruttò l'imperi zia di quegli storici. Appresso l' onorano al cuni qual autore d'un poema sulla sfera in cui si descrive, secondo l'uso de' tem pi il nascere e ' l tramontar d' alcune stel le. Ma i critici illuminati han quello come opera d'ignoto autore e non di lui (45 ). Io non discordo da loro; anzi confesso non essere stato Empedocle intento a osservare, 1 55 1 come si conviene nell' astronomia. In quell' età si costruiva il cielo da' filosofi non si osservava. Era quella la stagione della fan tasia, delle opinioni, e dell'ipotesi, che suol sempre precedere l' altra, che porta seco il raziocinio, l'osservazione, la veri tà. Però non è poca la gloria d’Empedo cle nell' aver conosciuto la ' successiva pro pagazion della luce, la rotazion della ter ra, l'opacità della Luna, è scostandosi dalle volgari stravaganze nell' aver compa rato il primo le masse tra loro della Lu na e del Sole. Se non può egli quindi emulare Timocari e Aristillo, Ipparco e Tolomeo, che nella Greca astronomia fu ron chiarissimi; pure non è da negare lui aver saputo delle cose del cielo assai più che la sua età non portava. Vennero quel. li assai dopo, e in tempi assai più illu minati e felici; e non è maraviglia, che questi fossero stati di quello migliori. Una fiaccola più o meno brilla, quanto più o meno pura è l ' aria, in cui brucia. Dal cielo tornando alla terra non più 56 & troviamo il nostro filosofo, che immagina l' origin delle cose; ma che studia e in terpetra con senno la natura. La prima verità, che c'insegna, non già ragionando ma coll'esperienza, è il peso e la molla dell' aria. Mette egli in opera in difetto di macchine e di strumenti la clessidra, che s'usava allora da' nostri come orolo gio a misurare il tempo. Avea questa la sua figura conica; la base forata a guisa di minutissimo vaglio; e il collo lungo che stringendosi sempre più andava a fi nire in un sottil bucolino. Si tenea allora la clessidra col collo all'ingiù; e l'acqua, di cui era piena, lentamente gocciolando misurava le ore. Questa appunto fu la macchina d'Empedocle, che nelle sue ma ini diventò indice e misura di fisiche verità. Introduce ei da poeta una donzella, che trastullando colla clessidra la vuol en piere d'acqua. Ne tura essa l'orifizio col le dita, e postane la base all' ingiù, cala quella verticalmente in un fonte. Entra allora l'acqua per la base forata; ma per SC ay is ce 9 in C 57 quanto la donzella prema, e travagli, la clessidra non si può mai empiere tutta. Stanca finalmente la verginella, alza le di ta, con cui chiudea quell'orifizio; ed ec co l'acqua che sale, e giunge alla cima. Proposta l' esperienza, Empedocle ne' suoi versi ne soggiunge lo spiegamento. L' aria, dice egli, che sta racchiusa nella cavità della clessidra, colla sua molla, resiste all' acqua, e la ripara di venire all'in su. Ma appena la donzella alza, le dita, l'aria e sce, e però l'acqua non più impedita dall' aria sale, e tutta empie la clessidra. In altro modo ci presenta ei la don zella. Finge egli che questa volti la cles sidra; e allora un altra prova egli ci reca del peso e della molla dell' aria. Chiude es. sa colla mano il bucolin della clessidra, questa piena d'acqua volge colla base all' in giù; affinchè l'acqua tutta fuori si ver si. Ma non senza sua sorpresa s' accorge che l'acqua, lungi di cadere da ’ forellini della base, si ferma: Alza ella quindi la mano con fretta; ed ecco l'acqua goccio h 58 re il a lare, e a poco a poco cadendo tutta fuori versarsi. Dichiarato il primo, ſu agevole a Em pedocle spiegare il secondo esperimento. L' acqua, dicea egli, si sforza d' uscire da' fo. rami della base. Ma l'aria sottoposta si resiste colla sua molla, che venga a vince peso dell' acqua. Subito che la don zella alza la mano, l'aria di sopra preme l'acqua sottoposta; e questa, ajutata dall' aria soprastante, vince ogni restistenza, o vien fuori. Con tali esperienze, delle propietà dell' aria mostrava egli e il peso, e la molla. Ciò nulla ostante furon quelle nell'età d'ap presso poste ingiuriosamente in obblio. Se noti fossero stati al rinascer delle scienze gli esperimenti d ' Empedocle, non si sareb be certo levato tanto grido per l'invenzion del barometro. Ivi il mercurio sta sospeso dalla forza dell'aria, come l'acqua sta so spesa entro la clessidra dalla forza egual. mente dell'aria. Si fatte esperienze, che oggi son volgari, allora erano rade e uti € 59 lissime alla fisica. Smarriti i Greci in que? tempi o dalla lor fantasia, o dalla lor me tafisica, non pigliavan cura nè d ' esperien. ze, nè d'osservazioni; e privi di fatti, co storo eran pur privi di scienza · Ne' versi d'Empedocle quindi il principio si trova, e la nascita dirò così della fisica; perchè ivi si trovano i primi esperimenti. Democrito al par d'Empedocle piglia va anch'egli allora la via de' fatti: sebene ambidue ne fossero stati presto raggiunti dal divino Ippocrate. Sicché questi tre som mi uomini cercarono allor di fondare un epoca novella nella Greca filosofia, sfor zandosi di condurre gl'ingegni a studiar la natura coll' esperienza, e colla osservazio ne. Ma tal metodo, ch'è lento, ostenta to, non potea esser gradito a Greci, che impazienti erano e caldi; e però da pochi fu pregiato ed impreso. Sebbene Empedocle avesse posto ogni studio nello sperimentare; pure fu solo in Sicilia, senza stromenti, nell'infanzia dela la fisica. Ne si creda Democrito, e Ippo h 2 60 crate avergli potuto giovare, essendo e co lui di region lontanissima e questi de tempi d'appresso. Pochi eran quindi i fat, ti, che potea egli raccogliere. I medesimi non gli eran mica bastevoli all' uopo, ch' era assai vasto, e che giusta l'usanza de tempi abbracciava tutta la natura. Di che veniva, ch'egli spesso era costretto a suppli re il difetto de' fatti; e ciò il fece con assai sagacità e senno: cui nercè l'arte inventò del congetturare. Questa non gia che fosse stata da lui ridotta in canoni come si svol presso noi, che in ogni cosa abbondiamo di regole; ma intriseca si tro va, e quasi nascosta ne' suoi ragionamen ti. Anzi io credo non potersi in miglior modo rilevar l'artifizio del suo metodo, che descrivendo l'andamento del suo spi rito; allor quando pigliò ei a comparare i vegetabili agli animali. Furon tanti, e di tal momento i rapporti, con cui egli quel li a questi lego, che giunse a scoprir del, le verita, che son degne non che di ricor, F S a 8 danza, ma di stupore. 62 Il seme, il sesso, la generazione, la nutrizione, la traspirazion de’ vegetabili fu. rono i varii sorprendenti oggetti su cui fil filo s'applicò la sua mente. Da prima avverte. Empedocle comune essere il fine assegnato dalla natura 'e agli animali e a ' vegetabili. Un animale, o una pianta, egli dioe, voglion produrre animali, o piante simili a se (46). Questo fu messo da lui come base delle sue illazioni, e co nie fermo segnale d'un punto, da cui egli partendosi non s' avesse potuto mica smarri re nel proceder più oltre nelle sue nuove scoperte. Soggiunge egli appresso: come l' animale viene dall'uovo, così la pianta dal seme (47). Attesi questi fatti comincia o ' specolando a filosofarvi, e da quelli guidato va con franchezza formando le sue conget ture. Se l'uovo e il seme, egli prosegue, comune hanno il fine, ch' è la produzio ne; debbono l'uno e l'altro colla stessa attitudine, e col medesimo impeto tendere al medesimo fine (48 ). Da sì fatto fine ad ambi comune egli argomenta, come da 62 un indice, comune dover essere la natura del seme e dell' uovo. Ma Empedocle forse à tal indizio si ferma? Nullameno. Egli torna di nuovo a fatti, mette in opera da capo osservazioni; e si sforza rintracciar co. sì la natura dell' uno e dell'altro. Empedocle tirando avanti la sua stes sa traccia, trova e distingue sì nell' uovo che nel seme, non che germe, ma materia che il germe nutrisce. L'animaletto fin, chè non nasce, o la pianticella finchè non abbarbica ', traggono alimento da quella, Non è già, aver lui conosciuto le foglie seminali; o aver lui detto la placenta u terina portar nutrimento all' embrione per via del funicolo umbilicare. Egli non al tro conobbe, che due esser debbano nell' uovo e nel senię le parti principali e muni: il germe e i cotiledoni, che l'ali mento preparano alla pianticella, o all’em. brione, o nel seme, o nell' uovo. Il nostro fisico quindi più non distinse dirò così ani mali da piante. Ebhe egli il seme qual uovo de vegetabili; e chiamò le piante col CO 63 soprannome d ' ovipare (49 ). Ecco avere Em. pedocle svelato agli uomini assai prima d’Ar véo tutto ciò, che nasce', non d ' altro pro venir che dall'uovo. Teofrasto infatti, e A ristotile (50 ) a Empedocle solo attribuiscon la gloria della scoperta di tal verità, e gliela dan come propria. La fatica d ' Arvéo, fu egli è vero, utilissima all'avanzamento del le scienze, e degna di tutta la lode. Ma egli pubblicando di nuovo lo stesso ritrova mento d' Empedocle, null' altro fece che as sodar vie più colle prove ogni cosa nascer dall'uovo. Chi adesso non giudicherà mag. gior l'eccellenza dell'ingegno di chi colla mente va congetturando ciò, che del tutto s’ è ignorato in preterito, e prevede ciò che sarà da scoprirsi in futuro? Il nostro fisico, guidato com' egli era dall' induzione, spinse più oltre i suoi ra gionamenti'. Affermd le piante al par de gli animali dover essere tutte fornite di ses so. Conosciutosi da lui il seme null' altro esser che uovo, come l'uovo si feconda per l' union del maschio colla femina; co $ 64 sì argomentò egli del pari il seme per la mescolanza di que' sessi doversi fecondare. Franco ' quindi e sagace stabili egli il pri mo, ed egli il primo distinse il sesso ma schile e feminile in ogni vegetabile. Non si dubita prima di lui essersi conosciuti ma schi e femine tra ' vegetabili: ma ciò soltan to attribuivasi a palme, fichi, canape, pi stacchi. Però dal nostro fisico prende ori gine il sistema, su cui oggi posa tutta la Botanica. Egli è vero non aver lui allora ne cercato, nè mostrato gli organi genita li nelle piante, come poi han fatto con grande studio i moderni; ma ciò facea e gli sempre col ragionare, e quelli vedea dirò così, coll' intelletto. Nella testa de' grand' uomini, come dotati d'una specie di tatto pella verità, la forza delle con getture si sostituisce talvolta all' evidenza de ' fatti. Facea Empedocle a guisa d'un gran dipintore, che solo abbozza il quadro con poche, ma pennellate maestre; e la scia poi agli altri la cura di compirne il disegno, di colorirlo, e abbellirlo. Arveo 65 definì tutto nascer dall'uovo: Zalunziaski, Millington, Camerario, Vaillant prima, e poi Linnéo mostrarono il sesso nelle piante. Ma costoro tutti quanti assodaron la dottri na, e compiron l'idea tracciata dal nostro Gergentino. In verità non è poca la glo ria che a costui torna nell' aver lui il pri mo schizzato degli originali, che di mano in mano col favore del tempo si van tro vando in natura. Contemplare Empedocle, che conget tura è uno spettacolo degno d'un filosofo. Ora egli scorto dall'analogia supera tutti i suoi contemporanei', e più oltre proce dendo va diritto a trovare altre belle ve rità. Ora privo di fatti, non ostante il vi. gor di sua mente, tentoni cammina incer to tra verità, ed errore. Conobbe egli il sesso sol nelle piante. Ma altro non pote va egli conoscere, attese le poche anzi le rade verità solamente allor note. Quante altre osservazioni, quante altre verita gli mancarono? Ignoto era allora l'antere, e gli stigmi esser gli organi genitali delle pian i 06 cer te, e questi trovarsi ne' fiori. Niun sapea il polline portato da venti aderire allo sti gma per via dell'umore, che in questo si stà. Chi aveva allora osservato la Passiflo ra, la Graziola; e ' l Tulipano, che come agitati d'estro venereo, erranti van cando la polvere, che loro fecondi? Chi s'era accorto, in que' tempi la Valisneria, e l'altre piante acquatiche sul punto de’ loro amori alzar lo stigma dall? acque, per accoglier cupide, e aperte la polvere de' loro maschi? Non è però da recar mara viglia, se nell'ignoranza di tali fatti non seppe Empedocle comprendere, come le pian. te, che fitte stan sulla terra, si potesser congiungere per far la lor generazione a guisa degli animali. Ma tenne egli come cosa non che non dubbia, ma certissima, e l'induzione già gliel' aveva indicato, che il seme per l'unione si feconda della fe mina col maschio. Però egli, posti in cia scuna pianta, come sullo stesso talamo, quasi marito, e moglie, disse tutte le pian. te dover essere ermafrodite (51). Fil que: 67 sto, egli è vero, un errore; perchè in al cune piante i due sessi son del tutto se parati, e distinti. Ma altresì, egli è vero, la più parte delle piante alla classe ap partenersi dell'ermafrodite; oltr'a quelle, che sono androgine, e poligame. Empedocle appresso, il mistero passo a indagare della generazion de’ vegetabili, con quella confrontandola degli animali. Gran cose in prima osò egli dire sul la generazione animalesca. ' Immaginò egli starsi divise ne' liquor seminali de’due ses si particelle analoghe al corpo d'ogni ani male. S'ideò egli queste nella unirsi, e l'embrion formare del corpo or ganizzato (52 ). Il carnale appetito egli ri pose in quelle particelle, che, separato trovandosi nel maschio e nella femina, ten. dono naturalmente a unirsi. Ad abbondan za de' due semi la cagione ei riferisce del parto o doppio, o triplo; e a scarsezza o disordine degli stessi la nascita d'ogni sor ta di mostri. La prole secondo lui al pa dre o alla madre somiglia in proporzione generazione i 2. 68 del più o men prevalere del liquor semi nale quando della femina, quando del ma schio. La ragione inoltre crede lui dare della sterilità delle mule, che all' angustia attribuisce e obbliquita de canali della loro figura (53 ). Varie spiegazioni va in com ma egli fantasticando, che io piglierei ros sore di chiamar sogni, se chi han tratta to della generazione, non avessero sinora sognato al pari di lui. Le molecole orga niche di Buffon, i vermi spermatici di Le wenoek, l'uova di Bonnet e,di Haller, il filamento nervoso di Darwin, non sono clie ipotesi più o meno, false o tutte immagi narie. La fantasia inoltre, che tutte domi le umane, s' avvide Empedocle, poter avere anch'essa una parte nella ge nerazione. Ricordava ei delle donne, che aveaito dato in luce bainbini simili a sta. tue o pitture, cui quelle, essendo gravi. de, aveano a caso fisamente guardato (54 ). Opinò egli quindi la fantasia della femin na, non altrimenti del tornitore sul legro, na cose 69 2oho da ede lidt? po 12.06 maa Potere dar forma, e simiglianza al feto. Non inancan.oggi, chi credono poter più operare l' immaginazione del padre che alle quella della madre. Ma niun disconviene, ato quasi secondo il linguaggio d ' Empedoc!e, che la fantasia o della femmina o del nia schio, giunge talvolta a tratteggiar, dirò cosi, le membra, e la fisonomia della pro le nel ventre della madre. Da si fatte cose, stabilitasi. anzi tem po da Empedocle la famosa analogia tra' vegetabili, e animali, trasse egli, e cona chiuse del tutto eguale a questi duver es sere la generaztone di quelli. Ne men dissimigliante tra loro, disse Empedocle, dover essere la nutrizione de gli uni e degli altri. I vegetabili e gli a nimali dicea il nostro filosofo, gli alimenti scompongono, e quel traggon da éssi, ch' è conveniente e accomodato alla loro na turá (55 ). Ciò egli credea farsi in ambi due per via dell'affinità insieme e de' pori. Dell'affinità cosi egli parlava. Siccome le cose amare all'amare si uniscono, le dol UD Eury 7 Pizze,the is on sullink 70 ei de 1 dis Tec cer ci alle dolci; ogni sinile in somma al suo simile: cosi gli esseri organizzati quel pren dono dagli alimenti, che lor si confa, e può nutrire ciascuna delle propie parti. Chiaro fu eziandio il suo parlare de' po ri. La nutrizione, egli è certo, separarsi e dividersi negli animali, e ne' vegetabili per mezzo de' pori, che son differenti in dia metro (56). Le particelle, dette nutribi li, è certo altresì non potere indistinta mente entrare per qualunque di quelli: ma ciascuna insinuarsi nell' orifizio di que' bucolini, ch'è analogo alla propia gran dezza. Un vino, egli dice, è diverso da un altro, attesa la differenza non che del terreno ma della stirpe (57 ). Ecco come par, che il nostro filosofo avesse voluto vie più assodar la sua opinione della forza dell' affinità, e de' pori, massime su i vegeta bili (ch'è poi propietà d'ogni corpo orga nizzato ) i quali giusta la propia organiz zazione han da quelli preparato gli ali menti, e si rendon capaci di saporé diver so. A senno dunque d'Empedocle la nu se su red nog Ila ti co re со ali 71 Fari trizione si opera tra per l'affinità, e la ti que varia ampiezza de ' pori per canali diversi, ce e va svariatamente, ma sempre in pari re preciproco modo, vigore é aumento porgendo agli organi diversi sien de' vegetabili, sien degli animali Empedocle frattanto, il modo volendo indicare, con cui la nutrizione si sparge e dividesi fra gli organi diversi, abbiam noi veduto essersi rifuggito all' affinità, ch'è certamene un'ipotesi. Ma che maraviglia; se dopo la serie di tanti secoli da questo suo pensare non sono mica iti lontani pa recchi pur tra’ moderni? Grande in verità e diligentissima è stata oggidì la fatica de nostri fisiologi nell'indagare i fenomeni del la nutrizione, Gli hanno essi ridotto a ' fat, ti, o a leggi generali, che son propie e comuni a tutti i corpi organizzati. Nè pu re eglino han trascurato di trovare nella contrattilità organica la forza, con cui gli alimenti son trasportati in canali opportuni non sol negli animali, ma eziandio ne've getabili sino all'alto delle propie foglie. Ma TX, ام د ገን muito 73 con tutto cið o nulla o poco si sono essi avanzati nell'additar la maniera, con cui si fa la nutrizione per gli organi diversi. Non si nega oggi darsi da' più a varii organi, una specie di gusto, cui mercè quel suc chino, e tirino, che a ciascuno in partico lar si conviene. Ma poi tal fatto pensa mento mostra forse esser del tutto falso il ritrovato d'Empedocle? E' troppo vero, cho la natura yince in molte cose, e vincera sempre ogni nostra speculazione e fatica e da filosofi per lo più non si recano, cho sole congetture, ed ipotesi, Fattisi vedere eguali da Empedocle i rapporti degli animali co' vegetabili nel se nie e sesso, nel generarsi e nutrirsi, non re. stava altro a lui che applicarsi sulla tra spirazione comune ad entrambi. Conobbe egli, che gli uni e gli altri per via de' pori similmente traspirano, e quella parte degli alimenti tramandano che loro è su perflua. Alla traspirazione di fatto attribuì costui o il perdersi dagli alberi nella fred da stagione, o il serbarsi quelle foglie, che 1 73 1 dalla natura, non a caso, ma particolar mente sono ordinate al traspirare e al nu trir delle piante. I primi, ei disse, tra spiran molto in estate, e spossati levan le foglie in autunno. I secondi traspiran po co in estate, e robusti ritengon le foglie in inverno. Fondava egli la copia o scarsez za del lor traspirare sull' ineguale diame tro, e contraria posizion de' lor pori. Gli uni a suo giudizio hanno larghi i pori del le radici, angústi quelli de' rami. Gli al tri all'opposto angusti i pori delle radici, larghi quelli de' rami. Però i primi più, succhiando, e men traspirando non levan le foglie. I secondi men succhiando e più traspirando perdon le foglie (58 ). Se una si fatta posizione di pori, che immagind il nostro fisico, fosse stata confermata dalle osservazioni, avrebbe sin d'allora egli sciola to un problema, che non poco fastidio grandissimo stento ha recato a ' moderni. Era rizio comune a quell' età organizzare ad arbitrio gli esseri della natura a fin di. poterne presto dichiarare i fenomeni. Egli k e. 0 1 è vero non esser mancati a di nostri, chi abbian conosciuto e distinto ne' vegetabili non meno di quattro specie di pori (59 ); Ma chi ha potuto, o con qual microscopio potrà mai rinvenire, che a ' pori o larghi o stretti delle radici corrispondano a rove scio quelli de' rami? Pur tuttavia a Empe. docle in parte siam noi debitori della ragio. ne, che mostra il come dagli alberi cadan le foglie. La famosa traspirazione ne' vege tabili, da lui allora scoperta, scioglie og gi a noi con somma nostra ammirazione o senza nostra molta fatica un sì bel pro blema. Ognun vede le foglie cader più pre sto, quando la state è più calda. Ognun pur vede gli alberi robusti più de' deboli più tardi svestirsi di foglie. Anzi ognun vede altresì quegli alberi in inverno rite ner le foglie, che poco traspirano. I 100 derni al più han distinto le foglie, che cadono in pezzi da quelle, che intere si staccano, secondo che l'une o l'altre sono al tronco diversamente attaccate. Costoro 75 di più son giunti a conoscere, che alcuno foglie cadono intere, prima che le nuovo dalle lor gemme si svolgano, e altre ristan no finchè non ispuntin le nuove (60). Da ciò essi han tratto, che quegli alberi, i quali gettan le foglie dopo lo spuntar del le gemme, debbon mostrarsi verdeggianti in inverno. E che all'incontro quegli altri, i quali gettan le foglie pria dello spuntar delle gemme, debbon vedersi nudi nella stege sa stagione (61 ): Che perciò? i nostri fisiologi forse san. no oggi della caduta delle foglie dagli al beri assai più di quel, che ne seppe al. lora il nostro filosofo? Abbian quanto si vo glia convenuto oggi i moderni le foglie tra. spirar più quanto più abbondano di pori. Abbiano quanto si voglia pure costoro af fermata la copia o della traspirazione o de' succhi si travagliar le foglie, e i lor vasi ostruire, che finiscan di vegetare, muoja no, e cadano. Eziandio ne abbiano essi inferito tutti gli alberi dovere perder le fos glie, chi in Autunno, chi in Primavera. Ma k 2 26 de 60 fu NI tal differenza non è se non perchè le fo glie di quelli più, e le foglie di questi meno' traspirano, e l'une servon più, l' altre meno alla nutrizion delle piante? E non è questa la grande scoperta appunto d' Empedocle, e che forma uno de' suoi gran di elogi? Il pigliare i vegetabili e gli animali au mento dal calore, il goder di gioventù, il cadere in malattia, il giungere alla vecchiez za, sono altresì que' tratti di simiglianza perfetta, che il nostro fisico andava a quel. li aggiungendo. Nè lascid ei di notare, che i vegetabili al par degli animali si muv vano, resistano, si raddrizzino (62 ). Gran de com' egli era di mente, e degno d' in. terpetrar la natura, talmente s’ ingegna va di legare il primo con poche o comu ni leggi i due regni, che paion tanto di stanti e discordi tra loro, il vegetabile e l' animale. Gli antichi presero maraviglia di questo specolazioni di lui, e si ne restaron convinti, che si sforzarono aggiungervi qual che cosa del loro, Empedocle aveva già 0 PE C te 77 detto, che il seme senza più è nella ter ra ciò, che il feto nell'utero (63 ) ed egli no procedendo più oltre' non ebbero a schi fo affermare la pianta essere un animale fitto in terra per le radici, e l'animale una pianta, che cammina. I moderni poi non han tralasciato punto di assai profittar de pensamenti d' Empedocle, cui mercè tira ta avanti la traccia e allungati, diciam.co sì, i suoi stessi passi, sono iti scoprendo nuovi rapporti, che agli attimali legan le piante. Le piante dormire come gli anima li; respirare coni'essi; avere i lor muli; pro. pagarsi i polpi al par delle piante; esservi animali (che son quei, che vivono attacca ti alle pietre ) che cercano la luce e vergo essa rivolgonsi, come appunto fanno le pian te: questi e simiglianti sono i grandi ogo getti, su cui i moderni profittando d' Em pedocle si sono fissati. Ciò non ostante 90 no tante, e di tal momento le differen ze, che separano gli animali da' vegetabili, che non è stato possibile di ridurli in tut. to giusta la pretesa d'Empedocle alle me 78 desime leggi. Pare soltanto che nel presen te stato delle nostre cognizioni tutto con corra a dimostrare aver la natura espresso e racchiuso dirò così quasi sotto unica fore mola il gran fenomeno della nuova produ. zione de' corpi organizzati. Questa appun to cercò, e questa rinvenne il nostro fisi co. Perchè distinse il sesso nelle piante, e conobbe il seme non esser altro che uovo: e affermò apertamente le piante, come gli animali, dover essere ovipare. Tali meditazioni d'Empedocle su gli esseri organizzati', in difetto d'oga' altra pruova, basterebbero sole a indicare la for, za, e l'eccellenza del suo intendimento. Dovea egli supplir la mancanza de'  fatti, inventar de' metodi per non ismarrirsi, ras. sodare i suoi pensieri incatenandoli, anti veder congetturando, Operazioni, che vo gliono tutte ostinazione, sagacità; avvedi mento. Tal è la condizione dell' umana natnra, che la nostra mente non può senza stento riflettere, ragionare, scorrer le dub bie vie delle fisiche ricerche. No creda al 7.9 cuno, ch ' ei qual poeta, o cosmogono aves se ravvisato quelle somiglianze tra i vege tabili e gli animali più colla fantasia che colla ragione. La fantasia crea non isco pre; finge non ragiona; abbellisce non in catena; e se talora connette, i suoi lega mi sono immaginari e non reali. Molti fu rono i cosmogoni tra gli antichi, Ma Em. pedocle solamente s' addita come chi com prese in egual modo operarsi la generazio ne negli animali e ne' vegetabili. Fu egli è vero intento a legare questi a quegli esse ri, come suol farsi dalla fantasia, che cor ca e ritrova più le somiglianze delle cose che le lor differenze. Ma ciò avvenne dal metodo, con cui il nostro Gergentino aju tava la sua mente, ch' altro non era, nè esser poteą nella sua età, che quel dell' analogia. La quale, siccome essa suole, argomentando da cose simili, potea soltana to condurlo, a veder somiglianze. Se dun que Empedocle col favor dell' analogia pro pose congetture, che poi si son trovate ve re dalle nostre osservazioni, e ben da dir 80 si ch' egli fu nobile di monte, robusto ne suoi raziocinj, e di gran sentimento nelle cose naturali., Un altro e più vasto teatro s' apre o rą di altre e nuove specolazioni, Empedo cle, posti da parte e vegetabili e bruti, staccò l’ Uomo dagli esseri organizzati, con cui l'avea egli sin allora confuso. Prese costui a considerar l’ Uomo solo e isolato non che in metafisica e morale, ma in pa recchie fisiche scienze. Rivolse ei le sue prime indagini alla fisica dell'Uomo, cui i corpuscolisti con gran cura in quel tema po attendeano. Empedocle, Anagsagora, De mocrito scrissero sulla natura; ebbero tutti tre il soprannome di fisici: e tutti tre ten tarono di svolgere l'economia, giusta cui vive, si muove, si regola la macchina u mana. Fu forse un tale studio sull' uomo che sopra ogn'altro lor distinse dagli altri filosofi. I quali, senza più, aveano fino allora quello riguardato come un soggetto soltanto metafisico, o morale, o politico. Ma ' le fisiche ricerche d'Empedocle 81 sull’ Uomo trapassarono di gran lunga quel le di Democrito e d’Anassagora. Perchè, sagace, com'egli era, si mise in investigazio ni non prima tentate d'altri, e utilissime. Tanti furono i punti di vista, sotto cui e' prese a contemplare il corpo umano; e al trettante può dirsi essere state le scienze, cui diede principio il vigor di sua mente. Egli il primo applicò la chimica ', e sie a nalisi al corpo umano; segnd le prime li nee d'anatomia: fece sforzi se non sempre efficaci, sempre almen generosi a gettare i fondamenti della fisiologia dell' Uomo:: Il sistema d'Empedocle sulla natura fu chimico; così chimiche del pari furono le sue prime ricerche sull'uomo. Comincio egli a esaminar questo nelle sue parti, e quanto più allor si potèa, ne imprese an cora l'analisi. La carne, ei dicea è coma posta di parti eguali di ciascun de' quattro elementi. Di due parti eguali di fuoco e di terra sono formati i nervi, e le unghie son similmente nervi raffreddati dall'aria (64). Otto furon le parti, ch'ei distinse nelle os 1 82 sa: due di terra, altrettante di acqua, e quattro di fuoco (65). Se non si corresse un qualche pericolo di travedere, chi non direbbe aver lui trovato l'ossa abbondare di fuoco, perchè abbondan di fosforo? Ma che che ne sia, non v'ha dubbio, aver lui dato principio con sì fatte analisi a un novello rano di chimica · Ramo, che dopo Empedocle fu del tutto posto in non cale: ma che oggi, attesa la sua grand' utiltà con ardor si coltiva, e che va sempre più smisuratamente crescendo sotto il nome di chimica de corpi organizzati: Erasistrato, Herofilo, Serapione fu ron tra ' Greci, che s ' applicarono con som mo studio all' Anatomia. Ma innanzi a co storo, vinti gli errori della religione e de' tempi, aveano cominciato a coltivarla De mocrito in Abdera, ed Empedocle in Ger genti. Descrive quest'ultimo la spina del dorso, e tienla, come di fatto è, non ' altri menti che la carena del corpo umano (66 ). Distingue egli di più inspirazione da espi razione mostra i canali per cui si re r 83 spira dalle narici (67 ). Ricerca egli inti ne l'organo del sentire, e trapassando il neato uditorio, discopre quella parte dell' udito, che attesa la sua forma torta e spi rale, chiamò egli allora, e chiamasi anco ra la chiocciola (68 ). Questo è il poco a vanzo delle sue cognizioni anatomiche, che per sorte sono arrivate sino a noi. Ma que sto stesso poco mostra il suo gran sapere in questa scienza. Un gran pezzo di capi tello o di bảse', il rottape d ' una colon na, o pilastro, bastan sovente a indicar e la magnificenza di un edificio, e la perizia di un architetto. La sola scoverta della chiocciola dimostra assai meglio, che non fecero ' gli antichi scrittori', essersi il nostro filosofo molto avanzato nelle cose anatomi che. Questa situata in luogo riposto dell' udito non si potea discoprir certamente se non da chi fosse stato molto prima versa - to e perito nelle materie anatomiche. M eno scarse son le notizie delle fun. zioni della vita e de' sensi dell’ Uomo: e che per fortuna ci restano della fisiologia d'Empedocle. 1 84:; Il sangue umano, come ciascun sa, sempre alto, e sempre allo stesso modo co stanțe mantiene il calore. Ippocrate pien di maraviglia l'attribuì a cagione sovrana turale e divina. Empedocle all'opposto eb be il calore, come cosa ingenita e conna turale al sangue medesimo. In cid a lui s'accostarono ne' tempi d'appresso Aristoti le, Galeno, e tanti altri, Ma egli fu il primo, che a formare un sistema, trasse dal calore del sangue, come da prima ca gione, una spiegazione non già vera, ma certo artificiosa, delle funzioni della vita. Le regolate, pulsazioni delle arterie a véano gia indicato al nostro filosofo, che il muove nelle vene. Ma igno ta era a lui ', come ignota fu all'antichi tà,, la circolazione del sangue. Però in ve ce di questa suppose egli in quel fluido un movimento d'oscillazione. Il sangue, ei dicea, occupa parte, e non tutta la ca vità delle vene, e in queste va quello giul $ u continuatamente oscillando (69). La for: che lo stesso agita, era secondo lui il sangue si za 85 calore:. e questo essendo ingenito al san. gue costante ne mantiene e l'oscillazione e il moto. A tal movimento legò il nostro filoso fo la respirazione, altra operazion della vi ta. Quando il sangue, ei dicea, va giù verso il fondo de' vasi, l'aria tosto s ' insi nua ne' sottili prominenti meati delle vene, ed entrando occupa quel vano, che nell' andare si lascia in queste da quello. Ne perciò egli aggiungea l' aria quivị restarsi: perchè il sangue, secondo Empedocle, spin to dal calore, e su tornando, preme dolce mente quella, e fuori la caccia col suo ri tornare (70). Accade, seguiva egli a dire, ciò che nella clessidra si osserva (71 ).." Ivi l' aria respinge l'acqua, o da questa quella è re spinta. Non altrimenti nella respirazione l' aria esce o entra secondo che il sangue si porta o giù o su nelle vene. Però all'an dare o venire del sangue risponde alter nando il venire o andare dell'aria. Ques sta forma, entrando, l ' inspirazione; ilscen. 86. do 'l' espirazione e nell’unal e nell' altra è riposto giusta il suo sistema il respirare d'ognuno. L'aria, che nella respirazione esce ed entra nelle vene toglie al sangue a giu dizio d'Empedocle una porzion di calore. Ciò indusse gli antichi medici, che abbrac ciarono tal sua opinjone, a curar coll'aria fresca e matutina i ' morbi d'eccesivo 'calo re. Il respirar dunque cagionava secondo il nostro filosofo diminuzion di calore. Da ciò anch'egli iuferiva la necessità, che strin. ge gli animali a dormire. Il sonno in fat ti egli diceva; null' altro essere, che dimi nuzion di calore. (72 ). In quella parte quindi di fisiologia d ' Empedocle che riguarda le funzioni vitali, il sonno vien dal respirare, e questo dall' oscillazione del sangue. Sicchè sonno, spirazion, movimento di sangue tra lor son connessi, e tutti quanti a un tempo dal calore provengono. Nel calore in somma e' pose la cagione di vita e di moto. La morte (73 ), egli dicea, è privazion di ca re 87 lore però riguardava sonno come.egli il principio di morte. Giacchè questa, a suo credere, è privazione, e quello diminu zion di calore. Tali principj di medicina, ch'eran teorici, guidavano lui eziandio nel la pratica. A quel piccol' calore., da noi già osservato, che ritenea la donna Ger gentina caduta in asfissia (24) conobbe Empedocle, ch'ella era ancor capace dell' aiuto della medicina. Tanto egli è vero, che la sua pratica era alla sua teorica con corde, e questa per l'andamento naturale del suo spirito era legata tutta e formava un sistema. Ecco in qual povero stato erano allo ra l' anatomia, e la fisiologia, la fisica in breve del corpo umano. Nuda era questa di fatti, e piena d'errori, e d'ipotesi. Ma tale è la condizione delle fisiche discipline: Nascono esse imbecilli, a stento s'accresco no, e vanno non di rado alla verità per la via degli errori. A chi allor poteva vee nire in mente, che l'aria nel respirare' in luogo di toglier calore, ñe porga al san 88 ana? gue e ne porga gran copia? Come potea Empedocle anticipar specolando in que di tante yerità, che suppongono la cognizion di tante altre, e d'un immenso numero di fatti, che allora ignoravansi? Segnd e gli quindi, non v'ha alcun dubbio, po che e imperfette linee di chimica, d' tomia; di fisiologia del corpo umano. Ma tali schizzi, avvegnachè informi, ma co me primi, e originali, son titoli degnissimi di sua gloria, e gli concedono un sublime posto d'onore nella storia delle scienze. Appartiene a nobilissimi ingegni (i quali sono ben pochi ), di mostrare almen da lon tano quelle scienze, ch'al dir di Bacone son da supplirsi, e che del tutto s'igno rano. Empedocle fece ancor di più. Dino to egli la chiniica del corpo umano, analiz zando gli ossi e la carne; accennò l'ana tomia discoprendo la chiocciola; indicò la fisiologia legando al calore, come a un sol fatto, le principali funzioni della vita. Su periore e' quindi al suo secolo non avrebbe certamente lasciato ad altri la gloria d' ac 8 89 crescere queste utili scienze. Ma nol poté, come chi privo fu di stromenti, e di tut. ti que' mezzi non solo opportuni ma ancor necessari a ridurre in effetto i nuovi e và. sti disegni, che a ora a ora a lui sugge riva il suo genio, Ma se non ebbe Empe docle la fortuna di accrescerlo tutte, ebbe quella di stabilir meglio la fisiologia e get tare lui il primo le basi di quell' altra parto d' essa, che riguarda i sensi dell' uomo, Andavano i Corpuscolisti indagando 80 pra d'ogn'altro nella lor fisiologia come i nostri organi avessero potuto sentir gli oga getti che, son fuori di noi. Credevan co storo tutti i corpi venire in ogn’ istante in alterazione, cangiare, ed esalare particel le sottili, e invisibili. Eran queste, sécon do loro, trasportate dall'aria, dall' acqua, dal fuoco su nostri organi, e ivi adatta te eccitavan le sensazioni di que'corpi, da quali esse spiccavansi. Piacque quindi a costoro le sensazioni null' altro essere, che impressioni eccitate negli organi da particel m go le, che si parton dagli oggetti, di cui quel le son, come quasi le immagini. Empedocle intanto non dissenti mica da loro. Ma il suo spirito, come quello che non erane certo, non se ne mostrava del tutto convinto. Messosi costui quindi a esaminare i sensi a uno a uno, adatto a ciascun di loro la sua propia e particolare spiegazione. Fece egli così un'analisi de' sensi e sensazioni più profonda, che sin ' al lora non s'era punto fatta d'alcuno. Ma quel ch'è più aperto egli dimostrò non es ser lui punto ne' suoi pensamenti nè se. guace, nè schiavo delle comuni e dominan ti opinioni. Giacchè egli nel chiarir questo o quel senso ora abbandona i corpuscoli, or recali innanzi, o ora aggiunge agli stes si qualche nuovo argomento. Trattando Empedocle dell' odorato, e del gusto non altro mette in opera, ch'e salazioni, e corpuscoli. Questi, agli dice, trasportati dall'aria s ' acconciano a ' pori del naso, e muovono il sentir dell' odorato. I cani, ei soggiunge, cosi e non altrimenti 91 indagan futando l'orme della fiera, Che se il catarro, dice egli di più, irrigidisce le narici; allora i pori di questo tosto s ' alterano, si respira a stento, e l'odor non si sente (75 ). Tratta egli appresso dell'udito, e la sciati e pori, e corpuscoli, piglia dall'ana tomia il suo nuovo argomento. L'udito, ei dice, nasce dalla battitura dell' aria nel la parte dell'orecchia, la quale a guisa di chiocciola è torta in giro, stando essa so spesa dentro, e come un sonaglio percossa. L'anatomia, ch'era allor grossolana piccol conforto a lui porse nel dichiarare la vista. Conobbe Empedocle un de' tre umori, ch'è l' aqueo, e qualche membra na, senza più, di quelle, che coprono il globo visivo. Però sfornito dell' ajuto dell' anatomia era egli dubbio e incerto. Em pedocle nondimeno giunse a comprendere dover la luce avere gran parte nella visio ne degli occhi. Ma come, e perchè, per quanto si fosse ei travagliato, nol potè af fatto conoscere. 1 m 2 92 Suppone il nostro filosofo entro dell' occhio, non che, acqua, ma luce, che chia ma fuoco nativo. L'una, e l'altra a suo credere, ivi stanno in tal quantità, che per lo più sono ineguali. Così egli distingue gli occhi azzurri da' neri. Iprimi egli af ferma abbondar di fuoco, scarseggiare d ' acqua; là dove i secondi esser poveri di fuoco s ricchissimi d’aequa (76). Però ei soggiunge gli uni mal veggon di notte per difetto di acqua; e gli altri veggon male di giorno per iscarsezza di fuoco (77). Ma sía o poca, ó molta la luce che stanzia nell'occhio, ei la riguarda qual lu me dentro una lanterna. Lo splendore del lume, ei dice., fuori della lanterna si span de, e nella notte ci guida. Così i raggi di luce fuori dell' occhio si spargono,.e ci di mostran gli oggetti. Empedocle talora aga giunge a raggi della luce i corpuscoli. I raggi secondo lui, che dall'occhio si lancia no, prima s' imbattono nelle particelle, che si spiccan da corpi. Poi raggi e corpusco li si congiungono giusta il medesimo: e 93 insiene congiunti si portano all'occhio, e muovono il senso visivo (78). Aristotile disapprova tali pensamenti d'Empedocle. La visione degli ocohi, egli dice, è da riſerirsi solamente all'acqua, e niente al fuoco (79 ). Nella storia dello spirito umano accade sovente, che un er rore un altro ne " caccia, e ' l falso al falso di mano in mano succeda. Aristotile oltrº a ciò rimprovera il nostro filosofo, che dub. bio egli e incerto abbia, fatto cagion del vedere ora i raggi uniti a' corpuscoli, e.o ra i soli corpuscoli (80). Ma in ciò sem bra Aristotile a torto riprendere Empedocle. Non sapea persuadersi il nostro Gergen tino, che totalmente passiva fosse la se de del senso visivo. Non potea egli inol tre comprendere, che niuna parte avesse la luce nel gran magistero del nostro vedere. Incerto restò quindi di se, di sue idee, e delle spiegazioni volgari; ma tale incertez. za o quanto onore a lui reca ! Dubitar del le opinioni, che son false, e in voga, è il primo ma più difficil passo, che si può fare verso del vero. 94 La fisiologia, che va a di nostri spa ziando per tutte le scienze, comunica ezian. dio colla metafisica e colla morale. Quest' unione, ch'è il frutto naturale dell'avan zamento delle scienze, fu dirò così presen tita dal nostro Gergentino. E di fatto sul la sodissima base della fisiologia cercò egli stabilire si l'una, che l' altra. Da che Pittagora, e Parmenide ab bandonarono i priini la testimonianza de' sensi, come ingannevole, i Greci tenzona chi contro la ragione, chi contro i sensi. Questi, è quella vennero quindi in discredito: 6 sorsero intanto i sofisti, e gli scettici. Socrate, Ippocrate', e altri di si mil sorte tentaron conciliar la ragione co ' sensi. Ma vani furono i loro sforzi. Duro la gran lite durante la Greca filosofia. La stessa rinacque al rinascer tra noi delle scienze. Di nuovo si pugnò allor quando contro i sensi, quando contro la ragione; e di nuovo si giunse allo scetticismo. Ma nggi simili dispute sono già state bandite da noi; e si terran lontane, finchè lo studio rono, 95 delle fisiche, e delle Matematiche avrà in Europa stato, e onore. Ne' tempi d'Empedocle la scuola d ' Eléa orgogliosa facea ogni sforzo ad atter rare i sensi, e a inalzar la ragione. Cid ch'è, dicevan gli Eleatici, è unico, eter no, immutabile. E come i sensi ci mostra no il multiplo, il mortale, il mutabile; co sì essi c' ingannano. Però conchiudean co storo la ragione poter sola conoscere cid, che è, ed essa solamente decidere della realtà delle cose. Contro i medesimi entrarono in lizza i corpuscolisti. Questi disdegnando lo sotti. gliezze di quella scuola, fisici com'erano, difesero i sensi, senza annullar la ragione. Anagsagora con sottile avvedimento distinse le particelle simili da ' loro composti; Demo crito gli atomi da' loro aggregati: ed Enia pedocle gli elementi dalle lor combinazioni. Particelle simili, atomi, elementi, dicean costoro, sono eterni, immutabili. Non son tali le combinazioni, gli aggregati, i com posti, che mancano, e cangiano. Questi 96 si conoscon da’sēnsi, quelli dalla ragione. Eglino quindi tolsero ogni contrasto tra' sen si, e ragione: assegnando a questa, e a quelli due provincie del tutto separate, e distinte. I corpi, come composti, operano a senno d'Empedocle, e di Democrito su i nostri organi, che sono del pari composti. Eccitano quelli le nostre sensazioni; ma queste a parer d' entrambi non son tali, che i corpi, La'scuola di Jonia avea tal mente confuso le sensazioni cogli oggetti, che scambiava questi con quelle, e tenea le" une, non altrimenti, che immagini fe delissime degli altri. Non così pensarono i Corpuscolisti. Questi separarono, dirò co si, le sensazioni dagli oggetti, che le ca gionano; è muovono, ed ebbero quelle, come soli, e semplici modi, quali di fatto sono, del nostro sentire. Il bianco o il ne ro, il caldo o il freddo, l'amaro o il dol ce esistono, diceano essi, ne' nostri organi, nelle nostre sensazioni, e non già negli ogo getti. Costoro quindi solean chiamare co 1 97 1. eglia gnizioni, di apparenza, e di opinione, e non gia di verità, e di realtà quelle, che si traggon da' sensi. Ma non perciò credea Empedocle, co me alcuni vogliono, le nostre sensazioni es sere immaginarie. Cangiano queste, vero, secondo che a lui piaeque, come can gia lo stato de' corpi, o come s’ înmuta la disposizione degli organi. Ma vero, e reale è altresì il sentimento, che si desta da' cor pi. Tal' è della sua dottrina, al pari di quella di Newton intorno a colori. Vege giamo ne' corpi o rosso, o giallo. Ma ne i raggi di luce, che percuoton l'occhio, sono o rossi o gialli; ne' rossi ne' gialli so no i corpi, che que' raggi colorano. Il ros ò il giallo è in somma nell'occhio, e nell'impressione, che in esso fanno i rag gi di luce: Così a creder d'Empedocle le sensazioni sono reali. Ma le medesime non rappresentan mai le qualità, che ne' corpi appariscono; null'altro essendo, che altret tanti modi del nostro sentire, Diversa da quella de sensi, credeano SO, n 98. E 1. i corpuscolisti, esser la via, con cui s'ac quista da noi la conoscenza degli elemen ti, o degli atomi. Questi non si poteano secondo loro, come semplici, conoscer da' sensi, che sono composti. Ogni simile, era antico assioma, non si può conoscere, non col suo simile. Però Democrito ed Empedocle, tolta a' sensi la cognizione de' sempliei, la riservarono all'anima. Per questo l'anima, giusta Democrito, era for mata d'atomi; e secondo Empedocle degli elementi, ma uniti alle due forze di amo. re, e di odio. Colla terra, dicea il Ger gentino, veggiamo la terra, r acqua coll' acqua, l ' aria coll' dria, il fuoco col fuo co; e coll' odio e l'amore altresì l' odio, e l'amore: Empedocle portava, dove potea, l'oc chio alla fisica costruzione del corpo uma mo, e dava alle sue opinioni una veduta anatomica. Credetto ei di veder nel cuo. re umano un centro, diciam così, di siste ma; e ivi egli pose la sede dell'anima. Ma come Empedocle in tutto, e sempre 99 era concorde a sestesso, cosi loco quella particolarmente nel sangue, che asperger e bagna il cuore dell' uomo (81 ). Perchè ripostosi da lui il principio e di moto, e di vita nel calore del sangue, li ancor e gli dovea ripor l’anima; Era questa dota ta, a suo credere, di sentimento al pari de' sensi. Ma ambidue ricevevano le loro impressioni: l'anima dagli elementi i sen si dalle combinazioni. L' una acquistava la cognizione delle cose eterne, e immutabili, e gli altri la notizia delle mortali, e mu tabili. I corpi esterni in somma oporavan sulla macchina dell' uomo in due modi di versi: come elementi sull'anima, come com binazioni su i sensi: e quella & questi e ran passivi. Nacque da ciò, che Protagora, lo scoo ' lar di Democrito, portð opinione: l'intel letto altro non esser che la facoltà di sen è nelle sensazioni stare ogni cogni zione, e scienza: Per questo Crizia, qua si accostandosi al nostro filosofo, affermo, pensare esser lo stesso che il sentire tire, e 1 ni 2.' 100 anima stanziarsi nel sangue. Ma Empedo. çle non si fermè quì al par di costoro: passò molto innanzi. A parte dell' anima, che conosce gli elementi, un altra ne sup pose egli entro noi, che è destinata a ver sarsi nella contemplazion delle cose intellet. tuali e divine. Iddio secondo lui, non è una combi nazione a guisa de corpi; ne un unità ma teriale cone son gli elementi. Dio, egli dice, non ha forma nè membra umane; non si può veder cogli occhi, nè toccar col. le mani. Iddio è santa mente, Costui non si può render colle parole, e muove l'uni verso co' suoi veloci pensieri. Iddio in sostan za per lus è mente, e la sua vita è il pensare. Così il nostro filosofo abbandona va la compagnia di Domocrito, e le cose materiali: per tornare a Pittagora, e alle cose, intellettuali. ins. L'anima dunque, destinata da Em. pedocle a conoscer cose spirituali, e divine, dovea essere, e fu per lui altresì senza dubbio spirituale, e divina. Questa proce. 101 dea, secondo che dicevano Empedocle, e i Pittagorici, da Dio, ed era particella del la sostanza divina. Se ne appresentavano essi la ġenerazione sotto varie immagini: or di fiaccola, che tante altre ne accende; or d'idea che tante altre no genera; or di parola, che trasmette à chi ascolta, la ragion di chi parla: o di cose simili, che sarebbe lungo il ridirle: Però paghi que' filosofi di esse agevolmente popolarono il mondo d' innumerabili spiriti, che tutti e. ran partecipi della natura divina. Di questa classe prese dirò così il nos,. stro filosofo le anime spirituali. Le due a: nime, quindi annesse da lui nel corpo dell' uomo forman la primaria base di sua me tafisica dottriną. Una egli sostenne essero immateriale, materiale l' altra, ' quella ese sere immortale ed eterna, e questa mori re insieme col corpo: la primą versarsi in contemplazion di cose intellettuali, e astrat te; e la seconda in cognizione di elemen ti, e di due forze odio, e amore.. Ma non mancherà çerto, cui si fatta 102 opinion di dire anime in ciascun corpo di o gn' uomo semibri del tutto strana, e inde gna della gravità d'un filosofo: Ma chi al tresì avea ' manifestato allora, é chi fin' og. gi ci ha detto cose più vere, o più sapien. ti sull' union dell'anima col corpo, e sul reciproco loro influsso, e commercio? Chi presi di boria, annullato lo spirito, tutto riducono a macchina. Protagora volea, che giudicare, e ragionare fosse la stessa facol. tà del sentire. Ma questa è un'empietà; una mattezza. Tal la dimostrano l' unità del pensiero, e l'attività del ragionare dell' uomo. Taglián costoro, come suol dirsi, non isciolgono il nodo. Chi presi d' entusias mo, annullato dirò così il sistema organi co, tutto l' uomo riducono a spirito. Stahl volea, che l'anima sola operava tutte quan te le funzioni del corpo. Ma questa è u• na falsità, e una follia. Talla dimostra: no i movimenti involontarj, e organici. Vo glion costoro, como suol dirsi, occultare il sol colla rete. Chi poco più 'ragionevoli, pigliata una via di mozzo, vollero.combi. 103 nare ambidue le forze dell'anima, e del corpo. Leibnitz volea un'armonia prestabi lita, cui mercè lo spirito segua ne' pensie ri, voleri i moti del corpo, cui quegli è congiunto: Ma questa è una ciancia, è una fola più complicata della cosa stessa, che si vuole spiegare.. Lo spirito umano in somma ha immaginato tante ipotesi su ciò, tanto più, o meno bizzarre, quanto più o meno son le. teste scaldate di tutti filosofi. Nè vi è inoltre mai stata ipotesi, che tosto non sia stata accolta, e non ab hia avuto assai partigiani: tanto vale quel la specie di prestigio, che la novità ope ra sull’intendimento dell'uomo ! Qual ma raviglia dunque, ch’ Empedocle abbia sup posto in ogni corpo due anime? Non fu egli certo nè tanto delirante, quanto Pro tagora, tutto macchina; nè tanto immagi nario quanto Ştahl, tutto spirito; nè cost fantastico qual Leibnitz tutto armonia pri initiva. Dichiarò egli a. rincontro della falsa dottrina di Protagora, che le idee spirituali non procedono dal sentire. Svi 104 luppò anzi tempo contro Stahl le funzioni de' nostri organi, e quelle della vita con fisiologiche ipotesi non di rado fondate sull' anatomia.. Prevenne Empedocle alla fine l' erroneo sisteina di Leibnitz, e i sensi, dis se, e le sensazioni esser capaci di eccitar nell'anima la ricordanza di ciò, che prinia el!a sa, e poscia., atteso il contatto colla materia, la stessa del tutto dimentica. Non è quindi Empedocle colla ipotesi delle due anime o men ragionevole, o più strano di tutti i filosofanti, che sono stati finora. E ' da confessare che il problema intorno alla reciproca azion dell'anima sul corpo forse appartenga alla classe di quelli, che vincono qualunque intendimento dell' uo-. mo. Però non si sono recate da noi, ne' si recheran per lo innanzi, che ipotesi, e sogni, che il tempo, il quale suol confer mare i soli, e veri giudizi della natura andrà a mano a mano struggendo. Non è già, che queste due anime', che noi leggiamo presso molti degli antichi, e sopra ogn'altro' de' Pittagorici, sieno da 105 na, prendersi secondo la lettera. Intendean co storo distinguere il sensibile e l'intellettuale: due maniere di facoltà, che sono entro l' uomo. Ma adombrarono essi, come ' era u sanza d'allora, sotto vive impagini quelle facoltà, o, diciam cosi, fecero le medesime divenire persona. Empedocle di fatto secon do la testimonianza di Sesto Empirico d ' ambidue quelle facoltà compose la sola ra. gione. Questa, egli dice; è in parte uma in parte divina, e porta il nome di retta ragione (82 ). Perchè questa corrego ge gli errori de'sensi, e può sola discer nere il vero dal falso. Tanto egli è vero che le due anime d'Empedocle, non rape presentavano, che la facoltà sensibile e la facoltà intellettuale, e ambidue faceano u. na cosa sola. Chi potrà or tolerare Empedocle cole locato tra la classe de' filosofi scettici (83). Egli non mai affermd essere inutile, o va« na la testimonianza de' sensi. Apzi i sensi, egli disse, mostrarci i rapporti, che han. no i corpi, e tra loro, e coll' individuo d'. 106 ognuno. I sensi, egli disse del pari, sve. gliare nelle intellettuali facoltà le idee spi rituali, e, astratte. Al più al più diffida va Empedocle de' giudizi de' sensi, che so vente sogliono esser fallaci, o ingannevoli. Però egli volle, che i medesimi fossero sta. ti guidati unicamente dalla retta ragione. Questa potea solo a sentimento di lui discer nére il falso dal vero. Forse, dicea ai suoi tempi Cicerone parlando d'Empedocle, costui ci acceca, e ci priva de' sensi; allor quan do egli crede, che non fosse in essi gran forza per giudicar di cose, che sieno sot toposte agli stessi (84)? Par, egli è vero, Empedocle degli e lementi trattando, quali esseri semplici, ga gliardamente scatenarsi contro de'sensi. Par lui scatenarsi altresi contro gli stessi, allor ehé, dirizzandosi al suo amico Pausania, e con lui trattando dell'amore e dell' odio, ambidue forze immutabili, gli avverte a non fidarsi.de' sensi, e a guardar le cose non già cogli occhi del corpo, ma con que' della mente. Pare eziandio finalmente, giue 107 sta cid, che., Cicerone ine dice, lui andare in furia, contro i medesimi gridando: niuna cosa poter noi nè veder, nè sentir, ne.co noscere (85 ): Ma altri, che questi 'argomenti ci vo gliono a definire come scettico il nostro fi losofo. Chi è intento a esperienze e ad a nalisi; chi cerca con somina cura de' fat ti; chi da questi tenta d'investigare l'ope razioni della natura sotto la guida dell' a nalogia: certamente non sa, nè può esse re scettico. I fisici potranno non prender cura di cose spirituali, e astratte; ma non mai l'esistenza negar di que' corpi, le cui propietà con ardore cercano, e la cui in dole con diligenza studiano. L' espres sioni quindi di quelle parole, non v'è dubbio ' dover valutarsi secondo e il pen sare, e il parlare di quella stagione. Si chiamava allora pero, e ciò che è; quel ch' è eterno, e immutabile, o sia quello, che sotto i sensi non cade: Però Empedo cle a ragione parlando di elementi, e di farze, come quelli, che sono eterni e im 0 2. 108 1 mutabili, rigettd affatto i sensi: @ niuna cosa noi, disse, mercè loro potere o ve dere, o sentire, o conoscere. Fra tanto, chi il crederebbe? che nel volersi definire il carattere, o la dottrina d'uno stesso soggetto, si passi anche da' gran filosofi da uno all' altro estremo del tutto contrario. Anche i grandi uomini tal. volta precipitano i loro giudizi, e nel pre: cipitarli ·traveggono. E' cosa da farci stor: dire il sapere, che la dove alcuni filosofi dichiaravano scettico Empedocle; altri all! opposto avessero lui materialista definito, Aristotile, e altri con lui tacciano di ma: terialismo il nostro Gergentino. Nel siste ma d'Empedocle il pensare, dico Aristoti le, lo stesso val che il sentire; ogni nostra cogaizione viene dalle sensazioni: e con que: ste quella s' accresce (86). Ma questo stesso è altresì una calunnia. Passivi sono, 4. senno d'Empedocle, i nostri sepsi; pas siva è parimenté una di quelle due ani me, ch'egli suppone materiale entro noi. Pero la nostra scienza, disse egli, accre. 109 scersi colle nostre sensazioni. Ma dall' una anima e dall'altra, dalle facoltà cioè sen. sibile, e intellettuale, si forma, come a lui piacque, quella ragiono, che noi già abbiamo osservato. Questa, secondo 'lui, pesa, compara, giudica: in breve ragiona. Due sono i principj, giusta gli avanzi di sua filosofia, cui mercè la ragione rettifica i giudizi de' sensi. Primo: il nulla viene unicamente dal nulla. Secondo: il simile si può solamente conoscer col simile. La ra gione quindi secondo lui, riferisce le sens sazioni a tali, e ad altri principj (se pur altri ne avesse ammesso costui ), o coll' ajuto di questi quella ci mostra il roro. @ il falso. Poteva, cio posto, tal essere lui, qual co lo dipinge Aristotile, un materia. lista? Chi ammette principi di conoscere; di giudicare, assoluti, non ricavati da' sen. si, eterni, immutabili non può affatto cre dere, che il pensare lo stesso sia che il sentire, nè punto può essere imputato co stui di materialismo. Non v'è uomo, quanto si voglia grana. de, che non abbia i suoi nei; e anche i gran genj sono soggetti sovente a censure. Si dice d’Empedocle in metafisica non essere stato lui originale. Convien forse ora smen tire tal voce? Nulla meno. Si bisogna esse re ingenuo; nè l'amor di colui, ehe si loda dee sì impaniarci, che ci debba far supera: re l'amore del.vero. Si confessi pure Em. pedocle, al par de' corpuscolisti, in metafi sica non essere stato mai originale. Empe docle qnal allievo de' pitta gorici, e degli e leatici non seppe abbandonar punto le idee da lui apprese in ambidue quelle scuole. La stessa venerazione egli ritenne, che ave van costoro verso i principj astratti, Si diparti egli sol da' medesimi (e co si avvicinossi alle scuole contrarie ' ) nel non aver lui rigettato del tutto la testimonian za de sensi. Egli in que' dì si sforzo di sedare colla sua nuova dottrina l'accesa pu gna di que', che litigavano chi contro del, la ragione, chi contro de' sensi. Combind egli, e mirabilmente congiunse i sensi cola la ragione, a questa, e a quelli assegno 111 - uffizj, e diritti separati e distinti: e sen za nulla scemare dalla realtà di nostre sen sazioni, gran forza, e autorità diede a prin. cipj generali; e astratti: Tutti i corpusco listi furono in quella stagione eziandio, chi più, chi meno concordi al nostro filosofo; e tutti egualmente in metafica tennero le parti di conciliatori tra i due partiti allor dominanti. Tal'è la natura dello spirito u mano. Fatica egli senza stancarsi, e riflet te anche sino al cavillo, quando è sospin to dall'ardor del partito, e dall' amor del sistema ! Ma poi stanco ei di meditare, o pugnare, cerca la quiete, e 'l riposo; e componendo insieme le opinioni contrarie si lusinga d'aver trovato gia il vero. Avven ne allora in somma ciò, che la storia filo sofica ci presenta a ogni passo. Sempre dall'urto. di due opposti sistemi n' è il ter zo spuntato, che li ha conciliato, giunto. Anzi quando molti in contrasto so no i sistemi; allora è appunto, che sorgon gli ecclettici, che scegliendo opinioni, or da un partigiano, orda un altro, tutti con accozzano i partiti tra loro, e li riducono & uno. Sarebbe tempo ora mai di volgerci dalla metafisica alla morale d'Empedocle. Ma portatesi assai più avanti da lui le sue ricerche, e le sue vedute sull'anima, di storna noi pure per ora d'imprender tal via. La fisica (abbiam noi osservato espo nendo la dottrina d’Empedocle ), essere stata quella scienza, in cui ei sopra ognº altro si distinse, e cui mercè alto ha so nato, e sonerà eternamente il nome di lui. Mà nello studio della natura quello, che più l'allettava, e cui principalmente egli intendeva, era la contemplazione de' corpi organizzati. Riferi egli da prima (sic. come abbiam noi pure os servato ), gli a. nimali a ' vegetabili, e da questi portando le sue specolazioni sull' uomo giunse sino alla metafisica. Dall' uomo poi tornò Em pedocle ad ambidue quegli oggetti quasi al le sue considerazioni primjere,e domesti che · Ando egli indagando, se i vegetabili fossero stati provveduti di gentimento, e se 113 gli animali e vegetabili fossero stati tutti due al par dell'uomo forniti di anima. Si fatta investigazione non fu punto difficile al nostro filosofo, come chi piglia va l'analogia per sua guida. I corpi non organizzati, egli dicea, nulla hañ di comu ne co' vegetabili; perd se quelli son privi di senso, questi all'incontro nę debbono esser partecipi. I vegetabili all'opposto, ei sogglungea, molto aver di comune cogli a nimali (87 ). Ambidue han tra loro comu. ni le primarie funzioni vitali: son dotati di sesso, si nutriscono, crescono, traspira ban gioventù, han yeochiezza, han no indozzamenti, malattie, sanità, nasco no, muojono. Però se gli animali son for niti di sentimento, anche i vegetabili in ciò debbono essere a quelli compagni. Fu quindi sua opinione essere gli alberi, 6 le piante capaci di tristezza, di gaudio, di voluttà, di dolore, di desiderio, di sde gno; e di ogn'altro animalesco appetito (88). Anzi spingendo egli più oltre la forza di sua analogia, posti eguali i fisici rapporti > P 114 1 tra l'uomo, e gli animali, e tra questi e i vegetabili, fu di parere, che l' avere un'anima materiale non fosse un privilegio sol conceduto all' umana natura, ma comu ne eziandio a tutti quanti i corpi organiz zati. Anima quindi, e sentimento egli die de, non che agli animali; ma anima e sentimento altresì a ' vegetabili, e a ogni sorte d'erbe, e di piante (89 ). Anima e sentimento diede Empedocle a ' vegetabili ! fiori che si rattristano; erbe che si adirano; pianto, che ' o si rallegra no o piangono ! Quanti, non che qual fan. tastico piglieranno il nostro filosofo, ma ne rideranno ancora al sentirlo? Ma non rideranno certo, chi più sag. gi e più istrutti, non ignorano punto, che anche i Democriti, gli Anassagori, i Pla toni abbracciaron si fatta sentenza (90 ). La quale non è già, che faccia a lui ono re, perchè, abbia in cið avuto e compagni, e seguaci così solenni filosofi. Ciò sarebbe un argomento d'autorità, che nulla, o po co conchiuderebbe in suo pro: perchè filo-, 115 sofi ' ancor di gran nome stan sottoposti a errori grossolani, e massicci. E' che la co sa non è in se stessa sì strana; come a pri ma vista apparisce. L'anima materiale da que' gran filosofi negli animali, e vegetabi li ammesza, in sostanza altro non era, che la fisica sensibilità de' moderni. Questa vole van costoro, che fosse ne' vegetabili tal qua le tra gli animali si trova: In virtù di que sta ', credevan gli stessi, i vegetabili al par degli animali ésser capaci d'amore, odio, e d'ogn' altro animalesco appetito. Empe docle in breve, e que gran filosofi ebbero e uomini, e bruti, e vegetabili come do tati di senso, e la fisica lor sensibilità chia marono anima. Chi adesso potrà dirittaa mente riprendere Empedocle? Di poi non vi sono a di nostri de ' fi siologisti famosi, che nelle piante trovano senso d' umido, di secco, di caldo, di fred do, di luce, di tenebre; perchè non po che di quelle chiudono o aprono i loro pe tali atteso il freddo o il caldo, il secco o l' umido, il lune o lo scuro? Non vi soa P 2 116 no del pari quelli, che veggon nelle pian. te, chi il senso del tatto, come nella sen sitiva; chi quel dell' amore, come nella valisneria, chi una specie di gusto nell'e. stremità d'ogni radice, cui mercè questa sceglio, e trae quella nutrizione, che si con. viene a ciascuna? Non son finalmente o Darwin e le Metherie, che van cercando, é credono d'aver già trovato ne' vegetabili e senso, o sensorio? Qual assurdo egli è dunque, se Empedocle, che ne' suoi con cetti abbracciava tutta la natura, abbia u. nito insieme tutti i corpi organizzati per via della fisica sensibilità, che credea essere a quelli comtine? La natura, non v'è dub bio, aver distinto, e separato il vegetabile dall' anirnale con differenze, e caratteri ben contrassegnati, e rivissimi. Ma l' estendere la sensibilità dagli animali sino alle piante è una idea grande, bella, e degna di un sommo filosofo. Non v'è, chi a prima vi sta non ne debba restar preso, e non bra mi trovar vera quella, che vera sin ora non è. 117 Ma comunque ciò sia, una cosa ' solit è verissima, Empedocle aver riguardato i corpi organici in un aspetto diverso di quel, che fece Pittagora, o i filosofi prima di lui. Costoro non ebbero nè pure in pen siero di considerar le piante, di bruti, come dotati di sentimento, e di anima, Empedocle fu il primo, almen tra pittagori ci, a pensare in tal modo. Egli fu, cho ebbe e uomini, e bruti, e piante, quali esseri congiunti tra loro dalla sensibilità, come quasi comune strettissimo vincolo, o che suppose in tutti un' anima materiala egualmente. Però egli fu anche il primo, che strinse l'uomo colle piante, o co ' brus ti ad alquanti sognati doveri, che nasco Ro da quella ideata parentela, con cui e gli legò quello con questi. Ecco ora come chiaro si vede su qual base vada a poggiar la morale d'Empedo cle. Sulla fisica fondo ei la sua, metafisia ca, e su quella fondd egli ancora gran parte di quest'altra scienza. Con si fatte vedute costui pubblico due gran poemi sul. Ii8 la natura il primo, e gulle purgazioni il secondo. In questo Empedocle stabilì la sua etiça; in quello la fisica: ma fece precede re il primo al secondo, come argomento pri mario della sua raffinata morale. La morale d'Empedocle fu in verità nel suo fondo la stessa di Pittagora. Pu re lni citano gli antichi scrittori, come chi. avesse alterato la prima antica dottrina di quel sommo filosofo, e i tempi di lui ad ditano come la seconda epoca del pittago ricisino. Ma ciò avvenne, perchè Empedo cle, aggiustata la morale di Pittagora a suo modo, e conforme al suo fisico pensa rė gi scostò al quanto dagl' insegnamenti di lui. La colpa degli spiriti; una diversa maniera di metémpsicosi: l'astinenza di qualche sorta di cibo, furono in tutto le gran novità, ch'egli introdusse nel corpo della morale di quello. Tra queste come principale, e primaria è da reputarsi l'o pinion della colpa degli spiriti. Non d ' al tra fonte, che da questa, qual prima ca. il.119 gione, il nostro filosofo fece dipendere la metempsicosi e le purificazioni, che sono i due çardini della morale pittagorica. Fu opinione d'Empedocle, che varj spiriti, mentre menavano yita beata, avesser pec: cato. Però a cagion di delitto, si credet te da lui, quelli, scacciati dal cielo, e pri vi degli onori divini, essere stati così astret ti ad espiare i lor falli. Esuli, erranti, ra minghi, egli diceva, vanno lungi dal cie lo per trenta mila anni, e pagan vagando il fio meritato del propio loro delitto. L' etere quindi, e' soggiungea, precipita gli spiriti nel mare, il mare sulla terra gli sbalza, la terra gli sospinge nell'aria, l ' aria sino all' etere gl' inalza. A quelli sų giù sospinti perciò, e quà e la circolando risospinti, oyunque era d'uopo in mare, in aria, in terra vivere in miseria e in lutto. Tali spiriti, secondo che piacque a costui, andavan successivamente informan do varj corpi, e questi appunto erano le infelici anime degli uomini. Queste quindi 120 ta stavano in pena delle lor colpe racchius e ne' corpi; i corpi eran le prigioni delle ani me, e la matempsicosi, di cui Empedocle formo il primo cardine di sua morale, giu ata il parer del medesimo, era una pena delle stesse, ch'aveano prima fallato. Di si fatta reità delle anime che ragion fa della metempsicosi, non si trova vestigio alcuno presso que' filosofi, che furono in nanti d ' Empedocle. Questa per la prima volta si legge ne' versi di lui. Ai suoi tem pi fu, che la medesima divenne comune, o volgare: e Platono dopo fu quello, che l' abbelli sopra ogn' altro. Pero da Empe docle comincia una nuova età del pittago ricismo; perchè da lui comincia l'opinione della fallenza delle anime, qual base e ra gione della trasmigrazion delle stesse. Egli è vero, la metempsicosi, comu ne a pittagorici, essere stata antichissima presso gli Egizi (91 ). Non si dubita ne anche aver costoro diviso in più periodi il tempo della trasmigrazion dalle anime, assegnato a ciascuno la durata di tre mila 121 anni. In ogni periodo, credeano i medesi mi ogni anima, informato prima solamen te il corpo di un uomo, andar poi tratto tratto passando non più ne' corpi d' altri uomini, ma di qualunque animale,. che abita o l' aria, o il mare, o la terra. E' vero altresì tal dottrina essere stata dall' Egitto portata da Pittagora presso de' Gre ci (92 ). Non si dubita nè pure i Greci filosofi coll' andar del tempo averla molto alterata. Altri restrinsero la metempsicosi ai soli corpi umani, altri pari agli Egizj ľ1°. estesero dagli uomini ai bruti. Vi fu pa. rimente, chi disse que periodi esseri tre, chi dieci, chi nove. Nè mancavan di quei, che ridussėro la durata d'ogni periodo da tre mila a soli mille anni. Empedocle fra tanto afferind il nume ro di que' periodi esser dieci, e la durata di ciascuno di tre mila anni. Ma l ' anime secondo lui migravano in ognuno di que' periodi in ogni sola volta nel corpo d'un uomo, e in tutto il resto a ' finire il cir colo di ciascun degli stessi, andavano mion 122 1 che ne' bruti, ma eziandio nelle piante. Fui fanciullo, dicea Empedocle, fui don zella, augello, albero, pesce. Chi è or, che non vegga esser questa un altra delle alterazioni recate da costui alla metempsi cosi di Pittagora, e degli Egiziani? Questi la voleano solamente negli uomini, o ne' bruti. Empedocle agli uomini, e a ' bruti aggiunse la trasmigrazione ancor nelle pian te (93 ): Ma non si creda mica, che tale ag giunta d'Empedocle alla dottrina della me tempsicosi di Pittagora, e degli Egiziani, fosse stata in lui l'opera del capriccio, o del caso. Sarebbe cid indegno di un nuo vo, ' e original pensatore. Chi si risovviene del fisico sistema del primo, conosce che si dovea far certamente quest' alterazione notabile alla metempsicosi del secondo, Gia si sa aver avuto Empedocle le piante, al par degli animali, dotate di sentimento, o d'anima materiale. Ma non così aveano pensato nè Pittagora, nè gli Egiziani. Pero quegli fece passar le anime e dagli uomi 1 123 ni, e da bruti alle piante, e questi cre dean, che le anime migrassero dagli uo mini nel corpo solamente de' bruti. Le a mirne in somma in forza del sistema d ' Em. pedocle, dovean circolare informando tutti que' corpi, che in qualunque maniera fos. sero stati organizzati. Ecco le due novità recate dal nostro filosofo alla morale di Pittagora, ma novi tà ben legate tra loro qual cagione ad ef fetto. Alla colpa delle anime aggiunse Em. pedocle la metempsicosi, come al delitto va compagna la pena. Ma quel ch'è più, a questa e a quella unite insieme andò egli pure legando la demonologia: articolo fon damentale della teologia de' pagani. i Vedea egli quasi ingeniti all' uomo i semi si della virtù, che del vizio. Allor si pensava lo spirito ' tendere naturalmente à cose spirituali ed eterne, e la materia al le materiali e caduche. Credette ei quin di i semi della virtù nascer nell' uomo dall' anima, e gli altri del vizio nascere in lui della materia. Ma l'anima, a suo pre q 2 12-1 dere, chiusa nel corpo, restava contamina. ta dalla materia, e. però era sospinta assai più verso il male, che il bene. Oimè, di cea egli, come è misero, come. è infelice il genere umano. A quali guai, a qua li pianti non è ei sottoposto Queste due tendenze dell'uonio al be: ne, e, al mal fare raffigurò Empedocle, giu. sta il costume di quell'età, sotto le imma gini di due opposti genj. Due, egli disse, sono i genj, che quali direttori delle azio ni degli uomini, accompagnano ciascun uo « mo in tutto il corso della vita d ' ognuno di loro. Buono è l'uno, l'altro è malva gio. Il primo guida, o conforta lui alla virtù; il secondo spinge e conduce il me desimo al vizio (94). Ma ambidue questi genj non indicavano, che questa stessa dop pia tendenza. Pure tutto il volgo allora venne nel credere, che ciascun uomo dal nascere al morire fosse' stato realmente as. sistito da un genio buono, e da un altro malvagio. Tanto egli è vero, che le im magini, sotto cui adombravano gli antichi 125 > filosofi le loro specolazioni, fossero state ca gioni di superstizione, e di errori. L'uomo non solo ha tendenze al be ne e al male, ma è capace altresì d' ope. rar l' uno, o l'altro. Quante virtù, e quanti vizi di fatto ei mette in pratica ! Ma questi stessi ebbe la bizzaria Empedoc cle di designare sotto la figura di genj. Singolari, non cho speciosi furono i nomi, con cui egli distinse i demoni, che rap presentavano i vizi, ' e le sfrenate passioni degli uomini, De nomi di Chtonia, d' He liope, d ' Asafia, di Nemerte, o di parec shi altri ne sjamo debitori a Plutarco (95). Singolari eziandio, non che speciosi, esser dovettero i nomi, con cui distinse lo stesso l'opposta classe di genj, che rappresenta vano le virtù, e le passioni imbrigliate de gli uomini, Mą il tempo, che rode ogni cosa, non ha fatto quelli pervenir sino a noi. Pure è sfuggita da sifatta ingiuria la nominazione, con cui Empedocle appel 10. le virtù, felice prodotto, delle regolate passioni. I pittagorici furono usi chiamare 126 il mondo spelonca, ed Empedocle, qual pittagorico, chiamò le virtù, e passioni virtuose ' potestà conducitrici delle anime: quasi giunte nel mondo, come in un an tro (96 ). Il popolo, che in ogni cosa vede portenti, e finge de' genj, accolse quasi revelazione venuta dal cielo, la de monologia del nostro filosofo. Gli antichi scrittori, pari al volgo, non compresero nè pure il vero intentimento di lui. Que sti però dipinsero Empedocle, come chi avesse popilato l'intero universo di demo nj, e attribuito a virtù de' genj ogni ope razion di natura. Ma questa stessa dottrina de' genj fu il fondamento della magia, e teurgia fa mosa d'Empeclocle. Questa, in que' tempi cra un metodo di purificar le anime col favore degli Dei benefici, che dovean con dir quelle all'unione con Dio. Gli Dei bendici non eran che virtù astratte deifi. cate da lui: è nella pratica delle sante o pere era riposto tutto il culto di quelli. Credea egli, non poter le anime ritornare 1 27 agli onori divini, da cui erat cadute, che coll' ajuto di quegli Dei, perchè credeva altreşi non potersi quelle inalzare a Dio, che coll' esercizio delle sante virtù. La teur gia in somma d'Empedocle fu un retto, e diritto nietodo di purificar le anime colle opere buone. Sembra cosa veramente incredibile che uomini abbandonati al debile filo della pro pia imbecille ragione, e privi di qualunque superior lume di rivelazione divina, avessero potuto architettare un piano di quasi per fetta morale. Non fu gia la metempsicosi quella, che giusta i pittagorici avesse po tuto purificar le anime. Questa non era purificazione e virtù, ma pena dovuta al. delitto. Questa non si poteva in alcuna an corchè menomisssima parte, o abbreviare, o alterare. Esser questa un decreto divis no, essere un santo giuramento si spaccia va a tutti da Empedocle. Ciascun anima avvegnachè virtuosa, e purissima (così és. si pensavano ) non potea unirsi a Dio, se non compiti i periodi, e il tempo tutto di esilin. 128 Le purificazioni altro cardine della mo rale d’Empedocle eran propiamente, secon do tutti i Pittagorici, le sule, che a poco a poco lavavan le anime, e toglievan loro in quel tempo, che informavano i corpi umani, ogni macchia, di cui le medesime potevano essere dalla materia bruttate. Pur gate poi le sozzure, e finiti i periodi tut ti del bando, allora era, che le anime già nette, secondo che allar si credeva, fos sero agli antichi onori tornate, e alla vita divina... I sagri riti poi, lo studio delle scien ze, la pratica della virtù erano i tre mo di di purificazione inventati all' uopo da que' sommi filosofi. Sembra à prima vista o superfluo o inutile essere stato il primo di questi mo di, e tutti gli augusti riti, e quelle ceri-, monie solenni, che si metteano in opera al lor da Teurgici. Ma si poteva scuotere, e infiammare altrimenti l'immaginazione de gli uomini, affinchè questa si fosse resa docile agl' insegnamenti della virtù? L'110 { 129 - mo materiale si solleva dal mondo materia le merce cose eziandio materiali. Le ceri. monie, ei riti sono i soli, che colle san. te immagini níuovono i sensi, e astraendo li dalle cose impure alle pure gli inalza no. I riti sono il verace linguaggio de sen si, che efficacemente parlando destano la fantasia. A questa è sol conceduto ' creare tra il mondo materiale l'altro spirituale: Disadatto pure si crederà forse essere stato lo studio delle scienze a purificar le anime. Ma non è egli questo, che aliena lo spirito: dai vizi, che l'introduce alle co se intelligibili; e che sveglia in lui le idee immateriali e celesti? Non è egli vero al tresì l'anima, esercitata nelle cose dell' in telletto, districarsi da' fantasmi del corpo, e. dalle false opinioni del volgo? Era certa mente un ridicolo sogno quello de pittago rici, che collo studio delle severe discipli ne fosse tornata alle nostr' anime la mé. moria delle cose divine. Ma certamente all' opposto è un dogma incontrastabile,. che tanto più la nostra mente si allontana dal r 130 > la materia e dagli appetiti carnali, quan to più la medesima s' aggira sulla contem. plazione o de' principj delle cose, o delle matematiche, o elogn'altra scienza. Ma in verità e uso di riti, e studio di scienze, e ogni qualunque altra cosa, che avessero potuto specolare gli antichi, sa rebbe lor tornata inutile, ne sarebbe mai giunta a purificar nè meno da lungi le a nime, se a tutto ciò non avessero costoro accoppiato del pari la pratica della virtù. Questo in fine dovea essere il bersaglio, cui dovean dirizzarsi que' grandi filosofi: o questo l'ultimo e principal metodo di pu rificazione. Non si può infatti ne pure ideare quanto studio avessero posto costoro ad astenersi da ogni ancorchè minimo fal lo. Tutti quanti (tranne il loro raffinato orgoglio, e la loro squisita 'boria e super bia ) furono del tutto.virtuosi. Di e nota te si recavan essi sopra se stessi, scrupo losamente ogni lor fatto esaminando, e c gni movimento del propio loro cuore. In estimabile era la diligenza, ch' essi adope 131 rzano a nettar d'ogni ruggine l'animo lo ro, e a far bene ogni cosa. Tutta la vita į medesimi spendevano in contemplare oggetti spirituali, e. in praticar virtù, e que pre cetti, che si leggono scritti ne' versi dorati. Si crederebbe quì finito il lavoro della loro morale, Pure come eglino avevano que sta diviso in due parti, così alla purifica zione aggiunsero altresì la perfezione (97 ). Non bastò a Pittagora l' essersi lusingato, che l'anima, mercè la prima si fosse e mondata da vizi, e separata dalla materia, e liberata quasi dal vincolo, che la ren deva prigione. Volle di più immaginarsi, che l' anima, mercè la seconda già prima purificata, si fosse poi inalzata a Dio, o ripigliati gli antichi abiti, e forma, si fos se confusa colla divinità medesima. Le ar nine in somma, che secondo Pittagora ed Empedocle, erano di loro natura divi ne, ma contaminate dalla colpa e mate ria ', dovean prima purificarsi, e poi sì per fezionarsi, che fossero state degne di tor nare a Dio, e agli onori primieri. Però l' 132 immacolato, e innocente viver d'Empedo cle obbligo lui a spacciarsi qual Dio, e a promettere ai puri, e perfetti la Divinità come premio. Sin quì Empedocle, e Pittagora furon d'accordo, e quegli fece uno con questo. L' essere stata comune l ' opinione tra loro nel principio, da cui la purificazione, e perfezione avesse avuto sua origine, non fece punto discrepar l'uno dall'altro, Cre deano ambidue le anime tutte degli uomi ni, e tutti gli spiriti altresì formare uni ca, e sola famiglia con Dio. Là poi, ove i sistemi loro non furon punto d'accordo si fatti filosofi furon del tutto discordi. Em. pedocle, altrimenti che Pittagora, riguardo uomini, bruti, piante come unica famiglia. Non è più quindi da far sorpresa, se si ve de ora entrare in iscena una terza novità d'Empedocle, come riforma alla moral di Pittagora. Se si vuol prestar fede ad Aristotile ad Aristosseno, e Teofrasto, Pittagora e i Pittagorici della prima età uccidevano, ec. 133 cettine i bovi destinati ai lavori, ogni sor ta d'animali, e tranne i loro cuori e ma trici ne mangiavan le carni: s ' astenevan solamente da' pesci. Empedocle all'incontro fu il primo che proibì affatto qualunque uso di carne; e riputò sacrilegio l'uccidere quale che si fosse animale. Non veggo, dicea egli, perchè alcuni animali debbano serbarsi in vita, e altri all'incontro si pog sano uccidere. Una è la legge per tutti, é questa è pubblica per tutta la terra. Vedeva costui in tutti gli esseri organiz zati, facendone un sol corpo morale, quasi unica é sola farniglia, Perd non sapeva egli scorgere differenza notabile tra uomini, e bruti. Smanioso egli quindi si scaglia con tro chi avesse sagrificato in que' tempi vit. time agli Dei, che' attesa la metempsicosi, potevano per lo più esser uomini sottom bra di bruti. Cessate, gridava Empedocle, o crudeli, di fare strage, e lordarvi di san gue: Pazzo il padre, che sotto altra sem. bianza scanna il propio figliuolo, e vane preghiere disperge all'aria e al vento. Stol i 134 ti non veggono, che divorando le fumanti sanguinose carni di animali le menbra pa. rimente divorano de' lor padri, figliuoli, o congiunti. Si riderebbe oggi la presente età del: la severità d'Empedocle, e si reputerà cer tamente stravagante la sua pietà verso i bruti. Ma ad altro, e più nobil fine ten devan le idee del nostro filosofo. L'uomo è in mezzo a' suoi simili, e l' amore è il principale anello, che dee le garlo cogli altri. L'amor verso i simili è il principale dovere di un uomo di società: e la pieta n'è la base. Ma questa non si potrà avere giammai, se non campeggia e dilatasi sopra tutti gli oggetti, che circon dano lui. Se l'uomo deve avere pietà ver 80 gli uomini, uop' è non che estenderla, mia cominciarla da' bruti. Qualor ' si eser-: citasse ferocia contro i medesimi, agevol mente il reo costume l'andrebbe portando ancor contro gli uomini. Anche tra noi, se non può recarsi a effetto sì fatta proibizio. ne di scannar gli animali, sempre egli 1 135 vero, che debbasi tener come parte di e ducazione gentile, quella d'insinuare ne gli animi ancor teneri de' giovani la pietà verso i bruti. Non son dunque da ripren, dersi, così tentoni, gli antichi filosofi per quegli insegnamenti, che oggi, mutate le usa nze, ci sembrano stolti. La proibizio. ne ch' Empedocle diede a' suoi scolari d ' uccidere gli animali, e cibarsene, ebbe in mira non sol di non essere crudeli, e feroci cogli altri; ma di dispor loro ad amarsi l ' un l'altro a vicenda, e nelle disgrazie scam. bievolmente aiutarsi. Egli non senza sotti le avvedimento si sforzò così in persona de? suoi compatriotti svegliare allora in tutta la generazione degli uomini quell'attitudine, che porta loro a prender parte nell' altrui traversie: attitudine, che di sua natura è debole, languida, spesso sopita, e quasi sempre soffogata, ed estinta. Però Empc docle a ingentilir gli animi umani, e rasla dolcire i costumi degli uomini, volle che questi non si avessero bruttato le mani del sangue, né avessero mangiato le carni de' 136 bruti. Chi è beniguo co ' bruti non può certo negare agli uoinini amore, pietà, cor tesia, frattellanza. Pittagora nulla conse guente a' suoi stabiliti principj della metem psicosi, trascurando quasi tutti gli anima li, ſecesi soltanto scrupolo, e proibi, che si fosse recata alcuna ingiuria alle piante, che non fossero state nocevoli. Ma Empe docle fece molto più, e' meglio assai di Pittagora. Egli dotate prima quelle di sen timento, proibi poi che si fosse fatto loro del male: ailinchè non si fossero avvezza ti gli uomini ad offendere esseri forniti di sensi e di organi. Fu in somma intendi mento di lui in tutte le maniere, quasi tirando tutte le linee a un centro, stabili re tra gli uomini fratellanza e amicizia Però fu, sollecito ei d ' ordinare, che oltre agli animali, si avesse avuto compassione sin anche alle stesse piante.. Sarebbe stata finalmente non che man. chevole, ma mulla la morale d'Empedocle, s' egli non avesse presentato o un premio, una pena agli osservanti, o violatori de' 737 ciò, precetti da lui stabiliti. La speranza del premio, e il timor della pena, interni po. tentissimi stimoli dell'animo umano, inco raggiano i buoni a operar la. virtù, spa ventano i mali a praticare il vizio. E' ben ragionevole quindi, ch ' Empe docle avesse pigliato una via come stabili re e premio', e pena, sì alla virtù, che al vizio: e il fece appunto combinando al par de pittagorici, colla dottrina della metempsicosi. Il tempo di tre mila anni di ciascuno de' dieci periodi di essa non era destinato da Empedocle a far cir colare sempre le anime da un corpo in un altro. Le anime in ogni giro di tre mila anni informavano secondo lui e vegetabili, e bruti. Di poi andavano esse in ultimo E luogo ad avvivare il corpo di un uomo. questo finalmente morto, passavan quelle ad abitare un luogo o di gaudio o di lutto secondochè le medesime avessero o bene, o male operato. Quivi doveano esse restare, finchè finito avessero il primo periodo di tre mila anni. Dovean le medesime torna. S 138 To appresso a cominciare il secondo di al tri tre mila anni, passando tratto tratto ne corpi: d' altri bruti, di altre piante, o finalmente di altri uomini. Così successiva mente doveano esse fare in tutto il corso degli interi dieci periodi: e cosi le medesi mo doveano essere o premiato, o punite in ciascuno di essi. Ma al finire di tutti i dieci circoli quelle anime, ch'eran tenaci ne' vizi, giusta Empedocle, bandite dal cie. lo, eran dannate in mezzo alle tenebre, e in un continuo lutto, o un eterno suppli zio. Le altre poi, che virtuose al compir di quo' circoli si fossero trovate belle e det. te secondo lui, si portavano all'etere puro, e collocate in mezzo alla luce, sedcano in vi a mensa coi forti Danai, in eterno go dimiento, nell' unione con Dio. Tutto ciò si raccoglie da ' versi d ' Empedocle. Così pur si pensava da' pittagorici di Sicilia; nè al trimenti si canto da Pindaro nelle sue odi dirette a Gerone, e Terone (98 ). Ecco tutto, il quadro compito della intera mora le d'Empedocle. 139 Egli è senz' alcun dubbio, essere stata questa assai raffinata, e, molto diversa da quella del volgo. E ' cosa da recar mara. viglia l'osservare, com ' essa in tempi assai caliginosi, fosse stata tanto bene architetta ta, cosi brillante, e del tutto diretta a ri. pulire il costume, a liberar l'uonio, quan to più s' avesse potuto dai vizi, e a nobi litar l'anima e la mente di lui. Cid nulla ostante ella ha eziandio i suoi gran difetti. L'essere stata la stessa riservata ai soli sapienti, e ai soli iniziati ne fu il principale. Quel sistema d'Etica, che non è fatto per tutti gli uomini, non può esser giusto, santo, verace. Tutti quan. ti gli uomini sono astretti agli stessi doveri, e a una sola virtù, Si può considerare, & gli è certo, la scuola pittagorica, qual.ce nobio, é i pittagorici quali religiosi dell' antica Grecia. Ma l'orgoglio guastava le loro azioni, rendea yane le loro fatiche, avvelenava ogni loro virtù. Pure è sem pre da reputarsi degno di lode il nostro filosofo, che osservantissimo de' precetti pit § 2 110 tagorici non ebbe difficoltà di manifestarli, e divolgarli nel suo poema delle parilica zioni per solo e semplice amore di onestà, e di virtù, Empedocle, tranne la super bia, radice infetta dell' operare d'ogni an tico filosofo, è da celebrarsi, come quel lo, che ornato di cortesia, amante degli uomini, e virtuoso, avesse aspirato sempre a perfezionar molto se stesso. Ma gli onori, che si rendono a' tra passati; le lodi, di cui s' onora la memo ria de gran genj, non possono nè recar loro diletto, che più non sono, nè tocca re il lor cenere, che affatto è privo di senso. Tutti i loro elogi, come quelli, che eccitano l'orgoglio e la vanità de' viventi, noi guardano e a noi son diretti. Siam noi, che dagli omaggi, che si tributano a quelli, prendiamo speranza di poter forse nieritare la stessa gloria, e acquistar la fa na stessa presso le generazioni avvenire. Del nome d'Empedocle fu una volta ne è oggi, e ne sarà sempre piena la ter,. La filosofia di lui fu tenuta assai in 141 pregio presso tutta l'antichità tra Greci e Latini (99). Quella occupa tal sublime posto di onore nella storia delle scienze, ch' Empedocle si può dir, che appartenga a tutte le più colte nazioni. La Sicilia fra tanto è la sola che a giusta ragione lui vanta: qual suo. Felice quel suolo, beato quel clima, cho dà il natale a' grandi uomini ! La memoria e la fama loro è un fecondissimo germe, che in ogni età ne desta l' emulazione, e ne riproduce il sapere. Tal dovrebbe essere a noi il dolce nome d'Empedocle, caro alla yirtù, caro alle lettere. Anatomia, fisiologia, chimica de cor pi organizzati possono lui chiamare padre inventore. L' essersi ridotta la materia a quattro elementi; l' essersi trovate due for ze in natura di repulsione, di affinità; 1" essersi intrapreso il metodo di fisiche espe. rienze, la terra n'è a lui debitrice. La scoperta della chiocciola; della successiva propagazion della luce; del peso e della molla dell' aria; del nutrirsi, del traspira* e 142 re, dell'essere ovipare le pianto al par de gli animali son cose tutte propie di lui. Divolgati appena sì fatti suoi ritrovamenti, tosto si rese celebre il suo nome in tutta la Grecia, ed egli uno de' concorrenti di venne tra Anassagora e Democrito, La gloria d'Empedocle, che in gran parte è ancor nostra, ci dee infiammare a battere lo stesso sentiero. La Sicilia è la stessa oggi, ch'era allora ai tempi d'Em pedocle. Ella in ogn'angolo, e in tutta quanta la sua superficie presenta a' nostri occhi oggetti sempre degni di nostre filoso fiche ricerche. Piante d'ogni sorte, acque d'ogni specie ', minerali d'ogni genere, e i più distinti volcani esistono nel nostro suolo. Il Fisico, il Chinico, il Botanico lo storico naturale trova ovunque ampia materia d'appagar le sue brame. E ' no stra somma vergogna il vedere oggi, che vengan tra noi gli stranieri a insegnare a noi le cose nostre. Si saran forse cam. biati il cielo, il clima, la terra, che un di furono ne' tempi de' nostri antichi filo 1 143 sofi? 0 pur saran venuti meno gli inge gni tra noi? Non sono eglino i Siciliani dotati ancora o d' acume nello specolare, e di prontezza nel riflettere, e di pre stezza nell' eseguire, che loro hanno in o gni tempo distinto? La Sicilia una volta e. mula della Grecia in ogni genere di colo tura non potrà anche a di ‘ nostri con correre e gareggiar nelle scienze colle più polite nazioni? Si pigli dunque orgoglio dell' aggiustata idea di nostra antica grandezza. Questo, scossa l'inerzia, ci sarà di stimo. lo ad una nuova carriera da imprendere. La fatica è l'unica via, che conduce al sa pere, e questa ci porta, certamente alla fama. Si desti quindi in ciascuno di noi la virtuosa imitazione d’Empedocle, e si co minci la grand'opera con ardore e franchez za. Un felice evento coronerà allora ogni nostro travaglio: la posterità ricorderà noi collo stesso onore, con cui pieni d'ammi razione noi ricordiamo Empedocle. Empedocle non che fu eccellente filo sofo: ma fu del pari profondo politico. Si 144 ciliani, non andate quà là ad apprender ta pini da questo e da quello ordini civili, e fogge di governo. Guardate i maestosi avanzi delle nostre antiche città;specchia. tevi su li nostri passati famosi legislatori; richiamate alla memoria i fatti chiarissimi, non che della nostra Greca Sicilia, ma del la vita d'Empedocle. Così tratto tratto di verrete atti a maneggiar le cose pubbliche, e ben presto vi sarà tra voi politica non cabala, libertà non licenza '. Empedocle, convinti un dì i nobili di Gergenti di peculato, atterrò ivi la lor si gnoria: Non è disdicevole quindi l'imma ginarcelo, ch'egli colla stessa voce gli ota timati così riprenda di nostra età. Finito è il tempo, in cui usurpata un ingiusta franchigia de' pubblici dazj, generosi offri vate al Re il denaro del popolo, a fine e di ottener da quello nuove insopportabi li prerogative, e di stringer questo vie più nuove insoffribili catene. Finito è il tempo in cui macchinando l'esenzion delle taglie, scaricavate gran parte del pubblico con 145 peso sulle città immediatamente al Re sotto poste a fine di disertar qrieste, e di rau nare schiavi in gran copia nelle terre a voi immediatamente soggette. Finito è il tem po, in cui voi assumendo la voce e qualità di nazione, che non avevate, minacciosi vi rivolgevate contro del trono per non paga re, e taglieggiare il popolo ogni tre anni. Già il Principe si è congiunto col popolo. ' Gia la voce del Re, ch'è quella dell'ins tera nazione, è divenuta oggi più imperio, sa insieme e sicura. Essa ha già rivelato il grande arcano del vostro tirannico impe ro essere stato riposto nell'aver voi voluto fin'ora poco o nulla soffrire de’ dazj, e far li tutti a carico andare della povera gen te. Chi di voi potrà or tolerare con ani mo tranquillo tra vecchi debitori dello sta to non altri nonni leggersi che i vostri, e de' vostri antenati? Chi sarà tanto scelleras to, che rivelando il falso, voglia occulta re l'immensa estensione de' suoi ricchi fon di; affinchè a danno del meschino e del povero, pagasse egli quanto meno si possa 2 t 140 Chi sarà cosi ribaldo, che voglia sgravar d ' imposta la terra, unica e sola sorgente di ricchezza in Sicilia, per istrappare con mano rapace qualche misero tozzo dalla bocca faa melica dello stanco e affannato agricoltore? Şe cið han fatto i vostri maggiori, sono essi stati i più tristi nemici, anzi i più crudeli tiranni dell' infelice Sicilia. Si appartiene ora a voi lavar le macchie di quelli, e onorar voi stessi, contribuendo alla pubblica feli cità col pagarsi prontamente da voi a pro porzione della vostra opulenza, Ma Empedocle dovrebbero avere ezian dio qual modello non che i nobili, chi presi del fantasma di democrazia vo lessero condurre a sfrenatezza la plebe. Quante altre cose possiamo noi idearci a ver potuto lui dire, a costoro ! Egli poten do in Gergenti stabilire un governo collo cato tutto nella potestà del popolo, af fatto nol volle. A' popolari uni costui gli ottimati in quella città; e teniperò così gli uni cogli altri. L'equilibrio de' poteri, con cui s'amministrano le cose pubbliche, è la ma 147 solida base, su cui dee riposare, volendo si e florido e durevole, il presente gover no. L'equilibrio morale, non altrimenti che il fisico, viene da contrarietà ed egua glianza di forze. Il popolo ' non deve mai essere. -oppresso, ma all'incontro non dee ne pure essere costui un oppressore. Se la sua forza sbilancia, lo stato andrà tutto a soqquadro, e ruinerà senza meno. La ven detta piglierà allora il nome di forza, di senno il delirio, di libertà la licenza. I poteri legislativo, giudiziario, esecutivo si debbono a vicenda venerazione e rispetto; tutti debbono riunirsi, e cospirare a un sol centro: e se per caso ne sia uno avvalla dee tosto corrersi con mano presta a rialzarlo. Quanto è difficile mantenere og gi in Sicilia un sl fatto equilibrio ! Appe na vi basterebbe un Empedocle. Egli ad assodar vie più la novella for ma di governo stabilita da lui nella sua patria, ebbe in fin l' accorgimento di pian. tarla sulla pubblica coltura, e sul pub blico civile costume. Qual sublime lezio to, t 2 148 è un sogno, zione ella è questa da adottarsi da' nostri legislatori d'oggidi, se vogliono eternare, più che si può, il presente governo stabi lito di fresco. Un impero assoluto si può fondare tra selvaggi e tra barbari, e vien prosperando in mezzo a gente corrotta. Ma è un delirio il pretender fer mo un governo costituzionale senza nè col tura nè costume per base. Nello stato, in cui è il nostro suolo, non potrà certamente portare la novella libera costituzione senza che fosse prima quello preparato e divelto. Voglia Iddio che i nostri, posti giù l'e goismo, le false massime, gl ' impeti, glodj imprendessero a imitare Empedocle, e i nostri antichi felicissimi tempi. Ma se i Siciliani tutti debbon trarre qualche utile insegnamento dal nostro filo sofo; i Gergentini massime ne dovrebbero emular la virtù. La patria de' grand ' uomi ni è quella su cui sfolgora, riflette e va a concentrarsi, la gloria di loro. Si dovreb bero ricordare i Gergentini, ch ' essi prin cipalmente a Empedocle son debitori d'esa 149 ser tanto chiari, e così famosi nella nostra sicola storia. Si dovrebbero eglino pur ri cordare, che vicino a que' tempi, che vis sita oggi lo straniero, e sopra lo stesso suo. lo, che calcano i Gergentini 'medesimi, det tò allora Empedocle a Gorgia l'eleganti, avvegnachè prime lezioni di Rettorica. Gli stessi quindi a ripigliare in loro l'antico u sato splendore dovrebbero richiamare tra loro e le fisiche e le matematiche discipli ne, e ogn'altra amena e polita lettera tura. Allor si potranno i Gergentini glo riare a ragione d' aver prodotto, e dato la culla a Empedocle. Così eglino saran vera mente degni concittadini di lui. Ne altri menti si potranno lusingare gli stessi di far risorger tra loro il verace spirito d' Empe docle, e di poter quivi dire allo straniero. Dell' eccelsa sua mente i sacri versi Cantansi d'ogn'intorno, e vi s'impara Si dotte invenzioni, e si preclare Che credibil non par, ch'egli d'umana Progenie fosse. 1 PRUOVE E ANNOTAZIONI A L LA TERZA MEMORIA.  153 PRUOVE E ANNOTAZIONI A L I A TERZA MEMORIA. > Il n'est pas ) Freret raffigura l'attrazione e re pulsione di Newton nell'amore e odio d ' Empedocle. E però dice besoin d'un long discours pour montrer que le fond du systeme Newtonien, dé pouillé de l'appareil et du détail de ses cal. culs se réduit a celui d ' Empedocle, Hi stoire de l'Académie Royale Des Inscripti ons et belles lettres T. 18 Memoires p. 102. (2 ) Και γαρ ονπερ οιηθαη λεγειν αν τις μα. λιστα ομολογουμένως αυτω. Εμπεδοκλης και TYTO TAUTO TETOVIE „ Empedocle, di cui al cuno potrebbe portare opinione aver, detto sopra di ogn'altro cose tra loro e a se stes so concordi; egli cadde nel medesimo in 60veniente Arist. Metaph. 1. 3 cap. 4 il • 54 πος και 8το! O (3 ) Arist. de Coelo 1.3 cap. 4 Λευκίπι και Δημοκρίτος Αβδερίτης φασι είναι τα πρωτα μεγεθη πληθ. μεν απαρα και μεγεθα δε αδιαιρετα τροπον γαρ τινα παντα τα οντα ποικσιν αριθμους και εξ αριθ. μων • και γαρ ει μη σαφως δηλεσιν ομως τετο βελονται λεγαν, Leucippo e Democri to dicono le prime grandezze essere infini te di numero, ma indivisibili. Essi in cer to modo fanno gli esseri o numeri, o da' numeri. E se ben non lo mostrano chiu ro; pure questo vogliono dire. » (4) Εμπεδοκλης περι ελαχιστα εφη προ των τεσσαρων στοιχειων θραυσματα ελαχιστα οιονα στοιχεία προ των στοιχεων ομοιομερη και Empe docle prima de' quattro elementi supponeva de minimi bricioli, ch'erano non altrimen ti che gli elementi degli elementi, e par ti simili Stob. Εcl. Phys. 1. 1 p. 33. Ε più chiaramente Plutarco de Pl. Ph. dice οιονα στοιχεια των στοιχείων »και elementi degli elementi. (5 ) Ει δε στήσεται που διαλυσις ητοι ατος μον εσται το σωμα εν ω ισταται η διαίρετον μεν ι 155 8 μεν του διαι εθησομενον εδε ποτε καθαπερ εoικεν Εμπεδοκλης βελεσθαι λέγειν. » Se lo scioglinzento delle parti si fermerà in qual che luogo, domando: o il corpo in củi ri starà è indivisibile, o è divisibile; ma in alcun tempo mai non si potrà dividere, co me pare ch ' Empedocle abbia voluto dire, Arist. de Coelo l. 3. cap. 6. Sicchè Empe docle ammettea la divisibilità col pensiero non già col fatto. (6) Era un assioma presso gli antichi εκ τε μη οντος μηδεν γινεσθαι nulla farse da ciò che non è, Presso i Greci dev significava ciò ch ' esiste e il under ciò che non è. Epicuro talvolta piglia il des per corpo e il under per yoto. Ma diverso era il significato dell' del ov. Empedocle ed Anassago ra chiamavano Oy la materia dotata di qualità sensibili. E Democrito ed Epicuro la materia fornita di figura. Al contrario i primi due indicavano col un oy la mate ria priva di qualità, e i secondi la mates. ria senza figura. Di fatto Aristotile de GV e 156 gener. et corrupt. 1. 1 cap. 3 dice εστι γη το ον, το δε μη ον υλη της γης και πυρος ωσαύτως. L Latini tradussero il δεν per res o corpus il jend Ev per nihil o vacuum. E come non aveano parole corrisponden ti all' oy e' un or; cosi l'indicarono colle stesse parole res et nihil. E ' nato da ciò un equivoco nell' intendere i Greci. Questi non solo dissero nulla farsi da nulla; ia tal volta alcuni di loro pensarono niuna cosa, che ha qualità, poter venire dalla materia priva di qualità. (8) Απαντα γαρ κακείνος (Σμκεδοκλής ) ταυτα ομολογήσας, ότι εκ τε μη ιοντος αμηχα • γον εστι γενεσθαι και Concedendo Empedocle tutte le cose medesime,.e che sia impossi bile venire un essere fornito di qualità de ciò, che ne è privo je Arist. de Xenophane Zenone et Gorgia. (8) Εμπεδοκλης δε τα τετταρα προς τους ειρημενοις γην προσθας τεταρτον και Empedoclc disse esser quattro gli elementi, aggiungen do la terra per quarto a’tre già detti Aristot. Metaph. 1. 1 cap. 3. 157 (9 ) Σεληνην δε φησι συστηναι καθ' εαυτην εκ τα απολειφθεντος αερος υπο τα πυρος • τατον γαρ παγηναι καθαπερ την χαλαζαν. La lu πα, dice Empedocle, essersi condensata da se a cagione dall'aria, che fu abbando nata dal fuoco; perciocchè questa 'si con densò a guisa di grandine Euseb. Praep. Evang. I. 1. cap. 5. Lo stesso dice Plut. de Pl. Ph. Origen. Phylosoph. etc. (10) I sassi e gli scogli sulla terra so no stati giusta Empedocle formati dalla forza del fuoco. Plut. de primo frigid. Ne per altra ragione credea il nostro filosofo, chę i cieli siensi formati in guisa di çri stallo, che per l'azione del fuoco. Plut. de Plac. Philos. (11 ) Ως εν υλης « δ λεγομενα στοιχα τετταρα πρωτος (Εμπεδοκλης ), απεν. και μεν χρηται γε τετταρσιν αλλ ως δυσιν ουσι μονοις. πυρι μεν καθ' αυτο τοις δε αντικειμένοις ως Em. μια φυσα γη τε και αερι και υδατι, pedocle fu il prinio che affermò quattro ese ser gli elementi nella materia. Nondime no di questi non fu egli uso come se fos 158 } νω sero ' quattro, ma due soli. Mette il fuoco per se ', e' come al fuoco opposte l'acqua, ' la terra, l'aria, quasi avessero. queste uni ca natura.,, Aristot. Metaph. 1. 1 cap. 4. (12 ) Origen. Phylosoph. cap. 3. Clem. Alex. Strom. (13 ) Αναξαγορας μηχανη χρηται τω προς την κοσμοπίλαν » Anassagora usa della mente nella sua cosmogonia non altrimen ti che d'una macchina Arist. Metaph. 1. 1 Cap. 4. (14 ) Πολλαχου γουν αυτω (Εκπεδοκλα ) η μεν φιλια διακρινει το δε νεικος συγκρινα • μεν γαρ ε ! ς τα στοιχεία διαστήται το παν υπο τ8 14κας τότε το πυρ «ς συγκρίνεται και των αλλων στοιχων εκαστον, οταν δε παντα υπο της φιλιας συνιωσιν ας το εν αναγκαίον εξ εκαστε τα μορια διακρίνεσθαι παλιν. Εμπεδοκλης μεν 89 παρα τ8ς προτερον πρωτος ταυτην την ατίας διελων εισενεγκεν ου μιαν ποιήσας την της κινη σεως αρχη, αλλ' έτερας τε και εναντιας. Non di rado presso d'Empedocle l'amicizia sepa ra; e l'inimicizia unisce. Imperocchè quan. do per l'inimicizia l'universo si scioglie ne • OTULY 159 gli elementi; allora il fuoco si unisce, e al par del fuoco, ciascuno degli altri elemen ii. Quando poi per via dell ' amicizia tutti gli elementi si uniscono; allora è di ne cessità che le parti di ciascun elemento si separino. Però Empedocle fu il primo, che superiore agli altri più antichi di lui, divi dendo questa causa, intro lusse non un solo, ma piii e contrarj principj di movimento: l'anticizia cioè e l' inimicizia Arist. Me taph, I. i cap. 4. L ' vero che qui Aristo tile cerca di cogliere in assurdo il nostro Empedocle"; perchè cerca di mostrare che l' amicizia talvolta separa, e l'inimicizia ta lora unisce. Ma ciò non di meno confes sa che giusta Empedocle l'amicizia e l'ini. micizia eran due principj di moto. E in ciò loda il n'ostro filosofo, e l ' inalza so pra tutti que' ch'erano stati prima di lui. (15 ) Molti sono i versi d' Empedocle che lo pruovano, che noi rapporteremo ne' fram menti di lui. Ma Aristotile lo dice chia. rissimo. Es un evný to vemos ev Tols peyuceo σιν, εν αν ην απαντα ως φησιν (Εμπεδοκλης ) 160,, Se non fosse l ' inimicizia inerente alle cose, tutte queste non farebbero che uno come dice lo stesso Empedocle,, Aristot. Metaph. 1. 3. cap. 4. Simplicio inoltre de Coelo l. 1 Com. 29,, rapporta che giusta Empedocle è propietà dell'amicizia ridurre tutto in una sfera lovely o zipov (16 ) (Εμπεδοκλης ) το μεν πυρ κκκος καιλο. μενον προσαγορευων και Empedocle chiamo il fuoco lité perniciosa Plut. de primo fri gido. E lo stesso Plutarco ne soggiunge la ragione: Giacchè il fuoco ha la facoltà di dividere e separare. (17 ) Clem. Alexand. ad gentes cap. 5. (18 ) Aristot. Metaphys. 1. 1 cap. 4. (19) Plut. de Isid. et Osirid. Wolf. de Manich. ante Man. S. 30 Bayle Dict. Art. Xenoph. (20 ) Aristotile" riferendo l. 3 taph. l'opinione d'Empedocle sul circolo pe renne delle cose in virtù delle due forze amicizia e inimicizia si lagna del nostro filosofo, che introduce la necessità senza recare alcima cagione della necessità ws ay. 1 cap. 4 Me. 161 αγκαιον μεν ον μεταβαλλεινκαι αιτίαν δ ' εξ ενο αγκής εδεμιαν δηλοι. (21 ) Brukero T. 1 p. 2 1. 2 cap. 10 Sect. 2. de discipulis Pythagorae. Moshem. nelle note a Cudwort. (22) Αρχη η φυσις μαλλον της υλης. εγί άχου δηπου αυτη και Εμπεδοκλης περίπιπτα αγομενος υπ' αυτης της αληθεας, και την εσι. αν, και την φυσιν αναγκαζεται φαναι τον λογον ειναι: οιον οστουν αποδιδους τι εστιν. ετε γάρ εν τι των στοιχεων λεγει αυτο ατε δυο ή τρια ατε παντα αλλα λογος της μιξεως αυτων etc. Il principio delle cose è più presto la nä tura che la materia delle cose.. Empedocle tirato dalla forza stessa della verità spesso è costretto di confessare che la sostanza e la natura altro non sia che la ragione o proporzione: ' come fa allorchè ei dice coså šia.l osso. Poichè dice che l'osso non cen ga da questo o du quel elemento', nè da due elementi, nè da tre, nè da tutti, ma dalla ragione in cui questi nell' osso si stan. no ec. is Arist. de par. Animae l. 1. cap. E poi lo stesso Aristotile soggiunge che 1 362 2 i filosofi prima d Empedocle non fecerd lo stesso perchè non soleano definire ciò che fosse la cosa astion de to. pen en San τ8ς προγενέστερες επί τον τροπον τέτον, το τι ην αναι, και το ορισασθαι την ασιαν εκ OTI My •:- (23) Plut. de Plac. 1. ì cap. 6 Gal. Hist. Ph. (24) Plut. de Plac. Ph. 1. 5 cap. 19 Gal. ibid. (25) Plut. de Plac. Ph. 1. 5 cap. 19 Arist. de Resp. cap. 14 etc. Credea Em pedocle che gli animali, subito che nacque ro dalla terra, si divisero e portarono in luoghi convenienti al loro temperamento. Que' che abbondavan di fuoco o nell' ac qua o nell'aria. Gli altri ch'erano più gravi, abitarono la terra ec. (26) Darwin Zoonomia. Vol. 3 Sez, 39 cap. 4 ediz. di Milano, (27) La massa tutta del seme, che noz mostrava alcuna forma, o figura chiama va Empedocle. 8ioques che potrebbe significa. re tutta la natura organica secondo Simpl. 163 1 de Phy. aud. 1, 2. Com. 68 pag. 134 ediz. di Aldo: (28 ) Aristotile l. 2 de Coelo cap. 8 par lando dell opinione di Xenofane che credea la terra infinita estendere sino alſ infinito le sue radici, soggiunge do xakt.Eptidoxing ετως επεπλήξεν Per lo che Empedoche co si lo sferzò, e soggiunge i versi d' Empe docle, che noi rapporteremo 'ne' frammenti di lui. (29) Ταυτι δε τα εμφανη κρημνες και σκο: πελες και πετρας και Εμπεδοκλης μεν υπο τα πυ ρος οιεται το εν βαθει της γης εσταται και ανε χεσθαι. Empedocle è d'opinione che que sti sassi, questi scogli, questi dirupi, che sono agli occhi di tutti, sieno stati inalza ti dal fuoco che sta nelle profondità dela la terra „ Plut. de primo frigido, Quare quaedam aquae caleant", quae dam etiam ferveant in tantum, ut non pog sint esse usui nisi aut in aperto evanuere, aut mixtura frigidae intepuere, plures causae redduntur. Empedocles existimat ignibus, quos multis locis terrà opertos tegit, aquam ! X 2 164 calescere, si subjecti sunt solo per quod aquis transcursus est. Facere solemus dracones et miliaria, et complures formas, in quibus gere tenui fistulas struimus per declive cir. cumdatas; ut saepe eundem ignem ambiens aqua per tantum fluat spatii quantum ef. ficiendo calori sat est. Frigida itaque in trat, effluit calida. Idem sub terra Em. pedocles existimat fieri. Seneca Quest. Nat. i. 3. (3ο) Την γην εξ ης αγαν περίσφεγγομενης τη ρυμη της περιφοράς αναβλυσαι το υδωρ la terra, da cui, come fu condensata, per l'impeto della girazione spicciò l' ac qμα 15 Ρlut. de ΡΙ. Ρh. 1. 2 cap. 6. (31 ). Οτι δε μενα (γη ) ζητεσι την αιτίαν και λέγεσιν οι μεν τυτον τον τρόπον, οτι το πλα τος και το μεγεθος αυτης αιτιον, οι δε ωσ: περ Εμπεδοκλης την τε κραγε φοραν κυκλω περιθεασαν και θαττον φερομενην την της γης φοραν κωλυειν καθαπερ το εν τοις κυαθοις υ δωρ και και γαρ τατο κυκλω το κυαθε φερομείς πολλάκις κατω τα χαλκά γινομενον ομως ου φερεται κατω πεφυκος φερεσθαι δια την αυτην 165 Citidy, 99 Alcuni cercano il perchè la ter ra stia ferma nel mezzo, e dicono esserne cagione la sua grandezza e larghezza, Al tri poi, siccome Empedocle, son di pare re, che il cielo girando più velocemente del. la terra sia la cagione, per cui la terra non cada nello stesso modo, che avviene allac qua nel calice. Poichè seben questo si giri e stia col fondo su, e il labro all' in giù; pure l' acqua, che di sua natura tende al basso, non cache per la ragione medesima della girazione,, Arist. de Coelo l. 2 cap. 13. (32 ) Plut. de fac. in orbe Lunae, (33 ) Plut. de Pl. Ph. 1, 2. cap. 13 Laert. in Emp. (34 ) Arist. de anima 1, 2 cap. 2. (35) Καθαπερ Εμπεδοκλής φησιν, αφικνειο σθαι προτερον το απο τα ηλιο φως ας το μετα ξυ πριν προς την οψιν, η επί την γην, δοξα δ ' ευλογως συμβαινειν Empedocle dice che la luce, la quale viene dal Sole prinra giunge nel mezzo, e poi all'occhio ed aļla terra. Il che pare che accada con buona ragio ne » s. Arist. de sensų et sensili cap. 6. 166 tor. (36 ) Empedocle in prima avea il Sole per una gran massa ignita' non già per una rijlessione di un altro sole šíecome attesta Laerz, in Emp. Era in secondo opinione di Empedocle che il simile si va sempre ad u nire al suo simile. Però venne a lui na turale il dire che la luce lanciata dal So. le, dopo d' essersi riflettuta sulla terra, nasse di nuovo ad unirsi al Sole, e poi di nuovo movendosi da quest' astro, tornasse a risplendere. Per altro Plutarco stesso aper. tamente dice de Pyth. orac.. che la luce del Sole secondo Empedocle risplende di nuovo αυθις ανταυγαν • (37 ) Plut. de Pl. Ph. Gal. Hist. Ph. Stobeo Ecl. Phys. e tunti altri, appongono ad Empedocle l' opinione di due Soli, che si riguardavano, de quali l'uno mandava rag gi invisibili e l'altra visibili ec. (38) Empédocle, sans recourir á l’in stanatneité de cette émission ou á sa pro digieuse velocité disoit que cette objection se roit vraie, si le soleil lui même étoit en mouvement; mais que la terre tournant au 167 tour de son axe, venoit au devant, du ra yon, et voyoit l'astre dans sa prolonga tion. On ne répondroit pas mieux aujourd hui a cette objection, si quelqu'un la pro posoit contre la propagation successive de la lumière et son emission. Montucla. Hist. des Mathematiques Tom. 1 P. i lib. 3 pag. 142. (39) Απολείπεται τοινυν το τα Εμπεδοκλεος ανακλάσει τιγί τα ηλια προς την σεληνην γεγες; σθαι τον ενταύθα φωτος οιον απ' αυτης οθεν 80's. Jequor de deep porn Resta dunque co me vera la sentenza d'Empedocle. Però la luce lunare non è nè calda nè assai splen. Plut. de fac in orb. Lunae. (40 ) Est - il rien de plus juste que ce vers, dont voici la traduction litterale de Greg en latin circulare circa terram yolvitur a lienum lumen dit- il en parlant de lo lu ne? Achille Tatius en tire une preuve qu' Empedocle a regardé cette planéte comme un morceau détaché du soleil. Il n'a pas conçu que cet alienum lumen vouloit dire lumière empruntée, ce qui est très-confor me a la verité. Montucla Hist. des Math. dida,, 168 Tom. 1 p. 1 1. 3 pag. 111. (41 ) Isag. in Arat. (42 ). Empedocles plus duplo lunam dia stare censet a terra quam a sole. Galen. Hist. Ph. Plut. de Pl. Ph. (4.3 ) Και τον μεν ήλιον φησι πυρος αθροισο μα μεγα και σεληνης μαζω » Empedocle di. ce il Sole essere una gran massa di fuoco più grande della Luna Laert. in Emp. (44) Plutarco de ' fac. in orbe Lunae, afferma che la Luna al dir d'Empedocle giraya a simiglianza d'una ruota: Ora in que' tempi si esprimea la rùvoluzione d'un corpo intorno al propio asse sotto la figura ra d'una rủota, Cosi di fatto indicarono Seleuco d'Eritrea, Heraclide di Ponto, Eco fanto di Siracusa, il movimento della tere ra intorno al propio asse. Per altro i Pit tagorici sapeano che la Luna girando in torno alla terra çi presenta sempre lo stes so emisfero. Il che come ciascun sa non può aver luogo, se la Luna girando intor no la terra ſon rotasse intorno al propio asse: Sicché è da credersi cl’Empedocle non 169 ou esse ignorato questo movimento della Lu na. Ma come Plutarco non ne fa che un sol cenno, che può essere equivoco; cosi io non ho creduto di doverlo affermare come sicura opinione d'Empedocle. (45) Fabricio Bibl. Graeca T. (46) Arist. de plant. 1. cap. (47 ) Arist. nel med. luogo. (48) Arist. nel med, luogo. (49 ) Τα δε σπερματα παντων εχ τινα τροφην εν αυτός και συναποτίκτεται τη αρχή καθαπερ εν τοις ωοίς. η και κακως Εμπεδοκλης αρήκε φασκων ωοτοκαν μακρα δενδρα Ogni semè contiene in sè qualche cosa d' alimen to uñitaniente al principio che genera, sic come è nell' uovo. Per lo che Empedocle disse bene che gli eccelsi alberi sono ovipa ri Theofrasto 1. i cap. ' 7 de Caus. Plant. Και τατο καλως λεγει Εμπεδοκλης ποιησάς: Ούτω δ ' ωοτοκεί μικρα δενδρα πρωτον ελαίας •. Το τε γαρ ωον κυημα εστι, και εκ τινος αυτα γίγνεται το ζωον, το δε λοιπον, τροφη τα σπερ ματος, και εκ μερες γιγνεται το φύομενον, το δε λοιπον τροφη γιγνεται το βλαστω και τη y 170 pión en xpern » Questo ben disse Emperor cle affermando, che i piccoli alberi ezian dio sono ovipari. Poichè da una parte dell' uovo nasce l'animale, e dal resto si fa la nutrizione di questo. Nello stesso modo ac cade nel seme. Da una parte si formá la pianticella, ed il resto serve per nutrirla Arist. de Gen. anim. l. i cap. 23. (50) Arist, de Gen. anim. I. 1 cap. 18 & lib. cap. 6. Theofrasto 1. i cap. z de Caus. Plant. Indi è che Malpighi aper: tamente dice Plantarum ova esse semina vetus est Empedoclis dogma. Anat. Plant. pag. 92 * 93. In questi ultimi tempi Young è stato il primo a dire che le piante ven gono, dal seme. Rozier journ. de Phys. Auril. 1789 p. 241 e Bonnet Deur. v. 5 p. 256 ha dimostrato l'analogia del seme coll' uovo. (51) ο δε μαλιστα και κυρίως εστι ζη = τητεoν εν ταυτη τη επίσημη τετο οστιν » όπερ ειπεν Εμπεδοκλής ηγουν α ευρίσκεται εν τοις φύτοις γενος θηλυ και γένος αρρεν και ει εστιν ειδος κεκραμενον εκ τετων των δυο γενών και Cio 171 she in questa scienza sia sopra d'ogn' al tro, e propiamente da ricercare, lo disse Em pedocle: cioè se nelle piante si ritrovi il sesso maschile e feminile, e se questi due sessi sien in quelle mischiati ed uniti,, Arist. de Pl. 1. cap. 2. Per lo che è da ripu. ţarsi particolar opinione d'Empedocle, quel, la del sesso nelle piante, e che queste fos sero state ermafrodite. Si legga lo stesso Aristotile de Pl. I. i cap. 1. Haaly 005 - λομεν ζητειν πότερον ευρισκονται ταυτα τα δυο γενή κεκραμενα εν τοις φυτοις ως απεν Εμπε doxninis:,, Dobbiamo ricercare se i dųe ses si nelle piante sien mischiati, come vuole Empedocle. » (52) Empedocles quidem divulsa esse so bolis membra aiebat, ut in faeminae alia alia in maris semine continerentur, atquo inde oriri animalibus venerei complexus ap.. petentiam, dum partes illae inter se di stractae conjungi atque uniri concupiscunt. Galen. de semine 1., 2. cap. 3. Si legga parimente Aristot. de Gener, ànim. l, i cap. 18, 172 (53) Plutarco de plac. Ph. 1. 5 cap. & 10 12 Arist. de Gener. anim. 1. 2 cap. 8. (54) Εμπεδοκλης τη κατα συλληψιν φαντα. σια της γυναικος μορφουσθαι τα βρεφη και πολ: λακις γαρ εικονων και αδριαντων ηρασθησαν γυναίκες και ομοία τετοις απετέκον. » Empe docle dice che dalla fantasia della donna piglia forma îl feto. Poichè spesso le don ne hanno la lor prole partorito simile a statue o. a immagini, che hanno amato Plut. de Pl. Ph. I. 5 ' cap. 12, (55 ) Plut. de Pl. Ph. 1. 5. cap. 27. (56 ) Tutta la dottrina d Empedocle, siccome in appresso diremo, era fondata su i pori, e sugli effluvj, che si spiccano secondo lui da' corpi, o per quelli s'intro ducono, (57 ) Plut. de Pl. Ph. I. 5. cap. 26. (58) Frondes amittere quibus aestatis ca. lor humorem ahsumpserit; semper fronde re quae majorem succi copiain habent, ut laurum, oleam, palmam 4 Hist. Ph. Gal. Lo stesso dice Plut. de Pl. Ph. l. 5 cap. 26. 173 Plutarco Symp. 1. 2. Si propone la questione, perchè l' ellera conserva le fo glie, e gli altri alberi le perdono. Ei ri sponde con Empedocle per la disposizione de* pori. Perche τοις δε φυλλoφoυσιν εκ έστι για μανοτητα των αγω και στενότητα των κάτω πι:,, ρων, οταν οι μεν επίπεμπωσιν οι δε φυλαττω σιν, αλλ' ολίγον αθρουν λαβόντες εκχέωσιν ωσ. περ εν αγδηροις τισιν ουχ ομαλοις » » A quel le piante, le cui foglie cadono į alimen to on basta a cagion della rarità de? pori superiori, e della strettezza degl inferiori. Poichè per questi pori s’ introduce poco ali mento, e per quelli molto se ne dissipa. Indi è che quel poco che hanno ritratto tosto lo perdono. Avyiene ciò che suole ac cadere negli attignitoi, che sono inegual mente forați. (59) Flore française troisieme edition par MM. de La Marck et Decandolle T. pag. 67. (60 ) Floré française ibid. pag. 86. (61 ) Flore francaise ibid. pag. 108 (62) Plut. de Pl. Ph. 1. 5 cap. 26 Gal. Hist. Ph. 3 174 (63) Galeno Hist. Ph. Plut. de Pl. Ph. 1. 5 cap. 26. (64) Ρlut. de Pl. Ph. 1. 5 cap. 22 Gal. Hist. Ph. (65) Plut. ' nel med. luogo. (66) Gal. Hist. Ph. Plat. de Pl. Ph. (67 ) Ρlut. de ΡΙ.. Ρh. 1. 4 cap. 22. (68 ) Ρlut. de ΡΙ. Ρh. 1. 4 cap. 16 Gal. Hist. Ph. (69 ) Arist. de Respirat. cap. z (70 ) Arist. 'de Respirat. cap. 7 Gal. Hist. Ph. (71) Arist, de, Resp. cap. 7 Plut. de PI. Ph. 1. 4 cap. 22. (72 ) Pluit. de ΡΙ. Ρh. 1. 5 cap. 24. (73 ) Plut. nel med. luogo. Gal. Hist. Ph. (74) Si vegga la niemoria seconda sulla Vita d ' Eimpedocle T. 1 pag. 132. (75) Ρlut. de Pl. Ph. 1. 4 Cap. 17 • (76) Τα μεν γλαυκα πυρωδη καθαπερ Εμ. πεδοκλής φησι τα δε μελανoμματα πλεον υδατος εχιν η πυρος. » Che gli occhi az zurri, come dice Empedocle, abbondano di fuoco, ed i rieri abbiano più d ' acqua che 175 di fuoco, Arist. de gener. An 1. 5 cap. i. (77 ) Τα μεν ημερας εκ οξυ βλεπεις τα γλαυκα. δι ενδιαν υδατος. θατερα δε νυκτωρ δι ενδααν πυρός και che gli occhi azzurri non veggano bene di giorno per difetto d' ac qua, ed i neri di notte per difetto di fuo: εο, Arist. de Gen. an. 1. 5 cap. 1. (78) Gal. Ηist. Ph. Ρlut. de P. Ph. 1. 4 Cap, 13. (79 ) Ειπερ μη πυρος την οψιν θετεον αλλ' υδατος πασαν,, Perclie la visione non e d ' attribuirsi al fuoco, ma tutta all'acqua » Arist. de Gen. anim. 1..5. cap. (80 ) Arist. de sensu et sénsili l. 1.cap. 2. (81 ) Empedocles animum esse censet cor di suffusum sanguinem. ' Cic. Tusc. quaest. 1. 1 cap. 9 e Ρlut. de ΡΙ. Ρh. 1. 4 cap. 5. Εν τη τα αιματος συστασε. (82 ) Αλλοι δε ήσαν οι λεγοντες κατα Εμ " πεδοκλεα πριτηριον αγαι της αληθεας και τας αισθησεις αλλα τον ορθον λογον και τα δε ορθα λογα τον μεν τίνα θαον υπαρχειν τον δε αν - θρωπινον. ων τον μεν θαον ανεξοισθον ειναι. τον δε ανθρωπινον εξοισθαν. Ci sono stao 1 O 176 ti alcuni, che han dettò con Empedocle esé sere il criterio della verità non già i sensi, ma la retta ragione. Questa poi essere in parte umana e in parte divina: la prima potersi da noi manifestare, e l'altra nòi, Sext: Emp. adv. Log. 1. 7 p. 396. (83 ) Hụezio Debolezza dello spiritous mano.. (84) Furere tibi Empedocles videtur: at mihi dignissimum rebus iis ', de quibus lo quitur sonum fundere. Num. ergo is ex. caecat nos, aut orbat sensibus, si parum magnam vim censet in iis esse ad ea, quae sub eos subjecta sunt, judicanda? Cic. Lu cullus c. 23. (85) Empedocles quidem, ut interdum mi hi furere videatur, abstrusa esse omnia, ni hil nos sentire, nihil cernere, nihil omni quale sit, posse reperire. Cic. Lucullus c. 5, (86 ) Αρχαίοι το φρονων και το αισθανεσθαι ταυτον αναι φασιν ωσπερ και Εμπεδοκλης (δη 01.,, Gli antichi, come disse Empedocle, vogliono che sia lo stesso sentire, che ra 177 € 2. gionare. Arist. de anima, l. 3. cap. 3. (87 ) Arist. de Plant...1. 11. cap. 1 (88 ) Αναξαγορας μεν και Εμπεδοκλης επί θυμια ταυτα κινεισθαι λεγουσιν αισθανεσθαι τε και λυπεισθαι » Anassagora ed Empedo cle dicono che le piante sien mosse da de. siderio, da tristezza, e da voluttà, Arist, de P1. 1. 1 Cap 1. (89 ) Αναξαγοράς δε και ο Δημοκρίτος και ο Εμπεδοκλής και νουν και γνωσιν εχεις απον τα φυτα Anässagora, Democrito, ed Em pedocle dissero le piante esser fornite di men te e di cognizione », Arist. de Pl. l. 1 cap. 1. Ρlut. de Plac. Ph. 1. 5 cap. 26. (90) Arist. de.ΡΙ. 1. 1 cap. 1 Ρlut. de P. Ph. 1. 5 cap. 26. (91) Πρωτοι δε και τονδε τον λογον Αιγυ πτιοι ασι αποντές, ως ανθρωπα ψυχη αθα γατος εστι. τα σωματος δε καταφθινοντος ες αλλο ζωον αια γενομενον εσδυεται. επεαν δε περιελθη παντα τα χερσαια και τα θαλασσια και τα πτηνα, αυτις ες ανθρωπό σωμα γινομες γον εσβυνειν. την περιαλησιν δε αυτή γίνεσθαι εν τρισχιλίοισι ετεσι. Sono gli Egizi i pri Z 178 ηι. mi che dicono l'anima essere immortale; ma che 'morto il corpo va questa sempre informando un altro animale; dimodochè dopo d' esser passata per tutti gli animali o terrestri, o marini, o aerei torna di nuo ro ad informare il corpo d'un uomo. Que sto giro compie l anima in tre mila an Herod. Euterp. 1. 2 cap. 123. (92 ) Τατω λογω ασι οι Ελληνων εχρησαντο οι μεν προτερον οι δε υστερον, ως ιδιω εωυτων εοντι. των εγω αδως τα ονοματα και γραφω. Tra Greci alcuni prima alcuni dopo han divulgato' la metempsicosi degli Egizi come opinione propria. E di quelli non vo. glio scrivere i nomi; ancorche mi sieno, co Herod. 1. 2 cap. 123. (93 ) Sext. Emp. adν.. Math. 1. 8. (94) Ου γαρ ωσ. ο Μεγανδρος φησιν απαντι δαιμων ανδρι συμπαράστατα ' ευθυς γενομεγω μυσταγωγος τα βιε αγαθος, αλλα μαλλον ως Εμπεδοκλης διτται τιγες εκαστον ημων γενομες γον παραλαμβαγεσι και καταρχoνται μοίραι κα! d'alluoves.,, Non è da credere come dice Menandro, che a ciascun di noi, come ea gniti, 170 gli nasce, assista un genio buono condut tor di tutta la vita, ma piuttosto è da te nersi l'opinione d'Empedocle, il quale di che ciascuno di noi dal punto della na scita è preso e governato da due genj e da due. fati Plut. de anim. tranquill. E sog giunge lo stesso Plutarco che co' nomi de gen; si esprimono σπερματα των παθων i se mi, delle passioni. (95 ) Plut. de animi tranq. (96) Αφ ων οίμαι ορμώμενοι και οι πυθα: γορεοι και μετα τατος Πλατων αντρον και στην λαιον τον κοσμον απεφηναντο. παρα τε γαρ Εμπεδοκλα αι ψυχοπομποι δυναμας λεγεσιν Ηλυθομεν τοδ ' υπ' αντρον υποστεγον E da queste cose, siccome io stino i Pittagorici, e Platone dopo costoro, pre sero occasione di chiamar questo mondo an tro e spelonca. Poichè presso Empedocle le potestà conducitrici delle anime dicono: che siano finalmente giunte sotto quest' aniro coperto; Porph. de Ant. Nymph. p. 9 ed. Van - Goens. (97 ) Clem, Αlex. Strom. 1. 2. Stob. Εcl. 180 Eth. cap. 3. Jambl. Portrep. cap. g Hierocl. in Com. Scheffer de Secta Italica. (98) Pindaro nella prima ode olimpica dirizzata a Gerone; dopo: d' aver descritto il supplizio di Tantalo, che chiama atau λαμον βιον εμποσομοχθον vita priva do gni ajuto e perpetuamente laboriosa » 'sog giunge „ questo supplizio forma il quarto dopo d' averne sofferto altri tre » Mesta Tpl. ων τεταρτον πονον. Non si puo comprendere a prima vista, come questo quarto suppli zio fosse stato perpetuo. Ma ciò è intera mente dichiarato nella seconda ode. olim pica diretta a Terone Gergentino. Quivi e gli dice: que', che dopo d'esser dimorati tre volte nella terra e nell'inferno ocou do ετολμησαν ες τρις εκατερωθι μειγαντες: seppero contener ľanimo loro nella pratica della virtil, arriveranno per la via di Giove al la regia di Saturno, dove laure dell' O. ceano spirano dolcemente attorno le isole fortunate, e splendono i fiori d'oro. vede quindi dal confronto di queste due o. di, che la metempsicosi giusta Pindaro con Si 181 sisteva in tre articoli: iº che l'anima del lo stesso uomo informava tre volte corpi u mani, che ' v'era un intervallo tra la morte e'l rinascimento in cui i giusti go deano di felicità, e i malvagi eran puni ti, 3º che le anime perseveranti nella giu stizia per tutto il corso delle tre vite umia ne, andavano poi. cogli eroi nell'impero di Saturno; e quelle, che s' erano mac chiate di colpe in quello stesso tempo, an davano in fine a soffrire un supplizio eter πο: απαλαμον βιον εμπεδoμοχθον. Gli sco liasti stessi di Pindaro, non altriinenti che noi abbiamo fatto ', lo dichiarano: uno di essi dice υπεραγαν μεχρι τριτης μετεμψυχοσέως Ev 8 %a740015 Tols peeport „ sostennero (le a nime ) sino alla terza metempsicosi nell' uno e nell'altro luogo cioè a dire nel la terra e nell' inferno. Ora trina di Pindaro pare che allora fosse sta ta conosciuta da' soli sapienti. Poichè dopo che il poeir avea esposta la triplice trasmi grazione soggiunge lo tengo sotto il mio gomito e dentro la faretra delle sette vo: questa dot 182 lanti, il cui fischio si sente dal solo sa piente. Ma la moltitudine ha lisogno d' interpetri ες δε το παν ερμηνεων χατιζα. Η saggio è colui che conosce la natura, gli altri, che įmparano da lui, sono loquaci nxo Root Taivajaworick e come i corvi inutilmente gracchiano. Per lo che pare, che Pindaro s'astenea di parlar chiaramente per non ri velare al volgo il dogma pittagorico della metempsicosi, ed opponea la furgawcola o loquacità del profano al silenzio del pit tagorico. (99) Tutti gli antichi fanno onorata men zione della filosofia d'Empedocle. Lascian do stare Aristotile e Teofrasto, noi sappia. mo da Laerzio l. 10 Sect. 25 ch' Herma co l'epicureo la espose in 24 libri moto - λικων περι Εμπεδοκλεας: Τra Iatini poί α parte di Lucrezio e di Cicerone, che ne fan sommi elogi, siano avvertiti da Cicerone me. desinio che si era stato un Sallustio, il quale area trattato la filosofia d'Empedocle nel la stessa guisa, che avea fatto Lucrezio per quella di Epicuro. Tria per quanto si rac 183 coglie dalle parole di Cicerone quell' auto re non era riuscito cosi bene, come Lucre. zio. Lucretii poemata, ut scribis, ita sunt multis luminibus ingenii: multae tamen ar. tis. Sed cum veneris, virum te putabo, si Sallustji Empedoclea legeris; hominem non putabo, cioè a dire se potrai sostener ne la lettura ti 'stimerò invitto e paziente. ma privo di senso. Cic. Ep. ad Q.fr. 1. 2. Non che Plutarco ne' tempi d'appres. 80, ma tutti gli scrittori ecclesiastici ricor dano con lode Empedocle ed i suoi pensu. menti. Vi ha un luogo di Temistio nell orazione 12 all' Imperator Gioviano, in cui egli loda quest' imperadore per la lege ge da esso lui stabilita circa la libertà del la religione. In questo luogo ei dice agar σθαι μεν εν και τις αλλες το νομο προσηκ4 τον θαοτατον Αυτοκρατορα και μαλιστα δε οίς ουκ εφιασι μονον την ελευθερίαν, αλλα και τις θεσμες εξηγείται και φαυλοτερον Εμπεδοκλεας και Ma All Excave te Teals. Varia è stata l' interpetrazione di piu autori intorno a que ste parole, e principalmente per l'Empe 184 parere che docle, di cui fa menzione Temistio. Al cuni hanno sognato un altro Empedocle di verso e posteriore al nostro. Petavio, non si sa come, crede, che sotto il nome d' Empeclocle abbia quegli voluto significare G. C. Petit è di per Empedocle s'inten la un cinico chiamato Peregrino. Nè marican di quei, che credono essere stato rcfurrito in quel luogo S. Policarpo marti re. Iru biti gl'inteipetri Casaubono in not. ad M. Anton, pas 87 è stato a giudizio di Fabricio Bibl. Graec. T. 8 p. 56, corui che meglio l'hi interpetrato. AgarIsi Mesy XV x2. Toń andy (ita malo quam tos are 285, quod tamen ferri potest, nec' senten tiae, quam volumus, repugnat ), 78 roles.po: σηκ ή τον θιοτατον Αυτοκρατορα μαλιστα δε οίς (idest τετων vel εκεινων οις ) εκ εφιησι porgy etc., Degnissimo è l ' imperadore di ammirazione e di venerazione non che per le cose, che in quella legge si contengono, ma sopra di ogn'altro e per la libertà del la religione, e perchè spiega quelle leggi, che sono state da Dio dettate, con perizia 185 non minore di quella, per · Giove, che non fece quell'antico Empedocle., Di che si vede, ch'era tanta e tale la stima, in cui allora si tenea il nostro filosofo, che ad esso si comparava l ' Imperadore Gioviniano, allorchè si volea lodare. Abulfarage presso gli Arabi, secondo che dice Fabric. Bibl. Graec. T. 1 p. 474 loda Empedocle, come chi avea ottimamen te conosciuto gli attributi divini. Finalmente la filosofia d'Empedocle è stata vinovata da Campanella, da Magna. no o Maignano. Fahr. Bib. Graec. nel me desimo luogo. Per lo che si vede chiarissimo quanto male Orazio conoscea il nostro filosofo; allorchè disse. Ep. 12 !. 1 v. 20. Empedocles; an Stertinii deliret acumen. a a  187 MEMORIA QUARTA Su i Franmenti delle opere di Empedocle Gergentino. ROM nico è l' oggetto di questa ultima mes moria: presentare a un colpo d'occhio tute ti accozzati gli avanzi delle opere d'Empe. docle. Egli ne detò molte, e quasi tutte, com'era usanza in que' di, le scrisse in versi.. Pure niun poema di lui è venuto sino à noi, e pochi sono i frammenti, che di questi ci restano L'inno ad Apollo, e 'l poema de' Persiani, furono, lui morto, bruciati. Il poema sulla sfera si reputa oggi opera d'incerto autore, Del suo discorso sulla medicina non ce n ' è restato nè anche vestigio: anzi ignorasi, se questo fosse stato scritto in versi secon do Laerzio, o pure in prosa secondo Sui da. I frammenti in somma delle opere d' Empedocle, che da noi si conoscono, ri guardano e fan parte di due famosi poe e non sia. a, a 2 188 ni: l' uno sulle purgazioni, l'altro sulla natura. Il primo fu intitolato a Gergen tini; il secondo a Pausania il medico el amico di lui. La raccolta quindi de' fram menti de' versi d' Empedocle, di cui qui si parla, appartiene soltanto a questi due gran poemi. Piü Eruditi, e tuti di gran nome assai prima, e in varj tempi praticaron lo stesso. Errico Stefano no pubblicò il pri mo non pochi nel suo Ibro della poesia fi. losofica. Giovanni Alberto Fabricio prese appresso il pensiero d'ampliar la raccolta di Stefano; e giusta il Mosenio quegli mol to l'accrebbe. Ma ogni fatica di lui, co me attesta il Reimaro, tornò vana; perchè morto Fabricio si perderono i suoi origina li,, e il pubblico non potè coglierne il frut. to. Van - Goens di poi nell'edizione, ch ' ei fece del libro della Groita delle Ninfe di Porfirio, manifestò aver già raunato più di trecento versi d'Empedocle, e promiso al più presto di recarli in luce. Avea, se condo ch' attesta egli stesso, tratto gran pro 189 1 da' manoscritti che si conservano nella libre ria di Leyden, e invitato tutti i dotti ad aiutarlo in si fatio travaglio. Ma punto non si sa, se abbia o nò costui pubblica to la raccolta de' versi del nostro filosofo, giusta la promessa di lui nel 1765 sotto titolo di raccolta Empedoclea. E' sempre una singolar disgrazia il non potere profittar delle fatiche degli uomini grandi. Le nostre librerie een prive non che di manoscritti, ma scarseggiano ancora di libri. Non ci è venuto fatto di ritroe' vare in esse nè pure lo stesso Errico Ste fano della poesia filosofica. Però, mancan. ti gli aiuti, si è ito sù giù rifrustando an tichi scrittori per cogliere or uno or due e di rado o sei, o dieci' o più versi di Emperlocle, che sparsi si leggono in que sto, e in quell'altro. Fatica assai penosa, e ' tanto più dura, quanto ha obbligato a durar quello stento, che farebbe chi il pri mo si mettesse ad imprenderla, senza la spe. ranza di poter acquistare la gloria debita a chi il primo l'avesse intrapreso. Unico 190 > conforto ne fu un Simplicio dell'edizione d' Aldo, trovato nella libreria de' PP. Tea tini di Palermo (giacchè questi ne' suoi co. mentari d ' Aristotile rapporta molti versi d ' Empedocle ). Da questo libro furon tratti non pochi de' versi d ' Empedocle, che si tro van messi insieme. in quest'ultima parte. Ma il medesimo disgraziatamente fu ruba. to in quella libreria. Però non fu conco duto di potersi più riscontrare i versi rac colti col testo; e si è dovuto, congetturan, do quasi tentoni, quando supplir qualche parola a caso tralasciata, quando correg gere alcuni versi, che per la prima volta erano stati o male lètti, o falsamente scrit ti. Si è detto tutto ciò non perchè s' am. bisca lode di questa qualunque siesi fati ca; ma perchè se ne abbia anticipato come patimento. In altri paesi d'Europa la race colta de' versi d' Empedocle o gia è stata egregiamente recata in pubblico; o se non è stata ancor fatta, si potrà certamente fare e più abbondante, e più corretta, e più dotta, che non è questa. Non è quin 191 di la stessa da considerarsi come un ope. ra perfetta, o degna degli sguardi de' Dot ti. Si desidera soltanto, che si tenga la medesima, come un annotazione, con cui si provano i pensamenti d' Empedocle espo sti nella terza Memoria. Ma comunque ciò sia egli è certo, che i versi d'Empedocle smentiscono coloro, che portano opinione lui essere stato o di niú no o di poco valore in poetica. Si fondan costoro sopra Plutarco (1 ), il quale dice Empedocle avere ornato col metro i suoi discorsi per evitare l'umiltà della prosa. Ma non si accorgono aver loro o mal inte so o sinistramente interpetrato Plutarco, il quale pretese sol definire, che sia stata di dascalica la maniera poetica del nostro fie losofo. Questa, come quella, ehe tratta e di filosofia, e di precetti sdegna le finzio. ni e l'invenzione, in cui il pregio, il bel lo, e la natura consiste d'ogni poesia. Per rò quegli disse, ch'Empedocle avea preso (1 ) De Aud. Poet. 192 dalla poesia, senza più, e la pompa, e il meiro. Questo stesso avea già gran tempo prima annunziato Aristotilo, che fu non che savio ma di gran sentimento nelle co se poetiche. Egli, a distinguer la poesia d' Omero da quella d'Empedocle, affermò i uno e l'altro, tranne il metro, nulla tra loro aver di comune. Perché Omero era un Poeta, com’ei diee, ed Empedocle un fisiologo (1 ). Ma se Empedocle, qual didascalico, non merita é nome e lode, che si convie ne a poeta, non si pao negare aver lui necupato in que' dì il primo luogo tra di dascalici, Aristotile di fatto non seppe in miglior modo contrassegnare la differenza tra la vera poesia e la didascalica, che comparando tra loro il più gran poeta e il più eccellente didascalico; Omero ed Em pedocle. Nè altrimenti si pensò ne ' tempi d' appresso. Cicerone chiama egregio il poe (1 ) De Poet. cap. 1. 793 ma d'Empedocle sulla natura (1 ). Anzi mettendo egli a confronto i versi di Par menide, di Xenofane, e d' Empedocle, che furon tutti tre poeti didascalici, dice aper tamente, che più belli ed eleganti erano i versi del nostro filosofo (2 ). Che se poi mancasse ogn'altro argomento ad apprez zare il merito di lui, sarebbe certamente bastevole il sapere i poemi d'Empedocle es sersi cantati ne' pubblici giuochi di Grecia. Ognun sa, che questa, piena allora di gu sto, e severa nel gindicare, non concedea tali onori se non a soli grandiuomini. Nel resto ciascuno su cið, o del raffinamento del la poetica d'Empedocle, ne può da ise giu dicare. Il solo leggere i frammenti, che ci sono restati, basta a far che chiunque ne resti persuaso e convinto. Il dialetto de' Siciliani e de' Pittagorici era comune; e questo appunto era il Dori co. Pure Empedocle avvegnache fosse stato (1 ) Lib. 1 de Orat. (2 ) Acad. Quaest. l. 4. Ъь 194 o Siciliano e Pittagorico, non mise in opera, che il dialetto Jonico, coine quello, ch'era tra Greci poeti il più polito e gentile. Fu inoltre la musa d? Empedocle dolcissima. E. gli ne' suoi versi non sol si servì di quel dialetto, ma nel farli scelse le parole più dolci e sonore. Platone, parlando d ' Era clito, d'Empedocle, dice che le muse di quello eran più dure, e le altre di questo più molli (1 ) ancorchè l' uno e l'altro aves sero usato il dialetto medesimo degli Jonj Plutarco stesso poi non lascia di notare, che gli epiteti apposti da Empedocle non erano, come per lo più esser ' sogliono ne' poeti, di puro ornamento, ma esprimeano la natura delle cose (2 ). Ne cita egli di fatto l'aggiunto dato da Empedocle a Ve. nere qual datrice di vita; il sempre verdeg: giante dato all'alloro; l'abbondante di san gue adattato al fegato: e altri simiglianti. Anzi il medesimo Plutarco da a Empedocle (1 ) Plut. in Sophista. (2 ) Plut. Sympos. l. 6 Erotic. 195 il vanto d' aver meglio e più: destramento usato d'aleuni epiteti d'Omero (1): Ne reca ' egli in pruova l'aggiunto d'agglome rator di nubi, che questi attribuisce a Gio ve, e quegli all' aria, e l'altro di difena SOF del corpo, che Omero dà allo seudo, ed Empedocle all'anima. Ma perchè più dilungarci in rapporta: re antichi testimonj su cið? I franımenti stessi d ' Empedocle chiaro ci mostrano l' éc cellenza della sua poesia. Basta dirsi aver lui tenuto Omero per modello nelle sue o pere poetiche. Le voci, le frasi, le me taforé, la giacitura delle parole, le desi nenze de' versi son le medesime in quello, che in questo. Si può quindi dir con ra gione l'apparenza de' suoi versi, e la sein bianza de' suoi poemi essere stata tutta di Omero. Oltre che riluce in lui una viva cità nelle immagini, e una novità sin" nel le stesse parole. Moltissimi sugi epitéti ed espressivi e leggiadri non si trovano in al (1 ) Plut. Symp, l. 6. bb 2 196 cun altro poeta: 1. pesci, per tacer d i tant altri, " sono chiamati da lui quando nutriti, quando abitatori dell'acqua; gli uccelli cimbe volanti; gli Dei ' di lunghissi. mi secoli. Anzi Aristotile nella sua poeti ca indica come una metafora assai bella, e allora nuova, quella con cui Empedocle esprime la vecchiaja; chiamandola l'occa. so della vita. Chiunque poi legge nelle sue opere la descrizione della natura; " che qual pittore con quattro colori, fa tutte le co se con quattro elementi; o l' altra della visione, che comparata a una lucerna, fa le sue funzioni; o quella della clessidra, o cose simiglianti ', non gli potrà certo ne gare il pregio, che si conviene a vaga e bella fantasia. Per lo che da' framinenti d' Empedocle si prende quel diletto, che pigliar si suole guardando i rottami d'una qualche nostra Greca Sicola anticaglia. Nel mettersi insieme si fatti frammen, ti si sono in prima distinti i versi, che appartengono al poema della natura, da. quelli, che fan parte dell'altro sulle pur 197 1 lande prezi Foce cck que nal elle gazioni. Ciò non è riuscito punto difficile, Perchè il primo tratta di cose fisiche, e 'l secondo di cose morali. In quello d'ordi nario, perchè diretto al colo Pausania i verbi si trovano in singolare. In questo all'oppesto perchè indirizzato ' a Gergenti ni, i verbi si leggono in plurale. Perd e dalla sintassi e dalla materia è stato age vole il se parare i frammenti d'un poema da quelli dell'altro. Si sa oltr'a ciò il poema d'Empedo cle sulla natura esser. diviso in tre libri. Molti stenti ha costato il congetturare qua li sieno stati trà versi, che ci restano, quel li che appartengono o al primo, o al se condo, o al terzo, In çiò fare è stato di mestieri ricercare se per avventura gli scrit tori, che ne riferiscono i frammenti, aba biano citato il libro. Talora d' alcuni ver si, che certamente si sa dalla testimonian za degli scrittori doversi collocare in uno de' tre libri, si è rilevata la materia, che in ciascuno di essi trattavasi dal no stro Gergentino, Stabilita poi la materia la ni che ung en. he da ur. 198 stato ben facile il riferire allo stesso li bro tutti que' frammenti, che si versano sullo stesso soggetto. Ma non di rado con frontando i frammenti tra loro si è trova to, che alcuni finiscono con versi, che son principio di altri. Con tale studio quindi e simigliante artifizio si è cercato di collo care o prima, o dopo alcuni frammenti, che sono dello stesso libro. Nel resto sarà meglio il tutto giustificato nelle note, e l' ordine con cui sono rapportati i frammen ti, e l'autore, da cui sono stati ricavati e l'intelligenza, con cui sono stati interpe trati '. Fra tanto se questo qualunque siesi lavoro non sarà stimato degno di lode, po trà almeno, meritare, nell' emenda de dete ti il perdono del pubblico. RACCOLTA D E FRAMM ENTI. 200 ΠΕΡΙ ΦΥΣΕΩΣ βιβλ. α. Παυσανία συ δε κλυθι δαίφρονος Αγχίτου υιε (1 ). Εστί αναγκης χρημα θεων σφραγισμα παλαιον Αϊδιον πλατεεσσι κατεσφραγισμενον ορκοις (2 ) Τεσσαρα των παντων ριζωματα πρωτον ακους Ζευς αργής, ηρητε φερεσβιος η αίσθωγευς Νηστις θ' ' δακρυοις τεγγα κρενωμα βρoταον Των δε συνερχομενων εξ εσχατων ιστατο νακος (3 ) Διπλ' ερεω: τοτε γαρ εν αυξηθη μονον ειναι Εκ πλεονων τοτε δ ' αυ διεφυ πλέον εξ ενος ειναι Δοιη δε θνητων γενεσις δοιη και απολαψις Την μεν γαρ παντων συνοδος τικτατ’ ολεκτιτε Ηδε παλιν διαφυαμενών θρυφθασα γε δρυπτα Και ταυτ αλλασσοντα διαμπερες εποτε λήγα 201 DELLA NATURA Lib. I. Pausania figliuol del saggio Anchito Tu ciò, ch ' io dico, attentamente ascolta E' volere del Fato, è degli Dei Decreto antico, che ab eterno fue Segnato con solenni giuramenti. Il bianco Giove, la vital Giunone, E Pluto, e Nesti, che piangendo irriga I canali dell'uom, son d'ogni cosa, Odimi in prima, le quattro radici. Ma come quelli tra di lor s'accozzano Dall' ultimo confin sorge la lite. Dųe son le cose, ch' a narrarti io prendo: Ora l'uno dal più risulta, ed ora Nasce dall' uno il più: cosa mortale Doppio ha nascimento, e doppia ha morte. Genera, e strugge l ' union del tutto; E questa sciolta, torna pur di nuovo CC 20 2 Αλλοτε μεν φιλοτητί συνερχομεν ’ ας εν απαντα Αλλοτε αυ διχα παντα φορεμενα νακεος εχθα Εισοκες αν συμφωντα το παν υπενερθε γενητα. Ουτως η μεν εν εκ πλεογων μεμαθηκε φυέσθαι Η δε παλιν διαφυγτος ενος πλεον εκτελεθεσ: Τη μεν γίγνονται τε και και σφισιν εμπεδος αιων Η δε διαλλασσονται διαμπερες αποτε ληγει Ταυτη α εν εασσιν ακινητα κατα κυκλoν. Αλλ' αγέ μυθον κλυθι - μεθη γαρ τοι φρεγας αυξ Ως γαρ και πριν ειπα πιφασκων πειρατα μυθων Διπλ’ ερεω: τοτε μεν γαρ εν αυξηθη μονον ειναι Εκ πλεονων τοτε δ' αυ διεφυ πλεον εξ ενος αναι Πυρ και υδωρ και γαια και κερος απλετον υψος Νικοστ' αλομενον διχα των αταλαντον εκαστον Και φιλοτης εν τοισιν ιση μηκοστε πλατοστε Την συν νω δερκε μη δ ' ομμασιν ησο τεθηπως Ητις και θνητοισι νομιζεται εμφυτος αρθροίς Tητε φιλαφρονεας ιδ ' ομοιϊα εργα τελεσι Γιθοσυνην καλεοντες επωνυμον ιδ " αφροδιτην Την στις μετ ' οτοίσιν ελίσσομενην δεδαηκε. Θνητος ανηρ συ δ' ακ8ε λογων στoλoν εκ απατηλον Ταυτα γαρ ισα τε παντα και ηλικα γενναν εατσι Τιμης δ' αλλης αλλο μεδα παρα δ ' ήθος εκαστω Εν δε μερά κρατεεσι περίπλομενοιο χρονοιο. Και προς τους ατ' αρ' επιγιγεται δ ' απολήγα 203 Ogni cosa, ch' è nata, a separarsi. Tutto alterna cosť, e così dura Eternamente: ed ora in un si accozza Per la virtù dell' amicizia, ed ora Per l'odio della lite si sparpaglia, Standosi in aria, finchè non si unisca, Cosi l'uno dal più nascer costuma. Cosi dall' un già nato il più rinasce. Entrambi han vita; ma la lor durata Non è mai stabil. Perchè l' uno e l'altro Alterna, e l'alternar non ha mai fine Sopra di un cerchio eternamente gira. Ma tu il mio parlare attento ascolta, Che lo spesso sentire, e risentire La mente aguzza. Come pria ti dissi Raccogliendo la somma del discorso Due son le cose, ch'a 'narrarti io prendo. Ora l'uno dal più si forma, ed ora Nasce dall' uno il piii; ch'è terra, e fuoco, και ed aria d'un'immensa altezza, Oltre di questi, che tra lor son pari, Havi lite dannosa, ed amicizia, Ch'ha per lungo, e per largo egual misura.?' u colla mente la contempla. Invano Ed acqua, CC 2 304 Η Ειτε γαρ εφθαροντο διαμπερες εκετ ’ αν καισαν. Τατο δ ' επαυξησε το παν τι κε; και ποθεν ελθον; Πη δε κεν απολοιτο επει των δ ' δεν ερημον; Αλλ ' αυτ ’ εστιν ταυτα διαλληλων δε θεοντα Γινεται αλλοτε αλλα διηνεκες αιεν ομοια (4). 205 Stupidi gli occhi sopra dessa fisi. Questa d'ogni mortal nelle giunture Si vuole innata, e chi n'han senso in mente Fanno, comº essa fa, opre leggiadre. Di Venere col nome o d'allegrezza La chiamano, sebben finor niuno Seppe indicare dentro a quali cose Si aggirasse involuta. O tu niortale, Ascolta i detti, che non son fallaci: L'amicizia, e la lite sono eguali, Hanno la stessa età, l' origin stessa Sol con diverso onor l ' una sull'altra Impera, e piglia, com'è lor costume, Il comando a vicenda al fin del tempo, Scritto a ciascuna dal voler del fato. Nulla viene oltr' a ciò, ch' ancor non è Nulla di quel, che è, desser finisce; Se pur finisse., riaver non mai Potrebbe in alcun tempo l'esistenza. Doy ' andrebbe a perir, se non v'ha luogo Di ciò solingo, ch'al presente esiste? E se quel', che non è, ora venisse D ' onde verrebbe? e che? come potrebbe Accrescer questo tutto, s' egli è tutto?? 206 ! 3. • Επι νεικος μεν ενερτατον ικετο βενθος Δινης εν δε μεση φιλοτης στροφαλιγγα γένηται Εν τη δη ταδε παντα συνερχεται εν μονον είναι Ουκ αφαρ αλλα θελυμμα συνισταμεν αλλοθεν αλλο Των δε μισγομενων χειτ' εθνεα μυρια θνητων Πολλα δ' αμικτ ’ εστηκε κερασσαμένoίσιν εναλλαξ Οσσ ' ετι νεικος ερυκς μεταρσίον • 8 γαρ αμεμτώς Το παν εξέστηκεν επ ' εσχατα τερματα κυκλα Αλλα τα μεν τ ' εμιμνε μελεων τα δε τ ’ εξεβεβηκεν Οσσον δ ' αιεν υπεκπροθεει τοσον αιεν επηει Η επιφρων φιλοτης αμεμπτως αμβροτος ορμη Αιψα δε θνητ’ εφυοντο τα πριν μαθον αθανατ’ είναι Ζωρα δε τα πριν ακρητα διαλλαξαντα κελευθες Των δε τε μισγομενων χειτ' εθνεα μυρία θνητων EΠαγτ οιαις ιδεησιν αρηροτα θαυμα ιδεθαι (5) 207 Sempre dunque le cose son le stesse, Si mischian, si separano, a vicenda Movendosi tra lor, e nascon sempre Novelle forme, ma tra lor simili. Avea la lite già toccato il fine Ultimo del girar, quando amicizia Del cerchio, in cui si volge, al centro arriva. Tutte le cose allor vanno ad unirsi Per fare l'un; ma a poco a poco il fanno, Base a base di quà di là giungendo. Dagli elementi, che tra lor si mischiano Razza infinita di mortali nasce. Ma in mezzo a que', che s'accozzar, vi furo Altri, che ' ncontro senzı alcun miscuglio Restaron puri; perchè lite ancora In alto li tenea Piena di colpa Ella com'è, voleva il tutto scisso Sull' estremo confin del cerchio trarre. Però de' membri, alcuni fuor spuntaro, Ed altri nò. Ma quanto innanzi corre Sempre la lite, tanto sempre è pronta L ' amicizia a venir saggia, divina, Nuda di colpe, d' immortale forza > 208 Σ Η δε χθων τατοισιν ιση συνεχυρσε μαλιστα Ηφαιστω τ ' ομβρωτε και αθερι παμφανοωντι Κυπριδος ορμησθεισα τελειοις εν λιμενεσσιν Ειτ ' ολίγον μειζων ειτα πλεον εστιν ελασσων Ίων αιματ’ εγένοντο και αλλης ειδεα σαρκος (6). Η δε χθων επικαιρος εν ευτυκτοις χοανοισι Τα δυο των οκτω μερεων λαχε νηστιδος αιγλης Τεσσαρα δ ' ηφαιστοιο. Τα δ ' οστεα λευκα γένοντο Αρμογιης κολλησιν αρηροτα θεσπεσιηθεν (7 ). 209 E nascer ecco, e divenir nascendo Della morte alla falee sottoposti Que', che prima sapean esserne immuni, E mutando sentier trovarsi misti Que', che puri eran pria senza miscuglio. Formasi in somma dalle cose miste Un numero infinito di mortali, Che d'ogni specie son, d'ogni figura, Si, ch'a vederli è certo maraviglia. Ne'porti estremi della bella Dea Giunse la Terra là dov' ogni cosa Or di massa crescendo, ed or mancando Il più meno si fa, e 'l meno più. Ivi la Terra in parte egual s'avvenne All' aria trasparente, al fuoco, all'acqua, E da tale union indi formossi Qualunque specie di carne, e di sangue. Quando la terra era d'amor sospinta In pevere ben salde a sorte trasse Dell'otto parti, d' acqua chiara due, Quattro di fuoco: e per divin volere Col glutin d'armonia tutte s'uniro: dd διο Βελιον μεν θερμoν οραν και λαμπρον απαντη Αμβροτα γ οσσ ' εδεται και αργέτι δευεται αυγη Ομβρον δ ' εν πασι νιφρεντα τε ριγηλοντε Εν δ ' αιης προρεεσι θελυμγα τε και στερεωμα. Εν δε κοτω διαμορφα και αν διχα παντα πελονται Συν δ εβη εν φιλοτητι και αλληλοισι ποθκται. Εκ τετων γαρ παντ' ην οσσα τε εστι και εσται Δενδρατο βεβλαστηκε και ανερες ηδε γυναικες Θηρεστ’ οιωνοίτε και υδατο θρεμμονες ιχθυς Και τι θεοι δολιχαιωνες τιμησι Φεριστοι και Αυτα γαρ εστι ταυτα δι αλληλων θεοντα Γινεται αλλείωτα (8 ), 1 911 E l'ossa bianche furon tosto fatte. Da per tutto si vede il Sol, che desta Calore, e lancia della luce i raggi, E quegli ancor, che senza morte sono, Quasi da fame o pur da sete spinti, L'aria ricercar bianco splendente. Puossi ovunque veder l'acqua; che in neve: Talòr si muta, e facilmente gela: o pur la terra, da cui vengon fuori Le salde cose. Quando impera lira Tutto è biforme, ed ogni cosa è scissa, Ma regnando amicizia il tutto corre Pronto ad unirsi, e l'una all' altra cosa Per interno desir s'abbraccia, e stringe. Tutto viene da quelli, e per l'amore, Ciò, che fu, cid, che è, ciò che sard, Germogliaro cosi alberi, e piante Nacquero maschi, e donne, e fiere, e uccelli, E pesci ancor, che son d'acqua nutriti; O pur gli Dei di secoli lunghissimi Chiari per gl' inni, e per gli onor prestanti. Sempre in somma le cose soil le stesse, Sempre tra loro han moto, e cangian forma. d d 2 212 Ως δ ' oπoταν γραφεες αναθηματα ποικιλλωσιν Ανερεσ αμφί τεχνης υπο μη τινος δεδαωτες Οιτ ' επει καιν μαρψωσι πολυχροα φαρμακα χερσι Αρμονια μιξαντε τα μιν πλεω αλλα και ελασσω. Εκ των αδεα πασ' εναλίγκιά πορσυνέσι Δενδρεάτε κτιζοντες και ανερας nde γυναίκας Θηρας τ’ οιωνες τε και υδατο θρέμμονες ιχθυς Και τε θεες δολιχαιωνας τιμησι φεριςτες Ουτω μη σ ' απατα φρενα ως νυ κεν αλλοθεν «να Θνητων οσσα γε δηλα γεγαασιν εσπετα πηγήν. ταυτ ' ισθί θεα παρα μυθον ακουσας (9 Αλλα τορώς Εν δε μερα κρατεεσι περίπλομενοίο κυκλοίο Χα, φθιγει ας αλληλα και αυξεται εν μέρει αισης Αυτα γαρ εστι ταυτα οι αλληλων δε θεοντα Γιγοντα ανθρωποιτε και αλλων εθνέα θνητων: Αλλοτε μεν φιλοτητα συνερχομεν ασ ενα κοσμου 213 Qual dipintor nell'arte sua perito Sa' i quadri variar, che la pietate Del tempio alle colonne, appende in dono A santi numi. Egli con man piglian do Ora più, ora men di questo, è quello Colore, insiem con ' armonia li vmischia, E poi con essi va pingendo immagini Che son del tutto simili agli oggetti: Uomini, donne, fiere, uccelli, e piante;. Ed i pesci, che son đ 0 pur gli Dii di secoli lunghissimi Chiari per glinni, e per gli onor prestanti; Cosi la mente certo non s'inganna Dº ogni nato mortal qualora dice Esserne fonte sol quegli elementi. Tu.ciò, che ho detto, tieni pur per fermo. Di tutto il nascer sai, fuorchè di Dio, Sul quale il mio parlar non è diretto. acqua nutriti Or l'amicizia, ed or la lite impera Del cerchio intorno rivolgendo i passi, E luña e l'altra, come vuole il fatoo Manca a vicenda, ed a vicenda sorge. Sempre le stesse son, sempre alternando 214 Αλλοτε δ ' αυ διχ' εκάστα φορεμενα νικεος εχθα Εισοκεν αν συμφωντα το παν υπεγερθα γενηται. Ουτως η μεν εν εκ πλεονων μεμαθηκε φνεσθαι Η δε πάλιν διαφωντος ενος πλεον εκτελεθεσι. Τη μεν γίνονται και και σφισιν εμπεδος αιων Η δε τα διαλλάσσοντα διαμπερές δαμα λογια Ταυτη αιεν εασσιν ακινητα κατα κυκλος (1ο). Σ Τεσσαρα των παντων ριζωματα πρωτον ακα! Πυρ και υδωρ και γαιαν η αιθερος απλετον υψος Εκ γαρ των οσατ' ην οσατ ' εσσεται οσσα τ ' εσσι(11 Αυταρ επε μεγα νεικος ενι μελεεσσιν ετρέφθασε Ες τίμαστ' ανορεσε τελιoμενοιο χρονοιο Ο σφιν αμοιβαιος πλατεος παρεληλατο ορκα (12 ) 15 Si muovono. Deil' uom la razza nasce, Tant' altre razze di mortali han vita. Talor per amicizia in ordin bello Tutto si unisce; ma talor per stizza Di lite il tutto si separa, è stassi Sospeso in alto, finchè non s'unisca. Cosi l'uno dal più nascer costuma. Così dall' un già nato il più rinasce. Entrambi han vita, ma la lor durata Non è mai stabil. Perchè l'uno, e l' altro Alterna, e l'alternar non ha mai fine Sopra d'un cerchio eternamente gira. Quattro, figliuol d'Anchito, in prima ascolta Son radici di tutto: il fuoco, e l'acqua, La terra, e l ' aer d'un immensa altezza; Perchè da questi sol viene, e deriva Ciò, che fu ', ciò, che è, ciò, che sard. Dopo, che lite, la gran lite ascosa Era stata ne' membri, il tempo scorso, Agli onori salt. Perchè l'impero Alternar si dovea, com'era scritto Con solenne, ed eterno giuramento. 256 Αρτια μεν γαρ αυτα εαυτων παντα μερέσσιν Ηλεκτωρτε Χθωντε και κρανος ηδε θαλασσα Οσσα Φιν εν θνητοίσιν αποπλ.αχθεκτα πεφυκέν. Ως δ ' αυτως οσα κρασιν' επαρκεα μαλλον εασσιν Αλληλοις εστερνται ομοιωθεντ' αφροδιτη. Εχθρα πλειστον επ', αλληλων διεχεσι μαλιστα Γεννητε κρασατε και αδεσιν εκμακτρισι Παντη συγγίγεσθαι αηθεα και μαλα λυγρα Νακεσ γεννηθεντα οτι σφισι γεννας οργα (13 ),. Αλλο δε τοι ερεω • φυσις αδενος εστιν απαντων Θνητων εδε τις ολομενα θανατοιο τελευτη Αλλα μογον μιξις τε διαλλαξις τε μιγεντων Εστι. φυσις δε βρoτοις ονομαζεται ανθρωποισι (14) Οι δ ' οτε δε κατα φωτα μιγεν φως αιθερι κυρα Η κατα θηρων αγροτέρων γενος και κατα θαμνων Ηε κατα οιωνων τοτε μεν τα δε φασι γενεσθαι 217 Tutto è perfetto, perchè tutto ha pari Íl numer delle parti, che il compone. Tal è la Terra, il Sole, il Cielo, il Marc E tutto quel, che tra mortali errando Miste ha le parti giusta sua natura. Ciò, che ridonda poi al lor miscuglio Da Venere s ' unisce al suo simile, Giacchè le cose simiglianti forte S'aman tra lor. Na spesso le divide L'inimicizia. Nascon quindi mostri Strani assai per la stirpe., e per la tempra, E per le forme, ch' hanno in loro impresse; Perchè la lite li produce allora Ch' appetiscon le cose il generare. Un altra cosa a dichiararti io prendo: Nulla ha natura, nè mortale ha morte, Che danno arrechi. Perch' è sol miscuglio, E delle cose miste è scioglimento Ciò, che natura gli uomini chiamaro. Quando a caso nell'aria s'imbatte Il miscuglio, che fa dell' uom la razza, O quella degli uccelli, o delle piante, 218 Ευτε ο αποκριθωσι τα δ ' αυ δυσδαιμονα ποτμαν Ειναι καλεσιν (15 ). Βιβλ. β. Νυν δ ' αγε πως ανδρωντε πολυκλαυτωντε γυναικων Εννυχιες ορπηκας ανήγαγε κρίνομενον πυρ Των δε κλυθ'.8 γαρ μυθος αποσκοπος εδ' αδας μων Ουλοφυες μεν πρωτα τυποι χθονος εξανατελλον Αμφοτερων υδατοστε και αδεος αι σαν εχοντες τετ' ανέπεμπε θελον προς ομοίον ευεσθα Ουτε τυπω μελεων ερατον δεμας εμφαινοντες Ουτ’ ενοπην ετ ' αυ επιχωριον ανδρασι, ηουν (16 ) Πυρ μεν Πολλα μεν αμφιπροσωπα και αμφιστερνα φυέσθαι Βεγενη ανδροπρωρα τα δ ' εμπαλιν εξανατέλλας Ανδροφυη βεκρανα μεμιγμεγα τη μεν υπ ανδρων Τη γυναικοφυη σκιεροις ήσκημενα γυιοις (17). 219 O de' bruti selvaggi, allor si dice Che nascon essi; e quando si discioglie Il miscuglio di lor, ch' han trista morte, Lib. II. Come nel separarsi il fuoco trasse De' maschi i germi oscuri, e delle donne, Che piungon molto, odimi, che 'l dire Rozzo non è, nè fuor sen va del segno. Perfetti in prima dalla terra i tipi Spuntaron tutti. Ma siccome il fuoco Su n'esulò il suo simil -bramando, Restaron quelli sol umide forme, e l'immago per lor parti aventi. Però nel tipo de' lor membri ancora Non mostravan ľamabili fattezze Del corpo, non ancor l'organ di voce, Nè la natia degli uomini favella. L'acqua, Nascon de' mostri con due facce, o petti.. Bovi son questi con umano volto, Comini quelli con bovina testa, D'opachi membri son forniti, e tutti e e 2 2 20 Η μεν πολλαι κορσαι αγαυχενες εβλαστησαν Οφθαλμοι δε επλασθησαν γαρ πτωχοί μετωπων (18 Βραχιονες γυμνοι χωρίς μορφονται γε. ωμων (19). Τατον μεν βρoτεων μελεων αριδαιαστον ογκον • Αλλοτε μεν φιλοτητα συνερχομεν' ας εν απαντα Για το σωμα λελογχε βια θαλέθοντος εν ακμή. Αλλοτε δ ' αυτε κακησι διατμηθοντ ’ εριδεσσιν Πλαζεται ανδιχο εκαστα περι ρηγμινι βιοιο. Ως αυτως θαμνοισι και ιχθυσιν, υδρομελαθροις Θηρσιτ’ οραμελεεσσιν ιδε πτεροβασμισι κυμβας (20 Σδε δ αναπνα παντα και εκπγ: πασι λιφαιμο ! Σαρμων συριγγες πυματον κατα σωμα τετανται Και σφιν επιστομίοις πυκνοις τετρηντα αλοξι Ριγων εσχατα τερθρα διαμπερες. ωστε φαγον μεν Σ 221 L'han di maschio, e di donna insiem confusi Sorsero teste senz' aver cervici. Privi di fronte furon fatti gli occhi. Nude le braccia senza spalle fatte, I membri umani giaccion tutti in massa Bella, e vistosa. Per anior talvolta S' uniscono tra loro, e corpo a caso Nel fior si forma della verde etate. All'opposto talor spiccansi i membri Per trista lite, e quà e là d' intorno Alla spiaggia di vita erran divisi. Apvien ciò pure agli alberi, alle fiere Che montanine son, a pesci ancora Abitator dell acqua, ed agli uccelli Che solcan l ' aria coll ' alate cimbe Ecco nel respirar come da tutti L' aer dentro si tira, é fuor si manda, Delle vene i canali si propagano Agli estremi del corpo, e metton capo Delle nari ne' solchi, in cui le punte 2 2 2 Σ Kευθαν αιθερι δ ευπορίαν διο οισι τετμησθαι Ενδεν επαθ οποτ.ν μεν επαίζη τερεν αμα Αιθαρ παφλαζων καταϊσσεται οίδματι μαργω. Ευτε δ ' αναθρησκ 4 πμλιν εκπν: 1. ωσπερ οταν πας Κλεψυδρας παιζοσα δι ευποτρος καλκoιο Ευτε μεν αυλα πορθμον επ' ευκαδα χερι θισα Εις υ2τος βαπτητι τερεν δεις αργυφεοιο Ουδε γ' ες αγγος ετ’ ομβρος εσέρχεται αλλα μιν εργ ! Αερος όγκος εσωθι πεσων επί τρηματα πυκνα Σισοκ α τ οστεγασι πυκνον ρέον. αυταρ επάτα Πνευματος ελλειποντος εσέρχεται αισιμων υδωρ. Ως γ' αυτως οθ' υδωρ μεν εχω κατα βενθεα καλκα Πορθμα χωσθέντος βρoτεί » χροι ηδε πορο! ο Αιθήρ δ' εκτος εσω λελιημενος ομβρον ερυκα Αμφι πυλας ισθμοιο δυσηχεος ακρα κρατύνων Εισοκε χέρι μεθ, τοτε δ' αυ παλιν εμπαλιν και πριν Πνεύματος εμπίπτοντος υπεκθι αισιμον υδωρ - Ως δ' αυτως τερέν αιμα κλαδισσομενον δια γυιων Οπποτέ μεν παλινoρσον επαιν5 μυχονδε Θατερον ευθυ, ρεμα κατερχεται οι ματι θυον Ευτε δ' αναθρων Α4 παλίν ειπν.4 ισον οπισσα (21). 223 Hanno sturate, Ma di sangue in parte Sono que tubi, e non del tutto pienii. Però calando giù s'occulta il sangue, E lascia all ' aer libera ed apertit Dell'entrata lu vir per le bouciucce. Avvien cosi, che quando il sangue molle In gil si lancii nell'interno, tosto L'aria, che ferve, con sue vacue bolle Entra con furia. E quando poi balzando Ritorna il sangue, torna fuor di nuovo Uscendo l'aria. Guarda quà donzella Intenta a trastullare colla clessidra Di facil bronzo, ch'al martello regge. Empier d'acqua la vuol: perciò ne tura Colla sua bella man prima la bocca Dell'orifizio, e quindi per la base Di spessi forellin tutta bucata L'immerge in mezzo della limpid' acqua. in questa intanto dentro non penétra Perché l'aria racchiusa nella clessidra Sovrastando a' forami con la molla L ' acqua preme, sospinge, ed allontana. Che se appena riapre la donzella Il già chiuso orifizio, di repente Ως δ ' οτε τις προοδον νοεων ωπλίσσάτο λυχνον Χειμεριην δια νυκτα πυρος σέλας αιθομελοιο 225 L'aria sen fugge; e come questa manca L'acqua fatale, che presiede all' ore, Ch'entrar pria non potea, entra nel vaso. La clessidra è già piena: or la donzella In altra guisa guarda là, che gioca. Ella con man turandone la bocca Dalla base forata vuol che cada L' acqua fatale, di cui quella è zeppa. Ma cupido d ' entrar laer di fuori Quasi forte confin l ' acqua ritiene Intorno á forellini gorgogliante. Se quella poi leva la mano, allora All'opposto di pria laer di sopra Cadendo all ' acqua ý giù la manda, è questa Per gli forami della base gronda. Tal è del sangue, che colante scorre Per le membra. Se presto si ritira Affollandosi in dentro, allor di colpo Schiumosa l' aria con vigor rientra. Poi quel ratto s' avanza, e questa fuori Esce coil passo egual retrocedendo. Come d'inwerno per l'oscura notte Chi prende a viaggiar prima prepara - ff 226 Αγας παντοίων ανεμων λαμπτηρας αμοργός Οιτ ' ανεμων μεν πνευμα διασκιανασι αεντων Φως δ ' εξω διαθρωσκον οσον ταγαωτερον ηεν Λαμπεσκεν κατα βηλον αταρεσι ακτινεσσιν. Ως δε τον εν μηνιγξιν εεργμενον ωγυγίον πυρ Λεπτησιν οθονησιν εχευατο κακλοπα κερης Αι δ ' υδατος μεν βενθος απεστεγον αμφινααντος Πυρ δ ' εξω διαθρωσκον οσον τανάωτερον Μεν (22) U Βιβλ. και Ου τοσε τι θεος εστιν και τοτε και τοδε Ουκ έστιν πελασθαι εν οφθαλμοίσιν εφικτος Ημετέροις η χέρσι λαβαν υπερτε μέγιστη Πειθες ανθρώποισιν αμαξιτος ας φρεγα πιπτα. Ου μεν γαρ βροτεη κεφαλη κατα γυια κεκασθα Οι μεν απαι γωτων γε δυο κλαδοι ασσεσιν (227 Lampade,.e lume di un ardente fiamma, E poi li mette dentro una lanterna, Che da venti difenda la fiammella; Perchè di questi come van spirando Disperge il soffio. Ma di fuor si lancia La luce, intanto, e quanto più si estende, Tanto illumina più presso la struda Corai di notte vincitor non vinti; Cosi il naturale antico fuoco, Che la pupilla circolure irradia, Stassi dell' occhio in le membrane chiuso Sottili al par di vel, che dall ' umore, Il quale in copia dall' intorno scorre Tutto il difendon. Ma di là movendo Quanto più lungi puà fuori sį spande. Lib. III: 1 Nè questo, o quello, nè quell' altro è Dio, A noi cogli occhi non è mai concesso Di poterlo veder, nè colle mani Di poterlo trattar: che della mente Esser suole la via grande, e comune, Per cui persuasion entra nell' uomo. 228 Οι ποσες και θοα γουνα παι μηδεα λαχνηεντα Αλλα Φρην ιερη και αθεσφατος επλετο μενον, Φροντισι κοσμον άπαντα καταϊσσεσα θοησιν (23 ) ΠΕΡΙ ΦΥΣΕΩΣ. Ει δ ' αγε νυν λεξω πρωθ ηλιον αρχην Εξ ων δη εγενοντο τα νυν εσoρωμεγα παντα Ταράτε και ποντος πολυκυμων ηδ' υγρος αηρ Τιταν η δ αθηρ σφιγγων περί κυκλoν απαντα (24) 229 Iddio non è di mortal capo ornato, Che su membri s'estolle. A lui sul dorso Non spiegansi i due rami. Egli non have Ginocchia, che al cammin ci fan veloci. Egli piedi non ha, nè quelle parti Che vergogna, e lanugine ricopre. E mente sol, è sacra mente Iddio, Ch'esprimer non si può da nostra lingua: In un istante tutta la natura Col veloce pensier ricerca, e scorre. DELLA NATURA. V B R SI Che non si sa a quale de tre Libri appartengono. Dirotti in prima co' mięi versi d' onde Ebbe origine il Sole, e d'onde ogn'altro Che noi veggiam; l ' ondoso mar, la terra L'aria, che nel suo sen chiude, e raccoglie Ogni umido vapor, la luce, e letere Che tutto cinge, e tutto intorno avvolge. 23ο Πως και δενδρεα μακρα και ειναλιοί καμασκνες (25 ) Ειπερ, απαρονα γης τε βαθη και δαψιλος αθηρ Ως δια πολλων δη γλωσσης ρηθεντα ματαιως Εκκέχυται στοματων ολιγον τε παντος ιδόντων (26) Ουδε τι τα παντος κεγεον πελα ουδε περισσον (27 ) Ως γλυκυ μεν γλυκυ μαρπτε πικρον δ ' επι πικρον Ορέσες οξυ ο επ ' οξυ εβη θερμον δ εποχευετο θερμος (28): Γνους οτι παντων « σιν απορροια οσσ ' εγένοντο (29) Kευθεα θηριων μελεων μυκτηρσιν ερευνων (3ο) Ούτω γαρ συνεχυρσε θεων τοτε πολλακι δ ' αλ λος (31). 23 In qual maniera furon pria formati E gli arbor alti, ed į marini pesci. Per la lingua di molti invan discorre La terra, e l ' Eter non dver con fine Quella nelle radici e questo in alto. Ciò la bocca di color si sparge per Che nulla, o poco sanno, e guardan lungi Colla veduta corta d'una spanna » Vacuo non c'è, e nulla pur ridonda; U Dolce a dolce s' unisce, ed all' amaro Corre l'amaro, e l'aspro all aspro vanne, E verso il caldo si conduce il caldo. Ogni corpo, ch ' esiste, il dei sapere, Vibra lungi da se parti vaganti, Fiutando indaga le ferine tane, Tale in quel punto s’intoppò correndo Ma in altra guisa per lo più s' avviene 233 οπη συγεκυρσεν απαντα (35). Η δ ' αυ φλοξ ιλααρα μινυνθαδικαις τυχε γαιης (33 ) Κυπρίοδος εν παλαμης πλασέως τοιηστε τυχοντα (34 ) Τη δε μεν ιοτητι τυχης πεφρονήκεν απαντα (35 ) (Και καθ' οσον μεν αρμοτατα συγκυρσε πεσοντα(36) Αλλα οπως αν τυχη (37 ) ΓIαντα γαρ εξακης πελειζετο γυια θεσιο (38) Και δα παρ’ ο δη καλαν έστιν ακουσαι (39) Ενθ' ουτ' ηελιοιο διειδετο ωκεα γυια (40) Αρμογιης πυκίγως κρυφα εστηρικτα (41 ) Σφαιρος κυκλοτερης μοί1 περίγ 19 εκων (42 ) 237 Dove ogni cosa s' imbatte i Fiamma lunare s' incont Insiem con Terra, che Nelle man di Ciprigna cost Col parer di fortuna al tutto intese In quanto a caso s'accordar tra loro Nell'incontrarsi Ma come sorte volle Tutte di mano in man le membra scosse Furon del Dio Ciò, che è bello convien, che si ripeta Le pronte membra non vedeano il Sole Salde in occulto d' armonia fur fatte In tonda sfera stretto quasi il tuttó 234 Αυξα δε χθων μεν σφετέρος γενος αθερα δ ', αι: θηρ (43 ). Κατα το μαζων εμιγνυτο δαιμονι δαμων (44). Αιθηρ μακρησι κατα χθονα δυετο ριζας (45 ). Οινος απο φλοιου πελεται σαπεν εν ξυλω υδωρ (46) Αλλα διεσπασθαι μελεως φυσις ή μεν εν ανδρος Η γ ' εν γυναικος (47 ). Μηνος εν ογδοατα δεκάτη που επλετο λευκον (48) Ως δ ' οτ’ οπος γαλα λευκών εγομφώσει και εδη - σεν (49). Ουτω δε ωοτοκει μικρα δενδρα πρωτον ελαιας (5ο ) Νυκτα δε γαια τιθησιν υφισταμενη φαεισσι (51 ) 235 Lieto dell'unità solingo gode: > Aria ad aria s ' aggiunge, e terra a terra; Il minore al maggior spirto s' unisce: Della terra le barbe aer penetra; L'acqua scomposta sotto la corteccia Vino diventa, Della prole le membra stan dis ise Parte nel maschio, e parte nella femina, Al giorno dieci dell' ottaro mese Nelle poppe si forma il bianco latte. Come gaglio rappiglia il bianco latte, Cosi da prima partoriscon l'uovo Gli arbor non alti della verde uliva Luce impedendo fa la terra notte. an 2 236 Ήλιος οξυβελης ηδε ιλαϊρα σεληνη (52 ). απέσκεδασε.αυγας Ες γαμαν καθυπερθεν απεσκιφωσε δε γαιης Τοσσον οσοντ ’ ευρος γλαυκωσιδος επλετο μηνης (53. Гщи ру тар уцау апожариву детi * Uдор Ηερι δε ηερα διον ατάρ πυρι πυρ αιδηλον Στοργην δε,στοργη κακος δε τε νεικεί λυγρω (54). Παντα γαρ ισθι φρονησιν εχαν και σωματος αισαν(53 Λιματος εν πελαγεσι τετραμμενα αντιθρωντος Τη τε νοημα μαλιστα κικλεσκεται ανθρωποισιν Αιμα γαρ ανθρωπους περι καρδιον εστι νοημα (56). Προς παρεον γαρ μητες αεξεται ανθρωποισι (57 ). οθεν σφισιν ας Και το φρογαν αλλοια παριστατα (58 ). 1. 237 Dolce è la Luna, e durdeggiante il Sole. Disperge i raggi sulla Terra, e sopra Tant è la luce, che le fura, quanto Il disco è largo della glauca Luna. Terra veggiam con terra, acqua con acqua, Aer divin con aere, e lucente Fuoco con fuoco, e con amore ' amore, E veggian lite con dannosa lite. Uomini, bruti e piante ben lo sai Han tutii mente, e parte di ragione, Stassi la mente dove più ridonda II sangue, che su giù sempre si muove, Perchè dal sangue, che circonda il core Il pensiero nell' uom sua forza prende; Il pensare dell' uom cresce e al presente Però il pensare sempre a lui diverse Mostra le cose. 238 Ενδ ' εχυθη καθαροισι τα δε τελετουσι γυναικες Ψυχεος αντιασαντα (59 ). Νηπιοι και γαρ σφιν δολιχοφρονες ασι μεριμνα Οι δε γενεσθαι παρος εκ εον ελπιζασιν Ητοι καταθνησκαν τε και εξολλυσθαι απαντη (6ο ), Αλλα κακοίς μεν καρτα πελ4 κρατ€8 σιν απιστών, Ως δε παρ' η ιετερης κελεται πιστωματα μεσης Γναθη διατμεζεντα ενι σπλαγχνοισι λογοιο (61 ) Ταυτα τριχες και φυλλα και οιωνων πτερα πυκνα Και λεπίδες γιγνονται επί στιβαροισι μελεσσιν (62 ) αυταρ ελικος οξυβελας νωτοισι δ ' ακανθι επιπεφρικασι (63 ). Της δαφνης των φυλλων απο παμπαν εχεσθαι (64) 239 Col solito calor si forma il maschio Ma se l'utero poi s'affredda a caso La famina ne vien. Stolti non lungi col pensier veggendo Prendon lusinga di poter esistere Ciò, che innanzi non fu, o quel, ch'esiste Potersi in tutto struggere, e perire. Il malvagio non crede, e non cedendo Alla forza del ver, trionfo meni, Ma cosi detta, e vuole, che tu creda La nostra musa. Tu dentro l'interno I detti scissi, ne penétra il senso. Della stessa natura sono i peli, Degli arbori le frondi, e degli uugelli Le fulte piume, o pur le squame sparse De' pesci sopra la ben soda carne. Ed il riccio marin, a cui le spine Acute gli si arricciano sul dorso, Dalle foglie d' allor la man ritieni 240 Τετο μεν εν κογχασι θαλασσονομοις βαρυνωτοις Και μην κηρυκαντε λιθορρινων χελυωντε Ενθ οψε χθονα χρωτος υπερτατα ναιεταεσαν (65) Βυσσω δε γλαυκης κροκο καταμισγεται (66). Φυλος αμουσον άγουσα πολυστερεων καμασκηνων(67 κορυφας ετεράς ετεραισι προσαπτων Μυθων μητε λεγαν ατραπον μιαν (68). Νυκτος ερκμαιης αλαωπιδος (69). Αλφιτον υδατι κολλησας (7ο). θαλλαν Καρπων αφθονιισι κατ ηερα παντ εγιαυτον (71 ). Ουδε τις ην κανοισιν Αρης θεος, ουδε Κυδοιμος Ουδε Ζευς Βασιλευς, ονδε Κρονος, ουδε Ποσειδων Αλλα Κπρις Βασιλαα. 241 Del mar le conche di pesante dorso, Il murice riguarda, e le testuggini Che son coperte di petrose scaglie: Bene in questi aninai veder tu puoi Come del corpo sta la terrợ in cima. Si mischia al bisso il fior del croco azzurro. La goffa turba de' fecondi pesci Guidando Somma a sonima giungendo del discorso Per diversi sentier prender cammino Della solinga tenebrosa notte Coll acqua unendo la farina d'orzo. Germoglian ricchi di lor frutta in tutte Le stagioni dell'anno in mezzo all' aria. Marte non han qual Nume, nè Minerva Del tumulto guerriero eccitatrice: A Nettuno, a Saturno, Giove il rege hh ) 242 Την οιν' ευσεβεεσσιν αγαλμασιν ιλασκονται Γραπτοις δε ζωοισι, μυροισι τε δαδαλεοδμοις, Σμυρνης τ' ακρητου θυσιαις λιβανου τε θυωσους Ξουθων τε σπονδας μελιτων ριπτοντες ες ουδας (72 Στανωποι μεν γαρ παλαμαι κατα για κέχυνται Πολλα δε σαλεμπη α τατ ’ αμβλυνεσι μεριμνας Παυρον δε ζωησι βια μερος αθροισαντος Ωκυμοροι καπνοίo δικην αρθεντες απεπταν. Αυτο μονον πασθεντες οτω προσεκυρσεν εκαστος Παντος ελαυνομενοι και το δε ολον ευχεται ευρειν Ουτως ατ’ επιδερκτα τα δ' ανδρασιν ετ ' επακιστα Ουτε νοω περιληπτα (73). ή και συ 80 επα ωο " ελιασθης Πευσεαι.ε πλεον γε βροτάη μητις ορωρε (74). 243 Negano omaggio; e prestan solo il culto A Venere Regina, che sdegnata Placan con santi simulacri, e pinti Animali, e con mille odor, che l'arte Ingegnosa travaglia, o co' profumi Di pura mirra, e d'incenso spirante Soave odore, e fanle sagrifizio Sopra la terra il biondo miel spargendo. In parte angusta delle membra è sparsa La nostra mente. Abbonda pur la cispa Ch' ottenebra il pensier, e ne' viventi Poch'è la porzioni di vital forza, Che qual fumo sen fugge, allorchè morte Di repente ei fura. E quindi ognuno, D' ogni parte sospinto, sol di quello, Cui per sorte s' avvien, resta sicuro. Altero intanto di trovar presume Tutto, e saper ciò, che non puossi ancora Nè veder, nè sentir, nè colla mente Comprendere dall ' uom. Giacchè vagando in guisa tal ti scosti Prendi consiglio da ragion; che l'uomo hh 2 244 Αλλα θεοι των μεν μανιην αποτρεψατε γλωσσης Εκ δ ' οσιων στοματων, καθαρην οχετευσατε πηγην Και σε πολυμνηστη λευκο λενε παρθενε μεσα Αντομαι ων θεμις εστιν εφημερoισιν ακ84ν Πεμπε παρ' ευσεβιης ελασσ' ευημιoν αρμα Μηδε σεγ ευδοξοιο βιησεται ανθεα τιμης Προς θνατων αγελεσθαι εφ ω ' οσιη πλεον απον Θαρσα και τοτε δη σοφιης επ ακροισι θοαζη Αλλα γαρ αθρεα πας παλαμη πη δηλον εκαστον Μητε τιν οψιν εχων πιστει πλεον η κατ’ ακτην Η ακοην εριδαπών υπερ τρανωματα γλωσσης Μητε τι των αλλων οποση πορος εστι νοησαι Γυιων πιστην ερυκε γορα θ ' η δηλον εκαστον (75). 245 Col suo saper più oltre non s'inalza. Dalla lor lingua, santi numi, tale Furor cacciate, e dalle vostre bocche La purissima vena in lor sgorgate. Te Verginella bianchibraccia musa, Cui più corteggian disiosi amanti, Te prego attente a porgermi l'orecchie A fin di quello udir, che lice all ' uomo, E come te non pungerà la gloria Fiori a coglier d'onor presso i mortali, Perciò più cose ti potrò svelare. Ma agitando i destrier docili al freno Porta da Religion lontano il carro. Prendi fidanzı: andrai ratta a sedere Di sapienza allor sull’ alta cima. Colla ragion contempla il tutto, e vedi Ciascuna cosa chiarų si, che certa Ti si dimostri. Ne maggior la fede Presta al senso di vista, che all' udito; Nè all'orecchio, che raccoglie i suoni Credi più della lingua, che discopre Le cose. Nè all'una più, ch' all'altra Credi di quelle vie, per cui ci viene 246 Πεση Φαρμακα και οσσα γεγασι κακών και γηραος αλκας ετα μενω σοι εγω κρανεω ταδε παντα. Παυσις δ ' ακαματων ανεμων μενος οιτ' επι γαιαν Ορνόμενοι πνοιαισι καταφθινυθουσιν αρουραν Και παλιν ην και εθελησθα παλιντονα πνευματ' επαξές Θησεις δ ' εξ ομβροια κελαινα καιριον αυχμον Ανθρωποις θησας δε εξ αυχι8οίο θεραου Ρευματα δενδρεοθρεπτα τα δ' εν θερι αησαντα Αξας δ ' εξ αΐδαο καταφθίμενου μενος ανδρος (76). 247 La notizia de' corpi, ed il pensare. De' sensi in somma poni giù la fede: Ti sia guida ragion, onde discerna In ogni cosa chiaramente il vero. Quanti i rimedi fugator de' morbi, Come vecchiezza si conforti, udrai. Che tutto a te io solamente suelo, De' venti infaticabili frenare L'ira saprai; che con furor piombando Sopra la terra, col soffiare, i campi Guastano tutti; o pur se n'hai piacere Concitar li potrai, se son tranquilli. Saprai d'inverno tra procelle scure Produr di state il lucido sereno, O pur nel fitto della secca state Produr le piogge, che nutriscon gli alberi, E del caldo l'ardor tempran movendo Aure soavi. Giungerà tua forza Sin dall'inferno a richiamar gli estinti. 248 ΠΕΡΙ ΚΑΘΑΡΜΩΝ. Ω Φιλοι οι μεγα αστυ κατα ζανθου Ακραγαντος Ναιετ ακρην πολεως αγαθων μεληδεμονες εργων χαιρετ. εγω δ υμιν θεος αμβροτος ουκ ετι θνητος ΓΙωλευμα μετα πασι τετιμένος ωσπερ εοικε Ταινίας τε περιστεπτος στεφεσιν τε θαλαιης Τοισιν αμ’ ευτ ’ αν ικωμα ες αστεα τηλεθοωντα Ανδρασι ηδε γυναιξι σεβιζομαι. οι δ ' αμ' εποντα Μυριοί εξερεοντες σπη προς κερδος αναρπος Οι μεν μαντοσυνεών κεχρημενοι οι δε τι νουσων Παντοίων επυθοντο κλύειν ευηκέα βαξιν (77). Αλλα τι τοις δ ' επικειμ' ωσει μέγα χρημα τι πραση σών Ει θνητων περιειμι πολυφθορεων ανθρωπων; (78 ). 249. DELLE PURGAZIONI. Salvete, o miei diletti, abitatori Dell' alta rocca, e della gran cittate, Che del biondo Acragante bagnan l’acque. Salvete, o cari, cui virtute è cura. Immortale sori Dio, nè qual mortale Sto più tra voi, d'onor, siccom'è giusto, Pieno fra tutti. Allorchè cinto il capo Di larghe bende, e di festanti serti Io porto il piè sulle città fiorenti, Corrono, e maschi, e donne a darmi culto. E mille, e mille, che là van col passo Dove dritto il sentier li mena al lucro, Ali s'affollan d'intorno nel cammino: E mi seguono ancor quelli, che intenti Stansi a svelar dell'avvenir gli arcani, Ed altri, che saper bramano l'arte Sagace di guarir qualunque morbo. Ma perchè mi dilungo tali cose Nel riferire, quasichè d'eccelse Gesta pur si trattasse, se vincendo Ogni mortal, sopra di lor m’inalzo? ii 25ο Σ Εστι δε αναγκης χρημα θεων ψηφισμα παλαιον Ευτε τις αμπλακιησι φονω φιλα γυια μιανη Δαιμονες οιτε μακραιωνος λελογχασι βιοιο Τρις μιν μυριας ωρας απο μακαρων αλαλησθαι Την και εγω νυν αμι φυγας θεοθεν και αλήτις Νακεί μαινομεγω πισυνoς (79). Αιθεριων μεν γαρ σφε μενος ποντον δε διωκεα Ποντος δ ' ες χθονος ουδας ανεπτυσε γαιαδες αυ γας Ηελία ακαμαντος οδ ' αιθερος εμβαλε δινας Αλλος δ ' εξ αλλε δεχεται στυγερσι δε παντες (8ο αγα λοιμωγατε και σκοτος ηλεσκέσις (81). 251 be E ' volere del fato, è degli Dei Decreto antico, che s'alcun peccando Di quegli spirti, che sortiron vita Lunghissima, lordò le proprie mini Quasi di sangue, sia costui cacciato Lungi dall' alte sedi, in cui beata Vivon, vita gli Dei, e vada errante In репа del fallir tapino in terra, Finché ritorni primavera ai campi Tre volte dieci mila; ed un di questi Io son, ch' ora dal Ciel men vo lontano Vagando quà, e là esul ramigo, Solo in poter di furibonda lite. } L'aria gli spirti, che falliro, caccia In mar con forza, il mar li getta in terra, La terra li rigetta su lanciando Del sole infaticabile ne' raggi, D ' aria nel turbo il sole infin gli scaglia. L'un dopo l'altro van cosi girando, E tutti traggan pien di duolo i giorni. Van per gli prati, e per lo scuro erranti ii 2 252 Ενθα φόνoστε κοτοστε και αλλων εθνεα κηρων (82 ) Κλαυσα τε και κοκυσα ιδων ασυγηθεα χωρον (83 ) Ω πoπoι η δειλον θνητων γενος ω δυσανολβον Οιων εξ εριδων εκ τε στoναγων εγεγεσθε (84). Εξ οιης τιμης και οι μηκεος ολβα (85). Εκ μεν γαρ ζωων ετιθεα νεκρα «δε' αμκβων (86) Σαρκων αλλογνωτί περιστελλασα χιτωνε Και μεταμπεχασα τας ψυχας (87). Ηλυθομεν του ' νπ ' αντρον υποστεγον (88). Ηδη γαρ ποτ' εγω γενομενην κεροστε κορητε Θαμνοστ’ οιωνοστε και εν αλι ελλοπος ιχθυς (89). Εν θηρσι δε λεοντες οραλεχεες χαμαιεύναι Γιγονται σαν ναι εγι δενδρεσιν ηύκομοισιν (go ). 253 Ivi la stragge, e l'ira, ivi tant' altri Mali hanno sede. Insolito abitar vedendo piansi. Ah ! La razza mortal quant' è meschina ! Quanto infelice ! Quali affanni, e liti Siete nati a soffrir ! Da quale onor son misero caduto, Da qual grandezza di felicitate, Da vita a morte son, forma mutando L'alme involgendo, e quasi ricoprendo Della straniera veste delle carni. inIn quest'antro coperto al fin siam giunti. Fanciullo io fui un di, donzella, uccello, Albero, e senza voce in mar fui pesce, Qual sopra ogn'animal s'alza il Leone Giacente in terra, abitator de monti 254 Εν9 ' ησαν χθονιητε και Ηλιοπη ταναίτις Δηρίς θ ' αιματοεσσα και αρμονίη ιμερωπις Καλλιστω τ’ αισχρητε θοωσατε Δαναητε Νημερτης τεροεσσα. μελαγκαρπος Ασαφια (91 ) Ξεινων αιδοιοι λίμενες κακοτητος απαροι (92). 2 φιλοι οιδα μεν εν οτ ' αληθαη παρα μυθους, Oυς εγω εξερεω, μαλα δ' αργαλειτε τετυκται Ανδρωση και δυσζηλος επι φρενα πιστέος ορμη (93) Ουκ αν ανηρ τοιαυτα σοφος Φρεσι μαιτεύσατο Ως όφρα μεν τε βιωσι το δε βιοτον καλεσιν Τοφρα μεν εν εστι και σφι παρα δειγα και εσθλα Πριν δε παγασαι βροτοι λυθεντες τ ’ εδεν αρ' εισιν(94 Αλλα το μεν παντων νομημον δια τ’ ευρυμέδοντος 255 Tal su gli arbor fronduti il lauro eccelle. Chtonia gº era là con Eliope Di larghi occhi, e la cruenta Deri Con armonia, piena d'amor, nel volto. Vera del par Thoòsa, e Deinèa E la turpe Callisto, e insiem l'amabile Nemerte, ed Asafia, che il tutto oscura O Gergentini di mal fürè ignari Degno porto d'onor degli stranieri. Io, mici cari, so ben ', che nel mio dire Stassi la verità dentro nascosa, Ala della fe la forza l'uom travaglia E pena, e dispiacer gli reca in mente. Saggio non v'è, che possa con sua mente Pensar, che l'uomo mentre vive questa, Che chiaman vita, esista solo, e colga E beni, e mali; si che l'uomo nulla Sia prima il nascimento, e dopo morte. Ma questa legge pubblicata a tutti 156 '. Αιθερος ηνεκεός τετατα δια τ ' απλέτε αυγης (95). Ου παυσεσθε Φονοιο δυσηχεος'; 8κ εσoρατε Αλληλες δαπτόντες ακηδεμησι νοοιο;. Μορφήν δ ' αλλαξαντα πατηρ φιλον υιόν αερας Σφαζα επευχομενος μεγα νηπιος και οι δε πορευντα Λισσομενοι θυοντες οδ ' ανηκοστος ομοκλεων Σφαξας εν μεγαροισι κακης αλεγυνατο δαχτα Ως δ ' αυτως πατερ' υιος ελων και μητερα παιδες Θυμoν απορραισαγτα. φιλας κατα σαρκας εδεσι (96) 4. Oιμοι οτ’ και προσθεν με διωλεσε νηλεές ημας Πριν σχετλι’ εργα περι χειλεσι μητισασθα ! (97 ) 257 Dell' aria si distende per l'immenso Splendore, e l'alta region dell Etere Che per lunghezza, e per larghezza è vasto.? Ancor si sparge per le vostre mani IL sangue gorgogliante degli animai? Ah non vedete colla mente piena Di sprezzo, che sbranandovi, a vicenda Vi diorate? E che mutata forma Il padre alzando il suo caro figliuolo Lo scanna, e pazzo grandi cose prega Tutti color, che sacrifizj fanno, Sen van supplici orando; ma quest'altro Nell'atto di scannar gridi mandando D' udirsi indegni, in segno di minaccia Malvagio in casa desinar prepara. Cosi talora avvien, che danno morte Il figlio al padre, ed alla madre i figli, E questa, e quel fucendo privi d'anima Le care in cibo ne trangugian carni. Perchè crudele il di ah non mi spense Prima, ch'avessi fatto il gran peccato D' appor tal cibo sopra le mie labbra ! kk 558 Ταυρων δ ' ακρίτοισι φονοις και δευετο βωμος Αλλα μυσος τετ ' εσκεν εν ανθρωποισι μεγιστον Θυμoν απορρασαντας εεδμεναι ηϊα γυια (98 ). Τοι γαρ τοι χαλεπησιν αλυοντες καιστησιν Ου ποτε δαλαιων αγιων λεωφησετε θυμον (99). Ολβιος ος θαων πραπιδων εκτησατο πλετον Διαλος δω σκοτοεσσα θεων περι δοξα μεμπλε (ιοο) Εις δε τελος μαντάστε και να τοπολοι και 1ητροι Και προμοι ανθρωποισιν επιχθονίοισι πίλονται Ενθεν αναβλαστασιν θεοι τιμηση φεριστοι (101 ). Αθανατους αλλοισιν ομεστιοι αυτοτραπεζοι Ανδρομεων αχεων αποκληροι εοντες απειροι (102). 259 Non macchiava l'altar sangue innocente De’ tori un di. Ma sommo allor misfatto Dagli uomin si credea privar dell' anima Gli animai, e divorarne i membri in cibo. Chi dalla colpa, che da se molesta, E ' tormentato, non avrà nell' animo Mai requie al suo misero dolore. Felice è quegli, che possiede i beni Della mente divina, ed infelice E' quel, che male degli Di pensando Ne porta tenebrosa opinione. 7 I vati infine, ed i cantor degl' inni I medici, ed i forti capitani, Che de' terrestri uomini son guida Ivi rinascon Dü d'onor prestanti. Nella stessa magion, a mensa stessa Stando cogli altri Dii, d'ogni vicenda D'ogni umarło dolor futti già privi. kk 2 16ο Ην δε τις.ν κανοισιν ανηρ περιωσια αθως Ος δη μηκιστον τραπιδων έκτησατο πλετον Παντοίων τε μάλιστα σοφων επικράνος έργων Οπποτε γαρ πασησι ορεξατο πραπιδεσσι Ραγε των οντων παντων λευσεσκεν εκαστα Και τε δεκ ' ανθρωπων και τ' ακoσιν αιωνεσσι (103) ΕΠΙΓΡΑΜΜΑΤΑ Περι Ακρωνος • Ακρον ιατρον Ακρων ακραγαντινον πατρος ακρου Κρυπτα κρημνος ακρος πατριδος ακροτατης Τιγες δε το δευτερον στιχον ουτω προφέρονται Ακροτατης κορυφής τυμβως ακρος κατεχα (104) 261 5 Tra quelli o'era l' uom sopra d'ogn ' altro Eccelso nel saper, che della mente L' altissimo tesor chiudea.nel seno. Egli pieno d'amor tutti indagava De' sapienti i fatti, e le scoperte Dotte di lor. E quando del suo spirto Ogni forza intendeva, ad una ad una Tutte schierate le cose reali In dieci o venti secoli abbracciando Rapidamente col pensier vedea. EPIGRAMMI INTORNO AD ACRONE. L'alto di gran saper medico Acrone, Nato dun alto padre in Agrigento Alta, rupe tien alta per sepolcro Della sua patria posto in alta cima. Alcuni leggono così il secondo verso Alta tomba ritien sull' alta cima аба. Περι Παυσαγικς Παυσαγι: ιητρον επωνυμον Αγχίτου υιον Φωτ’ Ασκλεπιαδης πατρις εθρεψε Γελα Ος πολλούς μογεροίσι μαρανομένους κεματοισι Φωτας ατέστρεψαν Φερσεφονης αδυτων (1ο5).. Δειλοί πανδειλοι κυαμας απο χειρος, εχεσθαι, Ισον τοι κυαμες τρωγειν κεφαλασθα τοκων (106 ) Ναν μα τον αμετερας σοφίας ευρoντα τετρακτην Παγον αεγνας φυσεως ριζωμα τ' εχεσαν (107). 263 Di Pausania. Il medico che nomasi Pausania E' d' Anchito figliuol', è discendente Degli Asclepiadi, ed ha per patria Gela, Che lo nutri. Costui molti languenti I'er penosi malor dalle segrete Di Persefone stanze a forza trasse. Versi d' incerto Autore attribuiti da alcuni ad Empedocle. Scostate, o miseri, del tutto in felici Dalle fave la mun: mangiar di queste Egli è privare i genitor del capo. Giuro per quel, che nella nostra scuola Scoperse il qucttro, che racchiude il forte, E la radice eterna di natura. ANNOTAZIONI ALLA R A O COITA D E FRAMMENTI. ANNOTAZIONI ALLA RACCOLTA D E FRA MM EN TI. (1 ) Questo verso si trova presso Laerz. 1. 8 in Emp. Egli dice ny de o lavraylas spwjeevas αυτε, ω δη και τα περι φυσεως προσπεφωνηκεν Pausania era amato da Empedocle, e que sti gli intitolò il suo poema sulla ' natura E siccome questo verso forma la dedica; cosi si è collocato il primo. La frase per quanto pare è Omerica come si può vedere Iliad. 11 V. 450 Iliad. 1: V. 451. (2 ) Presso Simplicio de Phys. aud. l. 8 p. 272 ediz. d'Aldo. Perchè questi due ver si si suppongono dagli altri, che li seguono, si son collocati prima. Per altro Plut. de exil. afferma che cosi cominciava la filosofia d'Empedocle. (3 ) IL 2. 3 verso son rapportati da Laerz. 11 2 263 che se 1. 8 in Emp. I primi tre da Sext. Emp. adv: Phys. 1. ģ, da Plut. de Pl. Ph. l. 1 cap. Tutti quattro poi da Stobeo Ecl. Phys. 1. i p. 26. Questi si sono premessi per la ragio ne ch'esprimono i quattro elementi, che sono base di tutta la filosofia d'Empedocle. Si conviene da tutti che sotto Giove è in: dicato il fuoco, e da Nesti l'acqua, condo Vossio de Idol. 1. 2. cap. 7 e Fabricio nelle note à Sesto Empirico deriva da yalay fluere. Vi è solo un disparere tra gli Scitiori per gli due simboli. Giunone e Plutone. Pois chè secondo Cic. de Nat. Deor. l. 2.cap. 26 Plut. l. 1. cap. 3. de Pl. Ph. Macrob. Satur. l i cap. 15, da Giunone è espressa l'aria; ed al contrario giusta Athen. Apol. 22. Achill. Tazio in Arat. Laert. I. 8 in Emp. Stobeo Ecl. Phys. 1. i Heracl. Allegaz, Omeriche,p. 443., -sotto il simbolo di Giunone è indicata la terra. E però per questi Plutone era la• ria, e per quelli la terra. Aïd oyeus in luogo di aïdris Om. 11. 20 V. 61. Esiod. Theog. v. 913. Hpn epoßios Omer. Hyinn. in matr. o. mnium '. Nella traduzione si è formato GIOTATO 2 per tmesi. 269 9 col. (4 ) Di questi versi il 7 e l'8 sono riferi ti da Laerz. in Emp. I. 8. Stobeo Ecl. Phys. 1. 1 p: 26. Dal 10 sino al 15 si trovano presso · Arist. Natur. Auscult. l. 8 cap. 1. Il. 22 presso Ciem. Alex. Strom. I. 5., ed il 21 e 22 presso Plut. Amat. Tutti poi eccetto il g e'l 10 sono rapportati da Simplicio de Phys. Aud. I. 1 p. 34 ediz. d'Aldo. Siccliè si è supplito il 10 con Aristotile, e'l lo stesso Simplicio come si vedrà alla (10 ). Questi versi che sono al numero di 36 fan parte del primo libro della natura. Poichè lo stesso Simplicio dice chiaramente sy 7pUTW TO φυσικών.99 και nel primo libro delle cose fisiche I versi 3, 4, 5 pajono d ' essere un'imi, täzione d'Omero. II. 6.v., 146, e 149. Il 5 portá P&T Th, ma si è cangiato in.dpuntu come più confacente al senso. Nel 6 in luo go di xdcepecei dinge si è posto 8T0T€ anges.co me Omero. Il. -10. V. 164. Nel z la paro la Qiaotati amicizia non significa in verità che ainore, siccome fa Omero. Il. 6 v. 161 c in quasi tutta l'ariade che dice QLXOTNTO felgympia rab. Dal 7 al 12 sembra di essere una sem 270 * plice imitazione d' Esiodo nella Theog. Poichè Empedocle mette in contrasto l'amore e lo dio come Esiodo fa colla notte e'l giorno. Ne’ versi 6, 13 e 32 si trova la parola ' deau Trepes. collocata nello stesso modo che suol fa re Opiero. Il. 10 v. 325 e 331. II. 12 v. 398. II. 19 v. 272. Odys. 4 V. 209. Odys. 7. v. 96. Odys. 10 v. 38. Odys.. 14 v. 11. Sicchè pare che l'orecchio d Empedocle era educato al suono de' versi Omerici, Nel verso 14 aloy Euroly alla maniera d'Omero. Il. 1 v. 290. Nel 16 reipata pewIwon siccome 0. mero παρατα τεχνης. Nel 20 1 ’ αταλαντον co me Il. 15 v. 302. Nel 21 è da dirsi che intanto, l'amicizia sia di lunghezza e larghez za eguale, in quanto i corpi possono risulta re da parti eguali de quattro elementi. Al meno questa interpetrazione pare più confa cente al suo sistema; se non si vuole abbrac ciare quella, che deriva dal pittagoricismo, per cui il numero quattro era il più perfetto. Nel 22 100. TEINTWS per attonito e Omerico. II. 4 v. 246. Nel 24 cina poves's dovrebbe esser nominativo giusta la Grammatica. Na si v. 271 lasciato in accusativo; perchè gli Attici alcuna, volta, coře si vede presso Aristof. in avibus, sogliono usare l'accusativo in luogo del nomi nativo. L'epye texti si trova spesso in Omero e in Esiodo: cosi Odys. 7 V. 272.Esiod. Theog. V, 89. Il 25 è simile a quello dell' Iliad. 9 v. 558, e pile d'ogni altro ad Esiod. Theog. v. 595. Nel 27 laratnaon è d ' Omero. II. 1 v. 526. Nel 30 il Trepiadojevolo è pari mente adattato al tempo e all'anno presso Omero'. Odys. iv. 16 ed Esiod. Opera v. ' 384. Nel 31 si osserva l'id atoange in fi. ne del verso come in Omero. Il. 6 v. 149. (5) I versi 12 e 13 si trovano presso Arist, Poet. cap. 25, e Ateneo lib. 10 p. 424. Tutti poi sono rapportati da Simplicio de Phys. aud. 1. i'p. 7 d' Aldo. Essi sono stati posti nel primo libro del poema; perchè Simplicio li riferice come quelli che precedeano altri, che da lui sono notati per versi del primo lix bro προ τετων των επων • Nel verso 7 è 11 si è scritto a Jey.TTW5 in luogo di queuent Ews come si legge in Sims plicio. Nel 10 si trova vtsupper feri ch'è d' 272 Omero II. 9 V. 502, Nell'ultimo, si ha l espressione Jaunese idiogui ch ' è comune presso Omero ed Esiodo: cosi Il. 18 v. 83. Odys. 13 v. 108. De scụto Herc. v. 140 ', ed in tanti altri lunghi dell' uno e dell'altro poe ta. Teocrito nell' Idyl.. 17 v. 77. non è dif ficile che avesse imitato Empedocle, dicendo egli εθνεα μυρια φωτων α εinmiglianzα di quel che dice il nostro poeta nel 8 verso e nel 14, (6 ).Simplic. de. Phys. aud. I. 1 p. 7. Quer sti versi sono quegli stessi innanzi a' quali di ce Simplicio ch' erun collocati quelli della na: ta (5 )..... L' epiteto Truji Payowymi è Omerico. II. 8 v. 320 e 435. Orfeo nell'inno all' etere, chiama l ' etere dotepo@ eyzes (7 ) I primi tre' versi sono presso Arist. de anima li i càp. 7, e tutti presso Simp. de Phys. aud. I. 2 p. 66 Aldo. Simplicio af ferma che appartengano al primo libro d' Em. pedocle λεγει εν πρωτω. Ε come sono dello stesso tenore della nota (6); cosi si sono si tuati vicino a quelli. Nel 1 verso επικαιρος in luogo di επίκρανος 273 è d'Omero. II. 1 v. 572, e il v. 572, e il xoayolai é ' Esiod. Theog. v. 865. Nel 3 l’ oGTEL deuxa è parimente d ' Esiod. Theog. v. 540, e 557 e d'Omero. Il. 24 v. 793. (8 ) I primi due versi si trovano presso Plut. de primo frigid., e il 7, 8, 9 presso Arist. de gen. et corrupt. Tutti presso Simpl. de Phys aud. l. 1 p. 8, e nella pag. 34 sono pre ceduti da due seguenti versi. 1 እእእ. αγε των δ * οαρων προτερων επί μαρτυρα δερκεί Ει τι και εν προτερoισι λιποξυλον επλετο μορφη • 1 Di questi due versi non si sa che voglia dire quel Altofurov legno pingue: Perchè pa-. re ch? Empedocle voglia rapportarsi a' prece: denti colloquj dove forse v'era qualche for. ma Altrotuloy. Si è cercato di sostituire Action Yugov, ma neppure s intende. Però si sono trascurati nel testo questi due versi. Nel 3 verso si legge presso Plut. Svopa EVTA xep ply a negyté, ch? è spiegato tenebroso, ed crribile. Ma come non si sa ď' onde poss m m 274 sa derivare played soy si è sostituito plyndor, che più si conviene all'acqua. Indi è che si è scritto VIOOEYTA,xoh pigns.ovte. E' vero che il vero so diventa spondaico; ma gli epiteti dell' ac qua sono più confacenti alla sua natura, e corrispondono più all'intendimento d'Empedo cle, che in questi versi vuol dare i caratteri di ciascuno dei quattro elementi, siccome at testa Simplicio de Phys. aud. - p. 7. Nel 4 προρε8σι θελυμνα τη luogo di προθελυμνα. It' 9 vi 537. Il 5 verso è simile a quello d. Omero. Il. 18 v. 511, ilil 7 al v. 70. Il. e al. v. 38 d' Esiod. Theog., e l'8 al v. 163 Odys. 15. Nel 9, e 10 l ' epiteto de' pesci υδατοθρεμμονες, e quello degli Dei δο. arxay wres sono tutti due propj d'Empedocle; giacchè non si leggono presso altro poeta. Il Tlpenoi Ospirtoi pare che sia preso dal v. 494 1 11. 9 • (9 ) Simplic. de Phys. aud. 1. 1 p. 34. Egli li rapporta dopo quelli della nota (8) e dice, che Empedocle li soggiunge in esempio. Non v'è quindi dubbio, che debbono essere collocati nel primo libro, e dopo di quelli. Vi 275 si trovano alcuni versi ripetuti alla maniera Omerica, e nel g versa ľws YÜ XEV come nel v. 749 Il. 11, e nel v. 11 della Theog. d' Esiod. Nel 10 si e mutato l'acheta in fore, e nell' 11 vi si troνα μυθον ακεσας nel miodo stesso d'Omero II. 7 v. 54. Odys. 2 z v: 560, (19 ) Simplic. de Phys. aud. l. 1. Costui, dopo d' avere rapportato i versi delle note (8) • (9 ) 80ggiunge και ολιγον δε προελθων αυθις Çnti. Però si son collocati dopo, e come ap partenenti al primo libro. Il 7 di questi ver si è quello stesso, ch ' è stato inserito da 9 nes versi della notą (4). (11) Il 2 verso si trova presso Plut. net lib. de adulat. et amici discrimine: il terzo presso Aristot. Metaph. 1. 3. cap. 4.- Tutti tre presso Clem. Alex. Strom. I. 6. Il secondo verso, si rapporta d'alcuni ne: pos nilov ufos, ma Empedocle nel 19 della nota (4) dice c7 NETOV, e per altro pare più armonioso ed Omerico. Questi versi, come quel li, che indicano i quattro clementi ', non si possono collocare che nel primo libro. m m 2 276 ! (12 ) Arist. Metaph. l. 3 cap. 4. Simplic. de Phys. ' aud. 1. 6 p. 272. Plutaroo nel lib. de Reip. geć. praecept. vi allude dicen da τιμας ονομαζω κατ' Εμπεδοκλεα. Questi ver si non possono appartenere, che al primo li bro; perchè in esso dichiara Empedocle le due forze amicizia e lite. (13 ) Simp. 1. i de Phys. aud. p. 34. La parola aprice del primo versa può significare pari di numero, perfetto, ed adatto. Si è tradotta pari; perciocchè si è trovato che i corpi, di cui Empedocle enumera le parti de gli elementi, da cui quelli son composti, non sono che di numero pari. Cosi l'ossa di oi to parti nota (7 ), la carne di parti eguali de quattro elementi nota (6 ) et.. (14 ) Arist. de Gen. et Corrupt. l. i cap. 1, e De Xenoph. Gorg., at Zenon. Plut. de Pl. Ph. l. 1 e adv. Golot. Si sono collocati nel primo libro perchè Plutarco dice chiaramente de Pl. Ph. l. i λεγα δε ετως και των πρώτων φυσικών και Anno de Tol spaced è modo turto ď Omero II. 1 v. 797. Odys. 11 V. 453. Odys. 10 2: 7 V. 495 ec. L'a.JavaTolo TEMBUTn è d' Esiod. in Scuto Herc., ' e nell'ultimo verso Bpomois "QvIpomolol è maniera greca che spesso si tra, va presso Omero ed Esiodo che dicono Bpotox ardpa. Il Duris nel principio come opposto a 76 deutn pare che indicasse la nascita. Ma co me in fine significa natura si è lasciato cob. la sua propia significazione di natura. (15 ) Plut. adv. Colot. Questi versi, come si vede dalla materia, sono una continuazio ne di que' della nota antecedente. Si sospetta che questi versi fossero sta ti alterati da qualche copista. Vi si osserva ows per uomo in genere neutro, che suol esa sere presso i Greci di genere maschile. (16 ) Simpl. de Phys. aud. 1, 2, pag. 85 Aldo. E siccome queg!i dice « TOTO'S AS T8 Εμπεδοκλεας εν τω δευτερη των φυσικών προ της ανδριων και γυναικιων σωμάτων διαρθρωσεως TAUTU TC ETn, Empedocle nel secondo libro delle cose fisiche canta questi versi prima di parlare della formazione e articolazione de' corpi de maschi e delle femine Non vi ha 278 quindi alcun dubbio, che questi versi fan par te del secondo libro, e che il soggetto di que. sto libro si versa sulla nascita degli uomini, e de' corpi de' maschi e delle femine. Però è, che tutti i versi che riguardano la formazio ne degli uomini, e de' loro membri, e delle parti del corpo umano e loro funzioni sono stati da noi posti nel secondo libro. IL 3 verso è un'imitazione d'Omero nel v. 157 dell' Iliad. 4, 810Quais secondo Simpli cio esprime la massa tutta, del seme, che an cora' non indicava la forma de' membri. (17 ) Aeliano de Nat. anim. I. 16 cap. 29. Le forme descritte in questi versi sono ricor date da tutti gli antichi scrittori come singo lari. Cosi Arist. Nat. ausc. l. 2. cap. 8. Es se non poterono durare, perchè non eran tra loro convenienti. Di quando in quando ne na. sconto de' simili, e questi sono i mostri.: (18) Simpl. de coelo 1. 2. Arist. de coel. 1. 3 cap. 2. De Gen. I. i cap. i8. Isaac. Tzetze in Comm. ad Lycophr. Epi vax65 • (19 ) Simpl. de coelo l. 2. (20 ) Simpl. de Phys. aud. 1. 8 p. 258 279 Aldo. Nel terzo verso si è spiegato pngjely! al la maniera d'Omero Il. 1. v. 437. Nel 6 e nel 7 - sono da notarsi ud poplene Opols, opsta μελεσσι, € πτεροβαμμoσι κυμβας clie sono ma niere originali d' Empedocle. (21 ) Aristot. de respir. cap. 7. Questo è il più bel frammento d'Empedocle, e forse l ' avanzo più, venerando dell'antica fisica, in cui non solo si spiegà da Empedocle il modo a suo credere del nostro respirare, ma si di mostra eziandio il peso, e la molla dell' a. ria. Egli è stato tradotto per quanto si può letteralmente, e solamente si è ito aggiungen. do talora la forma della clessidra, senza di che non si avrebbe potuto chiaramente com prendere Il coros del 4 verso corrisponde al cruor de’latini. Il. 16 y. 162. Chi si conosce – Omero può accorgersi come va adattando Em. pedocle tutte le parole e frasi d'Omero nel 5. sino all ': 8 verso. Lo stesso WTTEL OTAY Trays è ď Omero nel v. 362 Il. 15.. L'EPOMBAEOS, che Omero applica ail' acqua'. Ili 16 v. 174, Empedocle l'adatta alla duttilità del bronzo 200 Verso. It all'acqua, nel 9 TEPEY Ejedes dell' 11 è d' 0. mero Il. 14 v. 406. L'autap ETHTU nel 15 è forma parimente Omerica Il. 11 V. 304 Odys. l. 9 v. 371 ec. L'ayrilor ud wp nel 16 si trova applicato al giorno in Oniero, e qui che non può esser fatale se non per che nella clessidra è destinata a notare le ore che scorrono. Nel 18 verso Bpotew Xpor presso Esiod. Opera è preso per umano corpo, qui per la mano. Nel 20 ilil duonysos è applica to alla guerra. Il. v. 395 ec. Da Empedocle si acconcia al gorgogliamento dell'acqua (22 ) Arist. de sensu et sensili lib. i cap. Nel 2 verso σελας πυρος αθομενοιo e d ' Omero. Il. 9 v. 559. Il. 10 v.. 246. II. 11 v. 219. II. 6 v. 282 ec. Il 24uepiny νυκτα e simile all' αμβροσιην δια νυκτα d' O mero. Il. 2. v. 57. Nel 3 si trova apopg85 ch'e' una metafora, quasi che le lanterne di fendendo il lume da venti se li succhiassero; giacchè quopges vuol dire succhianti. Il mayo Town dyepewr Odys. 5 v. 293 e 304. Nel 4 verso il divanid ve si aeyrwy si trova in Omero Il. 5 v. 526. Nel 5 ci ha un epiteto de' 2. Nel dia 282 indomiti; per raggi ch ' è molto ardito UTCpert chè non sono vinti dalla notte. La stessa pa rola walioruto nel i verso per preparare è Omerica. Il. il v. 86 '. In quanto poi alla costruzione delle lanterne è da dirsi, che for se allora erano di corno trasparente. (23 ) Il i e gli ultimi due versi presso Giov. Tzetze Chil. 5 p. 382. Il 2 presso Theod. de Curat. Graec. l. 1. IlIl 22,, 3, e 4 pres SO Clem. Aless. Strom. 1. 5. Dal 5 sino all ' ultimo presso lo stesso Giov. Tzetze Chil. 13 p. 476. Gli ultimi due versi sono anche rap portati da Chalcid. in Tim. Pl. Essi sono sta ti tutti disposti nell' ordine, in cui sono no tati, che sembra non esser disconveniente, e fanno certamente parte del lib. 3. Poichè Tzetze nella Chil. 7 p. 382 nel rapportarli soggiunge Εμπεδοκλης τω τιτω των φυσικων δεικ: VUOY TIS ' N. sold togey το θεα κατ' επ'ος ετω λεγων. 9, Empedocle nel terzo libro delle cose fisiche. volendo indicare quale sia la sostanza di Dio dice cosi Il pendea nel senso in cui qui lo pigliu Empedocle è comune ad Omero nell' Odissea n n. 282 o ad Esiodo nella Theng. (24) Clem. Alex. Strom. 1. 5. Il. 1 ver so manca d'un piede, e si potrebbe compiere leggenda Ει ο αγε τοι μεν εγω λεξω. Vi si os serva poi la stessa maniera d Oniero nell ' ap porre degli epiteti al mare, all'aria, aile tere. (25) Athen. Dipnosoph. 1. 8 p. 334. Il devd pece pecupce è d'Omero. Il. 9 v. 537. Lo stesso Athen. nel medesimo luogo attesta che tutti i pesci da Empedocle furon chiamati zce paglves. (26 ) Aristot. 1. 2 de coelo cap. 8 e De Xenoph. Zenon, et Gorg. Gli ultimi due versi presso Clem. Aless. Strom. 1. 6. (27 ) Plut. de Pl. Ph. I. i cap. 18. Theo dort. de mater. et mundo Serm. 4 p. 1080. (28) Plut. Symp. l. 4 quaest. 1. Macro bio Saturn. l. 7 p. 521. E siccome in Plut. si leggono alterati; cosi sono stati correlti con Macrobio. (29 ) Plut. quaest. Nat. p. 916. (30 ) Plut. quaest. Nat. p. 917, et de Curiosit. Alcuni leggono Keuuata, altri rappese. (283 ra, ma si è sostituito xeu-ged, che pare più acconcio al senso dell'autore (31 ) Arist. Nat. Auscult. 1.? cap. 4, e De Part, Anim. I. i cap. 1, Simpl. I. Phys. (32 ) Simpl. de Phys. and. I. 2 p. 73. (33 ) Simpl. 1. 2 de Ph. aud. p. 23. L' epiteto de incepa come dice ' Hesichio' è propio d' Empedocle.; ed il polyurgadins d'Omero II. 1 v. 352, (34) Simpl. l. 2 de Phys. aud. p. 74 Aldo. (35) Simpl. 1. 2 nel med. luog. (36) Simpl. 1., nel med. luog. (37) Simpl. 1. 2 de Ph. aud. p. 73. (38 ) Simpl. l. 8 de Ph. aud. p. 272. (39 ) Plut. in l. non posse suaviter vivi jut. xta epicuri decreta. (40 ) Simpl. de Ph. aud. l. 8 p. 272. (41 ) Simpl. nel med. luog. (42 ) Simpl. nel med. luog. (43) Arist. de Gen. et Corrupt. l. i cap. 6. (44) Simpl. de coelo Com. 21. p. 88. (45 ) Arist. de Gener. et Corrupt. 1. i cap. 6. La frase zgova dupsyo, presso Omero Il. 6 y. 411. nn 2 284 (46) Plut. quaest. Nat. p. 916. (47 ) Arist. de Gener. anim. 1..1 cap. 18. (48) Arist. de Gener. anim. I. 4 cap. 1. (49) Plut. nel lib. de Amic. multitud. (50) Arist. de Gener. anim. 1. i cap. 23. Alcuni leggono μακρα δενδρεα. (51 ) Plut. quaest. Platon. p. 1006.4. (52 ) Plut. de fac. in orbe lunae dove in luogo d' ožupeans è da leggersi očußeans e in vece di naiyo Iraupe come si è rapportato nel. la nota (35). (53) Plut. de fac. in orbe lunae. Questi versi sono stati corretti da Xilandro. (54) Arist. Metaph. l. 3 cap. 4 de anim, 1. i cap. 2. Sesto Emp. adv. Gram. l. i cap. 13 e adv. Log. l. 7 Chalc. in Tim. cap. 21 p. 131. Pare che in questi versi Empedocle abbia imitato Omera Il. 13 v. 31, e Il. 16 v. 215. Il tip apo ndoy Omerico. Il. 2 v. 455. L'epiteto della lite rugpw, che da Omero si adatta alla vecchiaja, e talora alla ferita ec. è situato in fine del verso come in Omero II. 5 v. 153, e Il. 10. v. 79. Il. 16 v. 393 ec. 285 3. (55 ) Sext. Emp. adv. logic. l. - 8 p. 512. (56) Stobéo Ecl. Plys. l. 1 p. 131. L' última verso è anche rapportato da Chalcid. in Tim. Pl. p. 29,, ed è un imitazione di quello d' Esiodo nella Theog. 7 spe pezy 750" T δες, περι δε εστι νοημα • (57 ) Aristot. de anima 1. 3 сар. (58) Aristot. de anima" nel med. luog. (59 ) Aristot. de Gener. 1. i cap. 13. (60) Plut. adv. Colot. (61 ) Clem. Alex. Strom. l. 5 Theodor. de curat. aegritud. Ethnic. Acciaolus Theod, interpres I. i contra Graecos. (62 ) Arist. Meteorol. l. 4 cap. 9, atspao TURVO è d ' Omero. Il. 11 y. 454, e otißola pous pedeerol è d ' Esiodo opera v. 148. (63 ) Plut. Symp. 1. i cap. 3. Deve lege gersi andyl. (64 ) Plut. Symp. 1. 3. quaest. 1. (65) Plut. Symp. I.,1 quaest. 2, e nel lib. de fac. in orbe lunae. (66) Put. de Orac defectu. Per finire il verso si è supplito nella traduzione artos. (67 ) Plut. Simp. I.? quaest. 10, 286. (68) Plut. de Orac. defect: (69) Plut. Simp. 1. 8 quaest. 3. (70) Arist. Poet. cap. 25 c Meteor. l. 4. 71) Theophr. de Caus. Plant. 1. i cap. 14. (72 ) Athen. Dipnosoph. l. 8 p. 365. Que sti versi si son collocati come appartenenti al poema 'della natura; perchè parlano di Ve nere, che indica l'amicizia. Vi si trova il Soydan codpots parola composta da Empedocle, che non si legge in altro poeta. Si dee lege gere Κυπρις nel testo, e non Kπρις. (73 ) Sesto Emp. adv. Log. 1.? Gli ul. timi due versi sono anche rapportati da Plut. nel 1. de áud. Peet. Nel 2 yerso Scalig. legge suve ETEITA, ed Erric. Stef. dely ETECL; ma ne' MSS. si trova SaneM.T, Si è quindi conservata, come sta ne' MSS., e si è ritratta da dep @ os che più s' adatta al senso dell'autore. Questi versi unitamente agli altri delle note (24) e (75 ) sono riferiti da Sesto Emp. come quelli, che con poche interruzioni si suc vedono. E come Empedocle si dirizza ad un solo, ch'è Pausania;' cosi tutti fan parte del 287 Chil. 1, pra poema sulla natura, (74) Sesto Emp. adv. Log. l. 2 (75 ) Sesto Emp. nel med. luog. (70) Laerz. in Emp. 1. 8. Joan. Tzetze I versi 3, 4, 5 sono anche pres. so Clen). Alex. Strom. 1. 6. Nel 5 si legge d' alcuni παλιγτιτα c d' altri παλιντινα; mα da Casaub. si vuole raditova, e fondasi so Suida. Nell'ultimo verso è da notare che il sanare gl' infermi si esprime, presso gli an tichi avastne dall'inferno. Plut. in amat. Horaz. l. 2 Sat. 1 V. 82. (77 ) Laerz. l. 8 in Emp. I versi 3 € 4 si trovano presso Sesto Emp. adv. Gramm. 1. i cap. 13, e presso Philost. Vit. Apoll. Se condo Laerzio cosi Empedocle avea dato prin. cipio al suo poema delle purgazioni cvcpzopese νός των καθαρμων φησίν. (78) Sesto Emp. adv. Gram. I. 1 e Laerz. in Emp. 1. ' 8. Sesto Empirico mette questi due versi dopo quelli della nota (77 ) e soge. giunge nas nary. Sicchè icon c'è dubbio che appartengano alle purgazioni. (79) Plut. de exil. I. 2, e l'ultimo meza 288 zo verso è presso Hierocle in aur. carm., il quale lo ' rapporta unitamente al penultimo ως Εμπεδοκλης Φυσι ο Πυθαγοραος • (80) I primi tre versi presso Plut. nel lib. de vit. aere alieno, e tutti quattro presso lo stesso Plut. de Isid. et Osir., e presso Eusebio. (81 ) Hierocl. in aur. carm. (82) Hierocl. in aur. carm. (83 ) Clem. Alex. Strom. 1. 3. (84) Clem. Alex. Strom. I. 3 0 70xO1 peegee herdos Il. 1 v. 254. (85) Clem. ' Alex, Strom. I. 3. (86) Clem. Alex. nel med. luog. (87 ) Stob. Ecl. Phys. 1. i. (88 ) Porph. de Antr. Nymph. Ediz. di Van - Gcens p. 9. (89 ) Clem. " Alex. Strom. 1. 5 Origen, Phy losophumera. Phil. in V. Apoll. Athen. Dipn. In luogo di do7Os, che è un epiteto dato da Esiodo e da Poeti Greci al pesce, presso d' al.cuni si legge eurupos. A prima vista pare che l' epiteto ignito non abbia luogo; mu ove si voglia riflettere che giusta Empedocle, gli ani mali molto caldi cercarono l'acqua, ed ivi 289 soggiornarono, si può comprendere in qual senso abbia potuto adattare al pesce l ' epiteto Europos. (90) Eliano de Nat. anim. I. 12 cap. 7. Questi versi appartengono al poema delle pur gazioni. Perchè Eliano nel rapportarli soggiun ge λεγει δε και Εμπεδοκλης την αριστην αναι με: τοικησιν την τα ανθρωπου ει μεν ας ζωον η ληξις αυτην μεταγαγα λεοντα γινεσθαι και δε ας φυτον dadyny. » Empedocle dice che ottima sia da stimarsi la trasmigrazione dell'uomo, se do vendo passare in un bruto la sorte lo porta nel corpo del leone, e se in una pianta lo porta nell' alloro L' epiteto ηύκομοισιν Ο. mnerico. (91 ) Plut. de animi tranquill. L'epiteto έροέσσα e d' Esiodo che dice Θαλιη εροεσσα και ma non s' intende quello di μελαγκαρπος che vuol dire produttrice di frutti neri che Empe docle adatta ad Asafia o sia al genio dell' oscurità. Giovanni Tzetze Chil. 12 dice Ecco πεδοκλης προ παντωντε φιλοσοφος ο μέγας • γα γαρ την ασαφα αν μελαγκορον υπαρχαν ως κελαινωπας τον θυμον ο Σοφοκλης που λεγα 25 * Ο Ο 290 SO • Empedocle filosofo, grande sopra d'ogn'al tro, chiama Asafia o sia l'oscurità di nera pupilla conie Sofocle dice l'animo di nero via In sostanza poi vuol qui indicare Em pedocle quello che noi diciamo animo cupo, che tutto è coperto, e tutto fa con riserva. (92 ) Diod. Sic. Bibl. Hist. 1. 13 p. 204. (93) Clem. Alex. Strom. 1. 5. (94) Plut. adv. Colot. L'ultimo verso è stato corretto da Giov. Clerc. Bibl. Choisie Tom. 1. (95) Arist. Rhet. l. i cap. 13. Si son collocati in questo poema delle purgazioni; perchè Aristotile dice che riguardano la proi bizione d uccidere gli animali. xoy ws EyeTedo κλης λεγα περι τε μη κτιγαν το εμψυχσν. τετο γαρ τισι μεν δικαιον τισι δε και δικαιον. » Co me dice Empedocle parlando della proibizione d' uccidere qualunque animale. Poichè que sto non può essere giusto per alcuni e per al tri nò L' epiteto supurtedortos é d' Omero e quello d'atletoy è d ' Esiodo. (98 ) Sesto Empir. adv. Phys. I. 9 p. 580. Plut. de Superst. Nel 5 verso l'entBTT05 si 291 è tradotto per indegno d'essere udito come půs letterale. Na potrebbe avere due altri sensi cioè: da non essere compreso, o pure come colui, che è pieno di Qyaxer 116 che vuol dire contumacia, o inobbedienza; perchè senza di ciò non si ritrae un senso che sembra ragio nevole. Nel 6 a legurato d'apra è d' Omero nell' Odys. 13 v. 23. (97 ) Porphyr. de non necandis ad epulan dum animalibus l. 2 pag. 137 ediz. di Lio ne 0285dic epga per scelleraggini è d'Omero Odys. 14 v. 83. (98 ) Porphyr. de non necandis ad epul. anim. I. 2 pag. 131. Il primo verso somiglia a quello ď Omero Il. 24 v. 69. Alcuni leg, gono appatolor in luogo d ' cxpitolob. (99 ) Clem. Alex. exhortat. ad gentes. Awe Q10ste Odys. 11 v. 460. (100 ) Clem. Alex. Strom. I. 5. (101 ) Clem. Alex. Strom. I. 4 Bpotol o pu. re ardpes sain horlon. Il. 1 v. 266, e 273. (102 ) Clem. Alex, Strom. 1. 5. Questi due versi sono stati corrotti. Nel primo verso Sca. ligero legge fyte TPUDEGcus in luogo d' AUTOTA. OO 2 292 che non FIG. In verità questa seconda maniera cor risponde meglio all'opertio. Nel secondo leg ge Ευγιες ανδρειων αχεων αποκηροι ατειρεις. dla ad altri è piaciuto all' aydpelwy di sostituire l' and pouleur ch'è più adatto e pie Omerico; all' електро! ľ Anouampor ch'è anche più ragione vole; ed in fine all ατειρείς I'' ατηρείς si sa donde possa derivare. Si potrebbe dire più presto artelpon. Vi sono poi di quei che in luogo di amewn leggong amoywy; dimodochè spiegano coi forti achivi. (103 ) I primi due versi sono presso Laerz. 1. 8 in Emp., e tutti si leggono presso Janibl. de Vit. Pyth. p. 54. Questi versi si sono col locati nel poenia delle purgazioni; perchè in questo poema Empedocle dichiara la morale pittagorica. (104) Presso Suida voce Axpwr e Laerz. I. 8. in Emp. Questo epigramma, come dicono e Suida e Laerzio, è diretto a punzecchiare Acrone, che domanda a la grazia di ergere un gran monumento a suo padre in un luo. go alto della città di Gergenti. Empedocle va scherzando.col nome di Acrone e la parola 293 acron che in Greco significa alto e altezza. Ma questo scherzo non si può rendere nel no stro linguaggio. (105) Laerz. in Emp. I. 8 & Towvoploy indi ca nome conveniente alla cosa. Perchè liquo gavin in greco può significare che fa cessar i mali, e i dolori. Perciò Empedocle scherza col nome del suo amico. (106) Questi due versi s' attribuiscono dit Aulo Gellio Noct. Att. 1. 4 cap. 11 ad Em pedocle, e da altri ad Orfeo. Ma in verità so no della scuola pittagorica. Si legga Didym. 1. 2. Geoponicon cap. 35. Varii sono i sen timenti degli Scrittori sulla proibizione, che facea la scuola Pittagorica, di mangiar del le fuve. Secondo alcuni, perchè non sono sa lutari, e secondo altri perchè sono simili agli organi della generazione. Di fatto Gellio dice che l'astinenza delle fave era un simbolo, eon cui si volea indicare da Empedocle l'a ' stinenza delle cose veneree. (107 ) Questi versi esprimono il giuramen to che si facea nella scuola Pittagorica. Si leggono presso Jambl, de vit. Pyth. p. 125, 294 Ma non semhrano d'esser d'Empedocle cosi perchè non corrispondono allo stile del nostro poeta, come ancora perchè vi si osserva il dia. letto dor ico, che non mai egii usò ne' suoi poemi. ROMA BIBLIOTECA 295 Note mancanti nel Tomo I. pag. 67. MEMORIA SECONDA. (121 ) Απηρεν ασ Κροτωνα της Ιταλίας και κακοι τομές θες τοις Ιταλιωταις εδοξασθη συν τοις μας θεματας και οι περι τας τριακοσίες οντες ωκoνoμαν αριστα τα πολιτικα ωστε σχεδον αριστοκρατίας αναι την πολιτααν και Pittagora si porto in Cro tona d'Italia; ed ivi dando leggi agľ Italias ni fu egli in onore unitamente a' suoi disce poli. Trecento de' quali amministravano otti mamente le cose politiche, si che quella re pubblica era di posta a governo di ottimati, Laerz. in Pythag. (122 ) La persecuzione della scuola pitta gorica nacque da ciò, giusta Jamblico nella Vita di Pittagora cap. 35, che i pittagorici allontanavano il popolo dalle magistrature, e da' pubblici consigli, e voleano essi soli, come sapienti, regolar le cose pubbliche.Grice: “If people call William of Ockham, Surrey, Occam, I shall call Empedocles of Agrigentum Agrigentum, or Agrigento simpliciter in the vulgar.” Vide “Italic Griceians”While in the New World, ‘Grecian philosophy’ is believed to have happened ‘in Greece,’ Grice was amused that ‘most happened in Italy!’ Empedocle da Girgenti – Keywords: Girgenti -- Refs.: Luigi Speranza, "Grice ed Empedocle," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51675742458/in/photolist-2mKFrQ6-2mLGZ47-2mKzDys-2mKucE2-2mKCPCw-2mKfijf-2mJrUpx-2mJpEUu-2mJorPw-2mJjky4-2mJorPB-2mJpFM6-2mJpFT8-2mJpFSS-2mJorQD-2mJpFN8-2mJorMs-2mJorSc-2mJrUsP-2mJjku6-2mJjkwA-2mJjkwk-2mJrUok-2mJsW8r-2mJjkyK-2mJrUqu-2mJorRW-2mJpFQn-2mJpFNP-2mJorQi-2mJpFTZ-2mJrUso-2mJpFPv-2mJjkub-2mJpFM1-2mJrUqK-2mJrUr6-2mJjkvJ-2mJpFSM-2mJrUqz-2mJrUqE-2mJsWcj-2mJrUsU-2mJrUoa-2mJpFLK-2mJrUn3-2mJjkvt-2mJorKZ-2mJpFNt-2mJq2uE

 

Grice e Girgenti – la parola che non s’incatena – filosofia italiana – Luigi Speranza  (Palermo). Filosofo. Grice: “I love Girgenti for many reasons! For one, he has edited Boezio ‘as he is’! – then he has elaborated on Socratic irony, a concept that needs some elucidation, if ever one did! Also, he has edited the ‘logica retorica’ of Cicero, which is welcome!”Frequenta gli studi classici a Palermo, sotto Brighina, Franchina, Armetta, Mirabelli e Puglisi) e poi si è trasferito a Milano sotto Bontadini, Bausola, Melchiorre e Giussani. Si laurea sotto Reale con “Platonismo e Cristianesimo in San Giustino Martire” – Studia “Porfirio tra henologia e ontologia riproponendo la questione degli universali come origine del "pensiero forte". Insegna a Milano I suoi studi sono concentrati sul rapporto tra filosofia greco-romana e Cristianesimo, e in particolare nell'influenza che il platonismo ha esercitato sui Padri della Chiesa. Per analizzare questo tema, applica due categorie ermeneutiche: la "storia del’effetto" e la "fusione dell’orizzonte”. Secondo la storia dell’effeto, la Patristica latina deve essere considerata una fase importante della storia del platonismo antico, che fa da tramite rispetto alla filosofia medioevale. Secondo la fusione dell’orizzonte, il rapporto tra platonismo e Cristianesimo deve essere analizzato superando due opposte posizioni: la "praeparatio evangelica" di Eusebio di Cesarea, secondo cui la filosofia pre-cristiana sarebbe stata di per sé una preparazione al Cristianesimo e la "Ellenizzazione del cristianesimo" di Adolf von Harnack, secondo cui nell'incontro con la filosofia, il Cristianesimo avrebbe smarrito la vocazione originaria (e dovrebbe pertanto “de-“ellenizzarsi, de-filosofarsi). Una posizione mediana potrebbe contribuire a superare le rigidità del cristianesimo cattolico e le chiusure del cristianesimo protestante non-cattolico. Saggi: “Porfirio: catalogo ragionato” (Vita e Pensiero, Milano); “Giustino Martire, il primo cristiano platonico” Vita e Pensiero, Milano); “Porfirio, Vita e Pensiero, Milano); Porfirio, Laterza, Roma-Bari; “Platone, G. Girgenti, Rusconi, Milano, Incontri con Gadamer, G. Girgenti, Bompiani, Milano “Platone” G. Girgenti, Bompiani, Milano; Atene e Gerusalemme. Una fusione di orizzonti, Il Prato, Padova; Il bue squartato e altri macelli. La dolce filosofia, libro-intervista con Sossio Giametta, Mursia, Milano. G. Giorello, Corriere della Sera, 1ºScheda biografica, curriculum e  nel sito dell'Università Vita-Salute San Raffaele, su unisr. Selezione di pubblicazioni  Porfirio negli ultimi cinquant’anni. Bibliografia sistematica e ragionata della letteratura primaria e secondaria riguardante il pensiero porfiriano e i suoi influssi storici, presentazione di G. Reale, Vita e Pensiero, Milano, Porfirio, Isagoge, prefazione, introduzione, traduzione e apparati di G. Girgenti, testo greco a fronte, versione latina di Severino Boezio in appendice, Rusconi, Milano, nuova edizione Bompiani, Giustino Martire, il primo cristiano platonico. Con in appendice “Atti del Martirio di San Giustino”. Presentazione di C. Moreschini, Vita e Pensiero, Milano, Giustino, Apologie. Prima Apologia per i Cristiani ad Antonino il Pio. Seconda Apologia per i Cristiani al Senato Romano. Prologo al “Dialogo con Trifone”, introduzione, traduzione e apparati di G. Girgenti, testo greco a fronte, Rusconi, Milano, Aristotele, Poetica, introduzione, traduzione, note e sommari analitici di D. Pesce, revisione del testo, aggiornamento bibliografico, parole chiave e indici di G. Girgenti, testo greco a fronte, Rusconi, Milano, Porfirio, Sentenze sugli intellegibili, prefazione, introduzione, traduzione e apparati di G. Girgenti, con in appendice la versione latina di Marsilio Ficino, Rusconi, Milano. G. Girgenti, Il pensiero forte di Porfirio. Mediazione tra henologia platonica e ontologia aristotelica, introduzione di G. Reale, Vita e Pensiero, Milano,  Porfirio, Storia della Filosofia (frammenti), a cura di A. R. Sodano e G. Girgenti, Rusconi, Milano, Introduzione a Porfirio, “I filosofi”, Laterza, Roma-Bari, La nuova interpretazione di Platone. Un dialogo di Hans-Georg Gadamer con la Scuola di Tubinga e Milano e altri studiosi (Tubinga), introduzione di H.G. Gadamer, prefazione, traduzione e note di G. Girgenti, Rusconi, Milano, nuova edizione ampliata: Platone tra oralità e scrittura, Bompiani, Milano, Porfirio, Vita di Pitagora, monografia introduttiva e analisi filologica, traduzione e note di A. R. Sodano, saggio preliminare e interpretazione filosofica, notizia biografica, parole chiave e indici di G. Girgenti, in appendice la versione araba di Ibn Abi Usabi’a, testo greco e arabo a fronte, Rusconi, Milano, J. Patocka, Socrate. Lezioni di filosofia antica, introduzione, apparati e bibliografia di G. Girgenti, traduzione di M. Cajtham l, testo ceco a fronte, Rusconi, Milano,  nuova edizione: Bompiani, Milano, K. Wojtyla, Persona e Atto, a cura di G. Reale e T. Styczen, revisione della traduzione italiana e apparati a cura di G. Girgenti e P. Mikulska, testo polacco a fronte, Rusconi, Milano, nuova edizione: Bompiani, Milano, Struttura dell’anima dell’anima secondo Agostino e presupposti neoplatonici, in: Autori vari, Coscienza. Storia e percorsi di un concetto, Donzelli, Roma, Der Begriff der Verantwortung in der Welt der Antike und des Christentums, in K. Götz – J. Seifert (Hg.), Verantwortung in Wirtschaft und Gesellschaft, Rainer Hampp Verlag, München;   J. Seifert, Ritornare a Platone. La fenomenologia realista come riforma critica della dottrina platonica delle idee, in appendice un testo inedito su Platone di A. Reinach, prefazione e traduzione di G. Girgenti, Vita e Pensiero, Milano, Autori vari, Incontri con Hans-Georg Gadamer, edizione italiana a cura di G. Girgenti, Bompiani, Milano, Porfirio nel vegetarianesimo antico, “Bollettino Filosofico: Dipartimento di Filosofia dell’Università della Calabria”, Due fonti neoplatoniche indirette di Cusano: Porfirio e Giamblico, in AA. VV., Nicolaus Cusanus zwischen Deutschland und Italien Beiträge eines deutsch-italienischen Symposions in der Villa Vigoni vom (Veröffentlichungen des Grabmann-Instituts, Bd. 48), hrsg von Martin Thurner, Akademie Verlag Berlin, Plotino, Enneadi, traduzione di R. Radice. Saggio introduttivo, prefazioni e note di commento di G. Reale. Porfirio, Vita di Plotino, a cura di G. Girgenti, “I Meridiani. Classici dello Spirito”, Arnoldo Mondadori Editore, Milano  K. Wojtyla, Metafisica della persona. Tutte le opere filosofiche e saggi integrativi, a cura di G. Reale e T. Styczen, apparati e indici di G. Girgenti, Bompiani, Milano 2003.    Diogene Laerzio, Vite e dottrine dei filosofi.    Commentaria in Porphyrium a se translatum (editio secunda). Boethius   Georg Schepps Samuel Brandt   University of Leipzig   European Social Fund Saxony   Gregory Crane   Jouve OCR-ed, corrected and encoded the text   Greta Franzini   Project Manager (University of Leipzig)   Simona Stoyanova   Project Assistant (University of Leipzig)   Bruce Robertson Technical Advisor (Mount Allison University)   Uvius Fonticola   Technical Advisor (Ludwig Maximilians University Munich)   University of Leipzig   stoa0058.stoa007.opp-lat3.xml Available under a Creative Commons Attribution-ShareAlike 4.0 International License   2014 University of Leipzig   Germany   Georg Schepps   Samuel Brandt   Boethius    Vienna   Leipzig   Tempsky   Freytag    1906     48    Internet Archive    The following text is encoded in accordance with EpiDoc standards and with the CTS/CITE Architecture.   Latin     p. 46     Secundus hic arreptae expositionis labor nostrae seriem translationis expediet, in qua quidem uereor ne subierim fidi interpretis culpam, cum uerhum uerbo expressum comparatum- que reddiderim, cuius incepti ratio est quod in his scriptis in quibus rerum cognitio quaeritur, non luculentae orationis  lepos, sed incorrupta ueritas exprimenda est. quocirca mul- tum profecisse uideor, si philosophiae libris Latina oratione compositis per integerrimae translationis sinceritatem nihil in Graecorum litteris amplius desideretur, et quoniam humanis animis excellentissimum bonum philosophiae comparatum est,  ANICII. MALLII. SEVERINI. BOECII. IN YSAGOGAS PORPHIRII. A SE TRANSLATA EDITIONIS SECVNDĘ LIBER PRIMVS INCIPIT-  P; BOETII EXPOSITIO SCDA IN YSAGOG. E; BOETII COMMENTA IN ISAGOGAS  G; INCIP COMENTV BOETII, in isagogis porphirii; Expos Scda  L;  COMENTV BOECII IN ISAGOGAS  R;   inscriptione carent CFHNS (nisi quod in FH recens quaedam est), item e codd. Isagogen tantum a Boethio translatam continentibus   ΛΣ ; ISAGOGAE PORPHYRII TRANSLATAE DE GRECO IN LATINVM A VICTORINO ORATORE  (sic)   ΓΦ ; INCIP LIBER YSAGOGARVM (HΥS-  \ ) POR- PHYRII (I  pro  Y  Π )  AII ,- Icipidt isagoge porphyrii  (m. poster.)   Ψ;   de titulo operis cf. Prolegomena   6 fidi—reddiderim] cf. Horat. Ars poet. 133. 11—13] cf. Cic. Acad. post. I 3,12.   6 fędi  C  foedi  Hm1N  infidi  FGm1  7 uerbo] e uerbo  N  8 incoepti  CEGHPRS  10 corrupta  Em1Sm1  incorruptae  Em2  (e  in mg. add. sed del .)  Lm1  11 uidebor  brm  13 graecis  Lm2   ut uia et filo quodam procedat oratio, ex animae ipsius effi- cientiis ordiendum est. triplex omnino animae uis in uegetandis corporibus deprehenditur, quarum una quidem uitam corpori subministrat, ut nascendo crescat alendoque subsistat, alia uero sentiendi iudicium praebet, tertia ui mentis et ratione  subnixa est. quarum quidem primae id officium est, ut creandis, nutriendis alendisque corporibus praesto sit, nullum uero rati- onis praestet sensusue iudicium. haec autem est herbarum atque arborum et quicquid terrae radicitus adfixum tenetur, secunda uero composita atque coniuncta est ac primam sibi  sumens et in partem constituens uarium de rebus capere potest ac multiforme iudicium. omne enim animal quod sensu uiget, idem et nascitur et nutritur et alitur, sensus uero diuersi sunt et usque ad quinarium numerum crescunt, itaque quicquid tantum alitur, non etiam sentit, quicquid uero sentire  potest, ei prima quoque animae uis, nascendi scilicet atque nutriendi, probatur esse subiecta. quibus uero sensus adest, non tantum eas rerum capiunt formas quibus sensibili corpore feriuntur praesente, sed abscedente quoque sensu sensibili- busque sepositis cognitarum sensu formarum imagines tenent  memoriamque conficiunt, et prout quodque animal ualet, lon- gius breuiusque custodit, sed eas imaginationes confusas atque ineuidentes sumunt, ut nihil ex earum coniunctione ac compo-  1 uia et filo quodam]  CEm2H  (uia  fort. ras. ex  uiae), uiae et filo quodam  N  uiae  (s. l. R)  ex filo quodam  EmIGPR edd . uiae ( ex  uia  S ) ex quodam filo  LS  uiae ( s. l . filo  m1 ) quodam  F  ratio  CEmIGLRS  ex] ab  Hm1NP  efficienti  Em1 efficientis  Fa. c . 3 post uitam  add . solum  CFHP  solam  N  corporis  GNRL a.r.Sa.r . 5 rationis  FGRS  6 procreandis  CHNP  7 nutriendisque ( om . alendis)  EL  sit  s. l. Gm2Nm2  9 terra  CN  10 ac] ad  FSm1  at  LSm2  et  G  11 rebus] quibus  GRS  de rebus de quibus  L  12 poterit  E post iudicium  add . capit  E (sed del.) L, s. l. m2 in HRS  13 et nutritur om.  CHP, s. l . nutritur  (om. et) Lm2  14 ita  CHR  16 poterit  E  quoque prima  FGm2H  19 praesente ante feriuntur  FHN praesentes  CHm1N  abscedente]  Em2FGHmINESa.r . absente  CEm1Hm2LPSp.r . 20 re- positis  GR  22 imagines  FHN  23  ante  sumunt add. sic  brm   sitione efficere possint, atque idcirco meminisse quidem possunt, nec aeque omnia, admissa uero obliuione memoriam recolli- gere ac reuocare non possunt, futuri uero his nulla cognitio est. sed uis animae tertia, quae secum priores alendi ac sen-  tiendi trahit hisque uelut famulis atque oboedientibus utitur, eadem tota in ratione constituta est eaque uel in rerum prae- sentium firmissima conceptione uel in absentium intellegentia uel in ignotarum inquisitione uersatur. haec tantum humano generi praesto est, quae non solum sensus iraaginationesque  perfectas et non inconditas capit, sed etiam pleno actu intel- legentiae quod imaginatio suggessit, explicat atque confirmat, itaque, ut dictum est, huic diuinae naturae non ea tantum cognitione sufficiunt quae subiecta sensibus comprehendit, uerum etiam et insensibilibus imaginatione concepta et absen-  tibus rebus nomina indere potest et quod intellegentiae ratione comprehendit, uocabulorura quoque positionibus aperit, illud quoque ei naturae proprium est, ut per ea quae sibi nota sunt ignota uestiget et non solum unum quodque an sit, sed quid sit etiam et quale sit nec non cur sit, optet agnoscere, quam  triplicis animae uim sola, ut dictum est, hominum natura sor- tita est. cuius animae uis intellegentiae motibus non caret, quia in his quattuor propriae uim rationis exercet, aut enim aliquid an sit inquirit aut si esse constiterit, quid sit addubitat, quodsi etiam utriusque scientiam ratione possidet, quale sit  2 admissa]  CR  amissa  EFGm1NP  amissam  Gm2LS, ras. et s. l. ex  admissam  H  memoriam  om. FGR, s. l. Sm2 , memoria  H  3 hiis  F ,  sic saepe  cogitatio  CNm2  4 animae uis  CEL  5 ante trahit  add . uires  brm  6 ea  CHm1N  est  ante constituta  CEGS , om. R 7 con- tentione  EGm1Sm1  contemplatione  R, m2 in GLS  8 in  s. l. Gm1PmS ,  del. Lm2  ignotorum  Hm1N  9 imaginationes  EN  11 conformat  Gm2Pm2  13 cognitione] in cognitione  FHNP  14 et] ex  Em1HN  sensibilibus  CEm1Hp. c. Nm2  sensibus  Ha. c. Nm1   ante  imaginatione  add . sibi  E (del. m2) NPSm2  imaginatione] in agnitione  Gm1Sm1  agnitione  Gm2R  post concepta add. nomina  Hm1, idem post  rebus  s. l. m2  17 sint  E  19 optat  LR  22 quia] qua  Gm1  atque  EHm1Pm1  24 scientiam  post  ratione  E  sententiam  Hm1  pos- sedit  FRS   unum quodque uestigat atque in eo cetera accidentium momenta perquirit, quibus cognitis cur ita sit quaeritur et ratione nihilo minus uestigatur.   Cum igitur hic actus sit humani animi, ut semper aut in <rerum> praesentium comprehensione aut in absentium intel-  p. 47  legentia aut in ignotarum inquisitione | atque inuentione uer- setur, duo sunt in quibus omnem operam uis animae ratio- cinantis inpendit, unum quidem, ut rerum naturas certa inqui- sitionis ratione cognoscat, alterum uero, ut ad scientiam prius ueniat quod post grauitas moralis exerceat, quibus inquirendis  permulta esse necesse est, quae uestigantem animum a recti itinere non minimum progressione deducant, ut in multis euenit Epicuro, qui atomis mundum consistere putat et honestum uoluptate metitur, hoc autem idcirco huic atque aliis accidisse manifestum est, quoniam per imperitiam disputandi quicquid  ratiocinatione comprehenderant, hoc in res quoque ipsas euenire arbitrabantur, hic uero magnus est error; neque enim sese ut in numeris, ita etiam in ratiocinationibus habet, in numeris enim quicquid in digitis recte computantis euenerit, id sine dubio in res quoque ipsas necesse est euenire, ut si ex calculo  centum esse contigerit, centum quoque res illi numero sub- iectas esse necesse est. hoc uero non aeque in disputatione seruatur; neque enim quicquid sermonum decursus inuenerit,  4 aut  om. CNR, s. l. Gm2Sm2  5 rerum  add. edd. post  praesentium,  ante Brandt; cf. p. 137, 6  6 ignotorum  Gm2Hm1Lm2N ante  in- uentione  s. l. in Hm2  8 inpendat  FPSa.c . naturam  FHm1N  certa inquisitionis]  Gm2H  certae inquisitionis  FNP  inquisitionis certa CELm2 , om. certa  Gm1Lm1RS (fort. recte)  10 quod] eius quod r exer- cet  Hm1  12 minimum ante non  E  minime  FSm1  diducant  FGm2  13 atbomis  plerique codd . consistere in  mg. Hm2 constare  CFP, post er . ł consistere  C  honestam  Em1P  honestatem  F  14 uoluptate om.  F uoluptatera  CEHm2  (te* m1)  LNR, add . corporis  L (del. m2) R, s. l. Gm2, ante  uol.  edd . mentitur  CEGHPRSm1  hoc] haec  H  16 racione  CN  comprehenderent  m1   in EHN  17 nero] ergo  H  maximus  E  error est  CFHNP post  sese  add .  res FR ,  s. l. Pm2  19 digitos  CEFN   id natura quoque fixura tenetur, quare necesse erat eos falli qui abiecta scientia disputandi de rerum natura perquirerent, nisi enim prius ad scientiam uenerit quae ratiocinatio ueram teneat disputandi semitam, quae ueri similem, et agnoscere quae  fida, quae possit esse suspecta, rerum incorrupta ueritas ex ratiocinatione non potest inueniri. cum igitur ueteres saepe multis lapsi erroribus falsa quaedam et sibimet contraria in disputatione colligerent atque id fieri inpossibile uideretur, ut de eadem re contraria conclusione facta utraque essent uera quae  sibi dissentiens ratiocinatio conclusisset, cuique ratiocinationi credi oporteret, esset ambiguum, uisum est prius disputationis ipsius ueram atque integram considerare naturam, qua cognita tum illud quoque quod per disputationem inueniretur, an uere comprehensum esset, posset intellegi, hinc igitur profecta est  logicae peritia disciplinae, quae disputandi modos atque ipsas ratiocinationes internoscendi uias parat, ut quae ratiocinatio nunc quidem falsa, nunc autem uera sit, quae uero semper falsa, quae numquam falsa, possit agnosci, huius autem uis duplex esse perpenditur, una quidem in inueniendo, altera in  iudicando. quod Marcus etiam Tullius in eo libro cui Topica titulus est, euidenter expressit dicens; Cum omnis ratio diligens disserendi duas habeat partes, unam inue- niendi, alteram iudicandi, utriusque princeps, ut mihi quidem uidetur, Aristoteles fuit. Stoici  20 Tullius] Top. 2, 6 s.   1  ante  natura  add . in  HLSpr, s. l. Pm2  3 post nisi  add . quis  r  prius enim  E  4 disputandi  om. GRS ad ueri  similem  s. l . ał que ueri se similem agnouerit  Hm2  et agnoscere]  FSm1  ( om . et) et agnouerit  EGLPRSm2 ( om . et) edd. ut ex hoc delectia rationum que- amus agnoscere  Hm1, s. l . ał et agnouerint quae fida et reliqua  m2  ut ex diligentia rationum queamus ( ex  quaeramus  C ) agnoscere  CN  7 et sibimet] sibimet  C  sibi et  EGRS  9  post re s. l . si  Cm1?  10 cuique)  CHm1N  cuiue  cett . 13 tunc  FHNPm1R post  an  add . id R,  s. l. Gm2Lm2, 2 litt. er. C  15 ipsis ratiotinationibus  Hm2  16 ante internoscendi add. et  brm  uiam  CFHN  19 inneniendi et iudicandi ( om . in)  Hm2  24 quidem uidetur]  FHNPCic . uidetur quidem GRS quidem  om. CEL   autem in altera elaborauerunt; iudicandi enim uias diligenter persecuti sunt ea scientia quam  διαλεκτικήν appellant, inueniendi artem, quae  τοπική  dicitur quaeque ad usum potior erat et ordine naturae certe prior, totam reliquerunt, nos autem  quoniam in utraque summa utilitas est et utram- que, si erit otium, persequi cogitamus, ab ea quae prima est, ordiemur, cum igitur tantus huius considera- tionis fructus sit, danda est huic tam sollertissimae disci- plinae tota mentis intentio, ut primis firmati in disputandi  ueritate uestigiis facile ad rerum ipsarum certam comprehen- sionem uenire possimus.   Et quoniam qui sit ortus logicae disciplinae praediximus, reliquum uidetur adiungere, an omnino pars quaedam sit philosophiae an ut quibusdam placet, supellex atque instru-  mentum, per quod philosophia cognitionem rerum naturamque deprehendat, cuius quidem rei has e contrario uideo esse sen- tentias. hi enim qui partem philosophiae putant logicam con- siderationem, his fere argumentis utuntur, dicentes philoso- phiam indubitanter habere partes speculatiuam atque actiuam.  de hac tertia rationali quaeritur an sit in parte ponenda, sed eam quoque partem esse philosophiae non potest dubitari, nam sicut de naturalibus ceterisque sub speculatiua positis solius philosophiae uestigatio est itemque de moralibus ac  2 uias]  ENPCic.p, om. cett. codd ., uiam  brm  ea scientia]  Pm1Cic . eam scientiam  EPm2  edd. eam scilicet scientiam  CN  artem et scientiam FSm2  scientiam  GHLRSm1  3  διαλεκτικήν ] Cic. dialecticen  CFGHL- NPm2RS  dialecticam  E dialectica  Pm1   τοπική ]  Cic . topice  Gm2LNS  topica  CEFGm1HPR  4 quaeque] quae et  Cic . 5 prior] prior est  GLa.c.RS  6 in—est et]  CN Cic., s. l. Pm2, om. cett. codd., Boethius etiam in comment. in Cic. Top. lib. I p. 1047 D haec uerba respicit  8 prima] prior  Cic . ordiemur]  EHm1NCic . ordiamur  CGHm2LPRS  ordinamus  F  13 quid  FHm1NPp.c . quod  a.c . 14  ante reliquum  add . esse  GHP  pars sit quaedam  GN  quaedam pars sit  L  18 hii  EHL  20  ante  habere  add . duas  L m 1860  21  post  rationali  add . uel orationali  EFGH (del. m2) RS (del. mS)  id est logica  L  ( s. l. m2) edd. ad  an  s. l . si  Cm2  24 inuestigatio  L   reliquis quae sub actiuam partem cadunt, sola philosophia perpendit, ita quoque de hac parte tractatus, id est de his quae logicae subiecta sunt, sola philosophia iudicat. quodsi speculatiua atque actiua idcirco philosophiae partes sunt, quia  de his philosophia sola pertractat, propter eandem causam erit logica philosophiae pars, quoniam philosophiae soli haec dis- putandi materia subiecta est. iam uero inquiunt : cum in his tribus philosophia uersetur cumque actiuam et speculatiuam consideratio|nem subiecta discernant, quod illa de rerum naturis,  p. 48   haec de moribus quaerit, non dubium est quin logica disci- plina a naturali atque morali suae materiae proprietate di- stincta sit. est enim logicae tractatus de propositionibus atque syllogismis et ceteris huiusmodi, quod neque ea quae non de oratione, sed de rebus speculatur neque actiua pars, quae de  moribus inuigilat, aeque praestare potest, quodsi in his tribus, id est speculatiua, actiua atque rationali, philosophia consistit, quae proprio triplicique a se fine disiuncta sunt, cum specula- tiua et actiua philosophia partes esse dicuntur, non dubium est quin rationalis quoque philosophia pars esse conuincatur.  qui uero non partem, sed philosophiae instrumentum putant, haec fere afferant argumenta, non esse inquiunt similem logicae finem speculatiuae atque actiuae partis extremo, utraque enim illarum ad suum proprium terminum spectat, ut speculatiua  2 tractat  Ep.r.FR, m2 in GLP  3 diiudicat  CHm2  5 sola philo- sophia  CFN  pertractet  Em1  tractat  Hm1  7 iam] tam  R  ita  FL  9 sublectas discernat  Em2  10 dubium non est  CEL  non est dubium  F  11 a  om. LS, s. l. Gm2Pm2, postea add. R  disiuncta (iunc  in ras. m1? )  R  12 est enim] etenim  GLRS post  tractatus add. est  LR, s. l. Pm2  14 orationibus  E ratione  Lm1, add . est  L  17 sint  Rm1, ex  sit  Sm2  cumque  H  (q.  er .)  Lm2N  18 et] atque  EFNP philosophiae  pbr  dicantur  Lm2N  non est dubium  EFHNP  21 haec—argumenta  del. G  asserunt ( ss in ras. m1? )  C  similem  om. GR, post  finem  s. l. Sm2, ad  similem  s. l.  ł proprium  Pm2  22  ante  speculatiuae  add . sed  R, s. l. Gm2Lm2  extremum E (u  ex a uel  o  m2 )  GL  (um  ex am m2 )  Pm2RSm1  23 proprium suum  C  ut] ita ut  brm   quidem rerum cognitionem, actiua uero mores atque instituta perficiat, neque altera refertur ad alteram, logicae uero finis esse non potest absolutus, sed quodammodo cum reliquis duabus partibus colligatus atque constrictus est. quid enim est in logica disciplina quod suo merito debeat optari, nisi  quod propter inuestigationem rerum huius effectio artis inuenta est? scire enim quemadmodum argumentatio concludatur uel quae uera sit, quae ueri similis, ad hoc scilicet tendit, ut uel ad rerum cognitionem referatur haec scientia rationum uel ad inuenienda ea quae in exercitium moralitatis adducta beatitu-  dinem pariunt. atque ideo quoniam speculatiuae atque actiuae suus certusque finis est, logicae autem ad duas reliquas partes refertur extremum, manifestum est non eam esse philosophiae partem, sed potius instrumentum, sunt uero plura quae ex alterutra parte dicantur, quorum nos ea quae dicta sunt  strictim notasse sufficiat. Hanc litem uero tali ratione dis- cernimus. nihil quippe dicimus impedire, ut eadem logica partis uice simul instrumentique fungatur officio, quoniam enim ipsa suum retinet finem isque finis a sola philosophia, consideratur, pars philosophiae esse ponenda est, quoniam uero finis ille  logicae quem sola speculatur philosophia, ad alias eius partes suam operam pollicetur, instrumentum esse philosophiae non negamus; est autem finis logicae inuentio iudiciumque rati- onum. quod scilicet non esse mirum uidebitur, quod eadem pars, eadem quoddam ponitur instrumentum, si ad partes  corporis animum reducamus, quibus et fit aliquid, ut his quasi quibusdam instrumentis utamur, et in toto tamen corpore par- tium obtinent locum, manus enim ad tractandum, oculi ad  1 rerum]  Em2H(in mg. m1?) Lm2 edd., post  cognitionem  add . rerum  s. l. Pm2Sm2, add . naturalium rerum  F, s. l. Gm2, om. cett . 2ad alteram] de altera  Em2 3 non potest esse  FGN  4 est  om. C  5 aptari  FGm1Hm1Pm2R  6 affectio  EFHLm2Pm1Bm1  8 intendit  F  9 rationum scientia  CLP  10 mortalitatis  bm  11 parant  Ea.c . pariant  Hm1  15 alterutra] utraque  EP, add. post  alterutra  H, del. m2 ante  dicta  add . supra  EP, s. l. Lm2  18 enim] nero  CFHN  21 ei  F  24 uidetur  Em1FGm2LNPm2  28 optineant  Fp.c.S   uidendum, ceteraeque corporis partes proprium quoddam uidentur habere officium, quod tamen si ad totius utilitatem corporis referatur, instrumenta quaedam corporis esse deprehenduntur quae etiam partes esse nullus abnuerit, ita quoque logica  disciplina pars quidem philosophiae est, quoniam eius philo- sophia sola magistra est, supellex uero, quod per eam inqui- sita philosophiae ueritas uestigatur.   Sed quoniam, quantum mihi quoque breuitas succincta largita est, ortum logicae et quid ipsa logica esset explicui,  nunc de eo nobis libro pauca dicenda sunt quem in praesens sumpsimus exponendum, titulo enim proponit Porphyrius intro- ductionem se in Aristotelis Praedicamenta conscribere, quid uero ualeat haec introductio uel ad quid lectoris animum praeparet, breuiter explicabo. Aristoteles enim librum qui De  decem praedicamentis inscribitur hac intentione composuit, ut infinitas rerum diuersitates quae sub scientiam cadere non possent, paucitate generum comprehenderet, atque ita quod per incomprehensibilem multitudinem sub disciplinam uenire non poterat, per generum, ut dictum est, paucitatem animo  fieret scientiaeque subiectum. decem igitur genera rerum esse omnium considerauit, id est unam substantiam et accidentia nouem, quae sunt qualitas, quantitas, relatio, ubi, quando, facere et pati, situs, habere, quae quoniam genera essent su- prema et quibus nullum aliud superponi genus posset, omnem  necesse est multitudinem rerum horum decem generum spe-  1 quoddam] quod  Em1  (aliquod  m2 )  G  2 utilitatem  post  corporis EG, ante  totius  L  4 quas  FSm2  5 quidem post philosophiae  H  quaedam  L  6 uero] uero est  L  8 quoque  om. L  quidem  edd . ueritas  Cm1N  succincta]  CNPSm2  sua mora  EFGHR  sua mota  Sm1  succincta suam moram  L  9 ortum  om . L et de ortu CNF quod  CF  est  G  explicaui  CELm2PRS  11 titulum  CHm1N  13 lectoris  s. l. Gm2, post  animum  CN, post  praeparet  H. om. E  14 paret  EFGNRS  15 scribitur  EGRSm1  17 ita quod  s. l. Gm2  (itaque m1)  Rm2  quod ( om . ita)  s. l. Sm2  20 decem] in decem  C  23 et  om. FLNP  situm habere  CRa.c . situm esse habere  Gm1S  24 genus superponi  H  possit  Ea.c.FGm1NPRS  25 ante horum add. per  s, l. Pm2, ante  species  CFLR. s. l. Gm2Sm2   cies inueniri. quae quidem genera a se omnibus differentiis distributa sunt nec quicquam uidentur habere commune nisi  p 49  tantum nomen, quoniam omnia | esse praedicantur. quippe sub- stantia est, qualitas est, quantitas est, et de aliis omnibus ‘est’ uerbum communiter praedicatur, sed non est eorum  communis una substantia uel natura, sed tantum nomen. itaque decem genera ab Aristotele reperta omnibus a se differentiis distributa sunt. sed quae aliquibus differentiis disiunguntur, necesse est ut habeant proprium quiddam quod ea in singu- larem solitariamque uindicet formam. non est autem idem  proprium quod accidens. accidentia enim et uenire et abesse possunt, propria ita sunt insita, ut absque his quorum sunt propria, esse non possint. quae cum ita sint cumque Aristo- teles decem rerum genera repperisset, quae uel intellegendo mens caperet uel loquendo disputator efferret - quicquid  enim intellectu capimus, id ad alterum sermone uulgamus —, euenit ut ad horum decem praedicamentorum intellegentiam quinque harum rerum tractatus incurreret, scilicet generis, speciei, differentiae, proprii, accidentis. generis quidem, quoniam oportet ante praediscere quid sit genus, ut decem illa quae  Aristoteles ceteris anteposuit rebus, genera esse possimus agnoscere, speciei uero cognitio plurimum ualet, ut quae cuiusque generis sit species, possit agnosci. si enim quid sit species intellegimus, nihil impediti errore turbamur. fieri enim potest, ut per speciei inscientiam saepe quantitatis species in  relatione ponamus et cuiuslibet primi generis species alteri cui-  4 omnibus aliis  FHLN  9 quoddam  S  10 uendicet  HLP  uindicent  ( ent  in ras.) S  constituat CN 11 euenire  FGm2R  (om. et) abire  NP  12 propria ita] propria enim ita  H  proprietates  EGm1S propria uero ita  edd . insitae  EGm1S  14 uel  om. FP  16 cupimus  E  alterutrum  FPm2S  19  ante accidentis  add . atque  FHNP  et  L  21 inter- posuit  m1 in EGS  superposuit  Em2NP  praeposuit  FGm2  possemus  FN  22 cognitio  post  ualet  LP  24 impedito  (uel  in- ) Ca.c.EGm1HNS  impedit  R  turbari  CS  25 inscitiam  F  26 cuilibet] cuiuslibet  Gm1N,a.r. in EFS   libet generi subdamus atque ita fiat permixta rerum atque indiscreta confusio; quod ne accidat, quae sit natura speciei ante noscendum est. nec uero in hoc tantum prodest speciei cognoscenda natura, ne priorum generum species inuicem per-  mutemus, uerum etiam ut in eodem quolibet genere proximas species generi nouerimus eligere, ut ne substantiae mox animal dicamus esse speciem potius quam corpus aut corporis homi- nem potius quam animatum corpus, at uero differentiarum scientia in his maximum retinet locum, qui enim omnino  qualitatem a substantia uel cetera a se genera distare cogno- scimus, nisi eorum differentias uiderimus? quomodo autem discernere eorum differentias possumus, si quid ipsa sit diffe- rentia nesciamus? nec hunc solum nobis inscientia differentiae offundit errorem, uerum etiam specierum quoque tollit omne  iudicium. nam omnes species differentiae informant, ignorata differentia species quoque necesse est ignorari, quomodo uero fieri potest, ut quamlibet differentiam possimus agnoscere, si omnino quae sit nominis huius significatio nesciamus? iam nero proprii tantus usus est, ut Aristoteles quoque singulorum  praedicamentorum propria perquisiuerit. quae propria esse quis deprehenderit, antequam quid omnino sit proprium discat? nec in his tantum propriis haec cognitio ualet quae singulis nomi- nibus efferuntur, ut hominis risibile, uerum etiam in his quae in locum definitionis adhibentur, omnia enim propria rem subrectam  quodam termino descriptionis includunt, quod suo quoque loco  25 suo loco] lib. IV c. 15 s.   1 generis  Gm1REa.r.Sa.r . fiet  CH  fit  N  permixtio  FHm2LNP  4 primorum  FNP  5 in om.  CERS, s. l. Gm2  6  ante  generi  add . cuilibet  brm  7 aut—corpus om.  E, s. l. Gm2Sm2  8 corpus  om. FP ,  del. Hm2  9 qui] quomodo  Ep.c.HPp.c.R  11 nouerimus  R  quo- modo—ignorari  (16) in inf. mg. Em2  autem] nero  E(m2)  14 offundit]  E (m2) Pm1  obfundit  Hm2  diffundit  Gm1  effundit  cett.; cf. p. 159,16  15 informant differentiae  brm  16 quomodo] qui  FNP  uero om.  G  18 huius nominis  FNP  20 perquisierit  R  quis esse  FR  21 deprehen- derit in  ras. E  deprehenderet  Np.c . deprehendet ( ex  -it)  P  22 proprii  Gm2N post  singulis  add . tantum  FHLNP  24 subiecto  EGm1RS   oportunius commemorabo, accidentis quoque cognitio quantum afferat, quis dubitare queat, cum uideat inter decem praedica- menta nouem accidentis naturas? quae quomodo accidentia esse putabimus, si omnino quid sit accidens ignoremus, cum praesertim nec differentiarum nec proprii scientia nota sit, nisi  accidentis naturam firmissima consideratione teneamus? fieri enim potest, ut differentiae loco uel proprii per inscientiam accidens apponatur, quod esse uitiosissimum etiam definitiones probant, quae cum ipsae ex differentiis constent et fiant unius cuiusque definitiones propriae, accidens tamen non uidentur  admittere. Cum igitur Aristoteles rerum genera collegisset, quae nimirum diuersas sub se species continerent, quae species nuraquam diuersae forent, nisi differentiis segregarentur, cum- que omnia in substantiam atque accidens, accidens uero in alia nouem praedicamenta soluisset cumque aliquorum praedi-  camentorum fere sit propria persecutus, de his ipsis quidem praedicamentis docuit, quid uero esset genus, quid species, quid differentia, quid illud accidens, de quo nunc dicendum est, uel quid proprium, uelut nota praeteriit, ne igitur ad Praedicamenta Aristotelis uenientes, quid significaret unum  p. 50  quodque eorum quae superius dicta sunt ignora|rent, hunc librum Porphyrius de earum quinque rerum cognitione per- scripsit, quo perspecto et considerato quid unum quodque eorum quae supra praeposuit designaret, facilior intellectus ea quae ab Aristotele proponerentur addisceret.   Haec quidem intentio est huius libri, quem Porphyrius ad introductionem Praedicamentorum se conscripsisse ipsa, ut  1 opportunius  NR post  accidentis  add . teneri  L ,  post  naturas  (3) tenere  HN  3 quonam modo  FHLNP  5 tota  EN, m1 in GPS  6 te- nemus  C  7 insciciarn  FN  11  ante  rerum  add . decem  cod. Monac. 4621 brm, recte?  15 nouem om.  S edd., s. l. Em2Gm2  16 fere  om. EFGS, er. H  18 nunc  om. GRS  est dicendum  CL  21. 24 eo- rum  delendum esse coni. Engelhrecht  23 quo] ut  CHLNP  inspecto  FNP perfecto EGm1  24 eorum]  cod. Monac. 4621 ( om . quae),  om. codd. nostri  proposuit FP proposui  H  posuit  NR  25 ab  om. ENR praeponerentur  CHm2NR  27 ipse  L  ita  F   dictum est, tituli inscriptione signauit, sed licet ad hoc unum huius libri referatur intentio, non tamen simplex eius utilitas est, uerum multiplex et in maxima quaeque diffusa est. quam idem Porphyrius in principio huius libri commemorat dicens;    Cum sit necessarium, Chrysaori, et ad eam quae est apud Aristotelem praedicamentorum doctri- nam, nosse quid genus sit et quid differentia quid- que species et quid proprium et quid apcidens, et ad definitionum adsignationem et omnino ad ea  quae in diuisione uel demonstratione sunt, utili hac istarum rerum speculatione, compendiosam tibi traditionem faciens temptabo breuiter uelut introductionis modo ea quae ab antiquis dicta sunt adgredi altioribus quidem quaestionibus  abstinens, simpliciores uero mediocriter coniec- tan s.    Utilitas huius libri quadrifariam spargitur, namque ad illud etiam ad quod eius dirigitur intentio, magno legentibus usui  5—16] Porph. p. 1, 3—9 (Boeth. p. 25, 2—9 Busse).   2 eius utilitas est]  FGm2 (in mg. add.) HP  utilitas eius est  in mg. add. Em2  est eius utilitas  s. l. add. Lm2  eius est utilitas  N, om, RS;  est tamen simplex eius utilitas  C  3 uerum  in mg. Em2  sed  GLS  sed et  R  multiplex et  in mg. Em2, s. l. Sm2  est  er. uid. E  5  ante  Cura  add . PROLOGVS  RS, de inscript. codicum Isagogen tantum con- tinent. cf. ad initium libri  Chrysaori]  G chrisaori  EHNPa.c .  Γ  ( s. l . menanti)  Ώμ2ΣΦ  chrysaoni S chrisarori ( uel  cris-  uel  chriss-,1  CFLPp.c .  R lATl m1 *!  (-oui) ante et add. te  C (er.)   FLNA (del.)   Σ ,  s. l . scil, te  E  6  ante praedicamentorum  add . X  Δ  7 sit genus  L A  et  om .  Φ  quidue  N  8  pr .  et s. l. E, om .  A  9 diffinitionem  Em1 \ m2 ,  in  -nes,  hoc in  -num  mut. F  10 in] ad  FHP ,  ante  in  er . ad  uid. C diuisionem  Ca.r.FHNP T a.r . A a.r . Q  uel] et  N  et ad  FHP  uel in  ΔΣΦ  demonstrationem  Ca.r . (-ne  ras. ex  -ne  ut uid .)  FHNP F a.r. A a.r .(b  utili]  edd . utilia  codd . 11 hac]  HP ,  s. l. Sm2  hanc  CLNΤ ΛΙIΣΦ ,  del .  Δ ,  om .  EFGRS  speculationem  CEa.r.Hm2L A a.r .  ΑΦ ,  in  -num corr.  Σ compendiosa  ras. ex  -sa  C A  12 traditione ( uel  -cione)  CLΝ Φ ,  ras. ex  -nem  HT A  14 altioribus] ab altioribus  A  17 quadrifaria  S ante  ad  add . et  EGP ,  s. l. L  18 etiam  om . G   est et ad cetera, quae cum extra intentionem sint, non tamen minor ex his legentibus utilitas comparatur, est enim per hoc corpusculum et praedicamentorum facilis cognitio et defini- tionum integra adsignatio et diuisionum recta perspectio et demonstrationum ueracissima conclusio, quae res quanto diffi-  ciles atque arduae sunt, tanto perspicaciorem studiosioremque animum lectoris expectant. dicendum uero est quod in omni- bus libris euenit. nam primum si quae sit intentio cognoscatur, quanta quoque utilitas inde prouenire possit expenditur et licet extra multa, ut fit, huiusmodi librum sequantur, tamen  illam proxime utilitatem uidetur habere, ad quod eius refertur intentio, ipso libro quem sumpsimus exponente, cum eius intentio sit ad Praedicamenta intellectum facilem comparandi, non dubium quin haec eius principalis probetur utilitas, licet non minores sint comites definitio, diuisio ac demonstratio,  quorum nobis quaedam hic principia suggeruntur, sensus uero totus huiusmodi est : ‘cum sit, inquit, utilis generis, speciei, differentiae, proprii accidentisque cognitio ad Praedicamenta Aristotelis eiusque doctrinam, ad definitionum etiam adsigna- tionem, ad diuisionem et demonstrationem, quae sit harum  rerum utilis überrimaque cognitio, compendiosam, inquit, tra-  2 utilitas legentibus  FHP  3 opusculum  CEp.r.FGm2HLN, recte ? cf. p. 149, 3  4 integra  om. ER, s. l. Gm2Sm2  recta] perfecta  CFGm2- Hm1N  8  post  libris  add . his  HNP  hoc  R ,  s. l ,  sed exters. G  sit] est  H  9 id est  (add. Lm2)  perpenditur  Em2Lm2  10  ante huius- modi  add . in  CE (del.) G (del. m2) N  librum]  LPm2RSm2, om. Hm1 , libros  FGm1Sm1, s. l. Hm2 , libro  CE (del.) Gm2NPm1  sequntur ( uel  sec-)  R, m1 in EGS  11 uidentur  FH  ad quod] aliquod  Cm1  ad quam  FGm2Pm2  eius] eorum  FGm2HPm1  12  ante ipso  add . ut  (s. l. est Lm2)  in hoc  CFHLNP, s. l . ut in  Em2  hoc  Gm2  ex- ponendum  CE (dum  in er . te?)  FHLNP  ( ex  -dus  m1  exponere  m2 )  Sm1 post  cum  s. l . enim  Hm2  13 praeparandi  H 14  ante  dubium  add . est  FHNP ,  s. l. Gm2, post s. l. L  15 minoris  CGm1N  16 nobis  om. C  hic quaedam  C  principalia  NSm1  17 huiusmodi totus  EG  19 eamque  Hm1Sm1  20 ad  om. C, s. l. Gm2 , et  FHN  et ad  P  et] ac  H, om. CFNP , et ad  edd . demonstrationemque CN demonstrationum- que  FP  quae] quia  Lm2R, om. CFNP  21 traditione  ras. ex  -nē  H   ditionem faciens ea quae ab antiquis large ac diffuse dicta sunt, temptabo breuiter aperire’, neque enim esset compendiosa, nisi totum opus breuitate constringeret et quoniam intro- ductionem scribebat, ‘altiores, inquit, quaestiones sponte refn-  giam, simpliciores uero mediocriter coniectabo’, id est sim- pliciorum quaestionum obscuritates habita in eis quadam coniecturae ratiocinatione tractabo. Tota quidem sententia huiusce prooemii talis est, quae et utilitate überrima et facilitate incipientis animo blandiatur, sed dicendum uidetur  quidnam celet amplius altitudo sermonum, necessarium in Latino sermone, sicut in Graeco  άναγκαΐον , plura significat, diuersa enim significatione Marcus Tullius dicit necessarium suum esse aliquem atque nos, cum nobis necessarium esse dicimus ad forum descendere, qua in uoce quaedam utilitas  significatur. alia quoque significatio est qua dicimus solem necessarium esse moueri, id est necesse esse, et illa quidem prima significatio praetermittenda est, omnino enim ab eo necessario quod hic Porphyrius ponit aliena est. hae uero duae huiusmodi sunt, ut inter se certare uideantur quae huius loci  obtineat significationem, in quo dicit Porphyrius; Cum sit necessarium, Chrysaori; namque, ut dictum est, neces-  12 Marcus Tullius] cf. infra apparatum.   2 enim  om. E  3 corpus  HNPm1  4 refugio  EGR  5 simplicium  Gm2LPm2  6 eas  EFGm1HNSm1  7  ad  quidem  s. l.  autem  Gm2  8 prohemii  EPS  uberrima <sit>  Brandt  9 animum  EGLm2Pm2R  uidetur  om. ERS, s. l. Gm2  11 ΑΝΑ Γ ΑΙΟΝ  uel  ANAKAION  uel sim. codd . ANA IT CION ł ANAKAION  C  12 etenim F  ad  Marcus Tullius  in mg . Marcus enim tullius pro fundanio inquit descripsistine eius neces- sarium id est adiutorem danium ( leg . fundanium)  add. Hm2, ex Mario Victorino De defin., Boeth. p. 906 B, haustum, Cic. IV 3 p. 236 frg. 6 Mueller  13 aliquod  C  aliquid  Hm1NPm2  nos]  Hm1Pp.e.Sm1  nostrum  cett.; an nostrum est  scribendum ? ante cum  add . ut  EG (del. m2) HLm2P  uel  F  nos  Hm2  14 dicamus  L 16  post , esse] esset  F  est  Hm1LNP  18 uero  om .  N  ergo  F  21 Chrysaori]  CEm1  chrisaori  uel eris-  uel  crys-  uel  crisar-  uel sim. cett . necessarium] harum  E  ( s. l . duarum necessitatum  m2 )  Gm1S  necessarium harum  F   sarium et utilitatem significat et necessitatem, uidentur autem huic loco utraque congruere, nam et summe utile est ad ea  p. 51  quae superius dicta sunt, de genere et specie | et ceteris disputare, et summa est necessitas, quia nisi sint haec ante praecognita, illa ad quae ista praeparantur, non possunt cognosci, nam  neque praeter generis uel speciei cognitionem praedicamenta discuntur nec definitio genus relinquit et differentiam, et in ceteris quam sit utilis iste tractatus, cum de diuisione et demonstratione disputabitur, apparebit, sed quamquam necesse sit haec quinque de quibus hic disputandum est, prius ad  cognitionem uenire quam ea quibus illa praeparantur, non tamen ea significatione hic a Porphyrio positum est qua neces- sitatem significari uellet ac non potius utilitatem, ipsa enim oratio contextusque sermonum id clarissima intellegentiae ratione significat, neque enim quisquam ita utitur ratione, ut  aliquam necessitatem referri dicat ad aliud, necessitas enim per se est, utilitas uero semper ad id quod utile est refertur, ut hic quoque, ait enim Cum sit necessarium, Chrysaori, et ad eam quae est apud Aristotelem praedicamen- torum doctrinam, si igitur hoc necessarium utile intel-  legamus et id nomine ipso uertamus dicentes : cum sit utile. Chrysaori, et ad eam quae est apud Aristotelem praedicamen-  1 et  om. R, del. CGm2 significans  R ante  necessitatem  add . altera  R, s. l. Gm2  4 necessitas est  E  quia  om. NS  sint  post  haec  F, post  praecognita  H  5 agnosci  CN  post cognosci  add . quae  (om. E)  praedicamenta dicuntur  CEGL (in sup. mg. m2)  PR cognitiones  (del. et s. l . quae  add. m2) praedicamentarum (rum  del. m2 ) dicuntur  S  nam—discuntur  om. GRS, in sup. mg. Lm2  nam—cognitionem  in mg. Em1?, reliqua om . 7 nec] sed istis cognitis nec  C  sed nec  S  neque  N  10 sit] erit  Em2GLm1RS  13 significare  FN  15 utatur  Sm1  oratione  CHm1N  16 aliud] aliquid  CHm1N  17  post  se  add . quiddam  CFHPN, s. l. Em2Lm2 , quidem  edd . quod] ad quod  NP defertur  Gm1Lm1RS  18 enim  om . C Chrysaori]  eaedem fere quae   p. 147, set 149, 21 in codd. scripturae  19 et] te et  L  20  post   doctrinam add . nosse quid genus sit  C  nosse quid sit genus et cetera  in mg. Lm2  22 Chrysaori]  ut 18  et  om .  EFGS  te et  L  doctri- nam praedicamentorum  C   torum doctrinam, nosse quid genus sit et cetera, recte se habebit ordo sermonum; sin uero id ad ‘necesse’ permutetur atque dicamus : cum sit necesse, Chrysaori, et ad eam quae est apud Aristotelem praedicamentorum doctrinam, nosse quid  genus sit et cetera, rectae intellegentiae sermonum ordo non conuenit. quocirca hic diutius immorandum non est. quamquam enim sit summa necessitas his ignoratis non posse ad ea ad quae hic tractatus intenditur perueniri, non tamen de necessi- tate hic dictum est necessarium, sed potius de utilitate.    Nunc uero, licet idem superius dictum sit, tamen breuiter  quid ad praedicamenta generis, speciei, differentiae, proprii atque accidentis prosit agnitio, disputemus. Aristoteles enim in Praedicamentis decem genera constituit rerum quae de cunctis aliis praedicarentur, ut quicquid ad significationem  uenire posset, id si integram significationem teneret, cuilibet eorum subiceretur generi de quibus Aristoteles tractat in eo libro qui De decem praedicamentis inscribitur, hoc ipsum uero referri ad aliquid uelut ad genus tale est, quale si quis spe- ciem supponat generi, hoc uero neque praeter cognitionem  speciei ullo modo fieri potest nec uero ipsae species quid sint uel cuius magis sint possunt perspici nisi earum differentiae cognoscantur, sed differentiarum natura incognita, quae unius  1 recte—sermonum] recte intellegentiae sermonum ordo conuenit  CLP   (ex 5)  2 uero] autem  C  3 atque] itaque  FN  ut  CLH (in ras.)  Chry- saori]  ut p .  150, 18  4 est] sit  GLRS  nosse—sit om.  EH  5 ordo  ante  sermonum  E  7  post  his  s. l.  quinque  Lm2   pr. (sic)  ad  om. G ,  in mg. Em1?  8 tractatus hic  H  intendit  L  peruenire  Lm1S  9  ante  hic  add . solummodo  F  10 nunc] nam  F  11 quod  EN  12 possit  Lm2  cognitio  R  15 possit  Fa.c.LS 16 Aristoteles  delend. esse coni. Brandt  eo  om. E  17 De  om. NS , de  s. l. Lm2  uero  s. l. Gm2 18  post , ad  om. GRS, s. l. Em2Lm2P  qui  S  19 neque  er .  L  nec  N   post  cognitionem  add. generis neque praeter cognitio- nem  CFHP   (in mg. m2)  generis nec  E   (s. l. m1?)N, s. l. generis et  Lm2  20 nullo  Lm2  neque  F  21 magis] modi  CEm2  (in aliis m1)  Hm1Pp.c. (corr. m1?)  modo  N  possint  S  possumus  Gm1Lm2  possemus  m1  possimus  E  perspici] scire  EGm1 (sciri  m2 )  L  agnosci  RS   cuiusque speciei sint differentiae, modis omnibus ignorabitur, quare sciendum est quoniam, si de generibus Aristoteles tractat in Praedicamentis, et generum natura cognoscenda est, cuius cognitionem speciei quoque comitatur agnitio, sed hoc cognito, quid sit differentia non potest ignorari, quamquam  in eodem libro plura sint ad quae nisi maximam peritiam et generis et speciei et differentiae lector attulerit, nullus omnino intellectus patebit, ut cum ipse Aristoteles dicit : diuersorum generum et non subalternatim positorum diuersae secundum species et differentiae sunt, quod his ignoratis  intellegi inpossibile est. sed idem Aristoteles proprium unius cuiusque praedicamenti diligentissima inquisitione uestigat, ut cum substantiae proprium post multa dicit esse quod idem numero contrariorum susceptibile sit, uel rursus quantitatis, quod in ea sola aequale atque inaequale  dicatur, qualitatis etiam, quod per eam simile et dis- simile aliud alii esse proponimus, et in ceteris eodem modo, ut quae sit proprietas contrarii, quae secundum relationem oppositionis, quae priuationis et habitus, quae affirmationis et  8—10] Aristot. Categ. c. 3, p. l b , 16 s. 13 s.] ibid. c. 5, p. 4 a , 10 s. 15 s. (dicatur)] ibid. c. 6, p. 6 a , 26 s. 16 s.] ibid. c. 8, p. 11 a , 15—19. 18 (quae sit)—153, 1 (negationis)] ibid. c. 10.   1 sit differentia  S  5 non potest  s. l. Gm2 quamquam] cum  F  6 et generis—differentiae post attulerit  E  8 pateat  EGLRS  dicit]  Brandt dicat  codd. edd.; cf. 13. p. 154, 14. 21. 153, 2. 6  10  post  secundum  add . se  EGL (del.) ES, er. uid. H  et om.  CN, del. Lm2, er. uid. H; cf. Aristot. Cat. c. 3   τών Ιτέρων γενών καί μή ΰπ’ αλληλα   τεταγμένων ετεροι τω εΤδεε κο· αϊ διαοοραί   et Boethii interpretat. In Categ. Arist. p. 177 A (om. se)  quid  GRS  11 possibile  EG  ( post  est  signum interrogat.) RS  propria  FHNP  14  ante  numero  s. l.  cum  E  15 aequum  Em1FGLm1RS; cf. p. 153, 17  atque] aut N 16 dicitur FHLm2P  et dissimile]  F  uel dissimile  s. l. Em2  aut dissimile  s. l .  Gm2Pm1? ,  om. cett.; cf. Aristot. Cat. c . 9 Τ ών μέν ouv είρημένων  — τό  ομοιον χα) άνο'μοιον  —  αοτήν   et Boethii interpretat, p. 259 A  (simile et dissimile,) 17 aliis  DGPm1RS ( s  in ras); cf. Aristot, ibid .  έτέρω ,  Boeth. ibid . alteri 18  post  relationem  add . contrarii  Em1, del. et s. l . ut sapientia stulticiae  m2   negationis, in quibus ita tractat tamquam iam peritis scienti- busque quae sit proprietatis natura; quam si quis ignorat, frustra ea quae de his disputantur adgreditur. iam uero illud manifestum est, quod accidens maximum praedicamentorum  obtineat locum, quod proprio nomine nouem praedicamenta circumdat.   Et ad praedicamenta quidem quanta sit huius libri utilitas ex his manifestum est. quod uero ait et ad definitionum adsignationem, facile cognosci potest, si prius substantiae  rationum diuisio fiat, substantiae ratio alia quidem in descrip- tione ponitur, alia uero in definitione, sed ea quae in descrip- tione est, pro|prietatem quandam colligit eius rei cuius sub-  p. 52  stantiae rationem prodit, ac non modo proprietate id quod monstrat informat, uerum etiam ipsa fit proprium, quod in  definitionem quoque uenire necesse est; si quis enim quan- titatis rationem reddere uelit, dicat licebit; quantitas est secundum quam aequale atque inaequale dicitur, sicut igitur proprietatem quidem quantitatis in ratione posuit quantitatis et ipsa tota ratio ipsius quantitatis propria est, ita descriptio et  proprietatem colligit et propria fit ipsa descriptio, definitio uero ipsa quidem propria non colligit, sed ipsa quoque fit propria, definitio namque substantiam monstrat, genus differen- tiis iungit et ea quae per se sunt communia atque multorum in unum redigens uni speciei quam definit reddit aequalia.  ita igitur ad descriptionem utilis est proprii cognitio, quoniam sola proprietas in descriptione colligitur et ipsa fit propria sicut definitio quoque, ad definitionem uero genus, quod primum  1 ita  om. RS, s. l. m2 in EGL  tamquam iam] quasi  C  5 optinet  FHm1LmSN  obtineat  ante  praedicamentorum  E  7 libri huius  CGLRS ;  cf. p. 155, 14. 17. 156, 8  utilitas]  brm  intentio  codd . 10  post  substantiae  add . uero  F, s. l . enim  Lm2  16  ante dicat  s. l . sc. ut  Lm2  20 proprietates  CFHNP  ipsa] ita  G  22 nam qui  Gm2Lm1  (namque qui  m2 )  S  26 proprietas sola  CLP  sola proprietas sola  FGm1S  27 ad sicut  s. l . ł sic  Em2  uero  s. l .  Hm2  quod  om .  F  quidem  R   ponitur, et species, ad quam genus illud aptatur, et differentiae, quibus iunctis cum genere species definitur, sed si cui haec pressiora quam expositionis modus postulat uidebuntur, eum hoc scire conuenit, nos, ut in prima editione dictum est, hanc expositionem nostro reseruasse iudicio, ut ad intellegentiam  simplicem huius libri editio prima sufficiat, ad interiorem uero speculationem confirmatis paene iam scientia nec in singulis uocabulis rerum haerentibus haec posterior colloquatur.   Ad diuisionem uero faciendam tam hic liber est utilis, ut praeter earum scientiam rerum de quibus in hac libri serie  disputatur, casu fiat potius quam ratione partitio, hoc autem manifestum erit, si diuisionem ipsam diuidamus, id est si nomen ipsum diuisionis in ea quae significat partiamur, est namque diuisio generis in species, ut cum dicimus ‘coloris aliud est album, aliud nigrum, aliud uero medium’, rursus diuisio est,  quotiens uox plura significans aperitur et quam multa sint quae ab ea significantur ostenditur, ut si quis dicat ‘nomen canis plura significat, et hunc, latrabilem quadrupedem que et caeleste sidus et marinam bestiam’, quae omnia a se definitione disiuncta sunt, diuidi autem dicitur et quotiens totum in  partes proprias separatur, ut cum dicimus ‘domus aliud sunt fundamenta, aliud parietes, aliud tectum’, et haec quidem triplex diuisio secundum se partitio nuncupatur, est autem  4] in prima editione nihil eiusmodi. 1  post  ponitur  add . utile est  CN, post  species  s. l . utilis est  Lm2  et species—aptatur  in mg. Em2Gm2  illud genus  C  3 eum  om. E ,  s. l. Gm2 , ei  R  4 uti  FGLRSm1  5 reseruasse]  CPm2 edd . reser- uare  E ( -re  in ras .)  FGm2HNPm1 (ante  reseruare  add .  se m1, del. m2)  reseruantes  Gm1S  seruantes  Lm1  seruare  m2  reseruantes sumus  R  8 colloquatur]  m1 in GLS  eloquatur  CEm2 (in ras.) HN  collocatur  Em1R ,  m2 in GLS edd . loquatur  FP  9 utilis est  LP  10 rerum  om. E  12  post . si  om. EG, s. l. Sm2  13  ante  partiamur  s. l . si  E  partia- tur  Gm1  14 aliud est]  CEp.c.R edd . aliud esse  Ea.c.GHLPS  esse aliud  FN  15 rursum  CEGNPm1R  est  s. l. Sm2 , ante diuisio  FHNP ,  et ante  rursus  et post  diuisio  R  16 quam] quod  EG a.c . (quae  p.c .)  LRS  sunt  CFLNPa.c . 18 quadripedemque  Sm1  20 distincta  FHm1NP  23 partitio] separatio  EGLm1Pm1RS   alia quae secundum accidens dicitur, ea quoque fit tripliciter, aut cum accidens in subiecta diuidimus, ut cum dico ‘bonorum alia sunt in animo, alia in corpore’, uel rursus cum subiectum in accidentia, ut ‘corporum alia sunt alba, alia nigra, alia  medii coloris’, rursus cum accidens in accidentia separamus, ut cum dicimus ‘liquentium alia sunt alba, alia nigra, alia medii coloris’, et rursus ‘alborum alia sunt dura, alia liquentia, quaedam mollia’, cum igitur ita omnis sit diuisio aut secundum se aut per accidens, utraque uero partitio tripliciter fiat cum-  que in superiore secundum se triplici partitione sit una diui- sionis forma genus in species separare, id neque praeter generum scientiam fieri ullo modo potest neque uero praeter differentiarum, quas necesse est in specierum diuisione sumi, manifestum est igitur, quanta utilitas huius libri ad hanc  diuisionem sit quae primo aditu genus ac species et differentias tractat, secunda uero ea diuisio quae est secundum se in uocis significantias, nec haec quidem ab huius libri utilitate discreta est. uno enim modo cognosci poterit, utrum uox cuius diui- sionem facere quaerimus, aequiuoca esse uideatur an genus,  si ea quae significat definiantur, et si ea quae sub communi nomine sunt, definitione clauduntur, species esse necesse est, et illud commune eorum genus, quodsi illa quae proposita  3 sunt alia  H  uel] aut  brm  rursum  FS  4 corporalium  Ca.c.Hm1N  5 rursum  F  6 liquentia  Ea.c.Gm1  8 fit  G  sit  ante omnis  F ,  post  diuisio N 9 accidentia  S  10 superiori  Sm2  11 sepa- rare  om. EN  12 possit  Em2 uero  om. C post   praeter s. l . scientiam  Sm2  16 ea  del. L, er. uid. P ante  quae  add . est  N   (om. post  quae]  P (er. uid.)  secundum—significantias]  FHN  uocis  post  significantias  C  se  et  in  om cett . 18 uno] nullo  F  quo  m2 in HLP  enim] quidem  N  20 si] nisi  FLm2Pm2  significant  CNPm2  et  (om.  si, ) in ros. Hm2  si et  RS  (et  s. l. m2 ) si  om. EL, s. l. Gm2Pm2 , etenim  L (ex et m2) Pm1  communi nomine]  CEm2 (in ras.) FHNP  (nomine  s. l. m2 ) communione cett. 21 sunt del. L, s. l.  Pm2 ante  definitione  add . una  FHL (del. m2) R, s. l. Em2Pm2  diffinitione  s. l. Gm2  claudantur  EGLRS  22 earum  ES post  genus  s. l . necesse est  Gm2  praeposita  EGPS   uox designat, non possunt una definitione concludi, nemo dubitat quin illa uox sit aequiuoca neque ita sit communis his de quibus praedicatur ut genus, quandoquidem ea quae sub se posita significat, secundum commune nomen non possunt una definitione comprehendi, si igitur ex definitione manifestum  fit quid genus sit, quid uero nomen aequiuocum, definitio uero per genera differentiasque discurrit, quisquamne dubitare potest aeque in hac diuisionis forma plurimum huius libri auctoritatem ualere? illa uero secundum se diuisio quae est totius in partes, quemadmodum discernitur ac non potius  p. 53  generis in species diuisio esse putabitur, nisi sint genus |et species et differentiae earumque uis ante disciplinae ratione tractata? cur enim non quisquam dicat domus species potius esse quam partes fundamenta, parietes et tectum? sed cum occurrit generis nomen in una quaque specie totum posse con-  gruere, totius uero in una quaque parte sua nomen conuenire non posse, manifestum fit aliam diuisionem esse generis in species, aliam totius in partes, conuenire autem nomen generis singulis speciebus ostenditur per id, quod et homo et equus singuli animalia nuncupantur, neque tectum uero neque parietes aut  fundamenta singillatim domus nomine appellari solent, sed  1 concludi  om ., nemo—comprehendi  (5)   in inf. mg. Gm1?  nemo—ita sit  in ras. Em2  2 uox—communis] uox non (non  er. L, om. S ) sit communis  Gm1 uel 2 Lm1Sm1, post  uox  add . sit aequiuoca neque (non,  sed del. G ) ita ( om. G  etiam  S )  s. l. Gm2 uel alia Sm2, in mg. Lm2  3  ante  his  add . de  E (er.) G (del. m2) ES his s. l. Lm2  4  post  posita  s. l. sunt Hm2  non possunt] definiri ( uel  diff-j (-ri  ex  -re  Cm2 ) non possunt ( add . neq.  Cm1, er. et  una  add. m2 ) nec  CFN  6 fit]  H  est  C  sit  cett . 8 aeque] etiam  CFHm1NPSm1  9 auctorem  GR  utilitatem  Lm2 10 discernetur  Hm2 (fort. recte)  discernatur  N  ac] et  FHNP  11 esse  om. R, ante  diuisio  FN  sit  FSm1  sunt  G  et] ac  R  12 earum quauis  ELR, m2 in GHPS , earum quis  Fm1  quamuis ( om . earum,)  m2 ;  cf. p. 157, 3  13 quisque  CFHR  esse potius  FNR  14 dum  F  15 quaque  om. FN  17 sit  ELRm1  (est  m2 )  S  19 id  om .  RS, s. l. Em2Gm2  singula  CEa.r. (ut uid.) GLPm1  singularis  Sa.c . singu- laque  R  20 aut] ac  FHLNP  neque  S  21 singulatim  CNR  appel- lari] nuncupari  FHLNP   cum fuerint iunctae partes, tunc recte totius nomen excipiunt, de ea uero diuisione quae secundum accidens fit, nullus ignorat quin incognito accidenti incognitaque ui generis ac differen- tiarum facile euenire possit, ut accidens ita in subiecta soluatur  quasi genus in species, et postremo omnem hunc ordinem partitionis foedissime permiscebit inscientia.   Et quoniam quid hic liber ad diuisionem prosit osten- dimus, nunc.de demonstratione dicemus, ne per ardua atque difficilia haereat qui in tanta hac disciplina uigilantissimo in-  genio et sollertissimo labore sudauerit. fit enim demonstratio, id est alicuius quaesitae rei certa rationis collectio, ex ante cognitis naturaliter, ex conuenientibus, ex primis, ex causa, ex neces- sariis, ex per se inhaerentibus, sed genera speciebus propriis priora naturaliter sunt; ex generibus enim species fluunt, item  species sub se positis uel speciebus uel indiuiduis priores naturaliter esse manifestum est. quae uero priora sunt, ea et praenoscuntur et notiora sunt sequentibus naturaliter, duobus enim modis primum aliquid et notum dicitur, secundum nos scilicet et secundum naturam, nobis enim illa magis cognita  sunt quae sunt proxima, ut indiuidua, dehinc species, postremo genera, at uero natura conuerso modo ea sunt magis cognita quae nobis minime proxima, atque ideo quamlibet se longius  1 tunc  er. C  accipiunt  F  3 incognita  m1 in GRS  accidente  CN  accidentia,  del . a  EGm2Rm2  accidenti—differentiarum  in mg .,  ante facile  add . ea accidentia,  sed del. E  incognitaque—differentia- rum  om. GR  cognitaque  (sic) ut generis ac differentiarum  Sm1, del. m2  4 soluamus  FHNP  5 postremum  HP  hunc  ante omnem  L, post  ordinem  R  6 inscitia  FHN  7 quid hic liber)  FGm1NP  quid liber hic  Em2HL hic quid liber  Gm2  liber quid hic  Em1R  liber hic quid S; quid ad diuisionem hic liber  C  8 ne—haereat] rem perarduam atque difficilem illi etiam  FN ; ne  et  - in  in difficil ** ia  et  hereat  in ras. C  9 hereat  s. l. Sm2  etiam  m1  tota  CFN  11 alicuius  om. CL  13 priora propriis  C  15  pr . uel  om. L, del. Pm2  19 enim] uero  N  21 natura]  Ea.c.GR  naturae  Ep.c.FHLPS  secundum naturam  CN; cf. Boeth .  Post. Analyt. Aristot. interpret. lib. I c. II p. 714 B  non enim idem est natura prius et ad nos prius neque notius natura et nobis notius. 22 quantumlibet  Em2  quantolibet  Pm2   a nobis genera protulerint, tanto magis erunt lucida et natura- liter nota, differentiae uero substantiales illae sunt quas per se inesse his rebus quae demonstrantur agnoscimus, praecedere autem debet generum ac differentiarum cognitio, ut in una quaque disciplina quae sint eius rei quae demonstratur con-  uenientia principia, possit intellegi, necessaria uero esse ea ipsa quae genera et differentias dicimus, nullus dubitat qui speciem sine genere et differentia intellegit essq non posse, genera uero et differentiae sunt causae specierum. idcirco enim species sunt, quia genera earum et differentiae sunt quae in  syllogismis posita demonstratiuis non rei solum, uerum con- clusionis etiam causae sunt, quod postremi Resolutorii locu- pletius dicent.    Cum igitur perutile sit et definitione quodlibet illud circum- scribere et diuisione dissoluere et demonstrationibus comprobare,  haec autem praeter earum rerum scientiam de quibus in hoc libro disputabitur, neque intellegi neque exerceri ualeant, quis umquam poterit dubitare quin hic liber maximum totius logicae adiumentum sit, praeter quem cetera quae in ea magnam uim tenent, nullum doctrinae aditum praebent?   Sed meminit Porphyrina introductionem aese conscribere neque ultra quam institutionis modus est, formam tractatus egreditur, ait enim ‘se altiorum quaestionum nodis abstinere,  1 protulerunt  FLR  praetulerint  N  2 substantiales] substantiae uel  E  3 inesse  post  rebus  C  esse,  del . in  E  4 in  om. C, s. l. Sm2  6 possint  Hm1P  7  ante  genera add. et  LP  8 intellegit  in mg .  Cm2, post  esse  in ras. N  9 causae sunt  FHL  sunt  om. R  causa  G  11 demonstrantibus  EFGLPm1RS; cf. Boeth. ibid. c. VI p. 718 D  de- monstratiuus syllogismus 12 postremis  L  in ( s. l .) postremis  Pm2 postremo  EFGPm1RS  resolutoriis  L  resolutarii  F  resoluturi  RS  resoluituri  G  resolutius ac  E 13 dicemus  EGLPm1RS  15 demon- stratione  N  16 in  om. FGPR, s. l. Hm2S  17 ualeant]  m2 in EHLS  ualent  CEm1F  (n  del .)  GHm1NP  (n  in ras .)  RSm1  22 nec  N  23 egre- ditur]  CF (aegr-)  HNPm1  aggreditur  L  egredi  EGRS  aggredi  Pm2  altioribus  FN  nodis  om .  Cm1Sm1 modis  FNRa.c., s. l. Cm2, in mg. Sm2   simplices uero mediocri coniectura perstringere’, quae uero sint altiores quaestiones quas se differre promittit, ita proponit : Mox, inquit, de generibus ac speciebus illud quidem, siue subsistunt siue in solis nudisque intellectibus  posita sunt siue subsistentia corporalia sunt an incor- poralia et utrum separata a sensibilibus an in sensi- bilibus posita et circa ea constantia, dicere recusabo, altissimum enim est huiusmodi negotium et maioris egens inquisitionis.    Altiores,. inquit, quaestiones praetereo, ne eis intempestiue lectoris animo ingestis initia eius priraitiasque perturbem, sed ne omnino faceret neglegentem, ut nihil praeterquam quod ipse dixisset, lector amplius putaret occultum, id ipsum cuius exequi quaestionem se differre promisit, addidit, ut de his  minime obscure penitusque tractando nec le|ctori quicquam  p. 54  obscuritatis offunderet et tamen scientia roboratus quid quaeri iure posset agnosceret, sunt autem quaestiones quas sese reti-  3—9] Porph. p. 1, 9—14 (Boeth, p. 25, 10—14). 8 altissimum— negotium] Abaelardus, Epistolae, Opp. I p. 5 ed. Cousin.   1 simpliciores  L  praestringere  G  perscribere  CFN  2 sunt  N  3 inquit  om .  Ω  ac] et  ΗΝ Ω   post  quidem  add . quod  EG (del.) Sm2  quae  m1  4 subsistant  L  nudisque] nudis purisqne  Ω ;  Porph. p. 1, 10   έν μο'να'.ς ψιλοΐς έπινοίαϊς  5 substantia  Em1  sunt  ante corporalia  Σ ,  post  incorporalia  Δ  sint  LR A m2 ,  ras .  ex  sunt II 6 separat  R  a sensibilibus  om. Gm1 (s. l. m2) Sm1 (cf. proxima), ras. ex  ab insensi- bilibus  \ m2; om .  Porph. p. 1,12  ab  CEa.r . A m1 A m1  an in sensibilibus posita et]  FG  (posita  s. l. m2 )  LR Ψ  an in sensibilibus (a sensibilibus  m2 ) et  S  an ipsis sensibilibus (posita  om .) iuncta  (in mg.)  et ( om . II)  Γ ,  s. l .  Π m2 et ( cetera om .)  CEHPm1 h m1  (s. l. an et in sensi- bilibus posita  m2 )  A m1  ( in mg . an sensibilibus iuncta  m2 )  Φ  an  (cet. om.)   NPm2   Σ  7 consistentia  CHF A m1  8 enim—negotium]  FHLP Q  ( sed  est enim  A )  Abaelard . negotium  ante  est  CEGRS  enim est negotium huius modo  (sic)   N; Porph. p. 1, 13   βαθύτατης οϊοης τής τοιοΰτης   πραγματείας  10  ante  eis  add . in,  sed del. E  11 primitiaque  R  per- turbent  FN  12 neglegentiam  Gm1P  praeter  (s. l.)  quam  C  praeter id quam  L  13 putasset  C  14 exequi quaestionem] exeeutionem ( uel  eis-)  EGHm1LRS  15 penitus  Em1FG  ne  L  16 effunderet  Ca.c.EGLNR  infunderet  Cp.c.FS ;  cf. p. 145, 14  17 possit  C a.c. Fa.c . se  N   cere promittit, et perutiles et secretae et temptatae quidem a doctis uiris nec a pluribus dissolutae, quarum prima est huius- modi. omne quod intellegit animus aut id quod est in rerum natura constitutum, intellectu concipit et sibimet ratione de- scribit aut id quod non est, uacua sibi imaginatione depingit.  ergo intellectus generis et ceterorum cuiusmodi sit quaeritur, utrumne ita intellegamus species et genera ut ea quae sunt et ex quibus uerum capimus intellectum, an nosmet ipsi nos ludimus, cum ea quae non sunt, animi nobis cassa cogitatione formamus, quod si esse quidem constiterit et ab his quae  sunt, intellectum concipi dixerimus, tunc alia maior ac diffi- cilior quaestio dubitationem parit, cum discernendi atque intel- legendi generis ipsius naturam summa difficultas ostenditur, nam quoniam omne quod est, aut corporeum aut incorporeum esse necesse est, genus et species in aliquo horum esse opor-  tebit. quale erit igitur id quod genus dicitur, utrumne cor- poreum an uero incorporeum? neque enim quid sit diligenter intenditur, nisi in quo horum poni debeat agnoscatur, sed neque cura haec soluta fuerit quaestio, omne excludetur ambi- guum. subest enim aliquid quod, si incorporalia esse genus  ac species dicantur, obsideat intellegentiam atque detineat exsolui postulans, utrum circa corpora ipsa subsistant an et praeter corpora subsistentiae incorporales esse uideantur. duae quippe incorporeorum formae sunt, ut alia praeter corpora esse  1 promisit  C  2 doctissimis  P  4 statutum  L  discribit  E  5 id  s. l. C  8 capiamus  C  ipsi nos] ipsos  FR  ipsos **  (-os  ex  i  m2 )  S  ipsi  Hm1  nos  s. l. m2  9 eludimus  Hm2  cogitatione] imaginatione  F  11 intellectu  ras. ex  -tu  E  ac] et  R  12 parat  FHm1PRS  discer- nendae atque intellegendae.. naturae  EFGHNRS  13 natura  L  osten- datur  N  16 utrum  FHm1NP  17 an] aut  ex  ut  F  uero  om. N  19 excluditur  Cm2GHp.c.LPRS  20 aliquid quod] alia quae (que  N )  FN  aliud ( ex  aliquid] quod  E  esse  post  species  FHL ,  om. N  21 ac] et  H  intellegentiam atque] animum intelligentiamqne  F  intellegen- tiamque  N  22 ipsa corpora  EFGHN  et om.  CFHLN (fort. recte) ,  del. Pm2  23 subsistentia  Ca.c.Gm2L  substantiae  Cp.c.FN (s. l . ł subsistentes) incorporalia  Gm2L   possint et separata a corporibus in sua incorporalitate perdurent, ut deus, mens, anima, alia uero cum sint incorporea, tamen praeter corpora esse non possint, ut linea nel superficies uel numerus uel singulae qualitates, quas tametsi incorporeas esse  pronuntiamus, quod tribus spatiis minime distendantur, tamen ita in corporibus sunt, ut ab his diuelli nequeant aut separari aut, si a corporibus separata sint, nullo modo permaneant, quas licet quaestiones arduum sit ipso interim Porphyrio renuente dissoluere, tamen adgrediar, ut nec anxium lectoris  animum relinquam nec ipse in his quae praeter muneris sus- cepti seriem sunt, tempus operamque consumam, primum quidem pauca sub quaestionis ambiguitate proponam, post uero eundem dubitationis nodum absoluere atque explicare temptabo. Genera et species aut sunt atque subsistunt aut  intellectu et sola cogitatione formantur, sed genera et species esse non possunt, hoc autem ex his intellegitur, omne enim quod commune est uno tempore pluribus, id unum esse non poterit; multorum enim est quod commune est, praesertim cum una eademque res in multis uno tempore tota sit.  quantaecumque enim sunt species, in omnibus genus unum est, non quod de eo singulae species quasi partes aliquas carpant, sed singulae uno tempore totum genus habent, quo fit ut totum genus in pluribus singulis uno tempore positum unum esse non possit; neque enim fieri potest ut, cum in  pluribus totum uno sit tempore, in semet ipso sit unum  1 a  om. CS, s. l. Em2  corporalitate  ELS  3 possunt  ELNPR  4 tamenetsi  Ca.c . (tam  ras. ex  tam)  L  tam si  Em1  tamensi  GRS  5 quod] eo quod  L  tamen  om. G tam N  6 uti  EGLPa.r.RS  ante diuelli add. aut  Hm1, del. m2  7 a  om. ERS ,  s. l. Gm2  separatae  ex  -ta  H  8 quaestiones licet  FHLPN  9 rennuente  Ca.r.Ga.c.LNS ut] ita ut  R  13 dubietatis  L  exsoluere  CF  14 atque] et  EGLPRS  15 solo ( s. l. Pm2 ) et  FHNP  17 uno tempore pluribus] multorum uno tempore  N  18 est ( s. l. m2 ) enim  G  19 tota sit] transit  F 20 est unum  Fm2H  21 non,  s. l . quod  S , ut non  CHm1N  22 carpunt  RS  capiant  F  participant  Nm1  habeant  Hm2Lm2P  24 possunt  F  possint  S  enim  om. FN. del. L  25 unoque  Gm2  sit uno  FHN  tempore  in mg. Gm2   numero, quod si ita est, unum quiddam genus esse non poterit, quo fit ut omnino nihil sit; omne enim quod est, idcirco est, quia unum est. et de specie idem conuenit dici, quodsi est quidem genus ac species, sed multiplex neque unum numero, non erit ultimum genus, sed habebit aliud super-  positum genus, quod illam multiplicitatem unius sui nominis uocabulo includat, ut enim plura animalia, quoniam habent quiddam simile, eadem tamen non sunt, idcirco eorum genera perquiruntur, ita quoque quoniam genus, quod in pluribus est atque ideo multiplex, habet sui similitudinem, quod genus est,  non est uero unum, quoniam in pluribus est, eius generis quoque genus aliud quaerendum est, cumque fuerit inuentum, eadem ratione quae superius dicta est, rursus genus tertium uestigatur. itaque in infinitum ratio procedat necesse est, cum nullus disciplinae terminus occurrat, quodsi unum quiddam  numero genus est, commune multorum esse non poterit, una enim res si communis est, aut partibus communis est et non iam tota communis, sed partes eius propriae singulorum, aut in usus habentium etiam per tempora transit, ut sit commune  p. 55  ut seruus communis uel equus, aut uno ] tempore omnibus  commune fit, non tamen ut eorum quibus commune est, sub- stantiam constituat, ut est theatrum uel spectaculum aliquod, quod spectantibus omnibus commune est. genus uero secundum nullum horum modum commune esse speciebus potest; nara  1 numero] in numero  NR  quoddam  FS  quodque  N  quidem  R  5  ad  ultimum  s. l . maximum  E  super se (se  s. l. G ) positum  GR  6 sui]  LP edd . ui  cett . ( post  nominis  F ) hominis  R  7 uocabulo]  HLP edd., om. cett . concludat  H  concludit  Lm1  includat  m2  includit  R  12 requirendum  F  perquirendum  N  13 ratio  Hm1N  tertium genus  CL  14 nestigabitur  FH nestigabit  N  15 quodsi] quod  NR  quiddam] quoddem  (sic) R  17 si communis] sic omnis  F quae com- munis  CN  si  om. R   post post , communis est  add . ut puteus et (uel  H ) fons  CHNP (del. m2) ,  in mg. E, s. l. Lm2  18 proprie  CFLNR   post  singulorum  add . sunt  HP ,  s. l. Lm2 ,  post  sunt  s. l . ut puteus et fons  Pm2  19 habent  G  etiam om.  FNP  iam  LS  21 sit  NP  ( ras. ex  fit) est  R   ita commune esse debet, ut et totum sit in singulis et uno tempore et eorum quorum commune est, constituere ualeat et formare substantiam, quocirca si neque unum est, quoniam commune est, neque multa, quoniam eius quoque multitudinis  genus aliud inquirendum est, uidebitur genus omnino non esse, idemque de ceteris intellegendum est. quodsi tantum intel- lectibus genera et species ceteraque capiuntur, cum omnis intellectus aut ex re fiat subiecta, ut sese res habet aut ut sese res non habet nam ex nullo subiecto fieri intellectus  non potest —, si generis et speciei ceterorumque intellectus ex re subiecta ueniat, ita ut sese res ipsa habet quae intel- legitur, iam non tantum in intellectu posita sunt, sed in rerum etiam ueritate consistunt, et rursus quaerendum est quae sit eorum natura, quod superior quaestio uestigabat. quodsi ex re  quidem generis ceterorumque sumitur intellectus neque ita ut sese res habet quae intellectui subiecta est, uanum necesse est esse intellectum qui ex re quidem sumitur, non tamen ita ut sese res habet; id est enim falsum quod aliter atque res est intellegitur, sic igitur, quoniam genus ac species nec sunt  nec cum intelleguntur, uerus eorum est intellectus, non est ambiguum quin omnis haec sit deponenda de his quinque pro- positis disputandi cura, quandoquidem neque de ea re quae sit  1 sit]  s. l. Lm1? brm, om. cett . 2  post  tempore add. sit  Np, s. l .  Em2  3 conformare  N  substantias  FHNP   ante  si add. et  Hm1 ,  del. m2 ad  quoniam  s. l . quod  Hm2  4 multiplex  m2 in CEGP,Lm1  8 habeat  N  aut—habet  in mg. Gm2  ut  s. l. Lm2Sm2 9 habeat  N ,  post add . nanus est intellectus (Intellectus otn.  brm ) qui de nullo subiecto capitur  in mg. Lm2, s. l. Rm1?   brm  intellectus  post  potest  C  11 ipsa res  HLN  12  pr . in  om. ENR ,  s. l. F  13 etiam  om. CL  14 uestigabit  Lm2  inuestigabat  F  17 esse  post  intellectum  F ,  post  uanniu  N ,  om .  R  18 enim falsum est  CKNP  est  om .  H ,  er .  L  enim  om. R  19 si  CNPS, m1 in   GHL , nec  R  igitur—intelleguntur  om . R quoniam om.  CN  ac] et  S  neque  FHN  quae  Sm1  20 neque  FH  cum  om. GLPS s. l. add. E, sed del . uerus] nec uerus  GLR  earum  HN  est eorum  CL  non] neque  N  22 fit  Lm2   neque de ea de qua uerum aliquid intellegi proferriue possit, inquiritur.  Haec quidem est ad praesens de propositis quaestio; quam nos Alexandro consentientes hac ratiocinatione soluemus. non enim necesse esse dicimus omnem intellectum qui ex  subiecto quidem fit, non tamen ut sese ipsum subiectum habet, falsum et uacuum uideri. in his enim solis falsa opinio ac non potius intellegentia est quae per compositionem fiunt. si enim quis componat atque coniungat intellectu id quod natura iungi non patitur, illud falsum esse nullus ignorat, ut si quis  equum atque hominem iungat imaginatione atque effigiet Cen- taurum. quodsi hoc per diuisionem et per abstractionem fiat, non quidem ita res sese habet, ut intellectus est, intellectus tamen ille minime falsus est; sunt enim plura quae in aliis esse suum habent, ex quibus aut omnino separari non possunt  aut, si separata fuerint, nulla ratione subsistunt. atque ut hoc nobis in peruagato exemplo manifestum sit, linea in corpore quidem est aliquid et id quod est, corpori debet, hoc est esse suum per corpus retinet, quod docetur ita : si enim separata sit a corpore, non subsistit; quis enim umquam sensu ullo  separatam a corpore lineam cepit? sed animus cum confusas res permixtasque in se a sensibus cepit, eas propria ui et  4 Alexandro] testimonia Simplicii in Categ. Aristot. p. 50 a , 45 ss., Dexippi p. 50 b  15—31 (= p. 45, 12—28 Busse), Dauidis p. 51 b , 10 ss. (Brandis) adfert Prantl,  Gesch. d. Logik im Abendlande  I 623 n. 24.   6 sit  CEFH (ex  fit ) NPR ante  ut  add . ita  FN ,  s. l. Gm2Pm2 habeat  FHm1NP  7  post  uideri  add . ut si quis dicat lineam esse cum longitudine sine latitudine non est omnino falsum  F  8 compositionem] conjunctionem  EGLPRS, recte?  9 quisquam  HP quisque  N  ponat  H  intellectu] in intellectu  F  id  om. N  10 patiatur  NR  11  pr . atque] aut  N efficiet  L ( c  ex  g  m2)  efficiat  CF  effigiat  Sa.c . 12 haec  E   ad  abstractionera  s. l . ł (??)positionem  Lm2  ł abscisionem  Pm2  fit  R  13 ita  post  res  C, om. R  14 ille] ipse  R  16 ut  s. l. Cm2, del. Lm2 ,  post  hoc  F  17  ad  peruagato  s. l . ł uulgato  Pm2  18 hoc  om. F  est  om. ELS, s. l. Gm2 , et  F  19  ante  docetur  add . et  CHNP, in mg. Lm2  20 a  om. ERS, s. l. Gm2  21 anima  Em1Gm1Pm2Sm1  22  post  permixtasque  add . corporibus  brm  capit  C  eas  in mg. Hm2   cogitatione distinguit, omnes enim huiusmodi res incorporeas in corporibus esse suum habentes sensus cum ipsis nobis corporibus tradit, at nero animus, cui potestas est et disiuncta componere et composita resoluere, quae a sensibus confusa et  corporibus coniuncta traduntur, ita distinguit, ut incorpoream naturam per se ac sine corporibus in quibus est concreta, specnletur et uideat. diuersae enim proprietates sunt incorpo- reorum corporibus permixtorum, etsi separentur a corpore, genera ergo et species ceteraque uel in incorporeis rebus uel  in his quae sunt corporea, reperiuntur. et si ea in rebus incor- poreis inuenit animus, habet ilico incorporeum generis intel- lectum, si uero corporalium rerum genera speciesque perspexerit, aufert, ut solet, a corporibus incorporeorum naturam et solam puramque ut in se ipsa forma est contuetur, ita haec cum  accipit animus permixta corporibus, incorporalia diuidens spe- culatur atque considerat, nemo ergo dicat falso nos lineam cogitare, quoniam ita eam mente capimus quasi praeter corpora sit, cum praeter corpora esse non possit, non enim omnis qui ex subiectis rebus capitur intellectus aliter quam sese ipsae  res habent, falsas esse putandus est, sed, ut superius dictum  20 superius] p. 164, 8.   2 corpore  EGLRS  3 at nero  om. C  animi ( om . cui)  R  et  om. GRS, s. l. Lm2 post  disiuncta  add . ut equum et hominem quae iungi non patitur natura,  post  composita  add . ut corpus et lineam et  (sic)  disiungi natura non patitur R 4 a  s.l. m2 in EGLS  5  ante  incorpoream  add . in  FLNS  7 et] ut  S  sunt proprietates  CLR , add. ut equum et cetera R 8  ante  corporibus add. et C etiamsi  R  et,  s. l. si Cm2F separarentur  F (ra s. l.) R  separantur  Lm1N  9 ergo  om. FN, del. Lm2 , uero  H, s. l. Lm2 corporeis  Cm1GHLPa.c.R  10 incorporeis] corporeis  Cm1  11 animus inuenit  FHNP  post ilico add . ibi  F, s. l. Gm2 ,  add . quo  E, sed del . 12 incorporalium  Em1  speciesque] et species esse  F prospexerit  HR  14  ante  haec  add . et  H (del. m2) N, s. l. Cm2  animus cum accipit  F  15 accepit  Pm1S  animus  accipit C  post incorporalia  add . ea  CHm2LPN  diuisa  Gm2  16 desiderat  Em1Ga.c . falso  ante  dicat F  falsam   CGm1Lm1  ( post  nosl  NRS  17 capiamus  Cm2N  19 sese om.  F  ipsae  om .  H ,  s. l. Em2 , ipsa  F   est, ille quidem qui hoc in compositione facit falsus est, ut cum  p. 56  hominem atque equum | iungens putat esse Centaurum, qui uero id in diuisionibus et abstractionibus assumptionibusque ab his rebus in quibus sunt efficit, non modo falsus non est, uerura etiam solus id quod in proprietate uerum est inuenire potest.  sunt igitur huiusmodi res in corporalibus atque in sensibilibus, intelleguntur autem praeter sensibilia, ut eorum natura per- spici et proprietas ualeat comprehendi, quocirca cum genera et species cogitantur, tunc ex singulis in quibus sunt eorum similitudo colligitur ut ex singulis hominibus inter se dissi-  milibus humanitatis similitudo, quae similitudo cogitata animo ueraciterque perspecta fit species; quarum specierum rursus diuersarum similitudo considerata, quae nisi in ipsis speciebus aut in earum indiuiduis esse non potest, efficit genus, itaque haec sunt quidem in singularibus, cogitantur uero uniuersalia  nihilque aliud species esse putanda est nisi cogitatio collecta ex indiuiduorum dissimilium numero substantiali similitudine, genus uero cogitatio collecta ex specierum similitudine, sed haec similitudo cum in singularibus est, fit sensibilis, cum in uniuersalibus, fit intellegibilis, eodemque modo cum sensibilis  est, in singularibus permanet, cum intellegitur, fit uniuersalis. subsistunt ergo circa sensibilia, intelleguntur autem praeter corpora, neque enim interclusum est ut duae res eodem in subiecto sint ratione diuersae, ut linea curua atque caua, quae  1 cõpositionem  GHR  facit  post  hoc  H  2 quia  Gm1R  quod  Sm2  3 id  om. N, s. l. Em2H ,  post  diuisionibus  F assumptionibus  Em1Gm1P  atque assumptionibus  CL  5  post  solus  add . intellectus  F , scil, intellectas  s. l. Lm2  6 corporibus  FHN   post  sensibilibus  add . rebus  CHLNP  8  ante  genera  add . et  CFS ; et species et genera  R  11  post pr . simili- tudo  add . colligitur  N , scil, colligitur  s. l. Hm2Sm2  cognita  Cm1F  cognita uel cogitata  N  12 ueraciter  Lm2N  perfecta  Em1NP  sit  FN  13 in  om. C  14 earum]  Pp.c. (corr. m1?)  eorum  cett . 17 substantiarum  R  18 collecta cogitatio  Cm1LP  22 autem] tamen  R  23 eadem  Em1Gm1Ha.c . eidem  Gm2Lm1  fin eodem  m2 )  PR e * dem  (sic) S  in  ante  subiecto  s. l., post  eodem  er. uid. C, om. EGLPRS  24 sint  om. L concaua Cm2N  cauata  Lm1   res cum diuersis definitionibus terminentur diuersusque earum intellectus sit, semper tamen in eodem subiecto reperiuntur; eadem enim linea caua, eadem curua est. ita quoque generibus et speciebus, id est singularitati et uniuersalitati, unum quidem  subiectum est, sed alio modo uniuersale est, cum cogitatur, alio singulare, cum sentitur in rebus his in quibus esse suum habet. His igitur terminatis omnis, ut arbitror, quaestio dissoluta est. ipsa enim genera et species subsistunt quidem alio modo, intelleguntur uero alio, et sunt incorporalia, sed  sensibilibus iuncta subsistunt in sensibilibus, intelleguntur uero ut per semet ipsa subsistentia ac non in aliis esse suum habentia, sed Plato genera et species ceteraque non modo intellegi uniuersalia, uerum etiam esse atque praeter corpora subsistere putat, Aristoteles uero intellegi quidem incorporalia  atque uniuersalia, sed subsistere in sensibilibus putat; quorum diiudicare sententias aptum esse non duxi, altioris enim est philosophiae, idcirco uero studiosius Aristotelis sententiam executi sumus, non quod eam maxime probaremus, sed quod hic liber ad Praedicamenta conscriptus est, quorum Aristoteles  est auctor.   Illud uero quemadmodum de his ac de propo- sitis probabiliter antiqui tractauerunt et horum ma- xime Peripatetici, tibi nunc temptabo monstrare.    Praetermissis his quaestionibus quas altiores esse praedixit,  21—23] Porph. p. 1, 14—16 (Boeth. p. 25, 14—16).   1 earum]  HPp.c.(corr. m1?)  eorum  cett . 3 enim  om. LP  quippe  P, s. l. Lm2  concaua  Cm2N  eadcmque  FLRS  6  post  singulare  add . est  R, s. l. Sm2  9  post , alio] alio modo  LR  10  post  uero  s. l . praeter corpora  Pm2  11 subsistentia  in ras. E  substantia  GSm1  13  ante  esse  s. l . ea  E  praeter  s. l. Cm2  15  ante  sensibilibus  add . ipsis  G  16 dixi  Lp.c.Sa.c . 17 uero  s. l. Cm2  20 auctor est  CLP  est  om. G  21  ante lemma  ISTORIA  add. S, sic  ( uel  HIST-)  ante omnia paene lemmata uero] autem  Σ  post, de  om. E  22 pro- babiliter]  λογιχώτίρον   Porph. p. 1, 15  tractauerint  Cp c . GH X m1  23 monstrare (demonstrare  N ) temptabo  FLN  24  ante  Praetermissis  add . EXPOSITIO S,  sic paene ubique ante explicat, lemmatum  Missis  Sm1   exoptat mediocrem introductorii operis tractatum, sed ne haec ipsa sibi harum quaestionum omissio uitio daretur, apposuit quemadmodum de propositis tractaturus est, ex quorumque hoc opus auctoritate subnixus adgrediatur, ante denuntiat, cum mediocritatem quidem tractatus promittit detracta obscuri-  tatis difficultate, animum lectoris inuitat, ut uero adquiescat ac sileat ad id quod dicturus est, Peripateticorum auctoritate confirmat, atque ideo ait de his, id est de generibus et spe- ciebus, de quibus superiores intulerat quaestiones, ac de pro- positis, id est de differentiis, propriis atque accidentibus,  sese probabiliter disputaturum, probabiliter autem ait ‘ueri similiter’, quod Graeci  λογικώς  uel  Ινδόξως  dicunt, saepe enim et apud Aristotelem  λογικώς  ‘ueri similiter’ ac ‘probabi- liter’ dictum inuenimus et apud Boethum et apud Alexan- drum. Porphyrius quoque ipse in multis hac significatione hoc  usus est uerbo, quod nos scilicet in translatione, quod ait  λογικώς , ita interpretari ut ‘rationabiliter’ diceremus omisimus, longe enim melior ac uerior significatio ea uisa est, ut pro- babiliter sese dicere promitteret, id est non praeter opini- onem ingredientium atque lectorum, quod introductionis est  proprium, nam cum ab imperitorum hominum mentibus doc- trinae secretum altioris abhorreat, talis esse introductio debet,  p. 57  ut praeter opinionem ingredijentium non sit. atque ideo melius  1 haec  om. S  2 harum que  LS  horumque  Gm1  quaestionum] insti- tutionum  Gm1Lm1RS  omissi  Em1  omisso Lm1Sm1 amissio  F  3 est  s. l. Em2 , esset  Gm1  ex] et  FHN ,  s. l. (om . ex)  Em2  quo- rum  FHN  4 subnisus  EGm1Sm1  aggreditur  EGLPRS  8 et] ac  R  10 de]  R, om. cett . 11  post  ait  add . id est  C  12  λογιχώς  uel  ένδόξως ]  edd., ante   λογιχώς   add . uel  CGLPR ;  ΛΟΓ ΙΚΟΟ  uel  ΛΩΓΙ-  ΚΩΟ   uel alia sim. codd .; ΕΝ ΔΩ ΧΟΝ  C, sim. Η  endo ΧΩ Ο  E ΕΝ ΑΟΓΩ Ο  S, alia uarie cett . 13 et  om. GR  est  S   λογιχώς ]  S ,  in cett. eadem   fere quae 12  14 Boethum]  b  boetum  p  boethon  Em2GNS   (recte?)  boeton  CEm1PR  boethion  F  bethon  H boetoton  Lm1  boeten  m2  Boethum (-tium  m)rm  16 uerbo usus est  CEGLRS  17  λογιχώς ]  item ut   13 ,  λογικώτερον   edd . 19 se  L  *mitteret,  s. l . pro  Cm2  23 ingredientium opinionem  C  non  ante  praeter  CEG  ( corr. m2 )  L  atque ideo] ergo  Gm1  (atque ita  m2 )  LPm1RS  melius probabiliter quam om.  R, s. l. Gm2Sm2   probabiliter quam rationabiliter, ut nobis uidetur, inter- pretati sumus, antiquos autem ait de eisdem disputasse rebus, sed <se< eorum illum maxime tractatum insequi quem Peri- patetici Aristotele duce reliquerint, ut tota disputatio ad  Praedicamenta conneniat.    2 eisdem]  E  (eis  in ras .) hisdem  cett . disputasse  post  rebus  C ,  ante de eisdem  L , disputare  N  3 se  post  illum  add .  brm ,  post  sed  Brandt  sequi  CEm2HN  4 reliquerint]  Gm1HPp.r . relinquerint  FSm1P a.r . relinquerent.  R a. r.Sm2  reliquerunt  CEGmSLNRp.r . EXPLICIT (CΟΜ- MENTARIORV  add .  C , COMENTORVM  add. F , COMTV PLOLOGI,  sic, add . S) LIB. I. INCIPIT (LIB.  add. F ) II.(INCIPIT.  om. R ) CEFGPRS  ( uariis cum scripturis compendiisque), subscriptio deest in HLN     Quaeri in expositionum principiis solet, cur unum quodque ceteris in disputationis ordine praeponatur, uelut nunc in genere dubitari potest, cur genus speciei, differentiae, pro- prio accidentique praetulerit; de eo enim primitus tractat,  respondebimus itaque iure factum uideri; omne enim quod uniuersale est, intra semet ipsum cetera concludit, ipsum uero non clauditur, maioris itaque meriti est ac principalis naturae quod ita cetera cohercet, ut ipsum naturae magnitudine nequeat ab aliis contineri, genus igitur et species intra se  positas habet et earum differentias propriaque, nihilo minus etiam accidentia, atque ita de genere inchoandum fuit, quod cetera naturae suae magnitudine cohercet et continet, praeterea illa semper priora putanda sunt quae si auferat quis, cetera perimuntur, illa posteriora quibus positis ea quae ceterorum  substantiam perficiunt, consequuntur, ut in genere et ceteris, nam si animal auferas, quod est hominis genus, homo quoque, quod species est, et rationale, quod differentia, et risibile, quod proprium, et grammaticum, quod accidens, non manebit et  2 ante Quaeri  codd. et p exhibent idem lemma (sine inscript.) quod p. 171,10 habent, om. brm expositione  CGm1L  expositionis  S  prin- cipii  CGm1L  3 dispositionis  N  5 praetulerat  C tractat  in ras .,  s. l . scil, conamur  Em2  tractare  Em1Sm1  6 respondemus  F  8 clu- ditur (i  ex  e  m2 )  S  naturae] naturae suae  F  10 igitur] itaque  C  et  om .  CN  11 etiam minus  HS  12 etiam  om. R  etiam et  C  ita] idcirco  CE (in ras.) HLm2NP  ideo  F  inchoandum fuit] erat incho- andum  FHNP  13  ante cetera add . et  L  natura suae magnitudinis  FHN  coerceat et contineat  Lm2  14 priora] propria  LS  aufert  Ca.c . 19  ante  proprium  add . est  P, s. l. Lm2   post  gram- maticum  add . esse  FHP, s. l. Em2 post  accidens add.  est FP ,  ante N   interemptum genus cuncta consumit, si uero hominem esse constituas uel grammaticum uel rationale uel risibile, animal quoque esse necesse est. siue enim homo est, animal est, siue rationale, siue risibile, siue grammaticum, ab animalis  substantia non recedit, sublato igitur genere et cetera con- sumuntur, positis ceteris sequitur genus; prior est igitur natura generis, posterior ceterorum, iure est igitur in dispu- tatione praepositura.   Sed quoniam generis nomen multa significat hoc - est  enim quod ait : Videtur autem neque genus neque spe- cies simpliciter dici; ubi enim non est simplex dictio, illic multiplex significatio est —, prius huius nominis significationes discernit ac separat, ut de qua significatione generis tractaturus est, sub oculis ponat, sed cum neque genus neque species  neque differentia nec proprium nec accidens significatione simplici sint, cur de his tantum duobus, genere inquam ac specie, dixit non simpliciter dici, cum proprium, differentia atque accidens ipsa quoque sint significatione multiplici? dicen- dum est quoniam longitudinem uitans tantum speciem nomi-  nauit eamque idcirco, ne solum genus significationis esse multi- plicis putaretur, enumerat autem primam quidem generis signi- ficationem hoc modo;    Genus enim dicitur et aliquorum quodammodo se habentium ad unum aliquid et ad seinuicem collectio,  10 s.] Porph. p. 1, 18 (Boeth. p. 26, 1). 23—p. 172. 5] Porph. p. 1, 18—23 (Boeth. p. 26, 1—8).   1 esse  om. P  2  post  grammaticum  add . esse  FHP ,  s. l. Em2  3 esse  post est Gm2L ,  om. EGmIRS, post  esse  add . constituas  EP ,  s. l. Lm2 alt . est] sit  FHNP  5 et om.  FHNR  consummantur  S  9 enim est  L  10 ante Videtur  add . INCIPIT  Δ  DE GENERE  ΓΔΛΠ2Φ  Incipit diffinicio generis  Ψ   m. post., om. cett . autem  om. HN  12 est significatio  C  13 tractatus  R  14 est] sit  P  oculos  HN  neque genus  om. C  15  pr . nec  FHP  neque proprium neque  N  16 simplicia  G (a  add. m1 uel 2) LSm2  ac] et C 17 non] nec  G  18 atque om. C  19 est om.  G  20 solem  Gm1  21 quidem  om. C  24 ad] et ad  S  aliquod  EN P IIS  aliquem  in ras .  Cm2 ,  fort . aliquid  m1   secundum quam significationem Romanorum dicitur genus ab unius scilicet habitudine, dico autem Romuli, et multitudinis habentium aliquo modo ad inuicem eam quae ab illo est cognationem secundum diuisio- nem ab aliis generibus dictae.|   p. 58  Una, inquit, generis significatio est quae in multitudinem uenit a quolibet uno principium trahens, ad quem scilicet ita illa multitudo coniuncta est, ut ad se inuicem per eiusdem unius principium copulata sit, ut cum Romanorum dicitur genus; multitudo enim Romanorum ab uno Romulo uocabulum  trahens et ipsi Romulo et ad se inuicem quasi quadam nominis hereditate coniuncta est. eadem enim quae a Romulo societas descendit, Romanos inter se omnes uno generis nomine deuin- cit et colligat, uidetur autem secuisse hanc generis signifi- cationem in duas partes, cum copulatiuam coniunctionem  admiscuit dicens; genus dicitur et aliquorum quodam- modo se habentium ad unum aliquid et ad se inuicem collectio, tamquam et illud genus dicatur ad unum se aliquo modo habere et hoc rursus genus dicatur, quod ad se inuicem unius generis significatione coniuncti sint. hoc uero minime;  eadem enim a quolibet uno propagata societas et ad illum qui princeps est generis, totam multitudinem refert et ipsam  1 significationem] diffinitionem  Φ  romanura  Cm1G  2 scilicet  om. Porph. p. 1, 20  3  ante  inuicem  add . se  L   (s. l. m2) brm Busse; cf. p. 173, 12  4 eam quae] eamque  CR  5 dictae]  Hm1Lm2R \ m2 W  dictam  cett.; cf. p. 173, 14 et Porph. p. 1, 23 ( τού πλήθοος_ )  κεκλιμένοι»  7 uno  om. FGRS, s. l. Em2 , unum  H; cf. 21 ad  quem  s. l . ał quod  Lm2  8 est coniuncta  F  9 dicitur—Romanorum  in mg. E, s. l. Gm2, uerba  multitudo enim Romanorum  del. Lm2  11  post  trahens  add . sit  E (del.) G (del. m2), s. l. Lm2  12 ea  E (ras. ex eadem ) FHN  ab  CEH  14 colligit  CFPm2RS  alligat  L  16 genus  om .  H, s. l. N  dicitur]  edd., om. H  dici  cett. (s. l. N)  17 ad] et ad  S  aliquod  N  18 collectionem  FH  aliquo modo  om. EGRS 19 rursus  post  genus  C  rursum  S  dicatur—generis  om. GRSm1  dicatur unius generis  s. l. m2 20 coniunctiua  EGR  coniuncta  Sm2  sint]  NS  sunt  CFHLP ,  om. EGR post  minime  add . est  LPm2  22 refert—multitudinem  om. EGSm1, s. l. m2 (sed  praefert )   inter se multitudinem uno generis nomine conectit et continet. quocirca non est putandus diuisionem fecisse, sed omne quic- quid in hac generis significatione intellegendum fuit, aperuisse. ordo autem uerborum ita sese habet — qui est hyperbaton  intellegendus —: ‘genus enim dicitur et aliquorum ad unum se aliquo modo habentium collectio et ad se inuicem aliquo modo habentium’ — rursus ‘collectio’ subaudienda; est enim zeugma —, cuius significationis adiecit exemplum : secundum quam significationem Romanorum dicitur genus ab  unius scilicet habitudine, dico autem Romuli, et multitudinis rursus habitudine habentium aliquo modo ad inuicem cognationem, eam scilicet quae ab illo est, id est Romulo, secundum diuisionem ab aliis generibus dictae, scilicet multitudinis. haec enim multitudo aliquo  modo ad unum et ad se inuicem habens genus dicta est, ut ab aliis discerneretur, ut Romanorum genus ab Atheniensium ceterorumque separatur, ut sit integer uerborum ordo : ‘genus enim dicitur et aliquorum collectio ad unum se quodammodo habentium et ad se inuicem, secundum quam significationem  Romanorum dicitur genus ab unius scilicet habitudine, dico autem Romuli, et multitudinis secundum diuisionem ab aliis generibus dictae, habentium scilicet hominum aliquo modo ad inuicem eam quae ab illo est, id est Romulo, cognatio-  1 nomine]  EGLRS uinculo  CFHN  nomine uel uinculo P 4 se  FHNP  qui  om. ER, s. l. Gm2Sm2  6  pr . sese  L  7  ante collectio  s. l . et ( ut uid .)  C  subaudiendo  N ,  post  sub.  add . est  LR, ante s. l. Pm2  8 zeuma EFGHPS  14 dictam  EGm1Lm1PSm2  haec enim multitudo  om .  ERS, s. l. Gm2  aliquo modo  om .  FP, ante add . et  C, post add . se  P (del. m1?), s. l. Gm2H  15  post  unum  s. l . aliquid  Gm2 post  habens  add . cognationem  Pm2 edd . 17 separetur  Fa.c.N  separaretur  CFp.c.HLm1  sit] sic  H  (sit  post  uerborum,)  P  (sit  post  ordo,) sic sit  F ; integer sit  C ; ordo uerborum,  post repet . sit  N  18 collectio  om. E  20 ab] ad  F  habitudinem  F ,  post repetit uerba post . aliquo— exemplum  (6—8) G  22 dictam  CEGm1Lm1Sm2 post  habentium  add . se  Lm2P  23 id est  om. S, in quo post  cognationem locus p. 172, 4—13 secundum—deuincit et collegit  (sic) repetitus (5  dicta est,  12  ea  script.)   nem.’ Atque haec hactenus; nunc de secunda generis signi- ficatione dicendum est.   Dicitur autem et aliter rursus genus, quod est unius cuiusque generationis principium uel ab eo qui genuit uel a loco in quo quis genitus est. sic enim  Orestem quidem dicimus a Tantalo habere genus, Hyllum autem ab Hercule, et rursus Pindarum qui- dem Thebanum esse genere, Platonem uero Athenien- sem; etenim patria principium est unius cuiusque generationis, quemadmodum et pater. haec autem uide-  tur promptissima esse significatio; Romani enim sunt qui ex genere descendunt Romuli, et Cecropidae, qui a Cecrope, et horum proximi.    Quattuor omnino sunt principia quae unum quodque prin- cipaliter efficiunt. est enim una causa quae effectiua dicitur,  uelut pater filii, est alia quae materialis, uelut lapides domus, tertia forma, uelut hominis rationabilitas, quarta, quam ob rem, uelut pugnae uictoria. duae uero sunt quae per accidens unius  3—13] Porph. p. 1, 23—2, 7 (Boeth. p. 26, 8—16).   4 generationis  om .  A ,  in ras. C  quae  Gm1 ll m1  5 a loco] ab eo loco  CEGLRS;   Porph. p. 2, 1   άπ6 τού τόποα  sic  ex  si  Cm2  enim  in ras. Cm2  6 oresthē  C  oresten  LN ΣΝΑΣΦ  horestem  FH T  dicemus S genus habere  F  7 Hyllum]  Gm1  yllum  m2  illum ( ad quod  s. l . tan- talum  A m2 )  cett . autem  om. G  8  ante  Thebanum  add . dicimus  2  9 principium]  Porph. p. 2,4   αρχή τις ;  cf. infra p. 178, 17  10 et]  Ν Ψ   (er. uid.) brm, s. l .  Δ ,  om. cett. Busse; Porph. p. 2, 5   καί   om. codd. quidam (habet M) ;  cf. p. 176, 1  11 esse  om. H  sunt  om. EFG- ΗΝS ΑΑΣ ,  s. l. Lm2 ,  in mg .  U m2  dicuntur  edd.; Porph. p. 2, 6   λέγονται ;  cf. p. 176, 7  12 cecropides  Σ  13 a Cecrope] cecropis  Ea.c . (a cecropis  p.c .)  G  (cae-  m1  ci-  m2 )  R  ex genere descendunt cecropis  LS ΑΑΣ ,  s. l. Em2  ( om . cecropis),  fort. ex p. 176, 8 ;  Porph. Κ εκροπίδαι ol άπό Κέκροπος  eorum  HL A ,  in ras .  2  14 efficiunt principaliter  H  16 filii] et filius  Em1FGLPRS post  materialis  add . dicitur  FPR  17  ante  forma  add . a  R, s. l. Sm2, ras. in   E uelut *  (i  er .)  C  quam]  NS, om. R , quae  cett., fort. recte  ob rem  s. l. Rm2  18 pugnae uictoria]  N  pugna uictoriae  cett . duo  CNP  accidentes  Ea.c.GHm1  ( in mg . ał accidentialiter  m2 )  Lm1RSm2  accidentis  m1   cuiusque dicuntur esse principia, locus scilicet ac tempus. quoniam enim omne quod nascitur uel fit, in loco ac tempore est, quicquid loco uel tempore natum factumue fuerit, eum locum uel id tempus accidenter dicitur habere principium.  horum omnium in hac secunda generis significatione duo quae- dam ex alterutris assumit, quae ad significationem generis uidebuntur accommoda, ex his quidem quae principalia sunt, effectiuum, | ex his uero quae accidentia, locum. ait enim ‘genus  p. 59  dicitur et a quo quis genitus est’, quod est effectiua princi-  palium causa, ‘et in quo quis loco est procreatus’, quae est accidens causa principii. itaque haec secunda significatio duo continet, eum a quo quis procreatus est, et locum in quo quis editus, ut exempla quoque demonstrant. Orestem enim dicimus a Tantalo genus ducere; Tantalus quippe Pelopem,  Pelops Atreum, Atreus Agamemnonem, Agamemnon genuit Orestem. itaque a procreatione genus hoc dictum est. at uero Pindarum dicimus esse Thebanum, scilicet quoniam Thebis editus tale generis nomen accepit. sed quoniam diuersum est illud, a quo quis procreatus est, locusque in quo quis editus,  uidetur diuersa esse generis significatio procreantis et loci, quam in secunda scilicet parte enumerans unam fecit. sed ne uideretur duplex, per similitudinem coniunxit dicens : etenim patria principium est unius cuiusque generationis,  2 uel  in ras. E  et  C  3 quicquid  ex quo quid  Cm2, ante add . et  F, post add . enim  L  4 accidentaliter  CLN  accidentialiter  EGPSm2; cf. indicem Meiseri  5 ex alterutris duo quaedam  FP  6 consumit  S  sunt  Cm1H  sumit  Cm2, s. l. N  generis significationem  H  7 uidebantur  LPRS  uideantur  EG  accommodata  R  post quidem  add . causis  codd., om. unus F, del. Hm2  8  ante  effectiuum  add . sumit  H  accidentalia  N  9 dici CFNP  et  om. C, s. l. Lm2  quisque  CGRS  10 loco procreatus est  L  procreatus est loco  N  quod  GKS  13 editus] editus est  FHNP post  quoque  add . ipsa  FHP, s. l. Lm2  oresten  LN ,  item 16  14 pelopen  E  15 agamemnonen  EG  (-men) 17 quoniam] quia  FHN ante  Thebis  s. l. a Hm2?  18 editus] editus est  CL  accipit  C  est  om. G  19  pr.  quisque  R  editus] editus est  NP  (est  s. l. m2 ) 22  post  uideretur  add . tamen  EP, s. l. Lm2  adiunxit  FN  23 patria  s. l. Cm2, in mg. F  generati  Em1  generis  RSm1   quemadmodum et pater. sed quoniam in significationibus euenit fere, ut sit aliquid quod intellectui significatae rei pro- pinquius esse uideatur, quoniam duas generis apposuit signi- ficationes, multitudinis scilicet et procreantis, cui generis nomen conuenientius aptetur, iudicat atque discernit dicens  hanc esse promptissimam generis significationem quae a procreante deducta sit; hi enim maxime Cecropidae sunt qui a Cecrope descendunt, hi Romani, qui a Romulo. quae cum ita sint, confundi rursus generis significationes uidentur. si enim hi sunt maxime Romani qui a Romulo originem trahunt,  et haec significatio illa est quae a procreante deducitur, ubi est reliqua, quam primam quoque enumerauit, quae est ‘mul- titudinis ad unum et ad se inuicem quodammodo se habentium collectio’? sed acutius intuentibus plurimae admodum diffe- rentiae sunt. aliud est enim a quolibet primo procreante genus  ducere, aliud unum genus esse plurimorum. illud enim et per rectam sanguinis lineam fieri potest et non in multa diffundi, ut si per unicos familia descendat, huic enim aptabitur secunda illa generis significatio, quae a procreante deducitur; prima uero illa non nisi in multitudine consistit. illud quoque  est, quod prima procreationis principium non requirit, sed, ut ipse ait, sufficit aliquo modo se habere ad id unde huiusmodi generis principium sumitur, secunda uero significatio nullam uim nisi procreante sortitur. item in illa primae significationis multitudine huius secundae particularitas continetur, ut in  2 fere] saepe  C (ante  euenit ) LNPm2S  intellectu  G  signi- ficandae  FRSm2  propinquis  F  propinquus  Gm1PR  propinquum  N  3 quoniamque  Em2HLm2P, post  quoniam  add . qui  Sm1, del. m2  4 generi  EGH  (s  er .) 6 esse  om. G  7 ducta  R  cecropides  R  8 Cecrope] cecropede  FR  (-ide)  post Romulo  add . descendunt  N  9 significationes generis  C  11 ducitur  Lm1  15 est  s. l. F, post  enim  CL  enim  om. N  aliquolibet ( om . a)  G  16 deducere  CLm1  et  om. N  18 si  s. l. Lm2, del. Sm2 per—descendat] puer unicus familiam distendat  Cm1FHN  aptatur  N  21 est] est intellegendum C  primae  Hm2  24 <a> procreante  Engelbrecht  prima  EGHLm1RS   Romanorum genere Scipiadarum genus; nam cum sint Romani, Scipiadae sunt. quoniam enim ad Romulum et ad ceteros Romanos secundum Romuli habitudinem iuncti sunt, Romani sunt, Scipiadae uero dicuntur ad secundam generis significa-  tionem, quia eorum familiae Scipio et sanguinis principium fuit.    Et prius quidem appellatum est genus unius cuius- que generationis principium, dehinc etiam multitudo eorum qui sunt ab uno principio, ut a Romulo; namque  diuidentes et ab aliis separantes dicebamus omnem illam collectionem esse Romanorum genus.    Sensus facilis et expeditus, si tamen ambiguitas una sol- uatur. cum enim prius multitudinis significationem retulerit ad generis nomen, post autem ad procreationis initium, nunc  contrario modo illam prius a se enumeratam significationem dicere uidetur quae est procreationis, illam uero posteriorem quae est multitudinis; quod contrarium uideri potest, si quis ad ordinem superius digestae disputationis aspexerit. sed hic non de se loquitur, sed de humani consuetudine sermonis, in  quo prius eam significationem generis fuisse dicit quae a procreante sit tracta, accedente uero aetate loquendi usu nomen generis etiam ad multitudinem habentem se quodam- modo ad aliquem fuisse translatum, hoc uero idcirco, quoniam  7—11] Porph. p. 2, 7—10 (Boeth. p. 26, 16—19).   1 nam] natura  CFL  2 scipiades  HNP ante pr.  ad  add . et  FHNP ,  s. l. Em2Lm2 post, ad om. L  4 scipiades  N  5 quia] quod  E  et  om. NP, s. l. Cm2  8 generationis  in ras. Cm2  generis  PR  9 nam- que ( sic etiam B Bussii )]  om .  ΛΦ , add.  Hm2 \ m2  nam  2  quam  edd. Busse; Porph. p. 2, 8   το πλήθ-ος—δ  10  post  aliis  add . generibus  F ,  s. l. Lm2  11 collationem  Λ  collectionem  post  esse  HP ; romanorum esse collectionem  F  12  post  facilis  s. l . est  Lm2Pm2  facile ( om . et)  FN  expeditur  FNPa.c . 13 retulerat  F  retulit  R  14  post , ad  om. FHNR, s. l. Sm2  post nunc  s. l . autem  Lm2  15 prius] posterius  CLm2NP  numeratam  N  16  post  uidetur  add . priorem  CGLNP  18 perspexerit  C  21 loquendique  CN  et  (s. l. m1?)  loquendi  H  23  ante  hoc  s. l . dicit  Lm1?, post  idcirco  in mg . dixit  Pm2   superius dixerat : haec enim uidetur promptissima esse significatio, ut ab hac, id est secunda, quam promptissimam significationem esse dixit, illa quoque nuncupata uideretur, quae est multitudinis. prius enim genus inter homines appel- latum est quod quis a generante deduceret, post autem factum  est, ut per loquendi usum etiam multitudinis ad aliquem  p. 60 quodammo|do se habentis genus diceretur propter diuisionem scilicet gentium, ut esset inter eas nominis societatisque discretio.   His igitur expletis uenit ad tertium genus quod inter philosophos tractatur cuiusque ad dialecticam facultatem multus  usus est. horum quippe generum historia magis uel poesis tractat exordium, tertium uero genus apud philosophos con- sideratur. de quo hoc modo loquitur :    Aliter autem rursus genus dicitur cui supponitur species, ad horum fortasse similitudinem dictum. et-  enim principium quoddam est huiusmodi genus earum quae sub ipso sunt specierum, uidetur etiam multi- tudinem continere omnem quae sub eo est.    Duplicem significationem generis supra posuit, nunc tertiam monstrare contendit, hanc autem ad superiorum similitudinem  1 superius] p. 174, 10. 14—18] Porph. p. 2, 10—13 (Boeth. p. 26, 19—23).   1 enim] autem  p. 174 , 10 2 secundum  GR  a  (s. l.)  secunda  E  5 quis  Cm2  prius  m1  7 duceretur  Cm1  diuisiones  EFHLm2NP  8 esset] est  (s. l.)  et  E  has  FH  9 expeditis  N  ad  om. F  10 cuius  CF  multus  post  usus  Lm1R , multum  G  11 poesi  Cm1  13 hoc]  2 litt. er. C  14 genus  ante  rursus  Λ ,  post  dicitur  Φ  cui—genus  (16) om. N, quod indicatur uoce  usque  addita  (dicitur usque earum);  sic  ( saepe etiam  usque ad)  paene constanter in N aliisque codd. ubi mediae lemmatum partes omissae sunt  15 ab.. similitudine  GL \ m2 \Z  16 eorum  A m2 A  earum—specierum]  Porph. p. 2, 12   τών δφ’ lauto  17 ipso  om .  h m1  se  m2Lp.c. \HA>  sunt add.  Gm2 \ m2  uideturque  brm Busse; Porph .  xai SoxeT xai  etiam] enim  F autem  Δ  18 omnem]  2  ( h m1 ß m1 ) omnium  CEGLPRS h m2 U m2  earum  FHN, s. l. post omnium  Lm2  sub eo est]  PA m1 AU m1 ST  est  Φ  sub eo (ipso  F \ m2  se  Lm2 ) sunt (est  E, s. l. G ) specierum  EFGHLNPp.c . (sunt eo sub  a.c .)  RS \ m2 U m2  sunt sub eo specierum  C; cf. Porph. p. 2,12 s . 19 pro- posuit  edd . 20 superiorem  FLm1Pm1   dictam esse arbitratur. superius autem dictae significationes sunt una quidem, cum nomen generis quadam principii anti- quitate ad se iunctam multitudinem contineret, alia uero, cum genus ab uno quoque procreante duceretur, quod eorum  quae procreantur principium est. cum igitur sint superius duae generis propositae significationes, tertium nunc addit de quo inter philosophos sermo est, illud scilicet cui sup- ponitur species, quod idcirco genus uocatum esse sub opinionis credit ambiguo, quoniam habet aliquam similitudinem supe-  riorum. nam sicut illud genus quod ad multitudinem dicitur, uno suo nomine multitudinem claudit, ita etiam genus plurimas species cohercet et continet. item ut genus illud quod secun- dum procreationem dicitur, principium quoddam est eorum quae ab ipso procreantur, ita genus speciebus suis est prin-  cipium. ergo quoniam utrisque est simile, idcirco nomen quoque generis etiam in hac significatione a superioribus mutuatum esse ueri simile est.    Tripliciter igitur cum genus dicatur, de tertio apud philosophos sermo est; quod etiam describentes adsi-  18—p. 180, 3] Porph. p. 2, 14—17 (Boeth. p. 26, 24—27, 2).   1 dictam esse arbitratur] ut dictum est  GRS  autem  om. C, s. l. Lm2, del. Pm2  dictae] duae  Lm1, ante  sunt  s. l . dictae  m2 , duae  ex  dictae  H (ras.) Sm2, ante  dictae  s. l. Pm2, ante  sunt  edd., post R  2 quidem  om. C  cum  in mg. Cm2  quae  m1N  quadam  om. EFG  quandam  H  qua  RSm1  antiquitatem  H  3 ad se iunctam]  CLm2  ad se et adiunctam  HN  ad se iniunctam  Sm1  ab uno quoque iniunctam  R  adiunctam  cett.; cf. p. 177, 2  continet  Cm1 (corr. in mg. m2) Nm2  aliam  G  4 deduceretur  E  5 qui  P  6 tertiam  et  qua  F  7  post  scilicet  add . genus  F, s. l. Sm2  8  ante  opinionis  add . suae  N, post CHLP, s. l. Em1?, in mg. Sm2  se  m1  9 creditur  Ca.r.FR  10 a multitudine  Ep.c.FHN  11 suo] sub  C  (nomine sub uno)  FHNPm2 ,  ex suo  EL  ita  in mg. Cm2, s. l. Nm2  13 est] esse  EGLm2RS  14  post  suis  add . constat  FHN, post genus  s. l. Em2  est]  CLm1P  esse  cett . 15 idcirco] id  C  nomen  post  generis  FHNP, post  quoque  L  16 in hac etiam  FHN  hanc significationem  CP  18 cum genus—sit  (p. 180, 2) om. N  dicitur  S A m1 /AS  19 etiam] etiam et  R   gnauerunt genus esse dicentes quod de pluribus et differentibus specie in eo quod quid sit praedicatur, ut animal.    Iure tertium genus philosophi ad disputationem sumunt; hoc enim solum est quod substantiam monstrat, cetera uero  aut unde quid existat aut quemadmodum a ceteris hominibus in unam quasi populi formam diuidatur ostendunt. nam illud quod multitudinem continet genus, illius multitudinis quam continet substantiam non demonstrat, sed tantum uno nomine collectionem populi facit, ut ab alterius generis populo segre-  getur. item illud quod secundum procreationem dictum est, non rei procreatae substantiam monstrat, sed tantum quod eius fuerit procreationis initium. at uero genus id cui sup- ponitur species, ad speciem accommodatum speciei substantiam informat. et quia inter philosophos haec maxima est quaestio,  quid unum quodque sit — tunc enim unum quodque scire uidemur, quando quid sit agnoscimus —, idcirco reiectis ceteris de hoc genere quam maxime apud philosophos sermo est, quod etiam describentes adsignauerunt ea descrip- tione quam subter annexuit. diligenter uero ait describentes,  non definientes; definitio enim fit ex genere, genus autem aliud genus habere non poterit. idque obscurius est quam ut primo aditu dictum pateat. fieri autem potest ut res quae  1 esse  ante  genus  Pm1, post  dicentes  Σ  et  om. F  2 differentiis  R  quid]  iterum  quod  P  praedicetur  Γ  3 ut animal  om .  ΑΣ  5 est solum enim  CN  enim est solum  FP  6 existit  E  (it  in ras .)  GLPS  existet  Sm1  extitit  HN  <multitudo> a  Brandt  7 una... forma  EGRS  diuidantur  G  ostendit  EGLPm1S  8 multitudinis] multi- tudinem  G  12 procreantis  Nm1  13 atque  G  14 ad speciem  om. N  ad differentiam  Cm2FLm1Pm2 edd . 15 quaestio est  FHN  16 unum  om. EGRS  enim] etenim  FN  quodque unum  G  17 uidemur] debemus  E (in ras.) GPm1RS, post  uidemur  add . uel debemus  Hm1   del. m2 post  reiectis  add . quia non demonstrant substantiam  L  temptatis temporum  Sm1, del. m2  19  post  quod  add . genus  EPm1, del. m2  20 ait  ex  aut  Em1  addit  m2NP  addidit  F  21 ex] de  H  23 dictum  om. FH dictu  GLS  autem] enim  FNP   alii genus sit, alii generi supponatur, non quasi genus, sed tamquam species sub alio collocata. unde non in eo quod genus est, supponi alicui potest, sed cum supponitur, ilico species fit. quae cum ita sint, ostenditur genus ipsum in eo  quod genus est, genus habere non posse. si igitur uoluisset genus definitione concludere, nullo modo potuisset; genus enim aliud quod ei posset praeponere, non haberet, atque idcirco descriptionem ait esse factam, non definitionem. descriptio uero est, ut in priore uolumine dictum est, ex proprietatibus infor-  matio quaedam rei et tamquam coloribus quibusdam depictio, cum enim plu|ra in unum conuenerint, ita ut omnia simul rei  p. 61  cui applicantur aequentur, nisi ex genere uel differentiis haec collectio fiat, descriptio nuncupatur. est igitur descriptio generis haec : genus est quod de pluribus et differen-  tibus specie in eo quod quid sit praedicatur. tria haec requiruntur in genere, ut de pluribus praedicetur, ut de specie differentibus, ut in eo quod quid sit. de qua re quoniam ipse posterius latius disputat, nos breuiter huius rei intellegentiam significemus exemplo. sit enim nobis in forma generis animal.  id de aliquibus sine dubio praedicatur, homine scilicet, equo, boue et ceteris. sed haec plura sunt. animal igitur de pluribus praedicatur, homo uero, equus atque bos talia sunt, ut a se discrepent, nec qualibet mediocri re, sed tota specie, id est tota forma suae substantiae. de quibus dicitur animal; homo  enim et equus et bos animalia nuncupantur. praedicatur ergo animal de pluribus specie differentibus. sed quonam modo fit  9 in priore uolumine] cf. p. 42, 8—43, 6 potius quam p. 153, 10 ss.; cf. Proleg. adn. 7.   1 genere  G post  supponatur  add . sed cum (alii  add. P ) subponi- tur ( uel  sup-)  CFHN, s. l. Pm2  non—potest  (3) del. E  2 col- locatur  CFHNPm2  non] enim  EF  7 ei (eius  HN ) aliud quod  HNPm1RS  possit  EGS  9 priori  LN  ex  om. GHS, s. l. Em2Lm2  11 plurima  L  plura  post  unum  C  16  post . ut  om. FG  18 late  E (in ras.) FHP, ecte ? 19 exemplo] hoc modo  CLP  20 prae- dicetur  CEGPm1RS ante  equo  add . et  FHLN, er. P  21 boue] et boue  L  et  er. uid. C  22 a] ad  Lm1S  23 mediocri re] medio- critate  H 24 forma tota  E (del. tota) G  26 fit  om. G   haec praedicatio? non enim quicquid interrogaueris, mox ani- mal respondetur : non enim si quantus sit homo interrogaueris, ‘animal’ respondebitur, ut opinor; hoc enim ad quantitatem pertinet, non ad substantiam. item si ‘qualis’ interroges, ne huic quidem responsio conuenit animalis, ceterisque omnibus inter-  rogationibus hanc animalis responsionem ineptam atque inu- tilem semper esse reperies, nisi ei tantum apta est quae quid sit interroget. interrogantibus enim nobis quid sit homo, quid sit equus, quid sit bos, ‘animalia’ respondebitur. ita nomen animalis ad interrogationem ‘quid sit’ de homine, equo atque  boue ac de ceteris praedicatur, unde fit ut animal praedicetur de pluribus specie differentibus in eo quod quid sit. et quo- niam generis haec definitio est, animal hominis, equi, bouis genus esse necesse est. omne autem genus aliud est quod in semet ipso atque in re intellegitur, aliud quod alterius prae-  dicatione. sua enim proprietas ipsum esse constituit, ad alte- rum relatio genus facit, ut ipsum animal, si eius substantiam quaeras, dicam substantiam esse animatam atque sensibilem. haec igitur definitio rem monstrat per se sicut est, non tam- quam referatur ad aliud. at uero cum dicimus animal genus  esse, non, ut arbitror, tunc de re ipsa hoc dicimus, sed de ea relatione qua potest animal ad ceterorum quae sibi subiecta  2 non] num  FHN  rogaueris  Cm1GS  3  ante  animal  add . mox  F respondetur  F  ut] non  FHN  4  post  qualis  add . sit  FHNP, s. l. Em2, s. l . homo sit  Lm2 interroges]  Em1Lm1P  roges  cett . nec  CG  haec  CSm2  id  m1  hic  FN  5 interrogantibus  EG  6 ineptam]  CFHNPp.c.Lm2  idiotam  E (s. l. i . inertem  m2) GLm1 (s. l.  inpro- priam  m1?) Pa.c.S Hilgard  idiotam uel ineptam  R  idiotae  Engelbrecht  7 nisi] ni  C  8 interrogat  Em2HN  enim] autem  F post . quid] quidque  R  9 sit  om. E  animal  C  item  EGLm1PRS  11 ac] et  R  13  ante bouis  add . atque  FHNP  14 genus autem  C  15  ante  alterius  add . ad  CEm2HN  praedicationem  Em1PSm1 edd., post add . refertur  Pm2 edd . 18 dicas  Lm2  21 esse  om. EGRS, s. l. Lm2  re  om. EGR, s. l. Sm2 post  hoc  add . nomen  C, s. l .  Em2Pm2, ante FHNS  de  del. L, s. l. Pm2  22 relatione  in ras .  E  ratione  GLPm1R   sunt praedicationem referri. itaque character est quidam ac forma generis in eo quod referri praedicatione ad eas res potest, quae cum sint plures et specie differentes, in earum tamen substantia praedicatur.    Huius autem definitionis rationem per exempla subiecit dicens :    Eorum enim quae praedicantur, alia quidem de uno dicuntur solo, sicut indiuidua ut Socrates et hic et hoc, alia uero de pluribus, quemadmodum genera et  species et differentiae et propria et accidentia com- muniter, sed non proprie alicui. est autem genus qui- dem ut animal, species uero ut homo, differentia autem ut rationale, proprium ut risibile, accidens ut album, nigrum, sedere.    Omnium quae praedicantur quolibet modo, facit Porphyrius diuisionem idcirco, ut ab reliquis omnibus praedicationem generis seiungat ac separet, hoc modo. omnium, inquit, quae praedicantur, alia de singularitate, alia de pluralitate dicuntur.  7—14] Porph. p. 2, 17—22 (Boeth. p. 27, 2—7).   1  post  itaque  add . ut  P, s. l. Lm2 est  om. R, post  generis  F  quiddam  Ea.r.G  quidem  CNPm1  2 praedicatione  post  res  C  3 eo- rum  CGNS, m1 in ELP  4 tantum  E  substantiam  NR , -a  ex  -a  CS; cf. p. 187, 11. 18  5 autem  om. C, in mg. Lm2  8 indiuiduum  C  indibus ( s. l . indiuidua  Em2 ) diabus (a,  ex  e  E )  EG  ut Socrates— hoc  om. CLNP ,—risibile  (13) om. E (in mg . sicut socrates et hic et hoc)  GH  ut] sicut  Em2 (in mg.) RS ΑΣ  et hic et hec et hoc  F  9 uero  om. CFLNPR  autem  Σ  quemadmodum—risibile  (13) om. CL  ( sed uerba  est autem  11 —sedere 14  exhibet p. 184 , 14)  NP  ut genera, om. reliqua usque  accidens (13)  F  10 differentia  Sm1   m1  pro- prium  Γ  11 sed] et  ΛΣ  proprie]  L (p. 184, 14) R Ψ  propria  ΓΑΑΠ  ( ras. ex  -ae)  2  (a  in ras .)  Φ  ( post  alicui);  Porph. p. 2, 20   ιδίως est— risibile  om. R  est—sedere  (14) om. S  12 uero  s. l .  Δ m2 Φ m2  13  ante  accidens  add . ut  CL  ut] id est  CLm2P  uel  E  et  R; Porph. 2,22   otov  14  ante  nigrum  add.  et  R  16 a  LPS  17  post separet  add . et  (F)  id facit  FHN, s. l. Em2  18  pr . alia] alia quidem  FHN  alia de singularitate  om. G, s. l. Em2, post  pluralitate  CLm1 post . alia] alia uero  FHNS  dicuntur] praedicantur  post singularitate  FHN   de singularitate uero, inquit, praedicantur quaecumque unum quodlibet habent subiectum de quo dici possint, ut ea quibus singula subiecta sunt indiuidua, ut Socrates, Plato, ut hoc album quod in hac proposita niue est, ut hoc scamnum in quo nunc sedemus, non omne scamnum – hoc enim uniuersale  est —, sed hoc quod nunc suppositum est, nec album quod in niue est — uniuersale est enim album et nix —, sed hoc album quod in hac niue nunc esse conspicitur; hoc enim non potest de quolibet alio albo praedicari quod in hac niue est, quia ad singularitatem deductum est atque ad indiuiduam  formam constrictum est indiuidui participatione. alia uero sunt quae de pluribus praedicantur, ut genera, species, differentiae et propria et accidentia communiter,  p. 62  sed non proprie alicui. | genera quidem de pluribus praedi- cantur speciebus suis, species uero de pluribus praedicantur  indiuiduis; homo enim, quod est animalis species, plures sub se homines habet de quibus appellari possit. item equus, qui sub animali est loco speciei, plurimos habet indiuiduos equos de quibus praedicetur. differentia uero ipsa quoque de pluri- bus speciebus dici potest, ut rationale de homine ac de deo  corporibusque caelestibus, quae, sicut Platoni placet, animata sunt et ratione uigentia. proprium item etsi de una specie praedicatur, de multis tamen indiuiduis dicitur, quae sub conuenienti specie collocantur, ut risibile de Platone, Socrate et ceteris indiuiduis quae homini supponuntur. accidens etiam  1 uero  om. FHN  2 possunt  CLm1  3  ante Plato  add . ut  FH, s. l. Lm2  et  N edd . 4 quod] ut  F  ut] et  N  6 sed] sed et  F  7 niui  Gm2Sm1 enim est  FL  8 niui  Sm1, item 9  9 hac] alia  EFGR (a.c.ut uid.  ac  p.c.) Sm1  10  post , ad  om. GHLR, s. l. Em2Nm2 , in  FSm2  14 propriae  FGa.c.Sm1  propria  CHLN post  alicui  uerba lemmatis p. 183, 11—14  est autem—sedere  add. L  15 plurimis  FN  16  post  indiuiduis  add . suis  CFHP  17 qui] quod  FHN  19 praedicatur  FHN  20 potest dici  E  21 quae  om. R, s. l. Sm2 q.  er. N  22 item] autem  Lm2P  specie  om. C  23 tamen  ante  de  H  25  post  indiuiduis  add . dicitur  CLP, s. l. Hm2  hominibus  EG  homini *   ( b. ? er.) L  supponantur  Em1GS  supponuntur  ante homini  C   de multis dicitur; album enim et nigrum de multis omnino dici potest quae a se genere specieque seiuncta sunt. sedere etiam de multis dicitur; homo enim sedet, simia sedet, aues quoque, quorum species longe diuersae sunt. accidens autem  quoniam communiter accidens esse potest et proprie alicui, idcirco determinauit dicens et accidentia communiter, sed non proprie alicui. quae enim proprie alicui accidunt, indi- uidua fiunt et de uno tantum ualentia praedicari, ea quae communiter accipiuntur, de pluribus dici queunt. ut enim de  niue dictum est, illud album quod in hac subiecta niue est, non est communiter accidens, sed proprie huic niui quae oculis ostensionique subiecta est. itaque ex eo quod commu- niter praedicari poterat — de multis enim album dici potest, ut albus homo, albus equus, alba nix —, factum est, ut de  una tantum niue praedicari illud album possit cuius partici- patione ipsum quoque factum est singulare. omnino autem omnia genera uel species uel differentiae uel propria uel acci- dentia, si per semet ipsa speculemur in eo quod genera uel species uel differentiae uel propria uel accidentia sunt, mani-  festum est quoniam de pluribus praedicantur. at si ea in his speculemur in quibus sunt, ut secundum subiecta eorum formam et substantiam metiamur, euenit ut ex pluralitate praedicationis ad singularitatem uideantur adduci. animal enim,  3 enim  om. C  et  (s. l. m2)  enim  L  sedit  CN  simia]  post  sedet  FH  et simia  R  aues] auis  N  set et aues  F  sedet auis  H  4 quo- que  om. FN , uero  L  quarum  Lm1 post  sunt  s. l . sedent  Pm2  scil, sedent  Sm2  5  ante  communiter  add . et  FHN, s. l. Em2Pm2  7 propria  HN pr . alicui  om. GLR  quae  s. l. Sm2  cum  E (s. l. m2)FH  enim proprie  s. l. Em2Sm2  propria  N accidunt ali- cui  E  8 ea quae] et quae  E  ea quidem quae  N  eademque cum  P  et cum  F  cum  H  9 queunt  om. Em1G, s. l. Sm2  possunt  E m2 Pm1  (potest  m2 )  R  10 niui  Sm1  niue est subiecta  HL  niui  Sm1  nunc  G  12 ostensione  GRS  ita *  (q.  er .)  C  ita quoque  Sm2, ad  itaque  s. l . quoque  Hm2  15 niui  GSm1  17 differentias  CE  (s  in er . e?)  GL  20 quoniam] quod  G  21 ut] et  FN subiectam  CEGH a.r.Lm1PSm2  22 substantiamque ( om . et)  FHNP  metiantur  E  mentiamur  Ca.r.Sa.c . eueniet  HN  pluritate  Gm1P   quod genus est, de pluribus praedicatur, sed cum hoc animal in Socrate consideramus — Socrates enim animal est —, ipsum animal fit indiuiduum, quoniam Socrates est indiuiduus ac singularis. item homo de pluribus quidem hominibus praedi- catur, sed si illam humanitatem quae in Socrate est indiuiduo  consideremus, fit indiuidua, quoniam Socrates ipse indiuiduus est ac singularis. item differentia ut rationale de pluribus dici potest, sed in Socrate indiuidua est. risibile etiam cum de pluribus hominibus praedicetur, in Socrate fit unicum. communiter quoque accidens, ut album, cum de pluribus  dici possit, in uno quoque singulari perspectum indiuiduum est. Fieri autem potuit commodior diuisio hoc modo. eorum quae dicuntur, alia quidem ad singularitatem praedicantur, alia ad pluralitatem, eorum uero quae de pluribus praedicantur, alia secundum substantiam praedicantur, alia secundum acci-  dens. eorum quae secundum substantiam praedicantur, alia in eo quod quid sit dicuntur, alia in eo quod quale sit, in eo quod quid sit quidem, genus ac species, in eo quod quale sit, differentia. item eorum quae in eo quod quid sit praedi- cantur, alia de speciebus praedicantur pluribus, alia minime;  de speciebus pluribus praedicantur genera, de nullis uero species. eorum autem quae secundum accidens praedicantur, alia quidem sunt quae de pluribus praedicantur, ut accidentia,  1 plurimis  R  5 si  s. l. Lm2Sm2  quae  et  est  om. F  est— indiuidua  in mg. Cm2  7 est  post  singularis  E  9 hominibus  om. FN praedicatur  CEGL (ante  hominibus) Pm1RS dici possit  N  in Socrate  om. ER  unica  Em1GS unicam  Lm1  unita  R  10 cum  s. l. Em2Sm2  11 possit dici  E  singulari] singulari corpore  CFHN perspectum]  CE (in ras.) FH, m2 in LPS  perspecta  Lm1 a.c . (perfecta  m1p.c .) R  perfectam  Pm1Sm1  profecto ( alt . o  in ras .)  N  profecto perfecta  G  in- diuidua  EGLm1RS  12  ante  eorum  add . ut  GRS, del. EL  13 dicun- tur] praedicantur  Pm2  praedicantur] dicuntur  L  ( ex  dicantur  m2 )  P  14 plurimis  R  praedicantur] dicuntur  N  17  pr . quod—differentia  (19) in ras. Em2 post , in eo—differentia  (19) om. GR  19 iterum  FN  20 pluribus (plurimis  H ) praedicantur  FHN  21  post  speciebus  add . quidem  FHNP  pluribus  om. GRS, s. l. Lm2, post  praedicantur  Em1Fm1 23  post  pluribus  add . speciebus  CFHN, s. l. Em2   alia quae de uno tantum, ut propria. Posset autem fieri etiam huiusmodi diuisio. eorum quae praedicantur, alia de singulis praedicantur, alia de pluribus. eorum quae de plu- ribus, alia in eo quod quid sit, alia in eo quod quale sit  praedicantur. eorum quae in eo quod quid sit, alia de diffe- rentibus specie dicuntur, ut genera, alia minime, ut species, eorum autem quae in eo quod quale sit de pluribus prae- dicantur, alia quidem de differentibus specie praedicantur, ut differentiae et accidentia, alia de una tantum specie, ut propria.  eorum uero quae de differentibus specie in eo quod quale sit praedicantur, alia quidem in substantia praedicantur, ut diffe- rentiae, alia in communiter euenientibus, ut accidentia. et per hanc diuisionem quinque harum rerum definitiones colligi possunt hoc modo. genus est quod | de pluribus specie differen-  p. 63   tibus in eo quod quid sit praedicatur. species est quod de pluribus minime specie differentibus in eo quod quid sit praedicatur. differentia est quod de pluribus specie differentibus in eo quod quale sit in substantia praedicatur. proprium est quod de una tantum specie in eo quod quale sit non in sub-  stantia praedicatur. accidens est quod de pluribus specie differentibus in eo quod quale sit non in substantia praedicatur.  1 quae  om. FN  una  C (s. l. add . specie ) FHN  possit  FRS  potest  N  2 etiam  om. LP  4  post pr . sit  add . praedicantur  CFHNP, s.l. Lm2  6 specie] speciebus  Ea.r.FLNPS  7 autem  in mg. E, s. l. Lm2  9 accidentia et differentiae  C post  accidentia  add . communiter  Pm2   edd . 10 uero  om. GRS, in mg. Em2Lm2  quae  in mg. Em2  de differentibus specie  om. GLRS, in mg . de specie differentibus  Em2  de  om . C 11 substantiam  RSa.r . 12 conuenientibus  Pm2  13 de- finitiones] diuisiones  FHm1  14 specie differentibus  hic F, post quid sit  (15) cett.; cf. proxima et p. 193, 1  15 est] autem  E  18 substan- tiam  R  proprium—praedicatur  (20)] om. GR, in mg. Em2  proprium (uero  s. l. add. Lm2 ) est quod de pluribus minime specie differentibus in eo quod quale ait (sit  s. l. Lm2 ) non in substantia praedicatur  LPm2  non in substantiam praedicatur  Sm1, del. m2, in sup. mg . ( ante  non  inse- renda )  haec proprium est quod de pluribus specie minime differentibus,  deinde pauca uerba, quorum extremum  <praedi>cat<ur>,  cum mg. abscisa, sequuntur uerba  accidens est  (20) —praedicatur  (21) ,  m2  20  ante  specie  add . et  CE (del.) GLP    Et nos quidem has diuisiones fecimus, ut omnia a semet ipsis separaremus, Porphyrio uero alia fuit intentio. non enim omnia nunc a semet ipsis disiungere festinabat, sed tantum ut cetera a generis forma et proprietate separaret. idcirco diuisit quidem omnia quae praedicantur aut in ea quae de  singulis praedicantur, aut in ea quae de pluribus, ea uero quae de pluribus praedicantur, aut genera esse dixit aut species aut cetera, horumque exempla subiciens adiungit :    Ab his ergo quae de uno solo praedicantur, diffe- runt genera eo quod de pluribus adsignata praedi-  centur, ab his autem quae de pluribus, ab speciebus quidem, quoniam species etsi de pluribus praedican- tur, sed non de differentibus specie, sed numero; homo enim cum sit species, de Socrate et Platone praedicatur, qui non specie differunt a se inuicem,  sed numero, animal uero cum genus sit, de homine et boue et equo praedicatur, qui differunt a se inui- cem et specie quoque, non numero solo. a proprio uero differt genus, quoniam proprium quidem de una sola specie, cuius est proprium, praedicatur et de his  quae sub una specie sunt indiuiduis, quemadmodum  9—p. 189, 16] Porph. p. 2, 22—3, 14 (Boeth. p. 27, 8—28, 7).   2 separemus  GNRm1Sm1  porphirii  Lm1  fuit alia  CN  4 forma generis  H  separet  NPa.c.Sm1 ante  idcirco  add . hic  FRS  5 diuisit  s. l. Em2  separauit  m1  quidem  s. l. R, ante  diuisit  L  6 praedicarentur  FHLm2Pm2  plurimis  Em1Lm2  uero] autem  C  7 plurimis  FGm2N  praedicarentur  FHLm2  8 horum  F  9 Ab  om. GHP, s. l. ER  ergo] uero  H  praedicarentur  N  10 prae- dicantur  Em1GLm2PRSm2 Busse  11 ab his—accidens  (p. 189, 14) ]  Ω ,  om. cett., sed in S particulae lemmatis plerumque  HISTORIA  (cf. ad p. 167, 21) inscriptae uariis locis expositionis p. 189, 17—193, 16 insertae sunt, item particulae quaedam in L; quorum locorum lectiones hic pro- ponentur post . ab]  Ω   (etiam B Bussii)  a  edd. Busse  12  post  quidem  add . differunt genera  Γ  praedicatur  ΛΣ  13 sed non] sed  om .  Σ  non tamen  H m2 ‘i’  14 Platone] de platone  A  16 sit genus  Σ  17 boue] de boue  Γ  18 et om.  ΓΦ  non]  Porph. p. 3, 1   aX\’ οΰχί  solum  edd. cum Porph .  τώ άριθ·μώ μόνον  20 hiis  Φ  21 una  om. Porph. p. 3, 3   risibile de homine solo et de particularibus homini- bus, genus autem non de una specie praedicatur, sed de pluribus et differentibus specie. a differentia uero et ab his quae communiter sunt accidentibus differt  genus, quoniam etsi de pluribus et differentibus spe- cie praedicantur differentiae et communiter acciden- tia, sed non in eo quod quid sit praedicantur, sed in eo quod quale quid sit. interrogantibus enim nobis illud de quo praedicantur haec, non in eo quod quid  sit dicimus praedicari, sed magis in eo quod quale sit. interroganti enim qualis est homo, dicimus ratio- nalis, et in eo quod qualis est coruus, dicimus quo- niam niger. est autem rationale quidem differentia, nigrum uero accidens. quando autem quid est homo  interrogamur, animal respondemus; erat autem homi- nis genus animal.    Nunc genus a ceteris omnibus quae quolibet modo praedi-  3 specie  s. l .  Γ ,  om. optimi codd. Porph. p. 3,5, delend. uid. Bussio  5  locum  quoniam—animal  (16) post  genus  p. 193, 18 add. LS  etiamsi  LS sΠ*ΙΓ  specie differentibus  ΛΣ ;  Porph. p. 3, 6   διαφερόντων τψ ειόει  6 differentia  Lm2S  7 sed non]  Δ  ( ad  sed  s. l . id est tamen  m1? )  Π  ( ad  sed  s. l . uel tamen  m1? )  A Busse  tamen non  LS ΤΣΦ  non tamen  Ψ   edd.; Porph. p. 3, 8   άλλ’ οόκ ,  cf. supra p. 188, 13, infra 190, 12  7 sit  om. L  sed in eo quod quale quid sit]  codd. cum Porph. p. 3, 8 codicib. Lm2Mm2   άλλ’ έν τψ όποιον τ£ έστιν ,  delend. uid. Bussio  8 quid  om. S Φ  interrogantibus—sit  (11) om .  Φ  ad interrogantibus  s. l . uel interrogati  Δ  nobis]  LS A m2 Ii   (del. m2) Busse  nos  A m1 (enim  post  nos,)  Ψ ,  om .  ΓΔ2  ( decst   Φ );  Porph. p. 3, 8   έρωτησάντων γάρ ήμών  uel  τινών   codd . 9  post  illud  s. l . quomodo  (m1?)  uel de quo  (m2)   Δ  haec  s. l. Lm2  10  post  quale  add . quid  Π (del. m2)   Ψ m Busse, om .  LS VM pbr, om. etiam p. 194, 7 (cf. p. 195, 4. 196, 8. 15) , aliquid  s. l .  Λ  ( deest   Φ );  Porph. p. 3, 10   έν τψ ποιόν τί έατιν  11 interroganti]  ΑΣ a.r . Ψ  interrogantibus  S interrogati  cett.; Porph. p, 3, 10   έν γάρ τψ έρωταν  12. dicimus]  Π m2 ΣΨ ,  om .  Φ , dicitur  cett.; Porph. p. 3, 11   οομέν  14 autem  om. N  quid est] quidem  FN  qui  Gm1, s. l . est  m2  quod est  L 15 interrogamus  P A ,  m1 in   EGR Z  interrogemus  S  erat]  RS, m1 in Ρ ΔΛ , est  1  erit  cett.; Porph. p. 3, 13   vjv  genus ho- minis  Σ   cantur separare contendit hoc modo. quoniam enim genus de pluribus praedicatur, statim differt ab his quidem quae de uno tantum praedicantur quaeque unum quodlibet habent indiui- duum ac singulare sublectum; sed haec differentia generis ab his quae de uno praedicantur, communis ei est cum ceteris,  id est specie, differentia, proprio atque accidenti idcirco, quo- niam ipsa quoque de pluribus praedicantur. horum igitur sin- gulorum differentias a genere colligit, ut solum intellegendum genus quale sit sub animi deducat aspectum, dicens : ab his autem quae de pluribus praedicantur, differt genus,  ab speciebus quidem primum, quoniam species etsi de pluribus praedicantur, non tamen de differentibus specie, sed numero. species enim sub se plurimas species habere non poterit, alioquin genus, non species appellaretur.  p. 64  si enim genus est quod de pluribus specie | differentibus in eo  quod quid sit praedicatur, cum species de pluribus dicatur et in eo quod quid sit, huic si adiciatur ut de specie differenti- bus praedicetur, speciei forma transit in generis; id quoque exemplo intellegi fas est. homo enim praedicatur de Socrate, Platone et ceteris quae a se non specie disiuncta  sunt, sicut homo atque equus, sed numero : quod quidem habet dubitationem quid sit hoc quod dicitur numero differre. numero enim differre aliquid uidebitur quotiens numerus a  2 quidem  om. CHN  qui  G, ex  quae  Lm2  3  post praedicantur  add . ut socrates et hic et hoc  H  quae  CN  5 uno] uno solo  LS  est ei  L  est  om. CEHN  6  post  specie  add . et  FHP, s. l. Lm2  accidente  Lm2Pm1N  9 aspectum deducat  E  ab]  CL (s. l.) NSm2, om. cett . 10 autem] enim  P post  pluribus  add . id est ( add . specie,  sed   del. E ) ab his quae ( haec s. l. E ) de pluribus  Em2GPRS  11 a  R  primum  om. S, s. l. Lm2; deest p. 188, 12  12 praedicatur  S  non tamen] sed non  S  de  om. FHNP  15 plurimis  Em2GPRS  16 plurimis EGR  dicatur] praedicetur  C  praedicatur  edd . 19 fas est] placet  HNPm1 post  enim  s. l . cum sit species  Em2Pm2 (ex p. 188,14)  quod est species  Lm2  20 et ceteris  del. E  qui  Ep. c . disiuncta ( ad quod s. l . differunt)—equus  del. E  21  post  equus  add . uel bos  LP  23 differre  (in mg. H) post  aliquid  FHLN  aliquis  GS  quoties (-cies)  EPRS   numero differt, ut grex boum qui fortasse continet triginta boues, differt numero ab alio boum grege, si centum in se contineat boues; in eo enim quod grex est, non differunt, in eo quod boues, ne eo quidem : numero igitur differunt,  quod illi plures, illi uero sunt pauciores. quomodo igitur So- crates et Plato specie non differunt, sed numero, cum et So- crates unus sit et Plato unus, unitas uero numero ab unitate non differat? sed ita intellegendum quod dictum est numero differentibus, id est in numerando differentibus, hoc est  dum numerantur differentibus. cum enim dicimus ‘hic Socrates est, hic Plato’, duas fecimus unitates, ac si digito tangamus dicentes ‘hic unus est’ de Socrate, rursus de Platone ‘hic unus est’, non eadem unitas in Socrate numerata est quae in Pla- tone. alioquin posset fieri ut secundo tacto Socrate Plato  etiam monstraretur. quod non fit. nisi enim tetigeris Socratem uel mente uel digito itemque tetigeris Platonem, non facies duos, dum numerantur. ergo differunt quae sunt numero dif- ferentia. cum igitur species de numero differentibus, non de specie praedicetur, genus de pluribus et differentibus specie  dicitur, ut de boue, de equo et de ceteris quae a se specie inuicem differunt, non numero solo. tribus enim modis unum quodque uel differre ab aliquo dicitur uel alicui idem esse,  3 continet  EGLRS  differt  C, add . neque  CP, s. l. Hm2, s. l . nec  Lm2  4 ne—differunt]  H  ( post  quidem  del . haec  m2 )  N  igitur  om. EG  nec in eo  (recte?)  quidem differunt. Igitur numero differunt  L non nisi quidem numero. Igitur differunt numero  F  non nisi (eo  add. S, sed del .) quidem numero differunt  RS  Numero igitur (Igitur numero  C ) differunt,  cet .  om. CP  5 quomodo] quo  R  igitur] uero  C  6 specie—Plato  om. F  7  pr . unum  PS  8 differt  CEm2NPR post  intellegendum  add . est  CL  10 dum] cum  F  12  ante  rursus  s. l . et  S  14 possit  FLRS  posset fieri  in mg. Cm2 ut] in  Cm2Em2G  tactu socrates  Em1G  15  ante  etiam  add . et ( sed  et  in  etiam  del. uid. E )  EG demonstraretur  LP  19 speciebus  CFHN post  genus  s. l . quoque  Lm2  et  om. Em1  ( s. l . et de  m2 )  R  specie differentibus  EF  20  pr . de  om. CL  et  om. FH  de  s. l. Em2Lm2  ceterisque quae  F inuicem specie  FN   genere, specie, numero. quaecumque igitur genere eadem sunt, non necesse est eadem esse specie, ut si eadem sint genere, differant specie. si uero eadem sint specie, genere quoque eadem esse necesse est, ut cum homo atque equus idem sint genere — uterque enim animal nuncupatur —, differunt specie,  quoniam alia est hominis species, alia equi. Socrates uero atque Plato cum idem sint specie, idem quoque sunt genere; utrique enim et sub hominis et sub animalis praedicatione ponuntur. si quid uero uel genere uel specie idem sit, non necesse est idem esse numero, quod si idem sit numero, idem et specie  et genere esse necesse est; ut Socrates et Plato, cum et genere animalis et specie hominis idem sint, numero tamen reperiun- tur esse disiuncti. gladius uero atque ensis idem sunt numero, nihil enim omnino aliud est ensis quam gladius, sed nec specie diuersi sunt, utrumque enim gladius est, nec genere,  utrumque enim instrumentum est, quod est gladii genus. quoniam igitur homo, bos atque equus, de quibus animal praedicatur, specie differunt, numero ergo etiam eos differre necesse est. idcirco hoc plus habet genus ab specie, quod de specie differentibus praedicatur. nam si integram generis defi-  nitionem demus, dabimus hoc modo : genus est quod de plu-  1  ante  genere  add . id est  P, s. l. Hm2Lm2  genere—esse specie  om. EGRS numero] et numero  C  2 esse  post  specie  C, ante  eadem  FH  ut si—differant specie  om. FHNPm1 ,  in mg. add., sed del. m2  genere—eadem sint  om. C  3 sunt  F  4 est] esse ( idem ante necesse )  GSm1  sunt  EFGKHm1NRSm1  5 animalia  FHN  nuncupantur  FHNS  differentia  Hm1N  6 species  om. FG, ante  est  C  7 uterqne  EGLPRS, recte?  8 et  om. CP  sub hominis et  om. GLRS, s. l. Em2Pm2 post , sub  om. C  ponitur  Lm2Sm2  9 sit] sint  S  sunt  Fm1 (in mg . est m2) Nm1  10 quod si—necesse est  post  disiuncti  (13) transpos. et 13  enim  pro  uero  scr. brm 12 tamen] tantum  CLm1  15 diuersi *   (s er.) ,  om , sunt  C  est gladius  FN  16  ad  instrumentum  s. l . bellicum  Em2  17 bos  ante  homo  EG  atque bos  post  equus  FN  18 ergo  om. FHNP, del. Cm1? Lm1? Sm2  etiam  s. l. Lm1?  19  ante  id- circo  add . et  F, s. l. Sm2  ab specie  om. EGLS  a  R  de] a  R  ab  CEGLS  20  post  specie  s. l . quidem  L  definitionem ( uel  diff-) generis  FHNP  21 dabimus  om. EG  ( add . dicimus  post  modo)  RS, s. l. Lm2, post  modo  C   ribus specie et numero differentibus in eo quod quid sit prae- dicatur, at uero speciei sic : species est quod de pluribus numero differentibus in eo quod quid sit praedicatur. A proprio uero differt genus, quoniam proprium quidem  de una sola specie, cuius est proprium, praedicatur et de his quae sub una specie sunt indiuiduis. proprium semper uni speciei adesse potest neque eam relinquit nec transit ad aliam, atque idcirco proprium nuncupatum est, ut risibile hominis; itaque et de ea specie cuius est proprium  praedicatur et de his indiuiduis quae sub illa sunt specie, ut risibile de homine dicitur et de Socrate et Platone et ceteris quae sub hominis nomine continentur. genus uero non de una tantum specie, ut dictum est, sed de pluribus. differt igitur genus a proprio eo quod de pluribus speciebus praedi-  catur, cum proprium de una tantum de qua dicitur appelletur et de his quae sub illa sunt indiuiduis. A differentia uero et ab his quae communiter sunt accidentibus differt genus. differentiae atque accidentis discrepantiam a genere una separatione concludit. omnino enim quia haec in  eo quod quid sit minime praedicantur, eo ipso segregantur a genere; nam in ceteris quidem propinqua sunt generi, nam et  1 specie—differentibus] specie non (non  Lm2 s. l. et R  et  cum cett. P ) numero solo (solo  s. l. Lm2, om. P ) differentibus  LPR  2 plurimis  S  3 in—sit  om. HN  4 proprium] prius  S  proprium—praedicatur] pro- prium praedicatur et de una sola specie  C  quidem—est proprium  om .  G, s. l. Em2  quidem  om. etiam S  6  post  proprium  add . uero  N  enim  brm  7 uni  om. GS, post speciei  E (s. l. m2) HR  9  post  hominis  add . est  edd . 11 et] ut  RS  de  om. FN, s. l. Pm2  Platone] de platone  G  et ceteris] ceterisque  FHNP  12 qui  Em2  13 ut  s. l. Hm2Pm2  de  om. N  plurimis  CEm1GNR, add . et differentibus specie  S, in mg. Pm2  ( om . specie) 14 praedicetur  Lm2P  15  post  tantum  s. l . specie  Lm2  appellatur  FHm1NR  17 sunt accidentibus] accidunt  HN  18 genus]  cf. ad p. 189, 5; post locum p. 189, 5—16   uerba  Quare—praedicantur  p. 194, 20 s. add. L  discrepantia  FL  19 separatione  del. et s. l . diffinitione  Em2, post  separatione  add . uel definitione  Hm1, del. m2  20 sint  Em2HN  21 in]  CL (s. l. m2) N, om. cett .   de pluribus praedicantur et de specie differentibus, sed non  p. 65  in eo quod quid sit. si quis enim | interroget : qualis est homo? respondetur rationalis, quod est differentia; si quis : qualis est coruus? dicitur niger, quod est accidens. si autem interroges : quid est homo? animal respondebitur, quod est genus. quod  uero ait : haec non in eo quod quid sit dicimus praedi- cari, sed magis in eo quod quale sit, hoc magis quaesti- oni occurrit huiusmodi. Aristoteles enim differentias in sub- stantia putat oportere praedicari. quod autem in substantia praedicatur, hoc rem de qua praedicatur, non quale sit, sed  quid sit ostendit. unde non uidetur differentia in eo quod quale sit praedicari, sed potius in eo quod quid sit. sed sol- uitur hoc modo. differentia enim ita substantiam demonstrat, ut circa substantiam qualitatem determinet, id est substanti- alem proferat qualitatem. quod ergo dictum est magis, tale  est tamquam si diceret : uidetur quidem substantiam significare atque idcirco in eo quod quid sit praedicari, sed magis illud est uerius, quia tametsi substantiam monstret, tamen in eo quod quale sit praedicatur.   Quare de pluribus praedicari diuidit genus ab his  quae de uno solo eorum quae sunt indiuidua praedi- cantur, differentibus uero specie separat ab his quae  20—p. 195, 5| Porph. p. 3, 14—19 (Boeth. p. 28, 7—13).   1 plurimis  FH  3 respondebitur  R rationabilis  N  quis  om. R, post s. l . scil.  (om. brm)  interroget  Hm2brm post , est  om. HN  4 dicetur  FHN  interrogetis  N  9 autem] uero  FHN  10 qualis  Cm2FHP  16 tamquam] ac  F  20  uerba  Quare—praedicantur  (21) et p. 193, 18 et hic  ( hic om . praedicatur)  habet L, eadem iam ante lemma add. S  predicari  ex  preditur  Pm2  genus diuidit  hic L  hiis  F  21 sola  F  eorum—accidentibus ( p.195, 3 )]  Ω ,  in sup. mg . non sunt indiuidua  (21) — accidentibus  add. Lm2? dicuntur ut indiuidua quae de una solummodo substantia dicuntur  R, om. cett. codd . eorum quae sunt indiuidua  om. p. 193, 18 L  eorum  om. L (hic)   A  22  ante  differentibus  add . de  ΓΛΦ ; differentibus—quibus praedicantur  (195, 5) post  colligamus  p. 196,1 inseruit S, itaque uerba quae  (195, 3) —quibus praedicantur  (195, 5) et illic et hic  habet separatur  Φ ,  in mg . genus  add .  Γ   sicut species praedicantur uel sicut propria; in eo autem quod quid sit praedicari diuidit a differentiis et communiter accidentibus, quae non in eo quod quid sit, sed in eo quod quale sit uel quodammodo se  habens praedicantur de quibus praedicantur.    Tria esse diximus quae significationem hanc tertiam generis informarent, id est de pluribus praedicari, de specie differenti- bus et in eo quod quid sit. quae singulae partes genus a ceteris quae quomodolibet praedicantur distribuunt ac secer-  nunt, quod ipse breuiter colligens dicit; id enim quod de pluribus praedicatur, genus ab his diuidit quae de uno tan- tum praedicantur indiuiduo. indiuiduum autem pluribus dici- tur modis. dicitur indiuiduum quod omnino secari non potest, ut unitas uel mens; dicitur indiuiduum quod ob soliditatem  diuidi nequit, ut adamans; dicitur indiuiduum cuius praedicatio in reliqua similia non conuenit, ut Socrates : nam cum illi sint ceteri homines similes, non conuenit proprietas et praedi- catio Socratis in ceteris. ergo ab his quae de uno tantum praedicantur, genus differt eo quod de pluribus praedicatur.  restant igitur quattuor, species et proprium, differentia et acci-  6 diximus] p. 181, 15.   2 diuiditur  Φ ,  s. l . genus  add. Lm2  differentibus  S  3  ante  quae  add . et  CEGP  quae  om. R  non  om. S (hic)  quod] quia  R  4  post . sit]  Σ  est  cett; cf. p. 196, 8  quodammodo  in ras. Em2  quod ad modum  CG  quemadmodum  LP  quod a modo  R  quomodo  Ψ   edd. Busse ;  Porph. p. 3, 19   πώς ;  cf. supra p. 128, 10  5 praedicantur  om .  ΓΦ   ante  de quibus  add . de his  S  ( ad p. 194, 22 ) ab his  Σ  his  A  hiis  Φ  de quibus praedicantur]  S (ad p. 194, 22)   ΓΛ  (de  s. l .)  2Φ ,  om. cett . 7 informant  FHm1N post,  de]  Hm2LPm2, om, CEGNRS , sed  FHm1Pm1; cf. p. 181, 16  8 et  om. R  9 quolibet modo  CL  (modo  s. l. m2 ) N quo *** libet (libe  er. uid .)  F  praedicatur  GPm1  10 col- ligens breuiter  EGS  12 dicitur pluribus  C  13 non potest secari  CFN  14 indiuiduum—dicitur  (15) om. G  15 adamas  HLm1P  (-as  ras. ex  -ans), amans  R  18 ceteros  NP  20 igitur] ergo  FP dif- ferentiae  EHa.c.NP, ante add . et  H, s. l. Lm2   dens, quorum a genere differentias colligamus. singulis igitur differentiis ab his rebus segregabitur genus. ea quidem dif- ferentia qua de specie differentibus genus dicitur, separat ab his quae sicut species praedicantur uel sicut propria. species enim omnino de nulla specie dicitur, proprium uero de una  tantum specie praedicatur atque ideo non de specie differenti- bus. item genus a differentia et accidenti differt, quod in eo quod quid sit praedicatur; illa enim in eo quod quale sit appellantur, ut dictum est. itaque genus quidem ab his quae de uno praedicantur differt in quantitate praedicationis, ab  speciebus uero et proprio in subiectorum natura, quoniam genus de specie differentibus dicitur, proprium uero et species minime. item genus in qualitate praedicationis a differentia accidentique diuiditur. qualitas enim praedicationis quaedam est uel in eo quod quid sit uel in eo quod quale sit praedicari.   Nihil igitur neque superfluum neque minus con- tinet generis dicta descriptio.    Omnis descriptio uel definitio debet ei quod definitur aequari. si enim definitio definito non sit aequalis et si quidem maior sit, etiam quaedam alia continebit et non necesse est ut semper  definiti substantiam monstret; si minor, ad omnem definitionem  16 s.] Porph. p. 3, 19 s. (Boeth. p. 28, 13 s.)   1 quarum  Cm1Lm1 colligamus  ante  differentias  C  colligemus (e  ex  i)  H; cf. ad p. 194, 22  2 ea quidem—dicitur  om. S  3  post  differentibus  add . praedicari  edd . separat ab his]  FLm1R  dum separat ab his  S differt ab his  CN  differt  (s. l. Em2)  ab (a  L ) specie et proprio  HP ,  s. l. Lm2 (seperat—propria  [4] del. Lm2, om. P), s. l . et ab his  add .  Hm2, om. EG  separatur ab his  edd.; cf. p. 194, 20  4 praedicantur  post  propria  H  5 nulla] nulla alia  LS  8 enim] uero  FHN  10 a  LNR  13 ab  FHP  (b  er .) 15 praedicare  GR  16 Nihil  ex  Nil  Pm1? pr . neque  om .  ΛΛΠΣΨ   Porph. p. 3, 19 Busse, del .  Γ m2  17 genus  F  dicta  om. E, s. l .  Σ ,  post  descriptio  G locus Porph. p. 3, 19 s. plenior est (cf .  τής έννοιας ,  quod deest ap. Boeth.)  18 Omnis descriptio  in mg. Em2 (in contextu ras.), om. GR, s. l. Sm2 post  Omnis  add . enim  L, s. l. Sm2, post  debet  C (er.) EGR  19 definito  om. FPS  et  om. CFN  21 definitio ( uel  diff)  Ca.r.N post  si  s. l . sit  L  definitio  C  definiti ( uel  diff-)  Em2HN   substantiae non peruenit. omnia enim quae maiora sunt, de minoribus praedicantur, ut animal de homine, minora uero de maioribus minime; nemo enim uere dicere potest ‘omne animal homo est’. atque idcirco si sibi praedicatio conuertenda est,  aequalis oportebit sit. id autem fieri potest, si neque super- fluum quicquam habet neque di|minutum, ut in ea ipsa generis  p. 66  descriptione. dictum est enim esse genus quod de pluribus specie differentibus in eo quod quid sit praedicetur, quae descriptio cum genere conuerti potest, ut dicamus quicquid  de pluribus specie differentibus in eo quod quid sit praedicetur, id esse genus. quodsi conuerti potest, ut ait, nec plus neque minus continet generis facta descriptio.    1 substantiam  CEm2  4  pr . est  om. C  5 oporteat  EGHL  ( a del .)  PRS ante  sit  add . ut  E (in ras. m2) FLNPR, s. l. Cm2Hm2  6 habeat  R  diminutiuum  Em1  7 enim est  G  esse  s. l. Em2L, post  genus  Pm2  8 praedicatur  Em2FNa.c . 9  post  ut  s. l . si  Lm2  quicquid] quod  EGLm1RS  10 praedicatur  Em2 11 conuerti potest] * (ñ  er .) con- uertitur  C  conuertitur. est  F  conuerti (non  del .) potest  S neque— neque  FLm2P  nec—nec  HLm1  neque—nec  N  12 continet  s. l. Nm2   Sm2, om. F, post  generis  CEGL  facta] dicta  p. 196, 17  ANICII MANLII (MALLII  G ) SEVERINI BOETII V. C. ET I LL  EXCONS. ORD. PATRICII IN ISAGOGAS (YSAGOG.  E ) PORPHYRII ID EST INTRODVCTIONEM (introductiones  C ) A SE TRANSLATAS EDITI- ONIS SECVNDAE COMMENTARIVS SECVNDVS EXPLIC. (commen- tum in secdo lib. explic.  C, post  PORPHYRII  add . SCDE EXPOSITIO- NIS LIB. II. EXPLICIT  E ) INCIPIT LIBER TERTIVS  C  ( pleraque litt. minusc. scr .)  GE  ( uariis cum scripturis compendiisque ); sede trans- lationis comtarius expł incip lib IΙI.  L ; EXPL COMMENTARIVS. II. INCIPIT LIB TERTIVS. S; EXPLIC COMENTORV LIBER SCDS. INCIPIT TERTIVS N·, EXPLICIT LIBER SECDS. INCIPIT LIBER TERTIVS (TERCIVS LIBER  P )  FP ; INCIPIT LIBER TERTIVS  R ;  subscriptio deest in H     Superior de genere disputatio uideatur forsitan omnem etiam speciei consumpsisse tractatum. nam cum genus ad aliquid praedicetur, id est ad speciem, cognosci natura generis non potest, si speciei quae sit intellegentia nesciatur. sed  quoniam diuersa est in suis naturis eorum consideratio atque discretio, diuersa in permixtis, idcirco sicut singula in prooemio proposuit, ita diuidere cuncta persequitur. ac primum post generis disputationem de specie tractat. de qua quidem dubitari potest. si enim haec fuit ratio praeponendi generis  reliquis omnibus, quod naturae suae magnitudine cetera con- tineret, non aequum erat speciem differentiae in ordine trac- tatus anteponere, quod differentia speciem contineret, cura praesertim differentiae ipsas species informent. prius autem est quod informat quam id quod eius informatione perficitur.  posterior igitur est species a differentia, prius igitur de dif- ferentia tractandum fuit. etenim prooemio etiam consentiret, in quo eum ordinem collocauit quem naturalis ordo suggessit, dicens utile esse nosse quid genus sit et quid differentia. huic respondendum est quaestioni, quoniam omnia quaecumque  19 dicens] p. 147, 5. 7. 148, 17.   2 uidetur  CGHL, ras. ex  uideatur  PS  3 sumpsisse  CHN  5 ne- scitur  FHm1  7 mixtis  Fa.c.Lm1  8 posuit  H  diuidere  ante  ita  G, post  cuncta  CLP , diuise  HNa.c . prosequitur  Gm1PR  10 pro- ponendi  CFNR  genus  R  12 nonne  Em2FHPSm2 ante aequum  add . et  HP, s. l. Em2  speciei differentiam  EFHLm2P; cf. p. 239, 9  13 obtineret  CLm1 14 ipsae  CNP  est  s. l. Gm2Lm2  15 informet  E  16 post  Em1GLm1RS  igitur] ergo  C  a  om. CRS, er. L  17 ut enim  N  ut  CH  etiam  om. CF  18  post  quo  add . prius  CN  eam ordine  CFN quam  CFN  19  post  dicens  add . ubi ait  E  20  ante  huic  add . sed  E   ad aliquid praedicantur, substantiam semper ex oppositis sumunt. ut igitur non potest esse pater, nisi sit filius, nec filius, nisi praecedat pater, alteriusque nomen pendet ex altero, ita etiam in genere ac specie uidere licet. species quippe nisi  generis non est rursusque genus esse non potest, nisi referatur ad speciem; nec uero substantiae quaedam aut res absolutae esse putandae sunt genus ac species, ut superius quoque dictum est, sed quicquid illud est quod in naturae proprietate consistat, id tunc fit genus ac species, cum uel ad inferiora  uel ad superiora referatur. quorum ergo relatio alterutrum constituit, eorum continens factus est iure tractatus :   De specie igitur inchoans ait hoc modo.    Species autem dicitur quidem et de unius cuiusque forma, secundum quam dictum est : ‘primum quidem  species digna imperio’. dicitur autem species et ea quae est sub adsignato genere, secundum quam sole- mus dicere hominem quidem speciem animalis, cum sit genus animal, album autem coloris speciem, trian- gulum uero figurae speciem.    Sicut generis supra significationes distinxit aequiuocas, ita idem in specie facit dicens non esse speciei simplicem signi- ficationem. et ponit quidem duas, longe autem plures esse  7 superius] cf. p. 158, 3 ss. 180, 23 ss. 13—19] Porph. p. 3, 21— 4,4 (Boeth. p. 28, 15—21). 20 supra] p. 171, 9 ss.   1 positis  Gm1Sm1  3 nomen] non  Ea.c.Ga.c . 4 uideri  EP  8 in  om. R 9 consistit  CLNPSm2  constat  Em1  tum  R  ac] et  H  10 referuntur  FLm1  referantur  NS  refertur  Pm2R  11 continuus  CN  12  ante  De  add . sed  CH ,  m1 in LRS , si  E  de  ex  sed  Sm2  sed  del. Lm2Rm2  13  ante  Species  inscriptio  DE SPECIE (EXPLICIT DE GENERE. INCIPIT DE SPECIE  Ψ )  additur in   11  et  om. L  14 primum]  G edd . primi  L  primis  Sm1  priami  cett. Busse; Porph. p. 4, 1   πρώτον piv είδος άξιον τυραννίδος   (Eurip. Aeol. frg. 15, 2 N.) ;  cf . quemlibet illum  infra p. 200, 22  15  post  digna  add . est  HNPR AAΦ ,  s. l. LSm2, edd. Busse; om. Porph. post et ras., s. l . etiam  Γ  17 qui- dem  om. N, post add . esse  FR, s. l. L , esse  post  speciem  s. l. Pm2  cum—animal  om. S  18 autem  om. Ε   ΑΣ  20 ita  om. HN   manifestum est, quas idcirco praeteriit, ne lectoris animum prolixitate confunderet. dicit autem primum quidem speciem uocari unius cuiusque formam, quae ex accidentium congre-  p. 67  gatione perficitur. cautissime autem dictum est unius|cuius- que, hoc enim secundum accidens dicitur. quae enim uni  cuique indiuiduo forma est, ea non ex substantiali quadam forma species, sed ex accidentibus uenit. alia est enim sub- stantialis formae species quae humanitas nuncupatur, eaque non est quasi supposita animali, sed tamquam ipsa qualitas substantiam monstrans; haec enim et ab hac diuersa est quae  unius cuiusque corpori accidenter insita est, et ab ea quae genus deducit in partes. postremumque plura sunt quae cum eadem sint, diuersis tamen modis ad aliud atque aliud relata intelleguntur, ut hanc ipsam humanitatem in eo quod ipsa est si perspexeris, species est eaque substantialem determinat  qualitatem; si sub animali eam intellegendo locaueris, deducit animalis in sese participationem separaturque a ceteris ani- malibus ac fit generis species. quodsi unius cuiusque proprie- tatem consideres, id est quam uirilis uultus, quam firmus incessus ceteraque quibus indiuidua conformantur et quodam-  modo depinguntur, haec est accidens species secundum quam dicimus quemlibet illum imperio esse aptum propter formae  1 praeterit  CEGLPR  2 primo  FHNP  3 formam]  CN figuram  cett  5 haec  GL  ( s. l. add . species  m2 )  RSm1  uni  om. EGRS  6 ea  om. HN  7  ante species (specie  H )  add . ac  CHN  ex  om. CH  8 forma,  s. l . species  (m. 2) E pr . quae] sed quae  E  eaque] ea quae  EFGH   Lm1Sm2  9  post  sed  add . est  brm, post  qualitas  S  11 unius cuiusque corpori]  CNPm2R  in  (s. l. Lm2)  unius cuiusque (in  add. Lm1, del. m2 ) corpore ( ex  -ri  Lm2 )  FHLPm1  unius cuiusque (in  s. l. Sm2 ) corpore  EGS  accidentaliter  CLm2P  sita  FHLm1  si ita  Na.c . ea] hac  F  12 postremoque  CNPm2 (recte?)  postremo quoque  Rm1  postremum quae Rm2S  postremum  H  13 sunt  FH post  atque  add . ad  CHR  14 in- telligantur  LRm1  15 si  post humanitatem  FHN  respexeris  N  eaque]  Cm1N  ea quae  cett . determinet  R  16 eam  om. GPRS (recte?) ,  s. l. Em2  17 se  Lm1N  18 species generis  C  20 informantur  LPm2  21 accidentalis  Lm2Pm2  22 quamlibet  FLm1  quodlibet  Sm2  illum  om. CHLNP  illud  RS   eximiam dignitatem. huic aliam adiungit speciei significationem, id est eam quam supponimus generi. nos uero triplicem speciei significationem esse subicimus, unam quidem substantiae quali- tatem, aliam cuiuslibet indiuidui propriam formam, tertiam  de qua nunc loquitur, quae sub genere collocatur. creden- dum uero est propter obscuritatem eius quam nos adie- cimus, quia nimirum altiorem atque eruditiorem quaereret intellectum, ea tacita praetermissaque ceteras edidisse. cuius quidem speciei haec exempla subiecit, ut hominem quidem  animalis speciem, album autem coloris, triangulum uero figurae; haec enim omnia species nuncupantur eorum quae sunt genera, animal quidem hominis, albi autem color, trianguli figura.    Quodsi etiam genus adsignantes speciei meminimus dicentes quod de pluribus et differentibus specie in  eo quod quid sit praedicatur, et speciem dicimus id quod sub genere est.    Dudum cum generis descriptionem adsignaret, in generis definitione speciei nomen iniecit dicens id esse genus quod de pluribus specie differentibus in eo quod quid ait prae-  dicaretur, ut scilicet per speciei nomen definiret genus. nunc uero cum speciem definire contendat, generis utitur nuncupatione dicens speciem esse quae sub genere ponatur.  13—16] Porph. p. 4, 4—7 (Boeth. p. 28, 21—23). 18 (dicens)—20] p. 180, 1 s.   3 subiecimus  CLN  substantialem  FLm2Bm2  4 indiuiduam  G  5 collocatur (-catur  in ras. m2) E  colligatur  GLm2  (colligitur  m1 ) Rm1s  6 est] est quod  EPRS  7 quia] quae  CN  quaerit  C  quaeret  Hm1N  8 praetermissa quae  Em1Sa.c . praetermissa  Rm1  dedisse  Gm1  edidisset  R, ante  edid.  add . ipsum  r  9 ut] et  EGLm1Ra.c.S  11 eorum quae]  CFHN  earum quae  EGR  earumque  LPS  12 trianguli figura]  Lm1  figura trianguli  Pm2  forma trianguli  HNPm1  trianguli forma  cett.; fort , trianguli >uero>;  cf. 10. 199, 19  13 Quodsi] Quid sit  FPm1  (Quod sit  m2 ) Quod  CL  Sic  Λ2  signantes  F  14 et  om. F, s. l. R  15 sit  om. ERS  praedicatur—quid sit  (19) om. N  id  s. l. Hm2  16 quod sub assignato genere ponitur (est  p )  edd., Porph. p. 4, 6   το όπό τό άποοοθ-έν γένος  19 et differentibus  p. 180, 1  20 genus definiret  C  21 nunc] nam  Cm1   cui quidem dicto illa quaestio iure uidetur opponi. omnis enim definitio rem declarare debet quam definitio concludit, eamque apertiorem reddere quam suo nomine monstrabatur. ex notioribus igitur fieri oportet definitionem quam res illa sit quae definitur. cum igitur per speciei nomen describeret  uel definiret genus, abusus est uocabulo speciei uelut notiore quam generis atque ita ex notioribus descripsit genus. nunc uero cum speciem uellet termino descriptionis includere, generis utitur nomine rerumque conuertit notionem, ut in generis quidem sit notius speciei uocabulum, in speciei autem descrip-  tione sit notius generis, quod fieri nequit. si enim generis uocabulum notius est quam speciei, in definitione generis speciei nomine uti non debuit. quodsi speciei nomen facilius intellegitur quam generis, in definitione speciei nomen generis non fuit apponendum. cui quaestioni occurrit dicens :   Nosse autem oportet <quod>, quoniam et genus ali- cuius est genus et species alicuius est species, idcirco necesse est et in utrorumque rationibus ntrisque uti.    Omnia quaecumque ad aliquid praedicantur, ex his de quibus praedicantur, substantiam sortiuntur; quodsi definitio unius  cuiusque substantiae proprietatem debet ostendere, iure ex alterutro fit descriptio in his quae inuicem referuntur. ergo quoniam genus speciei genus est et substantiam suam et  16—18] Porph. p. 4, 7—9 (Boeth. p. 28, 23—29, 1).   2  post , definitione ( uel  diff-)  CHNPm2  claudit  C  nec concludit  F  3 monstrabat  E  (-bat  ex  -batur?  m2 )  R  5 sit] est  FHN  6 notiorem  FR  8 uelit  FHNPm1  9 conuertit] uidetur conuertere  CHLm2P  genere  R  10  post  quidem  add . descriptione  CFHLN, in mg. Em2, fort. recte  autem] quidem  C  uero  FHNP  11 sit  om. G pr . genus  FH  16 autem  om. Porph . quod  add. edd.; Porph. p. 4, 7   είϊέναι χρή   ότι, έπεί χτλ . 17  pr . est  om. FN, s. l .  Λ ,  ante  alicuius  Σ  idcirco in utrisque necesse est utrorumque rationibus uti  Σ  18 et] hoc  N om .  FPSA S  neutrorumque  Em1  utrasque  Em1  utriusque  Λ  20  post  definitio  add . uel descriptio  CFHNP, s. l. Em2Lm2  22  ante  inuicem  add . ad  CL, s. l. Pm2 , ad se  F, s. l. Rm2  23  ante  substantiam  add . in  FHm1, del. m2 post , et  om. F, s. l. Hm2Sm2   uocabulum genus ab specie sumit, in definitione generis speciei nomen est aduocandum, quoniam uero species id quod est sumit ex genere, nomen generis in speciei descriptione non fuit relinquendum. quoniam uero diuersae sunt specierum  qualitates — aliae enim sunt species, quae et genera esse possunt, aliae, quae in sola speciei | permanent proprietate neque  p. 68  in naturam generis transeunt —, idcirco multiplicem speciei definitionem dedit dicens :    Adsignant ergo et sic speciem : species est quod  ponitur sub genere et de quo genus in eo quod quid sit praedicatur. amplius autem sic quoque : species est quod de pluribus et differentibus numero in eo quod quid sit praedicatur. sed haec quidem adsignatio specialissimae est et quae solum species est, aliae  uero erunt etiam non specialissimarum.    Tribus speciem definitionibus informauit, quarum quidem duae omni speciei conueniunt omnesque quae quolibet modo species appellantur, sua conclusione determinant, tertia uero non ita. cum enim duae sint specierum formae, una quidem,  cum species alicuius aliquando etiam alterius genus esse potest, altera, cum tantum species est neque in formam generis  9—15] Porph. p. 4, 9—14 (Boeth. p. 29, 2—7).   1 genus  om. H generis  FLS  ab  om. F a NR, s. l. Hm2  specie  s. l .  Hm2  species  F  definitionem ( uel  diff-)  FGHP  2  pr . est] fuit  Lm2  ( post  aduocandum)  Pm2  3 descriptione] definitione ( uel  diff-)  CFHLm2N  diffinicione uel descripcione  P  4 relinquendum] omittendum  FHN  uero  post  sunt  H  8 reddit  FN  9 ergo] uero  PLm2  autem  Σ  et er.  Λ  speciem sic  F  quae  CNR h m1  (quo  m2 )  ΛΣ 10 quo]  EGHLm2Pm1   >  qua  cett . 11 amplius—praedicatur  (13) om. L  12 et  om .  S  ac  EGRS 13  post  praedicatur  add . ut homo equs  (sic)  bos et asinus et cetera  C  14 specialissimae]  ΧΨρ (-me) specialissima  cett. codd. brm ;  Porph. p. 4, 12   aΰτη μέν ή άπόδοσις τού εΐδιχωχάτου άν εΐη  et  om .  FHR, s. l. Pm2, del. Sm2  sola  C  17 omnis  G  18 determinan- tur  Hm2  19  post  ita  s. l . est  Hm2  sint  om. Em1  sunt  CEm2GR   ante  specierum  add . species  Cm1, del. m2  20  post cum  s. l . sit  Lm2 ,  post  aliquando  EP   (del. m1?), post  species  s. l . scil. sit  N   transit, priores quidem duae, illa scilicet in qua dictum est id esse speciem quod sub genere ponitur, et rursus in qua dictum est id esse speciem de quo genus in eo quod quid sit praedicatur, omni speciei conueniunt. id enim tantum hae definitiones monstrant quod sub genere ponitur. nam et ea  quae dicit id esse speciem quod sub genere ponitur. eam uim significat speciei qua refertur ad genus, et ea quae dicit id esse speciem de quo genus in eo quod quid sit praedicatur, eam rursus significat speciei formam quam retinet ex generis praedicatione. idem est autem et poni sub genere et de eo  praedicari genus, sicut idem est supponi generi et ei genus praeponi. quodsi omnis species sub genere collocatur, mani- festum est omnem speciem hoc ambitu descriptionis includi. sed tertia definitio de ea tantum specie loquitur quae numquam genus est et quae solum species restat. haec autem species ea  est quae de differentibus specie minime praedicatur. nam si id habet genus plus ab specie, quod de differentibus specie praedicatur, si qua species praedicetur quidem de subiectis, sed non de specie differentibus, ea solum erit superioris generis species, subiectorum uero non erit genus. igitur praedicatio  ea quam species habet ad subiecta, si talis sit, ut de differen- tibus specie non praedicetur, distinguit eam ab his speciebus  2 ponitur—genere  (5) om. N  rursum  CR  3 quo]  Schepss  qua codd. et edd.; cf. p. 203, 10  4 praedicaretur  EGLRS  praedicetur  edd . 5 ponuntur  Cm2HN  6 speciem  om. Sm1  species  m2G post  eam  add . tantum  FHNP, s. l. Lm2  7 qua]  CNP  quae  cett . 8 quo]  p Schepss  qua  codd. brm; cf. 3  genus  s. l. Em2, ante add . species  G  praedicetur  FHLm2NP  praedicaretur  S  9 speciei  om. C  10 est  post  autem  E (s. l. m2) R  supponi EFGHLRS 11 generi] genere  CGm1  12 omnes  (sed  collocatur ) ELN  13  post  est  add . autem  CEGL (del. m2) S (del. m2)  15 est  om. EGS, ante  genus  ΗR , fit  L  per- stat  E ( pers  in ras.) HNa.c . 17 habet  ante  plus  FH, post N,  plus  post  habet  L  a  RS  18 si qua species  om. N praedicetur  om. N  praedicatur  Em1HSm2 post  subiectis  add . Species uero differentibus numero  N  19 de  om. N  21 de—non] non differentibus specie  N  22  ante  distinguit  add . sed hanc terciam,  sed del. E, post add . enim,  sed del. RS   quae genera esse possunt et monstrat eam solum speciem esse nec generis praedicationem tenere. illa igitur tertia de- scriptio speciei quae magis species ac specialissima dicitur, definitur hoc modo : species est quod de pluribus numero  differentibus in eo quod quid sit praedicatur, ut homo; praedicatur enim de Cicerone ac Demosthene et ceteris qui a se, ut dictum est, non specie, sed numero discrepant.  Ex tribus igitur definitionibus duae quidem et specialis- simis et non specialissimis aptae sunt, haec uero tertia solam  ultimam speciem claudit. ut autem id apertius liqueat, rem paulo altius orditur eamque congruis inlustrat exemplis :    Planum autem erit quod dicitur hoc modo. in uno quoque praedicamento sunt quaedam generalissima et rursus alia specialissima et inter generalissima et  specialissima sunt alia. est autem generalissimum quidem super quod nullum ultra aliud sit superueniens genus, specialissimum autem, post quod non erit alia inferior species, inter generalissimum autem et spe- cialissimum et genera et species sunt eadem, ad aliud  7 ut dictum est] p. 188, 13 ss. 12—p. 206, 18] Porph. p. 4, 14— 5,1 (Boeth. p. 29, 7—30, 2).   1 et  (s. l. m2)  monstrabat  S  monstratque  FHNP  solam  Sm2  3 speciei] solum species est  N  speciei—species ac] quae  (s. l. m2)  solum * species magisque  (in ras.)  species  H  4 hoc modo  in mg. Hm2   ante  species  add . Dicitur enim  FHP  et differentibus numero  p. 203, 12  6 Cicerone] socrate  N post  ac  add . de  R  8 duae—claudit]  C (om. pr . et)  E (in ras. m2) FH (solum)  LNP  duabus quidem et specialis- simas et non specialissimas species claudit  GR  una quidem et specialis- simam et non specialis ultimam speciem claudit  Sm1, del. et in mg. corr. m2  (apte sunt  post  duae quidem,) 10 id  om. LR  rem  om. EGS, s. l. Pm2, post  orditur  Lm2  12 in uno quoque—solum species  (p. 206, 17) ]  RS Q ,  om. cett . 14 rursum  Γ  et inter—alia  om. RS 15 sunt  om .  T m1, in mg.  scil. sunt ut corpus  m2 , est  ut uid .  Δ  16 super— ultra] ultra quod nullum  RS  ultra nullum  ΓΦ  17 specialissima  R  quod] quam  RS  18 autem  om .  Γ  19  ante  et genera  add . alia  p  alia sunt quae  brm; Porph. p. 4, 19   άλλα, α ν,α'ι  γένη   quidem et ad aliud sumpta. Sit autem in uno prae- dicamento manifestum quod dicitur. substantia est quidem et ipsa genus. sub hac autem est corpus, sub corpore uero animatum corpus, sub quo animal, sub animali uero rationale animal, sub quo homo, sub ho-  p. 69  mine uero Socrates et Plato et qui|sunt particulares homines. sed horum substantia quidem generalissi- mum est et quod genus sit solum, homo uero specia- lissimum et quod species solum sit, corpus uero species quidem est substantiae. genus uero corporis animati;  et animatum corpus species quidem est corporis, genus uero animalis. animal autem species quidem est cor- poris animati, genus uero animalis rationalis, sed rationale animal species quidem est animalis, genus autem hominis, homo uero species quidem est rationalis  animalis, non autem etiam genus particularium homi- num, sed solum species. et omne quod ante indiuidua proximum est, species erit solum, non etiam genus.    Praediximus ab Aristotele decem praedicamenta esse dis-  19 Praediximus] p. 151, 12.   1 quidem  post  eadem  R 5  ad  om .  Λ ,  s. l. R T  uno] uno quoque  R A  (quoque  er .)  Φ ,  ad uno  s. l . isto  A m2  2 est quidem]  R ΓΦ  est quiddam ( repet , est  S )  cett . 3 est  post  corpus  S, om .  Φ  5 uero]  RST iI   (s. l. m2)   Φ ,  om .  ΛΛΣΊ   Busse; Porph. p. 4. 23   δέ  6 uero]  codd. nostri, om. Busse; Porph. p. 4, 24   δέ   post , et  om. RS  7 eorum  RS  generalissimum]  codd. PQ (non L) Bussii edd . genera- lissima  codd. nostri; Porph. p. 4, 25   τό γινικώτατον  8 uero  om. R  9  ante  et  add . est  2   pr . specie  R  10 est  om .  2 ,  s. l .  Δ  11 et] sed et  brm, recte ut uid.; Porph. p. 4, 27   αλλά καί  est  om. R  12 animal autem] rursus animal  brm; Porph. p. 4, 28   κάλιν δέ to ζώον  13 uero] ΓΔ   (s. l. m2)   Π*!' ,  om. cett . animalis]  Δ   (s. l. m2)   ΣΊ ’ ( post  ratio- nalis).  om. cett.; Porph. p. 4, 29   γένος δέ τού λογικού ζώου  14 animal— est  om. R  15 autem] uero  RS  16 autem  del .  h m2 genus etiam  R  17 et  om. CEGP  indiuiduum  F  18 est  s. l. E  erit  CGR  solum species erit  LS  erit solum species  E  solum species est  CR  solum speciem non etiam genus esse liquet  G  19 Praedicimus  R, add.  etiam  L   posita, quae idcirco praedicamenta uocauerit, quoniam de ceteris omnibus praedicantur. quicquid uero de alio praedicatur, si non potuerit praedicatio conuerti, maior est res illa quae praedicatur ab ea de qua praedicatur. itaque haec praedicamenta  maxima rerum omnium, quoniam de omnibus praedicantur, ostensa sunt. in uno quoque igitur horum praedicamentorum quaedam generalissima sunt genera et est longa series spe- cierum atque a maximo decursus ad minima. et illa quidem quae de ceteris praedicantur ut genera neque ullis aliis sup-  ponuntur ut species, generalissima genera nuncupantur, idcirco quia his nullum aliud superponitur genus, infima uero quae de nullis speciebus dicuntur, specialissimae species appellantur, idcirco quoniam integrum cuiuslibet rei uocabulum illa sus- cipiunt quae pura inmixtaque in ea de qua quaeritur proprie-  tate sunt constituta. at quoniam species id quod species est ex eo habet nomen, quia supponitur generi, ipsa erit simplex species, si ita generi supponatur, ut nullis aliis differentiis praeponatur ut genus. species enim quae sic supponitur alii, ut alii praeponatur, non est simplex species, sed habet quan-  dam generis admixtionem, illa uero species quae ita supponitur generi, ut minime speciebus aliis praeponatur, illa solum spe- cies simplexque est species atque idcirco et maxime species et specialissima nuncupatur. inter genera igitur quae sunt generalissima et species quae specialissimae sunt, in medio  1 uocauit  Lp.c.P  dicuntur  N  3 poterit  CNSm1  res  om. E, sed   ras ., ratio  R  4  post , praedicatur] dicitur  HNP  5 maxime  Em1G a.c . 7 quaedam] quae  CFHN  genera  om. CN, ante  sunt  F  et  om .  CHN  8 maximis  CFHNPm2  11 quia] quoniam  HN  14 inper- mixtaque  Em2HPm2  intermixtaque  NPm1  de qua  s. l. Sm2  de quo  R  quae  E (ex alia uoce) N  15 at] ut  CFN  quod] quoniam  E  16 nomen  om. FN  quia] quoniam  F  17 aliis  om. C  18  ante  alii  add . generi  CL (del. m2), post s. l. P  19 simplex  om. GRS, s. l .  Em2Lm2  22 atque idcirco maxime (-ma  H ) species est (est  om. H )  in mg. Hm1?, s. l. Lm2 ante  species  add . est  P, post C, s. l. Lm2  24 specialissima  EGSm1  sunt  om. EG, s. l. Pm2, post  quae  L   sunt quaedam quae superioribus quidem collata species sunt, inferioribus uero genera. haec subalterna genera nuncupantur, quod ita sunt genera, ut alterum sub altero collocetur. quod igitur genus solum est, id dicitur generalissimum genus, quae uero ita sunt genera, ut esse species possint, uel ita species,  ut sint genera nonnumquam, subalterna genera uel species appellantur. quod uero ita est species, ut alii genus esse non possit, specialissima species dicitur.   His igitur cognitis sumamus praedicamenti unius exem- plum, ut ab eo in ceteris quoque praedicamentis atque in  ceteris speciebus in uno filo atque ordine quid eueniat possit agnosci. substantia igitur generalissimum genus est; haec enim de cunctis aliis praedicatur. ac primum huius species duae, corporeum, incorporeum; nam et quod corporeum est, substantia dicitur et item quod incorporeum est, substantia  praedicatur. sub corporeo uero animatum atque inanimatum corpus ponitur, sub animato corpore animal ponitur; nam si sensibile adicias animato corpori, animal facis, reliqua uero pars, id est species, continet animatum insensibile corpus. sub animali autem rationale atque inrationale, sub rationali homo  atque deus; nam si rationali mortale subieceris, hominem feceris, si inmortale, deum, deum uero corporeum; hunc enim mundum ueteres deum uocabant et Iouis eum appellatione  1 quidem  om. EG  collata]  FHm1NPm2  collatae  Cm2EGHm2  ( add . e,  sed exters .)  Lm2  collocata  Pm1 collocatae  Cm1Lm1RS (in ras.)  sunt species  CLR  2 haec] et  C  nominantur  FHNP  3 alterutrum  Ea.r.Pm1  alterutro  Pm2  5 ita  s. l. Em2Lm2, ante  ut  C  6 ut sint—est species  (7) s. l. Em2  9 igitur] ergo  E  11  ante  in  add . ut  Lm2Pm2  uno quoque  Em2H  (quoq.  del. m1 ?)  PRS quod  Ea.c .  GLm2Pm1R  14 duae  om. HN  sunt  add. C,s.l. Pm2, ante  duae  L post pr . corporeum  add . et  C, s. l. Pm2 , atque  FHN  15  ante post . substantia  add . et  ES (del) , ex  R  17 sub animato—ponitur  om. R post . poni- tur] collocatur  FHNP  18 adicies  RS  19 inanimatum  Cm1Lm2NPm2S  (in  s. l. minus cert .),  post add . et  s. l. Pm2  20  post  rationali  add . autem  L  22 feceris  om. GRS, s. l. Em2 , scil. fecisti ( ante  hominem)  s. l. Sm2  constituis  L post  uero  s. l . dico  Lm2, post  corporeum  Sm2  23 deum ueteres  LN   dignati sunt deumque solem ceteraque caelestia corpora, quae animata esse cum Plato, tum plurimus doctorum chorus arbitratus est. sub homine uero indiuidui singularesque homines ut Plato, Cato, Cicero et ceteri, quorum numerum pluralitas  infinita non recipit. cuius rei subiecta descriptio sub oculos ponat exemplum. |    substantia  p. 70  corporea | incorporea corpus animatum | inanimatum animatum corpus sensibile | insensibile animal rationale | inrationale rationale animal mortale | inmortale homo Plato | Cicero Cato    Superius posita descriptio omnem ordinem a generalissimo us- que ad indiuidua praedicationis ostendit. in qua quidem substantia generalissimum dicitur genus, quoniam praeposita est omnibus,  nulli uero ipsa supponitur, et solum genus propter eandem scilicet causam, homo autem species solum, quoniam Plato,  1 dignati sunt] designauerunt  Em2  deum quoque  HLm2P  2 cum] tum  Em2F  platone  Lm2PSm1  tunc  CGLSm1  4 cato  om. C, ante  plato  L , tito  N  5 oculis  CFP  6 ponit  Lm1 figuram supra de- pictam exhibent P (est altera de duabus ipsa quoque a m1 facta, prior minus dilucida est), nisi quod ad pr . animal  add . sensibile  et  rationale  post post . animal  pos., et E, in quo ordo nominum  cato plato cicero  est, simillima est in G, sed extrema pars  homo—Cicero  deest, et in H, nomina tamen  socrates plato cicero  sunt; in S uoces mediae tantum  substantia—homo  extant, sub uoce homo unum nomen est  FVLCO GONCŁ,  (explicare non potuimus); figura deest in CFLNR, in F post ponat exemplum  est  SVBSTANTIA 8 ad  om. H, s. l. Em2  indiuiduum  FLN  in qua] et  E  10 uero] ergo  H   Cato et Cicero, quibus est ipsa praeposita, non differunt specie, sed numero tantum. corporeum uero, quod secundum a sub- stantia collocatur, et species esse probatur et genus, substantiae species, genus animati. at uero animatum genus est animalis, corporei species. est enim animatum genus sensibilis, animatum  uero sensibile animal est; ipsum igitur animatum propter pro- priam differentiam, quod est sensibile, recte genus esse dicitur animalis. animal uero rationalis genus est et rationale mor- talis. cumque rationale mortale nihil sit aliud nisi homo, rationale fit animalis species, hominis genus. homo uero ipse  Platonis, Catonis, Ciceronis non erit, ut dictum est, genus, sed est solum species. nec solum differentiae rationalis species est homo, uerum etiam Platonis et Catonis ceterorumque species appellatur, propter diuersam scilicet causam. nam rationalis idcirco est species, quoniam rationale per mortale  atque inmortale diuiditur, cum sit homo mortale. idem nero homo species est Platonis atque ceterorum; forma enim eorum omnium homo erit substantialis atque ultima similitudo. est autem communis omnium regula eas esse species specialis- simas quae supra sola indiuidua collocantur, ut homo, equus,  coruus — sed non auis; auium enim multae sunt species, sed hae tantum species esse dicuntur —, quorum subiecta ita sibi sunt consimilia, ut substantialem differentiam habere non possint. in omni autem hac dispositione priora genera cum inferioribus coniunguntur, ut posteriores efficiant species; nam  1 Cato] tito  N  et  om. P, s. l. Lm2  5 corporis  FN  enim] autem  CLSm2  6 ipsum  post  igitur  FL (s. l. m2), om. EGRS  propter] praeter  H  7 quae  ER  8  post  rationale  add . est genus  R, s. l . scil. genus  L  11 Catonis  om. CLN  titonis  N ante  Ciceronis  add . et  CFHP  12 species est solum  C  13 catonis et platonis  CL  platonis titonis  N  15  post  rationalis  add . homo  G  16 homo  om. EGLS  17 atque] et  C  eorum enim  E  18 erit] est  FHNP  19  ante  om- nium  add . et  R post  regula  add . est  EG  esse  ante  eas  FNS   (s. l. m2), om. EGR  21 enim] uero  CEGLRS 22 haec  Gm1NR  hee  P  species  om. E  quarum  Em2FSm2  sibi  om. R  24 dis- putatione  F  25 iunguntur  CLm1  coniungantur  m2  efficiunt  Fa.c.Sm1  efficiat  m2   ut sit corpus substantia, cum corporalitate coniungitur et est substantia corporea corpus. item ut sit animatum, corporeum atque substantia animato copulatur et est animatum substantia corporea habens animam. item ut sit sensibile, eidem tria illa  superiora iunguntur. nam quod est sensibile, tantum est, quantum substantia corporea animata retinens sensum, quod totum animal est. item superiora omnia rationi iuncta effi- ciunt rationale postremumque hominem superiora omnia nihilo minus terminant; est enim homo substantia corporea, animata,  sensibilis, rationalis, mortalis. nos uero definitionem hominis reddimus dicentes animal rationale, mortale, in animali scilicet includentes et substantiam et corporeum et animatum atque sensibile. et in ceteris quidem speciebus atque generibus ad hunc modum uel genera diuiduntur uel species describuntur.  Quemadmodum igitur substantia, cum suprema sit, eo quod nihil sit supra eam, genus erat generalis- simum, sic et homo, cum sit species post quam non sit alia species neque aliquid eorum quae possunt diuidi, sed solum indiuiduorum| — indiuiduum enim est  p. 71   Socrates et Plato —, species erit sola et ultima species  15—p. 212, 18] Porph. p. 5, 1—16 (Boeth. p. 30, 2—20).   4 eadem  H  idem  ex  eidem  Lm2  6 retinet  CN  habens  L  7 ratio- nali  Pm2  coniuncta  HL  efficiuntur  Ea.r.GS  8 postremoque  CHNP (recte?)  postremum (-mo  L ) uero  LS  11  inter mortale  et  in animali  add . quia animal includit[ur] in se et substantiam et corporeum et animatum atque sensibile  R  12 atque] et  H  14 describuntur] dis- tribuuntur  FN  15 cum]  R (sed ante breuis ras.)   fi  quae cum  cett . (quae  del. et in mg. scr . parentesis  5 m2 ); an quae  scribend .? suprema  om. S  summa  G  16 eo quod] et  A a.c . nihil] nullum  N SA  sit  om. F, s. l .  Λ , est  post  eam  Λ2  erat]  RSm1  erit  m2F  sit  P  est  cett. codd .  edd. Busse; Porph. p. 5, 2   ήν  17 sic et—species dicitur  (p. 212, 15) ]  RS Q ,  om. cett . et] etiam  RS ΤΦ ,  glossa ut uid. ad  et  in   Π  18 alia] aliqua  RS; add . inferior  ΔΛΠΣ*Ρ   Busse, post  species  Γ ,  om. RS Φ   edd. Porph. p. 5, 3 aliud  R  19  post  diuidi  add . in species  edd., recte ut uid., etiam Bussio placet; Porph. p. 5, 3 χών χέμνεοΟαι ουναμένων εις είδη   post  indiuiduorum  add . species  R  20  post  Plato  add . et hoc album  brm, fort. recte; Porph. p. 5, 4   xat χοοχι χό λεοχόν  solum  R  solam  S   et, ut dictum est, specialissima. quae uero sunt in medio, eorum quidem quae supra ipsa sunt, erunt species, eorum uero quae post ipsa sunt, genera. quare haec quidem habent duas habitudines, eam quae est ad superiora, secundum quam species ipsorum esse  dicuntur, et eam quae est ad posteriora, secundum quam genera ipsorum esse dicuntur. extrema uero unam habent habitudinem. nam et generalissimum ad ea quidem quae posteriora sunt, habet habitudinem, cum genus sit omnium id quod est supremum, eam  uero quae est ad superiora, non habet, cum sit supre- mum et primum principium, specialissimum autem unam habet habitudinem, eam quae est ad superiora, quorum est species, eam uero quae est ad posteriora, non diuersam habet, sed etiam indiuiduorum species  dicitur, sed species quidem indiuiduorum uelut ea continens, species autem superiorum, uelut quae ab eis contineatur.    2 ipsa  om. R, post  sunt  Γ species erunt  RS; Porph. p. 5, 6   είη αν εϊδη  3 uero—sunt  om. S, s. l . autem quae sunt sub se erunt  m2  uero] autem  RSm2 V<]?}   fort. recte  post ipsa] sub ipsis  R  4 duas habent  ΔΛ2   Busse; Porph. p. 5, 7   έχει Sio σχέσεις  habentes  S  7 dicuntur esse  R  extremae (-me)  Sm1 h m1 A2 m2 b 8 habent unam  Δ  et generalissimum] id quod generalissimum est  RS; Porph. p. 5, 9   το τε γάρ γενιχώτατον  9 habet] habet unam  Δ  10 genus  post  omnium  R, post  sit  S Σ  id] hic  R  ea  R  11  post  uero  add . habitudi- nem  Γ  non habet  hic om., post  principium  add . non habet habitudi- nem  R, add . et (ut diximus) supra quod non est aliud superueniens genus  edd. cum Porph. p. 5,12  12  ante  specialissimum  add . et  brm   Busse, fort. recte, om. codd. (etiam LPQ Bussii); Porph. p. 5, 12   «ύ τί> είδιχώτατον δέ  specialissimam  R T m1  specialissima  S  autem] etiam  brm  13 eam  om. RS  14 posteriora] inferiora  RS 511 ,  recte ? 15 non diuersam]  Sm1 edd . quorum diuersam  A m1  non ( del. uel om . diuersam,)  Sm2 A m2   et cett. Busse; Porph. p. 5, 14 oi% άλλοίαν  species dicitur—indiuiduorum  om. FHN , sed—indiuiduorum  om. CT  16 qui- dem  om .  Σ ,  post add . dicitur  edd.; codd. quidam Porph. p. 5,15   λέγεται  eam  N  17  post continens  add . est  Σ  autem] uero  L  18 his  NR  illis  F  contineantur  CEm2H  continetur  N Ω  ( sed corr .  K m2 ,  ex  -entur  II m2 )   Ex proportione speciei nomen et generis ostendit. nam ut genus, quoniam non habet genus supra se, generalissimum genus dicitur, ut substantia, ita species, quoniam non habet sub se speciem, sed indiuidua, specialissima species dicitur,  ut homo. quid est autem species non habere? his praeesse quae neque in dissimilia diuidi possunt, ut genera diuiduntur, neque in similia secantur, ut species. quae uero inter genera generalissima speciesque specialissimas constituta sunt, ea et species et genera nuncupantur, quoniam et ipsa aliis suppo-  nuntur et his alia subiciuntur, quorum uel in dissimilia uel in similia possit esse partitio. cumque duae sint habitudines et quasi comparationes oppositae, quae in omnibus generibus speciebusque uersentur, una quidem quae ad superiora respi- ciat, ut specierum, quae suis generibus supponuntur, alia  uero quae ad inferiora, ut generum, cum speciebus propriis praeponuntur, generalissima quidem genera unam tantum reti- nent habitudinem, eam scilicet quae inferiora complectitur, illam uero quae ad praeposita comparatur, non habent. gene- ralissimum enim genus nulli supponitur. item species specia-  lissima unam possidet habitudinem, per quam scilicet ad sola genera comparatur, illam uero quae ad inferiora committitur, non habet; nullis enim speciebus ipsa praeponitur. at uero quae subalterna sunt genera, utraque habitudine funguntur.  1 propositione  FPm1  et  om. N, del. Sm2 , etiam  FL  2 super  F  se  om. CN, s, l. Lm2  4 species specialissima  FHN  5 speciem  Lm2 post  habere  add . nisi ( ex 2 al. litt. m2 )  L  hoc est  N  id est  R, inseruit   Pm1?  6 possint  ESm2  7  ante  neque  add . sed  P, del. m1?, s. l· Lm2  quae—constituta] specialissimae constitutae,  cet. om. EGRS  8 ea et] illae (illa  L ) uero  EGLRS  9 et  om. FP  quoniam] quae  EGLm1R subponantur  S  10 subiciantur  S pr . uel  om. EGR, s. l. Lm2  uel in similia  om. EGRS  11 possint  EGLm1S  possunt  R  paratio  Cm1  partitiones  EGLa.r.RS  cumque—comparationes  om. EGRS, in mg. Lm2  duo  Cm1  sunt  NPa.c . 12 subpositae  CHm1Lm1N, om. F  13 uersantur  EGL  16 una  Cm1  retinent  ante  tantum  H  retinet  R  habent  N  18 illam—comparatur  (21) om. S habet  G, m1 in CEH  19 genus enim  H  nullis  F  23 quae] illa quae  F  utramque habitudinem  G   nam et illam possident quae ad superiora respicit, quoniam quae subalterna sunt, habent superpositum genus, et illam quae de inferioribus praedicatur; habent enim subalterna genera suppositas species, ut corporeum ad substantiam quidem eam retinet habitudinem qua potest poni sub genere, ad ani-  matum uero eam qua potest de specie praedicari. specialis- simae uero species licet ipsae indiuiduis praeponantur, tamen praepositi habitudinem non habebunt, idcirco quoniam illa quae speciei ultimae supponuntur, talia sunt, ut quantum ad substantiam unum quiddam sint non habentia substantialem  differentiam, sed accidentibus efficitur, ut numero saltem distare uideantur, ut paene dici possit et pluribus praeesse speciem et quodammodo nulli omnino esse praepositam. nam cum species substantiam monstret unam, quae omnium indi- uiduorum sub specie positorum substantia sit, quodammodo  nulli praeposita est, si ad substantiam quis uelit aspicere. at si accidentia quis consideret, plures de quibus praedicetur species fiunt, non substantiae diuersitate, sed accidentium multitudine. itaque fit ut genus quidem semper plurimas sub  1  ad  illam  et  quae  s. l . ał illud  et  ał quod  L  ad  om. CGHLPS  quoniam quae] quantum que  S  2  post  sunt  add . genera  P, s. l. Lm2  3 praedicantur  Hm1Sm1  4 superpositas  Hm1  5 qu * a (i  er .)  C  poni potest  E  6 quae  EHm1LPN specie] speciebus  R  7 prae- ponuntur  Hm1Pm1  8 subpositi  E  habent  EP  habebit  Gm2  9 ul- tima  EGLm1S  ad substantiam] substantia  F  10 quidem  GLm2S  non] nec  FHLm2NP habentia]  Em2  habentes  CEm1GL  (es  ex al. litt. m2 )  PS  habentem  R  habent  FHN  11  post  sed  s. l . scii, ex  Hm1?  accidentibus  del. et s. l . ał accidentalem  Hm2 uel al ., acci- dentalem,  s. l . ał accidentibus  Lm1, s. l . Nam accidentibus  m2  saltim  Lm2NPR  12 possint  EFGLRS  et] nec  F, m1 in HLN  13 species  EGL  ( es in er . em?  m2 )  Pm1RS  esse  om. FHN  praepositae  EGLRSm2 (-tum  m1 ) nam cum—praeposita est  (16) in sup. mg. Lm2  14 monstraret  HPm1  monstrat  RS unam, quae]  S  unaque  CFHNP  ( ras. ex  -que) unam quamque  EGR  unam *  L 15 substantiae  GLR  sit  s. l. ante  substantia  Pm2, om. EGLR , est  S ante  quodammodo add.  fit HN, post  nulli  C, om . est (16)  CHN  16 ad  om. EGPRS  17 ac  GR  praedicatur  EGLRS   se habeat species; de differentibus enim specie praedicatur, differentia uero nisi pluralitati non conuenit. at uero species etiam uni aliquando indiuiduo praeesse potest. si enim unus, ut perhibetur, est phoenix, phoenicis species de uno tantum  indiuiduo praedicatur; solis etiam species unum solem intel- legitur habere subiectum. ita nullam multitudinem | species  p. 72  per se continet, cum etiam si unum sit tantum indiuiduum, speciei tamen non pereat intellectus; quibusdam enim suis quasi similibus partibus praeest. ut si aeris uirgulam diuidas,  secundum id quod aes dicitur, idem et partes esse intellegitur et totum. idcirco dictum est speciem, licet sit indiuiduis praeposita, unam tamen habitudinem possidere, unam scilicet qua species est. quoniam enim praepositis subditur, species nuncupatur, et est superiorum species tamquam subiecta  inferiorum quoque species, idcirco quoniam eorum substantiam monstrat. speciem uero substantiam nuncupamus, nec ita est species substantia indiuiduorum, quemadmodum speciei genus; illud enim pars substantiae est, ut animalis homo. reliquae enim partes rationale sunt atque mortale, homo uero Socratis  atque Ciceronis tota substantia est; nulla enim additur dif- ferentia substantialis ad hominem, ut Socrates fiat aut Cicero,  1 de differentibus enim] quod de differentibus  CL  2 ni  C  4 est  post  unus  FHP, post  phoenix  N  5 solem]  EGPpr  solum  cett. codd .  bm; cf. p. 218. 3. 219, 17 . 7 cum  om. S  ut  CFN  tantum  om .  ENRS; cf.p. 219,11 post indiuiduum  add . unius generis  G  8 tamen  om. C  perit  Sm2, add . sensus et  F  9  post  uirgulam  add . in partes suas (suas partes  P ) id est (id est  om. F ) aeneas particulas (particulas  om. F , aeneas uirgulas,  sed del. L )  CFHLN, in mg. Pm2  10 in- telliguntur  H  12 possidet  FN  unam] illam  L  eam unam  F  13  ante  qua  s. l . in  Sm2  14 nuncupatur] nominatur  FHN  16 demonstrat CEGLP  est  om. S, post  species  in ras. N , esset  F  17 substantia (ia  ex  ie  F )  ante  species  FNa.c.RS, post  indiuiduorum  C  18 ani- malis homo]  EGLm1  homo animalis  Sm2P  animal hominis  CLm2Sm1  hominis animal  FH  (inis  in ras. m2 et post  animal  2 litt. er .)  NR  19 etenim  R  sunt  om. EGR post  mortale  add . adduntur ( om. N ) animali ad diffiniendam substantiam hominis  N edd . uero  om. CFGLRS   sicut additur animali rationale atque mortale, ut homo integra definitione claudatur. idcirco igitur species specialissima tantum species est atque hanc solam possidet habitudinem ad superiora quidem, quoniam ab his continetur, ad inferiora uero, quoniam eorum substantiam format et continet.   Determinant ergo generalissimum ita, quod cum genus sit, non est species, et rursus, supra quod non erit aliud superueniens genus, specialissimum uero, quod cum sit species, non est genus et quod cum sit species, numquam diuiditur in species et quod de  pluribus et differentibus numero in eo quod quid sit praedicatur. ea uero quae in medio sunt extremorum, subalterna uocant genera et species, et unum quodque ipsorum speciem esse et genus ponunt, ad aliud qui- dem et ad aliud sumpta. ea uero quae sunt ante spe-  cialissima usque ad generalissimum ascendentia, et genera dicuntur et species et subalterna genera, ut Agamemnon Atrides et Pelopides et Tantalides et ultimum Iouis.    Posteaquam naturam generum ac specierum diuersitatemque  monstrauit, eorum ordinem definitionis descriptionisque com- memorat. ac primum quidem generalissimi generis terminum  6-19] Porph. p. 5, 17—6, 3 (Boeth. p. 30, 21—31, 7).   1 rationalis atque mortalis  N  3 possidet] optinet  P  6  post  deter- minant  add . philosophi  C  ergo  om. CN  enim  EGLm1 <t> p.c.;   Porph. p. 5, 17   τοίνον  ita  om. CGHP, s. l. Em2 A m2  quod] quoniam  S  7 sit genus  NR  et rursus—genera ut  (17) ]  LRS ii ,  om. cett . rursum  S  8 erit]  LRS T est  cett.; Porph. p. 5, 18   οΰχ αν ειη  9  pr . quod] quae  S h a.c . post. quod—et quod  (10) om. L  10 diuidatur  S  11 et] et de  L  13 uocant]  Λ2Φ  uocantur  cett. edd. Busse; Porph. p. 5, 21   χολοΰσι 14 ipso eorum  S  speciem]  Brandt  species  codd. Busse  ponunt]  A m2 U m2 ,  e coni. scr. Busse , ponuntur  T m1  possunt  m2   cum   cett .; species esse potest et genus  edd.; Porph. p. 5, 22   xal έχαοτον αδτών είδος είναι xal γένος τίθενται  17  post , et  om. R  ut  om. FS  18 et  om. CEG pelides  F post . et  om. C  19 ultimo  F  20 Post ** quam  CL  diuersitatem  GLm1R , -que  in ras. E, er. P   inducit, id esse generalissimum genus quod cum ipsum genus sit, non habet superpositum genus, hoc est speciem non esse, et rursus, supra quod non erit aliud superueniens genus. si enim haberet aliud genus, minime ipsum generalissimum  uocaretur. specialissima uero species hoc modo : quod cum sit species, non est genus, ex opposito, quoniam opposita ex oppo- sitis describuntur interdum. nam quoniam praepositio opposita est suppositioni, genus autem praeponitur, species uero sup- ponitur, si idcirco erit primum genus, quia ita superponitur,  ut minime supponatur, idcirco erit ultima species, quia ita supponitur, ut praeponi non possit, oppositorum igitur recte ex oppositis facta est definitio. Est alia rursus descriptio : quod cum sit species, numquam diuidatur in species, id est genus esse non possit. si enim omne genus specierum  genus est, si quid non diuiditur in species, genus esse non poterit. Est rursus alia definitio : quod de pluribus et differentibus numero in eo quod quid sit praedicatur. de qua definitione saepe est superius demonstratum. nunc  18 saepe superius] p. 188, 12. 190, 11 ss. 203, 11. 205, 4.   1 inducit]  RSm1  indicit  Em1  indicat  GLa.c.  dicit  CEm2FHLp.c.   NPSm2  inducit dicens  brm  indicat dicens  p  id  om. EGRS, s. l. Lm2  3 non  om. EGRS, s. l. Lm2  superueniens  om. EGRS, s. l. Lm2  si—genus  om. EGRS, in mg. sup. Lm2  5 uocetur  EGLm1Sm2; post   inlatus est locus p. 219,14—220, 3  quoniam ridere—exemplam  in EGL,  quoniam irridere  (sic) —praedicatur  p. 219, 15 (qui locus tamen infra quoque extat) in S  specialissima—idcirco erit  (10) in ras. C post  modo  add.  describitur  edd.  6 opposito] opposita  F  opposito est  H; post   add.  Quia sicut genus (genus  in mg. F ) generalissimum est cui non aliud genus superponitur, ita et species specialissima nuncupatur, cui alia species non subponitur (superponitur  F ) et utrumque ex opposito dicitur alterius sicut pater ex opposito dicitur filii  F, in inf, mg. cum nota  d(esunt) h(aec)  Hm1?  opposita  om. EGR, s. l. Sm2  7 quoniam  om. EN  9 si  er. E  sed  La.c, Pm2  11  ante  ut  add.  rursus  RS  ut praeponi non possit] ut minime praeponatur  CFHN (in mg. add. m2)  oppositorum  om. EGLRS  recte  om. C  13 quod]  Lm1 edd.  quae  cett.   ante  numquam  add.  quae  CGHm1, del. m2  diuiditur  CLRSm1  14 est  om. C  possit] posse  CFN  potest  edd . 16 potest  EGLRS  Est] et  FHNS  et  om. N   illud attendendum est. si, ut paulo superius dictum est, speciei unum indiuiduum potest esse subiectum, ut phoenici atomum suum, ut soli corpus hoc lucidum, ut mundo uel lunae, quorum species singulis suis indiuiduis superponuntur, qui conuenit dicere speciem esse quae de pluribus numero differentibus in  eo quod quid sit praedicatur? sunt enim quaedam quae de numero differentibus minime dicuntur, ut phoenix, sol, luna, mundus. sed de his illa ratio est de qua etiam superius pauca reddidimus, quae paululum inflexa commodissime nodum quae- p. 73  stionis absoluit. | omnia enim quae sub speciebus specialissimis  sunt, siue infinita sint siue finito numero constituta siue ad singularitatem deducantur, dum est aliquod indiuiduum, semper species permanebit neque indiuiduorum deminutione, dum quodlibet unum maneat, species consumitur. ut enim dictum est, tametsi plura sint indiuidua, substantiales differentias non  habebunt. id uero in genere dici non conuenit, quod his praeest quae substantiali a se differentia disgregata sunt; praeest enim speciebus quae diuersis differentiis informantur.  1 paulo superius. 8 superius] p. 215, 2 ss.   1 est  om. G, s. l. Lm1  si, ut] sicut  FGPSm1  sic  La.c. supra  RS  3 suam  S  solis  F  mundi  FR, add.  hoc inane spacium  s. l.   Lm2, post  lunae  in mg.  et hoc immane spacium quod uidemus  P  quo- rum] quae  Lm1  4 indiuiduis  om. EGRS post superponuntur  add . quod si ita est ut species de uno quolibet indiuiduo praedicetur (praedicatur  P ) ut de phoenice (phe-  P )  P edd.  qui] quomodo  Hm2LP  6 praedicetur  L  8 mundus  om. EGRS, s. l. Lm2  illa his  EG  ratio est  om. EG  9 paulum  N  inplexa ( uel  im-) EHm1LP  nodum  ras. ex  modum  EN  10 sub] suis  EGS  in suis  R  specialissima  GPm1RS  11 sint] sunt  CHa.c.Lm1R  finita  CHm2N  12 deducuntur  Lm2R  adducuntur  P, add.  ut fenix uel sol  R  aliquid  FL  semper—deminutione  om. EGRS, in mg. Lm2  semper s. l.  Pm1?, post species  N, om. L (m2)  13 deminutione]  C  diminutione  cett.  dum  om. S  si  EGLm1R  14  ante consumitur  add.  non  EGL   (del. m2) RS  ut] quod  EGLRS  15 tamenetsi  G  tamen si  RS  sunt  F ante  substantiales  add.  si  G, s. l. Sm2, ras. in E  16 id uero  om. EG  quod  L  idcirco id  R  id circo  Sm1 , circo  del. m2  18  ante  speciebus  s. l.  genus  E   si igitur earum una perierit et ad unitatem speciei reducta sit ratio, genus esse non poterit, quia de differentibus specie praedicatur. non ita in speciebus. si enim omnium indiuidu- orum natura consumpta sit et ad unius singularitatem indi-  uidui superpositae speciei praedicatio peruenerit, est tamen species ac permanet. talia enim sunt illa quae pereunt ac desunt, quale est id quod permansit et subiacet. quod uero dicimus de pluribus numero differentibus speciem praedicari, duobus id recte explicabitur modis, uno quidem, quia multo  plures sunt species quae de numerosis indiuiduis praedicantur, quam hae quibus unum tantum indiuiduum uidetur esse sup- positum, dehinc hoc, quia multa secundum potestatem dicuntur, cum actu non semper ita sint, ut risibilis homo dicitur, etiamsi minime rideat, quoniam ridere potest. ita igitur species  de numero differentibus praedicatur; nihilo enim minus phoenix de pluribus phoenicibus praedicaretur, si plures essent, quam nunc, quando unus esse perhibetur. item solis species de hoc uno sole quem nouimus, nunc dicitur, at si animo plures soles et cogitatione fingantur, nihilo minus de pluribus solibus  indiuiduis nomen solis quam de hoc uno praedicabitur. idcirco igitur species de pluribus numero differentibus dicitur praedicari, cum sint aliquae quae de singulis indiuiduis appellentur. Illa uero quae subalterna uocantur ita definiri queunt : subalternum  1 eorum  EFGLm1RS  redacta  EGLPm2RS edd.  2 de  om. E  3 si enim] nam si  EGLRS  5 suppositae  LNR  superposita  S  uene- rit  EGLRS  6 alia  EGLa.c.RS ante  sunt  s. l.  non  E  7 quale] quam  EGLa.c.RS  et] ac  CFHNP  8 de numero pluribus  Ca.c.  numero de pluribus  p.c.  9 excusatur  EGLRS  quidem uno  EG  multo  om. FN, s. l. H  11 hae  om. ER  hee  C  eae  H  ea  N ante  qui- bus  add.  e  CR, er. uid. E  tantum  om. S  suppositum esse  RS  12 dehinc] deinde  EGLRS  hoc  om. FHNS  13 semper  om. CFH  14 etiamsi—praedicatur  om. F de loco  quoniam ridere  eqs. in EGLS   cf. ad p. 217 , 5 igitur] etiam  E  15 nihil  EGLPRS  16 phoenicibus  om. F 17 ita (a  in ras. m2) E  hoc  om. S, post  uno  F  18 ac  EGR ante  animo  s. l.  in  Pm2  19 cogitationes  Ca.c.F ante  de  add.  enim  EG  20 praedicatur  EGLRS  22 appellantur  FHN   genus est quod et genus esse poterit et species, ad eumque modum est ut in familiis, quae procreant et procreantur, ut etiam subiectum monstrat exemplum : ut Agamemnon Atri- des et Pelopides et Tantalides et ultimum Iouis. Atreus enim Pelopis filius tamquam eiusdem species quasi  Agamemnonis genus est. item Agamemnon Pelopides et Tan- talides, cum Pelops ad Tantalum comparatus Tantalusque ad Iouem quasi species itemque Tantalus ad Pelopem, Pelops ad Atreum tamquam genera esse uideantur, cum Iuppiter ueluti sit horum generalissimum genus.   Sed in familiis quidem plerumque ad unum redu- cuntur principium, uerbi gratia ad Iouem, in generibus autem et speciebus non se sic habet. neque enim est commune unum genus omnium ens nec omnia eiusdem generis sunt secundum unum supremum genus, quem-  admodum dicit Aristoteles. sed sint posita, quemad-  11-221, 7] Porph. p. 6, 3—11 (Boeth. p. 31, 7—17). 16 Ari- stoteles] Metaph. II, 3, p. 998 b , 22.   1 et  om. RS  et genus  om. EG  ad—ut]  CG ( ut  om.) Hm2  ad eumque  ( et ad eum  N)  modum sunt ut  Hm1N  ad eumque  ( eum que *   L  eundem  Pm2 ) modum qui  (s. l. Lm2, part. in ras. Pm2)  est  (s. l. Pm2)   LP  ad eum modum qui est  EFR  ad eum  ( eum  del. m2, post  que eu  er.)  modum,  in ras. quae est  m2 S  4 et Tantalides—Iouis]  Lm2Pm2   (om.  et Tantalides ) R edd., post  species  (5) Lm1S, om. cett.  5 quasi] quae si  Sm1, del. m2, ante add.  et  F, s. l. Pm2 , est  R  6 Agamem- nonis] tamen his  ( is  R) EGLm1R  tamen non his  Sm1, del. m2  genus est  del. Sm2  est  om. P ante  Pelopides  add.  non  E  atrides non  ( non  del. m2) L  7 comparatus]  ( s  in ras. m2) H comparatur  ( cõ- ) cett  Tantalusque] ut tantalus quae  G  8 idemque  CP  idem  N  9 Atreum] creontum  EG  creontem  Lm1  tareontum  S  tamquam] quasi  EGLR  quae  S  uelut  HP  11 reducuntur  ante  ad  N, post  reducuntur  add.  omnes  L, s. l. Pm2;  reducunt  coni. Busse; cf. p. 224, 19  reduci;  Porph.   p. 6, 3   άναγουοι  12 ad  om. EGRS A  13 speciebus] in speciebus  R  sic se  ΝΣ  habetur  EG  neque—dicerentur  (p. 221, 5) ]  RS Q ,  om.   cett.  enim  om. R  14 neque  Busse  15 sunt generis  Γ  16 sunt  \ m2 2 ;  Porph. p. 6, 6   χείοθ·ω  quemadmodum  om. S, add.  dictum est  edd., idem post  Praedicamentis  h m2 W m2   (cf. p. 224, 19); om. Porph. p. 6, 7   modum in Praedicamentis, prima decem genera quasi prima decem principia; uel si omnia quis entia uocet, aequiuoce, inquit, nuncupabit, non uniuoce. si enim unum esset commune omnium genus ens, uniuoce  entia dicerentur; cum uero decem sint prima, com- munio secundum nomen est solum, non etiam secun- dum rationem, quae secundum nomen est.    Cum de subalternis generibus diceret, familiae cuiusdam posuit exemplum, quae ab Agamemnone peruenit ad Iouem,  quem quidem pro numinis reuerentia ultimum posuit. quantum enim ad ueteres theologos, refertur Iuppiter ad Saturnum, Saturnus ad Caelum, Caelus uero ad antiquissimum Ophionem ducitur, cuius Ophionis nullum principium est. ne igitur quod in familiis est, id in rebus quoque esse credatur, ut res omnes  possint ad unum sui nominis redire principium, idcirco deter- minat hoc in generibus ac speciebus esse non posse; neque enim sicut familiae cuiuslibet, ita etiam omnium rerum unum esse principium potest. fuere enim qui hac opinione tenerentur, ut rerum omnium quae sunt unum putarent esse genus quod  ens nuncupant, | tractum ab eo quod dicimus ‘est’; omnia enim  p. 74   3 inquit] sententia, non uerba Aristotelis.   1 quasi  in ras.   Σ  sic  A m1  sicut  Ψ  2 prima  om.   Γ ,  post  decem  Π  2 uocat  A m1 II  3 nuncupauit  S, in ras. ex  -bit  Γ  4 genus omnium  Busse  entia uniuoce  R post  uniuoce  add.  omnia  edd. cum Porph.   p. 6, 9   πάντα  5 uero] autem  Γ  enim  ΔΔΣΦ ;  Porph. p. 6, 10   δέ sunt  FH  prima] principia  Lm1  prima genera  m2P  (genera  s. l. m2 ), prima principia  N ΓΣ  7  ante  rationem ( ante  nomen  E )  add.  definitionis ( uel  diff-)  ELRS Q ,  om. Porph. p. 6, 11  quam  E post  est  add . solum  CHN  8 Cum] Quoniam  CLm1NS  Quoniam  (del. m2)  cum  H  di- cens  CLm1N  dicit  in ras. S  cuius  Pm1  cuiusque  F  eiusdem  R  9 ponit  Sm2  ab  om. F, s. l. Gm2  10 nominis  EGLS  nomini  R  11 ad ueteres] aduertere  Sm1  aduertisse  CEFGLm2P  aduertit se  R referantur  Hm1N  12 caelium ( uel  ce-)  LPm2RS  zethum  F  zechum  N  Caelus] Hm2  caelius ( uel ce-)  LPm2Sm2  celium  R  caelum  CEGHm1Pm1Sm1  zetus  F  zehus  N  othionem  F  ( sed ophionis) 14 esse ( Pm2  est  m1 ) quoque  FHNP  15  ante  sui  exters. uid.  proprii  E  17 familia  H 19 ut] et  Fa.c.S  ut et  N  20 est] esse  S   sunt et de omnibus esse praedicatur. itaque et substantia est et qualitas est itemque quantitas ceteraque esse dicuntur; nec de his aliquid tractaretur, nisi haec quae praedicamenta dicun- tur, esse constaret. quae cum ita sint, ultimum omnium genus ens esse posuerunt, scilicet quod de omnibus praedicaretur.  ab eo autem quod dicimus ‘est’ participium inflectentes Graeco quidem sermone  Sv  Latine ens appellauerunt. sed Aristoteles sapientissimus rerum cognitor reclamat huic sententiae nec ad unum res omnes putat duci posse primordium, sed decem esse genera in rebus, quae cum a semet ipsis diuersa sint,  tum ad nullum commune principium reducantur. haec autem decem genera statuit substantiam, qualitatem, quantitatem, ad aliquid, ubi, quando, situm, facere, pati, habere. quod uero occurrebat quoniam de his omnibus esse praedicaretur — omnia enim quae superius enumerata sunt genera, esse dicuntur —,  ita discussit ac reppulit dicens non omne commune nomen communem etiam formare substantiam nec ex eo debere genus esse commune arbitrari, quod de aliquibus nomen commune praedicaretur. quibus enim definitio communis nominis con- uenit, illa communis nominis iure species iudicabuntur et  communi illo uocabulo uniuoce praedicantur, quibus uero non conuenit, uox his communis tantum est, nulla uero substantia. id autem manifestius declaratur exemplis hoc modo. animal hominis atque equi genus esse praedicamus; demus igitur  1  post.  et  om. EGRS, s. l. Lm2  2 cetera  C  3 de] in  GLm1RS  5 esse  om. EGRS, s. l. Lm2  6 autem  s. l. L  enim  C  est] esse  FS  principium  EG, m1 in LPS  inflectentes  post  quidem  N  7 quidem  ante  Graeco  R ante  sermone  add.  de  P, s. l. L post  Latine add. autem  FHN, s. l. Pm2  8 prudentissimus  FNP  rerum] principiorum EGLm1Pm1RS  9 omnes  ante  res  C, om. EGRS, s. l. Lm2  dici  FGm1Pm2  10 ad  FHNRm1 ipso  Em1GPm1S  ipsa  FHN  ipsos  Rm1  sunt  CLm1R edd.  11 reducuntur  EFGLm2RPm1S  15 nu- merata  CEGL  innumerata  S  16 repulit  CEFHRP  17 eo debere] eodem uere (e re  add. S )  EGSm1  18  post  arbitrari  add.  debet  E  19 praedicatur  E  praedicetur  FHNP  nominis communis  FN  22 his uox  FHNP  23 manifestis  FLp.c.  24 praedicatur  S  dicamus  CHN   animalis definitionem, quae est substantia animata sensibilis; hanc si ad hominem reducamus, erit homo substantia animata sensibilis, nec ulla falsitate definitio maculatur. rursus si ad equum, erit equus substantia animata sensibilis; id quoque  uerum est. conuenit igitur haec definitio et animali, quod commune est homini atque equo, et eidem equo atque homini, quae species ponuntur animalis. ex quo fit ut homo atque equus utraque animalia uniuoce nuncupentur. at si quis hominem pictum hominemque uiuum communi animalis nomine nuncu-  pauerit, definiat si libet animal hoc modo, substantiam ani- matam esse atque sensibilem. sed haec definitio ei quidem homini qui uiuus est conuenit, ei uero qui pictus est, minime; neque enim est animata substantia. igitur homini uiuo atque picto, quibus communis nominis definitio, id est animalis,  non potest conuenire, non est animal commune genus, sed tantum commune uocabulum diciturque hoc nomen animalis in uiuo homine atque picto non genus, sed uox plura signi- ficans; uox autem plura significans aequiuoca nuncupatur, sicut uox ea quae genus ostendit, uniuoca dicitur. itaque id quod  dicitur ens, etsi de omnibus dicitur praedicamentis, quoniam tamen nulla eius definitio inueniri potest quae omnibus prae- dicamentis possit aptari, idcirco non dicitur uniuoce de prae- dicamentis, id est ut genus, sed aequiuoce, id est ut uox plura significans. Conuincitur etiam hac quoque ratione id  quod dicimus, ens praedicamentorum genus esse non posse.  2 hanc] uel hanc  E  3 facultate  Em1  4 equus] equi  CFPm2  5 definitio ( uel  diff-) haec  FHN  6 homini] et homini  CNP  atque] et,  FHNPR  eidem]  CEm2FH a.r.NPR  idem  Em1GHp.r.Lm1S  eadem  Lm2brm  ea eidem  p  8 animalis  EGLa.c.  una uoce  E  nun- cupantur  C  nominentur  FHN  9 uiuum] uerum  EGLm1PRS 10 si libet] scilicet  CHm1N  animal  om. E  12 uero]  FHP, om. S , quidem  cett.  13 est  post substantia  LP  16 dicitur quae  Em1Sm1  dicitur quod  LSm2  dicitur quia  CFN  17 genus] genus est  FN  uox—significans  om.   CEGP, s. l. Lm2Sm2  18 autem] enim  RS ante  aequiuoca  add. quae  CEGP  nuncupantur  GS  19 ita  ELm1  23 id est  om. CFN  ut genus  om. F  24 quoque  om. N   unius enim rei duo genera esse non possunt, nisi alterum alteri subiciatur, ut hominis genus est animal atque animatum, cum animal animato uelut species supponatur. at si duo sint sibimet ita aequalia, ut numquam alterum alteri supponatur, haec utraque eiusdem speciei genera esse non possunt. ens  igitur atque unum neutrum neutri supponitur; neque enim unius dicere possumus genus ens nec eius quod dicimus ens, unum. nam quod dicimus ens, unum est et quod unum dicitur, ens est; genus autem et species sibi minime conuertuntur. si igitur praedicatur ens de omnibus praedicamentis, praedicatur  etiam unum. nam substantia unum est, qualitas unum est, quantitas unum est ceteraque ad hunc modum. si igitur, quoniam esse de omnibus praedicatur, omnium genus erit, et unum, quoniam de omnibus praedicatur, erit omnium genus. sed unum atque ens, ut demonstratum est, minime alterum  alteri praeponitur; duo igitur aequalia singulorum praedica- mentorum genera sunt, quod fieri non potest. cum haec igitur ita sint, id Porphyrius determinauit dicens non ita in rebus, ut in familiis omnia ad unum principium posse reduci nec omnium rerum commune esse genus posse, ut Aristoteli pla-  cet; sed sint posita, inquit, quemadmodum in Praedi-  p. 75  camentis dictum est, prima decem ge|nera quasi decem prima principia, scilicet ut nulla interim ratio perquiratur, sed auctoritati Aristotelis concedentes haec decem genera nulli  3 ac  R  sint  post  aequalia  pos. RS, repet. FL (s. l. m2) P  4 sibi- metque  ( quae  F) FLm2Pm1  ita  s. l. Lm2  5  ante  haec  add . aequa  C ,  sed del . eidem  Pm2  eius  S  6 neutris  Em1  8  pr . unum  post  nec,  om .  post  ens  H  dicitur  om. S dicimus  Rbrm  13 esse] ens  Lm2P   post  omnibus  add . his  CP, in mg. Hm2, add . praedicamentis  (s. l. m2)  his  L post  erit  add . ens  CHN  et unum—omnium genus  om. R  15 sed] si  in ras. Em2 ut  om. FH  16 praeponi  FH  17 hoc  Ea.c. edd . 18 sit  edd . 19 deduci  LS  duci  Em1  20 genus  ante esse  CFN, post  posse  S  poterit  F  21 sint]  FHm1  sunt  cett . 23 prima  om. N, post  principia  R  ut  om. EGS  24 auctoritate  Em1Hm1  ad auctoritatem  FN  accedentes  CFNS   alii generi esse credamus subiecta, quae si quis entia nuncupat, aequiuoce nuncupabit, non uniuoce; neque enim una eorum omnium secundum commune nomen definitio poterit adhiberi. quae res facit, ut non uniuoce de his aliquid praedicetur. si  enim uniuoce praedicaretur, genus esset eorum commune nomen quod de omnibus praedicaretur; at si genus esset, definitio generis conueniret in species. quod quia non fit, com- mune his id quod dicimus ens, uocabulum est uocis signi- ficatione, non ratione substantiae.    Decem quidem generalissima sunt, specialissima uero in numero quidem quodam sunt, non tamen infi- nito, indiuidua autem quae sunt post specialissima, infinita sunt. quapropter usque ad specialissima a generalissimis descendentem iubet Plato quiescere,  descendere autem per media diuidentem specificis differentiis; infinita, inquit, relinquenda sunt; neque enim horum posse fieri disciplinam.    10—17] Porph. p. 6, 11—16 (Boeth. p. 31, 17—32, 1). 14 Plato] Phileb. p. 16 C. Polit, p. 262 A—C. Sophist. p. 266 A. B adfert Busse.   1 entia nuncupat]  ERS  (-pet), etiam entia nuncupat  N  ab ens entia nuncupat (-pet  Lm2 )  CGL  etiam nuncupat (nuncupat  post  ens  P ) ab ens entia  HP entia nuncupat ens  F  2 nuncupabit (-uit  FHN )  post  uniuoce  FHNP , nuntiauit  S  unam—definitionem ( uel  diff-) poterit adhibere  FHN  3 nomen  ex  non  Em2G  5 esse  Hm1, add . ens  s. l .  L, ante  esset  P  eorum  om. CN, post  commune  L  6 nomen  in   mg. Hm2, del. Lm2  ens  CH(in mg.) Lm2  ( s. l. ante  eorum)  N  7 con- uenerit  Em1  8 his  om. GS  10 sunt  om. S  11 in numero  om .  Δ  quodam] quaedam  Pm1  sunt  om., post  indiuidua  add . est  S  tam  C  infinito]  Fp. c . (finito  a.c .)  Hm2S TNtt p.c . Φ  in infinito  Hm1N W a.c . indefinito  C  ( ras. ex  -tio) EGL a.c . (in indefinito  et  ał definito  corr. m1 )  PR kIPV  (in  er .) 12 indiuidua—quiescere)  LRS Q ,  om. cett . 13 sunt infinita  LRS Busse; cf. p. 226, 22  a  om. R  15  ante  descendere  post  usque  (cf. ad p. 178, 14) add.  ad id  CHP  diuidentem per me- dia  Γ  16  ante  infinita  add . indiuidua uero  Δ ,  sed del., post add . uero  ΓΦ  17 enim  s. l. L, del .  Γ  horum]  N ii  ( ante add . et  ΛΦ ,  er. uid .  Γ ,  post add . indiuiduorum  Γ ) eorum  cett.; Porph. p. 6, 16   τούτων  disciplina  Cm1   Quoniam specierum nosse naturam ad sectionem generum pertinet quoniamque scientia infinita esse non potest — nullus enim intellectus infinita circumdat —, idcirco de multitudine generum, specierum atque indiuiduorum rectissima ratione persequitur dicens supremorum generum numerum notum —  decem enim praedicamenta ab Aristotele esse reperta quae rebus omnibus generis loco praeferenda sint —, species uero multo plures esse quam genera. nam cum decem suprema sint genera cumque uni generi non una, sed multae species supponantur proximaeque species supremis generibus subalterna  sint genera usque dum ad ultimas species descendatur, nimirum unius generis multas species esse necesse est utrobique dif- fusas, specialissimas uero multo plures esse quam subalterna, quoniam per multitudinem generum subalternorum ad specia- lissimas descenditur species. quas multo plures esse quam  genera subalterna hoc maxime ostenditur, quod inferiores sunt; semper enim genera in plura subiecta diuiduntur. decem uero generum species multo plures quam unius existere manifestum est, uerum tamen etsi plures sunt, certo tamen numero con- tinentur; quem facile si quis discutiat omniumque generum  species persequatur, possit agnoscere. indiuidua uero quae sub una quaque sunt specie, infinita sunt uel quod tam multa  1 generis  EGLRS, recte?  2 scienti  GRS scienti alicui  Lm2  5 su- premorum] supra horum  EG, m1 in LPS ante  numerum  add . esse FHNP, post  notum  L  6  post  reperta  s. l . commemorat  Em2  7 gene- ris  om. R, post  loco  L , generum  S  sunt  CFH   (ras. corr.) NPRSm2  8 nam cum—genera  om. EGRS  9 sunt  FLP (ras. corr.)  11 sint  post  genera  C  sunt  F  13 subalternas  FH (s in ras. m2) N, ante  sub.  add . genera  PS, s. l. Lm2  16 hoc] in hoc  F  inferiora  FHm1Lm2NP  17 semper enim genera]  FHN  semper si genera  Cm1  semper enim sub- alterna (genera subalterna  P )  Cm2 (part. in mg.) P  et semper subalterna genera  RS  et  (om. G)  semper subalterna  EGL  plurima  N  18 ge- neris  G  unius] generis unius  R  species unius generis  Lm1  19 sint  L  compraehenduntur  L  21 prosequatur  NR 22 species  G  specie  ante  sunt  FHLNR  tam]  FHN  ea  EGLPRS  tam ea  C   sunt diuersisque locis posita, ut scientia numeroque includi comprehendique non possint, uel quod in generatione et cor- ruptione posita nunc quidem incipiunt esse, nunc uero desinunt. atque idcirco suprema quidem genera et subalterna et species  eas quae specialissimae nuncupantur, quoniam finitae sunt numero, potest scientiae terminus includere, indiuidua uero nullo modo. idcirco igitur Plato a magis generibus usque ad magis species id est specialissimas praecipiebat facere secti- onem; per ea enim quae finita essent numero, iubebat descen-  dere diuidentem, ubi autem ad indiuidua ueniretur, standum esse suadebat, ne, quod natura non ferret, infinita colligeret. ita uero genera in species diuidi comprobabat, ut specificis differentiis soluerentur. de specificis autem differentiis melius in eo titulo ubi de differentia disputatur, ac largius disseremus.  hic enim hoc tantum dixisse sufficiat, eas esse specificas dif- ferentias quibus species informantur, ut rationale uel mortale hominis. cum igitur diuidimus animal, rationali atque inratio- nali, mortali inmortalique separamus. <hoc ergo> ceteraque genera talibus differentiis quae subiectas species informent,  Plato censuit esse diuidenda usque dum ad specialissima  13 de specificis—disputatur] lib. IV c. 8.   1 sint  EFGHp.r . ( ex  sunt)  LPRS  numeroque]  FHN  in unum  EGLm1  (numero  m2 )  RS  numeroque in unum  CP  concludi  LS  3 uero)  ex  quidem uero  P recepit Brandt , quidem  CEGLRS, om. FHN; cf. p. 223, 12  5 easque ( om . quae,)  LR specialissime  GS  7 igitur  om. C  magis a  EGLPRS  usque ad magis species]  FHN  magis  om. C quam a speciebus  cett . 8 id est] e  ut uid. er. C  specialissimas]  CFHN  a ( add. L ) specialissimis  cett.; cf. p. 225, 13  9 essent] sunt  FN  10 diuidentem] diuisionem  EGHm1  (diuisorem  m2 )  Lm1PRS  11 nec  HN  12 comprobat  ELm1  (probabat  m2 )  R  ut  et  soluerentur  om .  EGPm1 (s. l. m2) RS post  ut  add . in  edd . 13 autem  om. EGLPm1  (uero  m2 )  RS  14 de  om. FG  differentiis  CS a.c . 16 rationabile  E  uel  om. ERS  et  Lm1  17  ante  rationali  et  inrationali  add . in  Em2 rationale atque inrationale ( uel  irr-)  EGN p.c.RS  18 mortali  om .  N  mortale  EGLPS inmortaleque  EGNp.c.PRS ; mortale  (sic)  ac  (s. l.)  inmortali  L  18 hoc ergo  add. Brandt , cetera <quo>que  Engelbrecht  separabimus  FHN  separauimus  R  19 informant  Fa.c.Lm1NR   ueniretur, dehinc consistere nec infinita sequi, quoniam indi- uiduorum numquam esset nec disciplina nec numerus.    Descendentibus igitur ad specialissima necesse est diuidentem per multitudinem ire, ascendentibus uero ad generalissima necesse est colligere multi-   p. 76 tu|dinem. collectiuum enim multorum in unam natu- ram species est et magis id quod genus est, particularia uero et singularia e contrario in multitudinem semper diuidunt quod unum est; participatione enim speciei plures homines unus, particularibus autem unus et  communis plures; diuisiuum est enim semper quod singulare est, collectiuum autem et adunatiuum quod commune est.    Diuidere est in multitudinem quod unum fuerat ante dis- soluere, omnisque diuisio e contrario compositionem coniunc-  tionemque meditatur. quod enim, cum sit unum, dispertiendo diuiditur, id ipsum ex pluribus rursus partibus adunando componitur. ut igitur superius dictum est, indiuiduorum qui- dem similitudinem species colligunt, specierum uero genera : similitudo uero nihil est aliud nisi quaedam unitas qualitatis.  ergo substantialem similitudinem indiuiduorum species colli- gere manifestum est, substantialem uero similitudinem spe- cierum genera contrahunt et ad se ipsa reducunt. rursus  3—13] Porph. p. 6, 16—23 (Boeth. p. 32, 1—8). 9 participa- tione—11 plures] Abaelardus, Theolog. christ., II p. 486 ed. Cousin. 18 superius] p. 166, 8 ss.   3  ante  igitur  add . illis  L  necesse—singulare est  (12) om. N  4 ire  ante  per  L T  ascendentibus—plures  (11) ]  Ω ,  om. cett . 6  post  multitudinem  excidisse  in unum  coni. Busse  ( cum Porph. p. 6, 18   e’:; εν ),  add. edd . 8 e contrario—semper]  Γ   edd. cum Porph. p. 6, 20  semper in multitudinem e contrario  cett. codd. Busse  9 est unum  Φ 10 unus, unus autem et communis particularibus plures  Abaelard . 11 commune  P a.c . communes  Φ  enim post  est FS Φ ,  om. CELR ,  ante  est  cett . 12 est  om. E  14 est] enim  C  est enim  L  in  om. G ,  s. l. Lm2  15  post  dissoluere  add . est  C  17 plurimis  F  19 uero] ergo  CEGLm1RS  20 nisi] ni  C   generis adunationem differentiae in species distribuunt, spe- cieique adunationem in singulares indiuiduasque personas accidentia partiuntur. cum igitur haec ita sint, necesse est semper cum a genere descendis ad speciem, diuidendo semper  facere multitudinem, cum uero ab speciebus ascendis ad genera, componendo colligere et plura quae in specierum differentiis fuerant similitudine qualitatis adunare. in speciebus etiam idem considerari potest. ut enim ipsae indiuidua, quae sunt infinita, una similitudine substantiali colligunt. ita indiuidua  speciem propria infinitate distribuunt. omnia enim indi- uidua disgregatiua sunt et diuisiua, species uero et genera collectiua, species quidem indiuiduorum collectiua atque adu- natiua, specierum uero genera, ut ita dicendum sit : genus quidem species distribuunt et species ab indiuiduis in multi-  tudinem deducuntur, rursus autem genus quidem multas species colligit, species autem particularem singularemque multitudinem ad singularitatis deducit unitatem. igitur plus genus adunatiuum est quam species. species namque sola indiuidua colligit, genus uero tam species quam ipsarum quo-  que specierum indiuiduas contrahit singularesque personas. sed in hoc conuenienti utitur exemplo dicens quoniam partici- patione speciei, id est hominis, Cato, Plato et Cicero pluresque reliqui homines unus, id est milia hominum  1  post  generis  s. l . ergo  E  species] specie  G  speciem  Lm1  2  ante  indiuiduasque  s. l . in  Hm2  3 haec igitur  LNP  4 species  ELm2R  5 a  ELS  ad ( tamen  speciebus)  G  6 et  om .  EGLPRS  plures  EFGLPm1RS  quae  ante  fuerant  EGLPRS  7 fuerint  S  simili- tudinum (-nem  Pm2 ) qualitates ( ex  -tis  Pm2) EFGLPRS ante  adunare  add . et  EGLPR  8 poterit  Lm2 ante  ipsae  add . species  N, post in mg. Cm1?  ipsae]  Cm2H  ipsa  cett . 9 unam similitudinem substantialem  EFGLRS  10 propriam infinite ( uel  -tae, -tate  H ) EGHLPRS  12  post  adunatiua  add . est  CGH   (in mg. m1?) Lm2 NPm2  13 specierum uero genera  s. l. Hm2  14 distribuit  EGRS  15 ducuntur  EGHN  17 ducit  HN  19 cum species tum  N 20 indiuidua  EGHLPRS  21 participationi  G  23  post  unus  add . est  Hm2   in eo quod sunt homines, unus homo est; at uero unus homo, qui specialis est, si ad hominum multitudinem qui sub ipso sunt consideretur, plures fiunt. ita et plures homines in spe- ciali homine unus est et specialis unus in pluribus infinitus. sic igitur quod singulare quidem est, diuisiuum est, quod  uero commune, quoniam multorum unum est, ut genus ac species, collectiuum atque adunatiuum.   Adsignato autem genere et specie, quid est utrumque, et genere quidem uno, speciebus uero pluribus — semper enim in plures species diuisio  generisest —, genus quidem semper de specie prae- dicatur et omnia superiora de inferioribus, species autem neque de proximo sibi genere neque de supe- rioribus; neque enim conuertitur. oportet autem aut aequa de aequis praedicari, ut hinnibile de  equo, aut maiora de minoribus, ut animal de homine, minora uero de maioribus minime; neque enim ani- mal dices esse hominem, quemadmodum hominem dices esse animal. de quibus autem species prae-  8-231, 19] Porph. p. 6, 24—7, 21 (Boeth. p. 32, 9—33, 4).   1 est. ut  et 3  fiunt, ita  r  2  pr . qui] quamuis  FNm1 post . quae  EPR  3 et] ut  Cm1  4 unus est] unum est ał  (haec del. m2)  unus est  C post . unus] unus est  LS  infinitis  CLm1  diffinitus  R  5 quidem  om. FN  diuisum  Em1  diuisuum  N  quod] quia quod,  s. l . est  G  6 uero commune]  FS  commune uero  Cm1  ( post  uero  add . est  m2 )  HN  commune est uero  LPm2R  commune est numero  EGPm1  ac] et  R  ad  Em2GLPm1  8 Assignati  Pm1  quid est]  FHPm2 \ m1  quide  CNRS  quid sit  Π m2 xV   edd . quod est  cett. Busse; cf . sunt  p. 236, 14  9 utrum- que—uno]  CEGHPm1  (quidem  ex  quodem)  RS h m2 W m2 xP  utrumqae quodque sit genus unum (unum genus  N )  FN & m1 AZΦ  utrumque et (et  om .  L Π ) cum (cumque  Π ) sit genus unum  LPm2 il m1  utrumque unum  Γ  species uero plurimae  FLNPm2 TΔ m1 Λ2Φ ;  ad utrumque— pluribus  cf. Porph. p. 7, 1  11 genus—indiuiduis  (p. 231, 16) ]  RS Q ,  om. cett . speciebus  R  14 autem]  Porph. p. 7, 4   γάρ  15 aut]  RS  edd.,  om .  Ω   Busse; Porph. p. 7, 4   ή aequis] aequo  R  ignibile  R  17 uero] autem  S post  minime  add . praedicantur  Γ  18. 19  utroque loco  dices]  RS  dicis  Ω   edd. Busse; Porph. p. 7, 7   ειποις άν   dicatur, de his necessario et speciei genus prae- dicabitur et generis genus usque ad generalissi- mum; si enim uerum est Socratem hominem dicere, hominem autem animal, animal uero substantiam,|  uerum est et Socratem animal dicere atque sub-  p. 77  stantiam. semper igitur superioribus de infe- rioribus praedicatis species quidem de indiuiduo praedicabitur, genus autem et de specie et de indi- uiduo, generalissimum autem et de genere et de  generibus, si plura sint media et subalterna, et de specie et de indiuiduo. dicitur enim generalis- simum quidem de omnibus sub se generibus spe- ciebusque et de indiuiduis, genus autem quod ante specialissimum est, de omnibus specialissimis et  de indiuiduis, solum autem species de omnibus indiuiduis, indiuiduum autem de uno solo parti- culari. indiuiduum autem dicitur Socrates et hoc album et hic ueniens, ut Sophronisci filius, si solus ei sit Socrates filius.    Breuiter quaecumque superius dicta sunt commemorat hoc modo. cum, inquit, adsignauerimus quid sit genus et quid species, cumque suis ea definitionibus comprehenderimus docuerimusque unum genus semper in plurimas species solui,  2 generalissima  Sm2  (specialissimum  m1 )  ΓΛΛ  3 enim] autem  S  4 autem] uero  Λ  uero] autem  Δ  5 et Socratem animal]  A m2 A m2  ( om . et,)  Ψ  hominem et (et  om ,  AA ) animal  Α m1 Α m1 Φ  et hominem ani- mal  RS Σ  et ( om .  II ) socratem et (et  om .  Γ ) hominem ( del .  Γ m2 ) et ( om .  T ) animal  ΓΠ ;  cf. Porph. p. 7, 11 6  igitur]  RS  enim  Ω ;  Porph. p. 7, 12   οΰν superioribus] superiora  RS TA a.c . 7 praedicantur  RS VA a.c . species] et species  R  indiuiduo]  cod. Q. Bussii brm  indiuiduis  RS Q  ( ante add.  eius  Σ );  Porph,. p. 7, 13   τοΰ άτο’μοο  10 sunt  RS m2   p.c  subalterna] de subalternis  A  11 enim] autem  S  13 et de  om. R  de  om. S  14 de]  Ω   cum Porph. p. 7, 17  et de  RS  15  pr . de  om. S post . de] et de  R  17 autem] enim  N TAΛΣ ;  Porph. p. 7, 19   ie  18 album] aliud  T m1  (et illud  m2 )  A m1  ut] et  Ν ΤΑ m2 ΑΣ  19 socrates sit  CEGLPRS; Porph. p. 7, 21   εΤη Σινγ,ράτης  20 quae  FHN  21 et  om. R   illud, inquit, adiungimus quoniam omnia superiora de inferio- ribus praedicantur, inferiora uero de superioribus minime. et ea quae sunt utilia de praedicationis modo rite pertractat. ostendit autem genus in plurimas species semper solui ad- signata generis definitione. quod enim de pluribus rebus specie  iffdiertenbus in eo quod quid sit praedicaretur, esse definiuit genus. nihil autem sunt plurimae res specie differentes nisi plurimae species; de quibus autem praedicatur genus, in ea ipsa dissoluitur. ostensum est igitur ex definitionis adsigna- tione unius generis esse species plures. quae cum ita sint,  genus quidem de specie praedicatur, species uero de indiuiduis omniaque superiora de inferioribus, inferiora de superioribus nullo modo. id quare eueniat paucis absoluam. quae superiora sunt, substantialiter ea genera esse praediximus, qua uero sunt genera, ampliora sunt quam una quaeque species. neque enim  in plurima diuideretur genus, nisi ab una quaque specie maius existeret. id cum ita sit, nomen generis toti conuenit speciei; non enim coaequatur solum speciei generis magnitudo, uerum etiam speciem superuadit. idcirco igitur omnis homo animal est, quoniam intra animalis uocabulum et homo et  cetera continentur. at uero nullus dixerit : omne animal homo est; non enim peruenit ad totum animal hominis nomen, quia, cum sit minus, nullo modo generis uocabulo coaequatur. itaque quae maiora sunt, de minoribus praedicantur, quae minora, non conuertuntur, ut de maioribus praedicentur. at uero si  qua sint aequalia, ea secundum naturae parilitatem conuerti necesse est, ut hinnibile atque equus, quoniam ita sibimet  1 quoniam] quod  S  2 uero  om. ES  4  ante genus  add . unum  FHNPR, in mg. Cm2, recte?  5 definitio ( uel  diff-)  Ea.c.GLPm1S  6 esse] et esse  R  definiuit] designauit  Sm1  10  ante  esse  add . semper  FHNP  13 id cur  HN  idcirco  F  14 ea  add. Em2  quae  L  ( s. l.  illa)  PS  15 quaque  E  quoque  S  17 toti] totum non  R  18  post  enim  repet . non  R  21 cetera] cicero  F  cetera animalia  G  23 itemque  Lm1S  24  post post . quae  s. l . uero  Hm2  26 sunt  FHLN  pari- tatem  EGLp.c.RS  27 ignibile  R  ita] si  ita H   coaequantur, ut neque equus non sit hinnibilis neque quod sit hinnibile, non sit equus. fit ergo ut omne hinnibile equus sit et omnis equus hinnibilis. quae cum ita sint, ea quae superiora sunt, non modo de sibi proximis inferioribus prae-  dicantur, uerum etiam de inferiorum inferioribus. nam si illud recipitur, ut ea quae superiora sunt, de inferioribus praedi- centur, inferiorum inferiora superioribus multo magis infe- riora sunt, uelut substantia praedicatur de animali, quod est inferius; sed animali inferius est homo, praedicabitur  igitur etiam substantia de homine. rursus Socrates inferius est homine, praedicabitur igitur substantia de Socrate. ita- que species quidem de indiuiduis praedicantur, genera uero et de speciebus et de indiuiduis. quod conuerti non po- test; nam neque indiuidua de speciebus aut generibus prae-  dicantur nec species de generibus. ita fit ut genus quod est generalissimum, de omnibus subalternis generibus praedi- cari et de speciebus et de indiuiduis possit. de ipso nihil. ultimum uero genus id est quod ante specialissimas species collocatur et de solis speciebus specialissimis dici potest,  species uero de indiuiduis, ut dictum est, indiuidua autem de singulis praedicantur, ut Socrates et Plato, eaque maxime sunt  1 non  om. brm post  sit (si  R )  add . nisi  CH (s. l. m2) LNPS  ni  R inhinnibilis  EG  nec  FN  quid  CF  2  pr . sit  om. S post . sit] est  CEGLm1RS ; non sit  om. brm; post add . nisi  CLNPRS ,  s. l. Hm2  ergo  om. H  enim  F  sit equus  FHNP  3 hinnibile  N, post hinn.  add . sit  L, ante P  4 sunt  om. S, ante  superiora  EGP  sibi  om. H  5 si  om. S, s. l. Hm1?  8 uelut  om. LS  ut  C  9  pr .  est s. l. Lm2   post . est  s. l. Gm2  praedicatur  CELm2RS  10 etiam  om. FG  11  ante  de  add . et  EGLR  ita  R  13 de speciebus]  hic desinit cod. F  14 aut] ac  R  15 itaque  CHNP  quod est] quidem  CP  quidem est  R  16  post  praedicari  add . potest  L (s. l.) m1  possit  m2 N  17 possit  om. N  potest  L post  ipso  add . uero  HNPR, s. l. Cm2Lm2  18 uero] autem  L  id est]  CHm2NS  id est autem est  Hm1  id autem est  EGLa.c . (id est autem  ut uid. p.c .)  RP  ante  om. EGR, s. l. Pm1?  19 collocat  EGR  et  om. HN  20  post  uero  add . quae  post  indiuiduis  add . dici potest  R  autem] enim  Lm1  21 ea quae maximae  G   p. 78  indiuidua quae sub ostensionem | indicationemque digiti cadunt, ut hoc scamnum, hic ueniens atque quae ex aliqua proprie accidentium designantur nota, ut, si quis Socratem significa- tione uelit ostendere, non dicat ‘Socrates’, ne sit alius qui forte hoc nomine nuncupetur, sed dicat ‘Sophronisci filius’,  si unicus Sophronisco fuit. indiuidua enim maxime ostendi queunt, si uel tacito nomine sensui ipsi oculorum digito tac- tuue monstrentur, uel ex aliquo accidenti significentur uel nomine proprio, si solus illud adeptus est nomen, uel ex parentibus, si illorum est unicus filius, uel ex quolibet alio  accidenti singularitas demonstratur, eo quod ad esse unam praedicationem habeat eiusque dictio non transeat ad alterum, sicut generis quidem ad species, specierum uero ad indiuidua.   Indiuidua ergo dicuntur huiusmodi, quoniam ex proprietatibus consistit unum quodque eorum,  quarum collectio numquam in alio eadem erit. Socratis enim proprietates numquam in alio quolibet erunt  14—p. 235, 4] Porph. p. 7, 21—27 (Boeth. p. 33, 4—10).   1 ostensione  EGPS  ostentationem  HN  indicationeque  EGPS  indaga- tionemque  N  2  ante  hic (is  ex  hic  E )  add . ut  CEGR  et  L  atque quae]  Hm2LNP  atque  EGHm1  atque ea quae  S eaque quae  CR  propria  CH  proprietate  R  4 qui  post  forte  HP  5 forte  ante  alius  N  6 Sophronisci  LNRS; cf . ei  p. 231, 19  7 quaeant  R  si uel  ex  siue  Lm2  sensu  GL  ( ante add . siue)  P  ( ras. ex  -sui)  R  ipso  Cm1LPm1R  tactuque  H  tactu uel  R  8 monstrantur  R  accidenti significentur uel  om. EGR  accidente  N ante  uel  add . id est  CH   (del. m2) Lm2NP  9 nomine  om. EGR ,  post  proprio  S  illud  om .  S, del. Lm2  10  post  uel  add . si  HR, s. l. Lm2  11 demonstretur  S  eo quod  in ras. Cm2  eaque  H  (que  add. m2, post er . quod)  N  ea quae  P; post quod  add . accidentia  in mg. Cm2  de  (s. l.)  accidenti  in con -  textu , ał eo quod accidentia  in mg. L  ad esse unam] unam ad sese  C  ad sese unam  HN  ad se unam  L (s. l. et in mg . de se  a.c.) P  12 habeat]  EGHm2Lp.c.PRS  habet  Cm1Hm1La.c.N  habeant  Cm2L   in mg . dictio] praedicatio  CNSp.c . transit  CHNR  13 species]  m2 in CH (in mg.) P, La.c . specierum  cett . 16 quarum—pluribus  (p. 235, 3) ]  R il ,  om. cett . quarum]  Π m2 Ψ  quorum  cett . in alio  post  eadem  s. l .  \ m2  in alium  R, post  alio  add . quolibet  2   particularium, hae uero quae sunt hominis, dico autem eius qui est communis, proprietates erunt eaedem in pluribus, magis autem in omnibus particu- laribus hominibus in eo quod homines sunt.    Quoniam superius indiuiduum appellauit, huius nominis rationem conatur ostendere. ea enim sola diuiduntur quae pluribus communia sunt; his enim unum quodque diuiditur quorum est commune quorumque naturam ac similitudinem continet. illa uero in quae commune diuiditur, communi  natura participant proprietasque communis rei his quibus com- munis est conuenit. at uero indiuiduorum proprietas nulli communis est. Socratis enim proprietas, si fuit caluus, simus, propenso aluo ceterisque corporis lineamentis aut morum institutione aut forma uocis, non conueniebat in alterum; hae  enim proprietates quae ex accidentibus ei obuenerant eiusque formam figuramque coniunxerant, in nullum alium conueniebant. cuius autem proprietates in nullum alium conueniunt, eius proprietates nulli poterunt esse communes, cuius autem pro- prietas nulli communis est, nihil est quod eius proprietate  participet. quod uero tale est, ut proprietate eius nihil parti-  1  post  particularium  add . eaedem  edd .  cum Porph. p. 7, 24  haec  Δ  eae  Φ   post hominis  s. l . proprietates  Δ  dico—communis  om. R  2 proprietates  er .  Λ  proprietatis  Γ  3 eadem  Δ m1 2   pr . in] et in  Γ   post . in] et in  ΓΛ m2 Φ  omnibus  om. S  4 in  om .  Φ   post  sunt  add . continentur  (ex p. 236, 7) R  6 ostendere conatur  C  7 <in> his  brm  quodque unum  Cm1  quibus  EGLPRS edd . 10 participan- tur  R post . communi ( om . est)  Gm1  11 proprietas  om. E proprietates  Gm1  12 caluus, simus] caluissimus  EGHm1  (caluus uel simus  m2 )  Lm1PR  13 perpenso  ESp.c . albo  Em1  (caluitio  m2 )  G  uentre  N  cor- poris  linea del., sed lin. er., s. l . corruptus  Hm2  liniamentis  CEG   LNPm2S  14  post  institutione  add . probatus  EP, s. l. Lm2 uocis]  Cm1EGPRS  uocisue sono  Cm2HLm2  (uocis uel sonus  m1 )  N  con- ueniebant  EGm1Hm1P  haec  G  16 in nullo alio  EGHLm1PS  17 cuius—conueniunt  om. EGLRS  cuius] eius  P  autem] uero  N  ita- que  P  in nullum—eius  om. P post  eius  add . itaque  N  igitur  L  18 poterant  EGL  potuerunt  ex  poterunt  P  potuerant  R  autem  om. LS  19 proprietatem  EGLRS proprietate *  (s  er .)  H  20 proprietatem  EGH   LPRS  nihil] nulli  Lm2P  participat  ER   cipet, diuidi in ea quae non participant, non potest; recte igitur haec quorum proprietas in alium non conuenit, indi- uidua nuncupantur. at uero hominis proprietas, id est spe- cialis, conuenit et in Socratem et in Platonem et in ceteros, quorum proprietates ex accidentibus uenientes in quemlibet  alium singularem nulla ratione conueniunt.   Continetur igitur indiuiduum quidem sub spe- cie, species autem sub genere. totum enim quiddam est genus, indiuiduum autem pars, species uero et totum et pars, sed pars quidem alterius, totum autem non alterius, sed aliis; partibus enim totum est.   De genere quidem et specie et quid generalissimum et quid specialissimum et quae genera eadem et spe- cies sunt, quae etiam indiuidua, et quot modis genus et species dicitur, sufficienter dictum est.   Hic retractat omnia breuiter quae supra latius absoluit dicens indiuiduum ab specie contineri, species uero ipsas a genere, huiusque causam reddens ait : omne enim genus totum est, indiuiduum pars. totum enim genus in eo quod genus est, continet, tametsi species esse potest; totum enim non  ut genus species est, sed ut ea quae supponitur generi. genus igitur in eo quod genus est, totum est speciebus, semper enim continet eas. at uero indiuiduum pars semper est, num-  7—15] Porph. p. 7, 27—8, 6 (Boeth. p. 33, 10—17).   2 proprietates  Em1NR  conueniunt  N  4  pr . et  om. C secund . in  om. S tert . in  om. HNP  5 uenientes ex accidentibus  C  ex accidente  (om . uenientes ) EGLm1RS  7 Continetur  om. R (cf. ad p. 235, 4)  con- tinentur  A m2 K m1 Z  quidem  om .  Φ  est quidem  Δ  8 totum—indi- uidua  (14) ]  R Q ,  om. cett . 9 pars—uero] pars est species autem  Δ  10  pr . totum] totum est  ΛΦ 11 sed in aliis, in partibus  edd. cum Porph. p. 8, 2  12 quod  ΛΣ  13 et quid specialissimum  om .  A  quod  A2  14 sint. R ΓΛΙIΣ;   cf. p. 237, 15  quod  GS  tot  Pm1  modis  om. S  15 dicatur  N ΥΔΛΠΦΨ ,  s. l. add .  Σ ;  cf. p. 237, 19  16 Hic  om. NR, s. l. Hm2  17 teneri  C  ipsas  om. E  ipsa  Cm1  18 huiusce  Lm2  19 pars  om. E  genus enim  Cm1 (ante  genus  s. l . totum  m2) HN  20 totum] tum  Hm1  tunc  Ν  enim] autem  S  23 est  ante  semper  CN  pars  post  est  LS   quam enim ipsum aliquid sua proprietate concludit. species uero et totum est et pars, pars quidem generis, totum uero indiuiduis. et cum pars est, ad singularitatem refertur, cum totum, ad pluralitatem. quoniam enim unum genus pluribus  5 speciebus superest, una quaelibet species pars est generis, id est unius, quoniam autem species pluribus indiuiduis | praeest,  p. 79  non est uni indiuiduo totum, sed plurimis. idcirco enim totum dicitur, quia plura continet et cohercet. nam ut pars sit ali- quid, una ipsa unius pars esse poterit, ut uero totum sit,  unum ipsum unius totum esse non poterit. idcirco alterius quidem pars est species, aliis uero totum.    Et de genere quidem et specie dictum est et quid sit gene- ralissimum genus, quoniam id cui nullum aliud superponitur genus, et quid specialissima species, quoniam ea cui species  nulla supponitur, et quae genera eadem sunt, eadem et species, scilicet subalterna quibus aliquid superponitur, aliquid uero supponitur, quae etiam indiuidua, ea scilicet quorum pro- prietates alteri nequeunt conuenire, et quot modis genus uel species dicitur, genus quidem aut in multitudine aut in pro-  creatione aut in participatione substantiae, species uero aut ex figura aut ex generis suppositione, sufficienter dictum est. quibus absolutis modum uoluminis terminabo, ut quarti area libri differentiae reseruetur.    2  ante post . pars  add . et  C ,  post er . que  L  totum  in mg. Cm2 uero  om. HN  autem  C (in mg. add. m2) L  quidem  S  3 indiuidui  Cm1NS  et] sed  CHN post post . cum  add . uero  R  4 quoniam] quod  L  7 plu- ribus  HLm2NS  9 unum ipsum  brm  12 Et] sed  in er . et  Lm2  specie] de specie  EG  13  post  id  add . est  P, s. l. Em2  14 quod  C specialissimum ( om . species,]  HN  nulla species  NR  15 superponitur  (ras. corr. E)  nulla  EG eadem  s. l. Lm2  16 supponitur  HR  aliquid uero supponitur  om. ENR, in mg. Cm2  17 ea om.  EGLPRS  18 non queunt  G  quod  Em1GN  quod quot  R  20 aut in partici- patione  s. l. Gm2 post substantiae  add . aut ex figura  S  consistit  edd . uero aut] autem  N  21 figura] genere  S  ex  om. E est  om. S  22  post  area  s. l . ubi discutiamus ea  Em2  23  ante subscriptionem initium libri IV usque ad p. 239, 6  iniecta  scriptum, post subscrip -  tionem E  ANICII MANLII (MALLII  G ) SEVERINI BOETII (BOECII  G ) V. C. ET I LL . EXCONS (EXC.  E ) ORD. PATRICII IN ISAGOGEN (YSAGOGAS  E ) PORPHYRII (PORPHIRII  E ) ID EST INTRODVCTIONE A SE TRANSLATAE (ID  eqs. om ., SCDAE  E ) EDITIONIS LIB. III. EXPL. INCIP. LIB. IIII.  EG ; EXPLICIT LIBER TERTIVS. (LIB. IIII. EXPLICIT  L ) INCIPIT (LIBER  add. LS ) QVAR- TVS  L   (add. mS)   NPRS (uariis cum. compendiis) ; LIBER QVARTVS  C; subscriptio deest in H     De differentia disputanti non aeque illud debet occur- rere quod in generis specieique tractatu de collocationis ordine quaerebatur. illic enim meminimus inquisitum, cur esset omni-  bus praepositum genus, ut id primum ad disputationem ueniret, cur post genus species esset iniecta, nunc uero superuacuum est dicere, cur post speciem differentia sumpta sit, cum illud iam fuerit inquisitum, cur non ante speciem collocata sit. quodsi mirum uidebatur speciem differentiae in disputationis  loco fuisse praepositam, quod differentia continentior et magis amplior esset specie, quid est quod possit quisque mirari, si eandem differentiam ante proprium atque accidens collocauerit, cum proprium unius semper sit speciei, ut posterius demon- strabitur, accidens uero exteriorem quandam ostendat naturam  nec omnino in substantia praedicetur, differentia uero utrumque contineat, et de pluribus speciebus et in substantia praedicari? sed haec hactenus, nunc ad ipsa Porphyrii uerba ueniamus.    Differentia nero communiter et proprie et magis  3 quod—inquisitum] p. 170, 2 ss. 198, 10 ss. 18—p. 240, 13] Porph. p. 8, 8—17 (Boeth. p. 33, 18—34, 7).   2 De differentia] Differentiae  E  Differentia  G  Differentiam  La.c . disputanti] in disputando  CEGLm1N  non aeque illud] non illud quoque  C  3 quod] ut  HN  collationis  Cm1HN  4 quaerebatur]  hic desinit cod. S  11  ante  specie  add . ea  EG  ab  HL  est quod  om. GR  ( post  quid  add .interrgatiue)  s. l. Lm2 , sit  Em1  sit quod  m2 an  quisquam?  ad  quisque  add . iure possit  Em2  12  post  eandem  add . iure  E, s. l. Lm2  13 sit unius speciei semper  C  unius sit semper speciei  R  unius semper speciei sit  N  15 substantiam  NR  16 substantiam  Em1  18  ante  Differentia  inscriptio  DE ( om .  Ψ ) DIF- FERENTIA  additur in   2  et magis proprie  in mg. Cm2?   proprie dicitur. communiter quidem differre alterum ab altero dicitur, quod alteritate quadam differt quo- cumque modo uel a se ipso uel ab alio. differt enim Socrates a Platone alteritate et ipse a se uel puero uel iam uiro et faciente aliquid uel quiescente et  semper in aliquo modo habendi alteritatibus. proprie autem differre alterum ab altero dicitur, quando inse- parabili accidenti ab altero differt. inseparabile uero accidens est ut nasi curuitas, caecitas oculorum, cicatrix, cum ex uulnere obcalluerit. magis proprie  differre alterum ab altero dicitur, quando specifica differentia distiterit, quemadmodum homo ab equo  p. 80  specifica differentia differt rationali qualitate. |    Tribus modis aliud ab alio distare praediximus, genere. specie, numero, in quibus omnibus aut secundum substantiales  quasdam differentias alia res distat ab alia aut secundum accidentes. nam quae genere uel specie distant, substantia- libus quibusdam differentiis disgregata sunt, idcirco quoniam genera et species quibusdam differentiis informantur. nam quod homo ab arbore genere distat, animalis sensibilis qua-  litas in eo differentiam facit. addita enim sensibilis qualitas  14 praediximus] p. 191, 21.   1 dicitur]  λεγέσ&ω   Porph. p. 8, 8; cf . nuncupatur  infra p. 241, 18  communiter—distiterit  (12) ]  R Q ,  om. cett . 2 ab  om .  A , s. l .  Γ  3 ipso  om. R  4  pr . a  om. R X  puero] a puero  ΣΦ  5 uiro] a uiro  Φ  et]  R T  uel  cett.; Porph. p. 8, 11 χοιί  aliquod  S  6 habendi] habendi se  Φ ;  Porph. p. 8, 12   τού πώς εχειν  7 ab  om .  ΔΛΣ  quandam  R  8 accidente  R ;  post add . alterum  edd. cum Porph. p. 8, 13  ab  om .  Σ  10 coaluerit  Σ m2 post proprie  add . autem  ΓΔ   (fort. recte)  uero  Φ ;  Porph. p. 8, 15   hi  11 ab  om .  ΛΣ  12 destiterit  TX m1 AZ  quem- admodum—differt  del. Lm1?  13 differentia  om. Ν Σ   ante  rationali  add . id est  CEGL, s. l .  Hm2 A m1?  rationabili  CEGLPR  14 ab]  LP, om. cett . 17 accidens  CEm2 accidentales  Lm2  18 disgregata— quibusdam  om. N, s. l. R  19  post  quibusdam  add . substantialibus  Hm2 edd.,recte? ad  informantur  s. l.  disregantur  N  21 ea  Hm1Lm2NP   animato animal facit, eidem detracta facit animatum atque insensibile, quod uirgulta sunt. igitur homo atque arbor genere differunt — utraque enim sub animalis genere poni non possunt —, differentia sensibili secundum genus discrepant, quae unius ex  propositis tantum genus, id est hominis informat, ut dictum est. illa uero quae specie distant manifestum est quod ipsa quoque differentiis substantialibus discrepant, ut homo atque equus differentiis substantialibus discrepant, rationabilitate atque inrationabilitate. ea uero quae indiuidua sunt et solo  numero discrepant, solis accidentibus distant. haec autem sunt uel separabilia uel inseparabilia, separabilia quidem, ut moueri, dormire; distat enim alius ab alio, quod ille somno prematur, bic uigilet. distat item inseparabilibus accidentibus, quod hic staturae sit longioris, hic minimae. Quae cum ita sint, in ter-  narium numerum has differentiarum diuersitates Porphyrius colligit hisque ipse nomina quibus post utatur, apponit dicens : omnis differentia uel communiter uel proprie uel magis proprie nuncupatur, communiter quidem eam dif- ferentiam sumens quae quodlibet accidens monstret, quae in  quadam alteritate consistit, ut si Plato a Socrate differat, quod ille sedeat, hic ambulet, uel quod ille sit senex, hic  5 ut dictnm est] p. 208, 17 ss.   1 eiusdem  E  et idem  G  eadem  L  inanimatum  L , in-  er. EP; cf. p. 208, 14 ss . 2  post  arbor  add . quae  H   (linea del., sed lin. er.) L (del. m1) N  3 animali ( om . genere)  N  4  ante  differentia  add . sed ex  E  nam  brm, post s. l . igitur  Pm2  5 praepositis  CLm1N positis  Em1, s. l . homine et arbore  Lm2Em2  6 distant specie  C  quod  om. CHN  7 dis- crepare  CHN  ut—discrepant  om. EGL, s. l. R  8 discrepant  om. C  9  post  inrationabilitate  add . distant  L  10 sunt  add. Lm2, in mg. Pm2  13 distant  Hm1Pm2  distet  L  distat enim  E  14 sit  om. R, ante staturae  HN  staturae sit  post  longioris  L  minimae]  Ppr  minime  cett. codd. bm  16 isque  EG ipsis  C  post utatur] postulatur  EGR  17 propria  Ca.c.L  18 propria  L  differentiam eam  HNP  a differentia  (om. eam) E  19  ad  sumens  s. l . exordium  Em2  monstraret  EGLm1  (demonstraret  m2 )  R  20 ut si] uti  EGLm1  (uti si  m2 )  R  a  om. CGR, s. l. Lm1?Pm2  differt  ex  -rat  E  21 sit  om. C  est  EGL (s. l.) R   iuuenis. a se ipso etiam saepe aliquis differre potest, ut si nunc quidem faciat aliquid, cum ante quieuerit, uel si nunc adulescens iam factus sit, cum prius tenera uixisset infantia. communes autem differentiae nuncupatae sunt, quoniam nullius propriae esse possunt differentiae, sed separabilia accidentia  sola significant. nam et stare et sedere et facere aliquid ac non facere multorum atque adeo omnium et separabilia esse accidentia manifestum est. quibus si qui differunt, communibus differentiis distare dicuntur. praeterea puerum esse atque adule- scentem uel senem, ea quoque separabilia sunt accidentia. nam  ex pueritia ad adulescentiam atque hinc ad senectutem, ab hac denique ad decrepitam usque aetatem naturae ipsius necessitate progredimur. illud forsitan sit dubitabile de unius cuiusque forma corporis, an ullo modo separari queat. sed ea quoque est separabilis, nullius enim diuturna ac stabilis forma per-  durat. idcirco nec peregrinus pater relictum domi puerum, si adulescentem redux uiderit, possit agnoscere; forma enim semper quae ante fuerat, permutatur atque ipsa alteritas qua distamus ab altero, semper diuersa est. Constat igitur hanc communem differentiam separabilibus maxime accidentibus  applicari, propria uero est quae inseparabilia significat acci- dentia. ea huiusmodi sunt, ut si quis caecis nascatur oculis, si quis incuruo naso; dum enim adest nasus atque oculi, ille caecus, ille erit semper incuruus. atque haec per naturam. sunt uero alia quae per accidens corporibus fiunt, ut si cui uulnus  1  post  differre  add . quidem  L  2 cum ante  in mg. Cm2  nunc si  C  3 iam  er. L, post  nunc  N  5 proprie  CL  sed]  CLm2NP ,  om. EG , et  R  quae  HLm1  separabiles  E, post add . enim  Lm1, del. m2  6  pr . et  om. P  ac] et  HNP  7 ideo  EGL post  omnium  add-  sunt  edd . et  om. H  esse  om. G, post  accidentia  EL ; separabilium esse accidentium  N  8 si  om . N quid  EG  qua  R  9 discuntur  E 10  ante  separabilia  add . ueraciter  R  14 eo  Lm1  15 est separabilis] est separabilis forma  PR separabilis forma est  EGL  nullius—per- durat  om. GR, in mg. Cm2, s. l. Pm2  ac stabilis] et stabilis  C  ( ut uid .)  N  ac stabili  P  estimabilis  E  18 alteritas ipsa  EG  19 altera  EGLm2R  22 nascetur  Em1  24  ante  erit  add . etiam  R  semper  om. C   inflictum cicatrice fuerit obductum, haec si obcalluerit, pro- priam differentiam facit; distabit enim alter ab altero, quod hic cicatricem habeat, ille uero minime. postremoque in his omnibus uel separabilibus accidentibus uel inseparabilibus alia  sunt naturaliter accidentia, alia extrinsecus, naturaliter quidem ut pueritia uel iuuentus et totius conformatio corporis, sic caeci oculi et curuitas nasi. et superiora quidem exempla separabilis accidentis per naturam sunt, posteriora uero inse- parabilis. item extrinsecus uel ambulare uel currere; id enim  non natura, sed sola affert uoluntas, natura uero posse tan- tum dedit, non etiam facere. atque haec sunt separabilis acci- dentis extrinsecus uenientis exempla, illa uero inseparabilis, ut si qua cicatrix obducta uulneri obcalluerit. Magis propriae autem differentiae praedicantur, quae non accidens, sed sub-  stantiam formant, ut hominis rationabilitas; differt enim homo a ceteris, quod rationalis est uel quod mortalis. | hae sunt  p. 81  igitur magis propriae, quae monstrant unius cuiusque sub- stantiam. nam si illae quidem idcirco communes dicuntur, quia separabiles atque omnium sunt, aliae autem propriae,  quoniam separari non possunt, quamuis sint in accidentium numero, illae iuro magis propriae praedicantur, quae non modo a subiecto separari non possunt, uerum subiecti ipsius speciem substantiamque perficiunt. ex his igitur tribus differentiarum diuersitatibus, id est communibus, propriis ac magis propriis,  fiunt secundum genus uel speciem uel numerum discrepantiae. nam ex communibus et propriis secundum numerum distantiae nascuntur, ex magis propriis uero secundum genus ac speciem.  1  ante cicatrice  add . si  H  6 uel  om. C  formatio  HNPm2  sic]  HPm1  (et si  m2 )  Rm1  (sieque  m2 ) si  EGLm1  (sique  m2 ) tum  CN  9  post  currere  add . sunt  E  10 uoluptas  L  11 at  Em1  atqui  m2 separabilis sunt  C  13 uulneris  Lm2P  autem propriae  La.c.R  14 substantia  Cm1  15 informant  Pm2, recte?  16 a  om. HN  rationa- bilis  EGLPR post  mortalis  add . est  C  hae]  Hp.r.L  haec  cett . sunt igitur] enim sunt  H  20 quoniam] quod  R  22 ab  G post  ipsius  add . suis  Em1, del. m2  23 tribus igitur  CG  24 ac  s. l. Em2 , et  CR    Uniuersaliter ergo omnis differentia alteratum facit cuilibet adueniens, sed ea quae est communiter et proprie, alteratum facit, illa autem quae est magis proprie, aliud. differentiarum enim aliae quidem alte- ratum faciunt, aliae uero aliud. illae quidem quae  faciunt aliud, specificae uocantur, illae uero quae alteratum, simpliciter differentiae. animali enim dif- ferentia adueniens rationalis aliud fecit et speciem animalis fecit, illa uero quae est mouendi, alteratum solum a quiescente fecit; quare haec quidem aliud,  illa uero alteratum solum fecit.    Omnis differentia alterius ab altero distantiam facit. sed haec uel est communis et continens uel cum quodam proprio et magis proprio differentiarum modo. quare quicquid qualibet ratione ab alio diuersum est, alteratum esse dicitur. si uero  accesserit illi diuersitati ut etiam specifica quadam differentia sit diuersum, non alteratum solum, uerum etiam aliud esse praedicatur. alteratio igitur continens est, aliud uero intra alterationis spatium continetur; nam et quod aliud est, alte- ratum est, sed non omne quod alteratum est, aliud dici potest.  itaque si accidentibus aliquibus fuerit facta diuersitas, alteratum  1—11] Porph. p. 8, 17—9, 2 (Boeth. p. 34, 7—15).   1 ergo] uero  CEGR; Porph. p. 8, 17   osv  alterum  E h m2 A  2 sed ea—quiescente fecit  (10) ]  Ω ,  om. cett . ea quae est  eqs. ]  cum cod. A Porph. p. 8, 18, cett.   α: μέν—κοιοϋσιν, a: 81 άλλο  3 alterum  Δ ,  item 4  autem] uero  ΔΣΦ  7 altera  Φ*  enim] autem  A a.c . 8 ratio- nale  2  facit  ΓΣΦ   item 9; Porph. p. 9, 1   ίποίησεν  et speciem animalis fecit  om. codd. quidam Porph., deleri uult Busse  10 faci(??)  ΓΔ m2 ΣΦ  qua * ( (??)  ? er.)  re *   C  qua in re (si  add. GLm1, s. l . siqui- dem  m2 )  EGL  11 ille  Gm1  illae  Δ  solum  om. EG, s. l. Cm2 , solum modo  P  fecit]  ΔΛ ,  om. P,  facit  cett.; Porph. p. 9, 2   έποίηοιν  13 uel est]  L  uel ex  EG  est uel  N, om . est  CR, om . uel  HP   (ante  est  add . quidem )  communi  EG continenti  E ( -ti * ) G  cum  om. N, s. l. Em2  eo  m1  14 proprio] proximo  GR, post  proprio  add . uel ma- ximo  P  18 inter  Gm1  19 nam et]  Hm1NR  igitur et  EG  igitur omne  ( et  add. C) CHm2L  21 erit  HN   quidem effectum est, quoniam quidem quolibet modo uel ex quibuslibet differentiis considerata diuersitas alterationem facit intellegi, aliud uero non fit, nisi substantiali differentia alterum ab altero fuerit dissociatum. itaque communes et propriae  differentiae, quoniam accidentium, ut dictum est, sunt, solum efficiunt alteratum, aliud uero minime, magis propriae autem, quoniam substantiam tenent et in subiecti forma praedicantur, non modo alteratum, quod est commune uel substantiali uel accidenti differentiae, sed etiam aliud faciunt, quod ea sola  retinet differentia quae substantiam continet formamque sub- iecti. atque hae quidem differentiae quae faciunt aliud, speci- ficae nuncupantur idcirco, quod ipsae efficiunt speciem; quam cum substantialibus differentiis informauerint, faciunt ab aliis ita esse diuersam, ut non alterata solum sit, uerum etiam  tota alia praedicetur. itaque fit huiusmodi diuisio, differentiarum ut aliae alteratum faciant, aliae nero aliud. et illae quidem quae faciunt alteratum, simpliciter puro nomine differentiae nuncupantur, illae uero quae aliud, specificae differentiae prae- dicantur. atque ut planius liqueat quid sit alteratum, quid  aliud, tali describuntur termino uel declarantur exemplo : aliud est quod tota speciei ratione diuersum est, ut equus ab homine, quoniam rationalis differentia animali adueniens hominem fecit aliudque eum quam equum esse constituit. item si unus homo sedeat, alter assistat, non efficietur homo diuersus ab homine,  sed eos alteratio sola disiungit, ut eum qui assistit ab eo qui  5 ut dictum est] p. 242, 4 ss. 19 ss.   1  post , quidem  om. HNP, del. Lm2  uel ex quibuslibet  om. H  2  ad  differentiis  s. l . uel diuersitatibus  Rm1 ? 7 formam  N  9 accidentali  Hm2NPm2 facit  EGLP  10 quae  er. C  11 hee  P  12 ipsae  om. EGLR  14 alteratum  E (in ras. m2) P  alterum  GLR  15 aliud  R  sit  E  16 ut  om. EH  faciunt  HNR  facient  Em2  facie  m1  20 describantur  Em1 21 ratione specie  (sic) E  ab  om. EGL, s. l. HP  22 facit  HLNPm1  23 esse] est  Em1  ita  R  itaque  N  24 effi- citur  N  efficiatur (ur  add. m2 )  P   sedet faciat alteratum. item si ille sit nigris oculis, ille caesiis, nihil, quantum ad formam humanitatis attinet, permutatum est. ita secundum has differentias alteratio sola consistit. at si equus quidem iaceat, homo uero ambulet, et aliud est equus ab homine et alteratum, dupliciter quidem alteratum, semel  uero aliud. alteratum est enim, uel quod omnino specie diuer- sum est — et est aliud; omne enim aliud, ut dictum est, etiam alteratum est —, uel quod accidentibus distat, quod ille iaceat, hic ambulet, semel uero est aliud, quod rationabili  p, 82  atque inrationabili differentiis dis|gregatur, quae specificae sunt  et substantiales dicuntur. est igitur alteratum quod ab alio qualibet ratione diuersum est.  Secundum igitur aliud facientes diuisiones fiunt a generibus in species et definitiones adsignantur, quae sunt ex genere et huiusmodi differentiis, secundum  autem eas quae solum alteratum faciunt, alteratio sola consistit et aliquo modo se habendi permutationes.    Quoniam in principio operis huius generis, speciei, differen-  13—17] Porph. p. 9, 2—6 (Boeth. p. 34, 15—19). 18 in prin- cipio o. h.] p. 147, 5.   1 facit  Em1G  item  om. EGR, in mg. Hm2, s. l. Lm2 si  om. EGL, post  ille  R, in mg. Hm2 post . ille] iste  N  caesius  La.c . (ce-)  Pm1  caecis  N  cecus  C  3 item  in ras. L post  has  add . quo- que  HNP, s. l. Lm2  sola  s. l. Em2  ut  GN  4 uero  om. E  5 ab] de  P pr . alterum  GLm1  6  post  uero  add . est  C  enim  om .  H  (quidem  add. post est )  N, ante est  CGPR  7 enim  om. G  8 distet  R  9 iacet  HLm1N  ambulat  H  rationali atque inrationali  HLm2R  10 differentia  N  segregatur  CR  specificae sunt] differentiae specificae  C  13  post facientes  add . differentias  edd., om. codd. cum cod. C Porph. p. 9,3 et Dauide commentatore p. 177, 23 (Busse); post add . et  edd. cum Porph .  τέ  14 quae—faciunt  (16) ]  L Q ,  om. cett . 15  ante  sunt  add . definitiones  Γ  definitiones scilicet  Δ  et] ex  Δ m2  16  ante  alteratio  add . at  CG alteratio sola consistit]  ai έτερότητες μο'νον συνί- ατανται   Porph. p. 9, 5  17 et] in  CEGLR  ad  Δ ;  Porph.   v.at  aliquo modo] aliquando  Γ  se  add. Em2  habentis  R  habentibus  EGLm1 permutatione  R  permutationibus  CEGLm2  18 huius  om. EGR, ante  operis  s. l. Lm2 specieique  EGLNPR; cf. p. 148, 17   tiae, proprii accidentisque notitiam ad diuisionem atque ad definitionem utilem esse praedixit, idcirco nunc differentiarum ipsarum facta diuisione easdem partitur et segregat, quaenam differentiae diuisionibus ac definitionibus accommodentur, quae  uero minime. quoniam igitur diuisio generis ita in species facienda est, ut illae a se species omni substantiae ratione diuersae sint, idcirco non probat assumendas esse eas ad diui- sionem differentias quae uel separabilis uel inseparabilis acci- dentis significationem tenent, idcirco quoniam, ut dictum est,  solum faciunt alteratum, aliud uero perficere et informare non possunt. inutiles igitur sunt ad diuisionem hae differentiae quae faciunt alteratum. segregandae igitur sunt communes et propriae a generis diuisione, illae assumendae tantum quae sunt magis propriae. illae enim faciunt aliud, quod generis  diuisio uidetur exposcere. ad definitionem quoque eaedem magis propriae plurimum ualent, communes et propriae uelut inutiles segregantur; communes enim et propriae, quo- niam accidens diuersi generis ferunt, nihil substantiae ratione conformant, definitio uero omnis substantiam conatur ostendere.  specificae uero differentiae illae sunt quae, ut superius dictum est, speciem informant substantiamque perficiunt; hae sunt magis propriae. eaedem igitur sicut in diuisionem, ita etiam in definitionem assumuntur. ut enim dictum est, eaedem diffe-  9 ut dictum est] cf. p. 244, 2. 245, 4 (et p. 242, 19—21). 20 supe- rius] p. 245, 11. 23 ut enim dictum est] infra p. 253, 12 ss. 258, 9 ss. 260, 6 ss.   2 definitionem] defensionem  G  utile  E  4 ac definitionibus  om .  EG  5 diuisio igitur  E  7 eas  ante  assumendas  P, ante  esse  HN  diuisiones  NRm1  8 uel inseparabilis  om. EGR  9 idcirco—faciunt] uel eas differentias quae faciunt (faciant  R )  EGL (del. m2) R  10 aliud— alteratum  (12) om. EGR  14 aliud faciunt  C  15 definitionem] diui- sionem  Cm1EGLm1  eadem  Em1G  16 plurimum  om. EG post  ualent  add . nam  EGL (del. m2) P  17 uelut—propriae  om. EGR  enim  om. CH  18 proferunt  Lm2Pm2 procedent  m1  praecedunt  N a.c . 19 informant  N  21 hee  CP  haec  E  22 eaedemque  C  eadem  Em1GL  diuisione  GN, add . generis  GL  etiam  om. HN  et  P  23 diffinitione  N  ut enim—sumuntur  om. edd .   rentiae nunc quidem constitutiuae ad definitionem specierum sumuntur, nunc diuisiuae ad partitionem generis accommodantur. ita igitur cum diuisiuae sunt generis, aliud constituunt, in substantiae uero definitione speciei informationem faciunt, cumque magis propriae et aliud faciant et specificae sint, eo  quidem quo aliud faciunt, diuisionibus aptae sunt, eo uero quo speciem informant, definitionibus accommodatae sunt. communes autem et propriae quoniam neque aliud faciunt, sed alteratum, neque omnino substantiam monstrant, aeque a diuisione ut a definitione disiunctae sunt.   A superioribus ergo rursus inchoanti dicendum est differentiarum alias quidem esse separabiles, alias uero inseparabiles. moueri enim et quiescere et sanum esse et aegrum et quaecumque his proxima sunt, separabilia sunt, at uero aquilum esse uel  simum uel rationale uel inrationale inseparabilia. inseparabilium autem aliae quidem sunt per se, aliae  11—249, 4] Porph. p. 9, 7—14 (Boeth. p. 34, 20—35, 6).   2 assumuntur  Ea.c . partitionem] coparationem  N  3 ita—faciunt  (4) in mg. sup. Hm2  Ita igitur cum diuisio generis aliud quaerat. substantia uero speciei informationem  Hm1, eadem uerba loco  ita—faciunt  adiungit N  Ita igitur cum ad diuisionem generis aliud querant. aliud uero ad speciei informacionem faciunt  Hm3  3 diuisiuae]  CHm2LN   (priore loco) Pm1  diuisione  EG  ad diuisionem  Hm3R  diuisio  Hm1N (post. l) Pm1  sunt]  CHm2LN (pr. l.), om. EGHm1 et 3 N (post. l.) R, s. l. Pm2  constituunt]  CHm2N (pr. l.) Pm2  quaerat  Hm1N (post. l.) Pm1  quaerant ( uel  que-,)  Hm3R  quam erat  EG  constituunt quam erat  L  in substantiae uero definitione]  CHm2LN (pr. l.) Pm2  in substantia uero  Pm1R  substantia uero  EGHm1N (post. l.)  aliud uero  Hm3  4  post  uero  add . ad  Hm3  faciunt  om. EHm1N (post. l.)  5  pr.  et  om. HN, s. l. Pm2  faciunt  Lm1Pm1  et] ac  C  eo] in eo  N  6 quidem  om. L  quod  HLm1NP (d  er .) uero] modo  N  7 quod  HRm1  9 sed] sub  G  monstrat  CGm1  11 ergo  om .  H  uero  N 2 ;  Porph. p. 9, 7   ouv  rursus  om. H  12 aliae... aliae  h m1  separabiles esse  Φ  13 alias uero—perceptibile  (p. 249, 2) om. C  moueri—perceptibile]  R Ω ,  om. cett . 14  ante  quaecumque  s. l . omnia  Λ  15 at—inseparabilia  in sup. mg .  h m2  acylum  ΓΦ  acilum  ΛΣ ,  sim. p. 249, 3.250, 20. al . 16  post  inseparabilia  add . sunt PAS<P   edd. Busse, om.R h   cum Porph. p. 9,10   uero per accidens; nam rationale per se inest homini et mortale et disciplinae esse perceptibile, at nero aquilum esse uel simum secundum accidens et non per se.    Superius differentias triplici diuisione partitus est dicens aut communes esse aut proprias aut magis proprias, dehinc easdem alia diuisione in duas secuit partes dicens has quidem aliud facere, illas uero alteratum. nunc tertiam earum quidem facit diuisionem dicens alias esse separabiles, alias inse-  parabiles, posse autem de uno quoque cuius multae sunt dif- ferentiae, plurimas fieri diuisiones ex ipsa differentiarum natura manifestum est. nam si omnis diuisio differentiis distribuitur, quorum multae sunt differentiae, multas etiam diuisiones esse necesse est. fit autem ut animal diuidatur quidem hoc modo :  animalis alia quidem sunt rationabilia, alia inrationabilia, item alia mortalia, alia inmortalia; item alia pedes habentia, alia minime; rursus alia herbis uescentia, alia carnibus, alia semi- nibus. ita nihil mirum uideri debet, si multiplex differentiae est facta partitio. ac primum quidem cum in ternarium nume-  rum differentiae membra secuisset, communes et proprias et magis proprias nuncupauit. secunda uero diuisio communes et proprias intra nomen alteratum | facientis inclusit, magis proprias  p. 83  uero intra aliud facientis. haec nero tertia diuisio, quae ait dif- ferentiarum alias esse separabiles, alias inseparabil es,  5 Superius... dicens aut eqs.] p. 239, 18. 7 dicens has eqs.| p. 244, 2.   2 perceptibile]  ΦΨ  perceptibilem  cett . ( in mg . capacem  T ) 3 uel] et  Γ  simium  P post  accidens  add . est  Γ ,  s. l. Lm2, ras. in E  et  om. Ν ΑΣ  4  post  se  add.  est  P  5 differentia  R  7 dicens  in mg. Hm2  8 earum quid  R  earundem  CN  quidem  post pr . alias  C  9  post post , alias  add . uero  C  14 animal] in animali quod  H  diuiditur  H  quidem  ante  diuidatur  Lp, om. brm  15 animalium  N edd . quidem  post  sunt  NP, om. H  rationalia alia inrationalia  H  18 item  P  20  post  secuisset  add . ait  HP  aut  CN  et magis—et proprias  om. EG  21 nun- cupari  H  nuncupauerit  LPR  22 facientes  CNPm1  propria  R  proprium  Em1GLp.c . 23 facientes  CN  qua  CLNRm1   unam quidem ex alteratum facientibus separabilibus differentiis adiungit, ceteras uero intra inseparabilis differentiae uocabulum claudit. una quidem ex alteratum facientibus. id est propria differentia, et reliqua quae aliud facere demonstrata est, id est magis propria, inseparabiles differentiae esse dicuntur.  quarum subdiuisio fit. inseparabilium differentiarum aliae sunt per se, aliae secundum accidens, per se quidem magis pro- priae, secundum accidens uero propriae. per se autem aliquid inesse dicitur quod alicuius substantiam informat. si enim idcirco quaelibet species est, quoniam substantiali differentia  constituitur, illa differentia per se subiecto adest neque per accidens aut per quodlibet aliud medium, sed sui praesentia speciem quam tuetur informat, ut hominem rationabilitas. homini enim huiusmodi differentia per se inest, idcirco enim homo est, quia ei rationabilitas adest; quae si discesserit,  species hominis non manebit. et has quidem quae substanti- ales sunt, inseparabiles esse nullus ignorat; separari enim a subiecto non poterunt, nisi interempta sit natura subiecti. secundum accidens nero inseparabiles differentiae sunt hae quae propriae nuncupantur, ut aquilum esse uel simum; quae  idcirco per accidens nuncupantur, quoniam iam constitutae speciei extrinsecus accidunt nihil subiecti substantiae commo- dantes.   Illae igitur quae per se sunt, in substantiae  24—p. 251, 14] Porph. p. 9, 14—23 (Boeth. p. 35, 6—17).   1 ex  om. EG, in inf. mg. L  alteratum  post  facientibus  R, om. G post  facientibus  add . id est communem  L (in inf. mg.) P  2 adiungit] ponit  La.c . cetera  R  ceterasque  Lm2  alteram  C  3 una  ras. ex  una  C  quidem] quidem fit  G  quippe  HN  4 et  om. G, s. l. E  5 inseparabilis  E  esse  om. G  6  post  quarum  add . quidem  Lp  ita  brm post  aliae  add . enim  EGL  8 inesse aliud ( ex  aliquid  m2 )  L  11 neque] non  Lm2R, ante  neque  add . quae  Hm2  12  post  medium  add . quae sunt propria  Hm1, del. m2  13 rationalitas  H, item 15  15 ei  s. l. Hm2  16 quidem eas  (sic) C  17 nullus esse  C  18 nisi] ni  EG 20 proprie  CN  aquilum]  cf. p. 248, 15  22 accedunt  Hm1N  subiecto  Hm1  subiectae  Lm1N   (-te)  24 Igitur illae  C  in  om .  N   ratione accipiuntur et faciunt aliud, illae uero quae secundum accidens, nec in substantiae ratione dicuntur nec faciunt aliud, sed alteratum. et illae quidem quae per se sunt, non suscipiunt magis et  minus, illae uero quae per accidens, uel si inse- parabiles sint, intentionem recipiunt et remissi- onem; nam neque genus magis aut minus praedi- catur de eo cuius fuerit genus, neque generis dif- ferentiae, secundum quas diuiditur; ipsae enim  sunt quae unius cuiusque rationem complent, esse autem uni cuique unum et idem neque intentionem neque remissionem suscipiens est, aquilum autem esse uel simum uel coloratum aliquo modo et intenditur et remittitur.    Differentiis rite partitis earum inter se distantiam monstrat atque unam quidem repetit quam superius dixit. cum enim tres esse dixisset differentias, communes, proprias, magis pro- prias, alteratum facere dixit proprias, sicut etiam communes, aliud minime, sed hoc solis magis propriis reseruauit. nunc  igitur idem repetit dicens quoniam inseparabiles differentiae quae substantiam monstrant, id est quae per se subiectis speciebus insunt easque perficiunt, aliud faciunt, illae uero  16. 252, 3 superius] p. 244, 1 ss.   1 rationem  GR h  suscipiuntur  Lm2  percipiuntur  Φ  aliud] illud  E  illae—suscipiens est  (12) ]  Ω ,  om. cett . 3 dicuntur] accipiuntur  Φ   (ex 1); Porph. p. 9, 16   λαμβάνονχαι   uel παραλαμβάνοντα   codd .,  λέγονται   Dauid comment. p. 184, 16  alteratum] alterum  W- m1  et  om .  Γ  4 quidem  om .  Λ  uero  Γ  5 uero quae] quidem  Γ  si  om .  Φ  6 sunt  ΔΣΦ brm Busse; Porph. p. 9, 18   v.dv—Jaw  7 aut]  Λ   Busse  et  cett. codd. edd. (cf. 4); Porph. p. 9, 19   ή   cod. M   m;   cett . 9 ipsae]  otuxat   Porph. p. 9, 20  10  post  rationem  add . id est diffinitionem  Φ  11 neque—remissionem  cum Porph. p. 9, 21 cod. Μ ,  ooxe ανεσιν οντε έπίχασιν   cett . 12 aquilum]  cf. ad p. 248, 15  autem  om. P  13  pr . uel] et  Γ  colorari  Em1  et  om. CLR  14 et] uel  R  17 esse  post dixisset  HNP, ante  tres  P  18 alteratum—proprias] proprias alte- ratum facere dixit  HNP  19  post  aliud  add . uero  HNPR, s. l. Lm2   quae sunt propriae, id est secundum accidens inseparabiles differentiae, neque in substantia insunt nec aliud faciunt, sed tantum, ut superius dictum est, alteratum. item alia distantia est earum differentiarum quae secundum substantiam sunt, ab his quae secundum accidens, quoniam quae substantiam mon-  strant, intendi aut remitti non possunt, quae uero sunt secun- dum accidens, et intentione crescunt et remissione decrescunt. id autem probatur hoc modo. uni cuique rei esse suum neque crescere neque deminui potest; nam qui homo est, humanitatis suae nec crementa potest nec detrimenta suscipere. nam neque  ipse a se plus aut minus hodie uel quolibet alio tempore homo esse potest nec homo rursus ab alio homine plus homo potest esse uel animal. utrique enim aequaliter animalia, aequaliter homines esse dicuntur. quodsi uni cuique esse suum nec cremento ampliari potest nec inminutione decrescere,  quod per id facile monstrari potest, quoniam quae genera sunt uel species, nulla intentione uel remissione uariantur, non est dubium quin differentiae quoque, quae unius cuiusque speciei substantiam formant, nec remissionis detrimenta suscipiant nec intentionis augmenta. itaque substantiales differentiae  neque intentionem neque remissionem suscipiunt. huius causa haec est. quoniam esse uni cuique unum et idem est, et  p. 84  intentionem re|missionemue non suscipit huius exemplum. genus  2 nec  N  substantiam  N  sunt  EN  neque  edd . 4 est]  L   (s. l. m2) P edd., om. cett . sunt  om. E  5 secundum accidens quo- niam quae  om. EGP  6  ante  intendi  add . quae  EGP post  pos- sunt  add . secundum  (s. l. E)  accidens  EGP  sunt  om. CHL  7 in- tentione] intensione  Pm2 edd., item 17—p. 253, 6  9 deminui]  Pm1  minui  L (ex  diminui  m2) N  diminui  cett . quia  C  10 decrementa Em1G edd . 11 uel] aut  L  12 neque  N  13 uterque  P  aequa- liter—dicuntur] aequaliter corporales. aequaliter animati. aequaliter ho- mines esse dicuntur  H, eadem uerba loco aequaliter—dicuntur  adiungit sic  utrique enim aequaliter  eqs. N  15 ampliorari  EGLPm1  17  ante  non  s. l . et ob hoc  Em2  19 informant  Pm2  21 suscipient  N  cuius  HNP  22  post  unum  add . est  L  23 remissionemque  N post  exemplum  add.  sit  Lm1 edd. (ante  huius  distinctio) , est  Lm2, s. l. Hm2   enim dici non potest plus minusue cuilibet genus; omnibus enim genus aequaliter superponitur. differentiae quoque quae diuidunt genus et informant speciem, quoniam speciei essentiam complent, nec intentionem recipiunt nec remissionem. quae  uero secundum accidens differentiae sunt inseparabiles, ut aquilum esse uel simum uel coloratum aliquo modo, et inten- tionem suscipiunt et remissionem. fieri enim potest ut hic paulo sit nigrior, hic uero amplius simus, ille minus aquilus, at uero quod non omnes homines aequaliter rationales mor-  talesque sint, nec specierum nec differentiarum natura uidetur admittere.   Cum igitur tres species differentiae consi- derentur et cum hae quidem sint separabiles, illae uero inseparabiles, et rursus inseparabilium cum  hae quidem sint per se, illae uero per accidens, rursus earum quae sunt per se differentiarum aliae quidem sunt secundum quas diuidimus ge- nera in species, aliae uero secundum quas ea quae diuisa sunt specificantur, ut cum per se differen-  tiae omnes huiusmodi sint, animati et inanimati,  12—p. 254, 8] Porph. p. 9, 24-10, 8 (Boeth. p. 35, 18—36, 6). 16 differentiarum—19 specificantur] Abaelardus, Introduct. ad theolog., II p. 94.   1  post  cuilibet  add . esse  L edd . 2 quae  om. GPR, del. Hm1?  3 formant  CEGLm1R  species  Lm2NP  3  ante  quoniam  add . quae  EGHLPR  essentiam] substantiam  N  4  ante  quae  add.  ill<a>e  G  6 aquilum]  cf. ad p. 248, 15  colorari  EG  8 nigrior sit  HNP  hic— aquilus] hic uero minus hic magis acilus ille autem minus hic amplius simus illo uero minus  E amplius simus] amplissimus  G, add . sit  L  aquilus]  ut  6 9 non quod  R  ut non  HNPm1  quoniam non  m2  ratio- nabiles  ELm2P  12 considerantur  Λ m2  ( in er . -entur)  2  13 haec  EG  illae—sensibilis  (p. 254, 5) om. CEG  14 et—sensibilis  (ibid.) om. HLNP  16 rursus—sensibilis  (ibid.) om. R  per se sunt  Λ2Φ  17 quidem  om .  Λ2  18 ea]  ΓΔΨΨ   edd . haec  ΛII2  20 animatum et inanimatum sensibile et insensibile rationale et inrationale mortale et inmortale  h m1 animati—insensibilis]  Porph. p. 10, 4   εμψύχου και αίαβητικου   ante  sint  add . animalis  edd. cum Porph .  τοϋ ζώου   quattuor  et  (20—p. 254, 2) om .  2   sensibilis et insensibilis, rationalis et inrationalis, mortalis et inmortalis, ea quidem quae est animati et sensibilis differentia. constitutiua est substan- tiae animalis — est enim animal substantia ani- mata sensibilis —, ea uero quae est mortalis et  inmortalis differentia et rationalis et inrationalis, diuisiuae sunt animalis differentiae; per eas enim genera in species diuidimus.    Fit nunc differentiarum plena et suprema diuisio, quae est huiusmodi. differentiarum aliae sunt separabiles, aliae inse-  parabiles, inseparabilium aliae sunt secundum accidens, aliae substantiales. substantialium aliae sunt diuisibiles generis, aliae coustitutiuae specierum. quod uero ait : cum igitur tres species differentiae considerentur, ad hoc retulit, quod in prima differentiarum diuisione partim eas communes esse,  partim proprias, partim magis proprias dixit, quas rursus tres differentias alias separabiles esse monstrauit, alias inseparabiles, separabiles quidem communes, inseparabiles uero proprias ac magis proprias. inseparabilium uero fecit diuisionem dicens alias esse secundum accidens, quae propriae nuncupantur, magis  proprias uero secundum substantiam considerari. earum uero quae secundum substantiam sunt, subdiuisionem facit, quod  3 constituta  T m1  4  post  animata  add . et  ΓΛ   Busse, om .  ΔΠΣΦΨ Porph. (p. 10, 6) edd . 5 ea] he  ex  e  Rm2  est] sunt  R  6 diffe- rentia  om .  CEGPR  et  om .  CLR \\ rationabilis et inrationabilis (rac-  et  irrac-  P )  Lm2P  7 diuisi  Em1  diuisae  GPm1  has  HP; Porph. p. 10, 8   St’ αΰτών  8 genera in]  L (s. l. m2)   ΓΔΠ .  (in mg. m2)   Ψ   Porph., om. cett . 11  post  inseparabilium  add.  uero  C  12 generis  om. EGR, in mg. Lm2  15  post  esse  add . dixit  HNP  dicit  R  16 dixit  om. HPR, s. l. Em2  rursum  H  17 alias insepa- rabiles esse (esse  om. N ) monstrauit  HNP  18 ac] et  HN  20 acci- dens] se  EG(er.), s. l. Pm2, add . substantiam  Em1  alias (alia  E ) se- cundum substantiam considerari  G edd., in mg. Em2, s. l . alias secun- dum  Pm2, post  considerari  add . et illas esse secundum accidens  edd.  quae—considerari  om. E post  quae  s. l . uero secundum accidens  Pm2  propria  C  proprias  Pm2  nuncupari  Pm2  21 eorum  (sic)  uero quae secundum substantiam  s. l. add. Em2  22  post  quae  add.  et  C   aliae earum genus diuidant, aliae speciem informent. ad cuius rei facilem cognitionem illa tertii libri specierum generumque dispositio transcribatur. sitque primum substantia, sub hac corporeum atque incorporeum, sub corporeo animatum atque  inanimatum, sub animato sensibile atque insensibile, sub quo animal, sub animali rationale atque inrationale, sub rationali mor- tale atque inmortale et sub mortali species hominis, quae solis deinceps indiuiduis praeponatur. in hac igitur diuisione omnes hae differentiae specificae nuncupantur, generum enim specierum-  que differentiae sunt, sed generum quidem diuisiuae, specierum autem constitutiuae. id autem probatur hoc modo. substantiam quippe corporei atque incorporei differentiae partiuntur, cor- poreum uero animati atque inanimati, animatum sensibilis atque insensibilis. ita igitur genera substantiales differentiae  partiuntur et dicuntur generum diuisiuae. at uero si eaedem differentiae quae a genere descendentes genus diuidunt, colli- gantur et in unum quae possunt iungi copulentur, species informatur. nam cum animal species sit substantiae — omnia enim superiora de inferioribus praedicantur et quicquid inferius  fuerit, species erit etiam superioris —, animatum tamen atque  2 illa tertii libri.. dispositio] p. 208, 12 ss.   1 diuidunt  N  diuident  R informant  CNR, add . atque construant  H  atque constituunt (-ant  ex  -ent  P )  NP, s. l. Lm2   (ex p. 256, 3)  at  E  2 facilitatem  G  cognitionem  om. EG  illa  s. l. Hm2  3 trans- feratur  Hm1N; post transcribatur  spatium ad inscribendam figuram ut uid. relictum in EG  sub] ubi  E  hoc  Em1GLm1R  4 atque incorporeum  in mg. Em2  sub corporeo  om. GR, in mg Em2, s. l. Lm2  6 animal sub  om. E  sub animali  om. GR  6 rationabile  E  7 et  om. HN, del. Em2  12 patiuntur  Em1G  corporeum—partiun- tur  (15) om. Em1, in mg . corporeum ( ex  corpore  m3 )—inanimati (ani- matum autem  s. l. add. m3 ) sensibilis—partiuntur  add. m2  13 ani- matum  om. G, post add . autem  Em3  enim  Lm1, del. m2 , et  er. N  14  post  insensibilis  add . partiuntur  CL substantialis  Gm1Pm2  15 si  del. Lm2, post  si  del . et  R  heaedem  P  (dem  er .)  R  (h  del .) hae  HN 16 quae  post  descendentes L 17 in  ex al. litt. Em2  18 informantur  EHN  informant  part. ras. ex informatur  Lm2  fit  E   sensibile quae sunt differentiae, si referantur ad genera, diui- siuae sunt, constitutiuae uero fiunt animalis eiusque sub- stantiam formant atque constituunt definitionemque conformant, ut sit animal substantia animata sensibilis, substantia quidem genus, animatum uero atque sensibile eiusdem differentiae consti-  p. 85  tutiuae. | item animal rationabilitas atque inrationabilitas diuidit, mortali etiam atque inmortali diuiditur, sed iuncta rationabilitas atque mortalitas, quae animalis diuisiuae fuerant, fiunt homi- nis constitutiuae eiusque perficiunt speciem atque omnem eius rationem definitionis informant atque perficiunt. at si  inrationabilitas cum mortalitate iungatur, fiet equus aut quod- libet animal, quod ratione non utitur, rationabilitas uero atque inmortalitas copulatae del substantiam informant. ita eaedem differentiae cum referuntur ad genera, diuisiuae generum fiunt, si uero ad inferiores species considerentur, informant species  earumque substantiam conuenienti copulatione constituunt. In hoc quaesitum est, quemadmodum dicerentur esse hae diffe-  1  post  sunt  add . eiusdem  P (s. l. m2) edd . diuisiua  Em1G  2  post  sunt  s. l . si ad speciem  Lm2Pm2  uero  om. N, del. Pm1?, s. l. Hm2Rm2  fiunt  s. l. Rm2  3 definitionemque] diuisionemque  EG  formant  Hm1  4 quidem] uero  N  5 ante genus add. eiusdem  CN ,  post add . est  s. l. LPm2 ante  differentiae  add . generis  GP, post add . diuisiuae  R post  constitutiuae  add . animalis  R, s. l . speciei animalis  Lm2  6 rationabilitas—diuiditur]  P  rationalitas atque inrationalitas diuidit mortalitas ( ex  inmortali  m2 ) etiam atque inmortalitas ( ex  inmor- tali  m2 ) diuidit ** ·  H  rationabilitas atque irrationabilitas mortale atque inmortale diuidit  C  rationale atque inrationale (diuidunt  add. N ) mortale atque (et  N ) inmortale diuidit (diuidit  om. N )  NR inrationabile (inratio- nale  L ) atque inmortale diuiditur  EGLm1, in mg. ante  atque  add . irracionale. mortale etiam atque  m2  rationabilitas atque irrationabilitas, mortalitas atque immortalitas diuidit  brm  7 rationalitas  E  8 diuisiua  Em1GLm1R  9 constitutiua  GLm1R eiusque] hominisque  HNP  nominis  (del. Lm2)  eiusque  EGL  10 atque perficiunt  s. l. Rm2  11 irrationalitas  EP  mortali  Lm2Pm1  fiat  G  aut] atque  L  12 rationalitas  HP  13 inmortalitas] inrationabilitas  R  dei  om. G ,  post  substantiam  E (s. l. m2) L  formant  HN  item  HL  14 di- uisae  E  17 esse  om. C  eae  EGR  heae  P   rentiae specierum constitutiuae, cum inrationabilis differentia atque inmortalis nullam speciem uideantur efficere. respondemus primum quidem placere Aristoteli caelestia corpora animata non esse; quod uero animatum non sit, animal esse non posse;  5 quod uero non sit animal, nec rationale esse concedi. sed eadem corpora propter simplicitatem et perpetuitatem motus aeterna esse confirmat. est igitur aliquid quod ex duabus his diffe- rentiis conficiatur, inrationabili scilicet atque inmortali. quodsi magis cedendum Platoni est et caelestia corpora animata  esse credendum, nullum quidem his differentiis potest esse subiectum — quicquid enim inrationabile est corruptioni sub- iacens et generationi, inmortale esse non poterit —, sed tamen hae differentiae, quoniam substantialium differentiarum in numero sunt, si iungi ullo modo potuissent, earum naturam  et speciem quoque possent efficere. atque ut intellegatur, quae sit haec potentia efficiendae substantiae specieique formandae, respiciamus ad proprias atque communes, quae tametsi iun- gantur, speciem substantiam que nulla ratione constituunt. si quis enim loquatur ambulans, quae sunt duae communes dif-  ferentiae, uel si albus ac longus, num idcirco isdem eius sub- stantia constituitur? minime. cur? quia non eiusdem sunt generis, quae alicuius possint constituere et conformare sub-  3—7 Aristoteli] cf. De caelo II 12, p. 292 a , 18 ss.; ed. Didot IV part. II p. 38 a , frg. 24 (Cic. de nat. deor. II 15, 42 cum locis ab Heitzio adlatis). 9 Platoni] Tim. p. 38 E. 39 E ss.; cf. supra p. 209, 2.   1 species  G  inrationalis  CEGP  differentiae  E  5 concedit  Lm1N  7 est] esse  CN, ad  est  s. l . ał esset  L  aliud  G  8 con- ficeretur  H, s. l.  ( add . ał)  ad  conficiatur  L  irrationali  Lm2P  9 ac- cedendum  CN  (ac  er .)  H  (ac  in ras. m2 ), concedendum  edd . est platoni  CN  et  om. C  10 credendum  om. CN  11 inrationale (irr-  P )  HP 13  ante  substantialium  add . in  CHN, post  diff.  om. CHNR  16 efficientiae  G  17 tametsi] etsi  C etiam (si  er. H ) etsi  H  ( in mg . ł tametsi  m2 )  NP  19 loquitur  HN  20 sit  H  num  ex  non  Rm2 isdem]  NP  eisdem (ei  in ras. m2 )  L  hisdem  cett., post s. l . differentiis  add. Em2  21  ante  cur  add . id  HNP, s. l. Lm2  eius  EG  sunt  ante  eiusdem  N, post  generis  L  22 possunt  NP  con- firmare  Em1GRm1   stantiam. ita igitur hae, id est inrationale atque inmortale, etiamsi subiectum aliquod habere non possunt, possent tamen substantiam efficere, si ullo modo iungi copularique potuissent, praeterea inrationale iunctum cum mortali substantiam pecudis facit : est igitur constitutiua inrationalis differentia, item inmor-  tale ac rationale coniuncta efficiunt deum : est igitur inmortale quod speciem formet, quodsi inter se iungi nequeunt, non idcirco quod in natura earum est, abrogatur.   Sed hae quidem quae diuisiuae sunt differentiae generum, completiuae fiunt et constitutiuae speci-  erum; diuiditur enim animal rationali et inrationali differentia et rursus mortali et inmortali differentia, sed ea quae est rationalis differentia et mortalis, con- stitutiuae fiunt hominis, rationalis uero et inmor- talis del, illae uero quae sunt inrationalis et mor-  talis, inrationabilium animalium, sic etiam et supremae substantiae cum diuisiua sit animati et inanimati dif- ferentia et sensibilis et insensibilis, animata et sen- sibilis congregatae ad substantiam animal perfecerunt.    9—19] Porph. p. 10, 9—17 (Boeth. p. 36, 7—15).   2 aliquod  om. C  aliquid  LP  possunt—substantiam] possent tamen substantiam possent  C  4 mortale  EGPm1  5 irrationabilis  NP  ita R 6 coniunctae  HN  8 eorum  edd . 9 haec  CL  heae  P  10 generum  om. EG  fiant  Cm1Em1G  sunt  Σ  11 diuiditur—insensibilis  (18) ]  2 ,  om. cett . 12  pr . et—differentia  om.   2 ,  add.   X m2  13 ea... differentia]  Porph. p. 10, 12 ai... διαοοραί  rationalis.. mortalis  cum cod .  M Porph., cett .  τοΰ 6-νητοδ καί τού λογικού  14 fiunt] definiunt  Δ m1 ΙΛΣ  hominem  Δ m1 ΑΣ  15 dni in ras.  2 ,  add . sunt et angeli  Δ ,  sed del., ante  dei  add.  angeli et  Π m2 ,  sed del.; codd. Porph. p. 10,13 aut   θεού   aut   άγγέλοο  quae sunt  add .  X m2   post  mortalis  add . constitutiuae sunt  Γ  16 inratio- nalium  X m2 \ m1 ,  add . sunt  Φ etiam] enim  Φ  supremae substan- tiae]  T m2  (suae substantiae  m1 )  X m 2 (superna substantia  m1 ) suprema substantia  cett. codd. edd. Busse; cf. Porph. p. 36, 12 et infra p. 259, 23  18 animatum  EGR  sensibile  E  (le  in ras .)  R  19 congregata  ER  perficerent  G  perficiunt  in ras .  2 post  perfecerunt  add . animata uero et insensibilis perfecerunt plantam  edd. cum Porph. p. 10, 17, om .  Boethius etiam in commentario   Geminum differentiarum usum esse demonstrat, unum qui- dem quo genera diuiduntur, alium uero quo species infor- mantur; neque enim hoc solum differentiae faciunt, ut genera partiantur, uerum etiam dum genera diuidunt, species in quas  genera deducuntur efficiunt, itaque quae diuisiuae sunt gene- rum, fiunt constitutiuae specierum, huiusque rei illud exemplum est quod ipse subiecit; animalis quippe differentiae sunt diui- siuae rationale atque inrationale, mortale atque inmortale; his enim praedicatio diuiditur animalis, omne enim quod animal  est, aut rationale aut inrationale aut mortale aut inmortale est. sed istae differentiae quae diuidunt genus quod est animal, speciei substantiam formamqne constituunt, nam cum sit homo animal, efficitur rationali mortalique differentiis, quae dudum animal partiebantur, item cum sit equus animal, inrationali  mortalique differentiis constitui|tur, quae dudum animal diui-  p. 86  debant. deus autem cum sit animal, ut de sole dicamus, ratio- nali inmortalique efficitur differentiis, quas diuidere genus habita partitio paulo ante monstrauit. sed hic, ut diximus, deum corporeum intellegi oportet, ut solem et caelum ceteraque  huiusmodi, quae cum animata et rationabilia Plato esse con- firmat, tum in deorum uocabulum antiquitatis ueneratione probantur assumpta, de primo quoque genere, id est substantia demonstrantur uenire. nam cum eius diuisiuae sint differentiae  18 ut diximus] p. 208, 22 ss. 20 Plato] cf. p. 257, 9.   2 aliud  EHm1Rm2  alio  m1  uero  om. R  4 partiuntur  GPm1  diuidendo  N  5 deducantur  HN  dicuntur  R  diuiduntur C (uid  in er . duc?  m2 ) diuisae  Em1Gm2HR  6 huius C rei  om. EGR s. l. Lm2  7 ipse] ille  R  diuisae  Em1Gm2  8 mortale atque inmortale  om. EGR, in mg. Lm2  9 quod animal est] animal  HNR  10  pr . aut  om. R post  rationale  add . est  HN  11 est  om. HR  quod] hoc  C  13  post  efficitur add. ab his  EPm1, del. m2, s. l. Lm2  post differentiis  add . constituitur  Cm1, del. m2  14 partiebantur] diuidebant Lm1R  15 diuidebant] parciebantur  R  16 ut] si  CH, in ros. N, recte?; cf.p. 208, 22  20 confirmet  C  (et  in ras. m2 ) HLm2N  22 substantiam  Em1  23 demonstrantur] idem monstratur  HN  idem  (super ras. Cm2, s. l. Pm2)  demonstrantur  Cm1Pm1, alt . n  del. Cm2Pm2  euenire  HNPm2, add. s. l . differentiae  Lm2  diuisae  Em1Pm1  sunt  EHm1   animatum atque inanimatum, sensibile atque insensibile, iunctae differentiae sensibilis atque animati efficiunt substantiam ani- matam atque sensibilem, quod est animal, iure igitur dictum est, quae diuisiuae sunt differentiae generum, easdem esse con- stitutiuas specierum.   Quoniam ergo eaedem aliquo modo quidem accep- tae fiunt constitutiuae, aliquo modo autem diuisiuae, specificae omnes uocantur. et his maxime opus est ad diuisiones generum et definitiones, sed non his quae secundum accidens inseparabiles sunt, nec magis his  quae sunt separabiles.  Omnes a genere differentias procedentes genus ipsum a quo procedunt, diuidere nullus ignorat, ipsae autem quae diuidunt genus, si ad posteriores species applicentur, informant substantias easque perficiunt, eaedem igitur sunt constitutiuae  specierum, eaedem diuisibiles generum, alio tamen modo atque alio consideratae, ut si ad genus relatae quidem in contrariam diuisionem spectentur, diuisibiles generis inueniuntur, si uero iunctae aliquid efficere possint, specierum constitutiuae sunt, quae cum ita sint, hae differentiae quae genus diuidunt, rectis-  sime diuisiuae nominantur - quae enim constituunt speciem, specificae sunt, sed constituunt speciem hae differentiae quae  6—11] Porph. p. 10, 18—21 (Boeth. p. 36, 15—19).   4  post  constitutiuas  add . et completiuas  C  completinasque  HNP   (ex p. 258,10)  6 ergo] igitur  P  needem  uel  heedem  hic et 15. 16. p. 261, 1 codd. quidam  alio  P  ( ras. ex  aliquo,)  Γ  (o  in ras .) quidem]  ΓΔΛΙIΨ ,  om. cett.; Porph. p. 10, 18   μεν  7 aliquo—inseparabiles sunt  (10) ]  Ω ,  om. cett . alio  ras. ex  aliquo  ut uid .  Γ  autem modo  Φ  autem  add .  5 m2  10 sunt inseparabiles  Γ his  om .  Γ  12  post  Omnes  add . enim  R  13 quo] quibus  EGR  procedent  Em1  15  post  sub- stantias  s. l . earum  L  eas substantiasque (quae  N )  HNR  sunt igitur  HL  16  post  eaedem  add . sunt  LR  19 sint  CHPRm1  21 diui- siuae] specificae  Lm2  nominantur] nuncupantur  HΡΝ  enim  om. C   post  speciem  add . eaedem speciem faciunt, quae uero speciem faciunt  CHN   sunt generis diuisiuae - eaedemque sunt specierum constitu- tiuae. quare iure quae generum diuisiuae sunt et quae spe- cierum constitutiuae, specificae nuncupantur, has igitur in diuisione generis et in definitione specierum accipi oportere  manifestum est. quoniam enim diuisiuae sunt, per eas diuidi oportet genus, quoniam autem constitutiuae, per eas species definiri; quibus enim unum quodque constituitur, isdem etiam definitur, constituitur autem species per differentias generis diuisiuas, quae sunt specificae, iure igitur specificae solae et  in generis diuisione et in specierum definitione ponuntur, et de specificis quidem haec ratio est, de his autem quae uel separabilia uel inseparabilia continent accidentia, nihil in generum diuisione uel definitione specierum poterit assumi, idcirco quoniam quae diuisibiles sunt, substantiam generis  diuidunt, et quae constitutiuae sunt, substantiam speciei con- stituunt. quae uero sunt inseparabilia accidentia, nullius sub- stantiam informant, unde fit ut multo minus separabilia acci- dentia ad diuisiones generum uel specierum definitiones accommodentur; omnino enim dissimiles sunt substantialibus  differentiis, nam inseparabilia accidentia hoc fortasse habent commune cum specificis, hoc est substantialibus differentiis, quod aeque subiectum non relinquunt, sicut nec specificae differentiae, separabilia autem accidentia ne hoc quidem; sepa-  1 diuisae  Gm1  eaedemque]  H  (hee-)  NP  eaedem  C  igitur eaedem (eaedem  s. l. Lm2 ) quae (que  E ) sunt  EGLR  constitutiuae specie- rum  C  2 quare—constitutiuae  om. EGLR  quare iure] iure igitur  P  4 diuisionem  HLm2P  et] uel  R  definitionem (uel diff-)  HL  ( s. l . ał constitutione]  P  diuisione  Em1  6 eius  Em1  7  post  definiri  add . oportet CN, s. l . (scil.  add. E )  EL  quibus—definitur  om. EGLR, in mg. Pm2  hisdem  CHN  9 solae  s. l. Em2  10  post , in  om. HN  12 continent] concedunt  EG, s. l . uel faciunt  Gm1?  13  post  uel  add . in  L  16 sub- stantiam]  HN, om. Em1 , speciem  CGLm1R  (post informant)  s. l. Em2 , speciei substantiam  Lm2P edd . 17 formant  H  multo  om. C  18 ad diuisiones—accidentia  (20) in inf. mg. Gm2  definitiones] diuisiones  Em1G  19  ante  substantialibus  add . a  HN, recte?  22  ante quod  add. id H   (linea del., sed linea er. uid.) N ad  quod aeque  s. l. ał  quod hae similiter  L  sic  G  (ut  er .)  L (ut del. m2)  23 ne] nec  LN   rari enim possunt, nec tantum potestate et mentis ratiocinatione, sed actus etiam praesentia, et omnino ueniendi uel discedendi uarietatibus permutantur.   Quas etiam determinantes dicunt : differentia est qua abundat species a genere, homo enim ab animali  plus habet rationale et mortale : animal enim neque ipsum nihil horum est nam unde habebunt species differentias? neque enim omnes oppositas habet - nam in eodem simul habebunt opposita —. sed, quemadmodum probant, potestate quidem omnes  habet sub se differentias, actu uero nullam, ac sic neque ex his quae non sunt, aliquid fit neque opposita circa idem sunt.    Specificas differentias definitione concludit dicens substan-  p. 87  tiales differentias a quibusdam tali descriptionis ratione finiri :  differentia specifica est qua abundat species a genere, sit enim genus animal, species homo : habet igitur homo dif- ferentias in se, quae eum constituunt, rationale atque mortale; omnis enim species constitutiuas formae suae differentias in se retinet nec praeter illas esse potest, quarum congregatione  perfecta est. si igitur animal quidem solum genus est, homo uero est animal rationale mortale, plus habet homo ab animali id quod rationale est atque mortale, quo igitur abundat species  4—13] Porph. p. 10, 22—11, 6 (Boeth. p. 36, 20—37, 5).   1 nec] non  brm  4 Quae  h m1  dicuntur  A m1  est  add .  \ m2  5 que  Em1  quae  Ga.c . abundant (ha-  G )  Em1G  a  om. N ho- mo—-nullam  (11) ]  R Q ,  om. cett . ab  om .  ΓΦ  6 enim] enim tamen  R  autem  A  7 horum nihil  Γ  8 enim  om .  Φ ,  add .  & m2 , autem  er .  T  :  Porph. p. 11, 3   ούτε ίί ; enim  pro  autem;  cf. ad p. 16, 15; an  autem ( cf.   T )  Boethius scripsit ? opposita  R  habet]   habent  cett .  codd. et edd . 9 nam] nec  R  habebit  Φ  ( post  opposita), non habe- bunt  Δ  11 habet]  P p.c .  Φ*Γ  habent  cett . ac sic  om. N  sic  ex  si  Em2G  12 hiis  Φ  sint  Sa.c . opposita] ex oppositis quae  R h m1  13 circa idem sunt]  Porph. p. 11, 6   &pa περί τό αΰτο εσται  15 diffiniri  Pm2R  19 constitutiuae  Em1GLp.c.Rm1  in se  om. C  22 est uero  E  23 id] id est  EGP   a genere, id est quo superat genus et quo plus habet a genere, hoc est specifica differentia, sed huic definitioni quae- dam quaestio uidetur occurrere habens principium ex duabus per se propositionibus notis, una quidem, quoniam duo con-  traria in eodem esse non possunt, alia uero, quoniam ex nihilo nihil fit. nam neque contraria pati sese possunt, ut in eodem simul sint, nec aliquid ex nihilo fieri potest; omne enim quod fit, habet aliquid unde effici possit atque formari, quae pro- positiones talem faciunt quaestionem, dictum est differentiam  esse id qua plus haberet species a genere, quid igitur? dicen- dum est genus eas differentias quas habent species, non habere? et unde habebit species differentias quas genus non habet? nisi enim sit unde ueniant, differentiae in speciem uenire non possunt, quodsi genus quidem has differentias non habet,  species autem habet, uidentur ex nihilo differentiae in speciem conuenisse et factum esse aliquid ex nihilo, quod fieri non posse superius dicta propositio monstrauit. quod si differentias omnes genus continet, differentiae autem in contraria dissol- uuntur, fiet ut rationabilitatem atque inrationabilitatem, mor-  talitatem atque inmortalitatem simul habeat animal, quod est genus, et erunt in eodem bina contraria, quod fieri non potest, neque enim sicut in corpore solet esse alia pars alba, alia nigra, ita fieri in genere potest; genus enim per se conside- ratum partes non habet, nisi ad species referatur, quicquid  igitur habet, non partibus, sed tota sui magnitudine retinebit, nec illud dubium est, quin in partibus suis genus habeat  1  post , quo] quod  Em1  (quid  m2 )  GHm1R  a  om. H  2 hoc—dif- ferentia  om. C  huic] hunc  Em1N  4 per se  ante  notis  brm  unam  GHa.r. 5  aliam  C (sic) Ha.r. post  quoniam  add . quidem  C  6 sit  C  nec  N  10 id  om. R  qua] quod  GHLm1P; cf. p. 270, 12  dicen- dumne  Lm2  11 genus  ante  non habere  HNP  habent] habet  Lm2  12 habet] habebit  CEGLm1, in mg. Rm2 (om. m1)  13 ueniunt  R  15 uidetur  GLm1P  differentia  EGL  ( ex  -tiasj P 16 esse] est  CLP  aliquando  Em1  18 contrarium  HLm2NPm1  contrario  R  19 mortali- tatem atque inmortalitatem]  CNP, s. l. Lm2, om. cett . 22 esse  post  alba  N, post  alia  P  25 detinebit  N  26 in]  HNP, s. l. Lm2, om. cett .   contrarietates, ut animal in homine rationabilitatem, in boue contrarium. sed nunc non de speciebus quaerimus, de quibus constat, sed an ipsum per se genus eas differentias quas habent species, habere possit atque intra suae substantiae ambitum continere, hanc igitur quaestionem tali ratione dis-  soluimus. potest quaelibet illa res id quod est non esse, sed alio modo esse, alio uero non esse, ut Socrates cum stat, et sedet et non sedet, sedet quidem potestate, actu uero non sedet. cum enim stat, manifestum est eum non agere sessi- onem, sed potius standi inmobilitatem. sed rursus cum stat,  sedet, non quia iam sedet, sed quia sedere potest; ita actu quidem non sedet, potestate uero sedet. et ouum animal est et non est animal. non est quidem animal actu, adhuc namque ouum est nec ad animalis processit uiuificationem, sed idem tamen est animal potestate, quia potest effici animal, cum  formam ac spiritum uiuificationis acceperit. ita igitur genus et habet has differentias et non habet, non habet quidem actu, sed habet potestate. si enim ipsum per se animal consideretur, differentias non habebit, si autem ad species reducatur, habere potest, sed distributim atque ut eius speciebus separarim nihil  possit euenire contrarium. ita ipsum genus si per se consi-  1  post homine  s. l . habet  E, post  rationabilitatem  Lm2  2 nunc  om. EGR, s. l. Lm2  4 suae intra  C  6 quaelibet illa res]  HLm2NPm1  quaelibet res  ( res  s. l. E) CEPm2  quidlibet  Lm1R  quodlibet  G 7 alio uero non esse  om. Hm1, s. l . alio non esse  m2  8  secund . sedet  om. CEGR  9 enim  om. CEGLPm1 (s. l . autem  m2) R  sessione  G  10 mobilita- tem  CEGLm1P  mobilitate  N  cum stat  in  constat  mut .  ERm2  13 actu  om. EG  14 neque  CL  ad  om. E  animal  G  animalis quidem  L  16 spiritum] speciem  CHR  genus et]  ELm2NP  et genus et  H  genus  CGLm1R  17 non habet quidem—potestate] habet quidem potestate sed non habet  ( habet  om. C)  actu  CEm2P  habet quidem actu sed non habet potestate  Em1G  18 consideretur] quis  (s. l.)  consideret  E  19 autem] enim  R  reducat  E  20 distributim]  HLm2PRm2  distri- butum  CN  distribute  EGLm1 distributam  Rm1  atque—contrarium] atque in species separatum  ( separatim  H)  ut nihil possit esse  ( euenire  H)  contrarium  CHN, add. locum  atque ut eius—contrarium  C  nihil] et nihil  G 21 si ipsum genus  HN   deretur, differentiis caret; quod si ad species referatur, per distributas species uel in partibus suis contraria retinebit, atque ita nec ex nihilo uenerunt differentiae quas genus retinet potestate nec utraque contraria in eodem sunt, cum contrarias  differentias in eo quod dicitur genus, actu non habet, inpos- sibilitas enim eius propositionis quae dicit contraria in eodem esse non posse, in eo consistit quod contraria actu in eodem esse non possunt, nam potestate et non actu duo contraria in eodem esse nihil impedit, quae uero nos contraria diximus,  Porphyrius opposita nuncupauit. est enim genus contrarii oppositum : omnia enim contraria, si sibimet ipsis considerantur, opposita sunt.   Definiunt autem eam et hoc modo : differentia est quod de pluribus et differentibus specie in eo quod  quale sit praedicatur; rationale enim et mortale de homine | praedicatum in eo quod quale quiddam est p. 88  homo dicitur, sed non in eo quod quid est. quid est enim homo interrogatis nobis conueniens est dicere animal, quale autem animal inquisiti, quoniam ratio-  nale et mortale est, conuenienter adsignabimus.    Tres sunt interrogationes ad quas genus, species, differentia, proprium atque accidens respondetur, haec autem sunt : quid  13—20] Porph. p. 11, 7—12 (Boeth. p. 37, 6-12).   1 species] differentias  H  2 uel  om. Lm1  uelut  HLm2  sin eo] id  HN  quot  E  7 actu  ante  contraria  H, post  eodem  CLN  in eodem esse—in eodem  om. EG  8  post  non possunt  add . quantum ad genus potestate solum, quantum ad species actu et potestate  Rm2  9 nil  L  contraria nos  C  11 si  om. HN, s. l. Cm2  si in semet  Lm2P  considerentur  CLm2  12 sunt  om. HN  13 autem  om. H  enim  C  et om.  CEGHNP 2 ,  ante  eam  4 ;  Porph. p. 11, 7   xo; όντως  14 quae  EP  de  om. C  et om.  CEGLIR; Porph.   xat ;  cf. infra p. 267, 1  15 ra- tionale—animal  (19) ]  R Q ,  om. cett . 16 praedicatur  T a.c.   m1  quid- dam  om.   ΓΦ  18 homo om.  R ΔΦ ,  s. l . scil, homo  \ m2 ; Porph.  p. 11, 10   6 άνθρωπος  19  post post , animal  add . sit  C, ante EG  inquisiti]  Porph. p. 11, 11   πυνθανομενων  20 et  om. CEGLR; Porph. p. 11, 12   xac  est om.  HNR, s. l .  2 m2 assignauimus  E  assignamus  G  22 hae  Hp.r.LR edd . heede  m P   sit, quale sit, quomodo se habeat, nam si quis interroget : quid est Socrates? responderi per genus ac speciem conuenit aut animal aut homo, si quis quomodo se habeat Socrates interroget, iure accidens respondebitur, id est aut sedet aut legit aut cetera, si quis uero qualis sit Socrates interroget,  aut differentia aut proprium aut accidens respondebitur, id est uel rationalis uel risibilis uel caluus. sed in proprio quidem illa est obseruatio, quod illud proprium dici potest quod de una specie praedicatur, accidens uero tale est quod qualitatem designet quae non substantiam significet, differentia uero talis  est quae substantiam demonstret, interrogati igitur qualis una quaeque res sit, si uolumus reddere substantiae qualitatem, differentiam praedicamus, quae differentia numquam de una tantum specie praedicatur, ut mortale uel rationale, sed de pluribus, quod igitur de pluribus speciebus inter se differen-  tibus praedicatur ad eam interrogationem, quae quale sit id de quo quaeritur interrogat, ea est differentia cuius talem posuit definitionem : differentia est quod de pluribus  1 se  om. G, s. l. E  habet  CEGLR  2 per  om. H  ac  N  3  pr . aut] ut  CHm1N post , aut] ut  Hm1N  habet  R, post  habeat  del . se habet  G  4 iure—legit] differentia aut legit  G  aut differentiam  * ut (a er.) legit  E  differentia respondetur (respondetur  etiam R ) id est aut sedet aut legit  Lm1  5 aut] et  HLm1NP  quale  H  6 proprio aut accidenti  EGR  respondebitur]  CLm2P  respondebit  EGR  respondetur  HLm1N  7  pr . uel  om. LN  uel risibilis uel caluus]  Lm1 edd . uel mortalis uel caluus  CHLmSN  uel mortalis uel alicuius  EGR  uel mor- talis uel saluus uel caluus  Pm1  uel mortalis uel risibilis uel caluus  m2 10 quae non—demonstret] Differentia uero talis est  (haec om. L)  quae (que  ELm1  atque  m2 ) non substantiam significet (-cat  Lm1, add. m1  Differentia uero talis est quae substantiam significat, del.  m2 ). Differentia uero talis est quae (non  add., sed del. E ) substantiam demonstret (at  Lm1 )  EGL  post significet  in mg.  Proprium uero est quod non sub- standam significat  H  11 quae] quia  R  demonstrat  CLm1  inter- roganti  R  ( ex  -tis] quale  R  12 constantiae  G  13 numquam] non  C  tantum de una  C  14 sed  om. EG, s. l. Lm2  15 quod] quod- si  R  16  ad  praedicatur  in mg . respondetur  E  18 pluribus—differen- tibus]  cf. p. 265, 14   specie differentibus in eo quod quale sit praltdicatur; cuius definitionis causam rationemque pertractans ait;   Rebus enim ex materia et forma constantibus uel ad similitudinem rtfateriae et formae constituti-  onem habentibus, quemadmodum statua ex materia est aeris, forma autem figura, sic et homo communis et specialis ex materia quidem similiter consistit genere, ex forma autem differentia, totum autem hoc animal rationale mortale homo est, quemadmodum  illic statua.    Dixit superius differentias esse quae in qualitate speciei praedicarentur, nunc autem causas exequitur, cur speciei qua- litas differentia sit. omnes, inquit, res uel ex materia formaque consistunt uel ad similitudinem materiae atque formae sub-  stantiam sortiuntur, ex materia quidem formaque subsistunt  3—10] Porph. p. 11, 12—17 (Boeth. p. 37, 12-17).   1  post  quale  add . quid  Lm2(in ras.) E (sed er.) Rm1, del. m2, add . quid  post  sit  s. l. Hm2  4  post similitudinem  add . proportionemque  LNRQ  ( in mg . nempe communionem  Γ );  om. Porph. p. 11, 13  et) ac  ΓΔΙΙΨ- ,  om .  L Α2Φ  formae]  A m2 HI!1-  speciei  CEGHNPR h m1  specieique L Λ2Φ  formae speciei  er. uid .  Γ ;  cf. Porph. et infra 13 ss . 5 quem- admodum—differentia  (8) ]  LR Q ,  om. cett. post  materia  add . quidem  edd., recte ut uid.; Porph. p. 11, 14   μέν  6 aeris] et  (s. l. m2)  aere  (in ras. m2)   Ψ  forma] ex ( in al. litt.   xV m2 ) forma  L xV brm   Busse;   Porph .  εΐϊοος post figura haec Proportionale autem (enim  Φ ) dicitur (est  Σ ) quod proportionem omnium specierum teneat (tenet  Σ ) id est communionem omnium partium uel (et  T ) specierum quae diuidi (diui- dendo Rhm1 diuidendae  Th m2 \l m1 2'l> ) ex ea (eo  ΣΣ ) contingunt (con- tingant  R ) per (del.  Σ ) differentiam figuras  ΓΠ m2  diffe- rentiam figuras  \ )  add .  LR T m1 h m1 ΑΠΣΦ ,  om .  Ψ ,  del .  T m2 \ m2  7 simi- liter]  Busse  similiter proportionaliter  LR ll m1  similiter proportionaliterquc  ΓΔΙ m2 Φ'Ρρ  proportionaliter  2 brm; cf. Porph. p. 11, 15  8 ante genere  add . in  Γ m2  (ex  m1 )  L Σ  toto  Ga.c . 9 ratione  E ante  mortale  add . et  CEGHLPR, om .  N Q   cum Porph. p. 11, 16  homo est om.  N ,  ex  homine  Δ m2  11 differentiam  HN  12 praedicaretur  HN causis  Em1 post  cur  add . autem  Hm1, del. m2  qualitas speciei  H  13 omnis  ELm2N  uel  om. EGR  14 consistit  Ea.c.HLm2  subsistit  N  15 sortitur  HLm2N  ex  om. CEGR  formaque] et forma  P   omnia quaecumque sunt corporalia; nisi enim sit subiectum corpus quod suscipiat formam, nihil omnino esse potest, si enim lapides non fuissent, muri parietesque non essent, si lignum non fuisset, omnino nec mensa quidem, quae ex ligni materia est, esse potuisset, igitur supposita materia ac prae-  iacente cum in ipsam figura superuenerit, fit quaelibet illa res corporea ex materia formaque subsistens, ut Achillis statua ex aeris materia et ipsius Achillis figura perficitur, atque ea quidem quae corporea sunt, manifestum est ex materia for- maque subsistere, ea uero quae sunt incorporalia, ad simili-  tudinem materiae atque formae habent suppositas priores antiquioresque naturas, super quas differentiae uenientes effi- ciunt aliquid quod eodem modo sicut corpus tamquam ex materia ac figura consistere uideatur, ut in genere ac specie additis generi differentiis species effecta est. ut igitur est in  Achillis statua aes quidem materia, forma uero Achillis qua- litas et quaedam figura, ex quibus efficitur Achillis statua, quae subiecta sensibus capitur, ita etiam in specie, quod est homo, materia quidem eius genus est, quod est animal, cui superueniens qualitas rationalis animal rationale, id est speciem  fecit, igitur speciei materia quaedam est genus, forma uero et quasi qualitas differentia, quod est igitur in statua aes, hoc est in specie genus, quod in statua figura conformans, id in specie differentia, quod in statua ipsa statua, quae ex aere  2 potest] putem  G putemus  R  4 nec  om. Gm1  ne  EGm2L  5 ma- teria est] fit materia  HNP ante  igitur  add . si  E ,  sed del . 6 in  om. R  ipsa  ER  figuram  Hm1La.r . peruenerit  HN  9 corpo- ralia  HNP  ex  om. C  11 prioris  Em1G  12 antiquiorisque  G  13 tamquam  om. CLP, del. Hm2  ex] ea  GL (in ras. m2) R 14 materia ac figura]  brm  materia  (in ras. Lm2)  forma ac figura (ac figura  del. Lm2 )  LP forma ac figura  CEGHRp  figura ac forma  N  15 generi] generis  EG  16 aes—statua  (17) om. N materiae  G  17 et quae- dam—statua]  CH, om. Lm1  ( in mg . et quaedam figura  m2 )  P  statua (cet. om.) EGR  18 quod] quae  edd . 22 et  om. EGR, s. l. Lm2  quali- tatis  R  igitur est (est  s. l. Pm2 )  HNP  23 figura] forma  N  24  post  quod  add . est igitur  Pm2   figuraque conformatur, id in specie ipsa species, quae ex genere differentiaque coniungitur. quodsi materia quidem speciei genus est, forma autem differentia, omnis uero forma qualitas est, iure omnis differentia qualitas appellatur, quae cum ita  sint, iure in eo quod quale sit interrogantibus respondetur.  Describunt autem huiusmodi differentias et hoc modo: differentia est quod) aptum natum est diuidere  p. 89  quae sub eodem sunt genere; rationale enim et in- rationale hominem et equum, quae sub eodem sunt  genere, quod est animal, diuidunt.    Haec quidem definitio cum sit usitata atque ante oculos exposita, eam tamen plenius dilucideque declarauit. omnes enim differentiae idcirco differentiae nuncupantur, quia species a se differre faciunt, quas unum genus includit, ut homo atque  equus propriis discrepant differentiis; nam sicut homo animal est, ita etiam equus, ergo secundum genus nullo modo distant.  6—10] Porph. p. 11, 18—20 (Boeth. p. 37, 18—38, 1).   1 formatur  CHNP  2 quidem] quaedam  CHLm2PR  3 autem] nero  N uero] ergo  Lm1  autem  N  qualitas]  HNPm1  qualia  CEGLR  uel qualis  s. l. Pm2  5  ante respondetur  excidisse  differentia  coni. Brandt  6  post  autem  add . et  L (del.) R; Porph. p. 11, 18 post   8e   add . *αί   cod. B  differentias]  Em2GHPm1 xV  differentiam  CLPm2   ΓΛΑΙIΣΦ differentia  Em1NR; Porph ,.  τάς τοιούτας διαφοράς  et]  LPR i ,  om. cett.; Porph. *a\ οοτως  7 qua  CG  actum  R  natura]  HL   (del. m2)   ΓΑΛΠΦ   om. cett.; Porph. p. 11, 19   πεφοχος;   cf. infra p. 272, 5—9. 275, 12  8 ante quae add. ea  Γ2 ,  s. l.   A m2 ,  del. m. al. , illa  s. l.   Δ m2  genere sunt  ΣΑΨ  rationale—sunt genere  om. EG  9 et equum] equnmque  C  10 diuidit  L  11 cum—oculos  in mg. E  sit usitata] sita sit situr  (sic) Em1  ita sit  m2  situ sit sita  G  ante  om. HNR, s. l. Lm2 oculis  HN  12 post exposita add. superius  R  ea  GNR  plenius dilucideque declarauit] (claruit  Em1Gm1 )  CEm2Gm2  plenius dilucideque declarauit  L  plenius lucidinsque declarauit  Hm2 plenius dilucidiusque claruit  R  exempli insuper luce declarauit ( ex  decla- ruit  N )  NP  plenius dilucideque exempli insuper luce declarauit  Hm1  exempli insuper luce reserauit  edd . 13 species ase differre] specie ( ex  specierum,  sequ. rasura ) differentiam  E  species in aere differentiam  G  species ase differentiae  Lm1  14 a] ad  R  concludit  N  15 nam  in ras. Lm2  sed  EG   quae igitur secundum genus minime discrepant, ea differentiis distribuuntur, additum enim rationale quidem homini, inratio- nale uero equo equus atque homo, quae sub eodem fuerant genere, distribuuntur et discrepant, additis scilicet differentiis.   Adsignant autem etiam hoc modo : differentia  est qua differunt a se singula; nam secundum genus non differunt, sumus enim mortalia animalia et nos et inrationabilia, sed additum rationabile separauit nos ab illis, et rationabiles sumus et nos et dii, sed mortale adpositum disiunxit nos ab illis.   Vitiosa ratione et non sana quod uult explicat definitio quorundam. id enim esse dicunt differentiam qua una quaeque res ab alia distet, in qua definitione nihil interest quod ita dixit an ita concluserit : differentia est id quod est differentia, etenim differentiae nomine in eiusdem differentiae usus est  5—10] Porph. p. 11, 21—12, 1 (Boeth. p. 38, 1—5).   2 describuntur  EG  3  post  equo  distinguunt edd., post  equus  expec- tatur  igitur’  Schepps , additum  eqs. nominatiuum absolut .  (cf. indicem Meiseri) interpretatur Brandt  qui  Lm2P  5 autem  om .  \,   del. Lm2 A. m2  etiam  om. H  etiam et  Λ  eam et  Ν Σ ;  Porph. p. 11, 21   St καί  6 qua]  Porph.   διαφορά έσχιν δχψ διαφέρει έκασχα;  ‘an quo?’  Busse, sed cf. infra p. 271, 1.7. 18. 272, 17 . 6 nam—ab illis  (9) ]  LR Q ,  om. cett. post  nam  add . homo et equus  cum Porph. edd. (cf. etiam infra p. 271, 9. 12, sed etiam supra p. 269, 9) ,  etiam Bussio  homo atque equus  addendum uid . 7 enim] autem  Γ  8 inrationalia ( uel  irr-)  R ?ΓΠ   (in ras.)  ros.  ex  -bilia  Δ  sed—illis  (9)   om. R  ratio- nabile]  p.r   rationale  \ a.r. et cett . separauit] disiunxit  ΓΦ  9 et]  CHP, s. l. er. uid.   Δ ,  om. cett . rationabiles]  L \ m1 2  rationale  CP  rationales  cett., add . enim  ΕGΗ ΑίΙΦΨ ;  codd. Porph. aut   λογικοί  aut  λογικά  sumus  om. CEGHP; Porph .  έσμέν  et nos  om. E  et  om. N di  C  dei  ut uid   . 2 sed—ab illis  om. EG  11  ante  Vitiosa  in ras.  Haec  E  ratione]  L edd., om. cett. (recte?), in ras . est  E  et  om. G  sane  E (in ras.) NP  explicans  HNP  non  (s. l. m2)  explicat  L  12 id]  cf. p. 263, 10  13 aliis  R  distat  HN  differt  P  14 dixerit  Lm2P  an] utrum  R  concluderit  L  concludat  EGR  id quod est  om. E ante  differentia  add . ipsa  ER  differentia  om. G  15 etenim om. EGR  differentiae nomine] qua differt una res ab alia, id est id quod est differentia est differentia. Differentiae nomine fid est—nomine  in ras. m2) E  in—definitione] usus in eius diffinitione  N   definitione dicens : differentia est qua differunt a se singula, quodsi adhuc differentia nescitur, nisi definitione clarescat, differre quoque quid sit qui poterimus agnoscere? ita nihil amplius attulit ad agnitionem qui differentiae nomine  in eiusdem usus est definitione, est autem communis et uaga nec includens substantiales differentias, sed quaslibet etiam accidentes hoc modo : differentia est qua a se differunt singula; quae enim genere eadem sunt, differentia discrepant, ut cum homo atque equus idem sint in animalis genere,  quoniam utraque sunt animalia, differunt tamen differentia rationali, et cum dii atque homines sub rationalitate sint positi, differunt mortalitate, rationale igitur hominis ad equum differentia est, mortale hominis ad deum, atque hoc quidem modo substantiales differentiae colliguntur, quodsi Socrates  sedeat, Plato uero ambulet, erit differentia ambulatio uel sessio, quae substantialis non est. namque istam quoque dif- ferentiam definitio uidetur includere, cum dicit : differentia est qua differunt singula; quocumque enim Socrates a Platone distiterit nullo autem alio distare nisi accidentibus  potest —, id erit differentia secundum superioris terminum definitionis, quam rem scilicet uiderunt etiam hi qui definitionis huius uagum communemque finem reprehendentes certae con- clusionis terminum subiecerunt.  2 nesciatur  Lm2  (non noscitur  m1) P  definitione] in definitione  N  3 qui]  LN  quomodo CEGPR qui *  (d  er.) H  possemus  EG  possi- mus  R  4 ita  om. EGR  cognitionem  NPm2, post  agnitionem  add.  a cogitatione  Hm1, del. m2, s. l.  uel cognitione  m2, del. m. al.  set  om. EG  7 accidentales  Lm2Pm2  9 sunt  EGHLm1R  in  om. GNR  11 et  om. EGR  rationabilitate  CGLm1  rationale  N sunt  CEGLm1R  12 positi] post  EG  post differunt  add.  tamen  L  rationabile  L  13 est  om. C  15 ambulatio uel  om. EG, s. l. Lm2  16 nam  HLm1  ista  E  18 quo  EGHm1 post  differunt  add.  a se  R  cumque  EG  quoque  Rm1  quocumque modo  P post  enim  s. l.  modo  Lm2  19 de- stiterit  CEm1HPRm2  distauerit  m1 post  alio  s. l.  modo  Em2  ac- cidentibus] ex accidentibus  P    Interius autem perscrutantes de differentia dicunt, non quodlibet eorum quae sub eodem sunt genere diuidentium esse differentiam, sed quod ad esse conducit et quod eius quod est esse rei pars est; neque enim quod aptum natum est nauigare erit homi-  nis differentia, etsi proprium sit hominis, dicimus enim ‘animalium haec quidem apta nata sunt ad naui- gandum, illa uero minime’, diuidentes ab aliis, sed aptum natum esse ad nauigandum non erat comple- tiuum substantiae nec eius pars, sed aptitudo quae-  dam eius est, idcirco, quoniam non est talis quales sunt quae specificae dicuntur differentiae, erunt igitur specificae differentiae quaecumque alteram faciunt speciem et quaecumque in eo quod quale est acci- piuntur. — Et de differentiis quidem ista sufficiunt.   Sensus propositionis huiusmodi est. quoniam superius dixit determinasse quosdam differentiam esse qua a se singula dis-  p. 90  creparent, ait alios diligentius de differentia | perscrutantes non  1—15] Porph. p. 12, 1-11 (Boeth. p. 38, 6—17). 1 perscrutantes]  EGHP  perscrutantes et speculantes  cett.; Porph.   p. 12, 1   προσεξεργοζόμενοι de differentia]  CH (linea del., sed lin. er.)   Σ  differentiam  cett. edd. Busse; Porph. p. 12, 1   τά περί τής διαφοράς  2 non] non solum  R , quodlibet] quod habet  ELm1 h m1 X ,  post  quod- libet  er.  habet  23  diuidentium esse  om.   X ,  s. l. Lm2  sed quod— dicuntur differentiae  (12) ]  LR Q ,  om. cett.  5 aptum] actu  R  natum  om. LR; Porph. p. 12, 4   τδ πεφοχέναι πλεΐν  6 dicimus]  Porph. p. 12,  5  εΐποιμεν γάρ dv ,  unde  dicemus  coni. Brandt, cf. supra p. 230, 18. 19;   infra 12 erunt  ειεν άν ;  p. 234, 16.  (erit). 17.  235, 2  (erunt) 7 ani- malia  A  acta  Rm1  nata  om. LR  8 aliis] illis  A  9 actum  Rm1  natum  om. R  est  R  erit  h m2  10 neque  Busse  11 est  om. R  quoniam  om. LR  12 quae  om.   Φ  igitur] ergo  L  13 alteram— quaecumque  om. H  14 et] ea  EG  quale  in er.  quid  ut uid.  Hm2 quid  EG post est add.  esse  EG  accipiunt  EG  15 Et—sufficiunt  om. N  Et  om. CEGP; Porph. 12,11   Καί  de  om. EG A  diffe- rentiis]  Porph.   περί μίν διαφοράς  quidem  om. H  sufficiant  CL X m2;   Porph.   άρχει  18 alios] ilico  EGLa.c.  ilico alios  P  de differentia] differentiam  CLm1P   fuisse arbitratos recte esse superius propositam definitionem, neque enim omnia quaecumque sub eodem posita genere dif- ferre faciunt, differentiae hae de quibus nunc tractatur, id est specificae, numerari queunt, plura enim sunt quae ita diuidunt  species sub uno genere positas, ut tamen eorum substantiam minime conforment, quia non uidentur esse differentiae speci- ficae nisi illae tantum quae ad id quod est esse proficiunt et quae in definitionis alicuius parte ponuntur, hae autem sunt ut rationale hominis, nam et substantiam hominis conformat  et ad esse hominis proficit et definitionis eius pars est. ergo nisi ad id quod est esse conducit et eius quod est esse rei pars sit, specifica differentia nullo modo poterit nuncupari, quid est autem esse rei? nihil est aliud nisi definitio, uni cuique enim rei interrogatae ‘quid est?’ si quis quod est esse  monstrare uoluierit, definitionem dicit, ergo si qua definitionis pars fuerit, eius erit pars quae unius cuiusque rei quid esse sit designet, definitio est quidem quae quid una quaeque res  1 positam  EG  2 posita] posita sunt  EGL post genere add.  quae  Lm1, del. m2  3 differentiae—id est  om. CN  hae  om. H  id est  om. R, er. uid. H, s. l. Lm2  4 nominari HLm2NR 5 earum  H  6 quia] quae  CH  specificae  ante  esse  H, post N 7 proficiant  R  et quae] eaeque  G  eae quae  Em1, del. m2, etiam proxima  in—ponuntur  del. m2 8 in  del. Lm2, om. P  diffinitiones  N  definitionibus  EGLm1  aliqua  N  partes  EGLP post ponuntur  add.  ut mortalis rationalis  Em1, del. m2  hae] ea  EGLm2P  9 et  s. l. Lm2  et ad  G  con- format—hominis  om. EG  11 conducat  EHm2Lm2N  et eius—pars sit]  N  et eius quod ( add. quid  Rm1, del. m2 , quidem  ex  quid  Hm2 ,  del. m3 ) est esse rei pars sit (est  Hm1) HR  et eius rei quod est (est  del. Lm2 ) esse pars est (est  om. Lm1, s. l.  sit  m2) CL  et eius quod quidem esse rei pars est  P  eius rei quod quidem (aliquid  add. E) EG  13 esse  om. G, ante  autem  H  nihil  del. Em2  est  s. l. Lm2Rm2  esse  E (del. m2) G  unius cuiusque  R  14 interrogatae] ad inter- rogationem  CHN  quis] quid  Lm2  quod] id quod  CHNP  15 qua] quid  CHN  16  post  eius  s. l. rei  Lm2  quae] quod  HLm1N  quid] quod  N  sit esse  L  esse fit  G  est esse  Hm1N  17 designat Lm2P  significet  Hm1N  est quidem] enim est  HN  quae quid] quia  N   sit, ostendit ac profert, demonstraturque quid uni cuique rei sit esse per definitionis adsignationem. illae uero differentiae quae non ad substantiam conducunt, sed quoddam quasi extrin- secus accidens afferunt, specificae non dicuntur, licet sub eodem genere positas species faciant discrepare, ut si quis hominis  atque equi hanc differentiam dicat, aptum esse ad nauigandum. homo enim aptus est ad nauigandum, equus uero minime, et cum sit equus atque homo sub eodem genere animalis, addita differentia ‘aptum esse ad nauigandum’ equum distinxit ab homine, sed aptum esse ad nauigandum non est huiusmodi,  quale quod possit hominis formare substantiam, sed tantum quandam quodammodo aptitudinem monstrat et ad faciendum aliquid uel non faciendum oportunitatem. idcirco ergo speci- fica differentia esse non dicitur, quo fit ut non omnis diffe- rentia quae sub eodem genere positas species distribuit, spe-  cifica esse possit, sed ea tantum quae ad substantiam speciei proficit et quae in parte definitionis accipitur, concludit igitur esse specificas differentias quae alteras a se species faciunt per differentias substantiales, nam si uni cuique id est esse quodcumque substantialiter fuerit, quaecumque differentiae  substantialiter diuersae sunt, illas species quibus adsunt, omni substantia faciunt alteras ac discrepantes, atque hae in defini- tionis parte sumuntur, nam si definitio substantiam monstrat  1 ostendit  om. E  ostenditur  N  ac  er. E, om. N  profert  om. N demonstratque  CLm1  quid] quod  Lm1Pm1R  quidem quid  N  2 per  om. EGR, in mg. Lm2 assignatione  EG  3 ad  om. EΡ  quasi  om. EGPR  5 faciant  om. EG  facient  CLm1Rm1  7 homo enim (autem  LR )—equus]  HLNR  hominem equum  (cet, om.) CEGP  10 esse ad—sed tantum  (11) om. EG  11 quale  om. EGR, del. Lm2 ante  quod (quid  P )  add.  per  L   (del. m2), s. l. Pm2 post  substantiam  add.  sicut rationale quae est substantialis qualitas  C  12 habitudinem  Hm1  13 opportunitatem  CR  differentia specifica  C  18  ante  esse  add.  eas  HΝΡ, s. l. Lm2  quae—differentias  om. EGR ad  faciunt  s. l.   1  informant  Lm2  19 differentias  ex  distantias  Lm2  idem est ( in   ras. m2 ) esse  H  idem esse est  R  21 sint  Hm1  omnes  EGP  22 substantias  P  substantiae  Hm1  substantiae ratione  N   et substantiales differentiae species efficiunt, substantiales dif- ferentiae erunt partes definitionum.      Proprium uero quadrifariam diuidunt. nam et id  quod soli alicui speciei accidit, etsi non omni, ut ho- mini medicum esse uel geometrem, et quod omni accidit, etsi non soli, quemadmodum homini esse bipedem, et quod soli et omni et aliquando, ut homini in senectute canescere, quartum uero, in quo concur-  rit et soli et omni et semper, quemadmodum homini esse risibile, nam etsi non semper rideat, tamen risi- bile dicitur, non quod iam rideat, sed quod aptus natus sit; hoc autem ei semper est naturale et equo hinnibile, haec autem proprie propria perhibent esse,  3—p. 276, 2] Porph. p. 12, 12—22 (Boeth. p. 38, 18—39, 9).   1 et  om. EG, s. l. Pm2  2 erunt  post  partes  Lm2  sunt  m1  sunt  post definitionum  CGR, s. l. Em2  3 DE PROPRIO  om. H, add. Lm2  EXPLICIT DE DIFFEREN. (DIFFERENTIIS  Ψ ) INCIPIT DE PRO- PRIO  2<F  4 et  s. l. C  5 hominem  R h m1 A  6 uelut  H geo- metram  CEm1G edd. Busse  et quod—perhibent esse  (14) ]  LR  ( locum   hic om., p. 277, 7 post  adest  inserit )  Ω ,  om. cett.  omni]  Porph.   p. 12, 14   παντί—τφ εϊδει  7 etsij et  R T m1   ante homini  add.  et  R  8 homini]  Porph. p. 12, 16   όνΟ-ρώπψ παντί ,  unde  homini omni  coni.   Busse 9  post  uero add. est  Φ  in quo concurrit et  del., in mg.  conuenit  T m2  10 hominem  R Σ  11 risibilem  R ΓΣΦ ;  Porph. p. 12, 17   ώς τψ άνθρώπψ τό γελαστιχόν  non semper rideat]  L Σ  non rideat  ΓΑ  non ridet ( hic ut uid. s. l.  semper  add., sed er.   \ )  R AIIΨΨ  semper non rideat  Busse non rideat semper  edd.; Porph. p. 12, 18   χαν γάρ μή γελά αεί  risibile tamen  L Λ   edd. Busse; Porph.   άλλα γελαστιχο'ν  12 iam] semper  Σ   edd.; Porph. p. 12, 19   άεί ,  cod. Mm2   ί)Bη  rideat—natus sit  om.   Φ  13 sit natus  R, add.  ad ridendum  R ΓΑ  ridere  Σ ,  ante  sed  add.  ridendum  Φ ;  om. Porph.  semper ei est naturale  L  semper est ei naturale  Γ  ei semper naturale est  Σ   ante  et  add. ut  (om. etiam B Bussii) edd. Busse ;  Porph. p. 12, 20   ώς ,  om. cod. A  14 autem]  Porph.   81 xai ,  om.   xai   cod. A  proprie—esse]  L Λ  (esse  s. l. m2 )  Σ  (esse  om. ), proprie domi- nanterque (nominantur  T m2 ) propria perhibentur (perhibentur  del.   Γ m2 )  ΓΦ  proprie nominantur (nominant  Π ) propria  R ΔΙΙ  uere dicuntur propria  Ψ ;  Porph.   χυρίως ΐßιά φασιν   quoniam etiam conuertuntur. quicquid enim equus, hinnibile, et quicquid hinnibile, equus.    Superius dictum est omnia propria ex accidentium genere descendere, quicquid enim de aliquo praedicatur, aut substan- tiam informat aut secundum accidens inest. nihil uero est  quod cuiuslibet rei substantiam monstret nisi genus, species et differentia, genus quidem et differentia speciei, species uero indiuiduorum. quicquid ergo reliquum est, in accidentium numero ponitur, sed quoniam ipsa accidentia habent inter se aliquam differentiam, idcirco alia quidem propria, alia priore  p. 91  atque antiquiore nomine accidentia nun|cupantur. et de acci- dentibus paulo post, nunc de propriis, quae quadrifariam diui- duntur, non tamquam genus aliquod proprium in quattuor species diuidi secarique possit, sed hoc quod ait diuidunt, ita intellegendum est, tamquam si diceret ‘nuncupant’, id est  propria quadrifariam dicunt, cuius quadrifariae appellationis significationes enumerat, ut quae sit conueniens et congrua nuncupatio proprietatis ostendat, dicit ergo proprium accidens quod ita uni speciei adest, ut tamen nullo modo coaequetur ei, sed infra subsistat ac maneat, ut hominis dicitur pro-  prium medicum esse, idcirco quoniam nulli alii inesse ani-  3 superius eqs.] fort. p. 186, 12—187, 1.   1 enim equus  om. N  equus—equus]  CEGHNP U  ( sed add.  et si homo, risibile, si risibile, homo est]  cum Porph. p. 12, 21, post pr.  equus  add.  et  R A  est et  L  est etiam est et  (sic)   Φ  equus est et hinnibile est (est  s. l.   F\ m2 ) et quicquid hinnibile equus est  ΓΔ  est equus est hinni- bile et quicquid est hinnibile est equus ( quattuor  est  s. l. m2 )  Ψ  equus est hinnibile et quicquid hinnibile est equus est et si homo est risibile est et risibile homo est  2  4 alio  N  6  ante  species  add.  et  Lm1, del. m2  7 et  om. R  genus—diiferentia  om. EGR, s. l. Hm2  11  ante  antiquiore add.  in  ER  12 nunc  ex  nam  Hm2  quadrifarie  N  in quadrifariam (-um  GP )  EGP  diuidunt  H  (ur  er. )  P  (ur  del. m2 ) 13 aliquid  CPm1  14 ait  om. E  ( in mg.  dicitur  m2 )  G  est  R  diuiduntur  EG  15 nuncu- pantur  EGR  16 proprie  CEm1G  propriam  ut uid. Pm1  propriam  m2  dicuntur  EGHm1La.c.NR  quadrifariam  C  18 proprietas  Ea.c.  (proprii  p.c. )  G  dicitur  CEHLa.c. (corr. m1 et 2) P  ergo  om. C  proprium  s. l. Cm2  primum  m1  20 ei  ante  nullo  HN  ac] et  HNP dicimus  HN   malium potest, nec illud adtendimus, an hoc de omni homine praedicari possit, sed illud tantum, quod de nullo alio nisi de homine dici potest medicum esse, et haec quidem signifi- catio proprii dicitur inesse soli, etsi non omni; soli enim  speciei, etsi non omni coaequatur, ut medicina soli quidem inest homini, sed non omnibus hominibus ad scientiam ad- est. Aliud proprium est quod huic e contrario dicitur omni, etsi non soli; quod huiusmodi est, ut omnem quidem speciem contineat eamque transcendat, et quoniam quidem nihil  est sublectae speciei quod illo proprio non utatur, dicimus omni, quoniam uero transcendit in alias, dicimus non soli : hoc huiusmodi est quale homini esse bipedem, proprium est enim homini esse bipedem, omnis enim homo bipes est etiamsi non solus, aues enim bipedes sunt, geminae igitur  significationes proprii quae superius dictae sunt, habent aliquid minus, prima quidem quia non omni, secunda uero quia non soli, quas si iungimus, facimus omni et soli, sed demimus aliquid secundum tempus, si ei adiciatur aliquando, ut sit haec tertia proprii nuncupatio ‘omni et soli, sed aliquando’,  ut est in senectute canescere uel in iuuentute pubescere; omni enim homini adest in iuuentute pubescere, in senectute canescere, et soli, pubescere enim solius hominis est, sed ali-  1 hoc  om. EG  homini  EN  2 quod] quia  HN  nisi de homine  post  esse  N  3 medicus  Hm1N  4 inesse]  CP, s. l. Hm2Lm2, om.   EGR  inest  N  etiamsi  Em2  (et  m1 )  Hm1LR  5 etiamsi  EHm1L  ( repet, post  inest)  PR  coaequetur  Em2Hm1 ante medicina  add.  homini  H   (del. m2) LNR  6 homini  om.   NR, s. l. Hm2  adest] adesse potest  CLN potest esse  H; de R cf. ad p. 275, 6  7 est  ante  aliud  HN, post   CG, om. E  8 etiamsi  HLNR  quid  HN  10 quod illo—non soli  in   inf. mg. Em2 post  dicimus  add.  enim  C  11 aliis  Em2G  12 hoc] id  N   post  quale  add.  est  s. l. Hm2, post  homini  CG  13 hominis  R, post  homini  add.  proprium  Em2  enim  in mg. Em2  14 etiamsi—geminae  om.   EGR  17 sed  Hm2  si  m1  demimus]  HN deminus  Cm1   i  demimus  ί  deest minus  m2  dempsimus  R  dedimus  Em1  (addimus  m2 )  G  deest minus  LP  18 eis  HLP  ei  post  adiciatur  N  19 omni et soli] et soli et omni  C  sed] si  G  21  post. in] et in  HN  22 est hominis  HN   quando, neque enim omni tempore, sed in sola tantum iuuen- tute. haec igitur determinatio proprii in eo quidem modo quod omni et soli inest, absoluta est, sed ex eo minuit aliquid uel contrahit, cum dicimus aliquando, quod si auferamus, fit pro- prii integra simplexque significatio hoc modo : proprium est  quod omni et soli et semper adest, omni autem et soli speciei et semper intellegendum est ut homini risibile, equo hinnibile; omnis enim et solus homo risibilis est et semper. neque illud nos ulla dubitatione perturbet, quod semper homo non rideat; non enim ridere est proprium hominis, sed esse  risibile, quod non in actu, sed in potestate consistit, ergo etiamsi non rideat, quia ridere tamen posse soli et omni homini semper adesse dicitur, conuenienter proprium nuncupatur, nam si actus separatur ab specie, potestas nulla ratione disiungitur.   Quattuor igitur significationes proprii dixit, nam prima  quidem, quando accidens ita subiectae speciei adest, ut soli ei adsit, etiamsi non omni, ut homini medicina; secunda uero,  1 in  om. EGR, s. l. L, post  tantnm  P  tamen  L post iunentnte  add.  pubescit  N  2  post  proprii  add.  integra simplexque significatio  GHP (del. m1? ex 5)  in eo—fit proprii  (4) om. R  modo  om.   N, del. Lm2  3 inest  om. EG  est  Lm1  minus  La.c. minui  N  minuens  P  aliquid uel] atque significationem  in ras. Em2  uel]  CNP  et  GL, om. ΕH  4 quod] quam  N  5 simplexque] et simplex  HLNR  proprii  R  6 soli et omni  N secund.  et  om. GLR,   s. l. Pm2  omni autem—intellegendum est  om. Rbrm  7 et semper  om. EGR, del. Lm2, s. l. Hm2Pm2  intellegendum est  del. et s. l.  adest  scr. Hm2, in mg.  quod soli et omni adest  m. al. 8  post.  et  om. EGPR   post  semper  add.  similiter et equus hinnibile  brm  9 illud  Hm2  enim Hm1N  10 proprium est  NPR  sed] si est  R  esse  del. Lm2  est  R  11 sed] si  R  12 si non rideat etiam  C  quia  om. N, s. l. Hm2  tamen  om. R  autem  HN  possit  La.c.N  potest  Em2 post  omni  add.  adsit  H (del. m2)  adest  N  13  ante  semper  s. l. et Hm2  semper  om. R ante  conuenienter  add.  et  H (er.) L (del. m2) NP  14 si] etsi  Hm1Lm1N  separetur  Em2  a  C  15 proprii  om. EG nam prima] unam  CHm1  (primam  m2) N  nam  (s. l.)  primam  P  17 homini medicina] hominem esse medicum  C  secundam  CHN; in mg . ał. se- cunda autem cum omni accidit etsi non soli ut homini esse bipedem  add. L  uero] autem  CL (in mg.)   cum soli quidem non adest, omni uero semper adiungitur, ut homini esse bipedem; tertia uero, cum omni et soli, sed ali- quando, ut omni homini in iuuentute pubescere; quarta, cum omni et soli et semper adest, ut esse risibile, atque ideo  cetera quidem conuerti non possunt : neque enim coaequatur quod soli, sed non omni speciei adest, species quidem de ipso dici potest, ipsum uero de specie minime, qui enim medicus est, potest dici homo, homo uero qui est, medicus esse non dicitur, rursus quod ita est alii proprium, ut omni adsit  etiamsi non soli, ipsum quidem de specie praedicari potest, species uero de eo minime, nam bipes praedicari de homine potest, homo uero de bipede nullo modo, rursus quod ita adest, ut omni et soli, sed aliquando adsit, quoniam de tem- pore habet aliquid deminutum nec simpliciter semper adest,  reciprocari non poterit, possumus enim dicere ‘omnis qui pubescit homo est’, non ‘omnis homo pubescit’: potest enim minime ad iuuentutem uenire atque ideo nec pubescere; nisi forte non sit pubescere hominis proprium, sed in iuuentute pubescere, aut, etiam cum nondum est in iuuentute aut etiam praeteriit, tamen  sit ei proprium non tale quale tunc fieri possit, cum praeter iuuen- tutem est, sed quale cum in iuuentute consistit, atque ideo hoc  1 cum] quae  N  soli—adiungitur  del. Hm2 omni accidit etsi non soli  CHm2L  semper  s. l. Hm2  2 hominem  C  tertiam  CHN  soli et omni  N  3 omnio  m. LNR  homini  om. N  quartam  CG (sic) HN  4  post.  et  om. EG, add. Pm2  inest  CHm1N  ideo  om. E  adeo  HLR  5 coaequantur  HN  6 quodj quia cum  Hm1N  non omni sed soli  N  sed] si  R  7 qui enim—dici homo  om. EGR  8 homo dici  C  9  ad  alii  s. l.  a t  illud  L, post add. una pars  R  11 de homine praedicari  C  13 adest  ex  est  Em2  distat  Hm1  assit  ex  sit  Hm2  14 diminutum  EN  nec] et  Hm1  16 non] non tamen dicimus  L  homo] qui est homo  L  qui homo est (qui  et  est  s. l. m2) H  18  ante  sed  add.  solummodo  Hm2, ante  in  CN, post post.  pubescere  L  aut]  Hm2La.c.Pm2  ut  EGHm1Lp.c.Pm1R  autem  CN  19 cum]  Hm1NR  quod  CEGHm2LP etiam  s. l. Hm2  iam  Em1  20 sit] adsit  CHN  ei  om. G  fieri  om. C, in ras. Lm2  fieri possit  del., est  s. l. scr.   Hm2  potest  L   (in ras. m2) P  est  C  21  post  quale  add.  tunc fieri potest (posset  CHLm1N) CH (s. l. m2) LNP   quod non in omne tempus tenditur, etiamsi tale est, ut omni  p. 92  speciei adsit, quod ta|men in tempus aliquod differatur, integrum atque absolutum proprium esse non dicitur, quartum est quod ita alicui adest, ut et solam teneat speciem et omni adsit et absolutum sit a temporis condicione, ut risibile quod a supe-  riore plurimum distat; nam qui risibilis est, semper ridere potest, rursus qui potest in iuuentute pubescere, cum ipsa iuuentus non sit semper, non ei adest semper ut in iuuentute pubescat, haec autem quarta proprii significatio quoniam nulla temporis definitione constringitur, absoluta est atque ideo  etiam conuertitur et de se inuicem proprium atque species praedicantur; homo enim risibilis est et risibile homo.      Accidens uero est quod adest et abest praeter sub- iecti corruptionem, diuiditur autem in duo, in separa-  bile et in inseparabile, namque dormire est separabile accidens, nigrum uero esse inseparabiliter coruo et Aethiopi accidit, potest autem subintellegi et coruus albus et Aethiops amittens colorem praeter subiecti corruptionem, definitur autem sic quoque; accidens est  13—p. 281, 7] Porph. p. 12, 23—13, 8 (Boeth. p. 39, 10—21).   1 quod] quia  HN  2 speciei] tempori  EGR  aliquid  C  4 alicui  om. EG, del. Hm2  ali  R  alii  Lm1 pr.  et  om. EGLR post.  et] ut  La.c.R  5  post.  a  s. l. Hm2  6 qui  ex  quod  Lm2  7  ante  cum  add.  sed  CH (del. m2) NP, s. l. Lm2  8 adest] est  EGR  in iuuentute  deleri uult Hilgard  9 quoniam] quam  EGLm2P  10 definitio ( uel  difd–)  EGLm2R  constringit  EG  11 et de se] et ideo de se  P  de se  om. R  De specie  EG  12 risibile  C  et  om. EGHR  13  inscript.   om. HL K ACCIDENTE  ΝR ΔΣ  14 uero  om.   A  15 diuiditur—sub- sistens  (p. 281, 3) ]  LR Q ,  om. cett. duobus  L  16 in  om.   Φ  nam  A   Busse  19 amittens colorem]  A m1 T"  nitens colore c ett. edd. Busse;   Porph. p. 13, 2   άποβαλών τήν χροιάν;   cf. supra p. 101, 13  corruptionem subiecti  LR ϋίΓΦ ;  codd. Porph.   φθοράς   aut ante   τοΰ υποκειμένου   aut post;   cf. infra p. 281, 17. 282, 3. 8  20 definitur]  Porph. p. 13, 3   ορίζονται   quod contingit eidem esse et non esse, uel quod neque genus neque differentia neque species neque pro- prium, semper autem est in subiecto subsistens.    Omnibus igitur determinatis quae proposita sunt,  dico autem genere, specie, differentia, proprio, acci- denti, dicendum est quae eis communia adsint et quae propria.  Quouiam, ut superius dictum est, quae de aliquo praedi- cantur, uel substantialiter uel accidentaliter dicuntur cumque  ea quae substantialiter praedicantur, eius de quo dicuntur substantiam definitionemque contineant et sint eo antiquiora atque maiora, quod ex substantialibus praedicatis efficiuntur, cum ea quae substantialiter dicuntur pereunt, necesse est ut simul etiam ea interimantur quorum naturam substantiamque  formabant, quae cum ita sint, necesse est ut quae accidenter dicuntur, quoniam substantiam minime informant, et adesse et abesse possint praeter subiecti corruptionem, ea enim tan- tum cum absunt subiectum corrumpere poterunt, quae effi- ciunt atque conformant quae sunt substantialia, quae uero  8 superius] p. 276, 4.   1 contigit - R A   ante pr. esse add. et R, s. l.   \ m2; om. Porph.   p. 13, 4 post.  et] uel  L  ( post  uel  littera er. )  edd.; Porph.   η ,  codd. CM   nat  2  post  genus  s. l. est A m2  neque species neque differentia  ΔΔΣ  edd.  Busse; Porph.   οοτε διαφορά οϋτε είδος   post proprium  add.  sit  LR  3 consistens  Λ  4 praeposita  Δ m1  5 dico—accidenti  om.   Γ  propria  Φ proprio et  L ΔΑΣ  accidente  H  et accidenti  L A m2  (et accidente  m1 )  ΛΣ  de accidenti  EG  6 eis] his  CHP  hiis  Φ  uel his  R ,  om. EG;   Porph. p. 13, 7   αΰτοϊς  adsint] sint  R  sunt  L Λ m1 ηιΙΧΣ ;  Porph.   πρδσεοτιν  et  om. G  7  post  propria  add.  EXPLICIT DE GENERE SPECIE DIF- FERENTIA PROPRIO ACCIDENTE  Σ  8 ut  om. EG  alio  CEGR  9 accidentialiter  CP accidenter  HR  dicuntur] praedicantur  R  cum  EG  11 definitione  EG  maiora atque antiquiora  C 12 quod] quia  R  substantialiter  CN  efficitur  CHm2LN  13 cumque  N ,  post  cum  s. l.  accidenter  E  intireunt  P  15  an  informabant? acci- dentaliter  Lm2  16 et  om. EGR, s. l. Lm2  abesse et adesse  H  17 possunt  N  tantum enim  C  18 perrumpere  E  potuerunt  LR  19 informant  HN   non efficiunt substantiam, ut accidentia, ea cum adsunt uel absunt, nec informant substantiam nec corrumpunt, est igitur accidens quod adest et abest praeter subiecti corruptionem, id autem diuiditur in duas partes, accidentis enim aliud est separabile, aliud inseparabile, separabile quidem dormire, sedere,  inseparabile uero ut Aethiopi atque coruo color niger. in qua re talis oritur dubitatio. ita enim est definitum : accidens est quod adesse et abesse possit praeter subiecti corruptionem. idem tamen accidens aliquando inseparabile dicitur; quod si inseparabile est, abesse non poterit, frustra igitur positum est  accidens esse quod adesse et abesse possit, cum sint quaedam accidentia quae a subiecto non ualeant separari, sed fit saepe ut quae actu disiungi non ualeant, mente et cogitatione sepa- rentur. sed si animi ratione disiunctae qualitates a subiectis non ea perimunt, sed in sua substantia permanent atque per-  durant, accidentes esse intelleguntur, age igitur, quoniam Aethiopi color niger auferri non potest, animo eum atque cogitatione separemus, erit igitur color albus Aethiopi, num idcirco species consumpta sit? minime, item etiam coruus, si ab eo colorem nigrum imaginatione separemus, permanet tamen  auis nec interit species, ergo quod dictum est et adesse et abesse, non re, sed animo intellegendum est. alioquin et sub- stantialia, quae omnino separari non possunt, si animo et cogi- tatione disiungimus, ut si ab homine rationabilitatem auferamus  1 cum—absunt] uel cum adsunt uel cum absunt  H  uel cum absunt uel cum adsunt  N  cum uel (uel  s. l. m2 ) absunt uel adsunt  L; ante  assunt  (sic) add.  uel  P  3  ante  adest  add.  et  P  4 dinidunt  EGLR  accidens  edd.  aliud est enim  H  5  ante  dormire  add.  ut  brm  6 ut  om. HR edd.  7 dubietas  CEG (recte?) post.  est  add. Hm2  8 et] uel  N  potest  CL  9 dicit  EG  11 abesse-et adesse  E  12 ab  CRm1  14 animi] hac  C  15 eas  EGN  permaneant  G  ac  R  16 acciden- ter  CG  intellegantur  Em1 igitur] enim  HN  17 eum  om. G, ante  separemus  C , uero  E  atque] et  HLNPR  18 num  ex  non  Rm2  19 consumptae (consumpta  R ) sunt  EGLR edd.  ita  CEP  20 imagine  EGR  21 interiit  Lm1PR pr. et om. EGR, s. l. Lm2  22 et  om. CEG  23 si] saepe  Hm1LNP  2t rationalitatem  P   — quam licet actu separare non possumus, tamen animi imaginatione disiungimus —, statim perit hominis species, quod idem in accidentibus non fit: sublato enim accidenti cogitatione species manet. Est alia quoque accidentis defi-  ni|tio ceterorum omnium priuatione, ut id dicatur esse acci-  p. 93  dens quod neque genus sit neque species nec differentia nec proprium; quae definitio plurimum uaga est ualdeque communis. sic enim etiam genus definiri potest, quod neque species neque differentia nec proprium sit nec accidens, eodemque modo  species ac differentia et proprium, cum autem eadem simili- tudine definitionis plura definiri queant, non est terminans et circumclusa descriptio, praesertim cum longe sit a definitionis integritate seiunctum quod cuiuslibet rei formam aliarum rerum negatione demonstrat.    Quibus omnibus expeditis, id est genere, specie, differentia. proprio atque accidenti, descriptisque eorum terminis quantum postulabat institutionis breuitas, ea ipsa communiter pertrac- tanda persequitur, ut quas inter se habeant differentias haec quinque, de quibus superius disputatum est, quas uero com-  muniones, mediocri consideratione demonstret, ut non solum  1 separari  EG  possimus  EL post  tamen  add.  si  L, s. l. Hm2Pm2  2 imaginatione] cogitatione  N  statimque  C  (q.  er. )  H  (q.  del. m2) N  periit  PR  3 item  CHm1  sit  EN (ut uid.)  sublata  EGR  enim  s. l. Cm2 accidenti  om. EGR, post  cogitatione  N  4  ante  cogitatione  er.  et  C  quoque  om. EGP (sic) accidentis  om. C, post  definitio  R  5  ad  priuatione  s. l.  quae fit per priuantiam  Em2  id  om. EG dicat  EGR  6 fit  C  neque differentia neque proprium  LNR  8 enim  om. NR  nec ( ante differentia)  CH  9 neque  NR  sit  om. L,   post  accidens  R  neque  N  10 proprio  HPm1  11 plurima  L  queunt  EGLm1R  termino  Ep.c.R  et  om. EGR  12 ab  LR  ac  G  13 negatione rerum  E  14 demonstret  N  15  post  genere  add.  quidem  CP  16  ante  proprio  add.  et  H ante  quantum  add.  et  PR, s. l. Lm2  17  post  breuitas  repet.  expeditis  PR,   s. l. Em2  pertractanda  om. C  retractanda  HNP  18  ante  quas  s. l.  quia  Em2  19 de quibus  om. E  disputandum  G  quas nero] quasue  CL   quid ipsa sint, uerum etiam quemadmodum inter se compa- rentur, appareat.    1 quid]  H, m2 in CLP  quod  NPm1  quae  Cm1EGLm1R  compa- rantur  E  2 ANICII MALLII SEVERINI BOETII  ( BOETI  E)  V. C.ET I LL . (EXINI  sic E ) EXCONS. ORDINAR. PATRICII IN ISAGOGAS PORPHYRII  ( Y  ex  I  Gm2)  ID EST INTRODVCTIONEM IN CATE- GORIAS A SE TRANSLA.  (sic EG)  EDITIONIS SECVNDAE LIBER IIII. EXPL.  ( EXPLICIT’  E) . INCIPIT LIBER V.  EG ; EXPLICIT LIBER  ( LIBER  om. C)  QVARTVS. INCIPIT LIBER  ( LIBER  om. HN)  QVINTVS  CHLNP, add.  DE COMMVNIBVS GENRIS. DIFFER. SPEC. ACCID. ET PROPI  N ; EXPLICIT LIBER QVARTVS  R     Expeditis per se omnibus quae proposuit et quantum in unius cuiusque consideratione poterat, ad scientiae terminum breuiter adductis nunc iam non de singulorum natura, id est  uel generis uel differentiae uel speciei uel proprii uel acci- dentis, sed de ad se inuicem relatione pertractat, nam qui communiones ac differentias rerum colligit, non ut sunt per se res illae considerat, sed ut ad alias comparentur, id autem duplici modo, uel similitudine, dum communitates sectatur,  uel dissimilitudine, dum differentias, quae cum ita sint, nos quoque, ut adhuc fecimus, propter planiorem intellectum philosophi uestigia persequentes ordiemur de his communio- nibus quae adsunt generi et speciei et differentiae uel proprio et accidenti.    Commune quidem omnibus est de pluribus praedi-  15—p. 286, 18] Porph. p. 13, 9-21 (Boeth. p. 40, 1—16).   3 cuiuscumqne  C  considerationem  Ea.r.G  4 id est  om. N, add.   Rm2  5  pr . uel  om. P secund.  uel] et  P  6 nam quia  R  namque  Hm1N  7 sunt. om. C  8 ille  GLNP, post  illae  s. l. sint  Cm2  ut  om. R  ad  s. l. LRm2 post  alias  add.  qualiter  CHPR, s. l. Lm2  comparantur  EGHm2, recte? cf.p. 284, 1 post  autem  s. l.  fit  Cm2L,   in mg. Em2, post  duplici  s. l. Pm2  9 dum—dum  om. EG  sectatur] retractat  R  retractantur  L  (n  del., s. l. a i  sectatur]  P  10 differentiae  La.c.P  uel differentia  EG  11  ad  adhuc  s. l.  id est (uel  G ) hac tenus  EGm2  12 his] his omnibus  R  communibus  EGR  13  utrumque  et  om.   EGLR  uel  om. R  et  NP  14 et] uel  EGL atque  R  15  ante  Commune  add. inscriptionem  DE COMMVNIBVS GENERIS (ET  add.   ΔΠ ] SPECIEI DIFFERENTIAE PROPRII ET ACCIDENTIS  ΛΠ   Busse,   N in subscript. libri IV cum alio ordine uerborum,  DE HIS (HIIS  Φ ) COMMVNIBVS QVAE ASSVNT (sunt  A ) GENERI ET SPECIEI (ET SPECIEI  om.   T ) ET DIFFERENTIAE ET PROPRIO ET ACCIDENTI (accidenti proprio et differentiae  A )  ΓΑ   (litt. minusc.)   Φ , INCIP. DE EORV COMVNIBVS  2  DE COMMVNITATIB; OMNIVM.  *i' ,  inscript.   om. CEGHLPR   cari, sed genus quidem de speciebus et de indiuiduis, et differentia similiter, species autem de his quae sub ipsa sunt indiuiduis, at uero proprium et de specie cuius est proprium et de his quae sub specie sunt indiuiduis, accidens autem et de speciebus et de indi-  uiduis. namque animal de equis et bobus [et canibus] praedicatur, quae sunt species, et de hoc equo et de hoc boue, quae sunt indiuidua, inrationale uero et de equis et de bobus praedicatur et de his qui sunt par- ticulares, species autem, ut homo, solum de his qui  sunt particulares praedicatur, proprium autem, quod est risibile, et de homine et de his qui sunt particu- lares, nigrum autem et de specie coruorum et de his qui sunt particulares, quod est accidens inseparabile, et moueri de homine et de equo, quod est accidens  separabile, sed principaliter quidem de indiuiduis, secundum posteriorem uero rationem de his quae continent indiuidua.    Antequam singulorum ad unum quodque habitudinem tractet, illam prius respicit quam omnes ad se inuicem habere uide-  1 sed—separabile  (16) om. HNP post.  de  om. R  2 autem] quidem  Δ  hiis  Φ ,  item 4  3  post  indiuiduis  s. l.  praedicatur  Em2  at uero —separabile  (16) om. CEG  at uero—indiuiduis  (5) om.   Σ · 4 de his  om.R  5  post.  de  om. R  6 bubus  Lm1 A  bobis  R, ante add.  de  L T  de bobus Busse  et canibus  cum Porph. p. 13, 14 om. edd., delend. uid. Bussio  7 praedicatur  post species  R pr. (sic)  de  om. R  8 inrationabile  L  et  om. Porph. p. 13, 15; ante  et  add.  similiter  R  9 de  om. R  bubus  RLm1 A  praedicatur  s. l.   \ m2  (dicitur  m1 ),  post  particulares  Λ2  quae  L TA  10 quae  R ΓΑ  11 particularia  R, add.  homines  L 4ΛΦ ;  om. Porph.   p. 13, 16  proprium—particulares  (12) om. R  quod est]  otov   Porph.   p. 13, 17  12  pr.  et  om.   L ΆΣ   Busse (casu ut uid., cf. eius adnot. ad   Porph. p. 13, 17   v-ai ),  add.   \ m2  13  pr.  et  om. Busse; Porph. p. 13, 18   τοΰ τε εΐδοος  14 qui] quae  R  15 de homine—equo  post  separabile  R  16 sed  om.   Π Σ   post principaliter  add.  accidens praedicatur  Φ ,  s. l.  accidens  Lm2  17 secundum—rationem] secundo uero  (cet. om.)   N ΛΣΦ ; secundo  etiam   T m1 ; uero  post  secundum  C  posteriore  E ratione  E  orationem  Λ   ante  de  add.  et  edd. cum Porph. p. 13, 21  18  post  indiuidua  add. speciebus  N Σ  20 uidentur  RG   antur. haec est autem una communio quae pro|positarum  p. 94 quinque rerum numerum pluralitate praedicationis includit; omnia enim de pluribus praedicantur, in hoc ergo sibi cuncta communicant, nam et genus de pluribus praedicatur, itemque  species ac differentia et proprium et accidens, quae cum ita sint, est eorum una atque indiscreta communio de pluribus praedicari, disgregat autem ipsam de pluribus praedicationem, quemadmodum in singulis fiat, quod unum quodque proposi- torum de quibus pluribus praedicetur ostendit, ait enim genus  quidem de pluribus praedicari, id est speciebus ac specierum indiuiduis, ut animal praedicatur de homine atque equo ac de his indiuiduis quae sub homine sunt atque sub equo, item genus praedicatur de differentiis specierum atque id iure. quoniam enim species differentiae informant, cum genus de  speciebus praedicetur, consequens est ut etiam de his dicatur quae specierum substantiam formamque efficiunt, quo fit ut genus etiam de differentiis praedicetur ac non de una, sed de pluribus; dicitur enim quod rationabile est, esse animal et rursus quod inrationabile est, esse animal, ita genus de spe-  ciebus ac differentiis praedicatur ac de his quae sub ipsis sunt indiuiduis. differentia uero de speciebus dicitur pluribus ac de earum indiuiduis, ut inrationabile et de equo praedicatur ac boue, quae sunt plures species, et de his quae sub ipsis sunt indiuiduis eodem modo dicitur; nam quod de uniuersali  praedicatur, praedicatur et de indiuiduo. quodsi differentia de speciebus dicitur, praedicabitur etiam de eiusdem speciei sub- 1 praepositarum  HN  5  post.  et] atque  R  7 autem] ut est  E  8 quod] ut  Em2P  et quod  La.c.  et ut  p.c., ante  quod  s. l.  in eo  Hm2  praepositorum  HN  9 ostendat  ELm2P  10 id est  om. HNR, er. G 11 atque] et  CL  equo ac de  om. EG  ac] atque  CL  et  R  12 de  om. L, s. l. Cm2  qui  EGP post. sub  om. LNP  14 enim  del. E  15 praedicatur  HN  16 perliciunt  HNP  18 rationale  EGHNP  19 quod  om. R, in ras. E,  quoniam  GLm1  inrationale  HNP  est  om. R  21 differentiae... dicuntur  R 22 inrationale ( uel  irr-)  Em2  (rationabile  m1) HLm2NP  23 bouej de boue  N  et de] deque  EG 25 et  ante  praedicatur  C  26 praedicatur  C  etiam  om. EN   iectis. species uero de suis tantum indiuiduis praedicatur; neque enim fieri potest, ut quae species est ultima quaeque uere species ac magis species nuncupatur, haec alias deducatur in species, quod si ita est, sola post speciem indiuidua restant, iure igitur species de suis tantum indiuiduis praedicantur, ut  homo de Socrate, Platone, Cicerone et ceteris, proprium item de specie praedicatur cuius est proprium, neque enim esset proprium alicuius, si de alio diceretur; de quo enim una quaeque res ‘et soli et omni et semper’ dicitur, eiusdem pro- prium esse monstratur. quae cum ita sint, proprium de specie  dicitur, ut risibile de homine; omnis enim homo risibilis est. dicitur etiam de indiuiduis speciei de qua praedicatur; est enim Socrates, Plato et Cicero risibilis, accidens uero et de speciebus pluribus dicitur et de diuersarum specierum indi- uiduis. dicuntur enim coruus atque Aethiops nigri et hic cor-  uus et hic Aethiops, qui sunt indiuidui, nigri secundum nigre- dinis qualitatem uocantur. atque hoc quidem est accidens inseparabile, sed multo magis separabilia accidentia pluribus inhaerescunt, ut moueri homini et boui — uterque enim moue- tur —, et rursus ea quae sub homine sunt atque boue indiuidua,  moueri saepe praedicantur. sed aduertendum est auctore Por- phyrio quod ea quae accidentia sunt, principaliter quidem de his dicuntur in quibus sunt indiuiduis, secundo uero loco ad uniuersalia indiuiduorum referuntur, atque ita praedicatio  1 praedicabitur  CLP  3 uero  C  5 praedicatur  Cm1EGLRm2  7 esse  E  8 nisi  HPR, ex  si  CLm2  aliquo  CHP ante  diceretur  add.  non  R, s. l. Lm2  9  pr.  et  om. EGHN secund.  et  om. G tert.  et  om. EG, del. Lm2, s. l. Pm2; ad  et—semper  cf. p. 275,10  12 etiam] autem  HPm1  13 Plato] et piato  N  et  om. CEG  risibiles  CH  et  om. EGLP  14 pluribus  om. CN  dicitur  om. H, post  indiuiduis  s. l.  scil, praedicatur  m2  specierum  om. HN  15 dicuntur  in ras.   Hm2  dicitur  GNR  niger  NR  et  om. EGHN  16 et  om. EG   post  nigri  add.  autem  R, s. l. Lm2  19 et  om. EG  20 et  om.   CEGP  21 mouere  Ea.c.Gm2  actore  Ea.c.R  23  post  dicuntur  add. nam non subsistunt praeter haec quibus adsunt et nulli prius acci- dunt quam indiuiduis  R  24  post  uniuersalia  add.  ad speciem  G   superiorum redditur, ut quoniam nigredo singulis coruis adest, dicitur adesse coruo. nam quia omnia particularia qualitas ista accidentis nigredinis inficit, idcirco eam de specie quoque praedicamus dicentes coruum, ipsam speciem, nigrum esse.    In quibus omnibus mirum uideri potest, cur genus de proprio praedicari non dixerit nec uero speciem de eodem proprio nec differentiam de proprio, sed tantum genus quidem de speciebus ac differentiis, differentiam uero de speciebus atque indiuiduis, speciem de indiuiduis, proprium de specie atque indiuiduis,  accidens de speciebus atque indiuiduis. fieri enim potest ut quae maioris praedicationis sint, ea de cunctis minoribus praedi- centur, et quae aequalia sunt, sibimet conuertuntur, eoque fit ut genus de differentiis, de speciebus, de propriis, de acci- dentibus praedicetur, ut cum dicimus ‘quod rationale est,  animal est’, genus de differentia, ‘quod homo est, animal est’, genus de specie, ‘quod risibile est, animal est,’ genus de proprio, ‘quod nigrum est’, si forte coruum uel Aethiopem demonstremus, ‘animal est,’ genus de accidenti praedicamus, rursus ‘quod homo est, rationale est’, differentia de specie,  1 superiorum]  E  ( s. l.  id est specierum)  GP  superioribus  cett.  sub- teriorura superioribus  brm  ut—dicitur  om. EG  2  post  coruo  s. l.  speciali  Lm2  3 nigredinis accidentis  C infecit  HLm1  eam] eamdem  Lm2Pm2  (it eadem  m1 ) eadem  EG  eo  Rm1  ea  m2  de  om. P  4 ipsum specie  EGPRm2 post  ipsam  add.  scilicet  C  nigram  C  5 omnibus  s. l. Cm2  6  utroque loco  neque  R  7 differentias  R  8 atque  Rbrm  et de  p  differentiis] indiuiduis  pr cum p. 286, 1, differentiis <atque indiuiduis>  coni. Brandt; cf. p. 287,12—21  differentias  HLPR  9 proprium de specie atque indiuiduis  om. H  11 maiores praedicationes  EGR  sunt  Ca.c. (ras.  i  ex  u)  Pm2R  ea  s. l. L  eadem  C  eaedem ( om.  de  G ) eae  Pm1  hae  ER  cunctis] dictis  EGR  12 et  om. EG   conuertuntur ]  Em1GLm1Rm2  (conuertentur  m1 ) conuertantur  CEm2HL   m2NP ad  eoque  s. l.   i  ideo  G  fit] quale sit  EG  13  pr.  de] et de  HNP   secund.  de  om. R  et de  HLNP tert.  de  om. E  et  HNPR  et de  L   quart.  de] et  NP  et de  HL  atque  R  14 praedicatur  EG  rationabile CEGLm1NR  15 animal est] sit animal  E  ( ad  sit  s. l.  pro est)  GLR  de  s. l. EGm2L post differentia  add.  praedicatur  GP (del. m1?),   s. l. Lm2, s. l.  praedicari  Em2  16 eat genus  om. G 18 accidente  R  19 rationabile  Em1G post  specie  add.  praedicatur  G   ‘quod risibile est, rationale est,’ differentia de proprio, ‘quod nigrum est, rationale est’, si Aethiopem demonstremus, dif- ferentia de accidenti; item ‘quod risibile est, homo est’, spe-  p. 95  cies de proprio, ‘quod nigrum est, homo|est,’ si Aethiopem designemus, species de accidenti, qua in re etiam ‘quod nigrum  est, risibile est’ in Aethiopis demonstratione ut proprium de accidenti praedicatur. conuerti autem ad totum accidens potest, ut quoniam in indiuiduis singulorum esse proponitur, idcirco de superioribus etiam praedicetur, ut quoniam Socrates animal est, rationalis est, risibilis est et homo est, cumque in Socrate  sit caluitium, quod est accidens, praedicetur idem accidens de animali, de rationali, de risibili, de homine, ut accidens de quattuor reliquis praedicetur. sed horum profundior quaestio est nec ad soluendum satis est temporis, hoc tantum ingredi- entium intellegentia expectet, quod alia quidem recto ordine  praedicantur, alia uero obliquo, quoniam moueri hominem rectum est, id quod mouetur hominem esse conuersa locutione proponitur, quocirca rectam Porphyrius in omnibus propositi- onem sumpsit, quodsi quis uim praedicationis et solutionis adtenderit in singulis praedicationibus comparans, eas quidem  1 differentiam  HR  3 accidentia  G post  item  add. quod rationale est homo est species de differentia  Hm1, del. m2  speciem  ELm2PR,   item 5  6 ut  om. R, del. ELm2 post  proprium  s. l.  etiam  Pm2,   post  accidenti  N, s. l. Cm2  7 praedicetur  CHLm1NPm2  ad  om.   N, s. l. Cm2  8 ut  ex  et  Hm2  in]  N, s. l. m2 in EHP, om. cett. praeponitur  Ca.c.EGHLNR  9 praedicatur  CHLNR ante  animal  add.  et  HN  10  ante  rationalis  add.  et  HNP, s. l. Cm1?  rationabile  Lm1 ante  risibilis  add.  et  HNPR, s. l. Cm1? Lm2  risibile Cm1EGLm1  et  (s. l. m1?)  homo est  post  rationalis est  C  et  om.   EG  11 praedicatur  CHLm2NP 12  secund.  de  om. CEGR tert.  de  om. R quart.  de  om. C  ut] et  CHN  13 praedicatur  CHN  14 dis- soluendum  N  15 expectet  idem quod  spectet 16 quoniam] nam  HLm2NP  moueri  post hominem  Cm2Pm2  17 moneatur  N  18  ante  proponitur  s.l.  non  Hm2  proportionem  EL  19 uim quis  EGLR  uim  om. Hm1, ante  adtenderit  s. l. m2  praedicatae  H  praedictae  Lm2Pm2  et solutionis]  CN  solutionisque  L  solutionis  Gm1Hm2  (locutionis  m1 ),  s. l. add. Pm2  so- lutione  Gm2R  solue  (sic) E  20 attenderit  in ras. Em2  ostenderit  R   prolationes quae rectae sunt, inueniet a Porphyrio esse enu- meratas, eas uero quae conuerso ordine praedicantur, fuisse sepositas.      Commune est autem generi et differentiae con-  tinentia specierum. continet enim et differentia species, etsi non omnes quot genera, rationale enim etiamsi non continet ea quae sunt inratio· nabilia quemadmodum animal, sed continet homi-  nem et deum, quae sunt species, et quaecumque praedicantur de genere ut genera, et de his quae sub ipso sunt speciebus praedicantur, et quae- cumque de differentia praedicantur ut differen- tiae, et de ea quae ex ipsa est specie praedicabun-  tur. nam cum sit genus animal, non solum de eo praedicantur ut genera substantia et animatum, sed etiam de his quae sunt sub animali speciebus  4—p. 292, 10] Porph. p. 13, 22—14, 12 (Boeth. p. 40, 17—41, 12).   1 esse  om. GN, add. Hm2  enumeratas] N numeratas  cett.  2 prae- dicantur] proferuntur  HN  3 positas  Gm1Hm1  suppositas  Pm2  4  de   Porph. cf. ad p. 103, 7  5 Communis  Σ ,  m1 in EH \  est  om. E   Porph. (p. 13, 33) Busse, post  autem  N  6 continet—sunt  (p. 292, 8)] LR Q ,  om. cett.  7 etiamsi  ΔΣ  quod  i m1  quas  A m2R  8 enim  om. R,   8. l.   Δ inrationalia  2Φ ,  add.  ut genus  codd. praeter R Σ ,  om. etiam   Porph. p. 14,2, delend. uid. Bussio 9 sed] tamen  brm  10 deum] angelum  R  angelum et deum  L; Porph. cod. A   θεόν ,  cett.   άγγελον 11 genera]  Σ  genus  cett. Busse (sed  genera  probare uid.); cf.  ut genera  16. p. 293, 20 , ut differentiae  13; Porph. p. 14,3   όσα τε ν,ατηγορεΐται του   γένους ώς γένους  et] eadem  in ras. A m2  12 et]  Z p, s. l.   A m2,   om. cett.  (aliter  er.   T )  Busse  item  brm; cf. ad 13  quaecumque]  Lm2R Z  quaeque  cett.  13 de differentia] differentiae  Lm1 A  differentia  R ΓΦ ;  cf.  ut differentiae  p. 294, 1; Porph. p. 14,4   όσα τε τής διαφοράς ώς   διαφοράς  14 ex] sub  L \  et  R; Porph.   έξ praedicantur  Γ  15 genus sit  ΔΛΣ  16 praedicatur  R  ut  om. edd.  genera]  L Z   Busse  genus  cett. codd., om. edd.; cf. p. 394, 3—5; Porph. p. 14,5   γένους... ώς   γένους αατηγορεΐται ή ουσία  17 sunt  om. L  animalis  Δ   omnibus praedicantur haec usque ad indiuidua. cumque sit differentia rationalis, praedicatur de ea ut differentia id quod est ratione uti, non solum autem de eo quod est rationale, sed etiam de his quae sunt sub rationali speciebus praedicabitur  ratione uti. commune autem est et perempto ge- nere uel differentia simul perimi quae sub ipsis sunt; quemadmodum enim si non sit animal, non est equus neque homo, ita si non sit rationale, nullum erit animal quod utatur ratione.   Post eam quae cunctis adesse uisa est communitatem, sin- gulorum ad se similitudines ac dissimilitudines quaerit, et quoniam inter quinque proposita genus ac differentia uniuer- salioris praedicationis sunt, siquidem genus species continet ac differentias, differentiae uero species continent neque ab his  ullo modo continentur, primum generis ac differentiarum similitudines colligit, ac primam quidem ponit hanc, dicit enim commune esse generi ac differentiae, ut species claudant;  1 praedicatur  LR ante  haec  add.  et  s. l. Lm2, in mg.   Γ ,  post  haec  Λ  haec  del.   \ m2  2 rationalis]  codd. (etiam Bussii LQ  rational,  in P uox paene tota euanuit ) rationale  edd. Busse; Porph. p. 14,7   διαφοράς τε οόσης τής τοΰ λογιχοΰ ;  cf. infra p. 293, 14  rationalis diffe- rentia;  295, 11  sub rationali differentia,  unde  rationalis  nominatiuum   potius intellegas quam cum Porph. genetiuum praedicantur  Φ  3 eo  coni. Busse  non] et non  L *l>  4 autem]  ΓΦ ,  s. l. Km2, om. cett.;   Porph. p. 14, 8   δε  5  ante  sunt  s. l.  sub ipsa  \ m2  sub rationabili- bus  h m1, del. m2 post  rationali  add. animali  ΠΦ ,  s. l. Lm2  praedi- catur  ΓΔΛΣΦ   a.c.; Porph. p. 14, 9   χατηγορηθήσετοι  6  ante ratione  add.  id quod est  s. l.   & m2 W m2 Busse  id quod potest  LR post  com- mune  s. l.  illis  Γ est autem  Φ   ante  perempto  add.  hoc  Λ  genere]  Porph. p. 14, 10   ή τοΰ γένους ,  om.   η   cod. Μ  8 enim]  Σ ,  s. l.   Ψ m2 ,  om. cett.; Porph. p. 14,11   γάρ  sit] est  CEGHP  9 ita] sic  L  ac  b m1 \  12 ad se] ad esse  EGP  et  om. CEG, s. l. Pm2, del. Lm2  13 generis ac differentiae  CN  uniuersaliores praedicationes  CEGNP  14  ante  species  add.  et  LR  15 nec  N  16 ac] et  N  17 primum  LNP hanc] hanc communionem  H  18 commune] hoc commune  H  communionem  LR  ac] et  CGLP concludant  HN   nam sicut genus sub se habet species, ita etiam differentia, tametsi non tantas quot habet genus, etenim genus quoniam differentiam etiam claudit et non unam tantum sub se diffe- rentiam cohercet ac retinet, plures necesse est habeat sub se  species, quam quaelibet una earum differentiarum quas claudit, ut animal praedicatur de rationabili et inrationabili. quodsi ita est, praedicabitur et de his quae sub rationali sunt positae speciebus et de his quae sub inrationali. est ergo commune animali et rationali, id est generi et differentiae, quod sicut  genus de homine et de deo praedicatur, ita etiam rationale, quod est differentia, de deo ac de homine dicitur, sed non in tantum haec praedicatio funditur quantum animalis, id est generis, animal enim non de deo solum atque homine, sed de equo et boue praedicatur, ad quae rationalis differentia non  peruenit. sed quandocumque deum supponimus animali, secun- dum eam opinionem facimus quae solem stellasque atque hunc totum mundum animatum esse confirmat, quos etiam deorum nomine, ut saepe dictum est, appellauerunt. Secunda item communio est generis ac differentiae, quoniam quaecumque  praedicantur de | genere ut genera, eadem de his quae sub  p. 96  ipso sunt speciebus praedicantur; ad hanc similitudinem 15 quandocumque — 18 appellauerunt] Abaelardus, Introduct. ad theolog., II 34. 376. 18 saepe] p. 208, 22. 259, 19.   1 habeat  Lm2  differentiae  EGR  2  post.  genus  om. EGR, post quoniam  Cm1, corr. m2  3 differentias  CHm1L  etiam  del. Lm2, om. N  et  om. EG, s. l. Lm2 tantum  om. H, s. l. Lm2  4  ante  plures  add.  sed  EGL  adhibeat  R  ut habeat  L  5 quas  om. L quam  EGHPm1R  6 rationali  CHLN  inrationali ( uel  irt-)  HLN  7 ra- tionabili  Cm1EGm2P  8 inrationabili ( uel  irr-,)  CEGNP  commune est,  post s. l.  ergo  C ; ergo  om. EG, add. Pm2  10 et de deo  om. EG  rationabile  CEGR  11 in  om. LN  12 haec  om. EG  14 rationabilis  R  16 opinionem]  CHNPm2 Abaelard.  propositionem  EGLPm1R  qua  EGLm1P  solem] coelum  Abaelard.  17 confirmant  EGLm1  confirmet  N  20 de genere praedicantur  C post  eadem  add.  et  L  21 ipso] genere  H  ad hanc similitudinem  om. EGR; ante  ad  s. l.  et  Pm2   quaecumque de differentia praedicantur ut differentiae, et de his quae sub differentia sunt ut differentiae praedicantur, cuius sententiae talis est expositio, sunt plura quae de generibus praedicantur ut genera, ut de animali dicitur animatum, dicitur substantia, atque haec ut genera, haec igitur praedicantur et  de his quae sub animali sunt, ut genera rursus; nam hominis et animatum et substantia genus est, sicut ante fuerat ani- malis. item in ipsis differentiis quaedam differentiae inueniun- tur quae de ipsis differentiis praedicantur, ut de rationali duae differentiae dicuntur, quod enim rationale est, utitur ratione  uel habet rationem, aliud est autem uti ratione, aliud habere rationem, ut aliud est habere sensum, aliud uti sensu, habet quippe sensum et dormiens, sed minime utitur, ita quoque dormiens habet rationem, sed minime utitur, ergo ipsius ratio- nabilitatis quaedam differentia est ratione uti, sed sub ratio-  nabilitate homo positus est; praedicatur igitur de homine ratione uti ut quaedam differentia, differt enim a ceteris animalibus homo, quia ratione utitur, demonstratum igitur est quia sicut ea quae de genere praedicantur, dicuntur de generi subiectis, ita etiam ea quae de differentia praedicantur, dicuntur de his  quae differentiae supponuntur. Tertium commune est quod  1  ante  quaecumque  add.  et  EGL(del. m2), er. uid. C  quaeque  GPR  praedicantur  om. EGR, post ut differentiae  H  ut differentiae  om. EG post  differentiae  add.  eadem quoque  L, post  de his  P (om.  et), eadem  s. l. Nm2  2  post  sub  add.  ipsa  NR  sunt  ante  sub  H  ut differentiae  om. H, s. l. Nm2  ut differentia  EG  4  post.  dicitur  om. L 5 ante  substantia  add.  et  LPm2  6 rursus  ante  ut  GR, post L  7 antea fuerat  H  ante fuerant (n  s. l. m2) L  fuerant ante  R  8 quae- dam  s. l. Cm2  9 praedicentur  Cm2  ut  om. HN  11 autem habere rationem aliud uti ratione  NR.  12 ut  om. H sicut  N  est  om. H  13 sed minime utitur  om. N  sed—dormiens  om. EGPE, del. Lm2  ita—rationem  in sup. mg. Nm2  15 sed  om. EG, s. l. Pm2  16 positus est homo  R  esse ( om.  est  EGP est  ex  esse  Lm2  esse  del. Pm2 ) praedicatur. Igitur  EGLP  17 ut  om. EG, s. l. Cm2 post  diffe- rentia  add.  est  EGP  a]  L, om. cett.  18 homo  ante  ceteris  H  est igitur  HLN  quia] quod  CL  19  post.  generum  EGLm2P  20 post  his  add.  quoque  HN  21  post  Tertium  add.  uero  P, s. l. Lm2 quod] quia  C   sicut absumptis generibus species interimuntur, ita absumptis differentiis species de quibus differentiae praedicantur, intereunt, commune enim est hoc, uniuersalium in substantia pereuntium perire subiecta. sed prima communio demonstrauit genera de  speciebus praedicari, sicut etiam differentias, propter hanc igitur similitudinem si auferantur genera, species pereunt, sicut etiam species perire necesse est quae sub differentiis sunt, si uniuersales earum differentiae consumantur, cuius exemplum est : si enim auferas animal, hominem atque equum sustuleris,  quae sunt species positae sub animali, si auferas rationale, hominem deumque sustuleris, qui sunt sub rationali diffe- rentia collecti. Et de communitatibus quidem hactenus, nunc de generis et differentiae dissimilitudine perpendit.      Proprium autem generis est de pluribus prae- dicari quam differentia et species et proprium et accidens; animal enim de homine et equo et aue et serpente, quadrupes uero de solis quattuor pedes habentibus, homo uero de solis indiuiduis et hin-  nibile de equo et de his qui sunt particulares, et  14—297, 2] Porph. p. 14, 13—15, 8 (Boeth. p. 41, 13—42, 14).   1 sicut—ita  om. EG  consumptis ( post  ita)  Pm2  6 igitur] qui- dem  E  sicut] sic  GHm2LN  7 species etiam  HNP  10 quae] quia  H  qui  ex  quia  Nm2  12 collocati  HNP, recte? cf. 10. p. 300, 18  Et  om. CEGP, del. Lm2  13 perpendet  G  14 PROPRIO  C  PRO- PRIIS  post DIFFERENTIAE  L  GENERI  R  DE PROPRIIS EORVM (EORVNDEM  Ψ )  Ρ Ψ ;  de Porph. cf. ad p. 105, 16  15 autem  om ·.  ΓΦ  generi  LNR A ;  cf. infra p. 297, 15. 16 s. 299, 17. 300, 23. 301,10. (13) 302,11  est  ante  generis  s. l.   A ,  om .  Σ ,  om. Porph. p. 14,14  16  ante  quam  add . magis  L (er.)   A   (del. m2)  differentiae  EGHLPm1R ;  Porph. p. 14, 15   ή διαφορά  et species—differentia  (p. 296, 21) ]  LR ii ,  om. cett . et proprium] propriumque  A  17 de equo et (de  add.   \ ) homine  ΔΑ  18  post  uero  add . uidetur  ΓΦ ,  m1 in L ΔΑ ,  del. m2; om. Porph. p. 14, 17  solis  om. R  20  ante  equo  add . solo  edd. cum Porph. p. 14, 18   μόνον ,  fort. recte post , de  om. R, s. l. Lm2   accidens similiter de paucioribus, oportet autem differentias accipere quibus diuiditur genus, non eas quae complent substantiam generis, amplius genus continet differentiam potestate; animalis enim hoc quidem rationale est, illud uero inratio-  nale. amplius genera quidem priora sunt his quae sunt sub se positae differentiis, propter quod simul quidem eas auferunt, non autem simul aufe- runtur; sublato enim animali aufertur rationale et inrationale. differentiae uero non auferunt  genus; nam si omnes interimantur, tamen substan- tia animata sensibilis subintellegitur, quae est animal, amplius genus quidem in eo quod quid est, differentia uero in eo quod quale quiddam est, quemadmodum dictum est, praedicatur, amplius  genus quidem unum est secundum unam quamque speciem, ut hominis id quod est animal, differen- tiae uero plurimae, ut rationale, mortale, mentis et disciplinae perceptibile, quibus ab aliis differt, et genus quidem consimile est materiae, formae  uero differentia, cum autem sint et alia communia  1 autem  om .  Σ  enim  Lm1  4 continet genus  LR; Porph. p. 14, 20   τό γένος περιέχει 5 enim  om.   2  uero  A m1  est  in mq. Lm2  6 quidem genera  Lm1R  priora  om. L  7 sub se  ante sunt  L, post  positae  R  positis  ΓΛΦ ,  m1 in L Λ2  8 quidem  om. L, ante  simul  R  auferunt]  h m1 V aufert  cett.; Porph. p. 14, 22  ( τα γέν-r )  σοναναιρεΐ οΰτός  aufe- runtur]  A m1 W  aufertur  cett.; Porph. p. 14, 23   σοναναιρεϊται  9 aufertur rationale—aufernnt genus  om. R  11 si] etiamsi  brm cum Porph. p. 15, 1   καν ; fort. etsi  scribendum  tamen  om .  Σ ,  s. l.   A m2 A m2  12 sensi- bili  R subintellegitur]  Φ  subintellegitur potest  R  subintellegi  potest   cett.; Porph. p. 15, 2   επινοείται quod  Δ   Busse; Porph .  οϋσια...ήτις ήν τό ζψον  14 uero  om. L  quiddam  om. R  quid  edd . est  om.   LR TΛΦ  15 quemadmodum] sicut  LR  est dictum  Λ   Busse  16 quidem genus  hA m1 Z  est unum  LR  17  ante  hominis  add. est   edd. Busse; om. Porph. p. 15, 4  18 plures  brm cum Porph. p. 15, 5   πλείοος ;  cf. infra p. 301, 21; post  plurimae  add . sunt  ΑΣ   Busse; om. Porph. p. 15, 5 mentis  5 m2  risus  m1  20 cum simile  R  21 autem  Cp.c . haec  a.c . et  om. G   et propria generis et differentiae, nunc ista suf- ficiant.    | Proprium quidem quid sit, conuenienti atque integro uoca- p. 97  bulo definitum est. sed per abusionem illa etiam propria  quorumlibet dicuntur quae in una quaque re ab aliis continent differentiam, licet cum aliis sint ea ipsa communia, per se quippe proprium est homini quod ei omni et soli et semper adest, ut risibilitas, per usurpatam uero locutionem etiam proprium hominis rationabilitas dicitur non per se proprium,  quippe quod ei cum deorum est natura commune, sed homini rationabilitas proprium dicitur ad discretionem pecudis, quod rationale non est; id uero propter hanc causam, quoniam id proprium unius cuiusque dicitur quod habet suum, quo igitur quis ab alio differt, proprium eius non absurda usurpatione  praedicatur, sed nunc quod dicit proprium generis esse de pluribus praedicari quam cetera quattuor, id ipsum generis tale proprium est, quale per se proprium dici solet, id est quod semper <et> omni et soli adsit generi, generi enim soli adest, ut differentia, specie, proprio, accidenti überius atque  affluentius praedicetur, sed de his differentiis, speciebus, pro- priis atque accidentibus id dici potest quae sub quolibet  1 proprii  P  et] ac  EGP  nunc  om. Porph. p. 15, 8  suf- ficiunt  Λ m1 2 ;  Porph .  άρκείτω ταϋτα ,  cod. B   apxet τοααδτα  3 quidem] autem  C  quod  R  5 in una quaque re]  CLP  re  om. N  una quaque  E  una quaeque  G  unam quamque  HR  6 differenda  EGLm1  7 omni et soli] et soli et omni  C   pr.  et  s. l. Lm2 post , et  om. EG  10  post  ei  add . quoque  HNP  12 rationabile  HR post  uero add. fit  L ,  s. l. Pm2  14 aliquo  Lm2  differat  Cm2Hm1N  15 nunc  om. EG ,  post  quod  C  17 tale  ante  quale  P est proprium  LP post , est  om. CN  18 et  add. brm  adest  C  generi enim  in mg. Hm2  enim] uero  C  autem  L  19  post  ut  add . et  H   (del. m2) N  et specie  HLN  et proprio  HLR  et (atque  R ) accidente  HLm1  (-ti  m2 )  NR  20 affluentius]  CHNPm2  fluentius  Lm1 ,  s. l . ł lucidius  m2 cluentius  E  ( s. l . habundantius]  Pm1  licentius  G  luculentius  R  de] e  R  speciebus  post differentiis  pos. Brandt, ante codd. pr, om. bm  et propriis  CHLN  21 atque  om. P   genere sunt, id est differentiae quidem quae quodlibet diuidunt genus, species uero quae diuisibilibus generis differentiis infor- matur, proprium autem illius speciei quae sub illo genere est quod differentiis est diuisum, accidentiaque quae his hae- reant indiuiduis quae sub ea specie sunt quam designatum  genus includit, hoc facilius exempla declarant, sit enim genus animal, quadrupes ac bipes differentiae sub animalis positae continentia, homo atque equus species sub eodem genere constitutae, risibile atque hinnibile propria earundem spe- cierum, uelox uero uel bellator accidentia quae his indiuiduis  accidunt quae sub speciebus equi atque hominis continentur : animal igitur, quod est genus, praedicatur et de quadrupede et bipede, quae sunt differentiae, quadrupes uero de bipede non dicitur, sed tantum de his animalibus quae quattuor pedes habent; plus igitur praedicatur genus quam differentia, rursus  homo de Platone ac Socrate praedicatur, animal uero non modo de hominibus indiuiduis, uerum etiam de ceteris inratio- nabilibus indiuiduis dicitur; plus igitur genus quam species praedicatur, sed cum sit proprium hinnibile equi speciei cum-  1 differentiae]  CNp  differentias  EG, m1 in HLP de  (om. HPR)  dif- ferentiis  m2 in HLP, Rbrm  quidem  om. B, ante add . sunt  C, post N  genus diuidunt  HN  2 speciebus  Hm2Lm2  specie  Pm2brm  diuisi- bilis  Hm1Pm1R  ( add . est), dissimilis  E  ( add . est)  G, ad  diuisibilibus  in mg.  ał quae diuisiuis  Lm2, sed cf. p. 254, 12 ante generis  add  est  ERm2, add . sunt,  post  et  (del. m2) P  informantur  CLm2  3 pro- prio  m2 in HLP (ante s. l. de add.) brm post  autem  add . quod est  EGP (del. m2)  illi  Lm1  4 diuisiuum  Lm1  diuiditur ( om . est;  N  accidentiaque]  CEGHm1Lm1  accidentia quoque  Pm1  (de accidentibus quoque  m2 ) accidentia  Rp  accidensque  N  accidentibusque  Hm2Lm2brm  quae] quod  N  hereat  N  haerent  Pm2 edd . 5 sint  G  10 uelox— bellator]  HNP  (uel  om. , et  s. l. m2 ), uelox uero dux uel bellator  C  uelox uero uel bellator dux  L  uelox uero bellator dux  EG  ferax uerox  (sic)  ( s. l . equus  m2 ) bellator dux  R  11 accidant  H  accidencia  Pm1  12 et  om. EGP  13 et bipede]  HNP, om. R  bipede  C  de bipede  EGLm1  et de bipede  m2  quadrupedes  G  14 his  om. GR, s. l. Cm2Lm2  16 ac] et  P post  praedicatur  add . et ceteris  HNP  17 hominis  C  (s  in er. b.? m2 )  GHm1N  19 sed—praedicetur  om. EG  hinnibile  ante  proprium  N, om. LR  simile  H  equi  om. H   que genus quam species überius praedicetur, praedicatio quo- que generis proprii supergreditur praedicationem, accidens quoque etsi pluribus inesse potest, tamen saepe genere con- tractius inuenitur, ut bellator non proprie nisi homo dicitur,  ut uelocitas in paucis animalibus inuenitur. quo fit, ut genus differentia, specie, proprio et accidentibus amplius praedice- tur. Atque haec est una proprietas generis quae genus ab aliis omnibus disiungat ac separet, oportet autem, inquit, nunc eas differentias intellegere quibus diuiditur genus, non quibus  informatur, illae enim quibus informatur genus, plus quam ipsum genus sine dubio praedicantur, ut animatum et corpo- reum ultra animal tenditur, cum sint differentiae animalis, sed non diuisiuae, sed potius constitutiuae; omnia enim superiora de inferioribus praedicantur, quae uero de inferioribus praedi-  cantur neque conuerti possunt, haec ab eis quae inferiora sunt amplius praedicantur.   Post hoc aliud proprium generis ostendit quo ab his differentiis quae sub eodem sunt positae, segregatur, omne enim genus continet differentias potestate, differentia uero  genus non potest continere, animal enim rationale atque inra- tionale continet potestate; neque enim inrationabilitas neque rationabilitas animal poterit continere, potestate autem ait continere animal differentias quia, ut superius dictum est,  23 superius] p. 264, 16.   1 praedicatur  Cm1R  3 inesse] inest  C  ante saepe  add . semper uel  Hm1, del. m2  contractius genere  H  inneniri  C  5  pr.  ut  er. uid. C, om. HPm1  et  LN, s. l. Pm2  6  ante  differentia  add . et  Hm2LN ante  specie  add . et  HL  et de  N ante  proprio  add. et HL  et de  N  et  om. E  accidente  R  8 inquit  om. N, del. Hm2  10  post  informatur  add . genus  C  illae—informatur  om. EGLR, post praedicantur  (11) add . Ipsae enim diffe- rentiae a quibus informatur genus  Lm1, ante  plus quam  transpos. m2  illae enim] nam illae  P ante  plus  add . nam  GR  11 sine dubio  om. HN  et  om. EG  12 tendit  EG ? tenduntur  R  sunt  H  15 ab  om. H  18 eodem] eo  HN  eodem genere  C segregetur  HN  20 rationabile  ELm2P  atque  om. EGR, s. l. Pm2  inrationale  om. EGPm1R inrationabile  Lm2, s. l. Pm2  21 inrationalitas neque rationalitas  HN  22 poterunt  CHLP  23  post  differentias  add . proprias  CL (del. m2), ante HNP   genus quidem omnes sub se habet differentias potestate, actu uero minime, ex quo fit ut alia proprietas oriatur, sublato enim genere perit differentia, ueluti sublato animali interimitur rationabilitas, quod est differentia, at si rationale interimas, inrationale animal manet, sed obici potest : quid? si utrasque  differentias simul abstulero, num poterit remanere genus? dicimus : potest, unum quodque enim non ex his de quibus praedicatur, sed ex his ex quibus efficitur, substantiam sumit, itaque fit ut genus sublatis diuisiuis differentiis permanere possit, dum tamen maneant illae quae ipsius generis formam  substantiamque constituunt, quoniam enim animal animata  p. 98 atque sensibilis differentiae constijtuunt, hae si maneant atque iungantur, perire animal non potest, licet ea pereant de quibus animal praedicatur, rationale scilicet atque inrationale. unum quodque enim, ut dictum est, ex his substantiae proprietatem  sumit ex quibus efficitur, non ab his de quibus praedicatur, amplius si utrasque differentias genus potestate continet, ipsum per se neutram earum intra se positam collocatamque con- cludit. quodsi actu quidem eas non continet, sed potestate, actu etiam ab his poterit separari; hoc ipsum enim, potestate  eas continere, id erat actu non continere, genus uero, quod quaslibet differentias actu non continet, actu ab eisdem etiam separatur. Kursus aliud est proprium generis, quod ex pro-  1 omne  GR  2 alia ut  EGP  4 rationalitas  HN  at  om. EGR  rationabile  CLm1R  5 inrationale  om. EG  inrationabile  Lm1R  quod  CEGLP  qui  R  6  post  abstulero add. rationales et inrationales  E num] non  EGLm1P  7 dicimus] sed dici  EP  de quibus—his  in mg.   Hm2  8  post , ex] de  P  9 itaque] atque  GR  atque  ita C  atque ideo  EP  10  post  tamen  add . earum  P  illa  C  ( a. in er . ae  m2 )  N  quod  E  11 quoniam—constituunt  in mg. inf. Em2  animati  Cm2LR  12 differentia  HN differendis  Pm1  haec  C (c er.)   EGHN  manent  E  15 dictam est] diximus  C  17  ante  ipsum  s. l. tunc  Hm2  18 neutra  G  neutrum  R  positum collocatumque  LPm1R  20 etiam] quidem  E post poterit  add . genus  EG   post  enim  add . quod est  R, s. l. Pm2  21 erit  Lm2R  quod] quae  E  23 eat om. ENR   prietate praedicationis agnoscitur, omne enim genus ad inter- rogationem ‘quid est unum quodque?’ responderi conuenit, ut animal in eo quod quid est de homine praedicatur, differentia uero minime, sed in eo quod quale sit; omnis enim differentia  in qualitate consistit, sed hoc proprium tale est quale supe- rius diximus, non per se, sed secundum alicuius differentiam dictum, alioquin commune est hoc generi cum specie, ut in eo quod quid sit praedicetur, sed quia hoc genus a differentia discrepat, quoniam differentia quidem in eo quod quale est,  genus uero in eo quod quid est praedicatur, generis proprium dicitur non per se, sed ad differentiae comparationem, et in omnibus reliquis eandem rationem conueniet speculari; quod- cumque enim ita generi proprium dicitur, ut nulli sit alii commune, sed tantum hoc habeat genus ut omne genus et  semper, id secundum se proprium nuncupatur, quicquid uero cum quolibet alio commune est, id non per se, sed ad alterius differentiam proprium dicitur. Alia rursus generis et diffe- rentiae separatio est, quod genus quidem speciei unum semper adest, scilicet proximum plura - enim possunt esse superiora,  uelut hominis animal atque substantia, sed proximum eiusdem hominis animal tantum —, differentiae uero plures uni speciei  5 superius] p. 297, 9.   1  post  agnoscitur  add . Omne enim genus ei proprietate cognoscitur praedicationis  P, in inf. mg. Lm2  generis  E  2 quid est] quidem  E  quidem quid est  HN  unum  om. E  respondere  CLR  4 sit] est  HN  7 hoc  ex  huic  Em2  8 ac G 9 est] sit  N  11 et  om. EG  12 conuenit  CHNP  13 generis  Pm2  alii sit  C  14 tamen  E  habeat—semper]  Cm2Hm1N  habeat genus et omne genus et (et  om .  Lm2R ) semper  Cm1Hm2Lm2R  habeat omne genus semper  EG  habeat genus omne semper  Lm1  genus hoc  (del. m2)  haheat omne genus (genus omne  m2 ) et  (s. l. m2)  semper  P  15 se  om. CN , illud  Cm2   (s. l.)  id  H post proprium  add . dicitur quod per se proprium  CHN  16 ad  om. C, in mg. Hm2  17  pr . differentia  C  18 est  om. HNR ,  s. l. E  uni  R  19 proximum  Cp. c . proprium  a. c . ad plura  in   mg.  genera  Lm2 , enim genera  P  20 ante animal  s. l . sed genus  Cm2  21  post  speciei  add.  semper adsunt  E   adesse poterunt, ut rationale atque mortale homini, itaque fit definitio ex uno quidem genere, sed pluribus differentiis, ut hominis animal rationale mortale. Rursus alia discretio est, quod genus quidem quasi subiecti locum tenet, differentia uero formae, ita ut illud sit materia quaedam quae figuram  suscipiat, haec uero sit forma quae superueniens speciei sub- stantiam rationemque perficiat. Idcirco uero pluribus diffe- rentiis a genere differentiam segregauit, quia haec maxime generis quandam similitudinem contineat, quia est uniuersalis et praeter genus inter ceteras maxima, sed cum alia plura  communia pluraque propria generis inter se ac differentiae ualeant inueniri, nunc, inquit, ista sufficiant, satis est enim ad discretionem quaslibet differentias assumere, etiamsi non quae dici possunt omnia colligantur.      Genus autem et species commune quidem ha- bent de pluribus, quemadmodum dictum est, prae- dicari. sumatur autem species ut species et non etiam ut genus, si fuerit idem et species et genus.  15—303, 3] Porph. p. 15, 9—13 (Boeth. p. 42, 15—20).   1 adesse—mortale  om. EGR  ut  om. HN  ut homini  C  Hominis itaque  C  hominis, itaque  P  2  ante  pluribus  add . de  Lm2  3  post  rationale  add.  atque  edd . est  om. HNR  4 quidem  om. C  5 ita ut om.  EGLm1  ut  m2  quaedam  om. EG, s. l. Lm2, ante  materia  P  quae  om. R, s. 1. Cm1?  quod  Em1  6 suscipiens  Lm1R  7 uero  om. EGLR  8 differentias  CEGHm1Pm1  9 continet  EGLPR  10 et  om. N  praeter] post  HPm1  maxima inter ceteras  H  in  N  cetera Lm1Pm2 edd . maximi  G  maximae  Pm1  12 nunc—sufficiant]  HLNR   (recte? an ex p. 297, 1?) ista inquit sufficiunt  GP  sufficiunt inquit ista  C  ista quidem sufficiunt  E  14 non  post  omnia  E (s. l.) p, ante brm  colliguntur  Hm1R  15 ET SPECIEI] SPECIEIQVE  C; de Porph. cf. ad p. 102, 7  17 de pluribus  om. G  18 sumatur—prae- dicantur  (p. 303, 2)] LR Q ,  om. cett . autem] autem et  L ΛΛΦ ;  Porph. p. 15, 11   11  et  om .  ΓΔ  sed  RΣ  19 ut  add .  \ m2 pr . et]  L cum Porph. p. 15,12, om. codd. cett. edd. Busse  genus et species  Ε Σ   commune autem his est et priora esse eorum de quibus praedicantur, et totum quiddam esse utrum que.    Generis et speciei enumerat tria communia, unum quidem,  de pluribus praedicari; genus enim et species de pluribus praedicantur, sed genus de speciebus, ut dictum est, species uero de indiuiduis. sed nunc de illa specie loquitur quae tantum species est. id est quae non etiam genus est, sed ultima species, quodsi talem speciem ponamus quae etiam  genus esse potest, ac de ea dicamus quoniam commune habet cum genere de pluribus praedicari, nihil interest an ita dica- mus, ipsum genus id secum habere commune de pluribus praedicari, talis enim species quae non est solum species, ea etiam genus est. Est autem commune his quoque quod utra-  que priora sunt his de quibus praedicantur, omne enim quod de aliquibus praedicatur, si recto, ut dictum est superius, ordine dicatur, prius est his de quibus praedicatur. Praeterea est illis hoc etiam commune, quod genus ac species totum sunt eorum quae intra suum ambitum continent et cohercent;  omnium enim specierum totum est genus et omnium indi- ui|duorum totum species, aeque enim genus et species aduna-  p. 99  tiua sunt plurimorum, quod uero multorum adunatiuum est, id eorum quae ad unitatis formam reducit, recte dicitur totum.    16 superius] p. 290, 15 ss.   1 est  om. L  priora] propria  La.c. Tk a.c A m1  2 esse] est  C  5  ante  genus  add. et H (er.) N  6  post  genus  add . quidem  L  8 est, sed] est ut est  H  ut est  N  12 secum]  H  (cum  in ras. m2 )  LR  secundo  CEGNPm2  (-da  m1 ) de pluribus—commune  (14)   post  praedicantur  (15) E 13 quod  E  14 his commune  HN  15 omne—-praedicatur  (16) in mg. Hm2  17 dicatur] praedicatur  CN  his] de his  G  18 etiam hoc  N  eorum sunt  C  20 genus est  NR  et] ut  Hm1  21  ante  species  add. est CNP, post E (in ras.) H  23 quod  E  re- ducuntur  Ca.c.N     Differt autem eo quod genus quidem continet spe- cies sub se, species uero continentur et non continent genera; in pluribus enim genus quam species est. genera enim praeiacere oportet et formata specificis  differentiis perficere species; unde et priora sunt naturaliter genera et simul interimentia, sed quae non simul interimantur. et species quidem cum sit, est et genus, genus uero cum sit, non omnino erit et species. et genera quidem uniuoce de speciebus praedi-  cantur, species uero de generibus minime, amplius genera quidem abundant earum quae sub ipsis sunt specierum continentia, species uero a generibus abun- dant propriis differentiis. amplius neque species fiet umquam generalissimum neque genus specialissimum.   Expeditis communibus generis ac speciei nunc de eorum discretione pertractat. differre enim dicit genus ab specie, quoniam genus continet species, ut animal hominem, species  1—15] Porph. p. 15, 14—24 (Boeth. p. 42, 21—43, 10). 1 PROPRIO  H  DIFFERENTIIS  C; de Porph. cf. ad p. 105, 16  2 Differunt  ENR edd.; Porph. p. 15, 15   διαφέρει   post  autem  add . genus  a  specie  Φ  continet quidem  N  3 sub se  er. uid .  5 ,  s. l. 2 m2, ante  species  (2)   ΓΦ ;  Porph. p. 15, 15   περιέχει τά είδη  species  s. l. Gm2  continetur  C A continetur a genere  Γ ;  Porph .  τα δέ είδη περιέχεται  et  om. EG  continet  C ΑΦ  4 in pluribus—differentiis  (14) ]  LR Q ,  om. cett . enim] quidem  S ;  Porph. p. 15, 16   ετι τά γένη  5  ante  oportet  s. l . et  5 m2  et  s. l .  5 m2 ,  hic om., sed ante  perficere  pos. LR h m1   (del. m2)   A ;  Porph. p. 15, 17 ν.α'ι διαμορφωθ-έντα  7 sed] si  R  9 est]  Porph. p. 15, 19   πάντως εστι;   exciditne  omnino ?   pr . et  om .  LR I ,  s. l .  A m2 ;  Porph. p. 15, 19   εστι και γένος   post . et]  A   (del. m2)   Φ   cum Porph. p. 15, 20, om. cett. edd. Busse  10 uniuoce quidem  AAS ;  Porph.   τά μέν γένη  de speciebus]  Porph. p. 15, 21   των δφ’ έοοτά ειδών  12 quidem genera  L s m2 i\Y .  Busse; Porph.   τά μέν γένη  sunt  (s. l. L)  sub ipsis  LR; Porph. p. 15, 22   των όπ’ αΰτά ειδών  13 a  om .  ΓΦ  ab  A m1 ,  del. m2  14 fiet  post  umquam  C  fit  HN  15 neque genus specialissimum  om. H   post  genus  add . fiet  CEGR  fiet umquam  ΑΑΣ  fiet species  L; Porph. 15, 24   ούτε τδ γένος ειδικάιτατον  16 ac] et  CE  17 differt  GR  a  HLNR  18  pr . speciem  HN   uero non continet genera; neque enim homo de animali prae- dicatur. itaque fit ut species quidem contineantur a generibus, numquam uero contineant genera, omne enim quod amplius praedicatur, illius est continens quod minus dicitur, quodsi  genus amplius praedicatur quam species, necesse est ut spe- cies quidem contineatur a genere, genus uero speciei nullo ambitu praedicationis includatur, huius autem ratio est quo- niam genus semper suscipiens differentiam speciem facit, hoc est, genus quod habebat latissimam praedicationem, coartatum  differentia et contractum speciem facit; omnino enim generi iuncta differentia speciem reddit et ex uniuersalitate atque latissima praedicatione in angustum speciei terminum con- trahit. animal enim, cuius praedicatio per se longe lateque diffusa est, si arripiat rationalis differentiam, si etiam mortalis,  deminuit atque contrahit in unum hominis speciem, unde fit ut minor sit semper species quam genus atque ideo conti- neatur, sed non contineat, sublatoque genere auferatur et spe- cies; si enim totum auferas, pars non erit, quodsi species auferatur, genus manet, ueluti cum animal sustuleris, interi-  mitur etiam homo, si hominem auferas, animal restat, haec etiam causa est, ut genus de specie uniuoce praedicetur, id est ut species suscipiat definitionem generis et nomen, sed  1 continent  HN enim  om. C  6 contineantur  NR  speciei  om. R  specie  Cm1  in specie  Lp.c . species  N  post nullo  add . modo  EGHPR, s. l. Lm2  7 includitur  EGLm1P  includat  N   post  autem  s. l.  rei  Cm2  8 semper  om. HN  species  N  hoc—facit  (10) om. EG  9 est  s. l. C, om. HN, del. Pm2  habet  Lm2Pm2  coartatum  ex  coapta- tum  Lm2, in mg . ał coaptata ipsa diffinitio et contracta speciem facit  m1  coaptata  Hm2P  apta  Cm1  (aptata  m2 )  Hm1N  10 et]  LR, s. l. Pm2 , om. CHN (de EG cf. ad S) contracta Lm2 omni Hm2Lm2 11 et om. G, s. l. ELm2 atque] et EHNPR 12 post praedicatione add. generis CNP, s. l. Lm2 speciem EG contrahitur Hm2 14 differen- tia  C ( ras. ex  -ã)  R  etsi etiam E et s. l., del. si etiam Lm2, et  R  15 diminuit  EHLPR ; diminuitur atque contrahitur  N  unam  C  (am  in ras. m2 )  Hm2NR  16 continentur sed non continent  N  17 et  om. EGR  19 remanet  C  cum] si  P  21 est causa  C  22 generis et nomen] et generis nomen  E et nomen generis  N  generis nomen  R   non e conuerso. definitionem quippe speciei genus suscipere non uidetur; substantiam enim priorum inferiora suscipiunt, si enim definias animal et dicas substantiam esse animatam atque sensibilem aut si praedices de homine ‘animal’, uerum dixeris, si etiam animalis definitionem de homine praedicaueris  dicasque hominem esse substantiam animatam atque sensi- bilem, nihil fuerit in propositione falsi, sed si hominis defini- tionem reddas ‘animal rationale mortale’, ea animali non con- ueniunt; neque enim quod animal est, id dici poterit animal rationale mortale, fit igitur, ut sicut species generis nomen  suscipit, ita etiam capiat definitionem, et sicut genus nomen speciei non suscipit, ita nec eiusdem definitione monstretur, sed cuius nomen et definitio de aliquo praedicatur, id uniuoce dicitur, cum igitur generis et nomen et definitio de specie praedicetur, genus de specie uniuoce dicitur, quoniam uero  speciei de genere. neque nomen neque definitio praedicatur, non conuertitur uniuoca praedicatio. Differunt genera <ab> speciebus hoc quoque modo, quod genera superuadunt species suas aliarum continentia specierum, species uero genera dif- ferentiarum pluralitate, animal enim, quod est genus, superuadit  hominem, quod est species, quia non hominem solum continet, uerum etiam bouem, equum aliasque species, quas suae spatio praedicationis includit, species uero, ut homo, superuadit genus, ut animal, multitudine differentiarum, nam quod actu genus  1 e conuerso] est  (om. R)  conuersio  EGLPR 2 non  er. H  sub- stantiae  EGLm2  (-tia  m1 )  PR  enim priorum] enim proprium  EGP diffinitionem ( om . en.  pr .)  R  3 et  om. CHNP  4 aut]  brm  at  CHLNP, om. EGR  5 definitione  E 7 nil  C  fuerat  Cm1  fueris  HN  falsi] mentitus  HN  sed] quod  CHN  hominis definitionem  om. EGR  hominis rationem  L  8 addas  EGR, post  si ( om . reddas,)  add. P , reddas addas  L pr . animali  Ea.c.LR  animal est G conuenit  CNPa.c.  9  ante  quod add.  id HNPR, s. l. Lm2  id dici] EGLa.r.P dici  Lp.r.R  idcirco dici  HN  id circo id dici  C  11 et  om. EG  12 defini- tionem ( uel diff-) monstret  EGR  14  pr . et  om. CEG, s. l. Lm2  15 praedicatur  E  uniuoce de specie  C  17 a  add. brm , ab  Brandt  18 modo  om. NR  19 continentia aliarum  C  21 quod] quae  N  non  s. l Cm2 22 equum bouem  HN  24 namque quod  Lp.c .   non habet rationale uel mortale — nullas quippe actu genus retinet | differentias —, easdem species suae substantiae inhae-  p .100  rentes atque insitas tenet, homo enim rationalis est atque mortalis, quod genus minime est; animal enim neque mortale  est per se neque rationale, quodsi genus quidem plus unam continet speciem, at uero species multis differentiis infor mantur, superat quidem genus speciem continentia specierum species uero uincit genus differentiarum pluralitate. Illa quoque est differentia, quod genus quoniam omnium primum  est, numquam in tantum descendere poterit, ut fiat ultimum, species uero, quae cunctis est inferior, in tantum ascendere non poterit, ut suprema omnium fiat; numquam igitur nec species generalissimum fiet nec genus specialissimum. Sed ex his quae dictae sunt differentiae aliae sunt quae genus ab  specie propriae coniunctaeque disterminant, aliae uero quae non solum genus ab specie, uerum etiam a ceteris diducunt ac disterminant, neque in his tantum differentiae quae sunt dictae, uerum etiam in ceteris considerentur oportet, si proprie normam quaerimus discretionis agnoscere.    1 uel  om. R  4 mortale] rationale  CHN  5 rationale]  R  inratio- nale  CHN  per se rationale  EGLP  unam continet speciem]  EG  (unam  s. l. m2 )  Lm1  quam unam continet speciem  Lm2R  una continet (continet una  C ) specie  CHNP  6 species uero ( om . at)  C  informa- tur  Lm1Pm1  7 species  G  9 quoniam] quod  Hm2  11 in tantum ascendere non] numquam in tantum ascendere  LNR  12 nec... nec] et... et  Hm1N  et... nec  C, pr . nec  om. P  14 ex his  om. EG, s. l. Lm2  sunt  om. E differentiarum  CN  differentiis  R  genus  s. l. Cm2  a  R  15 proprie coniuncteque ( ras. ex  -teque  Η )  HΝR (recte?)  propriaeque  G  coniunctaeque  om. EG  16 ab] a  R  diducunt]  Em2R  deducunt cett. distinguunt ac deducunt ( om . disterminant]  HN  17 neque (et quae non  CHN, s. l . ał quae  L ) in his tantum differentiis quae sunt dictae ( L  quae sunt dicta  G  quae dictae sunt  CHNP quid sint  in ras. E ) uerum etiam in ceteris (add. quoque  HLm1N, del. Lm2 ) considerentur oportet  CEGHLNP  neque in his tantum oportet considerare differentias quae sunt dicta uerum etiam in ceteris oportet  R ; differentiae  scr. Brandt ; neque enim in (de  bm ) his tantum oportet (oportet  om. p ) differentiis quae sunt dictae, uerum etiam in ceteris considerare (considerari oportet  p )  edd.  18 propriae  CEGLP  19 discretionis quaerimus  HR     Generis autem et proprii commune quidem est sequi species - nam si homo est, animal est, et si homo est, risibile est et - aequaliter praedicari genus de specie- bus et proprium de his quae illo participant; aequaliter  enim et homo et bos animal et Cato et Cicero risibile, commune autem et uniuoce praedicari genus de pro- priis speciebus et proprium quorum est proprium.    Tria interim generis ac proprii dicit esse communia, quorum primum illud est, - quoniam ita genus sequitur species ut  proprium, posita enim specie necesse est intellegi genus ac proprium; neutrum enim species proprias derelinquit, nam si homo est, animal est, si homo est, risibile est; ita quemad- modum genus, sic proprium ab ea specie cuius est proprium, non recedit. Illud quoque, quod aequalis est generis partici-  patio, sicut etiam proprii, omne enim genus aequaliter specie- bus participatur, proprium uero indiuiduis omnibus aequaliter adhaerescit, manifestum uero est participationem e?se generis aequalem; neque enim plus homo animal est quam equos  1—8] Porph. p. 16, 1-7 (Boeth. p. 43, 11—17).   1 COMMVNITATIBVS  Ψ ;  de Porph. cf. ad p. 102, 7  2 Genus  Em1Gm1 consequi  Pm1  3 nam—risibile  (6) ]  LR Q ,  om. cett. pr . est  s. l.   h m2  5 illo] sub illo  R participant] continentur  R ,  add.  indiuiduis  edd. cum plerisque codd. Porph. p. 16, 4  6  post animal add. est  ΓΦ ,  om. Porph. p. 16, 5  et Cato et Cicero]  Porph .  xat Άνοτος και Μέληχος post  risibile add. est  Φ  7 autem et] autem  CEGP  autem est (est  s. l .  h m2 ) et  (om. R)   R h  autem his  Ψ  autem hiis et  Φ  his  (s. l. m2)  autem et  Γ ;  Porph. p. 16, 6   δέ καί  speciebus propriis  R  8  post pr . proprium  add . de his  Ν Σ ,  s. l.  de propriis  Gm2  10 illud est primum  R  11  post proprium add. quoque  CH   (del. m2)   N  ac] et  C  13 si] et si  HN  risibilis  EGHNP  15  post quoque add. est commune  R, s. l. Lm2 ,  s. l . scil, commune est  Hm2  a genere (generis  Hm2 ) participatio est  HN  16 proprii] a proprio  Hm1N   ante  speciebus  add . a  H  ab  L (del. m2) NB, post add . suis  R  17 parti- cipat **  (ur  er .)  E  18 adheret  N  participatione  EGR  generi  E  ( ex genere  m2 )  R  19 aequale  EG  aequale proprium  R, post  aequa- lem  add. s. l . et proprii  Lm2, in mg . et proprium  Pm2   atque bos, sed in eo quod sunt animalia, aequaliter animalis, id est generis ad se uocabulum trahunt. Cato etiam et Cicero aequaliter risibiles sunt, etiamsi aequaliter non rideant; in eo enim quod apti ad ridendum sunt, dici risibiles possunt, non  quod iam rideant, aequaliter ergo ea quae sub genere sunt, suscipiunt genus, sicut ea quae sub propriis, propria. Tertium illud, quod sicut genus de speciebus propriis uniuoce praedi- catur, ita etiam proprium de sua specie uniuoce dicitur, genus enim quoniam substantiam speciei continet, non modo eius  nomen de specie, uerum etiam definitio praedicatur, pro- prium uero quia speciem non relinquit eamque semper sequitur nec in aliam speciem transgreditur nec infra subsistit, defi- nitionem quoque propriam speciebus tradit; cuius enim nomen uni tantum conuenit speciei cui coaequatur, dubitari non  potest quin eius quoque definitio speciei conueniat. quo fit ut sicut genus de speciebus, ita proprium de sua specie uniuoce praedicetur.    Differt autem, quoniam genus quidem prius est, posterius uero proprium; oportet enim esse animal,  dehinc diuidi differentiis et propriis, et genus qui-  18—p. 310, 13] Porph. p. 16, 8—18 (Boeth. p. 43, 18—44, 11).   1 eo] eodem  HLm2NR  2 ad se  om. EGR, s. l. Lm2  etiam  om. H  et  om. R  3  pr . aequaliter  om. C  6 suscipiant  Em1Lm1  genera  EGLPm2  gen.  ante  suscipiunt  HNP  7 illud] illud commune est  G quid  Cm1  9 enim  om. E  nomen eius  C  11 quia  om. EGLP  derelinquit  Lm2P  eamque] eique  HN  ei quae  R  ea quae  Pm1  ae- quatur  Pm2  12 definitio (diff-)  ELm2  (diffinitione  m1 )  Pm1 definitio enim  R  13 proprium  Ea.r.R  proprii  Ep.r.L  ( ras. ex  propriis,)  P  traditur  EGLm2Pm1 14 cui] uel ei  C  eique  HNPm2  (cuique  m1 ), et  (del. m2)  cui  L  aequatur  L  18 De proprietatibus  Δ ;  de Porph. cf. ad p. 105, 16  GENERIS ET PROPRII] EORVM P PROPRII] SPECIEI  L  19 Differunt  C edd . autem om. N autem genus et proprium  LR Δ2 ;  Porph. p. 16, 9 Διαφέρει δέ δτι τό μίν γένος  quidem om.  HNR  est  om. H  20 oportet—interimunt genera  (p. 310, 10) ]  LR Q ,  om. cett . 21  pr . et  om. L   dem de pluribus speciebus praedicatur, proprium uero de una sola specie cuius est proprium, et proprium qui- dem conuersim praedicatur de eo cuius est proprium, genus uero de nullo conuersim praedicatur, nam neque si animal est, homo est, neque si animal est, risi-  bile est; sin uero homo est, risibile est, et e conuerso amplius proprium omni speciei inest cuius est pro- prium, et soli et semper, genus uero omni quidem speciei cuius fuerit genus, et semper, non autem soli, amplius species quidem interemptae non simul inter-  p.101  imunt|genera, propria uero interempta simul in- terimunt ea quorum sunt propria, et bis quorum sunt propria interemptis et ipsa simul interimuntur.  Rursus tale proprium sumit, quod ad alterius comparationem proprium nuncupetur, dicit enim proprium esse generis prius  esse quam propria, oportet enim prius esse genus, quod ueluti materia differentiis supponatur, uenientibusque differentiis fieri speciem, cum quibus propria nascuntur, si igitur prius est  1 praedicatur]  R A m2 n   edd . praedicari  cett. codd. Busse  (propriis, et genus  distinguit, sed cf. 16  oportet  et p. 311, 9  Rursus differt);  Porph- p. 16, 11 κατηγορεΐται  2 una sola]  Porph.   ενός ,  cod. C add .  μόνοο  est  om.   Φ  6 si  R  homo est] homo et  ΔΑΠΨ  (et  er .), homo, et  Busse  homo est (est  s. l. m2 ) et  L; Porph. p. 16, 13  et  δέ άνθρωπος  et e conuerso] et conuerso  L h m1  et conuersim si risibile est homo est  R  si risibile est homo est  2 ;  Porph. p. 16, 14   καί εμπαλιν , add. ei  γελαστικόν, άνθρωπος   cod. C  8 et soli]  TA m2  et uni  Δ m1 ΑΣ  et uni et soli  LR ΠΦΨ ;  Porph. p. 16, 15   καί μόνψ  speciei quidem  2  9  post  speciei  add . inest  LR TA  ( s. l .)  ΠΦΦ-   (in mg. m2) edd. Busse, om .  Δ2   cum Porph . soli]  Porph. p. 16,16   και μόνω  10 species  s. l. L  propria  brm cum Porph . interempta  Φ  interimuntur  HL  11  post  genera  add.  quorum sunt species  A  propria] genera  brm Busse (in adn.) cum Porph. p. 16, 17 interimuntur  HΡ  12 ea  om .  Η ΤΦ  species  brm cum Porph . quarum  brm  et his— interemptis  om. EG  et] quare  edd., Porph. p. 16, 18   ώστε καί  13 in- teremptis  ante  et his  CP  et ipsa] et ipsa etiam propria  Φ  ipsa propria  2  interimuntur simul  CGLR ad 10—13 cf. p. 312, 13 ss . 14 Rursus  om. EG, s. l. Pm2 , sed  R  ad  om. H, s. l. Pm2  comparatione  HPm1  15 nuncupatur  Cm2Em2Ga.c.N  16  pr . esse  om. N, s. l. Pm2  uelut  N  18 species  Lm2  nascantur  N   genus quam differentiae, prius etiam differentiae quam species et speciebus propria coaequantur, non est dubium quin pro- pria generibus posteriora sint, ac per hoc quod dictum est, proprium esse generis prius esse quam propria, commune est hoc  generi cum differentia, differentiae enim species conformantes priores considerantur esse quam propria, siquidem speciebus ipsis priores sunt, quas propria ratione determinant, sed ut dictum est, hoc proprium ad differentiam proprii intellegendum est, non quale superius per se proprium constitutum est. Rursus  differt genus a proprio, quod genus quidem de pluribus praedicatur speciebus, proprium uero minime; nam neque genus est, nisi plures ex se species proferat, nec proprium, si alteri cuilibet speciei possit esse commune, fit igitur ut genus quidem plurimas sub se species habeat, ut animal  hominem atque equum, proprium uero unam tantum, sicut risibile hominem. Quo fit ut illa quoque differentia nascatur : genus enim praedicatur quidem de speciebus, ipsum uero in nulla praedicatione supponitur, proprium uero et species alterna praedicatione mutantur, fit enim praedicatio aut a maioribus  ad minora aut ab aequalibus ad aequalia, genus igitur, quod maius est, de speciebus omnibus praedicatur, species uero, quoniam minores sunt, de generibus non dicuntur, ut animal de homine dicitur, homo uero de animali nullo modo praedi- catur. at uero proprium, quoniam speciei aequale est, aeque  1 etiam] enim  Lm2  2et  om. EG  et si  H  4 est hoc]  HL  (hoc  del. m2 )  N  est et hoc  C  esse  Pm1  et hoc est  m2  est  EGR  5 diffe- rentia] differentiis  CHN  differentiae  om. EG  enim  s. l. Cm2, post species  EG  informantes prius  N  6 considerentur  Hm1R  esse  s. l .  Cm2  7 quam  G  8 hoc  om. EGR  10 a  om. NR  quod] quo- niam  L  de] a  C  12 proferet  Lm2  14 species sub se  C  16 quoque del. Em2, post add . proprietas  (s. l. Lm2)  ex  GL, s. l. Pm2  nascan- tur  Ep.c . 17 de speeiebus quidem  C  ipsis  CN  in  om. CN  19 mutuantur  La.c.Pm2  praedicatio  om. EGR, s. l. Lm2  20 quod] quoniam  E (in ros.) Gm2  21 est  s. l. Em2  praedicabitur  N  22 minora  CEGLm2P   praedicatur atque supponitur, ut risibile de homine dicitur - omnis enim homo risibilis est —, eodemque conuertitur modo; omne enim risibile homo est. Differt etiam proprium a genere, quod proprium uni et omni et semper speciei adest, genus uero ex his duo quidem retinet, in uno uero diuersum  est. nam speciebus suis et semper adest et omnibus, non uero solis; hoc enim haeret propriis, quod singulas tantum species continent, hoc generibus, quod plures. igitur propria quidem singulas optinent species, genera uero non singulas, adest igitur proprium uni soli speciei et semper et omni, genus uero omni  quidem et semper, sed non soli, ut risibile homini soli, ani- mal uero eidem homini, - sed non soli; praeest enim ceteris, quae inrationabilia nuncupamus. Praeterea si auferatur genus, species interimuntur nam si non sit animal, non erit homo —, si auferas species, non interimitur genus; nam si non  sit homo, animal non peribit, species uero et propria quoniam sunt aequalia, alterna sese uice consumunt; nam si non sit risibile, homo non erit, si homo non sit, risibile non manebit, consumunt igitur genera sub se positas species, non uero ab his inuicem consumuntur, species uero et proprium inuicem  perimuntur et perimunt.    1 supponitur] (sub-  HP )  CHm2Lp.c.P praeponitur  cett., recte?  2 enim  om. C locus  risibilis est—quidem speciebus  (p. 315, 7) bis in E scriptus, pag. 229—231 (E I ), ubi deletus est, et p. 232—234 (E II )  3 etiam  om. R, del. Lm1 , enim  m2  autem etiam  H  a genere pro- prium  C  a  om. R  4 speciei  s. l. Hm2  5 uero] quidem  E I qui- dem duo  CNB ,  om . quidem  E I  7 haeret propriis]  E III   GL  haeret (ł inerit  m2 ) tantum propriis  P  erat (erit  R ) tantum propriis (proprii  N ) esse  CNR  heret propriis uel aliter hoc enim erat tantum  H; ad  haeret  cf. p. 298, 4  tantum species—quidem singulas  om. E I  tan- tum  del. Lm2, s. l. Pm2 ,  post  species  NR  8 continerent  CHm2  con- tineret  N  contineant  Pm2  10 soli/////  E I  solius  E II G  11 sed] et  HN  soli homini  NP  13 inrationalia  H  auferamus  EGLPR  14 interi- mantur  L  erit] est  N  19 sub se positas] sibi  (om. H)  suppositas  HN  21 perimuntur] consumuntur  Lm2  perimunt] perimuntur  Lm2  pereunt  HNPm2     Generis uero et accidentis commune est de pluri- bus, quemadmodum dictum est, praedicari, siue separa- bilium sit siue inseparabilium; etenim moueri de  pluribus et nigrum de coruis et de hominibus Aethio- pibus et aliquibus inanimatis.  Nihil est quod inter cetera ita sit a generis ratione dis- iunctum, sicut est accidens, nam cum genus cuiuslibet sub- stantiam monstret, accidens uero a substantia longe disiunctum  sit et extrinsecus ueniens, nihil fere notius commune potest habere cum genere quam de pluribus praedicari, genus enim de pluribus praedicatur speciebus, accidens uero de pluribus non modo speciebus, uerum etiam generibus animatis atque inanimatis, ut nigrum dicitur de rationabili homine, de inra-  tionabili coruo et de inanijmato hebeno, album etiam de cygnoj  p. 102  et marmore, moneri de homine, de equo et de stellis ac de sagitta, quae sunt separabilis accidentis exempla.    1—6] Porph. p. 16, 19—17, 2 (Boeth. p. 44, 12—16).   1 GENERIBVS ACCIDENTIBVS  E I   E II   m1  ACCIDENTI  R de Porph. cf. ad p. 102, 7  2 Commune uero est generis et accidentis  2  Generi  N  Generibus  E I  accidentibus  E I   m1  3 praedicari  ante quemadmodum L siue—pluribus et]  LR Q ,  om. cett . separabile  2 m1  4 sit] sit accidens  2 inseparabile  2 m1  5  post  et  om. R  de  om .  E II HNR ΑΦ ,  recte?  homine  E III  omnibus  L A  ( ras. ex hominibus) hominibus  om. brm, delend. uid. Bussio; cf. p. 116, 5. 123, 22. 131, 2  homine Aethiope; Porph. p. 17, 1 κατά κοράκων καί Αίθ·ιοπων aethiopus EIII et (et de  G, del. m2 ) aethiopibus  GPm2 T2  6 ante aliquibus add. de  Gm2  in animis  E I ,  ante  inanimatis  add . naturis  H (del. m2), post CN , praedicari  Γ  ( in mg . praedicatur)  Φ ;  Porph.   καί tivmv άψΰχων  7 in ceteris  E III   GLm1P  9 a  om. R  10 uere  GR  uero ha- bere potest  C  11 enim] uero  C  14 rationabile  E III   a. c. Gm1  rationali  HNP post  homine  add . et  N  irrationali  HNP  15 ebeno  E III 16 marmore] de marmore  P   post  homine  add . et  N  17 sagitta]  CHLm1NPm1  (sagittis  m2 ) agitatis  E III   GR edd . ał de agitatis scil, rebus id est mobilibus  Lm2     Differt autem genus ab accidenti, quoniam genus ante species est, accidentia uero speciebus posteriora sunt; nam si etiam inseparabile sumatur accidens, sed tamen prius est illud cui accidit quam accidens, et  genere quidem quae participant, aequaliter partici- pant, accidenti uero non aequaliter; intentionem enim et remissionem suscipit accidentium participatio, generum uero minime, et accidentia quidem in indi- uiduis principaliter subsistunt, genera uero et species  naturaliter priora sunt indiuiduis substantiis, et genera quidem in eo quod quid sit praedicantur de bis quae sub ipsis sunt, accidentia uero in eo quod quale aliquid sit uel quomodo se habeat unum quod- que; qualis est enim Aethiops interrogatus dices  ‘niger’, et quemadmodum se Socrates habeat, dices quoniam sedet uel ambulat.    1—17] Porph. p. 17, 3-13 (Boeth. p. 44, 17—45, 9).   1 PROPRIIS] DIFFERENTIA  C; de Porph. cf. ad p. 105, 16  QVID INTER GENVS ET ACCIDENS SIT  Φ   (ex p. 116, 10)  2 genus  s. l. Hm2  ab  om .  HRE III   Δ  accidenti]  Δ  accidente  cett . 3 speciem  ΧΦ  posteriora  ante speciebus  C  inferiora  XA m1 AS  4 nam—unum quodque  (14) ]  LR Q ,  om. cett . si etiam] etsi etiam  ΓΦ  sed  om .  Γ  si  Σ  5 prius] plus  S  6 genere]  A m2   Busse  genera  cett. codd. edd . quae] quibus  A m1  aeque  Δ  7 accidenti]  p Busse  accidentia  codd. brm; ad 5  et— 7 cf. Porph. p. 17, 6 s. et infra p. 315, 12—14  enim  om. L in mg: figuram quandam habet   Δ ,  aliam (cf. ad p. 320,17)   Γ  9 uero  om. R  in  om .  Γ   Busse, s. l .  Rm2 A m2 K ;  cf. p. 315, 21; Porph. p. 17, 9   έπΐ τών άτομων  10 nero  om .  Δ  11  post  naturaliter  add.  non principaliter  LR AΑΦ ;  om. Porph. p. 17, 9  12 sit] est  LR A   ante  de  add.  et,  sed del.   ΓΔ  13 hiis  Φ  14  ante  quale  add.  et  R  sit]  cod. Q Bussii edd . est  cett. codd . quomodo  om. R  quodammodo  A m2  se  s. l.   A m2  habet  A m1  15 eat  ante  aethiops  ΔΑ , post  HΝ ΤΣΦ  enim  om. L  interrogatur  Φ  dices]  LRT  dicis  cett. codd. edd. Busse, cf. p. 317, 15  respondebimus;  Porph. p. 17, 12   έρεΐς  16 quo- modo  Δ  habeat  ante socrates  A  habet  ΗR Φ  dices]  K m2  dicis  cett. codd. edd. Busse, cf. p. 317, 16  dicemus;  Porph .  έρείς  17 ambulet  La.c.N   Differentiam generis et accidentis hanc primam proponit, quod genus quidem ante species sit, quippe quod materiae loco est et differentiis informatum species gignit, at uero accidens post species inuenitur. oportet enim prius esse cui  aliquid accidat, post uero ipsum accidens superuenire; nam si subiectum non sit quod suscipiat, accidens esse non poterit, quodsi genus quidem speciebus subiectum est nec possunt esse species, nisi eis genus ueluti materia supponatur, acci- dentia uero esse non possunt, nisi eis species supponantur.  manifestum est genus quidem esse ante species, accidentia uero post species. Rursus alia differentia, quoniam genus neque intentionem neque remissionem suscipere potest, quo fit ut quae participant genere, aequaliter eius nomen defini- tionemque suscipiant; omnes enim homines aequaliter animalia  sunt eodemque modo equi, nec non inter se homo atque equus et cetera animalia comparata aeque animalia praedicantur, accidentis uero participatio et intenditur et remittitur, inuenies enim quemlibet paulo diutius ambulantem, paulo amplius nigrum et in ipsis Aethiopibus considerabis omnes non aeque  nigro colore obductos. Alia quoque differentia est, quoniam omne accidens in indiuiduis principaliter subsistit, genera uero et species indiuiduis priora sunt; nisi enim singuli corui  1 et accidentis] ab accidentibus  HN  ponit  C  2  pr.  quod] quid  C  quoniam  (del. m2)  quod  E II  4  post  esse  add . aliquid  P, s. l. Lm2  5 si—sit] nisi sit subiectum  HN  nisi subiectum sit  R  6 quid  Cm1  potest  H  7 speciei  HN est] sit  N  nec] non  CEGLP  8 uelut  CEGLP  uel  R  supponitur  C  9 supponatur ( uel  subp-)  EGH 10  ante  manifestum  add . nam  EGLP  11  post  Rursus  add . uero  C post  alia  add . est  CGP  13 generi  CEGP  15 eodem  EHLR  18 paulo amplius nigrum paulo diutius ambulantem  HN post ambulantem  add . et  LR  19 et] et si (si  s. l, Lm2 )  LR  si  EGP  omnis  GLm2R  aequa nigredine coloris (coloris  del. Lm2 )  HLNP  20 obductus  EGLm1R ,  post  obd.  add . esse  C  est  EGLR  est  om. HN  21 in  om. CG  genera—priora sunt]  C  species uero et genera indiuiduis priora sunt HLm1N  genera uero speciebus et indiuiduis priora sunt  GP  genera nero et speciebus et indiuiduis posteriora sunt  Lm2  genera indiuiduis priora sunt  E  et indiuiduis posteriora sunt  R 22 singulariter  EGPR   nigredine infecti essent, comi species nigra esse minime dicere- tur. ita fit ut accidentia post indiuidua esse uideantur. nam si prius est id cui aliquid accidit quam illud quod accidit, nop est dubium prius esse indiuidua, posterius uero accidens, genera uero et species supra indiuidua considerantur; hoc  idcirco, quoniam de his omnibus praedicantur eorumque sub- stantiam propria praedicatione constituunt, sed dici potest genera quoque ipsa et species posteriora indiuiduis inueniri; nam nisi sint singuli homines singulique equi, hominis atque equi species esse non possunt, et nisi singulae species sint,  eorum genus animal esse non poterit, sed meminisse debemus superius dictum esse genus non ex his sumere substantiam de quibus praedicatur, sed de eo potius, quod differentiis con- stitutiuis eorum substantia formaque perficitur, itaque si genus quidem diuisiuis differentiis interemptis non perimitur, sed  manet in his quae eius constitutiuae sunt eiusque formam definitionemque perficiunt, cumque differentiae diuisiuae generis speciebus sint priores — ipsae enim species conformant atque constituunt —, non est dubium quin genus etiam pereuntibus speciebus possit in propria manere substantia, idem de spe-  ciebus dictum sit; species enim superioribus differentiis, non posterioribus indiuiduis informantur, quae cum ita sint, species quoque ante indiuidua subsistunt, accidentia uero nisi sint  12 superius] p. 300, 7—16.   1 essent  in ras. Lm2 , sunt  N  sint  R  2 esse  om. EGR  4 indiui- duum  CHN  5 super  CN  8 genera] de genere  R  quoque  om. R  quaeque  EGP  ipsa  om. EGPR  et species] atque species (specie  R )  LR  specieaque  N  9 nam nisi] nisi enim  EGR  nara nisi enim (enim  del. m2 )  C  homines—nisi singulae  (10) in mg. Em2  homi- nes  EN  10 et  om. EG  singulis  E  singuli  G  singulares  Lm2R  11 eorumque  Lm2 earum  brm  12 ex  del .,  his om. E  13 de eo] eo  Hm1N  ex eis  Hm2  de eis  Lm2  quod  del. Hm2, er. L , quo  GPR  14 eorum  om. Lm1  eius  R edd . quae eius  Hm2  de quibus eius  Lm2 substantiam formamque perficiunt  Hm2  normaque  N  15 diuisiuae ( post  differentiae  N ) differentiae interemptae non perimunt  HLN  16 eius- que] quae eius  C  quaeque eius  EGP  17 speciebus generis  LNR  20 permanere  Lm2R  23 quaeque  EG   quibus accidant, esse non possunt, nullis uero prius accidunt quam indiuiduis; haec enim generationi et corru|ptioni sup- p, 103·  posita uariis semper accidentibus permutantur. Illam quoque adnumerat differentiam quae est superius dicta, quod genus  quidem, quia rem demonstrat et de substantia praedicatur, in eo quod quid est dicitur, accidens uero in eo quod quale est aut in eo quod quomodo sese habet res. nam si qualitatem interroges, accidens respondebitur, ut si qualis est coruus, ‘niger’, si quomodo sese habeat, aliud rursus accidens, aut  ‘sedet’ aut ‘uolat’ aut ‘crocitat’. nam cum accidens in nouem praedicamenta diuidatur, qualitatem, quantitatem, ad aliquid, ubi, quando, situm, habitum, facere, pati, cetera quidem omnia in ‘quomodo se habeat’ interrogatione ponuntur, qualitas uero in qualitatis sciscitatione responderi solet. nam si interrogemur  qualis est Aethiops, respondebimus accidens, id est ‘niger’, si quomodo se habeat Socrates, tunc dicemus aut ‘sedet’ aut ‘ambulat’ aut superiorum aliquid accidentium.  Genus uero quo ab aliis quattuor differat, dictum  4 superius] p. 189, 4 ss. 195, 1 ss. 18—p. 319, 14] Porph. p. 17, 14—18, 9 (Boeth. p. 45, 10—46, 9).   1  pr.  accidunt  Lm1  accident  N prius  post  accidunt  C  2 post indi- uiduis  add.  quia indiuidna prima sunt quantum ad praedicationem  P, in mg. Lm2  4 adnumera  ( ann-  G) EG  annumerant  Hm1  dicta est superius  R est sepius  (corr. m2)  dicta  C  sepius  (corr. Hm2)  dicta est  HN  5 quidem  om. EGR  6 dicitur  om. N, s. l. Hm2 post  uero  add.  aut P 7se  H post  habet  add.  res  CLm1, del. m2  9se  EGHN  habet  Clm1  aliud rursus accidens] aliud uero accidens rursus  C  aut uolat aut sedet  HLN  10 croccit  Hm1  groccitat  N, post add . egrotat  P  nam] at  EGLm1  ac  (ut uid.) R  12 quanto  Em1  quan- tum  G  situm habitum quando  C post  omnia  add.  id est VIIII  Hm1, del. m2  13 habeant  Ep.c. Lm2P interrogationem  EGR  14 inter- rogemur]  C edd. (cf.p. 314, 15)  interrogemus  cett., recte? cf.p. 58, ss. 99, 23  15 respondemus  HNR  16 dicimus  EHLRbrm  17 aliquod  ELa.c.N  18 uero] uerus  Pa.c.  ergo  CHL (in ras. m2)   R Φ  enim  A ;  Porph. p. 17, 14   uiv ουν  quod  EGPm1Rm1 T<l>  ab]  ΔΣΨ ,  s. l.   Il m2, om. cett.  quattuor  om. G, s. l.   Δ m2   est. contingit autem etiam unum quodque aliorum differre ab aliis quattuor, ut cum quinque quidem sint, unum quodque autem ab aliis quattuor differat, quater quinque, uiginti fiant omnes differentiae, sed semper posterioribus enumeratis et secundis quidem  una differentia superatis, prop(??)terea quia iam sumpta est, tertiis uero duabus, quartis uero tribus, quintis uero quattuor, decem omnes fiunt, quattuor, tres, duae, una. genus enim differt a differentia et specie et pro- prio et accidenti; quattuor igitur sunt omnes diffe-  rentiae. differentia uero quo differat a genere dictum est, quando quo differret genus ab ea dicebatur; relinquitur igitur quo differat ab specie et proprio et accidenti dicere, et fiunt tres. rursus species quo  1 contingit—ad accidens  (p. 319,12) ]  LR Q , om. cett. contigit  R A m1 Y m1  2 aliis  om. Porph. p. 17, 15  quidem  om. L K   Busse; Porph.   μεν  3  post  sint  add.  res  L  unum quodque autem]  il m2 xP p  Busse  unum autem  Β ΤΜΙ m1 Σ  una autem  L ΑΦ  et unumquodque  brm; Porph. p. 17, 16   ίνος ϊέ εκάοτοο  aliis  om. Porph.  differt  Δ  4 uiginti  del.   A ,  pos t XX  add.  uel quinquies quattuor  Rm1  quater V. XX uel  del. et post  fiant  add.  uiginti  m2 fient  ΑΑ m1 Φ  fuerint  Γ   post  differentiae  add.  sed non sic se res  ( res  om. p)  habet  edd. cum Porph. p. 17, 17   άλλ’ οοχ οδτως εχει  set  om.   Γ  6 superatis] subtractis  ΓΦ   (ex  substr- )  quia] quoniam  L A  Busse  sumpta] subtracta  Γ  7 uero] autem  LR T<l'  duobus  R  8 omnes  om. L post fiunt  add.  differentiae  Γ   (s. l.)   Π m2 edd. Busse (sed om. etiam eius codd. LP) cum Porph. p. 17, 20  9 enim] autem  Γ  a  om.  Σ , s. l.  A m2  et specie et proprio] a specie a pro- prio  R  specie proprio  Σ  10 et  om.   Σ  accidente  R Σ  igitur quatuor  R  differentiae omnes  La.c.  generis differentiae  R; Porph. p. 17, 22   at διοφοραί  11 quo  om. R  differat]  La.c. ( a  del.)   Σ  differret  R differt  cett.  a  om. R  12 quo] quid  L A  Busse  quod  m1,   om.  A ; ubi  quo  est (hic et 11. 13. 14. 319, 1. 2. 3. 5. 7 bis), Porphyrius   π-j   scripsit (p. 17, 23 et 22. 24. 25. 26 bis. 18, 1. 2. 3. 4) differret]  LR Ψ  (alt. r s. l.)  differre  Λ  differt  ΓΙIΣΦ  13 igitur] ergo  2  quod  R A  differt  A a.c.  ab  Brandt  a  LR il , s. l.  A m2, om. cett.  et  om. Β ΤΑΣ  a  L  14 accidente  R ΓΔ2Φ  post  tres  add. differentiae  Λ   ( ei fiunt tres differentiae. rursus  in mg. m2)   11 m2 ( species  m1)   Γ   ( rursus differentiae  pos.) Busse (cum duobus suis codd.), om. cett. codd. edd. Porph. p. 17, 25 quidem quo  ΓΔ2Φ ;  Porph.   π-jj έν   quidem differat a differentia dictum est, quando quo differret differentia ab specie, dicebatur; quo autem differat species a genere, dictum est, quando quo differret genus ab specie dicebatur; reliquum est  igitur, ut quo differat a proprio et accidenti dicatur. duae igitur etiam istae sunt differentiae. proprium autem quo differat ab accidenti relinquitur; nam quo ab specie et differentia et genere differat, praedictum est in illorum ad ipsum differentia. quattuor igitur  sumptis generis ad alia differentiis, tribus uero dif- ferentiae, duabus autem speciei, una autem proprii ad accidens, decem erunt omnes, quarum quattuor, quae erant generis ad reliqua, superius demonstraui- mus.    Quoniam differentias atque communitates generis ad diffe- rentiam, ad speciem, ad proprium atque accidens persecutus est, idem quoque ad ceteras facere contendens praedicit, quot omnes differentiae possint esse quae inter se comparatis com-  1 differt  R A  quo] quid  A   Russe  quod  Lm1 \  2 differret]  Lm2 Rm2 Aß p.c. tfl p.c.  differet  Lm1Rm Uα a. c. ΦΨ a.c.  differt  Δ2  differtur  Γ differentia ab specie]  ΓΦΨ   ( sed  a,  scr.  ab  Brandt),  a  (s. l.  A m2)  specie  (s. l.  et  add.  Δ m2) differentia  ΔΔΣ   edd. Busse  species a  ( et  Ώ )  differen- tia  L H  differentia ab ea  R; Porph. p. 17, 26   ή διαφορά τού είδους  quod  A m1  3 differat]  L  differt  cett. (ex  differet  V )  a  om. R ϋϊ  quo] quid  Δ   Busse  quod  A  4 differret]  L yAIW  differet  R Φ  differt  ΓΑ2  4 ab specie]  Γ  a specie  L ΔIΙΔΦΦ  specie  2  ab ea  R  5 differt  R, add.  species  ΓΑΠΨΨ ,  s. l. Lm2; om. Porph. p. 18, 2  a  om.   2  accidenti]  L  acci- dente  cett.  dicitur  R  6 igitur  om.   2  7 autem  om. R, s. l.  h m2  ab  om.   Σ accidenti]  edd.  accidente  codd. fort.  relinquetur;  cf. Porph. p. 18, 3   χαταλειφθήσεται  8 ab  Brandt  a  ΓΦ ,  om. cett. pr.  et  om. R  differet  Λ m1  differret  m2  differt  A m1 2 , s. l.  proprium  add. Lm2  dic- tum  Σ  9 differentia  ante  ad ipsum  Σ  differentiis  Β ΓΑΦ ; Porph. p. 18, 5 ... διαφορά  11  pr.  autem] uero  A  ad accidens] et accidentis  ΓΔ«ι7ΠΦ ;  Porph. p. 18, 7   πρός τδ σορβεβηχος  13 erant] erunt  N  reliqua]  N Λm1ίΣΦΨ  reliquas  cett. (in mg.  ad aliquas  T m2); Porph. p. 18, 8 πρός τά άλλα  16  utrumque  ad  om. NR  17 idem quoque] idemque  Lm1NR  ad cetera  C  de ceteris  HLN  praedicit  om. R  nunc dicit  H  18 possunt  CHLm1N  commissisque  N   mixtisque rebus his quae supra propositae sunt efficiantur. sunt autem uiginti. nam cum quinque sint res, una quaeque res earum si a quattuor aliis differat, quinquies quater, uiginti differentiae fiunt, quod appositarum litterarum manifestatur exemplo. sint quinque res ueluti quinque litterae A B C D E.  differat igitur A quidem ab aliis quattuor, id est B C D E, fient quattuor differentiae. rursus B differat ab aliis quattuor, id est A C D E, erunt rursus quattuor; quae superioribus iunctae octo coniungunt. C uero tertia ab reliquis differt quattuor, scilicet A B D E; quae quattuor differentiae supe-  rioribus octo copulatae duodecim reddunt. quarta D reliquis quattuor comparetur differatque ab eisdem, id est A B C E, fient igitur rursus quattuor; quae superioribus duodecim ap- positae sedecim copulant. quodsi ultima E ab aliis quattuor differat, scilicet A B C D, fient aliae quattuor differentiae;  quae compositae prioribus uiginti perficiunt. et sit quidem  p.104]  huiusmodi descriptio : |    1 positae  EHLNP  efficiuntur  HN  2  ante  una  add.  et  HLNPR  res  om. HN  3 si  om. HN  a  om. R  uiginti  om. E  4 fiant  Rm2  5 uel  E  6 aliis] reliquis  HN  7 fiant  R  differt  Ha.c.LN  aliis] reliquis  L  8 id est  om. HN  9 ab]  codd. reliquis] aliis  L  11  ante  reliquis  add.  si  L, s. l. Pm2  12 differatque] differat aeque  EGP ( differt  m2) R  eis  GHNPm1R  13 fiunt  N  fiant  R  igitur  om. HN post  quattuor  add.  differentiae  HN  15 fiant  R  faciat  L  faciet  HN  aliae  om. H  alias  LN  differentias  HLN  16 superi- oribus  C  et sit quidem]  CGP  et quidem sit  R  et sic  (ex  si )  quidem est  E  quarum  ( quorum  LN)  quidem sit  HLN  17 discriptio  C figu- ram om. G (duae lineae uacuae) Hm1N, supra depictam dedimus ex E, eandem uarie exornatam habent R (post uerba  quattuor differentiae  supra 7)   Γ   (in mg ad locum p. 314, 7 ss.), litteras tantum omissis lineis   Quae cum ita sint, in generibus quoque et speciebus et ceteris idem considerabitur. erunt ergo quattuor differentiae, quibus genus a differentia, specie, proprio accidentique dis- iungitur; aliae rursus quattuor, quibus differentia a genere,  specie, proprio atque accidenti discrepat; rursus quattuor spe- ciei ad genus ac differentiam, proprium atque accidens; quat- tuor etiam proprii ad genus, differentiam, speciem atque acci- dens; quattuor insuper accidentis ad genus, differentiam, spe- ciem atque proprium. quae coniunctae omnes uiginti explicant  diflferentias. sed hoc, si ad numeri referatur naturam compara- tionisque alternationem; nam si ad ipsas differentiarum naturas uigilans lector aspiciat, easdem saepe differentias inueniet sumptas. quo enim genus differt a differentia, eodem differentia distat a genere, et quo differentia distat ab specie, eodem  species a differentia disgregatur, et in ceteris eodem modo. in hac igitur dispositione differentiarum, quam supra disposui, easdem saepius adnumeraui. atque si differentiarum similitudines detrahamus, decem fiunt omnino differentiae, quas ad prae- sentem tractatum uelut diuersas atque dissimiles oportet assu-  mere. age enim differat genus a differentia, specie, proprio  in mg. sup. add. Hm2, quaternas litteras ( B C D E  cett.) infra singulis litteris  A  cett. positas quadratis inclusas exhibet L; in C in mg. (litt. minusc.) hae duae figurae sunt, quarum posterior spectat ad p. 321, 20 ss. 323, 9 ss:   in P figura est per quinque ob- longa deorsum continuata, quorum primum hic proponitur  :  3 ab  CEGHP  accidentique] atque accidenti  ( -te  N) HN  4 dif- ferentiae  G  ab  CEGHNP  6 ac  om. N  ad  LP  10  post  hoc  add.  fiet  E (s. l. m2)  fit  H (s. l. m2)  niget  L (in mg.) R  13 adsumptas  R  differat  C  14 ab] a  R  17 saepius  om. EGPR, s. l. Cm2, post  ad- numeraui  L  adnumerauit  Cm2GP  atque)  EGP  at  CR  itaque  HLN  si  om. N  multitudines,  s. l.  ał similitudines  L  18 fient  edd.   atque accidenti, quattuor differentiis, quas supra iam diximus. item sumamus differentiam, distabit haec a genere primum, dehinc ab specie, proprio atque accident. sed quo discrepet a genere, iam superius explicatum est, cum diceremus quo  genus a differentia discreparet. detracta igitur hac comparatione, quoniam supra commemorata est, relinquuntur tres distantiae quibus differentia ab specie, proprio accidentique disiungitur; quae iunctae cum superioribus quattuor septem differentias reddunt. post hanc species si sumatur, quattuor quidem eius  essent differentiae secundum numeri diuersitatem, cum ad genus, differentiam, proprium atque accidens comparatur, sed priores duae comparationes iam dictae sunt. nam quo species differat a genere tunc dictum est, cum quid genus differret ab specie dicebamus, quid uero species a differentia distet commemo-  ratum est, cum differentiae ab specie dissimilitudines redde- remus. quibus detractis duae supersunt integrae atque intactae speciei ad proprium atque accidens discrepantiae; quae iunctae cum septem nouem differentias copulant. proprii uero si ad numerum differentiae considerentur, quattuor erunt, scilicet ad  genus, differentiam, speciem atque accidens comparati, quarum quidem tres superiores differentiae iam dictae sunt. nam quid proprium distet a genere, tunc dictum est, cum quid genus a proprio distaret ostendimus, rursus quid proprium a differentia discrepet, in colligenda distantia differentiae propriique superius  1 accidente  N  3 ab]  HN  a  cett.  accidente  HN  quod  L  dis- crepet] distet  HN  5 hac igitur  C  6 distantiae] differentiae  L  7 a  LN  accidenti  C  accidenteque  H  disiungitur  ante  ab specie  C  8 reddunt differentiae  C  9 sumatur] mutatur  E  11  ante  differentiam  add.  et HLNP ante  proprium  add.  et  P  cõpararetur  C  cõparantur  N  12 differat  post  genere  EN  13 a  om. EGHNP  differret]  GLm2Pm2R  differet  ΕLm1  differat  HNPm1  differt  C  ad speciem  R  ad specie  C  15 ab specie]  CG  a specie  EHLm2NP  ad speciem  Lm1R  17  post  speciei  add.  id est  EGP  18 differentias copulant] complent differen- tias  C  20 comparatae  Ep.c. (ex-ti) GHm2PR quorum  EGLm1R  21 quod  C  22 proprium—cum quid  om. EGR  distaret a pro- prio  H   demonstratum est, quid uero proprium distet ab specie, tunc expositura est, cum quid species distaret a proprio dicebatur. restat igitur una differentia proprii ad accidens, quae superio- ribus iuncta decem differentias claudit. accidentis nero ad  cetera possent quidem esse quattuor, nisi iam omnes proba- rentur esse consumptae. nam quid differat uel genus uel dif- ferentia uel species uel proprium ab accidenti, supra mon- stratum est, nec sunt diuersae differentiae accidentis ad cetera quam ceterorum ad accidens. itaque fit, ut cum sit quinque  rerum numerus, si prima assumatur, quattuor fiant differentiae, si secunda, tres, uincanturque secundae rei ad ceteras difte– rentiae a prima ad ceteras una tantum distantia; nam cum prima habuerit quattuor, secunda retinet tres. tertia uero si sumatur, duas habebit differentias, quae uincantur a primis  quattuor differentiis duabus; quarta si sumatur, unam habebit differentiam, quae uincitur a primis quattuor differentiis tribus, quinta uero quoniam nullam omnino habebit differentiam nouam, totis quattuor a prima differentiis superatur. atque hoc nume- rorum gradu quidem usque ad denarium numerum tenditur :  quattuor, tres, duae, una, ut generis quidem quattuor, diffe- rentiae uero tres, speciei duae, proprii una, | accidentis nullap p. 105  sit. et primae quidem generis comparationes quattuor nouas tenent differentias, secundae uero differentiae comparationes  1 uero  om. EGR  a  EGLR  2 cum] quando  R  5 cetera] extera  Cm1  6 differret  H  differet  N  7 accidente  CHN  monstrauimus  H  8  ante  diuersae  add.  plus  R, s. l. Lm2  10  ad  prima  s. l.  ł una res  Hm2  sumatur  HN  fient  C  11 uincanturque]  C (pr.  n  om.) Lm1  (iungantur  m2) N, m2 in HPR ( iungenturque  Rm1) , uincantur  EGHm1Pm1 12 primis  L  13 habuerat  C  habeat  Lm2NP  retineat  Lm2  14 diffe- rentias habebit  C  uincuntur  Lm1R  15 duabus  (s. l. E)  differentiis  EHN post  duabus  add.  distantiis  GR post  quarta  add. nero  R, s. l.  autem  Pm2  16  post  tribus  add.  subdistantiis  E  distantiis  G  17 habet  HL  18 primis  brm  hoc] ex hoc  HLN  numeri  HN  19 gradus  HLm1N  quidam  HN  20  post post.  quattuor  add. sint  CHm2L (del. m2) P  sunt  Hm1N  22 sit]  Rbrm  est  CEGLP, om. HN  et  om. EGR  quidem  s. l. Em2L, post  generis  C  23 teneant  HLm1NR   tres nouas tenent; una enim superius adnumerata est, uincitur autem a primis quattuor nouis differentiis una tantum. speciei uero tertia comparatio duas tantum habet differentias nouas, duas quippe superius adnumeratas agnoscimus, et uincitur a  quattuor primis duabus tantum differentiis nouis. proprium uero unam retineat nouam, quoniam tres habet superius ad- numeratas, uincaturque a prima nouis tribus differentiis, quinti uero accidentis comparationes quoniam nullam retinent nouam differentiam, totis quattuor a primis generis transcendantur.  atque ad hunc modum ex uiginti differentiis secundum numerum decem secundum dissimilitudinem contrahuntur. ut tamen has secundum dissimilitudinem differentias non in quinario tan- tum numero, uerum in ceteris notas habere possimus, talis dabitur regula quae plenam differentiarum dissimilitudinem in  qualibet numeri pluralitate reperiat. propositarum enim rerum numero si unum dempseris atque id quod dempto uno relin- quitur, in totam summam numeri multiplicaueris, eius quod ex multiplicatione factum est dimidium coaequabitur ei plura- litati quam propositarum rerum differentiae continebunt. sint  igitur res quattuor A B C D; his aufero unum, fiunt tres; has igitur quater multiplico, fient duodecim; horum dimidium  1 teneant  HLm1NR  ten.  post  nouas  CR  adnumera  (tamen  eat ) C  uincitur autem] et uincatur  HLm1 ( et  del.,  uincitur  m2) N  2 nouis quattuor primis  HN  4 adnumeratas  om., in mg.  enumeratas  G  uin- catur  Lm1  uincantur  HN uincuntur  C  6  ante  unam  add.  tantum  L, post EGPR  retinet  Lm2Pm2 edd.  7 uincanturque  N uincatur qua re  EG  uincitur haec  R  uinciturque  edd.  quinta  N  8 comparatio  Lm2N  retinet  HLN, post  nouam  HN  9 primis]  CLPH a.r.  primi  EGHp.r.NR  transcendentur  Lm2 transcendatur  N  transgrediantur  C  transcenduntur  edd.  11 tamen  er. uid. E  non  G (etiam post diffe- rentias  est  non )  13 uerum] uerum etiam  C  ceteris quoque  brm  notas]  Lm1N  notis  CEGHm2 ( totas  m1) Lm2PR  15 reperiat] pariat  Cm2Hm1N  17  post  numeri  add.  si  CHP simul  EG  18 ei  om. EGN  19 sunt  Lm1R  20 igitur] ergo  CEN  fiant  LR  21 hos  EGLPR post igitur  add.  si  N  tres  H  per totam summam  R  multiplica  C  multipli- cato  E  fiunt  HN  fiant  R post  horum  add.  si  L   teneo, sex erunt. tot igitur erunt differentiae inter se rebus quattuor comparatis : A quippe ad B et C et D tres retinet differentias, rursus B ad C et D duas, C uero ad D unam; quae iunctae senarium numerum complent. atque hanc quidem  regulam simpliciter ac sine demonstratione nunc dedisse suffi- ciat, in Praedicamentorum uero expositione ratio quoque cur ita sit explicabitur.      Commune ergo differentiae et speciei est aequaliter  participari; homine enim aequaliter participant par- ticulares homines et rationali differentia. commune uero est et semper adesse his quae participant; sem- per enim Socrates rationalis et semper Socrates homo.    Dictum est saepius ea quae substantiam formant, nec  remissione contrahi nec intentione produci; uni cuique enim id quod est, unum atque idem est. quodsi differentia spe- cierum substantiam monstret, species uero indiuiduorum, aequa- liter utraque ab intentione et remissione seiuncta sunt; quo  6 in Praedicamentorum expositione] p. 272 C. B—l3] Porph. p. 18, 10—14 (Boeth. p. 46, 10—14). 14 saepius] cf. infra.   1 teneo] sumo  N  sumo tenens  ( tenens  del. m2) H  si  (ex  sumo  m2)  teneo  L pr.  erunt  ante  sex  N, s. l. Hm2 post.  erunt  ante igitur  ( ergo  H) HL  2 detinet  HN  4 complent numerum  H  5 dedisse nunc  HN  8 DIFFERENTIAE ET SPECIEI]  plerique codd. fort. ex 9 sumptum, om.   Δ , SPECIEI ET DIFFERENTIAE  Γ2Φ , r ecte ut aid.; Porph. p. 18, 10   Περί τής κοινωνίας τής διαφοράς καί τοΰ είδοος ,  cod. Μ   Περί κοινών είδους καί διαφοράς  9 est  add. Hm2  10 homine—parti- cipant  (12) ]  LR Q , om. cett.  homini  R T a.c.  hominem  L \  11 ratio- nalem differentiam  L \ , post differentia  add.  nam omnes homines aequa- liter homines sunt et aequaliter rationales  Σ  12 et  del. uid.  Δ , om.  Ψ  his adesse  LR <t>  post  quae  add.  eorum  ΓΔΠΦ  13 enim  om. R  rationabilis  CEGPR U  Busse, add.  est  ΓΔΦ ,  s. l.  A m2  14 saepius  i. e. p. 250, 24 ss. 314, 5 ss. ; saepe  de duobus locis etiam p. 293, 18 dictum;  superius  P, fort. recte, cf. ad p. 317, 4. 337, 8  17 monstrat  HLNP  18 utraeque  CP  seiunctae  CGPR   fit ut aequaliter participentur. omnes enim indiuidui mortales aeque sunt atque rationales sicut homines. nam si idem est ‘esse’ homini quod est ‘esse rationale’, cum omnes homines aeque sint homines, necesse est ut sint aequaliter rationales. Aliud quoque commune habent quoniam ita differentiae sui partici-  pantia non relinquunt ut species. semper enim Socrates rationalis est—Socrates enim rationabilitate participat —, semper homo est, quia scilicet humanitate participat. ut igitur differentiae sui participantia non relinquunt, ita species his quae ea parti- cipant, semper adiuncta est.     Proprium autem differentiae quidem est in eo quod quale sit praedicari, speciei uero in eo quod quid est : nam et si homo uelut qualitas accipiatur, non sim-  11— p. 327, 16] Porph. p. 18, 15—19, 3 (Boeth. p. 46, 15-47, 11).   1 mortales—sicut homines]  ( sunt  ex  sint  Lm2, add.  homines  Lm1, del. m2,  sunt  del. Pm2;  atque Lm1Pm2  et  HLm2Pm1;  sicut  del. et  sunt  scr. Pm2) HLP  aeque mortales atque rationabiles sunt ut homines  C  aeque  (s. l. m2)  mortales  (ex  -lis  m2)  sunt atque rationabilis  (sic)  sunt  (part. ras. ex  sicut  m2)  homines  E  mortales sunt atque  ( atque sint  N)  rationales sicut homines  NR  mortalis atque rationabilis sicut homines  G  2 nam—homines  (4) om. N  idem est]  E ( est  in mg.) HR  idẽ  CL  id est  ( ẽ  G) GP  est  del. Lm2  3 esse  post  ration.  EL, repetit. post ration.  P, om. CH  rationali  R  rationalis  Lm1  rationabile  G  rationa- bili  E  rationabilis  Lm2P  5  ante  commune  add.  est  H  habent  om. HR, s. l. EL ( n  del. m2)  differentia  R  6 relinquit  R relinquent  Pm1  derelinquunt  Lm1  rationabilis  EG  7 rationabilitati  CGP  rationalitate  HN post semper  add.  enim  G  8 quia  ex  qua  Em2  humanitati  EGLP  differentia  HLNR  9 relinquit  HLNR  par- ticipent  E  11 SPECIEI ET DIFFERENTIAE  ( DIFFERENTIIS  E) ΕG ΤΖΦ , recte ut uid. , DE PROPRIIS EORVM  ( EORYNDEM  Ψ ) Ρ Ψ ;  Porph. p. 18, 15   Περί τής διαφοράς τού εϊδοος και τής διαφοράς ,  cod. Μ   Περί τών ιδίων ειδοος και διαφοράς  12 autem  om. Η uero  C Q  quod  ex  quid  C  13 species  EGHNP  uero  om. H  autem  Busse  eo quod] quo  Γ  est] sit  R  14 nam—generationem  (p. 327, 15) ]  LR Q ,  om. cett.  accipitur  A m1  non]  R ΓΔΈ  cum Porph. p. 18, 17  hic non  L  non hic  A m2 H  Busse  non sic  Λ m1 Σ  non homo  Φ   pliciter erit qualitas, sed secundum id quod generi aduenientes differentiae eam constituerunt. amplius differentia quidem in pluribus saepe speciebus con- sideratur, quemadmodum quadrupes in pluribus ani-  malibus specie differentibus, species uero in solis his quae sub specie sunt indiuiduis est. amplius diffe- rentia prima eat ab ea specie quae est secundum ipsam; simul enim ablatura rationale interimit homi- nem, homo uero interemptus non aufert rationale, cum  sit deus. amplius differentia quidem componitur cum alia differentia — rationale enim et mortale compositum est in substantia hominis —, species uero speciei non componitur, ut gignat aliam aliquam speciem; qui- dam enim | equus cuidam asino permiscetur ad muli  p. 106   generationem, equus autem simpliciter asino num- quam conueniens perficiet mulum.  Expositis communitatibus quantum ad institutionem per- tinebat differentiae et speciei, eorundem nunc dissimilitudines colligit dicens quoniam differunt, quod species in eo quod  quid sit praedicatur, differentia uero in eo quod quale sit. huic differentiae poterat occurri. nam si humanitas ipsa, quae species est, qualitas quaedam est, cur dicatur species in eo quod quid sit praedicari, cum propter quandam suae naturae  1 sed] id  (del.) R  3 considerantur  Δ  4 pluribus]  Porph. p. 18, 20   πλείστων ,  cod. B   πλειόνων  6 specie] una specie  R Γ  ( sunt  ante specie )   ΛΨ ;  Porph. p. 18, 21   άκο το είδος  7 prima  ante  differentia  Δ  prior  edd.fort· recte cum Porph.   κροτέρα;   cf. p. 328, 32  superioris ab ea] et  Γ  ab ea—ipsam] ab ea quae est secundum se specie  2  8  post  ipsam  add.  differentiam  Δ   (del. m2)   Λ  10 deus] angelus  LR  ponitur  Δ  12 sub- stantiam  edd. cum Porph. p. 19, 1   εις οπδστοσιν  speciei] specie  R  13 aliquam  ante  aliam  T\A ,  post  speciem  2  14 equus] asinus  Σ  asinae  Φ  equae  Σ  15 equus] asinus  2  autem  om. N enim  C ΔΛ2  asinae  Pm2  conueniens numquam  2  16 mulum perficiet  CEG  perfici ad mulum  R 17 Positis  N  instructionem  H  18 eorum  L  earundem  edd.; cf. indicem Meiseri s.  neutrum 20 differentiae  C  uero  om. CGP  autem  R post  sit  add.  qua inter se differunt differentia et species  Hm1, del. m2  21 huic] nunc  G  differentia  G  22 dicitur  CLm2  praedicatur  GR   proprietatem quaedam qualitas esse uideatur? huic respondemus, quia differentia solum qualitas est, humanitas uero non est solum qualitas, sed tantum qualitate perficitur. differentia enim superueniens generi speciem fecit; ergo genus quadam differentiae qualitate formatum est, ut procederet in speciem,  species uero ipsa, qualis quidem est, secundum differentiam illius quae est pura ac simplex qualitas, qua scilicet perficitur et conformatur, qualitas uero ipsa pura simplexque nullo modo est, sed ex qualitatibus effecta substantia. itaque iure diffe- rentia, quae pure ac simpliciter qualitas est, in eo quod quale  est sciscitantibus respondetur, species uero in eo quod quid sit, licet ipsa quoque quaedam qualitas sit non simplex, sed aliis qualitatibus informata. Rursus illa quoque differentia est, quia plures sub se species differentia continet, species uero tantum indiuiduis praesunt. rationabilitas enim et hominem  claudit et deum, quadrupes equum, bouem, canem et cetera, homo uero solos indiuiduos. atque in aliis speciebus eadem ratio est. idcirco enim definitiones quoque secutae sunt, ut differentia uocaretur quod in pluribus specie differentibus in eo quod quale sit praedicatur, species uero quod de pluribus  numero differentibus in eo quod quid sit praedicatur. Ideo etiam superioris naturae sunt differentiae, quoniam continentes sunt specierum. nam si quis auferat differentiam, speciem  1 respondebimus  G  3 tantum  om. EG  solum,  s. l.  ał tantum  L  4 facit  CLN  5 formatum est  s. l. Gm2  6  ad  qualis  s. l.  ł quali- tas  Hm2 post  quidem  add.  non  EGP (del. m2), in mg. Hm2  9  post  sed  s. l.  hec  L  iure itaque  C  11 species—quid sit  in mg. Gm2  12 sit] est  HN, add.  iure respondetur  CG (in mg. m2) LP  13 rursum  E, add.  differentiae et speciei  C  illa  om. E  ipsa  CGP post  quoque  add.  his  HN  differentia est] differunt  in ras. E est om. P  in hoc a specie distat  G  15 uero  om. CEGP  rationalitas  HΝ  16  post  quadrupes  add.  enim  P, s. l. Lm2  canem  om. C  camelum  R  17 sola indiuidua  Lm2R  19  pr.  in] de  Pm2  20 praedicetur  HLN species—praedicatur  om. E  21 praedicatur] dicatur  GHLPm1  22  post  differentiae  add.  quam species  CLP  speciebus  N post  quoniam  add.  enim  HLN  23 sunt  ( erunt  L) post  specierum  EGL, ante  conti- nentes  R  nam  om. LR, post  quis  s. l.  enim  Lm2   quoque sustulerit, ut si quis auferat rationabilitatem, hominem deumque consumpserit, si uero hominem tollat, rationabilitas manet in speciebus reliquis constituta. est igitur differentiae specieique distantia quod una differentia plures species con-  tinere potest, species uero nullo modo. Alia rursus est differentia, quoniam ex pluribus differentiis una saepe species iungitur, ex pluribus speciobus nulla speciei substantia copu- latur. iunctis enim differentiis mortali ac rationali factus est homo, iunctis uero speciebus nulla umquam species infor-  matur. quodsi quis occurrat dicens quoniam permixtus asino- equus efficit mulum, non recte dixerit. indiuidua enim indi- uiduis iuncta indiuidua rursus alia fortasse perficiunt, ipse uero equus simpliciter, id est uniuersaliter, et asinus uniuer- saliter neque permisceri possunt neque aliquid, si cogitatione  misceantur, efficiunt, constat igitur differentias quidem plurimas ad unius speciei substantiam conuenire, species uero in alterius speciei naturam nullo modo posse congruere.      Differentia uero et proprium commune quidem  habent aequaliter participari ab his quae eorum par- ticipant; aequaliter enim rationalia rationalia sunt et risibilia risibilia. et semper et omni adesse com-  18—p. 330, 4] Porph. p. 19, 4—9 (Boeth. p. 47, 12—19).   1 rationalitatem  HN  2 aero] quis  R  rationalitas  HLa.c.N  3 est  om. CEGP  4 specieqne  R  et species  C  distant  C  distantia est  EGP  species] significationes  Em1  5 differentia est  C  6 saepe  om. EGR post  pluribus  add.  uero  R  8 enim] etiam  Lm1  igitur  Lm2Pm1  10 asinae  HLm2  11 perficit  GP  12 perficiant  Lm1R  14 nec.. nec  C  neque permisceri possunt  om. EGR  neque aliquid] non aliquid  EGR  cogi- tatione si  HN  18 COMMVNIBVS] d e Porph. cf. ad p. 102, 7  20 par- ticipari] praedicari  L  ab his—dicitur  (p. 330, 2) ]  LR Q , om. cett.  ab  om.  Σ , del.  A m2  21 post enim  s. l.  quae  T m2  rationalia rationalia]  Tk m2 <t>W m2 edd. rationalia rationabilia  Π  rationalia  A2<V m1  rationabilia  LR & m1  rationabilia rationabilia  Busse  sunt  om. R, s. l.  h m2  22 et  er. uid.  Δ  post.  risibilia  om. LR \2 , post add.  sunt  codd., om. L cum Porph. p. 19, 6   mune utriusque est. si enim curtetur qui est bipes, sed ad id quod natum est semper dicitur; nam et risibile in eo quod natum est habet id quod est semper, sed non in eo quod semper rideat.    Nunc differentiae propriique communia continua ratione per-  -sequitur. commune enim dicit esse proprio ac differentiae quod aequaliter participantur — aeque enim omnes homines rationa- biles sunt, aeque risibiles —, illud, quia substantiam monstrat, istud, quia est aequum proprium speciei et subiectam speciem non relinquit. Aliud etiam his commune subiungit : aequa-  liter enim semper differentia subiectis adest ut proprium; semper enim homines rationabiles sunt, ut semper quoque risibiles. sed obici poterat non semper esse bipedem hominem, cum sit bipes differentia, si unius pedis perfectione curtetur. quam tali modo soluimus quaestionem. propria et differentiae  non in eo quod semper habeantur, sed in eo quod semper naturaliter haberi possunt, semper dicuntur adesse subiectis.  1 utrisque  ΓΛΣΦ  si] sine  R ΓΦ  qui est] quies  R  quidem  L A  post  bipes  add. non substantiam  ( substantia  ΑΦ )  perimit  ( perimitur  Ψ ) L ΑΨ  Busse (in adn. deleri mauult) , non substantia perit  ( peribit  Σ )   ΓΠΣΦ p ,  om. Rbrm, Porph. p. 19, 8, Boeth. in comment.  2 sed] ta- men  R  ad id quod] ad quod  L AΠ  (post  est  repet.  ad id )   Σ   Busse  ad id ad quod  Ψ , ad id  post est  h m1 post  est  add.  habet et id quod est  L A  (del. m2)  2 , ‘fortasse  id quod est  recipiendum’ Russe : Porph. p. 19, 8   αλλά πρός το πεοοχένοι το   ( το  om. Μ)   άει λέγεται  nam  -om. R  3 in eo] eo  EGLR A m1  ad  C 72  id  Ρ Π  ad id  *F  aliquod  N  habet id quod est semper]  C ( id  s. l. m1?) L hA  ( "habet—est  del. m2), pro  id  exhib.  hoc  H  et id  Σ , est  om. N  habet semper  Ρ Π  habet  EG semper dicitur  ΓΦΨ ,  om. R  4 sed—rideat] in  om. C, in mg. Hm2,  in quod semper rideat  EG non quod semper rideat  R Ψ ; Porph.   έπε'ι ναι τό γελαστικόν τώ πεφυχέναι έχει τό αεί, άλλ' ο όχι τώ γελάν άει  6 enim] autem  Lm2P  dicitur  CEGR  proprii  C  7 rationales  Cm2ELm2P  8 atque  NR  9 istud] illud  EGHN (add.  risibilis ) P  aequum  om. H  aeque  EG, recte?  propriae  EGLPR  et  om. EG  ac  N  subiectam  om. C  subiectum  EGPm1  10 reliquit  ELa.c.  etiam his] hic etiam  HN  11 subiectis  s. l. Gm2  12 rationales  Cm2HN  15  ante  propria  add.  et  HNP (del. m2), s. l. Lm2  propriae  CEGPm2  proprii  R  et  om. CE, del. Pm2  16  post  in] ex  HN   si enim quis curtetur pede, nihil attinet ad naturam, sicut nihil ad detrahendum proprium ualet, si homo non rideat. haec enim non in eo quod adsint, sed in eo quod per naturam adesse possint, semper adesse | dicuntur. ipsum enim semper;  p. 107   non actu esse dicimus, sed natura. numquam enim fieri potest, ut per naturae ipsius proprietatem non semper homo bipes sit, etiamsi potest fieri, ut pede curtetur, etiam si deminuto pede sit natus; in his enim non speciei atque substantiae, sed nascenti indiuiduo derogatur.      Proprium autem differentiae est quoniam haec qui- dem de pluribus speciebus dicitur saepe, ut rationale de homine et de deo, proprium uero de una sola spe- cie, cuius est proprium. et differentia quidem illis  est consequens quorum est differentia, sed non con- uertitur, propria uero conuersim praedicantur quorum sunt propria, idcirco quoniam conuertuntur.    Distat a proprio differentia, quia differentia plurimas species  10—17] Porph. p. 19, 10—15 (Boeth. p. 48, 1—7).   1 curtetur quis  N  nil  C  attinet  s. l. Lm2, post  naturam  R  2 ad  om. EG  ualet  om. EGR  3  pr.  in  om. CEH, s. l. Lm2Pm2 , ab  Gm1, del. m2 post.  in  om. EGNP, s. l. Lm2  4 possunt  HN  dicuntur semper adesse  R  5 actum... naturam  E  umquam  Ea.c.G  7 potest  om. EG, post  fieri  L , postea  (om.  fieri ut ) HN  pede]  HLm1N  ambo pede  Em1GR utroque pede  Em2Lm2P;  ambobus curtetur pedi- bus  C ante  etiam  (om. C) add.  uel  CL (s. l. m2) R  diminuto  CEGLPR  8 pede  om. C  sit natus] nascatur  C  10  de inscript. ap. Porphyr. cf. ad p. 105, 16  11 autem] uero  Δ  quoniam] quod  ΓΦ  12 saepe— conuertitur  (15) ]  LR Q , om. cett.  saepe  om. Lm1R, ante  dicitur  Lm22 ;  Porph. p. 19, 11   λέγεται πολλά*ις  rationabile  R  13  post , de]  A ,  om. cett.; cf. Porph. p. 19, 12 et infra p. 332, 3  deo]  ii  angelo  R  deo et angelo  L; cf. Porph. p. 19, 12 adn. ante  proprium  add.  et  Δ  uero  om. R  de una]  L 4 m2 4'  in una  R ΓΔ m1 ΠΣ  una  Φ ;  Porph.   έφ’ ένός   post  specie  add.  dicitur  Δ  16  post  praedicantur  add.  de his  Δ   (s. l. m2) edd.  ex his  Σ  hiis  Φ ,  om. Porph. p. 19, 14  18  post.  diffe- rentia  om. C  plurimis  R plures  L  pluribus  EG  speciebus  Em2GR   claudit ac de his omnibus praedicatur, proprium uero uni tantum speciei cui iungitur adaequatur. rationale enim de homine atque de deo, quadrupes de equo et ceteris animalibus, risibile uero unam tantum tenet speciem, id est hominem. unde fit ut differentia semper speciem consequatur, species  uero differentiam minime. proprium uero ac species alternis sese uicibus aequa praedicatione comitantur. sequi uero dicitur, quotiens quolibet prius nominato posterius reliquum conuenit nuncupari, ut si dicam ‘omnis homo rationabilis est’, prius hominem, posterius apposui differentiam; sequitur ergo dif-  ferentia speciem. at si conuertam nomina dicamque ‘omne rationabile homo est’, propositio non tenet ueritatem; igitur species differentiam nulla ratione comitatur. proprium uero et species quia conuerti possunt, mutuo se secuntur : omnis homo risibilis est et omne risibile homo est.     Differentiae autem et accidenti commune quidem est de pluribus dici, commune uero ad ea quae sunt  16—p. 333, 3] Porph. p. 19, 16—19 (Boeth. p. 48, 8—12).   1 clauditur  EGRm2  claude his  (sic) ml  2 cui iungitur] coniungitur  Lm1N, add.  et  L  rationabile  CGLPR  3  pr.  de  om. CH, er. L post  deo  add.  praedicatur  R, s. l. Lm2 post  quadrupes  add.  uero  R  et ceteris] ceteris  E  ceterisqne  GP  6 ac] et  E  7 aeque G R ( -(??)e )  comitentur  HN  comitatur  ex  commitetur  Rm2  sequi] si quid EGPm1  8 quotiens  om. EG, s. 1. Pm2  qualibet re  ( re  s. l. Pm2)  prius nominata  HLNPm2R reliquam  HLm2NPm2  reliqua  Lm1Rm2  uero qua  m1  9 rationalis  Cm2HN  est  om. N  10 posterius  ex  prius  Em2  opposui  EG  posui  Lm1R  ergo] enim  E  11 at] et  Hm1  nomina] ut  (in ras. Lm2)  prius differentiam nominem  HNP, in mg. Lm2  12 rationale  HN  propositi  CG proposita oratio  in ras. E  13 nulla ratione differentiam  C  proprium—secantur  in mg. sup. Hm2  14 sequuntur  PRm2  sequntur  E ante  omnis  add.  ut  L, post add.  enim  HNP  15 et  om. EG, s. l. Lm2  est  om. R  16 ACCI- DENTIS ET DIFFERENTIAE  E  ΕΤ] uel  P  ACCIDENTI  C de in- script. ap. Porphyr. cf. ad p. 102, 7  17 accidentis  Cm2 il  commune— adesse  om. N  18  post uero  add.  est  Ρ ΑΠ  Busse, om. Porph. p. 19, 18   inseparabilia accidentia, semper et omnibus adesse; bipes enim semper adest omnibus coruis et nigrum esse similiter.    Duo quidem differentiae et accidentis communia proponit,  quorum unum separabilibus et inseparabilibus accidentibus cum differentia commune est, ab altero uero separabile acci- dens segregatur. tantum uero inseparabile secundo communi concluditur. est enim commune differentiae cum omnibus acci- dentibus de pluribus praedicari; nam et separabilia et inse-  parabilia accidentia sicut differentia de pluribus speciebus et indiuiduis praedicantur, ut bipes de coruo atque cygno et de his indiuiduis quae sub coruo et cygno sunt, nuncupatur. item de eodem coruo atque cygno album et nigrum, quae sunt inseparabilia accidentia, praedicantur. ambulare enim uel  stare, dormire ac uigilare de eisdem dicimus, quae sunt acci- dentia separabilia, reliqua uero communitas ea tantum acci- dentia uidetur includere quae sunt inseparabilia. nam sicut differentia somper subiectis speciebus adhaerescit, ita etiam inseparabilia accidentia numquam uidentur deserere subiectum.  ut enim bipes, quod est differentia, numquam coruorum spe- ciem derelinquit, ita nec nigrum, quod accidens inseparabile est. differentia enim idcirco non relinquit subiectum, quoniam eius substantiam complet ac perficit, accidens uero huiusmodi,  1  post  semper  add.  in eodem genere  P  omni  R; Porph. p. 19, 18   παντί   post omnibus  add.  hominibus et  L  hominibus  Λ   (del. m2)  2 nigrum esse]  ΓΛ»ηίΨ  nigris  ( nigros  Hm2)  esse  EGHm1  nigredo esse  L  nigrum adest  \A m2  nigrum  CNΡR ΙΙΣΦ  Russe; Porph. p. 19, 19   τότε μέλαν είναι   (sic Μ,  μέλασιν είναι  Βm2  μέλαν  eett.)  4 quaedam  HΝ  et] atque  ΗΝ  5 sepa- rabilibus  om. G, s. l. Em2  6 uero] autem  E  7 uero] enim  R, recte? post  inseparabile  add. accidens  L  accidens cum inseparabilibus differentiis  in mg. Hm2  secunda communione  HLP 10 differentiae  CEGLm2P  11 et de his—cygno  om. H, —cygno sunt  om. EGR  12 nuncupantur  G  praedicatur uel nuncupatur  C  14 praedicantur—separabilia  (16) om. N  enim  s. l. C  etiam  H 15 isdem  CPm2  hisdem  ER  dicitur  LP  17  post  inseparabilia  add.  accidentia  C  19 accidentia inseparabilia  HN  de- serere uidentur  C  20 corui  N  21 est inseparabile  C  22 subiectum non relinquit  C  derelinquit  Lm1  23  post  huiusmodi  add.  est  edd.   quia non potest separari; neque enim possit esse accidens inseparabile, si subiectum aliquando relinquit.      Differunt autem quoniam differentia quidem con- tinet et non continetur — continet enim rationabi-  litas hominem —, accidentia uero quodam quidem modo continent eo quod in pluribus sunt, quodam uero modo continentur eo quod non unius accidentis sus- ceptibilia sunt subiecta, sed plurimorum, et differen- tia quidem inintentibilis est et inremissibilis, acci-  dentia uero magis et minus recipiunt. et inpermixtae quidem sunt contrariae differentiae, mixta uero con- traria accidentia.    Huiusmodi quidem communiones et proprietates dif- ferentiae et ceterorum sunt, species uero quo quidem  p. 108 differat a genere et differen|tia, dictum est in eo quod dicebamus, quo genus differret a ceteris et quo dif- ferentia differret a ceteris.    Post differentiae et accidentis redditas communitates nunc de eorum differentiis tractat. ac primum quidem talem proponit.  3—18] Porph. p. 19, 20—20, 10 (Boeth. p. 48, 13—49, 4).   1  post.  posset  Lm1  potest  HLm2NPR post  accidens  repet. esse  G , 3  uel  4  litt. er. L  2 reliquerit  H  relinqueret  N  3 ACCIDENTIS ET DIFFERENTIAE  Γ EARVNDEM  C  EORYNDEM  E de inscript. ap. Poiphyr. ef. ad p. 105, 16  4 Different  Cm1 Differt  L ΣΐΑηιΐ m1 Φ  post  autem  add.  differentia ab accidenti  Γ  5 et  om. GHP  continet— sunt  (15) ]  LR il , om. cett.  enim] autem  L  rationalitas  ΓΑ a.c. Π2ΦΨ  6 quidem  om.   Δ2  7 sint  L ΓΔΛΠΦ»ιί m1 | ·uero  post  modo  Ψ ,  del.   ΓΦ   (ut uid.)  9 sint  A  10 intentibilis  ΓΣ   Busse inintensibilis  edd.; Porph. p. 20, 4   άνεπίτατος;   ef. Roensch, Collect. phil. p. 299 12 post  uero  add.  sunt  ΛΦ  14 Huiuscemodi  Δ  15 quod  EGR  quidem  om.   2  quidam  Em2G  16 a  om. EGH 2 differentiae  E  est  om. C  17 quo] quod  R A m1  differet  R  differt  CEGP 2  a  om. ΕGΗΡR ΤΠ,ΣΦ quod  EGR is m1  18 differet  R  differat  L A  differt  G 2  a  om. EGHR TWZ  19 reddit has  E communicantes  Rm1  communiones  m2  20 primam  HN  quidem  om. HN  tale  C   differentia, inquit, omnis speciem continet. rationabilitas enim continet hominem, quoniam plus rationabilitas quam species, id est homo, praedicatur : supergressa enim substantiam hominis in deum usque diffunditur. accidentia uero aliquando  quidem continent, aliquando continentur. continent quidem, quia quodlibet unum accidens speciebus adesse pluribus con- sueuit, ut album cygno et lapidi, nigrum coruo, Aethiopi atque hebeno, continentur uero, quoniam plura accidentia uni accidunt speciei, ut uideatur illa species plurima accidentia continere.  cum enim Aethiopi accidit ut sit niger, accidit ut sit simus, ut crispus, quae cuncta sunt accidentia Aethiopis, species, quod est homo, omnia quae habet intra se plurima accidentia uidetur includere. huic occurri potest : quoniam differentiae quoque aliquo modo continentur, aliquo modo continent, ut  rationabilitas continet hominem—plus enim quam de homine praedicatur —, continetur quoque ab homine, quia non solum hanc differentiam homo continet, uerum etiam mortalem. re- spondebimus : omnia quaecumque substantialiter de pluribus praedicantur, ab his de quibus dicuntur non poterunt conti-  neri; quo fit ut differentiae quidem non contineantur ab specie, etsi sint differentiae plures quae speciem forment. accidentia uero continentur, quoniam accidentia speciei substantiam nulla praedicatione constituunt; nam nec proprie uniuersalia dicuntur  1 omnis speciem] species  R rationalitas  HNP  2 rationalitas  HNP  3 substantia  N  4 aliquando—aliquando] aliquo modo quid  N  7  ante  lapidi  s. l.  pario  Em2 post  nigrum  add.  ut  CEGLP, ante edd. ante  Aethiopi  add. et  E  8 continentur uero]  HLm2NP  continentur- que  cett.  9 plura  HN  10 enim] etenim  N ad simus  s. l.  naribus pressis  E  12  ex  quod  part. ras.  quae  Cm2  quod est] quidẽ  G ante  intra  add. et  E  plurima  om. EGH  13 occurri] opponi  HN  14  pr.  aliquo modo] aliquando  EGLm2P post. aliquo modo  om. N  aliquando  Em2Lm2P  15 rationalitas  H  17 homo] nomen hominis  HN mortale  edd.  respondemus  HN  respondebimus contra haec  GLPR  18 praedicantur de pluribus  C  20 a  R  21 sunt  H  differentiae  om. HN  speciem forment]  CEGP  speciem formant  Lm(??) ( informent  m2 hrm) N  formant speciem  H  informant speciem  R  22 con- tineantur  HN  23  ad constituunt  in mg.  ał subsistunt  Hm2   accidentia, cum de speciebus pluribus dicuntur, differentiae uero maxime. quae enim quorumlibet uniuersalia sunt, ea neoesee est eorum quorum sunt uniuersalia, etiam substantiam continere. qno fit ut quia differentiae substantiam monstrant, intentione ac remissione careant — una enim quaeque substantia  neque contrahi neque remitti potest —, at uero accidentia quoniam nullam constitutionem substantiae profitentur, intentione cre- scunt et remissione decrescunt. Illa quoque eorum est dif- ferentia, quod differentiae contrariae permisceri, ut ex his fiat aliquid, non queunt, accidentia uero contraria miscentur et  quaedam medietas ex alterutra contrarietate coniungitur. ex rationabili enim et inrationabili nihil in unum iungi potest, ex albo uero et nigro coniunctis fit aliquis medius color.    Expositis igitur distantiis differentiae ad cetera restat de specie dicere, cuius quidem differentias ad genus ante colle-  gimus, cum generis ad speciem differentias dicebamus. eiusdem etiam speciei distantias ad differentiam diximus, cum differentiae ad species dissimilitudines monstrabamus. restat igitur speciem proprii et accidentium communioni coniungere, tum differentia segregare.     Speciei autem et proprii commune est de se intri- cem praedicari; nam si homo, risibile est, et si risi-  21—p. 337, 4] Porph. p. 20, 11—15 (Boeth. p. 49, 5—10).   1 pluribus speciebus  HN  2 maximae  EH, add.  dicuntur uniuersalia et  ( et  om. R)  proprie  Lm2 (in mg.) R 4 ut  om. CG, s. l. Lm2  5 una quaeque enim  HNR  6 quoniam] quia  E  7 profitentur] monstrant  R ante  intentione  add.  et  HN  9 his] se  C  10 misceantur  N  permiscen- tur  R  et] ut  C  11 coniunguntur  LN  fiat  C  12 rationali  C ( bi  s. l. er.) HN  inrationali  HN  in unum]  L  in  om. cett.; cf. indicem Meiseri s.  unus 13  post color s. l.  ut uenetns  Pm2  15 ad genus— differentias  om. EG  16 dicebamus] diximus  EGP  17 diximus] dice- bamus  C  19 proprio  HLm1NP  accidenti  Lm1  accidenti tum  HPm2  accidentique  (om.  et ) N  communione  HLm1NP  tunc  R  20 disgre- gare  N  21  de inscript. ap. Porph. cf. ad p. 102, 7  23 nam—dictum est  (p. 337, 4) ]  LR Q , om. cett. post  homo  add.  est  ΔΣ ,  s. l.  A m2  et si]  ΔΕΈ  et  L ΓΛΠΦ  ita et  R post  risibile  add.  est  ΔΣΨ   bile, homo est – risibile uero quoniam secundum id quod natum est sumi oportet, saepe iam dictum est —; aequaliter enim sunt species his quae eorum partici- pant et propria quorum sunt propria.    Commune, inquit, habent propria atque species ad se ipsa praedicationes habere conuersas. nam sicut species de proprio, ita proprium de specie praedicatur; namque ut est homo risi- bilis, ita risibile homo est; idque iam saepius dictum esse commemorat. cuius communitatis rationem subdidit, eam scilicet,  quia aequaliter species indiuiduis participantur, sicut eadem propria his quorum sunt propria. quae ratio non uidetur ad conuersionem praedicationis accommoda, sed potius ad illam aliam similitudinem, quia sicut species aequaliter indiuiduis participantur, ita etiam propria; aeque enim Socrates et Plato  homines sunt, sicut etiam risibiles. itaque tamquam aliam communionem debemus accipere quod est additum : aequaliter enim sunt species his quae eorum participant et pro- pria quorum sunt propria. an magis intellegendum est hoc modo dictum, tamquam si diceret ‘aequalia enim sunt species  et propria’? nam quia species eorum sunt species quae spe- ciebus ipsis participant, et propria eorum propria quae|pro-  p.109  priis participant, proprium atque species aequaliter utrisque sunt, id est neque species superuadit ea quae specie parti-  8 saepius] cf. infra.   1 est  om. R ante  secundum  add.  et  A   (s. l.) Busse, om. Porph. p. 20, 13  id  om.   J!  2 natum]  Porph. p. 20, 14   κατά τό πεοοχέναι γελάν  sumi oportet]  LR  dicitur  Q ;  Porph.   ληπτεον 3 sunt  om.   Φ ,  post  spe- cies  P  earum  R, ex  eorum  ut uid.  5 m2  7 ita—est homo  in mg. Hm2 praedicamus  EGHm2P p.c.R  namque  om. N  nam  R  8 ita homo risibile est  E  ita est risibile homo  R  iam] etiam  C  saepius]  HN  superius  cett. (recte?); cf.  saepe  2, et ad p. 317, 4. 325, 14 10 qua  CGLP  eadem] eodem modo  E  11 ratio] puto  Em2  12 accommo- data  edd.  13 qua  CGEm1P ante  indiuiduis  add.  ab  HNR, s. l. Lm2  14 participatur  H  18 ac  Lp,c.Pm2  est  om. C 19 aequa- liter  N  20  post  propria  add.  quorum sunt propria  C  21 et propria— atque species] atque proprium species  N  23  post.  speciei  EGLP   cipant, neque propria superuadunt ea quae propriis participant. cumque haec propria specierum sint. propria, species ac pro- pria aequalia esse necesse est atque inuicem praedicari.    Differt autem species a proprio, quoniam species  quidem potest et aliis genus esse, proprium uero et aliarum specierum esse inpossibile est. et species quidem ante subsistit quam proprium, proprium uero postea fit in specie; oportet enim hominem esse, ut sit risibile. amplius species quidem semper actu adest  subiecto, proprium uero aliquando potestate; homo enim semper actu est Socrates, non uero semper ridet, quamuis sit natus semper risibilis. amplius quorum termini differentes, et ipsa sunt differentia; est autem speciei quidem sub genere esse et de plu-  4—p. 339, 3] Porph. p. 20, 16—21, 3 (Boeth. p. 49, 11—50, 2). 14 quorum—differentia] Abaelardus II, Introduct. ad theolog. p. 94; Theo- log. christ. p. 488; De unit, et trinit. diuina p. 58 Stoelzle.   1 nec  CELN  2 haec  om. LN, del. uid. E  sunt  EHa.c.N, add.  et  CE (del.) GH (del.) P (del. m2)  propriis  (post  sint ) E (del.) G  proprii  Ha.c.  4 DE PROPRIETATIBVS  Δ  DE DIFFERENTIA  C; de Porph. cf. ad p. 105, 16  5 a  om. GHLNR, s. l. Pm2 il m2  6 et  om R SΣ ; Porph. p. 20, 17 cod. BM   χαί  proprium—praedicari  (p. 339, 2) ]  LR Q , om. cett.  et  om. Porph.  9 post  R Σ  post  enim  add.  ante  L  ut]  Porph. p. 20, 20   Ινα xai ( Voti   om. cod. M)  ut sit  s. l.  \ m2  11 potestate]  Porph. p. 20, 21   xol δονάμε:  12 enim] uero  L est  om. R  non uero semper]  ΔΛΠΨ   edd. Busse  non semper autem  Γ2Φ  semper autem non  LR; Porph. p. 20, 22   γελά δέ oix αεί ;  cf. infra p. 340, 4  13 quamquam  (uel  quan- )   L ΓΦ  natura  in ras.  A m2  14 termini] definitiones  (uel  diff- ) LR ΓΦ , ad  termini  s. l.  ł diffinitiones  \ m2 differentes]  ΓΑ  differentes sunt  Δ»ιίΠ2Φ  differunt  LR s m2 ii} ; Porph. p. 20, 23   ων οί οροί διάφοροι ; quo- rum termini, id est diffinitiones  ( id est diff.  om. p. 94)  sunt differentes  ( sunt differentiae  p. 488) , ipsa quoque sunt differentia  Abaelard.  15 spe- cies  R, post  speciei  s. l. diffinicio  A m2  quidem]  R T\ m2 (in ras.)  Ψ brm Busse in adn.,  semper  \ m1 (ut uid.)  All/ p Busse in contextu , esse semper  L  quidam terminus  Σ ; quidem sub genere semper esse  Φ   ante sub  add.  et  L A  Busse; Porph.   εατιν δέ ειδοος uev το οπδ τό γένος είνα:   ribus et differentibus numero in eo quod quid est praedicari et cetera huiusmodi, proprii uero quod est soli et semper et omni adesse.    Primam proprii et speciei differentiam dicit quoniam species  potest aliquando in alias species deriuari, id est potest esse genus, ut animal, cum sit species animati, potest esse hominis genus. sed nunc non de his speciebus loquitur quae sunt specialissimae, atque hunc confundere uidetur errorem, quod cum de his speciebus dicere proposuerit quae essent ultimae,  nunc de his quae sunt subalternae et saepe locum generis optineant disserit. propria uero nullo modo esse genera possunt, quoniam specialissimis adaequantur; quae quoniam genera esse non queunt, nec propria quae sibi sunt aequalia, genera esse permittuntur. Rursus species semper ante subsistit  quam proprium—nisi enim sit homo, risibile esse non poterit —, et cum ista simul sint, tamen substantiae cogitatio praecedit proprii rationem. omne enim proprium in accidentis genere collocatur, eo uero differt ab accidenti, quia circa omnem solam quamlibet unam speciem uim propriae praedicationis  continet. quodsi pviores sunt substantiae quam accidentia, species uero substantia est, proprium uero accidens, non est dubium quin prior sit species, proprium uero posterius. Dis- 1 est] sit  2   edd.; cf. p. 340, 13. 341, 22  2 praedicari]  Porph. p. 21, 2   ■κατηγορούμενον είναι post  huiusmodi  add.  praedicari  I m1, del. m2  pro- prium  R  quod est  om.   ΓΦΨ ,  del.  \ m2;Porph. τό μονω προοείνα;.  3 soli et omni et semper  Λ  semper et soli et omni  2  scilicet semper et omni  Gm1, ante  scilicet  in mg.  sali et semper  m2  4  ad  dicit  s. l.  dicunt  Έ  5 diriuari  EGNPR  7 specialissimae sunt  H  8 hunc  s. l. L  nunc  N  hinc  C  hic  Em2  uidetur confundere  C  9 essent] sunt  L  11 genera  s. l. Lm2, ante  esse  HRS  13 non queunt] nequeunt  L  non pos- sunt  NR  14 permiitunt  C ( ur  er.) N  species—subsistit] species est semper ante  C  15 homo sit  LPR  16 ista] ita  CLa.c.  18 uero]  Brandt  enim  codd. edd.  accidente  CNR  quia] quod  L  19 speciem  om. H propriae  del. Lm2  20  post  continet  add.  accidens autem quando continet, ad multas species potest diffundi  EL. (in mg. inf. m2) Pbrm  21 accidens—proprium uero  om. R  22 uero  om. EG, s. l. Pm2  Decernuntur  GHLP  Disterminantur  E   cernuntur etiam species a propriis actus potestatisque natura; species enim actu semper indiuiduis adest, propria uero ali- quotiens actu, potestate autem semper. Socrates enim et Plato actu sunt homines, non uero semper actu rident, sed risibiles esse dicuntur, quia tametsi non rideant, ridere tamen poterunt.  natura itaque species et proprium semper subiectis adest, sed actu species, proprium uero non semper actu, uelut dictum est. At rursus quoniam definitio substantiam monstrat, quorum diuersae sunt definitiones, diuersas necesse est esse substantias; speciei uero et proprii diuersae sunt definitio-  nes, diuersae sunt igitur substantiae. est autem speciei definitio esse sub genere et de pluribus numero differentibus in eo quod quid sit praedicari; quam superius frequenter expositam nunc iterare non opus est. proprium uero non ita : definitur : proprium est quod uni et omni et semper speciei  adest. quodsi definitiones diuersae sunt, non est dubium spe- ciem ac proprium secundum naturae suae terminos discrepare.      Speciei uero et accidentis commune quidem est de pluribus praedicari; rarae uero aliae sunt communi-20  18—p. 341, 2] Porph. p. 21, 4-7 (Boeth. p. 50, 3—6).   1 species  om. EHP, s. l. Lm2, ante  etiam  G  a propriis  in ras. Lm2,  a  (om. R)  proprio  Pm2R  actu  CHLm1N  2  post  uero  add.  non semper  ( actu  s. l. add. Lm2)  sed  EGLPR  3 actu  om. EG, del. R, s. l. Lm2  autem semper  om. EGR  4  ante  sunt  add.  semper  N  5 quia  om. HN, s. l. Lm2  tametsi] etiamsi  C  potuerunt  N  pos- sunt  R  non  (del. E)  poterunt  EG  6  ante  species  add.  e(??)  R, ras. L  ad- est] adsunt  H  7 uelut] ut  NR  9 diuersas—definitiones  (10) om. N  11 igitur—speciei] substantiae igitur. est speciei autem  H  substantiae— de pluribus  in mg. inf. Gm2  speciei definitio] diffinitio speciei spe- cies  C  12 sub genere esse  HΝ  14 opus non  H  ita definitur,  om.  non  Hbrm, er. E;  ita, <sed> definitur  Brandt, cf. p. 347, 4  15 spe- ciei  om. H  18  de inscript. ap. Porph. cf. ad p. 102, 7  19 uero] autem  H  est quidem  C  20 sunt aliae  HRT   tates propterea, quoniam quam plurimum a se distant accidens et id cui accidit.    Speciei atque accidentis similitudinem communem dicit de pluribus praedicari; de pluribus enim dicitur species, sicut et  accidens. raras uero dicit esse alias eorum communiones idcirco, quoniam longe diuersum est id quod accidit et cui accidit. cui enim accidit, subiectum est atque suppositum, quod uero accidit, superpositum est atque aduenientis naturae. item quod supponitur substantia est, quod uero uelut accidens  praedicatur, extrinsecus uenit. quae omnia multam eius quod est subiectum et eius quod est accidens differentiam faciunt. tamen inueniri etiam aliae possunt speciei et accidentis inse- parabilis communitates, ut semper adesse subiectis — aeque enim homo singulis hominibus | semper adest et inseparabilia  p. 110   accidentia singulis indiuiduis praesto sunt —, et quod sicut spe- cies de his quae indiuidua continet, aeque de pluribus accidentia indiuiduis praedicantur; nam homo de Socrate et Platone, nigrum uero atque album de pluribus coruis et cygnis quibus accidit nuncupatur.      Propria uero utriusque sunt, speciei quidem in eo quod quid est praedicari de his quorum est species,  20—p. 342, 15] Porph. p. 21, 8—19 (Boeth. p. 50, 7—20).   1 quam  om. ΗL ΣΑΛ'Ψ  (recte?), s. l.   Π m2 , quem  R  qui  (ut uid.) N; Porph. p. 21, 6   itXststov  distant  ante  a se  Δ   (s. l. m2)   A , a se  om. N  2  ante  accidens  add.  et  Γ id  om.   12 ,  s. l. Pm2 , hoc  Σ ;  Porph. p. 21, 7   *a\ το m οομβέβηχβν  accidunt  Em1P  3 atque] et  HL  accidens  Έ  dicit  om. E, s. l. Lm2Pm2  de  s. l. Lm2  5 dicit alias,  post er.  esse  uid. C  7 atque] et  H  8 est  om. EGHP  adueniens  EPm1  accidentis  N  11 et eius] eius est  E  12 possunt) sunt  E  insepa- rabiles  Cm1GP  13 subiectis semper adesse  HN post  adesse  add.  possunt  E  15 sicut]  L (s. l. m2) Rbrm, om. cett. codd. p  16 conti- nent  H ante  accidentia  add.  ut  CH  17 praedicatur  G  et  om. EGHPR  20 ET  om. R de inscript. ap. Porph. cf. ad p. 105, 16  21 in] et  C 22 est] sunt  Hm1  sit  Σ  praedicare  EGm1P , praedi- catur  2  de his  om.   Σ  hiis  Φ  quorum—in eo] in eo accidentis autem quorum est species  Φ   accidentis autem in eo quod quale quiddam est uel aliquo modo se habens; et unam quamque substantiam una quidem specie participare, pluribus autem acci- dentibus et separabilibus et inseparabilibus; et spe- cies quidem ante subintellegi quam accidentia, uel si  sint inseparabilia — oportet enim esse subiectum, ut illi aliquid accidat —, accidentia uero posterioris generis sunt et aduenticiae naturae. et speciei quidem participatio aequaliter est, accidentis uero, uel si inseparabile sit, non aequaliter; Aethiops enim alio  Aethiope habebit colorem uel intentum amplius uel remissum secundum nigredinem.    Restat igitur de proprio et accidenti dicere; quo enim proprium ab specie et differentia et genere differt, dictum est.   Quod nunc proprium speciei et accidentis se exequi polli- cetur, tale proprium intellegendum est quod, ut superius dictum est, ad comparationem dicitur differentium rerum. species enim in eo quod quid est praedicatur, accidens uero in eo quod quale est. qua differentia non ab accidentibus solis species  2 unam quamque—4 inseparabilibus] Abaelardns II, Introduci. ad theolog. p. 89; Theolog. christ. p. 479. 17 superius] p. 297, 9. 301, 5.   1 quale] quale est  N  quidem  CEm1  quidam  m2  uel—habens  om. CEGHN  2 aliquo modo] quomodo  ΓΦ ;  Porph. p. 21, 10   πώς ;  cf. supra p.128, 10 adn.  et—nigredinem  (12) ]  LR Q , om. cett.  3 unam  R  qui- dem  om. Abaelard.  participari  L ΓΔΣ a.c. Φ praedicari  \ m1  autem] uero  L Abaelard.  4  tert. et om.   Γ  5  post  quidem  add.  sane  L ΓΛ  (s. l. m2)  ΙIΣΦ  Busse, om. R ΛΨ  cum Porph. p. 21, 12 post  subintel- legi  add.  potest  Lpr  possunt  bm; Porph.   w\ τά piv είδη προεπινοεΐται  uel  om.   Φ   ad  uel si  s. l.  etiamsi  K m2  6 inseparabilibus  R  8 generis  om. R  aduentiuae  R  9 aequalis  Λ  accidens  L T m1 A m1  10 alio Aethiope]  Porph. p. 21, 16   ΑίίΚοπος  13 accidente  HNR ΔΣ , ante er.  de  P  14 enim] etiam  H  a]  cod. Q Bussii (om. cett.) edd. (cf.p. 344, 9),  ab  scr. Brandt  speciei  Ca.r.EGR  et  om. CEGHPR differen- tiae  GR  15 differt  om. L  differat  ΦΣ  distat  R  est dictum  H, add.  in illorum differentiis ad ipsum  2  18 dicatur  R  20 est  om. GP, post add.  praedicatur  H   discernitur, uerum etiam a differentiis ac propriis, nec solum species ab eisdem, uerum etiam genus. praeterea quod species in eo quod quid est praedicatur, accidens uero in eo quod quomodo sese habeat, id quoque commune est cum genere;  genus quippe ab accidenti in eo quod quid est et quomodo se habeat praedicatione diuiditur. Item unam quamque substantiam una uidetur species continere, ut Socratem homo, atque ideo Socrati una tantum propinquitas est species hominis. rursus indiuiduo equo una species equi est proxima, itemque  in ceteris; uni cuique enim substantiae una species praeest. at uero uni cuique substantiae non unum accidens iungitur; uni cuique enim substantiae plura semper accidentia super- ueniunt, ut Socrati quod caluus, quod simus, quod glaucus, quod propenso uentre, et in aliis quidem substantiis de numero  accidentium idem conuenit. Dehinc semper ante accidentia species intelleguntur. nisi enim sit homo cui accidat aliquid, accidens esse non poterit, et nisi sit quaelibet substantia cui accidens possit adiungi, accidens non erit. omnis autem sub- stantia propria specie continetur. recte igitur prius species,  accidentia uero posterius intelleguntur; posterioris enim sunt, ut ait, generis et aduenticiae naturae. nam quae substantiam non informant, recte aduenticiae naturae esse dicuntur et posterioris generis; his enim substantiis adsunt quae ante dif- ferentiis informatae sunt. Rursus quoniam species substantiam  1 decernitur  Rm2  ac  s. l. Lm2  a  EGH  et a  P  3 praedicatur  post  species  H  quod  om. E, s. l. Gm2  4 se  EP  habet  LR  id—habeat  (6) om. R  est commune  H post  est  add.  speciei  L   (s. l. m2) brm  5 accidenti]  edd.  accidente  codd.  quod  om. E  8 propinquitate  EPm1  propinqua  L  species est  LR  9 est equi  H  item  H  10 una—substantiae  in mg. Hm2  13 quod simus  om. C  15 accidentium  ex  accommodantium  Hm2 post conuenit  add.  dicere  R  ante  om. C  16 accidit  CHLNPR, recte?  18 autem  del. Lm2  enim  P  20 uero  om. R, in mg. Lm2  posterius] postremo  R  enim] uero  CE  21 generis ut ait  CR  nam quae] nam  Rm1  namque  EG  nam quia  CN  22  ante  recte  add.  ideo  EGL (s. l. m2) P (del. m2)  esse  om. H   monstrat, substantia uero, ut dictum est, intentione ac remis- sione caret, speciei participatio intentionem remissionemque non suscipit. accidens uero uel si inseparabile sit, potest inten- tionis remissionisque cremento et detrimento uariari, ut ipsum inseparabile accidens quod Aethiopibus inest, nigredo. potest  enim quibusdam talis adesse, ut sit fuscis proxima, aliis uero talis, ut sit nigerrima.    Restat nunc proprii communiones ac differentias persequi. sed quo proprium differat a genere uel specie uel differentia. superius demonstratum est, cum quid genus uel species uel  differentia a proprio distaret ostendimus. nunc reliqua ad com- munitatem uel differentiam consideratio est, quid proprium accidentibus aut iungat aut segreget.      Commune autem proprii et inseparabilis accidentis  est quod praeter ea numquam constant illa in quibus considerantur; quemadmodum enim praeter risibile non subsistit homo, ita nec praeter nigredinem sub-  14—p. 345, 2] Porph. p. 21, 20-22, 3 (Boeth. p, 51. 1—6).   1 demonstrat  H  ac] et  H  2 remissionemque] ac remissionem  H  3 si  s. l. CLm2  4 in  (del. m2)  incremento  H  decremento  R edd.  uti  R  ita  E  5  ante  nigredo  add.  ut  Hm1N  id est  s. l. Hm2  6 fu- scis]  La.c. edd.  fuscus  Lp.c. et cett.  aliis uero]  edd.  uero aliis  codd. ( uero  s. l. Lm2)  8  post  proprii  add.  et accidentis  N  ac] ad  EGLm1  9 quo]  Cm2 (part. ras. corr.)  quod  Cm1EGLm1NPR  quid  HLm2; cf. p. 342, 13  10 quid] quod  N  quicquid  E  uel differentia uel species  H  11 a  s. l. Lm2  12 uel] et  N  quod  E  quae  Hm2LR  13 iungit  EGHm1LPm1R  segregat  LPR  separet  N  14 ACCIDEN- TIS]  Porph. p. 21, 20 cod. Μ   σομβεβηχοτος ,  cett.   τοδ άχωρίστοο σομβεβη- αότος ;  de Porph. cf. etiam ad p. 102, 7  16 est  post  commune  L, ante  accidentis  AA m1  accidentis inseparabilis est  m2  praeter ea] prop- terea  Φ  constant]  CH Busse (coll. p. 159, 7)  consistant  EGNPR h m1 A p.c. W   edd.  consistunt  L A a. c.   112Φ  consistent  r\ m2  illa  post  quibus  N  17 quemadmodum—Aethiops  (p. 345, 1) ]  LR Q ,  om. cett.  18 ita  om.   2 ,  s. l.   A m2  subsistit] non subsistit  A m2; Porph. p. 22, 1   ΰποσταίη dv   sistit Aethiops, et quemadmodum semper et omni adest proprium, sic et inseparabile accidens.    Quoniam proprium semper adest speciebus nec eas ullo  p. 111  modo relinquit quoniamque inseparabile accidens a subiecto  non potest segregari, hoc illis inter se uidetur esse commune, quod ea in quibus insunt, praeter propria uel inseparabilia accidentia esse non possint. inseparabilia uero accidentia com- parat, quoniam, ut in specie dictum est, rarissimae sunt speciei atque accidentis similitudines. quocirca multo magis proprii  atque accidentis communitates difficile reperiuntur. accidens enim in contrarium diuidi solet, in separabile accidens atque in inseparabile, quae uero sub genere in contrarium diuiduntur, ea nullo alio nisi tantum generis praedicatione participant. quodsi proprium inseparabile quoddam accidens est, a separabili  accidenti plurimum differt, atque ideo nullas proprii et separa- bilis accidentis similitudines quaerit. sed quia ipsum proprium certis quibusdam causis ab inseparabilibus accidentibus differt, horum et communitates inueniri possunt et inter se differentiae. quarum una quidem ea est quam superius exposuimus, secunda  uero quoniam sicut proprium semper et omni speciei adest, ita etiam inseparabile accidens; nam sicut risibile omni homini et semper adest, ita etiam nigredo omni coruo et semper adiuncta est.    8 ut in specie dictum est] p, 340. 20.   1 et omni  om. H  et  om. R; Porph. p. 22, 2   παντι και άεί  2 sic  om. P  sicut  C  et  om. R  3 semper  om. H  4 quodque  Hm1  5 inter se  post  commune  H  6 ea in] eam (m  del. m2) H  insunt] sunt  R, add.  ipsa propria et inseparabilia accidentia sunt  E (del. et s. l.  glosa est  scr. m2) L (in mg. m2, om.  sunt)  P (om.  sunt) uel] et  LNR  7 possunt  EHLm2NP  uero  s. l. Cm2 ante  comparat  s. l.  proprio  Cm2, post s. l.  scil. proprio  L  8 sunt  post  accidentis  H  10  ante  accidens  add.  scilicet  E  11 enim] uero  R  12 sub genere  om HΝΡ, del. Lm2  14 quiddam  CL  quoddam  post  est  H  16 simili- tudines—accidentibus  in mg. Em2  17 causis  om. EG  rationibus  Lm2PR  18 differentiae] dissentiae uel differentiae  H  19 est ea  H  21  post  accidens  add.  est  H  22 et semper  om. H  et semper adest  s. l. Gm2 post.  et]  N edd., om. cett.     Differt autem quoniam proprium uni soli speciei adest, quemadmodum risibile homini, inseparabile uero accidens, ut nigrum, non solum Aethiopi, sed etiam coruo adest et carboni et hebeno et quibusdam  aliis. quare proprium conuersim praedicatur de eo cuius est proprium et est aequaliter, inseparabile autem accidens conuersim non praedicatur. et pro- priorum quidem aequaliter est participatio, acciden- tium uero haec quidem magis, illa uero minus.    Sunt quidem etiam aliae communitates uel proprie- tates eorum quae dicta sunt, sed sufficiunt etiam haec ad discretionem eorum communitatisque traditionem.    Proprii atque accidentis prima quidem differentia est quia proprium semper de una tantum specie dicitur, accidens uero  minime, sed eius praedicatio in plurimas diuersi generis sub- stantias speciesque diffunditur. risibile enim de nullo alio nisi de homine praedicatur, nigrum uero, quod est inseparabile quibusdam accidens, tam coruo quam Aethiopi, quae diuersa sunt specie, tum coruo atque hebeno, quae differunt generi-  bus, non tantum specie, praesto est. quo fit ut propriis quidem  1—13] Porph. p. 22, 4—13 (Boeth. p. 51, 7—17).   1 PROPRII ET ACCIDENTIS]  CP W ,  item Porph. p. 22, 4 cod. M  ( των αυτών   plerique cett. ), ACCIDENTIS ET PROPRII  cett., nisi quod  EORV II EORVNDEM  Ψ ;  de Porph. cf. etiam ad p. 105, 16  2 Dif- ferunt  CG ΔΣΦ ;  Porph. p. 22, 5   διενήνοχεν  proprium  om.   Σ  3 risi- bili  N  inseparabile—minus  (10) ]  LR Q ,  om. cett.  4 soli  L A‘l>  5 etiam] aeque  R  hebeno  plerique codd., item 20. p. 347, 7  6 proprium est  ΓΦ  7  post.  est]  ΓΔ   (del. uid.)   ΙΙΣΦΨ   cum Porph. p. 22, 8, om. LR A Busse  8 autem] uero  ΔΛ   Busse  conuersim non] nec conuersim  A  proprii  R A m2 2  proprium uero  Φ  9 aequaliter]  R 2 ,  coni. Busse , aequalis  cett.; Porph. p. 22, 9   και τών μέν ιδίων έπίτης ή μετοχή  10 hae  Δ  11 uel]  Porph. p. 22, 11   τέ καί  12 earum  C  dictae  CEGHP  hae  N  et  R  13 traditionem  ex  distractionem  E  contradictionem  Gm1  14 est  om. H  16 praedicatio eius  H  17 species  Cm1  19 diuersae  HLNPm2  diuisae  m1  20 speciei  H (ante  sunt)  N  tunc  R  nec non  Lm1  sed tum  m2  21 tantum specie] uni tantum speciei  P   conuersio aequa seruetur, in accidentibus uero minime. quoniam enim propria in singulis esse possunt atque omnes continent, species conuerso ordine praedicantur; nam quod risibile est. homo est, et quod homo, risibile. nigrum uero non ita, sed  ipsum quidem de his praedicari potest quibus inest, illa uero ad huius praedicationem conuerti retrahique non possunt; nigrum enim de carbone. hebeno, homine atque coruo prae- dicatur, haec uero de nigro minime, nam quae plurima con- tinent, de his quae continent praedicari possunt, ea uero quae  continentur, de sese continentibus nullo modo nuncupantur. Rur- sus proprium quidem aequaliter participatur, accidens remis- sionibus atque intentionibus permutatur. omnis enim homo aeque risibilis est, Aethiops uero non aequaliter niger est, sed, ut dictum est. alius quidem paulo minus alius uero  taeterrimus inuenitur.    Et de proprii quidem atque accidentis differentiis satis dictum est. restabat uero accidentis ad cetera communiones proprie- tatesque explicare, sed iam superius adnumeratae sunt, cum generis, differentiae, speciei et proprii ad accidens similitudines  ac differentias adsignauimus. fortasse autem his institutus animus et sollertior factus alias praeter eas quas nunc diximus com- munitates uel differentias quinque rerum quae superius sunt positae reperiet, sed ad discretionem atque eorum similitudines comparandas ea fere quae sunt dicta sufficiunt. nos etiam,  quoniam promissi operis portum tenemus atque huius libri seriem primo quidem ab rhetore Victorino, post uero a nobis  1 conseruetur (con  s. l. m2 ) aequa conuersio  H  2 esse presunt (pre- sunt  del. m2) H  esse  Lm1  esse habent  Lm2R  4  post post.  homo  add.  est  CLR post  risibile  add.  est  LPR  5 quibus] in quibus  R  7  ante  hebeno  add. de  H, er. uid. L  9 continentur  HN  11 proprium  post  quidem  H (s. l. m2)  quidem  om. G  12 permittatur  E  15 deter- rimus  CLN  16 proprii *  (s  er.) HL  differentiis  om. G  proprietate  E  17 accidens  G  18 replicare  EGLPR  iam] etiam  EG  enumeratae  La.c.  19 speciei] et speciei  NR  ad accidens] et accidentis  Em1La.c.R  20 his  om. NR  23  ante  eorum  add.  ad  EGLPR  24 sufficiant  HR  26 ab  in a mut. ut uid. C   Latina oratione conuersam gemina expositione patefecimus, hic terminum longo statuimus operi continenti quinque rerum dis- putationem et ad Praedicamenta seruanti.    1 conuersa  ELm1  2 continenti  om. C  quinque] V  L (in ras. m1?) edd., om. cett.  3 et  om. C  seruienti  brm  ANICII MALLII SEVERINI BOETII LIBER QVINTVS EXPLICIT SECVNDI SVPER YSAGOGAS COMMENTI  P ; FINIT. EXPLICIT EDITIONIS SECVNDAE COMMENTARIORV LIBER QVINTVS FELICITER. AMEN  (er. uid.)  DEO GRATIAS  C ; ANICII MANLII SEVERINI POETII  (sic)  ILLV- STRIS CONSVLIS EXPLICIT LIBER  L ; ANICII. MANLII. SEVERINI. BOETII. (A. M. S. B.  N ) V. C. ET ILL. (I LL S.  N ) EXCONS. (EXCS  N ) ORD. PATRICII. (ΈΧC.—PATR.  om. G)  IN ISAGOGAS (YS-  EG)  PORPHYRII (I  pro  Y  N)  IDE. INTRODVCTIONES (-NE  E)  IN CATE- GORIAS (KATH-  N)  A SE  (om. N)  TRANSLATAS. (-TĘ  E , IDE— TRANSL.  om. G)  EDITIONIS (EDΙCΤ-  E , AED-  N)  SCDĘ LIBER V (QVINTVS  N)  EXPLICIT  EGN, add. TIBI PAX. AMEN.  E ; QVINQVAE  (sic)  FIT OPTATVS HIC FINIS ISAGOGARV  R; subscriptione caret H, item e codd. Isagogen tantum a Boethio translatam continentibus ΓΛΣΦΊ’   (nisi quod in   Φ   recens quaedam est); post  traditionem  p. 346, 13   habent  EXPLIC. LIB. HISAGOGARV PORPHIRII  Δ , EXPLICIT  Π.  gradatimfoliacontrahit.Videturhæcnonminusdilatatio ne,contra ionesfoliorumhonoraresolem,quamhominesgenarumgestu,moru labiorum.No folumuero'inplantis,quæueftigiumhabentuitæ,fedetiaminlapidibusaspicerelicet,imitations, & participationemquandamluminumsupernorum,quemadmodumhelicislapisradijsaureisso laresradiosimitatur.lapisautem ,quiuocaturcælioculus,uelsolisoculus,figuram habetfimilēpu pillæoculi,atqsexmediapupillaemicatradius.lapisquoqueselenitus,idestlunaris,figuralung cornicularisimilis,quadamsuimutationelunaremfequiturmotum.Lapisdeindeheliofelenus,id estsolaris,lunarisózimitaturquodãmodocongreffum folis,&lunæ,figuratcscolore.Sicdiuinornm omniaplenafunt, terrenaquidemcælestium, cæleftiauerosupercælestium p,roceditæquilibetor d o r e r u m u s o a d u l t i m u m . Q u æ e n i m s u p e r o r d i n e m r e r ü c o l l i g ū c u r i n u n o , h æ c d e i n c e p s dilatan turindescendendo,ubialiæanimæsubnuminibusalñsordinantur.Deinde& animaliafuntsolana multa,uelutleones,& galli, numiniscuiusdamsolarisprofuanaturaparticipes, undemirum est,quantum inferioraineodem ordinecedantsuperioribus,quamuismagnitudine,potentias n o n c e d a n t. h i n c f e r u n t g a l l u m t i m e r i å l e o n e q u a m p l u r i m u m , & q u a f i c o l i . c u i u s r e i c a u s a m a m a tería, sensuueassignarenonpossumus,sedsolumabordinissupernicontemplatione. quoni amuidelicetpræsentiafolarisuirtutisconuenitgaltomagisquamleoni:quod& indeappare  1928 Marfil. Ficin.in InterpreteMarsilioFicinoFlorentino. Vemadmodum amatoresabipsapulchritudine,quæcircasensumapparet,addiuinam paulatimpulchritudinemrationeprogrediuntur:fic& sacerdotesantiqui,cùmconli, derarentinrebusnaturalibuscognacionemquandamcompassionemç;aliorumadalia &manifestorum aduiresoccultas,& omniainomnibusinuenirent,facrameorumscien quicquidest,pulchrumeft,&bonum eft.etiamsiindecorporissequaturincommodum.Corpus enim nonparshominis, fedinftrumentum:instrumentiuero'malumnonpertinetadutentem. Quomododifferantduohæc,fcilicetfecundumfeipfum,& quaipsum. Ietioneseiusmodi,fcilicetsecundum feipsum,& quaipsum ,etiamapudAristotelemdistin, D g u u n t u r . Q u o d e n i m s e c u n d u m s e i p s u m a l i c u i c o m p e t i t , p o t e s t e i n o n c o m p e t e r e p r i m o. Quodautemquaipsumconuenispræterid,quodconuenit,secundumseipfumeciam primo competitei,atqueadæquatur.Pulchrumigitur,ficommensurationisanimæcausaest,atq;obhoc ipsumdiciturpulchrum,efficito,utmeliusinanimadomineturdeceriori,perficitąnos,& animæ deformitatempurgat:hacipfarationebonum est, nonquidemperaccidens,fedquarationepul. chrum .fienim qua pulchrum estcommensuratum ,eft& bonum.Bonãenim estmensura cercéquá pulchrum est,exiftit& bonum.Similiter turpe,qua turpe,malum est.N a m qua curpe eft,informe est qui 1   quiagallus,quafiquibufdáhymnisapplauditfurgentisoli,& quafiaduocat,quãdoexantipodum mediocæloadnosdeflectitur,& quando nonnullisolaresangeliapparueruntformiseiusmodi p r æ d i c i , a r c f, c u m i p f i i n s e f i n e f o r m a e s s e n t, n o b i s t a m e n , q u i f o r m a t i s u m u s , o c c u r r e r e f o r m a t i. N o nunquam tione. Quæfecundumfefuntincorporea,nonlocalicerpræsentiacorporibus,adsunt eis,quotiescunqueuolunt, adillauergentia, atquedeclinantià,quatenusuidelicetnaturaliteradea uergunt,arqueinclinantur. Sed enim cum nonadfintlocaliaconditionecorporibus,habitudine quadam eisadfunt.Quæfecundumsesuntincorporea,certenonpersubstantiam,&peressentiam corporibusadsunt.Non enim corporibuscómifcentur.ueruntamenexipsainclinatione,quasimo mentouisquædamsubfiftitindecomunicataiam propinquacorporibus.Ipsanamqinclinatiose. cundamquandamuimsubstituítcorporibusiampropinquam. mæ,fecundữcorporafuntdiuisibiles.Nonomne,quodagitinaliudappropinquatione,&ta &ufacit,quodfacit,fedetiam qupæropinquarido,& tangendofaciuntaliquidfecundumaccidens, nonutunturpropinquirate.Animacorporialligaturconuersionequadam adpassionesprouenien resacorpore.Rursum foluiturquatenusacorporenihilpatitur.Quodnaturaligauit,hoc&ipsa naturasoluit.Rursusquodconciliauitanima,hoc& animadirimit.Naturaquidem corpusinanimadeuincit,animaueroseipsamincorpore.Quamobrem natura corpusab anima separaczanimaueroseipsam àcorporesegregat,  saclia usmodi .Qui 1 Proc.De Sacrif.& Magia. 1929 ICOR bada mler : in: no.N enlos ur,but aliano compiz quider Locum siuecausisadintelligibilianosducentibus. MARSILIO FICINO INTERPRETE. Denatura,e alligatione,o solutioneanime. Nimaquidemmediüquiddameftintereffentiam indiuiduam,arqueessentiamueracorpora A diuisibilem.Intellectusautem essentiaest,indiuiduafolum .Sedqualitates,materialesqfor lael,ea 703 ncense garia 1,fiu ucent oxd zateni XOM etiam dæmones nisisuntsolares leoninafronte.quibuscum gallusoböceretur,repente disparuerunt.Quodquidemindeprocedit,semperquæineodem ordineconstitutainferiorafunt, reuerentursuperiora:quemadmodum plerişintuentesuirorumimaginesdiuinorum,hocipsoas. pe&uuererisolentturpealiquidperpretare.Vtautemsummatimdicam,aliaadreuolucionessolis correuoluuntur,ficutplantæ,quasdiximus:aliafiguramsolariumradiorumquodammodoimitan tur, utpalma,dactylus:aliaigneamsolisnaturam,utlaurus:aliaaliudquiddam uideresanelicetpro prietates,quxcolligunturinsole,passimdistribucasinsequentib.insolariordineconstitutis,scilicet angelis,dæmonibus,animis,animalibus,plantisatque lapidibus.Quocircasacerdotijueterisautho resàrebusapparentibussuperiorum uiriumcultumadinuenerunt,dum aliamiscerent,aliapurifi c a r e n t. M i s c e b a n t a u t e m p l u r a i n u i c e m , q u i a u i d e b a n t f i m p l i c i a n o n n u l l a m h a b e r e n u m i n i s p r o prieratem,nontamenfingulatim,sufficientemadnuminisiliusaduocationem.Quamobrem ipfa multorum comixtioneattrahebantsupernosinfluxus: acßquodipficomponendounumexmul tisconficiebant,assimilabantipfiuni,quodestsupermulta,constituebantæftatuasexmaterñismul tispermixtas:odoresquoqcompositoscolligentes:arceinunum diuinafymbola,reddentesísun um tale,qualediuinumexiftitsecundum effentiam,comprehendens,uidelicetuiresquamplurimas. Quorum quidemdiuisiounamquamg debilitauit,mixtiouerorestituitinexemplarisideam.Non nunquam ueroherbauna,uellapisunus,addiuinumsufficitopus.SufficicenimCnebison,ideftcar duus,ad fubitam numinis alicuius aparacionem ,ad custodiam uerò laurus.Raccinum ,ideftgenus uirgultispinosum,cepa,squilla,corallus,adamas,laspis,fedadpræsagiumcortalpæ,adpurificatio. nem uerosulfur,&atosmarina.Ergosacerdotespermutuam rerumcognationem,compassionem'. conducebant inunum,perrepugnantiam expellebantpurificantes,cum oportebat,sulfure,atque asphalto,idestbitumine,aquaaspergentesmarina,purificatenimsulfurquidempropterodorisa cumen,aquaueromarinapropterigneamportionem,& animaliadrjsindeorum cultucongruaad hibebant,cxtera'tsimiliter.Quamobrem abës,atoßsimilibusrecipientesprimumpotentiasdemo num ,cognouerunt,uideliceceasesseproximasrebus.actionibus naturalibus:atq;perhæcnatura lia,quibus propinquantinpræsentiamconuocarunt.Deindeàdæmonibusadipfasdeorumuires actiones&processerunt,partimquidemdocentibusdæmonibusaddiscentes,partim ueroindustria propriainterpretantesconuenienciafymbola,inpropriam deorumintelligentiamascendentes, a c d e n i q p o f t h a b i t i s n a t u r a l i b u s r e b u s, a c t i o n i b u s q u e , a c m a g n a e x p a r t e d æ m o n i b u s in d e o r u m feconfortium receperunt. PORPHYRIVS DE OCCASIONIBVS, Denaturacorporeorum,atqueincorporeorum. Mnecorpuseftinloco,nullumuerocorum ,quæfecundūsesuntincorporea,uelaliquid tale, estinloco.Quæ secundumsesuntincorporea,eoipso, quodpræstantiusestomni corpore,atqueloco,ubiquesunt,nondistantiquidem,sedindiuiduaquadam condi USCE inuss sdina labor Pt,imi adns aberi is,fip liol Sicdi liatiei ,unto 10,p Omnia MMM $   Omniaquodammodosuntinomnibusproconditionecorum,quibusinfunt. On fimiliteromniainomnibusintelligimus,sedpropriesehabetadomniauniuscuíused sentia:intellectuquidem intelle&ualiter,inanimauero'rationaliter:inplantisseminarie,in corporibusimaginariè:ineodem (quodhisomnibussuperiuseft,modoquodamfuper intellectuali,atquesuperessentiali. essentiæ,aliatandem naturx supe rioris,aliaanimæ,aliaintele&ualis:uiuuntenim& ila:etfinullumeorum,quæabiplisexi ftunt,uirameisfimilemsorciatur. aliaueropartimquidemfle&tunturadila,partimetiamnonflestuntur.aliacandem folumde flectunturadgenituras,neqzinterimadsereflectuntur. p e r , e d u c e r e. A n i m a q u i d é h a b e t o m n i u m r a t i o n e s . A g i t a u t ē s e c u n d ã e a s ,u e l a b a l i o a d e x peditionemeiusmodiprouocata,uelipfafeipfamintusconuertensadrationes,& cum abaliopro uocatur,tanquamadexternacommititintroducerefensus:cum uero'ingredicurinseipsam,adintel ligentiasperuenit:necigitursensusextraimaginationemfunt,necß,utdixeritaliquis,intelligence quatenus competuntanimali Animaeftimmortalis. ANimaeftessenciainextensa,immaterialis,immortalis,in'yitahabenteaseipsauiuere,arosese fimiliterpossidente. Passioanimæ,atquecorporisestlongediuersa. Liudestpaticorpora,aliudincorporea.passioenim corporụm cum transmutationecötingit passiouero'animęestaccommodatioquædam,'&affe&ioadremipfam,&a&ioquædã,nullo modofimiliscalefationi,frigefactioniącorporum,quamobrem sipassiocorporū,cũtrans mutatione fit,dicendum eftomnia incorporea essepassionisexpertia.Quæ enim a'materia,corporf busipfeparatasuntadu,eadempermanent:quæueromateriæcorporibus propinquant,ipsaqui d e m n o ns u n t p a s s i u a , s e d i l l a , i n q u i b u s h æ c a p p a r e n t , p a t i u n t u r , q u á d o e n i m a n i m a l s e n d t , a n i m a quidam fimilis esseuideturharmoniæ cuidam separatæ ex seipsam chordas mouenti cötemperatas Corpusaữrsimileharmonię,quæ inseparabilisinestchordis,fedcausamouendieffeuideturanimal proptereaquodfitanimatū, quodquidemsimileeftmufico,exeoquodfitcõcinnum ,corporaueros quæperpassionesensualempulfantur,fimiliacontemperatischordisapparent.Etenim ibinonhar m o n i c a q u i d é s e p a r a t a p a t i t u r , f e d c h o r d a . & m o u e t f a n e m u f i c u s p i p f a m , q u æ s i b i i n e f t ,h a r m o n i ā: newtamenchordarationemusicamouereturetiam ,fiuelletmusicus,nifiharmoniaipsaiddixit. nataestquemadmodum corpora,sed fecundum nudam ad corporapriuationem .Quãobrenihil prohibetinterila,aliaquidemesseessentia,aliauerònonessentia:& aliarursusantecorpora,alia ueròunacumcorporibus:itemaliaacorporibusseparata,aliauerònonseparata.Prætereaaliasecun dum sesubfiftentia,aliaueroalijs,utsintindigentia:aliadeniqa&tionibus,uitisfexfemobilibuse adem ,sedaliauitis,&qualibusa&tionibusquodammodo permutata,nempefecundumnegatione corum ,quæ ipfanon sunt,non secundum assistentiameorum ,quæ sunt, appellatur. PussionesmaterieprimeassignatesimiliteràPlotino. Ateriaepropriaapudantiquoshæcfuntincorporeaquidem,diuerfaenimeftàcorporibus, prætereauitæexpers,negintelle&tus,neckanima,nequealiquidfecundum seuiuens.Itêin, formis,permutabilis,infinita,impotens.Quapropternec ens,feduerum nõens,imagomol lisapparens, quoniãqd primo estinmole,eftipfum impotens,itéappetitio fubfiftentia.& ftansno instacuprætereafempinseapparens,tum paruum,rum magnữ,tūminus,tūmagis,tūdeficiens,cī excedens,quoduefiatfemp,maneatuerònunquã,nec tamen aufugere potens,quippecútotius entisfitdefectus.Quamobrēquicqd pmittat,mentitur:aciimagnūappareant,interimeuadirparo uũ,quafienimludusquidãeftinnõensaufugiés,Fugaenimeiusnófitloco,seddūabencedeficis, Quamobren M  1930 Marsil. Ficin.in infummiseftunitascumuirtute:ininfimismultitudocumdebilitate. Ncorporeæfubftantiædescendentesquidemdijudicentur,atqßinsingulapotentiædefe&umul tiplicantur, adscendentesautemutuntur,atæfimulrecurruntinunumcopiapoteftatis. Quegenerant,partimconuertunturadgenita,partimminimè. Mne,quodsuaessentiagenerat,aliquidsedeteriusgenerat,atqomnegenitüadgenitorina O curaconuertitur,eorumuero,quægenerant,aliaquidēnullomodoconuertunturadgenitas Sensus,imaginatio,memoria intelligentia. Emorianonestimaginationüconferuatio quædã,ámdtāmpastwintorspobaristalevias'spoluéwata, sedeftipfaspropofitiones,fiueproductionesina&um corū,quæmedicatuseftanimusnu :nec rurfusabsq inftrumentorum sensualium passionesuntfenfus, lic& intelligentiænon abfqimaginatione,nisianalogaconditiofit:quemadmodumfiguraconse quensquiddam estadanimalsensuale,ficphantasmaaliquidconsequensadintelligentiamanima intelligentisinanimali. 1 N Despeciebusuite. On solumincorporib.æquiuocaconditioest,sedipsaetiãuitamultipliciterprædicatur eftenimuitaplantæ,animalisalia:aliarursusintellectualis Alia IN N > M Dedifferentijsincorporeorum. Pfaincorporeorīappellationõfecundumcommunicatēunius,eiusdemişgeneris,siccognomi.   quamobremquæineasuntimagines,insuntindeteriorirursusimagine,quemadmodüinspeculo idquodalibilitumeft,apparetalibi,&ipsumspeculumplenumeseuidetur,nihilqzhabet,dumom nia uidetur habere. funt,autnonfunt,quappternullacorūpaticur:quodempatienseft,nonoportetitafehabere, fedefetale,ütalterariqueat,atointeriminqualitatibus eorī,quaeingrediuntur,ficásinferuntpas fionem.Eiñamos quodinestalterationonaqualibecaccidit,nexigicurimaceriapacítur.Nāsecun dum feipfam qualitatisestexpers,nesprorsusformx,quaefuntinca,ingrediences;uicissim'sexe, untes,fedpassioficcircacompofitum,&uniuselseincomposicioneconfiftit,hocenim incontrarijs uiribus& qualitatib.ingredientiữzinferentiumąpassioneperfeuerareinfubfiftendouidetur.Quá o b r e m e a q u o r u um i u e r e e f t a b e x t e r n i s , n e c a s c i p l i s , n i m i r u m & u i u e r e , & n o n u i u e r e p a t i p o f l u n t. S e d e a , q u o r u m e s s e i n u i t a c o n f i f t i t, p a s s i o n i s e x p e r t e , n e c e f f a r i u m e f t p e r m a n e r e s e c u n d u um i t a m , quemadmodūuitäuacuitaticonuenit& non pac,quarenus& uitæuacuicas.Icaqficutpermutari, acpaticöpofitoexmateria,forma côtingit,ideftcorpori,neqstamenidmateriæ accidic,ficujuere, areinterire,patiofecundumhocipfum incompofitum exanima,corporeæperspicitur,neqstamé animæidcontingit,quoniam animanoneftaliquidexuita,& nonuitaconflatum,seduicafolum constatquippe,cumfimplexessenciafit,ipfaqsanimæ ratiofitnaturaipfasemouens. Omnisintellectuseftomniformis. Ntelle&ualisesentiaficinpartibuseftconfimilis,ut& inparticulariquolibetintelle&u,uniuer soosintelle&ufintentia:fedintele&u quidem uniuerfaliendaeciam particulariauniuersalifint ratione:inparticulariautčincellectueciāmiuniuersaliafimulacosparticulariasintconditionequa dam particulari: Omnisuitaincorporeaquocunq;mütetur,permanetimmortalis. Nuicisincorporeispcessusmanentibusprioribusinsefirmisefficiuntur,dūnihilfuiõdunt,neos pmutantadsubstantiâinferiorib.exhibendam,quappternedquæindesubfiftūccũaliquagdi tioneueltráfmutationesubsistûr,nechoc qdēefficitur,ficutgeneratiointeritus,gmutationisą particeps,ingéciaigitur,&incorruptibiliafuntaroingčitæ,incorrupcx'ssecīdūhocipfumeffecta. Quomodointelligaturquodeftfuperiusintelectus uigilantiãmultadicatur,fedperfomnūipsum cognitioeius,peritia'oshabetur,fimilinãque f i m i l e c o g n o s c i f o l e t, q u o n i ã o m n i s c o g n i t i o , a s s i m i l a t i o q u æ d á e f t a d h o c i p f u m, q d c o g n o f c i t u r. ens uelutfalsamconcipimuspassionecă, ingentemuidelicetili,quidigrediturextraseipsum,ipfeenimquisquequemadmodumexistenter deftuere,atokperseipfumpoteftreduciadipfumnonensentesuperius,ficabence,sepsipfodigres diensiam traducituradnonens,quodentisipfiuseftcasusatqzruinia. Substantiaincorporeaestubicunqueuult. Aturacorporisnihilimpedit,quinquodfecundum feincorporeum eft,ficubicung,&quò modocunque.Sicucenimcorporiincomprehensibileest,quodmoliseftexpers, nihilą adip  Porphyr de Occasionib. 1931 Quidpatiatur,quidnon. Afsionescircaidfuntomnes,circaqdaccidit&interitus.Víaenim adinteritãeftadmissiopas fionis,acohuiusestinterirecuiuseftpaci.Incerireaūcincorporeūnullű,sedquædãinterilaaur Animaquiapereffentiameftuita,nonmoritur. yIrcaessentiam,cuiusefeconfifticinuita,& cuiuspassionesuitaquædãfunt,nimirum& morg inqualialiquauitauersatur,noninpriuationeuitæfimultota.Quoniamneqspassio,seuuita est omnino, illicadnon uiuendum ,iplaqzillicacciditorbitas. . Silloquodeftmentesuperius,perintelligentiamquidem multa dicuntur:considerantur D temuacuitatequadăintelligentiæ intelligentiameliore;quemadmodum dedormienteper NonensauteftfuperiusenteutDeus,aütinferiuscummateria. Vodnonensdicitur,auciplínosmachinamurab ipsoentealiquandoseparaci,autsuperin telligimus,dum enspossidemus.quapropterfiseparamurabente,ensipsumnon superine telligimusnon enssuperensipsum,fediamnon N sumpertiner:sicincorporeoipsum,quodmollediftenditur,nonficobftaculum & quafinon acec,nequeenim quod incorporeum eftlocalicondicionequo uulc discurritlocusenim cum mole simulexiftit,neqsrurfuscorporumlimitibuscoercecur,quodenimquomodocūqiiacetinmole,in angustumcohiberipoteft,& conditionelocalitransmutacionemagere, quodaucemestamole,mag nitudine prorsusexemptū,hocabójs,quæfuntinmole.continerinonpoteft,a'motuşilocaliper manetliberum.Igiturqualiquadam,certaquedisposicionereperituribi,ubicunquedisponitur,lo. cointereatumubique,tumnusquam simulexiftens,quapropterqualiquadamcertaqueaffe&ione uelsupercælum ,uelinpartemundiquadam apprehenditur:quandoueroinaliquamundipàřecte n e t u r ,n o n o c u l i s q u i d e m a f p i c i t u r, s e d e x o p e r i b u s e i u s p r æ s e n c i a s u a fit h o m i n i b u s m a n i f e s t a s Substantiaincorporeinullocorporecohibetur,fedproducitescamincorporeperquamse corporiapplicát. Vodeftincorpóreū,liquandoincorporecomprehendatur,nonopuseftutitaconcludatur, Q quemadmoduminparcoferæclauduntur,nullumnamquecorpuspoteftipsumficinfeco -hibere,nequeficutüterliquoremaliquemtrahit,& cohibet,autfacum,fedoportetipsum ia nd C TO MmM 4 13. fubftituere cavite   Vniaersalescausenonconuertunturadefe&tus,fedeosadfeconuertunt. V l l a s u b s t a n t i a r u m , q u æ u n i u e r f æ s u n t, a t æ p e r f e c t æ a d f u a m c o n u e r t i t u r g e n i c u r ă . O m n e s autéperfe&tæsubftantiæadgenerantiarediguntur, & idquidemadcorpusufo mundanum. 1. Quomododifferenterestubiq;DeusintelleĀus,animas Euseftubiq ,quianusquamintelle&usest:ubiq etiã,quianufquam anima.deníqueubiqet EX PORPHYRIO DE AB ftinentiaanimalium. . quinetiamcognoscitipsum,quod in feest,naturaliterperpetuo uigilans, atquefom/ num,quohicopprimitur,deprehendit. Cuinonsaneeducationem,nutritionemque trademus consentancã,tūhuius locinaturæ ,tum suiipsiuscognitioni conuenientem, Beatitudononeftdiuinorumcognitio,feduitadiuina. Eatanobiscontemplationonestuerborum accumulatio,disciplinarūquemultitudo,quemad Bmodum aliquisforteputauerit:nequeenim iracomponitur,nequeproquantitaterationūac  quare perfectioquidêaprioribusfecundafubftituitcõferuanseadeadprioraconuersa, defectusautempri oraetiam adpofterioradefledit,eficitqzuthæcipfadiligantasuperioreinterim differentia 1932 Marsil. Ficin -in substitucreuiresabipsainseipsumunioneextramanantes,quibusdescendenscorporiaplícatur,co pulaitaßeiusad corpusperineffabilēquandāsuiipsiusimpleturextenfioné,quamobrénõaliud adem ultūipfuamlligat,fedipfumcerteseipfum,nec igiturefoluitipsum corpusquãdofrangitur autinterit,fèdipsum pociusfemetipsumcnodat,quádoafamiliariergasubiectâaffectionediuercio Quodquidemcūsitperfe&umadanimāestreda&um,animam inquãintellectualem,ideoas círculouoluitur, animaueromundiadintellectumattollitur,intelle&usauteerigituradprincipio Omniaitaqperueniuntadhocipsumab extremisexordientia,quatenus facultassuppecitunicuic perueniūtinquam eleuationeadprimū, illucusą perducta:quæ quidēautexpropinquo,autex.lon ginquoeficifolet.HæcitasnonsolumappetereDeūdicipossunt,sedetiam prouiribusafequizin lubstancijsueroparticularibus,&admultalabipotentibusineftprocliuitasdeflectēsadgenicuras: ideoiginhisdeli&um dicituraccidissezinhisinfidelitaseftdamnata.Hasigiturcontaminatiplama teria,proptereaquodadhácdefledipossint,cũtamenintereaaddiuinūseualeantcôuertisse: quoniãeft&nufquā:fedDeus quidem ubique& nusquãeftcorum omnium ,quæ funtpoft ipsum.Suiueròipfiuseftfolum,ficutest,atqueuult.Intelle&usautem inDeoquidemubica eft,fedineis, quæfuntpoftipsum ,existirnusquapariter, &ubiqueanimatandeminincele&tu,acor Deo ,fimilitereftubiq ,incorporeuero'ubiqeftfimul & nusquá.Corpusaūt& inanima,& inintels lectu , & in D e o , omnia profe & o cūentia,t u m non entia ex D e o sunt,& ideonec tamēipfeDeus eft,cum entia,tum nonentia,necexistitineis.Sienimessetduntaxatubiq ipfequidéomnia,& in o m n i b u s e s s e t. A t q u o n i a m e f t , & n u s q u ã , o m n i a s a n e p e r i p s u m f i u n c f i u n t á ž r u r s u s i n i p f o , q n i a m ipfeexistitubios:diuersarursusabipfo,quoniãipsenusqua.Similiterintele&usubicexistens,atqs n u s q u ã , c a u s a e f t a n i m a r ã , a n i m a s æ s e q u e n t i ū :n e q s i p s e a n i m a e f t , n e g q u æ p o f t a n i m a m , n e q u e i n cisexistic:quoniamuidelicetnon folum ubiqueest,eorumque,quæfuntpoftipsum,sed&nusquã. Rursusanimanequecorpuseft,nequeestincorpore,fedcausacorporis,quoniam dum ubiq eftper corpussimuleft,&incorporenusquam ,processusdeniquniuersiinilluddefinit,quodnec ubiqfi mui, nequenusquamesseualet,sedalternisquibusdamuicibusutriusquefitparticeps. Giustino (filosofo) filosofo e martire cristiano Lingua Segui Modifica Nota disambigua.svg Disambiguazione – "Giustino martire" rimanda qui. Se stai cercando altri martiri con questo nome, vedi San Giustino. San Giustino Justin filozof.jpg Icona russa di san Giustino   Padre della Chiesa e martire    Nascita       Flavia Neapolis, 100 MorteRoma, 163/167 Venerato daTutte le Chiese che ammettono il culto dei santi Santuario principaleCollegiata di San Silvestro Papa, Fabrica di Roma (VT) Ricorrenza1º giugno, 14 aprile (1882–1968) Attributi                                                palma, libro Patrono difilosofi Giustino, conosciuto come Giustino martire o Giustino filosofo (Flavia Neapolis, 100 – Roma, 163/167), è stato un martire cristiano, filosofo e apologeta di lingua greca e latina, autore del Dialogo con Trifone, della Prima apologia dei cristiani e della Seconda apologia dei cristiani. A lui dobbiamo anche la più antica descrizione del rito eucaristico.   Iustini Philosophi et martyris Opera, 1636 Fu uno dei primi filosofi cristiani, e venerato come santo e Padre della Chiesa dai cattolici e dagli ortodossi. La memoria si celebra il 1º giugno.   La Chiesa Cattolica lo considera anche santo patronodei filosofi insieme a Caterina d'Alessandria, pur non essendo nessuno dei due nel novero dei Dottori della Chiesa.  BiografiaModifica Giustino, che spesso si dichiarava in verità samaritano, visto il suo nome e il nome di suo padre - Bacheio - sembra piuttosto di origini latine o greche. La sua famiglia probabilmente si era stabilita da poco in Palestina, al seguito degli eserciti romani che qualche anno prima avevano sconfitto gli Ebrei e distrutto il Tempio di Gerusalemme.   Come riferisce Giustino stesso nel Dialogo con Trifone, venne educato nel paganesimo ed ebbe un'ottima educazione che lo portò ad approfondire i problemi che gli stavano più a cuore, quelli riguardanti la filosofia. Racconta che la sua smania di verità lo portò a frequentare molte scuole filosofiche. Presso gli stoicinon trovò giovamento, in quanto il problema di Dio, per questa filosofia, non era essenziale. Poi frequentò la scuola peripatetica, ma anche presso questi filosofi non trovò quanto cercava. Si recò presso un filosofo pitagorico che lo sollecitò dunque ad approfondire le arti della musica, dell'astronomia e della geometria. Ma Giustino, troppo concentrato nel voler raggiungere la "verità" e la "conoscenza di Dio", reputava tempo sprecato il soffermarsi su tali materie.   Approdo al platonismoModifica Da ultimo frequentò una scuola platonica; un maestro di questa filosofia era da poco giunto nel suo paese e presso questa corrente filosofica trovò quanto credeva di cercare. «Le conoscenze delle realtà incorporee e la contemplazione delle Idee eccitava la mia mente...», dice Giustino. Si convinse che questo lo avrebbe portato presto alla "visione di Dio", che considerava essere lo scopo della filosofia. Decise di ritirarsi in solitudine lontano dalla città, ma in questo luogo appartato, secondo quanto racconta nel prologo del Dialogo con Trifone, incontra un anziano, con cui inizia un serrato dialogo, incentrato su Dio e su cosa fare della propria vita. Dopo aver dichiarato all'anziano la sua idea di Dio «Ciò che è sempre uguale a sé stesso e che è causa di esistenza per tutte le altre realtà, questo è Dio», l'anziano lo porta a ragionare su di un aspetto che forse a Giustino era sfuggito: come possono i filosofi elaborare da soli un pensiero corretto su Dio se non l'hanno né visto né udito? E porta il giovane a meditare sulle persone considerate "gradite a Dio" e dallo stesso "illuminate", i Profeti, che nel tempo avevano parlato di Dio e "profetizzato in Suo nome", in particolare la "venuta del Figlio nel mondo" e la possibilità "attraverso di Lui" di avere una "vera conoscenza del divino".[1]  Conversione al cristianesimoModifica Dopo questa esperienza, Giustino si converte al Cristianesimo e per tutto il resto della sua vita educherà i discepoli, utilizzando gli stessi schemi usati dalle altre scuole filosofiche. Oltre a questo incontro, che fu decisivo per la sua conversione, Giustino indica anche un altro fatto che lo rinfrancava nella fede: «Infatti io stesso, che mi ritenevo soddisfatto delle dottrine di Platone, sentendo che i cristiani erano accusati ma vedendoli impavidi dinanzi alla morte ed a tutti i tormenti ritenuti terribili, mi convincevo che era impossibile che essi vivessero nel vizio e nella concupiscenza».   Giustino viaggiò molto, andò a Roma una prima volta e quando ritornò vi aprì una scuola filosofica a impronta cristiana, i suoi insegnamenti insistevano molto sui fondamenti razionali della fede cristiana. Questo approccio, molto diverso da quelli tradizionali, suscitò numerose controversie sia con gli stessi cristiani sia con alcuni filosofi, specialmente con Crescenzio il cinico.   La sua fede lo porterà a subire una morte violenta. Fu condannato a morte da Giunio Rustico che era prefetto di Roma e amico dell'imperatore Marco Aurelio, fra il 163 e il 167, con queste parole:   «Coloro che si sono rifiutati di sacrificare agli dèi e di sottomettersi all'editto dell'imperatore, siano flagellati e condotti al supplizio della pena capitale, secondo le vigenti leggi.»  Di questo processo esiste ancora il verbale: Martyrium SS.Justini et sociorum VI. Giustino venne decapitato assieme a sei dei suoi discepoli, Caritone e sua sorella Carito, Evelpisto di Cappadocia, Gerace di Frigia (schiavo della corte imperiale), Peone e Liberiano.   Le sue reliquie furono traslate da Roma il 22 settembre 1791, e si trovano attualmente sotto l'altare maggiore della Collegiata di San Silvestro Papa a Fabrica di Roma, in provincia di Viterbo.[2]  Giustino fu il primo di una serie di autori cristiani che intravide in Eraclito, Socrate, Platone e negli stoicidegli autori precristiani, precursori del Cristo e da esso ispirati.[3] Anche lo Spirito Santo è identificato con Dio stesso. A suo avviso, la nozione trinitaria fu introdotta già dal platonismo.[4]  A Giustino si deve la più antica descrizione della liturgia eucaristica. Egli fu il primo ad utilizzare la terminologia filosofica nel pensiero cristiano ed a tentare di conciliare fede e ragione. Si schierò duramente contro la religione pagana ed i suoi miti mentre privilegiò l'incontro con il pensiero filosofico.   La figura di Giustino attrasse l'attenzione di Lev Tolstojil quale nel 1874 dedicò al santo cristiano una breve agiografia, Vita e passione di Giustino filosofo martire[5].   OpereModifica Dialogo con Trifone, Edizioni Paoline, Milano 1988. Le due apologie, Edizioni Paoline, Milano 2004. ( LA ) [Opere], Parisiis, apud Carolum Morellum typographum regium, via Iacobaea ad insigne Fontis, 1636. Il Dialogo con Trifone, la Prima apologia dei cristiani e la Seconda apologia dei cristiani, ci sono pervenute in un manoscritto del 1364, conservato a Parigi.[6]  La Prima apologia dei cristianiModifica «Io, Giustino, di Prisco, figlio di Baccheio, nativi di Flavia Neapoli, città della Siria di Palestina, ho composto questo discorso e questa supplica, in difesa degli uomini di ogni stirpe ingiustamente odiati e perseguitati, io che sono uno di loro.»  (Apologia Prima, I, 2) La Prima apologia dei cristiani è indirizzata all'imperatore Antonino Pio e al Senato romano. In essa compare un tema che sarà ampiamente sviluppato dall'apologetica cristiana, cioè la critica della prassi diffusa presso i tribunali romani, per la quale il solo fatto di appartenere alla religione cristiana era motivo sufficiente di condanna.   Giustino inoltre polemizza con i pagani riguardo ad alcune contraddizioni interne alla società romana, per esempio fa notare come, mentre i cristiani sono condannati a morte perché ritenuti atei, vari filosofi greci e latini sostengono apertamente l'ateismo senza conseguenze.   Interessante, poi, è il fatto che Giustino citi abbondantemente vari brani dei vangeli sinottici per esporre le dottrine cristiane; ancor più notevoli sono i tentativi dell'apologeta per convincere i pagani della verità del Cristianesimo attraverso le citazioni di autori classici sia di filosofia (come Socrate e Platone) che di mitologia (come Omero e la Sibilla) che vengono accostati a brani dei vangeli o dell'Antico Testamento.   «Sia la Sibilla sia Istaspe profetarono la distruzione, attraverso il fuoco, di ciò che è corruttibile.   I filosofi chiamati Stoici insegnano che anche Dio stesso si dissolve nel fuoco, ed affermano che il mondo, dopo una trasformazione, risorgerà. [...]   Se dunque noi sosteniamo alcune teorie simili ai poeti ed ai filosofi da voi onorati [...] perché siamo ingiustamente odiati più di tutti?   Quando diciamo che tutto è stato ordinato e prodotto da Dio, sembreremo sostenere una dottrina di Platone; quando parliamo di distruzione nel fuoco, quella degli Stoici; quando diciamo che le anime degli iniqui sono punitemantenendo la sensibilità anche dopo la morte, e che le anime dei buoni, liberate dalle pene, vivono felici, sembreremo sostenere le stesse teorie di poeti e di filosofi [...]   Quando noi diciamo che il Logos, che è il primogenito di Dio,[7] Gesù Cristo il nostro Maestro, è stato generato senza connubio, e che è stato crocifisso ed è morto e, risorto, è salito al cielo, non portiamo alcuna novità rispetto a quelli che, presso di voi, sono chiamati figli di Zeus.   Voi sapete infatti di quanti figli di Zeus parlino gli scrittori onorati da voi: Ermete, il Logos [...]; Asclepio, che [...] ascese al cielo; Dioniso, che fu dilaniato; Eracle, che si gettò nel fuoco [...] e Bellerofonte, che di tra gli uomini ascese con il cavallo Pegaso.   Se poi, come abbiamo affermato sopra, noi affermiamo che Egli è stato generato da Dio come Logos di Dio stesso, in modo speciale e fuori dalla normale generazione, questa concezione è comune alla vostra, quando dite che Ermete è il Logos messaggero di Zeus.   Se poi qualcuno ci rimproverasse il fatto che Egli fu crocifisso anche questo è comune ai figli di Zeus annoverati prima, i quali, secondo voi, furono soggetti a sofferenze. [...]   Se poi diciamo che è stato generato da una vergine, anche questo sia per voi un elemento comune con Perseo.   Quando affermiamo che Egli ha risanato zoppi e paralitici ed infelici dalla nascita, e che ha resuscitato dei morti, anche in queste affermazioni appariremo concordare con le azioni che la tradizione attribuisce ad Asclepio.»  (Apologia Prima, XX-XXII) L'opera si conclude con una petizione che contiene una lettera dell'imperatore Adriano,[8] la quale serve a Giustino per mostrare come anche un'autorità imperiale era del parere di giudicare i cristiani in base alle loro azioni e non in base a dei pregiudizi; ed una lettera dell'Imperatore Marco Aurelio e del "Miracolo della pioggia" durante le guerre marcomanniche.[9]  Il Dialogo con TrifoneModifica «La filosofia in effetti è il più grande dei beni e il più prezioso agli occhi di Dio, l'unico che a lui ci conduce e a lui ci unisce, e sono davvero uomini di Dio coloro che han volto l'animo alla filosofia [...]»  (Dialogo con Trifone[10]) Oltre alle già citate Prima apologia dei cristiani (grecoἈπολογία πρώτη ὑπὲρ Χριστιανῶν πρὸς Ἀντωνῖνον τὸν Εὐσεβῆ; latino Apologia prima pro Christianis ad Antoninum Pium) e Seconda apologia dei cristiani(greco Ἀπολογία δευτέρα ὑπὲρ τῶν Χριστιανῶν πρὸς τὴν Ρωμαίων σύγκλητον, latino Apologia secunda pro Christianis ad Senatum Romanum), Giustino scrisse il Dialogo con Trifone (greco Πρὸς τρυφῶνα Ἰουδαῖον διάλογος, latino Cum Tryphone Judueo Dialogus), opera dedicata a un certo Marco Pompeo. Il tema è il confronto con il giudaismo, con il quale i cristiani avevano in comune l'Antico Testamento, un terreno utile per un dialogo. Si tratta di un dibattito che si svolge ad Efeso nell'arco di due giorni e vede protagonisti Giustino e Trifone, nel quale è stata individuata da alcuni storici la personalità di un rabbino realmente esistito. Lo scopo di questo dialogo è mostrare la verità del cristianesimo, rispondendo alle principali obiezioni mosse dagli ambienti giudaici. In particolare, Giustino vuole dimostrare che il culto di Gesù non mette in discussione il monoteismo e che le profezie descritte nell'Antico Testamento si siano avverate con l'avvento di Cristo. Il dialogo assume toni sempre rispettosi e amichevoli e non si conclude, com'era consuetudine per gli scritti cristiani, con la richiesta da parte del giudeo del battesimo. A tal proposito, alcuni studiosi si sono chiesti se effettivamente le motivazioni portate avanti da Giustino in questo dialogo fossero valide a convertire un giudeo. Sembra piuttosto verosimile, invece, che quest'opera sia una risposta di Giustino ai dubbi che i cristiani stessi del tempo nutrivano verso la loro fede.   L'opera presenta anche un prologo, in cui Giustino racconta di un suo incontro con un vecchio saggio che lo introdusse al cristianesimo.[11] Giustino lo interroga tra l'altro sulla dottrina, da lui professata, della trasmigrazione delle anime anche dentro corpi animali, esposta nel Timeo platonico. L'interlocutore gli risponde che una tale possibilità non avrebbe senso, perché non darebbe nessuna reminiscenza delle colpe passate e quindi neppure la capacità di pentirsi.[12] In secondo luogo, il vegliardo passa a confutare la dottrina dell'immortalità dell'anima.[13]  Note                                   Modifica ^ Philippe Bobichon, "Filiation divine du Christ et filiation divine des chrétiens dans les écrits de Justin Martyr" in P. de Navascués Benlloch, M. Crespo Losada, A. Sáez Gutiérrez (dir.), Filiación. Cultura pagana, religión de Israel, orígenes del cristianismo, vol. III, Madrid, 2011, pp. 337-378 online ^ La reliquia di San Giustino Martire ( PDF ), su parrocchiafabrica.it. ^ Étienne Gilson, La filosofia nel Medioevo, BUR saggi, p.17, OCLC 1088865057 ^ Giuseppe Girgenti, Giustino Martire: il primo cristiano platonico : con in appendice "Atti del martirio di San Giustino", Pubblicazioni del Centro di Ricerche di Metafisica, Platonismo e filosofia patristica, n. 7, Milano, Vita e pensiero, 1995, p. 108, OCLC 1014519733. URL consultato il 19 novembre 2020. ^ Lev Tolstoj, «Vita e passione di Giustino filosofo martire». In: Lev Tolstòj, Tutti i racconti, a cura di Igor Sibaldi, Milano: Mondadori, Vol. I, pp. 808-810, Collana I Meridiani, III ed., aprile 1998, ISBN 88-04-34454-7 ^ Philippe Bobichon, "Œuvres de Justin Martyr : Le manuscrit de Londres (Musei Britannici Loan 36/13) apographon du manuscrit de Paris (Parisinus Graecus 450)", Scriptorium 57/2 (2004), pp. 157-172 art. online ^ Francesco Barbaro, Apologia seconda di S. Giustino filosofo e martire in favor de' Cristiani al Senato romano traduzione dal greco nell'italiano pubblicata in occasione che mette fine alla sua quaresimale predicazione l'anno 1814., Treviso, Tipografia Trento, 1812, p. 29. URL consultato il 19 novembre 2020. Citazione. Essendo manifesto da tutte l'opere di san Giustino, ch'egli ben sapeva e confessava l'equalità del Verbo col Padre... ^ ( EN ) Lettera di Adriano. ^ ( EN ) Lettera di Marco Aurelio al Senato. ^ Cit. in Jacques Liébaert, Michel Spanneut, Antonio Zani, Introduzione generale allo studio dei Padri della Chiesa, Queriniana, Brescia 1998, p. 47. ISBN 88-399-0101-9. ^ Giuseppe Visonà, introduzione a Saint Justin, Dialogo con Trifone, Paoline, 1988. ^ Étienne Gilson, La filosofia nel Medioevo, BUR Rizzoli.Saggi, n. 5, 6ª edizione, Milano, BUR Rizzoli, marzo 2019, pp. 14,12, OCLC 1088865057. ^ Giuseppe Girgenti, Giustino Martire: il primo cristiano platonico, Vita e Pensiero, 1995, p. 124. BibliografiaModifica Mario Niccoli, GIUSTINO, santo, in Enciclopedia Italiana, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1933.  Modifica su Wikidata Arthur J. Bellinzoni, The Sayings of Jesus in the Writings of Justin Martyr, Leiden, Brill, 1967. Philippe Bobichon, Dialogue avec Tryphon, édition critique. Editions universitaires de Fribourg, 2003, Vol. I: Introduction, Texte grec, Traduction ; Vol. II: Commentaires, Appendices, Indices Étienne Gilson, La Philosophie au Moyen Âge. Des origines patristiques a la fin du XIV siècle, Payot, Paris 1952 (trad. it. La filosofia nel Medioevo. Dalle origini patristiche alla fine del XIV secolo, La Nuova Italia, Scandicci 1997). Johannes Quasten. Patrologia, Marietti, 1987, vol. I, pagine 175-194. Altri progettiModifica Collabora a Wikisource Wikisource contiene una pagina dedicata a Giustino Collabora a Wikiquote Wikiquote contiene citazioni di o su Giustino Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Giustino Collegamenti esterniModifica Giustino, santo, su Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su Wikidata Giustino, in Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2009. Modifica su Wikidata ( EN ) Giustino, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su Wikidata Opere di Giustino / Giustino (altra versione) / Giustino (altra versione), su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Modifica su Wikidata ( EN ) Opere di Giustino, su Open Library, Internet Archive. Modifica su Wikidata ( EN ) Audiolibri di Giustino / Giustino (altra versione) / Giustino (altra versione), su LibriVox. Modifica su Wikidata ( EN ) Giustino, su Goodreads. Modifica su Wikidata ( EN ) Giustino, in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton Company. Modifica su Wikidata Giustino, su Santi, beati e testimoni, santiebeati.it. Modifica su Wikidata Apologia Prima, su monasterovirtuale.it. URL consultato il 14 agosto 2017 (archiviato dall' url originale  il 14 agosto 2017). Apologia Seconda, su monasterovirtuale.it. URL consultato il 14 agosto 2017 (archiviato dall' url originale  il 14 agosto 2017). Santi Caritone e compagni, discepoli di san Giustino, in Santi, beati e testimoni - Enciclopedia dei santi, santiebeati.it. Catechesi, su w2.vatican.va. di papa Benedetto XVI su Giustino tenuta durante l'Udienza generale di mercoledì 21 marzo 2007 Opera Omnia dal Migne Patrologia Graeca con indici analitici e traduzioni (EN, IT, PT), su documentacatholicaomnia.eu. Controllo di autorità                                            VIAF ( EN ) 88878069 · ISNI ( EN ) 0000 0000 6170 7238 · BAV 495/15226 · CERLcnp01317578 · LCCN ( EN ) n80089626 ·GND ( DE ) 118714341 · BNE ( ES ) XX1056724(data) · BNF ( FR ) cb11909273s (data) ·J9U ( EN ,  HE ) 987007300044605171(topic) · NSK ( HR ) 000219284 · CONOR.SI ( SL ) 120480867 · WorldCat Identities( EN ) lccn-n80089626   Portale Biografie   Portale Cristianesimo   Portale Filosofia Ultima modifica 4 mesi fa di 134.0.1.147 PAGINE CORRELATE Patristica studio dei Padri della Chiesa  Taziano il Siro teologo e filosofo siro  Filosofia cristiana WikipediaGiuseppe Girgenti. Girgenti. Keywords: la parola che non s’incatena, Giustino martire, la traduzione di Boezio delle Categorie di Porfirio, traduzione di Marsilio Ficino delle sentenze sugl’intelligibili di Porfirio, henologia platonica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Girgenti” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51757051548/in/dateposted-public/

 

Grice e Girotti – la curva – la filosofia nella storia d’Italia – il caso Gentile -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Adria). Filosofo. Grice: “I like Girotti; for one, he has explored the idea of ‘beauty,’ which Sibley should, but did not!” Si laurea a Padova, sotto Santinello e Berti. Pubblica “Filosofia” (La Scuola, Brescia). Pubblica: “Gouhier e la sua storia storica della filosofia” (Unipress, Padova). “Comunicazione filosofica” “Società Filosofica Italiana.” Altre saggi: “Aristotele, dal platonismo all’autonomi” (Polaris, Faenza); “Modelli di razionalità nella filosofia”, Sapere, Padova; Discorso sui metodi, Pensa, Lecce; Medioevo vs oggi: tra tabula rasa e innatismo, Sapere, Padova; Riforma Gelmini e filosofia Sapere, Padova; Essere e volere, Pensa multimedia, Lecce; Siamo completamente liberi di volere ciò che vogliamo?, Il Giardino dei Pensieri, Bologna); Bellezza e responsabilità, Diogene Multimedia, Bologna; Cercasi anima disperatamente, Diogene Multimedia, Bologna; Giovanni Gentile; Diogene Multimedia, Bologna); “Il fico proibito dell’Eden e la giustificazione del male, Diogene Bologna; Un viaggio intorno all’io: Da Atene a Delfi dialogando, Diogene, Bologna; Sul permesso di morire, Diogene Bologna; Comunità di ricerca, Gouhier in Enciclopedia Filosofica Bompiani,  La collana si chiama Briciole di Filosofia “una storia storica che si fermi all’esibizione dei dati diventa semplice una ‘cronaca’; infatti, nel momento in cui si espone la filosofia di Grice, per poter abbracciare l'oggettività si dovrebbe rimanere all’interno di un'asettica descrizione, quella che Girotti definisce como “fenomenologia dello spirito metafisico.”Girotti distingue “la fenomenologia” (come metodo) e “lo spirito metafisico” (come oggetto). Seguendo il metodo della fenomenologia, il filosofo-storiografo sarebbe invitato a fermarsi alla lettura del dato per descrivere ciò che esso mostra. Seguendo “lo spirito metafisico”, il filosofo- storiografo ritroverebbe l'”oggetto” (topico) della sua ricerca, cioè il “fatto spirituale.”  È su questo “fatto spirituale” che Girotti refina Gouhier in quanto trova che Gouhier, quando ha messo le vesti dello “storico” della “storia storica” della filosofia, sia scivolato in una loro descrizione bergsoniana, ammessa anche da Gouhier. Cf. Grice on the longitudinal history of philosophy. “We should treat those who are dead and great as if they were great and living – it’s a matter of introjecting into his shoes, or sandals!” -- “La distillazione filosofica”  GENTILE , Giovanni.  - Nacque a Castelvetrano, provincia di Trapani, il 29 maggio 1875, ottavo di dieci fratelli, due dei quali erano già morti quando egli vide la luce. Suo padre, che si chiamava anche lui Giovanni, era farmacista; sua madre, Teresa Curti, maestra elementare.  Da quel poco, o non molto, di autobiografico che, sempre restio alla confidenza e all'effusione dell'animo, pur si deduce dagli scritti e, in particolare, dai carteggi con i suoi maestri pisani, Donato Jaja e Alessandro D'Ancona, risulta che il rapporto con i genitori fu intenso, nutrito di forti affetti; sebbene, per altro verso, travagliato, a causa soprattutto, oltre che della morte del fratello Gaetano, delle disavventure professionali del padre. Le quali derivarono dal forte e alquanto anarchico convincimento di non dover sottostare, nella gestione della farmacia di cui era proprietario e titolare, alle nuove regole introdotte dalla legge sanitaria emanata dal governo di F. Crispi; e dalla sua decisione di chiudere perciò la farmacia, che si trovava a Campobello, e ritirarsi con la famiglia nella vicina Castelvetrano, quindi di riaprirla, nel 1897, tornando da solo là dove quella si trovava e subendo un nuovo processo per il reiterato suo rifiuto di sottostare alle nuove regole.  È probabile che nell'animo sensibile, e più impressionabile forse di quanto il G. fosse disposto ad ammettere, del giovinetto che intanto attendeva agli studi scolastici, si formassero, nei confronti della terra siciliana, ossia di un luogo così fortemente segnato da dolori e umiliazioni, sentimenti contrastanti. Non che per le sofferenze che involontariamente aveva inflitto al padre, egli prendesse allora a odiare, o anche soltanto a disistimare, il siciliano Crispi, al quale sempre invece guardò come a un grande personaggio, l'unico degno di rappresentare sul serio, nella decadente Italia di fine secolo, lo spirito autentico del Risorgimento, nelle cui battaglie era stato protagonista.  Ma nei confronti della piccola, e pur amata, patria siciliana, i suoi sentimenti furono in effetti misti; e abbastanza presto si sublimarono, assumendo forma intellettuale, in quelli che, se lo si legge con attenzione, si colgono al fondo del libro che, quando era professore a Pisa e insegnava dalla cattedra che era stata del suo maestro Jaja, egli dedicò a Il tramonto della cultura siciliana (Bologna 1918). Libro singolare, in effetti; che, riboccante di passione e di affetti, concerne un "tramonto" atteso e auspicato di "cose" che, profondamente radicate nella storia e nelle tradizioni dell'isola, meritavano, a suo giudizio, di "tramontare" per sempre risolvendosi in assai più ampio e comprensivo orizzonte di pensieri e di cultura. Nella Sicilia "moderna", con poche eccezioni, il G. non coglieva infatti se non materialismo, illuminismo astratto, anticlericalismo estrinseco, e niente romanticismo, niente idealismo, nessun serio sentimento della vita vissuta nel segno di più alte idealità. E con questi "caratteri" spiegava le difficoltà che l'isola aveva opposto al Risorgimento nazionale e, quindi, alla vera cultura idealistica. Quando perciò, divenuto nel 1906 professore di storia della filosofia nell'Università di Palermo, il G. dette inizio all'insegnamento che doveva condurlo alla prima sistemazione del suo pensiero nell'idealismo attuale, c'era nel suo impegno filosofico qualcosa di missionario, quasi che nel fondo di sé sentisse di operare in partibus infidelium e il suo compito consistesse nel riscattare nel suo idealismo gli assai diversi principî ai quali la Sicilia era rimasta ferma.  Nell'isola il G. non rimase se non il tempo necessario al conseguimento dei primi traguardi scolastici; e quando, finalmente, ottenuta, nel 1893, un anno prima della naturale scadenza, la licenza liceale presso il liceo Ximenes di Trapani, fu ammesso, avendo vinto il relativo concorso, a frequentare la Scuola normale superiore di Pisa, era uno studente critico bensì di molti aspetti della cultura siciliana quello che approdava alla sponda toscana, ma recante tuttavia in sé non pochi segni di quella. Il positivismo che, colorandosi sotto l'influsso di R. Schiattarella di materialismo e anticlericalismo, largamente dominava la cultura siciliana non era passato sul suo animo e sulla sua mente senza lasciare qualche traccia; e se non vi era passato intero, in parte almeno vi era passato: il che spiega l'intransigenza con la quale, compiuta la sua più autentica formazione alla scuola pisana dello Jaja, egli si impegnò a cancellarne, nel suo pensiero, ogni possibile traccia.  Nel componimento scolastico consacrato a U. Foscolo con il quale ottenne la licenza liceale colpiscono in effetti le due tonalità che lo caratterizzano: quella civile, che sarebbe poi rimasta, attraverso la trasfigurazione risorgimentale, al centro dei suoi sentimenti e interessi, e l'altra, antiromantica, appresa alla scuola del suo professore di italiano, V. Pappalardo, e ribadita attraverso lo studio della Storia della letteratura italiana di P. Emiliani Giudici. E si può e si deve, del resto, andare anche oltre. Fu forse allora, infatti, negli anni in cui fu studente in Sicilia, che il G. venne positivamente in contatto con la questione del "fatto"; che certo, nel corso del suo pensiero, subì, rispetto al punto di partenza, trasformazioni così profonde da rendere questo quasi irriconoscibile nel risultato conseguito. Quasi, tuttavia, e non del tutto: perché, assunto nella prospettiva dell'atto, il "fatto" è bensì l'astratto che quello, l'atto, perennemente supera conseguendo e conquistando la sua concretezza, ma, oltre a esser anche la sua "determinatezza", si rivela altresì, nel processo costitutivo dell'atto, indispensabile e necessario: con la conseguenza che, nell'idealismo attuale, la sua è bensì una morte, caratterizzata tuttavia nel senso, piuttosto, della "trasfigurazione".  Non s'insisterà mai abbastanza sull'importanza che, proprio per queste ragioni, la Scuola normale ebbe, con i professori che vi insegnavano, lo Jaja e il D'Ancona, in primo luogo, ma anche A. Crivellucci, nella formazione del giovane allievo siciliano. E ai professori debbono aggiungersi i compagni che egli allora v'incontrò, G. Volpe e F. Pintor, U. Congedo, A. Salza, G. Lombardo Radice.  Anche qui, per altro, avrebbe torto chi semplicemente ritenesse che al fuoco dell'idealismo professato dallo Jaja il G. bruciasse ogni scoria positivista e rapidamente acquistasse la fisionomia che in seguito sarebbe stata la sua. È vero invece che la dicotomia determinatasi in lui quando, in Sicilia, per un verso si accendeva di entusiasmo per il Foscolo e i valori civili da lui rappresentati e per un altro si piegava al culto reverente dei fatti, in qualche modo si ripropose anche a Pisa. Ed egli dovette subirla anche qui perché alla filosofia senza storia né arte che gli veniva insegnata da Jaja corrispondevano la storia e la letteratura senza filosofia che gli provenivano dall'esempio di D'Ancona e di Crivellucci. Il che, naturalmente, non deve sorprendere, perché a predominare, anche a Pisa, era allora il positivismo con il congiunto metodo storico; e con il suo idealismo di derivazione spaventiana Jaja costituiva, in quell'ambiente, piuttosto l'eccezione che non la regola.  La produzione scientifica in cui, senza abbandonare la rivista Helios, che si pubblicava in Sicilia, a Castelvetrano, e alla quale seguitò infatti a non far mancare la sua collaborazione, allora si impegnò appare nettamente scissa fra l'erudizione pura, da una parte, e la filosofia, altrettanto pura, da un'altra (anche se, nel ricercare e commentare i testi di quest'ultima, il giovane G. mostrava chiari i segni del metodo che aveva appreso dal D'Ancona e dal Crivellucci, e che dette del resto chiara prova di sé nella dissertazione accademica Delle commedie di Antonfrancesco Grazzini, detto il Lasca, pubblicata negli Annali della Scuola normale superiore di Pisa, XII [1897]). Le cose più notevoli uscite tuttavia dalla sua penna a conclusione del suo periodo pisano sono, com'è noto, la tesi su Rosmini e Gioberti (1898), discussa con Jaja e quindi, discussa anch'essa con quest'ultimo, la più breve indagine su La filosofia di Marx (1899).  Di questi due libri, il primo costituisce il documento, altrettanto precoce che maturo, di un'indagine condotta nel segno di Bertrando Spaventa e della sua idea relativa alla relazione intercorrente fra il pensiero italiano e quello europeo, fra A. Rosmini e V. Gioberti, da una parte, I. Kant e G.W.F. Hegel da un'altra. Il secondo è invece il documento della capacità dimostrata dal giovane studioso di cogliere il carattere, che a lui sembrava nel fondo idealistico, della filosofia di K. Marx, e altresì di entrare con autorevolezza in uno dei dibattiti - quello concernente la "crisi" del marxismo - fra i più vivi che allora si accendessero nella cultura dell'Europa contemporanea.  Lo studio dedicato a Rosmini e Gioberti, e alla loro polemica fu steso per il conseguimento della laurea in filosofia, che il G. ottenne nel luglio del 1897 con il massimo dei voti e il diritto alla stampa. Quello dedicato a Marx fu composto per la tesi di abilitazione all'insegnamento che egli conseguì l'anno successivo e gli dette la possibilità di un ulteriore periodo di perfezionamento da trascorrere presso l'Istituto di studi superiori di Firenze, dove fu per un anno e dove ebbe modo di entrare in contatto con gli illustri professori che allora vi insegnavano e che, fra gli altri, si chiamavano P. Villari, G. Vitelli, P. Rajna. Fra questi era anche il professore di filosofia, il neokantiano F. Tocco, con il quale i rapporti non furono né semplici né facili, ma con il quale comunque conseguì un nuovo titolo, discutendo una tesi sulla filosofia italiana del periodo che da A. Genovesi va fino a P. Galluppi, e che poi divenne un volume, pubblicato, nelle edizioni de La Critica, da Benedetto Croce (Dal Genovesi al Galluppi: ricerche storiche, Napoli 1903).  Fu, anche quello trascorso a Firenze, un periodo importante; e se il rapporto con il Tocco fu, malgrado asprezze e incomprensioni, proficuo perché lo mise comunque in contatto con un Kant diverso da quello di Bertrando Spaventa mediatogli dall'insegnamento di Jaja; se quello con Villari fu alquanto burrascoso, dei grandi filologi, classico il primo, romanzo il secondo, Vitelli e Rajna dovette conservare per sempre un grato ricordo, se è vero che ancora negli ultimi anni progettò di ristampare, del secondo, il libro su Le fonti dell'Orlando furioso, ossia uno dei monumenti più insigni della vecchia scuola del metodo storico.  Con l'anno trascorso a Firenze, nell'estate 1898 i suoi Lehrjahre avevano termine; e gli anni che seguirono furono non facili; anzi decisamente difficili, perché l'esigenza per lui imperiosa di trovare un lavoro, e perciò un posto nell'insegnamento medio, era pari a quella che egli avvertiva non meno viva e urgente di non interrompere gli studi filosofici, nei quali aveva già realizzato un'impresa notevole, con quei tre lavori, così ricchi di dottrina e di idee. Ma l'esigenza di proseguire senza nocive interruzioni la intrapresa carriera dello studioso implicava l'altra che l'eventuale sede non fosse dispersa nella lontana provincia meridionale e lontana perciò dai centri vivi della cultura nazionale, dalle università e dalla biblioteche. E la preoccupazione principale del G. fu allora, in particolar modo, di non essere costretto a far ritorno nell'isola dalla quale era partito anni innanzi: sì che quando, nell'ottobre 1898, ebbe la sede di Campobasso, con l'incarico di filosofia al liceo Mario Pagano, non poté dirsene del tutto scontento, perché di lì poteva raggiungere di tanto in tanto Napoli, dove la frequentazione del filosofo hegeliano S. Maturi, professore al liceo Umberto e, sopra tutto, di Benedetto Croce, con il quale era entrato in contatto quando ancora era studente del terz'anno, largamente lo compensavano dalla solitudine alla quale era invece, per il resto del tempo, costretto.  Del resto, non fu quello di Campobasso un periodo che si protrasse nel tempo. E già nel novembre 1900 la fortuna girò in suo favore, perché il G. poté ottenere un posto presso il liceo Vittorio Emanuele di Napoli: il che gli dette la possibilità di rendere veramente intrinseci i legami intellettuali con Croce, ossia con il già illustre studioso che, in quello stesso anno, concluso il periodo degli studi soltanto eruditi, giunto al termine della discussione intrapresa con i testi di Marx e dei marxisti, era tornato alla filosofia e aveva dato all'estetica la sua prima sistemazione.  A ragione, e del resto non è un'osservazione peregrina, è stato detto che, se senza Croce non s'intende il G., altrettanto è vero per l'inverso. Ma ancor meglio potrebbe dirsi e ripetersi che, se si prescindesse dalla collaborazione, stretta, intensa e anche conflittuale, che subito si stabilì fra il libero studioso Benedetto Croce e il giovane ex normalista siciliano, poco o niente si capirebbe della cultura italiana che nel bene (secondo alcuni), nel male (secondo altri) per circa mezzo secolo fu dominata dalle loro personalità e dalle loro opere, spesso intrecciate le une alle altre nel segno prima della concordia discors e poi dell'aperta polemica. È difficile decidere chi fra i due, se il più vecchio o il più giovane, giovasse all'altro nella forma più decisiva. E forse, posta così, la questione è posta male, perché, se è vero che dal G. Croce ricevette impulsi a cogliere nel pensiero che si veniva formando in lui le difficoltà che ne nascevano e ad affrontarle nel segno dell'unità, se è vero, d'altra parte, che la collaborazione prestata dal giovane studioso alla formazione della "filosofia dello spirito" non avvenne senza che egli ne traesse grande giovamento per le tante idee con le quali veniva in contatto e la non comune dottrina storica e letteraria con il cui carattere venivano al mondo, anche è vero che in questi "bilanci" del dare e dell'avere c'è sempre qualcosa di angusto, di gretto, di meschino: e conviene perciò, dalle parole "generali", passare di volta in volta ai "fatti" determinati.  Sta comunque di fatto che, mentre il carteggio fra i due si faceva tanto intenso e frequente che non c'era, si può dire, giorno senza che uno scambio intervenisse a proporre osservazioni, suggerimenti, informazioni e, magari, contrasti; mentre l'amicizia si approfondiva nella collaborazione, la diversa indole dei due ingegni ne riusciva non soffocata, ma in qualche modo persino potenziata. E, come si è detto, c'erano, meno infrequenti di quanto non si pensi, anche i contrasti, anche le polemiche, garbate, amichevoli, ma ferme.  Se, per esempio, nella questione concernente il materialismo storico (una filosofia, per il G., e non, come per Croce, un semplice "canone empirico": una filosofia della storia, fondata per altro sullo scambio del trascendentale e dell'empirico), il dissenso rimase senza soluzione, la discussione, che in buona parte si svolse per lettera, su "forma" e "contenuto" nell'estetica condusse i due filosofi a un accordo sempre più stretto; e anche qui è, non solo alquanto meschino, ma sopra tutto difficile chiedersi, e quindi rispondere al quesito, se a condurre il gioco fosse piuttosto il G., o se invece fosse Croce che, via via che veniva impadronendosi dell'intero territorio dell'estetica, suggeriva il tema e controllava lo svolgimento.  Intanto, nel 1903, la realizzazione del progetto di una rivista letteraria, storica e filosofica, che si chiamò La Critica (il primo numero uscì il 20 gennaio), dette a Croce, e al G., lo strumento attraverso il quale la loro collaborazione potesse rendersi visibile e concreta in risultati specifici, attraendo altresì su di sé, fra consensi e dissensi, l'attenzione del mondo culturale italiano e non soltanto italiano, perché l'anno precedente era uscita la prima edizione dell'Estetica crociana e il successo travolgente del libro, andato al di là di ogni previsione, non poteva non ripercuotere sulla rivista appena agli inizi la sua positività.  La Critica divenne così, velocemente, un severo luogo di ricerche, di studi, e anche, spesso, di impietosi esami critici; e, con il diverso accento caratterizzante lo stile del direttore e del suo principale collaboratore, svolse un'opera della quale sarebbe vano voler disconoscere l'importanza. L'oggetto della "critica" era costituito dalla cultura positivistica, che era bensì in declino quando la rivista iniziò la sua battaglia, ma non tanto, tuttavia, che se quell'urto violento e sistematico non si fosse prodotto, avrebbe trovato così presto la via della sua risoluzione. Al contrario, si direbbe: perché, malgrado la non eccelsa qualità dei suoi pensatori, e certa loro tendenza a dividersi fra un alquanto volgare materialismo e vacue accensioni mistiche e "spiritualistiche", il positivismo aveva, nella sua forma di "metodo storico", non soltanto prodotto alcune opere egregie e importanti, ma era penetrato in profondità nella cultura e nel costume dei professori e della classe dirigente del paese. E "positivista" era in sostanza il pensiero democratico e altresì, malgrado il marxismo, quello socialista; positivisti altresì, con maggiore o minore intensità, erano stati, e per qualche tratto ancora erano, gli stessi Croce e G., che in quella tradizione, e non in un'altra, avevano compiuto i primi passi. Con la conseguenza che quella loro battaglia antipositivistica, esaltata, enfatizzata e mitizzata da alcuni, deprezzata e magari deplorata da altri, fu, con le sue luci e le sue ombre, anche una battaglia che giorno dopo giorno i due filosofi amici condussero contro quel loro "sé stesso" che di essere emendato nel senso della nuova filosofia avesse avuto necessità. E molte cose della vecchia "fede" certamente furono lasciate cadere, che qui non occorre elencare. Ma alcune no; e, per fare qualche esempio, certo si deve anche alla severa disciplina erudita appresa alla scuola dei maestri del metodo storico se, come nessun altro ai suoi tempi, Croce esplorò gli angoli più riposti della "regione" seicentesca, e, nel 1911, scrisse il saggio su La novella di Andreuccio da Perugia (Bari), e il G. non disdegnò le minute ricerche rinascimentali che sottese e affiancò ai grandi quadri d'insieme, e rievocò le ombre dei suoi maestri toscani per scrivere il bel libro dedicato a Gino Capponi e la cultura toscana nel secolo decimonono (1922).  Il soggiorno a Napoli fu, nel rapporto con Croce, quale non poteva non essere: importante, fondamentale perché ebbe per conseguenza di renderlo sempre più stretto, sempre più profondo e, perciò, più stimolante. Il che, trattandosi del rapporto di due pensatori che in quello impegnavano la parte più delicata del loro essere, significa altresì che, per ciò stesso che toccava il profondo, scopriva le differenze mentre celebrava le affinità e persino le identità, e potenzialmente conteneva in sé il germe del suo rovesciamento nell'inimicizia. La polemica sul marxismo contribuì a far meglio conoscere a entrambi le rispettive, e diverse, fisionomie intellettuali; e i due ne uscirono, sebbene avessero ciascuno mantenuto il proprio punto di vista, rafforzati nell'amicizia. Ma nel 1907 la polemica epistolare, e rimasta perciò privata, sulla questione della filosofia e della storia della filosofia, aveva già, sotterraneamente, impresso qualche preoccupante vibrazione alla struttura portante dell'edificio; perché a Croce, sebbene avesse alla fine dato il suo consenso alla tesi del G., era anche sembrato di cogliervi qualche tratto di vecchio hegelismo, il cui Idealtypus era rappresentato allora a Napoli da S. Maturi; e questo il G. non l'aveva gradito.  L'amicizia per allora rimase salda, e anzi, via via, si approfondì, perché in realtà non solo la filosofia e la scienza riguardava, ma anche le cose dell'anima e dell'esistenza, che nella battaglia culturale non potevano, del resto, non essere coinvolte. E poiché nella Critica il G. sistematicamente svolgeva il compito che si era assunto di ricostruire le origini della filosofia contemporanea in Italia e intanto, al margine, scriveva note e recensioni per lo più molto polemiche nell'atto stesso in cui, su un altro fronte, conduceva la sua aspra battaglia, in nome della filosofia che non può non essere immanentismo assoluto, contro quello che perciò sembrava a lui l'equivoco del modernismo cattolico: delle eventuali dispute che intanto i due filosofi svolgessero in privato la rivista non risentì e non mostrò il segno.  La collaborazione che essi vi svolgevano e realizzavano fu perciò, per anni e anni, vista e avvertita come se i due fossero quasi una sola persona che, di volta in volta, faceva prevalere il rigore filosofico e l'eleganza letteraria, nutrita anch'essa di rigore. Si aggiunga che allora, fra il 1902 e il 1909, Croce fu impegnato, fuori della Critica, nella costruzione della Filosofia come scienza dello spirito; e che, per parte sua, mentre svolgeva il suo lavoro e si impegnava a seguire i progressi filosofici del suo amico, sul piano teoretico il G. mostrò in quei primi anni la tendenza a restare in disparte.  Avvertiva, e in una lettera del 1908 inviata al Maturi lo scrisse anche in modo esplicito, che se avesse dovuto esprimere intero il pensiero che intanto gli urgeva dentro con Croce sarebbe giunto allo scontro, e avrebbe dovuto combatterlo. Sapeva, o riteneva di sapere, che, svolto con rigore, il tratto spaventiano del suo pensiero avrebbe dato luogo a conseguenze diverse da quelle che Croce stava allora ricavando dalle sue premesse, e sistemando nei suoi libri; e della migliore qualità filosofica di quelle era altrettanto convinto come della necessità che per allora non convenisse mettere in crisi una collaborazione dalla quale frutti copiosi la cultura italiana poteva ancora attendersi. Del resto, la cautela del G. e la sua decisione di lavorare per, e non contro, l'alleanza con Croce non potevano esser tali da impedire che, talvolta anche in pubblico, sebbene non dichiarate, le differenze emergessero; e fu quel che puntualmente avvenne già nel 1903, quando il G. scrisse (e per allora non pubblicò) la prolusione al suo corso libero di filosofia teoretica nell'Università di Napoli.  Da Napoli, dove nell'insieme trascorse un sereno periodo (il 9 maggio 1901 aveva sposato Erminia Nudi, una giovane maestra conosciuta a Campobasso), quasi per intero consacrato all'insegnamento - nel 1902 aveva ottenuto la libera docenza che esercitava nel corso libero di filosofia teoretica presso l'Università e dal 1904 aveva assunto anche un incarico di filosofia e pedagogia presso l'Istituto superiore di magistero Suor Orsola Benincasa -, alla riflessione filosofica, allo studio, nel 1906 il G. passò a Palermo, perché nel frattempo - dopo che un primo concorso per la filosofia teoretica lo aveva visto soccombere per l'ostilità dimostratagli da Tocco, e anche a causa della debole difesa fattane da A. Labriola, gravemente ammalato e quasi impossibilitato a parlare - aveva vinto la cattedra di storia della filosofia per quella Università. Così, senza averlo sul serio desiderato, era di nuovo approdato alla sponda siciliana; e meno che mai lo aveva desiderato Croce, che non solo vedeva interrotta una consuetudine di vita, di collaborazione e di lavoro che doveva a ogni costo essere difesa, ma anche temeva che il nuovo ambiente potesse distrarre in vario modo l'amico e, sotto diversi punti di vista, allontanarlo da lui.  Il timore di Croce non aveva allora nessun altro fondamento che sé stesso e l'intuizione di cui si alimentava. Era infatti qualcosa come una congettura, una supposizione. Ma la congettura, la supposizione, e il timore, non si rivelarono tuttavia per intero infondati; perché, come forse era inevitabile, nel nuovo ambiente il G. non poteva non ottenere la posizione preminente e da protagonista che non solo il prestigio di cui godeva, ma anche e sopra tutto la forte personalità della quale era dotato, non potevano non assicurargli. La sua posizione divenne preminente nell'Università e, quindi, nella Biblioteca filosofica che, per le iniziative di G. Amato Pojero che ne aveva la cura principale, divenne un centro vivo di dibattiti, nel quale l'idealismo attuale definì per la prima volta sé stesso e vide la luce. Anticipato in modo più che parziale con il breve saggio che nel 1909 il G. dedicò a Le forme assolute dello spirito e, senza presentarlo in altra sede, incluse nel volume su Il modernismo e i rapporti tra religione e filosofia (1909) come sua ideale premessa (e conclusione), l'idealismo attuale trovò la sua prima espressione nella memoria, letta presso la Biblioteca filosofica nel dicembre del 1911, su L'atto del pensare come atto puro (Palermo 1912), quindi nell'altra su Il metodo dell'immanenza, e ancora nelle pagine consacrate a La riforma della dialettica hegeliana (1913) e a Bertrando Spaventa che l'aveva avviata, nonché nel Sommario di pedagogia come scienza filosofica, il cui primo volume (1913) contiene in effetti una sorta di teoria generale dello spirito sotto specie pedagogica.  Un volume, questo, che quando lo lesse in bozze Croce giudicò con qualche severità, perché gli parve che non solo il G. si fosse espresso con nettezza contro la possibilità che tra le forme dello spirito potesse darsi la "distinzione", ma anche che, senza nominarlo e perciò con tanta maggiore asprezza, avesse polemizzato proprio con lui che nella distinzione aveva fatto e stava facendo consistere il criterio supremo dell'intelligenza della realtà. Da queste dichiarazioni di autonomia e di indipendenza, che, implicitamente (ma in modo per altro trasparente), contenevano qualcosa come una sfida, Croce non poteva non essere preoccupato; e tanto più in quanto il senso di indipendenza e di autonomia era confermato da quel che scrivevano gli allievi siciliani del G.: V. Fazio-Allmayer e A. Omodeo, A. Saitta e F. Albeggiani; e anche G. De Ruggiero, che siciliano e residente in Sicilia non era, ma attualista sì, anzi ultrattualista, come ci teneva a dichiararsi e come aveva del resto dimostrato con la memoria, pubblicata anch'essa nell'Annuario della Biblioteca filosofica, su La scienza come esperienza assoluta (1913).  La pubblicazione degli scritti attualisti del G. e le varie manifestazioni che allora innegabilmente si ebbero del formarsi di una "scuola" che in quella forma d'idealismo riconosceva l'unica rigorosa e, perciò, possibile, non potevano non provocare prima o poi la reazione di Croce. Il quale aveva bensì, fra il 1908 e il 1909, fatto il possibile perché il G. tornasse a Napoli come professore nell'Università, convinto che in tal modo la collaborazione sarebbe tornata alle vecchie forme senza le perturbazioni provocate dalla "scuola" e dagli spiriti non sempre positivi che, in effetti, vi si formano o tendono a formarvisi. Ma il suo tentativo non ebbe, com'è noto, successo, perché forti e insormontabili furono le resistenze che l'ambiente accademico napoletano dimostrò all'accettazione della sua proposta. E così accadde che, persa quella battaglia nella quale aveva speso molto del suo prestigio e delle sue energie, quando una grave sciagura privata gli dette il senso che tutto ormai, nella sua vita dovesse giungere all'estremo chiarimento, Croce decidesse di rendere pubblico il "dissidio" filosofico che lo divideva dall'idealismo attuale; e scrisse, per la Voce di G. Prezzolini, un articolo in forma di lettera (ottobre 1913), nel quale i termini del dissenso erano definiti con amichevole fermezza. La scelta della Voce significava, nelle intenzioni crociane, che la disputa non riguardava LaCritica, ossia il luogo della loro comune opera culturale; e si svolgeva, per così dire, al margine di questa. Ma la decisione di mettere in piazza il loro dissenso ferì in modo particolare il G.: anche se, decisa nella sostanza e orientata non a sanare, bensì a ulteriormente precisare, il dissenso, la replica che anche lui affidò alla Voce, si presentasse come la risposta amichevole a un'amichevole richiesta di chiarimenti teoretici. Il dissenso era comunque stato dichiarato; e non mancò di suscitare molta impressione: tanto più che, replicando a sua volta (dicembre 1913), con fermezza, Croce prese atto di un divario che concerneva non la periferia, ma il centro stesso delle loro filosofie.  Il periodo siciliano fu comunque fecondo di molto lavoro. E oltre ad aver gettato le basi dell'idealismo attuale, il G. svolse infatti e approfondì alcuni essenziali aspetti della scolastica e del Rinascimento; e scrisse di G. Bruno, di Bernardino Telesio, di G. Vico, mentre la collaborazione alla Criticacontinuava con il consueto ritmo e, dopo la tempesta teoretica del 1913, nei rapporti con Croce era tornata la calma. Deve anzi dirsi che, malgrado varie traversie di natura familiare e qualche apprensione per la sua salute, fu quello un periodo nella sostanza sereno, sebbene non possa escludersi che egli lo considerasse provvisorio e in cuor suo non desiderasse una sede diversa e migliore. Quando infatti, nel 1913, a Napoli e a Roma si liberarono due cattedre, la prima università fu subito scartata, perché vivo era ancora il ricordo della sconfitta patitavi quattro anni prima, ma la seconda no; e fu invece presa in seria considerazione. Il G. riteneva infatti che l'opposizione di G. Barzellotti, titolare della cattedra di storia della filosofia, potesse essere in qualche modo aggirata e vinta. Ma il calcolo risultò errato: a Roma per allora non fu chiamato; e dopo un tentativo, esperito senza troppa convinzione, di essere chiamato a Torino, città molto amata da Croce, che non avrebbe visto male un suo trasferimento colà, ma assai meno da lui, che la considerava lontana, fredda ed estranea ai suoi gusti e alle sue abitudini, scelse infine di andare a Pisa, dove sarebbe succeduto a D. Jaja e, con l'atmosfera della giovinezza, anche avrebbe ritrovato la Scuola normale, luogo e fonte inesausta di cari e intensi ricordi.  A Pisa tornò con un piglio e una convinzione ben diversi da quelli con i quali vi era approdato, giovane e sperduto studente siciliano, tanti anni prima. Vi approdò con il piglio del pensatore che, ormai sicuro di sé e delle sue forze, sente di dover svolgere una missione non solo filosofica, ma anche, lato sensu, civile e politica. La forte accentuazione teoretica che nei precedenti anni aveva conferito alle sue pagine, anche di storia della filosofia, non aveva mai spento in lui, se mai aveva rafforzata, la convinzione spaventiana che ricostruire la filosofia italiana nella sua storia significasse in realtà contribuire, con le armi della cultura, alla prosecuzione del Risorgimento, riaccenderne negli animi la consapevolezza, battersi contro la corruzione letteraria che in Italia si era per secoli fatalmente intrecciata con lo splendore delle arti. Egli faceva insomma vibrare e risuonare un corda che a Jaja era rimasta sostanzialmente estranea, ma non a D'Ancona, ebreo e fervente patriota risorgimentale, e nemmeno, nei suoi modi particolari, al Crivellucci. Del resto, la prolusione pisana è del 1914; e con gli avvenimenti che lo caratterizzarono e con quelli che ne sarebbero seguiti, quell'anno fatale avrebbe ben presto provveduto a trasformare dal di dentro atteggiamenti, abitudini, costumi, ad accelerare il ritmo delle passioni, talvolta in superficie, altre volte in profondità, a rendere esplicito e visibile quel che per l'innanzi fosse rimasto chiuso nel segreto delle coscienze.  A Pisa, per altro, il G. non stette a lungo, perché già nel 1918 egli passava all'Università di Roma per ricoprirvi la cattedra di storia della filosofia, dalla quale, sempre nella stessa Università, sarebbe passato, nel 1925, a quella di filosofia teoretica, lasciata libera da Bernardino Varisco.  Ma, a parte le passioni e anche le incertezze e le angosce politiche che li caratterizzarono, quelli pisani furono anni importanti: per i risultati filosofici innanzi tutto, che il G. vi conseguì. Fu allora, infatti, che, dopo averne offerto un primo saggio nel Sommario di pedagogia, e quindi nelle memorie palermitane, egli procedette senz'altro a tracciare le linee della Teoria generale dello spirito come atto puro, nata dalla scuola nel 1916 e pubblicata la prima volta quello stesso anno: così come dalla scuola nacquero in quel medesimo tempo i Fondamenti della filosofia del diritto, nei quali, espressione suprema dell'unità, e unità esso stesso, l'atto era indagato nella sua dimensione, oltre che teoretica, pratica, senza che fra l'una e l'altra potesse operarsi la distinzione per la quale, in Croce, i distinti erano i distinti. Ma a Pisa il G. avviò anche la composizione del Sistema di logica come teoria del conoscere, la sua opera in ogni senso più rilevante: della quale scrisse il primo volume che, nato anch'esso dalla scuola, vide la luce nel 1917 e dovette attendere fino al 1923 per avere il suo compimento nel secondo volume, dedicato alla logica del concreto.  Agli anni di Pisa appartiene anche, con sicurezza, Il tramonto della cultura siciliana, un libro del quale si è già avuto modo di accennare come presenti un duplice carattere, di condanna della cultura siciliana positivistica, materialistica e, deteriori sensu, illuministica; e di speranza: la speranza che nel segno dell'idealismo attuale, nato nell'isola per virtù di un siciliano, quella si riscattasse ed entrasse a pieno titolo nella civiltà moderna.  Gli anni pisani furono quelli del primo conflitto mondiale, di quel dramma, anzi di quella tragedia, dopo la cui conclusione niente sarebbe più stato come prima. Il G. li visse con passione, fra esaltazioni e depressioni, come ogni altro italiano del suo ceto, della sua condizione e della sua cultura; ma anche con il sempre più netto convincimento che, all'inizio, non era stato scevro di dubbi anche forti, che quella di entrare in guerra a fianco della Francia e della Gran Bretagna contro gli Imperi centrali fosse stata una giusta decisione, una sorta di chiamata del destino risorgimentale della nazione. Il G. non era nazionalista, e meno che mai era disposto a vedere nell'evento bellico la manifestazione delle forze sanamente irrazionali che spezzano l'ordine stabilito dalla logica, sconvolgendo i suoi concetti. Dalle deteriori manifestazioni di misticismo e vario sensualismo, così frequenti allora nella "cultura" italiana e non soltanto italiana, si tenne sempre discosto. Ma quando gli indugi diplomatici furono rotti e la guerra fu dichiarata, egli scoprì in sé l'interventista che all'inizio non era stato, e progressivamente venne intensificando e attualizzando le critiche che nei confronti dell'Italia e dell'assetto politico e morale che si era dato dopo la conclusione del Risorgimento erano già in lui, allo stato potenziale e, in qualche caso, più che potenziale. Le essenzializzò e attualizzò perché, senza con ciò diventare nazionalista e seguitando anzi a oppugnare ogni idea della nazione che attingesse a concezioni naturalistiche o, peggio, razzistiche, il suo principio, gli parve tuttavia che la prova terribile alla quale l'Italia aveva deciso di sottoporsi richiedeva che di lì in avanti i piccoli pensieri cedessero a pensieri grandi e che quel che s'era ottenuto sui campi di battaglia non fosse poi amministrato dai politici di sempre, maestri non di drammi, ma di mediocri commedie.  Di qui, anche in questo campo così pericolosamente esposto ai venti violenti delle passioni, delle "cupidigie", per dirla con il poeta, e dei "brividi", la ragione profonda dell'ulteriore distacco che allora, giorno dopo giorno, si venne compiendo da Croce. Il quale, come si sa, non solo era stato contrario alla guerra, condividendo le realistiche preoccupazioni di G. Giolitti e di quanti, come lui, erano persuasi che, vinta o persa, la guerra avrebbe comunque rappresentato per l'Italia un troppo grave rischio. Ma anche aveva dichiarato che avrebbe considerato una grave onta per il popolo italiano se all'improvviso i suoi governanti avessero stracciati i trattati e si fossero schierati dalla parte di coloro contro i quali avrebbero, semmai, dovuto combattere. Anche nei confronti della guerra che, quando fu dichiarata, li vide entrambi consapevoli che il loro posto non potesse essere se non quello che l'Italia aveva scelto per sé, l'atteggiamento dei due filosofi fu, nella sostanza, assai diverso. E Croce considerava la guerra alla stregua di un evento irresistibile della natura, ne vedeva la trama violentemente economica e utilitaria, così che sempre il suo monito fu che non si sottomettesse alla sua particolare logica la logica dei superiori valori della verità e della cultura, del pensiero e dell'arte.  Diverso fu, invece l'atteggiamento del Gentile. Senza che perciò si inducesse a passare il segno e a "farsi", come Croce diceva, "l'animo di guerra", egli la considerò tuttavia come una grande occasione rigeneratrice, come un evento assoluto, recante in sé il segno di una tal quale superiore provvidenzialità. Mentre Croce confidava, o quanto meno sperava, che nell'Europa di domani il meglio dell'Europa di ieri fosse conservato e potenziato, e nella religione degli studi, nella civiltà dei rapporti intellettuali, nell'universalità delle idee, gli odi nazionali si placassero e depurassero, il G. inclinava viceversa, lui che nazionalista non era mai stato e nemmeno a rigore era diventato, verso i toni dell'esaltazione nazionale. E fu allora che, per la forza di queste sue convinzioni e passioni, si preparò la sua futura adesione al fascismo, nel quale, mettendo come fra parentesi le molte cose che certo non appartenevano al suo costume, egli credette di scorgere, e in questo convincimento fu poi irremovibile, lo strumento del riscatto "risorgimentale" dell'Italia.  Il sistema filosofico che fino a quel punto il G. aveva elaborato negli scritti dei quali qui sopra si è detto era per intero incentrato su questo concetto: che, come la filosofia antica e quella medievale e moderna (che non riusciva perciò a esser tale), era rimasta ferma, anche nelle sue dimensioni idealistiche, a un concetto intellettualistico e soltanto descrittivo del concetto, del soggetto e della sua attività, con la conseguenza che il concetto non era autoconcetto, e cioè la sua eterna autogenerazione e autoproduzione, nell'idealismo invece, che per questa ragione meritava di essere definito "attuale", questo proprio avveniva. E il concetto era autoconcetto, il soggetto, soggetto, e non concetto (astratto) del soggetto: non era una sorta di res naturalis che il concetto appunto si limiti a contemplare, a descrivere nel suo astratto organismo logico, e non a produrre nell'atto del suo atto. Di qui la tesi, caratteristica di questo idealismo, che nella sua concretezza e attualità, l'atto non può trascendere il suo atto, questa trascendenza dell'atto non potendo essere se non, essa stessa, atto; e l'altra tesi secondo cui la teoria che dell'atto intendesse darsi è perciò una teoria vera (secondo il G.) ma astratta: una teoria astratta del concreto (vero anch'esso, naturalmente: e a fortiori). E di qui l'interna, forte tensione di questa filosofia; che, per un verso (e sopra tutto nelle sue prime formulazioni) era orientata a svalutare e criticare ogni teoria che, in quanto soltanto contemplativa e descrittiva, fosse perciò incapace di cogliere l'atto se non come un "fatto", e dunque come il suo opposto, falsità ed errore, se l'atto era viceversa verità e concretezza. Ma per un verso (e questo accade sopra tutto nel secondo volume del Sistema di logica, non senza che per tale via il G. provasse a rispondere al rilievo di ineffabilità e misticismo rivoltogli da Croce fin dal 1913) la questione dell'astratto e del fatto assumeva un altro volto, e l'atto era bensì celebrato nella sua non obiettivabile attualità, ma il fatto e l'astratto gli si rivelavano a loro volta indispensabili, erano (per dirla in modo tecnico) il suo opposto, ma anche il suo diverso, un grado attraverso il quale, sia pure dissolvendolo, il concreto era, nel e per il suo costituirsi, costretto a idealmente passare. Il punto critico di questa filosofia sta qui: nel suo essere, non, come tante volte si è detto, misticismo e indistinzione, ma nel porsi come una sintesi, attuale e intrascendibile, di opposti, senza poter rinunziare - donde l'ambiguità - a trattare gli opposti come "gradi", e cioè come "diversi" o "distinti": nell'essere insomma una teoria dell'unità che in eterno supera la distinzione, e della distinzione che, proprio perché è in eterno superata, non può veramente uscire dal quadro e si rivela come la condizione insostituibile della sua possibilità.  Verità del concreto, dunque: ma anche dell'astratto; che nelle opere del secondo attualismo, e cioè nel Sistema di logica e oltre, si rivela non, quale all'inizio era, come natura, immobilità, impenetrabile assenza di coscienza, ma come circolo e mediazione, punto semovente che parte da sé e per fare ritorno a sé: come circolo, e perché no, dunque, come esso stesso logo concreto? Come logo concreto; e perché no, dunque, come logo astratto, se questo è mediazione e coscienza, e niente più di questo il logo concreto può essere?  A Pisa, negli anni della Grande Guerra, il G. rivelò a sé stesso la passione politica che gli stava dentro come assopita; e assunse perciò una dimensione che non era più soltanto quella del professore che parla dalla cattedra e magari fa conferenze, ma era bensì quella dell'"intellettuale" militante, che si rivela al grande pubblico attraverso i giornali quotidiani. Ai quali in effetti, assumendo una consuetudine che avrebbe, con diversa intensità (nel tempo), mantenuta fino alla fine della sua vita, il G. allora prese a collaborare: tanto che quando, a guerra finita, raccolse in un volume che intitolò Guerra e fede (Napoli 1919) quanto aveva scritto durante il suo corso, il libro risultò tutt'altro che smilzo, e comunque più consistente di quello che lo seguì, e nel quale, con il titolo Dopo la vittoria (Roma 1920), sistemò gli articoli composti nei due anni iniziali dell'agitato, inquieto, drammatico dopoguerra. Un periodo, quest'ultimo, nel quale sempre più decisamente il G. cercò la sua parte e venne via via inasprendo la sua posizione, perché l'idea natagli nei passati anni, durante le sue meditazioni sulla storia d'Italia e sulla fatale dicotomia che nell'età del Rinascimento si era prodotta fra lo splendore artistico e la decadenza politica e morale, quest'idea doveva ora essere messa alla prova della realtà, doveva diventare uno strumento forte e tagliente di lotta e di azione politica. Il che implicava che, pur seguitando a dichiararsi liberale, sempre più egli sentiva di doversi opporre al liberalismo quale si era riflesso nel costume politico italiano, nella degenerazione dei metodi parlamentari, nell'arte del compromesso e del perenne rinvio delle decisioni: un'arte nella quale maestro insuperabile gli sembrava fosse il Giolitti, che per lui fu allora non il ministro, come G. Salvemini l'aveva in precedenza definito, della "malavita", ma l'artista di ogni cosa che fosse mediocre, si contentasse della mediocrità e rinunziasse a volare alto nei cieli della grande politica.  Furono, questi, mesi drammatici, che egli visse in uno stato d'animo teso e agitato, e nel segno di un'attività senza soste, che dette a tratti l'impressione di essersi risolta in frenetico attivismo. Che certo non si placò quando nel 1920 Croce fu chiamato da Giolitti a ricoprire nel governo la carica di ministro dell'Istruzione pubblica e dette la sua opera alla riforma della scuola media e introdusse sia l'esame di Stato, sia l'insegnamento della religione. Alle cose della scuola il G. aveva, per parte sua, cominciato a interessarsi da molto tempo: ossia fin da quando, giovane professore nel liceo di Campobasso, s'era reso conto di quante manchevolezze l'affliggessero. E poi nel 1913 aveva pubblicato il Sommario di pedagogia, così che a giusto titolo era, in quel campo, considerato un'autorità; che, divenuto ministro, Croce non tardò a riconoscere, chiamandolo a presiedere "la commissione per lo studio dell'autonomia universitaria e dell'esame di Stato", nonché "a far parte di quella per la riforma dei programmi presieduta da Vitelli", nominandolo commissario dell'Istituto femminile superiore di magistero di Roma e confermandolo, nel 1921, nel Consiglio superiore dell'istruzione pubblica (Turi, p. 294).  A Croce, del resto, il G. non fece mancare il suo appoggio, pieno e incondizionato. Almeno nei risultati da raggiungere, e nelle conseguenze che occorreva trarre da alcune generali premesse, i due filosofi amici concordavano senza riserve. E nel sostenere, per esempio, la tesi che la religione dovesse costituire materia d'insegnamento, il suo pensiero non differiva da quello di Croce se non per il "modo" e per la diversa posizione che alla religione egli riserva nel sistema dello spirito. La sua idea era insomma che, come per pervenire alla pienezza del suo sé nella filosofia, lo spirito passa attraverso le fasi ideali, e contrapposte, dell'arte (soggetto) e della religione (oggetto), così anche nella scuola questo ritmo dovesse trovare una sorta di trascrizione temporale o fenomenologica, quasi che, per giungere alla filosofia, anche lì si dovesse percorrere la regione del mito di cui le religioni s'interessano. Ma la religione della quale il progetto ministeriale prevedeva l'insegnamento era quella cristiana e cattolica, la più perfetta, per il G., di tutte le religioni quando, appunto, proprio nella forma assunta dal cattolicesimo la si fosse considerata. Era, questa, della perfezione cattolica, un'idea che il G. aveva sostenuto quando, nei primi anni del secolo vigorosamente aveva polemizzato con i modernisti cattolici. E, per questo riguardo (oltre che per quello concernente la struttura dello spirito), il suo accordo con Croce era piuttosto sulle conclusioni che non sul "metodo". Che è poi quello stesso che si dà a vedere nell'idea che presiedette all'introduzione dell'esame di Stato, perché se, nel propugnarlo, il G. vi implicava il concetto secondo cui in esso lo Stato realizzava una delle dimensioni della sua "eticità", Croce non vi vedeva se non uno strumento di controllo e a questa luce ne interpretava la necessità.  La cosa più singolare fu allora che, nell'atto in cui più stretto si rivelava il legame dei due filosofi impegnati in una importante impresa pratica, il loro dissenso filosofico tornò invece a farsi acuto e a complicarsi con quello politico generale, perché nei confronti del fascismo la reazione di Croce fu bensì, agli inizi, cauta e anche esitante, ma certo in quel movimento egli non vide nemmeno una piccola parte delle idealità che il G. riteneva gli fossero intrinseche e immanenti.  Del resto, nel 1920, dopo due anni che era salito sulla cattedra romana, il G. fondò, assumendone la direzione, il Giornale critico della filosofia italiana: una rivista di sola filosofia che anche per questo suo carattere non si contrapponeva in ogni senso alla Critica, ma in un certo senso sì, anche perché nella nuova rivista gli scolari che subito si erano stretti intorno al nuovo professore, e in lui vedevano il sole della filosofia mondiale, riconobbero l'organo della scuola. E questo, come si sa, era il punto che Croce meno apprezzava ed era disposto a perdonare.  Il momento decisivo della vita del G. venne quando, caduto il governo del Giolitti nel quale Croce aveva ricoperto l'incarico di ministro, e succedutogli uno presieduto da I. Bonomi con O.M. Corbino all'Istruzione pubblica, egli ebbe modo di riflettere sulle mille difficoltà che dal mondo politico e parlamentare sempre sarebbero state opposte a ogni tentativo che si fosse fatto d'introdurre nella scuola una seria riforma. La disistima che, in linea generale, già da molto tempo il G. nutriva nei confronti della classe dirigente italiana trovava così, nella recente esperienza fatta quando Croce era al governo con Giolitti, nuovo alimento. E può ben darsi che anche da questo egli fosse indotto a guardare con sempre più grande favore al movimento fascista e a considerare con politica indulgenza la violenza e le illegalità di cui nutriva la sua azione.  I documenti necessari a rendere certezza questa, che è solo una congettura, mancano, che si sappia. Ma non è improbabile che, appunto, riflettendo sulle recenti esperienze, il G. allora si persuadesse che, nella questione della scuola come, in generale, in quella concernente il governo del paese, il regime parlamentare dovesse cedere il campo a un sistema politico diverso, fondato sulla rapidità delle decisioni e sulla forza necessaria a tradurle nella realtà. E altresì deve aggiungersi che, nel pensare così e nell'orientare in questa direzione le sue scelte politiche, come molti altri egli fu forse tratto in inganno dalla scarsa esperienza che, nel complesso, aveva non solo della politica, ma anche della storia; che, se gli fosse stata meglio nota, gli avrebbe con ogni probabilità in segnato che la politica è un'arte difficile, complessa e insidiosa, non in quanto si svolga in un Parlamento e da questo attenda il consenso, ma perché è politica, e ha a che fare con le passioni e gli interessi, nonché con il loro governo.  Come che sia, l'occasione di mettere alla prova i convincimenti che via via gli si erano formati dentro venne quando, avendo ricevuto dal sovrano l'incarico di formare il suo governo, che succedeva così a quello per breve tempo presieduto da L. Facta, Benito Mussolini scelse infine come ministro della Pubblica Istruzione proprio il Gentile. È stato detto da taluni che, entrando in quel governo come indipendente e soltanto per le sue competenze non politiche ma tecniche, il G. accettava da Mussolini quel che avrebbe benissimo potuto accettare da Giolitti e da chiunque gli avesse offerto un'analoga occasione. Ma, sebbene egli non avesse ancora dichiarato il suo consenso esplicito al fascismo, e fascista ancora non potesse perciò essere detto, è pur vero che quel che pensava di Giolitti e della tradizionale classe politica italiana non gli avrebbe forse consentito di collaborare nel governo con uomini per i quali nutriva disprezzo, e non stima. Nel governo in cui entrava il G. poteva infatti contare sugli ampi poteri che, nel dargli fiducia, il Parlamento aveva concesso a Mussolini, che governò infatti soprattutto con i decreti legge e con facilità poteva aggirare le opposizioni; e di questo, che considerava un vantaggio, egli si giovò con larghezza e altrettanta fermezza, perché, appunto, al governo era andato con l'idea di realizzare comunque la riforma; e a realizzarla era deciso.  Non è possibile, in poco spazio, raccontare le vicende complesse e intricate alle quali il progetto gentiliano della riforma dette luogo. E basteranno due rilievi: uno rivolto a ricordare la struttura a cui la riforma tendeva e alla quale infine mise capo, l'altro diretto a rievocare le fiere critiche che essa suscitò, non solo nel mondo politico, ma anche in quello della scuola. La struttura della scuola riformata prevedeva una scuola elementare obbligatoria per tutti, nella quale il senso della tradizione nazionale, della religione e della letteratura tenessero il centro e costituissero il criterio per la formazione del giovane, al quale certo non sarebbero mancate le nozioni elementari dell'aritmetica e della scienza. Accanto al ginnasio-liceo, destinato a formare le future élites dirigenti e, comunque, gli strati più alti della popolazione, la scuola riformata prevedeva quattro indirizzi fondamentali a cui, come ha scritto S. Romano, corrispondevano "quattro distinti ruoli sociali" (p. 174); e altresì prevedeva che l'educazione impartita nelle elementari sarebbe stata completata, per i figli del popolo, con tre anni di complementare, mentre una scuola industriale e tecnico-commerciale, integrata da un istituto tecnico per chi avesse inteso proseguire nello studio, avrebbe corrisposto alle esigenze formative di queste professioni, insieme con una scuola magistrale, proseguibile in un magistero universitario, per certe parti analogo alla facoltà di lettere e filosofia.  Le critiche che a questo modello di scuola, qui sommariamente descritto, furono rivolte posero subito in rilievo il carattere conservatore, statico e anche classista di una struttura a cui faceva in effetti riscontro l'idea di una società immodificabile nei suoi equilibri politici ed economici. E forti furono subito, da parte di non pochi, le riserve avanzate circa il ruolo riservato al ginnasio-liceo, nel quale lo studio delle due lingue classiche, il latino e il greco, prevaleva su quello delle lingue moderne e, nel complesso, la parte riservata alle lettere appariva rispetto a quella fatta alle scienze naturali, predominante. Si aggiungano le critiche rivolte all'abbinamento, nel liceo, della filosofia e della storia, e anche della matematica e della fisica; e sopra tutto al primo, che sconvolgeva antiche abitudini sia degli storici, sia dei filosofi, alquanto astrattamente dedotto da una teoria e che in concreto non aveva, e non ebbe, il potere di rendere filosofi gli storici, e storici i filosofi. E infine non si dimentichi che la riforma non piacque a molti cattolici, scontenti del potere che lo Stato veniva a esercitare sulle scuole private, e a non pochi laici, scontenti essi pure che la religione cattolica fosse diventata materia obbligatoria per tutti i giovani cittadini dello Stato italiano.  Accanto alle molte critiche, occorre tuttavia anche ricordare e sottolineare che la riforma gentiliana nasceva da una visione coerentemente unitaria, e certo non era la veste di Arlecchino che altrimenti (e come poi è accaduto) avrebbe rischiato di essere: tante idee di diversa provenienza mal combinate e peggio tenute insieme dallo spirito deteriore del compromesso politico. Per quanto concerne il rilievo (certo non infondato) di elitismo e persino di classismo, conviene dimenticare il "nodo" che, per parafrasare Dante, tiene al di qua di ogni ragionevole traguardo chi, ripugnando all'idea di fare delle classi economiche più forti le vere destinatarie dell'alta cultura, intesa perciò come strumento di conservazione e di trasmissione del potere, con alquanta semplicità di spirito ritenga che la difficile questione si risolva col "democratizzare" la cultura, ossia con l'estenderne l'ambito e abbassarne il livello. L'esigenza che il G. (e questo non può essere negato) cercava di realizzare, e che per alcuni versi si traduceva in istituti didattici inadeguati, era diretta a far entrare nelle menti che "cultura" significa, in primo luogo, la grande difficoltà che s'incontra nel tentativo che si faccia di conseguirla: un tentativo che va a buon segno soltanto se ci si impegna nell'acquisizione degli strumenti tecnici, storici, linguistici, filosofici, scientifici, senza i quali il mondo del sapere non dischiude i suoi tesori. Ma qui, su questo difficile problema, che tende a tornare insoluto dinanzi a chi pur lavori nel tentativo di risolverlo, occorre non insistere.  Nel maggio 1923, all'apparenza con una decisione improvvisa, che non fu comunicata se non a Mussolini, che doveva essere informato, e della quale nemmeno Croce fu messo al corrente, il G. si iscriveva al Partito nazionale fascista. E sulle ragioni che lo indussero, mentre era ministro, a compiere questo passo, che certo non era privo di gravi conseguenze, si è molto discusso; e da alcuni si è avanzata l'ipotesi che a prendere questa decisione, che rese contenti i suoi allievi romani, ma non altri che ne rimasero invece alquanto sgomenti, egli fosse indotto da due diverse, ma convergenti, persuasioni.   La prima, che quello fosse l'esito necessario non tanto dell'idealismo attuale, che con il fascismo in quanto tale poco aveva in comune, quanto piuttosto della riflessione da lui condotta nei passati anni sulla storia d'Italia e sulla possibilità che ora il fascismo aveva nelle mani di reintegrarne in unità le secolari scissioni e lacerazioni, la politica imbelle e la letteratura vuota, compiendo il Risorgimento. L'altra, immediatamente pratica e politica, che la riforma sarebbe stata meglio difesa, e altrimenti non potesse esserlo, se il liberale che egli era, ed era considerato, avesse mostrato di condividere senza riserve la convinzione mussoliniana e fascista e avesse così posto termine, o almeno un freno, alle critiche che gli si muovevano e alle diffidenze da cui era circondato.  In ogni caso, il passo che doveva decidere il destino del G. era compiuto. Ed è quanto meno dubbio che, se lo compì anche per salvare la riforma dalle forze che l'avversavano e minacciavano di impedirne l'attuazione, quel passo servisse veramente allo scopo. I mesi che precedettero l'assassinio di G. Matteotti, avvenuto il 10 giugno 1924 e che videro quattro giorni dopo le sue dimissioni dal governo, furono drammaticamente segnati da gravi difficoltà, a superare le quali non bastarono né il tattico appoggio datogli dal capo del governo, né gli inviti alla resistenza provenienti dai suoi scolari e amici romani, né il sostegno deciso di Croce che, malgrado il sempre più netto incrinarsi dei loro rapporti e la frattura che entrambi sapevano, in cuor loro, inevitabile, non glielo fece mancare e, nella sua impresa di ministro, lo sostenne. Le dimissioni dal governo non furono un atto di autonomia, di distacco dal fascismo che si era macchiato di un gravissimo delitto, di opposizione alla sua politica. Furono, infatti, da lui motivate con pure ragioni di opportunità politica e nell'interesse sia del governo, sia di colui che lo presiedeva: ossia con l'argomento secondo cui le opposizioni delle quali la sua riforma era da tempo l'oggetto potessero diventare un pretesto per colpire Mussolini o avessero comunque, pretesto o no, a indebolire la posizione politica di lui che, all'improvviso, era venuto a trovarsi in una situazione obiettivamente molto difficile.  Accusato apertamente dalle opposizioni di essere il responsabile e il materiale mandante del delitto, Mussolini era allora non solo in pericolo, ma sembrava altresì aver perduto la sicurezza e la spregiudicatezza che, in momenti non altrettanto gravi, erano sembrate la dote precipua del suo essere un politico nuovo, estraneo alle astuzie deteriori e alle infinite mediazioni della prassi parlamentare. E, proprio perché sull'indecisione dimostrata da Mussolini egli ebbe allora, in lettere private, a formulare critiche precise - nonché il timore che quello smarrisse la via e naufragasse -, proprio per questo il proposito di rendergli il più possibile sgombro di ostacoli il cammino dovette sembrargli l'unico che un seguace fedele dovesse preoccuparsi di tradurre in comportamenti conseguenti.  Al fascismo, dunque, con quel gesto il G. non tolse il suo consenso, ma piuttosto lo rinnovò in un momento in cui non mancarono, fra i suoi allievi, quelli che, delusi dall'indecisione mussoliniana, lo esortavano a prender lui la guida effettiva, e cioè politica, del fascismo in crisi. Furono quelle settimane drammatiche, perché, oltre gli elementi obiettivi che rendevano tale la crisi, a coloro che, nel campo fascista, lo spingevano verso posizioni estreme si contrapponevano gli amici che, o antifascisti o in via di diventar tali, gli davano il consiglio opposto: non di rimanere nel partito di Mussolini, ma, decisamente, di uscirne, mettendo in salvo una volta per tutte il suo "nome onorato". Drammatiche sono, in questo senso, le lettere che allora gli scrissero G. Lombardo Radice, collaboratore fedele e amico fraterno, e A. Omodeo, uno degli allievi prediletti della scuola palermitana. Furono giorni, settimane, mesi molto difficili anche perché il dissidio con Croce, che, come si è detto, mai si era sul serio ricomposto e, come il fuoco la cenere, sempre aveva seguitato a sottendere i loro rapporti, giunse allora, finalmente, alla sua definitiva espressione. E quali, a determinare la rottura che in sostanza si consumò alla fine dell'ottobre 1924, possano essere stati gli episodi e le circostanze specifiche, sta di fatto che era la logica delle cose a rendere grave ogni episodio, ogni circostanza che, se tale logica non fosse appunto stata così forte e imperiosa, avrebbero, con ogni probabilità, potuto avere un esito diverso.  Sulle ragioni profonde che la determinarono e misero fine a un sodalizio durato quasi trent'anni, molte cose si dissero allora, molte sono state dette poi, quando parve che il distacco cronologico consentisse la serenità necessaria alla formulazione del giudizio. E questa non è la sede dove la questione possa essere analizzata in ciascuno dei suoi aspetti, filosofici, politici, psicologici; e si può ben dire che, per quanto attiene al suo concreto e determinato delinearsi e decidersi nel tardo autunno del 1924, essa risulti definita dalle due lettere che il G. e Croce si scambiarono: essendo tuttavia quest'ultimo che, di fronte alla dolorosa meraviglia espressa dall'altro nell'apprendere che certi suoi comportamenti avevano seriamente messo in pericolo la prosecuzione, non solo del loro sodalizio scientifico, ma, addirittura, della loro amicizia, obiettò che al dissidio mentale nel quale da tempo si trovavano se n'era aggiunto un altro, di natura pratica e politica; e che le cose dovevano perciò fare il loro corso necessario, fino alle estreme conseguenze.  Le dimissioni che il G. presentò e che Mussolini accettò, nominando al suo posto il liberale, e grande amico di Croce, A. Casati, segnarono nella sua vita una svolta importante. Nella sua vita, s'intende dire, pubblica e politica; e non nei suoi sentimenti e convincimenti politici che, a quanto risulta, fino all'ultimo dei suoi giorni rimasero quelli che nel 1923 lo avevano indotto a chiedere la tessera del partito fascista. Non nei sentimenti e nei convincimenti, dunque. Ma nella vita pubblica e politica, sì. Al governo infatti il G. non tornò più. E alla politica del paese partecipò bensì, nei primi tempi, come presidente della Commissione dei quindici (divenuta poi dei diciotto), il cui compito fu di svolgere una revisione costituzionale in senso autoritario dello Stato. Partecipò bensì come vicepresidente del Consiglio superiore della pubblica istruzione: una carica importante, questa, che gli consentiva di vegliare sull'integrità della riforma, proteggendola da quanti avevano interesse a intervenirvi per alterarla e stravolgerla. Ma, intesa in senso stretto, dalla politica, in sostanza, egli allora uscì. E la sua partecipazione alla vita del regime fascista si realizzò nelle istituzioni culturali (per esempio, l'Istituto nazionale fascista di cultura, poi di cultura fascista) delle quali ebbe la cura e che presiedette; e se nei giornali e nelle riviste politiche alle quali normalmente collaborava non perse occasione per dire il suo parere su ciò che più da vicino lo toccava, l'argomento prescelto fu quasi sempre culturale, anche se mai egli mancò di collocarlo nel quadro costituito della sua fede fascista e della sua fedeltà al regime mussoliniano.  Almeno su due episodi occorre tuttavia, non essendo possibile in questa sede un più largo discorso, soffermarsi. E di questi uno era bensì di natura anche filosofica e culturale, perché implicava in modo preminente l'idea che da anni ormai egli aveva elaborato della filosofia e dello Stato che, identico alla filosofia, rappresenta il vertice stesso dell'autocoscienza; ma anche era di natura politica, e persino diplomatica, coinvolgendo direttamente l'azione del governo e del suo capo. Si allude al concordato con la S. Sede dell'11 febbr. 1929. E il G. lo avversò in un pubblico discorso, che non ebbe conseguenze pratiche perché sulla via concordataria Mussolini era deciso ad andare fino in fondo, e l'opposizione del filosofo formalmente rientrò: sebbene quell'episodio dovesse seguitare ad agire dentro di lui che, forse anche per questo, quasi volesse rinverdire dentro di sé quel gesto di autonomia non andato a segno, per tutta la vita polemizzò con i filosofi cattolici e, in modo particolare, con gli ambienti dell'Università cattolica del S. Cuore di Milano, in primis con padre A. Gemelli, che egli trattò con la mano rude che riservava a certe sue battaglie culturali e filosofiche.  L'altro episodio è costituito dalla battaglia che egli sostenne perché ai professori universitari fosse imposto il giuramento di fedeltà al regime fascista. E a parte le modalità con le quali e attraverso le quali si svolse; a parte il nesso con le vicende della replica che, per iniziativa di G. Amendola, e a nome di tanti e tanti intellettuali, Croce dette al Manifesto degli intellettuali fascisti redatto dal G.; a parte le tragiche ferite che questa imposizione apriva nella coscienza di tanti che innanzi a sé videro o la prospettiva della miseria o quella dell'abdicazione ai dettami dell'etica, c'è qualcosa che a questo riguardo merita di essere notato. E questo è il singolare concetto della "concordia" a cui, com'era accaduto persino nei giorni cupi della crisi aperta dell'assassinio Matteotti (e come ancora sarebbe accaduto vent'anni dopo nei mesi della Repubblica sociale), anche in quel caso il G. si appellò per sostenere che, se l'opposizione resa evidente e, anzi, drammatizzata dal conflitto dei due manifesti, il suo e quello di Croce, fosse stata superata da un formale atto di fedeltà al regime, l'unità sarebbe stata ristabilita e nessuna discriminazione avrebbe più avuto alcuna ragione d'essere nei confronti di dissenzienti che non erano, ormai, più tali. E la cosa singolare è che, nell'argomentare così, non solo egli mostrava di credere che, se il giuramento fosse stato dato, le ragioni del dissidio politico che ai suoi occhi lo aveva reso necessario sarebbero venute meno; ma addirittura riteneva che potesse essere e definirsi unità autentica quella che fosse stata conseguita per la via della coercizione e non per quella, da lui tante volte definita come l'unica possibile, della libertà, mediante la quale lo spirito costituisce sé stesso.  Quella dell'Enciclopedia Italiana fu l'impresa alla quale, fra il 1925 e il 1943, il G. dedicò la parte più viva della sua energia di grande organizzatore culturale. La parte più viva, e anche la più grande, la più impegnata e costante, quella con la quale il suo "tutto" quasi per intero giunse a coincidere. Quasi per intero; perché, accanto all'opera dell'Enciclopedia, occorre non dimenticare l'altro grande suo impegno, che fu costituito dalla Scuola normale superiore di Pisa, della quale fu, dal 1928, commissario, quindi, dal 1932, direttore, e che nella sua stessa persona difese, nel 1935, dall'attacco mosso da C.M. De Vecchi di Val Cismon che, divenuto ministro dell'Educazione nazionale (gennaio 1935), gli mostrò intera la sua ostilità, giungendo anche a destituirlo (giugno 1936). Il provvedimento del ministro fu presto ritirato perché, sollecitato dal G., nella controversia intervenne direttamente il capo del governo, che rimise al suo posto il filosofo; che poté così continuare la sua opera di potenziamento e di ammodernamento della Scuola, e rendere assai più agevole il soggiorno, e migliori le condizioni di studio, agli studenti interni. Dai quali, sopra tutto negli anni Trenta e Quaranta, dovette sopportare non poche manifestazioni di antifascismo, perché, fra La Sapienza e la Normale, per opera di alcuni giovani professori, e in primo luogo di G. Calogero, Pisa era diventata un centro assai vivo di opposizione al regime fascista.  Il consenso del quale questo aveva goduto fin verso la metà degli anni Trenta era andato impallidendo quando, con la guerra di Spagna e poi, nel 1938, con le leggi razziali, si ebbe netta l'impressione che l'allineamento alla Germania nazionalsocialista avrebbe avuto per conseguenza la tragedia di una seconda guerra europea e mondiale. E, ancora una volta, il G. si trovò a dover affrontare un conflitto, difficile e penoso, con i giovani che, direttamente o no, erano anche suoi allievi e non poco, comunque, avevano ricevuto da lui. Le testimonianze, scritte e anche orali, che rimangono di quegli anni pisani dicono di un suo atteggiamento incerto fra paternalismo e autoritarismo, fra benevole indulgenze e improvvise durezze. Un atteggiamento, questo, tipico di un uomo generoso e, nello stesso tempo, incapace di comprendere le ragioni del dissenso; e che, su un piano di ben altra drammaticità, si ripeté quando, avendo accolto e cercato di "sistemare" alcuni intellettuali tedeschi che, dopo il 1933, avevano dovuto lasciare la loro terra perché ebrei (P.O. Kristeller, K. Löwith, N. Rubinstein, per citarne solo tre), la medesima questione gli si presentò, per gli ebrei italiani, in seguito alla promulgazione delle già ricordate leggi razziali del 1938. Anche in questo caso, infatti, quanto fu benevolo e comprensivo nei confronti dei perseguitati, altrettanto il suo atteggiamento fu debole nei confronti di chi di quella persecuzione si era reso responsabile. E se niente egli disse in quegli anni in difesa di provvedimenti che non potevano non ripugnargli profondamente, in pubblico non se ne dissociò.  Ma si diceva dell'Enciclopedia, nell'organizzare la quale, nel dirigerla, nell'avviarla alla sua realizzazione, il G. seppe altresì formare, nella sede romana di piazza Paganica, un luogo di lavoro affatto particolare, segnato in profondità dalla sua energia, ma anche dal suo vivo senso della libertà della scienza, che in sostanza, tenendosi in difficile equilibrio fra il censore ecclesiastico e quello politico, egli seppe per lo più garantire agli studiosi che vi collaboravano e che, se non certo in maggioranza, in buon numero erano antifascisti o non fascisti.  Si pensi, per fare qualche nome, a G. De Sanctis, che all'Enciclopedia seguitò a collaborare anche dopo che, per non aver voluto prestare il giuramento di fedeltà al regime, aveva dovuto rinunziare alla cattedra romana. Si pensi a G. Calogero, a W. Giusti, a U. La Malfa, a C. Antoni, e ad altri che, se, come si è detto, non erano propriamente ostili al fascismo, nemmeno gli erano amici incondizionati; e qui si possono, per esempio, fare i nomi di F. Chabod, di E. Sestan, di W. Maturi.  A proposito dell'Enciclopedia sono state poste, tra le altre, due questioni: se il G. la concepisse come un grande monumento, fascista, da innalzare al fascismo, o se da questa idea si tenesse tanto lontano quanto per contro era convinto che quello dovesse essere un monumento italiano, frutto e documento dell'unica, ossia della più alta, cultura italiana; e, inoltre, se l'Enciclopedia, quale il G. la concepì e disegnò, abbia patito la conseguenza della chiusura e dell'angustia della cultura idealistica e fosse perciò poco disposta a concedere alle scienze naturali, fisiche e matematiche, lo spazio che queste avrebbero richiesto e, beninteso, meritato. Alla prima deve rispondersi che, certo, nata in quegli anni e resa possibile dal fascismo, l'Enciclopedia appartiene al numero delle opere che allora si produssero. Ma "fascista" non fu nella concezione, perché esplicitamente il G. sostenne il suo carattere in primo luogo scientifico, culturale e non politico. E "fascista" non fu nel contenuto, perché, oltre a essere "scritta" da molti che fascisti non erano, e anzi al regime erano avversi, anche gli studiosi che aderivano al regime vi scrissero per lo più da studiosi e non da fascisti. Sì che, al riguardo, occorre distinguere e mantenere le distinzioni: aggiungendo (e con questo si passa all'altra questione) che, come non fu fascista nella concezione, così nemmeno fu "idealistica" nel senso vulgato, per il quale si dice "idealismo" e s'intende qualcosa come un oltraggio recato alla scienza. In realtà, come accanto a studiosi idealisti tanti altri vi scrissero che idealisti non erano affatto, così non sarebbe giusto dire che in generale le scienze vi fossero depresse, e che le relative voci non fossero affidate a studiosi di provato e, spesso, di grande valore.  Il lavoro svolto nelle Università di Roma e di Pisa, l'Enciclopedia, e quindi l'Università Bocconi di Milano, l'Istituto per il Medio e l'Estremo Oriente, il Centro nazionale di studi manzoniani (di cui il G. era stato nominato commissario nel 1937, e che fu affidato alle cure sapienti di M. Barbi e del suo collaboratore F. Ghisalberti) non resero però meno intensa la sua attività di studioso. Certo, dopo il 1920-21, venne meno nel G. la possibilità e, con questa, anche l'interesse, di coltivare la ricerca storica nelle forme che questa aveva assunto, presso di lui, negli anni precedenti. Ma nel 1931, rielaborazione di un corso tenuto nel 1927-28 nell'Università di Roma, dove (come già si è ricordato) era succeduto al Varisco sulla cattedra di filosofia teoretica, il G. pubblicava La filosofia dell'arte, documento di aspra polemica anticrociana, ma anche, nello stesso tempo, rielaborazione dell'idealismo attuale dal punto di vista del sentimento, interpretato ora come una sorta di grande Grundakkord, presentante tratti di essenzialità e precategorialità della stessa vita spirituale. E quindi pubblicava l'Introduzione alla filosofia (1933), raccolta di scritti concernenti l'esame dei concetti fondamentali della filosofia, studiati e prospettati dal punto di vista conseguito dall'idealismo attuale. E senza la pretesa di ricordare tutti i tanti scritti, spesso di varia occasione, che egli allora compose e con i quali fu presente nel dibattito e nella vita culturale del paese, converrà tuttavia far menzione degli scritti dedicati ai poeti, e cioè, in pratica, a Dante (La profezia di Dante, Roma 1933; Il canto VI del Purgatorio, Firenze 1940), a Manzoni e infine a Leopardi, il più amato, e quello altresì al quale dette forse il contributo, in questo campo della critica letteraria, più notevole (Manzoni e Leopardi, Milano 1928; Commemorazione di G. Leopardi, Roma 1937; Poesia e filosofia di G. Leopardi, Firenze 1939).  Se la si osserva dall'alto, e la si scruta nel non breve periodo seguito alle battaglie per la riforma della scuola, contro il concordato, per l'istituzione del giuramento da imporre ai professori delle università, la vita del G. sembra, come si è detto, svolgersi prevalentemente all'interno delle istituzioni culturali delle quali ebbe la cura. E qui, fra le luci e le ombre di queste molteplici attività, che lo condussero anche all'acquisto nel 1936 della casa editrice Sansoni, si ha quasi l'impressione che il personaggio sfugga a una definizione; che, malgrado la sua spesso ingombrante presenza, ci fosse in lui qualcosa di segreto, di irriducibile, con il quale egli era forse il primo a non voler prendere, fino in fondo, contatto.  L'uomo era orgoglioso, sicuro di sé: tollerante, come si è detto, ma anche deciso e prepotente. E non avrebbe mai consentito che qualcuno spingesse, o provasse a spingere, lo sguardo per andare al di là di quella spessa corazza attivistica, dietro la quale si muovevano forse più cose di quante amici, nemici, egli stesso supponessero. Mentre impediva che altri penetrasse nel suo animo, non era certo lui quello che fosse disposto ad aprirlo perché egli stesso vi guardasse dentro. Un contributo gentiliano alla "critica" di sé stesso sembra, francamente inconcepibile. Non senza perciò che un moto di stupore si determinasse nell'ambito di chi vi conduceva qualche ricerca, dal suo archivio sono emersi alcuni inediti dedicati alla questione della morte, ossia a un tema, per il teorico dell'idealismo attuale, insidioso fin quasi al limite dello "scandalo" (filosofico).  Da qualche altro indizio documentario può desumersi che se la fedeltà che lo legava al fascismo non venne meno e intatta rimase l'ammirazione per Mussolini e inconcussa la fiducia in lui, nei confronti del razzistico nazionalsocialismo il G. mostrò tutt'altro che inclinazione o simpatia. Il che peraltro non gli impedì di accettare senza discussione alcuna la guerra che, scoppiata nel settembre 1939, coinvolse tragicamente, nel giugno del successivo anno, anche l'Italia. Nei tre anni successivi, dal 10 giugno 1940 all'8 sett. 1943 - in quei tre anni così gravi di disastri, di distruzioni, di sconfitte, e anche di dolorosi lutti familiari, mentre il nesso che aveva unito le coscienze alla patria si spezzava, perché la difesa di questa non s'identificava più, per molti, con la difesa della libertà, da vent'anni perduta -, in questi tre anni il G. scelse il silenzio; che fu rotto solo in poche occasioni: nel 1942, quando esaltò in un articolo il Giappone guerriero, che, nei modi noti era entrato in guerra attaccando gli Stati Uniti d'America; e quindi con il famoso discorso agli Italiani del 24 giugno 1943.  È difficile dire come, dentro di sé, il G. valutasse il dissenso politico sempre più vivo nei confronti del regime, e che egli non poteva non cogliere nei giovani con i quali, a Roma e a Pisa, aveva frequente contatto: anche se è indiscutibile che di quel dissenso, di quell'avversione, del progressivo distacco dal fascismo di molti che pure in questo avevano creduto e riposto speranze, egli non partecipò, chiuso nel suo sentimento di fedeltà come in una fortezza della quale convenisse non abbassare, bensì, piuttosto, tenere ben alzati i ponti levatoi.  Fu questa, come si sa, la ragione per la quale egli accettò l'invito rivoltogli dal segretario del partito fascista, C. Scorza, di pronunziare dal Campidoglio un discorso che si rivolgesse agli Italiani, impegnati nella terribile prova della guerra e che, da qualche settimana avevano ormai il nemico in casa, fortemente attestato nella terra siciliana. Accettò l'invito che altri, interpellati prima di lui, avevano declinato. Salì sul Campidoglio, e pronunziò il suo discorso, che alcuni lodarono per il coraggio che aveva dimostrato e per il rischio al quale aveva in tal modo esposto la sua persona, e altri invece fortemente deplorarono e criticarono, cogliendovi come il segno della sua perdizione, del suo ribadito essersi reso estraneo a quel suo più profondo "sé stesso" dal quale non pochi avevano tratto una lezione di libertà. Certo, con quel suo discorso, così teso, così eloquente e così, politicamente, ingenuo, il G. mostrò intero il dramma, anzi rivelò la tragedia nella quale, forse al di là della sua stessa consapevolezza, si dibatteva.  Poi vennero il 25 luglio, la caduta di Mussolini e del fascismo, le umiliazioni che egli dovette subire quando il suo antico segretario al ministero della Pubblica Istruzione, L. Severi, divenuto a sua volta ministro nel governo formato da P. Badoglio, rese, senza alcuna seria ragione, pubbliche tre lettere che gli erano state da lui privatamente indirizzate a proposito, sopra tutto, di questioni concernenti la Scuola normale superiore di Pisa. Il che provocò giudizi aspri su di lui sia da parte dei fascisti che lo ritennero pronto a mettersi al servizio dei nuovi governanti, sia da parte di non pochi antifascisti uniti ai primi, in questo caso, da un non diverso giudizio.  Poi venne l'8 settembre, la cui notizia il G. apprese mentre si trovava a Roma, dove si era recato uno o due giorni prima, per affari personali, da Troghi, un piccolo paese sito a pochi chilometri da Firenze, nel quale, in una casa di campagna messa a disposizione sua e della sua famiglia dall'amico G. Casoni, aveva trascorso i mesi estivi, occupato a scrivere Genesi e struttura della società, il suo ultimo libro, estremo frutto di un corso di lezioni tenute all'Università di Roma. E le settimane successive furono quelle in cui, liberato Mussolini, e formatosi, con la proclamazione della Repubblica sociale, un governo fascista con sede a Salò, egli ricevette, tramite C.A. Biggini, divenuto ministro dell'Educazione nazionale, l'invito a recarsi al Nord per un incontro con il capo del governo, il "vecchio amico" al quale, ancora una volta, non poté non concedere quel che quello gli chiedeva. Così fu nominato presidente dell'Accademia d'Italia, trasferita da Roma a Firenze, dove fu sistemata a palazzo Serristori. E qui, dopo che il "commovente" incontro con il "vecchio amico" Mussolini aveva come riacceso in lui il desiderio di non starsene in disparte e, invece, di combattere la sua ultima battaglia, egli riprese il lavoro, cercando di riorganizzare l'Accademia e lavorando con i pochi soci che vi si recavano, assumendo la direzione della Nuova Antologia, cercando di riprendere contatti, e rapporti, per avviare nuove imprese. Ridette vita e autonomia, e questa è una circostanza singolare, la cui genesi richiederebbe qualche studio e attenzione, all'Accademia dei Lincei che infine era stata in parte assorbita nell'Accademia d'Italia, e quindi soppressa. E riprese ancora a collaborare ai giornali, perché, mentre gli eserciti alleati risalivano la penisola e alla guerra che investiva le città e le campagne un'altra si aggiungeva, di Italiani contro Italiani, gli sembrò che non si potesse non far di nuovo risuonare il tema della concordia e dell'unità.  Era un suo vecchio tema, una sua convinzione tenace che, nel livido e tragico teatro che era allora l'Italia, fu qual era stata durante la crisi seguita all'assassinio di Matteotti, e quindi al tempo del giuramento fascista imposto ai professori universitari, anche se, risuonando nella solitudine e nel gelo che circondavano la sua persona, il suo accento risultasse ancora più livido, ancora più tragico. Il G. riprese quel tema nel fosco crepuscolo dell'Italia fascista, forte lui della convinzione che gli Italiani sarebbero tornati a esistere come soggetti politici solo se fossero retroceduti al di qua delle ideologie e qui, in questo luogo ideale, avessero ritrovato la loro unità e identità di Italiani. Era una convinzione nutrita di illusione; e che fosse tale, si comprende non solo se le sue parole siano ripensate nel clima di quel tragico inverno, ma anche se si riflette sullo scambio logico sul quale, ancora una volta, si fondavano, e che si rivela non appena si consideri che per un verso sembrava che la conciliazione, la concordia, la ritrovata unità e identità dovessero realizzarsi in un luogo ideale, irraggiungibile dalle ideologie, dal fascismo, dunque, e dall'antifascismo, mentre per un altro era la Repubblica sociale a rappresentare, nel segno dell'italianità, quel luogo ideale.  Ancora una volta le diverse componenti della sua anima, quelle che, nel loro contrasto, conferiscono alla sua personalità un'inconfondibile dimensione tragica, urtarono violentemente l'una contro l'altra. E la fedeltà mantenuta usque ad mortem al fascismo si accompagnò alla protesta che egli più volte elevò contro le atrocità alle quali intanto si dava luogo, da parte dei fascisti, con torture, uccisioni, gravi violenze.  La sua morte, avvenuta per mano di un commando partigiano comunista, che lo attese nei pressi della Villa Montalto al Salviatino, sulle colline di Firenze dalla parte di Fiesole, nella tarda mattina del 15 apr. 1944, al suo ritorno a casa dopo la mattina trascorsa al lavoro a palazzo Serristori, fu perciò anch'essa una morte violenta. E suscitò molta emozione, anche fra coloro che lo avevano combattuto e mai avevano perdonato a lui, filosofo dell'atto e della sua assoluta libertà, la scelta fascista, cui era rimasto fedele.  Due domande, semplici, ovvie e altrettanto inevitabili, si pongono, e sono state poste, a proposito della sua ultima scelta politica e sulle ragioni che determinarono la decisione di ucciderlo. E la risposta non è, per quanto concerne la seconda, altrettanto semplice di quella che può e deve darsi alla prima. Alla Repubblica sociale il G. aderì per le ragioni da lui stesso addotte; perché si trattava non di scegliere di nuovo, ma di ribadire, nel momento del supremo pericolo, la scelta fatta vent'anni innanzi. E non c'era calcolo politico che bastasse a mettere in crisi questa decisione, perché l'intero universo si concentra e vive nell'atto puro, e quel che resta fuori non è se non calcolo, astuzia: ossia, a rigore, niente. Alla seconda domanda rispondere si potrà in modo adeguato quando nuovi documenti interverranno a far luce nelle molte zone oscure che tuttora impediscono di vedere tutta la verità; che emergerà quando e se emergerà: e allora si vedrà fino a che punto nella decisione di uccidere il G. che aveva rinnovato il suo legame con il fascismo e con Mussolini siano entrate anche valutazioni politiche non direttamente note a quanti, sulla collina fiorentina, spezzarono il filo della sua vita. Qui basterà ricordare che nella chiesa di S. Croce, in Firenze, il nome del G. indica, sul pavimento, il luogo della sua sepoltura.  Opere. Le opere complete del G., raccolte via via durante la vita dell'autore, prima da Laterza (Bari), poi da Treves-Tumminelli (Milano e Roma), quindi da Sansoni (Firenze), furono riprogettate e stampate dopo la morte del G. e la fine della guerra mondiale da questo medesimo editore, al quale subentrò negli ultimi anni, ma senza alcuna mutazione di veste tipografica e di caratteri, l'editrice Le Lettere, sempre di Firenze. L'edizione definitiva rispetta fondamentalmente le partizioni già previste dal G., e cioè: I, Opere sistematiche; II, Opere storiche; III, Opere varie alle quali due si aggiungono, una IV, Frammenti, e una V, Epistolari. A queste cinque partizioni si è unita di recente, una VI di Scritti inediti e vari, nella quale sono apparsi fin qui Eraclito. Vita e frammenti (con il facsimile del manoscritto della traduzione di H. Diels), a cura di H.A. Cavallera, premessa di F. Adorno, Firenze 1996, e La filosofia della storia. Saggi e inediti, a cura di A. Schinaia, premessa di E. Garin, ibid. 1996. A parte questi due ultimi, i volumi fin qui pubblicati delle Opere complete sono quarantanove, perché ancora in preparazione risulta il XXIX, dedicato a B. Spaventa; e aumenteranno, negli anni a venire, nella sezione comprendente i Carteggi, alcuni dei quali sono già in lavorazione, come quello con G. Calogero, a cura di C. Farnetti, e l'altro con G. Chiavacci, a cura di M. Simoncelli.   Qui converrà ricordare in quanto inserite nel testo della voce le principali opere del G.: Rosmini e Gioberti, Pisa 1898; La filosofia di Marx, ibid. 1899; Il modernismo e i rapporti tra religione e filosofia, Bari 1909; I problemi della scolastica e il pensiero italiano, ibid. 1913; La riforma della dialettica hegeliana, Messina 1913; Sommario di pedagogia come scienza filosofica, I, Pedagogia generale, Bari 1913; II, Didattica, ibid. 1914; Teoria generale dello spirito come atto puro, Pisa 1916; I fondamenti della filosofia del diritto, ibid. 1916; Sistema di logica come teoria del conoscere, I, La logica dell'astratto, ibid. 1917; II, La logica del concreto, Bari 1923; Le origini della filosofia contemporanea in Italia, I-IV, Messina 1917-23; Gino Capponi e la cultura toscana nel secolo decimonono, Firenze 1922; La filosofia dell'arte, Milano 1931; Introduzione alla filosofia, ibid. 1933; Genesi e struttura della società, Firenze 1944.   Fra i carteggi, quello con Croce, comprendente le sole lettere del G., è raccolto in Lettere a B. Croce, I-V, a cura di S. Giannantoni, Firenze 1972-90 (il testo di riferimento è B. Croce, Lettere a Giovanni Gentile, a cura di A. Croce, con introd. di G. Sasso, Milano 1980). Ma sono anche usciti: G. Gentile - D. Jaja, Carteggio, a cura di M. Sandirocco, I-II, Firenze 1969; G. Gentile - A. Omodeo, Carteggio, a cura di S. Giannantoni, ibid. 1974; G. Gentile - S. Maturi, Carteggio, a cura di A. Schinaia, ibid. 1987; G. Gentile - F. Pintor, Carteggio, a cura di E. Campochiaro, ibid. 1993.  Fonti e Bibl.: Tre sono le biografie fin qui dedicate al G.: M. Di Lalla, Vita di G. G., Firenze 1975; S. Romano, G. G.: la filosofia al potere, Milano 1984; G. Turi, G. G.: una biografia, Firenze 1995. Si aggiungano i ricordi e le testimonianze di B. Gentile: G. G.: dal Discorso agli Italiani alla morte (24 giugno 1943 - 15 aprile 1944), Firenze 1954; Ricordi e affetti, Firenze 1988. Sulla uccisione del G., v. L. Canfora, La sentenza. C. Marchesi e G. G., Palermo 1985, dove si troverà l'indicazione della precedente bibliografia relativa a questa pagina non ancora definitivamente scritta. Cfr. anche G. Sasso, La fedeltà e l'esperimento, Bologna 1993, pp. 73-117. La bibliografia sul G. è assai ampia: per gli scritti del G. ci si deve ancora servire della Bibliografia degli scritti di G. G., a cura di V.A. Bellezza, in G. G.: la vita e il pensiero, III, Firenze 1950, e anche di Il pensiero di G. Gentile. Atti del Convegno 1976-1977, Roma 1977, II, pp. 903-1011. Per gli scritti dal 1980 al 1993, si veda: S. Bonechi, B. Croce - G. G.: bibliografia 1980-1993, in Giornale critico della filosofia italiana, LXXV (1994), pp. 632-660. In questo ambito per un primo orientamento si può innanzi tutto cercar di distinguere fra quanto di e sul G. è stato scritto dai principali discepoli delle sue due scuole, la palermitana e la romana, e cioè da V. Fazio-Allmayer, da A. Omodeo, F. Albeggiani, il giovane G. De Ruggiero, e quindi U. Spirito, A. e L. Volpicelli, G. Calogero, G. Chiavacci, lo stesso A. Carlini, ecc. in ciascuna delle loro opere, e quanto invece al pensatore siciliano è stato dedicato con esplicita intenzione storiografica. Non sempre agevole da rispettare, la distinzione può tuttavia essere di qualche utilità; e qui si indicheranno gli scritti appartenenti alla seconda classe (mentre per la storia "filosofica" dell'attualismo, può vedersi A. Negri, G. G., I-II, Firenze 1975; cfr. anche A. Lo Schiavo, Introduzione a G., Bari 1974). Sono, innanzi tutto, da tener presenti gli studi raccolti nei quattordici volumi della serie G. G.: la vita e il pensiero, Firenze 1948-72. Si veda quindi: G. De Ruggiero, La filosofia contemporanea, Bari 1912; U. Spirito, Il nuovo idealismo italiano, Roma 1923; Id., L'idealismo italiano e i suoi critici, Firenze 1930; V. La Via, L'idealismo attuale di G. G., Trani 1925; F. De Sarlo, G. e Croce. Lettere filosofiche di un superato, Firenze 1925; G. Calogero, Il neohegelismo nel pensiero contemporaneo, in Nuova Antologia, 16 ag. 1930, pp. 3-20; R.W. Holmes, The idealism of G. G., New York 1937; P. Carabellese, L'idealismo italiano, Roma 1938; A. Guzzo, Sguardi sulla filosofia contemporanea, Roma 1940; M. Ciardo, Un fallito tentativo di riforma dello hegelismo: l'idealismo attuale, Bari 1949; E. Garin, Cronache di filosofia italiana (1900-1943), Bari 1955; H.S. Harris, The special philosophy of G. G., Urbana, IL, 1960; A. Guzzo, Cinquant'anni di esperienza idealistica in Italia, Padova 1964; U. Spirito, G. G., Firenze 1969; A. Del Noce, Il suicidio della rivoluzione, Milano 1978; V.A. Bellezza, La problematica gentiliana della storia, Roma 1983; A. Del Noce, G. G.: per una interpretazione filosofica della storia contemporanea, Bologna 1990; A. Negri, L'inquietudine del divenire. G. G., Firenze 1992; G. Sasso, Filosofia e idealismo, II, G. G., Napoli 1995.Armando Girotti. Girotti. Keywords: la curva, la curva della bellezza, la linea, la linea della bellezza, storia storica, non filosofica – unita longitudinale – longamiranza, distillizione filosofica – Gentile, il Gentile di Girotti. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Girotti” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51755915192/in/dateposted-public/

 

Grice e Giudice – l’implicatura di Bruno – filosofia italiana – Luigi Speranza (Napoli). Filosofo. Grice: Grice: “Giudice amply proves my trust in the worth of the longitudinal unity of philosophy, for Giudice has unearthed some philosophical minutiae in Bruno – like his tract to Sir Philip Sidney on ‘Atteone,’ which are jewels of implicature!” -- “For Italian philosophy, Bruno is interesting: it’s not all saints like Aquinas; they had hereetics, too – and usually the heretics had a better philosophical background – into what the Italians called the lovely ‘hermetic tradition’ – we used to have one at Oxford in pre-lib days!” -- Grice: “If I am a Griceian, Giudice is a Brunoian – the Italians prefer ‘brunista’ or ‘bruniano,’ but I follow Katz is respecting the full surname – if it is ‘bruno,’ you add things, you don’t substract things!” Essential Italian philosopherwho has studied in depth the origin of philosophy in the Eleatic school. Guido del Giudice (Napoli), filosofo. Si laurea a Napoli e studia Bruno e la filosofia del rinascimento. Fonda la Societa Giordano Bruno. Altre opera: “Bruno” (Marotta e Cafiero Editori, Napoli); “La coincidenza degli opposti” (Di Renzo Editore, Roma); “Bruno, Rabelais e Apollonio di Tiana, Di Renzo Editore, Roma); “Due Orazioni. Oratio Valedictoria e Oratio Consolatoria, Di Renzo Editore, Roma, “La disputa di Cambrai. Camoeracensis acrotismus, Di Renzo Editore, Roma); “Il Dio dei Geometri” quattro dialoghi, Di Renzo Editore, Roma); “Somma dei termini metafisici”; “Tra alchimisti e Rosacroce, Di Renzo Editore,Roma, “Io dirò la verità. Intervista a Giordano Bruno, Di Renzo Editore, Roma, “Contro i matematici, Di Renzo Editore, Roma, “Il profeta dell'universo finite” – “Epistole latine, Fondazione Mario Luzi,. Scintille d'infinito” (Di Renzo Editore).  BRUNO, Giordano (Philippus Brunus Nolanus; Iordanus Brunus Nolanus, il Nolano). - Nacque a Nola, nel Regno di Napoli, nel gennaio o febbraio 1548, figlio di Giovanni Bruno, uomo d'arme, e di Fraulisa Savolino: fu battezzato con il nome Filippo. Della città natale, dove trascorse l'infanzia e iniziò i primi studi, conservò poi sempre un ricordo nostalgico. Nel 1562 si recò a Napoli per studiare lettere, logica e dialettica: in quello Studio ebbe come maestri il Sarnese (Giovan Vincenzo Colle), filosofo di tendenze averroiste, e fra' Teofilo da Vairano, agostiniano, da lui ricordato in seguito con sincera ammirazione. La lettura di uno scritto di Pietro Ravennate suscitò fin da allora in lui l'interesse per la mnemotecnica.  Il 15 luglio 1565, a diciassette anni compiuti e con una incipiente formazione laica, entrò come chierico nel convento napoletano di S. Domenico Maggiore, dove assunse il nome Giordano (forse in onore del domenicano fra' Giordano Crispo, maestro allo Studio) e quel nome ritenne poi sempre, salvo che per una breve parentesi. Mal compatibile, per carattere e prima formazione, con la regola conventuale, tra il 1566 e il 1567 incorse nelle prime infrazioni per aver spregiato il culto di Maria, nonché quello dei santi (una denuncia contro di lui venne allora stracciata dal maestro dei novizi).  Con cautela va accolta la notizia da lui in seguito fornita (Doc. parigini, V) di un invito a Roma per mostrare la propria abilità mnemonica a Pio V (viaggio che lo Spampanato pone tra il 1568 e il 1569):va però notato che allo stesso pontefice il B. dichiarò di aver dedicato L'arca di Noè,operetta smarrita di argomento morale (Dialoghi italiani, p. 842).  Ordinato suddiacono (principio del 1570) e poi diacono (principio del 1571), venne consacrato sacerdote dopo aver compiuto i ventiquattro anni, e celebrò la prima messa nella chiesa del convento domenicano di S. Bartolomeo a Campagna, presso Salerno. Nella seconda metà del 1572, dopo aver soggiornato in altri conventi del Napoletano, fece ritorno allo Studio di S. Domenico Maggiore in Napoli come studente formale di teologia: il curriculum quadriennale comprendeva un corso speculativo (prima e terza parte della Summa tomista) e un corso morale (seconda parte della Summa,alternabile con il quarto libro delle Sentenze di Pietro Lombardo esposte da fra' Giovanni Capreolo). È da ritenere che il B. abbia superato gli esami annuali, e nel luglio 1575 quelli di licenza, per cui sostenne le tesi "Verum est quicquid dicit D. Thomas in Summa contra Gentiles" e "Verum est quicquid dicit Magister Sententiarum" (Doc.parigini, II).  Tali studi, se da una parte suscitarono in lui una non mai smentita ammirazione per l'opera di s. Tommaso, d'altra parte dovettero ingenerargli quel fastidio per "les subtilitez des scholastiques, des Sacrements et mesmement de l'Eucharistie" (Doc. parigini,II), con il conseguente disinteresse per la problematica teologica manifestato in seguito nelle proprie opere come pure, più tardi, in sede processuale. Fin dagli anni conventuali mostrò per contro interesse per opere estranee al curriculum, nonché decisamente vietate, quali i "libri delle opere di S. Grisostomo e di S. Ieronimo con li scolii di Erasmo" (Doc. veneti, XIII).Ciò che, unitamente all'espressione dei propri dubbi circa il dogma della Trinità durante una discussione sulla eresia ariana, portò all'istruzione di un processo a suo carico da parte del padre provinciale (con l'occasione venne ricostruito anche il precedente atto d'accusa già distrutto): in una scrittura smarrita inviata a Roma egli doveva figurare come sospetto di eresia.  Mentre il processo veniva iniziato, il B. non esitò ad abbandonare il convento e la città, probabilmente nel febbraio 1576, e nello stesso mese dové giungere a Roma, dove prese alloggio nel convento di S. Maria sopra Minerva, confidando forse che il proprio caso passasse ignorato tra i disordini che turbavano la città. Egli stesso venne però coinvolto in tali disordini e imputato di "aver gettato in Tevere chi l'accusò, o chi credette lui che l'avesse accusato a l'inquisizione" (Doc. veneti, I): imputazione infondata (come è mostrato dal mancato riferimento ad essa nelle successive vicende processuali), con tutto che un secondo processo contro di lui venne istruito nel 1576 dall'Ordine dei predicatori. Dopo i primi mesi di quell'anno, saputo che i propri libri erasmiani erano stati rintracciati a Napoli, il B., deposto l'abito, abbandonò Roma, raggiunse Genova (circa 15 aprile) e si trattenne a Noli fino al principio del 1577 "insegnando la grammatica a figliuoli e leggendo la Sfera a certi gentilomini" (Doc. veneti, IX). Da Noli passò a Savona e quindi a Torino; di lì, non avendovi trovato "trattenimento a sua satisfazione", si recò a Venezia, dove si trattenne non più di due mesi, facendovi stampare, allo scopo di guadagnare qualcosa, "un certo libretto intitolato De' segni de' tempi", da lui fatto esaminare dal domenicano Remigio Nannini: opera pur questa smarrita. A Padova fu persuaso da alcuni domenicani a indossare l'abito pur quando non avesse voluto rientrare nell'Ordine: ciò che il B. fece dopo essersi recato, per Brescia, a Bergamo. Toccata Milano, nel 1578 lasciò l'Italia attraverso la Savoia, diretto a Lione: giunto a Chambéry e avvertito dai domenicani locali dell'ostilità che avrebbe incontrato nella regione, si trasferì a Ginevra, dove fin dal 1552 una comunità evangelica italiana era stata fondata dal marchese Gian Galeazzo Caracciolo di Vico.  A Ginevra, dimesso nuovamente l'abito, il B. si guadagnò da vivere come correttore di bozze tipografiche. Risulta tuttavia che egli aderì formalmente al calvinismo, come provato non tanto dalla immatricolazione universitaria autografa del 20 maggio 1579, quanto da un processo per diffamazione ai danni del titolare di filosofia Antoine de la Faye, istruito contro di lui dal concistoro nell'agosto 1579: il giorno 13 il B. venne riconosciuto colpevole e virtualmente scomunicato. Dopo un debole tentativo di difesa, egli si riconobbe colpevole, pregò di essere riammesso alla cena, e il giorno 27 venne prosciolto dalla scomunica. Tale episodio (che avrebbe lasciato tracce durevoli nelle sue opere mediante la propria polemica anticalvinista) determinò la sua partenza da Ginevra.  Recatosi questa volta a Lione, non avendovi trovato modo di sostentarsi, vi si trattenne solo un mese (forse tra il settembre e l'ottobre 1579) e si recò quindi a Tolosa, che era proprio in quel tempo uno dei baluardi della ortodossia cattolica: ciò che dimostra la portata della sua reazione anticalvinista, confermata anche dal tentativo che allora fece di ottenere l'assoluzione da un padre gesuita. La mancata assoluzione, "per esser apostata" (Doc. veneti, XII), non gli impedì di essere invitato "a legger a diversi scolari la Sfera, la qual lesse con altre lezioni de filosofia forse sei mesi" (Doc. veneti, IX), nonché di conseguire il titolo di magister artium: ed ottenere per concorso il posto allora vacante di lettore ordinario di filosofia: onde lesse, "doi anni continui, il testo de Aristotele De anima ed altre lezioni de filosofia". Da accenni fatti più tardi dallo stesso B., è dato inferire che il suo insegnamento incluse lezioni di fisica, matematica e lulliane. Risale a quest'epoca la composizione della Clavis magna, trattato mnemotecnico-lulliano rimasto inedito e smarrito.  Nell'estate del 1581 si delineò una ripresa della lotta tra cattolici e ugonotti, e il B. dové lasciare Tolosa "a causa delle guerre civili" (Doc. veneti, IX). Trasferitosi a Parigi, vi intraprese "una lezion straordinaria", cioè un corso di trenta lezioni su altrettanti "attributi divini, tolti da S. Tommaso dalla prima parte", che alcuni vogliono costituisse l'operetta inedita e smarrita "di Dio, per la deduzion di certi suoi predicati universali" (Doc. veneti, I). A Parigi non poté accettare un lettorato ordinario per l'obbligo - che, come apostata, non volle assumersi - di frequentare la messa; tuttavia conseguì tale rinomanza mediante il lettorato straordinario, che, come ebbe a dichiarare egli stesso, "il re Enrico terzo mi fece chiamare un giorno, ricercandomi se la memoria che avevo e che professava, era naturale o pur per arte magica; al qual diedi sodisfazione; e con quello che li dissi e feci provare a lui medesimo, conobbe che non era per arte magica ma per scienza" (Doc. veneti, IX): episodio che ben si comprende tenendo conto del fatto che la corte francese era frequentata da intellettuali come J. D. du Perron e Pontus de Tyard di cui sono noti gli interessi per il sapere enciclopedico e l'arte della memoria come strumenti per un piano di riforma culturale. Tuttavia i rapporti del B. con la corte - che sarebbero durati, direttamente o indirettamente, per circa un quinquennio - si spiegano altresì sul piano ideologico-politico, ove si tenga conto dell'analogia tra l'equidistanza bruniana dal rigorismo cattolico e da quello protestante, e la posizione mediana dei politiques, che controllavano la corte, tra l'estremismo cattolico dei ligueurs e quello protestante degli ugonotti.  Durante questo primo soggiorno parigino apparvero a stampa le prime operette bruniane a noi pervenute: il Deumbris idearumcon raggiunta dell'Arsmemoriae, opera mnemotecnica e lulliana stampata da E. Gourbin nel 1582, dal B. dedicata ad Enrico III, il quale "con questa occasione lo fece lettor straordinario e provisionato" (Doc. veneti, IX: egli venne cioè a far parte del gruppo dei lecteurs royaux, tendenzialmente contrari al conformismo aristotelico della Sorbonne); seguì, nello stesso anno, il Cantus circaeus, operetta mnemotecnica stampata da E. Gilles e dedicata, per conto del B., da J. Regnault a Henri d'Angoulême, fratello naturale del re, essendo il B. stesso "gravioribus negociis intentus" (Opera, II, 1, p. 182); quindi il De compendiosa architectura et complemento Artis Lullii (Gourbin, 1582) dedicata dal B. all'ambasciatore veneto Giovanni Moro.  La prima parte del De umbris rielabora materiale lulliano e mnemotecnico ai fini di una ricerca gnoseologica che presuppone, platonicamente, una corrispondenza tra mondo fisico e mondo ideale; la seconda e terza parte costituiscono un manuale mnemotecnico per cui il B. attinge in particolare al ravennate (l'impostazione didascalica è ripresa nell'Ars memoriae, in cui elementi della tradizione astrologico-ermetica si inseriscono nella elaborazione lulliana e mnemotecnica, fermo restando l'intento gnoseologico). Il Cantus circaeus, in due dialoghi, presenta un'applicazione concreta dell'ars esposta nel De umbris, non senza un'intenzione satirica che sarà poi sviluppata nello Spaccio. Il De compendiosa architecturarielabora gli elementi tecnici del lullismo allo scopo di offrire uno strumento gnoseologico per cui l'ordine universale risulta riflesso nello schema simbolico.  Nell'agosto del 1582 il B. terminava la composizione dell'unica sua commedia, il Candelaio, stampata prima della fine dell'anno (anteriormente forse al De compendiosaarchitectura) da Guillaume Julien figlio. Sul frontespizio l'autore si definiva "Academico di nulla Academia, detto il Fastidito, in tristitia hilaris, in hilaritate tristis.  Il Candelaio, scritto in un volgare popolaresco ricco di napoletanismi plebei, ma non senza echi della tradizione burlesca rinascimentale (Aretino, Berni, ecc.) accanto a moduli parodici della retorica classica, riflette sul piano morale il momento di rottura con l'Ordine, né è da escludere che la composizione ne fosse stata iniziata prima dell'allontanamento dall'Italia. Dedicata Alla signora Morgana B., personaggio napoletano di non sicura identificazione, la commedia, di ambientazione appunto napoletana - la cui azione si svolge nel 1576, "vicino al seggio di Nilo" - investe satiricamente "tre materie principali" e "l'amor di Bonifacio, l'alchimia di Bartolomeo e la pedanteria di Manfurio", in una sorta di applicazione alla vita morale del principio bruniano della corrispondenza e identificazione dei distinti nell'uno. Fin dalle pagine preliminari si notano del resto motivi che, riallacciandosi alla base teoretica dell'elaborazione lulliana e mnemotecnica delle operette latine, anticipano alcuni presupposti dei più tardi dialoghi filosofici ("Il tempo tutto toglie e tutto dà; ogni cosa si muta, nulla s'annichila; è un solo che non può mutarsi...").  Dalla dedica del Candelaio si sono desunti due titoli di presunte opere smarrite del B. (Gli pensier gai e Il troncod'acqua viva), mentre nell'atto I, scena II, si trova citata un'ottava ("Don'a' rapidi fiumi in su ritorno") di un "poema" inedito e smarrito, cui appartiene forse anche l'ottava "Convien ch'il sol, donde parte, raggiri" citata tre anni dopo negli Eroici furori.  Il 28 marzo 1583 l'ambasciatore inglese a Parigi, H. Cobham, inviava un preoccupato messaggio al primo segretario del Regno d'Inghilterra, F. Walsingham, informandolo dell'intenzione del B. di passare in Inghilterra: la preoccupazione concerneva l'ambigua posizione bruniana in fatto di religione. L'arrivo del B. in Inghilterra, con lettere di raccomandazione di Enrico III per il proprio ambasciatore presso Elisabetta - il tollerante Michel de Castelnau (cui era affidato il compito delicato di sostenere la causa di Maria di Scozia presso la regina) -, è da porre nell'aprile. Da una parte il B. poté essere indotto a lasciare Parigi "per li tumulti che nacquero" (Doc. veneti, IX) - o più esattamente per il delinearsi di quella reazione cattolica che due anni più tardi avrebbe indotto il re a revocare gli editti di pacificazione con i protestanti -; d'altra parte non è da escludere che il suo viaggio in Inghilterra potesse rientrare in un piano dei moderati francesi inteso a mobilitare la corrente politique inglese ai fini di una distensione politico-religiosa in Europa. Ma non è certo da trascurare la personale urgenza bruniana per una sua affermazione sul piano accademico-speculativo dopo i tentativi compiuti a Tolosa e a Parigi.  Al suo arrivo in Inghilterra il B. prese dimora nella casa del Castelnau, a Butcher Row, dove "non faceva altro, se non che stava per suo gentilomo" (Doc.veneti, IX). Tra il 10 e il 13 giugno 1583 fece una prima visita a Oxford, al seguito del conte palatino polacco Alberto Laski: in tale occasione, pur non facendo parte degli oratori designati, sostenne un pubblico dibattito con i dottori oxoniensi, in particolare con il teologo John Underhill, richiamandosi alla logica aristotelica in polemica con le posizioni ramiste. Rientrato a Londra, è da ritenere che indirizzasse allora la sua pomposa lettera Ad excellentissimum Oxoniensis Academiae Procancellarium,clarissimos doctores atque celeberrimos magistros (allegata ad alcuni esemplari della Explicatio triginta sigillorum), con la quale faceva istanza per l'ottenimento di una lettura a Oxford. Sebbene dai registri universitari non risulti che il B. abbia tenuto un corso formale in quella sede, la sua stessa testimonianza di avervi tenuto "pubbliche letture, e quelle de immortalitate animae, e quelle de quintuplici sphaera" (Dialoghi italiani, p. 134: vedi Doc. parigini, I, e Opera, II, 2, p. 232), risulta confermata dalla pur ostile testimonianza di George Abbot (cfr. McNulty), il futuro arcivescovo di Canterbury, allora membro del Balliol College, da cui si apprende che, dopo la prima visita a Oxford, il B. vi tornò nel corso della stessa estate e vi iniziò un corso in latino sostenendo, tra l'altro, la teoria copernicana del movimento della Terra e della immobilità dei cieli: anticipando quindi pubblicamente quanto da lui elaborato nei dialoghi londinesi stampati l'anno seguente. Così il B. come l'Abbot concordano nell'affermare che tale corso venne interrotto per pressioni esterne (stando all'Abbot, il medico Martin Culpepper, guardiano di New College, e Tobie Matthew, decano di Christ Church, avrebbero rilevato un plagio bruniano nei confronti del ficiniano De vita coelitus comparanda: ciò che può essere inteso con riferimento ai prestiti ficiniani nella terminologia bruniana). Interrotto il corso dopo la terza lezione, rientrò a Londra, presso il Castelnau, ribadendo il proprio atteggiamento antiaccademico, in direzione quindi antiaristotelica e insieme antiumanistica.  A Londra il B. condusse la propria polemica culturale e speculativa sia in discussioni nell'ambito dei circoli paraccademici di corte, sia mediante la divulgazione a stampa delle proprie teorie già respinte dal pubblico universitario inglese. La prima opera pubblicata a Londra, nel 1583, è un volumetto contenente l'Ars reminiscendi, l'Explicatio triginta sigillorum (preceduta in alcuni esemplari dalla già citata lettera agli Oxoniensi) e il Sigillus sigillorum. Solo per l'Explicatio e per la lettera è possibile precisare l'officina tipografica, che è quella di John Charlewood, dalla quale sarebbero uscite tutte le rimanenti opere londinesi.  L'Ars reminiscendi è, con lievi varianti, una riproduzione dell'ultima parte del Cantus circaeus. Gli scritti che seguono portano la dedica all'ambasciatore francese, con parole di riconoscenza per la familiare ospitalità. L'elencazione dei "triginta sigilli" mostra che questi rappresentano la sintesi formale dei segni ovvero ombre delle cose e delle idee. Dalla Triginta sigillorum explicatio appare manifesto il presupposto gnoseologico del complesso simbolismo mnemotecnico bruniano. Nel Sigillus sigillorum si manifesta la fede del B. nell'unità del processo conoscitivo, cui corrisponde, sul piano ontologico, la fondamentale unità dell'universo. Alla innegabile utilizzazione di elementi propri alla tradizione platonico-alchimistica, fa qui riscontro l'assenza di preoccupazioni e tendenze d'ordine mistico-religioso: il carattere "speculativo" del Sigillusfa di quest'opera il legittimo antecedente della serie dialogica italiana.  Il 14 febbraio del 1584, mercoledì delle Ceneri, il B. venne invitato a illustrare la propria teoria sul moto della Terra nella "onorata stanza" di sir Fulke Greville, a Whitehall, in compagnia di Giovanni Florio e del medico gallese Matthew Gwinne, essendo presenti due dottori oxoniensi sostenitori del sistema geocentrico e un cavaliere di nome Brown (in sede processuale tale riunione venne dichiarata come avvenuta invece in casa del Castelnau). La conversazione degenerò presto in un diverbio causato dalla intolleranza dei due dottori oxoniensi: sdegnato, il B. si licenziò dall'ospite e di lì a qualche giorno iniziò la stesura della Cena de le Ceneri (stampata nello stesso anno).  Tramite il resoconto della sfortunata discussione, il B. enuncia in questi dialoghi la propria cosmografia: movendo dall'eliocentrismo copernicano, egli approda intuitivamente a una concezione originale dell'universo che per molti rispetti sembra anticipare i postulati della scienza moderna. Già prima dell'arrivo del B. in Inghilterra, la corrente scientifica distaccatasi dalle università e sostenuta dalla corte elisabettiana (Robert Recorde, John Dee, John Field, Thomas Digges) aveva mostrato un certo interesse per le teorie copernicane: è in questa corrente appunto che si inserisce ormai l'attività inglese del B., sia per le istanze "scientifiche" (elaborazione di una moderna teoria astronomica), sia per quelle letterarie (ripudio del latino e adozione del volgare per trattazioni scientifico-speculative) e perfino politiche (adesione alla moderata fazione puritana capeggiata da Robert Dudley, conte di Leicester, nei contrasti tra questo e il tesoriere elisabettiano William Cecil: ciò che ci è rivelato dal confronto tra la prima e la seconda redazione del dialogo II della Cena).  Suddivisa in cinque dialoghi, dedicati all'ambasciatore francese, la Cena è in sostanza un'opera cosmografica che, se da una parte contrasta il geocentrismo aristotelico e tolemaico, d'altra parte trascende l'eliocentrismo copernicano con l'affermazione della pluralità dei mondi nell'universo infinito (non senza la suggestione implicita della definizione ermetica di Dio, come sfera infinita il cui centro è ovunque e la cui circonferenza non si trova in alcun luogo): sul piano teologico ne deriva l'affermazione dell'infinito effetto della causa infinita, nonché l'interpretazione prammatica di quei passi delle Scritture che concordano con la concezione vulgata dell'universo.  L'impostazione polemica dell'opera investe, nel dialogo II, tutti gli strati della contemporanea società inglese mediante una rappresentazione vivacemente realistica. Il B., pur adottando la forma dialogica della tradizione speculativa rinascimentale, la piega alle esigenze della propria polemica, accostandosi non di rado alla maniera parodica della tradizione aretiniana: onde non manca la satira della pedanteria grammaticale oltre che di quella peripatetica.  Gli attacchi contenuti nella Cena alla università di Oxford e alla società inglese suscitarono una forte reazione negli ambienti accademici e cittadini: reazione che coincise con una serie di offese, anche materiali, del pubblico londinese contro gli addetti all'ambasciata francese e contro, la stessa sede diplomatica. Nell'emozione del momento il B. poté ritenersi oggetto diretto di quella reazione anticattolica: è certo tuttavia che la pubblicazione della Cena gli fece perdere molte di quelle simpatie che era riuscito ad accattivarsi a Londra. Di qui l'esigenza di premettere ai già composti quattro dialoghi speculativi De la causa, principio et uno, un dialogo "apologetico" che si risolse però, caratteristicamente, in un ribadimento della propria polemica, salvo un riconoscimento esplicito della validità della tradizione speculativa oxoniense anteriore alla Riforma e la lode di alcuni personaggi conosciuti a Oxford (in particolare Martin Culpepper e Tobie Matthew). La pubblicazione dei nuovi dialoghi, dedicati anch'essi al Castelnau, seguì di poco quella della Cena.  Il primo dialogo della Causa si distingue dai rimanenti quattro anche per i diversi interlocutori (tra questi "Elitropio" è G. Florio, mentre "Armesso" sembra identificabile con M. Gwinne); notevole, tra gli interlocutori dei rimanenti dialoghi, lo scozzese Alexander Dicson "Arelio" (nativo di Errol), discepolo londinese del B. e autore di un'opera mnemotecnica, De umbra rationis et iudicii (1584) ispirata al De umbris bruniano: l'opera era stata attaccata da William Perkins, ramista di Cambridge, il quale non mancò di accomunare i nomi del B. e del Dicson nella sua riprovazione del metodo mnemonico classico considerato in opposizione a quello ramista. La presenza di questo interlocutore, insieme con l'attacco frontale a Ramo nel dialogo III, può valere a farci considerare la Causa come opera di letteratura militante nell'ambito della contemporanea polemica ramista (per l'aspetto politico non va dimenticato che l'attività del Dicson era in linea con il programma politique).  I quattro dialoghi più propriamente speculativi della Causa concernono la definizione dei tre termini enunciati nel titolo: "causa" e "principio" sono intesi, rispettivamente, come la "forma" e la "materia" che, indissolubilmente unite, costituiscono l'"uno", cioè il "tutto". Movendo dalla critica dei postulati della tradizione aristotelica, e non senza ricorso alle formulazioni di stampo neoplatonico ed ermetico, il B. giunge in tal modo a fornire una originale base teoretica alla propria cosmologia già in parte enunciata nella Cena e di lì a poco elaborata nei dialoghi De l'infinito.  Il motivo della satira antipedantesca si accentua nella Causa con una aderenza polemica alle posizioni culturali delle due università inglesi.  Il ritmo serrato con cui alla pubblicazione della Cena e della Causa seguì, sempre nel 1584, quella dei dialoghi De l'infinito, universo e mondi e dello Spaccio de la bestia trionfante si spiega tenendo conto del fatto che già nell'estate del 1583 il B. doveva aver elaborato buona parte del materiale confluito poi nei tre dialoghi cosmologici. Anche l'Infinito porta la dedica al Castelnau, mentre lo Spaccio è dedicato a sir Philip Sidney, nipote del Leicester, mostrandoci in tal modo la portata dei contatti letterari, oltre che politici, dal B. avuti in Inghilterra.  Nei cinque dialoghi De l'infinito, in polemica con la fisica aristotelica, il B. rigetta la teoria della divisibilità all'infinito e ribadisce la propria teoria della infinità dell'universo e della pluralità dei mondi. In questa opera risulta enunciato il pensiero bruniano sul rapporto tra filosofia e religione conforme alla teoria averroista esposta dal Pomponazzi. Tra gli interlocutori figura Girolamo Fracastoro, tracce delle cui dottrine sono reperibili nel dialogo III; discutibile rimane l'identificazione di "Albertino" con Alberigo Gentili (dal B. certamente incontrato a Oxford): potrebbe trattarsi invece di personaggio nolano.  La nuova concezione dell'universo esposta nei tre dialoghi cosmologici si riflette sul piano etico con la trilogia dei dialoghi tradizionalmente definiti "morali", a cominciare dallo Spaccio, il cui tono satirico ravviva un'invenzione che risale, letterariamente, ai dialoghi "piacevoli" di Niccolò Franco.  Lo Spaccio espone un piano di riforma morale che implica la critica all'etica cristiana delle Chiese riformate non meno che di quella cattolica, in nome di un attivismo umanistico contrapposto al tradizionale umanesimo misticheggiante e retorico. L'ispirazione acristiana dell'etica bruniana sembra trovare conferma nella critica - metaforicamente condotta - della duplice natura della persona del Cristo. Non è escluso che questa opera sia da identificare con il Purgatorio de l'inferno,titolo fornito dal B. nella Cena.  Le allusioni politiche contenute nello Spaccio sono compatibili con l'orientamento brumano favorevole ai politiques e che risale al suo soggiorno parigino: c'è chi pur oggi continua a ritenere che la "bestia trionfante" spodestata nello Spaccio sia da identificare con l'intransigente Sisto V. Ma, a parte la cronologia, sembrerebbe contrastare all'interpretazione il quadro tracciato nella Cabala del cavallo pegaseo, con l'aggiunta dell'Asino cillenico (pubbl. 1585), in cui l'"asino", identificabile con la "bestia" dello Spaccio, riassume il suo posto nel cielo: né sembra possibile supporre che la Cabala sia posteriore al 21 sett. 1585, data della bolla con cui Sisto V scomunicò il re di Navarra.  Al di là del possibile significato politico-religioso, la Cabala interessa sia per l'accentuata satira morale rispetto allo Spaccio,sia per gli spunti speculativi (quali il problema del rapporto tra le anime individuali e l'anima universale, risolventesi nella negazione dell'assoluta individualità delle anime) che valgono a meglio illuminare questa fase del pensiero bruniano.  L'operetta è scherzosamente dedicata a un personaggio nolano, don Sabatino Savolino, della stessa famiglia materna del B. cui pure appartiene l'interlocutore "Saulino" presente già nello Spaccio. Il B.ebbe a dichiarare in seguito, di aver soppresso questa opera in quanto non piacque al volgo e ai sapienti "propter sinistrum sensum": essa è infatti la più rara tra le superstiti opere a stampa di Bruno.  Il soggiorno inglese del B. non poteva concludersi in maniera più degna che con la pubblicazione dei dialoghi De gli eroici furori (1585), dedicati al Sidney, in cui risultano poeticamente esaltati i principî fondamentali della filosofia bruniana esposti nei tre dialoghi cosmologici, mentre vi si sviluppa e precisa la portata della satira morale contenuta nei due dialoghi etici.  I dieci dialoghi De gli eroici furori hanno come tema il conseguimento della consapevolezza dell'unione con l'Uno infinito da parte dell'anima umana. La terminologia di estrazione ficiniana (risalente a Platone, Plotino, Dionigi l'Areopagita, lamblico, Proclo, ecc.) rischia di far perdere di vista il carattere "naturale e fisico" del discorso bruniano, quale dall'autore stesso enunciato nella dedicatoria. La stessa adozione dei moduli platonici ("ente, vero e buono son presi per medesimo significante circa medesima cosa significata") va in realtà ricondotta a una sfera etica in cui si risolve ogni apparente residuo di trascendenza: infatti "le cause e principii motivi" sono "intrinseci" e la "divina luce è sempre presente"; "ogni contrarietà si riduce a l'amicizia", "le cose alte si fanno basse, e le basse dovegnono alte".  Notevole nei Furori l'esposizione della poetica bruniana che, movendo dalla critica delle poetiche rinascimentali nella loro interpretazione normativa della poetica aristotelica, approda a una concezione della poesia come letteratura applicata: di qui il ripudio della tradizione lirica petrarchesca, pur nell'adozione prammatica di rime intonate al gusto del tardo petrarchismo (ivi inclusi prestiti dal Tansillo e dalla Cecaria di M. A. Epicuro).  Gli interlocutori sono tutti nolani, ovvero, come il Tansillo, amici della famiglia del Bruno. Notevole, come dato biografico dell'infanzia, la presenza di due figure femminili: Laodamia e Giulia.  Nell'ottobre del 1585 il B. rientrava in Francia al seguito dell'ambasciatore Castelnau: il quale ai primi di novembre si trovava già a Parigi; durante il viaggio la comitiva era stata vittima di una grassazione. Al suo rientro a Parigi il B. veniva a trovare un clima politico mutato (nel luglio Enrico III aveva revocato gli editti di pacificazione e nel settembre era stata pubblicata la bolla contro il re di Navarra): di qui forse il suo tentativo infruttuoso "de ritornar nella religione" (Doc. veneti, XII) tramite il nunzio apostolico Girolamo Ragazzoni. Dedicò al filonavarrese P. Del Bene, abate di Belleville, la Figuratio Aristotelici physici auditus (1586), esposizione mnemonico-mitologica del pensiero aristotelico; entrò in contatto con gli italiani di Parigi, tra i quali Giovanni Botero, stringendo amicizia con Iacopo Corbinelli che lo definì "piacevol compagnietto, epicuro per la vita" (cfr. Yates), e dal 6 dic. 1585 prese a frequentare l'abbazia di St. Victor, dove quel giorno prese a prestito l'edizione di Lucrezio curata da H. van Giffen e confidò al bibliotecario Guillaume Cotin (il cui diario ci conserva le notizie fornitegli dal B.) l'intenzione di pubblicare l'Arbor philosophorum, del quale nulla sappiamo a parte il titolo lulliano.  Due episodi clamorosi neutralizzarono in quel tempo il residuo d'appoggio in cui il B. poteva ancora sperare presso il partito politique. Dopo aver assistito a una pubblica dimostrazione del compasso di riduzione inventato dal geometra salernitano Fabrizio Mordente, uomo senza lettere, il B. acconsentì a divulgare in latino la scoperta - parendogli atta a dimostrare il limite fisico della divisibilità, conforme alla propria incipiente monadologia -: pubblicò infatti, prima del 14 apr. 1586, i Dialogi duo de Fabricii Mordentis Salernitani prope divina adinventione (seguiti dall'Insomnium), presso P. Chevillot: opera ambiguamente laudatoria che irritò il Mordente, alla cui polemica verbale il B. rispose con i sarcastici dialoghi Idiota triumphans e De somnii interpretatione,dedicati al Del Bene e fatti stampare prima del 6 giugno insieme con i due precedenti dialoghi mordentiani. Il B. veniva così ad attaccare apertamente un cattolico fautore dei Guisa, reclamando per sé l'ormai vacillante protezione politique. Atale imprudenza si aggiunse una disputa dal B. tenuta il 28 maggio al Collège de Cambrai, in presenza dei lecteurs royaux, sulla base di Centum et viginti articuli de naturaet mundo adversus peripateticos: programma da lui fatto stampare sotto il nome del discepolo J. Hennequin. Secondo il Cotin il B. non avrebbe preso la parola, neppur dopo che allo Hennequin ebbe risposto R. Callier, giovane avvocato politique (il B. venne dunque sconfessato dal suo stesso partito), e, riconosciutosi battuto, avrebbe abbandonato Parigi. Secondo Corbinelli, il B. "s'andò con Dio per paura di qualche affronto, tanto haveva lavato il capo al povero Aristotele", mentre il Mordente decideva di ricorrere al Guisa.  Lasciata Parigi, il B. giunse in Germania nel giugno 1586;toccata Magonza e Wiesbaden, il 25 luglio veniva immatricolato all'università di Marburgo come "theologiae doctor romanensis" (Doc. tedeschi, I). L'insegnamento bruniano si dovette mostrare incompatibile con l'aristotelismo ramista di quella università: gli fu infatti negato il permesso di leggere pubblicamente; a una protesta formale il B. fece seguire le proprie dimissioni. Nella stessa estate passò a Wittenberg, nella cui università venne introdotto da A. Gentili e immatricolato (20 agosto) come "doctor italus" (Doc. tedeschi,II).Per circa due anni poté insegnare indisturbato (lesse, tra l'altro, l'Organon di Aristotele) e fece stampare il De lampade combinatoria lulliana (1587) - commentario dell'Arsmagna - cui premise una lettera alle autorità accademiche mostrandosi riconoscente per la liberale accoglienza. Seguì la pubblicazione del De progressu et lampade venatoria logicorum, sorta di compendio della Topica aristotelica, dedicato a G. Mylins, cancelliere dell'università. Allo stesso anno risale il suo corso privato sulla Rhetorica adAlexandrum (pubbl. post. da H. Alstedt: Artificium perorandi, Francofurti 1612), come il frammento delle Animadversiones circa lampadem lullianam e la Lampas triginta statuarum, amplificazione dell'Arsmagna lulliana (post.: negli Opera: 1890, 1891), con cui si conclude la trilogia delle "lampade". L'anno seguente, per i tipi di Zaccaria Cratone, uscì nella stessa città una seconda edizione dei Centum et viginti articuli (ridotti a ottanta, con le relative rationes), con un discorso apologetico di J. Hennequin: Iordani Bruni Nolani Camoeracensis Acrotismus. Allostesso periodo, sembra, risalgono i commentari aristotelici ai primi cinque libri della Fisica, al De generatione et corruptione e al quarto libro Meteorologicon (pubblicati negli Opera postumi: Libri physicorum Aristotelis explanati, 1891). L'8 marzo 1588 ilB. si accomiatava dall'università con una Oratio valedictoria stampata dal Cratone: va notato che il vecchio duca Augusto era morto prima dell'arrivo del B., e che il successore Cristiano I favorì progressivamente il calvinismo, giungendo a proibire, nel 1588, ogni polemica a questo contraria; di qui la rinnovata precarietà della posizione di Bruno.  Partito da Wittenberg, il B. giunse a Praga nella primavera del 1588e vi si trattenne fino al principio dell'autunno, attrattovi forse dal mecenatismo dell'imperatore Rodolfo II, il cui cattolicesimo moderato poté sembrargli incoraggiante; non sappiamo comunque se fu registrato all'università. A Praga il B. ripubblicò, presso G. Nigrinus, il De lampade combinatoria R. Lullii preceduto dal De lulliano specierum scrutinio: nuovo commentario dell'Arsmagna dedicato all'ambasciatore spagnolo don Guglielmo de Haro; con dedica all'imperatore, presso G. Daczicenus, gli Articuli centum et sexaginta adversus huius tempestatis mathematicos atque philosophos, in cui riprendeva la propria polemica contro l'interpretazione meccanica della natura (già anticipata nei dialoghi mordentiani e poi svolta nel De minimo):notevole, nella dedicatoria, la dichiarazione della religio bruniana, interpretabile come teoria della tolleranza religiosa e speculativa.  Ricevuta in dono dall'imperatore la somma di "trecento talari" (Doc. veneti, IX), al principio d'autunno del 1588 ilB. si recò a Helmstedt, attrattovi dalla "Academia Iulia" (fondata dal duca protestante Giulio di Brunswick), dove fu registrato il 13 genn. 1589, e dove il 1º luglio lesse l'Oratio consolatoria (stampata da Iacobus Lucius) per la morte del duca avvenuta il 3 maggio. Il B. fu remunerato dal nuovo duca, Enrico Giulio, con "ottanta scudi de quelle parti" (Doc. veneti, IX), ma non gli mancarono seri fastidi: fu infatti scomunicato dal sovrintendente della locale Chiesa luterana, Gilbert Voët, per motivi che il B. definì di natura privata in una sua lettera di protesta alle autorità accademiche, ma che avranno avuto giustificazione formale per sospetto filocalvinismo (è comunque significativo che alla originaria scomunica cattolica e a quella calvinista ginevrina si aggiungesse ora la scomunica luterana). Il B. rimase tuttavia nella città fino almeno all'aprile 1590. Durante l'anno e mezzo ivi trascorso lavorò alle opere poi stampate a Francoforte e compose il gruppo di opere "magiche" stampate postume negli Opera (1891), De magia e Theses de magia (concernenti la magia naturale), De magia mathematica (parzialmente tuttora inedita nel "codice di Mosca"), De rerum principiis et elementis et causis;trattati tutti che tendono a dimostrare la possibilità dell'utilizzazione pratica delle forze naturali occulte. Il 10 aprile intervenne a una disputa tenuta dal dottor Heidenreich e il 13 - avendo riscossi a Wolfenbüttel 50 fiorini assegnatigli dal duca - si accomiatò dall'università con l'intenzione di passare per Magdeburgo (dove risiedeva W. Zeileisen, zio del discepolo norimberghese Girolamo Besler, di cui si era servito come copista) allo scopo di farvi stampare qualcosa di suo in onore del duca. La partenza fu ritardata fin oltre il 22: ed è probabile che il B. si recasse direttamente a Francoforte sul Meno (allo scopo di farvi stampare la trilogia poetica latina, sua opera di maggior rilievo dopo i dialoghi londinesi), dove giunse al più tardi nel giugno. Il 2 luglio il Senato della città rigettò una sua richiesta di poter alloggiare presso lo stampatore J. Wechel, il quale tuttavia gli procurò alloggio presso il convento dei carmelitani. Il B. attese soprattutto alla pubblicazione dei tre poemi: i Detriplici minimo et mensura... libri V e il De monade, numero et figura liber unito ai De innumerabilibus, immenso et infigurabili... libri octo, opere dedicate al duca di Brunswick, per le quali il B. curò la stampa e intagliò i legni, salvo che per l'ultimo foglio del De minimo a causa di un repentino allontanamento dalla città (per cui la dedica relativa fu composta dal Wechel). Stampati con la data del 1591, ilDe minimo fu posto in vendita nella primavera; il De monade con il De immenso,nell'autunno.  Nei poemi francofortesi - composti alla maniera di Lucrezio - il B. sviluppa in senso decisamente atomistico la propria concezione della materia già esposta nei dialoghi londinesi. Nel De minimo sicontiene la definizione dell'atomo bruniano: pars ultimadella materia, minimum fisico assoluto, sostrato di tutti i corpi, impenetrabile. La discontinuità degli atomi lascia aperto il problema dello spazio tramezzante (con tutto che il B. riconosce l'esigenza di una materia che "agglutina" gli atomi). Se l'"atomo" è l'elemento materiale insecabile, il "minimo" è l'essere o la figura minima in un dato genere, mentre la "monade" è l'unità di un genere determinato: l'atomo, che è di forma sferica, è anche minimo e monade. Gli atomi sono infiniti essendo infinita la materia. In tale concezione non v'è posto per una forza esteriore che regoli o determini le combinazioni materiali. Nel De monade il B. dà una spiegazione aritmologica delle diverse qualità degli oggetti sensibili, i cui elementi vengono mossi - come già sostenuto nella Causa rispetto alla materia infinita - da un principio intrinseco. Così l'atomismo dei poemi francofortesi si riallaccia all'animismo dei dialoghi londinesi, dei quali il De immenso riprende esplicitamente l'esposizione cosmologica, con una aderenza a tratti letterale (tanto che il Fiorentino fu indotto a riportare al periodo inglese l'inizio della composizione del poema). In quest'ultimo il B. ripercorre il cammino della propria speculazione, rinnovandone la polemica contro la fisica aristotelica e ribadendone il superamento intuitivo dell'eliocentrismo copernicano.  Applicato l'ordine di estradizione del Senato francofortese poco prima del 13 febbr. 1591, il B. riparò a Zurigo, dove tenne lezioni di filosofia scolastica raccolte e pubblicate poi da Raphael Egli (la Summa terminorum metaphysicorum a Zurigo nel 1595; la Summa con la Praxis descensus seu applicatio entis a Marburgo nel 1609). Ritornato per breve tempo a Francoforte, il B. pubblicò presso il Wechel i De imaginum,signorum,et idearum compositione ad omnia inventionum,dispositionum et memoriae genera libri tres (1591), dedicati a J. H. Heinzel, patrizio di Augusta da lui conosciuto a Zurigo. Durante il secondo soggiorno francofortese il B. fu raggiunto da lettere del patrizio veneziano Giovanni Mocenigo, il quale, letto il De minimo, lo invitava a Venezia affinché gli "insegnasse l'arte della memoria ed inventiva" (Doc. veneti VIII).  Il B. giunse a Venezia prima della fine d'agosto del 1591.  I motivi soggettivi dell'imprudente rientro in Italia sono stati variamente definiti: imponderabile è la componente nostalgica, mentre è ormai da escludere il proposito di una azione di riforma religiosa con l'ausilio delle proprie nozioni magiche (con tutto che l'accessione del Borbone al trono di Francia e la presenza del mite Gregorio XIV sul soglio pontificio ravvivavano allora le speranze conciliatrici in Europa); sul piano contingente, più che dell'occasionale invito del Mocenigo, va tenuto conto delle aspirazioni magistrali dal B. non mai dimesse nel corso dei suoi soggiorni francesi, inglese e tedesco.  Infatti, soffermatosi qualche giorno a Venezia "a camera locanda" (Doc. veneti, VII), il B. proseguì per Padova, dove già si trovava al principio di settembre e dove si trattenne, con brevi interruzioni, per almeno tre mesi. Qui impartì lezioni "a certi scolari tedeschi", tra i quali sarà da includere Girolamo Besler, che era allora procuratore degli studenti tedeschi (il Besler gli trascrisse, tra il 1º settembre e il 21 ottobre, la Lampas triginta statuarum composta nel 1587, il De vinculis in genere, abbozzato l'anno precedente, e il non bruniano De sigillis Hermetis, inedito e smarrito). All'insegnamento patavino vanno riferite le Praelectiones geometricae e l'Ars deformationum, lezioni, rinvenute solo nel 1962, in cui il B. illustra geometricamente postulati ed enunciazioni del De minimo. L'attività del B. a Padova induce a ritenere che, con l'appoggio del Besler, egli mirasse alla vacante cattedra di matematica, che fu assegnata l'anno seguente a Galileo.  Rivelatosi infruttuoso l'insegnamento padovano, al principio dell'inverno il B. si trasferì a Venezia, prendendo dimora, almeno dal marzo 1592, in contrada S. Samuele, presso il Mocenigo. Incominciò a frequentare il "ridotto" Morosini, sul Canal Grande, dove, in un clima di "civile e libera creanza", si disputava di cose che avevano "per fine la cognizione della verità" (F. Micanzio, Vita di Paolo Sarpi, Leida 1646). Verso la metà di maggio 1592, nella chiesa dei SS. Giovanni e Paolo, confidò al domenicano fra' Domenico da Nocera il proprio desiderio di "quetarsi" e di comporre un libro da offrire al neoeletto Clemente VIII, con lo scopo ultimo di trasferirsi a Roma, ed ivi "accapare forsi alcuna lettura" (Doc. veneti, X): programma illusorio, suggeritogli forse dalla politica papale e dalla contemporanea esperienza di Francesco Patrizi. Il 21 maggio, allo scopo di far stampare a Francoforte alcune sue opere, inedite e smarrite, "delle sette arte liberali e sette altre inventive, e dedicar queste... al Papa" (Doc. veneti, XVII), il B. chiese licenza al Mocenigo. Costui, deluso dall'insegnamento ricevuto, la notte del 22lo fece arrestare dai suoi e il giorn 23 presentò una denuncia per eresia (allegando tre libri a stampa del B. e l'autografo della smarrita operetta "di Dio, per la deduzion di certi suoi predicati universali", nonché i nomi di due contesti: i librai G. B. Ciotti e G. Britano) all'inquisitore veneto fra' Gabriele da Saluzzo: la sera stessa il B. veniva prelevato dagli sbirri e condotto alle carceri di S. Domenico di Castello. Si apriva così la fase veneta del processo, che si doveva concludere nove mesi dopo con la sua estradizione a Roma.  Gli episodi principali del processo veneto sono i seguenti: 25 maggio 1592: seconda denuncia del Mocenigo; 29 maggio: terza denuncia (il B. era complessivamente accusato di disprezzare le religioni, di non ammettere la "distinzione in Dio di persone", di avere opinioni blasfeme sul Cristo, di non credere alla transustanziazione, di sostenere che il mondo è eterno e che vi sono mondi infiniti, di credere alla metempsicosi, di attendere all'arte divinatoria e magica, di negare la verginità di Maria, di disprezzare i dottori della Chiesa, di ritenere che i peccati non vengano puniti, di essere già stato processato a Roma, di indulgere al peccato della carne); 26maggio: interrogatorio dei contesti (favorevoli al B.) e primo costituto del B.; 30 maggio: secondo costituto e ulteriore accusa (di aver soggiornato in paesi di eretici vivendo alla loro maniera); 2, 3 e 4 giugno: interrogatorio sui capi d'accusa (a proposito dei propri libri il B. dichiarò: "io ho sempre diffinito filosoficamente e secondo li principii e lume naturale, non avendo riguardo principal a quel che secondo la fede deve essere tenuto...", Doc. veneti, XI); 23 giugno: interrogatorio di Andrea Morosini e seconda deposizione del Ciotti (favorevoli al B.); 30 luglio: ultimo costituto veneto del B. (ammissione di dubbi marginali già dichiarati e sottomissione al tribunale) e trasmissione del processo al card. di Santa Severina, inquisitore supremo in Roma (il quale già prima dell'ultimo costituto interferiva nella causa); 12settembre: richiesta formale di avocazione della causa a Roma; 17 settembre: consenso del tribunale veneto; 28settembre: trasmissione della richiesta romana al Collegio presieduto dal doge; 3 ottobre: parere sfavorevole del Collegio trasmesso al Senato; comunicata a Roma la risposta negativa; 22 dicembre: rinnovata richiesta al Collegio motivata con precedenti; 9 genn. 1593: comunicazione a Roma dell'approvazione del Senato.Il 19 febbr. 1593 il B. usciva dal carcere veneziano e, fatto salpare per Ancona, il giorno 27 faceva ingresso nel carcere del S . Uffizio di Roma da cui, dopo lungo e intermittente processo, sarebbe uscito sette anni più tardi per subire l'orrendo supplizio.  Gli episodi noti e salienti del processo romano sono così riassumibili: estate 1593: nuova grave denuncia da parte di fra' Celestino da Verona, concarcerato a Venezia (imputazione di aver sostenuto che Cristo peccò mortalmente, che l'inferno non esiste, che Caino fu migliore di Abele, che Mosè era un mago e inventò la legge, che i profeti furono uomini astuti e ben meritarono la morte, che i dogmi della Chiesa sono infondati, che il culto dei santi è riprovevole, che il breviario è opera indegna; di aver bestemmiato; di aver intenzioni sovversive ove fosse costretto a rientrare nell'Ordine); interrogagatorio a Venezia dei contesti fra' Giulio da Salò, Francesco Vaia, Matteo de Silvestris (attenuazione delle responsabilità bruniane e nuova accusa: l'avere in spregio le sante reliquie); interrogatorio del conteste Francesco Graziano (ribadimento della credenza bruniana nella pluralità dei mondi e nuova accusa: riprovazione del culto delle immagini). Prima della fine del 1593:otto costituti bruniani (dall'ottavo al quindicesimo dell'intero processo) e conclusione del processo offensivo.  Il B. mantenne la linea difensiva già adottata a Venezia (attenuò la portata dei dubbi circa la Trinità, disponendosi ad accettare il dogma; negò le accuse circa l'inferno, Cristo, i propositi sovversivi, l'ateismo, le manifestazioni blasfeme; precisò il significato di "magia" con riferimento a Mosè, e la propria opinione, ritenuta "filosoficamente" e ipoteticamente, circa la metempsicosi; negò l'opinione attribuitagli circa Caino, e precisò quella relativa alla pluralità dei mondi; negò le pratiche superstiziose, precisando il proprio interesse per l'astrologia). Gennaio-marzo 1594: a Venezia, esami ripetitivi dei testi (Mocenigo, Ciotti, Graziano, De Silvestris): confermate nel complesso le precedenti deposizioni, solo la sospetta integrità dei testi poté far differire la conclusione del processo; giugno: supplemento di denuncia da parte del Mocenigo (accusa di aver irriso il papa nel Cantus circaeus); estate 1594: sedicesimo costituto (il B. si difese sull'ultima accusa, su quella relativa ai Magi, e forse anche sull'altra relativa alla verginità di Maria; sporse denunce contro il Graziano e Francesco Maria Vialardi concarcerato a Roma); 20 dicembre: il B. presentò una difesa scritta, non pervenutaci. Il 16 febbraio 1595si stabilì che una lista dei libri bruniani fosse presentata al papa.  Tra il maggio 1594 e i primi del 1595 il B. fu raggiunto nel carcere da Francesco Pucci, Tommaso Campanella e Cola Antonio Stigliola. Il 18 sett. 1596 la Congregazione stabilì una commissione con lo scopo di censurare le proposizioni eretiche contenute nei libri. Il 24 marzo 1597 il B. fu ammonito di abbandonare la sua teoria della pluralità dei mondi; si stabilì inoltre che egli fosse interrogato stricte (forse con applicazione della tortura): ciò che avvenne con il diciassettesimo costituto, circa la Trinità e l'incarnazione (il B. precisò il carattere speculativo dei dubbi passati), nonché la pluralità dei mondi (che il B. persistette a sostenere). Nel corso del 1597 ebbe luogo, forse oralmente, la risposta del B. alle censure, otto delle quali sono rilevabili dal Sommario del processo: "circa rerum generationem"; circa il principio che a causa infinita debba corrispondere effetto infinito; circa il rapporto tra anima universale e anima individuale; circa il principio che nulla si genera e nulla si corrompe; circa il moto della terra; circa la definizione degli astri come angeli; circa l'attribuzione di un'anima sensitiva e razionale alla terra; circa l'affermazione che l'anima non è forma del corpo umano (due altre censure, rilevabili da una lettera di K. Schopp [Doc. romani, XXX], concernono l'identificazione dello Spirito Santo con l'animamundi, e la credenza nei preadamiti). Il 18 gennaio del 1599, a istanza di Roberto Bellarmino, venivano sottoposte al B., per la sua dichiarazione di abiura, otto proposizioni eretiche (ci è nota la prima, "de haeresi Novatiana", e la settima, estratta dal De la causa, "ubi tractat an anima sit in corpore sicut nauta in navi"). Il 15 febbraio (ventesimo costituto) il B. si dichiarò disposto all'abiura incondizionata; ma il 24agosto tornò a manifestare esitazioni sulla prima e la settima. Il 9 settembre, in mancanza della prova giuridica della colpevolezza, i consultori si dichiararono in favore dell'applicazione della tortura, che tuttavia non fu approvata da Clemente VIII. Il 10 settembre il B. si dichiarò disposto all'abiura (21º costituto), ma il 16, con un memoriale al papa, rimetteva in discussione le proposizioni incriminate. Intanto al S. Uffizio di Vercelli perveniva una terza delazione (dovuta, sembra, a un reduce dall'Inghilterra) con cui il B. era di nuovo accusato di irriverenza verso il papa (lo Spaccio) e di aver lasciato fama di ateo in Inghilterra. Settembre-ottobre 1599: il tribunale ordinò il termine di quaranta giorni per il riconoscimento degli errori. Il 21 dicembre (ventiduesimo costituto) il B. rifiutava la ritrattazione: vano fu l'intervento del generale e del procuratore dei domenicani. Il 20 genn. 1600il papa ordinò che il B. fosse sentenziato come eretico formale, impenitente e pertinace, e consegnato al braccio secolare. Un estremo memoriale del B. al pontefice venne aperto ma non letto dal tribunale.  L'8 febbr. 1600 il B. veniva condotto dal carcere del S. Uffizio al palazzo del cardinale Madruzzi, in piazza Navona, dove la sentenza gli fu letta pubblicamente. Delle trenta o più imputazioni contenute nella sentenza, risultano accertate quelle concernenti la transustanziazione, la verginità di Maria, la vita eretica, lo Spaccio, la pluralità dei mondi, la metempsicosi, l'anima umana, l'eternità del mondo, Mosè, le Sacre Scritture, i preadamiti, Cristo, i profeti e gli apostoli.  Riconosciuto "eretico impenitente pertinace ed ostinato" (Doc. romani, XXVI), il B. era condannato alla degradazione dagli ordini, all'espulsione dal foro ecclesiastico e a essere consegnato alla corte secolare per la debita punizione; i suoi libri dovevano essere bruciati in piazza S. Pietro e le opere tutte incluse nell'Indice. Il B. ascoltò in ginocchio la sentenza; quindi, levatosi in piedi, esclamò rivolto ai giudici: "Maiori forsan cum timore sententiam in me fertis quam ego accipiam" (Doc. romani, XXX). Trasferito al carcere di Tor di Nona, e visitato ancora nei giorni seguenti da teologi e confortatori, la mattina del giovedì 17 febbraio fu condotto a Campo di Fiori, dove, "spogliato nudo e legato a un palo, fu bruciato vivo (Doc. romani, XXIX).  La portata speculativa della vicenda bruniana è implicita nella storia del moderno pensiero europeo; per il lato culturale e biografico, pur dopo ricerche secolari, quella vicenda è tuttora al vaglio della filologia contemporanea.  Fonti e Bibl.: Per la biografia bruniana le fonti sono costituite dalle opere e da una serie di documenti coevi. Edizioni complete delle opere: Iordani Bruni Nolani Opera Latine Conscripta: Facsimile - Neudruck der Ausgabe von Fiorentino,Tocco und anderen,Neapel und Florenz,1879-1891. Drei Bände in acht Teilen,Stuttgart-Bad Cannstatt 1962 (da integrare con le seguenti pubblicazioni: V. P. Zubov, Rukopisnoe nasledie Džordano Bruno,"MoskovskijKodeks" Gosudarstvennoj Biblioteki SSSR im. V. I. Lenina, in Zapiski Otdela rukopisej, Moskva 1950, n. II, pp. 164-182; G. Bruno, Due dialoghi sconosciuti e due dialoghi noti: "Idiota triumphans", "De somnii interpretatione", "Mordentiu", "De Mordentii circino", a cura di G. Aquilecchia, Roma 1957, con Errata-corrige stampate a parte; Id., "Praelectiones geometricae" e "Ars deformationum": Testi inediti, a cura di G. Aquilecchia, Roma 1964); Le opere italiane di G. B., a cura di P. de Lagarde, Gottinga 1888 (ma 1889), edizione paradiplomatica, per le opere italiane in edizione moderna: G. Bruno, Candelaio: commedia, a cura di V. Spampanato, Bari 1923; Id., Dialoghi italiani: "Dialoghi metafisici" e "Dialoghi morali" nuovamente ristampati con note da G. Gentile, a cura di G. Aquilecchia, Firenze 1958; Id., Lacena de le ceneri, a cura di G. Aquilecchia, Torino 1955 (da tenere presente R. Tissoni, Sulla redazione definitiva della "Cena de le ceneri", in Giorn. stor. della letter. ital., CXXXVI [1959], pp. 558-563). Pregevoli le sillogi antologiche in Opere di G. B. e di Tommaso Campanella, a cura di A. Guzzo e R. Amerio, Milano - Napoli 1956, e in Scritti scelti di G. B. e di T. Campanella, a cura di L. Firpo, Torino 1968.  I documenti coevi in V. Spampanato, Documenti della vita di G. B., Firenze 1933, suddivisi in sei sezioni: I. Documenti napoletani, II. Documenti ginevrini, III.Documenti parigini, IV. Documenti tedeschi, V.Documenti veneti, VI, Documenti romani (da integrare con O. Elton, Modern Studies,London 1907, p. 334; G. Harvey, Marginalia, a cura di G. G. Moore Smith, Stratford-upon-Avon 1913, p. 156; Chr. Sigwart, Kleine Schriften, I, Freiburg i. B. 1899, p. 120; A. Mercati, Ilsommario del processo di G. B., Città del Vaticano 1942; L. Firpo, Ilprocesso di G. B., Napoli 1949; F. A. Yates, G. B.: some new documents, in Revue internationale de philosophie, XVI [1951], 2, pp. 174-199; G. Aquilecchia, Un autografo sconosciuto di G. B., in Giorn. stor. della letter. ital., CXXXIV [1957], pp. 333-338; Id., Un nuovo documento del processo di G. B., ibid., CXXXVI [1959], pp. 91-96; R. McNulty, B. at Oxford, in Renaissance News, XIII[1960], pp. 300-305; A. Nowicki, Un autografo inedito di G. B. in Polonia, in Atti dell'Accademia di scienze morali e politiche... in Napoli, LXXVII [1967], pp. 262-268; Id., Una poesia "Ad Iordanum: Brunum", in La Ragione, LII [1970], 4, p. 2; J. Korzan, Praski Kra̢g humanistów wokóù Giordana Bruna, in Euhemer, LXXI-LXXII [1969], 1-2, pp. 81-93).  La biografia più estesa, sebbene in parte invecchiata, rimane quella di V. Spampanato, Vita di G. B. con documenti editi e inediti,Messina 1921. Biografie sintetiche recenti sono dovute a E. Garin, B., Roma-Milano 1966, e a G. Aquilecchia, G. B., Roma 1971, da cui dipende la presente "voce".  La bibliografia bruniana è vastissima: fino al 1950 va fatto riferimento a V. Salvestrini, Bibliografia di G. B. (1582-1950), a cura di L. Firpo, Firenze 1958: opera monumentale di inestimabile utilità, aggiornata poi essenzialmente, Quanto ai titoli, fino ai primi mesi del 1970 con l'appendice bibliografica alla citata monografia di G. Aquilecchia. A questi due strumenti si fa qui riferimento, rispettivamente, per opere critiche di tradizionale autorità (F. Tocco, E. Troilo, G. Gentile, E. Namer, E. Garin, A. Corsano, ecc.), e per studi più recenti, che propongono un ridimensionamento della problematica bruniana conforme a diverse metodologie (N. Badaloni, P.-H. Michel, F. A. Yates, A. K. Gorfunkel', A. Nowicki, F. Papi, ecc.).Guido del Giudice. Giudice. Refs.: Luigi Speranza, "Grice, del Giudice, e la filosofia greco-romana," per il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia. Keywords: l’implicatura di Giudice, universe finite, infinito, geometrici, alchimisti, matematici – rinascimento – scintilla d’infinito” --  Refs: Luigi Speranza, “Grice e Giudice: implicatura e scintilla” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51685227726/in/photolist-2mRmv36-2mRfyWo-2mQHwBB-2mQ81kz-2mPyn68-2mPoRfW-2mN35cA-2mLKtaD-2mPu6xB-2mLH24C-2mPYoE5-2mKfivY-2mJqjKS-2mJq2uE-2mGnP2f-E4u3XA-Bq6mau-Bq5PrV

 

Grice e Giudice – l’implicatura di Telesio – filosofia italiana – Luigi Speranza (Lucera). Filosofo. Grice: “Riccardo del Giudice is a philosopher; he wrote an essay on Telesio.”  Allievo e collaboratore di Gentile, si laurea in filosofia, rivelando i suoi vasti e solidi interessi culturali, che, insieme ad una rara volontà di studio e ad una seria attività politica formarono il suo principale merito. Apprezzato per le doti oratorie e l'accuratezza nella scrittura, fu parlamentare di chiara fama nella  Camera dei Deputati. Di profonda ed esemplare preparazione filosofica. Insegna a Roma. Del Giudice Riccardo Lucera (Foggia) 1900 lug. 16 - Roma 1985 feb. 16  Intestazioni: Del Giudice, Riccardo, filosofo, sindacalista, politico, SIUSA. Iscrittosi al movimento nazionalista mentre frequenta nell'ateneo romano i corsi di Gentile. Si tessera al Partito fascista, del quale apprezza l'interesse per le questioni sindacali. E' appunto nell'organizzazione fascista dei lavoratori, diretta da Rossoni, che muove i primi passi nella politica militante. Nominato responsabile dei sindacati in provincia di Foggia, distinguendosi per la dura opposizione nei confronti dell'apparato del Pnf guidato dal conservatore Giuseppe Caradonna. Espulso dal partito viene nominato da Rossoni Segretario della Federazione sindacale di Torino. Passato nella Federazione di Bari si oppone allo "sbloccamento" dei sindacati. Si occupa di studi sulla legislazione del lavoro e sul corporativismo, partecipando attivamente alle riunioni del Consiglio nazionale delle corporazioni e viene nominato Presidente della Confederazione fascista dei lavoratori del commercio. Dopo una intensa attività nel settore sindacale - celebri le sue polemiche con Spirito sul rapporto tra sindacato e corporazione - è nominato Sottosegretario al Ministero dell'educazione nazionale, allora retto da Giuseppe Bottai. Si occupa soprattutto di sviluppare i rapporti tra la scuola e il mondo del lavoro, seguendo le indicazioni contenute nella Carta della scuola di Bottai. Lasciato il ministero in seguito alla sostituzione del ministro Bottai con Biggini, è nominato Presidente dell'Ente Nazionale per l'Oganizzazione Scientifica del lavoro (Enios). Non aderisce alla Rsi e viene arrestato dagl’alleati e inviato nel campo di concentramento di Padula dove scrive le "Memorie". Epurato dall'insegnamento universitario, vi ritorna come docente prima di Diritto della navigazione, poi di Diritto del lavoro, presso l'ateneo romano.  Complessi archivistici prodotti: Del Giudice Riccardo (fondo)   Bibliografia: G. PARLATO, Il sindacalismo fascista. IDalla "grande crisi" alla caduta del regime, Roma, Bonacci. 1989 G. PARLATO, Riccardo Del Giudice: dal sindacato al governo, Roma, Fondazione Ugo Spirito, G. PARLATO, La sinistra fascista. Storia di un progetto mancato, Bologna, Il Mulino.  Wikipedia Ricerca Sindacalismo fascista Lingua Segui Modifica Ulteriori informazioni La neutralità di questa voce o sezione sugli argomenti fascismo e politica è stata messa in dubbio. Con sindacalismo fascista si intende quel settore del sindacalismo improntato sui principi della dottrina fascista del lavoro.  Storia  Modifica  Filippo Corridoni con Benito Mussolini durante una manifestazione interventista del 1915 a Milano. I primordiModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Sindacalismo rivoluzionario.  Fontana sulla cui lapide marmorea era scolpito il discorso che Benito Mussolini pronunciò il 20 marzo 1919 presso lo stabilimento di Dalmine, in occasione dell'autogestione operaia. Il sindacalismo fascista ha i suoi primordi nel magma del movimentismo sindacale dei primi due decenni del XX secolo: in particolare esso trova i suoi riferimenti culturali prima nella componente rivoluzionaria del sindacalismo socialista, che portò alla dirigenza del partito diversi esponenti e Benito Mussolini alla direzione dell'Avanti!, poi nelle sezioni più agguerrite del sindacalismo interventista, in particolare l'attivissima sezione milanese retta da Filippo Corridoni, nate in seno all'Unione Sindacale Italiana[1]ma da cui saranno espulse già nel 1915, per incompatibilità con i principi antimilitaristi e antistatalisti dell'USI[2]. Numerosi, pur con alcuni bassi, sono gli scioperi, le manifestazioni di piazza, gli scontri ed i comizi cui parteciparono Mussolini ed i dirigenti del fascismo a fianco, o anche in qualità stessa, di sindacalisti rivoluzionari.[3]  «In Italia non sarà possibile nessuna forma di sindacalismo fino a quando il Partito Socialistanon sarà abbattuto.»  (Filippo Corridoni a Curzio Malaparte a Milano poco prima di partire per il Carso, giugno 1915[4]) Un altro forte legame fu, dal 1915-1916 e fino al 1919-1920, quello con la Unione Italiana del Lavoro (UIL)[5], da essi creata e di ispirazione sindacalista rivoluzionaria, diretta inizialmente da Edmondo Rossoni.[6] La nuova formazione sindacale, nel fermento dell'interventismo nei confronti della Grande Guerra, tentò di operare una prima sintesi all'interno dell'immenso magma rivoluzionario italiano, combattuto ormai da anni tra le esigenze sociali e quelle nazionaliste del popolo. In particolare si verificò una congiunzione con le teorie di imperialismo operaiodi Enrico Corradini (Associazione Nazionalista Italiana) e lo sviluppo del produttivismo nazionale, grazie anche al Popolo d'Italia di Benito Mussolini[7], pervenendo all'idea non tanto di negare la lotta di classe per difendere gli interessi di categoria, quanto di ricomporli tutti all'interno del comune interesse superiore nazionale. Al suo interno la UIL portava però già i sintomi di quella che fu una battaglia destinata a concludersi più tardi, durante il sindacalismo fascista vero e proprio: quella tra la visione di un sindacalismo legato all'azione politica, appoggiata principalmente da Edmondo Rossoni, e quella "indipendentista" di Alceste De Ambris.[6][8]  Primo sfogo di queste evoluzioni avvenne il 16 marzo 1919 al Dalmine, dove si verificò la prima occupazionecon autogestione operaia della storia italiana, organizzata dai sindacalisti rivoluzionari. Il fatto eclatante che destò scalpore fu però soprattutto la continuazione della produzione, d'accordo con l'ottica produttivista che aveva acquisito il movimento: gli operai autorganizzati continuarono infatti il lavoro, issando sulla fabbrica il tricolore nazionale.[9][10] Due giorni dopo lo stesso Mussolini fu in visita agli stabilimenti:  «Voi oscuri lavoratori del Dalmine, avete aperto l'orizzonte. È il lavoro che parla in voi, non il dogma idiota o la chiesa intollerante, anche se rossa, è il lavoro che ha consacrato nelle trincee il suo diritto a non essere più fatica, miseria o disperazione, perché deve diventare gioia, orgoglio, creazione, conquista di uomini liberi nella patria libera e grande oltre i confini»  (Benito Mussolini, Discorso del Dalmine, 20 marzo 1919, in "Tutti i discorsi - anno 1919") In un primo momento la posizione di De Ambris e della sua UIL fu la più apprezzata da Mussolini, aprendo nel periodo 1919-1920 una forte convergenza tra i due, con il secondo che sostenne apertamente la UIL dalle colonne de Il Popolo d'Italia[11] ed il primo che dette un apporto considerevole al programma dei Fasci Italiani di Combattimento, costituiti il 23 marzo 1919 e dai quali prenderà spunto il fascismo durante la fase governativa.[12]  Il nucleo iniziale     Modifica Magnifying glass icon mgx2.svg                            Lo stesso argomento in dettaglio: Sansepolcrismoe Squadrismo.  Benito Mussolini a Dalmine con gli operai dello stabilimento autogestito.  Dino Grandi. È da questo connubio che, infatti, si costituisce in maniera strutturata il sindacalismo fascista, i cui protagonisti, dapprima immersi nei movimenti sindacalisti di varia estrazione sopra descritti, andarono a creare l'ossatura del nuovo movimento insieme agli interventisti futuristi, ad Arditi e reduci di guerra, nazionalisti e squadristi.[12]  Fra i maggiori esponenti di questo "sindacalismo squadrista", che affiancò i sindacalisti "puri", a cavallo tra gli anni dieci e venti Italo Balbo, Michele Bianchi, Gino Baroncini ma, soprattutto, Dino Grandi e lo squadrismo bolognese vicino agli ambienti de "L'Assalto", portatori di uno dei più genuini tratti del fascismo di sinistra, basato particolarmente (a Bologna) sulle rivendicazioni contadine, l'allargamento della piccola proprietà agricola ed al concetto de "la terra a chi la lavora".[13]  Alla fine del 1920 l'armonia tra sindacalismo rivoluzionario e fascismo sansepolcrista si spezzò quando, in conseguenza della grave sconfitta elettorale della fine del 1919, Mussolini operò la strategia della virata a destra per aprirsi maggiori spazi politici e, staccandoli dalla UIL, creò i Sindacati economici, che nel gennaio 1922 diventeranno poi la Confederazione nazionale delle corporazioni sindacalifasciste dirette da Rossoni.[14]  La crisi tra i due movimenti si attuò essenzialmente sul nodo della concezione del rapporto tra economia e politica. Da una parte il fascismo, che riteneva fondamentale che ogni dinamica attraverso la nazione sia controllata dallo Stato, dall'altra i sindacalisti rivoluzionari, che vedevano questa posizione come antitetica ai propri canoni libertari ed autonomisti[15], concependo la nazione come identità e sostanza storica di un popolo, ma lo Stato come sistema di potere di una classe esclusiva.[16]  «Il sindacalismo rivoluzionario, portando il suo contributo decisivo alla determinazione dell'Italia per l'intervento nella guerra, salvò l'onore dei lavoratori italiani e gettò le premesse in virtù delle quali l'organizzazione del lavoro è oggi, su piede di uguaglianza con tutte le altre forze economiche, elemento fondamentale dello Stato Corporativo. In questo senso soltanto può essere affermata la derivazione del movimento sindacale fascista dal vecchio sindacalismo rivoluzionario.»  (Tullio Masotti[17]) Rossoni e la Confederazione nazionale delle corporazioni sindacali fasciste                                         Modifica Magnifying glass icon mgx2.svg                         Lo stesso argomento in dettaglio: Confederazione nazionale delle corporazioni sindacali.  Edmondo Rossoni.  I quadrumviri e Benito Mussolini(da sinistra a destra: Emilio De Bono, Michele Bianchi, Mussolini, Cesare Maria De Vecchi e Italo Balbo). Il primo, il terzo ed il quinto furono sindacalisti. Nel gennaio 1922 si tenne il  I Convegno sindacale di Bologna, in cui si scontrarono le due visioni principali, già emerse in passato, riguardanti il grado di dipendenza dei sindacati nei confronti della politica e, in questo caso, del neocostituito Partito Nazionale Fascista (PNF). Si scontrarono quindi la visione "autonomista" di Edmondo Rossoni e di Dino Grandi e quella "politica" di Massimo Rocca e Michele Bianchi, tra le quali sarà vincente la seconda[18].  A Bologna vennero inoltre affermati i principi basilari della politica corporativa, con la conferma del superamento della lotta di classe nei confronti della collaborazione e dell'interesse nazionale su quello individuale o di settore, e la nascita della Confederazione nazionale delle corporazioni sindacali[1], una nuova formazione antisocialista ed anticattolica, costituita nella forma di sindacati autonomi formati da cinque Corporazioni suddivise per categorie lavorative e non ancora (lo saranno nel 1934) sindacati misti lavoratori-datori di lavoro. Come nel sindacalismo rivoluzionario, inoltre, le corporazioni dovevano riunire tutte le attività professionali che identificavano la loro "elevazione morale e economica (...) con il dovere imprescindibile del cittadino verso la Nazione".[11]  «La nazione, sintesi superiore di tutti i valori materiali e spirituali della razza, è al di sopra degli individui, dei gruppi e delle classi. Individui, gruppi e classi sono gli strumenti di cui la nazione si serve per migliorare le proprie condizioni. Gli interessi individuali e di gruppo acquistano legittimità a condizione che si realizzino nell'ambito dei superiori interessi nazionali.»  (Articolo 4 della Carta dei principi delle corporazioni[19]) Sulla Confederazione si svilupparono polemiche anche negli ambienti del sindacalismo internazionale: la sinistra operaia internazionale, in sede di Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO), contestava il titolo alla rappresentanza operaia alle corporazioni fasciste e, quindi, la possibilità di partecipare all'assemblea. La polemica non venne però accettata, e l'ILO permise alle Corporazioni di partecipare alle sedute senza interruzioni nel rinnovo del mandato.[20]  In sede congressuale Rossoni dichiarò l'esistenza di una linea di continuità tra il sindacalismo rivoluzionario, il sindacalismo fascista ed il corporativismo: per il sindacalismo fascista, infatti, l'ultimo era legato al primo sia per il comune intendimento del concetto di "rivoluzione" che, al di là dell'aspetto della rivolta popolare, in ambito lavorativo ritenevano rivestisse il significato di "sopravvento di superiori capacità produttive"; inoltre, ugualmente, avevano l'obbiettivo di innalzare il "proletario" (nell'accezione negativa del termine) al rango di "lavoratore" inserito a pieno titolo nella vita nazionale.[21]  «Il sindacalismo deve essere nazionale ma non può essere nazionale per metà: esso deve comprendere capitale e lavoro (...) e sostituire al vecchio termine proletariato, quello di lavoratore ed all'altro, di padrone, la parola dirigente, che più alta, più intellettuale, più grande.»  (Edmondo Rossoni, 18 gennaio 1926, Congresso dei Sindacati intellettuali fascisti.[22]) Nei mesi successivi, in concomitanza con il termine del biennio rosso e l'avanzata dell'offensiva militare del fascismo imperniata sulle squadre d'azione, ebbe luogo lo sfondamento politico in campo sindacale, con il passaggio di interi settori operai dalle strutture del Partito Socialista Italiano e della CGdL al fascismo. Tanto che, nell'estate del 1922, la Confederazione nazionale delle corporazioni sindacali contava 800.000 iscritti.[23] Ciò evidenziava il successo dei progetti di Rossoni, che aveva pensato di creare da una parte una base contadina potente ed affidabile che appoggiasse e facesse da riserva strategica allo squadrismo, dall'altra di fare del sindacalismo una delle pietre angolari dello Stato fascista.[24]  Con la Marcia su Roma, l'affermazione del sindacalismo fascista fu quasi definitiva[25] e l'inizio della costruzione del nuovo Stato portò quindi una relativa tranquillità nell'ambiente del sindacalismo stesso che, con il termine degli scontri e delle tensioni politiche, poté incentrarsi sul proprio sviluppo culturale e la propria evoluzione politica.[1] Emondo Rossoni così ne spiega definizione e scopo principale:  «(...) la salvaguardia della salute spirituale del popolo (...) Sindacato vuol dire: unione di interessi omogenei. Sindacalismo: azione che deve disciplinare e tutelare gli interessi omogenei (...) Noi rivendichiamo la concezione italiana del Sindacalismo alle corporazioni italianissime che sono nate ancor prima che la parola 'sindacalismo' fosse pronunciata.»  (Edmondo Rossoni, La Marcia su Roma e il compito dei sindacati, Napoli, 1922[26]) Caratteristiche principali, che evidenziavano la differenza del sindacalismo fascista rispetto a quello socialista, furono anche la mancanza di dogmatismo, teologismo e perseguimento di finalità remote, come ad esempio il prefiggersi in anticipo un determinato tipo di obbiettivo finale, come il tipo di economia da instaurare, ma tentando sempre di adeguarsi alla realtà del mondo.[27]  Questo clima non portò fine al dibattito interno, che anzi aumentò decisamente, tanto che gli stessi vecchi sindacalisti rivoluzionari come Edmondo Rossoni, Agostino Lanzillo, Sergio Panunzio e Angelo Oliviero Olivetti, discutevano e si dividevano spesso e volentieri tra loro.[28] In tutti però[29] un'evoluzione era avvenuta: il sindacalismo non era più considerato propulsore del libero mercato ma, aderendo al concetto di nazione come unità organica d'intenti, ritenevano che il sindacato - come gli imprenditori - dovesse trovare il suo limite nel superiore interesse della patria, rigettando il concetto di libero mercato stesso e giungendo al tal punto da definire che "la nazione è il più grande sindacato".[30]  Le prime forti tensioni con i conservatori ed il padronatoModifica  Roberto Farinacci nel 1925.  Renato Ricci con la sua squadra d'azione carrarese impegnata a S. Terenzio nello sgombero delle macerie del forte di Falconara 1922 Immediatamente dopo l'apice della Marcia su Roma si accese però lo scontro tra il fascismo di sinistra ed i settori più conservatori dello Stato. Tra il 1921 ed il 1923 avvennero alcuni episodi chiave:  la creazione dei gruppi di competenza,[31] da parte di Massimo Rocca, limitanti lo spazio sindacale della Confederazione nazionale delle corporazioni sindacali[32]; il tentativo di bloccare il corporativismo da parte di Confindustria e Confagricoltura, contrapposti alla minaccia di Rossoni di assalti, scontri ed occupazione delle fabbriche da parte dei lavoratori fascisti[32]; l'appoggio diretto al sindacalismo fascista da parte di tutta la sinistra fascista nazionale, compresi Michele Bianchi e Roberto Farinacci[33]; il lancio del sindacalismo integrale (1923) da parte di Rossoni, che puntava ad inglobare nelle corporazioni Confindustria e Confagricoltura (ossia le rappresentanze sindacali dei datori di lavoro)[34]; la creazione della Federazione italiana dei sindacati agricoltori (FISA) e della Corporazione dell'Industria e del Commercio da parte di Rossoni; i primi tentativi di trasformare le organizzazioni sindacali da associazioni di fatto in organi di diritto pubblico da parte di Armando Casalini[35]; il patto siglato tra Confederazione nazionale delle corporazioni sindacali e Confindustria nel dicembre del 1923 a Palazzo Chigi, in ottica di limitazione dei conflitti di classe[13]. «(Sia il Capitale sia il Lavoro, ndr) devono essere disciplinati. L'appetito all'infinito è malefico e assurdo. Per queste ragioni il sindacalismo fascista è per la collaborazione (...) ma con gli industriali che si impuntano e dicono comandiamo noi, occorre lottare decisamente per dare ai lavoratori il posto degno nella vita della nazione»  (Edmondo Rossoni, adunata al Teatro Regio di Torino, 16 gennaio 1926[36]) In questo periodo di tensioni tra industriali e sindacati fascisti, difficile per l'attecchimento della collaborazione di classe vagheggiata dal fascismo per il mondo del lavoro, assurgono agli onori del sindacalismo fascista le personalità di Mario Gianpaoli, sindacalista e federale del PNF di Milano, e di Domenico Bagnasco, segretario dei sindacati fascisti di Torino. Organizzatore e combattente di piazza, Bagnasco fu deciso a prendere di petto gli industriali, accusando il padronato di "spietata intransigenza antioperaia". Spesso i sindacalisti fascisti di questo periodo pagarono con la fine della propria carriera politica l'attivismo sfrenato, a causa di un fascismo ancora non abbastanza forte da poter far fronte ad uno scontro con la grande industria, appoggiata dai molti uomini del precedente regime ancora posizionati nelle istituzioni dello Stato. Essi ebbero però il merito di infondere risolutezza in molti sindacalisti di periferia.[37]  La seconda fase del sindacalismo fascistaModifica  Monumento a Luigi Razza.  Enrico Corradini. Si entra quindi in quella che viene chiamata "la seconda fase del sindacalismo fascista"[38], durante la quale il sindacalismo e tutte le componenti della sinistra fascista tornarono all'attivismo ed alla tensione del periodo rivoluzionario. Sergio Panunzio ricominciò a tuonare a favore della ripresa dell'anima rivoluzionaria del fascismo e del recupero del programma del '19[39], esprimendosi per la creazione di una Camera sindacale e del lavoro e di un Senato politico.[40]  Nel febbraio 1924 cadde la Confagricoltura, inglobata dalla fascista Federazione italiana sindacati agricoli, riunendo in un'unica corporazione i lavoratori con i grandi e piccoli proprietari agricoli.[34]  Il nuovo spostamento a sinistra dello schieramento fascista, questa volta apertamente appoggiato da Mussolini stesso, portò ad un conseguente irrigidimento degli industriali sulle tradizionali posizioni reazionarie, decretando l'inizio di un'escalation. Si verificò quindi anche la ripresa militante dello squadrismo in appoggio all'azione sindacale fascista, dando luogo ad un'ondata di scioperi su tutto il territorio nazionale, i più infuocati dei quali in Valdarno, Lunigiana e ad Orbetello. In Valdarno lo sciopero venne organizzato dal dirigente Bramante Cucini, seguace di Sergio Panunzio, e finanziato direttamente dai Comuni amministrati dal Partito Nazionale Fascistae da uno stanziamento apposito del Direttorio generale del PNF, con la pubblica approvazione di Mussolini.[41] Al termine dello sciopero si ebbe perfino la nomina statale di una commissione straordinaria di lavoratori per gestire le miniere, destando comprensibile spavento tra il padronato.[42]  Nel novembre del 1924 si tenne a Roma il II Congresso nazionale delle corporazioni. Qui venne messa momentaneamente da parte la strada della collaborazione di classe, per riprendere quella della lotta in difesa dell'unità dei lavoratori e dell'istituzionalizzazione delle corporazioni, quest'ultimo aspetto chiesto a gran voce durante tutto il congresso dalla maggioranza degli esponenti, soprattutto quelli rappresentanti i sindacati agricoli provinciali, come Mario Racheli.[32]  «Nei riflessi della politica economica non v'è chi non afferri l'utilità nazionale di rendere responsabili le organizzazioni sindacali e di creare discipline contrattuali garantite dalla legge.»  (Edmondo Rossoni, intervento al II Congresso nazionale delle corporazioni.[43]) In questo quadro ha luogo, come in altri casi era avvenuto, un'avversione crescente nei confronti dell'inerzia e dell'inattivismo di Mussolini verso la situazione generale, legato alla fase ed alle operazioni di consolidamento del potere del fascismo all'interno della formazione statale. Ciò generò, in diversi casi, il concepimento e la presa di decisioni autonome da parte dei capisquadra, dei leader sindacali e dell'ala movimentista[44][45] e la messa in evidenza della natura anticapitalista che permeava il fascismo provinciale nei confronti di quello cittadino, dove il movimentismo si scontrava coi circoli conservatori. Questa natura emerse visibilmente e prepotentemente con lo sciopero carrarese organizzato da Renato Ricci, capo delle squadre d'azione della Lunigiana. In tale frangente lo sciopero fascista (autunno-inverno del 1924) portò ad una radicalizzazione estrema dello scontro con "i baroni del marmo", imperanti nel carrarese, da portare all'occupazione ed all'autogestione delle cave e delle industrie di lavorazione, ma soprattutto (dato che lo sciopero non si risolse con una vera e propria vittoria) a divenire una delle cause fondamentali della nascita di una corrente di dissidenti all'interno del fascismo "ufficiale".[46][47]  Il 3 gennaio 1925 ha luogo il discorso alla Camera con cui Mussolini si prende carico della responsabilità politica della vicenda Matteotti.  L'8 gennaio il Direttorio delle corporazioni e quello del Partito Nazionale Fascista si riuniscono congiuntamente studiando una serie di problemi da risolvere per valorizzare il ruolo delle classi lavoratrici ed il loro inserimento a pieno titolo nella vita nazionale, producendo poi un ordine del giorno in cui si autorizzavano i sindacati fascisti a ricorrere alla "lotta economica" contro industriali e capitalisti, rei di "colpevole incomprensione" dei fini e della prospettiva sociale e nazionale del fascismo. Ciò determina, insieme all'entusiasmo per l'intransigenza insita nel discorso di Mussolini, l'instaurazione di un clima da "seconda ondata", rimettendo nuovamente in moto la rivoluzione da sinistra e accendendo nuovamente l'entusiasmo del fascismo movimentista.[32]  Nel marzo del 1925 avviene quindi l'ultima grande azione di forza della Confederazione nazionale delle corporazioni sindacali, che scavalcò le vertenze sindacali in corso tra la O.M. di Brescia e la FIOMindicendo uno sciopero a sorpresa, scatenato da una serie di multe e licenziamenti inflitti agli operai fascisti che, per protesta, abbandonarono i posti di lavoro. Le agitazioni ottennero l'appoggio di Roberto Farinacci, in quel periodo segretario nazionale del Partito, e, di contrasto, gli appelli alla moderazione di Mussolini, che consigliò cautela a Rossoni per non ripetere le vittorie di Pirro degli scioperi valdarnesi e carraresi.[32]Le agitazioni dei metallurgici riuscirono però ad allargarsi fino a Milano, dove gli operai socialisti e comunisti vennero invitati ad aderire; le attività di contestazione cominciarono poi ad interessare anche carovita ed altri argomenti, estendendosi a tutta la Lombardia ed assumendo, soprattutto con il sindacalfascista Luigi Razza caratteri indipendenti dal governo e di aperta minaccia e violenza nei confronti degli industriali, terrorizzati dalla possibilità di combinazioni politiche unitarie impreviste.[48] Dopo lunghe trattative le agitazioni rientrarono, decretando un grosso insuccesso per gli industriali, che dovettero fare buone concessioni, sebbene non totali, agli operai tramite i sindacati fascisti, e l'emarginazione completa della FIOM, i cui rappresentati si spostarono in massa nelle Corporazioni.[1]  «Per ben tre anni l'esistenza di un sindacalismo fascista, cioè di un movimento sindacale guidato da fascisti e orientato verso le idee del fascismo, fu ostinatamente negata. Ci voleva, per dissuggellare gli occhi dei ciechi volontari e fanatici, il fatto clamoroso: lo sciopero che mettesse in campo le forze sindacali del fascismo e che desse in pari tempo allo stesso sindacalismo fascista una più risoluta nozione della sua forza e delle sue possibilità di azione.»  (Benito Mussolini, Fascismo e sindacalismo, a seguito degli scioperi metallurgici organizzati dai sindacati fascisti in Nord Italia[27][49]) Altro commento che rivela il momento infuocato fu quello di Corradini, sindacalista nazionale:  «Il superamento del socialismo, non la dispersione, non la distruzione dell'opera socialista. Questo è buono affermare, in occasione dello sciopero dei sindacati fascisti (...) Vi è fra socialismo e fascismo un nesso storico, oso dire una continuazione storica (...) Il fascismo supera il socialismo, ma raccoglie i buoni frutti dell'opera socialista e secondo la sua propria legge, quando occorra, tale opera continua»  (Enrico Corradini, su Il Popolo d'Italia[41]) La trasformazione in organi di diritto pubblicoModifica  Edmondo Rossoni in Piazza del Popolo (Roma) annuncia la promulgazione della Carta del Lavoro.  Ugo Spirito. La conseguenza principale di questi avvenimenti furono però gli accordi di Palazzo Vidoni (2 ottobre 1925), in cui venne riconosciuto dalla Confederazione nazionale delle corporazioni sindacali e da Confindustria la reciproca esclusività di rappresentanza di lavoratori e datori di lavoro, con l'impegno al conseguimento prioritario dell'interesse nazionale.[1]  Va però evidenziata soprattutto la legge del 3 aprile 1926: con questa legge vennero infatti, tra l'altro, realizzata l'istituzionalizzazione dei sindacati fascisti e legalizzato il loro monopolio per la rappresentanza dei lavoratori con la nascita della contrattazione collettiva del lavoro. Ciò andava a significare che le Corporazioni divennero organi di diritto pubblico dell'amministrazione statale, con "funzioni di conciliazione, di coordinamento ed organizzazione della produzione". All'interno di questa legge era inoltre presente l'articolo 42, che prevedeva una direzione comune tra le associazioni di categoria delle due parti, contenendo in nuce il progetto corporativo a sindacato misto che verrà realizzato negli anni trenta.[50]  Dopo questa vittoria, per Rossoni si ebbe la redazione della Carta del Lavoro (1927), testo fondamentale della politica sociale fascista in ottica di eliminazione della dicotomia tra le classi sociali[51] ma, dall'anno successivo, con Farinacci non più alla segreteria nazionale del PNF, ebbero sfogo gli attacchi alla Conferenza nazionale delle corporazioni sindacali, che venne smembrata dai circoli conservatori (novembre 1928), capeggiati da Giuseppe Bottai (sottosegretario al Ministero delle corporazioni) ed Augusto Turati(nuovo segretario del partito), in sei separate confederazioni di sindacati, facendo diminuire il potere contrattuale dell'organismo, disperdendolo in strutture più piccole e limitate.[52]  Il secondo Convegno di Studi sindacali e corporativiModifica Nel periodo che intercorse da questo momento alla legge del 5 febbraio 1934, istitutiva delle corporazioni, si ebbe uno blocco totale dell'azione nel settore, in cui intervenne positivamente soltanto il II Convegno di Studi sindacali e corporativi, tenutosi a Ferrara nel maggio del 1932, nel quale emerse il concetto di corporazione proprietaria proposta da Ugo Spirito[53], nei confronti della quale il sindacalismo fascista si trovò su posizioni contrastanti a causa di un arroccamento di tipo ideologico: rimasti su posizioni classiste nel passaggio dal socialismo eterodosso al fascismo, molti degli esponenti pre-rivoluzionari del sindacalismo fascista (Lanzillo, Giampaoli, Bagnasco, ecc.) videro il progetto di annullare il sindacalismo nel corporativismo come un progetto reazionario, rimanendo ancorati alla concezione della lotta di classe come uno scontro benefico per gli interessi individuali e nazionali.[54]  L'incapacità di accettare la proposta di Spirito da parte dei primi sindacalisti fascisti, ma anche i "nuovi" come Luigi Razza e Pietro Capoferri, fu dovuta quindi essenzialmente al rigetto totale della visione statalista che andava formandosi nel fascismo ed al cui finalismo erano sempre stati avversi: per loro "la corporazione è il sindacato, e dire Stato corporativo è come dire Stato sindacale"[54][55]  L'esaurimento del sindacalismo fascista nelle CorporazioniModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Corporativismo.  Sede dell'Opera Nazionale Dopolavoro. Nel 1934 viene approvata la creazione dello Stato corporativo che, con le nomine dall'alto al posto delle cariche elettive e l'abolizione (fino al 1939) del fiduciario di fabbrica, aveva dato tra l'altro alle corporazioni, divenute veri e propri sindacati formati dai rappresentanti dei lavoratori e dei datori di lavoro ed istituzionalizzati nello Stato, la facoltà di stipulare i contratti collettivi di lavoro.[27][56]  In ogni caso il cambiamento di assetto istituzionale e la rivoluzione nel mondo del lavoro, non pregiudicarono i risultati effettivi che il sindacalismo fascista aveva ottenuto negli anni. Tra le più importanti si possono elencare:  ferie pagate; indennità di licenziamento; conservazione del posto in caso di malattia; divieto di licenziamento in caso di maternità; assegni familiari; diffusione delle casse mutue aziendali; assistenza sociale dell'Opera Nazionale Dopolavoro(ad es. centri ricreativi, viaggi collettivi a prezzo simbolico, manifestazioni teatrali, etc).[50] Il 21 aprile 1930 fu Mussolini stesso a rivendicare alle corporazioni la funzione di esaurire in sé il compito del sindacalismo fascista, superando ed andando oltre al sindacalismo stesso, inserendosi nel solco della Rivoluzione continua:  «È nella corporazione che il sindacalismo fascista trova infatti la sua meta. Il sindacalismo, di ogni scuola, ha un decorso che potrebbe dirsi comune, salvo i metodi: s'incomincia con l'educazione dei singoli alla vita associativa; si continua con la stipulazione dei contratti collettivi; si attua la solidarietà assistenziale o mutualistica; si perfeziona l'abilità professionale. Ma mentre il sindacalismo socialista, per la strada della lotta di classe, sfocia sul terreno politico, avente a programma finale la soppressione della proprietà privata e dell'iniziativa individuale, il sindacalismo fascista, attraverso la collaborazione di classe, sbocca nella corporazione, che tale collaborazione deve rendere sistematica e armonica, salvaguardando la proprietà, ma elevandola a funzione sociale, rispettando l'iniziativa individuale, ma nell'ambito della vita e dell'economia della Nazione. Il sindacalismo non può essere fine a sé stesso: o si esaurisce nel socialismo politico o nella corporazione fascista. È solo nella corporazione che si realizza l'unità economica nei suoi diversi elementi: capitale, lavoro, tecnica; è solo attraverso la corporazione, cioè attraverso la collaborazione di tutte le forze convergenti a un solo fine, che la vitalità del sindacalismo è assicurata.»  (Benito Mussolini, discorso inaugurale del Consiglio Nazionale delle corporazioni[57]) Maggiori esponenti ed ispiratori                                               Modifica Filippo Corridoni Enrico Corradini Alceste De Ambris Sergio Panunzio Angelo Oliviero Olivetti Ottavio Dinale Agostino Lanzillo Dino Grandi Luigi Fontanelli Riccardo Del Giudice Michele Bianchi Gino Baroncini Tullio Cianetti Edmondo Rossoni Luigi Razza Mario Racheli Domenico Bagnasco Bramante Cucini Pietro Capoferri Giuseppe Landi Alcide Aimi RivisteModifica La Stirpe Il Lavoro Fascista (poi organo ufficiale del Partito Fascista Repubblicano) Il Lavoro d'Italia Cultura Sindacale Rivista del Lavoro L'Idea Sindacalista Il Lavoro I Problemi del Lavoro NoteModifica ^ a b c d e Francesco Perfetti, Il sindacalismo fascista. Dalle origini alla vigilia dello Stato corporativo (1919-1930), vol. 1, Bonacci, Roma, 1988. ^ Breve storia dell'Usi di Ugo Fedeli ^ Ivano Granata, La nascita del sindacato fascista. L'esperienza di Milano, De Donato, Bari, 1981. ^ Curzio Malaparte e Edda Ronchi Suckert, Malaparte, vol. 1, Ponte delle Grazie, 1991. ^ operante tra il 1918 ed il 1925 e senza legami con la UIL attuale. ^ a b Ferdinando Cordova, Le origini dei sindacati fascisti, Roma e Bari, 1974; ristampa Firenze, La Nuova Italia, 1990. ISBN 88-221-0774-8 ^ Nel cui sottotitolo cambiava, in questo periodo, la dicitura da quotidiano socialista in quotidiano dei produttori ^ Francesco Perfetti, Dal sindacalismo rivoluzionario al corporativismo, Bonacci, Roma, 1984. ^ Renzo de Felice, Mussolini il rivoluzionario, Torino, Einaudi, 2005. ^ Filippo Corridoni (a cura di Andrea Benzi), ...come per andare più avanti ancora - gli scritti, Milano, Seb, 2001 ^ a b Simonetta Falasca Zamponi, Lo spettacolo del fascismo, Rubbettino, Roma, 2003. ^ a b Renzo De Felice, Mussolini il rivoluzionario, Torino, Einaudi, 2005. ^ a b Renzo De Felice, Mussolini il fascista, I, La conquista del potere. 1921-1925, Torino, Einaudi, 2005. ^ Italo Mario Sacco, Storia del sindacalismo, Torino, 1947. ^ Angelo Olivero Olivetti Dal sindacalismo rivoluzionario al corporativismo, op. cit., p. 72-73 ^ Francesco Perfetti, Dal sindacalismo rivoluzionario al corporativismo, Roma, Bonacci, 1984. ^ in Corridoni, Casa editrice Carnaro, Milano, 1932, pag. 76 ^ Anche per via del cambiamento di schieramento di Grandi: Renzo De Felice, Mussolini il fascista, I, La conquista del potere. 1921-1925, Torino, Einaudi, 2005. ^ Carmen Haider, Capital and Labour under Fascism, Columbia University Press, New York, 1930. ^ R. Allio, La polemica Joubaux-Rossoni e la rappresentanza delle corporazioni fasciste nell'ILO, "Storia contemporanea", Bologna, 1973, anno IV, n. 3 ^ Annali della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, Marginalismo e socialismo nell'Italia liberale (1870-1925), Feltrinelli, Milano, 2001 ^ "Il Giornale d'Italia", 19 gennaio 1926; "Il Mondo", 19 gennaio 1926. ^ Renzo De Felice, Mussolini il rivoluzionario, Torino, Einaudi, 2005. ^ Ferdinando Cordova, Uomini e volti del fascismo, Bulzoni, Roma, 1980. ^ Ancora forti rimanevano i sindacati socialisti (CGdL) e comunisti soprattutto tra metallurgici e metalmeccanici del nord-ovest e lo rimarranno fino allo sciopero fascista della OM di Brescia, espansosi poi in tutto il nord Italia, del 1925. In Luca Leonello Rimbotti, Il Fascismo di sinistra, Edizioni Settimo Sigillo, Roma, 1989. ^ Le idee della ricostruzione. Discorsi sul sindacalismo fascista, Bemporad, Firenze, 1924. ^ a b c Edoardo e Duilio Susmel, Opera Omnia di Benito Mussolini, La Fenice, Firenze. ^ Giuseppe Parlato, Il sindacalismo fascista. Dalla grande crisi alla vigilia dello Stato corporativo (1930-1943), Bonacci, Roma, 1989. ^ Con l'eccezione di Lanzillo, che continuò pericolosamente a portare avanti idee liberiste anche durante il regime. ^ Angelo Oliviero Olivetti, Bolscevismo, comunismo e sindacalismo, Editrice Rivista Nazionale, Milano, 1919. ^ Deliberazione congiunta del 6 luglio 1922 del PNF e del Gruppo parlamentare del partito ^ a b c d e Ferdinando Cordova, Le origini dei sindacati fascisti, Laterza, 1974. ^ Espressosi esplicitamente, in particolare, nella seduta del Gran Consiglio del Fascismo del 15 marzo 1923, occupatasi dell'analisi dei problemi sindacali. In questo ambito Michele Bianchi definì "dittatoriale" la "procedura introdotta dal sindacalismo fascista", mentre il sindacalista nazionale Maraviglia ribadì che "la doppia organizzazione, cioè quella dei datori di lavoro e quella dei lavoratori, allontana ogni pericolo che anche il Fascismo, per le pressioni e l'influenza delle organizzazioni sindacali, possa diventare un partito di classe". In Claudio Schwarzenberg, Il sindacalismo fascista, Mursia, Milano, 1972. ^ a b Francesca Tacchi, Storia illustrata del fascismo, Giunti, Firenze, 2000. ^ Luca Leonello Rimbotti, Il Fascismo di sinistra, Edizioni Settimo Sigillo, Roma, 1989 ^ Corriere della Sera, 18 gennaio 1926 ^ AA. VV., Uomini e volti del fascismo, Bulzoni, Roma, 1980. ^ "(...) contrassegnata da un parziale ritorno alla teoria e alla pratica del conflitto di classe", in Adrian Lyttelton, La conquista del potere. Il fascismo dal 1919 al 1929, Laterza, Bari, 1974 ^ "Il fascismo è una dottrina, una fede, una civiltà nuova. Riemerge ora l'anima rivoluzionaria del Fascismo. Il Fascismo deve immediatamente tornare, non per opportunismo, ma per necessità storica, al programma del '19 (...) L'anima del Fascismo è, ricordiamolo sempre, il Sindacalismo Nazionale, la cui formula Mussolini lanciò prima del 1918, prima di Vittorio Veneto". In Sergio Panunzio, La méta del Fascismo, in Il Popolo d'Italia, 22 giugno 1924 ^ Attilio Tamaro, Venti anni di storia, Editrice Tiber, Roma, 1953. ^ a b Claudio Schwarzenberg, Il sindacalismo fascista, Mursia, Milano, 1972. ^ Il Mondo, 1924 ^ Rossoni stava, nel suo intervento, illustrando le future battaglie del sindacalismo fascista sui contratti collettivi di lavoro. In Ferdinando Cordova, Le origini dei sindacati fascisti, Laterza, 1974. ^ "In questo periodo - fine '24 - continuarono ad affiorare, in seno al sindacalismo fascista, tendenze centrifughe verso Mussolini e il partito, la cui sorte pareva a molti gravemente compromessa" in Alberto Acquarone, La politica sindacale del fascismo ^ Alberto Aquarone e Maurizio Vernassa, Il regime fascista, Il Mulino, Bologna, 1974. ^ Che rientrò poi in breve tempo nell'alveo della sinistra fascista ufficiale. ^ Sandro Setta, Renato Ricci: dallo squadrismo alla Repubblica sociale italiana, Il Mulino, 1986. ^ Bruno Uva, La nascita dello stato corporativo e sindacale fascista, Carucci, Assisi-Roma, 1974. ^ Gerarchia n° 5, maggio 1925 ^ a b Alberto Acquarone, L'organizzazione dello Stato totalitario, Einaudi, Torino, 1965. ^ R. Arata, Decennale della Carta del Lavoro - Sul piano dell'Impero, su "L'Italia", Milano, 21 aprile 1937 ^ Renzo De Felice, Mussolini il fascista. Vol. 2: L'organizzazione dello Stato fascista (1925-1929), Einaudi, 2008. ^ Ugo Spirito, Memorie di un incosciente, Rusconi, Milano, 1977. ^ a b Silvio Lanaro, Appunti sul fascismo di sinistra - La dottrina corporativa di Ugo Spirito, Firenze, in Belfagor, anno XXVI, 1971 ^ Giuseppe Parlato, Ugo Spirito e il sindacalismo fascista, in AA. VV., Il pensiero di Ugo Spirito, vol. 1, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Roma, 1988. ^ Luca Leonello Rimbotti, Il Fascismo di sinistra, Edizioni Settimo Sigillo, Roma, 1989. ^ Edoardo e Duilio Susmel Opera Omnia di Benito Mussolini, La Fenice, Firenze. BibliografiaModifica Testi in lingua italianaModifica AA. VV., Uomini e volti del fascismo, Bulzoni, Roma, 1980. Critica Fascista, antologia a cura di De Rosa e Malgeri, Landi, San Giovanni Valdarno, 1980. Alberto Aquarone, La politica sindacale del fascismo. Alberto Aquarone e Maurizio Vernassa (a cura di), Il regime fascista, Il Mulino, Bologna, 1974. Alberto Aquarone, L'organizzazione dello Stato totalitario, Einaudi, Torino, 1965. R. Allio, La polemica Joubaux-Rossoni e la rappresentanza delle Corporazioni fasciste nell'ILO, "Storia contemporanea", Bologna, 1973. Annali della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, Marginalismo e socialismo nell'Italia liberale (1870-1925), Feltrinelli, Milano, 2001. Giorgio Bocca, Mussolini socialfascista, Garzanti, Milano, 1983. Giorgio Alberto Chiurco, Storia della rivoluzione fascista, Vallecchi, Firenze. Ferdinando Cordova, Le origini dei sindacati fascisti, Roma e Bari, 1974; ristampa Firenze, La Nuova Italia, 1990. ISBN 88-221-0774-8 Renzo De Felice, Mussolini il fascista. Vol. 1: La conquista del potere. 1921-1925, Torino, Einaudi, 2005. Renzo De Felice, Mussolini il fascista. Vol. 2: L'organizzazione dello Stato fascista (1925-1929), Torino, Einaudi, 2008. Renzo De Felice, Mussolini il rivoluzionario, Torino, Einaudi, 2005. Renzo De Felice, Autobiografia del fascismo. Antologia di testi fascisti, 1919-1945, Bergamo, Minerva italica, 1978. Emilio Gentile, Le origini dell'ideologia fascista, Laterza, Bari. 1975. Ivano Granata, La nascita del sindacato fascista. L'esperienza di Milano, De Donato, Bari, 1981. Silvio Lanaro, Appunti sul fascismo di sinistra - La dottrina corporativa di Ugo Spirito, Firenze, in Belfagor, anno XXVI, 1971. Adrian Lyttelton, La conquista del potere. Il fascismo dal 1919 al 1929, Laterza, Bari, 1974. Giuseppe Parlato, La sinistra fascista: storia di un progetto mancato, Il Mulino, 2008. Giuseppe Parlato, Ugo Spirito e il sindacalismo fascista, in AA. VV., Il pensiero di Ugo Spirito, vol. 1, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Roma, 1988. Giuseppe Parlato, Il sindacalismo fascista. Dalla grande crisi alla caduta del regime (1930-1943), vol. 2, Bonacci, Roma, 1989. Francesco Perfetti, Il sindacalismo fascista. Dalle origini alla vigilia dello Stato corporativo (1919-1930), vol. 1, Bonacci, Roma, 1988. Francesco Perfetti, Dal sindacalismo rivoluzionario al corporativismo, Bonacci, Roma, 1984. Italo Mario Sacco, Storia del sindacalismo, Torino, 1947. Gaetano Salvemini, Scritti sul fascismo, Vol. 3, Feltrinelli, 1961. Claudio Schwarzenberg, Il sindacalismo fascista, Mursia, Milano, 1972. Sandro Setta, Renato Ricci: dallo squadrismo alla Repubblica sociale italiana, Il Mulino, 1986. Edoardo e Duilio Susmel, Opera Omnia di Benito Mussolini, La Fenice, Firenze. Francesca Tacchi, Storia illustrata del fascismo, Giunti, Firenze, 2000. Attilio Tamaro, Venti anni di storia, Editrice Tiber, Roma, 1953. Simonetta Falasca Zamponi, Lo spettacolo del fascismo, Rubbettino, Roma, 2003. Testi in lingua stranieraModifica (EN) Carmen Haider, Capital and Labour under Fascism, Columbia University Press, New York, 1930. (EN) G. Lowell Field, The Syndacal and Corporative Institutions of Italian Fascism, Columbia University Press, New York, 1938. (EN) David D. Roberts, The Syndacalist Tradition and Italian Fascism, University of North Carolina Press, Chapel Hill, 1979. Voci correlateModifica Camera dei fasci e delle corporazioni Carta del Lavoro Corporativismo Corporazione proprietaria Confederazione nazionale delle corporazioni sindacali Collaborazione di classe Fasci Italiani di Combattimento Interventismo Leggi fascistissime Politica economica fascista Politica sociale (fascismo) Dalmine Rivoluzione fascista Squadrismo Sindacalismo rivoluzionario Sindacato fascista dei giornalisti Controllo di autoritàThesaurusBNCF 36490   Portale Fascismo   Portale Politica   Portale Storia d'Italia Ultima modifica 2 mesi fa di Tytire PAGINE CORRELATE Edmondo Rossoni sindacalista, giornalista e politico italiano  Angelo Oliviero Olivetti politico, politologo e giornalista italiano  Confederazione nazionale delle corporazioni sindacali WikipediaRiccardo Del Giudice. Giudice. Keywords: l’implicatura di Telesio, Telesio, polemica con Spirito su la distinzione tra sindacato e corporazione, le corporazione nell aroma papale, I diritti dello stato pontificio, il diritto della navegazione, contratto, gentile, la scuola al lavoro – ‘dottrina e prassi corporativa” --  – la tesi di telesio – consiglio nazionale delle corporazioni.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Giudice: l’implicatura di Telesio” -- The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51755870847/in/dateposted-public/

 

Grice e Giudice – corpi ed espressioni – filosofia italiana – filosofia siciliana -- Luigi Speranza (Antillo). Filosofo.  Grice: “Giudice has written an essay that poses a conceptual query for Austin’s conceptual query. It’s “Sull pudore” – “But do we have that in ordinary language?”” – Grice: “Giudice has also written on more standard forms of philosophy of language, and Nietzsche.” Dopo aver espletato studi classici si laurea con la tesi “Ideologia e Sociologia” -- Ricercatore all'Istituto di Filosofia di Messina. Direttore della collana "Filosofia Teoretica". Altre saggi: “La Nuova Filosofia, Messina, Sortino “Il discorso filosofico” “Gli echi del corpo” Verona,Paniere, “Il lessico di Nietzsche” Roma, Armando, Nietzscheana. Esercizi di lettura, Messina, Alfa, “Il tribunale filosofico” I simboli delle cose più alte, Fedeltà alla terra, Profili della contemporaneità, Cosenza, Pellegrini, “Stare insieme” Cosenza, Pellegrini, La filosofia del finito, Cosenza, Pellegrini, Gl’echi, Cosenza, Pellegrini Editore, Il corpo e l'espressione, Cosenza, Pellegrini, Scritti di filosofia ed etica, Cosenza, Pellegrini, Emozioni e cognitività: Un approccio fisiologico, Cosenza, Pellegrini Sul pudore -- Sul pudore e sull'osceno, Cosenza, Pellegrini Breve documento sulla "nuova filosofia", Cosenza, Pellegrini, Scritti di filosofia ed etica, Cosenza, Pellegrini, Su Messina e altri scritti, Cosenza, Pellegrini, Morelli, Puoi fidarti di te, Milano, Mondadori, Battaglia, Storia e cultura in Popper, Cosenza, L. Pellegrino, Battaglia, Guicciardini tra scienza etica e politica, Cosenza, L. Pellegrino,,  varie Giovanni Coglitore, Kant: cristianesimo come impegno morale, in Il contributo,  L'Espresso, Studi etno-antropologici e sociologici,.  Fisiologia branca della biologia che studia il funzionamento degli organismi viventi Lingua Segui Modifica Nota disambigua.svg Disambiguazione – "Fisiologo" rimanda qui. Se stai cercando l'omonimo trattato antico, vedi Il Fisiologo. La fisiologia (dal greco φύσις, physis, 'natura', e λόγος, logos, 'discorso', quindi 'studio dei fenomeni naturali') è la branca della biologia che studia il funzionamento degli organismi viventi[1], analizzando i principi chimico-fisici del funzionamento degli esseri viventi, siano essi mono o pluricellulari, animali o vegetali.    L'Uomo Vitruviano di Leonardo da Vinci, un'importante prima tappa nello studio della fisiologia. È detta "condizione fisiologica" lo stato in cui si verificano le normali funzioni corporee, mentre una condizione patologica è caratterizzata da anomalie che si traducono in malattie.[2]. Data l'estensione del campo di studi, la fisiologia si divide, fra gli altri, in fisiologia animale, fisiologia vegetale, fisiologia cellulare, fisiologia microbica, batterica e virale.[3] Il Premio Nobel per la Fisiologia o la Medicina è assegnato dall'Accademia reale svedese delle scienzea coloro che raggiungono risultati significativi in questa disciplina.  StoriaModifica  Claude Bernard e i suoi aiutanti. Olio su tela di Leon-Augus Wellcome. I primi studi fisiologici risalgono alle antiche civiltà dell'India e all'Egitto,[4][5] dove venivano condotti insieme agli studi anatomici, senza l'utilizzo della dissezione o della vivisezione.[6]  Lo studio della fisiologia umana come campo medico risale almeno al 420 a.C. ai tempi di Ippocrate, noto come il padre della medicina.[7] Ippocrate incorpora questa scienza alla sua teoria degli umori, che si basa su quattro sostanze fondamentali: terra, acqua, aria e fuoco; associate ad un corrispondente humor (bile nera, flegma, sangue e bile gialla, rispettivamente). Ippocrate nota alcune connessioni emotive ai quattro umori, che Claudio Galeno avrebbe poi ripreso nei suoi studi. Il pensiero criticodi Aristotele e la sua teoria sulla correlazione tra struttura e funzione ha segnato l'inizio dello studio della fisiologia nella Grecia antica. Come Ippocrate, Aristotele riprende la teoria umorale, che per lui consisteva in quattro qualità primarie: caldo, freddo, umido e secco.[8] Claudio Galeno è stato il primo ad utilizzare degli esperimenti per sondare le funzioni del corpo. A differenza di Ippocrate, però, Galeno sostiene che gli squilibri umorali siano situati in organi specifici, o nell'intero corpo.[9] Galeno ha poi introdotto la nozione di temperamento: sanguigno corrisponde al sangue; il flemmatico è legato al catarro; la bile gialla è collegata alla collera; e la bile nera corrisponde alla malinconia. Galeno afferma che il corpo umano è composto da tre sistemi collegati: il cervello e i nervi, responsabili dei pensieri e sensazioni; il cuore e le arterie, che danno la vita; e il fegato con le vene, che sono collegati alla nutrizione e la crescita.[9] Galeno è anche il fondatore della fisiologia sperimentale.[10] Per i successivi 1.400 anni, la fisiologia galenica influenza l'intera medicina.[9]  Jean Fernel (1497-1558), un medico francese, ha introdotto per primo il termine "fisiologia".[11]  Nel 1820, il fisiologo francese Henri Milne-Edwardsintroduce il concetto di divisione fisiologica del lavoro, che ha permesso di "confrontare e studiare le cose viventi come se fossero macchine create dall'industria dell'uomo". Ispirato dal lavoro di Adam Smith, Milne-Edwards ha scritto che il "corpo di tutti gli esseri viventi, animali o piante, assomiglia ad una fabbrica ... in cui gli organi, paragonabili ai lavoratori, lavorano incessantemente per produrre i fenomeni che costituiscono la vita dell'individuo." Negli organismi più differenziati, il lavoro può essere ripartito tra diversi strumenti o sistemi (chiamati da lui appareils).[12]  Nel 1858, Joseph Lister studia le cause della coagulazione del sangue e l'infiammazione. Le sue scoperte portano all'implemento di antisettici in sala operatoria, con conseguente diminuzione del tasso di mortalità degli interventi chirurgici.[2][13]  Nel XIX secolo, la conoscenza fisiologica ha iniziato a crescere ad un ritmo rapido, in particolare nel 1838, grazie alla teoria cellulare di Matthias Schleiden e Theodor Schwann, nella quale si afferma per la prima volta che gli organismi sono costituiti da unità chiamate celle. Le scoperte di Claude Bernard (1813-1878) hanno portato al concetto di milieu interieur(ambiente interno), che sarà poi ripreso e definito "omeostasi" dal fisiologo americano Walter B. Cannonnel 1929. Con omeostasi, Cannon intendeva "il mantenimento di stati stazionari nel corpo e i processi fisiologici con cui sono regolati."[14] In altre parole, la capacità dell'organismo di regolare l'ambiente interno. Va notato che, William Beaumont è stato il primo americano ad utilizzare l'applicazione pratica della fisiologia.  I fisiologi del XIX secolo come Michael Foster, Max Verworn, e Alfred Binet, sulla base delle idee di Haeckel, elaborano il concetto di fisiologia generale, una scienza unificata che studia le cellule,[15]ribattezzata biologia cellulare nel 900. Nel XX secolo, i biologi iniziano ad interessarsi agli organismi diversi dagli esseri umani, e nascono i campi della fisiologia comparata ed ecofisiologia.[16] Più di recente, la fisiologia evolutiva è diventata un sotto-disciplina distinta.[17]  DescrizioneModifica La fisiologia opera su diversi livelli, occupandosi sia dei meccanismi di base a livello molecolare sia di funzioni di cellule e organi, come pure dell'integrazione delle funzioni d'organo negli organismi complessi.   A seconda dell'ambito specialistico, la fisiologia si avvale delle conoscenze di numerose discipline, oltre alle già citate chimica e fisica, alcune branche della biologia quali: biochimica, biologia molecolare, anatomia, citologia e istologia e costituisce anche la base fondamentale per numerose discipline mediche quali la patologia, la farmacologia e la tossicologia.  Esistono diversi metodi per classificare la fisiologia[18]  In base al taxon: Fisiologia animale: studia i fenomeni e i meccanismi associati alle funzioni degli animali. Fisiologia vegetale: studia i fenomeni e i meccanismi associati alle funzioni dei vegetali. Fisiologia umana: studia i fenomeni e i meccanismi associati alle funzioni degli esseri umani Fisiologia microbica e virale. In base al livello di organizzazione: Fisiologia cellulare: studia i meccanismi associati al funzionamento delle cellule e le loro interazioni con l'ambiente. Fisiologia molecolare: studia i fenomeni e i meccanismi associati alle funzioni delle molecole Neurofisiologia: studia il funzionamento del sistema nervoso sia a livello cellulare che sistemico Fisiologia sistemica Fisiologia ecologica Fisiologia integrativa In base ai processi che causano variazioni fisiologiche: Fisiologia ambientale: studia le reazioni e l'adattamento dell'organismo sottoposto a differenti ambienti (temperatura, altitudine, inquinamento, ecc..). Fisiologia patologica: studia le modificazioni delle funzioni in seguito ad una patologia. Fisiologia dello sviluppo: studia i meccanismi e le fasi che conducono un organismo alla maturità riproduttiva. In base agli obiettivi finali della ricerca: Fisiologia applicata: studia la capacità umana d'interagire con l'ambiente esterno. Fisiologia comparata: studia le somiglianze e le differenze delle diverse specie animali. Fisiologia dell'esercizio: studia i meccanismi che interessano l'attività motoria e sportiva e come migliorare le prestazioni con l'allenamento. NoteModifica ^ Prosser, C. Ladd (1991).Comparative Animal Physiology, ambientale Environmental and Metabolic Animal Physiology(4 ° ed.).Hoboken, NJ: Wiley-Liss.pp. 1-12.ISBN 0-471-85767-X ^ a b ( EN ) Introduction to Physiology: History And Scope, in Medical News Today. URL consultato il 26 maggio 2017. ^ Hall, John (2011).Guyton e Hall Manuale di fisiologia medica(12 ° ed.).Philadelphia, Pa .: Saunders / Elsevier.p.3. ISBN 978-1-4160-4574-8. ^ D. P. Burma; Maharani Chakravorty. From Physiology and Chemistry to Biochemistry. Pearson Education. p. 8. ^ Francis Zimmermann. The Jungle and the Aroma of Meats: An Ecological Theme in Hindu Medicine. Motilal Banarsidass publications. p. 159. ^ ( EN ) Helaine Selin, Medicine Across Cultures: History and Practice of Medicine in Non-Western Cultures, Springer Science & Business Media, 31 maggio 2003, ISBN 978-1-4020-1166-5. URL consultato il 26 maggio 2017. ^ ( EN ) Physiology - humans, body, used, Earth, life, plants, chemical, methods, su www.scienceclarified.com. URL consultato il 26 maggio 2017. ^ C. George Boeree, Early Medicine and Physiology, su webspace.ship.edu. URL consultato il 26 maggio 2017. ^ a b c ( EN ) Galen of Pergamum | Greek physician, in Encyclopedia Britannica. URL consultato il 26 maggio 2017. ^ ( EN ) Stanley C. Fell e F. Griffith Pearson, Historical Perspectives of Thoracic Anatomy, in Thoracic Surgery Clinics, vol. 17, n. 4, 1º novembre 2007, pp. 443–448, DOI:10.1016/j.thorsurg.2006.12.001. URL consultato il 26 maggio 2017. ^ Wilbur Applebaum. Encyclopedia of the Scientific Revolution: From Copernicus to Newton. Routledge. p. 344. ^ R. M. cervello. The Pulse del modernismo: fisiologici Estetica a Fin-de-siècle Europa . Seattle: University of Washington Press, 2015. 384 pp.  ^ Milestones in Physiology (1822-2013)"Archiviato il 20 maggio 2017 in Internet Archive. (PDF). 1 October 2013. Retrieved 2015-07-25. ^ Theodore M. Brown e Elizabeth Fee, Walter Bradford Cannon, in American Journal of Public Health, vol. 92, n. 10, 27 maggio 2017, pp. 1594–1595. URL consultato il 27 maggio 2017. ^ ( EN ) Robert Michael Brain, The Pulse of Modernism: Physiological Aesthetics in Fin-de-Sicle Europe, University of Washington Press, 1º maggio 2015, ISBN 978-0-295-80578-8. URL consultato il 27 maggio 2017. ^ Feder, ME; Bennett, AF; WW, Burggren; Huey, RB (1987). New directions in ecological physiology. New York: Cambridge University Press. ISBN 978-0-521-34938-3. ^ ( EN ) Jr T Garland, P. A. Carter, Evolutionary Physiology, su https://dx.doi.org/10.1146/annurev.ph.56.030194.003051, 28 novembre 2003. URL consultato il 27 maggio 2017. ^ Moyes, C.D., Schulte, P.M. Principles of Animal Physiology, second edition. Pearson/Benjamin Cummings. Boston, MA, 2008. Altri progettiModifica Collabora a Wikiquote Wikiquote contiene citazioni di o su fisiologia Collabora a Wikibooks Wikibooks contiene testi o manuali sulla fisiologia Collabora a Wikizionario Wikizionario contiene il lemma di dizionario «fisiologia» Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su fisiologia Collegamenti esterniModifica fisiologia, su Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su Wikidata ( EN ) Fisiologia, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su Wikidata ( EN ) Opere riguardanti Fisiologia, su Open Library, Internet Archive. Modifica su Wikidata Fisiologia, in Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Controllo di autoritàThesaurus BNCF 2513 · LCCN( EN ) sh85062884 · GND ( DE ) 4045981-0 ·BNF ( FR ) cb120659591 (data) · J9U( EN ,  HE ) 987007531200405171 (topic) · NDL( EN ,  JA ) 00570362   Portale Biologia: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di biologia Ultima modifica 7 giorni fa di Zoro1996 PAGINE CORRELATE Biologia scienza che studia la vita  Storia della biologia Equilibrio idro-salino WikipediaSanti Lo Giudice. Giudice. Keywords: corpi ed espressioni, corpo, espressione, pudore, osceno, l’osceno nella Roma antica, l’osceno nella italia antica, fisiologia, fisiologico, natura --  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Giudice: corpi ed espressioni” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51756657916/in/dateposted-public/

 

Grice e Giuliano – filosofia italiana – Luigi Speranza – Grice: “When I think Giuliano, I think Donizetti – and Poliuto’s lions!” -- Flavio Claudio Giuliano (in latino: Flavius Claudius Iulianus; Costantinopoli), filosofo. L’ultimo sovrano dichiaratamente pagano, che tenta, senza successo, di riformare e di restaurare la religione romana dopo che essa era caduta in decadenza di fronte alla diffusione del cristianesimo. Giuliano. Keywords: pagano, ennico, prima Roma, terza Roma. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Giuliano” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/23245055244/in/photolist-2mQzBiv-2mQxzwE-2mQjVch-2mPQGvz-2mPC6Zb-2mN36eA-2mLLZRD-2mLNi1Z-2mLznXk-2mKC3nj-2mKk6t5-2mKgN49-2mJ4GHU-Bq5Z5y-CfbuaM-Bm5FTy-BUPaNy-B24BWv-nup62f-ncSD5f-mMFu8i-mPMvEo-mMFf9t-mMFixn-mMFtDV-mMFsxp-mMH8r5-mMQAmK-mPMhv7-mMFmrM-my8CQ1-mwcBH4-mwc4Gc-mwc6XV-mwcxz4-mwctYM-mwdQhS

 

 

Grice e Giussani – dell’amicizia – il comune,  fraternita, liberazione -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Desio). Filosofo. Grice: “I like Giussiani; of course at Oxford he would be a no-no, being a Catholic; but he understands the pragmatics of conversation!” Ricevette la prima introduzione dalla madre Angelina Gelosa, operaia tessile; il padre Beniamino, disegnatore e intagliatore, era un socialista. Entra nel seminario diocesano San Pietro Martire di Seveso dove frequenta i primi quattro anni di ginnasio. Si trasferì a Venegono Inferiore, nella sede principale del seminario dove frequenta l'ultimo anno di ginnasio, i tre anni del liceo e dove svolse i successivi studi di filosofia.  Ebbe come docenti, fra gli altri, Colombo, Corti, Carlo, e Figini. In quella sede conobbe i compagni di studio Manfredini e Biffi. Si interessò di Leopardi e delle chiese ortodosse.  Il 26 maggio 1945 Giussani, ventitreenne, ricevette l'ordinazione sacerdotale dal cardinale Ildefonso Schuster.  Dopo l'ordinazione, rimase nel seminario di Venegono come insegnante e si specializzò nello studio della teologia orientale (specie sugli slavofili), della teologia protestante e della motivazione razionale dell'adesione alla Chiesa. Lascia l'insegnamento in seminario per quello nelle scuole superiori. Inizia l'insegnamento della religione nelle scuole superiori a Milano dove fu suo alunno Giorello. Le riunioni di suoi studenti si tennero con il nome di Gioventù Studentesca (GS), che fonda insieme a Ricci e che fece parte dell'Azione Cattolica.  Inizia anche un'attività pubblicistica volta a porre attenzione sulla questione educativa. Redasse la voce "Educazione" per l'Enciclopedia Cattolica.  Sotto  Colombo continuò gli studi di teologia protestante per i quali soggiornò per cinque mesi negli Stati Uniti. Ottenne la cattedra di Introduzione alla Teologia a Milano.:Lo Spirito Santo ha suscitato nella Chiesa, attraverso di lui, un Movimento, il vostro, che testimoniasse la bellezza di essere cristiani in un'epoca in cui andava diffondendosi l'opinione che il cristianesimo fosse qualcosa di faticoso e di opprimente da vivere. Giussani s'impegnò allora a ridestare nei giovani l'amore verso Cristo "Via, Verità e Vita", ripetendo che solo Lui è la strada verso la realizzazione dei desideri più profondi del cuore dell'uomo, e che Cristo non ci salva a dispetto della nostra umanità, ma attraverso di essa. Il movimento da lui creato prese il nome di Comunione e Liberazione; ne assunse la guida presiedendone il consiglio generale.  Il Pontificio Consiglio per i Laici riconobbe la Fraternità di Comunione e Liberazione e Giussani ne guidò la Diaconia Centrale. Contribuì alla costituzione della Fondazione Banco Alimentare. Fra le sue numerose opere vi è la trilogia del Per Corso, redatta a partire dagli appunti delle lezioni di religione che aveva tenuto negli anni cinquanta al liceo Berchet e in seguito all'Università Cattolica. L'opera, pubblicata in successive edizioni prima da Jaca e poi da Rizzoli, è composta da “Il senso religioso, All'origine della pretesa cristiana e Perché la Chiesa. Propone la concezione della fede e dell'esperienza cristiana come incontro con Cristo attraverso la Chiesa cattolica. La fede è un «riconoscere una Presenza» ed occupa ogni singolo spazio della vita individuale (i rapporti umani, l'esperienza lavorativa, la vita sociale e politica). Da ciò nasce anche una critica alla ragione illuminista. L'idea della ragione come principale strumento offerto all'uomo nel rapporto con la realtà e della fede come metodo di conoscenza sono le premesse metodologiche per un'analisi dell'esperienza religiosa.  Dopo la morte, sono stati dedicati a Giussani:  Desio: nel paese natale di Giussani, la piazza retrostante il municipio e un monumento opera di Cristina Mariani a Milano: parcoGiussani, in predenza parco Solari Trivolzio: il piazzale adibito all'accoglienza delle auto dei pellegrini alla chiesa parrocchiale che ospita le spoglie di San Riccardo Pampuri. Finale Ligure: l'ultimo tratto del sentiero che porta all'antica chiesa di San Lorenzo di Varigotti: lì si tennero alcuni dei primi incontri di Comunione e Liberazione, che ancora si chiamava Gioventù Studentesca Castronno (VA): un largo presso la rotatoria all'uscita dell'Autostrada dei laghi. Ascoli Piceno: la scuola primaria e dell'infanzia "Giussani". Portofino: la piazzetta del faro Kampala (Uganda): la scuola secondaria Giussani Pozzolengo: il parco comunale adiacente al castello San Leo: un basso-rilievo in bronzo, opera dell'artista riminese Ceccarellia, sulla facciata del convento di Sant'Igne Rimini: la rotonda davanti al Palacongressi, nei pressi dell'area della demolita Fiera dove si sono svolte le prime edizioni del Meeting per l'amicizia fra i popoli Chiavari: un tratto del lungoporto Verona: i giardini presso ponte Garibaldi a Borgo Trento Cinisello Balsamo: un largo urbano nei pressi del comune Segrate: il centro sportivo della frazione di Redecesio Strade comunali sono state intitolate a don Giussani a Cagliari, Morrovalle, Rapallo, Treviglio, Mestre, ecc. La maggior parte delle opere deriva dalla trascrizione di dialoghi, conversazioni e lezioni svolte in pubblico durante raduni, convegni, esercizi spirituali. I suoi libri sono stati pubblicati dall'editore milanese Jaca. Rizzoli ha iniziato a rieditare i testi di Giussani in nuove edizioni aggiornate dotate spesso di un nuovo apparato di note e di nuovi contenuti editoriali e a volte con titoli diversi. Rizzoli ha anche pubblicato le opere inedited e volumi antologici di conversazioni precedentemente disponibili sotto forma di fascicoli pro manuscripto o di redazionali per varie riviste. Volumi di inediti o di riedizioni di  testi sono poi usciti anche per altri editori, tra i quali Marietti,  San Paolo, SEI, Piemme e Messaggero di Sant'Antonio. Trascrizioni di conversazioni e lezioni nel corso di incontri con i responsabili di Comunione e Liberazione, di esercizi spirituali e di incontri con appartenenti ai Memores Domini sono state di norma pubblicate come inserti redazionali o allegate come fascicoletti nelle riviste Tracce (precedentemente nota come CL-Littere Communionis, organo ufficiale del movimento), Il Sabato e 30 giorni nella Chiesa e nel mondo. Un gran numero di questi testi è stato poi pubblicato in volumi antologici.  -- è iniziata la catalogazione sistematica dei testi e degli scritti di Giussani. Giussani Scritti, curato dalla Fraternità di Comunione e Liberazione, inizia la pubblicazione di schede riassuntive dei testi. Ha diretto la collana editoriale I libri dello spirito cristiano per la Biblioteca Universale Rizzoli. La collana e poi sostituita da un'analoga iniziativa sotto il nome di Biblioteca della spirito cristiano, ha pubblicato titoli scelti fra quelli che più hanno segnato l'esperienza di Giussani e di Comunione e Liberazione. Ha diretto la collana discografica Spirto gentil, CD musicali di «introduzione alla musica» con allegato un booklet di norma contenente una nota introduttiva di Giussani, una scheda storica sui compositori o sui musicisti e una guida all'ascolto. Saggi: “Il senso religioso: all'origine della pretesa cristiana, Perché la Chiesa e Il rischio educativo. “Il senso religioso, Jaca, Reinhold Niebuhr, Jaca Teologia protestante, La Scuola Cattolica, Jaca Marietti, “L'impegno del cristiano nel mondo, Jaca, Tracce di esperienza e appunti di metodo cristiano, Jaca Dalla liturgia vissuta: una testimonianza, Jaca, San Paolo, Il rischio educativo, Jaca, SEI, Rizzoli, Tracce d'esperienza cristiana, Jaca Decisione per l'esistenza, Jaca L'alleanza, Jaca Il senso della nascita, colloquio con Testori, BUR Rizzoli, Moralità: memoria e desiderio, Jaca, Alla ricerca del volto umano, Jaca  Rizzoli, Pregare, illustrazioni di Marina Molino, Jaca La fede e le sue immagini, illustrazioni di Marina Molino, Jaca La coscienza religiosa nell'uomo moderno, Jaca,  Il senso religioso, PerCorso, Jaca Rizzoli, All'origine della pretesa Cristiana, Jaca Rizzoli, Perché la Chiesa, Jaca, Rizzoli, Un avvenimento di vita, cioè una storia, EDITIl Sabato L'avvenimento cristiano, BUR Rizzoli, Il senso di Dio e l'uomo moderno, BUR Rizzoli, Si può vivere così?, BUR Rizzoli, Rizzoli Il PerCorso, Jaca, Opere: Jaca Book, Il tempo e il tempio, BUR Rizzoli, Realtà e giovinezza: la sfida, SEI; Rizzoli, Il cammino al vero è un'esperienza, SEI, Rizzoli, Le mie letture, Rizzoli, Si può (veramente?!) vivere così?, BUR Rizzoli, Porta la speranza, Marietti Riconoscere una presenza, San Paolo, Lettere di fede e di amicizia a Majo, San Paolo, Generare tracce nella storia del mondo, con Alberto e Prades, Rizzoli, L'uomo e il suo destino, Marietti Scuola di Religione, SEI, L'io, il potere, le opere, Marietti Tutta la terra desidera il Tuo volto, San Paolo, Che cos'è l'uomo perché te ne curi?, San Paolo, Avvenimento di libertà, Marietti L'opera del movimento. La Fraternità di Comunione e Liberazione, San Paolo, Il miracolo dell'ospitalità, Piemme,Il Santo Rosario, San Paolo, Egli solo è. Via Crucis, San Paolo, La libertà di Dio, Marietti, Come si diventa cristiani, Marietti La familiarità con Cristo, San Paolo, Vivere intensamente il reale, La Scuola,. Spirto gentil, BUR Rizzoli,. Cristo compagnia di Dio all'uomo, EMessaggero Padova, Collana Quasi Tischreden "Tu" (o dell'amicizia), BUR Rizzoli, Vivendo nella carne, BUR Rizzoli, L'attrattiva Gesù, BUR Rizzoli, L'auto-coscienza del cosmo, BUR Rizzoli, Affezione e dimora, BUR Rizzoli, Dal temperamento un metodo, BUR Rizzoli, Una presenza che cambia, BUR Rizzoli, Collana L'Equipe Dall'utopia alla presenza  BUR Rizzoli, Certi di alcune grandi cose, BUR Rizzoli, Uomini senza patria BUR Rizzoli, Qui e ora BUR Rizzoli, “L'io rinasce in un incontro” BUR Rizzoli, Ciò che abbiamo di più caro, BUR Rizzoli, Un evento reale nella vita dell'uomo BUR Rizzoli, In cammino BUR Rizzoli, Collana Cristianesimo alla prova Una strana compagnia, BUR Rizzoli, La convenienza umana della fede, BUR Rizzoli, La verità nasce dalla carne, BUR Rizzoli, Un avvenimento nella vita dell'uomo, BUR Rizzoli,  Interviste Comunione e Liberazione. Interviste Robi Ronza, Milano, Jaca Book, Un caffè in compagnia. Conversazioni sul presente e sul destino, colloqui conFarina, Milano, Rizzoli. Il fondatore: Comunione e Liberazione. Camisasca "C’altro Sessantotto", da "L'Osservatore Romano" ORIGINE, in Banco Alimentare, Elemedia S.p.A.Area Internet, Il mistero di don Giussani. Rivelato dai suoi scritti, su chiesa.espresso.repubblica. Oggi l'addio a don Giussani Il Tirreno, in ArchivioIl Tirreno. Società Coop. Edit. Nuovo Mondo Via Porpora, Milano Tracce , «Cristo è veramente tutto, è il compiersi dell’umano», su tracce. Repubblica » politica » Milano, i funerali di Don Giussani, su repubblica Milano, profanata la tomba di don Giussani, Corriere della Sera su corriere. Chiesta l'apertura della causa di beatificazione e canonizzazione, in Tracce, Società Coop. Edit. Nuovo Mondo, Passo avanti verso la beatificazione di don Giussani, in Tempi, Società Coop. Edit. Nuovo Mondo, Savorana, Don Luigi Giussani, fondatore di CL, nominato monsignore, in Avvenire, Don Giussani: vince il premio della cultura cattolica, in Adnkronos, Mia giovinezza, in Tracce, Coop. Editoriale Nuovo Mondo, Premio Isimbardi Città metropolitana di Milano.Tettamanzi, La famiglia a scuola, in Tracce, Coop. Editoriale Nuovo Mondo, La Festa dello StatutoEdizione Sigilli longobardi, su Consiglio Regionale della Lombardia. Desio, rinasce il monumento per don Giussani a dieci anni dalla scomparsa, in Il Cottadino,  Il parco Solari sarà dedicato a Giussani, in Il Giornale, Tornielli, Don Giussani nel solco di San Pampuri, in La Provincia Pavese, Finale: intitolazione strada a Giussani, in Savona  News, Castronno, intitolata a Don Giussani la nuova rotonda, in Varese News, Emidio Cagnucci, al musicista ascolano intitolata una scuola, in il Quotidiano,Francesca Nacini, Don Giussani «faro» di Portofino, in Il Giornale, Uganda. La Luigi Giussani High School inaugurata a Kampala tra i canti delle donne del Meeting Point, su AVSI, 1Pozzolengo, raid vandalici nei parchi, in qui Brescia, Un bassorilievo per don Giussani a San Leo, in Rimini Today, Rotatoria del Palacongressi dedicata a Don Luigi Giussani, in Altarimini, Chiavari, lungoporto don Giussani per il fondatore di Cl, in Il Secolo XIX, In Borgo Trento giardini intitolati al fondatore di CL, in Verona Notte, Melati, Jaca Santa editrice della rivoluzione, in Il Venerdì di Repubblica, Gruppo Editoriale L'Espresso SpA, Le opere  di Comunione e Liberazione. Chi siamo, su Giussani Scritti, Fraternità di Comunione e Liberazione.  Collana I libri dello spirito cristiano, Comunione e Liberazione. Collana musicale Spirto gentil, di Comunione e Liberazione. Bosco, Giussani, Torino, Elledici, Guy Bedouelle; Graziano Borgonovo; Olivier Clément; Antonio Olinto; Julien Ries, Gli uomini vivi si incontrano: scritti per Giussani, Milanok, Camisasca, Comunione e Liberazione: Le origini Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo, Massimo Camisasca, Comunione e Liberazione: La ripresa, Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo,Elisa Buzzi, Scola, Un pensiero sorgivo, Marietti DPerillo, Caro Giussani. Dieci anni di lettere a un padre, Piemme, Camisasca, Comunione e Liberazione: Il riconoscimento, Appendice, Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo, Farina, Giussani. Vita di un amico, Piemme,  Farina, Maestri. Incontri e dialoghi sul senso della vita, Piemme, Ceglie, Giussani. Una religione per l'uomo, 1ª ed., Cantagalli, AGamba, Allargare la ragione, Vita e Pensiero, Massimo Camisasca, Giussani. La sua esperienza dell'uomo e di Dio,Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo,Savorana, Vita di don Giussani, Milano, Rizzoli Editore, Savorana, Un'attrattiva che muove, 1ª ed., Milano, BUR Saggi, Scholz-Zappa, Giussani e Guardini. Una lettura originale, Milano, Jaca Book, Marta Busani, Gioventù studentesca. Storia di un movimento cattolico dalla ricostruzione alla contestazione, Roma, Edizioni Studium, Massimo Camisasca, L'avventura di Gioventù Studentesca, fotografie di Elio Ciol, Milano, Mondadori Electa, G. Paximadi, E. Prato, R. Roux e A. Tombolini, Giussani. Il percorso teologico e l'apertura ecumenica, Siena, Cantagalli Eupress FTL. Scritti di  Giussani, su Giussani Scritti, Fraternità di Comunione e Liberazione. Giussani su Comunione e Liberazione, Fraternità di Comunione e Liberazione. Luigi Giovanni Giussani. Giussiani. Keywords: dell’amicizia. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Giussani” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51756555485/in/photolist-2mRxSLV-2mJe9QJ

 

Grice e Giusso – gl’eroi – filosofia fascista --  il mistico dell’azione -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Napoli). Filosofo. Grice: “I like Giusso: he has explored philosophers from his country like Leopardi and Bruno, and tdhe whole ‘tradizione ermetica nella filosofia italiana,’ but also French – Bergson – and especially “Dutch,” i. e. Deutsche or tedesca – Spengler, and Nietsche – All very Italian!” Nato in una famiglia aristocratica, dal conte Antonio Giusso e da Maria Imperiali d'Afflitto. La sua maturazione culturale avvenne in un terreno fertile, costituito da un ambiente familiare che aveva contribuito allo sviluppo non solo culturale della città (il nonno, Girolamo Giusso, uno dei fondatori del quartiere Bagnoli, ne era stato sindaco). Si laurea in filosofia a Napoli sotto Aliotta. Seguì con passione l'attualismo gentiliano e proprio il suo carattere passionale lo portò anche nel campo filosofico ad un tipo di critica "scenografica", così come fu definita. Le sue "frizioni" con Croce, inizialmente orientate su temi politici, presero più tardi una forma "sotterranea", genericamente orientata contro l'idealism. Giusso si richiamava al fatalismo di Leopardi, al demiurgo di Nietzsche, allo storicismo di Dilthey, al nichilismo dello Spengler: e a causa di quest'ultimo, oltre che per la sua interpretazione della Scienza nuova vichiana (che si attirò una severa recensione dello stesso Croce, Giusso fu criticato dall'ambiente crociano. Giusso critico e storico delle idee s'identificava con la visione della vita di autori che sentiva a lui vicini per temperamento ed interessi come Bruno, Vico (dall'analisi degli scritti del quale nacque l'infastidita reazione di Croce), Giacomo, Bacchelli, Barilli, Papini, Soffici, Palazzeschi, Borgese, Gozzano, che molto ispirò la sua composizione poetica Don Giovanni ammalato. I suoi Tafferugli a Montecavallo meriterebbero forse di essere più conosciuti. Tra le due guerre, egli partecipò all'atmosfera culturale della Napoli segnata dal cenacolo di Croce, da cui molto presto si distaccò (comeTilgher, che egli difese e mostrò di apprezzare) assumendo posizioni "eretiche" e ispirandosi piuttosto a un ideale di vitalismo romantico che risulta evidente dai numerosi autori e dalle molte opere cui dedicò la sua attenzione: in particolare in una fase iniziale, Spengler e Nietzsche.  Intelligenza precoce, prima di intraprendere l'insegnamento universitario che lo avrebbe allontanato da Napoli portandolo ad insegnare Filosofia a Bologna, Pisa, e Cagliari, Giusso avviò una copiosa pubblicazione di articoli, collaborando con numerosi quotidiani icome Il Popolo d'Italia, Il Secolo, Il Mattino, Il Resto del Carlino, ed ancora il Giornale, Il Tempo, Il Messaggero, La Gazzetta di Sicilia, La Stampa ed altri ancora.  Giornali questi dove fu autore di elzeviri, volti alla diffusione dei più diversi aspetti della cultura europea e alla conoscenza dei suoi principali esponenti, soprattutto scrittori. Nel dopoguerra, superati i miti dell'irrazionalismo e dell'energia vitalistica, si riavvicinò alla fede Cristiana. Era sua intenzione realizzare una revisione del pensiero italiano dal Rinascimento all'età barocca, approfondendo in particolare lo studio e l'interpretazione dell'umanesimo, inteso come vasto tentativo sincretistico volto a ravvicinare la filosofia della Roma antica e quello cristiano.  In chiave revisionista rispetto alla tradizione laica si era avvicinato anche alla figura di Bruno. Di ritorno da un viaggio nella sua adorata Spagna morì a A Napoli gli venne intitolata una strada.  Saggi: “Le dittature democratiche dell'Italia” (Milano, Alpes); “Leopardi” (Napoli, Guida); “Idealismo e prospettivismo” (Napoli, Guida); “Leopardi e le sue due ideologie” (Firenze, Sansoni); Spengler, Roma, società anonima La nuova antologia, Cadenze di Sigismondo nella Torre, Modena, Guanda); “Vico fra l'Umanesimo e l'Occasionalismo” (Roma, Perrella); “La visione della vita” (Napoli, R. Ricciardi); “Elegie del torso della saggezza mutilata, Milano, Corbaccio); “Il viandante e le statue: saggi sulla letteratura contemporanea, Roma, Cremonese); “Lo storicismo, Milano, Bocca, Gioberti, Milano, A. Garzanti, L'anima e il cosmo, Milano, Bocca,  “La tradizione ermetica nella filosofia italiana” (Milano, Bocca); Due scritti sul nazionalsocialismo, Roma, Settimo Sigillo, Quaderno, Napoli, Università degli Studi Suor Orsola Benincasa,. Tafferugli a Montecavallo, La Finestra, Lavis, Il fascismo e Benedetto Croce, "Gerarchia",  "La Critica", rist. in Nuove pagine sparse, Panteismo e magia in Bruno (Sassari, Scienze e filosofia in Bruno, Napoli Roma,Enciclopedia Italiana, Appendice, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Corriere della sera, La Fiera letteraria, Giornale di metafisica, F. Bruno,Italia che scrive, Filiasi Carcano, in Logos, IE. Falqui, Di noi contemporanei, Firenze 1940, ad indicem; G. Villaroel, Gente di ieri e di oggi, Bologna, ad indicem; L. Fiumi, Giunta a Parnaso, Bergamo 1954, ad indicem; G. Artieri, Romantico napoletano, in Il Tempo, R. Maran, L. G. e la ricerca d'un sistema, in Sophia, A. Spaini, Ricordo di L. G., in Il Messaggero, 1° febbr. 1960; G. Toffanin, Nuova Antologia, Boni Fellini, L'Osservatore politico letterario, Diz. della letteratura mondiale, Enciclopedia Italiana, Dizionario biografico degli italiano.  L’Illuminismo oscuro  Lorenzo Giusso, autore e studioso multidisciplinare, ha lasciato ai posteri una sterminata produzione intellettuale, tenuta tuttavia troppo poco in considerazione dal mondo accademico contemporaneo.  Stefano Chemelli  10 articoli  Lorenzo Giusso fu studioso di filosofia. Recinto riduttivo si dirà, ma per lui invece parco multiforme. Ispanista, germanista, francesista. Nato a Napoli il 25 giugno 1900, allievo di Aliotta e Battaglia è precoce critico letterario, si laurea nel 1924, ottiene la libera docenza in Filosofia teoretica e morale ma insegna anche letteratura italiana e francese, storia delle religioni, lingua e letteratura spagnola in diversificate sedi europee. “Tafferugli a Montecavallo” pubblicato da Cappelli nel 1955, uno studio sul barocco romano e il Bernini, “La tradizione ermetica nella filosofia italiana”, le straordinarie conversazioni radiofoniche di “Autoritratto spagnolo” sono appena un accenno a una sterminata produzione redatta nel breve arco di cinquantasette anni.  Sodale di Unamuno e Ortega con i quali ha condiviso amabili conversari, Giusso si è occupato a fondo di Goethe, Leopardi, Stendhal, Nietzsche, Dostoevskij, Freud, Dilthey, Simmel, Bergson Gioberti, Vico, Bruno. Inoltre fu di Spengler uno dei primissimi esegeti italiani. Dotato di una conversazione che incantava anche il grande Edoardo, complice in gustosi siparietti nei quali De Filippo si trasformava in spettatore, basterebbero le pagine dedicate al Bernini per intuire la rabdomantica agilità di scrittura sempre corroborata da una cultura che poteva reggere l’impulso filologico di un Croce. Nel 1927 dona un’analisi storica poderosa in “Le dittature democratiche dell’Italia”, dal 1876 all’ascesa del fascismo, seguito dalla prima raccolta di scritti letterari che ne connotano le capacità di “viandante” nei diversi giardini del sapere; “Il ritorno di Faust” è del 1929, “Figure di Capri” del 1931, a ruota seguono le pagine sopra Freud, Ortega, Dostoevskij, e soprattutto lo studio su Leopardi.  Copia de "La tradizione ermetica nella filosofia italiana"Copia de “La tradizione ermetica nella filosofia italiana” Stendhal e Nietzsche non escludono l’impegno anche poetico che troverà sfogo in tre raccolte che molto dicono del Giusso più segreto (“Musica in piazza”, “Cadenze di Sigismondo nella torre”, “Elegie del torso della saggezza mutilata”). “Spengler e la dottrina degli universali formali” restituisce in forma autonoma un approfondimento più volte ripreso da Giusso nel decennio dei trenta che costituisce la decade dell’approfondimento filosofico più intenso (Dilthey e Ortega tra gli altri…) e preparatorio al grande volume “Filosofia e immagine cosmica” del 1942 dedicato a Gentile. Due traduzioni spagnole coinvolgeranno gli studi di Giusso rivolte a Vico ma sarebbe urgente dare attenzione alla tradizione ermetica, magari per scoprire che Eugenio Garin l’ha sicuramente letta e ripresa molto più tardi.  “Kulturkritiker universale” lo definì il giovane Piero Buscaroli, allievo devoto a Bologna quando Giusso strabiliava un manipolo di arditi fuoricorso in Estetica e Letteratura spagnola, che mai avrebbero rinunciato alle sue esibizioni in diretta presso l’Alma Mater bolognese, fugacemente ospitati.  Un grande romantico della ispecie dei Kleist, degli Hoederlin, dei Novalis però, poeta dei talami dissacrati che trova negli articoli, nelle corrispondenze, nei taccuini di viaggio infinite suggestioni, il tono di un Giusso confidenziale e descrittivo vicino al lettore non specialista ma disposto a calarsi nell’ambiente e nell’aria, nella luce chiara e tersa di un respiro curioso sino al dettaglio minuto.  Filosofia ed imagine cosmica (1942)Filosofia ed immagine cosmica (1942) Pubblicati recentemente i quaderni spagnoli dalla Università Benincasa, sono ancora inedite le pagine tedesche e austriache, ma esistono anche reportage francesi, nei quali uomini e cose sbalzano con la modestia e la versatilità del carattere e la magnificenza della scrittura. La vita di ognuno non elide né la circostanza né l’astrazione, Giusso è uno dei protagonisti del teatro del mondo che abbiamo ignorato, noi italiani, lui, molto napoletano, ma già europeo, ben oltre l’amatissima Spagna. Un europeo immerso nella musica delle lingue (francese, spagnolo, tedesco…), in Vico e Spengler. Adriano Tilgher, Corrado Alvaro, Giuseppe Toffanin, furono amici veri, fidati, ammirati di un uomo al quale era sconosciuta l’invidia e al contrario era profferta a piene mani una generosa e prodiga liberalità in nome di una poetica propensione al dialogo di un sapere trasversale, comunicativo e incantato nella magia della parola libera, circostanziata, esatta.  Una studiosa di letteratura italiana ha affermato che il più bel libro di Giusso è il quaderno spagnolo, ed ha pure aggiunto che quaderno spagnolo e autoritratto spagnolo coincidono. Alberto Spaini, ma pure Piero Buscaroli che con Maria Giulia Rispoli del Galdo Giusso sono stati tra i conoscitori più profondi di Lorenzo Giusso, difficilmente concorderebbero. Le pagine spagnole, tedesche, austriache servono a entrare nel mondo giussiano, consentono di accedere a una dimensione della cultura che non conosce omologazioni di sorta, schieramenti, posizionamenti di rendita. Permettono di sorridere a fronte di un esteta armato solo di una generosità speciale: cogliendo l’anima dell’umanità in una minuzia necessaria a ritrovare un sentiero precario, attraverso il quale condurre a una visione più ampia, senza dimenticare la poesia della vita. Gioberti come uomo del risorgimento – serie: Uomini del risorgimento. “U=Il fascismo di Benedetto Croce” Gerarchia – “Croce contro Croce” – da Critica fascista – “Gentile, mistico dell’azione, tratto da “Il lavoro d’Italia” – “Gentile, “La Nazione” .   GIUSSO, Lorenzo. - Nacque a Napoli, il 25 giugno 1899, in una famiglia aristocratica, dal conte Antonio e da Maria Imperiali d'Afflitto. La sua maturazione culturale avvenne in un terreno fertile, costituito da un ambiente familiare che aveva contribuito allo sviluppo non solo culturale della città (il nonno, Girolamo Giusso, ne era stato sindaco).  Tra il 1917 e il 1924 gli studi del G. presso l'Università di Napoli (dove fu allievo, fra gli altri, di A. Aliotta), coronati dalla laurea in lettere e filosofia, si svilupparono in molteplici direzioni.  Pur destinato a diventare prevalentemente filosofo e storico della filosofia, i suoi non dilettanteschi interessi spaziarono dalla letteratura alla musica, dalla pittura alla filosofia, secondo un percorso eclettico ed estroso, fondato sull'istinto piuttosto che sul metodo, che lo portò a una conoscenza approfondita ed estesissima nei settori più diversi.  Tra le due guerre, egli partecipò all'atmosfera culturale della Napoli segnata dal cenacolo di B. Croce, da cui molto presto si distaccò (come A. Tilgher, che egli mostrò di apprezzare) assumendo posizioni "eretiche" e ispirandosi piuttosto a un ideale di vitalismo romantico che risulta evidente dai numerosi autori e dalle molte opere cui dedicò la sua attenzione: in particolare, in una fase iniziale, O. Spengler e F. Nietzsche.  Intelligenza precoce, prima di intraprendere l'insegnamento universitario, che lo avrebbe allontanato da Napoli, il G. avviò una copiosa pubblicazione di articoli, collaborando con numerosi quotidiani italiani come autore di elzeviri, volti alla diffusione dei più diversi aspetti della cultura europea e alla conoscenza dei suoi principali esponenti, soprattutto scrittori.  L'attività giornalistica si sviluppò particolarmente negli anni Venti, quando il G., ancora molto giovane, iniziò a collaborare con L'Idea nazionale, Il Popolo d'Italia e Il Secolo, quindi con Il Mattino, come critico letterario; fu poi autore di articoli di viaggio, per il Corriere della sera, e tenne un "Diario critico" per Il Resto del Carlino, pubblicando nel corso degli anni sulla terza pagina di molti quotidiani italiani (Il Giornale, Il Tempo, Il Messaggero, La Gazzetta di Sicilia, La Stampa e altri ancora), anche se il lavoro propriamente giornalistico rallentò quando prevalse quello universitario.  Nel 1936 ottenne la libera docenza in filosofia teoretica a Napoli, dove l'anno successivo insegnò filosofia morale; le principali tappe del suo percorso universitario - molteplice anche per le numerose discipline di cui si occupò - furono: Cagliari, dove dal 1938 al 1943 insegnò come professore incaricato, ricoprendo, secondo un percorso abbastanza inconsueto e irregolare, le cattedre di filosofia teoretica, letteratura italiana e francese, storia delle religioni; quindi, Bologna, dove, sempre come incaricato, insegnò lingua e letteratura spagnola, infine Pisa. La carriera universitaria del G. non si limitò, comunque, all'Italia: insegnò letteratura italiana a Monaco, a Nizza, a Breslavia, a Debreczen in Ungheria, a Madrid, dove fu "accademico d'onore", e a Barcellona.  Proprio al ritorno da un viaggio in terra spagnola venne colpito dalla malattia che lo avrebbe condotto alla morte.  Il G. morì a Roma l'11 apr. 1957.  Oltre all'attività come giornalista e saggista, il G. aveva pubblicato anche alcune raccolte di poesie: Musica in piazza (Napoli 1930) e Don Giovanni ammalato (ibid. 1932), una rifusione, accresciuta, del primo volume; Cadenze di Sigismondo nella torre, Modena 1939; e, infine, Elegie del torso della saggezza mutilata, Milano 1941: d'intonazione prossima ai crepuscolari le prime, percorse dal senso di una discrepanza tra la piattezza della vita quale ci è data e il desiderio di viverla in modo più libero e pieno; maggiormente legate all'estetismo dannunziano, e insieme non dimentiche del clima d'avanguardia in cui era avvenuta la prima formazione del G., le ultime due.  Saggista acuto, ottimo conversatore, spirito brillante e fortemente antiaccademico, caratterizzato da un sapere enciclopedico, il G. non si legò ad alcuna scelta politica, non appartenne a nessuna scuola di pensiero e non ebbe maestri diretti né discepoli. Dal suo asistematico sforzo di interpretazione della cultura moderna non si può trarre una dottrina unitaria ma soltanto il profilo di un cammino variegato e intenso, che trae origine dalla ricerca di una visione totale dell'esistenza nel fondamentale intento di realizzare un ideale di vita, problema con cui il G. non smise mai di misurarsi, secondo una prospettiva antirazionalista (e implicitamente antidealista).  Allontanatosi molto presto, come si è detto, dal crocianesimo imperante nell'ambiente napoletano, il primo interesse del giovane G. fu per i protagonisti dell'irrazionalismo e del vitalismo eroico, e per il pessimismo cosmico di G. Leopardi (Il ritorno di Faust, Napoli 1929; Leopardi, Stendhal, Nietzsche, ibid. 1933; Tre profili: Dostoevskij, Freud, Ortega y Gasset, ibid. 1933; Leopardi e le sue due ideologie, Firenze 1935); in tempi diversi riunì in raccolte i ritratti degli autori e dei personaggi che più lo avevano interessato (Il viandante e le statue. Saggi sulla letteratura contemporanea, s. 1, Milano 1929; s. 2, Roma 1942).  Nell'ambito di una ricerca più propriamente filosofica, i principali autori di riferimento del G. - che costituirono anche l'oggetto dei suoi studi - furono W. Dilthey (Dilthey e la filosofia come visione della vita, Napoli 1940; Dilthey, Simmel, Spengler, Milano 1944); i già ricordati Nietzsche (Nietzsche, Napoli 1936), Spengler (Spengler e la dottrina degli universali formali, Napoli 1935), e J. Ortega y Gasset.  Il rapporto tra razionalismo e irrazionalismo (e il superamento della loro opposizione) e quello tra scienza e filosofia e vita sono il tema di fondo di quella che probabilmente rimane una delle sue opere più significative, Filosofia ed imagine cosmica (Roma 1940), in cui, in diretto riferimento a G. Vico (si veda anche: G.B. Vico tra umanesimo e occasionalismo, Roma 1940; La filosofia di G.B. Vico e l'età barocca, ibid. 1943), egli delinea una genealogia della filosofia, e in generale dell'attività razionale, a partire dalle istanze vitali e concrete dell'uomo. In Vico, secondo il G., non c'è una filosofia intesa come ontologia e come organo di un conoscere razionale perché i sistemi filosofici riflettono il tentativo di appropriazione verbale del mondo in rapporto a un'originaria intuizione cosmica, così come le scienze e le tecniche non procedono da una razionalità astratta ma dai bisogni dell'uomo sociale, rimandando a un sentimento che è espressione del primitivo legame, non specificamente conoscitivo, che unisce uomo e mondo.  Nel dopoguerra, approfondendo questa tematica e superati i miti dell'irrazionalismo e dell'energia vitalistica, il G. si riavvicinò alla fede cristiana; era sua intenzione realizzare una revisione della storia del pensiero italiano dal Rinascimento all'età barocca, approfondendo in particolare lo studio e l'interpretazione dell'umanesimo, inteso come vasto tentativo sincretistico volto a ravvicinare il pensiero dell'antichità greco-romana e quello cristiano. In chiave revisionista rispetto alla tradizione laica si era avvicinato anche alla figura di G. Bruno (Scienza e filosofia in Giordano Bruno, Napoli-Roma 1955).  Tra le opere del G., oltre a quelle già citate, si ricordano: Le dittature democratiche d'Italia, Milano 1927; Idealismo e prospettivismo, Napoli 1934; Lo storicismo tedesco: l'anima e il cosmo, Roma 1947; Bergson, Milano 1948; Vincenzo Gioberti, ibid. 1948; Spagna e antispagna: saggisti e moralisti spagnoli, Mazara del Vallo 1952; La tradizione ermetica nella filosofia italiana, Trapani 1955; Tafferugli a Montecavallo, Bologna, 1955; Origene e il Rinascimento, Roma 1957; postumo: Autoritratto spagnolo, a cura di A. Spaini, Torino 1959.  Fonti e Bibl.: Necr. in Corriere della sera, 12 apr. 1957; La Fiera letteraria, 21 apr. 1957; Giornale di metafisica, XI (1957), 5, p. 634; F. Bruno, L. G., in Italia che scrive, IV (1934); P. Filiasi Carcano, in Logos, II (1940); E. Falqui, Di noi contemporanei, Firenze 1940, ad indicem; G. Villaroel, Gente di ieri e di oggi, Bologna 1954, ad indicem; L. Fiumi, Giunta a Parnaso, Bergamo 1954, ad indicem; G. Artieri, Romantico napoletano, in Il Tempo, 11 maggio 1957; R. Maran, L. G. e la ricerca d'un sistema, in Sophia, XXV (1958), 3-4, pp. 265-267; A. Spaini, Ricordo di L. G., in Il Messaggero, 1° febbr. 1960; G. Toffanin, G. e Ortega, in Nuova Antologia, ottobre 1960, pp. 262 ss.; P. Boni Fellini, G. dieci anni dopo, in L'Osservatore politico letterario, giugno 1967; Diz. della letteratura mondiale del '900, sub voce.  Panteismo tipo di teismo Lingua Segui Modifica Il panteismo (πάν (pán) = tutto e θεός (theós) = Dio, vuol dire letteralmente "Dio è Tutto" e "Tutto è Dio") è una visione del reale per cui ogni cosa è permeata da un Dio immanente o per cui l'Universo o la natura sono equivalenti a Dio (Deus sive Natura).  Definizioni più dettagliate tendono ad enfatizzare l'idea che la legge naturale, l'esistenza e l'universo (la somma di tutto ciò che è e che sarà) siano rappresentati nel principio teologico di un 'dio' astratto piuttosto che una o più divinità personificate di qualsiasi tipo. Questa è la caratteristica chiave che distingue il panteismo dal panenteismo e dal pandeismo. Ne deriva che molte religioni, pur reclamando elementi panteistici, sono in realtà per natura più panenteiste e pandeiste.  Michael Levine, nel suo libro Panteismo, lo definisce «una concezione non-teistica della divinità».[1] In senso lato, con "panteismo" si intende ogni dottrina filosofica che identifichi Dio con il mondo o con il principio che lo regge. Per l'esattezza, il concetto di Dio-Uno-Tutto si presenta in due versioni: quella "cosmistica", la quale afferma "Dio è nel Tutto", e quella "acosmistica" (il termine è di Hegel), la quale afferma "Il Tutto è in Dio". Nel primo caso, come nello stoicismo, Dio impregna e pervade l'universo in ogni sua parte; nel secondo caso, come nello spinozismo, l'universo in ogni sua parte rifluisce e si scioglie in Dio, quale Uno-Tutto.  Storia del panteismoModifica Il termine "panteista" (dal quale la parola "panteismo" è derivata) fu usato propriamente per la prima volta dal filosofo irlandese John Toland nella sua opera Socinianism Truly Stated, by a pantheist, del 1705. Comunque, il concetto era stato discusso già al tempo dei filosofi della Grecia antica, da Talete, Parmenide ed Eraclito. I presupposti ebraici del panteismo possono essere ricercati nella Torah stessa, nel racconto della Genesi e nei suoi primi materiali profetici, nei quali chiaramente gli "atti di natura" (come inondazioni, tempeste, vulcani, etc.) sono tutti identificati come "la mano di Dio" attraverso idiomi di personificazione, così spiegando gli aperti riferimenti al concetto, sia nel Nuovo Testamento, che nella letteratura cabalistica.  Nel 1785 sorse una consistente controversia tra Friedrich Heinrich Jacobi e Moses Mendelssohn, che infine coinvolse molte importanti persone del tempo. Jacobi affermava che il panteismo di Lessing era materialistico, per il fatto che considerava tutta la natura e Dio come una sola sostanza estesa. Per Jacobi, esso non era altro che il risultato della devozione alla ragione, tipicamente illuminista, che avrebbe condotto all'ateismo. Mendelssohn espresse il suo disaccordo, asserendo che il panteismo era teistico.  Il Panteismo di EraclitoModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Eraclito. Il panteismo è un componente della dottrina del filosofo greco Eraclito, secondo cui il divino è in tutte le cose ed è identico al mondo nella sua interezza. Questa concezione porta a identificare il divino con l'Universo, facendolo divenire quindi l'Unità di tutti i contrari, il Fuoco generatore.  Il Dio-tutto di Eraclito ha in sé tutte le cose ed è una realtà eterna. Eraclito sembra rifarsi alla teoria della cosmologia ciclica, poiché la sua concezione della realtà è simile a un insieme di fasi alterne: un ciclo distruttivo-produttivo, che verrà sviluppato in seguito dagli Stoici.  Il Panteismo degli StoiciModifica Magnifying glass icon mgx2.svg                                  Lo stesso argomento in dettaglio: Stoicismo. Il panteismo stoico è una delle più compiute espressioni di esso, dove Dio è la ragione e l'intelligenza che lo determina e lo permea. Il Dio stoico, quindi, non si identifica con l'universo, ma lo permea come suo fondamento e ragion d'essere.  Il Panteismo di PlotinoModifica Si è parlato spesso impropriamente di panteismo in Plotino. In realtà, secondo Plotino, Dio non è solo immanente, ma anche trascendente. Come ha evidenziato anche Giovanni Reale, l'Uno, il Dio plotiniano, pur permeando di sé ogni realtà, ne è superiore. Plotino dice infatti chiaramente che l'Uno, «in quanto principio di tutto, non è il tutto». Con questa affermazione egli sembra prendere in contropiede, quasi le prevedesse, le interpretazioni immanentistiche e panteiste del suo pensiero.  Il Panteismo di BrunoModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Giordano Bruno. La visione di Bruno può essere considerata un panteismo del Dio-Infinità ed ha alcuni caratteri del panpsichismo. Nella filosofia di Giordano Bruno, i cinque dialoghi del De la causa, principio et uno intendono stabilire i princìpi della realtà naturale.  Forma universale del mondo è l'anima del mondo, la cui prima e principale facoltà è l'intelletto universale, il quale «empie il tutto, illumina l'universo e indirizza la natura a produrre le sue specie».  La materia è il secondo principio della natura, dalla quale ogni cosa è formata: «come nell'arte, variandosi in infinito le forme, è sempre una materia medesima che persevera sotto quella, come la forma dell'albore è una forma di tronco, poi di trave, poi di tavolo, poi di sgabello, e così via discorrendo, tuttavolta l'esser legno sempre persevera; non altrimenti nella natura, variandosi in infinito e succedendo l'una all'altra le forme, è sempre una medesma la materia».  Discende da questa considerazione l'elemento fondamentale della filosofia bruniana: tutta la vita è materia, materia infinita. Nella sua concezione, anche la Terra è dotata di anima.  Egli in De l'infinito, universo e mondi scrive:   «Io dico Dio tutto infinito, perché da sé esclude ogni termine ed ogni suo attributo è uno ed infinito; e dico Dio totalmente infinito, perché tutto lui è in tutto il mondo, ed in ciascuna sua parte infinitamente e totalmente: al contrario dell'infinità dell'universo, la quale è totalmente in tutto, e non in queste parti (se pur, referendosi all'infinito, possono esser chiamate parti) che noi possiamo comprendere in quello.»  (G. Bruno, Dialoghi metafisici, Firenze, Sansoni 1985, p. 382) Il Panteismo di SpinozaModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Baruch Spinozae Monismo panteistico. La tesi centrale del pensiero di Baruch Spinoza è l'identificazione panteistica o, meglio, immanentistica di Dio con la Natura (Deus sive Natura) ed in essa convergono i temi ed i motivi appartenenti alle tradizioni culturali più disparate, la teologia giudaica, la filosofia ellenistica, la filosofia neoplatonica-naturalistica del Rinascimento, il razionalismocartesiano ed il pensiero arabo, ed infine le sfumature di Thomas Hobbes.  Spinoza concepisce un Dio coniugato con l'unità e la necessità e perciò:   «Dio, ossia la sostanza che consta di infiniti attributi, ciascuno dei quali esprime un'essenza eterna ed infinita, esiste necessariamente. Se lo neghi, concepisci, se è possibile, che Dio non esista. Dunque (per l'As.7) la sua essenza non implica l'esistenza. Ma questo (per la Prop.7) è assurdo: dunque Dio esiste necessariamente.»  (B. Spinoza, Etica, Roma, Editori Riuniti 2004, p.94) Ne consegue la dimostrazione di ciò che Dio è:   «Tutto ciò che è, è in Dio: Dio però non si può dire cosa contingente. Infatti esiste necessariamente, e non in modo contingente. Inoltre, i modi della divina natura sono seguiti da essa anche necessariamente e non in modo contingente e ciò o in quanto si considera la divina natura assolutamente oppure in quanto la si considera determinata ad agire in un certo modo. Inoltre, di questi modi Dio è causa non soltanto perché semplicemente esistono in quanto li si considera determinati a fare qualcosa. Poiché se non sono determinati da Dio, è impossibile e non contingente che determinino se stessi; e al contrario se sono determinati da Dio, è impossibile, e non contingente, che rendano se stessi indeterminati. Per cui tutte le cose sono determinate dalla necessità della divina natura non soltanto ad esistere, ma anche ad esistere e agire in un certo modo, e non si dà nulla di contingente.»  (B. Spinoza, Etica, cit., p. 110) Questa concezione fa sì che il Dio di Spinoza (ma non meno quello degli Stoici), per qualche filosofo contemporaneo, risulti essenzialmente un impersonale Dio-Necessità, contrapponibile al Dio-Volontà come persona divina tipica dei monoteismi.  DescrizioneModifica Tipi di panteismoModifica Si possono distinguere tre gruppi di panteisti:  panteismo classico, che si esprime attraverso l'immanente Dio del Giudaismo, Induismo, Monismo, neopaganesimo e delle dottrine New Age, generalmente considerando Dio come personificazione o manifestazione cosmica; panteismo biblico, che è espresso negli scritti della Bibbia; panteismo naturalistico, basato sulle, relativamente recenti, visioni di Baruch Spinoza (che potrebbe essere stato influenzato dal panteismo biblico) e John Toland (che coniò il termine "panteismo"), così come sulle influenze contemporanee. La maggioranza delle persone che possono identificarsi come "panteiste" appartengono al tipo classico (come gli Indù, i Sufi, gli Unitaristi, i neopagani, i seguaci della New Age, etc), mentre molte persone che identificano se stesse come panteiste (non essendo membri di un'altra religione) appartengono al tipo naturalista. La divisione tra le tre branche del panteismo non sono completamente chiare in tutte le situazioni, rimanendo dei punti di controversia nei circoli panteisti. I panteisti classici generalmente accettano la dottrina religiosa secondo cui ci sarebbe una base spirituale per tutta la realtà; mentre i panteisti naturalisti generalmente non concordano, piuttosto intendendo il mondo in termini più naturalistici. La confusione tra i concetti di panteismo e ateismo è un problema antico in linguistica. Gli antichi romani si riferivano ai primi cristiani come atei e le spiegazioni di questo fenomeno semantico possono variare.  Metodi di spiegazioneModifica Una caratteristica spesso citata del panteismo è che ogni essere umano, essendo parte dell'universo o della natura, è parte di Dio. Uno dei problemi discussi dai panteisti è come possa esistere il libero arbitrio in un contesto simile. In risposta, qualche volta è data la seguente analogia (particolarmente dai panteisti classici): "stai a Dio come una tua singola cellula sta a te".  L'analogia sostiene anche che, sebbene una cellula possa essere cosciente del suo ambiente e abbia persino qualche scelta (libero arbitrio) tra giusto e sbagliato (uccidere un batterio, divenire cancerogena o non fare semplicemente niente), ha presumibilmente una comprensione limitata dell'essere più grande, di cui fa parte. Un altro modo di comprendere questo tipo di relazione è tramite la frase indù tat tvam asi - "quello che sei", in cui l'anima/essenza umana o Ātmanè intesa medesima di Dio o Brahman. Nel contesto indù, si crede che il singolo debba essere liberato attraverso l'illuminazione (moksha), in modo da sperimentare e capire pienamente questa relazione: la parte diventa non dissimile dal tutto.  Non tutti i panteisti accettano l'idea del libero arbitrio, dato che il determinismo è largamente diffuso, particolarmente presso i panteisti naturalistici. Sebbene le interpretazioni individuali del panteismo possano suggerire certe implicazioni per la natura e l'esistenza del libero arbitrio e/o determinismo, il panteismo non implica il requisito di credere in entrambi. Comunque, il problema è largamente discusso ed è presente in molte altre religioni e filosofie.  DibattitoModifica Alcuni sostengono che il panteismo è poco più che una ridefinizione della parola "Dio" per definire "esistenza", "vita" o "realtà". Molti panteisti direbbero che, se fosse così, un tale cambiamento nel modo in cui pensiamo a queste idee servirebbe a creare una nuova e potenzialmente più perspicace concezione sia dell'esistenza, che di Dio.  Forse il più significativo dibattito all'interno della comunità panteistica è quello riguardante la natura di Dio. Il panteismo classico crede in un Dio personale, cosciente e onnisciente e vede questo Dio come unificante di tutte le vere religioni. Il panteismo naturalistico crede invece in un Universo non cosciente e non senziente che, sebbene sacro e meraviglioso, è visto come un Dio in senso non tradizionale e non personale.  I punti di vista compresi all'interno della comunità panteista sono necessariamente diversi, ma l'idea centrale, che vede l'Universo come un'unità onnicomprensiva e la sacralità sia della natura che delle sue leggi, è comune. Alcuni panteisti sostengono, inoltre, un fine comune di natura e uomo, sebbene altri rifiutino l'idea di un fine e vedano l'esistenza come esistente di per sé.  Concetti panteistici nella religioneModifica InduismoModifica È generalmente riconosciuto che i testi religiosi indù sono i più antichi conosciuti in letteratura contenenti idee panteistiche.[2] Nella teologia indù, Brahman è la realtà infinita, immutabile, immanente e trascendente che è il Divino Terreno di tutte le cose nell'Universo e che è anche la somma totale di tutte le cose che sono, sono state e saranno. Questa idea di panteismo è rintracciabile in alcuni testi più antichi come i Veda e gli Upanishad e nella più tarda filosofia Advaita. Tutti i Mahāvākya degli Upanishad, in un modo o nell'altro, sembrano indicare l'unità del modo con Brahman.  Chāndogya Upanishad dice "Tutto in questo Universo in realtà è Brahman; da lui esso procede; all'interno di lui è dissolto; in lui respira, così lasciate che ognuno lo adori tranquillamente". Inoltre dice: "Tutto l'Universo è Brahman, da Brahman a una zolla di terra. Brahman è la causa efficiente e materiale del mondo. Egli è il vasaio da cui si forma il vaso; egli è la creta con il quale è fabbricato. Tutto proviene da Lui, senza perdita o diminuzione della fonte, come la luce irradiata dal sole. Ogni cosa è unita entro Lui ancora, come le bolle che esplodono si uniscono all'aria, come i fiumi sfociano negli oceani. Tutto proviene e ritorna a Lui, come la tela di un ragno è fabbricata e ritratta dal ragno stesso."[3] Negli inni del Rig Veda, una traccia di pensiero panteista può essere riconosciuta nel libro decimo (10-121).  Questa concezione di Dio lo vede come l'unità, con gli dei personali e individuali aspetto dell'Unico, sebbene differenti divinità siano viste da diversi fedeli come particolarmente adatte alle loro preghiere. Come il sole emana raggi di luce che provengono dalla stessa fonte, lo stesso avviene dagli sfaccettati aspetti di Dio emanati da Brahman, come più colori dallo stesso prisma. Il Vedānta, specificatamente l'Advaita, è una branca della filosofia indù che pone grande accento su questa materia. Molti aderente vedantici sono monistio "non-dualisti, vedendo le molteplici manifestazioni di un solo Dio o della fonte dell'essere, una visione che è spesso considerata dai non induisti come politeista.  Il panteismo è la componente chiave della filosofia Advaita. Altre suddivisione dei Vedanta non sostengono in maniera peculiare le stesse istanze. Per esempio, la scuola Dvaita di Madhvacharya ritiene che Brahman sia il Dio esterno personale Vishnu, laddove invece le scuole Rāmānuja sposano il Panenteismo.  EbraismoModifica Il senso radicalmente immanente del divino nella mistica ebraica (Kabbalah) si ritiene abbia ispirato la formulazione del panteismo da parte di Spinoza. Nonostante ciò, la teoria di Spinoza non è stata recepita dall'Ebraismo ortodosso. D'altro canto, Schopenhauer sosteneva che il panteismo spinoziano fosse una conseguenza della lettura di Nicolas Malebranche da parte del filosofo olandese: Malebranche insegna che tutto ciò che osserviamo è in Dio stesso. Ciò equivale a voler spiegare qualcosa di ignoto mediante qualcosa di ancor più oscuro. Inoltre, secondo Malebranche noi non solo vediamo tutto in Dio, ma Dio è anche l'unica attività, sicché le cause fisiche sono mere occasionalità (Ricerca della verità, Libro VI, seconda parte, cap. 3.). E così qui rinveniamo essenzialmente il panteismo di Spinoza che pare abbia appreso più da Malebranche che da Descartes. (Schopenhauer, Parerga e paralipomena, Vol. I, "Schizzo di una storia della teoria dell'ideale e del reale"). Inoltre, Israel ben Eliezer, fondatore dello Chassidismo, aveva un senso mistico del divino che può essere definito come Panenteismo.  Secondo l'ebraismo biblico l'origine dell'Universo si è basata sulla Torah (legge) della natura. Pertanto la Torah originale non è rinvenibile negli scritti di Mosè, bensì nella natura stessa. "Interpretare" la Torah della natura equivale ad "interpretare" la Torah della rivelazione e teoricamente alla fin fine coincideranno l'una con l'altra [come si dimostra ad esempio con la scoperta del Big Bang nel 1965]. L'ortodossia rabbinica considerando questa posizione come una discrepanza, allo scopo di porre la Torah scritta al di sopra di quella data per prima in natura, ha sostenuto che la Torah scritta precedette la creazione, infatti a partire dalla Torah scritta che Dio "ha parlato" nella creazione. Questa posizione non è accolta dai panteisti biblici.  Maimonide, benché Ortodosso, nei suoi scritti sulla riconciliazione fra le sacre scritture e la scienza, accolse l'opinione dell'equivalenza fra la Torah della natura e la Torah delle scritture e trovò la sua logica come inevitabile. Queste tesi, senza dubbio, servirono da sfondo per lo sviluppo delle teorie di Baruch Spinoza.  CristianesimoModifica Vi è un certo numero di tradizioni minori nell'ambito della storia del Cristianesimo secondo le quali le origini del loro credo panteistico sono da rintracciare nel Nuovo Testamento ed in altre correlate tradizioni ecclesiastiche. La diversità di questo punto di vista è rintracciabile a partire dai primi Quaccheri sino ai successivi Unitaristi e fino ad arrivare alle stesse principali denominazioni del cattolicesimo tradizionale e del protestantesimo liberale.  Altre fonti includono la  Teologia del processo, la Spiritualità della Creazione, i Fratelli del libero spirito, altri ancora ne sostengono la presenza fra gli Gnostici. Tale idea ha avuto, per qualche tempo, aderenti in vari segmenti del Cristianesimo.  Alcuni Cristiani considerano la Trinità in questo significato: lo Spirito Santo tiene insieme l'Universo e personifica se stesso come il Padre, che a sua volta personifica se stesso come il Figlio dentro questo Universo (ciò significa che il Padre è al di fuori dell'Universo, del Tempo e dello Spazio). Secondo altri, lo Spirito Santo è consapevole e utilizzabile e per questo è usato da Dio per benedire la gente con i Doni dello Spirito Santo. Tutti i poteri sovrannaturali si ritiene che siano possibili anche dal binomio Universo/Spirito Santo.  I panteisti di religione cristiana asseriscono che l'origine del loro credo è rintracciabile nelle Sacre Scritture, nel Vecchio Testamento come nel Nuovo ed attenuano le difficoltà che i teologi della Chiesa Apostolica Romana hanno sempre cercato di "risolvere" nei concili sul tema della Trinità e della Natura di Cristo come il Verbo (solo il panteismo fornisce una formulazione per il Cristo come "Verbo" di Dio e per l'unità del Monoteismo).  Il parificare nella Bibbia Dio agli atti della natura e la definizione di Dio data nello stesso Nuovo Testamento forniscono un persuasivo richiamo verso questo sistema di credenze.  I panteisti cristiani sostengono che la definizione cattolica di Dio fu pesantemente influenzata da fonti non bibliche, tra queste in particolar modo il Neo-Platonismo, che consideravano Dio come qualcosa che "esiste" fuori dalla "esistenza", pertanto la definizione di "Dio" si riferiva ad un qualcosa "che non esiste", cioè, ad un Dio non-esistente. È proprio questa basilare definizione neo-platonica di non-esistenza che i panteisti cristiani ritengono biasimevole e contraria alle scritture.  Agostino rigettò il panteismo per i seguenti motivi:  Ma c'è un motivo che, al di là di ogni passione polemica, deve indurre uomini intelligenti o comunque siano, perché all'occorrenza non si richiede un'alta intelligenza, a fare una riflessione. Se Dio è la mente del mondo e se il mondo è come un corpo a questa mente, sicché è un solo vivente composto di mente e di corpo ed esso è Dio che contiene in se stesso tutte le cose come in un grembo della natura; se inoltre dalla sua anima, da cui ha vita tutto l'universo sensibile, vengono derivate la vita e l'anima di tutti i viventi secondo le varie specie, non rimane nulla che non sia parte di Dio. Ma se questa è la loro tesi, tutti possono capire l'empietà e la irreligiosità che ne conseguono. Qualsiasi cosa si pesti, si pesterebbe una parte di Dio; nell'uccidere qualsiasi animale, si ucciderebbe una parte di Dio. Non voglio dir tutte le cose che possono balzare al pensiero. Non è possibile dirle senza vergogna.[4] come pure:  Riguardo allo stesso animale ragionevole, cioè l'uomo, la cosa più banale è ritenere che una parte divina prende le botte quando le prende un fanciullo. E soltanto un pazzo può sopportare che le parti divine divengano dissolute, ingiuste, empie e in definitiva degne di condanna. Infine perché il dio si arrabbierebbe con coloro che non lo onorano se sono le sue parti a non onorarlo?[5] Nel Vangelo secondo Tommaso (considerato apocrifodai Cristiani), Gesù disse:  Io sono la Luce: quella che sta sopra ogni cosa; io sono il Tutto: il Tutto è uscito da me e il Tutto è ritornato in me. Fendi il legno, e io sono là; solleva la pietra e là mi troverai.[6] Tuttavia questa è un'affermazione dell'onnipresenza di Dio, non in senso panteistico, ma in armonia con l'insegnamento che ogni apparenza fenomenica è riflesso della luce divina.  Islam                                                        Modifica Ulteriori informazioni Questa voce o sezione sull'argomento religione non cita le fonti necessarie o quelle presenti sono insufficienti. La maggioranza dei Musulmani condanna il concetto di panteismo e lo considera come un insegnamento non-Islamico. Tuttavia, il Sufismo è ritenuto dai musulmani contenere insegnamenti panteistici.  Il Sufismo può essere suddiviso nelle seguenti categorie:  Sufismo originario - Sincretico: Mescola insieme dottrine e concetti dell'Islam con credenze e pratiche religiose locali dei paesi Orientali e Occidentali. Lo si pratica in paesi non-Islamici. Sufismo ḥadīth - Tradizionale: è l'Islam con un'enfasi sulle forme ortodosse della spiritualità e del misticismo Islamico. Essenzialmente ortodosso e considerato prevalentemente come una subcultura nei paesi Islamici. Sunniti o Sciiti. Sufismo Coranico - Coranico: Si attiene strettamente a quanto scritto nel Corano compreso il profetismo e non accetta i più recenti ḥadīth come altrettanto ispirati dalla tradizione. È considerato non-ortodosso o come una forma di neo-ortodossia ed è praticato soprattutto nell'occidente islamico. Ha subito influenze dal concetto di riforma e restaurazione del Protestantesimo. Né il Sunnismoné il Sciismo sono da considerare come forme di ḥadīth. Il concetto di Panteismo si può rinvenire in ciascuno dei suddetti tipi di Sufismo, a differenza della maggioranza ortodossa dell'Islam, esso è molto diverso ed accentua l'esperienza e la conoscenza spirituale personale ed individuale. Le fonti dell'interpretazione panteistica differirebbero a seconda della tradizione cui fanno capo. Il Sufismo originario risentirebbe ovviamente dei testi orientali, il Sufismo ḥadīth sarebbe influenzato dagli studiosi Islamici del regno del Solimano, il Sufismo Coranico vedrebbe lo stesso Corano come la continua rivelazione e la personificazione linguistica è interpretata in modo coerente con i profeti biblici. La maggioranza dei Musulmani Ismailiti è panteista, o per essere più precisi, Panenteista.  Gli scritti di Seth e il PanteismoModifica Il concetto di Panteismo è parte integrante di molte delle credenze religiose e delle filosofie della New Age; la sua differenza rispetto al panenteismo è sostenuta in modo specifico negli scritti di Seth come presentati dalla medium Jane Roberts (1929-1984). Seth, l'"entità" cui da voce la Roberts, diceva che Dio è formato di energia mentale, e questa energia mentale è la sostanza che dà vita a tutti gli esseri e a tutte le cose; la coscienza di Dio è veicolata da questa energia, per cui la coscienza di Dio è onnipresente. Seth spesso si riferiva a Dio come a "Tutto ciò che è" e diceva che "Tutte le facce appartengono a Dio". Seth descriveva Dio come una forma contenente tutti gli individui al suo interno; inoltre aggiungeva che Dio si conosce come è, ma anche si conosce come ciascun individuo. Tuttavia, questo insegnamento ha molto in comune con il correlato concetto di panenteismo, dato che pone in risalto la personificazione di Dio e quindi si trasforma in un teismo.  Altre religioniModifica Molti elementi panteistici sono presenti in alcune forme di Buddismo, Neopaganesimo, e Teosofiainsieme a molte variabili denominazioni. Si veda anche la Neopagana Gaia e la Church of All Worlds.  Molti Universalisti si considerano panteisti.  Il filosofo Paul Carus si definiva "un ateista che ama Dio". Egli criticò ogni forma di monismo che cercava l'unità del mondo non nell'unità della verità bensì nella unicità di una logica supposizione di idee. Carus definiva tali concetti come "henismo". Il Taoismo propugna una visione panteistica. Il "Tao" potrebbe essere paragonato al "Deus-sive-Natura" di Spinoza.  Concetti connessiModifica PanenteismoModifica Il Panteismo e il panenteismo presentano aspetti comuni ma non coincidono: il primo vede l'universo pieno di Dio il secondo lo vede come parte di Dio. Filosoficamente, però, i due concetti sono ben distinti. Mentre per il panteismo Dio è sinonimo della natura, per il panenteismo, invece, Dio è superiore alla natura e la include. È la ragione per cui Hegel definiva quello spinoziano un panteismo acosmistico (senza mondo).  Per alcuni tale distinzione è inutile, mentre altri la considerano un significativo punto di divisione. Molte delle maggiori fedi descritte come panteistiche potrebbero essere descritte anche come panenteistiche, al contrario ciò non è possibile per il panteismo naturalistico (perché non considera Dio come superiore alla sola natura). Per esempio, elementi appartenenti al panenteismo ed al panteismo si rinvengono nell'Induismo. Certe interpretazioni dei testi Bhagavad Gita e Shri Rudram Chamakam sostengono questo punto di vista.  Cosmismo          Modifica Magnifying glass icon mgx2.svg                                                            Lo stesso argomento in dettaglio: Cosmismo e World Brain. Ulteriori informazioni Questa voce o sezione sull'argomento filosofia è priva o carente di note e riferimenti bibliografici puntuali. Mentre questo termine è raramente usato, e molto spesso è solo un sinonimo di Panteismo, l'insolita filosofia da esso indicata è stata utilizzata in modo piuttosto differente, ma in ogni caso con essa si vuole esprimere il concetto che Dio è un qualcosa creato dalla mente umana, forse rappresenta uno stadio finale della evoluzione dell'uomo, raggiunto attraverso la pianificazione sociale, l'eugenetica e altre forme di ingegneria genetica.  H. G. Wells diede vita a una forma di cosmismo, che denominò World Brain ("Cervello mondiale"), rifacendosi a un saggio da lui pubblicato nel 1937, in cui viene tra l'altro descritta la creazione di una biblioteca-enciclopedia. Tale idea venne ripresa nel libro God the Invisible King,[7] in cui l'autore consiglia all'umanità di istituire un sistema socialista, strutturandolo sui dati statistici sociali ed eugenetici, sull'istruzione e l'eugenetica, in modo che un giorno idealmente possa essere alla pari e possibilmente anche fondersi con la stessa divinità panteista, e anche in alcuni paragrafi di Outline of History, che richiamavano tali credenze dell'autore e le sue ricerche sull'insegnamento di Gesù e di Buddha. Queste idee vengono riprese nel suo libro Shape of Things to Come e nel film da esso tratto nel 1936 Things to Come; in essi viene descritta l'umanità che, sopravvivendo ad una guerra apocalittica e a un prolungato periodo Feudale, si unisce per dar vita ad una utopia collettivista.  In Israele, il Cosmismo è stato oggetto di studio da parte di Mordekhay Nesiyahu, uno dei primi ideologi del Movimento Laburista Israeliano e docente presso l'Università di Beit Berl. Secondo questo autore Dio è qualcosa che non esisteva prima dell'uomo, ma era una entità secolare. Infatti fu la ricostruzione del Tempio di Gerusalemme ad avere un ruolo nell'"invenzione" di questa entità.  Nel XX secolo, lo statunitense  William Luther Pierce, un nazionalista bianco iscritto nel Partito Nazista Americano e, a sua volta, fondatore del movimento Alleanza Nazionale, utilizzò il termine "Cosmismo". Per Pierce (così come per Wells), Dio sarebbe il risultato finale dell'eugenetica e dell'igiene razziale (Si veda: Nazismo, Francis Galton e Teosofia).  La "Noosfera" descritta da Vladimir Vernadsky e da Pierre Teilhard de Chardin potrebbe essere considerata come la descrizione di una divinità Cosmistica, come anche la coscienza collettiva di Émile Durkheim e l'inconscio collettivo di Carl Gustav Jung.  Arthur C. Clarke fa un possibile riferimento alla Noosfera Cosmista nel suo libro del 1953 Childhood's End (tradotto in italiano con il titolo Le guide del tramonto), riferendosi ad essa come la "Overmind", una mente alveare interstellare.   PandeismoModifica Il Pandeismo è una specie di Panteismo che include una forma di Deismo, sostenendo che l'Universo è identico a Dio, ma anche che Dio precedentemente fu una forza cosciente e senziente ovvero una entità che progettò e creò l'Universo. Diventando l'Universo, Dio divenne inconscio e non senziente. A parte questa distinzione (e la possibilità che l'Universo un giorno ritornerà ad essere Dio), le credenze Pandeistiche sono identiche a quelle del Panteismo.  EticaModifica Secondo Schopenhauer, nel panteismo non vi è etica. Il panteismo, nel suo complesso, naufragherebbe a fronte delle inevitabili esigenze etiche e quindi non avrebbe risposte sul male e sulle sofferenze del mondo. Se il mondo è una teofania, allora ogni cosa fatta dagli uomini, ed anche dagli animali, è da considerarsi parimenti divina ed eccellente; niente può essere giudicato più censurabile e più meritevole rispetto ad ogni altra cosa; quindi non vi è etica. (Il mondo come volontà e rappresentazione, Vol. II, Cap. XLVII)  Tuttavia, alcuni panteisti sostengono che il punto di vista panteista è molto più etico, evidenziando che ogni danno arrecato all'altro è come fare male a se stessi, perché arrecare danno ad uno è come arrecare danno a tutti. Ciò che è bene e ciò che è male non dipende da qualcosa al di fuori di noi, ma è il risultato di come ci rapportiamo gli uni con gli altri. Il fare bene non si deve basare sulla paura di una punizione da parte di Dio, bensì deve scaturire da un reciproco di tutti verso tutto.  Le forme tradizionali e le varie definizioni di panteismo, comunque, rinviano ai loro testi sacri e ai loro maestri per le definizioni di ordine etico.  NoteModifica ^ ( EN ) Michael P. Levine, Pantheism: A Non-Theistic Concept of Deity, Londra e New York, Routledge, 1994. Trad. italiana Il Panteismo. Una concezione non-teistica della divinità, Genova, ECIG, 1995, ISBN 88-7545-671-2. ^ Constance E. Plumptre, General Sketch of the History of Pantheism, Londra, W. W. Gibbings, 1878, vol. 1, p. 29. ^ Chandogya Upanishad 3-14 traduzione di Monier-Williams ^ La Città di Dio, Libro 4, Cap. 12. ^ La Città di Dio, Libro 4, Cap. 13. ^ Testo del Vangelo secondo Tommaso ^ God the Invisible King Voci correlateModifica Dio Monismo Monoteismo Teismo Deismo Pandeismo Panenteismo Naturalismo (filosofia) Panpsichismo Panteismo naturalistico Panteismo classico Altri progettiModifica Collabora a Wikiquote Wikiquote contiene citazioni di o su panteismo Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su panteismo Collegamenti esterniModifica panteismo, in Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2009. Modifica su Wikidata ( EN ) Panteismo, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su Wikidata ( EN ) Panteismo, in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton Company. Modifica su Wikidata ( EN ) William Mander, Pantheism, in Edward N. Zalta (a cura di), Stanford Encyclopedia of Philosophy, Center for the Study of Language and Information (CSLI), Università di Stanford. Giuseppe Tanzella-Nitti, Panteismo del Dizionario Interdisciplinare di Scienza e Fede, su disf.org. Controllo di autoritàThesaurus BNCF 29848 · LCCN( EN ) sh85097492 · GND ( DE ) 4173188-8 ·J9U ( EN ,  HE ) 987007560641905171 (topic) ·NDL ( EN ,  JA ) 00562946   Portale Filosofia   Portale Mitologia   Portale Religioni Ultima modifica 4 mesi fa di Luca M PAGINE CORRELATE Monismo (religione) Panenteismo scuola filosofica  Panteismo naturalistico Wikipedia Lorenzo Giusso. Giusso. Keywords: gl’eroi, il vico di giusso, la tradizione ermetica nella filosofia italiana, nazionalsocialismo, bruno, panteismo, leopardi, occasionalismo. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Giusso” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51756533855/in/dateposted-public/

 

Grice e Givone – fanes – filosofia italiana – Luigi Speranza -- Givone (Buronzo). Filosofo.  Grice: “I like Givone, especially his two essays on ‘eros’: ‘eros and ethos’ and the more controversial, ‘eros and knowledge.’ Si laurea Torino sotto Pareyson. Insegnato a Perugia, Torino e Firenze. Alcuni suoi lavori riguardano la poetica e l’estetica all’ombra del nichilismo. Da questa riflessione nasce anche la sua ricerca sulla “Storia naturale del nulla” --  e sulle implicazioni sullo tragico. In sua estetica e forte è ancora il richiamo filosofico. Il malinconico, ‘l’ibrido – Saggi: “La storia della filosofia secondo Kant” (Milano, Mursia); “Hybris e malinconia: Studi sulle poetiche del Novecento” (Milano, Mursia); “William Blake. Arte e religione, Milano, Mursia, “Ermeneutica e romanticismo, Milano, Mursia, Dostoevskij e la filosofia, Roma, Laterza, Storia dell'estetica, Roma, Laterza, Disincanto del mondo e il tragico, Milano, Il Saggiatore,  La questione romantica, Roma, Laterza, Storia del nulla, Roma, Laterza, Favola delle cose ultime, Torino, Einaudi, Eros/ethos, Torino, Einaudi, Nel nome di un dio barbaro, Torino, Einaudi,  Prima lezione di estetica, Roma, Laterza, Il bibliotecario di Leibniz. Torino, Einaudi,  Non c'è più tempo, Torino, Einaudi, Metafisica della peste. Colpa e destino, Torino, Einaudi, Luce d'addio. Dialoghi dell'amore ferito, Firenze, Olschki,  Sull'infinito, il Mulino, Pantragismo. Treccani. Grice: “I like Givone; he philosophises on ‘eros,’ but fails to notice that for Butler there’s self-love and other love; instead, Givone prefers to contrast ‘eros’ with ‘ethos’!” “His ramblings on Phanes are fun, though!” – Grice: “Not satisfied with metaphysics, Givone goes to criticize Marinetti’s hybris, or superbia, i. e. lack of moderation. His ottimismo notably contrasts with the decadentismo of the croposcolaristi.  Futurismo movimento artistico, culturale, musicale e letterario italiano Lingua Segui Modifica Nota disambigua.svg Disambiguazione – Se stai cercando altri significati, vedi Futurismo (disambigua). Ulteriori informazioni Questa voce o sezione sull'argomento arte è priva o carente di note e riferimenti bibliografici puntuali. Il Futurismo è stato un movimento letterario, culturale, artistico e musicale italiano dell'inizio del XX secolo[1], nonché una delle prime avanguardieeuropee. Ebbe influenza su movimenti affini che si svilupparono in altri paesi d'Europa, in Russia, Francia, negli Stati Uniti d'America e in Asia. I futuristi esplorarono ogni forma di espressione: la pittura, la scultura, la letteratura (poesia) al teatro, la musica, l'architettura, la danza, la fotografia, il cinema e persino la gastronomia. La denominazione del movimento si deve al poeta italiano Filippo Tommaso Marinetti[1].   Umberto Boccioni La città che sale, bozzetto, 1910 Museum of Modern Art, New York OriginiIl manifesto del Futurismo pubblicato su Le Figaro del 20 febbraio 1909 (qui evidenziato in giallo) Il Futurismo nasce in Italia, in un periodo di notevole fase evolutiva dove tutto il mondo dell'arte e della cultura era stimolato da numerosi fattori determinanti: le guerre, la trasformazione sociale dei popoli, i grandi cambiamenti politici e le nuove scoperte tecnologichee di comunicazione, come il telegrafo senza fili, la radio, gli aeroplani e le prime cineprese; tutti fattori che arrivarono a cambiare completamente la percezione delle distanze e del tempo, "avvicinando" fra loro i continenti, creando nuove connessioni.  Il XX secolo era quindi invaso da un nuovo vento, che portava una nuova realtà: la velocità. I futuristi intendevano idealmente "bruciare i musei e le biblioteche" in modo da non avere più rapporti con il passato per concentrarsi così sul dinamico presente; tutto questo, come è ovvio, in senso ideologico. Le catene di montaggio abbattevano i tempi di produzione, le automobili aumentavano ogni giorno, le strade iniziarono a riempirsi di luci artificiali, si avvertiva questa nuova sensazione di futuro[1] e velocità sia nel tempo impiegato per produrre o arrivare a una destinazione, sia nei nuovi spazi che potevano essere percorsi, sia nelle nuove possibilità di comunicazione.[2]    Gino Severini racconta che quando venne in contatto con Marinetti per decidere se aderire o meno al Futurismo parlò anche con Amedeo Modigliani, che egli avrebbe voluto nel gruppo, ma il pittore declinò l'offerta perché come scrisse:   «Queste manifestazioni non gli andavano, il complementarismo congenito lo fece ridere, e con ragione, perciò invece di aderire mi sconsigliò di mettermi in quelle storie; ma io avevo troppa affezione fraterna per Boccioni, inoltre ero, e sono sempre stato pronto ad accettare l'avventura […]»  (Gino Severini, Vita di un pittore) Primo Futurismo «Compagni! Noi vi dichiariamo che il trionfante progresso delle scienze ha determinato nell'umanità mutamenti tanto profondi, da scavare un abisso fra i docili schiavi del passato e noi liberi, noi sicuri della radiosa magnificenza del futuro…»  (dal Manifesto dei pittori futuristi, febbraio 1910) Una scazzottata futurista A seguito di una serie di articoli critici di Ardengo Sofficisu La Voce vi fu una reazione violenta dei futuristi: Marinetti, Boccioni e Carrà raggiunsero Soffici a Firenze e lo aggredirono mentre sedeva al caffè delle "Giubbe Rosse" in compagnia dell'amico Medardo Rosso. Ne nacque una grande pubblicità e un grande tumulto rinnovatosi alla sera, alla stazione di Santa Maria Novella, quando Soffici, accompagnato dagli amici Giuseppe Prezzolini, Scipio Slataper e Alberto Spaini, volle rendere la contropartita.   «Fu una vera spedizione punitiva, che mi fu raccontata da Boccioni e, più tardi, da Soffici. I futuristi appena arrivati a Firenze vanno al Caffè delle Giubbe Rosse, dove sapevano di trovare Soffici, Papini, Prezzolini, Slataper, e tutti redattori della Voce. Boccioni domanda ad un cameriere: «Chi è Soffici?»; sull'indicazione ottenuta si avvicina Soffici e senza spiegazioni gli appioppa un paio di schiaffoni; Soffici per niente smontato si alza risponde con una scarica di pugni. Parapiglia generale, tavole seggiole per terra, bicchieri rotti e questurini che portano tutti al commissariato. Per fortuna caddero in un commissario intelligente che capisce con chi aveva a che fare; visto che Soffici e quelli della Voce non volevano far querela d'aggressione, li rimandò tutti fuori come se niente fosse stato. I futuristi, vendicate le ingiurie, andarono alla stazione dove un treno, pressappoco a quell'ora, doveva riportarli a Milano. Ma quelli della Voce, malgrado si fossero ben difesi, non erano contenti affatto, perciò si recarono in fretta anch'essi alla stazione. Mentre il treno stava per arrivare ebbe luogo un altro incontro, e un altro violento pugilato, che, per poco, faceva restare a piedi futuristi. Ma fecero in tempo a prendere il treno, un po' ammaccati, ma soddisfatti.»  (Gino Severini, Vita di un pittore) Nel Manifesto Futurista (1909), pubblicato inizialmente in vari giornali italiani (la Tavola Rotonda di Napoli, la Gazzetta dell'Emilia di Bologna, la Gazzetta di Mantovae L'Arena di Verona) e, definitivamente, due settimane dopo sul quotidiano francese Le Figaro il 20 febbraio 1909[3], Filippo Tommaso Marinetti espose i principi-base del movimento. Poco tempo dopo a Milano nel febbraio 1910 i pittori Umberto Boccioni, Carlo Carrà, Giacomo Balla, Gino Severini e Luigi Russolo firmarono il Manifesto dei pittori futuristi e nell'aprile dello stesso anno il Manifesto tecnico della pittura futurista[4]. Nei manifesti si esaltava la tecnica e si dichiarava una fiducia illimitata nel progresso, si decretava la fine delle vecchie ideologie (bollate con l'etichetta di "passatismo", tra cui figura anche il Parsifal di Wagner, che a partire dal 1914 cominciò a essere rappresentato nei teatri d'Europa). Si esaltavano inoltre il dinamismo, la velocità, l'industria, il militarismo, il nazionalismo e la guerra, che veniva definita come "sola igiene del mondo".   Russolo, Carrà, Marinetti, Boccioni e Severini a Parigi per l'inaugurazione della prima mostra del 1912 La prima importante esposizione futurista si tenne a Parigi presso la galleria Bernheim-Jeune dal 5 al 24 febbraio 1912. All'inaugurazione della mostra erano presenti Marinetti, Boccioni, Carrà, Severini e Russolo. L'accoglienza iniziale fu fredda, ma nelle settimane successive il movimento suscitò un certo interesse divenendo presto oggetto di attenzioni internazionali tanto da favorire la riproposizione della mostra anche in altre città europee come Berlino[5].  La riconciliazione con i futuristi avvenne in seguito, grazie alla mediazione dell'amico Aldo Palazzeschi. Nel 1913 infatti, Soffici e Papini uscendo da La Vocedecisero di fondare la rivista Lacerba appoggiando così il movimento futurista[6].  Alla morte di Umberto Boccioni nel 1916, Carrà e Severini si ritrovarono in una fase di evoluzione verso la pittura cubista, di conseguenza il gruppo milanese si sciolse spostando la sede del movimento da Milano a Roma, con la conseguente nascita del "secondo Futurismo".  Secondo FuturismoIn prima fila Depero, Marinetti e Cangiullo nel 1924 con panciotti "futuristi" Il secondo Futurismo fu sostanzialmente diviso in due fasi. La prima andava dal 1918, due anni dopo la morte di Umberto Boccioni, al 1928 e fu caratterizzata da un forte legame con la cultura post-cubista e costruttivista; la seconda invece, dal 1929 al 1939, fu molto più legata alle idee del surrealismo. Di questa corrente - che si concluse attraverso il cosiddetto "terzo Futurismo", portando anche all'epilogo del Futurismo stesso - fecero parte molti pittori fra cui Fillia (Luigi Colombo), Enrico Prampolini, Filiberto Sbardella[7], Nicolay Diulgheroff, Wladimiro Tulli ma anche Mario Sironi, Ardengo Soffici, Ottone Rosai, Carlo Vittorio Testi e la moglie Fides Stagni.[8]  Se la prima fase del Futurismo fu caratterizzata da un'ideologia guerrafondaia e fanatica (in pieno contrasto con altre avanguardie) ma spesso anche anarchica, la seconda stagione ebbe un effettivo legame con il regime fascista, nel senso che abbracciò gli stilemi della comunicazione governativa dell'epoca e si valse di speciali favori.  I futuristi di sinistra, generalmente meno noti nel panorama culturale italiano dell'epoca, comunque, costituirono quella parte del Futurismo collocata politicamente su posizioni vicine all'anarchismo e al bolscevismo anche quando il movimento con i suoi fondatori e personaggi ritenuti principali fu fagocitato dal fascismo.  Anche se la gerarchia fascista riservò ai futuristi coevi una sottovalutazione talvolta sprezzante, l'osservazione dei principi autoritaristici e la poetica interventista del Futurismo furono quasi sempre presenti negli artisti del gruppo, fino a che alcuni di questi non abbracciarono altri movimenti e presero le distanze dall'ideologia fascista (Carlo Carrà, ad esempio, abbracciò la metafisica). Altri ancora, come il giovane pittore maceratese Wladimiro Tulli, mantennero costantemente un approccio giocoso e libertario, che poco aveva a che fare con l'estetica fascista, anche nelle successive esperienze di pittura informale.[9]  Futurismo russoNatalia Goncharova Il ciclista, 1913 Museo russo, San Pietroburgo Manifesto futurista di Marinetti era stato pubblicato a San Pietroburgo appena un mese dopo l'uscita su Le Figaro, e già negli anni 1911 e 1912 Natal'ja Sergeevna Gončarova e Michail Fëdorovič Larionov, che in patria verrà definito il "padre del Futurismo russo", furono i concreti iniziatori del movimento in Russia.  Nel 1913 il pittore Kazimir Severinovič Malevič, il compositore Michail Matjušin e lo scrittore Aleksej Eliseevič Kručënych redassero il manifesto del Primo congresso Futurista russo. Al movimento, conosciuto anche come Cubofuturismo o Raggismo, aderirono personalità come il poeta e drammaturgo Vladimir Vladimirovič Majakovskij.  Nel gennaio 1914 Marinetti stesso si recò a Mosca. Dal movimento d'avanguardia futurista nacquero negli anni immediatamente precedenti la rivoluzione del 1917 due importanti avanguardie artistiche, il Costruttivismo e il Suprematismo. L'attenzione che i giornali e il pubblico dedicarono a Marinetti fu enorme, ma non ci fu la stessa attenzione da parte dei futuristi russi, alcuni dei quali tentarono anche di ostacolare la visita di Marinetti. Altri invece, come Sersenevič, furono più ospitali e cordiali. Il temperamento e le declamazioni di Marinetti riscossero successo ovunque; ma Marinetti tentò invano di chiamare i futuristi russi ad unire le forze con i futuristi italiani, perché i maggiori poeti russi, Chlebnikov, Livsič, Majakovskij e anche il regista Larionov criticarono Marinetti.[senza fonte] L'ultima "mostra futurista" si tenne nel 1915 a Pietrogrado.  In Russia il movimento non fu caratterizzato dal bellicismo come quello dei futuristi italiani, criticato da Majakovskij, ma fu accompagnato da un'utopica idea di pace e libertà, sia individuale (dell'artista), sia collettiva (del mondo), che si sarebbe concluso con l'adesione di una parte del gruppo al bolscevismo. Dopo la rivoluzione d'ottobre molti futuristi confluirono nel cubismo e nell'astrattismo.  Futurismo francese In Francia il Futurismo non si organizzò mai come movimento, ma ebbe almeno due nomi degni di nota: Guillaume Apollinaire e Valentine de Saint-Point.  Apollinaire scrisse il manifesto L'antitradition futuriste(29 giugno 1913), pubblicato su Lacerba solo il 25 settembre dopo le aggiunte e le correzioni di Marinetti. I successivi Calligrammes (1918) rivelano la chiara influenza del paroliberismo futurista sul poeta francese.  Valentine de Saint Point, nipote di Lamartine, scrisse il Manifesto della donna futurista, (1912) con il sottotitolo “Risposta a F. T. Marinetti”, in un volantino pubblicato simultaneamente a Parigi e a Milano. Del 1913 è il Manifesto futurista della lussuria.  Orientamenti artistici Nelle opere futuriste è quasi sempre costante la ricerca del dinamismo; cioè il soggetto non appare mai fermo, ma in movimento: ad esempio, per loro un cavallo in movimento non ha quattro gambe, ne ha venti. Così la simultaneità della visione diventa il tratto principale dei quadri futuristi; lo spettatore non guarda passivamente l'oggetto statico, ma ne è come avvolto, testimone di un'azione rappresentata durante il suo svolgimento.  Per rendere l'idea del moto nelle arti visive tradizionali, immobili per costituzione, il Futurismo si serve, nella pittura e nella scultura, principalmente delle “linee-forza”; poiché la linea agisce psicologicamente sull'osservatore con significato direzionale, essa, collocandosi in varie posizioni, supera la sua essenza di semplice segmento e diventa “forza” centrifuga e centripeta, mentre oggetti, colori e piani si sospingono in una catena di “contrasti simultanei”, determinando la resa del “dinamismo universale”.  PitturaJoseph Stella Battle of Lights, Coney Island, Mardi Gras, 1913-14 Yale University Art Gallery Nel 1910 a Milano i giovani artisti d'Italia avevano pubblicato i manifesti sulla pittura futurista. Boccioni si occupò principalmente del dinamismo plastico e sintetico e del superamento del cubismo, mentre Balla passò dallo studio delle vibrazioni luminose (divisionismo) alla rappresentazione sintetica del moto[10]. Nel 1912 Boccioni, Carrà e Russolo esposero a Milano le prime opere futuriste alla "Mostra d'arte libera" nella fabbrica Ricordi.  Il Futurismo diede il meglio di sé nelle espressioni artistiche legate alla pittura, al mosaico e alla scultura, mentre le opere letterarie e teatrali, ma anche architettoniche, non ebbero la stessa immediata capacità espressiva.  Le radici del fermento che portò alla declinazione del Futurismo nell'arte si possono riconoscere, artisticamente parlando, già nella Scapigliatura - corrente tipicamente milanese e borghese della seconda metà dell'Ottocento - laddove il Futurismo distoglie con disprezzo l'attenzione dalla raffinata borghesia per concentrarsi sulla rivoluzione industriale, sulle fabbriche.  Dal punto di vista stilistico il Futurismo - in particolare quello boccioniano - si basa sui concetti del divisionismo che però riesce ad adattare per esprimere al meglio gli amati concetti di velocità e di simultaneità: è grazie ad artisti come Giovanni Segantini e Pellizza da Volpedo che, pochi anni dopo, il futurista Umberto Boccioni poté realizzare dipinti come La città che sale.   Opera futurista di Emma Marpillero Corradi Dal punto di vista concettuale, il Futurismo naturalmente non ignora i principi cubisti di scomposizione della forma secondo piani visivi e rappresentazione di essi sulla tela. Cubista è senz'altro la tecnica che prevede di suddividere la superficie pittorica in tanti piani che registrino ognuno una diversa prospettiva spaziale. Tuttavia, mentre per il cubismo la scomposizione rende possibile una visione del soggetto fermo lungo una quarta dimensione esclusivamente spaziale (il pittore ruota intorno al soggetto fermo cogliendone ogni aspetto), il Futurismo utilizza la scomposizione per rendere la dimensione temporale, il movimento.  Altrettanto interessanti sono i rapporti stilistici tra il Futurismo boccioniano e il cubismo orfico di Robert Delaunay.  Non mancarono relazioni complesse tra i futuristi italiani e i più importanti esponenti delle avanguardie russe e tedesche.[11]  Equiparare, infine, la ricerca futurista dell'attimo con quella impressionista, come è stato fatto in passato, è ormai considerato profondamente errato. Se è vero infatti che gli impressionisti fecero dell'"attimalità" il nucleo della loro ricerca - loro scopo era fermare sulla tela un istante luminoso, unico e irripetibile - la ricerca futurista si muoveva in senso quasi opposto: suo scopo era rappresentare sulla tela non un istante di movimento ma il movimento stesso, nel suo svolgersi nello spazio e nel suo impatto emozionale.  Come conseguenza dell'"estetica della velocità", nelle opere futuriste a prevalere è l'elemento dinamico: il movimento coinvolge infatti l'oggetto e lo spazio in cui esso si muove. Il dinamismo dei treni, degli aeroplani (Aeropittura), delle masse multicolori e polifoniche e delle azioni quotidiane (del cane che scodinzola andando a spasso con la padrona, della bimba che corre sul terrazzo, delle ballerine) è sottolineato da colori e pennellate che mettano in evidenza le spinte propulsive delle forme. La costruzione può essere composta da linee spezzate, spigolose e veloci, ma anche da pennellate lineari, intense e fluide se il moto è più armonioso.  Tra gli epigoni più interessanti del Futurismo, l'avanguardia russa del raggismo e del costruttivismo. Le tecniche pittoriche futuriste sono state riassunte nei due manifesti sulla pittura dei primi mesi del 1912.  Due tra i principali esponenti del movimento pittorico, Umberto Boccioni e Giacomo Balla, furono presenti anche nella scultura. La pittura di Boccioni è stata definita "simbolica": il dipinto La città che sale (1910), per esempio, è una chiara metafora del progresso, dettato dal titolo e dalle scene di cantiere edile sullo sfondo, esemplificate nella loro vorticosa crescita dalla potenza del cavallo imbizzarrito, un vortice di materia che si scompone per piani. Se Boccioni è simbolico, Balla è fotografico e analitico. Ancora legato a principi cubisti, non è raro che realizzi sequenze fotogrammetriche di una scena, per rendere il movimento, piuttosto che affidarsi a impetuosi vortici di pittura: è il caso del posato Bambina che corre al balcone (1912).  SculturaUmberto Boccioni Forme uniche della continuità nello spazio, 1913 New York, Museum of Modern Art L'artista futurista più attivo nel campo della scultura è Umberto Boccioni, la cui ricerca pittorica corre sempre parallela a quella plastica.  Nel 1912, lo stesso Boccioni pubblica il Manifesto tecnico della scultura futurista. Punto di arrivo di questa ricerca può essere considerato Forme uniche della continuità nello spazio, del 1913: l'immagine, applicando le dichiarazioni poetiche di Boccioni stesso, è tutt'uno con lo spazio circostante, dilatandosi, contraendosi, frammentandosi e accogliendolo in sé stessa.  Anche in L'Antigrazioso o La madre, immediatamente precedente, sono presenti parametri scultorei simili a Forme uniche nella continuità dello spazio, ma con ancora non risolti alcuni problemi di plasticità derivanti da influssi naturalistici.  MosaicLa tecnica del mosaico, basata sull'utilizzo di tessere ceramiche e vitree, si è prestata molto bene a esprimere i modi e il dinamismo intesi dall'arte futurista.  Enrico Prampolini e Fillia eseguono l'importante mosaico dedicato al tema delle Comunicazioniall'interno della torre del Palazzo delle Poste di La Spezia (1933).  Alcuni anni più tardi Gino Severini esegue altri mosaici per le Poste di Alessandria. La tradizione musiva di Ravenna continua con mosaici futuristi di autori vari (Palazzo del Mutilato, fine anni quaranta).  ArchitetturaMagnifying glass icon mgx2.svg. Lo stesso argomento in dettaglio: Architettura futurista. «Il problema dell'architettura moderna non è un problema di rimaneggiamento lineare. Non si tratta di dover trovare nuove sagome, nuove marginature di finestre e di porte, di sostituire colonne, pilastri, mensole con cariatidi, mosconi, rane (…): ma di creare di sana pianta la casanuova, costruita tesoreggiando ogni risorsa della scienza e della tecnica…»  (Antonio Sant'Elia, dal Messaggio posto a prefazione della mostra del gruppo Nuove Tendenze del 1914)  Antonio Sant'Elia, una veduta prospettica della Città Nuova. 1914  Sant'Elia, Casa a Gradinate la Città Nuova. 1914  Arnaldo Dell'Ira lampada "a grattacielo", 1929  Giuseppe Pettazzi  Stazione di servizio "Fiat Tagliero", 1938 Asmara Nel 1912 Antonio Sant'Elia, che divenne l'architetto più rappresentativo del movimento, era ancora distante dai futuristi ed era piuttosto legato nel movimento del cosiddetto Stile floreale. In quegli stessi anni a Milanoera attivo Giuseppe Sommaruga e questi sembra che avesse esercitato una grande influenza sulla formazione del Sant'Elia, infatti, per esempio, molti elementi dinamici del futurista furono anticipati nel Grand Hotel Campo dei Fiori di Varese[12].  All'inizio del 1914 Sant'Elia pubblicò il Manifesto dell'Architettura futurista, dove esponeva i principi di questa corrente. Al centro dell'attenzione c'è la città, vista come simbolo della dinamicità e della modernità. Tutti i progetti creati da Sant'Elia si riferiscono a città del futuro: in contrapposizione all'architettura tradizionale, vista come inadeguata, le città idealizzatedagli architetti futuristi hanno come caratteristica fondamentale il movimento, i trasporti e le grandi strutture. I futuristi, infatti, compresero immediatamente il ruolo centrale che i trasporti avrebbero assunto successivamente nella vita delle città. Nei progetti di questo periodo si cercavano sviluppi e scopi di questa novità. L'utopia futurista è una città in perenne mutamento, agile e mobile in ogni sua parte, un continuo cantiere in costruzione, e la casa futurista allo stesso modo è impregnata di dinamicità.  Anche l'utilizzo di linee ellittiche e oblique simboleggia questo rifiuto della staticità per una maggior dinamicità dei progetti futuristi, privi di una simmetriaclassicamente intesa.  Le teorie futuriste sull'architettura erano principalmente ideologiche ed erano espressione di un atteggiamento intellettualistico ma senza riferimenti a metodi formali e tecnici, tuttavia anticiparono i grandi temi e le visioni dell'architettura e della città che saranno proprie del Movimento Moderno[13].  A causa della guerra e dopo la morte di Boccioni e Sant'Elia il movimento futurista in Italia perse il suo slancio. Dopo il 1919 l'originaria proposta futurista dei primi tempi fu raccolta piuttosto dai costruttivisti russi. Il movimento razionalista italiano cercherà di proporre gli scenari della Città Nuova delle utopie futuriste ma il regime fascista smorzerà questi tentativi privilegiando un monumentalismo legato alla tradizione classicista. Lo stesso avvenne in Unione Sovietica con il sopravvento del regime totalitario.  Tra i grandi esponenti dell'architettura da ricordare Mario Chiattone, che visse con Sant'Elia a Milano, condividendone le linee teoriche e sviluppando straordinarie visioni di città del futuro, prima di trasferirsi in Svizzera e abbandonare la militanza. E infine Virgilio Marchi, che operò anche come scenografo.  Al Secondo Futurismo appartengono le architetture di Angiolo Mazzoni, autore di notevoli edifici postali e ferroviari, ancora oggi validamente in funzione in diverse città italiane.  CeramicaPer le sue possibilità espressive, anche la ceramica interessa il movimento futurista. In particolare i ceramisti dell'ISIA espressero lavori in sintonia con il nuovo movimento. Il 7 settembre 1938 sulla Gazzetta del Popolo a firma Filippo Tommaso Marinetti e di Tullio d'Albisola viene pubblicato il Manifesto futurista della Ceramica e Aereoceramica. Fin dal 1925 il centro propulsore della ceramica futurista italiana fu Albissola Marina.  Musica Modifica In campo musicale gli unici rappresentanti di rilievo furono Francesco Balilla Pratella e Luigi Russolo, pittore, musicista e scrittore, autore del saggio L'arte dei rumori pubblicato nel 1916. L'arte dei rumori è considerata da alcuni autori uno dei testi più importanti e influenti nell'estetica musicale del XX secolo.[14] A Russolo si deve l'invenzione dell'Intonarumori, uno strumento che usava per mettere in pratica la sua teoria del rumorismo, ovvero di una musica nella quale ai suoni dovevano essere sostituiti i rumori. Essi erano formati da generatori di suoni acustici che permettevano di controllare la dinamica e il volume.  Letteratura Modifica  Da sinistra: Aldo Palazzeschi, Carlo Carrà, Giovanni Papini, Umberto Boccioni, Filippo Tommaso Marinetti, 1914 Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso argomento in dettaglio: Letteratura futurista e Filippo Tommaso Marinetti. A fine gennaio 1909 Filippo Tommaso Marinetti inviava il Manifesto del Futurismo ai principali giornali italiani, ma è la pubblicazione su Le Figaro il 20 febbraio 1909a garantirgli risonanza europea. Nel 1912, sulla rivista fiorentina "Lacerba", comparve il "Manifesto tecnico della letteratura futurista"[15]. Del 1914 è il volume Zang Tumb Tumb, miglior esempio delle futuriste Parole in libertà.  Poesia. I poeti futuristi si riuniranno attorno alla rivista Poesiafondata da Marinetti qualche anno prima. Nei componimenti si trova generalmente l'esaltazione del futuro e delle sensazioni forti associate alla velocità e alla guerra. Gli esponenti più noti, oltre al Marinetti, sono: Aldo Palazzeschi, autore della raccolta poetica L'incendiario[16] (che include "La fontana malata", "E lasciatemi divertire" e "La passeggiata"); Ardengo Soffici, autore di Bif& ZF + 18 = Simultaneità – Chimismi lirici; Paolo Buzzi, autore di Aeroplani. Canti alati. Anche Salvatore Quasimodo aderì, in gioventù, al Futurismo (ricordiamo la sua poesia "Sera d'estate")[17]. A un successivo momento del Futurismo marinettiano appartiene l'Aeropoesia.  TeatroModifica Magnifying glass icon mgx2.svLo stesso argomento in dettaglio: Teatro futurista. I futuristi perseguirono la rifondazione del concetto stesso di comunicazione teatrale. Promossero un teatro «sintetico, atecnico, dinamico, simultaneo, autonomo, alogico e irreale», dove « è stupido» non ribellarsi al pregiudizio della teatralità, soddisfare la primitività delle folle, curarsi della verosimiglianza, voler spiegare con una logica minuziosa tutto ciò che si rappresenta, sottostare alle imposizioni del crescendo, della preparazione e del massimo effetto alla fine, lasciare imporre alla propria genialità il peso di una tecnica che tutti possono acquisire, rinunciare «al dinamico salto nel vuoto della creazione totale».  I futuristi, infatti, possedettero una «invincibile ripugnanza» per il lavoro studiato a tavolino, a priori, sostenendo l'improvvisazione, il teatro come «serbatoio inesauribile di ispirazioni».  «Tutto è teatrale quando ha valore»  (Il teatro futurista sintetico di Marinetti, Settimelli e Corra[18]) Il teatro futurista promosse anche la commedia e la farsa, anziché la tragedia, o il dramma borghese. Tuttavia, nelle serate futuriste, non era inusuale vedere il pubblico adirato a causa di spettacoli fatti di azioni deliranti. Le cronache dell'epoca riportano notizie relative agli attori futuristi che sfuggono all'ira degli spettatori, spesso provocata ad arte secondo gli intenti espressi nel Manifesto futurista del teatro di varietà.  CinemaMagnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso argomento in dettaglio: Cinema futurista. Nel 1916 venne pubblicato il Manifesto della Cinematografia futurista, firmato da Filippo Marinetti, Bruno Corra, Arnaldo Ginna, Giacomo Balla, Remo Chiti ed Emilio Settimelli, che sosteneva come il cinema fosse "per natura" arte futurista, grazie alla mancanza di un passato e di tradizioni. Essi non apprezzavano il cinema narrativo "passatissimo", cercando invece un cinema fatto di "viaggi, cacce e guerre", all'insegna di uno spettacolo "antigrazioso, deformatore, impressionista, sintetico, dinamico, parolibero". Nelle loro parole c'è tutto un entusiasmo verso la ricerca di un linguaggio nuovo slegato dall'estetica tradizionale, che era percepita come un retaggio vecchio.  I futuristi, per allontanare il cinema dal passato, ripudiavano tutto ciò che era convenzionalmente accettato come affascinante e bellissimo dalla borghesia, usando quindi come soggetti figure distorte (che verranno riprese anche dall'espressionismo tedesco come manifestazione della perdita di speranza della popolazione dopo la prima guerra mondiale), colori forti ecc. Molte opere cinematografiche futuriste sono andate perdute durante la guerra, tra cui Vita futurista, pellicola nella quale alcuni uomini disturbavano e poi scappavano velocemente alcuni turisti nei bar di Firenze.  Tra le opere rinvenute di questo movimento, ci è pervenuta la tragedia Tahïs del 1916 di Bargaglia e la romantica Amor pedestre del 1914 del comico Marcel Fabre, nel quale viene proposta una relazione non corrisposta tutta raccontata inquadrando i protagonisti dal ginocchio in giù (cortometraggi rintracciabili su YouTube).  Gastronomia Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso argomento in dettaglio: Cucina futurista. Grazie alla completezza di questo movimento, ne venne influenzata anche la gastronomia. Nel 1914 il cuoco francese Jules Maincave aderì al Futurismo, proponendo quindi l'accostamento di nuovi sapori ed elementi fino ad allora "separati senza serio fondamento". Questo comprendeva accostamenti come filetto di montone e salsa di gamberi, noce di vitello e assenzio, banana e groviera, aringa e gelatinadi fragola.  Il 20 gennaio 1931 Marinetti pubblicò il Manifesto della cucina futurista sulla rivista Comoedia. Secondo Marinetti bisognava eliminare la pastasciutta, così come forchetta e coltello e condimenti tradizionali, e incoraggiare l'accostamento ai piatti di musiche, poesie e profumi.  Scrive Marinetti:  «(...) vi annuncio il prossimo lanciamento della cucina futurista per il rinnovamento totale del sistema alimentare italiano, da rendere al più presto adatto alle necessità dei nuovi sforzi eroici e dinamici imposti dalla razza. La cucina futurista sarà liberata dalla vecchia ossessione del volume e del peso e avrà, per uno dei suoi principi, l'abolizione della pastasciutta. La pastasciutta, per quanto gradita al palato, è una vivanda passatista perché appesantisce, abbrutisce, illude sulla sua capacità nutritiva, rende scettici, lenti, pessimisti. È d'altra parte patriottico favorire in sostituzione il riso.»  Nel suo tempo È normale che il Futurismo, nascendo in un'epoca di transizione, abbia avuto molteplici contraddizioni. All'immobilismo scolastico e accademico ereditato dalle "tre corone" della poesia decadente (Carducci, Pascoli e D'Annunzio) i futuristi oppongono la dinamicità, la demolizione all'armonia, e alla raffinatezza contrappongono il disordine delle parole. Gli elementi suddetti richiamano alle caratteristiche del Futurismo più importanti[19]: esse rientrano appieno nello spirito culturale della belle époque che precedette lo scoppio della Prima Guerra Mondiale.  Secondo i futuristi, questi poeti devono essere completamente rinnegati perché incarnano esattamente i quattro ingredienti intellettuali che il Futurismo vuole abolire:  la poesia morbosa e nostalgica; il sentimento romantico; l'ossessione della lussuria; la passione per il passato. In contraddizione con il Futurismo è stata anche la corrente crepuscolare. Infatti il crepuscolarismo, nonostante condivida con il Futurismo l'idea di interartisticità, ha però una concezione della vita completamente diversa:  i futuristi inneggiano alle innovazioni, i crepuscolari sono avversi a una modernità che aliena l'individuo i futuristi sono prepotenti, dinamici, chiassosi, i crepuscolari assumono toni dimessi, pacifici e malinconici i futuristi esaltano il caos e le attività delle grandi città, i crepuscolari amano l'intimità, le "piccole cose di pessimo gusto", gli affetti familiari e una vita tranquilla i futuristi sono sempre protesi verso un "domani" esaltante, i crepuscolari guardano al passato e alle piccole cose quotidiane.  Scultura futurista  esposta a Milano in Piazzetta Reale per il centenario del movimento Nelle arti figurative invece si presenta il confronto con le altre avanguardie, Cubismo, Astrattismo, Dada, Surrealismo, Metafisica, ognuna delle quali caratterizzata da propri temi e propri linguaggi espressivi. L'opera futurista è in evidente contrasto per alcuni temi con molte delle altre avanguardie sebbene condividano tutte l'intuizione di trasmettere attraverso l'arte un impulso di trasformazione della società e di rinnovamento. Aspetto specifico del Futurismo è quello di non limitare la propria azione alle espressioni artistiche (come il Cubismo o la Metafisica), ma di prospettare la re-invenzione dell'intera vita, in ogni suo aspetto (e uno dei manifesti maggiormente rilevanti fu infatti "Ricostruzione futurista dell'universo" di Balla e Depero).  Tra i contemporanei dei futuristi che criticarono il movimento ricordiamo Giandante X, che nel 1929, a Milano, all'apertura dei festeggiamenti per il ventennale del Futurismo, contestò apertamente Filippo Tommaso Marinetti, sostenendo che "l’uomo si deve affrancare dalla macchina ed è un errore lasciare sussistere lo scombinato movimento artistico"[20].  Nella critica del dopoguerra Il Futurismo ha influenzato tutta l'arte d'avanguardia del Novecento. Gli artisti futuristi che sopravvissero alla morte di Marinetti (21 dicembre del 1944) e alla seconda guerra mondiale caddero in disgrazia come tutto il Futurismo, con l'accusa di aver fiancheggiato il fascismo.  Nel secondo Novecento nuovi studi di Luciano De Maria, Mario Verdone, Enrico Crispolti, Maurizio Calvesi, Claudia Salaris, Giordano Bruno Guerri hanno parzialmente corretto l'accusa di collusione fascista, rilanciando l'interesse artistico-sociale verso il futurismo. Studi sul futurismo di sinistra (i contatti con gli ambienti anarchici, e persino comunisti) mostravano contemporaneamente che l'avanguardia futurista italiana era stata troppo sommariamente giudicata.  Nel corso del tempo diverse sono state le esposizioni riguardanti il Futurismo. Di indubbia rilevanza è stata quella del 2009 presso il Palazzo Reale di Milano per il centenario del movimento. La mostra si intitolava Futurismo 1909-2009 Velocità+Arte+Azione[21]. Nel 2014, il Futurismo italiano, con una grande esposizione retrospettiva fino al 1944 al Guggenheim Museum di New York a cura di Vivien Greene[22], è tornato alla ribalta internazionale. Il centenario del Futurismo ha anche contribuito al rilancio internazionale degli studi sulle artiste del Futurismo e sulla visione della donna nel Movimento.  Nel 2018 è stato pubblicato il Manifesto del Fumetto Futurista redatto da Massimo Bonura e uno dei primi, se non il primo, fumetti futuristi programmatici, cioè seguente esplicitamente uno schema scritto e definito, dal titolo "Il brutto anatroccolo. Ma che Wow!!" di Claudio S. Gnoffo, a significare l'importanza che il movimento futurista ha avuto come influenza nel delineare nuovi stili d'arte di rottura e sperimentali.[23]  Principali esponenti del futurisModifica Futuristi italiani Filippo Tommaso Marinetti Enrico Allimandi Adone Asinari Franco Asinari Antonio Asturi Fedele Azari Roberto Iras Baldessari Giacomo Balla Enzo Benedetto Umberto Boccioni Vittorio Bodini Uberto Bonetti Oswaldo Bot, pseudonimo di Osvaldo Barbieri Anton Giulio Bragaglia Alessandro Bruschetti Paolo Buzzi Francesco Cangiullo Benedetta Cappa Mario Carli Enrico Carmassi Sebastiano Carta Carlo Carrà Gianni Carramusa Giuseppe Caselli Riccardo Castagnedi Enrico Cavacchioli Arturo Ciacelli Remo Chiti Primo Conti Vittorio Corona Bruno Corra, pseudonimo di Bruno Ginanni Corradini Tullio Crali Auro D'Alba, pseudonimo di Umberto Bottone Giulio D'Anna Luigi De Giudici Mino Delle Site Fortunato Depero Gerardo Dottori Leonardo Dudreville Carlo Erba Julius Evola Farfa, pseudonimo di Vittorio Osvaldo Tommasini Fillia, pseudonimo di Luigi Enrico Colombo Luciano Folgore Gesualdo Manzella Frontini Achille Funi Ivanhoe Gambini Giacomo Giardina Arnaldo Ginna, pseudonimo di Arnaldo Ginanni Corradini Giovanni Governato Corrado Govoni Guglielmo Jannelli Giovanni Korompay Krimer Mimì Maria Lazzaro Escodamè, pseudonimo di Michele Leskovic Osvaldo Licini Gian Pietro Lucini Alberto Magnelli Vincenzo Mai Enzo Mainardi Giorgio Michetti Antonio Marasco Oreste Marchesi Emma Marpillero Pino Masnata Silvio Mix Sante Monachesi Marisa Mori Bruno Munari Benito Mussolini Emilio Notte Renzo Novatore, pseudonimo di Abele Ricieri Ferrari Nello Voltolina Pippo Oriani Nino Oxilia Ivo Pannaggi Giovanni Papini Luigi Pepe Diaz Osvaldo Peruzzi Vittorio Piscopo Enrico Prampolini Francesco Balilla Pratella Giuseppe Preziosi Salvatore Quasimodo Renato Righetti Romolo Romani Ottone Rosai Pippo Rizzo Angelo Rognoni Umberto Luigi Ronco Mino Rosso Luigi Russolo Bruno Giordano Sanzin Alberto Sartoris Antonio Sant'Elia Filiberto Sbardella Gino Severini Ardengo Soffici Fides Stagni Tato (Guglielmo Sansoni) Mario Sironi Fides Stagni Joseph Stella Mario Sturani Italo Tavolato Geppo Tedeschi Thayaht, pseudonimo di Ernesto Michahelles Wladimiro Tulli Giuseppe Ungaretti Vann'Antò Ruggero Vasari Lucio Venna, pseudonimo di Giuseppe Landsmann Mario Mirko Vucetich Futuristi russi Makov Černichov Velimir Chlebnikov Natal'ja Sergeevna Gončarova Michail Larionov Vladimir Majakovskij Kazimir Severinovič Malevič Aleksandr Rodčenko Aleksej Kručënych Futuristi ucraini Davyd, Mykola, Volodymyr Burljuk Futuristi francesi Robert Delaunay Marcel Duchamp Paul Fort Fernand Léger Jules Maincave Georges Bernanos Guillaume Apollinaire Futuristi cechi Růžena Zátková Futuristi ungheresi  Béla Kádár Lajos Kassák Hugó Scheiber Futuristi portoghesi Fernando Pessoa, divulgò aspetti del movimento attraverso le riviste Orpheu (1915) e Portugal Futurista (1917) Guilherme de Santa-Rita, pittore, ideatore della rivista Portugal Futurista (1917) Futuristi spagnoli Joan Salvat-Papasseit Futuristi brasiliani Oswald de Andrade Futuristi argentini Alberto Hidalgo Emilio Pettoruti Principali manifesti Manifesto del futurismo, (Pubblicato da "Le Figaro" il 20 febbraio 1909), Marinetti Uccidiamo il Chiaro di luna, (aprile 1909), Marinetti Manifesto dei Pittori futuristi, (11 febbraio 1910), Boccioni, Carrà, Russolo, Balla e Severini La pittura futurista - Manifesto tecnico, (11 aprile 1910), Boccioni, Carrà, Russolo, Balla e Severini Contro Venezia passatista, (27 aprile 1910), Marinetti, Boccioni, Carrà, Russolo Manifesto dei drammaturghi futuristi, (11 gennaio 1911), Marinetti Manifesto dei Musicisti futuristi, (11 gennaio 1911), Pratella La musica futurista-Manifesto tecnico, (29 marzo 1911), Pratella Manifesto della Donna futurista, (25 marzo 1912), Valentine de Saint-Point Manifesto della Scultura futurista, (11 aprile 1912), Boccioni Manifesto tecnico della letteratura futurista, (11 maggio 1912), Marinetti L'arte dei Rumori, (11 marzo 1913), Russolo Distruzione della sintassi. L'immaginazione senza fili e le Parole in libertà, (11 maggio 1913), Marinetti L'Antitradizione futurista, (29 giugno 1913), Guillaume Apollinaire La pittura dei suoni, rumori e odori, (11 agosto 1913), Carrà Il Teatro di Varietà, (1º ottobre 1913), Marinetti Il controdolore, (29 dicembre 1913), Palazzeschi Pittura e scultura futuriste, (1914), Boccioni Manifesto dell'Architettura futurista, (1914), Sant'Elia Il teatro futurista sintetico, (1915), Corra, Settimelli, Marinetti La ricostruzione futurista dell'universo, (1915), Balla, Depero La Scenografia futurista, (1915), Prampolini Manifesto del cinema futurista, (1916), Marinetti, Corra, Settimelli Manifesto della danza futurista, (1917), Marinetti Manifesto dell'Aeropittura futurista, (1929) Manifesto della Fotografia futurista, (16 aprile 1930, Tato (pseudonimo di Guglielmo Sansoni), Filippo Tommaso Marinetti Manifesto della cucina futurista, (1931), Marinetti. Manifesto futurista della Ceramica e Aereoceramica(1938), Filippo Tommaso Marinetti e Tullio d'Albisola Opere principali Pittura Umberto Boccioni, Tre donne (1909-1910); Umberto Boccioni, La città che sale (1910-1911); Carlo Carrà, Notturno a Piazza Beccaria (1910); Umberto Boccioni, La risata (1911); Umberto Boccioni, Stati d'animo, gli addii (1911); Carlo Carrà, I funerali dell'anarchico Galli (1911); Umberto Boccioni, Materia (1912); Giacomo Balla, Ragazza che corre al balcone (1912); Giacomo Balla, Dinamismo di un cane al guinzaglio(1912); Giacomo Balla, Lampada ad arco (1911); Umberto Boccioni, Elasticità (1912); Gino Severini, La chahuteause (1912); Luigi Russolo, Dinamismo di un'automobile (1912-1913); Carlo Carrà, Cavaliere rosso (1913); Giacomo Balla, Automobile + velocità + luce (1913). Gino Severini, Ballerina in blu (1913); Fortunato Depero, I Cavalieri.  ^ a b c Futurismo, in Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. URL consultato il 14 novembre 2014. ^ Il pensiero futurista si richiama evidentemente a varie ideologie dell'azione e della violenza: il "vitalismo" del "superuomo" (oltreuomo) di Friedrich Nietzsche, l'anarchismo di Max Stirner, la "violenza" di Georges Sorel (Considerazioni sulla violenza), lo slancio vitale di Henri Bergson(cfr. "Futurismo" nell'Enciclopedia "Il Sapere", De Agostini editore). ^ arengario.it, http://www.arengario.it/futurismo/_pdf/specimen-2011-tonini-manifesti.pdf. ^ In Archivi del futurismo regesti raccolti e ordinati da Maria Drudi Gambillo e Teresa Fiori, Roma 1958, p. 63. ^ Il Futurismo: le Edizioni Elettriche, su InternetCulturale.it. URL consultato il 14 novembre 2014. ^ Davide Mauro, Elapsus - Gino Severini, frammenti di vita parigina, su www.elapsus.it. URL consultato il 10 gennaio 2017. ^ di Forlipedia, TULLO MORGAGNI, su Forlipedia, 11 aprile 2021. URL consultato il 12 settembre 2021. ^ Futuristi, su windoweb.it. URL consultato il 26 novembre 2010. ^ Christopher Adams, Historiographical perspectives on 1940s Futurism, Journal of Modern Italian Studies, Vol.18, 2013, Issue 4: https://www.tandfonline.com/doi/full/10.1080/1354571X.2013.810801 ^ Giulio Carlo Argan 1970, p. 382. ^ www.electaweb.it, su Futurismo italiano a confronto con artisti tedeschi e russi. ^ Kenneth Frampton 1982, pp. 91-92. ^ Reyner Banham 1970, p. 105. ^ Warner, Cox, 2004, p.10. ^ letteratura (Futurismo Italiano) ^ A. Palazzeschi, L'incendiario (Milano, Edizioni Futuriste di Poesia, 1910) ^ pubblicata nel 1917 sulla rivista fiorentina "Italia Futurista") ^ Marinetti, Settimelli, Corra, Il teatro futurista sintetico, su futurismo.altervista.org. ^ Marco Napolitano, Le caratteristiche del movimento futurista al Guggenheim, su marconeapolitanews.altervista.org, 10 marzo 2015. URL consultato il 10 marzo 2015. ^ L'Iride News, su www.iridenews.it. URL consultato il 7 ottobre 2020. ^ Futurismo = Velocità+Arte+Azione, su elapsuswebzine.blogspot.it. URL consultato il 14 febbraio 2017. ^ Vivien Greene, [1] ^ Massimo Bonura, Il fumetto come Arte e altri saggi, Palermo, Edizioni Ex Libris, 2018. Per il Manifesto del Fumetto Futurista si vedano le pp. 68-69, per le tavole del Fumetto Futurista di Claudio S. Gnoffo si vedano le pp. 70-71.  Ulteriori informazioni Questa voce o sezione ha problemi di struttura e di organizzazione delle informazioni. Giulio Carlo Argan, L'arte moderna 1770/1970, Firenze, Sansoni, 1970, SBN IT\ICCU\RLZ\0058303. Giovanni Lista e Ada Masoero (a cura di), Futurismo 1909-2009. Velocità+Arte+Azione (Milano, Palazzo Reale, 5 febbraio – 7 giugno 2009), Milano, Skira, 2009, ISBN 978-88-572-0039-2. Gino Severini, Vita di un pittore, Abscondita, 2008, ISBN 978-88-8416-189-5. Luciano De Maria, Laura Donati, Marinetti e i futuristi, Garzanti, 1994, ISBN 8811472369 ( EN ) Vivien Greene (a cura di), Italian Futurism, 1909-1944: Reconstructing the Universe, New York, Solomon R. Guggenheim Museum, 2014, ISBN 978-0-89207-499-0. Kenneth Frampton, Storia dell'architettura moderna, traduzione di Mara De Benedetti e Raffaella Poletti, Bologna, Zanichelli, 1982, SBN IT\ICCU\RAV\0137585. (EN)  Reyner Banham, Theory and Design in the First Machine Age, New York, 1960; trad. it. Architettura della prima età della macchina, di Enrica Labò, Bologna, 1970, SBN IT\ICCU\SBL\0360948. Approfondimenti          Modifica AA.VV., Futurismo e futurismi, Supplemento ad «Alfabeta» nº 84, 1986 [Speciale in collaborazione tra «Alfabeta» e «La Quinzaine littéraire»]. AA.VV., Divenire 3 Futurismo, a cura di R. Campa, Bergamo, Sestante Edizioni, 2009, ISBN 978-88-95184-55-5. Walter Pedullà (a cura di), Il Futurismo nelle avanguardie. Atti del convegno internazionale in occasione del centenario della nascita del Futurismo (Milano, Palazzo Reale, 4-6 febbraio 2010), Roma, Editrice Ponte Sisto, 2010, ISBN 978-88-95884-31-8. Marco Albertazzi (a cura di), I poeti futuristi, con i saggi di George Wallace e Marzio Pieri, Trento, La Finestra editrice, 2004   [Milano, 1912] , ISBN 88-88097-82-1. L'opera contiene in appendice alcuni manifesti futuristi. Giovanni Antonucci, Storia del teatro futurista, Roma, Edizioni Studium, 2005, ISBN 88-382-3980-0. Guido Bartorelli, Numeri innamorati. Sintesi e dinamiche del secondo futurismo, Torino, Testo & Immagine, 2001, ISBN 88-8382-024-X. Mirella Bentivoglio, Franca Zoccoli, Le futuriste italiane nelle arti visive, De Luca Editori d'Arte, 2008. Stefano Bianchi, La musica futurista. Ricerche e documenti, Lucca, Libreria Musicale Italiana Editrice, 1995, ISBN 88-7096-115-X. Maurizio Calvesi, Il Futurismo, Milano, Fabbri, 1970, SBN IT\ICCU\RLZ\0162061. Maurizio Calvesi, Il Futurismo. La fusione della vita nell'arte, Nuova ed., Milano, Fabbri, 1975, SBN IT\ICCU\LIA\0177705. Luciano Caruso e Stelio Maria Martini (a cura di), Scrittura visuale e poesia sonora futurista, Palazzo Medici Riccardi, Firenze 1977 (catalogo). Luciano Caruso e Stelio Maria Martini (a cura di), Tavole parolibere futuriste. 1912 – 1944, 2 volumi, Napoli, Liguori, 1977. Luciano Caruso, Francesco Cangiullo e il Futurismo a Napoli, Firenze, Spes – Salimbeni, 1979. Luciano Caruso (a cura di), Il colpo di glottide. La poesia come fisicità e materia, Firenze, Vallecchi, 1980 (catalogo). Luciano Caruso (a cura di), Manifesti, proclami, interventi e documenti teorici del futurismo, 1909 – 1944, Firenze, Spes – Salimbeni, 1980. Simona Cigliana, Futurismo esoterico, prefazione di Walter Pedullà, Roma, La Fenice, 1996, ISBN 88-86171-29-3. - 2ª ed., Napoli, Liguori, 2002, ISBN 88-207-3295-5. Domenico Cammarota, Filippo Tommaso Marinetti. Bibliografia, Milano, Skira («Documento del MART» 5), 2002. Domenico Cammarota, Futurismo. Bibliografia di 500 scrittori italiani, Milano, Skira («Documenti del MART» 10), 2006. Gabriella Chioma, Ala d'AreoDonna. Futuriste nel Golfo 1932 -1933, Treviso, Edizioni del Tridente, 2009. Enrico Crispolti, Il mito della macchina ed altri temi del Futurismo, Trapani, Celebes, 1969. Enrico Crispolti (a cura di), Il Futurismo e la moda. Balla e gli altri, Venezia, Marsilio Editori, 1986. Enrico Crispolti, Futurismo 1909-1944, Milano, Mazzotta, 2001. Matteo D'Ambrosio, Futurismo e altre avanguardie, Napoli, Liguori Editore, 1999; Luciano De Maria (a cura di), Marinetti e il Futurismo, Mondadori, Milano 1973. Fortunato Depero, Prose futuriste, Trento, V.D.T.T., 1973; Angelo D'Orsi, Il Futurismo tra cultura e politica. Reazione o rivoluzione?, Roma, Editore Salerno, 2009. E. David, Futurismo, Dadaismo e Avanguardia Romena: contaminazioni fra culture europee (1909- 1930), Torino, L'Harmattan Italia, 2006. Arnaldo Di Benedetto, Tre poeti e il futurismo: Ezra Pound, Giuseppe Ungaretti, Eugenio Montale (con un cenno su Saba), in «Italica», LXXXVIII (2011), pp. 198–218. Maria Drudi Gambillo e Teresa Fiori (a cura di), Archivi del Futurismo, prefazione di Giulio Carlo Argan, 2 volumi, Roma, De Luca, 1958, SBN IT\ICCU\RMS\0230103. Maria Drudi Gambillo e Teresa Fiori (a cura di), Archivi del Futurismo, 2 volumi, 2ª ed., Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1986, SBN IT\ICCU\TO0\1041302. Giovanni Fontana, Anton Giulio Bragaglia: La scena dello spazio e lo spazio della scena, in “Territori”, nº 11, Frosinone, aprile 2001. Giovanni Fontana, La voce in movimento. Vocalità, scritture e strutture intermediali nella sperimentazione poetico-sonora, con CD, Monza, Ed. Harta Performing & Momo, 2003. Giovanni Fontana, Anton Giulio Bragaglia e la sintesi del movimento. Il diritto all'identità fotodinamica, in “Avanguardia”, Anno IX, nº 27, Roma 2004. (FR) Giovanni Fontana, Le futurisme a 100 ans. Dans sa révolution poétique, le germe de la poésie performative contemporaine, in “Inter. Art Actuel”, nº 103, autunno 2009, Québec. Giovanni Fontana, Testo, gesto, voce. La performance futurista, in “Luci e ombre del futurismo. Atti del Convegno internazionale”, a cura di Antonio Gasbarrini e Novella Novelli, Quaderni di Bérénice 13, L'Aquila, Angelus Novus Edizioni, dicembre 2010. Giovanni Fontana, Hermes Intermedia e l'eredità fotodinamica, in “Aparte. Periodico culturale e organizzativo dell'associazione Pecci Arte”, nº 13, Prato, dicembre 2011. Ezio Godoli (a cura di), Il dizionario del Futurismo, 2 tomi, Firenze, Vallecchi-MART, 2001, ISBN 88-8427-006-5. Francesco Grisi (a cura di), I Futuristi, Roma, Newton & Compton, 1994, ISBN 88-7983-454-1. Pontus Hulten (a cura di), Futurismo & Futurismi, Milano, Bompiani, 1986, SBN IT\ICCU\CFI\0054137. Lia Lapini, Il teatro futurista italiano, Milano, Mursia, 1977, ISBN 88-425-1353-9. Giovanni Lista, Le livre futuriste, de la libération du mot au poème tactile, Modena, Editioni Panini, 1984. Giovanni Lista, Futurismo. Velocità e dinamismo espressivo, Santarcangelo di Romagna, KeyBook/Rusconi libri srl, 2002. Daniele Lombardi, Il suono veloce. Futurismo e Futurismi in musica, Milano – Lucca, Ricordi – LIM, 1996. Arrigo Lora Totino (a cura di), Futura, Milano, Cramps, 1978 [con 7LP33]. Filippo Tommaso Marinetti, Teoria e invenzione futurista, Milano, Mondadori, 1968. Alessandro Masi (a cura di), Zig Zag. Il romanzo futurista, Milano, il Saggiatore, 2009   [1995] , ISBN 978-88-428-1600-3. Marco Mancin e Valentina Durante, Futurismo & Sport Design, Montebelluna-Cornuda, Antiga Edizioni, 2006, ISBN 88-88997-29-6. Fernando Maramai, F.T. Marinetti. Teatro e azione futurista, Udine, Campanotto, 2009, ISBN 88-456-1060-8. Stelio Maria Martini, Breve storia dell’avanguardia, Marano (NA), Nuove Edizioni, 1988, SBN IT\ICCU\CFI\0141701. ( EN ) Pino Masnata, Radia: A Gloss of the 1933 Futurist Radio Manifesto, Emeryville (California), Second Evening Art Pub.. URL consultato il 14 novembre 2014 (archiviato dall' url originale  il 1º novembre 2014). Virgilio Marchi, Architettura Futurista, Torino, Einaudi, 1976   [1924] , SBN IT\ICCU\MIL\0237942. Giacomo Properzj, Breve storia del Futurismo, Milano, Mursia, 2009, ISBN 978-88-425-4158-5. Ilaria Riccioni, Futurismo, logica del postmoderno, Imola, La Mandragora, 2003, ISBN 88-88108-74-2. Ilaria Riccioni, Arte d'avanguardia e società, Roma, L'Albatros, 2006, ISBN 88-89820-03-9. Ilaria Riccioni, Depero. La reinvenzione della realtà, Chieti, Solfanelli, 2006, ISBN 88-89756-03-9. Claudia Salaris, Bibliografia del Futurismo. 1909 – 1944, Roma, Biblioteca del Vascello / Stampa Alternativa, 1988, SBN IT\ICCU\PAL\0063694. Claudia Salaris, Filippo Tommaso Marinetti, Scandicci (FI), La Nuova Italia, 1988, ISBN 88-221-0650-4. Claudia Salaris, Storia del futurismo. Libri giornali manifesti, 2ª ed., Roma, Editori Riuniti, 1992, ISBN 88-359-3654-3. Claudia Salaris, Marinetti. Arte e vita futurista, Roma, Editori Riuniti, 1997, ISBN 88-359-4360-4. Leonardo Tondelli, Futurista senza futuro. Marinetti ultimo mitografo, Firenze, Le Lettere, 2009, ISBN 88-6087-287-1. Adriano Spatola, Il Futurismo, Milano, Elle Emme, s.d., 1980, SBN IT\ICCU\LO1\1322699. Luigi Tallarico, Futurismo nel suo centenario, la continuità, Galatina, Congedo, 2009, ISBN 978-88-8086-840-8. Giovanni Tuzet, A regola d'arte, Ferrara, Este Edition, 2007, ISBN 978-88-89537-50-3. Mario Verdone, Teatro del tempo futurista, Roma, Lerici, 1969, SBN IT\ICCU\SBL\0352972. Mario Verdone, Che cos’è il Futurismo, Roma, Casa Ed. Astrolabio – Ubaldini Editore, 1970. Glauco Viazzi (a cura di), I poeti del Futurismo (1909 – 1944), Milano, Longanesi & C., 1978, SBN IT\ICCU\SBL\0241201. Walter Pedullà, Per esempio il Novecento. Dal futurismo ai giorni nostri, Milano, Rizzoli, 2008, ISBN 978-88-17-02749-6. Winfried Wehle, Sconfinamento nel trasumano. Vuoto mitico e affollamento mediale nell'arte futurista ( PDF ) (PDF), in «Studi Italiani», n. 11, 2009, pp. 25–46, ISSN 1724-1596 (WC · ACNP). Giovanni Lista, Photographie Futuriste Italienne, 1981, Catalogo della Mostra al MAMVP, Parigi. Claudio S. Gnoffo, Tavole del Fumetto Futurista Il brutto anatroccolo ma che Wow!!, in M. Bonura, Il fumetto come Arte e altri saggi, Palermo, Edizioni Ex Libris, 2018, pp. 70–71. Massimo Bonura, Per un Manifesto del Fumetto Futurista: relazioni con il Manifesto del Cinema, della Pittura e della Cucina futurista, in M. Bonura, Il fumetto come Arte e altri saggi, Palermo, Edizioni Ex Libris, 2018, pp. 65–67. Zeno Birolli (a cura di), Pittura e scultura futuriste, Abscondita, 2006, ISBN 88-8416-141-X. Daniel Warner e CChristoph Cox, Audio Culture: Readings in Modern Music, Londra, Continiuum International Publishing Group LTD, 2004, pp. 10–14, ISBN 0-8264-1615-2. Didier Ottinger , Le Futurisme a Paris , une avant-garde explosive , Editions Centre Pompidou , (2008) , Parigi , (Catalogo della Mostra al Centre Pompidou(ott.2008-gen.2009) ISBN 978-2-84426-359-9 Barbara Meazzi, Il fantasma del romanzo. Le futurisme italien et l'écriture romanesque (1909-1929), Chambéry, Presses universitaires Savoie Mont Blanc, 2021, 430 pp., ISBN 9782377410590 Voci correlate Avanguardia Battaglione Lombardo Volontari Ciclisti Automobilisti III Biennale di Monza La Spezia L'Eroica (periodico) Parole in libertà (futurismo) Partito Politico Futurista Riviste letterarie italiane del XX secolo Vorticismo Zaum Altri progetti Collabora a Wikisource Wikisource contiene una categoria dedicata a Futurismo Collabora a Wikiquote Wikiquote contiene citazioni sul futurismo Collabora a Wikizionario Wikizionario contiene il lemma di dizionario «futurismo» Collabora a Wikinotizie Wikinotizie contiene notizie di attualità su futurismo Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file sul futurismo Collegamenti esterni          Modifica futurismo, su Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su Wikidata futurismo, in Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2010. Modifica su Wikidata futurismo, su sapere.it, De Agostini. Modifica su Wikidata ( EN ) Futurismo, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su Wikidata Il portale sul Futurismo, futurismo.org LA VERA STORIA DEL FUTURISMO, la parola a Gesualdo Manzella Frontini Il "Discorso contro i Veneziani" di Marinetti, su paginadelleidee.net. URL consultato l'8 aprile 2009(archiviato dall' url originale  il 7 ottobre 2007). Il Cerchio: Rivista di Cultura con particolari approfondimenti sul Futurismo, su cerchionapoli.it. "Luigi Russolo: Frammenti di un discorso rumoroso - La rivoluzione musicale futurista": monografia sul sito Sentireascoltare Recensioni delle mostre del centenario futurista a Roma e a Milano avanguardie russe, su chimera.roma1.infn.it. Viva il Futurismo! Iniziativa culturale e artistica per il centenario del Futurismo, su kulturserver-nrw.de. Principi e filosofia del Futurismo in arte, poesia e politica, su manentscripta.wordpress.com. Architettura Futurista Italiana 1909-1944, su architetturafuturista.it. Il futurismo e le arti applicate, sul portale RAI Arte, su arte.rai.it. Controllo di autorita Thesaurus BNCF 5573 · LCCN( EN ) sh85052619 · GND ( DE ) 4019036-5 ·J9U ( EN ,  HE ) 987007555556205171 (topic) ·NDL ( EN ,  JA ) 00567711   Portale Arte   Portale Italia Ultima modifica 8 giorni fa di LukeWiller PAGINE CORRELATE Carlo Carrà Pittore e docente italiano  Manifesto dei pittori futuristi Manifesto futurista pagina di disambiguazione di un progetto Wikimedia  Wikipedia.  Esaminerò i temi principali del mio libro, intitolato “Eros ethos”: la contraddizione, la violenza, la domanda di salvezza, che è poi la domanda di senso, il silenzio di Dio. Ma, effettivamente, questi temi fanno da sfondo, perché “ Eros ethos”, questo nesso su cui dobbiamo riflettere, riguarda piuttosto le cose prossime che non le cose ultime come la domanda di senso, la domanda che appunto ruota interamente intorno a ciò che era al principio. Che cos’era il principio? Era il senso, era il logos, o non era piuttosto come Nice, in modo sprezzante, ma anche polemico e profondo, ebbe a dire: “ in principio era il non senso”? Ecco, cos’ hanno a che fare queste domande sulle cose ultime con le cose prossime? Eros ethos: che cosa c’è di più prossimo alle esperienze che noi facciamo, che questa? Esperienza erotica ed esperienza etica. Questo è il quadro, questo è l’orizzonte problematico dentro il quale vorrei insieme con voi procedere per alcuni passi, e allora incomincerei col dire che, davvero, la domanda da cui partire è la domanda sull’origine: una domanda che ai non filosofi può sembrare di scarsa rilevanza. Perché la domanda sull’origine? E che cosa vuol dire domanda sull’origine? Vuol dire, se la vogliamo tradurre, interrogarsi sul da dove veniamo, da dove il male, la violenza che patiamo. “Unde malum?” questa è la domanda sull’origine. Ma a questa domanda sull’origine, così perentoria e così grave di implicazioni, come risponde il pensiero contemporaneo? Il pensiero contemporaneo risponde rimovendola, come se non esistesse, meglio come se non la potessimo, né la dovessimo porre. E questo perché? Perché alla domanda ha già risposto la scienza. Sappiamo da dove veniamo, di chi siamo figli: siamo figli del caos, e se è vero che leggi che possono essere accertate scientificamente governano questo caos, del caos noi siamo figli, o, se non del caos, di quel suo riflesso che è il caso. Siamo figli del caso. La violenza è un fatto. Certo che c’è violenza nel mondo, ma c’è come c’è quell’ultimo orizzonte che non possiamo trascendere. Ci appartiene la violenza, è in noi, sempre di nuovo la evochiamo, basta un niente ed ecco esplode, come se un fondo sub umano ci abitasse, come se da questa brutalità naturale noi provenissimo, come se appunto questo fondo sub umano, questa brutalità naturale, sempre pronta ad esplodere, costituisse un orizzonte intrascendibile. Non è forse vero che veniamo di lì, non ci dice la scienza che veniamo dalla “selva antiqua?” Dallo stato di natura? E che cos’è lo stato di natura se non lo stato in cui la violenza ci fa simili, anzi identici, a quegli esseri che abitano la natura e l’abitano inconsapevolmente, producendo la violenza appunto come produzione inconsapevole di quella volontà di vivere che abita tutti gli esseri naturali? Sembra essere questa la grande parola della filosofia moderna e poi contemporanea, perchè troviamo in essa quasi un vero e proprio ritornello: il risalimento all’origine è precluso, la filosofia pensa a partire da una situazione, da un trovarsi ad essere in un certo modo, a partire da cui soltanto il pensiero è pensiero. Che cosa significa risalire alle origini, ipotizzare fondamenti ultimi? Tutto questo appartiene all’ontoteologia cioè alla pretesa appunto di ragionare ricostruendo il fondamento, la ragione ultima di tutte le cose, in una parola l’origine, quell’origine che non è, o meglio non è se non nella forma che ci è data, e di cui noi facciamo esperienza sapendo di essere quello che siamo, ossia esseri naturali che dallo stato di natura provengono e che nello stato di natura trovano una sorta di ultimo orizzonte, di estremo confine intrascendibile, assolutamente intrascendibile. Da questo punto di vista abbiamo la parola di Hobbes da una parte( lo stato di natura), e la parola di Rousseau dall’altra( lo stato di natura come 1   stato di pura violenza che si tratta di controllare attraverso un patto, i cui contraenti autolimitano la propria libertà in nome del controllo di ciò che è dato: lo stato di natura). Da una parte Hobbes( il Leviatano), e dall’altra Rousseau dicono la stessa cosa anche se sembrerebbero dire due cose completamente diverse. Che cosa dice Rousseau? Dice che lo stato di natura non è il regno del Leviatano, il regno della violenza, è il regno della gioia, è il regno della libertà, è il regno della giustizia. Eppure dicono la stessa cosa. Che cosa? Dicono che quello, lo stato di natura, è un orizzonte che non possiamo trascendere. Lì ci troviamo a vivere. Che questo stato di natura sia uno stato di violenza, o che questo stato di natura sia uno stato tornando nel quale noi ci liberiamo dalla violenza stessa, in definitiva è la stessa cosa, perché è questo stato, questa condizione intrascendibile, e non possiamo affacciarci, per così dire, sulla soglia, su questo stesso orizzonte, e guardare al di là e chiederci: “ Ma noi da dove veniamo? Chi ci ha gettati qui?” O nella lotta o nella gioia edenica: domanda senza senso. Risalire non è possibile. L’orizzonte è chiuso. La violenza non è nient’altro che questo, quella violenza di cui ci parlano anche le cronache, ma che noi conosciamo anzitutto in noi stessi, perciò della violenza non resta che prendere atto come qualche cosa che è connaturato, stato di natura appunto, e che non ci resta che controllare. Sempre di nuovo l’uomo ricade nella violenza, sempre di nuovo l’uomo deve, se non liberarsene totalmente, elaborare delle strategie di controllo. Auschwitz non deve più accadere e invece è accaduto e probabilmente sempre di nuovo accadrà. Questo lo sappiamo, lo sappiamo nei nostri giorni violentissimi, crudelissimi. Su questo non possiamo chiudere gli occhi: sul fatto che Auschwitz sempre di nuovo accade, che sempre di nuovo l’uomo cade dentro quello stato di natura dal quale proviene e dal quale non può evadere. E’ la parola più dura della filosofia contemporanea, nascosta spesso dentro strategie di pensiero molto sofisticate, molto raffinate, ma che questo dicono: l’intrascendibilità della nostra provenienza, dell’orizzonte dal quale proveniamo, tanto è vero che sempre di nuovo cadiamo dentro a questo orizzonte. Difficile immaginare, appunto, una risposta più cupamente ateistica e nichilistica di questa, ma anche più vera, con una sua verità che sembrerebbe difficilmente controvertibile. Non è forse vero che la violenza è in noi, che veniamo di lì? Non ci dice la scienza che in noi ci sono forze che se non teniamo sotto controllo fanno di noi, di chiunque di noi, il peggiore dei delinquenti, e che ciascuno ha in sé questa virtualità negativa e terribile? Ciascuno di noi. Lo vediamo, non solo per le guerre, ma per i casi che la vita ci mette sotto gli occhi: gli adolescenti che uccidono i genitori, il mobbing tra le persone, questo bisogno di farsi reciprocamente male, che cos’è questo se non una radice? Maligna, ma nello stesso tempo naturale, maligna, ma in questa prospettiva senza nessuna ascendenza teologica, perché appunto è lo stato di natura dal quale proveniamo, dentro il quale sempre di nuovo ricadiamo in quanto l’orizzonte è intrascendibile. Che questo sia detto nei termini di Hobbes, o sia detto nei termini di Rousseau, che a partire da Hobbes si elaborino teorie dello stato come strumento, il solo che l’uomo ha per tenere sotto controllo la violenza, che a partire da Rousseau si elaborino invece teorie della emancipazione, della liberazione, del ritorno alla natura, però questo ci dice l’intrascendibilità dello stato di natura. E’ una tesi che ha mille sfaccettature naturalmente, ma molto forte. A questa tesi della intrascendibilità radicale dello stato di natura io credo ci sia una sola obiezione, ma forte, altrettanto forte che la tesi stessa. E questa obiezione è che la violenza dell’uomo sull’uomo, quella violenza che fa dell’uomo un bruto, che lo ricaccia sempre di nuovo nella brutalità dello stato di natura, questa violenza è sempre qualche cosa di più, è sempre qualche cosa di meno che espressione dello stato di natura. Questa è la vera obiezione. E cioè, che cos’è? E’ cosa umana. La violenza fatta dall’uomo non è infatti assolutamente assimilabile alla violenza fatta dall’animale, da una tigre, da un leone feroce. La ferocia che emerge, che affiora, e che trasforma un essere umano in un animale 2   è altra cosa, non è vero che trasforma l’essere umano in animale ( questo è un modo di dire assolutamente sviante, falsificante, anche se sembra corrispondere all’esperienza che ciascuno di noi fa ), questa violenza è altra cosa, perché la violenza dell’uomo ha, per così dire, un segno, una segnatura, quella signatura rerum di cui parlavano gli alchimisti che la vedevano nelle cose stesse, quasi le cose fossero portatrici di simboli entrando in contatto con l’uomo. Ecco, la stessa cosa vale per la violenza umana: essa ha una segnatura che ne fa qualcosa di altro rispetto alla violenza dell’animale, di radicalmente altro, di ontologicamente altro. Perché la violenza dell’uomo non è assimilabile a quella dell’animale? Perché la violenza dell’uomo ha qualcosa come un valore aggiunto, e il valore aggiunto è quello che ci mette l’uomo stesso. Pensate all’uomo, al soldato che uccide, deve farlo, lo fa per difendersi, pensate alla violenza che esplode in una situazione apparentemente normale: sempre c’è qualche cosa di più e di diverso che l’espressione di una aggressività volta a raggiungere uno scopo, raggiunto il quale la stessa violenza, per così dire, ritorna in una quiete, in una pace, la pace del leone che ha divorato la gazzella e si ritrova in pace con sé stesso e con la natura. La violenza dell’uomo, quale che sia, giustificata o non giustificata, ( ma appunto la parola giustificazione è povera) , sempre ha questo valore aggiunto: e il soldato sente il bisogno, ahimè, spesso di sottolineare questo valore aggiunto , irridendo il nemico. Questo è nell’Iliade, come nella cronaca di oggi, di ieri e dell’altro ieri. Nell’Iliade, quando Achille strazia il cadavere di Ettore, sente il bisogno di straziarlo sotto le mura di Ilio, sotto gli occhi delle persone care: ecco quel di più, ecco ciò che fa della violenza umana qualche cosa di radicalmente umano. Nel soldato che aggredisce e umilia l’aggredito, il vinto, il nemico vinto, stuprando la sua donna, per esempio, non c’è mai una pura e semplice espressione pulsionale di qualche cosa, come un bisogno bestiale o animalesco, c’è invece il desiderio di segnare ( parlavo prima di segnatura, di valore simbolico) , c’è il bisogno di umiliare, c’è, in altre parole, l’impossibilità di ricadere nella quiete della violenza che ha raggiunto il suo scopo. Allora, se la violenza dell’uomo non è assimilabile alla violenza della natura, se questo valore aggiunto fa sì che la violenza dell’uomo riveli una sua irriducibilità all’ordine naturale delle cose, allora non è vero che lo stato di natura non può essere trasceso, non è vero che non è possibile affacciarsi sull’ultimo orizzonte e chiedersi: “ Ma da dove vengo io?” Allora non basta dire: “ Io vengo da lì, cioè dalla natura e dalla sua brutalità, io vengo da un altrove”. E’ una contraddizione, perché, se vogliamo dirla con una formula filosofica, la intrascendibilità dello stato di natura chiede di essere trascesa. Il riconoscimento che di lì vengo, che sono impastato di quella pasta, che sono fatto di quel fango, che in me agiscono forze brutali, bestiali, non basta. Non basta perché quelle forze dicono non soltanto la mia provenienza dallo stato di natura, ma da un al di là, che non so che cosa sia, che la filosofia non può dire naturalmente, ma deve cercare. Non mi basta riconoscermi parte della natura, perché questo mio riconoscimento fa cenno, sia pure nella forma della contraddizione, ad un altrove, come se io fossi caduto, come se io di là venissi, e come se soltanto questo movimento potesse spiegare il valore aggiunto che è nella violenza. Ho fatto due esempi, di due grandi filosofi della modernità, Hobbes e Rousseau, i teorici della intrascendibilità dello stato di natura. Farò altri due esempi di grandi filosofi della modernità i quali sostengono quello verso cui sto cercando di condurvi e cioè che l’intrascendibilità dello stato di natura è contraddittoria. Certo l’uomo, con le sue categorie, con i suoi concetti, con ciò di cui dispone, non può uscire dall’orizzonte in cui è venuto a trovarsi, ma patisce, soffre, vive questo suo trovarsi in un orizzonte che è come un carcere per lui, appunto come un essere cacciato lì dentro. Diceva Pascal: “ Io mi guardo intorno, e tutto è confusione, un orribile caos, cerco Dio, ma Dio tace ( il silenzio di Dio), e non solo Dio tace, ma tutto è terribilmente silenzioso, e il silenzio degli spazi infiniti è eterno. Che cosa mi resta, se voglio in questo orribile 3   caos muovermi e sopravvivere? Che cosa mi resta da fare? Prendere atto che le cose stanno così, seguire le leggi del mio paese. Già, ma le leggi del tuo paese sono esattamente l’opposto delle leggi del paese accanto. Che fare? Questa è appunto la prova del caos in cui versiamo. Ma il mio sovrano mi ha ordinato di uccidere quello che sta al di là del fiume. E perché? Perché sta al di là del fiume. Ma è una ragione questa? Eppure lo devo fare, perché, se non mi attenessi alle leggi del mio paese, cadrei in un disordine ancora più grande, non vivrei più”. L’abbiamo visto: l’unica forma di sopravvivenza è quella garantita dall’accettazione dello status quo. Dice: “ Ma io mi guardo intorno. Questo è giusto, che cosa è sbagliato? Nulla è giusto, nulla è sbagliato, tutto lo è. E infatti non c’è atto, non c’è gesto, non c’è comportamento umano, anche il più abietto, che non abbia trovato il suo altare. Sull’altare è stato messo l’incesto, sull’altare è stato messo l’omicidio, sull’altare è stato messo il furto, e così via. Un orribile caos, è quello nel quale l’uomo naturaliter viene a trovarsi: intrascendibilità dello stato di natura”. Ecco allora la contraddizione, ecco il passo in più che fa Pascal: l’intrascendibilità dello stato di natura è inaccettabile, l’intrascendibilità dello stato di natura non può essere vissuta se non come una condanna, e quale maggiore condanna che quella di chi vede che ogni atto, anche il più nefasto, il più delittuoso, ha trovato il suo altare? Quale condanna peggiore di chi constata che è costretto a compiere atti profondamente ingiusti e tuttavia giustificati? “ Vai, uccidi”. “ Perché?” “Perché il tuo sovrano te lo ordina”. Ed è giusto così, o meglio giustificato così, pena un disordine ancora maggiore. Questa è una realtà che non si può non accettare, una realtà che ci dice il nostro essere vincolati ad essa, l’intrascendibilità dello stato di natura, ma una realtà nello stesso tempo vissuta come iniqua, come inaccettabile: non la posso che accettare, ma è inaccettabile. Ecco la contraddizione, e se volessimo dirla filosoficamente, dovremmo dire: “l’intrascendibilità dello stato di natura impone il suo trascendimento”. Da dove vengo io? Da quale paradiso perduto, se soffro così tanto all’interno di una situazione per la quale non vedo via d’uscita? L’intrascendibilità chiede di essere trascesa. Qui la filosofia deve tacere, la filosofia non può che aprirsi ad una dimensione altra. E’ una risposta, come vedete, ben diversa da quella di Hobbes, ed anche da quella di Rousseau. Nasce da Pascal una filosofia religiosa, laddove da Hobbes e da Rousseau nasce una filosofia irreligiosa. Le fedi private dell’uno e dell’altro non sono più in questione, ma è profondamente irreligiosa una filosofia che dice: “ La violenza c’è e non resta che tenerla sotto controllo. Noi non possiamo guardare al di là”. E’ una filosofia profondamente irreligiosa quella che dice che la violenza c’è perché c’è la società. Togliamo questo elemento storico sociale, che inquina, con gli apparati repressivi che la società mette in atto, liberiamoci da tutto ciò, e ritroviamo quella gioia che è lo stato originario dell’uomo: filosofia, in entrambi i casi, con tutte le loro propaggini, da Rousseau a Marcuse, oppure da Hobbes a Smith, filosofia profondamente irreligiosa quella dell’intrascendibilità dello stato di natura, laddove è filosofia profondamente religiosa quella di un Pascal che dalla stessa intrascendibilità ricava, attraverso la contraddizione, l’idea di non poter non trascendere. Anche Vico, che viene spesso interpretato, e giustamente, come il padre dello storicismo, ma è anzitutto teologo cristiano, dice la stessa cosa, cent’anni dopo Pascal, e la dice attraverso l’idea che la menzogna in cui l’uomo si trova a vivere sia l’illusione che “ omnia Iovis plena” , che gli alberi siano dei, che tutto gli parli, che l’universo sia animato da presenze. Se un fulmine cade nella selva antiqua e apre la radura e l’ uomo si illude che un dio gli abbia parlato, non è vero, è un’illusione, è pura idolatria credere che lì si sia avuta una epifania, e tuttavia questa che è la condizione idolatrica che l’uomo non può trascendere. Vico dice: “ Cos’è più vero? Lo stato di natura, dove l’uomo è e non è se non cacciatore e preda? Oppure lo stato di cultura?” Quello stato di cultura che l’uomo costruisce in base ad una simulazione, cioè in base ad una menzogna, illudendosi che gli dei gli abbiano parlato e 4   sulla base di questo messaggio, di questa rivelazione, costruisce appunto le istituzioni, le famiglie, gli stati, la cultura, insomma. Che cos’è più vero? E’ il puro e semplice abitare la natura come l’abitano i bruti, brutalità dello stato di natura, oppure è, attraverso la finzione, diventare uomini? Accedere ad una verità propriamente umana? Anche lì, attraverso la contraddizione, l’uomo è costretto a vedere nella natura una sorta di deiezione, di caduta. Da dove? La filosofia non lo dice, lo dice la rivelazione. Come vedete queste sono ipotesi molto diverse, opzioni filosofiche che sono alla radice del mondo moderno. Voi vi chiederete: “ Tutto questo che cosa c’entra con Eros ethos?” C’entra perché c’entra la contraddizione. E’ la contraddizione che dobbiamo cercare, che dobbiamo interrogare, per capire appunto se noi siamo consegnati ad un destino umano e soltanto umano o se invece questa stessa umanità del nostro destino impone un trascendimento della condizione nella quale ci troviamo: dobbiamo cercare l’origine, ciò che è in principio ma anche ciò che è, per dirla con sant’Agostino, “intimior intimo meo”, più intimo a me stesso di quanto non lo sia io a me. Come sappiamo, Agostino identificava Dio con questo movimento, con l’intimior intimo meo: è Dio che è più intimo a me di quanto io non lo sia a me stesso. Potremmo, parafrasando Agostino, vedere precisamente nel nodo di contraddizione che nello stesso tempo lega e separa eros ethos qualche cosa che può essere definito negli stessi termini. Che eros ed ethos si contraddicano, o meglio si oppongano( l’opposizione e la contraddizione sono due cose diverse) lo so bene, che eros ed ethos si oppongano è cosa abbastanza ovvia. Che cosa indica eros se non l’immediatezza, diciamo pure la gioia di vivere, quella gioia di vivere che non ammette ostacoli di nessun tipo, che chiede soltanto di essere espressa? Eros i Greci, e non soltanto i Greci, lo presentavano come un fanciullo, la divina innocenza, eros come espansione vitale, o per dirla con Kierkegaard come vita immediata, vita che non dà ragione di sé, e noi diremmo oggi ( figli volenti o nolenti, tutti figli di Freud ) “vita pulsionale”, e le pulsioni sono le pulsioni, il bene e il male appartengono ad un altro ordine, ad un’altra dimensione. Ethos è il contrario. Ethos è il “Tu devi”. Ethos è la serietà della vita. Ethos è il dover rispondere di tutto nei confronti di tutti, o quanto meno di sé nei confronti di coloro coi quali si è stretto un patto. Quale opposizione maggiore che quella tra eros ed ethos? Tra l’immediatezza e la mediazione? Tra la libera e gioiosa espansione di sé che non dà ragione, perché è quello che è, è vita immediata, tra la gioia, se vogliamo dire così, e la serietà della vita, ossia il “Tu devi”, questo sì e questo no, perché tu devi rispondere di te nei confronti di tutti gli altri? Ma appunto siamo ancora sul piano dell’opposizione, non ancora della contraddizione. Per scorgere la contraddizione dobbiamo renderci conto che c’è dissidio, cioè c’è intima opposizione sia in eros, sia in ethos. Ed è solo a partire da un’analisi separata delle due forme di esperienza, esperienza erotica ed esperienza etica, che capiremo come l’opposizione diventi una vera e propria contraddizione e capiremo come la contraddizione che abita in ciò che è “intimior intimo meo”, così prossimo a noi da costituire davvero la nostra anima, la nostra carne ( e che cosa se non eros ed ethos? ), come la contraddizione sia proprio in questa prossimità. Ma lo scopriremo appunto esaminando separatamente le due forme. Perché c’è opposizione in eros? L’abbiamo definito come gioioso, libero, come espressione di una vitalità che non conosce ostacoli. Non è forse vero che eros è trasgressione? Ma non carichiamo subito questa parola di un significato morale: no, siamo prima, siamo al di qua della morale. Parliamo dunque di trasgressione nel senso letterale del termine, nel senso di una spinta, di un movimento teso a rompere tutti i vincoli. Quindi siamo ancora sul piano di una fenomenologia che non chiama in causa la morale. Eros è questo transgredior, questo superare il limite che eros stesso pone a sé stesso per essere quello che è. Cosa c’entra la morale con eros, se eros è questo? Come è pensabile un intimo dissidio di eros con eros? I Greci lo hanno pensato. Quando ci troviamo di fronte a queste difficoltà, definita filosoficamente la categoria, 5   sembrerebbe non si dovesse più procedere oltre, invece sappiamo che l’esperienza erotica è molto più complessa, che non è questa pura e semplice, come qualcuno vorrebbe, espressione pulsionale di sé che non dà ragione di sé, bensì un’esperienza terribilmente complessa. E allora come la mettiamo? La filosofia ci dice che è trasgressione, movimento libero verso la liberazione da tutti i vincoli. Il mito, e di nuovo la religione, ci dice che è cosa molto, molto più complessa. E come avevano rappresentato questa complessità i Greci? Attraverso i miti, come sappiamo. I miti sono questo: servono a dire delle cose che la filosofia non riesce a dire, o che il linguaggio comune non riesce a dire. Ci sono tanti miti nella cultura greca che parlano di eros, infiniti, ma non soltanto nella cultura greca, anche in quella indiana, anche in tante altre. Ma alcuni in particolare: intanto quello che identifica eros con Fanes Protogono. Chi è Fanes Protogono? Fanes Protogono è qualcuno, qualche cosa che viene prima della stessa formazione del mondo, e quindi del costituirsi di figure archetipiche nel mondo che sono gli dei; Fanes ( “ fainetai”) è questa accensione originale che fa sì che il mondo, che era, secondo il mito di Fanes Protogono, tutto raccolto in un nucleo simile ad un punto ( pensate a quale profondità di intuizione erano arrivati i Greci), per questa improvvisa accensione si spacchi, si scinda come sotto una spinta, una forza assolutamente sorgiva, che non è governata da figure archetipiche, dagli dei, ma che è assolutamente iniziale. Questa realtà tutta compressa, tutta compresa in un unico punto, per così dire a seguito di questa cosiddetta accensione, esplode, e questa esplosione dà luogo alla terra e al cielo, perciò la terra e il cielo, a partire da questa esplosione, non potranno che sempre di nuovo cercare di ricongiungersi. Urano e Gea, il cielo e la terra, originariamente uniti, a seguito della esplosione cercano di ricongiungersi, grazie a eros, Fanes Protogono, cioè il principio primo, il principio originariamente generatore, che è la luce. Eros è questa accensione, questa forza ricongiungente dei due. Dentro questo mito che cosa scopriamo? Il carattere assolutamente non morale di eros. Eros è quello che è, non è neppure un dio, è luce, è manifestazione, è pura forza esondante, quella pura forza esondante che ciascuno di noi prova in sé, nelle varie forme in cui eros si manifesta, che, come sapevano i Greci, sono infinite. Basta leggere il Simposio per capire come Platone sapesse delle varie forme di eros. Ma che cosa accade? Accade qualche cosa di tremendo, il tremendo che è in eros: accade che nel momento in cui la terra e il cielo si scindono in due, in una sorta di mattino del mondo nasce Afrodite che è la dea dell’amore, che è la dea, a seguito di questa vicenda, chiamata a incarnare, a personificare, la forza originariamente creatrice. Ma chi è Afrodite? E’ la dea della doppiezza, e i poeti greci così l’ hanno descritta: è la dea della felicità, della gioia, della gioia di vivere che non dà ragioni di sé, è la dea al di là del bene e del male, è la dea al di qua del bene e del male. Ma Afrodite è anche la dea che nasconde il tremendo da cui proviene, tanto è vero che lo stesso mito greco ci parla di questo mattino del mondo: e cosa c’è di più bello che il sorgere di Afrodite dalla spuma del mare, che cosa c’è di più innocente, di più incantevole? E tuttavia quella spuma del mare è memoria di un atto di sangue: la spuma del mare è il sangue stilato, e anzi sangue- liquido seminale, stilato dal sesso di Urano, castrato dal suo stesso figlio. Capite che cosa dicono i Greci? Che cosa tiene insieme nell’idea di eros l’uomo greco? Gli opposti: l’innocenza, la perfezione in quanto è l’emergere della vita da sé stessa, la vita che non dà ragione di sé, la vita che è quello che è, al di là del bene e del male, tuttavia su uno sfondo cupo di sangue. Il fanciullo innocente è nello stesso tempo colui che ha memoria del tremendum, con buona pace dei teorici, quanti sono oggi, delle emancipazioni a buon mercato: “Liberatevi dai tabù, abbandonatevi!” Tutte cose belle, per carità, non voglio dire che non ci si debba anche liberare dai tabù, però le cose sono un po’ più complicate: la liberazione( tesi) è necessaria, e tuttavia sta a fronte( antitesi) di qualche cosa come gli orrori delle origini. Quando ci si interroga sul fatto, sul rapporto eros e violenza, per esempio, perché chiudere gli occhi di fronte a 6   questa che è realtà umana, più che umana? Bisogna pensare come hanno pensato i Greci, o come hanno pensato gli Indiani in modo forse meno cupo, in modo meno metafisico, ma altrettanto espressivo, con la figura della donna che volge lo sguardo, dell’amante che raggiunge l’amato ( che è un tema iconografico di molta arte indiana, di molta arte erotica dell’India ), della donna che si butta nel fiume per raggiungere l’amato, ma volge lo sguardo, e questo sguardo è pieno di malinconia per tutto ciò che lascia: siamo fatti di una irriducibile doppiezza, ci dice il mito. Certo che è necessario gettarsi, raggiungere l’amato, ma non ci è dato di farlo ( è la dinamica della trasgressione ), se non volgendo lo sguardo verso tutto ciò che abbiamo perso, che stiamo perdendo, che potrebbe essere la rottura del patto. E questo che cosa vuol dire? Vuol dire che eros, l’innocenza stessa, in modo del tutto contraddittorio, si lega al suo contrario, a qualcosa come la colpa: ecco come eros è portatore di una contraddizione. Ma lo stesso vale per ethos. Ethos è in sé stesso contraddittorio, e sono ancora una volta i Greci che ci dicono questo. Della profondità del mito greco si era accorto Aristotele, per primo, che io sappia, quando, guardando al mito, ha scoperto che la parola greca ethos ( da cui etica, naturalmente, ) si dice in due modi, o meglio si dice in un modo solo ma si scrive in due ( è una anomalia del Greco che forse non ha altri esempi così clamorosi ): ethos in greco si scrive con la ipsilon, e con la eta, e se scritta con la ipsilon vuol dire una cosa, se scritta con la eta vuol dire un’altra cosa, o meglio, vuol dire la stessa cosa , ma un po’ diversa . Se scritta con la eta , ethos fa riferimento alla dimora, alla casa. E allora che cos’è ethos? Ethos è la convenzione, sono gli usi, i costumi, le abitudini, da cui abitus, le virtù, come abiti che indossiamo che ci portano a compiere certe cose, a comportarci in un certo modo. Ma perché ci comportiamo in un certo modo? Perché siamo stati educati, perché abbiamo accolto in noi, essendo stati accolti da una comunità e cioè dalla casa anzitutto, quelle leggi, quei comportamenti, quel modo di vedere, che è proprio di ethos con la eta. Qui a essere privilegiato è il riferimento al sentire comune, alla comunità: ethos come appartenenza ad una comunità, che mi impone di non pensare tanto a me stesso quanto agli altri, di riconoscermi all’interno di una tradizione e così via. Ma se io lo scrivo con la ipsilon, allora vuol dire carattere, che appartiene a me, è solo mio : l’ethos è il mio demone, è qualche cosa che mi dice: “ Tu devi fare questo”. “No”. “ Ma sei contraddetto da tutti, non è accettabile che tu non faccia questo, la società ti condanna”. “ Che mi importa, lo devo fare, perché so, ma in base a quale sapere?” “In base ad un sapere demonico, cioè che non dà ragioni di sé. Sapere di cui io mi faccio carico, costi quello che costi”. Guai se ethos fosse solo sapere demonico, se fosse solo carattere, perché allora l’etica sarebbe una cosa terribile, sarebbe cosa tragica, darebbe luogo a scontri senza fine, senza un terzo che faccia da medio, se è giusto quello che io sento giusto. L’io, la coscienza: se ethos fosse solo questo sarebbe terribile. Ma guai se ethos fosse soltanto quell’altro: abitudine, tradizione, leggi e così via. Facciamo il caso che la società alla quale appartengo, nella quale mi riconosco, mi condanni legalmente e in base a dei principi riconosciuti come giusti, mi condanni per esempio a essere deportato. Immaginate un’ etica che sia soltanto etica pubblica, un’ etica della tradizione condivisa, immaginate di togliere a me o a chi per me il diritto di dire no, anche se la società alla quale appartengo mi condanna, di rivolgermi al mio Dio, per invocarlo, o per bestemmiarlo, dicendo:” Non è giusto”. Non dimentichiamo mai Auschwitz, ma non dimentichiamo mai che tutto quello che è accaduto in quegli anni è accaduto legalmente: le deportazioni erano leggi dello stato tedesco, non si tratta di qualcosa avvenuto nascostamente, bensì di leggi dello stato tedesco. L’etica che fosse soltanto l’etica, la casa della comunità di appartenenza, della polis, dello stato, potrebbe non essere un’etica a sua volta monca, terribilmente manchevole? Già, ma come fanno a stare insieme ethos ed ethos, ethos con la eta e ethos con la ipsilon? Come far stare insieme le leggi della pietà, per esempio, come sa bene Antigone, e le leggi 7   della città? Le leggi di coloro che stanno sotto la luce del sole e le leggi sotterranee, degli dei, che stanno sotto? Contraddizione, la contraddizione di ethos. Voi direte, ma che cosa c’entra questo discorso con la violenza? E’ lo stesso discorso. In che senso? Abbiamo visto, e mi avvio alla conclusione, come la violenza sia un dato di natura, anzi, è la natura che è in noi, è uno stato, tanto è vero che si parla di stato di natura: è quell’emergere di forze oscure, che ci riportano al luogo da cui proveniamo, che è la selva. E’ la linea maestra del pensiero moderno e contemporaneo, e abbiamo visto che non basta dire questo. Le cose non stanno così, perché qui c’è una contraddizione . La contraddizione è sollevata dalla affermazione che la violenza dell’uomo sull’uomo è sì qualche cosa che lo accomuna alla bestia feroce, ma nello stesso tempo è qualche cosa che lo rende irriducibilmente diverso dalla bestia feroce. La violenza è sì cosa che implica la non trascendibilità dello stato di natura, ma questa non può che essere vissuta come condanna che implica il trascendimento. Lo stato di natura è uno stato che io posso pensare solo come stato di gettatezza, avrebbe detto Heidegger. Senonché per Heidegger la gettatezza, la deiezione, il mio trovarmi come gettato in questo mondo, non ha più né capo né coda, non ha più un da dove sono gettato e un verso dove vado. E in questo senso Heidegger in fondo resta all’interno della tradizione tipicamente moderna che ritiene intrascendibile questo stato. Non così là dove questo stato venga vissuto, venga letto, nel suo valore simbolico. Lo dice bene Pascal: “ Tutto è simbolo, quella natura caotica, così confusa, non fa che ricordarmi che questo non può essere il mio mondo, è il mio mondo e per viverci lo devo accettare, e tra questo mondo, e l’infinito, e l’assoluto, un abisso mi separa: non c’è verso, filosoficamente, di costruire un ponte tra il qui e ora, il qui di leggi contraddittorie, e l’origine. Tuttavia, in questo mondo io vivo come uno straniero, come uno che è stato gettato da un altrove, la cui chiave la possiede non la filosofia ma la religione: la caduta, il peccato originale.” Lo stesso discorso vale per la contraddizione, il rapporto contraddittorio di eros ed ethos. Noi vorremmo potere riferirci, così come nel caso della violenza ci siamo riferiti, a qualche cosa di ultimo, qui riferirci a qualche cosa di primo, eros ethos, di prossimo, di propriamente nostro a cui ancorarci, vorremmo poterlo fare. E che cosa se non ancorarci a eros, se non ancorarci a ethos? E’ esperienza che tutti fanno, se pure in forme molto diverse: l’esperienza che vorremmo gioiosa di eros e seria di ethos, e lì restare, restare in questa prossimità, in questa intimità di noi con noi stessi, in definitiva rassicurante. Eros è la gioia: “ Abbandonati”; ethos è il dovere: “ Rispetta”. Già, ma questa intimità, di noi con noi stessi, è contraddittoria, ovvero “intimior intimo meo”. Nel punto in cui noi ci troviamo più intimi con noi stessi, noi siamo per così dire scavalcati, trascesi da un movimento che fa cenno a qualche cosa che è assolutamente altro rispetto a questa pretesa di raccoglierci in una certezza, la certezza di eros e la certezza di ethos. Tanto è vero che non solo eros ed ethos stanno tra loro in opposizione, ma è una opposizione contraddittoria perché il dissidio è sia nella forma dell’esperienza erotica, sia nella forma dell’esperienza etica. “Intimior intimo meo”: qui davvero varrebbe la pena di parafrasare Agostino, e ricordare che nel momento in cui io sono più prossimo a me stesso in realtà sono infinitamente lontano, sono per così dire costretto a trascendere, trascendere me stesso.Sergio Givone. Givone. Keywords: phanes, eros/ethos; phanes protogono, convito di platone, pareyson. storia naturale dell nulla, unelongated history of negation;  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Givone” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51755894963/in/dateposted-public/

 

Grice e Gobetti – il partito liberale italiano – il partito socialista italiano – filosofi contro il regime --  (Torino). Filosofo. Grice: “Italian philosophy is political in a way pinko Oxonian one ain’t: Gobetti is the exception that DISproves the rule!” -- “Lo Stato non professa un'etica, ma esercita un'azione politica.” (La Rivoluzione Liberale.)  Considerato un degno erede della tradizione filosofico-politica post-illuminista e liberale che aveva guidato molte delle migliori menti dell'Italia dal Risorgimento fino a poco tempo prima, purtuttavia di stampo profondamente sociale e sensibile alle istanze del socialismo e di conseguenza alle rivendicazioni del movimento operaio, fondò e diresse le riviste Energie Nove, La Rivoluzione liberale e Il Baretti, dando fondamentali contributi alla vita politica e culturale, prima che le sue condizioni di salute, aggravate dalle aggressioni subite, ne provocassero la morte prematura a nemmeno 25 anni durante l'esilio francese. Gaetano Salvemini «Era alto e sottile, disdegnava l'eleganza della persona, portava occhiali a stanghetta, da modesto studioso: i lunghi capelli arruffati dai riflessi rossi gli ombreggiavano la fronte. (Levi, in «Introduzione agli Scritti politici di Gobetti»,). Figlio unico di Giovanni Battista, commerciante, e di Angela Canuto, una «piccola donna bruna e tonda, gentile e modesta, capace tuttavia non solo di grande abnegazione per il figlio unico che adorava, ma anche di strenuo lavoro e di sagace giudizio». I suoi genitori, originari entrambi di Andezeno, avevano aperto nel capoluogo piemontese una drogheria nella centrale via XX Settembre. “Mio padre e mia madre avevano un piccolo commercio. Lavoravano diciotto ore al giorno. Il mio avvenire era il loro pensiero dominante. L'impegno del loro lavoro era di arricchire permettersi e permettermi una vita dignitosa. In quanto a me pensavano di dovermi dare un'istruzione, quella che essi non avevano potuto avere.” Dopo gli studi elementari presso la scuola Giacinto Pacchiotti, s'iscrive al ginnasio Cesare Balbo: scrive di sé di quegli anni, in terza persona, che «gli pesava un'amarezza, uno sconforto, che nei ragazzi di dodici anni segnano inquietudini fruttuose. Si vedeva troppo poco stimato, troppo solo, troppo malsicuro del domani. Aveva dei dubbi strani sulle sue stesse attitudini. Un'adolescenza che s'ispirava a motivi così integrali doveva dargli una tragica forza. Trasferitosi poi presso il liceo classicoVincenzo Gioberti, dove conosce Prospero, sua futura moglie, ha per professori Cosmo e Giuliano, un gentiliano che collabora alla rivista L'Unità  Salvemini. Questi gli ispira quei sentimenti di patriottismo e di interventismo democratico che sono propri del Salvemini, spingendolo ad anticipare di un anno l'esame di maturità per poter così andare, libero da impegni, volontario nella prima guerra mondiale. Luigi Einaudi La guerra è ormai conclusa s'iscrive a Torino, la stessa che egli aveva già frequentato, ancora liceale, per seguirvi alcuni corsi di filosofia. Tra i suoi insegnanti vi sono Einaudi, da cui «rafforza il suo primitivo, spontaneo anti-statalismo, in cui s'incontrano liberalismo, liberismo e quello stesso libertarismo che gli è congeniale --, Farinelli, Mosca, Prato, Ruffini e Solari, con il quale sosterrà la tesi di laurea, “La filosofia politica di VAlfieri.  Non solo: a settembre aveva scritto all'amica Ada di aver deciso di fondare un periodico che s'occuperà di filosofia, questioni sociali è fatto di soli giovani si tratta di opera di intensificazione di cultura e di azione e tutti i giovani devono aiutarla. Esce il primo numero del quindicinale “Energie Nove” nel quale scrive di voler «ortare una fresca onda di spiritualità nella gretta cultura di oggi non c'è mai momento inopportuno per lavorare seriamente.  Ispirata alle idee liberali di Einaudi, è vicina all'Unità di Salvemini, del quale riporta, nel secondo numero, l'aspra critica alla classe dirigente. L'Italia ha vinto. Ma se avesse avuto una classe dirigente meno incolta, più consapevole delle sue tradizioni e dei suoi doveri, meno avida moralmente, l'Italia avrebbe vinto assai prima e assai meglio. È finita o sta per finire una guerra. Ne comincia un'altra. Più lunga, più aspra, più spietata. L'altra «guerra più lunga e spietata è quella della riforma del Paese, una riforma che dev'essere, nelle sue intenzioni Gobetti, innanzi tutto culturale e morale, e per la quale occorre serietà e intensità al lavoro secondo i motivi di quellidealismo militante che ha animato La Voce di Prezzolini, altro nume ispiratorei.  Era doveroso partecipare in prima persona al dibattito politico e intellettuale contemporaneo. Levi, in «Introduzione agli Scritti politici di Piero Gobetti. Sospende la pubblicazione della rivista per poter partecipare, a Firenze, al I Congresso degli Unitari, i sostenitori della rivista di Salvemini, della quale egli è fondatore e rappresentante del Gruppo torinese. Può così conoscere di persona l'intellettuale pugliese e ne è entusiasta. “Salvemini è un genio.” “Me lo immaginavo proprio così. L'uomo che sviscerale questioni, che la fa smettere agli importuni e ti presenta tutte le soluzioni in due minuti, definitive.” “Un'altra persona di cui sono entusiasta è Prezzolini, franco, semplice, pratico.” “Editore propriamente come lo pensavo io.” “L'editore più intelligente d'Italia.” A seguito del Congresso, gli Unitari fondano la Lega democratica per il rinnovamento della politica nazionale, una formazione politica che non riuscirà nemmeno a presentarsi alle elezioni e avrà vita breve. Alle elezioni politiche dell'anno seguente, Salvemini si candiderà con successoin una formazione di ex-combattenti.  Salvemini deve aver compreso le qualità di Gobetti se arriva a offrirgli la direzione de L'Unità, una proposta che però, lascia cadere. Non si sente pronto per tanto impegno, come scrive nel suo diario: “Com'è vasta la cultura che devo conquistare!” E non basta conquistare il vecchio. Sono giovane e devo anche produrre, creare quel po' che si può creare. Ho tutta la vita davanti per sedermi in campagna, davanti al camino, a mangiare pane e noci. Ho una responsabilità. Devo espormi in prima persona. Perciò faccio la rivista. Voglio impormi nel lavoro». E s'impone un piano di studi. “Gentile, ciò che non conosco ancora, rileggerò Croce avvierò lo studio del Marxismo. Per ora non mi preme. Basta che mi formi un'idea generale di Marx e della critica marxista (Sorel, Labriola, ecc.). “D'altra parte studio il bolscevismo, minutamente». Un suo grande ispiratore fu certamente il socialista Jaurès.   Il primo numero di Energie Nove Queste note sembrano riflettere anche la polemica che, appena riprese le pubblicazioni, Energie Nove aveva avuto con L'Ordine Nuovo al tempo sprezzantemente definito dallo stesso Gobetti un «giornaletto torinese di propaganda» di Togliatti, che aveva accusato Gobetti di idealismo astratto, e di Gramsci, che aveva definito velleitaria la Lega democratica, un ricettario per cucinare la lepre alla cacciatora senza la leper. Ora ivi è il segno di un'inquietudine nuova, provocatagli dall'esperienza della rivoluzione russa e dallo sviluppo del movimento operaio, molto attivo a Torino. Pubblica due numeri unici sul socialismo, conosce personalmente Gramsci, stimandolo e venendone apprezzato, del quale pubblica un articolo, studia il russo con la fidanzata Ada insieme curano “Il figlio dell'uomo” di Andreev, pubblicato dall'editore Sonzogno ed scrive, criticando la politica sviluppata da d'Annunzio in forma di retorica, che la politica oggi deve essere realizzata come forma di educazione. La simpatia che io provo per Trotzchi [sic] e Lenin sta nel fatto che essi in un certo modo sono riusciti a realizzare questo valore. Sebbene restio a sposarla (emblematica fu la risposta «Grazie, non fumo…»), nella considerazione del rapporto con la fidanzata si rivela anche la sua profonda maturità e serietà morale: Ho dovuto rifarmi un senso morale, un senso della vita forte a sedici anni, in gran parte a diciassette, e siccome me lo son fatto pensando a lei, gliene sarò grato sempre. Una fanciulla come io la sognavo sola poteva darmi un senso immediato di elevazione. Ho creduto in lei e la amo tanto perché mi fa credere ancora adesso. La rivista Energie Nove cessa le pubblicazioni. Sentivo bisogno di maggiore raccoglimento e pensavo una elaborazione politica assolutamente nuova, le cui linee mi apparvero di fatto nel settembre al tempo dell'occupazione delle fabbriche. Devo la mia rinnovazione dell'esperienza salveminiana al movimento dei comunisti torinesi da una parte (vivi di un concreto spirito marxista) e dall'altra agli studi sul Risorgimento e sulla rivoluzione russa che ero venuto compiendo in quel tempo», e in giugno si consuma anche il distacco con la Lega democratica degli amici di Salvemini. Continua le traduzioni dal russo ed intraprende quelle dal francese dei modernisti Blondel e Laberthonnière lo studio sulla filosofia di quest'ultimo gli è suggerito da Solarie cerca di rintracciare le radici del Risorgimento italiano studiando la cultura piemontese del Sette-Ottocento. Io seguo con simpatia gli sforzi degli operai che realmente costruiscono un ordine nuovo. Non sento in me la forza di seguirli nell'opera loro, almeno per ora. Ma mi par di vedere che a poco a poco si chiarisca e si imposti la più grande battaglia del secolo. Allora il mio posto sarebbe dalla parte che ha più religiosità e spirito di sacrificio. (Piero Gobetti, lettera ad Ada Prospero). Quando, ai primi di settembre, la FIAT e le altre maggiori fabbriche torinesi sono occupate dagli operai, Gobetti scrive: Qui siamo in piena rivoluzione. Io seguo con simpatia gli sforzi degli operai che realmente costruiscono un mondo nuovo il mio posto sarebbe necessariamente dalla parte che ha più religiosità e volontà di sacrificio. La rivoluzione si pone oggi in tutto il suo carattere religioso. Si tratta di un vero e proprio grande tentativo di realizzare non il collettivismo ma una organizzazione del lavoro in cui gli operai o almeno i migliori di essi siano quel che sono oggi gli industriali». Si tratta, a suo avviso, di una rivoluzione che se non rinnoverà gli uomini, e perciò neanche la nazione, potrà almeno rinnovare lo Stato, creando una nuova classe dirigente: «si può rinnovare lo Stato solo se la nazione ha in sé certe energie (come ora appunto accade) che improvvisamente da oscure si fanno chiare e acquistano possibilità e volontà di espansione».  La presa di distanza dall'azione politica di Salveminila sua ammirazione personale nei suoi confronti resterà comunque intattaè ora piena: gli rimprovera, come scriverà pochi anni dopo, diintendere l'azione politica unicamente come «una questione di morale e di educazione»: il suo «moralismo solenne, mentre costituisce il suo più intimo fascino, appare il segreto delle sue debolezze, La sua concezione razionalista si risolve in un'azione di illuminismo e di propagandismo, che può riuscire utile a una società di cultura, non a un partito».  Prosegue i suoi studi sul Risorgimento e sulla Russia, terminando in ottobre La Russia dei Soviet: è la volontà di comprendere funzioni e limiti di due esperienze rivoluzionarie, al cui centro è sempre il problema della formazione della classe politica che diriga un Paese e dei suoi rapporti con la popolazione. Ne conclude che il Risorgimento non può considerarsi un'esperienza rivoluzionaria, dal momento che i dirigenti politici che espresse rimasero estranei rispetto al popolo, diversamente dalla rivoluzione sovietica che, a suo avviso, ha espresso dirigenti come Lenin e Trotskij, che non sono soltanto dei bolscevichi, ma «uomini d'azioni che hanno destato un popolo e gli vanno ricreando un'anima» e, del resto, la creazione dal basso di un nuovo Stato, nel quale il popolo abbia fiducia proprio in quanto avvertito come opera propria, «è essenzialmente un'affermazione di liberalismo»  Sono concetti ripresi in un articolo pubblicato su L'Educazione nazionale, il Discorso ai collaboratori di Energie Nove, nel quale individua nel movimento operaio un «valore nazionale»: la novità, venuta dalla Russia e che sembra farsi strada anche in Italia, consiste nel fatto che «il popolo diventa Stato. Nessun pregiudizio del nostro passato ci può impedire la visione del miracolo. Questo non avrebbero fatto i liberali, questo non possono fare dei marxisti. Il movimento operaio è un'affermazione che ha trasceso tutte le premesse. È il primo movimento laico d'Italia. È la libertà che s'instaura».  Il suo avvicinamento alle posizioni dei giovani comunisti dell'Ordine Nuovo ha anche il concreto effetto di una collaborazione e Gobetti diventa il critico teatrale della rivista. A luglio, a Torino, deve assolvere gli obblighi di leva: «la vita militare è la consacrazione di tutti gli egoismi e di tutte le meschinità la meccanicità pervade ogni forma di vita; tutto si riduce a elemento, a vegetazione. La caserma è l'antitesi del pensiero. Esce il primo numero della sua nuova rivista settimanale, La Rivoluzione liberale, in cui collaboreranno spesso anche Fortunato, Gramsci e Sturzo: l'obiettivo, come indicato nell'Avviso ai lettori, è pur sempre quello di Energie Nove, ossia di formare una classe politica nuova ma, ora si aggiunge, che sia cosciente delle esigenze sociali nascenti dalla partecipazione del popolo alla vita dello Stato. E poiché l'Unità di Salvemini ha cessato le pubblicazioni, La Rivoluzione Liberale intende proseguire quegli sforzi di riorganizzazione morale che nell'Unità si avvertirono. E nel Manifesto inaugurale espone il programma della rivista. La Rivoluzione Liberale pone come base storica di giudizio una visione integrale e rigorosa del nostro Risorgimento; contro l'astrattismo dei demagoghi e dei falsi realisti esamina i problemi presenti nella loro genesi e nelle loro relazioni con gli elementi tradizionali della vita italiana; e inverando le formule empirico-tradizionaliste del liberismo classico all'inglese, afferma una coscienza moderna dello Stato, che prenda in considerazione anche i più sottili, ma non di certo trascurabili, trapassamenti dialettici della storia. Vi pubblica la Storia dei comunisti torinesi scritta da un liberale e a maggio dedica un numero intero all'emergente movimento fascista. Il mese successivo consegue la laurea e, l'anno seguente, pubblicherà la sua tesi sull'Alfieri. E vivamente colpito dagli scritti del patriota e federalista italiano Cattaneo, del quale è uscita in quei giorni un'antologia curata da Salvemini, che egli incontra a Torino. Su Cattaneo ci siamo intesi, egli è assai vicino alle idee che gli ho espresso. Su Cattaneo scrive un articolo sull'Ordine Nuovo sono i giorni della devastazione fascista della sede della rivista comunista firmandosi Giuseppe Baretti: rappresentante della critica del processo unitario risorgimentale, Cattaneo fu emarginato dalla classe dirigente moderata. Eppure Cattaneo avversò non l'unità, ma l'illusione di risolvere con il mito dell'unità tutti i problemi che invece si potevano intendere soltanto nella loro specifica realtà autonoma, regionale senza atteggiarsi a profeta, senza l'enfasi dell'apostolo, capì che il fondare una nazione non era impresa di letterati entusiasti, cercò nelle tradizioni un linguaggio di serietà, un ammaestramento di cautela. E lo condannarono alla solitudine e all'impopolarità, e diedero a lui, uomo positivo e realista, un ufficio di Cassandra, predicante al deserto. Favorito dall'inerzia dei Savoia e dalla complicità dei dirigenti liberali, il fascismo procede alla conquista del potere e Gobetti non s'illude che con esso si possa venire a compromessi e lo si possa acquistare alla causa democratica. Scrive L'elogio della ghigliottina: bisogna sperare «che i tiranni siano tiranni, che la reazione sia reazione, che ci sia chi abbia il coraggio di levare la ghigliottina, che si mantengano le posizioni fino in fondo. Chiediamo le frustate, perché qualcuno si svegli, chiediamo il boia, perché si possa veder chiaro» e che «noi siamo come la dura scorza di una noce: proteggeremo i nostri ideali dalla sopraffazione con tutte le nostre forze e fin quando possibile».  Sposa Prospero: vanno ad abitare nella sua casa natale di via XX Settembre 60, che diviene anche la sede della casa editrice che egli fonda, col suo nome: la Gobetti editore, che pubblicherà, in poco più di due anni, oltre cento titoli. In qualità d'editore, Gobetti porta in Italia, traducendoli, alcuni dei libri e degli autori simbolo del pensiero liberale classico, come  Mill. È tra i primi a pubblicare i libri di Einaudi ed è lui a pubblicare la prima edizione di Ossi di seppia, una delle più famose raccolte di poesia di Montale. I libri editi furono in molti casi dati alle fiamme o comunque distrutti sotto il fascismo e, per questo motivo, sono in molti casi introvabili, come il volume dedicato al socialista Matteotti, di cui esistono pochissime copie.  Tutti i suoi libri riportano in copertina un motto liberale, scritto in greco antico in modo circolare, che recita testualmente "Cosa ho a che fare io con gli schiavi?". Gobetti e Prospero si trasferiranno poi in via Fabro 6, attuale sede del Centro di studi a lui intitolato. E arrestato perché sospetto di appartenenza a gruppi sovversivi che complottano contro lo Stato. Rilasciato cinque giorni dopo, subisce un nuovo arresto, provocando un'interrogazione parlamentare alla quale il governo risponde che era stato redattore dell'Ordine Nuovo di Torino, giornale anti-nazionale; la rivista che egli dirige, conduce da tempo una campagna contro le istituzioni e il governo fascista; il prefetto si è perciò sentito in diritto di far operare una perquisizione e il fermo di Gobetti per misure di ordine pubblico».  Gobetti replica con una lettera ai giornali, ribadendo la sua funzione di oppositore del fascismo, e aggiunge, nei libri stampati dalle sue edizioni, il motto «Che ho a che fare io con gli schiavi?». Dopo aver preso le distanze dal Prezzolini, che ha scelto il disimpegno di fronte al fascismo, rinnega anche il suo originario gentilismo. Gentile è incapace di dar ragione di ogni fatto politico, nel suo semplicismo pratico la filosofia gentiliana mostra caratteristicamente i suoi limiti e la nessuna aderenza al reale. Le tematiche liberali maggiormente sentite trovano una prima e ultima sistemazione in La rivoluzione liberale. Saggio sulla lotta politica in Italia, frutto maturo delle esperienze giornalistiche precedenti, dato alle stampe. L'opera è divisa in quattro parti: L'eredità del Risorgimento, La lotta politica in Italia, La critica liberale, Il fascismo. La fretta con cui vuol dare alle stampe questo saggio di lucida analisi politica gli impedisce di curare bene le parti marginali.  Così succede che "L'eredità del Risorgimento" venga solo abbozzata: «Il problema italiano non è di autorità, ma di autonomia: l'assenza di una vita libera fu attraverso i secoli l'ostacolo fondamentale per la creazione di una classe dirigente, per il formarsi di un'attività economica moderna e di una classe tecnica progredita. Un Risorgimento calato dall'alto, che di popolare non aveva nulla. La sfida era riempire di liberalità le istituzioni liberali formalmente create. Nel primo dopoguerra assiste a qualcosa di assolutamente nuovo: la nascita dei partiti di massa (Partito Popolare Italiano e Partito Comunista d’Italia saranno una prima versione dei due partiti più importanti della cosiddetta Prima Repubblica. Ma questo non basta. Per anni la lotta politica non riuscì a dare la misura della lotta sociale. Una cosa erano le questioni politiche, un'altra le esigenze sociali, ma queste «non possono essere separate dalla politica al pari di come un felino astuto non si ciberà del formaggio ma ne farà da esca per il topo». La seconda parte si divide in sei capitoli. Ciascun capitolo è un fattore della lotta politica: sono presenti liberali e democratici, popolari (sviluppate le figure di Toniolo, Meda e Sturzo), socialisti, comunisti (grande spazio dato a Antonio Gramsci), nazionalisti (emblematico il pensiero di Alfredo Rocco) e repubblicani. La terza parte è il cuore pulsante del saggio: una proposta concreta per fare politica senza dimenticare la società. La lotta di classe è per Gobetti strumento di formazione di una nuova élite, una via di rinnovamento popolare. Insomma, la lotta politica deve essere lotta sociale. In politica ecclesiastica, si rifà alla pregiudiziale cavouriana della laicità, come necessità da mantenere (cosa che verrà invece negata dai Patti Lateranensi). Per la discussione sulle modalità d'elezione,  è convinto fautore della proporzionale. Il collegio uni-nominale aveva corrotto il rappresentante in tribuno.  Solo con la proporzionale gli interessi si organizzano, così che l'economia venga elaborata dalla politica. Di grandissima attualità è la parte dedicata al problema dei contribuenti. Il contribuente italiano paga bestemmiando lo Stato. Non ha coscienza di esercitare, pagando, una vera e propria funzione sovrana. L'imposta gli è imposta. Una rivoluzione di contribuenti in Italia in queste condizioni non è possibile per la semplice ragione che non esistono contribuenti. Era quindi necessario per lui raggiungere una maggiore maturità economica e sociale. Il popolo doveva comprendere l'importanza di contribuire nello Stato, e imparare il valore dell'onestà. Per questo richiama attenzione sul problema scolastico. In un mondo fatto per grossa parte da analfabeti o semi--analfabeti, la questione era fondamentale. Manca un numero sufficiente di maestri, perciò si sarebbe dovuto mobilitare chiunque in grado di saper insegnare (anche preti, massoni, bolscevichi e così via).  La questione non evita di trattare l'aspetto economico. Contro il parassitismo pensa che fosse utile tagliare stipendi e investimenti, così da distinguere la vocazione all'insegnamento dalla vocazione al parassitare. In politica estera prospetta un ruolo importante per l'Italia a Versailles. E convinto della possibilità di ottenere un buon accordo attraverso una mediazione. Nella quarta ed ultima parte vi è una rapida esposizione del perché si oppone con ogni mezzo al fascismo. Si è detto che per l'autore la lotta sociale deve essere portata in Parlamento e dar vita a una lotta politica efficiente ed efficace. Mussolini invece fece in modo da soffocare la lotta politica, quando questa più di ogni altra cosa era necessaria all'Italia. Così il Duce e «l'eroe rappresentativo di questa stanchezza e di questa aspirazione di riposo» che si esplicava nel tacito consenso della popolazione allo sradicamento di ogni lotta politica nella nazione. In modo profetico, da esperto conoscitore del pensiero di Hegel qual era, prevede e mette in guardia delle conseguenze della concessione del potere a Mussolini secondo le dinamiche della dialettica “servo-signore” ipotizzando una guerra civile imminente. Il saggio è fortemente militante. Nella nota a conclusion, è chiaro: cerca collaboratori, non lettori. vuole la "rivoluzione liberale", cioè un nuovo liberalismo; nutre una forte avversione per il fascismo, anche perché non è qualcosa di nuovo ma, anzi, il risultato ottenuto da coloro che hanno governato l'Italia: è quindi una condanna della vecchia classe dirigente liberale.  Il fascismo nasce dall'invadenza del cattolicesimo e dalla demagogia dell'Italia liberale: Fascismo come autobiografia della nazione, il fascismo è, insomma, solo l'incancrenirsi dei mali tradizionali della società italiana. La società tradizionale italiana re-agisce sostenendo una forza conservatrice come quella del fascismo, anche se in realtà qualcosa di buono nell'Italia del primo dopo-guerra vi era stato: il proletariato (soprattutto quello torinese) che tenta di assumere su di sé la responsabilità di mutare lo stato delle cose. La borghesia ha perso ogni funzione propositiva. La borghersia è una classe parassitaria che si è adagiata e aspetta tutto dallo Stato. Si blocca così ogni istanza di rinnovamento. La funzione liberale e libertaria è assunta dal proletariato. Le considerazioni politiche di risentono della sua opinione sulla storia italiana, in “Risorgimento senza eroi” Gobetti descrive questo periodo come un'epopea patriottarda di cui simbolo è Mazzini (tante parole, pochi fatti): al Risorgimento sono mancati il pragmatismo e il realismo.  Ci sono due eroi nel Risorgimento e sono Cattaneo e Cavour, due figure assai distanti tra loro ma accomunabili per il loro pragmatismo: Cattaneo gli piace a per la sua volontà di operare, per la capacità di propugnare istanze pragmatiche e vuote di retorica. Cavour è uomo che media per raggiungere degli obiettivi, ha mire di lungo periodo. Il Risorgimento di Cattaneo è sconfitto, ma non quello di Cavour. Entrambi, però, hanno instillato nella società italiana lo spirito della competizione e l'ideale di assunzione di responsabilità. La società italiana si regge su ruoli e cariche già predefiniti, è statica e stagnante: il proletariato, però, si ribella a ciò, rifugge situazioni già prestabilite per costruire una società nuova in cui ciascuno sarà libero di esprimersi.  La persecuzione, l'esilio e la morte. Si reca in Francia, a Parigi e poi a Palermo, per incontrare alcuni amici conosciuti durante il recente viaggio di nozze. I suoi spostamenti sono seguiti dalla polizia italiana e, Mussolini telegrafa al prefetto di Torino, Palmieri: “Mi si riferisce che noto Gobetti sia stato recentemente a Parigi e che oggi sia a Palermo. Prego informarmi e vigilare per rendere nuovamente difficile vita questo insulso oppositore di governo.” Il prefetto obbedisce. Viene percosso, la sua abitazione perquisita e le sue carte sequestrate. Come scrive a Lussu, la polizia sospetta che egli intrattenga rapporti in Italia e all'estero per organizzare le forze antif-asciste.  È il giorno che precede la scomparsa di Matteotti, il cui corpo verrà ritrovato solo in agosto, ma subito si ha la certezza che si tratti di un omicidio perpetrato da sicari fascisti. Ne traccia un profile. Non ostenta presunzioni teoriche: dichiara candidamente di non aver tempo per risolvere i problemi filosofici perché doveva studiare i bilanci e rivedere i conti degli amministratori socialisti vide nascere nel Polesine il movimento fascista come schiavismo agrario, come cortigianeria servile degli spostati verso chi li paga; come medievale crudeltà e torbido oscurantismo  Sente che per combattere utilmente il fascismo nel campo politico occorre opporgli esempi di dignità con resistenza tenace. Farne una questione di carattere, di intransigenza, di rigorismo. Auspica, dalle colonne della sua rivista, la formazione di "Gruppi della Rivoluzione Liberale", formati da uomini di tutti i partiti anti-fascisti, che combattano il fascismo, questo fenomeno politico che trae i motivi del suo successo e della sua conservazione dalla creazione di «un esercito di parassiti dello Stato». Occorre, a questo scopo, formare un'economia moderna con un'industria libera da ogni protezionism e da ogni paternalismo di Stato e con una classe proletaria politicamente intransigente aiutare i partiti seri e moderni a liberarsi dei costumi giolittiani. La guerra al fascismo è questione di maturità storica, politica, economica. Questi articoli e quello in cui accusa il deputato fascista, grande invalido di guerra, Delcroix, di manovre parlamentari definite aborti morali, provocano il sequestro della rivista ed una violenta aggressione da parte di uno squadrone fascista. Persino un articolo di Fiore contro il criminale fascista Dumini, apparso su La Rivoluzione Liberale, fornisce il pretesto al prefetto di Torino di sequestrare la rivista. Con Fiore e conDorso pubblica un Appello ai meridionali e con il Saluto all'altro Parlamento appoggia l'iniziativa aventiniana, dalla quale si aspetta un'opposizione intransigente e un esempio di rinnovamento dei costumi parlamentari italiani.  Fonda una nuova rivista, Il Baretti, alla quale collaborano, tra gli altri, Monti, Sapegno, Croce e Montale. Come La Rivoluzione Liberale è dedicata a temi storico-politici, così la nuova rivista vuole essere riservata alla critica letteraria e all'estetica. Il riferimento a Baretti, letterato italiano vissuto a lungo all'estero, e alla sua Frusta letteraria, esempio di polemica vivace e irriverente, sottintende, scrive nel numero d'esordio, «una volontà di coerenza con le tradizioni di battaglia contro culture e letterature costrette nei limiti della provincia, chiuse dalle frontiere di dogmi angusti e di piccole patrie».  In ossequio alle direttive mussoliniane, proseguono i sequestri della sua rivista. Rimedieremo ai sequestri rifacendo l'edizione, scrive Gobetti e anche quel numero viene sequestrato con il pretesto di scritti diffamatori dei poteri dello Stato e tendenti a screditare le forze nazionali. Cura La Libertà di Mill, con la prefazione di Einaudi, il quale scrive che quando, per fiaccare la voce dei ribelli, si assevera dai dominatori la unanimità del consenso, giova rileggere i grandi libri sulla libertà. Anche produrre citazioni di scrittori del passato che non collimino col pensiero del Regime può essere tendenzioso e perciò provocare il sequestro della rivista. E arrestato Salvemini, che ha pubblicato sul foglio clandestino Non Mollare l'articolo Mussolini il mandante. Altri sequestri de La Rivoluzione Liberale avvengono. Un periodo di serenità per Piero e la moglie Ada che aspetta un bambino è rappresentato da un viaggio a Parigi e a Londra. A Parigi pensa di stabilire una sua casa editrice: «Credo che solo da Parigi, solo in francese, solo con la solidarietà dello spirito francese un italiano possa fare con utilità un'opera pratica di intelligenza europea. S'intende senza chauvinisme francese. D'altra parte, intende ancora rimanere in Italia. Rimarrò in Italia fino all'ultimo. Sono deciso a non fare l'esule.  A metà agosto fanno ritorno a Torino e è nuovamente vittima dei pestaggi squadristi, ma è ancora intenzionato a rimanere in Italia. Bisogna amare l'Italia con orgoglio di europei e con l'austera passione dell'esule in patria, scrive nell'articolo Lettera a Parigi, per capire con quale serena tristezza e inesorabile volontà di sacrificio noi viviamo nella presente realtà fascista. Le nostre malattie e le nostre crisi di coscienza non possiamo curarle che noi. Dobbiamo trovare da soli la nostra giustizia. E questa è la nostra dignità di anti-fascisti. Per essere europei dobbiamo su questo argomento sembrare, comunque la parola ci disgusti, nazionalisti.  Poiché i ripetuti sequestri a nulla hanno valso, e che il periodico in parola, sotto l'aspetto di critiche e di discussioni politiche, economiche, morali e religiose, che vorrebbero assurgere ad affermazioni e sviluppi di principi dottrinari, mira in realtà, con irriverenti richiami, alla menomazione delle Istituzioni Monarchiche, della Chiesa, dei Poteri dello Stato, danneggiando il prestigio nazionale, e nel complesso può dar motivo a reazioni pericolose per l'ordine pubblico, persistendo in violazioni sempre più gravi ai vigenti decreti sulla stampa», il prefetto d'Adamo diffida «il Direttore responsabile del periodico La Rivoluzione Liberale,  ai sensi e per gli effetti di cui all'art.” ad adeguarsi alle direttive del Regime e poiché l'8 novembre la rivista disattende l'ordine, il prefetto ingiunge la cessazione definitiva delle pubblicazioni e la soppressione della stessa casa editrice per attività nettamente anti-nazionale. D'ora in avanti sarò palesatamente costretto all'infelice dissenso. La libertà d'opinione è stata soppressa come una rete che viene sradicata: senza possibilità di dialogare sono destinato ad essere sopraffatto. A cosa serve più, ora, fare finta? Gobetti, che ora soffre anche di scompensi cardiaci, provocati o aggravati dalle violenze subite, pensa di lasciare l'Italia per proseguire in Francia l'attività editoriale. Nasce a Torino il figlio Paolo, che durante la seconda guerra mondiale diventerà partigiano e poi giornalista per l'Unità, oltreché storico del cinema. Scrive una lettera a Fortunato. Parto per Parigi dove farò l'editore francese, ossia il mio mestiere che in Italia mi è interdetto. A Parigi non intendo fare del libellismo, o della polemica spicciola come i granduchi spodestati di Russia; vorrei fare un'opera di cultura, nel senso del liberalismo europeo e della democrazia moderna. Parte da solo per Parigi. Alla stazione di Genova viene a salutarlo  Montale. Si ammala di una bronchite, che esacerba gravemente i suoi problemi cardiaci. Trasportato in una clinica di Neuilly-sur-Seine, vi muore assistito da Fausto, Nitti, Prezzolini e Emery. È sepolto nel cimitero parigino di Père-Lachaise.  Saggi:“La filosofia politica di Alfieri” (Torino, Gobetti); “La frusta teatrale, Milano, Corbaccio, Felice Casorati. Pittore, Torino, Gobetti, “Dal bolscevismo al fascismo: note di cultura politica” (Torino, Gobetti); Il teatro di Enrico Pea, in Enrico Pea, Rosa di Sion, Torino, Gobetti, Matteotti, Torino, Gobetti, Postfazione di M. Scavino, Edizioni di Storia e Letteratura, col titolo Per Matteotti. Un ritratto, Il Melangolo, Genova, “La rivoluzione liberale. Saggio sulla lotta politica in Italia, Bologna, Cappelli,  Opere edite e inedited; “Risorgimento senza eroi” “Piemonte nel Risorgimento, Torino, Baretti, Paradosso dello spirito russo, Torino, Baretti, Opera critica “Arte, religione, filosofia, Torino, Baretti, Teatro, letteratura, storia, Torino, Baretti,  Scritti attuali, Roma, Capriotti, Coscienza liberale e classe operaia, P. Spriano, Torino, Einaudi, Opere complete, Scritti politici, P. Spriano, Torino, Einaudi,  Scritti storici, letterari e filosofici, Spriano, Torino, Einaudi, Critica teatrale, Guazzotti e Gobetti, Torino, Einaudi, L'editore ideale. Frammenti autobiografici con iconografia, F. Antonicelli, Milano, All'insegna del pesce d'oro, Energie nove, Torino, Bottega d'Erasmo, Baretti, Torino, Bottega d'Erasmo, Lettere dalla Sicilia, nota di G. Chimirri, introduzione di N. Sapegno, Palermo, Nuova editrice meridionale,  Nella tua breve esistenza. Lettere on Ada Gobetti, E. Perona, Collana NUE Torino, Einaudi, Collana Piccola Biblioteca. Nuova serie, Einaudi, Con animo di liberale. Gobetti e i popolari. Carteggi Bartolo Gariglio, Milano, F. Angeli, Dizionario delle idee, Bucchi, Roma, Riuniti, Antifascismo etico. Elogio dell'intransigenza, M. Gervasoni, Milano, M&B Publishing, Carteggio Ersilia Alessandrone Perona, Torino, Einaudi, Che ho a che fare io con i servi? Zibaldone politico, Reggio Emilia, Aliberti,  Il giornalista arido Articoli Collana Classici idel giornalismo, Torino, Aragno,  Carteggio Ersilia Alessandrone Perona, Torino, Einaudi,,  Biografia di Gobetti  M. Brosio, Riflessioni su Gobetti, Gobetti, L'editore ideale, P. Gobetti, L'editore ideale, c N. Bobbio, Italia fedele. Il mondo di Gobetti, Nella tua breve esistenza. Lettere Gobetti, Energie Nove,  Lettera ad Ada Prospero, Nella tua breve esistenza,  Diario, L'editore ideale, Carlo Levi, in «Introduzione agli Scritti politici Togliatti, I parassiti della cultura, in «L'Ordine Nuovo», Gramsci, Contributi a una nuova dottrina dello stato e del colpo di stato, in «L'Ordine Nuovo», Nella tua breve esistenza, cAlberto Cabella, Elogio della libertà. Torino, Il Punto, L'editore ideale, Gobetti, Rivoluzione liberale, Nella tua breve esistenza, Gobetti, La Rivoluzione liberale, in «Scritti politici», Scritti politici,  Nella tua breve esistenza, Manifesto della Rivoluzione Liberale,  Nella tua breve esistenza, La rivoluzione Liberale, Elogio della Ghigliottina,  Dizionario Biografico degli Italiani  La Rivoluzione Liberale, I miei conti con l'idealismo attuale, Gobetti, La rivoluzione liberale. Saggio sulla lotta politica in Italia, C. Levi, in «Introduzione agli Scritti politici di Gobetti», La Rivoluzione Liberale, Gruppi della Rivoluzione Liberale, La Rivoluzione Liberale, Come combattere il fascismo, A. Colombo, Hutchings, Gobetti, GOBETTI AND MATTEOTTI, Il Politico,  In, La cultura francese nelle riviste e nelle iniziative editoriali di Gobetti, Lettera ad Prospero, Basso, Anderlini, Le riviste di Gobetti, Feltrinelli, Prezzolini, Gobetti e «La Voce», Firenze, Sansoni, M. Brosio, Riflessioni su Piero Gobetti, Quaderni della Gioventù liberale italiana di Torino, G. Bergami, Guida bibliografica degli scritti, Collana Opere diGobetti, Torino, Einaudi, P. Spriano, Gramsci e Gobetti, Torino, Einaudi, A. Carlino, Politica e dialettica in Gobetti, Lecce, Milella, P. Bagnoli,  Gobetti. Cultura e politica di un liberale del Novecento, Firenze, Passigli, U. Morra di Lavriano, Vita,  pref. di N. Bobbio, Torino, Tipografico, Gobetti e la Francia, Milano, Franco Angeli, Luigi Anderlini, Gobetti critico, in Letteratura italiana. I critici, Milano, Marzorati, Gobetti e gl’intellettuali del Sud, Napoli, Bibliopolis, G. De Marzi, Gobetti e Croce, Urbino, Quattroventi,  A. Cabella, Elogio della libertà. Torino, Il Punto, Marco Gervasoni, L'intellettuale come eroe. Piero Gobetti e le culture del Novecento, Firenze, La Nuova Italia, Bagnoli, Il metodo della libertà.  tra eresia e rivoluzione, Reggio Emilia, Diabasis, Gariglio, Progettare il postfascismo. Gobetti e i cattolici, Milano, Franco Angeli, Virgilio, Gobetti. La cultura etico-politica del primo Novecento tra consonanze e concordanze leopardiane, Manduria-Bari-Roma, Lacaita, Angelo Fabrizi, «Che ho a che fare io con gli schiavi?». Gobetti e Alfieri, Firenze, Società Editrice Fiorentina, Flavio Aliquò Mazzei, Piero Gobetti. Profilo di un rivoluzionario liberale, Firenze, Pugliese,  B. Gariglio, L'autunno delle libertà Lettere ad Ada in morte di Gobetti, Torino, Bollati, Erba, Piero Gobetti, in Intellettuali laici nel '900 italiano, Padova, Grasso, Ciampanella, Senza illusioni e senza ottimismi. Prospettive e limiti di una rivoluzione liberale, Roma, Aracne, Socialismo liberale Liberalismo socialeSalvemini Amendola Croce AlfieriMatteotti Il Baretti La Rivoluzione liberale. Treccani Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Opere di Centro Studi Piero Gobetti, su centrogobetti. «La Rivoluzione Liberale» Gobetti, Il liberalismo in Italia, G. Iacchini, Quando la libertà è rivoluzionaria: Piero Gobetti, su radicalsocialismo. La casa di Gobetti in via XX Settembre a Torino, su multimedia lastampa. Piero Gobetti. Gobetti. Keywords: implicatura. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gobetti” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51700266277/in/photolist-2mQBLt7-2mPGkBm-2mPvJmk-2mLznXk-2mLDpWX-2mKNNqN-2mKDGhr-2mKk6t5-2mPHbXQ

 

Gobbo  -- Federico Gobbo – esperantista -- He has collaborated with philosophers.

 

Grice e Gonnella – filosofia del diritto romano – filosofia romana – Luigi Speranza (Bari). Grice: “Like Foucault, and a few English philosophers who explored the conceptual intricacies of the ‘justification’ of punishment, Gonnella’s oeuvre is brilliant!” Saggi: “Il diritto (non) ci salverà, Il Manifesto,  Detenuti stranieri in Italia. Norme, numeri e diritti, Scientifica,. Carceri. I confini della dignità, Jaca, La tortura in Italia, Derive Approdi,. Jailhouse Rock, cento musicisti dietro le sbarre, Arcana,. Il carcere spiegato ai ragazzi, Il Manifesto, Patrie galere, Carocci, Sviluppo urbano e criminale, a Roma, Sinnos,  Il collasso delle carceri italiane. Sotto la lente degli ispettori europei, Sapere Consiglio d'Europa, Bisogna aver visto. Il carcere nella riflessione degl’anti-fascisti, Edizioni dell’Asino,. I paradossi del diritto. Scritti in omaggio a Resta, Roma TrE-Press,  Giustizia e carceri secondo papa Francesco, Jaca,. Onorare gli impegni. L'Italia e le norme contro la tortura, Sinnos, Inchiesta sulle carceri italiane, Carocci, Il Carcere trasparente. Primo rapporto nazionale sulle condizioni di detenzione, Castelvecchi. Patrizio Gonnella. Gonnella. Keywords: filosofia del diritto romano, sanction, punishment. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gonella” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51756498175/in/dateposted-public/

 

Grice e Goretti – la coazione istituzionale – filosofia fascista -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Torino). Filosofo. Si laurea a Torino sotto Solari. Fequenta Milano, dove incontra Martinetti. Segretario delCongresso Nazionale di Filosofia, organizzato dalla Società filosofica italiana. Il Congresso è sciolto dalle autorità dopo appena due giorni. Firmano la lettera di protesta indirizzata al rettore Luigi Mangiagalli, nel quale si "protesta in nome della libertà degli studi e della tradizione italiana contro un atto di violenza che impedisce l'esercizio della discussione filosofica.” Al momento del giuramento di fedeltà, necessario per entrare nella carriera universitaria o per proseguirla, si rifiuta e resta così al di fuori della carriera accademica; svolge attività professionale a Milano, e collabora alla "Rivista di filosofia" (anche quale componente del comitato direttivo). Frequenta Palazzo Fossati in Via Ciro Menotti a Milano. In prossimità della morte, Martinetti lascia la sua biblioteca privata in legato a Ruffini, Solari e Goretti. La Biblioteca verrà poi conferita dai rispettivi eredi alla "Fondazione Piero Martinetti per gli studi di storia filosofica " di Torino; oggi nel palazzo presso la Biblioteca della Facoltà di Filosofia. Goretti è riammesso nel mondo universitario e assume per concorso la cattedra di Filosofia del diritto; insegna all'Ferrara fino alla morte.  Il Comune di Ferrara ha intitolato una via a Cesare Goretti, "filosofopatriota".  L'animale come soggetto di diritto Prolifico filosofo del diritto, autore di scritti su Kant, Sorel, Bradley, cura Špir, Bradley, Green), a Goretti si deve il primo intervento che qualifica l'animale come “soggetto di diritto”. Martinetti pubblica “L’animo del animale” in cui aveva sottolineato che il animale possede intelletto e coscienza e, in generale, un animo, come emergeva dagli  lo studio dello “atteggiamento, gesto, la fisionomia.” Questo animo e vita animale è “forse estremamente diversa e lontana” da quella del homo sapiens” ma “ha anch'essa la carattere della coscienza e non può essere ridotta ad un semplice meccanismo fisiologico. Goretti va oltre, fino ad affermare che l’ animalee vero e proprio un “*soggetto* (“soggetoodi diritto” e che l'animale ha una “coscienza giuridica” e una percezione del giuridico. In tal modo, anticipa tematiche proprie della bioetica e dell'etologia. Nonostante l'originalità e l'innovatività delle posizioni assunte, il suo manifesto non ha avuto fortuna ed è stato del tutto trascurato dal dibattito animalista e negli studi di etologia. Come non possiamo negare all'animale in modo sia pure crepuscolare l'uso della categoria della causalità, così non possiamo escludere che l'animale partecipando al nostro mondo non abbia un senso di quello che può essere la proprietà e l'obbligazione. Casi innumerevoli dimostrano come un cane e custode geloso della proprietà del suo padrone e come ne compartecipa all'uso. Dve operare in esso questa visione della realtà esteriore come cosa propria, che nell’homo sapinens arriva alle costruzioni raffinate dei giuristi. È assurdo pensare che l'animale che rende un servizio al suo padrone che lo mantiene agisca soltanto istintivamente. Deve pure sentire in sé in modo sensibile questo rapporto di servizi resi e scambiati – cf. Grice, lo scambio conversazionale --. Naturalmente l'animale non potrà arrivare al concetto di ciò che è la proprietà e l'obbligazione. Basta che dimostri di fare uso di questi principî che in lui operano ancora in modo osensibile.»  (“ L’animale quale soggetto – e soggeto di diritto”). Nella filosofia del diritto si individuano tre teorie dell'"istituzionalità nel giuridico": istitutismo: teoria del diritto quale insieme di istitutito e concepito come una sorta di azione co-ordinata, costituente un equilibrio tipico e costante di finalità che si fissa in un complesso di mezzi, una costruzione. Per l istituzionalismo la istituzione (Romano, Hauriou). neo-istituzionalismo: il diritto è rappresentato da un “fatto” istituzionale (McCormick, Weinberger). Saggi: “La forma giuridica” (Isis, Milano); “Il sentimento giuridico” (Solco", Città di Castello); “I fondamenti del diritto” (Lombarda, Milano); “Liberalismo” (Pirola, Milano); “Norma giuridica, atto giuridico” (Bianciardi, Lodi); “Istituto giuridico” (Bianciardi, Lodi); “Norma giuridica” (Milani, Padova); "Rivista di filosofia", L'animale, soggetto, e soggeto di diritto, "Rivista di filosofia", Recensione di Schmitt, Die Diktatur. Von den Anfängen des modernen Souveränitätsgedankens bis zum proletarischen Klassenkampf, Duncher & Humblot, München-Leipzig, "Rivista di Filosofia",  Recensione di R. Smend, Verfassung und Verfassungsrecht, "Rivista di Filosofia", Introduzione a A. Spir, La giustizia, Lombarda, Milano, Il saggio politico sulla costituzione del Württenberg, "Rivista di filosofia", “Legge e norma, "Rivista di filosofia", La filosofia pratica W. Schuppe, "Rivista di filosofia",  “F. H. Bradley, "Rivista di filosofia", “La conoscenza etica, "Rivista di filosofia", “L'idea di patria”, "Rivista di filosofia", L'idealismo rappresentativo”, "Rivista di filosofia", Recensione di Calamandrei, Elogio dei giudici scritto da un avvocato, in "Rivista di filosofia", La metafisica della conoscenza, "Rivista di filosofia",  Il dolore nel pessimismo di A. Spir, "Rivista di filosofia", L’individualità, "Rivista di filosofia", Il saintsimonismo, "Rivista di filosofia", Diritti e doveri giuridici in relazione alla norma giuridica, "Archivio della Cultura italiana", L'istituzione dell'eforato in Sparta, "Archivio della Cultura italiana", “La valutazione tecnica della realtà, "Archivio della Cultura italiana", Martinetti, "Archivio della Cultura italiana", L'impiego delle categorie o dei concetti puri ed il valore della co-azione e inter-azione -- e dei postulati nella filosofia giuridica” "Annali della Ferrara",  Recensione di Candian, Avvocatura, Milano, in "Annali della Ferrara",   Il liberalismo, "Rivista internazionale di filosofia del diritto", L’istituzione in senso tecnico ed l’istituto giuridico nel realismo"Annali della Ferrara",  “Equità, "Scritti giuridici in onore di Carnelutti",  Filosofia e teoria generale del diritto, Milani, Padova, L'umanesimo critico di France, "Rivista di filosofia del diritto", Recensione di Erzbach, "Rivista trimestrale di diritto e procedura civile", Rileggendo il Filomusi Guelfi, "Rivista internazionale di filosofia del diritto", La filosofia di Martinetti, "Memorie dell'Accademia delle Scienze dell'Istituto di Bologna. Classe di Scienze Morali", Bologna, Considerazioni critiche sul diritto sociale, "Annali della Ferrara", Scienze Giuridiche.  L’acquisto ideale nella filosofia giuridica di Kant, "Rivista di filosofia del diritto", Sulla sociologia della diada e del gruppo sociale”. "Scritti di sociologia e politica in onore di Sturzo", Zanichelli, Bologna,  Isu luigisturzo, Scritti su Cesare Goretti Gioele Solari, Recensione, "Rivista di filosofia", N. Bobbio, "Rivista internazionale di filosofia del diritto", G.  Roccia, Filosofia e realizzazione spirituale” "Rivista internazionale di filosofia del diritto", Orecchia, voce “Goretti” della Enciclopedia filosofica,  Venezia-Roma, Istituto per la Collaborazione culturale, Goretti, in Orecchia, Maestri italiani di filosofia del diritto, Bulzoni, Roma, Castignone, I diritti animali: la prospettiva utilitaristica, "Materiali per una storia della cultura giuridica", D'Agostino, I diritti degl’animali, "Rivista internazionale di filosofia del diritto", Pocar, Gli animali non umani, Laterza, Roma-Bari, Martinetti, Pietà verso gl’animali (Alessandro Di Chiara), Il melangolo, Genova, Lucia, Goretti e la bioetica e l'etologia, "Annuario di itinerari filosofici", "Piacere, dolore, senso", Mimesis, Milano, Lorini, Atti giuridici istituzionali, in Lorini, L’atto giuridico, Adriatica, Bari, Paolo Di Lucia, Filosofia del diritto, Raffaello Cortina Milano); Colombo, La filosofia come soteriologia: l'avventura spirituale e intellettuale di Martinetti, Vita e Pensiero, Milano, C. Galli, Schmitt nella cultura italiana. Storia, bilancio, prospettive di una presenza problematica, "Storicamente", G. Lorini, Due a priori del diritto: l'a priori del giuridico”; Fenomenologia del diritto. Adolf Reinach, Mimesis, Milano,  A.  Pisanò, Diritti de-umanizzati: animali, ambiente, generazioni future, specie umana, Giuffrè, Milano, Lettera, Martinetti e Goretti a L. Mangiagalli in Martinetti Lettere Firenze, Massimo Mori, Rivista di filosofia, -- "Segni e comprensione", Brixia Sacra. Memorie storiche della Diocesi di Brescia, Solari,  Fossati, Necrologio, "Rivista di filosofia", Colombo, La filosofia come soteriologia: l'avventura spirituale e intellettuale di  Martinetti, Vita e Pensiero, Milano, Luigi FossatiArchivi del Garda, in Archivi del Garda. Paolo Di Lucia, Filosofia del diritto, Raffaello Cortina editore, Milano, Attilio Pisanò, Diritti deumanizzati: animali, ambiente, generazioni future, specie umana, Giuffrè, Milano, P. Martinetti, La psiche degli animali in Saggi e discorsi, Paravia, Torino, ore in Pietà verso gli animali (Alessandro De Chiara), Il Melangolo, Genova); “L'animale come soggetto di diritto, in Rivista di filosofia, per estratto in P. Di Lucia, Filosofia del diritto, Raffaello Cortina, Milano, P. Di Lucia, Filosofia del diritto, Raffaello Cortina editore, Milano, A.  Pisanò, Diritti deumanizzati: animali, ambiente, generazioni future, specie umana, Giuffrè, Milano, “Istitutismo” è un neologismo coniato da Piovani, Mobilità, sistematicità, istituzionalità della lingua e del diritto, Giuffré, Milano, cfr. G. Lorini, Dimensioni giuridiche dell'istituzionale, Milani, Padova, Lorini, “La dimensione giuridica dell'istituzionale, Milani, Padova, Cosa resta dell'istituzionalismo, “L'ircocervo”,  L.  Glazel, “Tetracotomomia dell’ istituzionale” in R. Renard, "Saggi in ricordo di Tanzi", Giuffré, Milano, M. Brutti, Alcuni usi del concetto di struttura nella conoscenza giuridica, "Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico", McCormick/Weinberger, Il diritto come istituzione, M. La Torre, Milano, M. Torre, “Norma, l’istituzionale, il valore: Per una teoria istituzionalistica del diritto, Bari. Il pensiero filosofico di Cesare Goretti non è comprensibile se ricondotto solamente al suo aspetto giuridico1, brillantemente espresso all’interno dei suoi Fondamenti del diritto (Goretti 1930), ma necessita di un approfondimento che tocchi ogni ambito speculativo della filosofia. Questo lavoro, quindi, pur mantenendo fermo il fine di una delucidazione dei principi filosofici posti alla base della sua concezione del diritto, fornirà un excursus preliminare sugli aspetti più importanti del suo pensiero, conducendo il lettore all'interno del formalismo gnoseologico kantiano, del volontarismo di Schopenhauer e dell’idealismo di matrice britannica, esortando ulteriori approfondimenti su un autore il quale, attraverso il proprio rigore morale (Goretti, così come il suo maestro Piero Martinetti, risulta tra i non firmatari del 1 Un richiamo in nota al contesto storico nel quale la filosofia del diritto di Goretti si sviluppa risulta tuttavia necessario. Essa si inserisce all'interno di quell’indirizzo, chiamato ‘istituzionalismo’, che identifica nell’istituzione il fulcro attorno al quale si crea e si espande la vita associata. Inaugurato con gli studi di Maurice Hauriou in Francia e Santi Romano in Italia, esso si pone in netta contrapposizione con la teoria normativista di Kelsen. Il particolare interesse di Goretti per l’idealismo di matrice anglosassone conferisce però al suo giuridicismo filosofico un taglio innovativo rispetto, ad esempio, al più celebre istituzionalismo di Santi Romano, tanto da poterlo considerare come ‘istitutismo’.       160 Politics. Rivista di Studi Politici n. 10, 2/2018 giuramento di fedeltà al fascismo del ‘31) ha dimostrato l’autonomia dello spirito rispetto alla contingenza degli avvenimenti storici. Nella trattazione delle sue opere non verrà seguito un ordine cronologico, ma una sistematica ricostruzione della sua dottrina. Questo è il motivo per il quale La metafisica della conoscenza in Thomas Hill Green (Goretti 1936) e l’Introduzione alla sua Etica (Goretti 1925) rappresentano un punto di partenza necessario per la successiva analisi del suo pensiero. È dunque dalle origini, dall’aspetto gnoseologico, che questo lavoro prenderà le mosse, ed è proprio da uno spunto, fornito dall’incompletezza della soluzione alla Ding an sich kantiana fornita da Green, che Goretti elaborerà il suo impianto filosofico. L’esigenza di ricongiungere forma e materia, di collegare il fenomeno con il noumeno, ha condotto la filosofia, da Kant in poi, verso la strada di un idealismo monistico. Quello che Goretti compie, invece, consiste in un’elegante risoluzione del problema, la quale, pur non rinunciando al principio monistico, mette al sicuro il formalismo kantiano da eventuali ricadute metafisiche. Per fare ciò, egli si avvale del concetto di volontà elaborato da Schopenhauer, evitando le sue derive pessimistiche e avvalorando il principio morale delineato da Green. Quanto fin qui solamente accennato mette dunque in luce l’aspetto poliedrico del pensiero di Goretti, in grado di spaziare tra gli autori e i campi della filosofia più disparati, mantenendo comunque quel rigore logico ed espositivo che lo rendono un autore unico nel suo genere. 1. Fenomeno e relazione: da Kant a Green La filosofia di Green, come sottolinea Goretti, rappresenta una fusione del pensiero critico di Kant e di Fichte (Goretti 1936, 97), una sintesi degli studi portati avanti a partire dalla sua Introduction to Hume’s Treatise of Human Nature, contenuta all’interno dei Collected Works (Green 1885-1888). Anche se i suoi Prolegomena to Ethics (1883), tradotti in italiano dallo stesso Goretti (Green 1925), vengono di frequente considerati come la «concezione definitiva dell’autore» (Goretti 1936, 98), portando spesso ed erroneamente a giudicare la sua gnoseologia prettamente metafisica, la sua capacità di analisi è riuscita ad andare ben oltre l’empirismo e il razionalismo precedenti. È per questa ragione, dunque, che Goretti tornerà, molto tempo dopo aver tradotto l’opera del Green, a dedicare ulteriori studi volti a precisare e confutare alcune delle conclusioni avanzate dal filosofo britannico. Attraverso un’accurata scomposizione del suo apparato epistemologico, Goretti riesce a salvare l’apparente e vuoto formalismo kantiano, che il Green aveva così ardentemente tentato di eliminare. La teoria della conoscenza di Green si fonda sulle osservazioni kantiane inerenti l’esistenza di una coscienza, in grado di unificare e sistematizzare i dati dell’esperienza, considerati, fino ad allora, come unica realtà possibile. Per Kant, ribadisce Goretti, è  La volontà formale e il valore della norma giuridica in Cesare Goretti solo grazie alla natura del nostro spirito che l’esigenza unificatrice, chiamata con il nome di appercezione trascendentale, si manifesta (Goretti 1936, 99). L’esperienza, dunque, rappresenta il complesso di unificazioni che il nostro spirito pone in essere sulla molteplicità del sensibile. Da ciò, la celebre distinzione kantiana tra prodotto della natura e prodotto dell’intelletto, che porta la filosofia verso un «Umänderung der Denkart» (Kant 1919, 24). Tutto ciò che possiamo conoscere è derivabile dalla nostra esperienza, mentre la realtà, ciò che è posto al di fuori del mondo sensibile, non può essere conosciuto, il che equivale ad affermarne il suo carattere a priori, in quanto strumento inconoscibile atto a conoscere. È proprio su questo punto, tuttavia, che Kant incontra le maggiori difficoltà. Tentando di superare le aporie humeane, pone in essere quella distinzione tra fenomeno e cosa in sé che occuperà gran parte della speculazione filosofica successiva. Nel tentativo di fornire una risposta adeguata a questo dilemma, senza rientrare all’interno delle conclusioni delineate dall’idealismo tedesco, si inserisce l’opera di Green. Come sottolineato da Goretti, Green adopera un linguaggio differente rispetto a quello utilizzato da Kant, il quale, secondo Green stesso, gli permetterebbe di eludere il problema relativo alla cosa in sé. Egli sostituisce, continua Goretti, la locuzione kantiana phenomena con quella di relations. Per mezzo di questa distinzione, Green è convinto di poter esprimere in maniera più marcata la facoltà unificatrice dello spirito, evitando così di cadere all’interno delle problematiche del razionalismo kantiano. L’errore di Kant, sottolinea Green, è rinvenibile proprio nella separazione che egli opera tra natura formaliter spectata e natura materialiter spectata. Questo errore non è altro che un refuso dell’empirismo lockeano, rinvenibile in Kant attraverso l’espressione «Macht zwar der Verstand die Natur, aber er schafft sie nicht» (Selsam 1930, 2). Come sostiene Green: If phenomena, as materialiter spectata, have such another nature, it will follow [...] that there is no ground for that conviction of there being some unity and totality in things, from which the quest for knowledge proceeds. The cosmos of our experience, and the order of things-in-themselves, will be two wholly unrelated worlds (Green 1883, § 39). Se si vuole considerare la materia, continua Green, dobbiamo prendere in considerazione l’esistenza di forze che generano il loro movimento comprese nella rappresentazione del fenomeno stesso (Goretti 1936, 100-101). Il divenire, dunque, diventa veicolo attraverso il quale la realtà spirituale si manifesta, una molteplicità con la quale il nostro spirito limitato coglie l’unità. Esso rappresenta, per Green, il processo causale della molteplicità stessa e non un prodotto della realtà assoluta. Alessandro Dividus 161  162 Politics. Rivista di Studi Politici n. 10, 2/2018 La posizione di Green è molto particolare. Egli rinnega l’esistenza di due elementi distinti, forma e materia, ma al tempo stesso, non ricade nella sintesi degli opposti sviluppata da Hegel. Le cose che noi osserviamo non sono scisse e frammentarie, ma rivelano l’esistenza di un assoluto che non si muove seguendo un movimento dialettico. La realtà, secondo Green, è una progressione di gradi di relazione e per questo motivo non può in alcun modo trovarsi fuori dallo spazio e dal tempo. La molteplicità delle relazioni, dunque, assume per Green il significato di qualità dello spirito, che il nostro Io attribuisce alle cose, ma che non si trova nelle cose stesse (Goretti 1936, 108). Queste conclusioni, sottolinea Goretti, sono per Green il modo di superare il dibattito intorno alla distinzione lockeana tra qualità primarie e qualità secondarie. Mentre, per i sostenitori dell’empirismo, la differenza tra qualità sussiste su di un piano sostanziale, cioè appartenente alla natura delle cose, per Green, invece, essa è puramente graduale. L’unica diversità che le caratterizza consiste nell’apparente priorità temporale che le prime dimostrano nel manifestarsi. Questo evento è dovuto, spiega Green, alla predominanza dell’elemento formale rispetto a quello empirico. Ogni relazione, dunque, è per Green una qualità. Il centro della realtà rimane sempre l’Io, ma l’elemento formale che Kant non era riuscito ad eliminare viene sostituito da gradi di relazione. Queste affermazioni sono avvalorate ancor più da Green attraverso la distinzione tra giudizi sintetici e giudizi analitici. Utilizzando l’enunciato kantiano “ogni corpo è esteso”, non ci troviamo di fronte ad un giudizio analitico, come Kant suppone, data la presenza del predicato all’interno del soggetto, ma come per il secondo enunciato “ogni corpo è pesante”, stiamo attribuendo al soggetto un grado di relazione meno complesso rispetto al secondo (Green 1886, §§ 69-72). La mera intuizione delle categorie di spazio e tempo non è sufficiente per cogliere la distinzione tra diversi giudizi. Lo spazio offre solamente la concezione di una figura, ma non di un corpo. Secondo Green, dunque, Kant confonde il concetto di corpo con quello di figura. La conclusione di Green, riporta Goretti, «è che ogni giudizio presuppone una sintesi che si può scomporre in una analisi di relazioni, analisi che può portare ad ulteriori sintesi» (Goretti 1936, 112). Ogni relazione è dunque un grado di realtà maggiore o minore rispetto all’unità che essa contribuisce a formare all'interno della nostra conoscenza. Quanto finora brevemente riportato mette in luce l’atteggiamento critico di Green rispetto alle problematiche formali espresse dalla filosofia kantiana. Naturalmente, quanto emerso rispecchia solo una minima parte del pensiero greeniano, in questa sede appositamente riassunto, ma fornisce gli strumenti necessari per comprendere il punto di partenza attraverso il quale Goretti ripartirà per formulare la sua teoria. Come sostiene Goretti «Non si può certo affermare che Green abbia sempre esattamente compreso la filosofia di Kant» (Goretti 1936, 113). Le critiche che Goretti muove nei  La volontà formale e il valore della norma giuridica in Cesare Goretti confronti del filosofo britannico riguardano proprio il suo tentativo di eliminare, senza risolvere, il formalismo kantiano, ricadendo in quella struttura monistica della quale già Fichte aveva tracciato le linee. Secondo Goretti, la concezione metafisica di Green è prettamente religiosa (Goretti 1936, 115; cfr. Seth 1887), in quanto ogni fenomeno, o relazione, è per lui un riverbero dell’assoluto che non si esaurisce nella sua apparenza. Così facendo, continua Goretti, Green non si accorge di aver identificato l’assoluto stesso con la molteplicità delle sue relazioni, senza mettere in conto la possibilità che un grado di realtà inferiore, rispetto ad uno superiore, possa rappresentare solamente una negazione, un’apparenza dell’assoluto (Goretti 1936, 115). Il dibattito sull’aspetto monistico, o meno, della filosofia di Green è ovviamente molto ampio (vedi Tyler 2003) e le teorie le più disparate. Il percorso tracciato dalle sue tesi trova il suo naturale sviluppo nelle dottrine del Bradley, il quale riduce le relazioni stesse a provvisorie apparenze riproponendo, ancora una volta, l’ombra di una realtà intellegibile (Goretti 1933). Ma Goretti percorre una strada diversa, in qualche modo innovativa rispetto al senso comune. Egli si serve di Schopenhauer per liberarsi del rapporto dualistico tra realtà assoluta e materia, senza però rinunciare alla categoria formale elaborata da Kant2. 2. Il concetto di volontà in Cesare Goretti Secondo Goretti, l’unico ad aver intuito veramente cosa la materia rappresenti è Schopenhauer (Goretti 1936, 105). Nella sua opera più famosa, Die Welt als Wille und Vorstellung (1819), Schopenhauer definisce la materia come apparenza sensibile della volontà. Questa volontà non è altro che una forza che tende ad affermarsi e realizzarsi. Essa non è più semplice materia inerte, come in Aristotele, ma forza, voluntas. Questa forza si oppone alla conoscenza tanto da tramutarsi in una noluntas, mettendo in moto quel processo che ci permette di conoscere le vere fattezze del reale, pur non rinunciando al dualismo tra realtà fenomenica e realtà assoluta. La volontà di conoscere, quindi, rischiara l’oscurità della materia e rende il mondo reale accessibile all’uomo. Green aveva intuito questo principio attraverso la definizione di dover essere e il suo concetto di moral will, ma non era riuscito, sostiene Goretti, a renderlo completo. È con Schopenhauer, quindi, che la concezione volontaristica acquista finalmente forma. 2 La strada percorsa da Goretti risulta alquanto particolare poiché, pur rimanendo all’interno dei canoni dell'idealismo (una sorta di idealismo religioso ispirato in Goretti dallo studio delle opere del filosofo russo Afrikan Spir e del suo amico a maestro Piero Martinetti), non ne segue la normale evoluzione tracciata da Fichte e conclusasi con Hegel, della quale Croce e Gentile sono stati, in Italia, i due massimi, seppur sotto molti aspetti critici, rappresentanti. Alessandro Dividus 163   164 Politics. Rivista di Studi Politici n. 10, 2/2018 Tuttavia, Goretti diverge dalla definizione di voluntas fornita da Schopenhauer. Per il filosofo tedesco la volontà si manifesta come impulso, energia, pura forza cieca, in quanto posseduta anche dalla materia, che sussiste al di fuori della forma dello spazio e del tempo ed è, quindi, indistruttibile ed eterna. Essa è energia senza causa (Abbagnano 1923). La sua ragione può essere ricercata solo nella sua manifestazione fenomenica, ma non nella volontà in sé. Per Goretti, invece, la volontà non è energia senza un fine, ma è un collegamento tra mezzi e fini. Essa ubbidisce alla categoria della finalità, mira a fini prescelti, segue degli schemi prestabiliti (Roccia 1955, 6). La realtà esteriore, secondo Goretti, rappresenta il complesso dei mezzi, gli oggetti e la materia che la volontà utilizza per realizzarsi, per liberarsi e, quindi, per perseguire il suo fine. La realtà limita il nostro egoismo, nel senso che pone al nostro volere dei punti di orientamento comuni. Quando l’uomo cerca di prendere possesso della realtà che lo circonda, non sorge in lui la visione di una realtà trascendente, ma lo schema di un’esigenza unitaria, che è la stessa limitazione del nostro egoismo (Goretti 1930, 75). La volontà, dunque, segue degli schemi prestabiliti, creando una sintesi tra il nostro volere e una parte della realtà esteriore. Nel volere del singolo si manifesta la sua propensione verso l’assoluto. Al principio del divenire, dunque, Goretti riabilita e sostituisce quel dualismo tra fenomeno e realtà che aveva messo in crisi la filosofia di Kant. Con la sua concezione di volontà, inoltre, Goretti non solo si allontana dal pensiero di Schopenhauer, ma trova anche il modo per rendere possibile l’esistenza di una categoria formale della conoscenza. Come nel collegamento tra mezzi e fini, la volontà guida la relazione immediata tra il soggetto e l’oggetto, tentando di far prevalere il suo dominio sulle cose e mettendo in mostra l’aspetto egoistico del suo movimento. Ma la volontà è prerogativa di ciascuno e non si esplica solamente attraverso un individuo determinato. Essa, dunque, incontra sul suo cammino gli atti volitivi di altri soggetti. È grazie al contatto della volontà individuale con la realtà esterna che l’egoismo nasce e scopre la sua ragion d’essere. La realtà pone dei limiti all’assoluto tendere della volontà, alla sua brama unitaria, e circoscrive i limiti delle differenti personalità individuali. La limitazione dell’egoismo è dovuta proprio all’esigenza unitaria della volontà ed esso non è altro che il prodotto della volontà stessa. In questo modo, Goretti è adesso in grado di giustificare l’aspetto formale della volontà. Essa non è più forza cieca che tende verso l’assoluto, ma, data la sua propensione unitaria, è forza costretta a percorrere determinate direzioni: l’una conduce al dominio delle cose (l’aspetto finalistico della volontà, cioè l’appropriazione del tutto), l’altra, invece, porta al godimento delle cose che dipendono dalla volontà degli altri (ciò che pone un freno alla categoria egoistica). Come riporta il Roccia:  La volontà formale e il valore della norma giuridica in Cesare Goretti Questi schemi, queste direzioni sono preordinate: non derivano cioè dalla nostra esperienza, bensì sono esse medesime condizioni dell’esperienza: o noi consideriamo il mondo esterno come un complesso di cose capaci di un possesso immediato o noi lo consideriamo come un complesso di cose il cui godimento dipende dall’attività di un altro soggetto (Roccia 1955, 7). L’aspetto formale della volontà, per Goretti, non solo è in grado di riconciliare forma e materia, fenomeno e realtà, ma è anche capace di fornire una risposta alla problematica morale riguardante la finalità dell’azione. Se per i sostenitori di una morale comune, come Kant o Green, l’azione del singolo deve essere orientata verso un bene collettivo, un fine cioè che non tenga solamente conto del concreto sviluppo del singolo, ma che rispetti l’insieme nel suo complesso, per la corrente dell’utilitarismo, invece, l’azione morale deve prediligere l’aspetto individuale, in primis, e solo in seguito condurre ad un accrescimento del benessere comune. Quello che Goretti mette in risalto, invece, è l’aspetto etico dell’egoismo. La sua è una posizione che si concilia perfettamente con entrambe e richiama alla memoria le parole di Spinoza. Per lui, così come per Goretti, il principio dell’utilità aveva un grande valore. Esso costituiva il primo grado della ragione, in quanto essa opera sulla natura empirica dell’uomo e ne mette in luce il suo carattere finito. L’utilità costringe il singolo a ripiegare su se stesso e «a sentire tutta l’ostilità della nostra limitatezza» (Goretti 1927, 238). È per questo motivo che la volontà, avendo fini egoistici ma mezzi comuni, è costretta a limitare la sua azione sulla base di un accordo sociale. La volontà, dunque, genera e limita l’egoismo, rendendo di fatto l’utile come un primo passo verso l’etico. L’essere ragionevoli, quindi, il perseguire la propria volontà, non rappresenta altro che una manifestazione del fine ultimo dell’uomo, il quale, a sua volta, si caratterizza come aspetto formale non solo della conoscenza, ma anche dell’appropriazione del reale. Date queste premesse, è adesso possibile per Goretti enunciare la sua personale interpretazione del diritto. Le condizioni a priori della conoscenza, riabilitate del loro carattere formale, vengono trasposte da Goretti all’interno della costituzione del diritto, nel campo cioè delle relazioni umane. Quello di Goretti, quindi, si presenta come un idealismo volontaristico, che non pretende «dedurre dalla volontà il diritto e tutto il diritto, intende solo cercare nella volontà stessa le condizioni che rendono possibile il diritto» (Roccia 1955, 7). Ci troviamo, dunque, di fronte a una tipologia di diritto differente rispetto a quella di matrice kantiana, poiché non rende la giuridicità stessa un elemento formale, ma identifica solamente alcuni schemi preordinati verso i quali la volontà deve dirigersi e attraverso i quali, grazie alla facoltà giuridica del reale, riesce a concretizzarsi. Solo il Green era riuscito a intuire il principio fondante del diritto, cioè la sua capacità strumentale di permettere una completa realizzazione Alessandro Dividus 165  166 Politics. Rivista di Studi Politici n. 10, 2/2018 dell’individuo nella società. Ma egli aveva eliminato ogni residuo di carattere formale all’interno della sua teoria, svilendo così la prerogativa finalistica della volontà. Quella di Goretti, quindi, rappresenta una perfetta sintesi dei due autori, che gli permetterà non solo di fornire una più completa riflessione sull’aspetto filosofico della norma, ma anche di ampliare il diritto stesso ad un gruppo sempre più ampio. 3. Il carattere strumentale del diritto La volontà deve realizzare fini dettati dalla ragione e non dati della sensibilità. Solo l’essere ragionevole è fine a se stesso. Ma per raggiungere un fine bisogna possedere un mezzo, uno strumento. Questo strumento è il diritto, l’unico in grado di ricongiungere il dover essere con la realtà fenomenica e fornire i mezzi esterni per la realizzazione morale (Goretti 1922, 16-17). Il diritto è quindi un mezzo, ciò che rende l’azione conforme al dovere. Esso è preordinato da fini. Kant derivava il diritto dal dovere, mentre Green sottolineava come l’uno non potesse esistere senza l’altro. In entrambi, però, il dovere ricopriva un ruolo primario, qualcosa che, una volta realizzato nella sua totalità, avrebbe reso vacuo il significato stesso del diritto. Per Goretti, invece, il diritto è sì uno strumento, ma uno strumento che non nasce con lo scopo di servire il dover essere, bensì è prodotto della realtà stessa che il dover essere riscopre. Mezzi e fini sono presenti nel mondo reale e offerti a chiunque possieda le capacità necessarie per farli propri. Queste possibilità di possesso, come le chiama Goretti, non forniscono alcun contenuto storico e mutabile, ma indicano solamente le linee guida attraverso le quali il nostro volere si esplica (Goretti 1930). È grazie al tentativo di dominio del reale, che gli schemi giuridici si manifestano. Essi rappresentano il collegamento diretto tra volontà ed esteriorità, regolando aprioristicamente lo spazio giuridico nel quale l’individuo si muove. Anche i Romani, sottolinea Goretti, avevano intuito la realtà empirica degli schemi giuridici. Quando essi distinguevano le res in mobiles, immobiles e semoventes non facevano altro che prendere coscienza della distinzione esistente tra diritti reali, diritti di obbligazione e diritti di asservimento (Goretti 1930, 90-91; cfr. Goretti 1922). La volontà, d’altronde, non può che realizzarsi attraverso un rapporto tra il proprio volere e l’oggetto desiderato (diritto reale), tra il proprio volere e l’attività di un terzo dal quale si pretende una certa prestazione (diritto di obbligazione) e, infine, tra il proprio volere e l’asservimento di tutta, o parte, della personalità esteriore altrui (diritto di asservimento). Questa triplice ripartizione, continua Goretti, esaurisce tutte le potenzialità «di sfruttamento e di dominio della realtà esteriore» (Goretti 1930, 89). Come per Kant, nella teoria della conoscenza, lo schematismo aveva reso possibile unificare le intuizioni sensibili all’interno delle categorie, così per Goretti, in campo giuridico, esso permette di riconoscere le tappe obbligate che la realtà empirica  La volontà formale e il valore della norma giuridica in Cesare Goretti fornisce al nostro volere. Si potrebbe obbiettare una presunta arbitrarietà nella tripartizione schematica effettuata dal Goretti, chiedendo come mai la volontà si esaurisca solamente attraverso questi schemi e non altri. Ma al perché questi schemi siano solamente tre, Goretti risponde: «L’uomo fin ad ora non ha altri modi di sfruttamento della realtà esteriore; altra prova del valore intuitivo degli schemi. [...] La realtà intuitiva non me ne fornisce altri allo stato attuale del nostro sviluppo organico» (Goretti 1930, 104). La nostra stessa esperienza e storia degli istituti giuridici, continua Goretti, dimostra il ruolo che i concetti di proprietà e obbligazione rivestono. Essi sono generici, originari, intuitivi e solo in seguito acquistano una valutazione razionale della realtà alla quale l’uomo fornisce un contenuto etico e, quindi, arbitrario. Essi, tende ancora a sottolineare Goretti, possiedono una natura puramente intuitiva e ciò non esclude che la logica giuridica possa trarne concetti giuridici corrispondenti, come la compravendita, il mandato, la proprietà ecc. (Goretti 1930, 95). Non bisogna confondere il concetto della proprietà e dell’obbligazione, che hanno un proprio contenuto storico e concreto, con lo schema dell’impossessamento e dell’obbligazione, che rappresenta il loro carattere intuitivo. Come afferma Goretti: Si dice: è il concetto di proprietà il prius logico, l’antecedente che rende possibile allo spirito l’impossessarsi della realtà. Al contrario è questo impossessarsi che permette l’elaborazione del concetto di proprietà. In questo impossessarsi vi è un atto che deve spiegarsi; e la spiegazione consiste nel fatto che il nostro egoismo, il nostro volere si muove diversamente a seconda dello spazio. Il volere ubbidisce alla categoria della finalità come l’intelletto a quella della causalità (Goretti 1930, 95-96). La nostra esigenza razionale, quindi, prende forma sensibile attraverso questi schemi giuridici, condizione dei rispettivi istituti giuridici. Per mezzo di questo atto intuitivo della realtà esteriore, il nostro egoismo viene limitato e obbligato a prendere determinate direzioni comuni, facendo trapelare una prima forma di unificazione dei voleri, di volontà comune. Essa appare inizialmente come complesso di mezzi per le nostre volizioni personali, ma lascia intuire la portata limitata di tali mezzi e, dunque, la loro comune origine. Questo passaggio, dice Goretti, è una normale conseguenza della visione unitaria della realtà da parte dei singoli, i quali tendono a polarizzare la propria volontà intorno a un ideale condiviso, acquisendo la consapevolezza della necessaria condivisione dei mezzi esteriori (Goretti 1930, 113). Si sviluppa così la coscienza di quell’elemento costituente il diritto: il principio di uguaglianza. Non si tratta, sostiene Goretti, di un’uguaglianza di diritti e doveri, di un livellamento dei valori individuali, ma di un’uguaglianza della nostra personalità di fronte alla realtà esteriore: «È la posizione del nostro volere di fronte alle direzioni che la realtà esteriore ci offre» (Goretti 1930, 113). L’umanità, dunque, non è il risultato della somma di tutti gli individui, ma è l’idea Alessandro Dividus 167  168 Politics. Rivista di Studi Politici n. 10, 2/2018 alla quale il singolo, in quanto essere razionale, partecipa. Così, ad esempio, l’idea della proprietà originaria non rappresenta il complesso delle singole proprietà, ma è il riconoscimento del diritto che l’umanità intera ha di impossessarsi della realtà esteriore (Goretti 1930, 116). Senza il riconoscimento di questo diritto, comune a tutti, non sarebbe possibile il conseguente riconoscimento dei diritti dell’individualità, dell’egoismo. 4. Gli istituti giuridici e lo Stato Quanto fino ad ora esposto mostra solamente la necessità degli schemi giuridici per la creazione di un ponte tra realtà spirituale e realtà fenomenica, mettendo in luce un’esigenza di volontà comune dettata dalla comunione dei mezzi e dei fini. Gli schemi giuridici, tuttavia, non sono che la base razionale, a priori, grazie alla quale poter dedurre l’esistenza dei diversi istituti giuridici. Gli schemi rappresentano quindi le condizioni formali che ne costituiscono la loro possibilità. Mentre il carattere strumentale del diritto aveva sottolineato la necessità di una comunione di mezzi, la storia del diritto stesso, e quindi la sua rappresentazione empirica formalizzata nell’istituto giuridico, fa emergere le caratteristiche costanti delle finalità umane. Gli istituti giuridici non sono che il riverbero di una comunione di mezzi, i quali contengono, però, vere e proprie finalità concrete (Goretti 1930, 204). Del resto, se non esistesse una comunione di mezzi, non sarebbe possibile parlare di finalità condivise. Queste finalità, ovviamente, non sono identiche in ciascuno, in quanto l’istituto giuridico non fa altro che porre in essere scopi immediati coordinati gli uni con gli altri, ma convergono tutte, sostiene Goretti, verso un punto di equilibrio: I moventi di ogni singola persona che partecipa ad un atto, ad un negozio giuridico rimangono sempre qualche cosa di irriducibilmente soggettivo, ma lo scopo dell’uno diventa una funzione di quello dell’altro, i due scopi devono farsi equilibrio intorno ad un punto comune (Goretti 1930, 204). Il fatto che una finalità presupponga un movente individuale, non esclude la possibilità che la finalità di un singolo possa incrociarsi con quella di un altro. Questo equilibrio di finalità dà vita a differenti figure giuridiche, non deducibili a priori dai nostri schemi, ma lasciate in balìa degli eventi storico-sociali. Ma il carattere formale dei nostri schemi, e quindi dei nostri mezzi, giustifica la creazione uniforme e costante degli istituti, e dunque dei nostri equilibri finali. Pertanto, dalle diverse finalità umane è possibile derivare aprioristicamente la figura giuridica della compravendita, che si richiama allo schema giuridico dell’obbligazione. Non è, dunque, il lavoro speculativo del giurista che crea le forme degli istituti giuridici, ma è la realtà sociale stessa. Essi  La volontà formale e il valore della norma giuridica in Cesare Goretti non sono altro che realtà fenomenica, svelata dalla volontà individuale che si muove nel mondo empirico attraverso le sue forme schematiche. Le istituzioni sociali, di conseguenza, sono il risultato di un punto comune di equilibrio formatosi e consolidatosi, nel tempo, intorno a un complesso di finalità umane. L’ineludibilità di simili conclusioni, sostiene Goretti, può essere ulteriormente avvalorata attraverso un esempio. Se esaminassimo il caso della compravendita, ci troveremmo di fronte a due differenti finalità: quelle del venditore, da una parte, e quelle del compratore, dall’altra. Naturalmente, continua Goretti, queste finalità appaiono inizialmente diverse, ma il loro punto di equilibrio è riscontrabile proprio negli asservimenti reciproci esistenti nel fatto di vendere e di comprare, nei quali le finalità dell’uno si incrociano con quelle dell’altro. Questo elemento comune è derivabile dallo schema dell’obbligazione, per mezzo del quale le caratteristiche comuni delle finalità tendono a convergere. Nel caso dei diritti reali, ad esempio, è la fruizione della cosa da parte di un singolo, e dunque la sua finalità, che tende a escludere l’uso del medesimo oggetto da parte di un terzo, facendo arrestare la sua finalità di fronte al possesso del soggetto iniziale. Questo arresto, continua Goretti, mostra già di per sé l’esistenza di un equilibrio dei fini, ed è proprio questo equilibrio che rende possibile la formazione degli istituti giuridici. Ciò che rende dunque costante nel tempo l’esistenza di determinati istituti è proprio l’uniformità delle nostre forme e dei nostri bisogni. Ecco come, quindi, da un accenno di volontà comune e di unificazione di finalità, espresse nella forma dei singoli istituti giuridici, si assiste a un progressivo ampliamento del principio di solidarietà sociale, che limita automaticamente il nostro originario egoismo. Si passa, gradualmente, da un’unificazione di finalità e bisogni elementari a un’unificazione più elevata di natura spirituale. Questo è un fenomeno, dice Goretti, «storicamente accertabile e inoppugnabile» (Goretti 1930, 218). L’egoismo si asserve così, senza negarsi, a un criterio di uniformità, dando vita a unità sempre più grandi e mostrando all’umanità il cammino della giustizia. Si potrebbe sottolineare l’incoerenza pratica di tali affermazioni, mostrando le derive violente ed ingiuste che molte istituzioni hanno posto in essere, ma simili mostruosità sono solamente deformazioni storiche di suddette istituzioni, le quali, in sé, non posseggono nessun concetto di giusto ed ingiusto, ma rappresentano solamente un grado di realizzazione della volontà comune, ad uopo strumentalizzata da egoismi irrazionali. Ma in che forma empirica si realizza questa volontà comune, secondo il Goretti? La sua risposta è molto chiara: «Il diritto come tale non può culminare nello Stato» (Goretti 1930, 228). Quella che ad Hegel appare come la rappresentazione e lo stadio più completo della volontà individuale, è invece per Goretti un’indebita ingerenza dell’egoismo collettivo nei confronti di quello soggettivo, una volontà di potenza che non ubbidisce a esigenze razionali, ma ad un mero potenziamento di se stessa, tradendo quell’esigenza prettamente unitaria tipica della dialettica hegeliana. Come Alessandro Dividus 169  170 Politics. Rivista di Studi Politici n. 10, 2/2018 all’interno della società civile si manifestano una molteplicità di individualità e gruppi in contrasto tra loro, così anche lo Stato, non essendo altro che un gruppo più ampio, non potrà rappresentare la realizzazione della volontà comune, poiché anch’esso tenderà al conflitto con Stati terzi. Il suo ruolo è, così per Goretti come lo era stato per il Green, puramente pratico, nel senso di garante del rispetto del diritto e della potenzialità di sviluppo della volontà comune. Lo Stato appare come la rappresentazione finale della sovranità, politica e giuridica, ma essa è pura illusione. In ogni sovranità vi è sempre un riverbero di ordinamento giuridico ideale, che non si esaurisce nella sua forma storico-sociale, ma è assoluta spontaneità dei rapporti che l’uomo instaura tra schemi e istituti. Lo Stato, nel suo processo evolutivo, non rappresenta altro che un irrigidimento della volontà comune nel suo percorso fenomenologico. Conclusioni Quanto esposto rappresenta una parte dell’importantissimo contributo del Goretti nel campo della filosofia, che tocca aspetti gnoseologici, giuridici e politici, mostrando il suo carattere poliedrico e critico, senza però rinunciare al suo rigore logico. Le sue intuizioni sono rimaste purtroppo vittime degli sfortunati eventi storici che hanno accompagnato tutta la sua esistenza, lasciando ai più sconosciuta la sua eredità intellettuale. Di non minore importanza, inoltre, è l’impegno che egli ha dedicato in difesa dei diritti degli animali, per il quale si rimanda all’articolo L'animale quale soggetto di diritto (Goretti 1928), che si concilia perfettamente con la sua personale concezione del diritto e che anticipa, in gran parte, molte delle speculazioni attuali sul tema. Ma lo scopo di questo lavoro, data la limitatezza del contributo, non è stato quello di approfondire ogni aspetto del suo pensiero, bensì di mostrare la profonda capacità argomentativa di questo autore, il quale offre numerosi spunti in altrettanto numerosi ambiti della filosofia. Oltre ad essere stato, in Italia, il primo vero studioso e l’unico traduttore dell’opera del Green, Goretti ne ha saputo cogliere la vera intuizione, proponendo una propria visione della volontà, la quale rappresenta una geniale sintesi tra idealismo e razionalismo, quasi come un proseguo degli studi, involontariamente interrotti, ai quali il Green aveva dato origine. La riabilitazione, poi, del formalismo kantiano, segnata da una propria interpretazione della volontà di Schopenhauer, mette in evidenza un percorso innovativo rispetto al naturale interesse degli studiosi successivi, il che conferma ulteriormente la necessità di riscoprire un autore tanto grande quanto sfortunato.  Bibliografia La volontà formale e il valore della norma giuridica in Cesare Goretti Abbagnano, Nicola. 1923. Le sorgenti razionali del pensiero. Napoli: Perrella. Bradley, Andrew Cecil. 1906. Prolegomena to Ethics by the late Thomas Hill Green. Oxford: Oxford Clarendon Press. Goretti, Cesare. 1922. Il carattere formale della filosofia giuridica kantiana. Milano: Casa Editrice Isis. Goretti, Cesare. 1927. “Il trattato politico di Spinoza.” Rivista di Filosofia XVIII, 3: 235- 247. Goretti, Cesare. 1928. “L’animale quale soggetto di diritto.” Rivista di Filosofia XIX, 4: 348-369. Goretti, Cesare. 1930. I fondamenti del diritto. Milano: Libreria Editrice Lombarda. Goretti, Cesare. 1932. “Sulla distinzione fra legge e norma.” Rivista di Filosofia XXIII, 2: 125-135. Goretti, Cesare. 1933. “Il valore della filosofia di F. H. Bradley. Apparenza e Realtà.” Rivista di Filosofia XXIV, 4: 332-352. Goretti, Cesare. 1935. “L'idea di patria.” Rivista di Filosofia XXVI, 1: 66-82. Goretti, Cesare. 1936. “La metafisica della conoscenza in Thomas Hill Green.” Rivista di Filosofia XVIII, 2: 97-117. Goretti, Cesare. 1941. “L’istituzione dell’eforato.” Archivio della cultura italiana III, 4: 251-264. Goretti, Cesare. 1951. Il pensiero filosofico di Piero Martinetti. Bologna: Cooperativa Tipografica Azzoguidi. Green, Thomas Hill. 1925. Etica. “L’istituzionale e una co-struzione, una sorta di inter-azione, o co-azione co-ordinata, co-stitutente un equilibrio tipico o co-stante di finalita che si fissa in un com-plesso di mezzi”. “Casi innumerevoli dimostrano come il cane (o altro uomo) sia custde geloso della proprieta del suo padrone e come ne compartecipi all’uso. Oscuramente deve operare in esso questa visione della realta esteriore come cosa PROPRIA, che nell’uomo civile U1 arriva alle costruzione raffinate dei giuristi. E assurdo pensare che l’animale o l’uomo O2 che rende un servizio al suo padrene che lo mantiene agisca soltanto istintivamente. Deve pure sentire in se per quantto oscuramente e in modo sensible questo rapport di servizi resi e SCAMBIATI. Naturalmente l’U2 o l’animale non potra arrivare al concetto di ci oche e la proprieta, l’obbligazione. Basta cche dimostri esterioremente di fare uso di questi principi che in lui operano ancora in modo oscuro e sensibile.” Cesare Goretti. Grice: “I like Goretti: I rather casually referred to ‘the institution of a decision’ as the end of a conversational exchange – notably involving buletic conversational moves; Goretti makes a whole system out of this. His example is his conversation with his dog: ‘Surely my dog knows that he is providing me a service – guarding my territory – and he is rightly deemed as a ‘subject’ in my exchange with him – as we ‘institute a decision’ that there is a reciprocity involved.” Goretti. Keywords: “the institution of decisions” -- l’istituzionale, A. C. Bradley, La massima d’equita; “segni e comprensione” il concetto di patria, eforato—co-azione, co-operazione -- diada. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Goretti” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51755508026/in/dateposted-public/

 

Grice e Gori – la filosofia di cabaret -- l’eroe e la falce – filosofia italiana – filosofia futurista -- Luigi Speranza (Roma). Filosofo.  Grice: “My favourite Gori are “L’eroe e la falce” and “Il mantello d’Arlecchino” – nothing can be italianita with that!”. Saggi: “Il mantello di Arlecchino (Roma); “Il libbro rosso de la guerra” (Roma); “Le bruttezze della Divina Commedia” (Alatri); “Le bellezze della Divina Commedia” (Milano); “Estetica dell'irrazionale” (Milano); “Il mulino della luna (Milano) “L'irrazionale”; “Filosofia ed estetica”, “Sistema di una nuova scienza del bello; “Il bello” – “L'eroe e la falce” -- Scorcio architettonico di letteratura europea dalle origini ai nostri giorni, Cagliostro (Milano); Il teatro contemporaneo e le sue correnti caratteristiche di pensiero e di vita nelle varie nazioni (Torino); L'oca azzurra (Roma); Il grande amore (Firenze); Scenografia. La tradizione e la rivoluzione contemporanea (Roma); Il grottesco (Milano).  P.D. Giovanelli, Gino Gori. L'irrazionale e il teatro, Roma, Bulzoni, U. Piscopo, Gino Gori, in E. Godoli, Dizionario del futurismo, Firenze); Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Rassegna della produzione teatrale e delle nuove tendenze del teatro italiano e mondiale a cavallo tra il finire dell'800 e i primi decenni del '900. Partendo dalla riforma dell'opera lirica di Wagner e dalla sua teoria dell'opera d'arte totale, Gori passa a discorrere di Maeterlinck, Andreev, del teatro dell'Anima di Schuré e Claudel, del teatro dell'esteriorismo (D'Annunzio, Wilde, Péladan, Erdös), del teatro cinese e giapponese, di Tagore, Tolstoj, Gorkij, dell'Espressionismo, di Shaw, di Ibsen, del teatro borghese, del teatro dialettale italiano, del teatro delle nazioni europee minori (discorre anche del teatro dell'Islanda o della Lituania o della Bulgaria), delle forme rudimentarie del teatro presso i popoli selvaggi. Gino Gori (Roma, 1876-Sant'Ilario Ligure, 1952), poeta, drammaturgo e critico letterario romano fiancheggiatore del Futurismo, aprì a Roma il famoso Cabaret del Diavolo, realizzato da Fortunato Depero. "Nel gennaio del 1921 Depero è protagonista con una grande mostra personale tenuta a Palazzo Cova di Milano, che in seguito viene trasferita da Bragaglia a Roma, dove nel settembre dello stesso anno, su incarico di Gino Gori, inizia i lavori di allestimento del Cabaret del Diavolo, una sorta di bolgia dantesca frequentata da futuristi, dadaisti, anarchici ed artisti in genere. Per il cabaret, strutturato lungo un percorso discendente (a ritroso) Paradiso-Purgatorio-Inferno, Depero realizzò tutto l'arredo e le decorazioni murali. L'inaugurazione avvenne nell'aprile del 1922 ma, passato il primo momento di gloria, i tempi si fecero difficili e il locale fu chiuso, e con esso distrutto anche tutto il lavoro di Depero". (cfr. Catalogo mostra Fortunato Depero, Fondazione Palazzo Bricherasio). Letterature moderne. Studi diretti da Arturo Farinelli. Cammarota, Futurismo,  Il Futurismo applicato ai cabaret»  «C’è stato in questi giorni, qui a Roma, un improvviso e molteplice sboccio d’arte futurista: il futurismo applicato al cabaret»,[26] annotava all’inizio degli anni Venti Massimo Bontempelli, che in quel periodo simpatizzava con il Futurismo e da poco aveva rifiutato le opere scritte prima della guerra. Fra il 1921 e il 1923, venivano infatti inaugurati nella capitale diversi locali decorati dai futuristi, tutti situati nel centro della città. Iniziava la serie, nel ’21, il Bal Tic Tac, situato in via Milano, i cui ambienti considerati distrutti per oltre mezzo secolo, sono stati recentemente ritrovati durante il restauro del palazzo. Alle sale, arredi e lampade del cabaret aveva lavorato Balla: era «un grandioso locale per balli notturni futuristicamente decorato», nel quale «per la prima volta, apparve realizzata la nuova arte decorativa futurista. Forza, dinamismo, giocondità, italianità, originalità» commentava il periodico Il Futurismo.[27] Per il lavoro, ha ricordato la figlia dell’artista, Elica, Balla era stato contattato da Vinicio Paladini, altro avanguardista della cerchia romana, in quegli anni in procinto di lanciare con Ivo Pannaggi il movimento Immaginista.[28] Nel 1922, nei sotterranei dell’Hotel Élite et des Etrangers in Via Basilicata 13, era stato aperto il Cabaret del Diavolo, uno dei più stravaganti ritrovi romani di proprietà di Gino Gori, il quale intendeva farne il punto di incontro di scrittori, pittori e intellettuali e aveva puntato sulla creatività di Depero, chiamandolo a decorarne e ad arredarne gli interni. Le tre sale, denominate Inferno, Purgatorio e Paradiso, avevano ognuna una specificità cromatica e tipologica: i mobili del Paradiso, ad esempio, erano azzurri, quelli del Purgatorio verdi e quelli dell’Inferno rossi. L’illuminazione era bianco-rosa-azzurrina con immagini di angeli e cherubini nel Paradiso, bianco-verde con una coorte di anime verdi nel Purgatorio, e rossa con diavoli e dannati avvolti dalle fiamme nell’Inferno. Il locale era sede della Brigata degli Indiavolati, composta da poeti e artisti.  Nello stesso anno Balla, che aveva anche decorato la sua celebre casa-galleria aperta al pubblico di Via Nicolò Porpora 2 (poi seguita dall’altrettanto celebre abitazione di Via Oslavia 34 b), realizzava il soffitto luminoso della sala futurista della nuova sede allestita da Virgilio Marchi della Casa d’Arte di Bragaglia, trasferitasi da Via Condotti 18 in Via degli Avignonesi 8. Nei locali ricavati nei sotterranei dei Palazzi Tittoni e Vassalli che conservavano le terme pubbliche romane di Settimio Severo, nel 1923 Bragaglia affiancava alla galleria anche il Teatro degli Indipendenti per il quale Virgilio Marchi aveva realizzato il ridotto e il bar: qui, per otto dense stagioni, Anton Giulio sperimentò la sua ‘riforma teatrale’ e le sue idee di rinnovamento delle tecnica scenica mediante l’introduzione di nuovi elementi quali una regia sperimentale, una recitazione innovativa e una scenografia ‘cromatica’. Nel teatro vennero messi in scena gran parte dei testi d’avanguardia italiani e stranieri prodotti in quegli anni dagli artisti più vari, da Jarry ad Apollinaire, dai Futuristi agli Immaginisti: nel 1921, la vecchia sede della Casa d’Arte aveva ospitato anche la mostra di opere dadaiste facente parte della Grande Stagione Dada Romana che aveva messo in programma esposizioni, declamazioni, esecuzioni di musiche dadaiste e una conferenza di Evola su Tzara nell’Aula Magna dell’Università.  l testo di Braibanti è precedente rispetto a quelli di Kaiser e Bachtin, risale al 1951, non può quindi giovarsi delle ricerche dei due autori ma, per le sue finalità, la sorte del grottesco nella storia dell’arte è di importanza relativa. Conosceva e cita altrove il testo di Gino Gori sul grottesco nell’arte, ne apprezza l’impresa ma coglie i limiti della riduzione dello spirito del grottesco all’ambito dell’artistico. Il luogo privilegiato del grottesco è la vita, lo spazio interindividuale è dove si dispiegano le sue epifanie. GORI GINO. Il teatro contemporaneo e le sue correnti caratteristiche di pensiero e di vita nelle varie nazioni. Torino, Fratelli Bocca, 1924. In-8°, pp. (4), 282, (2), brossura editoriale con titolo in rosso e nero entro bordura ornamentale anch'essa in bicromia. Gore al dorso. Una piccola mancanza al margine superiore del piatto posteriore. Bella copia in barbe e a fogli chiusi. Prima edizione. Rassegna della produzione teatrale e delle nuove tendenze del teatro italiano e mondiale a cavallo tra il finire dell'800 e i primi decenni del '900. Partendo dalla riforma dell'opera   lirica di Wagner e dalla sua teoria dell'opera d'arte totale, Gori passa a discorrere di Maeterlinck, Andreev, del "teatro dell'Anima" di Schuré e Claudel, del teatro dell'"esteriorismo" (D'Annunzio, Wilde, Péladan, Erdös), del teatro cinese e giapponese, di Tagore, Tolstoj, Gorkij, dell'Espressionismo, di Shaw, di Ibsen, del teatro borghese, del teatro dialettale italiano, del teatro delle nazioni europee minori (discorre anche del teatro dell'Islanda o della Lituania o della Bulgaria), delle "forme rudimentarie" del teatro presso i popoli selvaggi. Gino Gori (Roma, 1876-Sant'Ilario Ligure, 1952), poeta, drammaturgo e critico letterario romano fiancheggiatore del Futurismo, aprì a Roma il famoso Cabaret del Diavolo, realizzato da Fortunato Depero. (cfr. Catalogo mostra Fortunato Depero, Fondazione Palazzo Bricherasio). Letterature moderne. Studi diretti da Arturo Farinelli. Cammarota, Futurismo, 248.2 GORI GINO. L'irrazionale. Volume primo. Filosofia ed estetica. Sistema di una nuova scienza del bello. Volume secondo. L'eroe e la falce. Scorcio architettonico di letteratura europea dalle origini ai nostri giorni. Foligno, Campitelli, 1924. 2 voll. in-8° (200135mm), pp. XI; 182, (2); 183-550, (4) [paginazione continua]; brossure editoriali. Bell'esemplare in parte intonso. Prima edizione e primo migliaio di questo importante saggio di estetica suggestionato dalla poetica futurista GORI, Gino. - Nacque a Roma, il 7 luglio 1876, da Vincenzo Guglielmo e Giovanna Santi. Terminato il liceo, si laureò dapprima in giurisprudenza, iscrivendosi poi a medicina, senza tuttavia nutrire particolare interesse neppure per questo indirizzo di studi. Egli si sentiva piuttosto attratto dalla letteratura, dalla filosofia e, in particolare, dal teatro, di cui prese a scrivere fin dai primi anni del nuovo secolo.  Collaboratore di vari giornali e riviste - tra cui il Don Chisciotte, il Capitan Fracassa, La Vita, La Patria, il Don Marzio, L'Ora, Il Tirso, di cui fu redattore capo nel 1912-13, Aprutium di Teramo, Noi e il mondo, mensile illustrato de La Tribuna di Roma -, si fece presto la fama di critico militante severo e intransigente. Amico di Trilussa e suo ammiratore, compose poesie e canovacci teatrali in romanesco.  Anticlericale e massone, allo scoppio della Grande Guerra fu interventista e irredentista. Nel primo dopoguerra e negli anni successivi prese a sostenere la cultura modernista e il teatro sperimentale, gestendo il cabaret dell'hôtel Majestic, di cui era proprietario. Viaggiò molto sia in Europa (Francia, Spagna, Germania, Russia) sia in America (Messico, California). Il 30 nov. 1929 sposò Giulia Massobrio, vedova di G. Volante. Dopo il matrimonio il G. lasciò Roma, interrompendo l'intensa attività letteraria cui si era dedicato, e si trasferì a Chianciano, dove comprò e gestì l'albergo Excelsior. Sempre a Chianciano fondò e diresse il periodico Il Giornale dell'albergatore.  Intellettuale e poligrafo - fu infatti poeta, romanziere, filosofo con particolare attenzione all'estetica, saggista, critico militante, studioso di teatro - il G., finché si dedicò ad attività culturali, si adoperò principalmente a sostenere e diffondere, nell'Italia del primo Novecento, un clima e un gusto più avanzati e moderni; i suoi maggiori e più significativi contributi, tutti concentrati nel corso degli anni Venti, riguardano le teorie e le pratiche poste a fondamento del processo di rinnovamento del teatro contemporaneo.  Dopo gli studi giuridici e di medicina, il G. aveva provveduto a darsi una solida e rigorosa preparazione letteraria e filosofica, coniugando l'educazione sui classici con un'informazione puntuale e aggiornata sugli orientamenti e sugli esiti più attuali della poesia, della critica, della narrativa, dell'editoria a livello nazionale ed europeo. Insofferente, come molti suoi coetanei, nei confronti dei contenuti e dei metodi del positivismo e degli indirizzi storico-filologici, fu convinto seguace dell'idealismo di B. Croce e della rinascita dell'interesse per la critica di F. De Sanctis; la sua attenzione si estese, da Croce e dai crociani, anche agli intellettuali che dialogavano con Croce dall'esterno dell'idealismo.  Di questa sua posizione egli rende conto in Il mantello di Arlecchino (Roma 1914 [ma 1913]), sostanziosa silloge ricca di indicazioni e di suggestioni critiche, in cui traccia il panorama della letteratura italiana della belle époque.  Se De Sanctis e Croce forniscono modelli e suggerimenti, tuttavia il lavoro critico del G. non è inteso come applicazione pedissequa della dottrina dei maestri: egli integra, rilegge, propone nuove osservazioni. A complemento di questo lavoro è poi allegato un esaustivo tracciato dell'attività editoriale in Italia.  Di umori nazionalisti e interventisti è intrisa la sua prima raccolta di versi in dialetto romanesco, Er libbro rosso de la guera (Roma 1915; che contiene anche il canovaccio teatrale in dialetto Le maschere de la guera, pp. 3-21) mentre, per Trieste italiana e contro il mondo tedesco, il G. pubblicò in Aprutium(IV [1915], f. 8), una canzone, Sorella nostra!, celebrativa della latinità assunta a valore contro la barbarie del "duro settentrione". Fu, comunque, la Grande Guerra a far maturare in lui un processo di piena conversione al moderno, inteso quale gusto, mimesi linguistica, diegesi e strumentazione di idee e di stili fondati sul nuovo.  Si avvicinò a F.T. Marinetti, di cui tra i primi aveva dato un profilo essenziale e pertinente (ne Il mantello di Arlecchino, pp. 193-211), e ne divenne amico, ma corresse anche il giudizio nei confronti dei futuristi, che nell'anteguerra egli aveva adeguato, sulla scorta di G. Papini, a "marinettiani" (ibid., pp. 213-223), tra i quali, invece, venne distinguendo posizioni diverse, sostenendo soprattutto alcuni di essi, come R. Vasari, L. Folgore ed E. Prampolini. Meditò attentamente sul teatro di L. Pirandello, si entusiasmò per il teatro del colore di A. Ricciardi, strinse amicizia con i Bragaglia, con V. Orazi, con M. Bontempelli.  Fu soprattutto l'ispirazione poetica a farsi nel G. più avvolgente e convinta: la parola, che nelle sue composizioni d'anteguerra si risolveva in veicolo di denunzia, di argomentazione e di persuasione, o di descrizioni realistiche (vedi Er libbro rosso de la guera), acquistò nuove sfumature, più allusive, e si dispose su tramature in cui si riscontrano riflessi di G. Pascoli, di G. Gozzano, di C. Govoni, di A. Palazzeschi, raggiungendo talora esito felice, come nelle tre liriche Alla stazione, Ogni giorno così e Limbo, apparse in Le foglie dell'orologio (Roma s.d.), poi riproposte con diverso titolo in Il grande amore (Firenze 1926).  In quest'ultima silloge, accanto alle tre citate, figurano nuove composizioni, ispirate al realismo magico di Bontempelli (Sembra una favola!, A teatro, Le tre vecchine, Orgoglio); e, di fatto, l'avvicinamento a Bontempelli, sia sul versante saggistico-estetologico sia su quello poetico, era iniziato da tempo: già la raccolta Il mulino della luna (Milano 1924; di cui si ricordano in particolare Come un cipresso notturno, L'oca azzurra, L'isola lontana, Pierrots, Si parte, Con la rete dei pensieri, È passato il re, L'automa nella pioggia, Annunciazione, Epilogo), posta cronologicamente fra le due summenzionate, poggiava sostanzialmente su una griglia di suggerimenti metafisico-surreali ascrivibili all'ambito ideale di Bontempelli e ai suoi immediati dintorni.  Non altrettanto positivo e più scontato l'esito raggiunto dal G. nel romanzo e nella novella (per lo più inediti) con l'eccezione di L'oca azzurra (Roma 1925) - che riprende titolo e immagini della lirica de Il mulino della luna, intrisa di un umorismo alla Folgore e di un magismo che rinvia nuovamente a Bontempelli - e di Coriandoli, una raccolta, appunto inedita, di novelle.  Ma gli interventi più interessanti del G. sono quelli legati al discorso critico sul teatro, riguardo al quale egli concordava con avanguardisti e sperimentali sull'ineludibilità del rinnovamento delle sue pratiche, delle sue strategie e dell'idea stessa su cui esso si costituisce. A tal fine, si impegnò innanzitutto concretamente, fondando e gestendo in proprio un laboratorio teatrale posto sotto il segno di un "antigrazioso" irritante e provocatorio; infatti, nel 1921, a Roma, con un anno di anticipo sul teatro degli Indipendenti di A.G. Bragaglia, egli aveva fondato e preso a dirigere quel cabaret, La Bottega del diavolo, sito all'interno dell'hôtel Élite et des étrangers, poi Majestic, di sua proprietà.  Dell'albergo erano frequentatori e gratuitamente ospiti numerosi futuristi, tra cui Marinetti, giornalisti e scrittori; negli scantinati, detti l'"inferno", arredati con mobili e manufatti realizzati da F. Depero, da Prampolini e da altri, e decorati con immagini di diavoli danzanti, armati di forconi e pronti a scaraventare nelle fiamme i dannati, si davano ogni sabato spettacoli futuristi e modernisti. Ai programmi, e alla loro realizzazione, presiedeva una commissione di esperti e primi attori, tra cui erano lo stesso G., nel ruolo di Minosse, Trilussa quale Lucifero, Folgore come Cerbero, e Bontempelli come Barbariccia (per una dettagliata testimonianza sul cabaret, che andò avanti fino al 1927, si veda Un covo di diavoli nella Roma di 40 anni fa, in Il Tempo, 19 apr. 1967). Dietro la facciata di questo underground ante litteram, il G. andava maturando la sua riflessione sul rapporto tra teatro e corporeità, dionisismo, vitalismo, e sulla necessità di accelerare il processo di rivitalizzazione e risignificazione del teatro stesso e delle attività collegate. A monte di tale riflessione specificamente orientata sul teatro, si collocavano i due volumi del saggio L'irrazionale (I, Filosofia ed estetica. Sistema di una nuova scienza del bello; II, L'eroe e la falce. Scorcio architettonico di letteratura europea dalle origini ai nostri giorni, Foligno 1924), che s'inseriscono, con ogni evidenza, nel quadro generale dell'avanguardia internazionale, impegnata a riconsiderare i fondamenti dell'arte e dell'estetica nella chiave del notturno, dell'inquietante, dell'anamorfico.  Viceversa il discorso specifico sul teatro s'innerva in tre opere successive: Il teatro contemporaneo e le sue correnti caratteristiche di pensiero e di vita nelle varie nazioni (Torino-Milano-Roma 1924), che si propone di indagare sui nuovi linguaggi del teatro nelle sue varie manifestazioni nazionali; Scenografia. La tradizione e la rivoluzione contemporanea (Roma 1926), in cui il G. esamina, tramite lo specifico della scenografia, le vie attraverso le quali si possa raggiungere e comunicare la realtà "che si trova di là dall'apparenza" (p. 210), e come si possa darne una rappresentazione, interrogandosi su intuizioni e tentativi di alcuni tra i nomi più significativi della storia del teatro moderno - a partire da R. Wagner e proseguendo con G. Craig, A. Appia, V. Mejerchol´d - ma soprattutto dando conto delle esperienze del "teatro della sorpresa" futurista - di Vasari in particolare (L'angoscia delle macchine, Milano 1925), ma anche di Prampolini, V. Marchi, Folgore, oltre che del "teatro del colore" di A. Ricciardi e del laboratorio di A.G. Bragaglia -, e studiando le esperienze futuriste del dinamismo plastico, della simultaneità e della sintesi. Seguì infine Il grottesco nell'arte e nella letteratura (ibid. 1927), in cui, riproponendo anche alcuni studi di prima della guerra (sul grottesco nell'Inferno di Dante, sulla maschera turca di Karagöz), il G. approfondisce soprattutto lo studio sul teatro futurista italiano nella chiave del grottesco e del fantastico (in particolare, E. Cavacchioli, L. Chiarelli, L. Antonelli).  Al termine dell'intensa stagione intellettuale degli anni Venti, convinto di essere stato sfruttato e trascurato dalla cultura ufficiale, il G. si appartò, allontanandosi da Roma, senza tuttavia smettere di studiare e di scrivere: lasciò quindi numerosi scritti inediti conservati presso gli eredi.  Nel secondo dopoguerra, il G. si stabilì in una località di mare, Sant'Ilario Ligure (Genova), dove morì il 24 dic. 1952.  Tra le opere del G., oltre a quelle citate nel testo, si ricordano: per la narrativa: Cagliostro(Milano 1925); per la saggistica: Le bruttezze della Divina Commedia (Alatri 1920); Le bellezze della Divina Commedia (Milano s.d. [ma 1921]); Studi di estetica dell'irrazionale(ibid. s.d. [ma 1921]).  Fonti e Bibl.: M. Verdone, Teatro del tempo futurista, Roma 1969, pp. 274-276 e passim; Id., Prosa e critica futurista, Milano 1973, pp. 314-317, 339; P.D. Giovanelli, G. G.: l'irrazionale e il teatro, Roma 1978; U. Piscopo, G. G., in Dizionario del futurismo, a cura di E. Godoli, Firenze 2001, sub voce.Gino Gori. Keywords: l’eroe e la falce, bello, eroe, falce, irrazionale, mantello dell’arlecchino  – bellezza, futurismo – Refs: Luigi Speranza, “Grice e Gori” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51701334178/in/photolist-2mR9Kz4-2mPAWP1-2mN35cA-2mLKeCe-2mLP3hz-2mLERpq-2mKMuu9-2mKC3nj-2mKCMei-2mJ3q6x-FNptwK-ESZ2oh-ESYzUw-ETfeER-FGy1TZ-ETbJX6-ETbpBn-FEfv5Y-FGxVqp-ETe2Ut-FGCKMg-ETbawt-FohZR5-FNqpZT-FNpoR2-jkKjmQ-jrB3iu-nFTbv2-nHuSHb

 

Grice e Gramsci – contro Croce – partito socialista italiano – il comune – l’elite – Mosca -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Ales). Filosofo.  Grice: “Some Italians don’t consider Gramsci Italian on account of the fact that Gramsci is not an Italian last name!” Fu tra i fondatori del Partito Comunista d'Italia, divenendone esponente di primo piano e segretario, ma venne ristretto dal regime fascista nel carcere di Turi. In seguito al grave deterioramento delle sue condizioni di salute, ottenne la libertà condizionata e fu ricoverato in clinica, dove trascorse gli ultimi anni di vita. Considerato uno dei più importanti pensatori del XX secolo, nei suoi scritti, tra i più originali della tradizione filosofica marxista, analizza la struttura culturale e politica di Italia. Elaborò in particolare il concetto di egemonia, secondo il quale le classi dominanti impongono i propri valori politici, intellettuali e morali a tutta la società, con l'obiettivo di saldare e gestire il potere intorno a un senso comune condiviso da tutte le classi sociali, comprese quelle subalterne. Gli antenati paterni derano originari della città di Gramshi in Albania, e potrebbero essere giunti in Italia durante la diaspora albanese causata dall'invasione turca. Documenti d'archivio attestano che nel Settecento il trisavolo Gennaro Gramsci, sposato con Domenica Blajotta, possedeva a Plataci, comunità ‘’arbëreshë’’ del distretto di Castrovillari, delle terre poi ereditate da Nicola Gramsci. Questi sposò Maria Francesca Fabbricatore, e dal loro matrimonio nacque a Plataci Gennaro Gramsci, che intraprese la carriera militare nella gendarmeria del Regno di Napoli e, quando era di stanza a Gaeta, sposò Teresa Gonzales, figlia di un avvocato napoletano. Il loro secondo figlio fu Francesco, il padre di Antonio Gramsci.  Le origini albanesi erano conosciute dallo stesso Gramsci, che tuttavia le immaginava più recenti, come scriverà alla cognata Tatiana Schucht dal carcere di Turi: «o stesso non ho alcuna razza; mio padre è di origine albanese (la famiglia scappò dall'Epiro durante la guerra del 1821, ma si italianizzò rapidamente). Tuttavia la mia cultura è italiana, fondamentalmente questo è il mio mondo; non mi sono mai accorto di essere dilaniato tra due mondi. L'essere io oriundo albanese non fu messo in giuoco perché anche Crispi era albanese, educato in un collegio albanese.” Ghilarza: casa museo Antonio Gramsci Francesco era studente in legge quando morì il padre; dovendo trovare subito un lavoro, partì per la Sardegna per impiegarsi nell'Ufficio del registro di Ghilarza. In questo paese, che allora contava circa 2.200 abitanti, conobbe Marcias, figlia di un esattore delle imposte e proprietario di alcune terre. La sposò malgrado l'opposizione dei familiari, rimasti in Campania, che consideravano i Marcias una famiglia di rango inferiore alla propria dal punto di vista sociale e culturale: Giuseppina aveva studiato fino alla terza elementare. Dal matrimonio nascerà Gennaro e, dopo che Francesco Gramsci fu trasferito da Ghilarza ad Ales, Grazietta ed Emma. Gramsci nasce secondo il registro delle nascite dello stato civile del comune e registrato con i nomi di Antonio, Francesco. Scondo il registro dei battesimi della parrocchia di San Pietro nasce il giorno dopo,  e viene registrato con i nomi di Antonio, Sebastiano, Francesco. Il padre fu trasferito, come gerente dell'Ufficio del Registro, a Sorgono e qui nacquero gli altri figli, Mario, Teresina, e Carlo. Antonio si ammala del morbo di Pott, una tubercolosi ossea che in pochi anni gli deformò la colonna vertebrale e gli impedì una normale crescita: adulto, non supererà il metro e mezzo di altezza; i genitori pensavano che la sua deformità fosse la conseguenza di una caduta e anche Antonio rimase convinto di quella spiegazione. Ebbe sempre una salute delicate. Soffrendo di emorragie e convulsioni, fu dato per spacciato dai medici, tanto che la madre comprò la bara e il vestito per la sepoltura.  Il padre Francesco fu arrestato, con l'accusa di peculato, concussione e falsità in atti, e venne condannato al minimo della pena con l'attenuante del «lieve valore»: 5 anni, 8 mesi e 22 giorni di carcere, da scontare a Gaeta. Priva del sostegno dello stipendio del padre, la famiglia trascorse anni di estrema miseria, che la madre affrontò vendendo la sua parte di eredità, tenendo a pensione il veterinario del paese e guadagnando qualche soldo cucendo camicie. Proprio per le sue delicate condizioni di salute Gramsci comincia a frequentare la scuola elementare soltanto a sette anni: la concluse ncon il massimo dei voti, ma la situazione familiare non gli permise di iscriversi al ginnasio. Già dall'estate precedente aveva iniziato a dare il suo contributo all'economia domestica lavorando 10 ore al giorno nell'Ufficio del catasto di Ghilarza per 9 lire al mese l'equivalente di un chilo di pane al giornos muovendo «registri che pesavano più di me e molte notti piangevo di nascosto perché mi doleva tutto il corpo». Grazie a un'amnistia, il padre anticipò di tre mesi la fine della sua pena: inizialmente guadagnò qualcosa come segretario in un'assicurazione agricola, poi, riabilitato, fece il patrocinante in conciliatura e infine fu riassunto come scrivano nel vecchio Ufficio del catasto, dove lavorò per il resto della sua vita. Così, pur affrontando gli abituali sacrifici, i genitori poterono iscrivere il quindicenne Antonio nel Ginnasio cdi Santu Lussurgiu, «un piccolo ginnasio in cui tre sedicenti professori sbrigavano, con molta faccia tosta, tutto l'insegnamento delle cinque classi».  Con tale preparazione un poco avventurosa, riuscì tuttavia a prendere la licenza ginnasiale a Oristano e a iscriversi al Liceo classico Giovanni Maria Dettori di Cagliari, stando a pensione, prima in un appartamento in via Principe Amedeo 24, poi, l'anno dopo, in corso Vittorio Emanuele 149, insieme con il fratello Gennaro, il quale, terminato il servizio di leva a Torino, lavorava per cento lire al mese in una fabbrica di ghiaccio del capoluogo sardo.  La modesta preparazione ricevuta nel ginnasio si fece sentire, perché inizialmente Gramsci nelle diverse materie ottenne appena la sufficienza, ma riuscì a recuperare in fretta: del resto, leggere e studiare erano i suoi impegni costanti. Non si concedeva distrazioni, non soltanto perché avrebbe potuto permettersele solo con grandi sacrifici, ma anche perché l'unico vestito che possedeva, per lo più liso, non lo incoraggiava a frequentare né gli amici, né i locali pubblici. A scuola, mostrò uno spiccato interesse per le discipline umanistiche e per lo studio della storia, anche perché il cattivo insegnamento ricevuto in matematica gli fece perdere l'interesse per la materia.  Nel frattempo, il giovane Gramsci, iniziò a seguire le vicende politiche. Il fratello Gennaro, che era tornato in Sardegna militante socialista, divenne cassiere della Camera del lavoro e segretario della sezione socialista di Cagliari: «Una grande quantità di materiale propagandistico, libri, giornali, opuscoli, finiva a casa. Nino, che il più delle volte passava le sere chiuso in casa senza neanche un'uscita di pochi momenti, ci metteva poco a leggere quei libri e quei giornali». Leggeva anche i romanzi popolari di Carolina Invernizio, di Barrili e quelli di Deledda, ma questi ultimi non li apprezzava, considerando folkloristica la visione che della Sardegna aveva la scrittrice sarda; leggeva Il Marzocco e La Voce di  Prezzolini, Papini, Emilio Cecchi «ma in cima alle sue raccomandazioni, quando mi chiedeva di ritagliare gli articoli e di custodirli nella cartella, stavano sempre Croce e Salvemini».  Alla fine della seconda classe liceale, alla cattedra di lettere italiane del Liceo salì Garzia, radicale e anticlericale, direttore de L'Unione Sarda, quotidiano legato alle istanze sarde, rappresentate, in Parlamento da Cocco-Ortu, allora impegnato in una dura opposizione al ministero di Luigi Luzzatti. Gramsci instaurò con il Garzia un buon rapporto, che andava oltre il naturale discepolato: invitato ogni tanto a visitare la redazione del giornale, ricevette la tessera di giornalista, con l'invito a «inviare tutte le notizie di pubblico interesse. Ebbe la soddisfazione di vedersi stampato il suo primo scritto pubblico, venticinque righe di cronaca ironica su un fatto avvenuto nel paese di Aidomaggiore.  In un tema dell'ultimo anno di liceo, che ci è conservato, Gramsci scriveva, tra l'altro, che «Le guerre sono fatte per il commercio, non per la civiltà la Rivoluzione francese ha abbattuto molti privilegi, ha sollevato molti oppressi; ma non ha fatto che sostituire una classe all'altra nel dominio. Però ha lasciato un grande ammaestramento: che i privilegi e le differenze sociali, essendo prodotto della società e non della natura, possono essere sorpassate». La sua concezione socialista, qui chiaramente espressa, va unita, in questo periodo, all'adesione all'indipendentismo sardo, nel quale egli esprimeva, insieme con la denuncia delle condizioni di arretratezza dell'isola e delle disuguaglianze sociali, l'ostilità verso le classi privilegiate del continente, fra le quali venivano compresi, secondo una polemica mentalità di origine contadina, gli stessi operai, concepiti come una corporazione elitaria fra i lavoratori salariati.  Poco dopo Gramsci conoscerà da vicino la realtà operaia di una grande città del Nord:  il conseguimento della licenza liceale con una buona votazione tutti otto e un nove in italianogli prospetta la possibilità di continuare gli studi all'Università. Il Collegio Carlo Alberto di Torino bandì un concorso, riservato a tutti gli studenti poveri licenziati dai Licei del Regno, offrendo 39 borse di studio, ciascuna equivalente a 70 lire al mese per 10 mesi, per poter frequentare Torino. Fu uno dei due studenti di Cagliari ammessi a sostenere gli esami a Torino. «Partii per Torino come se fossi in stato di sonnambulismo. Avevo 55 lire in tasca; avevo speso 45 lire per il viaggio in terza classe delle 100 avute da casa». Conclude gli esami: li supera classificandosi nono; al secondo posto è uno studente genovese venuto da Sassari, Palmiro Togliatti.  Si iscrive alla Facoltà di Lettere, ma le settanta lire al mese non bastano nemmeno per le spese di prima necessità: oltre alle tasse universitarie, deve pagare venticinque lire al mese per l'affitto della stanza di Lungo Dora Firenze 57, nel popolare quartiere di Porta Palazzo, e il costo della luce, della pulizia della biancheria, della carta e dell'inchiostro, e ci sono i pasti«non meno di due lire alla più modesta trattoria»e la legna e il carbone per il riscaldamento: privo anche di un cappotto, «la preoccupazione del freddo non mi permette di studiare, perché o passeggio nella camera per scaldarmi i piedi oppure devo stare imbacuccato perché non riesco a sostenere la prima gelata». Sono frequenti le richieste di denaro alla famiglia che però, da parte sua, non se la passava di certo molto meglio.  L'Università degli Studi di Torino vantava professori di alto livello e di diversa formazione: Luigi Einaudi, Ruffini, Manzini, Toesca, Loria, Solari e poi Bartoli, che si legò di amicizia con Gramsci, come fece anche l'incaricato di letteratura italiana  Cosmo, contro il quale indirizzò però un articolo violentemente polemico. Anni dopo, durante la dura esperienza in carcere, continuò comunque a ricordarlo con simpatia«serbo del Cosmo un ricordo pieno di affetto e direi di venerazione era e credo sia tuttora di una grande sincerità e dirittura morale con molte striature di quella ingenuità nativa che è propria dei grandi eruditi e studiosi»ricordando anche che, con questi e con molti altri intellettuali dei primi quindici anni del secolo, malgrado divergenze di varia natura, egli avesse questo in comune: «partecipavamo in tutto o in parte al movimento di riforma morale e intellettuale promosso in Italia da Benedetto Croce, il cui primo punto era questo, che l'uomo moderno può e deve vivere senza religione rivelata o positiva o mitologica o come altro si vuol dire. Questo punto anche oggi mi pare il maggior contributo alla cultura mondiale che abbiano dato gli intellettuali moderni italiani. Si ritrovò a casa per le elezioni politiche, dopo la fine della guerra italo-turca contro l'Impero ottomano per la conquista della Libia; votavano per la prima volta anche gli analfabeti, ma la corruzione e le intimidazioni erano le stesse delle elezioni precedenti. In Sardegna, il timore che l'allargamento della base elettorale favorisse i socialisti portò al blocco delle candidature di tutte le forze politiche contro i candidati socialisti, indicati come il comune nemico da battere. In quest'obiettivo, "sardisti" e "non-sardisti" si trovarono d'accordo e deposero le vecchie polemiche. Gramsci scrisse di quest'esperienza elettorale al compagno di studi Tasca, dirigente socialista torinese, il quale affermò che Gramsci «era stato molto colpito dalla trasformazione prodotta in quell'ambiente dalla partecipazione delle masse contadine alle elezioni, benché non sapessero e non potessero ancora servirsi per conto loro della nuova arma. Fu questo spettacolo, e la meditazione su di esso, che fece definitivamente di Gramsci un socialista».  Tornò a Torino, andando ad affittare una stanza all'ultimo piano del palazzo di via San Massimo 14, oggi Monumento nazionale; dovrebbe datarsi a questo periodo la sua iscrizione al Partito socialista. Si trovò in ritardo con gli esami, con il rischio di perdere il contributo della borsa di studio, a causa di «una forma di anemia cerebrale che mi toglie la memoria, che mi devasta il cervello, che mi fa impazzire ora per ora, senza che mi riesca di trovare requie né passeggiando, né disteso sul letto, né disteso per terra a rotolarmi in certi momenti come un furibondo». Riconosciuto «afflitto da grave nevrosi» gli fu concesso di recuperare gli esami nella sessione di primavera. Prese anche lezioni di filosofia da Pastore, il quale scrisse poi che «il suo orientamento era originalmente crociano ma già mordeva il freno e non sapeva ancora come e perché staccarsi voleva rendersi conto del processo formativo della cultura agli scopi della rivoluzione come fa il pensare a far agire come le idee diventano forze pratiche». Gramsci stesso scriverà di aver sentito anche la necessità di «superare un modo di vivere e di pensare arretrato, come quello che era proprio di un sardo del principio del secolo, per appropriarsi un modo di vivere e di pensare non più regionale e da villaggio, ma nazionale» ma anche «di provocare nella classe operaia il superamento di quel provincialismo alla rovescia della palla di piombo come il Sud Italia e generalmente considerato nel Nord che aveva le sue profonde radici nella tradizione riformistica e corporativa del movimento socialista». L'iscrizione al partito gli permise di superare in parte un lungo periodo di solitudine: ora frequentava i giovani compagni di partito, fra i quali erano Tasca, Togliatti, Terracini. “Uscivamo spesso dalle riunioni di partito mentre gli ultimi nottambuli si fermavano a sogguardarci continuavamo le nostre discussioni, intramezzandole di propositi feroci, di scroscianti risate, di galoppate nel regno dell'impossibile e del sogno». Nell'Italia che ha dichiarato la propria neutralità nella Prima guerra mondiale in corsoneutralità affermata anche dal Partito socialistascrive per la prima volta sul settimanale socialista torinese Il Grido del Popolo l'articolo Neutralità attiva e operante in risposta a quello apparso il 18 ottobre sull'Avanti! di Mussolini Dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva e operante, senza però poter comprendere quale svolta politica stesse preparando l'allora importante e popolare esponente socialista.  Sostenne  quello che sarà, senza che lo sapesse ancora, il suo ultimo esame all'Università; il suo impegno politico si fece crescente con l'entrata in guerra dell'Italia e con il suo ingresso nella redazione torinese dell'Avanti!. Trascorse gran parte delle sue giornate all'ultimo piano nel palazzo dell'Alleanza Cooperativa Torinese al numero 12 di corso Siccardi (oggi Galileo Ferraris), dove, in tre stanze, erano situate la sezione giovanile del partito socialista e le redazioni de Il Grido del Popolo e del foglio piemontese dell'Avanti!, che comprendeva la rubrica della cronaca torinese, Sotto la Mole; in entrambi i giornali Gramsci pubblicava di tutto, dai commenti sulla situazione interna ed estera agli interventi sulla vita di partito, dagli articoli di polemica politica alle note di costume, dalle recensioni dei libri alla critica teatrale. Dirà più tardi di aver scritto in dieci anni di giornalismo «tante righe da poter costituire quindici o venti volumi di quattrocento pagine, ma esse erano scritte alla giornata e dovevano morire dopo la giornata» e di aver contribuito «molto prima di Tilgher» a rendere popolare il teatro di Pirandello: «ho scritto sul Pirandello tanto da mettere insieme un volumetto di duecento pagine e allora le mie affermazioni erano originali e senza esempio: Pirandello era o sopportato amabilmente o apertamente deriso». Della commedia di Pirandello Pensaci, Giacomino! scrisse che «è tutto uno sfogo di virtuosismo, di abilità letteraria, di luccichii discorsivi. I tre atti corrono su un solo binario. I personaggi sono oggetto di fotografia piuttosto che di approfondimento psicologico: sono ritratti nella loro esteriorità più che in una intima ricreazione del loro essere morale. È questa del resto la caratteristica dell'arte di Luigi Pirandello, che coglie della vita la smorfia, più che il sorriso, il ridicolo, più che il comico: che osserva la vita con l'occhio fisico del letterato, più che con l'occhio simpatico dell'uomo artista e la deforma per un'abitudine ironica che è l'abitudine professionale più che visione sincera e spontanea», mentre considerò Liolà  «il prodotto migliore dell'energia letteraria di Luigi Pirandello. In esso il Pirandello è riuscito a spogliarsi delle sue abitudini retoriche. Il Pirandello è un umorista per partito preso troppo spesso la prima intuizione dei suoi lavori viene a sommergersi in una palude retorica di una moralità inconsciamente predicatoria, e di molta verbosità inutile».  Il fu Mattia Pascal, secondo Gramsci, è una sorta di prima stesura del Liolà che, liberato dalla zavorra moralistica della vita, si è rinnovato diventando una pura rappresentazione, «una farsa che si riattacca ai drammi satireschi della Grecia antica, e che ha il suo corrispondente pittorico nell'arte figurativa vascolare  è una vita ingenua, rudemente sincera una efflorescenza di paganesimo naturalistico, per il quale la vita, tutta la vita è bella, il lavoro è un'opera lieta, e la fecondità irresistibile prorompe da tutta la materia organica».  Severo fu invece il giudizio sul Così è (se vi pare): dalla tesi pseudo-logistica che la verità in sé non esista, Pirandello «non ha saputo trarre dramma e neppure motivo a rappresentazione viva e artistica di caratteri, di persone vive che abbiano un significato fantastico, se non logico. I tre atti di Pirandello sono un semplice fatto di letteratura [puro e semplice aggregato di parole che non creano né una verità né un'immagine il vero dramma l'autore l'ha solo adombrato, l'ha accennato: è nei due pseudopazzi che non rappresentano però la loro vera vita, l'intima necessità dei loro atteggiamenti esteriori, ma sono presentati come pedine della dimostrazione logica». Rivolgendosi ai giovani, scrisse da solo il numero unico del giornale dei giovani socialisti La Città future. Qui mostra la sua intransigenza politica, la sua ironia, anche contro i socialisti riformisti, il fastidio verso ogni espressione retorica ma anche la sua formazione idealistica, i suoi debiti culturali nei confronti di Croce, superiori perfino a quelli dovuti a Marx: «in quel tempo»scriverà«il concetto di unità di teoria e pratica, di filosofia e politica, non era chiaro in me e io ero tendenzialmente crociano». Lo zar di Russia Nicola II è facilmente rovesciato da pochi giorni di manifestazioni popolari, per lo più spontanee, che chiedono pane e la fine dell'autocrazia: viene instaurato un moderato governo liberale e, insieme, si ricostituiscono i Soviet, forme di rappresentanza su base popolare già creati nella precedente Rivoluzione russa del 1905; le notizie giungono in Italia parziali e confuse: i quotidiani «borghesi» sostengono che si tratta dell'avviamento di un processo di democratizzazione in Russia, sull'esempio della grande Rivoluzione francese, mentre Gramsci è convinto che «la rivoluzione russa è un atto proletario ed essa naturalmente deve sfociare nel regime socialista  i rivoluzionari socialisti non possono essere giacobini: essi in Russia hanno solo attualmente il compito di controllare che gli organismi borghesi non facciano essi del giacobinismo». Con il ritorno in Russia di Lenin, che pone subito il problema della pace immediata e della consegna del potere ai Soviet, la lotta politica si radicalizza. Gramsci è convinto che Lenin abbia «suscitato energie che più non morranno. Egli e i suoi compagni bolscevichi sono persuasi che sia possibile in ogni momento realizzare il socialismo». Gramsci nega esplicitamente la necessità dell'esistenza di condizioni obiettive affinché una rivoluzione trionfi, quando scrive che i bolscevichi «sono nutriti di pensiero marxista. Sono rivoluzionari, non evoluzionisti. E il pensiero rivoluzionario nega il tempo come fattore di progresso. Nega che tutte le esperienze intermedie tra la concezione del socialismo e la sua realizzazione debbano avere nel tempo e nello spazio una riprova assoluta e integrale». È l'anticipazione dell'articolo, più famoso, che scriverà subito dopo la notizia del successo della Rivoluzione d'ottobre.  Anche in Italia la guerra interminabile, costata già centinaia di migliaia di morti e di mutilati, la penuria dei generi alimentari, la sconfitta di Caporetto e la stessa eco provocata dalla rivoluzione russa portarono a insofferenze che a Torino sfociarono in un'autentica sommossa spontanea duramente repressa dal governo: oltre 50 morti, più di duecento feriti, la città dichiarata zona di guerra con la conseguente applicazione della legge marziale, arresti a catena che colpirono non solo i diretti responsabili ma, indiscriminatamente, anche gli elementi politici d'opposizione e segnatamente l'intero nucleo della sezione socialista, con l'accusa di istigazione alla rivoluzione. In conseguenza dell'emergenza venutasi a creare, la direzione della Sezione socialista torinese venne assunta da un comitato di dodici persone, del quale fece parte anche Gramsci, il quale rimane l'unico redattore de Il Grido del Popolo che cesserà le pubblicazioni. I bolscevichi avevano preso il potere in Russia ma per settimane in Europa giunsero solo notizie deformate, confuse e censurate, finché l'edizione nazionale dell'Avanti! uscì con un editoriale dal titolo La rivoluzione contro il Capitale, firmato da Gramsci: «La rivoluzione dei bolscevichi è materiata di ideologia più che di fatti essa è la rivoluzione contro il Capitale di Marx. Il Capitale di Marx era, in Russia, il libro dei borghesi, più che dei proletari. Era la dimostrazione critica della fatale necessità che in Russia si formasse una borghesia, si iniziasse un'era capitalistica, si instaurasse una civiltà di tipo occidentale prima che il proletariato potesse neppure pensare alla sua riscossa, alle sue rivendicazioni di classe, alla sua rivoluzione. I fatti hanno superato le ideologie. I fatti hanno fatto scoppiare gli schemi critici entro i quali la storia della Russia avrebbe dovuto svolgersi secondo i canoni del materialismo storico  se i bolscevichi rinnegano alcune affermazioni del Capitale, non ne rinnegano il pensiero immanente, vivificatore. Essi non sono «marxisti», ecco tutto; non hanno compilato sulle opere del Maestro una dottrina esteriore di affermazioni dogmatiche e indiscutibili. Vivono il pensiero marxista, quello che non muore mai, che è la continuazione del pensiero idealistico italiano e tedesco, che in Marx si era contaminato di incrostazioni positivistiche e naturalistiche». In realtà Marx, almeno negli ultimi anni, non aveva escluso che un Paese arretrato potesse giungere al socialismo saltando fasi di sviluppo capitalistico: ma qui interessa rilevare tanto la visione di Gramsci ancora idealistica, volontaristica, dell'azione politica, quanto la critica che di fatto Gramsci rivolgeva ai dirigenti socialisti europei, e italiani in particolare, di concepire lo sviluppo storico in modo meccanicistico.  Finita la guerra e usciti dal carcere i dirigenti torinesi del partito, Gramsci lavorò unicamente all'edizione piemontese dell'Avanti!, che allora si stampava in via Arcivescovado 3, insieme con alcuni giovani colleghi: Giuseppe Amoretti, Alfonso Leonetti, Mario Montagnana, Felice Platone; ma egli e altri giovani socialisti torinesi, come Tasca, Togliatti e Terracini, intendevano ormai esprimere, dopo l'esperienza della rivoluzione russa, esigenze nuove nell'attività politica, che non sentivano rappresentate dalla Direzione nazionale del partito: «L'unico sentimento che ci unisse, in quelle nostre riunioni, era quello suscitato da una vaga passione di una vaga cultura proletaria; volevamo fare, fare, fare; ci sentivamo angustiati, senza un orientamento, tuffati nell'ardente vita di quei mesi dopo l'armistizio, quando pareva immediato il cataclisma della società italiana». Uscì il primo numero dell'Ordine nuovo con Gramsci segretario di redazione e animatore della rivista. La rivista ebbe un avvio incerto: all'inizio «il programma fu l'assenza di un programma concreto, per una vana e vaga aspirazione ai problemi concreti nessuna idea centrale, nessuna organizzazione intima del materiale letterario pubblicato» Tasca intendeva farne una pubblicazione culturale: «per "cultura" intendeva "ricordare", non intendeva "pensare", e intendeva "ricordare" cose fruste, cose logore, la paccottiglia del pensiero operaio fu una rassegna di cultura astratta, di informazione astratta, con la tendenza a pubblicare novelline orripilanti e xilografie bene intenzionate; ecco cosa fu l'Ordine nuovo nei suoi primi numeri». Gramsci intendeva invece definirlo su posizioni nettamente operaistiche, ponendo all'ordine del giorno la necessità d'introdurre nelle fabbriche italiane nuove forme di potere operaio, i consigli di fabbrica, sull'esempio dei Soviet russi: «Ordimmo, io e Togliatti, un colpo di Stato redazionale; il problema delle commissioni interne fu impostato esplicitamente nel n. 7 della rassegna il problema dello sviluppo della commissione interna divenne problema centrale, divenne l'idea dell'Ordine nuovo; era esso posto come problema fondamentale della rivoluzione operaia, era il problema della "libertà" proletaria. L'Ordine nuovo divenne, per noi e per quanti ci seguivano, "il giornale dei Consigli di fabbrica"; gli operai amarono l'Ordine nuovo perché negli articoli del giornale ritrovavano una parte di se stessi, la parte migliore di se stessi; perché sentivano gli articoli dell'Ordine nuovo pervasi dallo stesso loro spirito di ricerca interiore: "Come possiamo diventar liberi? Come possiamo diventare noi stessi?". Perché gli articoli dell'Ordine nuovo non erano fredde architetture intellettuali, ma sgorgavano dalla discussione nostra con gli operai migliori, elaboravano sentimenti, volontà, passioni reali». Diversamente dalle Commissioni interne, già esistenti all'interno dalle fabbriche, che venivano elette soltanto dagli operai iscritti ai diversi sindacati, i Consigli dovevano essere eletti indistintamente da tutti gli operai e avrebbero dovuto, nel progetto degli ordinovisti, non tanto occuparsi dei consueti problemi sindacali, ma porsi problemi politici, fino al problema della stessa organizzazione, della gestione operaia della fabbrica, sostituendosi al capitalista: nel s, alla FIAT furono eletti i primi Consigli.  La Confindustria, nella sua Conferenza nazionale, espresse chiaramente «la necessità che la borghesia del lavoro attinga in se stessa il mezzo per un'energica azione contro deviazioni e illusioni» e il 20 marzo i tre maggiori industriali torinesi, Olivetti, De Benedetti e Agnelli fecero presente al prefetto Taddei la loro volontà di ricorrere all'arma della serrata delle fabbriche contro «l'indisciplina e le continue esorbitanti pretese degli operai». Così quando in occasione di una controversia sindacale nelle Industrie Metallurgiche tre membri delle commissioni interne furono licenziati e gli operai protestarono con lo sciopero, l'Associazione degli industriali metalmeccanici rispose il 29 marzo con la serrata di tutte le fabbriche torinesi. La lotta si estese fino allo sciopero generale proclamato a Torino  e in alcune province piemontesi, mentre il governo presidiava il capoluogo con migliaia di soldati. I tentativi degli ordinovisti di allargare la protesta, se non in tutta l'Italia, almeno nei maggiori centri industriali del paese, fallì e alla fine d'aprile gli operai furono costretti a riprendere il lavoro senza avere ottenuto nulla.  Lo sciopero fallì per la resistenza degli industriali ma anche per l'isolamento in cui la Camera del Lavoro, controllata dai socialisti riformisti, contrari alla costituzione dei Consigli operai, e lo stesso Partito socialista lasciarono i lavoratori torinesi; l'8 maggio Gramsci pubblicò sull'Ordine Nuovo una sua relazione, approvata dalla Federazione torinese, che denunciava l'inefficienza e l'inerzia del Partito. Dopo aver sostenuto che era matura la trasformazione dell'«ordine attuale di produzione e di distribuzione» in un nuovo ordine che desse «alla classe degli operai industriali e agricoli il potere di iniziativa nella produzione», alla quale si opponevano gli industriali e i proprietari terrieri, appoggiati dallo Stato, Gramsci rilevava che «le forze operaie e contadine mancano di coordinamento e di concentrazione rivoluzionaria perché gli organismi direttivi del Partito socialista hanno rivelato di non comprendere assolutamente nulla della fase di sviluppo che la storia nazionale e internazionale attraversa nell'attuale periodo il Partito socialista assiste da spettatore allo svolgersi degli eventi, non ha mai un'opinione sua da esprimere non lancia parole d'ordine che possano essere raccolte dalle masse, dare un indirizzo generale, unificare e concentrare l'azione rivoluzionaria il Partito socialista è rimasto, anche dopo il Congresso di Bologna, un mero partito parlamentare, che si mantiene immobile entro i limiti angusti della democrazia borghese».   Il numero dell'11 dicembre 1920 Rilevò la mancanza di omogeneità nella composizione del partito, in cui continuavano a essere presenti riformisti e «opportunisti», contrari agli indirizzi della III Internazionale. Non solo: «mentre la maggioranza rivoluzionaria del partito non ha avuto una espressione del suo pensiero e un esecutore della sua volontà nella direzione e nel giornale, gli elementi opportunisti invece si sono fortemente organizzati e hanno sfruttato il prestigio e l'autorità del Partito per consolidare le loro posizioni parlamentari e sindacali se il Partito non realizza l'unità e la simultaneità degli sforzi, se il Partito si rivela un mero organismo burocratico, senza anima e senza volontà, la classe operaia istintivamente tende a costituirsi un altro partito e si sposta verso tendenze anarchiche ».  Il Partito socialista non svolge alcuna funzione di educazione e di spiegazione di quanto sta avvenendo nella scena internazionale, dalla quale esso è assente, non partecipando nemmeno alle riunioni dell'Internazionale comunista, le cui tesi non sono riportate nell'Avanti!. Analogamente, le edizioni socialiste non stampano le pubblicazioni comuniste: «valga per tutte il volume di Lenin Stato e rivoluzione». Occorre pertanto, secondo Gramsci, che il Partito socialista acquisti «una sua figura precisa e distinta: da partito parlamentare piccolo borghese deve diventare il partito del proletariato rivoluzionario che lotta per l'avvenire della società comunista i non comunisti rivoluzionari devono essere eliminati dal Partito ogni avvenimento della vita proletaria nazionale e internazionale deve essere immediatamente commentata per trarne argomenti di propaganda comunista e di educazione delle coscienze rivoluzionarie le sezioni devono promuovere in tutte le fabbriche, nei sindacati, nelle cooperative, nelle caserme la costituzione di gruppi comunisti l'esistenza di un Partito comunista coeso e fortemente disciplinato [.è la condizione fondamentale e indispensabile per tentare qualsiasi esperimento di Soviet il Partito deve lanciare un manifesto nel quale la conquista rivoluzionaria del potere politico sia posta in modo esplicito ». La risoluzione dell'Internazionale comunista che chiedeva ai partiti socialisti l'allontanamento dei riformisti, venne disattesa dal Partito Socialista Italiano. Infatti, a dispetto dell'approvazione e dell'avallo ottenuto dagli ordinovisti da parte di Lenin nel corso del II Congresso dell'Internazionale, alla quale il PSI aveva aderito con il congresso di Bologna tenuto nell'ottobre del 1919, i vecchi dirigenti del partito erano riluttanti di fronte alla svolta politica e sociale realizzatasi nel dopoguerra.  In Italia, le rivendicazioni salariali, rese necessarie dall'elevato indice d'inflazione, non trovavano accoglienza presso gli industriali. Il 30 agosto 1920, a Milano, a seguito della serrata dell'Alfa Romeo, 300 fabbriche furono occupate dagli operai: la FIOM appoggiò l'iniziativa, ordinando l'occupazione di tutte le fabbriche metalmeccaniche d'Italia, con la speranza che una tale, estrema iniziativa provocasse l'intervento del governo a favore di una soluzione delle trattative. All'inizio di settembre tutte le maggiori fabbriche d'Italia erano occupate da mezzo milione di operai, parte dei quali armati, sia pure in modo rudimentale; alla FIAT di Torino, tuttavia, ci fu una novità: dell'ufficio di Giovanni Agnelli prese possesso l'operaio comunista Giovanni Parodi e i Consigli di fabbrica decisero di continuare la produzione, per dimostrare che una grande fabbrica poteva funzionare anche in assenza del proprietario.   Giovanni Giolitti Di fronte alla neutralità del governo Giolitti e alla decisione della Confindustria di non cedere, il 10 settembre, nell'assemblea milanese che vide riuniti i dirigenti del Partito socialista e della Camera del Lavoro, questi ultimi si dimisero lasciando la gestione della difficile situazione al Partito, che tuttavia non aveva alcuna intenzione di prolungare l'agitazione: la proposta estrema dell'allargamento delle occupazioni a tutte le fabbriche del paese e alle campagne fu respinta dalla maggioranza dei rappresentanti. Un accordo salariale raggiunto con la mediazione di Giolitti pose termine, alla fine di settembre, alle occupazioni delle fabbriche.  Quell'esperienza dimostrò tanto la mancanza di una strategia dei dirigenti socialisti quanto l'impreparazione degli stessi operai a iniziative rivoluzionarie, per le quali occorrevano organizzazione e disciplina. In previsione del prossimo XVII Congresso del Partito socialista, Gramsci scrisse che «la costituzione del Partito comunista crea le condizioni per intensificare e approfondire l'opera nostra: liberati dal peso morto degli scettici, dei chiacchieroni, degli irresponsabili, liberati dall'assillo di dover continuamente, nel seno del Partito, lottare contro i riformisti e gli opportunisti, di dover sventare le loro insidie, di dover analizzare e criticare i loro atteggiamenti equivoci e la loro fraseologia pseudo-rivoluzionaria, noi potremo dedicarci interamente al lavoro positivo, all'espansione del nostro programma di rinnovamento, di organizzazione, di risveglio delle coscienze e delle volontà».  NSi riunì a Milano il gruppo favorevole alla costituzione di un partito comunista e Amadeo Bordiga, Luigi Repossi, Bruno Fortichiari, Gramsci, Nicola Bombacci, Francesco Misiano e Umberto Terracini costituirono il Comitato provvisorio della frazione comunista del Partito Socialista.  La fondazione del Partito comunista  Il congresso di Livorno La scissione si realizzò, nel Teatro San Marco di Livorno, con la nascita del «Partito Comunista d'Italia, sezione italiana dell'Internazionale». Il comitato centrale fu composto dagli astensionisti (Amadeo Bordiga, Ruggero Grieco, Giovanni Parodi, Cesare Sessa, Ludovico Tarsia e Bruno Fortichiari), dagli ex-massimalisti (Nicola Bombacci, Ambrogio Belloni, Egidio Gennari, Francesco Misiano, Anselmo Marabini, Luigi Repossi e Luigi Polano) e dagli ordinovisti Gramsci e Terracini. Diresse l'Ordine nuovo, divenuto ora uno dei quotidiani comunisti insieme con Il Lavoratore di Trieste e Il Comunista di Roma, quest'ultimo diretto da Togliatti. Non venne eletto deputato alle elezioni: Gramsci non ha capacità oratorie, è ancora giovane e anche la sua conformazione fisica non lo agevola nell'apprezzamento di molti elettori.  Alla fine di maggio partì per Mosca, designato a rappresentare il Partito italiano nell'esecutivo dell'Internazionale comunista. Vi arrivò già malato e nell'estate fu ricoverato in un sanatorio per malattie nervose di Mosca. Qui conobbe una degente russa, Eugenia Schucht, membro del Partito, figlia di Apollon Schucht, dirigente del Pcus e amico personale di Lenin, che aveva vissuto alcuni anni in Italia e, attraverso di lei, la sorella Giulia (Julka)  che, violinista, aveva abitato diversi anni a Roma diplomandosi al Conservatorio Santa Cecilia.  Giulia, ventiseienne, è bella, alta, ha un aspetto romantico; Gramsci ne è conquistato: ricorderà «il primo giorno che non osavo entrare nella tua stanza perché mi avevi intimidito al giorno che sei partita a piedi e io ti ho accompagnato fino alla grande strada attraverso la foresta e sono rimasto tanto tempo fermo per vederti allontanare tutta sola, col tuo carico da viandante, per la grande strada, verso il mondo grande e terribile ho molto pensato a te, che sei entrata nella mia vita e mi hai dato l'amore e mi hai dato ciò che mi era sempre mancato e mi faceva spesso cattivo e torbido.  E quell'immagine di lei, viandante in un mondo grande e terribile, con il suo senso doloroso di distacco, ritornerà ancora dal carcere: «Ricordi quando sei ripartita dal bosco d'argento ti ho accompagnata fino all'orlo della strada maestra e sono rimasto a lungo a vederti allontanare così ti vedo sempre mentre ti allontani a passi brevi, col violino in una mano e nell'altra la tua borsa da viaggio, così pittoresca». Si sposano e avranno due figli, Delio e Giuliano. Il figlio di quest'ultimo porta il nome del nonno, vive a Mosca e pratica la musica medievale. Giulia membro della OGPU, il servizio di Sicurezza sovietico. La moglie di Gramsci e i figli Delio e Giuliano A differenza di Bordiga, tutto inteso a salvaguardare la «purezza» programmatica del partito, e perciò contrario a qualunque iniziativa al di fuori della dittatura del proletariato, Gramsci guardava anche a obiettivi democratici, intermedi, raggiungibili utilizzando le contraddizioni presenti negli strati sociali e le forze che potevano rappresentare elementi di rottura, come il movimento sindacale cattolico di Guido Miglioli e l'intellettualità progressista liberale di cui Piero Gobetti è allora tra i maggiori rappresentanti. Tuttavia nei suoi scritti fino al 1926 ribadisce che l'obiettivo finale era la eliminazione dello stato borghese e la dittatura del proletariato e anche nei suoi scritti successivi non si riscontrano critiche al regime sovietico.  Nel III Congresso dell'Internazionale comunista, di fronte al riflusso dell'ondata rivoluzionaria rappresentata dalle sconfitte delle esperienze comuniste in Germania e in Ungheria, si decise la tattica del fronte unito con la socialdemocrazia. Bordiga e la maggioranza dei dirigenti comunisti italiani si oppose, elaborando le Tesi di Roma, base programmatica del II Congresso del Partito, tenuto a Roma. Gramsci vi aderì ma scrisse di aver «accettato le tesi di Amadeo perché esse erano presentate come una opinione per il Quarto Congresso [dell'Internazionale comunista] e non come un indirizzo di azione. Ritenevamo di mantenere così unito il partito attorno al suo nucleo fondamentale, pensavamo che si potesse fare ad Amadeo questa concessione senza nuove crisi e nuove minacce di scissione nel seno del nostro movimento». Nel IV Congresso dell'Internazionale, di fronte all'avvento al potere di Mussolini, ai delegati comunisti italiani fu posta con ancora maggior forza la necessità di fondersi con corrente socialista degli internazionalisti, capeggiata da Giacinto Menotti Serrati, e di costituire un nuovo Esecutivo, mettendo in minoranza Bordiga, sempre contrario a ogni accordo. Lo stesso Bordiga fu arrestato al suo rientro in Italia nel febbraio 1923 e, in settembre, a Milano, furono incarcerati anche i rappresentanti del nuovo Esecutivo: Gramsci restò così il massimo dirigente del Partito e si trasferì a Vienna per seguire più da vicino la situazione italiana. Fu allora che egli ritenne necessario rompere con la politica di Bordiga: «Il suo stesso carattere inflessibile e tenace fino all'assurdo ci obbliga a prospettarci il problema di costruire il partito ed il centro di esso anche senza di lui e contro di lui. Penso che sulle quistioni di principio non dobbiamo più fare compromessi come nel passato: vale meglio la polemica chiara, leale, fino in fondo, che giova al partito e lo prepara ad ogni evenienza». Uscì a Milano il primo numero del nuovo quotidiano comunista l'Unità e dal primo marzo la nuova serie del quindicinale l'Ordine nuovo. Il titolo del giornale, da lui scelto, venne giustificato dalla necessità dell'«unità di tutta la classe operaia intorno al partito, unità degli operai e dei contadini, unità del Nord e del Mezzogiorno, unità di tutto il popolo italiano nella lotta contro il fascismo».Alle elezioni venne eletto deputato al parlamento, potendo così rientrare a Roma, protetto dall'immunità parlamentare. Quello stesso mese, nei dintorni di Como, si tenne un convegno illegale dei dirigenti delle Federazioni comuniste italiane: pubblicamente, si fingevano dipendenti di un'azienda milanese in gita turistica, con tanto di pubblici discorsi fascisti e inni a Mussolini, mentre, a parte, discutevano dei problemi del partito.  Nel convegno si affrontò il «caso Bordiga», il quale aveva rifiutato la candidatura al Parlamento, era in rotta con la maggioranza dell'Internazionale e rifiutava ogni azione politica comune con le altre forze politiche di sinistra. Delle tre mozioni presentate, che rispecchiavano le tre correnti in seno al Partito, la corrente di destra di Tasca, di centro di Gramsci e Togliatti, e di sinistra di Bordiga, questa raccolse l'adesione della grande maggioranza dei delegati, confermando la notevole importanza di cui il rivoluzionario napoletano godeva nel Partito.  Il 10 giugno un gruppo di fascisti rapì e uccise il deputato socialista Giacomo Matteotti; sembrò allora che il fascismo stesse per crollare per l'indignazione morale che in quei giorni percorse il Paese, ma non fu così; l'opposizione parlamentare scelse la linea sterile di abbandonare il Parlamento, dando luogo alla cosiddetta Secessione dell'Aventino: i liberali speravano in un appoggio della Monarchia, che non venne, i cattolici erano ostili tanto ai fascisti che ai socialisti e questi ultimi erano ostili a tutti, comunisti compresi. Gramsci avanzò al «Comitato dei sedici»il nucleo dirigente dei gruppi aventinianila proposta di proclamare lo sciopero generale che però fu respinta; i comunisti uscirono allora dal «Comitato delle opposizioni» aventiniane il quale, secondo Gramsci, non aveva alcuna volontà di agire: ha una «paura incredibile che noi prendessimo la mano e quindi manovra per costringerci ad abbandonare la riunione». Giacomo Matteotti Malgrado le divisioni dell'opposizione antifascista, Gramsci credeva che la caduta del regime fosse imminente: «Il regime fascista muore perché non solo non è riuscito ad arrestare, ma anzi ha contribuito ad accelerare la crisi delle classi medie iniziatasi dopo la guerra. L'aspetto economico di questa crisi consiste nella rovina della piccola e media azienda il monopolio del credito, il regime fiscale, la legislazione sugli affitti hanno stritolato la piccola impresa commerciale e industriale: un vero e proprio passaggio di ricchezza si è verificato dalla piccola e media alla grande borghesia. L'apparato industriale ristretto ha potuto salvarsi dal completo sfacelo solo per un abbassamento del livello di vita della classe operaia premuta dalla diminuzione dei salari, dall'aumento della giornata di lavoro. La disgregazione sociale e politica del regime fascista ha avuto la sua piena manifestazione di massa nelle elezioni del 6 aprile. Il fascismo è stato messo nettamente in minoranza nella zona industrial. Le elezioni del 6 aprile segnarono l'inizio di quella ondata democratica che culminò nei giorni immediatamente successivi all'assassinio dell'on. Matteotti le opposizioni avevano acquistato dopo le elezioni un'importanza politica enorme; l'agitazione da esse condotta nei giornali e nel Parlamento per discutere e negare la legittimità del governo fascista si ripercuoteva nel seno dello stesso Partito nazionale fascista, incrinava la maggioranza parlamentare. Di qui l'inaudita campagna di minacce contro le opposizioni e l'assassinio del deputato unitario”. “Il delitto Matteotti dette la prova provata che il Partito fascista non riuscirà mai a diventare un normale partito di governo, che Mussolini non possiede dello statista e del dittatore altro che alcune pittoresche pose esteriori; egli non è un elemento della vita nazionale, è un fenomeno di folklore paesano, destinato a passare alla storia nell'ordine delle diverse maschere provinciali italiane, più che nell'ordine dei Cromwell, dei Bolívar, dei Garibaldi». S'ingannava, perché l'inerzia dell'opposizione non riuscì a dare alternative del blocco sociale in cui la piccola borghesia teme il «salto nel buio» della caduta del regime e i fascisti riprendono coraggio e ricominciano le violenze squadriste: in una delle tante viene aggredito anche Gobetti. E dopo il 12 settembre, quando il militante comunista Giovanni Corvi uccide in un tram il deputato fascista Armando Casalini, per vendicare la morte di Matteotti, la repressione s'inasprisce. Il 20 ottobre Gramsci propose vanamente che l'opposizione aventiniana si costituisca in «Antiparlamento», in modo da segnare nettamente la distanza e svuotare di significato un Parlamento di soli fascisti; ipartì per la Sardegna, per intervenire al Congresso regionale del partito e per rivedere i famigliari. Il 6 novembre si congedò dalla madre, che non avrebbe più rivisto. Il deputato comunista Repossi rientrò in Parlamento, dove sedevano solo i deputati fascisti e i loro alleati, per commemorare Matteotti a nome di tutto il suo partito; il 26 vi rientrò anche tutto il gruppo parlamentare comunista, a segnare l'inutilità dell'esperienza aventiniana. Il quotidiano di Giovanni Amendola Il Mondo pubblicò le dichiarazioni di Cesare Rossi, già capo ufficio stampa di Mussolini, a proposito del delitto Matteotti: «Tutto quanto è successo è avvenuto sempre per la volontà diretta o per l'approvazione o per la complicità del duce» e Mussolini, in un discorso rimasto famoso, a confermare quella testimonianza, dichiara alla Camera dei deputati di assumersi «la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto», dando il via a una nuova azione repressiva.  In febbraio Gramsci andò a Mosca, per stare con la moglie e conoscere finalmente il figlio Delio. Tornato in Italia a maggio, il 16 tenne il suo primoe unicodiscorso in Parlamento, davanti all'ex compagno di partito Mussolini, ora Primo ministro, che aveva descritto l'anno prima come un capo che «è divinizzato, è dichiarato infallibile, è preconizzato organizzatore e ispiratore di un rinato Sacro Romano Impero. Conosciamo quel viso: conosciamo quel roteare degli occhi nelle orbite che nel passato dovevano, con la loro ferocia meccanica, far venire i vermi alla borghesia e oggi al proletariato. Conosciamo quel pugno sempre chiuso alla minaccia. Mussolini è il tipo concentrato del piccolo-borghese italiano, rabbioso, feroce impasto di tutti i detriti lasciati sul suolo nazionale da vari secoli di dominazione degli stranieri e dei preti: non poteva essere il capo del proletariato; divenne il dittatore della borghesia, che ama le facce feroci quando ridiventa borbonica». Con il pretesto di colpire la Massoneria, il governo aveva predisposto un disegno di legge per disciplinare l'attività di associazioni, enti e istituti: continuamente interrotto, Gramsci respinse il pretesto che il governo si era dato, «perché la Massoneria passerà in massa al Partito fascista e ne costituirà una tendenza, è chiaro che con questa legge voi sperate di impedire lo sviluppo di grandi organizzazioni operaie e contadine».  E ironizzando: «Qualche fascista ricorda ancora nebulosamente gli insegnamenti dei suoi vecchi maestri, di quando era rivoluzionario e socialista, e crede che una classe non possa rimanere tale permanentemente e svilupparsi fino alla conquista del potere, senza che essa abbia un partito e un'organizzazione che ne riassuma la parte migliore e più cosciente. C'è qualcosa di vero, in questa torbida perversione degli insegnamenti marxisti».  Concluse: «Voi potete conquistare lo Stato, potete modificare i codici, potete cercar di impedire alle organizzazioni di esistere nella forma in cui sono esistite fino adesso ma non potete prevalere sulle condizioni obbiettive in cui siete costretti a muovervi. Voi non farete che costringere il proletariato a ricercare un indirizzo diverso da quello fin oggi più diffuso nel campo dell'organizzazione di massa. Ciò noi vogliamo dire al proletariato e alle masse contadine italiane, da questa tribuna: che le forze rivoluzionarie italiane non si lasceranno schiantare, il vostro torbido sogno non riuscirà a realizzarsi». Si svolse clandestinamente a Lione il III Congresso del Partito. Vi parteciparono 70 delegati, con tutti i maggiori responsabili, Bordiga, Gramsci, Tasca, Togliatti, Grieco, Leonetti, Scoccimarro: vi era anche Serrati, che aveva lasciato da poco il Partito socialista di cui era stato a lungo dirigente di primo piano. Assisteva, a nome dell'Internazionale, Jules Humbert-Droz. Gramsci presentò le Tesi congressuali elaborate insieme con Togliatti. Con un capitalismo debole e l'agricoltura base dell'economia nazionale, in Italia si assiste al compromesso fra industriali del Nord e proprietari fondiari del Sud, ai danni degli interessi generali della maggioranza della popolazione. Il proletariato, in quanto forza sociale omogenea e organizzata rispetto alla piccola borghesia urbana e rurale, che ha interessi differenziati, viene visto, nelle Tesi, «come l'unico elemento che per la sua natura ha una funzione unificatrice e coordinatrice di tutta la società.» Secondo Gramsci il fascismo non è, come invece ritiene Bordiga, l'espressione di tutta la classe dominante, ma è il frutto politico della piccola borghesia urbana e della reazione degli agrari che ha consegnato il potere alla grande borghesia, e la sua tendenza imperialistica è l'espressione della necessità, da parte delle classi industriali e agrarie, «di trovare fuori del campo nazionale gli elementi per la risoluzione della crisi della società italiana» che tuttavia permette, per la sua natura oppressiva e reazionaria, una soluzione rivoluzionaria delle contraddizioni sociali e politiche; le due forze sociali idonee a dar luogo a questa soluzione sono il proletariato del Nord e i contadini del Mezzogiorno. A questo scopo, il Partito andrà bolscevizzato, ossia organizzato per cellule di fabbrica caratterizzate da una "disciplina di ferro" negando al suo interno la possibilità dell'esistenza delle frazioni.  Il Congresso approvò le Tesi a grande maggioranza (oltre il 90%) ed elesse il Comitato centrale con Gramsci segretario del Partito. Da allora, la sinistra comunista di Bordiga non ebbe più un ruolo influente nel Partito. Le Tesi di Lione, realizzate da Gramsci, ribadirono con una certa durezza le posizioni del Pcd’I «la socialdemocrazia sebbene abbia ancora la sua base sociale, per gran parte, nel proletariato per quanto riguarda la sua ideologia e la sua funzione politica cui adempie, deve essere considerata non come un'ala destra del movimento operaio, ma come un'ala sinistra della borghesia e come tale deve essere smascherata». In questa relazione venne sviluppata la cosiddetta bolscevizzazione del partito: «spetti al partito russo una funzione predominante e direttiva nella costruzione di una Internazionale communista. La organizzazione di un partito bolscevico deve essere, in ogni momento della vita del partito, una organizzazione centralizzata, diretta dal Comitato centrale non solo a parole, ma nei fatti. Una disciplina proletaria di ferro deve regnare nelle sue file. La centralizzazione e la compattezza del partito esigono che non esistano nel suo seno gruppi organizzati i quali assumano carattere di frazione. Un partito bolscevico si differenzia per questo profondamente dai partiti socialdemocratici».Tornato a Romada via Vesalio si era trasferito in via Morgagniebbe il tempo di passare alcuni mesi con la famigliala moglie Giulia e il piccolo Delio, oltre alle cognate Eugenia e Tatianache abitano tuttavia in un altro appartamento, in via Trapani: le squadre fasciste, superato da tempo lo smarrimento provocato dal delitto Matteotti, avevano piena libertà d'azione e non era prudente coinvolgere i familiari in loro possibili aggressioni; a Firenze, era stato ucciso l'ex-deputato socialista Gaetano Pilati, la stessa casa di Gramsci era stata messa a soqquadro dalla polizia il 20 ottobre. Mentre gli esponenti dell'opposizione antifascista prendevano la via dell'emigrazione Gobetti, che muore ia Parigi, in conseguenza delle bastonate squadriste, Amendola, Salveminiun processo farsa condannava a una pena simbolica gli assassini di Matteotti, difesi dal capo-squadrista Roberto Farinacci.  La moglie Giulia, che aspettava il secondo figlio Giuliano, lasciò l'Italia e il mese dopo fu la volta della cognata Eugenia a tornare a Mosca con il figlio Delio: Gramsci non l'avrebbe più rivisto.   Giustino Fortunato Elaborando temi già affrontati nelle Tesi di Lione, in settembre Gramsci iniziò a scrivere un saggio sulla questione meridionale, intitolato Alcuni temi sulla quistione meridionale, in cui analizzò il periodo dello sviluppo politico italiano dal 1894, anno dei moti dei contadini siciliani, seguito nel 1898 dall'insurrezione di Milano repressa a cannonate dal governo Di Rudinì. Secondo Gramsci, la borghesia italiana, impersonata politicamente da Giovanni Giolitti, di fronte all'insofferenza delle classi emarginate dei contadini meridionali e degli operai del Nord, piuttosto che allearsi con le forze agrarie, cosa che avrebbe dovuto comportare una politica di libero scambio e di bassi prezzi industriali, scelse di favorire il blocco industriale-operaio, con la conseguente scelta del protezionismo doganale, unita a concessione di libertà sindacali.  Di fronte alla persistenza dell'opposizione operaia, manifestatasi anche contro i dirigenti socialisti riformisti, Giolitti cercò un accordo con i contadini cattolici del Centro-Nord. Il problema è allora di perseguire una politica di opposizione che rompa l'alleanza borghesia-contadini, facendo convergere questi ultimi in un'alleanza con la classe operaia.  La società meridionale, secondo Gramsci, è costituita da tre classi fondamentali: braccianti e contadini poveri, politicamente inconsapevoli; piccoli e medi contadini, che non lavorano la terra ma dalla quale ricavano un reddito che permette loro di vivere in città, spesso come impiegati statali: costoro disprezzano e temono il lavoratore della terra, e fanno da intermediari al consenso fra i contadini poveri e la terza classe, costituita dai grandi proprietari terrieri, i quali a loro volta contribuiscono alla formazione dell'intellettualità nazionale, con personalità del valore di Croce e di Fortunato e sono, con quelli, i principali e più raffinati sostenitori della conservazione di questo blocco agrario. Croce e Fortunato sono, per Gramsci, «i reazionari più operosi della penisola», «le chiavi di volta del sistema meridionale e, in un certo senso, sono le due più grandi figure della reazione italiana». Per poter spezzare questo blocco occorrerebbe la formazione di un ceto di intellettuali medi che interrompa il flusso del consenso fra le due classi estreme, favorendo così l'alleanza dei contadini poveri con il proletariato urbano. Tuttavia Gramsci non aveva un'opinione positiva sui contadini, scrisse: «Il solo organizzatore possibile della massa contadina meridionale è l'operaio industriale, rappresentato dal nostro partito» «Non ho mai voluto mutare le mie opinioni, per le quali sarei disposto a dare la vita e non solo a stare in prigione vorrei consolarti di questo dispiacere che ti ho dato: ma non potevo fare diversamente. La vita è così, molto dura, e i figli qualche volta devono dare dei grandi dolori alle loro mamme, se vogliono conservare il loro onore e la loro dignità di uomini»  (Antonio Gramsci, Lettera alla madre) In Unione Sovietica è in corso la lotta fra la maggioranza di Stalin e Bucharin e la minoranza di sinistra del Partito comunista, guidata da Trotskij, Zinov'ev e Kamenev, che critica la politica della NEP, la quale favorisce i contadini ricchi a svantaggio degli operai, e la rinuncia alla rivoluzione socialista mondiale attraverso la costruzione del «socialismo in un solo paese» che porterebbe all'involuzione del movimento rivoluzionario. Il dissidio, che porta all'esclusione di Zinov'ev dall'Ufficio politico del Partito sovietico, si era fatto sempre più aspro con la costituzione in frazione della minoranza e si era esteso anche all'interno del Partito comunista tedesco, provocando una scissione. Il New York Times, forse su ispirazione di Trotsky, pubblicava il testamento di Lenin, con i suoi noti rilievi sul carattere di Stalin e sul pericolo rappresentato dal troppo potere che la carica di segretario del Partito gli concedeva. Su incarico dell'Ufficio politico, Gramsci scrisse a metà ottobre una lettera al Comitato centrale del Partito sovietico. Egli si mostra preoccupato per l'acutezza delle polemiche che potrebbero portare a una scissione che «può avere le più gravi ripercussioni, non solo se la minoranza di opposizione non accetta con la massima lealtà i principi fondamentali della disciplina rivoluzionaria di Partito, ma anche se essa, nel condurre la sua lotta, oltrepassa certi limiti che sono superiori a tutte le democrazie formali». Riconosciuto ai dirigenti sovietici il merito di essere stati «l'elemento organizzatore e propulsore delle forze rivoluzionarie di tutti i paesi», li rimprovera di star «distruggendo l'opera vostra, voi degradate e correte il rischio di annullare la funzione dirigente che il partito comunista dell'URSS aveva conquistato per l'impulso di Lenin: ci pare che la passione violenta delle quistioni russe vi faccia perdere di vista gli aspetti internazionali delle quistioni russe stesse, vi faccia dimenticare che i vostri doveri di militanti russi possono e debbono essere adempiuti solo nel quadro degli interessi del proletariato internazionale. Nel merito del fondamento del contrastola contraddizione di un proletariato formalmente «dominante» in URSS, ma in condizioni economiche molto inferiori alla classe «dominata»Gramsci appoggia la posizione della maggioranza, rilevando che «è facile fare della demagogia su questo terreno ed è difficile non farla quando la quistione è stata messa nei termini dello spirito corporativo e non in quelli del leninismo, della dottrina dell'egemonia del proletariato è in questo elemento la radice degli errori del blocco delle opposizioni e l'origine dei pericoli latenti che nella sua attività sono contenuti. Nella ideologia e nella pratica del blocco delle opposizioni rinasce in pieno tutta la tradizione della socialdemocrazia e del sindacalismo che ha impedito finora al proletariato occidentale di organizzarsi in classe dirigente».  Gramsci concludeva esortando all'unità: «I compagni Zinov'ev, Trockij, Kamenev hanno contribuito potentemente a educarci per la rivoluzione sono stati tra i nostri maestri. A loro specialmente ci rivolgiamo come ai maggiori responsabili dell'attuale situazione perché vogliamo essere sicuri che la maggioranza del comitato centrale del partito comunista dell'URSS non intenda stravincere nella lotta e sia disposta a evitare le misure eccessive. L'untà del nostro partito fratello di Russia è necessaria per lo sviluppo e il trionfo delle forze rivoluzionarie mondiali; a questa necessità ogni comunista e internazionalista deve essere disposto a fare maggiori sacrifizi. I danni di un errore compiuto dal partito unito sono facilmente superabili; i danni di una scissione o di una prolungata condizione di scissione latente possono essere irreparabili e mortali». Togliatti, allora a Mosca quale rappresentante italiano all'Internazionale, criticò le ultime considerazioni che ripartivano, seppure in modo diseguale, le responsabilità delle due fazioni, credendo ancora nella illusoria possibilità di una compattezza del gruppo dirigente sovietico: a suo avviso, invece, «d'ora in poi l'unità della vecchia guardia leninista non sarà più o sarà assai difficilmente realizzata in modo continuo». Non ci sarà tempo e occasione per approfondire la questione: lo stesso giorno in cui il Comitato centrale comunista doveva riunirsi clandestinamente a Genova, Mussolini subì a Bologna un attentato senza conseguenze personali, che provoca una tale pressione poliziesca da far fallire il convegno. L'attentato Zamboni costituì il pretesto per l'eliminazione degli ultimi, minimi residui di democrazia: il governo sciolse i partiti politici di opposizione e soppresse la libertà di stampa. L'8 novembre, in violazione dell'immunità parlamentare, Gramsci venne arrestato nella sua casa e rinchiuso nel carcere di Regina Coeli. Il giorno successivo fu dichiarato decaduto, insieme agli altri deputati aventiniani. Dopo un periodo di confino a Ustica, dove ritrovò, tra gli altri, Bordiga, fu detenuto nel carcere milanese di San Vittore. Qui ricevette, in agosto, la visita del fratello Mario, le cui scelte politiche erano state opposte alle suegià federale di Varese, ora si occupava di commercioe, soprattutto, quella della cognata Tatiana, la persona che si manterrà sempre, per quanto possibile, in contatto con lui. L'istruttoria andò per le lunghe, perché vi erano difficoltà a montare su di lui accuse credibili: fu anche fatto avvicinare da due agenti provocatoriprima un tale Dante Romani e poi un certo Corrado Melanima senza successo. Il processo a ventidue imputati comunisti, fra i quali Umberto Terracini, Mauro Scoccimarro e Giovanni Roveda, iniziò finalmente a Roma; Mussolini aveva istituito il Tribunale Speciale Fascista. Presidente è un generale, Saporiti, giurati sono cinque consoli della milizia fascista, relatore l'avvocato Buccafurri e accusatore l'avvocato Isgrò, tutti in uniforme; intorno all'aula, «un doppio cordone di militi in elmetto nero, il pugnale sul fianco ed i moschetti con la baionetta in canna» Gramsci è accusato di attività cospirativa, istigazione alla guerra civile, apologia di reato e incitamento all'odio di classe. Il pubblico ministero Isgrò concluse la sua requisitoria con una frase rimasta famosa: «Bisogna impedire a questo cervello di funzionare per venti anni»; e infatti Gramsci venne condannato a venti anni, quattro mesi e cinque giorni di reclusione. Raggiunse il carcere di Turi, in provincia di Bari. Fin da quando si trovava in carcere a Milano, era intenzionato a occuparsi «intensamente e sistematicamente di qualche soggetto» che lo «assorbisse e centralizzasse la sua vita interiore». Il detenuto 7.047 ottenne finalmente l'occorrente per scrivere e iniziò la stesura dei suoi Quaderni del carcere. Il primo quaderno si apre proprio con una bozza di 16 argomenti, alcuni dei quali saranno abbandonati, altri inseriti e altri ancora svolti solo in parte. Caratteristico era il suo modo di lavorare. Quasi tutti i giorni, per alcune ore, camminando all'interno della cella, rifletteva sulle frasi da scrivere e poi si chinava sul tavolino, scrivendo senza sedersi, un ginocchio appoggiato sullo sgabello, per riprendere a camminare e a pensare. A fare da tramite tra Gramsci e il mondo esterno, e in particolare con Sraffa e tramite questi col Pcus e il PCd'I, fu la cognata Tatiana Schucht, essendo la moglie di Gramsci tornata in Unione Sovietica.  Intanto, il Congresso dell'Internazionale comunista, tenutosi a Mosca aveva stabilito l'impossibilità di accordi con la social-democrazia, che veniva anzi assimilata allo stesso fascismo. Era la tesi di Stalin il quale, liquidata l'opposizione di Trockij, eliminava anche l'influenza di Bucharin che, già suo alleato contro la sinistra di Trockij, era rimasto il suo principale oppositore da destra. Al nuovo orientamento dell'Internazionale, riaffermato nel X Plenum del Comitato esecutivo ndovevano adeguarsi i Partiti nazionali, espellendo, se necessario, i dissidenti. Il Partito comunista d'Italia si adeguò alle scelte dell'Internazionale, espellendo Angelo Tasca in settembre e in successione, ma con l'accusa di trotskismo, prima, iBordiga, poi, ifu la volta di Leonetti, Tresso e Ravazzoli. Teneva, durante l'ora d'aria, dei "colloqui-lezioni" con i compagni di partito: non esistono dirette testimonianze delle opinioni espresse da Gramsci riguardo alla «svolta» politica del movimento comunista, ma può costituire un indiretto riferimento un rapporto che un suo compagno di carcere, Athos Lisa, amnistiato, inviò subito al Centro estero comunista. Secondo quella relazione, riferì la teoria della necessità dell'alleanza fra operai del Nord e contadini meridionali che già stava elaborando nei suoi Quaderni: «L'azione per la conquista degli alleati diviene per il proletariato cosa estremamente delicata e difficile. D'altra parte, senza la conquista di questi alleati, è precluso al proletariato ogni serio movimento rivoluzionario». Qui s'intende che il proletariatola classe operaiadebba allearsi con i contadini e la piccola borghesia: «Se si tiene conto delle particolari condizioni nei limiti delle quali va visto il grado di sviluppo politico degli strati contadini e piccoli borghesi in Italia, è facile comprendere come la conquista di questi strati sociali comporti per il partito una particolare azione. La lotta per la conquista diretta del potere è un passo al quale questi strati sociali potranno solo accedere per gradi il primo passo attraverso il quale bisogna condurre questi strati sociali è quello che li porti a pronunciarsi sul problema istituzionale e costituzionale. L'inutilità della Monarchia è ormai compresa da tutti i lavoratori a questo obiettivo deve improntarsi la tattica del partito senza tema di apparire poco rivoluzionario. Deve fare sua prima degli altri partiti in lotta contro il fascismo la parola d'ordine della Costituente». Ma l'azione del partito «deve essere intesa a svalutare tutti i programmi di riforma pacifica dimostrando alla classe lavoratrice come la sola soluzione possibile in Italia risieda nella rivoluzione proletaria».  La richiesta di una Costituente, e dunque di un'iniziativa politica che si ponesse obiettivi intermedi, avrebbe comportato necessariamente una convergenza, per quanto temporanea, con altre forze antifasciste, e se è difficile considerare tale linea politica come «social-democratica», durante le discussioni nel cortile del carcere qualche suo compagno arrivò a sostenere che egli era ormai fuori del Partito comunista. Probabilmente le reazioni di alcuni erano esasperate dal clima di detenzione» ma certo le posizioni dovevano apparire in contrasto con la linea politica indicata in quegli anni dal Partito comunista. È in questo periodo chevenne a contatto con Pertini, esponente del PSI e detenuto anch'egli alla Casa Penale di Turi. I due, nonostante i pensieri politici differenti, divennero grandi amici e Pertini, anche dopo la scarcerazione, ricordò spesso nei suoi discorsi il compagno di prigionia e le tristi condizioni di salute che lo stroncavano. Gramsci, oltre al morbo di Pott di cui soffriva fin dall'infanzia, fu colpito da arteriosclerosi e poté così ottenere una cella individuale; cercò di reagire alla detenzione studiando ed elaborando le proprie riflessioni politiche, filosofiche e storiche, tuttavia le condizioni di salute continuarono a peggiorare e in agosto ebbe un'improvvisa e grave emorragia. Anche la moglie, in Russia, era sofferente di una seria forma di depressione e rare erano le sue lettere al marito che, all'oscuro dei motivi dei suoi lunghi silenzi, sentiva crescere intorno a sé il senso di un opprimente isolamento. Scriveva alla cognata: Non credere che il sentimento di essere personalmente isolato mi getti nella disperazione io non ho mai sentito il bisogno di un apporto esteriore di forze morali per vivere fortemente la mia vita tanto meno oggi, quando sento che le mie forze volitive hanno acquistato un più alto grado di concretezza e di validità. Ma mentre nel passato mi sentivo quasi orgoglioso di sentirmi isolato, ora invece sento tutta la meschinità, l'aridità, la grettezza di una vita che sia esclusivamente volontà. Quando la madre morì, i familiari preferirono non informarlo. Ebbe una seconda grave crisi, con allucinazioni e deliri. Si riprese a fatica, senza farsi illusioni sul suo immediato futuro. Fino a qualche tempo fa io ero, per così dire, pessimista con l'intelligenza e ottimista con la volontà. Oggi non penso più così. Ciò non vuol dire che abbia deciso di arrendermi, per così dire. Ma significa che non vedo più nessuna uscita concreta e non posso più contare su nessuna riserva di forze». Eppure lo stesso codice penale dell'epoca, all'art. 176, prevedeva la concessione della libertà condizionata ai carcerati in gravi condizioni di salute. A Parigi si costituì un comitato, di cui fecero parte, fra gli altri, Rolland e Barbusse, per ottenere la liberazione sua e di altri detenuti politici, ma venne trasferito nell'infermeria del carcere di Civitavecchia e poi nella clinica del dottor Cusumano a Formia, sorvegliato in camera e all'esterno. Mussolini accolse finalmente la richiesta di libertà condizionata, ma Gramsci non rimase libero nei suoi movimenti, tanto che gli fu impedito di andare a curarsi altrove, perché il governo temeva una sua fuga all'estero; solo il poté essere trasferito nella clinica "Quisisana" di Roma, dove giunse in gravi condizioni, poiché oltre al morbo di Pott e all'arteriosclerosi soffriva di ipertensione e di gotta. Passò dalla libertà condizionata alla piena libertà, ma era ormai in gravissime condizioni: morì di emorragia cerebrale, nella stessa clinica Quisisana. Il giorno seguente la cremazione si svolsero i funerali, cui parteciparono soltanto il fratello Carlo e la cognata Tatiana. Le ceneri, inumate nel cimitero del Verano, furono trasferite nel Cimitero acattolico di Roma, nel Campo Cestio. I 33 Quaderni del carcere, non destinati da Gramsci alla pubblicazione, contengono riflessioni e appunti elaborati durante la reclusione. Furono definitivamente interrotti a causa della gravità delle sue condizioni di salute. Furono numerati, senza tener conto della loro cronologia, dalla cognata Schucht, che li affidò all'Ambasciata sovietica a Roma da dove furono inviati a Mosca e, successivamente, conseg Palmiro Togliatti. Dopo la fine della guerra i Quaderni, curati dal dirigente comunista Platone sotto la supervisione di Togliatti, furono pubblicati dall'editore Einaudi unitamente alle sue Lettere dal carcere indirizzate ai familiarii n sei volumi, ordinati per argomenti omogenei, con i titoli “Il materialismo storico e la filosofia di Croce”;  “Gli intellettuali e l'organizzazione della cultura”; “Il Risorgimento”; “Note sul Machiavelli, sulla politica e sullo Stato moderno”; “Letteratura e vita nazionale”; “Passato e presente”.  I Quaderni furono pubblicati Valentino Gerratana secondo l'ordine cronologico della loro elaborazione. Sono stati raccolti in volume anche tutti gli articoli scritti da Gramsci nell'Avanti!, ne Il Grido del Popolo e ne L'Ordine Nuovo.  Conquistare la maggioranza politica di un Paese vuol dire che le forze sociali, che di tale maggioranza sono espressione, dirigono la politica di quel determinato paese e dominano le forze sociali che a tale politica si oppongono: significa ottenere l'egemonia.  Vi è distinzione fra direzione egemonia intellettuale e morale e dominio esercizio della forza repressive. Un gruppo sociale è dominante dei gruppi avversari che tende a liquidare o a sottomettere anche con la forza armata, ed è dirigente dei gruppi affini e alleati. Un gruppo sociale può e anzi deve essere dirigente già prima di conquistare il potere governativo (è questa una delle condizioni principali per la stessa conquista del potere. Dopo, quando esercita il potere ed anche se lo tiene fortemente in pugno, diventa dominante ma deve continuare ad essere anche dirigente. La crisi dell'egemonia si manifesta quando, anche mantenendo il proprio dominio, le classi sociali politicamente dominanti non riescono più a essere dirigenti di tutte le classi sociali, non riuscendo più a risolvere i problemi di tutta la collettività e a imporre la propria concezione del mondo. A quel punto, la classe sociale sub-alterna, se riesce a indicare concrete soluzioni ai problemi lasciati irrisolti dalla classe dominante, può diventare dirigente e, allargando la propria concezione del mondo anche ad altri strati sociali, può creare un nuovo «blocco sociale», cioè una nuova alleanza di forze sociali, divenendo “egemone.” Il cambiamento dell'esercizio dell'egemonia è un momento rivoluzionario che inizialmente avviene a livello della sovra-struttura in senso marxiano, ossia politico, culturale, ideale, morale –, ma poi trapassa nella società nel suo complesso investendo anche la struttura economica, e dunque tutto il «blocco storico», termine che indica l'insieme della struttura e della sovra-struttura, ossia i rapporti sociali di produzione e i loro riflessi ideologici. Analizzando la storia di Italia e il Risorgimento in particolare, rileva che la classe popolare non trova un proprio spazio politico e una propria identità, poiché la politica dei liberali di Cavour concepì l'unità nazionale come un allargamento dello Stato piemontese e del patrimonio della dinastia, non come movimento nazionale dal basso, ma come conquista regia. Rritiene che l'azione della borghesia avrebbe potuto assumere un carattere rivoluzionario se avesse acquisito l'appoggio di vaste masse popolari, in particolare dei contadini, che costituivano la maggioranza della popolazione. Il limite della rivoluzione borghese in Italia consistette nel non essere capeggiata da un partito giacobino, come in Francia, dove le campagne, appoggiando la Rivoluzione, furono decisive per la sconfitta delle forze della reazione aristocratica.  Il partito politico italiano allora più avanzato fu il “Partito d'Azione” di Mazzini e Garibaldi, che non seppe impostare il problema dell'alleanza delle forze borghesi progressive con la classe contadina. Garibaldi in Sicilia distribuì le terre demaniali ai contadini, ma gli stessi garibaldini repressero le rivolte contadine contro i baroni latifondisti. Per conquistare l'egemonia contro i moderati guidati dal liberale Cavour, il “Partito d'Azione” avrebbe dovuto legarsi alle masse rurali, specialmente meridionali, essere giacobino specialmente per il contenuto economico-sociale. Il collegamento delle diverse classi rurali che si realizza in un blocco reazionario attraverso i diversi ceti intellettuali legittimisti-clericali poteva essere dissolto per addivenire ad una nuova formazione liberale-nazionale solo se si faceva forza in due direzioni: sui contadini di base, accettandone le rivendicazione di base e sugli intellettuali degli strati medi e inferiori». Al contrario, i cavourriani liberali seppero mettersi alla testa della rivoluzione borghese, assorbendo tanto i radicali che una parte dei loro stessi avversari. Questo avvenne perché i moderati cavourriani ebbero un rapporto organico con i loro intellettuali che erano proprietari terrieri e dirigenti industriali come i politici che essi rappresentavano. Le masse popolari restarono passive nel raggiunto compromesso fra i capitalisti del Nord e i latifondisti del Sud.  Il Piemonte assunse la funzione di classe dirigente, anche se esistevano altri nuclei di classe dirigente favorevoli all'unificazione. Questi nuclei non volevano dirigere nessuno, cioè non volevano accordare i loro interessi e aspirazioni con gli interessi e aspirazioni di altri gruppi. Volevano dominare, non dirigere e ancora. Volevano che dominassero i loro interessi, non le loro persone, cioè volevano che una forza nuova, indipendente da ogni compromesso e condizione, divenisse arbitra della Nazione: questa forza fu il Piemonte, che ebbe una funzione paragonabile a quella di un partito. Questo fatto è della massima importanza per il concetto di “rivoluzione passive”, che cioè non un gruppo sociale sia il dirigente di altri gruppi, ma che uno stato, sia pure limitato come potenza, sia il dirigente del gruppo che di esso dovrebbe essere dirigente e possa porre a disposizione di questo un esercito e una forza politica-diplomatica. Che uno Stato si sostituisca ai gruppi sociali locali nel dirigere la lotta di rinnovamento è uno dei casi in cui si ha la funzione di “dominio” e non di dirigenza di questi gruppi: dittatura senza egemonia. Il concetto di “egemonia” si distingue da quello di “dittatura”. La dittatura uesta è solo dominio, quella è capacità di direzione. Non prese mai posizione contro la “dittatura del proletariato” né espresse critiche significative al regime sovietico in Russia.  Le classi subalterne  Gustave Courbet, Lo spaccapietre Le classi subaltern esotto proletariato, proletariato urbano, rurale e anche parte della piccola borghesianon sono unificate e la loro unificazione avviene solo quando giungono a dirigere lo stato, altrimenti svolgono una funzione discontinua e disgregata nella storia della società civile dei singoli stati, subendo l'iniziativa dei gruppi dominanti anche quando ad essi si ribellano.  Il "blocco sociale", l'alleanza politica di classi sociali diverse, formato, in Italia, da industriali, proprietari terrieri, classi medie, parte della piccola borghesia, non è omogeneo, essendo attraversato da interessi divergenti, ma una politica opportuna, una cultura e un'ideologia o un sistema di ideologie impediscono che quei contrasti di interessi, permanenti anche quando siano latenti, esplodano provocando la crisi dell'ideologia dominante e la conseguente crisi politica dell'intero sistema di potere.  In Italia, l'esercizio dell'egemonia delle classi dominanti è ed è stata parziale. Tra le forze che contribuiscono alla conservazione di tale blocco sociale è la Chiesa, che si batte per mantenere l'unione dottrinale tra fedeli colti e incolti, tra intellettuali e semplici, tra dominanti e dominati, in modo da evitare fratture irrimediabili che tuttavia esistono e che essa non è in realtà in grado di sanare, ma solo di controllare. La Chiesa è sempre stata la più tenace nella lotta per impedire che ufficialmente si formino due religioni, quella degli intellettuali e quella delle anime semplici, una lotta che ha fatto risaltare la capacità organizzatrice nella sfera della cultura del clero che ha dato derte soddisfazioni alle esigenze della scienza e della filosofia, ma con un ritmo così lento e metodico che le mutazioni non sono percepite dalla massa dei semplici, sebbene esse appaiano "rivoluzionarie" e demagogiche agli "integralisti" ».Anche la dominante cultura d'impronta idealistica, esercitata dalle scuole filosofiche di Croce e Gentile, non ha «saputo creare una unità ideologica tra il basso e l'alto, tra i semplici e gli intellettuali, tanto che essa, anche se ha sempre considerato la religione una mitologia, non ha nemmeno «entato di costruire una concezione che potesse sostituire la religione nell'educazione infantile, e questi pedagogisti, pur essendo non religiosi, non confessionali e atei, concedono l'insegnamento della religione perché la religione è la filosofia dell'infanzia dell'umanità, che si rinnova in ogni infanzia non metaforica. La cultura laica dominante utilizza la religione proprio perché non si pone il problema di elevare le classi popolari al livello di quelle dominanti ma, al contrario, intende mantenerle in una posizione di sub-alternità.  Le classi dominanti hanno derubricato a “folklore” la cultura della classe sub-alterna.  Annota nel I Quaderno, che il “folklore” non deve essere concepito come una bizzarria, una stranezza, una cosa ridicola, una cosa tutt'al più pittoresca; ma deve essere concepito come una cosa molto seria e da prendere sul serio, e va studiato in quanto «oncezione del mondo e della vita di certi strati della società determi tempo e nello spazio, cioè del popolo inteso come l'insieme della classi strumentale e sub-alterna di ogni forma di società finora esistita». È dunque necessario mutare lo spirito delle ricerche folkloriche, oltre che approfondirle ed estenderle. La frattura tra gli intellettuali e i semplici può essere sanata da quella politica che non tende a mantenere i semplici nella loro filosofia primitiva del senso comune, ma invece a condurli a una concezione superiore della vita. L'azione politica realizzata dalla «filosofia della prassi» così chiama il marxismo, non solo per l'esigenza di celare quanto scrive alla repressiva censura carceraria opponendosi alle culture dominanti della Chiesa e dell'idealismo, può condurre i subalterni a una superiore concezione della vita. Se afferma l'esigenza del contatto tra intellettuali e semplici non è per limitare l'attività scientifica e per mantenere una unità al basso livello delle masse, ma appunto per costruire un blocco intellettuale e morale che renda politicamente possibile un progresso intellettuale di massa e non solo di scarsi gruppi intellettuali. La via che conduce all'egemonia del proletariato passa dunque per una riforma culturale e morale della società.  Tuttavia l'uomo attivo di massa, cioè la classe operaia, non è, in generale, consapevole né della funzione che può svolgere né della sua condizione reale di sub-ordinazione, Il proletariat non ha una chiara coscienza di questo suo operare che pure è un conoscere il mondo in quanto lo trasforma. La sua coscienza anzi può essere in contrasto col suo operare. Esso opera praticamente e nello stesso tempo ha una coscienza ereditata dal passato, accolta per lo più in modo acritico. La reale comprensione di sé avviene attraverso una lotta di egemonie politiche, di direzioni contrastanti, prima nel campo dell'etica, poi della politica per giungere a una elaborazione superiore della propria concezione del reale. La coscienza politica, cioè l'essere parte di una determinata forza egemonica, è la prima fase per una ulteriore e progressiva auto-coscienza dove teoria e pratica finalmente si unificano. Ma auto-coscienza significa creazione di un gruppo di intellettuali, organici alla classe, perché per distinguersi e rendersi indipendenti occorre organizzarsi, e non esiste organizzazione senza intellettuali, uno strato di persone specializzate nell'elaborazione concettuale e filosofica. Già Machiavelli indica nei moderni Stati unitari europei l'esperienza che l'Italia avrebbe dovuto far propria per superare la drammatica crisi emersa nelle guerre che devastarono la penisola dalla fine del Quattrocento. “Il Principe” di Machiavelli non esisteva nella realtà storica, non si presentava al popolo italiano con caratteri di immediatezza obiettiva. E una pura astrazione dottrinaria, il simbolo del capo, del condottiero ideale. Ma gli elementi passionali, mitici si riassumono e diventano vivi nella conclusione, nell'invocazione di un principe realmente esistente. In Italia non si ebbe una monarchia assoluta che unificasse la nazione perché dalla dissoluzione della borghesia comunale si creò una situazione interna economico-corporativa, politicamente la peggiore delle forme di società feudale, la forma meno progressiva e più stagnante. Mancò sempre, e non poteva costituirsi, una forza giacobina efficiente, la forza appunto che a Francia ha suscitato e organizzato la volontà collettiva nazional-popolare e ha fondato lo stato moderno. A questa forza progressiva si oppose in Italia la «borghesia rurale, eredità di parassitismo lasciata ai tempi moderni dallo sfacelo, come classe, della borghesia comunale. Forze progressive sono i gruppi sociali urbani con un determinato livello di cultura politica, ma non sarà possibile la formazione di una volontà collettiva nazionale-popolare, se le grandi masse dei contadini lavoratori non irrompono simultaneamente nella vita politica. Ciò intendeva Machiavelli attraverso la riforma della milizia, ciò fecero i giacobini nella Rivoluzione francese. In questa comprensione è da identificare un giacobinismo precoce del Machiavelli, il germe, più o meno fecondo, della sua concezione della rivoluzione nazionale. Modernamente, il Principe invocato dal Machiavelli non può essere un individuo reale, concreto, ma un organismo e questo organismo è già dato dallo sviluppo storico ed è il partito politico: la prima cellula in cui si riassumono dei germi di volontà collettiva che tendono a divenire universali e totali. Il partito è l'organizzatore di una riforma intellettuale e morale, che concretamente si manifesta con un programma di riforma economica, divenendo così la base di un laicismo moderno e di una completa laicizzazione di tutta la vita e di tutti i rapporti di costume. Perché un partito esista, e diventi storicamente necessario, devono confluire in esso tre elementi fondamentali. Primo, un elemento diffuso, di uomini comuni, medi, la cui partecipazione è offerta dalla disciplina e dalla fedeltà, non dallo spirito creativo ed altamente organizzativo essi sono una forza in quanto c'è chi li centralizza, organizza, disciplina, ma in assenza di questa forza coesiva si sparpaglierebbero e si annullerebbero in un pulviscolo impotente. Secondo, L'elemento coesivo principale dotato di forza altamente coesiva, centralizzatrice e disciplinatrice e anche, anzi forse per questo, inventiva da solo questo elemento non formerebbe un partito, tuttavia lo formerebbe più che il primo elemento considerato. Si parla di capitani senza esercito, ma in realtà è più facile formare un esercito che formare dei capitani». Terzo, Un elemento medio, che articoli il primo col secondo elemento, che li metta a contatto, non solo fisico, ma morale e intellettuale. Gramsci negli scritti compresi ribadì i principi espressi dalla Terza Internazionale, insistendo sulla disciplina ferrea del partito e contestando qualsiasi forma di frazionismo. Socialisti e sindacalisti venivano pesantemente criticati e messi sullo stesso piano del regime fascista. Tutti gli uomini sono intellettuali, dal momento che non c'è attività umana da cui si possa escludere ogni intervento intellettuale. Nn si può separare l'homo faber dall'homo sapiens, in quanto, indipendentemente della sua professione specifica, ognuno è a suo modo un filosofo, un artista, un uomo di gusto, partecipa di una concezione del mondo, ha una consapevole linea di condotta morale, ma non tutti gli uomini hanno nella società la funzione dell’ intellettuale.  Storicamente si formano particolari categorie di intellettuali, specialmente in connessione coi gruppi sociali più importanti e subiscono elaborazioni più estese e complesse in connessione col gruppo sociale dominante. Un gruppo sociale che tende all'egemonia lotta per l'assimilazione e la conquista ideologica degli intellettuali tradizionali tanto più rapida ed efficace quanto più il gruppo dato elabora simultaneamente i propri intellettuali organici. L'intellettuale tradizionale è il letterato, il filosofo, l'artista e perciò i giornalisti, che ritengono di essere letterati, filosofi, artisti, ritengono anche di essere i veri intellettuali, mentre modernamente è la formazione tecnica a formare la base del nuovo tipo di intellettuale, un costruttore, organizzatore, persuasorema non assolutamente il vecchio oratore, formatosi sullo studio dell'eloquenza motrice esteriore e momentanea degli affetti e delle passioni il quale deve giungere dalla tecnica-lavoro alla tecnica-scienza e alla concezione umanistica storica, senza la quale si rimane specialista e non si diventa dirigente. Il gruppo sociale emergente, che lotta per conquistare l'egemonia politica, tende a conquistare alla propria ideologia l'intellettuale tradizionale mentre, nello stesso tempo, forma i propri intellettuali organici. L'organicità degli intellettuali si misura con la maggiore o minore connessione con il gruppo sociale cui essi fanno riferimento. Essi operano tanto nella società civilel'insieme degli organismi privati in cui si dibattono e si diffondono le ideologie necessarie all'acquisizione del consenso, apparentemente dato spontaneamente dalle grandi masse della popolazione alle scelte del gruppo sociale dominante quanto nella società politica, dove si esercita il dominio diretto o di comando che si esprime nello Stato e nel governo giuridico. Gli intellettuali sono così i commessi del gruppo dominante per l'esercizio delle funzioni sub-alterne dell'egemonia sociale e del governo politico, cioè, primo, del consenso spontaneo dato dalle grandi masse della popolazione all'indirizzo impresso alla vita sociale dal gruppo fondamentale dominante; secondo, dell'apparato di coercizione statale che assicura legalmente la disciplina di quei gruppi che non consentono. Come lo Stato, nella società politica, tende a unificare gli intellettuali tradizionali con quelli organici, così nella società civile il partito politico, ancor più compiutamente e organicamente dello Stato, elabora i propri componenti, elementi di un gruppo sociale nato e sviluppatosi come economico, fino a farli diventare intellettuali politici qualificati, dirigenti, organizzatori di tutte le attività e le funzioni inerenti all'organico sviluppo di una società integrale, civile e politica. Il compito della riforma intellettuale e morale non potrà che essere ancora degli intellettuali organici, non cristallizzati, che la determineranno e organizzeranno, adeguando la cultura anche alle sue funzioni pratiche, addivenendo a una nuova organizzazione della cultura. Il partito comunista si pone come sintesi attiva di questo processo: intellettuale collettivo di avanguardia, la direzione politica di classe lotterà per l'egemonia. Il partito comunista, per Gramsci, è intellettuale collettivo; e l'intellettuale comunista è organico alla classe e dunque a questo collettivo perché fa parte del blocco storico-sociale che deve costruire il nuovo mondo. Pur essendo sempre stati legati alle classi dominanti, ottenendone spesso onori e prestigio, gli intellettuali italiani non si sono mai sentiti organici, hanno sempre rifiutato, in nome di un loro astratto cosmopolitismo, ogni legame con il popolo, del quale non hanno mai voluto riconoscere le esigenze né interpretare i bisogni culturali.  In molte linguein russo, in tedesco, in franceseil significato dei termini «nazionale» e «popolare» coincidono: «in Italia, il termine nazionale ha un significato molto ristretto ideologicamente e in ogni caso non coincide con popolare, perché in Italia gli intellettuali sono lontani dal popolo, cioè dalla nazione e sono invece legati a una tradizione di casta, che non è mai stata rotta da un forte movimento popolare o nazionale dal basso: la tradizione è libresca e astratta e l'intellettuale tipico moderno si sente più legato ad Annibal Caro o a Ippolito Pindemonte che a un contadino pugliese o siciliano. Si è assistito a un fiorire della letteratura popolare, dai romanzi di appendice del Sue o di Ponson du Terrail, ad Alexandre Dumas, ai racconti polizieschi inglesi e americani; con maggior dignità artistica, alle opere del Chesterton e di Dickens, a quelle di Victor Hugo, di Émile Zola e di Honoré de Balzac, fino ai capolavori di Dostoevskij e di Tolstoj. Nulla di tutto questo in Italia. In Italia, la letteratura non si è diffusa e non è stata popolare, per la mancanza di un blocco nazionale intellettuale e morale tanto che l'elemento intellettuale italiano è avvertito come “più straniero degli stranieri stessi”.  Fa eccezione, per Gramsci, il melodrama verista (“Cavalleria rusticana”, “Pagliacci”), che ha tenuto in qualche modo in Italia il ruolo nazionale-popolare sostenuto altrove dalla letteratura. Il pubblico icerca la sua letteratura all'estero perché la sente più sua di quella italiana: è questa la dimostrazione del distacco, in Italia, fra pubblico e scrittori. Ogni popolo ha la sua letteratura, ma essa può venirgli da un altro popolo può essere subordinato all'egemonia intellettuale e morale di altri popoli. È questo spesso il paradosso più stridente per molte tendenze monopolistiche di carattere nazionalistico e repressivo: che mentre si costruiscono piani grandiosi di egemonia, non ci si accorge di essere oggetto di una egemonia straniera. Così come, mentre si fanno piani imperialistici, in realtà si è oggetto di altri imperialism.. Hanno fallito nel compito di elaborare la coscienza morale del popolo, non diffondendo in esso un moderno umanesimo. La insufficienza dell’intelletuale è «uno degli indizi più espressivi dell'intima rottura che esiste tra la religione e il popolo. Questo si trova in uno stato miserrimo di indifferentismo e di assenza di una vivace vita spirituale. La religione è rimasta allo stato di superstizione l'Italia popolare è ancora nelle condizioni create immediatamente dalla Contro-Riforma. La religione, tutt'al più, si è combinata col folclore pagano ed è rimasta in questo stadio. Sono rimaste famose le note di Gramsci sul Manzoni: lo scrittore più autorevole, più studiato nelle scuole e probabilmente il più popolare, è una dimostrazione del carattere elitista della letteratura italiana. Ecco le parole dai Quaderni del carcere, confrontandolo con Tolstoj. Il carattere aristocratico di Manzoni appare dal compatimento scherzoso verso le figure di uomini del popolo (ciò che non appare in Tolstoj), come fra Galdino (in confronto di frate Cristoforo), il sarto, Renzo, Agnese, Perpetua, la stessa Lucia i popolani, per Manzoni, non hanno vita interiore, non hanno personalità morale profonda; essi sono animali. Manzoni è benevolo verso di loro proprio della benevolenza di una società di protezione di animali niente dello spirito popolare di Tolstoi, cioè dello spirito evangelico del cristianesimo primitivo. L'atteggiamento di Manzoni verso i suoi popolani è l'atteggiamento della Chiesa Cattolica verso il popolo: di condiscendente benevolenza, non di immediatezza umana vede con occhio severo tutto il popolo, mentre vede con occhio severo i più di coloro che non sono popolo; egli trova magnanimità, alti pensieri, grandi sentimenti, solo in alcuni della classe alta, in nessuno del popolo non c'è popolano che non venga preso in giro e canzonato. Vita interiore hanno solo i signori: fra Cristoforo, il Borromeo, l'Innominato, lo stesso don Rodrigo il suo atteggiamento verso il popolo e elitista ed aristocratico. Una classe che muova alla conquista dell'egemonia non può non creare una nuova cultura, che è essa stessa espressione di una nuova vita morale, un nuovo modo di vedere e rappresentare la realtà; naturalmente, non si possono creare artificialmente artisti che interpretino questo nuovo mondo culturale, ma «un nuovo gruppo sociale che entra nella vita storica con atteggiamento egemonico, con una sicurezza di sé che prima non aveva, non può non suscitare dal suo seno personalità che prima non avrebbero trovato una forza sufficiente per esprimersi compiutamente. Intanto, nella creazione di una nuova cultura, è parte la critica della civiltà letteraria presente, e vede nella critica svolta da Sanctis un esempio privilegiato. La critica di Sanctis è militante, non frigidamente estetica, è la critica di un periodo di lotte culturali, di contrasti tra concezioni della vita antagonistiche. Le analisi del contenuto, la critica della struttura delle opere, cioè della coerenza logica e storica-attuale delle masse di sentimenti rappresentati artisticamente, sono legate a questa lotta culturale: proprio in ciò pare consista la profonda umanità e l'umanesimo di Sanctis. Piace sentire in lui il fervore appassionato dell'uomo di parte che ha saldi convincimenti morali e politici e non li nasconde. Sanctis opera nel periodo risorgimentale, in cui si lotta per creare una nuova cultura: di qui la differenza con Croce, che vive sì gli stessi motivi culturali, ma nel periodo della loro affermazione, per cui la passione e il fervore romantico si sono composti nella serenità superiore e nell'indulgenza piena di bonomia. Quando poi quei valori culturali, così affermatisi, sono messi in discussione, allora in Croce sub-entra una fase in cui la serenità e l'indulgenza s'incrinano e affiora l'acrimonia e la collera a stento repressa: fase difensiva non aggressiva e fervida, e pertanto non confrontabile con quella di Sanctis. Una critica letteraria marxistica può avere nel critico campano un esempio, dal momento che essa deve fondere, come Sanctis fece, la critica estetica con la lotta per una cultura nuova, criticando il costume, i sentimenti e le ideologie espresse nella storia della letteratura, individuandone le radici nella società in cui quegli scrittori si trovavano a operare.  Non a caso, progettava nei suoi Quaderni un saggio che intendeva intitolare «I nipotini di padre Bresciani», dal nome di Bresciani, tra i fondatori e direttore della rivista La Civiltà Cattolica e scrittore di romanzi popolari d'impronta reazionaria; uno di essi, L'ebreo di Verona, fu stroncato in un famoso saggio di  Sanctis. I nipotini di padre Bresciani sono gli intellettuali e i letterati contemporanei portatori di una ideologia reazionaria con un «carattere tendenzioso e propagandistico apertamente confessato». Fra i «nipotini»individua, oltre a molti scrittori ormai dimenticati, Antonio Beltramelli, Ugo Ojetti, la codardia intellettuale dell'uomo supera ogni misura normale, Panzini, Bellonci, Bontempelli, Fracchia, Baratono -- l'agnosticismo del Baratono non è altro che vigliaccheria morale e civile -- teorizza solo la propria impotenza estetica e filosofica e la propria coniglieria – Bacchelli -- nel Bacchelli c'è molto brescianesimo, non solo politico-sociale, ma anche letterario: la Ronda fu una manifestazione di gesuitismo artistico -- Salvator Gotta --di Salvator Gotta si può dire ciò che il Carducci scrisse del Rapisardi: Oremus sull'altare e flatulenze in sagrestia; tutta la sua produzione letteraria è brescianesca», Ungaretti.  La vecchia generazione degli intellettuali è fallita (Papini, Prezzolini, Soffici, ecc.) ma ha avuto una giovinezza. La generazione attuale non ha neanche questa età delle brillanti promesse, Rosa, Angioletti, Malaparte, ecc.). Asini brutti anche da piccoletti. Croce, il più autorevole intellettuale dell'epoca, da alla borghesia italiana gli strumenti culturali più raffinati per delimitare i confini fra gli intellettuali e la cultura italiana, da una parte, e il movimento operaio e socialista dall'altra; è allora necessario mostrare e combattere la sua funzione di maggior rappresentante dell'egemonia culturale che il blocco sociale dominante esercita nei confronti del movimento operaio italiano. Come tale, Croce combatte il marxismo, cercando di negarne validità nell'elemento che egli individua come decisivo: quello dell'economia. Il Capitale di Marx sarebbe per Croce un'opera di morale e non di scienza, un tentativo di dimostrare che la società capitalistica è immorale, diversamente dalla comunista, in cui si realizzerebbe la piena moralità umana e sociale. La non-scientificità dell'opera maggiore di Marx sarebbe dimostrata dal concetto del “plusvalore.” Per Croce, solo da un punto di vista morale si può parlare di “plusvalore” rispetto al “valore”, legittimo concetto economico. Questa critica del Croce è in realtà un semplice sofisma. Il “plusvalore” è esso stesso valore, è la differenza tra il valore delle merci prodotte dal lavoratore e il valore della forza-lavoro del lavoratore stesso. Del resto, la teoria del valore di Marx deriva direttamente da quella dell'economista liberale Ricardo la cui teoria del valore-lavoro non sollevò nessuno scandalo quando fu espressa, perché allora non rappresentava nessun pericolo, appariva solo, come era, una constatazione puramente oggettiva e scientifica. Il valore polemico e di educazione morale e politica, pur senza perdere la sua oggettività, dove acquistarla solo con la Economia critica. La filosofia crociana si qualifica come storicismo, ossia, seguendo Vico, la realtà è storia e tutto ciò che esiste è necessariamente storico ma, conformemente alla natura idealistica della sua filosofia, la storia è storia dello Spirito, dunque storia speculativa, di astrazionistoria della libertà, della cultura, del progresso non è la storia concreta delle nazioni e delle classi. La storia speculativa può essere considerata come un ritorno, in forme letterarie rese più scaltre e meno ingenue dallo sviluppo della capacità critica, a modi di storia già caduti in discredito come vuoti e retorici e registrati in diversi libri dello stesso Croce. La storia etico-politica, in quanto prescinde dal concetto di blocco storico, in cui contenuto economico-sociale e forma etico-politica si identificano concretamente nella ricostruzione dei vari periodi storici, è niente altro che una presentazione polemica di filosofemi più o meno interessanti, ma non è storia la storia di Croce rappresenta figure disossate, senza scheletro, dalle carni flaccide e cascanti anche sotto il belletto delle veneri letterarie dello scrittore. L'operazione conservatrice di Croce storico fa il paio con quella di Croce filosofo. Se la dialettica dell'idealista Hegel era una dialettica dei contrariuno svolgimento della storia che procede per contraddizioni la dialettica crociana è una dialettica dei distinti: commutare la contraddizione in distinzione significa operare un'attenuazione, se non un annullamento dei contrasti che nella storia, e dunque nelle società, si presentano. Tale operazione si manifesta nelle opere storiche di Croce. La sua Storia d'Europa, iniziando e tagliando fuori il periodo della Rivoluzione francese e quello napoleonico, non è altro che un frammento di storia, l'aspetto passivo della grande rivoluzione che si iniziò in Francia nel 1789, traboccò nel resto d'Europa con le armate repubblicane e napoleoniche, dando una potente spallata ai vecchi regimi e determinandone non il crollo immediato come in Francia, ma la corrosione riformistica che durò fino al 1870. Analoga è l'operazione operata dal Croce nella sua Storia d'Italia la quale affronta unicamente il periodo del consolidamento del regime dell'Italia unita e si «prescinde dal momento della lotta, dal momento in cui si elaborano e radunano e schierano le forze in contrasto in cui un sistema etico-politico si dissolve e un altro si elabora in cui un sistema di rapporti sociali si sconnette e decade e un altro sistema sorge e si afferma, e invece Croce assume placidamente come storia il momento dell'espansione culturale o etico-politico. Gramsci, fin dagli anni universitari, fu un deciso oppositore di quella concezione fatalistica e positivistica del marxismo, presente nel vecchio partito socialista, per la quale il capitalismo necessariamente era destinato a crollare da sé, facendo posto a una società socialista. Questa concezione mascherava l'impotenza politica del partito della classe subalterna, incapace di prendere l'iniziativa per la conquista dell'egemonia.  Anche il manuale del bolscevico russo Nikolaj Bucharin, eLa teoria del materialismo storico manuale popolare di sociologia, si colloca nel filone positivistico. La sociologia è stata un tentativo di creare un metodo della scienza storico-politica, in dipendenza di un sistema filosofico già elaborato, il positivismo evoluzionistico è diventata la filosofia dei non filosofi, un tentativo di descrivere e classificare schematicamente i fatti storici, secondo criteri costruiti sul modello delle scienze naturali. La sociologia è dunque un tentativo di ricavare sperimentalmente le leggi di evoluzione della società umana in modo da prevedere l'avvenire con la stessa certezza con cui si prevede che da una ghianda si svilupperà una quercia. L'evoluzionismo volgare è alla base della sociologia che non può conoscere il principio dialettico col passaggio dalla quantità alla qualità, passaggio che turba ogni evoluzione e ogni legge di uniformità intesa in senso volgarmente evoluzionistico. La comprensione della realtà come sviluppo della storia umana è solo possibile utilizzando la dialettica marxiana della quale non vi è traccia nel Manuale del Bucharin perché essa coglie tanto il senso delle vicende umane quanto la loro provvisorietà, la loro storicità determinata dalla prassi, dall'azione politica che trasforma le società. Le società non si trasformano da sé. Già Marx aveva rilevato come nessuna società si ponga compiti per la cui soluzione non esistano già le condizioni almeno in via di apparizione né essa si dissolve, se prima non ha svolto tutte le forme di vita che le sono implicite. Il rivoluzionario si pone il problema di individuare esattamente i rapporti tra struttura e sovrastruttura per giungere a una corretta analisi delle forze che operano nella storia di un determinato periodo. L'azione politica rivoluzionaria, la prassi, è anche catarsi che segna l passaggio dal momento meramente economico (o egoistico-passionale) al momento etico-politico cioè l'elaborazione superiore della struttura in super-struttura nella coscienza degli uomini. Ciò significa anche il passaggio dall'oggettivo al soggettivo e dalla necessità alla libertà. La struttura, da forza esteriore che schiaccia l'uomo, lo assimila a sé, lo rende passivo, si trasforma in mezzo di libertà, in strumento per creare una nuova forma etico-politica, in origine di nuove iniziative. La fissazione del momento catartico diventa così  il punto di partenza di tutta la filosofia della prassi; il processo catartico coincide con la catena di sintesi che sono risultate dallo svolgimento dialettico. La dialettica è dunque strumento di indagine storica, che supera la visione naturalistica e meccanicistica della realtà, è unione di teoria e prassi, di conoscenza e azione. La dialettica è dottrina della conoscenza e sostanza midollare della storiografia e della scienza della politica e può essere compresa solo concependo il marxismo come una filosofia integrale e originale che inizia una nuova fase nella storia e nello sviluppo mondiale in quanto supera (e superando ne include in sé gli elementi vitali) sia l'idealismo che il materialismo tradizionali espressione delle vecchie società. Se la filosofia della prassi [il marxismo] non è pensata che subordinatamente a un'altra filosofia, non si può concepire la nuova dialettica, nella quale appunto quel superamento si effettua e si esprime. Il vecchio materialismo è metafisica; per il senso comune la realtà oggettiva, esistente indipendentemente dall'uomo, è un ovvio assioma, confortato dall'affermazione della religione per la quale il mondo, creato da Dio, si trova già dato di fronte a noi. Ma va rifiutata «la concezione della realtà oggettiva del mondo esterno nella sua forma più triviale e acritica» dal momento che «a questa può essere mossa l'obbiezione di misticismo». Se noi conosciamo la realtà in quanto uomini, ed essendo noi stessi un divenire storico, anche la conoscenza e la realtà stessa sono un divenire.  Come potrebbe esistere un'oggettività extrastorica ed extraumana e chi giudicherà di tale oggettività? La formulazione di Engels che l'unità del mondo consiste nella sua materialità dimostrata dal lungo e laborioso sviluppo della filosofia e delle scienze naturali contiene appunto il germe della concezione giusta, perché si ricorre alla storia e all'uomo per dimostrare la realtà oggettiva. Oggettivo significa sempre umanamente oggettivo, ciò che può corrispondere esattamente a storicamente soggettivo. L'uomo conosce oggettivamente in quanto la conoscenza è reale per tutto il genere umano storicamente unificato in un sistema culturale unitario; ma questo processo di unificazione storica avviene con la sparizione delle contraddizioni interne che dilaniano la società umana, contraddizioni che sono la condizione della formazione dei gruppi e della nascita delle ideologie. C'è dunque una lotta per l'oggettività (per liberarsi dalle ideologie parziali e fallaci) e questa lotta è la stessa lotta per l'unificazione culturale del genere umano. Ciò che gli idealisti chiamano spirito non è un punto di partenza ma di arrivo, l'insieme delle soprastrutture in divenire verso l'unificazione concreta e oggettivamente universale e non già un presupposto unitario». La formazione linguistica di Antonio Gramsci inizia durante gli anni universitari a Torino con la frequentazione delle lezioni di Bartoli. Gramsci apprende che la lingua è un prodotto “sociale" e che non può essere studiata senza tenere conto della storia generale: ciò vuol dire che non è possibile comprendere i mutamenti di una lingua senza riflettere sui mutamenti sociali, culturali e politici della popolazione che la parla. È stato notato che fece aderire le teorie apprese da Bartoli alle letture filosofiche che lo formarono politicamente; in primo luogo all'Ideologia Tedesca di Marx, dove Marx afferma che il tessco, come la coscienza dei tedesci, appartiene alla sfera degli istituti sovra-strutturali, cioè al mondo dell'organizzazione politica e giuridica della società. Le più interessanti riflessioni linguistiche gramsciane sono contenute nei Quaderni del carcere e riguardano da una parte la questione delle lingue in Italia, ovvero lo studio delle ragioni che hanno reso difficile la diffusione di una lingua per la nazione o tutta la poppolazione, dall'altra il tema dell'insegnamento linguistico nelle scuole primarie. Soprattutto il secondo tema è di fondamentale importanza per Gramsci, perché riguarda direttamente il riscatto culturale delle grandi masse popolari e la creazione di uno spirito nazionale in grado di superare ogni forma di particolarismo regionale. I Quaderni del carcere sono costellati in maniera asistematica di molte note dedicate a problemi di caratteri linguistico; queste note tracciano una vera e propria storia della lingua italiana e racchiudono le riflessioni di Gramsci in merito alla cosiddetta questione della lingua in Italia. Questo tipo di argomento si riallaccia a un altro importante tema dei Quaderni ovvero lo studio delle responsabilità degli intellettuali italiani per la formazione di uno spirito nazionale unitario. A tal proposito Gramsci scrive: «mi pare che, intesa la lingua come elemento della cultura e quindi della storia generale e come manifestazione precipua della nazionalità e popolarità degli intellettuali, questo studio non sia ozioso e puramente erudito». Nell'affrontare una ricostruzione storica delle vicende linguistiche italiane Gramsci cerca dei termini di confronto con altri paesi europei come la Francia: mentre in Francia il volgare viene usato per la prima volta nella storia per redigere un documento ufficiale di carattere politico-istituzionale, in Italia il volgare appare per la registrazione di documenti privati legati al commercio o a questioni giuridiche:  «l'origine della differenziazione storica tra Italia e Francia si può trovare testimoniata nel giuramento di Strasburgo, cioè nel fatto che il popolo partecipa attivamente alla storia (il popolo-esercito) diventando il garante dell'osservanza dei trattati tra i discendenti di Carlo Magno; il popolo-esercito garantisce giurando in volgare, cioè introduce nella storia nazionale la sua lingua, assumendo una funzione politica di primo piano, presentandosi come volontà collettiva, come elemento di una democrazia nazionale. Questo fatto demagogico dei Carolingi di appellarsi al popolo nella loro politica estera è molto significativo per comprendere lo sviluppo della storia francese e la funzione che vi ebbe la monarchia come fattore nazionale. In Italia i primi documenti di volgare sono dei giuramenti individuali per fissare la proprietà su certe terre dei conventi, o hanno un carattere antipopolare («Traite, traite, fili de le putte»).»  (Quaderni del carcere, V. Gerratana, Torino, Einaudi) In Francia i gruppi dirigenti si rendono conto dell'importanza del popolo negli affari di Stato: la demagogia di cui parla Gramsci è da intendere, oltre che come strumento di propaganda, anche come un nuovo atteggiamento politico in grado di crearsi «una propria civiltà statale integrale», in cui si stabilisce un rapporto diretto tra governati e governanti: il popolo diventa testimone di un fatto storico legittimato dal suo giuramento. Ricorda nei suoi appunti come in Italia l'uso del volgare si diffonda con l'avvento dell'età comunale, non solo per la redazione di documenti privati, tipo atti notarili o giuramenti, ma anche per la creazione di opere letterarie: in particolare, il volgare toscano, lingua della borghesia, ottiene un certo successo anche nelle altre regioni. Firenze esercita una egemonia culturale, connessa alla sua egemonia commerciale e finanziaria. Bonifazio VIII dice che i fiorentini sono il quinto elemento del mondo. C'è uno sviluppo linguistico unitario dal basso, dal popolo alle persone colte, rinforzato dai grandi scrittori fiorentini e toscani. Dopo la decadenza di Firenze, l'italiano diventa sempre più la lingua di una casta chiusa, senza contatto vivo con una parlata storica.” Da questo momento si verifica una cristallizzazione della lingua. I promotori del nuovo volgare, provenienti dalla borghesia, non scrivono più nella lingua della loro classe d'origine perché con essa non intrattengono più nessun rapporto, nella visione di Gramsci essi “vengono assorbiti dalle classi reazionarie, dalle corti, non sono letterati borghesi, ma aulici.” In questo senso, vede sciupata l'occasione di una diffusione graduale del volgare toscano su scala nazionale, occasione compromessa soprattutto dalla frammentazione politica della penisola e dal carattere “elitario” del ceto intellettuale italianio. Affronta con maggior vigore la questione delle lingue in relazione al periodo post-unitario. Nella seconda metà dell'Ottocento, lo stato e per gran parte “dialettofono”, mentre la lingua della nazione venne usata solo a livello letterario e come lingua delle istituzioni. La scarsa diffusione di una lingua per la nazione testimonia la frammentazione politica e culturale della popolazione italiana. Questo fenomeno venne avvertito come un problema politico, soprattutto da molti intellettuali di tendenze democratiche come Manzoni.  Nella sua ricostruzione storica Gramsci scrive che “anche la questione delle lingue posta da  Manzoni riflette questo problema, il problema della unità intellettuale e morale della nazione e dello stato, ricercato nell'unità della lingua.” Eppure, sebbene Gramsci riconosca al Manzoni di aver compreso la questione linguistica italiana come una questione politica e sociale, si distingue da lui nel modo di interpretare la risoluzione del problema. Durante il suo apprendistato glottologico presso Bartoli a Torino ha modo di confrontare le posizioni del Manzoni con quelle di Ascoli, del “Archivio Glottologico.” Mentre Manzoni prevede la diffusione di una lingua per la nazione sul modello fiorentino imposta per decreto statale e per mezzo di maestri di scuola di origine toscana, Ascoli concepiva la nascita di una lingua nazionale come il frutto di un'unificazione culturale prima ancora che linguistica.  Secondo Ascoli l'unità culturale e linguistica, prima di tutto, deve avere un centro irradiante, cioè un determinato 'municipio' in cui si concentrano e da cui provengono gli elementi essenziali della vita nazionale: beni di consumo, stimoli culturali, mode, ritrovati della tecnica, istituti statali e giuridici, ecc. Se quel dato municipio riuscirà a stabilire un primato politico, economico e culturale su tutta la nazione, riuscirà anche a diffondere, per conseguenza, il suo particolare idioma. Per Ascoli, una lingua nazionale altro non può e non deve essere, se non l'idioma vivo di una data città. Deve cioè per ogni parte coincidere con l'idioma spontaneamente parlato dagli abitatori contemporanei di quel dato municipio, che per questo capo viene a farsi principe, o quasi stromento livellatore, dell'intiera nazione. Ascoli, nel suo Proemio, prende la Francia come esempio per avvalorare la sua tesi. Infatti, l'unità linguistica di Francia corrisponde all'egemonia politico-culturale di Parigi. La Francia attinge da Parigi la unità della sua favella, perché Parigi è il gran crogiuolo in cui si è fusa e si fonde l'intelligenza della Francia intera. Dal vertiginoso movimento del municipio parigino parte ogni impulso dell'universa civiltà francese. Viene da Parigi il nome, perché da Parigi vien la cosa. E la Francia avendo in questo municipio l'unità assorbente del suo pensiero, vi ha naturalmente pur quella dell'animo suo; e non solo studia e lavora, ma si commuove, e in pianto e in riso, così come la metropoli vuole. E quindi è necessariamente dell'intiera Francia l'intiera favella di Parigi. Gramsci ricalca la lezione ascoliana nei suoi Quaderni. Poiché il processo di formazione, di diffusione, e di sviluppo di una lingua nazionale unitaria avviene attraverso tutto un complesso di processi molecolari, è utile avere consapevolezza di tutto il processo nel suo complesso, per essere in grado di intervenire attivamente in esso col massimo di risultato. Questo intervento non bisogna considerarlo come decisivo e immaginare che i fini proposti saranno tutti raggiunti nei loro particolari, che cioè si otterrà una determinata lingua unitaria. Si otterrà una lingua unitaria, se essa è una necessità e l'intervento organizzato accelera i tempi del processo già esistente. Quale sia per essere questa lingua non si può prevedere e stabilire. Alla nota Focolai di irradiazione linguistiche nella tradizione e di un conformismo nazionale linguistico nelle grandi masse, compila un elenco di tutti gli strumenti utili alla diffusione di una lingua unitaria. Primo, La scuola. Secondo, i giornali. Terzo,  gli scrittori d'arte e quelli popolari. Quarto, il teatro e il cinematografo sonoro. Quinto, la radio. Sesto, le riunioni pubbliche di ogni genere, comprese quelle religiose. Settimo, I rapporti di ‘conversazione’ tra i vari strati della popolazione più colti e meno colti. Ottavo, i dialetti locali, intesi in sensi diversi (dai dialetti più localizzati a quelli che abbracciano complessi regionali più o meno vasti: così il napoletano per l'Italia meridionale, il palermitano o il catanese per la Sicilia ecc. Al primo posto di questo elenco troviamo la scuola. Per tradizione, a scuola, gli insegnanti introducono gli alunni allo studio di una lingua attraverso la grammatica “normativa”. Gramsci definisce la grammatica normativa come una fase esemplare, come la sola degna di diventare, organicamente e totalitarmente, la lingua comune di una nazione, in lotta e in concorrenza con le altre fasi e tipi o schemi che esistono già. Le riflessioni gramsciane in materia di grammatica si pongono in netto contrasto con la riforma della scuola realizzata da Gentile, di basi griceiana. La riforma, in linea con l'impianto idealista gentiliano, prevede che l'apprendimento della lingua della nazione nelle classi elementari si basasse su quello chi Gentile chiama la “espressione” viva o parlata e non sulla grammatical normativa, considerata questa come una disciplina “astratta” e meccanica. Nell'ottica di Gramsci il metodo apparentemente liberale di Gentile-Grice, racchiude uno spiccato carattere “classista” o elitist, in quanto gli scolari appartenenti alle classi sociali più alte sono avvantaggiati dal fatto che apprendono l'italiano in famiglia, mentre gli scolari del basso popolo possono contare su una comunicazione familiare realizzata esclusivamente in “dialetto” --. In questo senso la grammatica normativa si presenta come uno strumento in grado di livellare le differenze sociali permettendo a tutti la conoscenza della lingua della nazione.  Secondo Gramsci la conoscenza della lingua della nazione presso le classi sub-alterne è fondamentale per la loro organizzazione politica. Un proletariato “dialettofono” non può partecipare alla vita politica di una nazione e non può sperare di crearsi un ceto intellettuale in grado di competere con i ceti intellettuali tradizionali. Il dialetto non deve sparire, ma restare funzionali a un tipo di comunicazione familiare o locale che non può garantire, per cause interne al suo sistema, «la comunicazione di un contenuto culturale ‘universale’, caratteristico della nuova cultura esercitata dal proletariato. Gramsci prestò attenzione anche alla lingua dell’impero romano. Espresse in più occasioni che lo studio del latino fosse particolarmente utile nella formazione filosofica, in quanto abituare il filosofo allo studio rigoroso e a pensare storicamente. Contesta il “nazionalismo” degli studi e criticò ripetutamente gli intellettuali che, durante la prima guerra mondiale, chiedevano che fossero messe al bando le edizioni dei testi romani e la grammatica latina compilate da autori tedeschi! Anche nei Quaderni del carcere si sofferma sulla questione e ribadì l'utilità intrinseca della antica lingua romana, osservando che e uno strumento importante nella fase della formazione filosofica nella quale è necessario un insegnamento "disinteressato", cioè non legato a questioni pratiche. Però, sottolineò anche che in futuro lo studio delle lingue morte avrebbe dovuto essere sostituito da altre materie: era un cambiamento difficile, ma necessario, per promuovere la formazione di un nuovo tipo di intellettuale.Scrisse nel Quaderno 12:  Bisognerà sostituire il latino e il greco come fulcro della scuola formativa e lo si sostituirà, ma non sarà agevole disporre la nuova materia o la nuova serie di materie in un ordine didattico che dia risultati equivalenti di educazione e formazione generale della personalità, partendo dal fanciullo fino alla soglia della scelta professionale. In questo periodo infatti lo studio o la parte maggiore dello studio deve essere (e apparire ai discenti) disinteressato, non avere cioè scopi pratici immediati o troppo immediati, deve essere formativo, anche se «istruttivo», cioè ricco di nozioni concrete.  Machiavelli influenzò fortemente la teoria dello Stato di Gramsci. Marx, filosofo, storico, critico dell'economia politica e fondatore del materialismo storico Engels Lenin, Labriola, primo notevole teorico marxista italiano, riteneva che la principale caratteristica del marxismo fosse quella di aver creato uno stretto nesso fra la storia e la filosofia. Sorel — sindacalista che ha respinto il principio dell'inevitabilità del progresso storico. Pareto — economista e sociologo italiano (nato a Parigi di madre francese), noto per la sua teoria sull'interazione fra masse ed élite. Croce — liberale italiano, filosofo anti-marxista e idealista il cui pensiero fu sottoposto da Gramsci a critica attenta e approfondita. Pensatori influenzati da Gramsci. Gramscianesimo. Zackie Achmat Eqbal Ahmad Jalal Al-e-Ahmad, Althusser Perry Anderson, Giulio Angioni Michael Apple Giovanni Arrighi Zygmunt Bauman Homi K. Bhabha, Gordon Brown Alberto Burgio, Butler Alex Callinicos Partha Chatterjee Marilena Chauí, Chomsky Alberto Mario Cirese Hugo Costa Robert W. Cox Alain de Benoist Biagio de Giovanni Ernesto de Martino, Eco John Fiske, Foucault Paulo Freire, Garin Eugene D. Genovese Stephen Gill Paul Gottfried Stuart Hall Michael Hardt Chris Harman David Harvey Hamish Henderson Eric Hobsbawm Samuel Huntington Alfredo Jaar Bob Jessop, Laclau, Mariátegui, Mouffe, Negri, Nono, Omi, Pasolini, Pigliaru, Pira, Portantiero, Poulantzas Gyan Prakash William I. Robinson Edward Saïd Ato Sekyi-Otu Gayatri Chakravorty Spivak, Sraffa Edward Palmer Thompson Giuseppe Vacca Paolo Virno Cornel West Raymond Williams Howard Winant, Wittgenstein Eric Wolf Howard Zinn. Gramsci al cinema e in televisione Il delitto Matteotti, regia di Vancini, Antonio GramsciI giorni del carcere, regia di Fra, Gramsci, regia di Maielloserie TV, Gramsci, film in forma di rosa, regia di Gabriele Morleocortometraggio, Gramsci, regia di Emiliano Barbucci, Nel mondo grande e terribile, regia di Daniele Maggioni, Maria Grazia Perria e Laura Perini. Gramsci nel teatro Compagno Gramsci, di Maricla Boggio e Franco Cuomo, regia di Maricla Boggio, Gramsci nella musica Quello lì (compagno Gramsci), canzone di Claudio Lolli contenuta nell'album Un uomo in crisi. Canzoni di morte. Canzoni di vita, Piazza Fontana, canzone dei Yu Kung contenuta nell'album Pietre della mia gente Nino, canzone dei Gang contenuta nell'album Sangue e Cenere () Gramsci, il teatro e la musica È nota la passione di Gramsci per il teatro e per la musica, che si può leggere nelle lettere scritte a Tania. Egli ha scritto circa il melodrama “verdiano” che per lui segnava l’apertura dei teatri al pubblico, svolgendo una funzione conoscitiva, pedagogica e politica in senso generale. Per Gramsci l’opera diviene l’arte più popolare e i teatri aperti i luoghi dove si esercitava parte del conflitto politico.  Una frase quasi ironica di Gramsci da citare, per quanto riguarda l’importanza dell’opera per l’Italia: “siccome il popolo non è letterato e di letteratura conosce solo il libretto d'opera ottocentesco, avviene che gli uomini del popolo melodrammatizzino”. Nelle sue lettere si può leggere anche riguardo alla moda europea del jazz; egli sostiene che questa musica aveva conquistato uno strato dell’Europa colta e aveva creato un vero fanatismo: Opere: “Alcuni temi della questione meridionale, in Lo Stato Operaio, Opere,  Lettere dal carcere, Torino, Einaudi, premio Viareggio, con centodiciannove lettere inedite, I quaderni dal carcere, Il materialismo storico e la filosofia di Croce” (Torino, Einaudi); “Gli intellettuali e l'organizzazione della cultura” Torino, Einaudi, Il Risorgimento, Torino, Einaudi, Note sul Machiavelli sulla politica e sullo stato moderno, Torino, Einaudi, Letteratura e vita nazionale, Torino, Einaudi,Passato e presente, Torino, Einaudi, L'Ordine Nuovo. Torino, Einaudi, Scritti giovanili. Torino, Einaudi, Sotto la mole. Torino, Einaudi, Socialismo e fascismo. L'Ordine Nuovo, Torino, Einaudi, La costruzione del Partito comunista. Torino, Einaudi, L'albero del riccio, Milano, Milano-sera, 1Americanismo e fordismo, Milano, Ed. cooperativa Libro popolare, Ultimo discorso alla Camera. Padova, R. Guerrini, Antologia popolare degli scritti e delle lettere di Antonio Gramsci, Roma, Editori Riuniti, Il Vaticano e l'Italia, Roma, Editori Riuniti, Note sulla situazione italiana, Milano, Rivista storica del socialismo, 2000 pagine di Gramsci Nel tempo della lotta. Milano, Il Saggiatore, Lettere edite e inedite. Milano, Il Saggiatore, Elementi di politica, Roma, Editori Riuniti, La formazione dell'uomo. Scritti di pedagogia, Roma, Editori Riuniti, Scritti politici La guerra, la rivoluzione russa e i nuovi problemi del socialismo italiano, Roma, Editori Riuniti, Il Biennio rosso, la crisi del socialismo e la nascita del Partito comunista, Roma, Editori Riuniti, Il nuovo partito della classe operaia e il suo programma. La lotta contro il fascismo, Roma, Editori Riuniti, Scritti Milano, I quaderni de Il corpo, Dibattito sui Consigli di fabbrica, Roma, La nuova sinistra, Paolo Spriano, Scritti politici, Roma, Editori Riuniti, L'alternativa pedagogica, Firenze, La nuova Italia, I consigli e la critica operaia alla produzione, Milano, Servire il popolo, La lotta per l'edificazione del Partito comunista, Milano, Servire il popolo, Il pensiero di Gramsci, Roma, Editori Riuniti, Il pensiero filosofico e storiografico di Antonio Gramsci, Palermo, Palumbo, Resoconto dei lavori del III congresso del P.C.D.I. (Lione), Milano, Cooperativa editrice distributrice proletaria, Scritti sul sindacato, Milano, Sapere, Aul fascismo, Roma, Editori Riuniti, Quaderni del carcere Quaderni, Torino, Einaudi, Quaderni, Torino, Einaudi, 1975. Quaderni, Torino, Einaudi, Apparato critico, Torino, Einaudi, La rivoluzione italiana, Roma, Newton Compton, Arte e folclore, Roma, Newton Compton, Scritti Inediti da Il Grido del Popolo e dall'Avanti. Con una antologia da Il Grido del Popolo, Milano, Moizzi, Ricordi politici e civili, Pavia,Scritti nella lotta. Dai consigli di fabbrica, alla fondazione del partito, al Congresso di Lione, Livorno, Edizioni Gramsci, Scritti sul sindacato, Roma, Nuove edizioni operaie, A Delio e Giuliano, Milano, N. Milano,  I consigli di fabbrica, Milano, Amici della casa Gramsci di Ghilarza, Centro milanese, Favole di libertà, Firenze, Vallecchi, Scritti, Cronache torinesi. Torino, Einaudi, La città futura. Torino, Einaudi, Il nostro Marx. Torino, Einaudi, L'Ordine nuovo, Torino, Einaudi, Nuove lettere di Antonio Gramsci. Con altre lettere di Piero Sraffa, Roma, Editori Riuniti, Forse rimarrai lontana.... Lettere a Iulca, Roma, Editori Riuniti,  Gramsci al confino di Ustica. Nelle lettere di Gramsci, di Berti e di Bordiga, Roma, Editori Riuniti, Le sue idee nel nostro tempo, Milano, l'Unità, Lettere dal carcere, con nuove lettere in parte inedite, Roma, l'Unità, Il rivoluzionario qualificato. Scritti, Roma, Delotti, Il giornalismo, Roma, Editori Riuniti, Lettere, Torino, Einaudi, Per una preparazione ideologica di massa: introduzione al primo corso della scuola interna di partito, aNapoli, Laboratorio politico, Scritti di economia politica, Bollati Boringhieri, Torino, Vita attraverso le lettere, Torino, Einaudi,  Disgregazione sociale e rivoluzione. Scritti sul Mezzogiorno, Napoli, Liguori, Piove, Governo ladro. Satire e polemiche sul costume degli italiani, Roma, Editori Riuniti, Contro la legge sulle associazioni segrete, Roma, Manifestolibri, Lettere, Torino, Einaudi, Le opere, Roma, Editori Riuniti, Critica letteraria e linguistica, Roma, Lithos, Il lettore in catene. La critica letteraria nei Quaderni, Roma, Carocci, La nostra città futura. Scritti torinesi,Roma, Carocci, Pensare l'Italia, Roma, Nuova iniziativa editoriale, Scritti sulla Sardegna. La memoria familiare, l'analisi della questione sarda, Nuoro, Ilisso, Scritti rivoluzionari. Dal biennio rosso al Congresso di Lione, O. Micucci, Camerano, Gwynplaine, Quaderni del carcere. Edizione anastatica dei manoscritti,  Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana-Cagliari-L'Unione Sarda, Epistolario, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Epistolario, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,. Antologia, Antonio A. Santucci, prefazione di Guido Liguori, Roma, Editori Riuniti university press,. Il teatro lancia bombe nei cervelli. Articoli, critiche, recensioni, F. Francione, Mimesis Edizioni. La taglia della storia. Idea e prassi della rivoluzione, NovaEuropa Edizioni,.Note  Luigi Manias, Antonio Sebastiano Francesco Gramsci, Marmilla Cultura, International Gramsci Society, su international gramsci society.org.  Genealogia dei Gramsci (JPG), su albanianews.  Luigi Manias, Ma quando è nato Gramsci?, Marmilla Cultura,  Manias, Ales. La sua storia. I suoi problemi, Marmilla Cultura, Così Gramsci ricordava con ironia l'episodio, nella lettera dal carcere alla cognata Tatiana, aggiungendo che «una zia sosteneva che ero risuscitato quando lei mi unse i piedini con l'olio di una lampada dedicata a una Madonna e perciò, quando mi rifiutavo di compiere gli atti religiosi, mi rimproverava aspramente, ricordando che alla Madonna dovevo la vita»  «Noi eravamo tutti molto piccoli. Lei dunque doveva anche accudire alla casa. Trovava il tempo per i lavori di cucito rinunziando al sonno». Così ricordava quegli anni la sorella Teresina Gramsci, in Fiori, Lettera a Tatiana Schucht, così scriveva per invitare la cognata a non eccedere nelle sue preoccupazioni sulla sua vita di carcerato. La lettera prosegue infatti: «Ho conosciuto quasi sempre solo l'aspetto più brutale della vita e me la sono sempre cavata, bene o male»  Lettera a Tatiana Schucht, Numerose sono le richieste di denaro al padre:  gli scrive di essere «proprio indecente con questa giacca che ha già due anni ed è spelacchiata e lucida [oggi non sono andato a scuola perché mi son dovuto risuolare le scarpe» e, il 16 febbraio, che «per non farvi vergognare non sono uscito di casa per dieci giorni interi»  Fonzo, Testimonianza in Fiori, Testimonianza della sorella Teresina in Fiori, Fiori, L'articolo è riportato in Fiori, Riportato in A. Gramsci, Scritti politici  Antonio Gramsci, Dizionario di Storia, Treccani  [«io pensavo allora che bisognava lottare per l'indipendenza nazionale della regione: "Al mare i continentali". Poi ho conosciuto la classe operaia di una città industriale e ho capito ciò che realmente significavano le cose di Marx che avevo letto prima per curiosità intellettuale». Cfr. A. Gramsci, lettera a Giulia Schucht, in A. Gramsci, Lettere. Gramsci e l'isola laboratorio, La Nuova Sardegna  A. Gramsci. Lettere. Progettando, in carcere, uno studio di linguistica comparata, mai realizzato, in una lettera dal carcere dalla cognata Tatiana, ricorda come «uno dei maggiori "rimorsi" intellettuali della mia vita è il dolore profondo che ho procurato al mio buon professor Bartoli dell'Torino, il quale era persuaso essere io l'arcangelo destinato a profligare definitivamente i "neogrammatici"» della linguistica. Tuttavia già l'economista Amartya Sen aveva avanzato l'ipotesi che il passaggio ai giochi linguistici di Ludwig Wittgenstein nelle Ricerche filosofiche fosse stato ispirato dai Quaderni dal carcere. Nel suo recente studio Gramsci and Wittgenstein: an intriguing connection, Pipero ha aggiunto nuovi elementi che dimostrano il collegamento fra Gramsci e Wittgenstein tramite Sraffa. Infatti il filosofo viennese venne a conoscenza del Quaderno 29, grazie proprio al suo amico Sraffa che aveva conosciuto a Cambridge. Lettera dal carcere: in essa Gramsci ricorda ancora un simpatico e patetico episodio. Dopo la rottura avvenuta a causa di quell'articolo che fece «piangere come un bambino e stette chiuso in casa il Cosmo per alcuni giorni», essi s'incontrarono nel nell'Ambasciata d'Italia a Berlino, dove il professore era segretario: «il Cosmo mi si precipitò addosso, inondandomi di lacrime e di barba e dicendo a ogni momento: Tu capisci perché! Tu capisci perché! Era in preda a una commozione che mi sbalordì, ma mi fece capire quanto dolore gli avessi procurato nel 1920 e come egli intendesse l'amicizia per i suoi allievi di scuola»  Lettera dal carcere a TSchucht  In Fiori, In A. Gramsci, Scritti politici, I56-59  Davico12.  Lettera dal carcere a Tatiana Schucht Lettera dal carcere a Tatiana Schucht, Recensione Recensione Recensione Spriano, Note sulla rivoluzione russa, ne Il Grido del Popolo, in Gramsci,  I massimalisti russi, ne Il Grido del Popolo, iSpriano, La rivoluzione contro il «Capitale», nell'Avanti!, Nella lettera Marx scriveva a Vera Zasulič che la tipica proprietà comune agricola russa poteva essere salvata dalla distruzione minacciata dallo sviluppo dei rapporti capitalistici: «Per salvare la comune russa, occorre una rivoluzione russa. Se la rivoluzione scoppierà a tempo opportuno, se l'intelligencija concentrerà tutte le forze «vive del paese» nell'assicurare alla comune agricola un libero spiegamento, allora la comune ben presto evolverà come elemento di rigenerazione della società russa e, insieme, di superiorità sui paesi ancora asserviti dal regime capitalistico». Inoltre, nella prefazione all'edizione russa del Manifesto,Marx ed Engels avevano scritto che «l'odierna proprietà comune potrà servire di partenza per una evoluzione comunista». È anche vero, tuttavia, almeno nel caso della lettera alla Zasulič, che Gramsci all'epoca non poteva conoscerne il contenuto. (Cfr. Cinella, L'altro Marx, Della Porta Editori, Pisa-Genova, A. Gramsci, Ordine Nuovo, A. Gramsci, ibidem  Corriere della Sera, Archivio Centrale dello Stato, Min. Int., Dir. Gen. PS, Ordine Nuovo, 8 maggio 1920, in Scritti politici, IConcluso con un ordine del giorno che prospettava la conquista violenta del potere e la dittatura del proletariato  Per un rinnovamento del Partito socialista, ne L’ordine Nuovo, in Gramsci, Lenin, nel suo discorso all'Internazionale Comunista, invitando a espellere dal partito socialista l'ala destra riformista, disse che «all'indirizzo dell'Internazionale Comunista corrisponde l'indirizzo dei militanti dell'Ordine Nuovo e non l'indirizzo dell'attuale maggioranza dei dirigenti del partito socialista e del loro gruppo parlamentare». Lenin, Opere, Ordine Nuovo, in Scritti politici, GRAMSCI La sposa mandata da Lenin  Lettera, in A. Gramsci, Lettere Lettera dal carcere. Un profilo di Antonio Gramsci junior, su channelingstudio.ru.  Su alcune note di uno sconosciuto bolscevico Vladimir Diogotche sosteneva, fra l'altro, di essere a conoscenza di un tentativo di rovesciamento della monarchia italiana da parte di Nitti in accordo con i socialistilo storico Jaroslav Leontiev ha sostenuto nche la conoscenza tra Gramsci e la Schucht sia stata "pilotata" da Lenin in persona: cfr. Link archivio del Corriere  Amendola,  In Togliatti, In Togliatti, Lettera di Gramsci a Giulia Schucht,  Lettera a Giulia Schucht, La crisi italiana, ne L’Ordine Nuovo, 1º settembre 1924, in Gramsci, Camera dei Deputati, XXVII legislatura del Regno d'Italia, "Capo", in L'Ordine Nuovo, pubblicato successivamente col titolo di Lenin capo rivoluzionario, in l'Unità, «Capo», ne L’ordine Nuovo, in Gramsci, Anche alle autorità francesi fu nascosto lo svolgimento del Congresso. Sul III CongressoSpriano, Storia del Partito comunista italiano, Spriano, Spriano,  Spriano, Spriano, Antonio Gramsci, Tesi di Lione, Lione, Antonio Gramsci, La questione meridionale, Editori Riuniti,  «Alcuni temi della quistione meridionale». Stato operaio,  Citato in Rosario Villari, Il Sud nella Storia d'Italia. Antologia della Questione meridionale, Roma-Bari, Laterza, Antonio Gramsci, Cinque anni di vita del partito, L'Unità,  Fiori, Spriano, Aurelio Lepre, Il prigioniero. Vita di Antonio Gramsci, Editori Laterza, Bari, La lettera, non datata, si ritiene sfu pubblicata per la prima volta in Francia da Tasca. Su tutta la questione della lotta interna nel partito comunista sovietico di questo periodoSpriano, cit., II, ca 3 e 5  A. Gramsci, Lettere Lettera di Togliatti a Gramsci, Commissione di assegnazione al confino di Roma, ordinanza dcontro Antonio Gramsci (“Dirigenti e deputati del PCd'I dichiarati decaduti”). In Pont, Carolini, L'Italia al confino, Le ordinanze di assegnazione al confino emesse dalle Commissioni provinciali (ANPPIA/La Pietra), Tornata Camera dei deputati Fiori,  In Fiori, Sentenza contro Antonio Gramsci e altri (“Ricostituzione di partito disciolto, propaganda, cospirazione, istigazione alla lotta armata ecc.”). In Pont, Carolini, L'Italia dissidente e antifascista. Le ordinanze, le Sentenze istruttorie e le Sentenze in Camera di consiglio emesse dal Tribunale speciale fascista contro gli imputati di antifascismo, Milano (ANPPIA/La Pietra),  Amendola142.  Spriano, Lettera a Tatiana Schucht, Fiori, Fiori,  Fiori, Risoluzione per l'espulsione di Amedeo Bordiga  Fiori, Pubblicato in «Rinascita», In «Rinascita», cit.  Dalla biografia di Pertini pubblicata nel sito web del Circolo Sandro Pertini di Genova: «Chiesi al maresciallo dei carabinieri che comandava la scorta se poteva dirmi dove mi portavano. Quando questi fece il nome di Turi me ne rallegrai. Ero contento perché sapevo che là avrei incontrato Antonio Gramsci, un uomo che avevo sempre ammirato per il suo coraggio». A Turi incontrai Gramsci in un angolo del cortile dove coltivava un'aiuola di fiori; era piccolo di statura e con due gobbe: una davanti ed una di dietro. Mi avvicinai a lui, mi presentai, gli affermai che venivo da Santo Stefano e che ero onorato di fare la sua conoscenza. Gli davo del lei e lo chiamavo Onorevole Gramsci. Lui si mise a ridere, dicendomi: "Perché mi dai del lei? Siamo antifascisti, vittime del Tribunale speciale tutti e due. Io gli ricordai che per loro, i comunisti, noi eravamo dei social-traditori. Disse di lasciar stare quella polemica penosa. Ci vedemmo dopo qualche giorno e parlò di Turati e Treves in maniera che mi sembrò offensiva ed io risposi con durezza. Il giorno dopo si scusò, dicendo che il suo era un giudizio politico, non aveva avuto intenzione di offendere le persone, e capiva la mia reazione in favore di due compagni che si trovavano in Francia. Da allora diventammo buoni amici. Parlavamo a lungo insieme anche perché era stato isolato dai suoi. Per certi versi costoro lo consideravano un traditore e chiedevano la sua espulsione dal partito, come poi fecero anche con Ravera. In cella Gramsci era perseguitato dai carcerieri. L’ordine di non lasciarlo dormire arrivasse direttamente da Roma. Io andai dal direttore del carcere a protestare perché i carcerieri, ogni volta che Gramsci si addormentava, lo svegliavano facendo scorrere sulle sbarre della finestra dei bastoni, con la scusa di controllare che le sbarre non fossero state segate per un'evasione. Dissi al direttore che se la situazione non fosse cambiata, avrei scritto una lettera al ministero. Il risultato fu che Gramsci, già gravemente malato di tubercolosi poté dormire tranquillo. Le mie proteste costrinsero il direttore del carcere di Turi a concedere a Gramsci anche alcuni quaderni, delle matite, un tavolino ed una sedia. Così poterono nascere i quaderni dal carcere. La mia amicizia mi mise in contrasto con il direttore del carcere e forse non fu estraneo al mio trasferimento a Pianosa. Lettera a Tatiana Schucht, Lettera a Tatiana Schucht,  Alla fine degli anni settanta cominciò a circolare la voce secondo la quale Gramsci in punto di morte si sarebbe convertito alla fede cattolica. Tale affermazione venne però ritrattata dallo stesso religioso che l’aveva inavvertitamente messa in circolazione, chiamando a supporto della smentita l’allora cappellano della clinica Quisisana. Nonostante le chiare argomentazioni della rettifica, trent’anni dopo la medesima tesi fu riproposta da un altro sacerdote. Essendo priva di riscontri documentali e di prove testimoniali, la teoria della conversione di Gramsci non è mai stata avvalorata dagli storici. Cfr. S.Fio., Gramsci e il sacerdote pentito, La Repubblica, Il Vaticano: «Gramsci trovò la fede», Il Corriere della Sera, C. Daniele, Togliatti editore di Gramsci, Carocci, Quaderni del carcere, Il Risorgimento, Einaudi, Torino, Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce Quaderni del carcere, Quaderni del carcere, ed. Gerratana,  Cirese, Baratta, Giulio Angioni, Gramsci e il folklore come cosa seria, in Fare, dire, sentire. L'identico e il diverso nelle culture, Il Maestrale, Note sul Machiavelli,  Gli intellettuali e l'organizzazione della cultura, Quaderni del carcere, cLetteratura e vita nazionale, Il materialismo storico e la filosofia di Croce, L. Rosiello, Problemi e orientamenti linguistici negli scritti di Antonio Gramsci, Quaderni dell'Istituto di glottologia di Bologna,A. Gramsci, V. Gerratana, Torino, Einaudi, A. Gramsci, Quaderni del carcere, V. Gerratana, Torino, Einaudi, V. Gerratana, Torino, Einaudi, V. Gerratana, Torino, Einaudi, Gramsci, Gerratana, Torino, Einaudi, G. I. Ascoli, Proemio, AGI, Gramsci, 'Quaderni del carcere', V. Gerratana, Torino, Einaudi, Quaderni del carcere, V. Gerratana, Torino, Einaudi, 'Quaderni del carcere', V. Gerratana, Torino, Einaudi, L. Rosiello, Lingua nazione egemonia, Rinascita Il Contemporaneo, Rapone, Leonardo, Cinque anni che paiono secoli: Gramsci dal socialismo al comunismo, 1a ed, Carocci,,  Fonzo,  Maria Luisa Bosi, Antonio Gramsci, su scuolalo divecchio. giovannicarpinelli, Gramsci e la musica, su Palomar, La passione sconosciuta di Gramsci per la musica, in L’Huffington Post. Premio letterario Viareggio-Rèpaci, Amendola, Storia del Partito comunista italiano Roma, Editori Riuniti, Perry Anderson, Ambiguità di Gramsci, Bari, Laterza, Giulio Angioni, Gramsci e il folklore come cosa seria, in Fare, dire, sentire. L'identico e il diverso nelle culture, Il Maestrale, Francesco Aqueci, Il Gramsci di un nuovo inizio, Quaderno, Supplemento al n. 19  di «AGON», Rivista Internazionale di Studi Culturali, Linguistici e Letterari, Francesco Aqueci, Ancora Gramsci, Roma, Aracne,. Nicola Auciello, Socialismo ed egemonia in Gramsci e Togliatti, Bari, De Donato, Nicola Badaloni e altri, Attualità di Gramsci, Milano, Il Saggiatore, Baratta, Antonio Gramsci in contrappunto. Dialoghi col presente, Roma, Carocci, Bobbio, Saggi su Gramsci, Milano, Feltrinelli, Calamandrei e Calogero, La conoscenza di Gramsci in Inghilterra. Una lettera di Guido Calogero e una nota di Franco Calamandrei, in «L'Unità» Mauro Canali, Il tradimento. Gramsci, Togliatti e la verità negata, Venezia, Marsilio,. Antonio Carrannante, Sull'uso di 'galantuomo' in Gramsci, in "Studi novecenteschi",  Antonio Carrannante, Antonio Gramsci e i problemi della lingua italiana, in "Belfagor",  Iain Chambers, Esercizi di potere. Gramsci, Said e il postcoloniale, Roma, Meltemi editore, Cirese, Intellettuali, folklore, istinto di classe, Torino, Einaudi, Marco Clementi, Le ceneri di Gramsci in Stalinismo e Grande Terrore, Roma, Odradek, Guido Davico Bonino, Gramsci e il teatro, Torino, Einaudi, Biagio De Giovanni e altri, Egemonia Stato partito in Gramsci, Roma, Editori Riuniti, D'Orsi, Gramsci. Una nuova biografia, Torino, Einaudi,. Dubla,Giusto (a cura), Il Gramsci di Turi, Testimonianze dal carcere, Chimienti editore, Michele Filippini, Gramsci globale. Guida pratica agli usi di Gramsci nel mondo, Bologna, Odoya,.Giuseppe Fiori, Vita di Gramsci, Bari, Laterza, Fiori, Gramsci Togliatti Stalin, Roma-Bari, Laterza, Erminio Fonzo, Il mondo antico negli scritti di Gramsci, Salerno, Paguro, Eugenio Garin, Con Gramsci, Roma, Editori Riuniti, Valentino Gerratana, Gramsci. Problemi di metodo, Roma, Editori Riuniti, Noemi Ghetti, Gramsci nel cieco carcere degli eretici, Roma, L'Asino d'Oro Edizioni, Gramsci jr., La storia di una famiglia rivoluzionaria, Roma, Editori Riuniti-University Press. Gruppi, Il concetto di egemonia in Gramsci, Roma, Editori Riuniti, Hobsbawm, Gramsci in Europa e in America, Roma-Bari, Laterza,Aurelio Lepre, Il prigioniero. Vita di Antonio Gramsci, Bari, Laterza, Liguori e Voza, Dizionario Gramsciano, Roma, Carocci, Piparo, “I due carceri di Gramsci”, Donzelli, Roma, Losurdo,Gramsci. Dal liberalismo al comunismo critico, Roma, Gamberetti editrice, Mario Alighiero Manacorda, Il principio educativo in Gramsci. Americanismo e conformismo, Roma, Editori Riuniti, Michele Martelli, Gramsci filosofo della politica, Milano, Unicopli, Mondolfo, Da Ardigò a Gramsci, Milano, Nuova Accademia, Raul Mordenti, Gramsci e la rivoluzione necessaria, Roma, Editori Riuniti University Press, Omar Onnis e Manuelle Mureddu, Illustres. Vita, morte e miracoli di quaranta personalità sarde, Sestu, Domus de Janas, Paggi, Gramsci e il moderno principe, Roma, Editori Riuniti, Pastore, Gramsci. Questione sociale e questione sociologica, Livorno, Belforte, Portelli, Gramsci e il blocco storico, Bari, Laterza,Rapone, Cinque anni che paiono secoli. Antonio Gramsci dal socialismo al comunismo, Carocci, Roma, Rossi, Vacca, Gramsci tra Mussolini e Stalin, Roma, Fazi editore, Angelo Rossi, Gramsci da eretico a icona. Storia di un "cazzotto nell'occhio", Napoli, Guida editore,. Angelo Rossi, Gramsci in carcere. L'itinerario dei Quaderni, Napoli, Guida editore, Santhià, Con Gramsci all'Ordine Nuovo, Roma, Editori Riuniti, Santucci, Gramsci. Palermo, Sellerio, Spriano, Storia di Torino operaia e socialista, Torino, Einaudi, Paolo Spriano, Storia del Partito comunista italiano,I, Torino, Einaudi, Spriano, Storia del Partito comunista italiano,II, Torino, Einaudi, Spriano, Gramsci e Gobetti. Introduzione alla vita e alle opere, Torino, Einaudi, Paolo Spriano, Gramsci in carcere e il partito, Roma, Editori Riuniti, Elettra Stamboulis, Gianluca Costantini, Cena con Gramsci, Padova, Becco Giallo,. Giuseppe Tamburrano, Gramsci: la vita, il pensiero e l'azione, Bari-Perugia, Lacaita, 1963. Palmiro Togliatti, La formazione del gruppo dirigente del Partito comunista italiano Roma, Editori Riuniti, Togliatti, Scritti su Gramsci, Roma, Editori Riuniti, Vacca, Gramsci e Togliatti, Roma, Editori Riuniti. Treccani, Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Casa museo Gramsci a Ghilarza, Fondazione Istituto Gramsci. Antonio Sebastiano Francesco Gramsci. Antonio Gramsci. Grice: “When Austin speaks of ‘ordinary language,’ he knows what he is talking about; when Gentile, Gramsci, and Ascoli, do, they don’t!” -- Grice: “Elites are so relative; when I came to Oxford, I was regarded as a ‘Midlands scholarship boy’ and thus assigned Corpus; there was no way I would socialise with Hampshire, Austin, and the others who were philososophising at All Souls on Thursday evenings – I had just been born on the wrong side of the track. So it was particularly obtuse for me when Gellner started to criticise me as elitist! Perhaps he had read too much Gramsci!?” Gramsci. Keywords: “Grice, elite” – Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gramsci” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51686162750/in/photolist-2mRi7qi-2mQCrJc-2mQerAd-2mPTNKh-2mPY4jk-2mPTYES-2mPPzb6-2mPWrv4-2mPKvMM-2mN8nen-2mMQbzj-2mLP4Rj-2mLQdrQ-2mKNNqN-2mPsfT9-2mKyErQ-2mKjqrr-2mKk6t5-2mKfNvB-2mKjVho-2mKbfaU

 

Grice e Gregorio – l’arte grammatica degl’angeli – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo. Da roma -- il grande: Grice: “For one, he is the punning Pope!”  Grice: “What WAS Gregorio’s implicatura? A complex one, since he uses the counterfactual: “si angeli fuessent.” Grice: “In The Sellars/Yeatman rewrite, the meta-implicata is that you must have read Bede!” Grice: “Poor Gregorio Magno had to fight with the Lonbards, and the sad thing is he lost!” --  Grice takes inspiration on Shropshire’s argument for the immortality of the soul from Gregorio Magno (Dialogo, IV). Figlio di Gordiano, appartenente all'aristocrazia senatoriale, la classe dominante dell'antica Roma che mantene prestigio economico e sociale, nonostante la caduta dell'Impero, e di Silvia, appartenente a una ricca famiglia siciliana. La sua "ars grammatica" fu limitata e lo stile che denota i suoi scritti è in linea con quello degli scrittori tardo-antichi. Di questi imita, in particolare, solo poche figure retoriche come l'anafora ed il gusto dell'esempio e dell'aneddoto moralizzante. La sua conoscenza del diritto si centra in Cicerone, da cui riprende anche definizioni e nozioni filosofiche del stoicismo. Insegna su colle Celio. Secondo la tradizione, mentre Gregorio attraversava, alla testa della processione, il ponte che collegava l'area del Vaticano con il resto della città (chiamato allora "Ponte Elio" o "Ponte di Adriano", oggi Ponte Sant'Angelo), ebbe la visione dell'Arcangelo Michele che, in cima alla Mole Adriana, rinfoderava la sua spada. La visione (che secondo alcune fonti fu condivisa da tutti i partecipanti alla processione) venne interpretata come un “segno” celeste pre-annunciante l'imminente fine dell'epidemia, cosa che effettivamente avvenne. Da allora i romani cominciarono a chiamare la Mole Adriana "Castel Sant'Angelo" e, a ricordo del prodigio, posero più tardi sullo spalto più alto la statua di un angelo in atto di rinfoderare la spada. Ancora oggi nel Campidoglio è conservata una pietra circolare con impronte dei piedi che, secondo la tradizione, sarebbero quelle lasciate da Michele quando si fermò per annunciare la fine della peste.  Vede alcuni giovani schiavi britannici esposti per la vendita, bellissimi di aspetto e pagani, tanto da aver esclamato, rammaricato: "Non Angli, ma Angeli dovrebbero esser chiamati…".  Comunque in meno di due anni diecimila Angli, compreso il re del Kent Ethelbert – e la famiglia di Grice -- si convertirono.Obiettò invece sulla proibizione ai soldati imperiali di diventare «soldati di Cristo», ovvero di entrare a far parte del clero. Gregorio avrebbe dettato i suoi canti a un monaco, alternando la dettatura a lunghe pause; il monaco, incuriosito, avrebbe scostato un lembo del paravento di stoffa che lo separava dal pontefice, per vedere cosa egli facesse durante i lunghi silenzi, assistendo così al miracolo di una colomba (che rappresenta naturalmente lo Spirito Santo), posata su una spalla del papa, che gli dettava a sua volta i canti all'orecchio. Opere: “Expositio super Cantica canticorum – “Cantico dei cantici”; “Moralia in Job (Giobbe); “Homiliae in Evangelia”, omelie sui Vangeli; Homiliae in Hiezechihelem prophetam, oomelie su Ezechiele; A Sacramentarium Gregorianum con cui riformò il canone della messa, rendendola più semplice ma più solenne; Antiphonarius centola nuova redazione del libro dei canti liturgici; Dialoghi; Libro su santi italiani a lui coevi; “San Benedetto da Norcia” “Sul destino dell'anima” “Su alcune profezie”; “Regula Pastoralisun manuale per la vita e l'opera dei vescovi e in generale di coloro che ricoprono il ministero pastorale; Le Epistolaeun registrum,«12 marzoA Roma presso san Pietro, deposizione di san Gregorio I, papa, detto il grande, la cui memoria si celebra il 3 settembre, giorno della sua ordinazione.»  «3 settembreMemoria di san Gregorio Magno, papa e dottore della Chiesa: dopo avere intrapreso la vita monastica, svolse l'incarico di legato apostolico a Costantinopoli; eletto poi in questo giorno alla Sede Romana, sistemò le questioni terrene e come servo dei servi si prese cura di quelle sacre.”“Si mostrò vero pastore nel governare la Chiesa, nel soccorrere in ogni modo i bisognosi, nel favorire la vita monastica e nel consolidare e propagare ovunque la fede, scrivendo a tal fine celebri libri di morale e di pastorale.”Il Proprio del santo in rito romano contiene la seguente colletta:[ «Deus, qui pópulis tuis indulgéntia cónsulis et amóre domináris, da spíritum sapiéntiae, intercedénte beáto Gregório papa, quibus dedísti régimen disciplínae, ut de proféctu sanctárum óvium fiant gáudia aetérna pastórum. Per Dominum nostrum Iesum Christum»  La Chiesa di Manduria custodisce un frammento d'osso del suo braccio destro. La Chiesa di Casola custodita un frammento d'osso della sua mano destra. G. Pepe, Il Medio Evo barbarico d'Italia,  Dizionario Biografico degli ItalianiVolume 59, Roma, Claudio Mareschini, Gregorio Magno e la cultura classica” Gregorio scrisse di sé «ego quoque tunc urbanam praeturam gerens pariter subscripsi», ma poiché in una variante del testo praeturam è sostituita da praefecturam, dalle sue epistole non è possibile sapere con esattezza se fu "prefetto dell'Urbe" o piuttosto "pretore dell'Urbe".  S. Gasperri, Italia longobarda, Laterza, Dialogi, Roma, Tipografia del Senato, Dizionario biografico degli italiani, Opera Omnia dal Migne patrologia Latina con indici analitici. Gregorio da Roma – Grice: “Gregory did not know what those were: ‘angeli,’ his companion answered. Adamant, Gregory corrected him: “No. They are Anglicans, they are not angels!” -- The grammatical structure of Latin of the seventh to eighth centuries had changed in comparison with the Latinitas of the fourth century. Although Bede builds his argument on the Grammar textbooks of Antiquity, he adopts Gregory the Great’s directive to subject the grammar rules to the language of the Scriptures and not to ancient Grammar textbooks. GREGORY THE GREAT, Moralia in Iob, PL 75, col. 516: ‘quia indignum uehementur existimo, ut uerba caelestis oraculi restringam sub regulis Donati’ (‘I consider it strongly unworthy to restrict the words of divine revelation to the rules of Donatus’). Gregory did NOT write an ‘ars grammatica’ – Bonifacio did! – Gregorio does mention the ‘sub regulis Donati’ – which is worth transcribing: “sed tam pueriliter istum labi non indignum fortasse fuit, qui litteras fastidit et pro nugis habet, iisque studere episcopum, impium et profanum putat – et alibi pene gloriatur se artem loquendi, quam magisterial disciplinae exterioris insinuant, servare despexisse, non barbarism confusionem devitare, situs motusque praepositionum, casusque servare contemnere, quia indignum (inquit) vehementur existimo ut verba caelestis oraculi restringam sub regulis Donati – quasi vero humani divinique sermonis leges addiscere et observare, id sit caelestia oracular subiiere. —Non metacismi collisionem fugio, non barbarism confusionem devito, situs motusque et praepositionum casus servare contemno, quia indignum vehementer exisitimo ut verba caelestis oraculi restringam sub regulis Donati – Non rifuggo dalla collisione del metacismo, non evito la mescolanza di barbarism, non tengo conto della posizione, degli spostamenti e delle preposizioni con I casi che esse reggono, perche repute cossa assai indegna coartare le parole del celeste oracolo entro le regole di Donato – Ep. Miss. C. 5 PL LXXXV, 516 B – Cio che a Gregorio sembra indegno non e l’obbedire alle regole della grammatica – anche in questo e uomo di disciplina – ma la retorica di Donato, che teoreizza e prescribe, contro la LIBERTA dell’espresione originale, il capriccio del maestro – Ructat corde bonum sine lege Donati verbum – la parola buona erompe dal cuore senza le leggi di Donato. – sommamente disdicevole assogettare le parole dell’oracolo celeste alle regole di Donato. L’esegeta del libro di Giobbe non trascura di continuo le norme grammaticali. Gregorio sa scegliere tra due letture di un medesimo vesetto, indicare I tropi di paragone e di metonimia, il valore della congiunzione di coordinarzione, l’etimologia di una parola. Insomma, Gregorio non esclude dall sua esegesi il iicorso ai metodoi di I spegazione grammaticale classica. Facendo mostra di una conosenza ostentata della tecnologia grammatical Gregorio si preoccupa evidentemente di far comprendere che il suo NON-VOLERE non e un NON-Sapere. It was said a pigeon dictated his Gregorian chants. Not only did he see the angel land on ponte sant’angelo, but was able to retrieve the stone and give it to the Campidoglio – he joked on the anglii being potentially angels, should they were Roman!” – I limite dei arti liberali in Gregorio. Grice: “It was a good thing for Western civilization that Gregorio could care less about Greek!” --  Gregorio il Grande, Gregorio I – Gregorio Magno. Gregorio. Keywords: angeli, ars grammatica – Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gregorio: implicatura e grammatica” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51755718418/in/dateposted-public/

 

Grice e Grandi – il progresso all’infinito della rosa di Grandi -- implicatura infinita – filosofia italiana – Luigi Speranza (Cremona). Filosofo.  Grice: “I like Grandi – and Grandy – for one, Grandi (if not Grandy) proves that geometry is a branch of mathematics with his rose curve – a geniality!” – Figlio di Piero Martire,  ricamatore, e Caterina Legati, compì i suoi primi studi di grammatica sotto la guida di Canneti e poi nel locale Collegio dei Gesuiti, dove ebbe come maestro Saccheri. Entra nel monastero camaldolese di Classe in Ravenna, assumendo il nome Guido in sostituzione degli originari Francesco Lodovico, e qui ritrovò il maestro Canneti.  Proseguiti gli studi a Roma e Firenze, insegna a Firenze. Pubblica “La quadratura del cerchio” “La quadrature dell'iperbole” al cui interno scopre il paradosso: la somma parziale di una serie (“serie di Grandi) a segni alterni di numeri può non convergere (serie di Grandi). Divenne membro della corte presso il granduca di Toscana. Insegna a Pisa. Studia la curva algebrica da lui chiamata "rodonea" per la forma che ricorda il rosone delle chiese e fu autore degli Elementi di Geometria di Euclide (Venezia, Savioni). Fu il primo l’analisi degli infiniti. Saggi: “De infinitis infinitorum”; “Trattato delle resistenze” (Firenze); “Geometrica demonstratio vivianeorum problematum” (Firenze, Guiducci); “De infinitis infinitorum, et infinite parvorum ordinibus disquisitio geometrica” (Pisa, Bindi); “Epistola mathematica de momento gravium in planis inclinatis” (Lucca, Frediani); “Dialoghi circa la controversia eccitatagli contro Marchetti” (Lucca, Gaddi); “Prostasis ad exceptiones clari varignonii libro de infinitis infinitorum ordinibus oppositas circa magnitudinum plusquam-infinitarum vallisii defensionem et anguli contactus” (Pisa, Bindi); “Del movimento dell'acque trattato geometrico” (Firenze); “Relazione delle operazioni fatte circa il padule di Fucecchio” (Lucca, Venturini); “Trattato delle resistenze” (Firenze, Tartini); “Compendio delle Sezioni coniche d'Apollonio con aggiunta di nuove proprietà delle medesime sezioni” (Firenze, Tartini); “Instituzioni Meccaniche” (Firenze, Tartini); “Istituzioni di aritmetica pratica” (Firenze, Tartini); “Sectionum conicarum synopsis” (Firenze, Giovannelli); “Idraulici italiani."Rodonea" deriva dal greco Ροδή, rosa. La curva rodonea è anche chiamata "rosa di Grandi" in suo onore. G. Ortes, Vita del abate camaldolese, matematico dello Studio Pisano, Venezia,  Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Enciclopedia Italiana, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Rodonea Sofisma algebrico Treccani Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Crusca. Carteggi del padre camaldolese matematico. Francesco Lodovico Grandi – Grice: “I like Grandi: I have two ways to deal with ‘mean’: ‘no sneaky intention allowed, including this – (o) all intentions are open ones, including this one – self-reference; or ‘optimal infinite’ potential infinite/actual infinite – titular versus de facto. In any case, both are better than pseudo-Schiffer!” Grice: “While I say, “Schiffer and others,” it should be pointed out that the first to show this was, of all people, my tutee Strawson – Stampe and Patton came close! (I love them guys! Patton is a gentleman, and Stampe, too! Both brilliant philosophical gentlemen, too!” --  In geometria è detta rodonea la curva algebrica o trascendente il cui grafico è caratterizzato da una serie di avvolgimenti attorno ad un punto centrale. Nei casi più noti tali avvolgimenti producono figure a forma di rosone, da cui deriva alla curva il nome rodonea (dal greco rhódon, ròsa). La curva rodonea è chiamata anche rosa di Grandi da Luigi Guido Grandi, il matematico che la battezzò e studiò intorno al 1725.   Rodonee ottenute per valori diversi del parametro {\displaystyle \omega ={\frac {n}{d}}} Tartapelago rosaGrandi 04.gif  Vari modi per la costruzione di Rose di Grandi. Animazioni realizzate in MSWLogo[1] La rodonea si può considerare un caso particolare di ipocicloide.  Equazione della curvaL'equazione delle rodonea in coordinate polari {\displaystyle (\rho ,\theta )}è:  {\displaystyle \rho =R\sin \omega \theta }, dove R è un numero reale positivo che rappresenta la massima distanza della curva dal centro degli avvolgimenti, e \omega  è un numero reale positivo che determina la forma della curva. È possibile anche scrivere la rodonea come {\displaystyle \rho =R\cos \omega \theta }, che produce una figura analoga, ma ruotata di un angolo pari a {\displaystyle {\frac {\pi }{2\omega }}}radianti.  Proprietà Se \omega  è un numero intero, la curva ha un numero finito di avvolgimenti, tutti passanti per l'origine degli assi, che generano una serie di "petali" componenti la figura a forma di rosone; il numero dei petali è pari a:  \omega , se \omega  è dispari; {\displaystyle 2\omega }, se \omega  è pari. Osserviamo che non è possibile ottenere rose con un numero di petali pari a {\displaystyle 4n+2}. Per {\displaystyle \omega =1} si ottiene un unico petalo, ovvero una circonferenza non centrata nell'origine.  L'area della superficie racchiusa dalla curva è pari a {\displaystyle {\frac {\pi R^{2}}{2}}} per k pari, a {\displaystyle {\frac {\pi R^{2}}{4}}} per k dispari.  Se \omega  è un numero razionale {\displaystyle {\frac {n}{d}}}, la curva ha un numero finito di avvolgimenti, che si intersecano in più punti creando una serie di petali parzialmente sovrapposti; nella figura a fianco sono visualizzate le rodonee ottenute per alcuni valori di n e d. Come caso particolare, per {\displaystyle \omega ={\frac {1}{2}}}, si ottiene il folium di Dürer.  In entrambi i casi precedenti, la curva ottenuta è algebrica; se invece \omega  è un numero irrazionale, la curva è trascendente ed ha un numero infinito di avvolgimenti che non si chiudono e formano un insieme denso, passando arbitrariamente vicino a ogni punto del cerchio di raggio R.  Note Giorgio Pietrocola, Curve storiche, Rose di Grandi, su Tartapelago, Maecla, 2005. URL consultato il 26 aprile 2021. BibliografiaRhodonea Curves, in The MacTutor History of Mathematics archive, School of Mathematics and Statistics, University of St Andrews, Scotland. URL consultato il 16-07-2008. Voci correlate Ipocicloide Figura di Lissajous PAGINE CORRELATE Sistema di coordinate polari sistema di coordinate bidimensionale  Atomo di idrogeno atomo dell'elemento idrogeno  Metodo simbolico  Il progressus in infinitum (in italiano «progresso all’infinito») o regressus in infinitum («regresso all'infinito») [1], è un'espressione della filosofia scolastica che indica un modo di argomentare logicamente, quando, per spiegare qualcosa, si ricorre a un termine, il quale però rende necessario il rinvio a un nuovo termine, e questo a un ulteriore termine; e cosi via senza che si possa mai giungere a un punto di spiegazione ultimo e definitivo. Questo procedimento logico, usato largamente da Aristotele e dagli scettici, vuole quindi dimostrare l'insufficienza di un'argomentazione. La differenza tra le due espressioni consiste nel ricercare la causa prima (ad esempio: causalità ideale platonica) o spiegazione definitiva di una cosa (ad esempio: causalità naturale aristotelica) procedendo logicamente in avanti (progressus) o all'indietro (regressus). [2]. Un esempio di un procedimento logico basato sul regressus in infinitum si ritrova nell'"Argomento del terzo uomo" di Aristotele.  Immanuel Kant (1724-1804) nella settima sezione della sua Critica della Ragion Pura (1781) chiamava «progressus in indefinitum» questo "infinito per addizione" che «non ammette nessuna limitazione se non quella provvisoria che gli può essere assegnata ad ogni suo passo, prima di procedere al passo successivo». Si tratta di un infinito irraggiungibile, non potendosi contare effettivamente infiniti numeri naturali.   Per questo motivo Aristotele (384-322 a.C.), affermava che «il numero è infinito in potenza, ma non in atto». [3] come appare chiaro se si rappresentano i numeri naturali con una serie di punti equidistanti, che si susseguono senza fine lungo la retta in una successione infinita discreta nel senso che tra due elementi consecutivi c'è uno spazio vuoto, da intendersi come assenza di elementi. Si parla anche di un'infinità numerabile, giacché di questi infiniti elementi è possibile dire qual è il primo, il secondo, il terzo, e così via.  L’infinito potenziale è perciò un infinito ottenuto per divisione; «la caratteristica di tale infinito, che Kant chiamava “regressus in infinitum”, è che esso è interamente contenuto in una totalità limitata: dividendo all’infinito un segmento in parti sempre più piccole, risulta evidente che tutti gli elementi della divisione sono in realtà già assegnati e presenti, prima ancora che la stessa divisione abbia inizio; appartenendo ad una forma limitata essi non possono sfuggire e non possono che essere ritrovati durante un processo all’infinito che inevitabilmente li raggiunge tutti.   La differenza tra “progressus in infinitum” e “regressus in infinitum” secondo Kant sta proprio in questo: nel primo caso gli elementi vanno cercati al di fuori della totalità parziale, sempre finita, che non si cessa mai di ottenere; nel secondo essi vanno trovati in un tutto preesistente.» [4]  Note Dizionario internazionale.it ^ Enciclopedia Treccani alla voce "Regressus in infinitum" ^ Bocconi - Aristotele e l'infinito ^ Mathesis   Portale Filosofia: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di FilosofiaLuigi Guido Grandi. Grandi. Keywords: infinite implicature – Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Grandi: implicatura infinita” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51685536958/in/photolist-2mKAsyK-2mKCfz1-2mKEPJE-2mKAiSV-2mPvmTf-2mKAuZM-2mKjqrr-2mKiPND-2mKbkhx-2mKiNkD-2mJqjKS-2mJq2uE-2mJd7nN-2mJe9QJ-2mJ4GHU-2mJ3q6x-2mGT6p1-2mGnP2f-FXFiS4-E58e4H-Dw1w1R-DhRHD2-DvhhWW-Bq5Mgn-BDuNmW-2mKgTry-2mEd2LM-G7oMm2-G55xdb-G3tvCn-F7umuM-Ecrffr-CRAGiK-CkaHMd-Ckaz7s-CntuMM-CntseF-CdAEaL-CdDizG-CfWKjF-BFQviK-hSTpSd-mwahJ7-mwao2S-myDwnk-mw96Mi-mw8xSD-mw94r6-mwapBq-jkN2VC

 

Grice e Grassi – D’Ovidio a VIco: la metafora inaudita e il concetto di stato in Machiavelli – filosofia fascista -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano). Filosofo. Grice: “I like Grassi. He philosophised, like I did, on the metaphysics of Plato.” Grice: “Grassi has the gift of the gab: ‘metafora inaudita,’ ‘potenza dell’imagine,’ –“ Grice: “Grassi has mainly explored Heidegger.” – Grice: “I like Grassi’s general use of ‘imago’ to re-approach rhetoric!” -- Si laurea a Milano sotto Martinetti. Opere: “Metafisica platonica” (Laterza, Bari) – cf. A. D. Code on H. P. Grice on the axioms of metaphysical Platonism --. “Apparire ed essere” (Nuova Italia, Firenze). “Il bello e l’antico” (Paravia, Torino).“Heidegger e umano – Mann in Heidegger” (Guida, Napoli). “La preminenza della metafora” (Mucchi, Modena). “La filosofia dell'umanesimo. Un problema epocale” (Tempi, Napoli). “La follia -- Umanesimo e retorica” (Mucchi, Modena) “Potenza dell'immagine -- ivalutazione della retorica” (Guerini, Milano) “La metafora inaudita, -- cf. la lingua inaudita -- Massimo Marassi, Aestetica, Palermo “Potenza della fantasia” Guida, Napoli Filosofare noetico non metafisico (Congedo, Galatina); “Vico e l'umanesimo” Guerini, Milano Il dramma della metafora. Ovidio, Massimo Marassi, Tipografica, Roma,“Arte e mito”La Città del Sole, Napoli, “Retorica come filosofia. La tradizione umanistica”, Massimo Marassi, La Città del Sole, Napoli; “Tra antropologia, logica e ontologia”; “l'incidenza di Vico nell'antropologia di Grassi”; “Platone nell’onto-antropo-logia di Grassi Dizionario Biografico degli Italiani.  “La risposta (Antwort) del pensiero è l’origine della parola (Wort) umana”, M. Heidegger, Poscritto a Che cos’è metafisica?“L’espressione metaforica è in sé e per sé una risposta all’appello dell’Essere che si impone qui ed ora, e con il suo carattere immaginifico raggiunge la struttura patetica dell’esistenza”, E. Grassi, La filosofia dell’umanesimo: un problema epocaleAccostandoci ai lavori di Ernesto Grassi possiamo avere, non senza qualche fondamento, l’impressione di trovarci di fronte ad un grande erudito la cui ricchezza e minuziosità di esposizione non rende sempre agevole l’attraversamento di tutte le tappe culturali, oltreché concettuali, toccate. Uno dei motivi di quello stile grassiano, che si snoda tra meditazione e saggio, come testimoniano gli ibridi stilistici contenuti in molti suoi contributi, da Assenza di Mondo a Arte e Mito e Viaggiare ed Errare, può essere rintracciato nella volontà di portare alla luce le diverse zone dell’umano senza tralasciarne alcuna. Il movimento di “anabasi” e “catabasi”, dalla superficie al fondale, dal suolo al sottosuolo, ci restituisce la complessità dei fenomeni culturali che riguardano l’uomo nella sua interezza e non solo una sua parte più o meno preponderante. Nella nostra analisi del pensiero di Grassi abbiamo seguito come filo conduttore il tema dell’onto-antropo-logia che ci appare come una chiave di lettura adeguata per comprendere la sua proposta umanistica-retorica e l’idea di ganzer Mensch che la sottende. La nostra scelta interpretativa non avrà come scopo una ricostruzione storiografica delle diverse tappe del pensiero e della vita.  “La risposta (Antwort) del pensiero è l’origine della parola (Wort) umana”, M. Heidegger, Poscritto a Che cos’è metafisica? “L’espressione metaforica è in sé e per sé una risposta all’appello dell’Essere che si impone qui ed ora, e con il suo carattere immaginifico raggiunge la struttura patetica dell’esistenza”, E. Grassi, La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale Accostandoci ai lavori di Ernesto Grassi possiamo avere, non senza qualche fondamento, l’impressione di trovarci di fronte ad un grande erudito la cui ricchezza e minuziosità di esposizione non rende sempre agevole l’attraversamento di tutte le tappe culturali, oltreché concettuali, toccate. Uno dei motivi di quello stile grassiano, che si snoda tra meditazione e saggio, come testimoniano gli ibridi stilistici contenuti in molti suoi contributi, da Assenza di Mondo a Arte e Mito e Viaggiare ed Errare, può essere rintracciato nella volontà di portare alla luce le diverse zone dell’umano senza tralasciarne alcuna. Il movimento di “anabasi” e “catabasi”, dalla superficie al fondale, dal suolo al sottosuolo, ci restituisce la complessità dei fenomeni culturali che riguardano l’uomo nella sua interezza e non solo una sua parte più o meno preponderante. Nella nostra analisi del pensiero di Grassi abbiamo seguito come filo conduttore il tema dell’onto-antropo-logia che ci appare come una chiave di lettura adeguata per comprendere la sua proposta umanistica-retorica e l’idea di ganzer Mensch che la sottende. La nostra scelta interpretativa non avrà come scopo una ricostruzione storiografica delle diverse tappe del pensiero e della vita dell’autore su cui autorevoli interpreti si sono diffusamente espressi1. Il coacervo di autori, prospettive e tematiche, pone in luce i numerosi ambiti toccati dal filosofo: !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 1 Cfr., R. Messori, Le forme dell’apparire. Estetica, ermeneutica e umanesimo nel pensiero di Ernesto Grassi, Palermo, Centro Internazionale di studi di estetica, 2001; G. Civati, Un dialogo sull’umanesimo. Hans-Georg Gadamer e Ernesto Grassi, l’Eubage, Aosta 2003; R. J. Kozljanic, Ernesto Grassi. Leben und Denken, München, Fink, 2003; W. Büttmeyer, Rettifiche. Laurea, libera docenza e Studia Humanitatis di Ernesto Grassi, in “Giornale critico della filosofia italiana”, LXXXIX, 2010, fasc. I, pp. 148-176; Id., Ernesto Grassi. Humanismus zwischen Faschismus und Nationalsozialismus, München, Alber 2009; J. Sànchez Espillaque, Ernesto Grassi y la filosofìa del humanismo, Sevilla, Biblioteca Viquiana- Fenix Editora, 2010; S. Limongelli, Il problema dell’umano nella filosofia di Ernesto Grassi, Vaprio d’Adda, GDS, 2008; Id., La svolta metaforica dell’ontologia fondamentale, Vaprio d’Adda, GDS, 2009; M. Marassi, Introduzione a E. Grassi, I primi scritti 1922-1946, La città del Sole, Napoli 2011.  ! 4!  mitico/metaforologico, antropologico, filosofico, storia delle idee e storia della cultura. In questo contesto teorico emerge la centralità del concetto di Lichtung, il quale consente di comprendere la direzione metaforologica del pensiero grassiano che nei saggi giovanili si era concentrato maggiormente su una tematizzazione dell’ontologia fenomenologica. Si tratta di una Lichtung di evidente sapore heideggeriano che allarga il suo raggio di incidenza sulla cultura e sulla società trasformandosi nelle vichiane luci della Scienza Nuova. La nostra attenzione si concentrerà sui temi che accompagnano l’iter grassiano dall’ontologia alla metaforologia. In questo percorso ovviamente alcuni temi o spunti resteranno sullo sfondo – come l’agire delle condizioni storico-politiche (magistralmente ricostruite da Büttemeyer) – e si privilegeranno quegli autori e quei temi che più ci appaiono attinenti con l’argomento grassiano che vogliamo mettere in risalto. Dal nostro punto di vista la prospettiva grassiana va interpretata come il tentativo di approntare una nuova filosofia, nell’epoca in cui se ne è decretata la morte, che sia innanzitutto esperienza del mondo e non solamente conoscenza. O meglio: di conoscenza pur sempre si tratta, il punto di riferimento è pur sempre la ragione, ma una ragione non classica: una “ragione fantastica”. La svolta grassiana è verso la fantasia e la metafora2, da una teoria del concetto a una teoria dell’inconcettualità per usare una ben nota espressione blumenberghiana. Il filosofo italo-tedesco accoglie in tutta la sua problematicità l’eredità di quel discorso posto a partire dal Settecento in modo sistematico all’interrogazione filosofica: il conflitto tra ragione e sentimento che agita le pagine degli empiristi, dei poeti, della critica kantiana fino alla tematizzazione husserliana. La questione è ancora una volta quella di riattivare un rapporto uomo-mondo non intrappolato nella rete di una soggettività cogitativa o di un’oggettività alla quale adeguarci, attingendo a un mondo pre-categoriale in cui gli orizzonti della sensibilità e della razionalità, dell’immediatezza dell’atto e della riflessione che lo struttura si intersecano. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 2 Sulla svolta metaforica dell’ontologia fondamentale di Grassi cfr., S. Limongelli, La svolta metaforica dell’ontologia fondamentale, cit.  ! 5!  In questo orizzonte di ricerca dobbiamo compiere atti continui di demitizzazione: una delle mitologie da sfatare per il filosofo è quella della ratio e dell’atto dell’io penso di Cartesio, padre del pensiero moderno. Ma tale operazione decostruttiva, tale filosofia col martello, per usare una ben nota metafora nietzscheana, non si risolve in una mitizzazione, di segno opposto, della crisi della ragione, del tramonto della civiltà in cui cultura e civilizzazione si sono definitivamente separate, con la conseguenza di una dilagante inautenticità dell’esperienza. Non ritroviamo mai in Grassi una rassegnazione al declino dell’Occidente, un compiacimento quasi edonistico della dissoluzione delle categorie, ma sempre una ricerca costante di un Altro inizio del pensiero. Un inizio che è strettamente correlato alla potenza delle immagini. Il significato attribuito all’immagine, alla forma, all’eidos3, esemplarmente condensato nell’aneddoto di Poliziano sulle streghe nelle selve, raccontato agli studenti in apertura del corso sull’Organon aristotelico4 e ricordato da Grassi in Potenza dell’immagine, va contestualizzato all’interno della questione più generale del rapporto tra filosofia e retorica, tra linguaggio dimostrativo e indicativo già avvertito in maniera problematica dalla riflessione sofistica gorgiana e di conseguenza platonica. E procedendo a ritroso, i termini della questione ci conducono sulla strada di un’esatta definizione della teoria della visione a cui l’eidos rimanda per sua stessa definizione: “se infatti la forma dimostrativa, come pure quella indicativa, del discorso hanno le loro radici nella teoria, nella vista, si deve allora riconoscere che il vedere, la visione, oltrepassa l’ambito del linguaggio e che l’immagine, l’eidos, giunge in primo piano. Dobbiamo dunque affermare tanto l’inadeguatezza del linguaggio razionale quanto di quello indicativo, dato che essi si basano sul vedere quale atto più originario dello stesso linguaggio?”5. L’immagine si riferisce non solo all’oggetto di cui essa è immagine ma anche al senso che diviene rappresentazione, una forza di sintesi con caratterizzazioni qualitative proprie. Husserl ha parlato non !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 3 Grassi usa il termine immagine nella sua identità con l’eidos come forma, schema e tipo. Cfr. E. Grassi, Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, Guerini, Milano 1989, p. 17. 4 Ivi, pp. 15-16. 5 Ivi, p. 17.  ! 6!  a caso di sintesi passiva come genesi del simbolico, lezione che Grassi accoglie nel suo tentativo di ricostruire un intero, una realtà dotata di sensi molteplici e stratificati, senza il sacrificio di alcuna dimensione dell’esperienza. La concettualizzazione messa a punto da Grassi dei grandi temi della filosofia, dell’arte e della letteratura, mostra l’attenzione verso le dimensioni del mondo storico, delle passioni dell’uomo, delle tradizioni drammatiche, teatrali e metaforiche dell’Occidente. La luce gettata su questi campi di esperienza spesso è offuscata dal tono della polemica e della rivendicazione degli ideali del passato, che spiegano anche l’andamento della pagina grassiana: si tratta di uno stile sempre mosso da un’inquietudine esistenziale, che si traduce in un’espressione non sempre pacata e in un linguaggio lineare, ma in una parola che ora è invettiva, ora icastico assioma. Il linguaggio non raggiunge mai la trasparenza della deduzione sillogistica o della spiegazione logica, configurandosi piuttosto come un linguaggio assiomatico e arcaico, che forse trova una spiegazione nella critica grassiana al deduttivismo logico e ad un sapere schiavo della mathesis universalis. Il discorso non può prendere che una piega allusiva e indicativa, propria di un altro modo di relazionarsi alla realtà. Grassi in qualità di cultore attento delle scienze umane, mostra quella partecipazione esistenziale ed emotiva ai temi cruciali per l’esistenza dell’uomo tipica di coloro che esperiscono la filosofia come bios pratico e teorico, e solo secondariamente come gnoseologia e epistemologia. Dalla sua prospettiva la ricerca logico-deduttiva urta definitivamente contro l’indimostrabilità dei principi, tema, questo, che ricorre in gran parte dei suoi saggi. Ma, allora, qual è la via di accesso a ciò che ci sovrasta e ci governa? Come esperire l’archè originaria? Non attraverso la ratio si accederà ai principi, ma attraverso il pathos: un sapere arcaico, un theorein che non si limita ad usare i principi, ma a rifletterci sopra nel modo giusto. L’essere si rivela attraverso un vedere che è patire poiché “la passione svela la realtà del nulla che chiama a decidere, a violare il silenzio dell’abisso svelando il senso segreto che in esso ci parla”6. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 6 S. Limongelli, La svolta metaforica dell’ontologia fondamentale, cit., p. 4. ! 7!   A una pars destruens, a cui è dedicato parte del pensiero del filosofo, si accompagna anche una pars construens, che si concretizza nell’ipotesi metodologica ed epistemologica del sapere arcaico – che coinvolge tutta la riflessione riguardo il mito, il pensiero topico, la metaforologia, l’ingenium e la phantasia. L’apogeo della critica alla deriva razionalistica del pensiero si colloca nell’individuazione della intima correlazione delle nozioni aristoteliche di pistis e di episteme. Il filosofo afferma in Significare Arcaico che “la pistis, intesa come fondamento dell’inspiegabile, perché fondamento di ogni spiegazione, è propria del mondo originario e, come tale, solo il mondo della fede è fecondo”7. Per pistis Grassi intende non un’opinione o una forma di persuasione ma “il modo di realizzarsi in noi dell’originario che comanda”8. La pistis diviene il fondamento della retorica originaria che ha carattere ingegnoso e arcaico. Il collegamento istituito tra nous/ingenium e archè mette in luce la stessa matrice originaria dell’episteme: l’urgenza, l’impellenza e l’appello dell’essere si svelano attraverso segni indicativi colti attraverso la passione. Secondo Grassi “ogni discorso dimostrativo razionale si radica nel discorso arcaico puramente semantico, il quale scaturisce nella sua immediatezza nell’ambito del nous, dell’ingenium, della facoltà che realizza la visione dei segni originari che presiedono al mondo umano”9. Quella che Grassi definisce come noetica è la forma originaria della filosofia e si configura come a priori trascendentale di ogni dimensione deduttiva e storica. Il fondamento del reale, del mondo storico e del mondo umano, è quell’abissale fondamento di ogni fondamento, che, sulla scia heideggeriana, il pensatore individua sia in Il dramma della metafora, quando la riflessione si concentra sull’abissale nous passionale, sia in Das Reale als Leidenschaft. L’aspra critica al deduttivismo, al riduzionismo logico del pensiero, e alla matematizzazione di ogni discorso, non compromettono tuttavia lo spessore speculativo della proposta di Grassi che resta !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 7 E. Grassi, Significare arcaico, in “Archivio di filosofia”, Roma, 1966, p. 490. 8 Ivi, p. 489. 9 Ivi, p. 491.  ! 8!  filosofica proprio nell’insistenza della ricerca sul perché, su una, per quanto miope, visione dell’origine, su un primum esperibile attraverso segni, indicazioni. La sua prospettiva, che abbiamo scelto di definire onto-antropo-logica, può essere annoverata all’interno del più ampio dibattito che anima la filosofia del ‘900: quello che vede incrociarsi i temi dell’antropologia filosofica con quelli della riflessione sulla retorica. Sullo sfondo agisce il paradigma dell’incompletezza: l’uomo come animale carente. Il filosofo, sensibile alla riflessione dei biologi teoretici e degli antropologi a lui coevi, è convinto che l’uomo sia di fronte ad un paradosso: è caratterizzato dal punto di vista morfologico, dal punto di vista della sua dotazione organica, da primitivismi, inadattamenti e non specializzazioni, a cui fa da contraltare un’apertura al mondo che non lo vincola, come nel caso degli animali, ad un ambiente preciso; da qui il suo disorientamento e condizione di estraneità. Per il pensatore “la differenza essenziale tra vita animale e umana sta nella razionalità di quest’ultima che (contrariamente a quanto siamo soliti credere) in un primo tempo non segnala una superiorità, bensì una certa inferiorità dell’uomo di fronte all’animale”10. Tale inferiorità – il paradigma della carenza – appare in tutta la sua evidenza se si tiene in considerazione che nell’animale la “regia dei sensi”11 restituisce il significato immediato dei fenomeni. Il disancoraggio umano da un ambiente dai contorni definiti e fissi rende l’umo compito a se medesimo, lo sottopone ad un onere che si concretizza nella riconversione di una condizione deficitaria in una progettazione di possibilità di conservazione della vita. Nascono la techne, che “ordina i fenomeni in funzione a fini da realizzare”12, e l’episteme, che “delimita i fenomeni in funzione a principi, a ragioni”13. La prassi, l’azione, l’energheia e l’ergon, come compensazione alla struttura morfologica deficitaria, si configura come trasformazione della natura in mondo culturale, come umanizzazione !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 10 Ivi, p. 489. 11 Ibidem. 12 Ivi, p. 490. 13 Ibidem.  ! 9!  dell’ambiente che solo così diviene mondo. In tale processo antropogenetico per Grassi la retorica occupa un posto tutto particolare. La retorica diviene la faticosa produzione di quelle concordanze che subentrano al posto dei codici mancanti. Essa avrà un doppio ruolo: quello di mostrare come la pistis sia al centro dell’agire umano e di porre in luce come l’uomo sia contraddistinto da una carenza originaria che per una sorta di eterogenesi dei fini si rivela essere all’origine di quel meccanismo antropogenetico che è la fondazione della comunità umana. All’interno di questa prospettiva la riflessione retorica diviene teoria dei segni (semata), semiotica, e teoria del senso, semantica arcaica, ben lontana dalla semiotica formale. Una teoria del segno e del senso per il filosofo “dovrebbe essere in grado di elevarsi al livello di filosofia in quanto dottrina dei segni sulla base dei quali si manifesta il lavoro specificamente umano (ergon anthropinon)”14. La questione linguistica si intreccia con quella antropologica dell’origine del mondo umano come reazione all’agorafobia primordiale della Lichtung, la semiosfera da cui si dipartono mondi possibili dell’umano. Su questo sfondo teorico denso e complesso nella sua ricchezza tematica si staglia la questione della rivalutazione dell’umanesimo, connessa alla tematizzazione della co-originarietà di logos e pathos (dove il trascendentale dell’esperienza è il sostrato patico che va a fondare la stessa vita cogitativa), e alla critica del moderno. L’interpretazione grassiana dell’Umanesimo è lontana dai presupposti teorici e metodologici a lui coevi che privilegiavano il contributo ficiniano nel superamento del pensiero immaginifico e retorico: lo scopo di Grassi è quello di mostrare come l’attività filosofica non corrisponda sic et simpliciter con l’attività razionale e concettuale ma comprenda anche l’attività della fantasia e della parola figurata. Oltre alle posizioni di Spaventa e Gentile ad essere messa in discussione è anche la via epistemologica cassireriana15. Si tratta di spostare i termini della questione sul versante ontologico- !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 14 Id., Retorica come filosofia. La tradizione umanistica, La città del Sole, Napoli 1997, p. 194. 15 Id., La filosofia dell’umanesimo. Un problema epocale, Tempi Moderni, Napoli 1988, pp. 17-36.  ! 10!  ermeneutico che si concreta nella retrodatazione dell’inizio del moderno all’Umanesimo e al Rinascimento – contro la tesi che individua in Cartesio l’inizio della modernità – in cui emerge la questione della connessione tra soggetto e oggetto nell’espressione linguistica. A partire dalla messa in discussione del pregiudizio heideggeriano nei confronti dell’umanesimo, sia esso considerato come epoca storica ben determinata o piuttosto come Weltanschauung inautentica, Grassi porta avanti la direzione della Humanistische Bibliotek per l’editore Fink contribuendo alla pubblicazione di cinquanta volumi a tema umanistico, come le opere di Petrarca, Salutati, Valla, Pico. La questione dell’Umanesimo non è ristretta nei confini della paideia che ha a cuore la rivalutazione della dignità dell’uomo ma ha una vocazione metafisica e ontologica in quanto aperta al problema dello svelamento. Come è stato messo in luce dagli interpreti l’attenzione è spostata verso l’Umanesimo problematico anziché verso quello sistematico, verso la ricchezza del possibile e non verso l’unilateralità del vero16. Gli autori prediletti da Grassi mostrano tutti una critica verso gli schemi astratti ed aprioristici e un’apertura verso la giurisprudenza, la retorica, la religione dei miti e la politica. La dimensione retorica va considerata secondo il filosofo non come elocutio ma come inventio: non si tratta di un ornamento edonistico del discorso, o di una celebrazione epidittica, ma di una vis creatrice che attinge al polimorfismo del reale: la Weltanschauung “umanistica tutt’altro che tranquilla, trascura l’ontologia a vantaggio della metamorfosi, che opportunamente si salda in Grassi alla centralità della metafora, stabilendo con la topica una tassonomia mobile e con l’ingegno legami dal mandato sempre provvisorio”17. Il magistero degli umanisti e di Vico, quale ultimo interprete degli ideali di storicità, della funzione conoscitiva ma anche esistenziale della fantasia, dell’ingegno e della metafora, consente a Grassi di porre l’attenzione al momento genetico, aurorale del pensiero, più che alla sua fase declinante, al suo tramonto. Vichianamente attento alla natura delle cose, che altro non è che !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 16 Cfr., A. Battistini, Vico e l’umanesimo inquieto di Ernesto Grassi, pp. 385-404, in AA. VV, Studi in memoria di Ernesto Grassi, La Città del Sole, Napoli 1996, p. 387. 17 Ivi, p. 390.  ! 11!  “nascimento in certi tempi e in certe guise” (Scienza Nuova, Degnità XIV), Grassi rifugge dagli ideali cartesiani di chiarezza e distinzione optando per l’opacità dei tropi. In Vico e L’umanesimo il dualismo di pathos e ragione si concretizza nella dicotomia tra Cartesio e Vico che divengono le due allegorie del danno e del rimedio per la filosofia autentica. Cartesio compare quale bersaglio polemico di un discoro che vuole scardinare l’impostazione razionalista del pensiero. Riconosciamo in questa impostazione l’agire delle categorie interpretative del maestro degli “anni mitici”, Heidegger, il quale sottopone l’autore delle Meditazioni all’affilata mannaia della distruzione ontologica, valutando l’operazione metodica di separazione tra io e mondo18, tra res cogitans e res extensa un’assurdità. Se si postula una separazione non ci sarà alcuna possibilità di ricomposizione della frattura come è possibile leggere in Essere e Tempo ai paragrafi 19-21. Secondo Heidegger, a partire da Cartesio19avviene nella metafisica un importante passaggio, quello dalla domanda che chiede che cosa sia l’ente, a quello della domanda che si pone il problema del fondamento che rende possibile la comprensione dell’ente. A tale fondamento poi si riconduce – ad esempio , nelle suggestive pagine di Il nichilismo europeo – lo sviluppo della tecnica come estrema propaggine del pensare metafisico, come essenza stessa della metafisica che è nichilismo. Nella tesi cartesiana ego cogito, ergo sum20, infatti, Heidegger vede espresso un primato dell’io umano ed una nuova posizione dell’uomo21, poiché l’uomo diventa subiectum22, il fondamento e la misura di ogni !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 18 Sull’interpretazione heideggeriana dell’ontologia cartesiana del mondo cfr. M. Heidegger, Essere e Tempo, Longanesi, Milano, §§ 19-21. 19 Sull’interpretazione heideggeriana del pensiero di Cartesio cfr., J. F. Courtine, Les meditations cartèsiennes de Martin Heidegger, Les ètudes philosophiques 2009/1, n ̊ 88, p. 103-115. 20 È fin troppo nota la tesi cartesiana espressa a mo’ di slogan nel Discorso sul metodo (CARTESIO, Discorso sul metodo, Paravia, Torino 1990, p. 72). Tale espressione indica la scoperta del soggetto, scoperta che nonostante l’ergo non ha la caratteristica di un ragionamento discorsivo, bensì quella di una certezza intuitiva. Il cogito è infatti innanzitutto una esperienza incontrovertibile, poiché indubitabile e inaggirabile, e poi il principio più importante della filosofia, come è possibile leggere in Id., I principi della filosofia, parte I, § 7. Per un approfondimento circa la questione del cogito cfr. G. Mori, Cartesio, Carocci, Roma 2010, pp. 116-122. 21M. Heidegger, Il nichilismo europeo, Adelphi, Milano, p. 158. 22 Ivi, p. 168.  ! 12!  certezza e verità. “La tradizionale domanda guida della metafisica – che cos’è l’ente – si trasforma all’inizio della metafisica moderna nella domanda del metodo, della via per la quale, [...] è cercato qualcosa di assolutamente certo e sicuro”23. Tale metodo è il cogito e le sue strutture. Grassi fa sua l’impostazione heideggeriana e afferma che occorre abbandonare l’ipotesi di un inizio cartesiano del pensiero moderno poiché il vero inizio è quello che include il pathos all’interno del logos. Egli sostiene che “all’inizio della filosofia moderna Descartes escluse scientemente la retorica – e le altre materie proprie dell’educazione umanistica – dalla filosofia come pura ricerca della verità”24. Il dualismo di dimensione patica e dimensione razionale ha come conseguenza sul piano teorico una contrapposizione tra il piano individuale, storico e temporale della retorica e il piano generale, astorico, e svincolato dall’hic et nunc. Il problema della connessione di pathos e logos, di filosofia critica e topica, è posto per la prima volta secondo il pensatore in modo teoricamente articolato nella filosofia vichiana soprattutto nel testo De ratione studiorum del 1709 del quale Grassi ricostruisce in Vico e l’umanesimo minuziosamente le tappe della critica del napoletano al razionalismo cartesiano: la pretesa di partire da un primo vero attraverso il dubbio metodico; esclusione delle verità seconde; esclusione del verisimile25. Se il primo vero riguarda l’essere e la catena deduttiva della dottrina della scienza atta a conoscerlo, le verità seconde pertengono all’ambito delle necessitates umane che spingono l’uomo a ricercare quei mezzi per sopravvivere essenzialmente tecnico-poietici. Il metodo critico di impostazione cartesiana trascura in questo modo la sfera retorica, immaginativa, fantastica, ma anche politica, della vita umana, ridotta al suo puro aspetto cogitativo. Sebbene il rapporto di Vico con il cartesianesimo si presenti come un problema storiografico e filosofico complesso26 si può senz’altro convenire con Grassi sull’opposizione vichiana alla critica !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 23 Ivi, p. 169. 24 E. Grassi, Vico e l’Umanesimo, Guerini, Milano 1996, p. 25. 25 Ivi. 26 Cfr. N. Badaloni, Introduzione a G. B. Vico, Feltrinelli, Milano 1961.  ! 13!  cartesiana nel contesto della rivendicazione della priorità della topica: “giacchè, come l’invenzione degli argomenti precede per natura la valutazione della loro veridicità, così la dottrina topica dev’essere preposta a quella critica”27. Non è la deduzione che precede l’inventio, ma al contrario ogni catena di ragionamento è possibile unicamente sulla base di un ritrovamento di luoghi28. Si tratta dell’arte “topica che si chiarisce così come una dottrina dell’invenzione”29 di cui Cicerone e Quintiliano ci hanno parlato e su cui già Aristotele si pronuncia in Topica in cui a quest’arte è riconosciuta la capacità di individuare a “quanti e quali oggetti si rivolgono i discorsi, da quali elementi derivano, e come sia possibile avere tali discorsi facilmente a disposizione”30. La questione è ancora una volta quella di tenersi lontani da una visione unilaterale della realtà tenendo conto delle innumerevoli forme dell’apparire del reale, da interpretare in tutta la sua ricchezza. La ricerca del vero particolare, circostanziale, storicamente determinato ci spinge a concordare con Bons riguardo alla centralità dell’idea di agire situativo31, sullo sfondo del quale si comprende la proposta retorica grassiana. Si tratta di un agire situativo che alla formula cogito ergo sum sostituisce la formula coactus sum ergo ago32: non “penso, dunque sono”, ma “sono costretto, !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 27 G. B. Vico, Sul metodo degli studi del nostro tempo, a cura di A. Suggi, Postfazione di M. Sanna, ETS, Pisa 2010, cap. III, p. 39. 28 Sulla figura di Vico in Grassi Cfr. G. Cantillo, Ratio e inventio nell’interpretazione dell’umanesimo, pp. 371-378, in AA. VV., Studi in memoria di Ernesto Grassi, cit. ivi, A. Verri, Ernesto Grassi: Linguaggio e civiltà in Vico, pp. 405- 423; ivi, S. Roic, Vico, Grassi e la metafora, pp. 425-435; A. Battistini, Vico e l’umanesimo inquieto di E. Grassi, cit.; ivi, A. Pons, Vico e la tradizione dell’umanesimo retorico nell’interpretazione di Grassi, pp. 437-446; ivi, L. Amoroso, Vico, Heidegger e la metafisica, pp. 447-470; ivi, J. Vincenzo, La ripresa grassiana di Vico, l’unità di pietà e sapienza, pp. 471-491. Cfr., sull’incidenza dell’interpretazione grassiana di Vico nel panorama degli studi vichiani contemporanei G. Cacciatore, In dialogo con Vico, Edizioni di Storia e letteratura, Roma 2015, soprattutto p. 38 nota 5; Id., Verità e filologia. Prolegomeni ad una teoria critico-storicistica del neoumanesimo, in “Noema”, n. 2, 2011, pp.1-15, http://riviste.unimi.it/index.php/noema; J. M. Sevilla, Prolegòmenos para una crìtica de la razòn problemàtica. Motivos in Vico y Ortega, soprattutto il III capitolo, Retòrica como filosofìa. Vico, Heidegger, Grassi y el problema del humanismo retòrico, pp. 146-227. 29 E. Grassi, Vico e l’umanesimo, cit., p. 34. 30 Aristotele, Topica, 101 b 3. 31 E. Bons, Il pensiero di Ernesto Grassi. Una breve sintesi, pp. 75-98, in AA. VV., Studi in memoria di Ernesto Grassi, cit., p. 81. 32 R. Wisser, Ricordo di Ernesto Grassi. Arte e mondo, pp. 159-191, in AA. VV., Studi in memoria di Ernesto Grassi, cit., p. 188.   ! 14!  quindi agisco”. Proprio la ricchezza del reale viene salvaguardata in un pensiero topico, ingegnoso capace di apprendere maggiormente rispetto al pensiero critico tutto confinato all’interno della catena delle deduzioni. Il nucleo teorico fondamentale è quello di saper ritrovare le archai, le premesse indeducibili razionalmente, ma a partire dalle quali soltanto è possibile dare inizio ad una catena di ragionamento esatto. Si comprende allora l’accostamento ai temi metaforologici che per il filosofo sono la base del discorso retorico e filosofico33. La metafora è il luogo, lo spazio-di-tempo- in cui si dà la manifestatività dell’essere e il suo appello. Poiché l’essere è un Altro di cui l’ente nel suo significato è trasposizione la parola metaforica sarà l’unica in grado di accogliere l’appello dell’essere34. Al filosofo non interessa dunque il meccanismo strettamente semiotico di singole espressioni metaforiche, ma ciò che questo trasferimento nasconde, ciò a cui supplisce. Su questo sfondo si può comprendere la declinazione antropologica della retorica in base alla quale quest’ultima si costituisce come “pensiero che è aperto alla chiamata della concreta situazione di vita”35 in cui la metafora riveste un ruolo particolare. Essa si configura come un fenomeno cognitivo, un medium attraverso cui il pensiero non solo si articola, ma su cui si fonda. Seguendo le tappe fondamentali della sua ricerca teoretica riscontriamo che l’elemento riflessivo – sia esso orientato verso l’attualismo, sia esso ispirato dalla “metafisica immanente” di Heidegger, sia, infine, caratterizzato dalla propria originale prospettiva del filosofare noetico non metafisico – è tutto spostato verso la pratica filosofica nel suo farsi e compiersi e non verso un astratto razionalismo. Accompagnandosi costantemente ad una filosofia attenta alla correlazione uomo-essere, mai chiusa in una dimensione esclusivamente ontologica, Grassi si misura con una continua operazione di !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 33 E. Grassi, Retorica come filosofia, cit., p. 75. 34 Id., La metafora inaudita, Aesthetica, Palermo 1990, p. 62. Sul tema della metafora in Grassi cfr., D. Di Cesare, Metafora e differenza ontologica. Grassi versus Heidegger, pp. 25-48, in AA. VV., Un filosofo europeo: Ernesto Grassi, Aesthetica, Palermo 1996. 35 W. Veit., Critica radicale della ragione o l’altro rispetto alla ragione: la sfida della retorica, pp. 99-126, in AA. VV., Studi in memoria di Ernesto Grassi, cit., p. 113.  ! 15!  storicizzazione delle strutture del mondo storico umano: il bello, il buono, il vero, la triade concettuale alla quale il filosofo riconduce la totalità del mondo storico. L’avventura filosofica di Grassi mette al centro il soggetto umano e la sua coscienza – la coscienza temporale umanistica – senza cadere nell’idealismo vecchio e nuovo, né in un soggettivismo di cartesiana memoria, proprio perché la coscienza per il pensatore è un compito, uno sforzo e un impegno. Concetti, questi, che scandiscono i momenti della vita pratica e politica del mondo umano e vanno ad intrecciarsi con le idee di disancoramento, oggettività e coscienza temporale umanistica. Il compito, lo sforzo e l’impegno, trattati in forma estesa in Il reale come passione. L’esperienza della filosofia36 hanno una connotazione ermeneutica, non solo pratico-politica, poiché permeano anche il processo dell’interpretazione. La formazione umana – il cuore della retorica grassiana37 – fondata sull’interpretazione, ha carattere esistenziale per il filosofo. Egli sostiene che tra formazione, interpretazione ed esistenza c’è un’intima co-appartenenza, come emerge dalle pagine in cui il filosofo afferma che: “l’interpretazione è il risultato di un ipotetico progetto in cui viene in seguito verificato se contiene e chiarisce effettivamente tutti gli aspetti e tutti gli elementi; questo procedimento è l’essenza dell’atto dell’intelligenza. Poiché l’uomo è un essere aperto al mondo e non dispone di schemi già pronti, la sua formazione acquista un carattere esistenziale. Esistere significa sopportare la problematicità del rapporto dell’uomo con se stesso e con il mondo senza evitare la decisione che è sempre richiesta”38. L’esistenza interpretante secondo Grassi ha carattere trascendente, dove la trascendenza è sempre intra-mondana poiché “si fonda sulla necessità di formare, di portare ad uno schema, ad una forma [...] la teoria della formazione diventa qui la dottrina della struttura dell’accadere umano alla luce dell’origine del nostro divenire; !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 36 E. Grassi, I primi scritti, cit., pp. 995-1029, soprattutto pp. 1022-1024, e Id., Prefazione a Der tod des Sokrates di Guardini, ivi, pp. 985-989, soprattutto p. 986 37 Id., Retorica come filosofia, cit., p. 192. 38 Id., Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, cit., p. 73.  ! 16!  diventa una ricerca arcaica, nella misura in cui si riferisce agli schemi fondamentali (archai) dell’autorealizzazione umana”39. L’analisi grassiana mira a proporre un’idea di “totalità del fatto umano” il cui pieno sviluppo è obiettivo dichiarato della sua proposta neo-umanistica. Grassi sostiene che “il fine degli studi umanistici è il pieno sviluppo di tutte le capacità dell’uomo, dell’!"#$% &%'"()*%$%”40. Se la coeva concezione del sapere si concentra solo sul suo aspetto di utilità all’uomo, misconoscendo la diversità delle fonti dell’esistenza umana (il vero, il buono, il bello) per il filosofo occorre svoltare verso una scienza che “riconosce che ci sono capacità differenti, autonome l’una rispetto all’altra e nondimeno appartenenti tutte quante all’essenza e all’interezza dell’uomo, e che dal loro pieno sviluppo sorgono le diverse opere dell’uomo”41. Per il filosofo bisogna ammettere che il sapere, il bello, il buono, non dipendono dall’applicabilità e che “solo liberando le fonti della vita e rispettando la loro autonomia, sia può realizzare l’opera complessiva dell’uomo, quella totalità che era anche l’antico ideale della comunità politica, ossia della comunità umana”42. L’intima connessione strutturale di pensiero, volontà e passione – in cui riecheggia la lezione diltheyana appresa durante lo stage tedesco degli anni giovanili – e la relazione dialettica di continuo scambio tra uomo e mondo circostante caratterizzano una nuova visione del tempo che non trova più il suo fondamento nell’a-priori formale della ragione ma nelle concrete e sempre nuove connessioni che l’uomo istituisce attraverso le espressioni linguistiche, artistiche, civili, politiche. Tutti i contributi grassiani muovono dal rifiuto di assolutizzare un’essenza universale dell’umano e dal proposito di rendere ragione della condizione umana attraverso l’indagine dei possibili punti di mediazione di ragione e passione, logos e pathos, tramite una ricerca che potremmo definire !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 39 ivi, p. 74. 40!Id., Prefazione a Die Totenrede des Perikles di Tucidide, pp. 975-983, in Id., I primi scritti, cit., p. 979.! 41!Ibidem.! 42 Ibidem.  ! 17!  fenomenologia storico-ermeneutica – almeno per quanto riguarda gli scritti tardi come La potenza della fantasia, La potenza dell’immagine, Heidegger e il problema dell’umanesimo, Retorica come filosofia, La filosofia dell’umanesimo, Vico e l’umanesimo, La metafora inaudita, Il dramma della metafora – che fa capo ad un concetto sintetico-trascendentale della fantasia che si costituisce come strumento indispensabile di mediazione tra l’esperienza storica e pratica finita e la generalizzazione dei miti, delle metafore. Lungo questo processo complesso e ricco di articolazioni nel campo della psicoanalisi (Freud), della letteratura (Eschilo, Sofocle, Euripide, Ovidio, Dante, Petrarca, Boccaccio, Leopardi, Ungaretti, Poe, Mallarmè, Proust, Wagner, Hölderlin), dell’antropologia e della biologia teoretica (Scheler, Plessner, Gehlen, Driesch, Von Uexküll padre e figlio), della retorica (Cicerone, Quintiliano, Tesauro, Graciàn) e naturalmente della filosofia, avviene quello slittamento verso una “teoria dell’atto metaforico” che è l’esito della sua filosofia. La ricerca sulla metafora non si configura semplicemente come una fenomenologia metaforologica che si limita alla descrizione delle metafore che ha prodotto la storia umana, ma come una teoria che indaga il plesso azione-metafora. Si tratta di una teoria che guarda all’energheia metaforica e al processo del metapherein segnando una distanza netta dall’astrazione concettuale. Quest’ultima fissa il reale bloccandone il flusso e la vita in una staticità, cristallizzazione e immobilità, mentre la teoria grassiana pone in luce l’aspetto arcaico, nel senso di fondativo, dell’atto metaforico che genera il mondo umano proprio attraverso un atto di trasposizione che agisce su due livelli: linguistico (linguaggio metaforico); pratico-politico (fondazione della comunità umana a partire dalla umanizzazione della natura tramite pratiche di trasposizione di significato). L’accento della riflessione si sposta dalla ricerca sul perché e sul che cosa alla domanda sul come il reale si impone alla nostra percezione. Il reale, l’originario, l’essere si impongono nell’urgenza dell’appello ermeneutico in cui l’ente svela la propria mutevolezza e l’uomo la propria risposta agli appelli dell’essere. Nel corrispondere all’appello dell’essere si impone all’attenzione il pathos e la sua funzione manifestativa:la passione ha infatti carattere di apertura mondana e il logos, la parola, emergono come “rottura del sacro”, destino della Menschwerdung. Logos come risposta al silenzio primordiale, quello della ingens sylva, che dice del fondamento il suo ! 18!  essere al contempo puro apparire e progetto creativo. Il pathos arcaico, luogo del manifestarsi dell’abissale potere dell’essere, non può che trovare espressione in un logos lontano dall’astrattismo intellettualistico ma piuttosto vicino all’orizzonte poetico, che più che essere interpretato come orizzonte letterario è ricompreso all’interno della filosofia come meditazione esistenziale, pratica concreta di ricerca del senso. É nel rapporto tra poesia e filosofia che si apre l’orizzonte di comprensione dell’essere. In Grassi si ravvisa la traccia di un pensiero “integrale o integrativo”, sottratto alle rigide categorie della ragione metafisica ma aperto all’irruzione del novum. La ricerca filosofica si costituisce allora come indagine dei punti di mediazione, di unità e distinzione delle forme dell’essere. La questione suprema è la domanda sul luogo e le modalità originarie in cui accade la nostra apprensione della realtà. Il logos metaforico si scopre come linguaggio originario dell’essere, come espressione della dualità creativa e patica dell’esperienza dell’originario. Un’esperienza in cui “la poiesis diventa un momento della praxis”43, e non un gioco effimero del dire, e la metafora si tramuta nella “serietà del pensare filosofico”44. “La metafora con il suo carattere immaginifico e non causale, non concettuale ma ingegnoso, supera il divario che corre tra la teoria, il concetto universale, e la pratica sempre connessa con il caso particolare”45. Solo attraverso il dire metaforico si apre, nel silenzio tragico dell’aperto, quello spazio abitabile dall’uomo. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 43 E. Grassi, La metafora inaudita: originarietà e paradossia della metafora, in “Quaderni di italianistica”, Vol. IX, N. 1, 1988, p. 19. 44 Id., La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale, cit., p. 178. 45 Ibidem.  ! 19!  CAPITOLO I ERNESTO GRASSI: UN BRILLANTE INTERVISTATORE A CACCIA DI FILOSOFI? I. I. Grassi nel giudizio dei filosofi È il 14 gennaio del 1928 e Karl Jaspers in una lettera indirizzata a Heidegger scrive: “il messo di questa lettera, il dottor Grassi di Milano, desidera parlarle di persona. Studia filosofia tedesca, ha letto il suo libro e ne ha una conoscenza sorprendente – naturalmente con tutti i fraintendimenti dovuti alle interferenze della tradizione, ma tuttavia con una buona, stupefacente approssimazione. Credo che il suo vivace interesse le farà piacere”46. Il 10 febbraio Heidegger risponde: “Il dottor Grassi mi ha fatto in un primo momento una grande impressione per via della sua intensità e di una particolare sensibilità. Ma mi è poi venuto il dubbio che si tratti di una natura giornalistica”47. Anche Jaspers, poi, si pronuncerà in un modo altrettanto poco benevolo definendo Grassi un brillante intervistatore ma non di certo un filosofo. Oltre questi giudizi, in fondo sbrigativi, possiamo ricordare quelli di Guido Calogero, il quale in riferimento al primo libro di Grassi, Il problema della metafisica platonica del 1932, pubblicato dall’editore Laterza grazie all’interessamento di Croce, e dedicato a Heidegger, afferma che egli avrebbe fatto meglio a scrivere un libro su Heidegger dopo aver studiato Platone invece che scrivere un libro su Platone dopo aver studiato Heidegger48. Croce scrisse: “insegnante in Germania, il Grassi si propone il problema di avvicinare e indurre a concorde collaborazione la filosofia italiana e quella tedesca. I1 problema non ha consistenza, perché non c’è né la filosofia tedesca né quella italiana, ma solo la filosofia senza aggettivi, nel cui nome unicamente giova parlare a italiani, a tedeschi e a ogni altro popolo e individuo”49. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 46 M. Heidegger-K. Jaspers, Lettere 1920-1963, tr. It. Di A. Iadicicco, Milano Cortina 2009, p. 73. 47 Ivi, pp. 73-74. 48 G. Calogero, Recensione a E. Grassi, Il problema della metafisica platonica, Bari, 1992, in “Giornale critico della filosofia italiana”, 1932, 4, XIII, pp. 304-308, p. 308. 49 B. Croce, Pagine sparse, Vol. III, Laterza, Bari 1960, p. 406. ! 20!   E così De Ruggiero, Vanni-Rovighi, Ottaviano50. Insomma, negli anni in cui il filosofo milanese ambiziosamente cerca di ritagliarsi un posto nella cerchia degli intellettuali più prestigiosi dell’epoca i giudizi sulle sue idee non furono troppo favorevoli: Grassi appare un brillante intervistatore a caccia di filosofi, la cui opera è da considerare al massimo come “prova cattiva di un ingegno ottimo”. Ma stanno proprio così le cose? Quanto di vero c’è in queste affermazioni e quanto, invece, di approssimativo? Un breve ripercorrimento dell’itinerario speculativo di Grassi almeno fino alla metà degli anni ’40 consentirà di comprendere la plausibilità o meno dei giudizi critici ora ricordati. I.! II. Le tappe della formazione di Grassi Scrive Grassi in La filosofia dell’umanesimo. Un problema epocale: “nell’anno 1928 – dopo aver brevemente assistito ai corsi di M. Scheler e di K. Jaspers – andai a Marburgo da Heidegger che si dichiarò disposto a seguire il mio lavoro di libera docenza [...] i luminari dell’università di Friburgo erano Husserl (che teneva il suo ultimo corso come professore emerito), Heidegger (che aveva assunto la cattedra di filosofia)”51. È il 1986 e Grassi, ripercorrendo le tappe salienti della propria autobiografia intellettuale, pensa a quegli anni friburghesi definiti mitici. Si tratta, infatti, degli anni mitici e indimenticabili delle lezioni di colui al quale Grassi guarda sempre – nonostante le prese di distanza di natura politica – come ad un autentico maestro: Heidegger. L’arrivo a Friburgo del giovane Grassi era stato preceduto da un lungo periplo intellettuale, oltreché geografico, che ha indotto alcuni interpreti, come Cacciatore a definire quella di Grassi “filosofia del viaggio”52. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 50 Cfr., G. De Ruggiero, G., Recensione a E. Grassi, Il problema della metafisica platonica, Bari 1932, in “La Critica”, 1932, 5, XXX, pp. 375-376. Ottaviano C., Recensione a E. Grassi, Vom Vorrang des Logos, München 1939, in «Sophia», Napoli 1938, III, pp. 397-399. Vanni-Rovighi S., Recensione a E. Grassi, Vom Vorrang des Logos, München 1939, in «Rivista di filosofia neo-scolastica», Milano 1940, 4, XXXII, pp. 309-314. 51 E. Grassi, La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale, cit., p. 20. 52 Sul tema del viaggio e del resoconto di viaggio in Grassi come fenomeno non meramente odeporico ma innanzitutto cognitivo cfr., G. Cacciatore, América latina y pensamiento europeo en la “filosofìa del viaje”de Ernesto Grassi, pp. 79- 91, in Id., El bùho y el còndor. Ensayos entorno a la filosofia hispanoamericana, ed. e trad. di M. L. Mollo, Planeta Bogotà 2011. “Serìa entonces un error garrafal esperarse del libro de Grassi [...] elementos meramente descriptivos o ! 21!   Grassi, nativo di Milano (1902-1991), dopo aver conseguito la laurea in filosofia con Piero Martinetti il 30 giugno del 1925, discutendo una tesi dal titolo L’unità formale della vita e l’impostazione del problema teologico, trae orientamento decisivo nel suo iter filosofico dall’incontro con il padre francescano Emilio Chiocchetti, uno dei primi maestri della neoscolastica milanese aperto al confronto con i temi della modernità. Autore di un importante volume, La filosofia di Benedetto Croce del 1915, frutto di studi compiuti tra il 1912 e il 1914, Chiocchetti porta avanti ricerche sui temi del modernismo, del pragmatismo e della gnoseologia e su autori come Gentile e Vico che affascinano molto il giovane Grassi, i cui primi lavori apparsi tra il 1922 e il 1925 sulla rivista Rassegna Nazionale, di stampo nazionalista, conservatore e cattolico53, mostrano idee ispirate al pensiero del “carissimo ed onorato padre Chiocchetti”54 e a valori liberali e cattolico-attivisti, come si evince soprattutto dai saggi A proposito di un cinquantenario, del 1922, dedicato alla figura di Mazzini; Germania, un resoconto di un viaggio “alla ricerca di idee che affratellino la gioventù tedesca e italiana”55; I giovani e il partito popolare italiano. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! momentos narrativos de situaciones, paisajes, modelos de vida, costumbres, mentalidades [...] hay que leer las pàginas grassianas ante todo como una experiencia personal que enterpreta el viaje (y la secuencia de sus movimientos: la preparaciòn, la espera, el acercamiento, el estar y el retornar) como un sìmbolo, como una metàfora del pensamiento occidental en busca de sus orìgines. Y se trata de una bùsqueda que se afina y se perfecciona voluntariamente, con la adeguadeza de la reflexiòn y con la dilataciòn de la perceptiòn, precisamente en la situaciòn lìmite de una experienza espacio-temporal distinta, de una apropriaciòn continua de imàgenes inèditas de naturalezas diversas, de olores que nunca se han sentido, de sensaciones visuales y tàctiles que nunca han sido experimentadas”, p. 81. Mi permetto di rinviare al mio saggio La hora de Pan en Reisen ohne Anzukommen. Eine Konfrontation mit Sudamerika de Ernesto Grassi, pp. 323-336, in A. Scocozza-G. D’Angelo (a cura di), Magister et discipuli: filosofìa, historia, polìtica y cultura, Penguin Random Hause, Bogotà 2016; Ead., Meditazioni sudamericane: la tappa sudamericana dell’onto-antropo-logia di Ernesto Grassi in cds in “Studi Interculturali”, Trieste, 1, 2017. 53 Proposito della rivista era quello di collocarsi a metà strada tra i contributi dedicati unicamente ai settori storici e scientifici e quelli di carattere politico-religioso: “Cattolici e italiani, pur rispettando sempre le convinzioni e le credenze altrui, noi coopereremo, per la nostra parte, a conservare le istituzioni religiose, morali, sociali, civili e politiche dell’Italia. Le istituzioni religiose, poiché noi cattolici e sincerissimamente devoti alla Chiesa cattolica, quando sorgano questioni di attinenza tra la religione e lo stato, pur riconoscendo la necessità che lo stato mantenga i diritti propri, ci proponiamo di insistere e raccomandare la sacra necessità di rispettare i diritti della chiesa e delle coscienze: non rispettati i quali, si offendono o prima o poi anche i diritti della civile società”, La rassegna nazionale, I, 1879, vol. I, p. 5. 54 E. Grassi, L’impatto con Heidegger, p. 75 in M. M. Olivetti (a cura di), La recezione italiana di Heidegger, pp. 73-82, Cedam Padova 1989. 55 Id., Germania, in “Rassegna Nazionale”, XLIV, novembre 1922, seconda serie, vol. XXXIX, pp. 100-109 ora contenuta in E. Grassi, I Primi scritti, cit., p. 18.  ! 22!  I successivi lavori grassiani, a partire da Il tragico del 1923 – che espone in nuce nodi concettuali che il filosofo avrebbe più estesamente tematizzato negli ultimi lavori: La metafora inaudita e Il dramma della metafora – per proseguire con Scolastica e storia dello stesso anno e Il pensiero di Machiavelli e l’origine del concetto di Stato del 1924, mostrano uno slittamento da una concezione negativa del principio di immanenza ad una considerazione molto positiva del contesto politico, quale nuovo luogo di emancipazione umana dopo la crisi del primato della trascendenza. Soprattutto dopo la stesura del saggio su Machiavelli possiamo riscontrare una “prima svolta” grassiana dovuta con molta probabilità ad un’analisi dettagliata del pensiero di Croce, Gentile e degli umanisti, primo fra tutti Dante. Ci sembra convincente l’ipotesi di Messori56 secondo la quale a partire da questo momento, ossia dal saggio del 1924, l’Umanesimo diviene il terreno privilegiato della riflessione grassiana, la quale, grazie al pensiero politico di Machiavelli, riscopre un altro inizio del pensiero moderno, un altro ingresso alla filosofia, non gnoseologico e teologico, ma unicamente antropologico. Si tratta di un risultato di grande importanza poiché tra gli anni Trenta e Quaranta il filosofo milanese mette a tema quell’endiadi concettuale – il nesso logos-pathos, in cui il pathos appare come a priori dell’esperienza umana nella sua totalità, e dunque anche del momento cogitativo – che ritroveremo costantemente espressa e concettualizzata nella successiva produzione, da Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica del 1970, a Potenza della fantasia. Per una storia del pensiero occidentale del 1979, a Retorica come filosofia. La tradizione umanistica del 1980, fino ai testi degli anni Ottanta, Heidegger e il problema dell’umanesimo (1983), Umanesimo e retorica. Il problema della follia (1986), La filosofia dell’Umanesimo: un problema epocale (1986), Vico e l’umanesimo, che raccoglie una serie di saggi pubblicati singolarmente dal 1969 al 1990. Almeno in questa fase, tuttavia, occorre sottolineare che la considerazione dell’antropologica umanistica si pone ancora fortemente come una visione antropocentrica, mentre solo !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 56 R. Messori, Le forme dell’apparire, cit., soprattutto I cap. ! 23!   successivamente all’incontro con Heidegger e alla scelta del concetto di Lichtung quale filo conduttore del nuovo approccio all’umanesimo, approccio da noi definibile onto-antropo-logico, tale visione sarà più orientata verso una tematizzazione del nesso uomo-essere. In questo periodo Grassi collabora anche con l’informatore bibliografico del Circolo Filologico milanese, la Rassegna di coltura, fondato nel 1872 e sul quale pubblica tra il 1925 e il 1927 una serie di contributi dai quali traspare uno studio di Croce e dell’attualismo gentiliano. Conseguita la laurea nel 1925, incomincia per il pensatore l’ambiziosa avventura europea57, in Francia e in Germania, alla ricerca di un proprio accesso alla filosofia. In seguito al soggiorno a Aix en Provence, durante il quale conosce Blondel58, scrive La più recente attività della filosofia dell’azione in Francia del 1928, in cui la filosofia dell’azione è considerata come filosofia della trascendenza che non nega i valori dell’immanenza, ponendosi, piuttosto, come condizione di possibilità della processuale manifestazione dei valori immanenti, e Il platonismo cristiano di M. Blondel del 1932, il cui merito sarebbe stato quello di liberare la metafisica dal presupposto gnoseologistico. È a partire da questo saggio che si profila quell’avvicinamento all’attualismo che successivamente si sarebbe coniugato con la questione filosofica heideggeriana59 e che spinge Grassi ad approfondire la cultura filosofica tedesca. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 57 Ad un peccato di ambizione si deve, con buona dose di probabilità, l’adesione di Grassi al partito fascista il 3 maggio del 1933. Secondo la documentata ricostruzione di Büttemeyer, l’iscrizione al fascio fu fatta per ottenere la tessera senza la quale non era possibile partecipare ai concorsi in Italia. Cfr., Büttemeyer, Ernesto Grassi. Humanismus zwischen Faschismus und Nationalsozialismus, cit. 58 Sui rapporti Grassi-Blondel cfr., il lavoro di S. D’Agostino, La metafisica di Ernesto Grassi tra Platone e Blondel, pp. 275-295, in P. Pagani- S- D’Agostino- P. Bettineschi (a cura di), La metafisica in Italia tra le due guerre, Istituto della Enciclopedia italiana, Roma 2012. 59 Cfr., W. Büttmeyer, Rettifiche. Laurea, libera docenza e “Studia Humanitatis” di Ernesto Grassi, cit., p. 159: “La prima formazione filosofica di Ernesto Grassi è dovuta a Emilio Chiocchetti, la cui concezione di una neoscolastica moderata si mostra negli scritti dell’allievo dal 1922 fin verso il 1925. Mediata da Chiocchetti, vi si aggiunge la conoscenza dell’estetica di Benedetto Croce (1923) e della sua gnoseologia (1925) nonché del modello dialettico della storia della filosofia che si concretizza nell’interpretazione gentiliana del Rinascimento (1923-1924). Grassi mostra momentaneamente simpatie per Miguel de Unamuno (1924-1925), per il concetto martinettiano dell’Unità assoluta (1924-1925) e per la filosofia di Bernardino Varisco (1925-1926), che gli era stato anche maestro con i suoi lavori; ma essi non esercitano se non un’influenza marginale. Rimane invece escluso l’attualismo e immanentismo di Giovanni Gentile: pur avendolo conosciuto nei seminari di Chiocchetti e poi sulle opere, lo recepisce positivamente soltanto a partire dal 1926, dopo aver già presentato una ventina di pubblicazioni”.  ! 24!  Dopo aver affannosamente girovagato per la penisola italiana in cerca di una propria via al filosofare Grassi approda finalmente nella terra materna e lì, nella riflessione heideggeriana, trova un punto di partenza per una Weltanschauung più ampia rispetto a quella giovanile, ancora troppo influenzata dall’ambiente neoscolastico. In questi anni pubblica numerosi saggi apparsi sulla “Rivista di filosofia”: Empirismo e naturalismo nella filosofia tedesca contemporanea del 1929; Sviluppo e significato della scuola fenomenologica nella filosofia tedesca contemporanea dello stesso anno, in cui Grassi rimprovera a Husserl la mancanza di una solida base storico-filosofica, in particolare una superficiale interpretazione dell’idealismo tedesco e un’assenza di conoscenza della filosofia italiana, da Spaventa a Gentile, pur riconoscendo alla fenomenologia il merito di aver trovato uno spazio di riflessione oltre la linea psicologista e naturalista e storicista. Secondo Grassi “da un canto la scuola neo-kantiana si era isterilita sui problemi della scienza e sui rapporti astrattamente concepiti e quindi insolubili, della conoscenza filosofica e scientifica, naturalizzando le categorie e risolvendole parzialmente nelle leggi naturali. D’altro canto lo storicismo e la superficiale conoscenza del pensiero di Dilthey non aveva portato nessun nuovo contributo, cosicché nella generale crisi e disorientamento, tutti si rifecero a Husserl”60. Insomma, il filosofo di Prossnitz, in quello che per Grassi è quasi un deserto filosofico – psicologismo, neokantismo e storicismo –, costituisce un’oasi intellettuale che, tuttavia, ha molti limiti e non solo di natura storico-filosofica: l’astrattismo, e la disattenzione per il pensiero pensante a favore del pensiero pensato, l’incomprensione del pensiero concreto. Per Grassi gli aspetti negativi sono tali da rendere la filosofia husserliana attiva solo per lo spazio di vent’anni e cieca a quella concretezza del pensiero e dell’esistenza che solo Heidegger avrebbe portato alla luce con Essere e Tempo “realizzando per primo in Germania la critica della fenomenologia di Husserl”61. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 60 E. Grassi, Sviluppo e significato della scuola fenomenologica nella filosofia tedesca contemporanea, in “Rivista di filosofia”, Milano XX, aprile-giugno 1929, n. 2, pp. 129-151, ora in Id., Primi scritti, cit., pp. 186-187. 61 Ivi, p. 187.  ! 25!  In questo periodo Grassi opera quella collocazione della proposta filosofica heideggeriana all’interno della propria formazione intellettuale, formulando l’ipotesi del possibile incontro tra la teoria gentiliana dell’atto e la questione del Dasein, quale luogo storico del disvelamento dell’essere di stampo heideggeriano, che aveva proprio lo scopo di destrutturare quella categoria di coscienza rappresentativa che dal cogito cartesiano era rifluita nelle teorie di Kant, Hegel e Husserl. Heidegger diviene il perno principale attorno al quale gravita l’attenzione filosofica di Grassi che si concretizza nella stesura del saggio del 1930 Il problema della metafisica immanente di M. Heidegger e de Il problema del nulla nella filosofia di M. Heidegger del 1937. Il merito del filosofo di Messkirch sarebbe stato quello di proporre una visione dell’uomo come Dasein, come esistente, atto immanente, metafisico e autorealizzantesi62 che amplifica l’interesse per la concretezza e la fatticità dell’esistenza contro ogni razionalismo e astrattismo, superando la contrapposizione tra soggetto e oggetto. Intanto appaiono tra il 1932 e il 1935 i saggi Il problema filosofico del ritorno al pensiero antico e Paideia e neoumanesimo che riprendono tematiche trattate in Il problema della metafisica platonica e che mostrano una coniugazione della proposta filologica di Jaeger con il ripercorrimento teoretico heideggeriano del pensiero greco nel contesto più generale di un progetto paideutico e umanistico che recuperasse il senso autentico dell’humanitas attraverso l’esperienza filosofica della grecità, per Jaeger e Heidegger, e della latinità, per Grassi. L’incontro tra la proposta jaegeriana e heideggeriana circa il tema del neoumanesimo si affianca all’altro intreccio, quello tra l’ontologia fenomenologica ermeneutica di Heidegger e l’attualismo di Gentile. In Dell’Apparire e dell’essere. Seguito da Linee della filosofia tedesca contemporanea del 1933, sullo sfondo dell’incontro Heidegger-Gentile sono espressi alcuni nuclei teorici che avrebbero accompagnato Grassi in tutto il suo cammino di pensiero: il carattere elenchico del principio di non !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 62 Id., Il problema della metafisica immanente di M. Heidegger, in “Giornale critico della filosofia italiana”, Milano- Roma, XI, luglio-agosto 1930, fasc. IV, pp. 288-314, ora in Id., Primi scritti, cit., p. 209.  ! 26!  contraddizione, fondamento di ogni dimostrazione ma a sua volta non dimostrabile; metodo e cogito in Cartesio; concetto di apparenza, manifestatività ed essere; idea di fondamento. Come abbiamo ricordato all’inizio, la prima formazione di Grassi fu di carattere neoscolastico, con un’attenzione particolare alle questioni riguardanti la trascendenza, come emerge dal saggio La dialettica dell’amore in cui il filosofo milanese afferma che “il pensiero umano, la filosofia, è condotta dalla propria immanenza verso la necessità della trascendenza che appunto perciò non può conoscere, realizzare, creare, ma solo ricevere come una “grazia” proprio nel senso teologico della parola”63. Un’impostazione di questo tipo spiega anche una originaria critica dell’immanentismo gentiliano, e della sua scoperta fondamentale, l’autocoscienza come pura forma, che induce Grassi a porsi come un fiero oppositore di tutta la filosofia dell’immanenza64. Ma la difesa della trascendenza messa in campo dalla neoscolastica è avvertita da Grassi come insufficiente: in questo spazio si innesta la figura di Heidegger che diviene quasi un antidoto alle carenze della neoscolastica, ma dello stesso attualismo, che lascia non tematizzata la differenza ontologica tra essere e ente, nonostante l’acquisizione dell’originario come atto del cogitare nel suo stesso compiersi o come autorealizzantesi processo esistenziale e non come oggetto del pensiero. Secondo l’interpretazione di Grassi il superamento gentiliano della dicotomia soggetto-oggetto attraverso la radicalizzazione dell’esperienza approda allo stesso risultato husserliano e !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 63 Id., La dialettica dell’amore. Il dolore di Tristano, in “assegna Nazionale”, Roma, XLVI, dicembre 1924, seconda serie, vol. XLVII, parte I, La richiesta dell’amore, pp. 137-148, parte II, La sofferenza del Tristano, pp. 148-162; XLVII, febbraio 1925, seconda serie, vol. XLVIII, parte III, La dialettica del dolore, pp. 101-109, parte IV, La gioia può spingere alla vita, pp. 109-114 ora in Id., Primi scritti, cit., p. 122. 64 Ivi, p. 120: “Il concetto di forma pura, inobiettivabile, è proprio caratteristico della realtà infinita eterna, in qualsiasi concezione immanente o trascendente del reale, ed è quindi naturale che il processo di immanenza del pensiero moderno abbia voluto ad esse ridurre la realtà del divenire umano. Infatti se la realtà nella sua immanenza è pura forma, fuori di essa non esiste più nulla e quindi è tutta, l’unica realtà fuori dello spazio e del tempo di ogni concetto di limite perché come pensiero attuale, concreto, pone esso stesso il tempo e lo spazio e il limite, rimanendo esso stesso l’unico illimitato. L’autocoscienza come pura forma è certo la più grande scoperta di tutta la filosofia dell’immanenza e lo è proprio, merito di Giovanni Gentile. In ogni modo ci teniamo però a definire e a dichiarare a tutti gli oppositori del sistema immanentista del reale, e quindi a noi stessi, che questo è proprio il punto di capitale importanza da discutere e da controbattere”. Per una ricostruzione della presenza di Gentile in Grassi cfr. R. Messori, Le forme dell’apparire, cit.  ! 27!  heideggeriano: quello dell’intenzionalità, della relazione originaria di io e mondo. Una relazione che non può essere messa da parte o a tema attraverso un processo di epochè65: l’esperienza dell’oggetto non consente un’oggettivazione dell’esperienza. Lo spazio di relazione e compromissione tra io e mondo resta uno spazio di indeterminazione e di esperienza che rende l’atto gentiliano simile alla nozione di aletheia di Heidegger e che è merito di Grassi aver sottolineato. Volendo suddividere per comodità, e con tutte le riserve del caso, l’unità di pensiero di Grassi in tre fasi principali, otteniamo lo schema seguente: la fase giovanile formativa, dominata dai temi della scolastica cattolica emergenti nei saggi degli anni Venti66; la fase metafisico-immanente, in cui abbiamo la correlazione dell’attualismo gentiliano con il contributo blondeliano della filosofia dell’azione, con quello crociano dell’estetica e dell’autonomia delle forme dello spirito, e con la metafisica esistenziale heideggeriana67; la fase matura neo-umanistica68 – i cui nuclei teorici già !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 65 Sottolinea molto bene questo aspetto Natoli, in S. Natoli, Giovanni Gentile filosofo europeo, Bollati Boringhiei, Torino, 1989, pp. 27-28: “Gentile attraverso la radicalizzazione dell’immanenza supera l’opposizione e la separazione astratta di soggetto e oggetto e attinge a pienamente quel piano dell’intenzionalità che per altre vie viene guadagnato dalla fenomenologia di Husserl. Ma Gentile si porta oltre l’orizzonte della fenomenologia. La relazione intenzionale di impianto fenomenologico, se da un lato supera l’astratta separazione tra soggetto e oggetto, dall’altro lato ne tiene tuttavia ferma la polarità [...], lo sforzo della fenomenologia è quello è quello di svuotare l’io dal mondo perché il mondo appaia nella sua purezza, di svincolare la coscienza dal flusso della vita per far sì che i contenuti d’esperienza appaiano nella loro pura e semplice datità. Questo vuol dire andare alle cose. Non così in Gentile. Alle cose non si va, con esse si è da sempre compromessi. L’attualismo che pure rigorosamente guadagna il piano dell’intenzionalità si rende tuttavia conto che essa non è suscettibile di nessuna epochè”. 66 Cfr., E. Grassi, A proposito di un cinquantenario, pp. 3-8, in Id., I primi scritti, cit.; Id., Germania, ivi, pp. 9-18; Il tragico, ivi, pp. 27-48; Scolastica e storia, ivi, pp. 49-54; La dialettica dell’amore, ivi, pp. 89-128; Tilgher e La visione greca della vita, ivi, pp. 19-22. 67 Cfr., Id., Il pensiero di Machiavelli e l’origine del concetto di Stato, ivi, pp. 55-86; La più recente attività della filosofia dell’azione in Francia, ivi, pp. 137-162; Empirismo e naturalismo nella filosofia tedesca contemporanea, ivi, pp. 163- 179; Sviluppo e significato della scuola fenomenologica nella filosofia tedesca contemporanea, ivi, pp. 181-202; Il problema della metafisica immanente di M. Heidegger, ivi, pp. 203-233; Il platonismo cristiano di M. Blondel, ivi, pp. 235-254; Dell’apparire e dell’essere, ivi, pp. 273-298; Linee della filosofia tedesca contemporanea, ivi, pp. 299-332; Il problema del logo, ivi, pp. 371-406; Il problema del nulla nella filosofia di M. Heidegger, ivi, pp. 419-435; La filosofia tedesca e la tradizione speculativa italiana, ivi, pp. 553-575; I rapporti tra filosofia tedesca e filosofia italiana, cit., pp. 753-776; Pensieri sul poetico e sul politico. Due conferenze per determinare la tradizione spirituale italiana, ivi, pp. 777- 809; L’inizio del pensiero moderno. Della passione e dell’esperienza dell’originario, ivi, pp. 811-850; Teoria della politica nella tradizione del rinascimento, ivi, pp. 967-974; Il reale come passione e l’esperienza della filosofia, ivi, pp. 995-1029; Vom Vorrang des Logos. Das Problem der Antike in der Auseinandersetzung zwischen italienischer und deutscher Philosophie, Munchen, Verlag C.H. Beck, 1939. 68 Id., Il problema filosofico del ritorno al pensiero antico, ivi, pp. 255-271; Paideia e neo-umanesimo, ivi, pp. 357-369; Filosofia tedesca, filosofia italiana e l’antichità. Il problema di una tradizione filosofica, ivi, pp. 851-864; Sul problema ! 28!   ritroviamo in alcuni saggi giovanili69 – che declina la metafisica immanente in una ricerca ricostruttiva dei temi dell’essere, del logos, del pathos attraverso la lettura dei contributi letterari e filosofici dell’Umanesimo e del Rinascimento con un’attenzione particolare ai temi della retorica, della fantasia e dell’ingegno, e della metafora. In tutto il percorso speculativo emerge la radice dell’avventura speculativa del filosofo: la “passione per la vita” in cui l’esercizio intellettuale della filosofia diviene una funzione vitale, un prolungamento della vita stessa, dell’esistenza in situazione. Il pensare diviene metamorfosi esistenziale, impegno nella circostanza, ricerca affannosa del senso. Possiamo dare per acquisito, dunque, che tra gli anni Trenta e Quaranta matura nella riflessione di Grassi un’ipotesi di accostamento tra attualismo e fenomenologia70 che incide profondamente sulla successiva analisi dell’apparire dell’originario e della manifestatività nelle sue diverse forme e che coglie un aspetto critico paradigmatico che rende i numerosi contributi grassiani non una collezione di posizioni filosofiche eterogenee, un coacervo di notizie dell’ultima moda filosofica71, come i giudizi di Jaspers e Heidegger riportati all’inizio sembravano voler asserire. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! della parola e della vita individuale. Riflessioni a partire dalla tradizione italiana, ivi, pp. 901-915; Il problema del sublime, ivi, pp. 917-943; Studia humanitatis come essenza della tradizione spirituale italiana, ivi, pp. 945-950; Del vero e del verosimile in Vico, ivi, pp. 951-966; 69 Come tenteremo di spiegare nel secondo capitolo, per l’impostazione del problema neo-umanistico risultano fondamentali le osservazioni espresse da Grassi nel saggio su Machiavelli del 1924. 70 R. Messori così riassume l’incrocio grassiano di attualismo e fenomenologia: “le due filosofie si intersecano su almeno tre punti essenziali [...] rifiutano di attribuire l’originarietà all’ente, al pensato, di qualsiasi rango esso sia; in secondo luogo entrambi avvertono la necessità di identificare l’originario con un processo che, divenendo, si determina. Il primato del logos come atto, che lo si intenda in senso gnoseologico o ontologico, comporta, in terzo luogo, il superamento della logica tradizionale e quindi del principio di identità e di quello correlato di non contraddizione.”, R. Messori, Le forme dell’apparire. Estetica, ermeneutica e umanesimo nel pensiero di Ernesto Grassi, cit., p. 34. 71 Si sofferma su questo “merito” grassiano Marassi nelle pagine introduttive a I Primi scritti: “così l’atto è da una parte intrascendibile e dall’altra inogettivabile, ossia riassume in sé i tratti distintivi della soggettività kantiano-idealistica e anche quel movimento, non certo conciliabile con la trascendentalità del soggetto, di donazione-sottrazione assimilabile piuttosto alla nozione heideggeriana di aletheia. L’atto è questa complessa dinamica che piega il soggetto al confine del mondo e del suo apparire, lo conduce allo svelamento dell’origine. Qui mi pare che si inserisca il contributo specifico di Grassi dopo l’intuizione della convergenza tra l’atto immanente di Gentile e la trascendenza del Dasein radicata nell’ontologia dell’essere. In altri termini si potrebbe dire che la sua interpretazione non fosse una semplice sommatoria di posizioni eterogenee, bensì cogliesse un aspetto critico paradigmatico”, M. Marassi, Introduzione a E. Grassi, I Primi scritti, cit., p. 44.  ! 29!  Si impone all’attenzione teorica di Grassi la tematica della multiformità del reale (metamorphein) e della sua costitutiva polidimensionalità che affannosamente il filosofo cerca per tutta la vita di interrogare al di fuori dei parametri tradizionali. La questione “urgente” diventa quella di cogliere l’essere nell’atto del suo manifestarsi, nell’attimo arcaico, iniziale e, pertanto, mitico, del puro apparire attraverso un logos adatto (la metafora). Da un lato il pensiero pensante gentiliano72, dall’altro la manifestatività dell’essere heideggeriana, consentono a Grassi di guardare all’idea di fondamento come a quell’originario indeducibile razionalmente che può essere patito e vissuto nell’esperienza della parola più autenticamente che in quella del pensiero tradizionalmente inteso. Secondo Grassi “l’originario non può venire inteso come la svelatezza di un oggetto, ma solo come quella di un processo; questo processo a sua volta non si rivela che come un manifestarsi, un distinguere se stesso”73 e proprio per questa identità di manifestazione e processo, di essere e divenire, è possibile radicare la trascendenza nell’immanenza, il fondamento nel reale e non in un oltre, ciò che non è manifesto in ciò che invece lo è. Secondo il filosofo “il processo deve quindi esser inteso come un auto manifestarsi. È importante notare che la nostra ricerca dell’essenza della svelatezza non ci permette alcuna distinzione tra manifestazione ed essere”74. Il punto di partenza è quell’indeducibile originario che si mostra e si rivela in un metamorfismo e polimorfismo della realtà che non è un dato semplicemente presente, bensì un divenire storico che continuamente si distingue, !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 72 Occorre sottolineare che il pensiero gentiliano dell’atto è a metà strada tra una una impostazione soggettivo- trascendentale e un’idea di soggetto come Dasein, come puro evenire, spazio di esperienza, cfr., sul tema S. Natoli, op., cit., p. 90: “l’attualismo gentiliano si tiene a mezzo tra il soggetto trascendentale e il Dasein, tra la determinazione positiva e costituente del pensiero e l’atto come esperienza del puro accadere. In questo tenere il mezzo, l’attualismo finisce per non occupare né una posizione né l’altra e di fatto viene a trovarsi in uno spazio di indeterminazione. L’atto infatti se da un lato è ancora inscritto nei termini della soggettività, sia pure interpretata come attività o come prassi, dall’altro non può essere mai colto come un fatto, non può mai darsi a modo di una semplice presenza”. 73 E. Grassi, Il problema del logo, in “Archivio di filosofia”, Roma, anno VI, aprile-giugno 1936, fascicolo II, pp. 151- 183, ora in Id., I Primi scritti, cit., p. 376. 74 Ibidem.  ! 30!  si differenzia e si scompone in un divenire metamorfico che trova unità nell’esperire patico ed estatico del Dasein. Appare evidente come sullo sfondo di tale posizione teorica resta una domanda cruciale: in che modo occorre ripensare il logos per non ridurre l’essere e la manifestatività ad una realtà monolitica e cosale? Come superare una concezione oggettivistica e soggettivistica? Si tratta delle domande che agitano le pagine teoreticamente dense di Il problema del logo apparso in Archivio di filosofia nel 1936 e in cui Grassi si chiede: “Se ciò che si manifesta si identifica con l’essere, e se la manifestazione può solo essere intesa come uno scindersi e distinguersi di sé – giacchè ogni apparire immediato, oggettivistico è stato già escluso – come deve essere inteso questo processo? Scindere, distinguere, portare ad unità, sono i vari termini con cui traduciamo λέγειν, logo. Ma possiamo dire che il logo sia effettivamente il primo, la ragione e il fondamento di ogni manifestazione, oppure presuppone esso un momento prelogico? Questo è il problema contro il quale urtiamo definitivamente”75. L’operazione di accostamento tra l’ontologia heideggeriana e l’idealismo gentiliano, che ad alcuni interpreti parve una mossa teorica insostenibile76, è per Grassi la condizione di possibilità per sviluppare una riflessione intorno all’umanesimo italiano. Proprio l’approccio a Gentile e a Heidegger, originalmente interpretati attraverso il filtro di una visione del logos molto ampia e ricca, che sembra talvolta porsi come polarità antitetica al pathos, talaltra come macrocategoria che ricomprende in sé la stessa dimensione patica – oscillazione che viene sottolineata con vigore da alcuni interpreti77 che parlano di un irrisolto dualismo nel pensiero grassiano, ma che, come vedremo in seguito, si giustifica tenendo conto proprio della visione complessa e ampia che Grassi ha del reale – offre a Grassi l’opportunità di delineare un percorso teoretico che guarda al reale, all’essere e alla manifestatività senza la mediazione gnoseologistica ed oggettivistica, bensì tramite una pre- !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 75 Ivi, pp. 376-377. 76 Nella Recensione all’articolo di Grassi Il problema del logo afferma Ottaviano: “dirò subito che la tesi, che cerca di fondare una interpretazione idealistica del pensiero sostanzialmente realistico di heidegger, è, in linea assoluta, per mio conto insostenibile”, C. Ottaviano, Recensione a E. Grassi, Il problema del logo, cit., p. 398. 77 Cfr., la posizione di M. Marassi in Ernesto Grassi e l’esperienza del fine, in AA. VV, Un filosofo europeo. Ernesto Grassi, cit., pp. 7-24.  ! 31!  intelligenza pre-categoriale fortemente radicata nella dimensione dell’affettività, del patico e della Stimmung. Emerge così un programma filosofico ambizioso che giungerà ad una riqualificazione della Romanitas e della cultura umanistico-rinascimentale non solo italiana, ma mediterranea e latina in senso lato. Grassi si chiede: “in che senso possiamo affermare che il logo come atto, come λέγειν, ci schiude la molteplicità degli enti in mezzo ai quali ci troviamo – e la cui totalità costituisce ciò che chiamiamo mondo – e in che relazione sta con il sentimento (Stimmung)? È necessario riporre sotto un nuovo punto di vista tutto il problema della originaria svelatezza dell’essere. Finora abbiamo dimostrata l’insufficienza della concezione oggettivistica nel suo aspetto empiristico; ci si impone ora una più precisa e approfondita determinazione dei vari aspetti e momenti metafisici del logo”78. Tale precisa e più approfondita determinazione dei molteplici significati del logos avviene nella metà degli anni Trenta, anni cruciali per la storia d’Europa e per le vicende personali dello stesso Grassi che, come abbiamo detto sopra, si iscrive il 3 maggio 1933 al partito fascista79 più per motivi di “opportunismo” accademico che per convinzione, e in un clima di generale espansione europea delle ideologie fasciste. Ricordiamo che soltanto dodici professori in quegli anni rifiutarono di prestare giuramento e che l’esplicito e dichiarato antifascismo di Croce restava isolato e chiuso nelle mura di palazzo Filomarino, mentre Gentile raccoglieva intorno a sé il meglio della cultura storica e filosofica delle nuove generazioni80. In tale contesto bisogna inquadrare il compito teoretico e culturale che Grassi dava alla sua ricerca di una rivalutazione della filosofia italiana. Così ritroviamo Grassi a Berlino, dove dal 1 aprile del 1938 assume il ruolo di professore incaricato di “filosofia italiana nei suoi rapporti con la filosofia tedesca”. Nei saggi scritti in questo periodo, da I rapporti tra filosofia tedesca e italiana del 1939 fino a Del Vero e del verosimile in Vico !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 78 E. Grassi, Il Problema del logo, cit., p. 387. 79 Cfr. la dettagliata ricostruzione di Büttmeyer in op., cit. 80 Sul rapporto Croce-Gentile sul ruolo della cultura cfr., G. Cacciatore, Croce e Gentile: la funzione degli intellettuali e l’uso della storia italiana, pp. 477-492, in A. d’Orsi-F. Chiarotto (a cura di), Intellettuali. Preistoria, storia e destino di una categoria, Aragno, Torino 2010.  ! 32!  del 1943, passando per i contributi sul poetico e sul politico nella riflessione italiana dell’Umanesimo e del Rinascimento, sale in superficie la questione della parola, indagata, secondo Grassi, dagli umanisti non con uno spirito antiquario, erudito, storico-filologico, storiografico, bensì con lo spirito di una lotta per una visione e una costruzione del mondo storico-sociale, che non è un mondo di pura contemplazione, ma è innanzitutto una vita activa, in cui i valori del passato greco, che gli umanisti sostenevano di aver scoperto contro le interpretazioni medievali, potevano contribuire all’educazione e alla formazione della civiltà. Come ha sottolineato Cesare Vasoli nell’Introduzione italiana all’opera grassiana Heidegger e il problema dell’umanesimo: “Grassi considera vero problema centrale dell’umanesimo italiano non tanto la riscoperta dell’uomo e dei suoi valori immanenti, quanto piuttosto l’illuminazione del contesto originario, dell’orizzonte o apertura in cui appaiono l’uomo e il suo mondo [...] dalle analisi del Grassi, svolte in un ampio arco, da Dante al Boccaccio e al Salutati, dal Bruni al Vico, emerge un tema costante: la poesia come fondazione della comunità umana e della storia, svelamento luminoso dell’essere, e – soprattutto in Vico – principio e ragione della stessa humanitas, con la sua inquietante presenza storica”81. L’umanesimo è, dunque, interpretato alla luce dell’esperienza linguistica che caratterizza il mondo umano e della individuazione dell’apertura primitiva, arcaica e originaria che Grassi rielabora sulla scorta di quanto Heidegger esprime sul concetto di Lichtung: si tratta di un neoumanesimo onto- antropo-logico, che, come sarà esplicitato in seguito, non è un approccio antropologico antropocentrato, poiché la relazione primaria èquella di uomo e mondo, Dasein e Sein. Lo slittamento dell’interpretazione dell’umanesimo da un piano gnoseologico-epistemologico ad uno ermeneutico- ontologico spinge Grassi ad un più serrato confronto con Heidegger e la sua inappellabile condanna dell’umanesimo. Heidegger afferma, infatti che “ogni umanismo rimane metafisico. Nel determinare l’umanità dell’uomo, l’umanismo non solo non si pone la questione del riferimento dell’essere all’essere umano, ma impedisce persino che si ponga una simile questione, perché a causa della sua provenienza metafisica, l’umanismo non la conosce e non la comprende”82. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 81 C. Vasoli, Introduzione a E. Grassi, Heidegger e il problema dell’umanesimo, Napoli, Guida 1985, pp. 10-11. 82 M. Heidegger, Lettera sull’umanismo, in Id., Segnavia, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1987, p. 275.  ! 33!  Tale critica in Heidegger si collega ad una precisazione della sua filosofia che non ha mai avuto l’intenzione di essere un esistenzialismo o un umanismo, ma un pensiero che con uno Schritt zurück, con un passo indietro, rispetto all’umanesimo e alla metafisica, cerca di proporre il problema dell’essere. Tenendo in considerazione il tema dell’ultra-metafisica heideggeriana Grassi ha dato una caratterizzazione per così dire non umanistica (in senso heideggeriano) dell’umanesimo individuando in esso numerose analogie con il pensiero di Heidegger. In questo modo, tra un approccio apologetico della modernità ed uno decostruttivo, quale è quello di Heidegger, secondo il filosofo milanese l’umanesimo resta schiacciato in un limitato settore storiografico senza anima propria ma interpretato solo in riferimento ad altre epoche. Grassi si chiede se sia plausibile una simile posizione o se non si tratti, forse, come già accaduto per Cassirer, Kristeller, Spaventa, Hegel e altri, di un errore di prospettiva83. Per tentare di rispondere a queste domande, emerse con vigore negli anni Quaranta, Grassi impiegherà tutta la sua esistenza. In un importante testo, apparso in Geistige Überlieferung – l’annuario frutto della collaborazione con W. F. Otto e K. Reinhardt – L’inizio del pensiero moderno. Della passione e dell’esperienza dell’originario del 1940, Grassi porta avanti una vigorosa critica del cogito cartesiano che non tiene conto di quella passione a partire dalla quale soltanto avviene il theorein che è proprio della filosofia. Un theorein che non ha una costituzione razionalistica ma è “una visione puramente indicativa, schematica, immaginifica, che, come tale, opera opera anche pateticamente e quindi retoricamente”84. A fondamento del pensiero c’è una necessità esistenziale che non può che rivelarsi e apparire attraverso l’esperienza della parola poetica e metaforica: unicamente quest’ultima può rendere conto del polimorfismo ontologico, che non è un fatto85, ma un continuo divenire, all’appello del quale !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 83 E. Grassi, La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale, cit., soprattutto il primo capitolo, Il problema della parola poetica, pp. 31-36. 84 Id., Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, cit., pp. 17-18. 85 “L’essenza della presenzialità immediata – che dovrebbe essere l’essenza della svelatezza empiristica – non è dunque ciò che è diventato e che si è cristallizzato come fatto, oggetto, bensì il divenire, il manifestarsi [...] il dato originario, come immediata presenza di alcunchè, è il divenire, il processo, cioè ciò che non è ancora diventato, fatto, e in quanto già ! 34!   l’uomo è chiamato a rispondere in modo plurale e non univoco. Grassi afferma che “poiché il vedere, la visione, insiti nella teoria come fondamento di ogni procedimento razionale si attuano attraverso [...] una metafora. Allora la metafora, che ricorre per lo più alle immagini” non va considerata un mezzo solo letterario ma “è indispensabile per esprimere l’Originario?”86. Oltre alla collaborazione all’annuario, occorre segnalare anche la progettazione dell’Istituto Studia Humanitatis in cui la partecipazione degli esponenti della cultura italiana e tedesca è inquadrata anche alla luce di un intento politico-culturale: quello di affermare la specificità della Romanitas nei confronti degli ideali del mondo tedesco privilegiando soprattutto tre ambiti problematici: “in primo luogo l’antichità nel suo particolare significato per la tradizione italiana. Inoltre il rinascimento e l’umanesimo [...] infine, una terza questione riguarda il modo in cui il XIX secolo ha compreso e giudicato l’umanesimo e il rinascimento”87. Per Grassi fin dall’inizio gli studia humanitatis hanno un legame con l’agire creativo dell’uomo, che si realizza soprattutto nella comunità politico-sociale88. A partire dal 1945 Grassi si reca in Svizzera in cui progetta con Szilasi la collana Überlieferung und Auftrag presso l’editore Francke di Berna e l’anno successivo incomincia la sua lunga attività di insegnamento a Monaco e di direzione del Centro Italiano di Studi Umanistici e Filosofici. In conclusione di questa breve introduzione alle idee dell’“emigrante con la vocazione per la filosofia”, basti dire che negli anni densi e intensi dell’apprendistato filosofico tra il 1922 e il 1946 si gettano le basi di quei grandi temi che percorrono i decenni successivi: la rivalutazione dell’umanesimo e della latinità come luoghi di riflessione sulla questione onto-antropo-logica, sul nesso uomo-essere; la centralità del linguaggio e della parola poetica, del dire metaforico e della !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! svanito, non più presente. Il dato come oggetto, e quindi come qualcosa di già fatto, non è il dato, bensì una falsa interpretazione del dato”, E. Grassi, Il Problema del logo, cit., p. 375. 86 Id., Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, cit., p. 18. 87 Id., Studia humanitatis come essenza della tradizione spirituale italiana, in Studia Humanitatis. Festschrift zur Eröffnung des Institutes, Veröffentlichungen des Institutes Studia Humanitatis, Berlin, verlag Helmut Küpper, 1942, pp. 19-32, ora in Id., I Primi scritti, cit., p. 949. 88 Del periodo berlinese ricordiamo anche l’attività editoriale realizzata con l’appoggio di Helmut Küpper.! ! 35!   retorica. La questione è, ancora una volta, quella di riattivare un rapporto uomo-mondo non intrappolato nella rete di una soggettività cogitativa o di un’oggettività alla quale adeguarci, ma di attingere a un mondo pre-categoriale in cui gli orizzonti della sensibilità e della razionalità, dell’immediatezza dell’atto e della riflessione che lo struttura si intersecano. Il “neoumanesimo della complessità” offerto da Grassi può essere concepito come un atto di demitizzazione: una delle mitologie da sfatare è quella della preminenza della ratio. Ma tale operazione decostruttiva non si risolve in una mitizzazione, di segno opposto, della crisi della ragione; del tramonto della civiltà, in cui cultura e civilizzazione si sono definitivamente separate; del tramonto dell’uomo che da animale pregnante, passa ad animale carente, diventando, infine, animale obsoleto e antiquato o, addirittura, come testimoniato dagli attuali studi post-umanisti, segmento di un processo ibridativo con la techne. Nei prossimi capitoli cercheremo di ripercorrere le tappe grassiane del discorso sull’umanesimo che viene a configurarsi come un itinerario onto-antropo-logico in cui il discorso sull’uomo si intreccia indissolubilmente con la questione ontologica. Sarà concesso spazio a quegli scritti del periodo giovanile nella convinzione che solo dall’analisi di quei contributi è possibile comprendere la ricostruzione storica e speculativa di un umanesimo gravitante attorno al concetto di Lichtung. Le questioni sollevate da Grassi costituiscono un contributo fondamentale alla filosofia del Novecento e non possiamo pensare alle sue riflessioni come a temi da “vagabondaggio filosofico”, come dai giudizi dei filosofi ricordati all’inizio di questo capitolo sembrava emergere, ma come l’ennesimo tentativo di ripensare l’uomo a partire dalle proprie strutture immanenti e dal proprio essere-nel- mondo. ! 36!  CAPITOLO II L PROBLEMA DELL’UOMO TRA UMANESIMO E ANTIUMANESIMO: L’UMANESIMO CRITICO DI ERNESTO GRASSI. II.! I. Il momento machiavelliano della genesi del problema dell’umanesimo Uno dei risultati più importanti della indagine filosofica grassiana portata avanti tra gli anni Trenta e Quaranta è la scoperta della co-originarietà tra logos e pathos: la dimensione patica dell’esperienza umana si pone come un a priori dello stesso ambito cogitativo89. Possiamo rintracciare un doppio binario della ricerca: la critica al pensiero moderno è condotta, da un lato, attraverso l’individuazione degli effetti negativi di un divorzio tra logos e pathos, dall’altro, tramite la ricerca di un certo “luogo” della tradizione culturale umanistico-rinascimentale che il dibattito storiografico ha sempre ritenuto privo di spessore filosofico, o almeno non carico di una serie di motivazioni teoriche che Grassi rintraccia. Secondo il pensatore milanese il “grande rimosso” del pensiero moderno è, di fatto, un momento epocale: la tradizione ha obliato il valore filosofico e storico del linguaggio poetico, nel quale egli rintraccia la possibilità di uscire dal conflitto tra ratio e pathos. Solo fuoriuscendo dal circolo vizioso di ragione e passione è possibile esperire una dimensione dell’umano nuova ed autentica. Ma come nasce per Grassi l’esigenza di rinnovare la questione dell’uomo e del suo rapporto con il mondo? Sappiamo quanto vivo e vigoroso fosse il problema: lo dimostra la tenacia speculativa che, in qualità di direttore della Humanistische Bibliothek dell’editore Fink, mostra patrocinando la pubblicazione di una cinquantina di volumi intorno a temi umanistici, nella speranza che la conoscenza diretta di Petrarca, Salutati, Valla, Pontano, Gianfrancesco Pico potessero rendere giustizia ad un’immagine dell’umanesimo lontana dalle interpretazioni tradizionali. Inoltre, nel 1938 !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 89 Affronteremo la questione del nesso pathos-logos in maniera analitica nel terzo capitolo. ! 37!   il nostro autore, sotto il patronato dell’Accademia d’Italia, ha l’incarico di fondare e dirigere l’Istituto Studia Humanitatis a Berlino, anche grazie all’interessamento di Enrico Castelli. Accanto a questa opera di edizione e direzione c’è il percorso di ricerca teorica portato avanti per tutta una vita e che pone Grassi in un confronto serrato con i più noti interpreti dell’Umanesimo e del Rinascimento e con due autori in particolare secondo la convinzione di gran parte degli interpreti: Vico e Heidegger, ma noi vorremmo aggiungere anche Cartesio, Aristotele e Leopardi. Da un lato Cartesio ha avuto un ruolo centrale nell’analisi grassiana del logos attraverso la fecondità individuata nei concetti di dubbio e cogito che rivestono un’importanza fondamentale nell’analisi della Leidenschaft. Dall’altro Aristotele ha espresso concetti, quali quelli di archè e pistis, che secondo Grassi gettano luce su un altro percorso possibile per il pensiero: il filosofare noetico non-metafisico in cui si condensa la proposta retorica del filosofo tutta gravitante intorno al nesso phantasia-ingenium-metafora che costituiscono la triade della retorica del significare arcaico. Poi c’è Vico che appare come l’erede della tradizione umanistica: il De antiquissima e la Scienza Nuova ci guiderebbero verso un mondo la cui nota dominante è costituita dalla fantasia e dall’ingegno, che con spirito anti-cartesiano Vico avrebbe contrapposto alla ratio calcolante e al deduzionismo matematico di Cartesio, in difesa delle humanae litterae. Lopardi con il concetto di illusione avrebbe teorizzato una filosofia dell’esistenza in cui il pathos avrebbe raggiunto le vette di una tematizzazione poetico-filosofica che guida la riflessione verso il tema del fondamento e dell’antropogenesi. Infine Heidegger si mostra come il più fiero oppositore dell’Umanesimo e del Rinascimento, trattati alla stregua di espressioni di una mera antropologia ontica che ha come centro della riflessione l’ente e non l’essere. Eppure le riflessioni di Heidegger sul linguaggio e sulla parola poetica, sull’opera d’arte come evento del disvelamento dell’essere, sono richiamate all’attenzione da Grassi che con Heidegger va oltre Heidegger compiendo un vero e proprio iter di oltrepassamento, nel duplice senso di Verwindung (accettazione-approfondimento) e Überwindung (superamento). Secondo l’interpretazione grassiana, quella di Heidegger sarebbe una prospettiva che, nonostante la messa in mora della modernità e l’opera decostruttiva condotta nei riguardi dell’impostazione ! 38!  soggettocentrica, cade preda di quel pregiudizio hegeliano e di tutta la concezione idealistica dell’umanesimo. Leggiamo in Heidegger e il problema dell’umanesimo che “Heidegger sottolinea che il termine umanesimo si affermò per la prima volta al tempo della repubblica romana come equivalente del termine greco paideia. Per Heidegger è un dato di fatto che ogni umanesimo principia col definire l’essenza dell’uomo, quindi con una filosofia antropologica”90. L’umanesimo come mera antropologia è l’equazione posta da Heidegger che Grassi mette in discussione attraverso un’analisi storico-filosofica che rintraccia nelle riflessioni sul linguaggio un altro inizio del pensiero. Benché Heidegger avesse sviluppato una concezione del linguaggio e della poesia come luoghi del disvelamento dell’essere, la tradizione poetica degli autori italiani del Quattrocento non era ritenuta funzionale al discorso relativo alle “circostanze della manifestatività” ma frettolosamente liquidata in quanto proseguimento della Romanitas, posta da Heidegger in contrapposizione con l’esperienza greca presocratica. Grassi tenta di ricostruire con spirito critico-problematico, più che filologico91 in senso tecnico, la tradizione di quegli autori come Salutati, Valla, Poliziano e Landino che mostrano una ricchezza del possibile in alternativa all’unilateralità del vero. Nelle sue analisi, infatti, emerge quella volontà di far parlare direttamente i testi senza diaframmi, mettendo in evidenza quella mutevolezza del particolare e del contingente senza prescindere dalla situazione data. Denunciando i gravi limiti di ogni inerte visione aprioristica e razionalistica, quegli autori costituiscono per Grassi il polo ineludibile di una riflessione che è attenta a tutte le dimensioni del !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 90 E. Grassi, Heidegger e il problema dell’umanesimo, cit., p. 58. 91 Del resto le forzature storiografiche che talvolta sono presenti nelle riflessioni grassiane sono state sottolineate da Cesare Vasoli nell’Introduzione all’edizione italiana di E. Grassi, Heidegger e il problema dell’umanesimo: “Grassi è infatti convinto – e lo ripete nel modo più esplicito – che la svolta platoneggiante segnata dal Ficino e la forte ripresa della tradizione aristotelica, nel corso della prima metà del Cinquecento, siano sostanzialmente estranee alla vera filosofia umanistica o, almeno, alle sue ragioni e interessi più vitali. Ciò pone, naturalmente, molti problemi di natura storiografica [...] anche se non può tacersi che anche il giudizio umanistico sul valore fondante della poesia deve non poco a tipici loci platonici e che il tema del furor proprio del Ficino (si pensi soltanto ad alcune notissime pagine del De Amore) ha svolto un ruolo dominante nell’interpretazione sapienziale della poesia e del suo ruolo di theologia originaria”, C. Vasoli, Introduzione, pp. 7-16, in E. Grassi, Heidegger e il problema dell’umanesimo, cit., p. 12; titolo originale Heidegger and the question of Renaissance Humanism, Center for Medieval and Early Renaissance Studies, Binghamton, New York 1983.  ! 39!  pensiero: non solo la logica e la teologia, ma la giurisprudenza, la mitologia, la politica, la retorica, la poesia divengono oggetti teorici degni di una riflessione sulle molteplici forme dell’apparire dell’essere. In tale percorso di rivisitazione delle tematiche umanistiche Grassi segue itinerari poetici e teatrali, generi, quali il poema cavalleresco, la lettera familiare, l’elogio, che pongono in luce un senso della parola poetica lontano da ogni velleità di giungere ad un significato definitivo, ad una definizione che chiuda la res in un verbum univoco. Anzi, secondo Grassi è nelle parole, nei verba, nella ricchezza e complessità di un universo linguistico non chiuso nei ristretti limiti della logica formale che possiamo attingere la res e i suoi modi di datità, che sono infiniti, molteplici, contingenti, transeunti. Da ciò deriva che il principale compito della nuova filosofia umanistica narrata dal filosofo è l’apprensione del reale non a mezzo “del processo razionale del pensiero che col concetto (horos) e la definizione (horismos) coglie l’essenza (ousia) degli enti, ed astraendo dal tempo e dal luogo, ne stabilisce il significato”92; ma attraverso la parola storica-poetica-metaforica che “è una eikasia (una somiglianza e un apparire) del significato degli enti come risposta alle esigenze esistenziali che sorgono nelle diverse situazioni”93. L’attenzione alla polidimensionalità del reale che si rivela nella polidimensionalità linguistica rende la stessa opera grassiana non suscettibile di sistematicità: leggere Grassi tentando di rintracciare nelle sue pagine un’opera sistematica è un approccio inadeguato, occorre piuttosto seguirlo nelle tracce, nelle indicazioni, nelle pieghe della meditazione94. Del resto questo è un risultato, più che un !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 92 Id., La filosofia dell’umanesimo un problema epocale, cit., p. 37. 93 Ivi, p. 146. 94 Secondo l’interpretazione di D. Pietropaolo l’assenza di sistematicità nella filosofia di Grassi costituisce un limite, uno “svantaggio considerevole”, ma secondo il nostro punto di vista si tratta di un riflesso dell’impianto fenomenologico del metodo seguito da Grassi. Se la realtà è multiforme e sfaccettata anche il modo di dire tale realtà procederà per aspetti, frammenti segmenti tutti tesi a mostrare la ricchezza dell’essere. D. Pietropaolo, Grassi, Vico, and the defense of the Humanist Tradition, in “New Vico Studies”, 1992, X, p. 5. Opposto il giudizio di A. Battistini secondo il quale quello di Grassi è un metodo che “rispecchia una ricerca sempre in progress, inappagata, dinamica”, A. Battistini, Vico e l’umanesimo inquieto di Ernesto Grassi, p. 391, in E. Hidalgo-Serna-M. Marassi (a cura di), Studi in memoria di Ernesto Grassi, cit., pp. 385-404.  ! 40!  limite, raggiunto dal filosofo in ossequio all’insegnamento degli umanisti che con la riflessione sulla storicità dell’esperienza umana che parte da bisogni concreti elaborano quella che è una rivoluzione epocale ben più importante di altre rivoluzioni culturali: attraverso la teoria dell’ingegno, che interviene nelle diverse e varie situazioni, in funzione delle necessitates e dell’hic et nunc, tramite l’attività analogica, che assurge a meccanismo catalizzatore del sistema antropo-poietico. Leggiamo in La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale che “l’umanesimo, non muovendo più dal problema della definizione razionale del reale, realizza un rovesciamento dei procedimenti del pensiero filosofico ben più radicale della così detta moderna “rivoluzione copernicana” del pensiero cartesiano e idealistico”95 e ciò è espresso, dal nostro punto di vista, in conformità alla generale impostazione onto-antropo-logica del pensiero di Grassi, che vede nella indagine linguistica e poetica la possibilità di scorgere quell’appello dell’essere che spinge l’uomo a rispondergli creativamente in base alle molteplici circostanze esistenziali. In tale contesto l’agire umano per Grassi “implica la necessità di realizzare non cognizioni astratte di una metafisica ragionata ma una metafisica metaforica, fantastica ma non arbitraria perché risposta oggettiva alle urgenze vissute differentemente nelle varie situazioni”96. Ma torniamo al problema dal quale siamo partiti: come giunge Grassi alla domanda sull’uomo e sulla correlazione uomo-mondo? Decisivo è stato l’incontro con il maestro degli “anni mitici di Friburgo”? Oppure dobbiamo attendere quella che, secondo alcuni interpreti, è la svolta vichiana? Domandarsi della genesi del problema onto-antropo-logico in Grassi è una operazione teorica non semplice, poiché si tratta di percorrere un iter in absentia: il filosofo non usa esplicitamente l’espressione “onto-antropo-logia” per qualificare la propria riflessione, ma, a dispetto di quest’assenza terminologica, possiamo riscontrare le tracce – non tanto nascoste – di tale ambito problematico che si costituisce come l’orizzonte di pre-comprensione imprescindibile per accedere ai settori teorici toccati dal filosofo di Milano: retorica, metaforologia, umanesimo. Riferirsi al !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 95 E. Grassi, La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale, cit., p. 96. 96 E. Grassi, Vico e Ovidio. Il problema della preminenza della metafora, in “Bollettino del Centro di Studi Vichiani”, 1992-1993, XXII-XXIII, p. 174.  ! 41!  contesto onto-antropo-logico ci consentirà agevolmente di sfatare anche un’ipoteca storiografica che pesa sul suo pensiero, talvolta preda di un’interpretazione che lo ritiene mera espressione eclettica o privo di una adeguata articolazione teoretica97. Grassi affronta i temi dell’Umanesimo e del Rinascimento italiani già nel 1924 nel saggio Il pensiero di Machiavelli e l’origine del concetto di Stato apparso sulla rivista Rassegna Nazionale. Ben prima dell’incontro con Heidegger, ben prima dell’incontro con Vico dunque. In questo saggio Grassi offre un’interpretazione degli scritti machiavelliani puntando l’attenzione sui concetti di uomo e umanità, riconoscendo l’importanza decisiva che nella sua prospettiva onto-antropo-logica assumono le questioni di stato e patria. L’impostazione teorica che emerge è di stampo idealistico98 e tende a dare credito ad alcune interpretazioni correnti, quali l’affermazione della dignità umana come valore immanente; l’incapacità di inquadrare in un sistema concettuale il pathos della ricerca; la collocazione entro la cornice teorica della modernità dell’Umanesimo e del Rinascimento. Secondo il filosofo di Milano ciò che emerge dalle riflessioni di Machiavelli è un principio di immanenza che permea tutta la riflessione moderna. Grassi afferma che “il medioevo e il rinascimento - secondo una distinzione larga – nascono come espressione di due pensieri fondamentalmente distinti: mentre il pensiero antico, medioevale cercava la razionalità del reale – ossia il principio di ogni realtà in un principio trascendente, che ci supera – il pensiero moderno – di cui il rinascimento e l’umanesimo sono la prima affermazione – cerca la razionalità del reale in un principio immanente, che è in noi”99. Pur accogliendo tale distinzione tra Medioevo e Rinascimento il filosofo riconosce tuttavia il limite di un’impostazione di questo genere poiché la realtà storica e filosofica risulta pur sempre più ricca e complessa di rigidi schemi che non tengono conto delle mille sfaccettature di correnti di pensiero e di singoli intellettuali. Emblematico è il caso di Dante che in questo scritto appare essere !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 97 Cfr., l’interpretazione di G. Modica, Oltre Heidegger e Vico. Sulla prospettiva filosofica di Ernesto Grassi, pp. 77-88, in AA. VV, Un filosofo europeo. Ernesto Grassi, cit. 98 Cfr., R. Messori, Le forme dell’apparire, cit., in particolare il terzo capitolo, Umanesimo e modernità, pp. 89-125. 99 E. Grassi, Il pensiero di Machiavelli e l’origine del concetto di Stato, in Id., Primi Scritti, cit., p. 55.  ! 42!  un Giano bifronte, proteso sia verso l’impostazione classica e medioevale, che rintraccia nell’“essere per essenza – o per seguire la loro denominazione – Dio – l’essere da cui tutto proviene e in funzione del quale tutto si distingue e supera il soggetto di cui è origine e causa”100; sia verso un aspetto proto- moderno che troverà nell’epoca successiva un dispiegamento considerevole. Secondo Grassi nella concezione politica di Dante abbiamo un primo embrione della modernità: “la nuova epoca non si – può – far nascere dal secolo XV, ma molto prima, come ci rivela l’espressione volgare della Divina Commedia, del Convivio, e il ghibellinismo di Dante”101. La riflessione della modernità matura sarà contraddistinta da una serie di elementi che metteranno in crisi l’impostazione medievale ma anche classica. Contro l’idea che proprio gli umanisti proporranno nell’auto-interpretazione della propria epoca, secondo Grassi lo stesso classicismo del Quattrocento e del Cinquecento non è che “semplice scorza con cui la nuova epoca inviluppava le sue tendenze...fredda cenere sotto cui troviamo il primo fuoco dello spirito moderno, l’uomo che ricerca e trova se stesso”102. Nel nuovo contesto culturale la figura di Machiavelli è assunta come baluardo della costruzione del Rinascimento: nel clima generale della critica verso i “barbari medievali” alla vis destruens degli umanisti Machiavelli sa contrapporre una vis construens che si concretizza nella messa a tema del concetto di patria, del valore dell’individuo e della verità effettuale che, secondo Grassi, riveste un’importanza massima: “l’affermazione della verità effettuale è della massima importanza, egli giungerà logicamente col suo metodo induttivo alla concezione della storia come creazione umana”103. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 100 Ivi, p. 56. 101 Ivi, p. 58. 102 Ivi, p. 62. 103 Ivi, p. 66.  ! 43!  La centralità della nozione machiavelliana di verità effettuale viene posta in correlazione con la teoria vichiana del verum ipsum factum, secondo cui il verum storico è conoscibile solo ed unicamente nel factum umano. Il criterio della convertibilità, che ha una tradizione antica, di ascendenze giudaico-cristiane104, e che è possibile definire come il vero assioma di Vico, viene esplicitamente espresso nel De nostri temporis studiorum ratione del 1708. Qui il criterio del verum-factum viene legato all’ambito geometrico: “pertanto queste cose della fisica, che in forza del procedimento geometrico si presentano come vere, non sono se non verisimili, e dalla geometria ricevono sì il procedimento, non la dimostrazione: dimostriamo la geometria perché la facciamo; se potessimo dimostrare la fisica, la faremmo”105. Vorremmo sottolineare che il “vichismo” di Machiavelli individuato da Grassi in questo saggio risente fortemente dell’impostazione crociana. L’inconsapevole vichismo di Machiavelli o il non voluto machiavellismo di Vico compare in numerose opere del filosofo di Pescasseroli. U no dei primi riferimenti crociani al Segretario fiorentino risale a Filosofia della pratica del 1908 in cui Croce, trattando della categoria dell’utile, e quindi della politica, riconosce Machiavelli come il capostipite delle dottrine che hanno considerato la politica come attività indipendente dalla morale e che hanno stabilito dei precetti “empirici” della “ragion di Stato”. Ma allo stesso tempo osserva che la questione “se codesti due termini potessero mai tenersi immediatamente identici”106 è stata indagata da Machiavelli anche se, su tale aspetto, il suo pensiero è stato lungamente non compreso “non essendosi inteso il valore spirituale della volontà utilitaria, considerata per sé senza interferenza della ulteriore determinazione morale”107. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 104 Per una sintesi ben documentata della storia della teoria del verum-factum prima e dopo Vico cfr., M. Martirano, Vero- Fatto, Guida, Napoli, 2007, in particolare i capp., Il criterio del vero e del fatto prima di Vico, pp. 41-101; e Il criterio del vero e del fatto dopo Vico, pp. 105-172. 105 G. Vico, Sul metodo degli studi del nostro tempo, a cura di A. Suggi, Ets, Pisa 2010, pp. 49-51. 106 Croce, Filosofia della pratica. Economia ed etica, Laterza Editori, Bari, 1945, p. 266. 107 ivi, p. 267. Secondo Croce solo a partire dall’analisi critica di Francesco De Sanctis si è cominciato a comprendere il carattere complesso della tesi di Machiavelli e quindi a valorizzare il pensiero del Principe giustificandolo a dispetto delle condanne provenienti da correnti moraliste. Nella recensione dell’edizione del Principe curata da Federico Chabod nel 1924, Croce precisa come sia necessario non tanto affermare che la politica si identifica con la forza bensì “insistere e mettere bene in chiaro che cosa sia veramente la forza, e come quella forza, che è la virtus politica, rappresenti un aspetto, necessario bensì ed eterno, ma un aspetto solo della totalità ed integralità umana” – B. Croce, “La Critica”, giugno 1924, p. 314. In seguito nel 1932 in Storia d’Europa nel secolo decimonono ad integrazione la necessità della virtù nella politica ! 44!   Su questo sfondo crociano l’interpretazione di Grassi pone in luce il nesso di verità effettuale108 e verum ipsum factum che dischiude una nuova visione del mondo: dire che “coll’affermazione della verità effettuale, abbiamo veramente l’affermazione che precorre e già contiene implicitamente il verum ipsum factum di Vico”109, significa porre nella realtà l’unico valore, identificando valore e realtà, essere e valore, e ha come conseguenza anche l’adozione di un metodo innovativo di indagine del reale. L’importanza di questo saggio giovanile è degna di nota se consideriamo che proprio qui emergono alcune dicotomie concettuali che ritroveremo nella produzione successiva e che sottolineano quanto già a partire dagli anni Venti la questione onto-antropologica fosse viva nella riflessione del filosofo. Risulta evidente allora che la questione onto-antropo-logica, il problema dell’umanesimo, della correlazione Da-sein e Sein nell’orizzonte della Lichtung non compare in Grassi solo ed unicamente a partire dall’incontro con Heidegger o dalla svolta vichiana di un fantomatico “secondo Grassi” ma affiora già nelle riflessioni sulla “scienza nuova” machiavelliana. La “scienza nuova” offerta da Machiavelli secondo il pensatore milanese è innanzitutto una scienza induttiva e non deduttiva, è una intelligenza dei fatti che può realizzarsi solo abdicando al principio di autorità e all’a-priorismo !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! e la denuncia della mera attività politica senza responsabilità è lampante: “se alla libertà si toglie la sua anima morale...si toglie la purezza del fine; se alla disciplina interna alla quale essa si sottomette spontanea si sostituisce quella della eterna guida e del comando non rimane se non il fare per fare, il distruggere per il distruggere...ne vien fuori l’attivismo. Il quale è dunque in questa traduzione riduzione e triste parodia che in termini materialistici compie di un ideale etico, sostanzialmente una perversione dell’amore per la libertà” – B. Croce, Storia d’Europa nel secolo decimonono, Laterza Editori, Bari 1972, p. 300. Croce risolve in maniera definitiva la questione posta da Machiavelli saldando assieme l’etica alla politica sia nella sua concezione della storia, sia nella sua filosofia politica tanto da unire nell’unica opera Etica e politica (1931) i precetti morali alle riflessioni sulla politica. In questo testo egli cita Vico come il solo ed autentico successore dell’impostazione di Machiavelli, ritenendo che i suoi veri prosecutori non sono né coloro che elaborano una precettistica della “ragion di stato”, né coloro che escludono qualsiasi commistione tra politica e etica e predicano l’avvento di un regime basato sulla pura bontà e giustizia, né chi non cerca di risolvere l’antinomia tra politica e morale ma la relativizza a carattere meramente accidentale della storia. Vico è ai suoi occhi colui che più di tutti è “pieno del suo spirito, che egli chiarifica e purifica, integrando il suo concetto della politica e della storia, componendo le sue aporie, rasserenando il suo pessimismo” – B. Croce, Etica e politica, Laterza Editori, Bari, 1931, p. 254. 108 L’espressione verità effettuale compare nel XV capitolo del Principe: “ma sendo l’intento mio scrivere cosa utile a chi l’intende, mi è parso più conveniente andare drieto alla verità effettuale della cosa, che alla immaginazione di essa”, N. Machiavelli, Principe, XV, 280 A. Cfr., su questo aspetto V. Raspa, Della verità effettuale della cosa e del riscontrare le cose. Riflessioni intorno al XV capitolo del Principe, pp. 152-184, in AA. VV, Machiavelli: immaginazione e contingenza, a cura di F. Del Lucchese-L. Sartorello-S. Sartorello, Ets, Pisa 2006. 109 E. Grassi, Il pensiero di Machiavelli e l’origine del concetto di Stato, in Id., Primi scritti 1922-1946, p. 66. ! 45!   logico. La grandezza del segretario fiorentino risiede nella ricostruzione politica del Rinascimento, che è allo stesso tempo una restituzione alla storia di una razionalità intrinseca. Ma in che modo è possibile offrire al dominio di Dio o del caso – la storia – una propria razionalità? La domanda che secondo Grassi Machiavelli si pone trova nelle pagine del Principe una risposta, l’unica possibile. Assodato che con il Rinascimento registriamo una rottura, un crollo dell’impalcatura teorica e pratica del Medioevo, la dissoluzione dei valori religiosi e l’affermazione della forza dell’individuo, come garantire l’integrità della vita activa, come riparare la nuova idea di azione umana dal pericolo di una dispersione irrazionale di energia? Secondo Grassi la stessa affermazione del soggetto empirico va superata e si supera con Machiavelli: “l’affermazione del soggetto empirico andava superata e condotta a un concetto di unità di individualità superiore, ma il problema doveva essere posto negli unici termini possibili: superare l’individualità empirica per mezzo dell’affermazione dell’individualità stessa”110. Il problema dell’individualità si pone come un dato di importanza considerevole per due ordini di ragioni: innanzitutto l’ascesa del soggetto è individuata come un tratto distintivo della modernità, sebbene in questo contesto l’autoaffermazione assuma una valutazione positiva che in seguito perderà, a fronte di una impostazione teorica che vede nella compagine soggettocentrica della filosofia un aspetto negativo; poi mostra l’aporia aperta dalla figura di Machiavelli e che rifluisce nella tematizzazione grassiana successiva: l’aporia tra la componente irrazionale, quella che successivamente sarà definita patica, e l’esigenza di un inquadramento razionale e logico. Il Principe ha un valore emblematico e attesta un tentativo di coniugazione estremamente importante: “l’affermazione del Principe di Machiavelli è così il passaggio dal concetto dell’Umanesimo, dell’individualità empirica, a quello di nazione”111. Passaggio, questo, che fa emergere quanto Machiavelli percepisse “l’irrazionalità in cui si dibatte il Rinascimento: il contrasto delle varie affermazioni di tirannidi”112 e che rende la sua opera una !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 110 Ivi, p. 73. 111 Ivi, p. 74. 112 Ivi, p. 76.  ! 46!  sorta di “fisica delle forze umane”113. Si tratta di un’aporia che nel Principe si struttura come tensione tra le antinomie etico-psicologiche e unità del principe-centauro; e nei Discorsi trova espressione nel contrasto tra il conflitto socio-politico e l’unità istituzionale. Una contesa che è connotata positivamente da Machiavelli per il quale le “dissensioni”, i conflitti, non sono elementi esiziali per la salvaguardia della res publica, ma necessarie e proficue114. Alla figura di Machiavelli, all’importanza della sua teoria politica nella ridefinizione dei parametri della modernità umanistica, e all’impronta innovativa offerta dal suo concetto di verità effettuale al “cambiamento di paradigma” del Cinquecento, per usare una fortunata espressione kuhniana, Grassi dedica molta attenzione tra gli anni Venti e Quaranta. Ciò è testimoniato dalle pagine conclusive del saggio Pensieri sul poetico e sul politico del 1939, in cui si asserisce che “l’essenza politica di Machiavelli consiste quindi nell’aver riconosciuto l’urgenza della politica (necessità), il suo imporsi, come una forma autonoma e in sé indipendente da ogni altra forma del dischiudersi della realtà [...] questo inarrestabile realizzarsi del politico è ciò che Machiavelli chiama fortuna, la quale non significa sorte, bensì la concreta situazione politica in cui sempre ci troviamo”115. Qui viene espresso quel concetto di costrizione, necessità e coercizione che il reale esercita sull’essere umano e che è importante richiamare all’attenzione poiché quello di Nötigung sarà un concetto che ritroveremo in seguito e che andrà a costituire una delle caratteristiche della onto- antropo-logia di Grassi, la quale ha di mira l’individuazione dei meccanismi arcaici di antropo-poiesi, dei dispositivi che sono fortemente radicati nella situazione particolare, nell’Appello dell’essere e !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 113 Ibidem. 114 Cfr., G. M. Barbuto, Il pensiero politico del Rinascimento, Carocci, Roma 2008, in particolare le pp. 39-75 dedicate a Machiavelli. 115 E. Grassi, Pensieri sul poetico e sul politico, in Id., Primi scritti, cit., p. 793. Il saggio appare originariamente in tedesco con il titolo Gedanken zum Dichterischen und Politischen. Zwei Vorträge zur Bestimmung der geistigen Tradition Italiens nel 1939 in Schriften für die geistige Überlieferung, Erstes Heft, herausgegeben von Ernesto Grassi, Berlin, Verlag Helmut Küpper, 1939. Nel saggio rifluiscono due conferenze, Deutsche Dichtung und die italienische Tradition des Humanismus, e Politisches und begrifflisches Denken in der Italienischen Tradition.  ! 47!  del reale, la cui carica di estraneità è oltrepassabile solo tramite l’azione concreta e storica che ha struttura metaforica. L’attività metaforologica ha infatti una connotazione onto-antropo-logica in Grassi: riguarda l’uomo, riguarda la realtà e costituisce il modo di darsi delle cose, il nostro modo di essere affetti dal mondo circostante. Non un orpello linguistico, una fictio retorica, la metafora è per Grassi un dispositivo antropo-poietico. Come si afferma in Retorica come filosofia. La tradizione umanistica: “alcuni limitano la funzione della metafora alla trasposizione di parole, cioè di una parola dal suo proprio campo ad un altro. Tuttavia, tale trasposizione non può essere compiuta senza un’intuizione immediata delle somiglianze che appaiono nei diversi campi [...] la sua funzione è quella di rendere visibile una proprietà comune ai vari campi. Essa presuppone la visione di qualcosa ancora nascosto [...] ma dobbiamo andare più a fondo del piano letterario. La metafora sta alla base del nostro mondo umano. Poiché essa si radica nell’analogia tra cose differenti e fa immediatamente balzare agli occhi tale analogia, essa contribuisce in modo fondamentale alla struttura del nostro mondo”116. In conclusione possiamo dare per acquisito che la lettura di Machiavelli e i saggi dedicati al Segretario fiorentino e alla politica pongono in luce la fondamentale importanza che in tale ricostruzione di un nuovo paradigma assume la conoscenza storica del passato117, il tema della fortuna – la concreta situazione storica – e quello della virtù – come abilità di commisurarsi alla fatticità dell’esistenza118, quello dell’autonomia dell’agire politico119. Questi elementi ci dicono che “non !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 116 Id., Retorica come filosofia. La tradizione umanistica, cit., p. 76. 117 Id., Francesco Guicciardini e il concetto della politica nel Rinascimento italiano. Prologo alla prima edizione tedesca dei Ricordi, pp. 887-900, in Id., Primi scritti, cit., p. 891. Il saggio appare nel 1942 con il titolo Francesco Guicciardini und der Begriff der Politik in der italienischen Renaissance. Prolog zur ersten deutschen Ausgabe der “Ricordi”, in “Europäische Revue”, Stuttgart-Berlin, XVIII, 1942, n. 3. 118 Id., Teoria della politica nella tradizione del rinascimento, pp. 967-974, in Id., Primi scritti, cit., p. 971. Il saggio appare nel 1945 con il titolo Theorie der Politik in der Ueberlieferung der Renaissance, in “Neue Zürcher Zeitung”, Jahrgang 166, nr. 1016, 30. Juni, 1945, Morgenausgabe, Blatt 4. 119 Id., Pensieri sul poetico e sul politico. Due conferenze per determinare la tradizione spirituale italiana, in Id., Primi scritti, cit., p. 786.  ! 48!  possiamo sottrarci di fronte all’occasione, alla circostanza, alla necessità impellente di prendere posizione nei confronti di ciò che accade. Perciò la nostra situazione si trova sempre nel mezzo di un aut-aut”120. L’essere in mezzo ad un aut-aut ci costringe a decidere, a scegliere, ad affrontare il reale come impegno e compito come Grassi afferma nel 1942 in una lettera-saggio indirizzata allo “stimatissimo amico” W. F. Otto, Sul problema della parola e della vita individuale. Riflessioni a partire dalla tradizione italiana, che mostra un metodo “inattuale” di fare filosofia: si tratta di esercitare la riflessione con “lettere aperte, denunciando così il carattere particolare di questo impegno comune, per il quale esso si distingue e deve distinguersi rispetto alle occupazioni scientifiche”121. Si tratta di quel metodo inattuale, difeso anche da Husserl, che solo i filosofi autentici possono realizzare nella consapevolezza di essere “funzionari dell’umanità”, orientati verso un telos che può trovare concretezza solo nell’esercizio dell’atto filosofico122. Umanesimo e pseudo-umanesimi: la pars destruens del discorso grassiano. La riflessione sull’Umanesimo e sul Rinascimento e sul loro spessore filosofico elaborata da Grassi a metà degli anni Venti e Trenta si concretizza, come abbiamo visto, nel saggio su Machiavelli proseguendo nelle produzioni saggistiche successive al 1924. In queste ultime è presente anche un intento di chiarificazione storiografica e di presa di distanza dalle coeve interpretazioni della “tradizione epocale”. Riferirsi ad un’epoca storico-culturale, come quella al centro della riflessione !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 120 Id., Sul problema della parola e della vita individuale. Riflessioni a partire dalla tradizione italiana. A Walter F. Otto, pp. 901-915, in Id., Primi scritti, cit., p. 912. Il saggio appare in tedesco nel 1942 con il titolo Über das Problem des Wortes und des individuellen Lebens. Erwägungen aus der italienischen Überlieferung. An Walter F. Otto, in Geistige Überlieferung. Das zweite Jahrbuch, in Verbindung mit Walter F. Otto und Karl Reinhardt, herausgegeben von Ernesto Grassi, Berlin, Verlag Helmut Küpper, 1942. 121 Ivi, p. 902. 122 E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, tr. it. a cura di Filippini, il Saggiatore, Milano 1960, p. 46, “Noi siamo dunque, e come potremmo dimenticarlo, nel nostro filosofare, funzionari dell’umanità. La nostra responsabilità personale per il nostro vero essere di filosofi, nella nostra vocazione interiore personale, include anche le responsabilità per il vero essere dell’umanità, che è tale soltanto in quanto orientato verso un telos, e che se può essere realizzato lo può soltanto attraverso la filosofia. È possibile di fronte a questo sè esistenziale sfuggire?”.  ! 49!  di Grassi, significa innanzitutto prendere in considerazione un “mito storiografico”123. Inoltre, il concetto grassiano di umanesimo è bivalente: accanto all’idea di Umanesimo come categoria storiografica limitata ad un periodo storico circoscritto e ad autori precisi troviamo un concetto di umanesimo come macro-categoria che comprende una riflessione generale sull’humanitas. A partire dal grande affresco burckhardtiano del 1860 Die Kultur der Renaissance in Italien e dal saggio di Jules Michelet del 1855 Histoire de France au sezième siècle, il mondo moderno e i suoi tratti distintivi sono stati legati alla riscoperta dell’uomo e del mondo e dei valori immanenti i cui prodromi erano già presenti nella civiltà italiana del Trecento e del Quattrocento. Del resto questo era il punto di vista degli stessi umanisti che per primi parlano di una rinascita della civiltà contro i “barbari medievali”, che erano barbari non “per avere ignorato i classici, ma per non averli compresi nella verità della loro situazione storica”124. Posizione, questa, che importanti cultori di studi medievali contemporanei hanno messo profondamente in crisi propugnando una rinnovata idea di Medioevo come età della sperimentazione125 e dimostrando l’alto grado di sviluppo intellettuale raggiunto dalla cultura filosofica e letteraria del Medioevo126, contro un atteggiamento che si è consolidato anche nell’immaginario collettivo, oltreché in quello filosofico e storico-culturale: quello che vede nel Medioevo un altrove – sia esso negativo (la prospettiva umanistica) o positivo (la prospettiva romantica) – o una premessa. Come ricorda Sergi “nell’altrove negativo ci sono povertà, fame, pestilenze, disordine politico, soperchierie dei latifondisti sui contadini, superstizioni del popolo e corruzione del clero. Nell’altrove !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 123 Cfr., per una discussione particolareggiata delle molteplici interpretazioni dell’umanesimo e del rinascimento C. Vasoli, Il Rinascimento tra mito e realtà storica, pp. 3-25, in AA. VV, Le filosofie del Rinascimento, a cura di P. C. Pissavino, Mondadori, Milano, 2002. Cfr., E. Garin, L’umanesimo italiano, Laterza, Roma- Bari 1964. 124 E. Garin, L’umanesimo italiano, cit., p. 21. 125 Cfr., G. Sergi, L’idea di medioevo, pp. 3-41, in AA. VV, Storia medievale, Roma 1998; C. Azzara, Le civiltà del Medioevo, Introduzione, pp. 7-12, Il Muligno, Bologna, 2004. 126 Per un’analisi dettagliata delle interpretazioni dell’antirinascimento della rivolta dei medievisti, cfr., C. Vasoli, Il rinascimento tra mito e realtà storica, cit., soprattutto le pp. 18-22. ! 50!   positivo ci sono i tornei, la vita di corte, elfi e fate, cavalieri fedeli e principi magnanimi. Ma è anche discutibile l’uso del medioevo come generica premessa”127. Per introdurre il discorso decostruttivo grassiano faremo riferimento innanzitutto alle interpretazioni messe in discussione dal pensatore milanese, soffermandoci in particolare sulla figura di Cartesio e infine sul capo di imputazione principe – Heidegger – e sul significato che la riflessione sull’umanesimo riveste nell’ambito dell’onto-antropo-logia grassiana. II. II. Che cos’è l’umanesimo? Grassi parte dal quesito: “che cosa significa umanesimo?” e risponde individuando la genesi del termine nell’ambito politico: “questo termine nasce per la prima volta in Italia nel XIV secolo e lo troviamo negli scritti politici di Coluccio Salutati, il primo segretario politico di Firenze”128. La domanda è il punto di partenza di un saggio scritto in occasione di una conferenza tenuta nel 1938 durante la seduta della Klopstock Gesellschaft a Quedlinburg, Deutsche Dichtung und die italienische Tradition des Humanismus, rifluito insieme ad un altro saggio, Politisches und begrifflisches Denken in der Italienischen Tradition, in Gedanken zum Dichterischen und Politischen. Zwei Vorträge zur Bestimmung der geistigen Tradition Italiens. Per Grassi durante l’epoca umanistica si esprime per la prima volta un nuovo atteggiamento dell’uomo verso il mondo, si tratta del passaggio dall’“uomo greco”, a quello medievale”, per finire con l’“uomo del Rinascimento”. Una linea evolutiva che può essere condensata nelle note ed efficaci immagini proposte da Vernant, Le Goff e Garin: la transizione dall’uomo guerriero di Omero all’uomo politico di Aristotele129, all’homo viator e penitente130 e all’uomo moderno131. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 127 Cfr., G. Sergi, op., cit., p. 5. 128 E. Grassi, Pensieri sul poetico e sul politico. Due conferenze per determinare la tradizione spirituale italiana, pp. 777- 802, in Id., Primi Scritti 1922-1946, cit., p. 780. 129 Cfr., J. P. Vernant, Introduzione, in Id., (a cura di), L’uomo greco, Laterza, Roma-Bari, 2005, pp. 3-23. 130 Cfr., J. Le Goff, L’uomo medievale, in Id., (a cura di), L’uomo medievale, Laterza, Roma-Bari, 2005, pp. 1-38. 131 Cfr., E. Garin, L’uomo del Rinascimento, in Id., (a cura di), L’uomo del Rinascimento, Laterza, Roma-Bari, 2005, pp. 1-12.  ! 51!  Per quanto sia discutibile l’ipotesi grassiana di una frattura così radicale tra due visioni del mondo occorre sottolineare che egli riproporrà in tutti i suoi scritti tale dicotomia non tematizzando estesamente la plausibilità del presunto iato storico-culturale: ovviamente Medioevo e Rinascimento non sono entità metafisiche e monolitiche chiuse e incomunicabili, ma soprattutto Medioevo e Antichità greco-romana, spesso da Grassi accomunate in un disegno sintetico, non sono sovrapponibili nella difesa del principio di trascendenza. Eppure è lo stesso pensatore a riconoscere lo stato quantomeno problematico di un’impostazione di questo tipo come è possibile leggere nel saggio su Machiavelli del 1924, e nelle pagine di Il problema filosofico del ritorno al pensiero antico del 1932 in cui si afferma: “Il fondamentale schema che domina il nostro concetto di filosofia antica – e che vive in un modo più o meno indiscusso anche in Germania – è la contrapposizione del pensiero antico al pensiero moderno. Pensiero antico, cioè pensiero oggettivistico, pensiero moderno – come siamo soliti dire – pensiero del soggetto. Sono veramente valide queste contrapposizioni e il concetto della storia della filosofia che si radica in esse? La storia della filosofia è veramente un lento progresso nel quale noi abbiamo un’indiscutibile superiorità sul pensiero antico, oppure non va essa piuttosto concepita come la realizzazione di un’unica verità che si attua nella rinnovata posizione delle medesime domande?”132. Tali riserve espresse con convinzione tuttavia non impediranno a Grassi di assumere una prospettiva teorica di forte impianto idealistico che pone la questione in termini di slittamento dall’ipotesi trascendente a quella immanente. Secondo il filosofo ciò che è in gioco con l’Umanesimo è una questione che da una visione contraddistinta dall’astrattezza e dall’universalità passa ad una concezione della finitezza umana in cui il telos è avvertito come un aspetto positivo e non come una mancanza: “pertanto, in Italia, l’umanesimo doveva nascere anzitutto come concezione e affermazione politica; perché tutta la storia, l’arte, la filosofia e la lingua dell’antichità spingevano qui alla realizzazione di un nuovo mondo storico”133. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 132 “Il fondamentale schema che domina il nostro concetto di filosofia antica – e che vive in un modo più o meno indiscusso anche in Germania – è la contrapposizione del pensiero antico al pensiero moderno. Pensiero antico, cioè pensiero oggettivistico, pensiero moderno – come siamo soliti dire – pensiero del soggetto. Sono veramente valide queste contrapposizioni e il concetto della storia della filosofia che si radica in esse? La storia della filosofia è veramente un lento progresso nel quale noi abbiamo un’indiscutibile superiorità sul pensiero antico, oppure non va essa piuttosto concepita come la realizzazione di un’unica verità che si attua nella rinnovata posizione delle medesime domande?”, Id., Il problema filosofico del ritorno al pensiero antico, pp. 255-271, in Id., Primi scritti, cit., p. 259. 133 Ivi, p. 781.  ! 52!  Infatti, per Grassi lo sviluppo dell’uomo nelle sue estreme possibilità accade innanzitutto nel contesto, nell’apertura originaria, che è un’apertura comunitaria, nella quale soltanto l’essere umano può istituire nessi e relazioni con il contesto circostante, può stare al mondo in una relazione che è innanzitutto comprendente: si tratta di comprendere e di cogliere le molteplici forme dell’essere e del suo apparire che ritroviamo soprattutto nella parola poetica, prima che nella parola logica. La valutazione autentica dell’Umanesimo sarà possibile allora solo tenendo conto dell’aporia ineludibile che il problema dell’umano ci pone dinanzi e consentirà di elaborare quel filosofare noetico non metafisico che tenta di tenere insieme l’ontologia e l’antropologia senza chiuderle in un orizzonte logico ma immettendole nel mondo metaforologico: si tratta della coniugazione “inaudita” che Grassi cerca di realizzare lungo tutto il suo percorso filosofico, dalle riflessioni sulla manifestatività in Dell’apparire e dell’essere e Il problema del logo degli anni Trenta, a quelle sulla dimensione patica dell’esperienza dell’originario in L’inizio del pensiero moderno. Della passione e dell’esperienza dell’originario e Il reale come passione e l’esperienza della filosofia degli anni Quaranta, per finire con gli scritti sul valore della metafora e del pensiero noetico non metafisico. Lo scopo dell’interrogazione sull’umanesimo come epoca storica determinata e come proposta di una rinnovata visione del mondo è dominata dall’esigenza di “un indicare a partire dal destino, dalla necessità entro la quale appaiono gli enti, e non da una loro astratta definizione. Ora lo studio di questa problematica compete a un sapere particolare che dobbiamo chiamare ontologia, distinguendola dalla metafisica tradizionale e intendendo con questo termine il rapporto che lega gli enti in situazione all’origine comune che li attraversa e perciò insieme li unifica e differenzia: ontologia non logica ma situazionale”134, ontologia noetica e non metafisica, e pertanto metaforologica, in cui l’ente appare solo nella parola umana che costruisce universi di senso. La critica di Grassi si appunta innanzitutto contro l’assolutizzazione di un aspetto particolare della filosofia quattro-cinquescentesca: il precorrimento di quegli elementi della modernità che nell’Umanesimo troverebbero una infanzia primitiva. Tale posizione se, da un lato, può sembrare a !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 134 Id., Il problema della morte: l’Alcesti di Euripide. Filosofare noetico non metafisico. Vico, in E. Grassi-E. Hidalgo- Serna, Filosofare noetico non metafisico. L’Alcesti e il Don Chisciotte, Congedo Editore, 1991, Galatina, p. 30.  ! 53!  prima vista contraddittoria rispetto all’ipotesi interpretativa esposta nel saggio del 1924 – in cui la centralità di Machiavelli è ribadita proprio all’insegna della veste moderna che le riflessioni del fiorentino assumono – dall’altro, trova una spiegazione se la critica che va conducendo Grassi a certi luoghi del moderno viene inserita nel contesto più generale di una messa in questione della supremazia che l’ambito logico-gnoseologico assume nelle opzioni storiografiche analizzate. Si tratta di una messa in discussione dello stesso concetto di ragione e di logos, che non enuncia un congedo dalla ricerca filosofica – che cerca di istituire una relazione comprendente tra uomo e mondo – per mettersi sulla china dell’irrazionalismo, ma palesa, al contrario, l’esigenza di costruire o ritrovare una ragione complessa e ampia nella quale momento patico e logico trovano una ricomposizione nell’unità dell’esperienza individuale e vissuta. In Filosofia dell’umanesimo: un problema epocale Grassi passa in rassegna diverse tappe interpretative rifiutate per una sostanziale misinterpretazione dell’Umanesimo. Il testo, che si pone in linea di continuità con il saggio L’inizio del pensiero moderno, ha un primo scoglio da superare. Il macigno che pesa, intollerabile, sul cuore del filosofo è Heidegger e liberarsi da questo fardello è il compito verso cui il pensiero di Grassi sarà rivolto sviluppando le problematiche degli scritti onto- antropo-logici di Grassi: Macht der Phantasie 1979; Macht des Bildes 1970; Rhetoric as Philosofy 1980; Heidegger and the question of renaissance Humanismus 1983 e in ultimo aggiungiamo, sebbene nell’elenco stilato direttamente da Grassi non fosse annoverato135, Vico e l’Umanesimo136. Quale è l’idea di Umanesimo che Heidegger offre all’attenzione del suo allievo eterodosso? Prima di rispondere a questa domanda, analizzeremo di seguito le nove posizioni “inautentiche” proposte da Grassi in La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale. Sullo sfondo della polemica diretta contro precisi personaggi abbiamo anche la censura al pensiero della filosofia analitica di cui, almeno in questo !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 135 La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale, cit., p. 29. 136 Ovviamente Grassi non poteva annoverare questa opera perché essa vedrà la pubblicazione nel 1990 in lingua inglese. Si tratta di una raccolta di saggi che coprono circa due decadi di riflessione filosofica, dal 1969 al 1985 e che comprendono i testi americani di Grassi. Cfr, D. P. Verene, Prefazione a E. Grassi, Vico e l’umanesimo, cit., pp. 19-24. Il testo è pubblicato in lingua inglese due anni prima con il titolo Vico and Humanism. Essays on Vico, Heidegger and Rhetoric, Peter Lang publishing, New York, 1990.  ! 54!  luogo, Grassi non esplicita i rappresentati. Più chiarezza è rintracciabile in altri testi, come Retorica come filosofia. La tradizione umanistica, in cui è esplicito il riferimento polemico a Wittgenstein, portavoce dell’impostazione scientifica del pensiero e autore di quel Tractatus logico-philosophicus che riduce il mondo alla triade: dire, mostrare, tacere137. Come è noto i sette Sätze del Tractatus si chiudono con la nota proposizione: “ciò di cui non si può parlare, si deve tacere”138. Affermazione, questa, da cui traspare per il pensatore italiano un’attenzione esclusiva al piano denotativo del linguaggio che riduce il logos a tecnica di formalizzazione, a calcolo scientifico in cui l’uomo e la sua storia travagliata scompaiono. Afferma Grassi che “è considerato scientifico quel pensiero che procede nella struttura di un processo razionale, cioè nella sfera della dimostrazione. Nella teoria logica moderna questa tesi è portata avanti in modo significativo nel Tractatus logico-philosophicus di Wittgenstein [...] al di fuori del mondo simbolico del sistema abbiamo solo silenzio e mistero”139. Dalla prospettiva grassiana nell’orizzonte wittgensteiniano della filosofia l’unico linguaggio accettabile è quello del calcolo, della formalizzazione, della logica che esclude dall’orizzonte di significatività la dimensione retorica del logos ordinario – che esprime il sensus communis – e del logos patetico della poesia. Eppure Wittgenstein riabilita in qualche modo il livello connotativo del linguaggio, quella dimensione del mistico e dell’etico, relegati nel Tractatus nell’ambito del silenzio, attraverso la riflessione che si condensa nelle Ricerche filosofiche. Grassi non prende in considerazione la riflessione wittgensteiniana contenuta in questo testo, che possiamo definire come una sorta di drammatizzazione di una lotta, quella di Wittgenstein contro se stesso, contro il se stesso di un tempo, quello del Tractatus. Afferma Wittgenstein che “questo chiedere [il nome degli oggetti] e il suo correlato, la definizione ostensiva, costituiscono, potremmo dire, un gioco linguistico a sé. Ciò !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 137 Cfr., L. Perissinotto, Wittgenstein, Feltrinelli, Milano 2003. 138 L. Wittgen stein, Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, tr. it. di A. G. Conte, Einaudi, Torino 2009, proposizione 7. 139 E. Grassi, Retorica come filosofia, cit., p. 35.  ! 55!  vuol dire propriamente: veniamo educati, addestrati a chiedere “come si chiama questo?” – e a ciò segue la denominazione dell’oggetto”140. La definizione allora appare come un particolare gioco linguistico che non si identifica sic et simpliciter con l’atto originariamente istitutivo del linguaggio. L’origine del gioco linguistico è una “reazione” sulla base della quale possono innestarsi le forme più raffinate di linguaggio. Esso inoltre non si origina dalla riflessione ma è una porzione141 del gioco linguistico. Colpevole142 di aver escluso “dall’ambito della filosofia le discipline umanistiche (filologia, storia, poesia e retorica)”143, che non consentono di rendere chiaro e distinto il linguaggio filosofico ma al contrario lo oscurano, il Cartesio di Grassi diviene un altro bersaglio polemico. La critica è diretta alle affermazioni contenute negli scritti cartesiani Regulae ad directionem ingenii (Regola III) pubblicate postume nel 1701144 e al Discorso sul metodo (I libro) del 1637. La III regola cartesiana delle Regulae recita: “riguardo agli oggetti da trattare si deve fare ricerca non di ciò che altri ne abbiano opinato o di ciò che noi stessi congetturiamo, bensì di ciò che da noi stessi si possa intuire con chiarezza ed evidenza, e dedurre con certezza; poiché solo così si acquista scienza”145. Secondo Grassi in questo passo si afferma che il ricorso all’esempio degli Antiqui è un escamotage del tutto empirico, mnemonico, che produce storia, mai scienza. Questa si costituisce a un livello differente, nella trasparenza dell’intrinseca dinamica dei nostri processi cognitivi, come emerge dalla riflessione matematica. Secondo Grassi l’emarginazione dell’esperienza, lo svuotamento di senso scientifico della tradizione proposti da Cartesio sono riconducibili alla generale impostazione che muove dal paradigma matematico. In questo orizzonte di ricerca è esclusa ogni forma di congettura probabile, !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 140 Id., Ricerche filosofiche, tr. it. di R. Piovesan e M. Trinchero, Einaudi, Torino 1974, I, § 27. 141 Id., Zettel. Lo spazio segregato della psicologia, tr. it. di M. Trinchero, Einaudi, Torino 1986, § 391. 142 E. Grassi, La filosofia dell’Umanesimo: un problema epocale, cit., pp. 31-32. 143 Ivi, p. 31. 144 La stesura delle Regulae risale agli anni compresi tra il 1625 e il 1629. Sulla questione della datazione delle Regulae cfr., G. Mori, Cartesio, Roma 2010, pp. 37-38. 145 Cartesio, Regole per la guida dell’intelligenza, tr. it. di G. Galli, in Cartesio, Opere filosofiche, Vol. I, a cura di E. Garin, Laterza, Roma-Bari, p. 21.  ! 56!  che pretenda di mescolarsi e assimilarsi sulla base dell’abitudine a conoscenze certe e evidenti. La stessa valutazione dei saperi umanistici compare in I principi della filosofia. Qui il filosofo afferma che “se desideriamo consacrarci seriamente allo studio della filosofia e alla ricerca di tutte le verità che siamo capaci di conoscere, ci libereremo in primo luogo di tutti i pregiudizi, e faremo conto di respingere tutte le opinioni da noi un tempo accolte in nostra credenza, finché non le abbiamo esaminate da capo. Faremo in seguito una rassegna delle nozioni che sono in noi, e non raccoglieremo per vere se non quelle che si presenteranno chiaramente e distintamente al nostro intelletto”146. La scienza, così, è in ultima analisi tale nella misura in cui si concentra rigorosamente su ciò che non può essere intaccato dal dubbio. Inoltre, nel primo libro del Discorso, nell’ambito dell’esposizione del proprio iter autobiografico, Cartesio rende manifesta l’insoddisfazione verso quei saperi, gli studia humanitatis ai quali si era tanto dedicato durante gli anni della formazione a La Flèche, insofferenza dovuta agli inestirpabili dubbi ed errori che quelle discipline per il loro oggetto e metodo intrinseco non potevano non contenere. La critica a quei saperi, che spinge Cartesio a dire che leggere i libri antichi è come viaggiare e conversare con uomini di altri secoli147, dimenticando ciò che caratterizza il tempo presente, trova il suo esito più compiuto nella difesa della mathesis universalis, del nuovo metodo, della scienza nuova che unisce matematica, logica, geometria seguendo lo schema tetravalente di evidenza, divisione, ordine ed enumerazione. Da questo tipo di impostazione del discorso filosofico, matematizzante e logicizzante, occorre liberarsi per Grassi che afferma, con tono polemico in riferimento a Cartesio, che “egli rinfaccia alla retorica – disciplina fondamentale per gli umanisti – di turbare, influenzando l’emotività degli uditori, la chiarezza e la coerenza del pensiero razionale, deduttivo. Egli rifiuta pure la validità del senso comune, giacchè solo il rigore logico è garanzia del filosofare”148. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 146 Cartesio, I principi dellafilosofia, p. 64, in Id., Opere, Vol. III, tr. it. a cura di A. Tilgher e M. Garin, Laterza, Roma- Bari 2005. 147Id., Discorso sul metodo, tr. it. di M. Garin, in Cartesio, Opere filosofiche, Vol. I, cit., p. 295, “Conversare con gli uomini di altri tempi è quasi come viaggiare [...] ma se si passa troppo tempo a viaggiare, si finisce col diventare stranieri nel proprio paese; e quando si è troppo curiosi delle cose che avvenivano nei secoli passati, si resta per lo più molto all’oscuro di quel che si fa al giorno d’oggi”. 148 E. Grassi, La filosofia dell’umanesimo, cit., p. 32. ! 57!   Vorremmo sottolineare tuttavia che il filosofo italiano non tiene conto di una certa riabilitazione da parte di Cartesio dei concetti di verosimile, tradizione e pregiudizio nell’ambito della riflessione morale, come si evince dal Discorso, dai Principi e dalle Passioni dell’anima, oltre che dalla corrispondenza. Secondo la nostra interpretazione ciò accade per diversi ordini di ragioni: innanzitutto incide l’impostazione idealistica che Grassi riceve negli anni di apprendistato alla Cattolica, per cui l’inizio del moderno e la nascita del soggetto avrebbero in Cartesio un punto di partenza fuori discussione149; inoltre, l’impostazione heideggeriana che, come è noto, si concentra molto sulla critica a Cartesio, interpretato come colui che avrebbe compiutamente formalizzato un passaggio cruciale nella storia della metafisica, quello dalla domanda che chiede che cosa sia l’ente, a quello della domanda che si pone il problema del fondamento che rende possibile la comprensione dell’ente. Nella tesi cartesiana ego cogito, ergo sum, infatti, Heidegger vede espresso un primato dell’io umano ed una nuova posizione dell’uomo150, poiché l’uomo diventa subiectum151, il fondamento e la misura di ogni certezza e verità. In Il nichilismo europeo si asserisce che “la tradizionale domanda guida della metafisica – che cos’è l’ente – si trasforma all’inizio della metafisica moderna nella domanda del metodo, della via per la quale, [...] è cercato qualcosa di assolutamente certo e sicuro”152: tale metodo è il cogito e le sue strutture. Infine la forzatura grassiana della contrapposizione Cartesio/Vico è finalizzata a delineare una nuova via d’accesso alla filosofia le cui radici storico-culturali egli rintraccia nell’Umanesimo di matrice latina e mediterranea in senso lato. Ritornando a Cartesio e agli aspetti meno teoreticisti del suo pensiero, tralasciati da Grassi, possiamo prendere come riferimento il significato della nota metafora della casa153 del Discorso che !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 149 “Devo richiamare alla mente la situazione filosofica della filosofia italiana negli anni ’20, periodo in cui compii i miei studi. A quell’epoca la filosofia hegeliana predominava in Italia grazie a Croce e Gentile ed era stata introdotta fin dalla fine del XIX secolo da Bertrando Spaventa”, E. Grassi, Retorica come filosofia. La tradizione umanistica, cit., p. 31. 150 M. Heidegger, Il nichilismo europeo, tr. it. di F. Volpi, Adelphi, Milano 2003, p. 158. 151 Ivi, p. 168. 152 Ivi, p. 169. 153 “Prima di cominciare a ricostruire la casa da abitare, non basta demolirla e provvedersi di materiali e architetti, o impegnarsi personalmente nell’architettura, e averne tracciato inoltre un accurato progetto; bisogna essersi procurati un altro alloggio dove si possa dove si possa stare comodi nel corso dei lavori; allo stesso modo, per non restare indeciso ! 58!   vuole comunicarci la necessità di prendere delle posizioni in ambito morale: ciò che assolutamente era precluso in sede di conoscenza, ossia il fare affidamento ai pregiudizi e a ciò che sembra ragionevole e sensato, seppure privo di certezza assoluta, è consentito in ambito morale: “tuttavia si deve notare che io non intendo che noi ci serviamo d’una maniera di dubitare così generale, se non quando cominciamo ad applicarci alla contemplazione della verità. Poiché è certo che, in quel che riguarda la condotta della nostra vita, noi siamo obbligati a seguire bene spesso delle opinioni che non sono che verosimili [...] la ragione vuole che ne scegliamo una, e che, dopo averla scelta, la seguiamo costantemente, come se l’avessimo giudicata certissima”154. Il concetto cartesiano di sagesse humaine è bivalente: ha una valenza teoretica e pratica, e la nozione di bona mens, cui fanno capo tutte le scienze, è quel sapere del vero e del falso grazie al quale l’uomo riesce ad orientarsi nella vita. Inoltre già nel cogito abbiamo una co-determinazione da parte del volere, fattore costituente dell’atto di giudizio: “con la parola pensiero, io intendo tutto quel che accade in noi [...] non solo intendere, volere, immaginare, ma anche sentire è qui lo stesso che pensare”155. Del resto lo stesso Grassi riconosce la portata più ampia del cogito cartesiano nel contesto dell’analisi del metodo portata avanti nel saggio Dell’apparire e dell’essere. Il pensatore milanese afferma che “la metafisica di Cartesio appare in tutta la sua decisiva importanza quando si tenga presente che cosa egli concretamente intenda con “cogitare”. Pensiero, cogito, come tutti sappiamo, non è per lui solo atto di distinzione logica, ma è ogni atto e modificazione del soggetto, di cui l’attività logica non è che un momento”156. Se l’atto del cogito non è solo un atto logico, ma anche di sensazione, immaginazione, volontà, per Grassi si profila il problema del rapporto e della distinzione che passa tra queste forme nel processo di manifestazione dell’essere157. Ancora più discordante rispetto all’interpretazione di Cartesio esposta negli scritti maturi è l’affermazione presente in L’inizio del pensiero moderno. Della passione !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! nelle mie azioni mentre la ragione mi obbligava ad esserlo nei miei giudizi, e per non smettere perciò di vivere quanto più felicemente potevo, mi costruii una morale provvisoria, riconducibile a tre o quattro massime sole”, Cartesio, Discorso, cit., pp. 305-306. 154 Id., I principi della filosofia, cit., p. 22. I corsivi sono nostri. 155 Ivi, p. 25. 156 E. Grassi, Dell’apparire e dell’essere, cit., p. 289. 157 Ivi.  ! 59!  e dell’esperienza dell’originario in cui il cogito – a cui precedentemente già era stato riconosciuto quel carattere elenchico-costrittivo158 che successivamente andrà a connotare il concetto di principio del filosofare noetico-non metafisico – è concepito nella sua intima connessione con il dubbio come espressione dell’urgenza e dell’impellenza dell’essere. Asserisce il filosofo che il cogito inteso come mentis inspectio non “significa qui rivolgere lo sguardo a qualcosa di oggettuale; piuttosto il vedere dell’inspectio coincide con questo soggiacere al dubbio e seguirlo fino al punto in cui si rivela l’urgenza che in esso si annuncia e che lo rende possibile [...] di conseguenza anche il cogito, quando si intenda con esso il compiersi di un dubitare, è espressione di un’urgenza originaria, che si mostra come il vero fondamento del sapere”159. La posta in gioco che emerge è quella del riconoscimento della priorità della manifestatività dell’essere quale fulcro tematico della filosofia. Il reale come punto di partenza della riflessione comporta una ricerca sul metodo, sulle vie di accesso, che per Grassi – questa volta non in opposizione ma in linea con Cartesio – ci pone di fronte ad una molteplicità di forme che sono in un rapporto di intima co-appartenenza. Nelle riflessioni appena ricordate traspare un’immagine di Cartesio più articolata rispetto alla semplicistica riduzione caratterizzante gli scritti tardi che si condensa nella opposizione Vico /Cartesio (pensiero topico e pensiero critico) e che sorregge anche l’idea grassiana della presenza di un cartesianesimo razionalistico nella prospettiva hegeliana. Hegel160 avrebbe riproposto una visione dell’umanesimo sostanzialmente negativa e l’opera che Grassi prende in considerazione è Lezioni di storia della filosofia in cui l’Umanesimo appare come una filosofia volgarizzatrice e non speculativa, che non realizza in modo adeguato l’idea ma si ferma all’ambito della fantasia e dell’arte, e le cui radici ciceroniane, sono fortemente criticate. Secondo il pensatore milanese “Hegel accusa la filosofia degli autori latini, ai quali fa riferimento l’Umanesimo, di essere !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 158 Ivi, pp. 286-287. 159 Id., L’inizio del pensiero moderno, in Id., I Primi scritti, cit., pp. 817-818. 160 Id., La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale, cit., pp. 32-33.  ! 60!  volgarizzatrice (eine Populärphilosophie) o non speculativa. Egli rifiuta la tesi che lo sviluppo del diritto romano abbia un valore filosofico”161. Nell’ambito della definizione del concetto di filosofia e delle due sfere affini ad essa, la scienza e la religione, Hegel fa riferimento alla filosofia popolare: “sembra che vi sia un terzo momento che congiunge i due suddetti – momento soggettivo e formale della scienza e momento oggettivo in forma figurata o storica della religione –: cioè la filosofia popolare. Essa si occupa di argomenti universali, filosofeggia su Dio e sul mondo [...] però anche questa filosofia dobbiamo lasciarla da parte. Ad essa si devono ascrivere gli scritti di Cicerone”162. Lo stesso Cicerone, al quale Montesquieu avrebbe voluto assomigliare163, recentemente definito come l’esponente dell’umanesimo universalista164 è al centro anche delle riflessioni dello storico Mommsen – come ricorda Grassi nel catalogo delle interpretazioni inautentiche dell’umanesimo165 – che lo valuta come “l’impiastricciafogli dallo stile giornalistico”166. Altra “vittima” degli strali di Grassi è il romanista Curtius, annoverato tra coloro che riducono il caso della filosofia umanistica a mero esempio di “esercitazione stilistica”167. Nell’elenco compaiono anche Cassirer, Apel, Kristeller e Jaeger. Dell’interpretazione di Cassirer per Grassi è inaccettabile o perlomeno fuorviante il punto di partenza: ricondurre il pensiero filosofico sotto l’egida del problema della conoscenza non consente di rintracciare nell’età dell’umanesimo alcuna innovazione !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 161 Ivi, p. 32. 162 G. W. F. Hegel, Introduzione alla storia della filosofia, introduzione di L. Pareyson, tr. it. di A. Plebe, Laterza, Roma- Bari 1987, p. 132. 163 Montesquieu, Discorso su Cicerone, in P. Ciaravolo (a cura di), La personalità filosofica di Marco Tullio Cicerone, Aracne, Roma 2007, pp. 7-8: “il primo, presso i romani, che ha tolto la filosofia dalle mani dei dotti e l’abbia liberata dall’intralcio di una lingua straniera. Egli l’ha resa comune a tutti gli uomini, come la ragione, e nel plauso che ne ha ricevuto i letterati si sono trovati d’accordo con la gente comune. Io non sono in grado di ammirare abbastanza la profondità dei suoi ragionamenti in un tempo in cui i saggi non si distinguevano che per bizzarria dei loro vestiti. Vorrei soltanto che fosse venuto in un secolo più illuminato e che avesse aiutato a scoprire la verità”. 164 Uso l’espressione di L. Battaglia contenuta in Le virtù moderne di Cicerone. Appunti sulle Tusculanae disputationes, pp. 157-169, in P. Ciaravolo, op., cit., p. 157. 165 E. Grassi, La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale, cit., p. 34. 166 T. Mommsen, Storia antica di Roma antica, Sansoni, Firenze, 1963, p. 1275. 167 E. Grassi, La filosofia dell’umanesimo, cit., p. 34.  ! 61!  significativa168. I testi citati polemicamente da Grassi sono Individuo e cosmo nella filosofia del Rinascimento e Storia della filosofia moderna. Il filosofo tedesco, di formazione neokantiana, si occupò intensamente dei problemi matematici e fisici della modernità, e la predilezione per alcuni autori, quali Galilei, Keplero, Newton, Cartesio, Spinoza e Leibniz, ci fa comprendere quanto potesse valere nel tragitto filosofico tracciato da Cassirer il ruolo affidato all’umanesimo. Secondo Grassi per Cassirer “laddove nell’Umanesimo filologia e filosofia si congiungono, non si giunge nella filosofia a nessuna vera innovazione nel metodo”169. Se prendiamo in considerazione il testo Dall’Umanesimo all’Illuminismo, che fu pubblicato postumo nel 1967 e che raccoglie i contributi cassireriani sulla storia del pensiero occidentale dall’Umanesimo all’Illuminismo, ci troveremo di fronte a pagine di considerazione scarsa circa lo spessore filosofico dell’Umanesimo. Nel saggio La posizione del Ficino nella storia del pensiero – recensione al libro di Kristeller La filosofia di Marsilio Ficino – Cassirer afferma: “alle sue origini e per il suo scopo principale l’umanesimo non può dirsi un movimento filosofico. Tra gli umanisti più noti non troviamo grandi pensatori veramente indipendenti. Il loro interesse era l’erudizione e la letteratura, non la filosofia”170. L’unica importanza dell’Umanesimo e del Rinascimento sarebbe la mutazione della dinamica delle idee171 e lo slittamento dal particolare all’universale172. In questa fase la riflessione sui principi della conoscenza non ha trovato ancora un motivo cosciente173 e la filosofia sembra avere una efficacia limitata174. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 168 E. Cassirer, Individuo e cosmo nella filosofia del Rinascimento, La Nuova Italia, Firenze 1963. 169 E. Grassi, La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale, cit., p. 34. 170 E. Cassirer, Il Ficino nella storia del pensiero, in Id., Dall’Umanesimo all’Illuminismo, a cura di P. O. Kristeller, tr. it. a cura di f. Federici, La Nuova Italia, Firenze 1995, p. 36. 171 Id., L’originalità del Rinascimento, in Id., Dall’Umanesimo all’Illuminismo, cit., p. 11. 172 Ivi, p. 8. 173 Id., Storia della filosofia moderna, Vol. I, Dall’umanesimo alla scuola cartesiana, Tomo I, La rinascita del problema della conoscenza, tr. it. di E. Arnaud, Einaudi, Torino 1978, p. 100. 174 Ivi, pp. 97-98.  ! 62!  Sembra trovare una parziale giustificazione allora la critica grassiana rivolta al pensatore tedesco: Cassirer “preoccupato di rintracciare nella tradizione umanistica ciò che per lui costituisce l’essenza della filosofia – ovvero il problema della conoscenza – dovette ammettere di rilevarne solo poche tracce”175 nell’Umanesimo. Ma si tratta di una critica solo in parte condivisibile poiché Grassi e Cassirer non sembrano tanto lontani nella comune attenzione rivolta verso il mondo del simbolico. Nonostante questo punto di contatto Grassi pone una netta differenza tra la sua teoria di una logica della fantasia e quella cassireriana delle forme simboliche176. Afferma Grassi che “sarebbe un errore e un fraintendimento molto grave interpretare Vico come se la logica della fantasia fosse limitata a una pura logica di forme simboliche, per esempio nel senso di Ernesto Cassirer”177. Il filosofo tedesco, in particolare all’interno dell’opera Filosofia delle forme simboliche (1923-29), analizza la funzione del mito, inteso come originaria “forma di vita”, essenziale per la scoperta e la comprensione del mondo storico. Le produzioni mitiche prendono evidentemente origine dall’immaginazione, anche se il filosofo non si sofferma sulla relazione specifica tra mito e immaginazione, bensì insiste sulla relazione tra mito e immagine. Quest’ultima ha una funzione più importante del mero segno in quanto, secondo il filosofo, l’immagine conterrebbe l’essenza stessa delle cose: “l’immagine, espressione di un fenomeno, non ha un semplice carattere di rappresentazione, che indica qualcosa di oggettivo al di là di essa, ma in essa si dà per noi qualcosa di reale, in essa qualcosa di demonicamente vivente viene colto e posto dinanzi a noi in piena presenza”178. Dal passo sopra citato emerge la ricerca di una struttura originaria che permetta la rielaborazione dei processi storici dell’uomo dei tempi antichi, a partire dalle sue creazioni mitico-simboliche. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 175 E. Grassi, La filosofia dell’umanesimo, cit., p. 35. 176 Id., La priorità del senso comune e della fantasia: l’importanza filosofica di Vico oggi, in Id., Vico e l’umanesimo, cit., p. 56 177 Ivi, pp. 56-57. 178 Cassirer, Filosofia delle forme simboliche, Arnaud, La nuova Italia, Firenze 1967, p. 30.  ! 63!  Queste strutture non hanno una funzione solamente comunicativa ma agiscono da mezzo col quale si determina la compiutezza dei loro contenuti. A partire da questa premessa dobbiamo considerare il mito, la religione, il linguaggio non come forme di dominio sul mondo, bensì come forme essenziali per la scoperta del mondo storico dell’uomo. La formazione simbolica costituisce così il medium tra l’elemento trascendentale e il mondo storico-reale. La funzione di sintesi, affidata alla formazione simbolica, diviene fondamentale strumento di concezione della storia che vuole liberarsi da una visione assolutistica e assoluta o da qualsiasi riduzionismo empirico- descrittivo. Scrive Cassirer in Saggio sull’uomo: “per semplice che esso possa sembrare, ogni fatto storico può venire determinato solamente in base ad una preliminare analisi di simboli. La prima e più immediata materia della conoscenza storica non è costituita da cose e da avvenimenti, bensì da documenti e monumenti. Soltanto grazie alla mediazione e con l’introduzione di questi dati simbolici si può avere una idea della realtà storica, degli avvenimenti e degli uomini del passato”179. Riprendendo la teoria vichiana del mondo storico come creazione dell’uomo, aggiunge: “in nessun altro campo, la mente dell’uomo è più vicina a se stessa che nella storia. Non il mondo fisico, ma il mondo storico è creato dall’uomo, e dipende dalle sue facoltà [...] Il campo di studio elettivo dell’uomo non è dunque il mondo matematico né quello fisico, ma il mondo storico, la società civile. Quel che Vico chiede è una filosofia della civiltà: una filosofia la quale sveli e spieghi le leggi fondamentali che governano il corso generale della storia e lo sviluppo della cultura umana”180. Se non sapessimo che è Cassirer l’autore potremmo pensare che questo passo esce direttamente dalla penna del Grassi autore di Vico e l’umanesimo. Per entrambi i filosofi i linguaggi del mito e della fantasia permettono agli studiosi moderni di comprendere la coscienza storica dell’umanità. Il mito è una forma comunicativa, espressiva e esplicativa di eventi e fenomeni e va ben oltre una !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 179 Id., Saggio sull’uomo. Una introduzione alla filosofia della cultura umna, a cura di Carlo d’Altavilla, Armando, Roma 2009, pp. 296-297. 180 Id., Desartes, Leibniz e Vico, in Id., Simbolo, mito e cultura, a cura di D. P. Verene, tr. it. di G. Ferrara, Laterza, Roma- Bari 1981, p. 111-112  ! 64! rappresentazione illusoria che nasconde il vero stato delle cose. Il Cassirer lettore di Vico mostra non pochi punti di contatto con Grassi che del filosofo napoletano sottolinea proprio la priorità di quegli ambiti mitici, poetici, simbolici, fantastici su cui il filosofo delle forme simboliche a lungo si è soffermato. Se Grassi esplicitamente menziona la presenza di una logica della fantasia in Vico – in cui “il concetto fantastico e immaginativo [...] cristallizza un essere attraverso l’atto dell’ingegno, con una visione diretta di una totalità pittorica”181 –, Cassirer si riferisce a Vico indicandolo come il creatore di una logica dell’immaginazione: “l’umanità, secondo lui, non poteva cominciare con il pensiero astratto e il linguaggio razionale. Dovette passare per lo stato del linguaggio simbolico, del mito e della poesia. I primi popoli non avrebbero pensato in concetti ma in immagini poetiche [...] in realtà il mondo in cui vive sia il poeta che il foggiatore di miti sembra essere lo stesso. L’uno e l’altro sono dotati dello stesso potere fondamentale, del potere di personificare. Non possono contemplare nessun oggetto senza dargli una vita interiore e una forma personalizzata”182. La breve sosta sulla filosofia cassireriana ci ha consentito di istituire un interessante confronto Grassi-Cassirer che ha come scopo quello di mettere in luce un comune terreno di ricerca filosofica sugli ambiti del simbolico, del mitico, del poetico e del fantastico. Altri due autori inseriti dal filosofo milanese nell’elenco delle interpretazioni inautentiche dell’umanesimo sono Apel e Jaeger, entrambi colpevoli di aver misconosciuto l’essenza autentica dell’Umanesimo183. Per il pensatore italiano Apel “sostiene la tesi che gli umanisti nella loro disamina della logica scolastica usano un armamentario filosofico poverissimo sostituendo agli argomenti razionali asserzioni patetiche”184. Infatti Apel afferma che “da questa programmatica polemica d’un nuovo !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 181 Grassi, Vico e l’umanesimo, cit., p. 54. 182 Saggio sull’uomo, cit., pp. 266-267. 183 E. Grassi, La filosofia dell’umanesimo. Un problema epocale, cit., p. 35; Id., Il problema della metafisica platonica, Laterza, Roma-Bari 1932, p. 209; Id., Il problema filosofico del ritorno al pensiero antico, in Id., Primi scritti, cit., 255- 271; Id., Paideia e neoumanesimo, in Id., Primi scritti, cit., 357-369. 184 Id., La filosofia dell’umanesimo, cit., p. 35. ! 65!   metodo gnoseologico, così come essa è caratteristica dell’epoca umanistica di passaggio fra scolastica e scienza moderna, non si potrà trarre una profonda intelligenza della logica formale (una sensibilità per il formalismo dell’astrazione logica, e quindi per le autentiche acquisizioni della logica da Aristotele in poi, fece difetto a tutti gli umanisti)”185. Dal suo canto Jaeger riconduce lo spessore dell’approccio umanista a mera prosecuzione degli ideali greco-romani186: secondo Jaeger le origini dell’umanesimo non sono rintracciabili nel pensiero degli umanisti italiani del Quattrocento. Leggiamo in La filosofia dell’umanesimo che “Jaeger dichiara che l’Umanesimo è solo la manifestazione di un particolare ideale culturale che ha per meta la formazione dell’uomo”187. Jaeger, infatti, asserisce in Paideia che “sin dalle prime tracce che abbiamo dei Greci, troviamo l’uomo al centro del loro pensiero. Gli dei antropomorfi, il predominio assoluto del problema della figura umana nella plastica greca e nella pittura stessa; il procedere conseguente della filosofia dal problema del cosmo a quello dell’uomo, nel quale culmina con Socrate, Platone ed Aristotele; la poesia, il cui tema inesauribile, da Omero in poi e per tutti i secoli seguenti, è l’uomo in tutta la estensione del termine; infine lo Stato greco, di cui comprende la natura solo chi lo intenda quale plasmatore dell’uomo e di tutta la sua esistenza: tutti questi sono raggi di un medesimo lume”. E aggiunge che si tratta di “manifestazioni di un sentimento umanistico della vita, che non trova ulteriori derivazioni o spiegazioni, e che compenetra ogni creazione dello spirito greco. I Greci furono così il popolo antropoplasta per eccellenza [...]. Siamo ora in grado di enunciare più precisamente che cosa costituisca l’originalità dei Greci [...]. La loro scoperta dell’uomo non è la scoperta dell’Io soggettivo, ma l’acquisita coscienza della legge universale della natura umana. Il principio spirituale dei Greci non è l’individualismo, bensì l’umanesimo”188. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 185 K. O. Apel, L’idea di lingua nella tradizione dell’Umanesimo da Dante a Vico, il Mulino, Bologna 1963, p. 292. 186 W. Jaeger, Paideia. La formazione dell’uomo greco, tr. it. di L. Emery e A. Setti, Bompiani, Milano 2003. La concezione di Jaeger la paideia ha un ruolo prepolitico, intendendo l’attività educativa come punto di incontro tra antichità e presente. Secondo l’esponente del cosiddetto “terzo umanesimo”: “per l’età moderna, il concetto di umanesimo è legato alla relazione consapevole della nostra cultura con l’antichità. Ma questa non si fonda, a sua volta, se non sul fatto che la nostra idea della cultura universale dell’uomo ha colà, appunto, la sua origine storica. L’umanesimo, in questo senso, è sostanzialmente una creazione dei Greci”, ivi, p. 517. La paideia greca ha in effetti caratterizzato, per Jaeger, sia il Cristianesimo che il Rinascimento, in quanto il fine della stessa era la formazione di una umanità superiore. 187 Grassi, La filosofia dell’umanesimo, cit., p. 35. 188 Ivi, p. 14. I corsivi sono nostri.  ! 66!  Infine, nel catalogo grassiano degli pseudo-umanesimi compare la figura di Kristeller che secondo il pensatore italiano non avrebbe avuto attenzione per quell’umanesimo non platonico che al contrario egli cerca in gran parte della sua produzione di mettere in luce. Afferma Kristeller in Retorica e filosofia dall’antichità al Rinascimento che “gli umanisti non erano filosofi di professione, e i loro scritti su diversi argomenti mancano della precisione terminologica e della consistenza logica che abbiamo il diritto di aspettarci da filosofi di professione [...] in altre parole, anche se potessimo ricostruire una filosofia coerente per un determinato umanista, non possiamo trovare una filosofia comune a tutti gli umanisti, e quindi non è possibile definire il loro contributo in termini di dottrine specificatamente filosofiche”189. Secondo Grassi Kristeller “al quale dobbiamo uno studio su Ficino e molte ricerche erudite sull’Umanesimo [...] valorizza il pensiero umanistico soprattutto nel ripensamento della tradizione platonica e neoplatonica”190. II. III. Il maestro degli anni mitici di Friburgo Il confronto grassiano con l’umanesimo non poteva non relazionarsi alla filosofia di Heidegger che contro l’umanismo si era espresso molte volte. Il testo La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale è significativamente dedicato alla memoria di Heidegger eletto da Grassi a suo maestro. Eppure Heidegger, come ricorda Grassi stesso, “ha negato radicalmente qualsiasi valore alla filosofia dell’umanesimo. Egli riconosce in tale tradizione l’ideale romano dell’affermazione dell’homo humanus, nobilitato grazie al concetto di paideia [...] afferma che la concezione umanistica non coglie l’essenza dell’uomo”191. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 189 P. O. Kristeller, Retorica e filosofia dall’antichità al Rinascimento, tr. it. di A. Gargano, Bibliopolis, Napoli 1991, p. 90. Afferma Kristeller: “Diversamente dalle arti liberali del primo Medioevo gli Studia humanitatis non includevano la logica o il Quadrivium (aritmetica, geometria, astronomia e musica), e diversamente dalle Belle Arti del Settecento gli Studia humanitatis non comprendevano le arti figurative o la musica, la danza o l’arte dei giardini. Non comprendevano neppure le materie principali che si insegnavano alle università del tempo, cioè la teologia, la giurisprudenza o la medicina, o le materie filosofiche all’infuori dell’etica, cioè la logica, la filosofia naturale o la metafisica. In altre parole, diversamente da ciò che si è pensato molte volte, l’umanesimo non costituisce il sapere e pensare intero o completo del Rinascimento, ma soltanto un suo settore parziale, ben limitato, per quanto importante. L’umanesimo aveva il suo centro e la sua base negli Studia humanitatis. Le altre materie del sapere, compresa la filosofia (con l’eccezione della filosofia morale) avevano un loro sviluppo separato, che era in parte determinato dalla tradizione medievale, ma che fu poi lentamente trasformato da osservazioni, problemi e teorie nuove, trasformazione in cui anche l’umanesimo ebbe la sua parte, ma agendo piú che altro dall’esterno e indirettamente”, Id., L’umanesimo italiano del Rinascimento e il suo significato, tr. it. di A. Gargano, Istituto italiano per gli studi filosofici, Napoli 2005, p. 16. 190 E. Grassi, La filosofia dell’umanesimo, cit. p. 35. 191 Ivi, pp. 35-36.  ! 67!  Dedicare un testo sull’umanesimo ad un anti-umanista sembra un’operazione quantomeno ardita poiché effettivamente Heidegger appare molto duro nei confronti di una tradizione culturale che avrebbe meritato, se non un giudizio differente, perlomeno una più attenta riflessione e analisi. Leggiamo in La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale: “il presente lavoro è dedicato alla memoria di Heidegger che è stato il mio maestro: anche il mio primo lavoro scientifico, iniziato negli anni 1929-1930 sotto la sua direzione e pubblicato nel 1932 (Il problema della metafisica platonica) fu dedicato proprio a lui”192. Il magistero filosofico di Heidegger e la sua negazione dell’importanza speculativa dell’umanesimo sollecitano nel giovane Grassi tematiche speculative che renderanno possibile la problematica sviluppata in “Macht der Phantasie (1979), in Macht des Bildes (1970), e nel volume Rhetoric as Philosophy (1980), ma anzitutto in Heidegger and the Question of Renaissance Humanismus (1983)”193. In Lettera sull’Umanismo Heidegger tende a precisare più volte l’aspetto non-umanistico del suo pensiero, che si configura come un’ontologia fenomenologica ed ermeneutica in cui l’uomo e il discorso sull’uomo sono funzionali alla ricerca ontologica. Egli si domanda se si possa qualificare il suo pensiero come umanismo, ma la risposta è negativa; e non può essere altrimenti se per umanismo si intende qualcosa di metafisico e di esistenziale. “L’umanismo pensa metafisicamente [...] esso è esistenzialismo e sostiene la tesi espressa da Sartre: prècisèment nous sommes sur un plan où il y a seulment des hommes. Se invece si pensa come in Sein und Zeit, si dovrebbe dire: prècisèment nous sommes sur un plan où il y a principalement l’Etre”194. La tesi alla quale Heidegger fa riferimento, come è noto, è espressa dal filosofo francese in L’esistenzialismo è un umanismo195, ed è inserita nel contesto della metafisica dell’umanismo che !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 192 Ivi, p. 17. 193 Ivi, p. 29. 194 M. Heidegger, Lettera sull’umanismo, tr. it. A cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 2008, p. 61. 195J. P. Sartre, L’esistenzialismo è un umanismo, Mursia, Milano 1996, p. 40.  ! 68!  “non pone l’humanitas dell’uomo ad un livello abbastanza elevato”196. Una metafisica di questo tipo, che eleva l’uomo a soggetto despota dell’essere e dell’ente, non riesce, secondo Heidegger, a comprendere il legame dell’uomo e dell’essere, quell’ηθος che è il soggiorno dell’uomo197, la radura- Lichtung del mondo. C’è da dire che, stando all’auto-interpretazione heideggeriana, il suo pensiero non è né umanistico né inumano. Non è umanistico perché la questione fondamentale del suo pensiero è l’essere, la Lichtung, l’Ereignis. L’uomo, allora, verrebbe ridotto ad accidente periferico dell’essere? Umano e inumano sono concetti inadeguati per un pensiero che vuole andare oltre l’alternativa tra scienza e filosofia. Queste ultime sono per Heidegger sostanzialmente la stessa cosa. Dopo l’incontro di Grassi con Heidegger a Todtnauberg, nella Foresta nera si profila quella tormentata e difficile rottura con il maestro destinata a non ricomporsi. La connessione istituita da Heidegger tra l’uomo greco e l’uomo tedesco tralascia l’umanesimo in quanto interpolazione romana- latina tra l’uomo greco e l’uomo tedesco, erede del greco; valutando negativamente anche il Rinascimento come renascentia romanitatis. Le radici di questa profonda avversione sono rintracciabili nel contesto più generale della critica alla metafisica che Heidegger conduce: “ogni umanismo o si fonda su una metafisica o pone se stesso a fondamento di una metafisica. È metafisica ogni determinazione dell’essenza dell’uomo che presuppone già, sia consapevolmente sia inconsapevolmente, l’interpretazione dell’ente, senza porre la questione della verità dell’essere [...] nel determinare l’umanità dell’uomo, l’umanismo non solo non si pone la questione del riferimento dell’essere all’essere umano, ma impedisce persino che si ponga una simile questione”198. Ogni umanismo in quanto tale è un’antropologia ontica che muove da un ente senza tenere conto del riferimento all’essere – il grande impensato della tradizione metafisica occidentale, rea di un doppio occultamento: il ritrarsi dell’essere (oblio come κρύπτεσθαι); oblio della ritrazione dell’essere (con l’imporsi della verità dell’ente e solo dell’ente). Pensare all’umanesimo antropocentrico e non attento !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 196 M. Heidegger, Lettera sull’umanismo, cit., p. 56. 197 Ivi, p. 90. 198 M. Heidegger, Lettera sull’umanismo, cit., p. 43.  ! 69!  al nesso essere-uomo significa pensare innanzitutto a quell’uomo oggetto dell’orazione pichiana che accende un dibattito filosofico nel 1487, promosso proprio da Pico della Mirandola199, e che è dominata dalla centralità dell’uomo all’interno della realtà, peculiarità riconducibile all’essenza particolare del suo status ontologico. A differenza degli altri enti l’uomo è quell’ente che non ha una essenza specifica, una natura propria e definita, chiusa e circoscritta: “l’uomo si fa agendo; l’uomo è padre a se stesso. L’uomo non ha che una condizione: l’assenza di condizioni, la libertà”200. Il problema posto da Heidegger circa lo statuto dell’umanesimo/umanismo non poteva lasciare indifferente Grassi che ritiene inaccettabili quelle affermazioni e che trova in Heidegger se non proprio un momento di svolta201, uno spunto teorico importante per il tentativo di risemantizzazione del concetto di umanesimo. Leggiamo in Heidegger e il problema dell’umanesimo che “storicamente dobbiamo osservare che la definizione che Heidegger dà del pensiero occidentale (una metafisica razionale deduttiva che sorge e si sviluppa esclusivamente dal rapporto tra gli enti e il pensiero, cioè nel quadro della verità logica) non regge. Nella tradizione umanistica c’è sempre stata una preoccupazione cruciale circa il problema del disvelamento, dell’apertura, dove il Da-sein storico può fare la sua apparizione. Per questa ragione noi dobbiamo rivedere e rivalutare le categorie storiche che ancora guidano il nostro pensare”202. Occorre precisare, secondo Grassi, che accanto all’umanesimo ci sono gli pseudo umanesimi: la prospettiva onto-antropo-logica grassiana ha come scopo teorico proprio la chiarificazione del !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 199 Cfr., E. Garin, L’umanesimo italiano, cit., p. 135. 200 Ivi, p. 136. 201 Parla di svolta riguardo all’incidenza di Lettera sull’umanismo di Heidegger nel pensiero di Grassi D. Di Cesare in Metafora e differenza ontologica. Grassi versus Heidegger?, in AA. VV., Un filosofo europeo. Ernesto Grassi, cit., p. 25: “la Lettera rappresenta pure, di riflesso, una svolta per Grassi, non solo nel confronto con Heidegger, ma anche nel proprio itinerario. La sua attesa è rimasta delusa: non vi è traccia, nella Lettera, di un ripensamento critico, o meglio autocritico, sul valore filosofico della tradizione latina e italiana, di quel che Grassi chiama Umanesimo [...] per Grassi si produce allora una difficile e tormentata rottura con Heidegger. Destinata a non ricomporsi, questa rottura costituirà però il vero e proprio avvio non solo e non tanto della sua originale interpretazione dell’Umanesimo, quanto di un’autonoma riflessione filosofica che ha al suo centro la metafora”. Dal nostro punto di vista, l’incontro a Todtnauberg tra Grassi eHeidegger, sebbene significativo, non costituisce una svolta. La prospettiva della studiosa non tiene conto delle affermazioni sull’umanesimo espresse da Grassi nella produzione giovanile. Infatti, la questione dell’umanesimo si pone già a partire dal saggio su Machiavelli del 1924, come abbiamo cercato di chiarire nel primo capitolo e nel ventennio che intercorre tra il 1924 e il 1946 Grassi ha già maturato le coordinate fondamentali del suo itinerario speculativo, in cui certamente Heidegger riveste un ruolo centrale ma tuttavia non esclusivo. 202 E. Grassi, Heidegger e il problema dell’umanesimo, cit., p. 38. ! 70!   significato filosofico dell’umanesimo. Non l’umanesimo storico, né quello politico sono al centro della sua riflessione, ma unicamente lo statuto speculativo di esso. In Il tempo umano. L’umanesimo contro la techne lo studioso afferma: “sia dunque ben chiaro che ogni affermazione umanistica è un problema anzitutto filosofico e non storico [...] che significato può dunque oggi avere un umanesimo?”203. Cercare di dare una risposta a questa domanda spinge Grassi a misurarsi con le questioni della tecnica, del metodo e dell’oggettività. Si tratta di accenni polemici che egli non discuterà a fondo e dettagliatamente ma che ci consentono di comprendere quanto fosse viva in lui la consapevolezza del declino di una visione globale dell’uomo e dell’emergere del disancoramento dalla realtà che le scienze naturali cercano di ridurre ma che al contrario contribuiscono ad espandere a dismisura: “qui nelle scienze singole naturali, nelle quali l’uomo crede di raggiungere l’obiettività, appare più chiaro che altrove il disancoramento dell’uomo”204. L’approccio scientifico è per Grassi responsabile di quella trasmutazione del mondo vero in favola, di una de-realizzazione del reale, in seguito alla quale la realtà, la dimensione dell’oggettivo svaniscono, divenendo un’astratta costruzione: “la realtà che invece mediano le scienze naturali è un’astratta costruzione in quanto il risultato di un interrogare la realtà fenomenica in funzione a principi presupposti”205. Accanto a questa ricerca tecnico-scientifica dei principi c’è la ricerca filosofica che dischiude il tempo umano, il suo mondo storico, in cui motivi etici, politici ed etico religiosi si intrecciano indissolubilmente in quel contesto originario, nella dimensione pre-teoretica e pre-categoriale che l’analisi sulla Lichtung mette in luce. II.! IV. La pars construens del discorso grassiano: il lascito heideggeriano A questo punto abbiamo messo insieme una serie premesse teoriche che ci consentono di uscire dall’impasse in cui il coacervo delle interpretazioni analizzate da Grassi ci aveva condotti: esaminate !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 203 Id., Il tempo umano. L’umanesimo contro la techne, in AA. VV, Umanesimo e scienza politica. Atti del convegno internazionale di studi umanistici, a cura di E. Castelli, Roma- Firenze 1949, p. 202. 204 Ibidem. 205 Ibidem.  ! 71!  tutte le posizioni critiche rispetto alla tradizione storica dell’umanesimo italiano ci è consentito ora di individuare il nucleo attorno al quale la ricostruzione del suo senso autentico diviene possibile. Il percorso onto-antropo-logico di Grassi staziona a lungo presso il concetto di Lichtung, e non si tratta di un semplice omaggio al maestro dei “mitici anni friburghesi”. La co-appartenenza di umanesimo e Lichtung è fondativa della prospettiva onto-antropo-logica e costituisce, secondo il nostro punto di vista, il plesso teorico cardine su cui si innestano le riflessioni che successivamente avremo modo di analizzare: quella sull’ingegno e la fantasia; quella sulla metafora e la retorica. Prima di sciogliere i nodi del pensiero grassiano della Lichtung ripercorriamo brevemente la storia heideggeriana di questo concetto, ciò ci consentirà di mettere a fuoco lo sfondo su cui si staglia la particolare declinazione che della Lichtung offre Grassi. II. V La Lichtung in Heidegger Come ha sottolineato Amoroso quello della Lichtung heideggeriana è un esempio di etimologia per antifrasi come il latino lucus a non lucendo, dove il lucus, il boschetto sacro, viene fatto derivare per antifrasi da lucere, perché esso ha poca luce. La Lichtung ha tre rimandi principali: al luminoso (Licht e lux), all’oscuro (lucus), e al leggero (Leicht). Con il termine Lichtung non ci riferiamo ad una espressione metaforica per indicare ciò che si sottrae all’espressione razionale: siamo di fronte ad un fenomeno di base di cui fanno parte i domini spaziali e temporali dell’uomo e la sua capacità di creare corrispondenze ontologiche. Nel pensiero di Heidegger la concettualizzazione filosofica della Lichtung206 si dipana nell’arco di più di 35 anni di speculazione filosofica: dal ’27, anno di pubblicazione di Essere e Tempo al ’62, anno di !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 206 Resta ancora aperta tra i critici la questione di una possibile traduzione efficace del termine che conservi il senso filosofico originario senza andarne a ledere le relazioni morfologiche e foniche. Sono note le riserve etimologiche addotte da Cicero circa la traduzione di Lichtung con radura, che non renderebbe né l’affinità fonica e verbale con lux e Licht, né quella speculativa di orizzonte inapparente di ogni apparenza ontica. Altri modi di traduzione italiana come è noto sono quelli di Chiodi che traduce con illuminazione; di Caracciolo che rende con radura-luminosa; la traduzione di Vattimo è apertura-slargo; quella di Mazzarella e Volpi è radura; Amoroso traduce con luco; Marini con chiarita; Cicero usa il verbo lucare. Cfr., per una ricostruzione dei molteplici significati del termine Lichtung il fondamentale studio di L. Amoroso, Lichtung. Leggere Heidegger, Rosenberg&Sellier, Torino 1993. Per una ricostruzione etimologica dettagliata rimando a V. Cicero, Parole fondamentali di Heidegger ricorrenti in pensare e poetare, pp. 195-230, in M. Heidegger, Introduzione alla filosofia. Pensare e poetare, tr. it. di V. Cicero, Bompiani, Milano 2010. Mi permetto di rinviare al mio Saggio sulla Lichtungsgeschichte in M. Heidegger, pp. 33-67, in “Atti dell’Accademia di scienze morali e politiche”, Giannini, Napoli 2015.  ! 72!  pubblicazione di Tempo ed Essere, e oltre. Le sue molteplici “apparizioni testuali” hanno sensi e significati di volta in volta diversi, ma sempre interconnessi e riferiti alla problematica della ostensione della correlazione e coestensione di Da-Sein, Sein, e aletheia. Tale correlazione se nella prima fase di pensiero del filosofo è pensata più a partire dall’esserci e dall’analitica esistenziale, nella fase tarda, invece, è tematizzata a partire dal legame stesso, da quel plan di cui si asserisce l’identità con l’essere, come possiamo leggere a partire da Lettera sull’umanismo207. La Lichtung heideggeriana ha una articolazione pentavalente: (i) Da- sein, (ii) arte, (iii) mondo-spazio, (iv) verità e (v) nulla sono i poli con i quali la Lichtung si converte di volta in volta. (i) Nell’opera del ‘27 la Lichtung appare come Da-sein nel senso di Erschlossenheit208 con evidente correlazione all’immagine classica del lumen naturale, dunque alla luce. La caratteristica della non-chiusura o dell’apertura è correlata all’esserci e alle sue note distintive: la spazialità propria dell’esserci e la sua gettatezza intramondana – benchè si tratti di un’intramondanità trascendente in quanto l’uomo non sta mai al modo dell’ente semplicemente-presente ma esiste, è esposto alla radura dell’essere. Inoltre, l’Erschlossenheit è convertibile con l’ἀληθεύειν, perché ha una connotazione duale: aprente e aperta, distinguendosi, pertanto, dalla Entdecktheit, che contrassegna l’ente difforme dall’esserci. La semplice presenza ha come nota caratteristica quella di essere uno svelato che non può aprire un mondo di significati ma che si trova già sempre immerso in una totalità di appagatività. L’esserci, invece, ha una capacità di apertura che lo rende quell’essere che può scoprire, mentre la semplice-presenza è l’ente che può essere scoperto. Si tratta di comprendere il denso senso del Da-sein, che esprime sia il riferimento dell’essere all’essenza dell’uomo, sia il rapporto essenziale dell’uomo con l’apertura (il ci) dell’essere come tale. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 207 “Se invece si pensa come in Sein und Zeit, si dovrebbe dire: prècisèment nous sommes sur un plan où il ya principalment l’Etre. Ma da dove proviene e che cos’è le plan? L’Etre e le plan sono lo stesso”, M. Heidegger, Lettera sull’umanismo, cit., pp. 61-62. 208 L’Erschlossenheit fa la sua comparsa al § 28: “qui e là sono possibili solo in un “Ci”, cioè solo se esiste un ente che, in quanto essere del Ci, ha aperto la spazialità. Nel suo essere più proprio questo ente ha il carattere della non chiusura. L’espressione “Ci” significa appunto questa apertura essenziale. Attraverso essa, questo ente (l’Esserci) “Ci” è per se stesso in una con l’esser-ci del mondo [...] che esso sia illuminato significa che è in se stesso aperto nella radura in quanto essere-nel-mondo, cioè non mediante un altro ente, ma in modo che esso stesso è la radura”, M. Heidegger, Essere e Tempo, tr. it., a cura di, Longanesi, Milano, p. 165.  ! 73!  (ii) La relazione tra Lichtung e arte emerge in L’origine dell’opera d’arte. Qui il termine radura è declinato come Offenheit209, come luogo aperto e possibilità stessa dei fenomeni. In quanto apertura essa è quell’accadere non solo del diradarsi ma anche del trattenere, dello svelamento e del nascondimento come si evince dalle pagine sulla lotta tra Welt e Erde o tra luogo e contrada in L’arte e lo spazio. L’arte ci conduce sul sentiero della verità, essa anzi è la messa in opera della verità dell’ente, il suo accadere e stanziarsi. Così viene declinata l’innovazione ontologica di cui è foriera l’opera d’arte: “l’opera d’arte, nel modo che le è proprio, fa insorger l’essere dell’ente. Nell’opera accade questo far insorgere, ossia: la verità [...] l’arte è il mettersi in opera della verità”210. Ciò che insorge è la dimensione ontologica della Lichtung quale contesto originario di senso. (iii) L’idea di Lichtung come mondo si collega al principio di manifestatività, ed è frutto della coniugazione della problematica trascendentale e della dottrina del mondo. L’io trascendentale e il soggetto mondano risultano coincidenti. Tale sovrapposizione tenta di superare l’incapsulamento del mondo nella coscienza e di dare risalto ad una idea di mondo come vero e proprio donatore di senso, come originaria dimensione costituente. Ciò che consente agli enti di manifestarsi va rintracciato nelle strutture della mondità e non in quelle del soggetto. Afferma il filosofo tedesco che “in Essere e Tempo la “cosa” non ha più il suo luogo nella coscienza, ma nel mondo”211, e ciò perché il mondo è la condizione di possibilità dell’esperienza, cioè, del rapportarsi dell’esserci all’ente212, costituendo l’accessibilità dell’ente. Sappiamo dall’analitica esistenziale che la spazialità dell’esserci è possibile solo sul fondamento dell’in-essere, insomma non è riconducibile all’ordinaria nozione dello spazio !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 209 Il termine Offenheit è impiegato soprattutto in riferimento al mondo e alla Lichtung. L’essere aperto e al contempo aprente contraddistingue la Welt come welten, come farsi-mondo. Il mondo, infatti, come l’opera d’arte è innanzitutto Stiftung: istituzione, donazione e fondazione le quali aprono alla dimensione dell’apparire dell’ente, facendo sì che l’ente “insorga” in quanto essente, assurgendo a dimensione della donazione di senso. 210 Id., L’origine dell’opera d’arte, p. 51. 211 Id., Seminari, tr. it. Di M. Bonola, a cura di F. Volpi, Milano, Adelphi, 1992, p. 158. 212 Cfr., V. Vitiello, Heidegger: il nulla e la fondazione della storicità. Dalla Überwindung der Metaphysik alla Daseinsanalyse, Urbino, Argalia, 1976.  ! 74!  omogeneo naturale213. Inoltre, risulta impraticabile la deduzione dello spazio dal tempo, poiché spazio e tempo sono fenomeni originari, anzi, cooriginari. Essi costituiscono quello Zeit-Raum di cui si parla in Tempo e Essere in relazione all’evento, all’eventuarsi dell’essere, al suo destinarsi storicamente, al suo essenziarsi aletico. Il concetto di spazio come lasciare e concedere spazio, mondo e soggiorno è strettamente connesso al concetto di Lichtung che dirada il luogo di ogni manifestatività e presenza, ma anche il luogo di ogni assenza e oscurità, l’aperto per tutto ciò che è presente o assente. (iv) Il legame di Lichtung e verità si pone con forza in un suggestivo paragrafo di Essere e Tempo, che reca il significativo titolo di Esserci, apertura e verità214. Qui Heidegger afferma che un’asserzione è vera innanzitutto perché è apofantica, ossia è manifestazione dell’ente215. Nell’ambito dell’analitica esistenziale la verità è connessa ad un concetto di Lichtung da intendere, sia, come Offenstandigkeit (come uno stare aperto da parte dell’uomo), sia, come Offenbarkeit (esser- manifesto da parte dell’ente). La grande sfida che si apre alla riflessione del filosofo tedesco è quella di portare al linguaggio quello sfondo sul quale si staglia la stessa manifestatività come tale. Si tratta di quel fondo nascosto e oscuro su cui si pone la luminosità del manifesto e a partire dal quale possiamo comprendere il discorso sulla non-essenza della verità. Preminente secondo Heidegger nella dottrina del vero è l’Anwesung, l’atto del presentarsi della cosa, e non il Wassein, il contenuto essenziale. E proprio tale separazione tra il contenuto dell’apparire e l’orizzonte dello stesso ha generato per il filosofo tedesco quel “riferimento al vedere, all’apprensione, al pensare e !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 213 Ma soprattutto dall’analitica sappiamo che la spazialità è possibile solo sul fondamento della temporalità. Nel noto § 70 di Essere e Tempo lo spazio sembra emergere in netta subordinazione al tempo, alla temporalità estatico-orizzontale, che sola rende possibile l’entrata dell’esserci nello spazio. Successivamente, è lo stesso Heidegger ad avvertire l’impossibilità di continuare a sostenere la posizione espressa in Essere e Tempo: “il tentativo di ricondurre la spazialità dell’esserci alla temporalità compiuto nel § 70 di Essere e Tempo non è più sostenibile”, M. Heidegger, Tempo e essere, cit., p. 30. Anche nelle dieci conferenze tenute a Kassel del 1925 Heidegger afferma nel contesto della disamina di “ciò che è vivo e ciò che è morto” del pensiero diltheyano che «lo spazio del mondo ambiente non è quello della della geometria. Esso è essenzialmente determinato dai momenti usuali della vicinanza e della lontananza [...] non ha dunque la struttura omogenea dello spazio geometrico», Id., Il lavoro di ricerca di Wilhelm Dilthey e l’attuale lotta per una visione storica del mondo, cit., pp. 34-35. 214 Il riferimento è al § 44 di Essere e Tempo. 215 Ivi, pp. 264-265.  ! 75!  all’asserire”216 della verità che è caduta sotto il giogo dell’idea, con il conseguente mutamento della verità in orthotes. (v) L’altro concetto fondamentale intrinsecamente connesso a quello di Lichtung è quello di nulla, di cui Heidegger parla soprattutto in Che cos’è metafisica?. Qui il nihil è contraddistinto da una peculiare relatività e rivelatività. Lichtung e Nichtung divengono sinonimi perché la peculiare funzione di diradamento della prima, e il ruolo di annientamento della seconda, vigono entrambi nell’ente e nella sua luminosità, consentendo ad esso di apparire. Lichtung e Nichtung costituiscono quella “notte chiara” in cui l’ente appare e il mondo diviene mondo. Nondimeno, radura e nulla non vengono alla luce alla stregua dell’ente, ma si annunciano in quella differenza nei confronti dell’ente che appare217. In conclusione di questa incursione nella teoria della Lichtung heideggeriana possiamo dare per acquisito che essa si pone come l’inapparente fonte di ogni apparenza ontica. Si tratta del mero “che c’è”, del fatto, dell’evento. Ma un pensiero così originario, che nel suo regressus verso l’inizio retrocede verso un indisponibile e pre-teoretico darsi può ancora edificare? Su quali fondamenta e a quale scopo? Quale telos l’“uomo della radura” può porsi e come può orientarsi? !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 216 Id., La dottrina platonica della verità, in Id., Segnavia, a cura di F. W. Von Hermann e F. Volpi, Milano, Adelphi, p. 192 217 Se in Essere e Tempo il discorso si dipana su un piano che è più strettamente analitico-esistenziale, nella prolusione Che cos’è metafisica (1929) la questione si pone sul terreno ontologico. Qui il discorso sull’angoscia si inserisce nella cornice tematica del rapporto tra essere e nulla. In questo caso ad attirare l’attenzione non è tanto l’Unheimlichkeit – l’esperienza dello spaesamento – propria dell’angoscia, quanto l’esperienza di Seinsoffenheit – di apertura dell’essere – della stessa: «solo nella notte chiara del niente dell’angoscia sorge quell’originaria apertura dell’ente come tale [...] il niente è ciò che rende possibile l’evidenza dell’ente come tale per l’esserci umano”, M. Heidegger, Che cos’è metafisica, in Id., Segnavia, cit., pp. 70-71.  ! 76!  II. VI. Lichtung, umanesimo, metafisica: la proposta grassiana Queste sono le sfide che il pensiero heideggeriano pone e che Grassi rimedita in modo originale coniugando Lichtung e umanesimo. In quell’umanesimo in cui Heidegger intravedeva un pericolo per l’esperienza autentica dell’originario Grassi individua una possibilità, anzi la possibilità, la scommessa del filosofare noetico-non metafisico da sempre bandito dalla riflessione formale e razionalistica. Afferma il filoso italiano in La metafora inaudita, nel contesto dell’analisi del linguaggio e del pensiero razionalmente intesi, che “qualsiasi umanesimo – nel contesto suddetto – che tenti di trascendere il pensiero formale tenendo conto dei problemi della vita e dell’uomo, deve essere escluso e con esso ogni elemento patetico, proprio del linguaggio poetico o retorico. Il linguaggio razionale e scientifico deve necessariamente prescindere dalle passioni dell’uomo; il suo ideale è quello matematico e il legame del mondo umano con la razionalità genera il terrore di cadere nel soggettivismo, nell’arbitrarietà”218. Per il filosofo italiano occorre compiere un movimento inverso a questa prospettiva e la riflessione sul tema heideggeriano della Lichtung, connesso all’articolazione umanistica e vichiana del concetto, rappresenta un tentativo di costruire un nuovo accesso al mondo umano. Per Grassi quello compiuto da Heidegger è un regressus, un movimento di retrocessione dal dato al darsi, che tuttavia si arresta all’Es gibt, all’evento in cui l’esserci è gettato. Nella Lichtung riecheggia quel φύειν greco, quel generarsi, prodursi, sbocciare, portare a manifestazione, quell’essere che l’uomo può contemplare, al cospetto del quale sente la meraviglia e su cui non ha potere. Si tratta del mondo nel quale ci si sente situati, immersi in una tradizione e in una pre-comprensione, forme, queste, di mediazione che ci immettono immediatamente nel mondo, in quella modalità linguistica che induce il filosofo a parlare del linguaggio come casa dell’essere. Urge tuttavia ripensare l’idea ereditata dal maestro intraprendendo una analisi teoretica e storica delle prospettive degli antesignani della teoria della Lichtung che infine approda ad una prospettiva metaforologica originale che coniuga l’analisi !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 218 E. Grassi, La metafora inaudita, cit., p. 11. ! 77!   della metafora come espressione metaforica con quella della metafora come fenomeno globale di tipo cognitivo innanzitutto e secondariamente linguistico. Nel contesto della Lichtungsgeschichte di Grassi emergono in primo piano i temi del non- nascondimento – la verità come aletheia – e della physis. In Heidegger e il Problema dell’umanesimo219 dopo aver affrontato l’analisi del concetto heideggeriano di Lichtung, di Unverborgenheit e di φαινεσθαι, Grassi afferma che “uno dei problemi centrali dell’umanesimo non è l’uomo, bensì la questione del contesto originario, dell’orizzonte o apertura in cui appaiono l’uomo e il suo mondo [...] questi problemi non sono trattati dal pensiero umanistico mediante un confronto logico speculativo con la metafisica tradizionale, ma piuttosto in termini di analisi e di interpretazione del linguaggio”220. Da questo passo emerge la precisa declinazione che Grassi conferisce a tale idea: si tratta di una declinazione ontologica perché il problema che la Lichtung heideggeriana pone è, come abbiamo visto, quello del fenomeno di base dell’evento, della manifestatività, dell’esistenza e dell’appello dell’essere al quale è chiamato l’uomo. Ma allo stesso tempo emerge anche una nota linguistica perché l’appello dell’essere che avviene nella dimensione della Lichtung coinvolge innanzitutto il mondo linguistico dell’uomo. Inoltre, Grassi rimarca più volte la retrodatazione della concettualizzazione della Lichtung: interpretata come riflessione sull’evento originario del rapporto uomo-essere la Lichtung compare già nelle riflessioni umanistiche, soprattutto in quelle che riguardano il linguaggio. L’idea di Lichtung che Ortega y Gasset, il collega di corso di Grassi durante gli “anni mitici di Friburgo”221 faceva risalire al 1914222, in realtà è molto più antica per Grassi: precede Heidegger e Ortega di secoli. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 219 Id., Heidegger e il problema dell’umanesimo, cit., pp. 20-21. 220 Ivi, p. 26. I corsivi sono nostri. 221 Id., La filosofia dell’umanesimo. Un problema epocale, cit., p. 21. 222 Ortega ha sempre rivendicato la priorità, rispetto a Heidegger, di alcune intuizioni filosofiche fondamentali: “Ci sono appena uno o due concetti importanti di Heidegger che non siano preesistenti, talvolta con un’anteriorità di tredici anni, nei miei libri”, Ortega y Gasset, Lettera a un tedesco (1932), in Id., Goethe, tr. it. di A. Benvenuti, Medusa, Milano 2003, pp. 15-48: p. 47, nota 2. I concetti sui quali Ortega, stando alla sua autointerpretazione, si sarebbe espresso con anticipo rispetto ad Heidegger sono quelli di essere, verità, cura e lingua. Per una analisi approfondita dei concetti ora ricordati rimando a G. D’acunto, Ortega critico di Heidegger, pp. 67-78, in “Studi interculturali”, 1/2015 Trieste. Vorremmo richiamare all’attenzione i passi orteghiani del 1914 in cui si dice sia prefigurato il concetto heideggeriano di Lichtung, ! 78!   Secondo il filosofo milanese, infatti, il problema della radura risale alle riflessioni dell’umanesimo italiano: “già dagli inizi degli studi umanistici un secolo fa, con Burckhardt e Voigt, fino a Cassirer, Gentile e Garin, gli studiosi hanno costantemente individuato l’essenza dell’umanesimo nella riscoperta dell’uomo e dei suoi valori immanenti. Questa interpretazione, largamente diffusa, è la ragione per cui Heidegger [...] si è insistentemente impegnato in polemiche contro l’umanesimo, considerato alla stregua di un ingenuo antropomorfismo. E tuttavia uno dei !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! reso con la metafora della radura nel bosco, e che esprime al contempo l’idea di verità come αληθεια e non nascondimento. Ortega, già nel 1914, affermava che: “la verità è caratterizzata da una pura illuminazione subitanea che possiede, però, solo nell’istante in cui viene scoperta. Per questo il suo nome greco, aletheia – che in origine ebbe lo stesso significato della parola più tarda apocalipsis –, vuol dire scoperta, rivelazione, o meglio, svelamento, toglimento di un velo”, J. Ortega y Gasset, Meditazioni del Chisciotte e altri saggi, tr. it. a cura di G. Cacciatore e M. L. Mollo, Guida, Napoli 2016, p. 68. In Ortega, dunque, sarebbe presente quella metaforica presente anche in Heidegger: la radura nel bosco (Lichtung), intesa come il luogo in cui si apre lo spazio che lascia entrare la luce e la fa giocare con l’oscurità. Secondo Ortega “il bosco è una natura invisibile – per questo in tutte le lingue il suo nome conserva un alone di mistero [...] il bosco sfugge allo sguardo [...] il bosco è sempre un po’ più in là del luogo in cui siamo [...] Ciò che del bosco si trova davanti a noi in modo immediato è solo un pretesto affinché il resto rimanga nascosto e distante”, ivi, p. 62-63. Vorremmo sottolineare come l’importanza della metafora in Ortega non sia legata solo alla sua notevole capacità di espressione letteraria, a quella volontà di stile mai disgiunta da una chiara coscienza linguistica, ma abbia una radice filosofica molto forte nell’estetica del pensatore. In Ortega y Gasset bisogna guardare tra le pieghe di testi quali Renàn, Ensayo de estètica a manera de pròlogo, Las dos grandes metàforas, La deshumanizaciòn dela rte per rintracciare un’analisi della metafora che travalichi l’ambito pittorico e letterario e mostri una componente filosofico-conoscitiva e una costante preoccupazione antropologica e non solo estetico-ornamentale della metafora. Questa preoccupazione antropologica si materializza come è noto nella bella immagine del naufrago a cui la cultura viene in soccorso come una “zattera”: “la vita è in se stessa e sempre un naufragio. Naufragare non è affogare. Il povero essere umano, accorgendosi di affogare negli abissi, agita le braccia per mantenersi a galla. Questo agitare le braccia, con cui egli reagisce al suo smarrimento, è la cultura: un movimento natatorio. Quando la cultura è soltanto questo, essa compie la sua funzione e l’essere umano riemerge dal suo stesso abisso”, J. Ortega y Gasset, Goethe dal di dentro, in Id., Meditazioni sulla felicità, tr. it., di C. Rocco e A. Lozano Maneiro, Sugarco, Gallarate, 1994, p. 193. Spostandoci da una “pragmatica metaforica” orteghiana ad una “teoria sulla metafora” sarà possibile constatare che il tema della metafora svolge una funzione fondamentale nell’economia del pensiero orteghiano e umano in generale, poiché tenta di ancorare il linguaggio alle radici che lo generano. Come leggiamo nelle pagine di La disumanizzazione dell’arte “ecco così un “tropo” di azione, una metafora elementare anteriore all’immagine verbale e che si genera nell’ansia di evitare o eludere la realtà. [...] Ecco l’elusione metaforica”. J. Ortega y Gasset, La disumanizzazione dell’arte, tr. it. di S. Battaglia, Sossella, Roma 2005, p. 45. Per il filosofo spagnolo il logos stesso è un’operazione metaforica: “il logos stesso è un’espressione metaforica [...] così, se quanto diciamo non coincide esattamente con quanto pensiamo, si deve intendere che perlomeno lo suggerisce. E tale dire che è suggerire è la metafora”, J. Ortega y Gasset, La disumanizzazione dell’arte, cit., p. 46. Cfr., G. Cacciatore, Sulla filosofia spagnola. Saggi e ricerche, Mulino, Bologna 2013 soprattutto il saggio “La zattera della cultura. Filosofia e crisi in Ortega y Gasset”, pp. 47-77; G. Cacciatore-A. Mascolo (a cura di), La vocazione dell’arciere. Prospettive critiche sul pensiero di J. Ortega y Gasset, Moretti e Vitali, Bergamo 2012; F. J. Martìn, Teoria del linguaggio e linguaggio ingegnoso in Ortega y Gasset, pp. 313-327, in F. Ratto-G. Patella (a cura di), Simbolo, metafora e linguaggio nella elaborazione filosofico- scientifica e giuridico-politica, Sestante 2000; G. D’Acunto, Ortega y Gasset: La metafora come parola esecutiva, pp. 39-51, in “Studi interculturali”, n. 2, 2014; F. Cambi, La pedagogia e la Bildung in Ortega, in F. Cambi, A. Bugliani, A. Mariani, Ortega y Gasset e la Bildung. Studi critici, Unicopli, Milano 2007, pp. 13-66; G. Cacciatore-C. Cantillo (a cura di) Omaggio a Ortega, Guida, Napoli 2016; mi permetto di rinviare al mio Un intellettuale di vocazione. A proposito di La vocazione dell’arciere. Prospettive critiche sul pensiero di Ortega y Gasset, pp. 230-243 in “Studi interculturali”, Trieste 2014; G. Ferracuti, Il punto di vista crea il panorama: molteplicità di sguardi e interpretazioni in Ortega y Gasset, pp. 96-118, in “Studi Interculturali”, Trieste 2015.  ! 79!  problemi centrali dell’umanesimo non è l’uomo bensì la questione del contesto originario, dell’orizzonte o apertura in cui appaiono l’uomo e il suo mondo”223. L’apertura originaria, definita altrove come l’ursprünglich Rahmen224, al centro delle speculazioni umanistiche coinvolge i temi del linguaggio, della correlazione tra cosa e pensiero. Oltre all’approccio logico al nesso tra cosa e pensiero per Grassi abbiamo una tradizione che si preoccupa del manifestarsi storico dell’ente attraverso il linguaggio, dell’eventuarsi dell’essere in quel rapporto di co-estensione ineludibile di essere-pensiero-linguaggio. Ma che cos’è il logos per Grassi? Può ridursi sic et simpliciter all’ambito della razionalità, del concettuale, del deducibile? Si tratta unicamente di una polarità irrimediabilmente antitetica al pathos? Ma soprattutto in che relazione è l’idea di logos con quella di Lichtung? Come vedremo nel prossimo capitolo in maniera più dettagliata occorre analizzare i molteplici significati di logos offerti da Grassi e connetterli con le questioni dell’apparire e della passione dell’originario per meglio comprendere il significato della Lichtung nel pensiero del filosofo italiano al di là dell’ipotesi dualista225. Vorremmo anticipare che nel saggio del 1936 Il problema del logo il filosofo milanese sembra proporre un’idea di logos completamente opposta alle tesi mature. Ma si tratta di una contraddizione solo apparente come vedremo poiché l’idea di logos è inteso in maniera complessa. Ad apparire problematiche sono le affermazioni del periodo a difficilmente compatibili con quelle del periodo b. -! a: “l’originario atto della differenza ontologica non è la distinzione di enti precedentemente dati, bensì l’originario rendere possibile la manifestazione di una molteplicità in cui concretamente ci si trova e nella quale ci si delimita. Così il fondamentale carattere della concretezza, cioè il trovarsi in mezzo ad una molteplicità [...] !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 223 E. Grassi, Heidegger e il problema dell’umanesimo, cit., p. 26. 224 Ibidem. Cfr., anche la versione tedesca Die Macht der Phantasie. Zur Geschichte abendländlichen Denkens, Athenäum, Königstein, 1979, p. 240. 225 Parla di ipotesi dualista M. Marassi, Ernesto Grassi e l’esperienza del fine, in AA. VV., Un filosofo europeo. Ernesto Grassi, cit., p. 10. Completamente opposto è il giudizio di Rita Messori che sostiene con fondamento la coappartenenza di logos e pathos. Cfr., R. Messori, Le forme dell’apparire. Estetica, ermeneutica e umanesimo nel pensiero di E. Grassi, cit., soprattutto le pp. 66-84.  ! 80!  è radicato nella differenza ontologica, col che si conferma la nostra originaria tesi della precedenza del logo. La Stimmung, il sentimento, si fonda dunque nella trascendenza, nella differenza ontologica. Il sentimento non è un momento alogico o prelogico, bensì un particolare modo del leghein”226. -! b: “il termine retorico” – che in Grassi indica l’ambito di progettazione del pathos – “assume un significato essenzialmente nuovo; retorica non è, né può essere l’arte, la tecnica di una persuasione estrinseca; è piuttosto il discorso che costituisce la base del pensiero razionale”227. Come conciliare allora il periodo a -! “si conferma la nostra originaria tesi della precedenza del logo [...] il sentimento non è un momento alogico o prelogico, bensì un particolare modo del leghein” con il periodo b? -! “retorica è piuttosto il discorso che costituisce la base del pensiero razionale” Grassi stesso avverte durante tutto il suo iter di pensiero la necessità di una ricomposizione di queste due vie del filosofare tanto che giunge ad affermare che le analisi svolte sull’umanesimo sono da concepire come “uno sforzo per gettare un ponte tra logos e pathos”228. A questo punto si impongono una serie di osservazioni: Grassi non parla in maniera univoca di logos – così come non parlerà in maniera univoca di retorica – anzi, individua due logoi differenti, o meglio due forme di logos: una disgiunta dal pathos, l’altra radicata nel pathos. Ed è proprio sull’opposizione tra un logo inteso secondo una modalità logico-formale e un logo intrinsecamente legato alla dimensione patica che si può comprendere il suo pensiero. Abbiamo un significato di logos da interpretare come “processo del manifestarsi”, in cui si sperimenta un nuovo rapporto di essere e nulla, un nuovo concetto di identità che non si fonda sulla logica del pensato ma sulla logica del pensare, dell’atto !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 226 E. Grassi., Il problema del logo, cit., p. 403. I corsivi sono nostri. 227 Id., Retorica e filosofia, pubblicato in “Philosophy and Rhetoric, IX, 1976, The Pennsylvania State University Press, ora in Id., Vico e l’umanesimo, cit., p. 97. I corsivi sono nostri. 228 Id., Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, cit., p. 170.  ! 81!  pensante, che porta a manifestazione. La lezione heideggeriana di L’essenza del fondamento e di Che cos’è metafisica coniugata a quella gentiliana della Logica è evidente. Grassi intuisce la convergenza tra l’atto immanente di Gentile e la trascendenza del Dasein radicata nell’ontologia dell’essere e forte di questo connubio è in grado di porre il vero problema che potremmo definire autenticamente fenomenologico229. La questione che la Lichtung e il nesso logos-pathos pongono in primo piano è quella dell’individuazione delle vie di accesso all’originario, all’atto fondativo del reale. Come poter dire e vedere l’inizio, il primo in cui accade la differenza ontologica tra essere ed ente, tra il puro apparire e ciò che appare? Come esperire la Lichtung, il coappartenersi di uomo-essere-linguaggio? Se da un punto di vista teorico l’approccio al tema della Lichtung risulta connesso strettamente ai temi della manifestatività e dell’essere, al nesso logos-pathos (poiché l’analisi della Lichtung significa una analisi della manifestatività dell’essere), da un punto di vista storico-filosofico una connessione molto interessante risulta essere quella istituita d Grassi tra la Lichtung heideggeriana e le luci vichiane. Si profila allora una questione ben più complessa della secca alternativa tra logos e pathos. L’intima coappartenenza del momento patico e di quello logico determina la forma della manifestatività. Il tema dell’apparire su cui ci concentreremo nel terzo capitolo è fondamentale per Grassi e mostra quanto la problematica della Lichtung (espressa in modo esplicito negli anni della maturità), sia già presente nella produzione giovanile riguardante i temi dell’essere, dell’apparire, della manifestatività e dell’esperienza patica dell’originario. II. VII. Lichtung e lucus Come abbiamo sottolineato in precedenza Heidegger rappresenta un punto di riferimento centrale all’interno della prospettiva grassiana, sia per quanto riguarda il valore della parola poetica !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 229 Analizzeremo in modo approfondito questo aspetto nel prossimo capitolo.  ! 82!  come linguaggio originario, sia per il parallelismo istituito tra la Lichtung e le luci vichiane230. Contro l’impostazione heideggeriana dell’umanismo come metafisica dell’ente uomo Grassi – a sua volta con categorie ermeneutiche mutuate dal maestro – individua un’anti-metafisica nelle riflessioni retoriche degli umanisti. In questo percorso di riabilitazione del pensiero retorico231 latino Vico risulta essere una tappa fondamentale. Leggiamo in Heidegger e il problema dell’umanesimo che “il problema della verità logica [...] deve essere sostituito dal problema molto più originario del disvelamento, dal problema della schiarita (aletheia) nella quale primariamente appare ciò che è, l’essente. Ciò assegna un nuovo compito alla filosofia: quello di sostenere il primato e l’originarietà del linguaggio poetico rispetto al linguaggio razionale; rammentiamo a questo proposito la spiegazione heideggeriana della Lichtung. La tesi di Heidegger ci riporta a quel pensatore del XVIII secolo con il quale la tradizione umanistica raggiunge la sua più profonda espressione e significanza filosofica: Giambattista Vico”232. In Potenza della fantasia. Per una storia del pensiero occidentale, la questione dell’apparire, della fantasia, del lavoro e della Lichtung è esplicitamente connessa con la figura dell’“ultimo umanista”: Vico. Grassi pone il seguente problema: “quando, come e dove compare per Vico l’esistenza umana come una nuova realtà rispetto alla natura biologica e vegetativa?”233. La risposta è individuata nella Lichtung. Il divenire uomo dell’uomo (e la conseguente comparsa del mondo, del cosmo dal caos originario) è un processo che parte dalla originaria estraneazione dell’uomo, intesa da Grassi come “angoscia originaria dello smarrirsi nella foresta primordiale”234 e, passando per le varie tappe storiche dello sviluppo antropologico, approda all’istituzione della comunità umana mediante la parola. Questa più che configurarsi come rispecchiamento dell’ente – in tal caso saremmo di fronte ad una teoria adeguativa della verità e del linguaggio ad essa connesso !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 230 Cfr., L. Amoroso, Vico, Heidegger e la metafisica, pp. 447-470, in AA. VV., Scritti in memoria di Ernesto Grassi, cit.; Id., Lichtung: leggere Heidegger, it.; J. M. Sevilla, Prolegòmenos para una crìtica de la razòn problemàtica. Motivos en Vico y Ortega, cit., pp. 146-173. 231 Cfr., Espillaque, op., cit. 232 Grassi, Heidegger e il problema dell’umanesimo, cit., p. 35. 233 E. Grassi, Potenza della fantasia. Per una storia del pensiero occidentale, cit., p. 251. 234 Ivi, p. 253.  ! 83!  – assurge ad atto istitutivo del reale, del mondo umano, mostrando una virtù onto-poietica. “Nella libera decisione di far luce nella foresta primordiale per fondare il primo luogo umano”235 Grassi rintraccia l’autentica caratura onto-antropo-logica del discorso vichiano. Infatti per Grassi la Scienza Nuova vichiana delinea il problema del disvelamento in cui appare l’uomo e il suo mondo e solo secondariamente affronta la questione della storicità e dell’antropologia. Soffermiamoci sul confronto tra la dottrina heideggeriana della Lichtung e la teoria vichiana delle luci. Nella Scienza Nuova appare la problematica principale del filosofo napoletano: quella del disvelamento del modo in cui sorgono l’uomo e il suo mondo attraverso l’interrelazione della parola poetica con lo spazio storico che tramite l’atto linguistico stesso si istituisce. L’affermazione grassiana fa perno sul passo vichiano della Scienza nuova in cui la teoria pre-heideggeriana della Lichtung comparirebbe. In Vico e l’umanesimo il tema della Lichtung è correlato a quello vichiano della “schiarita della foresta primordiale”236. Mettere insieme Vico e Heidegger segnatamente al tema della Lichtung è per Grassi un’operazione che ha come esito un esame della metafisica in generale e non solo di una metafora, per quanto importante, della filosofia occidentale. Si tratta di un aspetto di non secondaria importanza. Il gioco delle analogie tra Vico e Heidegger che possiamo ricostruire – come di fatto è stato ricostruito magistralmente da Amoroso237 –, per quanto interessante, rischia di rimanere molto generico se non calato in un orizzonte teorico più ampio che fa interagire i due autori sul terreno della metafisica. Conscio della grande distanza che corre tra il tentativo vichiano di una riforma della metafisica e di quello heideggeriano di un suo superamento, ma nondimeno consapevole della contrapposizione di entrambi alla “barbarie della riflessione” e ai trionfi della ratio, Grassi pone l’accento sul tema della Lichtung quale terreno di confronto tra due autori che alla ritematizzazione di un rapporto autentico-essere-uomo-linguaggio hanno dedicato gran parte delle proprie opere. La metafora che !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 235 Ivi, p. 251. 236 Id., Vico e l’umanesimo, cit., p. 127. 237 Cfr., L. Amoroso, Vico, Heidegger e la metafisica, pp. 447-470, in AA. VV., Studi in memoria di E. Grassi, parzialmente modificato in Id., Nastri vichiani, ETS, Pisa 1997, pp. 99-122.  ! 84!  Grassi eredita dal maestro degli anni mitici di Friburgo, come abbiamo visto, declina la dimensione della luce con quella dell’oscurità e la stessa coappartenenza viene rintracciata in Vico. Ovviamente la metafisica della luce, che è a fondamento della scienza nuova, va intesa nel senso di un neoplatonismo cristianizzato. Nella metafisica del suo De Antiquissima Italorum sapientia Vico afferma che la chiarezza del vero è come quella della luce. Qui la luce vale come metafora della verità metafisica di Dio e delle sue idee, le forme che l’uomo può vedere solo nel contrasto. “Il vero metafisico è sommamente luminoso, non è racchiuso da alcun limite, e pertanto non lo si discerne con nessuna forma: e ciò perché è il principio infinito di tutte le forme, mentre le cose fisiche, opache, cioè formate e finite, son quelle in cui vediamo la luce del vero metafisico”238. L’alternanza di luminosità e opacità va quindi letta nel senso di un neoplatonismo cristianizzato e non come l’esempio di quell’impensato della tradizione occidentale contraddistinta da quell’oblio dell’essere di sapore heideggeriano. Perché dunque Grassi mette insieme Vico e Heidegger – che avrebbe definito Vico un appartenente alla costituzione onto-teo-logica della metafisica – su un tema che sembra segnare, invece, una distanza tra loro? La risposta è nel linguaggio poetico. Per entrambi gli autori – l’uno attento alla Provvidenza; l’altro al Geschick, quel destino che genera la storia, la Geschichte; l’uno sensibile al ruolo fondativo della poesia; l’altro alla valutazione del linguaggio poetico quale casa dell’essere – è significativo il tema della intima co-appartenenza di luce e oscurità nella analisi della genealogia del mondo umano. Secondo Grassi “l’unico pensatore che [...] avrebbe potuto aprire la comprensione per il pensiero di Vico sarebbe stato Heidegger”239 poiché la Lichtung heideggeriana è molto affine al tema del lucus vichiano. Entrambe le nozioni rientrano in un pensiero dell’origine storica del mondo dell’uomo che ha natura innanzitutto linguistica e poetica. Come leggiamo nella Scienza Nuova “le prime città, quali tutte si fondarono in campi !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 238 G. B. Vico, p. 84, La metafisica del 1710, Introduzione, trad. commento di A. Corsano, Adriatica Editrice Bari 1966. Si tenga conto della funzione del raggio di luce della Dipintura che dall’occhio divino discende sulla figura femminile della metafisica e si rifrange su Omero, simbolo della poesia e della scoperta dei caratteri poetici, della sapienza poetica, la vera chiave maestra per intendere la nuova scienza quella antropologia delle origini del mondo umano e civile. Cfr., L. Amoroso, Vico, Heidegger e la metafisica cit., p. 115. 239 Grassi, Vico e l’umanesimo, p. 194.  ! 85!  colti, sursero con lo stare le famiglie lunga età ben ritirate e nascoste tra’ sagri orrori de’ boschi religiosi, i quali si truovano appo tutte le nazioni gentili antiche e, conl’idea comune a tutte, si dissero dalle genti latine “luci”, ch’erano “terre bruciate dentro il chiuso de’ boschi”240. Mosso dal convincimento di tale sorprendente convergenza di temi Grassi sottolinea come la dimensione di apertura del lucus vichiano analoga a quella della Lichtung heideggeriana mette in questione il tema dell’origine della storia, del linguaggio, della poesia e del sacro. Il Vico di Grassi, antropologo delle origini, avrebbe attribuito una centralità a quella dimensione linguistica, che oggi è divenuta quasi un luogo comune241. La ricerca antropologica che si diparte dalla analisi del contesto originario – la Lichtung/lucus – coinvolge la trattazione delle problematiche linguistiche che in Heidegger si modulano come riflessione sulla poesia e sull’etimologia e in Vico come etnologia e filologia. La poesia vichiana secondo Grassi è una mitopoiesi spontanea, nasce come risposta da parte dei primi uomini allo stato di necessità in cui si trovano e con essa assistiamo alla genesi del linguaggio, del mito, della religione, del diritto e della storia. La questione della Lichtung accomuna non solo Vico e Heidegger242, ma diversi umanisti che si sono interessati alla questione della radura, del contesto originario all’interno della disamina del valore della parola poetica. Se la questione della Lichtung aperta da Heidegger rimanda al problema dell’individuazione e dell’espressione del contesto primordiale e del fenomeno originario dell’antropo-poiesi allora la suggestione grassiana circa la possibilità di retrodatare la problematica della Lichtung all’epoca umanistica non sembra tanto peregrina. Secondo Grassi con Vico abbiamo un distacco dalla metafisica tradizionale razionalistica e la Scienza Nuova viene a costituire non una nuova teoria della storia o una scienza antropologica tout court ma la scienza “del disvelamento originario nel quale appare l’uomo”243. Chi volesse interpretare !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 240 G. B. Vico, La Scienza Nuova, a cura di M. Sanna-V. Vitiello, Bompiani, Milano 2012, p. 795. 241 J. Trabant, La scienza nuova dei segni antichi. La sematologia in Vico, Laterza, Roma-Bari 1996. 242 E. Grassi, Vico e l’umanesimo, cit., pp. 115-117. 243 Ibidem.  ! 86!  il pensiero del napoletano come un’antropologia o una riflessione sulla storia sbaglierebbe poiché “il problema di Vico è quello del campo in cui l’uomo appare”244. La questione del contesto originario si declina in Vico come ricerca arcaica del “disvelamento della foresta primordiale” che altro non è che il problema del fondamento del mondo umano, identificato nei principi “universali ed eterni” che soggiacciono al divenire della storia. Nel passo vichiano prima ricordato il filosofo milanese individua numerosi punti di contatto con la teoria heideggeriana della Lichtung: l’utilizzo del termine luce; la spaesatezza e l’angoscia originaria dell’uomo primitivo; l’atto pratico di umanizzazione della natura. In questo “atto di disboscamento” viene collocato il punto di origine dell’umano e la fine del “divagamento ferino dentro la gran selva di questa terra”245. Il passaggio dal ferino all’umano, la transizione dall’uomo all’animale, mette in moto una potenza straordinaria che viene interiorizzata dalle menti primitive – i bestioni – che in tal modo umanizzati si avviano verso un percorso faticoso che va dalla barbarie agli ordini civili. Il significato della luce vichiana è infatti innanzitutto civile, politico e comunitario. Come sottolinea Carillo “il lucus diventa in Vico il primo locus, il primo luogo sottratto all’indeterminatezza dello spazio originario”246. Del termine vichiano luce Grassi mette in rilievo soprattutto la valenza di interruzione nella frequenza della selva. Come possiamo leggere in Vico, Marx e Heidegger (1983) “nel terrore che coglie l’uomo, nell’esperienza della sua alienazione dalla natura, questi crea e fonda il primo luogo umano nella storicità, il regno della fantasia e dell’ingegno”247. Nel bosco primordiale – in cui si fa esperienza dell’alterità della natura – l’uomo crea il luogo della storicità. Appare il tema del disvelamento e del disoccultamento come punto di partenza per una !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 244 Id., Vico, Marx e Heidegger, in Id., Vico e l’umanesimo, cit., p. 182. 245 G. B. Vico, La Scienza Nuova, cit., p. 793. 246 G. Carillo, Vico. Origine e genealogia dell’ordine, Editoriale scientifica, 2000, p. 284. 247 E. Grassi, Vico, Marx e Heidegger, pp. 173-191, in Id., Vico e l’umanesimo, cit., p. 181.  ! 87!  ricerca dell’umanità delle origini che non ha solo il significato di indagine archeologica-filologica ma il senso di una ricerca fenomenologica sui presupposti del pensiero e sulla possibilità di uscire dalla metafisica. Il nesso Vico-Heidegger tematizzato da Grassi pone in luce che il concetto heideggeriano della schiarita, dell’apertura originale in cui gli esseri appaiono “coincideva con quello di Vico nella Scienza Nuova, in cui appare sorprendentemente il termine luce, come apertura nella foresta (schiarita nel bosco), il solo campo in cui gli esseri, la città, il tempio e l’uomo nella sua umanità, possono apparire”248. Proprio il riferimento al tema dell’apparire e del disvelamento mostrano la valenza fenomenologica dell’ipotesi interpretativa grassiana: il tema della Lichtung non è altro che la metafora pretesto per dare avvio ad un’indagine sulle forme del rivelarsi e dell’apparire della realtà. Al problema del reale, dell’apparire e della manifestatività, su cui ci soffermeremo nel prossimo capitolo, egli dedica il già citato Dell’apparire e dell’essere del 1933 in cui la manifestatività si costituisce non nella modalità della pura apparenza negativa, ma come luogo in cui l’uomo è colpito dal reale, ne risulta affetto, ne patisce la presenza non in una condizione di pura passività, bensì nell’ambito della sua capacità di progettazione e umanizzazione. L’originario pensiero vichiano del lucus diviene per Grassi un pensiero epocale poiché “la tesi fondamentale di Vico è che la metafisica non deve partire né da principi razionali né dal problema degli enti ma dalla parola che svela la storicità umana”249. L’epocalità della sua filosofia risiede nel suo carattere anti-razionalistico e fenomenologico. Il filosofo milanese afferma in G. B. Vico filosofo epocale che “la sua opera – quella di Vico – è una vera fenomenologia, una descrizione di come a poco a poco appaia (phainesthai) il reale umano”250. Pur non analizzando le numerose sfaccettature del termine lucus in Vico – luce civile; senso teologico del termine; nesso lux-lucus (luce/oscurità); lucus-delucare; Latium/latere251 – Grassi si !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 248 Ivi, p. 177. 249 Id., G. B. Vico filosofo epocale, pp. 193-211, in Id., Vico e l’umanesimo, cit., pp. 194-195. 250 Ivi, p. 195. 251 Molto interessante risulta la ricostruzione etimologica di Latium da litibula. Leggiamo in De Constantia philologiae “donde il nome Latium (Latium unde dictum)? I Romani custodirono queste altre vestigia di una siffatta antichità. Dai ! 88!   sofferma sul senso ontologico-trascendentale del termine vichiano coniugando in maniera originale i temi heideggeriani e vichiani in una prospettiva che vuole essere l’occasione per un ripensamento della filosofia che riconosce la propria matrice fantastica, ingegnosa, mitica, poetica. Si tratta di un pensiero che passa “dalla metafisica degli enti a quella dell’agire, della prassi umana”252: per Grassi occorre partire dalla tematizzazione delle necessitates come fonti naturali dei mondi umani. Egli definisce l’ingegno – che non esclude mai il processo razionale – come teoria che “scopre ora e qui similitudini, connessioni, apre la premessa per un processo razionale, che deduce dalla scoperta inventiva le conseguenze e quindi costruisce un mondo”253. L’ingenium è allora l’originaria capacità di vedere il simile ed è la prima risposta a quelle necessità naturali alle quali l’uomo deve far fronte nel faticoso percorso di sopravvivenza e di civilizzazione. L’ingegno può essere comparato per la sua struttura dinamica e multifunzionale a quel processo che gli attuali studi sull’apprendimento !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! celati accoppiamenti degli eroi, per cui essi andavano in cerca di nascondigli (latibula) che offrivano i boschi venne la parola Lazio: perché di lì ebbe la sua prima origine quella gente”, G. B. Vico, Il diritto universale, in Opere giuridiche, introd. Di N. Badaloni, a cura di P. Cristofolini, Sansoni, Firenze 1974, p. 524. Un’altra connessione degna di nota è quella tra il termine lucus e l’occhio di Polifemo. Leggiamo in Dissertazioni che i giganti come Polifemo che “abitavano in spelonche sulle montagne [...] avevano un occhio solo. Ciò fu inventato da lucus. Infatti per osservare nei boschi da qualche parte il cielo al fine di prendere auspici, in qualche parte essi diedero la luce ai boschi e così è vero quello che insegnano i filologi che lucus è detto del luogo in cui non c’è luce; e tuttavia lucus fu chiamato così da lux, ossia da quella parte dove c’era la luce”, G. B. Vico, Dissertazioni, in Id., Opere giuridiche, cit., p. 830. Per ulteriori approfondimenti sui diversi significati etimologici del termine vichiano rimando a Gennaro Carillo in Vico. Origine e genealogia dell’ordine, cit., p. 284 e sgg. L’autore sottolinea come in relazione al termine lucus “la valenza privilegiata è quella di bosco sacro. Tuttavia in Vico questa valenza presuppone un lungo percorso disseminato, al solito, di suggestioni etimologizzanti. Esito di lucere, emettere luce, o di lucesco, venire alla luce, sorgere, il lucus vichiano è definibile come un’interruzione nella frequenza della selva. Aprire un lucus equivale ad aprire una falla, uno slargo, in un viluppo fittissimo che preclude la vista del cielo. É evidente il senso teologico-civile di questo diradare la selva per poter contemplare, attraverso uno spiraglio, il cielo onde interpretare i segni divini, ossia trarne gli auspici. In questo modo il lucus diventa in Vico il primo locus, il primo luogo sottratto all’indeterminatezza dello spazio originario [...] nel De Costantia philologiae il nesso tra lucus e lucere sortisce anche un effetto semantico opposto, denotando assenza di chiarore e visibilità [...] In quest’accezione in cui la derivazione di lucus dalla luce si ottiene per antifrasi la sacertà del bosco sacro deriva dal suo essere nascosto [...] di qui la possibilità di ricondurre il nome Latium alla latenza offerta dai boschi sacri ai primi abitatori della regione [...] nelle Dissertationes il lucus si combina alla descrizione dei Ciclopi omerici [...] l’occhio dei Ciclopi non è che la trasfigurazione poetica del delucare lucos, del far luce nel bosco diradandolo”. 252 Id., G. B. Vico filosofo epocale, cit., p. 204. 253 Ivi, p. 203.  ! 89!  definiscono come problem solving254: si parte da una condizione inizialmente critica: il problema, la necessitas; si approntano strategie di risoluzione: la risposta alle necessitates; si elabora un pensiero creativo che scalza la rigidità degli schemi cognitivi classici e mette in moto la creatività: fantasia/ingegno come facoltà intuitive e ricettive ma allo stesso tempo attive e creative. L’ingegno – altrove inteso da Grassi nella sua identità con il nous aristotelico255 – ha come suo primo prodotto il mito che, come vedremo nell’ultimo capitolo, “costituisce di volta in volta la storicità delle varie epoche”256. Il mito nel suo carattere sacrale e esemplare, come universale in funzione del quale “si determina il particolare sotto l’urgenza che segna il tempo”257, non è inteso solo come praxeos mimesis – racconto mitologico – ma come origine di un ordine linguistico che non ha natura razionale: si tratta del linguaggio fantastico che si condensa nella metafora. La struttura topica dell’ingenium, vichianamente concepito come arte “d’inventare, di trovare, di invenire”258, produce il mito e allo stesso tempo quella “locuzione poetica che nasce da necessità di natura”. Grassi sostiene che “se la poesia come attività ingegnosa è originaria forma per adeguare le necessità naturali scoprendo similitudini, è essa che trasforma il reale”259. Emerge da questo passo la vis plastica del logos che per Grassi non è astorico, razionale, ma sempre attento alle circumstantiae storiche. Allora si comprende come tale logos include al suo interno tutta una serie di elementi che non hanno mai trovato spazio all’interno della filosofia. Come possiamo leggere in La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale: “suoni, segni, atteggiamenti indicativi, semantici, anche il tacere, acquistano !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 254 Per un’analisi del problem solving cfr. il classico G. Polya, Come risolvere i problemi di matematica. Logica ed euristica nel metodo matematico, Feltrinelli, 1983. 255 Cfr., Significare arcaico, cit. 256 Id., G. B. Vico filosofo epocale, cit., p. 199. 257 Ibidem. 258 Ivi, p. 203. 259 Ivi, p. 206. Il corsivo è nostro.  ! 90!  significato esclusivamente nell’originario ambito dell’abissale che ci riguarda: fuori dell’appello tutto è silenzioso, indeterminato, oscuro come nella selva senza schiarita, senza radura, senza il palcoscenico per la storia”260. Solo attraverso la prassi – sia essa linguistico-metaforica; mitico- politica; pratico-poietica – sorge il mondo, l’Umwelt diviene Welt e si compie quella Menschwerdung faticosa e incidentata che dall’indeterminato della ingens sylva trae fuori spazi e tempi di determinazione. II. VIII- L’essere dalla Gelassenheit all’Arbeit Proprio lo slittamento dalla passività all’attività insita nell’esperienza umana dell’essere e del contesto originario – la Lichtung – spinge Grassi a definire tale apprensione del reale non nei termini di una Gelassenheit dal sapore heideggeriano, di un abbandono agli “invii dell’essere”, ma in termini di Arbeit, di lavoro – come “mediazione specifica dell’umano dotata di scopo” – e fondazione etico- politica della comunità sociale261. All’atto linguistico per eccellenza – la prassi metaforica – corrisponde dal punto di vista pratico l’atto pratico dell’umanizzazione del reale che si realizza nel lavoro. Il doppio significato di lavoro (come prassi e come fondazione politica) mette in luce il processo di umanizzazione del reale attraverso la prassi lavorativa che si riversa anche nella istituzione del linguaggio. Per il filosofo l’uomo dispiega la sua essenza nella formazione (Bildung), nelle risposte “umane, troppo umane” alle urgenze patite del reale e di un’oggettività individualmente esperita: conseguentemente l’affectio non viene espulsa dal logos ma si immette nel processo del leghein. Egli affronta il tema dell’Arbeit nel suo significato politico e poietico in maniera esplicita confrontando le figure di Vico e Marx. La connessione tra Vico e Marx si profila come analisi comparativa dei concetti di Arbeit e Phantasie. Si chiede Grassi se le pratiche umanistiche di opposizione alla filosofia !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 260 Id., La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale, cit., p. 197. 261 Cfr., S. Limongelli, Il problema dell’umano nella filosofia di Ernesto Grassi, cit., pp. 278-281; G. Petrovic, Marx, lavoro e abbandono. Lettera a Ernesto Grassi, pp. 127-157, in AA. VV, Studi in memoria di Ernesto Grassi, cit. ! 91!   aprioristica scolastica – con la conseguente attenzione alla giurisprudenza, alla grammatica e alla retorica – possano essere in definitiva considerate valide e concrete o ricadano dell’astrattismo medievale: “Tutti questi canoni, che gli umanisti oppongono alla filosofia aprioristica della scolastica, soddisfano realmente la loro pretesa di essere concreti? Qui è pertinente l’obiezione del marxismo. La sorgente originaria del divenire umano si trova nella trasformazione originaria, e perciò, nella umanizzazione della natura mediante il lavoro. La giurisprudenza, il linguaggio, la retorica, sono concrete solo in quanto manifestazioni della storia di classe [...] la storia del lavoro è la storia dell’evoluzione dell’uomo”262. Grassi analizza dettagliatamente l’idea del lavoro in Marx, esposta sia nel Capitale sia nei Manoscritti economico-filosofici, sottolineando quattro aspetti importanti del lavoro: 1-) il lavoro umano è distinto da quello degli animali poiché è espressione di una volontà intenzionale e spezza la relazione di immediatezza che secondo Marx l’animale ha rispetto al mondo circostante: “la sua relazione con ciò che produce è immediata”263. Per Marx “l’animale fa immediatamente uno con la sua attività vitale, non si distingue da essa, è essa stessa”264. 2-) La seconda definizione del lavoro “consiste nel riconoscere che esso rappresenta il superamento dell’immediatezza, attraverso l’attività creativa. Il processo del lavoro è un passaggio da ciò che esiste ancora, ed è solo possibile, a ciò che diviene realtà [...] il lavoro come processo di metabolismo significa l’appropriazione della natura a favore dell’uomo”265. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 262 E. Grassi, Marxismo, Umanesimo e problema della fantasia nelle opere di Vico, pp. 69-94, in Vico e l’umanesimo, cit., p. 83. 263 ivi p. 84. 264 K. Marx-F- Engels, Opere, Editori Riuniti, Roma 1976, Vol. III, p. 303 265 E. Grassi, Vico e l’umanesimo, cit., p. 84.  ! 92!  3-) Il lavoro è possibile solo se l’uomo è concepito come essere libero: “il lavoro può esistere solo a condizione che l’uomo sia libero. Bisogna intendere la libertà [...] come la facoltà di trasformare la natura in nuovi sistemi di interrelazione non prefissati per l’uomo”266. 4-) Il lavoro ha una funzione sociale. Secondo Grassi l’importanza del lavoro come fattore di umanizzazione e di distanziamento dall’orizzonte dell’animalità è rintracciabile anche negli umanisti – come l’attenzione agli ambiti della giurisprudenza, della filologia e della retorica testimoniano – e in Vico, il cui problema della storia altro non è che il problema del lavoro e della fantasia. Per il filosofo italiano “il problema che ora sorge è: che cosa Vico considera come la concreta radice del divenire umano? La risposta indica due fattori principali e tra loro correlati: il lavoro e la fantasia”267. Il pensatore milanese analizza le figure di Ercole e Cadmo, entrambi simbolo della fondazione della società umana, ricordate da Vico nella Scienza Nuova, e la triplice funzione della fantasia: nella fantasia l’uomo “sperimenta la propria libertà ed esce dal chiuso mondo della foresta naturale”268; attraverso la fantasia l’uomo argina la paura e il terrore dell’Aperto e “procede a costruirsi il proprio ordine, o un adattamento della natura”269 (infatti per il filosofo la fantasia crea le prime analogie tra i fenomeni, e produce le prime connessioni e definizioni); l’ultima funzione della fantasia è quella di dare un significato al lavoro. La costituzione trivalente della fantasia consente di concepire l’affinità e la distanza tra la critica di Marx all’apriorismo della filosofia e la critica umanistica all’astrattismo medievale: da un lato emerge una convergenza degli intenti decostruttivi di entrambi gli approcci, dall’altro Grassi sottolinea come una teoria del lavoro priva di una teorizzazione antropologica e filosofica dell’umano !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 266 ivi, p. 85 267 ivi, p. 86 268 ivi, p. 89 269 Ibidem.  ! 93!  sia concettualmente monca e praticamente inutilizzabile. Afferma Grassi che “Marx considera il lavoro – come il superamento dell’immediato impatto con la natura, come l’adattamento di essa – l’origine della storia. Se però, tale adattamento nell’interesse dell’uomo differisce da quello degli animali per il fatto che l’animale lavora solo per il proprio nutrimento e la conservazione della specie, e in accordo con i suoi modelli congeniti, allora il problema circa il significato dell’adattamento della natura da parte dell’uomo non può essere risolto col dire semplicemente che l’uomo è un essere che media e accomoda, né col riferimento alla sua attività lavorativa, ma solo chiarendo e definendo lo scopo specifico di questa mediazione. A meno che non ammettiamo l’urgenza di questo problema, ci troviamo ridotti a dire che l’animale è un essere molto più alto dell’uomo”270. In quest’ultimo passo Grassi esprime l’idea secondo la quale se è vero che il lavoro è il primo atto di umanizzazione ciò è possibile nella misura in cui non si riduca il lavoro a semplice atto di mediazione – il metabolismo della natura, il lavoro come fatica, ponos – ma lo si consideri come atto di mediazione guidato da scopi – il lavoro come ergon, opera. Nel concetto di lavoro più che della prassi lavorativa occorre tenere conto del telos che la sorregge: qui si inserisce il discrimine tra uomo e animale. Secondo il filosofo il lavoro, inteso come adattamento della natura, è solo un mezzo in vista di uno scopo, la realizzazione umana del mondo in cui la fantasia rivela il suo ruolo fondativo rispetto al lavoro stesso: solo grazie alla facoltà di visione delle somiglianze è possibile trasformare ed umanizzare la natura implementando ordini di realtà e progettando mondi dotati di senso. L’intima coappartenenze della componente tecnica (lavoro come fatica) e di quella fondativa-civile (lavoro come opera) risulta decisiva nella concezione grassiana del labor tutta gravitante attorno al tema della produzione del mondo storico sociale e dell’umanizzazione della natura: l’uomo, con il suo ingenium e la sua phantasia “per mezzo del labor – lavoro e fatica – determina il reale nel suo significato !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 270 Ivi, p. 93.  ! 94!  umano facendolo assurgere ad opera; solo in tal modo il reale diventa storico, si umanizza quale opera dell’ingegno”271. Se, da un lato, allora, il presentarsi della manifestatività rende affetto l’uomo, e, colpendolo, ne rivela la componente di passività, il suo essere soggetto-a, tale che l’uomo non può non patire, non può sottrarsi, dall’altro, l’uomo è quell’ente capace di rispondere, di offrire una risposta attiva mediante il lavoro. Per Grassi infatti ciò che ci circonda, l’oggettivo, la natura, l’essere “appare solo nei limiti da noi progettati – e tuttavia – è altrettanto vero che non dipende da noi come essa appare: essa ha una propria oggettività. La constatazione di questa oggettività [...] è la risposta che la natura dà entro i nostri diastema”272. Entro i limiti della nostra progettazione, del nostro lavoro, della nostra opera – che per Grassi non è un’operazione soggettivistica e arbitraria, ma rispondente alle circum-stantiae di volta in volta mutevoli, alle necessitates nelle quali è già da sempre immerso l’uomo – significa entro i limiti dell’orizzonte della fantasia quale attività ordinatrice della materia primordiale che per Grassi “ci impedisce di trovare una qualsiasi unità; essa è materia della facoltà ordinatrice del pensiero”273. Il tema della determinazione concreta del reale risulta strettamente intrecciata a quello del lavoro umano nel suo significato ontologico trascendentale e a quello della fantasia come “attività originaria che scopre le relazioni sulla base della visione delle somiglianze”274 e non come “attività che ci presenta qualcosa di irreale”275, come “rappresentazione dell’irreale, come pura facoltà della finzione, !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 271 E. Grassi, Politica e religione. La riscoperta della tradizione latina, pp. 33-43, in “Archivio di filosofia”, Padova 1978, p. 43. Le riflessioni grassiane sul lavoro mostrano molti punti di contatto con la distinzione arendtiana tra lavoro come ergon e come ponos presente in Vita activa. 272 Id., L’uomo e l’esperienza dell’oggettività, Discorso letto alla seduta inaugurale del Congresso per il IV Centenario della fondazione dell’Università di Lima, in “Archivio di filosofia”, 1952, p. 68. 273Id., Dell’apparire e dell’essere, cit., p. 279. In relazione all’attività ordinatrice della selva originaria Grassi in questo saggio parla di un’attività fantastica in modo duplice: sia come facoltà sensibile – il significato secondario – sia come attività del lasciar apparire – significato ontologico-primario in cui si dà la coapparteneza di aisthesis e leghein. 274 Id., Potenza della fantasia, cit., p. 190. 275 Ivi, p. 276.  ! 95!  come capacità di mostrare qualcosa di fantastico”276. In questo caso essa è una ritenzione semplice che si fonda su una dimensione conservativa e combinatoria delle immagini, senza avere come punto di riferimento il referente reale delle immagini, ma la libertà e l’arbitrio soggettivo277. La fantasia ontologicamente intesa, base del linguaggio poetico, insieme al lavoro è capace di istituire il mondo storico. Per Grassi “la trasformazione della natura, che l’uomo realizza con lo scopo di liberarsi dai propri bisogni, nasce dunque dall’attività fantastica ingegnosa”278 che, insieme al senso comune, si ritrova nella teoria vichiana del lavoro. Il filosofo asserisce in La priorità del senso comune e della fantasia: l’importanza filosofica di Vico oggi che “il senso comune, secondo la definizione vichiana, ha lo scopo di fornire all’uomo ciò che gli è utile e di cui ha bisogno”279 e prosegue chiedendosi “se e come l’ingegno e la fantasia contribuiscano al senso comune e quale relazione esista fra di loro”280 visto che per Vico sono a fondamento dell’emergere del mondo umano e dei suoi bisogni. L’atto di risposta umana ai bisogni originari è il lavoro, catalizzatore del processo di civilizzazione come le fatiche di Ercole ricordate nella Scienza Nuova esemplifica. “Le fatiche di Ercole presuppongono una interpretazione della natura come essa fu prima della sua umanizzazione, cioè come realtà asservibile all’uomo e presuppongono anche una visione del successo ottenibile con tale agire. Il lavoro quindi dev’essere concepito come la funzione di conferire un significato e di far uso del medesimo, mai come un’attività puramente meccanica o una trasformazione puramente tecnica della natura, estranea al contesto generale delle funzioni umane”281. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 276 Ivi, p. 191. 277 Cfr., M. Ferraris, L’immaginazione, Il Mulino, Bologna 1996. 278 E. Grassi, Potenza della fantasia, cit., p. 241. 279 La priorità del senso comune e della fantasia: l’importanza filosofica di Vico oggi, pubblicato in Vico and Contemporary Thought, Humanities Oress, New Jersey 1976, ora in Vico e l’umanesimo, cit., p. 51. 280 Ibidem. 281 Ivi, pp. 51-52.  ! 96!  Il labor appare strutturato metaforicamente poiché è un atto di trasposizione di significato al mondo circostante, la “funzione mediante cui i bisogni umani vengono soddisfatti”282. La struttura metaforica operante all’interno del linguaggio poetico secondo Grassi soggiace anche nel lavoro nel quale si intrecciano il sensus communis – che non “consiste, quindi, in un modo di pensare popolare o comune”283 – l’ingenium e la phantasia. La connotazione storico- esistenziale284, più che etica o politica, del lavoro emerge laddove si presta attenzione al labor come risposta ad un bisogno di decifrazione della situazione umana e delle sue strutture di esistenza. Secondo l’interpretazione del filosofo occorre ricostruire una storia pre-marxiana del lavoro attraversando le tappe della filosofia umanistica. Si chiede il pensatore: “è possibile trovare nell’umanesimo italiano una teoria del lavoro come fonte della storia, una teoria del lavoro che simultaneamente comprenda l’importanza filosofica della giurisprudenza, della filologia e della retorica?”285. Proprio questa apertura disciplinare che contraddistingue la teoria del lavoro umanista costituisce per Grassi la dimostrazione che “il problema concernente il significato del lavoro comporta una rinnovata giustificazione della filosofia”, che in qualità di meditatio de homini dignitate non può essere ridotta a “semplice sovrastruttura di una temporanea e storica struttura sociale”286. Volendo trarre una prima conclusione dalle osservazioni precedenti si può asserire che nella prospettiva onto- antropo-logica di Grassi assume un ruolo centrale la relazione fondante dell’Arbeit/labor nella lettura comparativa di Vico e Marx. Vico, Marx e gli umanisti – ai quali si aggiungerà Heidegger qualche !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 282 Ivi, p. 51. 283 Ivi, p. 52. 284 Parla di connotazione etica del lavoro in Grassi S. Limongelli in Il problema dell’umano, cit., p. 277 e sgg. 285 Marxismo, umanesimo e problema della fantasia nelle opere di Vico, pubblicato originariamente in Giambattista Vico’s Science of Humanity, the John Hopkins University Press, Baltimore (Maryland) 1976, ora in Vico e l’umanesimo, cit., p. 85. 286 Ivi, p. 93.  ! 97!  anno dopo287 – concordano nella critica alla filosofia a priori e al pensiero teoretico contemplativo: il problema vero della filosofia è quello “delle origini del divenire umano e, conseguentemente, della sua realtà storica”288. La critica all’impostazione metafisica del pensiero operata da Marx tuttavia per il filosofo non riesce a superare lo schema del pensiero tradizionale. Leggiamo in Vico, Marx e Heidegger che “il rovesciamento della filosofia, che Marx riteneva di aver compiuto con la sua critica di Hegel, non supera lo schema del pensiero tradizionale [...], la sfera di un antropologismo”289. Pur ritenendo fondamentale la teoria dell’alienazione – che “indica l’assenza di radici dell’uomo occidentale”290 – per delineare una via di accesso autentica all’umano Grassi – sulla scia di Heidegger –considera poco sostenibile l’identificazione di umanità e socialità operata da Marx291. Tale identificazione avrebbe come conseguenza la “riduzione del materialismo a pensiero della tecnica”292. E sappiamo che Grassi accoglie la lezione heideggeriana per la quale la tecnica è estrema propaggine della metafisica. Ma occorre andare oltre la “barbarie della riflessione” e qui interviene Vico che di volta in volta supera, secondo Grassi, i limiti delle prospettive toriche degli autori – in questo caso Marx e Heidegger – in una sintesi filosofica che coniuga giurisprudenza, poesia e retorica con le tematiche del lavoro e della Lichtung. Asserisce il filosofo milanese che “il lavoro per Vico è un adattamento dell’impatto diretto e immediato con la natura, un adattamento mediante il quale l’uomo esce dalla natura; e qui egli sceglie le figure di Ercole e Cadmo come simboli di essa”293. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 287 Cfr., Id., Vico, Marx e Heidegger, apparso in origine in Vico and Marx. Affinities and contrasts, Humanities Press, Atlantic Highlands (New Jersey) 1983, ora in Vico e l’umanesimo, cit., pp. 173-191. 288 Id., Marxismo, umanesimo e problema della fantasia nelle opere di Vico, cit., p. 92. 289 Id., Vico, Marx e Heidegger, cit., p. 190. 290 Ivi, p. 189. 291 Ivi, p. 190. 292 Ibidem. 293 Id., Marxismo, umanesimo e problema della fantasia nelle opere di Vico, cit., p. 86.  ! 98!  L’uso vichiano dell’universale fantastico294 di Ercole – vera e propria tipologia poetico-simbolica utilizzata ai fini della comprensione delle origini mitiche della storia dell’umanità –, o meglio degli Ercoli295, è finalizzato alla rappresentazione della faticosa impresa umana della costruzione della società il cui mito, narrato nella Scienza nuova, non appare a Grassi come una concessione al gusto antiquario della ricostruzione erudita dell’antichità ma come il simbolo “dell’assoggettamento della natura [...] che porta all’autoaffermazione dell’uomo”296. Secondo Grassi “Vico costruisce la sua teoria dei generi e degli universali fantastici non mediante l’astrazione, ma creando, secondo i suoi termini, i ritratti ideali, i caratteri esemplari [...] così il concetto fantastico cristallizza un essere attraverso un atto dell’ingegno con una visione diretta di una totalità pittorica. Esso rappresenta una figura contemporaneamente esemplare e allegorica”297. Tale logica della fantasia fondata sui generi universali e fantastici assume il ruolo di primo coordinamento delle idee che ha carattere arcaico, poiché è fondante rispetto alla razionalità, e immediato, indicativo, semantico. Sullo sfondo degli universali fantastici si staglia la figura di Ercole che ha non solo il ruolo di carattere poetico ma quello di fondatore della comunità storica dell’uomo. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 294 Come osserva lo studioso di Vico Giuseppe Cacciatore “il ricorso vichiano al genere fantastico aiuta, dunque, a comprendere quella costitutiva procedura del pensiero che riduce a generi e a caratteri la molteplicità dispersa delle cose naturali”, Vico: narrazione storica e narrazione fantastica, pp. 53-70, in Id., In dialogo con Vico, cit., p. 65. Recita la Degnità XLIX “queste tre Degnità ne danno il Principio de’ Caratteri Poetici; i quali costituiscono l’essenza delle Favole: e la prima dimostra la natural’inclinazione del volgo di fingerle, e fingerle con decoro: la seconda dimostra, ch’i primi uomini, come fanciulli del Gener’umano, non essendo capaci di formar’ i generi intelligibili delle cose, ebbero naturale necessità di fingersi i caratteri poetici, che sono generi, o universali fantastici da ridurvi, come a certi Modelli, o pure ritratti ideali tutte le spezie particolari a ciascun suo genere simiglianti”, in Sn 44, in G. B. Vico, la Scienza Nuova, cit., p. 872. 295 Vico, infatti, nella sua ricostruzione della complessa trama della cronologia dela storia universale menziona gli Ercoli, i Bacchi, i Sesostri quali prototipi dei fondatori delle città che hanno avuto sempre un eroe nella loro genesi. Afferma Vico in SN ’44 che “questa stessa Degnità con l’antecedente, che ne danno prima tanti Giovi, dappoi tanti Ercoli tralle Nazioni Gentili, oltrechè ne dimostrano, che non si poterono fondare senza religione, né ingrandire senza virtù: essendono elle ne’ lor’ incominciamenti selvagge, e chiuse”, Sn 44, ivi, p. 871, Degnità XLIII. Cfr. sul tema dell’Oriente in Vico le condivisibili osservazioni di G. Cacciatore esposte in Il posto dell’oriente nel pensiero di Vico, pp. 169-178, in Id., In dialogo con Vico, cit. 296 E. Grassi, Marxismo, umanesimo e problema della fantasia nelle opere di Vico, cit., p. 86. 297 Id., La priorità del senso comune e della fantasia: l’importanza filosofica di Vico oggi, cit., p. 54.  ! 99!  Ercole effettua la trasformazione della natura piegandola attraverso il lavoro – l’uccisione del leone nemeo – al mondo umano. L’uccisione del leone nemeo – simbolo della ingens sylva primordiale nella quale l’uomo erra nel terrore dell’aperto – simboleggia il primo atto di fondazione della civiltà. Lo stesso Vico nella Spiegazione della Dipintura afferma che “questa scienza ne’ suoi Principj contempla primieramente Ercole [...] il quale si truova essere stato il carattere degli Eroi politici”298. Attraverso la lettura del mito di Ercole Grassi rintraccia in Vico una prima teorizzazione del tema del lavoro nella sua connessione con l’ingegno, la fantasia, e il senso comune, da un lato, e con il concetto di Lichtung e con l’analisi delle strutture dell’esistenza umana, dall’altro. Si chiede il pensatore: “quando, come e dove compare per Vico l’esistenza umana come una nuova realtà rispetto alla natura biologica e vegetativa? Nella libera decisione di far luce nella foresta primordiale per fondare il primo luogo umano”299. Quale importanza Grassi annetta al ruolo, al contempo storico e filosofico-speculativo, che svolge, nel complesso del suo itinerario onto-antropolo-logico, la questione dell’origine dei processi storici dell’umanità è testimoniato dalla collocazione del tema della Lichtung – che accomuna Vico e Hiedegger – accanto a quello del lavoro – che vede fianco a fianco Vico e Marx. Sostiene il filosofo in Vico e l’umanesimo che “secondo l’opinione di Vico, grazie alla radura aperta nella foresta originaria”, attraverso il lavoro, “divengono possibili non solo lo spazio o il luogo umani, ma anche la possibilità di computare il tempo”300. Si intrecciano indissolubilmente le questioni del disvelamento/Lichtung – la vera “chiave maestra” della lettura grassiana degli umanisti – quella del lavoro nel suo significato esistenziale e quella delle strutture dell’esistenza umana. Nella prospettiva del pensatore milanese è attraverso il lavoro, l’atto di umanizzazione della natura – il disboscamento !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 298 G. Vico, Sn 44, cit., p. 786. 299 E. Grassi, Potenza della fantasia, cit., p. 251. 300 Ibidem.  ! 100!  della selva primordiale – che si apre quello spazio-di-tempo in cui sorge la storia umana che ha “origini favolose” dicibili solo attraverso un linguaggio poetico. ! 101!  CAPITOLO III LA QUESTIONE DELLA METAFISICA IMMANENTE IN ERNESTO GRASSI III. I. La struttura onto-antropo-logica del pensiero di Grassi Come è emerso dalle precedenti riflessioni sulla rivalutazione dell’umanesimo a partire dal tema della Lichtung, dell’ursprünglich Rahmen, a venire in primo piano è una densa concettualizzazione dei temi dell’essere, dell’apparire e della manifestatività, coniugati ad un’analisi delle strutture dell’esistenza umana. Nelle considerazioni seguenti intendo richiamare l’attenzione sui concetti ora ricordati focalizzandomi sulla costituzione onto-antropo-logica della metafisica immanente o ontologia situazionale301 grassiana e sul nesso essere-uomo-linguaggio su cui essa si costruisce. Secondo la nostra ipotesi di ricerca Grassi enuncia importanti riflessioni sparse in diversi saggi che contribuiscono a corroborare l’idea della presenza di un’analitica dell’esistenza umana a fondamento delle ricerche svolte sui pensatori umanisti – e non solo – all’interno del progetto di rivalutazione dell’umanesimo e di critica alla filosofia intesa come scienza. La questione dell’umanesimo in Grassi è analizzata da due punti di vista: storico e teoret  ico. Egli afferma l’esigenza di porre la questione dell’essenza della nostra umanità sia sul terreno speculativo sia su quello storico in un articolo del 1932 su Jaeger Il problema filosofico del ritorno al pensiero antico. Secondo Grassi “questa essenza della natura umana è un problema filosofico e non esiste né può venire concepita come qualcosa di dato. Ne viene che l’umanesimo [...] può avere il suo fondamento [...] solo nella rigorosa ricerca filosofica. Il vero umanesimo deve essere oggi filosofia. Ciò vale non solo speculativamente, ma anche storicamente”302. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 301 E. Grassi, Filosofare noetico non metafisico. L’Alcesti e il Don Chisciotte, Congedo Editore, Lecce, 1991, p. 30. 302 Id., Il problema filosofico del ritorno al pensiero antico, pp. 255-271, in Id., I primi scritti, cit., p. 258.  ! 102!  La ricerca grassiana si configura, da un lato, come riflessione storica sull’umanesimo, in cui la lettura dei testi degli umanisti ha l’aspetto di una re-interpretazione filologico-speculativa di quel nucleo essenziale – la Lichtung – venuto ad espressione consapevole con Heidegger. L’attenzione accordata alla filologia, che per Grassi non si riduce a “una mediazione delle opere antiche”303 ma è una “scienza sperimentale”, una meditazione sull’essenza dell’uomo e sulla sua Bildung a partire dal problema della parola304, conduce verso una dilatazione del periodo storico dell’umanesimo sia in direzione del passato sia in direzione delle epoche successive. Entrano così a far parte della tradizione umanistica anche gli autori della latinità quali Cicerone e Quintiliano; quelli barocchi come Graciàn, Peregrini e Tesauro; Vico, Leopardi e, in ultimo, lo stesso Heidegger, il quale ha concettualizzato in forma teoretica densa ed esplicita il tema della connessione Da-sein/Sein. Dall’altro lato, accanto alla lettura testuale, affiora un’indagine teoretica sui temi dell’essere, dell’apparire e della manifestatività e sulle strutture d’essere dell’uomo. Proprio su questi aspetti ci concentreremo maggiormente in questo capitolo prendendo in considerazione due gruppi di saggi. La selezione di questi saggi – tutti risalenti al periodo compreso tra gli anni Trenta e la fine degli anni Cinquanta – è stata guidata dall’idea di una presenza nel filosofo di un’attenzione alle strutture dell’esistenza umana, connesse alla questione di quella che potremmo definire “ontologia !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 303 Id., Il confronto con la filosofia tedesca in Italia, in Id., I primi scritti, cit., pp. 871-886, p. 883. 304 Per Grassi occorre distinguere una pseudo-filologia, priva di pensiero, ridotta a sterile culto classicista della parola, e una filologia autentica, che si connota come meditazione sull’uomo e sulla sua formazione: “come è noto, la tradizione filosofica italiana ha inizio proprio con l’umanesimo e il rinascimento. Come ho già accennato altrove, il filosofare italiano non comincia con il problema della verità o del sapere, ma con il problema della parola in relazione al compito umanistico di mediare la parola antica, gli scritti antichi, il mondo antico [...] ricordo solo che il compito umanistico della mediazione della parola antica si realizzò essenzialmente su un piano estetico, letterario, ossia in relazione alla scoperta e al rinnovato rapporto con i testi letterari antichi. A ciò, però, si legava al contempo l’impegno di una formazione dell’uomo tramite la parola, e con il problema della formazione si affrontava un problema essenzialmente filosofico. Si stabilì che il significato delle parole che troviamo in un testo non può essere dedotto dall’esperienza quotidiana o dal nostro sapere, bensì dall’unità del testo [...] conformemente all’antichità, si riconosceva nella parola l’essenza dell’uomo, così il formarsi in base alla parola non significava, come oggi per lo più crediamo, praticare la filologia, bensì sviluppare l’essenza dell’uomo”, ivi, p. 881. Cfr., anche Id., Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, p. 72: “Il processo interpretativo, prima di divenire il metodo delle moderne scienze scienze naturali, era già da lungo tempo abituale nell’ambito delle scienze dello spirito. Anche qui si dimostra che il presupposto della formazione non è tanto la mediazione delle conoscenze, quanto piuttosto lo sviluppo della capacità interpretativa. Nel dialogo interpretativo con i testi tramandatici stabiliamo la relazione con la comunità umana del passato e soltanto in questa e con questa relazione possiamo giungere al nostro proprium, in quanto siamo esseri storici”.  ! 103!  fenomenologica semantica” di Grassi, in cui il tema dell’essere, identificato con quello della manifestazione e delle forme dell’apparire, è indissolubilmente legato a quello semantico, come campo dell’esperienza costrittiva dei principi indicato nel fondamentale saggio Significare Arcaico (1966) in cui è condensato tutto il valore della proposta retorica grassiana. Solo partendo dall’analisi del contenuto tematico di questi contributi è possibile una più profonda comprensione delle indagini grassiane sull’Umanesimo e sul Rinascimento storici su cui la bibliografia si è concentrata maggiormente. Del gruppo comprendente Il problema della metafisica immanente di M. Heidegger (1930), Dell’apparire e dell’essere (1933), Il problema del logo (1936), Il problema del nulla nella filosofia di M. Heidegger (1937), L’inizio del pensiero moderno. Della passione e dell’esperienza dell’originario (1940), Il reale come passione e l’esperienza della filosofia (1945), saranno selezionati i temi dell’essere, dell’apparire e della manifestatività, i quali mostrano la volontà grassiana di recuperare un’esperienza dell’essere che non presupponga la preminenza di una forma rispetto ad un’altra, e in particolar modo di un a priori gnoseologico, ma che sia capace di restituire la complessità fenomenologica delle forme dell’apparire. In questo tentativo Grassi coniuga il tema attualistico gentiliano con l’estetica crociana e la teoria heideggeriana della differenza ontologica,305 rielaborando tutto alla luce di una rivalutazione della Stimmung, della Leidenschaft e dell’ambito estetico in generale non come esempio di gnoseologia inferior o teoria dell’arte ma come fondamento dell’esperienza della manifestatività dell’essere. Dell’altro gruppo fanno parte i seguenti saggi: Il tempo umano. L’umanesimo contro la techne (1949), L’uomo e l’esperienza dell’oggettività (1952), Apocalisse e storia (1954), L’esperienza dell’assenza di mondo (1955), Mito e arte (1956), Assenza di mondo (1959). In quest’ultimo gruppo di articoli emergono alcuni concetti fondamentali che trovano un’articolazione in una analitica !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 305 Per una ricostruzione dettagliata delle tracce gentiliane, crociane e heideggeriane nella filosofia di Grassi cfr., Rita Messori, Le forme dell’apparire, cit., soprattutto il primo capitolo, Tra filosofia italiana e filosofia tedesca: l’emergere della questione estetica, pp. 23-61. Cfr., anche M. Marassi, Introduzione a E. Grassi, I primi scritti, cit., pp. IX-LXXXVII.  ! 104!  esistenziale che mira a svelare le “strutture esistenziali del mondo del Da-sein”306. Le osservazioni che seguono si focalizzeranno maggiormente sul fondamento teorico – l’analitica dell’esistenza – che soggiace alla rivalutazione di Grassi dell’umanesimo. Credo sia plausibile poter collocare la riflessione grassiana sull’umanesimo sullo sfondo ontologico e fenomenologico dei saggi giovanili dedicati ai concetti di apparire, essere, manifestatività e delle idee connesse di disancoramento, angoscia, coscienza temporale umanistica, oggettività, dismondanizzazione e assenza di mondo. Com’è noto, Grassi mostra nella sua disamina degli pseudo-umanesimi una insofferenza nei confronti delle letture storiografiche e teoretiche a lui coeve, a suo avviso gravate dal pregiudizio idealistico ed hegeliano, rivendicando l’esigenza di una collocazione del tema onto-antropo-logico sul terreno strettamente speculativo, teoretico. Nella prospettiva del filosofo “il termine umanesimo è diventato più che mai polisenso. Si parla di un umanesimo da un punto di vista storico, si parla di un umanesimo da un punto di vista filosofico, si parla di un umanesimo da un punto di vista politico [...] sia dunque ben chiaro che ogni affermazione umanistica è un problema anzitutto filosofico e non storico: si tratta dunque di delimitare una concezione speculativa dell’uomo che prenda chiara posizione di fronte ai differenti motivi speculativi nei quali si rispecchia la nostra attuale coscienza filosofica. Che significato speculativo può oggi avere un umanesimo?”307. Indagare questo significato speculativo dell’umano, al di là della polisemia che inevitabilmente lo connota, per Grassi significa affrontare il problema della reinterpretazione antitradizionale della filosofia umanistica nella convinzione che la filosofia umanistica abbia costituito il fulcro e la svolta del pensiero filosofico occidentale, la vera “rivoluzione copernicana”308. Il compito di questo progetto neoumanistico che già dalla metà degli anni Venti emerge – a partire dal saggio su Machiavelli analizzato in precedenza – per rifluire nelle riflessioni filosofiche successive, si articola come ricerca dell’unità di senso della realtà, come compito preliminare nel processo di determinazione di una teoria dell’uomo che !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 306!E. Grassi, Potenza della fantasia, cit., p. 243 e sgg.! 307 Id., Il tempo umano. L’umanesimo contro la techne, cit., pp. 202-206. I corsivi sono nostri. 308 Id., Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, cit., p. 261, “Il rovesciamento della filosofia, la rivoluzione copernicana, non ha avuto luogo né con Descartes né con Kant, ma con l’Umanesimo italiano. Ma le conseguenze che derivano dalla nuova valutazione della fantasia, dell’ingenium, della preminenza dell’immagine, possono essere discusse solo sulla base di un’ulteriore ricerca sull’essenza della tradizione umanistica italiana”.  ! 105!  mantenga l’originaria integrità e unità delle sue strutture fondamentali. Negli stessi anni in cui i maggiori esponenti dell’antropologia filosofica del Novecento – Scheler309, Plessner310, Gehlen311 – !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 309 Max Scheler in La posizione dell’uomo nel cosmo esprime l’idea di uomo attraverso una ricerca antropologica come scienza fondamentale dell’essenza e delle strutture essenziali dell’uomo. Esplorare la dimensione umana e la sua posizione nel cosmo comporta un confronto con le dimensioni della spiritualità del conoscere, dell’amare, del volere. Per Scheler l’indagine sull’uomo della nuova antropologia prende le mosse da ciò che è esterno all’uomo per poi indagare e definire la sua essenza: “è compito di un’antropologia filosofica mostrare esattamente in che modo scaturiscano dalla struttura fondamentale dell’uomo, tutti i monopoli, le funzioni e le opere specificamente umani: come la lingua, la coscienza morale, lo strumento, l’arma, il concetto di giusto e ingiusto, lo Stato, l’azione di guida, le funzioni espressive delle arti, il mito, la religione, la scienza, la storicità, la socialità”, M. Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo, a cura di M. T. Pansera, Roma 1999, p. 186. Scheler analizza l’impulso affettivo “privo di coscienza, di sensazione e rappresentazione” che è presente nelle piante e nei gradi più bassi del mondo organico; l’istinto che è un comportamento teleologico; la memoria associativa il cui fondamento è il processo del riflesso condizionato, basato sul principio del successo e dell’errore per cui l’animale compie movimenti di prova in maniera spontanea ripetendo solo quelli utili; infine l’intelligenza pratica caratterizzante la facoltà di libera scelta dell’uomo. Il fattore discriminante fondamentale tra l’uomo e il resto del mondo è costituito dal concetto di spirito, il Geist che rappresenta la possibilità dell’essere aperto al mondo da parte dell’uomo e lo svincolarsi dal legame con quanto è organico: “la caratteristica principale di un essere spirituale consiste nella sua emancipazione esistenziale da ciò che è organico, nella sua libertà, nella capacità che esso, o meglio il centro della sua esistenza, ha di svincolarsi dal potere, dalla pressione, dal legame con quanto è organico, dal legame con la vita [...] un essere spirituale non più legato alla tendenza e all’ambiente, ne è libero, e perciò aperto al mondo”, ivi, p. 144. 310 Per Plessner occorre partire dal concetto di vita che costituisce la “parola chiave di un’intera epoca”, H. Plessner, I gradi dell’organico, a cura di V. Rasini, Bollati Boringhieri, Torino 2006, pp. 27-28. All’interno della impostazione plessneriana l’uomo è contraddistinto dalla sua posizione eccentrica: l’eccentricità è la disposizione dell’uomo rispetto al mondo nei confronti del quale si trova de-situato. Plessner, a conclusione di I gradi dell’organico. Introduzione all’antropologia filosofica, passa in rassegna tre leggi antropologiche fondamentali: la legge dell’artificialità naturale secondo cui l’uomo non vive in modo rassicurante nel suo ambiente immediato ma in modo artificiale, costruendo a partire da una natura una cultura; la legge dell’immediatezza mediata secondo cui l’uomo si appropria di ciò che gli è dato in precedenza in modo immediato attraverso forme di mediazioni quali invenzioni, scoperte, conoscenze; la legge del luogo utopico che afferma che l’uomo prende le distanze dall’immediatezza e volge il suo sguardo verso un fondamento assoluto del mondo che in sé non ha alcun fondamento. Egli afferma che “la sua forma eccentrica spinge l’uomo al perfezionamento, stimola bisogni che possono essere soddisfatti soltanto mediante un sistema di oggetti artificiali e insieme imprime loro il marchio della caducità”, ivi, p. 363. 311 Arnold Gehlen si pone sulla linea di ricerca scheleriana elaborando una idea di uomo nell’opera L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, partendo dai risultati multidisciplinari delle scienze positive. L’antropologia “elementare” gehleniana, partendo dagli aspetti più semplici che accomunano l’essere umano all’animale sottolinea allo stesso tempo la specificità dell’umano che consiste paradossalmente nella sua indeterminatezza costitutiva: se gli altri viventi sono contraddistinti da un indice di specializzazione alto come testimoniato dallo sviluppo della percezione e dall’istinto l’uomo presenta una indigenza che però stimola latenze di potenzialità più alte, superiori, che rendono l’uomo autodeterminabile proprio perché indeterminato. Per Gehlen prima di tutto l’uomo è l’essere determinato all’azione: l’azione sarà il tema chiave per poter comprendere un essere che agisce sulla natura per trasformarla al fine di assicurare la sua sopravvivenza. L’uomo è poi distinto dall’animale per una serie di caratteristiche: la “primitività” del suo corredo organico e istintuale; la sua “incompiutezza”; la sua “non-specializzazione” organica. Già Herder aveva tracciato una distinzione tra l’uomo e l’animale che guardava all’uomo come ad un “essere biologicamente carente”, un “essere manchevole”, un essere privo persino di un ambiente proprio (Umwelt). Per Gehlen “la “deficienza organica” e le peculiarità organiche dell’uomo vanno perciò considerate alla luce dell’idea cardine della “non-specializzazione”: [...] primitivo è = non specializzato = originario, o in senso ontogenetico (embrionale) o in quello filogenetico (arcaico). Per specializzazione è da intendersi la perdita della pienezza delle possibilità esistenti in un organo non specializzato, a vantaggio del grande sviluppo di alcune di queste possibilità a spese di altre, cfr., A. Gehlen, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, Mimesis, Milano 2010, pp. 127-128. Accettando il paradigma interpretativo della carenza si pone il problema di coniugare questa non specializzazione umana con il suo esser collocata all’interno di una catena biologica evolutiva. La dotazione organica non specializzata dell’uomo e i suoi primitivismi rendono problematica la sua esistenza che solo grazie all’azione e alla costitutiva apertura al mondo continua e progredisce. Categoria fondamentale all’interno ! 106!   elaborano le note teorie sull’uomo, Grassi, forte della sua formazione culturale a metà strada tra filosofia italiana, filosofia tedesca e francese, sente l’esigenza di indicare l’insufficienza sia di un approccio scientifico all’uomo sia i limiti di una impostazione speculativa classica mediata soprattutto dalle letture heideggeriane di cui abbiamo già detto. Attraverso l’analisi delle teorie degli esponenti !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! dell’antropologia gehleniana è quella dell’esonero Entlastung che indica la capacità umana di distaccarsi dagli oneri del mondo esterno. L’esonero costituisce il primo atto per spezzare il cerchio dell’immediatezza e per liberarsi dalla pressione dell’hic et nunc: l’uomo deve allontanarsi dalla pressione dell’immediato interponendo tra lui e il mondo una distanza sempre maggiore, solo in questo modo può trasformare l’Umwelt, l’ambiente, in un mondo abitabile, la Welt.  ! 107!  della biologia teoretica quali Driesch312, Plessner313, Jacob Von Uexküll314 e Gehlen315, Grassi cerca di porre in luce gli aspetti negativi che derivano dalla confusione del “contributo delle scienze con quello della filosofia”316 . Accogliendo la critica crociana alla perdita di autonomia del filosofo che !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 312 Hans Driesch (1867-1941) fu un biologo e filosofo tedesco. Egli lavorò a Napoli presso la stazione zoologica dal 1891 al 1900 e successivamente insegnò a Heidelberg tra il 1909 e il 1920 Filosofia della natura, in seguito anche a Colonia e Lipsia. Fu convinto assertore del vitalismo contro la teoria meccanicistica di matrice darwiniana. Il suo pensiero è diretto verso la valorizzazione del finalismo della natura e verso il riconoscimento dell’importanza dell’entelechia, concetto ripreso da Aristotele, interpretata come principio immanente superindividuale. Tra le opere più importanti ricordiamo Storia del vitalismo (1905), Filosofia dell’organismo (1909), Corpo e anima (1916), Il problema della libertà (1917), Metafisica (1924). Di Driesch Grassi mette in luce il neo-vitalismo presente nelle osservazioni sulla vita organica e l’importanza del concetto di entelechia esposto dal Driesch in Philosophie des Organischen. Grassi, in Empirismo e naturalismo nella filosofia tedesca contemporanea, sostiene che “in molti ambienti la filosofia rimane concepita sul fondamento delle scienze, cioè sintesi e classificazione di fatti, ed è perciò stesso incapace di raggiungere in questa forma un reale valore conoscitivo e metafisico. L’influenza di concezioni simili si scorge oggi in tutta quella corrente speculativa della filosofia tedesca contemporanea che ha vivo l’ideale empiristico di una scienza naturale elaborata in filosofia, filosofia della natura, che in realtà non diventa che un prospetto empirico di scienze naturali e di arbitrarie ipotesi naturalistiche. Appartengono a questa corrente di idee il Driesch, o zoologi come il Plessner – che con osservazioni scientifiche e biologiche tentano di raggiungere una costruzione metafisica [...] nella sua Philosophie des Organischen a mezzo dell’analisi dello sviluppo delle forme dell’organismo e mettendo in luce con osservazioni biologiche l’originalità della vita organica, egli giunge ad una concezione neovitalistica. Le sue osservazioni biologiche, la sua teoria dei sistemi equipotenziali, assumono un’importanza scientifica ed egli concluse che accanto ai fattori fisici e chimici, per spiegare un organismo, è necessario ammettere un nuovo fattore, che egli chiama entelechia”, in Id., I primi scritti, cit., pp. 165- 166. Cfr., anche Linee di filosofia tedesca contemporanea, in Id., I primi scritti, cit., pp. 299-332, in particolare il primo paragrafo dedicato a Driesch, pp. 299-305. 313 Di Plessner Grassi evidenzia i limiti strutturali che l’approccio scientifico all’umano inevitabilmente porta con sé. Egli afferma che “una concezione di una filosofia fondata sulla scienza la troviamo anche in altri pensatori come Plessner, scolaro di Driesch e originariamente zoologo, autore di Die Einheit der Sinne. Grundlinien einer Aistesiologie des Geistes e più recentemente di un altro volume Die Stufen des Organischen un der Mensch. Einleitung in die philosophische Antropologie, volumi ai quali l’acuta raccolta di fatti e le osservazioni scientifiche conferiscono pregio, ma che non raggiungono una concezione speculativa. Una antropologia non diventa speculazione e affermazione filosofica se non si nega ogni aspetto ontologico ai gradini della realtà naturale, rifiutando di considerarli come assolute gerarchie del reale e risolvendoli nella nuova affermazione della realtà come atto dello spirito, ivi, p. 168. In questo passo emerge la convinzione grassiana – di evidente ascendenza gentiliana – del limite strutturale delle coeve antropologie filosofiche che per diventare autentiche meditazioni sull’uomo devono collocarsi su uno sfondo filosofico che indaghi la realtà a partire dall’idea di atto e non di dato. 314 Grassi richiama l’attenzione sul concetto uexkülliano di cerchio funzionale simbolico e fa riferimento alle sue teorie sia nel saggio Il problema della metafisica immanente di M. Heidegger (cit., p. 205) sia più diffusamente in La filosofia como obra humana, pp. 1573-1578 in Actas del Primer Congreso Nacional de Filosofia, Universidad Nacional de Cuyo, Buenos Aires, 1950, Tomo III; in Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, cit., pp. 62-66 e 151-152; infine in Retorica come filosofia. La tradizione umanistica, cit., pp. 181-182. 315 Cfr., Id., La potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, cit., pp. 67-69. Grassi sottolinea la connessione istituita da Gehlen tra apertura di mondo e cultura. 316 Id., Il problema della metafisica immanente di M. Heidegger, In Id., I primi scritti, cit., p. 204. ! 108!   si è messo a servizio della scienza espressa in Logica317 Grassi asserisce che la concezione bio- metafisica su cui l’empirismo si basa “si traveste oggi assumendo nuove forme in veste anti- positivistica”318. L’empirismo va messo da parte, così come gli altri modi di accedere all’umano che la coeva filosofia tedesca aveva prodotto, poiché non supera “gli schemi del procedere naturalistico”319 che si avviluppa in “pseudo-concetti che sulle generalità scientifiche vorrebbero fondare distinzioni filosofiche”320. Il riferimento polemico è alle correnti neokantiane, allo storicismo diltheyano, alla fenomenologia husserliana321 incapaci di elevarsi a quella metafisica esistenziale che solo Heidegger ha portato ad espressione. A questo punto appare indispensabile soffermarsi, seppur brevemente, sulle figure di Dilthey e Husserl, la cui conoscenza costituisce una tappa importante per la comprensione dell’atteggiamento speculativo grassiano. In Il problema della metafisica immanente di M. Heidegger Grassi mette insieme storicismo, fenomenologia, metafisica esistenziale e attualismo. Egli afferma che il filosofo di Messkirch “presenta una speculazione metafisica originale, inverando il tentativo di due pensatori, l’Husserl e il Dilthey, che alla fine del sec. XIX e al principio del XX iniziarono il primo tentativo di liberazione dall’empirismo”322. In che senso si parla di inveramento delle filosofie di Dilthey e Husserl nella metafisica immanente di Heidegger e come quest’ultima a sua volta radicalizza l’attualismo323? !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 317 B. Croce, Logica, Laterza, Bari 1920, p. 264: “perché quando non si tratta d’altro che di classificare e di sistemare quei risultati, lo scienziato sente a ragione di non aver bisogno del soccorso dei filosofi”. 318!E. Grassi, Il problema della metafisica immanente di M. Heidegger, cit., p. 205.! 319!Ibidem. 320 Ibidem. 321 Cfr. sulla critica a neokantismo, storicismo e fenomenologia gli articoli di indole informativa generale che seguono: Id., Empirismo e naturalismo nella filosofia tedesca contemporanea, cit., e Id., Sviluppo e significato della scuola fenomenologica nella filosofia tedesca contemporanea, in Id., I primi scritti, cit., 181-202. 322 Id., Il problema della metafisica immanente di M. Heidegger, cit., p. 209. Cfr., anche le pagine grassiane su Heidegger del saggio Was ist Existentialismus?, pp. 75-124, in N. Abbagnano, Philosophie des menschlichen Konflikts. Eine Einführung in den Existentialismus, Rowohlt, Hamburg 1957, soprattutto pp. 91-97 e 106-114. 323 Già nel saggio del 1929 Sviluppo e significato della scuola fenomenologica nella filosofia tedesca contemporanea (in Id., Primi scritti, cit., pp. 181-202) Grassi, sviluppando in forma più articolata le poche battute su Heidegger contenute in Empirismo e naturalismo nella filosofia tedesca contemporanea (p. 174), afferma quell’identità di problemi tra attualismo ! 109!   La “meditazione diltheyana” di Grassi si focalizza soprattutto sui concetti di Lebenzusammenhang, di Weltanschauung e di psicologia324. Secondo il pensatore milanese Dilthey fu il primo a intravedere il problema della realtà e della storia come problema della realtà vivente, rivendicando l’importanza dei sui scritti speculativi e tralasciando quella dei testi a carattere maggiormente storico325. In Empirismo e naturalismo nella filosofia tedesca contemporanea (1929) leggiamo che il problema dal quale muove Dilthey, quello della distinzione tra Geisteswissenschaften e Naturwissenschaften, di scarsa importanza in sé rileva Grassi, va ricondotto alla più generale operazione teoretica di ricerca intorno al fondamento spirituale delle scienze dello spirito individuato in “una scienza di carattere psicologico. Gli elementi del mondo storico sono gli individui, quindi lo studio di essi e la descrizione dei vari tipi di vita spirituale diventa la base della comprensione storica [...] l’esame della struttura della vita dello spirito cerca di conquistare nella molteplicità di situazioni coesistenti la sua caratteristica unità”326. La psicologia diltheyana per Grassi ha il merito di ricondurre ogni concreta realtà storica alla concatenazione vitale dell’atto di coscienza in cui si realizza il rapporto tra io e mondo. Tuttavia il !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! e ontologia immanentistica heideggeriana che in Il problema della metafisica immanente di M. Heidegger del 1930 troverà una articolazione teoretica più approfondita. Infatti, in Sviluppo e significato della scuola fenomenologica nella filosofia tedesca contemporanea leggiamo che “Heidegger realizzò una delle più importanti speculazioni metafisiche immanentistiche ed una delle più rigorose critiche del tentativo di Husserl. L’interpretazione e o sviluppo attualistico del pensiero fenomenologico assume un significato storico e teoretico tutto particolare”, p. 198. 324 Per una analisi dettagliata di questi temi diltheyani rimando alle osservazioni di G. Cacciatore in Scienza e filosofia in Dilthey, 2 Voll., Guida, Napoli 1976; Id., Dilthey: connessione psichica e connessione storica, pp. 211-223, in AA. VV, Una logica per la psicologia, Il Poligrafo, Padova 2003; Id., Vico e Dilthey. La storia dell’esperienza umana come relazione fondante di conoscere e fare, pp. 17-58, In Id., Storicismo problematico e metodo critico, Guida, Napoli 1993; cfr., ivi anche Id., Spirito oggettivo e oggettivazione della vita: Dilthey e Hegel, pp. 105-125; Id., La tipologia delle visioni del mondo tra critica storica della ragione ed essenza della filosofia, pp. 153-172; Id., Il fondamento dell’intersoggettività tra Dilthey e Husserl, pp. 249-287; Id., Ortega y Gasset e Dilthey, pp. 289-318; Id., Vita e storia tra Zubiri e Dilthey, pp. 177-187, in Id., Saggi di filosofia spagnola. Saggi e ricerche, Il Mulino, Bologna 2013; Id., Dilthey tra universalismo e relativismo, pp. 213-230, in Id., Dallo storicismo allo storicismo, ETS, Pisa 2015. 325 “Durante la sua vita i suoi sforzi teoretici passarono quasi inosservati e anche dopo la sua morte, avvenuta nel 1911, Dilthey rimase per alcuni anni completamente dimenticato come filosofo, mentre i suoi lavori storici venivano molto apprezzati [...] i primi suoi lavori sono tra i più notevoli della storia e della filosofia dei suoi tempi: l’acutezza delle indagini, la facoltà ricostruttiva di un’epoca o di una personalità danno ai suoi saggi grandissimo valore e molti lo considerano come il più grande “Geistesgeschichtsschreiber” dopo Hegel [...] ma l’importanza e l’interesse che Dilthey desta in seno alla filosofia tedesca – per cui dobbiamo fermarci in modo particolare sulla sua figura – è dato non dai suoi lavori storici, ma dai suoi scritti di carattere speculativo e polemico”, E. Grassi, Empirismo e naturalismo nella filosofia tedesca contemporanea, cit., pp. 171-172. 326 Ivi, pp. 172-173.  ! 110!  passaggio auspicato dal pensatore milanese da una “teoria dell’atto di comprensione” ad una “metafisica immanente” rimane incompiuto nel filosofo tedesco che “non giunse alla chiara coscienza che una volta riconosciuto il tratto fondamentale del reale nell’atto completo di comprensione, se ne coglie al tempo stesso il carattere assoluto che impedisce ogni relativismo”327. Così per il filosofo italiano Dilthey ricade nell’astrattismo di una “tipologia che prese il posto della filosofia”328, la quale riduce la fondamentale categoria della Lebenzusammenhang a forme astratte, a classi e tipi e al relativismo329. Se le riflessioni su Dilthey pongono in luce l’attenzione verso l’esistenza concreta e le strutture psicologiche che soggiacciono alla costruzione del mondo storico umano, quelle su Husserl mettono in risalto il tentativo di riconquistare il rigore alla filosofia – il progetto di una filosofia come scienza rigorosa – un rigore metodologico, che invera “la psicologia fenomenale di F. Brentano”330. In Linee della filosofia tedesca contemporanea Grassi sostiene che “la meta di Husserl fu la conquista di un fondamento assoluto e universale su cui costruire con sicurezza la ricerca filosofica [...] egli scorse con chiarezza l’impossibilità di fondare la filosofia sulle scienze”331. Una critica radicale in questo senso è costituita dalle Ricerche logiche che tentano di “raggiungere il concetto della logica, della filosofia come scienza a priori, libera da ogni empirismo”332. Per il filosofo milanese, Husserl individua il fondamento del reale attraverso la riduzione fenomenologica, la quale, sospendendo ogni !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 327 Ivi, p. 174. 328 Ibidem. 329 Cfr. sulla critica grassiana al concetto di tipologia anche, E. Grassi, Linee della filosofia tedesca contemporanea (1933), pp. 299-332 in Id., I primi scritti, cit., soprattutto le pp. 307-311 e ivi Il problema del nulla nella filosofia di M. Heidegger, cit., soprattutto pp. 420-421. 330 Cfr., Id., Sviluppo e significato della scuola fenomenologica nella filosofia tedesca contemporanea, pp. 181-202, in Id., I primi scritti, cit., p. 182. 331 Id., Linee della filosofia tedesca contemporanea, cit., pp. 313-314. 332 Ibidem.  ! 111!  giudizio di esistenza333 – epochè –, guadagna una certezza indubitabile: “il mondo della coscienza pura coi suoi vari momenti e significati [...]. Non c’è più il mondo dommaticamente affermato e poi la sua rappresentazione, ma solo l’immediato essere del mondo come oggetto ideale della nostra coscienza”334. Questo mondo trascendentale è il Vorurteil, il quale condiziona ogni nostro giudizio di esistenza e rende possibile quella scienza fenomenologica che coniuga la ricerca sulle proposizioni formali della logica con i temi etici ed estetici. Il cuore della fenomenologia è colto da Grassi nell’andare zu den Sachen selbst tramite la Wesenschauung. Infatti, sempre in Linee della filosofia tedesca contemporanea, il filosofo sottolinea come la fenomenologia non sia una metafisica ma “un metodo a mezzo del quale si isolano degli elementi assoluti, trascendentali, coi quali ciascuno può e deve costruirsi con rigore scientifico un concetto della realtà [...] le essenze logiche non possono venirci dimostrate, ma possono solo mostrarsi per se stesse a mezzo della loro evidenza, chiarezza e distinzione, immediatezza ultima. La fenomenologia non vuole essere una costruzione, ma semplicemente un esame intuitivo, uno “schauen” dei concetti [...] coglie così l’essenza delle cose e pretende di andare direttamente zu den Sachen selbst”335. I concetti husserliani su cui egli si sofferma maggiormente sono quelli di epochè, riduzione fenomenologica, Vorurteil, evidenza336. L’analisi di questi temi, da un lato, sottolinea l’importanza e la fecondità speculativa della fenomenologia husserliana – poiché seppe con maggior forza contrapporsi all’empirismo e al naturalismo rispetto allo storicismo diltheyano337 – ma, dall’altro, !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 333 Grassi riesce a cogliere in poche battute tutto il senso della riflessione husserliana: “se noi ci manteniamo in un fondamentale e metodico atteggiamento critico rispetto al reale e cerchiamo di raggiungere un ultimo fondamento sul quale non sia più possibile esercitare il nostro dubbio, (e che come tale costituisce la base sicura su cui poggiare ogni altra affermazione o costruzione), giungiamo al riconoscimento del carattere trascendentale, assoluto, del pensiero in quanto puro pensato. Sospendendo ogni giudizio di esistenza, (!)$+,), ci troviamo infatti di fronte ad un mondo di molteplici significati ideali che hanno un senso solo in quanto sono dati così o così nella nostra coscienza. Il mondo del pensato come pensato, dell’inteso come inteso, è l’elemento ed il residuo ultimo su cui non si può più esercitare il nostro dubbio, come già aveva intravisto Cartesio”, ibidem. 334 Ivi, p. 315. 335 Ivi, p. 316 336 Cfr., V. Costa- E. Franzini- P. Spinicci, La fenomenologia, Einaudi, Torino 2002. 337 “La posizione di Husserl, come abbiamo visto, è caratterizzata da una chiara coscienza delle necessità di pensare gli universali nella loro purezza, sciogliendoli dalle contingenze sociali, storiche, psicologiche. Sotto questo aspetto il suo ! 112!   getta luce sui limiti intrinseci di ciò che Grassi definisce “positivismo razionalistico”. La fenomenologia è un positivismo razionalistico poiché riduce il “dato empirico al suo significato logico razionale, sostituendo al dato di fatto dell’empirismo il dato del mondo razionale”338. Da qui la definizione di positivismo razionalistico”339. Sia Dilthey che Husserl – i maggiori esponenti della filosofia tedesca coeva secondo Grassi – non hanno declinato queste ricerche in direzione di una metafisica dell’essere come “concreto sviluppo storico, processo di autorealizzazione immanente”340. Questo inveramento si ha con Heidegger la cui originalità storica è ricondotta all’interno dell’orizzonte metafisico e non solo fenomenologico. In Il problema della metafisica immanente di M. Heidegger Grassi afferma che nel lavoro del pensatore di Messkirch “confluiscono così in un fecondo superamento gli sforzi di Husserl e Dilthey: la medesima analisi del Dasein come fondamentale atto di rapporto e il suo dettagliato sviluppo seguito piano per piano, attraverso le varie forme di esistenza, non è che un riprendere il tentativo di Dilthey [...] la ricerca del significato d’essere attraverso la concreta analisi del Dasein è sufficiente a mostrare un nuovo orientamento della sua fenomenologia”341 che non ha una componente intuizionistica – sia essa intesa come l’intuizione eidetica husserliana o nel senso generale irrazionalistico e vitalistico –, ma si pone come ricerca della concreta storicità dell’esistente: la fenomenologia diviene Hermeneutik der Faktizität. Solo sulla base di un’analitica dell’esistenza è possibile porre la questione ontologica e fenomenologica – dove per fenomenologia dobbiamo intendere l’analisi di stampo hegeliano dei vari momenti e sviluppi della realtà storica. Grassi afferma che il pensiero di Heidegger assume una particolare rilevanza per quanto riguarda il problema metafisico mostrando una certa affinità con i !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! pensiero segnò un momento fondamentale in seno alla filosofia tedesca contemporanea contrapponendosi con maggiore chiarezza di Dilthey all’empirismo ed al naturalismo nelle sue più varie forme”, E. Grassi, Linee della filosofia tedesca contemporanea, cit., p. 323. Cfr., anche le pagine dedicate a Husserl in E. Grassi, Was ist Existentialismus?, cit., soprattutto le pp. 80-91. 338!Id., Linee della filosofia tedesca contemporanea, cit., p. 323.! 339 Ibidem. 340Id., Il problema della metafisica immanente di M. Heidegger, cit., p. 209. 341 Ivi, p. 223.  ! 113!  temi dell’attualismo. Il filosofo italiano sostiene in Il problema della metafisica immanente che “pur essendo nato da problemi e posizioni speculative completamente lontane dalle premesse del pensiero immanentistico italiano esso giunge a delle conclusioni che rivelano un’aspirazione metafisica”342. Il significato e l’importanza di quella originaria “attualità esistenziale – per cui l’essere si dà precedentemente a qualsiasi riflessione – il suo superamento ed inveramento della logica astratta nella logica concreta, e a sua volta la posizione che questa logica concreta ha in seno ad una metafisica esistenziale” 343 ha un’importanza tutta particolare per Grassi ed implica una serie di problemi decisivi: proprio in relazione alla questione della metafisica esistenziale “comincia a delinearsi la precisa posizione di Heidegger rispetto all’idealismo hegeliano e all’attualismo idealistico di Gentile”344. Sullo sfondo di quanto appena detto, possiamo comprendere come nelle analisi grassiane degli anni Trenta siano molto vivi i temi dell’essere, dell’apparire e della manifestatività, coniugati a quelli dell’evidenza del fondamento e della ricerca delle strutture esistenziali umane che si modulano come indagine sui rapporti tra la filosofia attualistica di Gentile e la metafisica immanente di Heidegger. La coappartenenza di queste problematiche mette in luce una triplice costituzione del pensiero grassiano: ontologica, antropologica, logica. Come tenteremo di esporre nel corso della trattazione, il pensiero di Grassi si configura come riflessione ontologica perché si muove nell’orizzonte dell’essere e della ricerca del suo senso: l’essere è inteso alla luce della differenza ontologica (concetto mutuato da Heidegger) come manifestatività e allo stesso tempo trascendenza, per cui il piano ontologico che si manifesta in quello ontico – l’ente come ciò che appare nella sua differenza dall’essere – si sottrae all’orizzonte di pura luminosità dell’apparire proprio nel suo differire. Attraverso la lezione heideggeriana Grassi coniuga il problema !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 342 Ivi, pp. 226-227. 343!Ibidem.! 344 Ibidem.  ! 114!  della trascendenza, così vivo nella sua formazione iniziale, con quello dell’immanenza presente nella fase gentiliana della sua riflessione. La centralità di questi temi, in cui immanenza e trascendenza si co-appartengono, permane anche nelle riflessioni sulla Lichtung caratterizzanti gli scritti successivi, dove la Lichtung altro non è che la parola che dice del costitutivo rimandare l’una all’altra di immanenza e trascendenza, di piano ontico e ontologico. In Heidegger e il problema dell’umanesimo, ponendo una netta demarcazione tra il proprio modo di intendere l’umanesimo e l’approccio storiografico consolidato, il filosofo afferma che “gli studiosi hanno costantemente individuato l’essenza dell’umanesimo nella riscoperta dell’uomo e dei suoi valori immanenti [...] e tuttavia uno dei problemi centrali dell’umanesimo non è l’uomo, bensì la questione del contesto originario, dell’orizzonte o apertura in cui appaiono l’uomo e il suo mondo”345. Il problema fondamentale dell’umanesimo, che non va concepito come una forma più o meno larvata di antropologia tout court, è la problematizzazione del tema della Lichtung, ossia del tema del contesto originario dell’apparire del mondo, dell’uomo e degli enti, che si declina come ricerca delle strutture del mondo umano. In questa ricerca grassiana, accanto all’attenzione all’ambito ontologico, lasciatogli in eredità da Heidegger, ritroviamo una centralità della dimensione ontica – le concrete Lichtungen – che dal suo maestro degli “anni mitici” sembra essere stata accantonata a favore di una concentrazione più sugli aspetti di oblio dell’essere della filosofia occidentale che non su quelli in cui l’essere si dà in maniera autentica: se in Heidegger a dominare è l’idea dell’oblio dell’essere, in Grassi riscontriamo il tentativo di ricostruire una storia dell’evento autentico dell’essere – da qui l’indagine storico-filosofica sui temi umanistici. La riflessione di Grassi è poi antropologica perché attenta all’orizzonte umano a partire dal quale si pone la domanda sul senso dell’essere: l’universo linguistico e artistico del mondo umano in cui accade la verità dell’essere. In Heidegger e il problema dell’umanesimo leggiamo che l’analisi del !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 345 Id., Heidegger e il problema dell’umanesimo, cit., p. 26. I corsivi sono nostri. ! 115!   contesto originario si declina innanzitutto come ricerca linguistica: “la cosa sorprendente, alla quale di solito non si presta attenzione, è che questi problemi – contesto originario, orizzonte, Lichtung – non sono trattati nel pensiero umanistico mediante un confronto logico speculativo con la metafisica tradizionale, ma piuttosto in termini di analisi e di interpretazione del linguaggio [...] il problema del linguaggio solleva la questione fondamentale del rapporto tra parola e oggetto, tra verbum e res. Oltre a ciò, si fa strada l’idea che solo nella parola e a mezzo della parola (verbum) la cosa (res) rivela il suo significato”346. Con l’umanesimo, secondo il filosofo, non ci si interroga più circa la verità logica e il rapporto logico tra cosa e pensiero, ma a proposito del comparire storico della res a mezzo del verbum: la questione fondamentale è quella di accedere ad un linguaggio che sia casa dell’essere e non una sua prigione. Grassi, infatti, distingue la cosa dall’ente, pone la differenza tra res ed ens: se la metafisica tradizionale si interroga sulla cosa ridotta ad ente – e per il pensatore occorre abbandonare l’idea di una metafisica astratta degli enti – per cui l’unico linguaggio possibile per enunciare i predicati dell’ente è quello del razionalismo che delimita l’ente entro il perimetro logico dell’identità, la ricerca linguistica dell’umanesimo, al contrario, è capace di restituire la ricchezza fenomenologica della cosa, della res, del pragma, proprio attraverso un linguaggio che ne rispecchi le infinite e variegate sfaccettature. Secondo l’interpretazione del filosofo italiano non esistono “cose separate dalle nostre azioni, dai nostri tentativi di trattarle [...] l’essere-in-sé delle cose ci si manifesta solo nella e attraverso l’azione umana”347. Occorre quindi riconoscere che “l’oggettività delle cose si rivela nell’azione, nella e con la praxis”348. Infatti, per il pensatore milanese, la forma sostantivata pragma esprime l’originario rapporto tra l’oggetto e il suo manifestarsi come cosa attraverso la praxis umana. Il senso classico dell’ontologia come logos intorno all’on si tramuta in Grassi in ricerca dell’unità di logos e on, come discorso sul nesso ontologico. La delucidazione del nesso logos-on o, per usare i termini !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 346 Ibidem. I corsivi sono nostri. 347 Id., Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, cit., p. 80. 348 Ibidem.  ! 116!  grassiani, della correlazione di verbum e res, induce il filosofo ad approfondire i temi della retorica, della metafora, della fantasia e dell’ingegno, i quali mettono in luce come l’ontologia grassiana sia un’ontologia dinamica e non statica, nella quale il processo di manifestazione nel suo stesso apparire storico si mostra per gradi, scorci, campi, forme dicibili solo attraverso il linguaggio metaforico: poiché il metapherein – la trasposizione – è la struttura stessa della nostra facoltà di apprensione della realtà o, per usare un termine caro a Grassi, del nostro atteggiamento verso il reale. La metafora è l’espressione fluida e mobile del reale poiché mentre dice rimanda ad altro e in questo modo esprime la perenne metamorfosi dell’essere. Come possiamo leggere in uno degli ultimi testi del filosofo, ossia in Il dramma della metafora, “la parola metaforica esprime a un tempo la struttura fondamentale del continuo mutarsi di ciò che appare e l’unico modo per identificarla. Essa è anche espressione di un’acutezza, di una rapidità intimamente collegata con il kairòs, l’istante giusto”349 in cui possiamo cogliere il carattere metamorfico dell’apparire attraverso la traslazione del significato. La metafora è proprio questo: “annotazione dei segni indicativi”350 provenienti dal “colloquio con l’abissale che urge, che per pochi istanti ci vivifica e che poi ci fa cadere silenti su una sabbiosa spiaggia [...] senza significato, dalla quale sale l’angoscia perché vivremo l’indeterminato”351. Attraverso la metafora godiamo “la visione di una momentanea radura (Lichtung)”352 che mette in campo una riforma della filosofia non ridotta ad astratta ontologia, ma che “riconosca l’importanza dell’esperienza storica”353. La riflessione sulla metafora è per Grassi un modo di superare le falle dell’hòros, del concetto, che è incapace di dire la natura temporale e metamorfica degli enti che si esprimono nei sempre diversi significati vitali emergenti nello sforzo interpretativo o semantico. Infatti, per il pensatore italiano l’interpretazione è possibile solo sulla base di un’indicazione, da qui !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 349 Id., Il dramma della metafora. Euripide, Eschilo, Sofocle, Ovidio, L’Officina tipografica, Napoli 1992, p. 165. 350 Ivi, p. 14. 351 Ibidem. 352 Ibidem. I corsivi sono nostri. 353 Ivi, p. 15.  ! 117!  la preminenza della semantica rispetto all’ermeneutica, come emerge in Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, su cui ci soffermeremo nell’ultimo capitolo. Egli asserisce che “l’indicazione (semainein) precede, dunque, l’interpretazione (hermeneuein), poiché forma la cornice entro la quale possono sorgere delle dimostrazioni”354; essa è la condizione trascendentale del linguaggio, quel fondo mitico che appartiene al mondo del sacro e del religioso che non dimostra ma indica. Il linguaggio semantico è un logos che ostende il fondamento e rompe quel silenzio primordiale delle cose mute che ci circondano nell’Aperto della ingens sylva. Accanto a questo logos semantico, che è contraddistinto da una “chiarezza che non è il risultato di un chiarimento”355, abbiamo il logos ermeneutico, quello dell’interpretazione che si fonda sul processo della dimostrazione. Ritornando al nesso metafora-concetto Grassi afferma che a quest’ultimo “spetta come compito quello di afferrare, comprendere un fenomeno in riferimento al suo fondamento universale. Il significato di hòros può essere colto nella sua portata originaria soltanto mediante il verbo orìzo (determino) che sta alla base di questa parola, la cui radice hor- è identica a quella di horào (io vedo): io “vedo” qualcosa nella luce del fondamento. La definizione (horismòs) esprime in tal caso proprio questa visione, ciò che è, ciò che esiste: in questo modo sfugge a essa per forza di cose ciò che muta in se stesso, il singolo”356, che è compito della retorica autentica illuminare, in quanto scienza del particolare e dello storico. Accanto ad una teoria della metafora, non “più gioco letterario ma originaria, prima forma dell’ingegno”357, grazie alla quale è possibile porre “la domanda sull’origine della storicità umana, e dunque sull’essenza dell’uomo”358, si affiancano nella filosofia grassiana la fantasia e l’ingegno identificati con il nous aristotelico interpretato alla stregua di “unica espressione delle archai nel loro !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 354Id., La potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, cit., p. 84. 355 Ibidem. 356Id., Potenza della fantasia. Per una storia del pensiero occidentale, cit., p. 222. 357Id., Significare arcaico, in Archivio di filosofia, Roma 1966, pp. 479-495, p. 494. 358Id., Potenza della fantasia. Per una storia del pensiero occidentale, cit., p. 202.  ! 118!  carattere palesante e immediatamente indicativo”359, profondamente influenzate dall’analisi heideggeriana della Einbildungkraft kantiana come “facoltà di darsi le vedute”360. Del resto, sebbene Grassi non citi nella sua analisi più sistematica della fantasia, ossia nel testo La potenza della fantasia, la teoria kantiana della Einbildungskraft, egli conosceva benissimo la lettura offerta da Heidegger della facoltà di immaginazione kantiana, come emerge dalla citazione di Kant e il problema della metafisica definito in uno dei primi saggi come il lavoro che più “sembra atto ad introdurre nel suo pensiero chi non ha famigliarità con la sua terminologia”361. Possiamo ipotizzare che il mancato riferimento alla teoria kantiana da parte di Grassi sia dovuto a un’interpretazione del kantismo sostanzialmente mediata dal filtro neokantiano su cui Grassi si sofferma a più riprese soprattutto nei primi lavori stesi durante il soggiorno tedesco362. Tra i neokantiani, dei quali non può che criticare l’impostazione matematizzante, intellettualistica ed astratta, Grassi riconosce l’importanza di Cassirer che “ha [...] il merito di essere il più importante storico della filosofia che questa scuola abbia dato”.363 Oltre al tema linguistico, nell’analisi del mondo umano, emergono i concetti di disancoramento e angoscia, dalla temporalità cairologica come struttura di temporalizzazione fondamentale dell’esserci in cui i tre momenti del tempo si co-appartengono e rendono possibile il raggiungimento del secondo livello di oggettività: quello della coscienza temporale umanistica (l’oggettività di primo livello è quella della physis in quanto diastema), in cui gioca un ruolo fondamentale la decisione come espressione della storicità del mondo umano e della sua formazione (Bildung), che in questo modo !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 359Id., Significare arcaico, cit., p. 494. 360 Cfr., M. Heidegger, Kant e il problema della metafisica, Laterza, Roma- Bari, 2004. 361 Cfr., E. Grassi, Heidegger e il problema della metafisica immanente di M. Heidegger, cit., p. 209. 362 Cfr., le riflessioni sul “ritorno a Kant” contenute in Empirismo e naturalismo nella filosofia tedesca contemporanea, cit., soprattutto pp. 164-165; Id., Linee della filosofia tedesca contemporanea, cit., pp. 301-302. 363 Ivi, p. 165.  ! 119!  acquista un carattere esistenziale. Infatti “esistere significa sopportare la problematicità del rapporto dell’uomo con se stesso e con il mondo, senza evitare la decisione richiesta”364. Sul terreno ontologico dinamico in cui il discorso sull’essere è imprescindibile da un discorso sulle forme dell’apparire dell’essere – fenomenologia – e sul suo senso nell’orizzonte umano di esistenza – semantica – si comprende la critica grassiana alla struttura soggettocentrica e logicista della filosofia. Per il filosofo “si manifesta sempre la preminenza dell’urgere della passionalità, in quanto continuamente affiora nell’ambito della contraddizione logica dell’esperienza che l’essere non si rivela mai completamente nel divenire degli istanti. È in questo divenire del metaforico traslarsi del reale che viene passionalmente vissuta la contraddittorietà della logica astratta. Questo ritmo arcaico del palesarsi e dell’occultarsi non cessa mai, è esso che ordina – nei limiti di storiche, differenti radure – che appaiono in istanti – i tumulti che incombono”365. Solo attraverso un’esperienza originaria della filosofia secondo il pensatore – esperienza preclusa alla logica astratta che è solo un determinato atteggiamento filosofico e non l’unico – è possibile erigere mura per difenderci dal “vento del tempo che distrugge la stessa temporalità”366. La filosofia di Grassi tuttavia non va interpretata come una forma illogica di irrazionalismo. Anzi ciò che, a nostro avviso, va sottolineato è il valore logico della sua ricerca che tenta di proporre un concetto complesso di logos che non esclude il pathos, ma che si rivela nella sua coappartenenza costitutiva al pathos nell’orizzonte unitario del reale e della sua esperienza. Sorretta da una simile struttura onto-antropo-logica, la ricerca grassiana mira a sondare “la legittimità di tutti quegli pseudo-umanesimi che credono di poter dedurre secondo i canoni delle scienze naturali la realtà dell’uomo”.367 La messa in discussione dell’impostazione scientifico- naturale del problema dell’uomo avviene attraverso alcuni concetti fondamentali: disancoramento e oggettività, angoscia e nulla che, come vedremo, sono strettamente connessi a quelli di logos, pathos !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 364Id., Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, cit., p. 73. 365Id., Il dramma della metafora, cit., p. 15. I corsivi sono nostri. 366 Ibidem. 367 Id., Heidegger e il problema della metafisica, cit., p. 203.  ! 120!  e manifestatività. Nelle analisi che seguono, cercheremo di ridurre ai suoi nodi teoretici essenziali il tragitto onto-antropo-logico del pensiero grassiano. III. II. Essere, apparire e manifestatività tra logos e pathos. La fallacia dell’accusa di dualismo Secondo Grassi è possibile fare esperienza dell’essere non solo attraverso il linguaggio razionale ma soprattutto tramite la contraddizione. In La preminenza della parola metaforica egli riprende il tema già affrontato in Heidegger e il problema dell’umanesimo e analizza il problema dell’essere come fenomeno linguistico e espressione della contraddizione originaria che caratterizza il mondo. Egli sostiene che “l’ambito dell’Essere – in funzione del quale parliamo – non è quello della razionalità nel quale vige il principio di identità ed esclusione della contraddittorietà: il suo ambito è quello della contraddizione [...] siamo dunque obbligati a riconoscere che l’Essere preme, si impone, urge originariamente in un linguaggio non logico”368. Il campo in cui esperiamo l’essere come evento della contraddizione, ossia come evento della differenza ontologica, non è quello di una logica che espelle la contraddizione, ma quello di un logos che include anche il pathos. Occorre soffermarci su quest’ultimo tema e farlo interagire con quello del logos per mostrare la complessità di questi due concetti che non attestano un presunto dualismo369 nel filosofo o una kehre370 tra un “primo Grassi”, dominato dalla questione del logos in pieno clima !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 368Id., La preminenza della parola metaforica. Heidegger, Meister Eckhart, Novalis, Mucchi, Modena, p. 18. 369 Mi riferisco alla posizione di Massimo Marassi del quale condivido l’interpretazione complessiva del pensiero di Grassi e dal quale tuttavia mi allontano a proposito del tema del presunto dualismo. Egli afferma in Ernesto Grassi e l’esperienza del fine che “ancora nei primi scritti la conoscenza concettuale, accanto a quella patetica, costituiva una forma particolare di ordinamento della realtà che manteneva una dignità peculiare. È invece nell’ultima produzione che emerge un’insistenza quasi ossessiva sulla preminenza del pathos. Ma così, bisogna riconoscerlo, Grassi non tiene fede al tentativo di superare il dualismo logos-pathos. In effetti egli avrebbe dovuto ricercare uno sbocco unitario del problema, il solo capace di elidere le difficoltà del dualismo. Invece è semplicemente passato dalla preminenza della concettualità a quella del pathos, invertendo il segno del dualismo, ma restandone prigioniero”, M. Marassi, Ernesto Grassi e l’esperienza del fine, cit., p. 10. 370 Cfr. la posizione di Limongelli secondo la quale il pensiero di Grassi va inteso come un vitalismo o esistenzialismo o ontologia dell’agire storico situativo. Pur accettando parte della ricostruzione del cammino di pensiero di Grassi – soprattutto le sezioni che mettono in rilievo la presenza di Nietzsche e Heidegger – non condividiamo la tesi secondo cui in Grassi è riscontrabile una svolta. Scrive Limongelli in riferimento a Vom Vorrang des Logos che “tale scritto del Grassi ! 121!   attualistico, e un “secondo Grassi”, sensibile alla tematica linguistico-retorica. Secondo la nostra analisi, che coniuga la disamina storica delle opere grassiane con l’indagine teoretica sul tema onto- antropo-logico, nel pensatore milanese il filo conduttore della ricerca si identifica con l’analisi del mondo umano in tutte le sue manifestazioni. In questo percorso l’esperienza filosofica, non ridotta a scienza concettuale, ma vissuta ed esperita come metamorfosi esistenziale e impegno mondano, si caratterizza come indagine fenomenologica sul “come” il reale e l’essere ci appaiono nell’orizzonte umano del mondo storico. In questa ricerca più che il dualismo a emergere è una volontà di ricomporre e non di riproporre quei dualismi che la tradizione filosofica ha lasciato in eredità alla riflessione novecentesca come problemi ineludibili: teoria e prassi, natura e spirito, ragione e passione, immagine e concetto. Nella prospettiva grassiana “se si parte dal dualismo di immagine e concetto, è impossibile trovare successivamente un ponte tra i due [...] ora si tratta di riconoscere una radice comune dell’attività fantastica, metaforica, e di quella razionale – una radice che fonda in ultima analisi la realtà dell’individuo”371. La questione grassiana di delineare uno spazio espressivo per dire l’esperienza dell’originario, del fondamento – la Lichtung – si concretizza nella ricerca di un’unità complessa che salvaguarda il senso del reale senza chiuderlo nelle morse della definizione. Proprio per questo non condividiamo la prospettiva di coloro che leggono il pensiero di Grassi come un passaggio da una preminenza del logos a una del pathos e, quindi, riconducibile sotto il segno del dualismo. La “questione uomo”, intrecciandosi strettamente con quella dell’essere, non può che collocarsi su uno sfondo fenomenologico in cui le forme dell’apparire dell’uomo e del mondo sono indagate in una sostanziale unità, quella del reale372. L’ipotesi che muove queste pagine guarda alla caratterizzazione !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! rappresenta non solo il punto di svolta nel suo pensiero, ma al tempo stesso si presenta come il manifesto teoretico del suo progetto filosofico futuro”, S. Limongelli, Il problema dell’umano nella filosofia di Ernesto Grassi, cit., p. 95. 371 E. Grassi, Potenza della fantasia. Per una storia del pensiero occidentale, cit., p. 66. 372 Sottolinea con forza questo aspetto unitario e non dualistico Rita Messori in Le forme dell’apparire. Estetica, ermeneutica e umanesimo nel pensiero di Ernesto Grassi, cit. Afferma la studiosa che Grassi lega “pensiero e passione ! 122!   complessa di logos e pathos in Grassi. Ma prima di trattare di questo argomento è necessario soffermarci sul tema dell’essere e della manifestatività seguendo le tappe del discorso grassiano al fine di mostrare come nella teoria ontologica, che fa da sfondo a quella del logos e del pathos, siano da rintracciare i motivi di una inconsistenza del presunto dualismo grassiano. III. III. Essere e apparire Secondo l’interpretazione di Grassi l’essere si converte con l’apparire, con la manifestatività, e non va identificato, come accade nella prospettiva oggettivistica, con un dato. L’essere si dà solo e unicamente come processo della manifestazione e per gradi di evidenza e forme distinte. La necessità di riformulare la questione dell’essere è avvertita dal pensatore a partire dagli anni di confronto con Gentile, al quale Grassi fa riferimento già nel saggio La dialettica dell’amore (1924) in cui traspare una posizione anti-immanentista che poco dopo sarà soppiantata dall’accoglimento della filosofia di Gentile coniugata all’esistenzialismo heideggeriano. La dialettica dell’amore insieme al saggio Il tragico, dell’anno precedente, pongono in luce, da un lato, la centralità dei temi esistenziali del dolore e del tragico come contrassegni dell’esistenza umana373 – centralità rifluita nei testi degli ultimi anni come La metafora inaudita e Il dramma della !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! con un duplice nodo: ciò che fa essere il pensiero è una fondazione di tipo estetico; ciò che fa essere l’estetico è il suo fondarsi nel logos. Tra logos e pathos vi è dunque un rapporto di reciproca appartenenza”, ivi, p. 66. 373 In questo saggio Grassi si autodefinisce ancora come oppositore dell’immanentismo (E. Grassi, La dialettica dell’amore, pp. 89-128, in Id., I primi scritti, cit, p. 120) e tale opposizione viene collocata dal pensatore milanese proprio sul terreno esistenziale. La questione del dolore in questo periodo ancora anti-immanentista gioca allora un ruolo importante. Essa attesta da un lato l’attenzione verso la dimensione concreta dell’esistenza che in Grassi emerge già in questi anni attraverso le letture di autori quali Unamuno, Ibsen, Shakespeare, Eschilo, Giobbe, dall’altro un primo confronto con l’immanentismo avvertito ancora come distante dal proprio orizzonte speculativo. Afferma Grassi in La dialettica dell’amore: “Il dolore assurge a un’importanza senza pari, è esso l’anima di tutto il divenire della Realtà in quanto ci permette questo essere una personalità, ossia coscienti e coscienza, che è l’essenza della nostra umanità in quanto in ciò si innesta la possibilità della libertà [...]ora al moderno pensiero immanentista che afferma la realtà, considerata come processo di coscienza, risolve ogni antinomia ed irrazionalità, noi dobbiamo chiedere che esso risolva anche il problema del dolore”, ivi, pp. 118-119. Il dolore si pone come nota distintiva dell’orizzonte umano e come limite per ogni filosofia immanentista attestando una trascendenza che ci sovrasta e che non può essere risolta nell’autocoscienza come forma pura e sintesi delle opposizioni.  ! 123!  metafora – tanto che Grassi giunge ad affermare che “il dolore è in realtà l’anima di tutta la dialettica del Reale”374. Dall’altro, sottolineano il legame ancora profondo di Grassi con il concetto di trascendenza, che andrà dapprima sfumandosi con il saggio del 1924 su Machiavelli per poi essere completamente sostituito nei contributi successivi dall’emergere della questione dell’immanenza. Il mutamento di prospettiva consumatosi in questo periodo – caratterizzato dalla presenza delle idee di Chiocchetti, da un avvicinamento a Croce, da un primo confronto con l’attualismo, che in questa fase appare, in modo evidente, incapace di risolvere quelle questioni esistenziali già ricordate e di garantire uno spazio di operatività del trascendente – è evidente se raffrontiamo due passi grassiani scritti a distanza di pochi anni l’uno dall’altro. Leggiamo in La dialettica dell’amore che “se la realtà nella sua immanenza è pura forma, fuori di essa non esiste più nulla e quindi è tutta, l’unica realtà fuori dello spazio e del tempo di ogni concetto di limite perché come pensiero attuale, concreto, pone esso stesso il tempo e lo spazio e il limite, rimanendo esso l’unico illimitato”375. In polemica con l’idea di un’autocoscienza come pura forma (interpretata dal filosofo come la più grande scoperta di tutta la filosofia d’immanenza di Giovanni Gentile) Grassi asserisce poco dopo che “in ogni modo ci teniamo però a definire e a dichiarare a tutti gli oppositori del sistema immanentista del reale, e quindi a noi stessi, che questo è proprio il punto di capitale importanza da discutere e da controbattere, che esso proprio costituisce lo sbocco e l’affermazione alla quale tutto il pensiero moderno [...] doveva per interna necessità logica giungere, posta la sua premessa”376. Qui il pensatore si pone in opposizione all’attualismo gentiliano, all’immanentismo e alla riduzione della realtà alla forma pura dell’autocoscienza, sottolineando i limiti di una teoria che risolva il dato empirico-individuale, come quello del dolore e del tragico, nella trasparenza del pensiero che dissolve ogni contraddizione. Nel novembre del 1928, appena quattro anni dopo le affermazioni appena ricordate, egli asserisce in una lettera inviata all’amico Enrico Castelli Gattinara !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 374Ivi, p. 118. 375!Ivi, pp. 120.121.! 376 Ibidem.  ! 124!  di Zubiena che la sua posizione speculativa va senz’altro ricondotta nell’alveo dell’attualismo italiano gentiliano coniugato all’ontologia di Heidegger, pur riconoscendo il punto di partenza cattolico della propria formazione filosofica. Scrive Grassi all’amico: “Durante le mie peregrinazioni germaniche nell’anno scorso ho trovato in M. Heidegger uno dei più interessanti pensatori contemporanei [...] il mio filosofare è partito e parte da un desiderio di ripensare il pensiero cattolico, ma siccome in campo filosofico non valgono le intenzioni ma solo la conquista realizzata, non posso dare quello che oggi non ho ancora [...] la mia posizione attuale è il riconoscimento storico dell’attualismo come la forma più coerente e matura del pensiero moderno. Attraverso lo studio dei classici spero di giungere a nuovi orizzonti. Di qui ne consegue che anche il mio lavoro sulla filosofia tedesca è animato da quel riconoscimento dell’attualismo italiano e concretamente dall’ontologia immanentistica di Heidegger. Eccoti riassunta la mia posizione”377. Abbiamo posto l’attenzione su questi due passi per far emergere un aspetto di non secondaria importanza per una comprensione della questione onto-antropo-logica in Grassi. Durante gli anni della formazione giovanile la questione ontologica è contraddistinta dalla compresenza della componente della trascendenza, della realtà del dolore e del tragico, dell’ontologia heideggeriana e dell’attualismo gentiliano in cui la questione dell’essere, della Realtà, dell’apparire nella molteplicità delle forme distinte si intreccia con la dimensione umana, troppo umana dell’esistenza, tutta votata all’interpretazione del mondo circostante, all’elaborazione di categorie ermeneutiche che strutturano lo stesso essere del Da-Sein. Si tratta degli anni in cui il periodo di studio presso Husserl e Heidegger dà i suoi frutti: il problema grassiano della coniugazione di immanenza e trascendenza si incontra con quello fenomenologico (declinato in senso heideggeriano) nel tentativo di guadagnare un concetto di a-priori non gravato dal teoreticismo. Sebbene Grassi non si autodefinisca mai come fenomenologo, secondo la nostra interpretazione dei saggi del primo gruppo su di lui agiscono non solo le esplicitate fonti heideggeriane !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 377 Cfr., l’epistolario raccolto da M. Simonetta in Un inquieto scolaro di Gentile: Ernesto Grassi, pp. 287-299, in “Idee”, 28/29, Lecce 1995, pp. 292-293.  ! 125!  e gentiliane, ma anche la questione fenomenologica husserliana letta attraverso la versione eretica heideggeriana378. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 378 Di “eresia heideggeriana in seno alla galassia fenomenologica” parla Vincenzo Costa in La fenomenologia, cit., in cui si afferma che “la storia del movimento fenomenologico è senza dubbio segnata dalla rottura che si venne a creare tra Husserl e Martin Heidegger all’apparizione di Essere e Tempo”, ivi, p. 264. Nel corso del semestre estivo Prolegomeni alla storia del concetto di tempo (1925) Heidegger passa in rassegna quelli che a suo avviso sono i concetti fondamentali della corrente fenomenologica e che, a suo dire, Husserl non avrebbe radicalizzato, rimanendo impigliato, nonostante l’intenzionalità, nella dialettica di soggetto-oggetto. Il filosofo di Messkirch sente, infatti, l’esigenza di una presa di distanza da quella impostazione husserliana che egli vede come “lacunosa”. L’intenzionalità è una struttura dei vissuti psichici e non “una teoria della relazione tra psichico e fisico”, M. Heidegger, Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, § 5-B, P. 44. Il concetto di intenzionalità indica una relazione tra intentio e intentum, tra l’atto e il contenuto intenzionale. Tale nozione non indica una relazione intenzionale tra un soggetto e un oggetto, ma tra una intentio e un intentum, ossia tra un atto che si dirige verso e un ente nel come del suo essere inteso o intenzionato. Tra loro, per Heidegger, non c’è iato, né diffrazione. Essi sono distinti ma non eterogenei dal momento che sorgono da un’unica fonte. L’individuazione di questa fonte unica e comune di atto noetico e contenuto noematico è il luogo in cui Husserl e Heidegger separano i loro percorsi. Abbiamo detto, infatti, che l’intenzionalità indica una relazione della coscienza con qualcosa; la coscienza è sempre un dirigersi verso... su questo punto Heidegger e il suo maestro Husserl concordano. Ma qual è la radice dell’intenzionalità? Sappiamo dalle Idee che per il filosofo di Prossnitz dall’epochè fenomenologica, ossia dalla riduzione, la coscienza risulta quale residuo fenomenologico, come possiamo leggere al § 33: “Se il mondo intero, inclusi noi stessi con tutto il nostro cogitare, viene posto fuori circuito, che cosa può ancora rimanere? [...] la coscienza in se stessa ha un suo essere proprio che non viene toccato nella sua propria assoluta essenza dalla fenomenologica messa fuori circuito. Essa quindi rimane come residuo fenomenologico, come una regione dell’essere per principio peculiare, che può di fatto diventare il campo di una nuova scienza – della fenomenologia”, E. Husserl, Idee, § 33, PP. 74-76. Da questo passo emerge con chiarezza che attraverso l’epochè la coscienza emerge in tutta la sua intenzionalità fungente, per riprendere un’espressione di Crisi, un’intenzionalità che rende la soggettività trascendentale un’attività costitutiva e funzionale. La coscienza indica la condizione di possibilità del mondo e non un pezzo di esso. Per Husserl, secondo Heidegger, “la coscienza, l’essere immanente, dato in modo assoluto, è ciò in cui si sostituisce ogni altro ente possibile, in cui esso è autenticamente ciò che è. Assoluto è l’essere costitutivo. Ogni altro essere in quanto realtà è soltanto in relazione alla coscienza, cioè relativo ad essa”, M. Heidegger, Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, cit., § 11 C, P. 131. Heidegger tenta di riguadagnare il terreno dell’intenzionale tramite un’operazione opposta all’epochè husserliana e cioè attraverso l’analisi del mondo come dimensione originaria di ogni possibile intentio e intentum, di ogni loro possibile rapporto. Il mondo non è un correlato di coscienza e l’intenzionalità mette in luce proprio questo. La seconda scoperta fondamentale della fenomenologia è l’intuizione categoriale, interpretata da Heidegger come il radicarsi dell’intenzionalità nell’essere-nel-mondo. Essa consente di pensare la categoria come dato, come oggetto in carne e ossa. Si afferma, infatti, al § 6 dei Prolegomeni che “la scoperta dell’intuizione categoriale è la prova, in primo luogo, che c’è un semplice coglimento del categoriale, di quelle entità nell’ente che si delineano tradizionalmente come categorie [...] in secondo luogo è soprattutto la prova che questo cogliere è investito nella percezione quotidiana in ogni esperienza”, ivi, p. 61. L’intuizione categoriale è presente, cioè, in ogni percezione concreta; inoltre, quest’ultima non è sufficiente a mostrare in che modo noi ci rapportiamo agli enti in quanto “l’ente percepito si mostra sempre soltanto in un determinato adombramento”, p. 62. La percezione non è mai adeguata a conoscere completamente l’ente, il quale si dà solo parzialmente. In altri termini, l’intuizione categoriale permette di gettare luce sul dato, attraverso la categoria, in un atto unico che ci permette di identificare un oggetto. Infatti, le sensazioni non permettono all’ente di apparire nella sua identità oggettuale, esso si presenta come oggetto unicamente tramite un’eccedenza, costituita appunto dall’intuizione categoriale. É possibile istituire un parallelo tra il senso dell’intuizione categoriale di cui si parla nei Prolegomeni e quello dell’intuizione pura affrontata in Kant e il problema della metafisica se si pensa al fatto che l’intuizione categoriale, come quella pura, consentono quel darsi dell’oggetto che secondo Heidegger è reso possibile dalla sintesi a-priori dell’immaginazione e che ritroveremo in Grassi nei termini di fantasia e ingegno come modalità di apprensione del reale. La terza scoperta fondamentale della fenomenologia è il concetto di a-priori. Rispetto all’impostazione classica che lega l’a-priori alla sfera del soggetto “la fenomenologia – avverte Heidegger – ha mostrato che l’a-priori non è limitato alla soggettività”, ivi, pp. 92-93, ma è un titolo dell’essere. Esso non è solo qualcosa di “immanente che appartiene primariamente alla sfera del soggetto”, ibidem, e nemmeno qualcosa di “trascendente, che inerisce specificamente alla realtà”, ibidem. In quanto tale, l’a-priori “diventa esibibile in se stesso in una semplice intuizione”, ibidem. Questa esibizione intuitiva dell’a-priori, ossia l’intuizione categoriale/pura e la connessa intenzionalità mettono in luce come il vero “trascendens puro e semplice” non sia il soggetto, nè l’oggetto, ma la relazione stessa, l’intenzionalità che è possibile solo in quella Lichtung che è il mondo. ! 126!   Sarebbe un’operazione forzata includere in seno alla “galassia fenomenologica”, sia pure nella sua variante eterodossa, anche Grassi. Tuttavia ci pare doveroso sottolineare, al di là degli esiti e dei metodi di ricerca certamente differenti, una comunanza di tematiche e di interessi di innegabile evidenza: i temi della manifestatività, delle forme e dei gradi dell’apparire, dell’immanenza e dell’evidenza, della critica all’obiettivismo. Infatti, è in questo periodo fecondo che si impone il ripensamento del tema della manifestatività nella sua identità con la questione ontologica. In Il problema del logo si afferma che la ricerca della manifestatività si identifica con la questione dell’essere: “L’originario vero non può venire inteso come la svelatezza di un oggetto, ma solo come quella di un processo; questo processo a sua volta non si rivela che come un manifestarsi, un distinguere se stesso. Se il processo di distinzione non fosse il primo, non sarebbe possibile passare dal non manifesto a ciò che è manifesto [...] il processo deve quindi essere inteso come un auto-manifestarsi. É importante notare che la nostra ricerca dell’essenza della svelatezza non ci permette alcuna distinzione tra manifestazione ed essere”379. In questo passo si profila un’idea di essere come processo e automanifestazione lontana dall’ontologia oggettivistica che riduce l’essere al dato. Comprendere l’essere è possibile soltanto se lo si identifica con il processo di manifestazione. L’originario, il fondamento a cui l’antropogenesi è indissolubilmente correlata, si presenta non come dato ma come processo, atto della manifestazione. Ciò comporta un’analisi ontologica che Grassi fa partire da una messa in discussione del concetto oggettivistico dell’essere in quanto dato inteso come presenzialità immediata. Se la ricerca del vero della prospettiva empiristica si fonda su una riduzione dell’essere al dato, allora questa concezione sottintende un’aporia che Grassi prontamente mette in evidenza: “l’empirismo rinvia all’immediata presenza quando deve legittimare la propria verità. Soltanto dobbiamo domandarci se il “fatto” come tale, ci porga veramente l’immediata presenza: ove ciò non avvenisse, ove l’immediata presenza non fosse racchiusa nel fatto, quella verità, cui l’empirismo si richiama, sarebbe proprio per esso irraggiungibile”380. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 379 E. Grassi, Il problema del logo, in Id., I primi Scritti, cit., p. 376. 380 Ivi, p. 374.  ! 127!  La contraddittorietà del dato in qualità di immediata presenza mostra come l’originario non possa mai darsi come un dato – poiché in questo caso sarebbe qualcosa che è già diventato, realizzato – non indicando ciò che è diventato e che si è cristallizzato come fatto, oggetto, bensì il divenire, il manifestarsi, ciò che “sta essendo”. L’immediata presenza a cui l’empirismo si richiama non può essere un fatto o un dato ma il divenire, il manifestarsi poiché “il presente, l’attuale, non può mai assumere la forma di un fatto, di qualcosa che è solo in quanto diventato, finito. Il dato, il fatto presente, nel senso naturalistico- empiristico è una contraddizione in sé, perché vorrebbe affermare che qualcosa, che è già diventato, sia attualmente presente [...] l’essenza della presenzialità immediata – che dovrebbe essere l’essenza della svelatezza empiristica – non è dunque ciò che è diventato e che si è cristallizzato come fatto, oggetto, bensì il divenire, il manifestarsi”381. Dalle tesi grassiane sull’essere emerge la presenza di una teoria metafisica immanente dell’esistente, del Da-sein come attualità concreta, che coglie l’essere attraverso una facoltà che è sia logica che patica. Abbiamo visto che l’essere per Grassi non è più un dato empirico o un concetto trascendente, ma è fondato nell’esistente come attualità, autorealizzazione originaria e trascendentale, dove l’hic et nunc, il qui e l’ora dell’autorealizzazione del Da-Sein, rivela la sua intrinseca storicità. L’essere indica per Grassi “ciò che sta essendo”, quindi un divenire, un processo che dice della dynamis insita nell’essere. Si tratta, quindi, di un’ontologia dinamica e non statica, che comporta anche una riforma del sapere, del linguaggio e del metodo. Pertanto afferma Grassi che “il metodo per il conseguimento del sapere non può più essere razionale, fondante, in quanto esso può essere determinato soltanto sul fondamento della risposta alla domanda su come e attraverso cosa viene originariamente esperito. Un tale pensiero non può più essere formale, perché si tratta di questo, di rispondere all’appello dell’essere che ci riguarda, cioè si tratta della domanda in quale non-nascondimento (Unverborgenheit), in quale schiarita (Klärung) – (le luci, le radure (Lichtungen) nel bosco di cui parla G. B. Vico) – l’ente – al quale l’uomo appartiene – appare certamente”382. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 381 Ivi, p. 375. 382 Id., Il colloquio come evento, tr. it. di R. Messori, La Città del Sole, Napoli 2002, p. 81.  ! 128!  III. IV. Metodo statico e metodo aporetico Al metodo statico della tradizione filosofica tradizionale, quello che per Grassi mira alla definizione del concetto che dice della cosa unicamente il suo essere ente e non la sua polisemia costitutiva, il filosofo contrappone una via di ricerca, un metodo aporetico, che pone in luce come la verità non sia la verità di un oggetto, sia esso empiristico o razionalistico, ma quella di un processo. Su questo aspetto Grassi si sofferma soprattutto in Il problema della metafisica platonica del 1932. Le “meditazioni platoniche” grassiane sono dominate dai temi della verità, dell’essere, della manifestatività e della pluralità delle forme, che qui trovano una prima esplicazione sistematica correlata anche alla questione dell’umanesimo. Il tema di Il problema della metafisica platonica è individuato da Grassi nell’ambito della problematizzazione del concetto di forma. Il tema dell’eidos è coestensivo a quello della ricerca del ti esti e si viene configurando secondo il filosofo milanese come risposta da parte di Platone all’oggettivismo sofistico. La ricerca sulla forma è in generale la ricerca dei modi della manifestazione del reale come modi di determinabilità383. Scritto nel 1931, il testo è pubblicato grazie a Benedetto Croce nel 1932 presso l’editore Laterza ed è dedicato a Heidegger, il filosofo al quale Grassi si sentirà legato per tutta la sua esistenza e che insieme a Gentile ha maggiormente influenzato il suo pensiero. In questo testo Grassi analizza il dialogo platonico Menone in polemica con le interpretazioni tradizionali che guardano a Platone come il rappresentante di un astratto razionalismo. Egli si chiede se sia legittima una interpretazione oggettivistico- razionalistica del pensiero platonico o se, invece, non si debbano gettare le basi per un discorso su Platone partendo dalla teoria della reminiscenza ed enucleando il significato teoretico del dialogo. Il filosofo sostiene che lo scopo di Il problema della metafisica platonica “è di porre solo in discussione il problema della legittimità della tradizionale interpretazione della metafisica platonica. Ricorre veramente Platone a un oggettivismo razionalistico – che egli contrappone a quello empiristico della sofistica – per fondare quella conoscenza oggettiva e certa, quella metafisica, la cui possibilità negavano i sofisti? Non è forse lecito avere alcun dubbio riguardo !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 383 Id., l problema della metafisica platonica, Laterza, Roma-Bari 1932, p. 60. ! 129!   all’affermazione che egli come filosofo, ha cercato di superare l’obiezione sofistica [...] fondando una teoria del sapere come reminiscenza?”384. Il pensatore sottolinea l’attenzione di Socrate verso l’anamnesi385 come tentativo di arginare la carica distruttiva dell’ipotesi eristica di Menone, per il quale non è possibile indagare né ciò che non si conosce, né ciò che si conosce, perché nel primo caso non si saprebbe cosa cercare, mentre nel secondo la ricerca è inutile386, e legge la tesi platonica attraverso un filtro attualistico-esistenziale. Scrive Grassi che “se il processo di reminiscenza non ha inizio, la verità non è affatto al di là del processo di ricerca, ma coincide con esso. Ciò che noi chiamiamo verità, ciò che si manifesta, è contenuto nel processo dell’atto filosofico, è anzi quell’atto medesimo”387. La verità non è al di là del percorso di ricerca, ma si identifica con il suo stesso formarsi, con il processo; inoltre il tema del vero si incrocia con quello dell’apparire, del manifestarsi mostrando come entrambi – il vero e l’essere – non siano alcunché di trascendente, ma al contrario si identifichino con il domandare stesso: il domandare, il ricercare in cui si alternano in un ritmo incessante certezza e dubbio. L’oggettività del vero e dell’essere trova il suo fondamento nel comune terreno del dialogo e non in ciò che è esterno a noi. “Se il determinarsi della realtà si realizza nel logo, il dia-logo è la concreta forma della manifestazione dell’essere; in questo caso nel dialogo la !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 384 Ivi, p. 8. 385 “SOCR. Poiché dunque l’anima è immortale ed è rinata più volte, e ha visto tutte le cose, sia quelle di qui sia quelle dell’Ade, non c’è nulla che non abbia appreso. Perciò non deve meravigliare che essa, sia sulla virtù sia sulle altre cose, possa ricordare ciò che conosceva già prima. Dal momento che tutta quanta la natura è affine e che l’anima ha appreso tutte quante le cose, nulla impedisce che, ricordandosi di una cosa soltanto – ciò che gli uomini chiamano appunto apprendimento – riscopra tutte le altre, sempre che si tratti di qualcuno coraggioso e che non desista dal ricercare. Infatti ricercare e apprendere sono in generale reminiscenza”, Platone, Menone, a cura di F. Ferrari, Milano 2016, 81 c 8- d 6, pp. 201-203. 386 “MEN. Ma in quale modo cercherai, Socrate, ciò che non sai affatto che cosa è? Quale delle cose che non conosci proporrai come oggetto della ricerca? E nel caso in cui ti imbattessi veramente in essa, come farai a sapere che è proprio quella che non conoscevi? SOCR. Capisco che cosa intendi dire, Menone. Bada che stai richiamando l’argomento eristico in base al quale per l’uomo non è possibile ricercare né ciò che conosce né ciò che non conosce: infatti non cercherebbe ciò che conosce – perché lo conosce e non ha bisogno di una simile ricerca – , e neppure cercherebbe ciò che non conosce – perché non saprebbe che cosa dovrà cercare”, ivi, 80 d 5- e 7, pp. 193-195. 387 E. Grassi, Il problema della metafisica platonica, cit., p. 116. ! 130!   contesa, !"*-, diventa ed è essenzialmente ricerca”388. Vorremmo sottolineare – a sostegno della nostra ipotesi interpretativa che nega una svolta retorica-patica di un “secondo Grassi” rispetto ad un “primo Grassi” dominato dal problema del logos – che già in questo testo del 1932 la problematica retorica appare centrale come discussione intorno al valore del dia-logo come metodo di ricerca della verità in opposizione all’arte eristica e sofistica come “forme spurie di retorica”389. Qui il pensatore mostra di aver fatto proprio il motto platonico esposto nel Cratilo secondo cui la quintessenza dell’umano riposa nella ricerca390, come possiamo leggere anche in un saggio del 1932, Il problema filosofico del ritorno al pensiero antico, nel quale l’essenza di ànthropos, fatta derivare dall’etimologia del termine, riposa proprio nello sforzo interpretativo, nella fatica costante del pensare la realtà, il mondo oggettivo. In tale sforzo, in tale compito, in tale impegno, risiede l’essenza del neoumanesimo grassiano: “Se con atteggiamento umanistico si intende un ritorno alle radici della nostra umanità, e se questa non sta in una realtà storica esteriore ma in noi, allora quel ritorno non può essere fecondo che portando alla luce la nostra umanità nell’atto filosofico educato allo sforzo interpretativo”391. Ritornando al tema della funzione del dialogo e della sua capacità di aprire l’ambito dell’oggettività e della determinazione possiamo rilevare come in Grassi “la determinatezza dell’oggetto da cui parte una domanda, non è solo il fondamento della sua oggettività, ma anche il fondamento dell’oggettività di un dialogo, e quel ti esti è l’unica base di una ricerca comune !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 388 Ivi, p. 87. 389 Ibidem. 390 “Questo nome, ànthropos, significa che, mentre gli altri animali sulle cose che vedono non indagano nulla, non congetturano e non anathrèi (osservano attentamente), l’ànthropos nel momento stesso che vede – e cioè òpope (ha visto) – anathrèi e ragiona su ciò che òpope. Di qui perciò all’uomo, unico fra gli animali, è stato dato correttamente nome ànthropos, in quanto anathròn hà òpope (osserva attentamente ciò che ha visto)”, Platone, Cratilo, 399 c, tr. it. a cura di F. Aronadio, Laterza, Roma- Bari 1996, p. 43. 391 E. Grassi, Il problema filosofico del ritorno al pensiero antico, “Rivista di filosofia”, Milano XXVIII, aprile-giugno 1932, n. 2, pp. 136-154 ora in Id., I primi scritti, cit., p. 271. Corsivo nostro.  ! 131!  positiva”392. La determinatezza della cosa si fonda allora non nella cosa stessa, ma nella nostra ricerca che ha origine nell’atto aporetico con il quale ha inizio il ricercare. “L’aporia come ricerca (.,/,μ&)”393 ha fatto emergere la co-appartenenza dell’aporia con il tema della visione dell’!*'$-. Secondo il pensatore milanese il punto di partenza della ricerca è la situazione di dubbio in cui si trova colui che ricerca e afferma che “se la determinazione si dà attraverso l’attualità aporetica [...] questa attualità aporetica, è il fondamento delle determinazioni”394. L’attualità aporetica, il dubbio, è il fondamento reale della manifestazione, dell’essere ed è l’essenza di ogni possibilità di discriminazione e comprensione395: qui risiede il valore metafisico-esistenziale delle teorie platoniche, le quali non vanno interpretate alla luce di un dualismo che fa capo alla dottrina dei due mondi ma come metafisica della finitezza396. Viene in primo piano in questo testo anche la centralità del tema del dialogo che, per Grassi, non gioca solo il ruolo di una forma espressiva tra le tante possibili, ma va a costituire la struttura e l’architettura del pensiero platonico che è intrinsecamente aporetico. Anzi solo come aporia il filosofare dispiega la sua essenza autentica: il filosofare “è nella sua essenza approfondire, essere capaci di domandare sempre più radicalmente, il filosofare è essenzialmente una )!%*&, una fatica, e solo in essa ci si conquista la realtà”397. La fatica del ricercare non ha solo una connotazione psicologica ma è l’“elemento caratteristico e veramente intrinseco alla struttura dell’atto speculativo”398. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 392 Id., Il problema della metafisica platonica, cit., p. 21. 393 Ivi, p. 86. 394!Ivi, p. 71.! 395 Ibidem. 396 “In funzione del chiedere si dà l’essere, la sua manifestazione e in quanto il chiedere è sempre determinato, quest’essere che appare è sempre finito, e l’affermazione metafisica che a suo riguardo si può fare, è l’affermazione metafisica di un essere finito. Con questa finitezza dell’essere non s’intende di fare né un’affermazione scettica o relativistica, né un’affermazione che limiti la filosofia. In quanto l’essere – così come esso di dà – è sempre finito, la metafisica è nella sua essenza, metafisica del finito”, ivi, p. 72. 397 Ibidem. 398 Ivi, p. 74.  ! 132!  La fecondità teoretica dell’aporia platonica nell’iter di pensiero grassiano va di pari passo con la sua costante critica alla concezione oggettivistica della filosofia che caratterizza non solo lo scritto platonico del ’32, ma tutti i contributi che, a partire dagli anni Trenta fino alla metà degli anni Quaranta, sono improntati alla definizione di un’idea di logos complesso al di fuori dei cardini dell’obiettivismo tradizionale e più aperto alla dimensione patica. In un testo tardo, Il colloquio come evento, frutto degli incontri zurighesi a carattere seminariale avvenuti a partire dal 1977 con colleghi appartenenti a diversi settori disciplinari, emerge in modo esplicito il senso che la pluralità delle forme espressive in generale e il dialeghesthai in particolare riveste per Grassi399. I dialoghi platonici offrono l’occasione di pensare all’atto linguistico in modo nuovo: nel dialogo si realizza un colloquio. Il filosofo è mosso dal convincimento che occorre distinguere il dialogo dal colloquio, al fine di ritrovare il senso autentico di un dialogo non ridotto a monologo scientifico: “se alla fin fine il dialogo scientifico si radica in un monologo, emerge la questione circa il luogo in cui trova posto il colloquio. Quali sono l’essenza e la struttura del colloquio? Noi distinguiamo ora il dialogo dal colloquio perché abbiamo visto che il dialogo razionale viene condotto come un monologo, mentre un colloquio presuppone una situazione storica come punto di partenza e come misura”400. Il concetto di situazione acquista per il filosofo un significato prioritario poiché rappresenta la forma originaria in cui l’uomo agisce, pensa e vive; e proprio il legame tra il dialogo-colloquio e la situazione mette in luce il valore metafisico del dia-leghestai come de-limitarsi dell’essere all’interno del domandare stesso. Si tratta di un evento semiotico in cui i dialoganti, attraverso l’Erfahrung linguistica, esperiscono la possibilità che sorge dal linguaggio in atto di accedere alla verità, ai recessi dell’essere, attraverso l’esercizio della parola e del domandare. È l’atto del domandare l’atto di nascita del filosofare, del tendere continuo al sapere nell’esercizio vivo della domanda. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 399 Cfr., R. Messori, L’affettività del colloquio, pp. in E. Grassi, Il colloquio come evento, cit., e V. Mathieu, I temi di Grassi nei “Colloqui Zurighesi”, in AA. VV, Studi in memoria di Ernesto Grassi, cit., pp. 305-314 e H. Schmale, Lo spirito dei colloqui di Zurigo, ibidem, pp. 315-323. 400 E. Grassi, Il colloquio come evento, cit., p. 61. Corsivo nostro. ! 133!   L’unico metodo per il filosofare nasce dall’aporia, dall’assenza di certezze e nella insistenza nel ricercare da parte del dialogante che tenta di arginare l’ambiguità del dire e il dinamismo intrinseco della realtà e dell’essere nello spazio interumano di costruzione del senso. Il senso autentico della metafisica immanente di Grassi emerge proprio nel dia-legesthai, ossia nel “dire attraverso il logos” il divenire dell’essere, che grazie al logos guadagna paradossalmente una permanenza: questo è il senso della riflessione sulla metafora che è la modalità logica di portare ad espressione l’essere del divenire. La metafora, pur non sostituendosi al concetto, rappresenta lo stile linguistico entro cui e a partire da cui si dispiega la teoresi. Infatti, Grassi afferma che “la forma originaria del colloquio nella sua funzione storica è metaforica.”401 L’importanza della tesi di libera docenza del 1932 è emersa in tutti i suoi aspetti teoretici fondamentali facendo venire in superficie temi centrali in tutto il cammino di pensiero di Grassi. In questo testo l’essenza della verità è ricondotta alla struttura del dialogo. Grassi tenta quell’accordo tra apofansis e poiesis, tra manifestazione e creazione, tra enunciazione della verità e la condizione che la rende possibile, tra verità e significatività attraverso l’analisi della questione metodica da cui risulta un’idea di verità extra-metodica: nel vero siamo già da sempre immersi poiché il vero è il processo stesso della ricerca. La fecondità teoretica dell’aporia, che non è una strada sbarrata per il pensiero ma l’unica percorribile, consente a Grassi anche di pensare all’idea di un rinnovamento linguistico che può esserci solo se si riconosce l’origine metaforica del linguaggio. La volontà di sottolineare l’arcaicità della metafora come a priori del linguaggio, fondamento e Grund, fa emergere come la metafora non sia intesa come tropo – o non solo come tropo, parola – ma come energheia, atto traspositivo. La riflessione grassiana su metafora e retorica, come vedremo nell’ultimo capitolo, è guidata proprio da questa idea di una teoria dell’atto metaforico che agisce come trascendentale del linguaggio. In Il problema della metafisica platonica il tema della determinazione del ti esti, !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 401 Ivi, p. 71.  ! 134!  incrociandosi inevitabilmente con quello della ',0(1*-, della manifestazione della realtà, pone anche il tema della verità e del sapere. Se il vero non è mai un dato, ma è raggiunto nel processo di ricerca, il sapere ad esso adeguato non sarà un sapere concettuale che fossilizza e rende statico ogni elemento della ricerca, ma un sapere noetico che, per Grassi, è arcaico e indicativo. Qui risiede il valore semantico dell’ontologia fenomenologica di Grassi che gravita intorno al concetto di nous, sinonimo di ingegno e di fantasia. Il nous ha l’aspetto di una “intelligenza senziente” o di una sensazione intelligente per dirla con Zubiri, il quale, insieme a Grassi e Ortega, è uno degli allievi “latini” di Heidegger, come ricorda Grassi in La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale402. L’essere si presenta originariamente non nella forma di essenza concettuale ma come atto, in un’attualità che sta prima di ogni riflessione teoretica. L’essere come oggetto di ulteriori atti di riflessione è, infatti, dipendente dall’attualità del Da-Sein in cui l’essere si dà, si determina. La determinazione ante-predicativa è resa possibile solo perché l’essere in qualche modo ci è già manifesto prima di ogni possibile rapporto di predicazione. Tale pre-intelligenza dell’essere è da intendersi come il logos originario che dice non il factum – l’essere ridotto al datum – ma il fieri – il processo di manifestazione. In questo discorso si inserisce anche il tema del nulla. III. V. La funzione metafisica di nulla e angoscia Grassi, in Il problema del logo, sostiene che “se la svelatezza dell’essere si chiude in un processo, allora esso [...] deve contenere in sé il nulla e l’essere, giacché ogni processo, ed anzitutto quello metafisico, realizza sempre un passaggio dal nulla all’essere. Ne deriva che a loro volta i concetti del nulla e dell’essere determinano il nostro concetto di processo”403. L’importanza della questione del nulla come co-fattore, insieme all’essere, nella !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 402 Id., La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale, cit., p. 31. 403 Id., Il problema del logo, cit., p. 377.  ! 135!  determinazione del divenire è centrale nella definizione di un’idea di logos capace di dire il processo di manifestazione. Se ciò che si manifesta si identifica con l’essere, e se la manifestazione va intesa come uno scindersi e distinguersi di sé, “come deve essere inteso questo processo? Scindere, distinguere, portare ad unità, sono i vari termini con cui traduciamo 0!#!*%, logo”404. La centralità del logos, quale modalità in cui l’essere accade in quanto processo, potrebbe essere confusa con un’ennesima concessione alla logica tradizionale. Tuttavia Grassi distingue un significato inautentico di logos da uno autentico come modalità di svelamento dell’essere. “Il logo come oggetto della logica tradizionale è il logo in quanto pensato, oggettivato. Il logo non viene da essa studiato come un atto concreto, come un auto-distinguersi realizzantesi, bensì come verità di giudizio [...] in quanto il manifestare logico, come verità di giudizio, si fonda in una verità più originaria, sorge la necessità e la legittimità di distinguere due differenti concetti del manifestare: la verità del giudizio (come verità logica nel senso tradizionale) e la svelatezza originaria degli enti”405. É precisamente in questa direzione che il filosofo conduce la propria ricerca, collimante con la filosofia italiana a lui coeva e il pensiero heideggeriano, con l’intento di guadagnare un concetto di logica al di fuori dell’orizzonte obiettivante che riduce l’essere al dato, all’ob-jectum senza riguardo verso il processo di manifestazione, verso quel divenire che è passaggio dall’essere al nulla. Un logos adeguato all’espressione del divenire è un logos che riesce a pensare il nulla senza oggettivarlo, quindi senza cadere in contraddizione. La tradizione filosofica pensa il logos come 0$#$- /*%$-, dove il /*%$- è un $% rispetto a cui il logos è adaequatio. Il problema è quello di guadagnare un “nuovo significato di logo, libero da ogni dialettica formale”406 che riesca a relazionarsi al nulla e a farlo oggetto di domanda e di esperienza. Si chiede Grassi: “in che rapporto stanno il Nulla e l’Essere? L’Essere sorge dal nulla? Ma in che modo è il nulla? Si può dire senza contraddizione che il Nulla sia?”407. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 404 Ibidem. 405 Ivi, p. 378. 406 Ivi, p. 379. 407 Ivi, p. 380.  ! 136!  L’importanza del nihil all’interno dell’indagine ontologica è direttamente conseguente all’assimilazione del processo di manifestazione all’auto-distinzione, dove lo svelamento contiene in sé già l’essere e il nulla, la possibilità di mostrarsi ed occultarsi, come quella dell’errore e della verità. Ora se la logica tradizionale rifiuta ogni tipo di trattazione scientifica del nulla per i motivi già espressi dobbiamo cercare un altro modo in cui il nulla si manifesta. Una simile ricerca consente anche di porre la questione dell’essere al di fuori del circuito oggettivistico – sia esso empiristico o razionalistico – e secondo Grassi in questo tentativo di ripensamento di una via di accesso al nulla giunge in aiuto la proposta heideggeriana della priorità della Stimmung dell’angoscia/ansia408, che viene ad incontrarsi con quella attualistica del logo come atto. Si chiede Grassi: “esiste dunque il nulla, e qual è il suo rapporto con l’essere? L’angoscia che ci rivela il nulla è il presupposto dell’atto logico?”409. Sorge il tema della funzione metafisica dell’angoscia che sollecita un approfondimento del rapporto tra angoscia, logos e manifestatività, ossia della correlazione problematica e non dualistica di logos e pathos. L’essere originario, dunque, se non è un dato, un oggetto trascendente, ma un divenire, un processo, esso comprenderà al suo interno anche la questione del nulla. Il nulla non è ma esiste e il suo urgere per Grassi si rivela nell’angoscia esistenziale costitutiva dell’uomo: “il nulla sorge [...] esclusivamente nell’esistente come il vanificarsi dell’esistente medesimo nella sua totalità. Questo vanificarsi della realtà nello stato dell’angoscia esistenziale manifesta pure per la prima volta l’esistente come un completamente altro da esso e come tale lascerebbe sorgere di fronte a noi la realtà dell’essere come essere nella sua originaria alterità e possibilità di determinazione”410. Il nulla come vanificarsi dell’esistente appare nel sentimento dell’angoscia in cui l’essere si manifesta nella sua assoluta alterità, nella sua convertibilità con il nulla. L’angoscia è il fenomeno !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 408 I termini angoscia e ansia sono usati indistintamente da Grassi, tuttavia egli usa il termine ansia in riferimento all’Angst heideggeriana solo nel saggio del 1929 Il problema della metafisica immanente di M. Heidegger, cit., p. 220, in Id., I primi scritti, cit., pp. 203-228. Nei saggi successivi il termine ansia viene sostituito da angoscia. 409 Ivi, p. 385. 410 Id., Il problema del nulla nella filosofia di M. Heidegger, cit., pp. 328-329.  ! 137!  stesso del fondamento, è la modalità in cui il processo di manifestazione dell’essere nella sua differenza accade: “l’angoscia quindi in cui il nulla si mostra come il vanificarsi della totalità dell’esistente, è la fonte della possibilità di pensare [...] è allora proprio che l’esistente si manifesta e può diventare oggetto di domanda nella sua totalità”411. Il nulla che appare nell’angoscia nella sua convertibilità con l’essere, e che connota l’intero atto di manifestazione e auto-distinzione dell’originario, è la condizione trascendentale del logos. Il logos è il modo umano del darsi della co-estensione e coappartenenza di essere e nulla. Quest’ultimo non va quindi inteso nel suo valore logico di negazione ma nel suo valore di annientamento dell’esistente e di pura possibilità. Solo attraverso il nulla l’essere appare come realizzazione delle pure possibilità umane e quindi come compito, sforzo e atto, concetti, questi, davvero fondamentali nella filosofia di Grassi che mostrano, da un lato, la presenza di una componente etica del sui pensiero nel senso generale di ethos come “orientamento della vita al telos”, dall’altro il radicamento di tale orientamento nella struttura temporale della coscienza umanistica, che, come vedremo, è caratterizzata da una componente cairologica che fa convergere tutta l’attenzione verso il kairòs, il “tempo opportuno”, e quindi verso la scelta, la decisione. In Grassi più che agire una temporalità contrassegnata dall’eschaton di heideggeriana memoria è presente l’attenzione verso il kairòs, il “tempo opportuno” che va a strutturare la nostra relazione con il mondo circostante. Come abbiamo tentato di dire in queste pagine il reale, l’essere, il suo apparire si manifestano nel perimetro antropico in molteplici modi, tutti interrelati, in cui una delle molteplici forme dell’apparire non può essere dedotta da un a priori logico. A giudizio del filosofo alla logica del pensato non può spettare l’ultima parola sulla vita e un’intelligenza ante-predicativa, pre-teoretica del reale è possibile solo se si getta luce su un’esperienza originaria del reale, dell’essere, di cui la logica è solo una forma di apparire derivata e secondaria. Come si relazionano il logos e il pathos in questo orizzonte di ricerca? !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 411 Ivi, p. 329.  ! 138!  III. VI. Logos et pathos convertuntur Grassi distingue un doppio significato per entrambi i concetti: uno autentico e uno inautentico. Da una parte abbiamo il logos inautentico, quello della logica astratta, del razionalismo deduttivistico, dell’a priorismo gnoseologico e il pathos inautentico, quello ridotto a fenomeno psicologico e privato, a esperienza chiusa nella singolarità. Dall’altra ci sono il logos autentico proprio del pensiero pensante e concreto, che sperimenta la manifestatività dell’essere nell’autodistinzione, e il pathos autentico che va inteso in senso metafisico. L’angoscia costituisce appunto questo pathos autentico. Per Grassi il pathos è sempre già connotato ontologicamente e non si riduce all’affectio o all’emozione. Solo ed unicamente sul suo fondamento facciamo esperienza della nostra apertura mondana, della Lichtung e dell’evento della differenza ontologica: secondo il filosofo nel pathos “l’inaudito appare sul palcoscenico della storia”412. Esso è “passione abissale”413 in cui accade il fenomeno dell’essere e allo stesso tempo il suo sottrarsi: il pathos metafisico indica il nostro lasciarci afferrare dalla realtà, dall’essere che si impone e contro cui urtiamo senza possibilità di sottrarci al suo appello. Nell’esperienza patica l’uomo si trova di fronte al proprio disancoramento e alla propria angoscia in cui “questo vanificarsi della realtà nello stato dell’angoscia esistenziale manifesta pure per la prima volta l’esistente come un completamente altro da esso e come tale lascerebbe sorgere di fronte a noi la realtà dell’essere come essere nella sua originaria alterità e possibilità di determinazione. L’angoscia quindi in cui il nulla si mostra come vanificarsi della totalità dell’esistente è la fonte della possibilità di pensare (come pensare l’essere) e di filosofare e in esso sorge la possibilità di trascendere l’esistente nella sua totalità rendendolo possibile termine di domanda”414. Nel pathos dell’angoscia noi esperiamo l’assenza di mondo e la possibilità allo stesso tempo di implementare ordini di realtà, progettazioni e creazioni, per arginare l’“assenza di mondo” in cui l’uomo è gettato proprio perché privo di orientamenti precostituiti. L’esperienza della dismondanizzazione e di assenza di mondo, su cui ci soffermeremo a breve, sono il regno dell’Aperto !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 412 Id., La metafora inaudita, cit., p. 92. 413 Ivi, p. 40. 414 Id., Il problema del nulla nella filosofia di M. Heidegger, in Id., I primi scritti, cit., p. 329.  ! 139!  in cui è assente ogni direzione, ogni coordinata, ogni orientamento. Il filosofo asserisce che “in quest’esperienza siamo di fronte all’Offenheit, a quella apertura che, non essendo la nostra dimensione, ci paralizza [...] qui gli oggetti diventano trasparenti, quasi fluorescenti, tu non ti puoi più aggrappare a loro, non puoi più tenerli in mano per costruire con loro un mondo, e comincia la sensazione del precipizio”415. A caratterizzare maggiormente l’esperienza patica è quindi la sua componente metafisica e non psicologica: nel pathos facciamo esperienza dell’originario. La passione ha anche un significato arcaico nel senso di fondativo: “si è costretti a riconoscere che la passione agisce come archè, potenza elenchica, che ci espone perché non possiamo liberarci da essa, incombe come destino e nella sua luce fa apparire il significato di ogni ente”416. Essa consente di prendere coscienza dell’eventualità dell’essere, dell’apertura dei mondi, dell’aletheia come schiudersi, aprirsi e darsi della concreta situazione storica: in questo contesto ontologico si installa la visione antropologica di Grassi. L’esperienza dell’oggettivo, dell’essere ai cui appelli dobbiamo corrispondere rende possibile la costruzione del secondo livello di oggettività, quella dell’umano. Il corrispondentismo, che permea quell’ambito gnoseologico messo da parte dal filosofo, viene recuperato sul piano ontologico: l’adeguazione dell’oggettività dell’essere, dell’originario, il nostro corrispondere all’evento va di pari passo con l’antropogenesi. Solo grazie a ciò l’uomo diventa uomo e l’Umwelt diviene Welt attraverso le pratiche di umanizzazione della natura. A parere del filosofo “noi ci troviamo di fronte al compito di un ordinamento solo perché circondati e sommersi in un mare di fenomeni nei quali dobbiamo riconoscere di non saperci orientare: esperimentiamo l’angoscia primordiale dell’assenza di mondo. Questa esperienza della negatività, della mancanza di mondo è il primo ed originario aspetto della necessità della trascendenza, in funzione alla quale solo incontriamo un materiale per la formazione del nostro mondo”417. Sulla base di quanto detto è emersa una prospettiva che lega indissolubilmente la tematica dell’essere e quella del nulla alla Stimmung dell’angoscia generando una rinnovata idea di logos. Se !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 415 Id., Assenza di mondo, cit., p. 226. 416 Id., Il dramma della metafora, cit., p. 131. 417 Id., Mito e arte, cit., p. 147. I corsivi sono nostri.  ! 140!  il reale è processo di manifestazione, divenire e passaggio dall’essere al nulla, allora il logos capace di dire questo processo, questo apparire, questa manifestatività autodistinta, non può essere il logos logico inteso in senso tradizionale. Occorre ripensare il logos al di là dei cardini di un riduzionismo logico, tenendo conto della co-originarietà delle forme del manifestarsi del reale. La funzione del logos in Grassi ha destato non pochi problemi per gli interpreti, come abbiamo visto. Se nei saggi giovanili come Il problema del logo del 1936 il logos è considerato nella sua preminenza rispetto alla Stimmung, nei saggi successivi come Il reale come passione e L’inizio del pensiero moderno abbiamo un capovolgimento di questa posizione soprattutto sulla scorta dell’analisi del dubbio. Di seguito riporto le affermazioni che possono aver suscitato l’idea di dualismo. In Il problema del logo il filosofo afferma che “la Stimmung, il sentimento, si fonda dunque nella trascendenza, nella differenza ontologica. Il sentimento non è un momento alogico o prelogico, bensì un particolare modo del legein”418. Da questo passo pare emergere la riconduzione della questione del patico all’interno dell’orizzonte logico: il pathos viene visto quale modalità del logos. Qualche anno dopo Grassi sembra cadere in contraddizione affermando l’esatto opposto di quanto asserito in Il problema del logo. In L’inizio del pensiero moderno si sostiene che “nel dubbio qualcosa è per noi originariamente non indifferente [...] in questo orientamento del filosofare, il pensiero viene riconosciuto nella sua essenza come una passione, nel senso metafisico del termine [...] qui si mostra appunto il carattere patetico e passionale del pensiero”419. La difficoltà per l’interprete sorge allorché si tenta una conciliazione delle tesi appena citate e apparentemente contrapposte: una vede nel pathos una modalità del logos, un’altra rintraccia nel logos un carattere passionale. È possibile uscire dall’impasse? È nel pathos o nel logos che facciamo esperienza dell’originario? La complessità di una loro possibile connessione viene esplicitata e avvertita dallo stesso Grassi che già in Il problema del logo si chiede: “possiamo dire che il logo sia !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 418 Id., Il problema del logo, in Id., I Primi scritti, cit., p. 403. I corsivi sono nostri. 419 Id., L’inizio del pensiero moderno, in Id., I primi scritti, cit., p. 824. I corsivi sono nostri.  ! 141!  effettivamente il Primo, la Ragione e il fondamento di ogni manifestazione, oppure presuppone esso un momento pre-logico? Questo è il problema contro il quale urtiamo definitivamente”420. Infatti egli interpreta il logos come legein, cioè come atto del portare a manifestazione sia l’essere che il nulla. Solo sulla base di questa manifestatività originaria, di questa svelatezza originaria degli enti (aletheia ) si può porre il tema della verità logica tradizionalmente intesa come connessione di soggetto e predicato. Il pensatore riconosce nella svelatezza originaria l’essenza della propria ricerca filosofica ed è mosso dal convincimento che ogni vero logico, il vero del giudizio che si esprime sull’on, sia già sempre radicato in un vero più originario: quello appunto della svelatezza o manifestatività. Per Grassi “la logica tradizionale vorrebbe essere proprio una logica dell’identico in senso oggettivistico, in quanto l’essenza del logo non sta nel legein – cioè nel processo di distinzione (e così nel divenire, nell’essere e non essere) – bensì nell’identità dell’oggetto razionale od empirico. Ma questa identità non viene affatto raggiunta, né può venir dimostrata. Se quindi questo originario legein va concepito come un manifestarsi, e se questo nuovo concetto del logo, come logica del pensare, va contrapposta alla logica del pensato, allora non dobbiamo concepire questa logica come una logica della non identità, bensì come una logica che raggiunge un nuovo ed approfondito concetto dell’identità”421. La questione di primaria importanza non è concepire il logos, l’atto di intellezione, come totalmente altro dal pathos, il sentire. É appunto questa l’accusa che Grassi rivolge a gran parte della filosofia occidentale: la considerazione di logos e pathos, di intellezione e sentire, come atti di due facoltà, decreta inevitabilmente la superiorità dell’intelligenza rispetto al sentire, che per quanto sia il primo modo di apprendere il reale è votato all’inautenticità. Grassi ha in mente piuttosto un’intellezione senziente o un’apprensione intelligente del reale che però non troverà mai una formalizzazione teoreticamente compiuta nel suo pensiero, restando sullo sfondo della sua rivalutazione dell’umanesimo interpretato all’insegna del concetto di Lichtung. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 420 Id., Il problema del logo, in Id., I primi scritti, cit., p. 377. 421 Ivi, p. 378.  ! 142!  Si chiede Grassi in Vom Vorrang des Logos (1939): “questa tonalità affettiva (Stimmung) deve essere dunque intesa come momento determinante del processo che abbiamo riconosciuto come fondamento della svelatezza (Unverborgenheit)?”422 La questione è comprendere se la passione possa essere considerata come esperienza dell’originario, nelle sue molteplici forme. Il tema della Stimmung in Grassi più che intrecciarsi alla Befindlichkeit – al sentirsi situati – si coniuga con la metafisica del leghein come risulta evidente dal testo del ’39 nel contesto dell’analisi della disposizione d’animo e della differenza ontologica heideggeriane423. Qui Grassi individua la possibilità di una corretta interpretazione del pensiero di Heidegger solo nell’operazione di collegamento del concetto di Stimmung all’atto processuale del leghein. Si tratta di un aspetto di non secondaria importanza poiché mette in luce come in Grassi la questione della Stimmung non abbia una connotazione psicologico-individuale ma un carattere ontologico-metafisico. Leggiamo in Vom Vorrang des Logos che “con tonalità affettiva (Stimmung) non va inteso qualcosa che precede il processo originario della svelatezza e nemmeno qualcosa che presuppone il processo e si differenzia da esso; non è nulla di immediato ma bensì appartenente originariamente al fondamento della svelatezza come processo. Se la svelatezza è processuale allora, come affermato in precedenza, lo è per mezzo di un divenire, di un essere, di un non- essere, e dunque ad essa appartiene insieme alla trascendenza e la tonalità affettiva anche il perché”424. La co-appartenenza di Transzendenz, Stimmung e Warum rende palese come il discorso sulla Stimmung travalichi il confine psicologico e si installi direttamente sul terreno dell’ontologia e della !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 422 “Muss nun diese ursprüngliche Stimmung also in wesentliches Moment des Prozesses, den wir als Grund der Unverborgenheit erkannt haben, aufgefasst werden?”, Id., Vom Vorrang des Logos, Beck, Munchen 1939, p. 52. La traduzione è nostra. 423 Cfr., R. Messori, Le forme dell’apparire, cit., pp. 66-67. 424 “Damit bedeutet die Stimmung nicht etwas, das dem ursprünglichen Prozess der Unverborenheit vorhergeht, und auch nicht etwas, das den Prozess bedingt, und von ihm unterscheiden ist; es ist nichts Unmittelbares, sondern zum Grund der Unverborgenheit als Prozess ursprünglich gehörend. Wenn die Unverborgenheit prozesshaft geschieht, so ist die – wie früher schon gesagt – auf Grund eines Werdens, eines Seins und Nichtseins, und so gehört ihr wesenhaft, mit Transzendenz und Stimmung das Warum an, dritte Weise, in der der Grund der Unverborgenheit – wie Heidegger sagt – gestreut ist”, E. Grassi, Vom Vorrang des Logos, cit., pp. 57-58. Traduzione nostra.  ! 143!  manifestatività. L’analisi della Stimmung pone in luce l’azione delle riflessioni heideggeriane di Von Wesen des Grundes più che quella di Sein und Zeit, mostrando una netta differenza di interpretazione rispetto a quella seguita dagli studiosi della analitica del Dasein degli anni ‘40425. L’articolazione del nesso logos-pathos trova una prima via d’uscita nella riflessione sulla fantasia, reciprocabile con l’intuizione e con l’intelletto, in quanto “facoltà di darsi le vedute” e forma di organizzazione a priori dell’esperibile: essa mette insieme il logos e il pathos. La questione della correlazione di pathos e logos comporta per Grassi anche un ripensamento dell’identità (un’identità !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 425 Ha sottolineato acutamente questo aspetto Messori in Le forme dell’apparire, cit. (p. 86 nota 20) ponendo un parallelo tra le interpretazioni di Grassi e di Henry Maldiney circa la questione della Stimmung come momento patico a-priori del pensiero, e sottolineando anche la distanza tra le teorie di Grassi e quella di Bollnow e Biswanger che negli anni Quaranta si confrontano in modo critico rispetto al tema della Stimmung heideggeriana. Circa il tema della distanza di vedute tra Bollnow e Grassi occorre mettere in evidenza come Bollnow in Das Wesen der Stimmungen del 1941 pone la ricerca antropologica sotto il segno della critica al concetto di fondamento heideggeriano, insistendo sull’infondatezza del dualismo autentico-inautentico insito, secondo Heidegger, nella dimensione della quotidianità. Nonostante la messa a distanza del tema ontologico nella “antropologia pedagogica ermeneutica” di Bollnow è riscontrabile un punto di contatto, su cui Messori non si è soffermata, ossia il comune riferimento, di Bollnow e Grassi, alla storicità come fondamento di ogni antropologia filosofica che guarda all’umano come continua produzione di forme. Nel filosofo tedesco ritroviamo “l’idea che la storicità della vita significa creatività, produzione di forme che portano a espressione la vita in manifestazioni specifiche” – (S. Giammusso, La forma aperta. L’ermeneutica della vita nell’opera di O. F. Bollnow, Franco Angeli, Milano 2008, p. 93) – che converge con l’impostazione generale del pensiero di Grassi che punta ad un rinnovamento del problema antropologico seguendo il filo conduttore delle espressioni storiche del fondamento – le Lichtungen. Altro punto di sinergia teorica di entrambi è il tema pedagogico umanistico. In Bollnow la pedagogia, influenzata dallo storicismo diltheyano e dal contesto generale della Lebensphilosophie, “non muove da principi astratti [...] ma considera ipoteticamente i fenomeni della sfera educativa come parti dotate di senso in una connessione più generale e rintraccia tale senso nella originaria relazione attraverso cui l’uomo come produttore della cultura esprime se tesso” (ivi, p. 137). Bollnow, in Die Macht des Worts, afferma che la questione antropologica è connessa al potere formativo della parola e “la questione circa l’essenza del linguaggio diventa in una maniera fondamentale la questione circa l’essenza dell’uomo in generale”, O. F. Bollnow, Die Macht des Worts. Sprachphilosophische Überlegungen aus pädagogischer Perspektive, Essen, Neue Deutsche Schule Verlaggesellschaft, 1964 (terza edizione 1971), p. 16, citato in S. Giammusso, op., cit., p. 154. Anche in Grassi il tema pedagogico è correlato alla questione della via di accesso alla “totalità umana” e alla individuazione dell’essenza del neoumanesimo e, ancora, al tema filosofico dell’amicizia che permea sia il sapere sia il linguaggio. Grassi, nella prefazione alla traduzione tedesca del Discorso di Pericle di Tucidide ad opera di G. P. Landmann, sostiene che “questa forza dell’amicizia è confluita nelle parole, da cui siamo legati, filologia e filosofia. L’amicizia sospende il rapporto tra maestro e allievo, fa del maestro un discente anch’egli e libera l’allievo dall’asservita ristrettezza dell’epigono, del seguace. Così, la corrente che tutti ci trascina si mantiene ininterrotta, e nessuno sa più dove nello scambio abbiano inizio i pensieri, dove essi nella continua riproduzione abbiano fine. Questo accadere autentico, questo modo del discorrere e del pensare che riesce a penetrare ogni isolamento, la dia-lettica – il venire a svelatezza attraverso il logos, attraverso la parola –, tutto ciò Platone l’ha scoperto nel nobile sentimento dell’amicizia [...] questo concetto non relativo e non soggettivo dell’amicizia si lega a quello della tradizione e dell’impegno”, E. Grassi, Prefazione a Die Totenrede des Perikles di Tucidide, pp. 975-983, in Id., I primi Scritti, cit., p. 977. Grassi enuncia in poche battute un’idea di pedagogia legata ai temi della fiducia (Vertrauen), del reciproco affidarsi (Anvertrauen) e del dialogo che mostrano molte affinità tematiche – pur nella diversità degli approcci – con Bollnow, più numerose delle pur evidenti differenze sottolineate da Messori.  ! 144!  che contenga in sé l’elemento della differenza e della non-identità) e una ricerca sulla costitutiva co- appartenenza di essere e nulla nel processo di manifestatività. Secondo la prospettiva tradizionale: “il nulla non può diventare oggetto del pensiero, perché il nulla esclude in sé una interpretazione oggettivistica. Un oggetto che non è, è una contraddizione”426. Invece per il filosofo occorre aprire un varco nell’esperienza del nulla al di fuori delle coordinate oggettivanti del pensiero proprio perchè il nulla ci pone di fronte all’impossibilità di renderlo ob- jectum. C’è un’altra modalità di accesso al nulla: la sua esperienza attraverso l’angoscia. Così come lo Heidegger di Che cos’è metafisica anche Grassi crede che “il nulla non si rivela dunque come un oggetto, come un pensato, bensì come ciò che si manifesta in un fondamentale stato d’animo (Grundstimmung) che incalzandoci ci toglie ogni punto d’appoggio”427. Da quanto detto in precedenza è possibile comprendere come il filosofo già a partire dal saggio Il problema del logo ponga in questione, con la discussione sul nulla e sull’angoscia, la priorità del logos. Egli si chiede se a partire dall’esperienza dell’angoscia sia ancora possibile mantenere la priorità dell’atto logico: “esiste dunque il nulla e qual è il suo rapporto con l’essere? L’angoscia che ci rivela il nulla è il presupposto dell’atto logico? In che modo l’atto logico sarebbe condizionato dall’angoscia, tanto che l’originarietà del logos sarebbe infranta? Se il nulla è, e non come un oggetto, ma come una realtà che ci si manifesta nell’angoscia sorge il problema dell’angoscia, della sua funzione metafisica [...] è dunque nell’angoscia che si radica la possibilità di manifestazione degli enti e noi stessi li trascendiamo in quanto fin dall’inizio siamo sospesi nel nulla”428. Il legame tra angoscia, nulla e manifestazione dell’essere mette in crisi quella che in un primo momento sembrava essere una posizione apparentemente dualistica: il dualismo è solo apparente se guardiamo all’idea grassiana di logos che si distingue da quello della logica obiettivante tradizionale. Nel leghein per Grassi accade quella scissione, quell’auto-distinzione della manifestatività, che consente di pensare la coappartenenza di logos e pathos. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 426 E. Grassi, Il problema del logo, cit., p. 382. 427 Ivi, p. 383. 428 Ivi, pp. 383-384.  ! 145!  Un ulteriore chiarimento riguardo il presunto dualismo logos-pathos o Kehre tra un primo e un secondo Grassi ci giunge dalle analisi grassiane di Cartesio. Nel saggio L’inizio del pensiero moderno Grassi porta avanti le sue analisi delle “meditaizoni cartesiane” incominciate in Dell’apparire e dell’essere del 1933, constatando come l’importanza di Cartesio vada rintracciata nella fecondità dell’idea di dubbio. Solo attraverso l’analisi del dubbio è possibile guardare al cogito cartesiano come ad una realtà complessa che va identificata come atto, attività del cogitare. In quanto atto il cogito è il luogo in cui la manifestatività, l’apparire e l’essere, che in Grassi sono sinonimi come abbiamo visto, si dànno: “il cogito è l’unico primo ed originario essere che incontriamo e fondandosi sul quale solo si può ricostruire e ricavare tutta la ricchezza dell’esistenza. La metafisica di Cartesio appare in tutta la sua decisiva importanza quando si tenga presente che cosa egli concretamente intenda con cogitare. Pensiero, cogito, come tutti sappiamo, non è per lui solo atto di distinzione logica, ma è ogni atto e modificazione del soggetto, di cui l’attività logica non è che un momento [...] l’atto del cogito – come originaria unità, monade – contiene in sé già tutto”429. Appare qui evidente la funzione ontologica del dubbio come “apertura esistenziale” della questione della manifestatività. La suprema attività del cogitare, il cogito in quanto atto, non è altro che il dubbio, il dubitare che nel momento in cui dubita, in cui attua l’attività del dubitare, porta in superficie “l’urgenza che in esso si annuncia e che lo rende possibile”430. Nell’atto del dubitare si compie un’urgenza: quella del reale che non ci è indifferente ma che ci affetta, ci riguarda e nel quale siamo da sempre immersi e compromessi in quanto esseri gettati nel mondo e “di conseguenza anche il cogito, quando si intenda con esso il compiersi di un dubitare, è espressione di un’urgenza originaria, che si mostra così come il vero fondamento del sapere”431. Pertanto il pensare (logos) si rivela nella sua identità costitutiva con il patire (pathos) in quanto forme di espressione dell’originario nella sua urgenza e nella costrittività dei suoi appelli. Per il filosofo italiano “il pensiero è una forma di esperienza dell’originario, e non si può pensare ogni volta !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 429 Id., Dell’apparire e dell’essere, cit., pp. 289-290. 430 Id., L’inizio del pensiero moderno, in Id., I primi scritti, cit., p. 818. 431 Ibidem.  ! 146!  che lo si desidera o lo si vuole. Perché l’originario, sempre e in ogni forma, si mostra a noi solo al modo di una urgenza”432. Il soggiacere a tale costrizione e urgenza rende il logos convertibile con il pathos quali modalità di apprensione dell’originario. Se “solo questa costrizione, questa urgenza è l’evidenza dell’originario”433 allora noi ci troviamo in una situazione di pura passività rispetto al reale? In che modo è possibile coniugare questo essere soggetti a con il concetto di atto? L’atto, come abbiamo visto, cerca di rendere conto del rapporto dinamico tra piano ontologico e piano ontico, i quali rifluiscono continuamente l’uno nell’altro. A tale dinamica processuale prende parte anche la tonalità affettiva che appare come il luogo in cui accade la manifestazione dell’essere nella molteplicità delle sue forme. La Stimmung che consente l’esperienza dell’originario si rivela una Leidenschaft. Un altro termine con cui Grassi si riferisce alla passione è, infatti, Leidenschaft, di cui è importante sottolineare il leiden, il patire nel senso di soffrire e penare. Usando tale traduzione l’accento è tutto posto sulla dimensione della gettatezza e passività originaria che contraddistinguono il Dasein, l’uomo che è tale nella misura in cui si riconosce esposto all’apertura dell’essere, all’assenza di codici interpretativi precostituiti e innati e pertanto intimamente legato alla ricerca di chiavi di lettura del reale possibili e mai date. La Leidenschaft è quindi l’essere-affetti dal reale, che ci afferra e ci trascina nell’aperto delle pure possibilità, senza che noi possiamo sottrarci allo Zwang e alla Nötigung, da Grassi interpretati come due fenomeni dell’originario. La Leidenschaft è originaria e metafisica, da essa non possiamo liberarci e riconoscere la sua centralità è la condizione di possibilità per il nuovo inizio del pensiero auspicato da Grassi. Per il filosofo “in questo orientamento del filosofare, il pensiero viene riconosciuto nella sua essenza come una passione, nel senso metafisico del termine [...] qui si mostra il carattere patetico e passionale del pensiero”434. Tale pathos metafisico e originario è un’urgenza che non può essere !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 432 Id., Il problema del sublime, pp. 917-943, in Id, I primi scritti, cit., p. 935. 433 Ibidem. 434 Id., L’inizio del pensiero moderno, cit., p. 824. I corsivi sono nostri.  ! 147!  dedotta né mediata poiché ci sopraggiunge così come l’aporia platonica, che abbiamo ritrovato in Il problema della metafisica platonica, e il dubbio cartesiano di Dell’apparire e dell’essere e di L’inizio del pensiero moderno. Per Grassi Cartesio, tanto criticato dal filosofo negli ultimi scritti, ha il merito di aver portato ad espressione un significato patico-esistenziale del dubbio, che dall’interpretazione tradizionale è stato unicamente ridotto ad epochè del giudizio, e quindi a stallo conoscitivo. Il dubbio cartesiano, invece, si mostra come la condizione di possibilità affinché si dia il sapere in tutte le sue forme. Tuttavia Cartesio per Grassi non ha portato fino in fondo il suo discorso, inclinando piuttosto verso una impostazione gnoseologistica del sapere, non traendo quelle conclusioni a cui erano pervenuti gli Umanisti. Le riflessioni grassiane hanno messo in luce il pathos come esperienza di ciò che è primo e indeducibile razionalmente perché fondamento di ogni deduzione: “l’essenza della forma del rivelarsi di qualcosa di originario e di primo, o anche del pensiero, risulta essere la passione, e precisamente non la passione in senso psicologico ma in senso metafisico”435. La Leidenschaft consente di ripensare l’idea di soggettività: il soggetto non ha un carattere soggettivo o individualistico, esso “è essenzialmente ciò che soggiace al primo, all’originario”436. In quanto upokeimenon o sub-jectum il soggetto patisce il reale, che si mostra nel suo carattere di istantaneità (Augenblick):attraverso il pathos facciamo esperienza della realtà nell’istante, in quella visione istantanea a cui dobbiamo corrispondere implementando progettazioni di mondi umani dalle forme molteplici (l’arte, la poesia, il sapere, la prassi, la politica sono le forme in cui l’uomo risponde agli appelli dell’essere). In ogni momento della vita l’uomo si trova a dover portare avanti il suo impegno, il suo sforzo di esistenza, la sua diligentia (termine mutuato da Leonardo Bruni), che rendono palese il suo essere irrevocabilmente compromesso con il mondo circostante. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 435 Ivi, p. 846. 436 Ivi, p. 847.  ! 148!  Secondo Grassi “in ogni atteggiamento originario non possiamo mai scegliere la nostra occupazione, perché la nostra scelta sta già sotto il segno di ciò che ci occupa. Non siamo noi ad occuparci delle cose, ma sono le cose stesse – in virtù della loro distinzione – a tenerci occupati”437. Il filosofo pone come indeducibili forme del manifestarsi del reale il vero, il buono e il bello: il sapere, l’azione e l’arte sono i modi in cui si mostra, in cui appare il mondo e non c’è priorità di un momento sull’altro ma nesso dei distinti. Occorre ripensare l’autonomia delle forme del rivelarsi del reale, pur tenendo in considerazione la fondamentale unità che le contraddistingue: esse sono modi autonomi, distinti, di manifestazione dell’essere, sono Lichtungen del reale, aperture di contesti significativi, tutti accomunati dall’azione di ordinamento conferito al mondo. Il pathos è l’avvertimento della non- indifferenza del mondo circostante, è l’esperienza della costrizione e del vincolo, del legame indissolubile uomo-mondo: “per il fatto che veniamo strappati, nell’esperienza del dubbio, all’indifferenza verso la totalità dell’ente, si presenta anche una separazione del nulla dall’essere, e tuttavia il nulla non è affatto prima dell’essere bensì entrambi vengono partoriti come gemelli nel medesimo istante. Perciò i Greci parlavano dell’aletheia, del non latente [Un-Verborgene], come del vero, perché tutto ciò che si mostra viene sottratto alla latenza solo dall’esperienza del dubbio, che lascia rilucere gli opposti”438. Nella Leidenschaft, nel patire il dubbio a cui non possiamo sottrarci, rintracciamo l’essenza del sapere: il sapere nasce dalla messa in questione del mondo circostante per ricercarne il fondamento, si tratta di una ricerca a cui ci sentiamo costretti, che incombe su di noi. Tale carattere costrittivo e urgente del fondamento è ciò che Grassi trova teorizzato nel concetto aristotelico di archè o assioma: “questa dottrina è ciò che esprime Aristotele quando dice che i principi originari o assiomi, come lui li chiama, che sono il fondamento di ogni dimostrazione, non hanno un carattere apodittico, bensì elenchico, cioè non possono venire dimostrati [...] ma si mostrano da se stessi in quanto anche colui che li nega, deve presupporli e impiegarli. Così questi principi fondamentali dimostrano se stessi nella misura in cui non ci lasciano liberi”439. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 437 Ibidem. 438 Id., Il reale come passione e l’esperienza della filosofia, pp. 995-1029, in Id., I primi scritti, cit., p. 1003. 439 Ivi, p. 1005.  ! 149!  Possiamo dare per acquisito che in Grassi non c’è un rapporto dualistico logos-pathos, per cui da una priorità giovanile del logos si passerebbe alla matura posizione della preminenza del pathos. I due momenti sono sempre interrelati tanto da confondersi in una paradossale unità che è al tempo stesso dualità. É lo stesso pensatore a domandarselo e a individuare il problema di una connessione dinamica tra logos e pathos: “ora esiste un’unità che sia al contempo dualità? Ogni differenziale, cioè il compiersi di un atto unitario, fa apparire ciò che è differenziato nella misura in cui quest’ultimo si determina [...] quest’atto del separare rivela dunque essenzialmente una realtà fantastica, dove l’espressione fantastico non viene tratta dalla fantasia come attività distinta dall’intelletto, bensì dalla fantasia secondo l’espressione greca phainesthai, mostrarsi”440. Secondo Grassi l’accadere, l’apparire, la manifestatività vanno interpretati al di fuori dell’opposizione logos-pathos, tale dualità è solo secondaria e derivata, poiché primario e originario è l’atto in cui si mostra l’essere nella sua processualità dinamica: in tale processualità dinamica le coppie oppositive “in sé-per noi”, “uno-molti”, “logos-pathos” perdono i contorni netti e definiti di polarità antitetiche, tra cui non è possibile gettare un ponte, per divenire realtà mobili e fluide. La struttura dinamica e processuale della realtà è resa dal filosofo attraverso l’immagine della scena/accadere scenico/allestimento (Schau-Stuck): “soltanto in questo accadere si radica il singolo soggetto concreto, il quale possiede un oggetto correlativo, perché la scena, l’allestimento, prescrive a entrambi dei ruoli determinati [...] l’allestimento è dunque l’originario, in cui i singoli elementi del molteplice risultano visibili in virtù del ruolo che la scena prescrive loro”441. Tale scena originaria regge il fondamento della vita: è la sua condizione trascendentale. Essa è definita anche scena fantastica proprio perché scena e fantasia si configurano come un tutto unitario, a priori e sintetico. La scena forma in via primaria relazioni, atti di collegamento, è l’orizzonte di ogni veduta possibile, così come la fantasia è la facoltà di apprensione di questa scena. La fantasia in Grassi va intesa come la facoltà di formazione della veduta/scena (schau) che ha la funzione di schema trascendentale: “l’elemento originario dell’esperienza sensibile – come in generale di ogni forma dell’apparire dell’ente non è quindi una dualità di oggetto e soggetto né una !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 440 Ivi, p. 1012. 441 Ivi, p. 1013.  ! 150!  molteplicità di esperienze sensibili, bensì una unità che si compie, che rivela se stessa nel discernere e nel separare [...] la scena fantastica, il mostrarsi, non vale soltanto per la determinazione filosofica dell’ente o per quella dell’ente sensibile, bensì per l’ente nella sua totalità”442. Interpretata in questo modo la fantasia appare come facoltà del lasciar apparire, dell’Erscheinenlassen che è al contempo il Sich-Offenbaren, l’automanifestazione, dell’oggettività. Lo svelarsi originario dell’essere ha carattere eidetico e immediato, esso si manifesta nell’istante indeducibile perché arcaico-fondativo della “visione pato-logica. La realtà nella sua automanifestatività si impone nella sua Nötigung, nell’accadere dell’attimo della visione il cui fenomenizzarsi è il dubbio. III. VII. L’analitica esistenziale: dismondanizzazione, assenza di mondo e coscienza temporale umanistica Per comprendere meglio le categorie dell’analitica esistenziale elaborata da Grassi vorremmo concentrarci sull’esperienza sudamericana del filosofo mossi dal convincimento che essa costituisca una tappa fondamentale nell’elaborazione di alcune categorie concettuali elaborate dal filosofo: dismondanizzazione e assenza di mondo; coscienza temporale umanistica; natura. Tali plessi concettuali, presenti soprattutto nei saggi Il tempo umano. L’umanesimo contro la techne (1949), L’uomo e l’esperienza dell’oggettività (1952), Apocalisse e storia (1954), L’esperienza dell’assenza di mondo (1955), Mito e arte (1956), Assenza di mondo (1959)443, sono correlati al tema della manifestatività dell’essere, emergente nei primi scritti, quali Il problema della metafisica immanente di M. Heidegger (1930), Dell’apparire e dell’essere (1933), Il problema del logo (1936), Il problema !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 442 Ivi, p. 1014. 443 Cfr., Id., Il tempo umano. L’umanesimo contro la techne, cit., pp. 201-206; L’uomo e l’esperienza dell’oggettività, cit., pp. 65-72; Apocalisse e storia, cit., pp. 7-20, L’esperienza dell’assenza di mondo, in “Aut-Aut”, 1955, 2, XXVI, pp. 97-119; Mito e arte, in “Rivista di filosofia”, Torino, 1956, 2, XXVII, pp. 140-164; Assenza di mondo, in “Archivio di filosofia”, Roma 1959, pp. 217-147.  ! 151!  del nulla nella filosofia di M. Heidegger (1937), L’inizio del pensiero moderno. Della passione e dell’esperienza dell’originario (1940), Il reale come passione e l’esperienza della filosofia (1945)444. Come abbiamo visto in precedenza in questi saggi vengono in luce le questioni dell’essere, dell’apparire e della manifestatività, che testimoniano la volontà grassiana di recuperare un’esperienza dell’essere che non presupponga la preminenza di una forma rispetto ad un’altra, e in particolar modo di un a priori gnoseologico, ma che sia capace di restituire la complessità fenomenologica delle forme dell’apparire. Come è noto, in questo tentativo Grassi coniuga il tema attualistico gentiliano con l’estetica crociana e la teoria heideggeriana della differenza ontologica,445 rielaborando tutto alla luce di una rivalutazione della Stimmung, della Leidenschaft e dell’ambito estetico in generale, non come esempio di gnoseologia inferior o teoria dell’arte, ma come fondamento dell’esperienza della manifestatività dell’essere. Nel suo percorso onto-antropo-logico si segnalano alcuni testi per la curiosa correlazione che si viene ad istituire tra gli innumerevoli riferimenti all’esperienza di viaggio sudamericana e l’analitica dell’esistenza: mi riferisco ad Arte e mito e Viaggiare ed errare, oltre che, naturalmente, ai saggi prima citati Assenza di mondo, L’esperienza dell’assenza di mondo, Mito e arte, i quali costituiscono i maggiori contributi che Grassi ha dedicato al tema “Sudamerica”. III. VIII. L’importanza del viaggio in Sudamerica Aveva asserito Kant nella Prefazione a Antropologia pragmatica che “ai mezzi per l’ampliamento dell’antropologia appartiene il viaggiare”446 e Grassi non sembra sia stato insensibile !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 444 I saggi sono raccolti in E. Grassi, I primi scritti 1922-1946, cit. 445 Per una ricostruzione dettagliata delle tracce gentiliane, crociane e heideggeriane nella filosofia di Grassi cfr., Rita Messori, Le forme dell’apparire, cit., soprattutto il primo capitolo, Tra filosofia italiana e filosofia tedesca: l’emergere della questione estetica, pp. 23-61. Cfr., anche M. Marassi, Introduzione a E. Grassi, I primi scritti, cit., pp. IX-LXXXVII. 446 I. Kant, Antropologia pragmatica, tr. it. di G. Vidari, Laterza, Roma-Bari 2009, p. 4. ! 152!   a questa affermazione kantiana: lo attestano i numerosi viaggi che per tutta la vita ha condotto in giro per il mondo alla ricerca di occasioni di riflessione sul “tema uomo”. Viaggio e riflessione antropologica: l’accostamento non risulterà peregrino se si accantona – come fa il filosofo italiano– un’idea di natura umana fissa e immutabile, chiusa nei confini di una razionalità auto-riferita, per accogliere l’idea di una condizione umana, tema di un neo-umanesimo attento alla multilateralità della vita, alla polidimensionalità del reale, e, dunque, alle molteplici forme di apprensione dell’essere e di dizione dell’essere. Il legame tra il viaggio e l’elaborazione di categorie esistenziali volte ad un rinnovamento neo-umanistico della filosofia è del resto esplicitato dallo stesso filosofo che nella Prefazione a Viaggiare ed errare afferma che le “annotazioni sull’incontro con il continente sudamericano sono sorte dalla verifica costante di categorie e concetti fondamentali europei: non sono quindi né espressioni di rinuncia al nostro mondo europeo né una descrizione esteriore della realtà sudamericana. Spazio, tempo, parola, arte, tutto acquisisce laggiù nuovamente un significato originario che in Europa abbiamo spesso dimenticato”447. Corredato da una fitta trama di descrizioni paesaggistiche, di situazioni emotive, di relazioni, presenze e assenze che il viaggio in Sudamerica aveva suscitato nel filosofo il testo Viaggiare ed errare presenta, accanto alla narrazione di esperienze comuni, una interpretazione prospettica di una realtà nuova, fatta di rovine antiche, foreste sterminate, indigeni e animali che non costituiscono solo allegorie di ciò che sfugge alla comprensione filosofica, ma sono l’occasione di esperire il “totalmente altro”. Per Grassi il viaggio può avere questo significato solo se lo si correla al luogo preciso in cui è avvenuto: il Sudamerica. Perché? Come abbiamo visto in precedenza quello in Sudamerica non è il primo viaggio né l’ultimo di Grassi, eppure in questo territorio si realizza una presa di coscienza molto forte dei limiti e delle possibilità della filosofia occidentale. Su questi limiti e possibilità il pensatore ha ragionato una vita intera, ma !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 447 Le citazioni riportate di seguito fanno riferimento all’edizione italiana del testo di Grassi: E. Grassi, Viaggiare ed errare. Un confronto con il Sudamerica, tr. it. di C. De Santis, a cura di M. Marassi, La Città del Sole, Napoli, 1999, p. 27. Il testo ha avuto tre edizioni Reisen ohne anzukommen. Südamerikanische Meditationen, Hamburg, Rowohlt, 1955; Reisen ohne anzukommen. Eine Konfrontation mit Südamerika, Munchen-Gutersloh-Wien, Bertelsmann, 1974; Reisen ohne anzukommen. Eine Konfrontation mit Südamerika, Chur, Ruegger, 1982.  ! 153!  lì, in Cile e in Brasile, nella fitta vegetazione della foresta, sulla catena delle Ande, ciò che il filosofo milanese sperimenta non è un ragionamento. Lì patisce e vive una situazione contraddittoria: storicità e astoricità; natura e techne. Il Sudamerica è il luogo in cui si consuma la dissoluzione delle categorie storiche e si dà la possibilità di riflettere sulla condizione umana. Leggiamo in Viaggiare ed errare: “una volta si sapeva dove si era di casa; ci si sentiva protetti nel mondo sicuro della tradizione, ci si poteva recare in paesi stranieri con il proprio blasone e si ritornava a casa senza turbamenti. Ma noi? Dove siamo di casa?”448. Il testo, allora, non è un esempio, l’ennesimo, di letteratura odeporica, solo un resoconto autobiografico, un diario di impressioni del viaggio da Madrid a Barcellona, fino in Brasile e Cile. In esso si raccolgono le idee più interessanti circa il viaggio come evento semiotico: oltre a Reisen ohne anzukommen degne di nota sono le osservazioni sparse in Kunst und Mythos449. In questi testi il viaggio è inteso come la metafora in cui viviamo, come condizione, situazione, e circum-stantia e le descrizioni narrate “non vogliono essere semplici descrizioni; vogliono piuttosto far luce su tutte quelle seduzioni che turbano l’uomo moderno occidentale quando viene a contatto con mondi nuovi”450. Ha sottolineato acutamente questo aspetto Giuseppe Cacciatore che ha dedicato al tema grassiano del viaggio un saggio: América latina y pensamiento europeo en la “filosofia del viaje”451 !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 448 Ivi, p. 33. 449 Il testo, edito per la prima volta in tedesco nel 1957 con il titolo Kunst und Mythos, Hamburg, Rowohlt 1957, e ristampato nel 1990 in un’edizione riveduta e ampliata dall’autore, costituisce la rielaborazione di un articolo che Grassi pubblica nel 1956 sulla “Rivista di filosofia”, in lingua italiana dal titolo Mito e Arte, cit., pp. 140-164. 450 E. Grassi, Viaggiare ed errare, cit., p. 34. 451 G. Cacciatore, América latina y pensamiento europeo en la “filosofia del viaje”, cit. Pubblicato precedentemente in italiano con il titolo America latina e pensiero europeo nella filosofia del viaggio di Ernesto Grassi, in “Cultura latinoamericana”, Annali 1999-2000, nr. 1-2, pp. 367-381. Come è noto, nella vastissima e variegata produzione saggistica di Cacciatore il riferimento alla figura di Ernesto Grassi compare soprattutto nei lavori vichiani dello studioso in cui l’accento verso i temi della rivalutazione vichiana della sapienza poetica, del ruolo antropogenetico della fantasia, di quello arcaico-fondativo del mito e dell’ingeniosa ratio trova non poche affinità con le analisi svolte da Grassi. Al riguardo cfr., soprattutto G. Cacciatore-G. Cantillo, Studi vichiani in Germania 1980-1990, in G. Cacciatore-G. Cantillo (a cura di), Vico in Italia e in Germania, Bibliopolis, Napoli 1993, p. 37; Id., Poesia e storia in Vico, in F. Ratto (a cura di), Il mondo di Vico. Vico nel mondo, Guerra, Perugia 2000, p. 144, nota 5; G. Cacciatore, Vico: narrazione storica e narrazione fantastica, in G. Cacciatore-V. Gessa Kurotschka-E. Nuzzo-M. Sanna (a cura di), Il sapere poetico e gli universali fantastici, Guida, Napoli 2004, p. 120, nota 10; Id., Le facoltà della mente ‘rintuzzata dentro il corpo’, in Il corpo e le sue facoltà. G.B. Vico, in G. Cacciatore, V. Gessa Kurotschka, E. Nuzzo, M. Sanna e A. Scognamiglio (a cura di) in «Laboratorio dell’ISPF» (www.ispf.cnr.it/ispf-lab), I, 2005, ISSN 1824-9817, p. 104, nota 41; Id., L’ingeniosa ratio ! 154!   de Ernesto Grassi, concentrandosi in particolar modo sul testo Reisen ohne anzukommen. Lo studioso mette in luce uno spettro semantico ampio del viaggio: è possibile individuare un significato ontologico; teorico-storico; cognitivo; simbolico-metaforico. Vorremmo soffermarci sui quattro sensi del viaggio in Grassi individuati dallo studioso, con lo scopo di mostrare che l’esperienza del viaggio sudamericano non è marginale nella riflessione del filosofo poiché si inserisce nel cuore della sua prospettiva onto-antropo-logica e diviene decisiva nella messa a fuoco dei concetti di dismondanizzazione e assenza di mondo452, che insieme a quelli di coscienza temporale umanistica e oggettività, costituiscono le categorie dell’analitica esistenziale grassiana. Cacciatore afferma che il senso ontologico del viaggiare è rintracciabile nello stesso titolo tedesco: Reisen ohne annzukommen indica il “viajar humano sin arribos, sin metas prefiguradas”. El viajero [...] llega a un nuevo mundo cargado de bagajes conceptuales, orgulloso y seguro de su patrimonio cultural y de su tradiciòn històrica”453. E tuttavia al cospetto di un mondo totalmente estraneo Grassi sente di non poter più fare affidamento sul proprio corredo categoriale. Occorre un mutamento di prospettiva, una svolta. In quanto viaggiatore in terra straniera Grassi si sente anche viaggiatore nell’interiorità, e il malessere vissuto dal filosofo per l’opposizione tra un’idea di Europa da cui ritiene di doversi congedare e la volontà di ricostruire un neoumanesimo all’insegna di un rinnovamento dei concetti !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! di Vico tra sapienza e prudenza, in C. Cantillo (a cura di), Forme e figure del pensiero, La Città del Sole, Napoli 2007, p. 225, nota 1; Id., Il mare metafora del limite e del confine, in S. Amendola- P. Volpe (a cura di), Il mare e il mito, M. D’Auria editore, Napoli 2010, p. 49; Id., In dialogo con Vico, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2015. 452 Ovviamente le categorie ora menzionate risentono della trattazione heideggeriana di Welt e Umwelt e in generale della riflessione degli esponenti dell’antropologia filosofica e della biologia teoretica coeve, che Grassi conosceva molto bene: Scheler, Plessner, Gehlen, Uexküll, Driesch. Cfr., E. Grassi, Linee di filosofia tedesca contemporanea, in Id., I primi scritti 1922-1946, cit., pp. 299-332, Il problema della metafisica immanente di M. Heidegger, ivi, pp. 203-228, La filosofia como obra humana, pp. 1573-1578 in “Actas del Primer Congreso Nacional de Filosofia”, Universidad Nacional de Cuyo, Buenos Aires, 1950, Tomo III; Id., Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, cit., pp. 62-66 e 151-152; Id., Retorica come filosofia. La tradizione umanistica, cit., pp. 181-182. 453 G. Cacciatore, America latina y pensamiento europeo, cit., p. 80. ! 155!   fondamentali del pensiero occidentale, si palesa soprattutto nelle pagine dedicate al concetto di “dismondanizzazione”. III. IX. Dismondanizzazione e assenza di mondo Egli sostiene che “le molteplici ragioni della dismondanizzazione ci sopraffanno e possono condurre all’immobilità, alla completa apatia. Ogni processo di dismondanizzazione incomincia dal terrore avvertito per la scomparsa del consueto”454. Una spaesatezza, una solitudine esistenziale che sorge non solo in terra straniera ma anche nella propria patria. Si tratta del terrore primordiale della selva di cui ci parla Vico secondo il quale “grazie alla radura aperta nella foresta originaria divengono possibili non solo lo spazio o il luogo umani, ma anche la possibilità di computare il tempo”455. Il filosofo ritiene che “anche in Europa si prende congedo dal proprio mondo. La speranza di liberarci in qualche modo, in chissà quali paesi lontani, dai nostri dubbi, è solo espressione del fatto che non ci sentiamo più a casa negli spazi della nostra storia”456. Nel pathos dell’angoscia e della noia per Grassi noi esperiamo la dismondanizzazione e la possibilità allo stesso tempo di generare ordini di realtà, progettazioni e creazioni, per arginare quell’“assenza di mondo” in cui l’uomo è gettato proprio perché privo di orientamenti precostituiti. I due concetti – dismondanizzazione e assenza di mondo – indicano due fenomeni diversi, ma connessi, che possono essere compresi meglio ricorrendo ad una metafora molto cara a Grassi, quella della luce: “assenza di mondo” come aurora e “dismondanizzazione” come tramonto dell’uomo. La condizione di assenza di mondo (aurora) è quella dell’uomo primitivo o delle origini, immerso nella realtà circostante che è astorica, mitica, ripetitiva e di cui Grassi crede di poter fare esperienza nell’ingens sylva sudamericana, che in realtà !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 454 Id., Viaggiare ed errare, cit., p. 126. Corsivo nostro. 455 Id., Potenza della fantasia, cit., p. 251. 456 Id., Viaggiare ed errare, cit., Ivi, p. 49.  ! 156!  si rivela essere solo una selva ideale. Il pensatore ritiene che “la condizione di assenza di mondo inizia, infatti, ogniqualvolta una cultura si trova a una svolta decisiva”457. L’esperienza della realtà nella condizione di assenza di mondo si caratterizza per l’incapacità umana di orientamento: infatti “non appena quest’ordine comincia a vacillare, l’uomo esperisce improvvisamente che le direttive consuete non sono più valide”458. In questo momento di svolta inizia la storia dell’uomo come “storia del suo accadimento”. Secondo Grassi “la storia dell’uomo è quindi espressione di ciò che lo costringe continuamente [...] a stare su una soglia, a partire dalla quale egli traccia linee di confine tra scelto e non scelto, tra ricordato e dimenticato, tra ordinato e non ordinato. A partire da questa soglia si aprono i confini del mondo in cui viviamo. Il progetto, attraverso il quale di volta in volta aderiamo sempre a ciò che ci riguarda e ci mette in tensione, costituisce il nuovo spazio spirituale in cui ci muoviamo”459. Nella condizione di assenza di mondo l’uomo, come l’animale, è totalmente immerso in un cerchio funzionale simbolico che ad un certo punto si disintegra e lo getta in una condizione di spaesatezza che lo costringe a trovare codici di interpretazione del reale: “poiché l’uomo esce dalla natura e in essa non è più al sicuro, egli progetta criteri sulla base dei quali costruire il suo mondo”460. La condizione di dismondanizzazione (tramonto) è quella che caratterizza l’uomo occidentale che cerca nuovi strumenti per abitare il mondo, avendo sperimentato l’inutilità e il danno delle proprie categorie filosofiche. Essa è ben distinta da “una rinuncia volontaria al mondo: è anzi il contrario. Questa esperienza di dismondanizzazione nasce dallo sgomento che tutto quello che di solito ci circonda, e che con gli anni abbiamo costruito come un nostro ambito, viene a mancare”461. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 457 Ivi, p. 132. 458 Ibidem. 459 Ivi, p. 146. 460 Ibidem. 461 Id., Assenza di mondo, cit., p. 222. ! 157!   Nel primo caso si tratta di una situazione di privazione originaria che dice della gettatezza dell’uomo nell’aperto – la Lichtung – della propria esistenza, privazione che al contempo è condizione di possibilità affinchè l’uomo divenga uomo e l’ambiente naturale divenga mondo. Nel secondo caso siamo di fronte ad una dimensione di perdita delle coordinate categoriali classiche del pensiero occidentale. L’esperienza della dismondanizzazione e di assenza di mondo non sono nient’altro che il regno dell’Aperto in cui è assente ogni direzione, ogni coordinata, ogni orientamento ma in cui Angst e Langweile agiscono quali operatori metafisici nel contesto della Lichtung che, come ci ricorda Agamben, “è veramente in questo senso, un lucus a non lucendo: l’apertura che in essa è in gioco è l’apertura a una chiusura e colui che guarda nell’aperto vede solo un richiudersi, solo un non-vedere”462. Grassi asserisce che “in quest’esperienza siamo di fronte all’Offenheit, a quella apertura che, non essendo la nostra dimensione, ci paralizza [...] qui gli oggetti diventano trasparenti, quasi fluorescenti, tu non ti puoi più aggrappare a loro, non puoi più tenerli in mano per costruire con loro un mondo, e comincia la sensazione del precipizio”463. Nel viaggio in generale e in quello sudamericano in particolare noi facciamo esperienza di una epochè dell’abituale e del consueto e constatiamo il vacillare dell’esistenza, il nostro non poterci tenere a niente. Emerge in aggiunta al tema dell’esperienza dell’eventualità/Lichtung dell’essere, che l’alterità radicale del mondo sudamericano rappresenta in maniera esemplare, la questione non marginale del pathos: per Grassi esso ha una componente metafisica e non psicologica, dal momento che grazie ad esso facciamo esperienza dell’originario. Come è noto, la passione per il filosofo ha anche un significato arcaico nel senso di fondativo poiché consente di prendere coscienza dell’eventualità dell’essere, dell’apertura dei mondi, dell’aletheia come schiudersi, aprirsi e darsi della concreta situazione storica. Afferma Grassi che “si è costretti a riconoscere che la passione agisce come archè, potenza elenchica, che ci espone perché non possiamo liberarci da essa, incombe !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 462 G. Agamben, L’aperto. L’uomo e l’animale, Bollati Boringhieri, Torino 2002, p. 71. 463 E. Grassi, Assenza di mondo, cit., p. 226.  ! 158!  come destino e nella sua luce fa apparire il significato di ogni ente”464. La Stimmung che consente l’esperienza dell’originario si rivela una Leidenschaft. Possiamo rintracciare un secondo senso del viaggio sudamericano: teorico-storico. Come ricorda Cacciatore “en uno de los ùltimos capìtulos del libro, el filòsofo traza la lineas de una autèntica, aunque breve, teorìa e historia del viaje, centrada en la significativa diferencia que caracteriza las relaciones y las descripciones de los viajeros de la edad moderna y las de los contemporaneos”465. Differenza che testimonia anche il profondo mutamento storico tra un’epoca, quella moderna, in cui le categorie filosofiche erano forti e la ragione non aveva ancora perso la propria terraferma; e l’epoca contemporanea che vive i tormenti della propria debolezza categoriale sgretolandosi pian piano. La Conclusione di Reisen ohne anzukommen, che reca il suggestivo titolo di Filosofia e Paesaggio, in cui è narrata questa breve storia del viaggio, mette in luce, inoltre, la correlazione del viaggiare con l’idea di paesaggio. Grassi si pone un interrogativo sul paesaggio e sul suo paradossale nesso con la filosofia. La domanda si sviluppa in una breve storia in cui entrano in scena personaggi – Platone, Petrarca, gli umanisti, Herder, Melville – che sul paesaggio si sono espressi. Il filosofo si chiede: “che cos’è il paesaggio? Che cosa può produrre insieme alla filosofia? [...] il paesaggio può offrire lo spunto per riflessioni teoretiche, dal momento che il piacere che esso suscita si avvicina alla sfera dell’arte?”466. Rispondere a questa domanda significa porre in atto una vera e propria rivoluzione filosofica, una Kehre: abbandonare le categorie della razionalità astratta e fare posto agli elementi mitici e poetici, alla dimensione del pathos che schiudono una modalità di esistenza autentica in cui la potenza delle immagini, a cui è inevitabilmente associato il paesaggio, diviene la linfa vitale della filosofia. Secondo il pensatore il paesaggio “non ha nulla di ovvio, anche se tutti !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 464 Id., Il dramma della metafora, cit., p. 131. 465 G. Cacciatore, Amèrica latina y pensamiento europeo, cit., p. 80. 466 Id., Viaggiare ed errare, cit., p. 173.  ! 159!  credono che esso sia immediatamente accessibile dal momento che lo si vede; il goderne non richiede alcuna riflessione, ma è impossibile esprimere la sua essenza senza riflettere”467. Esso mostra e indica la contraddizione tra ciò che ci sovrasta nella sua immensità, riluttante a qualsiasi espressione univoca e definitiva, e la volontà umana di comprensione. Il paesaggio ci mette di fronte alla nostra incapacità di interrogare in modo nuovo ciò che ci circonda: l’essere. Quelle che sono annotazioni di viaggio, riflessioni e considerazioni si rivelano come i punti di partenza di interrogativi filosofici ineludibili e pressanti. Ineludibilità e necessità che contraddistinguono anche il paesaggio: “qui il paesaggio sembra una realtà alla quale non possiamo sottrarci”468. Un ulteriore significato del viaggio è quello cognitivo. L’esperienza di viaggio si carica di una valenza cognitiva poiché consente quella relazione del sé stesso con l’altro che è fonte di ricchezza quanto più profonda risulta la distanza, la cesura, lo iato. Come afferma Cacciatore in America latina “en esta experiencia cognitiva [...] el viaje y la partida misma tienen sentido en la medida en que remiten immediatamente al retorno, a la estaciòn originaria. Por ello la confrontatiòn de Grassi con Sudamérica es un relacionarse del Sì mismo con el Otro, però tambièn un hallarse el Otro en las raìces històricas y culturales del Sì mismo”469. In questo contesto di relazioni con l’alterità in tutte le sue forme – l’altro uomo, l’altra cultura, e la suprema alterità rispetto al nostro mondo storico, la natura – la distanza assume un ruolo fondamentale quale esperienza catalizzatrice della cognizione che nel viaggiare si realizza. Secondo il filosofo milanese, che menziona in modo innovativo un tema che nella filosofia sicuramente è inusuale, l’organo di misurazione delle distanze è l’olfatto, che meglio del tatto e della vista riesce a restituire tutta la “potenza della distanza”. Egli afferma in Viaggiare ed errare che “a Casablanca, la tappa successiva del nostro viaggio, viene in primo piano ciò che a Madrid era solo annunciato in modo vago. Il mondo chiuso della tecnica, che nel frattempo si era ridotto a una cabina d’aereo, si riapre: una realtà completamente nuova, che ancora non si vede, !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 467 Ivi, 179. 468 Ivi, p. 184. 469 G. Cacciatore, América latina y pensamiento europeo...cit., p. 81.  ! 160!  che non si può nemmeno cogliere con l’udito [...] anche il tatto non può far altro che occuparsi della cartella che d’abitudine ci si porta appresso. Ma improvvisamente all’olfatto spetta un inatteso primato [...] è attraverso l’olfatto che sorprendentemente si percepisce la distanza”470. L’esperienza cognitiva del viaggio in Sudamerica si configura come un movimento verso l’ignoto e l’abissale i cui effetti sono incerti: l’incontro con l’altro può avere un esito liberatorio o distruttivo471, può indurre l’uomo a rinunciare alla sua storia particolare, ma può anche sollecitarlo a dubitare del tutto della realtà storica. Quest’ultimo aspetto è particolarmente problematico: l’insistere del filosofo milanese sull’opposizione tra natura e storia, tra Sudamerica e mondo europeo, appare poco argomentato e poco incline a mediazioni, tracciando una cesura ontologica tra l’uomo sudamericano e quello europeo. Occorre prendere “la expresiòn grassiana naturaleza no historica con mucha cautela”472. Nonostante le dovute cautele rispetto a quelle espressioni che cristallizzano le opposizioni tra una presunta temporalità ontologica e immobile – quella sudamericana – e una temporalità storica – quella europeaa –, bisogna riconoscere il merito del filosofo per aver eletto il viaggio sudamericano a occasione per ripensare e rinnovare i termini e i limiti dello strumentario concettuale dell’Occidente. La posizione di Grassi che guarda all’Europa nei termini di un “relitto di una vita inattuale” e al Sudamerica come natura astorica non passa inosservata: i colleghi universitari, primo fra tutti Carlos Astrada, ma anche Juan Rivano, in La Amèrica ahìstorica y sin mundo del humanista Ernesto Grassi, e Humberto Giannini, in Experiencia y Filosofìa473, non potevano accettare le affermazioni del filosofo italiano senza qualche riserva. Tuttavia Grassi intende questa assenza di storia in modo più complesso e articolato: essa dice della possibilità del nuovo474. Se l’Europa ha esaurito tutte le sue possibilità il Sudamerica, per il primitivismo che la contraddistingue, !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 470 E. Grassi, Viaggiare ed errare, cit., p. 55. 471 Ivi, p. 50. 472 G. Cacciatore, América latina y pensamiento europeo...cit., p. 86. 473 Per una ricostruzione dell’intera vicenda cfr., J. Barcelò, op., cit., pp. 252-253. 474 E. Grassi, Viaggiare ed errare, cit., p. 24.  ! 161!  non è ancora stata sopraffatta dall’asfissia storia: “abbandonata una vita carica di storia, aspiriamo all’altro mondo in cui speriamo di trovare soprattutto l’astorico. Tuttavia non troviamo questo, ma una storia che inizia, una storia completamente estranea a noi europei d’oggi [...] laggiù la vita respira completamente nell’atmosfera di fine secolo e ci appare come un passato che non è ancora riuscito a diventare definitivamente passato. Esso continua a vivere nel nostro presente, ma sembra estraneo e superato”475. Un ultimo aspetto del viaggio è quello simbolico-metaforico. Nel percorso di ampliamento dei propri orientamenti conoscitivi ed esperienziali traspare il motivo della ricerca delle proprie origini. In questa ricerca delle origini e degli inizi dell’umanità si fa esperienza di immagini inedite e di un accesso alla realtà notevolmente diverso. Quando Grassi descrive il passaggio per la grande catena montuosa delle Ande sta narrando una storia che emblematicamente ci ricorda il vichiano “divagamento ferino per la gran selva della terra” della Scienza Nuova. Ma non si tratta semplicemente di una reminiscenza filosofica: in quel momento Grassi non cita Vico, ma descrive, vedendolo, quello che Vico aveva ipotizzato: “vagando in questo territorio, si aprono continuamente nuove prospettive. É l’accesso a un mondo inquietante: come potrebbe infatti un essere vivente storico ritrovare il proprio orientamento in questo silenzio, in queste ombre, in queste fosse? [...] ma questo non è il caos stesso? Anzi è il caos inteso non nel senso di disordine, ma nel senso che a qualsiasi forma può essere impresso un ordine [...] qui nelle Ande esperiamo la realtà di un mondo di pure possibilità”476. La natura, l’ingens sylva, appare, allora, come la metafora di quello spazio edificabile nel quale si apre all’uomo lo spettro di possibilità inedite di instaurare il mondo umano, quel mondo storico che solo con cautela possiamo opporre alla natura. Un mondo in cui la questione onto-antropo-logica viaggia sul doppio binario dell’oggettività data – la natura, il mitico, l’astorico, l’essere – e dell’operazione di determinazione di tale oggettività – la progettualità umana, la genealogia dell’ordine e della storia, quella che Grassi definisce “coscienza temporale umanistica”. Da questo percorso di transizione, che è il viaggio, verranno in superficie, contro la ragione totalitaria, la ragione !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 475 Ivi, p. 69. 476 Ivi, pp. 80-81.  ! 162!  frammentaria, inquieta, balbettante, critica e discontinua, da sempre trattenuta nei silenzi e nelle pieghe nascoste del logos, ma presente nel mito e nella tragedia, nella metafora e nella fantasia. Il viaggio inteso come la metafora in cui viviamo, come condizione, situazione, e circum-stantia, è motivo centrale della riflessione filosofica di Ernesto Grassi e pone in luce il legame indissolubile e non estrinseco tra il luogo geografico di elaborazione di questi innumerevoli significati del viaggio, il Sudamerica, e l’idea di filosofia del pensatore milanese. Un’idea che si costruisce intorno ad un progetto di riattualizzazione della problematica umanistica e dei concetti di retorica, metafora e ingegno, ripercorrendo itinerari poetici, teatrali, filosofici, artistici, che pongono in luce un senso della parola poetica lontano da ogni velleità di giungere ad un significato definitivo, ad una definizione che chiuda la res in un verbum univoco. Anzi, secondo Grassi è nella pluralità delle parole, nei verba che possiamo attingere la res e i suoi modi di datità, che sono infiniti, molteplici, contingenti, transeunti. L’attenzione alla multilateralità del reale, che si rivela nella polidimensionalità linguistica, si colloca nel contesto più generale della domanda sull’uomo e sulla correlazione uomo-mondo. Si tratta del problema onto-antropo-logico a cui gli scritti grassiani di retorica, metaforologia, umanesimo477 tentano di dare delle risposte. Il Sudamerica diventa l’occasione per un ripensamento del proprio passato filosofico e per gettare luce su un presente avvertito come estraneo. Grassi ha voluto confrontare la sua esperienza di europeo con il modo di vivere sudamericano, assillato dal dubbio intorno alla validità universale delle categorie della storicità e della tecnica dominanti in Europa, scoprendo una serie di aspetti inediti della cultura americana: innanzitutto l’esperienza dei sensi, che non è la pura e semplice empeiria, ma il luogo visibile del dissidio e della contraddizione, come testimoniano gli scorci descrittivi delle località cilene. Il filosofo asserisce in riferimento al soggiorno cileno di trovarsi in una realtà che è al contempo unità e molteplicità senza relazione: “ci troviamo nel nord del Cile, nella contrada delle grandi miniere di rame, !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 477 Cfr., soprattutto E. Grassi, Heidegger e il problema dell’umanesimo, cit.; Id., La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale, cit.; Id., Umanesimo e retorica. Il problema della follia, tr. it., di E. Valenziani e G. Barbantini, Mucchi, Modena 1988; Id., Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, cit.; Id., La metafora inaudita, cit.; Id., Vico e l’umanesimo, cit.; Id., Retorica come filosofia. La tradizione umanistica, cit.  ! 163!  in prossimità del confine peruviano a 3800 metri di quota [...] mi confonde il fatto di essere abituato a costruire la realtà mediante una combinazione di diverse esperienze sensibili, e per la prima volta apprendo che i sensi, abbandonati a se stessi e non ordinati dall’intelletto, rivelano il contraddittorio nella sua essenza: la realtà è contemporaneamente un’unità e una molteplicità senza relazione”478. Oltre all’esperienza dei sensi, un altro concetto importante che emerge dai resoconti del viaggio sudamericano, è quello di oggettività: i sensi non rivelano solo qualcosa di soggettivo e di transeunte, ma l’oggettivo. I concetti di natura e oggettività si legano profondamente a quelli di mito, di cominciamento, di originario che solo la poesia può dire e non la filosofia, che si muove nell’ambito del deduttivo e dunque del non-originario. Per Grassi “non basta il sapere, cioè giungere al riconoscimento di quei principii nei quali ancorare tutti i nostri progetti”479 ma bisogna tentare di ricostruire le tappe di una “sapienza arcaica”, o di una “sapienza poetica”, per usare un binomio vichiano, in cui si rinnovano i significati di teoria e prassi e si fa spazio ad un concetto di pistis che esula dai limiti definiti della religione per rivelarsi come il fondamento della retorica originaria: “questo riconoscimento capovolge diametralmente il rapporto tra pistis e logos. La pistis, intesa come fondamento dell’inspiegabile perché fondamento di ogni spiegazione, è propria del mondo originario”480. Nell’esperienza sudamericana l’oggettivo appare come una natura che non è più umanizzata e soggiogata, ma che domina l’uomo. Essa diviene smisurata, infinita, sconfinata, apocalittica e si sottrae ad ogni orientamento, criterio e progetto, in una ripetizione ciclica, in un eterno presente. Asserisce il filosofo che “lo spazio astorico della natura può quindi suscitare nell’uomo europeo un terrore sconcertante. Una volta spezzata la coercizione delle passioni, quando gli oggetti non si distinguono più come momenti conformi al fine degli istinti, improvvisamente si precipita nello smisurato”481. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 478 Id., Arte e mito, cit., p. 83. 479 Id., L’uomo e l’esperienza dell’oggettività, cit., p. 72. 480 Id., Significare arcaico, cit., p. 490. 481 Id., Viaggiare ed errare, cit., p. 116.  ! 164!  Entriamo nello spazio del mito dove la differenza tra uomo e mondo svanisce e tutto rientra improvvisamente in un’unità che domina ovunque e che Grassi sente appartenergli nel modo più profondo. Afferma il filosofo che in questa unità “ha luogo un rovesciamento sconcertante: non si tratta ora più di comprendere qualcosa, perché ogni cosa viene compresa nel tutto”482; si tratta di un ordine “di una pienezza che si chiude armonicamente nella quale il nascere e il trapassare non sono che momenti di un duraturo presente”483. Grassi si sta riferendo ad una realtà eterna che sembra avvolgerci: “è’ l’ora di Pan”484. Il Sudamerica è il simbolo dell’ora di Pan, che a sua volta è allegoria di un’esperienza che, prendendo in prestito le parole di Vico, “è affatto impossibile immaginare, e a gran pena ci è permesso di intendere”: qui è possibile guardare autenticamente al mito non alla luce della demitizzazione, non come “prestazione arcaica della ragione”, per dirla con Blumenberg485, ma come “realtà in cui viviamo”. É ancora consentito vivere il mito in quel dissidio, in quella transizione, in quel viaggio dal vecchio continente della cattiva metafisica verso il mare aperto dell’autenticità, dell’altro inizio del pensiero. Un inizio che è principio arcaico nel senso aristotelico del termine: perché governa e dà inizio come leggiamo in Significare arcaico. Il filosofo, reinterpretando lo Stagirita, sostiene che “il principio deve invece avere veramente il carattere di archè, cioè deve mandare, comandare”486 e, non avendo carattere apodittico, bensì elenchico, “non possiamo sottrarci alla – sua – imposizione perché ogni tentativo di sottrarsi ad – esso lo – presuppone”487. L’atto fondativo e mitico del reale è secondo Grassi indicibile dal logos metafisico e la narrazione di quell’azione primordiale può essere affidata unicamente al potere generativo trasformazionale della metafora, che non è un gioco letterario ma la prima forma dell’ingegno, del nous “e come tale !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 482 Id., Arte e mito, p. 153. 483 Ibidem. 484 Ibidem. 485 Cfr., H. Blumenberg, Il futuro del mito, tr. it. di G. Leghissa, Medusa, Milano 2002. 486 E. Grassi, Significare arcaico, cit., p. 486. 487 Ibidem.  ! 165!  unica espressione delle archai nel loro carattere palesante e immediatamente indicativo”488. Perché come diceva Vico, uno degli autori prediletti da Grassi: “di questa logica poetica sono corollari tutti i primi tropi, de’ quali la più luminosa, e perché più luminosa, più necessaria, e più spessa è la metafora [...] – che – vien’ ad essere una picciola favoletta”489. L’analisi delle “meditazioni sudamericane” di Grassi ha messo in luce l’intima correlazione dei temi del viaggio, inteso come evento semiotico, con le categorie dell’analitica esistenziale grassiana: dismondanizzazione e assenza di mondo, oggettività, natura, coscienza temporale umanistica. Abbiamo cercato di porre in luce quanto il significato del viaggio in generale e di quello sudamericano in particolare sia fondamentale per comprendere il senso della proposta neo-umanistica grassiana: essa si struttura come ricerca costante di un nuovo strumentario categoriale per l’uomo europeo che ha sperimentato la miseria, la precarietà e il declino della propria storia ma non si rassegna al deserto del nichilismo dilagante ma al contrario, come il viaggiatore, l’emigrante, va alla ricerca di un’umanità perduta, più radicata nella vita. L’esperienza sudamericana si carica allora di un’importanza che occorre sottolineare con vigore: essa è un percorso nell’interiorità prima che essere un itinerario geografico perché “in quanto viaggiatori in terra straniera siamo anche e soprattutto viaggiatori nell’interiorità [...] oggi, viaggiando, non andiamo in cerca di scoperte esteriori, sottoponiamo piuttosto a un esame il mondo della nostra lingua, dei nostri pensieri e dei nostri sentimenti”490. La meditazione su Sudamerica diviene allora una meditazione sull’Europa. III. X. L’uomo e l’esperienza dell’oggettività: la nascita della coscienza temporale L’analisi del viaggio nel suo significato tetravalente e la focalizzazione sui temi della dismondanizzazione e dell’assenza di mondo ci consente di inquadrare meglio le altre due idee !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 488 Ivi, p. 494. 489 G. B. Vico, La Scienza nuova, a cura di M. Sanna-V. Vitiello, Bompiani, Milano 2012, ed. 1744, II libro, p. 932. 490 E. Grassi, Viaggiare ed errare, cit., p. 124.  ! 166!  centrali nell’analitica esistenziale grassiana: i concetti di coscienza temporale umanistica e di oggettività. Secondo il pensatore milanese l’esperienza del disancoramento originario dalla realtà è l’elemento principale che caratterizza la “situazione umana”. L’angoscia e il terrore della foresta primordiale, l’agorafobia originaria che genera la paura dell’aperto, spingono l’uomo a cercare di volta in volta i codici di decifrazione della realtà come è emerso dalle precedenti considerazioni sull’incidenza dell’idea uexkülliana di cerchio funzionale simbolico e sulla distinzione tra mondo animale e mondo umano a partire dalla funzione di apertura mondana dell’Angst. Leggiamo in Il tempo umano. L’umanesimo contro la techne che “la situazione umana è caratterizzata dal fatto che l’uomo ha la esperienza originaria di essere disancorato dalla realtà. Il problema del metodo nasce da questa profonda esperienza, giacchè esso consiste nella ricerca della via per giungere un dato fine. Le prime forme di metodo, cioè di ricerca di un orientamento nella realtà nascono dall’esperienza del carattere ingannevole e relativo e mutevole di ciò che mediano i sensi”491. La situazione in cui l’uomo è gettato è caratterizzata dal nesso disancoramento-metodo- orientamento. Convinto che proprio l’insufficienza dei sensi, che provoca il disancoramento, ci obbliga all’elaborazione del metodo, Grassi individua la nascita delle scienze naturali nell’originaria perdita del rapporto immediato con la natura. Emerge un elemento concettuale di non secondaria importanza: il tema della nascita della coscienza e delle scienze si intreccia indissolubilmente alla questione dell’oggettività e alla ricerca della sua determinazione. Sostiene il filosofo che “nelle scienze singole naturali, nelle quali l’uomo crede di raggiungere l’obiettività, appare più chiaro che altrove il disancoramento dell’uomo. Infatti di fronte al bisogno di un metodo, di un’oggettività, appare il caratteristico capovolgimento che avviene nella nostra concezione del reale”492. Si tratta di quel capovolgimento che caratterizza le scienze naturali che mettono da parte l’esperienza originaria della natura – quella immediata dei sensi – in direzione della ricerca di !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 491 Id., Il tempo umano. L’umanesimo contro la techne, cit., p. 202. I corsivi sono nostri. 492 Ibidem.  ! 167!  un’oggettività “stabilita dai principi in funzione ai quali si delimita e circoscrive, facendola oggetto di domanda, la realtà fenomenica”493. L’assenza di coordinate e orientamento mette l’uomo in una condizione di Notwendigkeit che segna anche il discrimine tra mondo animale e mondo umano. La fecondità del tema del disancoramento si pone nel contesto dell’onto-antropo-logia grassiana quale condizione di possibilità della nascita del mondo umano nella Lichtung primordiale. Per il filosofo “la storia umana comincia nell’istante stesso nel quale l’uomo sorge dalla natura in quanto l’immediatezza di quest’ultima non lo soddisfa: l’esperienza della non indifferenza di ciò che gli si presenta fenomenalmente a mezzo dei sensi è espressione di legami che non si identificano con quelli dei sensi”494. L’elevarsi dell’uomo dall’immediatezza dei sensi mette in moto il secondo livello di oggettività e la storia umana. Ma che cosa intende il pensatore per oggettività e in che relazione essa si trova con la storia? III. XI. I gradi dell’oggettività Il filosofo distingue due gradi dell’oggettivo. In L’uomo e l’esperienza dell’oggettività il punto di partenza dell’indagine è ancora una volta quello della “condizione umana” che “si distingue nettamente dalla condizione degli altri esseri viventi per la necessità di ricercare e progettare le unità di misura e di principi in funzione ai quali delimitare il mondo delle apparenze nelle quali ci troviamo”495. L’indagine sulla situazione del Da-sein e sulle sue strutture di esistenza ha come primo risultato l’individuazione di due livelli di oggettività. “Per giungere alla soluzione della realtà umana, e con ciò della sua oggettività, dobbiamo innanzitutto partire dal problema di quali siano i caratteri di ciò che ci si manifesta”496. Tali caratteri possono essere contraddistinti in due modi: -! dipendono dai nostri parametri e dai “limiti da noi progettati”497 !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 493 Ibidem. 494 Ivi, p. 203. 495 Id., L’uomo e l’esperienza dell’oggettività, cit., p. 65. 496 Ivi, p. 68. 497 Ibidem.  ! 168!  -! dipendono “dal fenomeno stesso nel ritmo del proprio divenire”498 Da un lato constatiamo che nella vita vegetativa e organica la natura appare nel costante ritmo temporale dell’identico, in un diastema, ossia in “ciò che sta (istemi) tra limiti (dià)”499, dettato dal fenomeno stesso della vita e non da modalità molteplici di ordinare i fenomeni naturali. Dall’altro riscontriamo nel mondo umano infinite unità di misura di questa natura. Per il filosofo “della natura possiamo solo parlare in quanto essa appare entro i diastema stessi, cioè entro determinati limiti”500 e tuttavia dobbiamo riconoscere che si danno alcuni fenomeni “il cui apparire non dipende dalla nostra proiezione di diastema”501. Grassi riporta l’esempio dei molteplici stati di un corpo502: un corpo può apparire in una forma solida o liquida ma la modalità in cui esso appare non dipende da noi: la nostra proiezione di diastema non è l’unica via di accesso all’oggettivo, all’essere, alla natura. “Se è vero che la natura appare solo entro i limiti da noi progettati, è altrettanto vero che non dipende da noi come essa appare: essa ha una propria oggettività. La constatazione di questa oggettività dei fenomeni naturali è la condizione dell’esperimento, è la risposta che la natura dà entro i nostri diastema”503. Non a caso il filosofo ricorre a Leonardo per porre in luce il concetto di natura entro i diastema. Nello scienziato Grassi individua un via di accesso alla natura mediata dall’esperimento che mostra il senso autentico del concetto di diastema. Nel Trattato sulla pittura e Sull’anatomia dell’uomo “l’esperimento è l’interrogazione della natura tenendo conto di una teoria stabilita anticipatamente, al fine di verificare se questa attraverso l’esperimento viene confermata o confutata. Il punto di partenza per un’indagine sulla natura diventa quindi la teoria dell’uomo ad essa soggiacente. Perciò per Leonardo non è possibile conoscere la natura nella sua interezza !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 498 Ivi, p. 69. 499 Ivi, p. 68. 500 Ibidem. 501 Ibidem. 502 Ibidem. 503 Ibidem.  ! 169!  ma solo quelle parti che si danno nel contesto della teoria e delle domande poste dall’uomo. La natura è dunque correlata all’uomo e alle sue capacità”504. La natura di Leonardo rimane nondimeno “un mistero che viene svelato in funzione della domanda impellente”505, quindi mantiene una zona di opacità residua. Essa ha una propria oggettività che non può essere colta in maniera esaustiva e definitiva. Il tema della doppia oggettività della natura mette insieme l’idea dell’oggettività della natura, quale fondo oscuro e inaggirabile, e l’idea della natura come banco di prova dell’esperienza umana che risulta essere un progetto gettato. Ecco allora che si profila l’intreccio indissolubile tra il tema ontologico della oggettività, della natura, dell’essere e quello etico-pratico della storia umana dei tentativi, dei progetti, dell’esistenza, del caso particolare, delle circostanze. In questo percorso di superamento dell’oggettività della natura, di trascendimento della sua alterità e di ricerca di principi di determinazione, l’uomo elabora le proprie strategie di contenimento del diverso: inizia la storia del sapere. Per il pensatore italiano “la storia del divenire per giungere alla conoscenza di quei principi primi è la storia del sapere. Ma non basta sapere, cioè giungere al riconoscimento di quei principi nei quali ancorare tutti i nostri progetti, ma bisogna anche saper realizzare in funzione ad essi i nostri diastema, i nostri progetti: sorge così una nuova esperienza del tempo [...]: il tempo umano”506. La coscienza dell’autotemporalità trova la propria genesi nell’angoscia esistenziale che ha per il pensatore una funzione catartica: “quella di guidare l’uomo [...] alla coscienza del carattere perturbante della propria situazione”507. L’autotemporalità della coscienza umanistica si fonda sull’idea del tempo come “distinzione fondamentale fra ciò che non è più e ciò che non è ancora, !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 505 Id., La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale, cit., 165. 506 Id., L’uomo e l’esperienza dell’oggettività, cit., p. 71. 507 Id., Potenza della fantasia, cit., p. 259.  504 Id., Introduzione a Heisenberg, Das Naturbild der heutigen Physik, Hamburg Rowohlt, 1955, pp. 133-138, traduzione nostra.  ! 170!  passato e futuro”508 in funzione di un presente. Tale presenzialità tuttavia non ha carattere puntuale, “non ha a che fare con un atomo temporale fuggitivo”509. III. XII. Essere e Tempo Il presente al quale si riferisce il filosofo va connesso con l’idea di appello dell’essere. Tempo ed essere sono strettamente correlati nella concezione grassiana del tempo. Come leggiamo in Apocalisse e storia “i momenti del tempo sono il NON-ancora, il NON-più e l’ora. Tutti e tre questi momenti manifestano all’analisi un caratteristico aspetto negativo”510. Il passato e il futuro mostrano un carattere di nullità e sarebbe più corretto parlare di “presente del passato, presente del futuro, presente del presente”511 che si danno nel ricordo e nell’attesa. Una concezione del tempo di questo tipo fa dipendere la nostra capacità di percepire il tempo dalla nostra capacità di essere affetti (affectio animi). Osserva Grassi che una simile concezione della temporalità presuppone l’essere: non nel senso di ciò “che esteriormente ci è dato”512 ma nel senso di ciò che rende possibile le nostre esperienze. L’a-priori di ogni esperienza temporale umana – quella dell’attesa e del ricordo – è l’attenzione: “il termine latino corrispondente ci chiarisce in che accezione appare qui il termine attenzione: attentio significa tendere ad, e quindi attendere. L’attenzione è quindi possibile nell’ambito di una tensione, di una tensio che, come fondamento dell’aspettativa, dell’attesa, è la radice medesima della nostra capacità di intus-legere, dell’intelligenza con la quale costruiamo e ordiniamo i fenomeni in un modo”513. Solo nel contesto di questa attentio/tensio originaria sorgono il presente, il passato e il futuro. La struttura temporale della coscienza è a !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 508 Id., Il tempo umano. L’umanesimo contro la techne, cit., p. 205. 509 Ibidem. 510 Id., Apocalisse e storia, cit., p. 13. 511 Ivi, p. 14. 512 Ivi, p. 15. 513 Ivi, p. 14.  ! 171!  fondamento del potere umano di progettare, mondi, cosmi, ordini, unità di misura come strategie di risposta agli appelli dell’essere che urgono e ai quali dobbiamo corrispondere. All’origine dell’autotemporalità storica514 della coscienza umana abbiamo un Dasein che si dibatte tra angoscia e paura, la potenza delle quali irrompe, creando uno strappo nell’unità simbolica di soggetto e oggetto. La ricostruzione di tale unità simbolica, di tale symplokè tra soggetto e oggetto mediante la parola, il linguaggio, è il compito che Grassi si propone di portare avanti attraverso riflessioni che assurgono a prolegomena per una “semiotica antropologica” che indaga il “problema del nuovo potere originario che strappa l’esistenza umana dalla sfera della consapevolezza del semplice segno biologico e la colloca in una situazione di esistenza e di possibilità umane”515. La coscienza umana nasce compensazione di quel disancoramento primordiale, che è a fondamento del mondo umano, e come produzione tecnico-poietica. Se la storia dell’uomo è la storia del suo divenire e del suo superamento dell’immediatezza della natura allora il suo compito fondamentale – il compito del vero umanesimo – sarà quello di riscostruire la storia “di quella realtà originaria che l’ha strappato dalla immediatezza della natura”516. Un sapere che si pone questo obiettivo si costituisce come archeologia dei mezzi umani di ricomposizione della frattura originaria (la rottura del cerchio funzionale simbolico): scienze naturali, tecnica, filosofia, arte517. Per Grassi “di qui sorge la necessità di ricostruire – con i frammenti del mondo sensibile – un mondo nuovo, quello umano. L’uomo può realizzare tale compito solo se chiarisce ciò che lo riguarda originariamente e se conforma la realtà sensibile a questa nuova urgenza [...]: sorge per l’uomo il caso particolare, presupposto alla realizzazione del mondo umano”518. Proprio l’elemento circostanziale, particolare, limitato di ogni singola esperienza individuale ci restituisce la qualità cairologica, più che escatologica della temporalità grassiana, attenta all’istante !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 514 Cfr., sul tema dell’autotemporalità come nota distintiva dell’uomo distinta dalla temporalizzazione biologica Id., Vico contro Freud: creatività e inconscio, pp. 133-153, in Id., Vico e l’Umanesimo, cit. pp. 142-145. 515 Ivi, p. 152. 516 Id., Il tempo umano. L’umanesimo contro la techne, cit., p. 203. 517 Ibidem. 518 Id., Apocalisse e storia, cit., p. 12.  ! 172!  giusto, al tempo opportuno: poiché la nuova esperienza di fronte alla quale si trova l’uomo non è solo la conoscenza dell’universale ma innanzitutto quella del caso particolare e singolo. “Bisogna sapere quando, come, dove, di fronte a chi”519. La mancanza di tale conoscenza sarebbe “mancanza di misura, di discrezione, di prudenza, di phronesis”, le uniche capaci di mostrare l’intima correlazione tra vita etica e politica come realizzazioni dell’opera umana, come risposte alla scomparsa del mondo olistico, intatto, della vita organica. Per Grassi resta sullo sfondo un grande interrogativo: c’è da chiedersi “in virtù di che cosa può originarsi il mondo umano, se all’uomo non appartiene alcun ambiente immediato, se quest’ultimo dev’essere sempre costruito da ogni singolo individuo; qual è la radice dell’umanizzazione della natura?”520. Legato al tema antropologico delle origini della storia umana emerge quello del linguaggio e della funzione della retorica grassiana come ricerca sul significare arcaico o semantica antropologica. Siamo così giunti ad un’altra domanda legata connessa ai problemi precedentemente posti a tema: “a quale funzione adempiono la parola, il linguaggio, nel sorgere del mondo umano?”521. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 519 Id., Il tempo umano. L’umanesimo contro la techne, cit., p. 205. 520 Id., Potenza della fantasia, cit., p. 256. 521 Ivi, p. 254.  ! 173!  CAPITOLO IV PALAIÀ DIAPHORÀ: PENSARE E POETARE IV. I. Il significato della proposta retorica Nei capitoli precedenti abbiamo cercato di ricostruire le tappe del pensiero di Grassi seguendo come filo conduttore quello dell’onto-antropo-logia che si è rivelata una chiave di lettura ampia e integrativa. Seguendo le riflessioni sui temi dell’essere, dell’apparire e della manifestatività abbiamo rintracciato a fondamento della proposta neoumanistica un’analitica dell’esistenza che tocca i temi della coscienza temporale, della dismondanizzazione e dell’assenza di mondo. La focalizzazione su queste problematiche fa emergere un’idea di umanesimo che viaggia sul doppio binario della rivalutazione storica – come dimostra l’analisi dei testi umanisti dedicati al tema della Lichtung, del linguaggio e della poesia – e della chiarificazione teoretica delle categorie dell’esistenza. In questo ultimo capitolo prenderemo in considerazione i temi del filosofare noetico-non metafisico e quelli della retorica ingegnosa come critica delle devastazioni dell’intelletto, di quei “razionalismi stretti e assoluti del positivismo logico, cui Grassi contrappone una logica del discorso diretto, del pensiero come comunicazione discorsiva, fondato sulla metafora non come luogo del falso, ma come spazio del vero concesso all’uomo”522. Sullo sfondo della prospettiva retorica grassiana emerge il paradigma dell’incompletezza e della carenza. L’uomo è di fronte ad un paradosso: è caratterizzato dal punto di vista morfologico, dal punto di vista della sua dotazione organica, da primitivismi, inadattamenti e non specializzazioni, a cui fa da contraltare un’apertura al mondo che non lo vincola, come nel caso degli animali, ad un ambiente preciso. Il disancoraggio da un ambiente dai contorni definiti e fissi rende l’uomo compito a se medesimo, lo sottopone ad un onere che si concretizza nella riconversione di una condizione deficitaria in una progettazione di possibilità di conservazione della vita. L’azione, come !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 522 E. Raimondi, La retorica d’oggi, il Mulino, Bologna 2002, p. 77. ! 174!   compensazione alla struttura morfologica deficitaria, si configura come trasformazione della natura in mondo culturale, come umanizzazione dell’ambiente che solo così diviene mondo. In tale processo antropogenetico la retorica occupa un posto tutto particolare. La retorica diviene la faticosa produzione di quelle concordanze che subentrano al posto dei codici mancanti. Il codice di cui parla il filosofo è “non soggettivo, non è scelto liberamente, ma sofferto attraverso i sensi, in quanto essi si manifestano nella sfera del piacere e del dolore [...] noi non abbiamo così il dualismo di codice e realtà da decifrare, abbiamo invece il significato continuo, immediato e rivelato di ciò che noi soffriamo con pathos”523. Ad agire sullo sfondo del discorso c’è la riflessione antropologica novecentesca menzionata in precedenza: il concetto di povertà, il paradigma dell’incompletezza, secondo cui l’uomo è concepito come animale carente, che si intreccia saldamente con la rivalutazione della retorica come luogo privilegiato dell’umano. La retorica avrà un doppio ruolo: quello di mostrare come la pistis sia al centro dell’agire umano e di porre in luce come l’uomo sia contraddistinto da una carenza originaria che per una sorta di eterogenesi dei fini si rivela essere all’origine di quel meccanismo antropogenetico che è la fondazione della comunità umana. Ad emergere è un significato antropologico di retorica che si configura come la compensazione dell’indeterminatezza dell’essere umano: essa può essere definita come la tecnica di adattamento provvisorio che precede ogni morale e ogni verità. La retorica allora costituirebbe una situazione di emergenza, una strategia dell’esonero, uno strumento di azione in mancanza di evidenza. Tale funzione compensativa della tecnica retorica guida il discorso di Grassi relativo anche alle istituzioni: la vis retorica crea istituzioni: “la società umana ha origine nel poeta come oratore e nel lavoro”524. All’interno di questa prospettiva la riflessione retorica diviene teoria dei segni (semata), semiotica, e teoria del senso, semantica arcaica, ben lontana dalla semiotica formale. Una teoria del segno e del senso per il filosofo “dovrebbe essere in grado di elevarsi al livello !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 523 E. Grassi, Vico e l’umanesimo, cit., p. 242. 524 E. Grassi, Retorica come filosofia. La tradizione umanistica, cit., p. 135.  ! 175!  di filosofia in quanto dottrina dei segni sulla base dei quali si manifesta il lavoro specificamente umano (ergon anthropinon)”525. La questione linguistica si intreccia con quella antropologica dell’origine del mondo umano come reazione all’agorafobia primordiale della Lichtung, semiosfera da cui si dipartono i mondi possibili dell’umano. La declinazione antropologica della retorica in base alla quale quest’ultima si costituisce come “pensiero che è aperto alla chiamata della concreta situazione di vita”526 pone in luce come la retorica “assume un significato essenzialmente nuovo; retorica non è, né può essere l’arte, la tecnica di una persuasione estrinseca; è piuttosto il discorso che costituisce la base del pensiero razionale”527. Essa è la base di quel theorein che è proprio della filosofia: un theorein che non ha una costituzione razionalistica ma è “una visione puramente indicativa, schematica, immaginifica, che, come tale, opera opera anche pateticamente e quindi retoricamente”528. IV. II. La retorica come critica del paradigma scientifico Il nucleo singolare dell’opera di Grassi si rivela come una nuova e specifica prospettiva sull’umanesimo retorico quasi sempre obliato dagli storici della filosofia del Rinascimento tra i quali Kristeller e Cassirer529. Come dimostrato dalla sua intensa attività all’Istituto Studia Humanitatis (inaugurato il 6 dicembre del 1942 nell’università di Berlino), presso il Centro italiano di studi umanistici e filosofici a Monaco (1948) e soprattutto dall’attività editoriale della Humanistische Bibliothek, la collana Tradiciòn y Tarea, Grassi propone un’idea diversa del pensiero umanista. Egli !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 525 Id., Retorica come filosofia, cit., p. 194. 526 W. Veit., Critica radicale della ragione o l’altro rispetto alla ragione: la sfida della retorica, pp. 99-126, in AA. VV., Studi in memoria di Ernesto Grassi, cit., p. 113. 527 Id., Retorica e filosofia, in Id., Vico e l’umanesimo, cit., p. 97. I corsivi sono nostri. 528 Id., Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, cit., pp. 17-18. 529 Cfr. le osservazioni esposte nel II capitolo.  ! 176!  non riduce tutto l’umanesimo al recupero del platonismo – ricordiamo l’opposizione tra umanesimo platonico e non platonico530 di cui spesso parla il filosofo – ma mette in risalto l’importanza dell’altra corrente dell’umanesimo che rivendica il valore della parola poetica, come parola donatrice di senso, e della prassi vitale e storica. Lo studio dell’umanesimo allora non appare come il frutto di una curiosità storiografica o erudita ma come uno sforzo, un impegno, per immettere la questione dell’uomo sul terreno della correlazione di teoria e prassi che riscrive anche il tema dell’utilità della filosofia e degli studia humanitatis. Come leggiamo in La potenza dell’immagine “solo in base al chiarimento di una concreta tradizione storica – cioè di quella umanistica – può sorgere a una nuova considerazione il problema attuale de “a che cosa serve la filosofia”, e quindi il problema del rapporto tra teoria e prassi [...] la problematica dell’umanesimo italiano – proprio in relazione alla preminenza accordata alla prassi, alla negazione della parola astratta, razionale – presuppone il superamento della dualità di una realtà esistente, sperimentata, e di un mondo corrispondente alla ragione, una dualità che conduce all’insuperabile divaricazione di teoria e prassi”531. Il recupero del passato filosofico – la tradizione umanistica – fa tutt’uno con l’idea di un’utilità pratica della filosofia che per Grassi nasce proprio come naecessitas, come risposta all’appello dell’Abissale, poiché “conservare un passato (è indifferente che si tratti di pensieri, monumenti o avvenimenti), non considerato in relazione a un compito da assolvere nel presente, è il segno di una cultura divenuta sterile. Ogni cultura, ogni tradizione, nella quale il passato perde questa promettente considerazione, decade, avvizzisce. La tradizione si radica solo nella comprensione del presente”532. All’interno di questa prospettiva il filosofo milanese afferma che il vero umanesimo è quello che incomincia con Dante e Boccaccio. Contro l’indirizzo “platonico” costituito dal versante ficiniano dell’umanesimo per Grassi permane attraverso i contributi di Vives, Nozolio, Peregrini, Tesauro, Graciàn, Vico, Muratori, Leopardi, una tradizione non-platonica ma retorica, che resiste a quello !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 530 Cfr., E. Grassi, La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale, capitolo VI “Antiplatonismo e platonismo”, cit., pp. 175-197. 531 Id., La potenza dell’immagine, cit., pp. 259-260. 532 Ivi, p. 133.  ! 177!  spirito razionalista che la relega nell’ambito della letteratura, dissolvendo l’unione di retorica e filosofia. Il punto di vista grassiano sull’umanesimo italiano emerge in netto contrasto all’enfasi sulla ragione e sulla logica privilegiate dal paradigma scientifico. Quest’ultimo si fonda sul presupposto che la conoscenza oggettiva sia l’unico modo per comprendere la realtà. Questo tipo di impostazione logico-analitica, caratterizzata dall’utilizzo del metodo scientifico, non è attenta all’hic et nunc della situazione concreta ma crede di trovare assiomi autoevidenti universalmente validi: rispetto al discorso retorico “il discorso razionale invece è fondato sulla capacità una di trarre deduzioni e quindi di legare delle conclusioni a delle premesse. Il discorso razionale raggiunge la sua funzione dimostrativa e la sua stringenza mediante la dimostrazione logica”533. Ne deriva che il discorso retorico non può avere alcuno spessore filosofico all’interno del paradigma scientifico. Il discrimine fondamentale tra l’approccio scientifico e quello retorico al reale risiede nella ricerca dei principi. La retorica vuole indagare l’origine dei primi principi e la scienza si arresta alla constatazione delle premesse. Se il discorso dimostrativo è quello che lega la definizione di un fenomeno riportandolo ai principi ultimi, alle archai, “è chiaro che le prime archai di qualsiasi prova, e quindi conoscenza, non possono essere esse stesse essere provate, in quanto non possono essere oggetto di un discorso apodittico, dimostrativo e logico”534. Da qui sorge il problema dell’individuazione del tipo di logos adatto ad una ricerca sui primi principi, sulle premesse indimostrabili. La risposta grassiana è nota: “l’uso di tali espressioni, che appartengono all’originario, al non-deducibile, non possono avere carattere e struttura apodittica e dimostrativa, ma solo indicativa. É solo il carattere indicativo delle archai che rende davvero possibile la dimostrazione”535. La ricerca sul metodo adeguato per accedere al reale conduce Grassi a tematizzare l’infondatezza di quella opposizione tra filosofia topica e critica. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 533 Id., Filosofia critica o filosofia topica? Il dualismo di pathos e ragione, in Id., Vico e l’umanesimo, cit., pp. 25-26. 534 Id., Retorica e filosofia, in Id., Vico e l’umanesimo, cit., p. 96. 535 Ivi, p. 97.  ! 178!  IV. III. Retorica tra filosofia critica e filosofia topica La dimensione retorica va considerata secondo Grassi non come elocutio ma come inventio536: non si tratta di un ornamento edonistico del discorso, o di una celebrazione epidittica, ma di una vis creatrice che attinge al polimorfismo del reale: la Weltanschauung “umanistica tutt’altro che tranquilla, trascura l’ontologia a vantaggio della metamorfosi, che opportunamente si salda in Grassi alla centralità della metafora, stabilendo con la topica una tassonomia mobile e con l’ingegno legami dal mandato sempre provvisorio”537. Il magistero degli umanisti e di Vico, quale ultimo interprete degli ideali di storicità, della funzione conoscitiva ma anche esistenziale della fantasia, dell’ingegno e della metafora, consente a Grassi di porre l’attenzione al momento genetico, aurorale del pensiero più che alla sua fase declinante, al suo tramonto. Vichianamente attento alla natura delle cose che altro non è che “nascimento in certi tempi e in certe guise” (Scienza Nuova, Degnità XIV) Grassi rifugge dagli ideali cartesiani di chiarezza e distinzione optando per l’opacità dei tropi. In Vico e L’umanesimo il dualismo di pathos e ragione si concretizza nella dicotomia tra Cartesio e Vico, tra un filosofare critico e un filosofare topico, che divengono le due allegorie del danno e del rimedio per la filosofia autentica. Cartesio compare quale bersaglio polemico di un discorso che vuole scardinare l’impostazione razionalista del pensiero. Grassi fa sua la posizione heideggeriana che sottopone l’autore delle Meditazioni all’affilata mannaia della distruzione ontologica valutando l’operazione metodica di separazione tra io e mondo538, tra res cogitans e res extensa un’assurdità. Se si postula una separazione non ci sarà alcuna possibilità di ricomposizione della frattura come è possibile !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 536 Cfr., sulle parti della retorica dalle origini alle nuove retoriche di Perelman-Tytheca, Gruppo di Liegi, retorica del silenzio di Valesio B. Mortara-Garavelli, Manuale di retorica, Bompiani, Milano 2012. 537 Ivi, p. 390. 538 Sull’interpretazione heideggeriana dell’ontologia cartesiana del mondo cfr., M. Heidegger, Essere e Tempo, cit., §§ 19-21.  ! 179!  leggere in Essere e Tempo ai paragrafi 19-21. Secondo Heidegger, a partire da Cartesio avviene nella metafisica un importante passaggio, quello dalla domanda che chiede che cosa sia l’ente, a quello della domanda che si pone il problema del fondamento che rende possibile la comprensione dell’ente. A tale fondamento poi si riconduce – ad esempio, nelle suggestive pagine di Il nichilismo europeo – lo sviluppo della tecnica come estrema propaggine del pensare metafisico, come essenza stessa della metafisica che è nichilismo. Nella tesi cartesiana ego cogito, ergo sum, infatti, Heidegger vede espresso un primato dell’io umano ed una nuova posizione dell’uomo539, poiché l’uomo diventa subiectum540, il fondamento e la misura di ogni certezza e verità. Asserisce il pensatore tedesco che “la tradizionale domanda guida della metafisica – che cos’è l’ente – si trasforma all’inizio della metafisica moderna nella domanda del metodo, della via per la quale, [...] è cercato qualcosa di assolutamente certo e sicuro”541. Tale metodo è il cogito e le sue strutture. Grassi fa sua l’impostazione heideggeriana e afferma che occorre abbandonare l’ipotesi di un inizio cartesiano del pensiero moderno poiché il vero inizio è quello che include il pathos all’interno del logos. Egli sostiene che “all’inizio della filosofia moderna Descartes escluse scientemente la retorica – e le altre materie proprie dell’educazione umanistica – dalla filosofia come pura ricerca della verità”542. Il dualismo di dimensione patica e dimensione razionale ha come conseguenza sul piano teorico una contrapposizione tra il piano individuale, storico e temporale della retorica e il piano generale, astorico, e svincolato dall’hic et nunc. Il problema della connessione di pathos e logos, di filosofia critica e topica, viene posto per la prima volta secondo Grassi in modo teoricamente articolato nella filosofia vichiana del De ratione studiorum di cui egli ricostruisce minuziosamente le tappe della critica al razionalismo cartesiano nel saggio Filosofia critica o filosofia topica? Il dualismo di pathos !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 539 M. Heidegger, Il nichilismo europeo, Adelphi, Milano, p. 158. 540 Ivi, p. 168. 541 Ivi, p. 169. 542 E. Grassi, Filosofia critica o filosofia topica? Il dualismo di pathos e ragione, cit., in Id., Vico e l’Umanesimo, cit., p. 25.  ! 180!  e ragione. Le questioni poste sul tavolo della discussione sono molteplici: la pretesa di partire da un primo vero attraverso il dubbio metodico; esclusione delle verità seconde; esclusione del verisimile543. Se il primo vero riguarda l’essere e la catena deduttiva della dottrina della scienza atta a conoscerlo, le verità seconde pertengono all’ambito delle necessitates umane che spingono l’uomo a ricercare quei mezzi per sopravvivere essenzialmente tecnico-poietici. Il metodo critico di impostazione cartesiana trascura in questo modo la sfera retorica, immaginativa, fantastica, ma anche politica della vita umana, ridotta al suo puro aspetto cogitativo. Grassi pone l’attenzione sul passo vichiano del De Ratione in cui è enunciata la priorità della topica sulla critica: “giacchè, come l’invenzione degli argomenti precede per natura la valutazione della loro veridicità, così la dottrina topica dev’essere preposta a quella critica”544. Si chiede il filosofo milanese: “chi ci assicura che le premesse dalle quali parte il processo critico non rispecchino solo un singolo aspetto della realtà, limitando di conseguenza le conclusioni che ne derivano? Non ha il metodo critico trascurato la retorica, la politica, la fantasia dimostrando così la sua unilateralità razionalistica?”545. Non è la deduzione che precede l’inventio, ma al contrario ogni catena di ragionamento è possibile unicamente sulla base di un “ritrovamento di luoghi”. Si tratta dell’arte topica, ossia l’arte dell’invenzione di cui Cicerone e Quintiliano ci hanno parlato e su cui già Aristotele si pronuncia in Topica in cui a quest’arte è riconosciuta la capacità di individuare a “quanti e quali oggetti si rivolgono i discorsi, da quali elementi derivano, e come sia possibile avere tali discorsi facilmente a disposizione”546. La questione è ancora una volte quella di tenersi lontani da una visione unilaterale della realtà tenendo conto piuttosto delle innumerevoli forme dell’apparire del reale, da interpretare in tutta la sua ricchezza. La radicalizzazione dell’opposizione tra logos e pathos in realtà è spia di un’esigenza !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 543 Ivi, p. 35 e sgg. 544 G. B. Vico, Sul metodo degli studi nel nostro tempo, cit., p. 39. 545 E. Grassi, Filosofia critica o filosofia topica? Il dualismo di pathos e ragione, cit., in Id., Vico e l’umanesimo, cit., p. 36. 546 Aristotele, Topica, 101 b 3. ! 181!   di unità nel quadro di una prospettiva onto-antropo-logica che mira a gettare un ponte tra logos e pathos, tra pensiero retorico e scientifico. Leggiamo in Retorica e filosofia che “la tesi che l’essenza della filosofia si riduca esclusivamente al processo razionale non regge. Anzitutto perché esso presuppone inevitabilmente un’altra attività, quella dell’invenire, che lo precede”547. Lo scopo del filosofo è quello di trovare il fondamento comune di retorica e filosofia, e la sua prospettiva non-riduzionista è capace di tenere conto di quella torsione che avviene nell’uomo con il sopravvenire del linguaggio, come mediazione tra gli istinti e gli impulsi da un lato e gli scopi dall’altro. Il linguaggio segna e delimita i diversi aspetti dell’umano che esprime il proprio senso della realtà primariamente attraverso un logos metaforico e non tramite la definizione, il concetto, il linguaggio razionale. Di conseguenza la soggettività che traspare dalle riflessioni grassiane non è dotata di una identità monolitica e infrangibile, non è compatta e unitaria ma è una soggettività frammentata e consegnata alla contingenza, alla circostanza, costretta a ridefinirsi continuamente. Il Da-sein è allora atto di ricomposizione, attraverso la “ragione fantasticante”548 (che tiene insieme come compossibili e non come contraddittori logos-pathos), dei cocci dell’esistenza tra i quali ci muoviamo, consapevoli dell’instabilità e della mutevolezza, del divenire che necessita di un logos adeguato alla sua espressione: la metafora. Nell’onto-antropo-logia grassiana ritroviamo un Da-sein che riconosce l’inesistenza di un fondamento ma non rinuncia ad esporsi alla motilità dell’esistenza e a costruire un senso tra le pieghe e le piaghe che caratterizzano il movimento della vita. In questo percorso di fondazione e di costruzione l’idea di retorica si pone in una posizione innovativa. Come sottolinea Gabin nella recensione del 1983 a Retorica e filosofia Grassi può essere collocato di fatto nel contesto della retorica contemporanea che mette in luce uno slittamento dalla teoria della corrispondenza a quella !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 547 E. Grassi, Filosofia critica o filosofia topica? Il dualismo di pathos e ragione, cit., Id., Vico e l’umanesimo, cit., p. 33. 548 Id., Viaggiare ed errare, cit., p. 180.  ! 182!  della coerenza549. Afferma lo studioso che “gli echi di Richards, Burke, Barthes, Derrida, Ijsseling e molti altri circolano nelle pagine di Grassi, ragione per la quale egli scrive nella tradizione di coloro che credono nella natura circostanziale del pensiero e nella implicita unità di idea e immagine”550. Tale slittamento mette in luce, attraverso il ripercorrimento della lunga storia della retorica, da Aristotele a Cicerone e Quintiliano, da Dante a Bruni e Valla, da Vico a Nietzsche e Ungaretti, uno scopo ambizioso: capire meglio le ragioni profonde di quella storia e, ripercorrendole, tornare all’universo contemporaneo per cercare di enucleare alcune direzioni di ricerca e suggerire nuovi approcci. La teoria retorica grassiana mette in luce una dimensione pragmatica della coerenza per dirla con McPhail551 che si fonda su una riconsiderazione del tema della credenza/pistis. Il magistero umanistico conduce il filosofo a riscoprire il mondo della storicità umana, il valore conoscitivo della fantasia-ingegno, della metafora, il ruolo civilizzatore e coesivo della retorica, la funzione politico-economica dei miti, il potere metamorfico del lavoro, capace di convertire la natura in cultura. Il filosofo predilige nella sua indagine retorica il momento aurorale, arcaico: i punti di partenza, i presupposti dell’agire, il momento genetico, còlto nelle sue implicazioni gnoseologico- pratiche e antropologiche. Privilegiando la dimensione pre-teoretica, il mondo della vita, il momento che precede quello razionale, le archai originarie, di natura topica e non critica, indicativa e non !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 549 Mette in luce l’ipotesi dello slittamento dalla teoria della corrispondenza a quella della coerenza in Grassi M. L. McPhail, in Coherence as Rapresentative Anecdote in the Rhetorics of Kenneth Burke and Ernesto Grassi, pp. 76-118 in AA. VV, Kenneth Burke and contemporary European thought: rhetoric in transition, Tuscaloosa, University of Alabama Press, 1995. Sull’importanza di Grassi nella retorica contemporanea cfr., S. K. Foss-K. A. Foss-R. Trapp, Contemporary Perspectives on Rhetoric, Waveland, Long Groove Illinois, capitolo III pp. 54-74. Per un approfondimento dei temi della coerenza e della corrispondenza nelle teorie della verità cfr., M. Dell’Utri, Il falso specchio. Teorie della verità nella filosofia analitica, ETS, Pisa 1996. Cfr., E. Raimondi, La retorica d’oggi, cit., pp. 77-78. 550 R. J. Gabin, Review of Rhetoric and Philosophy: the Humanist Tradition, Quarterly Journal of Speech 69, n. 2 (May 1983), pp. 220-221, p. 221: “Echoes of Richards, Burke, Barthes, Derrida, Ijsseling and many others ring through Grassi’s pages, for he writes in the tradition of those who believe in the circumstantial nature of thought and the underlying unity of idea and image”, p. 221. Traduzione nostra. 551 Cf., M. L. McPhail, op. cit., p. 77. “A comparison of the rhetorics of Burke and Grassi shows that both writers’ conceptualizations of language exemplify the evolution from correspondence to coherence in contemporary rhetorical theory”. “Una comparazione delle retoriche di Burke e Grassi mostra che le riflessioni sul linguaggio di entrambi gli autori esemplificano l’evoluzione dalla teoria della corrispondenza alla teoria della coerenza nella teoria retorica contemporanea”. Traduzione nostra.  ! 183!  dimostrativa, ingegnosa e non razionale, retorica e non logica, egli dedica attenzione particolare ad autori, quali Aristotele, Vico e Leopardi, le cui riflessioni si concentrano sulla dimensione aurorale della fondazione della civiltà. Se con Vico e Leopardi siamo di fronte ad una idea di humanitas all’insegna del pathos, secondo i quali la priorità non è affidata al procedimento razionale, anonimo e astorico, al linguaggio denotativo, chiaro e distinto, ma alla retorica e all’immagine, alla ricchezza e all’opacità dei tropi, con Aristotele possiamo guadagnare un concetto di logica affidata alla pistis, un’idea di sapere non fondata sulla deduzione – il filosofare noetico-non metafisico. Sono in gioco tre aspetti fondamentali: -! la focalizzazione sull’aspetto fondativo del linguaggio -! l’analisi dei principi epistemici fondati sulla dimensione simbolica del pensiero e dell’azione umani -! l’articolazione dell’aspetto ontologico che caratterizza l’esistenza umana in termini di metafora drammatica, che ha una natura affermativa e positiva in quanto forza propulsiva nella Menschwerdung Grassi vede “l’esistenza umana come essenzialmente retorica ed esplora la metafora come l’aneddoto rappresentativo dell’esistenza”552 che ha potere generativo. La concettualizzazione dei grandi temi della filosofia, ma anche dell’arte e della letteratura, sposta l’attenzione sul mondo storico, sulle passioni dell’uomo, sulle tradizioni drammatiche, teatrali e metaforiche dell’occidente. La particolare considerazione grassiana dell’umanesimo e della retorica che lo contraddistingue emerge proprio in contrasto con l’enfasi posta dal paradigma scientifico sulla ragione e sulla logica. Il pensiero scientifico e filosofico tradizionale si basa sulla presupposizione che la conoscenza razionale sia la via da preferire per accedere al reale. La critica grassiana al deduttivismo logico e ad un sapere schiavo della mathesis universalis lo conduce verso l’individuazione del momento critico del pensiero razionale nell’indimostrabilità dei principi. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 552 Ivi, p. 79. “Grassi similarly sees human existence as essentially rhetorical, and explores metaphor as his representative anecdote”. Traduzione nostra.  ! 184!  IV. IV. La struttura della presupposizione Come leggiamo in La priorità del senso comune e della fantasia: l’importanza di Vico oggi “la logica tradizionale distingue tra due modi per fondare la conoscenza. Il metodo deduttivo comincia da premesse e deriva le inferenze già presenti in esse. Qui è indispensabile che le premesse risultino universalmente valide e necessarie [...] ma le premesse sono necessariamente presupposte nella deduzione”553. A fare problema è la struttura della pre-supposizione, dell’upothesis. Secondo il filosofo “quando si tratta di protasi, di indicazioni di indole arcaica – cioè originaria, dominante – siamo obbligati a riconoscere che essa non ha e non può avere un carattere dimostrativo, discorsivo bensì – come si esprime Aristotele – noetico”554. I primi principi hanno carattere svelante e manifestativo: si tratta del mitologema originario della filosofia, l’aporia contro cui urta il soggetto parlante. Nella struttura della presupposizione, dell’ipotesi, o, nei termini grassiani, dei “principi indeducibili”, si articola l’intreccio di essere e linguaggio, di mondo e parola di ontologia e logica555. Per il filosofo i principi non possono essere dimostrati perché essi sono alla base di ogni dimostrazione. Non attraverso la ratio si accederà ad essi, ma attraverso il pathos, che non è il contrario del sapere ma un’altra forma di sapere, un sapere arcaico. Dalla prospettiva del filosofo dobbiamo chiederci “se le asserzioni originarie non sono dimostrabili, qual è il carattere del discorso con cui le esprimiamo? [...] qui ci si pone di fronte al problema fondamentale del carattere che ha e deve avere la formulazione delle premesse, ossia delle basi”556. Il discorso apodittico, quello che prova e dimostra (apo-deiknymi), pone la definizione di un !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 553 E. Grassi, La priorità del senso comune e e della fantasia: l’importanza di Vico oggi, pubblicato in AA. VV., Vico and Contemporary Thought, Vol. I, Humanities Press International, New Jersey 1976, ora in Id., Vico e l’umanesimo, cit., p. 43. Corsivo nostro. 554 Id., Filosofare noetico non metafisico, cit., p. 17. 555 Sul problema della presupposizione come mitologema originario della filosofia cfr., G. Agamben, Che cos’è la filosofia, Quodlibet, Macerata 2016. 556 Cfr., E. Grassi, Retorica e filosofia, cit., in Id., Vico e l’umanesimo, cit., 97.  ! 185!  fenomeno riportandolo ai principi ultimi o archai. Ed è chiaro che le prime “archai di qualsiasi prova, e quindi della conoscenza, non possono esse stesse essere provate”557. Tale sapere arcaico coinvolge anche una riflessione sul mito – come “principio instauratore originario di una comunità”558 – sulla dottrina topica-inventiva – interpretata come “dottrina della visione originaria”559 – , sulla metaforologia – come “prassi linguistica e biologica”560 –, sull’ingenium –come “proprietà comprensiva più che deduttiva dell’uomo”561 – e sulla phantasia intesa nella sua funzione ontologica come “attività originaria che scopre le relazioni sulla base delle visioni delle somiglianze”562. L’apogeo della critica contro la deriva razionalistica del pensiero si colloca nell’individuazione dell’opposizione delle nozioni aristoteliche di nous e di episteme. Grassi infatti istituisce un collegamento tra nous e archè, mettendo in luce la stessa matrice originaria dell’episteme: l’urgenza, l’impellenza e l’appello dell’essere si svelano attraverso segni indicativi, colti attraverso la passione. Quella che Grassi definisce come noetica è la forma originaria della filosofia e si configura come a priori trascendentale di ogni dimensione deduttiva e storica. Leggiamo in Significare arcaico che nella sfera dell’originario non esiste dualismo di pathos e logos e nell’ambito dei segni indicativi noi esperiamo l’aletheia arcaica “sacrale e con ciò estatica, patetica, manica”563. Per il filosofo se “il dualismo di sapere e di pathos non ha luogo nella sfera !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 557 Ivi, p. 96. 558 Id., Mito ed arte, cit., p. 162. Cfr., anche Id., Arte e mito, cit. 559 Id., Retorica come filosofia. La tradizione umanistica, cit., p. 93. 560 Cfr., Id., Potenza della fantasia. Per una storia del pensiero occidentale, cit., p. 192. “La facoltà del trasferimento di senso, il metapherein, è fin dall’inizio essenziale alla vita”. Cfr., Id., La filosofia dell’umanesimo. In problema epocale, cit., p. 179. “La metafora con il suo carattere immaginifico e non causale, non concettuale ma ingegnoso, supera il divario che corre tra la teoria, il concetto universale, e la pratica sempre connessa con il caso particolare [...] l’espressione metaforica è in sé e per sé una risposta all’appello dell’Essere che si impone qui ed ora”. 561 Id., Retorica come filosofia. La tradizione umanistica, cit., p. 94. 562 Id., Potenza della fantasia. Per una storia del pensiero occidentale, cit., p. 190. 563!Id., Significare arcaico, cit., p. 491.!  ! 186!  dell’originario”564 – palesandosi solo nell’ambito, razionale, dedotto – allora dobbiamo constatare che “ogni discorso razionale si radica nel discorso arcaico puramente semantico, il quale scaturisce nella sua immediatezza nell’ambito del nous, dell’ingenium, della facoltà che realizza la visione dei segni originari che presiedono al mondo umano”565. L’aspra critica al deduttivismo, al riduzionismo logico del pensiero, e alla matematizzazione di ogni discorso non compromettono tuttavia lo spessore filosofico della filosofia di Grassi che resta integro proprio nell’insistenza della ricerca sul perché, su una, per quanto miope, visione dell’origine, su un primum esperibile attraverso segni, indicazioni. Le indagini sulla retorica si inseriscono all’interno del contesto ermeneutico di riabilitazione della retorica che, come è noto, ha inizio con le riflessioni di Perelman. La riflessione condotta a partire da una prospettiva di teoria dell’argomentazione e dell’eloquenza genera un’aporia: l’alternativa teorica che si pone è tra un eccesso di retorica e una chiusura nei confronti della retorica. La questione che Grassi pone travalica l’alternativa tra rifiuto o accettazione566 e ha come fuoco di ricerca l’indagine di quello spazio di sapere collocato tra retorica e filosofia. La domanda che il filosofo si pone è: esiste questo e tra retorica e filosofia? L’opposizione tra retorica e filosofia che è oggetto di Retorica e filosofia del 1980 già si profila a partire da L’inizio del pensiero moderno in cui il linguaggio vive la contrapposizione tra la sua veste scientifico-dimostrativa e quella metaforico-indicativa. Nella nostra analisi prenderemo in considerazione le diverse definizioni di retorica offerte dal filosofo, che corrispondono a funzioni differenti a seconda del contesto nel quale l’argomento retorico è trattato, !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 564!Ibidem.! 565!Ibidem.! 566 Sulla concezione della retorica in Grassi cfr. M. Marassi, Retorica, storicità ed umanesimo, pp. 199-216, in E. Grassi, La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale, cit.; M. Marassi, Introduzione, pp. 11-27, in E. Grassi, Retorica come filosofia. La tradizione umanistica, cit. P. R. Blum, Rhetoric is the home of trascendent: Ernesto Grassi’s response to Heidegger’s attack on humanism, Intellectual History Review, 22:2, pp. 261-287; M. L. McPhail, Coherence as rapresentative anecdote in rethorics of Kenneth Burke and Ernesto Grassi, pp. 76-118, in B. L. Brock, Kenneth Burke and contemporary european thought, University of Alabama Press, 1995.  ! 187!  allo scopo di mettere in luce non la compromessa unità del concetto di retorica quanto piuttosto l’intrinseca capacità di generare significati e contesti. IV. V. Il logos retorico: la tripartizione del discorso Nel contesto dell’analisi delle molteplici forme di discorso Grassi parte dalla messa in discussione della riduzione del discorso retorico a semplice tecnica di persuasione. Secondo il filosofo il problema retorico può essere affrontato da due punti di vista: si può considerare la retorica in senso tradizionale, “quindi come arte, come tecnica di persuasione”567 o da una prospettiva più generale di interazione con il sapere teoretico. Per comprendere il senso autentico della concezione retorica dovremo prendere le distanze dall’approccio speculativo che la riduce ad arte della persuasione, privandola della componente filosofica. A tal proposito Grassi individua tre tipi di discorso: -! il discorso retorico esteriore -! il discorso razionale -! il vero discorso retorico. Il primo discorso “si riferisce solo alle immagini perché influenzano le passioni”568 ed è il discorso retorico in senso classico. La seconda forma è il classico discorso razionale a carattere dimostrativo. Infine c’è il vero discorso retorico che “scaturisce dalle archai”569: esso non è deducibile ma è indicativo. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 567 E. Grassi, Retorica come filosofia. La tradizione umanistica, cit., p. 55. 568 Ivi, p. 75. 569 Ibidem.  ! 188!  Tralasciando il secondo tipo di discorso, quello razionale – di cui si è già detto sopra – vorremmo soffermarci sul duplice senso del discorso retorico: come tecnica della persuasione e come discorso semantico. Lo scopo dell’analisi del filosofo è quello di rintracciare le caratteristiche del discorso semantico sulla base del quale è possibile comprendere sia la retorica come tecnica di persuasione sia il discorso razionale-scientifico. L’indagine sulla retorica allora allarga il proprio raggio di azione ben al di là delle classiche tematiche oggetto della retorica classica per divenire occasione per un ripensamento dei fondamenti del sapere scientifico-filosofico e della tecnica oratoria classicamente intesa. Quella di Grassi è non è l’ennesima sistemazione tassonomica del materiale discorsivo ma una retorica come teoria che assurge a filosofia generale e che ha come oggetto di riflessione i fondamenti pre-teoretici, pre-categoriali, ante-predicativi del sapere. Il filosofo parla non a caso di significare arcaico. Leggiamo in Retorica e filosofia che “il discorso indicativo o allusivo (semeinein) fornisce la struttura in cui può nascere la prova. Inoltre se la razionalità è identificata con il processo di chiarificazione, noi siamo costretti ad ammettere che la primitiva chiarezza dei principi non è razionale, e a riconoscere che il linguaggio corrispondente, nella sua struttura indicativa, ha un carattere evangelico”570. Secondo il pensatore milanese tale tipologia di discorso – quello semantico-arcaico – è una Darstellung, una esposizione fantastica-teoretica. In questa esposizione fantasia e teoria si identificano in quanto facoltà della visione: “in tal modo il discorso che realizza tale esposizione pone dinanzi agli occhi (phainesthai) un significato”571. Il sistema retorico grassiano mira a costruire il ponte tra retorica e filosofia e proprio in questa operazione di integrazione possiamo individuare l’unità del discorso contro l’ipotesi dualista su cui ci siamo già soffermati572. Afferma il filosofo che “la filosofia non è una sintesi posteriore di pathos e logos, ma l’unità originaria di entrambi sotto il potere delle archai originarie [...] quindi la vera filosofia è la retorica e la vera retorica è la !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 570 Id., Retorica e filosofia, cit., in Id., Vico e l’umanesimo, cit., p. 97. 571 Ibidem. 572 Cfr. III capitolo.  ! 189!  filosofia”573. Contro la tradizione occidentale razionalista Grassi non pensa che la retorica non sia fonte di conoscenza vera, anzi la retorica nasce dall’“insufficienza del pensiero razionale”574. Così il termine retorica assume un significato essenzialmente nuovo: “retorica non è, né può essere l’arte, la tecnica di una persuasione estrinseca; è piuttosto il discorso che costituisce la base del pensiero razionale”575. Si tratta della tragedia del pensiero razionalistico che si trova a fare i conti con la matrice stessa del suo procedimento. La genesi della struttura del linguaggio razionale, dialettico, dimostrativo è il linguaggio semantico, immediato, illuminante, indicativo. Se il logos indicativo o allusivo fornisce la cornice in cui può nascere la prova, la cui primitiva chiarezza non è razionale, dobbiamo riconoscere che il linguaggio corrispondente ha un carattere indicativo ed evangelico “nel primitivo significato greco di questa parola, cioè di osservare”576. La retorica come punto di partenza della scienza e della razionalità è contrassegnata da una nota antropologica che si configura come compensazione dell’indeterminatezza dell’essere umano. Essa allora costituirebbe una situazione di emergenza, una strategia dell’esonero, uno strumento di azione in mancanza di codici prestabiliti. Come avrebbe detto Blumenberg “assioma di ogni retorica è il principio di ragione insufficiente”577 e ciò vale anche per Grassi che conosceva bene Blumenberg578 e che asserisce, con una sorprendente consonanza teorica, che la retorica nasce dall’insufficienza del pensiero razionale. La retorica allora mostra l’imbarazzante luogo in cui si trova: certifica da un lato l’insufficienza e dall’altro pone in luce quelle prassi che si dipartono da quell’insufficienza originaria e che non possono essere messe da parte in nome di una scienza della verità e dell’evidenza. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 573 E. Grassi, Retorica come filosofia, cit., p. 74. Corsivi nostri. 574 Id., La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale, cit., p. 156. 575 Id., Retorica e filosofia, cit., in Id., Vico e l’umanesimo, cit., p. 97. 576 Ibidem. 577 H. Blumenberg, La realtà in cui viviamo, Feltrinelli 1987, p. 103. 578 Cfr., R. Messori, Le forme dell’apparire, cit. Cfr., E. Grassi-H. Blumenberg, Correspondenz, consultabile presso il Deutsches Literatur Archiv di Marbach.  ! 190!  Se in Blumenberg abbiamo una distinzione tra retorica dell’ornatus579 e retorica come prestazione metaforica580, tale che la retorica come compensazione di una mancanza non si articola anche come compensazione di una mancanza di verità e di evidenza – il che conferisce in ultima istanza una piega antiretorica al discorso di Blumenberg – in Grassi la compensazione entra in gioco proprio per l’esatto opposto: per eccesso di evidenza, per eccesso di verità. Il reale contro cui urtiamo definitivamente, che ci incalza e ci chiama – l’Appello dell’Essere – appare nella sua evidenza abbagliante che possiamo solo patire. Come possiamo leggere in La metafora inaudita: originarietà e paradossia della metafora “ciò che patiamo non sono gli enti ma ciò che in funzione dei sensi – entro i limiti di piacere e dolore – si impone sempre carico di significato. L’uomo vive esclusivamente sotto l’impeto di “segni indicativi”, cioè dell’Abissale di cui i sensi sono strumenti”581. Das Reale als Leidenschaft: il reale va inteso come passione. Secondo Grassi è il reale, il mondo, con tutto il suo carico di estraneità e di alterità, che fa scattare il meccanismo retorico, la risposta umana alla multilateralità della vita che è evidente, si pone sotto agli occhi, ma allo stesso tempo è caratterizzata da un’opacità che ci costringe al lavoro dell’interpretazione esistenziale – sia essa del testo, della lingua, del concetto. Del resto in Grassi retorica e filosofia, pathos e logos non sono che due approcci metodologicamente distinti ma che hanno una medesima origine: il reale che genera angoscia, la quale indica la “fondamentale esperienza esistenziale dell’inadeguatezza del codice biologico”582. Essa “spezza il cerchio funzionale puramente biologico e [...] a mezzo della parola, porta l’uomo alla conoscenza di tale potenza, cioè alla consapevolezza della propria condizione strana e non addomesticata”583. La proposta retorica e !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 579 Quella dell’uomo ricco che possiede la verità. 580 Quella dell’uomo povero che non possiede la verità e che fa della retorica una tecnica compensativa. 581 E. Grassi, La metafora “inaudita”: originarietà e paradossia della metafora, pp. 5-20, in Quaderni di italianistica Volume IX, No. 1, 1988, p. 15. 582 Id., Retorica come filosofia, cit., p. 189. 583 Ivi. I corsivi sono nostri.  ! 191!  linguistica del filosofo si pone in antitesi alla coeva retorica di Perelman-Tyteca almeno per quanto concerne la teoria dell’evidenza. In Trattato dell’argomentazione abbiamo una definizione del discorso proprio in relazione al suo rapporto con l’evidenza: “la natura stessa dell’argomentazione e della deliberazione s’oppone alla necessità e all’evidenza, perché non si delibera dove la soluzione è necessaria, né s’argomenta contro l’evidenza. Il campo dell’argomentazione è quello del verosimile, del probabile, nella misura in cui questo sfugge alle certezze del calcolo”584. Secondo questa concezione il campo dell’argomentazione è la prassi, l’attività umana, e un inaggirabile carattere è quello dell’incertezza. In quest’area dell’indefinibile una volta per tutte rientrano tutte quelle opinioni, giudizi di valore, inquietudini, incertezze che non si qualificano come errori, non si oppongono in modo irrevocabile ad una verità (che risponde solo ai criteri della scienza) ma che rientrano a pieno titolo in quell’idea di ragione integrale in cui il vero si declina come verisimile. Emerge il tema dell’eikos concettualizzato anche da Grassi nella sua lettura di Vico e che mostra il progetto di una nuova retorica che fa appello ad una idea di ragione e verità che non si misura solo con il criterio dell’evidenza ma che salvaguardia il valore di verità delle questioni morali, sociali, politiche e religiose. Afferma il filosofo in Retorica come filosofia che il logos della nuova retorica è quello capace di dire “il fondamento del mondo umano, il mondo come espressione di disperazione nella situazione specificamente umana”585. Tale logos in quanto onoma e rhema, in quanto nome e verbo, dice non solo l’oggetto (objectum) ma la totalità di significatività nella quale è inserito l’oggetto. Sostiene il filosofo che “questa distinzione – quella di onoma e rhema – acquista un significato fondamentale. La parola in quanto nome designa ciò che chiamiamo oggetto (objectum). Ma un oggetto non esiste mai isolato, poiché appare sempre solo nella dinamica di un compito da adempiere rispetto a certi bisogni”586. La parola allora non definisce e non isola i fenomeni sensibili ma è lo spazio in cui accade la loro relazione reciproca e la connessione con !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 584 C. Perelman-L. Olbrechts-Tytheca, Trattato dell’argomentazione. La nuova retorica, Einaudi, Torino 2001, p. 3. 585 E. Grassi, Retorica come filosofia, cit., p. 191. 586 Ivi, p. 192. I corsivi sono nostri.  ! 192!  l’essenza umana. “La parola in quanto presupposto e annuncio [...] viene perciò espressa nel linguaggio retorico, in quel linguaggio che si impone nel nostro impegno disperato e patetico, dal momento che la preoccupazione principale è quella di formare l’esistenza umana”587. Proprio perché massimamente evidente nella sua poliedricità il reale trova la sua dicibilità nella multiformità linguistica: attraverso il dire metaforico. Secondo il filosofo la “metafora agisce come una luce perché presuppone un’intuizione di relazioni”588. L’essenza della parola risposa nella sua struttura analogica e traspositiva. L’unica parola capace di indicare il trasferimento, il potere di mutazione e trasposizione è la metafora. Grassi sottolinea come “il traslare (metapherein) non ha originariamente un significato linguistico e tanto meno letterario: il termine metapherein indica il tra-sferire un oggetto da un luogo ad un altro – dualità – il che presuppone un passaggio, un transito, un ponte che l’uomo deve progettare, cioè gettare da un luogo ad un altro luogo, da un qui ad un là”589. La questione non è tanto quella di congedarsi dalla verità ma quella di abbozzare i prolegomeni per una riflessione metodologica sui fondamenti del discorso, sui presupposti dell’argomentazione. La nuova retorica grassiana prende congedo da un’idea di evidenza di tipo matematico-scientifico, e fa perno su un’idea di evidenza come certezza: lo sfondo antropologico della retorica sottolinea come il nostro sapere sia basato sulla fiducia, sulla pistis che ha la stessa radice di persuadere. La certezza è una sorta di fiducia originaria. Come il filosofo asserisce in Il ripudio del razionale la pistis “non è opinione né conoscenza [...] poiché non ha le radici nell’indicazione di una ragione, ma è il risultato di un’esperienza fondamentale che porta a un atteggiamento. Tale atteggiamento scaturisce dall’esperienza di un compito (Auf-gabe) nel duplice senso della parola: l’esperienza di una domanda (An-spruch), una dichiarazione nei riguardi dell’essere”590. Il rapporto fiduciario costituisce allora uno dei tratti antropo-biologici fondamentali che solo successivamente si tramuta in techne retorica – la retorica come arte della persuasione. Attraverso la !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 587 Ibidem. I corsivi sono nostri. 588 Ivi, p. 167. 589 Id., La metafora inaudita: originarietà e paradossia della metafora, cit., p. 10. 590 Id., Il ripudio del razionale, cit., in Id., Vico e l’umanesimo, p. 165.  ! 193!  lunga “preistoria” umanistica dell’antropologia filosofica per Grassi possiamo comprendere il fondamentale incrocio fra la questione della natura umana e quella retorica della funzione della trasmissione del sapere e della costruzione. La retorica diviene una tecnica per condurre la vita, elaborata da parte di un essere, l’uomo, che si scopre povero di mondo, e, dunque, costitutivamente bisognoso di strategie indirette di sopravvivenza per la costruzione di un universo culturale. Il discorso more rhetorico ingloba anche quella categoria del politico all’interno del processo linguistico che rende possibile la fondazione della comunità. L’apertura è verso una considerazione della retorica come meccanismo antropogenetico – la fondazione politico-civile – e come riflessione metodologica sui presupposti del discorso. Accostarsi alla retorica da un punto di vista antropologico, come fa Grassi, significa rintracciare il fondamento tecnico dell’autoaffermazione nella costruzione di un mondo culturale e di un sistema di istituzioni in quanto strategia di sopravvivenza in assenza di una Umwelt naturale che assicuri l’esistenza umana. In questa prospettiva ermeneutica vanno inquadrate le interpretazioni grassiane dell’umanesimo. Come si afferma in Retorica come filosofia la negazione umanistica del primato della logica “rompe con l’ideale matematico della conoscenza”591 e per comprendere questa tradizione umanistica occorre prendere in considerazione quelle teorie che “trattano del problema dell’origine della comunità umana e della funzione politica della poesia”592. La tecnica retorica si configura come forma paradigmatica di quella relazione indiretta, esonerante, con la realtà, che è costitutiva della natura umana. L’idea guida è quella di un agire umano inteso come compensazione dell’“indeterminatezza” cui risulterà coordinata una retorica intesa come faticosa produzione di quelle concordanze che debbono subentrare al posto del fondo “sostanziale” dei codici affinché l’agire diventi possibile. Tale funzione compensativa della tecnica retorica guida il discorso di Grassi relativo anche alle istituzioni: la vis retorica crea istituzioni. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 591 Id., Retorica come filosofia, cit., p. 133. 592 Ibidem. Corsivi nostri.  ! 194!  La radicalizzazione antropologica dell’idea di retorica mette in risalto un aspetto fondamentale dell’interpretazione di Grassi: il comportamento tecnico dell’uomo che genera la retorica, in qualità di prestazione sostitutiva/esonerante, non esce dalla logica compensativa. La retorica rimane per Grassi – proprio per la sua valenza antropologica – una prestazione compensativa/sostitutiva, e la stessa funzione finisce con l’essere attribuita retrospettivamente alla metaforologia e in prospettiva alla creazione di istituzioni. La declinazione antropologica operata da Grassi comporta che il fenomeno storico “retorica” sia privato della sua storia concettuale e delle sue funzioni effettuali nella storia della cultura e della società, e sia eletto a metafora assoluta della conditio humana. Tocchiamo qui uno dei nervi scoperti del discorso di Grassi, che rimane chiuso in un’interpretazione che in ultima analisi lo costringe a considerare il comportamento tecnico dell’uomo come una prestazione sostitutiva/esonerante, non uscendo dalla logica compensativa, e non fornendo in alcun modo una lettura adeguata della natura tecnica dell’uomo, cioè di quella stessa interazione natura/ars da cui pure muoveva l’interesse antropologico per la retorica. La salvaguardia delle molteplici forme di apparire dell’essere – il vero, il buono, il bello – , della metamorphè costitutiva del reale, induce Grassi a ricercare la forma linguistica adeguata a dire tale metamorphè. Il filosofo si pone i seguenti quesiti: -! “attraverso che cosa sorge il mondo umano se l’uomo, a differenza degli animali, non ha un ambiente immediato, se questo deve essere costruito ogni volta dall’individuo? In altre parole, qual è la causa dell’umanizzazione della natura?” 593 -! “come si rapporta questa costruzione del mondo umano al fenomeno del linguaggio, del logos?”594 -! “è possibile superare la concezione puramente formale della conoscenza?”595 !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 593 Ivi, p. 183. Corsivi nostri. 594 Ibidem. 595 Ibidem.Corsivo nostro.  ! 195!  Le domande che vengono poste riguardano tre livelli della riflessione: il livello antropogenetico della fondazione della civiltà; il piano linguistico dell’espressione del rapporto uomo-mondo; il tema epistemologico della natura della conoscenza. Cercare di risolvere questi problemi comporta per Grassi un’analisi della storia dell’umanesimo che propone una rinnovata idea di logos. Il logos non può essere ridotto al suo aspetto formalizzato, logicista, scientifico. Una questione fondamentale è quella del passaggio dall’Umwelt alla Welt, dal mondo ambiente contraddistinto dall’immediatezza non-verbale del codice biologico al mondo umano. Secondo il filosofo esiste un’area in cui possiamo trovare segni indicativi e costrittivi senza la mediazione della razionalità e del linguaggio: si tratta del mondo organico. IV. VI. Il mondo organico L’analisi del mondo organico mostra degli aspetti che “possono essere ritrovati nel mondo sacrale”596 e retorico. Nell’ambito dell’organico “ogni genere e specie vivente sta sotto i propri segni determinati e indicativi”597. Tali codici/diastema mostrano che “la realtà appare alla creatura vivente esclusivamente entro selezioni”598. Le selezioni (codici/diastema) si inseriscono all’interno del “cerchio funzionale simbolico della vita” – nozione mutuata da J. Von Uexküll – che indica “un’unità intatta di segni che sono significativi per la vita”599. Secondo il filosofo l’analisi del mondo animale e biologico consente di rintracciare delle analogie con le strutture del mondo sacrale, religioso, retorico che getta luce su un’idea di filosofia rinnovata in senso non intellettualistico. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 596 Ivi, p. 182. 597 Ivi, p. 180. 598 Ivi, pp. 180-181. I corsivi sono nostri. 599 Ivi, p. 181.  ! 196!  Dal punto di vista grassiano i semata che ritroviamo nel mondo biologico mostrano un’intrinseca forza induttiva (epagein-inducere)600, essi hanno un carattere di guida (arcaico) che costringe l’animale a creare il proprio ambiente nei limiti del proprio cerchio funzionale simbolico finalizzato all’autoconservazione. “Questi segni possiedono una funzione metaforica perché trasferiscono un significato a ciò che gli organi manifestano. Attraverso questo trasferimento di significati appare all’organismo il suo ambiente specifico che costituisce la sua sola realtà. I segni hanno un carattere induttivo di guida. L’originarsi di questi ambienti, di questi kosmoi – nel doppio significato del termine greco come ordine e ornamento – avviene a livello organico”601 per l’autoconservazione. L’unità dell’ambiente intatto e olistico dell’animale in cui la comunicazione avviene per voci significative (psophos semantikos) viene meno nell’uomo. La rottura del codice non verbale immediato che porta alla genesi del mondo umano implica anche il superamento del livello della “comunicazione fonetica immediata”602 e la nascita del logos. Con il linguaggio si profila un compito per l’uomo: “il compito di costruire il mondo in cui vivere”603 che spetta all’essere umano come singolo e “non ai segni indicativi immediati del mondo olistico e non problematico”604. L’esperienza della frattura – la disintegrazione del mondo intatto e olistico del biologico – mette l’uomo di fronte alla propria Angst: “gli uomini patiscono l’angoscia che si presenta nell’esperienza fondamentale di non avere a disposizione un codice immediatamente efficace”605. Ma come avviene questa frattura nel mondo animale? Il logos è causa della disintegrazione del cerchio funzionale simbolico o prestazione compensativa per riunire ciò che si era spezzato? !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 600 Ibidem. 601 Ivi, p. 182. 602 Ivi, p. 183. 603 Ivi, p. 184 604 Ibidem. 605 Ibidem.  ! 197!  IV. VII. Il logos umano: suono, voce, parola Secondo Grassi occorre rifiutare la tesi secondo la quale “il linguaggio stesso è la causa per eccellenza della dissoluzione dell’unità dell’organico poiché astrae e isola gli oggetti della vita da quel ritmo vitale in cui essi emergono e ricevono il loro significato”606. Al contrario il linguaggio sorge nel momento in cui la dissoluzione è già avvenuta. Infatti perché l’uomo dovrebbe cercare un logos – un codice completamente diverso dalla comunicazione fonetica pre- verbale – se l’unità non fosse già scomparsa a favore di una separazione tra soggetto e oggetto? Sostiene il filosofo che “la funzione significativa del linguaggio può essere spiegata solo come superamento di un isolamento o di una astrazione già sopraggiunti precedentemente e come separazione di soggetto e e oggetto. Perciò si impone la necessità di una definizione verbale una volta che si sia indebolita la comunicazione pre- verble”607. Il linguaggio non è la causa della separazione, del dualismo soggetto e oggetto, ma una prestazione compensativa con la funzione di ricostruire un legame. L’inadeguatezza del codice pre-verbale che genera il logos attesta l’assenza nel mondo umano di un codice immediato. “Compito del linguaggio è quello di trovare e formare una symplokè, un congiungimento di soggetto e oggetto”608. Il logos nasce sullo sfondo di un’esperienza: quella dell’angoscia che testimonia la natura “non addomesticata”609 dell’uomo. Per comprendere l’analisi del linguaggio svolta da Grassi dobbiamo prendere in considerazione le sue riflessioni sul suono, sulla voce e sulla parola esposte in particolare nei saggi Prolegomena ad una concezione della retorica. La phonè come elemento indeducibile del !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 606 Ivi, p. 185. Il riferimento polemico grassiano è alla tesi di R. Thom esposte in Modelli matematici della morfogenesi, Einaudi, Torino 1985. 607 Ivi, pp. 187-188. 608 Ivi, p. 188. 609 Ivi, p. 189.  ! 198!  linguaggio, in La metafora inaudita: originarietà e paradossia della metafora e nel testo La metafora inaudita. Sostiene il filosofo che per delineare i “prolegomena”610 al problema del linguaggio occorre analizzare i concetti di psophos e phoné. Prendendo in considerazione le affermazioni aristoteliche contenute nel II libro del De anima circa la natura delle voci come suoni semantici costitutivi del linguaggio611 il filosofo italiano pone in evidenza l’intima struttura metaforica della voce – il suono semantico – che va a costituire il linguaggio. “Aristotele distingue fondamentalmente [...] il suono (psophos) dalla voce (phoné) per poi [...] definire la voce come suono indicativo (psophos semantikos). Da ciò dovremmo dedurre che la voce costituisce qualcosa di completamente nuovo in confronto al suono, non solo, ma che la voce è una metafora, cioè nasce dal trasferire (metapherein) un significato, un segno indicativo (sema) al suono (psophos)”612. La dualità tra suono e voce –la voce è ciò che assegna al suono un significato – è fortemente criticata da Grassi che invece ha come scopo quello di superare il dualismo mettendo in discussione l’idea che il suono non abbia un intrinseco significato. Si chiede il filosofo “è dunque valida la concezione tradizionale dualistica di suono senza significato e voce, suono semantico indicativo, phoné?”613. Grassi dispprova la spiegazione aristotelica tecnico-meccanica del suono per tre ragioni: tale spiegazione non tiene conto che il suono appare attraverso uno strumento che nel caso dell’uomo è “l’organo uditivo”614; occorre, al contrario, tenere presente che il suono “ci appare solo entro l’ambito di un codice che si impone”615; bisogna considerare la mutevolezza del codice616. Come !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 610!Id., La metafora inaudita: originarietà e paradossia della metafora, cit., p. 9. 611!Aristotele, De anima II, 420 b 29.! 612!E. Grassi, La metafora inaudita: originarietà e paradossia della metafora, cit., p. 9. 613!Id., Prolegomena, cit., p. 42.! 614!Ivi, p. 43. 615 Ibidem. 616 Ibidem.  ! 199!  è noto Aristotele definisce il suono come ciò che è “sempre prodotto dall’urto di qualcosa contro qualcosa e in qualcosa, perché ciò che lo produce è una percussione. É pertanto impossibile che si abbia un suono in presenza di un solo oggetto, giacchè il percuziente e il percosso sono distinti”617. Affinchè il suono si trasformi in voce occorre tenere in considerazione l’elemento della vita618. Solo l’essere animato può produrre il suono semantico, la voce, la phonè. Se gli elementi determinanti della voce sono la vita (la voce è il suono dell’essere animato) e il suo carattere interpretativo (il suo essere hermeneia tinos) per Grassi occorre risalire all’ambito originario del suono: quello della vita. Proprio l’operazione di radicamento dell’origine del suono nel mondo della vita induce al filosofo ad affermare che “per l’essere organico, cioè per quello che manifesta il mondo attraverso i propri organi, non esiste un suono che non sia voce”619, ossia non esiste un suono di natura puramente meccanica ma solo un suono dotato di un significato. Infatti per il filosofo i suoni semantici schiudono “il teatro, nel significato originario di questo termine, cioè il luogo del vedere, del theorein”620. Ma come e dove si rivela l’ambito significativo testimoniato dal suono? Per Grassi innanzitutto nei sensi. Riprendendo le teorie del fisiologo J. Müller621 sull’energia sensoriale specifica – ossia quella legge secondo la quale ogni senso produce solo il tipo di sensazione che ad esso è specificamente pertinente indipendentemente dal tipo di stimolazione a cui è sottoposto – Grassi individua la possibilità di rintracciare innanzitutto nei sensi la genesi della significazione. Egli afferma che “ogni sensazione è carica di significato”622 e la significatività della voce (che traspone un significato al suono) si radica !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 617!Aristotele, De anima, II libro, 419 b 10-14.! 618!Ivi, 420 b 7-9. “Quanto alla voce, essa è un suono dell’essere animato. In effetti nessuno degli esseri inanimati emette una voce, ma per somiglianza si dice che ce l’hanno, come il flauto”. 619!E. Grassi, La metafora inaudita, cit., p. 31.! 620!Id., La metafora inaudita: originarietà e paradossia della metafora, cit., p. 19.! 621!Il testo al quale Grassi fa riferimento è Ueber die phantastischen Gesichtserscheinuungen, Koblenz, 1826, pp. 4-5. 622!E. Grassi, Prolegomena, cit., p. 45.  ! 200!  originariamente nella significatività già presente nei sensi. Questi ultimi dotati di un’energia specifica e carica di significato pongono in luce l’ambito originario di formazione del senso: la Lichtung/Rahmen. “Ciò che rivelano i sensi, entro i limiti di piacere e dolore, non è un’opera, un ergon, estraneo ai sensi, non è un’opera meccanica, né un’opera poietica, ma praxis, intesa come parousia”623. Ma quel è la struttura di questa parousia? Tale ambito originario ha una struttura metaforica. Per il filosofo occorre scorgere la metaforicità del reale attraverso la passione che si rivela come l’ambito in cui l’uomo fa esperienza dell’appello dell’essere. Si chiede il pensatore: “in cosa consiste il carattere metaforico dei segni sensibili? Esso si rivela nella passione, nell’ambito della quale l’ente organico – tra i limiti di piacere e dolore – fa l’esperienza dell’oggettività di corrispondere o non corrispondere a ciò di cui è un’indicazione”624. Il problema dal quale partire è quello di corrispondere all’appello dell’essere, alle necessitates che di volta in volta si presentano all’uomo: emerge il tema del superamento della “insercuritas esistenziale”625, del bisogno esistenziale che va soddisfatto attraverso il proprium dell’uomo, ossia la parola. Si chiede il filosofo: “come definire ciò che ci è consueto, ciò che ci è proprio, ciò in cui siamo a casa, ciò in cui ci sentiamo a nostro agio, al riparo, difesi? É forse il linguaggio, la parola? Ma quale linguaggio, quello razionale oppure quello poetico? Che funzione ha la parola nell’affrontare il desueto, la realtà che ci è estranea, sconosciuta, aliena?”626. Il tentativo di superare l’insicurezza esistenziale, la spaesatezza dell’Aperto conduce l’uomo al linguaggio: la dimora che custodisce quella relazione essenziale tra il Dasein e il Sein. A fare problema per Grassi è l’individuazione di un linguaggio che sia casa dell’essere: da qui l’analisi !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 623!Ivi, pp. 49-50.! 624!Ivi, p. 50. 625!E. Grassi, Ermeneutica dell’estraneità. Originarietà della parola poetica (Heidegger, Ungaretti, Neruda), in “Studi di estetica”, Bologna, pp. 21-33. 626!Ivi, p. 21.  ! 201!  della metafora nella sua priorità rispetto al concetto, e della poesia come espressione della storicità dell’esistenza. IV. VIII. Metafora e concetto Afferma il filosofo che “il vedere, la visione, insiti nella teoria come fondamento di ogni procedimento razionale si attuano attraverso [...] una metafora”627 e si chiede se la metafora “che ricorre per lo più alle immagini, va considerata un mezzo solo letterario [...] o è indispensabile per esprimere l’Originario”628. La Frage che sorregge la sua indagine metaforologica mostra una componente onto-antropo-logica poichè riguarda l’uomo, riguarda la realtà e costituisce il modo di darsi delle cose, il nostro modo di essere affetti dal mondo circostante: non un orpello linguistico, una fictio retorica, la metafora è per Grassi un dispositivo antropo-poietico. Sostiene il pensatore italiano che “alcuni limitano la funzione della metafora alla trasposizione di parole, cioè di una parola dal suo proprio campo ad un altro. Tuttavia, tale trasposizione non può essere compiuta senza un’intuizione immediata delle somiglianze che appaiono nei diversi campi [...] la sua funzione è quella di rendere visibile una proprietà comune ai vari campi. Essa presuppone la visione di qualcosa ancora nascosto [...] ma dobbiamo andare più a fondo del piano letterario. La metafora sta alla base del nostro mondo umano. Poiché essa si radica nell’analogia tra cose differenti e fa immediatamente balzare agli occhi tale analogia, essa contribuisce in modo fondamentale alla struttura del nostro mondo”629. Siamo al cospetto di una teoria della metafora che coniuga l’analisi della metafora come espressione metaforica con quella della metafora come fenomeno globale di tipo cognitivo ed esistenziale. Attraverso la metafora godiamo “la visione di una momentanea radura (Lichtung)”630 che mette in campo una riforma della filosofia non ridotta ad astratta ontologia, ma che “riconosca !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 627 Id., Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, cit., p. 18. 628 Ibidem. 629 Id., Retorica come filosofia. La tradizione umanistica, p. 76. Corsivo nostro. 630 Id., Il dramma della metafora, cit., p. 14  ! 202!  l’importanza dell’esperienza storica”631. La riflessione sulla metafora è per Grassi un modo di superare le falle dell’hòros, del concetto, che non è in grado di dire la natura temporale, storica e metamorfica degli enti, che si esprimono nei sempre diversi significati vitali emergenti nello sforzo interpretativo o semantico. Infatti, per il pensatore italiano l’interpretazione è possibile solo sulla base di un’indicazione, da qui la preminenza della semantica rispetto all’ermeneutica, come emerge in Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica. Egli asserisce che “l’indicazione (semainein) precede, dunque, l’interpretazione (hermeneuein), poiché forma la cornice entro la quale possono sorgere delle dimostrazioni”632; essa è la condizione trascendentale del linguaggio, quel fondo mitico che appartiene al mondo del sacro e del religioso che non dimostra ma indica. Il linguaggio semantico è un logos che ostende il fondamento e rompe quel silenzio primordiale delle cose mute che ci circondano nell’Aperto della ingens sylva. Accanto a questo logos semantico, che è contraddistinto da una “chiarezza che non è il risultato di un chiarimento”633, abbiamo il logos ermeneutico, quello dell’interpretazione che si fonda sul processo della dimostrazione. Secondo il filosofo “il termine metafora è esso stesso una metafora; deriva dal verbo metapherein, trasferire, che originariamente descriveva un’attività concreta. Alcuni autori limitano la funzione della metafora alla trasposizione di parole, cioè di una parola dal suo proprio campo a un altro. Tuttavia, tale trasposizione non può essere compiuta senza un’intuizione immediata delle somiglianze”634. Alla metafora fa da contraltare il concetto al quale spetta come compito quello di afferrare, comprendere un fenomeno in riferimento al suo fondamento universale. Nella ricostruzione etimologica grassiana il significato di hòros può essere colto nella sua portata originaria mediante il riferimento “al verbo orìzo (determino) che sta alla base di questa parola, la cui radice hor- è identica a quella di horào (io vedo): io “vedo” qualcosa nella luce del fondamento. La definizione (horismòs) !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 631 Ivi, p. 15. 632 Id., La potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, cit., p. 84. 633 Ibidem. Corsivi nostri. 634 Id., Retorica come filosofia, Ivi, p. 76. Cfr., sull’analisi della metafora in Grassi M. Marassi, E. Grassi e il primato della parola metaforica, pp. 264-291, in I. Pozzoni, Voci di filosofi italiani del Novecento, IF Press, 2011.  ! 203!  esprime in tal caso proprio questa visione, ciò che è, ciò che esiste: in questo modo sfugge a essa per forza di cose ciò che muta in se stesso, il singolo”635, che è compito della retorica autentica illuminare, in quanto scienza del particolare e dello storico. Accanto ad una teoria della metafora non “più gioco letterario ma originaria, prima forma dell’ingegno”636, grazie alla quale è possibile porre “la domanda sull’origine della storicità umana, e dunque sull’essenza dell’uomo”637, si affiancano nella filosofia grassiana la fantasia e l’ingegno che con il nous aristotelico, interpretato alla stregua di “unica espressione delle archai nel loro carattere palesante e immediatamente indicativo” 638, costituiscono la triade del significare arcaico. Il senso autentico della metafisica immanente di Grassi emerge proprio nel dia-legesthai, ossia nel “dire attraverso il logos” il divenire dell’essere, che grazie al logos guadagna paradossalmente una permanenza: questo è il senso della riflessione sulla metafora che è la modalità logica di portare ad espressione l’essere del divenire. La metafora, pur non sostituendosi al concetto, rappresenta lo stile linguistico entro cui e a partire da cui si dispiega la teoresi. Infatti, Grassi afferma che “la forma originaria del colloquio nella sua funzione storica è metaforica”639. IV.IX. La prassi metaforica: metafora e metapherein La volontà di sottolineare l’arcaicità della metafora come a priori del linguaggio, fondamento e Grund, fa emergere come la metafora non sia intesa come tropo – o non solo come tropo, parola – ma come energheia, atto traspositivo. La riflessione grassiana su metafora e retorica è guidata proprio da questa idea di una teoria dell’atto metaforico che agisce come trascendentale del linguaggio. Come !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 635Id., Potenza della fantasia. Per una storia del pensiero occidentale, cit., p. 222. 636Id., Significare arcaico, cit., pp. 479-495, p. 494. 637Id., Potenza della fantasia. Per una storia del pensiero occidentale, cit., p. 202. 638Id., Significare arcaico, cit., p. 494. 639 Id., Il colloquio come evento, cit., p. 71. ! 204!   emerge già a partire da Il problema della metafisica platonica il tema della determinazione del ti esti, incrociandosi inevitabilmente con quello della ',0(1*-, della manifestazione della realtà, pone anche il tema della fondazione metaforologica. L’atto fondativo e mitico del reale è secondo Grassi indicibile dal logos metafisico e la narrazione di quell’azione primordiale può essere affidata unicamente al potere generativo trasformazionale della metafora, che per Grassi non è un gioco letterario ma la prima forma dell’ingegno, del nous “e come tale unica espressione delle archai nel loro carattere palesante e immediatamente indicativo”640. Il polimorfismo ontologico viene maggiormente salvaguardato attraverso il pensiero topico, ingegnoso, in grado di apprendere e rintracciare i loci dell’argomentazione; capacità, questa, di cui il pensiero critico, tutto confinato all’interno della catena delle deduzioni, sembra essere privo. Il nucleo teorico fondamentale è quello di saper ritrovare le archai, le premesse indeducibili razionalmente, ma a partire dalle quali soltanto è possibile dare inizio ad una catena di ragionamento esatto. Al filosofo non interessa dunque il meccanismo strettamente semiotico di singole espressioni metaforiche: come possa essere descritto il trasferimento semantico ad esse sotteso, quali componenti riguardi, se proprietà atomiche o interi nodi di storie. Interessa invece ciò che questo trasferimento nasconde, ciò a cui supplisce, che cosa raccontino del modo attraverso cui l’uomo ha cercato di esprimere il proprio rapporto con la “realtà”. Per Grassi la metafora si configura come un fenomeno cognitivo, un medium attraverso cui il pensiero non solo si articola, ma su cui si fonda: essa è ed è stata una componente essenziale dei processi attraverso cui le culture interpretano e strutturano il mondo che le circonda. Il filosofo afferma in Prolegomena ad una concezione della retorica. La phonè come elemento indeducibile del linguaggio che “non va dimenticato che il traslare (metapherein) non ha originariamente un significato linguistico e tanto meno letterario; il termine metapherein indica il trasferire da un luogo ad un altro luogo e !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 640 Id., Significare arcaico, cit., p. 494. ! 205!   ciò presuppone un passaggio, un transito, un ponte. L’uomo deve progettare questo passaggio, gettare un ponte da un luogo ad un altro”641. L’approccio antropologico-filosofico descrive e ripercorre una modalità di accesso al senso attraverso la metafora, e allo stesso tempo tenta di ricostruire la storia della fondazione del mondo della vita e della comunità umana individuando nei processi di metaforizzazione e di concettualizzazione i congegni antropogenetici e i fenomeni di base dell’umanizzazione. Nella semantica metaforica di Grassi non trova posto l’usuale contrapposizione del senso traslato con il senso letterale di un’espressione. Infatti “il termine metafora indica originariamente presso i Greci un’azione concreta e per la precisione il trasferimento di un oggetto da un luogo ad un altro; soltanto più tardi il termine compare anche nell’ambito del linguaggio”642. Se l’idea che riduce la metafora ad orpello linguistico – senza tenere conto della sua matrice pratica – va messa da parte occorre anche rifiutare la prospettiva che tenta di sostituire la metafora al concetto. Per Grassi la metafora non si trova a supplire momentaneamente l’insufficienza del concetto, fornendo un significato di passaggio, un senso provvisorio in attesa di esser sostituito da quello proprio dei termini logici. La particolarità dei termini logici – l’esattezza – determina allo stesso tempo una perdita di polisemia, potremmo dire una riduzione delle loro potenziali connessioni di senso. Essi sono contraddistinti da una cristallizzazione del significato in un unico percorso interpretativo, da una pauperizzazione semantica inversamente proporzionale alla chiarezza e distinzione logica: è il fio che occorre pagare per una filosofia pura. Per il filosofo “interrogarsi sul ruolo della metafora equivale perciò a chiedersi se la metafora rappresenti nel linguaggio filosofico soltanto un residuo di rappresentazioni che dev’essere superato allorchè ci si mette sulla via del logos”643. Nella prospettiva tradizionale la metafora sembra peccare di imprecisione, ragione per cui è sempre stata estromessa dalla filosofia, per essere ricompresa nella retorica o nella poetica. Ma a ben !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 641 Id., Prolegomena ad una concezione della retorica, cit., p. 40. 642!Id., Potenza della fantasia, cit., p. 72. 643!Id., Potenza della fantasia, cit., p. 72. Corsivi nostri.!  ! 206!  guardare quella che per il pensiero logico è una imprecisione, “uno scandalo per la logica [...] un elemento distraente che non ha nulla a che fare con la realtà”644, in realtà è dotata di una precisione intrinseca dettata dalla necessità di natura. Il tratto di precisione della metafora emerge all’interno del discorso su Vico il cui carattere di epocalità è rintracciato proprio in quella divaricazione della metafisica in ragionata e fantasticata. Ricorrendo al principio vichiano dell’homo non intelligendo fit omnia Grassi asserisce che “se con la metafora [...] si risponde alle varie necessità, il linguaggio metaforico, ricco di elementi fantastici è originale, preciso, a differenza di quello astratto che si allontana”645 dal reale. L’analisi della metafora fa emergere l’idea di una metafora drammatica e inaudita646, nel senso di assoluta, riprendendo una feconda espressione di Blumenberg. Essa si rivela uno strumento ermeneutico e va a strutturare i codici interpretativi che regolano e dirigono il nostro giudizio sulle cose. Del resto già Kant, nel famoso paragrafo 59 della Critica del giudizio (1790), trattando il procedimento della “traslazione della riflessione”, definisce il simbolo647 in maniera del tutto simile alla metafora grassiana. Essa determina un comportamento, un tipo di orientamento nel mondo che si trova a esser strutturato dalla metafora. Attraverso la metafora un’epoca esprime le proprie certezze, ma anche i propri dubbi, le proprie aspirazioni, le aspettative, le azioni e gli interessi. Essa assume la !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 644 Id., Prolegomena, cit., p. 41 645 Id., G. B. Vico: un filosofo epocale, in Id., Vico e l’umanesimo, cit., p. 202. I corsivi sono nostri. 646 Id., La metafora inaudita, cit.; Id., Il dramma della metafora, cit.; Id., Ermeneutica dell’estraneità. Originarietà della parola poetica (Heidegger, Ungaretti, Neruda), cit., pp. 21-33; La metafora inaudita: originarietà e paradossia della metafora, cit., pp. 5-20. 647 I. Kant, Critica del Giudizio, tr. i. di A. Gargiulo, Introduzione di P. D’Angelo, Laterza, Roma-Bari 2008, pp. 183- 385. “A torto e con uno stravolgimento di senso i logici moderni accolgono l’uso della parola simbolico per designare un modo di rappresentazione opposto a quello intuitivo. Questo (l’intuitivo) si può dividere cioè in modo di rappresentazione schematico e simbolico. Entrambi sono ipotiposi, cioè esibizioni (Darstellungen- exhibitiones) [...] tutte le intuizioni che sono sottoposte a concetti a priori sono dunque o schemi o simboli, e le prime contengono esibizioni dirette del concetto, le seconde indirette. Le prime procedono dimostrativamente, le seconde per mezzo di una analogia [...] in cui il Giudizio compie un doppio ufficio, in primo luogo di applicare il concetto all’oggetto di una intuizione sensibile, e poi, in secondo luogo, di applicare la semplice regola della riflessione su quella intuizione ad un oggetto del tutto diverso, di cui il primo non è che il simbolo [...]. La nostra lingua è piena di queste esibizioni indirette, fondate sull’analogia, in cui l’espressione non contiene lo schema proprio del concetto, ma soltanto un simbolo per la riflessione”.  ! 207!  funzione del codice. Per il filosofo occorre “sollevare la questione, di solito trascurata, della relazione tra codice e metafora”648. Sostiene il pensatore che l’atto di leggere e interpretare la realtà con un codice specifico – ossia con “un sistema di segni, gli elementi dei quali ricevono un significato entro il sistema”649 – “costituisce una sorta di attività metaforica”650. L’attività metaforica mostra un’analogia con il codice poiché rende possibile la visione degli enti e soprattutto la similitudo, ciò che è comune a più enti. Riprendendo la teoria aristotelica esposta nella Poetica secondo cui “l’usare bene la metafora significa percepire con la mente l’oggetto affine”651 Grassi pone strettamente in relazione l’eu metapherein e il to omoi on theorein. La metaforizzazione va identificata da un lato con la visione delle somiglianze ma dall’altro libera la sua vis generativa nella scoperta del novum: il me phaneròn. Ciò che è nuovo nella scoperta metaforica è ciò che non era evidente in precedenza. “La metafora scopre ciò che non era stato visto in precedenza, lo porta alla luce, in quanto essa nasce dalla necessità della chiarezza”652. Proprio qui risiede la differenza tra codice e metafora: accomunati dal bisogno di decifrazione653 codice e metafora si separano sul terreno della scoperta del novum. Sostiene Grassi che “nessun codice è capace di adempiere questa funzione, perché un codice non fa che stabilire il sistema ordinatore di relazioni già date, e sulla base delle quali qualcosa viene interpretato. Non esiste un codice che conduca a un nuovo codice [...] funzione della metafora è l’invenzione, scoprire nuove relazioni. É la metafora che produce ogni nuovo codice”654. Risulta evidente che l’apertura metaforologica del discorso di Grassi è paradigmatica e non classificatoria, nel senso che essa si propone come un metodo che risale verso archetipi, i quali !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 648!E. Grassi, Heidegger e il problema dell’umanesimo, cit., p. 76.! 649!Ivi, p. 75.! 650!Ibidem. 651!Aristotele, Poetica, 1459 a 7.! 652 E. Grassi, Potenza della fantasia, cit., p. 74. 653!Id., Heidegger e il problema dell’umanesimo, cit., p. 77.! 654!Ivi, pp. 76-77. Corsivi nostri.  ! 208!  fungono da paradigmi esplicativi dei comportamenti e degli atteggiamenti cognitivi propri della storia della cultura occidentale. Ogni metafora crea una Lichtung, un Rahmen originario di riferimento, una zona virtuale entro cui si muovono e si espandono i concetti e i confini dei campi semantici, stabilendo nuove connessioni di senso, soprattutto tracciandone i percorsi che poi ogni epoca e ogni autore attualizzano secondo una specifica declinazione del paradigma fornito dalla metafora stessa. La produttività antropologica della metafora viene quindi portata oltre l’antitesi con il concetto, allontanata dalla contrapposizione tra un senso deviante e figurato e un senso proprio, che a sua volta nasconde l’opposizione apparenza/essenza. Occorre risalire dalla domanda che chiede “come è distinguibile il proprium di una parola dalla sua trasposizione?”655 alla domanda che indaga sul terreno di formazione di un senso traslato o proprio della parola e della metafora. Occorre analizzare la struttura di “visione delle somiglianze della metafora”656. In contrasto con una concezione del linguaggio che tende all’univocità oggettiva, la metaforologia grassiana indica un’inconcettualità basica: ciò che interessa non è dunque l’esistenza di un correlato di cui si asserisce l’assenza di formalizzazione linguistica o l’impossibilità di predicazione, ma lo sforzo di esporre linguisticamente l’ineffabilità stessa: la storicità del Da-sein. Grassi elabora una semantica metaforica che affonda le sue radici in un orizzonte di inconcettualità e sposta l’attenzione su quella dimensione di gettatezza, sul nostro essere calati in un mondo di immagini che chiedono di essere interpretate. In uno dei suoi ultimi testi, La metafora inaudita, Grassi si mostra meno interessato al percorso di nominalizzazione che porta la metafora verso il concetto, come accadeva invece nei precedenti lavori sull’umanesimo. La sua ricerca si orienta sempre di più verso il terreno in cui si formano le metafore, e cioè il mondo della vita, la Lebenswelt che mostra tutto il suo assolutismo, che viene contrastato proprio attraverso le prestazioni della distanza nelle forme del mito e delle metafore assolute, e quindi delle diverse pratiche metaforiche che traducono queste !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 655 Id., Potenza dell’immagine, cit., p. 195. 656 Ibidem.  ! 209!  prestazioni, la cui funzione principale risulta allora compensatoria ed esonerante. Leggiamo in Il dramma della metafora che “la parola metaforica esprime a un tempo la struttura fondamentale del continuo mutarsi di ciò che appare e l’unico modo per identificarla. Essa è anche espressione di un’acutezza, di una rapidità intimamente collegata con il kairòs, l’istante giusto”657. I processi di metaforizzazione e di simbolizzazione della realtà sono in altre parole lo strumento con cui l’uomo riesce ad allontanare l’assolutismo della realtà e a rendere meno violenta la sua percezione. L’analisi della prassi metaforica parte dalla domanda “dove, come patiamo l’oggettività dell’essere?”658 che sorge laddove si fa esperienza dell’incapacità di restituire la ricchezza della res – il mondo oggettivo – attraverso l’univocità della definizione. Se “l’essenza della parola consiste nella sua tropicità, cioè nell’essere sempre un traslato, necessariamente il problema della verità sempre e ovunque valida deve venir sostituito dal problema di ciò che di volta in volta si svela nella storia”659. La retorica è la scienza storica per eccellenza: indaga ciò che di volta in volta viene all’espressione e cala la dimensione dell’aletheia in quella dell’Ereignis. Secondo il pensiero tradizionale gli enti vanno definiti mediante un processo razionale che astrae dall’hic et nunc, dalla storicità. È questo il prezzo da pagare per una conoscenza vera e immutabile: porre a distanza tutti quegli elementi legati al qui ed ora: le immagini, le passioni. Sostiene Grassi in Retorica come filosofia che “le teorie cartesiane continuano a determinare ancora oggi l’atteggiamento nei confronti dell’ideale culturale dell’Umanesimo e della supremazia della parola. Opponendomi alle idee di Cartesio desidero esplorare la tradizione dell’Umanesimo italiano”660. Grassi è mosso dal convincimento che Cartesio esamina e valuta le discipline umanistiche del sapere solo per stabilire se e in che misura esse possano trasmettere verità e certezza. Tutta la questione umanistica si riduce ad un problema di erudizione filologica che ha a che fare con la sfera delle !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 657Id., Il dramma della metafora. Euripide, Eschilo, Sofocle, Ovidio, L’Officina tipografica, Napoli 1992, p. 165. 658Id., Prolegomena ad una concesìzione della retorica (la phonè come elemento indeducibile del linguaggio, cit., p. 48. 659 Id., La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale, cit., p. 156. Corsivi nostri. 660 Id., Retorica come filosofia, cit., p. 80.  ! 210!  passioni e delle immagini. La vera filosofia è quella critica a cui Grassi vuole opporre una priorità trascendentale della topica e per farlo ricorre a Vico e a Aristotele. Contro una simile impostazione che separa scienza e vita Grassi vuole proporre un’idea unitaria di logos e pathos in cui la retorica assuma un ruolo preponderante. Tradizionalmente la retorica – e i suoi elementi fondamentali: le immagini, le metafore – viene considerata come ciò che va respinto in quanto “ragione non ancora realizzata”661, come priva di chiarezza razionale e verità rigorosa generando “l’ideale cartesiano [di] una filosofia disadorna, impersonale, senza tempo e senza luogo”662. Tenendo in considerazione l’importanza che l’umanesimo retorico attribuisce alla parola, come ciò che apre il mondo, la filologia assurge a una posizione fondamentale all’interno degli studia humanitatis. Secondo il filosofo “la parola deve essere considerata un fenomeno originario, non solo espressione del pensiero”663. Nelle analisi svolte abbiamo rintracciato una riabilitazione del pensiero umanista che parte dal convincimento della preminenza del problema della parola su quello degli enti. Secondo il filosofo il legame tra parole e cose non va inteso come semplice corrispondenza delle une alle altre – poiché la parola non designa univocamente la cosa – poiché il significato di una cosa dipende dal contesto concreto in cui la parola viene utilizzata. La riflessione retorica stabilisce un nuovo modo di filosofare noetico non metafisico che parte dalla parola e non dall’ente. In questo percorso Vico riveste un ruolo particolare. IV. X. Phantasia, ingenium, sensus communis: le fonti del mondo storico individuate da Vico La proposta grassiana di ripensamento della retorica nella sua identità con la filosofia viene sempre più a svelare il suo senso esistenziale e intersoggettivo. La secca alternativa tra un filosofare ridotto a ricerca delle verità eterne – condotta attraverso un argomentare poggiante su basi deduttive ed un linguaggio razionale e formalizzato – e una retorica intesa come argomentazione debole o !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 661 Id., Viaggiare ed errare, cit., p. 180. 662 Ivi, p. 181. 663 Id., Potenza dell’immagine, cit., p. 242.  ! 211!  tecnica del bel parlare – induce il filosofo a ripensare la correlazione retorica-filosofia a partire dal nesso vero-verisimile. Il tema è al centro di un saggio su Vico degli anni ’40, Del vero e del verosimile in Vico664, che mostra come la figura del filosofo napoletano sia una presenza costante all’interno dell’iter di pensiero grassiano665 – e non uno sbocco finale della filosofia di Grassi – e costituisca l’occasione di determinare il significato autentico di retorica. In Vico Grassi rintraccia l’originaria funzione ermeneutica del linguaggio retorico, che ha il proprio fulcro nella figura della metafora, prodotto dell’ingenium. Riproponendo una dicotomia – quella di Vico/Cartesio – ritornante in maniera fortemente radicalizzata nei lavori successivi su Vico, Grassi sottolinea come a differenza della filosofia critica poggiante sulla ratio la filosofia topica vichiana si fonda sulle facoltà dell’ingenium e della fantasia che sono facoltà di apprensione del reale immediate e intuitive e non deduttive. Asserisce il filosofo italiano che la fantasia vichiana “è l’espressione dello spirito umano in quell’istante del ciclo storico, che esso deve sempre nuovamente percorrere, quando l’ente originario si rivela all’uomo solo in immagini, simboli, miti. A riguardo si deve notare che anche il mondo della fantasia, come prima fase dello sviluppo dello spirito umano, non è un mondo primitivo in senso negativo; è essenzialmente e perfettamente formato in sé, per certi aspetti è ancora più vicino all’ente originario di quanto non lo sia il mondo della ragione”666. A differenza del pensiero critico il pensiero topico ha come suo oggetto tematico il verosimile che appartiene alla sfera del possibile e non del necessario ed è legato al tempo e allo spazio della situazione. Leggiamo in Retorica e filosofia che “solo l’intuizione delle caratteristiche comuni o condivise nel senso summenzionato rende possibile il conferimento di significati che consentono alle cose di apparire (phainesthai) in modo umano. Poiché tale capacità è tipica della fantasia, è proprio quest’ultima a permettere al mondo umano di !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 664!Id., Del vero e del verosimile in Vico, pp. 951-966, in Id., I primi scritti, cit.!! 665 Sulla presenza di Vico in Grassi cfr., R. Messori, Le forme dell’apparire, cit.; S. Limongelli, Il problema dell’umano nella filosofia di E. Grassi, cit.; J. Sanchez-Esquillace, E. Grassi y la filosofìa del Humanismo, cit., J. M. Sevilla, Critica de la razon problematica, cit.; G. Cacciatore, In dialogo con Vico, cit. 666!E. Grassi, Del vero e del verosimile in Vico, cit., p. 963. ! 212!   apparire”667. Conseguentemente la fantasia si esprime originariamente nelle metafore “cioè nel conferimento figurato dei significati [...]. La metafora è quindi la forma originaria dell’atto interpretativo stesso che assurge dal particolare all’universale attraverso la rappresentazione di un’immagine, ma naturalmente sempre riguardo alla sua importanza per gli esseri umani. L’atto erculeo è sempre un atto metaforico e ogni atto metaforico e ogni metafora autentica è in tal senso lavoro erculeo”668. É evidente che l’attenzione posta sulla prassi metaforica669 va oltre il piano linguistico. La metafora non è solo rappresentazione immediata di un’immagine poiché per la sua struttura traspositiva assume un ruolo storico-politico: quello della formazione del mondo umano come traspare dalla correlazione atto metaforico-atto erculeo. Il riferimento ad Ercole – come abbiamo visto nel secondo capitolo – cela il riferimento alla dimensione politica della fondazione della civiltà e si staglia sullo sfondo di una prospettiva che si basa sulla priorità della topica e dell’ars inveniendi sull’ars iudicandi. Una impostazione di questo tipo consente al pensatore di guadagnare una concezione integrativa della sapientia come ars vitae in cui filosofia e retorica si identificano nell’orizzonte ampio e più alto di formazione civile670. Il sapere noetico-non metafisico è uno strumento di formazione dell’essere umano nell’interezza delle sue esperienze storiche. In questo contesto si comprende come la poesia per Grassi – sulla scia di Heidegger e Vico671 – rivesta un ruolo fondamentale: essa non ha solo la funzione storico-filologica ma anche un compito etico-politico. Abbiamo visto come il concetto vichiano di fantasia assuma per Grassi una funzione decisiva. Vico afferma in Le orazioni inaugurali che la fantasia “immaginò le divinità maggiori e le minori, essa immaginò gli eroi, essa ora svolge le sue idee, ora le collega, ora le distingue; essa pone sotto i nostri occhi terre infinitamente lontane, !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 667 Id., Retorica come filosofia, cit., pp. 38-39. 668 Ibidem. 669 Cfr., Id., Prolegomena ad una concezione della retorica. La phonè come elemento indeducibile del linguaggio, cit., p. 48. 670 Come abbiamo visto nei capitoli precedenti Grassi distingue la Bildung dalla Erziehung, la formazione dalla educazione. 671 Cfr. su questo aspetto fondativo e politico della poesia in Vico G. Cacciatore, Passioni e ragione nella filosofia civile di Vico, pp. 3-20, in Id., In dialogo con Vico, cit., p. 18.  ! 213!  abbraccia quelle distinte fra loro, valica quelle inaccessibili scopre quelle inesplorate, apre strade per quelle impervie”672. L’importanza della fantasia nella teoria della conoscenza vichiana è sottolineata da Grassi nell’ambito di una proposta ermeneutica di analisi della fantasia e delle sue forme di funzionamento come paradigmi per delineare una storia del pensiero occidentale673. La rivalutazione della fantasia mira a sottolineare quella straordinaria forza formatrice che la mente umana riesce ad attivare tramite le sue azioni simbolizzatrici messa in luce anche dal Cassirer filosofo delle forme simboliche. Quest’ultimo sostiene che i diversi campi della creatività spirituale sono capaci di costruire “uno specifico libero mondo di immagini: un mondo che per la sua natura immediata porta tuttavia in sé il colore del sensibile, ma che rappresenta una sensibilità già formata e quindi dominata dallo spirito. Qui non si tratta di un sensibile semplicemente dato e trovato, ma di un sistema di molteplicità sensibili prodotte in una qualche forma del libero immaginare”674. Secondo Grassi nella tradizione umanistica la vis plastica e cosmica della fantasia e la relativa attività metaforica vengono interpretate come fonti originarie dell’esistenza e del mondo storico. La domanda dalla quale partire è: “qual è l’ambito originario della fantasia, la cui essenza è – come abbiamo visto – il metapherein?”675. Nel tentativo di risolvere la questione Grassi ricorre a Vico, considerato l’ultima “vetta”676 dell’umanesimo. Egli offre con le sue riflessioni sulla fantasia e sull’ingegno, sul senso comune, l’occasione fortunata per un ripensamento della storia del pensiero occidentale al di fuori dei cardini dell’intelletto calcolante e della metafisica astratta. L’autore della Scienza Nuova ha avuto il merito di sviluppare “la tesi di una logica della fantasia al fine di trovare l’accesso all’umano – nella sua singolarità e concretezza –, un accesso che la logica tradizionale, con !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 672 G. Vico, Le Orazioni inaugurali, I-VX, a cura di G. G. Visconti, il Mulino, Bologna 1982, p. 83. 673 E. Grassi, La potenza della fantasia. Per una storia del pensiero occidentale, cit. 674 E. Cassirer, Filosofia delle forme simboliche, I, La Nuova Italia, Firenze, 1967, p. 22. Cfr. per una correlazione tra la riflessione vichiana sulla facoltà mitico-simbolizzatrice della fantasia e la filosofia delle forme simboliche cassireriana G. Cacciatore, Simbolo e storia tra Vico e Cassirer, pp. 85-104, in Id., Cassirer interprete di Kant e altri saggi, Armando Siciliano, Messina 2005. 675 E. Grassi, Potenza della fantasia, cit., p. 239. Corsivo nostro. 676 Ibidem.  ! 214!  la sua ricerca rivolta esclusivamente all’universale, non aveva ottenuto”677. Secondo il pesatore milanese con Vico siamo di fronte ad un logos phantastikòs in grado di penetrare la realtà del mondo storico umano e individuale con maggior successo di quanto non faccia la logica tradizionale678. In tale logica è rintracciato il centro speculativo della Scienza Nuova che non è solo scienza della storia ma antropologia innanzitutto. Il confronto dell’uomo con la natura che rende possibile la nascita del mondo storico avviene sul terreno della ricerca delle attività che liberano l’uomo dai bisogni materiali. Per Grassi il problema fondamentala di Vico “consiste nell’identificare l’ambito originario all’interno del quale soltanto può in generale manifestarsi la storicità, ossia il mondo umano come tale. Si tratta in ultima analisi di scoprire la struttura dell’esistenza umana”679. Questo passo è davvero illuminante poiché da un lato ci consente di apprezzare la specificità della lettura offerta di Vico – un Vico antropologo delle origini del mondo umano storico-politico- linguistico – e dall’altro di cogliere la questione fondamentale che sorregge la Frage onto-antropo- logica grassiana: l’analisi del mondo umano attraverso l’attenzione all’ursprünglich Rahmen680 – la Lichtung – e alla Struktur des menschlichen Daseins681 – l’analitica dell’esistenza di cui abbiamo detto nei precedente capitoli. La questione del cominciamento del mondo umano è intimamente legata a quella dell’origine della storia e dunque alla socialità a cui Vico assegna il ruolo di elemento fondativo delle istituzioni politiche. Grassi punta a sottolineare non tanto l’aspetto metodologico e !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 677 Ivi, pp. 239-240. 678 Cfr., su questo aspetto della logica della fantasia D. P. Verene, La scienza della fantasia, Armando, Roma 1984 e Vico’s Humanity, “Humannitas. Journal of the Institute of Formative Spirituality”, XV (1979). Qui lo studioso sostiene che la comprensione vichiana dell’umano è mediata non dal concetto e dall’attività razionale ma dall’attività mitopoietica della fantasia, dalle immagini e dalla forza creativa del linguaggio. Cfr., anche G. Costa, Genesi del concetto vichiano di fantasia, in AA. VV., Phantasia/Imaginatio, V Colloquio Internazionale, a cura di M. Fattori, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1988; M. Sanna, La fantasia che è l’occhio dell’ingegno. La questione della verità e della sua rappresentazione in Vico, Guida, Napoli 2001; G. Cacciatore, In dialogo con Vico, cit. 679 E. Grassi, Potenza della fantasia, cit., p. 240. 680 Ibidem. Cfr., anche la versione tedesca Die Macht der Phantasie. Zur Geschichte abendländlichen Denkens, Athenäum, Königstein, 1979, p. 240. 681 Ibidem.  ! 215!  storico-ricostruttivo, pur presente in maniera preponderante nella Scienza Nuova, quanto l’elemento di ricerca dei principi filosofici che sono all’origine del graduale processo di umanizzazione e antropologizzazione del mondo e della natura682 in cui la fantasia assume una funzione chiave e talvolta presentata dal filosofo milanese in maniera troppo antitetica rispetto alla ragione. Ricordiamo che secondo Vico la fantasia è per l’uomo un mezzo di produzione di immagini che rappresentano una griglia interpretativa della realtà, costituendosi come condizione trascendentale della crescita e dell’apertura mentale dell’uomo, del percorso di costruzione ed elaborazione del suo cammino storico. La fantasia consente all’individuo di comprendere il suo essere nel mondo, la sua circumstantia, di persistere nel suo spazio vitale683, sebbene attraverso una comprensione della realtà non adeguata, ma pur sempre vera, dovuta alla impossibilità umana di giungere alla piena conoscenza di fenomeni che sono stati creati da una identità superiore all’uomo. Pur accogliendo la prospettiva grassiana della rivalutazione del tema della fantasia in Vico vorremmo sottolineare come per il filosofo napoletano il mezzo di controllo della fantasia resti in ultima istanza la ragione, la sola capace di regolare il ragionamento fantastico in modo da renderlo attinente al mondo reale – viene salvaguardato in questo modo l’aspetto adeguativo del vero. Qui si inserisce anche il proposito pedagogico presente nel Vico del De ratione, per cui gli uomini, già dall’età della fanciullezza, hanno bisogno di educare il loro modo di ragionare, che per Vico – come per Cartesio – comporta l’utilizzo del metodo matematico. Il filosofo napoletano, come è noto, distingue due fasi della vita di un uomo in cui, a seconda dell’età e dell’esperienza acquisita, queste due capacità intellettive hanno una valenza specifica e una preminenza nei confronti dell’altra: nei giovani prevale la fantasia, negli adulti prevale la ragione. Sostiene Vico che “come nella vecchiaia prevale la razionalità, così nell’adolescenza prevale la fantasia: e davvero non è in alcun modo opportuno nei giovinetti offuscare !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 682 Per una lettura antropologia della Scienza Nuova cfr. L. Amoroso, Introduzione alla scienza nuova, cit. 683!E. Grassi, Vico e l’umanesimo, cit., p. 53 e sgg.!!  ! 216!  quella che è sempre stata considerata l’indizio più felice dell’indole futura”684. La condizione mentale dei fanciulli li agevola a sviluppare la loro capacità immaginativa, componente fondamentale in questo determinato periodo della formazione della personalità umana. Con l’età adulta l’uomo inizia invece a inquadrare razionalmente gli enti, a far prevalere la ragione sulla fantasia, ad uscire dallo stato di minorità. Vico accetta entrambi i momenti della formazione dell’individuo, senza porre un antagonismo delle facoltà, un manicheismo gnoseologico, sottolineando con forza come non debba essere oppressa e trascurata la fase originaria dell’essere- nel-mondo umano, quella immaginativa, che è fondamentale per la crescita di una persona. Infatti Vico riconduce la fantasia sotto la categoria della memoria, che a sua volta si suddivide in tre distinte fasi: memoria come attività dell’intelletto umano che “rimembra le cose”; fantasia come attività che “altera e contraffà” il ricordo originario; ingegno come attività che “pone in acconcezza e assestamento” ciò che è stato precedentemente modificato. Come sottolinea Cristofolini occorre tenere presente la duplice valenza della fantasia in Vico: da un lato essa costituisce la capacità “primitiva” di creare un impero della fantasia e del mito; dall’altro necessita di essere limitata e sottomessa alle strutture della ragione685. A differenza di un’ipotesi che ricomprende il concetto di fantasia all’interno di uno sviluppo razionale graduale e progressivo Grassi propende per l’idea che “la fantasia, basata sull’esperienza delle molteplici interpretazioni che si possono dare ai fenomeni sensibili, crea le prime analogie fra tali fenomeni e con essi le prime connessioni e infine le definizioni”686. Secondo il filosofo milanese si tratta del primo adattamento della natura: attraverso la fantasia l’uomo mette in atto quella domesticazione dell’essere che costituisce l’essenza dell’attività mentale. Grassi individua tre significati fondamentali della fantasia !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 684 G. B. Vico, Sul metodo degli studi del nostro tempo, a cura di A. Suggi, Ets, Pisa 2010, p. 37. 685 P. Cristofolini, La Scienza Nuova di Vico. Introduzione alla lettura, Nis, Roma 1995, p. 84. 686 E. Grassi, Marxismo, umanesimo e problema della fantasia nelle opere di Vico, in Id., Vico e l’umanesimo, p. 89.  ! 217!  vichiana: -! “nella fantasia e mediante la fantasia si mostra che l’essere umano, a differenza dell’animale, non soggiace a modelli dominanti che danno alle percezioni sensibili un significato inequivocabile”687 -! “la seconda funzione della fantasia fu di costringere l’uomo a farsi dominare dalla paura, dal terrore di fronte alle cose”688 -! “la terza funzione della fantasia è quella di essere il primo originario fattore che dà un significato al lavoro”689 Secondo Grassi la fantasia intesa nel primo significato è strettamente correlata alla nascita della poesia; nel secondo senso è legata alla nascita della religione come prima forma di adattamento della natura e di genesi dell’ordine; infine essa va concepita in relazione alla fondazione sociale e politica che è innescata dal lavoro che allarga il proprio raggio di incidenza ben oltre i confini dell’autoconservazione: la fantasia è la facoltà della visione per eccellenza, essa è l’occhio dell’ingegno. Ingegno e fantasia: entrambe facoltà che insieme al senso comune costituiscono la triade ermeneutica per una corretta comprensione di Vico e della Scienza Nuova. Secondo Grassi Vico ricostruisce la storia del mondo storico umano attraverso il ricorso al senso comune. Leggiamo in La priorità del senso comune e della fantasia. L’importanza di Vico oggi che “secondo l’approccio vichiano il mondo storico sorge dall’interdipendenza delle esigenze umane, dagli elementi di cui abbisogna l’uomo. Da esso deriva la necessità di intervenire nella natura umanizzandola e anche la necessità di stabilire istituzioni umane, comunità sociali, organizzazioni politiche”690. Alla base di questa struttura ritroviamo il senso comune !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 687 Ivi, pp. 88-89. 688 Ivi, p. 89. 689 Ivi, p. 90. 690 Id., La priorità del senso comune, cit., in Id., Vico e l’umanesimo, cit., p. 43.  ! 218!  che è guidato dall’ingegno. Per Grassi l’ingenium è la facoltà di scoprire le somiglianze e basata sulla facoltà dell’ingegno “la fantasia [...] conferisce significati alle percezioni sensibili. Mediante tale trasferimento la fantasia costituisce la facoltà originaria del far vedere (phainesthai)”691. Si tratta delle facoltà che appartengono sin dall’inizio alla formazione del mondo umano. Come afferma Vico nella Metafisica del 1710 “i latini dissero facultas quasi dicendo faculitas da cui poi anche facilitates come fosse una spedita, rapida solerzia nel fare. Pertanto è facoltà quella che conduce la virtualità all’atto [...]: senso, fantasia, memoria e intelletto sono facoltà dell’anima”692. Poco oltre il filosofo napoletano sancisce definitivamente il legame tra memoria, fantasia e ingegno, così come tra geometria e fantasia. In questo testo, Vico tenta di definire le tre facoltà dell’intelletto e i distinti ruoli (come anche le affinità) che esse svolgono nell’azione conoscitiva dell’uomo. L’interpretazione grassiana della fantasia, anche definita “l’occhio dell’ingegno”, si focalizza sulla sua funzione di mezzo attraverso il quale l’ingegno umano riesce a riformulare i vari concetti, mediante una rielaborazione delle immagini mentali, e a stabilire un nesso plausibile tra essi, che permette di avvicinarsi il più possibile alla conoscenza della verità. Se per Vico è vero che “la fantasia è una facoltà certissima, poiché usandola, noi foggiamo le immagini delle cose”693, e che l’ingegno è “la facoltà del congiungere in unità cose distanti, diverse”,694 è altrettanto indiscutibile che nel momento in cui l’uomo incomincia ad affinare il suo intelletto e tende ad essere più razionale (in quella fase storica che Vico fa corrispondere all’età degli uomini), incomincia a limitare l’utilizzo della sua capacità immaginativa e a diventare più “mentale”. Più l’uomo esce dal suo “stato di ignoranza”, dunque, più cambia anche il ruolo e l’intensità della fantasia all’interno della esistenza. La fantasia, allora, si trasformerà in un’affinata facoltà poetica, in !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 691!Ivi, pp. 49-50.! 692 G. B. Vico, La metafisica del 1710, a cura di A. Corsano, Adriatica, Bari 1966, p. 111. 693 Ibidem. 694 Ivi, p. 114.  ! 219!  una forza creativa che aiuta l’immaginazione dei poeti e la loro capacità inventiva. La fantasia come qualità dei poeti, la trasformazione dell’uso della metafora dalla sua precedente valenza filosofica a quella prettamente artistica. Lo studio della sapienza poetica volta da una vivida fantasia, segno di passionalità e sublimità del linguaggio della poesia che, tuttavia, deve essere ben distinta da quel tipo di sapienza che invece caratterizza il pensiero filosofico. Grassi avverte la possibilità di interpretare attraverso la lente del progresso razionale l’ingegno e la fantasia ma sposta l’attenzione verso l’ambito più originario della formazione del mondo umano. Egli asserisce che “si potrebbe sostenere che Vico attribuisca al discorso fantastico e metaforico solo il significato di un parlare improprio, che diventa appropriato solo attraverso la logica, poichè egli restringe l’uso del parlare metaforico e fantastico a un primo periodo della storia. Noi possiamo rispondere a questa osservazione guardando ai fatti, cioè chiarendo la relazione tra l’attività ingegnosa e immaginativa e senso comune, o esaminando più profondamente il concreto dominio in cui l’ingegno e la fantasia sono capaci di costruire il mondo umano”695. Con la fantasia, l’ingegno e il senso comune è in gioco il tema della fondazione della civiltà che tocca anche l’ambito del mito. IV. XI. L’ora di Pan e la morte di Pan: mito e arte come genesi del mondo umano L’analisi del linguaggio poetico come fondazione della comunità politico sociale ci consente di comprendere l’estensione del discorso grassiano sul mito. In linea con l’interpretazione di Gentili dobbiamo interpretare il ruolo politico che il mito riveste in Grassi alla luce della relazione tra mito e poesia. Nella Introduzione al testo di Grassi Arte e Mito edito per la prima volta in tedesco nel 1957696, ristampato nel 1990, frutto di una rielaborazione di un articolo che Grassi pubblica nel 1956 con il !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 695 E. Grassi, La priorità del senso comune e della fantasia: l’importanza di Vico oggi, cit., in Id., Vico e l’umanesimo, cit., pp. 50-51. 696 Id., Kunst und Mythos, Hamburg, Rowholt, 1957; seconda edizione riveduta e ampliata E. Grassi, Kunst und Mythos, Frankfurt a. m. Suhrkamp, 1990.  ! 220!  titolo Mito e arte in “Rivista di filosofia”, Gentili affronta il problema del mito in Grassi quale evento originario che fonda una catena di relazioni, che dà inizio ad una serie. Il lavoro condotto da Grassi sul mito è inquadrabile all’interno di una prospettiva di demitizzazione che non è omogenea a quella di razionalizzazione. “Nella misura in cui – Grassi – legge il mito alla luce delle sue relazioni, porta allo scoperto il nesso intrinseco tra mito e demitizzazione”697. Come interpretare allora la relazione complessa e articolata tra il mito e i suoi prodotti alla luce del nesso mito-demitizzazione? Grassi analizza il mito quale atto di fondazione originario, arcaico, indeducibile, attraverso le relazioni che lo stesso mito fonda: relazioni retoriche e poetiche, religiose e anche filosofiche. Tuttavia la filosofia interpretata come sapere dedotto e non originario non può avere il ruolo di fondazione che solo la poesia riveste. Per Grassi il “mito fonda (begründet) il logos, quindi il mondo indicativo quello dimostrativo”698. Nella ricostruzione grassiana il mito ha una duplice valenza: esso è il racconto che è alla base delle arti imitative: non solo della tragedia o della commedia, ma persino della musica, della danza – ma è anche l’unità del significato di mito come storia sacra e di mito come fabula. Leggiamo in Arte e mito che “il mito esige di sottomettere la molteplicità dei fenomeni naturali in un’unità ultima, originaria ed onnicomprensiva, costituendo in questo modo un kosmos in sé compiuto. Mito è ciò che dà ordine”699. L’essenza del mito va collocata nell’ambito della formazione umana di un mondo dotato di un’unità strutturale e ciò che esso rivela è la temporalità dell’esistenza umana. Si tratta della prima formazione culturale in cui si dispiega la coscienza temporale umanistica poiché nel mito “domina il tempo che costantemente ritorna”700. Il filosofo italiano, anche sulla scorta dello studio di Malinowsky, Kerényi, W. F. Otto, individua due significati fondamentali del mito701: !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 697 Id., Arte e mito, tr. it. a cura di C. Gentili, La città del Sole, Napoli 1996, p. 27. 698 Id., Potenza dell’immagine, cit., p. 85. 699 Id., Arte e mito, cit., p. 150. Corsivi nostri. 700 Ivi, p. 166. 701 Id., Mito e arte, cit., p. 162. ! 221!   -! il mito come favola e creazione artistica -! il mito come realtà religiosa esemplare Nel primo significato – il mito come favola e creazione artistica – Grassi si rifà ad Aristotele e all’analisi condotta nella Poetica sul mito come “sintesi delle azioni” in cui è sovrapponibile la sua valenza di fatto con quella di composizione di fatti. Accanto all’idea di mito come realtà vivente, sacrale, in cui la temporalità infinita è sospesa in un orizzonte chiuso e circolare compare il tema dell’arte come favola, racconto, mito, composizione dei fatti. Qui occorre sottolineare un aspetto di non secondaria importanza. L’arte si pone come demitizzazione poiché “nasce nell’istante in cui l’ordine assoluto – espresso dalla realtà religiosa – viene infranto. Nel momento in cui ci si distoglie dall’ordine eterno e in sua vece si manifesta l’ordine possibile, sorgono i progetti umani, individuali”702. L’arte si pone come articolazione specifica di una possibilità intrinseca al mito – il suo divenire possibilità umana – e non come razionalizzazione della dimensione mitico-sacrale originaria. L’arte prorompe laddove si crea uno strappo, una lacerazione, una rottura: la temporalità e la spazialità sacre dell’universo mitico si disintegrano, facendo spazio a quelle profane del mondo artistico. Nel secondo significato il mito appare come realtà sacrale, religiosa ed esemplare. Per Grassi “questo mondo mitico è sostanzialmente distinto da quello profano, in quanto il profano presuppone una temporalità, una caducità, un essere-sempre-diversamente [...] perciò lo spazio profano non è neppure mai chiuso, ma si perde in una dimensione sterminata e senza confini”703. Tra il mito e l’arte dunque ritroviamo una differenza che si situa innanzitutto nei due tipi di temporalità e spazialità vissute. Eppure mito e arte hanno in comune l’esigenza di riunificazione della molteplicità dei fenomeni sensibili sotto un ordine, una legge, un kosmos. Scrive Grassi che “il mito esige di sottomettere la molteplicità dei fenomeni naturali in un’unità ultima, originaria, onnicomprensiva, costituendo in questo modo un !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 702 Ivi, p. 158. 703 Id., Arte e mito, cit., p. 159.  ! 222!  kosmos in sé compiuto. Mito è ciò che dà ordine. Stando a questa concezione, il mito racchiude gli elementi eternamente esistenti dell’esistenza umana e li rappresenta: ciò che esso rivela è l’eternamente presente”704. Nel mito viviamo quella connessione con il mondo circostante – l’ora di Pan di cui abbiamo già parlato in relazione all’esperienza sudamericana di Grassi – che appare a Grassi come “l’ora in cui la realtà frammentaria quotidiana si trasforma in una unità ed attualità terribile, fuori del tempo. Nel mito domina la pienezza di una realtà che incombe sul singolo e non lo lascia più sfuggire”705. Se il mito in cui l’uomo si trova, come l’animale immerso nel cerchio funzionale simbolico, è esemplificato con la metafora dell’ora di Pan, l’arte è rappresentata invece come la morte di Pan, come “l’infrangersi del mito”706. Di fronte alla disintegrazione del mondo mitico-sacrale per il pensatore “l’uomo ricorre ai ritrovati tecnici” – l’arte come poiesis e come techne – “quando ha perso di vista i riferimenti a una realtà fuori dal tempo. Propriamente in questo istante sorge l’empeiria, la necessità di trovare un guado attraverso il fiume delle impressioni sensibili che si sono staccate dall’ordine originario”707. L’emepiria va interpretata come una realizzazione del logos (non inteso come ragione o intelletto) e non in senso materialistico. Secondo il filosofo si tratta della prima fase di ordinamento dei fenomeni sensibili. “L’empeiria è il primo passo nell’ordinamento dei dati sensoriali, non è passività, non è impressione”708. Nell’azione di conferimento di unità, di selezione e ordinamento dell’empeiria possiamo rintracciare i caratteri dell’arte. Infatti il filosofo giunge a chiedersi se l’arte e l’empeiria non si identifichino in questo aspetto ordinatore. Tuttavia la differenza fondamentale risiede nel carattere di produzione insito dell’arte. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 704 Ivi, p. 150. 705 Id., Mito e arte, cit., p. 150. 706 Ivi, p. 151. 707 Ibidem. 708 Id., Arte e mito, cit., p. 92.  ! 223!  Se con l’emepeiria siamo di fronte ad una constatazione, per quanto ordinata, dei fenomeni – il termine usato da Grassi è fest-stellen in riferimento all’empeiria709 – con l’arte siamo di fronte alla produzione di un modo umano a partire dal mondo frantumato resoci accessibile attraverso l’empeiria. “L’empeiria sembra avere la sua radice nella necessità di ordinare i fenomeni sensibili, ma non è in grado di conferire ordine complessivo. Essa comunica di volta in volta un mondo frantumato, nei cui frammenti noi vediamo rispecchiato un kosmos in mille parti rilucenti”710. La potenza dell’arte invece risiede nella sua capacità di produrre un cosmo, un mondo ordinato dotato di un’unità significativa. L’arte come il mito è “il progetto universale delle possibilità umane”711 e soprattutto la poesia assurge per Grassi a evento privilegiato della relazione uomo-essere. Ma è possibile attraverso la poesia esprimere e dire in modo immediato il mito? Oppure la dimensione poetica in Grassi è una forma della ricezione mitica, una forma demitizzata del mito? Per comprendere l’essenza e il valore di fondazione del mito non dobbiamo prestare attenzione al passaggio dal mito al logos – dove il mito appare come una prestazione arcaica della ragione e il logos come un mito razionalizzato – ma al nesso tra mito e demitizzazione. Si tratta di un movimento tutto interno al mito e che si intreccia al tema della fondazione. Il mito in quanto “topos atopos” è premessa, origine che non può essere conosciuta ma detta attraverso la poesia. Grassi parte da una idea di mito come fondazione origine e inizio, come prestazione fondativa (Begründung). “In questo senso il mito – sia come realtà religiosa esemplare, sia come creazione artistica e quindi come favola – può venir considerato come il principio instauratore originario di una comunità [...] con l’ordine – che pone una molteplicità di movimenti entro un’unità – si preannuncia la realizzazione dell’aspetto sociale”712. L’interpretazione grassiana della Poetica di Aristotele pone in luce l’aspetto di !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 709 Ivi, p. 90. 710 Ivi, p. 94. 711 Ivi, p. 168. 712 Id., Mito e arte, cit., p. 162.  ! 224!  secolarizzazione insito nel mito: il mito disvelando “l’ampia scala delle possibilità umane”713 corre il rischio di generare un’arte secolarizzata: l’estetica714. Come sottolinea Amoroso, in Grassi l’individuazione di una via di accesso al mito, alla poesia e all’arte “in rapporto al concreto operare della storia”715 avviene attraverso il ripercorrimento della filosofia dell’umanesimo che nell’arte avrebbe espresso uno svelamento, una Lichtung dell’essere. IV. XII. La funzione trascendentale dei concetti di Wahn e Langweile nelle meditazioni leopardiane Nel corso della trattazione sono emersi due concetti chiave: quello della fondazione della civiltà e quello del disvelamento: si tratta delle questioni supreme a cui Grassi dedica gran parte della sua indagine storico-filosofica sui temi dell’Umanesimo. In questo orizzonte teorico due figure capeggiano sulla scena filosofica descritta da Grassi: Vico – come abbiamo già visto – e Leopardi, su cui la critica poco si è soffermata. Entrambi appaiono in veste di filosofi delle origini del mondo umano attenti alla ricerca dei fattori primi di umanizzazione e di fondazione politico-civile i cui plessi teorici si inseriscono a pieno titolo nel percorso grassiano di ricostruzione dell’antropologia delle origini, della fondazione civile e del disvelamento. La fondazione fantastica e il disvelamento vichiani e la funzione trascendentale dell’illusione e il ruolo metafisico del pathos della noia come sentimento dell’apertura originaria in Leopardi rappresentano le tappe fondamentali di una ricerca onto-antropo- logica che in Grassi si concretizza come formazione del cosmo umano attraverso la fondazione mitica. Nel corso della sua lunga ed operosa esistenza filosofica Grassi si è spesso misurato con le riflessioni e la personalità di Leopardi. Tenendo presente la centralità che il concetto di pathos assume all’interno del pensiero di Grassi è possibile comprendere come il filosofo dedichi pagine concettualmente dense al poeta di Recanati, istituendo confronti prima con Freud ed Epicuro (sugli !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 713 Id., Arte e mito, cit., p. 183. 714 L. Amoroso, Da Aristotele a Vico. A proposito di Grassi e il mito, in AA. VV., Un filosofo europeo. Ernesto Grassi, cit., pp. 61-76, p. 62. 715 Ivi, p. 64.  ! 225!  argomenti del piacere e del dispiacere; del principio di realtà e del principio di illusione; dell’edonè) poi con Schopenhauer (sui concetti di realtà e illusione, di noia e dolore). In questa sede si è ritenuto di non soffermarsi sulle relazioni interessanti con il padre della psicoanalisi e con i filosofi greco e tedesco poste a tema dal Grassi, quanto piuttosto di prendere in considerazione le suggestioni teoriche che il poeta sollecita nel cammino di pensiero del filosofo nella consapevolezza dell’originalità e discutibilità delle tesi grassiane su Leopardi che, come vedremo, non seguono i dettami del “filologicamente corretto” ma piuttosto fanno interagire Leopardi con i concetti chiave del suo sistema onto-antropo-logico. Quale ruolo può avere Leopardi all’interno dell’iter di pensiero grassiano e qual è il valore della teoria dell’illusione a cui il pensatore conferisce tanta importanza da giungere a definire il poeta italiano teoreta dell’illusione716? Il filosofo sottolinea quanto l’approccio leopardiano sia distante dal razionalismo della metafisica astratta del “secol superbo e sciocco” insistendo soprattutto su quei concetti, quali illusione e noia, piacere e dolore, natura e passione in cui Leopardi assume un atteggiamento critico verso l’ottimismo razionalistico e il tema della civilizzazione. Il Leopardi grassiano come critico del tempo moderno e delle devastazioni dell’intelletto segue un percorso nuovo e inesplorato, che si iscrive nel solco della tradizione umanistica di cui il poeta e Vico costituiscono gli “ultimi rappresentanti”. Accanto all’operazione ermeneutica di analisi dell’idea di illusione si situa anche il convincimento che Leopardi può essere considerato come una delle ultime manifestazioni dell’umanesimo. Si tratta di due temi – il “Leopardi umanista” e il “Leopardi teoreta dell’illusione” – strettamente connessi perché consentono di fugare l’idea che la lettura grassiana possa essere considerata come un tributo, l’ennesimo, al grande genio poetico del recanatese e fanno emergere una interessante prospettiva esistenzialistica sul Leopardi critico del moderno. Se prendiamo in considerazione i passi in cui è presente il poeta di Recanati constatiamo che egli appare in forma sparsa e asistematica già a partire da I primi scritti 1922-1946. La lettura dei saggi risalenti !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 716 E. Grassi, La metafora inaudita, cit., p. 46. ! 226!   al periodo compreso tra gli anni ‘30 e ‘40 mette in luce la presenza di Leopardi e delle tematiche dello Zibaldone, che resta il preponderante testo di riferimento delle note grassiane sul poeta. Confrontando le citazioni di Leopardi e i contesti teorici di riferimento registriamo che esse compaiono sempre in relazione all’analisi dei concetti di formazione (Bildung), di noia, di illusione: idee centrali se consideriamo quanto essenziale sia la formazione nel nuovo ideale di umanesimo, la noia e l’angoscia nella sua analitica esistenziale, e l’illusione come fattore antropogenetico insieme al mito e al linguaggio nell’analisi antropologica grassiana. In Il confronto con la filosofia tedesca in Italia del 1941 si fa cenno a Leopardi nell’ambito della tematizzazione della Bildung degli studia humanitatis che coinvolge una questione ben più ampia della mera educazione filologica717. Per il filosofo infatti occorre distinguere una pseudo-filologia, priva di pensiero, ridotta a sterile culto classicista della parola, e una filologia autentica, che si connota come meditazione sull’uomo e sulla sua formazione. Egli afferma che “il filosofare italiano non comincia con il problema della verità o del sapere, ma con il problema della parola in relazione al compito umanistico di mediare la parola antica, gli scritti antichi, il mondo antico [...]. Ricordo solo che il compito umanistico della mediazione della parola antica si realizzò essenzialmente su un piano estetico, letterario, ossia in relazione alla scoperta e al rinnovato rapporto con i testi letterari antichi. A ciò, però, si legava al contempo l’impegno di una formazione dell’uomo tramite la parola, e con il problema della formazione si affrontava un problema essenzialmente filosofico. Si stabilì che il significato delle parole che troviamo in un testo non può essere dedotto dall’esperienza quotidiana o dal nostro sapere, bensì dall’unità del testo [...] conformemente all’antichità, si riconosceva nella parola l’essenza dell’uomo, così il formarsi in base alla parola non significava, come oggi per lo più crediamo, praticare la filologia, bensì sviluppare l’essenza dell’uomo”718. La distinzione tra Bildung e Erziehung mostra come la posta in gioco nella nuova idea di umanesimo sia la messa in discussione dell’essenza dell’uomo, della sua condizione, che accomuna, secondo il filosofo, le figure di Bruno, Vico e Leopardi. Così come per Bruno “ogni rapportarsi !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 717 Id., Il confronto con la filosofia tedesca in Italia, pp. 871-886, in Id., I Primi scritti 1922-1946, La Città del Sole, Napoli 2011, p. 882. 718 Ivi, p. 881. ! 227!   originario nei confronti della realtà, sia nel senso politico come in quello concettuale o poetico, scaturisce dall’esperire, dal patire qualcosa di originario e indeducibile, che riveli mondi differenti”719 anche per Vico e Leopardi720 la funzione trascendentale del pathos consente un rinnovamento del concetto di filologia. Il co-estendersi dei temi filologici e antropologici implica una rivalutazione del concetto di pathos da parte di Grassi che tuttavia non indulge ad una forma più o meno celata di irrazionalismo illogico. Anzi il valore logico della sua ricerca emerge laddove egli tenta di proporre un concetto complesso di logos che non esclude il pathos, ma che si rivela nella sua coappartenenza costitutiva al pathos nell’orizzonte unitario del reale e della sua esperienza. Nella sua prospettiva il pathos è sempre già connotato ontologicamente e non si riduce all’affectio o all’emozione. Solo ed unicamente sul suo fondamento facciamo esperienza della nostra apertura mondana, della Lichtung e dell’evento della differenza ontologica. Secondo il filosofo nel pathos “l’inaudito appare sul palcoscenico della storia”721: esso è “passione abissale”722 in cui accade il fenomeno dell’essere e allo stesso tempo il suo sottrarsi. Nella prospettiva grassiana il pathos metafisico è ciò che Leopardi chiama illusione e natura. “Le passioni hanno un carattere trascendentale, esse sono cioè condizione delle esperienze e da esse non deducibili”723 e per il poeta indicano il nostro lasciarci afferrare dalla realtà, dall’essere che si impone e contro cui urtiamo senza possibilità di sottrarci al suo appello. Grassi afferma che “l’espressione illusione, che Leopardi usa in questo senso, ha, rispetto alla terminologia tradizionale !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 719Ivi, p. 882. 720 Ivi, p. 883. 721 Id., La metafora inaudita, cit., p. 92. 722 Ivi, p. 40. 723 Id., Illusione, natura e critica del mondo intellettuale moderno, pp. 156-175, in AA. VV, Tradizioni della poesia italiana contemporanea, Edizioni Theoria, Roma 1988, p. 166.  ! 228!  che si serve della espressione a-priori, il grande vantaggio di esprimere il carattere esistenziale del trascendentale”724. Nell’esperienza patica rintracciata dal filosofo nello Zibaldone l’uomo si trova di fronte al proprio disancoramento e alla propria angoscia – che nelle “meditazioni leopardiane” è sostituita dalla noia – in cui “questo vanificarsi della realtà nello stato dell’angoscia esistenziale manifesta pure per la prima volta l’esistente come un completamente altro da esso e come tale lascerebbe sorgere di fronte a noi la realtà dell’essere come essere nella sua originaria alterità e possibilità di determinazione. L’angoscia quindi in cui il nulla si mostra come vanificarsi della totalità dell’esistente è la fonte della possibilità di pensare (come pensare l’essere) e di filosofare e in esso sorge la possibilità di trascendere l’ esistente nella sua totalità rendendolo possibile termine di domanda”725. Nel pathos dell’angoscia noi esperiamo l’assenza di mondo e la possibilità allo stesso tempo di realizzare ordini di realtà, progettazioni e creazioni, per arginare l’“assenza di mondo” in cui l’uomo è gettato proprio perché privo di orientamenti precostituiti. L’esperienza della dismondanizzazione e di assenza di mondo a cui il filosofo fa riferimento sono il regno dell’Aperto in cui è assente ogni direzione, ogni coordinata, ogni orientamento. Egli asserisce che “in quest’esperienza siamo di fronte all’Offenheit, a quella apertura che, non essendo la nostra dimensione, ci paralizza”726 e ancora che “qui gli oggetti diventano trasparenti, quasi fluorescenti, tu non ti puoi più aggrappare a loro, non puoi più tenerli in mano per costruire con loro un mondo, e comincia la sensazione del precipizio”727. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 724 Ivi, p. 168. 725 Id., Il problema del nulla nella filosofia di M. Heidegger, in Id., I primi scritti, cit., p. 329. 726 Id., Assenza di mondo, in “Archivio di filosofia”, Roma, pp. 217-247, p. 226 727 Ibidem.  ! 229!  A caratterizzare maggiormente l’esperienza patica è quindi la sua componente metafisica e non psicologica: nel pathos facciamo esperienza dell’originario. La passione ha anche un significato arcaico nel senso di fondativo: “si è costretti a riconoscere che la passione agisce come archè, potenza elenchica, che ci espone perché non possiamo liberarci da essa, incombe come destino e nella sua luce fa apparire il significato di ogni ente”728. Essa consente di prendere coscienza dell’eventualità dell’essere, dell’apertura dei mondi, dell’aletheia come schiudersi, aprirsi e darsi della concreta situazione storica. É proprio questo concetto metafisico di pathos che Grassi ritrova nel tema leopardiano dell’illusione a cui si accosta per la prima volta nel saggio Sul problema della parola e della vita individuale. Riflessioni a partire dalla tradizione italiana del 1942. Si tratta di una lettera scritta all’amico Walter Otto il cui centro teorico è la domanda circa il rapporto sussistente tra il singolo (l’individuo) e il comune (l’oggettivo) che secondo Grassi trova una risposta nella tradizione umanistica italiana attraverso la disamina del problema della parola come massima espressione della vita individuale, la quale però “non ha proprio nulla a che fare con l’individualismo [...] – ma – conduce alla questione sistematica dell’essenza del comune”729. La ricerca grassiana sulle modalità di configurazione del problema della parola nella tradizione italiana e sulla sua correlazione al tema dell’essenza dell’uomo, “non irrigidendosi in una teoria individualistica ma – al contrario – rischiarando il problema di ciò che è comune”730 ha come esito la convinzione che l’individuale sia un concetto molto distante dal soggettivo e dal relativo, da ciò che è “riferito all’io”731, ma sia invece legato all’oggettivo, a “ciò che dischiude il comune”732. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 728 Id., Il dramma della metafora, cit., p. 131. 729 Id., Sul problema della parola e della vita individuale. Riflessioni a partire dalla tradizione italiana, in Id., I primi scritti, cit., p. 903. 730 Ivi, p. 907. 731 Ivi, p. 909. 732 Ibidem.  ! 230!  L’insistenza sul tema dell’oggettivo, l’autenticamente originario che si fa incontro all’uomo e non giace davanti in qualità di objectum, conduce Grassi verso la teoria leopardiana dell’illusione come l’a-priori, il trascendentale che conferisce ordine – infatti Grassi parla di bella illusione – e che come la meraviglia, all’origine del nostro impulso a sapere, si impone come necessaria, essenziale e comune prassi umana di trasformazione del reale733. Anche Il reale come passione e l’esperienza della filosofia del 1945 dedica una sezione molto significativa al poeta in riferimento al concetto di noia e passione. Afferma il pensatore che per Leopardi “la noia si rivela inaspettatamente come passione [...] poiché la vita è sempre nella sua essenza impulso alla compiutezza e alla felicità [...] così l’uomo non può mai sprofondare nell’assoluta insensibilità e indifferenza”734. La noia come morte della vita, vita non vita, vita dell’indistinto e dell’indifferente tuttavia è pur sempre passione, sia pure nel senso del più basso gradino dell’esistenza. Siamo venuti ai temi principali che animano la lettura grassiana di Leopardi presente nei saggi più sistematici dedicati al poeta: Wahn, Natur und die Kritik der modernen Verstandeswelt (1949), Introduzione a Giacomo Leopardi, Theorie des schönen Wahns und Kritik der modernen Zeit735; Passione e illusione. Il principio freudiano del piacere e la teoria leopardiana delle illusioni !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 733 Ivi, p. 914. 734 Id., Il reale come passione e l’esperienza della filosofia, in Id., I Primi scritti, cit., p. 1027. 735 Id., Wahn, Natur und die Kritik der modernen Verstandeswelt. Si tratta di una introduzione a Giacomo Leopardi, Theorie des schönen Wahns und Kritik der modernen Zeit, Verlag, Bern, 1949, pp. 9-34. Tradotto in italiano da R. Copioli con il titolo, Illusione, natura e critica del mondo intellettuale moderno, cit.  ! 231!  (1987)736; Der italienische Schopenhauer (1987)737; Leopardi e Freud. Attività metaforica o schizofrenica? (1989)738. Il testo del ’49 è una scelta di passi tratti dallo Zibaldone, considerato da Grassi come lo strumento per gettare uno sguardo “all’officina poetica di Leopardi”. Fu pubblicato per la collana Überlieferung und Auftrag che nasce dall’intenzione di porre a tema determinati problemi della tradizione umanistica, che, come è noto, per Grassi sono quelli della rivalutazione della poesia e della retorica, della fantasia e dell’ingenium. Nel saggio introduttivo a Theorie des schönen Wahns und Kritik der modernen Zeit tradotto in tedesco da Joseph Partsch Grassi prende le distanze dall’impostazione crociana della interpretazione di Leopardi, accolta anche dal Vossler 739. Contro la negazione del Croce del valore filosofico del poeta di Recanati Grassi ha come scopo dichiarato quello di rivalutare l’aspetto teoretico contenuto nell’opera, al di là dei limiti del pessimismo leopardiano che, sulla scia di De Sanctis740, si è imposto all’attenzione critica. L’idea centrale che ha ispirato la scelta editoriale di selezionare i passi zibaldonici non tenendo conto del loro effettivo ordine cronologico è quella di restituire la genuina antropologia leopardiana attraverso la focalizzazione sul concetto di illusione. Secondo Grassi “generalmente le tesi pessimistiche del Leopardi, !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 736 Id., Passione e illusione. Il principio freudiano del piacere e la teoria leopardiana delle illusioni in “Nuovi Annali della Facoltà di magistero dell’università di Messina”, 5 (1987), pp. 69-82, presentato in redazione differente al Congresso su Leopardi a Roma nel 1988. pp. 37-47, contenuto ora in E. Grassi, La metafora inaudita, Aesthetica, Palermo 1990. 737 Id., Der italienische Schopenhauer, pp. 125-138, in AA. VV., Schopenhauer im Denken der Gegenwart, Piper Munchen 1987 a cura di Volker Spierling. 738 Id., Leopardi e Freud. Attività metaforica o schizofrenica? In AA. VV, Leopardi e il pensiero moderno, a cura di C. Ferrucci, Milano, Feltrinelli, 1989, pp. 23-36. 739 Cfr., Id., Illusione, natura e critica del mondo intellettuale moderno, cit., pp. 158-159. Cfr., le affermazioni crociane contenute in B. Croce, Poesia e non poesia. Note sulla letteratura europea del secolo decimonono, Laterza, Bari 1946. Croce dopo aver asserito che “la filosofia, in quanto pessimistica od ottimistica, è sempre intrinsecamente pseudofilosofia, filosofia ad uso privato”, ivi, p. 99, afferma che “Leopardi non offre se non sparse osservazioni, non approfondite, non sistemate”, ibidem. 740 Cfr. F. De Sanctis, Leopardi, a cura di C. Muscetta e A. Perna, Einaudi, Torino 1960. Per la storia delle interpretazioni del pensiero di Leopardi e delle sue immagini in qualità di ottimista (critica fascista), pessimista, e progressivo (critica marxista) cfr. S. Lanfranchi, Dal Leopardi ottimista della critica fascista al Leopardi progressivo della critica marxista, pp. 247-262, in “Laboratoire italien”, 2012, Lione.  ! 232!  così come esse, per esempio, hanno ricevuto la loro formulazione nelle cosiddette Operette morali, sono note: il nostro compito non potrebbe essere quello di elaborare questo lato del pensiero leopardiano, ma soprattutto quello di delimitare il concetto filosofico dell’illusione nel suo significato sistematico, etico, sociale e storico”741. Lo scopo è esplicitato con tutta chiarezza: Grassi si propone di rendere oggetto di discussione non il Leopardi pessimista, non il Leopardi letterato, ma il Leopardi “antropologo”. Il legame tra antropologia e illusione è al centro dei saggi Passione e Illusione, Lo Schopenhauer italiano, e Leopardi e Freud. Legare antropologia e illusione non sembrerà una mossa azzardata se colleghiamo il tema del Wahn (illusione, mania, pazzia) con quello della Leidenschaft (passione). Nei due saggi dell’‘87, Lo Schopenhauer italiano – che qui proponiamo in traduzione italiana – e Passione e illusione, si analizza l’idea di schönen Wahn – anche definito illusione ingegnosa742. La caratura antropologica dell’illusione è del tutto evidente se si prendono in considerazione le affermazioni grassiane sui concetti di ordine, di costruzione del mondo etico-politico, e di scena. Egli afferma in Lo Schopenhauer italiano: “il misterioso da cui si forma il teatro del mondo, la scena della storia, offre solo l’illusione, l’ossessione di un gioco inquietante nel quale noi stessi siamo solo attori o spettatori ammessi. Dal momento che l’originario è indeducibile, e perciò non è spiegabile in fondo attraverso il ragionamento analitico, esso deve essere così riconosciuto come illusione, come ossessione. Sicuramente l’illusione è generatrice di ordine, poiché è la ragione di ogni grande azione, di ogni grande epoca, di ogni creazione storica”743. La teoria dell’illusione è in netta contrapposizione alla ragione. Per il filosofo “Leopardi si oppone al predominio della ragione ed esplicitamente alla filosofia tedesca razionale astratta”744. Il riferimento è al passo zibaldonico sulla povertà di immaginazione dei tedeschi745, in cui Grassi crede di trovare traccia del proprio filosofare noetico-non metafisico, che si identifica con una teoria del nous o dell’ingenium in cui “la priorità della natura [...] si esprime attraverso la passionalità come !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 741 E. Grassi, Illusione, natura e critica del mondo intellettuale moderno, p. 157. I corsivi sono nostri. 742 Id., Leopardi e Freud. Attività metaforica o schizofrenica?, cit., p. 33. 743 Id., Der italienische Schopenhauer, cit., p. 134. Traduzione nostra. 744 Id., Leopardi e Freud, cit., p. 31. 745 G. Leopardi, Zibaldone, 5-6 ottobre 1821. ! 233!   illusione”746. Dall’angolo teorico dal quale il filosofo guarda allo Zibaldone “il mondo umano non è una costruzione della ragione, del logo, ma è il prodotto di ciò che Leopardi chiama – in antitesi alla ragione – ingegnosa illusione, cioè la sofferenza dell’abissale appello della natura [...] Leopardi contrappone così non solo alla ragione ciò che egli chiama illusione – perché razionalmente non deducibile– ma identifica questa con l’attività ingegnosa”747. Attraverso l’illusione la physis originaria, l’Abissale, realizza la storia, accade il mondo, avviene la parousia della realtà, il suo phainesthai. Altre riflessioni teoriche degne di nota presenti nella lettura di Leopardi sono quelle relative ai concetti di natura e vita. Il filosofo giunge ad affermare che “i concetti di vita, natura, passione e illusione coincidono”748 . La vita – che sin dagli esordi greci della filosofia è stata interpretata come energia ed entelechia, come ciò che ha in sé il lavoro, il limite e il fine, l’ergon e il telos – in Leopardi diviene qualcosa di intimamente connesso al vuoto, al nulla. Questi ultimi concetti non hanno carattere negativo ma sono contraddistinti da una positività originaria generatrice di ordine, di mondo: il nulla prima di generare disperazione e dolore749 entra in contatto con la noia. Nei saggi “leopardiani” di Grassi la Langeweile assume quel ruolo liminare che l’Angst ha nei Primi Scritti: quello di chiusura mondana in cui l’uomo è gettato – il suo fondo animale – e allo stesso tempo di apertura mondana possibile solo su quella chiusura. La noia è l’aperto, la Lichtung nella quale l’uomo fa esperienza della propria vita che è innanzitutto temporalità. La noia in quanto esperienza dell’uniforme e dell’indistinto, è il contrario della vita. La vita invece è esperienza della distinzione e della singolarità. L’esperienza della noia in Leopardi secondo Grassi è caratterizzata da una positività originaria che la rende ben più profonda di una semplice tonalità emotiva. Del resto che il pathos avesse una costituzione metafisico-trascendentale ben più profonda rispetto alla componente soggettivistica appare evidente già dalle riflessioni su Stimmung e sulla !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 746 E. Grassi, Leopardi e Freud, cit., p. 32. 747 Ivi, p. 33. 748 Id., Illusione, natura e critica del mondo intellettuale moderno, cit., p. 165. 749 Ivi, p. 160.  ! 234!  Leidenschaft. La noia nel suo carattere esperienziale assurge a “facoltà di patire”. Afferma Grassi che “l’indifferente, l’uniforme, li possiamo cogliere e di essi possiamo avere esperienza, solo se si manifestano in modo finito, e la noia – nella misura in cui noi la sopportiamo – ci evidenzia come noi non possiamo vivere nel non limitato e nell’indifferente. In altre parole: se tutto ciò che è e di cui parliamo può presentarsi solamente a condizione che si mostri entro certi limiti – cioè come qualcosa di definito e distinto – allora anche la noia può essere colta solamente in quanto impossibilità di esistere nel non-limitato, nel non-dipendente”750. Nella prospettiva che abbiamo cercato di delineare emerge che nella noia è coinvolto lo stesso tema della léthe e dell’illatenza: il gioco di svelamento e nascondimento, insito nel cuore della manifestatività, che decide dell’umano. La noia leopardiana come facoltà di patire allora diviene un principio storico-culturale che solo secondariamente scade a povertà di azione e pigrizia ma si erge a condizione trascendentale del mondo storico dell’uomo. Essa è la Lichtung, il nome kat’exochèn dell’essere e del mondo, in cui l’avvento dell’umano accade innanzitutto linguisticamente. Qui si installa un altro tema centrale della lettura grassiana: la critica del mondo moderno presente nelle annotazioni zibaldoniche che mette in luce anche la qualità umanistica del poeta. Come leggiamo in Heidegger e il problema dell’umanesimo, Grassi afferma, ponendo una netta demarcazione tra il proprio modo di intendere l’umanesimo e l’approccio storiografico consolidato, che “gli studiosi hanno costantemente individuato l’essenza dell’umanesimo nella riscoperta dell’uomo e dei suoi valori immanenti [...] e tuttavia uno dei problemi centrali dell’umanesimo non è l’uomo, bensì la questione del contesto originario, dell’orizzonte o apertura in cui appaiono l’uomo e il suo mondo”751. Il problema fondamentale dell’umanesimo, che non va concepito come una forma più o meno larvata di antropocentrismo tout court, è la problematizzazione del tema della Lichtung, ossia del tema dell’Aperto, del contesto originario dell’apparire del mondo, dell’uomo e degli enti, che si declina come ricerca sulle strutture del mondo umano. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 750 Ivi, p. 161. 751 Id., Heidegger e il problema dell’umanesimo, Guida, Napoli 1985, p. 26.  ! 235!  Alla metafora fotica nell’accezione heideggeriano-grassiana sopra delineata fu sensibile già Leopardi, che fin da Memorie del primo amore e poi via via nel Discorso di un Italiano intorno alla poesia romantica, nello Zibaldone, nelle Operette morali e nei Canti mostra un timore irrequieto nei confronti della luce diretta e accecante – sia essa lunare o solare – che genera un guardare piacevole e sublime. Grassi non sottolinea l’importanza della metaforica della luce né l’attenzione alla connessione vita-apertura752 pur presente nello Zibaldone, privilegiando il tema dell’illusione nelle sue molteplici sfaccettature storiche e fondative, nel convincimento che in quel concetto sia esplicato un accesso alla filosofia non pregiudicato da una metafisica razionalistica latente. Leggiamo nello Zibaldone che “per lo contrario la vista del sole e della luna in una campagna vasta e aprica e in un cielo aperto ec. è piacevole per la vastità della sensazione”753; e ancora : “per lo contrario una vasta e tutta uguale pianura dove la luce si spazi e diffonda senza diversità, né ostacolo; dove l’occhio si perda ec. è pure piacevolissima”754. La priorità trascendentale della radura sulla luce che si offre, si dà in un atto di donazione (l’Es gibt) in cui si co-estendono luce ed essere, è viva anche in Leopardi, il quale usa dei termini molto cari a Grassi – e al suo maestro Heidegger – ma anche a Vico: sylva755, luce756, critica della metafisica757, rivalutazione della poesia. Temi !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 752 G. Leopardi, Zibaldone, “Io credo che tutti questi tali verbi sieno originariamente fatti da altri verbi ignoti, come vivesco dal noto vivo, hisco dal noto hio, e altri tali di questa desinenza in sco. E lo credo perché, come vivesco significa divenir vivo, cioè divenir quello che dal verbo vivo è significato essere, cioè esser vivo, e come hisco significa aprirsi, cioè divenir aperto, mentre hio significa essere o stare aperto, ec.; così tutti i detti verbi nosco, nascor, adipiscor, sinesco, adolesco, cresco ec. di cui non si conoscono gli originali, significano però divenire, incominciare a essere o a fare quella tal cosa o azione”, 14 ottobre 1823 [3689]. 753 Ivi, 20 settembre 1821 [1745]. 754 Ivi, [1746]. 755 Ivi, 2-5 luglio 1821 [1276 e segg.]. 756 Ivi, 20 settembre 1821 [1745]. 757 “Perché la mancanza delle vive e grandi illusioni spegnendo l’immaginazione lieta aerea brillante e insomma naturale come l’antica, introduce la considerazione del vero, la cognizione della realtà delle cose, la meditazione ec. e dà anche luogo all’immaginazione tetra astratta metafisica, e derivante più dalla verità, dalla filosofia, dalla ragione, che dalla natura, e dalle vaghe idee proprie naturalmente della immaginazione primitiva. Come è quella dei settentrionali, massime oggidì, fra’ quali la poca vita della natura, dà luogo all’immaginativa fondata sul pensiero, sulla metafisica, sulle astrazioni, sulla filosofia, sulle scienze, sulla cognizione delle cose, sui dati esatti ec. Immaginativa che ha piuttosto che fare colla matematica sublime che colla poesia”, Ivi, 14 ottobre 1820 [276]  ! 236!  fondamentali, questi, che corroborano l’idea, in altro modo proposta da Grassi, di un Leopardi filosofo dell’esistenza umana interpretata come oltrepassamento dell’immediatezza e allo stesso tempo come natura che si apre alla storia. Come abbiamo visto, l’indagine grassiana, accanto all’attenzione all’ambito ontologico, si concentra sulla dimensione ontica delle concrete Lichtungen, che si converte in analisi del linguaggio. Per il pensatore “la cosa sorprendente, alla quale di solito non si presta attenzione, è che questi problemi – contesto originario, orizzonte, Lichtung – non sono trattati nel pensiero umanistico mediante un confronto logico speculativo con la metafisica tradizionale, ma piuttosto in termini di analisi e di interpretazione del linguaggio [...]. Il problema del linguaggio solleva la questione fondamentale del rapporto tra parola e oggetto, tra verbum e res. Oltre a ciò, si fa strada l’idea che solo nella parola e a mezzo della parola (verbum) la cosa (res) rivela il suo significato”758. Con l’umanesimo, secondo il filosofo non ci si interroga più circa la verità logica e il rapporto logico tra cosa e pensiero, ma a proposito del comparire storico della res a mezzo del verbum: la questione fondamentale è quella di accedere ad un linguaggio che sia casa dell’essere e non una sua prigione. Egli, infatti, distingue la cosa dall’ente, pone la differenza tra res ed ens: se la metafisica tradizionale si interroga sulla cosa ridotta ad ente – e per Grassi occorre abbandonare l’idea di una metafisica astratta degli enti – per cui l’unico linguaggio possibile per enunciare i predicati dell’ente è quello del razionalismo che delimita l’ente entro il perimetro logico dell’identità, la ricerca linguistica dell’umanesimo, di cui Leopardi fa parte secondo Grassi, è capace di restituire la ricchezza fenomenologica della cosa, della res, del pragma, proprio attraverso un linguaggio che ne rispecchi le infinite e variegate sfaccettature. Secondo l’interpretazione del filosofo italiano non esistono “cose separate dalle nostre azioni, dai nostri tentativi di trattarle [...] l’essere-in-sé delle cose ci si manifesta solo nella e attraverso l’azione umana”759. Occorre quindi riconoscere che “l’oggettività delle cose si rivela nell’azione, nella e con la praxis”760. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 758 E. Grassi, Heidegger e il problema dell’umanesimo, cit., p. 26. 759 Id., Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, Guerini e Associati, Milano 1998, p. 80 760 Ibidem.  ! 237!  Infatti, per il filosofo milanese, la forma sostantivata pragma esprime l’originario rapporto tra l’oggetto e il suo manifestarsi come cosa attraverso la praxis umana. Entra sulla scena assieme al concetto di prassi e di parola quello di situazione. Eccoci giunti ad un nodo concettuale di grande spessore che coinvolge la figura di Leopardi: la co-estensione del mondo (l’oggettivo) e dell’uomo – che si consuma in un rapporto pratico (la fondazione politico-culturale) e linguistico che eccede i limiti dell’omologhia e dell’adaeguatio e sconfina verso la polisemia – si ritrova nel poeta di Recanati e nella sua teoria dell’illusione che si apre ai temi centrali per Grassi della situazione, della circostanza e dell’occasione. Per Leopardi “attraverso la priorità dell’occasione, della circostanza, della situazione, noi dobbiamo corrispondere all’appello riconoscendo il significato sempre differente degli enti”761. Qui entra in gioco l’illusione nella sua identità con l’ingenium. Per Grassi con la teoria dell’illusione “di cui con estrema lucidità ha riconosciuto la necessità e la vanità, [Leopardi] ha compreso che il problema dell’uomo è quello di essere sempre gettato in una situazione concreta, quello di trovarsi sempre sospeso sul precipizio del qui e dell’ora, che gli pongono domande a cui non è possibile dare una risposta razionale, universalmente astratta, ma solo passionale”762. Con il poeta italiano abbiamo una riconfigurazione del tema antropologico che implica una svolta linguistica e ontologica. Siamo di fronte ad una Kehre verso un logos polisemico che restituisca la multilateralità e polidimensionalità di un reale che si dà fenomenologicamente per scorci, occasioni, circostanze. Siamo di fronte ad una Kehre verso un’ontologia dinamica e non statica, nella quale il processo di manifestazione nel suo stesso apparire storico si mostra per gradi e forme dicibili solo attraverso il linguaggio metaforico, poiché il metapherein, la trasposizione, è la struttura stessa della nostra facoltà di apprensione della realtà o, per usare un termine caro a Grassi, del nostro atteggiamento verso il reale. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 761 Id., Leopardi e Freud. Attività metaforica o schizofrenica?, cit., p. 33. 762 Id., La metafora inaudita, cit., pp. 45-46.  ! 238!  La metafora è l’espressione fluida e mobile del reale poiché mentre dice rimanda ad altro e in questo modo esprime la perenne metamorfosi dell’essere. Come possiamo leggere in uno degli ultimi testi del filosofo, Il dramma della metafora, “la parola metaforica esprime a un tempo la struttura fondamentale del continuo mutarsi di ciò che appare e l’unico modo per identificarla. Essa è anche espressione di un’acutezza, di una rapidità intimamente collegata con il kairòs, l’istante giusto”763 in cui possiamo cogliere il carattere metamorfico dell’apparire attraverso la traslazione del significato. La metafora è proprio questo: “annotazione dei segni indicativi”764 provenienti dal “colloquio con l’ abissale che urge, che per pochi istanti ci vivifica e che poi ci fa cadere silenti su una sabbiosa spiaggia [...] senza significato, dalla quale sale l’angoscia perché vivremo l’indeterminato”765. Anche in Leopardi Grassi intravede le tracce di un colloquio mai interrotto con l’Abissale, l’Originario, l’Essere in cui si gioca la nostra esistenza: è il senso stesso dell’illusione come ingresso nel ludus dell’esistenza, come reazione all’agorafobia primordiale. “Nel gioco giocato dell’esistenza (e del linguaggio in cui quel gioco viene parlato) si liberano molteplici possibilità, ognora rinnovate, imprevedibili, e dunque tali da frustare qualsiasi tentativo di prevederne razionalmente il senso. Ma che cos’è l’illusione di Leopardi se non, appunto, un in-ludersi, un entrare nel ludus, uno stare al gioco dell’esistenza?”766. Come è emerso da queste considerazioni il “Leopardi di Grassi”, teoreta dell’illusione, è il Leopardi portavoce di una filosofia umanistica che si traduce nell’idea di una antropologia che contiene in sé i temi del linguaggio e dell’essere. Afferma Grassi in La metafora inaudita che “Leopardi insegna [...] che l’unica filosofia in grado di tentare questa spiegazione”767, il gioco dell’esistenza, “è una filosofia dell’esistenza; una filosofia cioè che, senza pretendere di risolvere il !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 763 Id., Il dramma della metafora. Euripide, Eschilo, Sofocle, Ovidio, L’Officina Tipografica, Napoli 1992, p. 165. 764 Ivi, p. 14. 765 Ibidem. 766 Id., La metafora inaudita, cit., p. 46. 767 Ibidem.  ! 239!  problema razionalmente, prenda atto dell’abisso su cui ogni passione ci sospende”768. La focalizzazione sui temi dell’illusione e della natura, della noia e della passione, che solo marginalmente toccano l’ambito del pessimismo, ha svelato il legame con il grande tema antropologico della costruzione del mondo umano. Che cos’è l’uomo e quale sia il suo posto nel mondo: sono questi i quesiti che agitano l’onto- antropo-logia grassiana e l’interpretazione dello Zibaldone di Leopardi che diviene ulteriore occasione fortunata – insieme a Cicerone, Quintiliano, Ovidio, Bruni, Valla, Graciàn, Vico, Ungaretti – per una meditatio sull’uomo che permea la sua prospettiva neo-umanistica. Il Leopardi grassiano può essere interpretato, allora, come pretesto per ribadire ancora una volta che l’umanesimo autentico come pensiero poetante, come meditazione noetica e non metafisica, ha ancora una possibilità di essere esperito a partire da una tradizione a cui non è stata conferita la dovuta importanza. La traccia leopardiana nell’iter grassiano ha fatto emergere, attraverso il concetto di ingegnosa e bella illusione, che l’antropogenesi fa tutt’uno con l’antropo-poiesi: la nascita dell’uomo avviene con le produzioni umane della civiltà, della storia, della cultura. Solo illudendoci sperimentiamo la nostra forza, la nostra umanità, come insegna Leopardi, e diveniamo artefici del nostro mondo. La filosofia dell’esistenza proposta da Leopardi diviene un experimentum vocis, una poesia pensante o un pensiero poetante. La )&0&*& '*&2o"& descritta da Platone nella Repubblica769, l’antico dissidio tra poesia e filosofia, viene ripensato da Grassi da un angolo prospettico differente: non da quello di una epistemologia o gnoseologia – in cui il poetico per sua stessa natura incline al vago ed indefinito, come insegna Leopardi, è votato irrimediabilmente al fallimento – ma da quello di una antropologia delle origini del mondo umano in cui la connessione poetico-fantastico-ingegnoso fonda la correlazione umano-civile-politico. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 768 Ibidem. 769 Platone, Repubblica, 607 b.  ! 240!  Come è noto il plesso disegnato da Grassi di metafora-fantasia-ingegno ha un valore teoretico- conoscitivo e solo secondariamente poetico-letterario. Si tratta di facoltà che appartengono a quella topica che sempre precede nella storia del mondo, come in quella dell’individuo, l’operazione mentale della critica, l’arte del giudicare. Memore delle riflessioni vichiane della Scienza Nuova e delle teorie barocche dell’ingenium di Graciàn e Peregrini, Grassi affida all’ingegno la capacità di sintesi e connessione del molteplice empirico fino al punto di farne la caratteristica specifica dell’uomo. E non poteva mancare di sottolinearne l’importanza teorica e pratica presente in Leopardi770. Ingenium come capacità di ritrovare; fantasia come facoltà di visione delle somiglianze; metafora come atto di trasferimento del significato e quindi creazione di una pertinenza semantica – e non come tropo linguistico, sia esso di sostituzione o di comparazione – concorrono a delineare i prolegomeni per un’idea di neo-umanesimo in cui la storicità dell’umano si dispiega tra razionalità e fantasia. Quest’ultima si rivela come facoltà di attivazione di procedure di formalizzazione concettuale, vera e propria facoltà di apprensione del reale attraverso una struttura pato-logica, o un’intelligenza senziente – per usare un’espressione di Zubiri, collega di corso in Germania di Grassi. Essa è il catalizzatore dell’umanizzazione del mondo. Concentrandosi sugli aspetti figurativi, simbolici e semantici del logos Grassi non rinuncia mai tuttavia alla filosofia: la filosofia deve mutare le sue vesti e divenire noetica non più metafisica. “Se l’aspirazione profonda del filosofare tradizionale è di giungere a una chiarificazione logica razionale, oggettiva che parte da un’ontologia che culmina in una metafisica”771, quella di Grassi ha come scopo l’elaborazione di un’idea di nous – dove nous si identifica con ingenium772 – che ha come oggetto il !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 770 G. Leopardi, Zibaldone, 1 luglio 1821 [1254]. 771 E. Grassi- E. Hidalgo, Filosofare noetico non metafisico. L’Alcesti e il Don Chisciotte, Congedo, Lecce 1991, p. 15. 772 Ivi, p. 20.  ! 241!  reale, “l’ontologia non logica ma situazionale”773 in cui la metamorfosi del mondo non può che trovare espressione in un orizzonte di dicibilità che è metaforico. L’antica lotta tra poeti e filosofi supera la secca alternativa tra un tentativo di purificare la lingua da ogni ridondanza poetica e l’impresa di epurare la theoria dal concetto. Nella prospettiva grassiana l’opposizione può trovare una soluzione attraverso una rinnovata idea di umanesimo contrassegnato da un filosofare che sia pratica esistenziale, non sterile sapere erudito privo di vitalità e utilità. In questa ricerca di un’idea autentica di umanesimo Leopardi riveste un’importanza fondamentale poco sottolineata, a nostro avviso, dalla critica, che si è maggiormente concentrata sul Grassi lettore di Vico e Heidegger. La svolta verso un filosofare noetico non metafisico si poggia su un ripensamento, da un lato, della filosofia – sostituzione della metafisica con l’ontologia non statica ma dinamica, non logica ma situazionale; ripensamento del tema della verità connessa alle sue espressioni storiche – dall’altro, della filologia, che non si riduce a “una mediazione delle opere antiche” ma è una “scienza sperimentale”, una meditazione sull’ essenza dell’uomo e sulla sua Bildung a partire dal problema della parola. La ricostruzione di un’essenza dell’uomo è al centro anche delle riflessioni del Leopardi grassiano teoreta dell’illusione, il cui significato sociale etico e politico viene ribadito contro un’“Europa tutta civilizzata”774 in cui “la civiltà, la scienza e l’impotenza sono compagne inseparabili”775. Viene in mente il mondo vichiano dominato dalla “boria dei dotti” in cui le forze autentiche dell’uomo, la natura e le illusioni, hanno perduto la loro virtualità politico- fondativa per lasciare spazio ad un sapere chiuso nei limiti del mos geometricus. Siamo di fronte all’idea di tenere insieme linguaggio poetico e linguaggio filosofico come due tensioni inseparabili e irriducibili all’interno dell’unico campo del linguaggio umano che tenta di dire non l’indicibile – !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 773 Ivi, p. 30. 774 G. Leopardi, Zibaldone, 24 marzo 1821. 775 Ibidem.  ! 242!  l’indicibile non è altro che una presupposizione del linguaggio – ma il dicibile con cui di volta in volta ci si misura. L’attenzione grassiana verso il poetico, che restituisce le circum-stantiae della res attraverso la molteplicità dei verba, va interpretata come l’ennesimo tentativo di dire la cosa stessa della filosofia, l’autò tò pragma, ciò che è in questione nella parola e nel pensiero, la res che, attraverso la parola e il pensiero, è in gioco fra l’uomo e il mondo. “Così poesia e filosofia stanno l’una accanto all’altra: chi non ha immaginazione, sensibilità, capacità di entusiasmarsi o facilità a vivere belle rappresentazioni illusorie, non conoscerà mai la verità, perché ogni analisi può essere portata avanti solo dove la materia della vita è riccamente delineata. Non si tratta di riconoscere il mondo a posteriori ma di giungere a conoscenza dei principi agenti, dai quali innanzitutto può avere origine ogni mondo, anche quello della filosofia”776. E Leopardi con le sue riflessioni ha insegnato, contro le devastazioni dell’intelletto, questa filosofia dell’esistenza che guarda al phainesthai, all’apparire nel quale viviamo, non con l’occhio della metafisica ma con quello dell’ingegno, l’unico in grado di cogliere “l’appello che ci chiama da questo abisso”777. L’appello dell’origine. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 776 E. Grassi, Illusione, natura e critica del mondo intellettuale moderno, cit., p. 172. 777 Id., La metafora inaudita, cit., p. 46.  ! 243!  APPENDICE I Traduzione di E. Grassi Natur, introduzione a W. Heisenberg, Das Naturbild der heutigen Physik, Hamburg, Rowohlt, 1955, pp. 133-138. Il nostro concetto di natura deriva dal termine greco 341*1.!Questa parola proviene dalla radice phy (latino fio, fui, tedesco bin), di cui indica lo sviluppo. La! 341*1 racchiude tutto ciò che nasce e diviene, e così comprende il cosmo nella sua totalità. Noi traduciamo!341*1 con il termine “natura”, dalla espressione latina natura, il cui significato esprime quello della parola greca (nasci, esser nato, crescere, affine a gignere). Secondo l’originario concetto greco ciò che è immediato in quanto cresce è visto come una realtà eccellente; tuttavia occorre ricordare che per i Greci il crescere naturalmente realizza sempre la legge insita ad ogni sostanza. Pertanto sotto il termine natura, come principio del divenire, sarà compresa molto spesso l’essenza di una cosa. Il concetto di natura, la rappresentazione quindi che lo spirito umano si costruisce attraversa una lunga e movimentata storia. La conoscenza dei fenomeni naturali muta e di conseguenza cambia anche la concezione della natura. L’età pre- filosofica della Cosmogonia (sei secoli prima della nascita di Cristo) – cioè l’epoca del dibattito sull’origine del cosmo, del Tutto, è pervasa da rappresentazioni mitiche, in cui già sempre la relazione dell’uomo con la natura gioca un ruolo centrale. Un primo inquadramento non più mitico, ma filosofico del concetto di 341*1, di natura, si ha nell’età antica con la Sofistica (Protagora; Gorgia; Ippia e Prodico, i più giovani contemporanei di Protagora) e la filosofia socratica. Non più l’intera realtà è inclusa in questo concetto ma ora solo un suo settore specifico. Per prima cosa i Sofisti hanno messo in gioco la 341*1 contro il!%$μ$1 (legge), hanno posto il “naturale” solo in ciò che è fissato e posto dall’uomo in sua contrapposizione.!Socrate nel porsi domande di natura etica professa una bassa considerazione per una scienza della natura e vi contrappone l’idea di una scienza dell’uomo. Da una parte c’è dunque la natura, dall’altra l’uomo con la sua cultura: così di conseguenza agli albori del pensiero occidentale si pone già il problema se sia più importante conoscere la natura o l’essenza dell’uomo. Dopo un’importante fase iniziale con gli Atomisti e Platone si arriva al grande progetto ! 244!  finale della filosofia della natura greca con Aristotele. Non posso ora soffermarmi sull’analisi del contenuto di questa dottrina a cui si è fatto cenno. Va però ricordato che le scuole peripatetiche come gli epicurei, gli stoici, i neopitagorici, i neoplatonici, apportarono variazioni che per noi non sono determinanti. La divisione tra Natura e Spirito e quindi l’abisso tra la Fisica, da un lato, e l’Etica e la Logica, dall’altro, si è mantenuta nello Stoicismo e nell’Epicureismo, per quanto lo Stoicismo abbia costituito l’ultimo e unico tentativo di riconciliazione universale di entrambi i regni: una lotta gigantesca ma alla fine inutile. Nel Neoplatonismo alla fine la 341*1 perde del tutto la sua importanza e viene considerata come una realtà irrazionale fondamentalmente nulla. Il pensiero cristiano dei primi Padri della Chiesa adotta parzialmente l’originario concetto platonico aristotelico di natura, per quanto questo suo preciso significato cambi e si perda giacchè la natura intera non viene più concepita in modo classico ma come creazione di Dio a partir dal nulla. Anche se nel Medioevo non c’è uno studio autonomo della natura, tuttavia questa epoca conosce una scienza della natura caratterizzata dalla volontà di conservare l’antica tradizione, soprattutto quella aristotelica. Custodi dell’antica tradizione furono in primo luogo i filosofi e gli scienziati naturalisti dell’Islam. L’apice della scienza della natura medievale in Occidente è rappresentato da Alberto Magno, il quale partendo dal pensiero aristotelico propone un quadro della natura completo ed esauriente. Con l’età dell’Umanesimo e del Rinascimento sorge una nuova concezione della natura, che per noi è della massima importanza. L’accesso alla natura è cercato soprattutto attraverso l’esperimento – un concetto specificamente moderno che per la prima volta con Leonardo Da Vinci assume una chiara forma teoretica (i suoi scritti più noti sono il Trattato sulla pittura e Sull’anatomia dell’uomo). L’esperimento è l’interrogazione della natura tenendo conto di una teoria stabilita anticipatamente, al fine di verificare se questa attraverso l’esperimento viene confermata o confutata. Il punto di partenza per un’indagine sulla natura diventa quindi la teoria dell’uomo ad essa soggiacente. Perciò per Leonardo non è possibile conoscere la natura nella sua interezza ma solo quelle parti che si danno nel contesto della teoria e delle domande poste dall’uomo. La natura è dunque correlata all’uomo e alle sue capacità. Al concetto dell’esperimento fondato sulla teoria di Leonardo corrisponde anche la nuova ! 245!  fondamentale teoria di Bacone. Attraverso il suo pensiero emerge un secondo tratto decisivo per la moderna conoscenza della natura. Conoscenza della natura significa soprattutto il suo dominio. Sapere è potere. Quindi si impone un aspetto fondamentale della moderna conoscenza della natura che l’Antichità non conosceva: la tecnica, la sua azione non nel senso di un sapere teoretico ma nel senso di lavoro. Il concetto di esperimento si perfeziona con Galileo Galilei e grazie a lui e a Keplero noi facciamo esperienza del capovolgimento del concetto antico di Universo. Il grande difensore di questo nuovo concetto di natura e di universo fu Giordano Bruno. Con lui si assiste ad un ulteriore allontanamento dal concetto copernicano di mondo: perciò non si tratta solo di contrapporre il nuovo sistema solare al vecchio sistema geocentrico ma di riconoscere che si dà non un solo mondo ma infiniti molti. Nonostante la dovuta brevità (di questa trattazione) qui appare doveroso soffermarmi. Fino all’età moderna il sistema del mondo vigente traeva origine dalla cosmologia aristotelica, era diffuso dagli eruditi alessandrini, da Ipparco e infine rappresentato da Tolomeo. Questo sistema aristotelico-tolemaico vedeva il mondo con approssimazione: la terra cioè giaceva immobile al centro del cosmo. La terra e l’universo hanno una forma sferica. I movimenti del globo sono spiegati ipotizzando l’esistenza di dieci sfere fisse, immateriali e concentriche in cui si trovano le stelle. La più lontana tra queste sfere regge le stelle fisse, le altre i pianeti. Ogni pianeta appartiene ad una sfera particolare: queste gravitano intorno alla terra con i suoi annessi corpi celesti. In contrapposizione a questa immagine del mondo Copernico sostiene nel suo scritto De revolutionibus orbium coelestium libro VI che sia il Sole a trovarsi al centro dell’universo e che la Terra farebbe parte dei pianeti e che questi girano completamente intorno al Sole fisso, muovendosi da ovest verso est. Ha parteggiato per questa visione anche Giordano Bruno non limitandosi solo a considerazioni astronomiche ma soprattutto giungendo alla convinzione filosofica che il mondo non può essere finito. Nella sua opera De la causa, che si confronta con la filosofia tradizionale, Bruno insegna che il tutto non ha né centro né confini. Il mondo che l’uomo conosce diviene così solo uno tra molti altri. Ricordiamo infine solo il decisivo cambiamento del concetto di natura in Kant. Andando avanti il problema della natura si risolve nel problema della sua conoscenza. I fenomeni sensibili, attraverso cui noi facciamo ! 246!  esperienza della natura, si riordinano in noi attraverso le visioni personali dell’uomo (spazio e tempo; categorie). In questo modo poi si dà un sistema della natura che sottostà necessariamente alle pure leggi matematiche e fisiche: l’uomo è il legislatore della natura. Ma di nuovo si presenta il problema dell’uomo e della sua libertà. Essa si autodetermina in opposizione alla natura nella misura in cui oltrepassa la necessità causale. Così la natura si limita alle forme di esperienza dell’uomo e la sua esistenza umana e morale in realtà non rientra più nel suo campo. Lo sviluppo del concetto di natura nella filosofia post-kantiana non potrà essere seguito qui in modo approfondito. Certamente il modo di intendere la conoscenza della natura di Hegel come uno stadio iniziale della filosofia dimostrabile a priori ha contribuito a sollevare in Occidente una reazione da parte del naturalismo empirico con il Positivismo e il materialismo. Tuttavia queste eccessive semplificazioni non hanno avuto lunga durata. In ambito fisico dall’inizio del ventesimo secolo il mondo va di pari passo con la matematica o perlomeno può essere descritto solamente attraverso di essa in maniera appropriata. Ciò rappresenta un fatto determinante. Da un punto di vista prescientifico e immediato la natura quindi si erge nella forma in cui l’uomo la coglie attraverso i suoi organi sensoriali. I sensi dunque restano il meccanismo di osservazione principale ma ora l’uomo nella sua ricerca non se la cava più senza la tecnica. Così a poco a poco il mondo dei fisici si allontana necessariamente dal mondo quotidiano dell’uomo. Appena qualche secolo prima si è guardato alla realtà, a come essa è, al sorgere del sole. In seguito ciò è apparso come un inganno e non possiamo fidarci più dei nostri occhi. Siamo arrivati ad un punto tale che il mondo intero a rigor del vero si è trasformato in un mare di inganni. Scenario dopo scenario noi siamo arrivati a credere di stare davanti ad un ultimo passo dalla realtà su cui scorrono solo ombre di elettroni spettrali e inafferrabili. L’intelletto calcolante ha qui l’ultima parola; il mondo passa dal primo piano della percezione verso lo sfondo del pensiero. L’opera di Heisenberg richiama l’attenzione su questo processo, sulla realtà e sul pericolo in cui l’uomo si trova quando egli risolve la natura nelle strutture del suo pensare e la domina in modo smisurato. Come all’inizio del pensiero occidentale anche oggi per noi permane l’ammonimento di riflettere sull’essenza dell’uomo. ! 247!  APPENDICE II Traduzione di Der italienische Schopenhauer, in Schopenhauer im Denken der Gegenwart, a cura di V. Spierling, München-Zürich, Piper, 1987, pp. 125-138. I. Il Problema Ha un senso, in un volume su Schopenhauer, occuparsi di un altro autore, e precisamente di uno che proviene da una tradizione e da una lingua completamente diverse rispetto a quelle tedesche? Non solo: quest’altro autore è uno dei più grandi poeti del diciannovesimo secolo in Italia, nemmeno è stato filosofo. D’altra parte, quando si ha il coraggio di affrontare un lavoro come questo, non dovrebbe esso essere strutturato nella forma tradizionale, in modo tale che si pongano in luce, da una prospettiva scientifica, i parallelismi e le differenze tra i due autori – e perché no, in maniera strettamente meticolosa – che allo stesso tempo implichi una interpretazione di Schopenhauer? C’è una questione ulteriore: il poeta al quale faccio riferimento qui è particolarmente noto in Germania per le sue affermazioni poetiche e per questo è diventato oggetto di indagine e trattazione prevalentemente nel campo della storia della letteratura. Tuttavia ciò accade non solo in Germania: si tratta di Giacomo Leopardi. Anche in Italia gli viene negato un significato filosofico generale, e Benedetto Croce ha affermato in uno studio su Leopardi che dovremmo rinunciare a vedere in Leopardi “un sommo pensatore, le cui argomentazioni e dottrine trovino luogo nella storia della filosofia [...] ma per questa parte, che è quella filosoficamente fattiva, il Leopardi non offre se non sparse osservazioni, non approfondite e non sistemate: a lui mancava disposizione e preparazione speculativa”778. Karl Vossler nel suo libro su Leopardi si è riallacciato a questo giudizio779. Questa reazione di Croce non è fortuita: Hegel quasi con le medesime parole si era espresso negativamente sugli umanisti in quanto filosofi, e precisamente con la motivazione che gli umanisti italiani si sono !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 778 B. Croce, Poesia e non poesia, Bari 1942, p. 98. [B. Croce, Poesia e non poesia. Note sulla letteratura europea del secolo decimonono, Laterza, Bari 1946, pp. 98-99]. 779 [Grassi si riferisce al testo di K. Vossler, Leopardi (1923), tr. it. di T. Gnoli, Ricciardi, Napoli 1925]. ! 248!   arenati in un pensiero simbolico e non sono giunti fino all’altezza del concetto. Letteralmente vuol dire: “se si spogliano i concetti fondamentali dei sistemi che si presentano all’interno della storia della filosofia di quel tanto che concerne la loro configurazione esteriore, la loro applicazione a ciò che è particolare e simili, allora si perviene ai diversi gradi della determinazione dell’idea entro il suo concetto logico”780. Secondo la concezione di Hegel l’Umanesimo non si accorda in modo adeguato alla coscienza dell’idea, esso permane molto nel mondo della fantasia, dell’arte, conficcato nel mondo della metafora: l’arte è per Hegel, come è noto, una forma insufficiente per rappresentare l’Idea. Qui l’Idea permane nel suo legame concreto sensoriale, ossia si comporta ora solo come Ideale. A causa dell’“incapacità di rappresentare il pensiero in quanto pensiero, l’Umanesimo si avvale di aiuti per esprimersi in forma sensibile”781. Così la filosofia umanistica, secondo Hegel, appartiene a manifestazioni superflue “che offrono alla filosofia poco beneficio”782. Perciò sia in Italia, dove per molto tempo l’idealismo tedesco con Croce e Gentile è stato determinante, sia in Germania, la concezione poetica come espressione del pensiero filosofico è stata condannata nel modo più critico. In un lavoro apparso recentemente783 e in una pubblicazione uscita negli Stati Uniti784 io ho trattato l’intera problematica della tradizione umanistica, alla quale Leopardi appartiene, e ho motivato e sviluppato la valutazione completamente errata della tradizione umanistica – che non parte da una metafisica razionalistica ma dal problema della parola, e precisamente dalla parola metaforica e di conseguenza poetica. Questa discussione verrebbe ad essere la giusta premessa per giungere ad una comprensione filosofica di Leopardi nel suo valore generale. Ma qui si tratta proprio della relazione !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 780 Hegel, Vorlesungen über die Geschichte der Philosophie, a cura di H. Glockner, Suttgart 1928, p. 59 [G. W. Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, a cura di R. Bordoli, Laterza, Roma-Bari 2013, pp. 568-569]. 781 Ivi p. 121. 782 Ivi, p. 149. 783 E. Grassi, Einleitung in philosophische Probleme des Humanismus, Wissenschaftlische Buchgesellschaft, Darmstadt 1986 [E. Grassi, La filosofia dell’umanesimo. Un problema epocale, a cura di L. Rossi, Tempi moderni, Napoli 1988]. 784 E. Grassi, Heidegger and the question of Renaissance Humanism, Medieval Renaissance Texts and Studies, Binghamton, N. Y. 1983 [E. Grassi, Heidegger e il problema dell’umanesimo, a cura di C. Vasoli, Guida, Npoli 1985].  ! 249!  tra Schopenhauer e Leopardi. Io farò riferimento alle tesi di Leopardi senza discutere il parallelismo e la differenza con Schopenhauer. Gli schopenhaueriani possono prendere i testi di Leopardi come motivo per un confronto tra entrambi. A giustificazione di un metodo di analisi di questo tipo sarebbe determinante una parola di Schopenhauer. Nella scorsa metà del secolo scorso Francesco De Sanctis ha notato per primo in un saggio785 su Schopenhauer e Leopardi la rilevanza filosofica del poeta, ma soprattutto ha contribuito a mettere in circolazione quell’immagine del pessimismo leopardiano, come noi oggi ancora comunemente pensiamo. Schopenhauer si espresse sul saggio di De Sanctis nel modo seguente con il suo amico Lindner: “mi devo stupire molto nel vedere quanto questo italiano (De Sanctis) si sia impossessato della mia filosofia e come l’abbia capita bene. Non fa come i Professori tedeschi, specialmente Erdmann, sunterelli ed estratti dei miei scritti, senza vera comprensione e secondo il numero delle pagine. No, egli li ha convertiti in succum et sanguinem, e li ha sulle punte delle dita per adoperarli dove occorre”786. Io qui strutturerò i livelli di pensiero di Leopardi in modo che gli specialisti di Schopenhauer possano discutere la questione delle affinità e diversità tra i due autori. Innanzitutto perché è possibile accostarsi a Schopenhauer anche da un’altra prospettiva, diversa rispetto a quella tradizionale che si trasmette con Kant e l’idealismo tedesco. I temi di Leopardi – il rigetto della priorità della ragione, la natura, l’analisi della noia, il significato filosofico delle passioni, l’illusione, la mania – sono gli stessi di Schopenhauer. II. La ragione !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 785 Grassi si riferisce al saggio desanctisiano in forma di dialogo Schopenhauer e Leopardi che trae origine dalla lettura da parte di Francesco De Sanctis dell’opera di Schopenhauer all’inizio del 1858. Il saggio di De Sanctis appare in “Rivista contemporanea”, VI (1858), Vol. XV, pp. 369-408 e confluisce in Saggi critici (1874). Cfr., F. De Sanctis, Schopenhauer e Leopardi, pp. 417-467, in Id., Leopardi, a cura di C. Muscetta-A. Perna, Einaudi, Torino 1983. 786 GBr, Nr. 454, p. 447 [Lettera di Schopenhauer a Lindner del 23 febbraio 1859, in A. Schopenhauer, Colloqui, a cura di A. Verrecchia, Bur, Milano 2010, p. 267, nota 220].  ! 250!  I passi di prosa che ora prenderò in esame provengono dal cosiddetto Zibaldone, una raccolta di pensieri e annotazioni. Esso non era destinato alla pubblicazione nella forma in cui oggi si presenta il testo originale, nonostante Leopardi lo avesse progettato, per quanto ne sappiamo, per pubblicarlo in dieci volumi. Lo Zibaldone è un’opera molto voluminosa: consta di un manoscritto di 4526 pagine. Le annotazioni cominciano a luglio o agosto del 1817 e terminano il 4 dicembre del 1832. La prima edizione apparve nel 1898 e fu pubblicata da Giosuè Carducci con commento critico e filologico con il titolo di “Pensieri di varia filosofia e letteratura” (un titolo che era tratto da un’indicazione di Leopardi). La seconda versione migliorata, che si accorda a questa traduzione787, appare negli anni Trenta: G. Leopardi, Zibaldone di pensieri, a cura di F. Flora, 2 volumi, Milano 1938. Io cito dalla traduzione tedesca di K. J. Partsch. Il punto di partenza della riflessione di Leopardi è il contrasto tra la ragione e ciò che egli ha chiamato natura, criticando in tale contesto ogni filosofia che creda di decifrare la realtà sulla base di principi razionali e perciò tutto ciò che ha a che fare con i sensi e le passioni, tutto ciò che è metaforico, lo rifiuta nel suo significato filosofico. In generale questa tradizione concede solo ciò che noi possiamo dimostrare e dimostrare significa mostrare e determinare qualcosa sulla base di un fondamento, di un assioma, di un principio. “E qui voglio notare come la ragione umana di cui facciamo tanta pompa sopra gli altri animali, e nel di cui perfezionamento facciamo consistere quello dell’uomo, sia miserabile e incapace di farci non dico felici ma meno infelici, anzi di condurci alla stessa saviezza che par tutta consistere nell’uso intero della ragione”788. Ogni vita umana ordinata e fruttuosa sembra realizzarsi solo sulla base di fondamento e dimostrazione. Soltanto in questo modo si ritiene di poter prevedere anche l’avvenire in generale per poterlo deviare e per potersi mettere a riparo da esso. Da questo punto di vista l’imprevisto, l’improvviso, il sorprendente, non solo non vengono presi in considerazione ma cancellati, allorché !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 787 Grassi fa riferimento alla traduzione di Partsch Theorie des schönen Wahns und Kritik der modernen Zeit, Ausgewahlt, geordnet und eingeleitet von E. Grassi, aus dem italienischen übertragen von K. J. Partsch, Bern, Francke 1949. 788 G. Leopardi, Zibaldone, 20 gennaio 1820. ! 251!   si manifestano, e giudicati alla stregua di un fallimento delle nostre forze umane e razionali, delle nostre conoscenze, dei nostri desideri di sicurezza e certezza. Ora da questo emerge che l’esistenza umana deve scaturire solo attraverso una certezza sicura e razionale e che tutti i momenti della vita sociale, politica e spirituale devono derivare da un fondamento di tal sorta: perciò poi anche l’insegnamento e l’educazione devono non solo chiarire i fondamenti originari dai quali noi deriviamo le nostre azioni, ma anche prestabilire tutte le possibilità. Invece Leopardi adduce come argomento (il seguente): “e pure è certissimo che tutto quello che noi facciamo lo facciamo in forza di una distrazione e di una dimenticanza, la quale è contraria direttamente alla ragione. E tuttavia quella sarebbe una verissima pazzia, ma la pazzia la più ragionevole della terra, anzi la sola cosa ragionevole, e la sola intera e continua saviezza, dove le altre non sono se non per intervalli”789. “ Ella rende piccoli e vili e da nulla tutti gli oggetti sopra i quali ella si esercita, annulla il grande, il bello, e per così dire la stessa esistenza, è vera madre e cagione del nulla, e le cose tanto più impiccoliscono quanto ella cresce”790. Partendo dalla tesi della priorità del pensiero razionale, ogni passione, ogni impulso, viene considerato in realtà come un momento da oltrepassare, come un momento che deve essere corretto o annientato. Di conseguenza la conclusione dell’importanza del prevedibile, del sicuro, del giudizio divengono gli ideali a cui poi ci si abbandona: la stessa vita politica, lo Stato, se assicura la vita umana e vuole contribuire al suo sviluppo, deve partire da un’impostazione del genere e attuarla. Una simile concezione della vita, che si prova a dedurre more geometrico, corrisponde a una tradizione razionalistica contro cui Leopardi assume una posizione, che analizza progressivamente per mostrarla come causa delle rovine del mondo occidentale. Ma una concezione di questo tipo non è apparsa e si è realizzata proprio in precise forme di Stato, di insegnamento, di sapere quando ci si è allontanati !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 789 Ibidem. 790 Ivi, 11 luglio 1823.  ! 252!  già dall’originaria fonte della vita? Come è considerato l’esito della priorità della ragione da un punto di vista sociale, politico? “Anche nell’interiore quasi tutti gli uomini oggidì sono uguali nei principi, nei costumi, nel vizio, nell’egoismo etc...Sono tutti uguali e tutti separati, laddove autenticamente erano tutti diversi e tutti uniti, e perciò atti alle grandi cose, alle quali noi siamo inettissimi trovandoci tutti soli”791. In un mondo razionalizzato ogni elemento nuovo, originario, indeducibile e non anticipatamente dimostrabile e sicuro non ha nessuna possibilità. In ogni forma già razionalizzata di vita sociale, politica o culturale nulla di imprevisto può irrompere senza far saltare il contesto esistente. Ma dunque cosa bisogna opporre alla ragione? La natura forse, l’affermazione delle passioni? “La superiorità della natura sulla ragione si dimostra anche in questo che non si fa mai cosa con calore che si faccia per ragione e non per passione”792. Per Leopardi i concetti di natura e passione collimano: di che natura è il loro rapporto profondo e da ciò come emerge una comprensione della loro essenza? “ La ragione è nemica di ogni grandezza: la ragione è nemica della natura”793. “ Qual cosa è più potente nell’uomo, la natura o la ragione? Il filosofo non vive mai né pensa giornalmente, e intorno a ciò che lo riguarda né vive con se stesso (se anche vivesse con gli altri) da vero filosofo”794. III. Natura e Passione !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 791 Ivi, 4 luglio 1820. 792 Ivi, 7 giugno 1820. 793 Ibidem. 794 Ivi, 8 settembre 1821.  ! 253!  In che cosa risiede la potenza, la capacità della natura con cui possiamo riconoscerla con certezza? A questa domanda noi riceviamo da Leopardi soprattutto una risposta negativa. Da cosa scaturisce l’esperienza profonda del nulla, di cui l’autore italiano si occupa così sistematicamente, e in che misura essa getta luce sui concetti di natura, vita, che egli pone contro la ragione? La profonda esperienza del nulla appare, secondo Leopardi, non nel dolore, non nella disperazione, momenti, questi, che mantengono tutti ancora viva la testimonianza dei valori, ma nella noia. Essa è il contrario della vita, pertanto ad essa non possiamo abituarci. Così afferma Leopardi che la noia è l’esperienza del monotono, dell’indifferente, dell’apatico, che quindi sopraggiunge quando si attenua la capacità di distinguere qualcosa “Amando il vivente quasi sopra ogni cosa la vita, non è meraviglia che odi quasi sopra ogni cosa la noia, la quale è il contrario della vita vitale [...] del resto l’odio della noia è uno di quei tanti effetti dell’amor della vita [...] e l’uomo odia la noia per la stesa ragione per cui odia la morte, cioè la non esistenza”795. Così la noia scopre dalla sua essenza un’insolita, fenomenologica, molto importante incomprensibilità: nel suo patire deve determinarsi come una passione. Noi possiamo vivere e esperire l’indifferente, l’apatico, il monotono solo se si manifesta in modo limitato e la noia, se ne facciamo esperienza, ci rivela che non possiamo esistere nello sconfinato e nell’indifferenziato. “La noia corre sempre e immediatamente a riempire tutti i vuoti che lasciano negli anni dei viventi il piacere e il dispiacere; il vuoto cioè lo stato di indifferenza e senza passione non si dà in esso animo, come non si dava in natura [...] o vogliamo dire che il vuoto stesso dell’animo umano e l’indifferenza e la mancanza d’ogni passione è noia, la quale è pure passione”796. La noia fa parte di quei sentimenti deprimenti attraverso i quali si manifesta il declino della vita così silenziosamente e senza emozione. Essa non ha nulla di eroico, è come uno stato d’animo opposto !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 795 Ivi, 8 maggio 1822. 796 Ivi, 17 ottobre 1823.  ! 254!  alla natura, poiché in essa ogni disperazione è già apatica. Secondo l’opinione di Leopardi in ciò risiede l’essenza della moderna esperienza del dolore che non ha nulla più di vitale. Si tratta di un’autodistruzione in una perdita di suoni e parole che si muovono in un silenzio disumano, in cui né odio né speranza, né tantomeno interesse e partecipazione sono presenti: è l’ultimo stato in cui si manifesta il naufragio di una cultura, di una classe sociale. Al suo posto la natura si mostra nella potenza della passione: affermazione, dunque, della passione contro la priorità del razionale? Prima di rispondere insieme a Leopardi a questa domanda occorre discutere la funzione e il potere della passione: “le sventure o d’immaginazione o reali, potranno anche indurre il desiderio della morte, o anche far morire, ma qual dolore ha più della vita, anzi massimamente se proviene da immaginazione e passione, è pieno di vita, e quest’altro dolore ch’io dico è tutto morte; e quella medesima morte prodotta immediatamente dalle sventure è cosa più viva, laddove quest’altra è sepolcrale, senz’azione, senza movimento, senza calore e quasi senza dolore, ma piuttosto come un’oppressione smisurata e un accoramento”797. “Ma gli antichi sempre più grandi, magnanimi e forti di noi nell’eccesso delle sventure, e nella considerazione della necessità di esse e della forza invincibile che li rendeva infelici, e gli stringeva e legava alla loro miseria senza che potessero rimediarvi e sottrarsene, concepivano odio e furore contro il fato”798. Secondo l’interpretazione di Leopardi gli antichi soffrivano, poiché credevano nella vita, perché la sentivano come un valore; quanto meno ci rinunciavano tanto più l’affermavano nella disperazione. Si tratta del dolore di Niobe, per il quale non si danno nessun sollievo, nessuna assuefazione. E dal momento che per gli antichi la disperazione è allo stesso tempo un’affermazione della vita, così nel loro animo nasceva l’odio, si accresceva attraverso il dolore la loro immaginazione, traducendosi in azione, presentandosi nei miti, i quali non hanno conosciuto ancora nessun sentimentalismo. “Così importanti stimavano gli antichi le cose nostre, che non davano ai desideri divini, o alle divine operazioni altri fini che i nostri, mettevano i !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 797 Ivi, 7 giugno 1820. 798 Ivi, 5 gennaio 1821.  ! 255!  dei in comunione della nostra via e dei nostri beni, e quindi gli stimavano gelosi delle nostre felicità ed imprese, come i nostri simili, non dubitando che elle non fossero degne della invidia degl’immortali”799. Da questo punto di vista la vita in ogni suo stadio, sia sensibile che spirituale, non attinge a ciò che è sicuro, sperimentato, calcolabile, non attinge alla certezza razionale e dimostrabile, bensì all’ambito del creativo, dell’imprevedibile, dell’abissale: la prima possibilità dell’esperienza sorge da qui. Se noi oscilliamo continuamente tra successo e fallimento, se inoltre siamo disposti alla realizzazione delle nostre capacità, allora qui si radica la nostra autoaffermazione, che nuovamente richiama l’attenzione all’appello oggettivo e trascendentale a cui dobbiamo corrispondere. Leopardi pone l’attenzione sul fatto che tutte le grandi imprese oltrepassano l’ordine esistente e consueto, infatti dal momento che istituiscono qualcosa di nuovo non possono essere dedotte dal già noto. Già nella vita quotidiana appare impossibile vivere in modo puramente razionale e prevedibile. Gli stessi sentimenti più naturali si mostrano come qualcosa di infondato. Ogni cosa feconda non è mai deducibile e calcolabile: da ciò proviene la priorità storica che i popoli naturalmente rivestono, poiché su di essi agiscono le passioni, ciò che è originario, solamente essi, per questo motivo, trionfano sempre su quei popoli che sono dominati dal razionale. La natura, nel suo significato già spiegato, vive e si fa largo. Solo essa suscita tutte le passioni possibili, solo essa desta i sentimenti naturali che mostrano l’inaspettato. Così Leopardi passa alla descrizione e approvazione delle passioni del mondo antico. Allora quelle forze imperanti fanno tutte parte dell’imprevedibile, di ciò che non è razionalmente deducibile. Si tratta di quelle capacità di mostrare il nuovo sotto forma di immagine, di linguaggio, di azioni, di miti. Quegli stessi esercizi fisici, le lotte, le competizioni sportive e le cerimonie favoriscono la fantasia, destano i miti che non sono il “vero” ma celano in sé il significato dell’esistenza. “Gli esercizi con cui gli antichi si procacciavano il vigore del corpo non erano solamente utili alla guerra, o a eccitare l’amor della gloria ma contribuivano, anzi erano necessari a mantenere il vigor dell’animo, il coraggio, le illusioni, l’entusiasmo che non saranno mai in un corpo !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 799 Ivi, 23 dicembre 1820.  ! 256!  debole, insomma quelle cose che cagionano la grandezza e l’eroismo delle nazioni”800. “Che bel tempo era quello nel quale ogni cosa era viva secondo l’immaginazione umana e vive umanamente cioè abitate o formate di essere uguali a noi, quando nei boschi desertissimi si giudicava per certo che abitassero le belle Amadriadi e i fauni, e i silvani e Pane etc..., entrandoci e vedendoci tutto solitudine, pur credevi tutto abitato”801. IV. L’Illusione Allora dobbiamo dedurre che il Reale sia la natura, le passioni? Da parte di Leopardi la risposta a questa domanda è categorica: No. Il misterioso da cui si forma il teatro del mondo, la “scena” della storia, offre solo l’illusione, l’ossessione di un gioco inquietante nel quale noi stessi siamo solo attori o spettatori accettati. Dal momento che l’originario è indeducibile e perciò non è spiegabile in fondo attraverso il ragionamento analitico esso deve così essere riconosciuto come illusione, come ossessione. Sicuramente l’Illusione è generatrice di ordine, poiché è la ragione di ogni grande azione, di ogni grande epoca, di ogni creazione storica, ma quello che si apre di fronte ai nostri occhi è tragico, poiché questa illusione senza fondamento non mostra nessun interesse per la sorte dei singoli, ma solo per il compiersi della storia dei drammi umani. L’illusione è generatrice di ordine e l’Appello al quale corrispondere, motivo di ogni grande azione, di ogni grande epoca, di ogni creazione storia. Con questa tesi viene ad essere rappresentata una concezione irrazionale, pragmatica? No, perché l’Illusione è ciò che è a fondamento dell’infondato, è il sistemare e distinguere, è ciò che è determinante, e per questo l’affermazione dell’Illusione non è alcuna negazione del legame e della legalità, ma al contrario è il rendersi palese di ciò che ordina e lega e svela il pezzo di “scena” in cui noi viviamo e agiamo. Forza misteriosa, che evoca l’illusione della storia, nella cui orbita facciamo la nostra comparsa per interpretare un ruolo: ma l’illusione della storia non mostra rispetto per la storia dei singoli. “La più grande nemica della barbarie non è la ragione ma la natura: (seguita però a !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 800 Ivi, 7 giugno 1820. 801 Ivi, p. 100.  ! 257!  dovere) essa ci somministra le illusioni che quando sono nel loro punto fanno un popolo veramente civile [...] le illusioni sono in natura inerenti al sistema del mondo, tolta via affatto o quasi affatto, l’uomo è snaturato”802. La potenza dell’illusione colpisce pertanto sempre di nuovo, e dal nuovo tira fuori sempre la sua perla nascosta: poiché anche nei momenti in cui l’esperienza del nulla irrompe, sia sotto forma di dolore, sia sotto quella di fallimento, sia sotto forma di disperazione, ciascuno dei nostri respiri è portato dalla fede verso l’imprevedibile, verso la vita. Anzi, noi più intensamente proviamo la nullità dell’illusione, più la consideriamo qualcosa di nullo, poiché è tutta un’illusione, tanto più noi rendiamo palese il teatro del mondo. L’illusione è la natura più propria dell’uomo. In questo contesto emerge sempre di più come la realtà si presenta in una duplice forma: da un lato come il mondo delle passioni, dell’ispirazione, dell’improvviso, dell’inaspettato, dell’illusione che incalza (che assale uno) si origina da nuove domande, nuove azioni, nuove storie. Dall’altro la realtà appare in quanto concreta, in cui la maggior parte di noi vive e in cui ogni cosa è dimostrabile, deducibile, monotona. Ciò che è molto noto, ciò che è sempre uguale evoca la noia e l’irrigidirsi della vita dalla cui descrizione Leopardi parte in qualità di critico del mondo moderno. “ E’ pure una bella illusione quella degli anniversari per cui quantunque quel giorno non abbia niente più a che fare col passato che qualunque altro, noi diciamo, come oggi accade il tal fatto, come oggi ebbi la tal contentezza, fui tanto sconsolato etc..e ci par veramente che quelle tali cose che son morte per sempre né possono più tornare, tuttavia rivivano e sieno presenti come in ombra, cosa che ci consola infinitamente allontanandoci (l’idea della distruzione e dell’annullamento che tanto ci ripugna e illudendoci sulla presenza di quelle cose che vorremmo presenti effettivamente o di cui ci piace ricordarci con qualche speciale circostanza, come chi va sul luogo ove sia accaduto qualche fatto memorabile, e dice qui è successo, gli pare in certo modo di vedere qualche cosa di più che altrove nonostante che il luogo sia per esempio mutato affatto da quel che era allora”803. Con la sua teoria dell’illusione Leopardi non !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 802 Ivi, p. 34. 803 Ivi, p. 96.  ! 258!  mette in piedi una indeterminata dottrina dell’entusiasmo, bensì una teoria del fondante, di ciò che rende possibile l’ordine, la fonte di ogni vita originaria nel profondo. Egli perciò in alcun modo nega la necessità dei sistemi, il ruolo della ragione, l’importanza della filosofia, poiché le cose stesse hanno un sistema e sono ordinate secondo un piano e uno scopo. Ma la filosofia non può esaurirsi in una deduzione razionale pura né permettersi di celare il mistero della noia che evoca la storia. Ecco qui una profonda tesi umanistica originaria. Perciò non si tratta di costruire a priori il mondo, bensì di esperire l’abissale che agisce, l’abissale da cui ogni mondo innanzitutto può trarre origine, di esprimere cioè la potenza dell’inspiegabile, di ciò che Leopardi chiama illusione. Da ciò nascono le più tetre profezie leopardiane nei confronti dell’età razionalistica dominante. “L’Europa, tutta civilizzata, sarà preda di quei mezzi barbari che la minacciano dai fondi del settentrione; e quando questi di conquistatori diverranno inciviliti, il mondo si tornerà ad equilibrare. Ma fintanto però che resteranno barbari al mondo, o nazioni nutrite di forti e piene e persuasive, e costanti e non ragionate, e grandi illusioni, i popoli civili saranno lor preda”804. “Le quali cose se ridurranno finalmente gli uomini a perdere tutte le illusioni, e le dimenticanze, a perderle per sempre, ed avere davanti agli occhi continuamente e senza intervallo la pura e nuda verità, di questa razza umana non resteranno altro che le ossa, come gli altri animali di cui si parlò nel secolo addietro. Tanto è possibile che l’uomo viva staccato affatto dalla natura, dalla quale sempre più ci andiamo allontanando, quanto che un albero tagliato dalla radice fiorisca e fruttifichi. Sogni e visioni. A riparlarci di qui a cent’anni. Non abbiamo ancora Allora dobbiamo dedurre che il Reale sia la natura, le passioni? Da parte di Leopardi la risposta a questa domanda è categorica: No. Il misterioso da cui si forma il teatro del mondo, la “scena” della storia, offre solo l’illusione, l’ossessione di un gioco inquietante nel quale noi stessi siamo solo attori o spettatori accettati. Dal momento che l’originario è indeducibile e perciò non è spiegabile in fondo attraverso il ragionamento analitico esso deve così essere riconosciuto come illusione, come ossessione. Sicuramente l’Illusione è generatrice di ordine, poiché è la ragione di ogni !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 804 Ivi, 24 marzo 1821.  ! 259!  grande azione, di ogni grande epoca, di ogni creazione storica, ma quello che si apre di fronte ai nostri occhi è tragico, poiché questa illusione senza fondamento non mostra nessun interesse per la sorte dei singoli, ma solo per il compiersi della storia dei drammi umani. L’illusione è generatrice di ordine e l’Appello al quale corrispondere, motivo di ogni grande azione, di ogni grande epoca, di ogni creazione storia. Con questa tesi viene ad essere rappresentata una concezione irrazionale, pragmatica? No, perché l’Illusione è ciò che è a fondamento dell’infondato, è il sistemare e distinguere, è ciò che è determinante, e per questo l’affermazione dell’Illusione non è alcuna negazione del legame e della legalità, ma al contrario è il rendersi palese di ciò che ordina e lega e svela il pezzo di “scena” in cui noi viviamo e agiamo. Forza misteriosa, che evoca l’illusione della storia, nella cui orbita facciamo la nostra comparsa per interpretare un ruolo: ma l’illusione della storia non mostra rispetto per la storia dei singoli. “La più grande nemica della barbarie non è la ragione ma la natura: (seguita però a dovere) essa ci somministra le illusioni che quando sono nel loro punto fanno un popolo veramente civile [...] le illusioni sono in natura inerenti al sistema del mondo, tolta via affatto o quasi affatto, l’uomo è snaturato”805. La potenza dell’illusione colpisce pertanto sempre di nuovo, e dal nuovo tira fuori sempre la sua perla nascosta: poiché anche nei momenti in cui l’esperienza del nulla irrompe, sia sotto forma di dolore, sia sotto quella di fallimento, sia sotto forma di disperazione, ciascuno dei nostri respiri è portato dalla fede verso l’imprevedibile, verso la vita. Anzi, noi più intensamente proviamo la nullità dell’illusione, più la consideriamo qualcosa di nullo, poiché è tutta un’illusione, tanto più noi rendiamo palese il teatro del mondo. L’illusione è la natura più propria dell’uomo. In questo contesto emerge sempre di più come la realtà si presenta in una duplice forma: da un lato come il mondo delle passioni, dell’ispirazione, dell’improvviso, dell’inaspettato, dell’illusione che incalza (che assale uno) si origina da nuove domande, nuove azioni, nuove storie. Dall’altro la realtà appare in quanto concreta, in cui la maggior parte di noi vive e in cui ogni cosa è dimostrabile, deducibile, monotona. Ciò che è molto noto, ciò !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 805 Ivi, p. 34.  ! 260!  che è sempre uguale evoca la noia e l’irrigidirsi della vita dalla cui descrizione Leopardi parte in qualità di critico del mondo moderno. “ E’ pure una bella illusione quella degli anniversari per cui quantunque quel giorno non abbia niente più a che fare col passato che qualunque altro, noi diciamo, come oggi accade il tal fatto, come oggi ebbi la tal contentezza, fui tanto sconsolato etc..e ci par veramente che quelle tali cose che son morte per sempre né possono più tornare, tuttavia rivivano e sieno presenti come in ombra, cosa che ci consola infinitamente allontanandoci (l’idea della distruzione e dell’annullamento che tanto ci ripugna e illudendoci sulla presenza di quelle cose che vorremmo presenti effettivamente o di cui ci piace ricordarci con qualche speciale circostanza, come chi va sul luogo ove sia accaduto qualche fatto memorabile, e dice qui è successo, gli pare in certo modo di vedere qualche cosa di più che altrove nonostante che il luogo sia per esempio mutato affatto da quel che era allora”806. Con la sua teoria dell’illusione Leopardi non mette in piedi una indeterminata dottrina dell’entusiasmo, bensì una teoria del fondante, di ciò che rende possibile l’ordine, la fonte di ogni vita originaria nel profondo. Egli perciò in alcun modo nega la necessità dei sistemi, il ruolo della ragione, l’importanza della filosofia, poiché le cose stesse hanno un sistema e sono ordinate secondo un piano e uno scopo. Ma la filosofia non può esaurirsi in una deduzione razionale pura né permettersi di celare il mistero della noia che evoca la storia. Ecco qui una profonda tesi umanistica originaria. Perciò non si tratta di costruire a priori il mondo, bensì di esperire l’abissale che agisce, l’abissale da cui ogni mondo innanzitutto può trarre origine, di esprimere cioè la potenza dell’inspiegabile, di ciò che Leopardi chiama illusione. Da ciò nascono le più tetre profezie leopardiane nei confronti dell’età razionalistica dominante. “L’Europa, tutta civilizzata, sarà preda di quei mezzi barbari che la minacciano dai fondi del settentrione; e quando questi di conquistatori diverranno inciviliti, il mondo si tornerà ad equilibrare. Ma fintanto però che resteranno barbari al mondo, o nazioni nutrite di forti e piene e persuasive, e costanti e non ragionate, e grandi illusioni, i !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 806 Ivi, p. 96.  ! 261!  popoli civili saranno lor preda”807. “Le quali cose se ridurranno finalmente gli uomini a perdere tutte le illusioni, e le dimenticanze, a perderle per sempre, ed avere davanti agli occhi continuamente e senza intervallo la pura e nuda verità, di questa razza umana non resteranno altro che le ossa, come gli altri animali di cui si parlò nel secolo addietro. Tanto è possibile che l’uomo viva staccato affatto dalla natura, dalla quale sempre più ci andiamo allontanando, quanto che un albero tagliato dalla radice fiorisca e fruttifichi. Sogni e visioni. A riparlarci di qui a cent’anni. Non abbiamo ancora esempio nella passata età, dei progressi di un incivilimento smisurato, e di uno snaturamento senza limiti. Ma se non torniamo indietro, i nostri discendenti lasceranno questo esempio ai loro posteri, se avranno posteri”808. Attraverso la lettura dei passi leopardiani da me indicati sorge una serie di domande riguardo al problema del pessimismo di Schopenhauer: la conoscenza dell’illusione, dell’ossessione, quale fonte della storia umana, è tragica dal momento che questa potenza, che fonda l’accadere storico dell’uomo, non si può definire razionalmente, cioè conoscere in quanto abissale? Oppure: la conoscenza dell’illusione è tragica per questo, poiché è l’illusione e non la razionalità, secondo la tesi di Leopardi, quella potenza che lascia apparire e scomparire il mondo, e perché questa forza trainante misteriosa ha solo riguardo per lo svolgersi delle più diverse storie, ma nessun interesse per il destino dell’individuo, quando egli gioca e soffre il suo ruolo in questo dramma? Dunque l’illusione è solo un’astuzia con cui l’Abissale conduce l’uomo verso il teatro del mondo? Dove risiede allora l’essenziale identità o differenza tra la teoria dell’illusione di uno Schopenhauer e quella di Leopardi? La formulazione e la risposta a queste domande si discostano radicalmente dall’analisi del pensiero di Schopenhauer, così come tradizionalmente viene eseguita, quando si parte da Kant e dall’Idealismo tedesco per intendere Schopenhauer. Per me era profondamente importante qui mostrare il significato della teoria dell’illusione – che gioca un ruolo così profondo in Schopenhauer – alla luce di una prospettiva completamente diversa e poterne discutere. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 807 Ivi, 24 marzo 1821. 808 Ivi, 18-20 agosto 1820.  ! 262!  APPENDICE III Traduzione di Vom Vorrang des Logos. Das Problem der Antike in der Auseinandersetzung zwischen italienischer und deutscher Philosophie, München, Beck, 1939, pp. 218. La ricerca della verità: il fondamento oggettivistico della verità, pp. 37-43. Oggetto di indagine filosofica è la questione relativa alla preminenza del Logos. L’inquadramento del problema e una definizione più veritiera possibile dell’essenza del Logos sono questioni che vanno però inevitabilmente rimandate ad un momento successivo. Ogni indagine filosofica rappresenta in sé una ricerca della verità che parte da un qualcosa di preesistente che in quanto tale presuppone già un determinato concetto di verità. Dal momento che però la filosofia non può presupporre nulla a priori, diventa necessario definire in maniera univoca il concetto di verità. Ma com’è possibile intraprendere un’indagine filosofica partendo da un determinato concetto di verità, se evidentemente questo non può che essere il risultato di una lunga e complessa ricerca? E se la filosofia non può presupporre nulla come sarà mai possibile verificare se il concetto di verità così com’è concepito corrisponde al vero? All’inizio di ogni indagine filosofica ci si ritrova sempre a dover affrontare quella che si rivela essere la difficoltà principale ossia la ricerca della verità presuppone che si conosca già la verità altrimenti come sarebbe possibile riconoscerla? In un suo dialogo Platone enuncia in maniera precisa questa aporia sottolineandone i tre momenti principali ovvero la possibilità dell’indagine, la possibilità del prefiggersi un qualcosa e la possibilità del riconoscere la verità che presuppongono già di per sé una conoscenza della verità. “Come potrai mai cercare una cosa che non conosci e cosa di ciò che non conosci ti prefiggerai di ricercare? E nel caso dovessi imbatterti in esso come riuscirai ad accorgerti che si tratta proprio di ciò che non conosci?”. Tuttavia ammettendo che la ricerca della verità presupponga, per poter aspirare ad essa, già una conoscenza, ciò ci conduce inevitabilmente di fronte a una seconda difficoltà ossia l’indagine filosofica appare superflua. Per quale motivo si dovrebbe cercare qualcosa che già si conosce? Questa riflessione sembra frenare sin dall'inizio qualsiasi indagine. Ma andando ad analizzare la questione più nel dettaglio ci si accorge ! 263!  immediatamente che essa in realtà fornisce già una prima indicazione utile (nell’individuazione del) concetto di verità al quale riferirsi nella ricerca: a quello che rende possibile l’indagine come punto di partenza e giusto approccio filosofico. L’aporia non riguarda la verità in sé ma solo una determinata concezione di essa. Quale? All’essenza dell’indagine appartiene tutto ciò che ricerchiamo e che in un certo senso è già esistente e non esistente. L’impossibilità che qualcosa allo stesso tempo sia e non sia è valida però per tutto ciò che è Ente e che ricade sotto il principio dell’identità: questo principio è applicabile sono ad un determinato ambito dell’Ente ovvero laddove esso in quanto oggetto dell’indagine venga concepito in maniera oggettivistica. Il principio dell’Identità non è applicabile al Divenire poiché in quanto tale esso ha già la caratteristica di poter essere e non essere. Da ciò si evince dunque che se il fondamento della verità viene identificato con l’immediata e concreta semplice-presenza di un qualcosa, la possibilità della ricerca viene meno. L’oggetto ha dunque solo due possibilità: la semplice-presenza e la non-presenza. Un tale fondamento della verità non ammette indagine e l’aporia si rivela come un qualcosa che non va ad interessare tutte le definizioni di verità ma bensì solo una determinata concezione di essa. Ma qual è da un punto di vista storico in generale la concezione di verità che nell’immediatezza della semplice-presenza di un oggetto ne vede il proprio fondamento? È quella concezione di verità che tradizionalmente per analogia accettiamo come valida in quanto afferma che la verità è verità logica essenziale e che in quanto tale appartiene solo al pensiero inteso come pensiero dell’Essere sia nella forma di oggetto razionale, come le idee di Platone, che in quella di oggetto sensoriale come nell’espressione dei sensi (secondo l’interpretazione di Aristotele). Il congiungere, l’atto di unire del pensiero, che si esprime nella concezione di unità come connexio di soggetto e predicato, il giudicare, sono veri nel momento in cui uniscono o separano ciò che si appartiene o non si appartiene, così com’è nell'Essere. In primo luogo è doveroso sottolineare che sulla base di una tale concezione il fondamento della verità appare innanzitutto come l’immediato manifestarsi dell'Essere in quanto oggetto; in secondo luogo che il fondamento della verità del pensiero non si trova nel pensiero stesso ma al di fuori di esso e che per questo la preminenza del Logos come pensiero viene negata; in terzo luogo che la definizione del fondamento della verità ! 264!  in una tale concezione deve essere necessariamente caratterizzata in maniera oggettivistica, indipendentemente dal fatto che si tratti di un fondamento empiristico o razionalistico. L’interrogativo circa il dove storicamente questa concezione si presenti realmente, sotto questa forma, resta dunque ancora da sciogliere. La semplice-presenza come verità dell'Oggettivismo Analizziamo ora in maniera più approfondita la concezione oggettivistica del fondamento della verità (così come della conoscenza) per verificare se essa effettivamente ha ciò che rivendica. La concezione oggettivistica del fondamento della verità (così come della conoscenza) si richiama all’immediato manifestarsi di un qualcosa, alla sua semplice-presenza. Il fondamento del rivelarsi nel presente di un qualcosa non si cela però, in una tale concezione, dietro il concetto di semplice-presenza in sé ma consegue da esso, è l’oggetto, il Faktum empiristico o razionale. La contraddizione tipica di questa asserzione è che l’essenziale non viene identificato con il manifestarsi dell’oggetto ma bensì con l’Essere-per-sé, che viene prima dell’apparire, ma allo stesso tempo si richiama alla sua immediata semplice-presenza per poter affermare il suo Essere. Se per poter superare questa difficoltà si identifica il fondamento concreto della verità con la semplice-presenza del manifestarsi di un qualcosa, con il quale esso dovrebbe essere raggiungibile (volendo comunque mantenere ancora l’Essere-per-sè dell’oggetto), l’Essere-per-sè dell’oggetto diventa in questo modo irraggiungibile e indefinibile. Dal momento che in questo caso considereremmo l’oggetto solo fino a che esso continui a rivelarsi in e attraverso una qualsiasi semplice-presenza, non avremmo più alcuna possibilità di fare riferimento al suo Essere-per-sé, e ciò che appariva solo come un processo di appropriazione, ossia mediazione intenzionale della semplice-presenza, diviene il fondamento per il quale un qualcosa può rivelarsi in quanto tale. Hegel respinge questo concetto dualistico tra l’oggetto e il processo dell’apparire inteso come mediazione intenzionale affermando, con la terminologia che gli è propria e che deriva dalla questione al superamento del dualismo teorico-conoscitivo dell’Essere-per-sé e dell’Essere-per-noi, che: “se il conoscere è lo strumento per potersi impossessare dell’essenza assoluta allora è altrettanto evidente come l’utilizzo di uno strumento su un oggetto non lo lasci ! 265!  inalterato ovvero così come esso è per sé stesso ma bensì porti con sé una forma e dei cambiamenti. Altrimenti il conoscere non sarebbe più strumento della nostra attività ma bensì, per così dire, un mezzo passivo attraverso il quale la luce della verità può arrivare a noi, non così com’è in sé stessa ma così com’è attraverso e in un mezzo. Appare dunque chiaro che solo mediante la conoscenza del funzionamento dello strumento si può porre rimedio a questi inconvenienti; poiché tale conoscenza rende possibile escludere da ciò che si ottiene quella parte di definizione che a partire dall’assoluto deriva dall’uso dello strumento e conservarne così solo il Vero puro. Basterebbe questo miglioramento a riportarci nella condizione in cui ci trovavamo in precedenza. Se a una cosa già formata togliamo di nuovo l’effetto che su di essa ha avuto lo strumento, quella cosa, qui l’Assoluto, tornerà a noi così com’era prima di tale superflua premura”. Il fondamento oggettivistico della verità appare dunque falso. Ma se esso non è in grado di spiegare la verità può almeno spiegare la possibilità dell’errore? Come può però un oggetto, così come è stata considerata anche la sua essenza, essere preso per un altro se esso si manifesta solo nell’immediatezza? Questo vale sia per una concezione empiristico-oggettivistica del fondamento del manifestarsi sia per una razionalistico-oggettivistica. In effetti se un qualunque manifestarsi di un qualcosa viene considerato immediato sarà altrettanto necessario considerare immediata, e dunque come un qualcosa di non-presente, la sua velatezza. Per questo motivo non può esserci un passaggio intermedio tra velatezza e manifestazione, e per velatezza va intesa solamente quella di un oggetto, come quella di un qualcosa di immediato che supera la nostra ricerca della verità. Non si può superare questa difficoltà nemmeno affermando di voler passare dalla non-conoscenza alla conoscenza, basandosi solo sulla porzione di verità che si conosce e che può far cadere in errore dal momento che si può confondere ciò che si conosce con ciò che non si conosce. Per questo per la “restante” porzione di verità che non si conosce resta valida l’originaria aporia che riguarda il ricercare. Non possiamo né ricercare ciò che non conosciamo né cadere in errore confondendo ciò che non conosciamo con qualcosa che conosciamo o con qualcos’altro che non conosciamo. L’aspirazione al raggiungimento della verità e l’errore vengono considerati attraverso la concezione del fondamento della conoscenza come un qualcosa di immediato, ! 266!  oggettuale, simile a un’illusione e ridotto ad un niente. In quest’ottica appare anche impossibile un passaggio dalla non conoscenza alla conoscenza. Il processo come fondamento del manifestarsi di qualcosa È necessario dunque sottolineare che due momenti, quello della possibilità della ricerca della verità e quello della possibilità dell’errore, sono da considerare come i criteri in base ai quali poter riconoscere quella verità che cerchiamo. L’interrogativo circa il fondamento della verità può essere genericamente definito come l’interrogativo sul fondamento del manifestarsi di un qualcosa e che in quanto tale sin dall’inizio non può essere considerato come immediato e oggettuale in quanto una qualsiasi immediatezza oggettivistica non consentirebbe la definizione di un tale rivelarsi che invece qui deve essere oggetto di indagine filosofica: quel manifestarsi che rende possibile la ricerca. La questione della verità resta dunque identificata con l’interrogativo circa l’essenza del manifestarsi di qualcosa. Attraverso ciò appare subito chiaro come il ricercato fondamento del concetto più veritiero possibile di verità sia da trovare mediante un processo assoluto: questo processo deve coincidere in origine con il rivelarsi di qualcosa, di ciò a cui aspiriamo. Se tale processo del manifestarsi si basasse su qualcos’altro al di fuori di esso si verificherebbero nuovamente le difficoltà già esposte in maniera esauriente. Nel caso in cui il fondamento del manifestarsi di qualcosa mettesse radici in un processo, in un divenire, in un avere e non avere, bisognerebbe ammettere che ciò che ci appare ci appartiene dalle origini e allo stesso tempo è celato in noi. Il processo del manifestarsi deve quindi contemplare anche la possibilità del celarsi e dello scoprirsi: il processo del manifestarsi, e dunque qualcosa di non ancora divenuto ma in divenire, è il primo originario. Dal momento che però il manifestarsi di qualcosa non è un qualcosa che va al di là del processo ma è contenuto in esso, il processo stesso e quindi il fondamento del manifestarsi non sono che una lotta per quello che si cela in noi, un ritorno a ciò che abbiamo già, un tentativo di scoprire ciò che è celato. Solo attraverso la vittoria in questa lotta e la conquista di un qualcosa che già ci apparteneva si genera la possibilità della conoscenza, del riconoscere qualcosa da un qualcos’altro, che può diventare la prima ragione di qualsiasi ulteriore affermazione della verità. Da notare che nella logica tradizionale l’essenza della ! 267!  verità è stata ricercata nel Logos, nel pensiero come pensato e dunque oggetto, e analizzata nelle sue forme e nelle sue manifestazioni. L’oggettivismo di una tale concezione si mostra qui in una doppia veste: il fondamento della verità viene visto come l’oggettivistico e immediato manifestarsi di un qualcosa e la verità stessa ricercata nel pensiero come oggetto e nelle forme del pensato. Appare dunque evidente che qualsiasi tentativo di ricercare in qualcosa di oggettuale, anche se è soltanto nel pensiero come pensato, il fondamento e le forme della verità fallirebbe nel suo obiettivo sin dall’inizio dal momento che tutto ciò che è oggettuale non potrà mai essere il fondamento originario del rivelarsi di un qualcosa rispetto a qualcos’altro. Allo stesso modo ogni tentativo di trovare una logica del pensato che consideri il pensiero solo come oggetto si rivelerà fallimentare in quanto tale logica non va a ricercare l’essenza della verità nell’ambito originario di un processo o di un atto, nel quale soltanto qualcosa può apparire in quanto tale e dal quale può prendere origine la verità oggettuale. Avendo così la logica tradizionale studiato la verità nel pensiero inteso come pensato, come oggetto nelle sue svariate forme, ed essendo partita da un tale presupposto per la definizione del problema teoretico-conoscitivo, motivo per il quale si è potuto identificare il pensiero come momento di conoscenza dall’Essere, non ci si è più interrogati circa la forma originaria della verità. L’interrogativo iniziale su come un qualcosa possa essere fondamento della verità di qualcos’altro viene sostituito dall’interrogativo sulle forme del pensiero. Per ciò che riguarda in particolare la definizione del problema da un punto di vista teoretico-conoscitivo, dal confronto tra due pensati, l’Essere-per-sé e l’Essere-per-noi, per i quali resta valido sempre e soltanto l’identità come principio dell’Ente oggettuale, appare evidente che mai si potrà ottenere la verità come processo del passaggio dall’uno all’altro. ! Differenza ontologica e disposizione d’animo, pp. 52-58 Non dobbiamo perdere di vista il filo conduttore della nostra indagine. Siamo venuti a conoscenza di un elemento fondamentale ossia che il problema della verità può essere inteso solamente come ricerca del fondamento del manifestarsi e che ciò non deve essere inteso come strettamente oggettuale. ! 268!  Attraverso ciò siamo poi giunti alla definizione del problema del Logos: il fondamento del manifestarsi può essere interpretato unicamente come un processo o un atto che non è altro che unità, congiunzione, leghein come veniva definito dai greci sulla base del significato originario del termine. La questione circa la preminenza del Logos deve essere impostata in modo che né il manifestarsi in sé né le sue forme, così come l’atto originario dell’unire, del congiungere, del completare, possano essere predeterminati. Va verificato se il concetto di svelatezza di Heidegger si celi in una tale concezione del Logos o se, come sembra, il processo originario, per mezzo del quale l’Essere si manifesta e dal quale deriva il problema metafisico, affondi le proprie radici nell’irrazionale, nell’illogico, nell’immediato. Così dicendo si potrebbe pensare che Heidegger neghi la preminenza del Logos soprattutto se in tale contesto si richiama alla mente il suo tanto auspicato tentativo di superamento della preminenza della logica così come le sue asserzioni circa la derivazione del problema metafisico dalla disposizione d’animo. Per giungere alla corretta interpretazione del pensiero di Heidegger bisogna innanzitutto chiedersi cosa si intenda con il fenomeno della disposizione d’animo e se esso sia qualcosa di illogico o se abbia origine in un atto, in un processo del leghein (come unità, legame originario). Nella disposizione d’animo, nella paura si genera, secondo Heidegger, il manifestarsi dell’Essere rispetto all’Ente. Ciascun Ente per poter essere riconosciuto come tale e dunque nel suo Essere, deve già essere manifesto in tale Essere. Questa svelatezza dell’Essere, secondo Heidegger, non è che un separarsi dal nulla e ciò si compie nella disposizione d’animo. Questa primordiale disposizione d’animo deve essere dunque intesa come momento determinante del processo che abbiamo riconosciuto come fondamento della svelatezza? Tale processo è fondamentalmente trascendenza, elevazione dell’Ente a totalità che attraverso di esso giunge a palesarsi, alla svelatezza: il dispiegarsi di questa radice originaria come processo contiene in sé già la possibilità dell’interrogarsi, del perché: poiché la svelatezza è processuale ed è possibile per mezzo di un Divenire, di un Essere e di un Non-Essere essa procede per interrogativi. Così si delinea il problema seguente: su che cosa si fondano la trascendenza, la disposizione d’animo e la possibilità del perché? Heidegger prende come punto di partenza per affrontare questo problema ! 269!  innanzitutto la definizione tradizionale di verità che si orienta alla proposizione, alla connexio tra soggetto e predicato. Questa a sua volta rimanda al fondamento e alla ragione. Per tale motivo il problema della verità è strettamente legato a quello della ragione. La verità della proposizione (anche verità ontologica) non consente però la comprensione dell’Essere dall’Ente ed essa stessa è possibile unicamente sulla base di una svelatezza originaria, definita come verità ontica, una verità sulla base della quale l’Identità o la Non-Identità di soggetto e predicato possono essere riconosciute. La stessa verità ontica si fonda nell’affettività istintiva che è legata dunque alla disposizione d’animo, nell’agire intenzionale che aspira all’Ente; questa non può però essere mai originariamente accessibile all’Ente se prima non c’è stata una comprensione dell’Essere dall’Ente. La verità ontologica e la verità ontica affondano dunque le loro radici in una verità pre-ontologica la cui natura resta ancora da definire. Heidegger sottolinea come tra la comprensione dell’Essere pre-ontologica e l’espressa problematica dell’afferrare la concezione di Essere vi siano diversi passaggi che possono già fornirci un esempio di una qualsiasi precomprensione dell’Essere originaria. Ad esempio i principi basilari delle singole scienze, come ad esempio il fondamento del domandarsi che è proprio ad ognuna di esse, indicano e delimitano un determinato campo come ambito di una possibile oggettivazione attraverso la conoscenza scientifica, senza essere loro stessi oggetto di indagine scientifica. Questo concepire, che è proprio dei principi basilari delle singole scienze, per la prima volta apre il cammino verso l’indagine e dal momento che esso stesso non è oggetto di indagine presuppone una determinata precomprensione dell’essere rispetto all’Ente. Una domanda sorge quindi spontanea: come va intesa l’originaria comprensione dell’Essere rispetto all'Ente, che è ciò che rende possibile ogni comportamento all’Ente (e quindi l’originaria pre-comprensione)? Questo interrogativo assume un’importanza fondamentale dal momento che se la disposizione d’animo dipende da un modo di riferirsi all’Ente ed è un ritrovarsi-nel mezzo-dell’Ente, allora con la risposta all’interrogativo sull’essenza di una qualsiasi pre-comprensione, che è ciò che consente qualsiasi comportamento all’Ente, dobbiamo necessariamente ottenere anche lo scioglimento della questione dell’essenza della disposizione d’animo e dunque dell’origine pre-ontologica della svelatezza rispetto all’Ente. ! 270!  Heidegger afferma che la svelatezza dell’Essere è sempre verità dell’Essere rispetto all’Ente e che la svelatezza dall’Ente è sempre tale del suo Essere; per questo motivo né l’Essere né l’Ente sono separabili l’uno dall’altro in quanto l’Ente può manifestarsi tale solo grazie al manifestarsi dell’Essere e viceversa. Questo legame intrinseco tra unità (dell’essere) e molteplicità (dell’ente) può essere concepito solo come processo, come atto e per questo come realizzarsi dell’unità attraverso la congiunzione e la separazione. Tale atto inteso come fondamento della svelatezza è la differenza ontologica, laddove essa non si determina precedentemente o successivamente al manifestarsi di un qualsiasi atto ma bensì nel suo compimento. Heidegger dichiara che “la così definita e necessaria sdoppiata essenza ontico-ontologica della verità è possibile solo in unione con l’affermarsi di tale distinzione”. Da ciò si evince innanzitutto che il fondamento della svelatezza si presenta come atto e poi che Heidegger definisce tale atto come Logos, come leghein in senso più ampio, poiché afferma, facendo riferimento alla pre-comprensione originaria dell’Essere dell’Ente, che esso è “tutto l’agire come processo illuminante della comprensione dell’Essere in senso ampio”. Il fondamento della svelatezza, che dunque rende possibile ogni comportamento all’Ente (verità pre-ontologica che è così fondamento della verità ontica e ontologica e disposizione d’animo laddove essa è intesa come ritrovarsi-nel mezzo-dell’Ente) è Logos ma non inteso in senso tradizionale come atto del pensiero che si deve necessariamente basare su un’originaria semplice-presenza dell’Ente; nemmeno come definizione di una verità logica che deriva da un’indagine del pensiero come oggetto, bensì come processo del ricongiungere e del separare, processo del distinguere come un venire-alla-luce. Il manifestarsi di un qualcosa rispetto a qualcos’altro affonda dunque le proprie radici in un qualsiasi atto originario. Il fondamento della verità può essere realmente inteso come “svelatezza” e tale termine mantiene il suo significato metafisico e logico e si contrappone a una concezione della verità (“come equivalenza”), il cui fondamento è un qualcosa di imminente e oggettuale. Come si pone questa concezione rispetto alla precedente convinzione secondo cui la svelatezza dell’Essere dall’Ente trovava origine nella disposizione d’animo e come si collega ciò alla differenza ontologica? Abbiamo osservato come la differenza ontologica quale fondamento della svelatezza dell’Essere ! 271!  rispetto all’Ente non sia che trascendenza: ma cosa dobbiamo intendere qui con trascendenza? Se si verifica lo svelarsi di un qualcosa in seguito a un processo, a un atto del distinguere, tra la differenza ontologica dell’Essere e dell’Ente, l'essenza di un qualsiasi atto deve essere necessariamente trascendenza in quanto in esso prevale già ciò che si svela. Per questa ragione anche una qualsiasi trascendenza è in origine fondazione e fondamento di tutto l’apparire che non può essere considerato separatamente da esso ma che è bensì ciò che lo rende possibile. L’atto della differenza ontologica, che a seconda della sua essenza porta l’Ente alla svelatezza, è svelatezza di una molteplicità (dell’ente) contenuta in un’unità, in un mondo, in un ordine, in un cosmo. L’Esserci trascende, ovvero è nell’essenza del suo Essere di formare il mondo. Il mondo, come sottolinea Heidegger, non è dunque inteso come totalità degli Enti esistenti, ai quali tra l’altro appartiene anche l’Esserci, ma bensì come la totalità degli Enti in cui e per cui anche l’Esserci è comprensibile. Dal momento che se ciò che si manifesta non precede o segue immediatamente un atto originario allora una qualsiasi svelatezza non risulterà altro che quella dell’atto stesso. Ciò permette di comprendere lo stretto legame esistente tra trascendenza e disposizione d’animo. Trascendere ovvero Esserci in senso metafisico è così fondamentalmente un Essere-nel-mezzo-dell’Ente e dunque trovarsi. Da ciò ne deriva che l’Esserci stesso nella sua essenza e attraverso la totalità degli Enti ad esso appartenenti è un Essere mediato dalla disposizione d’animo. L’Esserci si afferma così realmente nell’Ente in questo modo, laddove si realizza il secondo modo del fondamento. Con disposizione d’animo non va inteso qualcosa che precede il processo originario della svelatezza e nemmeno qualcosa che presuppone il processo e si differenzia da esso; non è nulla di immediato ma bensì appartenente originariamente al fondamento della svelatezza come processo. Se la svelatezza è processuale allora, come affermato in precedenza, lo è per mezzo di un Divenire, di un Essere e di un Non-essere, e dunque ad essa appartiene insieme alla trascendenza e la disposizione d’animo anche il perché, terzo modo del fondamento della svelatezza così come lo definisce Heidegger. Dunque nell'ottica di un'interpretazione della differenza ontologica come processo o atto originario, unitario che si compie da sé ne deriva la comprensione ! 272!  della necessità dei tre modi nei quali è insito il fondamento, e della definizione heideggeriana di verità come svelatezza. La possibilità dell’errore e la definizione di logos come processo assoluto, pp. 110-111. L’episteme come doxa alethes. Da un’approfondita critica dell’oggettivismo naturalistico si è approdati a una prima definizione di leghein in cui compare l’Essere. Nella necessità di una definizione ossia di un’affermazione generale (giudicare, pensare) si è giunti al superamento del relativismo e attraverso di essa a una prima comparsa dell’Essere. Tuttavia ciò non risolve né il problema teoretico del Logos né la questione interpretativa del testo di Platone. Come dobbiamo considerare dunque nel dettaglio questo atto inteso come pensiero, come giudizio? E come lo definisce Platone? Ma soprattutto com’è da considerare una qualsiasi necessità? Come una ricerca di soddisfacimento al di fuori di essa stessa? È dunque il pensiero solo una forma esteriore per impossessarsi dell’Essere come suo contenuto e la verità il risultato dell’equivalenza del pensiero con un Essere ad esso esteriore? Questa è la questione che partendo da un punto di vista storico e sistematico dovrebbe portare con la sua risoluzione ad un’ulteriore interpretazione del pensiero di Platone. Che l’anima abbia un’originaria aspirazione all’Essere che riesce ad appagare unicamente aspirando per essa stessa all’Essere, non definisce ancora modi e modalità di alcun processo. Platone dimostra come un atto, un processo del leghein, che si fonda su un qualcosa di oggettivo, non riesca a spiegare il fenomeno dell’errore. Fondamentalmente l’errore è strettamente connesso alla verità; poiché la necessità di affermazione del generale si rivela in modo tale da rendere la tesi relativistica erronea. L’indagine filosofica così come dovrebbe essere interpretato il processo, l’atto del leghein, si cela, come vedremo, dietro il quesito se un fondamento oggettuale del leghein possa spiegare o meno l’errore. La risposta a questo interrogativo la troviamo nel Teeteto: il processo del leghein è completo? Ha una fondamento oggettuale? Abbiamo visto l’Essere ergersi a leghein in una condizione di necessità: leghein significa essenzialmente portare qualcosa alla sua unità e ciò viene a compiersi in una condizione di necessità del pensiero e del giudizio. Si tratta quindi di un rigetto dell’estetica e del presentarsi di un nuovo ! 273!  fondamentale processo. Considerare qualcosa per qualcos’altro sulla base del giudizio, del pensiero è ciò che il filosofo greco distingueva dall’apparizione immediata e che dunque deve essere oggetto dell’indagine filosofica. Questa è la ragione per cui la doxa diventa l’oggetto per Teetèto. Ma a quali doxa, a quale pensiero ci si riferisce qui? Abbiamo dimostrato in precedenza come la stessa teoria relativistica sia già un pensiero, un’affermazione generale: dunque questo nuovo fenomeno è il pensiero. Ma dal momento che non tutti i pensieri sono veri solo per il fatto di essere tali, la doxa dunque può essere sia falsa che veritiera. La doxa può essere identificata genericamente con il pensiero ma non ancora necessariamente veritiero: da ciò ne deriva che il significato generale di doxa come pensiero non è che quello di un’opinione e non di una conoscenza motivata, non un pensiero che abbia in sé la garanzia della verità. Da qui nasce la necessità, dopo aver dimostrato che non si tratta di estetica o fantasia, di riconoscere una nuova definizione di episteme come “opinione vera”. “Di’ ancora una volta cos’è la conoscenza. Dire che tutte le doxai, le opinioni lo siano non è possibile, o Socrate, in quanto ve ne sono anche di false. Di sicuro però l’opinione vera è conoscenza”. Il problema della lingua e il suo significato ontologico, pp. 179-189. Legame tra ricerca del fondamento del manifestarsi e quella del fondamento delle parole e dell’arte. In precedenza abbiamo definito il fondamento dell’apparire di un qualcosa come tale un atto o processo del leghein, il cui carattere resta però ancora piuttosto generico: con esso andrebbe inteso unicamente il congiungere, il riunire, il circoscrivere attraverso cui un qualcosa può manifestarsi come tale. Abbiamo elaborato questa tesi in relazione alla concezione heideggeriana della differenza ontologica intesa come atto del trascendere, origine dei tre modi del fondare, “Logos in senso più ampio”. Alla luce di ciò abbiamo rigettato un’interpretazione illogica del fondamento della verità facendo riferimento alla disposizione d’animo. Quest’ultima non è da intendersi però come un qualcosa di pre-logico che precede un qualunque processo quale fondamento originario del rivelarsi di un qualcosa: ciò conferma anche l’interpretazione dell’affettività. Quando abbiamo però definito la disposizione d’animo come momento logico in senso ampio non era stato detto ancora nulla circa ! 274!  il suo rapporto con il Logos inteso come pensiero: non sapevamo ancora come definire il fondamento del manifestarsi. Solo attraverso l’interpretazione del pensiero di Teeteto e la discussione su quei problemi sistematici in esso contenuti siamo giunti a un’ulteriore definizione del Logos come necessità originaria, che si autoimpone, di affermazione del generale e dunque del giudicare, del pensare. Il processo dell’originario del leghein assume così un primo e determinante significato. Diversamente da quanto si ritrova nel pensiero di Heidegger, esso non è inteso qui come ricongiungere, radunare, riunire ossia riportare a quell’unità originaria nella quale l’Ente può apparire come tale, in senso generale, ma bensì come un ben determinato ricongiungere e riunire: quello del pensiero che si manifesta nella necessità di affermazione del generale. Come abbiamo visto nel Teeteto, nella necessità di affermazione del generale si manifesta per la prima volta l’Essere, ciò che esiste. Il fondamento del manifestarsi è stato da noi riconosciuto nella parola, nella lingua come un lasciar apparire metafisico di un qualcosa attraverso il legame con la necessità di affermazione del generale. Questa necessità originaria si manifesta in una ben determinata forma di problematicità dell’Ente ogni qualvolta non si sa come intendere una determinata cosa. Dell’origine di tale atto, dell’impossibilità di dedurlo dal pensato, così come è inteso da Hegel, abbiamo già discusso nel capitolo precedente, riassumendo a tal proposito la critica di Gentile al pensiero del filosofo tedesco. Per quanto riguarda il pensiero di Heidegger, va sottolineato che fino a quando non riusciremo a stabilire se egli ha assegnato all'atto della trascendenza (intesa come “Logos in senso ampio) una determinata forma (quella del pensiero pensante) o se ha lasciato la questione irrisolta, anche la nostra interpretazione non potrà essere completa. Se però Heidegger nei suoi scritti avesse in qualche modo iniziato un’implicita dissertazione sulle diverse forme di svelatezza, senza fattivamente distinguerle, ad esempio in “Hölderlin e l’essenza della poesia” in cui egli parla della funzione della parola poetica nel suo carattere di manifestazione, questa non dovrebbe essere assolutamente trascurata. Tale questione non può essere discussa se prima non si definisce il carattere fondante della svelatezza. Ci troviamo così di fronte ad un interrogativo rilevante: il processo originario che si manifesta nella necessità di affermazione del generale è l’unica forma della svelatezza? Dobbiamo attribuire al Logos, ! 275!  alla parola, alla lingua unicamente la necessità di affermazione del generale? A questo punto è necessario far notare che in nessun caso le forme della svelatezza posso essere classificate sulla base di ciò che appare per mezzo del pensiero pensante. Questo perché nel momento in cui dovesse emergere una distinzione nelle forme della svelatezza ciò dovrebbe essere presentato mostrando che oltre alla necessità di affermazione del generale esistono altre forme del fondamento originario del manifestarsi e dunque dell’interrogarsi, dell’aspirare all’Ente. Dobbiamo quindi chiederci se il leghein si impone a noi solo come pensiero pensante e dunque necessità di affermazione del generale o anche sotto altre forme: ovvero se la parola, il Logos abbiano solo un significato “logico”. È evidente come un tale problema si ponga solo se, come nel nostro caso, in precedenza si è definita in maniera chiara una prima manifestazione della forma del Logos ad esempio come necessità di affermazione del generale. Ma come possiamo sviluppare tutti questi differenti quesiti in maniera unitaria ricollegandoli alla precedente indagine? È necessario chiarire tutte le questioni che si presentano anche attraverso la presa di posizione di Heidegger chiedendoci se il Logos come necessità di affermazione del generale costituisca l’essenza delle parole o se esso si manifesti anche sotto altre forme. Per determinare l’essenza delle parole dovremmo innanzitutto capire se nel discutere di ciò Heidegger fosse consapevole del problema; in questo modo potremo determinare definitivamente la nostra interpretazione del pensiero di Heidegger e la nostra posizione in merito. Successivamente andremo a verificare le tesi proposte nella Fenomenologia di Hegel, che si celano in maniera particolare dietro gli assunti del Teeteto, per discutere del legame tra il problema della parola e il problema dell’arte. Va notato come la questione se la parola abbia o meno solamente un significato logico è l’essenza della seconda corrente critica di Hegel in Italia la quale lega strettamente tale questione con l’interrogativo se la parola ad esempio in poesia non abbia una propria forma del manifestarsi dell’Ente. Nella discussione e nel tentativo di risolvere la questione, nella contrapposizione al pensiero di Hegel, si ritorna di nuovo in Italia al piano ontologico. Questo dal momento che se la parola, la poesia e dunque l’arte hanno un proprio manifestarsi dell’Ente rispetto alla parola così come per la filosofia quale necessità di affermazione del generale ciò ha un doppio ! 276!  significato: innanzitutto che tra l’arte come forma del manifestarsi dell’Ente e la filosofia, contrariamente a quanto afferma Hegel, non vi è alcuna relazione dialettica. Su questa scia la filosofia italiana si oppone alla caratteristica tesi heideggeriana sulla morte dell’arte nell’era della filosofia in quanto tale tesi sarebbe espressione della relazione dialettica tra arte e filosofia laddove l’arte appare come un momento che va scomparendo e che si conserva nella filosofia. La seconda cosa che emerge è che questo quesito non è una domanda di estetica ma bensì una metafisica, ontologica in quanto essa rappresenta il rifiuto della concezione dialettica del fondamento del manifestarsi dell’Ente: dunque un quesito molto importante. Il problema ontologico della lingua in Heidegger. Sulla base di una precisa interpretazione dello scritto heideggeriano “Hölderlin e l’essenza della poesia” andremo a discutere dell’imporsi del problema della forma del manifestarsi. La domanda se il Logos come parola, come lingua debba essere inteso solo come unione così com’è nel pensiero, si pone in questo scritto congiuntamente al problema del fondamento del manifestarsi dall’Ente. Heidegger afferma: “La lingua per prima accoglie la possibilità di trovarsi nel mezzo della manifestazione dall’Ente”; “Solo dove vi è lingua vi è mondo”. Poi ancora aggiunge: “La lingua ha il compito di permettere all’Ente di manifestarsi come tale nell’opera e di custodirlo”. Come dobbiamo intendere ciò? Alla parola deve essere attribuita unicamente la determinazione dell’espressione del generale? Già nello scritto “Dell’Essenza del fondamento” Heidegger aveva identificato il manifestarsi dell’Ente come differenza ontologica e dunque trascendenza. È dunque la differenza ontologica essenzialmente parola e l’essenza della parola nient’altro che il manifestarsi della verità? Se la parola, la lingua, così come inteso da Heidegger, sono strettamente legate alla poesia, dobbiamo dunque ritenere che l'essenza della poesia sia solo verità? E di che verità si tratta? Quella “logica”? Appare evidente che solo sollevando queste questioni nello sviluppo del nostro problema nel tentativo di definire il Logos potremmo prendere una posizione rispetto a quanto asserito da Heidegger. Per questo è innanzitutto necessario capire se l'intera questione della lingua è stata spostata da Heidegger su un piano ontologico. Considereremo il suo scritto proprio da questo punto ! 277!  di vista. Dal momento che la discussione heideggeriana sull’essenza della poesia si sviluppa come interpretazione di un poeta, in un primo momento la questione appare essere considerata da un punto di vista che è al di fuori da qualsiasi piano metafisico e ontologico. Che l’ambito non sia estetico o storico-letterario ma principalmente metafisico si evince però dalla scelta dei versi di Hölderlin che Heidegger pone alla base della sua interpretazione. Le posizioni di Hölderlin a cui Heidegger fa riferimento considerano l’essenza della lingua in congiunzione con l’essenza dell’uomo. Nella sua interpretazione Heidegger afferma che l’uomo nella sua essenza “è colui il quale deve dimostrare ciò che è. Con questa affermazione non si vuole qui intendere un’espressione supplementare e a sé stante di umanità ma bensì la determinazione dell’Esserci dell'uomo”. Cosa deve testimoniare l’uomo? “La sua appartenenza alla terra”. Anche questa asserzione risulta difficile da comprendere in quanto nella nostra comune concezione di uomo la sua appartenenza alla terra è l’unica cosa che non deve essere dimostrata dal momento che non dipende dall’uomo stesso. Appare dunque inspiegabile come essa possa essere considerata un suo compito, un’attività da compiere che si impone costantemente all’uomo, e come essa si leghi alla questione della parola. Da ciò si evince però un punto fondamentale: se per Heidegger l’uomo è tale solo in quanto lo testimonia, ciò significa che la sua essenza non si manifesta nella semplice-presenza ma bensì in un atto da compiere e realizzarsi. Tale atto viene definito da Hördelin come testimonianza “dell’intimità” con la terra. Secondo Heidegger con il termine di Hörderlin “intimità” è da intendersi ciò che pone in conflitto e allo stesso tempo riunisce le cose. La “testimonianza dell’appartenenza a tale intimità avviene attraverso la creazione di un mondo [...] la testimonianza dell’essere uomo e dunque il suo compimento avviene attraverso la libertà della decisione. Questa coglie il necessario e si lega ad un ordine superiore”. Come dobbiamo però intendere l’asserzione secondo la quale l’uomo crea il mondo e in che modo questa creazione ha a che fare con la poesia, la parola e la sua essenza? Heidegger afferma che “l’essenza dell’uomo, il suo vissuto è comprensibile solo come storia e che la storia è possibile solo attraverso la parola.” In ciò ritroviamo una possibile interpretazione della concezione heideggeriana di una qualsiasi creazione del mondo in cui vi sia l’essenza dell’uomo (creare che si lega alla parola). Il ! 278!  mondo che appartiene all’uomo è solo il mondo della parola dal momento che effettivamente si evince che l’uomo si appropria della realtà esistente così come percepita considerandola il proprio mondo solo attraverso il “denominarlo”: solo il “mondo denominato” è il suo mondo, il suo cosmo. Questa appropriazione rappresenta la storia del formarsi dell’uomo. Interpretare in questa maniera il pensiero di Heidegger sarebbe sbagliato in quanto come egli stesso afferma che la lingua non ha il compito di denominare qualcosa che è già esistente per creare un mondo supplementare del significato, ma bensì è nella parola stessa che si rivela per la prima volta l’Ente e lo fa solo nella parola. “La lingua non è solo uno strumento che l’uomo possiede insieme a tanti altri ma bensì la lingua concede innanzitutto la possibilità di stare nel mezzo del manifestarsi dall’Ente. Solo dove c’è lingua può esserci mondo”. “La lingua ha il compito di permettere all’Ente di manifestarsi nell’opera e di conservarlo tale”. In questo modo la parola acquisisce un nuovo e determinato significato: essa non è più la parola pronunciata, il mondo che esprime la fonetica e che ha molte altre possibilità di espressione ma bensì parola significa qui prima manifestazione dell’Ente: parola, Logos come fantasia, come apparizione nel senso più originario del termine. Heidegger aggiunge poi: “La poesia è fondazione attraverso la parola e nella parola”. Ma cosa significa qui fondazione? Se provassimo a tradurlo in termini filosofici (termini legati a una determinata problematica teoretico-conoscitiva e proprio per questo qui evitati da Heidegger) significherebbe qualcosa che non presuppone l’esperienza, la percezione e che non può essere dedotta da essa a posteriori ma bensì a priori. Attraverso il denominare dei poeti “l’Ente viene per la prima volta chiamato e conosciuto come tale [...] ma dato che l’Essere così come l’essenza delle cose non può essere mai né determinato né dedotto dal presente, essi devono essere creati liberamente, fissati e donati. Tale libera donazione è fondazione”. Da ciò si evince che se la poesia fonda l’originaria manifestazione dell’Ente in essa l’uomo raggiunge il proprio fondamento. Così come afferma Heidegger: “Il dire dei poeti è fondazione non solo intesa come libera donazione ma bensì anche come solida istituzione dell’Esserci umano sul suo fondamento”. La definitiva determinazione dell’essenza della poesia è da intendersi come ciò che si realizza nella parola, nella lingua nel discorrere, nel parlare, nell’ascoltarsi e nel comprendersi: il discorrere è possibile però solo ! 279!  sulla base di un qualcosa di condiviso, attraverso il quale possiamo comprenderci poiché altrimenti ognuno resterebbe bloccato nella propria lingua, nel proprio mondo. Ogni parola fondamentale manifesta, come afferma Heidegger, l’uno e lo stesso, qualcosa di duraturo ed esistente e dunque sempre presente. In questo modo però la lingua si manifesta solo nell’ambito del tempo. Se però solo in poesia la manifestazione dell’Ente si realizza originariamente nella parola per poter definire l’intera problematica dell’essenza della poesia è necessario sottolineare che non è quest’ultima che deve essere separata dalla parola, dalla lingua ma bensì al contrario l'essenza della lingua, della parola, dalla poesia: solo così la poesia ottiene il suo primo centrale significato ontologico. Le nostre riflessioni ci portano a riconoscere quanto segue: la parola, la lingua, la poesia mantengono negli scritti di Heidegger una determinazione ontologica ma tuttavia non vi ritroviamo in essi né una definizione della caratteristica della poesia né argomentazioni in merito al fatto che ad essa spetti o meno una manifestazione particolare. La differenza ontologica in sé è valida per qualsiasi manifestarsi: non vi è però discussione in Heidegger su un problema determinante ovvero se e come ad esempio il manifestarsi nella sua forma logica e dunque nella necessità di affermazione del generale così come nel Teeteto, si differenzi dalla forma poetica del manifestarsi. Ciò è tuttavia di fondamentale importanza quando si parla di essenza della poesia così come fa Heidegger nel suo sopracitato scritto. Solo attraverso la risposta a questa domanda la poesia potrà acquisire una propria forma e necessità e dunque una propria definizione. Ciò appare evidente nel momento in cui confrontiamo le due opere “Dell’Essenza del fondamento” e “Hölderlin e l’essenza della poesia”. Nella prima si tratta essenzialmente della definizione di fondamento della verità ontologica (del Logos), laddove la differenza ontologica viene intesa come Logos in senso ampio. Heidegger afferma che la svelatezza dell’Essere “è sempre verità dell’Essere rispetto all’Ente e che la svelatezza dell’Ente e sempre in un certo senso anche quella dell’Essere” (“Dell’Essenza del fondamento” pag. 78), per cui il fondamento della svelatezza si trova nell'atto come differenza ontologica laddove esso è tutto l’agire come processo illuminante della comprensione dell’Essere, del Logos in senso ampio” (pag.77). Questo svelamento si realizza solo per via di tale originario atto del distinguere, così che la ! 280!  sua essenza sia trascendenza e fondazione (pag. 102) e dunque fondamento di tutto l’apparire che non può essere dedotto da esso ma che bensì lo rende possibile (pag. 81). In questo modo, come abbiamo già fatto notare in precedenza, resta però aperta la questione relativa all’ultimo significato di un qualsiasi atto. Per questo motivo nella nostra indagine abbiamo anche sciolto la questione heideggeriana giungendo autonomamente a una definizione il più veritiera possibile di un qualunque processo sulla base del pensiero di Teeteto. Nella sua ricerca sulla poesia Heidegger attribuisce dunque alle parole la manifestazione dell’Essere. Ci è consentito quindi riferirci a questa identità delle definizioni che egli attribuisce alla parola così come accade in poesia e nella differenza ontologica. Egli afferma che la lingua “innanzitutto consente la possibilità di trovarsi nel mezzo della manifestazione dell’Ente” (pag.7) e che la poesia “è fondazione attraverso la parola e nella parola” (“Hölderlin e l'essenza della poesia” pag. 8-10). Così come per la differenza ontologica (origine dei tre modi del fondamento) anche per la poesia si afferma qui che “essa è nella sua essenza fondazione e dunque istituzione determinata” (pag.14). Heidegger afferma ancora che: “Solo dove vi è lingua vi è mondo” (pag.7) e ciò è possibile attraverso la parola, attraverso il denominare l’Ente come “Ente così conosciuto” (pag. 11). Se dunque la differenza ontologica nella sua essenza è comprensione illuminante dell’Essere (“Dell’Essenza del fondamento”, pag.77), fondazione “di un qualunque Ente il quale è svelato all’Esserci e dunque possibile” (pag.81), e se in conclusione l’atto della differenza ontologica (il quale svela la sua essenza nell’Ente) “ è nella sua essenza creatore di mondo” (pag.98) qual è la differenza tra fondazione, mondo, manifestazione dell'Ente (che è proprio della differenza ontologica come fondamento della verità ontologica nella sua generica concezione esistenziale) e poesia come determinato modo di esistere e di manifestarsi? Non vi è forse alcuna differenza? Fin qui siamo stati autorizzati nella determinazione della verità ontologica a limitarci alla definizione di Logos in senso ampio. Ora appare però necessario per poter attribuire alla poesia un significato ontologico trarre la sua definizione da quella verità ontologica generale lasciata irrisolta da Heidegger: solo allora potrà essere chiarito anche il significato di fondazione, mondo, istituzione, manifestazione. Tale problema relativo alle forme della realtà si è manifestato nel corso della nostra ! 281!  indagine laddove siamo stati costretti a decidere se attribuire o meno alla parola solo il significato dell’asserzione generale o anche altri. Gli equivoci che sono venuti fuori nell’interpretazione dei concetti heideggeriano di affettività, disposizione d’animo, Essere-nel-mondo e così via sono dovuti in parte al fatto che la determinazione della realtà come svelatezza non deriva da una considerazione generale antioggettivistica del fondamento del manifestarsi. Non troviamo in Heidegger il problema delle diverse forme della svelatezza nonostante il fatto che egli discuta dell’essenza della poesia. Questo problema sorge solo nel momento in cui si attribuisce alla svelatezza una determinata forma poiché solo in quel momento ci si chiede se questa è l’unica o se ve siano di altre. Già con la definizione di verità come processo del leghein che nell’asserzione del generale si impone come pensiero pensante, si realizza il presupposto per sollevare la questione circa le forme. Con questa affermazione non ci vogliamo porre in maniera critica nei confronti del pensiero di Heidegger ma solo sottolineare la necessità che la discussione nelle sue affermazioni tenga conto anche di tali questioni. Il problema delle forme del Logos, pp. 204-209. Sulla scia del pensiero filosofico italiano, che prende le mosse da De Sanctis, come si evince anche in Heidegger, abbiamo attribuito alla parola un significato essenzialmente metafisico ovvero come manifestazione dell’Ente. Non dobbiamo però dimenticare che già nel pensiero filosofico italiano contemporaneo, che si oppone alla visione di Croce, Gentile nega l’esistenza di diverse forme del manifestarsi poiché ne riconosce una sola: quella del pensiero pensante. Egli afferma che tutto ciò che può essere definito, differenziato, circoscritto attraverso l’atto del pensiero, a cui egli attribuisce un significato ontologico originario, dunque appare. Se ammettessimo diverse forme del manifestarsi senza riconoscerne la loro unità d’appartenenza ci ritroveremmo con un insieme di forme diverse considerabili unicamente da un punto di vista empiristico. Una differenziazione è possibile solo sulla base di un atto originario nel quale e per mezzo del quale la distinzione appaia come atto del pensiero. Dimostrazione di ciò è che ad esempio il processo nel quale l’Ente si rivela all’artista coincide con quello dell’esistere dal momento che per egli la realtà è ciò che gli si manifesta. Unicamente nel ! 282!  momento in cui egli esce dalla sfera artistica e fa di un qualsiasi mondo l’oggetto del giudizio solo allora la realtà gli apparirà come un qualcosa di ottenuto, di soggettivo, come arte e non realtà. “Questa stessa irrealtà e idealità (dell’arte) diviene realtà viva e presente se la si considera così come la fantasia la proietta...questa è dunque la realtà che vaga nella fantasia dell’artista, la realtà assoluta che non può essere separata da quella a cui si fa riferimento nella vita pratica. Per cui tale è per l’artista, fin tanto che si tratta di un artista, la vita stessa”. Secondo Gentile l’arte si cela dietro il sentimento, il soggettivo, è un momento ideale che si ripropone sempre del pensiero pensante. Non possiamo però approfondire la questione. L’argomentazione principale con la quale Gentile nega l’esistenza di diverse forme del manifestarsi è che esse possono essere determinate solo attraverso un atto che le riunisca: il pensiero pensante. Gentile giunge a tale conclusione opponendosi al pensiero di Hegel. È innegabile che ogni distinzione sia possibile unicamente sulla base di un atto nel quale la molteplicità appaia come una e ben determinata. Va sottolineato che questa conclusione è anche il senso fondamentale dell’assunto heideggeriano secondo cui il processo del manifestarsi affonda le sue radici nell’atto, nella differenza ontologica la cui forma non può essere predeterminata. Allo stesso modo abbiamo poi ritrovato queste concezioni nella filosofia antica che per prima ha sollevato la questione metafisica analizzando nel dettaglio il pensiero di Teeteto. Il problema dell’Essere dell’Ente si ricollegava allora espressamente a quello dell’unità e della molteplicità. È stato dimostrato che se si considera l’unità separatamente dalla molteplicità non sarà possibile spiegare l’affermarsi, il rivelarsi della molteplicità. Abbiamo chiarito che l’unità, come fondamento dell’apparire, è un processo che si compie da sé, un atto che nel momento in cui è ben circoscritto non ammette l’errore. Il fondamento della svelatezza (ciò che Heidegger definisce differenza ontologica) affonda le sue radici, così come abbiamo visto nel Teeteto, nella necessità di affermazione del generale. Laddove la svelatezza dell’Essere viene intesa come conoscenza e questa conoscenza come pensiero vero dante fondazione. Alla verità dell’Essere, così come Platone la identifica con il Logos, appartiene essenzialmente la svelatezza del proprio fondamento. Questa avviene nella trascendenza filosofica, nella conoscenza dell'essere come conoscenza del proprio fondamento: ! 283!  l’ineluttabile necessità di affermazione del generale. Da questo generale e dalla conoscenza che ne deriva non è stata ancora mai creata poesia. Nella conoscenza del fondamento c’è l’essenza dell’atto filosofico. Questa conoscenza riguarda anche la creazione dell’arte ma da essa non deriva alcun tipo di arte: questa conoscenza del fondamento non appartiene all’arte in quanto tale tantomeno si riscontra in essa un inizio di ciò. Questa necessità, che ci costringe alla conoscenza del fondamento e quindi alla conoscenza come asserzione generale, è fondamentalmente un qualcosa di diverso da una qualsiasi necessità che spinge l’artista alla creazione della sua opera. Con l’affermazione di Gentile secondo cui qualsiasi differenziazione si fonda nell’atto del pensiero non si va ancora a toccare il nocciolo della questione che ci riguarda. Il problema delle diverse forme del manifestarsi può essere sollevato o negato solo se non ci si limita a considerare ogni distinzione come atto del pensiero: se ogni differenziazione si realizza per mezzo di un atto, il quale per via della sua origine non può essere né dedotto né motivato (dal momento che esso stesso è il presupposto di ogni motivazione, domanda o risposta), allora dobbiamo chiederci se la necessità nella quale si manifesta l’Essere logico come aspirazione all’affermazione del generale è la stessa necessità per la quale ad esempio si compie la differenziazione poetica. Ogni atto come fondamento del manifestarsi di qualcosa è necessariamente fondazione, trascendenza e dunque possibilità di apparire di una molteplicità, di una differenziazione che non presuppone l’atto; attraverso ogni atto ci troviamo in una molteplicità ordinata, in un mondo (Essere-nel-mondo); in ogni atto c’è la manifestazione di un qualcosa nella forma dell’aspirare, del domandarsi. Si ottiene dunque attraverso il dubbio, dalla necessità di affermazione del generale una differenziazione poetica? Si raggiunge il suo mondo? Il poeta “si trova” in un mondo delle differenze e delle determinazioni che è identico a quel mondo che deriva dal pensiero? Abbiamo definito l’Essere che si manifesta nel pensiero pensante essenzialmente come necessità di affermazione del generale. Da ciò possiamo dedurre che la questione circa la molteplicità delle forme del manifestarsi non può essere sollevata o risolta se si afferma che ogni differenziazione non è altro che la realizzazione di un atto del pensiero ma bensì solo domandandosi se la differenziazione poetica, la determinazione siano da ricondurre alla necessità di affermazione del generale. Rispetto a che cosa ! 284!  misura il poeta la parola, l'espressione? Non da qualcosa che è all’esterno altrimenti come sarebbe possibile farlo da un oggetto? Ma bensì da ciò che in esso si manifesta. Da ciò che è in sé confrontare, scegliere, differenziare, decidere ed è possibile solo sulla base di una necessità, attraverso la quale il poeta capisce se l’espressione è adeguata o meno. Solo ciò che è necessario, fisso ed esistente può essere misurato. Questa necessità che si cela nell’oggetto poetico si manifesta nell’immediatezza dell’originario, del primo che per questo deve essere sempre qualcosa di istantaneo e per questo essa si rivela in un attimo presente e unico. Solo grazie all’attimo, al presente il poeta vede ciò che è già e ciò che ancora non è. Nell’attimo si schiude la temporalità che è sempre temporalità di un determinato manifestarsi. Per tale motivo il processo poetico e il suo paragonare “interiore” per poter trovare l’adeguato vocabolo poetico non deve essere considerato come “interiorità” psicologica e romantica ma bensì come qualcosa in cui si realizza una determinata forma di manifestazione nella quale all’arte, al bello spetta un significato ontologico. Anche l’uomo pensante non misura la verità delle proprie definizioni da qualcosa che si trova al di fuori della necessità di affermazione del generale dato che l’Essere logico è e appare solo in una qualsiasi necessità. Il pensiero vero è solamente quello che riesce a resistere a qualsiasi necessità e mai fugge da essa poiché ricorre a una determinazione che in sé non può giustificarla. In ciò consiste il profondo carattere etico che ogni verità possiede. Già il riconoscere di non sapere è una risposta all’originaria necessità. Allo stesso modo in cui l'uomo pensante guarda solo a una qualsiasi necessità che possa fargli riconoscere la verità della propria determinazione, verità che si cela con la forza attraverso la quale la necessità si manifesta, così il poeta paragona e sceglie la parola poetica non paragonandola all’Ente esteriore ma bensì alla necessità che si manifesta in esso: questo non è però mai un momento di conoscenza del fondamento. Solo rispondendo alla domanda che ci siamo posti sulle forme della necessità, sulla base della quale può essere distinta una molteplicità, si evince, contrariamente a quanto affermato da Heidegger, che i tre modi del fondamento che egli ha indicato come motivo del manifestarsi, fondazione (trascendenza), Essere-nel-mondo (affettività) e possibilità del perché, solo in questo contesto possano essere definiti chiaramente. È importante precisare che attraverso il carattere originario e ! 285!  immediato della necessità dell’Essere dall’Ente, il problema delle forme dell’Essere si cela dietro quello dei diversi attimi per l’ambiguità della parola tedesca Augenblick che può essere intesa sia come visione e dunque manifestazione dell’Ente sia come espressione temporale di attimo, momento. Infatti l’Essere oggetto della nostra indagine che nel dubbio si manifesta originariamente come necessità di espressione del generale ci offre una ben determinata visione di svariati Enti. Questa molteplicità in quanto tale è solamente un momento del compiersi di una qualsiasi necessità. Da ciò si evince anche un ben determinato arco temporale: poiché sulla base dell'imporsi di una qualunque necessità si manifesta un determinato “prima” e “dopo”, una visuale di ciò che vediamo “già” e di ciò che non vediamo “ancora”, un passato e un futuro. Saggi: “Il problema della metafisica platonica” (Bari, Laterza); “Dell’apparire e dell’essere”; “Linee della filosofia” (Firenze, Nuova Italia);“Viaggiare ed errare -- un confronto” (Napoli, Sole);“Arte e Mito” (Napoli, Sole);“Arte come anti-arte. – il bello nell’eta antica” (Torino, Paravia); “Potenza dell’immagine – ri-valutazione della retorica, Milano, Guerini);“Potenza della fantasia” – “Per una storia del pensiero occidentale, Napoli, Guida, “Retorica come filosofia. La tradizione umanistica, Napoli, Sole, Heidegger e il problema dell’Umanesimo, Napoli, Guida, Umanesimo e retorica. Il problema della follia, Modena, Mucchi, La filosofia dell’umanesimo. un problema epocale, Napoli, Tempi Moderni, La preminenza della parola metaforica. Heidegger, Meister Eckhart, Novalis, Modena, Mucchi, La metafora inaudita, a cura di M. Marassi, Palermo, Aesthetica, Vico e l’umanesimo, Milano, Guerini, Filosofare noetico, non metafisico. L’Alcesti e il Don Chisciotte” (Lecce, Congedo, “Il dramma della metafora. Euripide, Eschilo, Sofocle, Ovidio, Roma, L’officina tipografica, A proposito di un Cinquantenario, in «Rassegna Nazionale», Roma; Germania, in «Rassegna Nazionale», Roma, I giovani e il Partito Popolare Italiano, in «Rassegna Nazionale», Roma,  Il Tragico, in «Rassegna Nazionale», Roma Scolastica e storia. A proposito di due articoli di Saitta, in «Rassegna Nazionale», Roma Machiavelli e lo stato, in «Rassegna nazionale», Roma La dialettica dell’amore. Il dolore di Tristano, in «Rassegna Nazionale», Roma La filosofia dell’azione «Rivista di filosofia», Milano Empirismo e naturalismo «Rivista di filosofia», Milano Sviluppo della fenomenologia «Rivista di filosofia», Milano Metafisica immanente  «Giornale critico della filosofia italiana», Milano L’equilibrio come ideale di vita «Rivista di filosofia», Milano Platonismo «Rivista di filosofia», Milano La filosofia in eta antica in «Rivista di filosofia», Milano La reminiscenza «Giornale critico della filosofia italiana», Firenze “Paideia ed umanesimo”, in «Sophia», Napoli L’eterno ritorno «Sophia», Napoli Logo, in «Archivio di filosofia», Roma La nulla «Giornale critico della filosofia italiana», Firenze La tradizione speculativa in «Giornale critico della filosofia italiana», Firenze Esistenzialismo e marxismo, in Atti del Congresso di Filosofia (Roma),  Il materialismo storico, a cura di E. Castelli, Milano, Castellani Illusione, natura e critica del mondo intellettuale moderno, in Tradizioni della poesia italiana contemporanea, a cura di R. Copioli, Roma, Theoria, La filosofia nella tradizione umanistica, in Actas del primer Congreso Nacional de Filosofia, I, a cura di L. J. Guerrero, Mendoza-Buenos Aires.Il concetto di “realismo politico”, in Actas del primer Congreso Nacional de Filosofia, III, a cura di L. J. Guerrero, Mendoza-Buenos Aires, Il fondamento esistenziale dell’Umanesimo, in «Archivio di filosofia», Umanesimo e Machiavellismo, Padova Il tempo umano. L’umanesimo contro la “techne”, in Umanesimo e scienza politica. Atti del Congresso Internazionale di Studi Umanistici (Roma-Firenze), a cura di E. Castelli, Milano Esperienza europea nell’ambito sud-americano. Il problema di un filosofare sud-americano, «Archivio di filosofia», Filosofia e Psicopatologia, Milano L’uomo e l’esperienza dell’oggettività, in «Archivio di Filosofia», Il compito della metafisica, Milano Apocalisse e storia, in «Archivio di filosofia», Apocalisse e Insecuritas, Padova L’esperienza dell’assenza del mondo, in «Aut-Aut» Mito e arte, in «Rivista di filosofia», Torino, Assenza di mondo, in «Archivio di filosofia», La diaristica filosofica, Roma Significare arcaico (Fede e ragione), in «Archivio di filosofia», Mito e Fede, Roma Filosofia critica o filosofia topica? Il dualismo di pathos e ragione, in «Archivio di filosofia», Campanella e Vico, Padova Il nome di Dio: un problema filosofico o teologico? La morte di Dio «Archivio di filosofia», L’analisi del linguaggio teologico. Il nome di Dio, Padova L’infallibilità. L’aspetto filosofico e teologico, Padova La mania ingenosa. Il significato filosofico del manierismo, in L’umanesimo e “La Follia”, a cura di E. Castelli, Roma, Abete «Studi di Estetica», Bologna, Rivoluzione e realtà nell’arte (Il caso Wagner), in «Il Verri», Bologna, Idealismo, marxismo e umanesimo, in «La Cultura», Marxismo, umanesimo e il problema della fantasia nelle opere di Vico, in Vico e l’umanesimo, Milano, Guerini Premessa a P. Polito, Lamartine a Napoli e nelle isole del Golfo, Napoli, Fiorentino, La priorità del senso comune e della fantasia in Vico, in Leggere Vico, a cura di E. Riverso, Milano, Spirali, La priorità del senso comune e della fantasia. L’importanza filosofica di Vico oggi, in Vico e l’umanesimo, Milano, Guerini Risposta dell’autore, in Vico e l’umanesimo, Milano, Guerini Il terrore della secolarizzazione. La metafora vuota, in «Archivio di filosofia», Ermetica della secolarizzazione, Padova Una morte, in «Archivio di filosofia», L’Ermeneutica della Filosofia della Religione, Padova Preminenza del linguaggio razionale o del linguaggio metaforico? La tradizione umanistica, in «Archivio di filosofia», L’Ermeneutica della Filosofia della Religione, Padova, Testimonianza, in Ricordando Luigi Scaravelli, Firenze Politica e religione. La riscoperta della tradizione latina, in «Archivio di filosofia», Religione e Politica, Padova Religione e Politica, Padova La priorità del senso comune e della fantasia in Vico, in Leggere Vico, a cura di E. Riverso, Milano, Spirali, La facoltà ingegnosa e il problema dell’inconscio. Ripensamento e attualità di Vico, in Vico oggi, a cura di A. Battistini, Roma, Armando, Vico contro Freud. Creratività e inconscio, in Vico e l’umanesimo, Milano, Guerini La notte, introduzione a E. Castelli, Itinerari e panorami, Padova, Cedam, Esistenza – Mito – Ermeneutica II, Ermeneutica e demitizzazione. Storia della filosofia, filosofia della religione, Cedam, L’umanesimo italiano e la tesi di Heidegger della fine della filosofia, in Vico e l’umanesimo, Milano, Guerini Storia del dramma teatrale come dramma del pensiero occidentale. Dramma sacro, profano e assurdo, in La rinascita della tragedia nell’Italia dell’Umanesimo, Atti del convegno di studio, Viterbo,  Sorbini Filosofia e religione di fronte alla morte, Padova, Cedam, Vico, Marx e Heidegger, in Vico e l’umanesimo, Milano, Guerini Il concetto di storia umana nell’Elogio della pazzia di Erasmo, in «Res Publica Litterarum»,Il ripudio del razionale, in Vico e l’umanesimo, Milano, Guerini Ermeneutica dell’“estraneità”. Originarietà della parola poetica. Heidegger, Ungaretti in «Studi di Estetica», Come conosciamo oggi l’opera d’arte?, Bologna G. B. Vico filosofo “epocale”, in Giambattista Vico, Poesia, Logica, Religione, a cura di G. Santinello, Brescia, Morcelliana,  Vico e l’umanesimo, Milano, Guerini Joyce e Vico. La demitizzazione del reale, in «Il Verri», Bologna, La funzione demitizzatrice della parola metaforica. Joyce e Vico, in «Quaderni della fondazione S. Carlo», Immagini e conoscenza, Modena, Vico e l’Umanesimo, Milano, Identità e differenza del pensiero metaforico, in «Il Cannocchiale», Napoli Il sublime e l’esperienza della parola, in Da Longino a Longino. I luoghi del Sublime, a cura di L. Russo, Palermo, Aesthetica, La metafora inaudita, Palermo, Aesthetica, Perché la retorica è filosofia, in Vico e l’umanesimo, Milano, Guerini Passione e illusione. Il principio freudiano del piacere e la teoria leopardiana delle illusioni, in «Nuovi Annali della Facoltà di Magistero dell’Università di Messina», Roma La metafora inaudita, Palermo, Aesthetica, L’umanesimo retorico e il primato della parola poetica, in «Helikon. Rivista di tradizione e cultura classica dell’Università di Messina», Roma La metafora “inaudita”: originarietà e paradossia della metafora, in «Quaderni d’italianistica», Toronto, L’opera di Proust è letteraria o filosofica? in Lo stile della ragione e le ragioni dello stile. Atti del Congresso di Estetica, a cura di F. Fanizza, Napoli, Tempi Moderni, L’antiumanesimo e il nazionalsocialismo di Heidegger. «Intersezioni», Bologna Il “De Deo abscondito” di Nicola da Cusa. Nel decennale della morte di E. Castelli, in «Archivio di filosofia», Teodicea oggi?, Padova  La filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosoifa europea oggi. Una discussione, in «La Provincia di Napoli. Rivista dell’Amministrazione Provinciale», Napoli Prolegomena ad una concezione della retorica. La phonè come elemento indeducibile del linguaggio, in «Il Verri», Modena, Leopardi e Freud. Attività metaforica o schizofrenica? In Leopardi e il pensiero moderno, a cura di C. Ferrucci, Milano, Feltrinelli, La metafora come linguaggio originario. L’“E” di Delfi e l’attività ingegnosa di C. Salutati, in «Quaderni della fondazione S. Carlo», Gli stili dell’argomentazione, Modena, Mucchi, L’impatto con Heidegger, in «Archivio di filosofia», La recezione italiana di Heidegger, Padova Heidegger e le vendette del tempo, in «Il Mattino», Napoli Presentazione a Aristotele, Scritti sul Piacere, a cura di R. Laurenti, Palermo, Aesthetica, La filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea, in Italian Echoes in the Rocky Mountains, a cura di S. Matteo, C. Donatelli Noble e M. U. Sowell, Brigham Young University,  Hölderlin e il divenire come trapasso, in Pensare l’Arte, a cura di L. Russo, «Aesthetica Preprint»,  L’abissalità del linguaggio. Considerazioni intorno a Hamann e Kant, in Il romanticismo tedesco, a cura di L. Rustichelli, Modena, Mucchi,  “Pensare l’arte” in funzione dello scritto di Hölderlin “Il divenire come trapasso” «Synthesis philosofica», Zagreb, Ricordi di Husserl e di Heidegger, intervista a cura di V. Mathieu, C. Rugafiori, C. Campagnolo, videocassetta e testo scritto, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, Esperienza come conoscenza. La poesia. Per Eugenio Mazzarella, in E. Mazzarella, Il singolare tenace, Porretta Terme, Zampighi. -------- SCRITTI SU ERNESTO GRASSI Calogero G., Recensione a E. Grassi, Il problema della metafisica platonica, Bari, 1992, in «Giornale critico della filosofia italiana», 1932, 4, XIII, pp. 304-308. De Ruggiero G., Recensione a E. Grassi, Il problema della metafisica platonica, Bari 1932, in «La Critica», 1932, 5, XXX, pp. 375-376. Gadamer H.-G., Recensione a E. Grassi, Il problema della metafisica platonica, Bari 1932, in «Kant- Studien», 1934, 1, 39, pp. 66-70. Preti G., Recensione a E. Grassi, Dell’Apparire e dell’Essere, Firenze 1933, in «Sophia», Napoli 1935, III, pp. 132-133. Ottaviano C., Recensione a E. Grassi, Vom Vorrang des Logos, München 1939, in «Sophia», Napoli 1938, III, pp. 397-399. Kudszus H., Der italienische Geist und die deutsche Philosophie. Zu dem Vortrag von prof. Grassi, «Deutsche Allgemeine Zeitung», Berlin 15. VI. 1939. Croce B., Recensione a E. Grassi, Vom Vorrang des Logos, München 1939, in «Critica», Napoli 1940, 1, XXXVI-XXXVII, pp. 39-41. Gadamer H.- G., Recensione a E. Grassi, Vom Vorrang des Logos, München 1939, in «Deutsche Literaturzeitung», Berlin 1940, 61, pp. 893-899. Bollnow O. F., Recensione a E. Grassi, Vom Vorrang des Logos, München 1939, in «Göttingische gelehrte Anzeigen», Göttingen 1940, 202, pp. 409-415. Gehlen A., Recensione a E. Grassi, Vom Vorrang des Logos, München 1939, in «Blätter für deutsche Philosophie», Berlin 1940, 14, pp. 317-318. Luporini C., Recensione a E. Grassi, Vom Vorrang des Logos, München 1939, in «Giornale critico ! 304!  della filosofia italiana», Firenze 1940, 8, XXI, pp. 60-66. Vanni-Rovighi S., Recensione a E. Grassi, Vom Vorrang des Logos, München 1939, in «Rivista di filosofia neo-scolastica», Milano 1940, 4, XXXII, pp. 309-314. Fabro C., Recensione a E. Grassi, Vom Vorrang des Logos, München 1939, in «Divus Thomas», 1941, XLIV, pp. 341-343. Müller M., Recensione a E. Grassi, Vom Vorrang des Logos, in «Philosophisches Jahrbuch», 1942, 2, 55, pp. 223-225. Croce B., Recensione a E. Grassi, Vom Vorrang des Logos, München 1939, in B. Croce, Pagine sparse, Bari, Laterza, 1943, III, pp. 312-315; 1960 (seconda edizione), pp. 406-410. Croce B., Recensione a Geistige Überlieferung. Ein Jahrbuch, a cura di E. Grassi et al., Berlin 1940, in B. Croce, Pagine sparse, Bari, Laterza, 1943, III, pp. 315-320, 1960 (seconda edizione), pp. 410- 415. Garin E., Recensione a E. Grassi, Der Beginn des modernen Denkens, in Geistige Überlieferung. Ein Jahrbuch, a cura di E. Grassi et al., Berlin 1940, in «Giornale critico della filosofia italiana», 1943, 3-4, XI, pp. 203-207. Vegas F., Recensione a E. Grassi e T. von Uexküll, Von Ursprung und Grenzen der Geisteswissenschaften und Naturwissenschaften, München 1950, in «Rivista Critica di Storia della Filosofia», 1951, 1, I, pp. 71-73. Popper K. R., Humanism and Reason, Recensione a E. Grassi e T. von Uexküll, Von Ursprung und Grenzen der Geisteswissenschaften und Naturwissenschaften, München 1950, in «The Philosophical Quarterly», 1952, II, pp. 166-171. Wisser R., Der Mensch ist wesentlich Seinsfrage, in «Frankfurter Allgemeine Zeitung», n. 243. Id., Die Kunst im Aufbau der menschlichen Welt, in «Frankfurter Allgemeine Zeitung», Literaturblatt, 21.3.1958, n. 68. Caracciolo A., Recensione a E. Grassi, Kunst und Mythos, Hamburg 1957, in «Rivista di Estetica», 1959, 1, IV, pp. 146-147. Wisser R., Liebe zum Logos. Zum 60. Geburtstag Ernesto Grassis, in «Frankfurter Allgemeine Zeitung», 3.5.1962, p. 16. Id., Jenseits des Ästhetischen, in «Frankfurter Allgemeine Zeitung», Literaturblatt, 27.7.1963, n. 171. Rivano J., La América ahistórica y sin mundo del humanista E. Grassi, in «Mapocho», 1964, 1, II, pp. 114-131. Wisser R., Das Mehr-als-Ästhetische der Kunst. Ernesto Grassis Theorien über Wirklichkeit und Möglichkeit als Wesen der Kunst, in «Zeitschrift für Religions-und Geistesgeschichte», 1965, 2/3, XVII, pp. 62-73, 161-168. Garin E., Cronache di filosofia italiana 1900-1943, Bari, Laterza 1966, vol. II, pp. 473-474. Santucci A., Esistenzialismo e filosofia italiana, Bologna, Il Mulino, 1967 (seconda edizione), pp. ! 305!  34-39. Seeger H., Antwort an Ernesto Grassi, in «Jahrbuch der Komischen Oper», Berlin 1969/1970, X, pp. 108- 115. Pareyson L., Studi sull’esistenzialismo, Firenze, Sansoni, 1971, pp. 40, 301-302. Carchia G., Recensione a E. Grassi, Macht des Bildes, Köln 1970, in «Rivista di Estetica», maggio- agosto 1971, 2, XVI, pp. 268-271. Bartoli F., Recensione a E. Grassi, Arte come antiarte, in «Il Verri», 1973, 2, quinta serie, pp. 134- 137. Bonelli G., Recensione a E. Grassi, Arte come antiarte, in «Rivista di Studi Crociani», 1973, X, pp. 359-362. Felsenstein W., Für Ernesto Grassi, in Studia Humanitatis. Ernesto Grassi zum 70. Geburtstag, a cura di E. Hora e E. Keßler, München, Fink, 1973, pp. 343-344. Hora E.-Kessler E. (a cura di), Studia Humanitatis. Ernesto Grassi zum 70. Geburtstag, München, Fink, 1973, pp. 344. Amà R., - Cervi D., presentazione di Rivoluzione e realtà dell’arte, in A. Banfi, Introduzione a Nietzsche. Lezioni 1933-34, a cura di D. Formaggio, Milano, ISEDI, 1974, pp. 180-181. Krois J. M., Comment on Professor Grassi’s Paper, in «Social Research», 1976, 3, XLIII, pp. 575- 577. Cantillo G., Recensione a E. Grassi, Humanismus und Marxismus. Zur Kritik der Verselbstständigung von Wissenschaft, Reinbek bei Hamburg 1973, in «Bollettino del Centro di Studi Vichiani», 1978, VIII, pp. 145-149. Giannini H., Experiencia y Filosofia. A proposito de la filosofia en Latinoamérica, in «Revista de Filosofia», Santiago de Chile, 1978, 1-2, XVI, pp. 25-32. Battistini A., Recensione a E. Grassi, Humanisme et marxisme, Lausanne 1978, in «Bollettino del Centro di Studi Vichiani», Napoli 1979, IX, pp. 202-203. Bareló J., Tradicionalismo y Filosofia, in «Rivista de Filosofia», Santiago de Chile 1979, 1, XVII, pp. 7-18. Kerènyi M., Ingenium contra Ratio, Recensione a E. Grassi, Die Macht der Phantasie, Königstein/Ts. 1979, in «Neue Zürcher Zeitung», 8.5.1980, p. 37. Verene D. P., Recensione a E. Grassi, Die Macht der Phantasie, Königstein/Ts. 1979. Id. Recensione a Rhetoric as Philosophy, University Park and London 1980, 13, pp. 279-282. Wesseler M., Phantasie und Wissenschaft. Zu einem neuen Buch von Ernesto Grassi, Recensione a E. Grassi, Die Macht der Phantasie, Königstein/Ts. 1979, in «Prisma. Zeitschrift der Gesamthochschule», Kassel 1980, 22, p. 100. Battistini A., Recensione a E. Grassi, Rhetoric as Philosophy, University Park and London 1980, in ! 306!  «Lingua e Stile», Bologna 1981, 4, XVI, pp. 695-696. Petrovic G., Grassijeva apologija mastovotog misljenje i djelovanja, Prefazione a E. Grassi, Móc maste, Zagreb, Skolska knjiga, 1981, pp. 5-19. Hora E., Der Philosoph als Reisender. Ernesto Grassi wird 80, in «Süddeutsche Zeitung», München, 30.4.1982, p.16. Black D. W., Recensione a E. Grassi, Rhetoric as Philosophy, University Park and London 1980, in New Vico Studies, Atlantic Highlands N. J., Humanities Press Inc., 1983, pp. 83-86. Mattioli E., Retorica e filosofia, Recensione a E. Grassi, Rhetoric as Philosophy, University Park and London 1980, in «Studi di Estetica», 1983, 3, XI, pp. 133-139. Neubaur C., Poetisch inspirierter Wissenschaftler. Ernesto Grassis Humanismus, in «Frankfurter Allgemeine Zeitung», 29.3.1983, p. 13. Heim M., A Philosophical Correspondence on Heidegger and Taoism, (tre lettere di E. Grassi), in «Journal of Chinese Philosophy», Honolulu 1984, XI, pp. 324-335. Mercier A., Grassi Ernesto, in Dictionnaire des Philosophes, Paris, P.U.F., 1984, pp. 1084-1086. Veit W., The Potency of Imagery. The Impotence of Rational Language. Ernesto Grassi’s Contribution to Modern Epistemology, in «Philosophy and Rhetoric», University Park and London 1984, 4, XVII, pp. 221-239. Foss S. K. – Foss K. A. – Trapp R., Ernesto Grassi, in Contemporary Perspektives and Rhetoric, Prospect Heights/Illinois, Waveland Press Inc., 1985, pp. 125-151. Vasoli C., Introduzione a E. Grassi, Heidegger e il problema dell’umanesimo, Napoli, Guida, 1985, pp. 7- 16. Barceló J., Recensione a E. Grassi, Heidegger and the Question of Renaissance Humanism, Binghampton/N.Y., 1983, in «Trilogia», Santiago de Chile 1986, 10, VI, pp. 108-111. Biuso A. G., Heidegger e l’Umanesimo, in «Alfa-beta», 1986, 84, VIII, p. 14. Verri A., Ernesto Grassi e la rivalutazione dell’umanesimo, in «Discorsi», 1986, 2, VI, pp. 239-247. Cantillo G., Intorno alla prima recezione del pensiero heideggeriano in Italia, in «Criterio. Nuova serie filosofica», Napoli 1986, 1, IV, parte I, pp. 22-33 e parte II, pp. 126-143. Hirsch E. F., Recensione a E. Grassi, Heidegger and the Question of Renaissance Humanism, Binghamton 1983, in « Journal of the History of Philosophy », 1986, 1, XXIV, pp. 122-123. Macciantelli M., Intervista a Ernesto Grassi, in «Incontri», Bologna, Gennaio 1986, 1, XXIV, pp. 41-49. Neubaur C., Die Weiterbewegung der Wahrheit. Ernesto Grassi über philosophische Probleme des Humanismus, in «Frankfurter Allgemeine Zeitung», 30.9.1986, 226, p. 24. Verene D. P., Response to Grassi. Remarks on German Idealism. Humanism, and the philosophical Function of Rhetoric, in «Philosophy and Rhetoric», University Park and London 1986, 2, XIX, pp. ! 307!  134- 137. Amoroso L., Recensione a Ernesto Grassi, Heidegger e il problema dell’umanesimo, Napoli 1985, in «Teoria», 1987, 1, VII, pp. 209-212. Bartolone G., Realizzare la filosofia attraverso la parola metaforica. Intervista al professor Ernesto Grassi protagonista del pensiero contemporaneo ed acuto studioso dell’Umanesimo, in «Gazzetta del sud», 29.4.1987, XXXVI. Brügger P. A., Der “andere” Humanismus. Ein Buch von Ernesto Grassi, Recensione a E. Grassi, Einführung in philosophische Probleme des Humanismus, Darmstadt 1986, in «Neue Zürcher Zeitung», 8.1.1987, p. 35. Gentili C., Recensione a Ernesto Grassi, Heidegger e il problema dell’Umanesimo, Napoli 1985, in «Studi di Estetica», Modena 1987, 1, XV, pp. 130-134. Cascavilla G., Ernesto Grassi. Dalla “differenza ontologica” al primato della metafora, in «Idee. Rivista di filosofia», 1987, 5-6, pp. 161-169. Nobécourt J., Dopo le documentate rivelazioni dell’ex discepolo di Farias. Un Heidegger indecente e servile, in «La Stampa», 22.10.1987, p. 3. Wehowsky S., Versuche der Vielfalt. Ernesto Grassi 85, in «Süddeutsche Zeitung», München 2- 3.5.1987, p. 15. Alunni C.-Paoletti C., Heidegger, la piste italienne, in «Libération», Paris 2.3.1988, pp. 40-41. Bono M., Si stampi, disse il Duce. Caso Heidegger. Un retroscena italiano. Intervista con Ernesto Grassi, in «Panorama», 20.3.1988, pp. 112-123. Fabre C., E Bottai usò Heidegger. Intervista con E. Grassi, in «L’Unità», 13.3.1988, p. 17. Pietropaolo D., Heidegger, Grassi e la riabilitazione dell’umanesimo, in «Belfagor», Firenze 1988, 4, XLIII, pp. 387-402. Pons A., Ernesto Grassi et le fascisme, in «Express», 4.2.1988, p. 80. Rossi L., Premessa a E. Grassi, La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale, Napoli 1988, pp. 5-14. Marassi M., Retorica, storicità ed umanesimo, postfazione a E. Grassi, La filosofia dell’Umanesimo: un problema epocale, Napoli, 1988, pp. 199-216. Bons E., Integratives Denken – Antirationalismus – Vico-Interpretation. Eine Untersuchung zur Philosophie Ernesto Grassis, Mainz, 1988, pp. 303. Amoroso L., Recensione a Anspruch und Widerspruch, a cura di E. Grassi e H. Schmale, München 1987, in «Theoria», 1988, 1, VIII, pp. 183-185. Heim M., Grassi’s Experiment. The Renaissance through Phenomenology, in «Research in Phenomenology», 1988, XVIII, pp. 233-263. Abbagnano N., Amor mi mosse che mi fa parlare (Ernesto Grassi filosofo di passioni e follia), in «Il ! 308!  Giornale», Inserto Lettere e Arti, 26.11.1989, p. I. Abbagnano N., Non sono strenne, in «Giornale», Inserto Lettere e Arti, 17.12.1989, p. II. Bottiroli G., Le parole e le cose, in «L’indice dei libri del mese», dicembre 1989, 10, VI, pp. 18-19. D’Acunto G., Ernesto Grassi e l’ermeneutica della parola metaforica, in «Il Cannocchiale», 1989, I, p. 23-43. Flisfisch M. I., Dr. Ernesto Grassi. El humanismo retórico y la primacia de la palabra poética, in «Limes», 1989-1990, 2, pp. 186-187. Grammatico G., Ernesto Grassi, Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, in «Limes», 1989-1990, 2, pp. 158-163. Rella F., Recensione a E. Grassi, Potenza dell’immagine, Milano 1989, in «La Repubblica. Mercurio, Supplemento settimanale di lettere, arte e scienza», 18.3.1989, p. 17. Bons E., Der Philosoph Ernesto Grassi. Integratives Denken. Antirationalismus. Vico- Interpretation, München, Fink, 1990, pp. 261. Carravetta P., Retorica ed ermeneutica. Il contributo di E. Grassi, in «Paradigmi», 1990, 24, VIII, pp. 501-519. Galimberti U., Tra ragione e passione c’è un ponte, in «Il Sole 24 ore», domenica 28.1.1990, p. 24. Lorch M., Recensione a E. Grassi, Renaissance Humanism, Binghamton/New York 1988, in Italian Echoes in the Rocky Mountains, a cura di S. Matteo, C. Donatelli Noble e M. U. Sowell, Utah, Provo, 1990, pp. 3-8. Marrone G., L’Umanesimo svelato ai sordi, in «Il Giornale di Sicilia», 14.12.1990, p. 25. Miccoli P., L’Umanesimo, “alba incompiuta” della tradizione latina, in «L’Osservatore romano», 12- 13.11.1990, p. 3. Niewöhner F., Recensione a E. Grassi, Renaissance Humanism, Binghamton/N. Y., 1988, in «Wolfenbütteler Renaissance Mitteilungen», Wiesbaden 1990, 2, XIV, pp. 101-102. Rosenfield L. W., Recensione a E. Grassi, Renaissance Humanism, Bighamton/N.Y., 1988, in «Philosophy and Rhetoric», University Park and London 1990, 4, 23, pp. 320-324. Verene D. P., Preface, introduzione a E. Grassi, Vico and Humanism, New York, 1990, pp. VII-XIII. Trad. spagnola in «Cuadernos sobre Vico», Sevilla 1993, 3, pp. 197-198. Von Bitter R., Der Zwist als Ursprung der Menschheit. Ernesto Grassi eröffnet Vorlesungsreihe in München, in «Süddeutsche Zeitung», München 22.5.1991, p. 12. Cascavilla G., La filosofia ingegnosa e la struttura arcaica della storicità. G. B. Vico nell’interpretazione di Ernesto Grassi, in Vico e il pensiero contemporaneo, a cura di Antonio Verri, Lecce, Milella, 1991, pp. 230-244. Cotroneo G., L’inquieto discepolo di Heidegger, in «Il Messaggero», Roma, 27.12.1991, p. 17. ! 309!  D’Acunto G., Vico, l’umanesimo, la retorica, in «Il Cannocchiale», 1991, 3, pp. 117-129. Droit R. D., Le savoir des pòetes, Recensione a E. Grassi, La métaphore inouie, Paris 1991, in Le Monde, Paris 12.4.1991, p. 22. Gabetta G., Il racconto della teoria, in «Immediati dintorni», 1991, pp. 70-72. Haas A. M., Die Macht der Bilder. Zum Tode von Ernesto Grassi, in «Neue Zürcher Gespräche», 31.12.1991. Miccoli P., Humanitas e retorica in Ernesto Grassi, in «Rinascita della Scuola», 1991, 6, pp. 429- 440. Neusch M., Grassi contre le rationalisme, Recensione a E. Grassi, La métaphore inouie, Paris 1991, in «La Croix», Paris 5.8.91. P. K., Mort du philosophe italien Ernesto Grassi, in «Le Monde», Paris 26.12.1991, p. 18. Pinchard B., Recensione a E. Grassi, La metaphore inouie, Paris 1991, in «Les Etudes», ottobre 1991. Pons A., Avant-propos, Introduzione a E. Grassi, La metaphore inouie, Paris 1991, pp. I-XII. Ritter H., Bildkräftiges Denken, in «Frankfurter Allgemeine Zeitung», 27.12.1991, p. 25. Sevilla-Fernàndez J. M., Nota necrologica. Ernesto Grassi, in «Cuadernos sobre Vico», W, Sevilla 1992, II, pp. 3-5. Soetje E., Eidos, logos e pathos. Nota su Ernesto Grassi, in «Rivista di Estetica», 1992, 39, 3, XXXI, pp. 97-103. Vattimo G., Grassi tra Vico e Heidegger. Il filosofo morto a Monaco, in «La Stampa», Torino, 27.12.1991, p. 16. Verene D. P., Premessa a E. Grassi, Vico e l’umanesimo, Milano, Guerini e Associati, 1992, pp. 9- 15. Verri A., Introduzione all’edizione italiana di E. Grassi, Vico e l’umanesimo, Milano, Guerini e Associati, 1992, pp. 9-15. Vincenzo J., Discovery of Italian Humanism. The case of Ernesto Grassi, in «Italian Culture», 1991, VIII, pp. 163-185. Vitiello V., Un umanista attento al linguaggio dei poeti. La scomparsa del filosofo E. Grassi, in «Il Mattino», Napoli 24.12.1991, p. 14. Zecchi S., L’ultimo allievo di Heidegger, in «Il Giornale», 27.12.1991, p. 5. Cacinovic-Puhovski N., Bildlichkeit. Grassi und die Folgen, in «Synthesis philosophica», Zagreb 1992, 13, VII, pp. 149-154. Traduzione serbocroata Slikovnost. Grassi i nakon njega, in «Filozofska istrazivanja», Zagreb 1992, 47, XII, pp. 859-862. Cassinari F., Recensione a E. Grassi, Il dramma della metafora, Napoli 1992, in «Informazione Filosofica», Napoli 1992, 6, III, p. 19. ! 310!  Hidalgo-Serna E., L’ultima metafora di Ernesto Grassi, postfazione a E. Grassi, Il dramma della metafora, Napoli 1992, pp. 173-175. Hidalgo-Serna E., In memoriam Ernesto Grassi, in «Synthesis philosophica», Zagreb 1992, 13, VII, p. 155. Trad. serbo-croata In memoriam Ernesto Grassi (1902-1991), in «Filozofska istravanja», Zagreb 1992, 47, XII, p. 863. Hidalgo-Serna E., Ha muerto Ernesto Grassi, el filósofo del Humanismo, in «Anthropos. Revista de documentación cientifica de la cultura», Barelona 1992, 133, p. 93. Hidalgo-Serna E., Die Unbleitbarkeit der Sprache bei Juan Luis Vives, in «Synthesis Philosophica», Zagreb 1992, 13, pp. 157-168. Trad. serbo-croata Neizvedivost jezika kod Juana Luisa Vivesa, in «Filozofska istrazivanja», Zagreb 1992, 47, pp. 865-874. Konnersmann R., Zeit für einen Gegen-Aristoteles. Auge blinzt und Ohr erstaunet. Grassis Apologie der Metapher, Recensione a E. Grassi, Die unerhörte Metapher, Frankfurt a. M., 1992, in «Frankfurter Allgemeine Zeitung», 20.10.1992. Mattioli E., Ricordo di Ernesto Grassi e Gianfranco Folena, in «Testo a Fronte», Napoli 1992, 7, V, pp. 43-45. Miccoli P., Una acuta rivisitazione della tradizione umanistica, in «Tempo Presente», 1992, 137- 138, pp. 42-45. Müller W. J., Ereignis. Gespräch. Zum Tod Ernesto Grassis, in «Bayernkurier», 11.1. 1992. Petrovic G., Marx, Arbeit und Gelassenheit. Ein Brief an Ernesto Grassi, in «Synthesis philosophica», Zagreb 1992, 13, VII, pp. 103-124. Ristampato in Arbeit und Gelassenheit. Zwei Grundformen des Umgangs mit Natur. Zürcher Gespräche III, a cura di Ernesto Grassi-Hugo Schmale, München, Fink, 1994, pp. 235-263. Trad. serbo-croata Marx, rad i opustenost. Pismo Ernesto Grassiju, in «Filozofska istrazivanja», Zagreb 1992, 47, XII, pp. 821-838. Pietropaolo D., Grassi, Vico and the Defense of the Humanist Tradition, in «New Vico Studies», New York, Atlantic Highlands, 1992, 10, pp. 1-10. Pons A., Ernesto Grassi, in «Enzyclopedia Universalis», Paris 1992, p. 548. Skoric G., Zum Thema. Zur Erinnerung an Ernesto Grassi, in «Synthesis Philosophica», Zagreb 1992, 1, VII, pp. 81-83. Traduzione serbocroata Uz temu. U spomen na Ernesta Grassija, in «Filozofska istravanja», Zagreb 1992, 4, XII, pp. 811-813. Veljak L., Rehabilitierung der lateinischer und humanistischen Tradition. Grassi versus Hegel, in «Synthesis Philosophica», Zagreb 1992, 13, VII, pp. 183-192. Traduzione serbocroata Rehabilitacija latinske i humasticke tradicije. Grassi versus Hegel, in «Filosofska istrazivanja», Zagreb 1992, 47, XII, pp. 885- 892. Verri A., Ricordo di Ernesto Grassi, in «Informazione Filosofica», Napoli 1992, 6, III, pp. 16-18. Wisser R., Erinnerung an Ernesto Grassi. Schwerpunkt Kunst und Welt, in «Synthesis Philosophica», Zagreb 1992, 13, VII, pp. 125-148. Trad. serbo-croata Sjecanje na Ernesta Grassija. Teziste: Umjetnost i svijet, in «Filozofska istrazivanja», Zagreb 1992, 47, XII, pp. 839-857. Banic-Pajnic E., The Problem of “Humanism” of Humanism (in serbo-croato), in «Prilozi», 1992, ! 311!  35- 36, 1-2, pp. 5-25. Compadre C., Recensione a E. Grassi, La filosofia del humansimo, Barcelona 1993, in «Naturaleza y Gracia», Salamanca 1993, 1, XI, p.129. Fuentes R., La esperanza humanista, Recensione a E. Grassi, Barcelona 1993, in «ABC literario», 101, Madrid 8.10.1993. Hidalgo-Serna E., Grassi y la primacia de la palabra en el Humanismo, introduzione a Ernesto Grassi, La filosofia del Humanismo. Preeminencia de la palabra, Barcelona, Anthropos, 1993, pp. VII-XV. Malagoli E., A Ischia convegno di studi su Ernesto Grassi, in «Il Golfo», Ischia 3.10.1993, p. 8. Marassi M., Metafora, dramma dell’umanità, in «Il Giornale di Napoli», Napoli 3.10.1993, p. 8. Mate R., Un modo espanol de pensar, Recensione a E. Grassi, La filosofia del Humanismo, Barelona 1993, in «El Pais», Madrid 4.9.93., p. 12. Tommasi R., “Essere e tempo” di Martin Heidegger in Italia (1928-1948), Milano, Glossa, 1993, pp. 157-163, 170-175. Verri A., Ernesto Grassi sull’Umanesimo e Heidegger, in «Il Veltro », 1993, 3-4, XXXVII, pp. 305- 326. Ristampato col titolo Ricordo di Ernesto Grassi, in Storia e Humanitas. Momenti del pensiero filosofico moderno e contemporaneo, Galatina, Congedo Editore, 1995, pp. 41-45. Huelva Unternbäumen E., Kunst und Logos. Ernesto Grassis Ästhetik als Vermittlung zwischen italienischer und deutscher Philosophie, in «Widerspruch», München 1994, 26, pp. 57-68. Muller P., Profils d’ Ernesto Grassi, in «Revue de Theologie et de Philosophie», 1994, 126, 4, pp. 345-352. Fierz C. L., Philosophical Implications of Ernesto Grassi. A New Foundation of Philosophy?, in «Philosophy and Rhetoric , University Park and London, 1994, 27, II, pp. 104-120. Moore J. G., Recensione a E. Bons, Integratives Denken – Antirationalismus – Vico-Interpretation. Eine Untersucbung zur Philosophie Ernesto Grassi, Mainz, 1988, in «Philosophy and Rhetoric», University Park and London, 1994, 27, pp. 441-446. Fontane-De Visscher L., Un débat sur l’humanisme. Heidegger et E. Grassi, in «Revue philosophique de Louvain», 3 (1995), pp. 285-330. Simonetta M., Filosofia e potere: su Ernesto Grassi, in «Intersezioni», XV, 3, (1995), pp. 463-471. Mooney M. E., The Tragedy of the rationalistic Process, in «Semiotica», 1995, 104, 3-4, pp. 265- 276. Marassi M., Esperienza e passione. Ernesto Grassi e il problema del fondamento, in Studi in memoria di Ernesto Grassi, a cura di E. Hidalgo-Serna e M. Marassi, Napoli, La Città Del sole, 1996, pp. 19- 50. Gentili C., Concezione e funzione del mito nel pensiero di Ernesto Grassi, in Studi in memoria di Ernesto Grassi, cit. pp. 51-74. ! 312!  Bons E., Il pensiero di Ernesto Grassi. Una breve sintesi, in Studi in memoria di Ernesto Grassi, cit. pp. 75-98. Veit W. F., Critica radicale della ragione – O l’altro rispetto alla ragione: la sfida della retorica, in Studi in memoria di Ernesto Grassi, cit., pp. 99-126. Petrovic G., Lavoro e abbandono. Lettera a Ernesto Grassi, in Studi in memoria di Ernesto Grassi, cit., pp. 127-158. Wisser R., Ricordo di Ernesto Grassi. Arte e mondo, in Studi in memoria di Ernesto Grassi, cit., pp. 159-192. Pietropaolo D., Giuseppe Bottai e la fondazione dell’Istituto Studia humanitatis, in Studi in memoria di Ernesto Grassi, cit., pp. 193-210. Von Schwerin M. N. D., Gli anni di fondazione e la prima attività promossa dal Centro Italiano di Studi Umanistici e filosofici di Monaco: un ricordo, in Studi in memoria di Ernesto Grassi, cit., pp. 211-223. Kessler E., L’attività di Ernesto Grassi all’Università di Monaco di Baviera dal 1948 al 1974, in Studi in memoria di Ernesto Grassi, cit., pp. 225-240. Barceló J., Ernesto Grassi e la sua esperienza sudamericana, in Studi in memoria di Ernesto Grassi, cit., pp. 241-254. Neher M., Ernesto Grassi curatore della Rowohlt Deutsche Enziklopädie. Radici critico-culturali, programmi e primi inizi, in Studi in memoria di Ernesto Grassi, cit., pp. 255-287. Verene D. P., Grassi in America, in Studi in memoria di Ernesto Grassi, cit., pp. 289-303. Mathieu V., I temi di Grassi nei “Colloqui zurighesi”, in Studi in memoria di Ernesto Grassi, cit., pp. 305-314. Schmale H., Lo spirito dei Colloqui di Zurigo, in Studi in memoria di Ernesto Grassi, cit., pp. 315- 324. Keßler E., Il vero, il buono e il bello. L’ascesa del bello nella filosofia del Rinascimento, in Studi in memoria di Ernesto Grassi, cit., pp. 325-346. Vasoli C., Sperone Speroni e il luogo della retorica nel sistema del sapere, in Studi in memoria di Ernesto Grassi, cit., pp. 347-370. Cantillo G., Ratio e iventio nell’interpretazione dell’umanesimo, in Studi in memoria di Ernesto Grassi, cit., pp. 370-378. Tagliacozzo G., L’istante iniziale della carriera vichiana di Grassi, in Studi in memoria di Ernesto Grassi, cit., pp. 379-384. Battistini A., Vico e l’Umanesimo inquieto di Ernesto Grassi, in Studi in memoria di Ernesto Grassi, cit., pp. 385-404. Verri A., Ernesto Grassi: linguaggio e civiltà in Vico, in Studi in memoria di Ernesto Grassi, cit., pp. 405-424. ! 313!  Amoroso L., Heidegger e la metafisica, in Studi in memoria di Ernesto Grassi, cit., pp. 447-470. Vincenzo J., La ripresa grassiana di Vico, l’unità di pietà e sapienza, in Studi in memoria di Ernesto Grassi, cit., pp. 471-491. Mattioli E., La teoria del bello nell’antichità secondo Ernesto Grassi, in Studi in memoria di Ernesto Grassi, cit., pp. 493-504. Lombardo G., Ernesto Grassi lettore del “perì hypsos”, in Studi in memoria di Ernesto Grassi, cit., pp. 505-526. Bornschauer L., La filosofia nell’orizzonte della tragedia attica. Riflessioni sull’opera di Ernesto Grassi “Il dramma della metafora”, in Studi in memoria di Ernesto Grassi, cit., pp. 527-550. Simonetta M., Il dramma della metafora. Grassi filologo del poeta, in Studi in memoria di Ernesto Grassi, cit., pp. 551-562. Di Cesare D., Note al “Monologo” di Novalis, in Studi in memoria di Ernesto Grassi, cit., pp. 563- 584. Kaiser H., Il problema della metafora vuota in Ernesto Grassi. Un’osservazione sulla sua interpretazione di Jean Paul in Studi in memoria di Ernesto Grassi, in Studi in memoria di Ernesto Grassi, cit., pp. 587-602. Contini A., Esperienza e verità delle passioni: il Proust di Ernesto Grassi, in Studi in memoria di Ernesto Grassi, cit., pp. 603-630. Russo L., Grassi e Croce, in Studi in memoria di Ernesto Grassi, cit., pp. 631-638. D’Acunto G., L’appello della parola. La rilevanza filosofica del problema della metafora nella Auseinandersetzung di Grassi con Heidegger, in Studi in memoria di Ernesto Grassi, cit., pp. 639- 654. Messori R., Differire e trasferire. La spazialità del linguaggio metaforico, in Studi in memoria di Ernesto Grassi, cit., pp. 655-682. Baer E., Ernesto Grassi e la parola poetica di Paul Célan, in Studi in memoria di Ernesto Grassi, cit., pp. 683-706. Hidalgo-Serna E., La poetica dell’Umanesimo di Octavio Paz, in Studi in memoria di Ernesto Grassi, cit., pp. 755-776. Gentili C., Introduzione a Arte e Mito, Napoli, La Città Del Sole, 1996. Russo L., Presentazione a Un filosofo europeo. Ernesto Grassi, «Aesthetica Preprint», 48 ( 1996 ), pp. 5-6. Marassi M., Ernesto Grassi e l’esperienza del fine, in Un filosofo europeo. Ernesto Grassi, cit., pp. 7- 24. Di Cesare D., Metafora e differenza ontologica: Grassi vs Heidegger?, in Un filosofo europeo. Ernesto Grassi, cit., pp. 49-60. ! 314!  Amoroso L., Da Aristotele a Vico. A proposito di Grassi e il mito, in Un filosofo europeo. Ernesto Grassi, cit., pp. 61-76. Modica G., Oltre Heidegger e Vico. Sulla prospettiva filosofica di Ernesto Grassi, in Un filosofo europeo. Ernesto Grassi, cit., pp. 88. Mattioli E., Appendice: Prefazione alla seconda edizione di Die Theorie des Schönen in der Antike, pp. 89-90. Messori, R., Recensione a E. Grassi, Arte e mito, Napoli, La Città Del Sole, 1996, in «Poetiche. Letteratura e altro», Modena, 1996, 2, pp. 84-85. Fasano T., Recensione a Studi in memoria di Ernesto Grassi, a cura di E. Hidalgo-Serna e M. Marassi, Napoli, La Città Del Sole, 1996, in «Studi di Estetica», Bologna 1996, 14, XXIV, pp. 243-245. Pons A., Ernesto Grassi lecteur de Vico, in Présence de Vico, a cura di R. Pieri, Montpellier, Prevue, 1996, pp. 13-31. Messori R., Ernesto Grassi e l’estetica dell’ingenium, in «Studi di Estetica», Bologna, 1997, 16, XXV, pp. 37-64. Baer E., Noetic philosophing – Rhetorics Displacement of Metaphysics “Alcestis” and “Don Quixote”, in «Philosophy and Rhetoric», University Park and London, 1997, 30, 2, pp. 105-149. Ratto F., Recensione a Studi in memoria di Ernesto Grassi, a cura di E. Hidalgo-Serna e M. Marassi, Napoli, La Città Del Sole, 1996, in «Philosophy and Rhetoric», University Park and London, 1997, 31, pp. 236-247. Crivano F., Recensione a E. Grassi, Arte e mito, Napoli, La Città Del Sole, 1996, in «Studi di Estetica», 1998, 17, XVI, 268-271. Lo Bianco R., Recensione a Un filosofo europeo. Ernesto Grassi, in «Aesthetica Preprint», 48 (1996), in «Studi di Estetica», Bologna, 1998, 17, XXI, pp. 310-314. Messori R., Critica e difesa dell’estetico in Ernesto Grassi, in Un nuovo corso per l’estetica nel dibattito internazionale, Arezzo, Trauben, 1998, pp. 135-151. Marassi M., Introduzione a Viaggiare ed Errare. Un confronto col Sudamerica, Napoli, La Città Del Sole, 1999, pp. 11-31. Messori R., Paesaggio ed esperienza estetica, nota a Ernesto Grassi, Viaggiare ed errare, Napoli 1999, in «Studi di Estetica», Bologna, 1999, 20, XXVII, pp. 211-222. Marassi M., Introduzione a E. Grassi, Retorica come filosofia. La tradizione umanistica, Napoli, La Città Del Sole, 1999, pp. 11-27. Cacciatore G., America latina e pensiero europeo nella filosofia del viaggio di Ernesto Grassi, in «Cultura latinoamericana», Annali 1999-2000, nn. 1-2, pp. 367-381. Esiste una versione spagnola del saggio Amèrica latina y pensamiento europeo en la filosofia del viaje de Ernesto Grassi, pp. 79-91, in Id., El bùho y el còndor. Ensayos entorno a la filosofìa hispanoamericana, Planeta, Bogotà 2011. Pardo J. L., Ernesto Grassi reivinca la figura de Giambattista Vico par su oposición al cartesianismo, in «El Pais», Madrid 6.2.2000, p. 14. ! 315!  Messori R., Le forme dell’apparire. Estetica, ermeneutica e umanesimo nel pensiero di Ernesto Grassi, Centro Internazionale Studi di Estetica, Palermo 2001. Kozljanic R. J., Kunst und Mythos. Lebensphilosofische Untersuchungen zu Ernesso Grassi Begriff der Urwirklichkeit, Igel Verlag, Oldenburg 2001. Bisin L., Recensione a R. J. Kozljanic, Kunst und Mythos. Lebensphilosofische Untersuchungen zu Ernesso Grassi Begriff der Urwirklichkeit, Igel Verlag, Oldenburg 2001, in Rivista di filosofia Neo- scolastica, 2002, pp. 373-377. Raimondi R., La retorica d’oggi, il Mulino, Bologna 2002. Sevilla J. M., Retòrica como filosofìa. Ernesto Grassi, Vico y el problema del humanismo retòrico, pp. 73-106, in «Època», Monteagudo, 2003. Kozljanic R. J., Ernesto Grassi. Leben und Denken, München, Fink, 2003. McPhail M. L., Coherence as Representative Anecdote in the Rhetorics of Kenneth Burke and Ernesto Grassi, pp. 76-118, in Kenneth Burke and Contemporary European Thought: Rhetoric in Transition, University alabama press 2006 Limongelli S., La svolta metaforica dell’ontologia fondamentale, GDS, Edizioni di Vaprio d’Adda, Milano, 2007. Rubini R., Philology as Philosophy: the sources of Ernesto Grassi’s Postmodern Humanism, in «Annali d’italianistica», 2008, pp. 223-248. Büttmeyer W., Ernesto Grassi. Humanismus zwischen Faschismus und Nationalsozialismus, München, Alber 2009. Id., Rettifiche. Laurea, libera docenza e Studia Humanitatis di Ernesto Grassi, in «Giornale critico della filosofia italiana», LXXXIX, 2010, fasc. I, pp. 148-176. Barnes S. D., Between Chaos and Cosmos: Ernesto Grassi, William Faulkner, and the Compulsion to speak, pp. 127-149, in «Janus head», New York, 2011. Sànchez Espillaque J., La filosofìa ingeniosa de Ernesto Grassi y la rehabilitaciòn del humanismo retòrico renacentista, pp. 271-291, in «Cuadernos sobre Vico», Sevilla 2010. Ead., Ernesto Grassi y la filosofìa del Humanismo, Fenix Editora, Sevilla 2010. , v.65, Cacciatore, G., Verità e filologia. Prolegomeni ad una teoria critico-storicistica del neoumanesimo, in “Noema”, n. 2, 2011, pp.1-15, http://riviste.unimi.it/index.php/noema. Sevilla J. M., Prolegòmenos para una crìtica de la razòn problematica. Motivos en Vico y Ortega, Anthropos, Barcelona 2011, cap. III, pp. 146-227. Limongelli S., Il problema dell’umano nella filosofia di Ernesto Grassi, Ici, Napoli 2011. Blum, P. R., Rhetoric is the Home of the Trascendent: Ernesto Grassi’s Response to Heidegger’s Attack on Humanism, in Intellectual History Review, Routledg, London, 2012, pp. 261-287.  Barcelò J., Lenguaje poético y metáfora en la obra de Ernesto Grassi, in «Revista de Filosofía»  (2009), pp. 143-159.  ! 316!  D’Agostino S., La metafisica di Ernesto Grassi tra Platone e Blondel, pp. 275-295, in P. Pagani-S. D’Agostino-P. Bettineschi, La metafisica in Italia tra le due guerre, Enciclopedia italiana Treccani, Roma 2012. Stavru A., Das Schöpferische und das Göttliche: zur Frage der humanistischen Überlieferung bei Ernesto Grassi und Walter F. Otto, in Art, Intellectual Politics. Aa diachronic perspective, Brill, Leiden, 2013, pp. 337-361. Cacciatore G., In dialogo con Vico, Edizioni di Storia e letteratura, Roma 2015, soprattutto p. 38 nota 5. Di Somma A., La Hora de Pan en Reisen ohne anzukommen. Eine Konfrontation mit Sudamerika de Ernesto Grassi, in AA. VV, Magister et discipuli. Filosofìa, historia, politica y cultura, Penguin Random House, Bogotà 2016. Ead., “Meditazioni sudamericane”: la tappa sudamericana dell’onto-antropo-logia di Ernesto Grassi, in “Studi Interculturali”, 1, 2017. Ead., La realtà umana tra disvelamento e fondazione: l’incidenza di Vico e Leopardi nell’antropologia di Ernesto Grassi, in cds in ISPF Lab 2017. Ead., Il ruolo di Platone nell’onto-antropo-logia di Ernesto Grassi, in cds in A. Muni (a cura di), Platone nel pensiero moderno e contemporaneo, Limina mentis, 2017. Ead., Traduzione di E. Grassi, Der italienische Schopenhauer, in AA. VV., Schopenhauer im Denken der Gegenwart, Piper, München 1987, Lo Schopenhauer italiano, in cds in “Archivio di Storia della cultura” 2017. AA. VV., !  Ernesto Grassi in München. Aspekte von Werk und Wirkung, Atti del Convegno svoltosi a  Monaco, il 17 settembre 2014, in cds per l’editore Fink.Ernesto Grassi. Grassi. Keywords: la metafora inaudita, metafora, Vico, Ovidio -- Refs.: Luigi Speranza, “Grassi e Grice: il Vico di Grassi: metafora come implicatura” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51756306250/in/dateposted-public/

 

Grice e Grassi – dove fiorisce il limone – filosofia italiana – la giovinezza e il fascismo – parole ai giovane – al senato --  filosofia fascista – filosofia siciliana -- Luigi Speranza (Mascali). Filosofo.  Grice: “I like Grassi; he wrote on Faust!” Inizia gli studi ginnasiali presso il seminario di Acireale fino alla terza ginnasiale, proseguendoli poi a Catania, presso il liceo "Nicola Spedalieri".  Assiduo frequentatore della sala di lettura dell'Catania, conobbe Rapisardi, cui lo legò una profonda stima ed affinità.  Si laurea a Napoli con “La memoria delle immagini acustica e visiva della parola in rapporto specialmente al tempo di "fissazione", suggeritagli da Bianchi (Rivista di Freniatria). Si trasferì a Messina dove divenne assistente di Weiss. Comincia a provare le prime grosse delusioni per l'inconciliabile contrasto fra le esigenze pratiche della professione, che rischiavano di piegarlo a umilianti compromessi, e le alte aspirazioni della sua anima.  Muta bruscamente indirizzo, iscrivendosi alla facoltà di scienze naturali, conseguendo così la laurea con Mingazzini sostenendo una tesi intorno ai pesci di Ganzirri e Faro, che poi fu pubblicata su una rivista veneziana. Mingazzini, chiamato a Bologna, era felice di averlo come assistente. Il suo spirito inquieto cerca altre vie ed altri sbocchi, e così intraprese a frequentare le lezioni che si tenevano nella facoltà di filosofia a Catania, nel Palazzo Grassi, a Via Firenze. Prrofondamente influenzato dalle precedenti frequentazioni messinesi dove campeggiavano figure come Pascoli, col quale strinse amicizia, Cesca, Barbi, Mancini, Ardigò, Dandolo e Salvemini. Si laurea in filosofia presso l'ateneo catanese, con “L'unità dei fatti psichici fondamentali” (Muglia, Muggia, Messina). Insegna a Caltagirone e Catania. Inizia un'intensa attività che vide tra i suoi maggiori corrispondenti Gentile eSturzocon i quali intrattenne un copioso carteggio oltre al letterato Villaroel, Farinelli, Varisco, Majelli, Carabellese e Fassò.  Fonda Prisma a cui collabora, tra gli altri, anche M. Sgalambro.  Altre saggi: “Preludi a un commento alla vita del Faust” (Catania, Studio Moderno); “Commento alla vita di Faust” (Torino, Bocca); “Preludi storico-attualistici alla Critica della ragion pratica” (Catania, Crisafulli); “Medico mancato” (Catania, Legione); “L’assoluto”, Roma, Enciclopedia Treccani); “L’assoluto” Roma, Enciclopedia De Carlo. “Giornale critico della filosofia italiana” “Logica e metafisica”, “Goethe in Italia”, “La musica e le idee” – “Esegesi del Fausto” “tramonto di Occidente”; “REminiscenze e visione paesane”;  “La giovinezza e il fascismo – parole ai giovani” (Senato). “Mazzini”;  “Il faust e il tramonto dell’occidente o di una nuova corrente esegetica del Fuasto in Germania”; “Goethe in Italia”; Membro della Fondazione Giovanni Gentile per gli Studi Filosofici. Un filosofo dall'anima di poeta, Teoresi Rivista di cultura Filosofica. Da Herbart in poi la psicologi concepisce una unità al fondo di tutte le manifestazioni della vita psichica; ma visono tre modi principali di concepirla: l'intellettualismo (rappresentato specialmente perl'appunto da Herbart), il sentimentalismo (Horwicz,Regalia), e il volontarismo (Schopenhauer, Wundt, Fouillée ecc.). Questo terzo, è pare, all'ultima moda. Lo vediamo informare anche il neo-idealismo, che non si accorge di restringere ancora più la intui rione dal mondo in un piccolo cerchio antropomorfico. Il Grassi esamina le teorie metafisiche dello spirito e le critica tutte e tre, con Egli conclude per il monismo psicologico: ossia contrariamente ai riduttori favorevoli all'uno o all'altro elemento fra i tre fondamentali, si pronuncia per una unità primordiale di tutta la psiche, la quale unità consta ad un tempo di rappresentazioni, di sentimenti e di tendenze integrate in maniera indissolubile, ma capaci di assumere per evoluzione sempre più chiarezza e sempre più distinzione.Cosi Grassi si connette a due psicologi italiani insegnanti nello stesso Ateneo Patavino , ma purtanto dissimili: Bonatelli e Ardigò, due valori anche disugualmente conosciuti e apprezzati in Italia. Un'osservazione critica. Grassi inserisce molte citazioni originali in tedesco, il che (oltre a dar luogo a gravi errori di stampa) induce fatica inutile nell'animo del lettore. Non si è obbligati, tutti, di sapere il tedesco, massime quello dei filosofi e metafisici. Il Trieb, il Drang, il Lust, l’Unlust, il Selbsterhaltung, e simili parolear restano penosa mente. È upa ostentazione di coltura erudita che a scapito della intelligibilità della lettura. Qualche insolente potrebbe supporre che l'autore, messo di fronte ai testi, imbarazzato di tradurre in verbo e nerbo italiani i pensieri, si levi d'impiccio col cominciare periodi e frasi in italiano e col finirle in tedesco. No : si citi pure l'originale, ma in nota e nel testo si metta l'equivalente italiano: la chiarezza non deve essere uccisa dalla pedantesca precisione. RENDAA.,Ladissociazionepsicologica. Torino,F.lliBocca,1905. La dissociazione,dice l'Autore, è un processo normale dell'attività mentale:questa non soltanto associa,ma pur dissocia,poichè «distin  gabile competenza una inne non si può dire per ciò che faccia fica italiana;tutt'altro!L'argomento , ma molto utile filoso è di cosi alta portata che riesce in materia ; egli era stato preceduto dal Faggi opera inutile nella letteratura guardarlo da varie parti e con occhi differenti. E poi , oltre ai tre indirizzi principali, il Grassi parla anche di alcuni scrittori darii,fra cui Ward,Ebbinghaus secon giovane , Brentano, Lipps, Masci ecc. Questo scrittore ha coltura estesa anche nel campo biologico possiamo garantire che darà altri frutii, e succosi e forti, al ,e noi pari del presente volume. Va Uu op.in-8.°,di pag.200.   598 RASSEGNA DI FILOS. “Goethe in Italia”  L'opera fu scritta in tre momenti successivi:  l'Urfaust, scritto tra il 1773 e il 1775, influenzato dalle rappresentazioni del Faust di Christopher Marlowe a cui il giovane Goethe aveva assistito sotto forma di teatro delle marionette (vedi Dottor Faustper il personaggio storico). L'Urfaust appartiene culturalmente alla corrente letteraria tedesca dello Sturm und Drang e venne pubblicato, con alcune aggiunte, nel 1790 sotto il nome di "Faust. Ein Fragment". Più tardi (1808) pubblicò un ulteriore seguito, che già ricade nella corrente letteraria del classicismo, "Faust. Erster Teil" (Faust. Prima parte): viene aggiunto il Prologo in cielo e sono apportate modifiche significative all'Urfaust. Così Mefistofele appare a Faust promettendogli di fargli vivere un attimo di piacere tale da fargli desiderare che quell'attimo non trascorra mai. In cambio avrebbe avuto la sua anima. Faust è sicuro di sé: tale è la sua brama di piacere, azione e conoscenza, che è convinto che nulla mai al mondo lo sazierà tanto da fargli desiderare di fermare quell'attimo. Mefistofele gli fa conoscere la giovane Margarete (Margherita) - detta Gretelchen (Margheritina) e Gretchen (Greta) - la quale si innamora perdutamente di Faust, inconsapevole del fatto che lo slancio (in tedesco Streben) che ispira Faust è nient'altro che il dominio della materia e la ricerca del piacere. La sorte di Margherita sarà tragica. In Faust. Zweiter Teil (Faust. Seconda parte, 1832) la scena si allarga per celebrare l'unione tra letteratura classicistica e mondo classico: Faust seduce e viene sedotto da Elena di Troia. L'opera nel suo complesso risulta di 12.111 versi.   Fausto. Tragedia di Volfango Goethe, trad. di Giovita Scalvini e Giuseppe Gazzino, Le Monnier, Firenze, 1857; Fausto, trad. Giovita Scalvini, 2 voll., Sonzogno, Milano 1882-83 e 1905-06; come Faust, Einaudi, Torino 1953 Fausto. Tragedia di W. Goethe, trad. di F. Persico, Stamperia del Fibreno, Napoli, 1861 Fausto. Tragedia di Wolfgango Goethe, trad. di Andrea Maffei, 2 voll., Le Monnier, Firenze, 1869 Fausto. Parte Prima. Erminio e Dorotea di Wolfgango Goethe, trad. di Anselmo Guerrieri Gonzaga, Le Monnier, Firenze, 1873 Fausto. Tragedia del Goethe, trad. di G. Biagi, Sansoni, Firenze, 1900 Johan Wilhelm von Goethe, Faust. Prima parte, trad. di G. E. Vellani, Cogliati, Milano, 1927 Johann Wolfgang Goethe, Il Faust, 2 voll.: vol. I Versione, pp. 326 + vol. II Commento, pp. 423, versione integra dell'edizione critica di Weimar, Introduzione e trad. e commento di Guido Manacorda, Mondadori, Milano, 1932-45; Collana I Classici Contemporanei, pp. 774, Mondadori, Milano, 1949; ora in Faust, con un saggio introduttivo di Thomas Mann, testo tedesco a fronte, nota al testo di Giulio Schiavoni, Collana Classici, BUR, Milano, 2005-2013, ISBN 978-88-17-06698-3. Volfango Goethe, Faust. Tragedia, trad. di Cristina Baseggio, Facchi, Milano, 1923; Urfaust. Il "Faust" nella sua forma originaria, Introduzione e trad. e commento a cura di C. Baseggio, Collana I Grandi Scrittori Stranieri n.20, pp. 224, UTET, Torino, 1932-1944 Faust. Parte I, trad. di Liliana Scalero, P. Maglione, Roma, 1933; come Il primo Faust, BUR nn. 39-40, Milano, Rizzoli, 1949, pp.190; Il secondo Faust, ivi (BUR n. 339-341), 1951, pp.371. Faust, trad. di Vincenzo Errante, 2 voll.: vol. I pp. 310 + vol. II pp. 476., Sansoni, Firenze, 1941-1942 Faust, trad. di Enzio Cetrangolo, pp. 278, Federici Editore, Pesaro, 1942 [scelta] Faust, introduzioni di Mario Apollonio, note di Renato Maggi, Milano, Bietti. Il Faust. Versione d'arte con testo critico di Weimar a fronte, introduzione e commento a cura di Guido Manacorda. Vol. I, Collana Sansoniana Straniera, pp. 424, Sansoni, Firenze, 1949 Volfango Goethe, Faust, trad. e prefazione e note di Barbara Allason, pp. 450, Francesco De Silva, Torino, 1950, poi Faust, Introduzione di Cesare Cases, Collana NUE n.53, pp. 377, Einaudi, Torino, 1965, ISBN 88-06-00331-3 Faust, trad. di Giovita Scalvini, Collana Universale n.16, Einaudi, Torino, I ed. 1953 - II ed. riveduta su nuovi documenti, pp. 179, 1960; Giovita Scalvini. La traduzione del Faust di Goethe, a cura di B. Mirisola, Collana Biblioteca morcelliana, Brescia, Morcelliana, 2012 Faust. Urfaust, versione integrale, 2 voll., Introduzione e note a cura di Giovanni Vittorio Amoretti, Collana I Grandi Scrittori Stranieri, pp. 459, UTET, Torino, 1950 - pp. 532, 1959 - pp. 588, 1975; in Faust e Urfaust, Collana UEFn.500-501, Milano, Feltrinelli, 1965; ora in Collana Universale Economica. I Classici n.2018-2019, 2001-2014, Feltrinelli, ISBN 978-88-07-90068-6. Faust. Seconda parte, trad. di A. Buoso, Longo e Zoppelli, Treviso, 1962 Faust, Introduzione, trad. e note a cura di Franco Fortini, testo tedesco a fronte, pp. 1180, Collana I Meridiani, Mondadori, Milano, 1970-2009 ISBN 978-88-04-08800-4; Collana Biblioteca n.18, 2 voll., Mondadori, Milano, 1980-1987; Collana Grandi Classici, Oscar Mondadori, Milano, 1992-1997 - Collana Nuovi Classici, Oscar Mondadori, Milano, 2012 ISBN 978-88-04-52011-5 Faust, a cura di M. Cometa, Collana Idola, Novecento, Faust, trad. di M. Veneziani, pp. 592, Schena Editore, 1984 Faust, trad. di R. Hausbrandt, 2 voll., Dedolibri, 1987 Faust. Urfaust, trad. e cura di Andrea Casalegno, introduzione di Gert Mattenklott, prefazione di Erich Trunz, Collana I Libri della Spiga, pp. 1462, Garzanti Libri, Milano, 1990-1995 ISBN 978-88-11-58648-7; prefazione di Italo Alighiero Chiusano, Collana i grandi libri n.545-546, Garzanti Libri, Milano, 1994-2012 Faust. Testo tedesco, traduzione a fronte e commento di Vittorio Santoli. Prefazione di Fabrizio Cambi, pp. 472, edizioni aicc castrovillari; trad. di Vittori Santoli e V. Errante, Gulliver, Santarcangelo di Romagna, 1996 Faust, trad. e note di Andrea Casalegno, illustrazioni di Eugène Delacroix, presentazione di Mario Luzi, Collana I Grandi Libri Illustrati, pp. 294, Le Lettere, Firenze, 1997 ISBN 978-88-7166-347-0. Il Fausto di Gounod. Dimora casta e pura, dimora si o casta, il mefistofele di Boito. Grice: “I’m not happy with calling Grassi an Italian philosopher. For one, his selected essays were published in Sicily in a collection called “Biblioteca Siciliana di Cultura”. Leonardo Grassi. Grassi. Keywords: dove fiorisce il limone, la giovinezza e il fascismo: parole ai giovani – senato; Mazzini. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Grassi” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51754624207/in/dateposted-public/

 

Grice e Grataroli – sulla memoria – filosofia italiana – Luigi Speranza (Bergamo). Filosofo. Grice: “I like Grataoroli, the Pope called him ‘infamous heretic,” which is a good start! He wrote a book on ‘semiotics’ of the times, but it got lost – you cannot understand Bruno unless you do Grataroli – he philosophised on many subjects, including dreams and alchemy!” –Di una famiglia benestante dedita al commercio di tessuti di lana con la città di Venezia. Questa, originaria del borgo di Oneta, frazione di San Giovanni Bianco in val Brembana, oltre a possedere gran parte della contrada e dei terreni circostanti (tra cui anche l'edificio che attualmente ospita la casa di Arlecchino), annoverava tra i suoi membri una folta schiera di "phisici", tra i quali si segnalarono il nonno di Grataroli, fondatore del collegio dei fisici di Bergamo, e il padre di Grataroli, Pellegrino, fisico presso la città orobica. Publica una dispensa inerente osservazioni sul mondo della natura. Straparla de le cose pertinenti a la fede et di essa fede et de la autorità del papa, nega il purgatorio, le indulgenze, i suffragi per i defunti, la venerazione dei santi, la presenza del corpo di Cristo nell'eucaristia. Eeretico pertinace et scandaloso et infame, peste contra la fede. Insegna a Basilea. Presso l'ingresso dello studio aè presente un suo busto. Noti sono i suoi trattati sul potenziamento e il mantenimento della memoria, sulle epidemie di peste, sulle proprietà del vino, su erboristeria e veterinaria. Vi sono anche alcuni scritti inerenti all'alchimia. Si segnala per la teoria fisiognomica. Argomenta su Pomponazzi e da indicazioni sia per il mantenimento della salute che per l'utilizzo dei bagni termali, nonché un saggio in cui vengono raccontati i suoi viaggi e forniti consigli ai viaggiatori di quel tempo. Saggi: “De memoria reparanda, augenda ser-vandaque. De salute tuenda. De regimine iter argentium, vel aequitum, vel peditum, vel navi, vel curru, seu rheda”; “Turba Philosophorum”; “De literatorum et eorum qui magistratibus funguntur conservanda praeservandaeque valetitudine compendium” (Perna, Basilea); “Veræ alchemiæ artisque metallicae, citra aenigmata, doctrina, certusque” (Perna, Basilea); “De fato, libero arbitrio et providentia Dei” (Perna, Basilea); “Alchemiae, quam vocant, artisque metallicae, doctrina, certusque modus” (Perna, Basilea); “De balneis” (Bergamo). Quaderni brembani, Storia di Milano  Flavio Caroli, Storia della fisiognomica Arte e psicologia da Leonardo a Freud  M. Meriggi e A.Pastore, Le regole dei mestieri e delle professioni: A. Castoldi, Bergamo ed il suo territorio. Bergamo, Bolis, G. Gallizioli, Della vita degli studi e degli scritti di Gulielmo Grataroli filosofo (Bergamo, Locatelli); M. Meriggi, Le regole dei mestieri e delle professioni: C. Vasoli, Le filosofie.  del Rinascimento, T. Bottani e W. Taufer, Storie del Brembo. Fatti e personaggi dal Medioevo al Novecento, Ferrari, G. Tiraboschi, Storia della letteratura italiana, Napoli, Classici. Fisiognomica Mnemotecnica Peste. Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. “Prognostica naturalia de temporum omnimoda mtuatione, perpetua & cer-  ùjjìma Jigna rerum, quoe in Aere, Terra, aia Aqua sunt, aut Jìunt , krevìter, &  dare, ordine que alphabetico de scripta per Gulielmum Gratarohun Medicum P/iy/i-  cum y cuni Addinone undcam fìgnorum Motus Terra, ex Antonio Mi^aldo . Basilea?  apud Jacobum Pareum  in 8. Ibi-  dem apud Nicolaum Episcopium in 8. Tiguri in 8. Argentorati in 8. apud Iacobum Ofemianum .   V opera indicata , con le altre due  » De Memoria reparanda t e » De Prje-  diclione morum » > si trovano unite tiell*  accennata edizione di Argentina alli Trat-  tati di Chiromanzia , e di Astrologia natu-  rale di Giovanni Indagine , o sia Giovalini Hagen dotto Certosino del decimoquin-  to secolo ? ed al libro » De Sculptura »  di Pompeo Gauricio Matematico Napolita-  no . Perchè il Grataroli non venga taccia-  to di superstizione o di puerile credulità  a motivo delle cose da esso scritte parlan-  do dei Pronostici naturali e della Predi-  zione dei costumi , credo cosa necessaria  fedelmente trascrivere la Protesta , o sia  Avvertimento al Lettore, che si trova nel-  la edizione di Argentina Devi poi  » avvertire , che generalmente parlando le  » cose dette si verificano nella gente gros-  » solana y vale a dire di coloro , i quali  » non sono rigenerati dallo spirito e dalla  » grazia di Dio , perchè di questi è vero  » ciò che dicesi della depravata natura in  » Adamo , che » Naturce fequitur femina  quifque fucc » : Ma air opposto i rigenerati  » dallo Spirito Santo mortificano la pro-  « pria carne con i suoi vizj , e con le  » sue concupiscenze , sebbene la concu-  » piscenza ed il fomite del peccato vi re-  » stino sempre , e da moltissimi , o Dio ,  anche pur troppo si riducano alla pra-  » tica », A gloria di Gulielmo riporterò  anche la sua opinione sopra la causa del  flusso e riflusso del mare r avendo preco-     6 A   Aizzato più di due secoli prima quasi in-  tieramente il sistema del rinomatissimo Ca-  valiere Isacco Neuton circa lo stesso feno-  meno : opinione approvata ed insegnata  da quasi tutti i Filosofi posteriori a quel  subitine Geometra » : Il moto periodico del-  ia Luna ha grande predominio sopra li  corpi fluidi , quindi fa che il mare s in-  nalzi e si abbassi ^ singolarmente per una  particolare di lei influenza , e ne segua il  flusso , ed il riflusso secondo i differenti  aspetti relativi alla medesima , e secondo  che questi accadono nella maggiore -> o  minore forza della sua influenza : Accade  ciò perchè la Luna ha bensì certa in-  fluenza coir Oceano , ma non già coi la-  ghi e coi mari di poco estesa superficie .  Per la qual cosa mentre quel Pianeta si  muove dall' Oriente verso il mezzo gior-  no , fa che la superficie del mare s' innal-  zi , e che conseguentemente ne segua il  riflusso medesimo . Quando poi si muove  dal mezzo giorno verso Y occidente fa che  il mare si abbassi , e però ne nasce il ri-  flusso . Similmente allorché la Luna si  muove dall' occidente verso V angolo della  notte , o sia da settentrione verso V o-  i icnte , ne segue nuovamente il riflusso r>     II. » Guliclmi Grataroli Bergomatis  Artium > & Mediani? Docloris de Memo-  ria reparanda , augenda > fervandaque ,  Liber omnimoda Remedia > & Pnzceptio-  nes continens cujufivis facultans jhuliofis  apprime utilis «, immo maxime necejjlvius ,  Tiguri ? apud Andream Gesneruni  in 8. , Basilea apud Nicolaum Episcopium  in 8., Lugduni , apud Gabrielem  Coterium in 8., Francofurti apud  Joannem Vichelium in 12. Ibidem  apud Viduam Petri Fischeri 1596. in 12.,  Argentorati in 8. » Nel frontespi-  zio dell'accennata edizione di Argentina si  trovano queste parole : » Omnia ab An-  afore correcla P ancia finis > 6' ultimo edita «. La stessa Opera » De Memoria re-  paranda » è stata stampata unitamente all'  altro libro del Grataroli » De confervanda  Valetudine » da Enrico Rantzovio .   De Prcediclione morum naturaque hominum, cum ex infipeclione par*  tìum corporis > tutu aids modis «> Anelare  Gulielmo Gratarolo Medico , & Philojopho B ergo mate • Basilea 1554» in 8., Ti-  guri apud Andream Gesnerum in  8. , Lugduni apud Gabrielem Coterium ,  &* Argentorati 1 6*5 3» Li tre accennati libri De Memoria reparanda: De Temporum  omnimoda mutatìone Prognofìica: De Prce*  diclione morum » furono dati alla luce per  la prima vo ? ta dal Grataroli in Basilea , e  dedicati ad Edoardo VI. Re d'Inghilterra;  siccome pure la seconda edizione di tali  Opuscoli fatta nella medesima Città nell*  anno 1554. fu consagrata a Massimiliano  II. Re di Boemia lutto questo evidente-  mente si rileva dal primo periodo della  Dedicatoria medesima al secondo dei com-  mendati Sovrani , la quale cosi incomincia Nello scorso anno, ottimo Re,  per le pressanti istanze degli amici e del-  io stampatore > sono stato costretto a dare  alle stampe assai più presto di quello che  averei desiderato tre miei libretti intorno  ai quali erano già molti mesi che affatica-  va , e perchè essendo assente , molti er-  rori corsero nello stamparli, però riveduta  di nuovo queir opera , non solo ne cor-  ressi i difetti , ma in oltre impiegando  ogni possibile diligenza ed applicazione , e  prestandovi , come si suol dire , V ultima  mano , F ho accresciuta di parecchie belle  aggiunte a segno, che la presente edizio-  ne è superiore alla prima siccome lo è un  parto di nove mesi a quello di soli sette ,     *7  o pure Toro fino ali* argento • Avevo de-  dicata la prima ad Edoardo VI. Re d' In-  ghilterra , il quale innanzi anche di aver-  ne notizia , non che di averla potuta ve-  dere, fu costretto infelicemente a cambiare  la vita con la morte ». Tale Dedicatoria  fu scritta in- Basilea nel mese di Febbrajo  deiranno 1554. Nondimeno non posso  accertare in quale città siano stati stampa-  ti li sopradetti Opuscoli la prima volta che  dal Grataroli furono indirizzati alli due già  nominati Sovrani .  Pejlis Defcrìptio , Caujjoe > Si-  gnu omnigena > & Proefervatio . Anelare  Guliclmo Gratarolo Medico . Basilea? ; per  Ludovicum Lucium Anno Salutis Humana? Mense Augusto; Lugduni, apud  Gabrielem Coterium 1555. • La prima  edizione di tale veramente aureo Trattato  fu dedicata ad Ascanio Marzo Ambascia-  tore Cesareo presso i sette Cantoni della  Svizzera. Personaggio di molte cognizioni e  virtù fornito ed amico di Gulielmo ; e  questi appunto furono i motivi , che lo  spinsero a sceglierlo per Mecenate con  scrivergli :  La vostra conosciuta  virtù , e la non volgare vostra mansue-  tudine , non meno che il vostro amore per tutte le sane dottrine , e per la pie-  tà , mi hanno costretto a dedicarvi quest'  opera » . Perchè si veda quanto amava le  massime di pietà e di religione conviene  notare , che dopo di aver egli prescritti  neir indicata sua opera li rimedj fisici con-  tro la Peste , raccomanda con fervore li  spirituali con queste parole (81) » Ma  per brevemente indicare li remedj più for-  ti , più giovevoli e generali , prima di  tutto allontanate da voi la paura della  morte , ma non già il santo timore di  Dio . Non perciò doverete amare il peri-  colo , né incorrervi temerariamente , se  non sarete sforzati o dalla carità cri-  stiana del prossimo , o dalla gloria di no-  stro Signore Gesù Cristo > il quale devesi  anteporre a tutte le cose De Litteratorum > & eorurn qui  Magijlratibus funguntur confermando, proe-  fervandaque valetudine , illorum prcecipue  qui oetate confiftentìoe vel non lunge ab  ca ab funt > curn ex probatioribus Auctoribus 3 tum ex ratione , & fideli praxi >  & experientìa concinnatum . Basilea apud  Henricum Petri in 8., Francofurti in 12. apud Ioanncm Vchel ; Ibi-  dem apud Nicolaum Hofmannum \6 17.     ($9  in 8. » La stessa opera è stata tradotta  nella lingua Inglese da Tommaso Neuton P  e stampata in Londra Tanno in  1 2 . Questa dottissima opera è riferita dal  rinomatissimo Medico Ermanno Roerhave  nel suo » Methodus (ludii Medicorum » .   De Confervanda valetudine .  Francofurti apud Henricum Randzov .  Questa opera fu stampata unitamente all'  ultima registrata dallo stesso Randzov •Re girne n omnium iter agentium . Basilea? apud Hemicum Petri \66\.  Argentorati per Vendelinum Rihelium 1 s6%.  in 12. Colonia? apud Petrum Hofmannum  15/1. in 8. V edizione fatta di tale uti-  lissima opera in Argentina fu dedicata dal  Grataroli » alla vera pietà, (82) e nobil-  tà del chiarissimo Egenolfo Barone , e Si-  gnore in Rapolstein Hochen Ack e Ge-  rolzeck in Vassichin » e nel frontispizio  della medesima vi si leggono i seguenti la-  tini versi .   Ut peregrìnands vita ejl jubjecla procellis  Aeris , & varìis undique prejja malis ;   No/ira procelle* fi vario jìc turbine mundi  Volpi tur incertis anxia vita rnodis.     7°   Hoc bene pericolo Jervans prò tempore litro   Tutìor utque voles carpe Vìator iter.   VIII # De Laudibuj Medicina ejus  origine > progrejju ? militate . Argentora-  ti i 5 £3. in 8.   IX. De Pefle Thefes. Basilea in 8. Apud Henricum Petri .   De Vini natura , Artificio , &  Ufu , deque omni re potabili . Basilea ,  Apud Henricum Petri .   XI. Equorum P & Domejlicorum quo-  rundam Ànimalium remedia $ senza data  in tutti i Cataloghi da me veduti Lapidis Philojbphici nomendaturoe . Basilea La medesima opera trovasi inserita nel  Volume in foglio stampato in Colonia Tan-  no 1571. da Pietro Orstio , con il titolo  Veroe Alchimia? Scriptores .   XIII. De janitate menda . Argento-  rati 15 6 5. Trovo quest* opera citata dal  Mercklino nel suo Lindenius renovatus.   XIV. De Thermis Rhoctias , & Val-  lis Tranjc/ierìi Agri Bergomenjis . Si trova  stampata tale opera per la prima volta da  Tommaso Giunti in Venezia Tanno 1553.  nella sua copiosa raccolta di tutti quelli y     fi   che sino alla detta epoca avevano scritto   sopra i Bagni , ed è riportata alla pagina   192. , con questo titolo Guìlhdmus Gra-   tarolus ad Corradum Gefnerum Medicum   Tis'urimim de Thermìs Jxhoetìcìs Tutti  o   quelli i quali a mia cognizione hanno par-  lato di questo trattato di Guliclmo , sia  neir occasione di dare il Catalogo delle  sue opere , o • sia per semplice erudizione ,  e perfino il nostro Padre Donato Calvi ,  non hanno citata nessun' altra edizione  della stessa opera , che quella dei Giunti %  e tutti ne fecero sempre autore il Grataroli , senza mai mettere in dubbio questo  punto d' Istoria letteraria . Ciò nondimeno  non deve recare maraviglia , particolar-  mente delli scrittori oltramontani , e spe-  cialmente di quelli del decimosesto secolo :  ma fa bensì stupore , che siasi continuato  ad attribuire al Grataroli un simile tratta-  to , dopo la nitida e ben corretta edizio-  ne fatta dal valoroso Cornino Ventura X  anno 1582. in 4. di tutti i dotti Medici  Bergamaschi , che avevano scritto sopra i  Bagni di Tres^ore ; poiché apparisce , ed  è anche evidentemente provato da quel  diligente stampatore , e dagli eruditi e  perspicaci fratelli Licini suoi direttori, che     il trattato , che porta quel titolo , appar-  tiene sicuramente a Bartolommeo Albani  Medico Collegiato della Città di Bergamo.,  scritto dal medesimo sino dall'anno 1470.,  vale a dire quasi un secolo prima della  indicata edizione Veneta di Tommaso Giun-  ti • Di fatti T Opuscolo dell' Albani termi-  na precisamente con questa data : anno  mìllejìmo quadrigentefimo y & feptuagefimo  de menje Julii die vìge fimo Ceptimo . Per  ExeelL Artìum & Me dicince Dociorcm  Bartholomceum de Albano. Si fa ancora as-  sai ' più manifesta tale verità da quanto  afferma il Cornino alla decimaquarta pagi-  na della sua edizione degli Scrittori Berga-  maschi circa li Bagni Trescoriani , nella  annotazione seguente posta in fine dell* Q-  puscolo del sopracitato Bartolommeo Albani  per maggiore sua giustificazione » Da un  antichissimo esemplare manoscritto (83) ri-  trovato nella libreria de" Padri Domenica-  ni , il quale si vede eziandio trasportato  nella lingua Italiana , sotto il nome dello  stesso Bartolommeo Albani, nelieCase di Bar-  tolommeo Colleoni , lasciato al Luogo de Ha Pie-  tà, conservato sino a questo tempo ». Non  si deve adunque più dubitare , che il ve-  ro Autore di quel trattato non sia Bariolommeo Albani , mentre anche il Padre Cal-  vi così ha lasciato scritto nella sua Scena  Letteraria (84) >> Bartolommeo Albano della  Medicina celebre Professore fiorì verso la  metà del passato secolo -> e fu il primo y  che scrivesse sopra i nostri Bagni di Tre-  score j leggendosi le sue degne fatiche con  quelle d 5 altri Autori nel libro » De Bal-  neis Tranfchcrii Oppiai Bergomatis . Ber-  gomi Questa è T accennata edi-  zione di Cornino Ventura. Si noti in que-  sto luogo , che lo stesso Bibliografo indi-  cando l'opera del Grataroli (85) sopra io  stesso argomento , dopo di avere scritto  De Thermìs Rhoeticis, & Vallìs Tranfche-  rii agri ìSergomatis » aggiunge » Questo  si trova nell' opeia Veneta De Balneis » »  Adunque al Calvi era nota tanto V edi-  zione dei Giunti , quanto quella del Co-  rnino : dopo tutto questo, in quale manie-  ra si potrà difendere il Grataroli dalla tac-  cia di plagiario y e di un plagio domestico Ma niente dì più facile , Ricercato  Gulielmo da Corrado Gesnero suo grande  amico , che si chiamava il Plinio dell* Ale-  magna , perchè gli facesse avere delle no-  tizie circa le Terme , o Bagni della Re-  zia , e della Provincia Bergamasca , egli ^per fare cosa grata ad un amico di tanta  rinomanza , prese in mano il manoscritto  dell' Albani , vi aggiunse qualche cosa del  proprio , ed ancora molte cose di quelle  che aveva scritto sopra i Bagni di Tresco-  re il dotto Medico Lodovico Zimalia , le-  vando alcune cose che gli sembravano su-  perflue , o inesatte , con purgato stile la-  ^inò , e con veri termini tecnici rifuse il  manoscritto dell' Albani , e cosi riformato  ed ordinato lo spedì all' amico, unitamen-  te ad una erudita lettera relativa alle Ter-  me della Rezia : e siccome in quei giorni  il Gesnero si trovava in Venezia per de-  scrivere i Pesci , ed i Crostacei del mare  Adriatico , averà consegnato questo scritto  a Tommaso Giunti s che in quel tempo  era occupato a pubblicare la sua grande  edizione di tutti li Scrittori sopra i Bagni  e le aque Termali n siccome ho già di so-  pra notato . Indubitata cosa ella è che il  Grataroli chiude il suo scritto con queste  parole (86) » Ho raccolte brevemente, e  con chiarezza tutte le soprascritte cose a  benefizio , e sollievo del mio prossimo^ io  Gulielmo Grataroli Dottore di Medicina :  frutto tutto questo delle mie oculari osser-  vazioni , e della lettura di parecchi amichi Medici della mia patria » . Appunto   questa sua protesta dalle persone oneste  e giudiziose deve essere considerata una  confessione del fatto , ed ancora del di-  ritto che aveva acquistato di appropriarsi  quello scritto ; tanto più che il Grataroli  nello spedirlo al Gesnero , lo previene con  la seguente onorata e sincera dichiarazio-ne Vi spedisco l'intiera Descrizio-  ne delie Terme Bergamasche , le quali non  sono lontane dalla Rezia più di due gior-  nate di cammino • Di queste niente sino  al presente trovasi pubblicato con i tor-  eh) ; onde mi giova sperare , che diver-  ranno celebri anche in avvenire , siccome  lo furono in passato , dopo che Y occul-  ta, e quasi intieramente ignorata loro vir-  tù sarà fatta nota con le stampe ; purché  non vi rincresca accoppiare le erudizioni  Italiane alle Tedesche » . Poteva qui espri-  mersi Gulielmo con più candida , ed one-  sta sincerità ? Confessa di essere semplice  raccoglitore d^gli altrui scritti, mentre  dice » Ho raccolto dagli scritti di altri  antichi Medici Bergamaschi » Non chiama  sua quella fatica , ma dice semplicemen-  te (89) » Vi spedisco T intiera descrizione  delle Terme Bergamasche > delle quali  niente sin ad ora è stato pubblicato » Non  si deve dunque condannare di plagiario il  Grataroli $ e certamente non conviene , che  egli abbia avuto rimorso di avere commes-  so una cosi vile, e detestabile impostura ,  mentre essendo sopravissuto quasi quindici  anni dopo l'edizione Veneta di queir opu-  scolo , sicuramente non averebbe mancato  di giustificarsi presso il mondo erudito circa il preteso plagiato . Ecco tutto quello ,  si può dire in difesa di questo Medico Fi-  losofo sopra tale inssusistente accusa , né  altro posso aggiungere «> se non che far  noto al mio Leggitore , che per quante  diligenze abbia usate «> non mi è giammai  riuscito di ritrovare i due citati mano-  scritti , e che in oltre il Padre Donato  Calvi , a cui era nota Y edizione di Co-  rnino Ventura , non ha nella sua Scena  Letteraria dimostrato di sospettare dell' o-  nestà letteraria di Gulielmo Grataroli . Pri-  ma di terminare il presente articolo dei  Bagni di Trescore, riferirò il zelante uma-  nissimo Voto, con il quale Gulielmo chiu-  de la sua opera stampata dal Giunti Faccia Iddio , che la Bergamasca Re-  pubblica abbia diligente cura di rimettere  nel primiero loro stato questi saluberrimi  Bagni , che certamente lo può , e lo de-  ve fare » . Faccio io pure fervidi e sin-  ceri voti , perchè abbia effetto tutto ciò  che caldamente raccomanda il Grataroli ;  e per maggiormente incoraggire la mia  Città , ed i miei Cittadini a procurare al-  la patria un vantaggio così rimarcabile ,  vivamente li supplico a leggere T erudita  ed elegante latina lettera di Lodovico Zi-  malia , premessa al suo dottissimo Trattato  dei Bagni di Trescore , dedicato al suo  magnanimo Mecenate Bartolommeo Colleoni  Capitano Generale degli Eserciti della Serenissima Veneta Repubblica , (91) nella  quale prova con una evidenza che sorprende, e che deve intenerire chiunque  senta amore per la sua patria , che quello  famosissimo Eroe deve senza alcun dubbio  essere ugualmente ammirato , e commen-  dato sì per le sue azioni militari , che per  le sue virtù politiche , a benefizio «> ed  eterno vantaggio , e decoro di tutta la  sua amata nazione Bergamasca .   De Notis Antichrìsti, senza data, senza luogo, e senza nome dello stampatore . Tuttavia nominerò ancor io tra  le opere di Gulielmo un libro con tale ti-  tolo , ritrovandolo registrato dal Calvi , e   dal Papadopoli suo copiatore , ma non  dal Frehero , non dal Bayle , non dai  Maizeaux suo illustratore , non dal Mer-  ci: lino , non dall' Eloy , mentre tutti que-  sti si suppone avessero molto interesse di  far autore di un libro Anticattolico  Romano un erudito e dotto Italiano - sic-  come era da tutti considerato il Grataro-  li. Non però verun altro Letterato ha po-  sto nel Catalogo delle sue opere V accennato libro • D' altronde è cosa più che cer-  ta , che si può scrivere dei caratteri dell'  Anticristo anche dalla più religiosa e ze-  lante penna cattolica : ed è certo di più ,  che il Calvi , o non averebbe registrato  un così fatto libro , o non averebbe man-  cato di scriverne qualche parola in dete-  stazione del medesimo . Ma di più anco-  ra quanto al Papadopoli , probabilmente  questi non averà nemmeno veduta quest*  opera , essendosi intieramente riportato al  Padre Calvi , siccome egli stesso scrive  nella sua storia dell' Università di Padova  parlando di Gulielmo Grataroli . Avendo  in oltre riportati i titoli delle altre sue  opere senza data , alterati , e confasi no-  tabilmente, non sarebbe stato egli il primo  a giudicare di un libro mai veduto , nò   letto • A me stesso è accaduta la medesi-  ma sorte y non solo di poterlo trovare >  ma neppure di averne fondata contezza ,  per quante ricerche abbia usate non sola  in Italia , ma altresì nella Germania e nell*  Olanda . Sostengo finalmente , che se que-  st* opera esiste , che io non credo , o se  fu composta da Gulielmo Grataroli -, non  doveva essere tanto malvagia e perversa ,  quanto alcuni senza ragione sospettano ;  mentre che tutte le opere del Grataroli è  vero che sono poste nell* indice de' Libri  proibiti ? ma con la semplice cautela ;  Quandiu emendata non prodieri nt (92) «  Dal che si è da presumere che se que-  sto fosse stato un libro veramente Etero-  dosso , Santa Romana Chiesa lo avrebbe  posto nella classe dei libri empj e mal-  vagi di prima classe •   XV I. Confilium de Proe fervanone a  Vcnenis . Gulielmo Gratarolo Aucìore .  Hamburgi in 8.   Ecco registrate tutte quelle opere che  mi è riuscito di raccogliere, le quali furo-  no composte da questo dottissimo Medico  e Filosofo : ora passerò alla seconda classe  delle opere tradotte e fatte stampare dal  medesimo .    J. Joannis Braccfchi de Alchimia ,  cum propofìtionibus 29. Idem argume ri-  rum compendiofa brevitatc compleclens ex  Italico Aucloris Autographo in latinum  verni -> & edidit Gulìelmiù Gratarolas .  Basilea 156*1. in folio. Apud Henricum  Petri .   Non mi è noto dove sia stata stam-  pata la prima volta questa traduzione; ma  solo ne ho trovata un' altra ed zione fat-  ta in Amburgo neir anno 1^7 3. in 8.   II. Chirurgico rum quorundam Auclo-  rum Libros Gali ice fcriptos latine reddidit ?  & in cap'-ta difiribuit Gulielmus Grataro-  las • Lugduni in 8. Apud Gabrie-  lem Coterium ,   Classe terza delle opere d* altri Scrit-  tori fatte stampare con prefazioni , note y  e commenti da Gulielmo Grataroli .   I. Ve ree Àlchymìce Scriptores aliquota  cum Praefationibus 9 & D celar ationibus col-  Ifgit y & una edidit Gulielmus Gratarolas.  Basilea? , apud Henricum Pctri in  folio .   II. Vetri Apone njls de Vene ni s eo-  rumane Remediis , cum Additionibus Gu-  Udini Grataroli . Francofurti , apud Joan-  n ìm Velici in 8.     8i   III. Hermannl a Ncunare de no-  vo haclenufque inaudito Germanice morbo  ^pompar* idcft judatoria febre , quern vulgo   fudorem Britannicum vócant, libellus a Gu-  lielmo Gratarolo editus. Colonia in  4. Ermanno Ncunare era Conte e Pre-  vosto della Cattedrale di Colonia .   Simeonis Riquinii Judicium do~  clijjimum duabus epijìolis contentimi de  fiutato r ice Febris cura t ione editum a Gu~  lielmo Gratarolo Medico > & Philofopìio  B ergo mate . Colonia in j 6.   V. Joackini Schdlerii ^ o come altri  scrivono Sckilfeni de Pejìe Britannica  Commentariolus aureus a Gulielmo Grata-  rolo Medico & Philofopko editus . Basilea?  1 5 c> 3. Apud Henricum Petri in 12.   VI. Alexandri Benedicii de Pejlilen*  tioe Caujjls s Proe fervanone > & auxiliorum  Materia Liber Jingularis : Omnia ex ma-  nufcriptis exemplaribus auxit y & illujìravit  Gulielmus Gratarolus Medicus 9 & Pialo-  fophus . Basilea? 1559. in 4. Ibidem 1572.  in folio apud Henricum Petri .   VII. Correcliones , & Additiones ad  librum Italicum , falfo tributum Fallopio 7  infcriptum , Secreta Fallopii . Francofurti  irfoò. in folio , e i6"o£. cum operimi   6 1     82   Appendice Guliehni Grataroli Medici Bcr-  gomatis. Girolamo Mercuriali da Forlì coe-  taneo del Grataroli , soprannomato Mercu-  rio e Trimegisto per la vastissima sua  medica scienza , nell' erudita opera : De  ratione dijcendi Mediana/?! , edizione di  Argentina dell' anno 16*07. > m proposito  dei libri falsamente attribuiti a Gabriele  Fallopio , racconta che vi furono alcuni ,  i quali o per malignità , o per sordido  lucro cacciarono fuori opere sotto il nome  del Fallopio , che affatto non sono sue ,  come il libro dei Secreti . Opere indegne  del suo maestro , e soltanto capaci a to-  glierli quella vera , e soda gloria , la qua-  le si era acquistata presso i dotti •   Vili. Cenjura & Additiones in Li*-  bruni Alexii Pedemontani , ubi de Quinta  effentia funplici . Per Gulielmum Grataro-  lum . Venetiis apud Jun£hs in 12.  Conjìha , & Curationes variorum  doclijfimorum Medicorum de Sudore An-  glico a Guliehno Gratarolo edita . Colo-  nia apud Franciscum Hofmannum 1602.  in folio .   X. Thaduei F/orenini , che 1' Alido-  sio chiama Taddeo Aledrotto^ & Guliclnù  a Brixia Conjìlia • Colonia* i^c^. Apud     Iranciscum Hofmannum in 4. Per Gidid-  mum Gratarolum .   XI. Johannis de Kupecijja de Extra-  tione Quinte? ejfentioe omnium rerum prò  u fu Medico . Venetiis apud Juntìas 156*1.  in 1 2.   XII. Theatrum G aleni > hoc eft uni-  verjlv medicince a Galeno diffupz *> fpar-   f inique traduce Promptuarium completimi  & in meliorem ordinem redaclum per Lu->  dovicum Luride llum a Gulielmo Gratarolo  Medico } & Philojbpho editimi . Basilea?  15 68. Apud Henricum Petri in folio «>  Hamburgi apud Joanneni Neumannum >  & Georgium Volfium \6j2. in foiio.  Petri Pomponacii de Incanta*  tionibus libri in quibus dijficilUma Ca-  pita > & Quefliones Theologicoe , & Philosophicoe ex jana Orthodoxoe /idei doclrina  explicantur > & multis rarìs Hijìoriis > &  Glojfulis illujlrantur . Per Gulielmum Gra-  tarolum Medicum , & Philojbpkum Bergo-  matem > qui fé in omnibus Canonica^ Scriptum et Janclorum Dociorum Judicio fubmittit . Basilea? Kalendis Martii ex Offi-  cina Henripetrina in 8. cum Csesa-  rea Majestatis gratia & privilegio. Quesra  edizione del trattato deeli Incantesimi di     &4   Pofnponacio tu consagrata dal Grataroli a  Federico Conte Palatino con una nobilissi-  ma , e giudiziosissima dedicatoria impiega-  ta parte in encomj della virtù e meriti di  quel Principe, e parte in difendere Y ope-  ra di quel Filosofo Mantovano , del quale  afferma e sostiene , che fu a torto impu-  gnato , e perseguitato ; e che se fosse sta-  dio con prudenza e carità Cristiana tratta-  to , sarebbe riuscito uno dei più zelanti e  forti Apologisti della Chiesa Cattolica, come riferisce essere avvenuto a Giustino  Martire , al grande Agostino , ed a mol-  tissimi altri difensori della nostra santissima  religione • Di fatti Pomponacio per atte-  stato di tutti gli Scrittori della sua vita  mori cattolicamente (93) : » Voglio spera-  re , che Pomponacio prima di mandare  fuori T ultimo suo spirito , siasi per singolare grazia delia divina providenza e misericordia ravveduto e pentito , e che non  abbia perseverato neir ateismo . Imperoc-  ché tale essere stato il Pomponacio Y ho  udito spesse fiate a rammentare da Elideo  Medico di Forli chiarissimo ornamento del-  la medica scienza , ed uno de suoi più  cari discepoli » . Ho ricopiato questo sen-  timento dui Grataroli acciocché si conosca quanto grande fosse Sa sincerità e Tat-  , taccamento verso la Chiesa Cattolica. Gis-  berto Voet , o Voezio ^ dotto Professore  di Teologia -, e delle lingue Orientali neìl'  Università di Utrecht , inimico capitale  della Filosofia e di Cartesio , ha parlato  con molta lode della suddetta edizione, dicendo Gulielmo Grataroli Medico  Italiano , li di cui scritti vengono coiti*  mendaci per lo zelo di pietà e di religio-  ne che vi traspirano, e per li encomj de*  quali lo ricolma Teodoro Beza nelle sue  lettere , e per li suffragj di molti altri uo-  mini dotti, che lo trattarono nelle sue ope-  re stampate in Basilea difende Pomponacio  contro li suoi caluniatori, ed afferma, che  abbia terminati i suoi giorni assai piamente. Dalla medesima dedicatoria di Gulielmo da  esso scritta un anno solo prima del suo pae-  saggio all'altra vita si rileva, che già die-  ci anni innanzi egli aveva fatto stampare r  senza che mi sia riuscito di sapere in qua!  parte ^ il Trattato De ìncantationibus di  Pomponacio , perchè così scrive al Princi-  pe suo Mecenate * (9$) » La parte di  questo libro , che tratta delle cause , e  degli effetti naturali, o sia degli Incantesi-     u   mi fatta da me stampare sono già più di  dieci anni , T avevo dedicata e spedita  air Illustrissimo Principe Ottone Enrico  Elettore di felice memoria , e S. A, non  sdegnò di ringraziarmi con lettere di suo  proprio pugno » . Mi è piacciuto di nuo-  vamente riportare quanto Gulielmo Grata-  roli scrisse in quella sua elegante Dedica-  toria , perchè dalla premura e zelo da es-  so dimostrato sino agli ultimi periodi del-  la sua vita , e dalla universale estimazio-  ne , che hanno sempre costantemente fat-  ta palese in faccia di tutto il mondo tanti  letterati del primo ordine , d* ogni nazio-  ne , e d' ogni religione , della dottrina ,  della probità, e dell' amore del vero , e  del giusto , che ha conservato in tutte le  sue operazioni , possa invogliarsi qualche  valente ed erudita penna della sua , e  mia patria a tessere , ed in assai miglior  modo ordinare una più compiuta istoria  scevra dai difetti , dei quali questa mia  pur troppo è ripiena , di un Filosofo e  Medico j che ha impiegati e consagrati  tutti i suoi talenti , e tutti i momenti de'  tuoi giorni a benefizio e vantaggio della  languente umanità , ammaestrando ed illuminando il mondo tutto con le numerose produzioni del sublime suo ingegno, trasportando nella lingua più universale moltissime opere in diversi altri idiomi composte da più dotti e famosi scrittori ed in fine illustrando ed arricchindo di uti-  lissimi riflessi e profittevoli commenti un  numero immenso di interessanti volumi i quali contengono ogni genere di scienze e di cognizioni, siccome ne forma  una evidentissima prova il copioso catalogo delle sue opere da me coordinato ed esteso. Guglielmo Grataroli. Grataroli. Keywords: sulla memoria, de balneis, turba philosophorum. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Grataroli” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51689900199/in/photolist-2mKAsyK-2mKEftR

 

Grice e Grazia – il principio di benevolenza conversazionale -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Mesoraca). Filosofo. Grice: “Grazia is important to understand Galileo, whom Italians consider a philosopher!” Grice: “Grazia also wrote about architecture – a truly Renaissance man!”. Studia a Napoli dove venne condotto, dalla natia Calabria, da uno zio dell'ordine dei Teatini. Si laurea a Napoli. Studia filosofia. Si oppose al Criticismo kantiano e all'Idealismo hegeliano in nome dell'esperienza. Saggi: “Discorso sull'architettura del teatro” (Napoli: Giordano); “La scienza umana” (Napoli: Flautina); “Logica speculativa” (Napoli: Gemelli); “Filosofia: eterodossa ed ortodossa” (Napoli: Poliorama); “Considerazioni sopra 'l discorso di Galileo Galilei intorno alle cose che stanno su l'acqua, e che in quella si muouono. All'Illustriss. ed Eccellentiss. Sig. don Carlo Medici (Firenze, Pignonj). “Della vita e delle opera: Dizionario Biografico degli Italiani. Classe- Appetito;Volere.Condizionediogni appetito è l'andarsi rinvigorendo con lareiterazione degli atti fino a rendersi dominante su gli altri appe titi. Condizione della volontà è l'andar con l'esercizio acquistando maggior potere su imoti del corpo sog   3.Classe- Moloriprimitividellavolontà:Ten denzaistintivadellenostreforze all'azione;appetito istintivo del piacere nella sua triplice forma, e a v versione al dolore ; amor di sè stesso co'tre carat teri di concentrazione, di reazione, di espansione spontanea. 4.Classe- Oggetti dell'amor-proprio diconcen nale, onore esterno. Reazione dell'amor-proprio: Emo sentimento. Espansione spontanea : Benevolenza. Ilbenessereè certamente oggetto dell'amor proprio; ma nella3.classevadistinto dall'amor proprio l'appetito istintivo del piacere, e l'avversionealdo l o r e . N o n è p e r c h è a m i a m o n o i s t e s s i, c h e d e s i d e r i a m o il piacere e fuggiamo il dolore. L'amor proprio si pronunzia nel cercare imezzi per procurarci l'uno, e per sottrarci all'altro, fino a contrastare a tale uopo altriappetiti.L'appetito quindi del benessere, una delleesigenzedell'amor proprio,éprecisamentequel principio, in cui lo Stewart ha fatto consistere tutto il nostro amor proprio. Un tale appetito abituale non è  getti al suo comando, come anche su l'attenzione ri. flessiva. Seconda condizione dell'appetito è l'essere accompagnato da piacere , quando è soddisfatto ; e da dolore, quandoessendoistigato nonèsoddisfatto. È questo esclusivamente il piacere e il dolore morale. trazione:Benessere,dignità.perso IL METODO. Classe Slati diversi dell'appetito:Desiderio, o contento ; godimento , o afflizione, o rammarico ; speranza,o timore;pentiinento;disperazione. zione benevola di riconoscenza; ri   invero irreducibile. Ammettendosi in un essere dolori epiaceri ,eragionee volontà,essoprevedendolecon seguenze delle sue azioni, non mancherà di formarsi u n p i a n o d i c o n d o t t a p e r e v i t a r e il dolore, p e r p r o cacciarsi il piacere; e la repressione di altri appetiti entrerà come mezzo in questo piano. Noi intanto a b biamo notato tra fenomeni irreducibili l'appetito del benessere a sola mira di esibire intero nella 4. classe ildominiodell'amorproprio. E lapresenteosserva zione basta a far riguardare con tutto rigore l'addotto esempio di classificazione. Abbiam già completato il quadro de'fenomeni pri mitivi del pensiero , distinguendolo in tre categorie corrispondenti a' fenomeni, Sensazione, Giudizio, V o lontà ; e tenendo conto delle condizioni loro comuni . Pria di progredire nel nostro divisamento, daremo fine a questo articolo con la seguente generale osser vazione. La semplicità di una classificazione di feno meni primitivi non si dee giudicare su laclassesu prema.Ilnumero de'principjignotièegualealnu mero de'fenomeni distintinellatotalità della classifica zione. Può quindi avvenire,che due classificazioni sieno nel fondo identiche, mentre si offrono sotto aspetti a s saidiversi.Se,peresempio,allaprima classe,che comprende i tre fenomeni , Sensazione, Giudizio, V o lere,sifosseanche ascrittalamemoria,esifossedi stinta nella riproduzione degli atti mentali , e nel ri. conosciinento;non sisarebbe nullacangiatouelnu Inero de'fenomeniirreducibili. Ciò nondimeno un tal cangiamento non sarebbe del tutto indifferente.Nella classificazione da noi preferita i fenomeni della prima  124 PARTE PRIMA,   IL METODO. 125 classe sono i più differenti di natura ; m a ciò che si riproduce nella memoria non perde la sua natura primitiva. Le idee astratte si riproducono nella loro perfettaintegrità. Lesensazioniperdonoestremarnente di vivacità al riprodursi nella immaginazione:niente altrocangianodilorocondizioneprimitiva.E lostesso avviene nella riproduzione delle affezioni morali. La memoriaquindi,presanelsuopiùampio significato, non reca fenomeni di natura differente da que'della sensibilità , dell'intelletto, e della volontà : queste u l time facoltà somministrano materiali fra loro diffe renti , e la memoria è addetta a ritenerli in deposito. Cosi la prima classe ha potuto segnalare laprima di visionedellascienzane'trerami logica,etica,este tica.Non è certamente questo un vantaggio di allo rilievo,ma nonv'eraalcunaragioneperdisprezzarlo.  Si supponga or che invece di esibire in più ordinii fenomeni primitivi, si fossero enumerati in una sola lista , come è costume : sensazione , giudizio , atten zione,immaginazione, reminiscenza,analisi, sintesi, astrazione,generalizzazione...Ilnumero de'feno meni primitivi potrebbe rimanere lostesso, ma senza esservimarcataladipendenza traimedesimi.L'al tendereèproprio dell'intelletto; l'immaginazioneè una legge della sensibilità ; la reminiscenza o ricono scimento è un giudizio ; l'analisi, la sintesi , l'astra zione,lageneralizzazione....appartengono all'in telletto.Una tale dipendenza è una condizione di più nel fenomeno : è propriamente una ulteriore parziale riduzione. Così per altro esempio , se i motori della volontà si enunciassero come segue:Tendenza istintiva delle nostre forze all'azione ; appetito istintivo del   126 PARTE PRIMA, piacere; appetito razionale del benessere; appetito della dignità personale; appetito dell'onore esterno; emozione benevola di riconoscenza; risentimento; benevolenza ; si a v r e b b e c o m p l e t o il n u m e r o d e ' m o t o r i primitivi, ma niente apparirebbe della loro dipen denza; l'enunciazione non darebbe ultimata laloro riduzione,non siesprimerebbecompleto,perquanto a noi siscopre,ilsistema della natura pe'fenomeni della volontà. Vedulaprimordialenellericerchedellaori gineedellareuliàdellascienzaumana » 1 II. Sula ipotetica origine a priori delle idee e IL METODO IL METODO VELLA SCIENZA DELLA NATURA.  IN QUESTO VOLUME PRIMO primitivi ..realtà delle conoscenze IV. Continuazione V. Osservazionipreliminari DI Ciò che si CONTIENE INTRODUZIONE delle conoscenze III.Siannunziano iprincipj, trattida osser . vazioni parlicolari, su la origine e Classificazionede'fenomeniprimitivi » II.Riduzione de'fenomeni particolari a' »esempio trattodalla estetica Classificazione delle scienzenell'ordinelogico VII.Metodo inventivo nelle scienze natu VIII.Metodoinventivarellascienzadelpen IX.Melodo di esposisione nelle varie X. Metododiesposizionenellascienzadelpensiero - poche idee sul metodo Utilitàinultimarleriduzioni Classificasione delle scienze. ESPERIMENTI DEL METODO PER LA SCIENZA PRIMA. CORSO PROGRESSIVO DELLA FILOSOFIA PRIMA,  E SUE DEVIAZIONI. Posizioni diverse nella quistione del Me-  todo — Esemplare classico del metodo  speculativo— Primo esemplare del me-  todo di pura osservazione. . .EL. Deviazioni del metodo nel periodo sco-  è è » a 00 a_n _d  Articolo HH. Metodo di pura osservazione nella parte  psicologica della Filosofia ortodossa. »  Articolo 1V, Progresso della osservazione analitica nel-  la Filosofia moderna, ad onta che i si-  stemi: declinassero o al sensualismo, o  al’ idealismo; Idealismo assoluto de’ discepoli di Kant—  Declinazione della osservazione anali-  tica, e rifiuto de’ suoi prodotti prece-  denti, surrogandovi una supposta per-  cezione de’.sensi, e una dimessa ma  ra soggettività, e per ultimo rivisioni ontologiche. Sut-nesso-detta discorsa Rassegna ci con la  seguente O'S 8 ESPERIMENTI DELLA FILOSOFIA SPECULATIVA. SU LA LOGICA DI HEGEL.    ‘Articolo E. Su l'identità de’ due contrarii . ... >» 4  Articolo HI. Le idee fondamentali dell’ intimo senso  Vanno snaturate in ogni panteismo . »   Articolo m. Su le categorie, e l'Idea assoluta. .. . » 2%  = vo nella scienza prima   — tende di continuo ad alterare il genui-    no valore delle idee fondamentali. SU LA FILOSOFIA SPECULATIVA. SU LA IMPOTENZA DELLA RAGIONE INDIVI-  DUALE , SECONDO IL LAMENNAIS. . » 3%  C4PO-T7-="Sv-t5 EINE DI Dio, DEL cinite, SISI  L'ATTO CREATIVO, SECONDO IL Gro-  SERIE input » Sul secondo a della formola. .IN. Su Te altre parti della Formola , cioè  T Enie e l'alto creativo. .Su la Visione delle idee in Dio > indi-    pendentemente dalle altre parti della    iu DETTE IEEE SU LE CONDIZIONI DELLA ODIERNA FILOSOFIA.  Articolo I. Sul concetlualismo, perenne caasa delle  deviazioni della Filosofia. . . Hi. Su i recenti proget di nuova Filosofia  OROCO: «..-_/._. cs. iu » Influenza della sacks tedesca su la Filo-  sofia del secolo . . ...... +. D 203  Articolo IV. Su le più famose obbiezioni prodotte da’  moderni contro la Teologia naturale. » 238  Articolo VW. Riassunto degli articoli precedenti e con-  seguenze per le scuole d’insegnamento. » ÈNTE IN UNIVERSALE, LUME PERENNE DELL'U-  MANO INTELLETTO , SECONDO ZL ROSMINI.. » 275  Articolo Il. Su i modi dialettici adoprati dal Rosmini  nel mostrar conforme al suo sistema    la dottrina insegnata da S. Tommaso. » 314  Articolo Wl, già un anno decorso che uno dei più profondi filo sofi di questa Italiana provincia faceva da noi dipartila ! Niun periodico della capitale fra i tanti che pur trattano di futilità e di non nulla , o tutt'al piú di celebrità di teatro,fecealcunmottodilui:ilsoloOmnibus annun ziandone la grave perdita, prometteva una biografia dell'estinto:ma tale promessa insino ad ora non l'ab biamo veduta recare in atto Noi per mera carità di patria e senza pretenzione letteraria di sorta, diamo questi pochi cenni per come abbiamo potuti raccogliergli frugando nella nostra memoria (1). A quella regione ferace di eletti ingegni ed in ispecie di grandi filosofi da Pitagora a Galluppi (tralasciando tanli altri illustri nomi) appartenne il nostro Filosofo, avendo avuto i natali verso il 1792 nell'antica Reazio ,oggiM e  Ahi sugli estinli Non sorge fiore ove non sia d'umane Lodi onorato e d'amoroso pianto. . 7   soraca,inProvinciadiCalabriaultra2.dabaronale ed agiatafamiglia. Passòl'infanzianellaterranatale,ima mostrato avendo svegliato ingegno, fu pensiero di un suo zio,religioso dello insigne ordine de'Teatini di con durlo in Napoli per fargli apparare belle lettere e filosofia appo que'RR.Padri. Quivi dedicandosi alacremente a talistudi,ebbe a con discepoloilfamoso ex Generale de Teatini,P.Gioacchino Ventura, che se tutti ammirano per non comune facondia , per vasto sapere ,per rettitudine ed illibatezza di costumi, gl’Italiani lo avrebbero a ragione desiderato continuatore dell'opera progreditrice e liberale da lui cominciata a p r o p u g n a r e n e g l i a n n i 1 8 4 6 e 4 7 . C o n l u i il D e G r a z i a l e g o s s i con tale intima amicizia e scambievole stima , che le m e morie di quella loro prima età insieme trascorsa, dopo tanto volgere d'anni non più cancellaronsi ,abbenchè pel diverso stato da essi prescelto, vivuto avessero quasi sempre l'un dall'altro discosti. Escito il De Grazia da quelle scuole,diessi con tutto ardore agli studi severi delle matematiche ,non pure tra lasciando qnelli della filosofia , pe ' quali monstrava incli nazione grandissima. Giovane ancora militò per qualche tempo nel Genio ; m a poscia,smesso il cingolo militare, esercito professione d'Ingegnere, entrando nel Corpo detto allora de' Ponti e Stradë. Si nell'una che nell'altra carriera adempi lode volmente ai doveri della sua carica , e procacciossi giusta  -8 > 2   9  7 estimazione.Ed abbenchè per lasua indipendenza di pen samenti e per la sua modestia , non venisse adoperato come avrebbesi dovuto,pure quello che in varie pro vincie per suoi elaborati disegni in opere pubbliche ed in fatto di edifizi vari, venne eseguito, riusci di uni versale contentamento,e rivelar seppe la sua valentia, tanto da essere ricercato e consultato dagli stessi suoi compagni ed emoli nella professione. Ma nel paese del De Grazia da piú tempo non costruisconsi più quelle opere grandiose da potersi rivelare il genio artistico di un'ar chitetto;e se pure alcuna fiata qualche notevole edifizio debbesi costrurre,l'ingegnosirimanefrapastoje;perché condannato a grame proporzioni di una architettura bor ghese, od a meschine economie che sovente lasciano le opere pel volgere di più anni incomplete,ovvero menate a compimento , ma di gran lunga variate dagli originali disegni. V e r s o l ' o t t a v o l u s t r o d i s u a e t à il D e G r a z i a , o m e t t e n d o i lavori per Ponti e Strade e smessa ogni altra cura ed applicazione, si dedicò con tutto ardore a quegli studi filosofici che fin dalla gioventù avea mostrato di molto prediligere. Frutto delle sue lucubrazioni e speculazioni filosofichefulagrave opera:Saggio sulla realtà della scienza umana ; lavoro sapiente e profondo , che in 4 volumi pubblicossi a Napoli nel 1839-43 e che verso il 1847 il Silvestri in Milano ed ilFontana a Torino voleano ristampato pe'loro tipi,ma non vedendosi incuorati da   chicchessia a tale pubblicazione , e la stampa tacendo su di un'opera di tanta mole , ne smisero il pensiero. Non è scopo nostro venire in disquisizione sul suo si stema filosofico e sulle opere di lui, secondo che ne fac ciamo qui menzione ,pon sentendoci da tanto,e lasciando a'profondi pensatori un tale incarico.Solo diciamo ,ch'egli rifuggendo da'sistemi oltramontani e dallaservile imita zione, ha tutte leproprietà dell'italiano Filosofo, per q u e l l a s u a m a n i e r a d i s t u d i a r e il m o n d o e s t e r i o r e , e p e r quel pratico senno che loconducono dall'esperienza alla induzione ,per modo da congiungere sempre l'osservazione di fatto colla generalità delle idee.In ciò fare egli seguiva in gran parte le dottrine del sommo Aquinate ,gloria d’l talia e della Chiesa ; senza aver letto ancora Opera alcuna di questo santo Dottore. Per caso in confutando talune teoriche dell'altro nostro celebre italiano , l'abate Rosmini , il quale in un luogo delle sue opere ivaesponendo molte sentenze di S. Tommaso in conferma de'suoi detti,sorse vaghezza al De Grazia di leggere la somma di esso santo; e grandissimo fu il suo compiacimento in rilevare l'ac cordo delle loro dottrine in ciò che concerne ilprincipio di rifuggire da ogni ipotesi speculativa, e di ricondurre la scienza fondamentale al puro metodo di osservazione; e pieno di rispetto e di ammirazione pel santo d'Aquino, iva seco stesso facendo le più alte maraviglie del quanto poco abbia progredito la scienza filosofica in questi u l timi sei secoli.  10 >   Oltre a molti altri scritti minori , pubblicati in parecchi giornali specialmentenel Progresso enel Calabrese,altra grave sua Opera è quella intitolata : Discorsi sulla Logica di Hegel e sulla Filosofia speculativa , ove adoprandosi dimostrare l'assurditàdi taleLogica,confutaque'filosofi che han cercato con malizia o senza addarsene d'intede scare la filosofia italiana.  Per chi le Opere del De Grazia punto non conosce,riu. scendogli per avventura nuovo un tal nome ,potrebbe di leggieri riputare sospetti i nostri elogi, se non altro ,per troppa carità di patria : noi a renderlo persuaso del con trario, e che anzi,il lodato resta sempre al disotto delle nostre umili laudazioni , citeremo l'autorità di un giudice assai competente ed in nulla sospetto, qual'è il celebre Professore di Heidelberg Cav. Carlo Mittermaier. Questi nel suo Libro Condizioni d'Italia pubblicato nel 1846 e precisimente nella Lettera di appendice indiritta al chiaro abate Mugna , traduttore del suo libro, dopo aver parlato delle celebrità letterarie e scientifiche d'Italia , e m o strando desiderio che le opere filosofiche degl’Italiani fos sero meglio sludiate dagli stranieri ed in ispecie da'suoi connazionali , venendo a parlare di Napoli dice : « Il genio della filosofia napoletana è la copiosa e fina analisi dello spirito umano,sempre unito a grande dovizia d'idee e ad una tendenzapratica ».Ad essoappartengonoleopere di P. Galuppi e di V. De Grazia, peculiarmente l'opera di questo:Saggio sulla realtà dellascienzaumana.Esa >   minandol’A.gliscrittide'suoipredecessori,non che de'filosofi tedeschi ed entrando in minute particolarità (peresempio vol.2.p.1.174)intornoa'varipensamenti sulla origine delle idee,seguesi con piacere lo stesso A. nel suo ingegnoso sviluppo e si ammira la sua fina analisi intorno alla natura delle conoscenze pure intuitive , e c o noscenze dimostrative. « Fin qui il Mittermaier.Le parole di un tant’uomo sono più che sufficienti a testificare sul merito filosofico del nostro concittadino , ed altre singole illustritestimonianzepotremmopurqui addurre;ma le opere di lui per chi vuole e può leggerle parlano abba stanza.Solo non vogliamo tralasciare di dire che fu in grand'estimazione tenuto da quell'antico uomo di stato e scienziato profondo il Conte de' Camaldoli , Francesco Ricciardi,e che ilsuo grand'emulo il Galluppi (la cui fllosofia era stata in qualche parte del De Grazia confutata perché non severamente italiana , nè in tutto da lui tro vata scevra di straniere dottrine) richiesto un giorno del suo parere sul Saggio della realtà dellascienza umana , rispose:l'operaprocedemoltobene,secondo ilsistema seguito dall'autore.E qui di volo ci si permetta doman d a r e a n o i s t e s s i : c h i r a g g i u n s e p i ú il v e r o d e ' d u e c h i a r i concittadini nei loro rispettivi sistemi?chi più possedette geniocreatore?A ciòrispondiamoesserpaghidirilevare inambidueilpositivoprogressodellafilosofiaappo noi e possiamo riguardarli come continuatori delle dottrine sviluppate da' due filosofi Calabresi Telesio e Campanella  42 > > >   che cercarono di richiamare la filosofia del secolo decimo settimo a'suoi veri principi facendo appello all'esperienza, alla propria ragione ed all'esatto studio del mondo ,quale si offre alla osservazione, e sopratutto cercando di sce verare la filosofia dalle quisquiglie scolastiche del tempo ; per il che ebbero a sostenere aspra guerra per parte de' loro avversari , seguaci delle dottrine d'Aristotile , più in quanto alla forma che alla sostanza. Or nella gran serie di sistemi de' filosofi di Europa , ognuno dei quali nasce per distruggere l'anlecedente , e per essere poi a sua volta distrutto dal successivo,i sistemi seguiti da' due grandi Calabresi, Galluppi e De Grazia, sono sistemi italiani, sopratutto quello del secondo , e sopravviveranno a'posteri assai più,se non c'inganniamo,dell'eccletismo di Francia e del razionalismo puro di Germania ,ilquale u l t i m o s i s t e m a a r g u t a m e n t e il D e G r a z i a c h i a m a v a : p o e m a filosofico;abbenchède'filosofitedeschiegli faceastima grandissima,especialmentediEmanuele Kant,ch'èil primo nellaseriediquellicheformanolamodernascuola, per la mente profonda, vasta e unicamente originale fra tutti i filosofi di Germania ,per maturo giudizio,fervida imaginazione,esottilissimoingegnoanalitico,ma lamen lava che il suo genio batté la via del eccletismo scettico e del dommatismo razionale. Ma benché per noi sian grandi tutt'e due inostri con cittadini,nondimeno sembra rilevarsi dalle suespresse parole del professore di Heidelberg che nell'opera,da lui  13 >   citata e da noi di sopra più volte riferita,la penetrazione filosofica e la fina analisi del nostro De Grazia abbiano richiamato la sua attenzione assai più che nol fecero le opere filosofiche del Galluppi. Eppure questi , sebbene tardi, fü almeno ricordato da quel Governo , essendo stato nominato professore di filosofia nella cattedra della universitàdegli studi di Napoli (2)e nella morte di lui fu r o n v i p u b b l i c h e e s e q u i e , e r e c i t a r o n s i f u n e b r i e l o g i ( 3 ) m a il De Grazia visse e mori ignorato! e non fu noto che alla calabraterra,chevidelonascere,edaqualche singola celebrità nostrana e straniera. Di chi la colpa ? Forse de' tempi ? del governo ? o della propria sua indole? Noi crediamo esservi concorse tutte e tre le suindicate cagioni. C i r c a il g o v e r n o c u i a p p a r t e n n e il D e G r a z i a , il m e r i t o non è merce cui è andato per ordinario ed unquemai in traccia; ma nel tempo presente solo il pensarlo è utopia. E finalmente l'indole di lui rifuggente dallo adulare potenti,dalcercarmecenati,dalraccomandare odedicare isuoi scritti achichessia,mantenendosi sempre in dignità  Il secolo che corre: e che appellasi posilivo non ha altripensieridominanticheilcredito,> laborsa,lespe culazioni commerciali, o tutt'al più qualche progresso materiale da solletitare l'ardente brama del guadagno (peste della società presente) che di continuo lo stringe ed arrovella;epperò non è secolo che occupar puotesi di filosofia.  e modestia , coltivando la scienza per abitudine contratta agli studi severi e per naturale inclinazione del suo genio inventivo e calcolatore, senza avere unquemai tenuto scuola (che gli scolari molto influiscono alla fama ed a rendere popolare il nome de’loro maestri)e menando per conseguenza vita laboriosa e ritirata ; fecer si tutte le cosi fatteragionicheilnome suorimanesseignotoall'universale. Ma qui non possiamo fare a meno di non osservare che in questa epoca di generale centralizzazione governativa negli stati di reggimento assoluto sopratutto, ne' quali ė spesso negato a privati di fare puranco il bene (4)o altra innocentissima cosa ,senza previa superiore autorizzazione, o sovrano beneplacito;ove nullapuossi mandare a stampa senzapreventivarevisioneecontro revisione;non rebbe uu richieder troppo da cotali governi se alla mania di voler lutto sapere ed operare aggiungessero un pò di buonavolontàedesideriodiconoscerelegrandi intelli genze , tenerne nota ed applicarle a vantaggio della n a zione. E grata cosa sarebbe riuscita al De Grazia,abbenchè dell'indole qui sopra descritta , e sempre abborrente dalla s e r v i t ù e d a l l a v a n i t à , s e il g o v e r n o i n m o d o q u a l u n q u e avessegli addimostrato di tenerloin pregio,o nominandolo professore di filosofia nella Università, dopo la morte del Galluppi, non essendovi in tutto il reame altri che più diluinefossestatodegno,omostrandogli dipregiarlo in altra guisa qualunque,ma sempre per moto spontaneo, essendo stata sua massima indeclinabile che ilmerito de  -15 > sa   vesi conoscere volenterosamente dagli altri,senza sforzo di sorta per parte propria. Sonovi però di momenti nella vita de' popoli in cui l'opinione pubblica si addimostra regina e manifestasi con tuttalapossibilespontaneità.Un talemomentosifuquando nel 1848 ilDe Grazia,non pure senza brigarlo,ma senza avervinemmeno pensalo,vide ilsuo nome con migliaia di voti sortire dalle urne elettorali, qual depulato cala brese nel Parlamento napoletano.Molto egli si compiacque per tale dimostrazione di stima e di fiducia da parte dei suoi concittadini;ed accetatone il grave mandato ,pieno di buon volere e di coraggio si parti con gli altri deputati per alla volta della capitale. Lusingavansi gli elettori suoi nella speranza di vederlo presto discendere dalle astrattezze filosofiche,alla realtà della vita politica:ma tanto non avvenné,  16 2 > Equicisipermettanoperpocotalune reminiscenze, r i a n d a n d o 'u n t e m p o , c h e g i à f u ( 5 ) p e r i l i b e r a l i o n e s t i e di buona fede che credevano alla santità ed alla osservanza di giuramenti (6) e del cui gran numero facevano parle quasituttiiliberalidelleprovincie,traqualiilDe Grazia, que' tre primi mesi, dopo il sollenne 29 Gennaio 1848, con assai più ragione di quello che uno scrittore francese diceva del suo paese nel 1830 furono giorni deliziosi,in cui la generazione nostra conobbe quell'allegrezza,quella ‘speranza, quel non so che si raro nell'umana storia che ci fa dimentichi del peso della vita. L'avvenire non più   - 17 - rappresentavasitristea'nostrisguardi,scoprivasiun'oriz. zonte sconosciuto, tutto era color di rosa,perché crede vasial progresso indefinitodell'umanità,ealcompimento insperato di tuttele promesse della filosofia moderna. Quelle notizie sempre succedentisi di libertà di popoli, di cessazione di ogni dispotismo e tirannide in quasi tutta Europa, d'indipendenza ed autonomia di nazioni, eccede vano l'immaginazione e faceano degli uomini tanti inna morati viventi in un'atmosfera inebbrianto....... Tempi felici! e che non più ritorneranno !perocchè a tutte quelle nobili aspirazioni (forse perché non provegnenti nella gran maggioranza da vero disinteressamento, abnegazione e pura virtú) sono troppo rapidamente succedute le idee finanziarie e di materiali interessi, che stan materializ zandotuttiglispiritiedimmergendoliinunprofondo le targo daimpedirediaddarsidellalenta,ma sempreognor crescente propagazione del dispotismo; e che per sopras sello invece di farei indefinitamente progredire, ci ha fatto, e ne sta facendo precipitosamente indietreggiare (7).E cio di passaggio. Ma ritornando al nostro Vincenzo, egli era uno di quei tanti Filosofi che hanno il coraggio del pen. sieroe non quello dell'azione.Uomo adusato da tanti anni  а star chiuso nella rocca della sua mente per dare corpo e vita a'suoi pensamenti filosofici, riputavasi vestito del lusbergo delpiùsaldoproposito:ma arrivatoalcontatto della fredda realità, divenne esangue ed impallidi. Difatto giunto in Napoli, tosto avvidesi del come furono conce   I fatti che vide nel famoso 15 Maggio , al primo scio gliersidella Camera de'Rappresentanti della nazione, non c h e n e l t e m p o s u c c e s s i v o (d a s u p e r a r e f i n a n c o l e s u e p r e visioni e che iscusano la sua condotta inverso chi volle accagionarlo di timidità) fecero d' allora in poi addive nirlo più solitario e ritirato di prima. Lui felice ! che p o teva col pensiero allontanarsi dalla triste realtà che cir condavalo, e vagare tra i nobili e pacifici campi della fi losofia. Fu verso quel torno che rivedemmo per l'ultima volta il'De Grazia,ilquale ci feceaperto diesser egli tuttoap plicato al compimento di un lavoro già concepito quando lesselaSomma dell'Aquinate.A questonomeglidichia rammo francamente il desiderio nostro, e di altri suoi amici ancora, che siccome dalle sentenze filosofiche scelte dalla S o m m a presentar volea la Filosofia di S. T o m m a s o , coll'esame comparativo delle dottrine del nostro secolo; cosi dalla scelta di tutte le sentenze politiche, di che ab bonda quell'aureo libro, ci facesse conoscere la politica di quel santo dottore, in tutto tendente a fare che la s u prema autorità non trasmodasse in dispotismo e tirran nide, e che la macchina governativa fosse tutta intesa a formare il benessere della gran maggioranza della co  48 dute le improvvisate riforme; col suo sguardo scrutatore s'impossesso della situazione politica del momento , e m i surandone tutta la portata, promise a sé stesso di non porre piede nell'aula del Parlamento Napoletano. e   mune Patria;che simili scritti,soggiugnevamo,potrebbero serviredifrenoalpotere,affinchéne'suoiattinon de generasse in forza brutale. Al che il nostro Filosofo (cui sembravagli ancora di sentire il fragore delle artiglierie) mestamente rispose: L'eloquenza dellabocca de'cannoni fa ammutolire ogni lingua , e fa cadere la penna dalle p a ralizzatemani.E noidirimbecco:seilcannonedistrugge, la penna può e sa riedificare. Fu dunque nel 1851 che il cennato suo lavoro col litolo di:Prospetto della Filosofia Ortodossa, venne stampato in Napoli, in un volume in 8. di pagine 632. Fra le molle lodi che questo libro ebbe dalla stampa periodicadi di verse parti, furono quelle tributategli con molto calore dalla perma'osa Civiltà Cattolica (8)(anno 3. vol.10. N. 60) connostra grande maravigliaesatisfazione.Ma lamag gior lode che ridondar possa a vantaggio del De Grazia, si è, che per il primo ha cercato di far rivivere la Filo sofiadiS.Tommaso,echeilsuo pensieroè statoposcia seguito dalla Università -parigina e da parecchie di Ger : mania. Era sua intenzione comporre un'opera di Estetica ed un'altra d'Istituzioni filosofiche, questa sopratutto, per esservene secondo lui, gran difetto nelle scuole : m a tale divisamento non potè mandare ad effetto: sonosi tro vati,èvero,de'manoscrittinellasuacasa,ma forte te m i a m o c h e a n d r a n n o p e r d u t i. F e r a l e m o r b o m i n a v a d a p i ù tempo isuoigiorni,edegli vide approssimare ilsuo fine con la serenità di un fanciullo e con l'impassibilità di un Filosofo ed il 22 settembre 1857 cessò di vivere.  -19   Fu ilDe Grazia di ordinaria statura e di gracile com plessione; di aspetto nobile e dignitoso, ed insieme di tratti gentili, e cortesi epperò riusciva piacevole nella conversazione.Nel suo incesso vedevasi grave e pensoso come se ruminasse qualcosa col cervello,o talmente era assorto da suoi filosofici pensieri,da non por mente alle cose esteriori,e da non addarsi degli amici che passavan gli allato, se questi nol riscuotevano chiamandolo per nome.Visse sempre celibe.Lasciò un'unico nipole, erede de'suoi beni, mostrandosi pur generoso nelle ultime dis posizioni verso due suoi antichi compagni ed i suoi d o mestici. Or un tant’uomo disparve dalla scena di questo mondo senza che nemmeno un fiore si fosse sparso sulla sua tomba ; senza che nè pietra pè parola additassero ove han riposolesueceneriericordasseroilnome diluiagli avvenire ! A voi Italiani,che amate gl'illustri figli della comune sventurata patria nostra, e che vi distinguete per nobili sentimenti di nazionalità, abbiamo rivolta la nostra p a rola:inscrivete,per come é debito, il nome di Vin cenzo De Grazia tra quei grandi nomi che passar denno alla Posterità ! Tu , illustre Mittermaier, che nel fare m e n zione in semplice lettera, de'chiari Italiani, non potesti fare a meno di non dire parole di lode sul merito filoso fico del nostro Eroe: spendine altre poche or ch'ei è trappassato, por vendicare l'ingiusto silenzio tenuto dal  20   21 paese ovo nacque e mori.E tu,o venerando P. Ventura, che non mai dimenticasti il tuo condiscepolo, abbenché sempre gran distanza da lui ti divise, e che forse ignori ch'ei non è più , in rilevare la sua dipartita, scrivi alcun motto per quell'ingegno sdegnoso di ogni schiavitù mas sime se straniera,che co'suoi scritti fè sempre aperta guerra alla filosofia che non attinge i suoi lumi alle fonti del Cristianesimo,ciòinfluirànonpocoafarsicheilnome deltuoanticoamicosiaconto all'universale(9).Le no stre rozze e disadorne parole rassembreranno talco o mica inruvida roccia,ma levostresarannoripetutedagliechi, lontani e renderanno al virtuoso obbliato, dopo morte quel merito che in vita gli fu negato.  0 Napoli febbraio 1858.  Sopra un'amena collina distante una diecina di chilometri dal mar Ionio è situata Mesuraca,paesello che conta un due migliaia e mezzo di abitanti.Uno scrittore che sognasse,ve gliando,gl'irrevocabili portenti della Magna Grecia,nei ru deri che ingombrano il vicino monte Matonteo, crederebbe di scorgere gli avanzi di un vetusto tempio , sacro a Venere ; e nel nome tradizionale della montagna non mancherebbe lo appiglio di ricordare il riso e gli amori , fidi compagni della vezzosaDeadiAmatunta.Noi,nellanostramodestaprosa, ci contentiamo a più vicine,e più certe memorie. Egli adunque contava quindici anni meno del suo illustre compaesano,del Galluppi, ch'era nato il 1770, nella stessa provincia di Catanzaro ,in una piccola cittaduzza posta quasi in riva dell'opposto mare;e,vedi caso,era nato anche lui di casa baronale ; sicchè pare che su lo scorcio del passato se colo lo stemma gentilizio non fosse così ostinatamente avver so agli studi  Addi 19 febbraio 1785, in quel paesello appunto,nasceva da Marco e Laura Brondolillo quel Vincenzo De Grazia, di cui vogliamo esporre la dottrina filosofica. Nasceva di casa baronale ; ma non è quel che ci preme ;nè pare importasse neppure a lui, che aveva il buon senso di segnare a fronte de'suoilibriilproprio nome ecognome asciuttoasciutto,e senza nessun prefisso. Giovanettino ancora di soli cinque anni lascio, o meglio gli fu fatto lasciare il paese nativo, e fu condotto a Napoli ,   e quivi chiuso nel collegio di San Carlo alle mortelle, dove continuò a studiare,come sisuole,finoallaprimagioventù. Tra le poche carte,non disperse o distrutte,dalle quali ho potuto raccogliere qualche scarsa notizia della vita di lui, avanza una lettera del rettore di quel collegio,certo Teofilo Misa,sottoladatadel15agosto1795,concuisiraggua g l i a v a il p a d r e d e l l a b u o n a r i u s c i t a d e ' p u b b l i c i s a g g i d a t i d a i figliuoli di lui.Questa lettera giova non tanto a testimonian za del profitto; chè un baroncino , si sa, fa sempre bene ; e di fatti il buon rettore si lodava non solo di Vincenzo , m a del l'altro fratello Domenico ; quanto ad assodare la data della nascita . Eugenio Arnoni , che laboriosamente s'ingegna di scrivere lememorie dellaCalabria,lofanato il1792:seil1795 da va pubblici esami , quella data è dunque sbagliata ; e rimane accertata quella che ho trovata scritta io nel volume su la logica di Hegel , insieme con l'altra concernente la morte del De Grazia.Il volume appartiene alla famiglia del filosofo,ed iol'hopotutoavere,insieme conglialtridocumenti,perla cortese premura di Antonio Serravalle, valoroso giurecon sulto,e caldo promotore della gloria del nostro paese:qual cuno di casa vi avrà registrato certamente quelle due date. Forniti i primi studi , diessi a coltivare le matematiche, e divenne ingegnere.Ilnapoletano conquistato dalle armi fran cesi,doveva allora,per l'imitazione de'conquistatori, corre re dietro al mestiere delle armi . Il 1811 il nostro De Grazia trovavasi arruolato da sottote nente nel Genio,quando con Decreto Reale del 29 agosto di q u e l l ' a n n o , c o m u n i c a t o g l i d a l C a m p r e d o n il 1 4 s e t t e m b r e , e r a stato nominato ingegnere aspirante di Ponti e Strade. L'an no appresso,con Decreto del 22 aprile 1812,fu promosso ad ingegnere ordinario di seconda classe. Qui i documenti , che abbiamo avuto sott'occhio , finisco no;nèsappiamo,se,cessato ildecennio,eiritirossi disua  2   scelta, o se fu licenziato dal Borbone restaurato sul trono. Dal 1812 ci è forza saltare al 1838 . Il 29 giugno di quell'anno la Società Economica di Cala bria Ultra 2.a lo proponeva a socio : la nomina aveva luogo soltanto il 18 dicembre 1839. Era lentezza,o si erano incon tratiostacoli?nonsisa,efameraviglia,come diunuomo di vaglia, vissuto tra di noi, s'ignorino tante circostanze, che ci aiuterebbero a lumeggiarne meglio la figura. Vero è che le abitudini del filosofo erano molto casalinghe, che dal- la famiglia ei visse diviso , che per le vie raro si faceva v e d e r e . E d i o m i r i c o r d o , c h e a n d a t o s t u d e n t e a C a t a n z a r o il n o vembre del1852,benchè misidicesse cheilDeGraziaci fosseallora,benchèioavessidesideriodivederlo,nonmiven ne mai fatto d'imbattermegli per via. Questariservatausanza,e'lnon averemaiinsegnato,fe cero sì, che poco si dilatasse la sua fama, e ch'ei passasse quasi sconosciuto. Quando il Serravalle mandommi le sue carte, credevo di trovarci copiose notizie,od almeno un frequente carteggio : m'ingannai :corrispondenze non mantenne,o non conservo ; più facilmente però non mantenne,perchè non ci sarebbe sta ta ragione di conservare alcune lettere, e di distruggere le altre.Nè ciòprovenne,aparermio,danoncuranza,ma da impossibilità; correndo tempi fieramente avversi ad ogni a c comunamento degli animi,pieni di paure e di sospetti.  3 Dueotrenomine diAccademie glivennero,chenoiab biamo trovate fra le sue carte,con una certa cura custodite: una ,a socio onorario dell'Accademia Valentini di Napoli ,che avevaaprotettoreilContediSiracusa,sottoladatadel4giu gno 1842;una seconda,a socio corrispondente della R. AC cademia de'Peloritani,sotto la data del 10 ottobre 1842 ;una terza,più tarda, ma non più celebre,a socio onorario della R. Società Economica della Provincia di Cosenza, sotto la data del 9 novembre 1853 .   Ecco gli scarsi onori fatti ad uomo meritevole di maggior fama ! IlMittermaier,professore dell'Università diHeidelberg, scrivevaintantoall'ab.PietroMugna,cheavevavoltatoin italianoilsuolibro sulecondizioni d'Italia,quest'onore vole giudizio sul nostro filosofo : « Il genio della filosofia napoletana è la copiosa e fina a n a lisi dello spirito umano ,sempre unita a grande dovizia d'idee e ad una tendenza pratica.Qui appartengono le opere di Gal luppi,ediV. deGrazia,peculiarmente l'ultimadiquesto. Esaminando l'autore gli scritti de'suoipredecessori,anche de filosofi tedeschi,ed entrando in minute particolarità,(per esempio vol.II,pag.1-171)intorno a'varî pensamenti sul l'origine delle idee, seguesi con piacere nel suo ingegnoso sviluppo,e si ammira la sua fina analisi (per esempio vol.II, pag . 171 ) intorno alla natura delle conoscenze pure e cono scenze dimostrative ». Così scriveva il giureconsulto tedesco il 1845 . L'opera del De Grazia,a cui egli alludeva,e che preferiva a quelle dello stesso Galluppi, era appunto il Saggio su la realtà della scienza u m a n a cominciato a pubblicare a N a poliil1839,efinitoil1842. Della importanza di quest'opera,e della mira che l'autore vi si prefisse, discorreremo ampiamente : per ora giova a v vertire, che gli stranieri avevano letto ed ammirato un libro che gl’Italiani di allora quasi ignoravano,e che i contempo r a n e i , p e r n o n f a r t o r t o ai l o r o m a g g i o r i , c o n t i n u a n o a d i g n o rare.Escludo daquestonumero ilprof.Ferri,che nelsuo SaggiosulastoriadellafilosofiainItalialoriportònelca talogo dei libri filosofici (degnazione non piccola) ; guardan dosi,beninteso,di accennarne almeno lo scopo.Forse non lo aveva letto. IlDe Grazia passava ilpiù del suo tempo a Napoli, dove il Galluppi fin dal 1831 teneva la cattedra di filosofia nella  4.   Università,ed attirava a sè la gioventù si per l'insegnamen to vivo, come per la popolarità de'suoi elementi .Al De G r a zia mancava l'una cosa e l'altra,perciò non gli riuscì di ave re seguaci. E che desiderasse farsene, l'ho raccolto da una lettera che gli scriveva Lorenzo Zaccaro il 3 marzo 1842 . Nel saggio medesimo da lui pubblicato le allusioni al Gallup pieranofrequenti;mavelate,esenzacitarlodinome.La fama del suo illustre concittadino turbava i suoi sonni ; ma all'emulazionenonsimescevanessunsensod'invidia,emol t o m e n o o b b l i q u e a r t i p e r s o p p i a n t a r l o . Il p r o f . P a o l o E m i l i o Tulelli anzi mi ha raccontato, che,vacando per la morte del Galluppi la cattedra della Università napolitana,al De Grazia non sarebbe stato difficile ottenerla,se l'avesse chiesta.M o stratagli questa agevolezza,eiricusò di chiederla,benchè la desiderasse,enon lonascondesse:offerta l'avrebbeaccettata; mailGovernonapoletanoparchenonlovedessedibuonoc chio . IlDe Grazia,intanto,alparidelGalluppi sieratenuto ap partato,nè si era mescolato nei rivolgimenti politici:entram bi,per usare una frase del Bonnet,s'erano fabbricato un ri tiro dentro il proprio cervello . Il Galluppi aveva visto le stra gi del 1799 ,gli spergiuri del 1821 , ed aveva continuato tran q u i l l o l e s u e m e d i t a z i o n i : il 1 8 2 0 p u b b l i c a v a , i n m e z z o a q u e l rimescolio , i suoi elementi di filosofia. Il De Grazia non a vrebbe potuto, per l'età,prender parte ai casi del 1799;a vrebbe potuto il 1821 , m a nol fece : la filosofia civile e bat tagliera era finita col patibolo di Mario Pagano ; da indi in poi,nel mezzogiorno d'Italia,prevalsero le speculazioni soli tariefattene'penetrali dellacoscienzasubbiettiva.IlGioia ed il Romagnosi scontavano nello Spielberg il delitto di aver applicato l'ingegno alla Statistica,ed al Dritto pubblico :nel Napoletano,tra il 1799 ed il 1848, i filosofi furono esclu sivamente psicologi. Non so se bisogna far eccezione per quel Pasquale Borrelli, che,sotto lo pseudonimo di Pirro    Il 1848 trovavasi il De Grazia avanti negli anni,dedito da quasi cinque lustri agli studi filosofici, stimato, se non cele bre ; adatto adunque a rappresentare decorosamente alla C a mera la sua provincia. Pare che questi numeri gli meritas sero isuffragî degli elettori politici,ed egli riuscì eletto con 5103 voti,terzo fra inove deputati della provincia di Catan zaro .L'esito gli fu comunicato il 7 maggio 1848 dal Presiden te Ignazio Larussa, valoroso giureconsulto ,e scelto Deputato anche lui,con queste parole: < < T a l v e r b a l e , n e l l ' e s s e r e il m a n d a t o l e g a l e d e p o t e r i a L e i conferiti, è in pari tempo la testimonianza più luminosa del le Sue eminenti virtù ». Il De Grazia però non fece a tempo di saggiarsi nella vita p o l i t i c a : il 1 5 m a g g i o , l a m a l a f e d e d e l p r i n c i p e a i u t a t a d a l l a inesperienza politica del popolo insanguinava le vie di Napoli e sgomentava naturalmente l'animo di chi era fatto per la quiete dello scrittoio,anzi che pei clamori e per le zuffe del l e p i a z z e . Il D e G r a z i a , s e n z a i n f a m i a e s e n z a l o d e ,t o r n ò a g l i studi.  6 Lallebasque,scriveva aLugano laGenealogia del pensiero, e che quivi pare balestrato da contrario e prepotente de stino. Dopo lamorte delGalluppi,contro lacuifilosofiaaveva assiduamente armeggiato nel saggio,era nel mezzodì inval saquelladelRosmini edelGioberti,ed,oltreaquesteita liane, quella straniera dell'Ilegel: i due ultimi filosofi aveva no principalmente il sopravvento . Ciò dava molestia a lui, costante e schietto sostenitore della filosofia della sperienza. Se gli era parsa incauta e sdrucciolevole quella che il M a miani chiamava la riservatissima filosofia del Galluppi,è da immaginare quanti pericoli non temesse dalle ardite sintesi del Gioberti e dell’Hegel. In un volume raccolse adunque le critiche di questi sistemi, e di quello del francese Lamen nais,e pubblicollo il 1850.   Pur lodando l'impresa del De Grazia,il Padula non gli dis simulava però che la critica fatta dell'Hegel e del Gioberti era scarsa al bisogno : instava, che ci tornasse sopra,e che raddoppiasse i colpi ; sollecitava da ultimo il filosofo a p u b blicare la Filosofia del pensiero, opera dal De Grazia dovu ta accennare come in via di esser composta. Quest'opera pe rò non venne , nè la critica contro all'Hegel ed al Gioberti fu rinforzata: venne bensì fuora il Prospetto di filosofia orto-, dossa , il 1851. L'autore fin dalle prime mosse era dovuto p a rere sospetto di sensualismo,e quindi pericoloso alle creden ze religiose:a lui l'appunto rincrebbe,e si risolse di scagio narsene . Divisò quindi invocare a soccorso la filosofia dell'A quinate, valido usbergo a proteggerlo dai colpi frateschi, ed amettere in salvo la pericolante ortodossia.IlProspetto, invero,piacquealcleronapoletano,piacqueaiGesuiti;ras sicurò l'autore medesimo,che doveva sentirsi in disagio.  VincenzoPadula,ilsolo,credo,cheleggesseallorailibri delDeGraziainCalabria,glibattevalemani daAcri,suo paesenativo.LeletteredelPadulailDeGraziaavevacon servate; gradito applauso in tanto silenzio.Il Padula però gli dipingeva iltrionfo delle idee giobertiane appresso la gioven tù calabrese, ed in una lettera segnata addi 1 del 1851 ,da Acri,gli scriveva,non senza un certo sgomento,così : « Sia comunque , l'epopea giobertiana ha sedotto molti let tori;ed io invano da due anni a questa parte mi vado adope rando a disingannarli. Altro frutto non colsi, che di essere chiamato bestia ». A tergo di una lettera del Padula c'è una bozza di risposta doveilDeGraziaraccontaleliete,enonsoseoneste,acco glienze fatte al suo ultimo libro dal Sanseverino.Ricopio le sue medesime parole: « Oltre l'articolo inserito nella Civiltà Cattolica , al quale accenna la sua pregiatissima lettera,un altro forse se ne pub blicherànelPeriodicolaScienzaelaFede.Eparmichean   8 c h e il c l e r o n a p o l i t a n o a b b i a a c c o l t o c o n f a v o r e il m i o p i c colo lavoro ;ilche io debbo precipuamente alla imparzialità e dottrina del regio prof. Don Gaetano Sanseverino, profes sore di filosofia nel Seminario di Napoli, il quale ha una m e r i t a t a r i p u t a z i o n e p r e s s o il c l e r o a n z i d e t t o . È b e n s ì i n d i p e n d e n t e d a t a l f a v o r e v o l e o p i n i o n e il s u f f r a g i o d e ' r e d a t t o r i d e l l a Civiltà cattolica ». Ho detto di dubitare, che queste accoglienze fossero one s t e , q u a n t o e r a n o l i e t e . Il c l e r o n a p o l e t a n o a l l o r a , e i G e s u i t i specialmentemiravano ascalzarelafilosofiadelGioberti,a denigrarla,ametterla inmalavoce.IlGiobertifilosofonon era forse la secreta n:ira de'loro strali :tiravano al filosofo per colpire l'uomo politico : guerreggiavano la costui filosofia per vilipendere quel senso d'italianità che traspirava da tutte le pagine dell'illustre torinese. In quella che il Padula aveva chiamatal'epopeagiobertiana,lafilosofianonerasenonun e pisodio solo;e se gran parte de'giovani corse dietro ai pensa m e n t i d e l G i o b e r t i ,v i c o r s e s o s p i n t a d a q u e l c a l d o p a t r i o t t i s m o , onde ilfilosofo aveva saputo ravvivarli.Igiovani hanno più sicuro,che non gliuomini fatti,ilpresentimento dell'avve nire. I Gesuiti se n'erano accorti, e festeggiavano l'opera del De Grazia,perchè vi trovavano un poderoso aiuto.Non dico che il De Grazia sospettasse le riposte intenzioni de'suoi lo datori; egli accettava la lode, perché la credeva di buona fe de.Nell'annunzio che ne dà al Padula,e che noi abbiamo ri ferito,c'è la ingenuità, e direi quasi ilcandore di un fanciul lo che non ha pratica del mondo . Ecco ora l'intonazione dell'articolo della Civiltà cattolica : ne cito solo il primo periodo: ex ungue leonem . « Lode al cielo !Mentre tanti italianissimi fanno di tutto per intedescare la filosofia italiana, intenebrandola colle lar ve di quell'Assoluto che sfuma nel vacuo del possibile,e colla nullità di una logica che teorizza la contraddizione, sorge all'estremità d'Italia , nella patria degli Archita, dei Zenoni ,    dei Campanella, dei Galluppi un ingegno sdegnoso di tale schiavitù, che tenta richiamare gli Italiani a pensamenti meno aerei spezzando gli idoli adorati oggidì dalla filosofia eterodossa, e congiungendo l'osservazione di fatto colla ge neralità delle idee ». Qui la frecciata va agli hegeliani ; e'l contrapposto fra ita lianissimi e tedescanti non poteva essere più abilmente, o più gesuiticamente messo in rilievo : non basta però a colo rire intero il disegno dell'articolista, ed ecco un 'altra frec ciata,che mira più addentro. «Oh questosì,chepotràdirsiunverorinnovamentodifi losofiaitalica!enegode l'animo dipotervaticinarealch. A. esito migliore e maggior riconoscenza per parte dei suoi concittadini , di quella che sperar possono certi rinnovamenti di filosofia italica, i quali tentano di risuscitare i sogni di Pitagora e di Zenone per fingersi Italiani, mentre in verità altro non sono che triste imitazioni del protestantesimo te desco,o dell'eccletismo francese. Mentre costoro per dare lo scambio agli Italiani vanno nella Magnagrecia ad invocare la Pitonessa,perchè risusciti dalla tomba iprofeti del paga nesimo,all'estremità della Magnagrecia presso la calla del cattolico Galluppi la Provvidenza fa sorgere un ingegno sin golare, che passando dalla milizia alla Scuola sembra con trapporsi al Renato ,che abbandonò la milizia per combattere la Scuola ». FinquiilGesuita.Ordunque,notoio,quandosivuolfi losofare alla tedesca , l'Italia è la patria degli Archita , e dei Zenoni,e non istà bene curvarsi a gioghi stranieri: quando poi sirisale a Pitagora,ch'era stato modello adArchita,ed allo stesso Zenone da voi indicato,ecco che questi diventano a un tratto profeti del paganesimo : potremo sapere a quali filosofi bisogna ricorrere per aver il vostro pieno beneplaci to,padre reverendo ?  -- 9 2   « La lettura della bella sua opera mi fa sentire anche più la perdita che io ho fatta;e che sarebbe per me irreparabile se non mi riuscisse di vederla nelle poche ore che passerò in Napoli prima di ripartire per R o m a . Se in tale occasione p o tessiriceverel'onorediunasuavisita,mi stimereifelicedi conoscere il Ristoratore della filosofia ortodossa ». Mi son fermato su questi giudizî,perchè qualcuno ne ave va indotto,aver ilDe Grazia nell'ultima opera cangiato via, ed essersiaccostato alTomismo.IlDe Grazia,qui come nel Saggio,rimane saldo nella sua dottrina sperimentale: se di fetto v'ha in lui, è la ripetizione quasi puntuale delle m e d e sime idee,e delle medesime parole stemperata in molti volu mi;ma cangiamenti non glisipossono imputare.Quel che si trova dippiù nel Prospetto di filosofia ortodossa è lo sforzo di far parere tomistica la sua filosofia. Perchè ciò gli pre messe,non indovino : era per tranquillità della propria co scienza ? era per capacitare gli altri ? era per aver dalla sua il clero, e col mezzo di questa cooperazione diffondere la sua dottrina ? nol saprei dire: certo la sua filosofia rimase quasi sconosciuta, nè le lodi del clero napoletano e de'gesuiti le valsero allora, e forse le nocquero più tardi : successe di lei ciò ch'era succeduto di un teatro da lui disegnato,e costrui t o a C o s e n z a ; il q u a l e f u d i s f a t t o p e r i m p i a n t a r v i u n c o l l e g i o di gesuiti.  10 Ma lasciamolo làilGesuita,che non siaccorge,quanto la filosofia del De Grazia possa arrecar di nocumento alla sua fede:ilcritico non va a cercare tanto per lo sottile,e siap paga dell'autorità di san Tommaso ,e del titolo del libro:più inlànonvede.NèpiùinlàvideilP.Taparelli,contuttala fama di dotto, perchè in una lettera scritta al nostro De G r a zia da Sorrento,in data del 12 agosto 1852,lo salutava,senz'al t r o , r i s t o r a t o r e d e l l a f i l o s o f i a o r t o d o s s a . Il D e G r a z i a , s a p u tolo a Napoli , era stato a fargli visita : non lo aveva trovato , e d il T a p a r e l l i , i n f o r m a t o n e , g l i a v e v a s c r i t t o c o s ì .   Meritava egli quest'obblio ? Certo che no ; e noi ci studie remo didimostrarlo,facendouna rapidaesposizionedellesue dottrine contenute ne'libri finora accennati. E primaditutto:qualieranolecondizionifilosofichedelle provincie meridionali , quando egli diessi a filosofare ? Quale fine si propose egli ? Quali mezzi aveva sotto mano ? Queste notizie sono indispensabili per valutare equamente il risulta to delle sue ricerche . Vincenzo de Grazia aveva avuto una coltura matematica ; e, come porta questa coltura, il suo spirito ne aveva attinto un bisogno di dimostrazioni rigorose,ed un'avversione alle conclusioni frettolose, ed alle sintesi arrischiate. Da parec chie testimonianze si raccoglie,ch'ei diessi alla filosofia sui quarant'anni, quando già la fantasia è manco vivace pur n e gli u o m i n i c h e p i ù n e a b b o n d a n o . E l ' e d u c a z i o n e a d u n q u e e l'età lo attiravano per quella via piana e sicura, dove un pie de va innanzi l'altro, senza intoppi, e senza bisogno di salti. Nel 1825,quando all'incirca eisimise afilosofare, ilGal luppi aveva lastricato quella via, ed additatala ai suoi con cittadini.La filosofia sperimentale era in voga. Erainvoga,ma lestavasempre difronte,temutaavver saria,quella filosofia che rivendicava all'attività dello spiri to un'attività produttrice ed indipendente, benchè sotto v a rie forme.Il Locke nel secolo diciassettesimo aveva combat tuto l'Innatismo cartesiano,ma era stato alla sua volta com battuto da Leibniz :l'Innatismo ricompariva sotto altro aspet to.Non dicogiàchelefiguresianobell'edisegnatenelmar mo,dicevaLeibniz;ma ilmarmo nonèperòliscioeschiet to,c'èuna certavenatura,che messa inrisalto siaccosta as sai alle linee che ti occorrono a figurarle. Stefano Bonnot di  11 IlDeGraziamoriaNapoliil20novembre1856,quasii gnorato : era attorno ad altri lavori , fra i quali un'Estetica, eleIstituzionidifilosofia;ma diquestimanoscrittiforsela sciati a Napoli non si è potuto avere nessuna notizia.   Condillac ripigliava l'impresa del filosofo di Wrington , e non c o n t e n t o d i d i v o l g a r l o t a l e q u a l e , c o m e a v e v a f a t t o il V o l t a i r e , lo semplificava,lo facilitava,sicchè la sola sensazione faceva a lui quell'ufficio, pel quale al Locke erano occorsi due coef ficienti : la riflessione del filosofo inglese era sbandita come soverchia.IlCondillacaveva,come suolesuccedere,comincia to con ricalcare fedelmente le orme di Locke , poi aveva ri fatto a modo suo : e la sua semplicità maravigliosa piacque in Francia più della circospetta indagine del filosofo inglese. Onde,morto luiil1780,ilsuofilosofarecontinuò,inter r o t t o a p p e n a d a l l o s t r e p i t o d e l l a r i v o l u z i o n e ,c h e t e n n e d i e t r o allasuamorte.Cessato,difatti,ilterrore del1793,l'anno appressoicondillachianiriapparveropadronidelcampo filo sofico,edebberoinmanolaScuolanormale,el'Istituto,che allora sorgeva per Decreto della Convenzione attuato dal Di rettorio.Questo gruppo detto degl'Ideologi contava nomi ce l e b r i : C a b a n i s il f i s i o l o g o d e l l a s c u o l a , T r a c y l ' i d e o l o g o p r o priamentedetto,Volney ilmoralista,Garatprofessorealla scuola normale e difensore del sistema ; e poi con loro altri che dipoi deviarono,chi più chi meno ,ma che allora stavano p e r la m e d e s i m a d o t t r i n a : il M a i n e d e B i r a n , il D e G e r a n d o , ilLa Romiguière. Nel decennio corso fra la cessazione del terrore e la fon dazionedell'Impero,dal1794 al1804,questogruppodiva lentuomini si adunava nei giardini di Auteuil, e l'amicizia deglianimi siaccoppiava ne'loro convegni allaconcordia delle dottrine . Sotto l'Impero , il cielo per loro si annuvolo . Tutti sanno il dispregio in cui il primo Napoleone teneva l'I deologia;nontuttinesannoilmotivo.Napoleonenon l'odia va tanto come dottrina,quanto come partito. IlCabanis,ilVolney,ilGarat,ilDeTracy,cheavevan visto di buon occhio il Nettuno che placava le onde tempe stose della rivoluzione, non furono più contenti, quando lo videro troneggiare da Giove . Gli tennero il broncio , ed ei si  12   vendicò nel rimpastare l'Istituto,scartando la sezione delle scienze morali, e destituendo l'Ideologia, secondo la frase del Damiron . Il Villemain racconta gli scoppi della collera napoleonicacontro quegl'innocenti ideologhi,che poinon lameritavano davvero.All'Ideologia Napoleone imputava di scandagliare le fondamenta dello Stato col fine di scalzarle. Vera o falsa che fosse l'accusa,l'Ideologia ne scapitd, alme no perdendo la veste di filosofia ufficiale, e lo spiritualismo, chenespiavalemosse,lasoppiantonellascuolanormale, dove ilRoyer Collard l'introduceva il1811. Seguace del keid,questo eloquente filosofo seppe vincere la preoccupazio ne invalsa, che filosofare liberamente non si potesse fuori della Ideologia;e che quindi o bisognava accettare lo spirito teologico del De Maistre, o schierarsi tra gl'ideologi con a c a p o il T r a c y . C o l R o y e r C o l l a r d l ' a l t e r n a t i v a f u e v i t a t a , e d inaugurata la nuova scuola filosofica della Francia , quella ch'è stata da indi in poi sempre al potere col Cousin ,col R é musat, col Barthélémy de Saint Hilaire, col Waddington , colSimon. In Italia lo spiritualismo ,rinfiancato dall'eccletismo cousi njano,benchè tradotto dal Galluppi,non fece fortuna: gl’Ita liani o tennero la via degl'ideologi, o se ne scostarono per ben altra filosofia, che non fosse l'eccletismo. Più che la filosofia del senso comune proposta dal Reid per fronteggiare lo scetticismo di Davide Hume ,ed accettata dal Royer -Collard per combattere l'Ideologia,diè da pensare agl'I talianilafilosofiatrascendentale di Emanuele Kant.IlGal luppi se ne mostrava profondo conoscitore fin dal 1819, quando incominciava la pubblicazione del Saggio su la cono scenza umana ;sebbene avesse dovuto studiarla nelle scarse e s p o s i z i o n i d e l V i l l e r s . P i ù t a r d i s o l t a n t o , il 1 8 2 1 , t r a d u c e v a laCriticainitalianoilMantovani;ma PirroLallebasque,il 1824,era in grado di studiarla su l'originale, come dimo stra di saper fare nella esposizione che ne dà nella sua Intro  13   duzione alla filosofia del pensiero : caso degno di nota per quel tempo, quando nè la lingua,né la filosofia tedesca era no divolgate, come oggidì, non dico in Italia, ma neppure nella rimanente Europa . Leduevieaperte,daindiinquà,furonoadunque,almeno p e r n o i , q u e s t e d u e : il s e n s i s m o , e d il c r i t i c i s m o . T r a q u e s t e cercava di aprirsi un varco intermedio il Galluppi ; al sensi smopropendeva ilBorrelli,alcriticismo ilColecchi.Pa squale Borrelli scriveva e stampava a Lugano, quasi con temporaneamente al Galluppi, ch'ei conosceva però soltanto di nome .Ottavio Colecchi insegnava pure in quel torno,ma le sue questioni filosofiche non furono pubblicate, se non il 1843. Che ilDe Grazia non abbia quindi conosciuto gli scritti del Colecchi , è certo ; del Borrelli si può dubitare, benchè a certi segni,che appresso additeremo, si possa credere di averne avuto sott'occhio le opere .Indubitato è però che siasi formato sul Galluppi,e che siasi prefisso di camminare su la via dischiusa dal suo gran concittadino, evitando gli svia menti ,in cui l'altro era incorso ,e tirando più dritto alla meta . Più dritto e difilato procedette in realtà;ma verso dove ? ParvealDeGraziacheilGalluppi,scambiodifondarelafi losofia della sperienza, come si era proposto, per incaute concessioni al Kantismo,era finito con darsegli in preda. Cotesto sviamento ei combatté a tutt'oltranza ne'primi libri, come nell'ultimo;primacopertamente,esenzapronunziarne ilnome,poiallasvelata.Onde amenonpiccolasorpresaha cagionato il giudizio di certi nostri storici e critici ad orec chio,iqualiconfondonoilGalluppicolDeGrazia,comese professassero la medesima dottrina. Capisco che iltitolo, c o m u n e a d e n t r a m b i , di filosofia s p e r i m e n t a l e , h a p o t u t o t r a r reinerroreiprelodatigiudici;ecompatirei losbaglio,s'ei fossero dilettanti;ma è da condannare severamente in loro, che si danno l'aria di scrivere storie e critiche, senza leg gere neppure ilibri istoriati e criticati.  14   15 TornooraalDeGrazia.Perdimostrareilprocessostori co de'due opposti avviamenti, ei ricorre alla sorgiva :rifà quindi la storia de sistemi filosofici moderni,ed ammaestra to dagli errori altrui ripropone il problema, e si accinge a risolverlo. Anche qui l'influenza del Galluppi è manifesta, avendo questi pel primo rimesso in onore appresso di noi la storia della filosofia, e dato il più lucido esempio d'innestare le ricerche proprie con le indagini fatte prima da altri sul m e d e s i m o s o g g e t t o : il D e G r a z i a t u t t a v i a r i t e s s e l a m e d e s i m a storia con altro intendimento ;perciò la sua non è ripetizione di quella fatta dal Galluppi, e vale il pregio di essere esposta e conosciuta in disparte. II. La filosofia pel De Grazia si aggira sul problema della scien zaumana,nèpiùnémeno,chepelGalluppi:iltitolodelle due opere capitali scritte dai due filosofi calabresi accusa la medesima intenzione.Il Galluppi scriveva il Saggio plosofi co su la critica della conoscenza ; il De Grazia, il saggio su la realtà della scienza umana . Questa similitudine ha tratto in errore alcuni storiografi dafrontispizî,perchè dallaintestazionesono corsi,senz'al t r o , a d a s s e r i r e c h e il G a l l u p p i e d il D e G r a z i a p r o f e s s a n o l a medesima dottrina.Se non che,questa volta l'hanno sba gliata ; chè se il problema è lo stesso in entrambi , la solu zione è diversa non solo,ma opposta.Il De Grazia scrisse col manifesto divisamento di combattere la soluzione gallup piana. Già nella stessa intestazione il filosofo di Mesuraca accenna a questo punto capitale del suo Saggio , ch'è la real tà della scienza,compromessa,a parer suo, dalla spiegazio ne accettata dal filosofo di Tropea. Ma seguiamo ilprocesso storico delproblema,com'è espo sto dal De Grazia. IlGalluppi aveva dato l'esempio di accoppiare alla sua    Ancora non gli eran potute essere note le tre epoche di stinte da Augusto Comte , che par di non aver conosciuto n e p pure dopo,egiàeglitripartiscelastoriadellafilosofia,aun di presso,con un criterio analogo a quello del filosofo francese. Nella prima epoca la ragione,baldanzosa per inesperta gioventù,silibra a volo,e tenta costruzioni metafisiche, te nendo scarsissimo conto della scienza principale,e facendo ne quasi un'appendice delle sue fantastiche cosmogonie. Nella seconda,ella piglia per verità le mosse dal proble madelconoscere;matostoloabbandona,sedottadallame tafisica. Nella terza,la ragione rinsavita si propone chiaro il suo cômpito,ed'altronon sibriga;senon che,pur nelle solu zioni del problema conoscitivo,di quando in quando,fa capo lino ilrazionalismo. Insomma l'esosa metafisica,lo scapestrato razionalismo s o n o p e r D e G r a z i a il v e r o o s t a c o l o , c h e n o n l a s c i a p a s s a r l a vera scienza per la sua via. Alle tre epoche egli assegna questi intervalli di tempo:la prima si stende dai primi abbozzi ionici fino a Socrate, il fondatore della definizione,e de'ragionamenti d'induzione ; la seconda da Platone e da Aristotele corre fino a Locke ; in terrotta qua e là dai tentativi del Galilei, del Bacone,e del Des Cartes;laterzaduraancora,edènelmeglio delle sue conquiste.  16- dottrina la genesi storica del problema da lui riproposto ; e sirifàdaCartesioaquestaparte,daCartesiocheperluiè il padre della filosofia moderna .Il De Grazia risale più in su , fino ai primordî della filosofia greca , senza perder d'occhio p e r ò il p r o b l e m a d e l l a s c i e n z a . Il s u o c r i t e r i o s t o r i c o è s e m plicissimo:v'èduefilosofie,una che ritienel'osservazione de'sensi,un'altra che l'impugna;e quest'ultima, comechè si argomenti di ricostruire la impugnata testimonianza,m e ritasempreilnome dirazionalismo.   È mestieri,diceilDe Grazia,distaccardeltutto leme tafisiche speculazioni dalla scienza del pensiero,per forzar la ragione al metodo di pura osservazione ». La ragione,secondo lui, ha una tendenza precisamente contraria; ingegnandosi di rimenare all'ordine a priori quel chetrovasidatodainduzione.È necessario adunque che la filosofia n e infreni l' i m p e t o , e n e m o d e r i la foga ; e , p e r n o n esserviriuscitaancora,lametafisica èrimastastazionaria, piena zeppa di ambiziose vedute, non avvalorate da'fatti. «Positivoprogresso dellafilosofiad'oggidì è quello di es sersiridottelericerchemetafisiche,cheuntempo formava no la sterile ricchezza degli scritti filosofici ». L a s t e s s a a v v e r s i o n e h a il D e G r a z i a p e r l o s p i r i t o t e o l o g i c o . « L'intervento divino nella spiegazione de'fenomeni na turali vale quanto la macchina nello scioglimento del nodo diuna tragedia.Perocchè è ben facile espediente ilriporta re ad una causa sovrannaturale quegli effetti, che non siè saputo ricondurre alle cause naturali ». Soggiunge innotaunariserva,èvero;dichiaradinon v o l e r i m p u g n a r e i m i r a c o l i : il p u n t o p r i n c i p a l e n o n è m e n saldo però,l'esclusione loro dalla scienza. QuiilDe Grazia,siacheloconoscesse,oche s'incontras se col Comte , si mostra cosi aperto avversario dell'interven todivino,come delleipotesimetafisiche:teologia,erazio nalismo sviano dalla vera scienza. Il tradizionale metodo della filosofia telesiana rivive dopo tresecolinelDeGrazia:fondamentodellascienzaèlasolaos servazione;e nondimeno riserva di ossequio verso l'autorità religiosa,da parte degli autori. IlDeGrazia rivolgeaifenomeni delpensiero quella os servazione, che il Telesio aveva rivolto a'fenomeni naturali. Ilmetodo ch'ei si traccia,e che si studia di seguire,è il se guente:osservare ifenomeni primitivi,ridurli finoagli ele menti irreducibili.  17 3   18 «La filosofiaintellettuale,eidice,dopoaverriconosciuto i fatti attuali di coscienza dee saggiar di risalire di riduzio ne in riduzione al fatto primitivo,alla pura veduta intellet Quali sono i fenomeni primitivi del pensiero a cui si fer ma?Sono tre,lasensazione,ilgiudizio,ilvolere;quindi tre parti principali della filosofia,Estetica,Logica,Etica. Lasciando di vedere se questi tre sono proprio i fenomeni irreducibili,certo è però che ilmetodo da lui seguito è pre cisamente quello tenuto dalle scienze esatte.L'autore non dissimula il bisogno da lui sentito di applicare alla filosofia ilmetodo dellematematiche,allequali s'era da prima ad detto, e dal cui studio deriva in gran parte il riscontro che si può scorgere tra la sua filosofia e quella che nel torno m e desimo si coltivava in Francia sotto il nome di filosofia po sitiva. « E p p u r e , e s c l a m a il D e G r a z i a , n o n v ' è c h i p a s s a n d o d a l la evidenza delle matematiche alle ricerche filosofiche non senta irrequieto ilbisogno di sortir fuori delle incertezze, in cui vede implicato il sistema della scienza ». Come dalla semplice osservazione lo spirito possa solle v a r s i a l l a r i d u z i o n e s c i e n t i f i c a d e ' f e n o m e n i , il D e G r a z i a d e scrive in modo molto preciso;e tale che merita esser riferi to con le sue stesse parole. « Ma l'esperienza non è l'osservazione empirica,che si arresta a'fenomeni isolati.Ilmetodo sperimentale sigiova dituttiinostrimezziperiscovrirelaconnessione de'feno meni;del ragionamento astratto,della induzione,delle spe rienze artifiziali, delle ipotesi.Con sì varî mezzi la fisica la vora alle classificazioni de'fenomeni esterni,a ridurre i fe nomeni particolari a'generali,a rilevare dal corso della na tura le sue leggi,cioè le costanti condizioni de'fenomeni,le une costanti e permanenti , le altre costanti nel cangiar dei fenomeni. In tal divisamento non mira soltanto a minorar  tuale ».   l'ignoto,che resta limitato a'fenomeni irreducibili, ma ad uno scopo più positivo,a quello diprevenir l'esperienza,e somministrar così preziosi materiali a tutte le arti ». C h i r i c o r d a il m o t t o d e l C o m t e : « s a v o i r c ' e s t p r é v o i r » r i conoscerà di leggieri il riscontro de due filosofi. Nè risalta meno la comune mira di ridurre i fenomeni fino all'estremo limite, affine di minorare l'ignoto . Trasportandoorailmetodotestedescritto alleinvestiga zioni filosofiche, il De Grazia procede cosi ; osserva , cioè, i fatti della coscienza,qual'è attualmente, e di riduzione in riduzione risale finoaiprimielementi,ond'ellaèstata ge nerata.Eglistessoformolailsuoproblemainquesti termi ni:«coimezzichesonoinnostropotere,ritrovarlagene razione delle verità,di cui siamo in possesso ». Questo metodo ei lo chiama genealogico; e la parola ed il concetto sitrovano inun altro filosofo italiano,noto alDe Grazia,in Pasquale Borelli,che intitolò lasua filosofia,Prin cipii della genealogia delpensiero.Fino a che punto s'ac cordino nel loro intento,toccheremo appresso :qui basta n o tare,chelafilosofiavera,lafilosofiaseriapelDeGrazia co mincia con quest'analisi minuta degli elementi primi del pensiero.Dimodochè sebbene ei lodi Aristotele di aver a m messo la realtà delle idee universali,e più ancora di essersi fondato sul senso,nondimeno,poiché lo Stagirita vi arrivo quasi di lancio,e per un'affrettata generalizzazione,il n o strofilosofononripiglialaverastoriadalui.Ilprimo sag gio genealogico del pensiero sembra a lui,essere stato il Saggiosul'intellettoumano diLocke,chepure ilGalluppi chiamava immortale. QuelSaggio,cadutopoi indiscredito,ebbe una meritata rinomanza;elafamafupiùfondatadeldiscredito.La filo sofia inglese mette capo tutta quanta in esso ; la francese del secolotrascorso nederivò;allatedesca,iniziatadalKant, d i è il p r i m o u r t o p e r m e z z o d i H u m e . O g g i d i , a p p r e s s o d i n o i  19   Il principal merito del filosofo di Wrington era agli occhi del De Grazia quello di aver combattuto ad oltranza le idee innate.Ritenere tutte,o alcune idee per innate,porta ne cessariamente per conseguenza di non ricercarne l'origine; e quindi impedisce il progresso della filosofia, che tutta si dee travagliare attorno a questa ricerca.Cartesio e Leibniz, chesicredonodiaverleammesse,inrealtàleritenneroco me semplici disposizioni ;e fu per colpa di una improprietà dilinguaggio ses'imputòalorodiaverleaccettate.E qui dava una toccatina alGalluppi. Ma ilsistemalockiano,nelrintracciarelagenealogia del pensiero, omise moltissimi atti mentali che vi concorrono ; ed era omissione scusabile in un primo tentativo,ed in ri cerca cotanto complessa.Locke diè,per dir così,una for mola generale,allaqualeeranoapplicabilipiùvalori:Con dillac si avvisa di darle un valore preciso ; ma precisando, disvia.Locke,difatti,aveva riconosciute due sorgenti delle nostre idee,la sensazione,e la riflessione:quest'ultima non era ben definita,erauna funzione che accoglieva un po'di tutto,giudizio,astrazione,ragionamento,volontà,era in definita,siconfondeva con lacoscienza:Condillac dà un va  - 20 - sièpiùgiustiversodelmodesto,delsincero,del pazientis simo Locke ; smessi i superbi fastidî delle sintesi frettolose: al tempo che scriveva il De Grazia le invettive giobertiane erano accolte senza molti scrupoli ; ed al filosofo calabrese f u g l o r i a n o n e s s e r s e n e l a s c i a t o s m u o v e r e . Il G a l l u p p i , c o m e abbiamo visto,lo aveva pregiato assai,ma i consigli del buon vecchio cominciavano ad aver poca presa su gli animi de'giovani.Fuori d'Italia l'Herbart faceva tanta stima del Saggio lockiano,che al Consigliere Clemens,il quale lo ri chiedeva intorno alla filosofia da insegnare ne’ginnasi, riso lutamente rispondeva : dal maestro di filosofia ne'ginnasi anzi tutto ed assolutamente richiederei che avesse letto Locke .  lore preciso , riduce tutto alla sensazione , o semplice , o t r a sformata : sentire è giudicare. IlDe Grazia,come abbiamo visto,fa della sensazione e del giudizio due fenomeni irreducibili ; egli non può dunque nè contentarsi dell'ambiguità della riflessione lockiana, ne moltomeno dellasemplicitàdellasensazionecondillachiana. All'osservazione de'fatti gli pare che il Condillac abbia sosti tuito la tortura del fare sistematico . Gran merito di Kant è quello di avere scorto l'importanza del giudizio,di questo fenomeno irreducibile,stato dal Con dillac confuso con la sensazione. Pel filosofo di Koenisberg gli ultimi elementi delle nostre idee sono da una parte le sensazioni,dall'altraigiudizî:idueelementi appunto che al nostro filosofo paiono indispensabili alla soluzione del p r o blemachesièproposto. Ma con questo gran merito egli imputa al Kant una gran colpa,la soggettività de’rapporti; vizio che gli sembra infet tare la filosofia contemporanea. L a s o g g e t t i v i t à d i K a n t p e r ò , e d il D e G r a z i a n e c o n v i e n e , fu una necessità storica. Locke aveva detto che tutte le n o stre idee nascono dalla sperienza,e che un'idea originale semplice non può derivare quindi da un ragionamento : H u meaccettòlepremesse,econtinuò:mal'ideadicausanon ܚ.ܝ 21- Per lui,come per d'Alembert,lafacoltà distintiva dell'es sere attivo e intelligente,è quella di poter dare un senso al la parola è:ora il Condillac questa distinzione l'ha distrutta. ; i J tà el Seelementisoggettivi,eglinota,simesconoco'dati spe rimentali,in taleipotesinon conosceremmo quel ch'è nel fattoosservato,ma quelcheciapparisce esservi;talchese spogliamo ilfattodiciòch'ènostraproprietà,lanostraco noscenza svanisce.Si vuol che siano elementi soggettivi le ideedispazio,ditempo,disostanza,dicausa?Togliete via dunque dagli oggetti esterni e dal proprio essere siffatti ele menti;e la scienza della natura,e dello spirito è distrutta »,  22 può derivare dalla sperienza ;dunque non c'è.Cosi tutta la scienza della natura andava in aria,e Reid sirifugiò nel sen so comune ,in una credenza irresistibile,istintiva:Kant a m mise degli elementi aggiunti dall'attività dello spirito. IlDe Grazia nota con molto accorgimento,che in sostan zailsensocomune,dicuitantosicompiacciono certi filo sofi anche oggidi,non salva nulla;che per giunta è pieno di contraddizioni,perchè introduce classificazioni e distinzioni arbitrarie,mentre si era prefisso di accettare le comuni cre denzetaliqualisitrovanonellacoscienzavolgare;che tra Reid e Kant,per ciò che riguarda la realtà della scienza, nonc'èpuntodidivario. «Kantnellospiegareilfenomenolosfigura,elascia sco vrireildubbio:lascuolascozzesetieneoccultato ildubbio perchè non imprende la spiegazione del fenomeno .... È BravoilDeGrazia!Eglinonsilasciaappagaredallepa role,e civedebenaddentro;esel'haconKant,saperò rendergli giustizia,nè condannando lui,assolve quelli che sono intinti della stessa pece. Ed ora viene ilbuono.Nella dottrina kantiana ei capisce subito, che non il numero degli elementi soggettivi aggiunti dallo spirito,ma l'aggiunzione sola,quanta che fosse, era sufficiente a compromettere la realtà della scienza umana . Certi nuovi critici,che in filosofia credono poter servirsi dellastadera,han detto,peresempio:ilKantammette in tuizionipure,categorie edidee,tutte apriori,ilGalluppi, invece, appena appena dà per soggettivi i due rapporti d'i dentità e di diversità,dunque è lampante ch'ei sian discosti le mille miglia uno dall'altro.  sta dunque la differenza, in quanto alla realtà delle nostre conoscenze , tra il proscritto sistema kantiano, e la favorita dottrina della scuola di Reid !> que IlDe Grazia scrive così:«basta ilsupporre una pura ve duta dello spirito il solo rapporto d'identità e di diversità,   ·23 rapporto fondamentale delle nostre conoscenze , per ricadere nel realismo empirico del sistema kantiano ».(Saggio etc. Vol.2,pag.160 - Napoli 1839). Nè contentoacid,altroverincalzalasuaosservazione in questi termini: « M e t t i a m o o r a i n d i s p a r t e il s i s t e m a k a n t i a n o ; c a n g i a m o la sua ripartizione tra gli elementi soggettivi e gli oggettivi accordando più largamente alla sperienza ; o anche tutte le idee diciamole derivate dalla sperienza,e riteniamo bensi solamente che non sono condizioni oggettive i rapporti a n zidetti appresi tra le sensazioni ; noi ricadiamo apertamen te nel realismo empirico della filosofia critica ». (Vol. 3, p.367). Pel De Grazia il kantismo consisteva nell'applicazione di elementi soggettivi alle sensazioni:dovunque riscontra que sto medesimo processo ei riconosce ritenuto il fondamento della filosofia kantiana. Ei si maraviglia anzi che gli altri non siansi accorti di questa medesimezza. « La storia nota a stupore della posterità,che i filosofi tutti hanno accusato d'idealismo il sistema kantiano, e che niuno aveva avvertito, l'idealismo esser nella supposta n a tura soggettiva delle idee di rapporto ».(Vol.4,pag.512). Quale sarebbe stata la maraviglia del De Grazia,se avesse vistoche,quando ebbenotatacotestasomiglianzaloSpaven ta,controluigridaronotutteleoche,vigili sentinelledella rocca filosofica. Parve denigrazione della filosofia italiana, quella ch'era critica aggiustata e seria:parve così a coloro, iquali se ne predicavano sostenitori,quando non l'avevano studiata,e forse neppure letta. Ma torniamo al De Grazia. Ei non cita il Galluppi in tutto quanto il Saggio, se non una volta sola ; egli però scrive il libro per combattere la dottrina del suo gran concittadino,che glipareva derivata a dirittura da quella di Kant.Che però miri al Galluppi, ap    parisce da un'apposita nota,che aggiunge a pag.239 del 4° vol.delsuoSaggio. « La dottrina degli elementi soggettivi,ei dice,è stata da noi detta soggettivismo per denotarla qual vizio radicale del metodo filosofico.Puòanche dirsiformalismo,riferendosi alleformepure diKant,che sono gli elementi soggettivi. Noi abbiamo preferito finora la prima espressione per la c o n siderazione, che nelle dottrine attualmente in vigore si abbraccia l'ipotesi degli elementi soggettivi,e non vi si parla di forme. E siccome credono alcuni di non incorrere nell'idealismo di Kant,tuttochè adottano quella ipotesi;noi nel combatterla sotto qualunque aspetto,dovevamo ritenere il nome or generalmente adottato, quello di elementi sogget tivi.Se cifossimoinvecediretticontro ilformalismo, po teasi credere che prendevamo di mira il solo sistema kantia no.Insostanza,ladistinzionedimateriaediformaintal sistema serve a render più potente l'idealismo,che si rac chiude nella dottrina degli elementi soggettivi.Quindi si son messe in disparte le forme kantiane, e si sono adottati gli elementi soggettivi che Kant appello forme. Ecco come da taluni si è creduto evitare l'idealismo k a n tiano !» Pel De Grazia adunque il divario fra Kant e Galluppi, ed anche tra Kant e Rosmini,come vedremo appresso, era più dinomeched'altro.Checosanediràilprof.Acri?checo sa ne diranno tutti quei ciarlatani grandi e piccini,che sen zaaverlettoneppureifrontispizîdelleopereche citano,lo mitriarono vindice della filosofia italiana ? Ai ciarlatani è inutile rivolgere nessuna domanda;al pro fessore Acri domando che cosa voleva dire,quando scrisse a proposito del Galluppi il seguente giudizio ricavato dal De Grazia .  24 « Ma perciò che Galluppi e Kant affermano tutt'e due che questeidee(identitàediversità)sono soggettive es'accor   dano nelleparole,ne vuoi dedurre che Galluppi sia kantia n o ? Il t u o a r g o m e n t o s a r e b b e q u e s t o n è p i ù n é m e n o : q u e l l ' a n i m a l e lì è c a n e ; q u e l l a c o s t e l l a z i o n e lì è c a n e : q u e l l o a b baia;dunque quell'altra deve pure abbaiare.Se si considera ilpensiero delGalluppi su questo argomento,quantunque non molto lucido e netto, come ha notato quel nostro De Graziadegnodimaggiorfama,sivedesubitochel'idea diidentitàhavaloreoggettivoereale,perchènasce dall'i dentità reale dell'io come cosa,non altrimenti che l'idea di unità ».(Acri,Critica etc.p.31). Quando lessi questa scappata dell'Acri,mi misi a ridere: tralasciai pero di tenerne conto nella risposta che gli feci, non volendo entrare nella esposizione del De Grazia,che sa pevodidovere scriveredopo:eccomioraapoternefartoc care con mano la falsità. Stando all'Acri,adunque,quel nostro De Grazia aveva notato benissimo che per Galluppi le idee di identità e di di versitàerano oggettive;chesoltantonellaespressioneave va questi mancato di lucidezza. HailprofessoreAcrilettodavveroilSaggio delDeGra zia?Iocredo,edebbocrederedino,perchè intutt'iquat tro volumi,quel nostro valoroso concittadino d'altro non biasimailGalluppi,pursenzacitarlodinome,che diaver accettato dal kantismo la soggettività de'rapporti, segnata mente poi di questi due d'identità e di diversità.  - 25 Ilprof.Acri,seavesselettoillibro,non sarebbeuscitoin quella citazione,inesatta non solo,ma assurda ;chi pensi, che ilDe Grazia ad altro fine non scrisse,che a rilevare la medesimezza de'risultati, per rispetto alla realtà della n o stra scienza,si delle forme kantiane,come degli elementi soggettividelGalluppi.Capiscocheilprof.Acri potevafar a fidanza con l'ignoranza assoluta de'suoi ammiratori in fatto di storia della filosofia,ma egli non doveva contare per niente,dunque,neppure isuoi contraddittori?   Padronissimo di creder lui,che que'rapporti pel Galluppi sianooggettivi,ma perchèvolertiraredallasuaancheilDe Grazia,che tuttalavitascrisseappunto per dimostrare il contrario?È un po'troppo,parmi. Finchè visse ilGalluppi,ilDe Grazia non riflni dal com batterneladottrina,congrandeinsistenzaforse,delche si scusava;ma con profondaconvinzione,edopo averne lunga mente ponderato quelli che a lui parevano inconvenienti gravissimi.Nol nominò però mai,altro che una volta sola, c o m e a b b i a m o v i s t o , e p e r l o d a r l o . M o r t o c h e f u il G a l l u p p i , scrivendo egli l'ultima sua opera col titolo di Prospetto della filosofiaortodossa,smettelaprima riserva,elocombatte no minatamente .Ripetendo le antiche obbiezioni ,egli scrive cosi : « Su tutto quel che abbiamo qui osservato intorno alla dottrina della sensazione essenzialmente percettiva, e della soggettivitàdelleideedirapporto,dobbiamo anoistessiil far noto a'nostri cortesi lettori,che fin dal 1839 le stesse osservazioni, più estesamente sviluppate,furono fatte di ra gione pubblica, e non abbiam poi cessato di riprodurle in parte,e ripetutamente in varii articoli pubblicati in diversi giornali ».(pag.141-142). Dimodochè rimane fuori di ogni controversia, che il De Grazia ha inteso combattere la dottrina del Galluppi su la soggettività de'rapporti,e che ha creduto essere questa dot trina conforme a quella di Emanuele Kant . Potrei anzi a g giungere,che la soggettività de'rapporti parve al De Grazia concedere più di quel che Kant medesimo ricercasse:«tutto, egli avverte, si accordava a Kant , anzi ancor più di quanto questiesigea,quando glisiaccordava,che le idee di rap porto sono elementi soggettivi ».(Vol.4,pag.267). Eperchèdippiù?PerchèKantlimitavaalmenoilnumero delle sue forme; mentre la tesi galluppiana della soggettività spaziava più largamente. Ecco le strette in cui il De Grazia pone questa filosofia.  26   «Finché siritiene,eidice,da'filosofilanatura soggetti vadelleideedirapporto,restainconcusso ilprincipio,che isensinonpossonoaltrodarcichenude sensazioni.Questo p r i n c i p i o o r o v e s c i a p e r i n t e r o il s i s t e m a s p e r i m e n t a l e , o deve ammettersi che tutte le nostre idee sono sensazioni:ad un estremo èilformalismoassoluto,all'altroestremo è il sensualismo. Nelle forme pure dello spirito si modella in ideel'informemateriasensibile,dice ilformalista:tutte le nostre idee sono sensazioni, o primitive o trasformate, dice ilsensualista».(Vol.4,pag.269-270). O Kant,oCondillac:eccoilbivio dellafilosofia,secondo il nostro filosofo. Perchè questo bivio? Perchè due soluzioni sono possibili, quando non si tien conto di tutti nostri m e z zi del conoscere.Questi mezzi sono due :sentire,e giudica re;ridurli entrambi ad un solo,importa o lasensazione tra sformata di Condillac,o ilformalismo kantiano. Formalista è dunque il Galluppi, formalista il Rosmini ; entrambi costretti ad ammettere tutt'igiudizi come sinteti ciapriori. « Se l'idea di identità fosse un elemento soggettivo,come essi opinano,e perciò addizionale alle due idee,il nostro giudizio sarebbe in tutti casi sintetico a priori ».(p.286). Ma ilGalluppicombatteigiudizîsinteticiapriori,sidi ilcorollario previsto dal De Grazia non lo tocca dun que .Così ragionerebbe chi si fermasse alla buccia delle q u e stioni;noncosìilDeGrazia,ilquale vipenetraaddentro. È una contraddizione,eglidice,dicuiilfilosofonon s'èac corto, perchè la vera dottrina è quella che non dipende dal la intenzione,o dalla professione di fede che fa un autore, ma quellachesifondanellalogica. Avete un bel dire che giudizi sintetici a priori non vole  27 rà; « Non si è dunque avvertito, che son due tesi contraddit torie, il non esservi giudizî sintetici a priori, e l'essere ele mento addizionale l'idea d'identità ». (loc.cit.).   te ammetterne,quando poisostenete che ogni rapporto è un'identità o totale o parziale ; e quando soggiungete che questa identità è un'aggiunta dello spirito. Quale dottrina contrappone ora il De Grazia a quelle del Condillac,e del Kant ? L'uno diceva : giudicare è sentire ; l'altro, seguito dal Rosmini e dal Galluppi, diceva:giudicare è a g g i u n g e r e ; il D e G r a z i a , d i s c o s t a n d o s i d a l p r i m o e d a l s e condo,dice:giudicare èosservare. Ma prima d'intendere il significato nuovo,ch'ei dà alla funzione del giudizio,necessita ricordare com'egli abbia in teso la sensazione. Né Locke, nè Condillac distinsero abbastanza la sensazio ne dalla percezione ; Condillac anzi le confuse affatto. Alla stessa confusione fu sforzato ilGalluppi.Tralascio le osser vazioni sui primi due,mi fermo a quelle che vanno dritte contro la spiegazione galluppiana,ch'è lamira principale del De Grazia . Due sbagli commette ilGalluppi,uno di confondere ilsen - timento con la coscienza; l'altro di confondere la sensazione con la percezione. « Il sentimento e la coscienza del sentimento sono nel n o stro spirito cosi abitualmente congiunti,che più filosofi han confuso i due fatti affermando, che sentire ed esser conscio di sentire non sono che una operazione medesima dello spi rito ».(Vol.4,pag.17). « Confondendo la coscienza della sensazione con la s e n sazione, non si sono avveduti que'filosofi, che ciò era un confondere il conoscere, il percepire col sentire, c o n fusione che essi medesimi rimproverano a'sensualisti ». (loc. cit.). Queste due confusioni erano state fatte veramente dal G a l luppi,avendoeglicompresosottoilnome disensibilitàin  28 Il simile si dica della idea dell'ente, che il Rosmini a g giunge ad ogni giudizio; su la quale torneremo altra volta.   29 «Sentireilmesensitivodiunfuordime,glidiceilDe Grazia,èlapiùforzatacontrazione,che potea darsi all'e spressione del fatto di coscienza ».(Vol.4,pag.18). L'industria adoperata dal Galluppi per nascondere questi giudizî elementari e primitivi proviene,a parer del nostro fi losofo, dal perchè egli li aveva tenuti per sospetti di sogget tivismo.Questo medesimo motivo lo indusse ad ammettere le sensazioni oggettive, senza bisogno di spiegare il passag gio dal sentire al percepire . Leibniz e d'Alembert, entrambi geometri , e prima di loro anche il Malebranche, avevano riconosciuto il bisogno di spiegareilpassaggiodalmealfuordime:idueprimiave vano anzi proceduto più avanti,additando come mezzo l'in duzione;ilGalluppitagliòcorto,negò ilproblema stesso; affermando non esservi luogo a passaggio,quando la sensa zione coglie immediatamente l'oggetto. Doppio sbaglioadunque da partedelGalluppi:primo,aver disconosciuto igiudizî primitivi;secondo,aver rifiutato,per la conoscenza del mondo esteriore,ilsoccorso della induzio ne . Contro i giudizî lo aveva prevenuto la dottrina kantiana de'rapporti soggettivi ; contro l'induzione,il presupposto che nessun'abitudine posteriore avrebbe potuto fare ciò che un atto primitivo non aveva potuto.Se una prima sensazio ne non mi fapassareall'oggettoesterno,come,diceva il Galluppi, mi ci potrebbe abilitare una seconda od una terza? Eppure de'giudizî abituali che si frammischiano alle sensa zioni aveva toccato prima il Malebranche , poi il Condillac ;  - ternailsentimentoelacoscienzadelme;esottoilnomedi sensihilità esterna la sensazione e la percezione . Perchèdalsentimentosivadaallacoscienza,edallasen sazioneallapercezionecivuoleilgiudizio;non ilgiudizio galluppianocheaggiungarapportisoggettivi,ma ilgiudi zio che osserva,ed osservando distingue i rapporti reali delle cose.   e della forza dell'abitudine Hume ,e della efficacia della in duzione avevano accennato il Leibniz ed il D'Alembert ! IlDe Grazia riassume e tesoreggia isaggi de'suoi prede c e s s o r i , e li c o m p i e c o s ì . associazione adunque spiega l'origine : l'induzione as sicura la realtà;come si può assicurare, beninteso, una ve rità contingente , la quale non esclude mai la possibilità del l'opposto. Coloro i quali han posto mente alla sola abitudine fonda ta su l'associazione,han detto :ma qual garantia ci porge ella della sua realtà ? Così son rimasti nel circolo descritto 'da Davide Hume. Il D e G r a z i a , s c h i v a le p r i m e e le s e c o n d e difficoltà , e f o r m o l a il p r o c e s s o g e n e a l o g i c o c o s i : l ' a s s o c i a z i o n e c o m i n c i a , senza badare alla realtà;l'induzione legittima ciò che trova, senza doversi brigare del cominciamento. In siffatta guisa il nostro filosofo fa capitale di tutt'i saggi parziali tentatiprimadilui,licollega,liordina,licompie uno con l'altro :la sensazione e igiudizî abituali, intrave duti da Malebranche e da Condillac ;l'osservazione, indefi nitatralemanidiLocke,edaluimeglioprecisata;lamas sima aurea del Kant :pensare è giudicare ;la virtù dell'abi tudine,messa a rilievo da Hume;la induzione accennata da Bacone in generale,additata da Leibniz e dal D'Alembert a  scenze provvisorie. 30 La sensazione dà iprimi dati,ilgiudizio osserva i rap portichevisonocontenuti;l'associazionedelleideecifor nisce leconoscenze prime concernenti ilmondo esterno,in via provvisoria ;l'induzione,più tardi,legittima le cono Gli altri,invece,ponendo mente alla tardiva comparsa d e l l a i n d u z i o n e , h a n n o o s s e r v a t o , c o m e il G a l l u p p i : m a l a i n duzione vien troppo tardi a farmi passare alla realtà ester na,richiede troppi congegni,troppe industrie,dicuil'in fante non si può supporre capace.   31 proposito dellaconoscenzadelleveritàdifatto.Bacone,di fatti,dicendo:sensus tantum 'de experimento, esperimen tum de rejudicet,aveva enunciato un canone applicabile piùaifenomeninaturali,chealnostromodo diconoscerli: l'applicazione speciale alla nostra conoscenza si deve a'due geometri filosofi, cioè al Leibniz ed al D'Alembert. La storia intanto invece di attribuire agli anzidetti filosofi la debita lode di essersi accostati sempre più alla soluzione delproblema delconoscere,ricordalemacchine artificiose de'lorosistemi,l'occasionalismo,l'armonia prestabilita,e simili deviamenti dalla salda filosofia. IlGalluppipoiagliocchisuoihailtortonon solodinon aver profittato de'saggi antecedenti, ma di essere indietreg giato anche al di là di quel che aveva avvertito ilCondillac. Questi aveva ritenuto per obbiettivo, o percettivo il solo tatto: Galluppi estese l'obbiettività a tutti i sensi, occultan do la difficoltà invece di scioglierla.La realtà oggettiva de gli esseri esteriori,ei dice,ha bisogno di essere legittimata: « ciò che non veggono alcuni odierni scrittori,iquali sup ponendo naturalmente percettividell'oggetto esterno i no stri sensi,credono con ciò avere abbastanza legittimata la realtà dell'oggetto esterno ».(Vol.2,pag.254-255). IlGalluppidiffidandodituttociòche civieneinorigine per mezzo de'giudizî,trasporta alla sensazione quanto im mediatamente siapprende con l'atto del giudizio (pag.316). Ei non s'accorge che c'è una contraddizione manifesta tra la realtà oggettiva delle idee e la natura soggettiva de'rap porti (pag.316-317). Ondechesquadrilaquestione,ilDeGraziatorna,edin siste sempre su questo vizio radicale della dottrina gallup piana;vizio che apparve chiaro in Kant,e che in lui rimase occulto per aver dichiarate oggettive leidee,contraddicendo alla loro provenienza . Nel Galluppi rivive la tesi del concettualismo , che il n o    - 32 - stro filosofo combatte aspramente;nel Galluppi,e più anco ranelRosmini.IlDe Graziafautore del realismo,non del platonico però,spende molte pagine nel rilevare gl'inconve nienti del concettualismo medioevale,e più del moderno;ed in questa disputa,trattata largamente in una rassegna appo sitapubblicatail1850,eidifendeSanTommaso dallataccia di concettualista, ed impugna la somiglianza che il Rosmini vuol trovare tra la sua teorica dell'ente possibile, e quella dell'Aquinate. Di questa particolare ricerca diremo appres so : continuiamo intanto ad avvertire, con la scorta del De Grazia , le lacune ch'egli addita ne'sistemide'suoi avversarî. La critica dello stato attuale fu fatta maestrevolmente da K a n t : il D e G r a z i a è l a r g h i s s i m o d i l o d i a l f o n d a t o r e d e l C r i ticismo,filosofo per questo verso inarrivabile.Della origine peròilKantnon occupossi,dichiarandoaggiuntiaprioritut tiquegli elementi, di cui gli pareva arduo rintracciare la ge nerazione.Quanto sitoglieaiverimezzi diacquistar cono s c e n z e , t u t t o si a t t r i b u i s c e a d u n a s u p p o s t a o r i g i n e a p r i o r i , a questo vasto serbatoio di tutte le perdite dell'analisi . Cosi , con una similitudine arguta,ei battezza per vere lacune,per difetto di analisi ogni forma a priori. Nella stessa maniera han combattuto,dopo delDe Grazia,l'apriori ifilosofi po sitivisti.Siricasca inquesto metodo dunque,sempre che, abbandonatalagenesisperimentale,siricorre allospedien te di addizioni di forme pure;sia qualunque ilnome con cui si travestiscano . D'accordo con Kant,dice ilDe Grazia,che la conoscenza risulti dasensazioniedagiudizî;ma giudicare,perme, semplicemente osservare,e non è punto aggiungere. La ve duta èprora quando siosserva nell'oggetto,non già quando  - Ilmetodo daseguire,nelproblema dellaconoscenza,era questo:esaminare lo stato della coscienza,qual'è attualmen te;risalirealleoriginidelleideecheoravitroviamo;legit timarne la realtà.   O siaggiunge dal soggetto.Aggiuntachel'avretevoi,non è più da discorrere della sua realtà. Sicché delle tre analisi da fare, Kant fece benissimo la critica della coscienzaattuale;arrestossi per via nel rintrac ciare le origini della coscienza primitiva;e conseguentemen te non potè legittimare la realtà della nostra scienza. La realtà della scienza è collegata con la dottrina del giu dizio:se questo è una mera osservazione,la realtà è assicu rata; se,invece,è una funzione addizionale,la realtà non si può a nessun patto legittimare. Ed ora noi siamo perfettamente in grado dicomprendere, perchè il De Grazia combatta con tanta insistenza la filoso fia del Galluppi,ed insieme di valutare,quanto poco la mira delDeGrazia siastatascortadaquellichenehannofinora discorso.Egli ritorna spesso su la critica da noi esposta, con una prolissità,ch'è stata non piccola causa dell'esser passatainavvertita,perchèdileggereiseivolumidelle sue opere i più si sono sgomentati. Il significato però di tutta la sua discussione si può ridurre a quest'alternativa in cui egli trovòimpigliatalaricercadellaumana cognizione:gliuni avevan detto col Condillac: giudicare è sentire ;gli altri a vevan ripetuto con Kant :le idee di rapporto sono elementi soggettivi:egliavevarisposto:èfalsal'una el'altraspiega zione.Ilgiudicarenonèsentire,ma osservare;irapporti sono oggettivi,non soggettivi. Il Galluppi intanto , destreggiandosi tra le due spiegazioni , aveva di ciascuna ritenuto una parte.Pur discostandosi dal ladottrinacondillachiana,purdistinguendo ilgiudiziodal la sensazione,aveva però ammesso de'rapporti,iquali era no sentiti:tali erano il rapporto tra modificazione e sostan za,ed ilrapporto tra effetto e causa. Similmente,pur promettendo divolersiappartareda Kant, pur professandosi fedele al metodo sperimentale, aveva a c  ce to B EL er EN 33 5 0   cettato due rapporti come soggettivi affatto,quello d'identi tà,e quello di diversità. La sottile e giusta critica del De Grazia aveva messo in e videnza le due capitali contraddizioni della filosofia del Gal luppi.La consapevolezza piena,profonda,ch'egli ha delle obbiezioni mosse al suo grande avversario , ve lo fa insistere forse soverchiamente ;ma non senza rivelare una grande perspicacia di mente nell'applicazione che ne fa alle singole questioni. « L'idea di azione,di connessione,egli scrive,è idea di rapporto;eirapportisigiudicano,non sisentono.Sièdi menticato in questa occasione,che una sensazione non è più che una nostra modificazione, e per se stessa non può darci altra idea che quella di un particolar nostro modo di esistere » (Vol.4,pag.140). L'anno appresso,che ilDe Grazia finiva la pubblicazione d e l s u o S a g g i o , il 1 8 4 3 c i o è , u n d o t t o a b b r u z z e s e , O t t a v i o Colecchi,pubblicava in due volumi le sue Quistioni filosofi che,e vi rifaceva lacritica delGalluppi,muovendo da un criterio opposto a quello del nostro De Grazia,ed intanto somigliantissima nel significato. Il Colecchi segue la filosofia kantiana nel concetto fonda mentale,ma senediparteinmoltiparticolari.Riduceleca tegorie tutte quante a quelle di sostanza e di causa;le dedu c e n o n g i à d a l l e f o r m e d e l g i u d i z i o , c o m e a v e v a f a t t o il K a n t , ma dalle anzidette nozioni di sostanza e di causa, congiun te con quelle di spazio e di tempo ; rifiuta lo schematismo kantiano, che gli parve complicato, e superfluo ; e finalmen te crede , che la realtà della nostra scienza non ne sia punto compromessa . Il Colecchi adunque biasima il Galluppi d'incoerenza per averammesso alcuni rapportioggettivi,edaltrisoggettivi; senonche,invecedisoggiungerecomeilDeGrazia:dove vateritenerlituttiperoggettivi,corregge lacontraddizione  34   io galluppiana in un modo opposto,soggiungendo:dovevate ammetterli tutti per soggettivi. Tralasciando ora le modificazioni arrecate dal Colecchi allafilosofiakantiana,eraffrontandolesueobbiezioni con tro il Galluppi in ciò che s'accordano con le altre antece dentemente mosse dal nostro De Grazia,citiamo in compro va testualmente le parole del filosofo abbruzzese,perchè il lettore ne vegga l'accennata somiglianza. Dopo aver egli ricordato la soggettività de'rapporti d'i dentità e di diversità ammessa dal Galluppi contro del Locke , continua così: « Posto ciò si domanda ora:se rispetto a quelle idee che sono un prodotto dell'analisi che le separa da'sentimenti, e che sono perciò oggettive,venga lo spirito assistito o no dalledue ideed'identitàedidiversità?seno,nonpotràegli separarle punto dai sentimenti;perocchè un bambino puran che ne ha bisogno,per distinguere lasua nutrice da uno stra niero;e tale distinzione è fuor di dubbio un atto di analisi : se sì, le due idee d'identità e di diversità devono precedere le sensazioni:sono dunque per anticipazione,ed anteriori ai sentimenti; e perciò nell'ordine cronologico delle nostre co gnizioni non possono essere posteriori alle sensazioni, ne presupporle come condizioni indispensabili.Come dunque so stenere: che ogni nostra cognizione incomincia con l'analisi, e termina con la sintesi, se per fare qualunque spezie di a n a lisi,ha bisogno lo spirito delle due idee d'identità edi diver sità,le quali, per avviso del nostro autore, sono un prodotto della sintesi che le aggiunge ai prodotti dell'analisi » ? (Qui stionifilosofiche,vol.1,pag.197-198- Napoli1843). Potreicitarealtriluoghi,concuiilColecchinota ildi  - 35 un li ne ato 4 1 Biasima inoltre il Galluppi di aver detto che sono sogget tivesololeideedirapporto,perchèegliammette leideedi spazio,ditempo,disostanza,dicausa,sottoilnome dileggi della intelligenza,che sono soggettive,senza essere rapporti.   verso valore che debbono avere nella ipotesi del Galluppi le idee di identità e di diversità quando si applicano o agli o g getti dellamatematica,oaquellidellasperienza;ma usci reifuoridelmiotema.Amepremeassodarechelecontrad dizioni, in cui s'era avvolta la filosofia galluppiana per m a n co di coerenza,erano state rilevate con mirabile acume dal De Grazia e dal Colecchi. Il prof.Ferri,il quale scrisse due grossi volumi su la sto riadellafilosofiaitaliananelnostrosecolo,non trovòaltro spazio per ricordare idue anzidetti nostri filosofi, che que sto,occupato dalle seguenti parole: « Il faudrait enfin mentionner les écrits de Di Grazia, et de Collecchi , Napolitains, qui, tout en modifiant,ou en c o m battant Galluppi,n'ont cependant pas dépassé le point de vue de l'expérience ou de la philosophie critique ».(Essais sur l'histoire etc. tom . 1, p . 334 ). Certo così il prof. Ferri non si compromette. En m o d i fiant, en combattant, sono frasi tanto diplomatiche che par c h e d i c a n o , e n o n d i c o n o . Il D e G r a z i a h a m o d i f i c a t o il G a l l u p p i ; il C o l e c c h i l ' h a c o m b a t t u t o : c i h o g u s t o : s t a b e n e ; m a c h e c o s a h a n d e t t o ? Q u e s t o è il p u n t o ; e s u q u e s t o , s i l e n zio perfetto.E poi ilDe Grazia non l'ha punto modificato, l'ha combattuto pure : l'avesse combattuto, qual lume si ricaverebbedaquestemezzeparole?Nonerameglioconfes sare di non averne letto sillaba ? E perchè non occuparsene? Forsechèerandamenoditantialtri?Io,peresempio,sen za far torto a nessuno , e salvo la disparità per altri riguar di,trovo più ingegno filosofico nel De Grazia e nel Colecchi, che non nelMamiani.L'ho detta grossa?Chiedo scusa a tutti quelli che ne prenderanno scandalo ;certo di aver con mecoloro,chesen'intendonodavvero;eche intendendo sene ardiscono dire il proprio parere. Del silenzio sul Colecchi il prof. Ferri si scusa quasi ,scri vendo in una nota così :  36   « Les écrits de Collecchi dispersés dans les recueils litté raires n'avaient pas encore été publiés en un seul corps il y a quelques années ». Pardon,prof.Ferri:gliscrittidelColecchi furono stam pati fin dal 1843 in due volumi,che io ho qui sul tavolo,ed hanno questaindicazione:Napoli,all'insegnadiAldoMa nuzio,CarrozzieriaMontoliveton.13,1843.Qualgirodi anni comprendete voi nell'il y a quelques années ? Venticin que non vi bastano ? E perchè non una parola sul De Grazia , che doveva es servi noto,poichè ne registrate ilSaggio nell'indice delle opere filosofiche pubblicate in Italia in questo secolo ? Forse n o n e n t r a v a n e l d i s e g n o v o s t r o , c h ' e r a d i d e s c r i v e r e il p e n siero italiano tutto inteso a cercare ciò che poi ha finalmen te trovato , l'idealismo temperato ? ed allora perchè accusare diparzialitàloSpaventa,cheavevatrascuratinon soquali filosofi, indotto dal suo criterio hegeliano ? Ma passiamo oltre,avvertendo soltanto,poichè siamo su q u e s t o a r g o m e n t o , c h e il c o g n o m e d e l D e G r a z i a n o n v a s c r i t toDiGrazia;echeilColecchinonvarinforzatocome l'ha rinforzatoilprof.Ferri,che loscriveCollecchi.Sarebbero minuzie, se non attestassero la poca diligenza nello scrivere la storia. Morto chefuilGalluppi,ilDeGrazia,benchèricordiqua e là gli sforzi sostenuti nel combatterne le dottrine, rivolge però altrove la propria attenzione. Ne'discorsi pubblicati il 1850 ei se la piglia con la filosofia,che in Italia aveva preso ilsopravvento,echenonsicuravadinascondereildispre gio in cuiteneva l'esperienza.Oramai non si tratta più di scoprire un Idealismo,tutto studioso di occultarsi sotto il nome difilosofiasperimentale,com'erastatoilcasodelGal luppi,ma di combattere un Idealismo che si presentava alla svelata,eche,sottonomi diversi,s'eraguadagnate lementi della nuova generazione.IlDe Grazia comprende tutti que  37   stisistemisotto un nome solo,sottoquello difilosofia spe culativa . Traquestisistemiperò,secondolavaria importanza,al cuni combatte più acremente,altri accenna soltanto.Accen na pure del consenso del genere umano del La Mennais,del tradizionalismo del P. Ventura;delprimo un po'più distesa mente, perchè s'accorda col sistema del Gioberti nel rifiu tare la testimonianza e l'autorità della coscienza subbiettiva. Quanto al P. Ventura, poco seguito aveva trovato in Italia, nèmeritavaimportanza,nèilDeGraziaglienedàmolta. Mente severa, educata alle scienze matematiche, il De Grazia la giustizia sommaria di tutti questi sistemi in un fa scio,ai quali a suo avviso mancava e la base solida, ed il rigoroso ragionamento. «Una volta,eiscrive,erascrittoall'ingressodellascuo. la:nemo accedat,nisigeometra;igiovanettioggi leggono: nemo accedat,sigeometra.E non hanno torto,perché ove si tratta di creare enti, o di manifestazioni del Dio -Cosmo, e di ispirazioni,e di intuiti,o di nuove logiche trascenden tali,non può esservi luogo pe'geometri:non è arena per le loro forze ». Ce n'è per tutti, come si vede, e non risparmia né i si stemi tedeschi,nè i francesi,né i nostrani ;ma vediamo quali obbiezioni particolari muova a ciascuno ;e basterà ac cennarle,perchè oramai abbiamo abbastanza conosciuto il suo criterio. « Più dilettevole trattenimento ci dà il La Mennais nel ravvisar per ogni dove un riflesso del d o m m a religioso ; che  38 Contro del La Mennais nota che la ragione umana collet tivaèun'astrazione,che solo l'individuo esiste;e quindi il c o n s e n s o u n i v e r s a l e n o n h a a l t r o v a l o r e , c h e q u e l l o d e g l ' i n dividui, da cui proviene. Con non dissimulata derisione trat ta poi le spiegazioni fantastiche de'fenomeni naturali per mezzo del domma.   Punzecchiando ilGioberti,siricordadelGalluppi,cheper liberarsidaognimolestiasularealtàde'corpi,concepi ob biettive le sensazioni , e scrive . Le sue celie su la commodità di questi spedienti sono fre quenti;senoncheglisembra che nègl'intuiti,néleispi razioni , nè gli istinti, nè le idee inerenti allo spirito , benchè talvolta simulino l'evidenza,bastano però a surrogarla pie namente . Se ilDe Grazia tralascia gl'influssi divini, cið avviene perchè il Mamiani non li aveva ancora escogitati. Ma torniamo agli appunti ch'ei muove al Gioberti.Come ! eidice,l'intuitoèpresente,enon sivede!È ecclissato,sirepli ca,estabene;ma comeunmotivofinitobastaadecclissarlo? Il D e G r a z i a , p e r q u e s t o i n e s p l i c a b i l e e c c l i s s e , s ' i n s o s p e t  39 d'altronde doveasi toccare con più rispettoso contegno. Fino n e ' s e t t e c o l o r i d e l p r i s m a s c o r g e il t e r n a r i o , d a c h e t r e s o l i secondo l'autore sono iprincipali ». Che cosa avrebbe detto ilDe Grazia,se avesse letto la Vita di Gesù Cristo dell'abate Fornari ? Il Gioberti si studia di sostenere col ragionamento la dot trinaquasiispiratadelLaMennais:ilDeGraziarendegiu stizia al filosofo italiano,nè lo confonde con l'autor dell’Ab bozzo.Eccoperòlasommadegliappunticheglimuove. IlGioberti,perlui,escludeognianalisi delle idee,eper dispensarci dalle minute inchieste psicologiche, ci accorda l ' i m m e d i a t a v e d u t a d e l l e i d e e d i v i n e . C e r t a m e n t e , r i p i g l i a il De Grazia,eivalmegliocontemplarlenellalorointegritàri flesse dal lume divino su le parole, che attentarsi di rima neggiarle con profana analisi ! « P e r t o g l i e r s i d a o g n i i m p a c c i o b a s t a o g g i il d i r e : i o s e n to i corpi esterni,le mie sensazioni sono percettive de'corpi esterni;ovvero per risolvere con un solo atto tutte le qui stioni di ontologia e di psicologia : io intuisco il creato,il creatore,el'atto creativo!»   tiscedellaesistenzadell'intuito.E poi,esso nèsipuòvedere dalla coscienza,nè dimostrare dalla ragione, come fare dun que a verificarlo ? Nè piùplausibileèilsussidiochedovrebbearrecarelapa rola, affinchè dall'intuito si passasse alla riflessione. Il p o t e r e d e l l a p a r o l a , d i c e il D e G r a z i a , è m i s t e r i o s o : n o n circoscrive l'idea,su la quale non ha presa n è punto nè poco ; e non accresce la nostra facoltà intellettiva. Sicchè, tutto ragguagliato, ilGioberti cilasciacon una virtù intellettiva in potenza , e con una riflessione a nude parole. Dove però il De Grazia va più addentro nel sistema giober tiano,è,a parer mio,nella seguente osservazione. «Ma laricercafondamentale,dicuisièsempre taciuto, concernelapossibilitàdellavisioneinDio.La stessanonè solamenteunfattogratuitamentesupposto,ma neppurciè dato sapere, se un essere può vedere le idee di un altro es sere ». Questa obbiezione del De Grazia equivale a quella dello Spaventa,quando osservava,che l'Ente veduto dall'intuito giobertiano non può essere uno spirito. Diciamo ora della critica del Rosmini . Della teorica rosminiana il nostro filosofo s'era occupato nel Saggio ; ci torna di poi nelle opere posteriori alla morte del Galluppi con più larghezza.  40 IlDe Grazia continua:vedere le idee in Dio,presuppone assodato,cheIddioleabbia;ora,cheilmodo dellacono scenzadivinanonsiaconformealnostro;echequindinon si faccia per idee molteplici e rappresentative, pare più ac cettato dalla filosofia ortodossa . E qui riscontra la dottrina giobertiana non solo con quella del Malebranche,ma con quella di Sant'Agostino,e non la trova somigliante,e quin di non la tiene per ortodossa. Nel Galluppi il De Grazia aveva combattuto il concettua   l i s m o , a v e v a c o m b a t t u t o l ' a s s e r z i o n e , c h e le n o s t r e i d e e n o n siano rappresentative.A proposito del Rosmini ripiglia la controversia del concettualismo . Il concettualismo si fonda su la subbiettività de'rapporti, onde risultano le idee:contro ilconcettualismo adunque ba sta contrapporre questa sentenza di san Tommaso : « relatio nem esserem naturae ». O r q u a l d o t t r i n a s e g u e il R o s m i n i ? F o r s e q u e s t a d e l l ' A q u i nate,fondatasulpiùschiettorealismo?No;nesegueuna ambigua , e per tal ambiguità cerca tirar dalla sua l'autorità di San Tommaso . « L ' e n t e i d e a l e d e l R o s m i n i , d i c e il D e G r a z i a , è b i f r o n t e ; da un lato offre l'idea universale di esistenza, dall'altro un ente esistente ». Basterebbe questa profonda osservazione, per dimostrare diquantaperspicaciafossefornitoilDe Grazia;ma egliva più in là ancora,ed addita un riscontro, che rivela la forza della sua critica. « M a , ci si dirà, qui non trattasi di una esistenza sostan ziale, o di accidenti di una sostanza, bensi di una esistenza ideale, qual può competere ad una idea.Si,ciò ricorda l'Idea di Hegel , con la differenza che questa contempla sè stessa, e l'idea universale di esistenza è l'oggetto contemplato da tutte le intelligenze, differenza che gli hegeliani farebbero sparire.Quanto allanaturadellaesistenza,l'entedelRosmi ni non è meno lucido e trasparente, che l'Idea hegeliana, perchè altro non è che l'idea di esistenza, o la possibilità  - 41 - «Sipongaormente,eglidice,cheiduepuntimessia maggiorrisaltonelnostrolibrosono:1.che ilconcettuali smo è la causa principale delle deviazioni della filosofia,e la grande abilitazione de'sistemi speculativi;2. che l'Aquinate, tenendosi immune dal concettualismo,ha felicemente seguito il metodo di pura osservazione ». 6   42 - dell'esistenza,come lo stesso Rosmini ripetutamente va ri cordando a'suoi lettori ». « Se quindi si ammette una esistenza attuale e indetermi nata;attuale e non reale; se si ammette la possibilità dell'e sistenza essere un'attuale esistenza,si avrà il caso proprio di una identità de'due contrari «.(Esperimenti della filoso fiaspeculativane’sistemidelsecolocorrente -Napoli1850-- 29 Rassegna,pag.288). Ho notato in corsivo l'ultima conclusione del De Grazia, perchè il lettore rifletta su la somiglianza da lui additata tra l'Ente rosminiano,e l'Idea dell'Hegel. Quando lo Spaventa, dopo del De Grazia,e senza sapere forsedelfilosofocalabrese,lecuiopere,specialmente leul time,erano rimaste sconosciute,mise in rilievo con più lar g h e z z a q u e l r i s c o n t r o , la c o s a p a r v e s t r a n a , e ci si v i d e u n o stiracchiamento forzato de'sistemi in servizio di un criterio preconcetto.Piùtardi,coloro chesieranoarrogatalarap presentanzadellafilosofiaitaliana,levarono lavoce,epro testarono contro il malvezzo di voler far parere la nostra filosofiaun'imitazione dellafilosofiatedesca.Sietematti,si disse !il Galluppi kantiano ! Il Rosmini hegeliano ! Le son cosedaridere:voiconfondeteitipicon gliectipi;voi non sapete che in Italia c'è un'abbondanza straordinaria di tipi, e che voi altri li sfigurate barbaramente per poterli tramu tare in ectipi. Questa brava gente,veramente tipica,ignorava,che ilri scontro era tanto poco sforzato, da esser apparso manifesto ad un filosofo, il quale non era punto tenero della filosofia tedesca,e che di tutto si poteva accusare, salvo che della smania divoler costruire la storiaapriori.IlDe Grazia, difatti,aveva a chiare note,e con grande insistenza,segna latoilkantismonelsistemadelGalluppi;econ menodiffu sione,ma con non minor chiarezza,l'hegelismo nel sistema delRosmini.Oh!come dunqueivindici,glistoriografi,i    rappresentanti dellafilosofiaitalianaignoravanotuttalacri tica che si era esercitata nel nostro paese su la nostra filo sofia nazionale ? Ma torniamo alRosmini. IlDe Grazia,dopo avvertita l'ambigua natura dell'Ente rosminiano,dopoaverbiasimatoilRosmini dinonaverte nuto fermo in una sola e medesima sentenza,di averlo una voltachiamatounlumedatodaDio,un'altravoltaillume divinomedesimo,eidimostraugualeaccorgimento nelrile vare altri difetti. L'origine delle nostre idee è doppia,una l'idea dell'ente, l'altra lapercezionesensitiva;ma ilDe Grazia s'accorge, che la vera sorgente,l'unica sorgente rimane quest'ultima, e domanda : « A che serve il contrarre l'espressione di quanto si vuol che noi percepiamo immediatamente con una sensazione ? Il participio sostituito al verbo potrà mai avere ilvalore di nascondereimoltigiudizî,chesicontengono nellaformola «enteagentesuimieisensi»? Il participio sostituito al verbo è difatti il ripiego della i d e o l o g i a r o s m i n i a n a : il D e G r a z i a l ' h a c o l t o a m a r a v i g l i a . « La percezione sensitiva, ei continua,è,o no, un atto del pensiero ? Se lo è,siavrà un pensare identico alsentire; senonloè,siavràunapercezione,allaqualeilnostrospi rito non pensa !O cade in sensualismo, o è nulla pel nostro pensiero ». La percezione sensitiva adunque non si vede in che diver sifichi dalla sensazione, posto che in lei non debba concorre re traccia di pensiero : nè molto proficua è la ragione, che il De Grazia chiama potenza terza e neutrale. Non è intellet to,non è senso:applica ildato dell'intelletto ai dati della sensibilità;d'altro non brigasi;ma chimallevaallorala realtà ?Non l'intelletto che ha da fare col possibile ; non il senso che non può cogliere altro che nostre modificazioni.  43   « La capacità di sentire e la facoltà di percepire sono due potenze così differenti,che dee tenersi per ugual controsenso l' a t t r i b u i r e l a p e r c e z i o n e a l l a s e n s i b i l i t à , e l ' a t t r i b u i r l a s e n sazione all'intelletto ». Rosmini con la percezione sensitiva attribuisce al senso più che la costui capacità non comporti ; ricasca quindi nel difetto del Galluppi, che fece la sensazione immediatamente percettiva.A questo sbaglio ecco tener dietro un altro,che a noi piace riferire con le stesse parole del De Grazia. « Un'altra opinione sui generis è di ammettere nel fatto la percezione immediata del nostro essere ,e dell'essere ester no , m a il fatto aver bisogno di venire autenticato da una idea innata, per quanto concerne la vera esistenza, perchè altri menti quella da noi appresa nella coscienza potrebbe dirsi apocrifa ! » Meglio non poteasi rilevare la superfluità dell'ente rosmi niano,dopoaverammesso lapercezionesensitivapercoglie re l'esistenza immediata e reale. Come impugni il De Grazia le interpetrazioni date dal RosminialsistemadisanTommasovedremoaltravolta;chè tal ricerca non è semplicemente storica,e meglio si collega allaesposizione della dottrina del nostrofilosofo,ilquale altro non pretende di aver fatto,che di aver rinnovata la filosofia del sommo Aquinate,stata per tanti secoli o scono sciuta o frantesa. Venghiamo al giudizio su l'Hegel. Già pel De Grazia tutt'i sistemi nati in Germania dopo del Kant sono « romanzi filosofici »;questo d'Hegel fra gli altri, anzi a capo degli altri. Ignaro della lingua tedesca,egli tanto sa de'sistemi tede schi, quanto ne ha appreso dal libro di Ott,ch'era stato pub b l i c a t o a P a r i g i il 1 8 4 4 . N o n è d a r e c a r m a r a v i g l i a a d u n q u e ,  - 44 - Al De Grazia non isfugge nessuno dei tortuosi giri dell'ideo logia rosminiana.   45 s'ei qui non possa penetrare sempre addentro nel pensiero dell'Hegel,come ha fatto coi filosofi francesi, e coi nostri. Onde,mentre lasuacritica della filosofia del Galluppi,del Rosmini edelGioberti,benchèprolissaestemperata,abbon da di osservazioni sode e profonde, la critica dell'Hegel rie sce monca e superficiale. A lui mancava la cognizione pie na ed esatta del sistema;pur tuttavia di alcuni appunti non sipuò ameno diammirare lasagacia,elaserietà. Attraverso alle incertezze di una esposizione,dove trovan luogo metafore più proprie ad abbuiare un concetto,che a lumeggiarlo,èdifficilecogliere ilsignificato genuinodiun sistema . Così al De Grazia il divenire hegeliano sembra uno strofinamento dell'essere col non-essere. Par che baleni il sospetto di qualche alterazione al De Grazia stesso,ma tosto si ripiglia, ed afferma che « si può esser sicuro che le pro posizioni fondamentali della Logica hegeliana non valgono in tedesco più di quel che valgano in italiano o in qualsiasi lingua ».Una tal sicurezza veramente fa un poco a calci col metodo d'osservazione adottato dal nostro filosofo. Il quale se avesse conosciuto iltedesco, si sarebbe accorto che non trattavasi nè di movimento,nè molto meno distrofinamento. L'accusaperò,chemuove allaLogicahegelianadiessere un sistema di rapporti senza termini,è molto più fondata. SenonchenellaLogica,itermininonsonoenonpossono essere altro,che relazioni anch'essi ; ma non è vero però, c h ' e i s i a n o u n m e r o n i e n t e , e c h e t u t t o il p r o c e s s o h e g e l i a no riesca al postutto ad un movimento da niente a niente. Cotesta esagerazione è in lui derivata dal non aver c o m p r e s o b e n e il v a l o r e d e l N i c h t - s e i n , c h e n o n e g l i s o l t a n t o , m a parecchi si sono incaponiti ad intendere per un bel nulla. Fisso in questa interpetrazione, ei continua a biasimare questo modo di far della scienzaun tessuto disiedino, lontano da ogni realtà salda,e solo conveniente a quella fi losofia,che riduceirapportiapurevedute dellospirito.Qui,    46 . come si può scorgere,ei non vuol lasciarsi fuggir l'occasio ne di scagliare un'altra frecciata alla tanto combattuta filo sofia del Galluppi, accennando la simiglianza che corre tra la soggettività de'rapporti e l'Idealismo trascendentale ,che poi siassolvettenell'Idealismoassoluto.IlDe Graziaconfino accorgimento perseguita il suo illustre avversario sino alle ultime e non sospettate conseguenze del suo principio. « Un rapporto ideale senza itermini sarebbe appreso dalla. nostramente,sesiammettesse lasupposizione,che irap porti sono pure vedute dello spirito, alle quali nulla corri sponde nelle cose ». Hegel è agli occhi del De Grazia « un elevato e perspicace p e n s a t o r e » , m a il s u o s i s t e m a è u n a p e r p e t u a i r o n i a . L a sola istruzione che se ne possa cavare è quella di capacitarsi della impotenza della filosofia speculativa a cogliere ed a spiegare la realtà. « Ecco dunque l'istruzione ch'egli (Hegel) ci dà in forme le più solenni :volete voi passare dal cerchio delle idee astrat te al mondo reale ? vi è forza porre innanzi tratto, che il reale è lo stesso che l'ideale ! In altri termini : dalle idee astratte non si può derivare la realtà; e questa massima può servir di lezione pe'tentativi,in cui con minori proporzioni, o più propiamente, con meno di purità speculativa, si voles se maneggiare ilmetodo ontologico ».  I due principii che lo informano sono l'Idealismo,e la con traddizione ; dall'uno il sistema hegeliano piglia le prime mosse;coll'altraprocede avanti.Che cosa se ne inferisce? Q u e s t o s o l t a n t o , c h e il c o n c e t t u a l i s m o è f a l s o ; m a l a v e r a f i losofia rimane illesa dai suoi colpi. Il valore che il De Grazia attribuisce ad Hegel è lo stesso, benchè egli nol dica espressamente, di quello che Socrate ebbe verso la Sofistica. L'ironia socratica avrebbe svelato le contraddizioni della Sofistica, come l'ironia hegeliana avreb be tirato le ultime conseguenze del Concettualismo moderno .   H e g e l , s e c o n d o il g i u d i z i o d e l D e G r a z i a , a d d i t o il r i m e d i o contro le forme subbiettive di Kant ,deducendo da quelle pre messe , che dunque « i fenomeni del pensiero sono la sola v e rità assoluta », Tutta la storia della filosofia si spiega,adunque, e siran noda intorno al problema della conoscenza. Tre domande si possono fare: qual è lo stato presente della nostra coscienza ? qual è stata la sua origine ? qual è la sua realtà ? Il criterio con cui il nostro filosofo giudica tutt'i sistemi è il s e g u e n t e : « c i ò c h e l a n o s t r a m e n t e v e d e i n u n f a t t o o è realmente nel fatto, o la nostra veduta è su tal riguardo il lusoria ». D a u n l a t o a d u n q u e c ' è il r e a l i s m o , a f a v o r e d e l q u a l e e g l i s i s c h i e r a ; d a l l ' a l t r o l a t o il c o n c e t t u a l i s m o , c h e p i g l i a d i v e r se forme, finchè non diventi idealismo assoluto, ossia l'iro nia hegeliana, che mette a nudo le coperte magagne de'siste mi antecedenti,Benchè ilibridelDeGraziasianopiuttostopolemiciche dottrinali,pure in essi,e nel Saggio principalmente,si scor gono le linee di una nuova soluzione del problema genealo gico delle idee.Il De Grazia fa consistere in questa soluzio ne tutta la sostanza della filosofia;m a a lui la genealogia non ha lostessosignificato,chehaalBorrelli,dalqualetolse probabilmente ilnome.IlBorrelli,quasi almodo stesso,che fa oggidi l'Herbert Spencer, studia la genesi del pensiero sotto l'aspetto fisiologico : il De Grazia si arresta ai tre fe nomeni primitivi del sentire,del pensare,e del volere,e di quivi soltanto piglia le mosse . Qual è ora per lui l'immediato,o ilfatto primitivo, sul quale riposa la filosofia sperimentale ? IlGalluppi aveva risposto :questo immediato è ilsenti mentodelmeedelfuordime;ilDeGraziarisponde:ilve roimmediatoèilsentimentodelmesolo. Questa prima discrepanza si può dire la origine di ogni divario che corre tra la filosofia de due filosofi calabresi. E n trambi vogliono partire dalla esperienza immediata, m a i li miti di questa immediatezza non sono tracciati al modo m e desimo . «Ilmetodo d'osservazione,dice ilDe Grazia,ciguida a    riconoscere,che ilcampo dellaimmediata percezione di fatti reali è la sola esperienza interna, ove l'oggetto è in noi , è la nostra esistenza,e quanto apprendiamo nelle nostre m a niere di essere.Gli oggetti esterni non sono esposti alla im m e d i a t a n o s t r a p e r c e z i o n e , m a n o i li p e r c e p i a m o c o l m e z z o di più atti mentali ». Questa confusione sembra al nostro filosofo tanto più ine scusabile nel Galluppi,quanto più questi si era chiarito con trario alla tesi della sensazione trasformata . «Potrebbemaicredersi,eidice,chementre egli(ilGal l u p p i ) c o m b a t t e a v i v a m e n t e il p r i n c i p i o s e n s u a l i s t a , g i u d i c a r e è s e n t i r e , a b b i a p o i r i t e n u t o , c h e il s e n t i r e è u n a s p e c i e del pensare ? » Il De Grazia scorge manifesti gl'inconvenienti della spie gazione galluppiana , e li addita così . «Quandosiammette,chelerealtàesteriorisonodanoi sentite,e che poi l'analisi,distinguendo isentimenti che da prima erano confusi,cidàleidee,non sipuòsfuggirealla conseguenza,che dette idee non sono altro che sentimenti distinti;poichè l'analisi non ha cangiato la loro natura pri m i t i v a ; o n d e t u t t o il c a p i t a l e d e l l a e s p e r i e n z a e s t e r n a è c o stituito da ciò che sisente,e da que'rapporti,che il nostro spirito ha in pura sua seduta,ma che non sono nelle cose. Si fatte conseguenze vengono poi confermate ed ampliate con essersidetto,che lacoscienzaèlasensibilità interna,cioè  50 All'acume del De Grazia non isfuggi la conseguenza,che avrebbe portato il principio galluppiano. Se la realtà este rioreècoltaimmediatamente,dunque ilsentire è lostesso c h e il p e r c e p i r e ; è l o s t e s s o , c h e il p e n s a r e . G a l l u p p i s e n ' e ra aperto con molta chiarezza: la sensazione,per lui,suppo ne l'oggetto sentito,come ilpensare suppone l'oggetto pen sato.Ilsentire era dunque una specie del pensare :sentire e pensare non erano più due fenomeni primitivi, ed irredu cibili,come ilDe Grazia sostiene.   la conoscenza de'fatti interni è sensibilità. Vedesi quindi che con questi principî ilsentire non fu distinto dal pen sare ». Gli estremi , tra cui si studia di librarsi il De Grazia , son questi due:da una parte quello che raccorcia la portata del la coscienza;dall'altra quello che la dilata oltre il convene vole.Chi dice:lacoscienzanon coglielanostraesistenza,e chidice:lacoscienzasiestendeallarealtàesterna,dice u gualmente cosa inesatta ;per difetto, la prima osservazione; per eccesso,la seconda. IlGalluppiammetteundoppioimmediato,ilme edilnon me;ilDeGrazianeammetteuno,ilmesolo:dondeproviene siffatto divario ? Eccolo ,con le parole stesse del De Grazia, le quali compendiano e chiariscono la dottrina galluppiana. « Il dir che partendo dalle nostre modificazioni sensibili, noi veniam per via di giudizî acquistando la conoscenza del m o n d o e s t e r i o r e , v a l q u a n t o il d i r c h e l o s p i r i t o u m a n o c o n i s u o i p r o p r i i e l e m e n t i c o m p o n e il m o n d o . L a f i l o s o f i a s p e r i mentale di Francia su questo punto va a coincidere con l'I dealismo di Kant ». E perchè? Perchè il Galluppi non si affidava ai giudizî per coglierelarealtà;perchèigiudizî,secondo lui,erano pure v e d u t e dello spirito ; d i m o d o c h é , se il m o n d o n o n ci fosse a p parso dal bel principio così,come oggi lo apprendiamo , quel lo costruito di poi sarebbe stato una mera relazione del n o stro spirito,a cui nulla sarebbe corrisposto di reale nella natura.Diffidente della sincerità de'nostri mezzi di conosce re,ilGalluppiquindiappigliossialpartito delReid,edam mise l'immediatezza della sensazione,confondendola con la percezione esterna.  51 « Si è quindi detto,osserva il De Grazia,che nel fatto io s e n t o n o n è c o n t e n u t o il p r o p r i o e s s e r e , e si è t e r m i n a t o d ' a l tra parte con dire che nel fatto io sento si contiene l'essere straniero,ilnonio».   52 IlDe Graziaritienelasinceritàdelgiudizio,ritieneirap porti come reali,e quindi non alla sensazione,ma ad un pro cessospontaneodell'intelletto,edalconcorso digiudizîdi venuti abituali ed indiscernibili attribuisce le idee de'corpi, quali nello stato presente le troviamo nella nostra coscienza . Esclusa dal De Grazia l'immediatezza della sensazione, non per questo ei mena buoni que'sillogismi, iquali si cre devano più spedito passaggio dalle nostre sensazioni alm o n do esterno. Il De Grazia nota che il modello di questi ragionamenti ri sale fino al nostro Campanella , il quale lo formolò così: Sia monoichemutiamo:dunquesentiamosolonoistessi,enon giàlecose.Noisentiamo lecoseesterne,soloperchécisen tiamomutare,manonsiamonoichecimutiamo;dunqueal tracosacimuta. Questo sillogismo , che , variamente rimaneggiato , è r i m a sto in sostanza il gran ponte di passaggio dal mondo interno all'esterno,nonèparsoabbastanzaconcludentealnostro fi losofo.Le lacune,ch'egliviha scorte,non sipossono logi camente colmare.Anzitutto :chi vi dice che ilprincipio di ogni nostra mutazione sia la volontà ? L'associazione delle nostre idee talvolta non è volontaria, ed intanto è mutazio nenostra.Epoi,poniamochelamutazioneviadditialcun c h è d i e s t e r n o , c h i v i g a r a n t i s c e c h e il p r i n c i p i o e s t e r n o s i a un corpo ?  A taliobbiezioninonc'èdareplicare:ilsillogismoèim potente a discoprire un fatto :esso è utile soltanto a disco prire verità di ragione. Tolta l'immediatezza della sensazione,tolto il sillogismo, il D e G r a z i a t o r n a a l l e r a p p r e s e n t a z i o n i , c o m e i m m a g i n i d e l le cose esterne,ed alla induzione,la quale,travagliandosi su quelle immagini,va legittimando la realtà delle immagini complesse,che l'associazione ha spontaneamente ed abitual mente formate.Non sarà una dimostrazione necessaria,ma   nelle verità di fatto non si dà mai l'assoluta impossibilità dell'opposto,e bisogna contentarsi della certezza morale. L'associazione collega insieme le immagini visive e le tat tili:igiudizîabitualicolgonoirapportiqualirealmente e sistono ;noi adunque venghiamo componendo lo spettacolo del mondo esterno non con vedute subbiettive,ma con ele menti dati dalla realtà stessa dellecose. Questa è stata pure la dottrina dell'Aquinate,e ditutta la filosofia ortodossa. Nell'ultima opera pubblicata col titolo di Prospetto della filosofia ortodossa,ilnostro filosofo sifaforte dell'autorità dell'Aquinate per tutte le parti fondamentali della sua dot trina,salvoimiglioramentich'eicredediavervi arrecato, supplendo a quelli ch'ei chiama desiderata della filosofia to mistica.IlDeGrazianoneraabbastanzaversato nella filo s o f i a a r i s t o t e l i c a , d a a c c o r g e r s i c h e il m e g l i o d i q u e l l a , c h e ei battezzava per dottrina ortodossa,era mutuato da Aristo tele.Vediamo intanto quali principii ei ne accoglie,e ne te soreggia. Primieramente il De Grazia avverte la differenza che l’A quinate mette tra isensibili proprî,ed icomuni;differenza, che noi sappiamo appartenere ad Aristotele. Con molto acume l’Aquinate aveva avvertito di fatti che isensibili proprî sono qualità,come odori,sapori,suoni,co lori,e simili;e che isensibili comuni,invece,sono quanti tà o estensiva,o intensiva,o discreta,come figure,distan ze,movimenti, successione :« sensibilia propria ... sunt qualitates : sensibilia communia omnia reducuntur ad quantitatem ». Finalmente cita la sentenza che accenna alla formazione delleimmagini corporee,echeattribuisceallospirito,enon  53 Dipoi ricorda la dottrina sui rapporti,che San Tommaso hariconosciutocomereali,comeresnaturae,enongiàco me res rationis.   giàaicorpi.«Imaginemcorporisnoncorpus inspiritu, sed ipse spiritus in seipso facit ». Alla quale ultima sentenza ilDe Grazia aggiunge questa avvertenza . E l'avvertenza mira visibilmente a cansare l'equivoco del le forme soggettive,e degli elementi a priori da lui con gran de perseveranza combattuti.Lo spirito si compone egli le immagini de'corpi esterni, l'idea del corpo è un prodotto della sintesi , contro alla opinione del Galluppi, m a in questo raccoglimento non c'è mistura di elementi soggettivi :tutti idati sono reali.Inquestosignificato,enonaltrimenti va intesalaproposizione dell'Aquinate,che ad altri potrebbe parere intinta di kantismo, e che suona così :dat (anima) eisformandisquiddam substantiaesuae. San Tommaso adunque aveva tracciato le prime linee di quella filosofia sperimentale, di cui ilDe Grazia si dà per continuatore: i due filosofi cadono d'accordo sui seguenti ri sultati : 1o che nel senso non v'è altro che il cangiamento del senso;2ocheleimmaginide'corpi sivan componendo con elementi nostri;3ochenoigiudichiamo,essere icorpi simili a quelle immagini. S e n o n c h e S a n T o m m a s o s ' e r a f e r m a t o q u i : il D e G r a zia ha domandato inoltre:con quali operazioni si son for mate quelle immagini ? Con qual criterio le giudichiamo si mili ai corpi esterni ? E alla prima domanda ha risposto : le operazioni sono i giudizî accoppiati alle sensazioni;l'associazione delle im magini visive con le immagini tattili: giudizi ed associa zione che si uniscono spontaneamente ed abitualmente. Alla seconda domanda poi ha risposto: la legittimazione  54 « Quanto però egli(San Tommaso )enuncia,non lascia dub bio, che nella formazione delle immagini de'corpi esterni ha inteso non mettersi in opra altri elementi,che que'del senso e della imaginazione ».   Quando , difatti, io applico ai fenomeni della estensione le verità della geometria,e l'applicazione riesce,allora è chia ro che alla esistenza de'corpi si aggiunge tutta la forza della dimostrazione induttiva. Mal si è creduto che ogni nerbo di logica dimostrazione consistesse soltanto nel sil logismo e nelle sue forme. « Se l'estensione corporea,dice ilDe Grazia,è reale, la troverò costantemente conforme alle leggi geometriche,ma se è un'illusione de'sensi,mi sipotrà presentare nelle vo lubili forme in cuiapparisce ne'sogni.Nella ipotesi affer mativa v'è la necessità assoluta di trovarsi avverate le ve ritàmatematiche,come sihanell'esperienza:nellaipotesi negativa,l'evento che ne dà l'esperienza, è uno degli in finiti eventi possibili. Questo cenno può far presentire, a qual grado si eleva la pruova induttiva del Leibniz,riguar dandola dal solo lato delle verità matematiche. Esposta in questi termini la mente del nostro filosofo, proseguiamo a raffrontare le differenze conseguenti tra la sua dottrina,e quella del Galluppi. Il Galluppi aveva pareggiata la sperienza interna con l'e sterna,e quindi ammessa una doppia relazione colta imme diatamente, quella tra sostanza e modificazione, e l'altra tra causaedeffetto.IlDeGrazia,invece,distingueleidee pri  55 - si fa non per la immediatezza della sensazione,e neppure per sillogismo,ma per via d'induzione,secondo l'addita mento diLeibniz,ediD'Alembert,idue filosofimatemati ci,mal trascurati dai filosofi posteriori. Non è dimostrazione apodittica cotesta,certamente : an che un incontro fortuito potrebbe essere causa di quella cor rispondenza che noi verifichiamo nella sperienza tra i rap porti quantitativi ideali,eirapporti quantitativi reali dei corpi;ma aqualestremo siassottiglia questa possibilitàdi un incontro fortuito,e di quanta forza non s'ingagliardi sce l'ipotesi della realtà de'rapporti tra corpo e corpo !   mitive dalle derivative ;chiama primitive quelle che sono ricavate dal fatto immediato della coscienza,da lui circo scritto nelsoloiosento;echiamaderivativequelleche na scono poi dalla sperienza esterna. « Si sono messe,ei dice,in una medesima classe,tanto le idee primitive di numero, di sostanza,e di modificazione, di affermazione e negazione,quanto le idee derivative di causa,diazione mutua,delcontingente,delnecessario,del possibile;e non si sono mentovate le idee derivative di spa zio,ditempo,per essersi supposto venirci date dallasen sibilità senza previo lavoro dell'intelletto ». L'originale dell'idea di sostanza è dunque ilnostro pro prio essere:delle modificazioni si dice impropriamente che esistono:ciò ch'esiste è la sostanza.Però se un essere esi stente non avesse punto di modi,ei non sarebbe nè in m o to,nèinquiete;nèpensante,nènon pensante,ecisarebbe u n m e z z o t r a l' e s s e r e e d il n o n e s s e r e ; il c h e è a s s u r d o .  56 Cosi dice egli parlando delle forme kantiane,e l'appun to si può volgere pure al Galluppi,che alla sostanza ed alla causa attribuì, come abbiamo visto, la medesima origine. Pel De Grazia la coscienza è l'lo sento,e in questo fatto permanente della propria esistenza lo spirito apprende la sostanza, come la modificazione nelle sensazioni in cui si senteesistere.Ilmododiesisterenon sipuòdispiccaredal laesistenza,edilDeGraziachiama una rivoluzione filoso fica quella avvenuta in occasione dello scetticismo di Hume , quando si cominciò ad affermare che nel fatto di coscienza v'èilsolomodo diessere,enon giàl'essere.D'allorain poi si cercò di supplire a questo difetto supposto per via di aggiunzioni provenienti da altresorgenti:così ilRosmini suppose che al fatto di coscienza si dovesse aggiungere l'i dea dell'essere.Pel De Grazia ilfatto della coscienza nella sua integrità dà l'uno e l'altro; se non che a cogliere questo rapporto non è attalasensazione,siveramente ilgiudizio.   Senza avere sperimentato il fatto del passaggio da una modificazione ad un'altra,noi non avremmo potuto affer marlo : dopo la sperienza però,noi essendo in un dato m o do pensiamo la tendenza di passare ad un altro; e cotesta tendenza chiamiamo forza, la quale è dunque ciò che han no di costante gli stati successivi della sostanza. Nella originedell'idea di causa noi abbiamo bisogno di al tri dati. a Non siavverte,diceilnostro autore,chelacausa che produce le sensazioni è quella che mette in esercizio la sen sibilità;lacausa cheproduceipensierinon èlapotenzadi pensare,ma èquellachemetteineserciziolapotenzadi pensare;la causa che produce ivoleri non è la volontà,ma è quella che mette in esercizio la volontà ». Chi ricorda ora che a queste tre classi di fenomeni ri duce eglituttalanostraattivitàspirituale,vede chiaramen te cheperluiselacoscienzaporgeilmodellodellasostan za,non èperòbastevoleaspiegarel'ideadicausa.Qui oc corrono più sostanze, di cui una determina l'altra. Nella sostanza la mutazione sopravvenuta è determinata dallostatoanteriore;nellacausaessamutazione èdeter minata e dallo stato anteriore e dalla mutua azione. Il De Grazia riassume la sua dottrina su queste due idee capitali nel seguente modo . « La sostanzapersistenellasuaimmutabilenaturaal can giar delle modificazioni. Nell'ordine naturale nè possono prodursi nuove sostanze, nè leattualiannientarsi. I cangiamenti di una sostanza sono cosi connessi tra lo ro,cheinogniistanteilsuostatoèdeterminatodalsuosta to antecedente,cioè nel corso de'suoi cangiamenti ha per modificazionecostanteunatendenzaalcangiamentocheim mediato vaseguendo,equestatendenzaèquelchenoico  - 57 8   nosciamo della forza interna di una sostanza.La diversa na tura di queste forze ci viene manifestata dalla esperienza, cioè dai diversi cangiamenti della sostanza.Così distinguia mo levarieforzeinternediunasostanza,elevarieforzein terne delle diverse sostanze ». « Una sostanza, che trovasi in uno stato permanente non può da sè stessa,cioè per propria forza,passare ad altro stato ». «Oltrelaconnessionetraicangiamentidiunastessaso stanza v'è anche una connessione tra i cangiamenti di di verse sostanze,cioè una mutua azione tra le medesime ». « Tutti gli avvenimenti dell'universo saranno necessarii, e l'azzardo non è che l'incontro di avvenimenti non con nessi tra loro.Ma questo incontro medesimo è necessario, in quanto son necessarie le serie de'cangiamenti anteriori, che han determinato quegli stessi avvenimenti che s'incon trano ». Ecco la somma della sua dottrina,la quale,intorno alla causalità specialmente, è la traduzione filosofica delle leggi delmoto diNewton.Questeleggi,osservailDeGrazia,ed a ragione, non sarebbero vere leggi degli esseri naturali,se fosse falsa l'ipotesi della mutua azione. Locke intanto aveva negato l'idea di sostanza, Hume la connessione richiesta dalla mutua azione nella causalita ; entrambi per lo stesso motivo,che noi cioè non conoscia mo adeguatamente nè quella,nè questa.Pare al nostro au torecheilragionamentodiHumesiriducaaquestoentime ma:noinonabbiamoideaadeguata diazione;dunque non ne abhiamo punto. Le ricerche,dalle quali Hume era stato indotto a questa conclusione ,la quale troncava i nervi ad ogni attività scien tifica, si possono brevemente esporre così.L'esperienza non dàconnessione,ma semplicecongiunzione:ilragionamento non dà idee nuove :l'abitudine non cangia la natura della  58   prinda percezione,come una serie di zeri è impotente a co stituire una quantità. Con lacoscienzacolghiamolemutazioninostre,elegiu dichiamo appartenereallanostrasostanza:conl'astrazione noi rendiamogeneralequestaconnessioneinterna.La spe rienza esternadipoicimostrafattiincongiunzione,ma con tal costanza,che noi ci avvezziamo a riferire un fenomeno alla presenza di un dato oggetto:noi induciamo,che questa congiunzionesiaunaveradipendenza.Eperchè?«Unacon t r a r i a s u p p o s i z i o n e , ei r i s p o n d e , i m p l i c a l ' a s s u r d o , c h e d u e sostanze con le stesse modificazioni sono condizionate ad e sercitare una mutua azione in un tempo più tosto che in altro;in un luogo più tosto che in altro luogo. In tal guisa tutte quelle funzioni del pensiero,che isolate non sarebberostatebastevoliafornircilaconnessionecau sale,intrecciateabilmente insieme bastano. IlKant,come sappiamo,dallepremesse diHume,lasciate correre senza contrasto,inferi che dunque l'idea di causa è a priori ; evitando con questa origine le scabrose ricerche de]l'analisi.Altri aveva inferito,che ilprincipio di causali tà sia,nongiàsinteticoapriori,ma analiticoadirittura, come trainostriilGalluppiedilRosmini:ilnostroDeGra zia riconosce che nella idea dell'avvenimento non è racchiu s a l'idea della sua causa ; dà ragione alla filosofia critica di averlo sostenuto per sintetico;ma crede di coglierla poi in flagrante contraddizione nel valore che Kant attribuì a tal principio.Giovaesaminarequest'ultimo aspetto della que stione .  .-59 11DeGraziareplicò:altroèilnonavereunaideaadegua ta,ilnonconoscereilcomedell'azione;edaltroilnon a verne la menoma idea.Vero è inoltre,che nè la sperienza, nè il sillogismo,nè l'abitudine bastano da soli,ma intrecciati insieme forsebasteranno:epoisièlasciatafuordiconto l'in duzione,laquale èdiunaiutoinestimabile.Ed eccocome.   Kant aveva attribuito al principio di causalità un'origine apriori,epoiavevaattribuitoallostessounvalore ogget t i v o : il D e G r a z i a i n t e r p e t r a o g g e t t i v o n e l s e n s o d e l l a f i l o s o fiasperimentale,ed affibbiaalKant una contraddizione,che proviene da una poco esatta cognizione della Critica della Ragion pura. «Daunapartesiammette,cheinostriconcettieigiu dizî sintetici a priori hanno un valore oggettivo nella na tura ... Dall'altra parte si sostiene che la causalità non è legge degli esseri, ma legge de'lor cangiamenti sommessi alla nostra esperienza ». Per Kant l'oggettivo non era punto nella natura , m a era semplicemente ciò che si trovava in ogni coscienza,non co me questa o quella coscienza empirica ed individuale,ma in ogni coscienza umana in universale,in ogni coscienza uma na come tale. Onde Kuno Fischer esponendo questa significazione della parola oggettivo nel sistema kantiano scrive appunto cosi: « N u n heisst « verknüpft sein in reinen Bewusstsein » soviel als « obiectiv verknüpft sein ». Ma di tali inesattezze fu causa non la poca penetrazione dellamente,sil'averluiignoratolalingua tedesca;ilche lo costrinse a servirsi di poco sicure traduzioni. N e l l ' e s a m e d e l m o d o , c o m e il D e G r a z i a s p i e g a l ' o r i g i n e dell'idea disostanza,equella dicausa,noi abbiamo indi cato tutto quanto il suo processo analitico nella genealo gia del pensiero,perchè la prima idea è primitiva, la se conda derivativa. Pure di altre principali toccheremo un cenno per chiarezza maggiore,ma prima alleghiamo testual mente la formola del suo metodo. « Pura osservazione di fatto nelle idee primitive;pura os servazione di concetti astratti nelle idee derivative ;ecco i due cardini del presente Saggio. La natura oggettiva delle idee di rapporto , e i giudizî parte integrante di alcune idee . . .  60   -61 sono ledue vedute primordialinellaquistionedellaorigine e realtà delle nostre conoscenze ». Con questo criterio ora ilnostro filosofo si fa ad esami nare ilfatto,ediquivi pervia diastrazione,ossiapervia del giudizio,attinge ogni nostra idea. Percepire ilpossibilevalgiudicare ciò ch'è possibile, come percepireilnecessariovalgiudicareciòch'èneces s-ario,e percepire ilgeneraleval giudicare ciò ch'è gene r ale ». È una falsa opinione il credere che la necessità,la pos sibilità,launiversalità,come altresì laidentità,ladiversi t à non siano contenute tutte quante nella realtà che ci sta davanti : il giudizio non aggiunge nulla di suo, esso è un puro mezzo di osservazione, e nulla più. « Il nostro spirito ha la virtù di apprendere l'identità e la diversità,con cuisioffronoleideeallanostra percezio ne:eccoquantodevesisolamentediredalfilosofo». L'infinito non è pel nostro autore,se non la quantità in finita, e la origine di questa idea è anch'essa dovuta alla e sperienza. « Partendo dal principio,che ilpositivo dee precedere il negativo nell'ordine genealogico, abbiamo conchiuso,la quantità che ha limiti dover precedere la quantità che non ha limiti;ilfinito dover precedere l'infinito;ilsiavanti al no.L'equivoco ènelcredere,che una quantitàinfinita non ènegativa». Che sesiosserva,laquantitàinfinitacomprendere in se tutte le finite, è da osservare altresì ch'essa le comprende non come negazione,ma come quantità:lanegazione siri ferisce al limite. Tra quelli che San Tommaso chiamava sensibili comuni c'erano l'estensione e lasuccessione,rapporti quantitati vi,mentre isensibiliproprîeranoqualità.Oralavorando  Piùcomplicataèlagenesidelleideedispazioeditempo.   62 sopra questi due dati,vale a dire considerando come as soluta la posizione de'punti nella estensione,e degl'istanti nella successione, si ha nel primo caso lo spazio, nel se condo iltempo. « La pura estensione non è tutta intera l'idea dello s p a zio :in questo v'è dippiù il valore assoluto de'suoi punti . L'idea di successione non è tutta intera l'idea del tempo : in questo v'è dippiù il valore assoluto de'suoi istanti ». Che cosa vuol dire questo valore assoluto ? Ecco:l'estensione consiste nella postura de'punti;e c o testa postura è di sua natura relativa. Se ora la postura non si riferisce ad alcuni punti soltanto,ma a tutt'i punti assegnabili,siavrànonpiùunadataestensione,ma lo spa zio.Cosidicasideltempoperrispettoallasuccessione. C'è successione,se un istantesiriferisce ad un istante dato : c'è tempo se la relazione si allarga a tutti gl'istanti a s s e gnabili. Dimodochè lo spazio siha negando illimite della esten sione finita ; il tempo negando il limite della successione finita. Ma l'estensione e la successione,si domanderà, donde provvengono ? IlDeGraziachelichiamasensibilicomuni,ritenendo la nomenclatura tomistica nel Prospetto della filosofia o r t o dossa,nel Saggio ne attribuisce l'origine non alla sensibi lità, ma all'intelletto.Egli anzi combatte la dottrina k a n tiana delle forme pure della sensibilità,osservando che non si può dare estensione e successione senza apprendere del le sensazioni come moltiplici,e quindi come diverse, o meidentiche;sicchènumero,diversità,identitàsono con dizioni dell'apprensione di questi due nuovi rapporti, che si dicono estensione e successione.Kant che le attribuiva alla sensibilità non si accorgeva del concorso indispensa bile dell'intelletto che vi si richiedeva ;ed anzi si contrad  CO   diceva ammettendo, che la materia sensibile prende un pri mo ordinenelleformepuredellasensibilità,echeperesse forme la varietà e la moltiplicità della rappresentazione ac quista un certo ordine. Questa contraddizione era stata avvertita dal Borrelli pri ma delGrazia,eforsequestil'hamutuatadall'autoredella Genealogiadelpensiero.Kant,aveva dettoilBorrelli,tie ne percategoriedell'intellettoladiversitàelamoltiplicità: e d intanto ammette una varietà ed una moltitudine anche nella sensibilità: come va ciò ? Nè il Borrelli, né il De Grazia s'accorsero però che il divario tra categoria, ed intuizione pura consiste non già nel supporre entrambe una moltiplicità;ma nel diverso m o do dellegamecategorico,edintuitivo. Ma è tempo omai di giudicare nel suo insieme il tentati v o del nostro filosofo. Propostosi discoprire lelacunedellafilosofiadelGallup pi principalmente,e di additare i costui sviamenti dal m e todo sperimentale, egli si studia di evitare ogni spiegazio n e ,la quale non si desumesse dal fatto reale.La ragione c'è nonperprodurre,maperosservare:ilpiùchepossafa re èdiastrarre.Per questa disposizione d'animo gliando a sanguelafilosofiadell'Aquinate,che,foggiatasul'ari stotelica, gli parve battesse la stessa via.Ripetendo l'an tico adagioaristotelicocheilpensareèofantasia,onon senza fantasia,l'Aquinate procede difatti di astrazione in astrazione,ma senzadispiccarsimaidalfattosensibile.Che cosaèilfantasma?Similitudinedellacosaparticolare:Si militudo reiparticularis.Checosaèl'attodell'intendere? È laspecieintelligibile,speciesintelligibilis,chesitorna ad astrarre dalfantasma:un'astrazione adoppiogrado.E che cosavuoldireilluminareifantasmi,equelfamoso lu me divino,sulqualetantoavevadisputatoilRosmini,seera Dio stesso,ounsuoriflesso?PelDeGrazianonèaltro,se  63 1   64 non l'effetto della attenzione, che vi si presta. Il giudicare era a lui un fatto irreducibile,da non confondere con la s e n s a z i o n e ,m a i n s i e m e e r a u n p u r o m e z z o d i o s s e r v a z i o n e . O s s e r vare adunque è la parola che compendia tutta la sua filosofia . Per questo verso la filosofia del De Grazia è più moderna di quella del Galluppi, e rasenta assai da presso il Positivis mo contemporaneo,cheinqueltorno sistavaconcependo. Il Corso di filosofia positiva dettato da Augusto Comte fu p u b b l i c a t o i n F r a n c i a d a l 1 8 3 0 a l 1 8 4 2 : il D e G r a z i a a v r e b bepotuto averne notizia,matuttoinduce acredere,ch'ei non l'abbiaavuta.L'educazioneprimadellasuamente, che al pari di quella del Comte era stata avvezza alle scien zeesatte,elapocapropensione per lespiegazioni trascen dentali poteronlo però sospingere per la medesima via. Il De Grazia al pari de'positivisti dichiara sconosciute le essenze delle cose, limitata ad una mera riduzione di feno meni tutta la nostra scienza:crede anche lui doversi appli care alla filosofia il metodo delle scienze esatte e delle s p e rimentali,e da qui la grande importanza che attribuisce alla induzione , la scarsa che attribuisce al sillogismo .  Se non che all'osservazione immediata ei seppe accoppia re l'induzione,ch'è l'osservazione mediata.Della induzio ne ebbe un concetto preciso,nè lavolle ristretta al sempli ceradunamento de'fattiosservati,ma ne estese la portata oltre ai limiti della sperienza.In questo allargamento però essa non genera nell'animo quella evidenza, che scintilla soltanto dalla osservazione immediata, o dalle verità di r a gione;ma una certezza morale,laquale ammette la possibi litàdell'opposto.Tutte lescienzesperimentali debbono te nersi paghi di quello stato, ch'è pure tanto discosto dal d u b biotormentosolasciatoinereditàdạHume,ilqualedisco nobbe l'efficacia della induzione. Ecco difatti alcune sentenze,le quali si potrebbero cre dere imitate da Augusto Comte.   « Il metodo è il ridurre i fenomeni particolari a'fenomeni generali, e questi ad altri più generali fino ad arrestarsi a pochi fenomeni irreducibili ». « La riduzione viene operata a lume delle verità neces sarie da un lato,e dalle accurate osservazioni dall'altro la to.E un fenomeno generale che resiste agli incessanti rigo rosi tentativi di riduzione,non è perciò dichiarato assolu tamente irreducibile alle note forze primarie delle sostanze corporee,note però negli effetti, e per noi sempre ignote nella loro essenza ». « I nostri mezzi sono impotenti a scovrir la natura degli ésseri.Tutto quel che può scovrire la nostra ragione nella scienza della natura è riposto nel classificare i fatti speri mentali con andarrisalendoda’fattiindividualia'generali, e da questi a'più generali fino a raggiungere ifatti primiti vi,ov'èforzal'arrestarsi». Ma allatoaquestesomiglianzetroviamonelDeGraziadei tratti, che lo differenziano dal fondatore del Positivismo francese;ne addito due come principali. Il Comte trascura affatto il problema della conoscenza , ed invece questo problema rimane pel De Grazia ilprimo ed il capitale. Il Comte attribuisce alla metafisica un valore storico sol t a n t o , il D e G r a z i a è p e r s u a s o c h e l a m e t a f i s i c a p o s s a r i m a nere accanto alla scienza sperimentale.Così,sebbene dichia ri inconoscibilel'essenzadell'anima,enotasolalasuama nifestazione nel pensiero,non esita poi di affermare che la metafisica ne ha stabilito la spiritualità, l'immortalità, la vita futura. Questa oscillazione fra le esigenze del suo metodo e le tra dizioni di quella ch'ei chiama filosofia ortodossa fa sì che in lui sipuòravvisareorauntomista,edora un positivista, secondo i casi.Se non che il tomismo stesso a lui or balena 9  65 -   va come riflesso dalla filosofia aristotelica,or come lume r a g giante dallarivelazionedivina;edellaortodossia del cre dente si faceva schermo a nascondere gli ardimenti del si losofo . Noiignoriamoqualiaccuseglifuronomosse,equalirim proveri fatti :certo apparisce da alcuni luoghi dei suoi li bri che qualcosa di simile ci debba essere stato : eccone u n o per esempio. « Ci crediamo abbastanza fortunati di aver veduto p r o trattiinostrigiorni,finoall'istantedirassicurarciche il nostro comunquedebolelavoroerasottolaguarentigiadel l'Aquinate, contro le avventate odiose imputazioni ». Ed altrove dice esplicitamente ch'ei ricorre all'autorità diSanTommaso periscagionarsidellatacciad'incredulita. L o s t u d i o d i S a n T o m m a s o , e d il P r o s p e t t o d e l l a f i l o s o f i a ortodossa che ne fu ilrisultato,ebbero adunque per fine ladifesa della propriadottrina.Meglio forse avrebbe fatto a dispregiare ilvano cicaleccio delvolgo,che di ogni ri cercafilosoficas'adombraes'insospettisce;ma l'indoledel nostro filosofo era dimessa e circospetta, e preferi di ripa rarsi sotto l'egida di un dottore di santa Chiesa; come se u n altrettalespedientefossegiovato alRosmini edalGioberti. Senza il bisogno di questa apologia della sua dottrina a vrebbe potuto por mano a quella Filosofia del pensiero, a cui accenna;imperciocchè,contutt'iseivolumidaluimessi a stampa,ilsuo sistema rimane appena delineato nel prin cipioenelmetodo;nèdelleapplicazioni allaEstetica,oal l'Etica si trova più di un semplice accenno : la Logica stessa n o n v i è d i s t e s a p i e n a m e n t e , s e b b e n e t u t t o i'l S a g g i o n o n s i occupi di altro che di Logica. Stando ai brevi accenni noi sappiamo che le parti della filosofia per lui sarebbero state la logica,l'etica,l'estetica, perchè itre fenomeni irreducibili del pensiero sono ilgiudi care,ilvolere,ilsentire.Ilsillogismo ègiudizio pure;ma  66   un giudizio fondato sopra idee astratte, mentre il giudizio primitivo è la osservazione immediata della realtà concreta . Il sillogismo è applicabile alle sole verità di ragione. La prova induttivá si adopera a slargare la cerchia della sperienza immediata :essa però presuppone la realtà delle idee di numero,identità,diversità,sostanza,modificazione, necessità,possibilità.Queste idee non si possono ricavare per induzione, altrimenti ci sarebbe un circolo:sono ricava te per astrazione dalla osservazione immediata fatta per m e z zo del giudizio. L'associazione è la sorgente spontanea,ma illegittima del le nostre idee : l'induzione dipoi legittima, confermandole , quelle relazioni,che l'associazione delleidee aveva per ipo tesi anticipato. E c c o a d u n q u e d e l i n e a t o il c o m p i t o d e l l a l o g i c a : a n a l i s i d e l senso comune ,e giustificazione delle credenze spontanee che quello contiene. E dell'Etica ? Solo per intramessa sappiamo,ch'egli,a differenza di El v e z i o , il q u a l e d à p e r o r i g i n a r i o il s o l o d e s i d e r i o d e l p r o p r i o utile,ammette appetiti disinteressati originalmente,non cre dendo che l'abitudine potrebbe andare fino al punto di snatu rare laqualitàstessadeldesiderio.Orsenoiabbiamo nella coscienza attuale de motivi disinteressati, è necessità che questi motivi si fondino sopra appetiti primitivameute tali. AnchequiadunqueavrebbeilDeGraziaadottatolostesso procedimento della conoscenza :lo spirito avrebbe legittima to conlaragioneciòchelanaturaspontaneamenteavessein  1 67 Prima la mente crede,perchè non ragiona ancora ;poi crede,perché laragione ha legittimato lasuacredenza.Fin chè il dubbio non l'assale,la mente riposa sicura sui nessi stretti spontaneamente dalla associazione naturale delle sue idee:quando ildubbio sottentra,la induzione ne la libera, giustificando la spontanea credenza .   origineoperato.Senon che,eglisenerimetteaquella Filo sofiadelpensiero,chepoiononscrisse,ononarrivòsino a noi. M e n o p r e c i s o è il d i s e g n o , d e l q u a l e si s a r e b b e d o v u t o t o c c a r e d e l l a E s t e t i c a . N o i s a p p i a m o s o l o , c h e il B e l l o è p e r l u i «l'oggetto della percezione,quando ci riesce piacevole il contemplarlo ». M a ,oltre a questo effetto prodotto dalla bel lezza nello spirito contemplatore,invano si cercherebbero altri schiarimenti . Nei voluminosi libri che scrisse avrebbe il De Grazia po tuto colorire intero il disegno della sua filosofia, se non si fosse allargato troppo in polemiche ed in apologie,soventi superflue, e se avesse usato maggior parsimonia nello stile, ch'èdiffuso,stemperato,eridondante d'interminabiliripe tizioni. I sei volumi si sarebbero potuti restringere in un so lo,o in un paio al più,senza nessun danno per le idee che viesprime;eforseconquestoguadagnodippiù,diaverpo tuto trovare maggior numero di lettori. Dobbiamo in questa occasione ricordare,che il sensua lismo era la dottrina favorita de'giovani italiani, pria di comparire il Saggio su la critica della conoscenza,ilche av venne nel 1819;e che in parte con la forza del ragionamen to,einparteconquellaautoritàcheilnostroGalluppi ven ne mano mano acquistando pel valore della sua opera, egli riuscì a sradicare l'errore dalle menti giovanili,ed avviarle a'sani principi della morale e della religione.Quindi le sue istituzioni di filosofia, del tutto conformi ai suoi principi del Saggio,furono adottate per quasi tutte le scuole d'inse gnamento in Italia.Un tal positivo giovamento recato alla  68 Il De Grazia combatté la filosofia del Galluppi, finché que sti viveva e professava nella Università napoletana : la c o m battè perchè la credette sbagliata e perniziosa. Morto che fu ilsuo grande avversario,ei,pur rimanendo saldo nella sua sentenza , scrisse di lui queste parole .   sua patria è la gloria maggiore cui aspirar mai si possa da un filosofo». C o s ì il D e G r a z i a g i u d i c a v a il G a l l u p p i m o r t o n e l P r o s p e t to di filosofia ortodossa ; ed il giudizio ci rivela il carattere integro,leale,generoso di chi lo portava.Combattendo le dottrine di un avversario,ei rispetto,ei lodò le intenzioni ; ei non disconobbe l'utilità che aveva arrecato al suo paese . Talvolta anzi ei par che non agogni,che non cerchi altra gloria, che quella conseguita dal suo valoroso avversario: dispera quasi di conseguirla vivo,pur se l'augura dopo m o r to,non tanto per sè,quanto a pro della sua patria. «Esenonpuògodernechil'hameritata,purquestatar dagloriasiriflettesulasuapatria,servedisprone a'suoi concittadini sopra tutto,nella faticosa carriera letteraria, e riesce di nobile compiacenza per tutti gli spiriti fatti per a m mirare,per amar lavirtù ». Chi scriveva queste magnanime parole ebbe certamente un cuorenonminoredellamente,elatardagloriadaluiinvo cata è un tributo ben meritato da chi non stimolato da biso gno,nonallettatodapremio,passòlavita,non fragliagi ereditati,manellafaticosapalestradellostudio,dove s'in vecchia e simuore anzi tempo,ma dove siha almeno ildrit todicredereche,morendo,nonsimuoredeltutto.Vincenzo Di Grazia. Grazia. Keywords: implicatura. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Grazia” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51689392211/in/photolist-2mRigWB-2mR7Xaf-2mQCyu5-2mQwYd8-2mPGkBm-2mPsU62-2mPvn8a-2mPmmR4-2mNzeEc-2mN8Hgb-2mLGvyP-2mLQxu7-2mPrdWj-2mLExs3-2mPtp3t-2mKS7Wc-2mKBDtr-2mKG3XG-2mPpVqK-2mKCnei-2mKEPgR-2mKjsJY-2mJ3q6x-2mGnP2f-nUmNhz-hSTpSd-nW9LZ2

 

Grice e Gregory – implicature clandestine – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo.  Fellow of the British Academy. Grice: “I like Gregory; being a Roman, he studied Roman philosophy in one of the most interesting epochs: the thirties! Then he explored what he calls the ‘lessico filosofico,’ which Austin detested – “Why do we need the philosopheer’s ‘volition’ when we have ‘would’??” Si laurea a Roma con Nardi. Insegna a Roma. Direttore di Ricerche storico-filosofiche. Direttore della sezione di Storia della filosofia Lessico Italiano. Diresse la collana "I filosofi.” Saggi:“Anima mundi” (Firenze, Sansoni); “Platonismo” (Roma); “Scetticismo ed empirismo” (Bari, Laterza); “L'idea di natura”, “La filosofia della natura  (Passo della Mendola, Firenze, Sansoni); “L’atomismo”, “Aristotelismo” “Il genio maligno”; “Il demonio maligno”; “Mundana sapiential”; “Theophrastus redivivus”; “Erudizione e ateismo” (Napoli, Morano); “Il libertinismo”; “La filosofia clandestina” (Firenze, La Nuova Italia), “L’Etica della critica libertina” (Napoli, Guida); “Forme di conoscenza” (Roma, EStoria e Letteratura); “Lo spazio come geografia del sacro” Della sobria ebbrezza”; “La terminologia filosofica” (Firenze, Olschki); “Speculum natural” (Roma, Storia e Letteratura); “Principe di questo mondo”; “Il diavolo” (Roma, Laterza); “Della modernità, Pisa, Torre); “Vie della modernità” (Firenze, Monnier Università). Treccani Enciclopedie, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. A. ALIOTTA, A. CAPITINI, P. CARABELLESE ETC., Il problema di Dio, a cura di G. Savio e Tullio Gregory, Roma, Universale di Roma, Raccolta di un ciclo di conferenze promosse dal Centro Romano Studi presso l’Università degli Studi di Roma nell’A.A. BRUNO NARDI, Storia della filosofia. Il naturalismo del Rinascimento, a cura di Tullio Gregory, Roma, Edizioni Universitarie, 1949, 191 pp.  2  Bibliografia di Tullio Gregory – 1951 torna su 1951 esci 3. BRUNO NARDI, La crisi del Rinascimento e il dubbio cartesiano, a cura di Tullio Gregory, Roma, La Goliardica, 1951, 95 pp. 4. BRUNO NARDI, Il problema di Dio nella filosofia medioevale, a cura di Tullio Gregory, Roma, La Goliardica, 1951, 88 pp. 5. Sull’attribuzione a Guglielmo di Conches di un rimaneggiamento della “Philosophia mundi”, «Giornale critico della filosofia italiana», s. III, XXX, 1951, pp. 119-125. 6. L’Anima mundi nella filosofia del XII secolo, «Giornale critico della filosofia italiana», s. III, XXX, 1951, pp. 494-508.      3  Bibliografia di Tullio Gregory – 1952 torna su 1952 esci 7. BRUNO NARDI, Le meditazioni di Cartesio, a cura di Tullio Gregory, Roma, La Goliardica, 1952, 51 pp. 8. L’idea della natura nella Scuola di Chartres, «Giornale critico della filosofia italiana», s. III, XXXI, 1952, pp. 433-442. 9. Cattolicesimo e storicismo. La polemica sulla «nuova teologia», «Rassegna di filosofia», I, 1952, pp. 49-66. 10. Gli studi italiani sul pensiero del Rinascimento, I. La polemica sul Rinascimento, «Rassegna di filosofia», I, BRUNO NARDI, Il dualismo cartesiano, a cura di Tullio Gregory, Roma, La Goliardica, 1953, 48 pp. 12. Note sul platonismo della Scuola di Chartres. La dottrina delle specie native, «Giornale critico della filosofia italiana», s. III, XXXII, 1953, pp. 358-362. Diventa, corretto e aumentato, il quarto capitolo di Platonismo medievale (si veda 1958, n. 24) insieme ai saggi Note e testi per la storia del platonismo medievale (si veda 1955, n. 18) e Nuove note sul platonismo medievale (si veda 1957, n. 23). 13. Gli studi italiani sul pensiero del Rinascimento, II. Platonismo e Aristotelismo, «Rassegna di filosofia», BRUNO NARDI, La filosofia di Dante, a cura di Tullio Gregory, Roma, La Goliardica, 1954. La pubblicazione è in due volumi, il primo di 111 pp. e il secondo di 109 pp. 15. L’escatologia cristiana nell’Aristotelismo latino del XIII secolo, «Ricerche di storia religiosa», I, 1954, pp. 108-119.   6  Bibliografia di Tullio Gregory – 1955 torna su 1955 esci 16. “Anima mundi”. La filosofia di Guglielmo di Conches e la Scuola di Chartres, Firenze, Sansoni, 1955,·(«Pubblicazioni dell'Istituto di filosofia dell'Università di Roma», 3), 294 pp. Indice del volume: I. La vita e le opere di Guglielmo di Conches, p. 1; II. La teologia, p. 41; III. L’anima del mondo e l’anima individuale, p. 123; IV. L’idea di natura, p. 175; V. Gli ideali culturali della Scuola di Chartres, p. 247; Indice dei manoscritti, p. 281; Indice dei nomi, p. 285. 17. L’Apologia e le “Declarationes” di Francesco Patrizi, in Medioevo e Rinascimento. Studi in onore di Bruno Nardi, I, Firenze, Sansoni, 1955, pp. 385-424. 18. Note e testi per la storia del platonismo medievale, «Giornale critico della filosofia italiana», s. III, XXXIV, 1955, pp. 346-384. Diventa, corretto e aumentato, il quarto capitolo di Platonismo medievale (si veda 1958, n. 24) insieme ai saggi Note sul platonismo della Scuola di Chartres (si veda 1953, n. 12) e Nuove note sul platonismo medievaleIl maestro interiore nel pensiero di S. Agostino, in BRUNO NARDI, Il pensiero pedagogico del Medioevo, I, Il Medioevo, Firenze, Edizioni Giuntine- Sansoni, 1956 («I Classici italiani della pedagogia»), pp. 3-19. Si veda anche il 1965, n. 44. 20. Il «De magistro» di S. Tommaso d’Aquino, in BRUNO NARDI, Il pensiero pedagogico del Medioevo, I, Il Medioevo, Firenze, Edizioni Giuntine- Sansoni, 1956 («I Classici italiani della pedagogia »), pp. 183-201. Si veda anche il 1965, n. 44. 21. La «reductio artium» da Cassiodoro a S. Bonaventura, in BRUNO NARDI, Il pensiero pedagogico del Medioevo, I, Il Medioevo, Firenze, Edizioni Giuntine-Sansoni, 1956 («I Classici italiani della pedagogia »), pp. 279-301. 22. Le origini. Testi latini, italiani, provenzali e franco-italiani, a cura di Antonio Viscardi, Bruno e Tilde Nardi, Giuseppe Vidossi, Felice Arese, con la collaborazione di Gian Luigi Barni, Luigi Brusotti, Don Giuseppe De Luca, Tullio Gregory, Luigi Ronga, Milano-Napoli, Ricciardi, 1956 («La letteratura italiana. Storia e testi», I), LXXI-1237 pp. I capitoli in cui Tullio Gregory ha curato la nota introduttiva e/o le traduzioni sono: Dalla epistola ad Drogonem philosophum (traduzione), pp. 362-365; Lanfranco da Pavia (nota introduttiva e traduzioni), pp. 420-434; Sant’Anselmo di Aosta (nota introduttiva e traduzioni), pp. 435-470; Gioacchino da Fiore (nota introduttiva), pp. 723-725. Il volume è stato successivamente ristampato da Einaudi (si veda 1977, n. 76 e n. 77).     8  Bibliografia di Tullio Gregory – 1957 torna su 1957 esci 23. Nuove note sul platonismo medievale. Dall’anima mundi all’idea di natura, «Giornale critico della filosofia italiana», s. III, XXXVI, 1957, pp. 37-55. Diventa, corretto e aumentato, il quarto capitolo di Platonismo medievale (si veda 1958, n. 24) insieme ai saggi Note sul platonismo della Scuola di Chartres (si veda 1953, n. 12) e Note e testi per la storia del platonismo medievale Platonismo medievale. Studi e ricerche, Roma, Istituto storico italiano per il Medio Evo, 1958 («Studi storici dell’Istituto storico italiano per il Medio Evo», 26/27), 159 pp. Indice del volume: I. Il commento a Boezio di Adalboldo di Utrecht, p. 1; II. L’Opusculum contra Wolfelmum e la polemica antiplatonica di Manegoldo di Lautenbach, p. 17; III. La dottrina del peccato originale e il realismo platonico: Odone di Tournai, p. 31; IV. Il Timeo e i problemi del platonismo medievale, p. 53; Indice dei manoscritti, p. 153; Indice dei nomi, p. 155. Per la traduzione tedesca del secondo capitolo si veda 1969, n. 58. Nel quarto capitolo sono raccolti, corretti e aumentati, i saggi Note sul platonismo della Scuola di Chartres (si veda 1953, n. 12); Note e testi per la storia del platonismo medievale (si veda 1955, n. 18); Nuove note sul platonismo medievale (si veda 1957, n. 23), tutti pubblicati sul «Giornale critico della filosofia italiana». 25. Sulla metafisica di Giovanni Scoto Eriugena, «Giornale critico della filosofia italiana», s. III, XXXVII, 1958, pp. 319-332. Con revisioni e aggiunte è diventato il primo capitolo di Giovanni Scoto Eriugena: tre studi La polemica antimetafisica di Gassendi. I, «Rivista critica di storia della filosofia», XIV, 1959, pp. 131-161. Per la seconda parte si veda 1959, n. 27. 27. La polemica antimetafisica di Gassendi. II, «Rivista critica di storia della filosofia», XIV, 1959, pp. 243-282. Per la prima parte si veda 1959, n. 26. Entrambi i contributi sono stati stampati, con numerazione continua, in un estratto unico: Tullio Gregory, La polemica antimetafisica di Gassendi, Firenze, La Nuova Italia Editrice, Mediazione e incarnazione nella filosofia dell’Eriugena, «Giornale critico della filosofia italiana», s. III, XXXIX, 1960, pp. 237-252. Con modificazioni e aggiunte è diventato il secondo capitolo di Giovanni Scoto Eriugena: tre studi Scetticismo ed empirismo. Studio su Gassendi, Bari, Laterza, 1961 («Biblioteca di Cultura Moderna», 557), 254 pp. Indice del volume: I. La polemica antimetafisica, p. 5; II. Scetticismo ed empirismo, p. 119; III. Empirismo e metafisica, p. 179. 30. L’opera di Bruno Nardi, «L’Alighieri. Rassegna bibliografica dantesca», II, 1961, pp. 31-52. 31. Escatologia e aristotelismo nella scolastica medievale, «Giornale critico della filosofia italiana», s. III, XL, 1961, pp. 163-174. Testo presentato al Convegno “L’attesa dell’età nuova nella spiritualità della fine del medioevo” e pubblicato negli atti (si veda 1962, n. 33). Diventa il capitolo 9 di Mundana Sapientia (si veda 1992, n. 134). 32. Platone e Aristotele nello “Speculum” di Enrico Bate di Malines. Note in margine a una recente edizione, «Studi medievali», s. III, III, 1961, pp. 302- 319.      13  Bibliografia di Tullio Gregory – 1962 torna su 1962 esci 33. Escatologia e aristotelismo nella scolastica medievale, in L’attesa dell’età nuova nella spiritualità della fine del medioevo, atti del 3° Convegno del Centro di Studi sulla Spiritualità medievale (Todi, 16-19 ottobre 1960), Todi, Accademia Tudertina, 1962, pp. 263-282. Apparso sul «Giornale critico della filosofia italiana» (si veda 1961, n. 31). Diventa il capitolo 9 di Mundana Sapientia (si veda 1992, n. 134). 34. Per i sessant’anni della Casa Laterza, «Belfagor», XVII, 1962, pp. 701-713. Testo della conferenza tenuta in occasione dell’inaugurazione della Mostra storica della Casa Editrice Laterza, a Roma, il 7 aprile 1962. 35. Discussioni sulla doppia verità, «Cultura e scuola», Giovanni Scoto Eriugena: tre studi, Firenze, Le Monnier, 1963 («Quaderni di letteratura e d'arte», 21), 82 pp. Indice del volume: I. Dall’uno al molteplice, p. 1; II. Mediazione e incarnazione, p. 27; III. «Contemplatio teologica» e storia sacra, p. 58. Il primo capitolo è una rielaborazione, riveduta e corretta del saggio Sulla metafisica di Giovanni Scoto Eriugena (si veda 1958, n. 25). Per una traduzione tedesca del primo capitolo si veda 1969, n. 57. Il secondo capitolo è una rielaborazione, riveduta e corretta del saggio Mediazione e incarnazione nella filosofia dell’Eriugena (si veda 1960, n. 28), entrambi apparsi sul «Giornale critico della filosofia italiana». Diventano i primi tre capitoli del volume Giovanni Scoto. Quattro studi (si veda 2011, n. 224) 37. Note sulla dottrina delle «teofanie» in Giovanni Scoto Eriugena, «Studi medievali»i 38. L’idea di natura nella filosofia medievale prima dell’ingresso della fisica di Aristotele. Il secolo XII, Firenze, Sansoni Editore, 1964, 43 pp. Testo presentato al Terzo Congresso Internazionale di Filosofia Medievale “La filosofia della natura nel Medioevo” (Passo della Mendola 31 agosto-5 settembre 1964). Successivamente è stato pubblicato negli Atti del Convegno (si veda 1966, n. 46). Diventa il terzo capitolo di Mundana Sapientia (si veda 1992, n. 134). 39. Aristotelismo, in Grande Antologia Filosofica, diretta da Michele Federico Sciacca, coordinata da Andrea Mario Moschetti e Michele Schiavone, VI, Milano, Marzorati, 1964, pp. 607-837. 40. Einleitung, in PETRUS GASSENDI, Opera Omnia, Faksimile-Neudruck der Ausgabe von Lyon 1658 in 6 Bänden mit einer Einleitung von Tullio Gregory, I, Stuttgart-Bad Cannstatt, Frommann-Holzboog, 1964, pp. V-XXII. Il testo in italiano è apparso sul «De Homine» (si veda 1964, n. 42). La traduzione in tedesco è a cura di Franz Rauhut e Hermann Dommel. 41. Filosofia e teologia nella crisi del XIII secolo, «Belfagor», XIX, 1964, pp. 1- 16. Testo italiano di una lettura tenuta all’Instytut filozofii i socjologii della Polska Akademia Nauk di Varsavia il 5 novembre 1963, edito in polacco con il titolo Filozofia i teologia wdobie kryzysu XIII wieku (si veda 1967, n. 51). Diventa il secondo capitolo di Mundana Sapientia (si veda 1992, n. 134). 42. Pierre Gassendi, «De Homine», 9-10, 1964, pp. 89-114. La traduzione tedesca del saggio, a cura di Franz Rauhut e Hermann Dommel, è pubblicata come introduzione all’Opera Omnia (si veda 1964, n. 40). 43. Studi sull’atomismo del Seicento, I. Sebastiano Basson, «Giornale critico della filosofia italiana», s. III, XLIII, 1964, pp. 38-65. Il saggio è seguito da una seconda parte su David van Goorle e Daniel Sennert (si veda 1966, n. 47) e da una terza parte su Cudworth e l’atomismo (si veda 1967, n. 50). Tradotto in francese diventa il settimo capitolo della Genèse de la raison classique TOMMASO D’AQUINO, De magistro, introduzione, traduzione e commento a cura di Tullio Gregory, Roma, Armando, 1965, 181 pp. È utilizzata, rivista in più punti, la versione dei testi di Tommaso d’Aquino già pubblicata nel volume BRUNO NARDI, Il pensiero pedagogico del Medioevo, pp. 203-275 (si veda anche 1956, n. 19, 20). 45. Sull’escatologia di Bonaventura e Tommaso d’Aquino, in Per la storia della cultura in Italia nel Duecento e primo Trecento. Omaggio a Dante nel VII centenario della nascita, «Studi medievali», s. III, VI, 1965, pp. 79-94. Diventa il decimo capitolo di Mundana Sapientia (si veda 1992, n. 134).     17  Bibliografia di Tullio Gregory – 1966 torna su 1966 esci 46. L’idea di natura nella filosofia medievale prima dell’ingresso della fisica di Aristotele. Il secolo XII, in La filosofia della natura nel Medioevo, atti del Terzo Congresso Internazionale di Filosofia Medievale, Vita e Pensiero, Milano, 1966, pp. 27-65. Diventa il capitolo 3 di Mundana Sapientia (si veda 1992, n. 134). Si veda anche 1964, n. 38. 47. Studi sull’atomismo del Seicento, II. David van Goorle e Daniel Sennert, «Giornale critico della filosofia italiana», s. III, XLV, 1966, pp. 44-63. Il saggio è preceduto da una prima parte su Sebastiano Basson (si veda 1964, n. 43) ed è seguito da una terza parte su Cudworth e l’atomismo (si veda 1967, n. 50). Tradotto in francese diventa l’ottavo capitolo della Genèse de la raison classique (si veda 2000, n. 173).     18  Bibliografia di Tullio Gregory – 1967 torna su 1967 esci 48. TULLIO GREGORY, GIORGIO TONELLI, World Soul, in New Catholic Encyclopedia, XIV, New York, McGraw-Hill, 1967, pp. 1027-1029. 49. La saggezza scettica di Pierre Charron, «De Homine», 21, 1967, pp. 163- 182. Pubblicato come terzo capitolo di Vie della modernità (si veda 2016, n. 256). Tradotto in francese diventa il quinto capitolo della Genèse de la raison classique (si veda 2000, n. 173). 50. Studi sull’atomismo del Seicento, III. Cudworth e l’atomismo, «Giornale critico della filosofia italiana», s. III, XLVI, 1967, pp. 528-541. Il saggio è preceduto da una prima parte su Sebastiano Basson (si veda 1964, n. 43) e da una seconda parte su David van Goorle e Daniel Sennert (si veda 1966, n. 47). Tradotto in francese diventa il nono capitolo della Genèse de la raison classique (si veda 2000, n. 173). 51. Filozofia i teologia w dobie kryzysu XIII wieku, «Studia Mediewistyczne», 8 1967, pp. 3-18. Testo edito in polacco di una lettura tenuta all’Instytut Filozofii i Socjologii della Polska Akademia Nauk di Varsavia il 5 novembre 1963. Traduzione a cura di Ryszard Palacz e Juliusz Domański. Il testo in italiano è apparso su «Belfagor» Pierre Gassendi, in Grande Antologia Filosofica, diretta da Michele Federico Sciacca, coordinata da Michele Schiavone, XII, Milano, Marzorati, 1968, pp. 723-786. 53. Vorwort, in JOANNES DUNS SCOTUS, Opera Omnia, Reprogr. Nachdruck der Ausg. Lyon, 1639, mit einem Worwort von Tullio Gregory, I, Hildesheim, Olms, 1968-1969, pp. V-XII. 54. Gli scritti di Bruno Nardi, a cura di Tullio Gregory e Paolo Mazzantini, «L’Alighieri. Rassegna Bibliografica Dantesca», IX, 1968, pp. 39-58. Si veda anche 1990, n. 123. 55. Bruno Nardi, «Giornale critico della filosofia italiana», s. III, XLVII, 1968, pp. 469-501. 56. Due interventi sull’Università, «Problemi», 7, 1968, pp. 290-291. Il primo intervento è di Salvatore Valitutti (pp. 289-290).     20  Bibliografia di Tullio Gregory – 1969 torna su 1969 esci 57. Vom Einen zum Vielen. Zur Metaphysik des Johannes Scotus Eriugena, in: WERNER BEIERWALTES (Hrsg.), Platonismus in der Philosophie des Mittelalters, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchges, 1969, pp. 343-365. Traduzione tedesca del primo capitolo di Giovanni Scoto Eriugena: tre studi (si veda 1963, n. 36). 58. Das Opusculum contra Wolfelmum und die antiplatonische Polemik des Manegold von Lautenbach, in WERNER BEIERWALTES (Hrsg.), Platonismus in der Philosophie des Mittelalters, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 1969, pp. 366-380. Traduzione tedesca del secondo capitolo di Platonismo medievale. Studi e ricerche (si veda 1958, n. 24).     21  Bibliografia di Tullio Gregory – 1970 torna su 1970 esci 59. Opera e studi di Bruno Nardi, «La Provincia di Lucca», X, 1970, pp. 5-13.  22  Bibliografia di Tullio Gregory – 1971 torna su 1971 esci 60. Premessa, in BRUNO NARDI, Saggi sulla cultura veneta del Quattro e Cinquecento, a cura di Paolo Mazzantini, Padova, Antenore, 1971, pp. IX-X. 61. Tre opinioni sulla riforma. Interviste a Pietro Gismondi, Tullio Gregory, Ugo Spirito, a cura di Lido Chiusano, «Riforma Universitaria», I, 1971, pp. 41- 52. L’intervista a Tullio Gregory è alle pagine 45-50.   23  Bibliografia di Tullio Gregory – 1972 torna su 1972 esci 62. Gassendi e Galileo, in Saggi su Galileo Galilei, a cura di Carlo Maccagni, Firenze, Barbéra, 1972, pp. 309-323. 63. Erudizione e ateismo nella cultura del Seicento – Il “Theophrastus redivivus”, «Giornale critico della filosofia italiana», s. IV, LI (LIII), 1972, pp. 194-240. Con numerose modificazioni e aggiunte diventa il primo capitolo del volume Theophrastus redivivus (si veda 1979, n. 79) 64. Abélard et Platon, «Studi medievali», s. III, XIII, 1972, pp 539-562. Comunicazione presentata alla International Conference “Peter Abelard” tenutasi presso l’Istituto di Filosofia dell’Università di Lovanio nei giorni 10- 12 maggio 1971. È stata pubblicata negli atti (si veda 1974, n. 67) ed è diventata il sesto capitolo di Mundana Sapientia (si veda 1992, n. 134).     24  Bibliografia di Tullio Gregory – 1973 torna su 1973 esci 65. FRANCESCO ADORNO, TULLIO GREGORY, VALERIO VERRA, Storia della filosofia. Con testi e letture critiche, 3 v., Bari, Laterza, 1973, [199413]. vol. II, Dal Rinascimento a Kant, a cura di Tullio Gregory, VIII-546 pp. Nel 1979 è stata pubblicata un’ottava edizione riveduta e ampliata. Nel 1996 viene pubblicata la nuova edizione (si veda 1996, n. 155). 66. Considerazioni su «ratio» e «natura» in Abelardo, «Studi medievali», s. III, XIV, 1973, pp. 287-300. Traduzione italiana della comunicazione presentata al Colloque International “Pierre Abélard, Pierre le Vénérable”, tenutosi all’Abbaye de Cluny dal 2 al 9 luglio 1972. La versione in francese è stata pubblicata negli atti (si veda 1975, n. 70) ed è diventata il settimo capitolo di Mundana Sapientia (si veda 1992, n. 134).      25  Bibliografia di Tullio Gregory – 1974 torna su 1974 esci 67. Abélard et Platon, in Peter Abelard, proceedings of the International Conference (Louvain, may 10-12, 1971), edited by Eloi Marie Buytaert, Leuven-The Hague, University Press Leuven, 1974, pp. 38-64. È stata pubblicata in «Studi medievali» (si veda 1972, n. 64) ed è diventata il sesto capitolo di Mundana Sapientia (si veda 1992, n. 134). 68. Dio ingannatore e Genio maligno. Note in margine alle “Meditationes” di Descartes, «Giornale critico della filosofia italiana», s. IV, LIII (LV), 1974, pp. 477-516. Diventa il capitolo 15 di Mundana Sapientia (si veda 1992, n. 134). La traduzione in francese viene pubblicata nel decimo capitolo di Genèse de la raison classique (si veda 2000, n. 173).      26  Bibliografia di Tullio Gregory – 1975 torna su 1975 esci 69. La nouvelle idée de nature et de savoir scientifique au XIIe siècle, in The cultural context of Medieval learning, proceedings of the First International Colloquium on Philosophy, Science, and Theology in the Middle Ages (September 1973), edited with an introduction by John Emery Murdoch and Edith Dudley Sylla, Dordrecht-Boston, Reidel Publishing Company, 1975, pp. 193-212 (Discussion, pp. 212-218) Diventa il quarto capitolo di Mundana Sapientia (si veda 1992, n. 134). 70. Considérations sur ‘ratio’ et ‘natura’ chez Abélard, in Pierre Abélard, Pierre le Vénérable: les courants philosophiques, littéraires et artistiques en Occident au milieu du XIIe siècle, Colloques Internationaux du Centre National de la Recherche Scientifique (Abbaye de Cluny, 2-9 juillet 1972), Paris, Éditions du CNRS, 1975, pp. 569-581 (Discussion, pp. 582-584). Versione in francese del saggio Considerazioni su «ratio» e «natura» in Abelardo apparso su «Studi medievali» (si veda 1973, n. 66). Diventa il settimo capitolo di Mundana Sapientia (si veda 1992, n. 134). 71. Giovanni Scoto Eriugena, in Questioni di storiografia filosofica. Dalle origini all’Ottocento, a cura di Vittorio Mathieu, I, Dai presocratici a Occam, Brescia, La Scuola, 1975, pp. 503-522. 72. L’escatologia di Giovanni Scoto, «Studi medievali», s. III, XVI, 1975, pp. 497-535. Il testo originale francese di questo saggio è stato presentato al Colloquio “Jean Scot Erigène et l’histoire de la philosophie” (Laon, 7-12 juillet 1975). Il testo italiano è stato pubblicato con un apparato di note più ampio di quello in calce al testo francese destinato agli atti (si veda 1977, n. 78). Diventa il capitolo ottavo di Mundana Sapientia (si veda 1992, n. 134). Diventa il quarto capitolo di Giovanni Scoto. Quattro studi (si veda 2011, n. 224).         27  Bibliografia di Tullio Gregory – 1976 torna su 1976 esci 73. La filosofia medievale. I secoli XIII e XIV, a cura di Tullio Gregory, Alfonso Maierù, Franco Alessio, in Storia della filosofia, diretta da Mario Dal Pra, VI, Milano, Vallardi, 1976, pp. 1-232. La cultura filosofica nella prima metà del Duecento, pp. 3-46. Alberto Magno, la Scuola di Colonia e il neoplatonismo medievale, pp. 47- 68. Bonaventura e l’agostinismo, pp. 69-110. Tommaso d’Aquino e le origini del tomismo, pp. 111-146. L’averroismo latino, pp. 147-181. Ruggero Bacone e Raimondo Lullo, pp. 183-208. Enrico di Gand, Goffredo di Fontaines, Egidio Romano, pp. 209-220. Le grandi enciclopedie, pp. 221-232. 74. Rapport sur les activités du «Lessico Intellettuale Europeo», in I Colloquio Internazionale del Lessico Intellettuale Europeo, atti a cura di Marta Fattori e Massimo Luigi Bianchi, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1976, pp. 21-43. 75. Centro di studio per il lessico intellettuale europeo, Roma. Attività scientifica svolta nel 1975, «La ricerca scientifica», CNR, XLVI, 1976, pp. 1171-1173.   28  Bibliografia di Tullio Gregory – 1977 torna su 1977 esci 76. Scritture e scrittori del secolo XI, a cura di Antonio Viscardi e Giuseppe Vidossi; con la collaborazione di Tullio Gregory, Bruno e Tilde Nardi e Luigi Ronga, Torino, Einaudi, 1977, VIII-319 pp. Questa edizione riproduce esattamente parte del volume Le origini. Testi latini, italiani, provenzali e franco-italiani (si veda 1956, n. 22), e precisamente le pp. XI-LXXI e 257-510. I capitoli curati da Tullio Gregory sono: Dalla epistola ad Drogonem philosophum (traduzione e note) pp. 108-111; Lanfranco da Pavia (nota introduttiva e traduzioni) pp. 166-179; Sant’Anselmo di Aosta (nota introduttiva e traduzioni) pp. 181-215. 77. Scritture e scrittori del secolo XII, a cura di Antonio Viscardi e Giuseppe Vidossi, con la collaborazione di Felice Arese, Tullio Gregory e Tilde Nardi, Torino, Einaudi, 1977, VIII-289 pp. Questa edizione riproduce esattamente parte del volume Le origini. Testi latini, italiani, provenzali e franco-italiani (si veda 1956, n. 22), e precisamente le pp. XI-LXXI e 513-735. Tullio Gregory ha curato il capitolo Gioacchino da Fiore (nota introduttiva e note) pp. 213-215 78. L’eschatologie de Jean Scot, in Jean Scot Erigène et l’histoire de la philosophie, Colloques Internationaux du Centre National de la Recherche Scientifique (Laon, 7-12 juillet 1975), Paris, Éditions du CNRS, 1977, pp. 377-392. Il testo in italiano della comunicazione qui pubblicata è apparso su «Studi medievali» (si veda 1975, n. 72), con un apparato di note più ampio ed è diventato il capitolo 8 di Mundana Sapientia (si veda 1992, n. 134).       29  Bibliografia di Tullio Gregory – 1979 torna su 1979 esci 79. “Theophrastus redivivus”. Erudizione e ateismo nel Seicento, Napoli, Morano, 1979 («Collana di filosofia», 20), 217 pp. Indice del volume: I. Gli dei figli degli uomini, p. 7; II. La storia naturale della religione, p. 77; Appendice: Le citazioni di Machiavelli, p. 197. Il primo capitolo del libro riprende, con numerose modificazioni e aggiunte, il saggio Erudizione e ateismo nella cultura del seicento (si veda 1972, n. 63). 80. GIAMBATTISTA VICO, Principj di una scienza nuova intorno alla natura delle nazioni, Ristampa anastatica dell’edizione Napoli 1725, a cura di Tullio Gregory, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1979, 15-270 pp. 81. TULLIO GREGORY, GIORGIO PETROCCHI, Ricordo di Bruno Nardi, con sue pagine autobiografiche, Roma, Casa di Dante, 1979, 28 pp. Nel volume compaiono i testi degli interventi di Tullio Gregory e Giorgio Petrocchi alla “Casa di Dante” in apertura dell’anno di studi 1978-1979. L’intervento di Tullio Gregory è alle pagine 5-13. 82. La conception de la philosophie au Moyen Age, in Actas del V Congreso Internacional de Filosofía Medieval, I, Madrid, Editora Nacional, 1979, pp. 49-57. 83. Pour un Thesaurus mediae et recentioris latinitatis, in Ordo. II Colloquio Internazionale del Lessico Intellettuale Europeo, atti a cura di Marta Fattori e Massimo Luigi Bianchi, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1979, pp. 719-738. 84. Lessico Intellettuale Europeo (1974-1976), in Ordo. II Colloquio Internazionale del Lessico Intellettuale Europeo, atti a cura di Marta Fattori e Massimo Luigi Bianchi, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1979, pp. 779-785.     30  Bibliografia di Tullio Gregory – 1980 torna su 1980 esci 85. Elogio di Henri Gouhier, in Allocuzioni pronunciate durante la cerimonia di consegna di lauree honoris causa. Allocuzioni di Antonio Ruberti, Luigi De Nardis, Tullio Gregory, Carlo Muscetta, Henri Gouhier, Eduardo De Filippo, Roma, Università degli Studi di Roma, Facoltà di Lettere e Filosofia, 1980, pp. 7-10. 86. Ricerche sul Lessico Intellettuale Europeo, in Atti del Convegno sulla lessicografia politica e giuridica nel campo delle scienze dell’antichità (Torino, 28-29 aprile 1978), a cura di Italo Lana e Nino Marinone, Torino, Accademia delle Scienze, 1980, pp. 47-54.   31  Bibliografia di Tullio Gregory – 1981 torna su 1981 esci 87. TULLIO GREGORY, GIANNI PAGANINI, GUIDO CANZIANI, ORNELLA POMPEO FARACOVI, DINO PASTINE, Ricerche su letteratura libertina e letteratura clandestina nel Seicento, atti del Convegno di studio di Genova (30 ottobre- 1 novembre 1981), Firenze, La Nuova Italia, 1981, XII-430 pp. 88. Il libertinismo della prima metà del Seicento: stato attuale degli studi e prospettive di ricerca, in TULLIO GREGORY, GIANNI PAGANINI, GUIDO CANZIANI, ORNELLA POMPEO FARACOVI, DINO PASTINE, Ricerche su letteratura libertina e letteratura clandestina nel Seicento, atti del Convegno di studio di Genova (30 ottobre-1 novembre 1981), Firenze, La Nuova Italia, 1981, pp. 3-47. Tradotto in francese, diventa il primo capitolo di Genèse de la raison classique (si veda 2000, n. 173). 89. Le biblioteche universitarie, in La riforma universitaria e le biblioteche dell’Università, atti del Convegno internazionale su “Le biblioteche universitarie e i loro problemi di struttura, coordinamento, unificazione”, Roma 4-5 ottobre 1980, Roma, Bulzoni, esci 90. Relazione sulle attività del Lessico Intellettuale Europeo (1977-1979), in Res. III Colloquio Internazionale del Lessico Intellettuale Europeo, atti a cura di Marta Fattori e Massimo Luigi Bianchi, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1982, pp. 509-518. 91. Foreword, in Global linguistic statistical methods to locate style identities, proceedings of an International Seminar (Gallarate June 5-7, 1981), edited by Roberto Busa S.I., Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1982, pp. VII-VIII. 92. “Omnis philosophia mortalitatis adstipulatur opinioni”: quelques considérations sur le Theophrastus redivivus, in Le matérialisme du XVIIIe siècle et la littérature clandestine, actes de la table ronde des 6 et 7 juin 1980, organisée à la Sorbonne à Paris avec le concours du CNRS par le Groupe de recherche sur l’histoire du materialisme, dirigé par Oliver Bloch, Paris, Vrin, 1982, pp. 213-218. 93. Aristotelismo e libertinismo, «Giornale critico della filosofia italiana», s. V, LXI (LXIII), 1982, pp. 153-167. Relazione letta al Convegno Internazionale di Studi su “Aristotelismo veneto e scienza moderna” (Padova, 23-27 settembre 1981). È stata pubblicata negli atti del Convegno (si veda 1983, n. 95) e diventa il settimo capitolo di Vie della modernità (si veda 2016, n. 256). Tradotta in francese diventa il secondo capitolo di Genèse de la raison classique (si veda 2000, n. 173). 94. La tromperie divine, «Studi medievali», s. III, XXIII, 1982, pp. 517-527. Comunicazione presentata alla Table ronde internationale su “Preuve et raisons à l’Université de Paris. Logique, ontologie et théologie au XIVe siècle”, organizzata dal Centre d’Études des religions du livre (Laboratoire associé au CNRS) a Parigi (5-7 novembre 1981). È stata pubblicata negli atti (si veda 1984, n. 97) ed è diventata il capitolo 14 di Mundana Sapientia Aristotelismo e libertinismo, in Aristotelismo veneto e scienza moderna, atti del 25° anno accademico del Centro per la storia della tradizione aristotelica nel Veneto, a cura di Luigi Olivieri, Padova, Antenore, 1983, pp. 279-296. Apparso su «Giornale critico della filosofia italiana» (si veda 1982, n. 93). Diventa il settimo capitolo di Vie della modernità (si veda 2016, n. 256). 96. Introduzione, in BRUNO NARDI, Dante e la cultura medievale, nuova edizione a cura di Paolo Mazzantini, Bari, Laterza, 1983 («Collezione storica Laterza»), pp. VII-XLIV. L’opera è stata ristampata nella collana «Biblioteca Universale Laterza» La tromperie divine, in Preuve et raisons à l’Université de Paris. Logique, ontologie et théologie au XIVe siècle, actes de la Table Ronde internationale organisée par le Laboratoire associé au CNRS (Paris, 5-7 novembre 1981) edité par Zénon Kaluza et Paul Vignaux, Paris, Vrin, 1984, pp. 187-195. Pubblicato su «Studi medievali» (si veda 1982, n. 94), diventa il capitolo 14 di Mundana Sapientia (si veda 1992, n. 134). 98. Temps astrologique et temps chrétien, in Le temps chrétien de la fin de l’Antiquité au Moyen Age. IIIe-XIIIe siècles, Colloques Internationaux du Centre National de la Recherche Scientifique (Paris, 9-12 mars 1981), Paris, Éditions du CNRS, 1984, pp. 557-573. Diventa il capitolo 12 di Mundana Sapientia (si veda 1992, n. 134). 99. Instrumenta Lexicologica Latina: verso un «Thesaurus Patrum Latinorum», «Studi medievali», s. III, XXV, 1984, pp. 449-457. 100. Premessa, in Francis Bacon. Terminologia e fortuna nel XVII secolo, Seminario Internazionale, Roma, 11-13 marzo 1984, a cura di Marta Fattori, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1984, pp. 1-3. 101. Introduzione, in Architettura in Provincia. Il centro storico di Sacrofano, a cura di Enrico Guidoni e Pia Pascalino, Roma, Edizioni Kappa, Filosofi, Università, Regime: la Scuola di filosofia di Roma negli anni Trenta. Mostra storico documentaria, a cura di Tullio Gregory, Marta Fattori, Nicola Siciliani De Cumis, Roma-Napoli, Istituto di Filosofia della Sapienza-Istituto italiano per gli studi filosofici, 1985, 506 pp. Presentazione pp. XI-XIII. 103. I sogni nel Medioevo, Seminario Internazionale (2-4 ottobre 1983), a cura di Tullio Gregory, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1985, VIII-358 pp. 104. Il Lessico Intellettuale Europeo, in Lo storico e il suo lessico. Atti del Convegno di Prato, 1-3 aprile 1982, a cura di Maria Caterina Cicala. Presentazione di Luigi De Rosa, Società degli storici italiani, [Messina, La Grafica], 1985, pp. 3-14. 105. Introduzione, in BRUNO NARDI, Dante e la cultura medievale, nuova edizione a cura di Paolo Mazzantini, introduzione di Tullio Gregory, Roma- Bari, Laterza, 1985 [19902] («Biblioteca Universale Laterza»), pp. VII-XLIV. La prima edizione dell’opera è apparsa nella collana «Collezione storica Laterza» (si veda 1983, n. 96). 106. I sogni e gli astri, in I sogni nel Medioevo, Seminario Internazionale (Roma, 2-4 ottobre 1983), a cura di Tullio Gregory, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1985, pp. 111-148. Diventa il tredicesimo capitolo di Mundana Sapientia (si veda 1992, n. 134). 107. Discorso di chiusura, in L’uomo di fronte al mondo animale nell’Alto Medioevo, atti della XXXI Settimana di studio del Centro italiano di studi sull’alto medioevo (Spoleto, 7-13 aprile 1983), II, Spoleto, Centro italiano di studi sull’alto medioevo, 1985, pp. 1445-1485. Diventa il capitolo 16 di Mundana Sapientia (si veda 1992, n. 134). 108. L’importanza dei filoni tradizionali, in Cento anni Laterza 1885-1985. Testimonianze degli autori, Bari, Laterza, 1985, pp. 149-151. 109. Premessa, in Trasmissione dei testi a stampa nel periodo moderno, I seminario Internazionale, Roma, 23-26 marzo 1983, a cura di Giovanni Crapulli, Roma, Edizioni dell’Ateneo,  Etica e religione nella critica libertina, Napoli, Guida, 1986 («Interventi», 31), 117 pp. Indice del volume: I. Il libertinismo erudito, p. 11; II. Il «libro scandaloso» di Pierre Charron, p. 71; Nota bibliografica, p. 111. Testi di due lezioni tenute nel 1985 all’Istituto Suor Orsola Benincasa, riveduti per la stampa e arricchiti delle note a piè di pagina e della nota bibliografica. Il volume è stato pubblicato tradotto in polacco con il titolo Etyka i religia w krytyce libertyńskiej (si veda 1991, n. 127). Il primo capitolo diventa il sesto capitolo di Vie della modernità (si veda 2016, n. 256); in una versione leggermente ridotta, è stato pubblicato tradotto in inglese (si veda 1998, n. 168). Il secondo capitolo è stato pubblicato come quarto capitolo nel volume Vie della modernità (si veda 2016, n. 256); tradotto in inglese con il titolo Pierre Charron’s ‘Scandalous Book’ è stato pubblicato in Atheism from the Reformation to the Enlightenment (si veda 1992, n. 135). I primi due capitoli, tradotti in francese, diventano rispettivamente il terzo e il quarto capitolo della Genèse de la raison classique Ideologia e programma dell’Olimpiade delle civiltà, a cura di Tullio Gregory, Achille Tartaro, Venezia, Cataloghi Marsilio, 1987, XIX-173 pp. 112. Le platonisme du XIIe siècle, «Revue des sciences philosophiques et théologiques», tome 71, 2, 1987, Paris, Librairie philosophiques J. Vrin, pp. 243-259. Testo presentato alla conferenza al Collège de France il 19 febbraio 1986; sono state aggiunte alcune note essenziali.   38  Bibliografia di Tullio Gregory – 1988 torna su 1988 esci 113. The Platonic Inheritance, in A History of Twelfth-Century Western Philosophy, edited by Peter Dronke, Cambridge, Cambridge University Press, 1988, pp. 54-80. Translated by Jonathan Hunt. Diventa il quinto capitolo di Mundana Sapientia (si veda 1992, n. 134). 114. Forme di conoscenza e ideali di sapere nella cultura medievale, «Archives internationales d’histoire des sciences», 38 (1988), pp. 189-242. Relazione presentata in apertura della prima sessione plenaria dell’VIII Congresso Internazionale di filosofia medievale (Helsinki, 24-29 agosto 1987) dedicato al tema: “Conoscenza scientifica e scienze nella filosofia medievale”. È stata pubblicata nel «Giornale critico della filosofia italiana» (si veda 1988, n. 115), negli atti del Congresso (si veda 1990, n. 124), nella rivista «Il veltro» (si veda 1989, n. 121) ed è diventata il primo capitolo di Mundana Sapientia (si veda 1992, n. 134). 115. Forme di conoscenza e ideali di sapere nella cultura medievale, «Giornale critico della filosofia italiana», s. VI, LXVII (LXIX), 1988, pp. 1-62. Relazione presentata in apertura della prima sessione plenaria dell’VIII Congresso Internazionale di filosofia medievale (Helsinki, 24-29 agosto 1987) dedicato al tema: “Conoscenza scientifica e scienze nella filosofia medievale”. È stata pubblicata negli «Archives internationales d’histoire des sciences» (si veda 1988, n. 114), negli atti del Congresso (si veda 1990, n. 124), nella rivista «Il veltro» (si veda 1989, n. 121) ed è diventata il primo capitolo di Mundana sapientia (si veda 1992, n. 134). 116. Lessico Intellettuale Europeo: recherches sur la terminologie intellectuelle du Moyen Age, in Actes du colloque Terminologie de la vie intellectuelle au Moyen Age, Leyden/La Haye 20-21 septembre 1985, edité par Olga Weijers, Turnhout, Brepols, 1988, pp. 105-108 117. Sémantique, in Image & Réalité du Vin en Europe, Actes du Colloque pluridisciplinaire sur le vin et les sciences, Organisé par l’Université Catholique de Louvain, en collaboration avec l’Institut Italien pour le Commerce Extérieur, Louvain-la-Neuve, 28 septembre-1 octobre 1988, pp. 151-154. 118. Necessità di programmare le carriere amministrative in funzione della specificità dei profili professionali. Il ritorno alla selettività e alla preparazione scientifica, in Memorabilia: il futuro della memoria. Beni ambientali, architettonici, archeologici, artistici e storici in Italia. Confronti per l’innovazione, a cura di Alberto Clementi e Francesco Perego, Bari, Laterza, Ricordo di Paul Vignaux, «Giornale critico della filosofia italiana», s. VI, LXVIII (LXXX), 1989, pp. 129-143. Testo letto in apertura della tavola rotonda su “Théologie et droit dans la science politique de l’Etat moderne” organizzata dall’École française de Rome nei giorni 12-14 novembre 1987; Paul Vignaux – che doveva presiedere la tavola rotonda – era deceduto il 24 agosto in Spagna. Pubblicato negli atti della tavola rotonda (si veda 1991, n. 131). 120. Il calcolatore in lingua, «Il pensiero informatico», 3, 1989, pp. 13-15. 121. Ideali di sapere nella cultura medievale, «Il veltro. Rivista della civiltà italiana», anno XXXIII, gennaio-aprile 1989, pp. 5-51. Relazione presentata in apertura della prima sessione plenaria dell’VIII Congresso internazionale di filosofia medievale su “Conoscenza scientifica e scienze nella filosofia medievale” (Helsinki, 24-29 agosto 1987). È stata pubblicata nel «Giornale critico della filosofia italiana» (si veda 1988, n. 115), negli atti del Congresso (si veda 1990, n. 124), negli «Archives internationales d’histoire des sciences» (si veda 1988, n. 114), ed è diventata il primo capitolo di Mundana Sapientia (si veda 1992, n. 134). 122. Presentazione, in GIORDANO BRUNO, Summa terminorum metaphysicorum. Ristampa anastatica dell’edizione Marburg 1609. Nota e indici di Eugenio Canone, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1989, IX-X pp.       40  Bibliografia di Tullio Gregory – 1990 torna su 1990 esci 123. Gli scritti di Bruno Nardi, a cura di Tullio Gregory e Paolo Mazzantini, in BRUNO NARDI, «Lecturae» e altri studi danteschi, a cura di Rudy Abardo con saggi introduttivi di Francesco Mazzoni e Aldo Vallone, Firenze, Le Lettere, 1990, pp. 285-312. Si veda anche 1968, n. 54. 124. Forme di conoscenza e ideali di sapere nella cultura medievale, in Knowledge and the Sciences in Medieval Philosophy, proceedings of the Eight International Congress of Medieval Philosophy (Helsinki, 24-29 August 1987), edited by Monika Asztalos, John Emery Murdoch, Ilkka Niiniluoto, I, Helsinki, Societas philosophica Fennica, 1990 («Acta Philosophica Fennica», 48), pp. 10-71. Relazione presentata in apertura della prima sessione plenaria del Congresso. È stata pubblicata nel «Giornale critico della filosofia italiana» (si veda 1988, n. 115), negli «Archives internationales d’histoire des idées» (si veda 1988, n. 114) e nella rivista «Il veltro» (si veda 1989, n. 121). È diventata il primo capitolo di Mundana Sapientia (si veda 1992, n. 134). 125. Théologie et astrologie dans la culture médiévale: un subtil face-à-face, «Bulletin de la Société Française de Philosophie», 84, 1990, pp. 104-130. Prima comunicazione del saggio che poi diventerà il capitolo 11 di Mundana Sapientia, dal titolo Astrologia e teologia nella cultura medievale (si veda 1992, n. 134). 126. Missione scienza, «Ulisse2000», Etyka i religia w krytyce libertyńskiej, przelozyla Anna Tylusińska, Warszawa, Polska Akademia Nauk Instytut Filozofii i Socjologii («Renesans i Reformacja», 6), 1991, 59 pp. Versione in polacco del volume Etica e religione nella critica libertina (si veda 1986, n. 110). Indice del volume: I. Libertynizm erudycyjny, p. 7; II. “Księga skandaliczna” Pierre’a Charrona, p. 37; Nota bibliograficzna, p. 57. 128. Sul lessico filosofico latino del Seicento e del Settecento, in Lexicon philosophicum. Quaderni di terminologia filosofica e storia delle idee (V- 1991), a cura di Antonio Lamarra e Lidia Procesi, Firenze, Leo S. Olschki Editore, 1991, pp. 1-20. Relazione presentata al Congresso Internazionale di studi sull’uso scritto e parlato del latino dal Rinascimento ad oggi, Roma, 15-18 aprile 1991. Diventa il terzo capitolo di Origini della terminologia filosofica moderna. Linee di ricerca (si veda 2006, n. 200). 129. Intervento, in Per la storia del «vissuto religioso». Gli scritti di Gabriele De Rosa. Interventi di Emile Goichot, Tullio Gregory, Liliana Billanovich, Antonio Cestaro, Fulvio Tessitore, Pasquale Villani, Cosimo Damiano Fonseca, Vicenza, Istituto per le ricerche di storia sociale e religiosa, 1991, pp. 21-29. L’intervento di Tullio Gregory è alle pagine 21-29 ed è stato tenuto per la presentazione del volume di Gabriele De Rosa Tempo religioso e tempo storico, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1987, avvenuta a Vicenza, presso la Sala degli Stucchi di Palazzo Trissino, il 14 ottobre 1988, per iniziativa dell’Istituto per le ricerche di storia sociale e religiosa, con il patrocinio del Comune di Vicenza. 130. Gli studi di filosofia medievale fra Ottocento e Novecento. Conclusioni, in Gli studi di filosofia medievale fra Otto e Novecento. Contributo a un bilancio storiografico, atti del convegno internazionale (Roma, 21-23 settembre 1989), a cura di Ruedi Imbach e Alfonso Maierù, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1991, pp. 391-406. Pubblicato in appendice a Speculum naturale (si veda 2007, n. 203) 131. Ricordo di Paul Vignaux, in Théologie et droit dans la science politique de l’Etat moderne, actes de la Table ronde organisée par l’École française de Rome avec le concours du CNRS (Rome, 12-14 novembre 1987), Rome, École française de Rome, 1991 («Collection de l’École française de Rome», 147), pp. 1-16. 42       Bibliografia di Tullio Gregory - 1991 Pubblicata sul «Giornale critico della filosofia italiana» (si veda 1989, n. 119). 132. Cultura umanistica e istituzioni, «La rivista dei libri», I, 2, 1991, pp. 18-20. 133. Le discipline umanistiche. Analisi e progetto, Supplemento al Bollettino «Università Ricerca», Roma, Istituto Poligrafico Zecca dello Stato, 1991, 147 pp. Rapporto finale della Commissione Nazionale per la formazione e la ricerca nelle scienze umane, del Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica, redatto dal Professor Gregory in qualità di coordinatore della Commissione.   43  Bibliografia di Tullio Gregory – 1992 torna su 1992 esci 134. “Mundana sapientia”. Forme di conoscenza nella cultura medievale, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1992 («Storia e Letteratura», 181), 480 pp. Sono raccolti in questo volume alcuni saggi sulla storia della filosofia medievale pubblicati in sedi e anni diversi. Il saggio Astrologia e teologia nella cultura medievale (capitolo 11) è nuovo, e ne fu data una parziale anticipazione alla Société française de philosophie (si veda 1990, n. 125). Di seguito si da l’indice dei capitoli con i rinvii per i saggi già pubblicati. Indice del volume: Avvertenza, p. V; I. Forme di conoscenza e ideali di sapere nella cultura medievale, p. 1 (si veda 1988, n. 114 e n. 115; 1989, n. 121 e 1990, n. 124); II. Filosofia e teologia nella crisi del XIII secolo, p. 61 (si veda 1964, n. 41); III. L’idea di natura nella filosofia medievale prima dell’ingresso della fisica di Aristotele. Il secolo XII, p. 77 (si veda 1964, n. 38 e 1966, n. 46); IV. La nouvelle idée de nature et de savoir scientifique au XIIe siècle, p. 115 (si veda 1975, n. 69); V. The Platonic Inheritance, p. 145 (si veda 1988, n. 113); VI. Abélard et Platon, p. 175 (si veda 1972, n. 64 e 1974, n. 67); VII. Considération sur ratio et natura chez Abélard, p. 201 (si veda 1975, n. 70; la versione in italiano è stata pubblicata su «Studi medievali», si veda 1973, n. 66); VIII. L’escatologia di Giovanni Scoto, p. 219 (si veda 1975, n. 72; per la versione in francese, con un apparato di note ridotto si veda 1977, n. 78); IX. Escatologia e aristotelismo nella scolastica medievale, p. 261 (si veda 1961, n. 31 e 1962, n. 33); X. Sull’escatologia di Bonaventura e Tommaso d’Aquino, p. 275 (si veda 1965, n. 45); XI. Astrologia e teologia nella cultura medievale, p. 291; XII. Temps astrologique et temps chrétien, p. 329 (si veda 1984, n. 98); XIII. I sogni e gli astri, p. 347 (si veda 1985, n. 106); XIV. La tromperie divine, p. 389 (si veda 1982, n. 94 e 1984, n. 97); XV. Dio ingannatore e genio maligno. Nota in margine alle Meditationes di Descartes, p. 401 (si veda 1974, n. 68); XVI. L’uomo di fronte al mondo animale nell’alto medioevo, p. 443 (si veda 1985, n. 107); Indice dei nomi, p. 469. 135. Pierre Charron’s ‘Scandalous Book’, in Atheism from the Reformation to the Enlightenment, edited by Michael Hunter and David Wootton, Oxford, Oxford Clarendon Press, 1992, pp. 87-109. Traduzione inglese del secondo capitolo di Etica e religione nella critica libertina (si veda 1986, n. 110). La traduzione francese compare nel quarto capitolo della Genèse de la raison classique (si veda 2000, n. 173). 136. Gli atti del Convegno di Lecce: prospettive degli studi cartesiani, in GIULIA BELGIOIOSO (a cura di), Cartesiana, Galatina, Congedo Editore, 1992 («Università degli studi di Lecce, Istituti di Filosofia. Testi e Saggi»), pp. 97- 101. 137. E 42. Utopia e scenario del regime. I. Ideologia e programma dell’Olimpiade della città, a cura di Tullio Gregory e Achille Tartaro, Catalogo della mostra (Archivio centrale dello Stato, Roma, aprile-maggio 1987), Venezia, Marsilio, 1992, XX-180 pp. 138. Préface, in Pierre Gassendi explorateur des sciences. Catalogue de l’exposition, quatrième centenaire de la naissance de Pierre Gassendi (Musée de Digne, 19 mai-18 octobre 1992), rédigé par Anthony Turner avec la contribution de Nadine Gomez; préface de Tullio Gregory, Digne-les-Bains, Musée de Digne, 1992, pp. 11-28. Traduzione a cura di Simone Matarasso-Gervais. 139. Pierre Gassendi dans le quatrième centenaire de sa naissance, «Archives Internationales d’histoire des sciences», 42, 1992, pp. 203-226. Discorso d’apertura al Colloquio internazionale Pierre Gassendi (Digne-Les- Bains, 18-22 maggio 1992). È stato pubblicato negli Atti col titolo Pourquoi Gassendi? (si veda 1994, n. 145). La traduzione italiana è stata pubblicata nel «Giornale critico della filosofia italiana» (si veda 1992, n. 140). Diventa il sesto capitolo della Genèse de la raison classique (si veda 2000, n. 173). 140. Pierre Gassendi nel IV Centenario della nascita, «Giornale critico della filosofia italiana», s. VI, LXXI (LXX), 1992, pp. 202-226. Versione italiana del discorso d’apertura al Colloquio internazionale Pierre Gassendi (Digne-Les-Bains, 18-22 maggio 1992). Diventa il quinto capitolo di Vie della modernità (si veda 2016, n. 256). La traduzione francese è stata pubblicata negli «Archives Internationales d’histoire des sciences» (si veda 1992, n. 139) e negli Atti del Colloquio con il titolo Pourquoi Gassendi? (si veda 1994, n. 145). 141. Presentazione, in Lessico Filosofico dei secoli XVII e XVIII. Sezione latina, a cura di Marta Fattori, con la collaborazione di Massimo Luigi Bianchi, I, a- aetherius, coordinamento di Eugenio Canone e Giacinta Spinosa, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1992, p. VII.        45  Bibliografia di Tullio Gregory – 1993 torna su 1993 esci 142. Storia dell’Italia religiosa, a cura di Gabriele De Rosa, Tullio Gregory, André Vauchez, 3 v., Roma, Laterza, 1993. Il secondo volume è a cura di Tullio Gregory (si veda 1994, n. 144).   46  Bibliografia di Tullio Gregory – 1994 torna su 1994 esci 143. L’eclisse delle memorie, a cura di Tullio Gregory, Marcello Morelli, prefazione di Giorgio Salvini, traduzioni di Marcello Morelli, Roma-Bari, Laterza, 1994, XI-283 pp. 144. L’età moderna, a cura di Gabriele De Rosa e Tullio Gregory, in Storia dell’Italia religiosa, a cura di Gabriele De Rosa, Tullio Gregory, André Vauchez, II, Roma, Laterza, 1994, XX-596 pp. Si veda anche 1993, n. 142. 145. Pourquoi Gassendi?, in Quadricentenaire de la naissance de Pierre Gassendi 1592-1992, actes du Colloque International Pierre Gassendi (Digne-les-Bains 18-21 mai 1992), Digne-les-Bains, Société Scientifique et Littéraire des Alpes de Haute-Provence, 1994, pp. 21-39. Discorso di apertura del Colloquio. Pubblicato con un titolo diverso negli «Archives Internationales d’histoire des sciences»  La traduzione italiana è stata pubblicata nel «Giornale critico della filosofia italiana» (si veda 1992, n. 140) 146. Gli studi di filosofia medievale di Sofia Vanni Rovighi, in Sapientiae studium. La giornata operosa di Sofia Vanni Rovighi (1908-1990), a cura di Mario Sina, Milano, Vita e Pensiero, 1994, pp. 13-26. 147. L’ordine della natura e l’ordine del sapere, in Storia della filosofia, a cura di Paolo Rossi e Carlo Augusto Viano, II, Il Medioevo, Roma-Bari, Laterza, Diventa, con il titolo Riscoperta della natura e nuove scienze nel secolo XII, il secondo capitolo di Speculum naturale (si veda 2007, n. 203). 148. Considerazioni conclusive in Descartes metafisico. Interpretazioni del Novecento, A cura di Jean-Robert Armogathe e Giulia Belgioioso, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, Introduzione, in Retorica e filosofia in Giambattista Vico: Le Institutiones Oratoriae: un bilancio critico, a cura di Giuliano Crifò, Napoli, Guida, Conclusioni, in Ricerca e terminologia tecnico-scientifica, a cura di G. Adamo, «Lexicon philosophicum., Quaderni di terminologia filosofica e storia delle idee», 151. Dell’Elefante. Parole pronunciate il 12.IX.1994 in occasione della mostra Res Libraria alla Biblioteca Casanatense di Roma, Roma, Edizioni dell’Elefante, 1994, 19 pp. Opuscolo in edizione limitata. Pubblicato in Bibliomania Perennis (si veda 2002, n. 178). 152. Università e Beni Culturali, ricerca – formazione. Relazione della Commissione Nazionale per il Corso d Laurea e Facoltà in Conservazione dei Beni Culturali, Supplemento al Bollettino «Università Ricerca», Roma, Istituto Poligrafico Zecca dello Stato, Relazione finale della Commissione Nazionale per il Corso di Laurea e Facoltà in Conservazione dei Beni Culturali, del Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica, redatta dal Professor Gregory in qualità di coordinatore della Commissione.  48  Bibliografia di Tullio Gregory – 1995 torna su 1995 esci 153. Introduzione, in “Fabula in tabula”. Una storia degli indici dal manoscritto al testo elettronico, a cura di Claudio Leonardi, Marcello Morelli, Francesco Santi, Spoleto, Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, 1995, pp. 3-8. 154. I «thesauri» dei Padri greci e latini, «Studi medievali», F. ADORNO, T. GREGORY, V. VERRA, Manuale di storia della filosofia, Roma, Laterza. Curail secondo volume, XIV-457 pp. e i capitoli dal 19 al 41 del I volume. Pensiero medievale e modernità, «Giornale critico della filosofia italiana», Relazione tenuta all’Accademia Nazionale dei Lincei in apertura del VI Convegno di studio su “Pensiero medievale e modernità” (Roma, 12-14 settembre 1996) organizzato dalla Società Italiana per lo Studio del Pensiero Medievale. Diventa il nono capitolo di Speculum naturale ‘Natura’ e ‘Qualitas planetarum’, «Micrologus», IV, 1996: Il teatro della natura/The theatre of nature, pp. 1-23. Diventa il quarto capitolo di Speculum naturale (si veda 2007, n. 203) 158. Premessa, in Album. I luoghi ove si accumulano i segni, a cura di Claudio Leonardi, Marcello Morelli, Francesco Santi, Spoleto, Centro di Studi sull’Alto Medioevo, 1996, pp. VII-XII. 159. Prefazione in Accademia nazionale dei Lincei-Archivio centrale dello Stato- Consiglio nazionale delle ricerche, Guglielmo Marconi e l’Italia. Mostra storico-documentaria (Roma 30 marzo-30 aprile 1996), catalogo a cura di Giovanni Paoloni e Raffaella Simili, prefazione di Tullio Gregory, introduzione di Raffaella Simili, Roma, Accademia nazionale dei Lincei, Prólogo, in MICHEL DE MONTAIGNE, Ensayos (selección), Prólogo de Tullio Gregory, Traducción y notas de María Dolores Picazo y Almudena Montojo, Barcelona, Círculo de Lectores, 1997, pp. 9-31. Il testo in italiano è stato pubblicato nel «Giornale critico della filosofia italiana» (si veda 1997, n. 163). La traduzione francese, con qualche variante, diventa il secondo capitolo di Vie della modernità Apertura dei lavori, in Il vocabolario della republique des Lettres. Terminologia filosofica e storia della filosofia. Problemi di metodo, atti del Convegno Internazionale in memoriam di Paul Dibon (Napoli, 17-18 maggio 1996), a cura di Marta Fattori, Firenze, Leo S. Olschki Editore, Les nouveaux outils d'analyse textuelle, in Le Plurilinguisme dans la Société de l’Information, Actes du Colloque International (Paris, 4-6 dicembre 1997), Paris, UNESCO Publications, Per una lettura di Montaigne, «Giornale critico della filosofia italiana», Testo italiano della prefazione spagnola all’antologia degli Essais di Montaigne (si veda 1997, n. 160). 164. Nel mondo semantico del virtuale, «if. Rivista della Fondazione IBM Italia», V, 1997, pp. 14-17. 165. Introduzione, in Bibliotheca encyclopaedica: catalogo del fondo storico della Biblioteca dell’Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani, a cura di Roberto Mauro e Massimo Menna; presentazione di Rita Levi-Montalcini, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, Introduzione, in RENÉ DESCARTES, Discorso sul metodo. Traduzione di Maria Garin. Introduzione di Tullio Gregory, Roma, Laterza, 1998 [201819], pp. V-XLVIII. 167. Conclusion, in Vie spéculative, vie méditative et travail manuel à Chartres au XIIe siècle (autour de Thierry de Chartres et des introducteurs de l’étude des arts mécaniques auprès du quadrivium), Chartres, Association des Amis du Centre Médiéval Européen de Chartres, 1998, pp.135-142. Discorso di chiusura del colloquio internazionale del 4 e 5 luglio 1998. 168. ‘Libertinisme erudit’ in Seventeenth Century France and Italy: The Critique of Ethics and Religion, «British Journal for the History of Philosophy», L’articolo, apparso in italiano con il titolo Il libertinismo erudito come primo capitolo del volume Etica e religione nella critica libertina (si veda 1986, n. 110), è stato leggermente ridotto in alcune parti. Traduzione di Letizia Panizza. 169. Introduction, in Le Dictionnaire de l'Académie Française et la Lexicographie Institutionelle Européenne, Actes du Colloque International (Paris, 17- 19 Novembre 1994), publiés par Bernard Quemada avec la collaboration de Jean Pruvost, Paris, Honoré Champion Éditeur, Nature, in Dictionnaire raisonné de l’Occident médiéval, ed. Jacques Le Goffe - Jean-Claude Schmitt, Paris, Fayard, 1999, pp. 806-820. Diventa il primo capitolo di Speculum naturale (si veda 2007, n. 203), restituendo in latino i testi tradotti in francese. 171. Per una fenomenologia del cadavere. Dai mondi dell’immaginario ai paradisi della metafisica, «Micrologus», VII, 1999: Il cadavere/The corpse, pp. 11-42. Diventa il sesto capitolo di Speculum naturale (si veda 2007, n. 203). 172. Sapor mundi: scritti sulla civiltà dei sapori da Il Sole 24 Ore, Roma Raccolta degli articoli di carattere gastronomico pubblicati tra il 1994 e il 1998 su Il Sole 24 ore. Genèse de la raison classique de Charron à Descartes, traduit par Marilène Raiola, préface de Jean-Robert Armogathe, Paris, Presses Universitaires de France, 2000 («Épiméthée», 84), V-365 pp. Sono raccolti in questo volume alcuni saggi dedicati alle figure e ai problemi appartenenti alla prima metà del XVII secolo francese e europeo, pubblicati in sedi e anni diversi. Di seguito si da l’indice dei capitoli con i rinvii per i saggi già pubblicati. Indice del volume: Notice de Tullio Gregory, p. v; Préface de Jean-Robert Armogathe, La première crise de la conscience européenne, p. 1; I. Le libertinisme dans la première moitié du XVIIe siècle, p. 13 (si veda 1981, n. 88); II. Aristotélisme et libertinisme, p. 63 (si veda 1982, n. 93); III. Ethique et religion dans la critique libertine, p. 81 (si veda 1986, n. 110); IV. «Le livre scandaleux» de Pierre Charron, p. 115 (si veda 1986, n. 110; per la traduzione in inglese si veda 1992, n. 135); V. La sagesse sceptique de Pierre Charron, VI. Perspectives sur Pierre Gassendi à l’occasion du IVe centenaire, p. 157 (si veda 1992, n. 139); VII. Sébastien Basson, p. 191 (si veda 1964, n. 43); VIII. David Van Goorle et Daniel Sennert, p. 235 (si veda 1966, n. 47); IX. Ralph Cudworth, p. 269 (si veda 1967, n. 50); X. Dieu trompeur et malin génie, p. 293 (si veda 1974, n. 68). 174. Vers un «Thesaurus totius latinitatis»: problèmes et perspectives, in L’élaboration du vocabulaire philosophique au Moyen Age, actes du Colloque international de Louvain-la-Neuve et Leuven (12-14 septembre 1998), organisé par la Société Internationale pour l’étude de la Philosophie Médiévale, éd. par Jacqueline Hamesse et Carlos Steel, Turnhout, Brepols, 2000, pp. 539-549. 175. Informatica e analisi testuale, in Enciclopedia Italiana di Scienze, Lettere ed Arti. Appendice 2000, I, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2000, pp. 919-922. 176. I cieli, il tempo, la storia, in Sentimento del tempo e periodizzazione della storia nel Medioevo, atti del XXXVI Convegno storico internazionale (Todi, 10-12 ottobre 1999), Spoleto, Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, 2000, pp. 19-45. Diventa il quinto capitolo di Speculum naturale (si veda 2007, n. 203) 177. Il liber creaturarum: dal sacramentum salutaris allegoriae alla physica lectio, in Le vie del medioevo, atti del Convegno internazionale di studi (Parma), a cura di Arturo Carlo Quintavalle, Milano, Electa, 2000, pp. 45-48. Diventa il terzo capitolo di Speculum naturale  Scrittura, fondamento di civiltà, in Duemila. Verso una società aperta, 3. Istruzione, scienza, linguaggio, a cura di Marco Moussanet, il Sole 24 ORE, Milano, Apologeti e libertini, «Giornale critico della filosofia italiana», Diventa il capitolo 8 di Vie della modernità (si veda 2016, n. 256).   55  Bibliografia di Tullio Gregory – 2001 torna su 2001 esci 180. Per i cento anni della Casa Laterza. Il sodalizio Croce-Laterza nella cultura italiana del Novecento, «Accademie & Biblioteche d’Italia», s. I, LXIX, 2001, pp. 117-121. Testo del discorso pronunciato al Teatro Comunale Piccinni il 18 settembre 2001, alla presenza del Capo dello Stato, in occasione delle celebrazioni per il 100° anniversario della Casa Editrice Laterza. 181. Come cucinare un filosofo, «l’Erasmo», Introduzione, in VINCENZO CORRADO, Del cibo pitagorico ovvero erbaceo per uso de’ Nobili e de’ Letterati. Opera meccanica dell’oritano Vincenzo Corrado; seguito dal Trattato delle patate per uso di cibo, opera del medesimo autore. Con una introduzione di Tullio Gregory e una nota alle illustrazioni di Francesco Abbate, Roma, Donzelli, Due testi autobiografici di Giordano Bruno, in Memoria di Giordano Bruno  Atti del convegno (Roma) con il patrocinio dell’Assessorato alle Politiche Giovanili del Comune di Roma, a cura di Maria Mantello, Roma, VE.GRAF, Dell’Elefante, in Bibliomania Perennis. Mostre delle Edizioni dell’Elefante. Prologhi e testi di occasione, Roma, Edizioni dell’Elefante, 2002, pp. 135- 151. Parole pronunciate il 12 settembre 1994 in occasione della mostra Res libraria alla Biblioteca Casanatense di Roma GEORGE TATGE, Al di là del tiglio. Un ritratto di Todi. Testi di Tullio Gregory, Firenze, Fratelli Alinari, 2002, 112 pp. 186. Il valore di una cultura comune. Il ‘nuovo mondo’ dei dotti del Seicento, «l’Erasmo», Lo spazio come geografia del sacro nell’occidente altomedievale, «Giornale critico della filosofia italiana», Testo integrale della relazione parzialmente letta in apertura della Cinquantesima settimana di studio organizzata dal Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo (Spoleto, 4-9 aprile 2002) sul tema: “Uomo e spazio nell’alto Medioevo”. Pubblicato negli atti del Convegno (si veda 2003, n. 191). Con alcune integrazioni, diventa il sesto capitolo di Speculum naturale (si veda 2007, n. 203). 188. Introduzione, in GEORGE TATGE, Al di là del tiglio. Un ritratto di Todi, Alinari, Firenze, 2002, pp. 11-12. 189. Apertura dei lavori, in Experientia. X Colloquio Internazionale (Roma, 4-6 gennaio 2001), atti a cura di Marco Veneziani, Firenze, Leo S. Olschki Noè ovvero della sobria ebbrezza, in L’ebbrezza di Noè. Sedici artisti per San Gimignano, a cura di Marisa Zattini, Cesena, Il vicolo, 2003, pp. 23-25. Catalogo della Mostra tenuta a San Gimignano nel 2003. Edizione di 1500 esemplari numerati. 191. Lo spazio come geografia del sacro nell’occidente altomedievale, in Uomo e spazio nell’alto Medioevo: settimane di studio del Centro italiano di studi sull’alto Medioevo (4-8 aprile 2002), Spoleto, Centro italiano di studi sull’alto Medioevo, 2003, pp. 27-60. Discussione sulla lezione Gregory, pp. 61-68. Il testo della relazione è apparso sul «Giornale critico della filosofia italiana» (si veda 2002, n. 187). Con alcune integrazioni, diventa il sesto capitolo di Speculum naturale (si veda 2007, n. 203). 192. Nani sulle spalle dei giganti. Traduzioni e ritorno degli Antichi nel medioevo latino, «Studi medievali», s. III, XLIV (2003), pp. 1053-1075. Relazione presentata al VI Convegno Intemazionale di Studi su «Medioevo: il tempo degli antichi», Parma 24-28 settembre 2003 e pubblicata negli Atti del Convegno (si veda 2006, n. 201). Diventa il primo capitolo di Origini della terminologia filosofica moderna. Linee di ricerca, si veda 2006, n. 200 e l’ottavo capitolo di Speculum naturale (si veda 2007, n. 203). 193. Un cibo da Bengodi. Viaggio nel mondo della pasta, «l’Erasmo», 15, 2003, pp. 87-95. 194. Istituti culturali e territorio: i problemi della ricerca e della formazione, «Accademie & Biblioteche d’Italia», Apertura dei lavori, in Informatica e scienze umane. Mezzo secolo di studi e ricerche, a cura di Marco Veneziani, Firenze, Leo S. Olschki Editore, 2003, pp. VII-VIII.       58  Bibliografia di Tullio Gregory – 2004 torna su 2004 esci 196. Alle origini della terminologia filosofica moderna: traduzioni, calchi, neologismi, in «Giornale critico della filosofia italiana», Relazione presentata all’XI Convegno Nazionale della Società di Filosofia del Linguaggio, Milano, 16-18 settembre 2004, pubblicata negli Atti del Convegno (si veda 2005, n. 199). Diventa il secondo capitolo di Origini della terminologia filosofica moderna. Linee di ricerca (si veda 2006, n. 200). 197. Introduzione, in MAURO SIMONAZZI, La malattia inglese. La melanconia nella tradizione filosofica e medica dell’Inghilterra moderna, Bologna, Il mulino, 2004, pp. 9-13 198. Presentazione, in GIUSEPPE FINOCCHIARO, Dall’Apiarium alla Μελισσογραφια. Una vicenda editoriale tra propaganda scientifica e strategia culturale, Atti dell’Accademia Nazionale dei Lincei. Rendiconti della Classe di Scienze Morali, Storiche e Filologiche, s. IX, v. XV, Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 2004.     59  Bibliografia di Tullio Gregory – 2005 torna su 2005 esci 199. Alle origini della terminologia filosofica moderna: traduzioni, calchi, neologismi in Significare e comprendere. La semantica del linguaggio verbale. Atti dell’XI Congresso nazionale, a cura di A. Frigerio e S. Raynaud, Roma, Aracne, 2005, pp. 85-116. Relazione presentata all’XI Convegno Nazionale della Società di Filosofia del Linguaggio, Milano, 16-18 settembre 2004, pubblicata su «Giornale critico della filosofia italiana» (si veda 2004, n. 196). Diventa il secondo capitolo di Origini della terminologia filosofica moderna. Linee di ricerca (si veda 2006, n. 200).    60  Bibliografia di Tullio Gregory – 2006 torna su 2006 esci 200. Origini della terminologia filosofica moderna. Linee di ricerca, Firenze, Leo S. Olschki Editore, 2006 («Lessico intellettuale europeo, Opuscula», 1), X- 120 pp. Indice del volume: Premessa, p. IX; Nani sulle spalle di giganti. Traduzioni e ritorno degli Antichi nel Medioevo latino (relazione presentata al VI Convegno Intemazionale di Studi su «Medioevo: il tempo degli antichi», Parma 24-28 settembre 2003 e pubblicata negli Atti del Convegno, si veda 2006, n. 201. Pubblicata in «Studi medievali», si veda 2003, n. 192. Diventa l’ottavo capitolo di Speculum naturale, si veda 2007, n. 203), p. 1; Alle origini della terminologia filosofica moderna: traduzioni, calchi, neologismi (relazione presentata all’XI Convegno Nazionale della Società di Filosofia del Linguaggio, Milano, 16-18 settembre 2004, pubblicata negli Atti, si veda 2005, n. 199, e in «Giornale critico della filosofia italiana», si veda 2004, n. 196), p. 33; Sul lessico filosofico latino del Seicento e del Settecento (testo, con l’aggiunta di una nota finale di aggiornamento bibliografico, della relazione presentata al Congresso Internazionale di studi sull’uso scritto e parlato del latino dal Rinascimento ad oggi, Roma, 15-18 aprile 1991 e pubblicata in Lexicon philosophicum, si veda 1991, n. 128), p. 77; Referenze bibliografiche, p. 109; Indice dei nomi, p. 111. 201. Nani sulle spalle dei giganti. Traduzioni e ritorno degli antichi nel Medioevo latino, in Medioevo: il tempo degli antichi, Atti del Convegno internazionale di studi, Parma 24-28 settembre 2003, a cura di Arturo Carlo Quintavalle, Milano, Electa, 2006, pp. 57-64. Pubblicato in «Studi medievali» si veda (2003, n. 192). Diventa il primo capitolo di Origini della terminologia filosofica moderna. Linee di ricerca, si veda 2006, n. 200) e l’ottavo capitolo di Speculum naturale (si veda 2007, n. 203). 202. Paul Vignaux storico del pensiero medievale, «Studi medievali», XLVII (2006), pp. 361-381. Traduzione italiana, leggermente modificata, della relazione francese Paul Vignaux historien et philosophe, letta in Sorbona il 2 aprile 2004, al Colloquio “Paul Vignaux citoyen et philosophe”.  Speculum naturale. Percorsi del pensiero medievale, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2007 («Storia e Letteratura», 235), X-254 pp. Sono raccolti in questo volume alcuni saggi sul pensiero medievale, pubblicati in sedi e anni diversi. Di seguito si da l’indice dei capitoli con i rinvii per i saggi già pubblicati. Indice del volume: Nature au Moyen Âge, p. 1 (si veda 1999, n. 170); Riscoperta della natura e nuove scienze nel secolo XII, p. 15 (si veda 1994, n. 146); Il Liber creaturarum: dal sacramentum salutaris allegoriae alla physica lectio, p. 35 (si veda 2000, n. 177); Natura e qualitas planetarum, p. 47 (si veda 1996, n. 157); I cieli il tempo la storia, p. 69 (si veda 2000, n. 176); Lo spazio come geografia del sacro nell’Occidente altomedievale, Per una fenomenologia del cadavere. Dai mondi dell’immaginario, p. 121 (si veda 1999, n. 171); Nani sulle spalle dei giganti. Traduzioni e ritorno degli Antichi, p. 151 (si veda 2003, n. 192, 2006, n. 200 e 2006, n. 201); Pensiero medievale e modernità, p. 173 (si veda 1996, n. 156); Cosmologia biblica e cosmologie cristiane, p. 197; Appendice: Gli studi di filosofia medievale fra Ottocento, Gusto del cibo, itinerario storico sentimentale, «L’attimo fuggente», Presentazione, in JUNE DI SCHINO, FURIO LUCCICHENTI, Il cuoco segreto dei papi. Bartolomeo Scappi e la Confraternita dei cuochi e dei pasticceri, Roma, Gangemi, Per una Storia delle filosofie medievali. Discorso di chiusura pronunciato al XII Congresso Internazionale di Filosofia Medievale (Palermo 16-22 settembre 2007) promosso dalla SIEPM, «Studi medievali», Pubblicato negli Atti. Le acque sopra il firmamento. Genesi e tradizione esegetica, in L’acqua nei secoli altomedievali, Spoleto, Fondazione Centro italiano di Studi sull’Alto Medioevo, 2008, pp. 1-41. 208. Spazio sacro, spazio profano. I confini simbolici nel cristianesimo altomedievale, in Frontiere. Politiche e mitologie dei confini europei, a cura di Carlo Altini e Michelina Borsari, Fondazione Collegio San Carlo di Modena, 2008, pp. 41-70. 209. Cosmogonia biblica e cosmologie cristiane, in Cosmogonie e cosmologie nel Medioevo. Atti del Convegno della Società italiana per lo studio del pensiero medievale (S.I.S.P.M.), Catania, 22-24 settembre 2006, a cura di Concetto Martello, Chiara Militello e Andrea Vella, Louvain-La-Neuve, Brepols, 2008, pp. 169-194. 210. Prefazione, in ROBERTO DE MATTEI, Il CNR e le scienze umane, Attività della Vice Presidenza Roma, Consiglio Nazionale delle Ricerche, Allocution, in Remise de l’Épée d’Académicien à Jean-Luc Marion, par Marc Fumaroli de l’Académie française de l’Académie des Inscriptions & Belles- Lettres, en Sorbonne, Salon d’honneur de la Cancellerie, 1er décembre 2009, pp. 8-13. 212. Translatio studiorum, «Quaderni di storia»,Testo parzialmente presentato, in inglese, al decimo congresso della International Society for Intellectual History su “Translatio Studiorum”. Ancient, Medieval, and Modern bearers of Intellectual History (Verona, 25- 27 maggio 2009). 213. Prefazione, in XXI Secolo-Norme e idee, direttore Tullio Gregory, Istituto della Enciclopedia Italiana (Treccani), Roma 2009, pp. IX-X.  64  Bibliografia di Tullio Gregory – 2010 torna su 2010 esci 214. Dante e la «Commedia», in Dante e l’Islam. Incontri di civiltà, Biblioteca di Via del Senato Edizioni, Milano 2010, pp. 37-44. 215. Bruno Nardi, storico della filosofia. Uno sguardo d’insieme (Relazione di chiusura al Convegno di Pescia), in Per ricordare Bruno Nardi, a cura di Laura Simoni Varanini, Firenze, Edizioni del Galluzzo, 2010, pp. 43-49. 216. Tullio Gregory incontra Cartesio, «Le interviste immaginarie», Milano, Bompiani, 2010, 19 pp. Ristampato in appendice alla raccolta di saggi Vie della modernità (si veda 2016, n. 256). 217. Il lessico Intellettuale Europeo, in Lectio Brevis. Anno Accademico Atti della Accademia Nazionale dei Lincei, Anno CDVIII – 2011. Classe di Scienze Morali, Storiche e Filologiche. «Memorie», Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, Testo della Lectio brevis tenuta il 12 novembre 2010 presso l’Accademia dei Lincei, in apertura dell’anno accademico Eugenio Garin: un ricordo in Normale, «Quaderni di storia», LXXII (2010), pp. 11-29. 219. Claudio Leonardi medievista, «Rinascimento. Rivista dell’Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento», L’ascesa del Poeta è una vera ‘Rinascita’, «La Biblioteca di via Senato – Milano», Postfazione, in LUCIO MARIANI, Farfalla e segno. Poesie scelte (1972-2009), Milano, Crocetti Prefazione, in FRANCA FOFFO, E le stelle stanno a mangiare... La Dolce Vita continua, Roma, Sovera Edizioni, 2010, pp. 9-14. 223. La libraria di Fausto Maria Franchi, in FAUSTO MARIA FRANCHI, Studiolo Crispolti, a cura di Lucia Sabatini Scalmati, Roma, Gangemi,  Giovanni Scoto. Quattro studi, Premessa di Enrico Menestò, Spoleto, Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, 2011 («Uomini e mondi medievali», 24), VIII, 110 pp. Sono ripubblicati i tre studi su Giovanni Scoto Eriugena Le carte di Carlo Lorenzetti, relazione tenuta presso la Biblioteca Vallicelliana di Roma il 25 febbraio 2011, in occasione dell’inaugurazione della mostra di Carlo Lorenzetti. 226. «Vi esorto alla Bibbia», in Bibbia, cultura, scuola. Alla scoperta di percorsi didattici interdisciplinari, a cura di Gian Gabriele Vertova, Carocci, Roma 2011, pp. 17-20. 227. Alle origini dell’etica moderna, in Per un’Etica civile. Tema di approfondimento culturale per l’a.s. 2010-2011, a cura di Licia Ferro, Roma, Liceo Classico Orazio, 2011, pp. 13-31. 228. Natura, in Dizionario dell’Occidente medievale. Temi e percorsi, 2: Letteratura/e-Violenza, Torino, Einaudi, Il tema della fortuna in Montaigne, «Giornale critico della filosofia italiana», s. VII, LXXXX-XCII (2011), pp. 9-26. 230. Il gusto sullo scaffale, in IBC Dossier. Lo scaffale dei sapori, a cura di Rosaria Campioni, Bologna, Istituto per i beni artistici culturali e naturali della regione Emilia Romagna, 2011, pp. 60-63. L’articolo è tratto dalla rivista «IBC. Informazioni, commenti, inchieste sui beni culturali», XIX, 3, 2011. Si veda anche 2011, n. 232. 231. L’Istituto dell’Enciclopedia Italiana, «Nuova informazione bibliografica», Il gusto sullo scaffale, in Lo scaffale del gusto. Guida alla formazione di una raccolta di gastronomia italiana (1891-2011) per le biblioteche, di Rino Pensato e Antonio Tolo, con la collaborazione di Adele Blundo, contributi di Tullio Gregory e Massimo Montanari, Bologna, Editrice Compositori, Montaigne e la fortuna, Modena, Consorzio Festivalfilosofia, 2011 («Paginette») Bibliografia di Tullio Gregory – 2012 torna su 2012 esci 234. Quintino Sella, Roma, l’Accademia dei Lincei, in Le Accademie nazionali e la storia d’Italia, Atti del Convegno Linceo (Napoli), Roma, Scienze e Lettere Editore Quintino Sella, Roma, l’Accademia dei Lincei, in Quintino Sella Linceo, a cura di Marco Guardo e Alessandro Romanello, Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 2012, pp. 19-42. 236. Per una Storia delle filosofie medievali, in Universalità della ragione. Pluralità delle filosofie nel Medioevo, Atti del XII Congresso Internazionale di Filosofia Medievale (Palermo), Sessioni plenarie, a cura di Alessandro Musco, Fascicolo monografico «Schede medievali», n. 50, Palermo, Officina di studi medievali,  «Studi medievali» Les sources oubliées d’une Introduction à l’Ethica, «Giornale critico della filosofia italiana», Quasi una Prefazione, in FRANCA FOFFO, Il dolce della vita, Roma, Sovera Edizioni, 2012, pp. 9-11.    67  Bibliografia di Tullio Gregory – 2013 torna su 2013 esci 239. Principe di questo mondo. Il diavolo in Occidente, Roma-Bari, Laterza («I Robinson / Letture»). Indice del volume: I. La caduta di Lucifero. II. Apparenza e realtà, p. 17; III. La via del nero, p. 31; IV. Il principe di questo mondo, p. 57; V. Satana e modernità, p. 67; Bibliografia, p. 79. 240. Translatio Studiorum, in MARCO SGARBI (ed.), Translatio Studiorum. Ancient, Medieval and Modern Bearers of Intellectual History, «Studies in Intellectual History», 217, Leiden, Brill, Paul Vignaux, Historien et Philosophe, in Paul Vignaux, Citoyen et Philosophe (1904-1987), sous la direction de Olivier Boulnois, avec la collaboration de Jean-Robert Armogathe, Turnhout, Brepols, 2013, pp. 9-26. 242. Per il XXV della Fondazione Ezio Franceschini di Firenze, «Studi medievali», Presentazione, in GIUSEPPE FINOCCHIARO, La biblioteca di Trisulti. L’ordine dei codici tra il 14° e 16° secolo, Roma, Scienze e Lettere, 2013, pp. 149- 167. 244. Presentazione, in Accademia nazionale dei Lincei. Inventario dell’archivio (1944-1965) a cura di Paola Cagiano De Azevedo, Roma, Ministero dei beni e delle attività culturali,  Le carte di C. Lorenzetti, Discorso pronunciato il 24 febbraio 2011 nel Salone Borromini della Biblioteca Valliceliana in Roma per l’inaugurazione della Mostra “Carte e libri d’artista” di Carlo Lorenzetti, Città di Castello, Bibliografia di Tullio Gregory – 2014 torna su 2014 esci 246. Le plaisir d’une chasse sans gibier. Faire l’histoire des philosophies: construction et déconstruction, «Giornale critico della filosofia italiana», Testo della relazione presentata il 25 settembre 2014 in apertura dell’incontro promosso a Roma dall’Institut International de Philosophie sul tema “Les relations de la philosophie avec son histoire”; in italiano diventa il primo capitolo di Vie della modernità il Lessico Intellettuale Europeo compie cinquant’anni, in Locus- spatium. XIV Colloquio Intrnazionale (Roma 3-5 gennaio 2013), Atti a cura di Delfina Giovannozzi e Marco Veneziani, Roma, Leo S. Olsckhi  Prefazione, in FAUSTO MARIA FRANCHI, PIER LUIGI PICCARI, LUCIA SABATINI SCALMATI, Ricette preziose dal gioiello al pane, Terni 2014, pp. 7-10. 249. Presentazione, in LUISA RUBERTI, Le ricette di Luisa. La cucina campana a modo mio, Firenze-Milano, Giunti, 2014.    69  Bibliografia di Tullio Gregory – 2015 torna su 2015 esci 250. Carlo Lorenzetti e il Lessico, in Segno e parola. Carlo Lorenzetti e il Lessico Intellettuale Europeo, Catalogo della mostra (Roma), a cura di Giovanni Adamo e Cristina Marras, Firenze, Leo S. Olschki Editore, La rinascita nel dopoguerra, in Treccani. Novanta anni di cultura italiana, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, 2015, pp. 15-18. 252. Dubbio, fede e religioni in Montaigne, «Giornale critico della filosofia italiana», Prefazione, in La cultura e il mondo. Aggiornamento della Enciclopedia Italiana, Nona appendice, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana,  Michel de Montaigne o della modernità, Pisa, Edizioni della Normale, 2016 («Variazioni», Translatio linguarum. Traduzioni e storia della cultura, Firenze, Leo S. Olschki Editore, 2016 («Lessico intellettuale europeo, Opuscula», 2), IX-75 pp. 256. Vie della modernità, Firenze, Le Monnier Università, 2016 («Centro Interdipartimentale di Studi su Descartes e il Seicento. Saggi. Nuova serie», 1), 174 pp. Indice del volume: 1. Il piacere di una caccia senza preda. Fare storia delle filosofie: costruzione e decostruzione, p. 1 (testo italiano della relazione francese presentata il 25 settembre 2014 in apertura dell’incontro promosso a Roma dall’Institut International de Philosophie sul tema “Les relations de la philosophie avec son histoire”; apparso sul «Giornale critico della filosofia italiana», si veda 2014, n. 246); 2. Michel de Montaigne ou «le plaisir de la variété», p. 22 (traduzione francese, con qualche variante, della prefazione all’antologia dell’edizione spagnola degli Essais di Montaigne, si veda 1997, n. 160; 3. La saggezza scettica di Pierre Charron, p. 40 (pubblicato in «De homine», si veda 1967, n. 49); 4. «Il libro scandaloso» di Pierre Charron, p. 55 (pubblicato in Etica e religione nella critica libertina, si veda 1986, n. 110); 5. Pierre Gassendi nel IV centenario della nascita, p. 71 (testo italiano del discorso di apertura del “Colloque International Pierre Gassendi”, pubblicato in «Giornale critico della filosofia italiana», si veda 1992, n. 140); 6. Il libertinismo erudito, p. 93 (pubblicato in Etica e religione nella critica libertina, Aristotelismo e libertinismo, p. 115 (pubblicato in «Giornale critico della filosofia italiana», si veda 1982, n. 93, e negli atti del Convegno Internazionale di Studi su “Aristotelismo veneto e scienza moderna”, si veda 1983, n. 95); 8. Apologeti e libertini, p. 127 (pubblicato in «Giornale critico della filosofia italiana», si veda 2000, n. 179); Appendice: Tullio Gregory incontra Cartesio. Commentario (direzione scientifica) in GIORGIO SIDERI DETTO CALAPODA, Portolano 6. 1550, Roma, Treccani, 2016, 236 pp. 258. Ereditare e tradurre, Modena, Consorzio Festivalfilosofia, 2016 («Paginette»), 24 pp. 259. Postfazione “La cultura del vino” in MARCELLO MASI, ROCCO TOLFA, Signori del vino, prefazione di Carlo Petrini, Roma, Rai Eri, 2 Bibliografia di Tullio Gregory – 2017 torna su 2017 esci 260; “L’ambigua dignità dell’uomo moderno” «Quaderni di storia», Bibliografia di Tullio Gregory – 2018 torna su 2018 esci 261. Considerazioni per una storia del pensiero scientifico altomedievale, «Studi medievali», Veritates in mensa, Modena, Consorzio Festivalfilosofia («Paginette»), La biblioteca dei Lincei: percorsi e vicende, Letture corsiniane, Roma, Bardi Edizioni, 2019, 24 pp. 264. Fra i miei libri, «Giornale critico della filosofia italiana», Fra i miei libri, «Voci», Istituto Enciclopedia Italiana, Sapida scientia. Percorsi gastronomici da Il Sole 24 ore (1999-2018), Roma, ILIESI, 2019, 217 pp. Raccolta degli articoli di carattere gastronomico pubblicati tra il 1999 e il 2018 su Il Sole 24 ore. Stampato in numero limitato di esemplari in occasione del novantesimo compleanno di Tullio Gregory.   74Tullio Gregory. Gregory. Keywords: implicatura clandestina, clandestino – cognate with celare and occolto -- terminologia filosofica, libertinismo, filosofia clandestine, il libertino. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gregory: l’implicatura” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51754581552/in/dateposted-public/

 

Grice e Griffero – l’inter-soggetivo – filosofia italiana – Luigi Speranza (Asti). Filosofo: Grice: “I like Griffero; for one, he has a taste for neologisms, like his atmospherelogy – He has understood that aesthesis, qua sensatio, is the basis for aesthetics, and he has explored the philosophies of Tarso, Spranger, and Schelling!” Insegna a Roma. Studia a Torino sotto Vattimo su“L’ermeneutica.” Studia Betti (“Interpretare. La teoria di Betti e il suo contesto” – Rosemberg,Torino) ed il concetto di spirito e forma di vita. La filosofia della cultura (Angeli, Milano). Si dedica al rapporto tra arte e mito, scrivendo poi Senso e immagine. Simbolo e mito (Guerini, Milano), Cosmo Arte Natura. Itinerari  (Cuem, Milano), nel quale si concentra sulle caratteristiche del real-idealismo, e infine una ricostruzione dell'apporto dato da questo autore all'estetica filosofica (Estetica -- Laterza, Roma).  La nozione di "immaginazione transitiva", è invece affrontata in “Immagini Attive: beve storia dell'immaginazione transitiva (Monnier, Firenze). Ricostruisce la storia della credenza secondo cui una fantasia particolarmente forte sarebbe in grado di agire, cambiando o addirittura generando la realtà esterna.  In Realismo e Idealismo (Nike, Segrate) analizza il Pietismo Speculativo. La corporeità spirituale è il "fine ultimo delle opere di Dio. L'ampia storia del concetto e esposta in Il corpo spirituale. Ontologie sottili" (Mimesis, Milano).  La ricerca sulla fenomenologia del corpo e della percezione e l'estetica delle atmosfere è affrontata in “Atmosferologia. Estetica degli spazi emozionali (Laterza, Roma). Nel libro Quasi-cose. La realtà dei sentimenti (Mondadori, Milano ) indica e analizza sulla scorta dei un'estetica neo-fenomenologica i sentimenti atmosferici, il dolore, la vergogna, lo sguardo, il crepuscono, il corpo vissuto come quasi-cose, entità aggressive e decisive per la nostra esistenza senza essere riducibili al paradigma cosale tipico della tradizione occidentale   Il pensiero dei sensi. Atmosfere ed estetica patica (Guerini, Milano) delinea, a partire dalla nozione estetico-fenomenologica di “atmosfera”, i contorni di un'estetica orientata non allo gnosico ma al patico, che non tematizza un oggetto (come una espressione) speciali come le opere d'arte ma il modo in cui “ci si sente” quando ci si espone, soprattutto involontariamente, ai sentimenti presenti nell'ambiente circostante.  Il tema è sviluppato, esteso a considerazioni sull'atmosfericità del linguaggio, sulla presenza e la inter-soggettività re-interpretate in chiave fenomenologica. Altre opera: Storia dell'estetica (Nuova Cultura, Roma).  5. Quali atmosfere per quali spazi? Dicendo, con precisione tutt’altro che metaforica (cfr. Griffero 2010d) che, ad esempio, l’aria si è fatta pesante e il suono opprimente, l’odore penetrante e il silenzio solenne, ci si riferisce non certo allo spazio locale ma allo spazio assoluto e predimensionale (più o meno transitorio) delle “isole” leiblich. Ne viene – ed è ciò che ovviamente più interessa nel nostro più generale progetto atmosferologico (cfr. Böhme 1995, Griffero 2010 e Griffero 2014) – che lo spazio non locale del sentimento (Gefühlsraum)14, permeato cioè da sentimenti o tonalità emotive (Gefühle o Stimmungen) (cfr. Schmitz 1969), intesi ora come atmosfere, come quasi-cose caratterizzate (quanto meno nella loro forma 12 Una spazialità a rigore non solo non tridimensionale, ma neppure bidimensionale (superficie), monodimensionale (retta) o non-dimensionale (nel senso in cui lo è il punto). 13 L’abitare è per Schmitz, propriamente, cultura-coltivazione dei sentimenti in uno spazio recintato. 14 La tesi secondo cui «i sentimenti sono spazialmente estesi [...] sarebbe inconcepibile o addirittura comica se si riferisse allo spazio locale», giacché in tal caso «un sentimento sarebbe forse una sorta di sfera o un triangolo nel ventre o in prossimità della testa» (Schmitz 1990, p. 292). © SpazioFilosofico 2014 – ISSN: 2038-6788  351  prototipica e cioè oggettivo-distonica) da direzioni abissali, costituisce l’apriori di ogni nostra esperienza, specialmente involontaria. Come le valenze espressive delle singole cose e persone possono invitarci a fare o respingere qualcosa, così le affordances dello spazio del sentimento, irriducibili all’assetto ottico e agli effetti solo pragmatici cui pensa James Gibson, portano infatti in luce l’articolazione decisamente anisotropa (atmosferica) della nostra Lebenswelt. Ma, se avvertire un’atmosfera significa avvertire la qualità affettiva e leiblich “espressa” (un termine da non concepire, in una radicale Erscheinungswissenschaft, nel senso dell’estroflessione di un interno) dai nostri “intorni”, occorre da ultimo interrogarsi sulle atmosfere specifiche dei tre livelli di spazialità menzionati. Allo spazio della vastità c) corrispondono le atmosfere letteralmente s-confinate delle Stimmungen pure, come tali alla base dell’intero edificio della vita emozionale. Troviamo qui da un lato l’estensione piena della soddisfazione, concepibile non come gioia ma come quieto equilibrio (nel senso, ad esempio, dell’intimità famigliare), e dall’altro l’estensione vuota della disperazione, concepibile più come la medioevale acedia o l’ennui (nel senso, ad esempio, della lieve noia che ci coglie nelle stazioni o al cospetto del graduale impallidire serale delle cose) che non come un cruccio opprimente. Allo spazio direzionale b) corrispondono, invece, tre forme di atmosfere vettoriali. Anzitutto b1) le Erregungen pure, vale a dire emozioni strutturate e tuttavia diffuse e prive di un vero tema specifico (per questo abgründig per Schmitz), le quali, contrariamente alle fondamentali direzioni leiblich, possono essere anche centripete, aggredirci ab extra pur in assenza di una fonte precisa (cosa o quasi-cosa che sia) e quindi di una “ragione”. E poi b2) le emozioni “centrate”, le cui terminazioni e condensazioni in un oggetto (quando la Sehnsucht, ad esempio, si precisa come amore), in quanto tali responsabili della (secondo Schmitz fuorviante) teoria dell’intenzionalità dei sentimenti15, possono essere unilaterali (esaltanti o deprimenti), onnilaterali, centrifughe (come la Sehnsucht), centripete (come la paura e la sfiducia indeterminate), ma anche indecise, come nel caso del “presentimento”. Allo spazio locale a), infine, corrispondono16 le atmosfere generate dagli oggetti e dalla loro collocazione, relativa fin che si vuole nella spazialità locale eppure su di noi intensamente “attiva”, ad esempio in virtù di qualità espressive che, eccedendo di gran lunga l’ufficio delle proprietà − in linea di principio accidentali e parassitarie rispetto a un substrato sostanziale (nei sentimenti atmosferici assente in linea di principio) −, fungono da vere e proprie “estasi” (cfr. Böhme 2001, pp. 193-210). Quasi fossero i “punti di vista” con cui le cose in un certo senso escono da se stesse (cfr. Griffero 2005) e che appaiono inspiegabili come mera espressione di un interno (qui propriamente inesistente), le atmosfere o estasi delle cose paiono analoghe a potenze 15 I presunti sentimenti intenzionali – l’ira, ad esempio − sarebbero meglio spiegabili, come sentimenti atmosferici centrati, chiamando in causa una dissociazione tra punto di ancoraggio (lo stato di cose che suscita l’ira) e zona di condensazione (l’uomo o l’oggetto con cui si è adirati): due elementi di solito poco connessi sotto il profilo causale o logico (gestalticamente: figura/sfondo), visto che – ed è forse illogico ma adattivamente funzionale! – si teme, ad esempio, più la persona che potrebbe ucciderci (condensazione) che non la morte come tale (cfr. Schmitz 2007, p. 64). 16 Ma Schmitz qui obietterebbe che, le atmosfere non essendo per lui intenzionalmente producibili e riducibili a cose singole (giusta una più generale campagna contro la forma mentis singolaristica su cui non possiamo qui fermarci), le impressioni suscitate dalle cose non sarebbero autentiche atmosfere. 352   demoniche (numinose) indipendenti dalla nostra volontà. Sono, in altri termini, qualità espressive (inviti, affordances), nella cui manifestazione in certo qual modo le cose si esauriscono, esattamente come il vento coincide col proprio soffiare (cfr. Griffero 2013b). Sono modi-di-essere pervasivi (cfr. Metzger 1941, pp. 77-78) che, generando lo spazio affettivo cui il soggetto accede, danno vita a una co-presenza (proprio-corporea, anzitutto, ma anche sociale e simbolica) di soggetto e oggetto, a un “tra” (un tema caro a Böhme) anteriore alla distinzione soggetto/oggetto, a una relazione che paradossalmente (per la logica ordinaria, s’intende) dev’essere anteriore ai suoi relati, pena una ricaduta nel dualismo aborrito.Tonino Griffero. Griffero. Keywords: l’inter-soggetivo, Betti, ermeneutica, fenomenologia, Vico, il circolo dell’implicatura, implicatura ammosferica-- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Griffero” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51754816486/in/dateposted-public/

 

Grice e Grimaldi – implicatura anti-peripatetica – filosofia italiana – Luigi Speranza (Cava de’ Tirreni). Filosofo. Grice: “I have spoken of ‘magic’ – “two kinds of magic’ – actually, for Grimaldi there are THREE: ‘black magic,’ ‘artificial magic,’ and my favourite, ‘natural magic’!” Nacque da nobile famiglia locale di origini genovesi. Compì i suoi studi avvicinandosi a Cartesio, di cui fu seguace e fece parte del gruppo chiamato degli epigoni dell'Accademia degli Investiganti. Consigliere Regio. Scrive numerose opere, raccolte poi in "Istoria dei libri di don Costantino Grimaldi, scritta da lui medesimo". Tra quelle più note si possono elencare le “Considerazioni intorno alle rendite ecclesiastiche del Regno di Napoli” (Napoli), le “Discussioni filosofiche” (Lucca), la “Dissertazione sulle tre magie, naturale, artificiale e diabolica (Roma). Il figlio gli dedicò "Ragioni genealogiche a' favore della Famiglia Grimaldi del Sig. Cons. D. Costantino Grimaldi. Colli signori Grimaldi di Seminara, e con quelli patrizj di Catanzaro" F. A. Meschini, nel Dizionario Biografico degli Italiani, indica Napoli come città natale. Memorie di un anticurialista del Settecento. Testo, introduzione note V.I. Comparato. Firenze, Olschki, Biblioteca dell'«Archivio storico italiano»,  Franco Aurelio Meschini, Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana  Anticurialismo.  GRIMALDI, Costantino. - Nacque a Napoli il 30 genn. 1667 da Francesco Antonio e Antonia Cacace. Ebbe come maestro per le belle lettere e l'oratoria Matteo Taurini. Spinto dallo zio Scipione, sacerdote secolare, a frequentare le Scuole pie di largo dello Spirito Santo, vi strinse amicizia con il padre Tommaso di S. Tommaso d'Aquino, dal quale apprese la filosofia aristotelica. Dopo l'anno di logica, al termine del quale sostenne alcune pubbliche conclusioni, proseguì gli studi non di metafisica, come avrebbe voluto, bensì, per volere paterno, di legge, sotto Domenico Radesca e Matteo De Lellis. Lesse poi, per proprio conto, E. Tesauro, F. Piccolomini e, per i casi di coscienza, la summa di A. Diana e l'opera di M. Bonacina. A sedici anni, con la dispensa del Collaterale per la giovane età, ottenne la laurea.  Prese quindi a frequentare il foro, senza tralasciare, tuttavia, lo studio delle belle lettere sotto la guida del leccese Luca Giordano che lo avviò alla lettura dei moderni: L. Di Capua, T. Cornelio, R. Boyle, P. Gassendi, R. Descartes. Non trascurò i classici, Cicerone e Quintiliano sopra tutti, studiò lo spagnolo e il francese, i rudimenti della geometria su Euclide e la medicina sotto la guida di Tommaso Donzelli. Di lì a poco prese a frequentare il circolo di Giuseppe Valletta e strinse amicizia con diversi personaggi illustri: Francesco Billio, Filippo Anastasio, Giuseppe Lucina, Giacomo Grazini, Domenico Greco, Antonio Monforte, Giacinto Di Cristofaro, Niccolò Capasso, Niccolò Cirillo, Matteo Egizio, Ottavio Ignazio Vitagliano, Amato Danio, Felice Stocchetti.  È di questi anni l'idea, cara all'ambiente vallettiano, di una storia universale della filosofia, che il G. concepì in contrapposizione al gesuita Giovan Battista De Benedictis. Questi nel 1694, sotto lo pseudonimo di Benedetto Aletino, aveva dato alle stampe a Napoli le Lettere apologetiche in difesa della teologia scolastica e della filosofia peripatetica: cinque lettere indirizzate a personaggi fittizi (ma facilmente identificabili) e reali dell'ambiente investigante. La necessità di una risposta al gesuita fu immediata; lo stesso G. fornisce l'elenco di quanti risposero o manifestarono l'intenzione di rispondere: Giuseppe Lucina, Filippo Anastasio, Francesco D'Andrea, Domenico Greco e Giuseppe Magrino. Da parte sua il G. in un primo momento (è lui stesso a ricordarlo) pensò di rispondere indirettamente, compilando la sopra ricordata storia, che avrebbe dovuto seguire lo sviluppo della filosofia nelle singole nazioni, soprattutto nel suo sorgere presso i Greci, nel passaggio ai Romani, quindi agli Arabi e infine ai moderni.  Quando apparve chiaro che le risposte attese o annunciate non avevano raggiunto lo scopo o che addirittura erano destinate a restare allo stato di progetto, mentre peraltro l'Aletino e i suoi sostenitori continuavano nell'offensiva contro i moderni, il G. si accinse a rispondere al gesuita.  Le tre risposte del G. videro la luce tra il 1699 e il 1703. Nella prima (Risposta alla lettera apologetica in difesa della teologia scolastica di Benedetto Aletino. Opera nella quale si dimostra esser quanto necessaria ed utile la teologia dogmatica e metodica, tanto inutile, e vana la volgar teologia scolastica, stampata a Ginevra per l'interessamento di C. Musitano, presso Tournes, ma datata da Colonia presso S. Hecht), pubblicata anonima, il G. muove dalla distinzione (già in Valletta) tra una buona e una cattiva (volgare) scolastica: la prima che non si discosta dalla Sacra Scrittura, dalla tradizione, dai Padri, dai concili, dall'autorità, la seconda che, al contrario, non fa debitamente ricorso alla tradizione e pretende di provare le verità di fede con la sola ragione umana, muovendo dalla filosofia. Descartes, che secondo uno schema consueto ai novatoresnapoletani viene accomunato spesso a Gassendi, è presentato come estremamente rispettoso nei confronti della sacra dottrina, in contrapposizione a quei filosofi che dialettizzavano la teologia.  La Risposta, di cui ben presto si conobbe il nome dell'autore, procurò al G. notevole fama e apprezzamento anche fuori del Regno e lo mise in contatto con letterati illustri, tra cui G.V. Gravina, L.A. Muratori, A. Magliabechi, J. Mabillon. Nella seconda risposta (Risposta alla seconda lettera apologeticadi Benedetto Aletino. Opera utilissima a' professori della filosofia, in cui fassi vedere quanto manchevole sia la peripatetica dottrina, 1702), non più anonima, data la favorevole accoglienza della prima, e stampata realmente a Colonia "perché trovò le stamperie occupate in Ginevra", sono affrontati più direttamente i problemi della filosofia aristotelica e del suo rapporto con la fede e con la dottrina cristiana.  Con abile mossa il G. trasforma questa seconda risposta in un serrato attacco ad Aristotele, proprio sul terreno più caro all'Aletino, l'affidabilità teologica dello Stagirita. Sulla base di un sapiente incastro di testi (F. Patrizi, P. Ramo, P. Gassendi, ma anche gesuiti come Juan Maldonado, Antonio Possevino, Michel Elizade o domenicani come Melchior Cano) e di abili argomentazioni, il G. dimostra come alla luce dei principî aristotelici diventino insostenibili i cardini della fede cristiana: la provvidenza, la creazione, l'immortalità dell'anima; e, sul versante della scienza, la corruttibilità dei cieli. Diversamente, i moderni, Descartes sopra tutti, hanno professato dottrine non in contrasto con le Scritture: ne è esempio l'impegno del filosofo francese per conciliare la dottrina eucaristica con la sua concezione della res extensa.  Alla terza risposta (Risposta alla terza lettera apologetica contra il Cartesio creduto da più d'Aristotele di Benedetto Aletino. Opera in cui dimostrasi quanto salda e pia sia la filosofia di Renato delle Carte e perché questa si debba stimare più d'Aristotele, 1703), stampata questa volta in Napoli da G. Rosselli, ma sempre con l'indicazione di Colonia (perché senza la licenza dell'arcivescovo), è affidata la difesa di Descartes dagli attacchi dell'Aletino.  Questa risposta, più ancora delle prime due, rappresenta uno fra i più importanti documenti nella diffusione del pensiero e delle opere di Descartes in ambiente napoletano. Il G. appare, anzi, come uno dei più attenti, se non il più attento interprete partenopeo del filosofo francese, sia per la conoscenza pressoché integrale del corpuscartesiano allora disponibile, comprese le lettere e gli Opuscula postuma, sia per l'acume interpretativo. Descartes, "il miglior filosofante di ogni tempo", viene visto soprattutto muovendo dalla sua metafisica: "È ben noto che non solamente il metafisico sistema cartesiano s'aggiri tutto intorno alla cognizione d'Iddio […] ma il sistema ancor fisico tutto quanto è, suppone necessariamente per fabro, e regolatore il supremo facitore" sicché "togliendosi per ipotesi il darsi Iddio, caderebbe e si ridurrebbe a nulla la macchina del Cartesiano sistema" (pp. 186-188). Questa piegatura metafisica, nuova rispetto a pensatori come Valletta e D'Andrea e più in generale all'ambiente investigante e a quello dell'Accademia di Medina Coeli, permise al G. di allontanare da Descartes la pericolosa accusa di collusione con l'atomismo antico, e di inserirlo nell'alveo della tradizione di Platone e di Agostino, di cui, in particolare, Cartesio è detto "fido seguace". Tutti i temi e i testi della metafisica cartesiana, in un discorso che è al tempo stesso giustificazione e ricostruzione del moto rinnovatore napoletano che da quei testi aveva tratto alimento, sono passati in rassegna: il dubbio, il cogito ergo sum, il criterio dell'evidenza (ove grande importanza è data al momento dell'intuitus, il "guardo"), le dimostrazioni dell'esistenza di Dio. Esaminata e così difesa la metafisica, la fisica cartesiana, di cui il G. discute il ruolo delle ipotesi (diverse dalle supposizioni dei poeti e degli astronomi, spesso impossibili), appare se non più agevole, certo più sicura. Il G., che difende al tempo stesso Descartes e Leonardo Di Capua, polemizza non solo con l'Aletino ma anche con talune sue fonti come il padre G. Daniel e soprattutto l'astronomo Pierre Petit, che l'Aletino aveva indicato come propria guida. Vengono così discusse, cogliendone precisamente i nessi, le principali concezioni fisiche del filosofo francese: il corpuscolarismo legato al rifiuto delle forme sostanziali (concetto applicabile solo all'anima "ragionevole"); la riduzione della materia a estensione e negazione del vuoto; l'universo indefinito (non infinito come gli attribuiva l'Aletino), costituito dal moto che Dio ha impresso alla materia; l'accettazione del principio inerziale, da cui discende che il cosmo è retto dalle leggi del moto e liberato da ogni visione antropomorfica e finalistica. Con questo cosmo materiale l'uomo, non più centro dell'universo, intrattiene un rapporto grazie alle sensazioni e alle passioni, che sono in vista della conservazione e della salvaguardia del composto anima e corpo.  Nel 1703 uscì una replica dell'Aletino alla terza Risposta del G., la Difesa della scolastica teologia, ed ebbe inizio anche lo scambio di accuse tra i due presso il Sant'Uffizio, che diede il via a una serie di relazioni e controrelazioni. Nonostante ciò, il G. trovò a Roma un clima non del tutto sfavorevole, soprattutto tra i prelati filogiansenisti, e l'opera poté liberamente circolare; anzi, grazie soprattutto all'interessamento di A. Magliabechi (cfr. lettera del G. a Magliabechi del 13 marzo 1703, Firenze, Biblioteca nazionale, Magl., VIII.671), ebbe una notevole diffusione in Italia e fuori. Tra il 1703 e il 1704 il G. abbozzò le risposte contro la IV e la V lettera del gesuita. Nel 1704 venne colto da un colpo apoplettico e l'anno dopo l'Aletino (insinuando che il 28 febbr. 1704 s. Ignazio avesse colpito il G. perché aveva osato "malmenar" la sua Compagnia) intervenne nuovamente con una Difesa della terza lettera apologetica di Benedetto Aletino. La morte improvvisa del gesuita, l'anno successivo (il G. non mancò qualche anno più tardi di vendicarsi delle insinuazioni dell'Aletino, collegando la sua morte a una punizione celeste), la sua stessa malattia, la denuncia alla congregazione romana delle tre risposte, il fatto che altri avessero risposto alla replica dell'Aletino (Filippo Anastasio diede fuori uno scritto, che non venne pubblicato, ma il G. ebbe modo di leggerlo), sono tra i motivi per cui il G. non volle dar seguito allora alla polemica; nello stesso periodo, tuttavia, mise mano a un'Analisi del modo di teologare, il cui bersaglio era pur sempre la teologia scolastica, che l'autore non portò a termine perché chiamato (direttamente dalla corte di Barcellona, su consiglio di Nicolò Caravita) a difendere gli editti regi in materia di benefici ecclesiastici nel Regno di Napoli contro la Curia romana.  Il G., che aveva già ricoperto cariche in seno all'amministrazione (governatore dell'arrendamento dei ferri in Terra di Lavoro e deputato dell'arrendamento del tabacco), venne chiamato a questo incarico il 20 luglio 1708. La pretesa del re Carlo d'Asburgo, espressa negli editti, di conferire benefici ecclesiastici solo a regnicoli, contro la pretesa della Curia romana, venne dunque sostenuta dal G. nelle Considerazioni teologico-politiche fatte a pro degli editti di s. maestà cattolica intorno alle rendite ecclesiastiche del Regno di Napoli (I-II, Napoli 1708-09), che furono recensite nel IV supplemento degli Acta eruditorum del 1711 (pp. 369 s.). La risposta di Roma non si fece attendere: il 17 febbr. 1710 la Curia emanò una bolla che colpiva, con le opere di Alessandro Riccardi e Gaetano Argento, la prima parte del Trattato delle considerazioni teologico-politiche, mentre la seconda parte veniva raggiunta dalla censura neppure un mese dopo, il 24 marzo. Il G., che nel 1709 era stato nominato consigliere straordinario del tribunale di S. Chiara (diverrà ordinario il 28 febbraio dell'anno successivo), preparò contro il testo della censura (la cui stesura si doveva al benedettino Nicolò Maria Tedeschi) un Avviso critico et apologetico intorno alla bolla, et alla censura fatta a' libri intitulati Considerazioni teologico-politche, che circolò manoscritto negli ambienti anticuriali napoletani.  Morto l'Aletino, la polemica con i gesuiti non cessò: in un processo che li riguardava essi ricusarono il G. come giudice, facendo leva sulla passata polemica con il loro confratello e ottennero poi, con l'appoggio del reggente S. Biscardi, l'esclusione del G. da tutti i processi in cui fosse coinvolta la Compagnia, con una sentenza del Collaterale del 19 dic. 1710. Il G., che cercò inutilmente di ottenere la revoca del decreto (facendo anche intervenire L.A. Muratori presso il viceré Carlo Borromeo Arese, di cui l'abate modenese era amico), ebbe tuttavia dalla sua parte Gaetano Argento e il reggente Gaetano Rubini. Numerosi consulti negli anni successivi testimoniano la sua attività di consigliere. In questi stessi anni il G. riprese in mano le risposte all'Aletino con l'intenzione di pubblicarne una nuova edizione. Le controverse vicende della stampa sono documentate dal G. stesso nelle sue Memorie, ora pubblicate, a cura di V.I. Comparato, con il titolo Memorie di un anticurialista del Settecento, Firenze 1964. Terminata la stesura dell'opera il G., il 29 marzo 1719, chiese la licenza di stampa al Collaterale (non all'arcivescovo, precisa lo stesso G., per l'illegittimità, a suo avviso, della licenza ecclesiastica); si rivolse quindi allo stampatore Nicolò Parrino, che, iniziata la stampa, la sospese di lì a poco su pressione di ambienti curiali. A questo punto il G., secondo una prassi invalsa, ottenuti dallo stesso Parrino i caratteri, continuò la stampa in casa propria. Gli ostacoli e gli equivoci erano, tuttavia, ben lungi dall'essere superati: il cardinale Francesco Pignatelli, arcivescovo di Napoli, cercò, infatti, di far interrompere la stampa, senza però riuscirci; d'altro canto il viceré, cardinale Michail Friedrich d'Althan, che in un primo momento aveva fatto intendere che avrebbe gradito che l'opera gli fosse dedicata - cosa che il G. fece - sollevò mille difficoltà, cui il G. rispose punto per punto, finché "vidde, ed odorò che il signor viceré non facea più da viceré, le cui parti altre certamente sarebbero state, ma da ministro di Roma, e da esecutore delle voglie altrui, non ascoltando altro che gl'impulsi venutigli da colà" (ibid., p. 54). I volumi, già stampati, vennero sequestrati, salvo quelli che il G. aveva fatto circolare tra gli amici. Tre copie vennero inviate a Roma per il tramite del cardinale Àlvaro Cienfuegos, ministro plenipotenziario austriaco. Una di queste venne fatta pervenire direttamente al pontefice. Il 23 sett. 1726 arrivò la condanna della congregazione dell'Indice, che colpiva sia la prima sia la seconda edizione delle Risposte. Il G. affidò la sua difesa a un memoriale in cui rivendicava il fatto che la prima edizione delle Risposte fosse passata immune per ben tre volte all'esame del Sant'Uffizio.  La nuova edizione, intitolata Discussioni istoriche, teologiche, e filosofiche di Costantino Grimaldi fatte per occasione della risposta alle lettere apologetiche di Benedetto Aletino (I-III, Lucca 1725), contiene, in realtà, alcune importanti aggiunte, che danno conto soprattutto delle letture che in quegli anni il G. andava facendo e di nuovi legami maturati anche al di fuori dell'ambiente napoletano: in particolare Mabillon e Muratori, Jean Le Clerc e Noël Alexandre. Gli interventi più significativi sono nella prima risposta, con una più convinta difesa del giansenismo, che è al tempo stesso presa di posizione per un cristianesimo nutrito delle Sacre Scritture. Ciò significava anche, nel momento in cui veniva tolta alla ragione la giurisdizione sulla fede, liberare il campo della filosofia dalle intrusioni teologiche e difendere quella libertas philosophandi che era stata e continuava a essere la bandiera dei novatores. Le risposte alla quarta e alla quinta lettera, rimaste manoscritte e ora conservate presso la Biblioteca nazionale di Napoli, furono redatte in un lasso di tempo che presumibilmente va dagli anni immediatamente successivi alla pubblicazione della terza risposta a dopo il 1724. Nella quarta risposta il G. attinge a pensatori come Pierre Bayle e Richard Simon, a libertini come François de La Mothe Le Vayer e Gabriel Naudé, alla cultura investigante, sempre a Descartes, ma anche a Nicolas Malebranche. E, tuttavia, è soprattutto il Muratori, con le sue Riflessioni sopra il buon gusto, a rappresentare in questa fase, in cui la polemica con l'Aletino è ormai piuttosto un pretesto, un punto di riferimento. La scolastica è attaccata sia nel suo interprete più ortodosso, Tommaso d'Aquino, la cui valorizzazione di Aristotele non può servire ai sostenitori del filosofo greco perché filologicamente non sorretta dalla conoscenza del greco, sia nel suo ispiratore principe e cioè Aristotele stesso, di cui il G. passa in rassegna gli errori nelle varie scienze. A essi, tuttavia, il G. non contrappone un nuovo corpusdottrinale, bensì, con un atteggiamento caro ai moderni, il metodo, aprendosi a una vera e propria apologia della ricerca.  Non mancano altresì affermazioni che nella sostanza suonano anticartesiane, soprattutto nella direzione di un certo vitalismo della tradizione naturalistica meridionale. Nella quinta risposta, Per la scelta d'Aristotele in maestro contro a' libertini ed atomisti, il G. affronta il tema dell'ateo virtuoso e, per spezzare la relazione tra atomismo e ateismo, cavallo di battaglia dell'Aletino, ribalta l'accusa di ateismo su Aristotele, che per di più è giunto in Occidente attraverso la mediazione irreligiosa di Averroè ed è all'origine sia degli errori di P. Pomponazzi sia, ancor più, di B. Spinoza. La fortuna della filosofia aristotelica, d'altro canto, era nata, secondo il G., dalla crisi della cultura nel Medio Evo e ora era in declino proprio per l'avanzamento della verità, grazie, soprattutto, alle scienze sperimentali.  L'opera, che si conclude con un'apologia della ragione e dell'esperienza, contiene anche i germi di quel riformismo cattolico che troverà in Muratori più compiuta maturazione: diminuzione delle feste religiose, superamento della condanna sull'usura, rifiuto del magico e del diabolico. Rinnovamento che passa - ciò è una costante nelle opere del G. - attraverso la comprensione critica della storia ecclesiastica, meglio, attraverso la storia ecclesiastica quale strumento critico della disciplina se non della dottrina.  Tra il 1729 e il 1733, cioè dall'uscita di scena del viceré d'Althan all'avvento degli Austriaci, il G. trascorse uno dei periodi più tranquilli della sua vita e al tempo stesso più intensi per la sua attività politica: insieme con Biagio Garofalo compilò la lista delle "proposizioni ingiuriose alla potestà de' principi" nelle Riflessioni morali e teologiche, scritte dal gesuita G. Sanfelice contro P. Giannone, prese parte al progetto di riforma dell'Università di Napoli, appoggiò la candidatura di Biagio Garofalo a teologo del Collaterale e di Celestino Galiani alla cappellania maggiore del Regno. Il ritorno a Napoli degli Spagnoli con l'avvento di Carlo di Borbone segnò una nuova svolta negativa nella vita del G., nei cui confronti venne aperta un'inchiesta, ancora una volta in base alle accuse della corte di Roma e dei gesuiti, in seguito alla quale, nel 1735, perse la carica di consigliere, non senza, tuttavia, che il re riconoscesse il suo valore: gli venne, infatti, concesso "l'onor della toga e l'intiero soldo".  È in questo momento che il G. pose mano all'Istoria de' libri di Costantino Grimaldi scritta da lui medesimo, con l'intento di difendere il suo operato; fonte preziosa che permette di seguire la genesi delle sue opere e delle polemiche in cui fu impegnato. Per ottenere il passaggio delle sue opere censurate dalla prima alla seconda categoria dell'Indicedovette adoperarsi con tutte le forze, ricorrendo agli amici, facendo appello a tutta la Curia romana e giungendo, infine, a una ritrattazione (1736) che, a sua insaputa e con suo disappunto, venne pubblicata l'anno successivo nelle Novelle letterarie di Venezia.  Negli anni successivi visse appartato, continuando a intrattenere rapporti epistolari con vari rappresentanti della repubblica letteraria, in particolare G.M. Mazzuchelli. A questo invierà l'Elogium che gli aveva dedicato il padre Casto Innocente Ansaldi, insieme con le Discussioni storiche e una versione abbreviata dell'Istoria de' libri, scritta nel 1735, cui aggiunse le notizie relative agli anni successivi al 1734 e cenni sulla sua giovinezza, materiali questi che Mazzuchelli utilizzerà per le Notizie storiche e critiche intorno alla vita e agli scritti di C. G., pubblicate l'anno dopo della morte del G. nella Raccolta d'opuscoli scientifici e filologici di A. Calogerà.  Il 17 febbr. 1744 il G. fu arrestato, con l'accusa di intrattenere corrispondenza con gli Austriaci, insieme con il figlio Gregorio, che fu poi relegato nell'isola di Pantelleria. Il G. restò in carcere quaranta giorni (Vat. lat., 9281, cc. 130-140). Dello stesso anno è una Lettera apologetica indirizzata al padre Sebastiano Paoli sull'involuzione della liturgia nel Medioevo (tema ripreso il 23 maggio dello stesso anno e il 30 nov. 1745 in due lettere a Mazzuchelli). Polemiche attardate, come quella durante la crisi napoletana del Sant'Uffizio nel 1746-47 allorché il G. compose il trattato Sciagura maggiore…, rimasto manoscritto, in cui riproponeva la lotta anticuriale a favore del sovrano e contro l'intrusione del potere di Roma. L'ultimo scritto del G., pubblicato postumo (Roma 1751; rist. anast. Milano 1974) a cura del figlio Ginesio, è una Dissertazione in cui si investiga quali sieno le operazioni che dependono dalla magia diabolica e quali quelle che derivano dalle magie artificiale e naturale.  Il G. morì a Napoli il 16 ott. 1750.  Dei tredici figli avuti dal matrimonio (1692) con Giovanna de' Marzi, morta durante la sua prigionia, gli sopravvissero Gregorio e Ginesio, Bernardo, chierico e abate di S. Maria della Misericordia a Itri, Aniceto e Teodosio, monaci olivetani, e tre femmine.  Il G. intrattenne un'ampia corrispondenza: in particolare le sue lettere al Magliabechi sono conservate nella Biblioteca nazionale di Firenze, quelle al Muratori nell'Archivio Muratoriano di Modena, quelle al Bottari, infine, presso la Biblioteca Corsiniana di Roma.  Fonti e Bibl.: Biblioteca apost. Vaticana, Vat. lat., 9281, cc. 130-140: Viri clarissimi Costantini Grimaldi senatoris Neapolitani elogium authore P. C.I. A. O.P. [C.I. Ansaldi]; G. Grimaldi, Lettera di Claristo Licenteo [Licunteo]scritta al signor Rodolfo Grandini, in cui si essaminan due luoghi del signor Francesco Maradei in persona del regio consiglier d. C. G., s.l. 1716; Lettere dal Regno ad Antonio Magliabechi, a cura di A. Quondam - M. Rak, Napoli 1978; G.G. Scarfò, Opuscoli, III, Napoli 1727, pp. 56 s.; G.M. Mazzuchelli, Notizie storiche e critiche intorno a C. G., in A. Calogerà, Raccolta d'opuscoli scientifici e filologici, XLV, Venezia 1751; Index librorum prohibitorum, Roma 1758, p. 17; M. Delfico, Elogio di C. G., Napoli 1784; L. Giustiniani, Memorie istoriche degli scrittori legali del Regno di Napoli, III, Napoli 1787, s.v.; M. Schipa, Il Muratori e la coltura napoletana, in Arch. stor. per la provincie napoletane, XXVI (1901), pp. 553-649; P. Sposato, Le "Lettere provinciali" di Biagio Pascal e la loro diffusione a Napoli durante la "rivoluzione intellettuale" della seconda metà del secolo XVII, Tivoli 1960, pp. 27-47, 72-100; N. Badaloni, Introduzione a G.B. Vico, Milano 1961, passim; E. Boscherini Giancotti, Nota sulla diffusione della filosofia di Spinoza in Italia, in Giorn. critico della filosofia italiana, XLII (1963), pp. 339-362; R. Ajello, Il preilluminismo giuridico, Napoli 1965, pp. 146 s.; V.I. Comparato, Ragione e fede nelle discussioni istoriche, teologiche e filosofiche di C. G., in Id., Saggi e ricerche sul Settecento, Napoli 1968, pp. 48-93; B. De Giovanni, "De nostri temporis studiorum ratione" nella cultura napoletana del primo Settecento, in A. Corsano et al., Omaggio a Vico, Napoli 1968, pp. 141-191; B. De Giovanni, Il ceto intellettuale a Napoli fra la metà del '600 e la restaurazione del Regno, Napoli 1968, pp. 35, 37 s., 43, 83 s.; F. Venturi, Settecento riformatore. Da Muratori a Beccaria, Torino 1969, pp. 31-33, 83, 87, 322, 375, 388, 532; V.I. Comparato, Giuseppe Valletta e le sue opere. Un intellettuale napoletano alla fine del Seicento, Napoli 1970, ad ind.; G. Ricuperati, L'esperienza civile e religiosa di Pietro Giannone, Milano-Napoli 1970, pp. 266-271; A. Lauro, Il giurisdizionalismo pregiannoniano nel Regno di Napoli. Problema e bibliografia, Roma 1974, ad ind.; L. Osbat, L'Inquisizione a Napoli: il processo agli ateisti 1688-1697, Roma 1974, pp. 51, 54; G. Ricuperati, C. G., Nota introduttiva, in Dal Muratori al Cesarotti. Politici ed economisti del primo Settecento, V, Milano-Napoli 1978, pp. 741-774; E. Garin, Storia della filosofia italiana, Torino 1978, pp. 874-876, 882, 907; V. Ferrone, Scienza natura religione. Mondo newtoniano e cultura italiana nel primo Settecento, Napoli 1982, pp. 478-481; M. Torrini, La discussione sullo statuto della scienza tra la fine del '600 e l'inizio del '700, in Galileo a Napoli, a cura di F. Lomonaco - M. Torrini, Napoli 1987, pp. 357-383; F. Cacciapuoti, Il processo agli ateisti: dalle discussioni teologiche al giusnaturalismo, in Dalla scienza mirabile alla scienza nuova. Cartesio e Napoli, Napoli 1997, pp. 149-174; G. Belgioioso, La variata immagine di Descartes. Gli itinerari della metafisica tra Parigi e Napoli (1690-1733), Lecce 1999, pp. 29-62; E. Lojacono, Immagini di Descartes a Napoli: da Valletta a C. G., II, in Nouvelles de la république des lettres, 2000, n. 2, pp. 45-65.Costantino Grimaldi. Grimaldi. Keywords: magica naturale, magica artificiale, magica diabolica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Grimaldi: implicatura peripatetica”– The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51692105690/in/photolist-2mQHpXE-2mPpb7N-2mKC3nj-2mKLP2r-2mKRy6y-2mPHbXQ-nSmehQ-mujkJt-muiPJa-muiFjz-mukwpq-mujmJz-mujhJF-mujo6x-mujjcR

 

Grice e Grimaldi – inter-azione – filosofia italiana – Luigi Speranza (Seminara). Filosofo. Grice: “Grimaldi for some reason did some deep research on cynicism – a wonderful etymology, too!” -- Esponente dell'illuminismo. Fratello minore di Domenico Grimaldi, filosofo. Nato in una famiglia aristocratica che faceva risalire le proprie origini alla nota famiglia di Genova, dei principi di Monaco, ricevette la prima educazione dal padre, il marchese Pio Grimaldi, un uomo colto che aveva cominciato a introdurre criteri di conduzione innovativi nelle sue proprietà terriere (peraltro non molto estese). Inviato a Napoli, conosce Genovesi. Comincia a interessarsi alle vicende culturali e politiche della Repubblica di Genova: volle anch'egli essere iscritto fra i patrizi di Genova, esprimendo la convinzione che l'aristocrazia genovese avrebbe dovuto riprendere la funzione, svolta nei secoli precedenti, di classe dirigente della Repubblica. Studia il diritto testamentario romano. Fu pertanto fautore del “fedecommesso” istituzione risalente a Roma antica e prediletta dalla classe aristocratica.  Maestro venerabile della loggia massonica di Genova. Partendo dalla filosofia romana, cerca di analizzare l’interazione umana. Al di fuori della società l'uomo, in balia dei "sentimenti fisici", diventerebbe “un vero bruto” – “como Romolo” --. Tali riflessioni saranno approfondite nel "Saggio sull'ineguaglianza umana”. Sostenne che, in natura, gli uomini non sono uguali e che le differenze, sia fisiche che morali, ha origini soprattutto ambientali (per es., il clima, la diffusione delle malattie). La inter-azione  non e uno stato di corruzione, ma lo stato "naturale" dell'uomo. La struttura gerarchica dell'Ancien Régime era giustificata dall'ineguaglianza degli uomini. L’educazione non sarebbe riuscita ad appianare tale disuguaglianza. Scrive gli Annali del Regno di Napoli. Fa una Descrizione de' tremuoti accaduti nella Calabria. Altre saggi: “De successionibus legitimis in urbe Neapolitana systema. Pars prima in qua ius Graecum Neapolitanum vetus, et ius omne Romanum a 12 tabulis ad Iustinianum vsque absolutissime expenditur” (Napoli: Simoniana); “Lettera sopra la musica all'eccellentissimo signore Agostino Lomellini già doge della serenissima repubblica di Genova (Napoli); “La vita di Ansaldo Grimaldi patrizio genovese, illustrata con riflessioni politiche, e morali, e con una brieve narrazione del governo politico della Repubblica di Genova dalla sua origine” (Napoli: Raimondi); “La vita di Diogene Cinico” (Napoli: Vocola); “Riflessioni sopra l'ineguaglianza fra gli uomini” (Napoli: Vocola). (Franco Crispini, Vibo Valentia: Sistema Bibliotecario Vibonese) Annali del Regno di Napoli dedicati a Ferdinando IV. re delle Due Sicilie. Epoca I. Dal primo anno dell'edificazione di Roma sino alla fine del quarto secolo dell'era Cristiana” (Napoli: Porcelli); “Annali del Regno di Napoli” -- Epoca II. Dall'anno 409. dell'era volgare, sino all'anno 1211” (Napoli: Porcelli); “Descrizione de' tremuoti accaduti nelle Calabrie” (Napoli: Porcelli. (Saverio Napolitano, Bordighera: Manago). La vita di Ansaldo Grimaldi patrizio Genovese” (Napoli: Raimondiana); “De successionibus legitimis in urbe Neapolitana” (Napoli: Simoniana); “Nico Perrone, La Loggia della Philantropia. Un religioso danese a Napoli prima della rivoluzione. Con la corrispondenza massonica e altri documenti, Palermo, Sellerio); Fulvio Tessitore, «Grimaldi e l'ineguaglianza». In: F. Tessitore, Nuovi contributi alla storia e alla teoria dello storicismo, Roma: Edizioni di storia e letteratura, M. Tallarico, «CESTARI (Cestaro), Giuseppe». In Roma: Istituto dell'Enciclopedia Italiana, F. Crispini, Appartenenze illuministiche: i calabresi Francesco Saverio Salfi e Grimaldi, Cosenza: Klipper, Dizionario Biografico degli Italiani, Roma: Istituto dell'Enciclopedia Italiana, G. Boccanera, «Grimaldi In: E.Tipaldo, Biografia degli italiani illustri nelle scienze, lettere ed arti, e de' contemporanei, compilata da letterati italiani di ogni provincia e pubblicata per cura del professore E. Tipaldo” (Venezia, Alvisopoli)’ Melchiorre Delfico, Elogio del marchese don Francescantonio Grimaldi dei signori di Messimeri, patrizio di Genova e assessore di Guerra e Marina, In Napoli: presso Vincenzo Orsino (ristampato in Opere complete di Delfico, a cura dei G. Pannella e L. Savorini,  ITeramo: Giovanni Fabbri). R. Ubbidiente, Il pensiero e l'opera di Domenico e Francescantonio Grimaldi. Tesi di Laurea in Filosofia italiana. Salerno. Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  CAP. I. DelPineguaglianza degli efferi orga- nici. pag. 4. 1 CAP. II. Dell ineguagliang? del [effe , 9 deir età degli ejferf organici . ' 9. CAP. III. Della di/fimilitudine fifica , che vi è traglt nominile gli altri efferi organici » »«' CAP. XV. Dell' ineguaglianga fijica tra gli uomini . CAP. V. Dell' ineguaglianza della [enfìbìlità 3S» degli efferi organici . I$I> CAP. VL Deìr ineguaglianza della [enfibili- > tà tra gli uomini . 26$» CAP. VII. Dell ineguaglianza delle facoltà intellettuali 283. CAP. Vili. Dell' ineguaglianza delle pajjio- 31£ CAP» IX. Deir ineguaglianza della volontà . 384.INDICE DE’CAPITOLI Della feconda Parte. CAP. I. Principio generale intrinseco dell' ine- * , gli uomini Ji fono ritrovati dopo della generale inondavo- Uh cietà familiari 122. CAP. XI. Delle Tribù de'Selvaggi. 145. CAP. XII. Delle Nazioni barbare. 159- CAP. Delle Nazioni civili. 190. CAP. Dello Sviluppo delle facoltà in- tellettuali nelle Nazioni civili rela* . 6S. 92. 99’ Digitized by Google   relativamente alle arti, ed al. /e fetente . CAP. XV. Dello Jviluppo delle pajjioni de- uomini ctvilt . . CAP. XVl. Della maniera come dicare dell’ homo morale nella civile focietà . CAP. XVII, Concbiufione della feconda par- I -»i _Della ICerza Parte CAP. I. U"T^XEl? ineguaglianza naturale pag. 8. CAP. II. CAP. III. Della libertà , e della ferviti civile ;. 45 CAP. IV. De Governi . 66. CAP. V. Della legge di Natura. ^8. CAP. VI. Del diritto delle Genti. 140. CAP. VII. Del Diritto Civile. 152 CAP. Vili. Della maniera come fi giudica da noi Vineguaglianza politica de*diritti e delle obbligazioni degli uomi-m ni . • 180, CAP. IX. Conchiufione della Terza Parte .• Uesta breve ricordatila dell’ illustre Cittadino, questo semplice monumento alla Memoria d’un Uomo ce- lebre nella Repubblica delle Lettere, questo esempio «i« • l*» ttttmalv m »!tX4 «m ITlUvl/1C ifflHllU tato dalla sincera e disinteressata amidkia. Possa egli contribui- re ad alleviare il dolore d’ una perdita nazionale , «ervire per ricordo di gratitudine a' concittadini , per motivo d’ imitazione agli Uomini di Lettere , e somministrare un modello a coloro che bramano di conservar nel loro cuore i più rispettabili sen- timenti , che istillar possono concordi la Natura e l’ Educazione! Digitized by Google  Nascita , Grimaldi t 4*4 vi 44 ed 'TT'L nome Grimaldi contemporanco alla Storia Moderna d’ Eu- ^ * ** r0Pa ^ stat0 scmPrc fecondo d’ Eroi . Un ramo di que- sta illustre Famiglia si trovava da più secoli trapiantato in estraneo suolo , cioè, nella Città di Scminara in Calabria (<z) . Ivi da Pio Grimaldi , e Porzia Grimaldi nacque Francescan- tonìo (a) Le emigrazioni delle famiglie da uno Stato all'altro in Italia furono frequentissime nel XIII. e XIV. secolo, quando per la debolezza delle Costituzioni de’ Governi non regnavano le leg- gi , ma i partiti. Genova soffrì forse più lungamente che qualun- que altra Città d’ Italia queste politiche concussioni . I Grimaldi Guelfi di partito , ebbero de' tempi di disdetta ; ma non fu ni per disgrazia , ni per delitto , che Bartolomeo Grimaldi si spa trio . Figlio sccotiAoeenìio di Ranieri L Principe di Monaco , venne colle sue galee nelL 1309. in ajuto del Re Roberto a ri- acquistar la Sicilia , e formò il ramo de' Grimaldi Signori di Mes- sirneri. Per più d' un secolo , ciol , fino ai tempi di Giovanna II. essi st conservarono in grande stalo ; ma le non insolitejiccnde di famiglia, più frequenti ancora sotto quel Regno, ridussero i Grs maldi in più umile grado di fortune . Perdute le grandi ricchezze,' e ridottisi -in urta - Città- di Provincia , conobbero chi vi può « - sere una grandezza nella virtù , che forse frequenta più le pri- vate abitazioni , che quelle de' grandi • Piccola consolazione nel Cinsuperabile ineguaglianzal » -~-,  Digitized by Google   44 vii >4» ionio (a) , che nel secolo XVI1L ha accresciuto nuovo lustro agli allori -de' suoi maggiori. L’ onestà , la virtù , e le lette- re , che avevano fatto sempre la principal caratteristica di questa Famiglia , fecero l'educazione di Colui che abbiamo per* duco. 11 di lui savio genitore , memore -di partecipare all* au- torità suprema d’ una Republica illustre , non conservava solo nel suo cuore le comuni doti d’ ordine degne d’ un membro di Senato Aristocratico t ma nato in una libera monarchia rico- nobbe altre più vere idee della virtù , che seppe imprimere nel- l’ animo di quelli a’ quali aveva dato 4' esistenza « Conobbe egli » » «he la severità della virtù passa agevolmente in difetto , quan- do non è accompagnata da quei sentimenti d’ umanità che devono costituire il benefico carattere dell’uonjo sociale ; e che questo perfezionamento della virtù non si acquista che colti- vando Jo spirito, e perfezionando la ragione. Per tal modo quel tavil>«tUirJatJ»***-!r»i.—i—— «<* *mi ri no que’ semi virtuosi , che vennero poi vigorosamente a germo- gliare. L’esempio stesso della di lui vita fu per esso una cont»* mua lezione di que’ doveri , che accompagnano l’ uomo ne’ suoi varj rapporti e. situazioni . Qual raro e piacevole spettacolo è in latti , il vedere un amico genitore occuparsi gradatamente a perfezionare l’ instabile e balbettante lingua de’ suoi fanciulli « condurli quindi alla conoscenza e varietà de’ linguaggi ; mo- (a) A' io. Maggio 1741. strar Digitìzed by Google   * «M vili H» Strar. loro ora l’ indole degl’ idiomi , ora le bellezze dello stile t ora la verità de’ fatti , ed ora quelle della ragione ! Questa fu la vera e rara educazione , che F. A. G. ebbe la sorte di go- dere. 11 solo padre fu il suo istitutore - Nato con una costituzione vigorosa , sana , e di sanguigno temperamento, ajutato da una educazione corrispondente svi- luppò prematuramente un carattere capace del grande . E sic- come sono le circostanze che determinano 1’ attività nostra a tale o tal’ altra direzione ; così le sue forze incapaci d’ un’ iner- zia vergognosa , presto si determinarono al laborioso migliora- mento delle facoltà intellettuali , che duplicano quasi la nostra esistenza , facendo sviluppare lo spirito e sublimando la ra- gione . Ciò che si chiama Corso di Stud) no» fu per esso , come co* illunemente esser suole , una serie di lezioni consuetudinarie , che invoco di mijlioi—• I— ,p!n»A non famin rVm dete* riorarlo . Egli studiò le scienze con quella vera attenzione , che meditando su le idee e verità conosciute vede sbucciarne delle nuova , e richiamando per i varj e necessarj rapporti mol te idee a quella che principalmente si medita , fa quasi sorgere * crea nuove verità , che altrimenti resterebbero in dubbio retaggio ai secoli futuri-. Un* anima cosi elevata da moltiplicità di cognizioni erra qual- che tempo nell’ immenso campo delle idee , ora seguitandone arditamente una serie , ora poggiando su le adire per sentirle quasi più da vicino j ma noa SÌ stabilisce finalmente e riposa Digitized by Google   che sopra quelle , che sono d’ un vantaggio dichiarato per t* nomo. • • La Morale scientifica e prattica no , non è per nostra sverrà tura un affar comune e volgare. £' il risultato di meditazioni profonde, di cognizioni moltiplici , di quantità di paragoni , chedopod’avernequasiformatouncorsod'esperienze, ritor- na alle cagioni e ne stabilisce i principj . E' la scienza dell» Felicità publica e privata : fi chiunque non è nuovo nelle scien- ze converrà facilmente che questa parte della Filosofia è egual- mente grande per l’ importar»»» •»» • p»r hi sue sublimità. Que- sta fu , non dirò la prescelta^* dal nostro Grimaldi , ma quella verso della quale egli fu trasportato dalla forza del suo inten- dimento combinata con quella del suo cuore. I primi saggi in- fatti del di lui spiritOi anche indirettamente, fecero subito rico-; noscerc quésta naturale inclinazione» Un* -11°— " ra o nell’ immenso caos delle sensazioni i principj di quell’ ar- monia generale , che donò il gusto del Bello ma fra le Belle Arti la Musica é forse la più vicina e la più dipendente da co» desti principj non ancora interamente rivelati dalla Natura : Perciò allor quando il cuore è più sensibile e l’anima più ar- monica è facile il trasporto al gusto musicale . 11 di lui savio educatore fin dalla prima infanzia profittò di questo stato pre- coce della sensibilità del suo allievo. Quindi seppe insinuargli fc fargli nascere il più sicuro senso dell’ordine, della proporzio- ne, e dell'armouia , coll’isiruirlo nei principj del Disegno , della a Pit- Digitized by Google   • fattura e della Musica . Non vedeva egli ancora qua! parta avessero queste istruzioni nell’ istituzione della virtù : onde seguitò lo studio della Musica per trasporto piuttosto che per ragione. Ma allorché le altre cognizioni cominciarono ad accu» snidarsi nel di lui spirito -* quando cominciò a travedere ( che la Musica non è solamente un’ arte , ma parte ancora delle scienze sublimi quando riconobbe gli effetti sicuri e necessar} , della Musica, e che i principi dell' armonia sono immediata- mente dettati della Natura , non si ritenne più su la semplice esecuzione , nè Sì contentò della sola parte imitatrice , ma vol- le esprimere le proprie idee , ie mflhagini, i sentimenti ; e ’l suo istromento rispose perfettamente alle domande . I suoi progress* furono in breve meravigliosi , giacché il gusto , 1* esattezza e i’ espressione vi si ravvisavano tanto nell inventare che neU’esegui- re . Per la perfezione meccanica dell’ arte si richiede un esercì* zio abituale C Continuo di , ma un taT-nt/. «OH fattO pCt rimanersi alle porte del tempio della gloria prende delle Belle Arti quella parte che serve al miglioramento della sensibilità , c trapassa ad altri più utili oggetti . Egli nondimeno , trasportato k veder tutto per un lato morale, avendo osservato colla scor- ta degli Antichi -che la Musica ha tante influenza sul cuore e sul costume , cioè sulla creazione di quei sentimenti fondamen- ti' , che caratterizzano gl’ individui e le nazioni , volle com- «nunicare al Pubblico le sue osservazioni, *i-»•«-*«...j j>*•t ** Sono 44x MM Digitized by Google   44 xi M» secssoesaeeMieMfleM —* . > Ono esse contenute nella Lettera sopra la Musica alt Lo- Lettera sopt4 ^ HSK*> cruentissimo Signore Agostino Lomellini (a) . A quest' uo* no degno d’ eterna ricordanza volle il Grimaldi indrizzare I» sue idee , non solo perchè n’ era un giudice competentissimo ì ma per attestargli parzialmente quella stima, della quale L’ Euro» pa tutta r onorava . ' E‘ meraviglioso il vedere come il Grimaldi in questa operici ciuola abbia potuto combinare tanta abbondanza d’erudizione è di ricerche , « tante fona di wgtwaiMBta. — , . __ Egli vede la Musica come una parte- sublime dalla Filosofia } che ha contribuito all’ espansione della virtù , alla regolarità de' Governi , alla conservazione del costume > alla sublimazione de’ sentimenti più convenienti per 1’ uomo - Vede- che in altri tempi questa ch’era stata la miglioratrice degli animi, concorsi poi jJIk-Wo t» «rwwf! r i- eroe»a- j zioni dèlia sua sensibilità , attenuò quasi «1 indebolì finanche la fisica di lui costituzione. Tutti questi varj fenomeni sono dimostrativamente provati dalla Storia amica , e dalle memorie cd osservazioni de’ Filosofi contemporanei. La diversità degli e£* fotti pruova quelle delle cagioni , che il Filosofò ricerca » Eglg incomincia dal distinguere la Musica’ sotto tre forme : la prima " (à) In Napoli 1766. ""l! vx B2 * che» Digitized by Google   4-4 xii cte chiama Naturale , la «*rr>nda Armoniea voluttuosa, e la terza Armonica Filosofica . Per quanto siamo lontani dalla prima esistenza della specie ì pure siamo in istato di giudicare della sua Musica primitiva t perchè tuttavia esistente . Le impressioni delle passioni su 1’ or* ^ gauo vocale, la nascita degli accenti , la diversa prolusione di essi , la successione ora più stretta ora più larga degli stessi tuoni , o di pochi di essi ; ecco la prima Musica naturale e vo- 1* cale . L' imitazione dei rumori fece nascere l’ istromentale ; e una e 1* altra semplice e monotona , 1’ una e V altra conservata, nel civ Aizzamento della Società e nel perfezionamento della Mu- sica , con questa differenza che quella restò sola presso le Na- zioni barbare , ma nelle Nazioni culte restò quasi per la parte barbara della Nazione. Quindi è che le cantilene volgari por- tano quasi dappertutto questo cara**ttere primitivo - La Musica Armonica voluttuosa pare «V»* non H.-hha essct distinta dall’ altra detta Filosofica , che per la qualità degli ef- fetti , poiché l’una e l'altra ànno bisogno di Filosofia nella com- posizione. Ma la prima sembra diretta a soddisfare più 1’ orga- no ecfj&itare le emozioni voluttuose , quanto 1’ altra lo è a far nascere de’ sentimenti cooperatori della virtù , affinan- do la sensibilità non per una più estesa facilitazione di sem- plici piaceri corporali^, ma per rendere la macchina e l’anima stessa armonica , onde sentire agevolmente 1’ Ordine , che deve essere la base delle virtù politiche ed il sostegno degli Stati. La Filosofia dunque della Musica dovrebbe consistere non solo nel- - lo Digitized by Google \  ,  lo stabilire una qualità di Musica assoluta , i cui effetti fossero» necessar e costanti , ma anche una relativa secondo il caratte- j re de’ popoli , che o si vogliono richiamare dalla corruzione , o avviare alla perfettibilità, e secondo l'indole o lo stato deità sensibilità lora Esaminando però U Storia, «cmlura-ch# qnesta Musica Filoso- fica abbia albergato poco sul Globo te più culte ne inno fatto più un oggetto di voluttà , che di —. costume. Questo però non toglie , che vi sia una verità di prit> cip), che si palesa negli .Atti. Lm virtù e "i- sentimenti che le producono, possono avere un’espressione degna di esse : ecco la Musica Filosofica. Questa forse era quella, «olla quale si can- tavano le antiche leggi, e le gesta degli Eroi ; questa, che det- tava i principi Morale, questa, che eccitava, i cuori all» gloria , e che nudriva 1’ amor sociale . Ecco perchè i più illu-. stri fondaifijà.delllumanitfc.|pci.Tl^., Al^nrio . oaio . Cadmo , Chirone furono tutti stimati inventori della Musica , non solo .perchè la Musica è l’emblema dell'armonia sociale, ma perchè ne è la conservatrice . Ecco perchè ancora, i Filosofi di primi ordine o fecero della Musica una parte della Filosofia, o la ca- ratterizzarono come uno dc^ più veri principi dell’ordine socia- le, che solo può conservare il costume e la costituzione degli Stati ; ed ecco infine perchè il nostro Autore si duole che in tanto gTado di miglioramento morale non si richiamila Musica ai suoi principi , e non si feccia del piacere una strada alla virtù. Che se lasciasi ancora d’ adoperarla con vista immediata al pubblico ... b«»e» j giacchi tutte le Nazioni   Vita £Ansal- do Grimaldi. <H xiv H» mesacenomessat>cs>08e»OB<-B>ogs>ocr>opge>saeg>«o«"»aag*»a tene , può frattanto essere di grandissimo utile agli individui * giacché non manca in parte di quegli effetti , che decisamente migliorano la nostra sensibilità. Cosi egli, ad esempio de’ Filosofi antichi , moralizzò quest' Oggetto , seguendo con ciò la più utile determinazione del suo spirito <e la migliore applicazione delle proprie cognizioni. L gradimento dell’ illustre Tìxdoge Lomellini fu grandissimo: Ie maggiore anche il piacer di vedere , che il nome Gri- maldi fuori del patrio suolo prometteva nuovo splendore alla Patria ed alla famiglia . La Republica di Genova già ammirava i talenti del nostro Grimaldi, quando dovett’essere più contenta nel vedere impegnata la di luì penna a dimostrar anche da lon- tano il più vero spirito patriotico , solo retaggio rimastogli dai tuoi antenati . Fu certamente 1’ effetto di questo sentimento » che 1’ impegnò a pubblicaro 1» Vita -4n**IJ* CrtrrutUi ^4) I Eroe della Patria e della famiglia. Chi legge questo libro par che non lo trovi corrispondente alla prima idea che dal titolo ne viene eccitata ; perchè poco vi si parla della vita d’Ansaldo. Sembrami però . che due fossero le mire principali dell'Autore , che ben rettificano la sua inten- zione . La prima di rilevare quelle qualità d' Ansaldo , che gli fanno meritare il titolo di Grande ; la seconda, di rischiarare di- . versi (a) in Napoli 1769. Digitized by Google   «H xv W versi punti importantissimi delia Storia politica di Genova e di segnare il carattere della sua vera Costituzione ed i principj veri e regolari della sua sussistenza. Quest' oggetto rientra tutto nella Storia d’ Ansaldo , non solo perchè esso fu il Restitutore della libertà e del decoro ma perchè in quel tempo si scosse- , ro più possentemente i cardini della Republkana libertà e si sta* •bill la insino allora di Stato è indivisa da quella dello Stato istesso . Non mancò dunque 1’ Autore se non tenne dietro a quelle particolarità che occupano ordinaria J. rwna <Wi Biografi, ma pensò di cs* •ere più utile col sostituire riflessioni s ed alle personalità, donde poi provenivano quelle vicende, che tenevano lo Stato in continua rivoluzione ; e per quale sue* cessione di disordini si giunse finalmente all’ordine, che tut- tora vi regna. E codesta, che interpolatamente contiene le gesta dell’ Eroe , fa la parte principale dell^Opera . Ma siccome la Sto* ria delle Republiche è stata sempre la vera miniera delle poli- tiche e morali osservazioni , cosi il nostro Autore non potè evi- tare quelle riflessioni che il corso della Storia naturalmente gli presentava . Esse sono opportunamente collocate , e formano quasi una «rie di tanti saggi Politici e Morali , ne’ quali ben- ché vacillante Aristocrazia . La storia dell' uomo interessanti a fatti di poco momento . Egli cosi ha divisa quest’ Opera quasi in due parti . Nel Testo si fa come' un quadro animato della Storia Po* litica di Genova' scritta da vero Filosofo cagioni agli effetti. Fa veder come la mancanza di Costituzio- ni e **88* 1.10 . metraggio , cioè, ravvicinando le * Digitized by Google   ^XVI H! thè r uomo non sia risparmiato , poiché viene mostrato qual' è •chiavo delle passioni c delle circostanze, il Grimaldi non lascia d’ indicare nel tempo stesso quei doveri, che in. ogni circostanza •ono le leggi vere della condotta e della vita • Bisogna assolu- tamente leggere -quest’ Opera , che sotto semplice titolo contiene tante nobili idee , e che è impossibile di dettagliare in un cir- coscritto discorso . Torno per tanto all’oggetto principale, cioè, al Grande Ansaldo. Il titolo di Grande, che dall’ adulazione è stato consacrato ai distruttori deli’ Umanità, non si deve che ai^uoi Benefattori- La prima qualità per esser Grande è la Beneficenza. Ansaldo gene- roso , benefico, illuminato, coraggioso , sensibile meritò dunque questo titolo d'onore . Non ignoro che la grandezza consista nella quantità dell’azione, e nell’effètto: ed ecco ciocché si rea- lizzò in Ansaldo. Come uomo di Stato egli sostenne la Patria col vigore de’ suoi consigli, rolla sublimità de’ suoi talenti , colle ric- chezze ammassate dalla sua temperanza. Come semplice Cittadino, fu il benefattore di quanti potevano essere oggetti d’una illuminata beneficenza, cui non si contentò di esercitare nel ristretto tempo della sua durata , ma volle estendere all'avvenire e che anco- ra persiste . Non solo vivendo fece codest’ uomo il miglior uso delle sue ricchezze, ma fece che la sua volontà restasse perpe- tuamente benefica nella serie de’ secoli. Incominciò egli dal con- tribuirc i mezzi che perfezionando la Ragione perfezionano si- milmente la Morale , cioè , dal fare assegnamenti per **l*a publi- '-* ca istruzione , e stabili non solo delle Cattedre di Scienze , ma som- Digitized by Google   4-i xvii somministrò anche soccorsi a coloro che v’attendevano'. Egli non trascurò moderatamente i luoghi religiosi , gli ospedali ed altre fondazioni di pubblica pietà . Egli pensò da uomo libero e non da Aristocratico : volle che tutti partecipassero della sua beneficenza ; quindi non solo ebbe in mira le opere dan- neggiate dalle passate guerre , come la darsina , il porto , le mura , i ponti e i mulini , ma lasciò altre somme considerabili per le ordinarie spese della Republica ; liberò dai debiti Je ga- belle che già troppo aggravavano il popolo Genovese » nè gli Stessi agricoltori furono obbUacì nelle sue liberalità e benefi- cenze • • La pubblica beneficenza non gli chiuse però il cuore ad una più propria e particolare del suo nome e della sua famiglia . Le risoluzioni domestiche, si osservano più facilmente nel tem- po che quelle degli Stati . Ansaldo lo vide ; e considerò che della sorte . Quindi da gran politico pensando che , nelle Ari- stocrazie specialmente, dalla povertà de’ Nobili incomincia la corruzione , volle , per quanto potè , prevenire questi tristi ro- vesci della fortuna , formando nella sua Casa una quantità di beni , che potesse decorosamente mantenerla , e stabilendo per tutta la famiglia un Albergo che fosse atto a sostenere senza avvilimento Io splendor del cognome Fece de’ legati partico- larmente per i Grimaldi che attendessero alle lettere , con pen- sione che durava per anni otto : volle che le donzelle Grimaldi avessero nella loro collocazione un conveniente soccorso ; e nel- C le aeoaeeseueaaysa Digitized by Google   4 xviu >4* le annue liberalità che per i poveri stabili , volle che non fos- sero obbliati quelli del suo nome , che una rivoluzione sventu- rata poteva in questa classe collocare • Una cosi estesa e perpetua generosità , un uso cosi giusto delle ricchezze , una liberalità , che si propagava fino all'ultimo Cittadino » riunite a tutte le altre qualità che gareggiavano ad ornarlo fece dunque bea meritare ad Ansaldo il’ titolo di Gran- de : e più lo merita a’ giorni nostri quando un lusso distruggi- tore à estinto negli animi ogni sentimento di beneficenza. Ma se dall’ antica veneranda tomba alzasse il capo il Grande Ansaldo* forse esclamerebbe: O Patria, ingrata Patria, o Posteri più in- grati alla mia memoria ed ai miei sentimenti ! Io non feci delle mie ricchezze un Banco di Commercio, ma di Beneficenza Come V amministraste voi verso quella famiglia , che per virtù e per le circostanze diveniva la prediletta nella mia intenzione ? Voi nega- ste al vostro sangue , al vostro nome stesso quei soccorsi che lo Spirito di Patria , d' Umanità , di famiglia mi dettò contro i di- spettosi rovesci della Fortuna . Ah ! un nome illustre non ì che un tormento se è accompagnato dal bisogno L Ma sento da un cu- • po oscuro Chiostra ì teneri ed acuti accenti di cinque mie figlie , che rivolte all’ antica Patria ridamano i diritti di quel sangue che loro scorre nelle vene . Possano queste voci giugnere ai vostri cuori , ed onorarvi di meritata riconoscenza ! Genova , Grimaldi , calmate V ombra del vostro Benefattore -1 Il nostro Grimaldi fu veramente desiderato molto dalla Re- publica per onorarlo personalmente e promuoverlo alle su-- iy pren>£ Digitized by Google   «H x*x preme Magistrature ben meritate da’ suoi talenti e dalla sua virtù ; ma lé circostanze Napoletano non gli permisero d’ accettare il meritato invito si contentò di farsi più denza colla Filosofìa , e l’esercizio di essa con quello della virtù. ta la Filosofìa par che debba zione, cioè in tutti i rapporti degli individui fra loro e verso , di famiglia e I» applicazione al Foro e desiderare, dando a conoscere con diversi Responsi ch’egli aveva saputo combinare la sublime Giurispru- yjjpRapasserò intanto leggiermente su questa professione, eh* per qualche tempo ei volle esercitare. Chi considera in1 Avvoca^a - Trattato Le- * astratto la qualità di Cù,reconsulto una migliore applicazione de’talenti , per che non possa vedere nella Società dove vive. Tut- servire a questo primo oggetto so-« ciale . La conoscenza del Giusto in tutta ì immensa sua esten- tutti gli oggetti coi quali sono in relazione , è I’ apice delle umano ragiuuom_ 1-oaàc—o» .do!-«wo-Adwry, applicarvi le verità di dritto è la più nobile operazione come ritrovar più i principj d’ una tranquilla della Ragione. Ma multuose bolge del nostro Foro, ed in no? Quasi ognuno conviene della deficienza delle nostre leggi della Giustizia , e della perniciosa mancanza d una vera Approvazione nei Giusdicenti e dei difetti esistenti nell* amministrazione nei Giureconsulti; e, per un effetto di vera dono di questi mali c gli altri ne profittano. Quindi si moltipli- cano all’infinito gli attori di questa scena tragica per la società e per la Morale ; e questo malore contribuisce sempre più alla C a dete*. ragione fra le tu- quel vertiginoso frastuo- corruzione, i più ri- , Digitized by Google  a..  «H xx deteriorazione del costume ed all’ affogamento de’ talenti , che nella loro freschezza rivolgono facilmente , come le piante , le radici a quella parte ove più abbondantemente possono succiare gli umori nutritivi 11 Grimaldi cautamente portò il piede su le sponde di code- ito baratro pericoloso . Senza immergevi nel bujo , vedeva dal- la circonferenza a quali limiti bisognava rimancrfe . Non cupido d’una gloria efimera e fugace, non avido di que’ lucri, che di rado sono il premio della virtù e del valore , egli si contentò dell’ approvazione della Ragione piuttosto che di quella del vol- go ammiratore Se alcuno volesse dubitare , che si ritenesse in tali limiti per mancanza di convenevoli talenti , l'Opera legale che egli ancor giovine molto dettò , potrebbe facilmente sincerarlo . Nell’ e- là di soli ventiquattro anni egli publicò il libro Dt Succ(s- sionihus legitimis in urhr Nfapolir.ina (a) - Qual differenza fra questa e tante altre Opere legali uscite dal nostro Foro , che I opprimono il buon senso ed oscurano la Ragione ! Tutte le co- gnizioni antecedenti , necessarie a formare non dirò un Giure- consultomaunLegislatore, nonmancavanogiàalGrimaldiin età cosi giovanile. La Storia e la Filosofia erano cosi amalga- mate nel di lui spirito , che la conoscenza prattica e teorica dell’ Uomo e delle società gli era sempre presente per conoscere ( ) lo Napoli 1766. le Digitized by Google   le cause delle sue idee e de* suoi movimenti , e per ravvisare quali fossero i piti convenevoli alla sua destinazione. Egli dun- que vide la materia delle successioni legittime come provenien- te dai primi dritti della Natura realizzati nelle società collo sta- bilimeuto della proprietà e dei dominj . Dimostrò come lo staro della legislazione civile d' una nazione siegua la sua politica Costituzione ; e quindi in uno stesso popolo la differente ma- niera di considerare gli stessi oggetti, secondocchè i rapporti si alteravano. Venendo al suo oggetto, cercò rapidamente 1’ origi- ne deile Consuetudini N«potetene' te rapporto alle successioni nell’ antico stato Uepublicano di questa Città , nell’ analogia di governo colle altre Greche Republiche , e con una felice e nuo- va applicazione ne trovò la filiazione nelle leggi dì Solone . L’ erudizione sparsa in queste ricerche è ampia , ma non lussu- reggiante ; e cosi procede nel resto dell'esame, cioè nel mostrare quale fu quecta pwrt* «talli cibilo JcgreUxione net 'SUCCOSsivi cambiamenti della Romana Repubiica . L’Aristocrazia espressa tutta nella legislazione decemvirale fissò le agnazioni, e l’esclu- sione delle donne , avendo in mira la conservazione e perpetui- tà delle famiglie Aristocratiche . I progressi alla Democrazia , ne- - cessario frutto dell interno vigore dello Stato , che liberò i beni dalla schiavitù , che sciolse gli individui dalla dipendenza dell’ opinione e della servitù personale; che strappò il codice arbitra- rio dalle mani sacerdotali , cangiò anche questa parte di legis- lazione : e le donne furono riguardate come parte della specie e della Società . Tutto cangiò coi cangiamento del Governo ; e si   serbarono i nomi mentre le cose non erano più . Le forinole e le solennità de’ Giudiy , che costituiscono fino ad un certo ter- mine la libertà civile , cederono a quelli detti impropriamente di Buonafede, chesembranopiùconvenientiadunGovernome- no complicato , facendo strada a quell’ arbitraggio che è la . , morte della Civile libertà . Le alterazioni in questa parte della legislazione .si fecero insensibilmente sotto gl' Imperadori fino a quelli , che con nuova Religione portarono nuove leggi sul Tro n no. Ma qui non è luogo di seguire 1’ Autore in tutta la serifc. istruttiva delle tante idee utili e nuove , che s’ incontrano ad ogni passo della sua Opera . Tocca ai profondi Giureconsulti il giudicarne con dettaglio » e far vedere qual precisione e chia- rezza egli seppe portare nel pii oscuro legale labirinto, quan- te cognizioni seppe nobilmente combinare alla dilucidazione del suo oggetto , e quale vera utilità debba produrre la di lui Opera non solo nel giudicare , ma nel riformare questa importante par-» .te delle nostra legislazione* Asciò noudimcno 11 G,!malcl‘ <*’ immergersi nelle cure del gene. JSL*Foro, nonriguardandolocomeoggetto, chedovessein- tieramente assorbire il prezioso tempo delle sue applicazioni , ed assoggettare il fervore de’ suoi tajpnti e la forza del suo spirito attirato da oggetti più sublimi e più generali . Restò egli per alcuni anni nel silenzio, ma non nel riposo , poiché l’ attitudine formatasi allo studio ed alla meditazione tira il stato di piacere iella sua anima vigorosa, che quindi sentiva il più vero bisogno di Vita di Dio- ‘TìT Digitized by Google  •H XXXIII K- di pascersi e nudassi d’ idee e sentimenti analoghi al stio ca- rattere deciso. Questo vigore di sensibilità , che sempre accom- pagna i talenti superiori perchè li crea , non permette che lo spirito resti confinato dalla stretta circonferenza delle idee e delle virtù comuni • Sorse quindi quel sentimento di perfezione unico scopo del Genio e della Virtù , che fermentando nelle a- nime sublimi tenta tutte le vie per aprirsi la strada all’ utile Gloria ed alla verità . V" Nella vecchia Storia della Filosofia cioè de’ progressi della , Ragione e degli errori , vide I! Grimaldi i grandi sforzi degli amichi Filosofi, che non più contenti d'una Morale di prover- bj , parabole e sentenze , si studiarono di ridurla a princlpj ge- nerali che potessero condurre 1* uomo In tutto 1’ uso della vi- ta . Ma esaminando particolarmente la dottrina e condotta loro, vide quanto è difficile una lunga Epoca della Ragione . Trovò nondimeno fra quegl» antichi Istitutori e maèstri dBTMorale un Filosofo che fissò tutta la sua attenzione ; e questi fu Diogene del quale volle scrivere la vita . (<r) k Credè alcuno , eh’ egli imprendesse quasi per giuoco , si, fatto assunto t ma chi ha letto questo nobile opuscolo , può giudicare della verità della sua intenzione. Egli fece vede- re in Diogene non quel Cinico descrittoci da Laerzio , non quell' impudente che ci dipinsero gli altri , nè quello stravagan- te • '^''•'' _,i (a) in Napoli 1777. ,  Digitized by Google   4*4 XXIV le che*corrimunemente è creduto.' ;.ma provò ad evidenza che quel Filosofo fu il più conscguente r giacché le azioni .corrispo- sero sempre alla sua dottrina : e codesta era la più vera , la più utile , la più giusta che fosse ' •* dettata insind allora . Sinope , Corinto ed altre Città ono la memoria di quell’ illustre uomo coi bronzi e con 1 marmi , ma non poterono salvar la di lui fama presso l’invida posterità . Grimaldi nel Se- colo XVIII. rinnalza Diogene su i monumenti erettigli da' suoi compatrioti e diviene il Restitutore della di lui fama , e della di lui virtù . La Morale di Socrate era divenuta puramente nominale , quando a Diogene sorse il talento di reintegrarla ad uso dell’ umanità . 1! principio della Morale prattica par che consista nella facilitazione della Virtù . Non basta il dipingerne le bellez- Iezze , l’ indicar^ le attrattive , ravvivarne il quadro col più vago colorito , se pei ci sì mostra divisa ed isolata dall' insor- montabile vallo del dolore . Diogene volle dimostrare , che que- sto divisorio è d'invenzione umana, è creato nella Società , e che bisogna perciò ravvicinarsi alla Natura. Questa vera osservazione gl’ indicò la Temperanza per un principio fondamentale della Virtù . La Temperanza non è un’ dea assoluta : essa ha una gradazione dì beni da un estremo ali’ altro della 'sua lùtea . L’ uomo , questo animale privilegiato , che può vivere in tutti i climi e nudarsi di tutti gli alimenti , ha più facilità alla sussistenza . E dunque un effetto dell’Educa- zione quello che gli dà quantità di bispgjù , che non vengono dalla Digitized by Google   . ^xxv^4» - «aaBeMecSeaooeoeeseaaoosMsaeeseeeiMjeBft dalla Natura . L’ uomo diviene cosi un aggregato di bisogni 6 di desìdeij,che accrescono m ragion diretta la sua sensibilità al dolore, senta proporzione relativa al piacere ed alla felicità . Se questo spiacevole accrescimento di sensibilità è effetto dell’ edu- cazione , esso è opera dell’uomo , è di creazione sociale; vi è dun. » que tutta la possibilità d’ abolirlo . Si può essere decentemente coperto d’un Pallio senza infelicitarsi per non avere in dosso le gemme ed i preziosi metalli ; si può vivere bene e sano senza esser velato dalle leggerissime spoglie dell' Oriente o soffogato sotto i rarissimi velli del Settentrione : e , se dell’aria comune la più respirabile è la più libera , si può vivere, e meglio, sen- ta le stanze ermeticamente chiuse , senza che sieno ricca- mente foderate , e senza richiamar tutte le arti e tutti i climi ad estenuarci ed estinguerci nella mollezza • Tutte le eccedenti ricchezze s'acquistarono forse alle spese della virtù; aveva dun- que egli regione di veder I» Temperanza come la base princi- pale di essa- Ma se per la Vmù è necessaria quella tal disposizione abi- tuale dell’ animo che si chiama Tranquillità , questa è simil- mente figlia della Temperanza: L’animo distratto dalle passioni disanaloghe alla natura dell’ uomo , cioè non tranquillo , non può essere virtuoso . Diogene non diceva: „ fatti del dolore la strada alla virtù tristo comando alla Natura umana - Non diceva : „ divieni apa- to ed insensibile „ altro precetto peggiore e non conducente alla perfezione morale- Diceva solo: „sii temperante che sarai tran- D quii-   . 4^ xxvi >4* jquillo , ed essendo l’ uno , -e 1* altro puoi essere virtuoso . „ Finché 1’ uomo è distratto da sensazioni vaghe « immerso ne’ desiderj , lacerato dalle passioni non sentirà che se stesso ; ma quando nè i bisogni , nè le idee, nè le immaginazioni tumultua» rie Io tormentano , egli deve essere necessariamente benefico , cioè , virtuoso . Se le ricchezze fossero sempre necessarie all’ esercizio della beneficenza , la virtù sarebbe solo riposta nell’ uso de’ metalli , ed il non ricco non potrebb’ 'essere giammai Virtuoso . La virtù , nel sistema di Diogene, non doveva essere Un fantasma dell’ immaginazione , un’ astrazione per alimenta- re le dispute de’ Moralisti; ma bensì il partaggio dell’ Umanità» il vero sistema della beneficenza universale • Se la virtù è nell’ azione , e quest* azione dev’ essere facile , equabile , pronta * Diogene voleva render l’uomo libero dagli inutili ceppi fabbri- cati a se stesso, per renderlo attivo , benefico , virtuoso . Uno aguardo anche passaggiero su la Morale esistente prova la ve- rità e la profondità delle Ciniche osservazioni Qual era diuresi Ja serie ragionata e conseguente delle idee morali di Diogene ? Temperanza , indipendenza , libertà , tran- quillità , beneficenza ; virtù tutte nascenti 1’ una dall’ altra • tutte conducenti per la più agevole strada alla meta della Morale • La Vita di Diogene non ismentì i di lui principj . Egli visse libero , tranquillo e contento , cioè virtuoso e felice . Apostolo della vtréi e della virtù , egli non fece che predicarle . Un Re «d un llot^ erano eguali agli occhi di lui : la verità e la virtù fa- . Digitized by Google   $*4 xxvii $4* ess<se-e»eoes>eoe^oe<==yat=sor=>oot=r»-sot=xì eeyecaìtjesa faceva egualmente il loro bisogno . Diogene rispettava le leg- gi e la pubblica Autorità da vero Filosofo , cioè , approvan- do quelle che erano dirette al pubblico bene , ed indiziando quelle che mancavano di questo fine . Venerava la Religione ; ma ne abominava l’ intolleranza e l’ abuso , che conduce sem- pre alia superstizione. Rideva di quei tanti Impostori, che anche ia q-v «empi sotto vario manto e varie regole dividevansi il culto e le sostanze de’ divoti . Si vuole che dissuadesse e disap- provasse il vincolo conjugale ; ma come fargliene un delitto ? Che altro vedeva egli nelle Società de’ suoi tempi che la trista alternativa di nobili , e plebei , di ricchi e miserabili , di ti- ranni e di schiavi ? Un Filosofo non può amare la moltip li- catione e la riproduzione di queste razze degenerate dallo sta- to pteseritto loro dalla Natura. Diogene non morì, come Socrate, martire della Verità e della Virtù : egli ritornò nel seno della Natura così spontaneamente come n’ era uscito . La distruzione e la riproduzione dei corpi organizzati è nelle sue immutabili e costami leggi , che non «paventano il Filosofo , il contemplatore della Natura , l’ amico della Ragione. La vita di Diogene rettificata da una etilica imparziale c» mostra un modello di vera vita virtuosa in tutte le circostanze e situazioni . Non fu dunque nè per giuoco , nè per gloria per vanità che il Grimaldi imprese a dettagliarne le azioni e la dottrina , ma per rendere un giusto tributo a quel Filosofo cui ayeva cercato d’ imitare > o per partecipare al pubblico un vero D a fiJCh , nè Digitized by Google   xxvm ^ tJtis»oe«cM»eé<Jsae«^Qee=»oeH=>ee^eg=aem^->gceg»oogrg>r'e)gac modello di filosofica virtù. Egli si dichiara in più luoghi della sua Opera , che Io stato attuale delle Società non comportereb- be una vita esteriore come quella di Diogene propone come un modello, al quale quanto più l’uomo s’accosta., più s’avvicina alla perfezione . Non altrimenti fece Grimaldi . Le virtù di Diogene furono le sue. Ne chiamo in testimonio gli amici, che lo anno veduto in tutti i punti della sua vita . La tempe- ranza de’ suoi desideri , la tranquillità dell’ animo suo , la veri- tà e la sincerità de’ suoi sentimenti , la libertà del suo spirito , il coraggio e l’ amore per la verità , la tolleranza de’mali , 1’ ar- mor della Pubblica Beneficenza , il sentimento costante de' do- veri, e tutto condito ed addolcito da una sensibilità purificata, lo resero rispettabile come Diogene , ma più amabile , perchè seppe combinare i principj e 1’ uso della Virtù, con tutta la de- cenza della vita sociale, e coll'esercizio di quelle funzioni e do- veri, che formavano la sua civile esistenza Riflessioni so- FOn sono certamente le idee astratte e le sublimi nozioni, pra rInegua- glianza. che possono far meritare il. titolo rispettabile di Filoso- fa . Se la virtù non è posta in azione , se le grandi idee non diventano di qualche uso , se la fiaccola s’ asconde sotto il moggio , non solo si è in colpa , ma si è reo di lesa umanità. colpa che meriterebbe maggior castigo chel disprezzo e i’obblio. Sentiva Grimaldi nel più vivo dell’animo questa verità, e per- ciò veggiamo come la sua vita fu ima continua serie di me- ditazioni e d’azioni tutte coordinate allo stesso fine di migliorar se . ; ma che egli lo Digitized by Google  .-  4*4 xxix £4* se stesso , e di essere utile agli altri Quindi i suoi non inter- . rotti srudj e le continue meditazioni lo condussero alle più estese cognizioni e alle più utili che si possano acquistare Or quando lo spirito è abbondantemente nudrito d’ idee e di cognizioni varie, quando è gu lungamente abituato al difficile esercizio di molti e conseguenti raziocinj , quando codesti sono specialmente diretti verso qualche oggetto particolare , che per- ciò divicu dominante : l’animo prova una certa inquietezza e quasi un’ oppressione da questa folla di pensieri , e par che sia costretto a liberarsene . Chiunque ha scritto sopra qualche og- getto particolare e lungamente meditato , ha dovuto provare in se questo sentimento penoso . Quindi la volgare espressione dà chiamare le opere parti dello tpirin , non manca di una ve- rità nella sua origine;- ma non tutti i parti sono regolari . Ho indicato antecedentemente la predilezione che il Grimaldi ebbe sempre per le idee morali , e la facilità che aveva di ri- chiamarle ai principi pid sublimi, e di renderle più attive e fe- conde : ma dopo d’avere per più lungo tempo estese le sue ap- plicazioni su tali oggetti li vide in tutta 1’ ampiezza della qua- le sono capaci , e fra tanti fenomeni Morali che presenta la So- cìtà , fu specialmente colpito da quello , che stende il suo do- minio su tutti i punti dall’ esistenza , dico della Morale Ine guagliania A tutti sono note le riflessioni che l’ eloquente Gian-^iacomo portò su questo punto; ma la ragione trasportata dall’entusias- mo lasciò de’ gran ruoti fra le idee principali , balzò agl! estro-  .,  44 xxx >4» estremi obbliando le idee intermedie e necessarie, guardò 1' og- getto lateralmente > e quindi fra molte vere e nobili osservazio- ni ci presentò de’ paradossi in luogo di tranquilli ragionamenti ed utili risultati . Vide intanto il Grimaldi di quale utile fosse il ritornare solidamente a quest’ oggetto > che è quasi la base del- la Morale e della Politica . Prescélse quindi un campestre ed isolato soggiorno ; e lungi da ogni distrazione , irapenetrabile anche agli amici ed alla famiglia , concentrato lo spirito in que- sta idea principale , impetrava dalla Natura la rivelazione delle verità più utili all’ uomo . In codesto stato egli delineò il piano delle sue Riflessioni sopra VIneguaglianza tra gli uomi- ni (<*) Le sue prime considerazioni gli scoprirono , che la base dell* Ineguaglianza è nella Natura . L* Ineguaglianza Fisica la generatrice delle altre: è dunque legata ad un ordine: è per conseguenza una legge immutabile ed eterna . Le stesse ricerche preliminari, che fa su questo punto, portano f espresso carattere della novità . Colla più seria attenzione poi assottiglia il suo Sguardo per penetrare nei più complicati recessi di quest’ Esse- re sublimemente organizzato , che si chiama Uomo - I più te- nui rapporti non sono negletti; e combina una maravigliosa mol- tiplichi di cognizioni per farsi strada all’ oggetto . La Fisica la Fisiologia , la Storia Naturale , quella particolare dell’ uomo 00 In Napoli 1779-80. è perciò e del- Digitized b’y Google   44 xxxi h» e delle Società , tutto è da esso ordinatamente richiamato a dare il risultato , che si era proposto , cioè , a far conoscere 1* essenza reale di questo composto meraviglioso. Incominciando dal punto principale , cioè, dall’ Ineguaglian- za generale degli esseri organizzati , passa all’ esame particolare della Ineguaglianza che nasce dalla diversa destinazione degl'ìnr dividui della stessa specie . Osserva , che la differenza sessuale si va distinguendo a poco a poco dagli esseri più semplici 9 meno complicati fino ai più composti e perfetti . Che questa differenza porta per necessiti di natura una Ineguaglianza di- stintissima nel temperamento, nella forza , nel carattere , nelle passioni , ed in tutto ciò che si chiama meccanismo e sensi-* biliti. ......, _tv-:• ' Si trattiene poi ad osservare la dissomiglianza in ge^qfgjp» degli esseri organizzati; e riducendo questo paragonerai ferenza che vf ha fra IV m+eeanlSrtto delTwnno <fJ»!f$..rR|ljl'* altri corpi organici ', rileva qual sia l’essenza fisica pbitós’' aefc. la spezie umana • Si apre quindi la strada ad esaminéft * geograficamente le differenze, e quindi 1’ Ineguag(^|5- de’ P|po- li e delle Nazioni. Egli scorre con abbondante." -ed adatyy^fcrvp. . dizione la superficie tutta del Globo , indicando le cagioni pria- cipali e le concause , che rendono gli esseri delIiL stessa specie tanto dissimili gli uni dagli altri , e come questa dissomigliati? za fìsica porti nel tempo la morale . Ha riflettuto e dimostra^', che la sola differenza di climi non poteva-produrre questo tv* levantissimo effetto, ma che la situazione locale, la quali$ -delP^- ’-;' ’,aria , , . * • Digitized by Google   xxxii >4 •ria > le maniere diverse di vivere , di nudrirsi , d' abiure vi concorrono necessariamente , e sono forse cause ed effetti nel tempo stesso . La Natura ha prescritto dappertutto la legge dell* Ineguaglianza . Gli uomini sono ineguali, come le piante della •tessa spezie in diverso dima ed in diverso suolo, e come diffe- renti sqno ancora gli alberi della stessa selva . Le cagioni sono qualche volta impercettibili, ma gli effetti ne manifestano resi- stenza . Da questa Ineguaglianza più apparente , par che divenga una Conseguenza necessaria quella della Sensibilità . Nel tempo ster- eo che 1’ Autore sbandisce la Metafisica delle Scuole , tratta i più malagevoli e spinosi punti della Psicologia , e combattendo ora i sistemi ora le ipotesi e le sottigliezze , si fa strada alla Realità , . Per una lunga serie di osservazioni egli gradatamente giunge a stabilire ; Chi la sensibilità negli esseri organici siegue i gradi dfl loro meccanismo ; e che la differenza che vi è fra il tertiro dell' uomo e quello degli altri animali cossituisce la ca- -tatteristica essenziale della nostra seusibiihd paragonata colla ion • • / Che che ne sia della sensibilità assolutaci sonode’corpi più « meno conduttori , ma il più d’ ogni altro è 1* uomo . L’ esame particolare degli organi de’ nostri sensi , paragonati con quelli degli altri esseri sensibili, ne compruova maggiormente 1' assun- to , che anche più resta dilucidato colla dichiarazione di ciò -che si chiama Senso interno , punto centrale della sensibilità e *. *he par che segua la gradazione dd meccanismo e della sen- sibi- * Digitized by Google  .  xxxili >4* eoofesamjwegWBesaoexeBui-^BeSeeeaeeeaaetja sibiliti istessa . Ciocché 1’ Autore ha ridotto nel cap. V. della prima Parte basterebbe per fare un’Opera illustre. L’esame che egli fa della sensibilità , riducendola quasi agli elementi primitivi che la formano e la generano , dimostra che essa non può essere eguale fra gli uomini ; e rileva la dispia-» cevole verità , che il tuono fondamentale della sensibilità è il dolore : tristo partaggio di quest’ essere , di cui divien prin- cipio di moto , e di sviluppo d’ attività in tutu 1’ esten- sione . 1 Alla sensibilità sicgue ì* intelligenza come l’effetto alla causa e che per conseguenza deve portar 1* istesso carattere della sua genitrice. Questa è forse l' Ineguaglianza la piò espressa fra gli uomini ; ma a dir vero la meno fastidiosa . I piaceri dell’ intel- ligenza sublime non s’ acquistano forse che alle spese dell' esi- stenza e della vita. Ne fu un esempio funesto il nostro Gri- maldi medesimo Dalla sensibilità e dall’ intelligenza risultano le passioni e no portano il carattere . Chi non ne vede continuamente l' Inegua- glianza? Due illustri Moralisti Francesi , due nomi immortali per i progressi dalla Filosofia , Montesquieu ed Helvetius , so- stennero le cause uniche delle differenze generali fra gli uomi- ni , 1’ uno rapportando tutto alle cause fisiche , 1’ altro alle morali ; ma 1' amor del Sistema nascose alla loro vista la chia- ra verità che rivela la Natura. Se la sensibilità e 1’ intelligenza fanno nascere le passioni sono queste che determinano la volontà. Tutto dunque è Ine- E gua- Digitized by.Google  .  xxxiv eoaeejeBeaseesaeesoeeBeeaaeaoiyaeo >aiicjaL<ju< quagliatila ; dai primi composti fisici fino ai più sublimi risul- tati morali, tutto siegue questa legge eterna ed inevitabile della llatura . Lo stato d Ineguaglianza morale, cioè dell' uomo come essere pensante, è estesamente sviluppato nel secondo Tomo di codest’ Opera, dimostrandovisi che questa Ineguaglianza è in ragion composta delle facoltà intellettuali dipendenti dai meccanismo particolare degl' individui, e dalle cause esteriori , che più o meno si combinano o si coordinano a svilupparla. L’ Uomo è in relazione con tutti gli esseri che lo circonda- no . Ogni sensazione o piacevole o dolorosa fa una parte della sua vita o della sua esistenza ; e questo è nell’ ordine eterno della Natura , perchè i rapporti degli oggetti fra di essi e con f Uomo sono figli di quella Essenza delle cose , che forse la Natura ci ha velata per sempre ; ma sono quindi necessari co- me la loro stessa esistenza. , La sensibilità è il mezzo che lega V uomo agli altri esseri : Questa facoltà che si estende, si nobilita, si sublima , à dun- que varj gradi relativi a se stessa ed agli effetti che la percuo- tono . Quindi la diversità de’ bisogni e quindi delle percezioni » delle idee c dei sentimenti, che colle necessarie attenzioni svi- luppano le intellettuali facoltà . Ora essendo riconosciuta 1 ine- guaglianza della sensibilità dipendente dalla differenza del parti- colar meccanismo , zie siegue necessariamente , che le impressio- ni degli oggetti esteriori non sieno neppur simili ed eguali ne- gli individui . Ed ecco come la diversità di bisogni e di desi- deri , ' Digitized by Google  .  xxxv derj, che forma l' ineguaglianza morale fra gli uomini contemporaneamente questo principio d’ineguaglianza nella Na- tura stessa , cioè , nei bisogni relativi alla sensibilità di ciascun individuo . Chiunque non vede altro nell’ Uomo in ultima analisi che il Sentimento e V Espressione ravviserà in un colpo la ve- , rità di fatto delle idee dell' Autpre . Stabiliti tali principi , egli rileva primamente colle più giuste osservazioni che 1 indicazione dell’ Uomo Naturale è un’ inven- zione gratuita ed erronea è sempre lo stesso, e allorché diversifica per le circostanze, sono anche codeste naturali , cioè, nell’ordine della Natura che l’Uo- ; raononàuncaratterease, maquellocheè loèperlasi- tuazione relativa alle circostanze giacché in esso vi è altro ,, che la sensibilità modificabile dalle cahse esterne , e circoscrit- ta dalla forza del meccanismo di ciascun individuo. Che quia- di Io stato morale di ciascun individuo i relativo alle circo- stanze sociali combinate con quelle , che sorgono dalla propria sensibilità Con questi principj si apre la strada all’ esame morale deU’ uomo . Egli lo sottopone all’ esperienza , non come un semplice Fisico farebbe, ma come il Chimico più esperto e sensato, sottopo- nendolo all’ operazione di diversi agenti , analizzandolo , ricom- ponendolo , e combinandolo , per vedere in quale stato possa dare più felici risultati , risultati che caratterizzino la differenza e 1’ Ineguaglianza morale degli uomini e delle Società . L’ Uomo solitario è 1’ oggetto di queste sperienze esposto alla E a sciti— dei Filosofi ; perchè l’uomo per Natura , stabilisce Digitized by Google   XXXVI ocsfleesaoejeeoooeaooesocsocBooeaooeaoee'Mtoo semplice vista ; ma nella Società egli è messo ad un vero ci- mento, giacché ivi siscuoprono i varj gradi di rapporti, di affi- nità, di coesione Scc. su i quali si può misurare la sua moralità. Dopo d’ aver considerato che i rapporti dell’ Uomo solitario sono quasi negativi giacché sente appena i bisogni d’una sus- , sistenza che non conosce , per passare a considerarlo nello sta- to <Ii Società, riflette primamente , che la sociabilità è un» qua- lità essenziale dell' uomo ; cosa dimostrabile per ragionamenti se non fosse una verità comune , continua e coesistente colla stessa Umanità. Le Società anno intanto diversi gradi alla per- fezione . Il minimo par che lo conosciamo : ma il massimo , se vi può essere per 1’ uomo , sarà riserbato ad epoche più felici . Ma come tutti questi immaginabili gradi di perfettibilità sociale mettono i componenti in 'rapporti e circostanze diverse , cosi la sensibilità e la morale saranno del pari differenti . Gli uomini posti vicino alle catastrofi del Globo dovettero avere de’ senti- menti proprj ad essi , che nelle prime società di famiglia dovet- tero provare cangiamento ed alterazione . Lo stesso dovè acca- dere quando le famiglie cominciarono a moltiplicarsi , e la gran selva della Terra a popolarsi di selvaggi , e poi per successivi e varj gradi prevenire allo stato di barbarie ancor molto esteso e vergognoso per la specie . Tutti questi lenti passi dell’ umana perfettibilità sono partico- larmente osservati dall'Autore , sempre riportando tutto ai suoi principi , e facendo vedere come naturalmente ne discendano . La gradazione de* bisogni porta quella delle idee e de’ rapporti, dal- Digitized by Google   xxxvir .1 KiueBeteaaoeaeoeeaaoc ^>3frC-»o ccS3g>uce:!>o ysra& dell affinamento della sensibilità , dello sviluppo delle facoltà in- tellettuali. dell attività dello spirito, e finalmente della riflessio- ne . figlia necessaria di quell'olio , che susseguendo ai bisogni soddisfatti > ne vede o immagina gradatamente de' nuovi . In qnesy varj stati, per i quali passa 1' uomo, egli (à vedere come nascano l' indipendenza e la libertà , come si alterino e si per- dano, e come i sentimenti morali cangino d’aspetto al cambiarsi dei rapporti e delle circostanze. In somma egli fa la Storia mo- rale della specie , se non comprovata da documenti che devono mancare , almeno qual doveva essere per necessità di Natura- Scorsa cosi la Storia oscura dell Umanità, dove sempre l' Ine- guaglianza domina e campeggia , perviene finalmente allo stato di luce , all’ epoca della Società civilizzata ed ingentilita . E’ permesso al Poeta ed all' Uomo fortemente appassionato di riso- spirare le selve al centro del vortice sodale , come è loro per- messo di evocar le Ombre e le Furie , che io guidino nel per- petuo albergo dell’obblio . Ma il tranquillo Filosofo , compassio- nando gli eccessi della sensibilità e della immaginazione, richia- ma 1’ uomo ai suoi doveri rimostrandogli le beneficenze della vita sociale • Quando si considerano le Società civilizzate , e la perfettibilità della quale sono capaci , bisogna aver lo spirito falso per abborrirle , o per preferire ad esse uno stato naturale, che non esistè giammai in Natura. Nelle Società solamente si svi* luppano le facoltà morali ed intellettuali deli* Uomo : è dunque in esse che si purifica o si perfeziona la specie. Diogene vole- va ravvicinar 1' Uomo alla Natura , non col degradarlo mino- rando   XXXVIII H* »ando la sua esistenza , ma colla virtù accrescendola e miglio- randola ; e questa non è anch’ essa il più nobile ramo dell al- bero sociale ? E’ vero che nella Società si sviluppa e manifesta maggiormen- te 1’ inegu3gliania morale ; ma in che altro consiste essa che nei gradi di miglioramento del carattere e dei sentimenti degl individui ! E se anche le circostanze sociali portano delle catti- ve abitudini, che altrimenti non esisterebbero, codeste sono mo- derate e ritenute dalle leggi conservatrici . Ma questo rientra nell’esame dell’ ineguaglianza politica, che 6 1‘ oggetto della Ter- za Parte. Qual infinita differenza fra 1 selvaggio e 1 uomo civile ! E' la crisalide trasformata in farfalla . Questa metamorfosi , eh’ è un miracolo agli occhi volgari , non è che un naturale svilup- po a quelli dell' attento Naturalista . Tale è 1’ uomo sodale per chi medita la Natura umana . Ma qual differenza ancora nel seno stesso della Società ! Nel massimo della civilitazione si trova spesso lo stolto selvaggio ed il barbaro feroce , 1’ uomo di genio e lo stupido , il virtuoso Filosofo , 1 imbecille supersti- zioso , 1‘ opulenza ed i cenci ; il Frate ed il Militare esistono nella stessa società e sotto lo stesso Governo. Ma fra i Governi ancora quai triste differenze ? "Lo stupido Despota da un trono invisibile sacrifica milioni di schiavi ; mentre un Rè vive da amico col popolo che lo adora . Un Senato Aristocratico a pas- si lenti e regolari calpesta un popolo che crede degradato per Natura , e che lo è spesso per sentimento ; mentre una Demo- cra- Digitized by Google  crazia , sragionando quasi sempre nelle sue risoluzioni opprime , ,  «M-xxxix h* sooooeaaecaje e tiranneggia gli altri popoli che le appartengono La tumultua- . ria libertà è al centro- la schiavitù , e l’ oppressione alle circon- ferenze . Che strani misti ancora possono sostenersi , senza un contrasto di forze resistenti l E quali specie di sentimenti nascono ancora sotto queste varia- te forme! L opinione sostenuta tà il vessillo dei ineguaglianza; e le leggi, sempre deboli contro • quella dominatrice dell’ Universo, la vedono spesso lor malgrado de' varj Governi , che non dal potere innalbera in mezzo alla Socie- trionfare. Ognuno si sforza per avvicinarsi revole; e se tutti gli sforzi non sono egualmente felici, cosi non- dimeno si scuote l’inerzia fondamentale dell'Uomo , così esso di’ viene un essere attivo, così si sublima a un grado superiore a tutti gli altri esseri senzienti . Le circostanze che s' incontrano , ael corso della vita, determinano gli uomini diversamente in ra- gione della loro sensibilità ; e quindi nella riunione delle azioni . formano un tutto, non di parti similari, ma differenti e dissimi- li , che fermentando necessariamente rigenerano il moto e danno origine a nuove trasformazioni Senza l’ineguaglianza le Società non sussisterebbero. Non posso» no codeste distruggerla, ma non per questo essa porta un caratte- re intrinseco di male: e quando siam persuasi che le idee mo- rali sono tutte relative , e che esse traggono la loro sorgente dai rapporti immediati dell'uomo, ci bisogna esser conseguenti iti riconoscere il bene che fa la Società col moderare e rintuzza- , a quell' insegna favo-  .,.  4*4 XL te i disgustosi eccessi dell’ ineguaglianza che viene dalla Natu- ra . Nelle Società sono nate le leggi protettrici della de- bolezza e direttrici della forza e della Ragione ; e se le Società non danno sempre quegli effetti che dovrebbero per loro natu- ra, non parmi che sia per intimo difetto della cosa, ma della Na- tura umana finora incapace d’ un sublime grado di perfezione Se nondimeno la ragione , la sperienza e la Storia ci mostrano, che 1' uomo in società è sempre determinato dalle cagioni e dalle circostanze ; e che queste sono in gran parte in mano del Legislatore e del Governo , basta far nascere queste circostanze, per far prendere agl’individui quella determinazione , eh è più atta fare la loro felicità relativa • Alfonso 1. amò le lettere , fu !’ amico de' valentuomini , li premiò , li onorò, e durarono iìno al tempo de’ suoi brevi successori La legislazione moderna d'Europa manca ancora dima parte, cioè, del premio alla virtù. Quindi ritieguaglianza divien più do- lorosa , e le leggi non communicano un moto sufficiente verso la Beneficenza . Chi a caso s' avvia per questa strada , vi si vede quasi isolato; e non potendo giugnere all’insegna dell’opi- nione per la gran folla pervenutavi per istrade più brevi, si con- tenta d’ un piccolo tugurio su la via percorsa , e colà vive da Eremita Bisogna assolutamente leggere i tre uhimi Capitoli della Parte Terza, per avere le più giuste e vere idee della Legge di Natu- ra , del Dritto delle Genti e del Civile . J principj fattizj d’ al- cuniFilosofivisonomodestamenteesaminati, colmostrareche essi Digitized by Google   •M XLI essi non s’ adattano all’ uso dell’ umanità , e per conseguenza non sono tratti da quei rapporti coesistenti colla specie , e che non si cangiano , che nei diversi punti della naturale progres- sione . Le prime leggi di Natura sono comprese nella teoria della sensibilità tanto bene sviluppata dall'Autore. Tutti i drit* ti dell'uomo, in qualunque stato, sono una emanazione di quella qualità inerente alla sua esistenza , e su di essa si devono misurare . Quindi dimostra infine che non bisogna giudicare delle azioni morali col rapportarle all’ idea di utile , perchè sa- remo sempre ingiusti ; c clic I" archetipo al quale si devono ri- ferire è la Giustizia , che vale a dire, T espressione perpetua ed eterna della morale verità Ecco il secco scheletro d'un’ Opera pienissima , fatto solo col ravvicinare il più che per me si è potuto le idee principali dell’ Autore relative al suo titolo , titolo che forse per sola mo- destia volte Imporle ; poiché *i -parer mìo , è il più completo corso di naturale Filosofia, essendo tratta dalla vera natura dell’ uomo , ed il più utile, perchè applicabile a tutta la pratica del- la morale ed alla teoria della Legislazione . Qual giustezza • qual vastità di spirito , qual’estensione di cognizioni e quale su- blimità di genio abbiano avuto parte à quest’Opera non può rile- varsi in un estratto. I Giornali d'Europa fecero eco in celebrar- la : e questa e quella del Cavalier Filangieri, facendo molto ono- re alla Nazione , eccitarono le più lusinghiere speranze di ve- der presto in un nuoyo Codice gir'effetti di questi lumi e di ’ queh Digitized by Google  ,.  XLI1 quella libertà che non si scompagna giammai dalla Ragione e dalla Virtù . Una tale Opera che sarebbe stata sufficiente per fare la cele- brità d'un uomo, che poteva farne nascere delle altre utilissime, che non pecca d’ altro che d’ abbondanza d’ idee e profondità di pensieri , avrebbe dovuto fare riposare lo spirito dell’ Autore , se avesse travagliato pel solo desiderio della Gloria . Ma que- sto sentimento lo tormentava cosi poco , che non potè calma- re 1’ attività dello spirito sempre sollecito d; pensieri utili ed interessanti , e lo diresse ad altr* oggetto , che doveva eterna- re la sua memoria colla gratitudine della Nazione. Annali del TTL sentimento di Patria, soggetto ad estinguersi sotto ‘1 di- Regno JlL, spotismo , ricomparisce nello spirito e nel cuore sotto di- versi aspetti ne' Governi moderati. li desiderio della Gloria e del Pubblico bene accompagna costantemente questo sentimento nel- ie anime ben nate ; e ciascuno brama nel suo interno , che, la sua Nazione sia la più rinomata e la più felice . La nostra Nazione è come una illustre antica famiglia della quale si contano tanti -Eroi nella Storia e le cui glorie sono coeve del tempo htcsso s ma ridotta in più povera fortuna ed umile stato , riclama solo per suo vanto le imprese c le gesta de’ suoi maggiori . Vide il Grimaldi che nella folla de' nostri Storici Scrittori si era mancato sempre a quella vista che l' ottimo Storico deve ave- re, 1' utile cioè dell'umanità e della Nazione in particolare per la qua- Digitized by Google   XLIII ì* t<.gaeoaoe3ao(^i)oce9ae5uiryj<xs)3iitsatii3aae»ioi=>» quale si scrive . Vide che uu nudo racconto di fatti non sareb- be stato che una inutile rapsodia atta ad occupare il tempo degli oziosi e degli annojati. Vide che la Storia non è altro , che la vita morale delle nazioni . Vide che i fatti che formano il ma- • teriale d' ogni Storia, non sono che fenomeni, che devono ave-* re delle cagioni . Vide finalmente che la Storia doveva essere d’ un utile presente . Ecco ciocché gli fece nascere l’ idea di compilare gli Annali del Regno . L’apparato delle difficolti da scoraggiare qualunque spirito non fecero arretrare il suo. Quel vigore di sentimento e quella co- stanza ch'ei portava in tutte le sue intraprese, lo accompagnaro- no similmente in questa pur troppo malagevole e difficoltosa. Egl’ incominciò dalla Geografia, non col far una secca no- menclatura o una nojosa discussione critica su i veri nomi a situazioni delle antiche Città e popoli : ma col dare nettamente in risultato quello che vi era di piò verificato e che più im- portava di sapere . Un Filosofo vede con occhio differente da! Filologo gli antichi fatti ed i superstiti monumenti. Così egli non si fermava sn i fatti isolati , ma combinandoli e riducendoli li richiamava quasi a nuova vita , e per tal modo con .molta fatica ci ha dato la Storia de’ tempi quasi del tutto ignoti alla Storia, stessa. Egli ha descritto Io stato barbaro del Regno prima che le Colonie d' oltremare venissero a civilizzarlo : à fatto vedere 1* azione reciproca d qua.’ popoli fra loco. , e per effetto delle j varie leggi , 1' avanzamento degli uni e la decadenza e di$tru-> ' zione degli altri; i progressi della perfettibilità Fi non sociale j Inforza DìgiUzed by Google  LXIV teMPOeeOaaoaBoeeesoeieeaeBOiuo^eeaooo» non sempre accompagnata dalle ricchezze : la popolazione o le coltura crescer col commercio e colle arti e poi divenir preda d’altri popoli più guerrieri. Egli discese fino alla particolarità di quelle costumanze che allora si chiamavano Religione , feroce o lieta secondo lo stato e carattere della Nazione. Lo stesso Go- verno economico e politico non è stato trascurato , mostrando come questi popoli liberi e divisi sapessero poi formare un uni- tà ed una forza concorde , che formasse di tanti voleri un so- lo, cioè , quella volontà generale , che è la legge eterna delle Nazioni . Le arti , 1; agricoltura , le Scienze anno anche meritato la sua particolare attenzione : e sebbene sembri eh' abbia rab- bassati troppo i popoli Autottoni d Italia , pure chi considera: attentamente, troverà, che si è egli voluto attenere più alla ve- rità Storica , che alla vanità Nazionale In tutto fi corso di questa Storia la di lui penna è sempre animata dal cuore. La tirannia , il vizio t la superstizione , che entrano pur troppo spesso nella Storia dell’ uomo , sono mostri che non si stanca mai di combattere , smascherandoli anche dove li uova coperti e velati , per far via più campeg- giare la vera gloria e la virtù, sempre rara nel corso de’ secoli. La libertà , parola volgare , poco ancora intesa , dritto prezioso dell’ uomo e più prezioso per la Società , è sempre rilevata dall’ animo del vero Filosofo , che non può far a meno d’ amarla . ' Su questo gusto egli tratta la Storia de’nostri progenitori . fin- ché essi e l’ Italia tutta non perderotto la propria esistenza , per diventare nou sudditi ma schiavi di Roma. U .  . Digitized by Google  .  4*^ XLV >4* la forma del Governo cangia il carattere morale de popoli „ Niente di grande , niente di generoso sema 1’ amor della Patria e sema il sentimento di libertà . Un lusso distruggitore, il lan- guore dell’ inerzia , la schiavitù e la spopolazione corteggiano sempre il dispotismo. E questo è il quadro degli antichi popoli sotto l' Impero de’ Romani I Barbari distruggendo l’Italia la rigenerarono. Essa non po- teva rinascere che dalle sue ceneri : ma con qual progresso lento , con quali nuovi errori , con qual nuova strage deli* u- manità riprendesse questo corso , tutto è attentamente rimarca- to dall' Autore , a cui nulla sfugge di quanto deve far vergo- gnar 1' uomo delle sue pretensioni o consolarlo ed istruirlo . Ma è inutile di parlare più oltre di quest’ Opera, che è nelle mani & ogni onesto cd illuminato cittadino . E' stata vera disgrazia della patria, che l’Autore sia rimasto a mezzo ’l corso della sua vita e del più utile prodotto , che potesse dare alla Nazione. Ecco con quali Opere Fr. A. G. rese immortale il suo nome. Ecco con quali mezzi cercò di essere un utile e benefico cittadina Ecco quali titoli abbiamo di celebrare e piangere la sua memoria. La di lui vita si può dire compresa tutta nelle Opere sue , non solo perchè le idee nuove e sublimi fanno quasi 1’ apice dell’ esistenza d’ un uomo di lettere e d’ un vero Filosofo ; ma per- chè nelle di lui Opere morali souo espresse e manifestate quelle idee, e que’ sentimenti ch'egli esercitò in tutto il corso del suo vi- vere. Tuttavolta il mio cuore sente ancora il bisogno di parlare, di qualche altra particolare circostanza. Si Digitized by Google   4*4 xlvi >4» Si inno ordinariamente delle strane idee s» la sensibilità del cuore umano . Si dispensa e prodiga spesso il titolo di sensibi- le alle anime deboli o alterate , credendosi volgarmente che la sensibilità non possa esser compagna della virtù e della ragione. Bisognerebbe essere o stupido o affatto depravato per rimaner insensibile ai più lusinghieri e naturali sentimenti; ma questi per essere conformi alla loro destinazione) devono nascere da quella analogia d' idee , da quella uniformità di sentimenti e da quel- ( la consensibilità di cuore) che formano la base armonica dell' amore.-Se un uomo sensibile resta indeterminato a questo sen- timento , non è certamente per mancanza di sensibilità fonda- mentale, ma dal non essersi ancora incontrato con un cuore v che possa combaciarsi e quasi amalgamarsi col suo . Rari in- contri , ma possibili, per consolazione della spezie tonio Grimaldi fa abbastanza ragionevole e fortunato, per collo- care gli onesti sentimenti del suo cuore in quello della Contessa tratteggiata dall' espressione della virtù c dei doveri , era poi quasi alluminata Aurora Barnal a. Una fisonomia felice, fortemente da più soavi e teneri sentimenti del cuore. La dolcezza delle -sue maniere , la facilità della sua ragione il gusto per , laverità, la superiorità ai pregiudizj desiderj ( virtù rara nel sesso ) faceva parere che fussero tras- fase nella di lei anima le virtù del suo compagno come spesso , il disinteresse , e la temperanza dei , una maschile fisonomia ei conosce in più delicato volto e pren- , de la morbidezza e ’l carattere del sesso che investe- Con que- ste qualità fondamentali si potrebbe mai dubitare , se D. Auro- ra ! Francescan- Digitized by Google  4*4 XLVII H ra facesse la feliciti della sua famiglia , se fosse la più teneri amica del marito , la più saggia madre delle sue figliuole , la più atta all’incarico delle domestiche cure ? Non si conosceva intera- mente F. A. G. sema conoscere ancora qual donna egli s’ avesse assortita . Gli amici e confidenti di lui erano egualmente j suoi Lo spirito di ragione e ’l gusto ch’essa portava su varj oggetti, ne rendevano la compagnia egualmente piacevole ed interes- - sante . la sua casa era quindi il punto di riunione di coloro che ai talenti accoppiavano le Non è questo il luogo di fare il catalogo dei molti amici del Grimaldi * tutti conosciuti per merito e per probità ; mi non posso trattenermi dal ricordar colui la cui memoria dovrà esser mai sempre cara alla nostra Nazione , dico d’Antonio Genovesi, padre e creatore de’ nostri ingegni Quell’ Uomo egualmente di . cuore benefico e di spirito sublime aveva assai punti di rappor- to per esser stretto amico del giovine Grimaldi , che già in fre. sca età dava non dubbj segni d’ esser destinato a divenirgli successore nella pubblica stima , e nella celebrità » Grimaldi era un uomo che abbisognava d'amare per istinto; sin- cero e semplice nelle sue maniere come ne’ suoi sentimenti , il suo cuore non era chiuso nè dalla diffidenza nè dal disingan- no . La libertà della- sua ragione non era mossa nè dallo spiri- tò di dispuu nè dal gusto di primeggiare : ma aveva il giusto principio di richiamare tutte le idee allo scopo dì qualche uti- lità morale . Con questa maniera di pensare , oh quanto d’ inu- tile si trova negli usi ordinar) della vita ! Eppure essa dà il meto- do p iù lodevoli qualità, del cuore- .  * Digitized by Google   4*4 xlviii >4* do più vantaggioso per giudicare del bene reale delle cose e del- le azioni . I suoi più prediletti discorsi si raggiravano su que- sto punto che tanto facilmente ricorre nelle Capitali . dove la grandetta della scena è proporzionata alla moltitudine degli at- tori . Così quest’ uomo nel tempo che si sottraeva alle necessa- rie applicazioni' non si distraeya in inutili trattenimenti , ma in compagnia d’eletti amici rilevava Io spirito con altre idee era-, gionamenti d’un utilità più ordinaria e generale. Non solo i nazionali ma gli esteri ancora vollero avere il piacere -di vedere dawicino quest’uomo illustre, e restavano sor- presi nel riconoscere in una somma semplicità di maniere quel Filosofo , che in lontananza avevano altrimenti immaginato. Egli però poco desideroso di essere conosciuto , niente avida» di gloria letteraria , anzi pieno d’ una vera modestia che ac- cresceva il di lui merito reale, evitava. le nuove conoscenze, e cercava di tenersi chiuso eristretto fra’l numero di pochi amici, eh’ egli più che fraternamente amava . Pareva che non esistes- se veramente fuori della sua famiglia . Cosa rara nel seco- lo ! Le persone eccentriche ai sentimenti primitivi , che anno bisogno d’uria esistenza adjettizia, che unicamente vivono in so- cietà estranee ad essi, o dnno la disgrazia d’aver sonito circo- stanze infelici , o non esistono che per 1’ ambizione e per la vanità . La prima morale comincia, dai primi vincoli e rapporti che ci dà la Natura ; e chi non sente questi non sentirà che in apparenza quelli della società che sono più lenti. Chi non trova i germi delia sua felicità nella prima società naturale, potrà difficil- jncu- Digitized by Google  44 XLIX euere39ee»au(^>jeejeBg3eomjaoiie35e»^><- c»iwieeao «ente rinvenirli altrove. Quindi egli menava il più che poteva la vita domestica , e poco si estrinsecava , anche per non inde- bolire i vincoli del cuore , che si spossano nelle troppo suddi- vise diramazioni . Non potè però celarsi allo sguardo di chi lo cercava senza conoscerlo. 11 Generale Afton, desideroso d’avere al suo fianco un uomo , che all’ estesa cognizione delle Leggi riunisse non ordinarj talenti e le più preziose qualità del cuo- re, non altrove seppe porre il suo giusto sguardo e fermar la sua scelta che sopra Grimaldi, già molto conosciuto per nome e per i suoi libri in Europa. Egli lo rese noto alla Maestà del Sovrano che sempre amante dc'talenti dc’suoi sudditie voglioso di ricono- scerne il merito , fece che restasse impiegato nelia delicata cari- ca d’-Assessore de’ suoi Reali Eserciti, avendolo poi in mira per altre situazioni , dove più utilmente e più estesamente avrebbe impiegato la forza de’ suoi talenti, e l’attività del suo cuore. Io non devo estendermi sii! dìsiiBpegno particolare della sii* Carica . Pieno di talenti , della più vera rettitudine di cuore , ed esercitato alla virtù chi potrebbe dubitare se ben l’esercitasse è li Publico ne ha fatto l' Elogio, e lo ha fatto colle lagrime . Nel rimanente della sua vita privata era lo stesso cogli estranei e co- gli amicj . Ignorò sempre ciocché si chiama lingua e tuono del mondo , non essendo stato giammai Cortigiano , nè potendo es- serlo pel suo carattere . La verità usciva nuda c sincera dalla di lui bocca, e la espressione di essa gli era cosi naturale come il sentimento» Mai ricercato o ingegnoso, non isforzava lo .spiri- to per mostrare d’ averne , e le sue maniere non erano model- G late ,  Digitized" by Google   L eCJlMStysooe^fle^oe^e^nr^anp^sagsg^at x —v^' * s^ey— late sul gusto o sulla moda , ma spontanee , cordiali e vere . , In tal guisa egli faceva la delizia di chi aveva la fortuna d' essergli vicino. In questi ultimi anni però era poco il tempo che poteva con- sacrare all’amicizia. Pieno di sentimenti di dovere pel suo im- piego , ei s’ occupava in gran parte di quello e compromesso ; col pubblico e con se stesso per l’Opera degli Annali, travaglia- va e meditava assiduamente su quest’ oggetto a lui caro . Ru- bava le ore- necessarie al rinfranca delle perdite giornaliere della macchina per soddisfare alle intense brame del suo spirito . Ma questa combinazione eccessiva di fatiche alterò non poco la sua robusta e valida costituzione* Gli accessi del male che soffrì più volte , furono tanto ferali, che minacciarono la sua esistenza : ma fatto più per abbandonare se stesso, che disposto a trascurare in menoma parte i suoi doveri, non si diede mai un serio pansiere della propria conservazione. La sofferenza che si aveva acquistata per i mali fisici passava qualche volta in neghittosa noncuranza, nè voleva ricordarsi della pur troppo stretu dipendenza del no- stro essere dallo stato delf organizazioue . Le rimostranze che gli si facevano per questo , erano sufficienti per disturbarlo ; e se qualche volta si ridusse per le amicali violenze a temperare alquanto le sue applicazioni, e a prendere qualche cura della sua esistenza , ad ogni piccolo miglioramento ritornava inconta- nente ai modi usasi . senza badare , quanto la machina, indebo- lita prende con faciliti le cattive abitudini , che ne portano 1* distruzione .Ma V intemperanza nelle applicazioni dello spirito,'. è sta- Digitized by Google   +Ì LI H* è stata in ogni tempo il difetto comune ai grandi e sublimi ta- lenti. In questo stato d’ assidue fatiche e di spossatezza , un colpo terribile gli fece risentire la catastrofe , che nel disastro della Calabria involse anche il luogo della sua nascita . Quel giorno di lutto comune della Nazione fu terribile per lui, che colla ma- dre perde cinque altri individui della sua virtuosa famìglia . La ragione non à fòrza di consolare il cuore destinato a sentire e non ad essere comandato.; e In inaura»*»»*»»» dell» sensibilità so- no le più distruttive di questa nostra tenue e troppo complica- ta organizzazione • In mezzo al più vivo dolore il Grimaldi non diede soltanto sterili lagrime alla Patria . Egli per Sovrano com- mando fu il primo descrittore di quella fatale sventura , il pri- mo a suggerire le necessarie viste d’una ben intesa beneficen- za , ed a sollecitare la sensibilità, del Trono per conservare gli avanzi di quel popolo infelice. Dalle di lui carte ne nacquero altre molte , che forse quanto inno di esattezza Io devono s quelle , eh’ egli per sua modestia non volle publicare Ma forse nè per quel violento attacco di sensibilità, nè in con- seguenza delle nuove fatiche l’ arressimo immaturamente pianto, S® il più terribile e fatai colpo non l’avesse sopraffatto in questo sta'to di salute indebolita . Egli vedeva da più tempo la diletta compagna del suo cuore, in età giovane ancora, perdere quell* espressione.ti «alm*. r: -1—lietaunafisonomia. Tutte le attenzioni che trascurava per se medesimo, volle che fos- sero moltiplicate per lo sospirato ristabilimento della sua consorte Ci . •0 Qigìtized by GoogleJ "1   4*i LII >4. td amica- L’insinuante qualità del male , che già della di lei tersotia si era impadronita, dava luogo a frequenti alternative di speranze e di timori: ferite mortali nell'animo di chi ama . Chi è stato anche solo spettatore in si fatti casi conosce in qua- le stato d’ orgasmo sia un cuore sensibile, ed a quali lacerazioni sia in necessità di soggiacere . Il male che nel corso di circa due anni distrusse la vita d’ Aurora Darnaba , fece anche crol- lare quella cfel suo illustre consorte . Le anime sensibili e non infelici nel sacro nodo ronjugale possono forse sole immaginare qual profonda acerbissima ferita dovè farsi nel cuore superstite . Gli amici , che gli erano d’ in- torno, vedevano espressa su la di lui costretta fisonomia l’ im- mensità del dolore e P indifferenza alla vita . Il solo amor pa- terno poteva ancora rendergli non odiosa 1' esistenza ; ma la macchina non resiste alla gravezza de’ mali dell'animo . ed O T una o 1’ altro deve soccombere. Gl’incomodi, che prima Pavé- vano travagliato ad intervalli, divennero continui; le medele a- vevano perduto la loro attività; la macchina ora indebolita a se- gno , che un colpo solo tolse la più preziosa esistenza per 1‘ a- micizia e per la virtù • La perdita del Pubblico e degli amici è irreparabile ; ma le cinque nobili ed afflitte pupille ànno trovato nei cuori di Fer- dinando E Carolina la sensibilità e P affetto dei loro Geni- tori - Possa «ampie hi BemeficenT» far I’ Elogio de’ nostri adora- bili Sovrani ! Questa è la vera riconoscenza eh’ essi possono testimoniare alle ceneri dell’ Illustre Cittadino , come queste pO- Digitized by Google   un >4* poche pagine e questi sentimenti sono dopo le lagrime l' uniccr omaggio , che 1’ amicizia poteva consacrare ALLA MEMORIA ETERNA DI FRANCESCO ANTONIO GRIMALDI; v. A. XLU. M. IXFrancesco Antonio Grimaldi. Francesc’Antonio Grimaldi. Francescantonio Grimaldi. Marchese Grimaldi dei signori di Messimeri. Keywords: compassione, la compassione, Romolo bruto. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Grimaldi: implicatura ed inter-azione” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51691180351/in/photolist-2mQHpXE-2mPpb7N-2mKC3nj-2mKLP2r-2mKRy6y-2mPHbXQ-nSmehQ-mujkJt-muiPJa-muiFjz-mukwpq-mujmJz-mujhJF-mujo6x-mujjcR

 

Grice e Gruppi – la via italiana al socialismo – filosofia italiana – Luigi Speranza -- (Torino). Filosofo. Grice: “Gruppi is an Italian philosopher; at Oxford, someone who writes only on politics is not considered usually one!” -- Il concetto di egemonia in Gramsci Incipit Antonio Gramsci è senza alcun dubbio quello che, tra i teorici del marxismo, ha maggiormente insistito sul concetto di egemonia; e lo ha fatto in modo particolare richiamandosi a Lenin. Anzi, direi che, se vogliamo vedere il punto di contatto più costante, più scavato, di Gramsci con Lenin, questo mi pare essere il concetto di egemonia. L'egemonia è il punto di approccio di Gramsci con Lenin.  Citazioni La scienza si ha quando si supera il dato immediato, l'apparenza; si ha con un salto dialettico. In tutte le analisi che Gramsci conduce, io trovo la presenza di un filo rosso che le guida, presente in tutti i Quaderni. Luciano Gruppi, Il concetto di egemonia in Gramsci, Riuniti, Roma.  Gramsci è senza dubbio quello che allaccia, se così si può dire, congiunge il movimento operaio italiano agli insegnamenti di Lenin, è giustamente il primo bolscevico italiano, come disse Togliatti, il primo leniniano del nostro Paese. Attraverso un processo che fu complicato e che parte dalla sua comprensione non completa, ma sostanzialmente giusta del valore della rivoluzione d'Ottobre, arriva ad affermare che la rivoluzione d'Ottobre è una rivoluzione contro Il Capitale di Carlo Marx, cioè contro un'interpretazione meccanica, schematica del Capitale, secondo cui bisognava aspettare lo sviluppo delle forze produttive del capitalismo, ecc. ecc. Già coglie l'importanza dell'elemento soggettivo, della funzione del partito come guida dei processi rivoluzionari.  Gramsci sempre più si avvicina ad una comprensione del pensiero di Lenin con un processo che va dal '19 sino al '25-26 e che anche nei Quaderni del carcere è un approfondimento del pensiero di Lenin.  Gramsci si aggancia direttamente al concetto di dittatura del proletariato come si trova in Lenin, individuando nella dittatura del proletariato, non solo un profondo mutamento della struttura economica e politica del paese, ma una profonda rivoluzione culturale, una profonda trasformazione del modo di pensare degli uomini non solo in Russia, ma in tutto il mondo. Il pensiero degli uomini non può più essere la stessa cosa dopo l'instaurazione della dittatura del proletariato in Russia.  La dittatura non è soltanto un fatto politico, ma di cultura e di pensiero, secondo quello stretto nesso che Gramsci stabilisce tra politica e filosofia affermando che la filosofia vera di ciascuno sta nel suo modo di agire, sta nella sua politica più che nelle dichiarazioni teoriche. Da questo egli ricava che il principio teorico-pratico dell' egemonia (e qui egemonia significa dittatura del proletariato) ha anch'esso una portata gnoseologica, cioè di conoscenza, e pertanto in questo campo è da ricercare l'apporto teorico massimo di Lenin alla filosofia della prassi, cioè al marxismo.  Lenin avrebbe fatto progredire la filosofia come filosofia in quanto fece progredire la dottrina e la pratica politica. C'è stretto nesso, quindi, tra i due elementi.  In un altro punto dei Quaderni dice: «Tutto è politico, anche la filosofia o le filosofie. La sola filosofia è la storia in atto, cioè è la vita stessa. In questo senso si può interpretare la tesi del proletariato tedesco erede della filosofia classica tedesca, come aveva detto Engels, e si può affermare che la teorizzazione e la realizzazione dell'egemonia fatta da Ilic [Lenin], è stato anche un grande avvenimento metafisico, cioè nel senso di pensiero generale, non nel senso negativo di filosofia astratta».  Il processo attraverso cui Gramsci nei Quaderni arriva a queste conclusioni è complesso. Gramsci al tempo dell'Ordine nuovo, già nel '19, parte da una riflessione sullo Stato che non è una riflessione sullo Stato in generale, ma sullo Stato borghese italiano, una individuazione della sua specificità.  In un articolo dell'Ordine nuovo, del febbraio del '20, scrive: «Lo Stato italiano che - secondo un parlamentare - starebbe alla repubblica dei Soviet come la città all'orda barbarica, non ha mai neppure tentato di mascherare la natura spietata della classe proprietaria.  Si può dire che lo «Statuto albertino» sia servito ad un solo fine preciso: a legare fortemente le sorti della corona alle sorti della proprietà privata. I soli freni che funzionano nella macchina statale per limitare gli arbitri del governo dei ministri del re sono quelli che interessano la proprietà privata del capitale. Soltanto qui si pongono limiti all'esercizio del potere per garantire la proprietà, la libera iniziativa.  Lo «Statuto albertino » non ha creato nessun istituto che presidi almeno formalmente le grandi libertà dei cittadini: la libertà individuale, la libertà di parola e di stampa, la libertà di associazione e di riunione, mentre negli altri Stati democratico-borghesi almeno una garanzia, almeno formale, esiste, in Italia non c'è neanche la garanzia formale.  Negli Stati capitalistici che si chiamano liberal-democratici l'istituto massimo di presidio delle libertà popolari è il potere giudiziario. Nello Stato italiano la giustizia non è un potere, è uno strumento del potere esecutivo, è uno strumento della corona e della classe proprietaria, cioè è agli ordini del ministro della Giustizia. Si pensi che ancor oggi la nomina del Pubblico ministero avviene ad opera del ministro della giustizia. La direzione generale delle carceri, le direzioni particolari, gli agenti della pubblica sicurezza, tutto l'apparato repressivo dello Stato dipendono dal ministero degli Interni, si capisce perché in Italia il presidente del consiglio si riservi sempre il ministero degli Interni, come era tipico nello Stato prefascista, in modo che tutto l'apparato di forza armata del paese sia completamente nelle sue mani.  Il presidente del consiglio è l'uomo di fiducia della classe proprietaria - alla sua scelta collaborano le grandi banche, i grandi industriali, i grandi proprietari terrieri e lo Stato maggiore. Egli si prepara a conquistare la maggioranza parlamentare con la frode e con la corruzione; il suo potere è illimitato non solo di fatto - come è indubbiamente in tutti i paesi capitalistici - ma anche di diritto, il presidente del consiglio è l'unico potere dello Stato italiano.  La classe dominante italiana non ha avuto neppure l'ipocrisia di mascherare la sua dittatura, il popolo lavoratore è stato da essa considerato un popolo di razza inferiore che si può governare senza complimenti, come una colonia africana. Il Paese è sottoposto ad un permanente regime di stato d'assedio: in ogni ora del giorno e della notte un ordine del ministro dell'interno ai prefetti può fare entrare in movimento l'amministrazione poliziesca, gli agenti vengono sguinzagliati nelle case, nei locali di riunione, senza mandato dei giudici, che sono passivi. In pura via amministrativa la libertà individuale e di domicilio è violata, i cittadini sono ammanettati, confusi coi delinquenti comuni in carceri luride e nauseabonde, la loro integrità fisiologica è in difesa contro la brutalità ed i contatti, i loro affari sono interrotti o rovinati. Per il semplice ordine di un commissario di polizia un locale di riunione viene invaso e perquisito, una riunione viene sciolta, per il semplice ordine del prefetto un censore cancella uno scritto il cui contenuto non rientra affatto nelle proibizioni contemplate dai decreti generali [c'era la censura sulla stampa] per il semplice ordine di un prefetto i dirigenti di un sindacato vengono arrestati, cioè si tenta di sciogliere un'associazione, ecc.».  È un'analisi spietata dei limiti liberali e democratici dello Stato liberale italiano, della sovrapposizione del potere esecutivo sul potere legislativo, sul potere giudiziario, è una descrizione di questo ordinamento che discende dall'esecutivo ai prefetti, ai questori e sospende in qualsiasi momento ogni libertà.  Ora a questa visione, a questa definizione, a questa analisi dello Stato italiano, Gramsci ne contrappone un'altra che nasce dal movimento reale. Anche per lui, come per Lenin, la conquista dello Stato non è puramente un momento negativo, di distruzione, ma è il processo di crescita di un nuovo tipo di Stato, che si organizza sin da prima della conquista dello Stato. E la rivoluzione, come per Lenin, viene concepita come un processo, non come un atto subitaneo che si compie in un determinato momento.  La domanda infatti, che egli si pone nel ' 19, la domanda da cui parte con tutto il lavoro del giornale, dell'Ordine nuovo, è precisamente questa: se ci sia in Italia, a Torino, un embrione di Soviet, un inizio di Soviet, e la risposta è: sì, sono le commissioni interne. E aggiunge: bisogna trasformare le commissioni interne in qualche cosa di piu, bisogna far nascere dalle commissioni interne, cioè dall'esistenza dei Consigli di fabbrica eletti da tutti i lavoratori indipendentemente o meno dalla loro iscrizione al sindacato. Con rappresentanti quindi per reparti, per officina, per mestieri, e cosi via, in modo che il Consiglio di fabbrica sia il momento non solo della difesa dei diritti sindacali o delle conquiste sindacali, ma un organismo attraverso cui gli operai si impadroniscono del processo della produzione, della organizzazione del lavoro, intervengono sul processo della produzione, stabiliscono un potere nella fabbrica, un potere democratico della fabbrica e un potere che poi dalla fabbrica si irradi alle campagne e salga a diventare potere nella società e nello Stato.  indice  I consigli di fabbrica  Gramsci dice che questo trasforma l'operaio da semplice salariato - schiavo del capitale, non cosciente della funzione storica della propria classe - in produttore (egli prende da Sorel questo termine), ma esso è presente anche in Marx quando parla della Comune come l'autogoverno dei produttori e non più degli operai salariati, cioè dell'operaio che ha superato ogni limite corporativo, che non ragiona più come mentalità di categoria, di classe sociale chiusa in sé, intesa solo alla difesa dei propri interessi immediati di classe, ma che si sente come produttore, protagonista e interprete degli interessi generali della società e quindi come componente essenziale, forza dirigente del nuovo Stato che si vuole costruire.  Egli scrive nell'Ordine nuovo: l'officina con le sue commissioni interne, i circoli socialisti e le comunità contadine sono i centri di vita proletaria nei quali occorre direttamente lavorare, le commissioni interne sono organi di democrazia operaia che occorre liberare dalle limitazioni imposte dagli imprenditori, e ai quali occorre infondere vita nuova ed energia. Oggi le commissioni interne limitano il potere del capitalista nella fabbrica e svolgono funzioni di arbitraggio e di disciplina, sviluppate ed arricchite dovranno essere domani come organi del potere proletario che sostituisce il capitalista in tutte le sue funzioni utili di direzione e di amministrazione. Cioè bisogna imparare prima a dirigere le fabbriche se vogliamo abolire il capitalismo.  Fin d'ora gli operai dovrebbero procedere già all'elezione di vaste assemblee di delegati scelti tra i migliori e più consapevoli compagni sulla parola d'ordine: «tutto il potere all'officina, ai comitati d'officina », coordinata all'altra: «tutto il potere dello Stato ai consigli operai e contadini».  Vi è, quindi, un tentativo di risposta alla domanda: come facciamo in Italia a fare come in Russia, dove ci sono i Soviet? E i Soviet li inventa Gramsci: li va a cercare nel movimento reale, li va a cercare in quello che già esiste, cioè le commissioni operaie da sviluppare in organismi con molto più potere e molta più capacità rappresentativa.  A questa concezione di elevamento della funzione dirigente della classe operaia prima della conquista del potere, come condizione della conquista del potere, qui Gramsci ragiona già alla leniniana, a questa sua concezione si contrappone un'obiezione di Bordiga e del suo giornale, Il Soviet, sul quale egli dice: è illusorio, utopico pensare che la classe operaia possa avere una funzione dirigente nella fabbrica prima della conquista del potere, fino ad allora resta subalterna ai capitalisti, solo quando la classe operaia prenderà il potere essa potrà esercitare il potere nella fabbrica. Ma Bordiga non risponde alla domanda: il potere come lo prendi?  Questo perché Bordiga vede il processo sociale come il processo di crescenti contraddizioni dell'economia capitalistica, finché si arriva alla grande crisi che è il momento fatale della rivoluzione proletaria, a cui il proletariato e il Partito comunista devono prepararsi mantenendosi puri, intatti, non contaminando si in alleanze, in compromessi e in cose del genere. Vi è cioè in Bordiga una visione meccanicistica, di materialismo volgare, meccanicistico del processo rivoluzionario che ignora la funzione del soggetto, del partito.  Non a caso Bordiga dice che non bisogna partecipare alle elezioni parlamentari. Il Parlamento è borghese e quindi non interessa il proletariato. Riprende cioè una tesi di Bakunin e degli anarchici contro cui già Marx ed Engels avevano polemizzato, come Lenin polemizza inEstremismo malattia infantile del comunismo contro queste posizioni di Bordiga.  Per Gramsci, invece, ripeto, la rivoluzione è intesa come processo. Non sto ad illustrare tutte le vicende dell'Ordine nuovo, le grandi lotte del ' 19, lo sciopero dell'aprile del '20, detto lo «sciopero delle lancette », che poneva proprio la questione dell'autorità e del potere dei consigli di fabbrica perché il padronato decise di passare dall'ora legale, usata in guerra, all'ora solare senza avvertire i consigli di fabbrica.  Gli operai arrivarono in fabbrica e trovarono le lancette dell'orologio spostate e fu lo sciopero. Era in gioco una questione di principio: il potere democratico del consiglio di fabbrica. L'ingenuità fu il non aver unito alla questione altre rivendicazioni piu sostanziose che potessero legare a questa lotta le masse operaie. Fu solo una lotta di principio che poi fini con una sconfitta grave, dopo di che la classe padronale passò all'attacco e l'occupazione delle fabbriche fu, è vero, il momento più avanzato della lotta, ma un momento di difesa.  Funzionarono, però, i consigli di fabbrica, diressero la produzione, tennero la disciplina, ma nell'occupazione delle fabbriche appare chiaramente un elemento cioè il movimento dei consigli fallisce per essere rimasto troppo torinese, non essersi esteso alle altre regioni italiane, per essere rimasto chiuso all'interno della fabbrica, e anche per una debolezza nel vedere un'alleanza con i contadini e soprattutto una grave debolezza nel vedere l'alleanza con i ceti medi, tipico limite dell'Ordine nuovo.  Dalla sconfitta, quindi, del movimento dei consigli con l'occupazione delle fabbriche si pone l'esigenza del partito, come momento unificante di tutto il movimento a livello nazionale, cosa che Gramsci aveva visto, ma in modo incompleto, e aveva privilegiato un movimento, aveva privilegiato i consigli rispetto alla questione del partito stesso.  indice   Necessità della ricognizione nazionale  La riflessione di Gramsci, però, va oltre e nel '23, in un articolo: Che fare? scritto per una rivista di studenti comunisti, si pone l'interrogativo: perché siamo stati sconfitti?  Siamo stati sconfitti perché il movimento operaio non conosce il proprio Paese, non conosce l'Italia, non è uscito fino ad oggi un libro sulle stratificazioni sociali, sulle classi in Italia, sulla storia delle classi, non è uscito un libro sulla storia dei partiti italiani, c'è un'infinità di domande a cui non sappiamo rispondere: perché in Sicilia i contadini sono autonomisti e in Sardegna no, mentre in Sardegna sono autonomisti i latifondisti e in Sicilia non altrettanto, perché dove son forti gli anarchici sono forti i repubblicani? e così via. Non sappiamo rispondere perché non conosciamo il nostro Paese. Eppure abbiamo un metodo, il marxismo, che Marx ed Engels hanno impiegato per conoscere la realtà concreta. Ecco l'esigenza di usare il marxismo non come strumento di propaganda, ma come strumento di analisi, di comprensione della realtà.  Certo, spiegare la sconfitta del '20-21 col fatto che non si conoscesse bene l'Italia è insufficiente, è unilaterale, è polemico, però è senza dubbio uno degli elementi della verità.  Il gruppo dell'Ordine nuovo, alla testa del partito col '24, cercherà di arrivare ad un'analisi dell'Italia, ad una conoscenza del processo storico italiano. Le tesi del terzo Congresso di Lione sono un'analisi del processo attraverso cui si è formato lo Stato unitario italiano per individuare da questa analisi concreta, storica, le forze motrici della rivoluzione nella classe operaia del Nord e nei contadini del Mezzogiorno e delle Isole. Si veda il saggio sulla Questione meridionale, contemporaneo alle Tesi di Lione.  Gramsci riprende un concetto di egemonia che nel '25 aveva già usato in polemica contro Bordiga dicendo: Bordiga non ha capito il concetto leniniano dell'egemonia, dell'alleanza della classe operaia con gli altri ceti e soprattutto con i contadini e si è attenuto ad una posizione astratta per cui la classe operaia deve restare chiusa in se stessa, ha temuto che ogni alleanza fosse una contaminazione piccoloborghese della classe operaia, per questo non ha capito l'essenziale di quello che è il leninismo, alleanza operai contadini, costruzione dell'egemonia.  Nella Questione meridionale inoltre Gramsci pone non solo la questione meridionale come elemento nazionale decisivo e quindi chiave della egemonia della classe operaia, ma entra in una definizione pili precisa della egemonia. Che la questione meridionale sia elemento decisivo della egemonia è un momento molto importante, perché non aver capito questo aveva reso il movimento socialista subalterno alla politica della borghesia e di Giolitti, cioè aveva accettato la politica di Giolitti assai limitata, da un lato, e, dall'altro, riformistica senza riforme in un certo senso, che però faceva concessioni alle cooperative del Nord, al diritto di associazione, alla funzione dei sindacati, non interveniva come Stato nei conflitti del lavoro, ecc., facendo pagare tutto questo al Mezzogiorno. Nel Mezzogiorno faceva la politica della camorra, degli «ascari», cioè dei deputati che andavano in Parlamento per votare sempre « Sì », reclutati attraverso le clientele, ecc. Il modo in cui si spezza l'egemonia della borghesia è il modo in cui si rompe questo blocco industriale e agrario tra la borghesia capitalistica del Nord e i grandi proprietari terrieri, latifondisti del Sud, e si salva l'alleanza classe operaia del Nord e contadini del Sud.  A questo proposito Gramsci dice: il proletariato può diventare classe dirigente e dominante, nella misura in cui riesce a creare un sistema di alleanze di classe che gli permetta di mobilitare contro il capitalismo e lo Stato borghese la maggioranza della popolazione lavoratrice, il che significa in Italia (nei reali rapporti di classe esistenti in Italia): nella misura in cui riesce a ottenere il consenso delle larghe masse contadine.  La questione delle alleanze, quindi, è vista come questione decisiva per conquistare il dominio e la direzione, e la questione contadina viene vista come essenziale. Ma non la questione contadina in generale (tra l'altro non esiste). La questione contadina in Italia è storicamente determinata, non è la questione contadina ed agraria in generale, in Italia la questione contadina ha, dice Gramsci, per la tradizione italiana, per il determinato sviluppo della storia italiana, assunto due forme tipiche e peculiari: la questione meridionale e la questione vaticana, cioè il rapporto con i contadini del Sud e con i contadini legati alla Chiesa cattolica, di ispirazione cattolica.  Ora che cosa si può dire in proposito? Si può dire che c'è un altro passo in cui egli si richiama alla dittatura del proletariato, che l'egemonia viene vista come una direzione che si conquista nella società civile e la dittatura del proletariato è concepita come la forma statale, politica dell'egemonia, anzi essenzialmente come la forma. statale.  Inserisce qui una distinzione tra società civile e Stato. Nella società civile l'egemonia, nello Stato la dittatura del proletariato, che però in Gramsci non è così schematica. I due momenti sono fusi e Gramsci, nei Quaderni, avverte che la distinzione tra Stato e società civile, società politica e società civile è una distinzione puramente di metodo, metodologica, non organica, perché in realtà questi due elementi sono fusi. Società civile e Stato non SI separano nella realtà.  Come è noto la parola egemonia deriva da un verbo greco che significa dirigere, guidare, condurre. Gramsci usa il termine egemonia non nel significato tradizionale che sottolinea soprattutto il « dominio », ma nel senso originario, etimologico, greco: «direzione », «guida ». Trae questo termine da Lenin, perché Lenin l'aveva impiegato nel 1905 proprio per indicare la funzione dirigente della classe operaia nella rivoluzione democratico-borghese; Lenin non lo usa più nel 1917, quando usa ormai il concetto di dittatura del proletariato. Ma non c'è dubbio che la capacità dirigente della classe operaia nel processo rivoluzionario congiunge nel '17 strettamente la rivoluzione democratica alla rivoluzione proletaria, in modo che la dittatura del proletariato si assume gli obiettivi della rivoluzione democratica, quegli obiettivi che la borghesia non sa realizzare, e nella dittatura del proletariato vengono infatti indicati, come obiettivi primi, obiettivi democratici e non obiettivi socialisti: la terra ai contadini, la nazionalizzazione delle banche e cose di questo tipo. indice Egemonia e blocco storico Gramsci riprende nei Quaderni il concetto di dittatura del proletariato, ma riferendosi alla dittatura del proletariato teorizzata e realizzata da Lenin. Poiché l'egemonia della classe operaia nella rivoluzione del 1905 fu sconfitta, significa che Gramsci usa il termine di egemonia nel senso di dittatura del proletariato, quella teorizzata e realizzata.  Ora Gramsci sa bene che nella dittatura del proletariato c'è il dominio e il consenso, la coercizione e la persuasione, ma perché la chiama egemonia?  La chiama egemonia perché vuole sottolineare nella dittatura del proletariato la funzione dirigente, la conquista del consenso, l'azione di tipo culturale e ideale che l'egemonia deve compiere, non c'è altra spiegazione a questo diverso uso dei termini. Sottolinea questo elemento, nella dittatura del proletariato, sia perché era quello rimasto più in ombra, quello che si era capito di meno (si era sempre intesa la dittatura soprattutto come violenza, limitazione delle libertà, e non come l'essenziale capacità dirigente, come Lenin aveva sempre più sottolineato, man mano che veniva avanti la costruzione del regime sovietico negli ultimi anni della sua vita). Gramsci usa questo termine, la egemonia, perché egli conduce una riflessione sulle esperienze del '19-20-21 e si pone ancora la famosa domanda: perché non abbiamo vinto?  Non abbiamo vinto, dice Gramsci, perché bisogna capire le differenze che esistono tra una società e un potere politico come quello russo, zarista, e un potere politico in una società come esiste in Italia e nei paesi capitalisticamente sviluppati. La domanda - si poteva fare la rivoluzione nel '19 o nel '20? c'erano le condizioni oggettive? non c'erano? cosa è mancato? - trova in realtà una risposta in questa analisi di Gramsci.  Gramsci dice: in Oriente, cioè in Russia, lo Stato era tutto, la società civile era primordiale e gelatina sa (ecco il punto); nell'occidente tra Stato e società civile c'è un giusto rapporto e nel tremoli o dello Stato si scorgeva subito una robusta struttura della società civile, lo Stato era solo una trincea avanzata dietro a cui stava una robusta catena di fortezze, di casematte (più o meno diversa da Stato a Stato) ma questo richiedeva un'accurata ricognizione di carattere nazionale. Ecco la grande differenza: in Russia lo Stato era tutto, ed era indubbiamente casi, in una società molto fluida, gelatinosa, non articolata, non robusta, una enorme burocrazia zarista gestiva ogni momento della vita statale per cui quando lo Stato andava in crisi o in sfacelo a causa ovviamente della disfatta militare e durante la guerra del '14-18, dietro allo Stato non c'era più niente che resisteva.  In Occidente è diverso, dietro al tremolio dello Stato, e lo Stato italiano tremò fortemente nel '19 e '20, c'era però la robusta struttura della società civile, c'era l'apporto del capitalismo, le sue organizzazioni, la sua tenuta culturale e cosi via.  Questo, secondo me, è un tentativo di risposta di Gramsci al perché nel '19-20 siamo stati sconfitti, ma è al tempo stesso una riflessione molto più generale sul modo in cui si pone il problema della rivoluzione in Paesi capitalisticamente sviluppati.  Di qui egli trae la necessità di una diversa strategia rivoluzionaria, dice in altre pagine . Mentre in Russia la società civile era fluida ed embrionale, gelatinosa, era possibile la guerra manovrata, cioè lo scontro di classe rapidamente risolutivo, in Occidente è necessaria la guerra di posizione, che qui non significa stare fermi. 'è un altro passo in cui con guerra di posizione Gramsci indica una relativa staticità dei processi sociali e politici, qui non significa questo, qui guerra di posizione è la guerra di trincea, per cui vai all'assalto delle trincee, delle fortezze, delle casematte, cioè individui i gangli essenziali della vita sociale e statale e conduci quindi una politica (attualizzando un po') che investe la totalità della società e che tiene conto di tutte le complesse articolazioni della società. Cioè Gramsci pone l'esigenza di una nuova strategia rivoluzionaria, di un modo nuovo di concepire la rivoluzione.  Questo è l'enorme passo che egli ha fatto partendo dall'Ordine Nuovodel '19-20, attraverso La questione meridionale per arrivare ai Quaderni, perché il problema dell'Ordine Nuovo era: come facciamo a fare anche in Italia come in Russia? Ma il problema era fare come in Russia partendo dal movimento reale, non astrattamente.  Nel '26 già individuiamo che cosa distingue la questione contadina in Italia dalla questione contadina in Russia. Come noi risolviamo questo problema decisivo della egemonia proletaria che Lenin risolse in Russia con l'alleanza con i contadini? Qui che cosa è l'alleanza con i contadini? Qui è questione meridionale, qui è questione vaticana che l'origina.  Nei Quaderni del carcere Gramsci pone l'esigenza di una strategia, cioè dice: non possiamo fare come in Russia, abbiamo bisogno di una ricognizione del terreno nazionale, cioè di una analisi concreta della situazione concreta italiana, di calarci nel processo storico, nella originalità dei processi sociali, politici e culturali del nostro Paese.  L'interessante è, però, che egli si riferisca a Lenin quando dice: «mi pare che Ilic [Lenin] avesse compreso che occorreva un mutamento della guerra manovrata) applicata vittoriosamente in Oriente nel )17) alla guerra di posizione che era la sola possibile in Occidente», cioè Gramsci attribuisce alla tattica del fronte unico della classe operaia, proposta dai bolscevichi, da Lenin alla Terza Internazionale, al suo Quarto congresso del 1922, la individuazione di un tipo diverso di lotta rivoluzionaria, di lotta di posizione. Fa dire a Lenin, a mio parere, molto di più di quanto Lenin non volesse dire, forza il suo pensiero, lo porta oltre.  Lo porta oltre però partendo da intuizioni che in Lenin ci sono, perché vi sono scritti di Lenin che forse Gramsci nemmeno conosceva in cui Lenin dice: in Occidente tutti i lavoratori sono organizzati, non è come in Russia dove non c'erano sindacati, dove i partiti avevano scarse radici, non avevano avuto una vita legale, ci sono cooperative, sindacati, partiti, municipi, ecc. Cioè Lenin dice: « in Occidente tutti i cittadini partecipano in qualche modo alla democrazia, non è come in Russia », quindi Lenin intuisce delle diversità in Occidente e propone una tattica, non una strategia, diversa, cioè il fronte unico.  Gramsci parte da questa intuizione di Lenin e la porta, secondo me, molto oltre e sottolinea fortemente la necessità di una ricognizione del terreno nazionale: una classe di carattere internazionale, cioè il proletariato, in quanto guida strati sociali strettamente nazionali e anzi spesso meno ancora che nazionali, particolaristici e municipalistici, come i contadini, deve nazionalizzarsi in un certo senso, cioè deve calarsi profondamente nella realtà nazionale se è internazionalista, in quanto è internazionalista, se vuole dirigere i contadini, gli intellettuali, ecc., deve individuare la specificità del processo rivoluzionario. Dove si vede che l'egemonia è impensabile al di fuori della ricognizione nazionale, la egemonia è proprio la capacità di individuare la specificità nazionale, i caratteri specifici di una determinata società, l'egemonia è conoscenza, oltre che azione, e quindi è conquista di un nuovo livello di cultura, scoperta di cose che non si conoscevano.  Questo nazionalizzarsi, questo calarsi nella realtà nazionale e la conquista dell'egemonia sono in Gramsci strettamente congiunti. L'egemonia è individuazione della tattica e della strategia nuove che si devono usare in determinate situazioni.  Come nasce in Gramsci l'idea dell'egemonia? Marx aveva detto nella Ideologia tedesca, del 1845, che le idee dominanti in una società sono le idee della classe dominante, cioè la classe dominante diffonde le sue idee, la sua cultura, la sua ideologia in tutta la società. più esattamente Marx dirà nella prefazione a Per la critica dell'economia politica del '59, che sono i rapporti di produzione, quindi il modo di proprietà prevalente, che determinano non solo le istituzioni politiche e statali, ma il modo di pensare, la coscienza. Il modo di produzione però - i rapporti di produzione e il loro nesso con le forze produttive - è contraddittorio e quindi questa contraddizione, la contraddizione che esiste nel modo di produzione capitalistico, tra classe operaia e capitalisti per esempio, pone in discussione non solo la politica economica, le questioni sindacali immediate, ma anche la politica e la cultura delle idee della classe dominante.  Non appena la classe antagonistica nel sistema capitalistico, il proletariato, assume coscienza del suo antagonismo al sistema capitalistico, elabora non soltanto delle lotte sindacali immediate, ma anche una linea politica e una concezione del mondo, il marxismo, l'ideale socialista, una nuova morale che contrappone ai valori ed alla morale della società dominante. Attraverso un processo enormemente faticoso, attraverso una piccola avanguardia, poco alla volta, cerca di strappare all'egemonia ideale e politica della classe dominante una parte sempre più grande della classe operaia e dei suoi alleati, contadini, ceti medi, cerca di conquistare gli intellettuali.  Ora Gramsci si chiede come si tiene insieme una determinata società, cioè un determinato «blocco storico», un nesso di forze politiche e sociali, come si tiene insieme questo rapporto tra la struttura economica, i rapporti di produzione e di scambio, e lo Stato, come si può spiegare insomma che un determinato Stato, una determinata classe dominante tenga insieme e abbia il consenso di forze i cui interessi sono opposti.  Questo «blocco storico» trova il consenso tra gli operai, tra i contadini, i cui interessi sono opposti a quelli della società capitalistica, non solo con l'influenza politica, dice Gramsci, ma con l'ideologia. È l'ideologia che tiene insieme il blocco storico, che lo salda, che consente di tenere insieme classi sociali non solo di tipo differente, ma con interessi addirittura opposti, antagonistici. L'ideologia è il grande cemento del blocco storico, ed è momento della sua edificazione, che non è solo ideologica, è culturale, è politica in primo luogo, ma non può essere dissociata dal momento dell'ideologia e delle idee.  Noi allora abbiamo un processo per cui le classi, antagoniste per interessi, sono subalterne all'origine, Cloe non hanno una propria concezione del mondo, una propria cultura, ma hanno assorbito la cultura delle classi dominanti, in un modo eterogeneo, disorganico, passivo. Cosicché, il modo di pensare delle classi subalterne è privo di organicità, di capacità critica. Le classi subalterne sono però spinte alla ribellione, ma tale ribellione è un sussulto che non riesce ad organizzarsi in una politica perché c'è subalternità ideale, culturale.  È necessario tutto un processo perché le classi subalterne diventino autonome, si diano un partito, una linea politica, una concezione culturale, e allora da autonome lottano per diventare egemoni, dirigenti. Già prima della conquista del potere possono diventare egemoni, cioè. diffondere la propria concezione non solo politica, ma culturale, in tutta la società.  L'egemonia si conquista prima della conquista del potere ed è una condizione essenziale per la conquista del potere.  Il processo di egemonia è quindi un processo di unificazione del pensiero e dell' azione perché - quando le classi sono subalterne - può esserci per esempio una insurrezione contadina unita all'affermazione che i proprietari della terra ci sono sempre stati, e magari sempre ci saranno, un'insurrezione che spera nel re per sistemare le cose. Può accadere che gli operai di Pietroburgo, nel 1905, vadano in corteo al palazzo dello zar perché lo zar intervenga e faccia finire le ingiustizie. E lo zar pensa bene di farli mitragliare e allora gli operai cambiano idea. Prima erano subalterni, pensavano che lo zar fosse un «piccolo padre », il padre della chiesa ortodossa, che la soluzione delle ingiustizie dipendesse da lui.  Gramsci allora dice: c'è nelle classi subalterne una filosofia reale che è quella della loro azione, del loro comportamento. C'è una filosofia dichiarata che vive nella coscienza, che è in contraddizione con la filosofia reale. Bisogna sogna congiungere questi due elementi attraverso un processo di educazione critica per cui la filosofia reale di ciascuno, la sua politica, diventi anche la filosofia cosciente, la filosofia dichiarata. Per giungere a quel processo di unificazione di teoria e pratica, di costruzione di una cultura nuova, rivoluzionaria, di riforma intellettuale e morale. Le due cose sono strettamente congiunte per Gramsci.  Gramsci riprende questo concetto di riforma intellettuale e morale ancora una volta da Sorel, ma cambiandone completamente i contenuti. Riprende anche un tema tipico della cultura italiana del suo tempo che si ritrova nella destra, in Alfredo Oriani, per esempio, come nella sinistra, in Gobetti: l'idea cioè che all'Italia sia mancato qualcosa di simile alla riforma protestante, cioè una riforma della concezione del mondo e morale che arrivasse in profondità, nel popolo. In Italia c'è stata invece la controriforma, il distacco della Chiesa dal popolo, la sovrapposizione del dogma, l'irrigidimento gerarchico della Chiesa, la limitazione della libertà scientifica, di espressione artistica, c'è stata l'Inquisizione, l'ipocrisia, che ha viziato profondamente il carattere degli italiani, ne ha fatto dei cortigiani, ne ha fatto dei servi.  È mancata una riforma protestante. Gramsci dice che non solo è mancata una riforma protestante, ma è mancato qualche cosa ben di più della riforma protestante; qualche cosa di analogo all'illuminismo francese del settecento che preparò la rivoluzione francese, qualche cosa di simile alla rivoluzione democratico-borghese. indice La nozione di intellettuale Gramsci aggiunge: in Italia i laici hanno fallito il loro compito che era di diffondere una nuova concezione culturale, un nuovo umanesimo :fino agli strati più profondi e più incolti del popolo. Come era necessario fare. Gli intellettuali democratici laici non l'hanno fatto perché si sono mantenuti come una casta separata, con un suo linguaggio separato, con una sua vita culturale separata. È mancato l'elemento essenziale della costruzione democratica e di una riforma intellettuale e morale nel nostro Paese, cosa che solo la classe operaia può fare, non la Chiesa cattolica, perché la Chiesa cattolica tiene separati gli intellettuali e i semplici, parla due linguaggi, uno per gli intellettuali ed un altro per i semplici, ma sta bene attenta che gli intellettuali non rompano il rapporto con i semplici al tempo stesso.  Gli idealisti, Benedetto Croce, Gentile, hanno fatto una riforma intellettuale per i grandi intellettuali, non per il popolo. Al popolo lasciano la religione che è la filosofia di quelli che non hanno filosofia cosciente.  Questo processo di unificazione tra intellettuali e semplici lo può fare la classe operaia guidata dal marxismo, grazie al marxismo, e creando nuovi quadri intellettuali, organici alla classe operaia, che sono i suoi quadri, i suoi dirigenti.  Qui muta completamente la nozione di intellettuale, l'intellettuale non è chi sa il latino o il greco, lo scrittore o cose del genere, l'intellettuale è il dirigente della società, il quadro sociale. Un caporale dell'esercito anche se analfabeta è un intellettuale, secondo Gramsci, perché dirige i soldati, un intellettuale è il capo-lega bracciante, anche se analfabeta, come tanti lo erano al tempo di Gramsci, perché organizza i braccianti, perché li guida, perché li educa. Questi sono gli intellettuali secondo Gramsci, il tessuto connettivo del blocco storico, gli elaboratori della egemonia della classe dominante la quale senza gli intellettuali non potrebbe essere egemone, dirigente: sarebbe solo dominante e oppressiva e le mancherebbe la base di massa, il consenso necessario per esercitare il suo dominio.  La cosa interessante è che Gramsci elabora queste idee attraverso un'analisi del processo storico italiano. C'è sempre concretezza nel suo pensiero. Ad esempio analizza come si sia formata in Italia l'egemonia dei liberali, come i liberali con un'azione molecolare ed empirica abbiano assimilato, isterilito le forze repubblicane, mazziniane, ecc., e disgregato il blocco opposto con un'opera, egli dice, di direzione intellettuale e morale. Gramsci sottolinea l'importanza di questo momento ideale e morale nella direzione dei liberali moderati.  Ed è qui che egli introduce il concetto di supremazia. Un gruppo sociale, una classe ha una supremazia in quanto ha la direzione e il dominio, la classe che è all'opposizione non ha ancora il dominio, ma deve conquistare la direzione, cioè l'egemonia, se vuole conquistare anche il dominio e una volta conquistato il dominio deve mantenere la direzione.  Come si presenta, quindi, per Gramsci la rivoluzione? La rivoluzione si presenta in realtà come una c risi di egemonia, cioè come una crisi di capacità dirigente da parte di coloro che hanno il dominio perché non riescono più a risolvere i problemi del Paese, non riescono più a tenerlo insieme con l'ideologia. Pensate ai processi che oggi si sono compiuti. Lo spostamento a sinistra degli studenti, pur caotico ed anche pericoloso che sia, contiene molti elementi di individualismo borghese esasperato - e quindi resta nel quadro dell' egemonia culturale borghese molto più di quanto non si pensi -, ma è anche il segno della disgregazione di questa egemonia culturale, una disgregazione che non riesce ad uscire da se stessa, che si rigira e si tormenta intorno a se stessa. Ma che è il segno di questa crisi. Basta vedere come le idee del marxismo si sono diffuse e si diffondono.  Qui c'è un allargamento della nozione di rivoluzione.  Marx aveva detto: la rivoluzione si ha quando le forze produttive entrano in una contraddizione incontenibile con i rapporti di produzione. (Gramsci parte di qui, ma vede la totalità sociale). Lenin aveva detto: la rivoluzione si ha quando la classe dominante non riesce più a dominare, quando le classi oppresse non accettano più di essere dirette e oppresse alla vecchia maniera e abbiamo una grande ribellione di massa. Gramsci, in modo più preciso, la definisce la crisi di egemonia, come uno scollarsi tra dominio e direzione, come il venir meno della direzione, quindi come una crisi che investe tutta la totalità sociale, in cui il momento culturale, morale, ideale ha un'enorme importanza.  Noi stiamo vivendo un momento di questo genere. Si è rotto il vecchio blocco di potere che aveva come asse la Democrazia cristiana, è venuta meno la capacità dirigente del vecchio blocco di potere (che è sempre stata molto limitata del resto), non si è ancora costruito un nuovo blocco di potere che possa portare ad un nuovo blocco storico. Blocco di potere è un'espressione che Gramsci non usa, la usa Togliatti, intendendo la fase di preparazione di un nuovo blocco storico e di una nuova società, di una nuova base sociale, di un nuovo tipo di Stato, di un nuovo rapporto tra base sociale e Stato.  Il momento di questa crisi di egemonia è dunque un momento anche di crisi ideale, di crisi culturale, di crisi morale. Gramsci dà grande valore al momento del soggetto, della coscienza, delle idee nel processo rivoluzionario. L'egemonia è iniziativa, è intervento sul processo e guida del proletariato, come già Lenin aveva detto nel 1905, quando rimproverava ai menscevichi di alterare il materialismo storico, di deformarlo perché non capivano la funzione dei partiti i quali, avendo individuato e compreso la realtà oggettiva, intervengono nel processo per condur1o in una determinata direzione. Lenin diceva: i menscevichi non hanno capito la prima tesi su Feuerbach, la funzione del rapporto soggetto-oggetto. Non è a caso che Gramsci chiama il marxismo «filosofia della prassi», usando una terminologia che fu usata da Gentile. Però Gramsci l'usa in tutt'altro senso; non la prassi dell'intelletto, come intendeva Gentile, ma la prassi trasformatrice, rivoluzionaria, unità di soggetto-oggetto, intervento del soggetto sulla realtà.  Attenzione però. Gramsci parla sempre di egemonia della classe operaia, non del partito, perché Gramsci non ha mai rinnegato l'esperienza dei consigli di fabbrica e ritiene che la classe operaia debba darsi una molteplicità di organizzazioni per conquistare il potere. Mai Gramsci ha pensato che la classe operaia conquisti il potere solo col partito, essa deve avere altri collegamenti, altre organizzazioni, deve essere presente nelle istituzioni statali oltre che di massa.  Inoltre Gramsci non mortifica mai il movimento, dice che l'elemento cosciente deve saper depurare il movimento spontaneo da quanto c'è in esso di contraddittorio, di arretrato, di reazionario anche, deve depurarlo e portarlo al livello della scienza moderna, cioè del marxismo. Ma non si deve né disprezzare, né trascurare la spontaneità, che bisogna però aiutare. Bisogna partire da quello che egli chiama il senso comune e vedere quanto c'è di sano in questo senso comune, nelle sue contraddizioni, nelle sue superstizioni, nelle sue posizioni arretrate. indice  Il partito, moderno «Principe»  È compito del partito cogliere questo elemento sano, tirarlo fuori dal guscio (il nocciolo razionale, direbbe Marx) e portarlo al livello di una coscienza scientifica della realtà. Il partito è il momento decisivo della formazione dell'egemonia della classe operaia; non è possibile egemonia della classe operaia senza il partito, perché esso è l'unificatore dell'azione e del pensiero, della filosofia istintiva, non consapevole, presente nell'azione, e della filosofia consapevole che bisogna fare acquisire, dando la prospettiva, dando la visione dell'insieme.  In questo senso egli chiama il partito il moderno principe, riferendosi al Machiavelli e valorizzando enormemente Machiavelli. Un principe moderno non più come individuo, perché nella società moderna questo non è più possibile, ma come intelligenza e volontà collettiva, personificazione di una grande volontà collettiva: il partito è il moderno principe.  Del partito Gramsci mette molto in rilievo l'elemento della coscienza e della direzione. In ogni partito, secondo Gramsci, ci sono tre strati: uno di dirigenti, molto ristretto, a livello nazionale, uno di base che aderisce soprattutto per entusiasmo o per fede, e uno intermedio che collega questi due elementi. Senza questi tre elementi il partito non c'è, però Gramsci dice: attenzione, con l'elemento di base voi non formerete nulla, non formerete mai il partito; occorre l'elemento dirigente. Ovvero, un esercito non forma il capitano, ma alcuni capitani formano l'esercito. Per Gramsci la formazione del partito va dall'alto in basso, come per Lenin, cioè parte dal congresso, parte dal punto più alto della consapevolezza, il che non è una visione burocratica, ma è una visione di intervento della coscienza, della direzione sul movimento spontaneo. Educazione del movimento spontaneo, perché tutta la concezione pedagogica di Gramsci, dell'educazione come sforzo, come disciplina, dello studio anche come fatica, ci dice chiaramente come egli intenda la direzione.  Il partito è il grande riformatore intellettuale e morale, quello che supera la vecchia concezione e ne costruisce una nuova. C'è in Gramsci il superamento del meccanicismo materialistico tipico di Bordiga, di tutto il movimento socialista da cui lui veniva. Il suo ragionamento sul blocco storico è un ragionamento sulla totalità sociale, su gli elementi sociali, politici e culturali: l'egemonia costruisce un determinato blocco storico e il blocco storico si tiene insieme grazie all'egemonia, grazie alla direzione. L'egemonia è il momento di saldatura.  Ecco quindi un'egemonia che rompe il precedente blocco storico. Rompe il vecchio tipo di totalità sociale ormai in crisi e costruisce un nuovo tipo di totalità sociale, anzi, direi, sociale, politica e culturale.  Dicevo che Gramsci pone l'esigenza di una nuova strategia, non di più. A mio parere di più non poteva fare negli anni trenta: ha smesso di scrivere i Quaderni nel '35, quando la sua malattia si era tanto aggravata da togliergli la forza fisica di scrivere.  In questa elaborazione noi siamo andati avanti, cercando di dare una risposta a che cosa è la strategia rivoluzionaria in paesi capitalisticamente sviluppati. L'abbiamo cominciato a fare durante la guerra di Liberazione, parlando di democrazia progressiva, di democrazia di tipo nuovo, come diceva Togliatti.  Secondo Togliatti non ci si poteva più rifare al modello russo della rivoluzione perché la rivoluzione ha modi e scadenze diverse a seconda dei paesi, non c'è un unico modello. La ricerca del nuovo modello avrebbe potuto avvenire attraverso l'azione dei CLN (Comitati di Liberazione Nazionale) che Togliatti valorizza quando dice: avremmo preso una strada più rapida e più sicura se avessimo potuto mantenere in piedi i CLN. Lo afferma al quinto congresso del PCI.  Lavorando su questa indicazione di Gramsci, e non solo, lavorando sulla realtà oggettiva, riprendendo l'esperienza della guerra di liberazione, siamo venuti costruendo quella strategia che è, che chiamiamo la via italiana al socialismo. Questa strategia non può grettamente rinchiudersi in una sola nazione, deve per forza avere delle convergenze con la strategia di altri partiti, del movimento operaio in altri paesi capitalistici. Quello che gli altri chiamano euro-comunismo è fatto di accordi tra noi e il partito comunista francese, il partito spagnolo ed altri partiti.  Abbiamo naturalmente esteso il concetto di egemonia.Per noi l'egemonia, la capacità dirigente della classe operaia è capacità di realizzare tutte quelle alleanze che sono indispensabili affinché la classe operaia abbia accesso al potere in una società di capitalismo monopolistico e di capitalismo monopolistico statale. Perciò la classe operaia deve andare al di là dell'alleanza operai-contadini poveri (tra l'altro i contadini oggi sono solo il 15% della popolazione, comprendendo anche quelli ricchi), ma deve arrivare ai ceti medi delle città e delle campagne, deve arrivare al settore della piccola e media industria. Si tratta di un sistema di alleanze assai articolate e, badate bene, contraddittorio. perché, tra gli operai della piccola e media industria e il proprietario della piccola e media industria c'è indubbiamente una contraddizione, una contraddizione che noi dobbiamo indirizzare verso la contraddizione principale, come direbbe Mao-Tse-Tung, ovvero contro il capitalismo monopolistico.  Ora alleanze sociali cosi ampie non possono che esprimersi a livello politico, cioè in partiti politici. Questa è una cosa che Gramsci non aveva presente, per lui un partito solo faceva la rivoluzione: il Partito comunista. Al Partito socialista bisognava tagliare le radici. Gramsci non arrivava a questa visione cosi ampia delle alleanze, non ci poteva arrivare.  indice  Quale pluralismo  Per noi invece questa visione si esprime in una pluralità di partiti, e d'altra parte le democrazie popolari ci danno un esempio di pluralità di partiti. In Polonia, nella RDT, vi sono partiti che hanno una scarsa autonomia forse, ma esistono realmente.  Come mandare oltre questa esperienza? Sviluppando un sistema di alleanze, anche a livello politico, che è fatto di contrasto, che è fatto di confronto, che è fatto di lotta. Ad 'esempio, la nostra alleanza col partito socialista è anche lotta, è anche discussione non priva di asprezze, naturalmente. Questo sistema lo possiamo chiamare pluralismo, pluralismo sociale e politico, assumendo un termine che non è nostro, che è estraneo al marxismo, ma che viene dalla sociologia cattolica e dalla sociologia americana.  La sociologia cattolica intende per pluralismo una pluralità di istituzioni che si equilibrano l'uno con l'altra: la famiglia, la Chiesa, lo Stato, la scuola e cosi via. Il suo pluralismo è fondato sull'interclassismo, cioè sulla collaborazione tra classe operaia e capitalisti e sul superamento della contraddizione tra l'una e gli altri.  La sociologia americana dice: il pluralismo è una pluralità di istituti che impedisce a una sola forza di avere l'egemonia, il dominio, la prevalenza.  Per noi il pluralismo è invece un'ampiezza di alleanze sociali e politiche tale da isolare il grande capitale monopolistico, la sua logica e la logica da cui oggi è dominato il capitalismo di Stato in questa società, 1ìno a sconfiggerlo. Cosi si realizza il vero pluralismo, perché noi diciamo che fino a quando esiste il grande capitale il pluralismo reale nella società non ci sarà mai, sarà sempre apparente.  La nostra Costituzione è pluralistica, ma il pluralismo reale della nostra vita è apparente. Invece vi è il monopolio dei mezzi di informazione, dell'economia e cosi via.  Ad esempio il pluralismo della società americana nasconde la realtà di una società in cui il potere economico e politico è al massimo grado concentrato, e la partecipazione democratica dei cittadini è puramente formale. In realtà, devono votare per due partiti che si confondo l'un con l'altro, che si mescolano, non si sa bene che differenza ci sia tra democratici e repubblicani. A volte i democratici su certe cose sono d'accordo con i repubblicani, su altre sono d'accordo solo con certi repubblicani. Si può dire che negli Usa ci sia un pieno trasformismo. Un reale pluralismo si ha quanto più si batte il capitalismo, quanto più si avviano forme di autogoverno della società, di partecipazione. Il nostro pluralismo è anche statale, di istituzioni statali e sociali. L'autonomia del sindacato, poi, è un momento decisivo. Quando diciamo pluralismo delle istituzioni statali intendiamo parlamento, regioni, comuni autonomi, comprensori, consigli di quartiere o di circoscrizione, sino ad arrivare ai consigli di fabbrica che non sono un istituto statale, ma sono sanciti dai contratti e riconosciuti dallo Statuto dei lavoratori. Perciò pluralità di istituzioni sociali e politiche. Inoltrel'autonomia dei sindacati significa che il pluralismo è già dentro la classe operaia, che esso non caratterizza semplicemente il rapporto della classe operaia con forze sociali non proletarie e il rapporto del Partito comunista con partiti non proletari, ma che vive nella classe operaia. Infatti nella classe operaia ci sono i comunisti, ci sono i socialisti, ci sono anche i democristiani, c'è anche il sindacato autonomo, c'è il consiglio di fabbrica, che ha anche esso una sua dialettica nei rapporti col sindacato e coi partiti.  Il pluralismo vive nella classe operaia e per questo può attuarsi nella società. Egemonia nel pluralismo, dunque, e non: egemonia e pluralismo, come diceva bene Ingrao, e fra i due termini c'è un rapporto dialettico. Più egemonia c'è, e più c'è pluralismo, non come confusione di forze, ma come forma di lotta, la più ampia, la più acuta, la più caratterizzata dal punto di vista di classe oggi. D'altra parte, senza pluralismo non si ha egemonia, ma isolamento della classe operaia e suo ritorno a posizioni subalterne. Di tale nesso dialettica tra i due termini i nostri avversari ovviamente non capiscono nulla, e dicono: se parlate di egemonia non potete parlare di pluralismo, e viceversa.  Dal punto di vista della sociologia cattolica e americana hanno ragione, ma noi usiamo questo termine con tutt'altro significato. Legato a questo si pone anche il tema della dittatura del proletariato. Come ci collochiamo?  Quando i socialdemocratici escludevano la dittatura del proletariato, e anche Kautsky la escluse dopo la rivoluzione d'Ottobre, in realtà dilatavano una concezione della democrazia tale per cui nell'esercizio della democrazia si arriva al socialismo, ma smarrivano la questione dell'autonomia e dell'egemonia della classe operaia, concepivano il processo come puramente elettorale e non come un'egemonia che rompe il blocco avversario, che aggrega e costruisce un nuovo fronte, quindi un'egemonia fondata sull'iniziativa e sulla lotta.  Noi abbiamo parlato di dittatura del proletariato nella Dichiarazione programmatica del nostro VIII congresso, nel '56, per sottolineare come cambino le forme della dittatura del proletariato a seconda dei paesi. Abbiamo mantenuto il concetto, ma abbiamo sottolineato questo elemento: cambiano le forme.  Abbiamo ripreso questo concetto al decimo congresso, nel '62, per sottolineare che della dittatura del proletariato emerge sempre di più l'elemento della direzione e del consenso. In seguito non abbiamo più ripreso questa nozione, l'abbiamo lasciata cadere.  Mi chiedo se sia compito dei documenti del partito affrontare questa questione tipicamente teorica o se invece non si debba sviluppare la discussione e il dibattito a livello teorico su questo problema.  Ad ogni modo la mia opinione, che altri possono naturalmente confutare, è che la nozione della dittatura del proletariato è nella situazione italiana dialetticamente superata, il che può voler dire assunta ad un livello superiore.  Cosa significa? Significa che la classe operaia deve, at· traverso tutto un processo (oggi un accordo programmatico, poi un governo unitario), costruire un nuovo blocco di potere in cui essa sappia avere una funzione dirigente.  D'altra parte, un nuovo blocco di potere o si costituisce sotto la direzione della classe operaia o non si costituisce.  Blocco di potere certamente contraddittorio dal punto di vista sociale e politico che dovrà saper risolvere le sue stesse contraddizioni in modo progressivo se ne sarà capace. L'egemonia si conquista, la direzione si conquista ogni giorno.  Ecco allora che è il blocco di potere ad esercitare la coercizione sulla società attraverso la legalità dello Stato. L'elemento della coercizione non può essere eliminato, non si costruisce il socialismo senza coercizione, anche dura, ma essa viene esercitata dal blocco del potere, non direttamente dalla classe operaia.  Del resto anche nella concezione di Lenin e nella realtà, la classe operaia ha esercitato la coercizione contro i nemici di classe e non verso i contadini poveri, non verso gli intellettuali. Lenin diceva: gli specialisti li dobbiamo conquistare, qui la coercizione non serve, li dobbiamo convincere a lavorare per noi, bisogna pagarli molto, ecc. ecc. Anche allora nel blocco di potere c'è un elemento di consenso e un elemento di costrizione.  Se si allarga il blocco di potere, come da noi deve allargarsi, si allarga anche la sfera del consenso, ma di un consenso molto travagliato, ottenuto con le lotte, tra contrasti, anche, tutt'altro che scontato. L'altro elemento è che non solo la classe operaia non esercita direttamente la coercizione, ma non impone nemmeno il suo modello di Stato a tutta la società. Nella rivoluzione russa è avvenuto questo: i Soviet, che sono un istituto tipicamente operaio, nato dal movimento operaio russo, si sono estesi ai contadini e ai soldati, e poi son diventati l'istituto statale. La classe operaia ha creato cioè la società a sua immagine e somiglianza, per riprendere una frase biblica, cioè ha impresso la sua visione statale su tutta la società.  Noi questo non lo facciamo e non lo proponiamo, noi assumiamo il parlamento dalla storia della democrazia ateniese, noi assumiamo i comuni, le stesse regioni derivano da una tradizione non nostra, e introduciamo, come elementi nostri invece, i consigli di fabbrica, il decentramento nei quartieri e cosi via, i quali sono gli elementi di una democrazia diretta che supera il parlamentarismo.  In questo senso allora mi pare che non si possa parlare di dittatura del proletariato, perché della dittatura del proletariato cade un elemento: la coercizione esercitata direttamente dalla classe operaia nelle sue forme e nei suoi modi. La coercizione resta ma è di tutto il blocco di potere che esercita anche la direzione sulla società, non sola la coercizione.  Inoltre all'interno del blocco di potere la classe operaia deve sapere esercitare la sua funzione dirigente per costruire lo stesso blocco di potere, per tenerlo insieme, per trasformarlo in senso progressivo. Mano a mano che si va avanti nel senso del socialismo, anche il blocco di potere si trasforma e diventa più avanzato, più omogeneo dal punto di vista di classe e cosi via.  Allora si mantiene della dittatura del proletariato questo elemento essenziale: l'autonomia e l'egemonia o direzione della classe operaia, superando l'altro elemento, lo elemento della coercizione inquadrandolo in un ambito più ampio.  Questa è soltanto la mia opinione in proposito.  “C’è in molti giovani comunisti uno stile di serietà riflessiva, di maturità e di chiarezza responsabile, che stupisce, se confrontato al tono un pò vacuo, avventato o ciondolone, che è tradizionale di molta gioventù italiana. Sono giovani che, usciti dalla dura scuola che i tempi impartiscono – sia pur con diverso profitto – a ciascuno, son passati alla scuola del Partito, e diventano in breve dirigenti : acquistano quel piglio, quel polso, quella quadratura, quasi non avessero fatto altro da molti anni, o come se tutto in loro da tempo tendesse a farne dei quadri comunisti, o non altro. Un dirigente di questo tipo è Gruppi, segretario della Federazione di Torino. Laureato in filosofia, e questa è una delle chiavi della sua personalità, ma proprio in un senso che smentisce nel modo più assoluto il concetto che dei filosofi s’ha volgarmente. Tutto in Gruppi è esattezza logica, ragionamento filato, rigore razionale: un matematico, potrebbe anche essere, se i numeri non fossero entità troppo astratte per il suo bisogno di concretezza.”  Così Italo Calvino, dalle pagine de l’Unità piemontese, descriveva Gruppi.  Mi sembra giusto rendere onore ad un grande compagno, anche se non ho avuto la fortuna di conoscere se non attraverso i suoi scritti.  Gruppi è stato per lungo tempo il responsabile della Sezione culturale del PCI e successivamente direttore dell’Istituto di studi comunisti “Palmiro Togliatti”, la famosa scuola di Frattocchie. Pubblicato numerosissimi articoli su Rinascita, su l’Unità, su Critica marxista (di cui è stato vicedirettore), assieme ad altre pubblicazioni.  Il suo lavoro, nel Partito ed all’Istituto, è stato fondamentale nel costruire quadri e militanti e nello sviluppare quella teoria rivoluzionaria che a noi, comunisti del XXI secolo, così manca.  Una testimonianza diretta da mio padre Marco. “Conobbi Gruppi alla scuola di Partito di Frattocchie/ In quel periodo il partito si era impegnato molto nella formazione dei gruppi dirigenti. Io insieme ad altri giovani compagni della gloriosa Federbraccianti delle varie regioni d’Italia, fra i venti e i trent’anni avevamo partecipato, orgogliosamente, a quella settimana di studi e approfondimenti sulla questione agraria e economica del Mezzogiorno. Ci colpi’ molto la preparazione e la competenza di Gruppi, ma soprattutto il suo linguaggio e la sua dialettica, coerentemente alineata a sani principi etico-morali. E uno che volava alto, ogni tanto si lasciava andare in ragionamenti filosofici che a noi, ancora politicamente acerbi, sembravano un pò difficili. Una settimana intensa e ricca che ci forni strumenti di analisi, di critica e di proposta.”  Qualche cenno biografico per i compagni che non lo conoscono, dal sito biografico gestito dalla moglie Tilde Bonavoglia e da suo nipote Andrea Bonavoglia http://digilander.libero.it/lucianogruppi/ : Iscritto al Partito comunista italiano. Partecipa alla Resistenza. Dopo la Liberazione è membro della Segreteria e responsabile della Commissione giovanile della Federazione di Torino. Responsabile della Commissione giovanile, poi della Sezione di stampa e propaganda, membro della Segreteria della Federazione di Milano.  Responsabile della Sezione d’organizzazione e vicesegretario della Federazione di Torino. Segretario della Federazione di Torino. Fa parte della Segreteria regionale del Piemonte. Membro della segreteria del Consiglio mondiale del Movimento dei partigiani della pace a Praga e a Vienna. Vice responsabile della Sezione di stampa e propaganda del Comitato centrale del PCI. Fa parte della segreteria della Federazione di Torino ed è capogruppo consiliare al Comune di Torino. Rappresentante del PCI nel Comitato di redazione della rivista internazionale Problemi della pace e del socialismo, a Praga. Vice responsabile della Sezione culturale del Comitato centrale del PCI.  Dal ’64 al ’66 responsabile della Sezione per le scuole di partito.  Dal ’66 al ’73 vice responsabile della Sezione culturale del Comitato centrale del PCI.  Vicedirettore della rivista Critica marxista.  Direttore dell’Istituto di studi comunisti Palmiro Togliatti (Frattocchie).  Presidente dello stesso istituto.  Membro del Comitato centrale, Membro della Commissione centrale di controllo. Al congresso ha chiesto di non essere riproposto per organismi dirigenti del PCI;  Ha restituito la tessera dei Democratici di Sinistra; Iscritto al Partito della Rifondazione Comunista;  Nello stesso sito è possibile trovare l’importantissimo “La concezione marxista dello Stato”, che riunisce le lezioni tenute presso Frattocchie. http://digilander.libero.it/lucianogruppi/concezionedellostato/la_concezione_dello_stato.html  Per finire, la commemorazione su “L’Ernesto” https://www.marx21.it/rivista/5142-marx-dalla-democrazia-radicale-al-comunismo-rivoluzionario.html  Un breve estratto da quest’ultimo articolo, ancora oggi attualissimo, di Bianca Bracci Torsi e Fosco Giannini, che mi sento di condividere in pieno :  “Due propensioni, quella dello studio teorico e della formazione, quanto mai necessarie ed attuali oggi, in questa fase caratterizzata sia dalla povertà teorica che segna di sé una parte significativa del movimento comunista che dalla grave sottovalutazione del valore della formazione politico-teorica ( la “scuola quadri”) che si manifesta anche in Rifondazione comunista.  Luciano Gruppi, dunque, non solo nel ricordo: ma per il lavoro futuro, come è destino dei grandi. “Luciano Gruppi. Gruppi. Keyword: la via italiana al socialismo, egemonia della filosofia del linguaggio ordinario -- Refs.: Luigi Speranza: Grice e Gruppi” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51755430814/in/dateposted-public/

 

Grice e Guastella – la conoscenza – filosofia italiana – filosofia siciliana -- Luigi Speranza (Misilmeri). Filosofo. Grice: “Guastella is an interesting philosopher. A system-builder! He wrote on epistemology and metaphyusics in a clear style.” Cosmo Guastella (Misilmeri), filosofo. Figlio di Vincenzo farmacista e da Marianna Piazza, uno dei quattro figli della coppia, ancorché di famiglia borghese non ebbe un'infanzia agiata. Sudia con l'ausilio di borse di studio fino a laurearsi a Palermo. È ritenuto il capostipite del fenomenismo. Insegna a Palermo. Opere: “La conoscenza”; “Metafisica”; e  “Il fenomenismo”. Fonda la Biblioteca filosofica. Dizionario Biografico degli Italiani, Dizionario di filosofia. Cause  empiriche:  e  cause  metaempiriche. La  caasa  nel  senso  scientifico. Distinzione  tra  la  causa  nel  senso  metafisico (causa  efficiente)  e  la  causa  nel  senso  scientifico. I filosofi  hanno  ammesso  generalmente  questa distinzione Impossibilità  di  provare  la  dottrina  di  Comte   sulle  cause  efficienti.L’ANTROPOMORFISMO. La  Filosofia  teologica.  La  filosofia  teologica  nel  periodo  prescientifico. Funzioni  della  divinità  come  principio  esplicativo    dei   fenomeni. La    divinità   come  principio  motore. La  divinità  come  principio  di  una  spiega-  zione teleologica  dei  fenomeni.  Le  prove  dell'esistenza  della  divinità. I  concetti  della  teologia  trascendentale  ^^   Immutabilità  ed  extra-temporalità  di  Dio--      Pag'   '  Dio  come  l'Infinito  o  l'Assoluto       .        .  1^9^ Il  dualismo  e  il   panteismo  nella  filosofìa  antica  e  nella  moderna. Il  valore  delle  prove  dell'esistenza   della  divinità  dipende  da   quello   del   concetto   di  causa  efficiente. L'animismo  come  spiegazione  dei  fenomeni  biologici.   §    8.  Osservazioni  generali  suU'animismo  come   ipotesi  biologica 85-La  spiegazione  animista  dei  fenomeni  bio-  logici   87-Estensione  del  dominio  della  coscienza  in  conseguenza  dei  principii  dell'animismo.    102-Spiegazione  intellettualista  dell'istinto. L'ilozoismo. Osservazioni  generali  sull'ilozoismo         .  111-L'  ilozoismo  nella  filosofia  antica   e   moderna    119-128   14.  L'ilozoismo  nella  filosofia  contemporanea. 11  panpsichismo.   Osservazioni  generali  sul  panpsichismo. La  monadologia  di  Leibnitz. I  panpsichìsti  moderni. L'idealismo. Osservazioni  generali  sull'idealismo. L'idealiijino  di  Kant 200-L'idealismo  assoluto,  dei  successori  di  Kant  214-219-Il  coneetto  di  eansalità  deirantropiomorfismo.   .§  21.  leoda  volizionale  della  causazione  e  teorie   affini. Osservazioni  su  queste  teorie. La  filosofia  meccanica  o  impulsionista.   §    1.  Della  filoso fia  meccanica  o  impulsionista   in  generale 251-Il  principio  ,  su  cui  è  fondata  la  filosofia  meccanica,  in  Cartesio  e  i  cartesiani,  in  Hobbes,  in  Spinoza,  in  Newton, nei  primi  newtoniani,  in  Locke,  in  Leib-   nitz,  in  Clarke, in  Huygens,  Bernouilli,  Eulero,  d'  Alem-  bert, Hume, Reid, Dugald-Stewart, Hamilton, Galluppi, Rosmini,  Cuvier, nei  fisici  e  filosofi  contemporanei. La  proposizione  che  V  azione  a   distanza   è  inconcepibile,  assurda  e  contraddittoria. Origine  e  sviluppo  dell'idea  di  causa  bf-  ,  ficiente.   §    1.  Le  causazioni  più  familiari  ci   sembrano  spiegarsi  da  se  stesse  e  potere   spiegare   tutte  le  altre. Proposizioni  di  filosofi  che  hanno  ricono-scinto   questo   fenomeno   psicolo^co  \(di  ^  Bacone  ,    Stuart-Mill  ,     Bain  ,    GiiffopA  ,      Pag.   Stallo). L' idea  di  causa  efficiente  deriva,  dall' «et   sperienza  delle  causazioni  più  famlliani. Le  causazioni  più  familiari  non  sembrano,  misteriose  che  nella  riflessione  scientifica. Perchè l’azione   volontaria    diventa   mi-  -  steriosa Perchè diventa misteriosa,  in generale,  l'azione mutua tra  lo  spirito  e  il  corpo. Perchè  diventa  misteriosa  1'  attività  inte-  riore dello  spirito 3Perchè  diventano  misteriose  IMnipulsione  e  le  altre  azioni  fisiche  più  familiari  —  Conclusione  sulle  ragioni  per  cui  le  cau-  sazioni più  familiari  perdono  la  loro  intelligibilità. La  tendenza  naturale  a  spiegare  le sequenze non  familiari  riconducendole  alle  familiari,  e  quindi  il  principio  di  causa-  lità efficiente  nella  sua  forma  primitiva  e  spontanea,  non  possono  avere  alcun  valore   obbiettivo Forma secondaria del principio   di   cau-salità   efficiente  —Il  principio    di   causa*-    ,  lità  efficiente  è  un'induzione   incosciente   dalle  causazioni  più  familiari. Origine  comune  e  differenziazione  prògressiva  dei  concetti  fisico  e  metafisico  i'  deWsL  causalità. La  dottrina  dbll'inconoscibilb  b  l'idea  di   CAUSA   EFFICIENTE.  La  dottrina  dell'  inconoscibile   come    ap-    Digitized  by    Google    -  m  -^   pliéàzìone  del  principio  di  causalità  efficiente  'tiella  sua  forma  secondaria    .        .  J?ni-39S  §'lLa  proposizione  che  non  conosciamo  l'es-   senzal  disile  cose 11  fondamento  principale  della  teoria  del -   l'ÌDCon<6scibìl'e  è  il  principio  di  causalità efficiènte. Questo fóndamente non può pretendere ad alcun calore obbiettivo. Ciò è provato più chiaramente dalTesame dell'inferenza incosciente di cui è la conclusion. Noi conosciamo o possiamo conoscere l'essenza delle cose e il modo essenziale della produzione dei fenomeni La Forza nel senso metafisico. La  fij.osofia  apriorista.  Lo  sforzo  di  ricostruire  la  realtà  a  priori  è  una  delle  tendenze  più  generali  della  speculazione  metafisica. La  filo&ofìa  apriorista  è  sovratutto  un'ap-  plicazione del  principio  di  causalità  efficiente  La  filosofìa  apriorista  in   Cartesio, in  Malebranche 4(ìy-in  Spinoza in  Leibnitz, in  Locke, in  Condillac, in  d'Alembert, in  Hume, in  Kant, in  Fichte,  Schelling,  Hegel, in  Reid,  Ehigald-Stewart ,  Galluppi ,  Ro-  smini, Gioberti,  Mamiani, in  Taine  e  Spencer  e  in  Hartmann. Le  pretese  dimostrazioni  dei  principii  della  meccanica. La  filosofia  apriorista  al  di  fuori  della  ri-  cerca della  causa  efficiente. Dottrine  della  filosofia  apriorista  sulla  essenza  e  la  definizione. Dottrine  di  Aristotile e di  Platone  in  particolare. Dottrine  analoghe  e  particolarmente  quella   di  Cuvier  della  correlazione  organica. Spiegazioni  della  filosofia  apriorista  della  costituzione  del  cosmos  (e particolarmente quelle  di  Platone e  di  Aristotile). L'argomento  ontologico  come  applicazione   della  spiegazione  apriorista. IL REALISMO DIALETTICO. Perchè si realizzano le astrazioni. Spiegazioni correnti e precisasione della  qaistione. Il  realismo,  in quanto  è una  spiegazione del  mondo  (realismo dialettico),  ha Io scopo di  identificare  il  rapporto  logico  tra  il  principio  e  la  conseguenza  al'  rapporto  ontologico  tra  la  causa  efficiente  e  V  effetto— Origine  del  realismo  degti  scolantici. Il  sistema  di  Hegel. Il  sifttema  di  Taine. Realismo  (realizzazione dei concetti) del   Taine. Il  suo  metodo  dialettico  (cioè  di  dedurre  i   concetti  realizzati). L'idea  fondamentale  di  questo  sistema  è  Ti-  dentificazione  del  rapporto  tra  il  principio  e  la  conseguenza  a  quello  tra  la  causa  ef-  ficiente e  Teffetto. Il sistema di Piatene. Cenni generali sulla filosofia di Platone. Apriorismo di Platone. Suo metodo puramente  deduttivo. Importanza  capitale  attribuita  al  metodo;  universalità della filosofia e sua sìstemftticìtà. Affinità  del  metodo  dialettico  col  metodo  matematico. Caratteri  prepri  del  metodo  dialettico,   per   cui  differisce  dal  matematico. Tutte  le  altre  Idee  si  deducono  da  quella   del  Bene. L'Idea  del  Bene  non  è  solo  il  principio  logico ma  anche  il  principio  ontologico  (la  causa  produttrice)  delle  altreldee, enonne  è  il  principio  ontologico  che  in  quanto  ne  è   il  principio  logico. La  deduzione  progressiva  delle  Idee  le  une  dalle  altre  é  una  derivazione  reale  delle  Idee   che  si  deducono  da  quelle  da  cui  sf  deducono.  L'Idea  del  Bene  è  la  più  generale  di  tutte.  Contenuto  di  quest'Idea. Metodo  di  divisione  e  gerarchia  delle  Idee. Teoria  della  definizione. La  dieresi  è  una  deduzione  in  cui  V  Idea  divisa  funge  da  principio,  e  le  Idee  in  cui   si  divide  da  conseguenza. Come  la  dieresi  è  una  deduzione,  e  come  si  trovino  in  essa  1  caratteri  distintivi   del   metodo  dialettico  dì  cui  al  §  12.        .  »    264-Il  metodo  indiretto  del  Parmenide É con questo metodo che deve  dimostrarsi  il  primo principio  (cioè  l'Idea  del  Bene). Un'Idea  generale  non  è  solo  il  principio  logico ma anche  ontologico  (la  causa),  clelle   Idee  più  particolari  in  cui  si  divide. L'obbiettivazione  dei  concetti  e il  metodo  dialettico  hanno  per  Iacopo  Tidentiflcazione  del  rapporto  tra  il  princìpio  e  la  conseguenza  a  quello  tra  la causa  efficiente  e  Teffctto.     n  iftiema  41 Spinosa. Idea  generale  della  filosofia  di  Spinoza. Il concetto  del  parallelismo  psico-fisico  e  suoi  sviluppi   Metodo  puramente deduttivo. Identità dello sviluppo logico e dello sviluppo ontologico. Le cose considerale sua specie aetemitatis. L’essere, secondo Spinoza, è una serie di astrazioni realizzate che  derivano logicamente e ontologicamente le une dalle altre, in modo che il rapporto tra il principio e la conseguenza é identico con quello tra la causa (efficiente) e l’efi'etto. Difi'erenze e omologia fra tutti questi sistemi. Come il  realismo  dialettico deriva  dalla  tendenza  naturale  del  nostro  spìrito  da  cui  derivano  tutti  gli  altri  concetti  metafisici.  NIHIL  ORITUR,  NIHIL  INTERIT. Tendenzanaturale  a  supporre  che  il  reale   nella  sua  essenza  é  immutabile. I  fisici  greci  in  generale  -Dottrine di Empedocle e di Anassagora. Il sistema degli atomisti. Dottrine dei fisici che ammettevano una sostanza unica. Dottrina  di  Eraclito  della  identità  dei   contrari  Dottrina  degli  Eleati. Spiegazioni  meccaniche  dei  fisici  in  generale. Dottrine  dei  filosofi  indiani. Dottrine  di  Bnmo  e  di  Telesio.  La  teoria  meccanica  (cioè  laridnrio-  nedi  tutti  i  fenomeni  a  quelli  mecca-rici)  nella  scienza  moderna. Applicazione della  teoria  alla  costituzione  della  materia. Ancora  della  teoria  meccanica-  Applicazione ai  fenomeni  psichici. Spiegazione  meccanica  dei  fenomeni   della  vita   Il  principio  della  persistenza  delle  co-  nelle stesse proprietà nell'atomismo metafisico,  nei sistemi monisti,  nel realismo,  nel criticismo. Doitrine di Herbart e del prof.  Corleo  Dottrina  delTidentità  della  causa  e  dell'efletto. IL  CONCETTO  DELL'ANIMA. L'animismo  (sostantificazione dell’anima)  è  il  prodotto  d'una  tendenza  naturale  dello*spirito  umano.  Le  .prove  della  sostanzialità  dell' anima. Materialiià  deir  anima  Della  for-  ma primitiva  deirÀnìmismo.      L'animismo  è  anch'esso  un' ap-  plicazione del  principio  deirim-  mutabilità  dell'essenza  delle  cose  »  Le  concezioni  moniste  si  fonda-  no su  questo  principio  egualmente che  le  dualiste.  .  È  per  esso  che  deve  «piegarsi  anche  Tanimismo  de -l'uomo  primitive. Il  concetto  dell'immortalità  del-  l'anima e  quello  della  bua  im-  materialità sono  degli  sviluppi  naturali  della  teoria  animista.  »  Il  substratum ,  supposto  indi  sponsabile  j  dei  fenomeni  psi-  chici non  è  che  il  fantasma  del   corpo »   La  terza  forma  dell 'animismo,  cioè  la  dottrina  che  la  sostanza  dello  spirito  è  un  fatto  psichico  permanente  che  è  il  sobstratom  di  tutti  gli  altri.  DOTTRINA  DI  ROSMINI  SULLA  SOSTANZA   DELL'ANIMA  carte. IMMANENZA  DELLE  IDEE  PLATONICHE. Prove  di  qoeat*  immanetiixa  .  I  termini  designanti  le  Idee  in  generale. I  termini  designanti  ciascen'Idea.  carte    Il  concetto  e  la  conoscenza  generale  si  riferiscono  airidea »        La  definizione  e  la  dieresi,  che  hanno  per  oggetto  le  Idee,  si  riferiscono  alle  eose  considerate  d'una  maniera  generale  ed   astratta L'Idea  è  Tuniversale,  ciò  che  è  lo  stei^so   in  tatti  gl'individui  del  genere. VLa  napouoCa,    la  (léBe^i^  e  le  altre  espressioni del  l'inerenza  nelle  Idee  nelle  cose. Contenenza  reciproca  tra  le  Idee  gene-  riche e  le  Idee  specifiche. Gli  elementi  delle  Idee  sono  anche  gli   elementi  delle  cose »      89-100   IX.  Tutto  il  reale  si  risolve  nelle  Idee. L'essere  non  6  fuori  del  divenire,  ma  nel   divenire  stesso.  BlMeuMione  degli  argomenti  contro  V  ImmanenBa  I.  La  sostanzialità  delle  Idee. La  distinzione  fra  le  Idee  e  le  cose  inter-  pretata come  una  separazione         . ni.  Le  Idee  considerate  come  esemplari  a  cui  le  cose  non  si  conformano  che  approssimativamente. Le  allegorie  del  Fedro  e  del  Timeo. La  testimonianza  d'Aristotile. IL  PITAGORISMO  PLATONICO  Cenni  snlle  dottrine  del  Pitagorici  e  sul  pitagorismo  di  Platone  In  generale. I  namert  ideali  carte  I  doe  elementi   A.  La  forma  e  la  materia  delle  Idee. La  forma  e  la  materia  delle  cose. Le  entlUi  matematielie  (come  intermediarie  fra  le  Idee  e  le  cosej. li  piiagerifiino  nel  Timeo  e  nel  Filebo   Motivi   deireTolnzione   di  Platone  verso  il  pi-  tagorismo. II  pitagorismo  nel  Tìm^o (Carattere  simbolico   della  cosmogonia  del  Titneoe&no  significato).   Il  pitagorismo  nel  ^^eòo(il  limite  e  V illimi-  tato di  questo  dialogo) »    242-251   V.  Il  pitagorismo  nel  discepoli    di  Platone  Le  tre  dottrine  dei  platonici  sui  numeri  carta         La  dottrina  di  Xenocrate  .        .  .        .  carte   251-25o   La  dottrina  di  Speusippo. DOTTRINE  DI  PLATONE  SULL'ANIMA  E  LA  DIVINITÀ   NEL  LORO  RAPPORTO  COL  SISTEMA  DELLE  IDEE. L'anima  e  suo  rapporto eon  le  Idee  e  eoi  fenomeni  (ranima  individuale   carte   ranima  cosmica  e.  £80-293).        carte  L'Interpretaslone  teistica  del  siste-  ma delle  Idee  (che  le  Idee  soro  i  pen-  sieri della  divinità  creatrice)      liOldee  e  11  pensiero  (Interpretazione  di  Hegel  e  del  Teichmùller  dell'immortalità  dell'anima  e  altre  dottrine  connesse — Pla-  tone non  ammette  Tidentità  dell'essere  e  del  pensiero,  e  la  sua  Idea  è  un*  entità  puramente  obbiettiva. Cosmo Guastella. Guastella. Keywords: conoscenza. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Guastella: tra fenomenismo e noumenismo” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51689814494/in/photolist-2mPE1ox-2mLNi1Z-2mKDP1b

 

Grice e Guicciardini – le cose dello stato -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Firenze). Filosofo. Guicciardini. Grice: “Guicciardini is what I call an Italian classic; some like Machiavelli, as Austin used to say, “but Guicciardini is MY Renaissance man!” – Grice: “There are various topics of interest: the italian of Machiavelli and Guicciardini in the development of a philosophical political lexicon; there’s the trope of the centaur –‘all’ombra del centauro.’ – Pure political philosophy of the type enjoyed by members of the Debating Union at Oxford!”  Terzogenito dei Guicciardini, famiglia tra le più fedeli al governo mediceo. Dopo una prima formazione umanistica in ambito familiare dedicata alla lettura dei grandi storici dell'antichità (Senofonte, Tucidide, Livio, Tacito), studia a Firenze seguendo le lezioni di Pepi. Soggiornò a Ferrara per poi trasferirsi a Padova per seguire le lezioni di docenti di maggior importanza. Rientrato a Firenze, esercita l'incarico di istituzioni di diritto civile. Nominato capitane dello Spedale del Ceppo. Inizia la stesura delle Storie fiorentine e dei Ricordi. Esattamente dieci anni prima, ossia con l'anno 1498, si chiudono quelle Cronache forlivesi di Leone Cobelli che espongono le premesse degli avvenimenti riguardanti Caterina Sforza e Cesare Borgia di cui Guicciardini si occupa, nelle sue Storie, per i notevoli riflessi che hanno sulla politica fiorentina. In occasione della guerra contro Pisa, venne chiamato a pratica dalla signoria, ottenendo l'avvocatura del capitolo di Santa Liberata. Questi progressi portarono il Guicciardini anche ad una rapida ascesa nella politica, ricevendo dalla Repubblica Fiorentina l'incarico di ambasciatore presso Ferdinando il Cattolico. Da questa sua esperienza nell'attività diplomatica nacque la Relazione, e anche il "Discorso di Logrogno", un'opera di teoria politica in cui Guicciardini sostiene una riforma in senso aristocratico della Repubblica fiorentina. Fece parte degli Otto di Guardia e Balia ed entra a far parte della signoria, divenendo, grazie ai suoi servigi resi ai Medici, avvocato concistoriale e governatore di Modena, con la salita al soglio pontificio di Giovanni de' Medici, col nome di Leone X. Il suo ruolo di primo piano nella politica emiliano-romagnola si rinforza con la nomina a governatore di Reggio Emilia e di Parma. Nominato  commissario generale dell'esercito pontificio, alleato di Carlo V contro i francesi, matura quell'esperienza che sarebbe stata cruciale nella redazione dei suoi Ricordi e della Storia d'Italia.  Alla morte di Leone X, si trova a contrastare l'assedio di Parma, argomento trattato nella Relazione della difesa di Parma. Dopo l'assunzione al papato di Giulio de' Medici, col nome di Clemente VII, venne inviato a governare la Romagna, una terra agitata dalle lotte tra le famiglie più potenti. Diede ampio sfoggio delle sue notevoli abilità diplomatiche.  Per contrastare lo strapotere di Carlo V, propaganda un'alleanza fra gli stati regionali allora presenti in Italia e la Francia, in modo da salvaguardare in un certo qual modo l'indipendenza della penisola. L'accordo fu sottoscritto a Cognac, ma si rivelò ben presto fallimentare; di questo periodo è il Dialogo del reggimento di Firenze, in cui si ripropone il modello della repubblica aristocratica. La Lega subì una cocente disfatta e Roma fu messa al sacco dai Lanzichenecchi, mentre a Firenze veniva instaurata la repubblica. Coinvolto in queste vicissitudini, e visto con diffidenza dai repubblicani per i suoi trascorsi medicei, si ritira nella villa Guicciardini di Finocchieto, nei pressi di Firenze. Qui compose due orazioni, l'Oratio accusatoria e la defensoria, ed una Lettera Consolatoria, che segue il modello dell'oratio ficta, nella quale espose le accuse imputabili alla sua condotta con le adeguate confutazioni, e finse di ricevere consolazioni da un amico. Scrisse le Considerazioni intorno ai "Discorsi" del Machiavelli "sopra la prima deca di Livio", in cui accese una polemica nei confronti della mentalità pessimistica dell'illustre concittadino. Completa anche la redazione definitiva dei Ricordi. Lasce Firenze e ritorna a Roma, per rimettersi di nuovo al servizio di Clemente VII, che gli offrì l'incarico di diplomatico a Bologna. Dopo il rientro dei Medici a Firenze, fu accolto alla corte medicea come consigliere del duca Alessandro e scrisse i Discorsi del modo di riformare lo stato dopo la caduta della Repubblica e di assicurarlo al duca Alessandro. Non fu tenuto tuttavia in altrettanta considerazione dal successore di Alessandro, Cosimo I, che lo lascia in disparte. Si ritira nella sua villa Guicciardini di Santa Margherita in Montici ad Arcetri. Rriordina i Ricordi politici e civili, raccolse i suoi Discorsi politici e scrisse la “Storia d'Italia. Morì ad Arcetri, quando da circa due anni si era ormai ritirato a vita privata.  Guicciardini è noto soprattutto per la Storia d'Italia, vasto e dettagliato affresco delle vicende italiane tra l’anno della discesa in italia del Re francese Carlo VIII e il anno della morte di Papa Clemente VII. -- è un monumento al ceto italiano e più specificamente alla scuola fiorentina di filosofi di cui fecero parte anche Machiavelli, Segni, Pitti, Nardi, Varchi, Vettori e Giannotti.  L'opera districa la rete attorcigliata della politica degli stati italiani del Rinascimento con pazienza ed intuito. L'autore volutamente si pone come spettatore imparziale, come critico freddo e curioso, raggiungendo risultati eccellenti come analista e filosofo (anche se più debole è la comprensione delle forze in gioco nel più vasto quadro europeo).  Guicciardini è l'uomo dei programmi che mutano "per la varietà delle circunstanze" per cui al saggio è richiesta la discrezione (Ricordi), ovvero la capacità di percepire "con buono e perspicace occhio" tutti gli elementi da cui si determina la varietà delle circostanze. La realtà non è quindi costituita da leggi universali immutabili come per Machiavelli. Altro concetto saliente del pensiero guicciardiniano è il particulare (Ricordi) a cui si deve attenere il saggio, cioè il proprio interesse inteso nel suo significato più nobile come realizzazione piena della propria intelligenza e della propria capacità di agire a favore di se stesso e dello stato. In altre parole, il particulare non va inteso ego-isticamente, come un invito a prendere in considerazione solamente l'interesse personale, ma come un invito a considerare pragmaticamente quanto ognuno può effettivamente realizzare nella specifica situazione in cui si trova (dottrina che collima con quello di Machiavelli).  In netta polemica, Pitti scrisse l'opuscolo Apologia dei Cappucci, a difesa della fazione dei democratici. E considerato il progenitore della storiografia moderna, per il suo pionieristico impiego di documenti ufficiali a fini di verifica della sua Storia d'Italia.  La reputazione di Guicciardini poggia sulla Storia d'Italia e su alcuni estratti dai suoi aforismi. I suoi discendenti aprirono gli archivi di famiglia e diedero incarico a Canestrini di pubblicare le sue memorie.  Furono pubblicati i suoi Carteggi, che contribuirono ad un'accurata conoscenza della sua personalità.  «L’angolo di prospettiva dal quale si prese a considerare, nella prima metà del secolo XVII, l’opera guicciardiniana, la posizione di questa nel giudizio dei lettori secenteschi, sono bene indicati da uno spirito acuto dell’epoca, A. G. Brignole Sale. “Quindi non per altro, a mio giudizio, porta pregio il Guicciardini sopra il Giovio, sol che questi, qual pittor gentile, de’ soggetti ch’egli ha per le mani colorisce agli occhi altrui con vivacissimi ritratti, senza inviscerarsi, la superficie, quegli per contrario, qual esperto notomista, trascurando anzi dilacerando la vaghezza della pelle, vien con l’acutezza della sua sagacità fino a mostrarci il cuore e il cervello de’ famosi personaggi ben penetrato.” All’affiatamento con lo spirito dell’opera guicciardiniana si accompagnò, sul piano letterario, una migliore intelligenza del suo stile, di cui si cominciò ad ammirare, superando le pedanti riserve linguistiche, la scorrevolezza, l’intima misura e precisione pur nel tono sostenuto. Tuttavia, proprio dal più accreditato esponente letterario del tacitismo, Boccalini, fu formulato un giudizio tra i meno benevoli alla Storia.»  Il giudizio di Francesco De Sanctis  Copertina di un'antica edizione della Storia d'Italia Francesco De Sanctis non ebbe simpatia per Guicciardini ed infatti non nascose di apprezzare maggiormente il Machiavelli. Nella sua Storia della letteratura italiana il critico irpino mise in evidenza come Guicciardini fosse, sì, in linea con le aspirazioni di Machiavelli, ma se il secondo agì in linea con i suoi ideali, il primo invece "non metterebbe un dito a realizzarli". De Sanctis affirma:“Il dio del Guicciardini è il suo particolare.” “Ed è un dio non meno assorbente che il Dio degli ascetici, o lo stato del Machiavelli.” “Tutti gli ideali scompaiono.” “Ogni vincolo religioso, morale, politico, che tiene insieme un popolo, è spezzato.” “Non rimane sulla scena del mondo che l'INDIVIDUO.” “Ciascuno per sé, verso e contro tutti.” “Questo non è più corruzione, contro la quale si gridi: è saviezza, è dottrina predicata e inculcata, è l'arte della vita”. E poco più in basso aggiunse. “Questa base intellettuale è quella medesima del Machiavelli, l'esperienza e l'osservazione, il fatto e lo «speculare» o l'osservare. Né altro è il sistema. Guicciardini nega tutto quello che il Machiavelli nega, e in forma anche più recisa, e ammette quello che è più logico e più conseguente. Poiché la base è il mondo com'è, crede un'illusione a volerlo riformare, e volergli dare le gambe di cavallo, quando esso le ha di asino, e lo piglia com'è e vi si acconcia, e ne fa la sua regola e il suo istrumento".  Nel Romanticismo, la mancanza di evidenti passioni per l'oggetto dell'opera era infatti vista come un grave difetto, nei confronti sia del lettore che dell'arte letteraria. A ciò si aggiunga che Guicciardini vale più come analista e filosofo che come scrittore. Lo stile è infatti prolisso, preciso a prezzo di circonlocuzioni e di perdita del senso generale della narrazione. "Qualsiasi oggetto egli tocchi, giace già cadavere sul tavolo delle autopsie".  Altre opera: Scritti autobiografici e rari (Laterza), Storie fiorentine; Discorso di Logrogno, Considerazioni sui Discorsi del Machiavelli, Ricordi politici e civili Dialogo del Reggimento di Firenze, Storia d'Italia, Scritti sopra la politica di Clemente VII dopo la battaglia di Pavia (Firenze, Olschki); Le cose fiorentine, R. Ridolfi, Firenze, Olschki, Carteggi,  presso Zanichelli, Bologna;  presso Istituto per gli studi di politica, Firenze; presso Istituto storico italiano, Roma; presso G. Ricci, Roma. "Donna di grandissimo animo e molto virile", secondo il Guicciardini (Storie fiorentine). N. Sapegno, Compendio di storia della letteratura italiana, La Nuova Italia, Firenze, A. G. BRIGNOLE-SALE, Tacito abburatato, Genova, «Or chi non vedescriveva il Tassoniche questo è uno stil maestoso e nobile, quale appunto conviensi alla grandezza delle cose proposte e alla prudenza politica dell’Istorico che le tratta? e che non ostante i periodi sien tutti numerosi e sostenuti, per esser ben collocate le parole fra loro, e però l’ordine, e ’l senso facile e piano in maniera che ’l lettore non trova scabrosità né intoppi, come nello stil di Villani, che va saltellando e intoppando a ogni passo etc. A. TASSONI, Pensieri diversi, Venezia,  Il legame del pensiero politico tassoniano con quello di Guicciardini (incluso, a differenza del Machiavelli, tra gli storici della «prima schiera» con Comines e Giovio, ossia considerato pari agli antichi; v. Pensieri) e del Machiavelli è noto: i due fiorentini, come dice il Fassò, furono «i due poli» a cui si volse la sua riflessione politica. (Introduz. a TASSONI, Opere, Milano-Roma,  T. BOCCALINI, Ragguagli di Parnaso e Pietra del paragone politico, I, Bari,  Walter Binni, I classici italiani nella storia della critica: Da Dante al Marino, Nuova Italia, Testi Dialogo e discorsi del reggimento di Firenze” (Bari, Laterza); “Historia di Italia, Pisa, Capurro; Historia di Italia. Libri (Venezia, Angelieri): Scritti autobiografici e rari” (Bari, Laterza); “Scritti politici” (Bari, Laterza); “Storia d'Italia” (Bari, Laterza); “Storie fiorentine” (Bari, Laterza); Studi R. Ridolfi, 'Vita', Milano, Rusconi Treves, Il realismo politico, Firenze, R. Ramat, “La tragedia d'Italia” Firenze, V. De Caprariis, Guicciardini. Dalla politica alla storia, Napoli, (ristampa Bologna, G. Sasso, Per Francesco Guicciardini. Quattro studi, Roma, E. Cutinelli-Rèndina, Guicciardini, Roma, Famiglia Guicciardini. Treccani Enciclopedie, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,. Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Propositioni, overo Considerationi in materia di cose di Stato, sotto titolo di Avvertimenti, Avvedimenti Civili, & Concetti Politici di Guicciardinii, Lottini, Sansovini, Venezia, Presso Altobello Salicato, Opere illustrate da Giuseppe Canestrini, Firenze, Barbera, Bianchi e Comp., (Bari, Gius. Laterza); biblioteca italiana.   AVVERTIMENTO PRIMO. R Principe,checolmezodelsuoAmbasciatorevuoleingannar Paltro,deueprimaingannar l'Ambasciatore,percheopera,en parlaconmaggior efficaccia,credendo che cosisiala mentedel fuo Principei,lchenon farebbesecredesseesseresimulatione,eg ilmedesimoricordousiogn'uno,che permezod'altrivuoleper Juadereaun'altro ilfalso. 11. DAL fareònonfareunacosachepaiaminima,dependebenspejlomomentodi coseimportantiffime,o però nellecosepiccoledeuefieffereauuertito,ceonsiderato. III. FÁCIL cosaèguastarsiunbel'eseredificilealracquistarlo,peròchisitruong inbuon gradodeuefareognisforzodinonlasciarselovscirdimano. IIII. E'Pazziasdegnarsiconquellepersoneconlequaliperlagrandezzaloro,tunon puoisperaredipoteruendicarti,peròsebena pareessereingiuriatodaquesti, bisogna patire,efimulare NELLE cosediguerranasconodaun'horaàvn'altrainfinitevarietà,perònon fideuepigliaretroppoanimodelenuoueprofpere,nèuiltàdelleauuerse,perchespeso nascequalchemutatione,ma questodeueinsegnare,chea chifelipresental'occasione non laperda,perchedurapoco. COME ilfinedemercantièilpiudellevolteilfallire; quellodenauigantiilfom mergere, cofispessodichilungamentegouernailfineècapitarmale QYESTI ricordisonregole,cheinqualchecasoparticolarechehadiuerfa  VII LE cosechesonouniuerfalmentedesiderate, rareuolteriescono,laragioneècheli pochisonoquellichecommunementedannoilmottoallecose,e alifini, dichesono contrarijaljaigliappetitidimolti VIII. TVTT.E lesicurtàchesipossonohaueredel'inimicofonbuone,difede,diamici, dipromesse,ed'altreassicurationi,maperlamalaconditionedeglihuomini,evariatio nedetempinissunaaltraèmigliore,& piuferma,cheaccommodarsiinmodo,chel'ini mico non habbiapoteftàd'offenderti IX NESSUNA cofa deue desiderarepiul'huomoinquestomodo,nèattribuirlopiu a fuafelicità,cheuederel'inimicofuoprostratointerrae ridottoaterminitali,chetu l ' h a b b i a a d i s c r e t i o n e :M a quanto è f e l i c e a c h i a c c a d e q u e s t o , t a n t o d e v e f a r s i g l o r i o s o conl'ofarlalaudabilmente,cioèesserclementeaperdonare,cofapropriadeglianimi generofi, & 'eccellenti: ragione,   ragione,hannaeccettione,maqualifianoqueicasiparticolari,sipofonomaleinsegnare altrimenti,chceon ladifcrettione. diuèdicarsi dite,nonlofacciaprecipitosamente,anziaspettiiltempoel'occasione,laqualesenza dubbioliuerrà diforte,chesenzascoprirsimaligno,oappasionato,potràsodisfareal fuodesiderio. XIIII. Chi hadagouernare Città,opopolielivogliatenercoreti,Sappiacheordina riamentebastapunireidelinquentiaföldiquindiciperlira,maènecessariopunirlitut t i , c h e i n e f f e t t o s i a c u s t i g a t o o g n i d e l i t t o, m a s i p u ò b e n f a r q u a l c h e m i s e r i c o r d i a , e c c e t todellicasiatroci,chebisognadaressempio. XVI. IL ricordodisopra, bisognavsarloin modochel'acquistarnomedinoneserbene. fattore,nonfaccia,chegl'huominifugghino,& aquestosiprouedefacilmente,conbe n e f i c i a r n fe u o r d e l l a r e g o l a q u a l c h ' o n o , p e r c h e n a t u r a l m ě t e h a t a n t a s i g n o r i a n e g l h u o minilasperanzachepiutivaleràpressoaglialtri,& piuessempiofavno chetuhaba biabeneficiato, checentochenonhabbinodatehauutoremuneratione.  S. Auuertimenti di XII. INGEGNATEV Idinonvenireinmalconcettoappressodichièsuperio renellapatriavostra,neuifidatedelbuongouernodeluiuernostro,chesiatale,che nonpensiated'hauergliacapitarnellemani;perchenasconoinfiniti,enonpenfaticasi dihauerbisognodilui, èconuersoil Superioresehavogliadipunire,& XIII. TVTTI glihuominisonobuoni,cioedouenoncauanopiacereoutilitàdel m a l e , p i a c e p i u l o r o i l b e n c h e i l m a l e :m a s o n o v a r i e l e c o r r u t t e l e d e l m o n d o e f r a g i l i t à loro;& spessoperl'interesseproprioinclinanoalmale.PeròdafauiLegislatorifieper fondamento dele Republiche trouatoilpremioelapena,nonperviolentareglihuomi ni,m a perche seguiting l’inclinationenaturale. XVII. PIV tengonoamemoriagl'huomini l'ingiuria,cheibeneficijriceuuti,anziquan dopuresiricordanodeibenefici,lofannonell’imaginesuaminore,chenon furiputun dosimeritar piuchenonmeritano.Ilcontrariosifadell'ingiuria,cheduoleadogniuno XI. E 'laudato appressogl'antichi,& è verissimoprouerbio: Magistratusvirumoftédit, perche conquestoparagonenonsolosiconosceperilpesochesiba,sel'huomoèd'assai odapoco,maperlapoteftà,elicenzasiscuopronoleaffettionidell'animo,cioèdiche natural'huomofia, perchequantoaltruièpiu grande,tantomancofreno,erispettoha alasciarsiguidaredaquelchegl'ènaturale. XV. SE liScrittorifuferodiscreti,ogratisarebbehonesto,edebito,chelipadronilibe neficiasseroquantopotesero,ma perchesonoilpiudellevolted'altranatura,equando fonopieni,olilasciano,òlistraccano,peròèpiu vtileandareconloroconlamanostret ta, e trattenendoliconsperanza, darlorodieffettitantochebastiafarechenonsidi Sperino. piu, cheragionenolmentenon doveriadolere,peròdouegl'altritermini.forpara guardateuidifarquellipiaceri,chedinecessitàfannoadun altrodispiacerevguale, percheperlaragionedettadisopra, siperdeingrosso,piuchenonsiguadagna. ,percheper esperienzasivedecheglihuomininonsongrati,perònelfareicalcolituoi, òneldi segnardisponerdeglihuominifamaggiorfondamentoinchineconseguevtilità,chein chis’hadamuouerfoloper rimunerarti,percheineffettoibeneficijsidimenticano. cheprocededa bron’animo, fivede, chepurtalvolta èremunerato qualchebene ficio,e anchespessodiforte,chenepagamolti,& ècredibilecheaquellapotestà ch'èsopraglibuominipiaccinol'ationinobili,eperònonconsentachesianosenza frutto: XX. INGEGNATEV Id'haueredegliamici,perchesonbuoniintempi,luo ghiecasi, chevoinonpensarete,equestoricordobenchevulgato,nonlopuòconsidera reprofondamentequantovaglia, achinonèaccadutoinqualchefuaimportanzafen tirnel'esperienza: XXI. P I A C E vniuersalmente, chièdinataraverae liberă,& ècosagenerosa,ma talvoltanuoce.Madall'altrocanto,lasimulationeèvtile,ma'èodiata,G hadelbrut the ènecessariaperlemalenaturede glialtri,però non sòqualesidebba eleggere, Credoperò, chesipossavfarel'onaordinariamente,senzaabbandonarl'altra,cioènel corsotuoordinariocomume vjarlaprimainmodo,cheacquistinomedi personalibe ra, nondimenoincerticasiimportantipotrai sarelasimulatione,laqualeàchivi uecosìètantopiuvtile,e sicredemeglio,quantoperbauernomedelcontrario,tiè facilmentecreduto XXIIII. E INCREDIBILE quantogiouiachihaamministratione, chelecosesue fienosegrete,perchenonsoloidisegnisuoqiuandosifanno,possonoeserprenenuti,e interrotti,maancoral'ignorareisuoipensieri,fachegl'huominifannosempreattoniti 3  XVIII. PIV fondamentopotetefareinvnoc'habbiabisognodivoi,oc'habbiainqua! checasol'interese communecheinvnoc'habbiariceuutodaboibeneficio XIX. H O.postoiricordidisopra,perchesappiateviuere,ericonosciatequelchelecose possono,nonacciocheviritiriatedalbeneficiare,percheoltrecheècosagenerosa,en XXII. P E R Lecagionidisopra,nonlaudochiviuesempreconsimulatione,& conarte, mascufobenechiqualchevoltal'vja. XXIII. $1A certochesetudesideri,chenonsisappiachehaifatto,òtentatoqualcheco Ja,cheèsempreapropositoilnegarla.Percheancoracheilcontrariosiaquasiscoperto & publico,tuttauianegandolaefficacemente,sebenenonlopersuadiachihaindi tij, ocredeilcontrario,nondimeno perlanegationegagliardaseglimetteilceruello àpartito. A 3 esospetti,   efofpetti,aoßeruarelesueattioni.Ed'ognifuominimomoto,sifannomillecommente ti,& interpretationi,ilcheglidàgranriputatione,peròchièintalgradodouerebbe auezzareisuoiministrinonsoloàtacerelecosechemaisifappino,ma ancortuttequel lechenonèptilechesipublichino. XXVI, ANCORA quellicheattribuendotuttoallaprudenza, ovirtů, s'ingegnano e s c l u d e r e l a f o r t u n na ,o n p o s s o n o n e g a r e , c h e n o n f i a g r a n d i s s i m a f o r t e n a s c e r e d q u e l tempo, oabbattersia quelleoccasioni,chesienoinprezzoquelleparti,opirtùinchę tu vali . XXVII . N O N vogliogiàritirarquellicheinfiammatidall'amoredeltaPatriasimetto H o a p e r i c o l o p e r r i m e t t e r l a i n l i b e r t à ., e l i b e r a r l a d a T i r a n n i ; m a d i c o b e n e , c h e c h i cercamutationedistatopersuointereffenonèsauio,percheècofapericolosa, elivede cõeffettiche pochissimitrattatisonoquicheriescano,epoiquãdobeneèsuccesso, fide e quasisempre che nellamutatione tu no conseguiscidi gră lunga quel chetu haidife gnato,& inoltretioblighiàvnoperpetuotrauaglio, perchesempretuhaidadubita re, nontorninoquelli, chetuhaifcacciatijetivecidino. XXIX. CHI purpuoleattendere'atratati,siricordi,chenefunacosalirouinapiucheit desideriodivolerlicondurretroppofieuri, perchéchi vuolfarperinterponere manco tē po, implicapiuhuomini,emescolapiucose,dallaqualcausasiscopronosemprefimili p r a t i c h e . E t a n c o è d a c r e d e r e c h e l a f o r t u n a , f o t t o l ' a n i m o d i c h i s o n q o u e s t e c o s e . f i j d e gniconchivuolliberarsidallapotestàfua& aficurarsi,peròèpiufécurovolerliesem quireconqualchepericolo,checontroppasicurta. įXX. NON disegnatesùquello,chenonhauete,nèspendetefuliguadagnifuturi; perchemoltevoltenonfuccedono,etitrouiinuiluppato, & sivedeilpiudelevol te, chelimercantigroffifallisconoperquefto,quando persperanzad'vinmaggior guadagnofuturo,entranosuocambi;lamoltiplicationedequaliècerta, & hatempo determinato, maliguadagnimoltevolte,ononnengono, ofiallunganopiucheildia  Aiuertimenti di X X V :. O S S E R V A I quandoere AmbasciatoreinIspagnaappressoil Re Ferdinan dod'AragonaPrincipefauio,& glorioso,cheegliquandovoleuafareunaguerra, impresanuoua,òaltracosad'importanza,nonprimalapublicaua,epoilagiustifica ua, maperilcontrariovsauaartecheinnāzis'intendessequellocʻbaueuainanimo,er fidiuulgana ilRe douerebbeperletalicagionifar questo inmodo,chedoppopublican dosiquelchegiàpareuagiuftoadogniunoonecesario,èincredibileconquantalände eranoriceuutelefuedeliberationi. XXVIII.", RCON viaffaticateaquellemutationichenonparterisconoaltro,shemutarei visidegl’huomini: perchechebeneficiotirecafequelmedesimomale,odispetocheti facciaPietro tifacciaGiovanni? 12 . Jegne,   Tegno,dimodo,chequellaimpresachetuhauenicominciatacomevtile,tiriescedania nofiffima XXXI. SE hauetefalitopenfatelabene, emisuratelabene, tananzicheentriateinprigio nepercheancorach'ilcafofussemoltodificileascoprire,tamenèincredibile,aquante cosepensailgiudicediligente edesiderosoditrovarelaverità,& ogniminimospiras glioèbastanteafaruenire tuttoaluce. ,ofa tiche.Ma quelchelafa forsedesiderabileancoraall'animepurgate,èl'appetitoche s'had'esserefuperioreagl'altrihuomini,ilcheècerto.cafabella & beata,attesomaffia me ch’innessunaaltracosacipesamoassomigliareaDio dentisubitiderepentini,cosacheagiudiciomioèrarissima pericoli,& mai XXXII LÀ medesimaragionefa,chequantopiul'huomoinuecchia,tantopingliperfa ticailmorire, e semprepiuconleattioni,econlipenfieriviue,comesejapesenonha weremaiamorire. XXXVII. SI CREDE,& ancospessofeuedeperesperienza,chelericchezzemale acquistate,nonpassanolaterzageneratione. Sant'Agoftinodice,cheDiopermet te, chechil'haacquistategodainrimunerationediqualchebene,chehafattoinvi ta,ma poinonpassanotroppoinnanzi, percheègiudiciodiDioordinariamente,che cosinadadimalelarobamaleacquistata. IodiligiàadunPadre,cheameoccor reuaun'altraragione,perchechiha acquistata la roba,ècommunemente allenato dapouero,l'amasc sal'arte diconferuarla,maifigliuolichesononati& allcuatida XXXII. 10 hodefideratocomeglialtrihuominil'honore& l'otile,& infinquipergram tia'diDioèfuccedutosopraildisegno,enondimenoquãdohocõseguitoquelchedeside rauo,nonuihoritronatodētroalcunadiquellecosechemihaueuoimaginato,ragione, àchibenla considerasse , chedoueriabastareadeftinguereaffailafetedeglihuomini. XXXIII. LA grandezzadiftatovniuersalmenteèdesiderata,perchetutoilbenech'èin Jei-appariscedifuori,ilmaleftàdentroocculto,ilqualechinedessenonebarebbeforse tantanoglia,percheèpienasenzadubbiodipericoli,disospettodimilletrauagli XXXII11. LE cosenonprenedute, nuoconosenzacóparationepisa,cheleprouifte; peròchiama moioanimograndeeperito,quelocheregge, enonsisbigotisceporili XXXV. N O N èdubbio,chequantopiul'huomoinuecchia,piucrescel'auaritia.Sidice communementeessernecausà,perchel'animodiminuisce,ragione,cheamenonècapa ce,percheè beneignorantequeluecchio,chenonconoscehauerneminorbisogno,quan ldpiuinuecchia, &inoltreueggo, chene'uecchis'augmētaperilcotrariolalufuria, (dicol'apetitoenonlaforza lacrudeltà, egl'altriuitijperòcredo,chelaragionue-: safia,chequantopiusiuiue,tantopiul'huomos'habituaallecosedelmondo o per consequentepiul'ama > ricchi, A 4   r i c c h i, n o n s a n n o c h e c o s a s i j l ' a c q u i s t a r r o b a , & n o n h a u e n d o a r t e , ò m o d o d i c o n f e r . varlafacilmenteladisipano. XXXV TII. NON fipuòbiasimarel'apetitodihauer figliuoli,percheènaturale:madico bene, cheèfpeciedifelicitànonhauorne,percheetiandiochiglihabuoni,e saur,' perdita ditēpošle quali cosesonotenutemalenelinostrigiudicij,che X L I I. E ' IMPOSSIBILE, chel'huomo (sebene èd'ottimoingegno, e giudicion a turale)posaaggiugnères& beneintenderecertiparticolari,però ènecessariale fperienza,laqualnonaltrogliinsegna,e questoricordolointenderàmeglio,chiha maneggiatofacendeassai,percheconlesperienzamedesimahaimparatoquantovan glia,esiabuonal'esperienza. strettonontoglieànessuno,pinsonoquellichepatisconodel legrauezzedel prodigo, chequellichehannobeneficiodellaficalarghezza:Laragio nedunquealmiogiudicioè,cheneglihuominipuopiulasperanza cheiltimore,etpiu Sonoquellicheferonocoseguirequalchecosadalui,chequi,chetemonoessereoppreffi.  1. Auuertimenti di senzadubbiomoltopiudispiacerediloro,checosolatione.L'esempiol'hovedutoinmio Padre,cheasuoidìeraessempioaFirenzedipadrebendotatodifigliuoti,peròpensa secomestia,chiglihadimalaforte. XLIII. PIACE senzadubbiopiuvnPrincipec'habbiadelprodigo,chevnoo’habbia dellostretto,ő tamendouerebbeessereilcontrario.percheilprodigoèneceßitatofa reestorsioni,Grapine,lo sha messiasuavolontà,& afuobeneplacito, perchelaleggenonglihavolutodarpoteftà difarnegratia,manonpotendoneicasiparticolari,perlavarietàdellecircostanze darneprecisadeterminarione,sirimetteall'arbitriodelgiudice,cioèallasuaconscien za, checonsideratoiltutto, facciaquelcheglipare piugiusto,& bonefo,& chialtija mentil'intendesse,s'inganna,perche laforzadellaleggeloaffoluedihauerneadar conto,perchenonhauendoilcasodeterminato,sipuòsemprescusare,manonglidàfa caltàdifardonodellarobad'altri. Χ Ι Ι. SI VEDE percfperienza,cheipadronitengonopococontodeseruitori,e per ognsiuacommodità,& appetitoglimettonodaparte. Tolaudoqueseruitori,chepi gliandoessempioda padroni, tengono piùcontodeleinteresisuoi,chediloro,ilcheperò consigliochesifaccia,faluandosemprel'honore,e lafede. X L. E R R A chicredechelicasi, chelaleggerímetteadarbitriodelgiudice, fienorin 2 XXXIX , -NON BIASIMO interamentelagiustitiaciuiledelTurco,cheèpiutosto precipitosa,chefommaria:perchechigiudicaaocchichiusiragionevolmente,spedisce lametadellecausegiustamente, e liberalepartidaspese,& spessofarebbepiuperchiharagioneha uerehauutodaprimalasentenzacontra,checonseguirladoppotantodifpendio,do titrauagli,senzacheàpermalignità,operignoranzadelligiudici;ó ancoraper ofleruanza delle leggisifa delbianconero : 1 L’IN   deuiofferuarequestaopinione,etiamconqualchetuain- commodità,& inquestos'ingannanospessoglihuomini,perchesimuovondoa qualche pocodidanno, cheapparisce,& nonconfideranoquantosianograndiibeni,chenonsi veggono, percheisudditinonveggono,enonmisuranoappuntoquelchetupuoifare,anzi imaginandosimoltevoltelapotestàtuamaggiore,chenonè,credonoaquellecoseche tunonlipotresticostringerė. XLIX. SONO alcunihuominisauiasperarequellochedesiderano,altrichemailocrea dono,infin,chenonnesonobensicuri,& senzadubbiopiuvtileèsperareinfimilicasi poco,chemolto,perchelasperanzatifamancaredidiligenza,e tidàpiudispiacere, quandolacosanonsuccede. LII. QUANTO bendissecolui.Ducuntvolentesfatanolentestrahunt,seneveg gonoognidìtanteesperienze,cheamenonpare,chemaicosaalcunasiaiceljimeglio.  Saui,chesidevgeodereilbeneficiodeltempo. M. Francesco Guicciardini. XLIIII. S L’INTENDERSI beneconlifrateli, econliparenti, fainfinitibeni, che tunonconosci,perchenonapparisconoadviper vno,mainfinitecosetiprofitta, fattihauereinrispetto,però altrimentièimpossibile,chelungamentesiatenutobuono. XLVII. XLVI. CHI nonsicurad'esserebuono,madesiderabuonafama,bisognachesiabuono, 10 fuigidd'opinionedinonvedereetiamcolpensareassai,quelchenonvedeuo prefto: maconl'esperienzahoconosciutoeserefalfifsimo,peròfáteuibefedichidi cealtrimenti. Quanto piusipensanolecose,tantomeglios'intendono,á sifanno: XLVIII. QVANDO tiverràoccasionedicosa chetudesideripiglialasenzaperdereten po, perchelecosedelmondosivarianotantospello,chenonsipuòdiredihauercofaal cuña, finchenonsiainmano.Etquandotièpropostaqualchecosa,chetidispiace,cer caildiferirlapiuchetupuoi,percheogniborasivede,cheiltempoportaaccidenti, cheticauanodiquestedifficoltà,& cosìs’hadaintenderequelprouerbio,chediconoi LIII : ILTIRANNO faestremadiligenzadiscoprirel'anitzetio,ciodseticon tentideltuostato,consideragliandamentiÜnnodituoi,concetičaredritesdiertocat chi XLV. CHIHA autorità, &signoriapuofpingersi,&flenderlaancorasopralefor zesue, LI . L. SE tuvuoiconoscerequalifienoipensierideTiranni,legiCornelioTacito,quan dofamentionedegloltimiragionamentic'hebbeAugusto conTiberio. IL medesimo Cornelio Tacito achibenloconsidera,insegnapereccellenzacome s'ha da gouernarechi vinesottoa un tiranno.   thìconuersateco,e conragionartecodivariecofe,&ponerti domandarti partiti,& parere,peròsenonvuoichet'intenda,bisogna,chetiguardicongrandissimadiligen za, damezzicheeglivsa,nonvsartermir: LIIII. A chi haconditionenella Patria,efiafotoonTirannofanguinofo& beftia le,siposjondarepocheregole,chseienobuone,eccettoiltorsol'esilioM.a quandoilTi fanno,oper prudenza,òpernecessitàdel suostatosigouernaconsospetto, on’huomo benqualificatodeuecercarediesseretenutodaaffai, & animoso,madinaturaquieto, nècupidod'alteraresenonèsforzato,percheintalcasoilTirannotiaccarezza,e cercadinondarticaufadifarnouità,ilchenonfariaseticonoscesseinquieto, perche all’horapensainognimodochetunonsiaperftarefermo,ondeèneceffitatopensare sempreťoccasionedispegnesti. SECONDO ilterminedisopra,èmegliononeseredelipiuintimieconfiden tidelTiranno, perchenonsolotiaccarezza,mainmoltecose,famancoasicurtàte co, checonlisuoi,cosìtugodilasuagrandezza,& nellarouinasuadiuentigrande, ma diquestoricordononsenepuòvalerechinonhaconditionegrādenellasuapatria. LVI. E'DIFFERENZA dhauerelifudditidisperati,adhanerlimalcontenti, perchequelinonpensanomaiadaltro,cheamutationedistato,elacercanoetiamcon suopericolo, questisébenenonsicontentano,edesideranocosenuouteamennoninui tanoleoccasioni,ma aspettanochedaseuenghino. LVII. NON. posonogouernareisuditibenesenzaleuerità,perchelamalignitàde glibuominicercacosim,asiuvolemescolardestrezza,& fardimostratione, accioche glihuominicredano,chelacrudeltànon piace,ma che l'usiper necessità, esalute publica. LVIII. SIDOVERIJ atenderealiefet,inonaledimostrationi,esuperficie,e nondimancodincredibilequantagratia,cöfauoveticöcilinoappresoglihuominileca rezze, etlahumanitàdiparole.lragionecredochesia,percheogniunosistima, parmeritarepiuchenonuale,eperòsisdegna',quandonede,chetunontieniquel contodilui,chegliparechesegliconuenga.  Auuertimenti di chebabbinoadarsospetto,guardandoco meparli,etiamconlintimituoi,e secoragionando,& rispondendodiforte,chenonti poljacauare, i!chetiriuscirà,setipresupponisemprequel'obbietto,cheegliquanto puoticirconuieneperscoprirti. LV . AC LIX E'COSA honoreuoleàun'huomononprometteresenonquellocheuuoleoffer nare,ma communementetuttiquelligachituneghi,á giustamente,reftanomalfodif fatti,percheglihuomininon Jilalanogouernaredallaragione:Ilcontrariointra uiéneachipromette,percheintrauengonomolticasi,chefannochenonaccadefare l'esperienzadiquello,chetuhaipromello,& cosihaisodisfattoconlamēteyetsepure s'hadauenireal'atononmancanoSpedoscuse,emoltisonofigrofli,chesilasciano aggirare   M . Francesco Guicciardini. aggirareconparole,nondimeno è fibruttomancareallaparolafua, chequestopre ponderaogniutilitàchesitraggadalcontrario,& peròl'huomosideueingegnaredi trattenersiquantopuoconrispostegenerali,&pienedibuonasperanza,manondifor techetioblighinoprecisamente. percheèpaz giafarsinimicosenzaproposito,& ueloricordo,perchequafiogniunoerrainque ftaleggerezza. LXI. Chi entrane' pericolisenzaconfiderarequelchepossono,oimportino, fichiama bestiale, maanimosoèquellocheconoscendoipericoliuientrafrancamente,operne cefftà,operhonoreuolcagione. ranno . mad ti ipopoli, 6  LXII. CREDONO molti,cheunfauio,percheuedetutiipericoli,nonpossaesserea nimoso: 10sonodicontrariaopinione,chenonpossaesseresauiochinonèanimoso, p e r c h e m a n c a d i g i u d i c i o , c h i s t i m a a d a u u e n i r e i l p e r i c o l o , p i u c h e n o n s i d e u e ,m a p e r auuenturaquestopaso,cheèconfuso,deuesiconsiderare,chenontuttiipericolihan no effetto,perchealcunineschifal'humo coladiligêza,etindustria,etfrächezzasua, altriilcasoiftesoetmilleaccidētichenasconoportanouia, peròchiconoscospericoli,no lideue metteretuttiad entrata,& presupponerechetuttisuccedano,m a discorrerecon prudenza quelchealtruipuò sperared'aiutarsi,edoueilcasoverisimilmenteglipuò farfauore,farsianimo,nèritirarsidall’impresedirili,& honoreuoliperpauradituttii pericolicheconosceessernelcaso. LX111. ERRA chidice,chelelettereeglistudijguaftanoilcervellodeglihuomini, percheforseè veroachil'hadebole, ma doueleletteretrouanoilnaturalebuono,lo fannoperfetto,percheilbuonnaturalecongiuntocoʻlbuonoaccidentalefannobuonif Jima compositione. Livi E'SEN?A comparationepiudetestabileinvn Principel'avaritia,cheinun priuato,nonsoloperchehauendopiúfacultàdadiftribuire,priuaglihuominitantopiù: maetiamperchequellochehavnpriuatoètuttofuo,&perusofuo,& nepuòsenze giuftaquerelad'alcunodisponere,matuttoquellochehailPrincipe,glièdatopervalós & beneficiod'altri, &peròritenendoloinfe,fraudaglihuominidiquelchedeueloro. L X V I .. LX. GV ARDATEV Idatuttoquellocheuipuonuocereenongiouare,però inpresenzad'altri, nonditemaisenzanecessitàcose,chedispiaccino, LXIIII. NON furonotrouatiiPrincipiperfarbeneficioaloro,perchenessunofefareb bemessoinseruitùgrauiffima,ma perinteresedepopoli,perchefuserobenegouernati, peròcomeonPrincipehapiurispettoafe,cheaipopoli,nonèpiu Principe DICO che il Principe chefamercantia,questononsolofacosavergognosa,maè Tiranno,facendoquellocheèoficiodepriuati,enondePrincipi,& peccatantoverfa   Auuertimenti di ipopoli, quantopeccherienoipopoliversolui,volendointromettersiinquelcheèoficio solodelPrincipe. LXVII. LE cosedelmondosonovarie,edipendonodatanticasi,& accidenti,chedifficilmē tesipuofargiudiciodelfuturo,& sivedeperesperienza,chequasisempreleconiet t u r e d e s a n i j s o n o f a l l a c i,p e r ò n o n l a u d o il c o n s i g l i o d i q u e l l i c h e l a s c i a n o la c o m m o d i tàd'onbenpresente,bencheminore,perpaurad'onmalfuturo,benchemaggiore,se non èmoltopropinquo,etmoltocerto,peichenon succedendo poispessoquello dichete meui,titrouipervnapauravanahauerlasciatoquellochetipiaceua,& peròèfauio quelprouerbio.Dicosanascecosa. LXVIII. NELLE cosedellostatoho vedutospessoerrarechifagiudicio, percheesamina quellocheragioneuolmentedouerebbfearquestoequelPrincipe,etnoconsideraquel lochefarà,verbigratiailRediFrancia,perchedeuehauerpiurispeto,qualsialana tura& costumidonFrancese,cheàquellodouerebbefarciascunPrincipe,prudente, faggio,& giusto. LXIX. 10 HO dettomoltevolte, etlodicodinuouo, ch’oningegnocapace, & chesappia farecapitaledeltempo,nonhacausadilamentarsi,chelauitasiabreue,perchepuò attendereadinfinitecose,& spendereytilmenteiltempo,gliauanzatempo. LXXI. NON èfaciletrouarequestiricordi,maèpiudificileesequirli,perchespesso l'huomoconosce, manonmetteinatto, peròvolendovsarlisforzatelanatura,e fate niunbuonhabito,colmezodelquale,nonfolofaretequesti,maancoraviverràfatto senzafatica, tuttoquellochevicomandalaragione. sottol'Imperio,cheTiberiohuomotiranno,& superbohaueuaesofa tantadappocagine. LXXIII. SE hauetemalasatisfattioned'ono,ingegnateuiquantopotete,chenonsen'accor ga, perchesubitofialienaràdavoi,& vengonomoltitempi, & occafionichevipollo noferuire, viseruirebbe,secoldimostrared'haverloinmalconcetto,nonvelbauesti giocato,e ioconmiavtilitàn'hofattol'esperienza,cheinqualchetempohohauuto malanimoversod'ono,chenonaccorgendosenem'hapožinqualcheoccasionegiouato, com'è statoamico. L'AM  LXXII. NON simarauigliarddell'animobasoeseruiledemoltipopolichileggerainCor nelio Tacito,cheliRomanisolitiàdominareilmondo& viuereintantagloria,ferui uanosivilmente > . LXX CHI vuoletrauagliare, nonsilascicanaredipossessionedellefacende, perchedal l'onanascel'altra,siperl'aditochedàlaprimacaufaalaseconda,comeperlariputa tionechetiportailtrouartiinnegotio,& peròsipuo.ancoaquestoadattareilprouer bio:Di cosa nasce cosa. 1 1   & nefas,como ècausad'infinitimali.PeròveggiamocheliSignori fimilichehannoquestoobiet to,nonhannofrenoalcuna,o fannounpianodellaroba,& vitadeglialtri, purche, cosigliconfortiilrispettodelasuagrandezza. similimodi,hapiulungotrattocheprimanons'haveb becreduto, comeancoraintrauieneadvnochemuored'eticooditisico,chelasuavi tasempresiprolungaoltral'opinionechehannohauutoimedici,colivnmercăteinan zichefalisca, pereserecõsumatodagliinteresifireggepiutēpo,cbenöeracreduto. LXXIX. M'E parfasempredificileacredere, cheDiobabbiaapermettere,chelifigliuoli delDuca Lodouico, habbinoagoderquellostato,quandoioconsidero,cheilpadresuo l'havfurpatofceleratamente,é pervfurparloèstatocausadellarouina, seruity d'Italiaeditantitrauagliseguitiintutta Christianità, a questichelibiasimama nosonopazzi, perchestarebbefrescalaCittà,cóloro,seiltirannononhauesseattor noaltrichetristi.  M. FrancescoGuicciardini. 7 LXXIIII. L'AMBITIONE dell'honore,edellagloriaèlaudabile,& vtilealmondo, perchedacaujaagl’huominidipēsareefarecosegenerose,&ecelse.Nonècosiquel la delagrandezza,perchechilapigliaperidolo,vuolhauerlaperfas, LXXV. L'IMPRESE e cose,chehannodaaccaderenon perimpeto,maperchepri masiconsumano,vannoassaipiuinlungo,chenonsicredeuadaprincipio,perchegli huominisiostinanoapatire,apatiscono, lopportanomoltopiu,chenonsisarebbe creduto. Perùveggiamo, ch'unaguerraches'babbiaafinireperfame,perl'incomodi tà,per mancamēto didanari,& LXXVIII. FATEV 1beffediquestichepredicanolalibertà,nondicoditutiman’ec cettuobenpochi,percheogniunodiquestitali,chesperasjehauerepiubeneinvnosta tostreto,cheinunlibero,vicorrerebbeperleposte,perchequasituttipostponeran noilrispetodel'intereseloro,esonpochifimiquelicheconoscono quanto vagliala gloria& l'honore. gottirti, e coltenereilcapofranconontilassareleuarefacilmente. LXXVII . LXXVI . CHI conuerfacongrandinonfilafcileuaracauallodacarezzeedimostrationi fuperficiali,conlequaliefefannocommunementebalzarglihuominicomevogliono, @affogarlinelfauore. Etquantoquestoè piudificileadifendersitantopiudeuesbir N O N potetehauermigliorparte,chetenerecontodell'honore,perchechifaque ftonontemei pericoli, nefamaicosachesiabrutta,perotenetefermoquestocapo, ú faraquasiimpossibile,chetuttononvisucceda.bene,expertusloquor LXXX. Dico cheunbuoncittadino,& amatoredella patria, nonfolodeuetrattenersi coltirrannopersuasicurtà, percheèinpericoloquandoèhauutoinsospeto,maanco taperbeneficiodelapatria, perchegouernandosicosi,glivieneoccasioneconconsigli, & conoperedifauoriremoltibuoni,edisfauoriremoltimali LAV   städodimezzotusemprerilieuietuincachisiuoglia. LXXXII. LA naturadepopoliècomequelladepriuati,diuoleresempreaugumentaredel gradoinchesitrouano,peròèprudenzanegareloroleprimecose,chedomandono,per checoncedendononlifermi,anzigliinuitiadomandarpiu,& conmaggiorinstanza, chenonfaceuonoda principio,perchecol.darlispessodaberesegliaccresce lasete. LXXXIII . OSSERVATE condiligenza lecosedetempipassati,perchefannolumealle future, cumsitcheilmondofiasempred'unamedesimaforte,& chetuttoquellocheè, sarà,èstatoinaltrotempo,perchelemedesimecoseritornano,mafotodiuerfinomiz & colori,peròogniunononleconosce,masolochièsauio,eleconsideradiligentemente. LXXXV. SE Oferuatebene, trouateched'etàinetàsimutanononsolamenteiuocaboli, modideluejlire,eticostumi,maancoraquelcheèpiuigustiel'inclinationidell'arme, & questadiuersitàsivedeetiaminuntempomedesimodipaeseinpaese,douenonso loèdiuersità delleinftrutioni,maancoradegustidecibiedegliappetitiuarijdegli huo mini.  Lamětepericolodellauittoria,ma Auuertimenti di i LXXXI. LAVDO chinelleguerred'altristaneutrale,chièpotentediforte,hatalconsi derationedistato,chenonhadatemereiluincitore,perchefuggeilpericolo,elaspesa, elaStracchezza,didisordinid'altripossonoparartiqualchebuonaoccasione:fuordi questiterminilaneutralitàèunapazzia,percheattacãdoticonunadelleparticorriso 9 4 1 LXXXIIII. SENZA dubbiohamigliortempoinquestomondo,piulungavita,esipuochia mareinuncertomodofelice, chièd'ingegnopiubasso,chequestiintellettieleuati,pero chel'ingegnonobile,seruepiutostoatrauaglio,& cruciatodiehil'ha,nondimenol’uno participapiudell'animalbruttoched'huomo,l'altrotrascendeilgradodell'huomo, s'accostapiuallenaturecelesti. LXXXVI. INANZI alM.CCCCXC111.nelqualtempol'ambitione,&cecita del Duca Ludouicoaperselauiaallarouinad'Italia,eranocome ogn'unosaimodidels la guerramoltodiuersidaquestiloppugnationedellecittà,leuccisioni,iconflitid'ale traforte,& quasisenzafangueinmodochechihaueuaunostatodifficilmenteglipote wa effertolto, dipoifiridusse,chechierapadronedellacampagna,haueuauinta laguer ra, comeinunmomento,s e eranodueesercitiincampagna siueniuainuntrattoale lagiornata,& eradatalasentêzadelaguerra,cosiuedemosenzaromperelanciaper dersiilRegnodiNapoli,ilDucatodiMilano,econlafortunad'unsologiocarsitutto lostato deVenetiani.Hoggi il Signor Profpero primo ha dimostratodiuerfo modo di guerra, checolmettersinelleterrehafoggiogatol'impetodichierapadronedellacamo p a g n a ,m a n o n r i u s c i r e b b e b e n e q u e s t o , a c h i n o n h a u e s s e d i s p o s i t i o n e d e p o p o l i f a u o r e wole,cornehahauutoegliquelladiMilanocontraFrancesi. LXXXVII. LE medesimeimpresechefattefuorditempo,Sonoštatedificiliseme,òimpoffibile, 1 quando   quandosonoaccompagnatedaltempoedall'occasionesonofacilißime,perònonsiuuo letentarleattrimenti,perchesetuletentifuordeltemposuo,nonsolonontifuccedono, maportipericolo,checonl'hauerletentatenonleguastiperqueltempo,chefacilmen tefarebbonoriuscite,peròsonotenutisauijipatienti. LXXXIX. NON ègrancosa,ch'ungouernatorevsandospesoaffrezza,òefetidifeuerità, sifacciatemere,percheisudditihannofacilmentepauradichilipuosforzare,eroui n a r e , & v i e n e f a c i l m e n t e a l l' e s e c u t i o n e ,m a l a n d o i o q u e l l i g o u e r n a t o r i, c h e c o n f a r p o cheaffrezge, et esecutioni, fannoacquistarsi, & conferuarnomediterribili. xcІ. RICORDATEV I diquellochealtrevoltehodettodiquestiricordischeno s'hannoad osseruaresempreindistintamente,mainqualchecasoparticolare,cheara gionediuerfanonsonobuoni,& qualisienoquesticasi,nonsipuocomprendereconrego laalcuna,nesitroualibrochel'insegni,maènecessariochequestolumetelodiaprima lanatura, & poil'esperienza. ... XCIII . cu i diseonpopolo,diseveramenteunpazzo,percheeglièunmoftropienodi tonfusione;ó d'errore,perchelesueopinionisonotantolontandeallauerità,quanto secondoTolomeo,laSpagnadall'India. COME  M. FrancescoGuicciardini. 8 * 011. A miogiudicioinnesjungrado, òantoritàsiricercapiuprudenza,& qualitàec cellente,cheinvnCapitanod'onoesercito,perchesonoinfinitequellecose,a cheproue deré,& comandaresinfinitiaccidenti,etcasivarijsched'horainhoraseglipresentano, inmodocheperamentebisognachehabbiapiuocchid'Argo,e nonsoloperl'importa zafua, maperlaprudenza, chelibisognareputoinognialtropesoniente. XCIIII. Edifferenzaadesereanimoso,&nonfuggireipericoliperrispetodel'bonore,Psta noel'altroconosceipericoli,ma quelloseconfidapoterfenedifendere,efenonfusseque staconfidēzanõgliaspetarebe,questopuoeferschetemapiudeldebitoznèsiafaldo, perchenonhabbiapaura, maperchesirisolueavolerpintostoildãnocbelauergogna. LXXXVIII. HO osseruatowe'mieigouerni,chequandomièvenutainanzivnacausa,cheho hauutoper qualchegiustorispettodesiderio d'accordarla,nonhoparlatod'accordo,ma folmetterevariedilationi,& ftrachezzehofattochelemedesimepartilhannoricer cato, cosiquello,chesenelprincipioiol'haueßiproposto,sariastatoributtato,s'eridotto intermine,chequandoèvenutoiltemposuo,ionesonostatopregato. XC: N O N ,chechitieneglistatinonsianecessitato,metterlemaninelsangue,madi cobenechenonsidevefarsenzagranneceßità,& cheilpiydellevolteseneperde, piuchenonseneacquista,perchenon solos'offendequellichesonotocchi, ma ancorasa dispiaceall'vniuerfaledeglialtri,efebenetuleuiquelloinimico,oquelloostacola,non perosenespegneilseme,cumsitscheinluogodiquellosott'entranodeglialtri,& fpeffo intrauiene,comesidicedell'hidra;cheperognunojnenafcesette. $   XCVIII. N O N possoio, nesofarmibello,nedarmiriputationediquellecose,cheinperin tànonsonocosi,& tamenfariapiuvtilefareilcontrario,percheèincredibilequanto giouilariputatione,e opinionechehannoglihuomini,chetusiagrande.Conquestoru moresoloticorronodietro,senzachetun'habbiavenireacimento. che ilpadrone,eproportionatamenteil superiorelisudditi, perchenonsipresentaianzialuitaliqualisipresentanoagl'altri, anzicercanocoprirsialui, & parered'altrafortecheinverononsono. ,e pericoli, qualfortehabbiapiuadesiderareuna Città,òdicaderenelgouernod'vno,òdimolti,odipochi. p e r c h e d'hora in hora nascono o c c a s i o n i, c h e e g l i c o m m e t t e a c h i v e d e , ò a c h i g l i è p i u e p r o p i n q u o, c h e s e t i h a u e s s e a c e r careòaspettarenontisicommetterebbe, e chiperdevnprincipiobenchepiccolo,per despessol'introduttione,e aditaarosegrandi. fawpusēruitorichefannoilmedesimoversoipa droni,non facendoperacosachesiacontralafede,l'honore.  Auvertimenti di XCE . COM Ecoluic'haagiutato, òeftatacaufa, cheunosalgainungrado,louuolgouer nareinquelgrado,giàcominciaa căcellareilbeneficio,chegliha fato,volēdousarper se,quelcheprimahaoperato,chesiadiquell'altro,eglihagiustacausadinon.com portarlo,neperquestomerita eserechiamatoingrato. XCVI. R O N s'atribuiscaalaudedifa, òchinonfaquellecose, lequalifepotefse,ofa cesjemeriteriabiasimo". XCVII. DICE ilprouerbioCastigliano,ilfilsirompedallatopiudebole,semprechepensi v e n i r e i n c o n c o r r e n z a è c o m p a r a t i o n e d i c h i è p i u p o t e n t e o r i s p e t t a t o, p i u s u c c u m b e i l piudebole,nonostante,chelaragioneèl'honestà,òlagratitudinevolesseilcontrario, perchecommunemente;s'hapiurispetoal'interese,chealdebito:+31 xCІ. NIVNO conoscepeggioliferuitorisuoi GII. 10 velodicodinuouo, lipadronifannopococontodeseruitori,& perogniinteresse listrascinanosenzarispeto,perosono 2 CI. TP chéstaiincortë,& seguitiongrande, edesideriessereadoperatodaluiinfa cende, ingegnatidiStarlituttaniadinanzia gl'occhi, pome ...) C O N C O R D A N O -tutieferemeglioreloftatod'vnoquandoèbuono, ibedi pochiedimolti,o buoni,eleragionisonomanifeste,cosiconcludono,chequellod'ono piufacilmentedibuonodiuentacattiuo,chegl'altri,& quando ècattivoèpeggioredi tutti,tantopiuquandovaperfiuèceffione,percheradevolteadunpadrebuono fa uio, succedeunfigliuolosimile.Perovorreichequestipoliticim'haueJerodichiarato, consideratetutequesteconditioni CTII CHI siconoscehauerebuonaforte,puotentarl'impreseconmaggioranimo,maè d a a u u e r t i r e c h e l a f o r t e n o n s o l o p k o e s s e r e v a r i a d i t e m p o i n t e m p o ,m a a n c o i n u n t e m   pomedesimopuoelervarianellecose,perchechiosseruauedràperesperienza,mol tiesserefortunatiinunaspeciedicoje,& inun'altraesseresfortunati,etioinmiopar ricolarehohauutoinfinoaquestodàtrediFebraroM D XX111.inmoltecose bonißimaforte, tamennonPhosimilenellemercantie, one glihonori,cheiocerco d'havere, perchenoncercandolimicorrononaturalmentedietro,ma come cominciò a cercarli,pare chesidiscostino . CV. LE cosedelmondononstānoferme,anzihannosempreprogressoalcamino,àche ragioneuolmenteperfuanaturahannodaandare,e finire,matardanospesopiache ilcrederenostroperchenonlemisuriamosecondolavitanostra,cheèbreue,e non secondoiltemposuo,cheèlungo, & peròipaffifuoifonopiutardi,chenonsonoino fri,& fitærdipersuanatura,cheancorachefimouinononciaccorgiamospesode fuoimoti,e perquestosonofpefjofalsiigiudicij,chenoifacciamo, CVII . R O N sosesideuonochiamare: fortunatiquelli, achivnavoltasipresentavna grandeoccasione,perchechinonè prudente,nonlafabenevsare,masenzadubbiofo no fortunatiffimiquelli,aqualivnamedesimagrandeoccasionesipresentadueuol te,perchenonèbuomocosidappoco,chelasecondavoltanonlasappiavsare, cosi inquestocasosecondos' hadahauere tuttal'obligationeconlafortuna, donenelpri mohaluogo-ancoralaprudenza . , cheuiuonoinlibertà, ma queli, neiqualiera meglioprouiftoallaconferuationedelleleggiedellagiuftitia. fannoinuentionediquel löches'aspeta,òsicrede,epiuorecchivipreftosefononuouestrauaganti,o'inaspet tate, perchemancooccorreaglibuominifareinuentioni,òpersuadersiquellochenon èinalcunaconsideratione,ediquestohovedutoiomolteuoltel'esperienza. GRUAN forteèquelladegliastrologi,cheancora,chelaloroprofeffionefiava  M. FrancescoGuicciardini. CIIII . N O N hamaggioreinimicol'huomo,chefefteso,perchequasitutiimali,perico li,& trauaglisuperflui, chehanonprocedonodaaltro,chedallasuatroppacupiditate C, L’APPETITO dellarobanascedaanimo'balo,omalcomposto,fenonside. fiderasseperaltro,cheperpoterlagodere,ma essendocorrottoilviueredelmondo,co me èchidefiderariputatione,èneceßitatoàdesiderareroba,perche.coneffarilucono Levirti,cfono inprezzolequaliinunpouerosonopocoftimate,& mãcoconosciute. B CVIII. La libertàdelleRepublicheèministradellagiustitia,perchenonèfondataadal trofine, senonperdifensione, chel'onononsiaopressodal'altro,peròchipotesseef soresicuro,cheinunostatod'unoòdipochis'ofjeruajelagiustitia,nonharebbetau fadidesiderarelalibertà.Questaèlaragione,chegliantichisauij, & Filosofinon laudornopiudeglialtrique'gouerni CIX. QVANDO lenuoues'hannod'Autoreincerto,&fienonuoueverisimili,d aspettate,ioliprestopocafede,percheglihuominifacilmente СХ; nito,   Auuertimenti di mità, òperdiffettodell'arte,ofuo,tamenpiufedeglidàvnaverità,chepronostica no,checentofalsità,é tamenneglihuominiintrauieneilcontrario,cheunabugia, c h se i a r e p r o b a t a d a v n o , f a , c h e s i s t à s o s p e s o a c r e d e r l i t u t t e l ' a l t r e v e r i t à , & procede daldesideriograndec'hannoglibuominidisapereilfuturo,dichenonhauendoaltro modo dihauerecertezza;credonofacilmente ,a chifaprofessionedisaperlolordire, comeall'infermoilmedico,chelipromettelasalute. ,òdallauoluntàdiquelli,chedominano,perchenonhan uendesiacūbattereconragioniimmutabili,ocon giudicijstabili, nasconoogni dimille cafi,chefacilmentetisolleuanodachipuopretenderedileuartidiposeso. scarso, perchenessunacosaof fendepiùl'animod’unfuperiorecheilparerglichenonlisiahauutoquelrispetoeri uerenza,chegiudicaconuenirseli.  CXI. F T Ë ognicosapernontrouaruidonesiperde,percheancora,chenonuisia colpaisoftra, nehauetesõprecarico, nèsipuoandareatuttelepiazzegetbanchiagiu Stificarsi,comechisitrouadouefi vince, siportasemprelaudeetia Jenzasuomerito. fa nellecosepriuate,trouarsiinpoffeffioneantica,chele ragioninonfimutano,6 imodidegiudityediconsignareilsuofonoordinarü,&fer mi,masenza cumparationeèmoltomaggiorevantaggioinquellecose chedependo nodagliaccidentidellistati CXIIII. FV crudeleildecretode Siracusani,dichefamentioneLiuio, cheinsinoalledon n e n a t e d e t i r a n n i f u s s e r o a m m a z a t e , ma non però a l t u t t o s e n z a r a g i o n e , p e r c h e m ă Catoiltiranno,quellicheuiueuanouolentierisottodilui,sepotefjeronefarebbono un'altrodicera, enonessendocosifacileuoltarela riputationeaun'huomonuouo,si ritiranosottoognireliquia,chereftidiquello.Peròuna Città, cheescanuouamente dallatirannide,nonhamaibensicuralalibertàSenonspegnetuttalarazza,& pro geniedetiranni,dicoperò glimaschi,enonlefemine. CXV. N O N èinpoteftàd'ogniunoeleggersiilgrado,elefacende,chel'huomouno le, manonbisognaspessofarquelle,chet'appresentalatuaforte,& chesonoconfor mialostatoincheseinato, peròtuttalalodeconsisteinfarlasuabene,comeinuna comedia,nonèmancolodato,chibenrappresentalaperfonad'unferuo,chequelli,a chisonomeffiindossoipannidelRe,od'altrapersonadegna,ogniunoinefetonel gradofuopufoarsihonore. E vantaggiocomeognun CXII . CXIII . CHI desideraeseramatodasuperiori,bisognamostrared'hauerelororispetto,e riuerenza,e conquestoeferpiutoftoabbondante,che CXVI. OGNIV NO inquestomondofadeglierrori,daqualinascemaggioreomi nordanno,secondogliaccidenti,& casicheseguitano,mabuonafortehannoquelli, ches'abbattonoadevrareincofediminoreimportanza, òdallequalineseguitaman codisordine. 2 E gran   CXVII. E 'granfelicitàpotereviuereinmodo chenonsiriceua,nèfifacciaingiuriaad altri,ma chis'adduceingrado,chesianecessitato,oaggrauare,òapatire,deueper mioconsigliopigliareiltrattoauantaggio,percheè cosigiustadifesa,quella chesifa pernonesseroffeso,comequella,chesifaquandol'offesatièfatta,ènerochebisogna bendiftinguericasi,nèpersuperflupaauradarsisenzacausaadintendered'eserene ceshtatoapreuenire,nèpercupidità,nèpermalignità,doueinverononhainèdeui hauerefolpettovolereconallargarequestotimoregiustificarelaviolenza,chetufai. CXVIII. NE glihuominie lapatienza, el'impetosonobastantiapartorirecosegranuis perchel'onooperaconl'urtareglibuomini,esforzarelecose,l'altraconlostraccara li,evineerlicoltempo,el'occasioni,peròinquellochenuocel'ono,gioual'altro,Grå conuerfo,& chipotessecongiugnerli,& vsareciascunoaltemposuosarebbediuino, maperchequestoèimpoßibile,credocheožbuscõputatis,lapatienzaemoderationfi: landabileinun Principepercõdurremaggiorcoseafine,chel'impetoelapcipit.iticne. CXX. NLELLE cosedellEconomicailuerboprincipaleèrisecaretutelespesesuper flue,ma quelloinchemipare, checonsistal'industria,èchifalemedesimespesecon piuvantaggio,ecomesidicevolgarmente,spendereilfoldoperquattroquattrini. CXXII. DICEVA unpadre,chepiubonoretifaunducatoinborsa,chediecichene baispesi,parolemoltodanotare,nonperdiventarfordido,nèpermancarenellecose honoreuoli,e ragionevoli,maperchetifafrenoafuggirelecosesuperflue. la malitia,ochenelmaneggiarelecoses'accor gono diquelloharebbono dibisogno,sicercafardirealiStrumétiquello chel'huomo vorrebbechedicese,peròquandosonogliinftrumentidicosevostred'importanza, habbiatepervfarizafaruelilenaresubito,& hauerliincasainformaautentica.  10 M. FrancescoGuicciardini. CXXIII. RARISSIMI sonogliinstrumenti, chedaprincipiosifalsificano,madopo fatisecondocheglihuomiuipensano CXIX . SE benglihuominideliberanoconbuonoconsiglio,gliefetisonoperòlpelocat tiui,tantosonoincertelecosefuture,nondimenononsiuuole comebestiadarsiinpicito daallafortuna,macomehuomoandarcontaragione,& chièSauio,hadacontentar fi, diessersimoltoconconsiglio,ancorchel'efetosiastatocattiuo,chefeconvácon figliocattivo, hauessehauutol'effettobuono. CXXI. TENETE amente,chechiguadagna,sebenpuospenderequalchecosadipiu chenonguadagna,tamenè pazziaspenderelargamentesulfondamentodeguada gni,seprimanonhaifatobuonocapitale,perchel'occasionedelguadagnarenondu rasempre,& fementreessaduranontiseiacconcio, passatacheellaèytitrouipouero comeprima, edipiuhaiperdutoiltempo,el'honore,percheallafineètenutodipo coceruello,chihahauutal'occasionebella,& nonl'hasaputausarebene, & questo ricordotenetelobeneamente, perchehovistoamjeidiinfinitierrori. E Cer B2   puoalcunauoltamettendoinsiemela gratitudinechesisentedatuttiefere notabile. CXXV. DEL fareun'operabuona, & laudabilenonsivedesempreilfrutto,peròchi nonsisatisfafolumdelbenfaredi sesteso,lascidifarlo,nonparendoglitrarneuti lità, maquestoèingannodeglihuomininonpiccolo, percheilfarelaudabilmente,se bennontiportasjealtrofruttoeuidente,spargebuonome,& buonaopinionedite, laqualinmoltitempi & cafitirecautilitàincredibile. progressoditemposi p o c h e c o f e u e r i f i c a t e , c o m e s i t r o v a a c a p o d e l l ' a n n o d e g l i a s t r o lp o ge i ,r c h e l e c o s e del mondosonotroppouarie. CXXVIII. NELLE coseimportantinonpuofarebuonogiudicio,chinonfabenetuttii particolari,perchespesounacirconftantias& minima,nariatuttoilcaso, mauidice bene, chenonhanotitiaadaltro,chedigenerali,& questomedefimogiudicapeggio intesii particolari,perchechinonhailceruellomoltoperfettoemoltonettodallepaf fioni, facilmenteintendendomoltiparticolarisiconfondeeuaria. CXXXI. SE d'unos'intendedlegge,chesenzaalcunofuocommodo,èinterefe,ampor  Auuertimenti di CXXIIII. E'Certo, chenonsitiencontodeliseruitijfattialipopoliinuniuersale, comedi quellichesifannoinparticolare, perchetoccandocolcommune, nessunositienseruito inproprio, peròchis'affaticcaperlipopoli, &vniuersità,nosperiches'affatichinoper luiinunsuopericolo,òbisogno,òchepermemoriadebeneficij,lafcinounalorocomo modità, nondimenononsprezzatetantoilfareseruitioapopolichequandouisipre sentil'occasionelaperdiate,percheseneuieneinbuonnome,ebuonconcetto, cheè fruttoasaidelafatica, senzapure,cheinqualchecasogiouaquellamemoria,& rin mzoneachièbeneficiatosenonsicaldamente,comelibeneficipropri,almancosarà partediquantosiconuiene, &fonotantiquestiachitocca questalorleggieraimpres fione,che CXXVII. CH I facessefuun'accidentegiudicaredaun'buomosauioglieffetti,chenasce ranno,& scriueseilgiudicio, trouerebbetornandoa uederloin CXXIX, SPES SO s'inganna, chisirifoluesuiprimiauuifi,cheuengonodellecoseper ebeuengonosemprepiucaldi,& piuspauentofi, chenonriefconopoiconglieffettin però chino nèneceffitatoaspettisempreisecondi, edimanoinmanoglialtri. CXXVI. CHI halacurad'unaterra, chebabbiaaesserecombattuta,òassediata,deuefa repochiffimofondamentointuttiqueirimedij,cheallunganogestimareassaiognico fachetolgatempo,etiampiccoloaliiniinici,perchespessoundìpiu,o un'borapor taqualcheaccidente,chelalibera. CXXX. NON combatteremaiconlareligione,neconlecosecheparechedependonoim mediateda Dio, perchequestoobiettohatroppaforzanellementideglihuomini. ilmale   CX XXIIIK E'buonmezo aguadagnarsifauoriilmostrareaquelli,dachituduoiguada gnareilfauoredifarlicapisG CXXXVI. QY ANDO sifauna cosa, sesipotessesaperequelchefarebbeseguito, senon sifufefatta, sòifussefattoilcotrario,senzadubbiomoltecosesonoda glihuominilau dati,chenon fariano,anzimeriterebbono contrariasentenza: CXXXVIII. A C C A DE :molteuolteinunadeliberationecheharagionedaognibanda, che ancorachel'huomohabbiadiligentementepenfato,chepoichehafattoladeliberatio ne, gliparebauerelettolapartepeggiore,laragioneè, chepoichetuhaideliberato tisirappresentanosolamenteallafantasialeragioni,cheeranonell'opinionecontra rialequaliconfideratesenzailcontrapesodell'altretipaionopiugraui,e pireim B 3 portanti  M.Francesco Guicciardini. Ir i male,cheilbene;fideuechiamarbeftiae, t nonhuomo, poichemancadell'appetia naturale , n o a fauorire quello, che p e r a l t r o h a r e b b o n o d i s fauorito CXXXV. CXXXII. NON credeteaquestichepredicanocheamanolaquiete,etd'essereStracchi dell'ambitione,& hauerelasjatele.facende,perchequasisemprehannonelcuoreil contrario, esisonoridottiavitaappartata, & quieta,òpersdegno,òpernecessità, òperpazzia,l'essempioseneuedetuttoildì,percheaquestitalisubitoches'appres Sentaqualchespiragliodigrandezza,abbandonerannolatantalodataquiete, & nifi mettonoconquelpericolo, chefailfuoco,adunacosafecca. CX XXIII. :L'INCLINATIONI, e deliberationide.popolisonotantofallaci, & Menatepiuspessodalcaso,chedallaragione,chechiregolailtrainodeluiuerfuo,non inaltrocheinfüilasperanzad'hauereadeseregrandecolpopolozhapocogiuditiosper cheopporsièpiutostoventuracbefenno. autoridiquellacosa,nellaqualen'haidibisogno,perche la piupartede glihuomini,presidaquellauanità,òambitione,uisiaffettionanoinmo do,chedimèticatiirispetticontrari,ancoradepiuragioneuoliepiuurgenticomincia INFINITE Sonolevarietàdellenature,dadepensierideglihuomini, però non sipuoimaginarecosa, nèsìstrauagante,nèsicontraragione,chenonsiasecondo ilceruellod'ałcuno,perquestoquando sentiretedire,ch'altrihabbiadetto,ofattoco. facchenonuiparrauerifimile,nèchepossacadereinconcettod'huomo,nonuënefat teleggiermentebeffe,perchequellochenonquadraate,puofacilmentetrouareachi piaccia, òpaiaragionevole. CXXXVII. PA RE chei Principi sienepiuliberi,e piupadronidellelorouolontà,chegli altrihuominóznonèuero nePrincipi chesigouernano prudentemente,perchesonone cefsitatiprocedereconinfiniteconsiderationi,rispetti,inmodochemoltevoltecat tiuanoilordisegni, iloroappetiti,el'altrevolontàloro, iochel'hoosseruato,n'ho pedutemolteesperienze.   ,diriandaretutteleragioni,chesonohinc,& inde,perchequeen stoconcorso& contrarietà, chetiapprefentiinanzi,fa,cheleragionichesiconcede ilano,nontipaianepiudimaggiorpesosoimportanzadiquello,cheveramente CXLII. QVANDO nelleconsulsteonoparericontrarij, sealcunoescefuoraconqual. Che partitodimezo,quasichesempreèapprouato,non percheipartitidimezo,il piudellevoltenonsier:opeggiori,ma percheicontradittoricalanopiuvolentierid quello,cheall'openionecontraria,& ancoglialtri,òpernondispiacere,opernonef jerecapaci,sigettanoaquellocheparloro,chehabbiamancodisputa. CXLIIII. POSSONO maleglihuominipriuati,biafimareolodaremoltoleationide Principi,nonsolopernonsaperelecosecomestanno& peressergliintereffi,& ilo to finiincognitismi ancoraperchela differenzaèdall'hauereauuerzo ilceruello advsodePrincipi,adhauerloaurezzoadvsodepriuati,facheancorchelostato, ifinidellecose, & gliintereshfulero all'unonoticomeal'altro,leconsiderationi  Auvertimentidi portanti,chenonpareuanoinanzi,chetudeliberafi:Ilrimediodiliberarsidaquesto molestia,èsforzarsi CXXXIX . V NO huomo,chenonsiaprudente,nonsipuoreggeresenzaconsiglio,nondime noeglièmoltopericolosopigliarconsiglio,perchechidàconsiglio,haspesopiuconside rationeall'interessesuo,cheaquellochelodomanda,anziproponeognisuopicciolo rispetto,& fodisfattioneall'interesse,benchegrauissimo,a importantijimodiquela l'altro,peròdico,cheintalgradobifogna, ches'abbattaconamicifedeli,altrimenti portapericolodinonfarmaleapigliarconsiglio,etmaleetpeggiofa,ànolopigliare. mol tevolteinterzooquartocaso,chenonfumaiinconsideratione,e chedifficilmente fisarebbeimaginato,chepoteseesseremolteutoltesitrouaingannato. CXLI . : NON sipuochiamareinfelicevnacittà, chefioritalungamente,uieneabal Sezza, perchequestoèilfinedellecosehumane,nësipuoimputareinfelicitàlelle resotopostoaquellalegge,cheècommuneatutiglialtri, mainfelicesonoqueicit tadini,a iqualihadatolafortenascerepiuprestonelladeclinationedellasuapatria, cheneltempodellasuabuonafortuna. fono. però C X L. Si CHI sulfargiudiciodelfuturovuolpigliare-qualchedeliberatione, comespesso calcula, latalcosaanderà,òneltalmodo,òneltale.,& suquestodiscorsopigliail suopartito,percheperlavarietàdellecose,edegliaccidentidelmondo,viene CXLIII. VR Principe,chevolessetorreilcreditoagliAstrologi,chestampanoigiudicij vniuersalmente, nonharebbeilpiufacilmodo, checomandare,chequandosistampa ilgiudicioloro,perl'annofuturo,fusseristampato, & appiccatoconessoloroilgiudi ciodell'annopaljato,percheglihuominirileggendoinquelloquantopoco fifienoa p postidelpassato, farelbonosforzatinonprestarfedealfuturo,& hauendosidimenti catolebugiedell'annopaljato, lacuriositànaturale,chehannoglihuominidisapere, quelchehadaessere,gliinclinafacilmenteaprestarlifede. 1   peròsonomolto'diuerse,äsidiscorronolecosecondiuersoocchio, sigiudicano condiversogiudicio,& infine,l'unolemisuracondiuerfamisuradall'altro. fareognioperapossibile, fachecoluiilpiudelleuoltècominciaacre dere,chenonlovoglia seruire;ilcontrariointrauienea chifalarghezzadisperan 2a,&difacilità, perches'acquistapiucolui,ancorche l'efetononriesca,cosisi D e d e , c h e c h i s ig o u e r n a con arte, o p e r d i r m e g l i o c o n q u a l c h e a u u e r t e n z a ,è p i u g r a to, & piufailfattosuo,nèprocededaaltro,senondaesserelapiupartedeglihuo miniignorantialmondo,ches'ingannanofacilmenteinquellochedesiderano.onesto ma utilitario,ambi ziosoepositivo, consideratoildramma dellaruina italica, in mezzo al quale si svolse l'agitata sua esi stenza, voi avrete nelle mani il segreto per giudicare la sua energia morale anche nelle opere scritte, in cui manifesta l'anima sua,che vibra d'ambizione,di collera,discoraggiamento,dibeffardoscetticismo e anche di nobili entusiasmi. e 2 ZANONI. INTORNO AI DISCORSI DEL MACHIAVELLI SULLA PRIMA DECA DI TITO LIVIO. NiccolòMachiavelliposemano aisuoiDiscorsisulle Deche diTitoLivionel1513,elifinìmoltopiùtardi: liandò leggendo negli Orti Oricellari,circondato dalla gioventù fiorentina,che pendeva ammirata dallesue labbra. Egli dice, sin dal principio, di essere stato spinto a svolgere sì alto argomento dal bisogno di o p e rare quelle cose che credeva adatte a recare comune beneficio a ciascuno. E se l'ingegno povero,la poca esperienza delle cose presenti, la debole notizia delle antiche, faranno questo suo conato difettivo e di non molta utilità, daranno almeno la via ad alcuno, il quale,con più virtù,discorso e giudizio,possa a questa sua intenzione soddisfare.Più apertamente manifesta questo suo desiderio,concludendo:«Benchè questa impresa sia difficile, nondimeno aiutato da coloro, che mi hanno ad entrare sotto questo peso confortato, credo portarlo in modo che ad un altro resterà breve cammino a condurlo al luogo destinato.'» Il Guicciar dini ne accettò l'invito e scrisse le sue osservazioni intorno ai Discorsi del Machiavelli,fermandosi a con 1Machiavelli,nel proemio al primo libro dei Discorsi.  CAPITOLO SECONDO. CONSIDERAZIONI DEL GUICCIARDINI   CONSIDERAZIONI INTORNO AI DISCORSI DEL MACHIAVELLI. 19 Il Machiavelli tratta delle origini delle città e os serva che se trovansi in luoghi sterili, i cittadini d i ventano energici ed operosi : m a se si stabiliscono in luoghi fertili, cadono nell'ignavia,se non si cerca con le leggi di correggere il male morale portato dalla fecondità della terra. Se non che la sterilità dei luo ghi non offre facile via alle conquiste,e per questo i Romani fondarono la loro città in luogo fertile e adatto a spianare ad essi la via dell'imperio : al ri manente rimediarono con leggi severissime,le quali resero armigero il popolo. Su quest'ultima parte il Guicciardini,che assaiammira l'arte militare deiR o mani e non troppo il governo e la politica loro, os serva che Roma era bensìposta in paese fertile,ma per non avere contado e essere cinta di popoli po tenti, fu forzata allargarsi con la virtù delle armi e con la concordia ;e questo si discorre non in una città chevogliavivereallafilosofica,ma inquellechevo  siderare i primi due libri e appena qualche capitolo del terzo,perchè gli mancò iltempo a continuare il lavoro intrapreso.In esse spicca la differenza di mente fra il Guicciardini e il Machiavelli : questi guarda le questioni da sublime altezza e sotto un aspetto più g e nerale,abbandonandosi alla sua geniale idealità,nello studiare l'organizzazione dello Stato ; il Guicciardini invece,ricco di tanta esperienza,vero genio del senso pratico,nonsegueilsuoamiconeivolipoetici,ma si ferma soltanto a rettificare quelle idee del Machia velli a lui sembrate erronee : in ciò mostra forza e sicurezza di indagine, conoscenza profonda dei go verni. Egli discute i mezzi di reggere le repubbliche e i principati, ne studia l'indole per cercare il go verno migliore : parla dei modi di comportarsi coi soggetti e di aumentare fuori l'imperio degli Stati,di condurre le guerre, dell'efficacia delle religioni sulla civiltà delle nazioni:ragiona sullanatura umana,do minata dai due istinti del bene e del male. <   20 CAPITOLO SECONDO. gliono governarsi secondo il comune uso del mondo, come è necessario fare;altrimenti sarebbono,essendo deboli, oppresse e conculcate da'vicini.'» Moltissime sono le osservazioni del Guicciardini circa le varie specie di governo,le guarentigie da prendersi per custodire la libertà, le qualità e condizioni necessarie ad un regime per essere forte.” Degne di studio sono pure quelle riguardanti il principato,ilgoverno popolare e quello degli ottimati. « Il frutto del governo regio,così il Guicciardini,è che molto meglio, con più ordine, con più celerità, con più segreto, con più risoluzione si governano le cose pubbliche quando dipendono dalla volontà di un solo, che quando sono nell'arbitrio di più.» Ma se il so vrano è cattivo, gli effetti ne sono pessimi. E però, secondo lui,è necessario farlo perpetuo,ma limitargli l'autorità, con fare che da sè solo non possa disporre di alcuna cosa e solamente abbia libertà d'azione in quelle che sono di minore importanza. Dichiara che nel governo degli ottimati è il bene, perchè essendo in più non possono cadere tanto facilmente nella ti rannide, come avviene nel principato :essendo uomini qualificati governano con più prudenza e intelletto del popolo.Il male è che favoriscono troppo le cose p r o p r i e e o p p r i m o n o il p o p o l o : l ' a m b i z i o n e f a n a s c e r e in essi le sedizioni e per via della tirannide si produce la ruina della città. Se poi, invece del governo degli ottimati, per elezione o per qualità, che si potrebbe rendere buono con acconci provvedimenti, si avesse quello degli ottimati per nascita o per eredità,questo sarebbe il peggiore di tutti. « Nel governo di popolo è di buono che mentre dura non vi è tirannide ; pos sono più le leggi che gli uomini ; e il fine di tutte le deliberazioni è badare al bene universale. Di male 1 F. GUICCIARDINI, Opere inedite, vol.I, pag.5. Firenze, Bar bèra,Bianchi e Comp.,1857.  7 2 Ibidem,pag.6.   CONSIDERAZIONI INTORNO AI DISCORSI DEL MACHIAVELLI. 21 Egli,nei suoi giudizî così temperato, lascia ogni prudenza allorchè parla del popolo che disprezza,m e n tre il segretario fiorentino lo esalta e l'ama.Intorno alla ignoranza e malvagità,fondate in sulla invidia, opina « che senza comparazione il popolo sia più in grato ; perchè, e per essere gli uomini distratti in varie faccende, e per altre cagioni, manco intende, manco distingue e manco conosce che non fa il prin cipe ; e quanto alla invidia,cade più facilmente negli uomini popolari,a’quali ogni grandezza punto emi nente o di nobiltà o di ricchezze o di virtù o di ri putazione è ordinariamente molesta ; nè cosa alcuna dispiace loro che vedere altri cittadini che abbino più qualità di loro e questi sempre desiderano abbas  vi è che il popolo,per la ignoranza sua,non è capace di deliberare le cose importanti. è instabile e desi deroso sempre di cose nuove e però facile a essere -mosso e ingannato dagli uomini ambiziosi e sediziosi ; batte volentieri i cittadini qualificati, che gli neces sita a cercare novità e perturbazioni.» Il Guicciar dini,inchinevole più al governo di uno, quando sia temperato da savie leggi,anzichè al popolare, si di scosta in ciò da Machiavelli,che nel popolo ripone grandi speranze : questo è uno dei punti,in cui la dif ferenza deigiudizî si fa più spiccata fra di essi.Del resto il Guicciardini reputava ottima la forma del governo misto di principe,popolo,ottimati,togliendo da ciascuna specie il buono e lasciando indietro il cattivo, cercando di conciliare tutti gl'interessi; la qual forma presenta delle somiglianze coi governi co stituzionali dei nostri tempi,ed è quellalodatapure dal Machiavelli. I due grandi statisti fiorentini discor rono dei governi secondo le idee di Polibio, ma il Guicciardini, profondo conoscitore delle condizioni dei suoi tempi,con acume più pratico parla dei varî re gimi e delle passioni e appetiti che muovono iprin cipi, i nobili e il popolo ad impadronirsi dello Stato.   1Op.cit.,pag.44,45 ec. 2 Op.cit.,pag.14,15,16 3 Op.cit.,pag.42,43. CAPITOLO SECONDO.  sare.'> Crede il Guicciardini di non saper bene ciò che voglia dire la questione presentata da Machia v e l l i, s e s i d e v e p o r r e l a g u a r d i a d e l l a l i b e r t à n e l p o polo o ne'grandi. Se intendesi discorrere di chi deve partecipare al governo,ciò spetta,nei governi misti c o m e quello di R o m a , tanto ai patrizî c o m e ai plebei , che salvarono spesso la libertà della patria. «Ma quando fosse necessario mettere in una città o un governo meramente di nobili o un governo di plebe, è manco errore farlo di nobili, perchè essendovi più prudenza ed avendo più qualità,sipotràpiùsperare si mettino in qualche forma ragionevole,che in una plebe,la quale essendo piena d'ignoranza,di confu sione e di molte male qualità, non si può sperare se non che precipiti e commetta ogni colpa. > Lo stesso disprezzo per il popolo lo rivela nelle pagine, in cui d i mostra essere stati i Romani meno ingrati degli Ate niesi verso iloro cittadini più illustri.Ciò accadeva per chènellanaturadeiRomani nonfulaleggerezzadegli Ateniesi e anche per la diversità del governo.In Atene poterono i cittadini con le arti popolari salire presto in potenza e farsi grandi : m a i capi, in questo g o verno popolare, caddero più facilmente in sospetto e con più leggerezza e meno considerazione furono op p r e s s i . L a p l e b e r o m a n a t r o v ò il c o n t r a p p e s o d e l l a n o biltà,poichè nel Senato si trattavano le cose più gravi. La qualità quindi del governo dei Romani,più tempe rato e prudente, fu causa che icittadini ebbero meno degli Ateniesi aperta la via alla tirannide e vi furon m e n o b a t t u t i . M a q u a n d o il G u i c c i a r d i n i v u o l d i m o strare che la costanza e la prudenza sono qualità meno del popolo regolato da leggi e più del principe e degli ottimati regolati dalle leggi,egli diviene aspro e quasi violento contro il popolo : « Perchè dove è   CONSIDERAZIONI INTORNO AI DISCORSI DEL MACHIAVELLI. 23 minor numero,èlavirtùpiùunita,epiùabileapro durre gli effetti suoi ; vi è più ordine nelle cose, più pensieroedesame,ne'negozîpiùrisoluzione;ma dove è moltitudine,quivi è confusione; e in tanta dissonanza di cervelli, dove sono varî giudizî,varî pensieri, varî fini, non può essere nè discorso ragionevole,nè riso luzione fondata, nè azione ferma. Però non senza cagione è assomigliata la moltitudine alle onde del mare,lequalisecondoiventichetiranovannoora in qua ora in là, senza alcuna regola, senza alcuna fermezza.'  I principi e con essi i più eminenti statisti della Rinascenza avevano la convinzione essere le istitu zioni un trovato dell'ingegno,e da questo unicamente dipendere senza badare alla responsabilità delle azioni, nè alla violenza che isovrani avrebbero esercitata so pra i soggetti. Essi non sospettavano che il governo di un popolo dovesse sgorgare direttamente dal suo spirito e trovare un sostegno nelle tradizioni del paese. Il Guicciardini soltanto in parte era di ciò persuaso ; vagheggiava un governo misto, ma inten deva accordare al popolo la minore ingerenza possibile in esso:pure ilregime desiderato da Firenze,eche era stato la gloria della repubblica,era il democra tico, malgrado gli errori in cui era caduto.Tuttavia a lui, osservatore profondo, non sfugge mại la realtà delle cose e dice che un popolo,uso a vivere sotto un principe, se diventa libero,con difficoltà mantiene gli ordini liberi:ciò non accade invece ad un altro che sia stato libero e per qualche accidente abbia perduto la libertà,perchè in questo caso si possono ripigliare gli ordini liberi, vivendo con chi già li pos sedette, ed essendo nei cuori la memoria dell'antica repubblica. Afferma anche la difficoltà di educare un popolo alla libertà se mai non la conobbe :in tal caso 1Op.cit.,pag.54,55.   necessita fondare un governo temperato,opprimere i nemici, lasciando sicuri quelli che vogliono vivere bene.E più avanti:un principe che ha inimico il popolo,per la oppressione male esercitata, vi rime dierà levando via le ingiurie e governando giusta mente,ma non vi rimedierà se si trova davanti un popolo che vuole essere libero per aver mano al go verno,perchè in questo caso sono vane le dolcezze.? Al Guicciardini, nel meditare sulle vicende storiche del passato, appariva vana la speranza di ritrovare il buono assoluto nelle forme di governo,perciò ne cer cava il buono relativo che potesse reggersi in mezzo al trambusto degli avvenimenti tempestosi che scon volgevano l'Italia,invasa dagli stranieri.La società trasformatasi manifestava nuove aspirazioni e nuovi bisogni che occorreva seguire e accontentare : si d o vevano evitare i mezzi estremi col cercare l'armonia dei varî interessi. M a , ripetiamo, egli accordava al popolo una piccola partecipazione al governo,mentre l'aveva avuta grandissima, e quindi urtava contro le tradizionipatrie:scordava che la natura delude con le sue leggi il nostro volere e si vendica di chi,col l'intenzione di dominarla, non cerca innanzi tutto di assecondarla. Nella Considerazione sul capitolo X V I , già da noi ricordata,ilGuicciardini mostra la differenza fra l'in dole sua e quella del Machiavelli, il quale assicurava che in Roma antica non si poteva trovare mezzo più efficace per cementare la libertà che ammazzare ifigli diBruto.IlGuicciardini,rispondendogli,riconosce la necessitàdituffareasuotempolemaninelsangue, tuttavia fa voti perchè « non desideri la nuova libertà che vi siano figliuoli di Bruto,cioè chi macchini contro allo Stato, per avere causa di acquistare riputazione e tenere con la severità ;perchè se bene è necessario in 1Op.cit.,Considerazione sul cap.XVI.  24 CAPITOLO SECONDO. 1   CONSIDERAZIONI INTORNO AI DISCORSI DEL MACHIAVELLI. 25 simili casi mettere mano nel sangue, sarebbe stato meglio non avere avuto necessità, e che Bruto non avesse figliuoli, che averne per avergli ammazzare.'> Nell'agitare la quistione sulla bontà dei governi, si discute,dal Guicciardini e dal Machiavelli,non solo intorno ai mezzi di ringagliardire la repubblica,ma a n c h e il p r i n c i p a t o . S e u n p r i n c i p e , s e c o n d o il G u i c ciardini, si trova di fronte a un popolo che ami la li bertà,ilsolo rimedio sarà quello « o di farsi dei par tigiani di qualità, che siano potenti a opprimere il p o p o l o , o v v e r o , c o l b a t t e r e e a n n i c h i l i r e il p o p o l o d i sorte che non possa muoversi,introdurre nuovi abi tatori e di qualità che non abbino a avere causa di d e s i d e r a r e l a l i b e r t à .? » C o s ì , s e n z a p a r e r e , e g l i s e m braaccostarsimoltoalleideediMachiavelli,ma tosto cerca di rendere meno cruda e assoluta la sentenza emessa. « Però bisogna che il principe abbia animo a usare questi estraordinarî,quando sia necessario; e nondimeno sia sì prudente che non pretermetta q u a lunque occasione se gli presenti di stabilire le cose sue con la umanità e co'benefizî, non pigliando così per regola assoluta quello che dice lo scrittore, al quale sempre piacquono sopra modo e rimedi estraor dinarî e violenti.?» Il Machiavelli è d'opinione che a fondare una re pubblica bisogni essere solo e che per questo fece bene Romolo ad ammazzare ilfratello.A luirisponde ilGuicciardini: «Non è dubbio che uno solo può porre migliore ordine alle cose che non fanno molti, e che uno in una città disordinata merita laude,se, non potendo riordinarla altrimenti,lo fa con la vio lenza e con la fraude e modi estraordinarî. M a è da pregare Dio che le repubbliche non abbino necessità diessereracconcepersimilevia,perchè glianimi  1 O p . c i t ., p a g . 3 4 . 2Op.cit.,pag.35. 3 O p . c i t ., p a g . 4 1 , 4 2 .   26 CAPITOLO SECONDO. degli uomini sono fallaci e può uno sotto questo onesto colore occupare la tirannide.> Inoltre « bi sogna prima bene leggere e considerare la vita di Romolo,ilquale,sebbene mi ricordo,sidubitò non fosse ammazzato dal senato,per arrogarsi troppa au torità.'> E mentre il Machiavelli entusiasmato parla della generosità d'animo del suo principe legislatore, che, compiuta l'opera, senza lasciare lo Stato ai figliuoli, lo affida alle cure vigili del popolo, ecco il Guicciardini interromperlo e osservare che « questi pensieri che i tiranni deponghino le tirannidi,e che i re ordinino bene i regni, privando la loro posterità della successione,si dipingono più facilmente in su'li bri e nelle immaginazioni degli uomini,che non se ne eseguiscono in fatto.”» Ammette,col Machiavelli, la frode, la violenza, l'inganno,per cementare salda mente uno Stato, ma vuole attenuare il fatto, e ne discorre con parole moderate e suggerite dal buon senso. Così pure non condivide gli entusiasmi del M a chiavelli sull'uomo destinato a dare nuova vita a un popolo, sebbene egli creda gli uomini meno cattivi di quelloche sono reputati dal segretario fiorentino. Dimostra il Machiavelli che si viene di bassa a gran fortuna, più con fraude che con la forza ;m a il Guicciardini osserva : « Se lo scrittore chiama fraude ogni astuzia o dissimulazione che si usa anche senza dolo, può essere vera la conclusione sua,che la forza sola,non dico mai,che è vocabolo troppo assoluto, ma rarissime volte conduca gli uomini da bassa a grande fortuna.Ma se chiama fraude quella che è proprio fraude, cioè il mancamento di fede, o altro procedere doloso,credo si trovino molti che hanno senza fraude acquistato regni e imperî grandissimi. Di questi fu Alessandro Magno,di questi Cesare,che di cittadino privato con altre arti che di fraude si 1-2 Op.cit.,pag.22,23,26.    CONSIDERAZIONI INTORNO AI DISCORSI DEL MACHIAVELLI. Presuppone il Machiavelli che tutti gli uomini sono cattivi ed essere necessario all'ordinatore di una re pubblica infrenarli con le leggi,perchè non operano mai ilbene se non per necessità.IlGuicciardini è con trario a questa sentenza eccessiva, e crede la maggior parte degli uomini inchinevoli più al bene che al male : e se alcuno ha altra inclinazione, è così diffe rente dagli altri e spoglio dell'istinto che ci porge lanatura,da doversipiùprestochiamaremostroche uomo.È adunqueogniuomoinclinatoalbene,ma, essendo la natura sua fragile, può essere deviata dal retto cammino,dalla volontà,dall'ambizione e dal l'avarizia:leleggisidevonofareinmanierada impe dirgli di fare il male di cui sente l'impulso, e nel tempo stesso allettarlo al bene coi premî. Sostiene il Machiavelli essere sempre la frode un mezzo di in grandimento : il Guicciardini talora la crede inutile e la vorrebbe lasciata da parte,non in nome della morale, m a di un ben inteso interesse. Il Machiavelli sostiene che nel mondo fu tanto di buono in un'età quanto in un'altra,benchè varino i  condusse a tanta grandezza,scoprendo sempre l'am bizione sua e lo appetito di dominare . . . . M a ,quanto alla fraude, può essere disputabile se sia sempre buono istrumento di pervenire alla grandezza ;perchè spesso coll'inganno si fanno di molti belli tratti,spesso anche l'avere nome di fraudolento toglie l'occasione di con seguire gl'intenti suoi.'> Tutti e due eran d'accordo che l'inganno è necessario per riuscire ad un buon fine, però il Guicciardini non accetta in modo asso luto le massime del Machiavelli e dimostra la diffe renza della sua indole, molto più pratica,se si para gona a quella del Machiavelli ; più sistematica nel venire a considerare i casi in cui la frode conduce o non conduce alla meta agognata. 1 O p . c i t ., p a g . 6 6 , 6 7 . ? O p . c i t ., C o n s i d e r a z i o n i a l p r o e m i o d e l l i b . I I , p a g . 6 0 , 6 1 .   luoghi, la qual cosa equivale a dire che sempre nella u m a n a f a m i g l i a il b e n e e il m a l e si e q u i l i b r a n o . A l l ' i n contro il Guicciardini, con mirabile penetrazione, e v o cando dinanzi a sè le età passate,risponde di no :e a n che riconoscendo che l'antica non è superiore ai tempi che la seguirono e che verranno,afferma che la somma del bene e del male è differente nelle diverse età e ne porge gli esempî : « Chi non sa in quanta eccellenza fussino a tempo de'Greci e poi de'Romani la pittura e l a s c u l t u r a , e q u a n t o d i p o i r e s t a s s i n o o s c u r e in t u t t o il m o n d o ; e c o m e d o p o e s s e r e s t a t e s e p o l t e p e r m o l t i secoli siano da centocinquanta o dugento anni in qua ritornate in luce ? Chi non sa quanto a'tempi antichi fiorì non solo appresso a'Romani,ma in molte pro vincie la disciplina militare, della quale i tempi n o stri e quelli de'nostri padri e avoli non hanno veduto in qualunque parte del mondo se non piccoli e oscuri vestigî ? Il medesimo si può dire delle lettere, della religione, che senza dubbio in alcune età sono state sepolte per tutto, in altre sono state in molti luoghi eccellenti e in sommo prezzo. Ha visto qualche età ilmondo pieno di guerre,un'altra ha sentito e go duto la pace ; dalle quali variazioni delle arti, della religione,dei movimeti delle cose umane,non èm a raviglia siano anche variati i costumi degli uomini, i quali spesso pigliano il moto suo dalla istituzione, dalle occasioni,dalla necessità.?» Pel Guicciardini è indispensabile ai popoli la reli gione, in ispecie quando viene usata come elemento di forza nello Stato, e ad esso sottomessa : tuttavia non condivide col Machiavelli l'opinione che iRomani abbiano dovuto alla religione una sì gran parte della loro potenza, e dimostra avere le armi maggiormente contribuito ai trionfi delle aquile latine sulla terra. Alla questione sulla religione dei Romani si collega  28 CAPITOLO SECONDO. 2 1 Op.cit.,Considerazioni al proemio del lib.II,pag.60,61. Op.cit.,pag.26,30. e e 2   CONSIDERAZIONI INTORNO AI DISCORSI DEL MACHIAVELLI. 29 quella particolare circa l'influenza del papato suide- '. stinid'Italia,in cuiidue eminentipensatorihanno punti di contatto e altri che li dividono. Afferma il Machiavelli avere la Chiesa cattolica di Roma tenuta l'Italia divisa, ed essere stata causa che non potesse venire sotto un capo e rimanesse sotto a più principi e signori, dai quali le venne tanta disunione e debo lezza da cadere preda dei barbari potenti e di chiun quel'assaltasse.IlGuicciardinirisponde:«Non si può dire tanto male della corte romana,che non m e riti se ne dica più,perchè è un'infamia,un esemplo di tutti i vituperî e obbrobrî del mondo.» È con vinto essere stata causa la grandezza della Chiesa che l'Italia non sia caduta in una monarchia. Pure è dubbioso se il non essersi organata nella monarchia sia stata felicitào infelicità di questa nostra terra, poichè la divisione sua in tanti dominî, malgrado le sofferte calamità, produsse le sue glorie comunali. Osservazione profonda e vera,poichè se l'Italia fosse caduta sotto il dominio di uno solo, le varie regioni, in cui si divise,non avrebbero prodotto l'energia in dividuale dei comuni, che creò tanti tesori in molte parti dello scibile e della attività umana, nei com merci e nelle industrie,preparando gli splendori della Rinascenza,che furono fiaccola alla civiltà del mondo . Il Guicciardini rimaneva ad osservare la realtà delle cose che aveva d'attorno e non voleva seguire ilM a chiavelli,che lanciava il suo guardo di aquila oltre i c o n f i n i d ' I t a l i a , a o s s e r v a r e il f o r m a r s i d e l l e n a z i o n i u n i t a r i e , g i o v a n i e f o r t i, a v e n t i u n v i v o s e n t i m e n t o p a trio. Secondo il segretario fiorentino,l'Italia,divisa e debole,non poteva difendersidalle loro cupidigie d'in g r a n d i m e n t o , e g i à c a d e v a s o t t o i l o r o c o l p i b r u t a l i, mentre nei secoli passati, senza la piaga del papato, essa pure avrebbe potuto divenire di mano in mano una nazione unita e forte sotto i suoi legislatori, ed ora non si sarebbe trovata immersa in tante infelicità.    Nella quistione sulla lotta fra la plebe e la nobiltà, che agitò Roma e Firenze,non vanno d'accordo. Il Machiavelli osserva che le divisioni di Firenze furono esiziali alla città, perchè la vittoria del popolo porto larovinadeigrandi:quellediRoma inveceriesci rono di grandezza allo Stato,perchè ilpopolo,rima sto a combattere sulla via della legalità,si accontentò di rivendicare isuoi giustidiritti;e,conseguitili,di vise coll'aristocrazia il governo. A queste giuste e originali osservazioni risponde ilGuicciardini,e com batte la maniera assoluta con cui sono dette : « Se da principio o non fosse stata questa distinzione tra patrizî e plebei, o se almanco si fosse data la metà degli onori alla plebe come si fece poi, non nasce vano quelle divisioni,le quali non possono essere lau dabili,nè si può negare non fossero dannose,sebbene in qualche altra repubblica manco virtuosa avrebbero fatto più nocumento. Laudare le disunioni è come laudare in uno infermo la infermità,per la bontà del rimedio che gli è stato applicato.?» E ponendo mente all'ambizione di uominicospicui, che approfittarono delle lotte fra popolo e nobiltà per impadronirsi del governo,ilGuicciardini dice come Appio Claudio fu rovesciato dal potere non per essersi unito ai grandi a combattere ilpopolo,mentre doveva fare altrimenti, m a perchè tentò di rovesciare la repubblica, la quale era allora governata da ottime leggi,piena di santis simi costumi e ardentissima nel desiderio della li bertà.Manlio Capitolino,sebbene procedesse contro ilSenatoconartemeramentepopolare,purefuop presso dal popolo medesimo, appena capì che cercava di spegnere la libertà. Silla occupò la tirannide a Roma elastabiliconl'aiutodellanobiltà;ilDuca d’Atene si fece tiranno a Firenze col favore dei grandi, che non seppe mantenersi fedeli per la sua impru O p . c i t ., p a g . 1 2 , 1 3 .  30 CAPITOLO SECONDO. 1   CONSIDERAZIONI INTORNO AI DISCORSI DEL MACHIAVELLI. 31 denza e leggerezza. Cesare si fece signore di Roma col favore della plebe.Così nell'una parte e nell'al tra si trovano molti esempi e ciascuna parte ha le sue buone ragioni. « I partiti non si possono pigliare con una regola generale, ma la conclusione s'ha a cavare dagli umori della città, dall'essere delle cose che varia secondo le condizioni dei tempi e altre oc correnze che girano.'> Secondo il Guicciardini chi ha seco la nobiltà ha un fondamento più gagliardo di riuscita : chi ha il popolo dalla sua parte ha più s e g u a c i , m a l a p o t e n z a s u a è m e n o s i c u r a , p e r il m u tarsi degli umori della moltitudine. Il principio annunziato dal Machiavelli che sono lodevoli i fondatori di una repubblica o di un regno quanto vituperevoli quelli di una tirannide, è dal Guicciardini trovato giusto. Però,egli dice con rettitu dine,non bisognaconfonderegliesempî,perchè qual che volta può darsi che le forme della libertà sieno così disordinate e le città ripiene tanto di discordie civili,da condurre qualche cittadino,non potendo sal varsi altrimenti,a cercare la tirannide o ad aderire a chi la cerca.Mentre è detestabile in Cesare,pieno dialtavirtù,ma oppressodall'ambizionedeldomi nare : accade pure al governo della plebe di diventare tirannico e allora,dai perseguitati,si desidera la m u tazione dello Stato. Il Guicciardini,quando siferma a meditare sulla storia di Roma antica, vi guarda dentro con l'occhio del politico,non con quello dello storico.Non si cura di ricercare se i re sono esistiti veramente ovvero se simboleggiano le varie età che si succedettero presso la gente romana così famosa : questi dubbî,già balenati alla mente degli umanisti delsecoloXV,nonlatoccanonemmeno.Egliguarda soltanto ai caratteri della politica romana,e,contro il parere del Machiavelli, afferma che, eccettuata la  2 1 O p . c i t ., p a g . 5 2 . O p . c i t ., p a g . 2 3 , 2 4 .   disciplina militare, Roma ebbe un governo in molte partidifettoso,come,peresempio,lafacoltà accor data ad un uomo di fermare le azionipubbliche e le deliberazioni della città,come feceroiconsoli,anche togliendo ilfreno deltribuno.In potestà dei consoli fu il diritto di privare dell'autorità senatoria uomini onorandicomeMamercoEmilio.'Eglièpuredelpa rere del Machiavelli che la prolungazione degl'imperî fu occasione grande a chi volle occupare la repub blica, perchè era istrumento a farsi amici i soldati eseguitocoire.Mailfondamentodeimalifulacor ruzione della città,la quale,datasi all'avarizia,alle delizie,era in modo degenerata dagli antichi costumi che ne nacquero le divisioni sanguinose della città, dalle quali sempre ne'popoli si viene alle tirannidi. Però quando Roma non fu corrotta,la prolungazione degl'imperî e la continuazione del consolato, che nei tempi difficili usò molte volte, furono cosa utile e santa. Conchiude che « se non fussino state le pro lungazioni,non sarebbe mancato nè a Cesare nè agli altri che occuparono la repubblica, nè pensiero ne facoltà di travagliarla per altra via,essendo la città c o r r o t t a .? »  32 CAPITOLO SECONDO. Non ostante la loro somiglianza,idue grandi po litici fiorentini avevano tendenze intellettuali diffe renti, e spesso si trovavano in disaccordo.Nelle m a s sime che risguardano laguerra,ilMachiavelli sostiene che si deve fare col ferro e non coll'oro :ibuoni sol dati soltanto sono il nervo della guerra e non l'oro : occorronocertoidanari,ma insecondoluogo,essendo impossibile che abbino a mancare ai buoni soldati. Il Guicciardini, che si attiene alla vita reale del se coloXVI,incuinonc'eranoarmiproprie,sesiec c e t t u a il t e n t a t i v o f a t t o i n F i r e n z e s o t t o il g o n f a l o n i e r e Pier Soderini, per impulso generoso del Machiavelli ; 1 O p . c i t ., p a g . 5 4 . 2 O p . c i t ., p a g . 7 8 , 7 9 .   CONSIDERAZIONI INTORNO AI DISCORSI DEL MACHIAVELLI. 33 ilGuicciardini,ilquale era stato governatore di pro vincie, commissario generale negli eserciti e cono sceva la venalità dei capitani e delle milizie, che per il danaro calpestavano la fede giurata e rinne gavano sin anche la patria,non poteva essere dello stesso avviso,sapendo per esperienza che occorreva danaro per avere illustri capitani, milizie e buone fortezze. Del resto, se egli sostiene che il danaro è il nervo della guerra, non intende che i danari soli bastino a fare la guerra, nè siano più necessarî dei soldati, perchè sarebbe stata opinione falsa e ridi cola. All'incontro intese « che chi faceva la guerra, aveva bisogno grandissimo di danari e che senza quelli era impossibile a sostenerla, perchè non solo sononecessarîperpagareisoldati,ma per provve derelearmi,levettovaglie,lespie,lemunizioni e tanti istrumenti che si adoperano nella guerra ;iquali ne ricercano tanto profluvio,che a chi non l'ha pro vato è impossibile a immaginarlo. E sebbene qualche volta un esercito scarso a danari con la virtù sua e col favore delle vittorie li provvede,nondimeno ai tempi nostri massime sono esempli rarissimi :e in ogni casoeinognitempononcorronoidanaridietroagli eserciti, se non da poi che hanno vinto.'» A questo disaccordo si aggiunse l'altro intorno alle fortezze e alle armi da fuoco,che ilMachiavelli, per stare troppo attaccato all'esempio dei Romani, non tiene in nessun conto,dicendo le fortezze più dan nose che utili. Il Guicciardini lo riprende con ragione e dice : « Non si deve lodare tanto l'antichità che l'uomobiasimituttigliordinimodernichenon erano in uso appresso a'Romani, perchè la esperienza ha scoperte molte cose che non furon considerate dagli antichi,e,peressereinoltreifondamenti diversi,con vengono o sono necessarie a una delle cose che non Op.cit.,pag.61,62.  1 3 ZANONI.   convenivano,o non erano necessarie all'altre.Però se iRomaninellecittàsudditenonusaronoedificarefor tezze,non è per questo che erri chi oggidi ve le edifica : perchè accadono molti casi,per i quali è molto utile avere fortezze. E quella ragione che si adduce nel Discorso, che le fortezze danno animo a'principi a essere insolenti e fare mali portamenti, è molto fri vola,perchè se s’avesse a considerare questo,avrebbe un principe a stare senza guardia, senza esercito, senza armi. Dipoi le cose che in sè sono utili,non si debbon fuggire, sebbene la sicurtà che tu trai da loro tipossa dare animo a essere cattivo:verbigra zia,sideve biasimarelamedicina,perchègliuomini, sotto fidanza di quella, si posson guardare manco da 'disordini e dalle cagioni che fanno infermare ? ' Certo si deve deplorare che queste fortezze il Guic ciardinilestimasseutilisoltantoaiprincipiper guar darsi dai popoli,desiderosi di cose nuove,e tenerli obbedienti col terrore. Però, come è maraviglioso questo duello tra due ingegni grandissimi che s'incontrano sul campo del l'antica sapienza governativa:sono due gigantiuguali di forze, muniti delle stesse armi,che si contendono una gloriosa vittoria nel più difficile conflitto.IlGuic ciardini, come uomo di Stato, supera d'assai il M a chiavelli,e bastano a dimostrarlole osservazioni che di mano in mano contrappone ai Discorsi del celebre segretario sulla prima Deca di Tito Livio,nelle quali, colla fredda acutezza della sua mente calma,colpisce sempre il lato debole dell'avversario e ne distrugge, colla sua logica implacabile,i ragionamenti poetici ed entusiastici,mettendone a nudo ora la fallacia, ora la indeterminata incertezza. Nella storia dei pen satori italiani non si trova una figura che possa reggergli a paro. È da lamentare che il tempo sia Op.cit.,pag.70,71.  34 CAPITOLO SECONDO . 1 >>   CONSIDERAZIONI INTORNO AI DISCORSI DEL MACHIAVELLI. 35 mancato al Guicciardini per continuare il suo esame intorno ai discorsi del Machiavelli sulla prima Deca di Tito Livio,perchè ci avrebbe rivelato maggior mente la potenza della vigorosa argomentazione del suo genio pratico di fronte a quello idealista del se gretario fiorentino.Francesco Guicciardini. Guicciardini. Keywords: implicatura, il concetto di stato. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Guicciardini: l’implicatura particolarizzata” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Guzzi – la lingua inaudita, la lingua inaudibile, la lingua audita -- (Roma). Filosofo. Grice: “My favourite is his dictionary of the unheard tongue – with a foreword like sounds like Blair on newspeak!” - Filosofo. Studia al Liceo classico statale Giulio Cesare. Direttore dei seminari del Centro studi Eugenio Montale. La poetica di Guzzi, fin dall'inizio, si è concepita come un'esperienza spirituale, una ricerca di stati più dilatati della coscienza, sulla scia della linea che da Hölderlin, e attraverso Rimbaud, arriva fino al nostro migliore ermetismo. La ricerca teoretica di Guzzi ha affrontato, in particolare nel saggio filosofico La svolta, significativamente sottotitolato "La fine della storia e la via del ritorno", il tema del cambiamento epocale che a suo avviso l'uomo è chiamato a conoscere e riconoscere, dentro e fuori di sé. Opere: Raccolte di poesia Anima in vetrina,  Il Giorno, Scheiwiller, Teatro Cattolico, Jaca, Figure dell'ira e dell'indulgenza, Jaca,  Preparativi alla vita terrena, Passigli, Nella mia storia Dio, Passigli, Parole per nascere,Paoline,  Saggi di filosofia e di religione La Svolta, Jaca, Rivolgimenti, Marietti, L'Uomo Nascente, Red, Passaggi di millennio, Paoline, L'Ordine del Giorno, Paoline, Cristo e la nuova era, Paoline, La profezia dei poeti, Moretti e Vitali, Darsi pace, Paoline, La nuova umanità, Paoline, Per donarsi, Paoline, Yoga e preghiera cristiana, Paoline, Dalla fine all'inizio, Paoline,  Dodici parole per ricominciare, Ancora  Il cuore a nudo, Paoline,  Buone Notizie, Ed. Messaggero  Imparare ad amare, Paoline  L'Insurrezione dell'umanità nascente, Edizioni Paoline,  Fede e Rivoluzione, Paoline  Il profilo dell'Uomo di Dio, Paoline  Alla ricerca del continente della gioia, Paoline  “Dizionario della lingua inaudita” Lingua e Rivoluzione, Paoline. Grice: “Guzzi plays with ‘lingua inaudita’ – literally ‘unheard of’ – but ultra-literally turns his dictionary into a magical oxymoron! Marco Guzzi. Guzzi. Keywords: lingua inaudita, lingua audita, lingua e rivoluzione. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Guzzi” --- The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Guzzo – pagine di filosofi per i giovani italiani – filosofia italiana – Luigi Speranza  (Napoli). Filosofo.  Grice: “I admire Guzzo; he founded ‘Filosofia,’ a philosophy magazine and led a school at Torino, but he selected ‘pagine di filosofi per i giovani italiani.’ He wrote interesting essays on “Gli hegeliani d’Italia” and Croce versus Gentile – a very systematic philosopher. The logo of his revista shows Oedipus and thes sphynx – that says it all!” Si laurea a Napoli, dove fu allievo di Maturi. Insegna a Torino e Pisa. Fonda "Erma”. Esponente dell'idealismo, si avvicinò all'attualismo di Gentile. È considerato quindi uno dei più grandi esponenti dello spiritualismo. Saggi: “Spinoza”; “Kant”; “Verità e realtà”; “Apologia dell'idealismo”; “Idealisti ed empiristi”; “Aquino”, “Bruno”; “Storia della filosofia”, “L'uomo” (Brescia, Morcelliana); “L'io e la ragione”; “Moralità”; “Scienza”; “Arte”; “Religione; “Filosofia” – P. Quarta, “Guzzo e la sua scuola, Urbino, Argalìa; Dizionario Biografico degli Italiani, Treccan.  AUQUSTO GUZZO   L’ISAGOGE DI PORFIRIO  E I COMMENTI DI BOEZIO EDIZION   B . i   697 I  . 173 '   aa    TORINO   I DE “L’ERMA,- X I I    T^37  AUGUSTO GUZZO    L’ISAGOGE DI PORFIRIO  E I COMMENTI DI BOEZIO     TORINO   EDIZIONI DE “L’ERMA, X I I  &   ,173   Ù‘ì ESTRATTO DAGLI Annali delV Istituto Superiore di Magistero del Piemonte. Voi. VII  XII TORINO -XII   TIPOGRAFIA DPIGLI ARTIGIANELLI (G. RoSSIj  VIA JUVARA, 14    445'/^59   L’Isagoge di Porfirio  e i Commenti di Boezio    SOMMARIO   1. Il Commento di Porfirio alle Categorie di Aristotele. — 2-5. Questioni su le Categorie. — 6. L’Isagoge. Il prologo. — 7-9. Il  primo commento di Boezio al prologo dell’Isagoge. — 10-12.  Il secondo commento di Boezio. — 13. Le cinque voci. — 14. Il  genere. 15. La specie. 16. La differenza. — 17. La qualità.   — 18. L’accidente. — 19. Quel che hanno di comune le cinque  voci. — 20. Comparazione del genere con le alti e quattro voci.   — 21. Comparazione della differenza con le altre quattro voci.   — 22. Comparazione della specie con le altre quattro voci. —  23. Comparazione della proprietà con le altre quattro voci.   — 24. Comparazione dell’accidente con le altre quattro voci. —  25. Il primo commento di Boezio alla dottrina delle cinque voci.   — 26. Il dialogo premesso al primo commento di Boezio. — 27.  Divisione della filosofia. — 28-33. Il secondo commento di Boezio.   — 34. Conclusione. (*)    (*) Queste esposizioni di antichi testi molto famosi ma poco letti co-  stituirono l’argomento del corso di Pedagogia da me professato nell’Istituto  Superiore di Magistero del Piemonte nell’anno accademico 1927-28. Volevo  dare una conoscenza possibilmente precisa di quel che era l’istruzione c  la cultura nell’alto medioevo : ed esposi i testi che in quei secoli erano più  meditati lumeggiando, di scorcio, anche lo sfondo d’idee su cui sorse più  tardi, sui primi periodi déìVIsagoge, la disputa degli universali. Testi di     1. — Porfirio, che è autore della celebre « Isagoge, o In-  troduzione alle Categorie di Aristotele » , è anche autore di un  meno noto Commentario alle medesime Categorie. Sarà utile  studiare almeno la prima parte, cioè la parte introduttiva di  tale Commentario: forse si troverà in essa la spiegazione del  punto di vista dal quale si pone Porfirio nella « Isagoge » .   Questo Commentario ci è pervenuto mancante delPultima  parte - quella riguardante le ultime quattro categorie e i  post-predicamenti - e assai scorretto e guasto anche nella parte  precedente. Lo si trova in un codice modenese miniato del  secolo XIII, in un codice della Marciana del secolo XV, in uno  delPEscuriale del secolo XVI, in uno parigino dello stesso  secolo XVI, in uno della Laurenziana del secolo XV. E' però  dimostrato che di tutti questi codici il primo, da cui tutti gli  altri dipendono direttamente, è quello modenese.   Di sul codice parigino il commento fu stampato a Parigi nel  1543 « apud Jacobum Bogardum ». Su questa edizione, che è  Pedizione principe, del Commentario, fu condotta la versione  latina di Feliciano, stampata in Venezia « apud Hieronymum  Scotum ». L’ « edizione critica » è del 1887, e si deve alle cure    logica che, ad esporli, si può tutt’al più riescire chiari; ma avviciuarli  alla comune cultura può forse essere utile. Anche questo corso, che era  rimasto inedito, va messo tra i lavori da me preparati per l’Istituto Supe-  riore di Magistero del Piemonte. Mi sia permesso enumerarli : Apologia  dell’idealismo (Discorso inaugurale dell’anno accademico 1924 25), Torino,  Paravia, 1925; Introduzione e Commento al i^edone di Platone, Commento  alla Repubblica di Platone, Agostino: dai Contra Academicos al De Vera  Religione^ Firenze, Vallecchi, 1925; Agostino, Il maestro^ Traduzione, Intro-  duzione, Commento e Appendici, Firenze, Vallecchi, 1926; Tommaso  d’Aquino, Il maestro, Traduzione, Introduzione e Commento, Firenze,  Vallecchi, 1927; Giudizio e azione, Venezia, «La Nuova Italia», 1928;  Agostino e il sistema della grazia, Torino, «L’Erma», 1930 (1934®); Il  concetto di individuazione e il problema morale (Discorso inaugurale del-  l’anno 1930-31), Torino, « L’Erma », 1931; La « Summa contra Gentiles »,  Torino, « L’Erma », 1931 ; I Dialoghi del Bruno, Torino, « L’Erma », 1932.   di Adolfo Busse, nell’edizione dei commenti greci ad Aristotele,  promossa dall’Accademia Prussiana (Voi. I, pars. I « Porphyrii  Isagoge et in Aristotelis Categorias commenta rium edidit Adolfus  Busse. — Berolini, Typis et impensis Georgii Reimer —  MDCCCLXXXVII »).   Il Commento procede per yììx di domanda e risposta. E’, in  londo, un dialogo, ma in cui le persone degli interlocutori non  hanno alcun rilievo ; la « domanda » parte da uno che non sa  e chiede spiegazioni : la c Risposta » enuncia, evidentemente, la  soluzione che Porfirio crede si possa e si debba dare alle varie  questioni. Le quali se, da un certo momento in poi, riguardano  il più giusto significato da attribuire alla lettera del testo aristo-  telico, prima vertono su problemi che investono rimpianto stesso  del piccolo scritto aristotelico.   2. -- Prima questione. — « Categoria » in greco vuol dire   € accusa », « denunzia ». Come mai Aristotele chiamò Categorie  l'essenza, la quantità, la qualità, ecc.? La risposa è che il filo-  sofo, costretto talvolta a coniar parole nuove, tal’altra a dare  un significato nuovo a parole consuete, adoprò la parola « Cate-  goria » per indicare le « espressioni enunciative delle cose »  (tàc twv Xé^soov twv a'ijjxavttxwv y.arà twv TUpaYixatcov xat-   YjYopta? TrpoosìTcsv). Sicché, ogni semplice espi*essione enunciativa,  quando sia pronunciata e detta della cosa enunciata, si dice  categoria. Per esempio: se la cosa che vien mostrata è questa  pietra che tocchiamo e che vediamo, quando di essa diciamo:  «questa è pietra», l'espressione «pietra» è il categorèma,  giacché indica la cosa e vien detta di essa.   3. — Seconda questione. — Aristotele chiamò il suo scritto  « Categoi'ie » o, come altri, « Le dieci Categorie » ?   Porfirio risponde respingendo tanto questo titolo dello scritto  quanto gli altri : « Prima della Topica », « dei generi dell'essere »   « dei dieci generi > . Non « Prima della Topica » perché in tal  caso sarebbe stato più esatto dire «Prima degli Analitici»,  anzi « Prima deU’interpretazione » : chè il libro delle Categorie  è il più elementare e introduttivo a tutte le parti della filosofìa,  E piuttosto sarebbe < Prima della parte fisica della filosofia » .  anziché « Prima della Topica » : chè è opera della natura « l’es-  senza, il quale e simili » .   Nè lo scritto potrebbe in nessun caso intitolarsi « Dei generi  dell’essere » o « dei dieci generi » « perchè gli esseri e i loro  generi e le specie e le differenze sono cose e non voci » : e  invece Aristotele, enumerando le dieci categorie, l’essenza, il  quale, il quanto e le rimanenti, dice: «ciascuna delle dette si  dice per sé stessa, non per attribuzione, mentre l’attribuzione,  0 affermazione, avviene mediante connessione di esse tra loro ».  Or se è la connessione delle categorie quella che dà luogo alle  asserzioni, e se le asserzioni consistono in voci indicative e  discorsi dimostrativi (èv oyjaavrix-^ xai àTio^avTixij)), lo   scritto aristotelico non può riguardare i generi dell’essere, nè  in generale le cose: chè non la connessione delle cose costi-  tuisce asserzione, bensì la connessione delle voci significative  che indicano le cose.   E Aristotele stesso dice: « ciascuna delle categorie dette  senza alcuna connessione significa o l’essenza o il quanto », con  quel che segue. Ora, se Aristotele parlasse di cose, non direbbe  « significa l’essenza », chè le cose non significano, bensì sono  significate. _   Ciò che significa è la voce, la parola: di voci, di parole  dunque, tratta Aristotele nelle Categorie.   Perchè, poi, debba essere questo il titolo dello scritto, sarà  chiaro - dice Porfirio - quando si sia dimostrato il contenuto  proprio del libro.   4. — Terza questione. — Quale è dunque il contenuto  proprio delle Categorie?   Porfirio risponde rifacendosi di lontano.     • L’uomo - egli scrive - giunto a indicare e significare le cose  circostanti, pervenne a nominarle con la voce e a indicare con  questo mezzo ciascuna di esse. Il primo uso che egli fece delle  parole fu rivolto a mostrare ciascuna cosa per mezzo di voci  e di parole; col quale riferimento delle voci alle cose questo  chiamò sedile, quello uomo, quell’altro cane e quell’altro sole:  e ancora questo colore chiamò bianco, quello nero; e questo  chiamò numero, quello grandezza ; questo due cubiti, quello tre  cubiti; e cosi per ciascuna cosa stabili parole e nomi signifi-  cativi di esse e indicativi mediante determinati suoni della voce.   Stabilite dunque per le cose, come contrassegno, talune  parole, Tuomo, passando ad una seconda impresa e riflettendo  sulle parole stabilite, quelle che si uniscono agli articoli chiamò  nomi, e quelle come « io passeggio, tu passeggi » chiamò verbi.  Di modo che, se nella prima imposizione » di nomi questo chiamò  oro e quello sole, nella seconda la voce < oro » chiamò nome  e la voce < passeggio » verbo.   Ora il contenuto delle Categorìe d’Aristotele è precisamente  il primo stabilimento delle parole, quello che mostra le cose:  giacché studia le voci significative semplici, in quanto signifi-  cative delle cose, distinguendole non l’una dall’altra individual-  mente, chè, di numero, le voci sono infinite come le cose che  significano, ma distinguendole secondo il genere a cui appar-  tengono. Ora l’infinità degli enti e delle parole che li significano  si lasciano ridurre a dieci generi: giacché dieci sono le diffe-  renze di genere degli enti, e dieci anche le voci che le indicano.  Ma questo fatto che le voci, simili a messaggere, prendano le  differenze dalle cose che annunziano, non toglie che la ricerca  principale sia, nelle Categorie^ intorno alle voci significative,  e non intorno alle differenze di genere degli enti.   Dieci sono i generi delle parole in quanto significative di  cose: ché significano o l’essere (la sostanza), ó la quantità, la  qualità, la relazione, ecc. (i nove accidenti della sostanza). Due,  invece, sono le parole che significano il tipo a cui appartengono ;   giacché tutte le voci sono di due tipi: o nomi o verbi. Alla  quale seconda ricerca - grammaticale, non logica, diremmo  noi > appartiene anche distinguere la espressione propria dalla  metaforica e dagli altri tropi.   Presentata cosi la ricerca delle Categorie come una ricerca  nè metafìsica, nè grammaticale, nè retorica - non metafìsica  perchè secondo Porfirio, è incidentale il riferimento ai generi  delPessere, essendo Pattenzione rivolta ai generi delle parole  significative, in quanto appunto significano questo o quello; non  grammaticale, perchè nelle « Categorie » non si distinguono  tra loro le varie parti del discorso, che è distinzione tardiva  rispetto a quella che distingue le voci secondo ciò che signifi-  cano, non secondo che siano proprie, metaforiche, ecc. - Porfirio  osserva che, contro la sua interpretazione che intende la ricerca  delle Categorie come una ricerca, noi diremmo, di filosofia del  linguaggio, e gli antichi dicevano di logica, comunemente iden-  tificando col pensiero la sua significazione verbale, si schieravano  tanto quelli che ritenevano oggetto principale delle Categorie  la ricerca metafisica intorno ai generi dell’essere, quanto quelli  che. credendo oggetto delle Categorie la ricerca retorica delle  espressioni proprie e delle figurate, ritenevano la distinzione  aristotelica delle Categorie o insufficiente o incomprensiva o,  al contrario, sovrabbondante. Fra questi ultimi, per esempio, i  seguaci di Atenodoro e di Cornuto, studiando le espressioni  proprie ed improprie, e volendo sapere a quali categorie esse  appartenessero, non trovando nello scritto aristotelico risposta  a tale domanda, ritennero manchevole e difettosa Penumerazione  aristotelica, come non comprensiva di tutte le voci significative.  Invece, secondo Porfirio, rettamente intesero lo scritto d’Ari-  stotele Poeto nel suo commento alle Categorie, e più brevemente  Erminio. Il quale dice che la ricerca non verte nè su quelli che  in natura sono i primi e generalissimi generi (che non sarebbe  insegnamento adatto ai giovani), nè studia quali siano le prime  ed elementari differenze delle parole, come se la trattazione riguardasse le parti del discorso; ma piuttosto verte sulla spe-  cie di parole che risulti appropriata a ciascun genere di enti:  onde fu necessario toccare in qualche modo dei generi, a cui  le parole si riferiscono : chè non si intenderebbe la significazione  propria di ciascun genere se qualcosa intorno ad esso non s’an-  ticipasse.   Poiché dieci sono i generi, dieci sono le categorie. E si  potrebbe magari anche intitolare lo scritto aristotelico Dei  dieci generi » se con ciò si significasse solo un riferimento ai  dieci generi, giacché non di essi si occupa principalmente il libro.   5. — Quarta Questione. — Perchè il libro verte su le « Cate-  gorie > e s’inizia con una trattazione su gli omonimi e i  sinonimi?   Perchè queste sono distinzioni delle quali Aristotele deve  fare uso in tutto l’Organo: perciò le premette ad ogni altra  considerazione.   Tralasciamo, ora, il seguito del Commento Porfiriano; ma  ci gioverà aver visto come Porfirio intendesse quelle Categorie  alle quali s’assunse lo storico compito di « introdurre » .   6. — La celebre « Isagoge » di Porfirio tratta del genere,  della differenza (che, entro ciascun genere, distingue l’una  dall’altra le specie), della specie, della proprietà (che caratte-  rizza ciascun genere e ciascuna specie) e dell’accidente (che,  senza essere intrinsecamente « proprio » d’una sostanza, le si  attaglia in talune circostanze).   La trattazione del genere è, però, preceduta da una famosa  introduzione, nella quale Porfirio si rivolge a Crisaorio, patrizio  romano suo discepolo, dicendo:   « Poiché, 0 Crisaorio, è necessario anche per la dottrina  « aristotelica delle Categorie, sapere che sia genere e che diffe-  « renza, e che sia specie e che proprietà e che accidente;  « siccome e per assegnar le definizioni e in generale per quel  « che riguarda la divisione e la- dimostrazione è utile l’indagine  « di tali cose: io, facendo per te una compendiosa trattazione,   < tenterò brevemente, come a mo’ di introduzione, di spiegare  « il pensiero degli antichi, astenendomi dalle ricerche, più  € profonde e investigando, invece, opportunamente le più  « semplici » .   Le ricerche più profonde, da cui Porfirio professa di astenersi,  riguardano la realtà dei generi e delle specie, in una parola  degli universali. Difatti Porfirio continua:   « Ora, riguardo ai generi e alle specie, se esistano o invece  c stiano solo nel pensiero e, dato che esistano, se siano corpi  « 0 incorporei, e se separati o esistenti nei sensibili e non  « fuori di essi, io eviterò di dire, profondissima essendo questa  « questione e richiedendo essa altra maggiore ricerca » .   Onde Porfirio conclude dicendo che si limiterà a cercare  d’esporre a Crisaorio ciò che gli antichi meditarono intorno a  questi argomenti, e tra essi specialmente i Peripatetici.   Porfirio, dunque, tratterà dei generi e delle specie senza  determinare se siano idee, cioè enti metafisici, o semplici  concetti, esistenti solo nella mente che li pensa. Ma, per conto  suo, per quale di queste dottrine propende?   Grià si è visto che egli considera generi, specie e differenze  « cose, non voci » e che, in generale, ritiene che le distinzioni  logiche trovino la loro ragion d’esseie in altrettante distinzioni  metafisiche di cui si fanno espressione. Per Porfirio dunque,  generi e specie riguardano l’essere, e se egli prelude alla Logica  aristotelica trattando di essi, in fondo egli ridà alla Logica  d’Aristotele il fondamento della dialettica platonica, tutta diretta  a distinguere generi e specie e valida, nel pensiero di Platone,  tanto oggettivamente, come metafisica, quanto soggettivamente,  come logica.   Questo punto di vista realistico da cui è scritta l’intera   < Isagoge » non sfugge, nonostante tutto, al commentatore  Boezio, il quale torna sulla importante questione cosi nel primo  come nel secondo dei suoi commenti all’Isagoge.  È noto che i due commenti son diversi tra loro in quanto  il primo si dirige ai principianti e quindi evita le discussioni  troppo complicate e sottili, il secondo, invece, vuol indurre i  discepoli già provetti a una ginnastica mentale adatta alle loro  ‘forze e alla loro preparazione. Non è meraviglia, quindi, che  la « questione degli universali » — giacché ormai di essa si tratta  — sia impostata diversamente nei due commenti, sebbene la  trattazione giunga a risultati assai affini.   7. — Il primo commento di Boezio giunge a interpretare  il prologo deirisagoge solo al decimo capitolo, e mostra chiaro  lo sforzo di ricorrere alle argomentazioni e dimostrazioni più  semplici, affinchè i principianti possano intenderle ed afferrarle.   In verità Porfirio pone e rinvia tre questioni:   1) - se generi e specie esìstano davvero o stiano solo  neirintelletto e nella mente;   2) - se siano corporei o incorporei;   3) - se siano separati o uniti con i sensibili.   Rispetto alla prima questione « se generi e specie esistano  davvero, o stiano solo nell’intelletto e nella mente », Boezio  sembra interpretarla in un modo che forse non coincide inte-  ramente con ciò che intendeva Porfirio. Questi, forse, intendeva  domandarsi: generi e specie sono idee platoniche, cioè enti, o  invece concetti aristotelici, cioè universali puramente mentali  nati nel pensiero e dal pensiero? Se sono idee platoniche, si  intende che sono, non solo incorporee, ma separate. Se invece  sono concetti aristotelici, essi corrispondono, nella mente, a  forme che nella realtà vivono intrinsecate nelle cose sensibili.  La questione, dunque, è : gli universali vanno concepiti plato-  nicamente, ante rem, o aristotelicamente, post rem, giacché in  re essi esistono, ma intimi alle stesse cose particolari ?   Se questo è ciò che intende domandarsi Porfirio, si capisce  come egli preferisca rimandare questa controversia prò Platone  0 prò Aristotele a un momento in cui il suo discepolo Crisaorio  sia già innanzi negli studi filosofici. Ma Boezio intende la que-  stione in maniera assai diversa. Egli non intende i generi e  le specie se non come universali mentali post rem, come con-  cetti aristotelici. La conoscenza si inizia con la sensazione:   per sensuum qualitatem res sensibus subiectas (animus) intel-  legit Dalla sensazione lo spirito parte per concepire le specie  ed i generi: et ex bis (le cose sensibili) quadam speculatione  concepta, viam sibi ad incorporalia intellegendapraemunit,,. Così,  quando vede i singoli individui umani, sa d’aver visto uomini,  sa che sono uomini quelli che ha visti. Di qui lo spirito sale  a discernere la stessa specie « uomo », incorporea perchè non si  concepisce che con la mente e rintelligenza. Ma, come movendo  dalla sensazione lo spirito giunge a comprendere le cose incor-  poree, così, movendo dalle stesse sensazioni, lo spirito arriva  a immaginarsi, per esempio, i Centauri, la cui fallace imma-  gine si compone di elementi della forma umana ed elementi  della forma equina. Or si domanda: generi e specie sono con-  cepiti con verità, sicché comprendiamo la specie uomo giusta-  mente ricavandola dai singoli uomini coi'porei, o invece sono  immaginati con finzione mentale pari a quella di cui parla  Orazio nell’Arte Poetica, quando dice: « fiumano capiti cer-  vicem pictor equinam iungere si velit » ?   Come si vede, Boezio non crede che la domanda di Porfirio  sia rivolta a sapere se gli universali siano reali o puramente  mentali, ma se siano concetti veri o pure finzioni delPimma-  ginazione. Il che significa porsi già su terreno prettamente  aristotelico, giacché tutto si riduce a domandare se gli uni-  versali post rem siano rettamente pensati o fallacemente imma-  ginati, o, con altre espressioni, se siano concetti o puri sogni  e chimere.   La risposta che Boezio dà a questa domanda è, se non er-  riamo, singolarmente infelice. Per lui non è dubbio che i generi  e le specie « sono veramente»: «difatti, come tutte le cose che  veramente sono senza queste cinque: non possono essere, così non si può dubitare che anche queste cinque son concepite  con verità (vere intellectas) » . Che è una strana maniera di  presupporre gli universali reali nelle cose sensibili, quando  proprio la domanda è se gli universali siano reali o fallaci-  Per Boezio generi, specie, differenze, proprietà, accidenti, queste  cinque distinzioni nelle cose sono « conglutinatae et quodam-  modo coniunctae atque compactae ». Difatti, perchè Aristotele  parlerebbe delle prime dieci espressioni (sermonibus) signifi-  canti i generi delle cose, o perchè raccoglierebbe le loro diffe-  renze e proprietà e toccherebbe degli accidenti, se non li avesse  visti nelle cose intrinsecati e in qualche modo riuniti ( <' in  rebus intima et quodammodo adunata » ) ? In base a questa  argomentazione Boezio conclude che « se è cosi, non c’è dubbio  che siano veramente e sian tenute (le cinque distinzioni) con  giusta riflessione («certa animi consideratione >).   Ma si vede chiarissimo che Boezio dà per certa e dimo-  strata la concezione aristotelica degli univeisali come forme  immanenti nelle cose particolari, onde conclude che lo spirito,  pensandoli, è nel vero e non neirerrore delle pure finzioni  immaginarie. Ma se la questione era per Porfirio se gli uni-  versali fossero reali o puramente mentali, e per Boezio se fos-  sero concetti veri o mere finzioni immaginarie, nè la questione  porfiriana, nè quella boeziana possono essere risolte con Tappel-  larsi alla concezione aristotelica di universali reali nei parti-  colari, e quindi veri, post rem, nello spirito umano. Questo è  un affermare il temperato realismo aristotelico, non un l isol-  vere la questione con un procedimento dimostrativo. Boezio  presuppone dimostrato Taristotelismo per decidere in senso  aristotelico e su V autorità di Aristotele la questione da lui  posta.   Senonchè Boezio trova un’altra conferma realistica- della  sua opinione nell’assenso, per quanto tacito, dello stesso Porfirio.  Giacché, egli dice, Porfirio, come se già fosse risaputa e pro-  vata la realtà degli universali, domanda se siano corporei o incorporei. La quale domanda sarebbe troppo frivola e assurda  se non si fosse prima assodata, per gli universali, quella realtà  che ora si domanda se sia corporea o incorporea. Ma anche  qui forse Boezio, neirinterpretare Porfirio, va lontano da quello  che egli intendeva dire. Porfirio forse domandava: — generi e  specie sono reali o puramente mentali? Se reali, nel senso  platonico, sono enti incorporei; se meramente mentali, non si può  ad essi attribuire altra realtà che nei corpi stessi. Vale a dire,  se reali, nel senso platonico, sono separati: se meramente men-  tali, non possono concepirsi che immanenti nei corpi, congiunti  con essi e da essi inseparabili, tranne che per astrazione nel  pensiero umano.   Se questa che qui proponiamo fosse una interpretazione  plausibile del celebre prologo porfiriano, le domande ivi contenute  in realtà non sarebbero tre, ma una sola: gli universali sono  reali, o mentali? vale a dire, sono incorporei, o esistono nei  corpi? cioè, sono separati, o intrinsecati nei corpi e da essi  inseparabili ?   Ma Boezio le intende come tre domande, ciascuna delle quali  presupponga già risolta in un determinalo senso le precedenti.  Difatti, egli dice: solo se alla prima domanda « se gli universali  siano reali » si risponde affermativamente, si può poi domandare  se esistano come corpi o come incorporei ; e parimenti, solo se  a questa domanda si risponda affermando Tincorporeità degli  universali, si può domandare se, essendo incorporei, esistano  separati dai corpi o siano da essi inseparabili.   8. — Rispetto alla seconda questione « se gli universali siano  corpi 0 incorporei » Boezio tratta separatamente il genere dalla  specie.   Quanto al genere egli dice, « quia incorporeorum prima  natura est», può una cosa incorporea essere madre di una  corporea, ma non viceversa, giacché, la sostanza essendo il  genere, e corporale e incorporale le specie, il genere non può  essere corporale, chè, se fosse tale, la specie incorporea non  potrebbe subordinarglisi. Dal che discende che il genere non  deve essere nè corporeo nè incorporeo, si da poter avere per  specie così il corporeo come Tincorporeo.   (E qui Boezio solleva una questione di grandissima importanza.  Se il genere non può avere nessuna delle determinazioni che  costituiscono le proprietà delle specie e le loro reciproche  differenze, donde nascono nelle specie queste differenze che nel  genere, da cui pure le specie derivano, non ci sono? - Non si può  pensare che il genere animale possegga tanto la proprietà della  ragionevolezza quanto quella della irragionevolezza: chè posse-  dere in sè due contrari sarebbe impossibile. Bisogna dunque che,  per poter dare luogo cosi alBuna come alEaltra delle due specie,  il genere non abbia nè Buna nè Taltra delle due differenze  specifiche: non sia nè Tuna nè l’altra specie, pur contenendole  entrambe « vi sua et potestate » .   Ed anche questa è, come si deve, una soluzione prettamente  aristotelica della questione: il genere è «in potenza» le sue  specie, senza essere « in atto » nessuna di esse. Ma non è qui  il caso di saggiare la consistenza o la inconsistenza di un simile  tentativo di spiegazione che, non riuscendo a dar ragione del  nascere delle differenze, le presuppone già esistenti, e tuttavia  non ancora reali, giacché sono potenziali, virtuali).   Si è visto dunque che per Boezio il genere non è nè corporeo,  nè incorporeo : il che significa, su questo punto, non rispondere  alla domanda di Porfirio, ma sottrarsi ad essa. E la ragione di  tutto ciò è chiara. Porfirio è tutt’ altro che convinto che gli  universali siano puri concetti: ecco perchè egli tende ad affer-  marli reali e incorporei. Ma per Boezio gli universali sono  semplici concetti: e però, per quanto sia anch’egli convinto con  Platone ed anche con Aristotele, che Tincorporeo è, per natura,  prima del corporeo, pure è costretto, dalla sua concezione mera-  mente logica e non metafisica degli universali come concetti e non  come idee, a pensare il genere come privo delle determinazioni  che saranno proprie delle specie: a costo di non sapere più d  donde derivino alle specie queste differenze, che sono estrai  alla sola fonte delle specie che è il genere.   Ma Boezio si illude che ammettere la potenziale presei  delle differenze specifiche nel genere sciolga la difficoltà: (  inoltra nella considerazione meramente logica del genere co  semplice concetto, adatto esclusivamente alle classificazi  scolastiche dei concetti secondo la loro estensione, mentre, ]  Platone, il genere era pregnanza di realtà o idea.   Quanto alle specie Boezio ne ammette di corporee e di ine  poree: specie corporea Puomo; incorporea: Dio.   Parimenti le differenze: «quadrupede» è differenza cor  rea ; < ragionevole * differenza incorporea.   Cosi anche le proprietà: corporee di cose corporee; ine  poree di cose incorporee.   E lo stesso è degli accidenti: accidente incorporeo è nello s  ritolascienza: accidente corporeo èsul capo la capigliatura cres   Insomma per Boezio, solo il genere è neutro, nè corpor  nè incorporeo: ma le specie, le differenze, le proprietà e  accidenti sono corporei se appartengono ai corpi, incorporei  appartengono allo spirito.   Senonchè, in questa teoria, lo stesso Boezio, che non  potuto riconoscere incorporeo il genere per la sua conside  zione meramente logica di esso, ammettendo corporee le spe(  le differenze, le proprietà e gli accidenti delle cose corpor  rinunzia a considerare specie, differenze ecc. come distinzi  meramente logiche, e non solo le pensa metafisicamente intr  secate nelle cose singole, ma fatte una cosa sola con esse,  da ricevere la loro stessa natura.   Torna, bensì, a una considerazione meramente logica de  distinzioni porfiriane, stabilendo, dopo la prima, ora espos  una seconda teoria, che peraltro egli presenta come una teo  altrui. Secondo questa teoria il genere va considerato coi  genere, come pura determinazione logica o concetto. E se sostanza è genere, non dev’essere considerata come una sostanza,  ma come un genere, cioè come qualcosa che ha delle specie  sotto di sè. Cosi pure la specie. Corporeo e incorporeo saranno  specie della sostanza. Ma essi vanno considerati come pure  specie, cioè come concetti che stanno sotto un genere. Pari •  menti le differenze: bipede e quadrupede sono differenze in  quanto Puno contrapposto all’altro : vanno, dunque, considerati  non come un bipede e un quadrupede, ma come pure differenze  logiche. Similmente le proprietà non vanno considerate nel loro  contenuto, ma come pure caratteristiche logiche della specie.   Così intesi, generi, specie, differenze e proprietà, come pure  distinzioni logiche, non possono essere, secondo la teoria che  Boezio espone senza aderii-vi, se non incorporei. Mentre gli  accidenti avrebbero la natura delle cose a cui accadono: sareb-  bero quindi corporei o incorporei a seconda delle sostanze.   Sia qui notato subito che questa affermazione metafìsica  della incorporeità di quattro fra le cinque distinzioni porfiriane  proprio perchè distinzioni meramente logiche, è una afferma-  zione cosi male impostata da non poter resistere alla più sem-  plice critica. Come semplici distinzioni logiche esse non hanno  nessuna natura: il loro contenuto ha una determinata natura,  non esse: nella specie < uomo », l’uomo è corporeo e ragionevole,  ma € la specie » nè corporea nè ragionevole. Affermare quindi  la incorporeità della specie come distinzione logica, come con-  cetto, è impossibile; per dirla incorporea bisogna considerarla  come idea, come ente metafìsico, non come determinazione lo-  gica. Ma dirla incorporea perchè logica è un abuso inammis-  sibile di pensiero, e, in ogni caso, attesta quel continuo oscillar e  tra logica e metafìsica che è cosi caratteristico nella ti'adizione  aristotelica. Pensati gli universali come concetti, essi non sareb-  bero più suscettibili di nessuna considerazione metafìsica: in-  vece continuano a essere dichiarati, metafìsicamente, incorporei,  primi per natura, ecc., mentre, come puri concetti, essi non sono  che vuoti termini classifìcatorii.  Ma Boezio continua a esporre la teoria della incorporeità  delle distinzioni logiche, dicendo che coloro i quali sostengono  tale teoria s’appoggiano all’autorità di Porfirio stesso, il quale,  come se fosse già dimostrata la incorporeità dei generi, delle  differenze, ecc., domanda se siano separati o uniti alle cose  sensibili: chè, se fossero corporei, sarebbe assurdo domandare  se siano disgiunti dalle cose sensibili o congiunti. Boezio, in-  vece, dà tutt’altra interpretazione a questa domanda porfiriana,  in quanto la intende come se suonasse: «gli universali sono sempre  separabili dai particolari sensibili, o a volte inseparabili?», e  però non gli sembra che la domanda porfiriana presupponga,  come se già fosse risaputa e dimostrata, l’incorporeità di tutte  le specie, differenze, proprietà, ecc. in quanto pure determina-  zioni logiche.   9. — Egli passa perciò a interpretare direttamente la terza  domanda, lasciando da parte la teoria della incorporeità dei  concetti, ed ha l’aria di averla riferita a puro titolo di infor-  mazione, ma ritenendola infondata e insostenibile. Per lui,  dunque, le specie sono talune corporee, talune incorporee. Si  domanda se siano sempre congiunte alle cose particolari, o pos-  sano a volte disgiungersene.   Boezio, per chiarire la domanda porfiriana, distingue tre  specie di cose incorporee:   1) — Cose incorporee affatto insuscettive di corpo, come  lo spirito e Dio;   2) — Cose incorporee inconcepibili senza i corpi, come  lo spazio vuoto che è immediatamente oltre i termini di una  figura geometrica ;   3) — Cose incorporee che sono corpi e possono essere  senza corpo, come l’anima.   Si domanda se generi, specie, differenze, ecc. siano di quegli  incorporei sempre separati da corpo, o di quegli altri che mai  non possono separarsene, o infine di quelli che a volte si uni-  scono, a volte si separano.   La risposta di Boezio è che possono congiungersi e possono  separarsi: che nelle cose corpoi'ee son congiunti a corpo, nelle  incorporee disgiunti da corpo.   Ma non bisogna credere che tutte le specie, le differenze,  le proprietà, ecc. siano congiungibili o disgiungibili dai corpi;  al contrario quelle delle cose corporee sono inseparabili da tali  cose corporee, come lo spazio è inseparabile dai corpi che  limita; e quelle delle cose incorporee, come le proprietà dello  spirito non si trovano che nello spirito, che è perfettamente  separato dal corpo. Boezio ribadisce la sua concezione : ci sono  due ordini di realtà: corporee ed incorporee; le incorporee sono  per natura e dignità anteriori alle corporee, e andrebbero  considerate come loro fonte: senonchè Boezio concepisce le  corporee e le incorporee come tra loro coordinate, e le subordina  entrambe ad un genere nè corporeo nè incorporeo, che avrà  magari in sè la potenza delle une e delle altre, ma che intanto,  così astratto e sopraordinato ad esse, è il vertice di una clas-  sificazione logica da scuola, non la genesi del reale.   10. — Nel secondo commento di Boezio le domande di Porfirio  sono presentate ed interpretate come nel primo: ma ne è diversa  la trattazione.   Le questioni « et perutiles et secretae, et temptatae quidem  a doctis viris nec a pluribus dissolutae», non trattate ancora  da Porfirio per non ingenerare oscurità nel lettore impreparato,  ma tuttavia accennate affinchè il lettore, una volta rafforzato  dal sapere, sappia che domandare, sono da Boezio formulate  così :   1^. Lo spirito 0 , con Pintelletto, concepisce, afferra quello  che realmente esiste in natura e, con la ragione, lo copia in  sé stesso; oppure, con vuota immaginazione, dipinge a sé mede-  simo ciò che non esiste. Si domanda dunque come sia Pintendimento che noi abbiamo del genere^ della specie, ecc. : se  intendiamo generi e specie come cose esistenti delle quali  prendiamo vera comprensione, o se invece noi stessi ci ingan-  niamo immaginandoci con vano pensiero cose che non sono.   2». Che se si ammette che dei generi, delle specie, ecc.  abbiamo un vero concetto, rimane da determinare se siano  corporei o incorporei: giacché tutto ciò che esiste deve essere  corporeo o incorporeo, e non si intenderà bene cosa siano i  generi e le specie finché non si sappia se porli tra le cose  corporee o le incorporee.   3». Che, se si ammette che generi, specie, ecc. siano  incorporei, rimane ancora da stabilire se, pur essendo incorporei,  esistano nei corpi, o se invece sembrino essere sussistenze  indipendenti anche senza corpi. Giacché ci cono due specie di  cose incorporee (qui Boezio sopprime la terza specie da lui  distinta nel primo commento: quella delle cose incorporee che  a volte si uniscono ai corpi, a volte se ne separano, e la fonde  senz’altro con la prima specie): ci son cose incorporee che  possono esistere senza corpo e, separate dai corpi, perdurano  nella loro incorporeità, come Dio, la mente, Tanima ; altre cose  incorporee, invece, non possono esistere senza i corpi, come  la linea, la superficie, il numero e le varie qualità, che noi  diciamo incorporee perchè non si estendono nelle tre dimensioni,  ma che esistono nei corpi siffattamente da non poterne essere  strappate o separate, o da svanire se separate dai corpi.   Come si vede, le questioni sono impostate come nel primo  commento. Ma qui Boezio si propone di trattarle altrimenti:  < primum quidem panca sub quaestionis ambiguitate proponam,  post vero eundem dubitationis nodum absolvere atque explicare  temptabo. »   Insomma, prima egli moverà un attacco, che vorrebbe essere  a fondo, contro ogni concezione platonica o aristotelica degli  universali, sia come reali, sia come concetti: poi giustifi-  cherà la concezione aristotelica tentando di dimostrare che son veri, nel pensiero, gli universali, pur non essendo reali, in  natura, se non nei particolari.    11. — Boezio scrive: i generi e le specie o sono e sussistono,  o si formano con Tintelletto ed esistono solo nel pensiero, ma  non possono essere generi e specie.   Anzitutto, generi e specie possono essere considerati reali?   Una cosa che nello stesso tempo sia comune a più altre, non  può essere una: specialmente se sia tutta in molte contempora-  neamente. Ora il genere dovrebbe essere uno in tutte le sue  specie : e non nel senso che ogni singola specie prenda per sè  una parte del genere, ma nel senso che ogni singola specie ha  in sè tutto il genere. Or questo genere che è tutto in ciascuna  delle sue specie contemporaneamente, come può essere uno?  giacché, se è tutto in più specie, in sè non può essere uno di  numero. E se non può essere uno, non è nulla assolutamente,  perchè tutto ciò che è, è perchè è uno. E lo stesso va detto della  specie. Che se si dice che la specie o il genere esiste, ma  molteplice di numero, non uno, non sarà il genere ultimo, bensì  avrà sopra di sè un altro genere, che includa quella moltepli-  cità nella propria unità.   E, daccapo, se questo nuovo genere sarà a sua volta molte-  plice, non uno, rinvierà ancor esso a un altro genere: e cosi di  seguito, airinfinito, senza che sia dato trovare un genere che  sia uno di numero pur essendo comune a tutte le sue specie.   Che se si dice che il genere è uno di numero, non potrà  essere comune a molti. Giacché una cosa può essere comune  a molte, ma solo in uno di questi tre casi:   1) — che ciascuna sua parte si applichi ad un particolare  diverso: sicché il genere non stia tutto in ciascuna specie, ma  in ogni specie una sola parte del genere;   2) — che più persone abbiano in comune l’uso di alcunché,  ma l’usino, beninteso, ciascuna in tempi diversi. (Esempio : più   persone hanno un solo servo o un solo cavallo: si capisce che  non possono servirsene tutte con temporaneamente, ma l’una  prima, Taltra dopo);   3) — che qualcosa sia comune a molte persone, ma senza  costituire la loro essenza. (Esempio : il teatro è luogo comune  a tutti gli spettatori ; ed anche lo spettacolo è uno e comune  ad essi tutti).   Ma il genere non è comune alle specie in nessuna delle tre  forme ora dette : giacché deve essere tutto in ciascuna specie,  deve essere contemporaneamente in tutte le specie, e deve costi-  tuire Tessenza delle specie a cui è comune.   Ora, se il genere non è nè uno (giacché è comune), nè molte-  plice (giacché, se fosse tale, richiederebbe un genere ulteriore),  il genere non è per nulla. E lo stesso va detto delle specie,  delle diiferenze, delle proprietà e degli accidenti.   Se genere, specie, ecc. non sono, resta che siano còlti solo  con rintelligenza. Ma di nuovo, ogni concetto si torma da una  realtà o conformemente al suo vero essere o difformemente da  esso. Se conformemente, genere, specie, ecc. esistono non solo  nel pensiero, ma anche nella realtà, e risorge la domanda come  possano essere uni e molteplici ad un tempo, con la conclusione  di pocanzi, che cioè, genere, specie, ecc. non sono. Se difforme-  mente, non possono essere che vani e falsi dei concetti difformi  dalla realtà nel suo vero essere.   Conclusione: se genere, specie, ecc. nè sono, nè, quando son  pensati, sono pensati con verità, non rimane più alcun dubbio  che si debba abbandonare ogni discussione circa le cinque distin-  zioni porfìriane, non vertendo esse nè su qualcosa di reale nè  su qualcosa di cui sia possibile farsi un vero concetto.    12. - A questa obiezione che mirerebbe, come si vede, a  scalzare tutta intera la dottrina porfiriana delle cinque primis-  sime distinzioni logiche, Boezio risponde, appellandosi all’autoritàdi Alessandro di Afrodisia, di cui accetta e riproduce Targo -  montare.   Non è vero — scrive Boezio — che sia falso e vano ogni  concetto che si scosti dalTessere reale delle cose. Se la mente  mette insieme elementi di cose disparate fino a formarsi una  immagine non rispondente a realtà, certamente erra e si inganna,  come quando si immagina i Centauri, componendone mental-  mente la figura con elementi del corpo umano e delTequino.  Ma quando la mente procede non per composizione, ma per  divisione ed astrazione, il concetto non corrisponde a nulla di  obbiettivo, e tuttavia non è falso.   Esempio: — la linea non è concepibile che in un corpo:  staccata da qualsiasi corpo, la linea non è nulla; e difatti chi  potè mai cogliere con un qualsiasi senso una linea separata da  ogni corpo? Ma ciò non esclude che possa separarla lo spirito  e pensarla per sè sola, fuori di qualsiasi corpo. Onde risulta,  nel pensiero, incorporea e separata quella linea che nella realtà  è inseparabilmente unita al corpo e confusa con esso.   Ora, i generi, le specie, ecc. sono proprio cosi fatti: esistono  nei corpi singoli, ma possono essere separati dai corpi, come  puri universali. E come nessuno può dir falso il concetto della  linea perchè si pensa separata da ogni corpo mentre essa fuori  dei corpi non sussiste, cosi non si deve ritenere falso il concetto di  genere, specie, ecc. perchè si isolano come puri universali mentre  essi non esistono che nei particolari. Gtli è che è prerogativa  delTintelletto cogliere la somiglianza dei vari particolari sensi-  bili, fissarla per sè sola e farne una specie; e poi ancora, cogliere  la somiglianza delle varie specie, fissarla e farne un genere.  Sicché la specie è un concetto ricavato dalla somiglianza d’es-  senza di individui diversi numericamente Tuno dalTaltio: e il  genere è un concetto ricavato dalla somiglianza delle specie.   Ma questa somiglianza, quando è nelle cose singole, è sensi-  bile; quando nelle universali, è intelligibile. 0, che è lo stesso,  sentita, è nelle cose singole; pensata, è universale. Sicché generi.  specie, ecc. esistono nei sensibili, son còlti e pensati fuori dei  corpi; universali quando son pensati, singolari quando son  sentiti nei corpi in cui hanno esistenza.   Rimane cosi risolta Tintera questione: giacché generi e  specie esistono in un modo - nei particolari - e son pensati in  un altro - fuori dei particolari - come se esistessero per sé stessi  e non avessero nei particolari Tesser loro.   Ma questa soluzione è aristotelica, e Boezio Tavverte espli-  citamente: giacché per Aristotele generi e specie son pensati  incorporei ed universali, mentre esistono nei particolari sensi-  bili. Platone invece - Boezio ama rammentarlo - ritiene che  generi e specie non solo siano pensati come universali, ma  anche siano tali ed esistano separati dai corpi. E Boezio dichiara  espressamente d^aver presentato la soluzione aristotelica della  questione non perché egli la approvi di più, ma perché un  lavoro, come il suo commento, destinato a servir di introdu-  zione alle Categorie aristoteliche, aveva il dovere di adottare,  in questa questione, preliminare importantissimo, il punto di  vista aristotelico.   13. — Dopo il prologo del quale si é ampiamente discorso,  T « Isagoge » - alla quale ci conviene ormai ritornare - può  intendersi divisa in due parti: la prima studia separatamente  il genere, la specie, la differenza, la proprietà e Taccidente;  la seconda paragona prima il genere alla differenza, alla specie,  alla proprietà e alTaccidente ; poi la differenza alla specie, alla  proprietà e alTaccidente; infine tra loro la proprietà e Taccidente.   Cominciamo ora lo studio delle cinque distinzioni logiche prese  separatamente ad una ad una.   14. — Porfirio osserva che la parola genere si usa con  significati diversi.   Primo significato é quello per il quale genere (o piuttosto  gente) vuol dire stirpe.  Esempi: « Oreste è delle gente di Tantalo », cioè discende  da Tantalo; < Pindaro è della gente tebana », cioè è tebano  di nascita. Nel primo caso è indicato il progenitore, nel secondo  la patria; in entrambi il termine da cui la stirpe, o gente, o  genere proviene.   Secondo significato è quello per il quale il genere (o gente,  vuol dire quella collettività che è stretta da un’origine comune   Esempio: « Gli Eraclidi costituiscono una gente (o genere)  perchè discendono tutti da un comune capostipite: Eracle».   Terzo significato è quello per il quale si dice genere quello  a cui si subordinano le specie, la cui moltitudine esso contiene  sotto di sè. Questo terzo significato, che è quello che la parola  «genere » ha per i filosofi, è probabilmente imitato dai primi due  in quanto, in logica si chiama genere quello che in altri casi  si dice piuttosto stirpe, cioè Torigine da cui le specie derivano,  da essa prendendo il nome e con tal nome distinguendosi da  tutte la altre specie che rientrano sotto altri generi.   In questo terzo significato « genere » è quel che si predica di  più cose, differenti tra loro per la specie, e indica cosa esse sono.   La quale definizione ha bisogno di essere chiarita punto per  punto. « Quel che si predica di più cose » : difatti, i predicati  0 si riferiscono ad una cosa singola o a più cose. Ad una cosa  sola si riferiscono gli individui, come quando si dice: «questi  è Socrate », e anche a una cosa sola si riferiscono: « questi »  e « questo ». Invece a più cose si riferiscono i generi, le specie,  le differenze e le proprietà e quegli accidenti che risultano  comuni, non propri di una cosa sola.   Esempio di genere : « animale » . Esempio di specie : « uomo » .  Esempio di differenza (che contraddistingue Tuomo dagli altri  animali): « ragionevole ». Esempio di proprietà (dell’uomo): « la  capacità di ridere » . Esempi di accidenti (dell’uomo) : « bianco,  nero, muoversi » .   Ora il genere differisce dall’individuo perchè si predica di  più cose, non di una.  Ma la definizione precisa è: « Genere è ciò che si predica  di più cose differenti tra loro per la specie », in quanto anche  la specie si predica di più cose, ma di cose differenti tra loro  per numero, non per specie.   Esempio: - la specie «uomo» si predica di Socrate e di  Platone, che differiscono numericamente in quanto Socrate e  Platone sono due individui diversi, mentre il genere « animale »  si predica delPuomo, del bue, del cavallo, differenti tra loro  non solo numericamente, ma per specie.   Inoltre: « genere è ciò che si predica di più cose differenti  tra loro per la specie, e indica cosa esse sono. » Giacché anche  le differenze si predicano di cose differenti tra loro per la  specie, ma indicano qitali esse sono, non cosa sono.   Esempio: — < se ci domandano che cosa è Puorao, rispon-  diamo indicando il genere a cui appartiene, e diciamo: « Puoino  è animale > ; ma se ci domandano le qualità delPuomo, rispon-  diamo indicando i suoi caratteri differenziali, la ragionevolezza  e la mortalità.   Com’è chiaro, il genere differisce dalla proprietà, perchè  questa si predica d’una sola specie e degli individui di essa,  mentre il genere si predica di più specie.   E differisce dagli accidenti comuni perchè, sebbene questi si  predichino di più cose differenti tra loro per specie, ne indicano  la qualità, non Pessenza (come, ad esempio, il color nero).   Ricapitolando: il predicarsi di più cose divide il genere  dagli individui; il predicarsi di più cose differenti di specie  lo separa dalle specie e dalle proprietà; Pindicare la quiddità  0 essenza lo divide dalle differenze e dagli accidenti comuni  che indicano la qualità. E questa trattazione del genere non  contiene nulla nè di superfluo, nè di manchevole.   15. — Anche « specie » ha più significati : significa « forma »  e significa, in logica, ciò che rientra in un genere (« uomo » è  specie compresa nel genere « animale » ; « bianco » è specie del  genere «colore*; «triangolo» è specie del genere «figura»).  Beninteso, come il genere è genere solo rispetto alle sue specie,  cosi le specie sono specie solo rispetto al loro genere. Genere  e specie cioè sono concetti correlativi. Cosi la specie vien defi-  nita: «ciò che è posto sotto il genere, e di cui il genere si  predica per indicarne l'essenza o quiddità » . Ma questa defi-  nizione conviene solo alle specie specialissime che sono sempre  specie e non mai generi, mentre le precedenti definizioni con-  vengono anche alle specie che non sono specialissime.   Sono generi generalissimi quelli al di sopra dei quali non  esiste altro genere, come ad esempio « sostanza ». Sono specie  specialissime quelle al di sotto delle quali non esistono altre  specie, come, ad esempio, « uomo », che ha sotto di sè imme-  diatamente i vari individui umani.   Tra i generi generalissimi e le specie specialissime inter-  corrono generi subalterni, come ad esempio « sostanza animata »,  « sostanza animata sensibile » , « sostanza sensibile ragionevole » .  Ciascuno di questi concetti, intermedi tra «sostanza» e «uomo »,  è specie rispetto al concetto più ampio nel quale rientra, è  genere rispetto al concetto più ristretto che in esso rientra.   Ad esempio: «sostanza animata» è specie rispetto a « so-  stanza », è genere rispetto a « sostanza animata sensibile ». Ai  due estremi della scala c'è la « sostanza», genere generalissimo  che non è mai specie, e !'« uomo », specie specialissima che non  è mai genere, mentre in mezzo i generi subalterni sono a volte  generi, a volte specie.   Ora, mentre le genealogie famigliari, risalendo di proge-  nitore in progenitore, raggiungono il comune capostipite di tuttele  famiglie, Giove, non è dato rinvenire un genere generalissimo  unico, a cui tutti i generi subalterni si lascino ridurre. Al con-  trario, secondo Aristotele sono dieci i generi generalissimi, asso-  lutamente primi e irriducibili: uno è la sostanza e nove gli acci-  denti (qualità, quantità, luogo, tempo, ecc.). Nè è valida obie-  zione che se questi dieci predicamenti sono, essi sembrano ridursi ad un genere generalissimo unico, Ve^%ere\ chè, dice  Porfirio, Ve^senza si predica in senso assai diverso della  sostanza e dei vari accidenti, sicché Tunificazione delle dieci cate-  gorie neir^ss^r^ è soltanto nominale, non reale, variando il  significato essere dalPuno all’altro predicamento.   Ora, se i generi generalissimi sono dieci, i generi subal-  terni sono di numero assai grande, ma tuttavia finito : infiniti,  invece, sono gli individui che vengono dopo le specie specia-  lissime, e di essi non si dà scienza.   Platone insegna a dividere, mediante le differenze specifiche,  ciascun genere in due, e poi ancora in due fino a raggiungere  le specie specialissime, che si dirompono negli individui. Chi  discende dai generi generalissimi alle specie specialissime  divide, cioè moltiplica l’unità. Chi, al contrario sale dalle specie  specialissime ai generi generalissimi, raccoglie la moltitudine in  unità. Giacché ciò che è singolare divide, ciò che è comune  aduna.   Adunque, il genere si divide in più specie e si predica di  esse. Giacché i concetti più estesi si predicano dei meno estesi  (il genere si predica delle specie), i concetti equipollenti si pre-  dicano l’uno dell’altro e l’altro dell’uno (la proprietà di nitrire  si predica del cavallo nella proposizione: «Il cavallo è l’ani-  male che nitrisce», e il cavallo si predica del nitrire nella  reciproca: < L’animale che nitrisce è il cavallo »), ma non mai  i concetti meno estesi si predicano dei più estesi (la proposi-  zione : « l’uomo è un animale » non può convertirsi nella reci-  proca: « l’animale è uomo »). Così i generi generalissimi si pre-  dicano di tutti i generi subalterni o specie, delle specie specia-  lissime e degli individui ad esse sottoposti; i generi subalterni  si predicano di tutte le specie ad essi inferiori, delle specie  specialissime e degli individui ; le specie specialissime si pre-  dicano degli individui, e gli individui d’un solo particolare. Gli  individui sono parti della specie, che rispetto ad essi è tota-  lità, mentre rispetto al genere è parte.    16. — Si parla di differenza nel significato comune della  parola, in senso proprio, e in senso rigoroso.   Nel significato comune < differenza » esprime la diversità  d’una cosa da un’altra o da sè stessa. Socrate differisce da  Platone e differisce da sè stesso bambino.   In senso proprio, una cosa si dice differire da un’altra  quando ne differisce per un accidente inseparabile. (Accidente  inseparabile è, per esempio, avere il naso curvo, essere ciechi,  avere una cicatrice causata da una ferita).   In senso rigoroso una cosa si dice differire da un’altra  quando se ne distingue per differenza di specie. Ad esempio,  un uomo differisce da un cavallo perchè appartengono a specie  diverse, l’uno essendo ragionevole, Taltro no.   In generale dunque, ogni differenza altera ciò a cui si in-  nesta: ma le differenze comuni e proprie si limitano a renderlo  alterato, le rigorose lo rendono addirittura altro. E queste dif-  ferenze rigoi-ose che rendono altro ciò a cui si applicano,  si dicono < differenze specifiche » , le altre si dicono semplice-  mente « differenze » . Queste non producono che un’alterazione  o un mutamento di stato (per esempio, il muoversi rispetto  al giacere), quelle, invece, dal genere fanno le specie, le quali  si definiscono appunto col genere e le differenze.   Altra classificazione delle differenze è la seguente: differenze  separabili^ come il muoversi e lo star fermi, l’essere sani o  malati, e differenze inseparabili^ come l’avere un naso aquilino  0 camuso e l’essere ragionevoli o irragionevoli.   Le differenze separabili si dividono ancora in differenze per  se e differenze per accidens. Differenza per se è, nell’uomo, la  ragionevolezza, la mortalità, la capacità di apprendere. Diffe-  renza per accidens è l’avere il naso aquilino o camuso.   Le differenze per se entrano nel concetto della cosa e la  rendono altra (la mortalità entra nel concetto di uomo e lo  differenzia dall’altro essere animato sensibile e ragionevole, ma  immortale che è Dio); invece, le differenze accidens, anche se insensibili, non entrano nel concetto della cosa e non la ren-  dono altra, ma solo alterata (il naso camuso non entra nel  concetto di uomo, e altera un individuo, ma non lo rende altro  dai rimanenti uomini).   Parimenti le differenze per se non ammettono aumenti o dimi-  nuzioni (tutti gli individui umani sono uomini egualmente),  invece, le differenze per accidens ammettono aumento o dimi-  nuzione (si ha la pelle più o meno bianca, il naso più o meno  curvo, ecc.).   Fra le differenze inseparabili per se talune servono a divi-  dere i generi in specie, tali altre, invece, a specificare i generi  già divisi. Differenze inseparabili per se sono « animato » e  < inanimato » , « sensibile » e « insensibile » , « ragionevole » e  «irragionevole», «mortale» e «immortale». Di queste dif-  ferenze, « animato » e « sensibile » sono differenze costitutive  della sostanza « animale » ; « mortale » e « ragionevole » sono,  invece, divisive della sostanza < animale » in quanto per esse  si giunge dal concetto del genere « animale » al concetto della  specie « uomo » .   Senonchè quelle differenze che son divisive pei generi, sono  costitutive per le specie: difatti, nelPesempio ora addotto, le  differenze « ragionevole » e « mortale » , introducendo una di-  visione nel genere «animale», costituiscono proprio cosi la  specie «uomo». Divisive e costitutive poi sono tutte le dif-  ferenze specifiche, utilissime per le divisioni dei generi e le  definizioni delle specie, mentre a ciò non giovano nè le dif-  ferenze inseparabili per accidens, nè, molto meno, le separa-  bili (sarebbe ridicolo dividere gli uomini secondo che abbiano il  naso aquilino o camuso — differenze inseparabili per accidens  — 0, peggio ancora, secondo che stiano in piedi o a sedere).   La differenza viene anche determinata come quella che la  specie ha in più del genere. L’uomo, ad esempio, ha in più  delhanimale Tessere ragionevole e mortale, qualità che il con-  cetto di «animale» non include. (Or si domanda: se il genere  non ha in sè le differenze che caratterizzano le varie specie,  queste donde le traggono? — Giacché le specie non derivano  che dai generi, e questi non posseggono le differenze, nè pos-  sono possederle, chè, se le possedessero, potrebbero riunire in  sè differenze opposte tra loro, come sono quelle che contrad-  distinguono runa dalbaltra le varie specie. La soluzione di  questa difficoltà è che non è necessario ammettere nè che le  differenze specifiche nascano dal nulla, nè che il genere aduni  in sè differenze contraddittorie, perchè il genere ha in potenza  le differenze che da esso nascono, senza averle in atto.)   Altra definizione della differenza è: «ciò che si predica di  più cose differenti tra loro per specie, per indicarne la qua-  lità ». - Infatti, se uno ci domanda: « che cosa è Tuomo? », noi  rispondiamo indicando il genere a cui la specie umana appar-  tiene, e diciamo: « l’uomo è un animale » ; ma se uno ci domanda  la qualità delbuomo, rispondiamo indicando i suoi caratteri  differenziali, e diciamo: «L’uomo è ragionevole e mortale».   Porfirio paragona così il genere alla materia e la differenza  alla forma, e dice che come la figura rende statua il bronzo,  cosi la differenza rende specie il genere.   Altra determinazione della differenza è : « ciò che è atto a  dividere le cose che sono sotto il medesimo genere » . Difatti,  « ragionevole » e « irragionevole » sono differenze atte a dividere  l’uomo dal cavallo, entrambi compresi nel genere animale.   Altra definizione: « differenza è quella per la quale differiscono  fra loro le varie cose», giacché per il genere non differiscono.  Per esempio: siamo animali mortali noi e gli irragionevoli: la  differenza « ragionevoli » vale a separarci da essi. E ancora:  siamo ragionevoli noi e gli Dei : la differenza « mortali » ci  separa da essi.   Definizione più profonda è la seguente: « Differenza non è  una qualsiasi di quelle determinazioni che valgono a dividere  le cose che sono sotto il medesimo genere ; ma quella determi-  nazione che riguarda l’essere ed è parte dell’essere d’una cosa. »   Per esempio: poter navigare, è particolarità esclusivamente  umana, e tuttavia non è differenza che costituisca la sostanza  delPuomo. Differenze specifiche sono quelle che fanno altra la  specie e sono accolte nel concetto di essa indicandone la qualità.   17. — Ci sono quattro sorte di qualità:   1) - Proprietà che convengono ad una sola specie, sebbene  non intera, come per Tuomo essere medico o geometra. (Solo  gli uomini sono medici e geometri; ma non tutti gli uomini  sono tali).   2) Proprietà che convengono a tutta una specie, sebbene  non solo ad essa, come per Tuomo essere bipede (sono bipedi  anche gli uccelli).   3) Proprietà che convengono ad una sola specie in tutta  la sua estensione, ma solo in un determinato tempo, come per  Puomo imbiancare nella sua vecchiezza.   4) Proprietà che convengono ad una sola specie in tutta  la sua estensione e sempre, come per Tuomo poter ridere. (Non  importa che non rida sempre: importa che abbia natura di poter  ridere).   Sono queste ultime le vere proprietà giacché possono con-  vertirsi con ciò di cui sono proprietà. (Chi è cavallo, può nitrire ;  chi può nitrire è cavallo).   18. — Accidente è quello che può essere presente o assente  senza che il soggetto si corrompa.   Ci sono intanto accidenti separabili e accidenti insepara-  bili. Separabile è dormire; inseparabile il color nero. E tuttavia,  per quanto inseparabile, rimane accidente perchè, sebbene corvi  e Etiopi siano neri, si può sempre pensare un corvo e un Etiope  bianchi.   L'accidente è definito anche « ciò che può contingentemente  esserci e non esserci * ; oppure « ciò che senza essere nè genere  nè specie nè differenza nè proprietà, tuttavia sussiste in un  oggetto » .   19. — Determinate ormai tutte e cinque le distinzioni logiche,  bisogna paragonarle tra loro per vedere cosa hanno di comune  e cosa hanno di diverso.   Di comune hanno il potersi predicare di più cose ; ma il  genere si predica delle specie e degli individui ( « animale » si  predica dei cavalli e dei buoi, e di questo cavallo e di questo  bue); la differenza similmente delle specie e degli individui  ( « irragionevole > si predica dei cavalli e dei buoi, e di questo  cavallo e di questo bue); la specie degli individui che sono sotto  di essa ( « uomini » si predica solo degli individui umani) ; la  proprietà tanto della specie di cui è propria, quanto degli indi-  vidui di tale specie ( « poter ridere » si predica tanto deiruomo  quanto dei singoli uomini); l’accidente cosi della specie come  degli individui (« nero » si predica cosi della specie dei corvi  come dei corvi particolari, ed è accidente inseparabile; « muo-  versi » si predica deH’uomo e del cavallo, ed è accidente sepa-  rabile), ma anzitutto si predica degli individui, e in secondo  luogo delle specie che contengono gli individui.   Ma conviene ora paragonare a due a due le cinque distin-  zioni logiche.    20. — Comparazione del genere con le altre quattro roci.  a) Genere e differenza   Cosa hanno di comune:   1) — Il genere e la differenza entrambi contengono specie.  Bensì la differenza non contiene tante specie quante ne contiene  il genere.   Esempio: la differenza «ragionevole» contiene due specie:  uomo e Dio ; mentre il genere « animale * contiene e le due  anzidetto e tutte le altre specie animali.      2) — Quel che si predica del genere come genere, si  predica anche delle specie comprese in tale genere : e quel che  si predica della differenza come differenza, si predica anche  delle specie comprese in tale differenza.   Esempi: del genere « animale » si predica Tesser sostanza  e Tessere animato: che si predicano anche delle specie del genere  « animale » e perfino degli individui di tali specie. Della diffe-  renza « ragionevole » si predica Tesser provvisto di ragione :  che si predica anche delle specie comprese sotto tal differenza  [uomo e Dio) e degli individui di tali specie (i singoli uomini  e gli Dei).   3) — Tolto il genere o la differenza, son tolte contempo-  raneamente le specie che sono sotto di essi.   Esempio : tolto il genere « animale > , è tolta anche la specie  « uomo » ; tolta la differenza « ragionevole », non ci sarà più  nessun animale provvisto di ragione.   Cosa hanno di diverso:   1) — E’ proprio del genere predicarsi di più cose che non  la differenza, la specie, la proprietà e l’accidente.   Esempio: il genere «animale» si predica egualmente del-  l’uomo, del cavallo, dell’uccello e del serpente, mentre la diffe-  renza « quadrupede » si predica solo degli animali di quattro  piedi, la « specie > uomo solo degli individui umani, mentre la  proprietà del « nitrire » solo della specie cavallo e dei cavalli  particolari, e l’accidente « star in piedi » ancora di più poche cose.   2) — Il genere contiene la differenza in potenza.   Esempio : il genere « animale » si divide in specie animali   « ragionevoli » e specie « irragionevoli » , « ragionevole » e « ir-  ragionevole » essendo le differenze che dividono il genere « ani-  male » in specie diverse.   3) — I generi sono anteriori alle differenze poste sotto di  essi: tolti i generi, son tolte contemporaneamente anche le diffe-  renze, ma non viceversa.    Esempio: tolto il genere « animale », son tolte tutte le diffe-  renze (« ragionevole » e « irragionevole »); mentre, tolte tutte le  differenze, si può ancora pensare la sostnza animata sensibile,  cioè Tanimale.   4) — Il genere riguarda Tessenza (o quiddità) d’unacosa:  la differenza la sua qualità.   Esempio: Cos’è l’uomo? - un animale. Com’è l’uomo? - ragio-  nevole.   5) Ogni specie ha un sol genere, ma moltissime diffe-  renze.   Esempio : il genere dell’uomo è « animale » ; le differenze  sono: ragionevole, mortale, suscettibile di intendere e d’impa-  rare.   6) — Il genere è come la materia, la differenza è come  la forma.   Giacché è la differenza che determina il genere, come la  forma determina la materia.   b) Genere e specie   Cosa hanno di comune:   1) — Tanto il genere quanto la specie si predicano di più   cose.   2) — Entrambi sono anteriori a quelle cose delle quali si  predicano.   3) — Cosi il genere come la specie costituiscono ciascuno  un tutto.   Cosa hanno di diverso:   1) — Il genere contiene la specie sotto di sè, le specie sono  contenute, non contengono i generi.   Giacché sono i generi che, determinati da differenze spe-  cifiche, producono le specie: onde sono naturalmente ad esse  anteriori, e, tolti, tolgono anche le specie, ma non viceversa,  chè, posta la specie, è posto anche il genere, ma posto il ge-  nere, non è posta con ciò stesso la specie.       2) — 1 generi si predicano univocamente delle specie: non  cosi le specie dei generi.   3) — I generi sono superiori per le specie che comprendono  sotto di sè, le specie per le differenze che le determinano.   I generi possono anche essere contemporaneamente specie,  ma non specie specialissime ; e le specie possono essere contem-  poraneamente generi, ma non generi generalissimi.   c) Genere e proprietà   Cosa hanno di comune:   1) — Tanto il genere quanto le proprietà seguono le specie.   Esempio: Se uno è uomo quanto alla sua specie, è ani-  male quanto al genere; e se di specie è uomo, ha la pro-  prietà di poter ridere.   2) — Egualmente si predicano il genere della specie e la  proprietà di quelli che ne partecipano.   Esempio: — L’uomo e il bue sono animali allo stesso titolo;  e cosi Catone e Cicerone hanno egualmente la proprietà di  poter ridere.   3) — Si predicano univocamente il genere delle sue specie  e la proprietà di quelle cose di cui è propria.   Cosa hanno di diverso:   1) — Il genere è anteriore; la proprietà posteriore.   Esempio: — Bisogna che ci sia il genere ahimale, poi sia  diviso dalle differenze e dalle proprietà.   1) — Il genere si predica di più specie, la proprietà di  una sola specie, di cui è propria.   3) — La proprietà si predica di ciò di cui è propria, cosi  come ciò di cui è propria si predica di essa : mentre il genere  non si converte con nessun suo predicato.   Esempio: La proposizione « L’uomo è l’animale che ride »  si converte: esanimale che ride è l’uomo*. Ma la proposi-  zione « l’uomo è animale * non si potrà mai convertire: c l’ani-  male è l’uomo * .        4) — La proprietà è in tutta la specie di cui è propria,  in essa sola, e sempre: mentre il genere è in tutta la specie  di cui è genere, e sempre, ma non in essa sola.   Esempio: la proprietà di ridere è di tutti gli uomini, solo  degli uomini, e sempre rimane in essi : il genere animale è in  tutta la specie umana, è costante in essa, ma si trova anche  in molte altre specie oltreché neirumana.   5) — Poiché la proprietà e ciò di cui é proprietà si con-  vertono, tolta la proprietà é tolto ciò di cui é proprietà, tolto  ciò di cui é proprietà é tolta la proprietà.   Esempio: tolta la proprietà del ridere é tolto l’uomo: tolto  Tuomo é tolta la proprietà del ridere.   Al contrario, tolte le specie non sono tolti i generi.   Esempio : tolta la specie umana non é tolto il genere ani-  male.    d) Genere e accidente   Cosa hanno di comune:   Si é già detto che ci sono accidenti separabili^ come il muo-  versi, e accidenti inseparabili come, ad esempio, il color nero:  ora, cosi gli accidenti separabili come gli inseparabili hanno  di comune col genere il potersi predicare di più cose.   (Neri sono i corvi, ma anche gli Etiopi e talune cose ina-  nimate).   Cosa hanno di diverso :   1) — Il genere é avanti le specie, mentre gli accidenti  sono posteriori ad esse, anche se si tratti di accidenti inse-  parabili, giacché prima è ciò a cui accade, poi é Taccidente.   2) — Del genere tutte le specie che partecipano, parte-  cipano egualmente; mentre degli accidenti si partecipa più  o meno.   3) — Dii accidenti sussistono principalmente negli individui,  mentre generi e specie sono, di natura, anteriori alle sostanze  individuali.     4) — Il genere dice quel che è una cosa. L’accidente quale  è e come è.   Esempio: - Come è l’Etiope? Nero.   21. — Comparazione della differenza con le altre quattro   voci.   a) - Differenza e genere   Furono già comparati quando si esaminarono insieme genere  e differenza.   b) - Differenza e specie   Cosa hanno di comune:   1) — Della differenza e della specie si partecipa egual-  mente.   Esempio: Gli uomini singoli partecipano egualmente della  specie « uomo » e della differenza < ragionevole » .   2) — La differenza e la specie sono sempre presenti in  ciò che di esse partecipa.   Esempio: Socrate è sempre ragionevole e sempre uomo.   Cosa hanno di diverso:   1) — La differenza dice sempre la qualità delle cose, la  specie la loro essenza o quiddità.   Esempio: - « Uomo » non è qualità, se non per le differenze  che, determinando il genere ♦ animale », costituiscono la specie  « uomo » .   2) — La differenza è in più specie.   Esempio : - la differenza « quadrupede » è in vari animali  di specie differente.   La specie è solo negli individui che sono sotto di essa.   3) — La differenza è altra cosa dalla specie a cui dà  luogo.   Difatti, se si toglie la differenza « ragionevole » , si toglie la  specie « uomo » : ma se si toglie la specie « uomo », non si toglie  la differenza « ragionevole » , perchè vi è Dio.    4) — Una differenza si combina con un’altra (« ragionevole »  e «mortale» compongono la sostanza deiruomo); mentre una  specie non si combina con un’altra per produrne una terza.  (Un cavallo e un’asina generano un mulo; ma non la specie  < cavallo » con la specie « asino * generano la specie « mulo *).   c) - Differenza e proprietà.   Cosa hanno di comune:   1) — Della differenza e della proprietà le cose partecipano  egualmente.   Esempio: gli esseri ragionevoli partecipano della diffe-*  renza « ragionevolezza » , quanto gli esseri che possono ridere  partecipano della proprietà di poter ridere.   2) — Differenze e proprietà sono sempre presenti nelle  cose che le hanno.   Si potrebbe obiettare: se un bipede perde una gamba, non  ha più la sua differenza di essere bipede. Ma l’obiezione non é  giusta: l’amputazione non toglie la natura di bipede al monco.  Del resto, anche la proprietà di poter ridere riguarda la natura'  umana, senza che gli uomini ridano sempre.   Cosa hanno di diverso:   1) — La differenza si predica di più specie (ragionevole si  dice dell’uomo e di Dio), la proprietà si predica di quella sola  specie di cui è propria.   2) — La proprietà e ciò di cui è proprietà si convertono.   (La proposizione « l’uomo è l’animale che ride » ammette la   reciproca: «l’animale che ride è l’uomo).   Mentre la differenza segue quella cosa di cui è differenza,  e non si converte con essa.   (Posto l’uomo, è posta la ragionevolezza; ma, posta la ragio-  nevolezza, non è posto l'uomo, perchè ragionevole è anche Dio).      d) - Differenza e accidente   Cosa hanno di comune:   1) — Differenza ed accidente entrambi si predicano di  più cose.   Esempio: Tanto la differenza della «ragionevolezza» quanto  l’accidente del « muoversi > si applicano a molte cose diverse.   2) — Tanto la differenza quanto gli accidenti insepa-  rabili sono presenti sempre e in tutte le cose di cui si predicano.   Esempio: Tanto la differenza < bipede » quanto l’accidente  inseparabile « nero > riguardano tutti i corvi e li riguardano  sem'pre.   Cosa hanno di diverso :   1) — La differenza contiene, non è contenuta.   (La ragionevolezza contiene l’uomo perchè non è solo di lui).  Gli accidenti, invece, per un verso, contengono perchè sono in  più cose) il muoversi è più esteso dell’uomo) ; per un altro sono  contenuti, perchè il soggetto aduna in sè parecchi accidenti  (l’uomo, oltre al « muoversi », è anche « bianco », < alto », ecc.)   2) — La differenza non ha aumento e diminuzione, gli  accidenti sì.   (0 si è ragionevoli, o no; ma si è più o meno alti).   3) — Le differenze contrarie non possono mescolarsi,  bensì si mescolano gli accidenti contrari.   ( < Bipede » e « quadrupede » si escludono ; ma « bianco >  e . « nero » si mescolano a produrre il < grigio » ).   22. — Comparazione della specie con le altre quattro voci.   a) Specie e genere   Furono già comparati quando si esaminarono insieme Genere  e specie.   b) Specie e differenza   Furono già comparati quando si esaminarono insieme Diffe-^  renza e specie.     c) Specie e proprietà   Cosa hanno di comune:   Specie e proprietà si predicano Tuna deiraltra (se è uomo,  ha la proprietà di ridere ; se ha la proprietà di ridere, è uomo) ;  giacché le cose partecipano egualmente delle specie a cui  appartengono e delle proprietà che le caratterizzano.   Cosa hanno di diverso:   1) — La specie può essere genere ad altre specie ; la  proprietà non può essere di altre specie oltre quella di cui è  propria.   2) — La specie sussiste prima della proprietà, poi la  proprietà ha luogo nella specie.   Esempio: bisogna essere uomo per avere la proprietà di  ridere.   3) — La specie è sempre presente in atto, nel soggetto;  la proprietà, a volte, vi è presente solo in potenza.   Esempio: Socrate è sempre uomo in atto, ma non sempre  ride sebbene abbia natura di poter ridere.   4) — La specie sempre è sotto il genere e si predica di  più cose, differenti tra loro numericamente, indicandone l’es-  senza 0 quiddità; mentre la proprietà è solo in ciò di cui è  propria, e in esso è sempre, e inerisce a tutta la sua estensione.   Esempio: la proprietà del ridere è di tutti gli uomini, solo  negli uomini e sempre negli uomini.   d) Specie e accidente   Cosa hanno di comune:   Si predicano di più cose.   Cosa hanno di diverso:   1) — La specie dice il « che > di una cosa, l’accidente  il « quale > e il « come » .   2) — Ogni sostanza può partecipare di una sola specie,  ma di più accidenti separabili ed inseparabili.   3) — La specie si concepisce prima degli accidenti, anche   se inseparabili (chè bisogna ci sia il soggetto, perchè qualcosa  gli accada); gli accidenti invece sono posteriori e avventizi.   4) — Della specie si partecipa sempre in egual misura,  ma deiraccidente, anche inseparabile, in misure diverse.   Esempio: un Etiope è più nero di un altro.   23. — Com/parazione della proprietà con le altre quattro   voci.   a) — Proprietà e genere   Furono già comparate quando si esaminarono insieme Genere  e proprietà.   b) — Proprietà e differenza   Furono già comparate quando si esaminarono insieme Diffe-  renza e proprietà.   c) — Proprietà e specie   Furono già comparate quando si esaminarono insieme Specie  e proprietà.   d) — Proprietà e accidente   Cosa hanno di comune:   1) — Tanto la proprietà quanto Taccidente inseparabile  sono indispensabili a ciò in cui si osservano.   Esempio: Come senza la proprietà del ridere non esiste  uomo, cosi senza color nero non esiste Etiope.   2) — Tanto la proprietà quanto Taccidente inseparabile  sono sempre presenti a ciò che li possiede, e in tutta la loro  estensione.   Esempio: Tutti gli Etiopi sono neri, e sempre.   Cosa hanno di diverso :   1) — La proprietà è presente in una sola specie. Tacci-  dente inseparabile in molte.   Esempio: La proprietà del ridere è solo delTuomo; Tacci-    l’isagoge di PORFIRIO E I COMMENTI DI BOEZIO    43    dente inseparabile del color nero è deirEtiope, ma anche del  corvo, del carbone, deirebano, ecc.   2) — Sicché la proprietà si converte con ciò di cui è  proprietà, non cosi Taccidente con ciò di cui è accidente.   Esempio : c L'uomo ha la proprietà di ridere > si converte  in « Chi ride è l'uomo » ; ma « l'Etiope è nero » non si converte  in: «Chi è nero è l'Etiope», perchè anche il corvo, il carbone,  ecc. sono neri.   3) — Della proprietà si partecipa sempre egualmente, degli  accidenti in diversa misura.   Si è più 0 meno neri.    24. — Comparazione delV accidente con le altre quattro   voci.   a) — Accidente e genere   Furono già comparati quando si esaminarono insieme Genere  e accidente.   b) — Accidente e differenza   Furono già comparati quando si esaminarono Diffe-   renza e accidente.   c) — Accidente e specie   Furono già comparati quando si esaminarono insieme Specie  e accidente.   d) — Accidente e proprietà   Or ora esaminati come Proprietà ed accidente.   L'Isagoge si chiude con Tosservazione che altri elementi  comuni o diversi tra le cinque voci oltre i già notati ci sono,  ma quelli notati bastano a distinguerli e ad intendere quel che  hanno di comune.   Tanto del primo quanto del secondo commento boe-  ziano abbiamo già esposto ciò che riguarda il celebre prologo  sulla realtà o meno degli universali.   Ci tocca ora dire qualche cosa sul complesso dei due com-  menti, che tanta autorità ebbero in tutto il Medio Evo, e tanto  contribuirono a dare alla mentalità delle nazioni di cultura  latina quella struttura rigorosamente logica che è rimasta loro  caratteristica.   Lo scopo da Boezio assegnato al primo commento è assai  semplice, giacché non va oltre la illustrazione del testo. Boezio  evita di accendere questioni, anche se il testo vi si presti. Solo  quando le obiezioni vengono cosi spontanee che non risolverle  vorrebbe dire non comprendere quel che dice Porfirio, solo  allora Boezio interviene per chiarire il pensiero delPautore, giu-  stificare le sue espressioni, e quindi, sgombrate le difficoltà,  tornare alla illustrazione del testo.   Dove Porfirio propone più classificazioni, Boezio cerca di  connetterle tra loro, in maniera da renderle più facilmente assi-  milabili al lettore. E dove Porfirio accenna appena a teorie  assai note fra gli studiosi, ma forse poco possedute dai princi-  pianti, Boezio interviene a rammentare tali teorie, e a trattarle,  sebbene compendiosamente, in modo da fornire al lettore princi-  cipiante, al quale il primo commento è diretto, le nozioni neces-  sarie per intendere il testo di Porfirio.   Così Boezio torna due volte sulla teoria della definizione, la  quale, facendosi per genus et differentianij è possibile solo per  gli individui (definiti entro la loro specie), per le specie (definite entro il loro genere!, e per i genej-i subalterni (definiti  entro il genere immediatamente superiore, fino ai generi gene-  ralissimi), ma non per i generi generalissimi, i quali, non avendo  nessun concetto più elevato sopra di sé, non possono essere  definiti, cioè determinati entro Pambito di un concetto più vasto.  Onde, non potendosi definire, possono solo descriversi, con Pin-  dicarne le proprietà. Un accenno, abbastanza ampio, è fatto da Boezio, come già  da Porfirio, alla teoria platonica della divisione, che da ciascun  genere generalissimo, mediante dicotomia, cioè divisione in due,  giunge fino alle specie specialissime.   Abbiamo già detto che Boezio cerca di rendere più evidente  il nesso che stringe talune classificazioni che Porfirio presenta  runa dopo l’altra, senza unificarle in un solo quadro comprensivo.  Questo avviene specialmente per le classificazioni che riguar-  dano le differenze.   Si rammenterà che Porfirio anzitutto classifica le differenze  in differenze comuni, proprie e più proprie o rigorose; comuni,  tutte le differenze per le quali siamo diversi da altri o da noi  stessi (tu cammini, io seggo, oppure: ora io seggo, dopo cammino);  'proprie le differenze individuali (capelli crespi, occhio cieco,  ecc.); rigorose^ le differenze che riguardano tutta la specie (ra-  gionevole, irragionevole, ecc.). Le quali ultime differenze sono  le differenze specifiche, con le quali si procede a dividere i  generi in specie. Ma questa prima classificazione può semplifi-  carsi quando si avverta che tanto le differenze comuni quanto  le proprie si limitano a rendere alterato il soggetto, mentre  solo le differenze specifiche lo rendono altro.   Si può dire dunque che le differenze si dividono in differenze  che rendono alterato il soggetto e differenze che lo rendono altro.   A questa prima classificazione Porfirio fa seguire la seconda;  le differenze sono o separabili o inseparabili. Questa seconda  classificazione si può collegare con la prima osservando che  solo le differenze comuni sono separabili (il sedere, il correre,  ecc. sono diff'erenze che non persistono, e sono quindi separabili  dal loro soggetto), mentre le differenze proprie e più proprie,  cioè quelle che riguardano l’individuo persistendo in lui e quelle  che riguardano l’intera specie, sono inseparabili (tanto un occhio  cieco quanto la ragionevolezza sono caratteri differenziali perma-  nenti, e quindi inseparabili dal soggetto che li possiede). Senon-  chè, di queste differenze inseparabili, le individuali o proprie alterano il soggetto, ma non lo rendono altro (la cecità altera  un uomo, ma lo lascia uomo), mentre le specifiche o più proprie  rendono altro il soggetto (la ragionevolezza rende Tuomo altro  dai bruti).   E inoltre, delle differenze inseparabili, le individuali sono  partecipate in misura diseguale, le specifiche sempre egualmente.  Ad esempio, i capelli biondi son carattere differenziale di indi-  vidui che sono Tuno più biondo, Taltro meno biondo; mentre  la ragionevolezza è carattere differenziale della intera specie  umana, i cui individui, in quanto sono uomini, sono tutti egual-  mente partecipi della ragione.   Terza classificazione è quella per la quale le differenze si  dividono in differenze divisive del genere e differenze costitutive  delle specie. Son le medesime differenze che, prese in modo  diverso, risultano una volta divisive del genere, un'altra costi-  tutive delle specie. Se prendiamo le differenze contrarie « ragio-  nevole e irragionevole > , esse dividono il genere «animale»;  e se, dopo, prendiamo le differenze contrarie « mortale e immor-  tale », esse dividono l'inferiore genere « animale ragionevole ».  Ma se prendiamo le differenze subalterne < ragionevole » (con-  cetto più ampio) e « mortale » (concetto restrittivo), queste  differenze subalterne costituiscono la specie dell'animale ragio-  nevole mortale, cioè dell'uomo.   Cosi la teoria delle differenze si avvia nel primo commento  boeziano a quella matura unità che raggiungerà pienamente  nel secondo commento.   26. — Ma forse più di queste particolari delucidazioni, che  tuttavia contribuiscono alla elaborazione della salda logica  medievale, riesce interessante il breve schizzo che del sapere  del tempo Boezio premette al suo commento.   Nel dialogo filosofico che egli immagina si fa chiedere dal  giovane Fabio una illustrazione e prima una introduzione al-  l'Isagoge di Porfirio. L'introduzione indicherà delPIsagoge VintentOy Vutiliià\ se ci sia altro libro ad essa germano; la ragione  del titolo, ed a qual parte della filosofia si riconduca. Sei punti,  dunque, tratterà Boezio, sulle orme di quel che già aveva fatto  il greco Ammonio nel suo commento alllsagoge.   \Jintenio è trattare del genere, della specie, delle differenze,  delle proprietà e degli accidenti.   futilità deirisagoge è anzitutto quella d’introdurre alle  Categorie di Aristotele, ma è anche più vasta.   Occorre, però, per intenderla, avere un chiaro concetto di  che sia la filosofia. Essa è amor di sapienza, che, non bisognosa  di nulla, « vivax mens et sola rerum primaeva ratio est >. E  questo amore di sapienza è illuminazione dello spirito che conosce  da parte di quella pura Sapienza, e in qualche modo è un richiamo  che questa fa deU’animo umano perchè torni ad essa, di maniera  che il desiderio di sapienza è desiderio e amore della divinità  e amore della pura mente divina.   È questa sapienza che riconduce alla forza e purezza natu-  rale le anime umane. Da essa nasce la verità delle specula-  zioni e dei pensieri e la santa e pura castità delle azioni. Il  che mena direttamente alla divisione della filosofia, che è il ge-  nere, in teoretica o speculativa, e pratica^ o attiva. (0 e II sono le  due lettere che spiccano su la veste della Filosofia nel Be Conso-  latione Philosophice). La teoretica, poi, ha tante parti quanti sono  gli oggetti che considera: si divide quindi in:   1) — Teologia o dottrina di ciò che è sempre uno e me-  desimo, fermo sempre nella sua divinità, non accessibile ai  sensi, ma solo alla mente ed all’intelletto: la quale specula-  zione studia Dio e la incorporeità dello spirito;   2) — Dottrina che si occupa di tutte le opere celesti del-  la suprema divinità, di ciò che nel mondo sublunare ha animo  più beato e sostanza più pura, ed infine delle anime umane:  tutte cose che, fatte di sostanza intelligibile, al contatto dei  corpi, da intelligibili divennero soltanto intelligenti, in maniera  che possono ora divenire più beate per purezza ed intelligenza  quando si volgano ed applichino alle cose intelligibili ;   3) — Dottrina dei corpi, o Fisica, che illustra la natura  e le passioni dei corpi.   Di queste tre parti della filosofia teoretica la seconda è meri-  tamente collocata nel mezzo perchè ha da una parte Tani-  mazione e vivificazione dei corpi, dalFaltra la considerazione  e conoscenza delle cose intelligibili.   27. — Anche la filosofia pratica si divide in tre parti:   1) — VEtica^ che s’orna ed accresce di virtù, nulla am-  mettendo nella vita di cui non possa essere soddisfatta, e niente  facendo di cui debba pentirsi;   2) — la Politica, che assumendosi la cura dello Stato prov-  vede alla salvezza di tutti con la saldezza della sua 'preveg-  genza e prudenza, con Tequilibrio della giustizia, con la sal-  dezza della fortezza e la pazienza della temperanza;   3) — V Economia, che si occupa del buon andamento della  vita famigliare.   Alle quali parti già descritte della filosofia si aggiunge da  vicino queirarte che i Greci chiamano Logica: parte della filo-  sofia 0 suo strumento?   Boezio rimette la trattazione di questa questione ad una  altra opera, che è poi il secondo commento. Intanto osserva  che questa disputa sul genere, la specie, la differenza, la pro-  prietà e l’accidente prepara la via a tutto lo studio della filo-  sofia. Col dire cosa sia genere e cosa sia specie ci fa inten-  dere che la filosofia è genere, e teoretica e pratica sono specie.  Col dire cosa sia differenza, ci rende possibile di intendere se  la logica sia una specie della filosofia, differente, quindi,  dalle altre specie. Col dire cosa sia proprietà, ci spiega la na-  tura propria di ciascuna differenza della filosofia. Col dire cosa  sia accidente ci guarda dal mettere tra le cose principali ciò  che è secondario. Cosi la conoscenza di queste cinque voci  spande i suoi rami in tutte le parti della filosofia.   Utile alla grammatica a cui insegna che il discorso è il ge-  nere e otto sono le sue parti o specie; utile alla retorica, a  cui permette di distinguere tre generi di causa, ciascuno diviso  in specie a seconda dei soggetti: utilissima alla logica, che  nulla potrebbe definire (per genere e differenza) se non sapesse  cos'è genere, cos’è specie, cos’è differenza, ecc. ; nulla potrebbe  dividere se non fosse guidata dalla conoscenza delle cose che  divide (i generi e le specie); e nulla potrebbe dimostrare giacché  la verità delle dimostrazioni sta nei provare ciò che si divide  o qualcos’altro mediante le cose che si son divise.   E l’Isagoge di Porfirio precede tutta la logica aristotelica,  perchè senza di essa non si intenderebbero la sostanza e i nove  accidenti di cui è parola nelle Categorie. Le quali voci signi-  ficative sono quelle di cui si compongono le proposizioni, di  cui si tratta nel « De interpretatione » . Le quali proposizioni  sono quelle di cui si compone il sillogismo, il cui ordine, la  cui struttura e le cui figure sono studiati negli « Analitici  Primi », perchè sia poi possibile studiare il sillogismo dialet-  tico nella « Topica * e il sillogismo dimostrativo negli « Ana-  litici Secondi » .   Cosi l’Isagoge di Porfirio è la base prima di tutta la logica  aristotelica.   28. — Come nel corso del primo commento non sono rare  le occasioni in cui Boezio è costretto a notare le imperfezioni  e le oscurità della versione di Mario Vittorino, cosi nel seconc^o  commento Boezio presenta una traduzione propria, che indubbia-  mente è assai più scorrevole e chiara dell’altra. La versione  è intercalata nella esposizione, che procede meno pedestr e che  nel primo commento, e che, specialmente nei primi fr a i cinque  libri, mostra un vigoroso proposito di rendere più robusta, più  rigorosa ed organica la trattazione porfiriana. Il secondo commento si inizia con alcuni paragrafi dedicati  alla filosofia in generale, alle sue parti, alle sue utilità, ecc.   Se la filosofia - dice Boezio - è il più alto bene degli animi,  converrà precisamente muovere dalle facoltà delFanima. Una  forza deH’anima è quella vegetativa, comune anche alle piante,  che non hanno sensi; un’altra è la sensitiva, che dove sorge  assume la prima come sua parte; una terza è la intellettiva,  che non si limita a sentire e a rammentare, ma anche esplica  e conferma, con pieno atto di intelligenza, quel che Timmagi-  nazione sopperisce. La qual potenza della ragione si esercita  a indagare, anzitutto, se una cosa sia, poi che sia, poi quale sia,  infine perchè sia.   Ma, perchè il pensiero sia preservato dal pericolo di cadere  nel falso, occorre anzitutto una disciplina che, studiando le  maniere di disputare e gli stessi ragionamenti, possa additare  qual ragionamento risulti ora falso, ora vero, quale sempre falso  quale non mai falso. Della quale scienza - la logica - è duplice  l’uso nell’inventare e nel giudicare: topica e dialettica, trattate  entrambe da Aristotele, ma la prima trascurata dagli Stoici.   Ora, questa logica è una parte della filosofia o è solo il  suo strumento? - Quelli che la considerano parte della filosofia  ragionano così: delle proposizioni, dei sillogismi, ecc. solo la  filosofia si occupa. Dunqne sono oggetto di filosofia. Ma, delle  due grandi parti della filosofia, la speculativa che si occupa  delle cose naturali, e l’attiva che si occupa della morale, nessuna  tratta del discorso, dei giudizi, dei ragionamenti: dunque quella  disciplina filosofica che d’essi si occupa non può non essere  considerata una nuova parte della filosofia; donde la triparti-  zione di questa in: logica, fisica, etica. Coloro i quali invece so-  stengono che la logica sia strumento della filosofia, non sua parte,  osservano che questa scienza della ragione è diretta o a conoscere  le cose (fisica) o a trovare quei principi di morale che producono  la beatitudine. Dunque, essi, dicono la logica serve sempre o  alla fisica o all’etica. Boezio è del parere che le due teorie non si escludano a vicenda: niente vieta che la logica sia ad un  tempo parte e strumento della filosofia; parte in quanto ha  innegabilmente un fine proprio, distinto dalla fisica e daH’etica;  strumento in quanto, altrettanto innegabilmente, essa serve così  all’una come aH’altra. Del resto, nel nostro corpo, ciascun  organo è al tempo stesso parte e strumento : la mano rispetto  all’organismo intero è strumento; per sè, intanto, è parte.   29. — Ma veniamo allo scopo di questa introduzione porfi-  riana alle Categorie di Aristotele. Queste sono i dieci generi di  predicamenti: può intenderli dunque chi sappia che sia il genere.  Di ciascuno di essi si dànno varie specie (varie specie di so-  stanza, di qualità, ecc.): ed anche ciò presuppone si sappia che  sia specie, e che sia la differenza per la quale ciascuna specie  si allontana dall’altra e l’un genere dall’altro. Inoltre, ogni  genere ha le sue proprietà, mediante le quali può essere descritto.  E dei dieci predicamenti, nove sono accidenti. Donde la neces-  sità di saper bene che sia proprietà e che sia accidente per  intendere le Categorie aristoteliche.   Ma Porfirio spesso indica l’utilità della sua introduzione per  le definizioni, le divisioni e le dimostrazioni, oltreché, come già  si è visto, per l’intendimento delle Categorie aristoteliche. Per  le definizioni, perchè bisogna ben distinguere il genere prossimo  e la differenza specifica per fare una giusta definizione; per  la divisione in tutte le varie sue specie, giacché vanno distinte  divisioni dei concetti presi in sè stessi e divisioni accidentali.  Le divisioni dei concetti presi per sè stessi sono di tre ordini :   1 ) — divisione del genere nelle sue specie ;   2) — distinzione dei vari significati di una parola;   3) — partizione d’un tutto nelle sue varie parti. '   Le divisioni accidentali sono anche di tre ordini:   1) — divisione di un accidente secondo i soggetti che lo  ricettano ( c dei beni, alcuni sono nell’anima, altri nel corpo » )     2) — divisione di un soggetto secondo gli accidenti (« dei  corpi, taluni sono (bianchi, altri sono neri » ) ;   3) — divisione di un accidente secondo altri accidenti  ( « delle cose bianche, alcune sono dure, altre liquide, altre  molli >).   Per tutte queste divisioni occorre sapere che sia genere e  che sia differenza, quando luna parola abbia un significato solo  (univoca) e quando più significati (equivoca), e che sia una  parte e che una specie; occorre inoltre ben distinguere sostanze  ed accidenti.   Infine, Tintroduzione porfiriana è utile per le dimostrazioni,  giacché queste si fanno o da cose già note, o da cose conve-  nienti, 0 dalle prime cose, o dalla causa, o dalle cose connesse,   0 dalle cose inerenti. In ciascuno di questi casi bisogna sapere  che sia genere e che sia differenza, e che sia specie, giacché sono   1 generi quelli che sono anteriori per natura alle specie, e  quindi di esse più noti, e sono i generi e le differenze le cause  delle specie.   30. — Il secondo libro .tratta del genere con un manifesto  desiderio di porre più rigore nella trattazione .porfiriana, magari  rifacendosi da teorie più vaste, che sembrano essere presup-  poste da ciò che dice Porfirio. (Cosi, per esempio, per illustrare  i significati, che Porfirio espone, della parola genere, che si  riferisce a volte al progenitore da cui una gente deriva, a volte  al luogo da cui una gente proviene, Boezio richiama la celebre  dottrina aristotelica delle quattro cause, efficiente, materiale,  formale e finale, alle quali aggiunge due principi accidentali,  il luogo e il tempo. Quando si parla del genere dei Romani,  cioè dei discendenti da Romolo, si indica in costui la causa  efficiente della stirpe; quando invece si dice: «Pindaro Tebano»,  si indica in Tebe il luogo da cui Pindaro i proviene).   Boezio insiste ancora sulla differenza tra descrizione e defini-  zione: 'il genere non può essere definito, chè, per essere defi-    l’isagoge di PORFIRIO E I COMMENTI DI BOEZIO    53    nito, dovrebbe avere un altro genere sopra di sè, e, quando  avesse un genere sopra di sè, sarebbe specie, non genere; sicché,  non potendo essere definito, il genere è descritto, cioè ne ven-  gono indicate le proprietà, che sono come i colori con i quali  si dipinge un quadro. L’intera teoria del genere, della differenza,  della specie, della proprietà e dell’accidente, è chiusa come in  un prospetto nelle seguenti classificazioni boeziane.    Ciò che si Ciò che si predica   predica di di più cose   una cosa sola |       S   ’o   'in   O ®   og O   ce 05  S  ce p!   ce    <e   •1-^   ' Ph   o   u   Ph    o   <v   Ph   m   'P —    ce ^    03   S   O -M   ■Tj ■  p P  ce P ■  cr  ^ cS   a ^      p   p   p   iJ}    OJ   co   a?   a;   pO   o   a   O)   G   *S   (p   o   S   *02   OO   ce    03   .3^ P  •'P P -  p cr    .2   P *o   p   ■| £• '   — xs ce   G 'P    ce P  np P  P P    U sé   ce N   .2 G   ’B ®   p 02  P m  — I a;    'p    03   rQ   O .P O   ■TP O  O (D   VP ce  ^ P. P  P    ce p    sostanzialmente accidentalmente    l’isagoge di PORFIRIO E I COMMENTI DI BOEZIO    55    Boezio prosegue, poi, illustrando via via i passi poifìriani  che traduce e riporta: e le sue sono delucidazioni speciali, del  resto assai utili. (Per esempio : in che senso si dice che gli  uomini differiscono tra loro numericamente? - Nel senso che  si dice: « Socrate è un uomo, Platone è un altro uomo »).   31 — Il terzo libro tratta delle specie (e non prima della  differenza nonostante che la differenza, contenendo in sè più  specie, sia ad essa anteriore, perchè la specie è specie del  genere, come il genere è genere della specie, epperò vanno  studiati in connessione Puno con l’altra).   Le illustrazioni, per solito, non aggiungono nulla di nuovo.  Interessante può essere Patteggiamento di osseqio ad Aristotele  su le questioni delle dieci Categorie ; atteggiamento che è di  Porfirio e non viene mutato da Boezio. Nè i dieci predicamenti  possono ridursi tutti dXVente, perchè ente ha significati diversi  secondo che s’applichi alla sostanza, alla qualità, alla quantità,  ecc. Vale a dire è un nome di più significati, e non un genere  d’un significato solo.   Del resto, come ogni predicamento cosi ogni predicamento  è un predicamento ; sicché se ente fosse gen^ e, i dieci predi-  camenti avrebbero due generi: ente e uno\ e ciò è assurdo,  perchè non si può appartenere a più di un genere.   32. — Il quarto libro tratta della differenza, ripetendo lo  sforzo, visibile già nel primo commento, di dare organicità ed  unità alla trattazione porfiriana dell’argomento col connettere  insieme le varie classificazioni, tutte svolte da una distinzione  fondamentale, tra differenze sostanziali e differenze accidentali,  e col condannare più risolutamente di Porfirio quelle defini-  zioni che « idem per idem definiunt » quando dicono che < dif-  ferenza è ciò per cui una cosa differisce da un’altra», e che  non precisano davvero cosa sia differenza quando la definiscono  «ciò per cui una cosa dista da un’altra», potendosi una cosa    allontanare da un'altra per qualità del tutto accidentali che  non costituiscono diiferenze in senso proprio.   Il medesimo quarto libro tratta anche della proprietà, ri-  spetto alla quale osserva che, se Tessere di una cosa è espressa  dal suo genere, dalla sua differenza e dalla sua specie, le sue  proprietà non costituiscono la sua sostanza, ma qualcosa di ac-  cidentale, sebbene si chiamino proprietà, e che quando Porfirio  distingue proprietà di quattro sorte, non intende enumerare  quattro specie del genere proprietà, ma indicare i quattro si-  gnificati diversi nei quali si parla di proprietà.   Il quarto libro tratta infine delTaccidente, condannando, più  di Porfirio, la distinzione puramente negativa, per la quale « ac-  cidente è ciò che non è nè genere, nè differenza, nè speqie, nè  proprietà » .   33. — Il quinto libro illustra la comparazione che Porfirio  istituisce tra le cinque voci senza alcuna particolare osserva-  zione.   Notevole è tuttavia che Boezio non lascia passare la divi-  sione porfiriana delTanimale razionale in animale razionale  mortale (Tuomo) e animale razionale immortale (Dio) senza  notare che ciò si poteva dire quando si ritenevano il Sole e gli  altri corpi celesti animati e divini.   34. — Su questi testi si chinarono, per generazioni e generazioni, gli uomini del medioevo, come su libri di profondis-  sima sapienza. Se TEuropa uscì dal medioevo cosi fortemente  razionalistica, essa s'era fatta la sua potente quadratura logica  meditando su questi ultimi fra gli antichi, lungamente vene-  rati e studiati.  Grice: “I like Guzzo. For one, he spent a tutorial or two on the very same ‘tratarello’ I did: Boezio’s latinizing Porphyry!” Augusto Guzzo. Guzzo. Keywords: pagine di filosfi per i giovani italiani; il Vico di Guzzo, il Galluppi di Guzzo, il Bruno di Guzzo, Gentile, Gli hegeliani d’Italia, Vera, Spaventa, Jaja, Maturi, Gentile, dirito, stato, Biblioteca Italiana di Filosofia, spunti e contrattacchi, Della causa, del principio e del uno, dell’analisi e la sintesi, autobiografia e scienza nuova per giovani italiani dei licei classici, il manual di filosofia di Fiorentino. -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Guzzo: tra idealismo ed empirismo” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51755357414/in/dateposted-public/

 

Grice e Hösle – l’intersoggetivo di Vico -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano). Filosofo. Grice: “I like Hösle – for one, he helped me understand Vico when stating that what Vico is after is a ‘science of the inter-subjective world;’ since I’m also into that I suppose I am Vico!” – Figlio di Johannes Hösle, direttore del Goethe Institut, e Carla Gronda –, vero «enfant prodige» della filosofia, precoce e profondo conoscitore delle lingue antiche (greco, latino, sanscrito, ma anche pali e avestico) e di numerose lingue occidentali (ne parla sette ed è in grado di leggerne dodici). Si laura con la tesi “Verità e storia: uno studio sulla struttura della storia della filosofia sulla base di un'analisi paradigmatica dell'evoluzione da Parmenide di Velia a Platone” (Milano, Guerini e Associati, A. Tassi, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, Hegeliana). Alla «scoperta» di Hösle contribuì in modo determinante l'Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, che lo chiamò a Napoli. Imposta in maniera originale il problema dei rapporti tra dimensione sistematica (unita latitudinale) e dimensione storica (unita longitudinale) della filosofia, analizzando lo sviluppo da Parmenide di Velia a Platone.  In “Il compimento della tragedia nell'opera tarda di Sofocle: un’osservazione storico-estetica” (A. Gargano, Napoli, Bibliopolis, Memorie dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici) combina l'approccio estetico con l'approccio filosofico, cerca di individuare una logica di sviluppo nella storia della tragedia e, in contrasto con l'approccio consueto, considera Sofocle come il compimento sintetico di questa storia. Il pensiero fondamentale espresso nell'opera tarda di Sofocle è sintesi dei principi che sono alla base dell'arte di Eschilo e di Euripide, principi che vengono fatti valere insieme da Sofocle e così portati alla loro verità".  Alievo di Toth, si occupa anche del problema della matematica in Platone (“ I fondamenti dell'aritmetica e della geometria in Platone” – Milano, tr. E. Cattanei, Vita e pensiero). In “Interpretare Platone” (Milano, Guerini e Associati, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici),  e in “Il dialogo filosofico. Poetica di un genere” analizza il genere del dialogo mettendo in connessione il punto di vista filosofico con il punto di vista letterario. Al problema della tragedia è dedicato “La gerarchia dei tragici).  A Napoli tenne una serie di seminari sull'idealismo (“Lo Stato in Hegel”, La città del Sole). La riflessione sull'idealimo si sviluppa in stretta connessione colla "fondazione ultima riflessiva" e con la soluzione fornita a tale problema dalla pragmatica trascendentale. L'unica alternativa consistente al relativismo scettico, dominante nel panorama della filosofia contemporanea ed assurto oggi ad una sorta di principio dell'opinione pubblica, consiste nell'impostazione riflessiva presente negli idealisti, che è necessario sviluppare. Alla “pragmatica” trascendentale va riconosciuto il merito di aver riproposto la "fondazione ultima riflessiva". Tale fondazione va ripensata nella sua portata ontologica, superando il formalismo nella direzione di una formulazione ri-elaborata dell'idealismo (“La fondazione dell'idealismo” – Milano, Guerini e Associati, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, Hegeliana). Della pragmatica trascendentale, in relazione al problema di questa “fondazione ultima riflessiva” Hösle torna in “La crisi della contemporaneità e la responsabilità della filosofia”. Apel viene analizzato all'interno delle più importanti tendenze della filosofia contemporanea, viene esposta in modo dettagliato la "prova" della fondazione ultima riflessiva ("prova apagogica") e vengono discussi questioni relative al linguaggio privato, alla controversia “spiegare-comprendere e alla fondazione dell'etica. Cura “La Scienza nuova” di Vico, compito affidatogli dall'Istituto Italiano per gli Studi Filosofici. La cura è preceduta da “Introduzione a Vico: l’inter-soggetivo” (Milano, Guerini, Istittuo Italiano per gli Studi Filosofici).  -- una introduzione filologica e teoretica in cui Hösle illustra il significato della concezione vichiana per una teoria delle scienze della cultura filosoficamente fondata. La rilessione culmina nella ri-formulazione dell'idealismo: “L’intersoggettivo” (Napoli, La Scuola di Pitagora). Sostiene che l'aporia di Hegel consiste nell'aver tras-curato l’inter-soggetivo nella logica, la parte fondativa del Sistema. Qesta lacuna comporta un grave squilibrio nella struttura complessiva del sistema, in particolare, nel concetto dello spirito oggettivo e nel concetto dello spirito assoluto, che restano scoperte sul piano logico, senza un co-rispettivo categoriale in grado di fondare la struttura inter-soggettiva di cui trattano. Questa aporia è alla radice di sub-aporie come, ad esempio, l'appiattimento del “dover-essere” sull'”essere” con la conseguente visione passatista e la questione della conclusione del sistema. Cerca di mostrare come l'idea fondamentale dell'idealismo sia indispensabile sia per fondare in modo rigoroso il“discorso” sia per superare la scissione tra scienze della natura e scienze dello spirito che caratterizza in modo aporetico il pensiero moderno e contemporaneo, promossa dall'Istituto Italiano per gli Studi Filosofici e per "La scuola di Pitagora", è uscita una Postfazione. Sposta la sua riflessione dalla "filosofia prima" alla "filosofia seconda", occupandosi di problemi morali e politici, tra cui ha un posto di rilievo la questione dell'ecologia (“Filosofia della crisi ecologica” – Torino, Einaudi). I suoi studi delle moderne scienze sociali, politologia ed economia soprattutto, sono poi confluiti “Morale e politica. Fondamento di un'etica politica”. Vanno ricordati, innanzi tutto, i lavori sul significato filosofico della teoria dell'evoluzione (“Portata e limiti della teoria evoluzionistica della conoscenza” – Napoli, La Città del Sole). Saggi: “Aristotele e il dinosauro” (Torino, Einaudi); “Sulla comicità” a riprova del costante interesse nutrito per le forme d'arte, come il teatro e il cinema, in cui l'inter-soggettività -- la categoria centrale della sua riflessione -- gioca un ruolo determinante. “Il concetto di filosofia della religione” (Napoli, La Scuola di Pitagora); “La legittimità del politico” (Milano, Guerini, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici); “Per una lettura non riduttiva di Platone” (Napoli, La scuola di Pitagora).  VITTORIO G. HÖSLE Personal Address 712 Forest Avenue South Bend, Indiana 46616 574-288-3547 • Eberhard Karls Universität Tübingen; Habilitation (accredited as an University Lecturer), January 1986; Philosophy. Habilitationsschrift: „Subjektivität und Intersubjektivität. Untersuchungen zu Hegels System“ • Eberhard Karls Universität Tübingen; Ph.D. summa cum laude, May 1982; Major: Philosophy; First Minor: Indology; Second Minor: Greek; Dissertation: “Wahrheit und Geschichte. Studien zur Struktur der Philosophiegeschichte unter paradigmatischer Analyse der Entwicklung von Parmenides bis Platon“ • Albert Ludwigs Universität Freiburg, 1981 • Ruhr Universität Bochum, 1980 • Eberhard Karls Universität Tübingen, 1978-1979 • Universität Regensburg, 1977-1978 Academic Books 1. Che cosa sono le scienze umane e a quale scopo si studiano, La scuola di Pitagora: Napoli 2017, 73 p. (=Italian translation of paper 4) 2. PerunaletturanonriduttivadiPlatone,LascuoladiPitagora:Napoli2017,111p. (=Italian translation of papers 59 and 60 with Franz von Kutschera’s reply) 3. Russland1917-2017.Kultur,SelbstbildundGefahr,Schwabe:Basel2017,103p. (=Reflexe 51) (=contains papers 7, 8, 12, 101) 4. EricRohmer.FilmmakerandPhilosopher,Bloomsbury:London2016,XVIII+194 p. 4a. Eric Rohmer, Regisseur und Philosoph der erotischen Liebe, appears Wilhelm Fink Verlag: Paderborn 2017 5. Idealismusheute.AktuellePerspektivenundneueImpulse,ed.by.V.HösleandF. Current Address University of Notre Dame Department of German and Russian Languages and Literatures 318 O’Shaughnessy Hall Notre Dame, IN 46556 574-631-5121 vhosle@nd.edu 08/24/2016    Education and Professional Qualifications Publications 1-VH  8/9/17 Suarez Müller, Wissenschaftliche Buchgesellschaft: Darmstadt 2015, 312 p. 6. Forms of Truth and the Unity of Knowledge, ed. by V. Hösle, University of Notre Dame Press: Notre Dame 2014, 356 p. 7. Dantes Commedia und Goethes Faust: Ein Vergleich der beiden wichtigsten philosophischen Dichtungen Europas, Schwabe: Basel 2014 (=Reflexe 35), 76 p. (=extendend German version of paper 27) 8. ZurGeschichtederÄsthetikundPoetik,Schwabe:Basel2013(=Reflexe28),102 p. (contains papers 20, 29, 32) 9. Dimensions of Goodness, ed. by V. Hösle, Cambridge Scholars Publishing: Newcastle upon Tyne 2013, 441 p. 10.The Many Faces of Beauty, ed. by V. Hösle, University of Notre Dame Press: Notre Dame 2013, VIII + 501 p. 11.God as Reason, University of Notre Dame Press: Notre Dame 2013 (contains papers 24, 31, 36, 50, 58, 65, 71, 91, 94, 97, 98, 122, 133), XVI + 407 p. 12. Eine kurze Geschichte der deutschen Philosophie. Rückblick auf den deutschen Geist, C.H.Beck: München 2013, 320 p. 12a. Dokil Chulhaksa - Dokil Jeunghshinun Jonjaehanunga, Eco Livres: Seoul 2015, 437 p. (=Korean translation of 12) 12b. A Short History of German Philosophy, Princeton University Press: Princeton 2017, XXII + 275 p. (=English translation of 12) 12c. Chinese translation of 9, appears Bookzone Publishing Corporation Beijing 2017 13. Die Vernunft an der Macht. Ein Streitgespräch zwischen Boris Groys und Vittorio Hösle, ed. by L. Di Blasi and M. Jongen, Turia+Kant: Wien 2011, 110 p. 13a. La razón al poder, Pre-textos: Valencia 2014, 114 p. (=Spanish translation of 13) 14.The Idea of a Catholic Institute for Advanced Study, ed. by V.Hösle and D.L. Stelluto (Notre Dame 2010), 137 p. 15. Die Rangordnung der drei griechischen Tragiker. Ein Problem aus der Geschichte der Ästhetik als Lackmustest ästhetischer Theorien, Schwabe: Basel 2009 (= Jacob Burckhardt-Gespräche auf Castelen 24), 121 p. 16.Der philosophische Dialog. Eine Poetik und Hermeneutik, C. H. Beck Verlag, München 2006, 494 p. 16a. The Philosophical Dialogue, University of Notre Dame Press: Notre Dame 2012, XX + 500 p. (=English translation of 16) 16b. Korean translation of 16, appears Eco livres: Seoul 2018 2-VH  8/9/17 17. Darwinism and Philosophy, ed. by V. Hösle and Ch.Illies, University of Notre Dame Press: Notre Dame 2005, 392 p. 18.Platon interpretieren, Ferdinand Schöningh: Paderborn 2004, 165 p. (contains papers 56, 81, 87, 153, 155) 18a. Interpretare Platone, Guerini e Associati: Milano 2007, 228 p. (=Italian translation of papers 56, 69, 72, 81, 87) 18b. Interpretar Platão, Edições Loyola: São Paulo 2008, 243 p. (=Portuguese translation of 18) 19.Logik Mathematik und Natur im objektiven Idealismus. Festschrift für Dieter Wandschneider, hg. von W.Neuser und V.Hösle unter Mitwirkung von R.Brassl und in Verbindung mit dem Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, Königshausen & Neumann, Würzburg 2004, 324 p. 20. Philosophie und Öffentlichkeit, Königshausen&Neumann, Würzburg 2003, 141 p. (contains papers 63, 77, 83, 84, 89, 100, 110, 119, 121 and the article for newspapers 22) 21. Metaphysik, hg. von V.Hösle, Frommann-Holzboog: Stuttgart-Bad Cannstatt 2001, 222 p. 22.Nachhaltigkeit in der Ökologie. Wege in eine zukunftsfähige Welt, hg. von L. di Blasi, B.Goebel und V.Hösle, C.H.Beck Verlag: München 2001 (=Beck’sche Reihe 1435), 289 p. 23.Woody Allen. Versuch über das Komische, C.H.Beck Verlag: München 2001 (=German translation of paper 93), 128 p.; dtv: München 2005. 23a. Woody Allen. Filosofía del humor, Tusquets Editores: Barcelona 2002, 135 p. (=Spanish translation of 23) 23b. Woody Allen. An Essay on the Nature of the Comical, University of Notre Dame Press: Notre Dame 2007, XII + 96 p. (=enlarged English original) 24.Die Aufgaben der Philosophie heute, hg. von V.Hösle, P.Koslowski, R.Schenk, Passagen Verlag: Wien 1999, 86 p. 25.Darwin (together with Ch.Illies), Herder: Freiburg/Basel/Wien 1999 (=Spektrum 4760), 190 p., C. C. Buchner: Bamberg 2005, 159 p. 26.Die Philosophie und die Wissenschaften, C.H.Beck Verlag: München 1999 (= Beck’sche Reihe 1309), 236 p. (contains papers 96, 97, 98, 103, 104, 135, 139) 26a. 21saegiui gaeggoanjongoannyomron, Eco livres: Seoul 2007, 317 p. (=Korean translation of papers 64, 74, 79, 83, 86, 104, 106, 139) 27. R.Llull, Lo desconhort/Der Desconhort, auf Grundlage der Ausgabe von J.Romeu i Figueras und einschließlich der Varianten der Ausgabe von A.Pagès übersetzt und 3-VH  8/9/17 mit einer Einleitung versehen von J. und V.Hösle, Wilhelm Fink Verlag: München 1998 (=Klassische Texte des Romanischen Mittelalters in zweisprachigen Ausgaben), 128 p. 28.Objective Idealism, Ethics and Politics, University of Notre Dame Press: Notre Dame 1998 (paperback)/ St. Augustine’s Press: South Bend 1998 (cloth), VIII+227 p. (contains papers 103, 110, 114, 115, 116, 123, 132, 136, 140, 141) 29.Moral und Politik. Grundlagen einer Politischen Ethik für das 21. Jahrhundert, C.H.Beck Verlag: München 1997, special edition 2000, 1216 p. 29a. Morals and Politics, University of Notre Dame Press: Notre Dame 2004 (=English translation of 29), XXI + 991 p. 29b. Об отношении морали и политики, in: ΠΟΛΙΣ Nr. 4/2013, 45-61 and Nr. 6/2013, 145-159 (=Russian translation of the second chapter of 26) 29c. Chinese translation of five lectures on the basis of „Morals and Politics“ with the replies of colleagues, appears SDX Joint Publishing: Beijing 2017; complete Chinese translation appears Commercial Press: Shanghai 2019 29d. Korean translation of 29, appears Eco livres 30.Portata e limiti della teoria evoluzionistica della conoscenza, La Città del Sole: Napoli 1996, 66 p. (=Italian translation of paper 139) 31. Philosophiegeschichte und objektiver Idealismus, C.H.Beck Verlag: München 1996 (= Beck’sche Reihe 1159), 277 p. (contains papers 109, 120, 122, 125, 131, 133, 136, 152) 32. Entwicklung mit menschlichem Antlitz. Die Dritte und die Erste Welt im Dialog, hg. von K.Leisinger und V.Hösle, C.H.Beck Verlag: München 1995, 264 p. 33. Contro lo scetticismo per la filosofia, La Città del Sole: Napoli 1994, 53 p. (contains papers 126, 142 and various articles and interviews in Italian newspapers) 34. I fondamenti dell’aritmetica e della geometria in Platone, Introduzione di G.Reale, Vita e pensiero: Milano 1994 (=Pubblicazioni del centro di ricerche di metafisica), 160 p. (=enlarged Italian translation of the papers 153 and 155) 35. Гении фнлософии нового времени, Nauka: Moskau 1992, 21995, 224 p. 36. Praktische Philosophie in der modernen Welt, C.H.Beck Verlag: München 1992, 21995 (=Beck’sche Reihe 482), 216 p. (contains papers 118, 123, 124, 127, 130, 132, 140) 36a. El tercer mundo como problema filosófico y otros ensayos, CEJA: Bogotá 2003, 141 p. (=Spanish translation of papers 75, 123, 127, 132 as well as a Spanish interview) 36b. Практична філософія в сучасному світі, Libra: Kiev 2003, 247 p. (=Ukrainian 4-VH  translation of 36) 37. Philosophie der ökologischen Krise. Moskauer Vorträge, C.H.Beck Verlag: München 1991, 21994 (=Beck’sche Reihe 432), 155 p. 37a. Filosofia della crisi ecologica, Giulio Einaudi editore: Torino 1992 (=Einaudi Contemporanea 11), 171 p. (=Italian translation of 37) 37b. Филосфия и экология, Nauka: Moskau 1993, 21994, 205 p. (=Russian translation of 37) 37c. Filozofija ekološke krise, Zagreb 1996 (=Croatian translation of 37) 37d. Science, Philosophy and Culture 14 (1995), 200-225 (=Korean translation of the second chapter of 37); Hwangyong ûigiui cholhag, Sogang University Press: Seoul 1997, 197 p. (=Korean translation of 37) 37e. Economie en ecologie, in: K.-O.Apel e.a., Het discursieve tegengif, Kampen 1996, 88-119 (=Dutch translation of the fourth chapter of 37) 37f. Les fondements culturels et historiques de la crise écologique, in: Laval théologique et philosophique 63 (2007), 385-406 (=French translation of the second chapter of 37); Philosophie de la crise écologique, Éditions Wildproject: Marseille 2009, 251 p.; paperback edition Payot & Rivages, Paris 2011, 223 p. (=French translation of 37) 37g. Los fundamentos histórico-espirituales de la crisi ecológica, in: Eikasia 75 (Agosto 2017), (online) (=Spanish translation of the second chapter of 37) 38. Hegel e la fondazione dell’idealismo oggettivo, Guerini e Associati: Milano 1991 (=Istituto Italiano per gli Studi Filosofici. Hegeliana 1), 208 p. (=Italian translation of the paper 141 as well as Italian lectures on the basis of “Hegels System”) 38a. L’idealisme objectif, Les editions du cerf: Paris 2001, 124 p. (=French translation of paper 141) 38b. Geggoanchok goannyomrongoa gugungochisgi, Eco lives : Seoul 2005, 119 p. (=Korean translation of paper 141) 39. Die Krise der Gegenwart und die Verantwortung der Philosophie. Transzendentalpragmatik, Letztbegründung, Ethik, C.H.Beck Verlag: München 1990, 21994 (=Ethik im technischen Zeitalter 1), 31997 (=Beck’sche Reihe 1174), 287 p. 39a. La crise du présent et la résponsabilité de la philosophie, Théétète editions: Nîmes 2004, 302 p. (=French translation of 39) 39b. Tagadnes krîze un filozofijas atbildîba, LU: Riga 2011, 364 p. (=Latvian translation of 39) 39c. Hyondeui uigiwa cholhagui chaegim (=Korean translation of 39), b Books: Seoul 2014, 400 p. 40. La legittimità del politico, Guerini e Associati: Milano 1990 (=Istituto Italiano per gli 5-VH 8/9/17  8/9/17 Studi Filosofici. Saggi 7), 87 p. (=Italian translation of the papers 136 and 143) 41.Giambattista Vico, Prinzipien einer neuen Wissenschaft über die gemeinsame Natur der Völker, übs. von V.Hösle und Ch.Jermann und mit Textverweisen von Ch.Jermann, mit einer Einleitung „Vico und die Idee der Kulturwissenschaft“ von V.Hösle (p. XXXI-CCXCIII), Felix Meiner Verlag: Hamburg 1990 (=Philosophische Bibliothek 418a/b), 2 Bde., CCXCIII+628 p. 41a. Introduzione a Vico. La scienza del mondo intersoggettivo, Guerini e Associati: Milano 1997 (=Istituto Italiano per gli Studi Filosofici. Saggi 28), 252 p. (=Italian translation of the introduction to 41) 41b. Vico’s New Science of the Intersubjective World, University of Notre Dame Press: Notre Dame 2016, XVI + 266 p. (=enlarged English translation of the introduction to 41) 42. Die Rechtsphilosophie des deutschen Idealismus, in Verbindung mit dem Istituto Italiano per gli Studi Filosofici hg. von V.Hösle, Felix Meiner Verlag: Hamburg 1989 (=Schriften zur Transzendentalphilosophie 9), 163 p. 43. Hegels System. Der Idealismus der Subjektivität und das Problem der Intersubjektivität, 2 Bde., Felix Meiner Verlag: Hamburg 1987, Studienausgabe 1988, 21998 (with license edition Wissenschaftliche Buchgesellschaft Darmstadt), XLII+709 p. 43a.Il concetto di filosofia della religione in Hegel, La Scuola di Pitagora: Napoli 2006, 128 S. (=Italian lectures on the basis of Ch. 8.2. of 43); Il sistema di Hegel, La Scuola di Pitagora: Napoli 2012, 822 p. (=Italian translation of 43) 43b.O sistema de Hegel. O idealismo da subjetividade e o problema da intersubjetividade, Edições Loyola: São Paulo 2007, 802 p. (=Portuguese translation of 43) 43c. Iesulun chinchongchōngonul gōhessnunga?, in: Iesului chūkumgōa būhōal, ed. by M.Kim und D.Kūon, Seoul 2004, 173-238 (=Korean translation of Ch. 8.1. of 43); Hegelui chaegae, Vol. 1, Hangilsa: Seoul 2007 (=Hangil Great Books 88), 587 p. (=Korean translation of Ch. 1-4 of 43); Vol. 2 in preparation 44. Raimundus Lullus, Die neue Logik. Logica Nova, textkritisch hg. von Ch.Lohr, übs. von V.Hösle und W.Büchel, mit einer Einführung von V.Hösle (p IX-LXXXII, LXXXVII-XCIV), Felix Meiner Verlag: Hamburg 1985 (=Philosophische Bibliothek 379), XCIV+317 p. 45. Die Vollendung der Tragödie im Spätwerk des Sophokles. Ästhetisch-historische Bemerkungen zur Struktur der attischen Tragödie, Frommann-Holzboog: Stuttgart- Bad Cannstatt 1984 (=problemata 105), 181 p. 45a. Il compimento della tragedia nell’opera tarda di Sofocle. Osservazioni storico- estetiche sulla struttura della tragedia attica, Bibliopolis: Napoli 1986 (=Memorie dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici 16), 216 p. (=Italian translation of 45) 46.Wahrheit und Geschichte. Studien zur Struktur der Philosophiegeschichte unter 6-VH  8/9/17 paradigmatischer Analyse der Entwicklung von Parmenides bis Platon, Frommann-Holzboog: Stuttgart-Bad Cannstatt 1984 (=Elea 1), 774 p. 46a. Verità e storia. Studi sulla struttura della storia della filosofia sulla base di un’analisi paradigmatica dell’evoluzione da Parmenide a Platone, Guerini e Associati: Milano 1998 (=Istituto Italiano per gli Studi Filosofici. Hegeliana 24), 484 p. (=Italian translation of 46, however, according to my desire, without part 3 and with paper 120) Books for a broader public 1. Mein Onkel, der Latinist und Weltrevolutionär. Ein Nachruf auf Mario Geymonat, Allitera: München 2013, 88 p. 2. Nora K./V.Hösle: Das Café der toten Philosophen. Ein philosophischer Briefwechsel für Kinder und Erwachsene, C.H.Beck Verlag: München 1996, 21996, 31997, Special edition 1998, 22001 (=Beck’sche Reihe 4017; 1448), 256 p. 2a. Het meisje en de filosoof, Bert Bakker: Amsterdam 1997, Ooievaar: Amsterdam 1998, 221 p. (=Dutch translation of 2) 2b. Cholhagi algosipojo, Munhak Sasang: Seoul 1997, 21998, 300 p. (=Korean translation of 2); Chugin Cholhakchadurui khaphe, Woongjin: Seoul 2007, 320 p. (=revised Korean translation of 2) 2c. O Café dos Filósofos Mortos, Círculo de Leitores: Lisboa 1997, Temas e Debates: Lisboa 1997, 232 p. (=Portuguese translation of 2) 2d. El Café de los filósofos muertos, Grupo Anaya: Madrid 1997, 21998, 31999, 42001, 269 p. (=Spanish translation of 2) 2e. El Café dels filósofs morts, Editorial Barcanova: Barcelona 1997, 267 p. (=Catalan translation of 2) 2f. Aristotele e il dinosauro, Einaudi: Torino 1999, 225 p. (=Italian translation of 2) 2g. ..., Kawade Shobo Sinsha: Tokyo 1999, 267 p. (=Japanese translation of 2) 2h. The Dead Philosopher’s Café, University of Notre Dame Press: Notre Dame 2000, 166 p. (=English translation of 2) 2i. Ölü filozoflar kahvesi, Arion Yayinevi: Istanbul 2000, 224 p. (=Turkish translation of 2) 2j. ..., Athena Press: Taipeh 2001, 22001, 312 p. (=Taiwanese translation of 2) 2k. O Café dos Filosofos Mortos, Editora Angra: São Paulo 2001, 268 p. (=Brazilian- Portuguese translation of 2) 2l. ..., Shanghai Bertelsmann: Shanghai 2001, 302 p. (=Chinese translation of 2) 2m. Das Café der toten Philosophen. Minum kopi bersama Arwah Para Filosof dari Sokrates hongga al-Ghazali, Tannenbaum: Bekasi 2007, 278 p. (=Indonesian translation of 2) 2n. Mahfele filsoofane khamosh, Hermes: Teheran 1387/2008, 31392/2013, 286 7-VH  p. (=Persian translation of 2) Articles 1. Principles of morals, 2. Neoplatonic Philosophy of Mathematics, appears in: Handbook of Neoplatonism, ed. by Ch. Wildberg, Oxford 2018 3. Success Criteria for Different Forms of Dialogue, appears in: Neue Zeitschrift für Systematische Theologie und Religionsphilosophie 60 (2018) 4. Was sind und zu welchem Ende betreibt man Geisteswissenschaften?, appears in den acts of the Vienna conference “Geisteswissenschaften,” Vienna 2017 5. The Tübingen School, appears in: Brill’s Companion to German Platonism, ed. by A. Kim, Leiden 2017 6. A confusion of ἐλάσσονα and μείζονα in our text of Proclus’ Commentary on the First Book of Euclid’s Elements, appears in: Rheinisches Museum für Philologie 160 (2017) 7. How Should One Evaluate the Soviet Revolution?, appears in Analyse und Kritik 2017 8. On Some Specific Traits of Russian Culture. Changes and Continuites Between the pre-Soviet, the Soviet, and the post-Soviet Phase, appears in: Zeitschrift für Medien- und Kulturforschung 8 (2017), 61-77 9. Concluding thoughts. Toward a Typology of Public Intellectuals, in: Public intellectuals in the global arena, ed. by M. Desch, Notre Dame 2016, 373-396 10. Global partnership – A new leitmotif for an interconnected world (together with Horst Köhler), in: The World in 2050. Striving for a more just, prosperous, and harmonious global community, ed. by H. Kohli, Oxford 2016, 383-393; Spanish translation in: El Mundo en el año 2050. En busca de una sociedad más próspera, justa y armoniosa, ed. by. H. Kohli, Washington 2016, 419-430 11. Einstieg in den objektiven Idealismus, in: Idealismus heute, ed. by V. Hösle and F. Suarez Müller, Darmstadt 2015, 30-49 12. Macht und Expansion. Warum das heutige Russland gefährlicher ist als die Sowjetunion der 70er Jahre, in: Blätter für deutsche und internationale Politik 6’ 2015, 101-110 13. Una poesia metafisica. Ludwig Steinherrs Lyrikband “Nachtgeschichte für die Teetasse,” in: Stimmen der Zeit 233 (2015), 313-322 14. Der Wert des eigenen Glücks. Über Selbstliebe und Anforderungen an sich selbst, in: Information Philosophie 4/2014, 8-20 as well as, under the title “Unbedingte Verpflichtung und Eudämonismus. Idealität und Realität in der  natural law, and politics in dealing with refugees, appears  in a volume edited by J. Althammer 8-VH 8/9/17  Ethik,” in: Idealismus heute, ed. by V. Hösle and F. Suarez-Müller, Wissenschaftliche Buchgesellschaft: Darmstadt 2015, 254-270. 15. How did Western culture subdivide its various forms of knowledge? Historical reflections on the metamorphoses of the tree of knowledge, in: Forms of Truth and the Unity of Knowledge, ed. by V. Hösle, Notre Dame 2014, 29-69; German translation appears in: Objektiver und absoluter Geist nach Hegel, ed. by A. Kok and T. Oehl, Leiden/Boston 2017. 16.Charismatiker, Genie, Prophet und dynamischer Unternehmer. Zum inneren Zusammenhang der Elemente einer Begriffsfamilie, in: Scheidewege 43 (2013/14), 388-403 17. Philosophie als Beruf, in: Vereinigung der Schweizerischen Hochschuldozierenden Bulletin 39 (3/4), November 2013, 21-28 18. The Search for the Orient in German Idealism, in: Zeitschrift der Deutschen Morgenländischen Gesellschaft 163 (2013), 431-454 19. Can a plausible story be told of the history of ethics? An alternative to MacIntyre’s After Virtue, in: Dimensions of Goodness, ed. by V. Hösle, Newcastle upon Tyne 2013, 113-148; Portuguese translation in: Síntese 39/125 (2012), 345-378; German translation in: Vermisste Tugend? Zur Aktualität der Philosophie Alasdair MacIntyres, ed. by M. Kühnlein and M. Lutz- Bachmann, Berlin 2015, 39-96 20. Historical evolution of aesthetic theories, in: The Many Faces of Beauty, ed. by V. Hösle, Notre Dame 2013, 277-301 21.Why does the environmental problem challenge ethics and political philosophy?, in: Selected Papers from the XXII World Congress of Philosophy, ed. by M.-H. Lee (=Journal of Philosophical Research, Special Supplement), Charlottesville 2012, 279-292 22.Neun Reduktionismen in der Hermeneutik als Vereinseitigungen der Momente des Verstehensprozesses, in: Reduktionismen und Antworten der Philosophie, ed. by W. Grießer, Würzburg 2012, 175-194; English translation in: Understanding Fiction. Knowledge and Meaning in Literature, ed. by J. Daiber, E. Konrad, T. Petraschka and H. Rott, Münster 2012, 220-237 23. Reversals in Clint Eastwood’s Gran Torino (together with Mark Roche), in: Religion and the Arts 15 (2011), 648-679 24. Why teleological principles are inevitable for reason. Natural theology after Darwin, in: Biological Evolution: Facts and Theories, ed. by G. Auletta, M.Leclerc, and R.A. Martinez, Rome 2011, 433-460; German translation in: Post-Physikalismus, ed. by M. Knaup, T.Müller and P. Spät, Freiburg/München 2011, 271-305 as well as in: Evolutionstheorie und Schöpfungsglaube, ed. by H.Ph. Weber and R. Langthaler, Göttingen 2013, 249-280 25. Ethics and Economics, or How Much Egoism Does Modern Capitalism Need? Machiavelli’s, Mandeville’s, and Malthus’s New Insight and Its Challenge, in: Crisis in a Global Economy. Re-planning the Journey, ed. J.T. Raga/M.A. Glendon, Vatican City 2011, 491-513 as well as in: Archiv für Rechts- und Sozialphilosophie 97 (2011), 425-440; German translation in: jus, ars, philosophia et historia. Festschrift für Johannes Strangas, ed. by D. 9-VH 8/9/17  8/9/17 Charalambis and Ch. Papacharalambous, Baden-Baden/Thessaloniki/Athen 2017, 21-43 26. Methodology, in: The SAGE Handbook of Health Care Ethics: Core and Emerging Issues, ed. by R. Chadwick, T. Ten Have, E.M. Meslin, Los Angeles 2011, 10-19 27. Dante’s Commedia and Goethe’s Faust. Similarities and Differences, in: The European Image of God and Man. A Contribution to the Debate on Human Rights, ed. by H.-Ch. Günther and A.A. Robiglio, Leiden/ New York 2010, 313- 344 28. The Idea of a Catholic Institute for Advanced Study, in: The Idea of a Catholic Institute for Advanced Study, ed. by V. Hösle and D.L. Stelluto (Notre Dame 2010), 9-29 29. Poetische Poetiken in der Neuzeit: Boileau, Pope, Friedrich Schlegel und Adorno, in: Zeitschrift für Ästhetik und allgemeine Kunstwissenschaft 55 (2010), 25-47 30. The European Union and the USA: Two contemporary versions of Western „empires“?, in: Transzendentale Konzepte in aktuellen Bezügen, ed. by H.-D. Klein and R. Langthaler, Würzburg 2010, 81-104 and in: Symposium. Canadian Journal of Continental Philosophy 14/1 (2010), 22-51; Italian translation in: Hermeneutica 2013, 279-311 31. Inwieweit ist der Geistbegriff des deutschen Idealismus ein legitimer Erbe des Pneumabegriffs des Neuen Testaments?, in: Zeitschrift für Neues Testament 25/13 (2010), 56-65; English translation in: Philotheos 11 (2011), 162-174; Italian translation in: Humanitas 67/4 (2012), 697-710 32. Poetische Poetiken in der Antike: Horaz‘ „Ars poetica“ und Pseudo-Longinos‘ Περι υψους, in: Poetica 41 (2009), 55-74 33. Soziobiologie, in: Handbuch Anthropologie. Der Mensch zwischen Natur, Kultur und Technik, ed. by E.Bohlken and Ch.Thies, Stuttgart/Weimar 2009, 242-249; English translation in: Symposium. Canadian Journal of Continental Philosophy 16/1 (2012), 112-128 34. Ich kann immer noch nicht anders als kompatibilistisch zu denken, in: Erwägen – Wissen – Ethik 20 (2009), 34-37 35. Inwieweit ist man dafür verantwortlich, sich über sich selbst zu informieren? Moral- und rechtsphilosophische Reflexionen im Zusammenhang mit der Aids- Pandemie, in: HIV/AIDS – Ethische Perspektiven, ed. by S. Alkier and K. Dronsch, Berlin/New York 2009, 13-35 36. Eine metaphysische Geschichte des Atheismus, in: Deutsche Zeitschrift für Philosophie 57 (2009), 319-327; English translation in: Symposium. Canadian Journal of Continental Philosophy 14/1 (2010), 52-65; Hungarian translation in: Mérleg 46 (2010), 216-228 37. Did the Greeks deliberately use the Golden Ratio in an Artwork? A Hermeneutical Reflection, in: La Parola del Passato 63 (2008), 415-426 38. The Lost Prodigal Son’s Corporal Works of Mercy and the Bridegroom’s Wedding. The Religious Subtext of Charles Dickens’ Great Expectations, in: 10-VH  8/9/17 Anglia 126 (2008), 477-502; enlarged German translation in: Habitus fidei – Die Überwindung der eigenen Gottlosigkeit, hg. von J. Alberg und D. Köder, Paderborn 2016, 311-339 39. Variationen, Korollarien und Gegenaphorismen zum zweiten Band der “Escolios a un texto implícito” von Nicolás Gómez Dávila, in: Kritische Theorie zur Zeit. Für Christoph Türcke zum sechzigsten Geburtstag, ed. by O.Decker and T.Grave, Springe 2008, 94-108; Italian translation in: Nicolás Gómez Dávila e la crisi dell’Occidente, ed. by F.Meroi and S. Zucal, Pisa 2014, 67-84; Spanish translation in: Eikasia 75 (Agosto 2017), (online) 40. Über den Vergleich von Texten. Philosophische Reflexionen zu der grundlegenden Operation der literaturwissenschaftlichen Komparatistik, in: Orbis Litterarum 63 (2008), 381-402 41. Wilhelm Meister and Mignon as models for Nicholas Nickleby and Smike?, in: Neohelicon 35 (2008), 237-254; German translation in: Zwischen Sprachen und Kulturen: Das kritische Wort. Festschrift für Italo Michele Battafarano, ed. by Elmar Locher, Würzburg 2016, 145-164 42. Dickens als Kritiker des Goetheschen Bildungsromans? Ein Strukturvergleich von Wilhelm Meisters Lehrjahren und Great Expectations, in: Germanisch- Romanische Monatsschrift 58 (2008), 149-167 43. Nach dem absoluten Wissen. Welche Erfahrungen des nachhegelschen Bewußtseins muß die Philosophie begreifen, bevor sie wieder absolutes Wissen einfordern kann?, in: Hegels Phänomenologie des Geistes. Ein kooperativer Kommentar zu einem Schlüsselwerk der Moderne, ed. by K.Vieweg und W.Welsch, Frankfurt 2008, 627-654 44. Der Geist als Nostalgiker des Lebens. Was verbindet und was unterscheidet Grillparzers „Sappho“ und Manns „Tonio Kröger“?, in: Zeitschrift für deutsche Philologie 127 (2008), 177-198 45. Scheitern angesichts der Umweltvergiftung. Ein Vergleich von Henrik Ibsens En Folkefiende und Wilhelm Raabes Pfisters Mühle, in: Wirkendes Wort 58 (2008), 27-51 46. De eenheid van het weten en de werkelijkheid van de universiteit, in: Nexus 50 (2008), 677-688; German original in: Scheidewege 39 (2009/10), 43-57 47. Cicero’s Plato, in: Wiener Studien 121 (2008), 145-170 48. Pre-established harmony between parental and free choice of the partners. Masked encounters in Ludvig Holberg’s Mascarade, Carlo Goldoni’s I Rusteghi, and Georg Büchner’s Leonce und Lena, in: Komparatistik 2007, 145- 163 49. Apologie der Postmoderne, in: Kritik der postmodernen Vernunft. Idealistische Perspektiven, ed. by B.Goebel and F.Suárez Müller, Darmstadt 2007, 259-268; Spanish translation in: Éticas convergentes en la encrucijada de la postmodernidad, ed. by R.Salas Astraín, Santiago/Temuco 2010, 333-346, and in: Erasmus 13/1 (2011), 102-116 50. The Idea of a Rationalistic Philosophy of Religion and Its Challenges, in: Jahrbuch für Religionsphilosophie 6 (2007), 159-181; German translation in: 11-VH  8/9/17 Wiener Jahrbuch für Philosophie 42 (2010), 33-57; Hungarian translation in: Mérleg 50 (2014), 80-107 51. Kann die Systemtheorie eine Ethik der Wissenschaft ersetzen?, in: Erwägen – Wissen – Ethik 18 (2007), 34-37 52. Die Schönheit der Geometrie, in: Ein Buch, das mein Leben verändert hat. Liber amicorum für Wolfgang Beck, ed. by D.Felken, München 2007, 204-206 53. Erste und dritte Person bei Burchell und Goethe: Theorie und Performanz im zehnten Buch von “Dichtung und Wahrheit“, in: Goethe-Jahrbuch 123 (2006), 115-134 54. Religion of art, self-mythicization and the function of the church year in Goethe’s Italienische Reise, in: Religion and Literature 38.4 (Winter 2006), 1- 25; German translation in: Autoinvenienz, ed. by. R. Breuninger and P.L. Oesterreich, Würzburg 2012, 35-58 55. Was ist neohegelianisch an “Moral und Politik”?, in: Wiener Jahrbuch für Philosophie 38 (2006), 99-112 56. Platonism and Its Interpretations. The Three Paradigms and Their Place in the History of Hermeneutics, in: Eriugena, Berkeley, and the Idealist Tradition, ed. by St.Gersh and D. Moran , Notre Dame 2006, 54-80; already in: Videtur 14 (2002), 5- 24 57. Wissenschaftsentwicklung in den USA. Aus dem Archiv des Institute for Advanced Study in Princeton, in: Stimmen der Zeit (2006), 303-316 58. Encephalius. Ein Gespräch über das Leib-Seele-Problem, in: Das Leib-Seele- Problem, ed. by Th. Buchheim und F.Hermanni, München 2006, 101-130; English translation in: Mind and Matter 5.2 (2007), 135-165 59. Wie sollte eine synthetische Platondarstellung aussehen? Einige Überlegungen angesichts von Kutscheras neuer Platonmonographie, in: Philosophiegeschichte und Logische Analyse 9 (2006), 175-211 60. Erwiderung auf die Replik Franz von Kutscheras in „Philosophiegeschichte und Logische Analyse“ 9/2006 auf meine Rezension seines Platonbuches, in: Wiener Jahrbuch für Philosophie 37 (2005), 272-276 61. Religion, Religionsverlust und Erzählstrategien in einer neueren Autobiographie. Zu Johannes Hösles “Vor aller Zeit. Geschichte einer Kindheit” sowie “Und was wird jetzt? Geschichte einer Jugend”, in: Zur Sprache gebracht. Philosophische Facetten. ... Festschrift für Peter Novak, ed by. N.Leißner und R.Breuninger, Ulm 2005, 91-103 62. Psychologie des Spielers und Ethik des Va-banque-Spiels. Zu Friedrich Schillers Die Verschwörung des Fiesko zu Genua, in: Wege zur Politischen Philosophie und Politik. Festschrift für Martin Sattler, ed. by G. von Sivers und U.Diehl, Würzburg 2006, 41-64 63. Philosophy and its Languages. A Philosopher’s Reflections on the Rise of English as Universal Academic Language, in: The Contest of Languages, ed. by M.Bloomer, Notre Dame 2005, 245-262 64. Was kann man von Hegel objektiv-idealistischer Theorie des Beriffs noch lernen, das über Sellars’, McDowells und Brandoms Anknüpfungen 12-VH  8/9/17 hinausgeht?, in: Allgemeine Zeitschrift für Philosophie 30 (2005), 139-158; English translation in: The Dimensions of Hegel’s Dialectic, ed. by N.G. Limnatis, London 2010, 216-236 65. Reasons, emotions and God’s presence in Anselm of Canterbury’s Dialogue Cur deus homo (together with Bernd Goebel), in: Archiv für Geschichte der Philosophie 87 (2005), 189-210; German translation in: Die Frage nach dem Unbedingten. Gott als genuines Thema der Philosophie, ed F.Resch and M. Klinkosch, Dresden 2016, 351-383 66. Die Philosophie und ihre literarischen Formen – Versuch einer Taxonomie, in: Das Geistige und das Sinnliche in der Kunst, ed. by D.Wandschneider, Würzburg 2005, 41-55 67. Berufsethik der Geheimdienste und Krise der hohen Politik. Philosophische Betrachtungen zum literarischen Universum von John Le Carrés Spionageromanen im allgemeinen und zu Absolute Friends im besonderen, in: Deutsche Vierteljahrsschrift 79 (2005), 131-159 68. Replik auf Ursula Hoyningen-Süess’ Kommentar, in: Pädagogik und Ethik, ed. by D.Horster und J.Oelkers, Wiesbaden 2005, 333-339 69. Platons “Protreptikos”. Gesprächsgeschehen und Gesprächsgegenstand in Platons “Euthydemos”, in: Rheinisches Museum für Philologie 147 (2004), 247- 275 70. „Great Books Programs.“ Die Rolle der Klassiker im Bildungsprozeß, in: Kultur, Bildung oder Geist?, ed. by R.Benedikter, Innsbruck 2004, 117-133 71. Interreligious Dialogues during the Middle Ages and Early Modernity, in: Educating for Democracy: Paideia in an Age of Uncertainty, ed. by A.M.Olson, D.M.Steiner, and I.S.Tuuli, Lanham 2004, 59-83; German translation in: Dialog und Verstehen, ed. by G.Damschen and A.G. Vigo, Berlin 2015, 59-88 72. Eine Form der Selbsttranszendierung philosophischer Dialoge bei Cicero und Platon und ihre Bedeutung für die Philologie, in: Hermes 132 (2004), 152-166; English translation in: Graduate Faculty Philosophy Journal 26, No.1 (2005), 29-46 73. Wie soll man Philosophiegeschichte betreiben? Kritische Bemerkungen zu Kurt Flaschs philosophiehistorischer Methodologie, in: Philosophisches Jahrbuch 111 (2004), 140-147 74. Wahrheit und Verstehen. Davidson, Gadamer und das Desiderat einer objektiv- idealistischen Hermeneutik, in: Logik, Mathematik und Natur im objektiven Idealismus. Festschrift für Dieter Wandschneider, ed. by W.Neuser und V.Hösle, Würzburg 2004, 265-283; English translation in: Metaphysik und Hermeneutik. Festschrift für Hans-Georg Flickinger zum 60. Geburtstag, ed. by H. Eidam/ F. Hermenau/ D. de Souza, Kassel 2004, 117-141 as well as in: Between Description and Interpretation: The Hermeneutic Turn in Phenomenology, ed. by A.Wierciński, Toronto 2005, 376-391; Italian translation in: Hermeneutica 2005, 321-346 75. Variationen, Korollarien und Gegenaphorismen zum ersten Band der “Escolios a un texto implicito” von Nicolás Gómez Dávila, in: Die Ausnahme denken. Festschrift zum 60. Geburtstag von K.-M.Kodalle, ed. by C.Dierksmeier, 2 Bde., 13-VH  Würzburg 2003, II 149-163 76. Hans Jonas’ Stellung in der Geschichte der deutschen Philosophie, in: Weiterwohnlichkeit der Welt. Zur Aktualität von Hans Jonas, ed. by Ch. Wiese und E. Jacobson, Frankfurt 2003, 34-52 and 325-328 as well as in: Synthesis philosophica 35-36 (2003), 5-19; enlarged version in: Weltinnenpolitik für das 21. Jahrhundert, ed. by U.Bartosch, K.Gansczyk, Hamburg 2007, 139-157; Croatian translation in: Filozofska Istraživanja 90/3 (2003), 539-552; English translation in: The Legacy of Hans Jonas: Judaism and the Phenomenon of Life, ed. by H.Tirosh- Samuelson and Ch.Wiese, Leiden/Boston 2008, 19-37 77. Globalisierung und US-amerikanische Hegemonie, in: Ethik, Politik und Kulturen im Globalisierungsprozess, ed. by R.Elm, Bochum 2003, 220-230. 78. Kritische Anmerkungen zur Theorie des gerechten Krieges, in: Neue Gesellschaft/Frankfurter Hefte 6/2003, 9-13; Portuguese translation in: Videtur 20 (2003), 7-10 79. Inferenzialismo in Brandom e olismo in Hegel. Una risposta a Richard Rorty e alcune domande per Robert Brandom, in: Hegel contemporaneo, a cura di L.Ruggiu e I.Testa. Milano 2003, 290-317; German translation in: Diskurs und Reflexion, ed. by W. Kellerwessel, W. J. Cramm, D. Krause, H. C. Kupfer, Würzburg 2005, 463-486; English original in: Graduate Faculty Philosophy Journal 27, No. 1 (2006), 61-82 80. Is There Progress in the History of Philosophy?, in: Hegel’s History of Philosophy, ed. by D.A.Duquette, Albany, NY 2003, 185-204 81. Interpreting Philosophical Dialogues, in: Antike und Abendland 48 (2002), 68-90 82. Zum Verhältnis von Metaphysik des Lebendigen und allgemeiner Metaphysik. Betrachtungen in kritischem Anschluß an Schopenhauer, in: Metaphysik. Herausforderungen und Möglichkeiten, ed. by V.Hösle, Stuttgart-Bad Cannstatt 2002, 59-97 83. Könnte die Europaische Union als Bundesstaat funktionieren? Und kann sie ein Bundesstaat werden?, in: Universitas 56 (2001), 1234-1244 84. Die Metaebene der bioethischen Diskussion. Einige Bemerkungen zu Michael Neumanns Kirchentagsrede, in: Scheidewege 31(2001/2002), 95-102 85. Replik, in: Eine moralische Politik? Vittorio Hösles Politische Ethik in der Diskussion, ed. by B.Goebel und M.Wetzel, Würzburg 2001, 291-314 86. Das Umweltproblem im 21. Jahrhundert. Dimensionen einer Krise, in: Gedanken zur Nachhaltigkeit, ed. by L. di Blasi, B.Goebel und V.Hösle, München 2001, 9-36 and 263-264; reprinted in: Handbuch Generationengerechtigkeit, ed. by Stiftung für die Rechte zukünftiger Generationen, München 2003, 125-150; Italian tranlation in: Una nuova etica per l’ambiente, ed. by C.Quarta, Bari 2006, 71-94 87. Die Philosophie und ihre Medien, in „Platonisches Philosophieren“. , Zehn Vorträge zu Ehren von Hans Joachim Krämer, ed. by Th.A.Szlezák unter Mitwirkung von K.- H.Stanzel, Hildesheim/ Zürich/New York 2001, 1-17 88. Platonismus und Darwinismus, in: Freiburger Institut fur Palaowissenschaftliche Studien, Kleine Schriftenreihe Nr. 6, 2001, 1-36; Spanish translation in: Universitas Philosophica 39 (2002), 11-48; English original in: Darwinism and Philosophy, ed. 14-VH 8/9/17  by V. Hösle and Ch. Illies, Notre Dame 2005, 216-242 89. Verfall der deutschen Universitaten? Hochschulen in den USA und Deutschland, in: Stimmen der Zeit 219 (2001), 377-386, abbreviated version in: Die Tagespost vom 20.4.2002, Nr.48, p.10 90. Ethik des Erwählten und Metaphysik des Geistes und des Lebens. Zu Thomas Manns Philosophie, in: System der Philosophie? Festgabe für H.-D.Klein, ed. by L.Nagl/R.Langthaler, Frankfurt a.M. 2000, 51-68; Portuguese translation in: Nós e o absoluto. Festschrift em homenagem a M.Araújo de Oliveira, ed. by C.Cirne- Lima and C.Almeida, São Paulo 2001, 133-151 91. Theodizeestrategien bei Leibniz, Hegel, Jonas, in: Pensare Dio a Gerusalemme, ed, by A.Ales Bello, Roma 2000, 219-243 as well as in: Leibniz und die Gegenwart, ed. by F.Hermanni und H.Breger, München 2002, 27-51; Portuguese translation in: O Deus dos filósofos modernos, ed. by.C.Almeida and M.Araújo de Oliveira, Petrópolis 2002, 201-222; English translation in: Philotheos 5 (2005), 68- 86; Hungarian translation in: Mérleg 41 (2005/3), 283-310 92. Der Ort von Kants Geschichtsphilosophie in der Geschichte der Geschichtsphilosophie, in: Grundlage des Rechts. Festschrift für Peter Landau, ed. by R.H.Helmholz, P. Mikat, J. Müller und M. Stolleis, Paderborn u.a. 2000, 997 – 1012; Italian translation in: Lo Spirito e il potere. Questioni di pneumatologia politica, ed. by M. Nicoletti, Brescia 2012, 145-165; English translation in: Von Platon bis Fukuyama. Biologistische und zyklische Konzepte in der Geschichtsphilosophie der Antike und des Abendlandes, ed. by D. Engels, Bruxelles 2015, 205-221 93. Why Do We Laugh at and with Woody Allen?, in: Film & Philosophy 2000, 7-50 94.Philosophy and the Interpretation of the Bible, in: Internationale Zeitschrift für Philosophie 1999/2, 181-210; German translation in: Jahrbuch für Philosophie des Forschungsinstituts für Philosophie Hannover 12 (2001) 83-114; Hungarian translation in: Mérleg 38 (2002/3), 250-279; Italian translation in: Itinerari 3/2008, 3-41 as well as in: „Conservare l’intelligenza“. Lezioni rosminiane, ed. by M. Nicoletti and F. Ghia, Trento 2012, 37-76 95. Aufgaben der Naturphilosophie heute, in: Die Aufgaben der Philosophie heute, ed. by V.Hösle, P.Koslowski, R.Schenk, Wien 1999, 35-45 96. Zur Philosophie der Geschichte der Sozialwissenschaften, in: Politische Deutungskulturen, Festschrift für K.Rohe, ed. by O.N.Haberl/T.Korenke, Baden- Baden 1999, 563-594; abbreviated version in: Essener Unikate 16/2001: Erfahrung, 88-99; Italian translation in: Quaderni di teoria sociale 5 (2005), 43-87 97. Religion, Theologie, Philosophie, in: Auf neue Art Kirche sein. Festschrift für Bischof Dr. J. Homeyer, ed. by W.Schreer und G.Steins, München 1999, 210-222; Hungarian translation in: Mérleg 37 (2001/1), 35-49; Portuguese translation in: Veritas 47/4 (2002), 567-579; English translation in: Philotheos 3 (2003), 3-13 98. Rationalism, Determinism, Freedom, in: On Quanta, Mind and Matter. Hans Primas in Context, ed. by H.Atmanspacher, A.Amann and U.Müller-Herold, Dordrecht 1999, 299-323; German translation in: Jahrbuch für Philosophie des Forschungsinstituts für Philosophie Hannover 10 (1999), 15-43 99. Gerechtigkeit zwischen den Generationen, in: Was steht uns bevor? 15-VH 8/9/17  8/9/17 Mutmaßungen über das 21.Jahrhundert. Aus Anlaß des 80. Geburtstages von Helmut Schmidt, ed. by M.Gräfin Dönhoff und Th.Sommer, Berlin 1999, 189-200; Russian translation in: Aktual‘nye problemy Ebropy 2000-2: Ebropa i mir, Moscow 2000, 235-245 100. Chancen und Gefahren von Begabung und Begabungsförderung, in: epd- Dokumentation 34/98, 9-19; reprinted in: Philosophieien aus dem Diskurs, ed. by H. Burckhart, H. Gronke, Würzburg 2002, 729-743 and in: Pädagogik und Ethik, ed. by D. Horster and J. Oelkers, Wiesbaden 2005, 295-313 101. Woher rührt der außerordentliche literarische Wert der russischen Literatur des 19. Jahrhunderts?, in: Communio 27 (1998), 359-372; Czech translation in: Teologicky Sbornik 1 (2002), 3-14; Russian translation in: Suszhnost' i slovo. Sbornik nauchnukh statej k iubileiu professora N. V. Motroshilovoj, ed. by M. Solopova and M. Bykova, Moscow 2009, 144-160 102. Ökologie und Christentum, in: Begründete Hoffnungen, ed. by Ch.Nickels, Frankfurt 1998, 199-206 103. Philosophische Grundlagen eines zukünftigen Humanismus, in: Erfurter Universitätsreden, ed. by P.Glotz, München 1998, 47- 73 as well as in: Kultur und Menschlichkeit. Neue Wege des Humanismus, ed. by F.Geerk, Basel 1999, 67-86 104. Der Darwinismus als Metaphysik (together with Ch.Illies), in: Jahrbuch für Philosophie des Forschungsinstituts für Philosophie Hannover 9 (1998), 97-127; Korean translation in: Science, Philosophy and Culture 31 (1999), 175-214 105. Versuch einer Würdigung des Gesamtwerks Egil Wyllers, in: Henologische Perspektiven II zu Ehren Egil A. Wyllers, ed. by T.Frost, Amsterdam/Atlanta, GA 1997, 133-136 106. Hegel und Spinoza, in: Tijdschrift voor Filosofie 59 (1997), 69-88; Korean translation in: Im Sokjin gjosu chongnyonginjomnonchong, Seoul 1999, 71-91 107. The Intellectual Background of Reiner Schürmann’s Heidegger Interpretation, in: Graduate Faculty Philosophy Journal 19, No. 2 – 20 p., No. 1 (1997), 263-285; German translation in: Jahrbuch für Philosophie des Forschungsinstituts für Philosophie Hannover 11 (2000), 145-172 as well as in: Kritik der postmodernen Vernunft. Idealistische Perspektiven, ed. by B.Goebel and F.Suárez Müller, Darmstadt 2007, 203-223 108. Mein Weg zum objektiven Idealismus, in: „... was die Welt im Innersten zusammenhält“. 34 Wege zur Philosophie, ed. by Ch. und M.Hauskeller, Hamburg 1996, 215-220 109. Rationalismus, Intersubjektivität und Einsamkeit: Lulls Desconort zwischen Heraklit und Nietzsche, in: Constantes y fragmentos del pensamiento luliano, ed. by F.Domínguez and J.de Salas, Tübingen 1996, 39-57 110. Philosophy in an age of overinformation, or: What we ought to ignore in order to know what really matters, in: Aquinas 39 (1996), 307-320 as well as in: Ethics of the Professions: Medicine, Business, Media, Law, edited by I.Kucuradi, Berlin/Heidelberg 1999, 87-100; Portuguese translation in: Síntese Nova Fase 24/78 (1997), 315-329; German translation in: Philosophieren über Philosophie, edited by R.Raatzsch, Leipzig 1999, 121-133 16-VH  8/9/17 111. Bürgerverdruß oder Bürgersinn? Von der Unabdingbarkeit republikanischer Tugend im Alltag der Politik, in: Politikversagen? Parteienverschleiß? Bürgerverdruß?, ed. by M.Schmitz, A.Trägler, Regensburg 1996, 219- 233; Hugarian translation in: Mérleg 32 (1996/4), 432-450 112. Macht und Moral/Replik, in: Ethik und Sozialwissenschaften 6 (1995), 379- 387 and 427-432 113. Soll Entwicklung sein? Und wenn ja, welche Entwicklung?, in: Entwicklung mit menschlichem Antlitz, ed. by K.Leisinger and V.Hösle, München 1995, 9-38; Portuguese translation in: Desenvolvimento econômico ou humano?, ed. by Konrad- Adenauer-Stiftung, Sankt Augustin 1996, 1-28 114. Moralische Ziele und Mittel der Weltbevölkerungspolitik, in: Dokumente. Tagungsberichte der Deutschen Welthungerhilfe e.V. Band 4: Weltbevölkerung und Welternährung, Bonn 1994, 127-136; shorter version in: epd- Entwicklungspolitik 9/94 April, 18-25; English translation in: IBS-Materialien 37, Bielefeld 1995, 85-99 115. Ontologie und Ethik in Hans Jonas, in: Im Dialog mit der Zukunft, ed. by D.Böhler, München 1994, 105-125; English translation in: Graduate Faculty Philosophy Journal 23, No. 1 (2001), 31-50 116. Krizis individualnoj i kollektivnoj identic’nosti, in: Voprosy filosofii 15 (1994), 112-123; Individual and collective identity crises, in: European philosophy of medicine and health care Vo. 3, N.3, 1995, CD-ROM as well as in: Diskurs und Leidenschaft. Festschrift für K.-O.Apel zum 75. Geburtstag, R.Fornet-Betancourt, Aachen 1996, 117-133; Individuelle und kollektive Identitätskrisen, in: Studien in memoriam Wilhelm Schüle, ed. by D.Büchner und dem Freiburger Institut für Paläowissenschaftliche Studien, Rahden 2001, 197-206 117.Vico’s Age of Heroes and the Age of Men in John Ford’s Film The Man Who Shot Liberty Valance (together with Mark Roche), in: Clio 23 (1994), 131-147 as well as in: Hollywood and American Historical Film, ed. by J. Smyth, Basingstoke/New York 2012, 120-137 118.Zur Dialektik von strategischer und kommunikativer Rationalität, in: Orientierung durch Ethik? Eine Zwischenbilanz, ed. by J.-P. Wils, Paderborn 1993, 11-35; Serbocroatian translation in: Theoria 3-4 (1991), 19-34 119.Ethische Prinzipien der Friedenssicherung, in: Rechtsphilosophische Hefte 2 (1993), 39-58 120.Hva er de sentrale forskjellene mellom den antikke og den moderne filosofien?, in: Norsk Filosofisk Tidsskrift 28 (1993), 1-20 121.Die Idee der Hochschule angesichts der Herausforderungen des 21.Jahrhunderts, in: Hochschulen der Zukunft - Erneuert oder zweite Wahl. Jahresversammlung 1992 der Hochschulrektorenkonferenz (=Dokumente zur Hochschulreform 76/1992), Bonn 1992, 47-72 as well as in: I første, andre og tredje person. Festskrift til A.Øfsti, Trondheim 1999, 181-195; abbreviated version in: DIE ZEIT vom 15.5.1992, Nr. 21, p. 51 122.Kan Abraham reddes? Og: Kan Søren Kierkegaard reddes? Et hegelsk oppgjør med „Frygt og Bæven“, in: Norsk Filosofisk Tidsskrift 27 (1992), 1-26; English translation in: Belief and Metaphysics, ed. by. C. Cunningham and P.M. Candler, 17-VH  London 2007, 204-235 123.The Third World as a Philosophical Problem, in: Social Research 59 (1992), 227- 262 (as well as in: Diskursethik oder Befreiungsethik?, ed. by R.Fornet-Betancourt, Aachen 1992, 122-151 and in: Veritas 37/146 (1992), 175-201 p.); German translation in: Alibi Wirtschaftsethik?, ed. by J.-P-Wils, Tübingen 1992, 63-79; Spanish translation in: Filosofía para la convivencia, ed by R.Fornet-Betancourt and J.A.Senent, Sevilla 2004, 237-258, and in: Erasmus 13/2 (2011), 237-268; Portuguese translation in: Griot. Revista de Filosofia 8/2 (2013), 239-265 124.Warum ist die Technik ein philosophisches Schlüsselproblem geworden?, in: Natur in der Philosophie, ed. by K.Giel, R.Breuninger, Ulm 1992, 35-51 125.Intersubjektivität und Willensfreiheit in Fichtes „Sittenlehre“, in: Fichtes Lehre vom Rechtsverhältnis. Die Deduktion der §§ 1-4 der „Grundlage des Naturrechts“ und ihre Stellung in der Rechtsphilosophie, ed. by M.Kahlo, E.A.Wolff, R.Zaczyk, Frankfurt 1992, 29-52 126.La verità come categoria fondamentale della filosofia, in: Nuova Civiltà delle Macchine 9/2 (34)/1991, 55-59 127.Versuch einer ethischen Bewertung des Kapitalismus, in: Wirtschaftsethik, ed. by K.Giel und R.Breuninger, Ulm 1991, 49-72; Hungarian translation in: Mérleg 32 (1996/1), 51-71 128.Heideggers Philosophie der Technik, in: Wiener Jahrbuch für Philosophie 23 (1991), 37-53; Russian translation in: Filosofija Martina Chajdeggera i sovremennost’, ed. by N.V. Motrosilova u.a., Moskau 1991, 138-154 129.Die Wiedervereinigung - Rückfall in die Politik der Nationalstaaten oder ein Schritt zur Überwindung der Trennung Europas?, in: Universalismus, Nationalismus und die neue Einheit der Deutschen, ed. by P.Braitling und W.Reese- Schäfer, Frankfurt 1991, 71-80 130.Sein und Subjektivität. Zur Metaphysik der ökologischen Krise, in: Prima Philosophia 4 (1991), 519-541 as well as in: Nature and Lifeworld, ed. by C.Bengt- Pedersen and N.Thomassen, Odense 1998, 87-112; partial Czech translation in: Filosoficky Casopis 45 (1997), 481-488 (with commentary 489-496); French translation in: Laval théologique et philosophique 69 (2013), 135-158 131.Natur und Naturwissenschaft in Vicos neuer Wissenschaft vom Geist, in: Die Trennung von Natur und Geist, ed. by R.Bubner, B.Gladigow, W.Haug, München 1990, 55-77 132.The Greatness and Limits of Kant’s Practical Philosophy, in: Graduate Faculty Philosophy Journal 13, No.2 (1990), 133-157; German translation in: Wissenschaftsethik unter philosophischen Aspekten, ed. by K. Giel, R.Breuninger, Ulm 1991, 9-39; Korean translation in Hegel-Yongu 6 (1995), 211-246; Italian translation in: Il „regno dei fini“ in Kant, ed. by A.Rigobello, Napoli 1996, 117-146; Portuguese translation in: Veritas 48/1 (2003), 99-119 133.Platonism and Anti-Platonism in Nicholas of Cusa’s Philosophy of Mathematics, in: Graduate Faculty Philosophy Journal 13, No.2 (1990), 79-112 as well as in: Aristotelica et Lulliana ... Charles H.Lohr ... dedicata, ed. F.Domínguez, R.Imbach, Th.Pindl et P.Walter, The Hague 1995, 517-543 18-VH 8/9/17  8/9/17 134.Recht und Geschichte bei Giambattista Vico, in: Zur Rekonstruktion der praktischen Philosophie. Gedenkschrift für Karl-Heinz Ilting, ed. by K.-O.Apel, R.Pozzo, Stuttgart-Bad Cannstatt 1990, 389-417 135.Über die Unmöglichkeit einer naturalistischen Begründung der Ethik, in: Wiener Jahrbuch für Philosophie 22 (1990), 13-29; Portuguese translation in Dialética e liberdade. Festschrift em homenagem a Carlos Roberto Cirne Lima, edited by E.Stein/L.A. de Boni, Porto Alegre/Pétropolis 1993, 588-609; French translation in: Conférence 18 (2004), 385-416 136.Morality and Politics: Reflections on Machiavelli’s Prince, in: International Journal of Politics, Culture and Society 3/1 (1989), 51-69 137.Was darf und was soll der Staat bestrafen? Überlegungen im Anschluß an Fichtes und Hegels Straftheorien, in: Die Rechtsphilosophie des deutschen Idealismus, ... ed. by V.Hösle, Hamburg 1989, 1-55 138.Versuch einer Standort- und Zielbestimmung für Aufgaben der geistig-politischen Führung, in: H.Bonus u.a., Herausforderungen für die Politik (=Perspektiven und Orientierungen. Schriftenreihe des Bundeskanzleramtes, Bd. 6), München 1989, 41-63 139.Tragweite und Grenzen der evolutionären Erkenntnistheorie, in: Zeitschrift für allgemeine Wissenschaftstheorie 19 (1988), 348-377 140.Moralische Reflexion und Institutionenzerfall. Zur Dialektik von Aufklärung und Gegenaufklärung, in: Hegel-Jahrbuch 1987, 108-116; Spanish translation in: Etica - Discurso - Conflictividad. Homenaje a Ricardo Maliandi, edited by D.J. Michelini, J. San Martín, J.Wester, Río Cuarto 1995, 107-119 141.Begründungsfragen des objektiven Idealismus, in: Philosophie und Begründung, ed. by Forum für Philosophie Bad Homburg, Frankfurt 1987, 212-267; English translation: Graduate Faculty Philosophy Journal 17 (1994), 245-287 142.Ha la filosofia ancora un compito storico?, in: La Provincia di Napoli 9 (1987), Heft 3-4, special number: L’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici e la Scuola di Studi Superiori in Napoli, Numero speciale per il decennale dell’Istituto, 153-159 143.Carl Schmitts Kritik an der Selbstaufhebung einer wertneutralen Verfassung in „Legalität und Legitimität“, in: Deutsche Vierteljahrsschrift 61 (1987), 3-36 144.Der Staat, in: Anspruch und Leistung von Hegels Rechtsphilosophie, ed. by Ch.Jermann, Stuttgart-Bad Cannstatt 1987, 183-226; Italian translation: Lo stato in Hegel, Napoli 2008, 81 p. 145.Das abstrakte Recht, ibidem, 55-99 146.Die Stellung von Hegels Philosophie des objektiven Geistes in seinem System und ihre Aporie, ibidem, 11-53 147.Raum, Zeit, Bewegung, in: Hegel und die Naturwissenschaften, ed. by M.J.Petry, Stuttgart-Bad Cannstatt 1987, 247-292 148.Pflanze und Tier, ibidem, 377-422 149.Eine unsittliche Sittlichkeit. Hegels Kritik an der indischen Kultur, in: Moralität und Sittlichkeit, ed. by W.Kuhlmann, Frankfurt 1986, 136-182 ; reprinted in: Zur Architektonik praktischer Vernunft – Hegel in Transformation, hg. von H. Rosa 19-VH  und K. Vieweg, Berlin 2014, 65-102 150.Die Transzendentalpragmatik als Fichteanismus der Intersubjektivität, in: Zeitschrift für philosophische Forschung 40 (1986), 235-252; Russian translation in: Duchovnost’: tradicii i problemy, Ufa 1991, 31-37 and in: Fichte i konec XX veka, Ufa 1992, 95-101 as well as in: Filosofskaja i sociologiceskaja mysl2 (1992), 72-93 151.La antropología en Fichte, in: La evolución, el hombre y el humano, ed. by R.Sevilla, Tübingen 1986, 113-130; German version in: Philosophie der Subjektivität und das Subjekt der Philosophie. Festschrift für K.Giel zum 70. Geburtstag, ed. by R.Breuninger, Würzburg 1997, 117-131 152.Hegels „Naturphilosophie“ und Platons „Timaios“ - ein Strukturvergleich, in: Philosophia Naturalis 21 (1984), 64-100 153.Zu Platons Philosophie der Zahlen und deren mathematischer und philosophischer Bedeutung, in: Theologie und Philosophie 59 (1984), 321-355; English translation in: Graduate Faculty Philosophy Journal 13, No.1 (1988), 21-63 154.Die Entäußerung der Idee zur Natur und ihre zeitliche Entfaltung als Geist bei Hegel (together with D.Wandschneider), in: Hegel-Studien 18 (1983), 173-199 155.Platons Grundlegung der Euklidizität der Geometrie, in: Philologus 126 (1982), 180-197; English translation in: The Other Plato, ed. by D. Nikulin, Albany 2012, 161-182 Reviews 1. C. Thies, Der Sinn der Sinnfrage, Freiburg/München 2008, in: Wiener Jahrbuch für Philosophie 41 (2009), 186-190 2. H. Krämer, Kritik der Hermeneutik, München 2009, in: Philosophische Rundschau 56 (2009), 56-60 3. H.J. Krämer, Arete bei Platon und Aristoteles, Heidelberg 1959, in: Philosophische Rundschau 56 (2009), 61-65 4. J. Searle, Mind, Oxford 2004, in: Deutsche Zeitschrift für Philosophie 55/1 (2007), 161-168 5. G. Rinaldi, Teoria Etica, Trieste 2004, in: Humanitas 62 (2007), 1174-1177 and in: Magazzino di filosofia18 (2005-2010), 61-64 6. C. Illies, The Grounds of Ethical Judgment, Oxford 2003, in: Philosophisches Jahrnuch 111 (2004), 253-257 7. T. Pinkard, Hegel. A Biography, Cambridge 2000, in: Internationales Jahrbuch zum deutschen Idealismus 1 (2003), 273-278 8. M. Wetzel, Prinzip Subjektivitat. Allgemeine Theorie. Erster Halbband: Ding und Person, Dingbezugnahme und Kommunikation, Dialektik, Wurzburg 2001, in: Wiener Jahrbuch fur Philosophie 33 (2001), 233-236 20-VH 8/9/17  8/9/17 9. Parmenide, Poema sulla natura, presentazione ... di G.Reale, Saggio introduttivo e Commentario filosofico di L.Ruggiu, Milano 1992, in: Wiener Jahrbuch für Philosophie 29 (1997), 167-170 as well as in: Gnomon 72 (2000),1-5 10. F.von Kutschera, Vernunft und Glaube, Berlin/New York 1990, in: Wiener Jahrbuch für Philosophie 23 (1991), 227-232 11. R.Kany, Mnemosyne als Programm, Tübingen 1987, in: Comparatio 1 (1990), 98- 102 12. M.W.Roche, Dynamic Stillness, Tübingen 1987, in: Germanistik 1987, 801-802 13. W.Jaeschke, Die Religionsphilosophie Hegels, Darmstadt 1983, in: Hegel-Studien 21 (1986), 244-246 14. D.Böhler, Rekonstruktive Pragmatik, Frankfurt 1985, in: Zeitschrift für philosophische Forschung 40 (1986), 644-648 15.D.Wandschneider, Raum, Zeit, Relativität, Frankfurt 1982, in: Theologie und Philosophie 60 (1985), 144-145 16. Q.Lauer, Hegel’s Concept of God, Albany 1982, in: Theologie und Philosophie 59 (1984), 109-111 17. O.D.Brauer, Dialektik der Zeit, Stuttgart-Bad Cannstatt 1982, in: Philosophische Rundschau 30 (1983), 299-303 Encyclopedia Articles 1. German Philosophy, in: The Cambridge Dictionary of Philosophy, ed. by R. Audi, Cambridge 32015, 409-414 2. Hermeneutics, in: The Princeton Encyclopedia of Poetry and Poetics, ed. R. Greene, Princeton 42012, 618-623 3. Jonas, Hans, in: Global Studies Encyclopedia, ed. by I.I.Mazour/A.N.Chumakov/W.C.Gay, Moscow 2003, 309 (abridged reprint in: Global Studies Encyclopedic Dictionary, Amsterdam/New York 2014, 307); Russian translation in: Globalistika Enziklopedija, Moscow 2003 4. Raimundus Lullus (Ramon Llull), in: Metzlers Lexikon der christlichen Denker, Stuttgart 2000, 444-445 as well as in: Metzler Philosophen Lexikon, ed. by B.Lutz, Stuttgart/Weimar 2003, 440 and in: Theologen, ed. by M.Vinzent, Stuttgart/Weimar 2004, 165-166; English translation in: The New Westminster Dictionary of Church History, Vol. I, ed. by R. Benedetto, Louisville 2008, 393-394 5. K.-O.Apel, Transformation der Philosophie, ibidem, 730-731; Italian translation in: F.Volpi, Dizionario delle opere filosofiche, Milano 2000, 49-50 6. Anonym, Peri hypsus, in: Lexikon der philosophischen Werke, ed. by F.Volpi, 21-VH  J.Nida-Rümelin, Stuttgart 1988, 504 Ar Articles for Newspapers with Some Academic Content 1. Der Champollion Platons. Zum Tode des Klassischen Philologen und Philosophen Hans Joachim Krämer, in: Frankfurter Allgemeine Zeitung of 6.5.2015, Nr. 104, p. N3 2. Die Macht guter Verwaltung, in: Süddeutsche Zeitung of 12.2.2015, Nr. 35, p. 12 3. Der Witwer als Archivar, in: Süddeutsche Zeitung of 26.7.2013, Nr. 171, p. 14 4. Kann die von Iran angedrohte Existenzvernichtung Israels einen Präventivkrieg rechtfertigen? Nein, in: Philosophie-Magazin Nr. 6/2012, p. 21 5. Listen des Geistes. Zum 80. Geburtstag des Philosophen Franz von Kutschera, in: Süddeutsche Zeitung of 3./4.3.2012, Nr. 53, p. 18 6. Zeiten des Übergangs. Die grüne Lehre: Die Politik muss soziale Gerechtigkeit der Nachhaltigkeit unterordnen, in: Süddeutsche Zeitung of 16.4.2011, Nr. 89, p. 13 7. Ethik des Rücktritts, in: Rheinischer Merkur of 24.6.2010, Nr. 25, p. 9 8. Brauchen wir Eliten?, in: UNOFOLIO (Süddeutsche Zeitung) 1/2010, p. 22 9. Mysterium Mathematik. Polyglott: Zum Tode des Wissenschaftlers Imre Tóth, in: Frankfurter Allgemeine Zeitung of 15.5.2010, Nr. 111, p. 39 10. Rahmenbedingungen verändern Prioritäten. Ansichten eines Weltbürgers, in: Das Parlament of 16.10.2006, Nr. 42, p. 14 11.Was die koreanische Orthographiereform unserer voraushat, in: Frankfurter Allgemeine Zeitung of 9.9.2004, Nr. 210, p. 42 12. Der Ethikrat. Philosophische Hilfestellungen. Diesmal für: Silvio Berlusconi, blendend schön, in: DIE ZEIT of 5.2.2003, Nr. 7, p. 50 13. Der Ethikrat. Philosophische Hilfestellungen. Diesmal für: Nackte Studenten, in: DIE ZEIT of 18.12.2003, Nr.52, p.54 14. Der Ethikrat. Philosophische Hilfestellungen. Diesmal für: Norbert Blüm, Rentner und Philosoph, in: DIE ZEIT of 23.10.2003, Nr. 44, p.50 15. Der Ethikrat. Philosophische Hilfestellungen. Diesmal für: Paul Wolfowitz, plaudernder Stratege, in: DIE ZEIT of 12.6.2003, Nr. 25, p.48 16. Der Ethikrat. Philosophische Hilfestellungen Wahlbetrugsuntersucher, in: DIE ZEIT of 6.2.2003, Nr. 7, p.48 17. Der Ethikrat. Philosophische Hilfestellungen Diesmal für Ludwig Stiegler, 22-VH 8/9/17  Deutsche Sozialdemokraten, in: DIE ZEIT of 12.12.2002, Nr. 51, p. 56 18. Der Ethikrat. Philosophische Hilfestellungen Diesmal für: UN-Delegierte, zwischen Austern und Austerität, in: DIE ZEIT of 5.9.2002, Nr. 37, p.56 19. Der Ethikrat. Philosophische Hilfestellungen Diesmal für: Grüne Pazifisten, Entscheidungsträger, in: DIE ZEIT of 22.11.2001, Nr. 48, p.56 20. Der Ethikrat. Philosophische Hilfestellungen Diesmal fur: Rudolf Scharping und seine Kritiker, in: DIE ZEIT of 30.8.2001, Nr.36, p. 44 21. Die Irrtümer der Denker, in: DER SPIEGEL of 16.7.2001, Nr. 29, p. 136-139; reprinted in: SPIEGEL SPECIAL 1/2001: Die Gegenwart der Vergangenheit, 139- 141 22. Heilung um jeden Preis? Wer einem Kleinkind Grundrechte zuspricht, kann sie einem Embryo nicht nehmen, in: DIE ZEIT of 1.3.2001, Nr. 10, p. 36; reprinted in: ZEIT dokument 1/2002, 92-95 23. Wenn Berlin Berlin bleibt, muss Deutschland Deutschland bleiben. Eine philosophische Analyse des Wahlspruchs der SPD, in: Frankfurter Allgemeine Zeitung of 11.9.1999, Nr. 211, p. BS 3 24. Das Prinzip der Moral. Über die Zukunft der praktischen Philosophie, in: Basler Zeitung as well as in: Frankfurter Rundschau of 8.1.1999, Nr. 6, p. 10 25. Ist er nun zu Hause oder nicht? Die Moderne atmet auf: Koreas Philosophen holen den Weltgeist an seinen Ursprung zurück, in: Frankfurter Allgemeine Zeitung of 19.7.1995, Nr. 165, p. N6 26. Zu Tode geheuchelt. Auf dem Weg zur Reue - Eine Tagung fragt nach den sowjetischen Lektionen, in: Frankfurter Allgemeine Zeitung of 7.10.1992, Nr. 233, p. N5; English translation in: Religion, State and Society 21 (1993), 363-365 27.Verzweifelte Suche nach Sinn. Einblicke in die sowjetische Philosophie der Gegenwart, in: Frankfurter Allgemeine Zeitung of 28.11.1990, Nr. 277, p. N4 28. Einstein filosofo, in: L’altra Campania V/Juni-Juli 1989, 16- 17 IntInterviews and Contributions to Discussions 1. Weil wir zur Wahrheit fähig sind. Ein Gespräch mit Ulf von Rauchhaupt, in: Frankfurter Allgemeine Sonntagszeitung vom 29.1.2017, Nr. 4, 60-61 2. Metafisica, luogo delle temporalità e in temporalità. Intervista a Vittorio Hösle, in: Exagere 1 (2016) (online) 3. Colloquio con Vittoro Hösle, in: L’Espresso 35 (LXII) of 28.8.2016, 72-74 23-VH 8/9/17  8/9/17 4. Interview in Chinese journal Legal and Political Philosophy Review 2016, 149-159 5. L’etica ambientale e la Laudato sì di papa Francesco.Intervista con Vittorio Hösle, in: Munera 3/2015, 29-35 6. Interview, in: Wenhui 2015/4/3, 6-7 7. A propósito de „la moral de la política“, in: Postconvencionales: Ética, Universidad, Democracia 7-8 (2014), 182-196 (online) 8. Die hohe Kunst des Verstehens. Interview, in: Die Furche 9 of 27.2.2014, 18-19 9. Interview, in: Cogito 3 (1/2014), 28-33 10. Ich freue mich über päpstliche Nähe (interview), in: Die Tagespost of 24.10.2013, Nr. 128, p. 9 11. Wenn die Moral Hobbes geht, in: The European of 4/18/2013 (online) 12. Respecting Posterity, in: Notre Dame Magazine 41/4 (2012-13), 21-22 13. Zur Lage der Philosophie, in: Zeitschrift für Ideengeschichte VI/2 (2012), 58-72 14. Der Kapitalismus ist alternativlos (interview), in: The European of 11/17/2011 (online) 15. Interview, in: Shanghai review of Books of 7/17/2011, 2; longer version in: Duli Yuedu 9/2011, 48-58 (online) 16. Die ökologische Krise der Gegenwart und die Philosophie, in: Denkanstöße. Dossier of 12/20/2010 (online) 17. Interests, values, and recognition as different dimensions in the efforts on nuclear disarmament and non-proliferation, in: Nuclear Disarmament, Non-Proliferation, and Development, Vatican City 2010, 195-204 (with Discussion, 205-215) 18. Introducing ... Vittorio Hösle, in: Symposium. Canadian Journal of Continental Philosophy 14/1 (2010), 3-21 19. Ein Gespräch mit Sven Drühl, in: Kunstforum 190/2008, 42-48 20. Platon heute, in: zur debatte 38/3 (2008), 27-30 21. The Idea of Justice and the Global Marshall Plan, in: Towards a World in Balance, Hamburg 2006, 115-118 22. Intervista a Vittorio Hösle, in: Phronesis 7/2006, 103-116 (online) 23. Wie klug sind die Grünen?, in: Grün. Lob und andere Wahrheiten, ed. by M. Grammatikopoulos, R. Hoogvliet, Berlin 2005, 114-117 24. (My answers), in: 100 Et’udov o Kante, Istoriko-Filosofsky Almanach 2005, 46, 81, 24-VH  110 25. Den objektiva moralen är förnuftig. Intervju in: Axess 3 (2004), 25-27 26. Was ist Kultur?, in: think on. Das Magazin der ALTANA AG 1 (2002), 12-19; English translation in: think on. The Magazine of ALTANA AG 1 (2002), 12-19 27. Zehn Thesen zur Universitätspolitik, in: Generationenvertrag in der Wissensgesellschaft, ed. by O.Franz, Köln 2001, 15-17 28. Größe nicht gleich Sicherheit, in: FAZ.NET of 17.9.2001(online) 29. Anima & corpo. Conversazione di Vittorio Hosle con Hans Jonas, in: Ragion pratica 15/2000, 53-64 30. Wider den Tod der Moral, in: Ethik-Letter LayReport 6/2 (2000), 2-4 31. (My answer), in: Quo vadis, Philosophie? Antworten der Philosophen. Dokumentation einer Weltumfrage, ed. by R.Fornet-Betancourt, Aachen 1999, 151-152 32. Zehn Thesen zum Sinn der Arbeit, in: Vom Sinn der Arbeit, ed. by O.Franz, Köln 1999, 11-13 33. Gesundheit und Krankheit: Elementare Begriffe mit großen praktischen Konsequenzen - Ein Kommentar zu Bernard Gert, in: Zukunftsentwürfe, ed. by J.Rüsen, H.Leitgeb, N.Jegelka, Frankfurt/New York 1999, 270-274 34. Thesen zum neuen Grundsatzprogramm für BÜNDNIS 90 / DIE GRÜNEN, in: Zur Politik zurück, ed. by BÜNDNIS 90 / DIE GRÜNEN, Berlin 1999, 33-35 35. Versuch einer politischen Ethik des 21. Jahrhunderts - Wem ist die Regierung verpflichtet?, in: VISIONEN 2000. Einhundert persönliche Zukunftsentwürfe, ed. by Brockhaus-Redaktion, Leipzig/Mannheim 1999, 372-375 36. Keine Kriegserklärung, in: Was die Republik bewegte, ed. by B.Hoffmeister/U.Naumann, Reinbek bei Hamburg 1999, 80-81 37. Mensenrechten: objectief idealisme. Interview met vooruitgangsdenker Vittorio Hösle, in: Filosofie Magazine 7/10 (1998/1999), 36-41 38. Optimist voor de tweeëntwintigste eeuw. Een interview met Vittorio Hösle, in: Krisis 73 (winter 1998), 38-48 39. „Das Café der toten Philosophen“. Interview mit Nora K. und Vittorio Hösle, in: Ethik & Unterricht 3/98, 25-27 40. Podiumsdiskussion „Kultureller Wandel durch Wissen - Ethik und Werte“, in: Zukunft Deutschlands in der Wissensgesellschaft, ed. by bmb+f, Bonn 1998, 92- 120 41.Podiumsdiskussion „Die Tatsache der „Globalisierung“ und die Aufgabe der 25-VH 8/9/17  8/9/17 Philosophie“ zwischen K.-O.Apel, V.Hösle, R.Simon- Schaefer, in: K.- O.Apel/V.Hösle/R.Simon-Schaefer, Globalisierung, Bamberg 1998, 75-122 42. Interview in: Munhak Sasang 2 (1998), 266-277 43. Norwegische Philosophie, in: Aletheia 11/12 (1997), 75-77 as well as in: Information Philosophie 1 (1998), 90-92 44. SPIEGEL-Gespräch „Wir brauchen moralische Energie“, in: DER SPIEGEL Nr. 46/10.11.97, 247-252 45. Podiumsdiskussion, in: Grenzen-los?, ed. by E.U. von Weizsäcker, Berlin/Basel/Boston 1997, 376-400 (mein Text: 376- 380, 388-390, 396-397) 46. Letzte Gewißheit. Fundamentalismus in der Philosophie. Eine Diskussion zwischen H.Brunkhorst, V.Hösle und Th.Kesselring, moderiert von G.B.Achenbach, in: Philosophie heute, ed. vy U.Boehm, Frankfurt 1997, 33-51 47. Three Interviews with Paul K.Feyerabend (together with R.Parascandolo), in: Telos 102 (1995), 115-148 48. Interview in: Science, Philosophy and Culture 13 (1995), 134-144 49. Interview in: Munhak Sasang 5 (1995), 255-287 50. Podiumsdiskussion: Wieviel Gentechnik, Tierexperimente, Umweltschutz brauchen wir?, in: Forschung in Chemie, Biochemie und Molekularer Medizin - Zukunftschancen oder Verzicht, ed. by Gesellschaft Deutscher Chemiker und Gesellschaft für Biologische Chemie, Frankfurt 1994, 37-56 (my text: 46-48, 55-56) 51. Absoljutnyi racionalism i sovremennyi krizis, in: Voprosy filosofii 11 (1990), 107- 113 52. E giusta la ricerca sugli embrioni? Un’intervista a V.Hösle, in: Figli della scienza, a cura di V.Lanfranchi e S.Favi, introduzioni di G.Berlinguer e L.Violante, Roma 1988, 189-194 PrPrefaces to the Works of Other Persons 1. Preface to: Maxim Kantor, Das neue Bestiarium/Le nouveau bestiaire, Köln 2016, 14-17 and 168-170 (German, French, and English) 2. Postscript to: Ludwig Steinherr, Flüstergalerie, München 2013, 131-137 3. Preface to: Ludwig Steinherr, Das Mädchen Der Maler Ich, München 2012, 5-10 4. Preface to: Maxim Kantor, Saint Petersburg 2012, 39-45 5. Preface to: I.Tóth, Fragmente und Spuren nichteuklidischer Geometrie bei 26-VH  Aristoteles, Berlin 2010, XVII-XXIV 6. Preface to: J.Hösle, Al bivio.Gli anni milanesi, Milano 2009, 9-12 7. Preface to: D.Wandschneider, Naturphilosophie, Bamberg 2008, 7-8 8. Überlegungen zur Reihe „Faszination Philosophie“, in: W.V.O.Quine, Philosophie der Logik, Bamberg 2005, 3-9 9. Preface to: G.Scherer, Philosophische Anthropologie, Bamberg 2005, 5-7 10. Preface to: F.Suárez Müller, Skepsis und Geschichte. Das Werk Michel Foucaults im Lichte des absoluten Idealismus, Würzburg 2004, 15-17 11. Postscript to: M.Kantor, New Empire, Bramsche 2004, 97-100; English translation, 111-113; French translation, 124-127; Russian translation, 141-144 12. Preface to: D.Wandschneider, Philosophie der Technik, Bamberg 2004, 7-9 13. Preface to: P.L.Oesterreich, Philosophie der Rhetorik, Bamberg 2003, 7-10 14. Preface to: G.Münnix, Anderwelten, Weinheim 2001, 9-10 15. Postscript to: M.Kantor. Ödland. Atlas, Ostfildern-Ruit 2001, 145-148, English translation, M. Kantor, Atlas, Ostfildern-Ruit 2001, 145-148 16. Preface to: A.Weston, Einladung zu ethischem Denken, Freiburg 1999, 9-16 (and 124-126) 17. Preface to: D.Nikulin, Wissenschaft und Ethik, München 1996, 7-9 18. Preface to: G. Stelli, La ricerca del fondamento, Milano 1995, 13-15 Dissertations, books, and articles dealing with my work (selection) 1. Mattia Coser, Macht und Moral im Ausgang von Vittorio Hösle, in: Disputatio philosophica. International Journal on Philosophy and Religion 1/1 (2017), 73-83 2. Michael Hackl, An den Grenzen von G. W. F. Hegels System. Die ökologische Bedrohung im Anschluss an C. L. Michelet, K. Rosenkranz und V. Hösle, in: Hegel-Jahrbuch 2015, 397-404 3. Dalja Matijević, Hösleovo povećalo: Modeliranje ekološke budućnosti ljudskoga društva, in: Društvena Istraživanja 24 (2015), 111-131 4. Mathias Schneider, Vittorio Hösles Umweltphilosophie im Kontext der Nachhaltigkeitsidee, Berlin 2015 (dissertation Freiburg 2014) 5. Charlotte Luyckx, Crise cosmologique et crise des valeurs: la réponse höslienne 27-VH 8/9/17  8/9/17 au double défi de la philosophie de l’écologie, in: Klesis – revue philosophique 25 (2013), 144-175 6. Ernst-Otto Onnasch, Vittorio Hösle, in: De nieuwe Duitse filosofie, ed. by R. Celikates et al., Amsterdam 2013, 516-522 7. DavidEngels,VittorioHöslesEinschätzungderVoreleatenalsVorlaufzum klassischen Zyklus griechischer Philosophie. Überlegungen zu einer kritischen Neubewertung, in: Revue de philosophie ancienne XXIX/2 (2011), 5-39 8. Wellistony C. Viana, Das “Prinzip Verantwortung” von Hans Jonas aus der Perspektive des objektiven Idealismus der Intersubjektivität von Vittorio Hösle, Würzburg 2010 (dissertation Munich 2010) 9. LuisCarlosSilvadeSousa,Ametafísicaenquantoteoriatranscendentalabsoluta em Joseph Maréchal e Vittorio Hösle, in: Síntese 33/107 (2006), 393-412 10. Manfredo Araujo de Oliveira, Filosofia política enquanto teoria normativo-material das instituições em Vittorio Hösle, in: Filosofia política contemporânea, ed, by M. A. De Oliveira et al., Petrópolis 2003, 333-363 11.Erling Skjei, Kritikk av den sistebegrunnende fornuft: et forsøk på å tolke og å vurdere Descartes’, Apels of Hösles gjendrivelser av skeptisismen, dissertation Trondheim 2003 12.Bernd Goebel/Manfred Wetzel (Eds.), Eine moralische Politik? Vittorio Hösles Politische Ethik in der Diskussion, Würzburg 2001 13. Manfredo Araujo de Oliveira, Ética intencionalista-teleológica em Vittorio Hösle, in: Correntes fundamentais da ética contemporânea, ed. by M. A. De Oliveira, Rio de Janeiro 2000, 235-255 14. Alexander Klier, Umweltethik: wider die ökologische Krise. Ein kritischer Vergleich der Positionen von Vittorio Hösle und Hans Jonas, Marburg 2000 15. Jürgen Sikora, Mit-Verantwortung: Hans Jonas, Vittorio Hösle und die Grundlagen normativer Pädagogik, Eitorf 1999 16.Gertrude Hirsch-Hadorn, Umwelt, Natur und Moral: eine Kritik an Hans Jonas, Vittorio Hösle und Georg Picht, Freiburg/Munich 1998 (habilitationsschrift Konstanz 1998) 17. Annette von Werder, Philosophie und Geschichte: das historische Selbstverständnis des objektiven Idealismus bei Hegel und bei Hösle, dissertation Aachen 1993 18. Неллн B. Moтрoшилова, Bитторио Хёсле: наброски к философскому портрету, in: Bитторио Хёсле, Генин философии нового времени, Moskau 1992, 172-218 19.Sergio Dellavalle, Soggetto morale o sostanza etica. Riflessioni sui recenti contributi di Vittorio Hösle alla fondazione di un’etica della società tecnologica e del 28-VH  rischio ecologico, in: Teoria politica VII/3 (1991), 99–117 Documentary films about myself 1. HansSteinbichler,DerMoralist–VittorioHösleentdecktAmerika,2003(BR) 2. UlrichBoehm,“EinganzgewöhnlichesGenie.”JungphilosophVittorioHösle,1988 (WDR) Papers 1. “On the conection between form and content in the philosophical dialogue” (at the 2. “On the Neoplatonic Philosophy of Novum in Frascati in April 2017) 3. “The study of language as tool of the reconstruction of values. Paul Thieme’s linguistic methododology and implicit philosophy of language” (at the conference “ 4. “Principles of morals, natural law, and politics in dealing with refugees” (at the conference “Solidarity in global societies” in Munich in October 2016; repeated at the Plenary Session of the Pontifical Academy of the Social Sciences in April/May 2017) 5. “How much is the interpreter of an artwork bound by the author’s intentions?” (at the 20th International Congress of Aesthetics in Seoul in July 2016) 6. “The Special Nature of the Soviet Revolution: An Evaluation from the Point of View of the Philosophy of History” (at the Max Planck Institute for Comparative Public Law and International Law and at the University of Passau in May 2016; repeated at the University of Bamberg in February 2017) 7. “Objective idealism as an alternative to both naturalism and constructivism” (at the University of Heidelberg in June 2015) 8. Five lectures on “Morals and Politics” (at Fudan university in Shanghai in December 2014) 9. “Vocation between self-love and demands regarding oneself” (at the Meckatzer Philosophy Award ceremony in Bad Hindelang in May 2014) 10. “What are and why does one study humanities?” (at the conference “Humanities” in Vienna in February 2014, repeated at the Gadamer conference in Santiago de Chile in April 2015, at the Istituto Italiano per gli Studi Filosofici in Naples (in the following: IISFN) in April 2015, and at the Albertus Magnus Forum in Regensburg in February 2016) 11. “Order and disorder in intercultural dialogue “ (at the conference “Order and Disorder in the Age of Globalization(s)” in Johannesburg in November 2013, repeated at the Goethe Institute Munich in April 2014) 12. “On the relation between Dante’s Commedia and Goethe’s Faust” (at the conference “Philosophia transalpina” at the University of Munich in August 2013) Academy Vivarium Novum in Frascati in April 2017) 8/9/17   Mathematics” (at the Academy Vivarium   “Indology Nowadays: A Winter School on the Legacy of Paul  Thieme” at the university Tübingen in February 2017) 29-VH  8/9/17 13. “What remains of Hegel’s theory of the social world?” (at the University of Jena in May 2012) 14. “How did 20th century philosophy contribute to the current crisis?” (at the conference “Volcano” at the University of Oxford in May 2012) 15. “How did Western culture subdivide its various forms of knowledge? Historical reflections on the metamorphoses of the tree of knowledge” (at the conference “Conceptions of Truth and the Unity of Knowledge” at the University of Notre Dame in April 2012) 16. “Reductionisms in hermeneutics” (at the workshop “Knowledge and Meaning in Literature” at the University of Regensburg in June 2011; repeated at the University of Vienna in July 2011, at Purdue University in October 2012, at Duke University in March 2014, at the University of Nebraska in Omaha in March 2015) 17. “Innovation and creative destruction” (at the Heidelberg conference “Genius and Charisma” in June 2011) 18. “Can a plausible story be told of the history of ethics? An alternative to MacIntyre’s After Virtue“ (at the conference “Dimensions of Goodness” at the University of Notre Dame in April 2011) 19. “Sociobiology” (at King’s University College in London, Ontario in February 2011) 20. “Ethics and Economics, or How Much Egoism Does Modern Capitalism Need? Machiavelli’s, Mandeville’s, and Malthus’s New Insight and Its Challenge” (in the XVI Plenary Session of the Pontifical Academy of Social Sciences in May 2010; repeated at the University of Regensburg in July 2011, at the Lumen Christi Institute at the University of Chicago in May 2012, at Michigan State University in January 2013, at the University of Munich in July 2013, at Yale University in November 2013, at Ulm University in May 2015) 21. “In which sense is the concept of spirit of German Idealism a legitimate successor of the concept of pneuma of the New Testament?” (at the Forschungsinstitut für Philosophie Hannover in March 2010) 22. “Interests, values, and recognition as different dimensions in the efforts on nuclear disarmament and non-proliferation” (at the conference “Nuclear disarmament, non- proliferation, and development” in the Vatican in February 2010) 23. “What are the main steps in the historical evolution of aesthetic theories from ancient civilizations to the present and the driving forces behind this evolution?” (at the conference “Beauty” at the University of Notre Dame in January 2010) 24. “A metaphysical history of atheism” (at the University Bamberg in April 2009) 25. “On the rank order of the three Greek tragedians” (at the University of Jena in April 2009; repeated in Castelen near Basel in April 2009) 26. “Why teleological principles are inevitable for reason” (at the Evolution Conference of the Gregoriana in Rome in March 2009; repeated at the University of Vienna in February 2010, at Duke University in March 2014) 27. “The USA and the European Union as two modern forms of empire” (at the University of Bielefeld in February 2009; repeated at the University of Notre Dame 30-VH  in March 2009 and at the University of Uppsala in May 2009) 28. “Why does the environmental problem challenge ethics and political philosophy?” (at the World Conference for Philosophy in Seoul in August 2008) 29. “On the philosophy of history of the philosophy of history” (at the conference “Pneumatologia politica” in Trento in May 2008) 30. “Did Goethe influence Dickens?” (at Cambridge University in May 2008) 31. “Why do we laugh?” (at the Casa Rosmini in Rovereto in April 2008) 32. “Ethics and dialogue” (at the University of Urbino in April 2008) 33. “Childhood and philosophy” (at the Casa Rosmini in Rovereto in April 2008) 34. “The Idea of a Rationalist Philosophy of Religion” (at the Catholic Academy Berlin in March 2008; repeated at the University of Trento in May 2008, at the Antonianum in Rome in June 2008 and at the Divinity School of Yale University in November 2013) 35.“Expectations and Grace. On Charles Dickens’ Great Expectations” (at the Catholic Academy Berlin in March 2008) 36. “Gómez Dávila” (at the Karl-Rahner-Akademie in Köln in March 2008) 37. “Plato today” (at the Catholic Academy in Munich in February 2008) 38. “Dickens as a critic of Goethe?” (at the University of Bamberg in May 2007) 39. “Religion of art, self-mythicization and the function of the church year in Goethe’s Italienische Reise” (at the Theologische Fakultät Fulda in Mai 2007) 40.“Pre-established harmony between parental and free choice of the partners. Masked encounters in Ludvig Holberg’s Mascarade, Carlo Goldoni’s I Rusteghi, and Georg Büchner’s Leonce und Lena” (at the Goldoni conference of Saint Mary’s College and the University of Notre Dame in April 2007) 41. “Cicero’s Plato” (at the Cicero conference of the University of Notre Dame in October 2006; repeated at the MPSA in Chicago in April 2007) 42. “Politics of science and of immigration in the USA” (at the DAI Heidelberg in April 2006) 43. “Space and Time of the philosophical dialogue” (at the Theological Faculty Fulda in May 2005) 44. “On the forms of the philosophical dialogue” (at the University of Bamberg in May 2005; repeated at the University of Beijing in January 2015) 45. “On the history of the philosophical dialogue” (at the University of Halle in May 2005) 31-VH 8/9/17  8/9/17 46.“The role of the classics in education” (for the 500-year-anniversary of the Allbertus-Magnus-Gymnasiums in Regensburg in May 2005) 47. “Friedrich Schiller’s “The Conspiracy of Fiasco in Genua”” (at the University of Wisconsin in April 2005; repeated at the University of Bielefeld in February 2009) 48. “What can one learn from Hegel’s objective-idealist doctrine of the concept?” (at the University of Munich in January 2005, repeated at the University Valencia in April 2016) 49. “What are philosophical dialogues, and why do people write them?” (at the Institute for Advanced Study in December 2004; repeated at the University of Rome in June 2007) 50. “A form of self-transcendence of philosophical dialogues in Cicero and Plato” (at the New School University in October 2004) 51. “Intersubjectivity and subjectivity in Hegel” (at the University of Venice in April 2004) 52. Four lectures on “Interpreting Plato” at the IISFN in March 2004 53. “Plato’s Protrepticus” (at the Scuola di Heidelberg of the IISFN in March 2004) 54. “The superiority of the American university system” (at the DAI Heidelberg in March 2004) 55. “Philosophy and Its Literary Forms” (at the conference “Das Geistige und das Sinnliche in der Kunst” in Aachen in February 2004) 56. “Philosophy and its Languages. A Philosopher’s Reflections on the Rise of English as Universal Academic Language” (at Circolo Italo-Britannico in Venedig in January 2004; repeated at Ehwa University in Seoul in July 2008) 57. “Reasons, emotions and God’s presence in Anselm’s “Cur deus homo”“ (at the University of Notre Dame in November 2003) 58. “Hans Jonas’ position in the history of German philosophy” (at the Northern Institute of Technology in Hamburg in June 2003; repeated in Italian at the University of Venice in February 2004 and in German at the Evangelische Akademie Tutzing in May 2007) 59. “What can we learn from the interreligious dialogues of the Middle Ages and early Modernity?” (at the conference “Paideia and Religion” in Boston in March 2003; repeated in Italian at the IISFN in June 2003) 60. “The function of the classics in the process of education” (at the University of Vienna in December 2002) 61. “Davidson, Gadamer and the necessity of an objective-idealististic hermeneutics” (at the university of Vienna in December 2002; repeated at the Scuola di Heidelberg of the IISFN in January 2003 and at the University of Notre Dame in 32-VH  September 2005) 62. ”Globalization and US-American hegemony” (at the DAI Heidelberg in January 2003; repeated at the IISFN in June 2003, at the University of Urbino in March 2004 and in Imperia in May 2004) 63. “Platonism and Its Interpretations. The Three Paradigms and Their Place in the History of Hermeneutics” (in German at the RWTH Aachen in February 2002; repeated at the University of Heidelberg in January 2003 und in English at the conference “Eriugena, Berkeley and the Idealist Tradition” in Dublin im March 2002) 64. “Philosophy and the Interpretation of the Bible” (at Clemson University in South Carolina in February 2002; repeated at Holy Cross College, Worcester in September 2006 and at the University of Trento in April 2008) 65. “Hegel’s and Brandom’s inferentialism” (at the conference “Hegel contemporaneo” in Venice in May 2001) 66. “Platonism and Darwinism” (at the conference “The metaphysical implications of Darwinism” in Notre Dame in March 2001; repeated at the University of Vienna in April 2009) 67. "Is There Progress in the History of Philosophy?" (at the conference on "Hegel’s History of Philosophy" in New York in October 2000) 68. "Why Do We Laugh at and with Woody Allen?” (at New York University in October 2000; repeated at Ohio University in Athens in April 2002) 69. "Interpreting Philosophical Dialogues" (at the conference on Hermeneutics as Basic Discipline" at Notre Dame in September 2000; repeated at the New School for Social Research in October 2000) 70. "On the relation between metaphysics of life and general metaphysics. Reflections on Schopenhauer" (at the conference on metaphysics in Hildesheim in June 2000) 71. "The environmental problem in the twenty-first century" (at the lecture series "Gedanken zur Nachhaltigkeit" of the Forschungsinstitut für Philosophie in May 2000; repeated at the Casa Rosmini in Rovereto in April 2008 and at the university of Louvaine in May 2016) 72. "Llulls “Desconhort”" (at the University of Regensburg in December 1998; repeated at the Medieval Conference in Kalamazoo in May 2000) 73. ."On the philosophy of history of the social sciences" (at the University of Essen in October 1998; repeated at the University of Regensburg in February 1999) 74. "What constitutes the extraordinary value of the Russian literature of the 19th century?" (at the Freie Akademie der Künste in Hamburg in October 1998) 75. "Hegel’s Esthetics" (at National Seoul University in September 1998) 33-VH 8/9/17  8/9/17 76. "Darwinism as Metaphysics" (at Sogang University in Seoul in September 1998; repeated in English at the University of Stanford in April 1999) 77. "Religion, Theology, Philosophy" (at the University of Hannover in June 1998) 78. "Present and future tasks of a moral economy" (at the University of Hannover in June 1998) 79. "Chances and dangers of talent" (at the 50 years celebration of the Evangelische Studienwerk Villigst in May 1998 in Villigst) 80. "Theodicy strategies in Leibniz, Hegel, Jonas" (in Italian at the conference on monotheism in April 1998 in Jerusalem; repeated in Hannover in October 1998) 81. "Rationalism, determinism and freedom" (at the Forschungsinstitut für Philosophie Hannover in January 1998; repeated at the University of Mainz in October 1998, in English at the University of Notre Dame in March 1999) 82. "Universal ethics and natural law" (at the second conference of the Universal Ethics Project of the UNESCO in Naples in December 1997; repeated at the Bucerius Law School in Hamburg in June 2003) 83. Five lectures on "The state and its history" [at the IISFN in February 1997 in Italian] 84. "Conditions of multicultural societies and states" (at the University of Bielefeld in January 1997, repeated at the Königsteiner Forum in September 1997) 85. "Philosophical foundations of a future humanism" (in Basel in January 1997; repeated in English at the University of Notre Dame in February 1997 and at the University of Oslo in September 1997, at the Tübinger Stift in July 1997, at the University of Erfurt in October 1997 and at the University of Essen in January 1998) 86. "Politics and morality facing global challenges" (at the Hochschule für Philosophie in München in November 1996; short version during the presentation of my book "Moral und Politik" in the European Parliament in Brussels in March 1998; repeated at the University of Essen in April 1998, at the Musikhochschule Hannover in July 1998, at the Korean Hegel Society in Seoul in September 1998, at the University of Greifswald in October 1998 as well as, in English, at the American Philosophical Association in Boston in December 1999, at the University of Urbino in March 2004, at the University of Bamberg in June 2011) 87. "Who has right?" (at the Hochschule für Wirtschaft und Politik in Hamburg in November 1996) 88. "Just wars" (at the University of Hamburg in November 1996; repeated in English at Loyola University in Chicago im Februar 2003) 89. "Ethics and history" (at the University of Nijmegen in May 1996) 34-VH  90. "Hegel and Spinoza" (at the University of Tübingen in April 1996) 91. "Biological presuppositions of moral behavior of humans" (at the Forschungsinstitut für Philosophie Hannover in January 1996) 92. "On the concept of cratology" (at the Kulturwissenschaftliche Institut Essen in December 1995) 93. "Rationalism, intersubjectivity and loneliness: Heraclitus, Lullus, and Nietzsche" (at the Ohio State University in October 1995) 94. "Philosophy in an age of overinformation" (at the Philosophy conference of the UNESCO in March 1995 in Paris, repeated at the Ohio State University in April 1996, at the Goethe Institute Ankara in September 1996, at the University of Leipzig in December 1996) 95. "What are presuppositions of a rational ethics?" (at the University of Essen in November 1994) 96. "Vico’s sources" (at the Naples conference in October 1994 in Bielefeld) 97. Five lectures on "Morality and politics" (at the IISFN in October 1994 in Italian) 98. "Ramón Llull’s rationalism" (in Spanish at the Lull conference in September 1994 in Trujillo; repeated in April 2002 at the University of São Paulo) 99. "On the indispensability of republican virtues" (at the European Colloquium in Regensburg in June 1994) 100. "Ought developing countries to develop? And if yes, how?" (at the University of Marburg and the University of Jena in June 1994) 101. "The intellectual background of Reiner Schürmann's Heidegger interpretation" (at the Reiner Schürmann Memorial Symposium in April 1994 in New York) 102. "Moral ends and means of global demographic policy" (at the symposium "Weltbevölkerung und Welternährung" of the Deutsche Welthungerhilfe in March 1994 in Bonn; repeated in English at the World Conference for Sociology in Bielefeld in July 1994 and at the University of Münster in November 1994) 103. "Sociobiology and ethics" (at the University of Essen in December 1993; repeated at the University of Mainz in January 1994, at the University of Witten- Herdecke in December 1994, at the ETH Zürich and at the University of Innsbruck in November 1995, at the University of Ulm in December 1995, in the Forschungszentrum Jülich in October 1996, in English at the Ohio State University in April 1996, at the University of Oslo in September 1997 and at the State University of Florida in Jacksonville in February 2002, in Italian at the University of Trento in March 2009) 35-VH 8/9/17  8/9/17 104. "How much genetic engineering, protection of animals and of the environment do we need?" (discussion at the Tagung der Gesellschaft Deutscher Chemiker in Bonn in October 1993) 105. "Philosophy and its media" (in English at the 19th World Congress of Philosophy in Moscow in August 1993; repeated at the Tübinger Symposium "Platonisches Philosophieren" in April 1994, in Hannover in November 1998 and in English at the University of Sankt Gallen in May 2001) 106. "Power and morality" (at the University of Zürich in June 1993; repeated in English at the University of Oslo in September 1993 and at the University of Bergen in September 1997; at the University of Hamburg in October 1993, at the University of Ulm in December 1995) 107. "Ethics and ontology in Hans Jonas" (at the University of Konstanz in January 1993; repeated at the Hofgeismarer conference on Hans Jonas in June 1993, in Italian at the Lateran University in Rom in January 1996, before the Wissenschaftlicher Verein Mönchengladbach in January 1997) 108. "Ethics and system theory" (discussion with Niklas Luhmann at the ETH Zürich in November 1992) 109. Four lectures on Socrates, Plato and "The essential differences between ancient and modern philosophy" (in English and Norwegian at the University of Oslo in October 1992; the last lecture was repeated at the University of München in November 1992, one of the lectures on Plato in French at the University of Tours in April 1997) 110. "Ethical principles of peace politics" (public lecture during the award of the price "The Glass of Reason" to C-F. von Weizsäcker in Kassel in October 1992; repeated at the Salzburger Humanismusgespräche in March 1993, at the University Witten-Herdecke in June 1993, in English at the University of Trondheim in September 1993) 111. "Individual and collective identity crises" (at the conference "Trauma and Tragedy" in June 1992 in Amsterdam; repeated at the Philosophisch-Theologische Hochschule Walberberg in October 1993, at Carleton College and at the Ohio State University in April 1994, at the World Conference "Medicine and Philosophy" in Paris in June 1994, at the University of Ulm in December 1995, at the University of Notre Dame in March 1996, in French at the Ecole Normale in Paris in May 1997) 112. "Ultimate foundation and categories" (at the conference "Letztbegründung als System?" in June 1992 in Prague) 113. "The idea of the university in face of the challenges of the 21st century" (lecture at the conference of the presidents of German universities in Rostock in May 1992; repeated in January 1993 at the University of Kiel, in May 1993 at the University of Kaiserslautern, in May 1996 at the University of Nimwegen, in English in September 1993 at the University of Trondheim) 36-VH  8/9/17 114. "Can Abraham be saved? And: Can Søren Kierkegaard be saved?" (in Norwegian at the University Oslo in November 1991; repeated in German before the Leibniz-Society in Hannover in July 1992, at the University of Köln in June 1994, in English at the University of Notre Dame in November 2007) 115. Five lectures on "Descartes and Spinoza" (in English and Norwegian at the University Trondheim in October 1991) 116. "Being and subjectivity. On the metaphysics of the ecological crisis" (at the Kulturwissenschaftliches Institut Essen in June 1991; repeated at the University of Vienna in June 1991, at the ETH Zürich in November 1991, in English at the eleventh Internordic Conference in Odense in August 1995, in French at the University Laval in Québec in April 2011) 117. "On the dialectic of strategical and communicative rationality" (at the Dubrovnik Workshop "Diskurs und Rationalität" in April 1991) 118. "The Third World as a philosophical problem" (at the Ohio State University in February 1991; repeated at the conference "Transcendental Pragmatics and North-South Ethical Problems" in Mexico City in March 1991, at the University of Tromsrin September 1991 and in Spanish at the Javeriana in Bogotá and at the University of Fortaleza in April 2002) 119. "Ethical aspects of capitalism” (at the conference "Wirtschaftsethik" in November 1990 in Ulm; repeated at the Technische Hochschule Aachen in June 1991, at the Technische Hogeschool Twente in Enschede in June 1992 and in Spanish at the Javeriana in Bogotá and at the University of Fortaleza in April 2002) 120. Eight lectures on "Vico’s philosophy of culture" (at the Moscow State University MGU in March through May 1990) 121. Five lectures on "The philosophy of the ecological crisis" as well as five lectures on "The Essence of Modern Metaphysics (Descartes, Spinoza, Kant, Fichte, Hegel)" (at the Institute of Philosophy of the Academy of Sciences in Moscow during a visiting professorship from April till June 1990; two lectures each were repeated at the University of Rostov at Don in May 1990 as well as at the University of Minsk and at the University of Novosibirsk in June 1990; one of the ecological lectures was repeated at the New School for Social Research in New York in December 1990, at the IISFN in May 1991, at the University of Tromsö and of Trondheim in September and October 1991, at the Center for the Study of Developing Societies in Delhi in April 1992, at the Technische Hogeschool Twente in Enschede in June 1992, at the Wuppertalinstitut in March 1994, at the National Seoul University, the Yonsei and the Myongji Universität in Seoul, the Hannam University in Taejong and the Keimyung University in Taegu in March and April 1995, at the University Essen in October 1995; the lecture on Descartes was repeated at the University Essen in October 1990, the lecture on Spinoza at the Technische Hochschule Aachen in June 1992) 122. "Intersubjectivity and freedom of the will in Fichte’s System of Ethics"" (at the conference "Fichtes Rechtsphilosophie: Die ersten drei Lehrsätze der "Grundlage 37-VH  des Naturrechts"" in March 1990 in Frankfurt) 123. ."Heidegger’s philosophy of technology" (at the conference for the 100th birthday of Martin Heidegger in October 1989 in Moscow) 124. "Why has technology become a philosophical problem?" (at the University of Ulm in September 1989; repeated at the Technische Hochschule Aachen in February 1990 and at the ETH Zürich in December 1991) 125. Three lectures "Hegel’s System", "Morality and politics: Machiavelli’s problem", "Transcendental pragmatics" at the Goethe Institute in Porto Alegre in June 1989 (in Spanish; the first lecture was repeated at the University of Campinas, the third at the Goethe Institute in Sâo Paulo) 126. A three weeks seminar (12 hours a week) "From Kant to Hegel" as well as a three week seminar (4 hours a week) "Antinomies and dialectic" (together with Prof.Dr. C.Cirne-Lima and Dr.Th.Kesselring) (at the Universidade Federal de Rio Grande do Sul in Porto Alegre/Brasilien during a visiting professorship in June 1989; in Italian) 127. "Vico’s idea of the science of culture" (at the University of Vienna in April 1989; repeated in Italian at the IISFN in May 1989 and in French at the University of Tours in April 1997; short version at the presentation of the German and Spanish translations of Vicos "Scienza nuova" in the European Parliament in Strasbourg in November 1991) 128. "Nature and natural sciences in Vico’s new science of the spirit" (at the II. Colloquium "Natur in den Geisteswissenschaften" in April 1989 in Blaubeuren) 129. "The greatness and limits of Kant's practical philosophy" (at the conference for the 200th anniversary of "The Critique of Practical Reason" in December 1988 at the New School for Social Research in New York; repeated in German at the Technische Hochschule Aachen in January 1989 and at the Universität Ulm in February 1990, in English at the School of Architecture in London in March 1990, at the University of Louisville in January 1991 and at the University of Tromsö in September 1991 as well as before the Hegel Society of Korea in Seoul in April 1995, in Spanish at the Javeriana in Bogotá, the Centro de Extensno Universitaria in São Paulo and the University Fortaleza in April 2002) 130. "The philosophy of mathematics of Nicolaus Cusanus" (at the conference of the American Cusanus Society in October 1988 in Gettysburg) 131. "On the impossibility of a naturalistic foundation of ethics: Idealism and Materialism" (at the conference "Die ethische und politische Verantwortung des Wissenschaftlers" in April 1988 in Köln) 132. "Morality and politics: Machiavelli’s problem" (at the University of Saarbrücken in January 1988; repeated in English at the New School for Social Research in April 1988, at Pennsylvania State University in October 1988, at the New York State University in Purchase in November 1988; in Italian at the IISFN in May 1989; in German at the University of Regensburg in November 1989; in English at the 38-VH 8/9/17  University Trondheim in August 1991) 133. Four lectures on "Hegel’s Logic" (at the IISFN in March 1987 in Italian) 134. "Law and history in G.Vico" (at the University of Mannheim in January 1987) 135. "The figurative arts in the esthetics of German idealism" (at the Hochschule für bildende Künste in Braunschweig in December 1986) 136. "Hegel's idea of right" (at the New School for Social Research in December 1986) 137. "On the dialectic of enlightenment in Vico’s philosophy of history" (at the University of Frankfurt in November 1986; repeated in Italian at the Circolo George Sadoul in Ischia in May 1987) 138. "An attempt to locate the historical Socrates" (at Williams College in October 1986) 139. Sixteen lectures on "The development of German idealism" (at the IISFN on January through June 1986 in Italian) 140. "Foundational questions of objective idealism" (at the conference "Philosophie und Begründung" in Bad Homburg in May 1986, repeated in English at the University of Bergen in September 1997) 141. "Moral reflection and decay of institutions. On the dialectic of enlightenment and counter enlightenment" (at the conference of the International Hegel-Gesellschaft in March 1986 in Zürich; repeated at Princeton University in November 1986) 142. "What may and what must the state punish? Reflections based on Fichte’s and Hegel’s theories of punishment" (at the conference "Moralität und Sittlichkeit" in March 1986 in Hamburg) 143. Five lectures on "Hegel’s lectures on the philosophy of religion" (at the IISFN in December 1985 in Italian) 144. "Carl Schmitts critisism of the self-cancelation of a valuefree constitution in "Legalität und Legitimität"" (at the conference "Il pensiero politico di Carl Schmitt" in December 1985 in Naples in Italian) 145. "Tasks of philosophy between relativism and dogmatism" (at the conference "Per un pluralismo non relativistico in filosofia" in October 1985 in Napels) 146. "An immoral ethical life. Hegel’s interpretation of Indian culture" (at the conference "Moralität und Sittlichkeit" in March 1985 in Frankfurt) 147. Seven lectures on "The development of Greek philosophy from Parmenides till Platon", two lectures on "Principle of contradiction and dialectic" and one lecture on "The so-called Münchhausentrilemma" (at the Technische Hogeschool Twente in Enschede/Netherlands in January 1985) 39-VH 8/9/17  Q1 8/9/17 148. "Anthropology in Fichte" (at the II European-Latin American symposium for philosophical anthropology in October 1984 in Tübingen) 149. "The position of Hegel’s philosophy of objective spirit in the system and its aporia"; "Abstract Right"; "The State" (at the conference "Anspruch und Leistung von Hegels "Rechtsphilosophie" in March 1984 in Naples) 150. "Space, time, movement"; "Plant and animal" (at the conference "Hegel und die Naturwissenschaften" in October 1983 in Tübingen) 151. Four lectures on „The esthetics of Greek tragedy" (at the IISFN in March 1983 in Italian) 152. "Theories of the history of philosophy" (at the IISFN in December 1982 in Italian) At the University of Notre Dame: 1. Nietzsche 2. Political and Constitutional Theory: Ancient and Modern (Aristotle, Locke, The Federalist Papers) 3. Schopenhauer,TheWorldasWillandRepresentation 4. ThePhilosophicalImportanceofDarwin 5. ThomasMann 6. Philosophical Dialogues (Plato, Abelard, Ficino, Hume, Fichte, Kierkegaard, Feyerabend) 7. TheoryofComedy 8. PhilosophyofPower 9. Kant’sPoliticalPhilosophy 10. Core Course on Ecology and Ethics Heidegger, Jonas, Ibsen, Callenbach) (Brown, Malthus, Bacon, Descartes, 11.Philosophical Dialogues (Plato, Cicero, Anselm of Canterbury, Bodin, Diderot, Schelling, Murdoch) 12. Hume’s Practical Philosophy 13. Dramas on Political Conflicts (Aeschylus, Sophocles, Euripides, Goethe, Schiller, Büchner, Grillparzer, Hebbel, Dürrenmatt) 14. Plato before the “Republic” 40-VH  15. Goethe’s Lives 16. Aristotle’s “Nicomachean Ethics”, “Politics”, “Rhetorics” 17. Philosophy of mind in the twentieth century (James, Freud, Husserl, Ryle, McGinn, Kim, Chalmers, Searle, Dennett) 18. Ethics and Politics in Italian Renaissance 19. The German Quest for God from Goethe to Nietzsche and Kafka 20. Philosophical Autobiographies (Plato, Isocrates, Augustine, Abelard, Petrarca, Vico, Rousseau, Hume, Mill, Newman, Nietzsche, Feyerabend) 21. Faust (Marlowe, Goethe, Grabbe, Klaus Mann) 22. Hegel’s Political Philosophy 23. The Birth of the Humanities from the Spirit of German Idealism (Friedrich Schlegel, August Wilhelm Schlegel, Schleiermacher, Schelling, Hegel) 24. Vico (Autobiography, On the Method of Studies of Our Time, New Science) 25. Literary Criticism from Aristotle to Jakobson (Aristotle, Horace, Longinus, Dante, Boileau, Pope, Schiller, Hegel, Nietzsche, Adorno, Jakobson) 26. Kant’s Three Critiques 27. Faith, Hope, and Love: Thomas Aquinas and Kierkegaard on Christian Ethics 28. Plato, “Republic” and “Statesman” 29. German Philosophy in the 20th century (Husserl, Reichenbach, Gehlen, Habermas) 30. Thomas Aquinas on the Cardinal Virtues 31. Humanities in the 20th century (Dilthey, Freud, Ingarden, Panofsky, Strauss, von Wright, Foucault, Dworkin, Sontag) 32. The late Plato (“Cratylus,” “Theaetetus,” “Sophist,” “Philebus”) 33. The essay (Montaigne, Bacon, Hume, Kant, Schiller, Nietzsche, Th.S. Eliot, Hans Jonas) 34.The German Quest for God (Hartmann von Aue, Meister Eckhart, Luther, Grimmelshausen, Lessing, Hegel, Mann, Steinherr) 35.History of Hermeneutics (Philo of Alexandria, Origen, Augustine, Maimonides, Spinoza, Schleiermacher, Droysen, Ricœur, Grice, Auerbach) 36. Neo-Platonism: Plotinus and Proclus 41-VH 8/9/17  37. Plato, Laws 38. Making Sense of a Life: Biography and Autobiography (Plutarch, Tacitus, Hildegard of Bingen, Vasari, Boswell, Rousseau, Bismarck, Tolstoy, Henry Adams) 39. The late Husserl 40. Greek Drama (Aeschylus, Sophocles, Euripides, Aristophanes) 41. Ancient Drama (Aeschylus, Sophocles, Euripides, Aristophanes, Menander, Plautus, Terence, Seneca) At Heidelberg University in 2015 1. Hermeneutics 2. Hegel, Phenomenology of Spirit 3. Plato, Parmenides (together with Jens Halfwassen) At the University of Trento in 2008: 1. Morals and Politics At the Northern Institute of Technology in Hamburg since 2003 every year (with the exception of 2006 and 2009): 1. BusinessEthicsinaGlobalizedWorld At the Hamburg School of Logistics in 2005, 2007 and 2008: 1. EthicsofPower At Kampala International University in 2006: 1. Ethics of Development At the Research Institute for Philosophy in Hannover: 1. Classicsofthephilosophyofbiology(Aristotle,Leibniz,Kant,Darwin, Bergson, Portmann, Mayr) Driesch, 42-VH 8/9/17  At Ohio State University: 1. Hegel'sPhilosophyofRight At the Universität Essen: 1. MoralsandPolitics 2. Descartes,Meditations 3. H.Jonas'philosophyoflifeandethics 4. Aristotle,Physics 5. J.Rawls,Atheoryofjustice 6. Hermeneutics 7. Plato,ApologyofSocrates 8. L.Wittgenstein,PhilosophicalInvestigations 9. Kierkegaard, Either – Or 10. Ancient Philosophy 11. The fragments of Parmenides 12. Augustine, The City of God 13. Plato, The Republic 14. Sextus Empiricus 15. Epistemology 16. Locke, An essay concerning human understanding 17. Leibniz, Discourse on Metaphysics 18.Rationalism and negative anthropology: Descartes' "Les passions de l'âme," Pascal's "Pensées," La Rochefoucauld's "Maximes" (together with Prof. Dr. R.Galle) 19. H.G.Gadamer, Truth and Method 20. Montesquieu, The Spirit of the Laws 21. Concept and function of the beautiful in Schiller (together with Prof. Dr. R.Galle) 43-VH 8/9/17  8/9/17 22. Hegel, Philosophy of Right 23. Philosophy of history 24. Burckhardt, Considerations on World History 25. M.Heidegger, Being and Time 26. Early modern utopias (together with Prof. Dr. P.Münch) 27. V.Hösle, Morals and Politics 28. New texts on determinism (Austin, Chisholm, van Inwagen, Planck, Strawson) 29. Evolution, Knowledge, Ethics (together with Prof.Dr. F.Wuketits and Dr. G.Klauer) 30. K.R.Popper/J.C.Eccles, The Self and its Brain 31. Interreligious Dialogues in the Middle Ages (Abelard, Llull) 32. Philosophy of Religion of the Renaissance At the ETH Zürich: 1. EthicsandPoliticsfacingtheecologicalcrisis At the University Ulm: 1. TranscendentalPragmaticsandcontemporaryphilosophy 2. Aristotle,NicomacheanEthics 3. PhilosophyofTechnology:Heidegger,Gehlen,Habermas,Jonas At the New School for Social Research: 1. Plato'sUnwrittenDoctrine 2. FromKanttoHegel 3. Vico,NewScience 4. MoralPhilosophysinceKant 5. Machiavelli,Discourses;Prince 6. NicolausCusanus 44-VH  Honors and Grants As Tutor: 1. Horkheimer/Adorno,DialecticsofEnlightenment 2. Plato,Latedialogues 3. Theoriesofthehistoryofphilosophyinthe19thand20thcentury 4. Hegel,Encyclopediaofthephilosophicalsciences 5. Hegel,EncyclopediaofphilosophicalsciencesII 6. Fichte,Foundationsofnaturallaw 7. Schelling,Philosophyofart 8. Structural problems of objective idealism (2 Semester) After my Accreditation as University Lecturer: 1. Schopenhauer’sworkonfreedomasanintroductiontothedebateondeterminism 2. Vico,Onthemethodofstudiesofourtime 3. TranscendentalPragmatics 4. Lucretius,Onthenatureofthings 5. Aristotle,Politics 6. Spinoza,Ethics 7. Hobbes,Leviathan 8. Scheler,Essenceandformsofsympathy 9. Locke,TwoTreatisesofGovernment 10. Leibniz, Theodicy 11. Tocqueville, On the democracy in America !Member of “Ethics in Action,” founded, among others, by the Pontifical Academies of Sciences and of Social Sciences as well as by the UN Sustainable Development Solutions Network 7. Kant'sMoralThought 45-VH 8/9/17  !Visiting Professorship at the University of Heidelberg, 2015 !Meckatzer Philosophy Award 2014 !Appointed by Pope Francis as Ordinary Academician to the Pontifical Academy of Social Sciences 2013 !Taught Master Course at the University of Munich and Research Workshop at the University Duisburg-Essen, 2013 !Acquired together with Associate Director Don Stelluto 1,58 million dollars from the Templeton Foundation for fellowships at the Notre Dame Institute for Advanced Study 2012 !Offer to become Director of the Centro di Scienze Religiose of the Bruno Kessler Foundation in Trent/Italy 2011 (declined) !Offer to become member of the Strategic Committee of the Wissenschaftsrat for the second part of the German “Exzellenzinitiative”, 2010 (declined) !Best Teacher Award of the Northern Institute of Technology, 2008 !Research Achievement Award of 10, 000 USD from the University of Notre Dame, 2008 ! Rosmini Chair at the University of Trent/Italy, 2008 !Taught Master Course at the Forschungsinstitut für Philosophie Hannover, 2006 !Member at the Historical School of the Institute for Advanced Study, Princeton, 2004/05 !Key Professor at the Northern Institute of Technology in Hamburg, 2002 ff. ! Fellowship at the Erasmus Institute of the University of Notre Dame, 2001-2002 !Offer of a chair position in Political Science from the University of Regensburg, 2000 (declined) !Offer of a Fellowship at the Kulturwissenschaftliches Institut Essen, 1999 (declined) !Max Kade Distinguished Visiting Professor, Department of Philosophy and 46-VH 8/9/17  Service !Humboldt Professor at the University of Ulm, 1995 !Visiting Professor at South Korean universities, 1995, financed by DAAD !Fellow at the Kulturwissenschaftliches Institut Essen, 1995-1996 !Fritz Winter Award for outstanding academic achievements ( 50, 000 DM), 1994 !Visiting Professor at the Department of Ecology, Eidgenössische Technische Hochschule Zürich, 1992-1993 !Affiliation with the Sociology Department of the University of Delhi, 1992 !Affiliation with the Philosophy Department of the University of Trondheim, 1991 !Affiliation with the German Department of Ohio State University, 1990-1991 !Visiting Professor at the Academy of Sciences and at the Lomonossov University in Moscow, 1990 (financed by DAAD) !Visiting Professor in Ulm, 1989-1990 !Visiting Professor at the University of Porto Alegre, Brazil 1989 (financed by DAAD) !Heisenberg Fellowship, 1987-1993 !Fellow at the Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, 1985-1986 !Visiting Lecturer at the Technische Hogeschool Twente in Enschede, 1985 !Research fellowship of the Deutsche Forschungsgemeinschaft, 1982-1984 !Fellowship of the Studienstiftung des deutschen Volks, 1978-1982 !Fellowship of the Bavarian Begabtenförderung, 1977-1982 !2014 Member of the Commissione giudicatrice della valutazione comparativa of the University Trento !2008-2013 Director of the new Notre Dame Institute for Advanced Study !2007 and 2009 Member of the two Strategic Academic Planning Committees of the University of Notre Dame !2004-2005—Member of the UNESCO/COMEST group on the precautionary Department of German, Ohio State University, 1996 47-VH 8/9/17  8/9/17 principle !2002-2003–Member of the Norwegian commission to promote candidates for full professorship in philosophy !2001 -- Organized with Christian Illies a conference on “The Metaphysical implications of Darwinism” at the University of Notre Dame !2000 – present -- Editor of the series “Faszination Philosophie” with the publisher C.C. Buchner !2000 – Organized a conference on hermeneutics at the University of Notre Dame !2000 – Organized lecture series on sustainability in Hannover in connection with EXPO 2000 !2000 – Organized conference on metaphysics in Hildesheim !1999 – 2002 -- Member of the Board of Trustees of the European College of Liberal Arts in Berlin !1999 – present -- Service in many committees at the University of Notre Dame (both departmental, college and university level, among which in the Strategic Academic Planning Committee) !1998 – Organized lecture series on Leibniz in Hannover !1998 – present -- Member of the Kuratorium of the Jakob-Kaiser-Stiftung !1998 – Responsible Director of the Forschungsinstitut für Philosophie Hannover !1997 – 2000 -- Member of the Kuratorium of the Stiftung fur die Rechte zukünftiger Generationen !1997 – 2000 -- Member of the Stiftungsrat of the Petra Kelly-Stiftung !1997 – 1999 – Member of the group “Coherence” of the Common Conference Church and Development !1993 – 1997 – Member of the Kuratorium of the Akademie Gesellschaft und Wissenschaft !1993 – 1996 – Member of the group “Economy and Ecology” of the state minister of ecology of Baden-Württemberg !1990 – 1997 – Member of the Fachbereichsrat and the Konvent at the University of Essen; Chair of the Magisterprüfungsasschuss des Fachbereichs !1990 -- present --Member of the Wissenschaftlicher Beirat and corresponding member of the Humboldt-Studienzentrum of the University of Ulm !1990 – 2001 – Editor of the monograph series “Ethik im technischen Zeitalter” with C.H. Beck publishing house, Munich !1988 – 2000 -- Advisor for several dissertations and master’s theses at the New School for Social Research, the University of Tübingen, the University of Essen !1991 – 1998 – Member of the DAAD-Kommission for Southern Europe 48-VH  Languages Employment History 8/9/17 !1990 – Member of the Commission on the Ethical Evaluation of the abortion pill (RU 486), Hoechst !1989 –2000 – Offered several seminars on the Ethics of Business to Top Executives and Managers of Beiersdorff, Hoechst, Bosch and other larger German firms !1987 – 1990 – Elaborated the general plan for the Multimedia Encyclopedia of Philosophy for the Italian State Television (RAI); directed interviews with leading philosophers such as Apel, Feyerabend, Føllesdal, Rorty, Thieme, Goodman, Hintikka, Jonas, gave myself many interviews on the history of philosophy and on systematic issues !1986 – 1990 – Participation in the administrative work of the Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, including the review of manuscripts and the planning of conferences !1986 – 1989 – Wrote four papers for the Office of the Chancellor, Federal Republic of Germany !1988 – Organized a Kant conference at the New School for Social Research Active knowledge of German, Italian, English, Spanish, Russian, Norwegian, and French; passive knowledge of Latin, Greek, Sanskrit, Pali, Avestan, Portuguese, Catalan, Modern Greek, Swedish, and Danish !2008 – present – Director of the Notre Dame Institute for Advanced Study !1999 – present – Paul Kimball Professor of Arts and Letters at the University of Notre Dame (in the Departments of German, Philosophy, and Political Science); Fellow of the Nanovic Institute for European Studies and of the Kroc Institute for International Peace Studies !1997 – 2000 – Director of the Research Institute of Philosophy in Hannover !1993 – 1997 – Full Professor, University of Essen !1987 – 1993 – Heisenberg Fellow, Deutsche Forschungsgemeinschaft !1989 –1990 – Visiting Professor, University of Ulm !1988 – 1989 – Associate Professor with tenure, New School for Social Research !1986 – Visiting Assistant Professor, New School for Social Research Birthdate: June 25, 1960 Personal 49-VH  Married, three children German and American citizenVittorio Gronda Hösle. Hösle. Keywords: “L’inter-soggetivo di Vico” “filosofia prima” “filosofia seconda”. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Hösle: l’implicatura di Vico” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51753865907/in/dateposted-public/

 

Iacono (Girgenti). Filosofo. Grice: “I love Iacono; for one, he has taken Marx’s chapter on cooperation in Das Kapital seriously; but as he notes, Marx subverts the order, the symbolic interaction becomes a super-structure! Iacono recognises the perplexities of shared intentionality, and finds ways to deal with them conceptually –Insegna a Pisa. Fra i filosofi che si sono interessati ai rapporti storici e teorici della filosofia con l’antropologia e la politica. Si occupa di epistemologia della complessità (“L'evento e l'osservatore”, Bergamo). Fonda “Ichnos,” Laboratorio filosofico sulla complessità. La sua ricerca mostra un costante confronto con la filosofia antica: al riguardo, si dedica all’analisi di nozioni quali feticismo, paura e meraviglia, e all'indagine epistemologica sul tema dell'osservatore. Tali ricerche gravitano attorno ad una riflessione sul tema dell'”altro” nelle relazioni storico-sociali e politiche: da qui i saggi sulle triadi concettuali autonomia, potere, minorità e storia, verità, finzione.  Ne “Il borghese e il selvaggio” analizza l'influenza la figura di Robinson Crusoe nei paradigmi filosofico-economici di Turgot e Adam Smith rilevando gli elementi di antropologia occidentalista là dove la rappresentazione teorica della società e della storia si mostrava nei suoi aspetti apparentemente semplici, ovvi e trasparenti tali da nascondere con l'evidenza i presupposti del punto di vista coloniale.  In “Il feticismo” (Milano) studia la genealogia del concetto dalla sua origine nell'illuminista Charles de Brosses fino a Marx, a Freud e al pensiero contemporaneo, ha contribuito, sul piano metodologico, all'idea di una storia della filosofia interpretata attraverso concetti e, sul piano interpretativo, alla messa in evidenza dei mutamenti semantici del concetto di “fetice”, di origine coloniale che si è trasformato con Marx e con Freud in due modi di operare, rispettivamente sul mondo storico-sociale e sul mondo della psiche, basati sulla pratica teorica di un'antropologia dall'interno. Le fétichisme. In “Paura e meraviglia: storie filosofiche” (Catanzaro) i temi storiografici dell'illuminismo e del fetice vengono ripresi e ridiscussi alla luce del pensiero contemporaneo.  Il problema filosofico e politico dell'antropologia dall'interno è stato sviluppato attraverso la questione epistemologica dell'osservatore. Influenzato da Marx, ma anche da Foucault e da Bateson, analizza le teorie della storia di Bossuet, Vico e Droysen attraverso il tema del ruolo dell'osservatore che interpreta gli eventi sociali e naturali nella loro storicità. Interessato alle teorie contemporanee dell'”auto-organizzazione” biologica (Atlan, Maturana, Varela), cercato di reinterpretare il senso epistemologico della storia, la parzialità dei punti di vista impliciti dell'osservatore e delle sue visioni del mondo, la questione dell'altro, il rapporto tra scienze storico-sociali e scienze naturali, alla luce del concetto di complessità. In questa chiave, in “Tra individui e cose” (Roma) raccoglie i risultati di ricerche che, all'interno dei rapporti fra filosofia, antropologia e politica, si interrogava attraverso Bateson sull'idea del ‘pensare per storie' come momento metodologico e critico di un'antropologia dall'interno in una società come quella occidentale moderna dove le cose si sostituiscono feticisticamente agli uomini e il conformismo si mostra incessantemente e paradossalmente come l'irrompere del nuovo.  Il problema della critica sociale e dell'autonomia individuale come decisivo in una società occidentale che domina il mondo dichiarandosi libera e democratica è al centro di “Autonomia, potere, minorità” (Milano). Partendo dallo scritto di Kant “Che cos'è l'Illuminismo?, Iacono si chiede perché in una società istituzionalmente ‘libera' e ‘democratica', all'indomani della fine dei regimi socialisti, il desiderio di uscire dallo stato di minorità non riesce a vincere il contrastante desiderio di rimanere nello stato di minorità, perché in sostanza è così forte la paura di essere autonomi.  La questione dell'autonomia lo ha portato a interessarsi ai temi della verità, dell'illusione e dell'inganno. Per un'antropologia dall'interno occorre vedere con altri occhi e per vedere con altri occhi è necessario acquisire uno sguardo d'altrove. I temi dell'universalismo e della questione dell'altro sono discussi in quest'ottica in “Storia, verità, finzione” (Roma). La meraviglia che connota il tono emotivo della conoscenza filosofica deve passare attraverso lo straniamento: essere straniero a te stesso affinché l'altro non sia straniero a te. L'autonomia può realizzarsi soltanto nella relazione con l'altro e non, come se l'è immaginato il pensiero moderno, recidendo ogni legame per poi andarlo a costituire da padroni. Ma un'antropologia dall'interno è continuamente in tensione con un senso comune che, conservando le verità condivise ovvero i pregiudizi, tende a mostrarle come ovvie, naturali, eterne, uniche, a renderle dunque salde e indiscutibili. Ci si dimentica allora che viviamo in molti mondi, in mondi intermedi (“Mondi intermedi e complessità” -- Pisa), e che siamo capaci, con la coda dell'occhio, di percepire sempre un mondo altro da quello in cui siamo immersi. Perdendo questa percezione perdiamo la nostra capacità di uscire da noi stessi e dunque la facoltà di essere autonomi. L'illusione, attraverso cui ci si approssima alla verità, che è consapevolezza critica di un'illusione stessa (Nietzsche, Pirandello), si trasforma in inganno e in auto-inganno, sulle cui basi si produce il rischio della costituzione delle regole del consenso, in una società libera ma senza autonomia. Un'altra direzione di studi riguarda  le genealogie dell'immagine della finestra e del concetto di illusione nella storia del pensiero occidentale. In quest'ambito di riflessione Iacono realizza Con altri occhi.  Iacono dirige il bimestrale di politica e cultura Il Grandevetro. Ha collaborato per anni al quotidiano il manifesto. Fa parte del Comitato scientifico della Scuola di formazione e ricerca sui conflitti Polemos. Fa parte del comitato scientifico della Fondazione Collegio San Carlo di Modena.  Ha laureato molti studenti al polo universitario universitario penitenziario della casa circondariale Don Bosco di Pisa e tuttora collabora a progetti e iniziative per un'effettiva opera di recupero del detenuto che sconta la pena. Saggi: “L'illusione e il sostituto. Riprodurre, imitare, rappresentare” (Mondadori, Milano); “Il sogno di una copia. Del doppio, del dubbio, della malinconia” (Guerini, Milano); “Storie di mondi intermedi” (ETS, Pisa); “Marx. La cooperazione, l'individuo sociale, le merci” (ETS, Pisa); Filosofia alle elementari”; “Le domande sono ciliegie, Manifestolibri, Roma, Per mari aperti. Viaggi tra filosofia e poesia nelle scuole elementary (Roma); Filosofia alle scuole superiori”; “La giustizia è l'utile del più forte? Incontro con gli studenti del Liceo classico «Empedocle» di Agrigento, Pisa; Ra Racconti L'accelerato, in Favolare Antonia Casini e Giovanni Vannozzi, MdS editore, Pisa,  La scelta, in Gabbie, Michele Bulzomì, Antonia Casini, Giovanni Vannozzi, MdS editore, Pisa  PSYCHOMEDIA JOURNAL OF EUROPEAN PSYCHOANALYSIS.  Alfonso Maurizio Iacono Studi su Karl Marx La cooperazione, l’individuo sociale e le merci  vai alla scheda del libro su www.edizioniets.com  Edizioni ETS  www.edizioniets.com  © Copyright 2018 Edizioni ETS Piazza Carrara, 16-19, I-56126 Pisa info@edizioniets.com www.edizioniets.com Distribuzione Messaggerie Libri SPA Sede legale: via G. Verdi 8 - 20090 Assago (MI) Promozione PDE PROMOZIONE SRL via Zago 2/2 - 40128 Bologna ISBN 978-884675158-4 ISSN 2420-9198 PREFAZIONE La notizia dei braccialetti che l’ingegner Cohn ha brevettato per il controllo dei lavoratori di Amazon (più educatamente e ipocritamen- te, per migliorare l’efficienza del lavoro) merita, al di là delle polemi- che contingenti, qualche riflessione su un mondo nascosto e dimenti- cato che tuttavia esiste su questo pianeta e non si vede: il mondo dello sfruttamento sul lavoro e la lesione della dignità di chi lavora. Mi serve un libro, vado su Amazon, lo cerco, lo trovo. C’è anche la versione ebook. Non è la stessa cosa del libro fisico, ma ha due vantaggi. Costa molto meno e, cosa importantissima, dopo avere pagato, lo ottieni in Kindle con un semplice click. Non è la stessa cosa del libro fisico per un’altra ragione. L’impaginazione è diversa e non corrisponde affatto a quella del libro. Questo complica le cose non tanto al lettore di un romanzo giallo, per esempio, o di racconti in generale, quanto allo studioso o, più in generale, a colui che ha bisogno del documento ori- ginale. Mettiamo comunque che voglia e trovi il libro fisico e lo ordini, magari con un sistema veloce che pago in sovrapprezzo. Devo supe- rare una frustrazione. Non posso averlo subito. Non ce l’ho lì davanti sullo scaffale di una libreria. Vedo la copertina online. Devo aspettare uno o qualche giorno. Peggio se lo acquisto nel week end. Una piccola frustrazione, senza dubbio, ma nel nostro pianeta, che è un’immensa raccolta di merci fisiche e virtuali, siamo ormai abituati ad avere tutto e subito, e aspettare non è facile. Ogni nostro desiderio è un ordine che il mercato può eseguire per soddisfarlo, e poter girare fra le merci, libri o divani o qualunque altra cosa, in modo virtuale, da un lato ti dà un senso di straordinaria, gioiosa potenza, dall’altro però ti produce una sensazione di mancanza. Vuoi mettere andare al negozio e provare la giacca, anzi peggio ancora le scarpe o i pantaloni per vedere se ti stanno? Certo, online risparmi. Inoltre, a ovviare a quella sensazione di mancanza derivata dal fatto che il desiderio dell’acquirente non si può soddisfare immediatamente, vi è la precisione rigorosa nella con- segna. Tutto sembra perfetto, ma a quale prezzo? Al prezzo dello sfruttamento di chi la merce la deve impacchettare, spostare, consegnare. Un prezzo che il cliente non vede. Non è una novità. Il braccialetto dell’ingegner Cohn è l’ultimo ritrovato di una lunga storia del lavoro. Karl Marx aveva fatto vedere bene come stavano realmente le cose nei processi di produzione delle merci. Quel genio che era Charlot aveva rappresentato una straordinaria parodia del sistema di sfruttamento del lavoro dell’operaio nel famoso film Tempi moderni, dove il lavorato- re doveva adattarsi alla velocità del sistema automatico di produzione. In epoca più recente ricordo che perfino zio Paperone cercò di usare le scimmie per il lavoro a catena, ma fallì perché perfino esse non riusci- vano ad adattarsi. Negli anni ’70 Michel Foucault scrisse Sorvegliare e punire, un’analisi cruda dell’organizzazione di un carcere, il cui sistema di controllo era simile a quello elettronico rappresentato dai braccia- letti. Lo sfruttamento del lavoro e la lesione della dignità dei lavoratori, checché se ne dica, non sono diminuiti negli anni, anzi, nonostante le leggi, sono probabilmente aumentati. Dietro la concorrenza e la libertà di mercato, dietro le luci dei supermercati reali o virtuali, dentro quelle nuove caverne di Platone che sono i centri commerciali di Los Angeles, Dubai, Shanghai, Milano e al di là della finestra dei nostri computer o tablet da cui acquistiamo online, vi è ancora il lato oscuro, materiale e psicologico, del dispotismo sul lavoro che oggi nessuno vuol vedere, talvolta nemmeno chi lo subisce. Fino a quando qualcuno di sabato sera, nel suo tempo libero, si siede al bar e chiede di bere, vi sarà sem- pre qualcun altro che dovrà preparare il cocktail e un altro ancora, magari extracomunitario, che lo porterà con un vassoio. Il tempo li- bero di uno è il tempo di lavoro di altri. L’idea che il lavoro sparisca e in particolare sparisca il lavoro manuale mi pare sinceramente, questa sì, una bubbola neoliberista. Meno si vede il lavoro sfruttato e meglio è per il neoliberismo. La tecnologia espelle il lavoro e toglie l’occupa- zione, ma non lo fa sparire. Lo disloca altrove e non lo concentra più in grandi spazi chiusi. Ed è questo che ha messo in totale confusione la sinistra nel mondo. Accade con il lavoro quello che accade con la merce. La compri ma non ti accorgi della quantità di lavoro sociale che ci è voluto per produrla e poi metterla sul mercato. Ti bevi il cocktail ma non vedi nemmeno in faccia il cameriere che te lo porta e che sta lavorando mentre tu ti riposi e a cui forse lascerai una mancia. Il primato del tempo libero è un buon modo per soggiacere al neoliberismo. Potremmo davvero vivere in ozio permanente nel tempo libero? È questo a cui aspiriamo? E perché allora, occupati, disoccupati, precari, siamo tutti depressi? Certo il lavoro troppo spesso è odioso, ma allora il problema è l’odiosità del lavoro, il suo sfruttamento, non la sua fine. Dietro l’ordine online che facciamo su Amazon vi sono la- voratori che con la testa e con le mani portano, impacchettano, spedi- scono, trasportano e ai quali si vuole mettere il braccialetto elettronico di controllo. Non credo che con tutta la tecnologia li si possa sostituire con dei robot, ma credo che con tutta la tecnologia li si possa usare schiavisticamente come dei robot. Una cosa è lottare per riappropriarsi del lavoro e della sua qualità, altra cosa è rifiutarlo. È nella chiave della riappropriazione del lavoro che è ancora valido, a mio parere, il vecchio slogan “lavorare meno, lavorare tutti”, così come la gratuità della forma- zione scolastica e universitaria. In uno scritto recentissimamente pubblicato in Italia, Realismo capitalista (Nero, Roma 2018), ma uscito in lingua inglese nel 2009, nel bel mezzo dell’esplodere della crisi economica, Mark Fisher, scrittore, filosofo, critico musicale britannico, morto suicida lo scorso anno, ha cercato di rispondere alla famosa affermazione della Signora Marga- ret Thatcher secondo cui al sistema in cui viviamo non c’è alternativa. Un’affermazione vincente che, togliendo al futuro ogni possibilità di accompagnare la politica, lo fece a suon di licenziamenti e ristruttu- razioni aziendali che sarebbero diventati un modello per tutto il capi- talismo occidentale. A sinistra cominciarono i laburisti con il pentito Blair a fare propria la visione thatcheriana, e il modello neoliberista si diffuse quasi ovunque con l’accentuarsi vistoso e potente delle di- seguaglianze e attraverso l’ideologia oggi ancora dominante secondo cui tutto il mondo deve essere modellato come un’azienda. Ideologia che oggi paradossalmente trova quasi più critiche a destra che non a sinistra. Avere tolto ogni alternativa futura ha di fatto azzerato le si- nistre. Il loro ruolo è spesso diventato quello un po’ servile di tampo- nare più o meno malamente gli effetti collaterali del neoliberismo, del dominio della privatizzazione, dello sperpero del bene comune, della devastazione ambientale, senza neanche riuscirci. Scrive Mark Fisher: “Qualsiasi posizione ideologica non può affermare di avere raggiunto il suo traguardo finché non viene per così dire naturalizzata, e non può dirsi naturalizzata fino a quando viene recepita in termini di principio anziché come fatto compiuto”. Le sinistre non potrebbero accettare il neoliberismo come principio, ma se viene naturalizzato come un fatto compiuto allora è diverso. In fondo i dirigenti politici sono tutto som- mato abbastanza ben pagati e sufficientemente fragili culturalmente per scomodarsi a mettere in discussione ciò che è dato come naturale e scontato. “Nel corso di più di trent’anni, continua Fisher, il realismo capitalista ha imposto con successo una specie di ontologia imprendi- toriale per la quale è semplicemente ovvio che tutto, dalla salute all’e- ducazione, andrebbe gestito come un’azienda”. Oggi l’aziendalismo è un vero delirio ideologico. I lavoratori sono imprenditori di se stessi, così costano meno alle aziende e possono essere meglio sfruttati, le scuole e le università e gli ospedali invece di pensare alle loro rispettive missioni, affogano penosamente nell’ansia generalizzata della competi- tion, versione metropolitana e neoliberista della giungla. Benvenuti nel realismo capitalista! Questo libro raccoglie studi su Marx che ho portavo avanti a par- tire dagli anni ’70 sui temi della cooperazione e della sua ambivalenza, sul suo metodo, sulle sue concezioni antropologiche. Nonostante siano accadute molte cose nel corso del tempo, dalla fine dell’era industriale alla caduta del muro di Berlino, dalla crisi irreversibile dei partiti operai al trionfo del neoliberismo, alcuni punti, che molti, troppo spesso ab- bacinati dal mantra conservatore del nuovo e del cambiamento, hanno abbandonato, a mio parere, restano fermi. Primo fra tutti il lavoro e in particolare il lavoro cooperativo, grazie a cui, come sostiene Marx, gli uomini si spogliano dei loro limiti individuali e sviluppano la facoltà della loro specie e a causa del quale, nello stesso tempo, essi, dopo aver subito il dispotismo e il disciplinamento di fabbrica, introiettano oggi il dispotismo e il controllo della produzione. E ciò mentre vivono la condizione illusoria di essere imprenditori di se stessi, dopo che dal comprensibile desiderio della flessibilità si ritrovano nella miseria mate- riale e psicologica della precarietà del lavoro. Non hanno più né tempo né possibilità di progettare il futuro e, del resto, è proprio il futuro che è stato tolto, perché esso oggi si mostra al massimo e quasi soltanto come mantenimento dell’esistente, quando non come una devastazione catastrofica del presente. Nessuno ha il coraggio di guardare altrove, là oltre l’orizzonte, dove poter immaginare una vita diversa dalla libera, depressiva solitudine degli iperconnessi che convive con naturalezza insieme alla schiavitù del lavoro nella gran parte del mondo. Eppure è proprio quello che serve. In un libro di alcuni anni fa1 avevo cercato di affrontare il tema dell’autonomia individuale consapevole della lacuna che vi era e cioè del fatto che il tema dell’autonomia si deve porre dentro le condizioni della natura dell’uomo in quanto animale sociale e dunque all’interno delle relazioni sociali. Non vi può essere autonomia in senso proprio (1 A.M. Iacono, Autonomia, potere, minorità, Feltrinelli, Milano) senza eguaglianza delle relazioni sociali. Forse, riprendendo l’argomen- to della facoltà cooperativa degli uomini e del fatto che essi devono riappropriarsene a partire dal lavoro, si potrebbe ripercorrere una stra- da che nel corso tempo ha cambiato il suo tracciato e il cui manto è attualmente pieno di buche. Desidero ringraziare Silvia Baglini, Giacomo Brucciani, Enrico Campo, Francesco Marchesi, Luca Mori, Giovanni Paoletti. Dedico questo libro alla memoria di Nicola Badaloni, Marco, che mi introdusse agli studi su Marx. RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI Versione largamente rivista di Divisione del lavoro e sviluppo della facoltà della specie umana in Marx, originariamente pubblicato in «Critica marxista», n. 3, 1977, pp. 109-114. Capitolo Secondo Sull’ambivalenza della cooperazione, in Ecologia, Esistenza, Lavoro, (Officine Filosofiche), a cura di M. Iofrida, Mucchi, Bologna 2015, pp. 33-50. Capitolo Terzo Versione modificata del saggio apparso originariamente con il titolo Sul concet- to di ‘trasparenza’. Un’immagine di asssociazione di uomini liberi nel ‘Capitale’ di Marx, in «Metamorfosi», n. 4, 1981, pp. 126-139. Capitolo Quarto Versione largamente modificata di un saggio apparso originariamente con il titolo Rapporti economici e rapporti sociali in Marx, in «Prassi e teoria», n. 6, 1980, pp. 137-156. Capitolo Quinto Versione modificata del saggio originariamente pubblicato in «Annali della Scuola Normale Superiore», vol. XVIII, 2, 1988, pp. 549-766 (relazione al semi- nario dedicato a Bachofen tenuto alla Scuola Normale Superiore e coordinato da Arnaldo Momigliano). Capitolo Sesto Versione modificata di Sul concetto di feticismo, in «Studi Storici», n. 3⁄4, 1983, pp. 429-436. Capitolo Settimo Versione modificata di Concezione antropologica e concezione storica in Marx. Il caso particolare del ‘feticcio della merce’, in aa.VV., Antropologia, prassi, eman- cipazione. Problemi del marxismo, a cura di G. Labica, D. Losurdo, J. Texier, Quattroventi, Urbino 1990. DIVISIONE DEL LAVORO E SVILUPPO DELLA FACOLTÀ DELLA SPECIE UMANA IN MARX 1. In un luogo del capitolo sulla cooperazione, Marx afferma: “Nella cooperazione pianificata con altri l’operaio si spoglia dei suoi limiti individuali e sviluppa la facoltà della specie”1. La facoltà della specie umana consiste nella capacità che hanno gli operai riuniti insie- me e combinati secondo le figure della cooperazione di produrre una quantità di oggetti superiore a quella che lo stesso numero di operai sarebbe in grado di produrre se ciascuno di essi lavorasse isolatamente. Questa idea è già in Adam Smith, attraverso il famoso esempio del- la fabbrica di spilli, come ragione di superiorità del modo capitalistico di produzione, basato essenzialmente sulla manifattura, sui precedenti modi di produzione2. Sappiamo che, per Marx, la cooperazione è “la forma fondamentale del modo di produzione capitalistico”3 e precisa- mente è la forma che attraverso le sue figure tende a svuotare le facoltà individuali degli operai e a trasferirle ai mezzi di lavoro. Nella figura più complessa di cooperazione capitalistica, quella del macchinismo, questo trasferimento si realizza completamente. La storia del passaggio dalla cooperazione semplice, alla manifattura, alle macchine, può essere letta come la storia della perdita delle facoltà individuali lavorative degli operai singoli in ragione dello sfruttamento derivante dallo sviluppo tecnico del processo capitalistico di produzione. Già in A. Smith, nel Libro V della Indagine ecc., si ritrova la descrizione della perdita delle facoltà degli operai sottoposti alla divisione del lavoro nella manifattu- ra. Questa perdita di facoltà è posta come ragione di inferiorità della classe operaia nei confronti dei popoli selvaggi, dove non sussiste la divi- sione del lavoro: rispetto ai selvaggi, lo sviluppo delle facoltà individuali degli operai appare in ragione inversa della crescita della quantità di 1 K. Marx, Il capitale, I, trad. D. Cantimori, Editori Riuniti, Roma 1964, p. 371. 2 Cfr. A. SMIth, Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni, ISEDI, Milano 1973, Libro I, cap. I e A. SMIth, La ricchezza delle nazioni. Abbozzo, trad. V. Parlato, Editori Riuniti, Roma 1969. 3 K. Marx, Il capitale, cit., p. 377. AMBIVALENZA DELLA COOPERAZIONE Il ritorno dell’uomo come animale sociale Dopo anni di elogio dell’individualismo nel bel mezzo della glo- balizzazione, mentre ritornava in un modo piuttosto primitivo l’abusa- ta metafora della mano invisibile, qualcosa è cambiato. Dopo l’euforia degli anni ’80, un po’ di attenzione si è spostata da una filosofia inge- nua (ma estremamente vantaggiosa per alcuni) dell’individuo verso la facoltà collaborativa e cooperativa degli uomini. In un certo senso è tornata, se non proprio al centro, almeno lateralmente, l’immagine ari- stotelica dell’uomo come zòon politikón, dell’uomo cioè, come ebbero a tradurre Seneca e Tommaso d’Aquino, come animale sociale. L’elemen- to sociale è tornato a essere considerato come costitutivo della forma- zione dell’individuo sul piano etico, politico e cognitivo. Recentemente il sociologo Richard Sennett ha pubblicato un libro che significativa- mente ha per titolo Insieme ed è un’indagine sulla facoltà cooperativa degli uomini esplicitamente influenzata dalle teorie di Amartya Sen e Martha Nussbaum. “Le idee di Amartya Sen e Martha Nussbaum, egli scrive, sono state per me fonte di ispirazione e costituiscono il tema di fondo che orienta questo libro: le capacità di collaborazione delle per- sone sono di gran lunga maggiori e più complesse di quanto la società non dia loro spazio di esprimere”1. In sostanza la facoltà cooperativa degli uomini, nel nostro sistema sociale, non riesce ad esprimersi ap- pieno e in particolare non assicura la piena realizzazione delle capacità emotive e cognitive umane. Lo scenario che emerge da questa tesi è dunque in primo luogo che la società non riesce a realizzare la facoltà cooperativa umana e in secondo luogo che tale facoltà si realizza grazie alle capacità emotive e cognitive e viceversa, nel senso che, queste, a loro volta, si realizzano appieno soprattutto nella collaborazione e nella cooperazione. 1 R. Sennett, Insieme. Rituali, piaceri e politiche della collaborazione, Feltrinel- li, Milano 2012, p. 41. DIETRO C’È SEMPRE QUALCOS’ALTRO Un’immagine di associazione di uomini liberi e l’idea di trasparenza La trasparenza nasconde sempre qualcosa. Più precisamente na- sconde ciò che viene tolto per far sì che l’immagine renda trasparenti i rapporti che si vogliono rappresentare. Nell’economia politica, quel- le che Marx chiamava “robinsonate”avevano un importante significato epistemologico: semplificare e rendere per l’appunto trasparenti i rap- porti economici complessi del modo di produzione capitalistico. Que- sto processo di semplificazione presupponeva sempre una scelta in ciò che si voleva rappresentare o, in altri termini, un taglio nel quadro rap- presentativo che presupponeva un privilegiamento di una determinata struttura visiva invece di un’altra. Nell’immagine di Robinson ciò che Defoe vuol far vedere è il rap- porto tra il protagonista del suo romanzo e lo spazio naturale che egli deve trasformare per renderlo utile alla sua sopravvivenza. Il comporta- mento di Robinson è il comportamento del borghese nel suo rapporto con la natura attraverso il lavoro. Ed in effetti, da questo punto di vista, il rapporto tra Crusoe e le cose è chiaro e trasparente: “Il suo inventario dice Marx contiene un elenco degli oggetti d’uso che possiede, delle diverse operazioni richieste per la loro produzione, e infine del tempo di lavoro che gli costano in media determinate quantità di questi diversi prodotti”1. L’effetto di trasparenza appare dato da alcune condizioni complesse che già decidono i contorni dell’immagine e dunque la par- zialità di una rappresentazione semplificata del comportamento di un individuo alle prese col proprio lavoro. Baudrillard ha osservato che la trasparenza della relazione di Robinson con le cose è truccata2, ma la chiave del trucco è rintracciabile già nella stessa immagine descritta da 1 K. Marx, Il capitale, cit., p. 109. 2 L. baudrIllard, Per una critica dell’economia politica del segno, Mazzotta, Milano 1974, p. 148. IL METODO DI MARX E L’USO DELL’ASTRAZIONE 1. A più riprese Marx ha sottolineato che il porre l’uomo isola- to all’origine dello sviluppo sociale e del processo storico è un assur- do. Nelle Forme che precedono la produzione capitalistica, egli osserva come sia semplice raffigurarsi che un uomo potente possa servirsi di un altro uomo “come di una condizione naturale preesistente della sua riproduzione”1, e fare dell’esercizio del dominio il suo specifico lavoro allo scopo di far lavorare altri uomini per lui; presupporre cioè una divisione del lavoro tra signore e servo prima che siano state poste le condizioni originarie, comunitarie per la riproduzione della vita de- gli uomini. “Ma una simile idea è assurda – per quanto possa essere giusta dal punto di vista di certe organizzazioni tribali o collettività – in quanto essa parte dallo sviluppo di uomini isolati. L’uomo si isola soltanto attraverso il processo storico”2. La questione posta da Marx non è, ovviamente, nuova. Ferguson, per esempio, aveva già sostenuto la necessità di considerare la specie umana in gruppi e di condurre l’indagine storico-sociale avendo come oggetto la società intera e non gli uomini separatamente presi3. In generale tutta la cosiddetta “scuola storica scozzese” aveva posto il problema di uno studio della storia umana a partire dagli uomini riuniti in società ed aveva sottolineato che il fattore chiave per comprendere lo sviluppo delle diverse società era il “modo di sussistenza”4, da cui si potevano spiegare costumi, leg- gi, forme di governo. È stato sostenuto, a questo proposito, che Marx 1 2 3 Bari 1999, 4 K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, II, cit., p. 123. Ibidem. A. FerguSon, Saggio sulla storia della società civile (1767), Laterza, Roma- p. 6. Cfr. W. robertSon, History of America (1777), in Works, Hill, Edinburgh V, p. 111; e J. MIllar, The Origin of the Ranks (1771), ristampato in W.C. 1818, vol. lehMann, John Millar of Glasgow, Cambridge University Press, Cambridge 1960, p. 175 (trad. it. J. MIllar, Osservazioni sull’origine delle distinzioni di rango nella società, Fran- coAngeli, Milano 1989). BACHOFEN, ENGELS, MARX La pubblicazione ad opera di Krader degli estratti etnologici, l’ultimo lavoro di Marx, rimasto incompiuto, impone di discutere del ruolo di Bachofen nell’Origine della famiglia di Engels, che segnò la fortuna del Mutterrecht nel marxismo, tenendo conto di questo labora- torio. La ragione è semplice: il libro di Engels è basato su tali appunti, e certamente, comparando lo scritto di Marx con quello di Engels, balza subito agli occhi il ben diverso peso che Bachofen ha nei due casi. D’altra parte la frammentarietà degli appunti marxiani non rende sem- plice il lavoro, ma non ci si può accontentare di segnalare le differenze di Marx e di Engels su Bachofen senza fare almeno un tentativo di interpretare il senso della ricerca di Marx al momento della sua morte. Si tratta di provare a capire, se è possibile, quale significato abbia la grande presenza di Bachofen nell’opera di Engels, laddove la cosa non è affatto riscontrabile nel Marx che sta lavorando su quel Morgan che, a sua volta, sarà la base dell’Origine della famiglia. Ma, data appunto la frammentarietà del testo di Marx, l’unica via praticabile sembra quella di considerare in primo luogo il contesto teorico entro cui Marx stava operando e riflettendo. 1. Il laboratorio di Marx L’Origine della famiglia, la cui prima edizione è del 1884, fu pre- sentata da Engels come l’“esecuzione di un lascito”1. Marx, morto un anno prima, aveva lasciato ad uno stadio rudimentale il suo lavoro su Morgan, Phear, Maine, Lubbock, Kovalevskij2. Si trattava in gran parte 1 F. engelS, L’origine della famiglia, Editori Riuniti, Roma 1963, p. 33. 2 The Ethnological Notebooks of Karl Marx (Studies of Morgan, Phear, Maine, Lubbock), cit.; L. krader, The Asiatic Mode of Production. Sources, Development and Critique in the Writings of Karl Marx, Van Gorcum, Assen 1975 pp. 343-412: K. Marx, Excerpts from M.M. Kovalevslcij. Sugli appunti di Marx; cfr. inoltre, L. achenza, Sui Taccuini etnologici di Marx, in «ASNP», S. III, XIV, 1984, pp. 1385-1416; P. greMIgnI, SUL CONCETTO DI «FETICISMO» IN MARX Il concetto marxiano di feticismo delle merci è stato analizzato da due punti di vista: quello del suo rapporto con il concetto di alienazione e l’altro della sua connessione con la teoria del valore. È possibile tut- tavia affrontare il problema in modo diverso, forse più ovvio: a partire cioè dalla fonte usata da Marx per la formazione di questo concetto. Si tratta dell’opera di Charles de Brosses, Du Culte des Dieux fétiches, pub- blicata anonima a Parigi nel 1760, che Marx aveva studiato a Bonn nel 1842 in una traduzione tedesca di Pistorius del 1785, e di cui aveva fatto degli estratti1, come del resto di altri testi, tra i quali quello di Meiners sulle religioni2 che riprende il tema brossiano. Considerato il problema da questo angolo visuale, si potrà vedere che il concetto marxiano di feticismo, che diventerà successivamente il concetto di feticismo delle merci, è carico di implicazioni che forse consentono di precisare alcune questioni teoriche ad esso connesse. 1. Il concetto di feticismo ripropone, come è noto, il problema delle apparenze, cioè dello scarto esistente tra l’essere sociale e le im- magini “nebulose e fantastiche” attraverso cui l’essere sociale è visto e concepito dagli uomini. Un tema che percorre la riflessione di Marx nel corso di tutta la sua biografia intellettuale, ma che nel feticismo delle merci assume un valore specifico. Ed è proprio per questo che appa- re necessario percorrere specificamente la strada dello sviluppo di tale concetto, anche perché, inoltre, in esso si possono rilevare due momen- ti importanti del procedimento teorico di Marx, certamente carichi di 1 K. Marx, Fetischismus, MEGA 2, vol. IV/1, Dietz, Berlin 1976. 2 C. MeInerS, Allgemeine kritische Geschichte der Religionen, 2 voll., Hannover 1806-1807. Su Meiners come volgarizzatore di de Brosses, cfr. M. daVId, La notion de fétichisme chez Auguste Comte et l’oeuvre du présidente de Brosses ‘Du culte des dieux fétiches’, in «Revue de l’Histoire des Religions», t. CLXXI (1967), n. 2, e S. landuccI, I filosofi e i selvaggi, Einaudi, Torino 2014. ANTROPOLOGIA E STORIA IN MARX. IL CASO PARTICOLARE DEL «FETICCIO DELLA MERCE» La nozione di carattere di feticcio della merce costituisce un momen- to particolare e privilegiato per un’analisi del rapporto fra concezione antropologica e concezione storica in Marx. Le ragioni di questa parti- colarità e di tale privilegio risiedono principalmente nei seguenti fatto- ri: a) nell’uso stesso del concetto di «feticcio» mutuato dalla tradizione etnologica e storico-religiosa a partire dal colonialismo; b) nella torsione teorica che il concetto di feticcio e la nozione di «feticismo» giocano nel corso dello sviluppo del pensiero di Marx; c) nel fatto che il «carattere di feticcio della merce» costituisce un aspetto molto specifico e comples- so dell’idea di rovesciamento provocato dalla coscienza ideologica nei confronti della realtà; d) nel fatto, infine, che la nozione di «feticcio» ap- plicata alla merce viene a definite la funzione simbolica dell’oggetto eco- nomico-sociale e, all’inverso, la funzione economico-sociale dell’oggetto simbolico. Di questi quattro fattori, lo svolgimento dei primi due con- sente di capire come l’applicazione del concetto di «feticcio» alla merce capitalistica significhi, almeno per quel che riguarda questo punto, un radicale mutamento strategico e teorico del concetto stesso rispetto alla sua storia e all’accezione fino ad allora comune e dominante in campo filosofico, etnologico e storico-religioso. E lo sviluppo del pensiero di Marx conferma, a mio parere, il senso di tale mutamento. I secondi due fattori aprono molte questioni interpretative, in particolare riguardo al rapporto fra condizioni reali della forma di vita sociale e forme della coscienza e dell’ideologia, alla specificità ed eccezionalità storica del si- stema capitalistico, al problema dell’osservatore che si trova ad operare e interpretare in quel groviglio che è il sopraddetto rapporto fra condizioni della vita sociale e ordine simbolico e culturale. Ma, soprattutto, possono forse aiutare a comprendere il senso della separazione fra la struttura ca- pitalistica delle relazioni fra gli uomini e gli individui in quanto tali; cioè del modo particolare in cui le relazioni si autonomizzano dagli individui, e la «comunità», originariamente concreta, deposita i rapporti nelle cose, andando a costituire un astratto sistema di vincoli sociali. INDICE Prefazione 5 Riferimenti bibliografici 11 1. Divisione del lavoro e sviluppo della facoltà della specie umana in Marx 13 2. Ambivalenza della cooperazione 35 3. Dietro c’è sempre qualcos’altro 55 4. Il metodo di Marx e l’uso dell’astrazione 67 5. Bachofen, Engels, Marx 85 6. Sul concetto di «feticismo» in Marx 101 7. Antropologia e storia in Marx. Il caso particolare del «feticcio della merce» 111 Indice dei nomi 119 philosophica  L’elenco completo delle pubblicazioni è consultabile sul sito www.edizioniets.com alla pagina http://www.edizioniets.com/view-Collana.asp?Col=philosophica  Pubblicazioni recenti 208. Alfonso Maurizio Iacono, Studi su Karl Marx. La cooperazione, l’individuo sociale e le merci, 2018, pp. 124. 207. Imre Toth, Le sorgenti speculative dell’irrazionale matematico nei dialoghi di Platone, a cura di Romano Romani e Paolo Pagli, prefazione di Romano Romani. In preparazione. 206. Alessandra Fussi, Per una teoria della vergogna, 2018, pp. 164, ill. 205. Alberto Pirni, La sfida della convivenza. Per un’etica interculturale, 2018, pp. 308. 204. Matteo Galletti, Reciprocamente responsabili. La responsabilità morale tra naturalismo e normativismo, 2018, pp. 296. 203. Linda Bertelli, L’utopia nell’estetico. Tempo e narrazione in Ernst Bloch, 2018, pp. 152. 202. Andrei Pleșu, Pittoresco e malinconia. Un’analisi del sentimento della natura nella cultu- ra europea, traduzione e cura di Anita Paolicchi, prefazione di Victor I. Stoichita, 2018, pp. XII-216. 201. Danilo Manca, La disputa su ispirazione e composizione. Valéry fra Poe e Borges, 2018, pp. 176. 200. Russo Maria Teresa, Esperienza ed esemplarità morale. Rileggere Le due fonti della mora- le e della religione di Henri Bergson, 2017, pp. 100. 199. Filieri Luigi, Vero Marta [a cura di], L’estetica tedesca da Kant a Hegel, Prefazione di Leonardo Amoroso, 2017, pp. 176. 198. Flamigni Gabriele, Presi per incantamento. Teoria della persuasione socratica, Prefazione di Maria Michela Sassi, 2017, pp. 144.  Edizioni ETS Piazza Carrara, 16-19, I-56126 Pisa info@edizioniets.com - www.edizioniets.com Finito di stampare nel mese di maggio 2018. Di consequenza, e la cooperazione, cosi come di dispiega nella conversazione, a determinare que moni intermedi che presuppongon non un io ma un noi. Alfonso Maurizio Iacono. Iacono. Keyword: feticismo conversazionale. Il Vico di Iacono. Il Pirandello di Iacono, la cooperazione. Imitare, imago, imaginario collettivo di Jung --  Luigi Speranza, “Grice ed Iacono: l’implicatura dell’intermezzo” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice ed Illuminati – il filosofo all’opera – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo. Grice: “I like Illuminati, especially his essay on Rousseau, between solipsism and conversation!” -- La città e il desiderio. Viene meno un modo di fare in cui la soggettività potente si appropria il mondo subordinando le altre potenze soggettive e realizza la sua essenza destinale mediante adeguati meccanismi di rappresentazione e manipolazione tecnica. (108-109) Come utilizzare regole pubblicamente valide senza colpevolizzare e controllare dall'altro le forme di vita degli uomini è precisamente l'antinomia della cittadinanza. La politicizzazione di sfere inabituali va insieme alla diserzione di istituzioni sclerotiche. Una ricaduta pratica ne è l'integrazione delle strutture rappresentative con nuove lobbies o la richiesta di quote per minoranze Nel lasciar-essere che si contrappone alla tracotanza istituzionale convivono cosi l'ancora-non-rappresentato che cerca lobbisticamente rappresentazione, e rifiuto radicare di rappresentazione. Professore associato di storia della filosofia politica, dall'anno accademico ha assunto la cattedra di storia della filosofia, dove è stato chiamato come straordinario. Insegna a Urbino. Fa parte anche del Collegio dei docenti del Dottorato di ricerca in antropologia filosofica e fondamenti delle scienze e del Collegio dei docenti del Dottorato di Ricerca in Filosofia Moderna e contemporanea (Bari-Ferrara-Urbino). E' inoltre presidente del Corso di laurea in filosofia.  Ha scritto:  Sociologia e classi sociali, ed. Einaudi, Torino); “Kant politico, ed. La Nuova Italia, Firenze); Società e progresso nell'illuminismo francese, ed. Argalia, Urbino); Jean-Jacques Rousseau, ed. La Nuova Italia, Firenze);  J.-J. Rousseau e la fondazione dei valori borghesi, ed. il Saggiatore, Milano); Antologia con introduzione (pp. V-XXX) e note) di J.-J. Rousseau, Il contratto sociale, ed. La Nuova Italia, Firenze); Gli inganni di Sarastro, ed. Einaudi, Torino);  Il potere "disseminato", in Aa.Vv., Lavoro Scienza Potere, ed. Feltrinelli, Milano); Winterreise, ed. Dedalo, Bari); Racconti morali, ed. Liguori, Napoli); Sentimenti dell'aldiqua (in collaborazione con Aa.Vv.), ed. Theoria, Roma-Napoli); La città e il desiderio, ed. manifestolibri, Roma); Aa.Vv., Democrazia difficile, Roma, ed. il Passaggio);  Nuove servitù (in collaborazione con Aa.Vv.), ed. manifestolibri, Roma); Introduzione a P. Nizan, Aden Arabia, ed. Fahrenheit, Rom);  Esercizi politici —quattro sguardi su Hannah Arendt, ed. manifestolibri, Roma); Averroè e l'intelletto pubblico –antologia di scritti di Ibn Rushd sull'anima, introduzione (e cura, ed. manifestolibri, Roma); Il teatro dell'amicizia –metafore dell'agire politico, ed. manifestolibri, Roma);  Quasi una fantasia. Funzioni cognitive dell'immaginazione nei commentatori di Aristotele in Aa.Vv., Imago in phantasia depicta. Studi sulla teoria dell’immaginazione, a cura di Lia Formigari, Giorgio Casertano, Italo Cubeddu, ed. Carocci, Roma, Quasi una fantasia. Funzioni cognitive dell'immaginazione nei commentatori di Aristotele, in Materiali per una storia e teoria dell’immaginazione, “Quaderni dell’Istituto di Filosofia-Urbino” Il filosofo all'Opera, -- Bellini, Verdi -- ed. manifestolibri, Roma); Completa beatitudo: l'intelletto felice. Tre opuscoli sulla. congiunzione con l'Intelligenza Agente. Ed. l'Orecchio di van Gogh, Chiaravalle);  Del comune -cronache del general intellect, Roma, manifestolibri, Bandiere.   Dalla militanza all'attivismo, Roma, DeriveApprodi. Grice: “I enjoyed Illuminati’s treatment of Rousseau’s myth of the social contract, since I made use of it!” – ‘Imagine is a good thing, but is there such a thing as co-imagine?” -- Augusto Illuminati. Illuminati. Keywords: il filosofo all’opera. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Illuminati” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51752902177/in/dateposted-public/

 

Grice ed Incardona – Questo è l’uomo – filosofia italiana – filosofia siciliana – gl’inferi del principio -- Luigi Speranza (Palermo). Filosofo. Grice: “I like Incardona; for one, he gave seminars on ‘la costanza dell’io,’ as I did! Second, he used Greek freely, as I do! Third, he is slightly incomprehensible, as I am SAID to be!” Insegna a Palermo. Studia nel Liceo classico Ruggero Settimo. Direttore del Giornale di Metafisica, fondato da Sciacca. La tematica fondamentale di Incardona è la "filosofia del principio", un percorso nella storia della filosofia sul volto all'interrogazione riguardo al fondamento e all'archè. Le due categorie concettuali attraverso cui legge la storia della filosofia sono l'arcaicità, identificata con Aristotele, e l'arcaismo, identificato con Hegel. Aristotele ed Hegel sono infatti nella filosofia del principio le due porte, l'inizio e la fine, l'elemento e il compimento della filosofia. Il percorso della filosofia e un percorso aporetico, in cui la dialettica assume l'aspetto di un dialogo senza soluzione fra tensione naturale alla conoscenza e fallimento destinale dell'impresa conoscitiva. Ha influenza che nel campo dell'ermeneutica. Il suo contributo determinante è stata la sua riflessione non scettica ma aporetica sull'archè. La questione aristotelica del ‘principio’ (ontologico ed epistemologico, di non contraddizione e teologico come Dio) viene colta ed elevata da questione logica a questione esistenziale. Compagni di strada naturali, sebbene fortemente criticati da Incardona, sono, in questa sorta di teologia negativa, Derrida e Heidegger. In essi è infatti rintracciabile la tematica privativa e mistico-antirazionale del rapporto con l'assoluto. L'unica cosa che si può dire dell'assoluto è che esso non è alla nostra portata, esso nasconde al filosofo il volto come all'esule è nascosta la patria. Sebbene veda nella filosofia post-hegeliana una sorta di "pleonasmo" che non ha più alcuna utilità nella società contemporanea (antifilosofia), sembra che le sue intuizioni più originali e più feconde nascano proprio da una rielaborazione personale delle tematiche ermeneutiche di Heidegger. Saggi: “Idealismo della filosofia ed esperienza storica” (Epos, Palermo); “Idealismo tedesco ed italiano” (Epos, Palermo); “Gl’inferi del principio. Interrogazione e invocazione” (Epos, Palermo); “Karpòs” (Epos, Palermo);  “Meditatio in curriculo mortis” (Epos, Palermo); “Kéntron” (Epos, Palermo); "L'inclusione dell’altro. Profilo di Giuseppe Nicolaci", Epekeina. International Journal of Ontology, History and Critics. Grice: “I used to use ‘principle’ very freely until I met Incardona. My conversational principle of cooperativeness became an ‘imperative’ – the conversational imperative – ‘let’s cooperate!’ – under which the different conversational maxims fall. Incardona says that talk of ‘principle’ usually leads you to an aporia, or to hell! “l’inferi del principio’!”  Nunzio Incardona. Incardona. Keyword: Questo è l’uomo, principio, principio conversazionale, arcaismo, arcaico, arcaita – principium – imperative – Kant – Hegel – Aristotle -. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Incardona” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51752880912/in/datetaken/

 

Grice ed Infantino – diada conversazionale – il rischio dei solidali -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Gioia Tauro). Filosofo. Grice: “I like Infantino: for one, he prefaced an essay on ‘the perils of solidarity,’ which is all my conversational pragmatics is about!” Insegna a Roma. La sua filosofia si svolge infatti nel solco tracciato da  Hayek che coniuga le acquisizioni di Mandeville e dei moralisti scozzesi con quelle della Scuola Austriaca di Economia. Cura Menger, Boehm-Bawerk, Mises e Hayek. Pubblica “L’ordine senza piano: le ragioni dell’individualismo metodologico” (Roma, NIS) “Ignoranza e libertà” (Soveria Manneli, Rubbetino); “Individualismo, mercato e storia delle idee”; “Potere. La dimensione politica dell’azione umana” (Soveria Manneli, Rubbettino). Vede nelle conseguenze inintenzionali delle azioni umane intenzionali l’oggetto delle scienze sociali, che vengono in tal modo affrancate da qualsiasi psicologismo. È il tema sollevato da Mandeville e dai moralisti scozzesi, ripreso poi con forza da Menger e Hayek. Non sono le intenzioni dei singoli (o quelli che sono stati infelicemente chiamati “spiriti animali”) a spiegare i fenomeni sociali. Occorre piuttosto individuare le condizioni che rendono possibile o impossibile un dato evento. Tale tradizione di ricerca ha come suo presupposto il riconoscimento dell’ignoranza e della fallibilità umane. Da cui discende l’abbattimento del mito del “Grande Legislatore”, il cui posto viene occupato dal processo sociale, cioè dalla co-operazione volontaria. Questa costituisce un procedimento di esplorazione dell’ignoto e di correzione degli errori. Ed è su tale teoria della società che Infantino si muove per spiegare il fenomeno del potere, da lui studiato come potere infra-sociale, derivante cioè dall’inter-azione, e il potere pubblico, ossia il potere d’intervento dello Stato nella vita sociale. La competizione minimizza il potere infra-sociale, perché non c’è un unico agente che offre o un unico agente che richiede. Il potere pubblico si minimizza o si limita, attribuendo allo Stato un’esclusiva funzione di servizio nei confronti della cooperazione sociale volontaria. Pubblicato “Cercatori di Libertà” (Soveria Mannelli, Rubbettino, ), in cui è ospitato un suo scritto che ha fatto da introduzione a “A proposito di Rousseau”, dedicato da Hume alla rottura dei suoi rapporti con Rousseau. Gli altri saggi della raccolta si occupano di Constant, Mises, Hayek (Luigi Einaudi). Cubeddu e  Reichlin hanno curato “Individuo, liberta, e potere: studi in onore di Infantino” (Rubbettino Editore) di scritti in suo onore, a cui hanno contribuito numerosi studiosi di ispirazione liberale. Altre opera: Sociologia dell'imperialismo: interpretazioni liberali, Milano, FrancoAngeli); “Dall'utopia al totalitarismo: Marx, Dio e l'impossibile, Roma, Borla); “La societa aperta, Roma, Quaderni del Centro di metodologia delle scienze socialiLUISS Guido Carli; “Metodo e mercato, Soveria Mannelli, Rubbettino); “Destra: una parola ormai inutile” Soveria Mannelli, Rubbettino); “Scuola austriaca di economia: album di famiglia, Soveria Mannelli, Rubbettino); “Le ragioni degli sconfitti: nella lotta per la scuola libera, Roma, Armando); “Le scienze sociali” (Soveria Mannelli, Rubbettino); “Individualismo, mercato e storia delle idee, Soveria Mannelli, Rubbettino); “Idee di libertà. Economia, diritto, società” (Soveria Mannelli, Rubbettino); Cercatori di libertà, Soveria Mannelli, Rubbettino);Potere: la dimensione politica dell'azione umana, Rubbettino, Soveria Mannelli.Grice: “Pure il nostgro piu spontaneo desiderio di aiutare gli altri “esige un patto anticipato fra almeno due persone”, chi propone e chi accetta. Come avviene in ogni altro rapport intersoggetivo, amicia e amore compresi, c’e nella solidarieta uno ‘scambio,’ in cui devono essere presenti la disponibilita a dare e la disponsibilita a ricevere.  Étymol. et Hist. 1. 1584 dr. obligation solidaire (J. Duret, Commentaire aux coustumes du duché de Bourbonnois, § 35, p. 274); 2. id. « se dit des personnes liées par un acte solidaire » (Id., ibid.); 3. 1739-47 « se dit des personnes qui ont une communauté d'intérêts ou de responsabilités » (Caylus, Œuvres badines, X, 41); 4. 1834 « se dit des choses qui dépendent l'une de l'autre » (Béranger, Acad. et Cav. ds Littré); 5.1861 mécan. « se dit des pièces d'un engrenage dont le fonctionnement est lié » (M. Cournot, Traité de l'enchaînement des idées fondamentales dans les sc. et dans l'hist., t. 1, p. 80). Dér. de solide*; suff. -aire1*, pour rendre compte du lat. jur. in solidum « pour le tout », « solidairement ».  Fréq. abs. littér.: 436. Fréq. rel. littér.:xixes.: a) 358, b) 277; xxes.: a) 947, b) 829. Società di mutuo soccorso associazioni di lavoratori sorte per sopperire alle carenze dello stato sociale Lingua Segui Modifica Le  Società operaie di mutuo soccorso (SOMS) sono associazioni, nate in Italia intorno alla seconda metà dell'XIX secolo.[1]   Cesare Pozzo (1835 - 1898), pioniere del mutualismo italiano  Targa della SOMS sull'esterno della sede ad Arquata Scrivia Le forme originarie videro la luce per sopperire alle carenze dello stato sociale ed aiutare così i lavoratori a darsi un primo apparato di difesa, trasferendo il rischio di eventi dannosi (come gli incidenti sul lavoro, la malattia o la perdita del posto di lavoro).  StoriaModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Storia dello stato sociale in Italia: l'età liberale (1861-1921). Le SOMS nacquero come esperienze di associazionismo e mutualità, coeve alla protoindustria, per rispondere alla necessità di forme di autodifesa del mondo del lavoro. Dopo l'ondata rivoluzionaria del 1848 la loro diffusione subisce un notevole incremento grazie alla concessione di costituzioni liberali negli antichi Stati italiani. Prima di tale data la libertà di associazione era fortemente limitata ed ostacolata dagli ordinamenti nati nel clima poliziesco della Restaurazione.[1] Il funzionamento delle SOMS venne regolato con la legge 15 aprile 1886, nº 3818.   Giuseppe Moricci, L'artigiano cieco e la sua famiglia, 1851[2] All'epoca della I Internazionale (1864), erano già sorte le prime Società di Mutuo Soccorso o di mutuo appoggio, nate con lo scopo di darsi solidarietà e/o chiedere aiuto ad altri ceti sociali. L'"età d'oro" delle società di mutuo soccorso è nei due decenni tra il 1860 e il 1880. In particolare, nel periodo dal 1871 al 1893, le Società si unirono tra loro nel Patto di fratellanza, di ispirazione mazziniana e saffiana.  Successivamente a questo tipo di esperienza che alcuni (tra i quali Bakunin) consideravano paternalistica, si affiancarono altri tipi di organizzazione di lavoratori che sostituirono alla concezione mutualistica e solidaristica quella sindacale e partitica. Le società di mutuo soccorso continuarono tuttavia ad espandersi sia come numero di associazioni (che toccò il picco di 6722 nel 1894)[3]che di associati (il culmine è nel 1904 con 926.000 soci)[4].  Le società di mutuo soccorso svolgono un grande ruolo agli esordi delle prime organizzazioni sindacali. Nel 1891 saranno le SOMS a creare la Camera del Lavoro di Torino[5][6]. A Milano il 2 e il 3 agosto 1891, si radunarono i delegati di 450 Società Operaie di Mutuo Soccorso che decisero di costituire sindacati di categoria riuniti in Camere del Lavoro.[7]  Il biennio 1898-99Modifica Il 1898 fu in Italia l'anno di una grave crisi politica sfociata in una sommossa in molte città d'Italia, in particolare Milano. La reazione governativa fu particolarmente pesante, furono sciolte molte organizzazioni socialiste[8] e quelle cattoliche facenti capo all'Opera dei congressi[9][10] Il clima di diffidenza investì anche le società operaie, accusate di svolgere attività sindacale. Gli ambienti più aperti reagirono al clima di pesante controllo da parte del governo presieduto da Luigi Pelloux (che ricopriva anche l'incarico di ministro degli interni) sulle associazioni di carattere sindacale e politico,[11] fondando nuove associazioni che svolgevano compiti di aiuto economico ai piccoli imprenditori. In questo clima nella frazione Ronchi San Bernardo fondarono una Società Agricola operaia. Per ribadire il valore dell'associazionismo ripiegarono su attività sociali che non potevano essere accusate di avere valenza politica.  Le società agricole-operaieModifica Il 1898 era anche un anno caratterizzato dalla grande crisi agraria: le zone vinicole erano state devastate dalla fillossera e dalla peronospora. La formula trovata dai settori più progressisti ed illuminati fu quella del rilancio di strutture che assicurassero agli agricoltori la fornitura dei mezzi di produzione (sementi, concimi, macchine agricole) a prezzi calmierati e di buona qualità. Il governo, che non prendeva nessun altro provvedimento a favore del mondo agricolo, dovette tollerare che iniziativa come quella dei piccoli proprietari di Courgnè avevano intrapreso, sotto il modello di fratellanza delle "società operaie" dopo aver chiarito che l'oggetto sarebbe stato il sostegno alla produzione e non attività politica. Pertanto fu chiarito che per essere ammesso come socio, occorreva dimostrare di essere proprietario sia pure di un piccolo appezzamento di terreno agricolo.[12]  L'autorità di polizia aveva provveduto nel maggio 1898 allo scioglimento di molte società di mutuo soccorso, al sequestro del loro patrimonio, e da una interrogazione parlamentare dell'onorevole Bertesi, sappiamo che nel dicembre successivo non era stato dissequestrato.[13]  L'eccezionalità della costituzione della Società Agricola Operaia Ronchi San Bernardo di Courgnè è dato che persino nell'anno seguente il giornale La Stampa segnalava che le Società operaie venivano chiuse senza che avessero dato alcun pretesto[14] Di altro esempio di costituzione di Società Agricola Operaia c'è l'anno successivo a Trapani[15]  Al fiorire delle iniziative sparse a livello locale corrispose, poi, uno sforzo unificante. Il ruolo di acquisire i mezzi di produzione agricola si spostò a livello provinciale nei Consorzi agrari, coordinati a livello nazionale dalla Federconsorzi Le iniziative locali, quando sopravvissero, ebbero solo la valenza di meri circoli che gestivano il massimo centro di aggregazione delle piccole località rurali: l'osteria, ma salvando a volte una valenza associativa.[16][17] La società di Cuorgnè riuscì così a raggiungere i 120 anni, continuando a svolgere attività di carattere sociale e filantropico[18][19]  Il NovecentoModifica Il 5 settembre 1900 nasce la Federazione italiana delle società di mutuo soccorso. L’articolo 1 dello Statuto di allora recitava così: “È costituita la Federazione Italiana delle Società di Mutuo Soccorso al fine di provvedere alla tutela degli interessi delle Società federate e contribuire a migliorare moralmente e materialmente la condizione delle classi lavoratrici a mezzo della previdenza". Fin dalle origini la Federazione fu al fianco del movimento cooperativo e del movimento sindacale, formando un’alleanza allora fondamentale per l’affermazione dei diritti dei lavoratori e della legislazione sociale.  Con decreto prefettizio, la Federazione italiana delle società di mutuo soccorso fu sciolta nel periodo fascista insieme alle SOMS, anch'esse sciolte o incorporate in organizzazioni fasciste. Nel 1948 la Federazione fu ricostituita e assunse la denominazione di Federazione italiana della mutualità (Fim).    La sede della SOMS di Villa del Foro (Alessandria) durante il periodo fascista Verso la fine degli anni cinquanta, quando le SOMS ripresero ad espandersi, la società italiana era profondamente cambiata: i lavoratori avevano ottenuto maggiori tutele, erano state introdotte le pensioni ed era stata estesa la protezione nel campo sanitario(almeno per il lavoro dipendente), mentre scarsa era la "copertura" per professionisti e lavoratori autonomi; nei loro confronti si spostò quindi la maggior parte del lavoro svolto dalle SOMS.  A seguito della rinnovata attenzione alle forme di mutualità integrativa al welfare pubblico, dopo il congresso del 1984, la Fim diventò Federazione italiana della mutualità integrativa volontaria (Fimiv).[20] A partire dagli anni 2000 le SOMS hanno poi rivolto la loro attenzione soprattutto verso l'assistenza sanitaria integrativa. Alla fine del 2007 viene costituita la Società Generale di Mutuo Soccorso Basis Assistance che nel 2012 incorpora per fusione prima Mutua 1886 e poi Mutua Sarda, diventando la più grande mutua sanitaria italiana per numero di assistiti.  Il 25 ottobre del 2011 prende forma l'Associazione Nazionale Sanità Integrativa (ANSI) nuova realtà capace di tutelare, aggregare e sostenere le diverse forme mutualistiche operanti in Italia. L'ANSI è frutto dell'unione di 8 tra fondi sanitari e società di mutuo soccorso, tra cui Mutua Basis Assistance, fondo C.A.S.P.I.E., Cassa di Assistenza Basis Assistance, Mutua Unica e Mutua Sarda.  Nel 2015, il Fondo FASV – Fondo di Assistenza Sanitaria Integrativa di Assolombarda – ha approvato il progetto di fusione per incorporazione nella Società Generale di Mutuo Soccorso, Mutua Basis Assistance che diviene effettivo il 1º gennaio del 2016. Nell'aprile del 2017 l'Associazione Nazionale di Sanità Integrativa cambia denominazione sociale, trasformandosi in Associazione Nazionale Sanità Integrativa e Welfare, con l'intento di dare voce a tutte quelle realtà che si affacciano al mondo del welfare aziendale.  Sono oltre 500 le società di mutuo soccorso attualmente aderenti alla Fimiv, collegate direttamente o attraverso i coordinamenti territoriali associati, per complessivi 953.000 tra soci e assistiti, questi ultimi intesi come familiari dei soci e iscritti ai fondi sanitari gestiti in mutualità mediata. Nel 2016 le società di mutuo soccorso della Federazione hanno partecipato all’integrazione dell’assistenza sanitaria pubblica mediante prestazioni e sussidi erogati ai soci e assistiti per un valore di 95 milioni di euro, pari a oltre il 78% dei contributi raccolti. A garanzia della capacità di copertura delle prestazioni, gli accantonamenti complessivamente destinati dalle società di mutuo soccorso a riserva indivisibile ammontano a oltre 100 milioni di euro.[21]  La Fimiv svolge il ruolo di rappresentanza, promozione, sviluppo e difesa delle società di mutuo soccorso e degli enti mutualistici che vi aderiscono, fornendo loro assistenza e servizi di sostegno e organizzando convegni ed eventi pubblici come la Giornata nazionale della Mutualità giunta alla sua IX edizione. Si adopera per la diffusione e la tutela dei principi della mutualità ed esige il rispetto del Codice identitario della mutualità da parte delle sue associate.[22]  La Fimiv Aderisce alla Lega nazionale delle cooperative e mutue, al Forum nazionale del Terzo Settore e all’Associazione internazionale della mutualità (Aim). Nel 2001 è stata riconosciuta dal Ministero dell’interno quale Ente nazionale con finalità assistenziali, ai sensi della legge n. 287/1991 e dei decreti del Presidente della Repubblica n. 235/2001 e n. 640/1972. Lorenzo Infantino. Keyword: co-operazione. Il diadismo metodologico, diadismo conversazionale, statalismo, tottalitarismo, liberalism, partito liberale italiano, collettivismo, cooperazione, competizione, solidale, solidario, solidarii, solidali, le code francais, obligatio in solidum, oligatio in solidum and solidarity, obbligazione in solidum e solidarieta, J.Vincent, L’extension en jurisprudence de solidarite passive. I. Mazeaud, Obligation in solidum et solidarite entre codebiteurs delictuels.’ Infantino. Keywords: diada conversazionale. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Infantino: il diadismo conversazionale” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51754325374/in/dateposted-public/

 

Grice ed Iorio – torna a Sorrento – filosofia italiana – Luigi Speranza (Seravezza). Filosofo.  Grice: “The line and the circle is what Chomsky would call a NP, but there’s two books on it by Italian philosophers! Oddly, I visited Sorrento on my way to Greece!” Si laurea a Pisa con Campioni. Studia filosofia antica. Opere: La linea e il circolo” (Genova, Pantograf). Genesi, critica, edizione; D'Iorio e N. Ferrand, Pisa. ffetto da numerosi problemi di salute e da un disturbo agli occhi, nel suo viaggio verso il Sud dell’Italia, da Napoli raggiunge Sorrento via mare, alloggiando nella pensione Allemande-Villa Rubinacci, ospite di Malwida von Meisenburg, una ricca mecenate delle arti. Ne rimase subito folgorato, tanto da restare per più di sei mesi. A suo dire, questo soggiorno fu uno dei più felici della sua tormentata vita. The influence of philosophical irrationalism upon Mussolini’s fascism is evident from his readings and studies. Mussolini read avidly from the works of Schopenhauer, Nietzsche, and Sorel. The works of Marx were also an influence on Mussolini. One must remember from the outset that all of Mussolini's readings serve only to enhance his own pragmatic theories, and that Mussolini values action and experience more than doctrine; nevertheless, the trend of Mussolini's thoughts and actions clearly shows that the greater part of whatever influence previous philosophers had upon him falls within the realm of irrationalism. Christopher Hibbert, II Duce (Boston, Toronto); Chester C. Maxey, Political Philosophies (New York); Herman Finer, Mussolini's Italy (London)’ Benito Mussolini, My Autobiography, translated by Richard Washburn Child (New York). Mussolini derived from the pessimistic philosophy of Schopenhauer and the irrational theories of Nietzsche and Sorel the basic idea that a human life as such has no sacred value. This evaluation of human existence is expressed by the Fascist theorist Giovanni Gentile, and Mussolini heartily concurred with his spokesman.'* With this general attitude toward humanity, the more complex doctrines of Fascism attained greater palatability for Mussolini and his generation of Italians. The influence of Nietzsche on Mussolini is quite obvious. Certain passages from the two men's writings are almost interchangeable. Nietzsche's ideas are perverted by Mussolini, and the Italian dictator uses Nietzsche's terminology more than he used the true essence of Nietzsche's thoughts. However, the general influence of Nietzsche on Fascism remains apparent. In general, Nietzsche's concepts of the transvaluation of values, the eternal struggle for power, the moral value of violence, elitism, and the supremacy of the super-man are the most important aspects of Nietzsche's philosophy that influence Mussolini. William K. Stewert, "The Mentors of Mussolini," American Political Science Review, XXII. In general, Mussolini's thinking was greatly influenced by the wave of irrationalism which had swept the European intelligentsia of the nineteenth and early twentieth centuries. This fact is important in two respects. Primarily, an understanding of philosophical irrationalism provides an opportunity for an insight into Mussolini's thoughts. Many of the irrational concepts were incorporated in toto into the Fascist ideology. In addition to this, philosophical irrationalism in its several manifestations had imbued the post-World War generation with a detestation of the values of the current European order, and had originated new possibilities for trans-forming these values into something more worthwhile. This gives Mussolini a whole generation of dissatisfied and disillusioned Italians to mold into Fascists, and it also affords him the advantage of speaking to this culture in terms which it already understood and held faith in. The development of philosophical, irrationalism in Continental Europe permeated philosophy and political thought in Italy. Responsible Hegelianism represented in Italy by Croce is a polemical anathema to any philosophy espousing myths and the blind struggle for power as determinents in the course of history.^ Mussolini and his spokesmen used Hegelian terminology as an ad hoc rationalization for totalitarian terror. The irrational theories of action, elitism, and instinctual knowledge are more philosophically congruent with Fascist thought, and that part of Italy's intelligentsia which acknowledged this symmetry were at least on firmer ground philosophically than the Fascist Hegelians. The segment of Italy's scholarly community which contributes to the irrational doctrines of Fascism was in-exorably linked in both thought and action to the politics of Benito Mussolini. Several Italian men of letters owed a debt to philosophical irrationalism, and some of these scholars' theories were woven into the attitudes of Mussolini. This connection between the irrationalism of part of Italy's intelligentsia and the career of II Duce represents yet another link in the chain of thought reaching from philosophical irrationalism in Continental Europe to the dictatorial terror of Italian Fascism. Reactionary authoritarianism had been promoted by many Italian intellectuals around the turn of the century. The Nationalist Party was founded by intellectuals of this political posture. The Nationalist Party favored imperialism and opposed democratic representative government. Among the members of this party were the philosopher Alfredo Rocco and Annunzio. Rocco later became a prominent Fascist spokesman. Annunzio was the most renowned literary figure in Italy. This reactionary philosopher fed the Fascist myth with exaggerated expressions of the glories of ancient Rome and incorrect racial doctrines concerning the origin of the Italian people. in the growth of Italian extremism, and he was joined by Mussolini in the loosely-knit Nationalistic movement which solidified into the Fascist Party. Prior to his active participation in the Fascist drive to power, Mussolini travels and studies in Switzerland. He attends lectures given at Lausanne by the respected social economist Vilfredo Pareto. Pareto's social theories had strong overtones of irrationalism, and his primary emphasis is on the preponderance of irrational human behaviour within the political process. This irrational conduct, according to Pareto, manifests itself in various "residues" such as traditional mores, folkways, political ideologies, and established social values. 13 ^S. William Halperin, Mussolini and Italian Fascism (Princeton), William Bolitho, Italy under Mussolini {New York).  Annunzio became a popular rabble-rouser . The course of events in any society is characterized by constant conflict, and order is achieved only when an elite governing class exercises control over the irresponsible masses. The elite gains control and exercises power through a combination of force and the use of the "residues," which adopt a mythological character. These theories of Pareto were a strong influence on Mussolini. He was especially impressed by Pareto's emphasis on the elite as the only body capable of restoring and preserving the social order that incompetent administrators had allowed to disintegrate. Pareto and Sorel shared the ideas of elitism, myths, and 19 the use of force as integral parts of social existence. Mussolini's admitted respect for Sorel as a teacher correlates with the avid interest of Mussolini in the lectures of Pareto. The common irrational theories, especially those of Pareto con- cerning the use of force for political purposes, made a lasting *0 impression on Mussolini. Pareto and Mussolini came to respect each other's ideas in a reciprocal manner. Less than ten years after Mussolini attended Pareto's lectures, the renowned social economist was writing articles which lauded Fascism. Mussolini returned this common ideological admiration by appointing Pareto to a seat in the Fascist Senate in 1923- active participant in the totalitarian regime of Mussolini. Rocco's involvement in reactionary and extremist political movements culminated in his role as an important Fascist governmental official and spokesman. Rocco helps found the nationalistic journal Politica. which published. The respected academician ended his days as an serious scholarly articles by Nationalistic theorists. was named Under-Secretary of the Treasury by Mussolini in the first Fascist government, ' and he eventually became the Fascist Minister of Justice. address expressing the basic statement of doctrine formed Fascism. It was later reiterated and expanded by II Duce and his other Fascist spokesmen. Rocco delivers an tenets of Fascism. This initial the basis of the philosophy of Rocco's Fascist Manifesto, entitled The Political Doctrine of Fascism, incorporates the arbitrary ideas of the movement (Herbert W. Schneider and Shepard B. Clough. Making Fascists (Chicago)» Roy MacGregor-Hastle, The Day of the Lion (New York), Rocco   into a single body of thought. This document contains numerous reverberations of philosophical irrationalism, and interwoven with these reverberations are most of the concepts of Italian Fascism. The relationship is so close that the two schools of thought are, in most cases, indistinguishable from each other. Rocco proclaims the value of emotional and instinctual action which is so reminiscent of Schopenhauer, Nietzsche, Bergson, and Sorel. Fascism is, above all else, action and sentiment. Were it otherwise, it could not keep up that immense driving force, that renovating power which it now possesses. Only because it is feeling and sentiment, only because it is the unconscious reawakening of our profound racial instinct, has,.it the force to stir the soul of the people. The biological nature of man's participation in society, a concept emphasized by Nietzsche, Bergson, and Sorel, is used by Rocco as a justification for the subordination of human beings to the growth of the Fascist state. He says that individual men and groups of men are given life by the organic nation, and that the development of the nation results in a greater collective life and growth that transcends the existence of mere individuals. The individual existence has Rocco, excerpts from The Political Doctrine of Fascism, reprinted in Communism. Fascism, and Democracy, edited by Carl Cbhen (New York) value only in the contribution which it makes to the life of the organic state. The valuation of man as an element that must contribute to the growth of the state culminates in the justification and glorification of war. The survival and improvement of the organic nation require a sacrifice which may be inimical to the interests of an individual. The sacrifice and destruction of individuals in war are necessary for the sustenance of the nation. The negation of an individual's worth necessitates the existence of an elite force to govern society. The masses are too involved in their own selfish interests to be trusted with the reins of government. Only a chosen few are capable of ignoring their own interests and devoting their lives to the greater needs of the whole society. There exists in each culture a natural elite which, because of its superior intelligence and cultural background, is capable of administering the governmental functions of a nation. The most important gift of this elite is its ability to decide matters of state through instinct and intuition. almost identical to that found in the philosophies of Sorel and This theory of elitism is Pareto, and the members of the theoretical elite bear a striking resemblance to Nietzsche's superman and Schopenhauer's creative genius. The collective life of the individual, according to Rocco, makes him an active participant in the panorama of Italian history. The individual is sustained by the myth of Imperial Rome. The authority of the state and the primacy of its ends constitute the legacy of Rome. Rome is the greatest and most powerful state in the history of the world, and it maintained its eminence through the sacrifice of its citizens' blood and its citizens' lives. The myth of Imperial Rome is rejuvenated and sustained by Fascism; Rocco admonished the Italian people to honor their heritage. Fascism restores Italian thought in the sphere of political doctrine to its own traditions which are the traditions of Rome after the hour of sacrifice comes the hour of unyielding efforts. To our work, then, fellow countrymen, for the glory of Italy. Rocco obviously took heed of the theories of Sorel and Pareto on the necessity of a myth to inspire a people. Rocco's The Political Doctrine of Fascism reflects the obvious influence of philosophical irrationalism. In this Fascist document are echoes of Schopenhauer, Nietzsche, Bergson, Sorel and Pareto. The concepts of blind, struggling will as a sustainer of life, the biological nature of man, the value of instinct over the intellect, elitism, and the myth are the same in irrational theory and in Rocco's statement. The Political Doctrine of Fascism is an excellent illustration of the debt which Fascist thought owes to philosophical irrationalism and its primary spokesmen. The Fascist movement had no dearth of gifted spokesmen for its doctrines. Gentile contributed to the theory and practice of Mussolini's totalitarian ideology. Educated at the University of Pisa, he taught at the universities of Palermo, Pisa, Naples, and.iRome. Gentile served in several capacities within the Fascist regime, and he was eventually appointed as Minister of Education. irrationalists, and his writings reflect the use of these two philosophies for Fascist propaganda. His Philosophic Basis of Fascism reflects the influence of philosophical irrationalism on the Fascist ideology. In the Philosophic Basis of Fascism. Gentile elaborates the Fascist concept of the relativity of values. Despite the fact that a given Fascist program might be based on a specific idea or concept, that idea would be abandoned as soon as the -- David Cooperman and E. V. Walter, Power and Civilization (New York) -- Gentile was influenced by both Hegel and the -- need arose. No idea is of lasting significance, and its value is measured only by the degree to which it furthers the Fascist program. the needs of the Fascist state demand it, according to Gentile. The value of instinct is greater than that of reason, and this necessarily makes Fascism anti-intellectual. Gentile expresses this anti-intellectualism by saying that Fascism is hostile to all science and all philosophy which remain matters of mere fancy or intelligence. By virtue of its repugnance for intellectualism, Fascism prefers not to waste time constructing abstract theories about itself. There is scant need for intellectualism in a system in which the dictator makes all the decisions for the state on impulse. This is the function of II Duce. His ideals consist of whatever arbitrary decision he makes at any given moment, and his decisions made instinctively are the supreme law of the nation. The myth of the nation's supremacy causes the individual to be of no value except in his function as an appendage of the Fascist state. He realizes his existence only through -- Gentile, excerpts from The Philosophic Basis of Fascism, reprinted in Power and Civilization, edited by David Cooperman and E. V. Walter (New York) -- The "transvaluation of values" is exercised when   the state, and he is only a consequence of the life and growth of the state. The state controls him and decides for hirn the course of his life. The individual has no freedom except in his role in the organic state. The state binds him to this position, and in it he lives and dies. Gentile's Philosophic Basis of Fascism contains the same irrational overtones found in other Fascist documents. It seems, however, to express more fully the negation of the individual. This negation of the individual became more pronounced as the Fascist government entrenched itself in power, and the irrational base of its ideology was expressed with increasing authority over the individual. Perhaps the deepest exploration into Fascist ideology was attempted by the Italian philosopher Mario Palmieri in The Philosophy of Fascism. This work, completed when Italian Fascism had reached a certain degree of maturity, involves a deeper insight into Fascism than most of the other works of Mussolini's spokesmen. It contains, however, the same basic doctrines which bear the stamp of philosophic irrationalism. Palmieri elaborates the values of the Roman Empire in eloquent language. He says that the legacy of Rome is authority, law, and order, and that Rome must again be the center of civilization which dispenses morality and virtue to the rest of the world. This is th® historic aissioe @f lapsrial Home, and it aust be fulfilled.3^ The masses, states Palmier!, are not capable of governing themselves, this being due to the fact that they cannot understand the ultimate reality of the universe which does not reveal itself indiscriminately. This ultimate reality may only be understood by a superior leader. Palmieri describes the leader in colorful language. The divine essence of the hero, of the soul, is in a more direct, a more immediate relationship with the fountain-head of all knowledge, all wisdom, all love. Man has wandered astray for many centuries, and civilisation has seta darkness due to the lack of authority, law, and order. Despite this disorientation of mankind, the ideas and moral values of Rome have continued to exist. It is through dictatorial Fascism that Imperial Rome will be reborn and end the woes of humanity; in fact, Fascism may finally furnish man with the long sought solution to the riddle of life (Mario Palmieri, excerpts from The Philosophy of Fascism, reprinted in Communism. Fascism and Democracy. editeH~"by Carl Cohen (New York), Palraieri carries the Roman myth to an extreme, ana within his romantic ideal of Fascism the ideas which originated in Continental European irrationalism take on the colour of a holy- crusade; however, Palroieri's work is merely another contribution to the Fascist attempt to cloak violence with an aura of respectability. The Philosophy of Fascism, extolling the same values which wreaked havoc on a generation of Europeans, is a vivid documentation of the influence of philosophical irrationalism upon Italian Fascism. While Italian Fascism had numerous gifted spokesmen, the preponderance of responsibility for the creation of its doctrines belongs necessarily to Benito Mussolini. History points to II Duce as the most important individual man in the era of Italian Fascism. Mussolini, as an agent of history, islargely responsible for the propagation and ascendency to power of the Fascist movement. Throughout the course of this ascent, Mussolini's political pronouncements, political speeches, and his autobiography document his intellectual debt to Schopenhauer, Nietzsche, Bergson, Sorel, Pareto, and the entire body of European philosophical irrationalism. The expressions of the dictator's thoughts are living proof of his debt to philosophical irrationalism. The influence of the philosophies of eternal cosmic conflict is overtly evident in the writings and speeches of Mussolini. The following passage is taken from a speech made while Mussolini was still involved in the struggle for political power. The words of this speech could almost be mistaken for an excerpt from Nietzsche's “Will to Power”. Struggle is at the bottom of everything. Struggle will always be at the root of human nature. It is a good thing that it is so. The day in which all struggle will cease will be a day of melancholy, will mean the end of all things, will mean ruin. Struggle and conflict, in the opinion of Mussolini, are integral parts of human existence. The endless struggle for survival and power is reflected in the vital biological nature of man's social and political actions, according to Nietzsche, Bergson, and Sorel. This concept echoes through the words of Mussolini, and is used to justify the individual's role as biological necessity for the nation. In The Doctrine of Fascism, which is Mussolini's written program of the aims of the Fascist movement, one of the stated goals is to "make the people organically one with the nation so that the state may use them to achieve its ends. Mussolini is constant in his belief that the people must be used to nourish the state. They are, says Mussolini in his autobiography, "the vital food needed to reach greatness.  Individuals are the food and -- Benito Mussolini, "The Tasks of Fascismo." Mussolini as Revealed in his Political Speeches. translated and edited by Bernardo Q. di San Severino (London and Toronto), Benito Mussolini, The Doctrine of Fascism (Firenze),Mussolini, Autobiography --  blood of the body politic, and as such are entirely dispensable to the process of the growth and sustenance of the organic state. The organic state, which is nourished by the sacrifice of individuals, is susceptible to infection like any living body. In the Fascist state controlled by Mussolini, infection consists of any political dissent. II Duce had a cure for this type of illness. Speaking of Fascist violence in his regime, Mussolini said: It is necessary to cauterize the virulent wounds to have strength. It was necessary to curb political dissent. The health of the organic state depended on the constant vigilence of Fascism against political opposition. Fascism, writes Mussolini, has to perform surgery—and major operation against succession”. Thus Mussolini corrupts the theories of man's biological nature in order to justify totalitarian terror. Nietzsche *s theory of the transvaluation of values which he based in part on the nature of man within the eternal biological struggle in a turbulent cosmos, influences Mussolini. This influence is evident throughout Mussolini's writings and speeches. He constantly emphasized the need to abolish traditional morality and replace it with the arbitrary values of his refine. The Fascist state is endowed with a supreme will, and is therefore ethical unto itself. The state must not clinc to traditional values lest its progress be impaired. Brotherly love, humanitarianism, and symphatetic kindness are inferior to other values of a higher nature. The higher values espoused by Mussolini resemble the hearty, pagan values that Nietzsche advocated. These values involve conflict, the shedding of blood, and dying, and they are morally justifiable when done in the service of the Fascist nation. The concept of the transvaluation of values contributes to Mussolini's doctrine the idea that violence and bloodshed are not only morally justifiable but are the highest virtues to which a people may aspire. The influence of the theories of Sorel and Pareto in regard to the use of violence for political purposes is reflected in the writings aid speeches of Mussolini. The -- Mussolini, Doctrine of Fascism, Mussolini, "Either War or the End of Italy's Name as a Great Power," Speeches, Mussolini, Autobiography -- Italian despot had found in Nietzsche a moral justification for the use of violence. This enabled Mussolini to claim that "violence has a deep moral significance.” In addition to this moral justification, Mussolini also rationalizesthe use of violence as a legitimate and even desirable expedient within the political process. His mentors Sorel and Pareto had ascribed this role to violence in politics and society. The excesses of Fascist terror were excused as being morally valuable and of logical political necessity. In a speech a Milan Mussolini described the relationship between his party and its political opponents. The Fascisti have gone forth to destroy with fire and sword the haunts of the cowardly Social- Communist delinquents . This is violence of which I approve  and uphold. It is necessary, when the moment comes, to strike with the utmost decision and without pity. War is the ultimate expression of bloodshed and violence, and Mussolini accordingly placed the highest esteem upon war. It enabled him to gain "I  an understanding of the essences «51 of mankind."-^ n Duce's adoration of war became an integral part of the theories of Fascism, and in the official Doctrine  ^Mussolini, "The Fascisti Dawning of New Italy," Speeches, Mussolini, Autobiography, p. T Fascism, Mussolini expressed the hi/rh regard which Fascism has for war: war alone keys up all human energies to their maximum tension and sets seal of nobility upon those- peoples who have the courage to face it. All doctrines which postulate peace at all costs are incompatible with Fascism. The conflagration v/hich visited tragedy upon millions of Europeans was made more acceptable by Fascism's theory of war, a theory which is the logical outcome of placing a moral and political value on the shedding of human blood. The question comes to mind as to who may decide the time and degree of the use of violence, and Mussolini's speech to the citizens of Bologna in the spring of 1921 provides an answer. The moral and politically expedient violence of the state, said Mussolini, "must have a character and style of its own, definitely aristocratic. The "aristocratic" bloodletting of the Mussolini regime was administered by a group of "aristocrats" well suited to the task—"the Fascist!, whom I considered and considerthe aristocracy of Italy. The Fascist Party that Mussolini considered to be his own aristocracy (or elite) owed much to the terrorist squads that 'Mussolini, Doctrine of Fascism, Mussolini, "How Fascismo was Created," Speeches, Mussolini, Autobiography.aided the party in its rise to power. Mussolini held these crude street fighters, the "Black Shirts," in especially high esteem. After he had gained total power in Italy, Mussolini refused to consider suggestions to the effect that he disband his elite brawlers who had, as he stated, “a deep, blind, c, and absolute devotion. Their intrinsic merit sprung from the fact that these brawling hooligans through intuition and in r. . . their instinct were led not only by strength 56 and courage, but by a sense of political virtue. . first elite to be inspired by philosophical irrationalism were the Black Shirts of Fascist Italy. Mussolini's elite possessed the hearty pagan values of Nietzsche, and true to the theories of Pareto and Sorel, they used violence as a political expedient to raise their party to power. Mussolini was brutally frank in expressing the function of his elite. Their task, he wrote, was . that of ruling 57 II Duce's elite began by using violence as a means to attain power, and they continued to use it"to maintain themselves in power. This development was not out of keeping with the concept of values which characterizes the irrational doc- trines of Fascism. the nation by violence, for the conquest of power." The   The elite which rules by force must have a sense of di- rection, even though its action is arbitrarily guided to the attainment of divergent goals. Mussolini traced the pattern of this guidance in describing how victory was achieved by the Fascisti. The group intuitively realizes the necessity of violent action, and it readies itself to strike. When the moment to attack has come, the instinct of the leader has al- ready made victory inevitable. He has organized his men for battle and his intuition has provided him with the proper strategy by which his forces may emerge triumphant. Success through violence is achieved when the elite forces, led by the instinct of their duce, crush the opposition. At this particular juncture in the description of Mussolini's thought, a combination of several ideas originat- ing in philosophical irrationalism may be observed. The superiority of the instinct over the intellect, the effective- ness of the elite, the value of the forceful pagan virtues, such as heroism and bloodshed, the use of force, and the power of the leader are all component tenets of Mussolini's doctrine. They culminate and are fused together in Mussolini's attitude toward himself as the embodiment of the principles of power. Mussolini firmly believed in his own indispensability to Fascism. In regard to the Party's debt to its leader, Mussolini wrote: the party could not have existed and lived and could not be triumphant except under my command, my guidance, my support and my spurs.59 Mussolini felt that the Party and the State were inexorably bound to him. He believed himself to be the vessel of the 60 moral and spiritual powers of the state. Mussolini's image of himself was developed under the influence of the elitist theories and Nietzsche's concept of the superman. Mussolini shared with Nietzsche a contempt for the European bourgeoisie, and Mussolini blamed the philistine middle-class for all of the social problems which plagued European society. Italy's deliverance from this situation had been contingent upon her willingness to shed her blood, and the prospects for this occurring were hampered by the cowardice of the middle-class bourgeoisie.^" Mussolini's instinct told him that "Italy would be saved by one historic agency righteous force . . The one in- dividual capable of guiding the nation in its historic quest for power was, Mussolini knew, himself. The victory of his party and the regeneration of Italy had been achieved, ac- Mussolini, Doctrine of Fascism, Mussolini, Autobiography, cording to Mussolini, because "Violence . . . had been controlled by my will." Mussolini solidified the totalitarian Fascist regime by actualizing his irrational theories of instinctive action, elitism, and violence. II Duce blended these various themes together to create, true to his mentor Sorel, the myth of Imperial Rome. This myth held that a violent reformation of civilization would be achieved through the rebirth of Imperial Rome. In a speech in Trieste, Mussolini laid the groundwork for his myth. He spoke of Rome's illustrious history as the leader of world civilization, and stated that the task of Fascism must be to recreate this Empire to fulfill the Italian destiny of world leadershipFascism alone could fuse the values of ancient Rone with the reality of current political trends, for "it is a-faith. It is one of those spiritual forces which renovates the history of great and 6s enduring peoples." ' Mussolini continued to dwell on the theme of Imperial restoration throughout the years in which he held power. The creation of this Roman myth, a tactic reminiscent of the theories of Sorel and Pareto, was used to sustain a people who were suffering from the actualization of other less glorius irrational theories. Mussolini, "The tasks of Fascismo," Speeches, Mussolini.Autobiography. While the Imperial myth was an abstract and Romantic ideal, the concepts of syndicalism and the corporate state bore some resemblance to Mussolini*s economic dictatorship. II Duce acknowledged Sorel's ideas of the syndicalist myth as a source of Italian syndicalism. In a statement made at the founding of the Fasci di Combattimento. Mussolini ex- pressed the necessity of corporate syndicalism as opposed to representative government. Democratic representation, he stated, is less acceptable and effective than direct repre- 67 sentation of economic interests before the Government. The idea of Italian syndicalism, while closer to reality than the chauvinistic Imperial myth, was nevertheless another means for perpetuating authoritarianism. Based on Sorel*s philosophy of the irrational myth, it served as a facade for the dictatorial control of Italy*s industries and unions. In retrospect, the influence of philosophical irrational- sim on Italian Fascism in general and upon Mussolini in particular is undeniably and overwhelmingly significant. A question exists as to what extent Mussolini followed the doc- trines from which he drew, and to what degree he used them for ad hoc rationalizations for totalitarian violence. An answer may lie in the juxtaposition of two of the dictator's pro- nouncements within the same year. On June 8th, 1923, Mussolini ^^Mussolini, Doctrine of Fascism, made the following statement before the Italian Senate: The more I know the Italian people, the more I bow before it. The more I come into deeper touch with the Italian masses, the more I feel that they are really worthy of the respect of all the representatives of the nation it would not matter if I lost my life, and I should not consider it a greater sacrifice than is due. My ambition isthis: IwishtomaketheItalianpeoplestrong, prosperous, great and free. Eight months before this speech, Mussolini had said: The masses are a herd, and as a herd they are at the mercy of primordial instincts and impulses. The masses are without continuity. .They are, in short, matter, not spirit. We must pull down his Holiness the Mob from the altars erected by the demos. " Using the conduct of the Fascist Government as a yard- stick by which to measure the sincerity of the public state- ments made by Mussolini, it is feasible to conclude that the Italian Senate was treated to an enactment of Mussolini's belief in the relativity of values in relation to the political gain to be derived thereof. The second statement is quite in keeping with Mussolini's adherence to elitism. Neither of his statements is out of keeping with the doctrines which he promulgated. The fact that this paradoxical situation is possible does not speak well for the theories upon which, misinterpretations and rationalizations notwithstanding, Laura Fermi, Mussolini (Chicago. 1961), p. 68 Mussolini, "The Internal Policy," Speeches, Mussolini based his doctrines. Fascism is not far removed from philosophical irrationalism, one of the dominant philos- ophies of the period. Mussolini may be looked upon as an oppressor of the Italian people. II Duce's foreign and domestic policies cer- tainly visited bloodshed and death to the masses of Italy and other nations as well. One must remember, however, that Mussolini's speeches advocating violence, elitism, and sub- servience to the state were cheered by millions of Italians during his regime. Members of all the various classes within Italy supported Mussolini's drive to power. This support is quite understandable in view of the fact that their leader spoke to them in terms which had permeated their intellectual milieu for almost a century.Iorio. Keywords: torna a Sorrento, Villa Rubinacci, Malwida von Meisenburg. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Iorio” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51753667201/in/datetaken/

 

Grice e Jaja – filosofia italiana – Luigi Speranza (Conversano). Filosofo. Grice: “I like Jaja – of course you cannot understand Jaja unless you understand Fiorentino, Croce, Spaventa and Gentile! The quintessential Italian philosopher!” – Grice: “Jaja is a sensualist, like me.” –Grice: “My favourit essential Italian philosopher. Figlio di Florenzo Jaja (a cui è dedicato l'Ospedale Civile di Conversano). Si trasferì a Napoli, dove studiò sotto la guida di Fiorentino. Si sposta a Bologna, dove si laurea per seguire il suo maestro.  Il suo incontro filosofico principale fu con Spaventa. Col trasferimento di Jaja a Napoli i rapporti con Spaventa divennero regolari. Insegna a Pisa.  Jaja non è stato mai considerato un filosofo particolarmente originale, ma ha avuto il merito storico d'introdurre Gentile allo studio di Spaventa, merito che l'allievo riconoscerà sempre.  Opere: “Origine storica ed esposizione della Critica della ragion pura” “Studio critico sulle categorie e forme dell'essere”; “Dell'apriori nella formazione dell'anima e della coscienza,” “ L'unità sintetica e l'esigenza positivista,” “Sentire e pensare,” “Identita e Semiglianza ed identità”’“ Sentire, pensare, conoscere,” “ L'intuito nella coscienza.” Cesare Preti, Jaja filosofo europeo oltre Gentile, su ricerca.repubblica,. treccani. Jaja: neoidealismo italiano, su orthotes.com.  Jaja, Giovanni Gentile, Memoria su Donato Jaja, su sba.unipi, Bertrando Spaventa Giovanni Gentile Idealismo italiano, Jaja, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. openMLOL, Horizons Unlimited srl. Giovanni Gentile, Memoria su Donato Jaja, su sba.unipi. Donato Jaja. Grice on “Sentire” e Pensare. Rupert Brooke: “I love Grice: “I feel,’ never ‘I think’!” – “If a is a, is a LIKE a” – a knife is not like a knife, but something that is  not a knife can be like a knife.” Implicature!” JAJA, Donato. - Nacque a Conversano da Florenzo e da Elisabetta Pinto. Comincia gli studi al seminario in vista di una futura carriera ecclesiastica, ma dopo l'unificazione, si trasfere a Napoli, dove studia sotto la guida del filosofo neokantiano F. Fiorentino, e a Bologna, per seguire il maestro, con il quale si laurea. Dopo la laurea insegna al liceo di Caltanissetta, quindi a Chieti. Tornato a Bologna vi conobbe e frequenta A.C. De Meis e per suo tramite B. Spaventa che, oltre a influenzare lo stesso Fiorentino, divenne in seguito una figura chiave per la formazione intellettuale dello Jaja. Con Spaventa i rapporti dello J. divennero regolari quando egli si trasferì a Napoli per insegnare al liceo Genovesi. Conseguì la libera docenza  ottenne la cattedra di filosofia teoretica a Pisa, dove rimase per il resto della sua vita. Tra i suoi allievi ebbe G. Gentile, che gli successe poi sulla cattedra, e G. Lombardo Radice.  Nella dissertazione di laurea, data alle stampe con il titolo Origine storica ed esposizione della Critica della ragion pura di E. Kant (Bologna), colloca Kant all'origine di una nuova scena del pensiero che raccoglie le due tradizioni precedenti lungo le quali egli articola la storia della filosofia moderna successiva a Cartesio: da una parte il filone filosofico che si pone il problema dell'infinito, dell'universalità e della necessità (Malebranche, Spinoza, Leibniz); dall'altra la tradizione francese, ma soprattutto inglese, sensistica ed empiristica (Locke e Hume). Kant pone il problema, ritenuto centrale dallo J., del debito che il pensiero ha nei confronti sia dell'esperienza, sia dell'universale. Tuttavia lo J. ritiene che Kant non abbia dato una soluzione adeguata e definitiva ed è anzi incline a sostenere che la soluzione vada trovata nei continuatori dell'opera kantiana. Emerge già qui chiaramente la tendenza a leggere la tradizione idealistica alla luce degli interrogativi kantiani, in una prospettiva che egli derivava da Fiorentino. Secondo lo J., Kant pone il problema della conciliazione di questi due elementi, di senso e intelletto, ma non lo risolve: "La manchevolezza", sostiene, "è nell'intima natura del sistema kantiano: in quest'ultimo lo spirito è dualità, scissura, intuizione e concetto, recettività e spontaneità, entrambi irriducibili", mentre la soluzione consiste nel mettere in luce l'unità, nel mostrare come l'universale kantiano sia non esclusivamente soggettivo ma oggettivo e pertanto corrisponda alla realtà. Compare qui un interesse dello J. per il modo in cui l'intelletto proviene dal senso (cfr. Plebe, in Guzzo - Plebe), che mostra anche una sensibilità più vasta verso il regno della natura e le scienze empiriche e che in seguito lo portò a confrontarsi con il positivismo e l'evoluzionismo. Pesavano in questo probabilmente sia gli interessi positivistici di Fiorentino, cui egli dedicava questo volume, sia l'ambiente intellettuale bolognese, in cui spiccavano figure quali quella di De Meis. Ha modo di sviluppare e precisare tali temi in uno Studio critico sulle categorie e forme dell'essere di  Serbati. Qui critica Serbati della Teosofia in quanto non dà spazio né illustra la centralità della mente nel suo rapporto con l'essere, mentre questo va visto alla luce dell'essere pensato dalla mente: "È necessario studiare la mente nella serie non interrotta dei suoi fenomeni, attraverso cui passa nel formarsi". Kant ha colto questo punto in quanto ha mostrato che prima di poter parlare dell'essere si deve indagare la natura della mente, e tuttavia ha finito con il postulare una irriducibile alterità della cosa rispetto alla mente. Fichte, e quindi Hegel, hanno invece compiuto il necessario passo in avanti mostrando come ciò che è fuori della mente è il risultato di ciò che la mente e il pensiero hanno rivelato.  Gentile ha modo di considerare a questo proposito che la lettura che il proprio maestro da di Hegel e personale e forse inadeguata sul piano interpretativo: e uno Hegel mediato in primo luogo da Spaventa, che ne aveva sottolineato l'aspetto soggettivistico, e che lo J. aveva letto in modo ancora più immanentistico facendo equivalere l'essere con il pensiero umano. Temi e ispirazioni filosofiche - in cui si mescolavano influssi hegeliani, fichtiani, e interessi verso le scienze e la dimensione empirica del pensiero - spinsero lo J. a occuparsi del positivismo e in particolare di Spencer. In una prima memoria, “Dell'apriori nella formazione dell'anima e della coscienza” (Napoli) -- ma si veda anche “La somiglianza nella scuola positivista e l'identità nella metafisica nuova” -- J. nell'esaminare e nel correggere il Fiorentino si occupa dei tre momenti della conoscenza: sensazione, rappresentazione e concetto. Nel discutere della sensazione ha già modo di articolare una posizione cui dette poi compiutezza in Sentire e pensare. La sensazione non è solo stimolo che proviene dall'esterno ma è anche modificazione. E interna all'atto del sentire e alla sfera spirituale. In questo da una parte valorizza l'importanza dello studio scientifico dei modi in cui la conoscenza sorge e ha luogo, ma dall'altra mette in luce l'inadeguatezza di un punto di vista esclusivamente empirico. Tornato su questi temi in “L'unità sintetica kantiana e l'esigenza positivista” si propose di conciliare l'esigenza positivistica, che nega elementi a priori e che è invece interessata a ricostruire geneticamente il formarsi dei fenomeni, e l'esigenza kantiana, che vuole mantenere valido il punto di vista universale. Opera tale conciliazione ritenendo che il passaggio dalla sensazione sino alle forme più evolute di coscienza sia solo un passaggio di grado, mai categorico. Si appropria dell'idea di sviluppo e di ricostruzione genetica e la colloca nell'immagine idealistica di un essere che dà forma a se stesso a partire dai gradi più semplici e primitivi sino alle forme più sofisticate. La trattazione di questi temi prelude al “Sentire e pensare”. Scrive lo nella prefazione: "È mio fermo convincimento, che il problema speculativo, in tutta la sua ampiezza, resterà un labirinto senza uscita […] finché non solo non sarà studiato sul terreno indicatogli dalla filosofia moderna in genere e dalla critica kantiana in particolare, cioè su quello della conoscenza, e per esso della coscienza, ma più ancora finché nello studiare la coscienza non avremo preso le mosse da quel giusto punto, dove il senso finisce e la coscienza incomincia, o dove il senso non è più solamente senso, e già la coscienza comincia a mandare sul tronco di esso i suoi primi germogli".  Lo J. è interessato a individuare il momento in cui la sensazione e la coscienza si sovrappongono. Da una parte è desideroso di fare propria la lezione dei positivisti e degli evoluzionisti, fino a spingersi ad affermare che "il principio assunto oggi a base delle scienze naturali, l'evoluzione" è vero e fecondo, un'affermazione non priva di interesse in un autore che eserciterà il suo influsso nella formazione di una filosofia idealistica italiana lontana e refrattaria alla scienza e in particolare all'evoluzionismo. Dall'altra vuole rivendicare la presenza nella sensazione degli elementi embrionali della coscienza e cioè l'universalità propria della mente concepita kantianamente. Questo tentativo di conciliazione di due esigenze opposte non è di per sé indicativo di un fallimento di un'autentica comprensione di tali esigenze. In altri termini è interessato a conciliare una comprensione scientifica della natura, che prescinde da una descrizione in termini intenzionali, e che l'evoluzionismo ha esteso anche agli organismi viventi sino all'essere umano, con una sua comprensione in termini concettuali. Ma, usando l'evoluzionismo come immagine filosofica anziché come prospettiva di studio alternativa a quella filosofica idealistica, chiude quasi subito la sfida tra queste due comprensioni. Perciò parla in termini evolutivi del passaggio dalla sensazione alla coscienza per significare che non vi sono passaggi categorici ma solo di grado. "La sensazione è foriera della coscienza, e n'è la immediata preparazione. Dall'una all'altra è passaggio, non salto. Gli elementi tutti della coscienza sono elementi della sensazione.La vita della coscienza è due cose; è la continuazione della vita del senso, e per esso della natura tutta, e n'è il compimento insieme"  L'immagine evolutiva è impiegata per significare questo passaggio dalle diverse forme della vita, che  intende come una "forza" che si dispiega. "Il fatto adunque, di cui prendiamo nota, è che nel sentire si raccoglie tutto il mondo naturale sottostante, e che questo mondo naturale è qualche cosa di vivo, viva essendo e perenne e senza limiti la produzione degl'individui diversi, che si succedono e s'incalzano in tutti i diversi ordini della natura. Questo mondo naturale che si raccoglie nel sentire è la forza. Ed è forza il sentire. Quando la forza sottostante, compiute tutte le condizioni, sale al grado di sentire, produce ancora. E non intendiamo dei soli individui, che compongono il grande regno animale. Il sentire è per sé solo forza, perché per esso gl'individui senzienti (forniti delle capacità, della forza di sentire) non vivono soltanto, assimilandosi e trasformando gli elementi del mondo inorganico, ma il mondo pre-esistente della vita trasformano in una superiore esistenza, nell'esistenza rappresentativa. Nella rappresentazione la forza naturale incomincia a ritrovare se stessa, iniziando quel movimento di ritorno sopra di sé, nel cui compimento è il suo possesso, e la sua integrazione”. Puo già leggere in H. Spencer una concezione dell'evoluzione come un processo diretto a un fine, un'idea lamarckiana lontana dall'evoluzionismo di Darwin, di cui Spencer non si liberò mai. Ma egli chiude subito le possibili tensioni interne a questo paradigma e usa l'immagine evolutiva come un motore esplicativo di tipo hegeliano, spingendosi sino a invocare il superamento del principio di non contraddizione per spiegare il modo in cui la sensazione si evolve verso la coscienza: "Non resta dunque, che sieno e non sieno identiche, che sieno in parte identiche, in parte diverse. I fautori della inviolabilità del vecchio principio di contraddizione, così come era e poteva esser dato nella logica formale […] potranno trovare dura questa conclusione" (ibid., p. 76). L'evoluzione è immagine della forza che dal regno della natura ritrova se stessa, cioè si rende consapevole nel mondo dello spirito. In questo senso, J. può essere ascritto alla schiera di quanti hanno usato l'evoluzionismo per produrre una loro filosofia della storia.  Una conclusione, questa, che trova conforto in uno scritto successivo dello J.  L'intuito nella coscienza. È qui affrontata la questione se l'intuito abbia una parte nella ricerca scientifica. J. risponde affermativamente, sostenendo che tuttavia esso è posto in primo piano solo "quando il pensiero indagatore ha sentito il bisogno di ricorrere alla conoscenza in se medesima, e scrutarne il valore"  e cioè quando vi è perplessità sull'evidenza del proprio oggetto di studio. Nel mostrare come la conoscenza non sia solo accumulo e accostamento di fatti,  J. afferma, di nuovo contro i positivisti, che "i fatti e la storia, se sono la realtà, non sono tutta la realtà" . "La realtà storica, oltre ad essere quella che è, e che ognun vede, è anche in miglior modo nell'universale e per l'universale". I fatti e la storia sono testimoni cioè di un universale che li raccoglie e dà loro un senso. Nel successivo Ricerca speculativa. Teoria del conoscere (I, Pisa), insiste sul concetto del pensiero che ritrova sempre se stesso e non ha niente di anteriore. Egli ritiene che la filosofia sia l'unica disciplina che non ha un oggetto specifico di studio che non sia l'esigenza stessa di conoscenza. Come egli scrive, "si tratta di salire nelle alte regioni dell'intendimento puro, di usare del conoscere per costruire l'atto, il puro ed universalissimo atto, del conoscere. Se alcuni interpreti hanno ritenuto che in quest'opera  traesse le conseguenze del suo lavoro precedente e in particolare di Sentire e pensare (Plebe, in Guzzo – Plebe), Gentile invece vi ha voluto scorgere la trasformazione dell'idealismo assoluto in spiritualismo assoluto, una posizione che preludeva agli sviluppi che egli stesso avrebbe dato all'idealismo italiano. Come notò, a tal proposito, lo J. "qui non muove più dal senso e dal bisogno di trascendere il senso quale è dato dalla coscienza, per spiegare la coscienza sensibile, senza incorrere nello scetticismo. Si mette innanzi l'atto del conoscere, prescindendo da ogni rapporto di esso con la verità, per trattare lo stesso del puro conoscere come principio unico ed assoluto di tutto, presupposto com'è da qualunque altro possibile pensiero" (Gentile).  Oltre agli scritti menzionati, si segnalano ancora, fra gli altri: Un po' di polemica nella quale principalmente si discorre dell'articolo 73 dello Statuto in rapporto a' poteri supremi dello Stato, Bologna); Saggi filosofici, Napoli  (raccoglie scritti già pubblicati e l'inedito La virtù e i suoi elementi costitutivi); la prefazione alla raccolta di Scritti filosofici di B. Spaventa, a cura di G. Gentile, Napoli; Enigma della coscienza, in Rivista filosofica; L'insegnamento filosofico universitario ed il regolamento nuovo, Pisa.  Fu membro della Società reale di Napoli e cavaliere dell'Ordine della Corona d'Italia.  Fonti e Bibl.: Necr. in Il Messaggero toscano,  (C. Sgroi); Corriere toscano,  (G. Tarantino); G. Gentile, Lettera a D. J., in Giovanni Gentile. La vita e il pensiero, a cura della Fondazione G. Gentile per gli studi filosofici,  (lettera di Gentile giovane laureato al maestro); F. Battaglia, Lettere di A.C. De Meis a D. J., in Memorie dell'Accademia di scienze dell'Istituto di Bologna, cl. di scienze morali; G. Gentile - D. Jaja, Carteggio, a cura di M. Sandirocco, I-II, Firenze; S. Miccolis, Dieci lettere inedite di D. J., Firenze s.d.; G. Gentile, D. J., Pisa Id., Le origini della filosofia contemporanea in Italia, III, Messina  G. Alliney, I pensatori della seconda metà del sec. XIX, Milano ad ind.; B. Croce, Conversazioni critiche, s. 2, Bari pp. 30 s.; A. Guzzo - A. Plebe, Gli hegeliani d'Italia, Torino; A. Guzzo, Cinquant'anni di esperienza idealistica in Italia, Padova G. Vacca, Recenti studi sull'hegelismo napoletano, in Studi storici, VA. Cristallini, Il pensiero filosofico di D. J., Padova  (con bibliogr. degli scritti dello e sullo J.); V. Carcuro, Polemiche filosofiche antirosminiane: Terenzio Mamiani e D. J., Aversa; A. De Gubernatis, Diz. biogr. degli scrittori contemporanei, Firenze , s.v.; Enc. Italiana, XVIII, s.v.; Enc. filosofica, IV, s.v.; F. Abba Luzzato, Diz. generale degli autori italiani contemporanei, I, sub voce. Grice: “Jaja is especially important for the fact that he tutored Gentile. He wrote on the ‘supreme powers of the state’, since he was a Hegelian at heart, as a collection published in Italia thus calls him – “Gli hegeliani d’Italia: Tocco, Jaja, Gentile. While he studied Kantism in depth, he finds that the Hegelian absolute, the State, as compromise between ‘gl’individui, as Jaja calls them, is the maximum!” Donato Jaia. Donato Jaja. Jaja. Keywords: implicatura, I potere supremo dello stato, la virtu. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Jaja” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51689402446/in/photolist-2mLyVqx-2mKw3hq-2mKBGvU

 

Grice e Javelli – filosofia italiana – semantica del segnare, segnante e segnato -- Luigi Speranza (S. Giorgio di Canavese). Filosofo. Grice: “I love Javelli – he is, like me, an Aristotelian; being a northern Italian, he is a Thomstic Aristotelian, which I’m not sure I am!” Grice: “One good thing about Javelli is that he commented on MOST works by Aristotle!” -- Essential Italian philosopher. Studia a Bologna. Fu esegeta. Argomenta contro Lutero. Opera omnia” (Lione, Giunta). Partecipa al dibattito sul Tractatus de immortalitate animae di Pomponazzi, di cui scrisse, su richiesta di Pomponazzi stesso una confutazione. Partecipa al dibattito sul divorzio di Enrico VIII, esponendosi a favore della scelta del sovrano. M. Tavuzzi, in "Angelicum", DBI. Casale Monferrato -- modum  definiendi, dividend et demonstrandi, Tu tamen aduerce licet fiteadem realiter, ratione tamen diftingui turinquantu doccn$, &inquantu utens. Namin quantu docenscofideratur in (e, in quantu utens relpicit alias scientia. Tertia divisio est hoc. Logica  docens fufficienter  diuiditur  in tres partes. Prima est  jn qua tradatur de terminis  incomplexis, & hxc  ditiiditur  in  duas.  In  prima  confidc-  ratur  de  terminis  secundx  iutentionis, &  ifte  eft  liber  prardicabilium.ln  fecunda  confideraturdc  terminis  primx intetionis, &  ifte eft  liber prxdicamentorum  , & post  praedicamentorum. Secunda est in  qua  tradatur de terminis  complexis, id est  de oratione et propositione et hic est  liber “Peri Hermenias”. Tertia est in qua tradatur de argumentatione et hoc dividitur in quatuor. In  prima agitur de argumentatione syllogistica absoluta etsimplici, idefi noh applicata alicui  materiae  & hic est  liber  pnorunviln secunda  agitur  de  syllogifmo  demonftratiuo,&  hic  cft  liber  pofterio  Tum. In  tertia  agitur  de  fyllogifmo  topico,ideft  probabili,  flthic  cft  liber  topicorum. In quarta agitur de syllogifmo  fallaci, quem  dicimus  fophifticum,co  q* per  ipfum  folum  gc  iteratur  deceptio, & hic  eft  liber  clcnchorum. Hoc eft  funtma  librorum,  quos  tradidit  nobis  Aristoteles inuenror  logicae. Reliquos  autem  minores  tradarus  quos  appellamus  parua  logicalia, non habemus  formaliter ab Aristotele. Sed  posteriores  traxerunt  virtualiter ex  praedictis  libris  Aristotelis, ita  <y  eorum  principia iam habuimus ab Aristotele,  ut  tibi  declarabitur, quando agemus de consequentiis et suppositionibus &c. Et aduerte q? (ufficientia  praedictae  divisionis fumitur hinc, Argumentatio (ut dictum est supra Jeft pn cipalc confideratum a logico ueluccius finis, non enim logicam quaerimus nifl ut acquiramus habitum faciliter & ra de argumentandi ad quancuncp conclusionem.  Argumentatio  aut est  quoddam  totum  conflans ex  propofitionibus,  ut tibi  declarabitur  loco  (uo, propofitio vero  confiant  ex  tcrminis. Cum  igitur  eadem  (cientia  fit  confidcrariua  totius  & partium, necefle efi logicum  uerfantem  circa  argumenta  tionem, confiderare de argumetatione & partibus  eius, partes  autem  cius  fune  duplices.f. propinquae  & remotae propinquae sunt  propofitiones remote  autem  termini  in complexi, nam  propofitiones componunt  immediate  argumentarionem. Tcrmini aurem  incomplexino  componut  eam,  nifi  quia  ingrediuntur  propofitionem. Ex  quibus  conflat, pars  prima, in  qua  confiderantur  termini  in complexi, ordinatur  ad  fecundam, in  qua  confideratur  propositio et secunda  ad  tertia,  in  qua  confidet  atur  argumentatio, & in  ca  completur  intentio  logicj. Conftar  igitur  quomodo  dinl  denda  fit  logica, &  quae  fint  cius  partes  fufticienrcr  ipsam  di  nidcntcs. Hoc de praesenti cap. dicta  fint.   A quo fit incipiendum in logica et quis ordo prosequendus ne confundatur ingenium nouicii.  In septimo capite investigandum est a quo primo incipiendum fit tractare in logica, et quis ordo m tractandis lcr- uandus fit, ne nouicii ingenium confundatur. Quantum  ad  primum  aduerte  q*  nonulli  confidcrant  logicam  inquantum  est  dialectica, id est  disputativa, alii  autem inquantum uersatur circa argumentationem, quae  non  lolu  poteft  fieri  uoce  fed&  mente  & feripto « Primi  confiderantes difputationcm  non  fieri  fine  fcrmonc, nec  fermonem  fi-  ne uoce, nec  uoccm  fine  Tono, ideo a sono  tanquam  a priori  & communiori  dcfinitiuc  & diuifiuc  dicunt  inchoandum. secundo  loco  a ovce  dcfinitiuc  & divisive. tcrtio  loco  a nomine et uerbo  ut  habent  c(Tc  in voce & componut  orationem et propofitjoncm vocalem, ex  quibus  componitur syllogifmus siue argumetatio uocalis, qua sit dispuratio inter duos. Hunc ordinem lcruat Petrus Hispanus et ratio ad hoc movens cum  fuit, quia considerauit Aristoteles in suo  libro “Peri Hermenias” acturus  dc  propositione  definit  nomen et verbum  utfunr cius partes intcgrales per vocem, quafiq? non confideret de nomine et verbo et oratione et propositione et argumentatione, nifi ut deferuiunt disputationi, cui non deferuiunt nisi ut sunt in voce reliquit ergo omnia praedicta ut sunt in mente et in scripto et intendit de modo magis famoso ac notiori ad sensum, qui est modus in voce.   Alii autem  aduertentes  <f  licet modus  ific  famofior  &  uulgarior  fit, tamen experientes q* omnia praedicta habene efle in anima, in voce et  in  scripto, nec  unquam  proferuntur uoce, nec  feribuntur  nifi  prius  mente  concipiantur, unde et dixit  Aristoteles  in  primo “Peri Hermenias” , q'  ea quae sunt in voce, sunt earu quae sunt in anima PASSIONUM id est conceptuum notae i signa, ideo arbitrati non sunt incipiendum a uoce  nec  a sono, sed  a termino, id  est  dictione.  Nans  terminus  ut  est  in  mente  componit  propositionem  mentalem et ut  est  in  voce, componit propositionem vocalem et ut est  in scripto, componit propositionem in scripto, & quo  niam  nomen  erbum  et oratio  poliunt  ede  in  mente  et in voce et in scripto, ideo dicunt  melius elfe  q>  definiantur  p er. Ti  terminum utpote  magis  communem  § per vocem. Hancjg!  cur viam  uc universaliorcm sequemur et prateipue quia no concrariacur  priori  sententiae. Nam  sicut  est  verum  dicefe'.  Socrates est  homo  ergo  Socrates est animal, sic est verum dicere ,  nomen  estvox significatiua, ergo  est  terminus significatiuus. In  plus enim fc habet terminus q vox, qm vox non evrificacur de nomine nifi ut eft in voce. Terminus  autem  uerificatur  de  nomine, in mente voce et scripto. lncipiemus  ef  go  a termino  definitiue  &diuifiue. Quantum  ad  iccundum  aduerte  tp  cum  termini in complexi  fxnc  priores  fit simpliciores oratione et propositione in via compositionis et propositiones fine  priores  syllogismo, qm  componunt syllogifmum, & non cconucrfo, ordo foientix requireret  q* prius tradaremus de praedicabilibus et praedicamentis, & fecudo  loco  de  propositionibus utrra  dat  Ariftoteles in  libro “ Peri Hermenias” et  tcrtioloco  de  syllogismis  formalibus  & topicis  & sophifticis  & demonftratiuis  eo  ordine  quo  de  eis  tradat  Ariftoteles  in  tota  arte  noua.  Verum  quia  nouus  logicae  auditor  tranftt  immediate  ab  arte  grammatica:  ad  logicam, & logicus  accipit  a grammatico nomen et uerbum et aliquas  alias  partes  orationis uc dicemus prout componunt  propofitionem,  & propofitio componit syllogifmum, ideo ne nouicii ingenium  inuolua^  tur, expedit  f>us  tradare  de  gtib9oronis, deinde  de oratide  & cmltiatione,  ficut  etiam  tradat  grammaticus  modo  grammatico et focundo  loco  tradabimus  de  fyllogilmo  formali & tertio loco de  praedicabilibus, & quarto loco de praedicamentis. Nam  abfqj  notitia  propofitionis et syllogifmi,n<» pollet  nouitius i illis erudiri  modo  logico  , ut  tibi  tinanifeftu  erir. Deinde  procedemus  ad  alios  tradatus  eo  ordine  que  tibi  nianifeftabimus  loco  fuo. Conftat  igitur  tibi  a quo  incipere intendimus, & quem  ordinem  foruare,  ne  nouitii  inge  nium  inuoluatur.Hxc  de  praefenti  cap.dida  fint*   Explicit  trac.primusqui Tuit  de  praecognofcendis  ordinatus per  authorcm,&  reuifus  per  eundem secundus  qui eft  de  partibus  propositionis. N rradatu  iecudo  agendu  cft  de  par  t;bus, pp6nis,quae  apud Logicu  praecipue (une  nomen,  & uerbuin  & qtr»  fcire  non  poteris  quid  & quotuplex  fit  nomen  apud  logicu,  fifr  & uerbu  nifi  prius noueris  qd fit  terminus,  &  quotuplex  fit. Et  qd  dico de termino intellige  de voce. Primu.n.qd  poni£  in  definitione  nomini et  uerbi  cM terminus  apud  coitcr  tradatores  de  logicalib apud  aut  Aristotele vox, ut tibi declarauim9  i tradaru pcedeti, c.7. io huc  tradatu  diuidem° i.4.capita.. Primum, Quid et quotuplex sit  terminus. Secundum, Quid « quotuplex sit nomen et uerburn. Tertium, Quid & quotuplex sit oratio. Quartum. Si logico sufficiunt  duae partes orationis, (ciliccC  nomen rectum et verburn rectum. Quid & quotuplex fit terminus. IN pino cap. inueftigadii est qud sit TERMINUS et quot fine vitares divisiones cius. Hic igitur duo ageda sunt pmo definiemus trerminu dcclarates singulas definitionis particulas secundo asfignabimus coes, & vies  divisiones  termini.  Quatu ad  prnii  aduertc,q?  hic  no  intedimus  loqui  de  oi  significato  in  quo fumit  terminus in doctrina  Aristotelis. Sumii at  eribus  modis, Prlo  funii! maiori, & minori  extremitate^ medio, & dnr  tres termini  ex  qbus  coponi!  oisve  rus syllogifiruis &  de hoc  ino  loquemur  I trac de  fyllogifmo  formali, & abfoluto. Secundo  iiimitur  pro  definitioc  rei,  quae  dicitur  apud  Ariftotcle  terminus  qm  in  fe  claudit , 8C  terminat  totam  rei  definitae  cflentiam  & de  hoc  modo  lo-  quemur in  trac. de syllogifmo  topico et demoftratiuo. Tcr  tio fumitur  pro  omni  co  ex  quo  propincp  conftituitur  ora-  tio, & propofitio,  & in  q uod  refoluitur. Et  dico  propinque  quoniam  ficuc  apud  gramaticum  dictio  componitur  ex  ali-  quibus remote, & c x aliquibus  propinqj. sic  apud  Logicum  oratio  & propoficio  ex  aliquibus  coponitur  utrocj)  modo. Nam  apud  grammaticum  dictio  componitur  propincp  cx  fyllabis, quoniam  fcipfis  & non  mediante  alio, comfonitur  aurem  remote  ex  literis, quoniam  non  ex  fcipfis  fed  medii  te  fyllaba.Sic  in  propofito  apud  logicum  oratio  & propofitio componutur propinqj ex terminis, qm ex  fcipfis  & non  mediante alio, componuntur autem remore ex  syllabis  5C  literis, liter enim componut  fyllabas, &  fyllabc  terminos,  & termini orationcm. Ec in hoc  tertio  fcnfu  folum  intendimusin hoc  trac. Ioqui ac definire terminum. Sed aduerte <jf in tertio sensu adhuc tripliciter fumi  p6t.f. communitcr, ftrl de & ftrictisfimc. Comuniter  fumitur  pro  omni  didionc  p pinqj  componente  orationem,  &fic  non  folum  nomen  dC  uerbum,fcd  etiam  alis  orationis  partes, ut  pronome,  prx  politio,  aduerbium &c. dicuntur termini. Stride  fumitur p  omni eo quod eft  uel poteftefle fubiedum et praedicatum  & copula in propofitione. In quo fcnfu nec figna uniuerfalia nec particularia, nec adverbia funt termini, qm no sunt nec poffunt e(Tc per se ipsa praedicatum aut fubiedum, sed modi Huc dererminatioes eorum, fifr aduerbia sunt determinationes verbi ut “bene currit”, hodie ucnit  &c.  Srridisfime autem fumitur pro omni eo quod eft uel poteft efle extremum propofitionis, extremum autem dico subiedum  & praedicatum, &*n  hoc sensu copula non est terminus, quia non est extremum, sed unitiuum cxtrcmoru, unit et copulat praedicatum et subiedum et in  hoc  fcnfu  definiuir eum Aristoteles in libro priorum diccns, (? terminus eft in quem rcfolujf propofitio ut in subiedum et praedicatum. His praepofitis  adrerte qr hic habemus diffinire terminfl non ftridc nec ftritisfime fumptum,  sed comunircr, aliter non potiemus ipfum diuidere ut diuidemus infra. Nam una ex diuifionibus erit haec, terminorum unus est PER SE SIGNIFICATIVUS, alius non per se significatiuus. Constat autem ex prxdidis quod terminus non per se significatiuus, non cil tf terminus ftricte nec ftrictisfimc fumptus. Definientes igitur  terminum coicer & abfolute fumptfl dicimus quod eft pars  propinqua conftitutiua ofonis et propofitionis. Dicitur pars propinqua immediata  ofonis & politionis ad differentiam literarum et syllabarum, qu* non  nifi mediante termino componunt oronem.  undeaduerte sicut fe habent lapides et ligna et fundamentum,  &p aries  ad compofitioncm domus,  fic liter ac et syllabae et termini ad constitutionem orationis,  nam lapides & ligna  non componunt immediate domum, sed componunt imediate fundamentum parietem et tectum, hacc  aurem  imme  diate  dotnumrideo  illae  rcmotac,hae  autem  propinquae  nucupantur. Sic  in  propofito, literae  wt syllabae  non  componut  immediate  ofoncm, sed  terminum,  tcrmiifos  autem  immediate  oroncm. patet  ergo  terminum  cfle  immediatam  & p  ximam  partem  ofonis ad differentiam  literarum  et syllaba  rum. Df  conftitutiua  ofonis, quonia  hic  procedimus  ex  po- ri:ad  differentiam  relolutionis  quae  fupponit  conffitutum  ex  partibus. Df  ergo  conftitutiua  ofonis, quoniam  hicinte-  dimus  praeparare  materiam  fyllogifmi, quae  eft  propofitio  ideo  inueftigamus in primis, ex  quibus  conftituitpr  immediate propofitio, & in  tractato de syllogifmo  aperiemus ex quibus  propinque et immediate conftituitur syllogismus.  Haec autem  definitio  conucnit  termino, in  mente, in  uocc,in  feri  F to:quoniam  terminus  in  mente, eft  pars  propinqua  oratio  nis  mentalis, & in  uoce, eft  pars  propinqua orationis uoca-  iis  & in scripto ,eft  pars  propinqua  orationis  feriptx.   Vifo quid sit  terminus  apud  logicum  cSmunitcr  & absolute  fumptus, asfignandae  funt  generales  diuifiones  eius,  uc  Idamus  iuxta  ouod  membrum  ponendus  eft  in  definitione  Hominis  et uerbi et orationis. Prima  diuisio. Terminorum, aliquis est PER SE SIGNIFICATIVUS, aliquis  nihil per se, id eft per se  fumptus significativus. Terminus per se significativus est ille qui ultra se ipsum aliquid intellectui  re-presentat, ut “homo”, “animal”, “lapis”:  representat  enim homo itellectui animal rationale et “animal” re-praesentat animatum sensitivum et per se motiuum, et lapis corpus terreum durum offendens pedem.  Nam signifcare est aliquid intellestui re-praesentare.  Vnde idem eft terminum esse per se significatiuum et esse  per  se  re-praefentati uum alicuius apud  intellectum. Dicitur  ultra  feipfum,  qm  repraefentarc  feipfum  intelleftui eft commune  omni  terrni no, cum fit intelligibilis  ab  Itelletfu,  cuius obieftum est ens communisfitnum ut seextendit ad ens reale et ens rationis  ut  dicemus  alias. Terminus nihil per se significativus eft ille qui per se sumptus ultra se ipsum nihil intellectui re-praesenrat, ut  “buf” et “baf” et “biltris”. Dicoper  fc  fumptus, ut  excipia  quando  proferuntur  ex  intentione  irridendi.  Tuc  enim  ex propofito irridentis fumunrur  ut  per se significativi, sed  id  non  est  ordinarium. Nam pleruncp proferuntur aut exeunt ex ore fine propofito  aliquid  ultra  feit  fum  fignificandi. Ad hoc autem q*  fit per se significatiuus, oportet  ut  naturaliter uel AD PLACITUM in aliquo idiomate ordinarie et consuetudine firmata, sic vel sic ultra se ipsum significct. Secunda divisio eft haec.  Dimisfo termino nihil per se significativ, utpote inutili propofito noftro, quando non componit orationem ordinarie ut subiectum & praedicatu,  nec  est  pars  nec  determinatio  eorum  ad  differentiam signorum uniuerfalium et particularium, diuidendus  est  terminus per se  fignificatiuus. Et  prima  diuifione  diuiditurin  terminum per se  significatiuum  naturaliter et in  terminum  PER SE SIGNIFICATIVUM AD PLACITUM. Terminus  per se significatiuus naturaliter est ille, qui apud omnes homines idem uitra se ipsum re-praesentat intellectui, ut “homo” et “animal” in mente. sft autem homo in mente species, sive similitudo,  sive conceptus hominis. Se habet enim huiuf modi similitude sive conceptus ut vera imago, puta Caesari , quae  apud omnes ex sui natura re-praesentat  Caesarem.  Sed  adverte  quod non solum terminus in mente est significatiuus NATURALITER sed  et quidam  termini  dum  proferuntur, etquaedam  animalium signa, ut  dum infirmus GEMIT,  apud  omnes repraesentatur DOLOR, & dum canis latrat apud  oes re-praefentatur IRA. Terminus autem PER SE SIGNIFICATIVUS AD PLACITUM, est ille qui non apud omnes idem, sed in diverso idiomate diversa re-praesentat, vel tatum in uno idiomate aliquid  detet;  minate teprzlentat, in alio autem nihil. Et causa huius est,  quia huiul modi termini non significant  ex  inftindu  naturae sicut interiediones quae non sunt bene trasferibiles ex uno idiomate in aliud, sed impositi sunt ad sic significandum EX DECRETO ET AUTHORITATE primorum instituentium, quibus sic placuit rationabiliter  tamen, in  uno  quoqj  idiomate  res  lingulas sic uel fic  nominare. Et  aduerte  quod ultra  hoc q* terminus ad  placitum  differt a significativo naturaliter in hoc  q^  non  apud  omnes idcin  repraefentat, dum  profertur,  nec significat  ex  instintu naturae, sed  decreto primi  authori: in  duobus aliis  diffcrt. f. in  modo proferendi et in significato. Nam terminus ad placitum perfede & diftinde profertur,  modo non adiit ineptitudo linguae exparte proferentis.  Termini autem naturaliter significatiui propter impetum passionis,  amoris, aut  timoris, aut  gaudii, aut  irae, ut in pluribus truncate proferuntur, etiam  remota ineptitudine  Iin  guae. Differunt etiam ex parte significati,  quoniam  termini ad placitum significant conceptum intellectus: illi autem magis indicant affedum appetitus, quam conceptum intellectus. Sed ne novitius inuoluatur, hic fifto, donec fiat capaxfolidioris dodrinae. Tertia divisio est haec. Dimiflo termino per se significati — non naturaliter pro nunc TERMINUS SIGNIFICATIVUS AD PLACITUM  multas  sub  se  continet  divisiones, quarum frequens est  udis in  doctrina  peripatetica, ex  quibus  una  eft  q?  quida  eft  categorematicus, quida syncategorematicus. Categorematicus est ille qui tam  g se sumprus  quam cum  alio, tam  in  ppone  quam  extra, aliquid ultra  se ipsum intclleduircpftntat, ut homo, lapis, curro, amo. na  homo  g le  folutn  significat  animal rationale,  lapis  tale corpus, curro  adum  currendi, amo  aduin  amandu syncategorcmaticus est ille qui per se solum sumptus nihil extra seipsum apud intelledum significat. Si autem sumatur cum alio, puta cum nomine substantivo c  ucl  cum ucrbo, simul significat, inquantum determinat nomen aut verbum. Et sic signa univerfalia et particularia et prepofinoncs et aduerbia, & coniundiones  funt  termini syncategorematici.i.cofigmfieatiui.  Nam signa  uniuerfalia  determinant nomen substantivum politum in fubiedo ad ft a dum pro omnibus, aut pro nullo, ut omnis homo currit,  nullus homo currit. Signa autem particularia determinant fubicduin particulariter, ut quidam homo currit,  quida homo non currit. Praepositioncs aurem determinant nomen ad conrrftrudioncm  pro cerro  cafu,  puta  ablatiqo  ucl  accusative. Aduerbia  determinant  uerbum  f>ro  determinato  Io  co, ut aduerbia  localia, ucl pro determinaro tepore,  ut  adverbia temporis , uel  pro  determinato  modo  quatiratis ucl qualitatis tut  aduerbia  quantitatis  & qualitatis. Coniundiones autem  determinant  terminos et orationes, secundum,  modum copulariuum, ucldifuindjuum  ucl  illatiuum.  exeplum  primi,  & ,arcp  exemplum secundi,  uel, aut , exemplu  tertii, ergo, igitur, iracp.  Inter syncategorematicos  termi-  nos non  comprehenduntur  intcricdioncs:quoniam  ut  docuimus figmficant  naturaliter, nec pronomina primitiua,  quoniam fumuntur loco proprii nominis & certam significant personam. De denuatiuis autem uidetur quod fic,  qm funt  ut  determinationes  nominum  fubftantiuuoif, ut  meus liber, tuus pater, nostra patria  &c»Similirer  participium  ji5 cft terminus syncategorematicus  ,compleditur  enim  no-  men subftantiuum et verbum,  ut legens  loquiTUni»  homo  qui  legit  loquitur. Ex  his  omnibus  fequitur, quod  cum  line  odo  partes  orationis, tantum  nomen  et uerbum  fumendo  cum  nomine  pronomen  primitiuum,  & cum verbo  partici  pium, funt  termini  categorcmatici,  alix  autem  partes  fune  termni syncaregorematici  apud  logicum, & caulam  huius  dicemus  poftq  definierimus  nomen et uerbum.   Quarta  diuiflo. Terminorum  categorematicorum  qui dam cft  primat intentionis, quidam  lecundae. Prima  intentio apud vueros  peripateticos  eft  primus  conceptus  fundatus immediate in re, quz  eft  cnsrcale , ut  primo  apprathenditur  prxhenditur  ab  intcllc&u, ut  animal  rationale  est  prima  in  tcntio  quam  format  intelleftus, &  immediate  fundatur, iit  natura  hominis. Secunda  aurem  intentio  eft  fecundus  con  ccprus  formamus  ab  intelledu, fundatus  in  re  non  immedia  ce  fcd  mediante  primo  conceptu, ut  efle  praedicabile  de  pluribus differentibus  numero  in  quid, est  fecundus  conceptus  quem format inrellc&us  de  homine.Nam  poftquam  apprae  hendit  cp  homo  eft  animal rationale, aduertit  ut  eft  ani-  mal rationale, conuenit  omni  contento  fub  homine, &fic  eft  praedicabilis  de  quolibet  luo  indiuiduo  in  quid, &  tunc  format  fecundum  conceptum, dicens  q natura hominis  e eo  q* eft  animal  rationale  eft  praedicabilis  de  pluribus  diffe-  rentibus numero  in  quid & quod dico de homine incellige de qualibet natura specifica cotenta sub animali. Terminus igitur primz intentionis eft terminus significans  pmum conceptum, fundatum  immediate  in  eftentia  rei, ut  homo, ca-pra, leo. Terminus autem secunda: intentionis  eft  terminus significans seccundu coceptum  fundatu  in  natura  rei  median  re pmo conceptu,  ut  genus,  fpccics, differetia, fingulare, &c;  Et  ne  cofundatur  itellcdus  nouitii  hicfifto.  In  tradaru  autc  de  uniuerfalibus  siue  pdicabilibus  diffufius  & altius  de  terminis pmx, & feciidx INTENTIONIS loquemur. Et aduerte q*  diuifio termini in terminos  pmz  impofitionis, &  fecundx  pofitionis  apud  nos, qui  fcquimur  uiam  realium  non  differt  a praecedenti. Nam  homo  in  mente  excogitatus, et uoce  probatus, & in feripto  poli  tus,  significat (>mum  conceptum  ideo est  terminus  pmz  intentionis in mente, in voce,  in feri  pto. Et  ifte terminus species ex cogitatus in mente et in voce et in  scripto et secundae  intentionis, quia significat  lecun  dum  conceptum  modo  quo  diximus. Non ergo eft neccfle ultra diuifionem faftam inter terminos f>mx, 8( secundae  in  rentionis, af!ignare eam quae dicitur'  pmz, & secundx impe»  fitionis ut penitus diftinftam aprxcedenti, qux fuit inter  m x , &  fecundx  intcntionis.Hxc enim continetur  in illa.   Quinta diuifio. Terminorum quidam cfimunis,  quidam  fingularis.Cdmunis  eft  q de pluribus  pradicatur, ut  homo, animal, lapis, & apud  grammaticum  dicitur  nomen  appellatiuum,qm  pluribus  conuenit. Terminus  fingularis  eft  qui  de  uno  folo  praedicatur, ut  piato, & fortes, & apud  grammaticum dicitur  nomen  proprium, qmuui  foli  conuenk,  & ad  «erte  <y  terminus singularis  apud  logicum  pot  fieri  quatuor  modis, primo  per  nomen indiuidui, ut  plato'ftudet,  secundo per nomen  coe adiun&o  pro  nomine  demonftratiuo, ut  hic  homo  ftudec, tertio  per  nomen  circtinlocutum.i«miil-  tas circunftantias  fingularizatum, ut  Sophronifciprimogc  nitus  filius  feribit, quarto  per  ly,quod  apud  logicum,  & philofophu  est  signutn  demonftratiiiu, ur  ly  homo,ly  alal  &c. Sexta  iiuifio. Terminorum  quidam  magis  uniuerfalis,  quidam  minus  uniuerfalis , & utrunq;  membrum  contine-^  tur  fub  termino  communi. Magis  uniuerfalis  eft  qui  praedicatur de  pluribus  q minus  uniuerfalis, nam  magis  uniucrfiilis  praedicatur  de  omnibus  de  quibus  praedicatur  minus  uniuerfalis , &1n  hac  diuifione  continetur  animal  & homo,na  animal  praedicatur  de  omnibus  de  quibus  praedicatur  homo et de  aliis  pluribus  ut de omni animalium  fpecie, homo autem  tantum de  contentis fub homine  indiuiduis, & iuxta  hane diuifionem  asfignabimus  ordinationem  conten  Corum  io  quolibet  praedicamento, procedendo  a generali! Cmoadfpcdalisfimum.  Septima  divisio. Terminorfim  tam singularium  q communium  quidam eft  finitus, quidam  infinitus, finitus  eft  determinati & certi significati: qui  scilicet  fignificat unam  ccr  tam ac determinatam  naruram, &  de  nulla  alia verificatur, ut homo significat solam naturam rationalem,  animal  foli  naturam  fenfitiuam,&c .Infinitus  est  qui  negat  unam  natu-  ram,eam, scilicer  quam  fignificat  terminus  finitus , & ucrifi  catur  de  quacuncp  alia, ideo  dicitur  infinitus, id est indeterminatus in significando, & terminus  finitus  fit  infinitus per appofitionem  non, ut  non  horno, non  lapis, non  animal.  Nam  non  homo  negat  naturam  hois, $( verificatur  de  qua-t  Cunc$alia«Vndc  lapis  eft  non  homo, leo  eft  non  homo  &c.  Et  aduerte  q'  quando  terminus  finitus, infinitatur  per  non.    iS  fit  tota  una  diftio,ut  non  homo, fi  autem  ftet  non, per se, &  homo  per se, dicitur  terminus  non  infinitatus  fcd  negatus  t  ut  non  homo  currit, & per  terminum  negatum  fit  propofitio  negatiua  haec  enim  cft  negatiua  non  homo  currit, haec  autem  eft  affirmatiua,non  homo  puta  leo  currit-  Oftauadiuifio. Terminorum  quidam  eft  pofitiuus,quid priuatiuus .Pofitiuus  eft qui  fignificat  aliquam  formam  fiuc  habitum  perficientem  fuum  fubiedum,ut  uifus  perficit  ocu  lum  «Lux  aerem, iuftitia  animum  &c«Priuatiuus  eft  qui  (i-   i gnificat  negationem  talis  formae, relinquens  taroe  aptitudj   k ne  in  fubiedo, eo  q* cft  aptum  hre  talem  forma ut  caecitas,   » tenebra, iniuftitia, mores  furditas  &c. Caecitas  enim significat negationem  uifus  in  oculo  apto  here  uifum, modo, &  te   * porc  quo  cft  aptus  uidere. Dicitur  notanter  quod  eft  aptum  habere  talem  formam, qm  fi  non  eft  aptum , no  uerificacur   ii  de  eo  terminus  priuatiuus  , fed  terminus  pofitiuus  negatu?   aut  non  uidcns,non  lucens, non  audiens* V nde  de  lapide  haec  est falsa. “Lapis  est  caecus,” vel  surdus, uel  tenebrosus, haec  autem  est  vera. Lapis  est  non  uidens, non  audiens, non  lucens. Nona diuifio. Terminorum  quidam  abftradus,  quidam   a concretus.  Abstractus  eft  qui significat  formatu  per  fe  fine   f-  connotatione  (ubiedi,ut  color,  fapori,albcdo,  dulcedo,  anima, iuftitia, &c. Concretus eft  qui  fignificat  formam  conno  i-  tado subiedum,uc  colorat\im,album,nigrum^animatumt   iuftum,&c .Et  aduerte  q* haec  diuifio  coincidit  cum  illa, dc  :t  qua erit  fermo  in  ante  praedicamentis,fcilicet  Terminorum  r,  quidam est denominans, ut grammarica, hic  cft  idem  q»  ab li ftradus,  quidam denominatiuus, ut  grammaticus  hiccR   idem  q»  concretus. Decima dinifio. Terminoit quidam in complexus,  quidam complexus. Incomplexus  eft  ille, qui  est  terminus simplex,   er vel  copoficus, uel  uniens  in  fe  plure?  terminos  per  fc  fignifi   il,  catiuos  ad  placitum, ita  tamen  q»  habent  uim  unius  exem-  ,a«  pium  primi  homo, capra, leo, exemplum secundi.  Scuti-   K.  fer, armiger  exemplum  tertii  paterfamilias , primo  geni-  n,  tus Sanftus Georgius, summus  pontifex. Comple-Jtu«  eft  ille, qui  in  fc  aggregat  plures  terminos  per se  significatiuos  ad  placitum, qui  non  habent  uim  unius, sed  fiue  aggragati, fiue separati recinet  fuum  proprium  fignificatum. Et  nccerminus  complexus semper  eft  orario,  aliquado sine verbo, ut homo albus, animal uolatilc, in  qua secunda  pars  determinat, & limitat  primam, aliquando  cum verbo, ut  homo  eft  albus. Vnde logici  uniuerfaliter  dicunt  q»  terminus  incomplexus  eft  ut  di&io. Complexus  autem  ut  oratio. Tuta men aduerte q> terminus ceplexus coitcr nominatur per orationem infinitiuam, ut deum ede trinum hominem efle rifibilem, quae oratio dicitur e(Te quid coplexum, & enunciabile, ut ibi manifeftabitur, cum  loquemur  de  modalibus.   Vndedma  diuisio. Terminorum quidam significant fine tempore quidam  cum  tempore. Significare  sine tempore  est  significare rem  abfolurc  fumpram  non mensuratam aliqua  differentia  temporis, cuius  differentis sive  partes  funrprz-  fens, praeteritum, & futurum, & hoc  modo  fignificar  nome  & pronomen fumptum loco nominis.  Nam  dum  dico  ho-  itio, aut animal, homo significar  rem  quae  eft  homo  abfolutc,  &  non  inquantum  praefert tem, aut  praeteritam, aut  futu-iram. Tu  tamen  aduerte  q>  licet  nomen significet  fine  tempore, nihil tamen prohibet aliquod nomen fignificare  tem-  pus, aut partem  temporis, ut haec nomia,  tepui, hora,  dies  ebdomada, mcnfis, annus. Nain  licet fignificet tempus,  non tamen aliquid diftinftum  a tempore, & menfuratum tepott. Per  oppofitum  autem  fignificare  cum  tempore  eft  figni  ficare  rem  adiunda  aliqua  differentia  remporis.Et  hoc  mo-  do uerbum, &  participium  fignificar  cum  tempore.  Verbi  gratia  curro et currens, significant  curtum  pro tempore  prae  lenti, & non  aliter, cucurri  pro  praeterito  &c. Unde significare sine tempore, ut  dicemus  infra, proprie  conuenit  nomini,  oppofitum  autem  conuenit  uerbo.   Duodecima  diuifio. Terminorum quidam univocus, quidam aequivocus, quidam analogus. Univocus est qui fubvna definitione naturam unam significat, siue sit una specie, sive ana  geacre, ut homo sub hac definitione, est animal rationale, significat natura humanamquae eft una spe, &aul fub hac definitione, est corpus animatum sensitivum, significac naturam animalis quae eft una genere. Aequivocus est qui sub distindis ronibus, & abfqj ordine, & immediate  plures  naturas  fignificat  diftindas  fpe,  ut  canis fignificat  im  mediare  canem  coeleftcm  fub  hac  definitione  q*  cft  fydus  in  ore  figui  leonis, & canem latrabilem fub hac definitione qs cft animal iracundum et canem marinum fub hac definitio  ne  q* eft animal aquaticum simile cani  tcrreftri. Analogus est qui sub diffindis  ronibus  ucl sub una inaequaliter participata plures naturas quodam ordine prioris, & pofterioris  fignificat. Excmplum  primi.  Sanum sub  hac  rone  q?  est esse  adaequatum  in humoribus  fignificat  animal  fanum,  fub  hac  f one  q' eft  e(Tc  caufatiuum  (imitatis  fignificat  medicinam  Isi  nam, sub  hac  rone quod cft ede indicat iuum faniratis, significat urinam sanam.  Prius tamen  dr de animali,  pofterrus  autem  de  medicina, & urina: quoniam nonnifiin ordine ad animal sanum.  Exemplum (ccundi. Ens fub hac rone q» cft cui debetur eflfc, significat primo substantiam,  deinde acens quoniam substantia est ens fimpfr,  & accidens eft ens secundum quid, et solum  in  ordine  ad substantiam.  Hic  termini  cur  uniucrfaliorcs  diuifiones quae  in  dodrina  peripatetica  frequenter  funt  in  ufu,ta  i libris  termino logices, q pbiae.  pr aepofirae  aut  funt, ut  nouiti9paulatim  a(Tucfcat, &  nc  fim coadi  frequeter  fingulas  repetcre. Haec  dc.  i .cap. dida  fint. Quid & quotuplex est nomen et verbum apud logicum. In secundo capite inueftigandum est quid & quotupleg fit nomen et verbum apud logicum, funt enim principales partes propofitionis, ut tibi manifeftum erit, primo igitur agendum cft de nomine secundo de uerbo. Et  quonia  hic  intendimus  agere  dc  partibus  propofitioni£us,&  de  g>-  pofirione, & de syllogifmo, non  folum  in  uoce,  fed  & in  me  rc, &  in  feripto, ideo  definiemus  ca  non  per  uoccm, fcd  ter*  minum  qui  cft  communis  nomini  & uerbo  in  mente,  in voce, in  feripto. in  reliquis  autem  no  recedemus a uia,  & me* do dcfinitiuo fcruato a Petro Hispano, qui logicam Cui formauic ut compendium logicae totius traditae nobis ab Aristotele , excepro  libro  poftcriorum. Non.n.  Petrus  hilpano  formauit  tra&atum  aliquem  correfpondentcm  libris  poste riorum, hac  forte  rone,  qmcxiftimauit  nouitium  penitus  incapacem  fyllogifmi  demonftratiui, Nos  autem faciliori  modo  quo  poterimus  particularem  tra&atum  formabim ut  paulatimalluefcat  nouitii  ingenium, & ne  fubito  auditu  libri  pofteriorum  confufus  retroccdat. Licct  autcm Aristoteles in  libro “Peri Hermenias”, et  Petrus  cius  imitator  definiant  no  nien  & uerbum  per  uoccm,&  nos  per  terminum, tn  no eri  mus  oppofiti,nifi  in  hoc,q?  nos  magis  ample, illi  autem  magis  ftriftc  definierunt,*  Cofidcrarunt.mpartes  oronis  folurti  ut  (untuocales,nos  autem  ut  poflunteife  mentales,  & uo-cales, & fcriptx. Vndeficut  dicit  Aristoteles & Petrus  cf  nomen  cft  uox,fifr  & uerbum, dicemus nos  i terminus,  fiib  quo continetur terminus  uocalis  qui  dicitur vox  &c. Primo  igit  agentes  de  nomine definiemus quid sit apud logicum, & fi  multiplex eft. Quantum  ad  primum  aduerte  cp  nomen  ad  mente  Ari-  ftotelisinuoce, in  scripta  est  TERMINUS PER SE SIGNIFICATIVUS AD PLACITUM sine  tempore, cuius nulla pars separata  aliquid  fignificat  finita  & reda. Primo dr  q»  est terminus, qm nomen eft  pars  propinqua  ofonis & proponis,u t patet. Et qm terminus eft quid magis commune qfit  nomen, ut patet ex  op.praecedenti.  Nam & uerbum  eft  terminus, non tamen  cft  nome,  ideo  in  haedefi  nitide  ponif  terminus  ut  genus.Na  ut  declarabimus  trac de  syllogifino  dialc£lico,pmus  terminus  in  de  finitione  pofi  tus, eft  loco  generis,  qm  eoior  eft  ipfo  definitor,  reliqui  aqte  ponuntur  loco  differentiae  ut  declarabimus Secundo dr  p (e aisnificaticus, ut  excipiantur  termini  no perfc significatiui, ut  “buf” et  “baf” et terrmni syncatcgorema  Cici  ut  figna  uniucrfalia  & particularia, uc  omnis, nullus, ali-  quis,quae  licet  apud  grammaticum  fint  nola:,  non  tamen  apud  logicum, quoniam  g (e fumptanon  polfunt  efle  praedicarum  ncc  fubic&u  proponis,  fcd  tm  determinant  fubic-  . Au aur pdicatu uc  docuimus in rertia  diuillonc tcrminoif. Tertio dr  ad placitum  ad  driam  termini  fignificatis  nata  ralitcr.ut  intericdiones,quz  condant  non  clfe  noia  qm  no  declinantur  per  calus, nec fune fubicdumaut  przdicacutn  proponis  nifi  in suppofitionc materiali, ut  heu  e interie&io,  heu  eft  bifyllabum,&  ad  driam termini J.conccp cus  in  mente, qui  naturaliter  fignificat  ut  declaratur  in.i  periher*  t Quarto  dr  fmc  tempore  ad  driam  uerbi , quod significae  cum  ege, quid  fit  fignificarc  fine  rge,&  cum  tge  iam  docuimus  in  undecima  diuifione  terminorum , & diximus  q?  no  «nconucnit  aliquod  nomen  fignificarc  tempus, ucl  partem  tgis,ut  dies, hora  non  th  cum  tgc.Vidc  tu  illic»   Quihto  dr  cuius  nulla  pars separata  aliquid  lighat.idi  no  men  diuidaf  in  partes  fiias, quz  (int  fyllabz  ut  pr,  & omne  nomen  nmplex,ucl  quz  fint  didioncs,ut  in  noic  compofi-  10, ut  eft  pr  familias,  uel  Icutiferus , & fumant  g fe.i.  extra  totum  nomen  nihil  fignificant. Quod  fic  intclliges,aut  nihil  orno  fignificant  ut  marc.Na  nec  tnamee  re,  g fe  fumpta  ali  quid  fignificant.Vel  fi  aliqd  fignificant , non  th  habent  illuti  lignatu, quod  hnt  in  toto  noic.V.G. Hoc  nomen  dhs  fignac  |»ncipem. Si  ante  refoluat  in  do  & in  minus,do  uciqj  fignat:  ;f*aftum  dandi, & minus  signat oppositum magis,  sed  ut  co ponunt  ly  dhs nihil  fignificant.f.dc  fignificato  ly  dhs. Idem  intclligc  de  nomine  compofito , cuius  partes  feparatz  & (i  aliquid  fignat, non  tn  illud  quod  fignat  totum  nomen  ccm  pofitum, ut pr familias significat  re&orcm  familiz. Pater  autem  per  fc  fumptus significat  genitorem et familia familiam, ica  q in  toto significant  ur.um, fcparatz  autem signiS  eant  duo. Ethzc  expofitio  cft  communis  apud  ueros  logi-  cos* Vndc Avicenna  recitat  in  logica  fua  aliq uos  dixifle, q* verbum  incomplcxum est  cuius  nulla  pars  feparata  aliqd significar. fi quod  fic  de  intellc&u  et significato totius  qm  nl  hil  ,phibct  aliqd aliud  fighare,ut  magifter  nam  magis  aliqd  fignificat:&  ter, fcd  non tetinent significatum  quod  fignificat magifter nec in totum nec in partem .Er  fic  paret  q*  hzc definitio  conucnic  nomini  cam  timplici,  quam  compotito,  tam primiriuo,  qua deriuatiuo,dum  ntodo  intdligatur, uc  cxpo  luimus. Sexto dr  finitus  ad  differentiam  nominis  infiniti, quod  &  fi  apud  grammaticum  fit  nomen, non  came  apud  logicum,  quoniam  apud  ipfum  nomen  cft  illud, quod  poteft  elie  fub-  icdum  & przdicatum in propotitioc. Subiectum autem et praedicatum oportet, ut determinate aliquid significent,  afr propotitio effec inutilis, nec deferuirct syllogismo formado ab intellcdu pro inquirenda ucritatc.Vndc  & terminus  acq  liocus  inntilcm  facit  proponem, niti fumatur determinate.  Verbi  gratia  canis  coeleftis  lucet.  Sed  uc  docuimus in divisione septima  terminorum, terminus  infinitus  nihil  determinate tignat,ideo  cum  non  postit  effc  fubicdum  & praedi  catum  proponis  non  cft  nomen  apud  logicum  niti  fecundi!  quid, ut dicatur nomen non  fimptf  r sed nomen infinitum, sicuc solemus dicere quod “chimera” non est nomen reale sed nomen fidum, quia nihil significat sed imaginarie. Sed dices, apud logicum hzc cft propotitio.  Non homo currit, ergo poteft  effc  fubicdum, & per confequcns  nome.  Refpondccur. Tales  propoticiones sunt inutiles ti teneatur  nomen  infinitum in sua infinitate & in  deccrminationc. Si  autem  determinetur  ticdiccndo.Nonhomo.i.afinus  currit  tunc  propotitio  erit  utilis,fcd  nomen  infinitum  non  rema-  net infinitum, fed  zquiualet  finito.   Septimo  dicitur  redus  ad  differentiam obliquorum , qui non fune nomina apud logicum. Nomen enim est apud  ip-  Ium  quod  f m fe aliquid significat, 8(  f m fe  poteft  effc  fubic-  dum  propotitionis. Sed  obliqui  neutrum  habent  ex  fe. No primum, quia  tigni  ficatum  trahunt, a redo  ticur,& deriuan tur ab co. Redus autem ticut non deriuatur ab alio tic non accipit tignificatum ab alio  cafu sed habet afe. Non secundum, quia ti apud logicum formatur propotitio perucrbif impcrfonaIe, ut Platonis intereft legere: ly Platonis no eft subiectum, niti refoluatur in redum tic.  Ille cuius eft legere eft Plato.  Sic intclUgc de aliis. Prztcrca solus redus  fufficit 1 t1 1 K Ir  O \t. i115  s io  i ur  Si   rii  a fr-   io mn. A  re 3t n ad formandam prop6ncm pcrfedann &maxime de secundo adiaccntc, ad quam non  sufficit nomen obliquum. Haec  enim  cQ  perfcda. Deus  cft, homo  eft, hacc  aurem  imperfe*  da. Dei  eft, hominis est. Non ergo obliqui moerentur dici nomina sed  fmc  cafus  nominum.  Hoc de  definitione  nomi*  nis  apud logicum  rcalem  & peripateticum dida  fint. Quantum ad secundum. f*  quotuplex  fit  apud  logicum,  Ideft  inquantum  poreft  c(Tc  fubiedum  & praedicatum, ppo  fitionis, conftat,ex  didis  quod  non  eft  multiplex, quoniam solum nomen rectum et finitum  poreft  clic secundum  le subiedum et praedicatum in propone modo quo expofuumus.Vnde logicus a grammatico sumit  fibi  redum  ut  nc«  cellarium  ad  fomandum  abfolutam  proponem  significativam veri  & falsi Reliquos auccm cafus lumir adbencclfc, & magis propter feruandam congruitatcm quam ucritate sermonis, ne uideatur logicus delpicere regulas grammatices. Haec de nomine  dida  finr. Quantum aduerbum aduerte quod ad mentem Arifstotele verbum cam in voce  quam  in  scripto sic  definiendum est verbum est terminus per se significatiuus ad placitum cum tempore, cuius nulla pars separata aliquid significat,  finitus & rectus extremorum  unitiuus. Terminus ponif loco generis ficutin  definitione  nols,  quia  eft  eoior  uerbo.  Nam  omne verbum  eft  rerminus:fcd  non  cconuerfo  p fe  fignariuus  ponitur  eadem  rone  ficut  in  definitione  nols  fifr  ad  placitum  ad driam  interiedionuni,  & uerbi  mentalis, qrh significat  naruralV, ut  diximus in definitione nois, Cum tempore  ponitur  ad  differentiam  nois,  & pronominis, & conuenit in hoc cum  participio  quod  uc- nit a uerbo. Quid fit significarecum tempore, 8c quare uorbu et participium signifi.ar cum tempore, uidc  in diuifione undecima rerminoru. Cuius nulla pars separata aliquid sfignificar, intelligcndum est de verbo tam simplici quam composito, sicut expofuimus in  definitione nominis, in hoc enim uerbum conuenit cum nomine, finirus ponitur ad differentiam uerbi infiniti.  Infinitatur aute uerbum sicut et nomen  per appofitioncm negationis,  ut non curro non laboro. Quod quidem apud logicum no eft verbum, qm nihil determinate significac^ficur nec nomen infinitum.  Undefacc rct proponem inutilem: nili determinetur licut diximus de nomine infinito, sic dicendo, fortes,  non currit»  I « feribie» Re cius ponitur ad differetiam uerbiobliqu^cft autem uerbum obliquum apud logicum uerbum prztcriti & futuri temporis, & verbum cuiuslibet modi przter  modum  indicativum.Vnde  quaedam  fune  uerba  obliqua  ex  tempore  ra  tum,ficut  uerba  praeteriti  temporis, & futuri  indicativi  modi, ut “amavi”, “amabo”. Quaedam autem ex modo rantum uti imperativa tempore  przlenri. Quzdam  ex  modo,  & tem-  pore, ut  uerba  optatiua, et subiunctiua et infinitiva temporis praeteriti et futuri. Ideo autem apud logicum non fune verba, quoniam non faciunt primo et perfcipfa propofitionem veram aut falsam, sed per redudionem ad verbum indicatiui modi & temporis przfcntis. Nam  hzc  non  cft  uera  Czfar  fuit,nifi  quia  aliqii  fuit  uerum  dicere  Czfar  cft»  Sifr*  hzc  non  cft  uera.Eclipfis  crir,nifi  quia  aliqh  erit  uerum  dicc  rcrcclipfis  eft. Quoniam  igitur  folum  uerbu  redum,»i»mo-  di  indicatiui  przlenns  temporis  facit  per se ipfum  propofitionem  ueram  & falfam,&  fola  propofitio  indicatiua pinis temporis facit syllogifmum dcmonftrariuum .i.fcicntialcm ut tibi declarabitur in rrac. De syllogifmo demonftratiuo,i® dignatur logicus recipere a grammatico solum verbum indicatiuum praesentis temporis, & przcipucfum, es, cft:quo  niaminipfum  ut dicemus  refoluuntur  omnia uerba dida  adiediua.Excremoru  uilitiuus  ut in  hoc diftinguatur  a nomine & pronomine fumpto  loco  nominis, nam illa  funt ucl  poffunt elTc extrema in propofirione,ideft  fiibiedum  & pdf  catum, verbum  autem  non, fed  habet  unire  extrema. Unde  dicitur  apud  logicum  copula, qm  copulat  przdicatum  cum  fubiedo. Item  in  hoc  diftinguitur  a participio,  q»  licec significet  cum  tempore  ut  uerbum  tn  non  poteft  effe  copula, nec  facit  g feipfum  oronem perfedam, dicendo  fortes  Ic  gens,  sed  cft  necefle  fubintelligerc  uerbum»  Verbi  gratia   foftcs  eft  legens, ucl  fortes  leges  eft  ftudiofus. Conftac  igiC quid fic  uerbum  apud  logicum, & quare  folum  uerbum  i e-  dum. i. quod  no  deriuai  ab  aliquo  priori:  quale est uerbum  lotum  indicatriui  modi  tgis  prxfcntis,vnocrctur  dici  abfolu-te  uerbum.  Reliqua  aut  tga; &  modi  dicantur  obliqui  fiue  cafus  uerbi  refti, quoniam  defcendunr,  & deriuatur  ab  eo. Quotuplex  auc  fit verbum  apud  logicfi,non  cft  immora  dum  ex  quo  folum  ucrbu  rciftum  moeref  apud  ipfum  dici nierbum  ex  rone  ia  di&a.Sed  apud  gramaticu  ideo  eft  mul  tiplex  uerbum, ut patet  in  coniugationibus  uerborum,  & I  regulis  fiiis, quoniam non attendit  ad formadum propone  veram  aut  falsam sed congruam, et uitare incongruam et quoniam  per  oes tgis  drias, &  oes  modos  uerborum  for  mari  por,& alio  modo  g uerbum  aftiuum,aIio  modo  g paf  fiuum  &c.ideo  apudgramaticum  uerbum  mulcipfr  diuidic.  Nam  gramaticus  concedit  iftaurpocecongruazho  eafinus  f|  negat  logicus, ut  falfam. Hxc  de.2.cap  dida  fmt, Quid  fit  & quotuplex  fic  oro  apud  logicu.  IN  tertio  cap. poftqua  a&um  eft  de  partibus  oronis  age»  dum  eft  de  ipfa  orone  ut  de  toto  conftitutot cuius praecognitio ideo nccciraria eft quoniam feire non possumus qd fit enunciatio  & propo, ut tibi manifeftabitur infra,  nifi pus notum fuerit quid, & quotuplex fit oro.  Hic igitur tria age da funt, primo quid fit, secundo quotuplex fit ^ tertio  qua’  orationis species  fit  propofitio. Quantum  ad  primum  aducrtcip  ad  mentem  Ariftotelis  oratio  in voce  & in  feripto, fic  definiri  debet, Oratio  cft  ter_  minus  per  fe  fignificatiuus  complexus  ad  placitum  , cuius  partes  feparatx  aliquid  fignificant.   ' Primo  dicitur  eft  ter  g le significa  rone,  qua  didum  eft  de  nole  & uerbo  & ponitur  loco  generis,  quoniam  eoior  e.  Nam  ols  oro  cft  terminus  per  fe  fignificatiuus : fed  non  ccd  uerfo  . Difhim  eft  enim  cp  nomen  & uerbum  funt  termini per,fe  fignificatini,non  tamen  funt  oratio. Secundo  dicitur  complexas  ad  differentiam hominis  &  uerbi, quo*  nullum  fiuc  fimplcx,fiuc  copoficil , e termiiim complexus. Quid  autem  fit  terminus  complexus  nide  indi  uifione  decima {terminorum  , & illic  inucnics  quomodo  proprie  conuenic  orationi»   Tertio  dicitur  ad  placirum, ad  differentiam  ofonis  men  talis,qux  fignificat  conceptum  mentalem  complexum, qui  conceptus  lignificat  naturalr,  ficut  diximus  de  nomine  ^ &  uerbo  mentali. Praeterea, oro  in  uoce,&  in  feripto  fignificet  ad  placitum, probatur  fic.Partcs  fux.f.  nomen, & uer  bum  fignificat  ad  placitum, ut  docuimus  in  cap.prxccdentJ  ergo  & ipfum  totum  confoturum  ex  eis, quod  cft  oratio.   Quarto  di  cuius  partes  feparatx  aliquid  fignificat, id  po-  nitur ad  differentiam  nominis  & uerbi, quorum partes, uc docuimus in eorum definitionibus, non fignificat aliquid fc  parate, modo quo illic expofuimus, partes aute ofonis  fune  termini caregorematici, intclligendo de partibus principalibus ficut intendit Arift. Si  non  de  partibus  fccundariis, quae  polfiint  eife propones  aduerbia  &c.  Termini  autem  catcgo  rematici  tam  in  oronc , q extra  retinent  fuum  lignatum,  ut  docuimus  in  diuifione  tertia  terminorum.  Vn  fi  fiat  hxc  oro, homo  albus  currit , ho  extra  hanc  oronem  fignat  aial  ronale, ficut  & in  oronc, & albus  fignificat  habens  albedine. Tu tamen aduerte cp licet fit commune omni orationi haberepartes qux separatx aliquid significant,  non tamen id  fit  uno modo  i omni  oronc, nam  fi  oro  fit  fine  uerbo, ut  ho  nio  albus, partes  fux  aliquid fignificant  modo,  quo  fignificat diftio. Si  afit  fiat  oro  fimplex  per uerbum, uc homo  cft  animal, partes fux separatx eodem modo significant. fut  didio. Si  aurem  fiat  oro subiuctiva,  ut si veneris  ad  me  dabo tibi equum, partes lux funt dux ofones ut patet. Unde si separentur, fignificabunt non ut diftio, sed ut ofo. Vcrura quia refoluitur m duas orationes, & dux orationes in terminos  componentes, ur ego dabo, tibi equum, ideo commune est omni orationi quod partes fux separatx aliquid significent, aut ut dictio, aut ut oratio. Sed dices. Quare in hac definitione non apponitur finitus et rectus, sicut in definitione nominis et verbi, prxeipue a quia dictum  eft q nomen  infinitum  nori  poteft  efle  fubiecti! nec  praedicatum,  nec  uerbuni  infinitum  poteft  cflc  copula,  fimiliccr  nec  nomen  obliquum  nec  uerbuni  obliquum.   Reipondetur  q*  ideo  non  opponitur,  quia  in  definitione  non  debent  poni  nili  quae  conucniunt  omni  contento  fub  definito, non omnis autem oratio formatur ex nominee et verbo finito, & redo. Nam haec eft  oratio, non  homo  currit  & haec, Catonis  est  legere, &  haec, homo  currct. Qn aut diximus q> nomen  infinitum et obliquum  non  poflimt  ee  subicdum, no  fumus  locuti  de  orone  sed  de  propositione, qm  sola oratio  indicatiua  praetentis  teporis  ut  dicemus  eft  propofitio.  Qm  igitur  aliqua  orario  poteft  coponi  ex  nomine  iufinito, &  obliquo, fitr  ex  uerbo, & aliqua  non, puta  propo  firio,idco  non  dicitur  redus  neque  finitus , fed abftrahit ab  utroque.  Conftat  igitur  quid  fit orario apud  logicum,   Quantum  ad  fecundum  aduerte, q* apud  logicum  oratio  prima  diuifione  diuiditur  in  orationem  perfedam  & imper  fe&ani, deinde  utruncp  diuifionis  membrum fubdiuiditur,  nidebis  infra. Oratio  perfeda  eft  illa  quae  perfedum  fenfum  gencraf  in  animo  audietis , ideft  qu*  audita  quietat,quo  ad  fignifi-  catum  intentum  a proferente  uel  feribente,  animum  auditoris, Verbi  gratia. Sortes  intendit  notificarc  Platoni  ftatfl  regis, & dicit. Rex  ualet  fortis  in  bello  contra  hoftes, Hac  ratione  audita  quiefeir  animus  audientis.  Quod  fi  dicar.  Rex  contra  inimicos, & non  ultra  procedat , imperfedum  fenfum  generat  in  animo  audientis, ideft  non  quierat  ipfum  ideo  dicitur  oratio  imperfeda.  Nam  audiens  rex  contra  inimicos, ultra  non  proceditur, dubitare  incipit  uti£  prae  ualeat,an  fuccumbat  contra  inimicos  fuos,  patet  igitur  ora  tionis  prima  diuifio  apud  logicum.   Oratio  perfefta  continet  quinque  (pecies,quae  funt  indi*  catiua  temporis  praetentis, & omnium  temporum  modi  in  dicatiui,ut  “Petrus  amat”, amabat  amauit, amaucrat, amabit  imperatiua , ut  fac  ignem  deprecatiua , ut  ora  deum  pro  me.optatiua, ut  utinam  te  uideam  doftum. coniunftiua. ut  fi  ucncris  ad  mc,  honorabo  te. Omnes ifte dicuntur pcrfic auditae quierant animum audientis quo ad  earum  significatum, nec  ipfum  fufpenfum  tenent.   Tu  tamen  aduertc,q?  imperantia, & dcprccatiua  non  dit  fefunt penes  modum  nec tps  uerbi, sed  penes  appofitos  re-  fpeftus.Nam utracp  fit  per  modu imperatiuum,  fed deprecatiua  fir proprie  ad fuperiorcm, imperatiua  aOt  ad  inferio  rem. Item aduerte q* coniunftitia ad hoc q» fit oro perfecta oportet, ur coplcfiatur duas orones, aliter no quierat animfi audientis, ut parer,  reliquae uero spes per unicam ofonem quictant audientem, ideo  per  feipfasfunt  perfe&x.   Oratio  autem  imperfeda  tres  cotiner  fpecies  fecunduqs  tribus  modis  poteft  formari.  Nam  formatur  per  nome  fub  ftatiuum  cum  adie<fiiuo, ut  homo  albus  animal  rifibile.  uel  per  duo  fobftantiua  per  appoficione,  ut  animal  homo, deus  pater, Deus  filius. Et  hacc  eft  prima  species & formatur  per  foliim  infiniriun,  ut  fortem  currere. Si autem apponatur fum,  es, eft, cum termino modali  cricpcrfectarut  forte  currere eft  posfibile.i  t haec eft  fecunda fpecies*,  & formatur per verbum  Jcipir, &  definit, ut fortes incipit,  fortes definit. Siautem apponatur ifinfriuum efficitur perfecta,  ut fortes incipit conualefcere, fortes definit  fcriberc, & hoc  est  ter  tia species.  Item aduerte <y oratio perfecta  poteft  fieri  per  unicum  nomen, tielunicum  ucfbum,&  maxime  quando  fic  refponfiua  inrcrrogariuc  Vt  fi  qtiis  a te  petat. Quis  uenit  do  rnum?&  refpondeas, Pctus,Vel  fic, nunquid  fortes  uenit?&  rcfpondeas:  uenit.  Confiat  igitur  quo  diuidenda  fit  oratio  apud  logicum.   Quantum  ad  tertium  aduerte  q* sola  orario  indicatiua  eft  pmo  & per  (e  propofitio. Dico  pmo  & per  (e  qm  alie  (pe  cies  non  fiunt  propofitio, nifi  reducantur  ad  indicatiuam.  Vnde ifta, fi  homo  uolaret, haberet  alas, non  eft  propofirio,  nifi  reducatur  in  iftam,fi  homo  uolat  habet  alas.  Et  indicari  u • prxreriti  aut  futuri  temporis, non  eft  propolitio  nifi  re-  ducatur ad  indicatiuam  praefenris  temporis.Nam  ifta, Ad a  fuit, ideo  eft^iera,quia  Aquando  fuit uerum  dicere. Adam  eft  fciliccc quando Adam cxiftcbar. Ratio autem propter quam apud logicum sola oratio indicatiua eft primo & per se propositio, eft, quia intentum logici eft uti oratione ad investigandum verum etfalsum, ergo cam proprie recipit, quae secundum  fe  significat verum et falsum, &hxc est indicativa.  Nam alis potius deferuiunt affectui mentis qua quod sint ordinatae ad enunciandum verum et falsum conceptum animi aut intellectus. Quod pacet hinc. Imperativa indicat voluntatem superioris per imperium,  optativa indicat desiderium sive affectum optantis. Praedicatiuc indicat affectum inferioris erga fuperiorem per supplicationcm.  Coninndiua autem licet uideatur exprimere uerum aut falsum conceptum mentis, non tamen determinate, fed fufpc fuic, eft enim conditionalis quae ut  dicemus  in  cap.de  hypotheticis nihil  ponit  in  ede.  Indicativa autem dcterm.nate  di  cic verum  aut falsum. Nam hxc eft determinate vera, homo est animal, &haec determinate falsa homo est lapis, ideo. sola'm ceretur  dici japofitio. Proponicur enim imelledui  ut  per  eam  formet syllogifmum, &  per syllogifmum  deueniat in  ucram conclufionis  nociciam. Conflat igitur quae orationis perfeda species mcerctur logice dicipropofitio. Unde aduerte, q? logicus non tantum magni facit oronem  con»  gruam  &ornaram, quantum veram, ita  etiam  fi eflfct  incongruam  & inornata, modo uerii & falfum cnuncict, accepta eft  apud  logicum,,ppterea  logicus  acceptat  iftam,  deus  feruitur ab hole licet  cam reprober  grammaticus  negans  feruior  inueniri  pasfiuum.Hxc  de  prxfcnti  cap.dida  fine. OlnUli/  Si  logico  fufficiunt  dux  orationis  partes scilicet nomen  re» verbnm  redum.  Caput  quartum.   IN  cap. quarto  inueftigadum  eft fi dux  orationis  partes  fciliccc  nomen  & uerbum  redum  fufficiunt  logico. Tu  igitur  aduerte , quod  logicus  rationabiliter  reripjt  tan-  tum duas, ut  fibi  neccflarias,grammaricus, autem  odo*  Ratio  uero  djfferenrix  eft  hxc. Logicus et grammaticus  dififerunt  fine.  Intendit  enim  logicus  fcire, difcerocrc  ucrum a falfo, grammaticus  autem  intendit  fcire  difccrncre  congruum sermonem  ab  incongruo. Ad  confequendum  pri-  mum fufficiunt  nomen  & uerbum  , quoniam  fufticiuncad  componendum  .ppofirfone, quae eft  significans  verum uel  falfum,ut  tibi  manifeftabiturin  trac.  lequeti  ad  formandi!  congruum sermonem, & diftinguendum  ab  incongruo  no  (iiHiciunt  nomen  & uerbum, (ed  oportet  uti  praepoficiqnibus, &  aduerbiis  & coniunftionibns,S(c.  Et  ideo  ut  gram-  maticus habeat  omnem  modum  formandi  fermonem  con  gruum, nccc(Tarix  funt  fibi  plures  partes  orariois,  quam  nomen  rectum et verbum  rectum. Et qm ifte dux fibi sufficiunt, ideo appellat eas categorcmaricas, id est per se significatiavs, alias autem syncategorcmaticas, id est simul significativas. Quis autem fit terminus categoricus et syncategoricus diximus  in  divisone  tertia  terminorum.   Sed  dices. Logicus  indiget pronomine demonftratiuo, ut  quando  dcfcendic sub  (ubic&o  propofitionis uniuerfalisaf*  firmatiue  uel  negatiue  dicendo, omnis  homo  cft  animal,  cf   50  & hic  homo  est  animal, & hic  eft  animal  &c.  Item  in-  iget participio, ut  dicemus  in  trac.fequenti, quando  rcfol-  uit propofitioncm  fa&am  de  uerbo  adicdiuo  in  fuum  parti  cipiurn  & Ium  es  eft, ut  fortes  currit, fortes  eft  currens, ergo  faltem  quatuor  partes  orationis  funt  ei  ncccftariae.f.nomcn  & pronomcn,uerbum,&  participium.   Refponderur  nomen  & pronome  apud  logicum  funt, uC  una  pars, qm utitur  pronomine loco nominis, & participii!  ftar cum nominee et uerbo. Cum  nomine  quide, qm  poteft  efte  fubiedum propofitionis  ficut  & nomen, ut  legens  cur-  rit,& ftat  cum  uerbo, qm  fignificat cG tepore, ut docuirmrt  fupra,&  ideo  apud  logicum  identificanrur  nomini  & uerbo licet apud grammaticum remaneant diftinfte.  Conflat igitur  cp  fint  partes orationis  necclfariae  dialc&i  co ad  formanda  propofitioncm et ex propofitionibus  syllogifmum. Hoc dc prxfcnti  cap.dida  fint. Explicit  rradatus secundus copcndii logices peripateticat ordinatus per authorem et fuit de partibus propofitionis. Incipit QVT eft de propofitione et speciebm cius. Nhoc tertio tracta, agendum est de propofitione, gratia cuius praemifimus tradatum praecederem, in quo a&uin est de partibus eius, et de genere per quod definienda eft, et hoc eft oro ut tibi manifcftabitur. Diuidemus autem ipfumin fex capita. Primo agendum eft de propofitione definitiue & diuifiuc prima diuifione. Secundo agendum est de categorica simplici et de olbus eius diuifionibus. Tertio agendum eft de, pp6ne hypothetica & eius spebus. Quarto agendum eft de propone categorica modali. Quinto agendum eft de aequipollentiis propofitionum categoricarum fimplicjuni, qux funt oppofitx contrarix,  fubcontrariae, conrradiftoriae, &fubaltcrnx. Sefto  agendum  eft  de  aequipollentiis  modalium  oppofitaif. De  ppone, quid  fit  & cius  prima  diuifione.  In primo  capitulo  agendum eft  de propofitione  quid  fit  & quotuplex in genere sive prima diuifione. QuStum ad definitionem  aduerte,  <y sic  definitur de me te Ariftotelis. Propofitio  eft  oratio  uerum  uel  falfum  fignifi  cans  indicando. Primo dicitur  oratio, loco generis, eft  enim  in  plus  oratio quam propofitio:  di&um eft enim  in tract.  praecedenri,  oratio perfcfta  diftinguitur  in  quinque  (pccics, ex  quibus sola indicatiui modi eft propofitio, ergo omnis propofitio eft oratio perfecta, sed non econuerso, ex consequenti est genus propositionis, propofitio autem est species orationis jjcrfe&c. Sicut animal est genus hominis, homo autem est species animalis. Nam omnis homo est animal, sed non econuerfo. Secundo dicitur verum vel falsum fignificans,  pro cuius notitia aducrte, cp cum proponum alia iit affirmatiua, alia negatiua, ut declarabimus infra. Significare ucr u in affirmatiua est significarc  rem  sicut  est.  Verbi  Gratia  haec  cft  ucra,  homo  eft  ronaiis,quia  fic  eft  ex  parte  rei.  Vnde  hoicm  e(fe  fonalem cft  ucrum Significare uerumin negatiua eft fignificare rem ficut non  eft.  Verbi  Gratia  haec eft  ucra,  homo non  cft  afinus,quia  fic  eft  in  re. Vnde hominem non esse assimum est verum. Significare falfum in propone atfirmatiua  eft  figni.  6carc  rem  aliter  q fic.V.G.hzc  est falsa, homo est lapis, qih significat hominem esse lapidem, & tamen aliter eft.  Significare falsum in propone negatiua, eft  non  fignificarc  rem  sicut  cft.V.G.hatc  eft  fal(a,homo  non  cft  animal,  quia  non  figni  fjcac  ficut  eft.Nam  homo  eft  animal, ergo  fallinn  eft  ipluin  non  efte  animal. Dicitur  ergo in diffone,  uerum  uel  falfum.  fignificans  ad  differentiam  oronum  imperfeCtarum, ut  ho-  mo albus, afinus  rudibilis, & oratio infinitiua,ut  fortem  cur  rcrc,&  oratio  famularis, ut  Sortes  incipir, nifi. n.aliudadda  tur,non  folum  non  quierant  animum  audientis, fed  nec  di-  cut  aliquid  devero  aur  falfo  nifi  copleantur  per  aliud.  V.G*  Si  ly  homo  albus  addatur  homo  eft  albus.Si  ly  fortem  cur  rerc  addatur , eft uerum  uel  posfibile  uel  contingens.  Si  ly  fortes  incipit  addatur, e(Te  bonus. Conftat  ergo  g fc  funi   ptz  nihil  dicunt  de  uero  aut  fallo.   T ertio  dicitur  indicando  quod  dupliciter  exponitur, pri-  mo fic, indicando, id  eft  cft  oratio  modi  indicatiui  ucru  uel  faUbm  fignificans. Vnde alii definiunt propofitionem dicen te$,quod propofitio cft oratio indicatiua uerum uel falfum fignificans. Et id ponitur ad differentiam orationum  perfe-  rarum quae  fiunt  per  alios  modos, per  itnpcratiuu,  optati-  «um, &c.Nam  ifte  ut  docuimus  in  trac  przcedcnti  in  capi trrtio  potius  dclcniiunt  nobis  ad  manifcftandum  affectum  mentis, quam  uerum  aut  falfum  coceptum  intellectus  Orationes  etiam  modi  indicatiui  temporis  prztcriti  & futuri  %  non  fignificat  primo  & per se verum etfalsum, nifi reducantur ad unam temporis przfentis indicatiui ut in eode loco docuimus. Sola ergo oro indicatiua temporis praelcntis moe-retur dici propo, quia fola lufficit ad formidum syllogitmu  aliae  autem  non, iuli reducantur ad illam:  ut  tibi  mamfcftii  erit  in  trac. de  slyllogifmo  formali:  iccudo  ab  aliquibus  ex-ponitur ly  indicando.i.aflercndo.V erum  id  non  vf  convenire omni  propofitioniilcd  tantum  propolicioni in materis naturali, quae  neceflario  cft  uera, &  in  materia  remota,  quae  de  necessitate  est  falsa.  In  materia  autem  contingenti  cum  posfit  elle  ucra  & falia,  non  pot  dici  afiertiue fea opinatiuc quod  fignificct  uerum  aut  falfum,  ideo  melius  eft  ftarc  in  p  ma  expone, quae  etiam  eft  de  mente  Aristotele in.i.perihcr.  Quid  aut  fit  & quo fiat  propo  in  materia  naturali  $(  contingente  & remota  dicemus  infra  in  hoc  met.tradtatu.  Con^  itat  igitur  quid  fit  propofitio  apud  logicum.   Quantum  ad  primam  diuilioncm  proponis  aduerteqj  ad  metem  Ariftotelis  in  primo  periher. diuiditur  primo  in  categorica & hypothctica, dicilcategorica  gratee  pr^dica»  tiua  latine, categorizo  enim  graccc  & praedico  latine.  Df  hypothetica  graece, suppositiva  latine, est  enim  graECe  hyp. fub  latine, & thefis  graecc, positio  latine. Ratio  autem  divifionis  est  haec, quia  omnis  propofitio significat verum  aut  falsum,  & eft quid  compofitum &  omne  compofitum  cft  refolubi  Ic  in  lua  immediate  componentia.  V el  ergo  propofitio  com  ponitur  ex  terminis  immediate, & in  cos  relolujtur  imme-  diate^  non  in  aliud  immediate. Et  fic  eft  categorica  , quae  coponitur  immediate  ex  fubiefto  & praedicato  & copula  ,  modo, quo  dicemus  infra.V el coponit  I mediate  ex  duabus  oronibus  per  aliq  coiudione  puta  ergo, fi, & uel, 3t  imedia-  te  in  eas  rcfoluit, &  ille  imediate  i terminos,  & fic  eft  hypo  thctica, ut  dicemus  in  ca.tertio  huius  tradatus.  Catcgorica  pero  diuiditur  in  fimplicem  & modalem. Simplex eft in qua praedicatum fimpfir dicitur dc fubiedo, ut homo  eft  ani  mal. Modalis eft in qua  pdicatum  dr  de  fubiecto  non  fimpflr  fed  cum  modo  & determinatione, ut  homo  eft  aial  ncccfla  rio, homo  cft  albus  contingenter.  Et  de  modali  agemus  in  cap.quarto  huius  trac.Hsc  deprimo  cap.difta  fint. Dcpropofitionc  carcgorica  & omnibus  cius  diuifiombus.  IN  secundo  cap.inueftigandum  eft,  quid  fir  propofitio  ea  tegorica  & quot  fint  cius  diuifioncs,&  de  fingulis  agen..  du  eft  excepta  modali,de  qua  agemus  loco  luo, primo igitur  definiemus  eam, deiiide  accedemus  ad  diuifioncs.   Quantum  ad  definitionem  aduerte  , q* ad  mentem  Aristoteles sic  definitur  Propofitio  categorica  eft  propofitio  j qux  habet  fubiedum  praedicatum  & copulam taquam principia es partes fui. Ponitur propofitio loco generis. Omnis enim popofitio categorica, est propofitio, led non econ- uerfo. Nam  & hypothetica  eft  propofitio, & tame  non  eft  categorica.Dicitur  quae  habet  fubiedum  &c. hoc  totum  po  nitur  ad  differentiam  hypotheticae,  cuius  partes  principales  funt  dux  orationes , in  quas  immediate  refoluiturtut  patet  in  jfta.  Si  tu  curris, tu  tnoucris, principales  partes  & imme-  oiarxnon sunt termini, sed  iftx  dux  orationes:  tu  curris,  &  tu  moueris.prim autem  & niediatx  funt  termini  ex  quibus hxc  orario  componitur , tu  curris , & hxc  tu  moueris*  Dicitur  igitur  q*  principales  partes  categoricx  non  funr  ora  tiones,(cd  termini, ex  quibus  immediate  componitur,  quo  - rum  unum  eft  fubiedum, alterum  prxdicatum, alterum  co  pulatut  homo  eft  animal, homo  eft  fubiedum, animal  praedicatum, eft  copula, coniungit  enim  prxdicatum  cum  fub»  iedo. Sed  aduerre:ut  fcias  quomodo  in  omni  categorica  eft  fubiedum  copula  & prxdicatum, quod  fit  tribus  modis, p„  mo  per  uerbum  fum,  es,  eft,  de  tertio  adiacente .Eft  autem  categorica  de  tertio  adjacente  quando  poft  fum,  apponitur  alius  terminus: ut  fortes  eft  animal. In  hac  conftat  de  fubie-  do  & prxdicato  & copula, fecundo  fit  per  uerbum  adiedi-  uum  . Eft  autem  apud  logicum  omne  uerbum  adiediuum,  prxter  lum, es, eft, in  quod  relbluitur  omne  uerbum  adie-  diuum  & in litum participiumtut fortes currit fic  reloluit. Sortes eft currcns. Socrates est subiedum, currens  praedicatu  est  copula, tertio  fit per verbum fum, es, eft, de fecundo  adiacente.Eft  autem  categorica  de  fecundo  adjacente, qn  poftum, es, eft, alius  ccrminus  no  fcquit,ut  deus  eft,  coelu  eft  &  in  hac  eft  allignarc  tubum  praedicatu  & copula, alio  mo  q in  praedicis, afljgnat  auceduplV ,pmofic, deus  eft.i. deus  cft  habes  cire, deus  cft  fubum, habes  etTe  cft  pdicatu, eft  copula, fc  cudo  fic  Deus  cftd.deus  cft  exiftes. Dens  cft  fubieiftum  exi-  ftens  pdicacum,eft  copula. Nonulli  dicunt  tp  in  caregorica  de  fccudo  adiaccntc,eft  gerit  uicem  copulat  & prxdicaci,  &  id  uidetur  innuere  Ariftoccles in pmo perihcr.ubi definient uerbum inquit &cft iemper eorum qux de altero praedica  tur  nota, ideft  uerbum semper  (e  tenet  a gte  prxdicati. Con  fta:  igitur  quid  fit  propofitio  categorica  iimplex. Sed  dices quare magis  dicitur  categorica,  ideft  prxdicatiua  quam  fubicdiua, cum  tam  fubiettumq  praedicatu  fmc  partes  cns. Prxtcrca  quare  terminus  praecedens  uerbu  fum  cs,eft, dicitur  fubie&um,fubfcqucns  autem  dicitur  prxdica  tum, &  ipfum  uerbum  fubftanciuum  dicitur  copula»  Refpondetur  ad  pmum, cp  oe  copofitum  denominandu  eft  a parte  fua  digniori,  V ndc  homo  dicitur  rationalis  & intellectualis ab anima intellectuali, qux  dignior cft in eo  qui sensitiva  et vegetatiua. Prxditatu aute dignius eft fubicfto qm cftficut forma, fubiectu vero  sicut  materia, & dicemus  intra  cp talia  funt  fubiefta, qualia, permittutur  a praedicatis. Cogrucigicdicn categorica.i.prxdicatiua &no fubieftina Ad  lecundu  dfp  ideo  terminus  praecedens  uerbum  df  fu  bic<ftum,quia  de  eo  df  prxdicacum  ira  cp  fubiicitur  prxdica  to, V ndc  & gramarfeus  appellat  ipm  fuppofitu. Terminus  uero  fubfeques  uerbu  df  prxdicacum, quia  prxdicatur  & df  de  altero. i.dc  fubie&o. Vnde  apud  gramaticum  df  appofi tum. Et  aduerte  q?  totale  subieftum  est  ois  terminus  prxee  dens  copulam, fiue  unus  fiue  plures  fint.V «G.homo  eft  ani-  mal,homo  eft  fubm,homo  magnus  & honoratus  e pneeps  in  ciuitarc, fubieftu  funt  oes  illi  termini  prxcedetes,  pars  au  tem  liibicCti  quilibet  eorii. Ide  intcllige  ex  parte  prxdicati. Sed dices.Quarc  fubieftu  & pdicatum  per  fe  inuice  notifi  eant  fiuc  definiunt, cu  definitio  circularis  uideatur.  inutilis*   * Refpondetur  quia  hntrefpedum  ad  inuice, fubiedtum. rtfpicit  praedicatu  & praedicatum  rcfpicit  (ubic£tum,ficut  ft  lius  rcCpicic  patrem, & pater  filium.Refpediua  aute  conue-  nienter  per  fe  inuicem  norificantur  & definiuntur, qm  mutuam habent  dcpcndentiam. Sed de  hoc  alrius  loqucmur  in  trac. de  praedicabilibus,  p  nunc  fuftine  tu  iuuenis  ne  inuolua  ris. Conftat  igitur  tibi  quid  (it  propofirio  catcgorica. Quantum  ad  cius  diuifiones  aduertc,ut  habeas  plenam  de  cis  notitiam, fic difponendae  funt. Prima diuifio. Propofitionum  categoricarum, alia affirmativa, alia negatiav. Secunda. Alia uera, alia falfa. Tertia. Alia  cuius  quantitatis, alia  nullius.   Quarta.  Alicuius  quantitatis  alia  uniuersalis, alia  particularis, alia indefinita alia singularis. QuIta.Alix  gticipacvrrocp  rermio,  aliae  altero,aliae  nullo.   Sexta. Participantium  urroqj  termino, aliae  participant  qtroqj  termino  eodem  ordine, aliae  ordine  conucrfo.  Septima. Participantium  utrocp  termino siue  eode ordine (iuc couerfo  quxda  formantur in  materia  naturali,  quaedam in materia  contingenti, quaedam  in  materia  remota.  Odaua. Participanrium  utroqj  termino  eodem  ordine  tam  in  materia  naturali  q in materia contingenti & in materia remota quaedam sunt contrariae quaedam subcotrariae, quaedam contradiftorix, quxdam fubalternx.  Nona. Participantiu utrocg termino ordine couerfo &I n triplici materia (iuc naturali fiue contingenti fiuc remota quxdam conuertuntur conuerfione fimplici, quxdam converfione per accidens quxda couerfioneg contrapositione Omnes iftx diuifiones dantur de, ppofitione catcgorica fimplici qux dicitur de inefle.i.in qua prxdicatu simplicicci4 & fine determinatione facta g alique fex modo^.( ucrfi falsum nccefTariil cotingens, posfibile imposfibile, dicit de subiefto Quae aut ex his diuifionibus coueniat et categoricati modali dicemus in cap. quarto  huius  trac.  De singulis aut divisionibus agedu  c(t in fpe &ordine, quo prxpofitx  funt. Verum antedcfcedamus in (pe^nl aliqua prxdi&artMi diuiltonu datur  de substantia, pponis, aliqua de qualitate, aliqua dc qtitatc ut cibi declarabit infra, ideo ad viem notitia diuifionu, quae fiet toto hoc noftro opere, ne funus coadi idem faepius repetere, praeponendi fune omnes vfes  modi,  quibus folct  fieri  diuifio.  Tu igitur  aduerte  <y  indodrina  Ariftotelis  diuifio  fit  quatuor  modis  generalibus. Primo  generis  in  Ipccics.   Secundo  totius  in  partes. Tertio vocis significata. Quarto diuisio secundum accidens. Diuifio  gnis  in  fpes, fit  duobu  modis  pmo  gnis^n  (pes  (ut>  alternas, ut  qndiuiditeorpus  p alata  & inaiatu, &aiatu  per  fenfitiuu  St  no  (cnfitiuu, fecundo  gnis  in  (pes  fpalisfimas, uc  qii  diuiditur  color  per  albedinem  & nigrcdinem. Et  hac  di-  uifionem  cognofces  in  trac.de  praedicabilibus.   Diuifio  totius  in  gtes  fkqncp  modis, pmo  qntotu  diuidif  in  ptes  fubicdiuas  indiuiduales,ut  qn  diuidit  ho  in  forte Pia*  Ioanne. Pecru,&c.Scdo  qn  totu  diu.ditur  in  partes  eflcntia  lcs, uc  ens  naturale  copofitu  diuidif  in  materia  & forma,  fi-  cut  diuidit  ho  in  alam  & corpus, tertio qn diuiditur  totu  co  tinuu in partes fuas  intcgralcs,uc  domus  in  fundametu,tc»  dii, &  pariete, & corpus  animalis  in  partes, qufe  funt  mebra  fua,cx  qbus  integrat  corpus, quarto  qn  diuiditur  totu  dito  tinuu  in  partes  fiias, inter  quas  & fi  no  fit  cotinuitaseft  rame  ordo  & .pportio.Hoc  rao diuidif  exercitus  in  mtlitcs,cqtcs  peditcs, 8(c.quinto qn diuidif totu poretialc fiue poteftariufi  in  partes  fuas  poreftatiuas  qn  diuiditur  anima  per  potentias  fuas  & virtutes  fuas, ut  tibi  manifeftabitur  i libro  dc  anima,  & ifra  mani fcftabi mus  tibi  in  libro  de  fyllogifino  Thopico*  Diuifio  uo cis  in  fua  fignificata  fit  tribus  modis  primo  uo  cis  uniuoce  in  fignificata  uniuoce,ut  qn  diuidif  ho  in  fortem  & platone  &c, secundo  uocis  aequiuoce  in  fignificata  &qui-  uocata,ut  qn  diuiditur  cancer  in  ftclla  fiue  fignum  ccelefte,  & aquaticum  aial,&  morbum, tertio  uocis  analogicae  in significata  analogata,ut  qti  diuiditur  fanu,iu  alal  (anu , urina  lana, medicinam  fanam, cibum  fanum,aercm  fanum, excr-   D (HI    V-.  ritii5Tanu, &c. Et  hancdiuifionecognofccsin  trac.de  pntis.; Diuifio  fccudu  accidens  fic  tribus  modis , primo  fubiefti  in  accidentia, ut  holum  alius  paruus, alitis  magnus1  alius  albus,alius  niger,  alius  medio  colore  coloratus, (c3o  acciden  tis!in  fubie£ta,ut  accidentifi,qux  funt  m hoie, aliud  in  aia,ut  (eia, aliud  in  corpore,  ut  agilitas  &c.tertio  accidentis  in  acci  dentia, ut  accidcntiu,quarda  dura, quaedam  liquida , qnada  lucida, quaedam  tenebrofa , & hxc  diuifio  manife ftabit  tibi  in  philoiophia  naturali  & praecipue  in  libro  de  generatione*  Ifti  igitur  funt  iqodi  uniuerfales  famofiores  apud  Arido  tilem, quibus  fieri  confutuit  diuifio»   Quantum  ad  pmam  diuifionem,quac  eft  per  affirmatiua  & negatiuam  aduerre,q*  affirmatiua  dupfr  definitur  , pmo  fic,Categorica  affirmatiua  eft  .ppofirio  in  qua  praedicatum  affirmatur  de  fubiefto, ut homo eft albus.  Sed  aduerte  cj» tuc  praedicatu  affirmatur  de  fubie&c  quando  negatio  no  p  cedit  copula, q?  fi  praecedit  negatio, negatur  pdicatum  de  lu  biefto,&  efficitur  negariua,ut  hic  Sortes  non  eft  albus. Si  au  tem  fiibfequitur  no  efficitur  negatiua, fed  permanet  affirma  tiua , ut  homo  eft  no  albus.  Ire  aduerte  «p  alio  modo  affirma! pdicatum  de  fubiecto  in  affirmatiua  uera  & in  falfa,  na  in  uera  affirmatur  re  & uoce  quia  fic  eft  in  re,ficut  dr , ut homo re &uoce eft rifibilis. In falfa atite affirmatur uoce  tm  & non  rc. Nam licet dicam q» homo est afinus tarhenonfic eft in re, secundo definitur fic.  Affirmatiua eft in qua verbum pncipale affirmatur de fubiedo, ut homo est aial.  Dr in qua nerbum principale affirmatur ad differentiam uerbi secundarii qtiod fi  negattiruel  affirmatur, propter  ipfum  non  fit  propofitio  affirmatiua  nec  negatiua.  Vnde  ifta  non  eft  nega  tiua. Socrates  qui  non  currit  , mouetur,nec  ifta  eft  affirmatiua*  Sortes  qui  currit , non  monetur.  Nam  In  prima  licet  uer-  bum  fecundarium, quod  eft, currit, negetur,  tamen  princi-  pale quod  eft  mouetur, affirmatur, ideo  permanet  affirmatiua. In  IccQda  autem  fit  oppofito  modo,  ideo  permanet  negatiava. Et  ratio  huius  eft, quia  ticrbii  fecundarium fe  tenet  a  parte  fubicfti, q3 paret  refoluedo  in  fuu  participiu  fiuc  afti-  uum  fiue  pasfiuu,ut  hic. Sortes  qui  non  currit,ideft. Socrates  a9   non  carrcns  mouccur, (ortes  qui  currit, id eft (ortes curreni  non mouerur: Subie&um  autem  coniunctum  participio  at-  firmatiuo  negatiuo  no  facit  propofitionem  dic  affirmatius  ucl  ncgariuam, tcd  negatio  cadens  fuper  uerbum  principale  fiue  immediate, ut  quando  lubfequitur  fubiedum,ut  hotno  non  eft  afinus,fiue  mediate, ut  non  homo  cft  animal , dum  modo  fumatur  negatio  negans, & no  infinitam  terminum,  cui opponitur, nam  fi  infinitarer, non  faceret  negatiuam.  Vnde  lixc  non  clt  negatiua»  Non  homo  currit, qm ly non homo clt nomen infinitum, &c. Vnde non homo curru,  xquippollet  ifti, afinus  qui  ft  no homo currit. Coftat aut hanc elfe  affirmatiua Patet igitur quid  fit  categorica  aftirmatiua. Categorica  negatiua  dupliciter  definitur. Primo  lic, categorica  negatiua  eft  propofitio  in  qua  praedicatum  negatur  de  luolubicfto,auc  ho  non  eft  lapis. Secundo  fic,eft  pro-  pofirio  in  qua  uerbum principale  negatur  . Dicitur  uerbum  principale  ad  differentiam  uerbi  fccundarii,  quod  ut  docuimus fiue  affirmetur  fiuc  negetur, non  facit  propofirionem  affir.aut  nega. Et aduertc,quod  propofitio  poreft  fieri  afflr.  uel  nega. dupliciter  lcilicet explicitc  & implicite. Si  explicite, fit  per  nomen et uerbum indicariui  modi, ut  hotno  eft  ri  fibilis.  Si  implicite  poteft  fieri  per  unicum  terminu,ut  quan  do  dicimus, homo  cft  rifibilis ,&  econucrlo, ly  econuerlo  aequippollet  uni  propofitioni,qux  elf  hxc,&  rifibile  eft  homo.Item  aduerte  quod  diuifio  per  afflrmatiuam et negativam  non  foium  conuenit  categoricae sed  etiam  hyporheti  cac  & moduli, quomodo autem  fiat hypothetica  affirmative et  ne  gar. similirer  modal  s, dicemus  agentes  de  eis.  Nunc  autem  fuftine, ne confundaris ut nouus auditor. Hxc de prima diuifioncdi&afint»   Quantum  ad  fecundam diiiifionetn categorica:  fciliccc  perneram  & fallam , aduerte quod  cartgorica ucra , tam affirmatiua quam negatiua dupliciter definitur. Primo fic, uera eft, qua: significat  uerum , id eft significar rem sicut  eft,  si est affirmatiua, vel significat rem sicut non est, si est negatiua. Sed de hac  latis  diximus  in  ca. pr scedenti  in  dedaran-     «lo  definitionem  propofkionis secundo autem  fir defiintur. Vera  cft illa, cuius fignificatum primarium est verum. Significatum autem primarium cft illud quod exprimitur p oro nem infinitiuam. Verbi gratia hxc eft ucra Deus eft bonus qm deum clfc bonum, est verum. Sic.n. eft in re. Dico cuius primarium significatum est uerum ad differentiam secunda  rii.  sccundarium autem eft quod continetur in primario 8c fcquitur ad illud. Verbi gracia primarium huius, homo est rationalis, eft eftc rationalem ad hoc autem fcquitur  cfte  ani  mal, clfe  animatum, ede  corpus  efie  fubie&am.  luxta  igitur significatum  primarium & fccundarium  indicanda  eft  pro-  pofirio  uera,qm  cft  ucra  primo  & per  fe  ex  eo, ex  fccunda-  rio  autem  eft  tantum  confequenrcr. Nam  bene  fcquitur  qcf  fi  fortes  eft  homo,for.cft  animal. fcd  non  ceonuerfb, ut  de-  clarabimus in  trac. dc  confequentiis. Similiter falsa dupliciter definitur. Primo sic, falfi eft qux  aliter significat quam fit in  re, ut  hxc  cft  falsa, homo  est  ansinus, quia significat  hominem esseasinum, &  tamen aliter eft  rn  re, quia  in  re  no  est  asinus, sed  homo  siue  rationalis, & de  hac  definitione  iam  di  ximus  in  cap. prxccdentiin  definitione  propofitionis. Sccun  do  fic, falsa  cft  illa  cuius  primarum significatum est falsum. Verbi  gratia  hxc  est  falsa  homo  est  afinus, quia  holem  esse asinum  est falsum, cu  fic  ronalis,&  afinus  irratroalis. Quodfi fiereciudicium fecundu fccundarium fignificatum, quod  eft  dfe  animal, effet  uera-Nam  hxc  cft, ucra homo est animal  v non  tamen  fcquitur, ergo cft afinns, ut  declarabitur  tibi  in  trac. De consequentiis Hxc de fecunda diuifioncdiftafint, Quantum ad tertiam diuifionem fcilicet quod aliqua eft  alicuius qiiamicari$, aIiquanulliu$.Alicuius quantitatis eft illa, cuius fubieftum ftat pro aliquo ucl pro aliquibus uel pro omnibus uel pro nullo, ut declarabitur in diuifione sequenti. Nullius quantitatis cft illa cuius fubicftum fufpcnditur a propria denoiationc, ronc, pbationis termini prxcedetis ip  Ium quails eft exclufiua  cxceciua reduplicatiua, de  quaif  ,p-  Satiqne  a<fturi  fumus  in  trac.de  probationibus  ter  tuc.n.ap  arebit  tibi  qflo  ifte  probatur  no  rone  fubicfti,uc  , pbaf  universalis  particularis  &c.fcd  ronc  figni  fiuc  fyncategdfcma*  ris,ut  exclufiua  g tm,reduplicatiua  g inqtum cxccpriua  p p ter, &c. T uigr fuftine donec exercitat0 magis fueris, & ad ji di&u  erae*  dcuencrim9. H*c  de  tertia  diui., p niic dida  fint. Quantum  ad quarta diui.f.q*  proponum  alicuius  qtitatis  alia  eft  vPis, alja  particula  .alia indefi.alia  fmg duo ageda fut  primo  declarandum  eft  qflo  hxc  diuifio  eft  (ufficiens,  fecun  do  pertradadum eft de quolibet eius  membro. Quantum  ad  pmum  aduerte  q»  qtitas proponis  atteditur*  penes  fubm  prout  ftat,p  pluribus  aut  uno  lolo.Pot  igituf cofiderari fubin  dupTr. Primo fi ftat  pro uno folo. Secundo fi  pro  pluribus  fi  pro  uno  (olo, {ira  cp  uni  (oli  couenit  facie  ponem  fingu.fi  pro  pluribus, hoc  dupfV,quia  uel  pro  pluri-  pus  indeterminate  uel  determinate, fi  indeterminate  fic  fam  cit  ,pp6nem  indefi.fi  determinare  duplr  quia  hacc  determi*  natio  fubti  uel  fit  per  fignum  vle  affirmatiuu  uel negatiuu,  ut  ois  nullus,  & fic  eft  propo  ul’is,uel  fit  per  fignum  parti*  pulare  affir-uel  nega  & fic  eft  propo  particularis*  Coftat  igit  hxc  diuifio  eft  liifficiens.Et  fi  quxras  quid  fic  qtiras  , pp6*  nis.Hkiideo q*  ficut  Qtiras  fubx  proprie  accipit  iuxta  mensuram  longitudinis, &  latitudinis  & , pfundicaris, fic  quantitas , pp6nis  (umit  iuxta  menfuram fubiedii, prout  uerificatur  p«  dicatiue  de  uno  uel  plunbus. Conftat  igitur quo hxc diuifio eft sufficiens, & quid  fit  & unde  fumitur  qtitas  propofitiois. Quartum ad secundum  aduerte, q* propofitio  uniucrfalis dupliciter definiriH-. Primo fic, propositio viis tam affirmativa quam negativa est  illa, in  qua  fubiicitur  ter. communis  figno  uniucrfali  determinatus. Prinio  dicitur  in  qua  fubiicitur  ter*c6is.i*ponitur  in  fubie  fto  ter.cois.i.q  por  coucnire  & pdicari de  pluribus, & apud  gramaticum  dr  nomen  appellatiuum,ut  homo, capra, leo»  Secundo  dicitur  figno  uniucrfali  dctertninatus figna uni uer Talia (untquxdam affirmatiuaut omnis quilibet quifcp’, negatiua (unt, nullus, nihil,  neuter , dicunt uniucrfalia quia faciunt  ftarc  fubicdum  pro olbus  aut pro  fnullo  ut  ifta  rft  uniucrfalis  affir.omnis.homo  eft  animal. Vcrificatur  enim    fubiedum  pro quolibet  homine  in  fingulari.  Nam  fi  omni homo est ammal ergo  & ifte, &  iftc, &  ifte , & fic de omnibus alii eft  animal. Tertio  dicitur  determinatus. i. modificatus fiue limitatus ad standum non ablolure ,lcd  pro  omnibus aut (p  nullo-diximus.n  in  tertia  diuifionc  tci minor  u, quod signa ufia fune termini lyncatcgorcmatici, qm  fumpticum  alio, id  eft  cum  nomine lubftantiuo  determinant  ipliim  in  propofitione  ad  dandum  pro  omnibus aut  \ ro  nullo»  Sed  aduerte,  quod signum uniucrfale  ad  hoc  quod  faciat propofitionem  uniucrialem  fimplicirer  & proprie  debet  ap  poni  fubiedo  in redo & explicite  Nam  fi  apponitur  iiibic-  do  in  obliquo, non  facit  eam  uniuerfalem  (impliciter, sed secundum  quid.Vndc  ifta eu uflibet hominis afinus, currit,  noneft uniucrlalis abfolute, quoniam signum  non  apponitur ly afinus, quodest principale lubiedum, lcd  ly hominis,  quod  quoniam  est  obliquus  eft  secundarium fiue parrialc‘fu  bicdum.  V ndc  pratdida propofitio  abfolute  eft  indefinita,  ut  tibi  dcclarabitur.Dicitur  explicire, quoniam  fi  ponitur  i-  plicire  uel  uirtualiter  ucl  cum  diftindione,non  facit  propositionem uniuerfalem  forma)itcr, sed  tantum  interpraetati-  ue»Sicut  funr  iftar,  totus  fortes est minor forte, totum  est in mundo  est  in  oculo  meo. Non  homo  currir, &c.   Quomodo  autem  fint  uniuerfales interpracatiuc  declarabitur tibi  i trac. de probationibus terminorum, ubi diftinguemus de toto, & quo ifta  aequipoleat uniuerfali nega citi ac non homo currit declarabitur tibi in  cap. de acqujpolenriis catcgoricarum. Nuncautem fifio nete inuoluam. Similiter aduerte, <y uniuerfalis affirniatiua poteft  fieri  duplici  ter,  fex—  licet  collcdiue ut  omnes apostoli sunt  duodecim,  & diftributiue, ut  omnis  homo  eft  rissibilis.  Et  iterum  diftributiue  poteft  fieri dupliciter, fcilicct abfolute et accommode. Verum quomodo  fiant  & quo verificentur,dcdarabitur{tibi  in  rrac.de  fuppofirionibus, pro  nunc  fuftinc  Haec de  propofitione uniueriali  dida  fint. Propofitio  particularis  eft  illa,  in qua fubiicitur  ter  mi- communis signo particulari determinatus. Dicitur in qua tubiicitur ter communis, ea ratione qua  &  in propofitionc uniuerfali.  De signo parti. determinatus, ad differentiam proponis uniuerfaliszcft autem signum particulare determinatio  termini cois  qui  cft  fubicdum  in hac  propone,  per  quod  defignatur  fubiednm  accipi  non  pro  oibus  fub eo  corcntis, fed  pro  aliquibus  ucl  pro  aliquo: ut  quidam  homo  currit  ergo  uel  ifte  uel  ille, ucl  ille  currit:  & fufficit  quod  uerificctur  ,p  aliquo  pofito  quod  tantum  unus  currat.   Er  aduerte, quod  propofirio particularis  poteft fieri  mul Cis  modis. Primo  quando  fubie&um  eft  ter.  cois  cum  ligno  particulari  tam  affirmatiue  quam  negatiue : ut  quidam  ho-  mo currrir, quidam  homo  non  currit.  Secundo  per  ly  aliqd  fumptum  adie<ftiuc:ur  aliquid  eft  I manu  tua.  Haec  eft  parti-  cularis uirtualiter, quoniam  ly  aliquid  fic  exponitur  aliqua  res  eft  I manu  tua.  Dico fumptum adjeftiue quoniam sumptum subftantiue facit propofitionem  indefinitam  ut  dicemus. Tertio  quando fubiicitur  ter. cois  cum  figno  uniuerfa  li, fcd  figno  pratponitur  ncgario:ut  no  omnis  homo  currit  haec  enim  aequipollet  huic: quidani  homo non currit. Quarto  quando fubiicitur  termi.cois  cum  figno  uniuerfali  affir-  mariuo,fcd  praeponitur  negatio  & poft  ponitur:ur  hic, non  omnis  homo  non  currit, arquipollet enim huic, quidam homo cnrrir. Sed  tertium  & quartum modum declarabimus  fic  effein  cap. de aequipollentiis categoricarum. Haec de propositione particulari  diffa  finr.  Propofirio indefinita eft illa in qua fubiicitur terminus communis, nullo signo uniuerfali uel particulari determina rus: uc homo currit.   primo dicitur in qua fubiicitur termi. communis eadem ratione, qua diifhim est in definition propofirionis universalis  et particularis.   Secundo dicitur nullo signo ad differentiam propofirio* nis nniuerfalis & particularis. Tertio  dicitur  nullo  figno  uniuerfali uel  particulari  ad differentiam  cxdufiue,in  qua  ponitur signum:  cantum,  & in reduplicatiua, inquantum, qua:  ligna  quoniam  non tunc  uniuersalia, ncc particularia, ideo non  faciunt  propofitione  alicuius  quantitates. Sed  dices, quare  dr  indefinita, cum  aequipollcat  particula  ri* Na ide fenlus eft dicere, aliqs homo currit, & ho currit. Rndetur, dr indefinita.i. indctcrminata, quia  acceptio fu? fubicdi  non  determinatur  ad  certam  quantitatem  fecundu  modum  enuntiandi  per fignum  uniuerfalc  ucl  particulare: licet  fupponat  fubicdum  determinatciut  dicemus  in  traft*  de  fupptofitionibus: &  quando  dicitur  idem  fenlus  eft  di-  cere: quidam  homo  currit  & homo  currit, conceditur quo ad  luppoticioncm  & uerificacioncm, fcd  non  coceditur  quo  ad  modum  enunciandi,&  fic  intendimus  ipfam  effeindefini  tam  & non  quo  ad  ucrificationem  &i  luppoficionem.Scd,p  nunc  liiftinc, donec  trademus  de  fuppofitionibus. Haec  de  propofitione  indefinita  difta  fine propofirio singularis eft illa in qua fubiicitur terminus ai  fcrccus vel  termi. communis cum pronomine demonftrati 110 primiriuc speciei, ut  Plato  currit. Iftc  homo  comedit.  U   le  homo dormit. Primo dicitur in qua fubiicitur  ter  . dilcretus, ad  differens  Ciani  propoficionis  uniuerlalis  & particula*  & indefinitae,  in  quibus  fubiicitur  ter.  cois  opponitur  aute  ter*  dilcretus  ter.  .coi , quoniam  di  fererus  deunofolo  eft  aptus  pr*dicarioC  grammaticus  appellat  nomen  proprium  q?  uni  loli  conue-r  nit,ut  piato. Cois  autem  eft  aptus  de  pluribus  praedicari, ut  homo  & animal, & grammaticus uocatipfum nomen appellatiuum, quod pluribus conuenit. Secundo vel termi communis  cum  pronomine  demon  ftratiuo. Nam  licet  termi. communis  de  feftet  pro  pluribus camenper pronomen demonstratiuum reftringitur ad ftan dum pro uno  folo  indiuiduo,  ideo  atquipollet  ter.  difcretcL  Vnde  iftapropofitio: hic  homo  currit , dcmonftrato  (orte;   scquipollct  ifti. Socrates currit. Tertio  dicitur  pri mitius  fpecic,  ad  differentiam  pronominum deriuatiux  fpccici. Sunc  aucem  pronomina  dcmoi)  ftratiua  primitiux  fpeciei  ergo, tu, liii, ille, ipfe,ifte,hic, & is.  Deriuatiux  autem  lunc  meus, cuus, luus,noftcr,. uciltr,  no»  ftras,ucftras. ldeo  autem  e a,  quae  iiint  primatiux  (peciei  co  flituunt  propofitioncm  Cingulare  qm  trahunt  lubictf  uni  ad  fajpponcndum pro  uno solo, ut  ifte  homo  dcmoftrato forte currit, & ego. f Petrus  curro, & tu. i Piato curris. Ea  uero  qua  funt  deriuatiux  lpei,ut  meus,tuus,non  confticuunr  ,p-  pofuioncm  Cingularem, non  n.rcftringunt  fubm,  cui  apponutur  ad statum uno  io lo, fed  pot  ucrifkari  de  pluribus.  Verbi  gratia Petrus het dece  afinos, &  dicit  meus  aiinuscur  rit, ly  alinus  no stat  pro  ifto  tm, ucl  pro  illo  tm  fcd  # oibus difiuftiux. Nam  fi  meus  afuius  currit, & habeo  decem, ergo  uclifte, ueljfte  qui  cft  meus  currit.  Pronomina  auc  demon  ftratiua  primitiux  fpei  reftringur  tcr.coem  ad  ftadu  , p  uno solo  demonftrato, ut  ego.f.Petrus  lcribo,Tuuero.l. Plato dormis. Conftat  igitur  quid  fit  propositio sngularis.   Tu tame  aducrte,quod  no  Loluni  pot  fieri  per  ter.  dilcre  tum,  & per  tcr.coem cum pronomine demonftratiuo primi tiux  Ipeciei,  fcd  & per  tcr.r clariuum , ut  pofito  quod  lo  phronifcus  habet  tantu  unum  filium,  cuius  nomen  ignore  tur, ftdico  Sophronifci  filius  ftudet  Papix,  cft  fingularis,p-  pofitio  fimiliter  fi  dico. Pater Calix uenir,e  lingularis,  quo uiam ifti ter.relatiui xquipollcnt termini dilcretis.Irem  potcft  fieri  per  rer dilcrctum  circunlocutum,ut  fi  dico.  Vir  cri  Ipus  rubeus, & claudus  cantat  in  platea. Iftc  enim  circunfta  tix  mani  feliant  talem  hominem  & non  alium,  ideo  reddut  propofitioncm  fingularcm.patet  igitur  quid  fit  propofitio  lingularis  & quot  modis  fieri  contingit»   Item  aducrte, quod  fi  quis  te  intrrogat  de substantia  fitie  natura  propofitionis,dicendo. Qux  propofitio  eftifta.  Sor  C<s  eft  homo,refpondcre  habes, catcgorica, &  qux  eft  ifta. Si  tu  curris, tu  moveris, refpoderc  habes  hypothetica. Si  au  ecm quis te interrogat  dc  qualitate,  propofitionis  dicendo. Qualis  eft  ifta  fortes  currit  refpondere  habet  affirmatiua,&  Qualis  eft  ifta, homo  non  cft  afinus, relpondendum  est,  negatiua. Si  ucro  quis  te  interrogat  de  quantitate  proponis  di  Ccndo. Quanra  cft  ifta; ois  homo  currit, refpondendum  eft,  uniuerfalis, &  fic  de  aliis. Vnde  logici  pro  hoc  triplici  quaefi-  to  formaucrunr  hunc  ucrfum.Quac.ca.uel  ip. qualis. ne.  uel  af.v.quanta.par.in  fin  i.  Quae categorica,  uel  hyporetica. Qualis, negatiua, uel  affirmatiua. V «quanta. i.uniucrfalis  uel  particularis  indefinita  uel  fingularis. Sed  dices. Quae est subftantia propofitionis, & quae  cius  quantitas, & quz  eius  qualitas. Refpodetur  fuba  cft  cius  natura sive  edentia,  puta  qft  fit  quid coinpofitum  ex  talibus  partibus. f.  cx  fubiedo  praedi-  cato & copula  ut  catcgorica:ucl  ex  duabus  oronibus  p ali-  quam coniundionem  coniundis:ut  fi  tu  curris,  tu  moueris  ut  hypothcrica. QuStitaseius est  extenfio  fubicdi ad ftandu  pro  uno  vel  aliquibus  uel  omnibus  uel  nullis.  Qualitas  eius est  secundum  quam  dicitur  qualismt  affirmatio, negatio, veritas, falfitas, necesfitas, contingentia, posfibilitas, imposfibilitas. Nam  omnia  ifta  qualificant propofitionem. Unde interroganti qualis  fit  ifta, homo  est  animal,  respondcre debemus, quod rft affirmatiua ucramon solum possibilis sed etia necessaria. Quarum ad quintam divisionem, quae eft hac, proponu categoricarum, quaedam participant utroqj termino, quaedam altero, quaedam  nullo, aduerte,  quod cum termini  componcnrcs categoricam  fint  fubiednm  & praedicatum: quae Ctjam dicuntur  extrema  propofitionis, parridparc termino uel terminis, eft conuenirc in subiedo  uel  in  praedicato,  uel  in  utroque.  Non  participare  autem  eft  non  conuenirc. His  prxnv.sfis aduerte, quod duas catcgoricas  participare  utro-  que termino, eft  eas  conuenire  in subicdo  & praedicato,  ita  subiednm  prima est subiedum secundae et praedicatum primae est praedicatum secundae, nec in alio differunt  nili quod una eft affirmatiua, altera negatiua,  ut sunt iftae duae,  homo eft animal, homo non eft  animal,  participare  in  alte  ro  termino  tantum  fcilicct  uel  folum  in  fubiedo, ut  hic:  homo cft  animal, homo eft  rationalis,  uel in praedicaroratum ut hic: homo eft animal, asinus est animal.  Participare nullo termino, est non  conuenirc  io subiecto nec in praedicato, ut hic, homo est rifibilis, afinus eft  rudibilis. Et aduerte quod hic loquimur de participatione formali virtuali, quod dico, quoniam licet iftae duae coueniant uir rualitcr: homo est animal, risibile est animah non tamen for malitcr, quoniam formaliter non lunt idem homo et risibile, dato  quod  eflent  idem  re, quod  tamen  non conceditur in via thomistica.   Iterum  aduerte, quod  haec  diuisio data  eft, ut  cognoscatur oppositio contraria, subcontraria, contradidoria, subalterna propositionu categoricarum de quibus aduri lumus infra. Namilla fupponit participationem, ppofitionum oppofitarum urroqj termino formaliter & non solum uirtualircr ut tibi declarabitur in diuifioneodaua.  Quantum ad diuifionem lextarn, quae cft q*, ppofition5' categoricarum participantium utrocg termino formaliter,  quaedam  participant  utroq?  termino  eodem  ordine, quaeda  ordine  conucrfo.  Aduerte  igitur  quod  duas  categoricas  par  ticipare  eodem  ordine  utrocp  termino, eft fic, quod est subiedum in prima est subiedum in secunda et quod est praedicatum in prima est praedicatum in secunda, ut hic. Socrates est homo. Socrates non  est homo,  et semper intelligedum est formaliter et non virtualiter  tantuin. Duas autem categoricas participare  utrocp termino ordine coucrfo,  est sic,  quod est subiedum in  prima  est  praedicatum  in fecunda, & quod est praedicatum in prima eft subiedum insecunda, ut hic,  homo est animal rationale, animal rationale eft homo. Et haec diufio deferuiet quando loquemur de couucrfionibus propofitionum categoricarum, ut tibi  manifeftabitur.   Quantum  ad  feptimam  diuifionem, quae  eft  haec. Propositionum participantiumvtrocg termino  fiue  eodem  ordine  fiue  conucrfo  quaedam  fiunt  in  materia  naturali,  quardam contingenti, quaedam  in  remota, aduerte, qnllat  fiunt  in  ma  reria  naturali  in  quibus^raedicatum  femper  & infcpai  abii:ter  conucnit  fubiedo, & id  fit  multis modis , primo  quando genus, aut  differentia, aut  definitio, aut, pprictas,  aut  quali,  eas  naturalis  praedicatur  de  re.  Exemplum  primi, homo est animal, fecundi,  homo  cft  rationalis.  Tertii, homo  eft  animal rationale, quarti  homo  cft  rifibilis  quinti  Ignis  cft  cali.  «Ius, mei  eft  dulce, nix  eft  alba,  Item  quando  idem  praedicatur de  lcipfo:ut  fortes  est fortes.  Ille  aut  fiunt  in  materia  contingentium  quibus praedicatum  poteft  aduenire  & remoucri  a subiecto, abfqj  hoc  <y  corruni.  patur  fubiedum ,&  gg  hoc  diftinguuntur  a ,ppofitionibus  i ,  materia  naturali, quoniam  in  illis  li  auferatur  pdicatum, no  pmanet  fubiedum. Nam fi homo cedat ede animal,  aut  rationalis, aut risibilis et fi ignis  cedat  ede  calidus  &c.  nec  ha-,  mo nec  ignis permanent, led  corrumpuntur et definunt  ce»  Tu  igitur  aduerte, c? omnis  jjpofifio, in  qua  pdicatum  eft  accidens commune  & fcparabile,&  etiam  infeparabile,  mo  do  non  fluat  a principiis fpccici, fit in materia  contingenti,  utiftae, homo eft albus, ethiops est niger, aqua est calida &c. Dico rnodo non fluat a principiis fpeciei: ut pferuem rerum. j>prietates: ut eft rifibilitas in homine, par et impar in numero, curvum et rectum in linea, fumum calorem in igne* lite nancg faciunt ppofirionem in materia naturali. Quid ne. ro fit fluere apneipiis specjci declarabitur tibi in trac. de praedicabilibus in cap. de proprio etaccidente. Illae vero fiunt in materia remota,  in quibus praedicatum non potest verificari de subiedo, Imo  id  inuicero repugnant. Iftae autem funt in  quibus fubicdum & praedicatum sunt opposita contraria vel contradidoria vel  prfuatiue  ucl  relative  opposita. Exemplum  primi. Album  est nigrum. Secundi homo est non homo. Tertii. Caecus  est  uidens. Quarti, pater  est  filius. Et  aducrte , q?  dicuntur  fieri  i|i  materia  remota,  scilicet  repugnanti, qm natur fubiedi&i pdjcatiin oibus p didis repugnant adinuioem, nec fc compatiuntur. Inde eft q1 omnis affirmatiua in materia remota ferng & de neccsfiUtate eft falfa, negaciua autem femg  & immutabiliter ucra. In materia uero naturali cft oppofifomodo. Nam affirmariua femg  est  vera, negatiua fepig falfcM  Jn nuter» cotingeti ?4 est medio m6, qm  tam affirma,  q nega,  aliqn  e vera aliqn falsa, nam qn praedicatum incft liibiedio, affirmatiua est uera, negatiua  falsa, qn  praedicatum  remouctur, affirmatiua eft falsa, ncgariua eft uera. Hoc de septima diuifione difta fint. Quantum ad  oAauam  diuifioncm, quae fuit haec,  Propofitionum carcgoricarum participatium utroqj termino eodem ordine triplici materia. Cnaturali contingenti et remota aduerte, q* inter eas sit quatruplex oppofitio. f. contraria subcontraria, contradicloria, subalterna. Oppositio contraria sit inter eas quarum una eft universalis affirmatiua & altera uninerfalis negatiua, de eifdcm fubieflis & prodicatis univoce &aeque ample & aeque strictca cceptis. Primodf quarum una est uniuerfalis &c. Nam ut diftinguantur a contradictoriis, debent efle eiufdem quantitatis & diuerfae qualitatis. Si eiufdem  quatitatis,  ergo  utraqj  eft  uni  ucrialis  uel  particularis , non secundum quia noneffient contrariae sed subcontrariae: ut dicetur infra ergo primum.  Si,  diversae qualitatis,  ergo i&fca eft affirmativa et altera negativa.  Secundo dr de ei (dem subiectis et praedicatis: uc ois homol albus, nullus homo est albus,  & dcfeftu huius iftaeduae non funt contrariae ois homo eft albus, nullum rifibilc eft albu^ Tu tn  aduerte  q* subiectum et praedicatum  pnt  effe  idem  tripliciter, pmo  fm vocem  tm  & non  fm  signatum, secundo  t m. signatum  tm  & non  fm vocem, tertio  fm vocem et secundumsignificatum. Exemplum primi  omnis canis  latrat: nullus canis latrat. Secundi. Omnis  homo  currit, nullum  ronale  currit. Tertii. Omnis  homo eft  alal  nullus homo eft  alaU  Prima identitas non  fufficit  adeontrarietatem,  ideo  dicitur  in  definitione, acceptis univoce, conftat  aut  q*  canis  eft  ter.  aequiuocus , fecunda aut fufficit  ad contrarietatem virtuale  leu  aequiualente, sed  no  ad  formalem, tertia vero sufficit ad contratietate  proprie diCta & formale, unde licet  iftx duae, omnis homo currit, nullu  rationale  currit, fint  cotrariae  uir  rualiter eo  q* secudum significatum homo et rationale fune idem  non  tamen forma\itct, qm  formalitcr non participat  E ii utroqj termino secundum uoccm et secundum significatu. Tertio dicitur aeque ample &aeque ftrufie acccptis. Dcfe* du huius apud multos iflae dux non sunt contrarix. Omnis homo est animal, nullus homo est animal, quoniam in prima poteft teneri tam pro mafculis quam pro fccminis,in secunda solum pro masculis.  Tu  tn aduerte,  q' secundum usum i utracp  accipi  confucuit  pro  mafculis ideo  acceptantur:ut  ue  rz  contrariZj Item  defedu  huius  iflae  dux  non  lunt  contra  riae. Omnis  homo  cft  albus, nullus  homo  fuit  albus,  quia  in  prima  reftringitur  adprxfentcs , in  fecunda  autem ampliatur ad przfentcs uel  prxreritos. Scd pronunc fuftinc, donec pertrademus de ampliationibus & appellationibus. Tu tn aduerte, q* prxdldx non sunt contrariae non solum ronc di da, sed quia copula non tenetur eodem modo in prima set secunda. Nam in prima eft ly eft, in  fecunda  cft  ly  fuit. Unde in  definitione  intelligendum eftq' contrarix  debent  c(Te  de  ctfdem  fubicdis  & prxdicatis  & copulis. Hzc  de  contrariis  dida  fint.   Oppofitio  contradidoria  eft  inter  eas, quarum  una  cft  viis  affirmatiua,  altera  particularis  negativa , ut  omnis  homo est animal, quidam  homo  non  eft  animal, uei  altera  cft  vfis negatiua, & altera particularis affirmatiua, ut nullus homo currit, quida homo currit, dccifdcm fubicdis  &pdicatis & copulis, uniuocc  & zque  ample, & xque  ftride acceptis. Omnia  debent  intclligi  ficut  expofitum  eft  dc  contrariis.   Ut  autem  habeas  maiorem  noticiamdccontradidione  aduerte  ex  dodrina  Ariftotclis, quatuor condidioncs requirit, & defedu cuiullibct carum enitatur contradidoria oppofitio. Prima eft q» fit affirmatio eiufdem de eodem & negatio,  dummodo  fumatur  idem  secundum  rem et vocem, ut Socrates currit. Socrates non currit. Defedu cuius ifta apud logicu non sunt contradidoria formaliter sed virtualiter sive equipollenter tantum ex parte rei. Cicero currit. Marcus no currit, pofito enim q» fint sinonima ex parte significati quia ide homo  didus  cft  Marcus  et Cicero, tame  diftinguuntur  uocc  icas  isb   ffffi   futc: ctu   OOP*   uiJ'   ipl>   lo«  Taa   jnci  u$   yra (Tei.   t&   il* ra^ jsi» iC30  is.   io»  srt-   t&   itio,   Sa ?   t<p , cof jii UOC  *f  sive termino, qm  duo  fune  termini,  Marcus  et Cicero, ideo  non  funt contradictoria  formaliterfcd  xquipolleter.  Aequipollenter  quidem, qm idem  indiuiduum  intclligitur  pcrMar  cum  & Ciceronem, formaliter  autem  non, qm  logicus  obseruat  oppofitionem de virtute sermonis, philosophus aute  qui  est  artifex  rcalis, dc  uirtute  rei  & fignificati.  Vnde  apud  phyficum  ifta  contradicunt. Materia prima est ens in poten tia. Primum  fubic Ctum  non  eft  ens  in  potentia.  Pro  eodem  enim  accipit  materiam  primam  & primum  fubiectum.   Secunda  eft  q»  duae  propofitioncs  contradictoriae  refe-  rantur ad  idem  ut  fecundum  idem  , & propter  huius  defe-  flum, illae no contradicunt, Ethiops estalb us detes.  Ethiops  non  eft  albus  pedes, non enim sit praedicatio secundum eandem partem»   Tertia est. Quod  teneatur  fimilirer, ideo  ifte dux non  contradicunt, nullum  animal  est  genus, animal est genus.  Nam  In negatiua stat  animal  pro suppofitis , in affirmatiua ftat  p  natura  communi.  Sed  id  non intelliges  donec  in  traCta.  suppositionum  exercitatus fueris, ideo fuftine. Quarta eft q* referantur ad idem tempus. Et defeCtu  huius, iftx dux non contradicunt, fortes uenit hodie, fortes no ucnit heri. Et aduerte q* omnes iftx conditiones  exprimuntur  in diffinitione contradictionis, quae extrahitur ex doctrina Ariftotelisprxcipuc in quarto metaphyficae, & eft hxc. Contradictio eft affirmatio et negatio, id eft propofitio affirmatiua & negatiua  eiufdem  prxdicari  de  eodem  subieCto,  ad  idem secundum idem, fimiliter  & pro eodem tempore Hxc de contradiCtoriis diCta fint. Oppofitio subcontraria eft inter eas, quarum una eft particularis affirmatiua vel indefinita, altera autem est particularis negatiua vel indefinita de eisdem prsrdicatis et subiectis  & copulis  uniuocc  acceptis, & eodem modo supponentibus.   Primo  dicitur  propofitio  affirmatiua negatiua particularesaut indefinitx, ut  excludamus  duas singulars. Nam  Illxfunt contradictorix  secundum rem et significatum licec. Eiii TRACTATVS tertivs non in figura, quoniam in figura  uc  declarabitur tibi infra. oportet unam c(Tc uniuerfalem affirmativam vel negativan alteram autc particularem affirmativam uel negativam ut patebit in figuris quas in ira deferibemus. Quare autem duae singulares non sunt subcontrariae ratio est haec, quia due subcontrariz poliunt ede fimul verae, ut quidam homo currit, quidam homo non currit. Due autem singulares non poliunt ede simul uerae nec fimul falfz, sed una vera et altera falsa in omni materia, uc fi hzc est vera fortes non eft afinus, hzc neccesario est falsa Socrates est ansinus. Ergo sunt contradictori. Secundo dr de cildcm subieftis  &c. inrclligendum est eodem modo sicut diftum eft in oppofitionc  contraria. Tertio dicitur univoc e tentis, defectu  cuiu»  iftz no fune subcontrariz. Quoddam sanum est  animal. Quoddam  fa-  num non est animal.  Quarto dicitur eodem modo supponentibus, dcfeftu cuius iftz, non sunt subcontrariz homo est speties, homo non est species, nam in prima homo supponit pro natura communi, in secunda pro natura partita in suppositis.  Sic quide dicimus pro nunc. In  trac.autem  fuppolitionum  manifefta  bimus  quomodo  ifta  non  eft  indefinita  homo  eft  fpecies, sed singularis, & ideo  manifeftius  tibi  erit, <y no sunt subcontra riz, non solum quia non supponit homo in prima et secunda eodem modo, fed quoniam sunt singulares quas ncccdc est ut diximus c(Tc oppofitas contradictori secundum  rem  et s significatum. Oppositio subalrerna est inter eas, quarum una est vflis affirmariua et altera particularis aut indefinita aut singularis affirmatiua. Vel una est viis negatiua et altera  est  parti  «auc  inde. aut  fingularis negativa  de  cifdem  fubie&is  & przdicatis  8c  copulis  &c.ut  diftum  eft  in  aliis  oppofirionibus.   Hic  Htofunt  declaranda, primo  quare  dicuntur  (iibalrer-  ne,fecudo  quare  du*  singulares aftirmativa et negatiua  fune  liibalternz  & non  fubcontrariz. Ad  prim Utn  dicituny  ideo  uniuer  falis  affir.& particula-  ris affirma tiua  dicuntur  fubalternz-quia  una  fub  altera  ponimr.i4particu.rub  uniucrfali.Vndc  uniucrfalis  fe  habet,  ut  an$  particu ut  pns. Nam  bene  fcquitur.Omnis  homo  eft  ani  mal  ergo  quidam  homo  eft  animal, & homo  eft  animal, 8t  ifte  homo  cft  animal, ut  tibi  manifeftum  erit  in  fuppofitioni  bus. Non  autem  fcquicur  cconuerfo, quia  ab  inferiori  diftributiuc  ad  fuperius  affir.non valet  consequentia, non  enim  iequitur, aliquis  homo est stultus ergo omnis homo esst tultus.  Et  aduerte  ficut  dicuntur  rubaltcrnae  per  rcfpedum suppositionibus, quem habet particulares ad universales, fic dici pollent fuperaltcrnx, pcr relpe&um super pofitionis,  que habet uniuerfales ad particulares. Scd primis placuit fic denominare ab*infcrioribus, quorum eft subiici et supponi superioribus. Ad secundum dicitor q? ideo dux fingu.affir. &ncg.fune  fubalternx  qm  ficut  ualet  confequentia  abuniuerfali  affir, uclnega. ad particu. &  inde  affir. &  nega. fic valet  adfingu.  Affir .&  nega. Nam  fi  hxc  consequentia valet  ols  homo  currit, ergo  aliquis  homo, &  homo  currit, fic  ualet, ergo  ifte  &  ifte  currit, quoniam, ut  declarabitur  tibi  in  trac. fuppofitio-  num, signum univerfale affirmatiuum 8 (negatiuu diftribuit terminum immediate fcquentem & licet  dcfccndere  ad  fua singularia  diuifiuc. Sed  pro  nunc  fuftine  ne  confundaris, do  nec  habebis  de  luppofitionibus  notitiam. Et  ideo funt fubal ternx  ficut  particu.&  indcfi.Non  autem sunt subcontrari ratione  iam  difta,  quoniam subcontraries contingitellc simul veras, dux autem singularis negativa et affirmatiua, in omni materia ita fe habent y fi una eft vera altera est falli, & non poliunt efie fimul uerxnccTimul falfx, & ideo, ut dt ximus non fiint fubcontrarix cd contradiflorix.  Conftae  Igitur  tibi  quo  propofitiones categoricx  participantes  utro  que  termino  & eodem  ordine, conftituunt  quatuor  geifepa  oppofitionum.Et  quoniam  possunt  formari in materia  natu  rali  & remota  & cotingenti,idco  figurabimus  tibi  tres  figu  ras. Prima  erit  de  oppoficis  in  materia  naturali, secunda  de  oppofitisin  marcria  remota, tertia  de  oppoficis in materia  contingenti, ut  patet  infra. LOGICAE compendium. Peripatetica ordinatum per Reuerendum Maglftrum Chiifoftornum Iauellutn .anapicium ordimsprxdica, nunc tandem 8C d'U“°P“Pro' ditin lucem» A Continet aute undecim tractatus uidelicet* Primus eft de prarcognofcendis. Secundusde patribuspropofitionis. Terrius de propofirione. Quartus de quinque uniuerfalibus. Quintus de praedicamentis. Sextus dc fyllogifrnis formalibus. Seprimus de fuppofirionibus. c OcAta^unuKs ampliationibus& V’-> V V^lArii* « ' * Jj; ii .I' d appdlationibusJ IN/onus dc conicquentiis. Dccirnus dc probationibus terminorum. Vndeamusdefyllogifinodacmonfitrraarniuo,.in quo quo continetur Ariftorelis dodrina in lib.pofter. QjiaE Gmma recenti hac noftra editione uiligentifsime, expolita fiint, atque elaborata*Grice: “For all their subtleties I lizii, or peripatetic logicians never cared about formulation. Consider Javelli: the dog barks, anger is represented, ‘canis latrat raepresentatur ira, gemitus infirums raepresentatur dolor. No care is taken to represent the proper signification. It is still the ‘anima’ if the vegetative one, it is still the dog’s spirit. If the dog barks, he means that he is angry. If the infirm moans he means he is in pain, and so on.” Grice: “Javelli is one of the most careful Italian philosophers. He had a fascination for two little tracts by Aristotle towards which I also felt an attraction: De Interpretatione and Categories. His comments on De Interpretatione are brilliant in that he reduces all to ‘re-presentare’. The infirmus who groans or moans represents ‘dolor’. The dog that barks represents ‘anger’. These are ‘signs’ of the natural kind – and rather than dark clouds meaning rain he is into ‘phone’ – vox – here it is vox signifying that p or q naturaliter. (my example of groaning of pain). From there he jumps to the institutional meaning, ad placitum, ex decreto et authoritate – e consuetudine, -- a system which superseds the previous one. Giovanni Crisostomo Javelli. Iavelli. Giavelli. Javelli. Keywords: implicatura. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Javelli” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51753886743/in/dateposted-public/

 

Grice e Jerocades – filosofia della massoneria – filosofia italiana – Luigi Speranza (Parghelia). Filosofo. Grice: “I would consider Jerocades more of a poet than a philosopher, but then he was a priest and a Mason!” Essential Italian philosopher. Scrisse il saggio “Dell'umano sapere”, di stampo illuministico, che verrà successivamente pubblicato a Napoli, e “La partenza delle Muse”, edito na Messina.  Si trasferì a Napoli. Dietro raccomandazione di Genovesi, col quale era entrato in corrispondenza, venne assunto al "Collegio Tuziano" di Sora come maestro d' “ideologia”. Frequenta gli ambienti massonici. Secondo il clero sorano, tuttavia, quelle opere non si attagliavano ai giovani del collegio, tant'è che prima della rappresentazione di “Il ritorno di Ulisse” -- che conteneva alcuni intermezzi ridicoli e di stampo anticlericale, in particolare il Pulcinella da Quacquero, il vescovo emise un editto di censura: ne seguì un processo per eresia e sedizione, con la reclusione di Jerocades nel carcere vescovile. Scarcerato dopo sette mesi, lasciò Sora per tornare a Napoli, dove divenne popolare come poeta improvvisatore. Fu in Calabria: qui si dedicò alla composizione delle raccolte Quaresimale poetico e La lira focense, testimonianza di un «illuminismo massonico». Insegna a Napoli. Fonda la Società Patriottica Napoletana, coagulo dei principali esponenti del giacobinismo e dell'antigiurisdizionalismo partenopeo (ovvero che miravano a costituire una repubblica), cosa che determinò la sua incarcerazione a Castel dell'Ovo e il processo per apostasia, ma riebbe presto la libertà, avendo deciso di ritrattare. Anche per il conflitto interiore causato da una siffatta scelta, sostenne attivamente le idee rivoluzionarie, che però, in seguito alla breve esperienza della Repubblica Napoletana, gli costarono nuovamente il carcere, e quindi l'esilio a Marsiglia.  Ritornato a Napoli razie all'amnistia prevista dalla pace di Firenze compose l'elogio di suo padre e di suo fratello, motivo che indusse a farlo rinchiudere nel convento dei Liguorini di Tropea. Saggi: “Esercizii spirituali in compendio ossia il filosofo in solitudine” Napoli); “Il Paolo, o sia l'umanità liberata poema” (Napoli: presso Giuseppe Maria Porcelli, Inni di Orfeo esposti in versi volgari, Napoli, La gigantomachia, ovvero La disfatta de' giganti, Napoli: La lira focense, Napoli: si vende da Gennaro Fonzo, strada Forcella, Olinto e Sofronia, dedic. Orazione per l'apertura della Scuola di Economia e Commercio, Napoli, Orazione recitata ne' funerali solenni di Marcello Accorinti morto in Messina nel terremoto. Napoli, Fedro, “Esopo alla moda, ovvero delle favole di Fedro, Parafrasi Italiana” (Napoli: Porsile, Orazio); “Le odi di Orazi esposte in versi volgari” (Napoli); “Le odi di Pindaro tradotte ed esposte in versi volgari” (Napoli: Russo); Biografia degli uomini illustri del regno di Napoli, D. Martuscelli, Gervasi, Napoli B. Croce, La rivoluzione napoletana Biografie, storie, racconti, Laterza, Bari  L. Alonzi, Il giacobinismo napoletano, in Idem, Il Vescovo-prefetto. La diocesi di Sora nel periodo napoleonico, Sora, A. Piromalli, Illuminismo massonico, La letteratura calabrese,  I, Pellegrino editore, Cosenza, B. Croce, D. Ambrasi, Il clero a Napoli tra rivoluzione e reazione, in A. Cestaro A. Lerra, Il Mezzogiorno e la Basilicata fra l'età giacobina e il Decennio francese, Atti del Convegno, Maratea, I, Venosa, B. Croce, La rivoluzione napoletana, Biografie, Racconti, Ricerche, Bari, Laterza, Saggio dell'umano sapere, D. Scafoglio, Vibo Valentia, Sistema Bibliotecario Vibonese,A. Jerocades, La lira focenseː un abate poeta in loggia, A. Piromalli e G. Bravetti, Foggia, Bastogi. Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  1. T) Indaro , figliuolo di Diifanto,e di Mirto, J» nacque in Tebe , città capitale della Beozia. Mono il padre , eh’ era sonator di tibie , la ma- dre , eh’ era ancor sonatrice sposò Scopelino , e , quindi , dopo la morte di lui , sposò Pagonida , ambi professori di musica. Di qui è,ché al no- stro Poeta si danno tre padri , de' quali due nel vero sono patrigni . Or questa sua sorte fece la sua virtù; imperciocché nacque, visse, e morì tra le Muse, le quali a quel t&mpo erano e ric- che, e nobili ,ed onorate. I suoi primi studj fu- rono la musica, e la poesia, che apprese da Laso Ermìoneo, e che peifezionò sotto Simonide , ed Eschilo i quali' fiorivano in quella età. Indi , , dato l'animo allo studio delle scienze, seguì la , tutta la sua v»ta al modello della pietà . Tra gii altri numi venerava spezialmente Pane, Rea, e Febo e siccome la sua casetta era vicina al tempio ; , propagata per la Beozia , e non la scuola Italica J mica ; onde fu scolare di Pittagora , e non di Talete. La sua dottrina dunque divenne sacra, e tnis ica in modo , che pieno di queste idee, formò di Rea , egli era o uno de' sacerdoti , o almeno il compagno e il partecipe de' sacri misteri. , a. La sua dotta e saggia pietà fu P ornaménto, e'1 retaggio della sua industre e faticosa famiglia. Imperciocché , ricevuti da Timossena , sua consor- te , un maschio , chiamato Diofanto', e due fem- mine, per nome Protomache , e Polimeri trasfu- , se col sangue la sua virtù per modo ne’ figli che gli mandava il giorno e la notte al tempio dej padre, e della madre de’ numi. La sua casetr A9 me • #- , § Digitized by Google   a medesima era un tempietto dtvoto, in cui con vi- cenda soave si passava dai coro alla mensa , e dalla cetra atta tazza , cioè dal travaglio al riposo, e dal - ripeso al travaglio. Non senza ragione gli Spartani prima, e qnndi i Macedoni, liberarono dall'in- cendio comune l'albergo di lui riguardato qual ,, saero asilo delle Muse , e di Febo . Di fatti la faina di Pindaro era sparsa per tutta la Grecia , e al di là della Europa; già che Serse nella sua famosa spedizione n' ebbe ancor del rispetto , co- me dipoi n’ ebbe Alessandro gloria del re della Persia» 3. Or qual si fu la vita civile di Pindaro? Ap* plicato alla poesia , e alla musica , non cantava , che numi , ed eroi . L'antichità vide e lodò i suoi carmi , Inni , Ditirambi , Treni , Peani , ed altri Lirici,e Melici componimenti, rapportati da Sm- ela , che non vinsero la forza vorace dell' igno- ranza, dell'invidia, e del tempo, e de' quali so- lo si mostrano alcuni frammenti, da Stefano va- riamente, e con diligenza raccolti , Restano dunque eli lui quattro libri de’ Vincitori Olitnpj , Pizj , Ne- mei , ed istmici , de' quali Aristofane . grammatico di gran nome , ne fece una raccolta , ordinata a suo modo, e chiamata Periodo. Ed egli è qui da notarsi , che tra le opere di Esiodo si è serbata la Teogonia , e si è perduta 1’ Erogonia ; ma tra quellf di Pindaro al contrario si sono serbati gl' Inni degli Eroi , e gl* Inni degli Dei si sono perdu- ti . Queste opere f.inno la vita del nostro Poeta, siccome le guerre, e i viaggi fanno la vita d’A- chille^ d' Uhsse. Ma benché Pindaro per forma- re i suoi carmi divini dovea menar i giorni nella pace , nel silenzio , e nell’ozio, e vivere con se stesso , col mondo , e co’ numi ; non potea di- spensarsi dal viaggio > e dal cvmraercio co’ Prmci- ,1 , quasi emulando la Dìgitized by Google   5 pi del suo tempo, e dal conoscimento di varj po- poli , e di varj costumi senza i quali so'corsi ; non si può essere, nè si può fare il Poeta. Ol- tre il viaggio di rutto e quanto il mediterra- neo (eh* eia il viaggio alla moda in quel secolo) e’ vide Coma , Siracusa , e Cirene , e familiarmen- te u ò de’ Re e con confidenza trattò nelle Corti. , Nelle giostre festive fu più volte e spettatore, e spettacolo , e sceso al paragone con Corinna , pian- se la v.irtù della Musa vinta dalla beltà del- la Musa. In mezzo all’ armonia dunque il Teba- no cantore visse la sua vita dividendo le ore fra , lo s'adio,ei! teatro, le due scuole dell’antica vir- tù : e così finalmente morì , cadendo nelle brac- cia di Teosseno giovanetto di Tenedo, dopo , avere ascoltato con sommo piacere una festa teatra- le, ed armonica. N.ito nell' Olirne. 65. morì nell’ Olimp.36. di anni 84.,bìochè altri narrino altri- menti e la vita, e la morte di lui. La vita de* saggi , sempre disputata , non è il corso di peri- gliose avventure gravi di speciosi e nobili avve- 1 nimenti. Ella si legge ne loro libri , e tutti i qua- dri d’ un Poeta formano il quadro di lui . E qui si offre il nome eh’ e' diede a’ suoi carmi di qua- , dri . E’ chiamò ogni sua Canzone siSog, immagi- ne , simulacro , o per la varia sorte de’ versi Li- tici ; o perchè tal è la poesia, cioè pittura, e ri- tratto o perchè siccome ad ogni vincitore si al- $, zava una statua col nome dell'eroe, della pa- tria, e del giuoco $ e’ gliene voleva alzar un’altra di versi , di quella più perenne ed eterna . E' fece u- so del dialetto Dorico che più confassi con lo sti- , le sublime. Ma quello, che più distingue Pinda- ro dag i altri Poeti si è P uso smoderato degli , Episodj imitato non sempre felicemente , da ,, {'lacco .Lo stile delle sue poesie à Lirico-tragico, A3 e tal %  e tal volta Lirico-comico; imperciocché , siccome in Omero ci ha favole, e favolette , co>l in Pindaro ci ha canzoni, e canzonette. Per questa ragione nel tradurle , ed esporle si è tenuta una maniera diversa, secondo che oggi è fuso d’ Europa. Di fatti oggi in Europa è in pregio solamente la poe- sia , e la musica Lirica , e questa è o tragica detta altrimenti Pindarica , e Alcaica ; o comica , altrimenti detta Anacreontica, e Saffica. Ne' tea- tri si unisce l'uno e l’altro stile Lirico , onde so- no i recitativi, come si dicono, e le arie. Ma l’Epica, e la Drammatica , tanto tragica quanto , comica , è poesia disgiunta oggidì dalla musica , ed *’sì deono rispettare le superbe vicende del seco- li . Ecco la ragione, onde ho tradotte ed espo- ste le Odi di Pindaro all' uso del Guidi ; e tal volta , ma di raro , all’ uso delle cantate da sce- na. Nèmisi parlidistrofe, d'antistrofe, ed’ epodo ? di ternioni quaternioni , e quinternioni ,j che oggi sono più che vecchie monete . Chi ha voluto tener le usanze antiche , si ha dato una legge importuna, che poi ha dovuto pagare col prezzo di tante gloriose fatiche. Chi non esalta il merito di Adimari , e Gauter ? E pochi sono , che apprezzano le loro Erculee imprese ; e spesso hanno errato per necessità di consiglio . Or la- sciando a tutti e traduttori , e cementatori di Pindaro la gloria immortale del nome; io ho ardito d’ incominciare ad uso mio questo faticoso lavoro, e ho ardito ancor di compirlo a mio mo- do. Se questa è una lode , io la confesso ; poiché mi è grato un onore, che mi venga dal merito. Sog- giungo ancora d'aver letta, a quest’ uopo , Plutar- co , Eliano , Pausania , Clemente , Stobeo , Euse- bio Quintiliano, Orazio, fra gli antichi ; Suida, , GiraJdi , Motóri , ">• Baile , Fabbiicio , Schmid io , A\ Be, ,  6 Digitized by Google  1 Pindaro, il quale, quando è gustato, è conosciu- to • |o confesso ancora di aver vinto la causa , di cui la questione si fu: Se gl’inni Cristiani so- no da più , o da meno, degl* Inni Pagani ? Io proposi, son già molti anni passati, che sono da più ; e per dimostrarne l'assunto col fatto, tra- dussi ed esposi gl’inni Cristiani , e gl'inni Paga- ni, e lasciai la causa alla fede, e alla ragione de* - giudici. Pubblicati gl’inni d’ Orfeo e di altri e ,, quindi le Odi d’ Orazio, non restavano, che gli Inni di Pindaro al compimento dell’opera. Ecco la iuta fede legata già sciolta. Chi legge , se ha sénno vegga e conosca la 4; ,, verità . A non voler dir altro , basta il dire che , negl'inni Pagani o manca la persona, o rrnnca il soggetto, eh’ è la virtù., E se dicesi, che ap- presso i Pagani tal era la persona reale , e tale il soggetto dell* inno; io dico che cangiate le idee, , dubbiamo venerare le nostre. Ma le Liturgie, per una sorte comune sono ignorate da chi le , adora, e conosciute da chi le disprezza. Quindi è , che questa causa spetta al giudi ciò de’ posteri come accenna nella Od. i. Olimp. il nostro poe- ta. Nel resto non può negarsi, essere oscura e confusa 1 antichità, e chiara e distinta h nostra età, in cui quel che si legge, si vede, e quel che si vede , s’ intende . Per me m’inebbrio di gioja quando canto nel coro un inno de' nostri; e. nel cantare un inno Pagano , sia superbo e pomposo, non mi sento nel petto un senso di dolce pietà. £ non abbiamo noi i nostri agonistì, i campio- ni» -gli atleti r , gli atlanti, gli aicidi di Cristo? Altro che kcorsa f , e Ja lotta, sono le virtù del- Benedetti, Aditimi, Stefano, Gaìitefj ed altri fra i moderni e di averne tratto profitto ma , di. aver sempre apprezzato sovra di tutti lo stesso .*** A4 . la , ; ,  , Digitized by Google   la Chiesa . Si legga solo F inno di Venanzio gio- , vanetto, e santo deli’ Umbria, e si vegga, quai sono in vero gii eroi. E’ non vi ha dubbio, che iti Pindaro vi sono le più belle sentenze e mo- , lali, e politiche che il suo stile spesso è orien- ; tale, come lo stile liturgico di Asaflfo, d' Orfeo d’Omero, e di Ossian; ma queste bellezze, che di rodo si ammirano ne' poeti Pagani, ne’ nostri sono e profuse, e neglette. 5. Mi resta a dir due parole su i Giuochi, che formano F argomento dell’ opera • I Giuochi , dette ancora feste giostre certami agojii , con- (,,, trasti ) erano o ginnici , o musici . I musici eran prode del conto, del suono, della poesia, della storia, e della eloquenza; e tal volta erano dispu- te circolari da scuoia. Questi si davano d' ordina- rio neU’Odèo, nel Musèo, nel Licèo, nel Tea- trone di rado assai nello Stadio, infra il romor delia turba, il vincitore avea la corona, la sta- tua, e il soldo pubblico,e forse Finno della vit- toria. Mi questi giuochi non eran molto famosi. I Giuochi ginnici erano o sacri , o profani . £ profanieranolascherma,ei! bersaglio,edaltri, destinati col tempo alle pene de’ rei., I sacri & solenni eran cinque, la corsa , la lotta, la pugna , la danza , la palla , detti in generale Pentatlo da' Greci , da* Latini Qoinquerzio , e tal volta Pan- crazio , benché il Pancrazio comprendea solamene te;la pugna, e la lotta* La corsa era a piedi, a nudo', o armato a cavallo , o frenato , o senza ; freno ; e col carro , tirato da due.> o da quattro cavalli £ Il premio della ,virtù eia kt stessa virtù; o pure una corona di olivo f di lauro , d’ apio , di rame , o di ferro ; una statua col nome so»* della patria, del giuoco; e un inno di lode, ond’ era accom- pagnato* litornapdo' in trionfo, alia patria* 11 Digitized by ,   1 luogo di questi Giuochi era lo Stadio , in tre par-* t» diviso, e distinto con tre colonnette. Vi prese* devanoi pubblicimagistrati cometestimoni egiu- ,, dici delle contese. Tali feste, instituite da Ercole, da Pelope , da Enomao da Ifito e p;ù volte tralasciare , e più volte riprese si celebravano , nel principio d' ogni cinque anni piade non era diversa dal Lustro, che fu la gran festa degli antichi Romani. Questa città, eh’ è stata sempre la madre degl randó altre insegne e divise , onde vivano ignoti al mondo, e noti solo a se stessi. Vivi fra * morti , e mprti fra i vivi , passano in pace la vira e fanno il lor nome risonare nel silenzio , della virtù. Fra molti, che io venero, ha luogo Gaetano Ancora Napoletano giovane d’ alti ta- ,, lenti , e di aurei costumi . E’ rubando agli alti , affari politici, e al vigor giovanile, e alle ombre notturne poche ore del tempo le consacra a quel ,, profondo studio , che da' primi anni coltivò , d* una maschia e robusta Letteratura, Ebrea Greca, , e Latina , e va di quando in quando esponendo una parte di quella Sapienza vera, che nel tesoro delia età vetusta si serba come un sacro depost- , ,, <5. Molte,evarienotiziesisonodamericavate 11 da Pausania , da Natale de Conti , e da saggi scrittori delle Greche antichità , Ma disperando di poterne qui dare un Saggio compiuto che ser- , visse di scorta alla legione di Pindaro, ho prega- to il mio doke amico, e maestro Gaetano Anco- ra y il quale, tra le gravi cure della Corte, cori va . con applauso universale i più severi studj della Letteratura, oggimai quasi moribonda e spirante.- 1 ingegni , e la scuola di tutte le Muse non ar- , 1 disce più di onorare il nome de suoi gran figli col titolo di saggi e di dotti e va lor proccu- ,, , onde T Olim-  JO to della umani , e divina ragione . Quindi la Re- pubblica delle lettere gode di tante dissertazioni dilui, chesonodiraro, diutile, edifestivo argomento , e che raccolte si daranno a. suo tem- po al'a luce. Or egli piegandosi gentilmente al- , le mie premurose preghiere, ha scritto un Saggio tu i Giuochi solenni di Grecia, il quale, stampa- to alla fine del libro la erudizione comune , , pagina 227. , serve al- e al rischiaramento delle ©ni di Pindaro. Perciò son io contento delle mie fatiche , le quali con questo lume compariranno , come spero , meno oscure , e meno importune $ e la Musa Dircèa sarà più sacra, e più venerata. A vero dire non deve un Poeta ri sublime , e sì sacro , come colui , che canta da eroe le virtù degli eroi giacersi nell' ingrato obblìo d' una fa- , cile indifferenza , o d' una criminosa ignoranza? eseiohofattosì, cheil suonomesiatranoi p ù conosciuto , ed imitato almeno nelle sentenze, * se non si può-nello stile, ^Sublimi feriam sidera  Tropea. Palazzo Sant'Anna. odierna sede del Municipio ed ex Collegio dei Gesuiti    L'ULTIMA PRIGIONIA  DI ANTONIO JEROCADES     di Pasquale Russo  PREMESSA  L'abate Jerocades visse da cristiano inquieto una esistenza drammatica. Pur affascinato dalle idee di libertà di cui si è fatto assertore e promotore, non smise mai di produrre opere di natura religiosa e devozionale, anche pervase di amore e tenerezza, soprattutto verso la Vergine Maria. E' un ecclesiastico che non sovrappone il livello della politica a quello della fede, ma tenta piuttosto un equilibrio che apparirà fortemente precario e non convincerà nè il potere politico nè il potere religioso. Dall'una e dall'altra parte fu perseguitato per tutta la vita, tuttavia non sconfessò mai la sua fede cristiana, nè resistette fermamente al tiranno fino alla morte.  Quest'uomo che le istituzioni hanno più volte punito secondo i loro statuti con il carcere e con l'esilio fu un 'uomo contro', ma non aveva la vocazione al martirio.  Io mi fermerò a considerare l'ultima prigionia dell'abate Jerocades. Fu la conclusione di una vita oltremodo inquieta. A Tropea, nel collegio dei Padri Redentoristi, il 19 novembre 1803, non si chiudeva solamente una vita, si spegneva il tentativo di conciliazione di un credente massone e giacobino con il mondo moderno. UNA VITA ESAUSTA  L'abate Jerocades non aveva la vocazione al martirio e tuttavia la sua vita inquieta è stata vissuta nella lotta, una opposizione ideologica contro i potenti e una tuonante avversione al mondo clericale.  Il terremoto del Capo, questa operetta indiavolata, come la definisce Tigani Sava, ci dà la misura di quanti fossero i suoi nemici, ma anche di quanto egli sapesse usare la lingua e la parola per colpire, offendere, insultare.  La parola fu la grande arma che Jerocades usò per illuminare le menti, per eccitare i cuori, per aggredire chi lo contrastava, per lottare i suoi numerosi nemici.  Dotato di grande facilità di parola, scriveva e verseggiava con facilità e spesso dava alle stampe i suoi scritti senza rileggerli.  L'ultima prigionia a Tropea, nella casa dei Redentoristi, fa pensare a Daniele nella fossa dei leoni. Ma l'accostamento biblico ci richiama anche altri protagonisti calabresi di utopie religiose e politiche: penso a Gioacchino da Fiore, a Tommaso Campanella, profeti perseguitati per i loro sogni di libertà. Con uno spessore certamente diverso, ma con un'ansia di fondo che ha una matrice comune nella natura rivoluzionaria del cristianesimo.  Credo sia opportuna una riflessione sulla condizione ecclesiastica di Antonio Jerocades e sulla sua formazione, perchè ci consente di cogliere elementi di approfondimento in lui come anche nelle figure più rilevanti del giansenismo, del protestantesimo, del giacobinismo, della massoneria: tutti più o meno di provenienza culturale e ambientale non solo cattolica, ma specificamente ecclesiastica (si pensi a Salvi, Aracri, Serrao, Padula, Angherà, Nudi o altri meno noti).  Il valore culturale, etico, sociale di queste personalità e della loro opera in Calabria e fuori, osserva Maria Mariotti, e stato messo in rilievo da studi seri ed accurati, "che tuttavia non sempre superano del tutto la tendenza ad interpretare illuministicamente l'aspetto contestativo soprattutto in chiave di apertura alle novità, al progresso contro l'ignoranza, l'arretratezza, il bigottismo degli am bienti ecclesiastici. Pare sia più maturo un ripensamento, almeno su alcune complesse personalità: anche per capire meglio il dramma umano, religioso, morale di questi uomini, spesso condizionati dal disagio di una vocazione non autentica, talora esasperati da situazioni realmente invivibili; e per cogliere, al di qua dell'asprezza delle manifestazioni, la radice autenticamente cristiana e cattolica di certe esigenze e critiche, nello spirito in cui oggi leggiamo e accettiamo i rilievi al loro tempo sospetti, di Ludovico Antonio Muratori sulla Regolata devozione dei cristiani, di Antonio Rosmini su Le cinque piaghe della chiesa."  Penso che, leggendo l'ancora inedita Orazione per l'apertura della Scuola di Economia e Commercio nell'Università di Napoli, detta da Antonio Jerocades, questa riflessione si riveli quanto mai opportuna. Egli, rievocando gli anni della giovinezza, ricorda: "... Nato in un ignoto villaggio dell'estrema Calabria da parenti oscurissimi, applicati alla pesca, alla navigazione, al commercio, respirai le prime aure di vita, tra i remi e le reti, nè mi sentia fremer d'intorno di altro il linguaggio che del dolore, dell'opera, della fatica, i tre compagni primieri de' dolenti, operosi e travagliati mortali, nè di altre immagini la mia mente bambina poteva ricolmarsi giammai, che di povertà libera e di libertà bisognosa... piacque a mio padre di ascrivermi tra l'ordine clericale e gà cominciai pur io, e ben per tempo, a menar la vita tra i Salmi e gli Inni, imparando, ed insegnando ogni giorno le Christiane dottrine... Chiuso il Seminario vidi e conobbi i primi elementi dell'umano e divino sapere, e mosso dalla fama del Martorelli e del Genovesi venni a Napoli ad ammirare quei due valenti e in filologia e in filosofia, e con essi loro mi strinsi in familiare e soave amicizia."  E' altrettanto importante annotare che la preoccupazione per il seminario rappresenta per i vescovi calabresi nella seconda metà del '700 la volenterosa disponibilità di attuare una delle poche veramente innovative prescrizioni tridentine. Ma in realtà molti seminari furono semplici convitti, che potevano influire su una percentuale ristretta del clero, in quanto spesso surrogavano i collegi per i laici, mentre i chierici in genere erano formati con un'infarinatura di morale e di cerimonie dai parroci di campagna. Una circolare del 3.XI.1802 per la diocesi di Tropea ritiene validi 10 giorni di ritiro come preparazione all'ordinazione sacerdotale di coloro che erano stati presentati dai parroci. Si trattava di una preparazione intensiva, che era tutto ed era poco! Il clero che proveniva dai seminari invece si qualificò più per gli aspetti culturali che per quelli pastorali.  Per molti lo stato ecclesiastico rappresentava soltanto una carriera ambita. In un ambito di cristianità il prete era il notabile, circondato da uno steccato di privilegi. La vocazione era pertanto nella linea delle pressioni sociali. Moltissimi erano i preti al di fuori di ogni quadro pastorale: gli abati oziosi, i preti altaristi, i pedagoghi, gli eruditi, i commercianti, i sensali, i selvaggi, i preti coniugati, gli eremiti. I sinodi sono pieni di richiami agli abusi di questo clero che, privo di forti ideali, dopo aver "strapazzato" la messa e l'ufficio, si dava all'ozio, agli spettacoli, al cicisbeismo.  Del resto va notato che il Concilio di Trento aveva obbligato i vescovi a fondare i seminari, non i candidati agli ordini ad entrarvi.  La cura animarum suprema lex era molto disattesa, pur essendo un principio fondamentale del Tridentino che aveva posto come capisaldi della vita diocesana le visite pastorali, i sinodi e i seminari. Ma anche i sinodi nel '700 diventano sempre più radi: a Tropea l'ultimo sinodo celebrato è stato di Ibanez nel 1702: nessun altro sinodo verrà celebrato nel corso del settecento e fino al vescovo Vaccari nel 1883.  La preoccupazione per il seminario appare sempre viva e addirittura appare quasi ossessiva in un vescovo latitante come Gerardo Gregorio Mele nella corrispondenza col suo vicario don A. Meligrana. Questo vescovo fu l'ultimo a reggere la diocesi di Tropea prima della sua unione con Nicotera nel 1818. Durante il suo episcopato avvennero fenomeni che hanno cambiato il corso della storia, ma egli riuscì (e non fu per nulla il solo!) a rimanere fermamente legato alla tradizione; durante il suo episcopato morì a Tropea Antonio Jerocades.  Sugli anni compresi tra il 1799 e il 1803 sembra prevalere un grande silenzio su Jerocades nei documenti vescovili o comunque tropeani.  Mentre il Martuscelli, primo biografo del Jerocades, ci riporta con alquanta dovizia di particolari l'ultimo periodo di vita dell'abate (cfr. Accatatis, Uomini illustri della Calabria, vol. III, p. 181 e ss, Cosenza, 1877), le notizie che abbiamo di lui dai contemporanei locali sono molto scarne e tendenziose (Vito Capialbi, Memorie per servire alla storia della santa chiesa tropeana, Napoli, 1852; Michele Paladini, Notizie storiche sulla città di Tropea, Catania 1930 - ed. anastatica a cura di S. Di Bella). Quasi irreperibili nell'archivio vescovile di Tropea. Quello che ci lascia interdetti è la mancanza di fonti 'tropeane', degli uomini di cultura suoi contemporanei o quasi: Galluppi, ad esempio, o Politi, o Scrugli, o Melograni...  Gli archivi locali, sia quelli ecclesiastici che quelli privati, sono molto avari di notizie. Nell'archivio vescovile di Tropea è assente il suo nome, se si eccettua un documento di dispensa dall'età canonica per l'ordinazione sacerdotale e di annotazioni sulla sua assenza da Parghelia nelle visite pastorali:  20.03.1784 - Visita Paù: nell'elenco dei preti di Parghelia manca Jerocades;  17.03.1794 - Visita Monteforte: adsunt extra patriam... D. A. Jerocadi;  09.09.1795 - Visita Monforte: absens...: A. Jerocadi;  05.05.1799 - Visita Mele: D. Antonius Jerocadi absens.  Negli archivi privati si è trovata qualche piccola traccia del suo passaggio nell'archivio Meligrana di Parghelia: una lettera di Vito Capialbi, datata Monteleone 8 Nov. 1837 a Don Giuseppe Meligrana ricorda che "le cose di Jerocades [per lui trascritte] non sono che ordinarissime composizioni, ma di un autore così celebre ogni cosuccia è buona". E più avanti ricorda ancora di aver avuto in regalo dal nipote di Jerocades (Raffaele) "un autografo in francese e in italiano di suo zio". Da Parghelia, attraverso don G. Meligrana, Vito Capialbi ha avuto molti testi di Jerocades, che dice di conservare nella sua biblioteca (Cfr. Memorie, cit.).  L'archivio più fornito dovrebbe essere quello dei Jerocades-Colace che allo stato attuale risulta pittosto disperso, diversamente da come era stato rilevato da Tigani Sava nel 1977, relativamente alla produzione di Jerocades (Cfr. il contributo bibliografico più completo - pur se con qualche piccola carenza - di Francesco Tagani Sava in La Calabria dalle riforme alla restaurazione, S. E. Meridionale, 1981, pp. 635-713).  Il silenzio delle fonti tropeane del periodo che corrisponde agli ultimi anni di vita di Jerocades sta ad indicare la sua emarginazione, dovuta a una avversione profonda, soprattutto da parte del clero tropeano, che, nel Terremoto del Capo, era stato oggetto di derisione e di gravi accuse di immoralità, ma anche del mondo laico che non condivideva le idee giacobine dell'abate, anche se alle logge massoniche da lui fondate, o che, come dice Gaetano Cingari, certamente influenzò, a Parghelia e a Tropea, in molti avevano dato la loro adesione. Tanto meno fanno menzione di lui gli accademici degli Affaticati. Jerocades viene ignorato, sia perchè è scomodo, sia perchè è ostile e pericoloso politicamente, sia infine perchè ha usato la parola come arma che ha colpito duramente.  Forse non e esagerato pensare che si aspettava il momento giusto per presentargli il conto.  LA SOLITUDINE DELLA MORTE  Il Martuscelli racconta con dovizia di particolari gli ultimi anni della vita di Antonio Jerocades e la sua morte. "Nel 1799 fu mandato in Francia", egli scrive: in realtà, più precisamente, fu esiliato con altri 500, mentre Colace e Mazzitelli erano stati uccisi. Il Jerocades figura tra gli esiliati a Marsiglia per i fatti del 1799 e, nell'elenco dei condannati dalla Suprema Giunta di Stato, si fa anche una descrizione fisica dell'abate.  A Marsiglia scrive tra l'altro l'orazione funebre per Vincenzo suo fratello. Nel mese di agosto 1801, dopo la pace di Firenze, rientra in Italia a Civitavecchia con la nave e da lì a Roma dove 'si ammalò mortalmente'; riavutosi andò a Napoli e da lì giunse a Parghelia il 4 Novembre 1801. Dopo dieci mesi (settembre 1802) "fu mandato nella casa del PP. Liguorini di Tropea, e dissesi che ciò fu per correggerlo di quanto avea scritto nell'elogio funebre di suo fratello Vincenzo", denunziato da Giuseppe Costanzo per vilipendio in quanto nella detta orazione aveva parlato male del cardinale Ruffo.  L'ordine era di tenerlo segregato. E all'inizio l'abate "viveva nella quiete", scrive il Paladini, che fu testimone oculare della sua prigionia; il quale aggiunge che, cominciando (il Jerocades) al suo solito a satirizzare, perdè la confidenza dei religiosi".  In realtà la situazione appare più complessa, come risulta dalla lettera del P. Giacomo Migliaccio, successore del Pappaona, inviata al vescovo Gerardo Gregorio Mele il 3 agosto 1803, e conservata a Tropea nell'archivio Toraldo Di Francia:  Ecc. Rev.ma  con ven.ta carta del dì 21 del passato giugno V. E. Rev.ma partecipò al mio antecessore che il sig. Preside della Provincia, col parere del sig. Av.to F.te D. Luigi Calenda le avea scritto che il superiore di questa casa, quante volte i medici ne conoscano la necessità, potrà far uscire a camminare il sac. D. Antonio Jerocadi di Reale ordine qui detenuto, in compagnia degli individui di questa Comunità. E' il detto mio antecessore subito, con più di buon core che di considerazione, le risposte che avrebb'eseguiti gli ordini. Ora io mi dò l'onore di rappresentarle, che essendo nei principi del passato luglio venuto da quella di Catanzaro a governar questa Casa, ho trovato che non si era potuto eseguire quanto di buon cuore si era mostrato di voler eseguire; imperciocchè essendo qui una piccola Comunità, e vivendosi, come si vive tra noi, ritirati nelle proprie stanze, ci parliamo un poco dopo pranzo e dopo cena; e quando poi si esce un po' a camminare, ch'è un par di volte la settimana, allora ci comunichiamo insieme i nostri sentimenti o il nostro approfittamento nelle lettere, o nello spirito; e sarebbe anzi una noia uscire in compagnia di persona, con cui non si ha confidenza. Ma questo è poco. I Reali ordini rispetto al predetto sacerdote sono di non farlo uscire, nè trattare con nessuno; e di ciò il Sig. Ud.re Perrotta ne volle firmato un obbligo dal passato Superiore. Ormai il Sig. Preside dice: quante volte i medici conoscano la necessità di farlo uscire, il superiore potrà permetterlo, ma in compagnia degl'individui di casa. Resterebbe dunque a carico del superiore la verità della cognizione dei Medici, e la necessità del Jerocadi. Cotesta risponsabilità non si vuol'aver'affatto. Risponderà ogn'individuo della propria condotta; ma non potrà rispondere di quella degli altri. Il superiore passato non dovea pur firmare quell'obbligo; ch'egli non era fatto castellano nè carceriere. La M.S. si confidava della di lui religione; ed egli, ed ogni successore si facea un pregio di custodirlo, e di rappresentare subito ogni trasgressione, che mai ci fossa stata. Per le quali ragioni, e per altre, che non è necessario di esporre, non è eseguibile di farlo uscire in compagnia degl'individui di casa. All'incontro il Jerocadi fa delle premure presso di me, rappresentando i suoi mali, e 'l male dei mali, ch'è la sua vecchiaia, o amara decrepitezza. Ma io non vedo altra via da poter'esser'abilitato, se non che, se il Sig. Preside, per compassione dei mali di questo infelice, si assicuri egli della cognizione dei medici e delle necessità del Jerocadei, e così lo abiliti a uscire a camminare in compagnia di altro sacerdote secolare ben visto all'E.V.Rev:ma. E pien di rispetto le bacio le sacre mani, e chiedo la paterna benedizione.  Collegio di Tropea 3 Agosto 1803  U.mo e obblg.mo servitor vero e suddito  Giacomo Migliaccio del S.mo Red.re  Di V.E.Rev.ma  Mons. Mele Vescovo di Tropea  "In quel soggiorno - scrive ancora il Martuscelli - molto si indebolì la sua salute - pur nondimeno scrisse molte cantate, sonetti, molte orazioni sacre, novene di alcuni santi, tradusse il salterio. Finalmente logoro dai disagi e dalla improba applicazione allo studio munito dei santi sacramenti nei sensi della vera pietà rese l'anima a Dio... Da colà fu il suo corpo trasportato nella patria, e depositato nella sepoltura dei sacerdoti".  Muore il 19 Nov. 1803 e non il 18 nov. 1805 come scrive il Martuscelli e dopo di lui tutti gli studiosi di Jerocades.  L'atto di morte si conserva nel registro della parrocchia di S. Demetrio di Tropea ed è stato trascritto anche in quello della parrocchia di Parghelia.  Li riporto entrambi, oltre che per precisare e definire la data di morte, anche per farvi notare delle coincidenze e delle differenze:  Anno 1803 - Parghelia - Parrocchia di S. Andrea Apostolo  Atto di morte  Rev. Sacerdos D. Antonius Jerocades, annum sextum ac sexagesimum cum attigisset, sacramentis opportunis rite munitus, die decima nona dicti novembris obiit Tropeae, in domo Patrum SS.mi Redemptoris; cuius cadaver in hoc casale delatum in Eccl.ia Archipresbiterali S. Andreae Ap.li in sepultura sacerdotum tumulatum fuit.  A.  arch.  Taccone  TROPEA - Parrocchia di S. Demetrio - Anno 1803  Atto di morte  Sacerdos Antonius Jerocades casalis Pargheliae hujus Diocesis utriusque juris atque sac. Theologiae Doctor. Professor publicus in Universitate Neapolis, sexaginta quatuor fere annis natus, munitus sacramentis poenitentiae et Eucharistiae postea subita morte peremptus, animam exspiravit, eiusque cadaver in ecclesia archipresbiterali casalis Pargheliae tumulatum fuit.  Franciscus Antonius Grillo  Vito Capialbi, precisando che Jerocades fu sacerdote, che "dopo varie, che diresti romanzesche vicissitudini, involuto nelle tristissime vicende dal 1793 al 1799, e fino al 1802 andonne ramingo in Francia, ed in altri Regni d'Europa; e già era rientrato nella patria in seguito del trattato di Firenze del 1802. Finalmente, stando nella casa de' PP del SS. Redentore di Tropea, morissi ai 18 novembre 1805".  Per concludere che "più copiose notizie di questo vasto, e stravagante ingegno si riferiranno nelle nostre Centurie degli scrittori calabresi".  Di questo periodo della vita esausta dell'abate Jerocades sono state dette certamente delle esagerazioni (il tetro carcere - la cella - le punizioni - le torture... il veleno - cfr Didier), non suffragate da alcuna documentazione, ma solo ampiando voci e dicerie, ma tante altre cose sono state taciute.  Stupisce però che il vescovo Mele, nella visita ad limina del 1804, presenti una visione idilliaca del clero e della diocesi, mentre nella visita pastorale del 1808 e in altri documenti conservati nell'Archivio storico di Tropea tuoni contro la disobbedienza e l'ingovernabilità del clero e contro l'immoralità dilagante: nessuna nota abbiamo potuto rintracciare relativa al caso Jerocades, tranne tracce indirette nell'Archivio Meligrana di Parghelia e la lettera del P. Migliaccio al vescovo Mele...  Nell'archivio dei PP Redentoristi della casa provinciale spero possa essere trovato del materiale documentario che già lascia intravvedere il P. Giuseppe Orlandi, storico dell'ordine, il quale in Specimen Historicum CSSR-A.XLII.1994.FI "I Redentoristi napoletani tra ricoluzione e restaurazione" dedica pagine interessanti all'abate Jerocades.  Era comune che le autorità inviassero dei condannati al soggiorno abbligato a scontare la loro pena in qualcuna delle case della Congregazione. "Per quelle calabresi - scrive Orlandi - si trattava di un compito assegnatogli dal dispaccio regio del 22 marzo 1790:  'Qualora i vescovi diocesani o vicini per correzione volessero mandare dei preti o chierici a fare gli esercisi spirituali nelle loro case, dovranno sempre riceverli, con esigere anche per compensare del loro incommodo quell'oblazione che non venga eccedere il tarino al giorno, pel tempo della dimora che da quei preti o chierici si sia fatta presso di loro' "".  L'ordine reale veniva poi eseguito dai vescoli.  Pertanto i Redentoristi "si trovavano nell'impossibilità di sottrarsi a questo forzato esercizio dell'ospitalità, che tra l'altro non era sempre immune da rischi, come nel caso Jerocades."  Nella lettera del P. Migliaccio si afferma con forza: " Il superiore passato non dovea pure firmare quell'obbligo, ch'egli non era fatto castellano, o carceriero".  Il Padre Giuseppe Orlandi, storico dei Redentoristi, riporta un passo di Giuseppe Capasso (Un abate massone del secolo XVIII, Parma, 1884).  "Che in questa nuova relegazione il Jerocades abbia continuato a mostrarsi secondo i casi massone e rivoluzionario, si può facilmente ammettere, anche perchè è certo che non cessò mai dallo scrivere ed improvvisare al modo antico. Ma l'esilio, quantunque raddolcito dalle cure di chi l'assisteva, diè l'ultimo crollo al suo cervello, di già a bastanza indebolito".  Naturalmente, se a Jerocades era sgradito soggiornare a Tropea, ai Redentoristi lo era ancor più il doverlo ospitare:  "Durava da un anno quello stato di cose, quando il Ierocades ottenne di poter passeggiare fuori clausura, accompagnato da uno di quei frati. Ma, proprio il giorno in cui cominciava a fruire di tale concessione, intavolato col compagno una discussione di teologia, non essendo contento delle risposte dell'altro, passò dagli argomenti alle impertinenze, e poi "usando dell'estro poetico", sepellì il frate sotto una valanga di contumelie. Ricorse perfino al bastone, e buon per il frate che riuscì a scansarlo".  La lettera del padre Migliaccio sopra riportata conferma quanto scrive il Capasso.  Il padre Orlandi conclude che "invano i Redentoristi ricorsero ripetutamente alla corte per essere liberati dalla sgradita presenza di Jerocades che rimase a Tropea fino alla morte".  Il teologo Raffaele Paladini ci lascia una testimonianza di prima mano. Dopo un giudizio fortemente negativo: "Fiorì soprattutto a' suoi tempi [del vescovo Monforte] D. Antonio Jerocades di Parghelia noto nella repubblica letteraria per talenti e cognizioni; non sempre tuttavia seppe scriver bene soprattutto nella prosa; volle poi trovare per tutto i delirii massonici; e fu traditore degli stessi sedotti da lui; in breve il suo stile fu imperfetto, la sua scienza non retta, la sua morale non buona". Il teologo ci lascia questo racconto della morte di Jerocades: "Morì ai suoi tempi [del vescovo Mele] D. Antonio Jerocades.  Questi, ritornato dalla Francia dov'era stato in esilio dopo il 1799, fu denunziato da Giuseppe Costanzo, da Parghelia quale autore di autore di una orazione funebre di un suo fratello, dove parlava male del Cardinale Ruffa ricuperatore di questo regno; quindi fu chiuso dal Ministro Pirrotta tra i Padri del Santissimo Redentore di Tropea sotto il rettore Pappaona.  Ivi sulle prime viveva nella quiete, ma, cominciando al suo solito a satirizzare, perdé la confidenza de' religiosi.  Caduto infine in delirio malinconico, e dubitandosi di sua vita, il Vescovo delegò tre membri del Capitolo, cioè l'Arciprete e il Penitenziere Mazzitelli e il Teologo Paladini a ricevere la sua professione di fede.  Egli, invitato a ciò, diè segno di approvazione, come il diè in tutta la lettura di detta professione. Richiesto a sottoscrivere, prese la penna, e scrisse le due prime lettere del suo nome A ed n, ma poi invece di seguire a scrivere il t col resto, scrisse g. Allora il padre Migliaccio gli rimproverò forte ch'ei volea dirsi Angelus, con fargli altresì delle minacce per questa e per quella vita: per lo contrario il Teologo disse: o egli in questo momento è nel delirio, ed a chi parliamo noi? o è in retta ragione e sarebbe meglio prima indurlo al dovere con convincerlo, con pregarlo ecc. Intanto l'ammalato proseguì la sottoscrizione col rimaner sempre il g, ma col fare il r e tutt'altro, come gli dettarono i tre delegati. Munito poi de' sacramenti dal Parroco, morì e fu trasportato ad essere seppellito in Parghelia."  Questo racconto ci fa intravedere quali fossero le preoccupazioni del vescovo Mele (solo formali e... di salvare un'anima!) e quali fossero i sentimenti del Paladini, il cui zio Gaetano l'abate aveva fortemente fustigato e vilipeso nel Terremoto del Capo.  Sul versante laico il racconto di Charles Didier (1805-1864) in L'Italie pittoresque, Pigoreau, Paris, 1835, appare assai ricco di anticlericalismo e di spirito romantico: Jerocades, autore della Lira focense "fu crudelmente perseguitato. Relagato nella sua città natale nel 1815 (sic!), ebbe per prigione un convento in cui i monaci, razza fanatica, ritenendolo ateo e giocobino, si resero compiacenti esecutori delle vendette reazionarie dei Borboni di Napoli. Investiti da questo ministero poco cristiano, l'esercitarono con una barbarie meticolosa e veramente monacale. Non vi sono torture che essi non inflissero al carbonaro poeta: il povero prigioniero morì presto, e colui che gridava, in uno slancio di benedizione, "Vita, dono del ciel, sei bella, ti amo. Perchè ti so...", vide i suoi giorni spegnersi nella prigionia oscura, silenziosa d'un chiostro fanatico e persecutore. La salma del martire riposa a Tropea in attesa del Pantheon riparatore che riunirà in un solo altare tutti i martiri dispersi della libertà italiana.  La terra sia loro leggera fino al giorno prossimo delle riabilitazioni!"  La fonte del Didier era certamente legata allo spirito patriottico che aveva bisogno di creare i martiri. Questo spiega anche la data errata del 1815 e il riferimento alla salma che riposa a Tropea mentre sappiamo che Jerocades fu seppellito a Parghelia.  Nella prefazione alla Lira Focense pubblicata a Cosenza nel 1812, Francesco Migliaccio accentua il carattere persecutorio: "fu dalle calunnie, dalle persecuzioni e da mille disastri assalito ed oppresso. Credette farsi schermo e difese [...] negli occulti recessi della sua patria. Ma per la malvagità dei tempi... fu nella sua veneranda vecchiezza rinchiuso nella casa di Missionarj di Tropea. Quivi nella indigenza, schiacciato dalla ferrea mano che l'oprimeva chiuse i suoi giorni".  A parte i comprensibili toni romantici del Didier e di Francesco Migliaccio, l'abate Jerocades chiuse i suoi giorni nell'abbandono e nella solitudine, senza un'ombra di affetto o di pietà. Neppure la visita del Pepe a Tropea potè dare ristoro al vecchio poeta, che non trovava più motivi al suo canto.  La sua voce, un tempo bellissima e ammirata, adesso era solo il lamento di un uomo finito che vedeva stroncarsi senza rimedio il suo cocente anelito alla libertà. La morte improvvisa che lo colse dopo aver ricevuto i sacramenti della penitenza e dell'Eucarestia ha trovato un uomo distrutto e che nelle parole del salmo 50 da lui amato ha trovato l'ultimo motivo per affidare alla forza della parola l'anelito del cuore.  UN DIGNITOSO CONGEDO  Non fu una morte normale quella di Jerocades: nella sua inquietudine non bastò la famiglia dei liberi muratori, non soccorse l'avventura giacobina, diede sofferenza la chiesa alla quale apparteneva.  Nella post-fazione dedicatoria l'abate Jerocades ricorda che alcune poesie che formano la Lira focense sono sacre e ricavate dai libri cristiani e ne dà una spiegazione storica; ma a me sembra che egli voglia darci atto di non aver mai abbandonato la certezza cristiana come in questa Salve piena di affetto e di fiducia.  O Regina, il Ciel ti salvi.  Di Dio madre, e sposa, e figlia,  Volgi, ah volgi a noi le ciglia,  Bella madre di pietà.  Mostra vita, e nostro bene,  Nostra speme, e nostro amore,  Volgi a noi quel tuo bel core,  Ch'è la stessa carità.  Figli di Eva, abbandonati,  Dell'esiglio a' lunghi affanni,  Dal furor dei rei tiranni  Chi ci salvi, oh Dio! non c'è.  Senti il grido, ascolta il pianto  Di chi giace in ree catene,  Bella Madre, in tante pene  Ci volgiamo afflitti a te.  Dunque o nostra Protettrice,  Volgi a noi quel tuo bel ciglio;  Mostra a noi quel tuo bel figlio,  Quando ha fine il lungo error.  Tu sei madre assai pietosa,  Bella Vergine Maria;  Tu sei dolce, e tu sei pia,  Tutta pace, e tutta amor.     E mi appare persino commovente la Novena alla Madonna di Portosalvo, che l'abate Jerocades dedica a Raffaele suo nipote, figlio del fratello Vincenzo:  "Nel Castello dell'Ovo, villa un dì di Lucullo, ove fui tre anni prigioniero di stato dopo tre anni di esilio e in altri prigioni e in altri esili, dopo Dio non ho altro obbiettivo delle nie cure e delle mie preci che la Madre di Dio.  Serbando fede alla patria, l'ho sempre invocata col nome di Madonna di Porto Salvo, e questo conveniva ancora al mio stato perchè nelle tempeste si cerca un porto e nelle battaglie si cerca un asilo, impaziente di altra dimora:  "Ch'io son vivo al desir, morto alla spema".  Gravato d'anni e d'affanni, ho scritto questa Novena che a voi, caro nipote, offro e consacro qual dono e qual debito.  Io ve la consacro qual dono poichè è frutto dei miei studi e dei miei talenti. Sono povero di fortuna e quel che mi ha dato la natura, spetta anche a voi quando non disdegnaste di dirvi mio nipote".  A me quest'ultima frase appare commovente per la carica emotiva che sottende. Ma c'è dell'altro che Antonio Jerocades dice ancora come credente e come sacerdote:  "Chi sono i testimoni della fede? I vecchi. Io, che vecchio pur sono, così presbitero, qual attestato maggiore di questo donarvi della religione e fede di Cristo?  A te, Raffaele, e all'eredità del padre e dell'avo aggiungerete la mia.  A te, e nella Chiesa di Porto Salvo fra i suoi monumenti della pietà dell'avo e del padre appenderete ancora s'è degna questa Novena, in cui leggerete le grazie e le glorie di Maria, da noi venerata sotto il nome di Madonna di Porto Salvo".  Il senso di verecondia che traspare da queste parole non ci rivela forse il dramma di un uomo, di un credente, di un sacerdote che, guardando indietro alla sua vita tormentata fa un bilancio coraggioso e definitivo?  "Dopo Dio non ho altro obietto delle mie cure e delle mie preci che la Madre di Dio" 

Antonio Jerocades. Jerocades. Keywords: filosofia della massoneria, Esopo in Italia, lira focense, giaccobinismo,  ‘repubblica romana” “repubblica partenopea”le odi di pindaro – Grice on Plato’s Republic. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51754276139/in/dateposted-public/

 

Grice e Jervolino – ermeneutica del dialogo – filosofia italiana – Luigi Speranza (Sorrento). Filosofo.  Grice: “I like Jervolino, but then I like any philosopher of language! He is a Ricoeurian, and I’m a Griceian!”essential Italian philosopher. Allievo di Piovani. Insegna a Napoli. Collabora con diverse riviste specialistiche di filosofia (Filosofia e Teologia, Studium). Esamina aspetti riguardanti a Ricoeur, tra cui:  la ricerca di un filo conduttore unitario all'interno della sterminata ermeneutica (“Il cogito e l'ermeneutica: La questione del soggetto e la inte-azione” (Procaccini, Napoli). Messa in questione del soggetto chomskyano auto-centrato e auto-trasparente.  Ricoeur appare nei suoi studi come caratterizzato dall'attenzione verso le peripezie del Cogito che, ferito e spezzato nella sua autosufficienza, cerca di ritrovare sé stesso attraverso un lavoro ermeneutico. Individua come centrale il paradigma della trans-ductio, trans-implicatura, trans-patia, come modello fondato sulla co-ospitalità conversazionale e la co-apertura all'altro conversazionale. Altre saggi:“Il cogitamus e l'ermeneutica. La questione del soggetto e sui interazione” (Procaccini, Napoli); “La filosofia senza assoluto” (Athena, Napoli) – cfr. H. P. Grice, “Absolutes” --;  “Logica del concreto, logica dell’astratto” -- “Ermeneutica della vita morale.” Newman, Blondel, Piovani, Morano, Napoli); “L'amore” (Studium, Roma); “Il segno della prassi. Saggi di ermeneutica, Città del sole, Napoli);“Trans-ductio, trans-implicatura” (Morcelliana, Brescia); “Ermeneutica ed implicatura” (Guerini, Milano); La traduzione, la traditio -- etica, Morcelliana, Brescia, “Etica e morale, Morcelliana, Brescia, Ricoeur e la psico-analisi (Angeli, Milano);  Quei ragazzi di nome Fausto Bertinotti Boys – Archivio Panorama. Grice: Jervolino is playing with Calvino. You see, Calvino, a rather unimaginative writer, wrote a collection of things he titled, in the whole thing and in the first part, “Glia mori difficili” – People would have forgotten about it had it not been for Nino Manfredi who brilliantly played the ‘soldato’ (to Bulco’s vedova) in ‘L’amore difficile’, sic in the singular but indeed, ‘L’avventura del soldato’ – in that collective film. Jervolino is having in mind this, and now poses Ricoeur as the widow and himself as the soldier. On top, he invites Ricoeur to write the prologue which he stupidly agrees to! Caputo has analysed the reciprocity of love and the stupidity of seeing it as ‘difficile’. The blame is Calvino – the original sin – who could have checked with the etymology of ‘difficilis’!”   Domenico Jervolino. Jervolino. Keywords: ermeneutica del dialogo. Refs.: Luigi Speranza, “Girce e Jervolino” -- “Two cartesian egos”. “Peripezie conversazionale”. “Peripezia ed implicatura”. “Cogitamus.” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51753615386/in/dateposted-public/

 

Grice e Jommelli – musicista filosofo – filosofia italiana – muovere l’aria – l’azione melodrammatica -- Luigi Speranza (Aversa). Filosofo. Essential Italian philosopher. Mattei riporta il seguente aneddoto sul suo soggiorno in questa città. Andato in visita a Martini (già considerato come uno dei più sapienti musicisti d'Italia), si era presentato a lui come allievo, chiedendo di entrare nella sua scuola. Il maestro gli diede un soggetto di fuga che egli trattò con molta abilità. -«Chi siete voi?», chiese Martini, «volete burlarvi di me? Sono io che voglio apprendere da voi!» - «Il mio nome è Jommelli, sono io il maestro che deve scrivere l'opera per il teatro di questa città» - «È un grande onore per questo teatro avere un musicista filosofo come voi, ma vi auguro di non trovarvi in mezzo a gentaglia corruttrice del gusto musicale». Grice: “I like Jommelli. Like Speranza, I play the piano. My avant-garde compositions are thought to be too avant-garde, too. I especially recall with affection how I would trio with my father on the violin and my younger brother Dereck on the cello. Dereck became a professional cellist with Hampshire. My obituary might well read, “Professional philosopher and amateur cricketer” – well, Dereck is a professional cellist. With Jommelli we never know where the amour is!” La teoria degli affetti (in tedesco Affektenlehre) può considerarsi la prima forma retorica (in tedesco Figurenlehre) adottata nella storia della musica, infatti puntava a muovere gli affetti dell'uditorio; già i greci avevano la concezione che la musica potesse suscitare emozioni: è proprio da questo concetto che i teorici e i musicisti dell'epoca attingono per applicarlo alla loro musica (si parla nelle prime cronache rinascimentali di interi pubblici commossi dalla musica). Le autorità civili ed ecclesiastiche, consapevoli del forte potere della musica sulla psiche, la utilizzarono come veicolo dei propri messaggi propagandistici. Durante il '400 Marsilio Ficinoapprezzava di più le forme semplici e comunicative rispetto alla polifonia poiché la prima era maggiormente capace di muovere gli affetti, suscitare o placare le passioni umane rispetto alla seconda, che era vista come artificiosa e innaturale. Dello stesso parere era Vincenzo Galilei, che preferiva la musica greca per le sue capacità affettive.  Tra il '500 ed il '600 la teoria musicale identificava ogni affetto con un diverso stato dell'animo (es. gioia, dolore, angoscia) identificati da specifiche figure musicali definite figurae o licentiae (licenze). La loro particolarità era contraddistinta da anomalie nel contrappunto, negli intervalli e nell'andamento armonico, appositamente inserite per suscitare una particolare suggestione. Athanasius Kircher – gesuita matematico, musicologo ed occultista tedesco – nel suo Musurgia universalis (1650) afferma:  «La retorica [...] ora allieta l'animo, ora lo rattrista, poi lo incita all'ira, poi alla commiserazione, all'indignazione, alla vendetta, alle passioni violente e ad altri effetti; e ottenuto il turbamento emotivo, porta infine l'uditore destinato ad essere persuaso a ciò cui tende l'oratore. Allo stesso modo la musica, combinando variamente i periodi e i suoni, commuove l'animo con vario esito.»  (Athanasius Kircher, Musurgia universalis, Cap II, 1650) Questo trattato, conosciuto durante tutto il secolo XVIII, fu stampato anche a Roma nel 1650 e tradotto dal tedesco nel 1662. Tra le classificazioni e distinzioni degli affetti umani compilate nel Seicento, è da menzionare quella di Cartesio che, nel trattato Les passions de l'âme del 1649, ne distingueva sei ritenuti principali, quali meraviglia, amore, odio, desiderio, gioia e tristezza.  Invece Giovanni Maria Artusi ne L'Artusi, ovvero Delle imperfettioni della moderna musica (Venezia, 1600), attacca questa nuova forma musicale che utilizzava intervalli "così assoluti et scoperti", poiché trasgredivano le regole contrappuntistiche (per esempio le dissonanze non sempre sono precedute da una consonanza per risolvere su di un'altra). Monteverdi difenderà quella che lui definisce seconda pratica nell'Avvertimento del Libro quinto: queste licenze hanno uno scopo preciso, e devono essere viste in un nuovo modo di comporre, diverso dalla concezione musicale di Gioseffo Zarlino. Già dal Libro Terzo di madrigali infatti Monteverdi con le dissonanze intensifica e rende maggiormente pungenti le immagini proposte dal testo.  Il Vologeso was written in 1766, using a wordy libretto by Mattia Verazi, itself an extensive reworking of Apostolo Zeno's Lucio Vero (1700). The plot deals with the constancy of love in the face of great obstacles, in this case the love of Vologeso, king of the Parthians, and his wife Berenice. The Roman general Lucio Vero has defeated and captured Vologeso, fallen in love with Berenice, and spends most of Acts I and II seducing and bullying her into abandoning her husband. When Lucilla, daughter of the Roman emperor and Lucio's fiancee, turns up, she and the Roman emissary Flavio are disgusted by his behavior; Flavio, assisted by Vologeso, leads a revolt that results in Lucio's capitulation and the restoration of their freedom and their kingdom to Vologeso and Berenice. The plot allows ample opportunity for dramatic movement and spectacle, e.g., in Lucio's importunities and their rejection by Berenice, Vologeso's confrontation with lions in an arena, and the revolt that ends the opera.  The music is conventional in its use of recitative followed by arias, but forward-looking in that many of the recitatives in Acts II and II are accompanied by the orchestra rather than the traditional basso continuo - the arias are often in abbreviated da capo form so that they do not slow up the action, and the chorus and orchestra play a more considerable part in the proceedings than is usual in Baroque operas. Jommelli had no great gift for melody and the opera offers few memorable tunes, but he had a talent for brilliant vocal display and dramatic orchestral effects. The total effect is imaginative, lively, and attractive.  The casting is odd; with only one male voice and five sopranos it's hard to tell the characters apart. Odinius, Rossmanith, and Schneiderman all have good voices and are comfortable with Baroque style and ornamentation and expressive in their characterizations. Waschinski and Taylor are as good as most falsettists, though as usual their uneven voice production and unfocused tones set my teeth on edge, and Waschinski sounds much too feminine to make plausible the heroic figure of Vologeso. (I really do not understand why conductors and producers nowadays insist on using these voices in Baroque opera, a practice that has neither historical nor aesthetic justification.). The Stuttgart Chamber Orchestra is alert and responsive, Frieder Bernius keeps everything moving along briskly, and the sound is excellent. Il Vologeso doesn't stand up too well compared to the Italian operas of Handel or Gluck, but taken on its own terms and as presented here, it is thoroughly enjoyable  While Mozart may have claimed Jommelli’s musical style to be passé by the 1770s, Vologeso itself is a reworking of an already antiquated libretto by Apostolo Zeno, originally called Lucio Vero and first set by Carlo Pollarolo for Venice in 1700. Moreover, the version set by Jommelli and performed here by Classical opera is in fact a modification of a modified libretto. The new librettist Mattia Verazi had revised the by then popular version produced by Guido Lucarelli for Rinaldo di Capua’s setting of 1739 rather than Zeno’s original. The story is a familiar one, mingling political intrigue with love both unrequited and true. In the eastern provinces of the Roman Empire, Lucio Vero (Stuart Jackson) is victorious in battle and captures Berenice (Gemma Summerfield), wife of the Parthian king Vologeso (Rachel Kelly). Captivated by her beauty, Lucio Vero makes every effort to win her with the assistance of his minister Aniceto (Tom Verney). Meanwhile, Vologeso attempts to assassinate Lucio Vero but is recognised by Berenice, causing him too to be taken prisoner. Further complicating matters, Lucio Vero’s betrothed, Lucilla (Angela Simkin), has arrived in Ephesus with Flavio (Jennifer France), an ambassador from Lucio Vero’s co-emperor, Marcus Aurelius. After many separations of the faithful Vologeso and Berenice, increasingly cruel plots on Lucio Vero’s part to attain the latter, and the threat of civil war from Marcus Aurelius, all is resolved and the various couples are reunited without any blood being shed.  Although Zeno’s libretto is not remotely like those produced by later poets and composers interested in reforming operatic conventions, the play’s enduring appeal might well be attributed to its strong sense of spectacle, which coincided neatly with the objectives for reform. Indeed, the play contains on-stage depictions of Lucio Vero’s attempted assassination, Vologeso’s fight with a lion in the arena, and at least one ‘mad scene’ for Berenice in addition to traditional opera seria ingredients of triumphal marches, grand armies, and the obligatory chorus announcing a lieto fine. Sometimes I felt that this element of spectacle was lost in the context of a concert performance. Though that is of course an unavoidable casualty of this mode of presentation, it was further compounded by Jommelli’s own reluctance to capitalise on these aspects of the play as did other contemporaries. Furthermore, artistic director Ian Page writes in the introduction to the programme that besides the expected editing of the recitative, he chose to cut not only a number of pieces in their entirety, but also some arias’ middle-sections and their reprises in the interests of ‘maximising our potential to appreciate and enjoy the opera’. Of these, one was the opening chorus, which might have helped to restore some of this sense of grandeur, if indeed Page’s goal was to get a feeling of ‘[experiencing] what a typical eighteenth-century opera was like’.  Jommelli’s musical style in this opera has clearly moved on from the grand and expansive show pieces we find in his earlier operas, such as Didone abbandonata of 1747 (performed in London in 2014 and also reviewed here). With the exception of one or two numbers which might be said to respond to a more traditional heroic opera seria style, such Crede sol che a nuovi ardori, Flavio’s only aria, the focus in Vologeso is instead on creating a more declamatory mode and ‘realistic’ rendering of the dramatic and emotional content of the text. As such, the use of coloratura is generally much reduced and arias very often feel more like ariosos, often to the point that it feels like accompanied recitative intrudes upon melodic lines. The music is nevertheless still imbued with grace and lyricism, and is marked by sometimes fussy, yet fine, delicate and lace-like accompaniments. And there are some really good and interesting numbers too: the quartet Quel silenzio, Lucio Vero’s Se tra ceppi, Lucilla’s first aria Tutti di speme al core, the already mentioned Crede sol, as well as some very effective and attractive accompagnatos.  In spite of the title, this version (or at least as it has been presented to us with the cuts) nevertheless still focuses greatly on the character of Lucio Vero and his relationship with Berenice. Stuart Jackson’s performance came across as something of a slow burning affair, only really coming fully into the character after interval and reaching the apogee of dramatic intensity in his final aria. And yet it felt largely like Lucio Vero was being interpreted as being the youthful hero, the primo uomo role usually reserved for a castrato. This may well be due to Verazi’s redaction of the opera, which seems to me to result in a somewhat schizophrenic character, vacillating between tyrannical, or rather psychopathic, conqueror and lovelorn hero. This is effectively underlined by the kind of music with which Jommelli furnishes the character: languid arias with long, plangent melodic lines, such as his opening Luci belle and the cavatina Che farò? in Act 2, and a handful of arias which verge on aria di furia territory. To my mind, Lucio Vero’s actions are not driven by real love for Berenice but rather an overwhelming desire for power: not only in and of itself, but also power over others. To this end, his rejection of Lucilla is not merely an amorous choice, but a rejection of the power of Rome and the authority of his co-emperor Marcus Aurelius altogether. So too the psychological manipulation of Berenice in an attempt to bend her to his will. Thus, Stuart Jackson’s characterisation of Lucio Vero as the amorous lead did not always sit quite well for me, in spite of a good voice and elegant execution.  The performance otherwise had much working in its favour. I very much enjoyed Gemma Sutherfield’s portrayal of Berenice, and there was some excellently judged acting from Rachel Kelly. I have already mentioned Jennifer France, whose delightful aria was executed with all the charm and grace that the butterfly described in her text required. One did feel slightly for Tom Verney, his solid performance in his lone aria aside: his role of Aniceto was decidedly minor in this version of Zeno’s play, with the character’s love for Lucilla never really explored (again a shortcoming of the libretto). And, of course, the orchestra itself was as sharp and on-point as we have come to expect from Classical Opera.  My overall impression from the programme notes, however, is that Vologeso in and of itself was perhaps somewhat unconvincing to the artistic team in the first instance. Indeed, Page writes further in his introduction that ‘Jommelli does not belong among the truly great composers, to be sure…’. While undoubtedly there are countless flops littering the battlefields of eighteenth-century opera, and works that are best left to languish in obscurity, credit must be given where credit is due. And Jommelli’s legacy is by far too monumental to ignore. The assertion that ‘…much of the music of contemporaneous composers… sounds quite like Mozart for much of the time’ should rather be inverted: it is Mozart, his uniqueness notwithstanding, who is effectively a product of his time!  A final note: a future Classical Opera concert this year is to feature some arias from Semiramide by Josef Mysliveček, another figure well known to the Mozart family and whose work has occasionally been misattributed to the young Wolfgang in the past. A full opera of his at some point, further showing how Mozart was fully integrated into the existing musical landscape, would be most welcome indeed! Jommelli. Keywords: musicista filosofo, Grice. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Jommelli” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51754140329/in/dateposted-public/

 

Grice e Julia – filosofia italiana – Luigi Speranza (Acri). Filosofo. Grice: “Julia was more of a poet than a philosopher; but then for Heidegger, philosophy IS poetry and vice versa!” -- essential Italian philosopher. Figlio di Antonio e da Maria Giuseppa Balsàno. Studia a Cosenza sotto Focaracci. Direttore del Telesio, periodico. Strinse grande amicizia Padula. La temperie culturale in ambito locale vede la difficoltà della Calabria a integrarsi nella nuova entità politica. Area essenzialmente contadina, la regione ha una classe dirigente che preferisce assoggettarla al clientelismo e alla sua arretratezza piuttosto che metterla al passo con zone del Paese più avanzate e progredite; perciò il mondo intellettuale d'avanguardia, deluso dalle speranze del 1848 e conscio del sottosviluppo, si volge verso il positivismo e il socialismo. Vive tra il tardo romanticismo e l'affermarsi delle innovative correnti costituite dal naturalismo e dal verismo, nella scia di Carducci e Verga. Le contraddizioni della sua epoca lo formano come un intellettuale spiritualista che rifiutail materialismo e in parte il mondo contemporaneo, e d'altra parte un sostenitore degli ideali socialisti, del riscatto delle masse disagiate e della glorificazione del passato della Calabria a partire dall'assedio degli Aragonesi e dei suoi conterranei coevi illustri, fra i quali Miraglia, VPadula, Quattromani, Tocco, oltre a Campanella. Accostatosi in un primo tempo al misticismo di Gioberti, si converte al verismo, alla ricerca del pragmatismo e di un modello di poesia di alto civismo che lo stesso Julia proclama nei suoi Sonetti e liriche. Parte dai miti popolari e dalle ballate della tradizione romantica per marcare orgogliosamente la storia della sua terra. Considerato il padre della letteratura calabrese, si interessa alle origini della cultura letteraria della regione analizzando anche alcune opere a lui precedenti. Il suo impegno regionalistico si concretizza in uno studio su Selvaggi, nel quale si individua un collegamento fra Galeazzo di Tarsia e le produzioni romantiche. Vi fu poi un saggio su Padula e un esame delle liriche riferibili all'Accademia Cosentina. Sa però spaziare oltre i confini delle sue terre, fino a richiamare Milton nel suo scritto dedicato a Padula. Oltre a uno studio su Monti, produce dei lavori anche su Mazzini, Poerio, Correnti, legati dall'attenzione alle tematiche relative al Risorgimento e perciò in convergenza con il proprio pensiero, che dal punto di vista della poetica si richiama ai modelli che il letterato individua in Leopardi, Berchet e Giusti, oltre che in Prati. A. Piromalli, La letteratura calabrese” (Pellegrini, Cosenza); Monografia su calabriaonline, su calabriaonline.com. Digital Storytelling su Vincenzo Julia a cura degli studenti del Liceo V. Julia di Acri, CS. Ovvero delle Famiglie Nobili e titolate del Napolitano, ascritte ai Sedili di Napoli, al Libro d'Oro Napolitano, appartenenti alle Piazze delle città del Napolitano dichiarate chiuse, all'Elenco Regionale Napolitano o che abbiano avuto un ruolo nelle vicende del Sud Italia.      Famiglia Julia A cura del Dott. Francesco Paolo Dodaro  Socio Corrispondente dell’Accademia Cosentina  Arma: d’azzurro alla fascia d’oro accompagnata nel capo da un destrocherio di carnagione tenente un uccello di nero e in punta da un albero radicato al naturale(1). Titolo: Nobile di Acri. Arma Famiglia  La famiglia Julia, in origine nota come de Giulia (2), figura fra le antiche e nobili casate di Acri (3) (Cosenza), città dove risulta presente sin dal XVI secolo. I Julia godettero sempre nella locale società di un buon livello di prestigio sociale come testimoniato dalle alleanze matrimoniali contratte con diverse famiglie patrizie fra le quali ricordiamo le seguenti: Benincasa, Candia, Capalbo, de Simone, Dodaro, Falcone, Fusari. Simbolo della condizione privilegiata della famiglia è il grande palazzo sito tra il rione Casalicchio ed il quartiere Piazza. Tale edificio, al cui interno si conserva la ricca biblioteca di famiglia, è abbellito da un portale lapideo sul quale spicca un mascherone sormontato da un’antica riproduzione in pietra dello stemma del casato. Il suddetto blasone è timbrato dalla classica corona a cinque punte che identifica i Julia come nobili. Acri, Palazzo Julia, portale  Nel 1506, con atto del notaio Gaudinieri, il sacerdote Nicola Maria Julia fonda una cappella privata sotto il titolo dell’Immacolata Concezione all’interno della chiesa di San Nicola di Bari in Acri (4) (situata nel rione Casalicchio). Nel 1706, Fabrizio Julia vende a Giuseppe Leopoldo Sanseverino un terreno dove e edificato l’imponente complesso del palazzo acrese dei principi di Bisignano, permutandolo con la casa e il fondo Macchia(5). Dal matrimonio fra il dott. Raffaele e la N.D. Giuseppina Capalbo nacquero Salvatore ed Antonio dei quali il primo (deceduto nel 1851) fu rinomato avvocato mentre Antonio viene ricordato come “Medico illustre” che “in età provetta, in pochi mesi, studiò leggi presso il Focaracci e ne apprese quanto ne anno i più maturi; onde s’incentrarono in lui il medico e l’avvocato” (6). Fra i personaggi celebri di questa famiglia ricordiamo il citato Raffaele, Governatore di S. Giorgio e Vaccarizzo. La figura cui si lega maggiormente la fama del casato è quella di Vincenzo Julia, filosofo, letterato e poeta. Allo stesso è intitolato il Liceo Classico e Scientifico di Acri. Nacque da Antonio e Maria Giuseppa Balsano (7), svolse gli studi presso l’istituto Molinari di Acri ed il seminario di S. Marco Argentano (8). Frequenta il seminario di Bisignano dove ebbe come insegnante il Canonico acrese Francesco Saverio Benvenuto, quest’ultimo colto latinista nonché teologo, filosofo e parroco maggiore di Santa Maria in Acri (9). Intraprese gli studi giuridici e per alcuni anni esercita la professione di avvocato poi accantonata a favore dell’insegnamento di materie letterarie, filosofiche e giuridiche (10).  Quanto alla sua produzione filosofica questa fu “quella del poligrafo (letteratura, filosofia, storia, cultura calabrese)” inoltre “Nei suoi studi predilesse la valorizzazione e la riscoperta di figure regionali poiché gli pareva che la Calabria fosse dimenticata e poco apprezzata dopo la raggiunta Unità”(11). Fra le sue opere ricordiamo: Saggio sulla vita e le opere di G.V. Gravina, Saggio di studi critici su Vincenzo Selvaggi e la Calabra poesia, Terenzio Mamiani e i suoi dialoghi di scienza prima, Francesco Fiorentino filosofo, Lettere al figlio Antonio su Cesare, De Sanctis in Calabria, Vincenzo Monti. Nel 1864 sposò Gabriella Fusari(12) e da tale matrimonio nacquero: Antonio, Francesco, Mariannina e Giulietta(13). Si spense il 4 maggio del 1894 in Acri. “Telesio,” rivista codiretta da Vincenzo Julia    Antonio Julia, figlio di Vincenzo, fu avvocato e raffinato poeta   sposa, in prime nozze (14), Mariantonia Dodaro, figlia dell’avv. Giovanbattista e di Cristina Benvenuto. Il loro fu un matrimonio felice e allietato dalla nascita di Maria Gabriella(15), Vincenzo (1896† 1924) e Antonietta(16) (1897 † 1978).  Antonio Julia e sua moglie Mariantonia Dodaro  Antonio Julia fu legato da sincero amore a sua moglie e quando questa prematuramente scomparve, riversò il suo dolore in alcuni toccanti componimenti poetici che rappresentano una struggente testimonianza del suo dramma interiore e assieme della sua spiccata sensibilità d’animo.  AL CROCIFISSO DEL SUO LETTO Non più le sue lucenti Pupille a te si volgeran la sera; non più per le dolenti mie stanze echeggerà la sua preghiera…  O tu, che pendi ancora, mistico Iddio, sul vedovo mio letto, volgi le luci ognora sovra i miei figli e sul paterno tetto!  Dimmi che ancor le rose Olezzano per te, vigile Iddio, le parole amorose che a te rivolse, ne l’estremo addio…  Dimmi che ancor tu senti La voce sua, ne l’ombre de la sera, e che, in soavi accenti, mormora pe’ suoi figli una preghiera!..(17) Note: (1) - Gli smalti dello stemma Julia sono noti grazie ad una raffigurazione del blasone in oggetto riportata dallo storico acrese Raffaele Capalbo (1843-1921) in un suo lavoro inedito sull’araldica delle famiglie nobili di Acri. Nella riproduzione del blasone dei Julia, visibile ancora oggi sul portale del loro palazzo in Acri, il destrocherio appare vestito. (2) - Per approfondimenti si rimanda a M. G. CHIODO, L’Archivio Privato della famiglia Iulia di Acri - Inventario sommario, in “Archivio Storico per le Province Napoletane” (3) - Per un elenco completo delle famiglie patrizie di Acri si veda R. CAPALBO, Memorie storiche di Acri, S. Giovanni in Persiceto (BO), Edizioni Brenner, (4) - R. CAPALBO, op. cit., p. 88. (5) - Ibidem (6) - Ibidem (7) - Quest’ultima, appartenente a una famiglia originaria di Rogiano Gravina, era sorella di Ferdinando Balsan,  letterato e deputato del regno d’Italia nonché preside del liceo Telesio di Cosenza. Lo stesso figura tra i maestri del nipote Vincenzo Julia.  A. PIROMALLI, La Letteratura Calabrese, vol. I, Cosenza, Pellegrini Editore, (8) Ibidem (9) - Ibidem  (10) - Ibidem (11) - Ibidem (12) - Per approfondimenti su alcune vicende storiche che interessarono la famiglia Fusari si rimanda a R. CAPALBO, op.cit.,  (13) - https://juliavincenzo.atavist.com  (14) - Alcuni anni dopo il decesso della prima moglie, si unirà in matrimonio con Maria Beatrice Antonietta Romano di Acri. (15) - Poi sposatasi con Carlo Giannice (1887 † 1966). (16) - Andata successivamente in sposa a Giuseppe dell’Armi (1877 † 1962). (17) - A. Iulia, Momenti, S. Maria Capua a Vetere, Casa ed. Della Gioventù, p. 36. Si veda anche il componimento intitolato “Alla Vergine della Sua Stanza”, Ivi p.37.  VINCENZO JULIA Questoegregio giovane,sucuifondiamo, abuondritto,non pic cola speranza, per le diverse prove del suo nobile ingegno fin'ora dateci, coltiva con forte, inteso amore le filosofiche discipline,tutto solo rannicchiato in piccol paesuccio delle Calabrie, Acri. Egli, da quello n'è sembrato, predilige la filosofia di quel sommo Torinese filosofo, che col suo Primato Civile e Mormale D'Italia fanatizzò tutti isuoi connazionali per la dupla autonomia del loroPaese,Libertà ed Indipendenza;econl'Introduzioneallostudio dellaFilosofia, la Pro tologicaed altre opere speculative ispirò nei cultori di questa no bilissima scienza l'amore delle nazionali dottrine. Vincenzo Julia a dunque è un giobertiano , un ontologo , e per lui quindi sta che l'Ente, il Primo Essere, Colui che dà l'essere a tutte cose, non però spezzandosi, non diffondendosi, nè emanandole dal suo seno, c o m e ilragnoilragnatelo;ma liberamente creandole;per luidico sta, che l'Ente, l'Assolutoreale, non astratto,quale il pose,il procla mò Giorgio Hegel, è il Primo Filosofico, cioè a dire è non solo il Primo Essere o Primo Ontologico ; ma anche la Prima Idea o Pria mo Psicologico. Sicchè non solo anno le cose tutte da Dio l'essere loro, ma anche la loro intelligibilità. Verità già insegnatadal fon datore dell'Accademia , il divino Platone , il quale disse che l'Idea di Dio è pelmondo intelligibile quello che il sole è pel mondo visibi le,e che l'essere assoluto dà alle menti nostre l'esistenza e spande su loro e sugli obbietti della scienza illume della verità« detí v 8.& Tlothuns oùoxv xai adnocías» come il sole, che non solamente rende vi sibili le cose , m a dona loro eziandio il nascimento , l'accrescimento e la maturita « τον ήλιον τοϊς ορωμένοις ου μόνον , οίμαι τήν του οράσθαι δυναμιν παρέχειν φήσεις , αλλά και την γένεσιν αυτών όντα ». Quindi pel'Julia sta quel metodo detto deduttivo,osillogistico, che dai principii va alle conseguenze,ma noncome pretendeva ilfondatoredelPeripato,ilqua le facea il sillogismo posteriore all'induzione, ed il cui scopo non c o n sisteva in altro che in applicare i principii alle cose particolari a meglio rifermarle. Il Julia ha capito bene , che l'induzione non può darci punto tanto iprincipii proprii a ciascuna scienza, quanto iprincipii co muni ed assolutamente universali.I principii sono ontologici edori ginalmente presenti alla intelligenza, secondo diceva ildivino Pla tone,e nongià puramente logicied astratti,secondo diceva Aristo tile, che livoleva prodotti la merce dell'intelligenza con gli elementi fornitici della sensazione. Nè debbe dirsi che il Julia neghi l'indu zione : ei l'ammette, e nel senso di venir essa provocata, sostenuta e guidata in noi dal lume di certe idee generali sempre presenti al l'anima nostra,essendoun impossibile elevarsi da qualche fatto in dividuale e variabile all'idea della legge generale e permanente, sen za averci di già nella mente, almeno in una maniera vaga e con    fusa, l'idea di ordine, di generalità e di stabilità. Laonde dice La foret nella sua Storia dellaFilosofia Antica,in parlando di Aristo tile « Comment s'élever de la perception de faet contingents et relatif à l'idée de principes nécessaires et absolus, si le necessaire et l'abso lu sont entieremant étrangers à l'intelligence? ». Dunque pel Julia , come per ogni giobertiano, si deve partire di Dio per costruire la scienza filosofica « ossia dalla idea somma ed improdotta , perché è quel principio supremo che illumina e rende conoscibili gli altri principiimeno generali e senza di cui non potrebbe aversi quella sintesiobbiettiva,cheargomentadinecessitànelsuomoto organico la gerarchia dei principii scientifici ; e deve radicarsi in un prin cipio assoluto,supremo,universale,immutabile, ilquale, reggendo colla sua virtù ogni singolar passo del procedimento razionale, ac corda ed unifica tutti imomenti del discorso ideale, e tutta insieme 1.umana enciclopedia. Laonde diceva saviamente nel suo dotto di scorso intorno alPanteismo il Prof. Enciro Attanasio, direttore del Periodico La Carità diNapoli« Sintesi senza gerarchia di priucipii io non intendo nell'ordine dell'idee, come non vedo nell'ordine u mano sociale e nell'ordine fisico di natura. E ingradamento di ge rarchie che ponga in atto una sintesi universale torna impossibile a concepire pur col pensiero senza un principio supremo, essenzial mente uno ed immutabile, che sia il centro immoto che governi i moti del multiplo e del diverso e tragga a sè ed accordi il multi ploedildiverso».Laonde,lasciandochel'induzionenon condu ca ai principii , a ciò che è universale , sia che dessa fosse posi tivistao come la intende ilPositivismo moderno, siache fosse anche nel senso di Aristotile, ci facciamo a lodare il Julia per avere ei scelto quel sistema, che parte dall'idea dell'Assoluto reale per co struirela scienza,non sipotendo,pertanteetanteragionidettee ridette,porsi per primo conoscibileciò che non è prima cosa; per chè sarebbe, seguendo questa via, un turbare l'armonia della scien za filosofica; giusta che vien fatto dai psicologi, i quali partono dal contingente, ed oșano spiegare l'assioma degli assiomi, la verità pri ma con la verità seconda, e separare l'ordine di esistenza da quel lodiconoscenza, ilprimopsicologicodalprimoontologico,dando que stoperprimofilosofico.Diquinonpotremmo essererimproveratiche atorto,sedicessimo,che iseguacidelpsicologismo diAristotile,(non però di quelle di S. Tommaso ch'è ben altro, siccome dimostrammo in un'articolo riguardante questo S. Dottore, già publicato nell'Ate neo di Torino ) siam lontani da una vera scienza; perché, come dicem mo di sopra, la scienza è con la sintesi, e la sintesi co'principii,e la gerarchia dei principii scienziali nel principio sommo, Dio, radica ta.Siechèscienzasull'analesiè scienzaeffimera,èscienzadinome, essendo disgregazione, e tale è la filosofia di Aristotile,siccome è conto da quei due principii ammessi da lui « Nihilest in intellectu,quod prius non fuerit in sensu » e che l'anima nostra si rassomiglia ed una tavolarasa« Δείδ'ούτωςώσπερενγραμματειωώμηθένυπάρχειεντελεχεία γεγραμένον.  82 È quantunque fosse vero,che Aristotile ammettesse l'intelletto at tivo profondamente distinto dalla sensibilità, essendo quello che opera   83 $¢%su ciò che ci vien porto dalla sensazione, per tirarne od indurne avec lemonde intelligible;sun intervention n'apportedonerien de now eri veau à ce qui est déposé dans l'àme par suite de la perception des 0C sens, il nepeut qu'exercer son activité et travaillier sur ce qui est racu dans l'intellect paseif. L'intellect actif d'Aristote nous semble jouer , redans la formation de la connaessance,un rôle exactement samblable à 1021"celui que joue la reflexion de Locke; ni l'un ni l'autre n'ajoutent ta rien à l'objet fourni par la sensation, toute leur action seborné à éla: )doaborer cet objet» Dunque nonpuò farsi ammeno di ammettere col ret.Julia e la scuola giobertiana l'apprensione diretta ed immediata , din cioè l'intuito dell'Assoluto, e ritenere essere questi la prima idea, la l'oprimaconoscenza,che,perla viadiun primo guardare,vieneal. into:l'intelletto umano nello stato d'intenebramento, che la riflessione di in poi, la quale èun secondo intuito od un ripiegamento dello spirito e sopra il primo intuito, chiarifica e fissa, e non già che la si acqui isti e conosca in forza del raziocinio, passandosi dalla cognizione a iilistratta, ottenuta per la via dell'induzione, a quella concreta del V e on& ro Assoluto, avendo ben dimosorato altrove, che i psicologi si tro fost vino in grande errore, credendo ed insegnando, che Dio siccome ve fosesritàassiomatica,essendouniversale,necersariaed immutabile,debba 18 essere astratta,e che vi bisogna di forza indispensabilmente il ra ley ziocinio per ascendere, mediante essa verità astratta, al vero primo buik ed assoluto, mentre, siccome facemmo notare in proposito del P. M i lone Insomma,senzamenarla piùinlungo,dellainsignescuola on anda tologica è il Julia, siccome l'ha mostrato co'suoi vari scritti di ar veratgomento filosoficoeconquello, veramentestupendo,Discorsointorno allavitaedalleoperediFernandoBalsano,incui,prendendoa consi ost: d e r a r e q u e s t o d i s g r a z i a t o d o t t o C a l a b r e s e , d i v e n u t o v i t t i m a d e l p u g n a ledi un assino, e,considerandolo non solo quale oratore egregio ed acutocritico,ma anche qualeillustre cultore dellescienzefilosofi cinc c h e , e f o r t e a m a t o r e d e l s i s t e m a o n t o l o g i c o , p a l e s a a c h i a r e n o t e i s u o i O. * p e n s a m e n t i i n f a t t o d i f i l o s o f i a , c h e s o n o i n d u b i t a t a m e n t e q u e l l i d e l P l a diotonismo, cristianizzato da S.Agostino,ammirato da S.Tommaso e på Dante, divulgato neitempi modernidalGioberti, ed abbracciatodalla th, maggior parte de'pensatori nostrani. Questo libro del Julia , che ci avemmo in dono da lui medesi i mo , palesa ad evidenza non solo la scuola filosofica cui appartie ne; non solo la lucentezza delle idee , ond'è corredata sua mente ; e nonsolol'affettoperlapatriagrandezzaquantoapolitica,governo e civile,scienze,lettereedarti;ma dàancheprovadellaperiziache l'universale ed elevarci sino alla concezione dei principii; pure non to bisogna dimenticarci che nella teoria dello Stagirita è desso affatto & vuoto, senza alcun rapporto diretto col mondo intelligibile,da potersi pelo d i r e c h e n e l l a c o n o s c e n z a e s e r c i t i l ' u f f i c i o n è p i ù n è m e n o d e l l a r i ostruflessionediLocke.Edice bene ilLaforet «Danz latheorieduSta ta, girite l'intellect actif est tout a fait vide et n'a nul rapport direct «Profilo Bibliografico pubb. nella Rivista Itoliana di Palerino ela:Anno IV,N. 11,nonci ha cosa più chiara, che essa verità assio -artormatica primitiva è obbiettiva in sommo grado,appunto per le sue veritacaratteristiche di universalità, necessità ed iminutabilità. COSS me adal tile. // ne    84 ha ei nell'idioma nazionale. Sicchè è a rallegrarci con lui dei buoni studi,dell'amoredellenazionalidottrine dell'eccellenzadelsiste ma che ha adottatonelle scienze speculative,anteponendo (fra idue sistemi che veramente possono dirsi i più perfetti, essendo ambo sin tesisti, cioè a dire razionalo-empirici od empirico-razionali ) l'onto logismo alpsicologismo,e,fuggendo, quelloche èpiù, gli eccessi del razionalismo e dell'empirismo,e quei tali sistemi erronei, idea lismo epositivismo,pei qualidelira lagioventù moderna,da cui cam minandosidiquestopasso,noncipossiamoattendere,senon un ar veniresventurato. ProsegvailgiovaneJuliaisuoistudii filosofici, e ci offra lavori speculativi di maggior lena, per poterlo vie meglio ammirarlo, e rallegrarcene con lui.  Delle dottrine filosofiche e civili di G. V. Gravina per Fer dinando Balsano, con saggio sulla vita e sulle opere del Gravinapelprof.VincenzoJulia.— Cosenza,Tip.Mi gliaccio, 1880 (un vol.di pag.CIV-410). G. V. Gravina di Rogiano (1664-1718) è considerato dai più come poeta e letterato segnatamente pel suo trattato della Ragione poetica,e come insigne giureconsulto, specie per lasua opera De ortuetprogressujuriscivilis.Ma eglime rita,sotto un certo rispetto,d'essere altresi considerato come filosofo e per le dottrine speculative che professava e per quei sommi principii a cui s'informano i suoi scritti di G i u risprudenza e di Filosofia civile, dovendo le scienze partico lari e d'applicazione, quali sono appunto le discipline giuri diche e pratiche.esser precedute ed illuminate da una scienza speculativa più alta ed universale,cioè dalla Filosofia pro priamente detta. A nostri giorni il calabrese Ferdinando Balsano si pro pose di far meglio conoscere le dottrine filosofiche e civili del Gravina, studiando accuratamente e con intelletto d'amore le opere del suo grande concittadino.Ma ilBalsano,non che pubblicarlo,non potècompiereilsuolavoro,perchè trafitto dal pugnaledell'assassino!Ilprof. Vincenzo Juliaha raccolto la sacra eredità del suo venerato maestro,dettando un'eru dita ed ampia monografia sulla vita del Gravina, e pubbli candola insieme al lavoro inedito del Balsano. In questa vita  e   troviamo uno specchio breve ma fedele dei tempi del Gra vina, specie riguardo agli studii; la pittura del carattere morale del pensatore rogianese,un cenno de'suoi numerosi scritti e de'suoi meriti letterarii. L'opera del Balsano,dettata in una forma quanto castigata altrettanto elegante ed elevata,contiene una larga esposizione dei pensamenti del Gravina diretti a coordinare tutte le sue meditazioni di filosofia speculativa e di morale , di religione edidiritto,diesteticaed'insegnamento,dipolitica edi civiltà.È divisainduelibri.Nelprimosiragionadelledot trine civili. Quanto alla filosofia, dal Balsamo si cerca dimo strare che il Gravina, studioso delle tradizioni dell'antica filosofiaitalo-greca,siattenne specialmente alla dottrinepla toniche(comeapparisceanchedall'OrazionesuaDe instaura tione studiorum),armoneggiandole col progresso della civiltà cristiana,delle scienze particolari e massime del Diritto,egli cheavevameditatoleoperedeisommi giureconsultiromani, e che aveva piena la mente ed il petto della grandezza di Roma antica. Le dottrine platoniche da lui professate gli fecero innalzare la mente ai principii sommi del Diritto, a meditare la riforma delle dottrine civili,ed a comprendere la sintesi el'armonia delle parti principalidel sapere.Difatti, il Gravina vedeva la scienza umana come un'armonia e ricordava la piramide in cui egli dice espressamente avere gli antichi savi simboleggiato la scienza umana e la natura delle cose : il che significa che per lui l'ordine della scienza risponde a quello della natura, l'idealità alla realità; e come il primo vero è l'idea divina nota da principio all'intelletto creato, così il primo essere è Dio creatore della scienza e dellanatura.Tutto l'ordinedeicontingentirealihasuacausa efficiente nell'Assolutoche licrea;tuttol'ordinedelle cono scenze empiriche ha sua origine nell'idea eterna, presente sempre all'intelletto umano e norma o tipo a cui si riscon trano le cose finiteapprese per esperienza sensibile(pag.162). E sotto questo aspetto può dirsi che ilGravina precorresse al Gioberti,che in cima del sapere e dell'essere doveva porre Diocreatore.Adunqueilcontemporaneo delViconon segui le dottrine del Locke, ma invece quelle più elevate di Pla Vol. XXII.  225 Disp. 2. 15   tone e del Cartesio, quantunque non și mostrasse sempre giusto verso Aristotile. Ma se al Gravina non può negarsi un certo valore filo sofico, i suoi veri meriti risguardano, più che la Filossfia elaLetteratura,laGiurisprudenza.Preceduto daAlberico Gentile, da Francesco Bacone e dal Grozio, il Gravina non solo ricercava l'origine del Diritto e ne indagava iprogressi (De ortu et progressu juris civilis), ma sapeva altresi elevarsi alle idealità o ai principii supremi del Diritto. Quindi è che a lui debbono molto la Storia del Diritto, specie,diquelloromanocheinsegnavainRomastessa,ela Filosofia del Diritto. Il Gravina, esaminando l'origine e la natura del Diritto, non lo separava dalla Morale come oggi fanno taluni, perchè nella legge morale,da cui scaturiscono tutti i doveri umani, trova pure il suo primo e vero fon damento il Diritto. Egli precorse al Savigny da un lato, al Vico e Montesquieu dall'altro, interpretando con larghezza di veduta la storia civile e giuridica di Roma. Il Balsano si era proposto di ritarrre ilGravina non solo qual eminente giureconsulto, sì ancora qual filosofo civile, mostrando com'egli additasse le norme eterne d'ogni società umana (che ammetteva come un portato della natura) nella vita privata e pubblica, nell'ordine privato e politico. Ma ripetiamo,ilBalsano non potè compiere l'opera sua;la quale delresto,merita di essere conosciuta e studiatadai cultori della Filosofia e delle scienze giuridiche, benchè ci sembri scritta con entusiasmo soverchio verso ilproprio concittadino risguardato come filosofo.  DISCORSO Recitato nella sala dell' Accademia Cosentina ). Piansi,o Signori,nella mia pensosa solitudine,la morte immatura del caro Fiorentino, che mi fu amico e fratello !; vengo ora a glorificarne l'ingegno nel tempio della scienza, innanzi al simulacro del vecchio Telesio, al cospetto di dotti Accademici,di fervidigiovani,dieletti ingegni,di distinti Professori, che meglio di m e , nato e cresciuto nelle m o n tagne, potrebbero valutarne i forti studi e la vasta intelli genza. Parlerò con franchezza, senza adulazioni rettoriche, senza intemperanze di lodi; dinanzi ad uomini gravi ed a u steri le apoteosi e la rettorica sono un fuordopera. La pa rola mendace sarebbe un insulto alle ceneri di Fiorentino, uomo sovero ed aperto, che disdegnò il lenocinio e le bel lezze oratorie, seppe dire con schiettezza di calabrese la v e rità ad amici e nemici, e fu audace demolitore del vecchio m o n d o ; inesorabile agl'ipocriti ed ai ciarlatani. Nella rioca personalità del Fiorentino grandeggia il filosofo ed il pensa tore;lascio,per ora,ad altri di me più competenti, esami nare il letterato, lo scrittore, ed il cittadino; io vi parlerò soltanto dell'Autore del Giordano Bruno;del Saggio Storico sulla Filosofia Greca ; del Pomponazzi e del Telesio; quat tro titoli di gloria , che basteranno a rendere immortale il nome di Francesco Fiorentino. 1 Vedi il mio articolo sul Fiorentino pubblicato nell'Avanguardia n u meri 101-102, riprodotto dalla Gazzetta Calabrese e dal Calabro in Catan zaro; dal Corriere del Mattino e dall'Ateneo, in Napoli.  74 GIORNALE NAPOLETANO   FRANCESCO FIORENTINO 75 L'Italia , o Signori, fu scossa nei principi del secolo, dopo la grande Rivoluzione dell'ottantanove , dalla parola del nostro Galluppi, che il Gioberti chiamò il Nestore della sapienza italiana. Senza mistiche intemperanze , senza voli metafisici, ei richiamò, nuovo Socrate, la mente degli Ita- liani ad indagare il m e e la coscienza ; a scrutare profon - damente ilsubbietto umano;e,rigettando lequiddità scola- stiche ed il sensismo di Condillac e di Tracy, contribui à rinnovare presso di noi il metodo naturale , e fu salutare reazione all'esorbitanze speculative del secolo decimottavo , Conscio della esigenza storioa del secolo decimonono,il Gal luppi iniziò presso di noi lo studio della storia della filoso. fia ; indovino , pur combattendola fieramente , l'importanza speculativa della sintesi a priori, che in parte accetto ; e, benchè avesse trascurata la Rinascenza,Telesio,Bruno, Cam . panella, può dirsi , il vero educatore dello spirito filosofico in Italia. La Calabria, terra delle grandi iniziative e delle magnanime audacie, si elevò col Galluppi all'altezza del pensiero moderno, e fu, sarei per dire, la squilla settimon tana del Campanella, che risvegliò in Italia il pensiero lai caleedumano,ilpensieropuro eduniversale.IlFiorentino, nella sua prima gioventù , studiò il Galluppi, ne comprese l'indirizzo storico, o gli piacque la nuova e socratica spe culazione, che un modesto filosofo iniziava nella estrema Calabria, sulle rive di quei mari, che ripetono ancor l'eco delle armonie pitagoriche. Il Galluppi, con le sue serene e casalinghe meditazioni, non bastava ad appagare il libero ed irrequieto ingegno del Fiorentino , aquila delle montagne , che volea spezzare le pastoie del vecchio mondo e della speculazione galluppiana. In mezzo a queste ansie intellet. tive sopravvenne il Gioberti a scuotere le menti dei Meri. dionali con la magica parola ; ed il Fiorentino, assetato di ideale e di patria, come tutti i forti ingegni di Calabria, accettò anch'egli la mistica speculazione giobertiana , o fu idealista platonico ed ortodosso. E chi potea, pria del ses    santa, resistere al fascino del Gioberti? Chi rinnegare la p a tria, ch'egli glorificò nelle pagine immortali del Primato ? Il Guerrazzi chiamò il Gioberti scintilla piovuta dal Vesu vio sulla cima delle Alpi : veramente ci è in lui l'audacia, la fiamma profetica, la divinazione geniale del Mezzogiorno; ci è Vico e Campanella , S. Tommaso o G. Bruno ; ci è la fede dei credenti, lo spirito ribelle dei tempi nuovi, l'ome rica fantasia di Platone , l'austero sillogismo di Aristotile. Nei dolori dell'esilio,egli scrisse la Teorica del Sopranna turale, ch'è l'apoteosi della vecchia ortodossia ; riassunge nella Introduzione tutto il passato teologico e tradizionale, rinnovò il realismo del Medio -Evo , sposandolo al pensiero moderno; risuscitò nel Primato, con l'entusiasmo del pro feta, i titoli della nostra grandezza, e lanciandosi col volo dell'Aquila alpigiana nel grembo dell'Essere , credette di averne interrogate le profondità, ringiovanito il vecchio Dio della Scolastica , e sciolti tutti i problemi con la formola ideale e con l'Ente creatore. Gioberti non arrestossi a metà; e,ringagliardito da nuovi studî, ingegno audace e progres · sivo, com'era, accettò gran parte della speculazione moder na, e, spastoiandosi dal vecchio teologismo, dalle utopie del Primato , inaugurò la nuova Italia col Rinnovamento ; la nuova Scienza con la Protologia, e la nuova Chiesa con la Riforma Cattolica , e con la Filosofia della Rivelazione ; sebbene non interamente emancipato dalla vecchia ortodos sia. Ai tempi che il Gioberti pubblicò il Rinnovamento, ed il Massari le Opere postume del suo grande amico, le C a labrie erano chiuse dalla muraglia cinese,ed ilnuovo pen siero laicale del Gioberti non potè penetrare nei nostri b o schi. La gioventù era ancora innamorata del misticismo e della formola ideale; i vecchi eroi della Rinascenza non erano ancora conosciuti tra noi ; o B. Spaventa , esule a Torino, dove pubblicò dal 54 al 56 i suoi stupendi Saggi Critici su Bruno e Campanella, era quasi ignorato in Calabria. Il Fiorentino, non bisogna nasconderlo,avea subito an.  1 FRANCESCO FIORENTINO 77 Scrisse allora a Napoli il Giordano Bruno , un Saggio giovanile, come schiettamente confessa l'Autore ; composto nel 1861 in tutta fretta nelle vacanze , e disteso in soli v e n totto giorni.Quel Saggio, benchè imperfetto, segna ilprimo momento della critica evoluzione del Nostro in filosofia, il passaggio , cioè , dal vecchio dommatismo giobertiano alla speculazione libera e laicale dei tempi moderni. Nello studio del passato il Fiorentino trovò la spiegazione dei posteriori sistemi;e,poichè non poteva valutare le teoriche del Bruno, senza risalire alle origini,guardò la Dialettica nelle scuole di Crotona , di Elea e di Alessandria , e ne rilevò con sa gace giudizio l'importanza speculativa nel gran dramma del greco pensiero.Si occupò,egli ilprimo,presso di noi,della stupenda Dialettica del Cardinale di Cusa, e ne indagò i le gami col sistema del Nolano , dove causa e principio sono una medesima cosa , e la esteriorità della causa e la inte 1 Leggeva i SS. Padri in una cella di monaci: ne trascrisse molto ; e ne pubblicò alcune opere nel 1858, a Messina, voltandole in italiano. 2 Stefano Cusani; G. B. Aiello; Giuseppe del Re; E. Salvetti; S. Gatti; i Fratelli Spaventa; P. E. Imbriani; De Meis; Tari; Savarese; Perez; M a n cini;De Sanctis;Marselli;Trinchera;Turchiarulo;Floriano Del Zio;F. Quer cia ed altri.  pen siero germanico, diffuso nel Mezzogiorno dal 40 al 60 dai più forti ingegni del Napolitano ?; indovinò la grandezza spe - culativa della Rinascenza , e si sentì attratto dall'eroica fi gura del Nolano. ch'egli l'influsso dei Santi Padri ',e,principalmente, come dicemmo, del filosofo Torinese, che da lui studiato profon damente in gioventù, non fu dimenticato nella età matura, in mezzo ai più splendidi trionfi del suo ingegno. Venne però il sessanta, con le sue titaniche audacie, e con le sue immortali demolizioni a svegliare il Fiorentino dalla sua fede dommatica e dal suo sonno ortodosso;e,benchè non ancora emancipato dal vecchio Gioberti,si volse a studiare il   riorità del principio si ricongiungono nell'Uno ,ch'è insie me causa e principio. L 'Uno nel sistema del Nolano, è to talità assoluta; vale a dire che come principio della forma zione dello cose è minimo,come totalità perfetta ó massimo; come identità delprincipioedellafinepigliailnome diUno, ove tutto si assorbe, come in vasto ricettacolo; ove il pensiero e la realtà si confonde in una identità suprema. In ciò con . siste il Panteismo di G. Bruno , che il Fiorentino rigetta, soggiogato dal vecchio Gioberti , confutando l' eccletismo poco omogeneo , gli ondeggiamenti e le contraddizioni del Nolano , che fonde insieme la Causa dei Pitagorici, l'Uno degli Eleatici , ed il Principio degli Alessandrini. E pure , ad onta delle prevenzioni ortodosse e giobertiane , il F i o rentino non disconosce le novità laicali, di cui è ricco il sistema del Bruno; la maggioranza del pensiero, la menta lità, che splende come intelletto divino, mondano , partico lare,ed ilconcetto direlazione,ch'è tanta parte dellaPro tologia del Gioberti , e costituisce il verace assoluto ; l'asso luto , cioè , della moderna speculazione. Dallo oscillare del Bruno tra la Scolastica e la Rinascenza deriva che il finito ora è una vana parvenza, ora la massima realtà; ed il N o lano ondeggia tra Eraclito e Parmenide , tra il flusso c o n tinuo e la rigida immobilità. Il Fiorentino mette Giordano Bruno in relazione con Spinoza e Schelling , ne nota col solito acume le differenze e le somiglianze, o conclude che i tre filosofi si rassomigliano nella prospettiva generale del sistema, hanno il medesimo intendimento di unificare la scienza e d'immedesimarla col mondo ; cercano fuori del pensiero il centro della loro unità , e costituiscono quella serie di Panteisti, che si dicono obbiettivi; l'Uno, la Sostan za,l'Assoluto sono tre creazioni parallele.Il Fiorentino ana lizza del pari la Dialettica di Hegel e di Gioberti , m o n u menti immortali della moderna speculazione, e nota che in Hegel e Gioberti contrastano due tradizioni, due filosofie, e due nazioni; la filosofia della creazione e la filosofia della   identità, il cattolicismo ed il razionalismo, l’Italia, patria di S. Tommaso o di Dante,e la Germania, patria di Lutero e di Göthe. Fiorentino, senza sconoscere la importanza della filosofia tedesca, glorifica la vecchia formola giobertiana, il cattolicismo e la rivelazione; rigetta quasi il pensiero m o derno, desidera il rinnovamento della antica filosofia italia, na,e,collocandosuglialtariilGiobertidella Teoricaedella Introduzione, chiude il Saggio con queste parole: «Giova « netto ancora,sognava che il nome di V. Gioberti suone « rebbe terribile sui campi di battaglia, e venerando tra le « arcale della Università. Quel mio sogno giovanile si è av « verato in gran parte e la indipendenza e l'unità della « mia patria,propugnata da quel grande statista, è presso « a compiersi ; mi sarebbe ora assai dolce il vedere una « scuola ed un'accademia iniziarsi, diffondersi , giganteg « giare in quel nome si caro ad ogni italiano, con quella « formola,che assomma la scienza e la fede dei nostripa. « dri. Da esse soltanto noi potremo sperare giovani, c o m « pagni di quelli che combatterono a Curtatone, e cacciarono « gli Austriaci da Varese e da Como.» Giordano Bruno portò il Fiorentino ad uno studio più accurato della greca filosofia, di cui è anche specchio e ri produzione,inbuona parte,laRinascenza italiana,dellaquale il Nolano è l'eroe ed il martire. Professore straordinario di Storia di filosofia a Bologna nel 1862, il Fiorentino si diede a studiare alacremente e con tenacità di calabrese Aristotile e Platone.Si fatti studii, come racconta egli stesso,gli apri rono nuovi orizzonti, gli allargarono la vista intellettiva, o gli fecero scorgere ildifetto fondamentale della filosofia gio bertiana. Fiorentino si allontano dal vecchio Gioberti, non colcuore,sibeneconlamente,ch:ifortiamori deigiovani anni non possono dimenticarsi.Rude e franco calabrese,intel lettoaustero,ilFiorentinosiemancipò dalla scuola filosofica ortodossa,quando si convinse che il mito e la leggenda pre valevano sulla pura speculazione, sul pensiero libero o lai  FRANCESCO FIORENTINO 79   cale. La critica, che Aristotile fa di Platone,a cui Gioberti si rassomiglia,fece schivo il Nostro dal mescolare immagini ad idee, e lo inimicò con le metafore filosofiche la severa, m a ineluttabile critica di Aristotile; non i Tedeschi lo c o n vertirono alla nuova filosofia , degna dei tempi moderni, si bene il rigido, inesorabile Aristotile !...' Cosi il Fiorentino scese, calabro atleta, nella arena della greca filosofia, e gio vine ardente fu trasportato lungo le sponde dell' Ilisso , tra gli alberi fragranti, che ne ombreggiano il margine ; sotto il bel cielo di Omero , tra le dispute di Socrate, i simposî platonici , e le austere meditazioni dell'Accademia. Sapeva egli fondere ed accordare insieme l'idea greca all'idea ca labra, rappresentata nei tempi antichi da Pitagora, e tutte e due al nuovo pensiero laicale del Rinascimento , rappre sentato presso di noi da Telesio e Campanella. Ringiovani così il pensiero , irrigidito nelle ferree strette della Scola stica e del vecchio Gioberti ; e farfalla , ch'esce a poco a poco dal suo involucro ; montanaro calabrese, che si trasfi guraman mano sottoilsoffiodeinuovi tempi,sisentìumano ed universale nei Dialoghi di Platone e nella Metafisica di Aristotile.La Grecia fu infatti la terra dove sbocciò ilfiore dell'Arte , e germogliò il seme dell'umana ragione ; fu la patria del pensioro speculativo, della Dialettica, e della C a tegoria, a cui metton capo ipiù vasti sistemi dell'antica e dellamoderna filosofia.Fu lapatriadiPlatone,cheperge nialità e divinazione speculativa, per universalità di pensa menti , per movimento drammatico , per colorito artistico e finezza di dialogo, grandeggia su tutti i filosofi; egli fonde in sè l'eloquio facile e maraviglioso di O m e r o e l'attica b e l lezza di Sofocle. La vecchia Grecia s'idealizza e si trasfigura nel gran discepolo di Socrate;la speculazione diviene arte e d r a m m a , e d il p e n s i e r o , c h i u s o n e i c a n c e l l i d i T a l e t e e d i Eraclito, abbraccia ilmondo, si fa universale ed umano,a n  80 GIORNALE NAPOLETANO 1 Vedi Filosofia Contemporanea in Italia, p. 152, 153, Napoli, 1876.   FRANCESCO FIORENTINO 81 ticipa ilCristianesimo e preludia all'età moderna Egli fonde, come disse bene il Ferrai, in una grande unità isofisti e i politici, gli artefici e i guerrieri ; uomini , donne , vecchi, fanciulli, schiavi e liberi, e in questo mondo in azione ti si fa duca e maestro, innalzandoti, migliorandoti, affinando le tue facoltà, spesso spirandoti nell'anima un sacro entusiasmo per il buono , per il vero ; quell'entusiasmo , aggiungo io , che crea i grandi fatti della storia, e quei capolavori del l'arte, che si chiamano Convito ed il Fedro, ove si spec chiatuttoilsorriso dell'Ionio mare,l'apollinea bellezzadei Greci , il fascino di Diotima e di Aspasia ; la morbida poesia dell'Attica e l'arguta ironia di Socrate ; divina bellezza , m u . sica arcana , che rende unica la Grecia tra le nazioni più civili e più artistiche del mondo . N o n volendo abusare della vostra bontà , o Signori , io m i restringo per ora a Platone ; che ci porterebbe assai lungi il voler discorrere completamente del Saggio Storico sulla filosofia Greca ; discutere ed esaminare Aristotele e quanto altro riguarda le Categorie ed i problemi della filosofia m o derna , di cui si occupa il Nostro nel suo stupendo lavoro. Il Fiorentino scrutò con animo libero e spassionato la vec chia speculazione ellenica;laGrecia anteriore a Socrate,ove campeggiano le grandiose figure di Talete, di Senofane, di Eraclito, di Parmenide , di Anassagora ; o dove si elabora a poco a poco l'idea platonica e la categoria aristotelica . È un quadro ricco di pensiero, ed anche di poesia,che con vivi colori ci tratteggia ilFiorentino con quella sua ge nialità, con quella lucida esposizione, che tanta grazia a g giunge ai suoi lavori speculativi; incantevole lucidezza, che ritrae i limpidi Soli diffusi sui patrî vigneti e sulle marine di Cotrone ... Il Saggio Storico sulla filosofia Greca sarà s e m pre, secondo il nostro debole parere, l'opera più bella, più geniale del Fiorentino ; ci è il profumo e l'entusiasmo della gioventù, ci è la vita artistica, anche in mezzo alle severe meditazioni del pensatore ; quella vita, che solo può dare la Giorn.Napol,Vol.I.- Gennaio 1885 (Nuovissima Serie).  6   gioventù , nella sua più rigogliosa fioritura ed espansione. Ciò nonostante,spassionati estimatori dell'ingegno del nostro amico , riconosciamo in quel saggio lacune ed imperfezioni, che l'autore medesimo, uomo schietto e leale,vi riconobbe, ricco di nuovi studi sulla lingua, sulla filosofia, sulla lette ratura greca ; dotto nel tedesco e conoscitore profondo dei moderni lavori alemanni su Platone ed Aristotile. Intanto facciamo notare che il cardine fondamentale della critica del Fiorentino furono le idee platoniche e le categorie aristo teliche , che sono e saranno sempre le colonne e le pietre granitiche dell'umano pensiero. La critica platonica (come nota il Chiappelli nel dottissimo studio sulla interpetrazione panteistica della dottrina platonica) si è a giorni nostri ri fatta da capo ; e la quistione si aggira sui fondamenti di tuttoilplatonismo,valeadire,sulgenuino valoredelladot trina delle idee, che forma il centro del sistema platonico. Dalla interpetrazione di codesta dottrina dipende quella di tutto il resto del sistema ; è il presupposto , da cui , come tanti corollarii, scendono tutte le altre parti di questo m o numento immortale del genio greco,che scosso dalla potente critica di Aristotile , travisato dal Neo -platonismo , rivive anche oggi , dopo le vicende di tanti secoli. Varie e con traddittorie in ogni tempo furono le interpetrazioni delle idee platoniche;furono scambiate,ora con gl’ideali estetici,che vagheggia l'artista, ora ritenuti come generi logici e c o n cetti intellettivi,ed ora come gli eterni paradimmi del divino artefice,modelli esemplari delle cose, e quindi esistenti per sė;laquale interpetrazione,che sitrova diffusatraiNeo platonici,traiPadridella Chiesa,ed in tuttoilMedio-Evo, anche oggi è sostenuta da valorosi critici. È certo poi che le idee in Platone sono trascendenti , immobili e separate dalla materia,e che carattere principale del Platonismo è la irreconciliabilità tra l'idea e la materia, tra l'intelligibile ed ilsensibile:Le piùingegnose interpetrazionideicriticimo. derni,e massime del Teicmuller,che fa di Platone un Pan.  82 GIORNALE NAPOLETANO   FRANCESCO FIORENTINO 83 teista,non han potuto colmare l'abisso,che nel greco filosofo separa l'idea dal cosmo, l'elemento intelligibile dall'elemento materiale. Relegate, come sono, le idee in un mondo inac cessibile, non possono esercitare nessuna influenza, nè sul l'essere, nè sul divenire delle cose sensibili, nė spiegare il formarsi delle cose medesime.Anche la relazione delle ideo con Dio, osserva il Fiorentino ', rimane indefinita; le idee non hanno causalità, perciò la causa efficiente deve trovarsi accanto a loro , o concorrere con loro alla formazione dei mondo ... Platone non tenta neppure di conciliare Iddio con le idee ; perciò accanto alla speculazione tu trovi ancora il mito, non come semplice ornamento,ma come elemento in tegrale del sistema... Solo è certo che l'altissima idea è per Platone quella del Bene ; la quale ora s'immedesima con la ragione divina, ora è quella, a cui guardando il Demiurgo dà forma al mondo ; se non che non si può risolutamente affermare che il Bene s’immedesimi con Dio,ch'è un dato della tradizione piuttosto che della filosofia , ed in Piatone non essendo chiara quella immedesimazione , non riesce perfetto il collegamento tra le idee e la mente divina, ed il sistema delle idee riesce poco coerente , e sempre o n deggiante ed incerto.Il Fiorentino nel Saggio slorico rigettò la interpetrazionedelle idee platoniche come riminiscenze di una vita anteriore, come modelli e paradimmi del mondo, come pensieri divini ; e ritenne che Platone non è sempre lo stesso ne'suoi Dialoghi ; giovane filosofo da poeta,m a turo senti bisogno di spiegare la scienza,e ricorse alle idee ; negli ultimi anni adottò il linguaggio pitagorico a proposito delle idee , e le considerò come numeri. La dottrina delle idee platoniche , trattata davvero scientificamente , consiste pel Fiorentino nei Dialoghi il Teeteto , il Sofista, ed il P a r . menide. Il Sofista prepara il Parmenide, a cui dà il fonda mento ed ilprincipio;ed ilParmenide sostituisceallame. 1 Manuale di Storia della Filosofia, Parte I, p. 61-65, Napoli, 1879.  1   84 GIORNALE NAPOLETANO tessi ed ai simulacri la relazione, ch'è la vera natura e la vera condizione di tutte le idee ; è la loro vita e fecondità . IlFiorentino,austero intellettoelibero pensatore,preferiva alla lirica del Fedro e del Simposio , alla epica narrazione del Timeo ildramma ideale del Parmenide.Fiorentino scrutò profondamente i tre dialoghi platonici , o ne rilevò il vero significato. La scienza, egli disse , non è sola sensazione e sola opinione, come vogliono iJonici, ed ecco ilsignificato del Teeteto; la scienza non è la sola cognizione dell'Uno,come pretende Parmenide,e neanco dell'essenze immobili ed ir relative dei Megarici;ed ecco ilsignificato del Sofista.La scienza è l'una e l'altra opinione e cognizione, relazione di entrambe ; ed ecco il risultato ultimo del Parmenide ; tanto vero che, senza la relatività delle idee, il Parmenide rimarra sempre un enimma, il sistema di Platone un leggiadro tes suto di favole, di reminiscenze oltremondane ed assurde, e di sperticate idealità. Scrutando meglio il Sofista ed il Par . menide, Fiorentino asserisce che il principio da cni muove Platone nel Sofista , ossia l'Ente , e quello da cui m u o v e nelParmenide,ossial'Uno,sonolostesso principio;senon che l'ento è rigido, immobile, indeterminato, e l'Uno è d e t e r m i n a t o , e p r o d u c e i M o l t i . L ' u n o è il m e d e s i m o e d il d i . verso del Molli; come viceversa il Molti si può dire mede. simo ed altro dell'Uno; tanto che, a parere del Fiorentino, abbiamo nel Parmenido esplicito ildiverso e l'altro; sebbene rimanga in Platone nell'ombra la causa della estrinsecazione della idea, e l'apparire della materia. Platone non colse la vera natura dell'altro,che non può essere nè un'essenza,nė un'idea;sìbene una relazione;egliperciò oscillò dall'uno all'altro di questi due termini,per trovarvi la materia, ed, irresoluto, la fè credere una volta essenza,ed un'altra idea. Pare che in tutte queste sottili ed ingegnose interpetrazioni del Fiorentino entrasse un po ' il sistema e la critica moderna dell’Hegel , sempre caro al Nostro , come quegli che fu la sintesi più stupenda del pensiero laicale tedesco,da Lutero    FRANCESCO FIORENTINO 85 a Kant. Felice Tocco, di cui tanto si onorano le Calabrie, nelle sue dotte Ricerche Platoniche, esplicitamente osserva che il Fiorentino interpetra il Parmenide di Platone alla maniera di Hegel , e che , ad onta delle argute considera zioni sulle stonature della Dialettica platonica, nou tenne iu conto il fare negativo di tutto il dialogo. Il trapasso, dalla teorica della metessi e degl’influssi a quello della dialettica assoluta,èun saltocosìsmisurato,chedifficilmentepotrebbe farsida un uomo,per vastissimo ingegno ch'egli abbia,sopra tutto nel tempo,in cui la speculazione è ancora sul nascere, ed i sistemi filosofici sono appena abbozzati.E ingiusto per ciò, conchiude ilTocco,ilraccostamento della dialettica pla tonica all’egheliana, e non bisogna interpetrare con Hegel Platone,etrasportare ilmondo antico nel mondo moderno!! Alla origine e natura delle idee è intimamente legata la Dialettica platonica ; essa non è altro , se non che la legge dell'intreccio ideale, il modo come si forma il Logo , o la Ragione universale ed assoluta. Il ritmo della Dialettica vera di Platone, secondo la interpetrazione del Fiorentino,è nel Parmenide ; il contenuto del quale si risolve in una trilo gia,di cui la prima parte presenta la idea solitaria dell'Uno, e l'annulla;la2.lamedesima idea appaiata con quella del l'essere, e con essa in contraddizione ; la 3. risolve la con traddizione nel momento, ch'è il diventare; momento e di venire,che sono mutuati dalla dialettica Hegeliana,e rendono infide e soverchiamente moderne le interpetrazioni del Fio rentino. Egli era convinto, quando scrivea il Saggio Storico, che la dialettica Hegeliana è modellata sulla platonica, e che le prime tre categorie del filosofo alemanno, l'essere,ilnon essere,ed ildivenire ricordano l'uno, l'ente, ed ilmomento del Parmenide. La Dialettica platonica , monumento gran dioso dell'umano pensiero, ispirò in ogni tempo gli Artisti ed i Filosofi; ed ilFiorentino conchiude che Goethe v'im  1 Op. Cit.pag. 132-133,Catanzaro, 1876.   Lo studio della filosofia greca fece rientrare il Fiorentino nel mondo moderno,ch'egli avea sfiorato col lavoro giova- nile del G. Bruno ; il greco pensiero, che più degli altri è pensiero umano ed universale, ricondusse il nostro alla R i nascenza,la quale, se inizia l'epoca moderna con le ribel lioni speculative del Bruno, del Telesio e del Pomponazzi , usufrutta con Telesio e con Bruno la parte viva ed immor . tale della greca filosofia,ilconcetto della natura,autonoma od assoluta, e l'idea dell'Infinito generante.Il Fiorentino,in gegno fecondo e progressivo,accettò i pronunziati, gli ardi menti , o ,le ribellioni della Rinascenza ; nelle fresche c o r renti della natura ei sentì ringiovanirsi, ed il suo 'pensiero divenne più ampio ed umano . L'epoca della Rinascenza è, o Signori , un'epoca gloriosa , battagliera , o titanica ; la Scolastica è assottigliata ; la cavalleria ed il feudalismo se ne vanno;la Teocrazia perde ilsuo prestigio,e la sua uni versalità ; la poesia si emancipa dai terrori mistici ; alle fo. sche pitture del trecento succedono i freschi colori del T i ziano e del Correggio ; nasce lo Stato laicale, e Machiavelli crea la storia moderna. I filosofi rappresentarono in questo gran dramma una parte gloriosa,e specialmente ilmantovano Pomponazzi,che per audacia speculativa,per energia di ca rattere è uno degli eroi più spiccati del Rinascimento ita liano. Il Fiorentino, che come fiero calabrese e libero pen satore,era naturalmente attratto verso i grandi precursori ed apostoli, si mise a studiarlo con coscienza di filosofo e p a zienza di critico; sgobbò sui polverosi volumi in folio, si chiuse come un vecchio anacoreta nella sua cella di Bologna; ed affrontó con leonino coraggio l'intolleranza e lo scherno degl'insipienti , le beffe dei gaudenti, che senza forti stu lii,  86 GIORNALE NAPOLETANO parò la movenza del Dialogo ; Hegel il severo ragionamento ; il Vico vi attinse lo schema della Scienza Nuova ; Rosmini il principio del Nuovo Saggio ; ed a quell'opera immortale bisognerà ricorrere ogni volta,che si vorranno scandagliare davvero le origini dell'umano pensiero.   FRANCESCO FIORENTINO senza accurato lavoro vogliono , con la veduta corta di una spanna,giudicare gli uomini serî ed austeri,gli uomini che sacrificano tutto sull'ara del pensiero e della scienza ; i n domiti o tetragoni nei loro propositi ; Capanei,che muoiono e non si arrendono... Il Pomponazzi insorse fieramente contro la Scolastica, e contro la greca filosofia; e nello spiegare la natura dell'a nima, ed il processo del conoscere non ha esitato punto,nè riprodotte, come altri fecero, le incertezze aristoteliche. Sgombrate tali perplessità, il filosofo mantovano si liberò dall' intelletto separato di Averroè , dell'intelletto agente dello Afrodisio , senza però emanciparsi del tutto dagl’in flussi e dalle intelligenze superiori; ondeggiante ancora , c o m e tutti gli uomini della Rinascenza , tra la Scolastica ed il mondo moderno ;tra S. Tommaso e Giordano Bruno. Stre mò , è vero, il Pomponazzi la trascendenza in filosofia; con siderò l'intelletto umano come sviluppato dalla potenza della materia ; ma non volle attribuire all'intelletto dell'uomo la concezione dell'universale ; e disconobbe la vera m e diazione,che l'uomo fa tra lecose eterne e caduche.Egli scruta insistente i più ardui problemi metafisici, religiosi e m o r a l i , la P r o v v i d e n z a , il F a t o , la L i b e r t à , la P r e d e s t i n a z i o n e e la Grazia ; e porta in tutte queste discussioni la novità e l'audacia,proprie dei filosofi del Rinascimento ;piega più dalla parte della determinazione fatale degli Stoici che da quella della vuota determinabilità dell’Afrodisio; che l'arbitrio non può essere primo movente;e l'aver compreso il difettodella dottrina della libertà , come è in Alessandro ed in Aristo tile; l'aver intravveduto nel fato stoico maggior ragione volezza costituisce uno dei massimi pregi della critica del Pom ponazzi . Disconobbe inoltre il valore assoluto delle R e ligioni; ne spiegò con ragioni naturali l'origine, il fiorire, la decadenza ; le riconobbe portato dello spirito, eterno ed irrequieto viaggiatore, che tutto rinnova e distrugge. Con questa divinazione il Pomponazzi fu anche precursore dei  1 87 4 1 1 4   88 GIORNALE NAPOLETANO nuovi tempi, e della scuola moderna ;se non che mancogli la perfetta coerenza nelle dottrine,e non si sollevò al con cetto profondo dello spirito, come lo intendono i moderni. L'ingegno del Pomponazzi , benchè novatore e ribelle, non si era completamente spastoiato dal vecchio mondo scola stico ed aristotelico ;ei non poteva ai suoi tempi cancellare del tutto il Dio di S. Agostino e di S. Anselmo; non po teva scartare intieramente la Provvidenza oltremondana , von poteva combattere a viso aperto le tradizioni della fede o r todossa. Ei però aveva intravveduto che al Dio estramon dano , collocato fuori la coscienza , dovea fra poco succedere il Dio intimo e vivente; che la vecchia forma religiosa do vea ringiovanirsi e al Motore immobile di Aristotile dovea succedere l'Infinito di G. Bruno. È questo il merito pre cipuo del Pomponazzi , che a buon dritto deve chiamarsi il precursore della Riforma e del mondo laicale moderno ; e l'averlo saputo rilevare con sagacia di critico coscienza di storico è gloria del Fiorentino. Ciò segna un altro m o mento importante nella evoluzione critica e speculativa del Nostro ; la quale avrà il suo compimento ed il suo massi - mo splendore nel Telesio,e negli studii sulla idea della N a tura nel Risorgimento italiano. Il Telesio infatti costituisce l'ultimo e più splendido momento speculativo e storico del Fiorentino, il quale rap presenta perciò in Calabria il più alto grado , la più alta manifestazione dellacriticastorica,edilcompletosvegliarsi presso di noi della coscienza laicale ed u m a n a ; rappresenta la continuazione della Rinascenza,ingrandita, però,trasfor mata e divenuta pensiero europeo ed universale coi Saggi critici di B. Spaventa. Fu primo lo Spaventa in Italia a dare la debita importanza a Bruno ed a Campanella , ed a tutta la filosofia del Rinascimento , rivendicando gli eroi del nostro pensiero, ed i martiri obbliati della ragione. « L ’ I talia, disse B. Spaventa , apre le porte della civiltà m o « derna con una falange di eroi del pensiero. Pomponazzi ,    FRANCESCO FIORENTINO 89 « Telesio,Bruno,Vanini, Campanella,Cesalpino paiono figli « di più nazioni. Essi preludiano più o meno a tutti gl'in « dirizzi posteriori , che costituiscono il periodo della filo « sofia da Cartesio a Kant ... Vico è il vero precursore di « tutta l'Alemagna... » (Prolusione alle Lez.di fil. nap.62).  Le austere parole e i forti ragionamenti del filosofo abruzzese eccitarono il potente ingegno di Fiorentino,e co.. ine il nostro schiettamente confessa , lo fecero orientare in quell' arruffio, ch'è la speculazione della Rinascenza , e lo innamorarono di quel periodo filosofico, che prima si con tentava di ammirare, senza averne perfetta e matura cono scenza,piuttosto,perseguire ifacili lodatori che per veder ne realmente l'importanza coi proprii occhi. Educato dalla critica nuova e poderosa dello Spaventa , Fiorentino percorso da padrone e da maestro il campo glorioso della Rinascenza italiana, e v'impresse orme da gigante.Gli uomini nuovi od audaci;imartiri dell'idea piacquero tanto a Fiorentino,ed eis'immedesimò loro,aspirandone l'immortale profumo,ed il soffio della giovinezza. La Calabria, che, senza conoscersi , spesso si vilipende e si schernisce,non era per lui barbara c selvaggia, covo di briganti, e nido di cannibali; era in vece terra di filosofi, di critici, di poeti ; culla di martiri e di eroi, terra artistica ed originale,a cui,ultimo tra gl’in gegni calabresi,consacrai tutto me stesso,e per la quale non cesserò di combattere, finché avrò forze, finchè in Italia vi saranno uomini senza coscienza storica e senza carità di patria. La Calabria (e perdonate questo amore indomabile alla mia patria nativa , alle mie care montagne ) seppe a n ch'essa indovinare e comprendere i tempi nuovi , uscire dal fondo de'suoi burroni,e mettersi a paro coi più grandi eroi della Rinascenzaitaliana.La Calabriaseppe anch'essa com battere con la sua selvaggia vigoria lo impero , la scuola , edilpotereteocratico.Ilcalabropensiero,che ancorasiac cusadiangustiaemunicipalità,è,com’iodimostrai,un pensie ro,non solo nuovo ed originale,ma eziandio italiano,europeo   90 GIORNALE NATOLETANO  ed umano . Universale in filosofia, inizid con Telesio lo stu dio dellanatura,sconosciutaaipadrinostri,velatapertanto tempo dalle ombre del Medio-Evo;nel tetro carcere della Vicaria creò col Serra la scienza economica ; con Galeazzo usci dal cerchio della poesia provinciale , e fuse nel calabro Sonetto la vigoria di Dante e la musica del Petrarca ; pre corse col Campanella a Descartes ; e con Gravina anticipo Vico e Montesquieu, o creò la nuova critica italiana. Fiorentino , che , com'egli stesso canto , avea Saldo il voler ne le virili imprese, E indomita la tempra calabrese, innamorato della vecchia Calabria, fa rivivere con magiche tinte le belle ed eroiche figure dei padri nostri, il P a r r a sio, A. Telesio, il Martirano, il Quattromani, il Tarsia, T. Cornelio,M. A. Severino,loSchettiniecc.;filologi,poeti e critici precursori , che usciti dal fondo dei nostri boschi illustrarono le prime Università, e diedero un potente i m pulso al Rinascimento italiano, col fondare e promuovere quella stupenda Accademia Cosentina, segno in tutti i tempi di odio inestinguibile e di amore indomato,la quale è tanta parte del dramma grandioso della Rinascenza;diede all'Ita lia grandi latinisti da emulare il Poliziano , il Sannazaro , il Fracastoro , e sorpassarne altri con Coriolano Martirano; porta scolpito il fatidico motto : Donec totum impleat orbem ; decrescit numquam ,nec fulmine laeditur;e servi di modello a tutta Europa col Telesio per la scoverta del vero metodo naturale. Sotto questo doppio aspetto la vide l'occhio sagace del Fiorentino, e stupendamente la illustrò , sollevandola a quel posto, che merita, e meriterà sempre, finchè le tradi zioni del pensiero laicale ed umano rimarranno vive in C a labria,e ne trasformeranno lavita,l'arte,elaspeculazione; finchè vi saranno uomini insigni come il Presidente Sca glione,ed ilSegretario Greco,che ne accresceranno le glorie e l'importanza , continuando l'esempio dei loro illustri a n tenati, che noi, gaudenti e borghesi , abbiamo dimenticati, sconosciuti , e fino scherniti.... Il Fiorentino , che il dotto   FRANCESCO FIORENTINO 91 Canonico Scaglione avea precorso con lo studio sul Telesio, pubblicato negli atti dell'Accademia fin dal 1843, studiando a fondo, al lume della nuova Critica, le opere del filosofo cosentino, proclama che il Telesio inaugura i tempi moderni , r i t i e n e l a N a t u r a , c o m e il p r i n c i p i o u n i v e r s a l e d e l l e c o s e , il ricettacoloditutteleforme,e,come schietto naturalista,ri. getta Aristotile e la Scolastica, la Teosofia, e la Magia . Il Telesio, evitando la contraddizione aristotelica , che rompe l'unità della natura,parte da una materia primitiva ed uni ca,e da una contrarietà universalissima, ilcaldo ed ilfred do , nature agenti , dalla cui azione sulla materia nasce la generazione e la corruzione. Telesio , pur ritenendo la necessità di un'opposizione universale e di un'unica materia, il che era anche ammesso d'Aristotile , ne ha profondamente modificato il valore. La forma aristotelica, ch'era sempre assoluta ed estranaturale, non gli parve principio naturale , e la sbandì , e la rigettò dalla sua filosofia, con la rude franchezza del calabrese . In una parola , la natura non ha mestieri per essere spiegata di principi, che non siano naturali; e così fu vinto e sor passato il Medio -Evo, e la Filosofia delle Scuole. Il soffio giovine e fresco delle nostre montagne spazzò lo nebbie sco. lastiche , e Telesio , meditando gli arcani della natura nel suo ameno podere, sito sulle rive pittoresche del fiume Co. r a c i , f u v e r a m e n t e il p r e c u r s o r e d i B r u n o e d i G a l i l e i , l ' u o . mo nuovo ed audace, che scrolla il vecchio mondo medie vale, ed inaugura l'epoca moderna. Telesio, rigettando l'entelechia aristotelica, vi sostitui una sostanza sottile , mobile , lucida, che per lui costituiva il principio della vita;semplificò inoltre ilsistema del natu ralismo,tolse ildissidioimmenso,che funel Medio-Evo tra la natura esterna e l'organismo vitale , e fuse insieme nel suo novello sistema la Fisica e la Biologia . Fiero ed i n e sorabilo calabrsse, rovescio tutto, non diè quartiere ad Ari stotile ed alla Scolastica , o combattė senza ipocrisia , ed a    fronte scoverta; diede una nuova teorica dell'anima, sorpas. sando il Fedone platonico, e l'intelletto universale di Ari stotile; fondò sul senso la conoscenza, ed ammise il mondo etico come un effetto e risultato naturale. Nel vasto dramma telesiano, che il Fiorentino stupen damente tratteggia, brilla di nuova luce il martire di Nola , il q u a l e , e b b r o d e l n u o v o D i o , d e l l ' I n f i n i t o g e n e r a n t e , e d e l l a Natura,allarga efeconda iconcetti delfilosofocosentino,éd accetta pienamente il naturalismo . Il vero assoluto rimane però in lui un punto oscuro,dove i contrarii si affondano e spariscono; il Nolano, più che cogliere con l'atto intellet tivo l'assoluto, vuole trasformarsi in lui, e divenire Iddio. E leroico furore, che lo trasporta in grembo dell'Infinito, non il sillogismo speculativo , e la serena meditazione ; • l'ebbrezza dell'amante, che lo trasfigura in grembo alla di vina Anfitrite.Bruno,uomo del Mezzogiorno, nato presso il Vesuvio,ha scosso in ogni tempo la mente dei pensatori, ed il cuore dei poeti... Eroe leggendario del pensiere, ca valiere errante della scienza , mistico 'o ribelle , inesorabile flagellatore dei cucullati pedanti , egli che avea vestita la bianca tunica di S. Domenico, ilBruno percorse,si può dire, da un capo all'altro l'Europa disputando, combattendo,af. frontando ilvecchio Aristotile,laciarlataneria delleScuole, e l'infallibilità dei dottori. Vilipeso e adorato, schernito glorificato , ora debole innanzi a'suoi carnefici, ed ora su - blime ; tradito a Venezia dal Mocenigo , suo discepolo ed ospite, è consegnato al Sant'Uffizio, dissacrato e condan . nato a morte. Quando in Roma gli fu letta la sentenza , G. Bruno,con calma eroica e tremenda ironia, ha ilcorag. gio di profferire innanzi ai giudici queste memorande parole: « Maggior timore provate voi nel pronunciar la sentenza contro di me,che non io nel riceverla .»Il 17 Febbraio 1600, l'eroe della verità, e del pensiero laico fu legato come un volgare malfattore ad un'antenna,e,bruciato vivo in Campo di Fiore, imperterrito il Bruno non mandò nè un sospiro,  92 GIORNALE NAPOLETANO .   FRANCESCO FIORENTINO 93 nè un lamento; le fiamme furono la sua apoteosi;e benchè le sue ceneri fossero state disperse al vento, corsero l'Eu ropa come polline fecondatore , e vi propagarono i semi del libero pensiero, e della filosofia moderna.... F. Fioren tino, pensatore e poeta,che dopo più maturi studî avea ac cettata in tutta la sua pienezza la Rinascenza , ritorna su G. Bruno , e lo vede nel Telesio sotto un nuovo punto di vista; e se prima,nel suo lavoro giovanile, lo avea rigettato, come panteista ed antimistico, ora lo guarda , e lo ammira come ilveroeroe delpensiero,l'araldoeilmartire della nuova e liberafilosofia;degno, come disse B. Spaventa,di avere un posto accanto a Prometeo ed a Socrate. Quel che Fiorentino scrisse di B. Spaventa , permettete , o Signori, che io lo riferisca al nostro fiero concittadino : « Il grande « ideale del filosofo per Fiorentino era il Bruno ; pari forse « avrebbero avuto il fato, se fossero vissuti nella stessa età. « Fiorentino avrebbe guardato il rogo con lo stesso corag . « gio; Giordano avrebb » disprezzato con la stessa serenità, « non il rogo, ma qualcosa di peggio,quella rete sottilissi. « ma di cabale, onde la turba ignara circonda gli animi al « teri;che tentano slacciarsi da maltesi agguati:non ilrogo, «ma lacalunnia divota:dopo ilTorquemada ilTartufo: < siamo ben progrediti noi. » Il vecchio Dio della Scolastica si assottiglia in G. Bru . no; in lui si fondono Dio e l'Universo; la creazione è svi luppo di Dio stesso, processo necessario , che rende cono scibile e reale l'attività di Dio : in una parola, il Dio del Nolano non vive se non per la natura,e nella natura:fuori e senza di lei sarebbe un'astrazione ed un fossile. La n e cessità della creazione, che il Bruno insegna a viso aperto, lo mette di accordo col futuro naturalismo spinoziano , e lo fa precursore della moderna filosofia alemanna. La filosofia del Rinascimento , incarnata in Telesio ed in Bruno , per avere considerato l'assoluto , come natura , ha preparato il grande avvenimento dello Spirito, la cui speculaziane inco  1 2 1   mincia con la coscienza cartesiana. L'infinita natura , ini ziata da un Sofo di Calabria,è la gran parola della R i n a scenza e dei tempi moderni !... Telegio e Bruno preparano inoltre la vasta speculazione di Tommaso Campanella,indo mito Frate, che sopporta,con la fiera costanza del Calabrese 26 anni di carcere,ed un giorno intero di torture. Permet tete,o Signori,ch'io m’inchini al martirio di Campanella, ed al rogo di G. Bruno ; martirio e rogo , che sono la gloria del Mezzogiorno,e del libero pensiero;la condanna più elo. quente dei feroci persecutori dell'umana ragione !... C a m p a nella, che sublimò alla dignità di principio speculativo la divinità latente del Bruno , è il vero tipo dell'uomo cala bro, ricco d'ingegno e di cuore, intemperante, battagliero, audace , iniziatore. È uomo originale e contraddittorio ; fa l'apoteosi della Teocrazia e della Spagna,della Scolastica , del Medio-Evo,e poi scrive laCittà delSole, e vagheggia la democrazia ed il socialismo, la sovranità del libero pen siero, e lo Stato laico moderno . Ei fonde in sè due età di verso , la età della fede , e l'età della ragione ; Platone ed Aristotile , Telesio ed il Cusano ; l'austero sillogismo del pensatore,e le vaporosità dell’Astrologo;le apocalittiche vi. sioni dell’Abate Gioacchino , o la fredda sottigliezza del M a chiavelli ; l'ossequio alle somme chiavi , e l'audace ribel l i o n e d i L u t e r o .... C a m p a n e l l a , s t u p e n d a m e n t e t r a t t e g g i a t o da Fiorentino , ritorna , come metafisico , a Platone , ed al Medio-Evo;come sensista e psicologo, anticipa,nella teorica del senso e della cognizione, Cartesio, ed il mondo moder no . Ei proclama la identità del pensiero e dell'essere ; se non che sì fatta unità non acquista la forza di vero prin cipio,e Campanella,ad onta delle sue stupende divinazioni, ondeggia ancora tra lo schietto naturalismo ed il sistema delle cause finali. Alla filosofia naturale , che tolse in p r e stito ed usufruttuò dal nostro Telesio,Campanella aggiunse una metafisica, che ne rimase staccata; mettendo ogni sforzo per levarsi alle categorie supreme della natura e dell'essere,  94 GIORNALE NAPOLETANO : >   FRANCESCO FIORENTINO 95 non seppe applicarle alla natura, e con tutta l'energia p o derosa di assurgere all'Unità, restò nella opposizione , ch'è il carattere principale del naturalismo. Il solo naturalismo, chiarendosi col Campanella impotente a spiegare la genesi della Natura,non potė, esso solo, sciogliere il gran proble. ma del mondo moderno,e conciliare l'universale col parti- colar :; ricomprendere il senso in una forma di pensiero più larga, dove l'opposizione riapparisse trasformata ed unificata in una sintesi suprema e dialettica. Tale fu il progresso a p portato nel naturalismo,o nella filosofia moderna da Galileo e Descartes; tali sono le glorie del nuovo pensiero, antimi stico e laicale , iniziato da due filosofi , nati tra i selvaggi burroni delle nostre Calabrie... Fiorentino,dopo aver richia mato alla memoria degli Italiani Tommaso Cornelio , e M. A. Severino , glorie dell'Università Napoletana , e filosofi telesiani; dopo aver valutato la importanza del Galilei e del Bacone , si arresta col Descartes alla soglia della filosofia moderna, lieto che la speculazione filosofica si stacchi dalle scienze naturali,preliminare,per altro,necessario nella evo luzione del pensiero moderno,e siposi nel Cogito cartesia no.La natura si emancipa, il pensiero si scioglie, e diviene più libero e più snello; lo Spirito , che tutto ringiovanisce e trasforma , fondo ed armonizza Telesio e Bruno , C a m p a nella e Galileo , Bacone e Descartes , e la silvosa Calabria entra co'suoi filosofi, e coi suoi profeti, co’suoi martiri, e co'suoi precursori nel dramma glorioso del mondo moder no... Vi rientra sotto l'impulso del Fiorentino , che, nato presso Stilo, tocca di nuovo la squilla dimenticata del C a m panella , annunzia ai giovani calabresi l'aurora di nuovi giorni, la completa emancipazione dalla Scolastica e dal Me . dio-Evo;larisurrezione delpensierodellaMagna-Grecia, fuso, ingrandito,trasformato nel pensiero moderno...La Ca labria e l'Accademia Cosentina non potranno dimenticarlo ; non potranno disconoscere l'austero filosofo, che ne illustrò stupendamente le glorie, e con magico pennello ne ritrasse    96 GIORNALE NAPULETANO gli apostoli , e gli eroi , rivendicando i padri nostri al c o spetto di un secolo banchiere eborghese ... La morte lo colse ancor giovine sulla soglia del tempio del Rinascimento; glo. ria al virile sacerdote della scienza,che muore,adempiendo il suo dovere , mentre si folleggia , deridendo gli eroi del pensiero,imodesti operai del mondo moderno,e sigittalo scherno sulle ossa dei grandi precursori della nuova Filoso fia e della nuova Critica.... Io ho fede che la gioventù ca labrese,così ricca d'ingegno e di cuore, cosi amante delle patrie glorie,avrà un culto per gli uomini,che muoiono sulla breccia , martiri della scienza e della patria ; per le anime generose,che non curano le amarezze della vita, l'esilio,la povertà, la carcere,ed accettano, fino le torture di Campa nella,finoilrogodiG.Bruno.....Ho fedechelaCalabria si rinnovi nel lavacro della Rinascenza e negli studii virili delpassato,elagentileedottaCosenza,riccaperme di care e dolorose memorie,prodiga di tanto sangue alla patria, di tanto contributo d'ingegno alla storia del pensiero ita- liano, s'ispiri nell'austera figura del più grande dei suoi figli, il cui busto parla tra il verde degli alberi la gran p a rola del Risorgimento alla nostra gioventù... Ho fede che l'austera parola del filosofo di Sambiase non suoni più nel deserto, e la sua tomba, su cui piansero amici e nemici,sia un'ara dove le novelle generazioni attingano iforti propo siti, e, quel che più ci preme,la serietà della vita, l'abne gazione,ilsacrifizio,ed illibero pensiero....Così,o gio vani, non sarò costretto a ripetere gli amari versi dell’au - stero poeta di Recanati : Oggi è nefando stile Di schiatta ignava e finta Virtù viva sprezzar lodare estinta!....Vincenzo Julia. Julia. Keywords: implicatura, filosofia calabrese, Campanella, Telesio, Sanctis, Leopardi, Mazzini, Garibaldi, Gioberti, Spaventa, Hegel, Aligheri, Serra, Bruno. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Julia” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51688613097/in/photolist-2mPVkio-2mPysn2-2mKxDSr-2mJ4GHU-2mDUFSN-RkfqJ3-Bq5Z5y-CkaHMd-i7brtE

 

Grice e Juvalta – implicatura – filosofia italiana – Luigi Speranza (Chiavenna). Filosofo.  Grice: “At Harvard, I said I was ‘enough of a rationalist,’ but perhaps Juvalta would say that wasn’t enough!” – Grice: “Juvalta has explored the limits of rationalism, in connection with value and reason: if value is irrational, how can co-operation be rational in terms of an accord to follow conversational maxims?” essential Italian philosopher. Ogni sforzo di derivare una valutazione morale da qualche cosa di cui non sia già riconosciuto il valore morale è dunque vano e illusorio. O non dà quel che si cerca, o presuppone quel che si pretende di fondare.» I genitori sono il barone Corrado Juvalta, cancelliere della locale pretura originario di Villa di Tirano, e Teresa Zanetti di Tirano. Dopo gli studi liceali trascorsi tra Como e Sondrio, si iscrisse a Pavia dove si laureò con una tesi su Spinoza, sotto la guida di Cantoni. Successivamente insegna a Caltanissetta, Potenza, Spoleto. Vinse il concorso per la cattedra di filosofia a Torino. Le tematiche accademiche prevalentemente trattate riguardarono soprattutto i valori di “libertà” e di “giustizia” con ampie riflessioni etiche. Convinto della loro generalità e universalità, arriva ad auspicarne una loro applicazione anche nello studio delle categorie politiche ed economiche. La filosofia di  Juvalta è una profonda riflessione sull'etica portata avanti con il metodo dell'analisi. Anche se, come risulta dalla sua, non troviamo nei suoi scritti importanti contributi sul piano gnoseologico ed epistemologico, dal momento che il suo principale campo d'indagine fu prevalentemente il Sistema morale, possiamo affermare senza dubbio che sia il kantismo che il Positivismo costituirono il nucleo di fondo della sua posizione, da cui sviluppò la sua impostazione metodologica.  Il positivismo, in particolare, è stato il primo grande sistema filosofico con cui si è misurato nella prima fase della sua elaborazione concettuale. Tuttavia Juvalta sarà costretto a prendere presto le distanze da una siffatta visione della morale. I motivi di questa rottura sono da imputare principalmente al suo fermo rifiuto di accogliere come sostenibile la pretesa positivistica di fondare l'etica sulla scienza. Il giudizio con il quale si afferma il valore di un oggetto è diverso e non deducibile dal giudizio col quale ne afferma l'esistenza o la possibilità o la connessione modale o condizionale con altri soggetti. Apprendere come le cose sono, è tutt'altra cosa dal valutarle. Dal momento che l’etica si concreta nella costruzione di una teoria ed in particolare di un sistema coerente di valori morali, il giudizio che sta alla base di una qualsivoglia teoria etica deve configurarsi come “un giudizio originario” che ha una natura eminentemente etica, quindi non scientifica né tantomeno metafisica. Se però una etica scientifica appare insostenibile per il motivo dell'indebita derivazione di un giudizio di valore, di natura morale, dal giudizio ‘aletico,’ di natura fattuale, è indubbio che la costruzione di un sistema morale debba essere condotta con criteri di scientificità. Nella misura in cui ogni teoria si basa su criteri logico-deduttivi e viene definita dalle relazioni logiche che intrattengono in essa i propri elementi costitutivi, così anche la costruzione di un sistema etico deve seguire la stessa metodologia e mostrare possibilmente l'identica costruzione formale. Questo sistema di valori ha l'obbligo di mantenere al loro interno un imprescindibile grado di coerenza, se vogliono risultare sostenibili ed essere così accettati dalla ragione (pratica). Quando parla di ‘teoria’ dell’etica lo fa proprio pensando a questo carattere logico-deduttivo dei valori all'interno di un sistema. In particolare vede garantita la coerenza di un sistema morale nella misura in cui un coerente insieme di valori viene rigorosamente derivato (volitativamente) da un postulato, imperativo categorica, o assioma, di valore morale capace di fungere da premessa all'intero sistema (allora come insieme di massime universalisabili). Una volta prese le distanze dai positivisti, si avvicina successivamente al Kantismo; in particolare accoglierà, anche se con alcune riserve, molte delle posizioni assunte dal cosiddetto Neokantismo, il movimento di pensiero che ha come obiettivo la ri-valutazione piena del filosofo di Konisberg riadattando i contenuti del suo pensiero ad esigenze e problematiche tipiche della contemporaneità. Vede in Kant il più grande filosofo della modernità, colui che meglio di qualsiasi altro pensatore ha saputo cogliere il vero senso dell'autonomia della morale, svincolando per sempre l'etica dai saperi di natura conoscitiva (aletica, pura, o giudicativa), i quali, proprio in quanto si rivolgono all'ambito del fenomeno, non riescono a coglier interamente tutto ciò che ha a che fare con la sfera dei valori (come per esempio la scienza e in generale l'ambito teoretico). L'indipendenza e l'indeducibilità del valore morale da qualsiasi speculazione teoretica fu, come tutti sanno, riconosciuta e affermata, nella forma più esplicita e con grandissimo vigore dal Kant. Kant ha il grande merito di consegnare alla morale uno speciale statuto di autonomia e di indipendenza. La morale esprime questo suo carattere di autonomia e di “auto-assiomaticità” per poter continuare ad essere coerente e allo stesso tempo attendibile sotto il profilo puramente teorico. Abbracciare l'idea di autonomia della morale significa accettare una visione anti-fondazionalista dell'etica. L’etica non può prendere le mosse che da se stessa. Ogni tentativo di fondare l’etica su ambiti del sapere diversi da quello morale, finisce con il configurarsi come un'indebita pretesa di intromissione da parte di chi si illude di derivare un contenuto del valore morale da una premessa fattuale o metafisica o estetica. Alla base di un sistema coerente del valore morale, cioè un sistema morale costruito deduttivamente, deve esserci un postulato originario (assioma o imperative categorico) di natura etica e non di natura aletica o peggio ancora metafisica, e questo per questioni eminentemente logico-analitiche, che impongono ad ogni sistema coerente di evitare la fallacia logica della petitio principii, cioè l'errore di voler caparbiamente dimostrare ciò che invece abbiamo già implicitamente accettato nelle premesse.  Una volta riconosciuto il contenuto di quel postulato morale e pensato come un valore che può essere vissuto ed accettato da un soggetto agente e concreto, allora si creano i presupposti di base perché una coscienza riconosca in esso un'intrinseca validità, che trova una sua precisa giustificazione solo a partire dalla sua intima natura assiologica. È proprio questo suo riferimento al contenuto del valore morale che lo costringe a rivedere i limiti di una filosofia morale incardinata su binari formalistici e a non accettare tout court la filosofia morale di Kant.  L'ambito della giustificazione e l'ambito esecutivo. Assumere come principi della ricerca etica l'autonomia, l'antifondazionalismo, l'antiformalismo porta  Juvalta a distinguere l'ambito della giustificazione, cioè il momento riflessivo che ci vede impegla ricerca di ragioni che possano difendere razionalmente la scelta di un fine e di un valore morale, dall'ambito esecutivo che invece coinvolge il momento motivazionale dell'azione ed è fortemente condizionato da elementi contingenti legati al momento storico, inter-soggetivo, e culturale nel quale il soggeto si trova ad agire. Con un atteggiamento tipicamente moderno difende la possibilità dell'esistenza di una pluralità di fini morali sia sul piano teorico che pratico, e con la stessa energia cerca di trovare una soluzione per definire le precondizioni teoriche che rendano possibile una compatibilità tra i diversi valori.  La modernità define un passaggio epocale e pieno di tensione nel campo della filosofia morale ed ha segnato il tramonto di un'unica, grande e coerente visione dell'etica. Con l'avvento dell'epoca moderna si è fatta strada l'idea del tutto legittima dell'accettazione di differenti sistemi di valori e di diverse visioni del mondo, i quali trovano, da questo momento, una loro precisa dignità e legittimità in virtù delle ragioni che le diverse dottrine filosofiche hanno saputo elaborare in favore della loro sostenibilità. Invita a prendere coscienza di questo cambiamento di prospettiva e a considerarlo, asetticamente, come un passaggio dal vecchio problema della morale, in cui il fine principale era la ricerca di una fondazione dell'etica e di una giustificazione dell'esigenza del bisogno di moralità all'interno di ogni coscienza, al nuovo problema della morale riassumibile nella domanda; come possiamo decidere i beni e i valori desiderabili in sé una volta che abbiamo accertato l'esistenza di una pluralità dei postulati di valutazione morale?  La scelta del fine supremo e i limiti del razionalismo etico Juvalta vede nel momento della determinazione della scelta del fine supremo, il cui contenuto costituisce la base per il postulato di valore primario, il principale limite del razionalismo etico. La razionalità può solamente giustificare, cioè portare ragionamenti a favore di una tesi, o stabilire relazioni e deduzioni tra elementi di un sistema, in questo caso valori, che sono legati dalla loro stessa natura; ma essa non può imporre i fini. La razionalità accetta, per così dire, il giudizio di valore morale come un dato, ma non lo può stabilire lei in via preliminare perché nel campo etico la razionalità non riesce a cogliere interamente la natura dei nostri giudizi di valore. La ragione dei mezzi per quanto si faccia non dà valori; la ragione esige la coerenza; teorica: dei giudizi fra di loro e con i principi e i dati su cui si fondano; pratica: delle valutazioni derivate e mediate con le valutazioni direttamente o postulate, e delle azioni con le valutazioni. Le valutazioni sono, come espressioni di una esperienza interiore sui generis, valide di per sé…”  I valori ultimi di Libertà e Giustizia Tuttavia il messaggio di Juvalta contiene anche un aspetto propositivo, non secondario. Anche se esiste una pluralità di valori che la coscienza può scegliere come fini, i quali si costituiscono come le linee guida della nostra condotta individuale, una volta adottato il criterio razionale di ‘universalizzazione’ del valore è possibile intuire che le scelte si riducono rispetto a quelle che la ragione può immaginare come possibili e, soprattutto, viene meno la completa arbitrarietà della scelta originaria. E convinto che due valori su tutti debbano essere visti come i fini supremi su cui improntare la nostra vita e organizzare le nostre società, vale a dire, primo, il valore morale della libertà; secondo il valore morale della giustizia. Libertà e giustizia costituiscono le pre-condizioni della vita morale e gli unici due valori morali, tra quelli possibili, che risultano “universalizzabili”. Essi sono le sole precondizioni che permettono ad ogni essere umano di realizzare il proprio fine e di raggiungere i propri beni (valori), in vista di una totale e piena realizzazione della natura umana, senza limitare la ricerca della moralità dell’altro. Libertà e giustizia rappresentano per così dire i cardini di ogni sistema morale con i quali poter impostare se non un vero e proprio ripensamento di ogni pratica umana almeno una profonda critica ai modelli di società dominanti quali l'individualismo liberale, l'autoritarismo o la proposta socialista. La libertà esprime l'esigenza delle condizioni inter-soggettive necessarie a fare dell'uomo una persona padrona di sé di fronte a sé e di fronte ad ogni altro. La giustizia esprime l'esigenza delle condizioni inter-soggetive necessarie all'esercizio universalmente efficace di questa libertà. Non fu un pensatore sistematico e non cercò mai di definire un sistema filosofico che rendesse ragione dell'organicità del suo pensiero. E sostanzialmente contrario a ingabbiare la riflessione filosofica in grandi narrazioni o in arbitrari sistemi, dal momento che era fermamente convinto che il pensiero soprattutto etico sfuggisse per così dire all'idea di sistematicità e organicità che aveva così profondamente caratterizzato la maggior parte del lavoro filosofico ottocentesco.  D'altra parte questo non significa che non esiste un'evoluzione all'interno della sua riflessione, o che la sua proposta nel campo della filosofia morale non trovi una sua coerenza e una struttura di fondo ben definita. Saggi: “I due limiti del razionalismo etico: liberta e giustizia” (Einuadi, Torino). Contiene:“ Prolegomeni a una morale distinta dalla filosofia” (Bizzoni, Pavia); “Le dottrine delle due etiche” in «Rivista filosofica», “Per una scienza normativa morale”; in «Rivista filosofica», “Il fondamento intrinseco del diritto”; “Su i limiti della morale” (Bocca, Torino); “Il metodo dell'ECONOMIA pura nell'etica, in «Rivista filosofica»); “Postulati etici e postulati metafisici”; in «Rivista di filosofia»: “Postulati etici e imperativo categorico,” «Atti congresso di filosofia» (Bologna)(Formiggini, Genova); “Sula pluralità dei postulati di valutazione morale” in «Atti del congresso della società filosofica» (Genova) (Formiggini, Genova); “l vecchio e il nuovo problema della morale” (Zanichelli, Bologna); “In cerca di chiarezza”; “Questioni di morale”; “I limiti del razionalismo etico” (Lattes, Torino); “Il con-flitto morale”; in «Rivista di filosofia»; “La dottrina morale di Spinoza”; in «Rivista di filosofia», “D. Basciani, L’etica della giustizia” (Desclèe, Roma); F. Picardi, La morale in Juvalta” (Filosofia, Marzorati, Milano); M. Viroli, “L'etica laica” (Angeli, Milano); Juvalta,  «Rivista di storia della filosofia»,  Angeli, Milano, Dizionario Biografico degli Italiani, Istituto dell'Enciclopedia italiana Treccani, Guido Scaramellini, Chiavennaschi nella Storia, Chiavenna, Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Grice: “Again, these Italians! I know that I had I been one, I had been ‘il filosofo di Harborne’ – now Juvalta, they doubt as to how Italian he can be seeing that he is listed in Scaramellini’s little book, “Schiavennaschi nella storia”!” Grice: “Unlike me, Juvalta is a baron, from the ‘grigioni’ – i. e. the grey league – because of the grey wool they wore --. ‘grissone,’ as in my surname, so in a way we ARE related!” ” IL VECCHIO E IL NUOVO PROBLEMA DELLA MORALE  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta PARTE PRIMA IL FONDAMENTO DELLA MORALE 4  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta CAPITOLO PRIMO IL CARATTERE DEL PROBLEMA E LE SUE FORME Se la saldezza di un giudizio dovesse giudicarsi dall'accordo delle dottrine che cercano di stabilirne il fondamento, nessuna specie di giudizi sarebbe piú incerta dei giudizi morali. Se così non è, se i giudizi, o almeno alcuni, sono, nonostante l'incertezza del fondamento, riconosciuti e ac- colti come validi incontestabilmente, può apparire legittimo il dubbio, o che il «vero» fondamento non sia ancora trovato, o che non si possa trovare: cioè che il problema sia insolubile. E in questo caso: se sia insolubile per difetto di mezzi, ossia per radicale nostra incapacità a risolverlo; o perché è un problema mal posto, cioè nella forma con la quale si presenta, illusorio e fittizio. Dichiarando subito che a mio credere il problema è insolubile, ed è insolubile perché fittizio, m'è appena necessario di soggiungere che ciò non equivale in nessun modo (come potrebbe parere a prima vista) a ritenere prive di significato ed infeconde le indagini e le discussioni delle quali fu lie- vito, né tanto meno ad ammettere che, rimosso il problema fittizio, nessun problema gli sottentri, anzi non ne rampollino piú altri al luogo suo. Mostrare come e perché un problema sia mal posto, non è altro in effetto che la preparazione necessaria a sostituirgliene degli altri. ** * Il problema del fondamento è ispirato primamente e dominato, si può dire, in tutte le sue forme da una preoccupazione pratica e apologetica: Bisogna dimostrare che la morale ha ragione; che quel che essa suggerisce o prescrive è veramente bene che la sua autorità è legittima e deve es- sere rispettata. Ora un tal modo di porre il problema presuppone manifestamente che su ciò che la coscienza morale prescrive non cada dubbio; o che, se il dubbio sorge nasca non da incoerenza o opposizione di criteri diversi o contrastanti, ma da errore e confusione di interpretazioni e di giudi- zio nelle applicazioni concrete. Il che si accorda con la osservazione di fatto che fino a quando il presupposto è legittimo, cioè nei limiti nei quali corrisponde a una convinzione universale salda- mente stabilita, non è questa o quella dottrina sul fondamento della morale che fa accettare o re- spingere i dettami della coscienza morale, secondo che si accordano o no con la dottrina, ma sono le convinzioni morali che fanno accettare e respingere una dottrina secondo che è o appare adatta o disadatta a dar ragione della loro certezza, a mostrarne la validità. Questa preoccupazione pratica spiega l'insistenza e la pertinacia degli sforzi volti a risolvere un problema radicalmente insolubile: di giustificare ciò che è presupposto in ogni giustificazione; di derivare da delle idee una volontà; di creare con dei ragionamenti un potere; illusione che si rivela nelle forme piú svariate e negli indirizzi piú diversi, e per la quale accade, cosa notissima, che a cia- scun sistema riesce assai piú facile dimostrare l'insufficienza degli altri, che provare la sufficienza propria. Il problema fu infatti inteso in modi diversi, e la soluzione cercata in direzioni corrisponden- ti, distinte e chiaramente separabili; sebbene il piú delle volte variamente intrecciate e sovrapposte l'una all'altra in un medesimo indirizzo di pensiero e anche in uno stesso sistema. Infatti la domanda: «Perché dobbiamo noi fare, cioè volere ciò che la coscienza morale ci detta», che è la forma piú larga e indifferenziata in cui il problema si esprime, suggerisce quattro te- si o tipi di soluzione diversi: I. Considerare i principi e le norme morali come «verità» di cui si cerca il fondamento in una realtà obbiettivamente data alla coscienza. II. Dimostrare la bontà di ciò che la morale prescrive, cioè derivarne le norme da un fine ossia da un bene o ordine di beni (qualunque ne sia poi la natura) che ne giustifichi l'osservanza. 5  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta III. Provarne l'autorità; e cercare di questa autorità il fondamento: a) sia nella storia; b) sia in una volontà distinta dal volere personale e che si impone ad esso. Ciascuno di questi tipi di soluzione deve essere esaminato piú brevemente che sia possibile, ma esaurientemente. 6  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta CAPITOLO SECONDO IL FONDAMENTO CERCATO NELLA REALTÀ La persuasione che i principi morali, i criteri di valutazione, le norme della condotta, non so- lo possano ma debbano avere il loro fondamento in un ordine di verità accertabile teoricamente, cioè si possano ricavare da rapporti o leggi validi obbiettivamente, in nessuna altra forma forse ap- pare piú chiaramente che in quella della questione, dibattuta con tanto accanimento, se la morale si fondi sulla scienza o sulla metafisica, e nella natura degli argomenti messi in campo così dall'una come dall'altra parte. Perché la «scienza» si sforzava di dimostrare che la realtà a cui faceva appello la metafisica era immaginaria o inverosimile, e in ogni caso arbitraria ed incerta, e quindi non poteva su di essa fondarsi nulla di obbiettivamente valido; e la «metafisica» insisteva nel porre in evidenza la relativi- tà, la contingenza, la limitatezza della conoscenza empirica; e l'impossibilità di attingere in essa al- cuna verità necessaria ed universale, e perciò una qualsiasi validità né di forma, né di fine, né di do- veri. Ora l'uno e l'altro tipo di argomentazione si svolgevano e si svolgono appunto nell'ambito di questo presupposto: che i principi morali debbano fondarsi su qualche cosa d'altro, che li legittimi, che ne dimostri la certezza, che ne faccia riconoscere la verità; senza avvertire che il fatto stesso del discutere, cioè dell'ammettere la buona fede, cioè dunque la moralità del contraddittore, smentisce il presupposto. Il che concorda con l'osservazione ovvia ma non negabile per la sua massiccia eviden- za: che si trovano degli uomini di sincera e provata rettitudine morale fra i seguaci delle piú diverse dottrine. Né vale l'obbiezione che si può fare e si fa: che non si tratta di vedere se ci siano delle per- sone morali, tra i seguaci di una dottrina, ma se questi siano logici o siano coerenti con se stessi; os- sia se con quelle dottrine si possa ragionevolmente conciliare quel modo di giudicare e di valutare. Perché una tale obbiezione non esce dall'ambito del presupposto, anzi lo implica, appunto perché ammette come pacifico che un criterio di valutazione morale abbia una connessione necessa- ria, cioè logica, con certi principi teorici, e che non possa essere accettato se non in grazia di quei principi. Ma è il presupposto del fondamento teorico che bisogna provare; e non si prova con una petizione di principio. Il criterio morale a non si legittima se non col principio teorico A; se trovia- mo accettato a con B con C con D e non con A, vuol dire che quella coscienza è illogica, incoerente. Ma perché diciamo noi che sono illogiche le menti che non connettono a con A invece di riconosce- re semplicemente l'altra alternativa: che è possibile così l'una come l'altra connessione, che non vi è nessuna necessità intrinseca di dipendenza di a da A? Appunto perché, se si ammettesse che un medesimo criterio morale può accordarsi con prin- cipi teorici diversi, si dovrebbe ammettere che non si fonda né sull'uno né sull'altro, cioè che la fon- dazione teorica è illusoria. Insomma il ragionamento si riduce a un procedimento di questo genere: per dar certezza a una valutazione morale è necessaria una certa fondazione teorica; ciò importa che, o non si debba trovare quella certezza senza questa fondazione, o che se si trova, essa sia una certezza erronea, una certezza irragionevole illogica, una certezza che non ci dovrebbe essere. «Tu qui! Ma è impossibi- le!» dice la metafisica alla morale quando la vede in casa dell'empirista; e il medesimo rimbecca l'empirista alla morale del metafisico. Ed ambedue hanno torto, perché dove la morale si trova, ella è in casa sua anche quando paia a chi dimora con lei di averla ospite1 in casa propria. 1 Neppure vale a toglier peso al fatto l'osservazione che questa possibilità di coesistenza indifferente è soltanto apparente, perché dovuta a difetto di riflessione e di rigore logico; e sia inattendibile, perché dove si avvera, manca la  7  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta ** * Ma se questa fondazione extra-morale della morale è illusoria, donde nasce l'illusione e di che si alimenta? Quando il sociologo afferma che le norme morali esprimono le esigenze della vita sociale e si fondano sulle leggi della sociologia, ciò che si tratta di vedere non è già se veramente le norme morali corrispondono o no a tali esigenze e soltanto a quelle; né quali siano, tra le innumerevoli «leggi» scoperte e che si vanno scoprendo, quelle nelle quali la morale trova il suo fondamento; ma si tratta di vedere se dalla sociologia si possa ricavare il valore della società, dalle leggi della vita il valore della vita, dal processo di formazione e di incremento della civiltà il valore della civiltà, in una parola, dai rapporti condizionali il valore del condizionato. Ora una scienza, qualunque scienza, formula dei rapporti, non dà valori; i rapporti possono bensì far attribuire un pregio a qualchecosa, se stabiliscono la dipendenza condizionale e causale di un valore da ciò che, appunto per tale connessione, diventa a sua volta un valore mediato; ma il πρῶτον ἄξιον deve essere già dato, posto, riconosciuto come valore, perché sia possibile qualsiasi giudizio assiologico su ciò che ha relazione con esso. Tutte le piú complicate e piú delicate meraviglie della vita non bastano a darle il benché mi- nimo pregio se non si riconosce già come bene o la vita stessa o almeno alcuni dei fini ai quali può esser volta: anzi non sono «meraviglie» se non perché si illuminano di questo valore finale. Che la civiltà e la cultura siano da preferire alla barbarie e all'incultura sembra dimostrabile; ed è infatti; ma quando sia ammesso o sottinteso — come accade in effetto — che abbiano piú di pregio o di dignità o di desiderabilità certe facoltà e attività e forme di condotta che certe altre, cioè quando sia già posto e accettato un criterio di valutazione. Pare a prima vista una pedanteria. — Non si riconosce infatti da tutti che la vita valga la pe- na di essere vissuta? e anche quelli che la negano a parole, non sentono nell'istinto profondo smenti- re la loro negazione? Ammettiamo senza discutere, sebbene la cosa non sia così liquida come pare, l'universalità del consenso od almeno dell'istinto. Si tratta qui di vedere se questo apprezzamento della società e della vita, questo riconoscimento di valore è posto, è dato dalla scienza; se questa voce dell'istinto, questa volontà di vivere abbia o no l'autorità che le si attribuisce o suppone. Cioè si tratta di sapere, insomma, se chi vedesse nella società e nei suoi frutti un groviglio di miserie e di vergogne possa trovar mai nella sociologia la confutazione del suo giudizio; e se a chi trovasse la vita un limbo in- differente possano le leggi della biologia farla apparire desiderabile; e se sia la conoscenza della so- ciologia o della biologia o della psicologia che darebbe voce all'istinto se fosse muto, e autorità, se non ne avesse, alla sua voce2. competenza richiesta. Un libriccino pubblicato dal LALANDE alcuni anni fa (Précis raisonné de Morale pratique, Alcan, 1907) si distingue dai molti consimili nostrani e di fuori (qui non occorre accennare ad altri pregi) per questa circostan- za caratteristica: che il catechismo morale che vi è esposto e spiegato era stato sottoposto all'esame e aveva raccolto il consenso esplicito dei piú noti e autorevoli moralisti di credenze e di opinioni filosofiche diversissime. La testimonianza dei «competenti» veniva in questa occasione a confermare quello che è un luogo comune della storia delle dottrine e della pratica morale: che sul valore e sul contenuto delle norme morali siamo tutti d'accordo, perché tutti siamo d'accor- do, quanto all'essenziale, nel giudicare la nostra condotta o l'altrui: Tutti «quali che siano le convinzioni filosofiche e religiose ed anche se non abbiamo in proposito convinzioni di sorta» (VARISCO, Massimi e problemi, Nota VI: Metafi- sica e morale. E il Varisco, come è noto, è persuaso che una vera morale implichi una Metafisica «definitiva»). Quanto all'accordo sul «contenuto» forse, come si vedrà in seguito, pare piú largo di quel che in realtà non sia. Ma qui si tratta del valore. Quanto poi alla «Metafisica... definitiva» si chiede: a che stregua si giudicherà la metafisica adatta a fondare la morale? Non si ammette già che il criterio sarà fornito dall'accordo con la «vera morale» e cioè, dunque, che la vera morale è già data prima e fuori della Metafisica? 2 Neanche è da credere che tutto si riduca a questo salto; e che superato il passaggio incolmabile dall'effetto al fine e dalla conoscenza al valore, fatto proprio dalla scienza il presupposto iniziale di valutazione che essa non può dare, ogni difficoltà di questo genere sia allontanata.  8  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta ** * Quel che non può dare una conoscenza empirica non può dare una conoscenza metafisica, se non a patto di intendere già per conoscenza metafisica la conoscenza non di una realtà «intelligibi- le» e in quanto è intelligibile, ma di una realtà già apprezzata o apprezzabile; non la conoscenza di enti ma la conoscenza di valori. Quando il Rosmini si sforza con grande vigore di dimostrare che la conoscenza dell'essere è conoscenza del grado di entità, e quindi del grado di perfezione delle cose, e che perciò la stima speculativa (la conoscenza del grado di perfezione) può e deve diventare modello e norma della stima pratica (l'assenso del nostro volere), egli assume già nel concetto dell'essere quello di bene, nel concetto di realtà quello di perfezione, cioè di valore; e non deriva il secondo termine dal primo se non perché lo ha surrettiziamente già identificato con esso. La sua «stima speculativa» in quanto è stima, cioè apprezzamento e valutazione, è già pratica, perché non ha luogo se non in rapporto alle «potenze pratiche»; in quanto è speculativa cioè conoscenza obbiettiva, intellezione della realtà, non implica nessun apprezzamento. Insomma, in quanto è stima non è speculativa, in quanto è speculativa non è stima. La cosa appare anche piú manifesta se si bada che l'essere non può servire di criterio alla stima se non perché si ammette un ordine, una gradazione di enti, e quindi di realtà. Ma la realtà, in quanto esistenza, non ha gradi; ciò che si può graduare è il pregio o il valore (in qualunque entità esso sia riconosciuto), non l'esistenza delle cose; e la realtà è graduata perché sono graduati pregi, o i beni, o i valori che essa ci presenta realizzati. Che i due termini siano diversi e l'uno non deducibile dall'altro appare manifesto dalla ne- cessità di assumere, secondo la profonda e costante tendenza del platonismo, il concetto di perfe- zione come sintesi dei due concetti del reale e del bene, o con espressioni piú moderne, dell'esisten- za e del valore. Ora la perfezione non si può intendere se non in relazione con un modello, con un disegno attuato o da attuarsi, con una finalità; e la finalità implica una valutazione, cioè una scelta, cioè una volontà. Ed eccoci alla sorgente unica e comune della impossibilità di derivare un criterio di morale dalla realtà obbiettiva, empirica o metempirica, da qualsiasi dato o legge o induzione o verità teore- tica, sia scientifica, sia metafisica. Una realtà data o possibile non può dare un criterio di valutazione se non la si considera co- me una finalità, ossia se non le si riconosce un valore. E il giudizio con il quale si afferma il valore di un oggetto è diverso e non deducibile dal giudizio col quale ne affermiamo l'esistenza o la possi- bilità o la connessione modale o condizionale con altri oggetti. Apprendere come le cose sono, è tut- t'altra cosa dal valutarle3. Per interpretare le leggi naturali come leggi morali bisogna scegliere tra le leggi necessarie e le condizioni utili a una forma di vita e le leggi e condizioni utili a una forma diversa. Ad ogni nuovo passo, ad ogni bivio si sostituisce alla conoscenza obbiettiva la valutazione, si rende necessaria una scelta; e la valutazione se anche non è espressa, e sot- tintesa. Caratteristica, a questo proposito è la affermazione del Levy-Bruhl che «la conquista metodica della realtà» cioè «un'arte razionale fondata sulla scienza della realtà sociale» deve prendere il posto della «concezione immaginaria di un ideale» (La Morale et la Scienze des mœurs, Cap. V). Questa «conquista metodica» della realtà sarà pur guidata, — e non può essere altrimenti — se non da un idea- le, ché ogni ideale è soppresso, dall'idea di qualche cosa che si pone come piú desiderabile o migliore. Ma quale è il cri- terio di questo meglio? di quella amélioration che, come dice poche righe piú sotto delle parole citate, non bisogna di- sperare di portarvi? Questo criterio non può essere il reale stesso che bisogna modificare e migliorare; sarà dunque, di nuovo, in ideale o qualche cosa che lo sostituisce. «L'ombra sua torna ch'era dipartita». 3 Il pragmatismo, anche per chi è pragmatista, qui non ha nulla da vedere. Può essere verissimo che anche la nostra conoscenza sia stimolata, sorretta, guidata, controllata da un interesse (l'interesse teorico) e come tale sia, anzi è senz'altro, un valore (intellettuale): ma ciò non muta d'un ette la distinzione notata.  9  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta Ora la conoscenza, o è teoretica, e ci dà oggetti e fatti e rapporti di oggetti e di fatti come so- no, cioè come dobbiamo concepirli per comprenderli; o li interpreta e li giudica come utili o nocivi, buoni o cattivi, preferibili o non preferibili, superiori o inferiori, e non è piú conoscenza, o almeno non piú conoscenza soltanto; e il criterio del buono e del cattivo, dell'utile e del disutile, del bello e del brutto è criterio di preferenza, di scelta, di valutazione che essa non trova nelle cose se non per- ché ve l'ha già posto, e ponendovelo ha ubbidito, consciamente o no, a un interesse che non è teori- co, ma è pratico nel senso che può restare a questa parola anche dopo le analisi del pragmatismo: pratico nel senso che, se si suppone tolta la volontà, è tolta non soltanto la molla che spinge a ricer- care e a trovare le distinzioni tra gli oggetti, ma sparisce la distinzione stessa tra gli oggetti. Ora, quando si intenda chiaramente e in tutta la sua portata questa irreducibilità dei giudizi di valore ai giudizi di esistenza o causali o teoretici (o percettivi, come mi parrebbe preferibile chiamarli), e la conseguente impossibilità di ricavare gli uni dagli altri, di pretendere che un giudi- zio di ciò che è, possa servir di fondamento a un giudizio di ciò che vale o che merita di essere, ap- parirà piú manifesta la insolubilità della questione del fondamento intesa in questo senso e cercata in questa direzione, e le ragioni di questa insolubilità. E con ciò si chiarisce anche l'inanità della controversia accennata fra metafisica e scienza e se ne spiega nello stesso tempo l'insistenza. ** * In breve (e trascurando le inevitabili inesattezze delle formule riassuntive): La realtà si può interpretare come sistema di forze e come sistema di valori. Se si interpreta come sistema di forze se ne fa una costruzione puramente intelligibile, cono- scitiva, anassiologica, estranea ad ogni moralità perché estranea ad ogni valutazione; sia essa co- struzione scientifica, sia metafisica, empirica o a priori, monistica, dualistica o pluralistica. Se queste forze si giudicano cioè si valutano, cioè si vede o si pone in esse, o operante per esse, un ordine, o un conflitto, o un processo di attuazione di fini, allora la conoscenza della realtà diventa conoscenza dei valori, e i fini della natura o della Provvidenza diventano il modello o il cri- terio del giudicare morale; e il fondamento della morale si troverà nella conoscenza di questa realtà; si consideri essa come scienza o come metafisica. Ma perché quelle forze siano apprezzate come valori occorre che siano dati i valori a cui si ragguagliano tali forze; e perché i fini della natura siano i fini di una Provvidenza è necessario che il processo della natura sia riferito ad uno scopo il cui valore di bontà è già dato e riconosciuto. Così il criterio della valutazione non si ricava dalla conoscenza della realtà se non perché la realtà era già stata valutata secondo il principio che si pretende di ricavarne; e non si trova in essa il fondamento della morale se non perché la coscienza morale ha spirato nell'intimo della realtà quell'anima di be- ne che crede di estrarne come suo principio e fondamento. Ed è anche facile comprendere perché gli assertori della fondazione metafisica si sentissero meglio armati alla difesa e piú vivaci nell'attacco. La scienza interdicendosi — nel programma se non nell'attuazione — ogni interpretazione finalistica, e quindi ogni valutazione della realtà, si trovava piú manifestamente a disagio quando pretendeva di derivare dai suoi rapporti obbiettivi un criterio, che ne aveva deliberatamente escluso. E quando voleva trovare nelle leggi un valore morale troppo facilmente rendeva palese la propria incoerenza. Perciò volgeva i suoi sforzi a considerare e a spiegare la moralità come un prodotto na- turale o un risultato meccanico di un giuoco di forze per sé spoglio di ogni finalità. Onde la tenden- Senza volontà di conoscere non ci sarebbe conoscenza; sta benissimo, o almeno possiamo qui lasciar di discu- tere; ma la conoscenza è volontà di conoscere le cose come sono cioè come appaiono a chi non è mosso da altro inte- resse che quello del conoscere; e il valutare è giudicare le cose così conosciute (cioè costruite in conformità all'interesse teoretico) rispetto a finalità distinte da quelle del conoscere, cioè a interessi di altro genere, edonistico, estetico, morale, e via dicendo. Altro è dire che in Engadina fa fresco e altro dire che amano il fresco quei che vi passano l'estate. 10   Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta za costante dell'«etica scientifica» a identificare il problema nel fondamento col problema dell'ori- gine, la valutazione con la spiegazione; e a considerare una reale o pretesa naturalità come criterio di moralità. E la metafisica poteva tanto piú trionfalmente mettere in chiaro l'equivoco, e dimostrare l'impotenza assiologica della scienza quanto piú sentiva non solo non estranea, ma legittima, ma implicita nella propria costruzione della realtà, una interpretazione teleologica; ed era avvezza a considerare la morale come sua pupilla perché... ne amministrava il patrimonio. ** * Ma se il problema della fondazione teorica, nella forma classica, e, direi (nel senso piú bello della parola), ingenua, di derivazione dei valori da una realtà, è insolubile, perché o urta contro una radicale irreducibilità, o si riduce a una petizione di principio, essa non sparisce se non per lasciar scoperto dietro di sé il problema che nascondeva o adombrava, e nel quale attraverso Kant si è ve- nuto via via trasfigurando. Non si tratta piú di trovare nella conoscenza della realtà la prova che le nostre valutazioni sono «vere», poiché le valutazioni sono, come espressioni di una esperienza interiore sui generis, valide per sé; ma di sapere se su questi dati valutativi si può costruire una conoscenza oggettiva; se i valori morali siano prova dell'esistenza di certe condizioni e di quali; se sia possibile, non trovare nella realtà il fondamento del valore, ma trovare nel valore il fondamento della realtà. Il problema si aggira sempre in ultimo attorno al medesimo dubbio: se il mondo, la natura, la vita abbiano un si- gnificato morale, se l'anima dell'universo guardi al medesimo fine che la coscienza morale; se gli sforzi della volontà buona siano fecondi di frutti durevoli o siano un lavoro di Sisifo, che ogni co- scienza riprende faticosamente per lasciare che ciascun'altra rifaccia, destinato in ultimo a cadere pur esso nel nulla, uno sforzo piú grande. Ma l'atteggiamento è diverso. L'ontologismo metafisico subordinava, almeno nella riflessio- ne consapevole e nella costruzione logica, il giudizio di valore al giudizio di realtà. Nella filosofia dei valori il giudizio di realtà è subordinato, anche nel processo riflessivo e costruttivo, al giudizio di valore. Il momento che nell'intellettualismo ontologico era nascosto e inconsapevole, quello della assunzione tacita del concetto di valore nel concetto di realtà, nella filosofia dei valori diventa chia- ro e consapevole e si allarga nel tentativo di tradurre il passaggio psicologico in processo discorsivo e di fondare un sistema di verità teoretiche su quella certezza che veramente era ed è il dato iniziale, l'ubi consistam di ogni costruzione etica, sia scientifica o metafisica, progressiva o regressiva, a- scendente o discendente: la certezza diretta e intuitiva dei valori morali. 11  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta CAPITOLO TERZO IL FONDAMENTO CERCATO IN UNA GIUSTIFICAZIONE FINALE Illusione poco meno antica accompagnata da sforzi parimenti tenaci, e forse piú multiformi di tradurla in dottrina rigorosa, è quella di credere che si possa ricavare la valutazione morale da qualche bene indiscutibilmente supremo, del quale essa esprima le esigenze e formuli le condizioni necessarie. Questo sommo bene, questo fine supremo, questo valore, sorgente prima, termine ultimo di tutti i valori si credette di trovare: o in un dato della coscienza empirica, un fine inerente alla vita e subordinante di fatto tutte le tendenze, aspirazioni e attività dell'uomo; o in un fine che domina ben- sì, ma trascende la vita e la natura umana, e subordina di diritto ogni altra forma di bene e ogni cri- terio di valutazione. Alle due diverse concezioni del fine rispondono due tipi principali di dottrine morali, dei quali è facile rilevare la corrispondenza coi due tipi di dottrine sulla fondazione di cui si è detto nel capitolo precedente. Ma la corrispondenza non è coincidenza. Là l'origine dell'illusione era nella pretesa di derivare la valutazione morale da una realtà la cui conoscenza si impone all'intelletto; qui di derivarla da fin bene il cui valore è ammesso, o si suppone che debba essere ammesso inconte- stabilmente come supremo o massimo, o almeno superiore ad ogni altro. Ora l'illusorietà della pretesa consiste in ciò: che il valore morale non è morale se non a patto che se ne riconosca, o, meglio, se ne senta la superiorità, la preminenza su ogni altro valore; il suo essere morale consiste (con ciò non si escludono gli altri caratteri) in questa sua supremazia. Perciò ogni tentativo di assegnare un bene supremo che lo giustifichi, si riduce all'uno od al- l'altro termine di questa alternativa: o di ammettere che questo bene è già esso stesso il valore mora- le che si crede di derivarne, o di mostrare che ciò a cui si dà valore morale, è valore anche per altri rispetti; cioè sarebbe un valore (di altro genere) anche se non fosse valore morale. I tentativi che si raccolgono intorno al primo tipo (fine: la felicità, o il piacere) riescono di solito (quando e nella misura che possono) a quest'ultimo risultato; quelli del secondo tipo (fine: il possesso del divino, l'avvicinamento a Dio, la santità) riescono di solito al primo: a presupporre quel che credono di derivare. ** * Dell'utilitarismo in generale e delle sue diverse forme sarebbe fastidioso, e non è qui neces- sario, ripetere per la centesima volta le critiche note. Basta mettere in chiaro quel che meno fu notato e che piú importa al nostro scopo: cioè non tanto le lacune, le insufficienze e le incongruenze dei tentativi, ingegnosi assai piú che fortunati, di ricondurre le norme morali al criterio dell'utilità, e di mostrare le coincidenze tra il contenuto delle norme morali e il contenuto delle regole utilitarie, quanto la ragione per la quale la derivazione è impossibile; o, quando appare possibile, dissimula in realtà una petizione di principio. Supponiamo pure che si ammettano cose troppo manifestamente arbitrarie: che la felicità sia non un nome vago, un recipiente vuoto nel quale ciascuno versa il liquido preferito (e che non è sempre neppure per la stessa persona il medesimo) ma abbia un contenuto determinato (poniamo l'acquisto o il possesso di certi beni: salute, amore, potenza, gloria, simpatia, cultura, ingegno, soddisfazione della propria co- scienza; e che tra questi beni sia possibile perfetta conciliazione ed armonia); e che si possa dimo- strare davvero, e non per salti o per ripieghi, che il nodo non pure piú sicuro, ma il solo veramente sicuro e indispensabile per raggiungerla, sia l'osservanza costante delle norme morali. 12  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta Con ciò non si sarebbe dimostrato che ciò che fa il valore morale delle norme consiste nella loro utilità come guida della felicità; ma soltanto che i valori morali sono anche valori eudemono- logici; che il contenuto della valutazione morale e quello della valutazione utilitaria coincidono; non mai che il valor morale di un'azione consista nel suo esser mezzo alla felicità. Resta fuor di questione (s'intende e deve esser quasi superfluo avvertirlo) la considerazione dell'efficacia pratica o esecutiva; se sia o no piú persuasiva o piú impulsiva l'una o l'altra valutazio- ne. Si può anche ammettere, senza soverchio sforzo immaginativo, che sia per lo piú la edonistica; ma ciò non prova affatto che questa si confonda o si identifichi con la valutazione morale, o valga a sostituirla. Dimostrare a un giudice che il dar sentenze imparziali è il modo piú sicuro di far carriera, potrebbe essere, in ipotesi, un mezzo efficace a promuovere l'imparzialità. Ma nessuno sognerà di far consistere l'onestà del giudice nel suo desiderio di far carriera. Ma in realtà, come tutti sanno, il contenuto della felicità non è determinato, né determinabile se non ad arbitrio4; e solo significato comune e costante del termine finisce per essere quello di ap- pagamento dei desideri, di soddisfazione, di piacere, o di liberazione dal dolore, che si pensa dover- si trovare nel raggiungimento di ogni fine. E la diversità persiste e risorge nella molteplicità varia e contrastante dei desideri e dei pia- ceri, e non basta raccoglierli sotto uno stesso nome per ridurli a unità e farne un unico fine. Perché se l'unità ci deve essere davvero, allora è necessaria o una riduzione o una gradazione e subordinazione; e questa spunta infatti nella storia dell'utilitarismo con il criterio della qualità so- vrapposto e in effetto sostituito dal Mill a quello della quantità. E allora si capisce come possa avvenire che il criterio della felicità finisca per accordarsi con quello della valutazione morale; se le soddisfazioni migliori sono le soddisfazioni morali, e il bene piú desiderabile l'appagamento della coscienza morale, l'accordo tra i due criteri quanto al contenu- to è, non solo possibile, ma necessario. Ma è troppo facile vedere a quale patto è raggiunto. Il valore di quella felicità alla cui stregua si pretende di giudicare il valore morale è assunto come supremo perché e in quanto contiene questo valore morale ed è graduato esso stesso secondo un criterio mo- rale; approva e disapprova in nome della felicità quel che trova approvato e disapprovato in nome della coscienza morale. Viene in mente il modo, col quale un marito sincero si vantava di aver risolto il problema di una pace coniugale perfetta: dove marito e moglie erano dello stesso avviso era la moglie che se- guiva il parere del marito, dove erano di avviso contrario era il marito che faceva la volontà della moglie. Adunque, anche ridotta a questa forma, la felicità non fornisce il criterio della valutazione morale se non in quanto è foggiata essa stessa su un criterio morale; e quel che pretende di aggiun- gervi come giustificazione, non è ciò che costituisce il valore morale, ma è qualchecosa di distinto, di sopraggiunto ad esso (giusta la veduta di Aristotele) sebbene lo accompagni; è una valutazione secondaria, edonistica od egotistica (non oserei dire egoistica) del valore morale5. ** * Porre come bene supremo la santità (il divino in quanto è sentito e voluto come modello o norma della vita si determina in un ideale di santità) è derivare il valore morale dal valore religioso, concepito come principio e termine di ogni valore, e del quale esso valor morale è un elemento; o 4 Ne ho parlato altrove (La dottrina delle due etiche di H. Spencer e la morale come scienza, pp. e 120-121) e non occorre insistervi qui. 5 Sebbene il parlare della soddisfazione della propria coscienza come di un bene desiderabilissimo sia legitti- mo, non è legittimo, né conforme alla verità psicologica, considerarlo come il fine della condotta morale. Il fine è l'attuazione di quel valore che la coscienza riconosce come morale; e non è l'altezza della soddisfazio- ne che se ne possa attendere, che costituisce il pregio dell'azione, ma è il pregio dell'azione che misura l'altezza della soddisfazione; la quale è pura soltanto a patto che non se ne faccia lo scopo dell'operare.  13  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta meglio, l'attuazione di questo è voluta come una condizione, o un momento dell'attuazione, di quel- lo. E qui giova premettere due osservazioni non peregrine ma utili alla chiarezza: 1° Che questo valore supremo del divino, della santità e, in termini piú generali, il valo- re religioso non può essere dimostrato o insegnato con lo stesso processo conoscitivo, con il quale si dimostrano, si insegnano e si comunicano delle proposizioni o verità teoretiche, e, in quel che han di contenuto teoretico, i dogmi stessi delle dottrine religiose. Questo valore è sentito, è, come si dice con frase piú suggestiva che chiara, vissuto dalla coscienza; e quanto è sicuro ed efficace l'appello ad esso, dove è vivo, altrettanto è vano dove non vive. Fondare la valutazione morale sui valori reli- giosi è dunque presupporre che siano sentiti e vissuti nella loro forma e natura specifica quei valori religiosi da cui si fanno sgorgare i morali. Ma dove essi valori religiosi non siano sentiti e vissuti, nessuna dottrina teologica e nessun catechismo può crearli6 o sostituirli. 2° Che, per converso, nessuno sforzo d'analisi e nessun ragionamento basta a spogliare, nell'anima di un mistico, i valori morali da quel sentimento del divino, a svestirli di quell'alone reli- gioso del quale egli investe non solo questi ma anche gli altri valori spirituali; come sarebbe diffici- le nella intuizione e nel sentimento di un esteta di sottrarre i valori morali e i valori religiosi a una valutazione estetica. Come accade sempre dove un grande interesse spirituale predomina sugli altri, cioè dove una categoria di valori occupa, per dir cosí, il centro della coscienza, e raccoglie ad unità, come attorno ad un nucleo, i valori di altre specie; che è quel che suole piú comunemente e nor- malmente avvenire per i valori morali. Ma fatta (come dicono i legali) questa riserva, bisogna riconoscere che nessuna valutazione morale si potrebbe ricavare da qualsivoglia valore religioso, se non vi sia già esplicitamente o im- plicitamente contenuta; cioè se non a patto che si sia incorporata nel valore religioso una valutazio- ne morale la cui validità sussiste o sussisterebbe anche all'infuori di quello; ed è la ragione per la quale viene assunta nel valore religioso. Non è necessario, a persuadersene, di discutere il problema formidabile della essenza del va- lore religioso. Se si accetta l'opinione del Höffding che il nucleo essenziale della religione è la credenza nella conservazione dei valori, e, s'intende bene, soprattutto dei valori morali, la indipendenza e la priorità di questi sono, re ipsa, riconosciute. In effetto quali si possano essere le reazioni di tale credenza sulle valutazioni, resta pur sem- pre che non è l'esigenza della conservazione quella che dà ai valori la loro qualità di morali, ma il loro esser sentiti, il loro valere come morali che ne fa postulare la conservazione. Di che ho già det- to altrove7, e non occorre del resto insistervi. ** * Se invece si ammette, come io credo, che la natura specifica, la «forma» del valore religioso non sia riducibile a quella credenza, e che sia essenziale e caratteristico del sentimento e della valu- tazione religiosa il riferimento del nostro pensare, del nostro sentire e del nostro fare, anzi di tutto il nostro essere, ad un altro essere; sommità dell'aspirazione religiosa l'esserne penetrati e posseduti; e misura del valore religioso, la devozione ad esso, l'abbandono di sé alla volontà che ne realizza le perfezioni; allora il valore religioso è per sé altra cosa del valore morale; ma, se non si risolve in questo, neppure lo pone, ma se lo appropria ed incorpora. E se può sembrare all'anima religiosa che esso sgorghi da questa idealità e se ne alimenti, la ragione sta in ciò, come si è accennato: che al mi- 6 È appena superfluo aggiungere che non penso neppur per sogno di negare una possibile efficacia all'insegna- mento religioso in quanto esso, come ogni insegnamento, non è mai (salvo forse agli occhi di chi lo misura col tassame- tro) pura comunicazione di notizie o di idee, ma è vigore di convinzione, calore di affetti, opera di formazione; insom- ma, educazione. Ma anche l'educazione suppone le condizioni dell'educabilità. E si suppone poi sempre che chi legge faccia uso del consueto grano di sale. 7 Cfr. Postulati etici e postulati metafisici, p. 199.  14  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta stico riesce impossibile di concepire altrimenti che perfetto, cioè perfetto anzitutto e soprattutto mo- ralmente, l'Essere che adora, e nel quale vede non un bene, ma ogni bene, il Bene. Ma la perfezione che vede in lui, a quale stregua è giudicata tale? L'ideale che trova realizza- to in quello non è foggiato secondo un criterio di valutazione morale la cui validità è accettata e ri- conosciuta all'infuori dell'atteggiamento religioso della devozione a Dio? Anzi non è quella perfe- zione morale che lo fa degno di adorazione? Un mistico a cui si domandasse se concepisce Dio perfetto perché lo adora o se lo adora per- ché è perfetto, forse non saprebbe rispondere, e troverebbe che la domanda scompone quel che è per lui uno e indissolubile. Ma ciò non toglie che la devozione e la adorazione non costituiscano per sé i pregi e le doti di ciò che è adorato; e nessuna coscienza potrebbe trovare in Dio i valori morali se non li conoscesse già come valori, e non li distinguesse come morali dai valori di altro genere. Questa priorità e questa indipendenza, questo sussistere per sé, questa selbständigkeit della valutazione morale, appare confermata dalle discussioni sul valore delle religioni, il cui termine di confronto piú consueto e piú decisivo è dato dal rispettivo contenuto morale. Il che implica manife- stamente che questo contenuto possa esser giudicato e apprezzato per sé. E il prevalere sempre piú largo delle preoccupazioni morali nelle controversie di indole religiosa (per esempio la lotta intorno al modernismo) mostra che la validità del criterio morale è tenuta come certa di una certezza che è data e riconosciuta indipendentemente da ogni valutazione religiosa. Quanto all'affermazione che la morale non può reggersi senza religione, essa, sebbene ambi- gua nella forma, non significa affatto, come è facile capire, che non sia possibile sentire e giudicare ciò, che è giusto o ingiusto, buono o cattivo se non con un criterio e da un punto di vista religioso; vuol dire invece che non è o non si crede possibile una moralità salda e costante, cioè una sicura conformità della condotta alle valutazioni morali, se la valutazione morale non è sorretta, conforta- ta, fatta praticamente efficace dalla connessione dei valori morali con una finalità religiosa; cioè dal considerare i valori morali come preparazione e condizione necessaria di quel fine; e quindi i pre- cetti morali come precetti religiosi. Che è tutt'altra cosa; importantissima dal punto di vista propriamente pratico o esecutivo, ma estranea alla questione presente e da trattarsi a parte, analogamente a quel che si è accennato sopra della possibile importanza pratica di una valutazione edonistica. Dire che l'olmo sorregge la vite, non è dire che la vite sia una propaggine dell'olmo, e nep- pure che sia l'olmo che porta l'uva; sebbene sia anche vero che, dove la vite non si regge da sé, non dovrebbe parer savio tagliar l'olmo anche a chi ami soltanto la vite. ** * Quel che si è detto dei tentativi di una fondazione edonistica e di una fondazione religiosa si potrebbe ripetere di ogni altro tipo di morale di cui si pretenda di trovare il fondamento in un inte- resse diverso dall'interesse propriamente e specificamente etico (notevolissima fra le altre la morale estetica), e dalle forme miste e intermedie; le quali, se sono dottrinalmente fiacche e spesso incoe- renti, hanno però in realtà largo consenso nelle credenze e nelle opinioni piú comuni. Di queste ultime meritano di essere ricordate, perché piú significative, le due forme, nelle quali si mescolano e si sovrappongono i due tipi di valutazione qui sopra brevemente analizzati, la edonistica e la religiosa; che sembrano a prima vista i piú lontani e l'uno all'altro opposti. Si può avere cosí una interpretazione edonistica della valutazione religiosa (esempio l'utilita- rismo teologico) e un'interpretazione religiosa della valutazione utilitaria (altruismo comtiano, mi- sticismo umanitario). ** * Da quanto si è discorso pare si debba concludere che queste indagini (spesso nei particolari ingegnosissime e suggestive) nelle quali si cerca la ragione del valore morale nella sua connessione 15  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta o congruenza con altri valori, abbiano importanza solamente nel rispetto strettamente pratico o ese- cutivo; in altre parole una importanza parenetica o pedagogica, in quanto una tale connessione con- forta, sorregge o surroga con motivi di altra natura e sgorganti da interessi diversi il motivo specifi- camente morale. Sarebbero dunque analisi ed indagini preziose per l'educatore e per l'uomo politico (dato che si propongano fini morali), ma senza interesse per lo scopo a cui mirano, di costituire il fondamento o la giustificazione dei valori morali, perché radicalmente viziate dal falso supposto che la ragione della supremazia dei valori morali si possa cercare in qualchecosa che non abbia già essa per sé valore morale. Ma questa conclusione sarebbe precipitata e eccessiva. Intanto è fuor di questione che, no- nostante il carattere di artificiosità che si trova piú o meno largamente diffuso nelle costruzioni di questo genere, come nei sonetti a rime obbligate, vi è in tutte una parte notevole di verità; verità s'intende non in quel che credono di dimostrare, ma nei rapporti e nelle concordanze e nelle diffe- renze rilevate, e che dovrebbero servire alla dimostrazione. Questa parte di verità ha radice nel fatto, troppo noto e troppo chiaro perché ci sia bisogno di illustrarlo, e già sottinteso a piú riprese in questo capitolo, che non vi è giudizio sul valore morale di un oggetto, qualità, tendenza, azione, del quale non si possa trovare la ragione, oltreché nella forma speciale di interesse o di esigenza che gli dà questo carattere specifico di valore morale, anche in un interesse diretto o indiretto d'altra natura: non vi è bene morale che non sia bene anche per altri ri- spetti; come d'altra parte non vi è bene di altro genere che non sia o non possa diventare, diretta- mente o indirettamente, un bene morale. I valori delle diverse specie si connettono, si intrecciano e si complicano fra loro in mille guise. È bensì vero che ciò che fa esser morale un valore (e analogamente si potrebbe dire dei valori di ogni altra specie) non è, come s'è visto, il suo coincidere o il suo essere connesso sia pure per un rapporto di condizionalità costante, con un valore — per quanto grande — di altro genere, o anche con piú altri ordini di valori o con tutti; ed è perciò che nessuna sottigliezza di logica può estrarre un valore morale se non di là dove esso si sia già posto o insinuato; e che credere di poter trovare un valore morale tra valori che non siano già morali è fare a un dipresso come chi vada frugando fra le idee degli altri con la speranza di trovarvi le proprie. Ma è pur vero che sussistono altri valori, e sussistono le relazioni fra i valori; e ciò che è og- getto di valutazione morale, poniamo la sincerità, può essere apprezzato dal punto di vista dell'inte- resse conoscitivo od artistico o economico; e, per converso, ciò che è oggetto di valutazione edoni- stica o estetica o d'altro genere, la ricchezza, l'arte, la dottrina, può essere valutato anche come bene di ordine morale. Ora: È possibile una conciliazione dei valori morali con gli altri valori e di questi fra di loro? E se non è possibile, quale è il criterio della loro graduazione e subordinazione? Vi è, per rispetto alla natura delle relazioni o connessioni tra valori di diversa specie, qual- che differenza caratteristica che distingue i valori morali dai valori non morali anche per il contenu- to? E vi è, segnata ancora dalla sfera delle relazioni condizionali o strumentali con valori di altro genere, una differenza che distingue, rispetto al contenuto, gli stessi valori morali fra di loro? E non potrebbe questa considerazione giovare a intendere le incoerenze e i contrasti tra valu- tazioni diverse e anche opposte, che pure si presentano col medesimo carattere di valutazioni mora- li? Cosí, dietro i tentativi illusori di cercare fuori e al di là dei valori morali il fondamento della valutazione morale e la ragione decisiva che ne giustifichi la supremazia, restano i problemi: della valutazione indiretta o rivalutazione condizionale o strumentale, di una graduazione delle diverse categorie di valori; e della possibilità della loro conciliazione. Della quale, la conciliazione tra virtù e felicità non è che un aspetto particolare, e forse non il piú importante. 16  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta CAPITOLO QUARTO IL FONDAMENTO CERCATO NELL'AUTORITÀ Il carattere di autorevolezza col quale si presenta alla coscienza il giudizio morale, che noi approviamo bensì come nostro, ma che ci pare nello stesso tempo sgorgare da una sorgente piú alta o piú profonda, e quello di precetto imperativo nel quale si traduce, tendono a far derivare questi ca- ratteri, e, quando siano considerati essenziali della moralità, lo stesso giudizio morale, da un'autorità distinta dalla coscienza, e che, pur rivelandosi in essa, la trascende e la supera. Il fondamento di questa autorità fu riposto o nel processo stesso di formazione, consapevole o inconsapevole, delle idee e dei sentimenti morali che danno contenuto alla valutazione; o in un volere superiore e distinto dal volere individuale, al quale si riconosce potestà imperativa e alla cui scelta o decisione si riconduce in ultimo il criterio della valutazione morale. L'autorità delle valutazioni morali avrebbe dunque in ultimo, come ogni altra minore autorità politica o sociale, il suo fondamento e la sua legittimazione o nei titoli di una sua nobiltà storica, o nella volontà di un potere sovrano. a) Della storia. L'appello alla storia può assumere, assunse in effetto, forma e apparato e significazione di- versi, secondoché si credette di fondare l'autorità della valutazione in un processo genetico di evo- luzione selettiva operante attraverso l'esperienza organizzata della specie; o in un processo storico di svolgimento e di elevazione progressiva dei costumi, della cultura, degli istituti e delle idealità etiche nei popoli civili; o nella elaborazione logica di un pensiero riflesso rintracciato nella succes- sione storica delle dottrine e dei sistemi. La prima delle forme accennate che si connette alla dottrina dell'evoluzione e che culmina nella tesi di un progressivo adattamento dei bisogni, dei sentimenti, delle attività alle condizioni di una vita sociale sempre piú elevata, piú complessa e piú armonica (lasciando ogni questione che non sarebbe oggi piú neanche di buon gusto sulla consistenza scientifica della dottrine), si risolve in ultima analisi, come fondazione etica, nel postulare quella superiorità e quella autorità dei sentimen- ti e delle norme di condotta morali, che pretende di provare derivandola dal processo di selezione progressiva che ne ha costituito e consolidato la prevalenza nel corso dell'evoluzione. Infatti il criterio, per il quale giudichiamo progressiva piuttosto che regressiva o indifferente l'evoluzione o la selezione delle idee e dei sentimenti, è un criterio di valutazione di cui si riconosce e si accetta la validità indipendentemente dal processo di cui sarebbe — nell'ipotesi — il prodotto; (e del quale processo, anzi, è esso stesso, questo prodotto, che ci fa riconoscere il valore). Ed è troppo chiaro che non è perché il «progresso» del senso giuridico ha portato all'aboli- zione della tortura che noi condanniamo la tortura, ma è perché condanniamo la tortura che ravvi- siamo nella sua abolizione un progresso etico nello svolgimento del diritto. Ché se si obbietta derivare l'autorità delle norme morali dalla loro convenienza e corrispon- denza alle forme di vita «superiore», ai tipi di relazioni «più elevati» dei quali esprimono le esigen- ze, si dimentica che all'infuori di un criterio — quale esso sia — di valutazione non vi sono forme superiori o inferiori, tipi derivati e tipi bassi. E un criterio di valutazione è, sempre, necessariamen- te, in modo esplicito o implicito, assunto o sottinteso. Tanto ciò è vero, che il massimo rappresentante e sistematore dell'evoluzionismo, lo Spencer, fu condotto a sovrapporre, per giustificarlo — al criterio genetico dell'adattamento pro- gressivo a un tipo di vita completa — il criterio edonistico di un piacere puro corrispondente all'a- dattamento completo. ** * 17  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta Se a una selezione esteriore e meccanica, nella quale la coscienza è risultato e non attività, si sostituisce uno svolgimento interiore e psichico — nel quale la coscienza etica viene costruendo ed elaborando le sue valutazioni le sue norme le sue idealità sempre piú alte e sempre piú ampie nel passaggio da età ad età e da popoli a popoli in sfere di civiltà piú larghe, e, sulla via che l'induzione storica rivela attraverso le soste, le deviazioni, gli oscuramenti e i ritorni apparenti, si scorge col Wundt la direzione ideale e si disegnano i fini, i motivi, le norme in cui la coscienza morale viene raccogliendo le sue conquiste — la concezione della formazione storica è senza dubbio piú propria, piú adeguata e piú probabile; ma non è tolto il vizio d'origine, l'errore, direi di prospettiva, comune a ogni tentativo di fondamentazione storica dei valori morali. (E il medesimo sarebbe da dire per le altre specie di valori). Lasciamo pure la vecchia calunnia (se bene le calunnie sogliono aggrapparsi a qualche unci- no di verità) fatta alla storia: Hic liber est in quo quaerit sua dogmata quisque; e neppure discutiamo della possibilità e dei limiti di una induzione legittima sui fatti storici; ciò che importa, e che basta notare, è che questa induzione, posto che fosse legittima, e non avesse già per filo conduttore e regolatore quella direzione ideale che vi rintraccia ingegnosamente, non pone essa il valore delle conclusioni a cui giunge, non è essa che ci fa riconoscere la bontà, la elevatezza, la eccellenza morale delle idealità che segnano la meta. Questa valutazione è irreducibile alla storicità; ed è anzi dalla storia — in quanto voglia es- sere giudizio comparativo di valori umani — sempre e inevitabilmente presupposta. Di che è prova il fatto che, mutato il criterio valutativo, sostituita all'una un'altra scala di valori, la prospettiva si rovescia; e Nietzsche vede una nefasta degenerazione dove il democratico e l'umanitario ravvisano l'indice sicuro di un felice progresso morale. E se il criterio valutativo della coscienza si contrappone a quello che ha o sembra avere a un momento dato il conforto della storia, non vi è in questo nessuna ragione intrinseca di superiorità o di inferiorità dell'uno sull'altro dal punto di vista etico, che è quello che importa; anzi neppure dal punto di vista storico, perché quel conforto (quale esso sia) della storia, che oggi fa difetto al primo, non è escluso che lo assista domani. La storia è conservazione e svolgimento, ma anche innovazione e opposizione; non è, di- ciamo pure, con termini hegeliani, una cosa se non perché è nello stesso tempo l'altra. ** * Se passiamo ora ad esaminare lo svolgimento storico nel pensiero riflesso, troviamo che il problema attorno al quale sembra disegnarsi meglio la continuità logica della speculazione morale nella successione dei sistemi, è, nella sua forma piú generale, il seguente: Come dobbiamo concepi- re la realtà perché essa risponda alle esigenze delle nostre intuizioni morali; e se e come siano pos- sibili le condizioni di una tale realtà. Lo svolgimento logico e dialettico delle dottrine riguarda so- prattutto, se non esclusivamente, i problemi che nascono da questo problema centrale; le forme di- verse sotto le quali si presentano; e il processo di sostituzione e di eliminazione e di superamento, per il quale i problemi antichi trapassano nei problemi nuovi. Ma la sostanza delle intuizioni morali non è data, e non potrebbe essere, né da questo o quel sistema, né dalla successione fosse pur continua e rigorosamente coerente dei sistemi, che ne scopre e ne snoda le esigenze, e viene cercando una risposta alle domande che queste esigenze sollevano e presentano alla riflessione critica. In questo sforzo essenzialmente speculativo di sistemazione, e per dir cosí, di inquadramento delle intuizioni morali in una concezione unitaria della realtà che ne ac- colga le postulazioni, sarebbe fuor di luogo pretendere di trovare la ragione d'essere di quelle valu- tazioni, dalle quali la speculazione prende le mosse, e che ne ispirano e alimentano le indagini. È bensí vero che a questo travaglio di costruzione speculativa si annoda e si intreccia l'anali- si e l'indagine di indole propriamente etica, sulla natura dei diversi principî e criteri valutativi, che ne saggia la fecondità, ne svolge le conseguenze, mette in luce i rapporti di accordo e di contrasto 18  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta tra le valutazioni morali attinenti a sfere di esperienza diverse, svela i legami spesso sottili e inattesi che stringono in gruppi di affinità alcune di queste intuizioni sia tra di loro, sia con valutazioni di altro genere, noetiche estetiche e religiose. Ma questa elaborazione che è pure di importanza capita- le per rendersi conto della «rilevanza» e della portata dei criteri di valutazione e per tentarne la uni- ficazione in una dottrina etica strettamente intesa (che è altra cosa da un sistema filosofico di etica), si svolge attorno a un contenuto valutativo, fornito dalla immediata esperienza morale; assume co- me validi per sé i giudizi apprezzativi che ne costituiscono gli elementi, i punti saldi di riferimento, i dati, alla cui validità è legata la consistenza della costruzione. E vi può essere finalmente nei sistemi morali, e certamente si trova nei piú grandi e signifi- cativi, un filone piú o meno ricco di intuizioni morali nuove, che si aggiungono o sovrappongono o sostituiscono alle intuizioni date nell'esperienza della coscienza morale comune, e segnano la crea- zione di nuovi valori e aprono la visione di una regione morale inesplorata. È la parte che spetta al genio morale ed è il sale di quella dottrina etica, in cui l'intuizione è accolta, ospite o signora. Ma questa novità di intuizione, questo allargamento, o arricchimento, o soprattutto, orientamento diver- so di valori, nessuno vorrà considerare come il frutto di una deduzione logica, anche se nel sistema ne vestisse le forme: anche se fosse esclusivamente opera dei grandi costruttori di sistemi e si ac- compagnasse sempre con una riflessione critica acuta e una meditazione ostinata. Questa concomitanza (che del resto non si può dire costante, perché novità di intuizioni mo- rali si trova pure in dottrine, pensamenti, apostolati estranei, almeno in origine, ad una costruzione sistematica) significa soltanto che quella medesima profondità di intuizione e intenso ardore di en- tusiasmo morale dai quali erompe la nuova idealità, promuovono e preparano, quando secondino le forze dell'intelletto, i grandi sistemi morali. Cosí anche questa affermazione o posizione di valori nuovi8, non importa qui cercare da quale concorso di circostanze interiori od esteriori suscitata o svincolata, non è la conclusione di u- n'indagine scientifica o filosofica, ma è un penetrare o un irrompere della coscienza morale nella corrente del pensiero riflesso; che non li dà esso, ma li accoglie; li illumina, ma non li crea. b) Il fondamento cercato in una volontà. La forma di precetto imperativo nella quale si traduce l'esigenza di conformare l'azione al giudizio morale fa considerare la moralità come l'adempimento di un obbligo e questo come l'obbe- dienza a un'autorità inconcussa e indiscutibile. A questo momento della moralità corrisponde la tendenza a cercare il fondamento del valore morale stesso in un Potere (che, in quanto si esercita in vista di un fine o in conformità a una norma, è Volere) immanente o trascendente, personale o soprapersonale, del quale i giudizi morali espri- mono i comandi. L'autorità della coscienza morale rispecchia l'autorità di quel potere, e risuona l'eco di quel comando nel tono imperativo dei suoi precetti. Ora qui è necessario sgombrare il terreno dagli equivoci che nascono dal trasportare un me- desimo termine da uno ad altri concetti connessi ma diversi, o dal costringere in un solo concetto momenti distinti di un processo psicologico complesso. Quando si parla del dovere, come di una caratteristica della valutazione morale, si cade in un equivoco di questo genere. Il dovere non è dovere di valutare, ma di conformare l'azione alla valu- tazione. 8 È forse superfluo avvertire che qui si parla di valori nuovi immediati e diretti; non di valori indiretti o mediati. Di questi altri, anzi, ogni incremento del sapere moltiplica il numero e le gradazioni; ed è in questa derivazione e dedu- zione dei valori indiretti e mediati dai diretti e immediati, che l'etica applicata prende a prestito dalla conoscenza scienti- fica le premesse minori dei suoi sillogismi valutativi.  19  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta La valutazione morale precede, nell'ordine delle esigenze ideali, l'obbligo e lo giustifica; e non inversamente; anche se nella pratica coincidessero sempre e questo fosse la ratio cognoscendi di quella. E qui occorre una analisi alquanto sottile e una riflessione un po' attenta. ** * La valutazione morale è preferenza, scelta, opzione fra qualità o proprietà, cioè modi possi- bili di essere o di agire, tra i quali non vi è gradazione, ma opposizione, e dei quali non può realiz- zarsi l'uno senza che sia tolto l'altro. Porre l'uno come valore è insieme porre l'altro come non valore o disvalore. Approvare la sincerità, la fortezza, l'alacrità come valori, implica disapprovare l'ipocrisia, la fiacchezza, la pigri- zia. Il valutare morale è dunque un prendere partito per l'uno contro l'altro di due soli atteggia- menti possibili; ma poiché, e questo punto è di importanza decisiva, i valori morali, a differenza de- gli altri valori, non possono attuarsi o vivere in noi se non sono voluti e solo in quanto sono voluti (la volizione implica per quanto sono eseguibili tutte le azioni che ne dipendono, anzi consiste nel- l'ordinare e nel promuovere queste azioni), cosí non è possibile riconoscere un valore morale (che è quanto dire constatare l'opzione, la posizione ideale dell'uno e la negazione dell'altro, la esigenza che l'un termine acquisti o conservi sussistenza e l'altro la perda) senza approvare l'atteggiamento richiesto a porlo in essere; anzi, senza pensare la volontà nell'atto di realizzarlo. Ancora: gli altri valori soffrono di essere commisurati tra di loro e posposti ai valori morali senza perdere la loro qualità di valori, cioè senza che questo posporli smentisca il loro riconosci- mento. I valori morali invece non soffrono di essere posposti senza essere smentiti; perché non sono morali se non a patto di essere sovraordinati a ogni altro valore, e in quanto esprimono non stati singoli, ma modi di essere, non atti, ma modi di operare posti come costantemente normativi della volontà. Ne segue che riconoscere un valore morale implica approvare, se si rivela come dato, esige- re, se è concepito solo come possibile o potenziale, l'atteggiamento costante della volontà col quale esso valore è posto; costante, cioè tale che si attui ad ogni presentarsi della stessa alternativa. Perché non si può pensare che cessi di esser voluto senza pensare che cessi di esistere e che sia posto con- tro di esso la sua negazione, il non-valore, per atto di quella stessa volontà il cui atteggiamento posi- tivo è un'esigenza implicita nel riconoscimento di quel valore come morale, cioè è idealmente po- stulato nella valutazione. Perciò, se accade che chi ritiene valore morale, poniamo, la sincerità, si sia lasciato trascor- rere a una menzogna, l'atto presente e momentaneo del mentire appare a lui come un rinnegamento del suo proprio volere; il quale rimane potenzialmente e conativamente morale pur nel momento della volizione singola che gli si oppone e lo nega. Perché il valore non cessa di essere sentito e ri- conosciuto come morale, cioè come valore che esige per essere tale di essere attuato ossia voluto costantemente9. Ora il dovere, in quanto è proprio e caratteristico della moralità, cioè in quanto è interiore e non riducibile al sentimento di una coazione esterna (ossia all'obbligo di cui si dirà tra poco), è la coscienza di questa esigenza del valore morale e si manifesta — come necessità di rispettare questa esigenza, di tener fermo nelle volizioni singole il valore morale, — nella sua forma piú chiara, quando è in contrasto con motivi di altra natura. Ma è presente anche se non vi sia attualmente que- sto conflitto, in quanto è presente alla coscienza la possibilità di impulsi contrastanti. 9 Di qui nasce la tendenza incoercibile, manifesta nei maggiori pensatori, a identificare il volere puro, il volere che esprime l'essenza della personalità umana, il volere libero e autonomo, il «vero» volere col volere morale; e a con- siderare gli atti immorali come prodotti non dalla volontà, ma da difetto di volontà, da qualche cosa di esterno ad essa; non come espressione di attività e libertà, ma di passività e servitù.  20  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta Da quel che si è detto risulta che non si può parlare di dovere nel senso ora chiarito, cioè di dovere morale, se non presupponendo data una valutazione morale. I valori morali devono già essere sentiti voluti come tali: se non sono, non vi può essere do- vere. E non avrebbe senso parlare di un dovere di riconoscere dei valori morali a una coscienza che fosse chiusa ad ogni valutazione etica; di un suo dovere di affermare la superiorità su ogni altro valore, di qualche cosa a cui non riconosce alcun valore. Non avrebbe senso piú di quel che avrebbe il pretendere che debba capire che ci son anche dei suoni e che valgon piú dei rumori chi non avesse udito mai che rumori, e i suoni stessi non li sentisse se non in forma di rumori. E quando si dice, poniamo, che un uomo deve pur sentire che la lealtà vale di piú del tradi- mento, il «deve» o non ha senso, o ha un senso al tutto diverso da quello propriamente morale. Non ha senso se si vuol dire che nella realtà tutti lo riconoscono, cioè se si vuol affermare o constatare una verità di fatto. Ha un senso diverso se si vuol dire che per essere uomini bisogna sen- tire cosí, che non si può chiamar uomo o che non merita questo nome chi sente e giudica altrimenti, cioè se si afferma che al concetto di uomo è essenziale quella nota. Che è tutt'altra cosa. Perché si- gnifica non che abbia il dovere di sentire in un modo chi non sente che in un altro, ma che non sia veramente uomo se non chi sente cosí. Il che anche se fosse del tutto arbitrario non sarebbe assurdo. ** * Ma dunque i «sordi morali», se ve ne sono, non hanno doveri? Non ne hanno: perché non possono sentire l'esigenza di conformarsi a una valutazione che non han fatta e che non fanno, di at- tuare dei valori che non riconoscono come tali. — Ma hanno tuttavia e possono avere degli obbli- ghi. L'obbligo di operare come se riconoscessero, se non tutti i valori morali, almeno alcuni, i piú grossolani e massicci e coercibili esteriormente, cioè suscettivi di esser presentati come motivi ap- prezzabili anche da una coscienza non morale. È questo obbligo, quello del quale si è tessuta con grande abbondanza di passaggi e di fasi la genesi psicologica e l'origine sociale nelle sanzioni esterne, e si è discusso a perdifiato se bastasse o non bastasse a dar ragione del dovere (ed evidentemente non basterebbe a darne ragione anche se bastasse a spiegarne la formazione); e questo obbligo implica necessariamente il riferimento a un potere superiore e distinto dal volere individuale. E come questo Potere si impone in vista di un fine e in conformità a certe norme, è concepito come potere di una Volontà che comanda l'osservanza di quelle norme. Senonché anche quest'obbligo può prendere forma e significato morale; come può non avere altro valore che di costrizione subita: appunto come le pene del codice per i galantuomini di princi- sbecco. E anche qui occorre un po' di pazienza. ** * Quella esigenza interiore che s'è visto sopra esser posta nella valutazione stessa e per la qua- le il valore morale si fa sentire come norma e si esprime nella coscienza del dovere (dovere di non negare nelle singole volizioni il volere costante implicito nella valutazione morale) si accompagna, come si è pure accennato, alla consapevolezza — data nell'esperienza e suggerita dalla forma stessa antitetica della valutazione normale — della possibilità di volizioni, cioè di azioni, immorali; o (che torna il medesimo) della esistenza di tendenze, impulsi, motivi antagonistici al volere morale. Il volere morale si manifesta perciò (in quanto tali motivi antagonistici tendono a contrastar- ne l'attuazione) come esigenza della subordinazione costante di questi motivi, come appello a una forza coercitrice che li soverchi, sovrapponendo ad essi altri motivi opposti dello stesso ordine, e rovesciandone per tal modo il valore. 21  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta Questa disposizione di spirito fa che si approvi l'obbligo e si approvi il Potere obbligante, se esiste o si concepisce che esista; se ne ponga la necessità e se ne invochi la presenza dove e quando manchi; cioè fa che si riconosca giusto l'obbligo, giusta la sanzione dell'obbligo, e giusto il Potere che lo pone. In questa disposizione per la quale l'obbligo e la sanzione sono interiormente approvati e vo- luti come garanzia di moralità, e il Potere obbligante è invocato e idealmente posto in nome della esigenza morale, sta la caratteristica differenza che dà all'obbligo valore morale, e lo distingue dal- l'obbligo sentito come pura costrizione esterna; che distingue il potere che merita rispetto dalla for- za che si deve subire; l'autorità dall'arbitrio; sia che il comando di questa autorità si consideri limita- to a una certa sfera di valori morali, sia che si faccia coincidere collo stesso valore morale e si iden- tifichi con esso. Ma cosí nell'uno come nell'altro caso resta la medesima, di fronte all'obbligo e al Potere ob- bligante, la differenza di atteggiamento tra la coscienza che valuta moralmente e la coscienza che sia chiusa, per ipotesi, alla valutazione morale. Per la prima è la valutazione morale che fa riconoscere e rispettare l'obbligo. Per la seconda è l'obbligo che fa riconoscere i valori morali; i quali valgono non perché sono morali, ma perché sono riconosciuti, in forza dell'obbligo e della sanzione, come valori strumentali di altri valori, co- me condizione imposta e inevitabile di quei beni che soli la coscienza amorale desidera e apprezza. L'osservanza dell'obbligo non è interiore moralità, ma è conformità esteriore a certi comandi che valgono quel che vale la sanzione che li accompagna. La valutazione propriamente e specificamente morale manca, ed è surrogata da una valutazione del tutto diversa. Il suono dei valori morali non può farsi sentire, per questa sordità morale, se non diventa il rumore di un interesse diverso. ** * Raccogliamo i risultati dell'analisi e vediamo che cosa ne segue. Il dovere esprime l'esigenza di conformare l'atto al giudizio, di non smentire, con la volizio- ne attuale, la preferenza, la opzione che si afferma, come criterio di apprezzamento nel giudicare l'operare proprio e l'altrui, nella valutazione morale; di non opporre il mio volere in quanto è stimo- lo e causa dell'azione, potere di produrre movimenti, al mio volere in quanto è scelta fra posizioni possibili opposte, e attribuzione continua e persistente di valore all'una, e di disvalore all'altra. Se si separa la volontà come causa delle volizioni attuali e contingenti, come potere di ese- cuzione, dalla volontà che pone i valori e si esprime nella valutazione, il dovere si presenta come l'esigenza dell'obbedienza del Volere operante al Volere valutante, del volere esecutivo al volere le- gislativo, del volere a cui spetta attuare i valori morali nelle contingenze mutevoli di luogo e di tempo, al volere che li ha posti e li fa sentire e riconoscere come tali. Ora, quando la incertezza, l'incostanza, la debolezza del carattere, il prepotere di istinti, di impulsi e di tendenze opposte in noi e negli altri, facciano sentire alla coscienza morale la necessità di un Potere che assicuri la preminenza di fatto e non soltanto di diritto dei valori morali, e ne tuteli l'osservanza, il valore morale di questo Potere e delle sanzioni con le quali impone i suoi comandi, viene manifestamente dall'essere questo Potere pensato come conforme all'esigenza morale, come proprio di una volontà, che si accorda, in tutto o in parte, con quel che si è detto il Volere valutante; cioè di una Volontà che tende all'attuazione dei valori morali. Se quel Potere è pensato senza limiti e attribuito a una volontà perfettamente morale cioè a una volontà la cui norma si identifichi con quella del mio Volere-valutante, questa Volontà — in cui il potere adegua il valutare e per la quale la attuazione dei valori morali adegua la posizione di essi valori come tali, cioè come degni di essere attuati — sarà pensata non solo come un potere che im- pone, ma come Autorità che merita, un'obbedienza incondizionata; e apparirà che derivino da un'u- nica sorgente cosí il comando che esprime la potenza operante di quella volontà, come la valutazio- ne morale che ne esprime la norma; cioè apparirà fondato su quell'Autorità il criterio stesso della valutazione. 22  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta Ma lasciando ogni questione sulla legittimità delle postulazioni implicite in questi processi costruitivi e sulla possibilità della loro sintesi, è facile vedere come rimanga sempre inevitabilmente distinta e presupposta nel concetto dell'autorità imperante la valutazione, che giustifica il comando, che dà autorità al potere, che suggerisce l'identificazione di un Volere onnipotente con un Volere legiferante; la valutazione data nella coscienza morale, la quale rimane il postulato inespugnabile; non derivabile e non superabile; anche dove è sottinteso e dove sembra, a primo aspetto, derivato o subordinato. Cosí se il teologo ammonisce di non biasimare come ingiusto o cattivo ciò che la Provviden- za dispone o permette, non contrappone alla valutazione morale una valutazione diversa, ma sosti- tuisce e sovrappone alla «veduta corta d'una spanna» una sapienza infinita la quale vede i fini remo- ti di quell'ordine che a noi rimane occulto; e per il quale in realtà è bene quel che fuori di quell'ordi- ne a noi appare un male. Ma appunto il criterio di questa bontà è il criterio morale; ed è il non sapere conciliare i fini apparenti con l'esigenza morale che induce l'opinione o la certezza di fini ulteriori che si accordino con essa. ** * Dopo quanto s'è detto riuscirà piú chiara l'analisi delle forme principali nelle quali si presen- ta, e si è presentata storicamente, la dottrina del fondamento autoritativo della morale. Se la distinzione tra il potere e l'esigenza morale che lo legittima non è superata, come s'è vi- sto, neppure quando si unificano i due termini nel concetto di un'autorità che sia insieme irresisti- bilmente potente e indefettibilmente morale, tanto piú manifesta sussisterà nelle forme in cui l'unifi- cazione non è posta, o l'adeguazione è incompleta. Ma restano, almeno all'apparenza, due vie: a) o negare ogni valore alla coscienza morale come tale, e fondare ogni valutazione, sul potere che la pone a suo arbitrio; b) o trasferire il criterio della valutazione morale dalla coscienza personale a un'altra coscienza, impersonale o collettiva, la cui autorità viene da qualche cosa di diverso che dal suo accordarsi totale o parziale con la coscien- za della persona. a) Sulla prima tesi non c'è da osservare che questo: Che essa o non risponde alla domanda alla quale pretende di rispondere; perché non è dire donde venga l'autorità della valutazione morale negarle ogni valore, per riconoscere soltanto il pote- re che la impone, ma che potrebbe imporre il contrario. O non toglie se non a parole la distinzione, che ritorna attraverso a qualsiasi sottigliezza, tra l'arbitrio e la giustizia, tra la forza e il bene. E quando il Callicle platonico condanna le leggi come un'imposizione dei molti ai pochi, degli inetti e fiacchi agli ingegnosi e ai forti, egli deve, per non contraddire se stesso, non escludere, ma includere nel suo biasimo un criterio morale, un criterio superiore alla forza; poiché serve a giudicarla, a distinguere quella degli ingegnosi, degli intelligen- ti, dei superiori, da quella del numero; a riconoscere che v'è una forza che dovrebbe valere di piú e che non è giusto sia sopraffatta dall'altra. Ma dunque non è piú la forza che costituisce la giustizia? E il potere illimitato del Sovrano, al quale l'Hobbes riconduce ogni criterio di morale e di di- ritto, esclude solo in prima istanza, cioè in apparenza, ogni valutazione diversa: perché, come tutti sanno, l'arbitrio di questo potere è legittimato da un'esigenza diversa; quella stessa per cui si suol riconoscere che è meglio una legge cattiva che nessuna legge, e un governo tirannico che nessun governo. ** * b) La seconda delle vie indicate conduce a far riconoscere l'autorità morale come propria, o della collettività concepita come aggregato dei singoli, o dello stato come distinto e superiore alle 23  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta persone: sia come organo della società ai cui fini sono subordinati i fini individuali, sia come Volere universale al quale devono inchinarsi le volontà particolari. Le due tesi hanno, come è noto ed è facile capire, significato e valore diverso. I) Se la collettività è intesa come semplice aggregato e somma di singoli, non si può evitare il criterio della maggioranza, cioè in ultimo della forza. Un giudizio morale che non è valido se cor- risponde alla valutazione di n-1 coscienze, diventa valido se quell'una cambia parere. È il criterio della democrazia politica; di cui non si discute ora il valore come criterio politico (cioè come crite- rio di preferenza tra i mezzi, non di giustizia tra i fini); ma del quale nessuno riconosce sul serio il valore di criterio morale supremo; per la stessa o analoga ragione per cui il buon senso non è il sen- so comune, e il discorrere concludente di un solo vale piú che il chiacchierare sconclusionato di cento; e per la quale la maggioranza dei votanti può bastare a fare una legge ma non a farne ricono- scere l'equità. Ché se l'autorità morale della valutazione collettiva vale in quanto essa esprime l'unanimità dei singoli, e perciò serve a distinguere la sfera piú o meno ampia di valutazioni in cui tutte le co- scienze concordano, da quelle sulle quali l'accordo sparisce, si riconoscono due cose: 1° che per cia- scuna persona non vi può essere autorità morale superiore a quella della propria coscienza; 2° che la distinzione la quale può essere di importanza capitale per i rapporti tra morale e politica, cioè tra norme etiche e norme giuridiche, non ha valore morale se non a patto di essere fondata essa stessa su una distinzione di valore apprezzata o apprezzabile (non importa ora cercar come) dalla coscien- za morale personale che la deve riconoscere. Manca dunque sempre il qualche cosa di diverso dalla coscienza personale, a cui dovrebbe ricondursi l'autorità della coscienza collettiva. ** * II) Quando si parla di fini della società diversi dai fini individuali, e di coscienza sociale di- stinta dalla coscienza personale, si corre facilmente nell'equivoco di opporre come separati, o, peg- gio ancora, precedenti l'uno all'altro due termini correlativi; e si dimentica o si trascura di tener pre- sente che i fini della società non sono fini se non per gli esseri associati che li concepiscono e li fan propri; e che la coscienza sociale non esiste e non si rivela che nelle coscienze individuali; come, per converso, che i fini individuali sono nello stesso tempo, o direttamente o indirettamente, fini della società; e un certo grado di distinzione e differenziazione delle coscienze individuali è correla- tivo a un grado corrispondente di coscienza sociale. Ciò non significa negare il fattore sociale e le esigenze della socialità. Ma significa che quando si parla di individui e di coscienza individuale, questo individuo è già il socio; è esso, e nel- lo stesso tempo la società a cui appartiene; e la coscienza personale sua è insieme coscienza di sé individuo e coscienza di altri e del tutto: ed è cosí legittimo dire che esprime le esigenze dell'io di fronte a quelle della società, come dire che esprime quelle della società di fronte a quelle dell'io. Fatta questa avvertenza, che non sarebbe a rigore necessaria per la discussione presente, rie- sce meno strana l'affermazione che i valori sociali non sono morali se non perché e in quanto sono sentiti e valutati come tali dalla coscienza personale; e che dal punto di vista etico non è la società che dà valore ai miei criteri morali, ma sono i miei criteri morali che danno valore alla società. La socialità stessa, come tendenza e come esigenza, può essere ed è valutata alla stregua del- la esigenza morale. Derivare la valutazione morale da fini sociali significa dunque derivarla da qualche cosa il cui valore è giudicato e posto in grazia di quella stessa valutazione che se ne vuol trarre. Di che si può trovare la prova in due considerazioni non difficili. La prima è questa: che il giudizio sulla maggiore o minore eccellenza e dignità dei fini designati come sociali e delle istitu- zioni, delle leggi, dei tipi di società, ammette o sottintende postulati morali; e che non v'è riforma sociale piccola o grande che non invochi e non debba affrontare il giudizio della coscienza morale. 24  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta Quella stessa dottrina sociale (il marxismo) che formulò piú apertamente il proposito del piú risoluto amoralismo per fondarsi su un rigoroso determinismo storico, vede dissiparsi il suo baga- glio scientifico, e star saldo quel nocciolo di idealità etiche per le quali professava in vista il piú a- perto dispregio, e che in realtà avevan dato l'anima alla dottrina e l'ali alla certezza. L'altra osservazione è questa; che appunto quel che vi è di vivo e di vitale e di durevole nella fede («fede è sostanza di cose sperate») che prende il nome dal socialismo, è sociale non nel fine, ma nel mezzo; mentre è, nel fine, e non potrebbe non essere, suggerito e alimentato da un ideale morale che ha per oggetto e per centro l'individuo, la unità personale umana. Poiché la proprietà collettiva è concepita, attesa, voluta come condizione necessaria a rendere effettiva la libertà di tutti, a far veramente di ogni individuo umano una persona umana. Che poi quella sia la condizione necessaria, e che sia sufficiente; o che gli effetti siano per essere diversi o opposti da quelli sperati, è tutt'altro discorso. La vieta analogia biologica che fa degli individui le cellule dell'organizzazione sociale, se anche rispondesse a verità per quel che riguarda le condizioni dell'esistenza, dovrebbe sempre venir rovesciata nel rispetto della valutazione morale. Perché soltanto nella cellula-individuo l'organismo- società acquista coscienza di sé; e soltanto nella coscienza dell'individuo vale come organismo, e per essa soltanto potrebbe acquistar valore di finalità riconosciuta e voluta da lui come superiore a se stesso. Né concluderebbe il dire che non si tratta in ultimo che di un «punto di vista diverso»; e che, se dal punto di vista dell'individuo i valori sociali sono valori individuali, dal punto di vista della società è vero l'inverso: perché la coscienza che pone i valori sociali, e che giudica e valuta dal «punto di vista» sociale, che funge da coscienza sociale, è ancora, sempre, inevitabilmente, una co- scienza individuale. ** * Più breve discorso è da fare per il proposito nostro, della dottrina assai piú sottile e compli- cata che concentra ogni autorità e ogni finalità sociale nello stato e fa dello stato l'organo dell'Etici- tà. Perché in quanto la volontà dello stato sovrano si identifica col Volere universale cioè col volere morale, non c'è che da ripetere quel che si è detto sopra a proposito dell'identificazione del Volere- potere col Volere-valutazione. Ciò che fa essere lo stato arbitro della valutazione, e l'autorità dei suoi comandi criterio supremo dei valori morali, è questa affermata identità del Volere dello stato col Volere morale che si viene attuando nella Storia. Le difficoltà che possono nascere dagli sforzi di conciliare lo stato com'è con lo stato com'è concepito, e di interpretare i processi reali del suo divenire storico come momenti di attuazione del- lo Spirito universale cioè del Volere morale, rimangono estranee al punto in questione; il quale è questo: che il valore etico dello stato nasce dall'essere esso e esso solo l'organo adeguato di quel Volere universale, il quale è lo stesso Volere etico, che informa di sé la coscienza personale e si fa valere in essa. Cosi qualunque sia il Potere e qualunque il Volere a cui si voglia ricondurre l'autorità della coscienza morale, sempre si trova dietro a quel Potere e dietro a quella Volontà, inevitabilmente da- to o presupposto, quel valore morale che legittima il primo e dà autorità al secondo; come dietro la firma dell'uomo d'affari sia, non vista e non detta, ma sottintesa, la ricchezza reale o supposta, che fa della sua cambiale un valore. ** * Ma se l'autorità della valutazione morale non è derivabile da nessun'altra autorità superiore diversa da quella della coscienza personale, bisogna ammettere: o che le valutazioni morali delle diverse coscienze coincidano totalmente, cioè che le coscienze personali non siano che copie o e- 25  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta semplari di una medesima coscienza morale che si esprime per mille voci uguali di tono e di conte- nuto; o altrimenti che si trovi, nella natura stessa dei valori morali, posta, insieme con la esigenza dell'accordo rispetto ad alcuni, quella della differenza e dell'opposizione rispetto ad altri valori. E in questo caso al problema della fondazione storica e della fondazione consensuale della valutazione morale si sostituisce l'altro problema: Quali sono i valori morali nel cui riconoscimento l'autorità dell'induzione storica e l'autorità del consenso universale coincidono con quella della co- scienza personale? E in che cosa differiscono dai valori morali per i quali manca tale accordo? È legittima, e perché ed entro quali limiti, una subordinazione (che in ogni caso non potreb- be né in fatto né in diritto estendersi all'atteggiamento interiore, ma valere soltanto rispetto alle ma- nifestazioni esteriori) dei secondi ai primi? E del pari si trasforma il problema sul fondamento del dovere. Il dovere non riguarda, come s'è visto, il valutare, ma il conformare la condotta alla valuta- zione; e suppone il rapporto tra due volontà distinte o concepite come distinte, tra un volere presen- te e momentaneo che si rivela nella volizione attuale e concreta, e il volere dell'io persona, il Volere valutante o normativo, che le dà unità. Se l'io momentaneo o contingente è dominato totalmente e assorbito dall'io persona, e il Volere operante si identifica col Volere valutante, il dovere si attenua e svanisce perché sparisce il termine subordinato; se il Volere valutante manca e l'io non è che ag- gregato temporaneo e variabile di impulsi e di tendenze accidentali, il dovere non sorge perché manca il termine subordinante. Il problema del dovere è perciò il problema di questo rapporto, e delle difficoltà che nasco- no, sia dal concepire il Volere operante come uno e identico col Volere valutante; sia dal concepirlo come distinto e diverso; sia infine dal concepire, secondo importa la necessità di una conciliazione, le due volontà come distinte e diverse nell'uomo individuo, ma come una e identica in un Potere so- prapersonale del quale il valore morale esprime la legge nella coscienza individuale. 26  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta CAPITOLO QUINTO LA INVERSIONE DEI PROBLEMI RELATIVI AL FONDAMENTO DELLA MORALE Ogni sforzo di derivare una valutazione morale da qualche cosa di cui non sia già ricono- sciuto il valore morale è dunque vano o illusorio. O non dà quel che si cerca, o presuppone quel che si pretende di fondare. In realtà i valori morali o valgono per sé o sono tali in grazia di altri valori che valgono essi come morali per sé. Epperò ogni ragionamento col quale si dimostri per esempio che un'azione è buona o giusta, si risolve o nel ricondurre quell'azione a una classe di azioni, a un modo di operare già riconosciuto come morale, o nel dimostrare che questa azione fu od è voluta come condizione o mezzo di attua- zione di un valore morale. I valori morali diretti e immediati, apprezzati e voluti per sé, sono dunque dati di una espe- rienza morale non riducibile ad altre forme di esperienza e i giudizi nei quali questa validità diretta e immediata è ammessa o riconosciuta, sono postulati di valutazione morale (postulati etici in pro- prio senso). E una dottrina morale in quanto è sistema di valutazioni si fonda in ultimo sui postulati etici, espressi o sottintesi, di cui si assume che sia ammessa la validità: cioè che siano dati immediati del- la coscienza morale. Quando sia chiaramente riconosciuta questa indipendenza, questa validità per sé o autoassia dei postulati etici, le costruzioni dottrinali rivolte a cercare fuori della morale un fondamento che essa né può trovare né ha bisogno di cercare altrove, prendono un carattere e un significato diverso se non opposto; e forse considerate da questo aspetto rivelano meglio la tendenza profonda che muove e avviva in forme sempre risorgenti di tentativi diversi, i tipi di costruzione morale esaminati nei capi precedenti. L'idea centrale dell'intellettualismo morale di cercare il fondamento morale in una realtà ob- biettivamente data, e, in una conoscenza di questa realtà, dei suoi gradi di entità e di perfezione, il criterio della valutazione morale, diventa, guardata da questo aspetto, un'espressione della tendenza profonda e incoercibile, di trovare nel valore il senso e la ragion d'essere della realtà, nel criterio morale la chiave della sua interpretazione; di commisurare la realtà alla dignità, e riconoscere come esistente veramente soltanto ciò che è degno di esistere, facendo del bene il solo vero reale, e del male un mancamento, un difetto di realtà, l'irreale. Dietro il pensiero che muove i tentativi dell'utilitarismo sotto qualunque forma si presenti (non soltanto edonistico, ma estetico, noetico, umanitario, religioso) di trovare la ragione del valore morale in un bene supremo o maggiore o piú alto di ogni altro, che ne persuada l'utilità o ne giusti- fichi l'autorità, appare la convinzione che anche sotto il rispetto soggettivo della felicità (per l'uomo patologico, direbbe il Kant) non è in ultimo veramente bene se non ciò che è morale, o ciò a cui la moralità apre la via. Tutto ciò che ha valore, in quanto ha valore davvero, non può contrastare, ma si accorda, de- ve accordarsi coi valori morali, consistere in questi, o essere — in ultimo — condizionato da questi. E quando si tormenta la storia (storia esterna e storia interna della civiltà) per trovare nel processo di svolgimento, nella selezione subita o nel trionfo conquistato, i titoli di nobiltà che spie- ghino e legittimino l'autorità della morale, della nostra morale, si agita dietro l'acume e la sotti- gliezza delle indagini e sotto gli accorgimenti dell'induzione storica, il bisogno di trovare nella sto- ria l'attuazione di un disegno etico, di fare dell'accadere storico un divenire morale, di confermare con l'esperienza morale del passato l'esperienza del presente, la nostra esperienza morale, la mia. 27  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta Come l'appello al consenso universale degli uomini, meglio che allo scopo di fondare su questo consenso la mia certezza morale, risponde alla esigenza che realmente abbiano valore per ogni coscienza quei valori che sono posti come universali dalla mia, e costituiscono non il mio sol- tanto, ma il patrimonio ideale piú prezioso di ogni uomo, dell'uomo. E finalmente, quando dell'Autorità si cerca il fondamento in una Volontà superiore e distinta dalla volontà di ciascuno, che si impone a questa e ha il potere di obbligarla, l'esigenza a cui si ob- bedisce è quella stessa di cui si alimenta la coscienza del dovere: l'esigenza che il volere piú alto e il piú degno di autorità perché è il volere che pone i valori morali, sia nello stesso tempo un potere a- deguato al compito suo, il potere piú forte10; sia, come il vero volere, cosí il supremo potere. ** * La forma generale, con la quale si presentano da questo punto di vista i problemi, è dunque inversa a quella nella quale sono posti e considerati nelle dottrine che cercano fuori della morale il fondamento della morale. Si tratta non già di vedere quale ragione d'essere, e d'esser tali piuttosto che altri o diversi, trovino i valori morali nella realtà che conosciamo, nei beni d'altro genere che desideriamo, nelle tradizioni e negli esempi del passato, nei giudizi dei contemporanei, nel comando di un Volere onnipotente; ma di vedere se e come sia possibile e sia legittimo costruire una realtà, graduare dei valori, interpretare la storia, pretendere il consenso, postulare una Volontà in cui si a- degui il potere al volere, sul fondamento della certezza e validità immediata e diretta dei valori mo- rali, e delle esigenze che essi implicano. La formulazione generale di quei problemi dal punto di vista morale è dunque segnata da questo procedimento: Quali sono i valori morali; e quali sono le esigenze derivanti dalla loro posi- zione; se e quali postulazioni di ordine teoretico siano richieste a soddisfare queste esigenze; se e quale legittimità abbiano le postulazioni teoretiche fondate sopra di esse. Ma qualunque cosa si pensi di questi problemi e delle loro soluzioni, sussiste, indipendente da ogni giudizio su di essi, e rimane stabilita chiaramente e incontestabilmente, la primarietà, la in- dipendenza, la autoassiomaticità delle valutazioni morali. A fondamento dei giudizi morali non vi sono e non vi possono essere che dati e postulati di valutazione morale.  10 L'idea di «potere» è un elemento inespugnabile del concetto di volontà, perché la volontà è produzione, crea- zione, iniziativa. Dove si ravvisa o si presume che ci sia o ci debba essere una volontà, ivi si presume una forza (non è anzi la volontà la prima, e la sola forza, cioè attività che ci sia rivelata dall'esperienza diretta?); e una forza tanto mag- giore quanto più grande e difficile è il compito che la volontà si pone. Ed è perciò che questa forza appare nella forma più chiara, quando il volere morale si traduce in atto contro gli impulsi di ogni altro genere ed a prezzo dei più gravi sacrifici; è perciò che il sacrifizio è la prova più alta e la testimo- nianza più sicura (nell'espressione stupenda del Cristianesimo testimonio è il martire) della saldezza, della serietà del volere morale. Ed è anche per ciò che appare inevitabilmente pietoso o ridicolo un volere senza potere; e che il senso comune si fa beffe dei padri Zappata. Dei due elementi della volontà, la direzione consapevole e la forza, il senso co- mune è tratto senza esitazione a fare maggior stima della forza. Ha torto? ha ragione? 28  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta PARTE SECONDA LA PLURALITÀ DEI CRITERI MORALI 29  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta CAPITOLO PRIMO IL CRITERIO FORMALE DI VALUTAZIONE DEL KANT L'indipendenza e l'indeducibilità dei grandi valori morali da qualsiasi speculazione teoretica fu, come tutti sanno, riconosciuta e affermata, nella forma piú esplicita e con grandissimo vigore dal Kant. Perciò le conclusioni riassunte nell'ultimo capitolo sembrano mettere capo alla sua dottrina e alla soluzione data da lui al problema che l'analisi precedente pone come il problema veramente centrale dell'etica: quale sia il dato o quali siano i dati indeducibili della morale; o, che torna lo stes- so: quale sia il criterio (o quali i criteri) a cui si riconduce la valutazione morale. Bisogna dunque cercare prima di tutto se questa soluzione sia veramente esauriente. Ma giova intanto avvertire subito, per evitare le facili confusioni e gli equivoci indotti da connessioni abituali di idee e di dottrine, che la indeducibilità dei valori morali, come non implica necessaria- mente i principi e i procedimenti tenuti dal Kant nel riconoscerla (poiché vi si giunge, come abbiam visto, anche per altra via), cosí non richiede, per sé, né che si accettino né che si ricusino le conclu- sioni alle quali si arriva. La connessione fra le diverse tesi che si raccolgono attorno alla autonomia kantiana può es- sere, anzi veramente è, nel suo pensiero una connessione necessaria, ma non è necessaria fuori di esso e fuori del sistema di dottrine che lo esprime. Cosí il «primato della ragione pratica» nella soluzione dei problemi metafisici non è una conseguenza logicamente inevitabile della indipendenza e validità per sé dei valori morali; benché possa essere e sia anzi facilmente accolta da chi riconosce questa indipendenza e validità. Ciò che si presenta come conseguenza di questo riconoscimento è il problema della conci- liazione tra le esigenze della speculazione teoretica e le esigenze della valutazione morale; del qual problema il primato della ragion pratica esprime una soluzione o traccia la via per la quale il Kant l'ha cercata. ** * Ma veniamo al punto che ci interessa. Il concetto fondamentale dal quale il Kant prende le mosse è, come è noto, quello del volere buono. Il volere buono è il volere che si determina non per un oggetto, qualunque esso sia, che ab- bia un valore di fine per chi lo vuole (motivo «patologico»), ma per il dovere: cioè per il rispetto al- la legge perché è legge; non già in vista di quel che la legge comanda, ossia delle conseguenze che il volere conforme alla legge apporta. Il rispetto della legge in quanto è legge, astrazione fatta dal suo contenuto, è dunque il ri- spetto di ciò che la fa esser legge, della sua validità universale. L'universalità è la forma della ragione che si pone come esigenza del volere puro; è la ragio- ne stessa in quanto si manifesta come volontà, è la ragione pura pratica. Se l'uomo fosse pura ragione, cioè se non fosse insieme un essere sensibile soggetto a ten- denze, a impulsi di altre specie, il suo volere sarebbe santo, e non si potrebbe parlare di dovere. In- vece il dovere c'è perché c'è l'esigenza di conformare l'azione alla ragione e non agli impulsi della sensibilità. E il volere buono e appunto il volere che posto fra la legge e quegli impulsi — di qua- lunque specie siano — si determina per la legge, cioè per l'universalità, che è la forma della volontà razionale. Il criterio supremo della moralità è perciò espresso nella nota prima formula dell'imperativo categorico, di cui si dice piú sotto. ** * 30  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta Come si deve intendere quella universalità? E basta essa ed essa soltanto a fornire la caratte- ristica della valutazione etica, a distinguere ciò che vale moralmente da ciò che non vale? Quando la prima formula dell'imperativo dice: «Opera soltanto secondo quella massima che tu puoi volere nello stesso tempo che diventi una legge universale», — questa possibilità di voler che la massima diventi legge universale può esser presa in due significati diversi. Può voler dire la possibilità che sia seguita universalmente senza che l'osservanza da parte degli uni tolga o impedisca o limiti la possibilità della medesima osservanza da parte degli altri; la possibilità di pensarla senza contraddizione come legge universalmente valida; o può significare invece la possibilità che il valore universale della massima sia riconosciuto senza che questo riconoscimento contraddica o neghi il valore, che è o si suppone già ammesso, di un principio piú generale; ossia che si possa volere l'universale validità della massima senza disvo- lere l'universalità di una massima piú generale che la comprende, e si suppone che già sia o debba essere ammessa come legge. I due significati sono profondamente diversi, sebbene possa parere a prima vista che coinci- dano. Che, negli esempi che dà e nei commenti con cui li accompagna, lo stesso Kant non mescoli qualche volta i due sensi e non ne oscuri le differenze, non oserei negare; ma non parmi si possa dubitare che il vero significato inteso e voluto da lui sia il secondo e non il primo. 1. Se s'intende l'universalità nel primo senso bisogna riconoscere che: a) non soltanto si può concepire, ma può darsi in effetto che sia seguita universalmente, una massima senza che perciò se ne ammetta il valore morale; come per converso: b) può darsi che di una massima di condotta non sia possibile l'osservanza universale senza che perciò se ne riconosca l'immoralità. a) Come esempi del primo caso basta citare uno di quelli addotti dallo stesso Kant (il 3° della Fondazione) in sostegno del criterio dell'universalità: l'esempio dell'uomo d'ingegno che pre- ferisce il darsi buon tempo alla fatica di esercitare e perfezionare le sue doti naturali (dove è chiaro che non vi è nessuna impossibilità di concepire che tutti seguano quella medesima massima, sebbe- ne questo non importi nessun riconoscimento di valore morale); e quello (addotto dallo Schopen- hauer contro il Kant) della ragione del piú forte. Anche qui è possibilissimo ammettere che dappertutto dove vi è un forte di fronte al debole il primo sopraffaccia il secondo, cioè che la subordinazione del debole al forte sia fatta valere uni- versalmente come legge, senza che perciò se ne ammetta la moralità. b) Per converso, tra le massime che non possono pensarsi universalmente osservate sen- za contraddizione vi sono non solo massime comunemente riconosciute come immorali, per esem- pio, che ciascuno possa appropriarsi l'altrui, ma anche massime come l'opposta: che ciascuno ceda il proprio a vantaggio d'altri. Della quale, se non gli economisti, almeno San Francesco e i suoi ammi- ratori non metteranno in dubbio la santità. Ed è manifestamente del pari impossibile pensare universalmente praticate cosí la seconda come la prima. 2. Ben diverso è il secondo significato; per il quale la possibilità o l'impossibilità di univer- salizzare la massima non riguarda l'osservanza, ma la compatibilità o l'incompatibilità di questa u- niversalizzazione della massima con la volontà che la pone. Senonché questa incompatibilità (restringo, per semplificare, l'esame alla forma negativa che è anche la piú importante) può esprimere due specie diverse di contrasto: può voler dire che univer- salizzando la massima si viene a togliere la ragione per la quale si è accolta, ossia a negare il motivo stesso che la giustifica; oppure che si nega il valore di un'altra massima che già vale, o si ammette che valga o debba valere per la volontà, come legge universale. I due casi debbono essere considerati a parte e si possono chiarire facilmente con esempi. 2'. Supponiamo che oggi io, piú forte, trovandomi di fronte a un debole lo costringa a fare il piacer mio, e che giustifichi la mia prepotenza con la massima che il forte ha diritto di soggiogare il debole. Se il motivo, che mi ha indotto a formulare la massima è l'interesse egoistico, accadrà che in 31  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta nome di questo stesso interesse io dovrò negare la massima quando le vicende facciano di me, del piú forte di ieri, il debole di oggi. Ossia la massima non può essere universalizzata, senza che venga posta con ciò la possibili- tà che sia negato il principio (cioè il motivo o l'interesse) in grazia del quale l'ho accolta. 2''. Se si suppone invece che io riconosca essere nella forza il fattore di ogni elevazione mo- rale, e nell'esercizio incondizionato di essa il valore morale piú alto, la massima della prepotenza che approvo quando il piú forte sono io, dovrà essere parimente approvata — anche se hic et nunc mi dispiaccia — quando il piú forte sia altri; e l'universalità della massima potrà esser voluta senza contraddizioni, perché si accorda con il mio supremo criterio morale (che è quanto dire universale) di valutazione; ossia perché è una forma subordinata di un'altra massima già posta dal mio volere come legge universale11. Il significato nel quale è preso dal Kant il criterio della universalizzazione, è, come si è det- to, il secondo; e propriamente quella forma del secondo che risponde all'ultimo dei casi ora esami- nati (2"). Né potrebbe cadere sotto qualsiasi altra la considerazione, che è la sola veramente decisiva, fatta da lui per provare che non potrebbe essere universalizzata la massima proposta nel 3° esempio, già citato, dell'uomo che ha ingegno e rinuncia a coltivarlo. «Egli vede bene che senza dubbio una natura, malgrado una tale legge universale, potrebbe sempre ancora sussistere, anche quando l'uo- mo (come l'abitatore del Mar del Sud) lasciasse arrugginire i suoi talenti e non pensasse che a vol- gere la sua vita verso l'ozio, il piacere, la propagazione della specie, in una parola, verso il godimen- to; ma egli non può assolutamente volere che questa divenga una legge universale della natura e che ciò sia innato in noi come istinto naturale. Perché come essere ragionevole egli vuole necessaria- mente che tutte le facoltà siano sviluppate in lui». (Fondazione, Parte II). La medesima considerazione è ripetuta a proposito dall'altro esempio (il 4°) in cui si fa l'ipo- tesi del brav'uomo, che si propone di non far del male a nessuno, ma quanto all'adoperarsi nei biso- gni altrui è del parere: ciascuno per sé, e Dio per tutti. «Quantunque sia possibile che sussista una legge universale della natura conforme a quella massima, è impossibile di volere che un tale princi- pio valga come legge della natura»12. ** * Per il Kant dunque l'universalità della massima non è criterio della sua bontà e del valore morale della volontà che vi si conforma, se non perché essa è una prova dell'accordarsi della mas- sima seguita nell'azione con la natura dell'essere ragionevole, con la legge posta dalla Ragione, che è la legge stessa morale13. Soltanto intesa cosí la formula (la 3a della Fondazione) della volontà di ogni essere ragionevole che istituisce per mezzo delle sue massime una legislazione universale, o nei termini della Critica della ragion pratica (op. cit., p. 30): «Opera in modo che la massima del 11 Con quel che risulta evidente da questa ipotesi si accorda il fatto assai notevole della profonda diversità di valore che può assumere nel nostro giudizio morale la medesima regola pratica, secondoché noi vediamo dietro di essa un motivo soprasoggettivo e impersonale (anche se contrario al nostro criterio di valutazione) o un motivo soggettivo e personale; a seconda che ci appare una massima accettata veramente da chi opera come norma, o un comodo pretesto o compromesso del momento; cioè a seconda che vi si trova o no quella condizione necessaria, se non sufficiente, del ca- rattere morale, che è la coerenza dei giudizi tra di loro e delle azioni coi giudizi. 12 La ragione di natura egoistica che Kant fa seguire può valere tutt'al più come un tentativo poco felice di giu- stificare la simpatia dal punto di vista dell'interesse individuale, ma non varrebbe per sé in alcun modo a dimostrare l'impossibilità di volere di cui si parla, se non a patto di identificare (pericolo forse non avvertito) il volere dell'uomo «come essere ragionevole» col volere del «caro Io». (Il corsivo delle parole sottolineate in questa e nella citazione precedente è mio, tranne per la parola volere spa- zieggiata). Cito per la Fondazione della metafisica dei costumi la bella traduzione del Vidari (Pavia, Mattei Speroni e C., 1910); per la Critica della ragion pratica mi riferisco al testo originale nella edizione della R. Accademia di Prussia (Kant's Gesammelte Schriften, vol. V, G. Reimer, Berlin, 1908). 13 Kritik der praktischen Vernunft, I, 1, 1, §. 7, Folg. p. 31 32   Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta tuo volere possa valere insieme come principio di una legislazione universale»; e coll'autonomia del volere come principio di tutte le leggi morali e dei doveri conformi ad esse (op. cit., p. 33). E soltan- to cosí si può intendere come egli creda di derivare dall'universalità la formula famosa e piú fecon- da (ma feconda in quanto dà un contenuto all'universalità, non in quanto semplicemente ne riceve la forma): «Opera in modo da trattare l'umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni altro, sem- pre ad un tempo come fine e non mai soltanto come mezzo». Ma intesa cosí l'universalità, essa non esprime che una doppia esigenza: dell'universale con- formità delle massime alla ragione, alla legge morale, al volere puro come principio di una legisla- zione universale, vale a dire, alla legge morale; e della universale validità delle massime come co- mandi, cioè dell'universalità del dovere. Ma né dall'universale imperatività delle massime, né dalla universale loro conformità alla legge morale è possibile ricavare quali sono i modi di operare che le massime impongono, quale sia la legge universale che la volontà per mezzo delle sue massime pone a se stessa. Se ora vogliamo, e possiamo ormai farlo legittimamente, uscire dalla terminologia kantiana e servirci dei termini usati nella parte precedente, possiamo raccogliere e completare l'analisi del criterio kantiano in una forma forse piú chiara. ** * I valori morali sono valori riconosciuti dalla pura ragione, valori che esprimono la volontà dell'uomo in quanto è essere ragionevole. La esigenza caratteristica sentita profondamente dal Kant, che i valori morali siano superiori ed estranei ad ogni interesse egoistico, e apprezzati e voluti per sé, indipendentemente da ogni considerazione delle loro conseguenze, lo spinge (poiché la volontà come potenza pratica gli sembra inevitabilmente legata a tendenze e impulsi sensibili, a fini, cioè a rappresentazioni di conseguenze valutabili solo in rapporto alla sensibilità del soggetto) a fare dei valori morali degli enti di ragione, a trarli dalla ragione pura, a fare della ragione pura la ragione pratica («la ragione pura è per se stessa pratica»). Ma la ragione per quanto si faccia non dà valori; la ragione esige o impone la coerenza; teo- rica: dei giudizi fra di loro e con i principi e i dati su cui si fondano; pratica: delle valutazioni deri- vate e mediate con le valutazioni direttamente date o postillate, e delle azioni con le valutazioni. Non dà dunque le valutazioni, sebbene sia tutt'altro che trascurabile, anche per questo rispetto, l'uf- ficio di confronto, riduzione, subordinazione, unificazione che le è proprio. Non è meraviglia che a voler cavare, da essa soltanto, i valori morali, non se ne estragga in ultimo che questa esigenza di una universale coerenza della volontà con se stessa; esigenza necessa- ria e caratteristica di ogni uomo che sia persona, perché sottintesa, affermata, voluta (anche quando coi fatti la smentiamo, ma sempre a malincuore) costantemente, come prova e testimonianza a noi stessi della unità spirituale, della esistenza e continuità dell'io come persona. Ma essa per sé non ci dice né che cosa sono i valori, né quali sono i valori sui quali si fonda e ai quali deve far capo l'esi- genza unificatrice della coerenza. La ragione appresta, scegliendoli dal groviglio delle conoscenze, i riti adatti a fornir la trama dell'ordito. Ma i fili dell'ordito, i valori fondamentali sono dati dalla vo- lontà; né si può derivarne la natura dalla natura della trama; né dal disegno della tela. ** * Né maggior luce può venire dalla Volontà come il Kant la concepisce; né dal concetto del Volere puro né da quello del Volere buono. Il Volere puro, il Volere autonomo, il Volere spoglio come s'è detto, di ogni impulso sensi- bile, e capace di volere i valori morali per sé, non può esser per lui che il Volere che vuole la ragio- ne, la ragione stessa in quanto è pratica, in quanto è forma legislatrice, e non dà che questa medesi- ma universalità. 33  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta Quanto al concetto del Volere buono, esso aggiunge bensì alla nota dell'universalità (rispetto della legge perché è legge) la nota dell'obbligatorietà (un'azione è buona quando è compiuta per il dovere); ma questa nota è possibile nel volere buono soltanto in causa del conflitto tra il rispetto della legge morale — col quale si identificherebbe per sé il volere puro — e gli impulsi sensibili. È dunque un carattere che riguarda la moralità, non la valutazione morale, e che esprime il pregio la eccellenza la supremazia dei valori morali in confronto degli altri valori; ma non dice in che consistano i valori, né donde nasca questa eccellenza (se non dall'universalità della legge). In ogni caso anche se il dovere è, nella conoscenza dell'uomo empirico, la ratio cognoscendi della leg- ge, sta però nella legge la ragion d'essere del dovere e non nel dovere la ragion d'essere della legge. Sapere che i valori morali debbono essere attuati non è sapere in che consistono, né sapere perché meritano che si debba attuarli. Che debbano essere scritti con la iniziale maiuscola tutti i sostantivi che viene imparando, potrebbe anche essere per uno scolaro tedesco il criterio per distinguerli come tali dalle altre voci del discorso; ma non è l'obbligo di scriverli con l'iniziale maiuscola che li fa essere e diventare so- stantivi. ** * Resta da esaminare la forma che il criterio di valutazione assume nella 2a delle note formule; quella in cui si assegna alla legge un contenuto cioè un fine; e il rispetto della legge perché legge, diventa rispetto dell'umanità o della persona umana come fine in sé. Ma è facile vedere come questa pretesa derivazione dalla prima formula, o è veramente chiusa nei limiti di una derivazione e non dice nulla di piú di quella onde è dedotta; o assume dav- vero un contenuto, e questo costituisce per sé un criterio di valutazione distinto e diverso da quello da cui si pretende dedurlo. Il quale non si esaurisce piú nell'universalità della valutazione morale ma richiede un riferi- mento agli oggetti della valutazione; ed è un criterio non piú formale soltanto, ma anche materiale. Se, anche inteso cosí, sia adeguato al bisogno resterà da vedere piú innanzi. Il termine che media il passaggio kantiano dalla legge come forma all'umanità come fine è il rispetto della natura ragionevole. — Poiché la legge è la ragione, il rispetto della legge, cioè della ragione, importa il rispetto dell'essere ragionevole, come tale; della natura di essere ragionevole e della persona umana nella quale si manifesta a noi questa natura. Si potrebbe già discutere, a rigore, sulla legittimità di passare dal rispetto della ragione al ri- spetto di una natura ragionevole, perché ciò che impone rispetto nella ragione è secondo il Kant la sua forma legislatrice e non il soggetto, qualunque sia, che la porta, e in cui si realizza questa forma. Tuttavia, finché si pensa l'essere ragionevole come puramente tale cioè come costituito di sola ragione ed esaurientesi in essa, il passaggio si riduce in fondo ad una ipostasi, e il contenuto non muta. Ma quando si deve venire all'uomo, il trapasso è ben diverso. L'uomo è essere ragionevo- le, ma non tutto, e non soltanto ragione. Ora: quando si dice rispetto della persona umana, si intende rispetto di tutta la persona in quanto nella persona si rivela una coscienza uno spirito (che la com- prende sí, ma è ben lungi dall'esaurirsi nella ragione), oppure si intende la persona in quanto è essa stessa ragione e null'altro, cioè in quel che ha di universale, di medesimo in tutti gli uomini, di (co- me si dice, sebbene il dirlo qui paia un bisticcio) impersonale? Non c'è che da ripetere quel che s'è detto già; dall'assumere come fine questa persona- ragione vuota di ogni altro contenuto non si ricava altro criterio che sempre e ancora il rispetto della ragione come tale. E solo verrebbe fatto di chiedersi se questo inchinarsi davanti alla persona, soltanto per quel che vi è in essa di medesimezza e di identità con ogni altra persona e non anche per quel che vi è di 34  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta proprio originale, individuale e irriducibile, non si assomigli all'inchinarsi davanti a un apparecchio telefonico per il rispetto dovuto alla voce autorevole che in esso risuona. Oppure si intende che la ragione (o meglio un Volere razionale) conferisce dignità all'uomo, a tutto l'uomo, a tutte le facoltà e attività che essa ordina e fonde nella unità inscindibile del mede- simo e del diverso, del comune e del proprio, dell'universale e dell'individuale; che non la ragione, ma lo spirito umano nella interezza delle sue manifestazioni, la coscienza vivente in ogni persona merita questo rispetto; e allora, allora soltanto, si può parlare di un contenuto che non si esaurisce nella forma. Ma è troppo evidente che inteso cosí il rispetto alla persona non si può derivare dal rispetto alla ragione e alla legge perché legge. Intesa cosí la persona umana, essa non è piú l'universalità vuota e astratta di una legge fine a se stessa, ma è la sorgente di quei valori morali dei quali la «ragione» constata la universale validità e la riconosciuta sovranità sugli altri valori, mette in luce le esigenze, determina le condizioni di at- tuabilità; (e potrà poi indagare se e come tali esigenze e condizioni si possano conciliare con quelle degli altri ordini di valori e in particolare con quello del sapere); di quei valori morali che il «Volere puro» pone in forma di legge, e il «Volere buono» attua in forma di doveri. ** * Che per la natura ragionevole dell'uomo si intenda non soltanto la pura forma della ragione, ma anche altre facoltà, disposizioni, modi di essere e forme di attività, e che il Volere ragionevole non riconosca come valore morale soltanto la conformità alla forma della ragione, ma la conserva- zione l'incremento l'esercizio di queste altre facoltà e attività spirituali, appare in forma tipicamente significativa nel commento già riferito sopra con l'esempio (il 3° della Fondazione) a cui si riferi- sce: «Come essere ragionevole egli (l'uomo) vuole necessariamente che tutte le facoltà siano svi- luppate in lui, visto che gli sono state date per servirgli ad ogni sorta di fini possibili». Questo volere dell'uomo ragionevole, che è il volere puro, il volere autonomo, morale, è dunque il volere che vuole «necessariamente» lo sviluppo di tutte le facoltà, cioè il volere di cui si pensa e si ammette che il contenuto sia costituito da valori già dati e riconosciuti senza contesta- zione come fini di un volere buono cioè come valori morali14. E appare manifesto che la riduzione del criterio di valutazione morale a criterio puramente formale suppone che siano già noti, quanto al contenuto, i fini dell'operare morale; già conosciuti e determinati, quanto all'oggetto loro, i doveri. E risponde alla domanda: quand'è che l'intenzione del- l'operare è veramente buona, che un atto è veramente morale? ma non alla domanda: quali sono le azioni, in cui questa buona intenzione si deve tradurre; quali sono i fini a cui il volere buono deve rivolgersi; ossia quali sono i valori, nella cui attuazione fatta con purità di volere consiste la morali- tà? 14 E che veramente si sottintendano come già noti e riconosciuti è confermato all'evidenza dall'analisi di ciò che costituisce veramente il presupposto fondamentale non solo di quella citata ma dalle altre esemplificazioni; con le quali si prova — non già, come s'è visto, l'impossibilità per sé di universalizzare — ma l'impossibilità di volere che una tal massima valga come universale. Infatti la ragione per la quale non si può erigere a massima universale il principio che chi è stanco della vita può uccidersi (1° esempio) non è già l'impossibilità di concepire seguíta una tal massima da tutti quelli che sono stanchi della vita, ma l'impossibilità di volere che sia riconosciuta e adottata; perché essa implica che si affermi la superiorità del piacere sui valori morali (dei quali la vita è condizione); mentre, appunto perché li riconosciamo come morali, af- fermiamo e vogliamo il contrario. Così nel secondo, il dato contro cui urta la universalizzazione della massima — che sia lecito promettere con l'intenzione di non mantenere — è la superiorità sottintesa della sincerità e della lealtà sull'interesse egoistico; e la con- seguente impossibilità di volere che cessi di essere riconosciuta universalmente quella superiorità di cui noi siamo certi. Del terzo esempio si è detto, e si è accennato anche al quarto; nel quale ultimo è sottinteso manifestamente il valore della simpatia e della benevolenza, che non possiamo ammettere sia subordinato al valore della propria quiete o dei propri comodi.  35  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta Alla quale domanda si presume dunque che la risposta sia già data dalla coscienza morale. E la risposta è data infatti, e non può esser data, che da lei. Ma se la risposta non fosse univoca? Se, supposto pari in due coscienze il rispetto della legge, la legge comandasse all'una quel che vieta o non comanda all'altra, potrebbe bastare a dirimere il contrasto tra le due leggi il sapere che il volere è buono quando si determina per rispetto alla legge, e che la moralità consiste nel compiere il dovere per il dovere? 36  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta CAPITOLO SECONDO LA DIVERSITÀ DEI CRITERI MORALI Non vi è una coscienza morale, ma vi sono, a rigor di termini, tante coscienze morali quante sono le coscienze personali nelle quali sono riconosciuti come supremi e normativi e validi indipen- dentemente dal flusso momentaneo e variabile delle valutazioni transitorie e accidentali, certi valo- ri; ed è riconosciuta l'esigenza che il criterio di valutazione corrispondente possa valere non solo come norma costante del giudicare e del volere proprio, ma anche come norma costante del giudica- re e del volere altrui; ossia come norma universale del giudicare e del volere di ogni persona. Se si ammette o si suppone che quei certi valori siano per tutte le coscienze i medesimi, si può parlare della coscienza morale, come una ed identica non solo di forma, ma anche di contenuto; se si ammette il contrario, si deve riconoscere una pluralità di coscienze morali piú o meno discor- danti e una pluralità di criteri di valutazione che si presentano alle diverse coscienze con la medesi- ma autorità di valutazioni morali, cioè con la medesima forma. Il fascino singolare che esercitò ed esercita la morale di Kant viene non dal suo formalismo per sé, ma dal fatto che, mentre spoglia e purifica la moralità da ogni fine materiale e quindi dal pe- ricolo di ogni considerazione soggettiva, la dottrina è sostenuta e vivificata dalla fiducia salda e in- crollabile che si debba riconoscere o si possa dimostrare che dentro quella forma cape, e non può capire che un solo contenuto; dietro quella legge si debbano trovare infallibilmente i fini che la co- scienza morale riconosce come buoni, e quelli soltanto. Ma s'è visto che lo sforzo è, e non poteva non essere, vano. Il criterio formale di Kant sem- bra convenire ad un solo e unico contenuto, a certi valori ed a quelli soltanto, perché si ammette già che la coscienza morale sia unica; che la sua voce non soltanto parli in ogni coscienza con lo stesso tono, ma dica le medesime cose. In realtà il criterio formale non esprime che l'esigenza della razionalità: una legge non è leg- ge se non è valida sempre nei medesimi casi; una norma non è suprema se non a patto che ogni altra norma sia subordinata ad essa; un criterio di valutazione non è piú un criterio, ma un capriccio, se i miei giudizi di valore non si accordano costantemente con quello; se io non riconosco legittimo — fatto da qualsiasi altro — il giudizio che quel criterio esigerebbe da me nel medesimo caso. Ma è un'illusione credere che possa bastare la razionalità per sé a distinguere i valori dai non valori; i valori morali dai valori non morali, a farci riconoscere — senza appello diretto o indi- retto a qualche dato o postulato non razionale — il valore di un oggetto qualsiasi (di un contenuto), ideale o reale. Si governa non meno razionalmente l'avaro, quando giudica ed opera in ogni caso come se il danaro fosse l'unico bene per sé, il supremo bene, purché riconosca legittimo che ogni altro giudichi e operi allo stesso modo, di quel che faccia l'esteta quando ragguaglia ogni cosa a un ideale di bel- lezza, o l'intellettuale che non riconosca altro scopo degno alla vita che la ricerca della verità. E quando si dice o si crede di dimostrare che è «contrario alla ragione» non un giudizio apprezzativo che contraddice al criterio accettato, ma il criterio stesso come tale, non si può affermare o dimo- strare questa contrarietà se non perché si sottintende che vi sono — cioè sono riconosciuti e deside- rati — altri valori diversi, superiori o non subordinabili a quello dal quale è tratto il criterio in que- stione; e si trova contrario alla ragione che non si tenga conto di quest'altri valori, che si giudichi e si operi come se questi non esistessero, o fossero inferiori mentre sono superiori, o incondizionati mentre sono condizionati. Ma se si fa l'ipotesi che questi altri valori non siano tali per un Tizio che li ignora, qualsiasi istanza di irragionevolezza contro di lui cadrebbe a vuoto, anzi sarebbe essa irragionevole. ** * 37  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta Adunque il criterio del Kant non supera, dato che ci siano, le differenze di contenuto valuta- tivo. Se in nome della mia coscienza morale io pongo il valore dell'umiltà, e in nome della propria coscienza morale un'altra persona lo nega, l'universalizzare le massime che rispondono alle due va- lutazioni opposte non mi fa avanzare d'un passo verso una soluzione del conflitto, se non a questa condizione: che io creda di poter dimostrare che una delle massime si accorda e l'altra contrasta con una terza massima nella quale è affermata l'esigenza di un volere riconosciuto o ammesso inconte- stabilmente come morale. E si presenta inevitabilmente, senza che sia possibile eluderla, la domanda: C'è o non c'è questa pluralità di contenuti discordanti nella valutazione morale? C'è. ** * Si è osservato piú sopra (Parte I, Cap. 3°) che ogni oggetto ideale o contenuto di valutazione morale ha o può avere nello stesso tempo valore per altri rispetti, cioè può essere considerato come un valore di altra specie. Anzi è per questa relazione dei valori morali con valori di ordine diverso che si è cercato e si è creduto di poter trovare il fondamento della valutazione, la ragione d'essere del valore morale in una finalità di natura edonistica (egoistica o altruistica) o noetica o estetica o religiosa. Se si considera una tale rivalutazione eterogenea come pretesa di far valere — con questa e per questa ragione — per morale, un valore che non sia già sentito come morale, il tentativo, è come s'è visto, del tutto illusorio. Ma se si considera, al contrario, come espressione di una finalità che può assumere in questa o quella coscienza importanza prevalente, che può o potrebbe — all'infuori del carattere specifico di eticità per il quale è posto da quella stessa coscienza come valore morale — essere sentita come su- periore in pregio ai fini di ogni altro ordine, e degno di subordinarli, essa contiene in sé la ragione capitale della diversità e discordanza dei fini e dei criteri, che pretendono di valere ciascuno come supremo nella valutazione del contenuto proprio dei valori morali. L'esteta si foggia un suo modo ideale di bellezza per il quale i valori si ordinano da sé in una scala determinata dalle connessioni di inerenza e di condizionalità degli altri valori, con i valori e- stetici; e il mistico un ideale di santità, al quale subordina gli altri valori, accogliendoli e graduando- li in quanto convengono, negandoli in quanto disconvengono; e cosí lo spirito contemplativo che ama sopra ogni cosa la verità, e cosí l'egoista calcolatore e l'altruista generoso. I valori che, per essere morali, hanno già una validità e un'autorità intrinseca che li distingue dagli altri valori, si vestono di necessità nella coscienza dell'esteta del mistico e cosí degli altri, di quel particolare colore, che li fa sentire e riconoscere rispettivamente come valori estetici, religiosi, noetici e via dicendo; e se continuano a valere per la forma come morali, valgono — per il contenu- to — soprattutto come valori di quell'ordine che è nella coscienza il dominante. Basta per convin- cersene badare alle differenze caratteristiche della motivazione, con la quale ciascuno dei tipi di co- scienza supposto giustifica a sé e agli altri il valore che riconosce, poniamo, alla temperanza, o alla forza di volontà, o alla veracità, o ad altra virtù. Ora questo coincidere e fondersi, quanto al contenuto, del valore morale col valore dell'ordi- ne che esprime l'orientamento prevalente della coscienza — anche quando non è in giuoco la valu- tazione etica — non solo conduce alla transvalutazione notata, ma tende a indurre insieme un pro- cesso di transvalutazione inversa; cioè a dar colore e calore di convinzione e di apprezzamento mo- rale ai valori di quell'ordine, a riconoscerli come morali e a pretendere che siano riconosciuti per tali anche dalle persone, nelle quali non si afferma il medesimo orientamento. Ed è istruttivo (e non è sfuggito agli umoristi) il calore col quale parla di diritti offesi e ri- vendica gli interessi sacrosanti della giustizia l'egoista gretto che vede frustrato un suo piccolo cal- colo ingegnoso che aveva a mala pena il pregio di non urtare nel Codice penale; e quello (sia pure 38  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta di dignità fuor di paragone diversa) dell'artista, che grida allo scandalo e invoca un preciso dovere dello stato a reprimerla, se offenda il suo senso estetico, la trascuranza per un tronco di colonna di- menticato. E si potrebbe continuare, in modo anche piú evidente, per gli altri. Cosí ciascuno degli orientamenti valutativi tende ad allargare nella direzione corrispondente la sfera dei valori morali, includendovi un contenuto proprio diverso, e non coestensivo al contenuto di ciascun altro. E perciò accade che i diversi sistemi di valutazione — animati come sono e pervasi da un interesse tipicamente diverso — abbiano in realtà in comune soltanto una parte di quei valori che ognun d'essi, per l'esigenza sua propria, riconosce come morali; abbiano cioè comuni soltanto quei valori morali che sono nello stesso tempo valori diretti o indiretti del proprio genere, o che al- meno non contrastano e non negano quella propria specifica esigenza. I diversi sistemi assomigliano cosí a cerchi eccentrici di vario raggio che si intersechino fra di loro; dei quali è minima la superfi- cie comune a tutti, ed è sempre piú grande la parte d'estensione rispettivamente comune a un nume- ro di cerchi minore; e in misura variabile, secondo che sono meno o piú eccentrici fra di loro. ** * D'altra parte, anche la coscienza nella quale l'orientamento tipico è dato dall'interesse stesso morale (la coscienza dell'homo ethicus) si trova a dover considerare nei valori estetici religiosi intel- lettuali economici il valore morale diretto o indiretto che assumono o possono assumere in grazia di relazioni analoghe a quelle considerate sopra (il valore p. es. che l'attività scientifica e l'estetica e le doti richieste e promosse da questa attività possono avere per la cultura morale). E non solo: ma per la considerazione felicemente messa in evidenza dal Moore sul valore organico (il «quanto» per il quale il valore di un tutto eccede il valore di uno dei suoi fattori non è necessariamente eguale a quello del fattore che rimane: ethics, Cap. VII: Intrinsic value), si trova a dovere apprezzare diversamente l'oggetto ideale della valutazione morale, quando esso è nello stes- so tempo oggetto di una valutazione diversa, intellettuale, per es., od estetica. (Non è senza signifi- cato anche per questo rispetto che il Sommo Bene sia stato identificato col Sommo Bello). Si aggiunga finalmente (il «finalmente» chiude ma non esaurisce le osservazioni su questo proposito) che il carattere di interiorità dei valori morali, il quale si fa tanto piú spiccato quanto piú la coscienza personale è concepita come sorgente e creatrice autonoma dei valori, tende a staccare, anche nella coscienza dell'homo ethicus, il valore morale dagli schemi che esprimono una esteriore conformità alla valutazione, per riconoscere un pregio preminente alle note interiori di spontaneità, di libertà, di autonomia; il che porta ad estendere la dignità intrinseca dei valori morali anche a que- gli altri valori spirituali nei quali splende un raggio di quelle medesime luci; e non tanto a distingue- re i valori morali da altri valori spirituali, quanto a distinguere il contenuto interiore e spirituale dei valori dal contenuto esterno e materiale nel quale si traducono. ** * Cosí nella coscienza personale si attenua e si fa piú incerta, e trasmutabile per molti modi, la distinzione tra i valori morali e gli altri valori spirituali. In altri termini: mentre, si può dire a un di- presso, dal trionfo dell'etica cristiana fino al Kant la valutazione morale aveva avuto per le diverse coscienze della stessa civiltà e cultura un contenuto comune determinato e costante (e, in ogni caso, la parte di contenuto sulla quale cadeva il dissenso finiva per essere praticamente quasi trascurabi- le), a partire dalla «Dichiarazione dei diritti» della Rivoluzione francese, si delinea e si allarga nel campo della valutazione morale una sempre maggiore differenza di contenuto tra coscienza e co- scienza; e si fa piú frequente e piú profondo il contrasto tra i criteri di valutazione rispettivamente accolti come supremi. E i sistemi nei quali i valori morali sono ricondotti a un criterio intellettuale, o estetico, o re- ligioso, o etnico, o umanitario, o filogenetico, o solidaristico, o egotistico, o quale altro si voglia, non sono piú, guardati per questo rispetto, tentativi dispersi, ma, per cosí dire, paralleli di giustifica- 39  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta re o di «fondare» il valore di un medesimo contenuto; essi esprimono invece, nella parte forse mag- giore e piú significativa, una diversità di contenuti contrastanti; e soltanto in parte un contenuto co- mune, che si colora pur esso diversamente, secondo la fiamma a cui si riscalda. Perciò, considerata nell'interiorità della coscienza personale, la parte di contenuto etico nella quale essa sente di concordare colle altre non ha per sé autorità maggiore o diversa delle parti per le quali discorda. A meno che la coscienza stessa possa o debba riconoscere, senza abbandonare il proprio criterio di valutazione, una qualche differenza, se non di natura, di grado, tra quella e que- ste. 40  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta CAPITOLO TERZO LA CONDIZIONALITÀ NEI VALORI MORALI Se si suppone, per un'ipotesi inverosimile, che lo spirito filantropico, lo speculativo, il reli- gioso, l'estetico, non riconoscano rispettivamente altri valori all'infuori di quelli che si possono commisurare al criterio di valutazione proprio di ciascheduno, si troverà tuttavia che certe doti spiri- tuali, poniamo, l'alacrità, la tenacia, il dominio di sé, l'ardimento, sono e debbono essere considerate come valori da tutti indistintamente i tipi supposti; perché tutti (nell'ipotesi, sottintesa, che siano in- telligenti) debbono riconoscere che quelle doti personali sono condizioni o indispensabili o som- mamente utili alle forme di attività corrispondenti, cioè all'attuazione di quell'ordine di valori che ciascuno ha posto a sé come tali. Per la medesima ragione si troverà (la deduzione è troppo ovvia perché occorra piú che l'ac- cenno) che debbono essere riconosciuti come valori il rispetto della integrità e della libertà persona- le, l'osservanza dei patti, lo scambio dei servizi e via dicendo, e con essi i costumi, le istituzioni, le leggi che assicurano la conservazione e l'incremento di queste condizioni sociali; e le disposizioni di spirito (lealtà, imparzialità, simpatia) che ne avvalorano il rispetto nella coscienza personale. Adunque tutti i tipi suddetti, e gli altri che si potrebbero analogamente supporre, saranno portati a riconoscere e ad apprezzare in sé e negli altri — astrazion fatta da ogni valutazione morale — dei valori, sia propriamente personali (doti della persona che possono sussistere nel soggetto in- dipendentemente dal suo atteggiarsi rispetto ad altre persone); sia sociali (doti che riguardano questi atteggiamenti); valori che nascono dal rapporto di condizionalità costante che li stringe a ciascuno degli ordini supposti. Di piú: il rapporto di condizionalità dal quale viene ai valori citati in esempio il carattere di strumentalità, è diverso, come è facile vedere, da quella strumentalità esterna accidentale e variabile che lega il blocco di marmo all'opera dello scultore, o la conferenza di propaganda al disegno del- l'altruista, o un libro agiografico all'interesse del mistico, o la scala dell'Osservatorio agli studi del- l'astronomo: appunto perché là si tratta di condizioni preliminari indispensabili e permanenti, il cui valore non solo non si esaurisce nell'atto singolo che ne dipende, ma non è sostituibile da alcun altro strumento o condizione. È dunque una condizionalità necessaria, permanente e insurrogabile, in forza della quale ciascuno dei detti tipi dovrà riconoscere a siffatti valori condizionanti una superiorità, se non di pre- gio intrinseco, di precedenza imprescindibile sui valori diretti e finali che ne dipendono. ** * Non occorre lungo discorso per intendere come per effetto del medesimo rapporto il filan- tropo potrà essere condotto a riconoscere i detti caratteri di condizionalità anche a qualità attitudini forme di attività, alle quali o non potrà attribuirli o dovrà forse attribuire un valore negativo, o di o- stacolo, ossia un disvalore, il mistico o l'esteta; e inversamente; e come perciò sarà possibile una di- stinzione tra i valori propri esclusivamente di ciascun tipo di valutazione, e i valori condizionanti comuni a qualsiasi ordine, dato (come gli esempi citati dimostrano possibile) che ve ne siano di co- siffatti. Questi valori comuni avranno dunque oltre ai caratteri già notati, anche quello di essere strumentali rispetto a quale si voglia criterio di valutazione che sia posto come normativo; cioè a- vranno una condizionalità universalmente necessaria permanente e insurrogabile. ** * 41  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta Aggiungiamo ora un nuovo elemento all'ipotesi; e supponiamo che tanto il filantropo quanto lo speculativo e il mistico e l'esteta riconoscano, ciascuno, come l'ordine dei valori morali, quell'or- dine di valori che risponde alla direzione tipica della propria coscienza. Accadrà che la valutazione morale dell'uno coinciderà quanto al contenuto con la valutazione morale di ciascun altro soltanto per quei valori nei quali si riscontra la sopraddetta condizione; e che mentre ciascuno interiormen- te riconoscerà come una esigenza morale l'attuazione di tutti i valori posti e dichiarati dalla sua co- scienza a lui come morali, dovrà riconoscere in pari tempo, che, per le volontà per le quali vale co- me normativo un ordine di valori diverso, la detta esigenza non comprende tutti questi medesimi va- lori, ma soltanto quelli la cui strumentalità condizionale è universalmente necessaria. Cioè dovrà ri- conoscere che, esteriormente alla propria coscienza, l'imperatività del proprio criterio è limitata a questa piú ristretta sfera di valori. In altri termini, non potrà esser posto come criterio morale e co- mune se non un criterio di valutazione che assuma, come universalmente validi e costantemente su- bordinanti ogni altro valore, quei valori appunto nei quali si riscontra la detta priorità condizionale; ma che insieme non neghi, e non escluda i valori morali propri di ciascuna coscienza in particolare, cioè nessuno di quegli ordini di valori, nel quale si inquadra e si giustifica per ciascuna coscienza individuale quel contenuto comune. ** * Si delinea dunque, per la riflessione critica obbiettiva, una distinzione tra i valori la cui at- tuazione è riconosciuta come un'esigenza universale e costante per qualsiasi coscienza capace di moralità, e i valori la cui attuazione è un'esigenza soltanto per la coscienza che li pone a sé come morali; tra i valori per i quali ogni coscienza può riconoscere legittima una legislazione esterna che ne imponga la validità; e i valori dei quali una legislazione esterna deve soltanto non escludere la possibilità; tra i valori che possono essere oggetto di una obbligazione a un tempo interna ed ester- na, e i valori che, non possono essere oggetto che di una obbligazione interna. ** * Gli esempi addotti in principio di questo capitolo per chiarire il concetto di un contenuto comune universalmente valido, non rispondono a una determinazione rigorosa; e hanno soltanto un carattere provvisorio di opportunità. Se ora cerchiamo di fissare con precisione quali sono propria- mente i valori che lo costituiscono, troveremo facilmente che essi si assommano in due condizioni riconosciute in effetto (e non potrebbe essere altrimenti) come valori primari fondamentali da ogni sistema morale: la libertà e la giustizia. La libertà esprime l'esigenza delle condizioni soggettive necessarie a fare dell'uomo una per- sona padrona di sé di fronte a sé e di fronte a ogni altra persona; la giustizia esprime l'esigenza delle condizioni obbiettive necessarie all'esercizio universalmente efficace di questa libertà. L'attuare in sé e in ogni altra persona questi valori di libertà e di giustizia (ed i valori impli- citi in questi) deve dunque essere riconosciuto come un dovere universalmente valido, anzi come il solo dovere (o la sola categoria di doveri) veramente universale. Ma qui è da notare una circostanza rilevante. La libertà non è una condizione di fatto, un possesso dato; ma è, come vide e affermò fervi- damente il Fichte, una conquista da fare, una idealità che si viene realizzando e che richiede sforzi sempre nuovi e impone sempre nuovi doveri. E il medesimo è da dire della giustizia che è lo spec- chio sociale della libertà. Ora se il valore della libertà e della giustizia (e la validità dei doveri che ne derivano) consi- ste, come apparirebbe dalla deduzione fattane qui, soltanto nel loro essere condizione necessaria ad ogni ordine di valori; è continua ed inevitabile la possibilità di un contrasto nella coscienza dell'in- tellettuale, dell'esteta, dell'altruista, tra l'interesse sempre presente, diretto della conoscenza o della bellezza o della simpatia e i doveri mediati e indiretti della libertà e della giustizia; o, in termini ge- 42  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta nerali, tra i valori diretti e per la coscienza individuale supremi, e i valori che per lei appaiono sol- tanto indiretti e strumentali. ** * Cosí obbiettivamente nell'ordine di una possibile legislazione esterna, sarebbero doveri pri- mari, soli veri doveri, quelli appunto che soggettivamente per la legislazione interna di molte se non di tutte le coscienze individuali, valgono come doveri derivati, cioè tali soltanto in grazia di doveri d'altro ordine, dei quali l'obbligatorietà esterna tutela subordinatamente, ma non impone l'osservan- za. E resta in ogni caso la questione: Quei valori che una coscienza riconosce come valori in sé, e a cui commisura gli altri valori sono posti ad arbitrio? 43  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta CAPITOLO QUARTO IL PRESUPPOSTO DI OGNI VALUTAZIONE MORALE E L'OPPOSIZIONE FONDAMENTALE DEI CRITERI La distinzione stabilita nel capitolo precedente implica che siano valori morali diretti, cioè supremi e normativa per ogni coscienza, soltanto quelli che la coscienza stessa pone a sé e ricono- sce come tali; e non dà ragione del fatto che siano posti e riconosciuti come valori morali diretti, cioè valori per sé, anche quei valori di libertà e di giustizia che appaiono, nella deduzione che se n'è fatta qui sopra, come valori morali universali soltanto in grazia del rapporto necessario di preceden- za condizionale che li lega ai primi. E ciò significa che la distinzione stessa non ha che un valore provvisorio, finché non si ammette quella tesi, e non si dà ragione di questo fatto. ** * C'è, sottinteso, nella tesi del resto inevitabile — che siano valori morali per ciascuna co- scienza quei valori che essa pone a sé come supremi e normativi, qualche presupposto? E qual è questo presupposto? Non è difficile scoprirlo. Perché un ordine di valori, diciamo per comodità di espressione, una idealità, sia riconosciu- ta da una coscienza come suprema e normativa si richiedono due condizioni imprescindibilmente: 1° che la detta idealità possa costituire un criterio di valutazione atto a subordinare ogni altro valore, a dare unità coerente alle valutazioni e a segnare una direzione costante alla volontà; 2° che essa sia in effetto posta dalla volontà come suprema e riconosciuta degna di diri- gerla; e perciò che l'attuazione di quella e la esclusione di ogni atto che la neghi sia sentita come un esigenza incondizionata (esigenza di non smentire con la volizione la volontà, con l'atto la valuta- zione); e sia sentito o posto idealmente come dovere il subordinare ad essa ogni altro valore e il ne- gare ogni interesse che contrasti con quello. Ma queste due condizioni sono le condizioni stesse che fanno dell'io temporaneo disgregato e molteplice una unità, cioè una Volontà consapevole e coerente, un carattere, una persona; sono in una parola le condizioni della personalità. Riconoscere il valore supremo di ciò che costituisce l'unità personale, di ciò per cui l'indivi- duo si afferma ed esprime la sua volontà di essere persona, implica dunque il presupposto del valore diretto, originario, incomparabile e incommensurabile, cioè assoluto, della persona umana, come volontà di essere tale e come coscienza di questa volontà. Questo valore per sé, intrinseco e assoluto della persona, è dunque il presupposto implicito, il postulato sottinteso in ogni valutazione morale; perché non si può riconoscere il valore morale di nessun oggetto o fine o idealità senza postulare il valore della volontà personale che lo pone, e fuori della quale non avrebbe senso l'esigenza normativa che lo fa essere morale. Ed è vana, anzi in sé contraddittoria, ogni discussione sulla sua legittimità. Perché discutere di questa legittimità non è possibile senza ammettere e postulare come dato e fuori di ogni contesta- zione, qualche valore intrinseco, al quale si possa riferire e col quale si possa confrontare e commi- surare il valore in discorso. E poiché il valore che dovrebbe servire di termine di confronto e di dato incontestabile per giudicarlo, implica necessariamente la validità di ciò che deve essere giudicato, cioè la legittimità del presupposto del quale si discute, ogni contesa assiologica intorno ad esso si avvolge irrimedia- bilmente in un circolo vizioso. Avviene, mutatis verbis, qualche cosa di perfettamente analogo a quel che accade nel campo della conoscenza, quando si discute del valore teorico della ragione. Ogni critica presuppone neces- sariamente la validità di quella ragione che è chiamata in causa. 44  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta ** * Bisogna dunque accettare o respingere la legittimità del presupposto; accettando o respin- gendo insieme ciò che si regge sulla sua validità. Non c'è via di mezzo possibile. Ricusarlo vuol dire negare ogni valore morale; accettarlo vuol dire riconoscere valore morale a ciò che costituisce la personalità, a ciò che le è essenziale, e che la fa essere non la personalità astratta e comune che non sussiste per sé e non basta a costituire questa o quella persona, la mia persona; ma la persona individuata viva e concreta, in quel che ha di universale e di comune e in quel che ha di proprio, di suo, di individuale; l'umanità non dell'uomo genere, dell'uomo tipo, ma di questo o di quell'uomo. In quanto è uomo, senza dubbio; ma anche in quanto è questo. L'uomo-ragione dà, come s'è detto e ripetuto, la sola coerenza. Non è poco, ma non è tutto. L'uomo-volontà pone questa coerenza come legge del mio valutare e del mio fare, impone a me che l'idealità posta e riconosciuta come suprema valga veramente come suprema, che io ne af- fermi il valore intrinseco, ne approvi o ne accetti le esigenze sempre dovunque si presentano, in me e fuori di me; mi impone, in una parola, di essere persona; e di volere che ogni uomo sia persona. Ma non è ancor tutto. Quel che io devo essere per valere come persona, l'idealità che deve dare unità al mio io, e in cui si esprime non la volontà in genere, ma la mia volontà di essere perso- na, è posta da questa mia volontà ed ha valore per me perché è posta da lei. Certo, la mia coerenza deve essere e non può essere altro che la coerenza della ragione; l'e- sigenza che la mia volontà impone a me di essere persona è quella medesima esigenza che la volon- tà di ciascun altro (capace di moralità) impone a lui, e che a me e a lui e a ciascun altro impone il rispetto della persona come tale; ma l'una e l'altra esigenza non investono il medesimo contenuto spirituale in me e negli altri. Limitano le categorie di valori, nelle quali l'io può attingere l'idealità regolatrice, ma non determinano per tutte la medesima idealità. La mia volontà deve — per far di me una persona — uniformarsi a quelle due esigenze che sono le esigenze necessarie e costanti di ogni personalità (non solo reale, ma anche fittizia); e deve perciò superare l'io transitorio, l'io degli interessi momentanei e mutevoli (dei quali non si misura il valore che dal loro effetto su di me), e appuntarsi in una idealità che le sia norma; ma non può usci- re di sé per diventare una volontà diversa, non può cessare di essere quella certa volontà, che fa di me non la persona umana in generale, ma la mia persona. Insomma non può volere l'unità se non di quello spirito di cui è la volontà. ** * Ma quale è la prova che questa idealità non è un capriccio dell'io transitorio e mutevole, ma è veramente legge delle mie valutazioni e delle mie azioni? La prova non è e non può essere data se non a me stesso, da me, dall'attestazione della mia coscienza. Ed è perciò che la legittimità dei valori posti da me non è contestabile da altri né control- labile. Ma vi è tuttavia una prova esterna, di fatto, tenuta normalmente valida nel giudizio comune; e che è veramente necessaria, anche se non è sempre sufficiente; e questa prova è il sacrificio. Ap- punto perché il sacrificio attesta che ogni mia facoltà, ogni mio potere si raccoglie e si appunta nella volontà di attuazione di quel valore; e che io nego e respingo da me ciò che mi costringerebbe a ne- garla. Cosí è che il valore della vita si misura dal valore di ciò a cui si è disposti a sacrificarla; e che, per converso, l'esser pronti alla morte apparisce l'affermazione piú decisiva del valore di ciò a cui si è devoti. ** * 45  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta Le esigenze costitutive della personalità si attuano dunque informando di sé un contenuto spirituale che è sempre in qualche parte proprio e caratteristico di ciascuna coscienza individuale; come raggi di una medesima luce che tralucono per cristalli diversi; e ciò fa di quel particolare con- tenuto la condizione o il mezzo per il quale la personalità si pone e si realizza nell'io individuale e concreto; la materia che si suggella di quella forma. E il valore morale di questo contenuto nasce da questo suo essere lo strumento il tramite, per il quale si esprime nella coscienza individuale il valore assoluto della personalità umana. Per tal modo l'idealità, nella quale si concreta per la coscienza delle persone singole il crite- rio o la legge della valutazione morale, costituisce per ciascuno l'affermazione della unità spirituale della sua volontà di essere persona, della sua libertà. Cosí la libertà, che nella deduzione esteriore ed empirica del capitolo precedente acquista valore solo strumentalmente universale e necessario, in quanto l'attuazione dei valori di libertà ap- pare la condizione comune e imprescindibile della attuazione di ogni ordine di valori, è invece qui valore per sé immediatamente universale; e sorgente di quegli stessi valori che valgono per le co- scienze singole come supremi soltanto perché sono lo strumento del realizzarsi di essa libertà in cia- scheduna. È, quindi, la sorgente cosí dei valori costitutivi della personalità in astratto, come dei va- lori costitutivi delle diverse personalità in concreto; cosí dei valori universali della persona ideale come dei valori propri della persona reale. Nel presupposto stesso di ogni valutazione morale ha dunque radice cosí l'esigenza dell'uni- versale come l'esigenza dell'individuale; l'esigenza di una valutazione comune e l'esigenza di una valutazione singolare e propria; ossia l'esigenza che la volontà personale si affermi ad un tempo, come riconoscimento dell'una e dell'altra, o, meglio, dell'una nell'altra. L'imperativo della libertà è ad un tempo: sii persona, e: sii la tua persona; sii uomo, e: sii quel che tu devi essere per essere uomo; rispetta l'umanità, e: rispetta in te e in ogni altro l'espres- sione individuale e concreta dell'umanità. ** * A nessuno verrà in mente di credere che si intenda di stabilire cosí il dovere di creare nuovi valori, di affermare nuove intuizioni morali; e porre accanto al dovere di essere giusti, quello di es- sere originali. Sarebbe come voler obbligare uno scienziato a fare delle scoperte, almeno nel senso che si suol dare comunemente alla parola. Le intuizioni morali nuove, come le scoperte scientifiche, come le nuove forme di arte, si presentano a chi... le trova. Spiritus flat ubi vult. Ma vi sono, in un certo senso piú modesto, come nella ricerca scientifica le piccole continue scoperte di indagatori e di studiosi mediocri ma coscienziosi, che cavano e puliscono la selce e tem- prano l'acciarino, dai quali l'uomo di genio farà sprizzare la scintilla, cosí nella vita morale le picco- le nuove intuizioni e nuove interpretazioni, e connessioni, ed elevazioni di valori morali, che prepa- rano il solco alla semente dei grandi. Vi è, a guardar bene, perfino nell'apparente applicazione mo- notona di una medesima massima alla medesima classe di azioni, un'impronta, un segno, una sfu- matura, nella quale si rivela l'originalità morale della persona; originalità di finezza, di delicatezza, di grazia, di abnegazione, di calore, di fantasia, di acume; gradazioni e colorazioni diverse di valori noti, combinazioni nuove di pregi prima disgiunti. Ciò che è proprio di una persona anche comune (sia venia al bisticcio) non è tanto il rivelarsi di una proprietà, o dote, o qualità diversa; di un nuovo elemento di valore (che non è novità frequente neanche nei grandi); quanto questo modo, col quale si raccolgono, si mescolano e si fondono per lui in sintesi nuove i valori elementari già intuiti. Ciò che è caratteristico dell'individuo consiste anche qui, se si dà alla parola il suo significato originario, in una «idiosincrasia». ** * 46  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta Queste minori e, nella loro infinita varietà inafferrabili, differenze individuali, si raccolgono però, come accade, attorno a tipi diversi, segnati soprattutto dal prevalere, conforme a quel che si è accennato già, di un ordine di valori sugli altri. Dal che possono derivare non solo differenze assai grandi, ma opposizioni recise. E qui sta appunto la sorgente dei contrasti tra valutazioni morali diverse, di fronte ai quali la critica non può fare che opera di constatazione e di sistemazione. Come possa adempiere a questo ufficio e quali frutti se ne possano attendere non è qui il luogo di esaminare. Qui importa solo notare come questa indagine e sistemazione critica non potrà che presenta- re, nella forma tipica piú compiuta e recisa e col massimo rilievo, i contrasti che sorgono natural- mente dal prevalere, nella unificazione morale della coscienza personale, di uno piuttostoché di un altro ordine di valori, e dalla misura di questa prevalenza. Ma la forma fondamentale sarà data dal contrasto tra i valori universali morali — i valori di libertà e di giustizia — e quelli che valgono come supremi (cioè che pretendono, come i morali, la direzione suprema della valutazione), nella coscienza individuale. Se la libertà e la sua sorella germana, la giustizia, fossero patrimonio acquisito e non come è, come deve essere, una conquista faticosa del genere umano che dura e durerà nei secoli, il problema non esisterebbe se non nella forma di esigenza della conciliazione di quei valori spirituali che non si presentano come necessariamente e universalmente morali. Problema formidabile anche questo, ma non tale da segnare una antitesi di criteri non conci- liabili; antitesi che rende necessaria la subordinazione dell'uno dei due all'altro, ma che può legitti- mare nella coscienza personale cosí l'una come l'altra soluzione. Questa antitesi è, in breve, tra i valori di giustizia e i valori di cultura; tra l'esigenza che ogni uomo sia o possa diventare persona, cioè volontà libera consapevole e coerente, e l'esigenza che si accresca e si arricchisca di nuovi valori l'uomo che è già persona, che è già, se non l'uomo libero del Fichte, l'uomo che ha coscienza del suo dover e del suo poter farsi libero, e che vi tende come al suo supremo valore. È, in termini forse meno precisi ma piú recisi, l'antitesi tra il numero e la qualità, tra l'esten- sione e l'intensità; tra il dovere di rendere partecipi (di porre la possibilità che si facciano partecipi) dei valori di libertà — accessibili soltanto ad alcuni —, quelli che non ne sono partecipi, e il dovere di accrescere in quelli che già li possiedono i valori di cultura, che sono pure, almeno mediatamen- te, incremento dei valori di libertà. L'umanità (la persona umana) si rispetta elevandone in sé e negli altri il valore; si eleva cosí nell'uno come nell'altro dei modi anzidetti. Le due vie sono convergenti? Speriamo che siano; ma, nella valutazione presente, tra l'incremento di una cultura, dalla quale sono esclusi i piú tra quelli che pur ne sono strumento necessario, e la possibilità di togliere o scemare questa esclusione, quale è l'esigenza morale prevalente? Dire che la cultura dei pochi è necessariamente elevazione di tutti, o dire che l'elevazione di tutti è necessariamente incremento della cultura, è baloccarsi con parole; è un ripetere su un altro verso le vecchie coincidenze del bene generale col bene individuale. Il dire non basta a porre in es- sere quel che si dice. 47  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta CAPITOLO QUINTO15 L'ATTUAZIONE DEI VALORI MORALI E I RAPPORTI DELLA MORALE CON LA POLITICA E LA RELIGIONE 1. - Alla distinzione fondamentale che ha origine nel presupposto stesso di ogni valutazione morale (il valore assoluto della persona umana), tra valori morali universali e valori morali pro- priamente personali, corrisponde naturalmente una distinzione nel carattere di obbligatorietà che as- sume rispettivamente nella coscienza l'attuazione degli uni e quella degli altri. Ai primi corrisponde, o si concepisce che debba e possa corrispondere una obbligatorietà ad un tempo interna ed esterna, ai secondi solamente una obbligazione interna. In quanto la società or- ganizzata, lo stato, il Potere politico è posto come potere che fonda e garantisce le condizioni ester- ne della moralità, l'ideale politico è una derivazione necessaria e un elemento dell'idealità morale; e rivestendo per tutti ugualmente il medesimo carattere formale di Potere giusto, cioè di Potere la cui esistenza e validità è affermata e voluta in grazia dell'esigenza morale a cui soddisfa, assume tutta- via per ciascuno un contenuto in misura maggiore o minore diversa, secondo il modo nel quale è concepita la giustizia che si potrebbe dir costitutiva; cioè la giustizia come posizione e conservazio- ne delle condizioni esterne necessarie alla libertà di tutti. È notissimo, e sarebbe superfluo chiarire questo punto, che qui si disegnano due orientamen- ti di coscienza diversi e in alcuni, se non tutti i postulati pratici, opposti; e due concezioni politiche corrispondenti, tra le quali intercorrono gradazioni varie di partiti. E sono: l'indirizzo che prende norme dal liberalismo conservatore: — la giustizia è la garan- zia della libertà di tutti nelle condizioni sociali storicamente date e quello che prende impropria- mente nome dal socialismo16: — la giustizia è la costituzione di condizioni sociali tali che ciascuno trovi in esse la medesima possibilità esterna di valere come persona — (che coincide con l'interpre- tazione piú universalmente radicale della famosa seconda formula della Fondazione di Kant). Ciò che qui importa di notare è piuttosto che in essa si rivela una forma del conflitto fonda- mentale di cui si è toccato, nel modo di intendere la conciliazione o meglio la subordinazione delle due esigenze costitutive della personalità: l'esigenza universale e l'esigenza individuale. Senonché, appunto perché il conflitto tra queste due esigenze è considerato soltanto in rela- zione alle condizioni esteriori, esso prende quanto alla forma veste giuridica e quanto al contenuto natura economica; si presenta come negazione o posizione nel Potere politico della facoltà di sotto- porre ad una legislazione esterna il possesso e l'uso dei mezzi di produzione e i modi di distribuzio- ne della ricchezza. La quale limitazione del carattere del conflitto è dovuta non solamente e non tanto all'abbas- samento inevitabile che ogni idealità subisce nel tramutarsi da esigenza etica in programma politico, quanto ad una necessità intrinseca alla costituzione stessa del Potere e alle condizioni della sua vali- dità. ** * 15 Questo capitolo presenta soltanto nei suoi lineamenti più generali una materia che deve essere trattata diste- samente a parte 16 Il quale dal punto di vista etico trova, e non potrebbe essere altrimenti, (come si è notato sopra, P. I, Cap. IV, B) la sua giustificazione in una finalità di contenuto individuale. È individualismo; universalistico si, ma individuali- smo. Una prova di ciò assai significativa è appunto la deduzione che il Fichte fa dal dovere che ciascuno ha di attuare in sé la massima libertà, del diritto alla formazione ed educazione morale di sé, alla cultura, ai mezzi necessari alla cultura, al lavoro. Insomma, ai medesimi postulati del socialismo; salvo che là... sono detti in modo diverso.  48  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta Nell'esemplificazione introdotta qui sopra (Parte II, Cap. III) si è supposto che l'idealità normatrice potesse avere per contenuto un ordine di valori noetici o estetici o religiosi o edonistico- altruistici, ma non si è considerato distintamente il caso che l'ordine normativo dei valori fosse dato dall'edonismo egoistico; perché esso, nell'opinione comune, che risponde anche solitamente a veri- tà, non presenta quei caratteri formali di validità morale e di esigenza normativa, con i quali può, o si concepisce che possa, presentarsi nella coscienza il contenuto costituito dagli altri ordini di valori. Ma questo non toglie che anche l'egoismo possa erigersi a massima di condotta, a principio normativo, purché, si intende, l'egoista razionalizzi il suo egoismo; cioè riconosca legittimo che valga nelle medesime condizioni per tutti quello stesso criterio di valutazione, che assume come va- lido per sé, e che dà, per ipotesi, coerenza al suo giudicare e al suo fare. Ora è da notare che dal puro calcolo egoistico razionalizzato si deduce quel medesimo ordi- ne di valori universalmente strumentali di libertà e di giustizia, che si deduce da ciascuna delle i- dealità normative supposte. E basta a persuadercene il fatto che l'economia pura assume come presupposto, cioè come norma universale di condotta dell'homo oeconomicus, appunto un postulato edonistico, non solo, ma edonistico-egoistico. Ed è noto che il liberalismo politico è modellato — s'intende sempre nel suo aspetto puramente politico, cioè esteriore — sul liberismo economico. Questa considerazione contraddice solo in apparenza la tesi, per la quale non può essere normativo che un valore considerato come valore per sé distinto dagli impulsi e dai desideri transi- tori e variabili del soggetto; perché il valore che l'economia contempla in realtà, non è il piacere, o la soddisfazione soggettiva, ma la ricchezza. La quale ha bensì sempre normalmente soltanto un va- lore strumentale, ma (anche lasciando in pace l'esempio dell'avaro) può essere — ed è in effetto dal- l'economista — considerata come valore per sé, e come comune termine di riferimento di ogni spe- cie di valori edonistici; e perciò di ogni ordine di valori in quanto sono considerati e valutati nel loro effetto edonistico, nel quanto di soddisfazione e di godimento che se ne trae e che è misurato ob- biettivamente dal quanto di ricchezza necessario a procacciarli. Ne segue che il Potere politico e il sistema giuridico che riceve da esso sanzione e validità di diritto positivo, possono assumere un significato e un valore al tutto diversi — pur avendo per con- tenuto una medesima materia — secondo che questo contenuto è valutato come un ordine di valori strumentali che trova la sua ragion d'essere e la sua giustificazione soltanto nel suo carattere di con- dizione necessaria della coesistenza degli egoismi individuali, o secondo che è considerato come un ordine di valori morali diretti e immediati, come un'esigenza del valore primario assoluto della per- sona umana, e della libertà che ne è la nota essenziale. E ne segue parallelamente che si possa ravvi- sare nell'ordine giuridico cosí la realizzazione di un'esigenza etica, come un sistema di condizioni che precede idealmente l'esigenza etica e la rende possibile, ma che sussiste e sussisterebbe per sé indipendentemente da essa. In realtà, siccome il valore morale non è valore e non è morale se non per la coscienza che lo sente e lo riconosce come tale, l'alternativa che ne nasce è questa: che o si riconosce come ordine di valori per sé, suscettivo di assumere in alcune o in molte delle coscienze individuali carattere e for- ma di valori morali, anche l'ordine dei valori edonistico-egoistici, o si deve ammettere che il conte- nuto del diritto, in quanto fosse legittimato soltanto da una deduzione etica e non dal principio della convenienza egoistica, resterebbe estraneo all'egoista; subito da lui, ma non approvato e non voluto. Cioè tale che non si potrebbe pretendere ragionevolmente da lui che lo riconosca e lo accetti. Dal che nasce la conseguenza che la deduzione etica del diritto deve coincidere, quando al contenuto, con la deduzione puramente egoistica, cioè che le norme di diritto devono essere stabilite come se la loro ragion d'essere fosse unicamente l'utilità egoistica. E il fatto — inevitabile — che la sanzione (premio o pena) ha un contenuto egoistico, cioè si risolve in un motivo egoistico dell'osservanza del diritto, sembra confermare tale conseguenza. ** * 49  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta Di qui seguono due corollari non trascurabili per la valutazione dei rapporti tra morale e po- litica. Il primo è questo: che il Potere politico, in quanto è forza di coazione che pone come ester- namente obbligatorie certe condizioni quali si siano (negative o positive) dell'attività dei singoli, non è mai per sé, direttamente, organo morale; perché il valore morale, che è del tutto interiore, in- sindacabile e incoercibile, sfugge a questa azione; e perché i mezzi di cui la legislazione esterna può disporre — sia di persuasione (premi), sia di costrizione (pena) — non possono presentarsi che co- me motivi di ordine egoistico; e hanno per sé un valore o premorale (cioè di condizione di fatto an- teriori alla moralità ed estranei ad essa) o pro-morale (cioè tengono luogo del motivo morale o ne surrogano l'efficacia pratica quanto agli effetti esteriori della condotta). Perciò gli istituti politici non sono in sé né morali né immorali se non in quanto sono valutati come tali interiormente dalla coscienza dei singoli. Il secondo è questo: che dovendo l'ordine giuridico poter essere giustificato da un punto di vista puramente egoistico, affinché il Potere politico possa avere un contenuto, non soltanto negati- vo, ma positivo, comune col contenuto delle diverse idealità tipiche morali (essere o diventare orga- no promotore e fautore dei mezzi di cultura), è necessario che il contenuto di queste idealità sia o possa essere considerato insieme come il medesimo, o come elemento o condizione essenziale del contenuto medesimo, delle soddisfazioni egoistiche; o in altri termini, che i valori, poniamo, intel- lettuali, estetici, simpatetici, religiosi, siano nello stesso tempo i valori piú desiderati o desiderabili nel rispetto edonistico, o elementi o condizioni essenziali dei valori egoistici. E ciò equivale a dire che la funzione primaria e preliminare del Potere politico come organo di cultura è quella di ordinare i mezzi atti a dare ai motivi edonistici un contenuto sempre piú spiri- tuale e morale, ossia ad elevare e affinare nei singoli la capacità di sentire e apprezzare come beni migliori e piú desiderabili di ogni altro i valori spirituali. La funzione positiva preliminare è dunque quella di apprestare i mezzi o le condizioni ester- ne necessarie alla possibile educazione ed elevazione spirituale di ciascuno. ** * Fin qui si è considerato il Potere politico soltanto come organo di obbligatorietà esteriore ri- spetto ai singoli soci, dalla cui volontà è idealmente posto, astrazione fatta da ogni relazione dello stesso potere con altri poteri; cioè come stato di fronte ad altri stati. Ma se si considera per questo rispetto, esso assume ipso facto natura e funzione di Persona in rapporto con altre Persone e raccoglie in sé, unifica e fonde in un'unica Volontà e personalità le volontà e le persone dei singoli. I quali per rispetto agli stati esteri spariscono come volontà distinte, e sono sostituite nel loro valore assoluto di persona dallo stato. Il che significa nello stesso tempo che per questo rispetto la volontà dello stato è per la coscienza di ciascuno la propria volontà, e che lo stato diventa esso soggetto e sorgente di idealità etiche. Non è possibile e non è necessario esaminare distesamente le conseguenze che nascono da questo diverso significato e valore che lo stato assume in forza dei suoi rapporti con altri stati; ma non è difficile vedere l'antinomia che ne deriva nei rapporti tra il cittadino e lo stato, secondoché lo stato è considerato nella sua azione interna o nella sua condotta esterna. Rispetto a quella il Potere politico è, dal punto di vista etico, mezzo, e la persona singola, fine; rispetto a questa lo stato è fine e il singolo è mezzo. Nel primo rispetto il cittadino non ha doveri verso il Potere politico, se non in quanto vede nell'osservanza di questi doveri una condizione necessaria alla tutela dei propri diritti; nel secondo rispetto non ha diritti di fronte alle stato, se non in quanto la garanzia di questi diritti sia una condizione necessaria all'adempimento del suo dovere verso di esso. Dai suoi rapporti col Potere, considerato per quel rispetto, è esclusa (almeno idealmente) ogni esigenza di sacrifizio di sé; considerato per questo, tale esigenza è necessaria. Di qui la tendenza a far prevalere il secondo ordine di concetti nei partiti politici che consi- derano come insuperabile l'opposizione degli stati ed eticamente incondizionata la sovranità di cia- 50  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta scuno; e la tendenza opposta nei partiti, che credono superabile l'opposizione, e condizionata etica- mente la sovranità degli stati nelle loro mutue relazioni. ** * Si è avuto occasione di notare nel capitolo precedente che per la ragione stessa per la quale la idealità è concepita e voluta dalla coscienza di ciascuno come normativa di tutta la condotta, per questa ragione la subordinazione di ogni interesse individuale e, quando sia richiesto, il sacrifizio di sé individuo all'idealità etica che lo costituisce in persona, diventano la prova viva e continua del valore intrinseco supremo riconosciuto all'idealità; della conformità, per adoperare termini già usati, del volere operante o esecutivo col volere valutante o legislativo. In questa devozione a un Valore sentito e voluto come valido per sé all'infuori di ogni inte- resse puramente soggettivo e accidentale dell'individuo è già la nota caratteristica della religiosità; nota che è rilevata, sebbene con qualche incertezza e confusione, anche nel linguaggio comune. Dove il verbo «adorare» significa appunto devozione a un oggetto, al quale si riconosce un valore incomparabile e a cui si è disposti a sacrificare ogni altro bene. Ma questa devozione all'idealità, perché sia piena, effettiva e costante, suppone o richiede le disposizioni spirituali, le condizioni soggettive, nelle quali e per le quali si viene attuando; richiede da noi, in noi, il potere di tenerle fede. Ora, quando noi concepiamo l'ideale morale come un Ente, una Virtualità, una sorgente di energie spirituali, a cui attingiamo il potere nostro di realizzarlo in noi stessi, e a cui possono attin- gere i partecipi della stessa idealità il medesimo potere, e quella virtualità è sentita come divina, e lo spirito perfetto che lo realizza in sé come Dio, la nostra devozione è religione. ** * Vi è dunque per questo rispetto una certa analogia nei rapporti della Morale con la Politica e con la Religione. Il Potere politico realizza le condizioni esteriori della moralità, la Virtù divina rea- lizza le condizioni interiori. E poiché l'attuazione del valore morale consiste essenzialmente nell'atto del volere, cioè è interiore e spirituale, e la conformità materiale ed esteriore trae il suo valore dalla prima; cosí il Po- tere politico potrà apparire alla coscienza religiosa come mezzo e strumento del Potere religioso. Anzi dovrà apparir tale finché essa considera le condizioni esterne della convivenza come ideal- mente poste e giustificate soltanto in forza della propria idealità, e non giustificabili fuori di quella. Ma se si guarda un po' piú dentro si vede che la coscienza stessa religiosa deve esser condot- ta a riconoscere che quella subordinazione non è neppure per essa necessaria; perché la legislazione esterna trova la sua giustificazione in quella stessa esigenza etica fondamentale, in nome della quale essa coscienza riconosce il valore supremo della propria idealità, e l'autorità divina del Potere che la realizza. È la esigenza del rispetto della persona umana come sorgente di ogni valore; del valore stes- so e della inviolabilità della fede che essa attesta, e che oppone a ogni altra fede. Ed implica quella libertà che essa non può negare in altra persona senza negarne il valore per sé: che ogni altro deve riconoscere a lei per non vilipendere la propria; che è il principio da cui muove e il termine a cui riesce ogni elevazione dello spirito. Inoltre: Ogni sforzo che si faccia per tradurre un dovere religioso in obbligo giuridico e dar- gli una sanzione materiale esterna, contraddice, nel momento stesso che sembra affermarla, l'esi- genza della religiosità. Perché tende a sostituire al motivo religioso — del tutto interiore — della devozione e della adorazione, un motivo esteriore e di necessità egoistico; il motivo della sanzione. Il quale si trova cosí invocato a garantire ciò di cui è la negazione: la disposizione interiore dello spirito, e la purità delle intenzioni. 51  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta ** * Ed è poi, questa distinzione e indipendenza del Potere politico e della legislazione esterna da ogni particolare fede religiosa, da un punto di vista obbiettivo, inevitabile non meno che la indipen- denza già notata da ogni particolare idealità morale. Perché ciò che fa la certezza e la inconfutabilità della convinzione religiosa è insieme ciò che ne fa la incomunicabilità e la indimostrabilità. È certo che la «esperienza religiosa» del mistico non può essere negata da altri. Le intuizioni alle quali essa si riconduce sono, per la coscienza che le prova, certe di una certezza diretta, cioè an- teriore a ogni prova, non meno delle «sensazioni». Ma al pari di queste non sono comunicabili ad una coscienza che non le prova e non le vive. Potrebbe parere materia di discussione l'interpretazione che il mistico fa di questi dati, il momento (che l'analisi obbiettiva può distinguere dal momento dell'intuizione) per il quale la co- scienza trapassa dalla intuizione sua, dall'esperienza propria diretta, all'affermazione del divino in sé, come oggetto dell'intuizione. Ma anche questo processo sfugge alla discussione perché non è logico ma psicologico: anzi non è per la coscienza del mistico un passaggio, una argomentazione, ma una integrazione che si pone coll'atto stesso dell'intuizione e che è vissuta con la medesima certezza. Perciò, chi vuol sotto- porre dal di fuori questo processo ad analisi critica, analizza in realtà qualche cosa di diverso. Ana- lizza il processo discorsivo che dovrebbe fare, per provare la validità della sua conclusione, una co- scienza che non senta già la certezza di questa conclusione; o, piú esattamente, che consideri come conclusione di un passaggio logico, quel che per il mistico non è conclusione logica, ma è evidenza psicologica. E d'altra parte è pur vero che questo medesimo carattere di evidenza immediata che rende la certezza del mistico invulnerabile ad ogni attacco di critica, le toglie nel medesimo tempo ogni pos- sibilità di dimostrazione. Se poi la certezza religiosa si fonda sull'autorità e non sull'«esperienza» non ne è perciò me- no inevitabile la individualità e la incomunicabilità. Perché se l'autorità della rivelazione è accettata come tale per un atto di ossequio, di riverenza e di devozione alla divinità dalla quale è data, essa è un atto di volontà, non di ragionamento, e presuppone quella certezza del divino, alla quale essa ri- velazione dà bensì un contenuto dogmatico, ma non dà, se non lo trova, il valore di certezza. E se la mia coscienza la accoglie in virtù di prove teoriche o storiche o morali, per le quali sia indotta a riconoscere nella rivelazione stessa un'origine divina, le prove della rivelazione (sup- ponendo pure superati tutti i problemi che vi si riferiscono) non sono prove della certezza che io ho del divino, ma sono prove che mi inducono a riconoscere nella rivelazione un segno di quel divino, di cui ho la certezza. ** * Ma il riconoscere questo carattere interiore personale e insindacabile cosí delle diverse idea- lità etiche come delle diverse credenze religiose (anche se si accompagni alla consapevolezza che ciò che costituisce la legittimità e inviolabilità dell'una è, nello stesso tempo, ciò che costituisce la medesima legittimità e inviolabilità di ciascun'altra), non è la medesima cosa che spogliare ognuna di esse di quella tendenza alla negazione non solo, ma alla esclusione delle dottrine opposte, che è propria di ogni fede, vale a dire della affermazione del valore intrinseco di una idealità, che per ciò si riconosce come degna di valere universalmente. In questa diversità e molteplicità varia e inesauribile di valutazioni sta la fonte di ogni in- cremento della cultura e di ogni elevazione spirituale. Ciascuna di queste voci è una voce umana, la voce di una persona; e ciascuna deve poter farsi sentire. Ma quella ragione medesima che pone questa esigenza ne pone il limite; e i limiti sono i valori morali universali il cui contenuto si allarga e si arricchisce della potenzialità di sempre nuo- 52  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta vi valori nella esperienza dolorosa e gloriosa dei secoli; e che tralucono per tutto dove è qualche lume di umanità, perché sono il pregio a cui si riconosce l'uomo e si misura la sua dignità di uomo. Liberum esse hominem est necesse; vivere non est necesse.Ho cercato di mostrare altrove1 come e perché sorga logicamente — e, si può dire, dalla ne- cessità intrinseca dello svolgimento morale — il problema di una pluralità di contenuto nella co- scienza morale; sorga, quando si abbandoni il presupposto che è la forza segreta del formalismo kantiano, che l'imperativo categorico, l'universalità della legge, la razionalità del volere convengano a un solo, a quel solo contenuto, che si pretende poi, nelle deduzioni della dottrina del Diritto e della Virtú, di ricavarne; in termini piú chiari e meno tecnici, quando si cessi di ammettere che la co- scienza morale sia una e la medesima in tutti; non solo per il tono con cui parla dentro ogni persona, ma per le cose che dice; non solo per l'autorità con la quale comanda, ma per ciò che comanda. Questo problema viene a sovrapporsi o meglio ad anteporsi (se non anche a sostituirsi), — e in ogni caso (come pure ho cercato di dimostrare) a mutar senso e posizione — al problema che è tuttora, almeno nella forma consueta, considerato come il problema centrale, il vero problema del- l'etica: quello del fondamento. La quale forma di trattazione sembra supporre — già nel modo di porre il problema (filosofia della morale) — che sul contenuto concreto di ciò che si chiama morali- tà, sul modo di condotta che si distingue come morale, sui criteri coi quali giudichiamo del giusto e dell'ingiusto, del bene e del male, non cada dubbio; e il dubbio riguardi le ragioni per le quali si de- ve veramente tener giusto e buono quel modo di condotta, e legittimo quel criterio; e ingiusto e ille- gittimo il contrario2. Che questo presupposto sia ora, dico non solo nella letteratura, ma nella coscienza viva con- temporanea, arbitrariamente assunto; che nel decidere — se ciò che vale di piú sia la verità, o la bel- lezza, o la giustizia, o la carità, o la forza; l'affermazione di sé o la rinunzia, l'umiltà o l'orgoglio, la disciplina o l'indipendenza non tutte le coscienze vadano d'accordo; che nella stessa coscienza di una persona non volgare e non ignara dei problemi morali, né estranea alla consuetudine di una sin- cera e severa meditazione, si presentino, tra questi valori diversi, contrasti e opposizioni non sempre e non facilmente superabili, è ciò che nessuno potrà e vorrà negare; ed è in ogni caso una realtà che non cesserebbe di sussistere e di imporsi all'attenzione, anche se fosse negata. Lo stesso apparire nelle discussioni dottrinali e nelle storie generali e particolari dell'Etica di teorie dette immoralistiche, dimostra che le differenze ci sono e che giungono a tale da dar luogo non solo a contrasti ma ad opposizioni contraddittorie. E qualunque sia il giudizio anche sommario che si voglia portare su di esse bisogna ricono- scere che non avrebbe senso qualificare immorale una dottrina, se il contenuto suo non si opponesse appunto a quello delle dottrine morali come specie a specie nel medesimo genere; cioè se non pre- tendesse di valutare e regolare — in modo diverso — la medesima materia3. Ciò basta a confermare, se di conferma vi è bisogno, che il problema di una pluralità di con- tenuti della morale, ossia di una pluralità di criteri di valutazione, non è un problema di semplice possibilità astratta, cioè una curiosità scientifica e filosofica, ma è un problema d'attualità concreta e viva; è, veramente, a mio giudizio, il problema per eccellenza della coscienza morale contempora- nea. 1 Su la pluralità dei postulati di valutazione morale; Il Vecchio ed il nuovo Problema della morale (Parte II, capitoli 2—4). 2 Questo modo di vedere è favorito, se non conservato, dal preconcetto, del tutto arbitrario, che la morale sia una dipendenza della filosofia teoretica; e che nella filosofia teoretica sia da cercare la ragione dei criteri e dei principi che reggono e giustificano la condotta. Il quale preconcetto è all'incirca così ragionevole, come quello di chi andasse a cercare nella luce che viene a illuminare una sala, la spiegazione degli atteggiamenti nei quali sono veduti quelli che vi si trovano. 3 Né in sede di discussione e di critica si può respingere senz'altro come amorali o immorali dottrine che hanno pure un loro contenuto valutativo senza assumere come valido appunto quel contenuto di cui le dottrine in questione contestano la validità. Non si comincia un dibattimento giudiziario con una sentenza di condanna.   Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta ** * Del resto, se può parere nuovo il problema, a cui dà luogo — quando si fa piú aperta e mani- festa — la pluralità dei criteri, non è nuova questa pluralità. Anzi, forse non vi è sistema, per quanto vi domini potente lo sforzo logico della coerenza, che non nasconda sotto l'unità, apparentemente raggiunta, del criterio supremo, una piú o meno lar- ga e profonda pluralità o almeno dualità di contenuto. Per non ricordare con Aristotele la duplicità di felicità e virtù — ben vivere e ben fare — e per lasciare l'antica e non mai del tutto superata dualità di vita attiva e di vita contemplativa, l'unità reale di criteri nella valutazione della condotta non è raggiunta se non in apparenza, nella stessa mo- rale teologica cristiana; la quale, mentre non rinunzia, e non può rinunziare, a regolare la condotta umana anche nel rispetto della vita terrena finita, si sforza poi invano di ricondurre i precetti che re- golano questa al medesimo criterio di valutazione che è suggerito o imposto dal contenuto sopran- naturale del fine che la giustifica. E il distacco logico inevitabile tra il fine invocato a giustificare le norme e il criterio usato a determinarle, è dissimulato ma non superato, nell'unità della rivelazione o della intuizione religiosa. Perfino nell'età del razionalismo, nella quale l'unità di natura e l'identità di doveri e di diritti di tutti gli uomini è affermata col massimo di consenso e di calore, indipendentemente da ogni par- ticolare dogmatismo confessionale, l'unità della valutazione morale si può dire raggiunta soltanto perché se ne restringe la considerazione al campo propriamente etico-giuridico, e si trascura o si la- scia nell'ombra la parte piú specialmente personale e che tocca gli aspetti e le forme della vita inte- riore. E quell'unità parziale di contenuto sembra essere il segno e la prova di un unico supremo cri- terio di valutazione morale, perché viene comunemente ricondotto a un fine che dissimula, sotto l'i- dentità nominale del termine, la possibilità di determinazioni diverse per quel che tocca la parte del- la condotta etica che sfugge all'attenzione di quel tempo; e che riguarda i fini propri della persona, e le forme della vita interiore. ** * Ma il romanticismo e lo storicismo, per vie diverse ma cospiranti, posero in luce quel che il razionalismo aveva lasciato nell'ombra o trascurato; e l'uno affermando, illustrando ed esaltando la ricchezza, la varietà, il valore, se non esclusivo, superiore della vita spirituale e della attività interio- re, originale, spontanea; l'altro cercando nella realtà storica la ragione e la giustificazione delle for- me di vita sociale, religiosa, politica che in nome della natura e della ragione erano state condanna- te, avevano condotto a questo doppio risultato: per un verso, ad allargare smisuratamente l'ambito della vita interiore, raccogliendo e quasi contraendo in essa tutte le attività spirituali, facendone il campo piú degno, e, se non esclusivo, certo dominante della condotta morale, e comprendendovi della vita sociale, al più, quel che in essa si dispiega di spontaneo e d'ingenuo: la pietà, la carità, l'amore, con l'aperta tendenza a distinguerlo non solo, ma a staccarlo dalle attività considerate come esteriori, della vita politica e giuridica. Per l'altro verso, a negare, non solo ogni realtà ed ogni fon- damento storico, ma ogni valore, alle costruzioni politiche e giuridiche del giusnaturalismo; alle dottrine dello stato di natura, del contratto sociale, dei diritti innati; e a considerare come un prodot- to storico le forme politiche e giuridiche; le quali trovano, nelle condizioni che le hanno generate e che le rendono adatte rispettivamente alle esigenze dei popoli diversi in luoghi e tempi diversi, la loro giustificazione necessaria e sufficiente; e quindi a fare il diritto estraneo all'etica e indipendente da qualsiasi giustificazione morale, lasciando aperto il campo alle piú svariate forme di relativismo: biologico, sociologico, storico. Cosí quel che per il razionalismo del secolo XVIII era il contenuto comune della coscienza morale, finiva per essere considerato quasi estraneo alla morale. E mentre si faceva piú largo e piú profondo il distacco tra interiorità e esteriorità, si attenuava sempre piú la distinzione tra i valori morali e i valori spirituali di diversa specie e di diverso contenuto, e prendeva colore e calore di va- 4  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta lutazione morale una molteplicità sempre piú varia di tendenze, di aspirazioni, di attività, di fini di- versi. Per tal modo penetra nella vita e nella cultura, e si manifesta non solo nella filosofia, ma in quella che si chiama piú propriamente letteratura, quella molteplicità di indirizzi, di opinioni, di ere- sie morali che è la caratteristica del secolo XIX, e che esprime, per dir cosí, la maturità storica del problema, prima dissimulato e trascurato. ** * Non si vuol dire, né sarebbe a priori probabile, che ad ogni novità di intuizione particolare, geniale o no, su questa o quella forma di vita e di attività individuale, su nuovi aspetti della cultura speculativa o religiosa o sentimentale, su nuove direzioni della volontà, sul valore dei tipi di istituti, familiari, politici, economici (reali o immaginati) corrisponda una diversità di criteri morali; né tan- to meno che ciascuno esprima una orientazione di coscienza morale radicalmente diversa dalle al- tre; ma neppure è possibile dissimulare che questa molteplicità è altra cosa dalla «dualità» notissi- ma, che nella tradizione e nella credenza comune e nella dottrina piú largamente diffusa, raccoglie- va e, direi, polarizzava attorno a due termini contrari i valori della vita, opponendo i beni razionali ai beni sensibili, e negando a questi ogni valore morale. Perché, lasciando pur fuori di questione ciò che tocca i beni detti sensibili (per semplicità di discorso, non perché anche su questo punto le que- stioni sieno escluse di fatto, o siano da escludere a priori), la caratteristica nuova e piú rilevante di tale molteplicità, è appunto questa: che è nel regno stesso dei beni razionali, che la diversità delle tendenze si è venuta delineando sempre piú spiccata. E i contrasti di tendenze e di opinioni si rive- lano anche, anzi soprattutto, nel campo di quei valori che era pacifico considerare come patrimonio, se non uno e indivisibile, almeno indiviso, e non costituito di parti discordanti. E mentre si venivan disegnando, cosí, conflitti di primato, se non contrasti irreducibili, tra i valori stessi tenuti tradizionalmente come superiori, si presentavano: di là, idealizzate, e sotto veste di valori razionali — o giustificate in nome di esigenze razionali — tendenze e forme di vita spon- tanee, passionali, o istintive, considerate già come estranee se non contrarie alla vita morale: e di qua si esaltavano come centro e culmine dei valori morali le forme religiose, intuitive, sentimentali e mistiche, avverse, almeno in apparenza, ad ogni pretesa di procedimento razionale, e che ad ogni modo si affermavano in atti di aperta sfida contro la ragione. E insieme si negava ogni significato etico — anche nella loro forma di idealità sociali e politiche — a quei principî razionali del diritto, nei quali il secolo precedente aveva visto ad un tempo il segno piú alto della dignità umana e il maggior trionfo della ragione. ** * Di fronte a cosí grande e cosí varia pluralità di contrasti tra criteri di valutazione, o tra «scale di valori» diverse, può bastare a risolvere i conflitti e a ricostituire — posto che sia necessaria — l'unità del contenuto, e l'universalità del consenso, affermare che la morale è universale perché è ra- zionale, o è razionale perché è universale? Né è possibile fare appello alla ragione come autorità morale suprema quando i moralisti che se ne fanno interpreti non riescono, pur affilandone tutte le armi, né a convincere né a vincere i de- trattori, se non argomentando ad hominem cioè facendo appello a qualche principio o criterio da quelli stessi assunto od ammesso. E i detrattori non riescono a formulare neppure una sentenza di condanna che abbia, non si dice un valore, ma un significato quale si sia, senza servirsi di quella ra- gione che coprono di contumelie, e che presta pure la sua assistenza, con divina larghezza, anche a chi la bestemmia. Dal che parrebbe di dover ragionevolmente concludere che della ragione non si può fare a meno, in materia di morale piú che in qualsiasi altro campo; ma che non si può trovare in essa la sorgente delle valutazioni morali. 5  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta E tuttavia non solo fu — nell'età aurea del razionalismo — ma è tuttora largamente sostenuta ed accolta, non senza che la tenacia degli sforzi abbia un profondo significato, l'idea di cercare nella ragione anche ciò che la ragione non può dare; e di riferire a lei non soltanto l'esigenza della coe- renza, dell'unità, e quindi di leggi, di criteri e massime, ma anche di certe leggi e di certi criteri, piuttosto che di leggi e criteri diversi. Ma l'idea è illusoria. E l'illusione sta in ciò essenzialmente: nel credere che la ragione obbli- ghi ad ammettere non soltanto certi giudizi, dato che se ne accettano certi altri, certe conseguenze, se si accettano certe premesse; ma obblighi senz'altro ad accettare certi giudizi: quei giudizi stessi che fanno da premessa; che «esser ragionevole» voglia dire non soltanto osservare le leggi della lo- gica, rispettare quei principi logici senza dei quali non è possibile nessun ragionamento e nessun «uso della ragione», ma voglia dire essere obbligati a riconoscere "certe verità", ad ammettere certi principî; principî non logici o formali, ma materiali; dati o postulati che facciano da sostegno al ra- gionamento, e comunichino la loro certezza ai giudizi che se ne ricavano. Ora io lascio di considera- re, perché non è necessario qui, il campo dei giudizi propriamente teoretici e la distinzione che sa- rebbe necessaria tra giudizi condizionali e giudizi di esistenza; e mi restringo al campo «pratico». In questo adunque la ragione sarebbe essa che pone ad un tempo l'esigenza della legge e la legge; cioè, non solo l'esigenza dell'unità e le norme da osservare per realizzarla, ma anche i criteri attorno a cui si deve raccogliere questa unità; quei giudizi stessi che non si giustificano, ma che servono di fon- damento alla giustificazione. 6  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta CAPITOLO SECONDO LA RAGIONE E I GIUDIZI DI VALORE Questa «funzione pratica»4 della ragione si può intendere in tre modi diversi: — O i criteri di valutazione, i giudizi di valore che stanno a fondamento dei giudizi morali, hanno la stessa validità e si possono o dimostrare o porre con la stessa necessità od evidenza con la quale si impone la validità delle forme logiche. — Oppure — se il dato o principio che sia a fondamento delle valutazioni è diverso dalle verità teoretiche, assunto dalla ragione, non posto da lei ma offerto a lei, questo dato è tale che essa non ha che da scoprirlo, da formularlo, da presentarlo alla riflessione di ogni uomo ragionevole per- ché ne sia riconosciuta ed ammessa come indiscussa e indiscutibile la validità. — O finalmente è la ragione stessa che pone la legge, ed è l'esigenza razionale che basta a determinarla, senza che a costituire la validità della legge e del contenuto che essa incorpora in con- formità della sua esigenza, sia necessario riconoscere la validità di alcun dato o principio materiale estraneo alla forma stessa della legge. Non vi sono che queste tre vie possibili; e sono le vie che anche storicamente il Nazionali- smo ha seguito con maggiore o minore sforzo di argomentazioni e varietà e ricchezza di gradazioni particolari. ** * La prima via, la piú antica, quella aperta da Socrate quando si presentò per la prima volta il problema morale in condizioni analoghe per certi rispetti (nessuno pensa a dire uguali) a quelle che lo fanno risorgere ora in una forma somigliante (il contrasto nelle opinioni intorno a ciò che è bene, o in breve, il problema della pluralità dei criteri morali), è la via che si direbbe piú propriamente in- tellettualistica. I principî morali sono verità5 della medesima natura delle altre, accertabili teoreti- camente, o deducibili da verità teoretiche. È l'indirizzo del quale ho parlato già altrove6 e il cui vizio radicale consiste nel fare dei giudizi di valore giudizi teoretici, e pretendere di derivare quelli da questi. Ma quanto alla derivazione nessuno sforzo logico può fare che concluda con un giudizio di valore un ragionamento che non abbia per premessa, espressa o sottintesa, un giudizio di valore. Quanto alla certezza immediata nessuna evidenza logica può fare che sia contraddittorio in sé stimare di piú il proprio cane che il prossimo, se non si suppone che io ammetta che un uomo 4 Questa espressione può avere in morale tre sensi diversi che importa distinguere. Si può intendere che dipen- da dalla ragione il valutare, cioè riconoscere e graduare i valori; o che dipenda dalla ragione il conformare la condotta alla valutazione, muovere la volontà: e questi sono i due sensi che rispondono all'uso piú comune del termine «pratico» e che pur si confondono tra di loro, benché siano diversissimi; come è diverso riconoscere la giustizia o la bontà di una norma e osservarla, stimare la virtú e praticarla. Ciò che è in discussione qui e nel seguito è sempre, se non si dica espressamente il contrario, il primo signifi- cato. Finalmente vi è un terzo senso, quello propriamente kantiano, che consiste nel riconoscere la possibilità e la le- gittimità di affermare per il bisogno morale l'esistenza di ciò che la ragione speculativa non può conoscere; di fondare sulla morale una certezza metafisica che è preclusa all'uso teoretico della ragione; ed è a un tal uso che si riferisce, come tutti sanno, la notissima espressione «primato della ragion pratica». 5 La tesi morale di Socrate è duplice come tutti sanno: 1°che il bene e il male si possono conoscere (se ne pos- sono fare dei concetti veri) come si conoscono le altre cose. 2°che conoscere il bene e praticarlo è il medesimo, ossia che la moralità (la pratica del bene) è sapere; chi fa il male lo fa perché ignora che cosa sia il bene. La prima tesi sta in- dipendentemente dalla seconda che qui è lasciata in disparte. Di solito quando si parla della tesi di Socrate in tema di morale si intende dire di questa seconda e non di quell'altra, la quale anzi è comunemente ascritta, e in un certo senso giustamente, a merito di lui. 6 Vecchio e nuovo Problema, Parte I, Cap. II. 7   Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta qualsiasi vale piú di un qualsivoglia cane, o che dove c'è pensiero, ivi c'è una dignità incomparabile con qualsiasi pregio di natura diversa. Ma in questo caso la contraddizione è tra un mio giudizio e un altro mio giudizio; che si suppone pure ammesso da me e per me valido. Ma chi o che cosa mi obbliga ad ammettere questo valore del pensiero? E perché cadrei nell'assurdo se lo negassi? Forse perché con ciò diminuisco o nego un valore che è anche mio? Sarebbe dunque il rispetto e la stima di sé un principio logico? E la despectio sui del Geulinx contiene dunque una contraddizione in termini? ** * Se si incalza che il giudizio sulla inerenza all'uomo di proprietà o doti che mancano al cane è di evidenza oggettiva e che riconoscere un maggior valore all'uomo che al cane è la stessa cosa che riconoscere all'uomo una maggior realtà, cioè una maggior perfezione, è facile avvertire che in que- sta identificazione si assume appunto ciò che è in questione: che la perfezione o il pregio delle cose e delle proprietà delle cose sia accertata o accertabile teoreticamente come la loro esistenza e appar- tenenza; mentre basta una non lunga riflessione per accorgersi che il giudizio sul pregio e sul valore o il «grado di perfezione» di qualsiasi ente o proprietà implica il riferimento a una gerarchia, a un ordine, a un disegno, cioè in ultimo, a un modello, e quindi a un fine attuato o da attuarsi. E, che possa o debba valere come fine, che meriti di valere, non è un giudizio in realtà; tanto che il negar- gli questo valore non implica negare sia la realtà, sia la possibilità, sia alcuna delle proprietà dell'en- te; cosí come negare alla sfera il valore di forma perfetta che le davano i peripatetici, non implicava per Galileo la negazione né della costruibilità della sfera, né di alcuna qualesivoglia delle sue pro- prietà geometriche. La sfera rimane la sfera. Si potrà o non si potrà ammettere che essa abbia, in grazia di quelle proprietà, un pregio particolare, ma l'ammetterlo o negarlo non appartiene alla ge- ometria; e mentre io rinuncio ad essere intelligente se non capisco il concetto della sfera, e rinunzio ad essere ragionevole, se non ammetto tutte le proprietà che ha o avrebbe una sfera reale costruita secondo quel concetto, non rinunzio né all'intelligenza né alla ragione se nego che la sfera valga piú del cubo o della piramide. Lo stesso, mutatis verbis , vale per l'esempio allegato del cane e dell'uo- mo. Senonché qui un rosminiano potrebbe insistere, che il caso è appunto diverso e che la diversità ha un suo significato: perché mentre io non provo internamente alcuna ripugnanza ad ammettere che la sfera non valga piú della piramide, non posso senza ripugnanza invincibile, ammettere che il cane valga quanto l'uomo. Che è questa ripugnanza, se non il segno della «contraddizione che nol consente»? Che nell'esempio citato (non per nulla nella scelta il Rosmini ebbe la mano felice) la repu- gnanza ci sia, è innegabile — sebbene le tenerezze di certe dame possano far dubitare della univer- salità del riconoscimento —; ma questa ripugnanza è una ripugnanza morale, non una incongruenza o contraddizione teoretica, ed è comune nella misura in cui è comune la valutazione su cui si fonda. Anche qui, ancora e sempre: negando questa differenza di valore tra il cane e l'uomo io non nego nessuna delle differenze di realtà che esistono e che si possono conoscere; non nego nessuno dei ca- ratteri e delle proprietà dell'uomo o del cane, qualunque poi sia il giudizio che faccio sul valore di- retto o indiretto di ciascuna di quelle doti e di tutte insieme, e degli esseri che le posseggono. Che io faccia maggior conto del potere di astrazione dell'uno che della finezza di odorato dell'altro, o che apprezzi di piú l'amore della libertà dell'uomo che la ubbidienza cieca del cane, non è per nulla una implicazione necessaria del riconoscere rispettivamente nell'uomo quella proprietà che nego nell'al- tro. E il giudizio potrebbe essere rovesciato, e un grossolano estimatore di tartufi potrebbe preferire il fiuto del suo cane a quel qualunque potere di astrazione che la natura prodiga ha largito a lui pure, senza che muti di un ette la verità riconosciuta da ambedue: che l'uomo ha un certo senso meno fine del cane, e il cane manca di un potere che ha l'uomo. — E se finalmente accadesse davvero, come parrebbe anche naturale, che nessuno potesse disconoscere la differenza di valore tra i due, questa universalità di riconoscimento non cesserebbe di essere, per la sua natura e per il suo fondamento, diversa da quella. L'essere universalmente ammessa una differenza di valore fra i due enti, prova, 8  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta nel caso, che è universalmente ammessa o sentita l'esigenza morale in grazia della quale quella dif- ferenza è posta: ma non prova che il giudizio di valore, cosí espresso, sia una conoscenza teoretica; ossia, comunque, riducibile alla conoscenza oggettiva dei due esseri, o ricavabile da questa. ** * La verità è che i giudizi morali (come ogni altro giudizio di valutazione) paiono della stessa natura dei giudizi teoretici perché sono nella massima parte, e con una frequenza di gran lunga maggiore, giudizi derivati e possono presentarsi sotto forma di giudizi derivati, anche quando sono considerati, sotto un altro rispetto, come primari e assunti come tali in una costruzione diversa. Ora nei giudizi derivati, la validità della valutazione è ricondotta alla validità di un altro giudizio (primi- tivo o primario o diretto) con un processo, che non differisce in nulla, quanto alle leggi logiche che ne governano la legittimità, dal comune processo di dimostrazione col quale si prova la connessione necessaria di certe conseguenze con certe premesse. Con questa circostanza, per dir cosí, aggravan- te: che, come s'è accennato, accade di frequente, anzi solitamente, che quegli stessi giudizi che figu- rano in un processo di giustificazione come premessa o principio, compaiono o possono comparire in un altro ragionamento come conseguenza o conclusione. Tanto che riesce difficile decidere, quando si tratta di valutazione, quali siano i giudizi primitivi, e quali i derivati, comparendo a volta a volta secondo le costruzioni diverse e i diversi punti di vista e talvolta nello stesso autore (e senza che si possa per ciò solo appuntare i ragionamenti corrispondenti di circolo vizioso e di petizione di principio), come giudizi derivati, dei giudizi che figurarono in altro luogo, e per un altro proposito, come primitivi, e inversamente; al contrario di quel che accade di solito nelle costruzioni scientifi- che: dove i principî o proposizioni fondamentali hanno e conservano costantemente il loro carattere e il loro ufficio7. Sfuggendo cosí all'osservazione, per la vicenda di ufficio logico al quale possono a volta a volta essere assunti, quali siano i giudizi di valore primitivi, cioè quelli in cui si assume la validità diretta e immediata (senza che sia ricondotta alla validità di qualche altro giudizio), riesce piú difficile, o almeno si presenta meno frequente e meno aperta, la opportunità o la necessità di e- saminare la natura e di coglierne questo carattere di diversità, radicale e irreducibile, dai giudizi teo- retici. ** * La quale diversità può sfuggire anche piú facilmente o essere posta in luce tanto piú diffi- cilmente, per un'altra circostanza che ha a quest'effetto un influsso anche piú decisivo. E la circo- stanza è questa: che una parte considerevole dei giudizi valutativi che assumono piú frequentemente valore di primari, o sono abitualmente sottintesi (tanto sono o si suppongono incontestati), o sono incorporati e quasi assorbiti nei giudizi teoretici, senza che l'apprezzamento, per lunga consuetudine congiunto all'idea dell'oggetto, o della proprietà, o dell'atto, o dell'effetto possibile, sia formulato in un giudizio distinto; anzi, talvolta, neppure sia espresso piú nell'enunciazione del giudizio stesso da una di quelle particelle (aggettivi, avverbi, interiezioni) che portano nel giudizio la espressione di una valutazione, o, come si può dire con forma piú generale, la nota del sentimento; la quale non appare talvolta che nel tono di voce dell'interprete o lettore, o si rifugia nella scelta sapiente delle parole e delle sfumature suggestive, di cui è ricca una lingua satura di civiltà. Dire di un uomo che è indolente o che è intemperante, è, se non si parla a vanvera, attribuir- gli una qualità, della quale è possibile dimostrare che veramente gli spetta, cioè si posson dare delle prove oggettivamente certe e accertabili: è un giudizio teoretico. Ma ognun vede che vi è tacitamen- 7 È tuttavia da notare anche qui una tendenza a considerare l'ufficio logico rispettivo di principî e di conse- guenze, suscettivo di essere invertito. Così nella piú rigorosa delle scienze deduttive, la geometria, si può vedere la pos- sibilità, sfruttata per ragioni didattiche o anche per maggior semplicità o eleganza di costruzione, di invertire la dedu- zioni; assumendo come dato quel che si è ricavato, e inversamente; come avviene del resto nelle dimostrazioni della connessione reciproca di due proprietà fra di loro.  9  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta te assunto insieme un giudizio di valutazione, nella misura che l'indolenza o l'intemperanza sono per chi parla o per chi ascolta qualità non pregevoli, o biasimevoli; il che diventa evidentissimo quando si tratti di qualità o di attributi, o modi di operare piú gravemente e piú universalmente biasimati, come si dicesse: bugiardo, venale, falsario e simili. Anzi, i giudizi di valutazione sono gravi in pro- porzione della loro prova teoretica assai piú che delle espressioni di biasimo che li accompagna; ap- punto perché il biasimo può essere piú facilmente sottinteso. E non per nulla la diffamazione è puni- ta piú dell'ingiuria. Cosí il giudizio valutativo (sottinteso) sembra essere fondato su prove, come si dice, di fatto, ossia su giudizi teoretici; mentre i giudizi teoretici provano bensì l'esistenza del fatto o la legittimità dell'imputazione, ma non provano in nessun modo il valore dell'azione. Il qual valore è già riconosciuto e ammesso e incorporato nell'idea di quel modo di operare, di quel difetto o colpa di cui l'azione è prova, e non ha bisogno di essere formulato a parte perché tutti lo sentono e tutti lo sottintendono. ** * Ora i giudizi di valore a cui si dà ufficio di primari, cioè che si assumono a fondamento degli altri e alla cui validità si riconduce la validità di questi, sono presi, solitamente, tra i giudizi il cui valore per essere comunemente riconosciuto e, come si dice, pacifico, è appunto piú facilmente sot- tinteso. Quando si è detto a una persona intelligente «bada che quella pistola è carica», non occorre altro discorso per persuaderla a maneggiarla con prudenza; e nessuno pensa che è sottinteso, o me- glio, nessuno ha bisogno di pensare distintamente che è sottinteso, un giudizio sul valore della vita, e che l'avvertimento non avrebbe peso se la vita non valesse piú di una cartuccia. Ora il giudizio: la vita è un bene; che qui è sottinteso, può essere considerato come primario, per esempio in tutti i precetti dell'igiene (dove anzi fa da primario un giudizio, che è già esso derivato rispetto a questo, sul valore della sanità): ma può essere non primario per chi giustifica a sua volta il valore della vita col valore del sapere, o del bello, o della giustizia, o della carità, o della potenza, o della gloria, o di qualsiasi altro ordine di fini o di attività o di godimenti. Ma poi, quando si dice che l'arte, o la scienza, o la pietà sono un conforto della vita, si fa di ciascuno di quei beni che sopra sono assunti come beni per sé, un bene derivato rispetto a quello della vita. E cosí se si dice che il sapere accresce la ricchezza, o la giustizia assicura la tranquillità, o l'onestà alimenta la fiducia reciproca, si pongono, almeno occasionalmente, come derivati, dei valo- ri primari, e si assumono come primari rispetto ad essi, dei valori derivati. ** * È adunque chiaro che i giudizi di valore si legano fra di loro in una catena continua, anzi in un groviglio di catene, del quale non è necessario qui cercar di capire piú particolarmente la struttu- ra; e che per queste mutue e varie connessioni delle diverse valutazioni fra di loro, si può assumere come primario in un sistema di deduzioni un giudizio di valore che figura come derivato in un si- stema diverso. Ma in qualsiasi processo di giustificazione, questo giudizio primario di valore e- spresso o sottinteso ci deve essere; e si tratta di vedere — nel caso di valutazioni morali — non se spetta alla ragione giustificare la scelta, ossia dimostrare da che cosa nasca l'attribuzione di valore (che sarebbe precisamente fare del valore diretto un valore derivato; la quale dimostrazione, se è possibile, nessuno dubita che sia un processo razionale); ma, se ci sia un principio di valutazione, una affermazione diretta o primaria di valore che sia razionale in sé, e che si distingua come razio- nale da altre valutazioni primarie, che non siano in sé razionali; cioè che non sia razionale accetta- re, che la ragione impedisca di ammettere. 10  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta CAPITOLO TERZO RAGIONE ED EGOISMO Se si tien conto di quanto s'è avvertito sopra, la questione della razionalità o irrazionalità dell'egoismo si riduce a vedere se l'egoista, accettando il principio assiologico che assume come primario quando giustifica il suo sistema di valutazioni egoistiche e le massime di condotta corri- spondenti, rinneghi la ragione, e quindi, poiché è ragionevole, si trovi in contraddizione con se stes- so. E cadrebbe in contraddizione: O perché operando da egoista non raggiunge lo scopo al quale è rivolta la sua opera8. O perché il criterio egoistico contrasta con altri che l'egoista stesso in quanto egoista non può fare a meno di accettare e di ammettere. ** * È certo che l'egoista spesso sbaglia i conti e fallisce lo scopo; ma questo non ha che fare nel- la questione. I conti li sbagliano un po' tutti, o li possiamo sbagliare, senza che ciò voglia dire nulla circa il valore o il disvalore, la dignità o l'indegnità dei nostri scopi. Lo sbagliare riguarda la scelta o l'uso dei mezzi e dà luogo ad un giudizio di abilità o inabilità, di successo o di insuccesso; e sba- gliano i conti i filantropi forse piú spesso degli egoisti. Lasciamo dunque le delusioni che possono venire agli egoisti da errori di calcolo. Concludente invece, anzi decisiva, sarebbe, se valesse, l'altra obbiezione che non si possa essere egoisti senza contraddirsi. La quale però ha il torto di configurare un egoista incoerente (an- che se in realtà è il tipo comune, anzi forse cedendo appunto alla suggestione della realtà) cioè, che pretende bensì di subordinare ogni interesse, di qualunque genere, degli altri al suo interesse pro- prio, ma pretende insieme che gli altri non facciano cosí; e ha l'aria di dire agli altri: ma, insomma, se fate gli egoisti anche voi, come faccio io a servirmi di voi per i miei comodi? — Naturalmente quando si è foggiato un egoista su questo tipo, è facile dimostrare che si contraddice. Non è mai, in generale, molto difficile ritrovare in qualche cosa qualcos'altro che vi sia posto dentro prima. Ma non vi può essere un egoista coerente? E come si dimostrerebbe che non vi può essere? Vediamo come dovrebbe essere; e se, essendo coerente, cesserebbe di essere egoista. Questa è ma- nifestamente la tesi che si deve dimostrare per concludere alla irrazionalità dell'egoismo. Egoista coerente è chi riconosce buono l'operare di ciascuno quando è dettato dal suo inte- resse maggiore, ossia buono per ciascuno il modo di operare che procura ad esso operante il mag- gior numero di vantaggi e il minor numero di danni; ossia, un egoista coerente è esso senza riguardi 8 Non si può considerare come esempio di contraddizione intrinseca dell'egoismo il caso frequentissimo e co- munissimamente notato di chi si mostra in questa o quella circostanza egoista perché opera da egoista o come se fosse egoista, mentre sente dentro di sé di «aver torto», sente che la sua azione presente è disforme da quel modo di operare che la sua coscienza morale riconosce come giusto; quel modo di operare che egli approva quando giudica le azioni de- gli altri e che egli stesso seguirebbe se non fosse in gioco. Ossia egli sente che dovrebbe fare così e sente che farebbe così se il fare non gli costasse un sacrifizio; il sacrifizio di quella certa sua piú o meno grande comodità. Ora certamente qui (ed è il caso comune, tipico, notato migliaia di volte del contrasto, dello scontento interiore e del rimorso) questa discordia interna è colta e segnalata dalla ragione. È una esigenza razionale l'unità delle valutazio- ni, la costanza dei criteri, la coerenza tra il valutare e il fare, ed è un processo razionale che rivela le incoerenze e i con- trasti. Ma la questione non sta qui. Il contrasto segnalato per il quale chi opera da egoista è colto in fallo e deve riconoscere il suo torto, è possibile perché il supposto egoista ha operato bensí da egoista, ma sente e giudica e valuta conforme a giustizia. Egli è in con- traddizione perché il criterio di valutazione, cioè di scelta tra i motivi, seguíto nella sua azione concreta è contrario al criterio di valutazione che egli accetta come persona morale, che applica nel giudizio sulle azioni altrui e, in quanto rie- sce ad essere imparziale in causa propria anche a se stesso. E la vera questione qui sarebbe di vedere se quel criterio di valutazione che egli accetta come persona morale è posto dalla ragione; se dato che non fosse sentito e accettato dalla sua coscienza, potrebbe un processo razionale farlo sorgere.  11  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta per gli altri, ma ammette e trova naturale e legittimo nello stesso tempo, che ciascun altro sia senza riguardi per lui. È pronto a sopraffare, potendo farlo senza danno, gli altri; ma non protesta se altri, potendo, sopraffà lui. — Dov'è qui la contraddizione? ** * Si dirà che cosí facendo si riesce all'uno o all'altro di questi risultati: o alla limitazione reci- proca degli egoismi per mezzo di norme di condotta che li renda compatibili, e abolisca lo spettro hobbesiano del «bellum omnium contra omnes»; o al riconoscimento del valore supremo, della for- za come criterio ultimo della condotta. Ora il primo risultato — si dirà — è la negazione dell'egoismo; l'egoismo, diventando ragio- nevole sbocca in un criterio diverso, anzi contrario: si fa legge, cioè diritto, cioè giustizia. Il secondo tiene sospesa sull'egoista la spada di Damocle della sua condanna: il piú forte d'oggi può essere piú debole domani, il piú forte contro i singoli è meno forte contro la coalizione dei singoli. Il numero, il «gregge» può sopraffarlo; e se lo sopraffà esso ha ragione perché è il piú forte. Per sostenere che il criterio della forza deve valere soltanto tra i singoli e singolarmente presi, occorrerebbe un altro presupposto, un altro giudizio, un altro criterio fuori della forza, che valga a distinguere entro quali limiti l'uso della forza è legittimo. Ma fuori di questa clausola (che ricondur- rebbe al risultato precedente), la forza contiene in sé la propria condanna perché genera da sé la propria negazione. Né l'uno né l'altro di questi discorsi che paiono vittoriosi è, se si guarda spassionatamente, concludente. ** * Cominciamo dal secondo. È bensì vero che l'egoismo se non scende a patti con gli egoismi che gli si possono contrapporre sbocca nel criterio della forza; ma il criterio della forza non si nega e non si smentisce finché si ammette che esso valga per tutti9, che la mia volontà sia legge finché il piú forte sono io, e che sia legge la volontà degli altri quando piú forti sono gli altri. Sarebbe invece smentita appunto, quando valesse finché il piú forte sono io e non valesse piú se il piú forte è un al- tro. Si può dunque dire che il criterio della forza può riservare delle sorprese, e portare, a chi l'accet- ta, piú danni che utili. Ma non si può dire che sia in sé contraddittorio; come non è contraddittorio per un giocatore accettare la legge del gioco coi suoi rischi e le sue promesse, anche se queste sono superate da quelli. Ciò riguarda dunque, non la coerenza intrinseca del criterio, ma la questione se a un egoista accorto convenga o no di farne la sua legge. Se ci pensa bene, se pesa il pro e il contro con pruden- za, forse non sceglierà una strada nella quale i pericoli sono superiori alle speranze. ** * 9 Se si trova difficoltà a immaginare seguíto questo criterio fra gli individui, non c'è che da pensare al principio che ha regolato in ultima istanza, fino a ieri, se non fino ad oggi, i rapporti fra gli stati, e che dovrebbe regolarli sempre secondo l'imperativo nazionalistico o etnico o storico, che passò e passa tuttora - agli occhi di molti - come il solo impe- rativo «seriamente» politico. In questa concezione dei rapporti fra gli stati non domina forse nella sua forma rigorosa quella tesi estrema - che lo Stirner formulò per i singoli individui - e che parve ad alcuni per il suo stesso rigore una caricatura ironica dell'a- narchismo di una società di egoisti, che vale fin che mi giova e dura finché mi piace? O si vorrebbe dire che non sono «ragionevoli» i politici, filosofi o no, che accettano e difendono questo crite- rio, non solo come l'unico criterio possibile, - in determinate circostanze storiche, - ma come il solo «razionale?» Se- nonché anche la razionalità dell'egoismo statale non è data, ma presupposta, o fondata su un presupposto: che l'interes- se, anzi, un certo interesse dello stato abbia un valore incondizionatamente supremo.  12  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta Ed ecco l'altra alternativa: l'egoismo che si limita e si fa diritto10. Ma qui è ancora piú facile scorgere l'equivoco e può parer superfluo il metterlo in evidenza. L'egoista che accetta il diritto come garanzia della sua sicurezza, della sua tranquillità, della sua li- bertà, cioè la limitazione dell'egoismo per motivi egoistici, non cessa perciò solo di essere egoista, e non v'è nessuna contraddizione intrinseca, per lui, nell'accettare condizioni che per lui sono vantag- giose. Che un diritto cosí giustificato non abbia valore morale e non debba identificarsi con la giu- stizia è evidente: che un diritto il quale non abbia altro fondamento che questo calcolo egoistico sia poco saldo e non abbia piú consistenza di realtà storica che lo stato di natura, è inutile dire; ma non si può dire in nessun modo che l'egoista contraddica se stesso quando accetta e riconosce una legge che limita il suo egoismo. E l'economia politica assume, come tutti sanno, l'ipotesi dell'uomo che produce e scambia la ricchezza secondo motivi egoistici e per puri motivi egoistici, ma osserva per- fettamente le altre forme giuridiche piú rigorose della giustizia, senza che questa osservanza venga a contraddire menomamente il presupposto egoistico. Anzi, ognuno sa che la limitazione piú rigida e piú incondizionata dei fini particolari di ciascuno sotto la legge di un dispotismo senza limiti e senza controllo, è giustificata dal Hobbes in nome dell'egoismo e dell'espressione piú elementare e piú grossolana dell'egoismo (la conservazione della vita); e che a un calcolo puramente egoistico si riconducono dall'Helvetius (cosa parimenti notissima) ogni forma di condotta ed ogni azione uma- na. E nelle dottrine che prendono nome di utilitarie (con un battesimo antonomastico che non si ca- pisce se faccia piú torto, come si crede, alle dottrine, o a chi le ha designate con questo nome11), la difficoltà piú grave, la sola difficoltà insormontabile dal punto di vista del proposito che le ispira, è quella che nasce dalla esigenza di conciliare la utilità individuale con la utilità sociale: alla quale e- sigenza si crede di soddisfare nel modo piú efficace, facendo dell'utile della società, il mezzo e la condizione dell'utile individuale; cioè giustificando da un punto di vista egoistico, le norme della vi- ta sociale. E questo stesso sforzo di giustificare con una motivazione egoistica ogni ordine di attività anche piú elevata non solo dimostra che è tutt'altro che evidente la contraddizione intrinseca e la ir- razionalità dell'egoismo, ma fa pensare piuttosto il contrario: che l'illusione di questa possibilità sia nata, e la tenacia dello sforzo alimentata, appunto dall'opinione che la via migliore, se non l'unica, di persuadere che l'operare moralmente è conforme alla ragione, sia di mostrare che le norme morali coincidono con quelle di un bene inteso cioè di un intelligente egoismo. Ma con ciò si suppone o si accetta, ma non si pone la pretesa legittimità evidente per sé del- l'egoismo, come norma suprema di condotta, accanto o contro la legittimità del criterio opposto. Ed è sempre sottinteso il presupposto arbitrario che vi sia un criterio di valutazione il quale è per sua natura conforme alla ragione, di fronte ad altri criteri contrari. Mentre contrario alla ragione non è né l'uno né l'altro criterio per sé. Ma è soltanto la pretesa di accettare un certo criterio e insieme non accettarlo, di ammetterlo come norma di condotta e non applicarlo. 10 Chiedo scusa al lettore se adopero questa volta frasi di questo genere - adatte piú ad effetti stilistici che a precisione di pensiero - per segnalarne il pericolo. Non bisogna dimenticare che in queste espressioni «l'egoismo che si nega», «l'arbitrio che limita se stesso» e molte altre somiglianti, il senso voluto significare è reso possibile perché e in quanto il termine in questione (egoismo o altro) è preso a indicare in una due significazioni diverse: nell'una è l'astratto (la connotazione comune a tutti egoismi); nell'altra è il collettivo (l'insieme degli egoismi particolari e degli arbitri diversi che si contrastano). 11 Il quale è un tacito riconoscimento che gli uomini considerano veramente utili soltanto le azioni che servono a certi fini e a certe soddisfazioni loro. Ma utili in qualche modo sono tutte le azioni; se no (ah questo sí), non sarebbero ragionevoli. Sono utili, o credute utili, al fine a cui sono dirette, economico, scientifico, estetico, religioso, politico, ecc. Che siano dette utili soltanto le prime, parrebbe dunque significare che abbiano vera importanza per l'uomo soltanto quei certi fini, che poi si dimostra con molti discorsi che sono meno nobili degli altri.  13  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta CAPITOLO QUARTO LA RICERCA DEL FINE SUPREMO Con ciò la tesi egoistica cerca di porsi su quella medesima via che è nella tradizione dei si- stemi e delle scuole la via piú comune del razionalismo morale, ed è in effetto la piú semplice, si di- rebbe quasi la piú ovvia ed ingenua: quella notissima di ricondurre le norme a un bene, a un fine, a un ideale, di cui si è riconosciuto o si debba riconoscere incontestabile il valore supremo. Qui ciò che fa da principio della dimostrazione da «assioma medio» o proprio della costru- zione morale, è il giudizio in cui si assume questo valore e questa dignità suprema del fine. Posto che il fine assunto sia il fine che l'uomo riconosce come supremo e che si dimostri come le norme morali siano ordinate ad esso, la loro legittimità è dimostrata. Quale sia questo fine e in che consista spetta alla ragione di trovare o di giudicare; di trovare e formulare, se questo fine supremo è dato e si assume come riconosciuta e incontestata la sua vali- dità di supremo; — di giudicare, se su questo valore cade dubbio, o se si pensa che non basti un ri- conoscimento di fatto, ma sia necessario un riconoscimento di diritto; che spetti alla ragione, non già o non soltanto di scoprire, se vi è, un tal fine, ma di giudicare perché esso debba valere. Nella prima maniera il valore del fine e quindi del criterio supremo che la costruzione logica assume, e sul quale si fonda la giustificazione delle norme morali, è manifestamente dato alla ragione, non posto da lei; ma l'assumerlo può apparire e appare praticamente legittimo, finché è ammesso e fuori di contestazione che il fine è supremo, perché è in realtà il fine unico, segnato dalla stessa «natura u- mana»; quello a cui si riducono tutti i fini particolari; che li comprende, li concilia e li subordina tutti. Tale è nella sostanza il procedimento logico delle dottrine che assumono come fine naturale — al quale necessariamente si riconduce o mette capo qualsivoglia fine parziale — la felicità o la perfezione o altro preteso fine dello stesso tipo, che li compendii tutti. Ma è appena necessario os- servare come quegli stessi caratteri per i quali pare cosí naturale, cosí evidente e cosí «ragionevole», riconoscere questo fine come il fine per eccellenza, senza contestazione e senza eccezione comune e costante e incoercibile della natura umana, sono quei medesimi che fanno di questo fine apparen- temente unico, un termine vago e vacuo di ogni contenuto determinato e concreto; del quale nessu- no contesta che sia supremo, finché ciascuno può dare a quel termine il significato che si accorda, per lui, col valore che gli si attribuisce di supremo. Ma perché una qualsiasi costruzione sia possibile è necessario che il termine assuma un cer- to contenuto determinato; il quale contenuto è esso che serve di fondamento alla deduzione; mentre ciò di cui si riconosce come supremo e fuori di contestazione il valore è quella Felicità (o Perfezio- ne, o altro Bene) della quale quel contenuto assume la veste, il titolo e le prerogative; e in nome del- la quale si presenta appunto come fine. E cosí accade che, mentre nell'apparenza il fine è uno, in re- altà è duplice: uno è il fine nominalmente assunto, a significazione indeterminata e che per sé non potrebbe servire a costruirvi sopra che delle tautologie inconcludenti, ma che reca il titolo e le inse- gne, e quasi la formula magica, della sua sovranità: ed è la felicità (o quell'altro termine dello stesso genere); l'altro è il fine realmente assunto. Il contenuto determinato che serve alla deduzione, che regge la dottrina, e che fornisce veramente il criterio al quale si riconduce logicamente la legittimità delle norme, dei precetti e dei giudizi che se ne ricavano. Cosí resta giustificato in nome della felicità ciò che viene determinato in conformità a quel certo contenuto. L'uno serve a costruire, l'altro a dar valore alla costruzione. ** * Ora finché si ammette che la felicità o quel qualsiasi altro termine che lo sostituisce consiste veramente in quel contenuto sul quale si è costruita la dottrina, e l'accordo sulle deduzioni favorisce e conforta questa certezza, la distinzione fra il dato della costruzione e il supposto che lo investe del 14  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta valore di fine, non ha luogo, o apparirebbe ingiustificata o pedantesca. È, o si ammette come pacifi- co, che il dato e il supposto coincidono, che l'uno esprime il significato dell'altro. Ma se, sotto l'apparente unità del termine si mostrano le differenze di contenuto; e i fini par- ticolari che si credevano fusi e, unificati in quell'unico fine, rivelano la loro incompatibilità; e un fi- ne e un ordine o specie di fini pretende di valere come sommo, subordinando a sé od escludendo gli altri; allora è necessario scegliere. E la scelta tra due o piú specie di "Felicità" (come tra due o piú forme di «Perfezione») non può essere fatta in nome della felicità. Tra due o piú ordini di fini che si presentano come fini della «natura umana» non si può sentenziare in nome della natura; oppure si deve ricorrere a distinzioni tra felicità e felicità, tra natura e natura, che rivelano l'assunzione aperta o tacita di un criterio che serve a distinguere la vera da una falsa o apparente felicità, e a determinare in che consista e in che si appunti la «vera» natura umana. «Considerate la vostra semenza...» ** * E cosí il riconoscimento di fatto si muta in riconoscimento di diritto. Non è questo davvero, finalmente, il compito della ragione? Di far capire, di persuadere, di dimostrare che alcuni fini sono degni e altri sono indegni dell'uomo, alcuni superiori, altri inferiori? E fare questa scelta non vuol dire fare una gradazione di fini, e giudicare quale meriti di essere riconosciuto come il fine supremo che serva di termine di confronto, per subordinare quelli che si conciliano ed escludere quelli che sono inconciliabili con esso? Qui adunque pare veramente che sia razionale, non solo il processo di deduzione dal fine, ma razionale la scelta stessa del fine, il riconoscimento del valore che esso deve avere di fine supremo. Senonché non è difficile scorgere l'equivoco e trovarne la origine. Il criterio in base al quale la ragione giudica la dignità dei fini, ne fa la scelta, la subordinazione e la esclusione, è desunto dal- la coscienza morale, cioè in ultimo da quelle stesse valutazioni che la costruzione razionale è chia- mata a giustificare. In realtà il giudizio della ragione è il frutto di un processo che è bensì esso ra- zionale, ma che si fonda su dati di valutazione morale. Il processo reale, palese o nascosto, è, in breve, questo: La coscienza morale dice all'uomo quale è la condotta buona, la condotta che è giusto che segua, che deve seguire. La ragione mostra (non cerchiamo se con regressione del tutto rigorosa e univoca, ma in o- gni caso adempiendo un ufficio che è propriamente e incontestabilmente suo), mostra, dico, che quella condotta è ordinata a certi effetti, raggiunge un fine che è perciò — dal punto di vista dedut- tivo e giustificativo dell'esigenza razionale che vuole l'unità e la coerenza — il Bene morale; e poi- ché non sarebbe morale se non valesse come sommo, questo Bene deve essere riconosciuto e posto come supremo. Non è dunque perché la ragione lo giudica supremo che esso vale come fine morale; ma è perché esso deve valere come fine morale, deve adempiere a questo ufficio nella unità logica del si- stema, che la ragione gli riconosce questo valore di fine supremo. Il che viene a dire che il titolo sul quale il giudizio della ragione è fondato, il criterio seguito nella scelta è il carattere che esso assu- me, o è capace di assumere, di fine morale. Riconoscergli questa attitudine, questa capacità a dar ragione dei giudizi morali, a servire ad essi di principio di giustificazione, cioè di dato dal quale razionalmente si ricavano le norme, equi- vale a riconoscerlo come fine morale; e assumerlo come tale, equivale ad assumerlo come supremo. Adunque è bensì la ragione che giudica questa attitudine o questa capacità che ha il fine di servire di giustificazione dei giudizi morali. Ma il valore morale di queste valutazioni è dato, deve essere ammesso o presupposto. La ragione porta il suggello di questo valore su quel fine del quale essa mostra la congruenza con le valutazioni morali. 15  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta ** * Se in questo proposito di ricondurre le valutazioni della coscienza morale a un fine unico, possa riuscire o no, e, dato che possa, entro quali limiti e con quali frutti, è una questione che qui può essere lasciata in disparte. Ciò che importa notare è che quel «Fine» ha valore supremo per l'uomo dotato di coscienza morale; per una natura umana per la quale valga l'esigenza morale e valgano le valutazioni che essa richiede e che la esprimono. È supremo dunque nell'ipotesi che l'uomo senta la superiorità di certe aspirazioni su certe altre, di certe attività su certe altre, di una «natura» su l'altra. Per far riconoscere il valore supremo di questo fine noi dobbiamo dunque supporre ammes- so il valore di quei giudizi morali, dei quali dimostreremo poi razionalmente la validità, deducendo- li da quel fine. Sono questi giudizi, di cui è o si assume incontestabile il valore morale, il dato o i dati primi della costruzione assiologica; e la ricerca del fine supremo non è che lo sforzo logico di ricondurli a un solo principio di valutazione, a un unico criterio; di costruirli in sistema. Del quale perciò la va- lidità logica, la coerenza necessaria, l'unità di sistema è posta dall'esigenza razionale; ma la validità assiologica esprime una esigenza morale, la quale è già data o postulata 16  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta CAPITOLO QUINTO «MASSIME RAGIONEVOLI» E «PRINCIPÎ RAZIONALI» Se i giudizi primari di valore, i criteri ultimi, attorno a cui si raccolgono e ai quali si subor- dinano le valutazioni, sono assunti e non posti dalla ragione, come si può parlare — e manifesta- mente se ne parla con fondamento — di massime di condotta sulle quali tutte le persone «ragione- voli» vanno d'accordo, e il dissentire delle quali è tenuto come segno patente di irragionevolezza? Che significa ciò se non questo per l'appunto, che basta per riconoscere la bontà di quelle massime, essere ragionevoli, cioè dunque, che basta la ragione a giustificarle? Pare infatti di sí, a prima vista, e si può anche entro certi limiti accettare dall'uso questa for- ma di espressione senza inconvenienti; ma ciò non toglie che l'espressione sia impropria e che l'os- servazione notissima e comunissima prova qualchecosa d'altro; un fatto assai notevole, e a cui si collega una considerazione d'importanza capitale per il modo d'intendere i rapporti tra valori morali e valori di altre specie: che le massime delle quali si discorre, esprimono o valutazioni primarie e- lementari, di cui è superflua, perché è comune e manifesta, ogni giustificazione, oppure delle valu- tazioni nelle quali si incontrano criteri assiologici tra loro diversi. Sono queste valutazioni mediate o indirette che si possono ricondurre cosí all'uno come a ciascun altro dei criteri suddetti; quasi ponte di passaggio a cui mettano capo strade di origine diversa, o linea di intersezione di piani diversi. Cosí nel raccomandare i precetti della temperanza si incontrano stoici ed epicurei, edonisti e mistici, egoisti ed altruisti, sia pure per motivi diversi, ossia in vista di fini diversi e anche opposti tra di lo- ro; e nel raccomandare l'osservanza dei patti, l'homo œconomicus e l'homo ethicus si trovano pie- namente d'accordo12; ossia qualunque possa essere, tra quelli che sono comunemente accolti, il cri- terio assunto, chi lo accetta, deve ragionevolmente accettare quella norma; o, in altri termini, qua- lunque sia, tra i normalmente possibili, il fine accolto come supremo, chi lo accetta deve riconosce- re che esso richiede come suo mezzo o condizione quel modo di operare. Non riconoscerlo vorrebbe dire volere il fine e non il mezzo. Ora riconoscere che se si vuole il fine bisogna volere il mezzo, che se si accetta un principio bisogna accettare le conseguenze, que- sto è appunto, essere ragionevole. E poiché dai diversi principi tra i quali suole essere cercato, se- condo le tendenze, quello che si assume come criterio, la deduzione logica conduce a quel medesi- mo precetto, questo precetto appare fondato in ragione, ragionevole per sé. E in effetto, non si po- trebbe giustificare se non per mezzo della ragione; appunto perché è essa che ne dimostra volta a volta la connessione necessaria con ciascuno dei criteri che possono essere rispettivamente assunti per legittimarlo. Ma il valore di questi criteri primi o supremi è, per ciascuno dei casi, ammesso o presupposto. Di che si ha la riprova nel fatto che se, per ipotesi, si assume un criterio le cui conse- guenze valutative non coincidono con le valutazioni comuni, cessa di apparire «ragionevole» quel modo di operare che è ritenuto — ed è in effetto — tale, finché sono considerati come legittimi i criteri consueti. Usar pietà diventa irragionevole se chi usa pietà è persuaso che il fine piú degno è la forma- zione del superuomo e che a formare il superuomo è necessario essere spietati. Questo esempio può parere poco convincente perché troppo remoto dalla probabilità di essere riconosciuto e accolto. Ma, lasciando pure di notare che esso sarebbe probativo anche se fosse del tutto ipotetico13, è da os- 12 Anzi su questa circostanza si fonda la considerazione, a cui ho accennato, di importanza capitale per l'etica e di cui ho trattato di proposito altrove (confronta Vecchio e nuovo problema, Parte I, Cap. II, Parte II, Cap. II): cioè che una qualità, una virtù, un modo di operare che ha valore per un rispetto, può aver valore anche per altri rispetti diversi. Un atto morale può avere, anzi di solito ha, anche un valore di utilità individuale o sociale e così via. Il che spiega: 1° come avvenga che la giustificazione delle medesime norme morali si sia potuta cercare in fini di natura diversa; 2° co- me sia possibile, anzi sia la sola soluzione legittima del problema, di giustificare, ricavandolo da un fine diverso, il pre- cetto morale, questa: di considerare la pretesa giustificazione come una rivalutazione sotto un rispetto diverso (edonisti- co o sociale o d'altro genere) di ciò che ha già un valore per sé, morale.  13 E non è, come tutti sanno. 17  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta servare che pur prescindendo da negazioni e contrasti cosí recisi, sull'accordo tra le persone ragio- nevoli sono da fare assai piú riserve che non paia a prima vista; appunto perché, dove il consenso abituale del costume e l'accordo delle opinioni accettate senza critica non sopraffà o non nasconde le divergenze, e soprattutto nel campo della vita interiore, queste sono assai maggiori che non si creda. Anzi si può dire che su certi campi l'accordo tra persone di tendenze e di indirizzi morali di- versi è raggiunto, non in grazia della ragione, ma nonostante la ragione, la quale se fosse rigorosa- mente applicata, richiederebbe un modo diverso di valutare e di giudicare l'azione. Il che viene a di- re che qui l'accordo c'è, non perché tutti sono ragionevoli, ma perché alcuni si dimenticano di esse- re, o credono di essere mentre non sono. ** * Nell'esempio allegato sopra si ha la prova di un giudizio di valore tenuto come contrario alla ragione, che appare conforme a ragione quando muti il criterio al quale si riconduce. Non meno, anzi piú significativo è il caso inverso, di principî tenuti come razionali che ces- sano di essere riconosciuti tali, se cessano di essere ammessi certi dati o postulati dei quali si sottin- tendeva che non potessero essere ragionevolmente negati. Di che l'esempio storico piú insigne e piú istruttivo è offerto da quei principî etico-giuridici che passano come il modello caratteristico di una costruzione puramente razionale. Anzi, su questa idea che la costruzione giuridica del secolo XVIII — della quale l'espressio- ne piú nota è la Dichiarazione dei diritti dell'8914 — sia una pura astrazione razionale, è fondata la critica ormai stereotipa che si ripete in nome del senso storico; mentre nella elaborazione e nella si- stemazione di quei principi ebbe la sua parte, e la adempì magistralmente, la ragione; ma non era e non è la ragione che ne pone la validità e ne fa sentire la giustizia. Il vero difetto della costruzione razionale non è di aver per soggetto l'uomo astratto in luogo dell'uomo storico (qualsiasi costruzione, non solo sistematica, ma anche storica, non può fare a me- no dell'astratto), ma è di aver assunto a fondamento della propria costruzione un astratto (l'uomo- ragione) insufficiente a reggere l'edificio che si voleva fondare su di esso. Infatti l'uomo-ragione supposto dal razionalismo non è soltanto ragione; è, insieme e impre- scindibilmente, nel concetto razionalistico, l'uomo che ammette certi principî, espressi o sottintesi, che sono incorporati e assorbiti, almeno nell'opinione comune, surrettiziamente e inconsapevol- mente nel concetto di uomo-ragione. Non si capisce la razionalità dei diritti dell'uomo e del cittadino, se non supponendo che sia un dato razionale ammettere che nessun uomo debba essere trattato come strumento della volontà altrui; cioè senza supporre il valore assoluto dell'uomo come tale, e il postulato giuridico corrispon- dente, dell'uguaglianza di diritti di tutti gli uomini. È in effetto per questo soltanto che ad ogni uomo in quanto cittadino15 sono riconosciuti di fronte allo stato tutti quei diritti che fanno scandalizzare Comte, sogghignare Marx e sorridere l'ho- mo historicus. Né si dica che il Nietzsche è finito al manicomio; ciò non proverebbe nulla: l° perché non è teoria solo del Nie- tzsche ma di molti: e divenne in veste politica, dottrina di un popolo o di una razza; 2° perché quando il Nietzsche la pensò non era pazzo; 3° perché anche se fosse stato pazzo, la teoria di un pazzo non è necessariamente una teoria pazza; 4° perché in ogni caso sarebbe da dire non che è irragionevole la massima, la quale, poste quelle premesse, è ragionevo- lissima, ma che è inumano, o ripugnante, o indegno, accettare una o l'altra delle premesse, o ambedue. 14 Ma è tutt'altro che l'unica perché fu preceduta, come è noto, non solo delle dottrine del liberalismo inglese, ma anche dai Bills of Rights dei diversi stati dell'Unione Americana. E quanto al luogo comune delle «Ideologie france- si» ha ragione il Janet, di rilevare che in un testo scolastico universitario inglese, «Philosophiae moralis institutio com- pendiaria», stampato a Glasgow nel 1742, di un autore tutt'altro che ignoto, l'Hutcheson, si parla come di cosa pacifica, venti anni prima del Rousseau, del patto primitivo degli uomini fra di loro, e dei sudditi col loro governo. 15 Un altro luogo topico che potrebbe senza danno essere lasciato in disparte, è quello che vede nei famosi dirit- ti l'affermazione estrema dell'individualismo e la tesi dell'individuo-fine e dello stato-mezzo. Mentre il riconoscimento di quei diritti esprime a parte singuli la garanzia della libertà individuale, ma esprime insieme l'ufficio fondamentale e preliminare di ogni stato: la tutela della giustizia. E combattere le violazioni della libertà e della giustizia, fatte in nome  18  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta Mentre, se si esclude quel supposto e si ammette che lo stato abbia un valore in sé superiore a quello della persona, o se si ammette che i diritti debbano essere subordinati alla cultura, alla po- sizione sociale, alla costituzione politica dello stato, quei diritti «naturali» non hanno piú nessuna ragione di essere riconosciuti come diritti. Ma il principio che la persona umana ha valore per sé e che non è giusto usare la persona come mezzo, è un postulato di valore (cosí come è un postulato di valore il principio che ogni uo- mo, in quanto soggetto di diritti, valga quanto qualsiasi altro); i quali possono essere assunti e pos- sono essere negati senza che chi li accetta o li nega cessi, per questo fatto dell'accettarli o negarli, di essere ragionevole, o diventi ragionevole se non era. Perciò non è da meravigliare che quando i postulati di valore impliciti in quella costruzione razionale del diritto sono messi in dubbio o negati, la costruzione debba sembrare campata in aria. Mentre non era campata in aria, e non è, per chi assume come soggetto di quei diritti un uomo che è dotato di ragione non solo, ma insieme di una certa coscienza morale e giuridica; la coscienza mo- rale e giuridica che si raccoglie nei detti postulati e si può dedurre da essi. ** * Questi postulati il razionalismo aveva torto di pensare che fossero impliciti necessariamente nella ragione, ossia di credere che «uomo ragionevole» volesse dire insieme uomo che accetta quei principî di valutazione. (Il che non vuol dire, si badi bene, che avesse torto nell'accettarli e nell'as- sumerli come degni di essere accettati). Ma se si ammette o si suppone che siano accettati, la costruzione razionale che se ne ricava, come dottrina dei rapporti etici e giuridici che governerebbero qualsiasi società umana, nella quale essi fossero sanciti come criteri supremi della condotta, in ogni sua forma — sia dei cittadini tra di loro, sia dei cittadini verso lo stato, e inversamente, sia degli stati fra di loro —, non solo non è ille- gittima, ma è la sola legittima. E il suo valore etico, giova affermarlo, sussiste, se c'è, qualunque possa essere la distanza che si osserva o si immagina intercedere fra uno stato conforme a quella esigenza ideale, e questa o quella forma di realtà storica e concreta. Anzi, per chi assume quell'esigenza come avente valore morale supremo, i doveri corrispon- denti all'attuazione e all'osservanza di quei rapporti saranno i doveri fondamentali precedenti in au- torità e in obbligatorietà ogni altra sfera di doveri, e i diritti correlativi esprimeranno i valori sociali e politici supremi indipendentemente da ogni giudizio sulla realtà e attuabilità delle forme ideali di Enti o di rapporti tra gli Enti cosí configurati16. Per converso, chi respinge questo postulato, non solo può, ma deve, ragionevolmente, nega- re ogni valore alla costruzione razionale corrispondente (sebbene avrebbe l'obbligo — in sede di di un preteso interesse della collettività e dello stato, non è negare l'interesse della Società, ma piuttosto difenderlo. Anzi l'homo ethicus del secolo XVIII è povero di contenuto appunto perché si esaurisce nei doveri del cittadino, cioè nei va- lori giuridici e politici, e dimentica o trascura i valori propri della vita personale interiore. Il che prova che sono lasciati nell'ombra non solo i fini propri dello stato (uffici positivi) ma anche i fini spe- ciali dei singoli; appunto perché domina e vince ogni altra preoccupazione quella dei fini comuni universali e fonda- mentali - così per la vita individuale come per la vita sociale - della libertà e della giustizia. 16 Chiamare la concezione ideale di una forma di diritto una astrattezza e usare questo termine a dispregio, non è esatto e non è giusto se non quando questa forma ideale sia concepita fuori dalle condizioni necessarie a farlo essere diritto. Nel qual caso sarebbe legittimo dire che il diritto ideale è un diritto impossibile, e sarebbe sciocco e vano conce- pirlo e parlarne. Ma un diritto ideale concepito nelle condizioni che sarebbero richieste a farlo sussistere come diritto positivo, non è piú astratto che un diritto positivo qualsiasi concepito nelle sue condizioni storiche. Salvo che nel secondo caso le condizioni esterne del diritto sono reali, nel primo sono possibili; nel concetto dell'un diritto l'idea delle condizioni che ne fanno o ne hanno fatto un diritto positivo, trova corrispondenza nella realtà, e nel concetto dell'altro l'idea delle con- dizioni che farebbero del diritto ideale un diritto positivo, non ha trovato o non trova più, in una forma storica di realtà, la sua corrispondenza.  19  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta morale — di chiarire quale postulato assuma al posto di quello che respinge, e quale sarebbe il si- stema etico-giuridico che ne discende). Ma commette una grossolana fallacia elenchi, quando pretende di confutare o condannare quella costruzione etico-giuridica in nome della realtà o della storia. Perché la realtà e la storia da- ranno la stregua della attuabilità dei rapporti prospettati nella costruzione ideale, ma non del valore di questi rapporti. ** * Cosí il razionalismo assume erroneamente come dati razionali dei postulati di valore e si il- lude di poter imporre in nome della ragione dei principi che non valgono se non supponendo accet- tati quei postulati che li giustificano: e lo storicismo si illude di togliere ogni valore alle costruzioni fondate su quei postulati dimostrando che la realtà storica è diversa da quelle costruzioni. Come se il riconoscere che gli uomini non hanno nelle condizioni di fatto eguali diritti, o che la società non è fondata sul contratto, o che non v'è diritto naturale, ma vi sono soltanto diritti positivi, equivalga a dimostrare: che non sia bene l'eguaglianza dei diritti; e che non possa essere apprezzata e apprezza- bile una società ordinata in modo tale da poter pensare che non sarebbe diversa se fosse costituita per contratto volontario di tutti i cittadini; o non possa essere piú desiderabile che abbia sanzione di diritto e valga come tale un ordine di rapporti conforme a certi criteri piuttosto che a certi altri. A risolvere queste questioni, il sapere storico non è competente. D'altra parte lo storico non potrebbe risolverle senza cessare di essere storico e diventare «moralista» o «ideologo», «reaziona- rio» o «rivoluzionario», «conservatore» o «riformatore». Perché non vi è altra via: O ricusa certi postulati di valore per assumerne altri diversi, pure di valore. O rinunzia, non solo a qualunque giudizio, ma a qualunque intervento della volontà uma- na nella storia, cioè nella produzione degli eventi umani. Perché ogni azione umana, cioè consape- vole e volontaria, implica una direzione verso un risultato che si giudica preferibile tra i possibili, cioè implica una scelta, e quindi una valutazione. Tanto nel «razionalismo» quanto nel «realismo» o «storicismo», i criteri di valutazione pos- sono bensí essere ricondotti a un postulato di valore, ma questo postulato non è posto dalla ragione né è dato dalla realtà17. Approvarlo o disapprovarlo, ammetterlo o respingerlo, non vuol dire né rispettare o rinnega- re la ragione, né riconoscere o misconoscere la storia; avere o non avere senso storico. Il che è la prova piú manifesta che non è un dato della ragione il postulato di valore a cui si riconduce l'esi- genza espressa nella dottrina del diritto razionale, come non è un dato della storia il postulato, pure di valore, a cui si riconduce l'esigenza implicita nella dottrina del diritto storico. ** * Resta da osservare al nostro proposito per quel che riguarda il razionalismo etico-giuridico, come da questa illusione che l'universalità della ragione volesse dire anche universalità di consenso nei postulati valutativi incorporati surrettiziamente in essa, derivò l'errore di credere che potesse ba- 17 A questa differenza fondamentale tra valutazione e giudizio storico, è da ricondurre, a mio giudizio, la que- stione del rapporto tra Spirito rivoluzionario e senso storico, di cui tratta dottamente e sottilmente il Mondolfo in un ar- ticolo del «Nuova rivista storica» (anno I, fasc. III). Il rivoluzionario (come del resto ogni innovatore di grandi o anche di piccole cose, anzi ogni uomo di iniziati- ve) è, o si pone, fuori della storia in quanto valuta, cioè giudica e opta per un ideale; (anche se questo ideale è un pro- dotto storico, non è perché è un prodotto della storia che è stimato desiderabile, preferito e voluto). È nella storia e deve aver senso storico in quanto è uomo politico, cioè vuole agire sulle condizioni presenti nella direzione voluta. Insomma: in quanto sceglie tra diverse direzioni concepite come possibili (cioè come tali da potere essere favo- rite e contrastate dalle nostre azioni), non è nelle storia, se non in quanto sono nella storia e della storia le sue stesse ide- alità morali. In quanto si rende conto della realtà sulla quale vuole agire e del modo col quale la sua azione può inserirsi efficacemente su tale realtà, è nella storia.  20  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta stare per fare accettare questi postulati «illuminare» le menti, dissipare «i pregiudizi», ragionare; come è nata per contrasto l'illusione inversa che per respingere le applicazioni, le «conseguenze pra- tiche» di quegli stessi postulati e dei criteri che ne derivano, non ci fosse altra via che di far tacere la ragione o screditarla e dare a lei la colpa, non solo delle conseguenze, che essa secondo l'ufficio suo veniva svolgendo e costruendo in sistema coerente, ma degli errori e delle violenze commesse da quelli che smentivano con l'opera i principî o li applicavano a rovescio, e piú spesso senza cono- scenza degli uomini e delle cose, cioè senza tener conto della realtà concreta e della storia. E cosí si passava da una ragione fatta soggetto di meriti non suoi, a una ragione fatta oggetto di biasimi non meritati. Ma la ragione è al di là di quei meriti, e di questa imputazione. La ragione ha un compito inestimabile; necessario, anzi imprescindibile, ma arduo e non fi- nito mai; di costruire incessantemente l'unità della persona; l'unità dell'uomo teoretico, l'unità del- l'uomo pratico e l'unità (a cui bisogna pur mirare, come miravano gli antichi) dell'uomo teoretico con l'uomo pratico. Ha un ufficio di continua eliminazione e ricostituzione; un ufficio nella vita spi- rituale della persona analogo, direi, a quello che ha nella vita fisica la circolazione del sangue. Ma non si può pretendere di ricavare da essa il principio dell'esistenza, ossia il dato o i dati attorno ai quali si possa affermare la realtà obbiettiva di ciò che è oggetto del sapere; né si possono trovare in essa, o ricavare da essa i criteri sui quali si fonda la valutazione e attorno ai quali la ragione unifica i giudizi di valore. Come non dà essa la certezza dell'esistenza, cosí non dà essa la coscienza del valore. 21  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta CAPITOLO SESTO RAGIONE E LEGGE Resta un'ultima via, la terza (vedi Cap. II); la piú audace e radicale. È la ragione che pone la legge morale; ma perché la ponga non è necessario che ricorra a nessun dato o principio materiale, sia stabilito o fondato su verità di ordine teoretico o dimostrabili o evidenti per sé, sia cercato in un fine a cui possa ricondursi il contenuto della legge. È la esigenza razionale che si pone come legge, senza che a costituirla sia necessario fare appello al valore di qualche oggetto o risultato dell'azione e dare a quel qualsiasi contenuto materia- le che venga assunto dalla legge, un valore morale pur che sia, all'infuori da quello che gli viene dalla forma di legge che lo impronta. È, come ognun vede, la tesi di Kant, che è non solo la piú vigorosa, ma la sola veramente ri- gorosa del razionalismo morale. La prima delle vie indicate (Cap. II), quella del platonismo, e in modo particolare quella dei platonici della scuola di Cambridge, riconduce la morale alla ragione perché la riconduce a principi teoretici di cui si crede che la ragione dimostri la verità o faccia rico- noscere l'evidenza: la certezza morale è razionale perché è razionale (o è assunta come tale) la cer- tezza teoretica. È, si può dire, veramente, un intellettualismo morale. Per Kant invece, non solo i principi pratici non si fondano su dati teoretici; ma è soltanto nell'uso «pratico» che la ragione può varcare i limiti del fenomeno, e affermare del noumeno ciò che è conforme all'esigenza della morale, ciò che la ragione postula per il suo bisogno pratico. E i postulati pratici sono veramente, non postulati etici, ma postulati metafisici affermati sul fondamento dell'esigenza etica. Or dunque l'esigenza razionale che è esigenza formale di una legge in generale, in morale è esigenza della legge, di quella legge che è essa la sola razionalmente necessaria. ** * Ma essendo incontrastato per Kant questo punto, sono possibili sul rapporto della forma e della legge col contenuto tre soluzioni: I. O si può intendere che la legge morale è una forma senza nessun contenuto; cioè che la forma dà il valore morale alla legge e il criterio per osservarla e praticarla, senza che occorra una qualsiasi determinazione del contenuto. II. O si può pensare che occorre bensì un contenuto che si adatti a quella forma, che sia su- scettivo di assumerla o di esserne investito; ma non importa che esso sia tale piuttosto che diverso. Insomma: è necessario un contenuto, ma è indifferente quale esso sia, purché possa essere contenu- to di quella forma. Non è perciò escluso a priori che possano essere piú, fra di loro diversi. III. Si può pensare che la forma razionale, la forma della legge morale conviene a un solo contenuto, quel contenuto che si concreta appunto in relazione con quella forma. Ossia, che l'esi- genza razionale basti a determinare univocamente il contenuto della legge18. La prima interpretazione che sembra la piú semplice e sulla quale s'è fatto un gran discutere, è insostenibile, perché si risolve in un circolo vizioso, dal quale non è possibile uscire in nessun modo. 18 Forse a queste tre interpretazioni, teoricamente possibili, si può trovare che corrispondano le tre formule note dell'imperativo kantiano; corrispondano almeno nel senso che ciascuna delle tre si avvicina di più rispettivamente a una delle interpretazioni possibili che alle altre due. Così la prima formula (dell'universalità) sembra rendere possibile la prima interpretazione. La formula (terza) dell'autonomia del volere come principio di tutte le leggi morali e dei doveri conformi ad esse, pare che possa convenire alla seconda interpretazione. E finalmente la seconda formula (tratta la per- sona umana come fine, ecc.) pare che risponda meglio alla terza interpretazione di un contenuto determinato inequivo- cabile.  22  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta Quella stessa illustrazione kantiana che sembra legittimarla mette capo a una formula, che fu bensì intesa spesso e trattata come puro criterio dell'universalità sic et simpliciter (la possibilità di concepire la massima come legge universale dell'operare), ma che, nei termini precisi in cui è e- spressa, implica di necessità il riferimento a un qualche contenuto senza del quale mancherebbe o- gni possibilità di adoperarla come norma di quell'operare del quale vuole esprimere l'obbligatorietà. Secondo quella formula, il criterio per giudicare della bontà della massima è che io possa volere che valga come legge universale. Ma io posso volere che una massima valga universalmente, soltanto quando, o meglio, se, la massima cosí universalizzata non contraddice al mio Volere puro, alla Ragione, cioè (che è tutt'uno) al Volere morale; alla legge, dunque, che fa morale il mio volere; il che viene a dire che una massima è morale quando è conforme alla legge del volere morale, ossia quando è conforme alla legge morale. Il valore morale dell'azione si giudica dalla possibilità che la massima sia voluta come legge, ma questa possibilità di essere voluta come legge, si riconosce dall'accordo della massima con quel- la legge morale della quale non è dato altro carattere che l'universalità, e altra applicazione che cer- care se il modo di operare corrispondente si possa universalizzare in massima. Che il riferimento a un contenuto sia anche nel pensiero di Kant necessariamente implicito nel criterio, appare poi mani- festamente, non dico dagli esempi, ma da una chiosa che non si capisce se non a patto di ritenerlo ammesso in modo espresso o sottinteso. A proposito del quarto esempio della Fondazione (il bra- v'uomo che non fa male a nessuno ma bada ai fatti suoi e non si cura d'altro) chiosa il Kant in forma decisiva: «quantunque sia possibile che esista una legge universale della natura conforme a tale massima, è impossibile di volere che un tale principio valga come legge della natura». Ma perché è impossibile? Manifestamente perché il Volere razionale vuole già qualchecosa che è incompatibile con ciò che è espresso dalla massima «ciascuno per sé» (la quale tuttavia è pos- sibile che esista come legge universale della natura); vuole qualchecosa che ogni uomo come essere ragionevole vuole necessariamente. Insomma, il criterio dell'universalizzazione vale in quanto è possibile confrontare la legge, a cui darebbe luogo la massima se valesse universalmente, con una certa legge che abbia una qualche determinazione, cioè un contenuto. Senza questo riferimento, questo ubi consistam della volontà, non è possibile sapere se la massima dell'azione19 abbia o non abbia i requisiti necessari, perché si possa volere che valga come legge universale. ** * Con ciò il pensiero di Kant sembra escludere non soltanto la prima, ma anche la seconda in- terpretazione (che la forma razionale possa convenire a piú di un contenuto, cioè che possano pre- sentarsi come leggi morali, modi di valutare o sistemi di norme fra di loro diversi); e ammettere che a dare all'esigenza razionale sussistenza effettiva di legge, determinazione di oggetto che la renda applicabile, non sia adatto che un solo ed unico contenuto; e che la legge voluta dall'essere ragione- vole, non possa essere che quella certa legge. Che questo sia veramente il pensiero di Kant credo sia indubitabile, né importa insistervi qui. Piuttosto è necessario rilevare come questa pretesa di deter- minare la legge, quella legge soltanto in funzione della forma, possa parere possibile e legittima finché è sottinteso o ammesso che la legge morale deve essere universale non soltanto nella forma, ma anche nel contenuto; e che perciò le massime in discorso sono soltanto le massime di quel certo operare che ne resta quindi determinato in modo univoco. E cosí il criterio dell'universalizzabilità coincide praticamente con quel contenuto di cui si sa già e si ammette riconosciuto universalmente 19 E va da sé che anche l'azione, di cui si vuole saggiare a questa stregua la massima, deve avere un contenuto che la fa essere quella azione, conforme o disforme da una massima. Se no, non si può parlare di massime dell'operare, anzi neanche di un'azione qualsiasi.  23  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta il valore, di cui quindi si sa che è impossibile volere che valga come morale una massima che lo ne- ga20. Adunque questa impossibilità non sorge dall'esigenza razionale se non in quanto questa e- sigenza si trova essere l'esigenza di un essere ragionevole, che è insieme una volontà che vuole cer- ti valori; o piú chiaramente ancora questa impossibilità non emerge necessariamente dalla ragione, ma dalla natura dell'essere ragionevole; la quale natura è ragione, ma è insieme un volere che vuole ciò di cui la ragione formula la legge. Ora, se si suppone che quel Volere non ponga come assoluti e supremi quei valori, cessa o- gni ragione di volere quella legge piuttosto che un'altra, e quindi è tolta ogni impossibilità di volere che valga come legge una massima che è incompatibile con questa. Adunque, posto che un volere non voglia quei valori e ne voglia altri, cessa questo Volere di essere il Volere di un essere ragione- vole? Cessa di essere un Volere ragionevole quello che riconosce l'esigenza di porre e di osservare la legge che ordina e unifica le massime della condotta in conformità a quegli altri valori che esso riconosce come morali? Non è anche in questa ipotesi salva l'esigenza razionale? ** * Questa ipotesi (che la realtà della coscienza morale contemporanea prova, come s'è visto, non essere pura ipotesi), conferma in concreto quel che l'analisi della formula rivela inoppugnabil- mente: che il dato iniziale, originario o primario della legge morale è presupposto dalla ragione, non posto; presupposto come oggetto o contenuto di una Volontà la quale è bensì razionale in quanto pone a sé come legge la norma dell'operare corrispondente; ma non è né razionale né irrazionale in quel che riguarda la posizione di quei valori primari, che costituiscono il terminus ad quem dell'o- perare, l'oggetto della volontà, attorno al quale l'esigenza razionale stringe la condotta in unità coe- rente di legge. ** * A una conclusione del medesimo genere riesce per altra via la difesa che del formalismo kantiano fa il Martinetti in una sua memoria densa e vigorosa21 nella quale egli si sforza di salvare il carattere formale della legge pur riconoscendo la necessità di un contenuto; e lo salva facendone la forma, non di un contenuto sensibile, ma di un contenuto soprasensibile. Ma questa soluzione urta contro nuove difficoltà inerenti alla concezione di questo fine tra- scendente o di questo mondo soprasensibile che è l'oggetto proprio della legge morale. Perché delle due l'una: O si ammette che di questo mondo soprasensibile non possiamo af- fermare altro, se non appunto questo: che esso è il mondo nel quale trova piena attuazione la legge morale, il mondo nel quale la legge morale vale come legge naturale, senza che se ne diano altre de- terminazioni di sorta. Ovvero questa realtà ha altre determinazioni, attua un certo ordine di rapporti, 20 Mi sia lecito riferirmi per la chiarezza a uno degli esempi di Kant. La ragione per la quale non si può volere erigere a massima universale il principio che chi è stanco della vita può uccidersi (1° esempio), non è già che sia impos- sibile concepire seguita una tal massima universalmente (non c'è nessuna contraddizione intrinseca nel pensare che tutti quelli che sono stanchi della vita si uccidano); e neanche che non sia possibile a una volontà che vuole una legge - ma che sia indifferente per ipotesi ai valori morali, e apprezzi sopra ogni cosa il piacere o la liberazione del dolore - volere che valga universalmente. (È così possibile che, come tutti sanno, non mancò chi la praticasse e la predicasse anche tra i filosofi). Ma è impossibile che voglia una tal legge chi ammette la superiorità dei valori morali. Ossia l'irrazionalità del- la massima emerge, non da un'impossibilità intrinseca della massima e neppure dalla impossibilità di sussistere di un Volere che sia indifferente a certi valori, ma dal suo contrasto con un Volere che riconosce la superiorità di certi valori (morali) sugli altri (egoistici); e quindi non può volere che valga come legge una massima che smentisce questa superio- rità. 21 Sul formalismo della morale kantiana estratto dalla Miscellanea di studi pubblicata per il cinquantenario del- la R. Accademia scientifico-letteraria di Milano. Inserito poi in Saggi e Discorsi, Libreria Editrice lombarda, Milano, 1929.  24  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta che non possiamo conoscere speculativamente, ma di cui possiamo tuttavia essere certi e affermare e riconoscerne la perfezione, la bontà, il valore. Se si ammette la prima tesi, l'affermare una realtà soprasensibile di cui non possiamo dir al- tro se non che è il contenuto della forma morale, non ci dice in che consiste questo contenuto, e non ci fa uscire da questa forma. Dice che vi è un mondo conforme alla legge morale, ma non dice quale sia, come sia fatto questo mondo. Non ci illumina dunque, su questo punto, piú di quel che valga a far capire quali sono le disposizioni di una legge, il pensare che questa legge sia perfettamente os- servata. Per uscire davvero dalla forma e da questo circolo vizioso di un mondo di cui non si sa altro se non che è governato dalla legge morale, e di una legge morale che ha valore perché è la legge di quel mondo, bisogna dunque attenersi alla seconda tesi; la quale, come pensa il Martinetti, e come io credo, risponde veramente al pensiero di Kant, se non come si mostra punto per punto nelle stret- toie della sua esposizione, come risponde all'intento fondamentale che anima la sua dottrina del primato della ragione pratica e piú chiaramente ancora al proposito esplicitamente ammesso da lui nella prefazione alla seconda edizione della Critica della Ragion pura22. In realtà «l'uso pratico» della ragione consiste nello spalancare all'esigenza morale quelle porte della metafisica che sono chiuse alla speculazione teoretica; nel lasciar libero alla fede il cam- po del soprasensibile vietato alla conoscenza; nell'ammettere, se vogliamo usare espressioni corren- ti, piú che il diritto la necessità di credere, la necessità «razionale» di ammettere quel che la ragione, in quanto è garanzia di certezza teoretica, non può né dimostrare né affermare; di oltrepassare — per rendersi conto della possibilità del dovere — il campo dell'esperienza sensibile e postulare l'esi- stenza di una realtà che trascende l'esperienza. Ma questo ufficio pratico sarebbe senza frutto23, se una certezza diversa dalla scientifica, ma non minore, non potesse valicare quelle porte del soprasensibile che la ragione apre soltanto all'esi- genza morale, ma apre per lei e in nome suo. Sulla soglia del soprasensibile la ragione sembra dire all'esigenza morale quel che Virgilio a Dante all'entrata del Paradiso terrestre: «...Se' venuto in parte Ov'io per me piú oltre non discerno». Ma la fede fondata sull'esigenza morale entra e procede sicura in questo mondo, dinanzi al quale la conoscenza si arresta. Come se venuta meno ogni luce dal di fuori, questo mondo si illumi- ni della luce che la certezza morale accende in sé e sprigiona da sé e diffonde attorno a sé in quello che è il suo regno. È questo mondo soprasensibile l'oggetto del Volere razionale, la realtà di cui la legge morale è la forma. Il contenuto sensibile al quale nel mondo dell'esperienza si applica la legge, non ha valore per sé, ma perché e in quanto partecipa di questa forma che è forma di una realtà superiore alla qua- le la realtà inferiore deve essere subordinata. ** * 22 Il concetto dominante di questa prefazione (che è da raccomandare all'attenzione di quanti credono che la soluzione dei problemi morali sia un corollario di dottrine speculative) si può considerare riassunto in questa, che direi confessione caratteristica: «Ich musste also das Wissen (si intende, del mondo soprasensibile) aufheben um zum Glau- ben Platz zu bekommen» (Kritik der reinen Vernunft. Vorrede zur zweiten Auflage, ed. Cassirer, vol. III p. 25). 23 Nella prefazione citata, a proposito della limitazione che la critica della ragion pura porta alla ragione specu- lativa negandole la possibilità di una conoscenza del soprasensibile, Kant nota che il «vantaggio d'una metafisica così purificata» non è soltanto negativo ma anche positivo perché permette l'uso pratico della ragione. E osserva con un pa- ragone assai significativo che negare «a questo servizio della critica il vantaggio positivo sarebbe come dire che la poli- zia non dà nessun vantaggio positivo perché il suo compito principale è soltanto di tenere in freno la violenza; affinché ciascuno possa attendere ai suoi affari tranquillo e sicuro» (ib., pag. 23; il corsivo è mio).  25  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta In questa interpretazione24 il termine di paragone c'è, il Volere razionale ha un oggetto, il circolo vizioso — del valore di una legge che si rimanda a un contenuto e del valore di un contenuto che si rimanda a un Volere che vuole la legge — è rotto. Ma è facile vedere che il dato primo a cui la costruzione valutativa si appoggia, è il valore di questo mondo soprasensibile postulato dalla ragione in nome della esigenza morale; ma che appun- to per ciò non è un dato della ragione, ma della certezza morale. E l'affermazione della realtà di quel mondo è riconosciuta legittima, perché la sua esistenza è richiesta da questa certezza. Qui è an- cora, per Kant, la Ragione che riconosce la legittimità della postulazione metafisica; ma la ricono- sce in quanto accetta come incontestabile la certezza morale; la quale è certezza di valori, non evi- denza razionale. ** * Cosí adunque anche la tesi della trascendenza della legge morale implica accanto alla esi- genza razionale un oggetto della Volontà, un ordine di valori, un dato valutativo irreducibile alla pura razionalità e che trae la sua validità d'altronde. Quale ne sia la sorgente, non si può cercare u- tilmente in breve, e non è facile; forse la sua origine è in quella stessa attività volontaria nella quale bisogna cercare la fonte della credenza in una esistenza obbiettiva del mondo. La volontà è direzione ed è forza. In quanto è forza, e si esercita come forza e si rivela come sforzo (il quale richiede e suppo- ne una resistenza) è il dato irreducibile della credenza in una realtà obbiettiva distinta dal soggetto. In quanto è direzione, cioè scelta, cioè azione in vista di un risultato, è il fondamento irredu- cibile dei giudizi primari di valore, i quali esprimono le direzioni originarie della volontà, delle qua- li acquistiamo consapevolezza attraverso le forme fondamentali del sentimento. 24 Non è il caso di cercare qui se e che cosa il Martinetti abbia messo di suo e di postkantiano nella sua inter- pretazione, né di vedere se e fino a che punto il fondo mistico del pensiero di Kant si accordi con la dottrina che do- vrebbe sottrarlo ad ogni pericolo. Qui basta notare la difficoltà radicale in cui vengono a cadere le soluzioni del mede- simo genere. La quale è inerente al modo di concepire il rapporto tra il contenuto sensibile che, per essere applicabile alla realtà empirica, la legge morale deve pure assumere, e il mondo sovrasensibile che è l'oggetto proprio della legge morale, quello che ha valore per sé e dà valore di simbolo o di partecipazione (qui ritornano i dubbi del platonismo) al contenuto sensibile. Infatti delle due l'una: o si ammette che il contenuto atto a farsi suggello di quella forma, differisce da un con- tenuto diverso oltreché per il valore formale (nel quale si esaurirebbe il valore morale), anche per un valore di altro ge- nere. E allora vi è luogo a cercare se vi sia o no una connessione necessaria, intrinseca tra questo suo valore specifico e il valore formale; e in ogni caso si riconosce che il contenuto sensibile della legge morale ha un suo valore proprio che sussiste ed è riconosciuto anche all'infuori dell'impronta formale. O si ammette che questo contenuto sensibile non ha nessun altro valore, cioè è per sé indifferente; che ciò che la legge morale comanda non vale, per rispetto a questo mondo empirico, di più di ciò che essa vieta, cioè se non fosse questo riferimento a un mondo superiore non vi sarebbe nessuna ragione di anteporre un modo di operare ad un altro; e le difficoltà si moltiplicano. Per lasciare le intrinseche e più sottili, basti rilevare qui da un punto di vista diciamo pure «profano» la stra- nezza quasi ironica del contrasto tra la soluzione del problema e l'intento che la esprime. Perché nell'atto di affermare l'esigenza di una osservanza incondizionata della legge morale si nega ogni valore intrinseco a ciò che la legge coman- da; e mentre si dà alla legge un'autorità incontrastabile perché trascendente qualsiasi valutazione empirica, si toglie ad essa ogni ragione di venir applicata (e se si guarda bene ogni possibilità di applicazione) a quel mondo sensibile di fron- te al quale deve essere fatta valere questa sua autorità. Infatti, togliendo all'operare ogni valore, che dipenda dalla direzione verso un fine empirico qualunque esso sia, non resta a costituire la moralità, cioè la bontà del volere, che questo affisarsi nel mondo soprasensibile, questo ten- dere a una realtà trascendente, nella quale consiste ogni valore. Ma questa soluzione non isfugge a quella singolare commistione dì forza e di debolezza che è caratteristica di ogni morale rigorosamente mistica: forza, in quanto è intui- zione, atto di fede, certezza interiore inespugnabile; debolezza, in quanto voglia farsi deduzione ragionata di valutazioni empiriche. La quale urta nella impossibilità di stabilire logicamente, ossia dimostrare discorsivamente, una relazione necessaria tra la condotta che deve valere come morale nel mondo sensibile e quel mondo soprasensibile che ne costi- tuisce l'oggetto e il termine; di superare un distacco logico del genere di quello accennato sopra [Cap. I § 3°] tra il crite- rio usato a determinare le norme di quella condotta e l'ordine di valori invocato a giustificarle.  26  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta L'intento di Kant di liberare la legge morale da ogni mescolanza e contaminazione «patolo- gica» di sentimenti, di inclinazioni, di tendenze — che si traduce in isforzi laboriosi ed ingegnosis- simi ma vani — forse non sarebbe stato proseguito con cosí risoluta tenacia se il Kant, meno preoc- cupato dal preconcetto (alimentato dalle dottrine eudemonistiche del tempo) che ogni forma di sen- timento e qualsiasi genere di fini, sia inevitabilmente soggettivo, relativo, interessato, fosse stato di- sposto a riconoscere che vi possono essere forme universali di valutazione intrinseca, cosí come vi sono forme disinteressate e universali di sentimento.  JVALTA, ERMINIO     JL M -jf, É..^ M...^ •     IL METODO  DELL'ECONOMIA     PLACE:     BIZZONI     DATE:     1907     COLUMBIA UNIVERSITY LIBRARIES  PRESERVATION DEPARTMENT   RTRTìOnRAPHIC MICROFORM TARGET     Master Negative #     Originai Material as Filmed - Exisling Bibliographic Record     r     .170   hi   V.2     ■ I l ■! ■ ■' I < I»     ■■ ■<■ '     » ■ " ' > t     mm'mm'^^mmt^i^n     <9 I tli i n     Juvalla, ]]r]iiiìio   Il netoilo doll'econonia pura noli 'etica. Pavia.  Dizioni, 1907. •   ?:ì p. 24 cn in ZG}: cn.   At head of title: E. Juvalta.   Estratto dalla Rivista filonofica, novcnbre-di-  cenbre 1907 •   VoluiTio of poinplilets     Restrictions on Use:     FILM SIZE: ZS^I^     TECHNICAL MICROFORM DATA     REDUCTION RATIO:     //x     IMAGE PLACEMENT: lA fllM IB IIB     DATE FILMED: J^mAj-_ INITIALS_?5_   HLMEDBY: RESEARCH f UBLiCATIONS, INC WOODBRIDGE. CT      e      Association ffor Information and Imago Management   1100 Wayne Avenue, Suite 1100  Silver Spring, Maryland 20910   301/587-8202      Centimeter   1 2 3   iiiiliiiiliiiiliiiiliiiilmilii     4 5   iliiiiliiiilii     6 7 8   iiliiiiliiiiliiiiliiiilii     10     11     12 13 14 15 mm     I I I I I I TTTTtTTTTTTTTTiTTTTi     r^TTj     Inches     1     ' ' I ' ' ' '     LO     LI     1.25     163     [ 2.8  3.2   4.0     I&     1.4     2.5     2.2     2.0     1.8     1.6      MRNUFfiCTURED TO PIIM SinNDfiRDS  BY RPPLIED IMRGE, INC.      "l^ \     r         là     E. JU YALTA     i^^j     ' \%\MA^<^^^     'A     \ -.r:        f      f     NELL' ETiea     lì       Ì\     PAVIA   PREMIATO STABILIMESTO TIPOGRAFICO SUCC. BIZZOSI  Corso Vittorio Em.inuele — Telefono 92   1907.     /     \^'     DELLO STESSO AUTORE     Ip^rolegomeni a una /Ifòoiale     f i * *     \^ I, ^%, i^     balla /Iftetatisica     Pavia - SUCCESSORI BIZZONI - L. 1. 50     Ì4-     Vi     iC^osstbilttà e i Ximtti     bella /Iftorale come Sciensa     I. —     II.  III.     La Dottrina delle due Etiche di H. Spencer e la Morale come  Scienza.   - Per una Scienza Normativa Morale.   - Il Fondamento Intrinseco del Diritto secondo il Vanni.   Un Volume in 8° - L. 3, 50     Toi-itio - I^RATELLI BOGGA — Torino   - 1907 -     É. 3uvalta     SI        I     ,%         w     NELL* ETiea       )     I   I   f      '^ >i     PAVIA   PREMIATO STABILIMENTO TIPOGRAFICO SUCC. BIZZONI  Corso Vittorio Emaniu'e — Telefono 92   1907.     ')     («|W*MB*«W%i»'SSS-»»lBiS«M«»«!.<f.     IL moo OEUECfliiOMm mi. mrmu     (1)     /,'     «"iJi!     hypotheses fingo.     ;i ì     I.     L'Economia Pura assume, come è noto, l'ipotesi che  gli xwmiìii nel produrrCy consiunare, distribuirsi e far  circola-re la -ricchezza siano 7nossi esclusivameìiie dal  desiderio di coyisegiiire la maggior possibile soddisfa-  zione dei loro bisogni mediante il minore possibile sa-  crifizio individuale. Alla costi-uzione deduttiva, che se ne  ricava, dei teoremi economici, ossia delle leggi della condotta  àeW Jiomo oeconoìnicus, è indiffei-ente la questione se il  postulato edonistico esprima vei'amente una condizione di  fatto; ossia se l'ipotesi — da cui si deduce ogni verità  economica — coincida o diverga ed in quale misui-a dai  motivi che effettivamente determinano le azioni umane '^2);  come è indifferente qualsiasi valutazione che e del postulato  assunto, e della condotta óeìV uomo econo77iico, e degli ef-  fetti di questa condotta, si possa fare da un punto di vista  morale.   In effetto il giudizio sul valoi-e di giustizia o di bontà  del motivo economico e delle leggi che ne discendono, variò,   (1) Fa parte degli Atti del Congresso Filosofico di Parma, al quale do-  veva essere presentato coi titolo più generale : € Condizioni e limiti di una  trattazione scientifica dell' Etica ».   (2 Cfr. Pantaleoni. — Principii di Economia Pura. - Capo I e li.      ^■     -il     \-     f     V     l\     \-     IL METODO dell'economia PURA XELl'eTICA     come tutti sanno, da un illimitato ottimismo al pessimismo piir  radicale; e il giudizio sulla coii'ispondenza delTipotesi colla  realtà varia del pari, da quelli che riconoscono nel motivo  assunto l'unico motivo di tutta quanta l'attività umana, a  quelli che lo considerano come uno dei fattori, non l'unico,  nel campo stesso dell'economia; i quali, appunto perchè  l'economia cosi intesa studia soltanto l'azione di un fat-  toi'e, isolato per asti-azione dal complesso degli altri la cui  efficacia si esercita in realtà simultaneamente, non ricono-  scono alle sue leggi che un valore ipotetico, correlativo al  cai'attere ipotetico dell' uomo economico e dello Stato eco-  nomico.   Ma qualunque sia cosi l'uno come l'alti'O giudizio, il  carattere scientifico della costruzione deduttiva rimane in-  contestabile. Nella misura che la corrispondenza colla realtà  psicologica è inadeguata, si dovrà riconoscere l'arbitrarietà  del postulato, e della costruzione che ne dipetide, in quanto  pretenda di porsi come scienza della realtà ; e a secoruìa  che si ammette o si nega che il postulato abbia valore  morale, si ammetterà o si negherà valore morale alla di-  sciplina precettiva che se ne volesse ricavare. Ma in ogni  caso restano incontestati questi due punti: 1.* che la ri-  cerca intorno alla corrispondenza colla realtà psicologica  e storica del motivo economico e delle condizioni nelle  quali si suppone che agisca, è diversa e distinta dalla co-  struzione deduttiva dei teoremi economici ; la quale è va-  lida, 7iei limiti dell' ipotesi, sempre, qualunque sia il grado  di questa corrispondenza. 2° Che qualsiasi indagine valu-  tativa del postulato, e delle leggi, e degli effetti sia pros-  simi sia remoti che ne derivano o ne deriverebbero, è pa-  rimenti distinta, ed estranea alla costruzione scientifica     il metodo dell'economia pura nell'etica 6   <iometale; la quale rimane la medesima tanto se il motivo  economico è considerato come morale quanto se è tenuto  come immorale, o amorale, e quali che siano le ragioni  di questa valutazioue.        Supponiamo ora che il postulato edonistico sia ricono-  sciuto universalmente e accettato come postulato morale.  E chiaro che la disciplina precettiva derivata o derivabile  dall'economia pura avrebbe valore e carattere di precet-  tistica morale; sia che il valore morale del motivo econo-  mico fosse accettato per se come un dato primo e imme-  diato, sia che venisse derivato, ossia giustificato alla sua  volta, da un fine o da una esigenza ulteriore; e qualunque  fosse questa ulteriore giustificazione.   E opportuno su questo punto un breve chiarimento.  Nella supposizione ora fatta che il valoi'e morale <iel  motivo economico sia universalmente riconosciuto, non è  in alcun modo implicita l'aff'ermazione che sia riconosciuto  da tutti per la medesima, o per le medesime ragioni. Si po-  trebbe ammettei'e che esso si fondi per alcuni sulla legitti-  mità, senz'altro ammessa dell' « egoismo individuale » o del-  l' < egoismo di specie )>'come regola di condotta; da altri  sul cai-attere atti-ibuito alle leggi economiche di leggi na-  turali e necessarie e non modificabili dalla volontà del-  l'uomo; da altri sopra una interpretazione ottimistica delle  leggi stesse o degli effetti o risultati che l'osservanza piena  ed universale di esse produce o tende a produrre. E si pò-  irebbe del pari ammettere che V ordine di relazioni con-  forme al principio economico sia considerato come provvi-  denziale o divino e si riversi su di esso il prestigio e l'au-  torità di sentimenti e di credenze religiose o metafìsiche.        ^F^ ''fHli^i 'rfwff-'^ * ^" ' '''1*11:1 1 1. " *"••• " "• '' ""r"'- '     . rt5i» i n     •MM*.     .;4ih,»»>fa     ^'^^     ì     G     TI. METODO dell'economia PURA XELl'eTICA     A     Anzi si può affermare a priori che questa ulteriore giu-  stificazione o valutazione, dato che si faccia, sarà diversa  per le diverse coscienze a seconda delle opinioni religiose o  filosofiche diverse sulla «latura e sul fondamento della   moralità.   E tuttavia il valore morale della massima conforme al  motivo economico e delle norme che ne dei'ivano potrebbe,  nella disciplina precettiva supposta, essere legittimamente  assunto come un dato di fatto e trovare in questo la sua  giustificazione immediata, astrazion fatta dalla diversità  delle ulteriori valutazioni.   E in questo caso si avvererebbero le seguenti condi-  zioni :   1.0 Rimane fuori di discussione il carattere scien-  tifico della costruzione e della disciplina precettiva che se  ne ricava, il quale è dato dalla validità logica delle con-  clusioni, cioè dal rigore col quale sono dedotte dal po-  stulato.   2.° Rimane del pari fuori di discussione la elettiva va-  lidità inorale del postulato il quale è, per ipotesi, ricono-  sciuto universalmente conforme all'esigenza morale.   3.° Questa validità morale del postulato (e del sistema  di norme che ne dipende) sussiste così se il detto ricono-  scimento sia concepito indipendente, come se sia concepito  dipendente da un' ulteriore motivazione, e in questo caso,  qualunque sia il fondamento ultimo di questa valutazione   ulteriore.   E resterebbe perciò distinto dal campo della costruzione  deduttiva il campo delle indagini intorno alla natura e al  fondamento dell' esigenza morale, e intorno alle condizioni  soggettive della sua validità e della sua efficacia : ossia il  campo «Iella ricerca propriamente filosofica o metafisica e     IL METODO DELl'eCOXOMLV PURA XELl'eTICA 7   quello della ricerca propriamente psicologica e, nelle sue  applicazioni, pedagogica.   Ma, (,ui' avverandosi queste condizioni, anzi appunto per   il loro avverarsi, la costruzione scientifica in discorso non   potrebbe tuttavia sfuggii-e alle due limitazioni seguenti :   a) Non poti-ebbe dirsi la scienza della condotta morale,   ma la scienza della condotta richiesta da an ceì'to motivo   inorale (quello di cui si è ;H)stulata come un dato di fatto   la conformità all'esigenza morale). Perchè rimai'rebbe sempre   da risolvere la questione; se quel motivo esaurisca tutto   il contenuto dell'esigenza morale, o questa non comprenda   altri motivi irreducibili ìì (|uello ; e quindi se le norme   contemplino tutta la condotta morale nella sua estensione   e nella sua complessità o ne contemplino solo una parte   od un aspetto.   h) Essa non esprimerebbe le norme di una condotta  attuabile sic et simpliciter in una forma reale storicamente  data di società; m:. di una condotta la cui piena attuazione  non è possibile se non nelle condizioni astrattamente sup-  poste ; cioè la condotta delT uomo morale ipotetico in una  società morale ipotetica.     II.     Oi'a il concetto che ho sostenuto e sostengo intorno  alla possibilità, al cai-attere e ai limiti della morale come  scienza (1) coincide, nei suoi lineamenti formali, con quello  che risulta dall'ipotesi qui sopra abbozzata, lo penso che sia   (1) Mi permetto di riferirmi qui e nel seguito di questo articolo ad altri  scritti precedenti: Prolegomeni a una Morale distinta dalla Metafìsica.  Pavia, Bizzoai, 1901 ; e Su la possibilità e i limiti della morale come  Scienza. Torino. Bocca, 1907.     fm'mmme'9mmm>é'>f     A     s     IL METODO DELLPXONOMIA PURA NELL ETICA     * 7     ^-i^^7>     essenziale cosi all'esigenza pratica come all'esigenza teo-  rica (ìi una trattazione morale, il costiruii'si di una scienza  Etica, nella forma e con un procedimento analoghi a quelli  dell' economia pura (1); e colla })ieiia consapevolezza che  la validità normativa e la applicabilità della disciplina pre-  cettiva che se ne ricavi sono possibili alle condizioni e dentro  i limiti che si sono oi- ora accennati.   Ma una costruzione etica analoga a quella dell'economia  pui'a presenta una difficoltà preliminare, che non si è su-  perata, ma soltanto lasciata in disparte, supponendo, corno  si è fatto arlificiosamente, riconosciuto valore morale al  motivo economico.   CI) Se qualche critico osservasse che é fuor di proposito voler traspor-  tare neir Etica un metodo e un procedimento che neir economia stessa é  « oramai superato », o almeno r ripudiato, dalla scuola storica in nome  della realtà, e dalle varie tendenze moralistiche in nome delle esigenze etiche,  potrei accontentarmi di rispondere che dell'obbiezione si dovrà tener conto  quando i moralisti avranno fatto nel fondare una trattazione scientifica  deir Etica tanto cammino, quanto ne lece nel campo dell'economia la Scuola  Classica ; e che a mettere in canzone le ipotesi e le « Robinsonate » degli  economisti si cominciò dopo che le ipotesi avevano già reso i più importanti  servigi e perchè si era preteso di scambiare senz' altro le astrazioni con  la realtà. iMa si può anche aggiungere che il metodo e il procedimento della  scuola deduttiva, accompagnati da una chiara coscienza delle condizioni e  dei limiti della validità delle loro conclusioni, sono i)iù vivi che mai nei  cultori né pochi né oscuri dell'economia pura; e che la scuola storica, se ha  il merito di cercare e mettere in evidenza la mutabilità e la relatività delle  categorie e delle pretese leggi economiche, si muove pur sempre entro i  quadri posti dalla Scuola deduttiva (cfr. Gide, Principes d' Ec. Poi. Noi.  Gen. V) e ne presuppone le leggi determinandone le deviazioni e le limita-  zioni nelle diverse (orme storiche.   I.e scuole moralistiche poi, in quanto si rivolgono a criticare e correggere  i concetti e i precetti dell'economia classica non ne negano il valore scien-  tifico nei limiti deiripotesi, ma ne negano il preteso valore morale : negano  cioè il carattere di giustizia e di inviolat)ilità attril)UÌto arbitrariamente alle  leo-i/i economiche. Ed é facile avvertire che gli economisti di queste scuole  (con qualunque nome si chiamino) in realtà sono moralisti che cercano di     'il     IL METODO dell'economia PURA XELl'eTICA 9   La difficoltà l'iguai'da la scelta e la determinazione del  postulato; il quale deve soddisfai-e a due condizioni : Tuna  comune all'etica e all'economia, F altra esclusiva dell'etica.  La condizione comune è l'applicabilità universale del po-  stulato come principici informatore di tutta la condotta; la  condizione propria dell'etica è che il motivo, di cui si po-  stula questa universale e incontrastata efficacia, abbia va-  lore morale.   Ora, VI è un motivo, del quale si possa legittimamente  presumere che sia riconosciuto universalmente il valore  morale, e del quale sia insieme possibile Tapplicazione uni-  versale e simultanea a tutta quanta la condotta individuale  e collettiva ?   A questa domanda ho già cercato altrove di trovare  una l'isposta; esaminando prima in che consista l'esigenza  caratteristica di una norma morale ; e poi se vi sia e quale   volgere a uno scopo pratico (nella scelta del quale sono guidati da un criterio  etico) delle conoscenze fornite dalle dottrine e dalle indagini economiche : e  la forma-limite di questa tendenza é una intera ricostruzione su basi etiche  dei rapporti eeonomici. Fanno dunque quello che da un pezzo avrebbero  dovuto fare i moralisti; cioè sentono la necessità di considerare l'esigenza  etica estesa alla stessa struttura, non soltanto politica, ma anche economica  della società.   Ma ciò che più ini])orta di osservare a questo proposito é che una cri-  tica radicale — da un punto di vista etico — della realtà dei rapporti eco-  nomici porterebbe, a guardar bene, a rimproverare all'economia pura non  un eccesso ma un difetto di astrazione. E il difetto di astrazione si rivela  in ciò: che mentre l'economia pura si propone di studiare l'azione isolata  del motivo economico, e perciò suppone ridotta l'azione dello Stato ada tu-  tela dell'uguale libertà per tutti, assume nello stesso tempo — come condi-  zioni di uguale libertà ~ certe condizioni (p. es. la proprietà fondiaria, il  capitalismo e il salariato) che limitano o alterano T universalità o l'eflicacia  del motivo. Cioè o considera, per questo rispetto arbitrariamente, come ca-  tegorie necessarie^deWe categorie 5ioric/ie, o considera, pure arbitrariamente,  come eonforrni all'ipotesi delle condizioni disformi.     *-> -f     V " ■*'**i     10     IL METODO 1)P:LLE('ONOMIA FURA NKLL ETRA     IL METODO DELL'ECONOMIA Pl'RA XELL'eTICA     11     poss.'i essere il fine che abbia il carattei'e <ìi uiìivei'sale e  pi'einiiif'iite desiderabilità richiesto a «^nustificai'e il valore  normativo del motivo corrispondente. La conclusione di  questa analisi era la seguente^ :   — La desidei'al)ilità di un ordine di effetti, che si as-  suma come fine non viene tanto dalla desiderabilità che  gli si l'iconosca come bene, cioè come oggetto diretto e  immediato di godimento, quanto dalla desidei-abilità degli  effetti, lei (juali esso apjiarisca la condizione necessaria.  E perciò, inenti-e è vano andar cercando quale sia il fine  ultimo, il quale non si trov.a mai, o si risolve in una  pura espressione verbale, il fine che può valei'e come su  premo si deve cercai'e non nelT uno o nell'altro de: fini  a cui si riconosca valore per sé, ma in un ordiiM^ di  effetti, in un sistema di condizioni, dato che sia assegna-  bih*, nel quale si possa l'iconoscere questo carattere ap-  [)unt() di condizione necessaria non di alcuni, ma di tutti  quei beni, ai quali si attril)uisce valore per se. E quimii  il fine che può avei'e universalmente una desiderabilità  superioi'e a ogni altro, non juiò consistere se non m  un ordine genei'ale e, si potrebbe dire, preliminare di  condizioni, la cui attuazione apparisca necessaria perchè  sia possiì)ile universalmente la ricerca ulteriore <li ([uei  beni. Non può essei'e cioè supremo nel senso di una gerar-  chia, della quale segni il culmine, nò nel senso di una  grandezza o quantità, di cui sia il massimo, ma nel senso  (iella precedenza necessaria o della indispensabilità; per  la (juale venga a l'accogliersi su di esso come in un unico  foco la luce e il calore di desidei-abilità che irraggia dai  fini ai quali apre universalmente la via.   E perciò, ammesso che qualsivoglia fìne lancino abbia,  come ha in l'ealtà, per condizione la convivenza e la coo-     perazione sociale, il fine che può avere questo valore di  precedenza necessaria sugli altri deve essere di necessità  il raggiungimento o il mantenimento di certe condizioni  di convivenza e di cooperazione sociale, cioè di una qualche  forma di società. Ma perchè a.] una forma di società possa  essere riconosciuto questo carattere universalmente, occorre  che le condizioni della sua esistenza abbiano per tutti un  valore potenzialmente uguale; ossia che nessuno dei fini  dei quali quella forma di cooperazione pone la possibilità  e dai quali attinge il suo valore, sia, per dato e fatto delle  esigenze di essa forma, precluso o impedito a nessuno dei  componenti la società. in altri termini che tutti i .socn  trovino nelle condizioni di esistenza della società la mede-  sima equivalente possibilità esteriore d\ rivolgere la loro  attività alla ricerca di qualsivoglia dei fini, dei quali la  convivenza e cooperazione sociale è condizione — (Su la  possibilità ecc. L Gap. VII, 8).   Ora se si riconosce come esigenza della giustizia, questa  esigenza alla quale deve soddisfare una forma sociale perchè  abbia universalmente valore di fine prossimamente supremo,  determinare questo fine equivale a determinare un tipo di  società nel quale siano attuate le condizioni richieste d^lla  giustizia cosi intesa, ossia un tipo ideale - conforme a questa  esigenza - di homo iustus e di socielas insta. E ciò equivale  a cercare quale sistema di relazioni risulterebbe effettuato  neU: ipotesi che gli uomini, sia come collettività sia in-  dividualmente, ossia in qualunque forma di azione o  di in/Iuenza che si eserciti cosi dalla società come da  ciascuno dei singoli, subordinassero universabne^ite e  costantemente qualsiasi altro motivo o desiderio al de-  siderio della giustizia.   E se supponiamo che con un procedimento analogo a     Ou     \ i     m   ,_.J. IH     (     Afa     12     IL METODO r)?:LlV ECONOMIA PURA NELL ETICA     r  ■ ■■'■'     J     quello tenuto dall'ecoiioinia pura (1) il .sistema Hi l'elazioni  che iji avverei'ebbe nell'ipotesi, fosse già detet-niinato, noi  avremmo una Scienza pura della Giustizia, una « Diceo-  logia » piD'a, alla quale sarebbei-o totalmente applicabili  le considerazioni fatte sopra (v. pag. 6-7) circa i cai'atteri  e le limitazioni che pi'esenta una costi'uzione siffatta.     Ili,     Posto, adunque, che fosse costruita (questa Scienza pura  della giustizia, si poti'ebbero muovere ad essa, fondandole  sulle limitazioni notate, tre obbiezioni capitali : di essere  una costruzione aì'bitraria, oziosa, e, in ogni cas(ì, monca.   Di queste obbiezioni occoi're chiaiMre la portata.   1. — L'aid)itrarietà della costruzione supposta pU(') es-  sei'e intesa in due sensi : nel senso che la validità delle  norme che se ne ricavano è relativa alla validità del postu-  lato, il cui valore è bensì assunto come un dato di fatto,  ma senza una ragione perentoria che obblighi ad accettarlo;  oppure nel senso che è difjbrrne dalla realtà e insussistente  r ipotesi di una condotta subordinata universalmente e co-  stantemente all'esigenza della giustizia.   a) Se si intende 1' arbitrarietà nel primo senso, qua-  lunque dottrina etica è aidjitraria ; perchè il valore del  postulato fondamentale (ossia del motivo, o del tine, o del   (1) L'economia dà al postulato edonistico un contenuto materiale deter-  minato considerando come « soddisfazioni » le soddisfazioni di certi biso<'-ni.  e come « sacrifìci » certe privazioni e certe pene; mentre al postulato della  giustizia il contenuto materiale, al quale se ne deve fare l'applicazione, é  dato (la tutte le specie d'attivuà o da tutte le categorie di fini (esclusi sol-  tanto quelli la cui ricerca o proseguimento importano la negazione del prin-  cipio regolatort^ supposto) che in una società data sono possibili.     ili     IL METODO dell'economia PURA NELL'etICA 13   criterio di valutazione) quale si sia, è sempre ammesso  assunto, ossia si suppone o si ammette che sia ricono-  scinto come tale; e nessuna dottrina etica può compiere il  miracolo di obbligare a.l accettarlo. Perchè, la ragione pe-  rentoria - se è una ragione, - non può consistei-e che nel  ricondurre il valore del postulato a quello di un altro fine  o di un'altra esigenza ulteriore, della quale si ammette o  SI suppone ancora che la validità sia riconosciuta. E se si  dice che è prop.-io del fine o dell'esigenza morale il pre-  sentarsi alla coscienza come un valore che non si può di-  sconoscere, si auìmette che questo carattere è già dato nel  fatto stesso che l'esigenza è i-iconosciuta come morale;  anzi che il motivo vale assolutamente, appunto perchè vale  come morale; il che vuol dire che impone il proprio va-  lore solamente in quanto la coscienza lo accetta, e che è  sempre in ultima analisi il valore morale dell'esigenza  che é preso come un dato primo o come un postulato. Se  si intende dunque in questo senso, qualsivoglia dottrina  etica è, perchè etica, arbitraria.   Se poi si pone come caratteristica del valore morale la  possibile validità universale della 7nassima corrispondente,  nessuna esigenza è piti radicalmente universale di quella  che esprime la condizione stessa di questa possibilità.   h) Che all'esigenza assunta sia o no riconosciuto in  effetto valore morale, ossia che il postulato corrisponda  o non corrisponda e più o meno adeguatamente a un dato  della realtà psicologica rivelato dall'analisi della coscienza  moi-ale, è una questione diversa. E se l'arbitrarietà s'in-  tende in questo secondo senso, come difetto totale o par-  ziale di questa corrispondenza, essa consiste, nel caso nostro,  non nel considerare come morale l'esigenza della giustizia,  ma neir assumere questo motivo come il motivo morale.     fi     JH^ffriaililfffiìliilì" l'^Srftt'^i'-        !£?     |^iftU>&t-M»'^**'*>'*^'*WlWiiw3».W'.ifc^ 4     14     IL METODO DELI/FXONOMrA PURA NELL ETICA     IL METODO dell'economia PUKA XELl'eTICA     15     menti'e la realtà empirica ne pi*esenta anche altri ; e nel  considerai'lo isolato da questi, mentre nella realtà sono  più o meno strettamente connessi e coopei'anti o contra-  stanti con q ìlei lo.   Non ho nessuna ditlicoltà a riconoscere che la costru-  zione supposta è, anche per questo ris[)etto, arbitraria ; al  modo stesso che è sempre pili o meno arhiti'ario qualunque  sistema di deduzioni ricavate da un' ipotesi. Ma un' arbi-  trarietà di questo genere non implica nessuna fallacia finché  non si pretende che essa espi'ima la i*ealtà del mondo mt)-  l'ale dato ; e la costruzione si dà per quel che è, cioè per  una scienza che sai-ebbe la « vei'a scienza » della morale  com' è , se le condizioni dell' ipotesi rispecchiassero la  realtà — Intendo quel che si può dire: — Perchè supporre  che il motivo egemonico sia la giustizia, e non un alti'(\  poniamo il motivo altruistico? 0, meglio, perchè non as-  sumere come motivi morali, o l'ispondenti all'esigenza mo-  rale, tutti i motivi che la realtà psicologica l'ivela valere  in effetto come tali? La l'isposta all'una e all'altra domanda  non è diffìcile.   L'assumere come rispondenti all'esigenza morale i cri-  tei'i molte[)lici che si i-ivelano nelle norme empiricamente  date come morali costi'ingerebbe in ultimo ad assumere  l'esigenza stessa moi'ale come in sé contraddittoria e a co-  sti'uire non una scienza, ma una veste da Arlecchino. Perchè  la morale empii'icamente data rivela criteri non di rado  opposti, e del medesimo ci'iterio le applicazioni più artifi-  ciose e vai-iabili (1). Ora, che l'esigenza morale possa   U) Tralasciando pure di insistere, come lio già osservato altrove, perchè  è cosa troppo nota, sull'antitesi fondamentale esistente tra le norme di con-  dotta che valgono come morali rispettivamente nelle condizioni di pace e di  guerra, e sui contrasti, tragici talvolta, tra i « doveri » famigliari e i « do-     co„,poru,.e criter, ,ì,ver.i e anche opposti ,fi val,„az,one  senza cessare di essere morale, s, potrà aocl.e ammettere  (purché s, s.a disposti ad accettarne le conseguenze;; ma  che si possa, assumendo criteri contraddittori!, costruire una  <iotti'ina coerente, non si può sostenere.   Bisogna dunque scegliere; e la scelta ,iel motivo della  giustizia, se è arbitraria hi quanto e seella ,U uno fra più  "on e arbitraria in guanto mandnno le ragioni della  scelt.. Poiché è facile rilevare che il motivo delia giustizia  e 'I solo al quale si possa supporre che risponda in effetto  universalmente e costantemente tutta la condotta senza  che l osservanza da parte degli uni richieda o presup.  ponga l inosservanza da parte degli altri. L'altruismo  come fu già notato, non potrebbe essere oss.Tvato univer'  salmente, se non a patto che fosse subordinato alla sua voka  a mia norma di giustizia. Infatti, affinché sia possibile  I abnegazione e la rinuncia incondizionata di sé agli altri,   veri ,, sociali, bisogna osservare che le „or,„e date e accettate come morali  o.o,.o contemplare e contemplano realn.ente, almeno ,„ parte, de„e rela-   wL ; T ' ,•'" ' ^^■■»'°"» — P-"^i" "> S-iadi relazioni   pr.ma,,e e fondan.entah, che le „orn,e non contemplano e che sono la ne-  gazione del crueno applicato in qne.le norme. Mi sia lecito spiegarmi e „   ruiieTau: r"'T, '"^' t"'- '- ^ ^"""""^ ^'- "- ■-- - -'-   I iano i In ""'.T""" '""" ''"""■^"••^ '"■• '"" "-^-'^ cercare ,,uale   a qu le concila la minima fatica del primo col minimo disagio del secondo  crueno seguito qu, é un criterio d, equità; si riconosce ciocche non sa-   omodi;T'"'.° ""'°"° ° "'"^ '" ■-^^""° "«' "-■ " P--''-e tutte le  comodità per se senza tenere in conto le comodità dell'altro. .Ma se questo  crueno (seguito nello stabilire la condotta migliore, Jata ,,uella conLol  <i.ve,.a de, due, fosse applicato a determinare la rela.one t,-a i due p,Jl   Z^JT'"" '■'■^''-'™-"- P~« e portato, questa .:J^::Z  TorT "T"" '»™"'--'>^^ colle p,.opr,e gambe. Ossia la norma   nor. le regola nel caso supposto un rapporto che non esis,e,.ebbe, o sai-ebbe  tutto d,verso, se essa fosse applicata al sorgere di quel .-apporto     NH     itì'i^tli^'^'iiÉi'Tiiii^i «ì.»lA:.m.iLlMiì-. Hif     ^••s«ì»?T<P7**     *3«iaw*»*jsf^wsw«/     tì-^      Ifi     IL METODO dell'economia PURA NELl'eTICA           / fttTi--'     bisogna chf^ gli nni si .saci'ifichii)0 e gli altri o qualche  alti-o accattino il sacnfi/io ; cioè bisogna che gli uni os^or-  vino la massima (lell'altruismo, e gli altri o qualche altro  quella dell'egoismo. Se poi si ammette che nessuno debba  poter saci'ifìcarsi più di un altro qualsiasi (lasciando di  osservare che in tal caso praticamente i sacrifici si eli<le-  rebber.)) fiisogna che la condottta altruistica di ciascuno  non impedisca una pari condotta altruistica degli altri ;  cioè bisogna che fattività altruistica alla sua \olta sia  governata da una norma di giustizia.   Ciò viene a dire che la famosa formula Kantiana, se  si considera nella possibilità della sua applicazione simultanea  per tutti a tutta la coìidotia e.sterna non è suscettiva d'altra  inter[)retazi()ne che di massima univeisale di giustizia nel  senso sopra chiarito (1).   (1) In un Saggio originale e sucrgestivo, che vale bene più di qualche  grosso volume inconcludente, Mario Calderoni illustrò recentemente una  concezione economica della morale (che non tocca in nulla, benché a prima  vista sembri antitetica, il concetto qui esposto) nella quale egli osserva giu-  stamente come la maggior parte delle azioni « virtuose » non siano considerate  come tali se non perchè «sono prodotte in quantità inferiore alla domanda»;  e son per noi un « dovere » appunto perché gli altri uomini non le lanno,'  e rimangono tali a condizione che non siano troppi gli uomini capaci e vo-  lonterosi di imitarle. E trae da questa considerazione la conseguenza che la  formula di Kant è del tutto inapplicabile.   Ora è certo che il Kant intendeva di parlare di validità universale del  motivo a cui si informa Ta/ione. che può essere quindi variabile secondo le  circostanze, pur rimanendo il medesimo il motivo che la detta; e che non  può richiedere uniformità di condotta esterna se non nel caso che si tratti  della medesima attività esercitata nelle medesime condizioni esterne.   Ma (juando m supponga avverato questo caso, si troverà che T unico mo-  tivo, il quale comporti uniformità universale di condotta è il motivo della  giustizia; e che intesa così, la formula di Kant resisterebbe alla critica  anche dal punto di vista del Calderoni. {Disarmonie Economiche e Disar-  monie morali - Firenze, Lumachi. 1906. V.» Cap. Ili: La marginalità nella  Morale).     tt-"K        ^tkiìAtmm l i aiAl iì i ilfiW i r^Mftm i r m     \^^A>m»mtm\ì^iMu\,ìiimàai>im.'^ÌM<-ii^uéM'n^'^     ■■ -r I irr-* uriii^iiii     H. METODO dell'economia PURA XELl'etICA     17        2 - Assumetelo dunque, se cosi vi piace, codesto vostro  postulato, e costru.tevi la vostra . Scenza pura della  giustizia ». Cile ne farete poi? —   A che c<,sa propriamente potrebbe servire costruita  elle fosse, non si può con esattezza determinare ,n prece-  'lenza. Si potrà vedere, nel caso, quando sia fatta o pi ut-  "«to, a mano a mano elle si venga facendo. Troppe ricerche  . el resto non si farebbero se si aspettasse di averne diino-  strato 1 utilità; e ,li troppe altre , risultati portarono frutti  <lel tutto remoti da ogni previsione. E dato pure che riu-  scisse inconcludente, nessuno tiirà che «ia „é la prima „ó  u'iica ,n questo genere, specialmente nel campo della  morale. E t,.a le molte curiosità, perchè non dovrebbe  trovar posto anche questa : ,ii sapere come andrebbero le  faccende di questo mondo se gli uomini si decidessero ad  essere tutti e sempre e in ogni contingenza della vita so-  liratutto e prima di tutto giusti?   M.-i è pur naturale d'altra parte che debba intravederne  almeno qualche possibilità ,li applicazione eh, la propone  e che ne debba dire qualche cosa.   Le applicazioni possono essere principalmente due: come  mezzo di interpretazione o di sistemazione scientifica della  realta morale ,lata; e come fondamento di una disciplina  precettiva, ossia di un'Etica applicata della giustizia.   a) Se 1 osservazione psicologica dimostra che è arbi-  traria, nel senso che s'è detto, l'assunzione del motivo della  giustizia come unico motivo morale, dimostra pure <die  quel valore gli è però realmente riconosciuto: e che se  non ., riconduce ad esso effettivamente ogni valutazione     18     IL METODO dell'economia PURA XELl'eTICA     ^nica, esso entra però come elemento o fattore di valuta-  zione in qualunque giudizio morale. Può essere dunque  opportuno, a uno scopo di sistemazione coerente delle norme  effettivamente vigenti, conoscere quali sarebbero se questa  esigenza operasse isolatamente, cioè se tutte si ispirassero  unicamente ad essa; e considerai-e, con un artifizio di cui  tutte le scienze offrono innumerevoli esempi, come devia-  zioni limitazioni risultanti dalla presenza di alti'i motivi,  le norme che non coincidono con quelle astrattamente  dedotce.   Sarebbero, per un vei'so, da considerare come tali le  norme della condotta politica interna ed esterna ispii-ate  dall'interesse dello Stato, o del maggioi- numero, o di una  classe, in quanto al rispetto di queste esigenze sia atti-ibuito  valoi'e morale (1).   E sarebbe, pei- un altro vei'so, possibile interpi'etare le  norme della beneficenza come espressioni della stessa esi-  genza della giustizia, in quanto si considerano rivolte a  sanare o a lenire gli effetti che ne accompagnano 1' inos-  sei'vanza, e le deviazioni o le limitazioni.   h) Ma l'applicazione più rilevante riguarderebbe l'Etica  propriamente intesa come disciplina normativa.   La < scienza pui'a della Giustizia » appunto perchè  considera già raggiunte e attuate tutte le condizioni richieste  dalla esigenza che essa postula, ossia, in termini equivalenti,  fa astrazione da ogni circostanza interna od esterna che  ne impedisca o ne limiti 1' efìTicacia, configura un sistema  di relazioni sociali e un tipo di condotta, cioè formula   fi) Sarebbe possibile per questa via togliere — dico nella trattazione teo-  rica — certe contraddizioni o antinomie davanti alle quali si arrestano  solitamente i filosofi del diritto quando ne determinano le « esigenze razio-  nali ».     ••■<        IL METODO DELl'kCOXOSIIA PURA NELl'eTICA     19     •delle leggi, le quali possono valere come tali soltanto nelle  condizioni contemplate dall' ipotesi ,- vale a Hn^e non sono  suscettive ,li applicazione, sic et simpliciler, a condizioni  iliverse. Ma se si ammette che T onime di relazioni ipote-  ticamente costruito abbia valore di fine, cioè se si ammette  come normativa l'esigenza della giustizia, vi sarà luo-^o a  cercare e a .leterminare (bencbè questa determinazlne  debba riuscire, come è facile prevedere, assai difficile e  complicata) quale sia in condizioni reali storicamente date  la condotta, die nei limiti imposti da queste, è ini, atta a  favorirne la trasformazione nella direzione segnala dalle  condizioni ideali contemplate nell'ipotesi.   Ossia si potrà ricavarne un'Etica applicata della Giu-  stizia, alla quale la realtà storica fornirà la conoscenza  delle condizioni tra le quali si deve spiegare e dei mezzi  ai quali deve ad.-guarsi, per essere praticamente efficace  la condotta rivolta a quel fi ne ; cosi come darà la conoscenza  'Ielle varie specie di attività che l'esigenza .iella giustizia  e chiamata a regolare; cioè darà, volta a volta, alla forma  <lella giustizia il contenuto materiale.   E le norme, cosi ricavate da questa applicazione a una  realtà data delle leggi .Idia Giustizia pura, saranno valide,  se SI accetta come fine morale prossimamente supremo, cioè  precedente a ogni altro fine generale e speciale, l'attuazione  del sistema di relazioni contemplato da quella, e come mo-  rale la condotta corrispomlente.     IV.     3. Cosi questa Etica applicata, come la Scienza Pura  dalla quale essa si ricava, è indipendente da qualsiasi dot-  trina metafisica, ma non pretende di sostituirla. Ignora i     jl     '4i*f ••ti«3g-#^Bt 'mws--**smmm»pmmmmmmm.<mK^^''mm-Mmà     20     IL METODO DELl'fXONOMIA PURA NKIJ/ ETICA     problemi metafìsici ; ma nel senso che non no richiede e  non ne assume una certa soluzione piuttosto che un'alti*a;  non nel senso che ne neghi l'esistenza o ne escluda la trat-  tazione. Ilimane di fronte ad ossa iinpi'ogiudicata, e da essa  distinta, ogni questione sulla natura e sul fondamento ukinìo  delTesigenza stessa morale; così come rimane impi'egiudicato  il pi'oblema pratico, o pi'opriamente psicologico e pedagogico,  intorno al valoi-e e all' efficacia delle credenze religiose o  metafìsiche come condizioni o fattori sof^^-jcttivi dolla moralità.   Ma, ciò nonostante, o forse appunto pei'ciò, è verisimile  che sia giudicata, specialmente alla stregua delle tendenze  più apei'tamente dominanti nel p(insiei*o contcmpoi'aneo,  doppiamente monca ; monca considerata come dotti'ina ;  monca considerata rispetto alla efficacia pratica.   a) Cei'tamente può parere strana se non ingenua Tnlea  di segnai'e una divisione di competetjza tra T indagine scien-  tifìca e rin(iagine proprianifMite filosofìca e metafìsica, men-  ti'e pai'e di assistere a una specie di «atto di coiitrizion<' »  delle stesse scienze speciali già formate ; le quali, dopo es-  sersi staccate e aver pi'oclamato la loro indipendenza dalla  filosofìa, sentono il bisogno di ritornare ad essa e di rin-  tracciare in lei le origini della loi'o vita e la ragione del  loro valore. Tuttavia una considerazione un po' più attenta  può mosti-are die il contrasto è soltanto a})parente e che  la tendenza delle scienze speciali all' inter|)retazione e alla  integrazione filosofìca dei loro presupposti e dei loro risultati  non esclude, ma piuttosto include, la legittimità di una di-  stinzione anche nel campo delia morale. Perche essa })re-  suppone appunto che le scienze abbiano i ÌOt'O postulati ,  i loro metodi i Ioì'O risultati, e che i sistemi speciali di  dottrine cosi edifìcati sussistano ed abbiano una validità  propria, sia pure limitata e provvisoria, all'infuori dell'in-     i,*~'     ;«*\ltj     IL METODO dell'economia PURA XELl'eTICA 21   terpretazione e della valutazione che ne debba o ne possa  ■ fare la metafìsica. In questa specie di Conferenza perma-  nente dell' Aia (sia detto senza intenzioni maligne) che è  la mutua collaborazione delle diverse discipline alla critica  e alla integrazione del sapere e del valere umano, sono  gli Stati che hanno territorio e giurisdizione propria che  possono far sentire la loro voce. I delegati della Corea  sono esclusi.   Intendo quello che si può dire: - La morale è essa  stessa la metafisica, e pone essa le esigenze alle quali è  subordinata la valutazione di tutte le altre discipline dei  loro principii e delle loro conclusioni. - Fosse pure, o, piut-  tosto, dovesse pure essere cosi. Quali sono queste esigenze  della morale ? Come si determinano ? Qual' è, fra i molti  sistemi diversi opposti e anche contraddittorii, quello auto-  rizzato a rappresentare « la morale *, e a far valere le  sue esigenze come esigenze ideila morale *ì E se si può  distinguere una esigenza immediala e caratteristica, dato  che SI trovi, della valutazione morale, dalle esigenze ulte-  non, argomentale o poste da questo o da quel sistema per  interpretarla o giustificarla, allora è nello stesso tempo data  la distinzione tra esigenza propriamente morale ed esigenze  avanzate ,ia una interpretazione o integrazione metafìsica  della esigenza morale; e si delinea insieme una separazione  legittima tra V indagine che cerca di risalire dall'esigenza  morale ai postulati metafisici, e l'indagine che ricava dal-  l'esigenza morale le applicazioni che logicamente ne discen-  dono.   - Ma, nella realtà viva e vissuta della coscienza,  valutazione morale e valutazione metafisica formano un  tutto unico; e separando l'esigenza etica dalla fede me-  tafisica colla quale è fusa e della quale si alimenta, s,     \ \     è     22     IL METODO dell'economia TURA XELl'eTICA     IL METODO dell'economia PURA NELL'eTICA     23     spezza r unità della coscienza , si oscura o si cancella  il signitìcato e il valore interiore della moralità, e si pre-  senta come vita morale lo scheletro o, meglio, lo stampo  esterno e quasi l'impronta fossile dell'atto morale. —   Sarà verissimo; ma nessuna costi-uzione dotti-inaU può  sfuggire a questa obbiezione. Tutto ciò che la logica tocca e  che è fatto oggetto di conoscenza riflessa e i-agionata diventa  perciò stesso un tipo, uno stampo, un fossile; anzi stampo  è la parola, stampo ò la stessa rappresentazione artistica  se non è vivificata e i-isvegliata da chi la deve intendere  e gustare; anzi sono diventate ormai stereotipe, per colmo  di evidenza probativa, perfino le fi*asi e le immagini usate  a mostrare la « i-icchezza e la varietà inesauribile» della  coscienza e delle sue ci'eazioni.   E quanto al sepai«are nella teoria ciò che nella realtà  è unito, bisogna pur rassegnarvisi. Pei'chè ogni nctM'ca è  prima di tutto distinzione, sepai-azione, asti'azione; il fatto  stesso, ogni fatto (diceva già un chimico, il Chevreul,) è  un' astrazione. Ciò che importa veramente è di non dimen-  ticare che l'astrazione non è tutta la realtà.   Ora, sceverando dal complesso degli elementi, onde la  vita etica nella coscienza personale iMsiilta o può risultare,  quello che è suscettivo della più universale applicazione, e  costruendo il tipo di vita che ne risulterebbe, non si pre-  tende di esaurire il contenuto della coscienza, ma soltanto  di distinguere le norme di condotta a giustificare le quali  basta uu certo postulato, dalle norme e dalle forme di vita  morale che si fondano sopra altre esigenze ossia l'ichie-  dono altri postulati.   E chi crede che la chiarezza dei concetti e il l'igoi-e  del procedimento si debbano poi'iare, fin dove è possibile,  anche nella speculazione etica, ammettei-à che può essei-e           que-     utile allo scopo, se non anche necessario, il seguir(  sta via (].).   — Rimangono altri problemi. - E chi lo nega? Ma  prima condizione per cercar di risolverli con frutto è di non  confonderli tra di loro.   h) E nasce da una confusione di problemi diversi  l'obbiezione, che si potrebbe dire pragmatistica, del difetto  di efficacia pratica, o più esattamente parenetica o pedago-  gica, di una dottrina morale che faccia astrazione da ogni  valutazione metafìsica, e presenti un sistema di norme che  ha di necessità soltanto un valore ipotetico, cioè, nel caso  nostro, condizionato al valore che può avere nella co-  scienza il motivo impersonale della giustizia.   (lì Le espressioni di più d' un antiintellettualista indurrebbero 4uasi ad  ammettere che la morale sia una specie di grande imbroglio, nel quale a  voler vederci chiaro, si finisce per non credere più. Ora, altro è riconoscere  Cile ogni valutazione é in ultimo data alla intelligenza e non dalla intelli-  genza, e che nessuna conoscenza e nessun ragionamento può far volere un  fine che non sia già voluto, o per sé, o come condizione a un altro fine- altro  è credere ed aOermare che T intelligenza o la ragione sia « in contrasto »  colla moralità.   Come potrebbe essere ? Non certamente in quanto si rivolge a determinare  1 mezzi necessari e convenienti a un fine. Nel qual caso non è nemica, ma  ancella della volontà in generale, e, se la volontà é « buona ». della volontà  morale. Non potrebbe essere, dunque, se non in quanto toglie o muta la va-  lutazione del fine (cioè delP oggetto o contenuto materiale del motivo mo-  rale) mostrandone \^ connessione, prima ignorata o trascurata, con qualche  cosa d' altro, che sia oggetto di una valutazione diversa; diciamo, per co-  modità, negativa o repulsiva. E allora, poiché la valutazione di questo  qualcosa d'altro non può venire dall' intelligenza (la quale, come si sa. chia-  risce rapporti, non dà valori), manifestamente non si possono dare che due  casi :   ha origine nel motivo stesso morale; e la conoscenza non avrà fatto  che mettere in chiaro come quel fine che gli si riteneva in tutto conforme, sia  in realtà più o meno disforme in forza della connessione notata. Ma ciò non     ^'Ìitffl^-Él TBrti^tea^. JjW smÈj^i^ K     *"«Sf|i|s^->»^.f«^Pf«W'-;j»-t»f,     ■imN»iiiAi 4 ii ' ip » iii w - i WWM     m^SMÀJà^-'4i^^.&MÌ&     ^aJS^^lSM^SSLàZ.-^        yùtimLà      24     IL METODO DELL ECONOMIA PURA XELl'eTICA     ffi.     Poiché è uggioso a se e agli alti-i l'ipetere cose già  dette, e su questo punto ho insistito a lungo altrove, mi  restringo qui a riafTermare la legittimità, anzi la necessità  logica e la convenienza morale, di tenei- separata netta-  mente ogni ricerca che si volge a detei-minare quali siano  le norme di condotta richieste da un certo fine, dalla ri-  cerca delle condizioni e dei fattori dai quali dipende o può  dipendere Fosservanza delle norme (1). La legittimità delle  deduzioni, dato che ci sia, e la validità dei precetti rispetto  al fine sussistono indipendentemente dalla presenza o dalla  assenza dei motivi che ne persuadono o ne impongono l'os-  servanza, e dalla natura di questi motivi. Come il conte-  nuto e la giustificazione delle prescrizioni d'un medico non  dipendono dalla disohbedienza o dall' obbedienza dell' am-  malato nò dalle ragioni di questa obbedienza.   tocca in nulla il valore e l'efficacia del motivo morale. Ammettere il contra-  rio sarebbe come dire che cessa di amare la giustizia chi cessa di difendere  una causa che ha riconosciuto ingiusta.   ha origine in un motivo non morale (poniamo in un interesse egoistico);  e anche qui l' intelligenza non farebbe che rivelare una condizione di fatto :  la presenza e Tefficacia di motivi non morali nella valutazione dei fini e :lella  condotta. La conoscenza dunque, anche in questo caso, non altera il valore  del motivo morale; può eventualmente mostrare che il valore e T efficacia  sua non è esclusiva, o incontrastata come si supj)oneva. Ma correggere un  errore di giudizio non é cambiare uno stato di fatto.   Potrebbe dunque, tutt' al più, togliere un' illusione. Ma è nell' illudersi  d'esser morali che consiste la moralità?   (1) Questo conformarsi o non conformarsi si suole a torto, per abuso di  linguaggio, attribuire a una pretesa « efiicacia pratica » delle norme; men-  tre le norme - perse - hanno, a promuovere l'azione corrispondente, una  efficacia non maggiore di quella che abbiano i fanali di una strada a muo-  vere le gambe dei nottambuli. E un simile abuso di linguaggio, che nasce  da un difetto d'analisi, ha alimentato la confusione tra esigenza giustifica-  tiva e esigenza esecutiva, tra l'obbligo e la giustificazione dell'obbligo, e la  pretesa illusoria che una norma possa o debba avere in sé forza obbligativa.  Cfr. Prolegomeni ecc. , e. I: (L'esigenza esecutiva) ; e Studi su la possibilità  I, Gap. III. (La pregiudiziale dell'imperativo categorico).        ^é^^l^ f à'K^m^,^ i^^'^tliÈ '^f^i     IL METODO dell'economia PURA XELL'eTICA     26     La reale presenza ed efficacia di motivi «ufficienii a  determinare T osservanza è in ogni caso si>,pposta , non  . posla da qualnnque costi-uzione precettiva; e il «„ppori-e  operativo d motivo della giustizia non esclude, ma piut- i  tosto include, una ulteriore valutazione del motivo stesso '  ogniqualvolta nella realtà esso derivi in tutto o in parte  la sua forza da questa sopravalutazioiie.   Ma anche in questo caso non bisogna dimenticare che  una tale efficacia .sarebbe sempre essa stessa posMata  come un dato di fatto, non comunicata o la,-g,la da una  fon.ìazione qualsivoglia. Perchè anche una fondazione re-  ligiosa o metafisica non pone essa le credenze, ma le sup.  pone già viventi e .operanti. Il suo valore come motiva-  zione morale dipende dal valore reale che esse hanno  nella coscienza, dalla loro forza operativa. Essa fa appello  a questa forza, ma non dà, essa, la forza; ossia vale ,,el-  i ipolesi che valga in effetto nella coscienza la fede nei  dati assunti da lei. E se questa fede mancasse, una fon-  <iaz,one metafisica o religiosa, qualunque fosse, avrebbe sulla  condotta una efficacia non diversa né maggiore di qualsi-  voglia costruzione arbitraria.   Senonchè si potrebbe, su basi pragmatistiche, osservare  che SI ,ie^e appunto volere quella fede dalla quale si può  aspettarsi l'incremento del motivo morale, e che, poiché  SI tratta di « optare», conviene dal punto di vista' pratico  optare per una fede moralizzatrice. E compito del moralista  «ara perciò di affermare e suggerire quella fede come  presidio e cnforro, utile se non necessario, della moia-  l'tà, e presentare la dottrina morale connessa e incorpo-  rata con quella fede.   Su un discorso di questo genere ci sarebbero da .lire  molte' cose; notiamone poche.   E prima di tulio convien pur ripetere che un tal compilo.     t^ 1         2i') IL METODO dell'economia PIRA NELl'eTICA     fc m     (lato che spetti al inoi-alista, ^Hi spetta in quanto è o pre-  tende (li essere educatore o apostolo, non in quanto si  propone di cercare quali concernenze ini[)liclii V accetta-  zione di un cei-t() postulato e si contenti di atierniare che  chi accetta il postulato deve accettai-e le hoimikì che ne  discendoiHi. I due uffici non si identificano ; chi ha slo//(i  di ricercatore può non avere stoft";i di a[)()stolo o di avvo-  cato ; e potrehhe in og"ni caso invocare aiiche qui il prin-  cipio delhi divisione del lavoro.   Ma dal [)unto di vista stesso pedagogico la tesi è tut-  t' altro che incontestahile. Suggerire e infondere una fede!  E presto detto. Ma in che modo o per (jual via? Partendo  dall'esigenza pratica per arrivare alla credenza, cioè pre-  sentando la fede a[)punto come sostegno e guarentigia della  ni orai ita ?   Lasciamo pui'e di indagare se con ciò non si nega in  effetto, neir atto stesso che si afferma, il valore assoluto  dei postulati religiosi o metatisici, dal inoinetito che essi  sono affermati o posti come condizioni o fattori nella pro-  <luzione di certi effetti, cioè sono valutati utilitariamente;  e se non si offende il sentimento religioso, considerandolo  unicamente come un motivo sussidiano invocato a sup-  plii'e alla fiacchezza del uiotivo morale. Un pragmatist.a  conseguente potrehhe non avere (ii «juesti scru[)oli.   Ma lo scopo stesso a cui mira il pragmatista vieti meno  in realtà dacché, per tal via, si suppone dato ciò che si  vuol produire; ossia si pone a sostegno del motivo morale  un sentimento che vien fondato sopra esso, e vale in forza  di esso. Con un risultato non dissimile da quello che hanno  di solito le discussioni ; dove le rai'ioni usate a sostenei'e  un'opinione persuadono soltanto chi è già persuaso; cioè  hanno in effetto tanto maggior [)eso quanto più è superfluo  servirsene.     ''^P^«^«f^^i^pS?R,fwpp«*f^9f?i^!wp|^r^^     IL METODO DELl'eCOXOML\ PIRA NELl' ETICA     27     Se si tiene invece una via diversa, e si intende di edi-  ficare la credenza su una educazione propriamente dog-  matico-religiosa, dov'è più la ^ opzione^, la affermazione  libera e spontanea della coscienza?   E come può il moralista educatore presentare o im-  porre come unica e definitiva una iede, o una credenza  religiosa o filosotìca^che egli sappia essere personale e « vo-  lontaria » ?     La vei-ità è che mentre nel valore morale (posto che  sia riconosciuto) del postulato che si assume a fonda-  mento della costruzione scientifica, è necessariamente im-  plicito il valore morale delle norme che ne esprimono  l'applicazione, non è necessariamente implicita l'accetta-  zione di certi piuttosto che di cert' altri postulati metafi-  sici. Mentre, accettato un postulato di cui sia possibile  r applicazione alla condotta umana, la coerenza logica basta  a dare la legittimità delle norme che se ne deducono, la  coerenza logica n07i basta a porre come necessariamente  richiesta da quel postulato una determinata fede religiosa  filosofica ad esclusione di qualsiasi altra. La salita al  cielo dei postulati metafisici non si fa colle scale della lo-  gica. (Il che, come tutti sanno, ha il suo riscontro nel fatto  che possono trovarsi concordi nelT accettare e nell' osser-  vare la medesima esigenza morale uomini di opinioni i-e-  ligiose e filosofiche diverse; come, inversamente, può la  stessa fede religiosa e filosofica presentarsi, nella realtà  storica e psicologica, connessa con norme morali discordanti).  E la « libertà dì coscienza > sarebbe una frase vuota  di senso o piena di immoralità^ se il voler la giustizia e  Tesser giusti richiedesse o l'esclusione di ogni fede o  l'accettazione della medesima fede.   E. JUVALTA.     \      ài ^     *l     fondata dal Prof. Sen. C;     Estratto dalla Rivista Filosofica     VRLO Cantoni (Novembre-Dicembre 1907)              17/      }     •t     !     « M      '■««*Sfe     ' ***        ■h '-     ^W.     r     ;'i-        "^■rt^'     7         ^     i Ja*»'*'.*'"'     •j»^».     .ii     ^     vy»     '^M      \     I     ^     \     V *  . JUVflliTfl     La Possibilità l     I e i Limiti    MORALE     STUDI     TORIflO   FRATELLI BOCCA EDITORI  1907                     A 1 / VERTENZA    In questo volume sono raccolti tre scritti pubblicati in  più riprese nella Rivista Filosofica diretta dal mio in¬  dimenticabile maestro ed amico Carlo Cantoni, al quale il  profondo e tenace convincimento delle proprie dottrine non  tolse mai di rispettare e stimare sopra tutto, anche nei di¬  scepoli, la lil>ertà e la sincerità.   Benché diversi di titolo, i tre studi che ora ripubblico  riveduti e in parte aumentati, sono lo svolgimento del me¬  desimo pensiero fondamentale, e presuppongono quasi, cia¬  scuno dei successivi, i precedenti.   Anzi il primo dì essi è, alla sufi* volta, continuazione di  un altro pubblicato anteriormente col, titàlol « Prolegomeni  a una Morale distinta dalla Metafisica » ; nel quale è esa¬  minato il problema della possibilità di un’ Etica normativa  indipendente da qualsivoglia soluzione, positiva o negativa,  dei problemi di natura metafisica. E perciò spero di essere  scusato se mi riferisco qualche volta anche ad esso ; e se in  in questo volume sono lasciate in disparte, o trattate con bre¬  vità che altrimenti sarebbe soverchia, alcune questioni delle  quali s’è già discorso in quello.   Anche to' importa di avvertire, sempre a proposito dello  Studio « La Dottrina delle Due Etiche di H. Spencer e  la Morale come Scienza », che — se nella esposizione sia  generale, sia particolare, della dottrina esaminata, ho cercato      %   _ 2 —    studiosissima mente dì rendere intiero ed esatto il pensiero dello  Spencer — nella critica ho considerato la dottrina dal punto  di vista speciale additato dall’intento essenzialmente teoretico  che assegnavano a questa ricerca le conclusioni dello studio  precedente. E per questa ragione ho tralasciato deliberata¬  mente non solo qualsiasi digressione, ma ogni discussione  che non fosse strettamente necessaria allo scopo mio parti¬  colare. A ciò si deve la mancanza quasi totale di accenni  alle critiche anteriori, anche dei più valorosi.   Pavia, Settembre 1900.    E. Jl’VAI/TA.            e la Morale come Scienza       INDICE    Introduzione .*   1. Movente etico-sociale dell’opera dello Spencer. — 2. Conse¬  guenze nella valutazione delle suo dottrine. 3. Scopo  dello studio presente.   PARTE I"   (Cap. I. e li.)   Esposizione.   Cap. I. — La Dottrina etica in yenerale .P“g- 15   1. 11 concetto informatore. — 2. La distinzione delle due Eti¬  che. — 8. Il metodo dell’ Etica. — 4. I dati dell’ Etica.   — 5. Soluzione dell’ antitesi tra fine e metodo , e possi¬  bilità di conciliazione fra i dati dell’ Etica.   Cap. II. — La dottrina delle due Etiche . P a g- 25   1. Due questioni fondamentali , attorno a cui si raccoglie la  dottrina. — 2. Il giusto assoluto. — 3. Il giusto relativo.   — 4. Errore comune nel modo di concepire la condotta  ideale. — 5. La priorità scientifica dell’ Etica Assoluta  «sull’Etica Relativa. — 6. n confronto colle altre scienze.   PARTE H“   (Cap. m.-V.)   Critica Preliminare : Le Questioni Pregiudiziali e il preconcetto  dal quale hanno origine.   Gap. III. — La pregiudiziale dell’ imperativo cateyorico pag. 40  Partizione della Critica. — 1. L’imperative categorico. —  2. L’ obbligo e la giustificazione. — 3. La progiudiziale  dell’ obbligo categorico è estranea alla determinazione e  alla giustificazione della norma. — 4. In che consista la  differenza caratteristica tra 1’ Etica e le altre costruzioni  precettive. Compito dell’ Etica.         — 6 —    Cai*. IV. — La pregiudiziale, .sul modo di intendere il   compito normativo dell’ Etica .P a S - *   5. La progiudiziale sul compito normativo dell’Etica. G. Co¬  me esso sia inteso nei due indirizzi prevalenti. 7. Due  presupposti arbitrari comuni ad ambedue : a) che le norme  siano già determinate e note. — 8. b) che si accordino  fra di loro. -- Necessità di un criterio per la determina¬  zione. — 9. La soluzione dell’indirizzo sociologico - Suo  difetto capitale: non vale a giustificare le norme. — 10. La  soluzione dell’ indirizzo prammatistico-idealistico. 11.  Difetto capitale : la costruzione metafisica postulata, come  qualsiasi costruzione metafisica, non serve a determinai e   10 norme.   Cap. V. — Il preconcetto fondamentale .P»g- G6   12. Presupposto comune ai due indirizzi. Da questo nasce l’an¬  titesi tra esigenza scientifica (determinazione) ed esigenza  etica (giustificazione). — 13. Legittimità di porre il pio-  bleina in una forma diversa. — 14. Conclusione della Cri¬  tica Preliminare.   PARTE III.*   (Cap. Vl.-IX.)   La dottrina delle due Etiche e le esigenze  di una scienza normativa morale.   Cap. VI. — Il criterio del limite dell' evoluzione e del¬  l’adattamento completo non serve a determinare   11 tipo di condotta cercato . l )a S- 71   Due tesi distinte nella dottrina delle due Etiche; la validità   dell’ una non dipende da quella dell’ altra. — 1. 11 tipo  di società giusta non è determinato dal limite dell’ evo¬  luzione. — 2. Nè dall’ adattamento completo. — 3. Su  quali dati sia costruito veramente ; quale posto tenga nella  costruzione dello S. il postulato dell adattamento com¬  pleto.   Cap. VII. — Il criterio del piacere puro, corrispondente  all’adattamento completo, non serve a giusti¬  ficare il tipo di condotta proposto .pag. 82          4 e 5. Il piacere puro non può essere il criterio della massima  desiderabilità. — 6. La questione del « fine » e dei fini -  Soluzione illusoria trovata nel termine felicità e altri equi¬  valenti. — 7. Equivoco nell’identificazione dell’ oggetto  dell’ attività col piacere. — 8. Quale possa essere il fine  che soddisfa alla doppia esigenza della determinazione e  della giustificazione delle norme.   Vili. — Il tipo di .società giusta dello Spencer . . pag. 94   9. Come concepisca la società giusta lo Spencer. Presupposto  illegittimamente assunto dalla biologia. 10. Difetto  fondamentale : Incocrenza fra il tipo dell’ uomo giusto c  il tipo della società giusta. — 11. Difetto che ne deriva  nella relazione tra giustizia e beneficenza. — 12. L’ in¬  dividualismo dello Spencer e il postulato della giustizia.   XX. — Ufficio e limiti di una costruzione scienti¬  fica dell' Etica .. • • P a S- 100   13. Come debba concepirsi un tipo ideale di società giusta.   _ 14 . Etica Pura ed Etica Applicata. — 15. Conclusioni   della Critica. — 16. Presupposto fondamentale, e carat¬  tere ipotetico dell’Etica come scienza normativa.         INTRODUZIONE    1. — Pubblicando nel Giugno del 1879 I dati  dell’Etica prima che fossero composti il II e il III  volume dei Principii di Sociologia, lo Spencer giu¬  stificava questa deviazione dall’ordine del suo pro¬  gramma col timore di non poter compiere l’opera  finale della serie: I principii di Etica.   « Degli indizi che in questi ultimi anni si ripetono con maggior  frequenza e chiarezza m’hanno avvertito che la salute, se non la  vita, mi può venir meno per sempre, prima che io compia l’ultima  parte del compito che ho assegnato a me stesso. Quest'ultima parte  è quella per la quale io considero come sussidiarie tutte le parti pre¬  cedenti. Il mio primo Saggio su L’Ufficio proprio del Governo scritto  fin dal 1842 indicava vagamente il mio pensiero intorno a certi  principi generali di bene e di male nella condotta politica ; e da  quel tempo in poi il mio fine ultimo , lasciando indietro tutti i fini  prossimi, è stato quello di trovare una base scientifica ai prìncipi  del giusto e dell’ingiusto nella condotta in tutta la sua estensione.  Lasciare incompiuto questo fine, dopo aver fatta una preparazione  cosi ampia per raggiungerlo, sarebbe una sventura alla cui proba¬  bilità non posso pensare senza sgomento^_e_sono ansioso di evitarla,  se non del tutto, almeno in parte ». (1).   (1) The Principles of Ethics. Pref. to Part. I. (wheu first issued  separately.) London 1892. Voi. 1. p. VII.         — 10 —    Qualche cosa di simile alla catastrofe preveduta  sopraggiunse infatti; perchè dopo un lento decadi¬  mento e indebolimento progressivo egli fu costretto  dal 80 al 90 a sospendere qualsiasi lavoro. Fortu¬  natamente nel 90 potè riprenderlo: ed anche allora,    la sua prima preoccupazione fu quella di compiere  i principi di Etica; e pose subito mano a quella  parte della Morale, che dopo i Dati gli pareva più  importante: la IV a (Giustizia) (1).   Colle parole e col fatto egli mostrava dunque  che Tintento supremo al quale consapevolmente  convergevano tutti i risultati della sua specu¬  lazione, era u n intento mor ale. Par che riecheggi  in lui la voce di Spinoza: Finis in scientiis est  unicus ad quem omnes sunt dirigendae (2). E in p   realtà, come le idee madri della sua teoria pene¬  trano e illuminano tutti gli scritti suoi, anche i  minori, così vi circola dentro e li riscalda il soffio  vigoroso del suo ottimismo; e la dottrina dell’evo¬  luzione, par che diventi nel suo pensiero sopratutto  la comprensione del processo naturale e necessario  che produrrà in un avvenire lontano ma sicuro una  umanità giusta e felice. Animata cosi di speranza,  la dottrina prende colore di fede. E veramente egli  la professò come una fede; non soltanto visse per  la sua dottrina, ma visse la sua dottrina. E i prin-     (1) Op. cit. Pref. to Part. IV. (wlien first iss. sep.) Voi. 2. p. Vili.   (2) De. Intell. Emend. II, 16 nota.     — 11 —    cipi che pone a fondamento della morale e del diritto,   € di cui vuol trovare le ragioni nelle leggi stesse  dell’universo, ispirano e governano con indomita  costanza tutti i suoi giudizi e tutte le sue opinioni,  da quelle sulla Educazione a quelle sull’Etica delle  carceri, dalle idee sulla Morale Politica Assoluta  alle proteste contro il « br igantaggio politi co », dalle  ironie contro «la Sapienza collettiva» a quelle contro  « i diecimila sacerdoti della religione d’amore che!  non apron bocca quando la nazione è mossa dalla '  religione dell’odio. »   2. — Quell a unità e solidarietà di pr i ncipi teo¬  r ici e pratici , p er cui la sua mora le si presenta come  s cienz a ella sua scienza come una morale, e questo  continuo cimentare che egli faceva i suoi principi  con tutti i problemi più vivi del suo tempo, onde la  sua dottrina pareva prender veste di programma so¬  ciale e politico, hanno certamente contribuito a pro¬  durre^ questo doppio effetto: che la preoccupaz ione , »  morali' si insinuasse anche nella critica delle sue  dottrine teoriche; e che l’opera sua, considerata  prevalentemente, se non talora quasi esclusiva-  mente, come l’espressione di certe tendenze e di  un certo indirizzo religioso morale economico poli¬  tico, apparisse, col prevalere di tendenze e di aspi¬  razioni diverse, invecchiata c oltrepassata di più,  e più presto, di quel che altrimenti sarebbe apparso.   E cosi potè facilmente accadere che anche certi   cì tu? ■fot** v* w                 — 12 —    principi, certi metodi e certe ipotesi fossero lasciati  in disparte, o si stimassero superati e come logori  e fuori d’uso, non perchò se ne fosse mostrata la  falsità o la infondatezza, ma perchò apparivano con¬  nessi e solidali con quel sistema o quell’indirizzo  che si giudicavano superati.   Ora se è vero che a intendere il significato e il  valore di una dottrina particolare è necessario con¬  siderarla nelle relazioni col sistema di dottrine di  cui fa parte, non è perciò meno legittimo conside¬  rare se essa possa aver valore e segnare un acquisto,  anche all’infuori della validità di quel sistema e di  quelle altre dottrine, colle quali primamente si  svolse.   3. — L’intento di questo scritto ó appunto di  esaminare il valore teorico e metodico della distin¬  zione tra Etica Assolut a ed Etica Relativa; la quale  ò bensì, nel pensiero dello Spencer, parte integrante  del suo sistema, ma hg, secondo il mio avviso, ra¬  gione di essere, indipendentemente dall’applicazione  che egli ne fa e dai postulati che l’hanno suggerita.   Perciò si divide naturalmente in due parti: espo¬  sitiva e critica; la prima rivolta a mettere in chiaro  le ragioni e il significato della distinzione nel pen¬  siero dello Spencer; la seconda a esaminare la pos¬  sibilità e la utilità di mantenerla e applicarla sotto  una forma diversa.   L’esposizione comprenderà pure necessariamente        due parti: una che richiama, in modo breve quanto  è possibile ma esatto, il concetto informatore e i  lineamenti fondamentali di tutta l’Etica; l’altra  che traccia più distesamente la dottrina particolare  esaminata.           Parte I    ESPOSIZIONE    Gap. I. — La dottrina etica in generale.   1. — Q uella legge di evoluzione , che si mani¬  festa nell’intero univ erso visibi le, nel sistema solare  come un tutto, nella terra come parte di questo,  nella vita in generale, e nella vita di ciascun orga-  nismo individuale, nei feno meni ment ali degli esseri  animati fino al più elevato; qu ella stessa legge si  manifesta nei fenomeni della vita umana e sociale  é quindi a nche in quei fenomeni della cond otta, dei  q uali tratta la morale . In conformità di questa legge] j^etWnr.<******  e delle leggi via via subordinate in cui essa si ri¬  frangevi produce una el evazione^progres siva nelle **   forme della vita sub-umana ed umana, la quale si  traduce in un a dattamento s empre migliore, più  esteso e più durevole alle condizioni da cui dipende  l’esistenza dell’individuo, e l’esistenza della specie;  e, dove la vita sociale apparisca, l’esistenza della  società. Per l’uomo adunque l’adattamento riguarda  tre ordini di condizioni; ossia è di tre forme; e,  benché si possa astrattamente considerare ciascuna  forma per sè, tuttavia, per la connessione naturale  e necessaria dei fattori dai quali dipendono, le tre    V 1- 1 1 hu>«1J * •*» ^    ...J   ìS I f. .V> ( | w   •v.etrii < ut»   ■yjUÌ* Ij.h* fif   Tri Jr « 4* G   VY. »Y * l.    yJ* ^    ' n -r?                   — 16 —    b      ^ '• W\«    ab    yfa c f l<»   Hit , .  UsJS      a j^jr^w<Mitr /***yn«  mi l|«*i# uUli" »    forme d’adattamento nella realtà procedono di con¬  serva con mutue azioni creazioni continue; cosicché  a ogni progresso in una forma di adattamento cor¬  risponde un progresso nelle altre forme. 11_limite,   ver so il q ua le tend ^questo processo, è l’adattamento  completo a tutte le condizioni della vita umana più  elevata; per il quale il massimo svolgimento della  vita individuale, e della parentale, e della sociale,  non solo si conciliano, ma si favoriscono a vicenda.   Questo adattamento completo implica non sol¬  tanto una perfetta conformità esteriore dell’operare  alle esigenze di una tal vita; ma implica del pari  una conformità correlativa e della struttura, e delle  attività, fisiologiche e psichiche; è insomma ad un  tempo adattamento della condotta e adattamento dei  fattori interni della condotta. Quindi anche le idee,  i sentimenti, le tendenze sono, nella loro qualità e  intensità e gradi di subordinazione, pienamente  adatti e conformati ai bisogni e alle esigenze della  vita in tutte le sue manifestazioni, e trovano nelle  forme di condotta corrispondenti il loro appaga¬  mento pieno e concordante. 11 che viene a dire che  l’adattamento completo attua in sé le condizioni  della massima felicità .   Adunque, ma ssim a elevazione della vita, adat¬  tamento eoj puleto . m assima felicità, sono per lo  Spencer tre concetti che coincidono; o, meglio, sono  faccie o aspetti diversi di un medesimo risultato     ò'yrwrC         — 17    finale, ed esprimono il limite verso il quale tende  l’evoluzione della vita umana nello stato sociale.   2. — E’ appunto per q uesta ide ntificazione, che  sta in fondo al pensiero dello Spencer, tra evoluzione  e aumento di felicità, che egli può porre come ottima  la cpndotta rispondente al limite della evoluzione.  Perchè lo Spencer, come è noto, ammette esplici¬  tamente che il fine ultimo, espresso o so ttinteso,  d ell’operare, non può essere che una forma di co ¬   s cienza desiderab ile, cioè di piacere ; e che la con¬  dotta ò buona nella misura che essa apporta, tenuto  conto di tutti gli effetti presenti e futuri sopra di  sè e sopra gli altri, un avanzo dei piaceri sui  dolori.   Totalmente buona, dunque, o perfetta, non è  che la forma di condotta che coyà&ponde a quel  limite; ogni altra forma diversa, ossia adatta a  gradi di evoluzione più o meno lontani dal limite,  non può essere che imperfetta, ossia buona relati¬  vamente, non assolutamente. Quindi due Etiche :  Etica Assoluta che determina le leggi della condotta  ottima; ed Etica Relativa che cerca di stabilire per  a pprossi mazione quale sia la condotta relativamente  buona, ossia la condotta, che, date certe condizioni  reali di svolgimento e di adattamento incompleto,  è la migliore, o la meno lontana dalla condotta per¬  fetta. E quindi la necessità, e la priorità logica del¬  l’Etica Assoluta; le cui determinazioni riguardano            <&• at*'*J)*    ch> i V* i rt -. < 'f*    (■    3>u7 PK<kJf   J* fattiti^ , r    f d f I ^ fa t o ^ if       y\               — 18 —    relazioni più generali, più semplici, più esattamente  definite di quelle contemplate dall’Etica Relativa.   3. — Or come si costruirà l’Etica Assoluta? ossia  quale sarà il metodo? L o Spencer si accorda cog li  Utilitarist i che lo precedono nell’assumere come cri¬  terio per giudicare la condotta e determinarne le  norme l a natura degli effetti o dei risulta ti. Ma se  ne distingue subito per il pr ocedim ento col quale  egli crede che questi effetti dei diversi modi di con¬  dotta si possano e debbano conoscere. Per gli Utili¬  taristi che lo precedono è l’induzione empirica, per  lui la deduzione.   Non si tratta per lo Spencer di trovare che, in  un certo numero di casi, certi danni o certe utilità  si accompagnano con certi atti o cert’altri, e di in¬  ferirne che rapporti simili si manterranno nell’av¬  venire; si tratta invece di determinare comee^er-  chè alcuni modi di condotta siano dannosi e altri  utili; o più chiaramente, quale condotta debba essere  dannosa e quale debba essere utile. Non è dunque  sopra certe relazioni empiricamente osservate, ma  sulla connessione causale necessaria tra le azioni  ed i loro effetti che deve fondarsi la determinazione  delle norme morali. E, poiché questa connessione  deve essere alla sua volta una conseguenza neces¬  saria della costituzione delle cose, deve essere pos-  sib ile dedu rre da principii fondamentali quali specie  di azioni tendano a produrre felicità e quali a prò-            — 19      durre infelicità. E le deduzioni così ottenute deb¬  bono essere riconosciute come leggi di condotta e  aver valore indipendentemente da una estimazione  diretta (individuale e occasionale) del piacere e del  dolore.   Ciò che distingue adunque l’Utilitarismo che lo  Spencer chiama Razionale, dall’Empirico, e dà ca¬  rattere di rigore scientifico alla ricerca morale, è  il riconoscimento pieno e adeguato della causalità  naturale dei fenomeni della condotta; e il vero me¬  todo scientifico dell’ Etica, come delle altre scienze  che abbiano superato lo stadio empirico, deve con¬  sistere nel cercare e nel costruire in sistema non  alcune relazioni empiricamente stabilite, ma le re¬  lazioni necessariamente esistenti tra cause ed ef¬  fetti in tutta quanta la condotta.   4.— Ma se le leggi della condotta debbono de¬  terminarsi per deduzione necessaria, quali sono i  dati sui quali questa deduzione deve fondarsi ? I  fatti di cui si occupa l’Etica non costituiscono un  ordine nuovo che si distacchi da un ordine infe¬  riore o precedente, come, per es., le formazioni or¬  ganiche rispetto alle inorganiche, o i fenomeni  sociali rispetto ai biologici : ma appartengono per  un verso alla biologia (1) in quanto sono effetti in-    UU 0 If-r'i    (1) Lo Spencer li considera anche come appartenenti alla fisica,  in quanto, esaminati esternamente, si riducono a movimenti e  combinazioni di movimenti che cooperano a produrre una forma di           V-fT *    — 20 —    terni ed esterni di fenomeni vitali prodotti nel tipo  più elevato degli animali; e per un altro alla psi¬  cologia in quanto sono coordinamenti di azioni su¬  scitati dai sentimenti e guidati dalla intelligenza ;  finalmente in quanto queste azioni direttamente o  indirettamente riguardano esseri associati, appar¬  tengono alla sociologia. La condotta è adunque ad  un tempo una formazione biologica, una formazione  psichica, e una formazione sociale: e perciò è nei  risultati delle scienze corrispondenti che si devono  cercare i principii fondamentali, i dati dell’Etica. E  quindi i dati da cui si debbono dedurre le norme  dell’Etica Assoluta sono forniti dalle condizioni che  la biologia, la psicologia e la sociologia indicano  rispettivamente come proprie di un adattamento  completo.   Ora, in conformità alle leggi di queste scienze,  la condotta corrispondente a un adattamento com¬  pleto ossia la condotta ottima, è caratterizzata  dalle condizioni che si possono riassumere nei se¬  guenti tre punti :   I. Condizioni biologiche : Co rrispon denza per¬  fetta tra gli organi e facoltà umane e le attività  necessarie alla vita completa. Il che importa che  tutte le attività necessarie al massimo svolgimento   equilibrio più o meno regolare e durevole. Ma questa considera¬  zione (aspetto fìsico della condotta) può qui senza danno essere tra¬  lasciata.          I    — 21 —    della vita per sò e per gli altri trovino il loro com¬  pimento nell’ esercizio spontaneo di facoltà debita¬  mente proporzionate e producenti quando entrano  in azione il loro quantum di soddisfazione (cioè di  piacere).   II. Condizioni psicologiche: Corrispondenza per-  fet ta dei sentimenti, come motivi deir operare, ai  I nsog ni. 11 che importa che i piaceri e i dolori, cui  danno origine i sentimenti distinti come morali,  siano, al pari dei piaceri e dolori fisici, impulsi  positivi e negativi proporzionati nella loro forza  ai modi di operare richiesti.   III. Condizioni sociologiche : Accordo perfetto  t rp le attività dei consocia ti. Il che importa che  tutte le attività conducenti alla vita completa di  ciascuno non solo non impediscano direttamente nè  indirettamente, ma favoriscano la vita completa di  tutti. (Stato di pace permanente; cooperazione vo¬  lontaria; nessuna aggressione diretta o indiretta;  scambio di servizi gratuiti (1).   La condotta ottima è dunque quella che sod-    (1) Non è difficile vedere come l’assumere le condizioni sue¬  sposte equivalga a supporre direttamente o indirettamente eliminate  tre antinomie che sotto varie forme compaiono , si può dire , in  tutta la storia della morale ; 1’ antinomia tra il piacere presente e  il piacere futuro, cioè tra piacere e utilità; l’antinomia tra il bene  proprio e il bene degli altri, tra ciò che è richiesto dalla felicità  individuale e ciò che è richiesto dalla felicità generale ; e 1’ anti-  nojnia tra sentimenti egoistici e sentimenti altruistici, tra la ten¬  denza al piacere e la coscienza del dovere.             _ 22 —    disfa a tutte queste condizioni ad un tempo; e però  compito dell’Etica Assoluta resta quello di dedurre  da queste condizioni le norme a cui tutte le forme  di attività umana, a qualunque fine siano volte,  debbono conformarsi per essere totalmente buone.   5. — Per tal modo sono determinati i principi  o i dati sui quali deve costruirsi l’Etica Assoluta:  le condizioni della vita umana, individuale, paren¬  tale e sociale, proprie dello stato di adattamento  perfetto; è determinato il metodo: la deduzione;  ed è posto fuori di contestazione il fine ultimo clic  giustifica le norme così dedotte e dà alla condotta  proposta valore di ottima: la massima felicità uni¬  versale.   Ma restano d ue grandi difflcol tà : una incoc¬  renza, almeno apparente, da togliere, e una lacuna  da colmare. L’incoerenza è questa : Come si può  sostenere che il fine della condotta buona è la fe¬  licità, se le norme di essa condotta devono essere  dedotte dalle leggi necessarie della vita nello stato  sociale, e devono valere indipendentemente da ogni  estimazione diretta e individuale del piacere e del  dolore ì 0 , in altri termini, come si risolve l’antitesi  tra il fine assunto e il metodo proposto?   La lacuna è la seguente : Le condizioni che si  pongono come proprie della condotta ottima e che  la deduzione morale deve prendere come dati , sono  esse possibili, o non esprimono delle esigenze in    tvT* • **it/«* •>*» Vfi 1    «*»* ■   T^ e       — 23 —    tutto o in parte incompatibili fra di loro? Insomma  quello stato finale di adattamento completo sotto  tutti i rispetti, nel quale le condizioni contemplate  sono raggiunte, in qual modo e per qual via può  ottenersi ì (1).   L’incocrenza è risolta così: Il fine è la felicità;  ma questa, a mano a mano che la vita si eleva,  dipende da una serie sempre più lunga e compli¬  cata di mezzi, ciascuna delle quali deve essere rag¬  giunta perché sia possibile il fine. Le norme mo¬  rali rappresentano la serie più generale e prelimi¬  nare di mezzi, appunto perchè costituiscono la serie  più lontana dal fine, e quella che deve essere  osservata prima di tutte le altre; la condizione  delle altre condizioni. Ora siccome tutte le attività  necessarie alla vita tendono a diventare una sor¬  gente diretta di piacere, (perchè i piaceri sono  relativi alla struttura e questa si modifica se¬  condo le attività) così le fo rme di attività morale,  appunto perchè necessarie, debbono diventare una  sorgente diretta di piacere. Per tal modo, l’os¬  servanza delle condizioni che conducono alla fe¬  licità diventa direttamente piacevole, ed è adem¬  piuta. senza che essa felicità (che rimane il fine    (1) L’analisi e la soluzione di queste due questioni, le quali si  legano per parecchi nessi tra di loro, ma che per chiarezza bisogna  considerare a parte , occupano i cap. IX-XtV della I.» Parte dei  Principi di Etica.        ultimo) sia lo scopo diretto e immediato della  condotta ; ossia, (ed è un pensiero che fa ricordare  Aristotele) lo stato di godimento finale sopraggiunge  come una conseguenza, non direttamente voluta nò  chiaramente rappresentata, all’ esercizio delle atti¬  vità morali divenuto per sè immediatamente gra¬  devole.   La soluzione della seconda difficoltà derivante  dalla lacuna notata, si trova nella conciliazione  oggettiva , tra bene proprio e bene altrui, e nella  conciliazione soggettiva, tra egoismo e altruismo,  raggiunte per effetto e della solidarietà crescente tra  le condizioni di vita dei singoli e quelle del tutto,  e dello sviluppo concomitante della simpatia.   Colla soluzione di queste due difficoltà lo Spen¬  cer intende dunque che sia dimostrata la possibilità  — dal punto di vista scientifico — e la legittimità  dal punto di vista morale — della sua costruzione;  e con questa dimostrazione il pensiero che informa  la trattazione dell’Etica, è nelle sue linee generali,  compiuto (1).   Ed ora , tracciato il disegno in cui si inquadra   (1) La II. a Parte (Le induzioni dell’Etica), che nella traduzione  francese porta il titolo di Morale de* differente peuples, dall’esame  delle diversità di idee e sentimenti morali dei diversi popoli rac¬  coglie la conferma di alcuni dei principi fondamentali dedotti dalle  leggi della vita nello stato sociale ; e principalmente della estrema  variabilità dei sentimenti morali, e della corrispondenza generale  di due tipi opposti di moralità ai due tipi di coesistenza e coope-      - 25 —    la dottrina particolare che più direttamente ci in¬  teressa, diciamo alquanto piii distintamente di que¬  sta.    Cap. II. — La dottrina delle due Etiche.    I. S’è visto come nel pensiero dello Spencer  la condotta ottima sia la condotta pienamente adatta,  la condotta che c orrispon de al limite dell’evolu¬  zione; mentre l e forme di condotta più n _mpnn lon¬  tane da quel limite so no, di molto o di poco, meno  adatte, cioè meno buone; onde la distinzione di Etic  A ssoluta ed Eftej> (1). Ora si presentano   spontanee due domande: l.° Perchè introduce lo  Spencer, contro il modo comune di comprendere  1’ ufficio dell’ Etica, questa distinzione t ra Moral e  A ssoluta e Relativa ? Non è forse compito del l’Etica     (/    razione sociale (tipo militare e tipo industriale). Le altre quattro  parti, Etica della Vita Individuale (IH. a ), ed Etica della Vita So¬  ciale : la Giustizia (IV.»), la Beneficenza Negativa (V. a ) e la Be¬  neficenza Positiva (VL S ) contengono le dednzioni o applicazioni  particolari ; nelle quali, in conformità ai principi e al metodo ac¬  cennati, vogliono essere determinate le norme della vita privata e  deila vita pubblica quali risultano rispettivamente dalle condizioni  contemplate dall’ Etica Assoluta e da quelle contemplate dall’ Etica  Relativ a.   (1) Notiamo subito, benché l’avvertenza debba parer quasi inu¬  tile , che per lo Spencer la parol i fl.v<vofn^o non ha nè può a vere  n ell’Etica un significato metafisi co ; le norme etiche per lui non  hanno ragione di essere all’ infuori dell’ esistenza animata quale  si manifesta fenomenicamente; all’infuori di esseri capaci di pia¬  ceri e di dolori.    2                   — 26 —    quello di stabilire le norme della condotta retta,  della giustizia pura, e, senza curare gli impedi¬  menti e le imperfezioni che i difetti della natura  umana possono ingenerare, presentare il tijoo ideale  di pe rfezio ne al quale ciascuno deve cercare di av¬  vicinarsi? E se così è. non ò del tutto oziosa_e vi-  ziosa la distinzione ?   2.” Ammesso che dal punto di vista speciale  dello Spencer questa distinzione sia legittima, non  è un fuor d’opera l’Etica Assoluta, dal momento  elle la realtà presente ci dà uno stato di adatta¬  mento imperfetto, ossia assai diverso da quello che  essa suppone ?   L’esposizione del pensiero dello Spencer intorno  -alle foie Etiche ( 1 ) mi pare si possa acconciamente  raccogliere in due parti, nelle quali trovi succes¬  sivamente risposta ciascuna delle due questioni. Co¬  minciamo dalla prima.   2. — Si crede comunemente che si possa deter¬  minare un tipo di condotta assolutamente giusta  in condizioni reali di esistenza imperfetta, mentre  questa determinazione non è possibile; e, se fosse,  non darebbe il tipo voluto. Sia nei giudizi dei mo¬  ralisti, sia nei discorsi comuni, djie postulati^ sono  tacitamente accettati come veri; e pare infatti che  senza di essi non sia possibile giudizio morale, per-    (1) Op. cit. Ch. XV : Absolute and Relative Etkics.              — 27 —    che la distinzione stessa tra atti giusti e atti in¬  giusti sembra implicarli necessariamente. Sono que¬  sti: l.° Che in ogni caso vi sia un modo di operare / \  ^assolutamente giusto. 2.° Che sia possibile stabilire  quale sia. Ma l’analisi di un gran numero di azioni  dimostra che in casi assai numerosi non è possi¬  bile il giusto, ma soltanto un minimo ingiusto; e  in casi pure numerosi non è nemmeno possibile  determinare in che cosa questo minimo ingiusto  consista.   Il giusto assoluto esclude del tutto il dnltw che  è il correlativo di qualche specie di male, di qual¬  che divergenza da quell’adattamento perfetto che  soddisfa pienamente a tutte le esigenze della vita  completa. Se il concetto di condotta buona è, in  ultima analisi (1), il concetto di una condotta che  produce in qualche parte un avanzo di piacere; e  di condotta cattiva, che produce un avanzo di do¬  lore; il bene o il giusto assoluto nella condotta  può esser quello soltanto che produce p iacere pur o,  pi acere non misto a dolore di sorta . E quindi la  condotta che produce qualche conseguenza dolorosa  ò parzialmente cattiva, e la forma più elevata che  una condotta cosifatta può raggiungere ò il mi¬  nimo ingiusto, il giusto relativo.   Ora le forme di adattamento incompleto pre-    (1) Per questa analisi v. op. cit. Parte I.» Cap. IV.                     — 28 —    WÙ («ino;   >1 'è ntiJj 1    sentano, più o meno vasto e grave, un doppio di¬  fetto : Discordanza od antitesi fra i tre ordini di  fini della vita, per la quale atti che producono uti¬  lità o piacere all’ individuo o alla prole portano  danno e dolore agli altri, e viceversa ; e discordanza  anche nello stesso ordine tra fini immediati e me¬  diati, presenti e futuri ; per la quale 1’ azione ri¬  chiesta dall’ utile avvenire può esser sorgente di  dolore nel presente, o la soddisfazione di un desi¬  derio immediato può impedir di raggiungere un  bene lontano e mediato, o esser causa di un male  futuro. Nella misura in cui queste due specie di  incongruenze (le quali si incrociano e si complicano  fra di loro) fanno sentire i loro effetti, le azioni  devono produrre una certa somma di dolore sia  sull’agente sia sugli altri. Ora « finché v’ ò dolore  v ’è male ; e la condotta che apporta qualche male  non può esser giusta assolutamente ».   A chiarire questa distinzione lo Spencer cita  degli esempi di azioni assolutame nte giuste e di  altre solo relativamente giuste. Una madre sana  che allatta un bimbo sano, un padre che, dotato  di eccitabilità simpatica, partecipa ai giuochi del  figlio e li guida, sono esempi della prima specie;  nell’un caso e nell’altro l’azione produce piacere  a chi la fa e a chi la riceve; e aiutando lo svi¬  luppo fisico o quello psichico, o l’uno e l’altro in¬  sieme, è utile al benessere futuro ; cioè produce di-      — 29 —    rettamente e indirettamente soltanto piacere senza  dolore. Del pari imo scambio fatto di pieno accordo  e con soddisfazione e utilità reciproca ; e gli atti  di benevolenza di chi fornisce una notizia o un  consiglio, o chiarisce un equivoco, o compone un  dissidio tra amici, possono essere classificati come  giusti assolutamente per la medesima ragione.   Degli esempi addotti dallo Spencer di azioni  solo relativamente giuste, scelgo due che mi paiono  tipici anche per il contrasto che offrono col modo  di giudicare comune: La cura di molti figli cagiona  a una madre assai dolori, ma le sofferenze imme¬  diate e le lontane che l’incuria apporterebbe supe¬  rerebbero di gran lunga quei dolori. La condotta  giudicata buona in questo caso è quella che pro¬  duce minor male ; ma non è ottima. È la meno in¬  giusta. non 1’ assolutamente giusta. Così 1’ allonta¬  namento dei clienti da un negoziante che esiga  prezzi troppo alti o venda merci scadenti, o falsi  la misura, fa diminuire il suo benessere e forse  apporta danni e dolori ad altre persone a lui con¬  giunte; ma il salvar lui da questi mali e sopportar  quelli che la sua condotta cagiona, produrrebbe un  male assai più grave e generale. L’abbandono è  perciò giustificato: ma l’atto è solo relativamente  giusto.   3 — Riconosciuta così la verità che una gran  parte della condotta umana non è giusta assoluta-       — Bu¬  rnente, si deve riconoscere 1’ altra verità che in  molti casi non é possibile stabilire quale sia il mi¬  nimo ingiusto. É facile trovarne le ragioni, se si  considerano gli effetti che quella stessa discordanza,  già rilevata, tra i fini della vita, deve produrre.  V’ è un limite fino al quale é relativamente giusto  che un genitore faccia sacrifizio di sè stesso pel  vantaggio dei figli, e v’è un limite oltre il quale  l’abnegazione non può spingersi senza ch’egli ap¬  porti non soltanto a sò ma a tutta la famiglia  danni maggiori di quelli che il sacrifizio tende ad  impedire. Chi può dire quale sia questo limite?  Dipendendo esso dalla costituzione e dai bisogni  delle persone in causa, non è neppure in due casi  il medesimo, e non può essere per ciascun caso più  che una congettura. Un commerciante che sia tra¬  volto nel fallimento d’un suo debitore e posto nella  necessità di fallire egli stesso se non è aiutato,  deve o no domandai^un prestito a un amico? Il  prestito potrebbe trarlo dalle difficoltà, e in questo  caso non sarebbe cosa ingiusta verso i suoi credi¬  tori non chiederlo ? Ma fors’anco non lo salverebbe,  e allora non è una frode procurarselo? Benché in  casi estremi possa esser facile decidere, come sa¬  rebbe possibile in tutti quei casi in cui anche il  più intelligente e competente non può calcolare le  probabilità ?   4 — Questo doppio errore del confondere il     r    — 31 —   giusto assoluto col minimo ingiusto, e del credere  che si possa in ogni caso stabilire quale sia, nasce  dall’ errore che si commette nel concepire il tipo  della condotta, la condotta dell’ uomo ideale.   Si suppone clic l’uomo ideale viva e agisca  nelle condizioni sociali esistenti.   Ciò che si cerca determinare è, non quali sa¬  rebbero le sue azioni in circostanze tutte- insieme  mutate, ma quali sarebbero, date le condizioni pre¬  senti. E questa ricerca ò vana per due ragioni :  La coesistenza di un uomo perfetto e di una società  imperfetta è impossibile ; dato che potessero coesi¬  stere, la condotta che ne seguirebbe non fornirebbe  il tipo morale cercato.   « In primo luogo, date le leggi della vita come  esse sono, un uomo di natura ideale non può es¬  sere prodotto in una società composta di uomini-  che hanno una natura lontana dall’ ideale. Aspet¬  tarsi che tra uomini organicamente immorali ne-  sorga uno organicamente morale è come aspettarsi  di veder nascere tra i Negri un bambino di tipa  inglese. Se non si vuol negare che il carattere di¬  penda dalla struttura ereditata, si deve ammettere  che in ogni società ciascun individuo discende da  uno stipite, che risalendo a poche generazioni si  ramifica per ogni parte nella società e partecipa  della natura media di questa ; e che quindi, nono¬  stante spiccate differenze individuali, deve conser-    — 32 —    varsi una comunanza di natura tale da impedire  che un uomo, qualunque sia, raggiunga un tipo  ideale, finché il resto della società rimane di gran  lunga inferiore.   « In secondo luogo, la condotta ideale, quale è  contemplata dalla teoria morale, non è possibile  per P uomo ideale in mezzo ad uomini costituiti  diversamente. Una persona assolutamente giusta c  perfettamente simpatica non potrebbe vivere e  operare in conformità alla natura sua in una tribù  di cannibali. Tra un popolo perfido e al tutto privo  di scrupoli, una intiera veridicità e franchezza deb¬  bono apportare rovina. Se tutti intorno a lui rico¬  nóscono solo la legge del più forte, un uomo la cui  natura non gli permetta di inlliggere dolore agli  altri deve soccombere. Fra la condotta di ciascun  membro della società e la condotta degli altri vi  deve essere per necessità una certa congruenza.  Un modo di operare interamente diverso dai modi  di operare prevalenti non può continuare con buon  esito, ma deve condurre alla morte dell’ agente, o  della sua discendenza, o di ambedue » (1).   Adunque perchè l’uomo ideale possa servire di  tipo, egli deve essere concepito non a sé, senza re¬  lazione colle condizioni che sono necessarie perchè  la condotta possa essere giusta, ma in corrispon-    (1) Ib. § 106 p. 279-80 dell’ed. cit.    — 33 —    denza con queste ; V uomo ideale deve essere con¬  siderato come esistente in una società ideale.   Perciò, secondo l’idea dello Spencer, il voler,  per esempio, stabilire quale sarebbe la condotta  deiruomo ideale quando fosse posto nel bivio o di  farsi gettare sul lastrico colla famiglia, o di men¬  tire alle sue convinzioni politiche, sarebbe perfet¬  tamente vano ; perchè le condizioni cosi supposte  contraddicono a quelle richieste dalla definizione  dell’uomo ideale. In una società ideale, nella quale  soltanto può concepirsi 1’ uomo ideale, non esiste  violenza e non esistono abusi ; nè vi può essere  collisione tra i modi di sentire e di operare richiesti  dal bene proprio e della discendenza, e    chiesti dal bene pubblico.     Viene in mente, e lo ricordo perchè  può servire di commento al pensiero delloCéàencer,  ma perchè la somiglianza è significativa, queh^ udjko ^  dei Promessi Sposi, nel quale il padre Cristoforo  è invitato a far da giudice in una questione di  cavalleria. Suonava rumorosa la disputa tra i com¬  mensali di Don Rodrigo su questo punto: se fosse  lecito a un cavaliere bastonare il messo che gli  consegna un cartello di sfida senza avergliene chie¬  sto licenza ; e il padre Cristoforo, chiamato in causa,  dopo essersi invano schermito, esce finalmente in  quella sentenza che fa meravigliare, tanto pare  fuor di proposito, tutti quei dialettici della cavai-    S     — 34 —    leria : « 11 mio debole parere sarebbe clic non vi  fossero nò sfide, nè portatori, nè bastonate ».   Ecco riconosciuta nel caso particolare l’esigenza  fondamentale dell’Etica Assoluta dello Spencer:  Non vi può essere condotta giusta finché vi sono  condizioni contrarie alla giustizia.   Ma la realtà presente e viva è appunto così.  « Oh ! questa è grossa », risponde infatti il conte At¬  tilio. « Mi perdoni, padre, ma ò grossa. Si vede  che lei non conosce il mondo ».   E se è il mondo coni’è quello con cui si ha a  fare, 1* ufficio dell’ Etica non sarà quello di stabi¬  lire quale deve essere la condotta nel mondo reale  presente, non in un mondo ideale avvenire? 0,  almeno, non ò inutile, anche ammessa la distin¬  zione Spenceriana, correr dietro al fantasma di  una condotta ottima, adatta a uno stato di perfe¬  zione, che l’evoluzione apporterà, sia pure, ma che  per noi non esiste ?   5 — A questa seconda domanda risponde la di¬  mostrazione della precedenza necessaria — nell’or¬  dine della trattazione scientifica — dell’Etica As¬  soluta sull’ Etica Relativa.   In qualunque ordine di ricerche le verità scien¬  tifiche si sono raggiunte trascurando prima i fat¬  tori di perturbazione, che alterano ed oscurano  l’azione dei fattori fondamentali, e tenendo conto  soltanto di questi.    — 35 —    Quando la estimazione di questi fattori fonda¬  mentali, non, come si presentano nella realtà, ma¬  scherati e complicati di elementi secondari, ma  quali si suppongono idealmente con un processo di  astrazione, ha aperto la via a conoscere e formu¬  lare le leggi generali, allora diventa possibile la  estimazione dei casi concreti, tenendo copto dei fat¬  tori accidentali che nella realtà alterano i rapporti  i deali contemplati da quel le leg gi. Ma le leggi ge¬  nerali, le verità fondamentali, solo per questa via  si possono ricercare e scoprire, e solo con questo  procedimento il sapere passa dalla sua forma em¬  pirica alla sua forma razionale.   Per ottenere la formula che esprime il potere -ifjicfip»tv*  della leva s i suppone N una leva che non si pieghi , iàz<Jbz   ma sia assolutamente/rigid a ; un fulcro che non  abbia, come nella realtà, una certa superficie; e si  suppone che la potenza e la resistenza si esercitino  su un punto, invéce che su una parte più o meno  estesa della leva. Del pari la determinazione del  corso di un proiettile si ottiene trascurando dap¬  prima tutte le deviazioni prodotte dalla sua forma  e dalla resistenza dell’ aria. E il medesimo negli  altri casi. St abilite così q u este verità ideali, diventa  possibile tener conto degli elementi dai quali si è  fatta astrazione, delle complicazioni risultanti dal¬  l’attrito, dalla plasticità, dalla coesione, dalla resi¬  stenza dell’aria : e ottenere così una determinazione     ' Jt- ^ "(VOM, P-O               — 36 —    sempre più esattamente approssimata al l'atto reale.  Qui è manifesta la re lazione tra certe verità assolute  della meccanica e certe verità relative che impli¬  cano le prime, come è manifesto che non si possono  stabilire scientificamente le verità relative finché  non sieno formulate indipendentemente da queste  le verità assolute. Il che equivale a dire che la   ! scienza meccanica applicala può svilupparsi soltanto  dopo che si è sviluppata la scienza meccanica ideale.   Le medesime considerazioni valgono per la  scienza morale. È impossibile determinare con ap¬  prossimazione scientifica quale sia, date certe cir¬  costanze reali, il modo di operare meno ingiusto,  se non si conosce quale sarebbe il modo di operare  giusto ; e questo non si può conoscere se non si  suppongono eliminate tutte le circostanze che lo  impediscono o lo limitano e ne falsano i caratteri  ed i risultati: cioè, in breve, se non si suppongono,  scevre da ogni perturbazione, le condizioni ideali,  nelle quali è possibile l’operare assolutamente giusto.   A chiarir meglio questa relazione tra Etica As¬  soluta ed Etica Relativa lo Spencer ricorre a un  altro esempio di relazione analoga preso dalle scienze  biologiche; la relazione tra la Fisiologia e la Pa¬  tologia. La Fisiologia, nello studio degli organi e  delle funzioni che combinate costituiscono e con¬  servano la vita, suppone l’organismo sano e le  funzioni sane, non tenendo conto dei difetti, degli           — 37 —    eccessi, delle anomalie di cui si occupa la Pato¬  logia : e questa poi presuppone quella, perchè le  idee anche più rozze intorno alle malattie suppon¬  gono idee di stati sani di cui le malattie sono de¬  viazioni; e la conoscenza degli stati e dei processi  anormali e morbosi può diventare scientifica sol¬  tanto quando vi sia già una conoscenza scientifica  di stati e processi non morbosi.   Si milmeste l a Morale Assolut a deve precedere  laJSl orak ^llclativa ; la quale non deve applicare  sic et simpliciter alle condizioni particolari della  vita reale le conclusioni dell’ Etica Assoluta ; ma  riconoscendo ciò che vi è di diverso nella condotta  che corrisponde a uno stadio di vita imperfetta,  deve determinare di quanto essa si allontana dal  giusto e come si possa ottenere, date queste condi¬  zioni reali imperfette, la massima approssimazione  al giusto contemplato dall’ Etica Assoluta.   6 — Questi confronti coi quali lo Spencer in¬  tendeva illustrare il suo concetto intorno alla re¬  lazione fra le due Etiche e alla priorità logica del-  1’ Etica Assoluta sull’ Etica Relativa, si direbbe che  abbiano servito ad abbuiarlo ; e però non è fuor  di luogo qualche breve chiarimento.   Dall’esposizione che precede deve essere apparso,  spero, che è per una esigenza inerente alla natura  della ricerca scientifica che lo Spencer sostiene la.      V |    necessità che l’Etica Assoluta prec^g la Relativa; lì           — 38 —    e appunto por chiarire questa precedenza neces¬  saria egli cita l’esempio della precedenza analoga  della Meccanica Razionale rispetto alla Meccanica  Applicata, e della Fisiologia Normale rispetto alla  Fisiologia Fatologica. Nel pensiero dello Spencer la  priorità dell’ Etica Assoluta non è che l’applicazione  a un campo particolare di ricerche di un suo cri-   <--- 7   terio metodico generale; del quale egli trova la  conferma in tutte le scienze, che hanno superato   10 stadio empirico. Il paragone non è dunque, pro¬  priamente, tra la sua Etica Assoluta e la Meccanica  Razionale o la Fisiologia Normale, nè tra la sua  Etica Relativa e la Meccanica applicata o la Fisio¬  logia Patologica; non è, voglio dire, di quelle  scienze pure tra di loro, o di queste scienze appli¬  cate tra di loro ; ma è paragone tra le loro rela¬  zioni. E il significato del confronto è questo : che  tra le due Etiche, come le concepisce lo Spencer,  corre una relazione analoga a quella che intercede  rispettivamente tra le due Meccaniche (diciamo  così) e tra le due Fisiologie.   E in questo senso che il paragone deve essere  inteso ; e in questo senso è appropriato. Perciò,  quando la critica obietta che l’Etica ha caratteri  ed esigenze diverse dalla Meccanica e dalla Fisio¬  logia, può essere che abbia ragione, ma interpreta   11 confronto in un senso diverso da quello voluto  dallo Spencer. Perchè il concetto, per il quale il         — 39 —    paragone è assunto è, nella sua espressione più  semplice, questo: che anche per l’Etica la solu¬  zione scientifica o scientificamente approssimata  dei problemi più complessi richiede la soluzione  dei problemi più semplici. Il paragone non deve  dunque essere staccato da questo concetto e preso  con una significazione diversa; altrimenti si frain¬  tende e paragone e concetto ; e rimane oscurato  uno dei punti più importanti della dottrina par¬  ticolare ora esposta.   La quale non ebbe mai molta fortuna nò presso  i fautori di una morale scientifica, nè presso gli  av versa ri. Questi, preoccupati forse in generale dal  pensiero di mostrare la insufficienza dell’indirizzo  naturalistico, hanno veduto nella dottrina delle due  Etiche (illustrata da quei confronti!) sopratutto una  fi gliazione de l concetto meccanistico, e f’hanno com¬  battuta in nome delle esigenze della Morale; quelli  hanno notato nella affermata necessità di costruire  un’Etica Assoluta, una contraddizione colla teoria  dell’evoluzione, e col principio della relatività della  morale e del diritto: e l’hanno combattuta in nome  delle esigenze della scienza. Gli uni e gli altri hanno  considerato la dottrina particolare unicamente in  relazione colla dottrina generale colla quale si pre¬  sentava connessa, senza badare alle ragioni che la  possono legittimare all’infuori del sistema e della  forma speciale di applicazione che in esso ha trovato.      Parte IJ.    CRITICA PRELIMINARE:   LE QUESTIONI PREGIUDIZIALI E IL PRECONCETTO  DAL QUALE HANNO ORIGINE.    Cap. III. — La pregiudiziale dell’imperativo categorico.   La dottrina esposta traccia il piano che lo Spen¬  cer si è proposto di seguire per soddisfare al compito  da lui assegnato all’Etica: quello di determinare,  scientificamente le norme della condotta morale.]   Ma già intorno a questo modo di intendere l’uf¬  ficio dell’Etica incalzano lejtifficoltà e le obbiezioni;  le quali devono essere, almeno nel loro contenuto  sostanziale, esaminate. Perchè, se non si riconosce  la legittimità del suo concetto sull’ufficio dell’Etica  è vano discutere della possibilità e legittimità del  piano proposto per attuarlo.   L’esame critico si distingue perciò naturalmente  in due parti; delle quali la prima potrebbe dirsi  critica preliminare.   » * «   1 — L’Elica può, o non può, essere scienza nor¬  mativa? Ecco una prima questione pregiudiziale, che,  a giudizio di un profano, (solamente dei profani ?) po¬  trebbe dare un’idea poco lusinghiera dei progressi  e dei frutti della speculazione morale.         — 41 —    L’opinione se non universalmente, certo gene¬  ralmente. dominante è che non possa. L’opinione  dominante par che si chiuda in questa alternativa:  l’etica o è scienza, e non è più normativa; o ò nor¬  mativa, e non è più scienza. La ragione dell’anti¬  tesi, che così si pone, tra le esigenze della scienza  e le esigenze della morale, è nota. Dicono i puri  moralisti: — Una morale che non dia alla norma  carattere di obbligatorietà non può essere vera mo¬  rale; e darle obbligatorietà assoluta non si può senza  uscire dal campo della scienza. Nel latto, una con¬  dotta che si ponga scientificamente come morale, è  obbligatoria soltanto se si accetta il fine, al quale è  ordinata la norma; cioè è obbligatoria ipotetica- ,  mente, non categoricamente. E se non c’è i m perat ivo  categorico, non c’è m orale. — E i puri scienziati  rincalzano: — La scienza è scienza delle cose e dei  latti come_sonq_e non come dovrebbero essere. Si  può cercare quali sono i caratteri e i fattori, la  formazione e le trasformazioni dei modi di operare,  dei sentimenti delle credenze distinti come morali;  si potrà anche, tracciati i lineamenti generali del  processo di formazione, argomentare induttivamente  una possibile evoluzione ulteriore con qualche pro¬  babilità; ma la scienza non sa di bene e di male;  cerca ciò ciò che è; tenta di prevedere, se le riesce,  quel che sarà; dimostrando che certi effetti dipen¬  dono da certe condizioni, ci fa capire che se vo-    3             — 42 —    gliamo gli effetti dobbiamo volere quelle condizioni,  ma non può obbligare nè à volerle nè a disvolerle.   Gli uni e gii altri, accordandosi nell’ammettere  che la scienza non possa dare un imperativo ca¬  tegorico, par che ammettano esplicitamente o im¬  plicitamente che la morale debba o possa essere  una dottrina che determina la norma obbligatoria,  ossia una teoria da cui si ricava il dovere. Ora.  se hanno ragione nell’ ammettere la prima cosa,  hanno torto di supporre la seconda ; hanno torto  di credere che compito dell’Etica possa essere quello  di dimostrare l’obbligatorietà, e di supporre che  una dottrina religiosa o metafisica possa fondare  quel che riconoscono non poter essere fondato da  una dottrina puramente scientifica; possa fondare  il « tu devi » (1).   2 — 11 « tu devi » è un giudizio di constata¬  zione e non può essere altro. Dicendo « tu devi »  io non posso intendere che l’una o l’altra di queste  due cose: o « tu senti dentro di te qualchecosa che   (1) Ho già mostrato altrove, in un capitolo rivolto direttamente  a questo esame (Prolegomeni a una Morale distinta dalla Metaf쬠 sica Cap. I. Pavia, Bizzoni 1901) come e perchè sia perfettamente  va no e illusorio credere che da una costruzione , teorica l sojjmtificn  n no. nossa ricavarsi in qualsiasi modo una norma obbligatoria , se  l’obbligatorietà non è già per altra via data o assunta o supposta;  e come nasca e si mantenga 1’ illusione, e lo sforzo di credere che  non è un’ illusione. Ma 1’ argomento è di capitale importanza ; e ,  del resto, la breve trattazione che segue, benché concluda il mede¬  simo, è fatta da un punto di vista diverso.            — 43 —    ti spinge, senti di essere obbligato a non fare o a  fare »; oppure quest’altra: « c’è una volontà cbe  ha il potere di obbligarti ». Nel primo caso si fa  appello alla coscienza ; a uno stato o a un fatto di  coscienza che esiste o si suppone che esista ; nel  secondo caso si fa appello a un potere, che pari-  menti o esiste o si ammette che esista. Ma nell’uno  e nell’ altro caso nessuno sforzo dialettico può ri¬  cavare l’obbligo dalla natura della cosa comandata  o proibita; nessuna costruzione dottrinale può far  esistere, se non esiste già, nò quel fatto di coscienza,  nè questo potere.   Si dirà che v’è un altro senso. È vero; ma un  senso improprio. « Tu devi » può voler dire: « È  giusto che tu faccia; è giusto che ti senta obbli¬  gato a fare, o che ci sia chi ti obbliga ». Ma se  vuol dir questo, l’espressione è equivoca. Che sia  giusto il fare e che sia giusto T obbligo di fare  (quando questo fare sia già sentito come un ob¬  bligo) si raccoglie d al contenu to, non dal tono del  comando: e non basta a porre l’obbligo, lo giusti-  fica dato die ci sia, e potrà far desiderare che  esista, dato che non ci sia. Ma porre le ragioni che  giustificano l’obbligo, non è porre in essere la forza  o il potere o l’impulso (con qualunque nome si  chiami) che obbliga. Ed è così vero che le due cose  .sono diverse e non confondibili tra di loro, che  non si può ridurre 1’una all’altra senza togliere          44 —     L* <MìWM    una delle due. Non si può derivare l’obbligo dalle  ragioni che giustificano la norma, senza ricono¬  scere che l’obbligo vale solamente in quanto val¬  gono queste ragioni; fcioè senza assegnargli un va¬  lore ipotetico, non più categorico. Nè si può rica¬  vare la giustificazione della norma dall’obbligo ca¬  tegorico, senza riconoscere che la norma vale so lo  i n quanto esiste l’obbli go; ossia senza negare qual¬  sivoglia giustificazione, cioè riconoscere che il con¬  tenuto della norma non avrebbe nessun valore se  P obbligo mancasse.   3 — Gli è che quando si dice essere il dovere  condizione necessaria della morale, si scambia la  morale colla 'moralità, la norma colla conformità  alla norma. Ma l’obbligo riguarda l’osservanza,    <*/J» non ] a determinazione della norma. Ora, che del¬   l’osservanza della norma sia condizione necessaria      e caratteristica il dovere, è cosa che potrà o non  potrà ammettersi, ma ha ad ogni modo un senso;  che sia essenziale alla determinazione della norma,  non è neppure discutibile, perchè non ha senso.  Sarebbe come dire che è essenziale alla costruzione  della scienza medica l’obbligo di prendere le me¬  dicine. È verissimo che sarebbero perfettamente  inutili le prescrizioni mediche se non si supponesse  che vengano osservate ; ma è non meno vero che  l’obbligo di osservarle, posto che ci fosse, non mu¬  terebbe in nulla il contenuto e il valore delle pre-          scrizioni. L’obbedienza del cliente non muta la  scienza del medico. E le condizioni da cui dipende  l’osservanza sono così distinte dalle ragioni che  giustificano una norma , che fi ufficio di tutte le  scienze precettive si fa consistere nel cercare e de¬  terminare le relazioni tra certi mezzi e un certo  fine, nella supposizione che il fine sia voluto, e ai-  fi infuori da ogni preoccupazione che riguardi la  reale esistenza ed efficacia del desiderio o dell’ ob¬  bligo di conseguirlo. Il che si vede manifestissi¬  mamente in una scienza precettiva, che, a rigore,  costituisce un capitolo dell’ Etica ; nella quale la  questione dell’ osservanza delle norme (e dell’ ob¬  bligo di questa osservanza) è rimasta perfettamente  distinta dalla questione della ricerca e della deter¬  minazione delle norme; forse appunto perchè fu  considerata e trattata indipendentemente dalla mo¬  rale; voglio dire nell’igiene. Dove a nessuno viene  in mente di pretendere' che sia una condizione della  legittimità o del valore delle norme dettate da lei,  questa: ch e il conformarsi ad esse sia sentito com e  un d over e. E se accade, come può accadere in ef¬  fetto, che l’osservanza di qualcuno dei suoi pre¬  cetti sia già tenuto come un dovere, il riconoscere  che questo precetto è ordinato a un fine, al quale  si dà valore di bene, fa che fi obbligo stesso ap¬  paia giusto. Ma in questo caso è facile vedere che  la giustificazione dell’ obbligo riesce in ultimo a •         — 46 —      questo : a dare un valore ipotetico all’ obbligo ca¬  tegorico; cioè à dimostrare che sarebbe bene osser¬  vare il precetto, anche se non ci fosse V obbligo.   Ora lo stesso vale, nè più nè meno, per la mo¬  rale. Altro è cercare quali siano le norme da os¬  servare per raggiungere un certo ordine di effetti  (quello che la morale ponga come fine) e altro è  cercare da quali condizioni dipenda che l’osservare  queste norme possa essere sentito e posto come un  dovere. E l’importanza che questo secondo pro¬  blema può avere non toglie che esso sia diverso e  debba essere distinto dal primo.   La pregiudiziale dell’obbligo categorico non tocca  dunque la c ostruzione dottrinale delle norm e; in  primo luogo perchè l’obbligo categorico si constata  o si assume, e non si dimostra, nè si ricava da  una dottrina qualsiasi. In secondo luogo perchè se  si intende, come si intende in effetto, che 1’ Etica  deve dare non V obbligo, ma la giustificazione del-  l’obbligo, questa giustificazione non può consistere  che nel mostrare come la norma abbia valore an¬  che indipendentemente dall’ obbligo ; cioè che sa¬  rebbe bene o sarebbe giusto conformarsi ad essa  anche se il conformarsi non fosse sentito come un  dovere indiscutibile. Ossia, poiché dimostrare il va¬  lore di una norma vuol dire mostrar la deriva¬  zione di una norma da un fine a cui sia ricono¬  sciuto quel valore, giustificare 1’ obbligo viene a       — 47 —    dire derivare la norma da un fine, il cui valore  si ammetta non dipendere dall’ esistenza dell’ ob¬  bligo, e al quale perciò rimane del tutto estranea  la considerazione dell’obbligo e delle condizioni che  lo rendono possibile.   A — La caratteristi ca di una dottrina etica no n  sta dunque nell’ obb ligatorietà, ma sta nel valore  d el fine che si assume (1). Ed eccoci alla vera ed  j unica differenza tra 1’ Etica e le altre costruzioni   precettive; che è questa. Qualsivoglia scienza pre¬  cettiva si riduce a un sistema di relazioni e di leggi  che hanno valore di norme da seguire per chi si  propone come fine quell’ effetto o quell’ ordine di   effetti, del quale esse leggi esprimono le condizioni   $   ed i fattori ; cioè suppone la desiderabilità che dà  valore di fine a quell’effetto; ma non pretende nè  che questa desiderabilità sia riconosciuta univer¬  salmente, nè che essa sia, pure universalmente, ri-  conosciuta come superiore e preminente rispetto a  quella di qualsiasi altro fine. Ma questo appunto   (1) Sono lieto di notare che in un articolo dal titolo Ethic.s, a  xcience pubblicato nella Philo.sophical Review (Novembre 1903, Vo¬  lume XII, G) il prof. E. B. McGilvary insiste sul concetto, clip è  conforme a quel che ho sostenuto e sostengo , che 1’ Etica , come  scienza, è indicativa non imperativa. Senonchè, per un verso, non  si capisce dall’ articolo se egli ammetta o escluda il medesimo di  qualsivoglia costruzione dottrinale; per l’altro, egli non tien conto  di quella differenza, nella quale consiste a mio giudizio la earat-  teristica dell’Etica.               — 48 —    pretende l’Etica. Onde il compito dell’Etica si spe¬  cifica in due punti, di cui il primo segna la sua  caratteristica: l.° cercare se vi sia e quale sia l’ef¬  fetto o l’ordine di effetti che possa avere un tal  valore, cioè il fine del quale possa essere ammessa  la universale desiderabilità sopra ogni altro, 2." de¬  terminare le condizioni e i fattori da cui quell’ ef¬  fetto dipende. E, nel supposto che dipenda dall’azione  umana individuale e collettiva, determinare la con¬  dotta, ossia le norme dell’operare, corrispondente.   Se il fine di cui può essera assunta questa uni¬  versale e preminente desiderabilità è umanamente  possibile, cioè tale che se ne riconosca possibile il  raggiungimento senza assumere o postulare nessun  intervento sopranaturale e sopraumano, la costru¬  zione etica sarà scientifica; se no, sarà religiosa o  metafisica. E quindi il problema della possibilità di  un’Etica scientifica assume questa forma: se si possa  assegnare un fine, naturalmente cioè umanamente  possibile, al quale sia riconosciuto un valore supe¬  riore a ogni altro fine. La determinazione delle  norme morali sarebbe data dalle relazioni trovate  o da trovarsi tra quel fine e la condotta indivi¬  duale e collettiva da essa richiesta.   Ed eccoci a una seconda questione pregiudiziale.     Gap. IV. — La pregiudiziale sul modo di intendere   il compito normativo dell’ Etica.   5. — Non è improbabile che qualche lettore  trovi que sto modo di porre il problema intorno al  co mpito dell’Etica , antiqua to e fuori della realtà.  Sento dirmi: «Nella realtà il compito dell’Etica è  concepito e proseguito in modo assai diversp anzi  opposto. Le n prme della condotta morale sono già  d ate e conosc iute. Ciò è tanto vero, che sulla deter¬  minazione concreta dei precetti particolari, di quelli  che si chiamano « d over i » e che si raccolgono nella  parte comunemente chiamata Morale Speciale, non  cadono sostanzialmente dubbi o contestazioni, e i  filosofi della morale ne sdegnano quasi la tratta¬  zione o ne danno soltanto le linee generali. Nella  realtà dunque l’indagine morale non ha per iscopo  di cercare e determinare le norme ricavandole da  un certo fine; ma di costruire la sistemazione teo¬  rica di un codice di condotta già dato, raccogliendo  e unificando le norme particolari in una norma ge¬  nerale, della quale si cerca quale possa essere la  giustificazione; anche se la costruzione induttiva¬  mente così ottenuta rivesta poi l’apparenza logica  di una costruzione deduttiva. Quindi è antiscienti¬  fico e inutile andar cercando fuori della realtà, nel  campo di una possibilità, ipotetica, un fine — po¬  niamo pure che sia possibile trovarlo — il quale             — 50 —    risponda a quelle esigenze, per il gusto di ricavarne  delle norme. Le quali, o si accorderanno con quelle  riconosciute in effetto e vigenti come morali, o  discorderanno. Se si accordano, ciò vuol dire che  la pretesa derivazione deduttiva delle norme da  quel fine nasconde una reale derivazione induttiva  del fine dalle norme; se discordano, questa discor¬  danza viene a dimostrare l’inutilità, a dir poco, di  norme elle contrastano con quelle riconosciute e  accettate, e a far respingere come non morali o  utopistiche le norme e il fine dal quale sono rica¬  vate ».   6. — Io non ho difficoltà a riconoscere che i due  indirizzi prevalenti nella speculazione morale con-  temporanea— l’indirizzo sociol ogico-storico. e l’in-  dirizzo idealistico-prammatistico — si accordano fon¬  damentalmente nel respingere le costruzioni etiche  razionali o pure, e nell’assumere come punto di par¬  tenza legittimo la realtà dei dati morali ; dei quali  l’uno considera principalmente l’aspetto esterno,  sociale, e l’altro l’aspetto interno, psicologico. Ma  noto subito che la novità nel punto di partenza e  nel processo di costruzione, è soltanto apparente;  o, per essere più esatto, la novità consiste (1) nel-    (1) Adagio però anche con questa novità. Perchè, almeno quanto  al riconoscere esplicitamente la legittimità del procedimento regres¬  sivo, all’ invertire deliberatamente la costruzione morale, il Kant  avrebbe de’ diritti d’autore da rivendicare.               — 51 —   l’assumere la legittimità di un procedimento, che  inconsapevolmente domina in generale la specula¬  zione etica, e che si scorge più evidente in quei  sistemi i quali hanno raccolto rispettivamente nei  diversi tempi e luoghi più largo consenso; (consenso  non verbale, si intende, ma reale). In altri termini  non si fa che seguire in modo consapevole e riflesso  quella stessa tendenza e preoccupazione, a cui ha  obbedito in generale la speculazione morale, almeno  nella forma riconosciuta rispettivamente nei diversi  tempi come ortodossa, o retta, o sana che si voglia  dire; la preoccupaziono di giustificare, il modo di  operare, di sentire e di giudicare già tenuto come  buono. Ora il rendersi conto che la costruzione  etica — sotto l’apparenza logica di una deduzione  progressiva di certi precetti particolari da una nor¬  ma generale e di questa da un fine posto come  supremo — fu sempre, in sostanza, regressiva (dai  precetti particolari alla norma' generale e da questa  ai principi che la giustificano), segna certamente  un progresso e un acquisto quanto alla conoscenza  del processo reale storico e psicologico di formazione  dei sistemi morali. Ma altro è conoscere quale sia  stato il processo realmente seguito, altro ò affermare  la legittimità del processo. Certo sarebbe un fortis¬  simo argomento di probabilità, se avesse fatto buona  prova. Ma se si guarda ai risultati, vien fatto piut¬  tosto di pensare il contrario; di pensare, che la     52 —    speculazione morale sia viziata nelle origini appunto  dal preconcetto che la domina e dal procedimento  che il preconcetto suggerisce. Ed è da questo pre¬  concetto che nasce, a mio giudizio, così il diletto  della soluzione a cui riesce l’indirizzo sociologico,  come di quella a cui fa capo l’indirizzo pramma-  tistico.   7. — In primo luogo importa notare che am¬  bedue gli indirizzi, appunto perchè hanno comune  il presupposto che compito dell’Etica sia quello di  unificare le norme già date, risalendo da esse ai  principi o ai postulati, sembrano ammettere questi  due punti: 1°. Che le norme morali siano già tutte  conosciute e determinate, o che dalle norme cono¬  sciute si ricavi il criterio per quelle non determi¬  nate. 2°. Che le norme date siano fra di loro con¬  cordanti o compatibili, o almeno non in contraddi¬  zione l’una coll’altra.   Ora nè 1’ una nè l’altra di queste condizioni si  avvera nel fatto.   E prima di tutto non è esatto che le norme della  condotta siano già date e conosciute. Anche se lo  Spencer ha torto, come io credo e si vedrà più in¬  nanzi, di assumere a criterio del giusto l’adatta¬  mento perfetto o il piacere puro, ha ragione nel  sostenere che in un gran numero di casi la coscienza  non ci dice quale sia il modo di operare giusto o  approssimativamente meno ingiusto. Ma, oltre ai      — 53 —    casi del genere di quelli citati da lui, (nei quali si  potrebbe dire, che se non riusciamo a determinare  quale sia la migliore applicazione del criterio, sap¬  piamo però quale sia il criterio da usare) vi sono  sfere intere di azioni, per le quali la coscienza non  saprebbe suggerirci una scelta sicura, e per le quali  non ci dice, come per altre, «non è giusto» o «è  giusto». Difenderò io il divorzio o lo combatterò?  Approverò o non approverò l’allargamento del suf¬  fragio politico? Sarò conservatoreoliberale, monar¬  chico o repubblicano, individualista o socialista,  liberista o protezionista? In quali circostanze ed  entro quali limiti seguirò l’uno o l’altro indirizzo?  Non serve rispondere che ciascuno deve operare in  queste materie secondo la propria coscienza. Si  tratta di sapere come una coscienza onesta deve  operare perchè alla bontà delle intenzioni (che è  presupposta) corrisponda la bontà degli effetti. E  abbandonando questo giudizio alla coscienza indi¬  viduale si riconosce o che possono coesistere criteri  morali diversi, o che lo stesso criterio morale può  legittimare ugualmente modi di operare opposti, o  finalmente che quelle parti della condotta escono  dal campo della morale.   Ma se possono legittimamente coesistere per certe  parti della condotta criteri morali opposti, quale  sarà il criterio superiore che serve a decidere fra  questi criteri contrastanti? o altrimenti, perchè non     — 54    si ammette che possano del pari legittimamente  coesistere criteri contrastanti anche per le altre  parti della condotta? Se poi lo stesso criterio morale  può legittimare due modi di operare opposti, ciò non  può essere che per mancanza di determinazione delle  circostanze; e prova in ogni modo che le norme  particolari della condotta morale non sono tutte de¬  terminate e conosciute. E se finalmente quelle parti  della condotta escono dal campo della morale, quale  norma suprema è mai quella che non ha nulla da  dire intorno a una parte così grande dell’operare,  come è, per esempio, tutta la condotta politica del¬  l’individuo e della società? Si dirà che per questa  parte, per la quale le norme non sono date, il cri¬  terio si ricava de quelle già date e accettate come  morali? Urtiamo in una seconda difficoltà.   8. — Per ricavare dalle norme già date il cri¬  terio cercato, per unificarle cioè in una norma più  generale, occorre che le norme date concordino fra  di loro, che in tutte si possa riconoscere appunto  questa unità di criterio. Ora, tralasciando pure di  insistere, perchè è cosa troppo nota, sull’antitesi  fondamentale esistente tra le norme di condotta che  valgono come morali rispettivamente nelle condi¬  zioni di pace e di guerra, o sui contrasti, tragici  talvolta, tra i «doveri» famigliari e i «doveri»  sociali, bisogna osservare che le norme date e accet¬  tate come morali possono contemplare e contemplano        realmente, almeno in parte, delle relazioni, direi,  secondarie, le quali esistono e sono possibili in gra¬  zia di relazioni primarie e fondamentali, che le  norme non contemplano e che sono la negazione  del criterio applicato in quelle norme. Mi sia lecito  spiegarmi con un esempio ipotetico assai semplice.  Se si suppone che un uomo sia saltato sulle spalle  di un altro e si faccia portare da lui, v’è luogo a  cercare quale sia la posizione migliore per il por¬  tante e per il portato; sia quella, poniamo, la quale  concilia la minima fatica del primo col minimo disa¬  gio del secondo. I l criterio seguito qu i è un criterio  d i equit à; si riconosce cioè che non sarebbe o giusto,  o buono o utile per nessuno dei due, il pretendere  tutte le comodità per sè senza tenere in conto le  comodità dell’altro. Ma se questo criterio (seguito  nello stabilire la condotta migliore, data, quella con¬  dizione diversa dei due) fosse applicato a determi¬  nare la relazione tra i due ,prima che siano divenuti  rispettivamente portatore e portato, questa condi¬  zione sparirebbe, e ciascuno camminerebbe colle sue  gambe. Ossia la norma morale regola nel caso sup¬  posto un rapporto che non esisterebbe se essa fosse  applicata al sorgere di quel rapporto. E può avve¬  rarsi, così, delle norme morali qualchecosa di ana¬  logo a quel che racconta di sé Senofonte, che all’o¬  racolo chiedeva quale via dovesse tenere per giun¬  gere più felicemente in Asia, guardandosi bene dal  chiedere prima se era bene o male che andasse.       — 56 —    Un sociologo potrebbe stringersi nelle spalle e  osservare che è colla realtà data che bisogna fare  i conti, e che è ozioso andar cercando come sarebbe  giusto che essa fosse; non resta che acconciarvisi  alla meno peggio. — Vedremo ora come questa po¬  sizione di puro adattamento passivo sia, per forza  stessa della realtà, che diviene e muta, insosteni¬  bile: ma ò opportuno notar subito che quando si  renda palese un contrasto del genere notato, colla  consapevolezza di questo contrasto è inevitabile che  nasca nella coscienza morale l’aspirazione a una  realtà diversa; e quindi l’aspirazione o a modifi¬  care la realtà se essa appare mutabile, o a cercare  la ragione della giustizia fuori della realtà.   Queste lacune e queste incongruenze delle norme  in effetto vigenti come morali in un dato tempo e  luogo, dimostrano intanto due cose: che, quale sia  la condotta migliore in un determinato momento  storico, non è una semplice constatazione da fare,  ma è un problema da risolvere ; e un problema  assai più difficile e complicato di quel che possa  apparire e si sia abituati a considerarlo; e che in  ogni caso è necessario assumere un criterio il quale  valga come guida a colmare le lacune, e a risol¬  vere o giustificare le incoerenze. Ma un criterio,  comunque assunto, a cui si attribuisca questo uf¬  ficio e questo valore, è un criterio alla stregua del  quale devono essere valutate anche le norme par-       titolari già riconosciute come certe, poiché deve  valere per tutta la condotta. E ciò viene a dire  che il processo di determinazione di tutte lo norme  si deve fondare sul criterio assunto, allo stesso modo  che se le norme si dovessero tutte determinare ex  novo, astrazion fatta e indipendentemente dalle  norme in effetto già accettate e seguite. (Il che del  resto è precisamente quello che avviene in tutte  le scienze precettive; dove, se anche i precetti scien¬  tificamente stabiliti si trovano a coincidere coi pre¬  cetti empiricamente seguiti, la determinazione scien¬  tifica procede come se spettasse ad essa di deter¬  minarli e giustificarli). E allora il problema torna  ad essere quello del criterio che deve essere as¬  sunto.   9. — Ora il criterio che l’indirizzo sociologico  suggerisce è, come è noto, — e conforme al con¬  cetto , che esso pone in evidenza, della relatività  della morale e del diritto — la corrispondenza alle  esigenze sociali del momento storico che si consi¬  dera. Il codice morale di un dato tempo e luogo  delinca la forma di condotta richiesta dalle condi¬  zioni dell’ esistenza sociale in quel tempo e luogo,  e trova in esso la sua giustificazione.   A nessuno può venire in mente di negare la  reale ed effettiva dipendenza delle norme morali  dalle esigenze della vita sociale. Ma se queste esi¬  genze possono spiegare come si sia formato stori-           — òs¬    camente e psicologicamente il codice di condotta  correlativo finché sono inconsapevolmente identi¬  ficate colle esigenze della coscienza morale, esse  non bastano più, neppure a determinare quale sia  la condotta adatta in un certo momento storico,  una volta che siano assunte come criterio riflesso  e consapevolmente seguito; non bastano, tranne  che in un caso: nel caso che le condizioni di esi¬  stenza, da cui quelle esigenze emergono, siano con¬  siderate come immutabili o come assolutamente  sottratte ad ogni azione od efficacia che possa  esercitare su di esse la condotta umana , indivi¬  duale e collettiva. Perchè quando intervenga la con¬  sapevolezza di una possibile efficacia modificatrice  della condotta umana sulle condizioni sociali e sulle  esigenze che ne nascono, allora entra di necessità  nella valutazione della condotta la considerazione  di questa efficacia; la quale, richiede il confronto  tra lo stato presente e uno stato futuro, tra uno  stato reale e uno stato possibile. E la ragione della  scelta tra i due non può essere data dalla realtà  dello stato presente, ma dalla diversa desiderabilità  dei due stati messi a confronto; e quindi non sol¬  tanto dalle esigenze dello stato reale, ma anche da  quelle dello stato possibile o creduto tale. Per con¬  seguenza, condotta buona apparirà non quella sem¬  plicemente che è richiesta dalle condizioni di fatto,  ma quella che, nei limiti imposti dalle condizioni     — 59 —    reali, tenda a modificarla nella direzione segnata  dallo stato più desiderabile (1). Soltanto in un caso,  puramente teorico, la condotta tracciata in confor¬  mità con questo criterio, coinciderebbe colla pura  e semplice corrispondenza alla realtà delle condi¬  zioni fiate; nel caso che lo stato reale presente ap¬  parisse universalmente e sotto ogni rispetto più de¬  siderabile di ogni altro. Ma anche in questo caso  la valutazione è data dalla desiderabilità, non dalla  realtà.   Insomma, altro è comprendere che una forma  di condotta è conforme a certe condizioni, altro è   (1) Di qui si vede quanto sia abusiva l’espressione comunemente  ripetuta, sopratutto dai seguaci più rigidi del materialismo storico,  che la condotta giusta è ad ogni momento quella che è resa neces¬  saria dalle condizioni del momento; i quali poi sono spesso ardenti  e anche non di rado generosi fautori e propugnatori di riforme e  di innovazioni anche radicalissime nelle condizioni e nella strut¬  tura stessa della società. Sento 1’ obbiezione : « Gli è che noi pre¬  vediamo necessario e inevitabile il mutamento in quella direzione,  e ci affatichiamo , come la levatrice , a rendere meno doloroso il  parto del futuro dai fianchi del presente ». Lasciamo, per restare  nella metafora, che altro è voler agevolare il parto e altro voler  affrettarlo. Ma, insomma, vi affatichereste voi a prepararlo, questo  futuro, se non vi apparisse desiderabile in confronto del presente ?  E che (iosa vuol dire render meno doloroso il parto, se non appre¬  stare con un intervento consapevole e riflesso certe condizioni che  altrimenti non si realizzerebbero ? Adunque l’apprestare queste con¬  dizioni , pensate che sia desiderabile e possa dipendere dall’ opera  vostra; cioè nel giudicare ciò che è giusto, sovrapponete, almeno  per questa parte, il criterio della desiderabilità a quello della obiet¬  tiva ed esteriore necessità. — Cosi la condotta corregge la dottrina.   « Gran.... ist alle Theorie— Und grilli des Lébeus goldner Baiati ».        — 60 —    aver coscienza della bontà di quella condotta ; la  quale non può nascere che dalla coscienza della  bontà di un fine a cui la condotta ò, o si crede che  sia, ordinata; altra cosa è la necessità di certe con¬  dizioni, altra è la loro desiderabilità; altra cosa è  la spiegazione storica, e altra la giustificazione etica.   10 — Di questa esigenza di una giustificazione,  alla quale, una volta che sia sorto il lavorìo ri¬  flesso della comparazione e della critica, nessuna  costruzione etica può sottrarsi, si preoccupa invece  il nuovo prnmmnt.iid.ico. il cui presente   successo si deve, come credo, in gran parte, alla  insu fficienza d el rel ativismo sociologico e storico  nel campo della morale. Esso è in sostanza, come  è noto, un ritorno alla metafìsica in nome delle  esigenze pratiche; la affermazione del diritto di cie-  dere alì’ esistenza reale di quelle condizioni che si  pongano come necessarie a dare un fondamento og¬  gettivo al valore delle norme e dei motivi morali.  In questa reazione a difesa della fede il nuovo idea¬  lismo, fatto audace cìàPfavore delle circostanze e  dalla debolezza degli avversari, è passato, come ac¬  cade, dalla difensiva alla offensiva; e non solo af¬  ferma la legittimità del proprio indirizzo nel campo  della morale e della religione, o, come si dice, nel  campo dei valori pratici; ma anche nel campo della  scienza, o d ei valori teoretici ; pretendendo che in  ultimo anche il sapere teoretico, benché non se ne             accorga o si dia l’aria di non accorgersene, non ab¬  bia altra ragione per giustificare i principi e i po¬  stulati che assume a fondamento delle sue inter¬  pretazioni dei fatti e delle leggi particolari, se non  una ragione di convenienza ; il valore che quei  principi hanno come mezzi per la sistemazione del  sapere, cioè in ultimo per la soddisfazione di un  bisogno speculativo.   Qui non è il luogo di discutere ciò che nella  dottrina ci può essere di vero — più come intui¬  zione di un aspetto trascurato della realtà psicolo¬  gica, che come legittimazione di un metodo — per  quel che riguarda la ricerca scientifica (1); la con-   (1) Però non posso fare a meno di notare l'equivoco che, a mio  giudizio, si nasconde sotto la pretesa analogia tra la ragione che  legittima i principi teorici, e la ragione che il prammatismo in¬  voca a legittimare i principi pratici. L’ equivoco è questo : E ve¬  rissimo che 1’ im rva Ira tura d<jl sanerò teor ico (a proposito, si può  parlare di un sapere non teorico?) è ìjj^tgriali, diciamo   cosi, grovvisori^dijmstulati^e^dijmtesi che si assumono perditi e  in quanto possono servire. Ma servire a che ? A unificare e siste¬  mare le cognizioni delle cose dei fatti e dei rapporti come nono  n on come desideriamo che nan o ; a costruire non quella verità che  piace a noi di ammettere, ma la verità senz’ altro, sia o non sia  conforme ai nostri desideri e ai nostri capricci. Perchè il bisogno  teoretico o scientifico è appunto il bi sogno di .salier e le cose che  s^no jejxmejsono, e non che desideriamo e come le desideriamo. E  qualunque sia il senso che noi diamo all’espressione « come sono »  esso è sempre distinto e diverso da quello che può aver 1’ espres¬  sione « come desideriamo che sieno ». Perciò non è il caso di ripe¬  tere qui, sotto veste gnoseologica, la domanda di Pilato. Perchè  quando si parla, per es., delle leggi di gravità, si può bensì soste-           sidero nel campo della morale, c soltanto rispetto-  ali’argomento che ci riguarda. Per questo rispetto  la soluzione che essa dà del problema della giusti¬  ficazione etica, non dilferisce sostanzialmente dalle  altre soluzioni di carattere metafisico, se non per  il fondamento. A proposito del quale, siccome, se  anche se ne ammetta la validità, questa non toglie  il difetto che nasce dal 'carattere metafisico della  soluzione, mi accontento di osservare, per quelli  che credono di sfuggire per questa via all’utilita¬  rismo, che essa conduce a una forma, mistica se  si vuole, ma ad una forma di utilitarismo ; anzi  alla forma estrema e più radicale : la valutazione  delle stesse credenze metafisiche e religiose dal  punto di vista di un interesse umano ; sia pure  questo interesse il massimo, il termine di confronto  di tutti gli altri. Perchè conduce a considerare la  credenza come un sostegno della moralità, ossia in  ultima analisi come un mezzo pedagogico. E non    nere che questo è un modo nostro di formulare e unificare i fatti ;  ma i fatti sono quelli, e a nessuno viene in mente di pensare che  noi li crediamo veri perchè abbiamo bisogno di reggerci in piedi.  E anche chi ammette che 1’ acqua sia stata fatta a posta per ca¬  varci la sete, sa benissimo (diamine !) che altro è dire che in un  pozzo c’ è dell’ acqua, e altro dire che hanno sete quei che vi guar¬  dano dentro.   Di questa indebita intrusione di argomenti gnoseologici in que¬  stioni scientifiche, (fisiche ecc.) tratta esaurientemente, con profon¬  dità e con chiarezza, c ome suole, il Varisco (V.* in particolare :  Introduzione alla Filosofia Naturale, e Studi di Filosofia Naturale,  Cap. I).      è escluso il dubbio che, a questo modo, proprio nel  mentre ehe si pone il valore della credenza, si venga  a togliere valore all’ oggetto della credenza.   11 — Venendo ora al nostro argomento, è certo  che l a soluzione del prammatism o, come in genere  le altre soluzioni di carattere metafisico, soddisfa  a quella esigenza della giustificazione etica, alla  quale non soddisfa il relativismo storico. Ma an¬  eli’essa presenta — dico all’infuori da ogni con¬  tesa sulla legittimità del fondamento e sulla vali¬  dità teoretica dei principi e dei postulati ammessi  — il difetto capitale delle costruzioni metafisiche.  Ed è che il fine di ordine sopranaturale cosi po¬  stulato, non può servire a determinare le norme.  Non può servire, per la ragione perentoria che la  relazione tra un fine, che è al di fuori e al di so¬  pra della vita umana naturale e finita, e una con¬  dotta, qualunque essa sia, che si deve dispiegare  nell’ ambito delle leggi naturali e i cui effetti de¬  terminabili sono contenuti nei limiti della vita  finita individuale e sociale, una relazione di questo  genere, dico, non può essere in nessun modo dimo¬  strata, ma soltanto affermata. Ne è prova il fatto  che lo stesso fine sopranaturale, la stessa costru¬  zione metafisica può essere assunta a giustificare  norme concrete di condotta non soltanto diverse,  ma opposte, senza che si possa ricavare da essa  nessuna ragione per la quale tra due forme di     — 64 —    condotta diverse, una possa o debba giudicarsi pre¬  feribile all’altra. Gilè, se si trova una ragione di  preferenza nell’ ordine degli effetti, che le due con¬  dotte rispettivamente producono o tendono a pro¬  durre, quest’ordine di effetti, dà alla condotta cor¬  relativa un valore che sussiste indipendentemente  dal fine sopranaturale, e diventa il fine naturale  della condotta medesima.   Con questa differenza tra i due fini: che mentre  dato il primo, non si può (se non facendo appello  a una rivelazione, cioè a una autorità, e quindi a  una pura affermazione) ricavare da esso quale sia  la condotta atta a raggiungerlo; dato questo fine  naturale, le norme si ricavano appunto dalle con¬  dizioni da cui il fine dipende, cioè dalla connessione  naturale tra la condotta e gli effetti della condotta.  Ossia un fine sopranaturale non può fornire esso  il criterio per determinare la condotta, se non a  patto che — implicitamente o esplicitamente — si  assuma, come subordinato ad esso e da esso richie¬  sto un fine, o un ordine di fini, naturale, in rela¬  zione al quale in realtà le norme sono stabilite.   Nè concluderebbe nulla in contrario l’osservare  che il criterio desunto dagli effetti che l’azione tende  a produrre, riguarda la condotta esterna, non la  interna, nella quale sopratutto consiste il valore  morale. In primo luogo anche se per le due con¬  dotte, esterna e interna, valessero criteri diversi,      — 65 —    bisognerebbe pur sempre riconoscere che, poicliò  anche la condotta esterna conta pure qualchecosa,  sarebbe ancora necessario ammettere un criterio  che valga a determinarla. In secondo luogo, benché  siano, in ultima analisi le tendenze, le aspirazioni  i sentimenti che hanno valore e danno valore alle  cose e alle azioni, e ogni valutazione si riduca a  valutazione comparativa di tendenze o sentimenti  diversi; non bisogna dimenticare che i sentimenti,  come le aspirazioni, si distinguono per il loro con¬  tenuto rappresentativo, cioè pe 1’oggetto a cui si  riferiscono; e che anche le intenzioni sono sempre  intenzioni di qualche cosa. E finalmente, una forma  di perfezione interiore che si consideri come fine, a  cui Tuomo possa giungere o avvicinarsi, non può  essa stessa fornire il criterio per determinare quale  sia la condotta richiesta a questo scopo, se non in  quanto questa perfezione si consideri come un ef¬  fetto o un ordine di effetti che dipende natural¬  mente (in parte al meno se non in tutto) da certe  condizioni, ossia da certi mezzi. Le pratiche del¬  l’ascetismo non avrebbero senso se non si ricono¬  scesse a loro questo carattere di mezzi atti a pro¬  durre certi effetti. '   Concludendo: la soluzione metafisica a cui fa  appello l’indirizzo prammatistico, come ogni altra  soluzione di carattere metafisico, non può avere,  anche se non si ponga in dubbio la sua legittimità,    — r,o —    che un ufficio consolatore, non regolatore; può ser¬  vire a dare o aggiunger valore a certe norme e  ai fini umani connessi con queste, ma non può ser¬  vire a determinarle ; può fornire un principio di  giustificazione, non un criterio di derivazione. E  perciò lascia da parte o suppone risoluto il problema  che riguarda la determinazione delle norme; il che  ò quanto dire che lascia sussistere il problema, e  la validità delle ragioni per le quali si pone, e se  ne cerca la soluzione.   Cap. V. — Il preconcetto fondamentale.   12 — Così dei due tipi diversi di costruzione  etica corrispondenti ai due indirizzi esaminati, l’uno  q « — quello del relativismo storico — se anche può   offrire un criterio di determinazione scientifica di  un sistema di norme, non soddisfa all’esigenza mo¬  rale, ossia non giustifica il valore che ad esse si  vuole attribuire. Perchè, alle norme stabilite in  conformità al criterio della corrispondenza alle esi¬  genze della vita sociale, non si può riconoscere un  valore superiore a ogni altra norma, se non sup¬  ponendo che la forma di esistenza sociale correla¬  tiva si riconosca universalmente e sotto ogni ri¬  spetto più desiderabile di ogni altra; presupposto  che non è per nulla legittimato, nè si può ricavare  . dal criterio assunto. L’altro — quello dell’i dealism o             — 67 —   prammatistico — in quanto fa capo a principi e  postulati metafisici, serve a giustificare il valore  che si attribuisce alle norme morali, ma ò radi¬  calmente impotente a fornire un criterio di deter¬  minazione delle norme.   Il primo può determinare le norme, ma non  giustificarle ; il secondo può giustificarle ma non  determinarle.   L’uno e l’altro tipo di soluzione hanno comune  il preconcetto fondamentale che compito dell’Etica  debba essere quello di trova re le rag ioni sulle_quali  ò fondata la bont à o la giustiz ia di quella forma  di condotta, che già teniamo come buona. Ammesso  — tacitamente o esplicitamente — questo presup¬  posto, l ’esigenza scientifica porta a riconoscere le  connessioni naturali tra quella forma di condotta  e i bisogni della vita sociale del momento storico,  e quindi ad assumere come criterio etico la corri¬  spondenza a questi bisogni ; l ’esigenza morale o  giustificativa porta a cercare a quali patti o con¬  dizioni quella forma di condotta possa veramente  essere riconosciuta come buona, e quindi ad assu¬  mere come fine della condotta un bene il quale  soddisfaccia a quel requisito di universale e pre¬  minente desiderabilità, che non si trova in quel  fine , che è in realtà il fine naturale della con¬  dotta (I).    (1) E i moralisti che cercano di conciliarle ambedue, e soddi¬  sfare all’esigenza scientifica senza rinunciare alla esigenza giusti-       — 68 —    13 — E allora la conseguenza legittima è que¬  sta : che una scienza normativa morale è possibile  soltanto se il fine naturale che serve a determi¬  nare le norme vale anche a giustificarle.   Ma il fatto — che questa esigenza non ò sod¬  disfatta finché si cerca la giustificazione di un co¬  dice di condotta già dato, assumendo questo come  punto di partenza, e quindi come fine la forma di  convivenza e di cooperazione sociale alla quale esso  codice corrisponde, — non prova V impossibilità di  una etica normativa scientifica; prova al più la  impossibilità di una tale scienza finche si intende  £0 il compito dell’ Etica in quel modo,   [ CeMJ Anf ibio. Ora perché non sarà possibile e lecito porre il  problema in un modo diverso: cercare quale possa  essere il fine che soddisfa a questa esigenza, e dalle  condizioni che esso richiede ricavare le norme della  condotta? Il porre il problema in questa forma non  è forse legittimato dalle difficoltà che abbiamo visto  nascere dal porlo in forma diversa, e dall’analogia    ficativa, tentano di risolvere l’antinomia assumendo in conformità  all’ esigenza scientifica il criterio , e in conformità all’ esigenza  morale la giustificazione ; ossia attribuendo un valore metafisico al  fine umano-sociale al quale in realtà sono ordinate e dal quale si  possono ricavare le norme. Senonchè i due principi assunti e in  apparenza unificati restano sempre distinti : e quando si tratta di  stabilire quale è la condotta da tenere, compare 1’ uno; e quando  si tratta di dire perchè quella condotta è giusta, compare 1’ altro ;  senza che si veda nessuna ragione perchè il secondo debba essere  cosi pronto a trovar giusto quello che 1’ altro suggerisce.    — 69 —    (che l’esigenza caratteristica della norma etica non  toglie) colle altre scienze precettive ?   Sento risorgere V obbiezione : Posto pure che  l’impresa riuscisse, a che cosa gioverebbe? Ma ò  facile la risposta. In primo luogo, anche se non  servisse praticamente a nulla, non cesserebbe di  avere un valore teorico il sistema di rapporti che  per tal modo -si venisse a conoscere. In secondo  luogo a nessuno ò dato affermare a priori l’inu¬  tilità pratica di una cognizione scientifica, sia pure  che riguardi dati ipotetici. (E quale cognizione  scientifica non contempla dati, almeno in parte,  ipotetici?). E finalmente a queste due ragioni ge¬  nerali se ne può aggiungere una terza particolare.  Chi può dire clic al modo stesso, almeno, col quale  può essere utile la conoscenza delle relazioni che  esistono tra forme diverse di moralità e condizioni  storiche diverse, non possa tornare utile la cono¬  scenza delle relazioni scientificamente stabilite tra  una forma di condotta possibile c un ordine di con¬  dizioni possibili ?   14 — Concludo : il problema, s e una scienza  normativa etica sia possibile, non è un problema  risoluto, ma è un problema da ris olve re. Se si possa  e si debba risolvere nel modo tenuto dallo Spencer,  è questione diversa e clic rimane da esaminare. E  questa critica preliminare mentre avrà servito, come  spero, a dimostrare che il presupposto fondamen-       — To¬    tale dello Spencer intorno al compito dell’Etica non  può essere a priori escluso, ha posto in chiaro le  esigenze fondamentali alle quali una scienza nor¬  mativa morale deve soddisfare.   E così ci fornisce una guida per la critica della  dottrina.       Parte III.    LA. DOTTRINA DELLE DUE ETICHE  E LE ESIGENZE   DI UNA SCIENZA NORMATIVA MORALE    Cap. VI. — Il criterio del tinnite dell ’ evoluzione e  dell’ adattamento completo nm^se^e a determi¬  nare il tipo di condotta cercato.   Il p rogra mma che lo Spencer traccia e si pro¬  pone di seguire (non dico che in realtà gli sia ri¬  masto fedele) per costruire una scienza normativa  etica, si può raccogliere, in queste due te si: I.° La  necessità di assumere come tipo della condotta mo¬  rale la condotta dell’ uomo giusto in una Società  giusta ; e la necessità conseguente d ella disti nzione  'ìdfn fv** i ^ tra E tica Pura (Ji/icr Assoluta) ed Etica Applicata  parevo*)» f ( Etica_ Relativa) e della precedenza teorica della  prima sulla seconda. II. 0 La identificazione della  condotta giusta, oggetto dell’oca Assoluta, col  tipo di condotta che egli pone come proprio del  limite dell’evoluzione.   Ora, benché nel pensiero dello Spencer le due  tesi siano solidalmente connesse, e la seconda sia                ilei'quadro del sistema la fondamentale e quella  che legittima e rende possibile ad un tempo la sua  costruzione, non ò difficile vedere come da un punto  di vista critico esse possono e debbono essere con¬  siderate a parte. La prima, infatti, formula una  veduta metodica ; la seconda esprime la speciale  applicazione che di quella veduta metodica lo Spen¬  cer ba creduto di fare. In altri termini, è astrat¬  tamente possibile riconoscere che il tipo ideale del-  1’ uomo giusto non possa determinarsi se non in  relazione con una società giusta e clic per deter¬  minare la condotta giusta relativamente a certe  condizioni reali, sia necessario aver prima ricono¬  sciuto quale sarebbe la condotta giusta in condi¬  zioni idealmente supposte, anche se non si accetta  che il tipo ideale di condotta giusta possa essere  concepito in quella forma e su quel fondamento  che lo Spencer crede di dovergli assegnare.   Anzi io penso che la veduta espressa nella prima  tesi non solo si possa, ma si debba accettare come  legittima e necessaria, e che in essa si racchiuda  come in germe un concetto fecondo. Certo, credo,  se una scienza normativa morale ò possibile, è pos¬  sibile per quella via; e i difetti della costruzione  etica dello Spencer nascono non dall’averla seguita,  ma piuttosto dall’ essersene allontanato. Cosicché la  critica stessa della seconda tesi riesce a confermare  la legittimità della prima.      — 73 —    1- — As sumendo come tipo ideale di condott a  ^ insta la condotta corrispondente al limite dellV vn-  ! azione, lo Spencer riconosce, esplicitamente o im¬  plicitamente, alla forma di vita individuale e so¬  ciale che segna quel limite, valore di fine morale.   Ora. lasciando la difficoltà, sulla quale altri ha già zifjf.'w’Ui  insistito, che uno s tato concepito come il risultato  necessario dell’evoluzione naturale possa aver va¬  lore di fine liberamente e deliberatamente voluto  e proseguito? difficoltà che non mi pare insupera- '  bile (1), io credo che questa identificazion e presenta He   due difetti capitali : essa non vale, per se, a for-      O' La difficoltà nasce dal modo di intendere la possibilità e la  necessità. — Affermare la possibilità die si produca un fatto, non  è altro che riconoscere o ammettere la presenza reale dei fattori,  l’azione dei quali, qumido non incontrasse ostacoli, produrrebbe,  secondo i rapporti causali noti, cioè necessariamente, quel fatto.  Ora lo stesso effetto che può apparire necessario in quanto si am¬  mette la reale e adeguata efficacia di tutti i fattori da cui dipende, '  può essere proposto come fine quando tra i detti fattori entri l'azione  MI'uomo, cioè quando la « necessità . dell’effetto sia condizionata  dalla presenza e dalla efficacia di certe idee, sentimenti, aspira¬  zioni : cioè in una parola dalla presenza e dalla efficacia adeguata  del desiderio ili quell' effetto. In questo caso non è escluso che l’ef¬  fetto m questione possa aver valore di fine, anzi è incluso elio  1’ abbia ; perchè la « necessità » dell’effetto è subordinata appunto  al valore che gli si riconosca di fine, e al dispiegarsi, nell’ azione  corrispondente, della volontà di raggiungerlo.   Che questa interpretazione sia compatibile coi principii dell’evo¬  luzionismo Spenceriano è questione che, come si vedrà, rimane  estranea all’ intento di questo studio, e che i più risolvono nega¬  tivamente (cfr., tra gli altri, L. Zeccante : La dottrina della co-                  — 74 —    ni re un criterio per la derivazione delle norme  morali (nella realtà, come si vedrà più innanzi, il  tipo ideale è determinato dallo Spencer sopra un  altro fondamento); e non è sufficiente come prin¬  cipio di giustificazione. Cominciamo dal primo.   Il concetto di evoluzione, come quello di tempo,  del quale esso è, in fondo, nuli’altro che la tra¬  duzione in termini di causalità naturale, esclude  l’idea di limite, inteso almeno come termine fisso,  oltre il quale ogni processo di trasformazione, cioè  di causazione, si arresti. Il processo stesso di dis¬  soluzione che, secondo il pensiero dello Spencer, si  alterna a periodi indefinitamente grandi con quello  di evoluzione, non segna il termine di un periodo  e l’inizio d’ uno nuovo se non dal punto di vista   scienza movale nello Spencer Cap. XXXI, p. 194; e G. V ijiaki :  Rosmini e Spencer p. 209 e seg. Di queste, come di tutte le ob¬  biezioni mosse all' Etica dello Spencer, a cominciare dal Guyau e  dal Sidgwick fino ai critici più recenti, tratta con grande larghezza  e ricchezza di notizie il Dr. G. Salvadori nell’opàra « L’Etica Evo¬  luzionista » che è una apologia entusiastica di tutto il sistema  Spencer iano).   Colgo questa occasione per dichiarare che ho dovuto astenermi  da ogni richiamo sia delle obbiezioni e discussioni di questi, come  di altri critici valorosi (tra i quali sia ricordato a titolo d’ onore  il compianto Icilio Vanni), sia delle varie opinioni che si connet¬  tono colle questioni generali toccate, per due ragioni : in primo  luogo perchè il punto di vista dal quale è qui considerata la dot¬  trina delle due Etiche è diverso, e diversa la via seguita ; in se¬  condo luogo perchè se avessi voluto per ogni questione toccata di¬  scutere le diverse opinioni, avrei dovuto fare, a commento di un  breve scritto, tutta, o poco meno, la storia della morale.      — 75 —    di una valutazione umana o teologica. In realtà il  cammino non si arresta per tracciar di segni che  l’uomo faccia sulla via della natura. Nè, del resto,  quando lo Spencer parla di limite dell’ evoluzione  della vita umana, intende di significare il momento  in cui la vita si arresta o si spegno, ma quello   in cui la vita raggiunge il massimo svolgimento.   Senonchò questo massimo svolgimento non può es¬  sere. necessariamente, che relativo a forme date e  conosciute o comunque determinate di vita, cioè  di organi, di funzioni, e di attività ; e, anche in¬  teso cosi, non può venir stabilito se non fissando   un grado che si consideri come massimo; cioè, in¬  somma, segnando nel processo (non importa ora  con quale criterio) un momento , che sia punto di  arrivo di una serie (della quale sia rappresentato  da punto di vista teleologico come fine), ma che  potrebbe essere preso, con un criterio diverso,  come punto di partenza di una serie ulteriore.  È sufficiente a segnare questo momento il criterio  dell’adattamento completo ai tre ordini di fini:  della vita individuale, della vita della specie e della  vita sociale?   2. — È subito chiaro che questo adattamento  completo non può bastare esso stesso, se non si  determina quali siano le sfere di attività e di fini,  l’adattamento ai quali serve di criterio per stabi¬  lire se il limite è raggiunto. Perchè se si intende    per adattamento completo un adattamento definitivo  a tutti i fini di tutti e tre gli ordini, termine fìsso  e insuperabile al quale si arresti, e oltre il quale  non sorgano nuove aspirazioni e nuovi fini, noi  non potremmo argomentare nò che un tale limite  sia per essere raggiunto mai, nò, (ciò clic qui im¬  porta di più) dato che si raggiunga, quale sia il  grado o la forma di vita, che un tale adattamento  sia per fissare e suggellare come definitivo.   Perchè i fini sono, come ognuno sa, correlativi  ai desideri o ai bisogni. Ora a mano a mano che  le forme di attività si moltiplicano c si differen¬  ziano, si moltiplicano i bisogni e quindi i fini; nò  si può nò induttivamente, nè deduttivamente de¬  terminare a qual punto questo processo possa o  debba arrestarsi. Pcrchò, pur non uscendo dalla  tesi evoluzionista, ogni adattamento implica dimi¬  nuzione di sforzo e quindi, ceteris paribus, avanzo  di energia; la quale appunto perciò si viene di¬  spiegando in nuoA r e forme di attività, c quindi nella  ricerca di nuovi fini. Anzi il sorgere di ogni forma  più complessa di attività, — ad esempio ogni fun¬  zione più elevata — presuppone normalmente l’a¬  dattamento già avvenuto delle attività meno com¬  plesse e relativamente elementari, — funzioni più  semplici — di cui essa ò una nuova ordinazione.  Onde per questo rispetto l’adattamento a certi fini,  ò parallelo all’ insorgere di fini nuovi indefinita-        mente. Oltredichè il processo stesso del conoscere  portando a scoprire sempre nuovi rapporti di cose  e di fatti, viene continuamente riversando la desi¬  derabilità dei beni conosciuti su nuovi oggetti che  acquistano valore di utilità, c moltiplica così i beni,  cioè i desideri e i bisogni; o trova nel mutare delle  condizioni esterne nuovi modi di soddisfare ai bi¬  sogni già esistenti ailìnandoli ed elevandoli; o apre  la via a nuove aspirazioni, alle quali la soddisfa¬  zione già assicurata dei vecchi bisogni, permette  che si rivolgano gli sforzi e l’opere. Cosi ogni adat¬  tamento raggiunto è condizione e stimolo a nuove  forme di attività al modo stesso che ogni cono¬  scenza acquistata fa sorgere nuovi problemi, e na¬  scere « a guisa di rampollo, appiè del vero il dub¬  bio ».   Si dirà che lo Spencer intende l’adattamento  completo nel senso di mutuo adattamento dei tre  ordini di lini fra di loro; intende cioè la concilia¬  zione c 1 accordo tra le esigenze della vita indivi¬  duale quelle della vita della specie e quelle della  vita sociale.   Ma lasciando di notare che la difficoltà sopra  notata risorge a proposito di questa conciliazione  perfetta, si presenta la domanda: A quali patti si  fa questa conciliazione ?   Perchè se è vero, come lo Spencer ha cura di  ripeter spesso, che nelle condizioni presenti di esi-       — 78 —    stenza i fini di un ordine non possono essere pro¬  se-miti c raggiunti senza sacrificio almeno parziale  dei fini di un altro ordine, bisogna evidentemente  perchè la conciliazione si faccia, che intervenga una  cessazione, o una modificazione o una sostituzione  nei fini o di uno o di due o di tutti tre gli ordini  considerati ; ossia una modificazione nei bisogni e  nelle esigenze dell’individuo, o della specie, o della  società. Supponiamo ora per semplicità di discorso  che i fini individuali e i fini della specie si possano  considerare fin dal presente conciliati; o, per usare  i termini dall’economia pura, che si possa assu¬  mere 1’ egoismo di specie come comprendente m se  l’egoismo individuale (il che è in gran parte con¬  forme alle vedute stesse dello Spencer); la conci¬  liazione resterebbe da farsi tra i fini della vita  individuale e i fini della vita sociale.   E allora il problema è il seguente: Nello stato  di conciliazione contemplato, fino a qual punto sono  i bisogni e i fini individuali da noi conosciuti  o immaginati che avranno mutato di specie, di  estensione, di intensità, per adattamento alle esi¬  genze sociali, e fino a qual punto si troveranno  invece modificate le esigenze sociali per adatta¬  mento ai fini della vita individuale? E manifesto  che per conoscere in che cosa la conciliazione sia  per consistere bisogna o che sia definita la sfera  delle esigenze individuali, in corrispondenza colla      aliale si possa determinare la sfera delle „  sociali che con quelle si accordi; o sia definii  sfera delle esigenze sociali per una determinazione  tersa; o finalmente siano definite certe corni z on  (qualunque sia il modo tenuto per assegnarle) 1  H vacano, esse, a determinare ad un tempo ,   limiti «Ielle une e delle altro.   :ì _ Queste condizioni lo Spencer ricava dalle   esigenze del “r ■» ™<ità induetnale !«<*<»'   cui si suppone realizzato il puro «gnu» ' u ?»   tratto sotlo la leggo dell'uguale liberta ; e> 4“““*  il limite dell'evoluzione è in realtà ,1 ^   della società industriale del suo temp ,  tamento completo consist co¬   struttiva biologica e psicologica 1  nenti la società umana a questo tipo d, convivenza  e di cooperazione (I). Per conseguenza non è un   (1) qua.» riatto «no «i *“   Spencer che qui il Etta , (cio4 quando que-   biella II. n edizione dei ‘ de i System of   et’ opera fu ^pubblicata come   Synth. Phil.) si trova aggiun e cbe eva stato   lo stesso titolo « Conciliarne • pubbliC azione, fu   dettato prima; ma, smarrì o poi Qra in quel ca pitolo gei-   sostituito da quello che figura ne . . ident ifi c hiuo   provare la possibilità che le attività ^«isMche ^   colle egoistiche, si citano gli mse 1 s ’ nism i di-   «e—. - * “           - 80 —    certo tipo di vita completa che serve a determi¬  nare il tipo ideale della società giusta, ma è il tipo  considerato come ideale di società giusta che de¬  termina la vita completa. Adunque, poiché la con¬  ciliazione dei diversi ordini di fini è subordinata  all’ attuarsi delle condizioni che definiscono il tipo  ideale di società ed è relativa a queste, è il tipo  ideale di società clic in edotto è assunto come fine,  e sono le condizioni proprie di quel tipo che ser¬  vono a determinare le norme.    benessere individuale non maggiore di quello che è necessario alla  conservazione della vita individuale ; ed esser possibile il formarsi  negli individui di una organizzazione tale che la ricerca delle sod¬  disfazioni che la natura loro richiede, porti ad esercitare quelle at¬  tività che il benessere della comunità richiede. (Voi. cit. p. 300-302).  Si noti che, aggiungendo in appendice il capitolo che contiene questo  passo, lo Spencer non fa riserve di nessun genere, anzi dice espli¬  citamente che esso può servire a chiarire e compiere il pensiero  espresso nel testo (ih. p. 2S9).   Un altro luogo in cui è ribadito in forma diversa, ma non meno  recisa, lo stesso concetto fondamentale, si trova nella seconda let¬  tera di risposta alle critiche del Rev. J. L. Davies sull’ obbliga¬  zione morale, pubblicata col resto della polemica nella- Appendice  C. alla Giustizia : « Lasciatemi ripetere qui una verità sulla quale  ho altrove insistito : che appunto come il cibo è giustamente preso  quando è preso per soddisfare la fame, mentre il doverlo prendere  quando manca l’appetito implica uno stato fisico disordinato ; cosi  una buona azione o un atto di dovere è fatto giustamente soltanto  se è fatto per soddisfare, un sentimento immediato ; mentre se è  fatto per la considerazione di certi risultati finali in questo o in  un altro mondo, implica uno stato morale « imperfetto » — (A. Si-  stem ecc. Voi. X. App. C. « The Moral Motive p. 450. — Nella  trad. it. della Giustizia edita dal Lapi questa appendice è omessa).     — 81    Ma se così è, quanto alla determinazione delle  nolane il postulato dell’adattamento completo, posto  clic si possa assumose, non serve a nulla; equivale  semplicemente a supporre clic tutti gli individui i  quali compongono la società ideale abbiano una na¬  tura così latta, che l’osservanza della condotta cor¬  rispondente costituisca per essi un bisogno o un  desiderio superiore a ogni altro, senza possibilità  di conflitto con altri bisogni o desideri; cioè, tiene  nella costruzione etica lo stesso posto che nei si¬  stemi morali è comunemente tenuto dal dovere , e  nelle scienze precettive in genere dalla supposizione  che esista un desiderio o un bisogno specifico cor¬  rispondente al fine da cui si ricavano le norme.   E quindi allo stesso modo che l’esistenza e la  natura specifica dei motivi da cui può dipendere  l’osservanza di una norma, non hanno che fare  colla determinazione teorica di essa, così l’ipotesi  dell’ adattamento completo dei bisogni e desideri  individuali a certe condizioni di convivenza e coo¬  perazione sociale, non ha che fare colla determi¬  nazione di queste norme. Perchè le norme sono ri¬  cavate appunto da quelle condizioni, alle quali si  suppone avvenuto l’adattamento; e che perciò ser¬  vono esse di critetio e per determinare le norme  e per conoscere se l’adattamento è raggiunto.    — 82 —    Uljh&MJ?   Jabot*    Gap. VII. — Il criterio del piacere puro, corrispon¬  dente all’ adattamento completo, n on ser re a  giustificare il tipo di condotta proposto.   ì. — Ma perchè assume lo Spencer come pro¬  prio della Società ideale un adattamento completo,  che, mentre esclude arbitrariamente ogni evolu¬  zione ulteriore, non serve a definire questa Società  ideale perchè è definito esso stesso in relazione con  quella ?   Perchè soltanto quando esso sia raggiunto, la  condotta umana in tutta la sua estensione apporta  a sè e agli altri nel presente c nel futuro puro pia¬  cere, piacere non misto a dolore di sorta ; e per  I l o Spencer, come s’è visto, il giusto assoluto e sclude  • il dolore . E perciò il tipo ideale contemplato dal-  1’ Etica Assoluta non può essere se non quello nel  quale la condotta apporta puro piacere.   L’ adattamento completo darebbe dunque al tipo  ideale di convivenza e cooperazione sociale quel  carattere di universale e preminente desiderabilità,  che deve avere il fine assunto dall’Etica. Lo dà  veramente ?   Benché a prima vista possa parere strano il  dubbio e inutile la discussione, bisogna riconoscere  che un tipo di esistenza individuale e sociale nel  quale tutta quanta la condotta in tutta la sua esten¬  sione porti sempre e soltanto piacere, non è, date      le leggi psisologiche conosciute, e non può essere,  un fine.universalmente desiderabile sopra ogni  altro.   Lascio di discutere se, supposta una condotta,  diciamo così per brevità, totalmente piacevole, il  piacere stesso non verrebbe a sparire, come stato  di coscienza distinto, per mancanza di quel con¬  trasto e di quell’ alternanza fra gli stati psichici  (così bene illustrata tra gli altri dall’ Hòffding),  senza della quale anche i godimenti più forti il¬  languidiscono e vaniscono nella ripetizione abituale;  e di considerare se la forma di vita corrispondente  non riuscirebbe a sopprimere in ultimo anche ogni  forma di coscienza riflessiva e di deliberazione vo¬  lontaria, cioè l’intelligenza stessa e la volontà, al¬  meno nelle loro forme più elevate riducendo la  vita a una sorta di automatismo istintivo, al quale  corrisponderebbe la fissazione stereotipa di modelli  d’ uomini meccanizza ti. Certo, se si bada clic l’at¬  tenzione attiva è sempre, in grado maggiore o mi¬  nore, sforzo, e clic lo sforzo è alimentato princi¬  palmente, se non unicamente, dal dolore e non dal  piacere, bisogna riconoscere che la capacità dello  sforzo e l’esercizio dell’ attenzione tenderebbero a  svanire collo sparir del dolore; e il vigore dell’in¬  telligenza si affievolirebbe; come già si può osser¬  vare in quelle persone sfaccendate e sonnolente, le  quali abbiano in pronto senza alcuna fatica o cura      — 84    tutto quel che desiderano, e non sentano l’aculeo  di altri bisogni, e di aspirazioni diverse.   E lo stesso discorso sarebbe da ripetere a maggior  ragione per la volontà.   Certamente le leggi psicologiche conosciute ten¬  dono ad escludere, per le ragioni accennate sopra a  proposito dell’adattamento completo, che un tale  stato possa avverarsi ; ma, dato che potesse attuarsi,  non ci sarebbe nessuna ragione per negare, in  forza delle medesime leggi, l’eventualità se non  della soppressione, di un oscuramento progressivo  delle facoltà psichiche più elevate. E allora si  presenta subito la questione, se, ammessa pure  soltanto la possibilità che a un tale stato si accom¬  pagnasse questo effetto, potrebbe una forma di  esistenza siffatta apparire desiderabile sopra ogni  altra.   5. — Si potrebbe dire: Che importa l’oscura¬  mento e anche la soppressione dell’ intelligenza e  della volontà, purché sparisca il dolore? E quando  non vi siano altri bisogni e altri desideri che  quelli appunto che trovano già una soddisfazione  adeguata, ossia, quindi, non ci sia più nemmeno  la possibilità di rappresentarsi bisogni e beni di¬  versi, non è una tal vita nel suo genere beata ;  anzi la sola beata perché é esclusa la capacità di  provare altri bisogni ?   Ora che un tale stato possa, anzi debba apparire    — 85 —    il più desiderabile quando si supponga l’adattamento  già raggiunto, è fuori di contestazione; ma qui  si tratta di vedere se un tale stato possa essere  preferibile per chi ne ò fuori, e dovrebbe proporsi  come scopo di raggiungerlo. Se, cioè, a chi esercita  certe forme di attività possa parere desiderabile  sopra ogni altro un tipo di vita, nel quale per  avventura quelle attività fossero oscurate o sop¬  presse. In questo caso possono valere l’osservazione  notissima del Mill e la ragione colla quale la con¬  forta ; che, certo, non avrebbero valore nel primo  caso (1).   Ma anche lasciando questo aspetto della que¬  stione, non bisogna dimenticare che appunto perchè  il piacere puro è il correlato subiettivo dell’ adat¬  tamento completo, la medesima condizione di una  condotta totalmente piacevole, — per le ragioni  dette a proposito dell’indeterminatezza nel numero  e nella specie dei (ini, rispetto ai quali l’adattamento    (1) « È meglio essere un nomo i nfelice che un jjj^o.ap,ddi.sfotto :  è meglio essere So crate malcontento che un imbecille beato ». Ora  la ragione addotta dal Mill vale per l’uomo, ma non per l’animale,  e l’Hoffding non ha torto di spendere, come egli dice graziosa-  munte, (i nalch e parola hi difesa del porco e dell’ imbecille. E nota  infatti che un uomo il (piale abbia ottenuto la soddisfazione in¬  tera dei suoi desideri, non ha nessuna ragione di paragonare il  suo stato con quello di altri uomini. Senonchè riconosce poi che  la conoscenza di gradi più elevati farebbe nascere anche nell’uomo  felice il « desiderio ardente di giungervi » che è appunto ciò che  <pii importa. (Hoffding - Morale, VII. 3 tr. fr. p. 116-119).         — 8(i —    potrebbe essere raggiunto — può concepirsi attuata  non in una sola ma in più forme di vita fra di  loro diverse ; e resterebbe sempre da trovare un  criterio comparativo della desiderabilità, o da am¬  mettere che tutti i tipi di vita, per i quali si  concepisce possibile una conciliazione fra i tre ordini  di fini (anche se la conciliazione fosse ottenuta  allo stesso modo che nelle società animali, cfr. la  nota qui sopra a pag. 79), siano ugualmente desi¬  derabili. Il che importerebbe la legittimazione a  pari titolo di forme di condotta fra di loro diverse  e anche opposte; e si dovrebbe ricavare daltronde  che dal piacere puro il fondamento della legitti¬  mazione.   E qui tocchiamo un argomento il quale si al¬  larga fuori del campo particolare della dottrina  dello Spencer e riguarda nello stesso tempo una  questione più generale: la natura del fine.   6. — Siccome il carattere che si richiede nel  fine assunto a giustificare le norme morali è, come  s’è ripetutamente detto, quello della universale e  preminente desiderabilità sopra ogni altro, si pensa  che esso debba essere il fine dei fini, il fine ultimo  e supremo ; uno stato definitivo , oltre il quale, e  al di là, non ci sia più nulla da desiderare e da  cercare. E allora non resta che questa alternativa :  o si cerca un fine il quale contenga e comprenda  in sò tutti i fini ; e prendono forma i fantasmi di         — 87 —    felicità, di beatitudine, di perfezione, noi quali si fd"-'.-  figurano definitivamente appagati tutti i desideri,  e scomparsi o sommersi quelli che non vi trovano  appagamento ; oppure si considera come fine la  forma colla quale si presenta alla coscienza la  soddisfazione di qualsiasi desiderio; cioè il piacere  o la liberazione dal dolore.   Ma tanto 1’ una quanto l’altra delle soluzioni  non sono che apparenti, o si risolvono in una vana  tautologia. Porre come fine la felicità senza deter¬  minare quale sia o in che consista la felicità di  cui si discorre, è certamente un modo per conciliare  verbalmente tutte le differenze di opinioni e supe¬  rare tutte le difficoltà; ma nella realtà non le  concilia e non le supera, più di quel che valgano  a togliere le diversità di opinioni politiche e a  raccogliere i partiti ad unità di intenti certi « or¬  dini del giorno » in cui si afferma all’ unanimità  essere fine supremo per tutti il « bene della patria »  o la « prosperità della nazione » o altre formule  somiglianti.   E se si determina in che si faccia consistere la  felicità, quali siano i fini che si comprendono nel  fine unico chiamato con questo nome, allora delle  due l’una : o i diversi fini così compendiati e com¬  presi nel fine unico, sono veramente unificati, e,  perchè ciò sia. occorre che essi possano ridursi ad  uno; e quindi diesi possa dimostrare che uno fra    essi è causa o condizione degli altri, o che tutti  dipendono da una medesima condizione o ordine di  condizioni ; e in questo caso la felicità è caratte¬  rizzata o da quel fine o dal conseguimento di  questa condizione, che diventa esso fine, perchè su  esso si riversa la desiderabilità di tutti ; e il ter¬  mine felicità non è che.un duplicato di quel certo  fine o di questa condizione. Oppure i diversi fini  non sono clic sommati insieme, e giustaposti l’uno  all’altro, rimanendo in realtà distinti e senza che  si veda la necessità della loro connessione; e allora  1’ unità non è che verbale, e in realtà invece di  un fine, si hanno più fini, ciascuno nel suo genere  supremo.   Si dirà che si dà alla felicità non il senso di  un certo contenuto determinato che la costituisca,  ma il senso di appagamento dei desideri, di soddi¬  sfazione dei bisogni, senza clic si definisca quali  ne siano per essere il numero e le specie; nel qual  senso si può affermare che la felicità rimane sempre  il fine ultimo pur restandone indeterminato il  contenuto ? E si riesce allora alla seconda alterna¬  tiva, di considerare come fine ciò che si ammette  esservi di comune e di costante nel raggiungimento  di qualsiasi fine; cioè, come s’è detto, la forma  sotto la quale si presenta la soddisfazione di qua¬  lunque desiderio : il piacere o la liberazione dal  dolore. Ma dire che il fine ultimo è il piacere è       — 89 —   come dire che il line ultimo è il godimento che  accompagna il raggiungimento del fine o dei fini,  o che lo scopo dei desideri è.... la soddisfazione dei  desideri. E allora si vede perchè il puro piacere  non possa dare un criterio di legittimazione e di  valutazione comparativa dei fini e quindi delle  forme di condotta. Perchè o si prende come criterio  la quantità del piacere, la intensità della soddisfa¬  zione, senza badare alla natura del desiderio a cui  corrisponde, e non è possibile assegnare un solo  desiderio che abbia lo stesso valore, nonché per  due coscienze diverse, neppure per la stessa coscienza  in momenti diversi. 0 si valuta la soddisfazione  secondo i desideri cui corrisponde, e allora ciò che  distingue un desiderio dall’altro non è la soddisfa¬  zione ma V oggetto a cui il desiderio si rivolge;  non l’effetto soggettivo gradevole, ma le condizioni  che lo producono, non è il godimento del bene, ma  il bene.   7. — Ora è qui che si nasconde 1’ equivoco :  nell identificare il b ene col piacere ; il fine, cioè  l’ordine di effetti che costituisce l ’oggetto del  desiderio, collo stato soggettivo che è il godimento  (quando ci sia) del fine raggiunto. È bensì vero  che un bene di cui si concepisse che nessuno mai  potesse godere in nessun modo, non avrebbe valore  di bene; ma è non meno vero che un godimento  del quale non si sapesse assegnare nessuna causa   n      o condizione o mezzo atto a produrlo, non potrebbe  mai essere proposto o assunto come scopo di un'at¬  tività qualesivoglia. Ora quando si parla di un  fine desiderabile sopra ogni altro al quale sia or¬  dinata la condotta, non si può intendere che un  bene, il quale sia bensì, direttamente o indiretta¬  mente causa o mezzo o condizione di godimento,  senza di che non sarebbe bene; ma che non può  consistere nel godimento stesso, ma in un certo  effetto o ordine di effetti determinabile e possibile,  che possa costituire l’oggetto di una ricerca attiva,  •cioè di una certa condotta (1).   Senonchè bisogna evitare anche qui lo stesso  e quivoco che conduce a riporre il fine nella feli -   cità o nel piacere ; l’equivoco che questo effetto  o ordine di effetti debba costituire un fine ultimo,  uno stato definitivo, al di là del quale non siano  assegnabili altri fini. Uno stato, o un ordine di  effetti definitivo è contraddittorio non soltanto colle  leggi della vita, per le ragioni già dette, ina col  presupposto stesso fondamentale che si assume di  necessità quando si voglia determinare scientifi¬  camente un sistema di norme. Perchè qualunque   (1) Non altrimenti avviene nel campo speciale dell’economia. E  bensì vero che se non si supponesse la possibilità del consumo,  cioè del godimento dei diversi beni che costituiscono la ricchezza,  questa non avrebbe valore, e non avrebbe senso la produzione ; ma  1’ oggetto a cui si volge 1* attività produttrice e del quale si cer¬  cano le leggi, è la ricchezza, non il consumo.      — 91 —    fine rappresentato come umanamente possibile, ap¬  punto perchè deve essere concepito come un effetto,  che si produce, date certe condizioni, è a sua volta  pensato come condizione di altri effetti, cioè mezzo  ad altri fini. Pensare un effetto naturalmente pos¬  sibile che sia ultimo, è come pensare chiusa e fi¬  nita a un momento dato la serie della causazione,  abolita e spenta in un effetto che sia stato pro¬  dotto ogni efficacia causativa ; e allora vien meno  ogni ragione di pensare come dipendente da certi  mezzi, cioè da certe cause, anche l’effetto stesso  che si considera come fine ultimo; e quindi è tolto  ogni fondamento a qualsivoglia determinazione di  rapporti tra mezzi e fini, e perciò anche a qual¬  siasi determinazione di norme.   Si dirà che si intende « ultimo » rispetto alla  salutazione, cioè talea cui si riconosca valore per sé,  indipendentemente da ogni considerazione ulteriore.  Ma se si ammette che da quel fine, quando sia rag¬  giunto, dipendono altri effetti, nell'atto stesso che  lo si pensa condizione di tali effetti ulteriori, la  valutazione di questi (che non può essere esclusa)  •muta il valore del fine egli dà nello stesso tempo  valore di mezzo.   8. — Dal che nasce questa conseguenza assai  notevole: che la desiderabilità di un ordine di ef¬  fetti, che si assuma come fine, non viene tanto  dalla desiderabilità che gli si riconosca come bene.       cioè come oggetto diretto e immediato di godimento,  quanto dalla desiderabilità degli effetti, dei quali  esso apparisca la condizione necessaria. E che per¬  ciò, mentre è vano andar cercando quale sia il  fine ultimo, il quale non si trova mai, o si risolve  in una pura espressione verbale, il fine che può  valere come supremo si deve cercare non nell’uno  o nell’altro degli scopi a cui si riconosca valore  per sè, ma in un ordine di effetti, in un sistema di  condizioni, dato che sia assegnabile, nel quale si  possa riconoscere questo carattere appunto di con¬  dizione necessaria, non di alcuni, ma di tutti quei  beni, ai quali si attribuisce valore per sè. E quindi  il fine che può avere universalmente una deside¬  rabilità superiore a ogni altro, non può consistere  se non in un ordine generale e, si potrebbe dire,  preliminare di condizioni, la cui attuazione appa¬  risca necessaria perchè sia possibile universalmente  la ricerca ulteriore di quei beni. Non può essere cioè  supremo nel senso di una gerarchia, della qiiale  segni il culmine, nè nel senso di una grandezza  o quantità, di cui sia il massimo, ma nel senso  della precedenza necessaria o della indispensebilità;  per la quale venga a raccogliersi su di esso come  in un unico foco la luce e il calore di desiderabi¬  lità che irraggia dai fini ai quali apre universal¬  mente la via.   E perciò, ammesso che qualsivoglia fine umano     — 93 —    abbia, come ha in realtà, per condizione la convi¬  venza e la cooperazione sociale, il line che può  avere questo valore di precedenza necessaria sugli  altri deve essere di necessità il raggiungimento o  il mantenimento di certe condizioni ili convivenza  e di cooperazione sociale, cioè di una qualche  forma di società. Ma perchè ad una forma di so¬  cietà possa essere riconosciuto questo carattere uni¬  versalmente, occorre che le condizioni della sua  esistenza abbiano per tutti un valore potenzial¬  mente uguale : ossia che nessuno dei fini, dei quali  quella forma di cooperazione pone la possibilità e  dai quali attinge il suo valore, sia, per dato e fatto  delle esigenze di essa forma, precluso o impedito  a nessuno dei componenti la società. 0, in altri  termini, sia qualsivoglia il fine che si suppone  cercato, ciascuno trovi nelle condizioni proprie di  quella forma sociale la medesima esteriore possibi-  bilità di rivolgere a quella ricerca l’attività pro¬  pria. che vi trova qualsiasi altro (1).   L’analisi ci ha dunque portato a queste con¬  clusioni : a riconoscere che il limite dell’evoluzione,  1’ adattamento completo, la massima felicità, nè for-    (1) Il che non implica, occorre appena avvertirlo, una ugua¬  glianza nei risultati ottenuti, o come si dice inesattamente, una  « uguale distribuzione di felicità » la quale supporrebbe, insieme  colla condizione notata, anche una uguaglianza di attitudini, di at¬  tività e di preferenze.      — 94 —    nisce un criterio ili determinazione delle norme,  nò basta come principio di giustificazione; a rico¬  noscere la legittimità del concetto, clic bisogna  assumere come fine un tipo ideale di società ; e a  stabilire le esigenze fondamentali, alle quali questo  tipo deve soddisfare.   Ed ora è facile vedere per quali ragioni i l tipo  sul quale in realtà lo Spencer ha modellato la sua  società giusta non soddisfaccia a queste esigenze.   Gap. Vili. — Il tipo di società giusta dello Spencer .    i). — In un articolo di risposta ad alcune cri¬  tiche mosse ai « Dati dell’ Etica » lo Spencer po¬  lemizzando col prof. Means così si esprimeva a  proposito del modo di intendere la giustizia: << A  molti sembra ingiusto che la dura fatica di un bi-  folcogli faccia guadagnare in una settimana meno  di quanto un medico guadagna facilmente in un  quarto d’ora. Molti sostengono essere ingiusto che  i figli del povero non possano avere i vantaggi del  l’educazione che hanno i figli del ricco. Ma quest e  defi cenze nelle quote di felicità che alcuni ritrag¬  gono dalla cooperazione, sicc ome clerivano da ere¬  ditata inferiorità di natura, o da inferiorità di  c oMizioniMn cui i loro antenati inferiori sono c a- ^ ~ ^  cinti, sono deficienze colle quali la giustizia, come io  la intendo, non ha nulla che fare. L’ingiustizia che               — 95 —     trasmette alla discendenza malattie c deformità,  l’ingiustizia che infligge alla prole le conseguenze  penose delle stupidità e della cattiva condotta dei  genitori, la ingiustizia che costringe quelli che  ereditano delle inc apac ità, a lottare colle difficoltà  clic ne derivano, l’ ingiustizia che lascia in relativa  p overtà la gran maggioranza, le cui facoltà,.di or -  < 1 i ne inferiore, apportano ad essi scarsi profitti, 6  una specie di ingiustizia estranea alla mia tesi ».   il i cose stab ilii'-, quantunque in forza di esso, una '  inferiorità della quale l’individuo non ha colpa  produca i suoi mali, e una superiorità della quale  egli non può vantare nessun merito, apporti i suoi  benefìzi; e dobbiamo accettare, come possiamo,  tutte quelle disuguaglianze che ne deri vftrm     vantaggi che i cittadini si procacciane    rispettive attività » (1).   Ho citato questo passo, non perchè gli stessi con¬  cetti qui espressi non siano, esplicitamente o impli¬  citamente, sostenuti in tutta quanta la sociologia e  la morale dello Spencer, ma perchè forse in nessun  altro luogo appare piu manifesto il presupposto che  vizia la sua concezione della società ideale. Assu¬  mendo come elemento del concetto di giustizia —  accanto a quello dell’ uguale libertà — la condi¬  li) Replie to Criticism on « The Data of Etihcs » in Mitid  Jan. 1881 p. 93.                 zionc ricavata dalla biologia, che la vita progre¬  disce c si eleva soltanto a patto che gli individui  superiori godano i vantaggi della loro superiorità  e gli inferiori subiscano i danni della loro inferio¬  rità, egli identifica la inferiorità fisiologica e psi¬  chica colla inferiorità sociale; la inferiorità obesi  potrebbe chiamare nativa o costituzionale colla in¬  feriorità clic si potrebbe dire di posizione.   Ora, che un uomo debole non possa vincere le  medesime resistenze che uno forte, che un bambino  poco intelligente impari meno e peggio di un in¬  telligente, è naturale e necessario; ma non si può  dire che sia giusto nè ingiusto. Che i figli eredi¬  tino F ingegno o l’ottusità, la sensibilità o l’in¬  sensibilità, il vigore o l’infermità dei genitori, e  che i primi godano i vantaggi e i secondi sop¬  portino i danni che sono conseguenza rispettiva¬  mente di questa loro soperiorità o inferiorità ere¬  ditata, sarà del pari biologicamente necessario, ma  non è ancora nè giusto nè ingiusto; diventa bensì  giusto o ingiusto rispettare o violare questa rela¬  zione naturale, soltanto se si considera questa re¬  lazione come condizione di una elevazione pro¬  gressiva delle specie che sia assunta come effetto  universalmente desiderabile, cioè come fine.   Ma che i figli del contadino non abbiano la pos¬  sibilità di venire istruiti o educati, non dipende  dalla costituzione fìsica e mentale loro propria, ere-    — 97 —    ditata o no, ma dipende da una inferiorità sociale,  la quale toglierebbe ad essi questa possibilità anche  se la loro costituzione fisica e mentale Cosse attis¬  sima a questa coltura. Ora, mentre l’analogia della  selezione biologica importerebbe che i figli del con¬  tadino al pari di quelli del lord potessero porsi  allo stesso cimento, salvo a ricavare dalle loro ri¬  spettive capacità e sforzi frutti maggiori o minori,  la diversità delle condizioni sociali esclude gli uni  dalla gara c toglie non solo la necessita ma la pos¬  sibilità clic l’opera di selezione si rinnovi tra i  superstiti di ogni nuova generazione sull’unico fon¬  damento delle loro rispettive attitudini e attività.  Sul che non è necessario insistere dopo le cri¬  tiche note e ripetute ; ma valga l’accenno per ri¬  levare che a torto lo Spencer identifica colla infe¬  riorità biologica, o meglio, costituzionale, l’infe¬  riorità clic deriva dalle condizioni sociali, e crede  che possa valere a giustificare le conseguenze della  seconda, lo stesso fine che invoca a giustificare le  conseguenze della prima. Perchè la limitazione alla  sfera dei beni conseguibili che è imposta da con¬  dizioni esteriori è cosa affatto diversa dalla limi¬  tazione clic nasce dalla capacità e dalle doti in¬  trinseche; e se questa è giusta, posto che si prenda  per fine superiore a ogni altro V elevazione della  specie (e dato che ne sia condizione), quella è giusta  soltanto se si considera come fine superiore quella      certa forma ili cooperazione sociale che la rende  necessaria. Anzi quella limitazione d* origine so¬  ciale che si ponga come giusta per quest’ ultimo  rispetto, appare ingiusta per l’altro. E l’ammettere  che sia giusta la condizione « che ciascuno sopporti  i danni della sua inferiorità e goda i vantaggi  della sua superiorità » non include, ma piuttosto  esclude 1 altra condizione, a torto dallo Spencer  compresa o conglobata con quella ; che ciascuno  sopporti i danni o goda i vantaggi che sono con¬  seguenza di una inferiorità o di una superiorità,  la quale risulta non dalle sue doti fisiche e men¬  tali, ma dalla assenza o dalla presenza di certe cir¬  costanze esteriori.   E in verità sarebbe da meravigliare che lo  Spencer non abbia rilevato la differenza, o non ne  abbia tenuto conto, se non si ricordasse che il  punto di partenza, il foco centrale da cui muove  e attorno a cui si raccoglie la sua speculazione, è,  come s’ò detto in principio, un ideale etico, anzi  propriamente sociale e politico; onde l’intento prin¬  cipale diventa quello di trovare la giustificazione  del suo ideale nelle leggi della vita, e per esse  nelle leggi stesse dell’ universo.   l ( h Ora il suo ideale sociale e politico è in  sostanza quello stesso del liberalismo, in cui crebbe  e si maturò il suo pensiero, che era già compiuto  e definito nelle sue parti quando uscì il « Pro-         — 99    spectus » (1800); e perciò nel costruire la sua « So¬  cietà di uomini giusti », per quel che si attiene  alla struttura sociale, egli non fa che supporre rea¬  lizzati i desiderati teorici, o già riconosciuti espres¬  samente, o ricavati logicamente dai postulati eco-  n omici e politici di quel liberalismo . 11 quale era  bensì arditamente coerente nella affermazione dei  principi e dei corollari riassunti nella formula della  giustizia (la uguale libertà per tutti), ma conside¬  rava o come anteriori ed estranee a questa legge,  o come naturali ad un tempo e conformi ad essa,  le dive rsità storicamente date di condizione econ o-  mica degli individui e delle classi socia li. Onde lo  Spencer non tenne conto della disuguaglianza ef¬  fettiva, che nell’ esercizio di quella libertà, formal¬  mente uguale per tutti, porta 1’ esistenza di quella  diversità, che egli credeva giustificata dalle leggi  biologiche . 1 frinii* •   Ne segue che mentre nella sua società ideale  egli costruisce l’individuo giusto facendo astrazione  da tutto ciò che nei fini individuali vi può essere  di incompatibile non solo colla cooperazione, ma  anche colla simpatia ; n el costruire invece la so -  cietà giusta fa ben s ì astrazione da ogni forma di  aggre ssione esterna e interna che si esercit i, dato  « lo stato di cose stabilito », ma non fa astrazione  da quelle con dizioni che importano una reale li¬  mitazione diversa nella sfera delle attività é dei                            100 —    fini conseguibili dei singoli ; e però la sua non è  una società giusto, ma una società di uomini giusti ;  giusti, dirci, secondimi quid; la cui giustizia, cioè,  è modellata sulle esigenze di una certa struttura  sociale, nel configurare la quale egli non tien conto  di quelle condizioni che pur suppone soddisfatte nel  formare il tipo dell’ uomo giusto.   E cosi si avvera qui una i n eoe ronz a del genere  che si ò accennato più sopra (IV, 8): che le norme  della sua giustizia siano applicate a regolare delle  relazioni derivate, le quali esistono e sono possibili  in grazia di relazioni primarie e fondamentali, che  le norme non contemplano e che sono la negazione  del criterio applicato in quelle. Perchè mentre sup¬  pone che gli individui seguano nella loro condotta  una perfetta imparzialità subordinando alle esi¬  genze della giustizia o dell’ uguale libertà — fine  prossimamente supremo — tutti gli altri fini ge¬  nerali e particolari, suppone poi, come proprie di  una tale cooperazione di uomini giusti, condizioni  che sono in tutto o in parte la negazione dell’im¬  parzialità, e che non esisterebbero se lo stesso cri¬  terio dell’ imparzialità fosse seguito nel costruire  il tipo della società giusta.   E in questo senso che, accennando incidental¬  mente altrove all’Etica Assoluta dello Spencer, no¬  tavo come un vizio di essa non un eccesso, ma  piuttosto un difetto di astrazione; perchè egli as-       — 101    suine abusivamente come esigenze costanti e uni¬  versali di ogni forma di cooperazionc, e quindi  anche del suo tipo ideale, le condizioni proprie di  un certo momento storico; e pone come dati fon¬  damentali di una cooperazione regolata dalla legge  della uguale limitazione per tutti, delle condizioni  che importano una limitazione disuguale.   Stando così le cose, il raggiungimento o l’ap¬  prossimazione a un tale tipo di società, non può  apparire come fine universalmente preferibile, nè  le norme che esprimono la condotta richiesta da  quel tipo possono avere carattere di universale os-  servabilità sopra ogni altra, E ciò da un doppio  punto di vista.   Agli individui delle classi sociali poste, per ef¬  fetto di quella disuguale limitazione, in condizione  di inferiorità, questa inferiorità che non è conse¬  guenza della propria condotta, deve apparire una  menomazione ingiusta dei diritti; agli individui  delle, classi sociali poste in condizioni di superiorità,  questa superiorità, che parimenti non è conseguenza  della propria condotta, deve apparire, se la coscienza  si elevi a una imparzialità universale e coerente,  una menomazione ingiusta dei doveri,   il. — E nasce di qui quel se greto rancore in  chi riceve, e quel senso indefinito di malcontento e  quasi di rimorso in chi dà, clic avvelenano talvolta  dalle sorgenti la simpatia, oscurando la serenità       — 102 —    della beneficenza, se la accompagni il dubbio che  essa non sia se non un compenso parziale e tardivo  di ingiustizie patite e di ingiustizie godute.   La simpatia non può essere schietta dove non  regna la giustizia (1); e non si possono definire  le forme e i limiti della beneficenza se non dopo  die siano definite, e siano o si suppongano osser¬    vate le norme della giustizia; onde la necessità  logica che il tipo ideale della società giusta sia  determinato all’ infuori da ogni supposta efficacia  modificatrice che la simpatia e la beneficenza eser¬  citino sulle condizioni e sulla condotta dei singoli  e della società. Soltanto così è possibile accertare  se il tipo di cooperazione assunto come ideale possa  essere universalmente desiderabile, e soltanto così  è possibile determinare dove la giustizia finisca e  la beneficenza cominci ; dove finiscano le relazioni  di diritto e dove comincino le relazioni di simpatia.   * ^ _ Ora il tipo di società ideale dello Spencer pre-   i cti'Qlf senta anche questo difetto che deriva inevitabil-  mente dal primo; di supporre realizzate le condi-    yCH&Ue'ìt-   f    zioni della perfetta simpatia in una società nella   (1) Questo si riflette con tutta chiarezza nella pratica quando  si tratta di rapporti semplici e sulla giustizia dei quali non cada  dubbio; poniamo tra due commercianti onesti che abbiano relazioni  d’affari e relazioni di amicizia. Dove gli scambi di cortesie che  sono frutto della simpatia, non mutano di un ette i diritti e gli  obblighi del dare e dell’avere; e se li mutano, oscurano e tingono  d’ altro colore i rapporti di simpatia.          103    quale non sono realizzate le condizioni della giu¬  stizia. La sua società è una società più o meno  ingiusta di uomini perfettamente simpatetici ; dalla  quale egli ricava per un verso le norme della  giustizia, e per l’altro le norme della simpatia;  invece di essere una società giusta di uomini giusti,  quando si tratti di determinare le norme della  giustizia ; e una società giusta di uomini perfetta¬  mente simpatizzanti quando si tratti di determinare  le norme della simpatia e della beneficenza.   Ma anche supposto che per questa guisa la  perfetta simpatia venga a sanare gli effetti delle  inferiorità imposte dalla cooperazione sociale, il  tipo che ne risulta presenterebbe sempre questo  difetto: che la ricerca e il raggiungimento di alcuni  dei fini, ai quali la cooperazione serve, apparirebbe  per una parte dei cooperanti subordinata alla be¬  nevolenza di un’ altra parte. Il qual difetto baste¬  rebbe per togliere, nel giudizio di una coscienza  imparziale, a quel tipo di cooperazione il carattere  di univers ale preferibilità.   12. — Ma il difetto era, come s’ò detto, dato il  presupposto dello Spencer, inevitabile. La simpatia  è pe r lui il m ezzo di conciliazione dell’egoismo  col l’altruismo. M a poiché i limiti rispettivi dell’e-  goismo e dell’altruismo sono segnati dalle esigenze  del suo tipo sociale, la perfetta simpatia è in ultimo  la condizione dell’adattamento psicologico dei sin-              — 104 —    goli a queste esigenze. Ed ò caratteristico a questo  riguardo il latto che il capitolo, nel quale si tratta  dello svolgimento progressivo della simpatia come  l’attore della conciliazione , porta lo stesso titolo e  sostituisce nei « Dati » il capitolo smarrito e ag¬  giunto poi in appendice, che ho citato più sopra  (v. nota a pag. 70), nel quale si cita come esempio  di conciliazione tra l’egoismo e l’altruismo l’adat¬  tamento alle esigenze della vita sociale delle api  e delle formiche. Per questo rispetto direi, se non  sembrasse un paradosso, che il grande assertore e  propugnatore dell’individualismo, è in fondo, senza  che se ne accorga, un difensore della subordinazione  totale e definitiva dell’individuo a un tipo di coo¬  perazione sociale, che egli considera bensì come la  condizione necessaria alla vita più elevata delPin-  dividuo e della specie, ma che in realtà vincola il  grado di elevazione della vita di un gran numero  se non di tutti gli individui, alle esigenze di una  certa struttura economica.   E quando egli combatte l’intervento della società  nel regolare i rapporti economici, in nome dei  diritti dell’individuo, dimentica che una parte con¬  siderevole di quei diritti, sono in realtà diritti di  alcuni soltanto, e non di tutti, c che questa dispa-  0 rità ha la sua radice nella costituzione economica,   che lo Stato, come egli lo vuole, interviene pure  a sancire e a difendere. La quale osservazione,            — 105 —    giova notarlo, non ■vale per sè nè prò nè contro  il cosidetto Socialismo di Stato; vale soltanto a  provare che l’individualismo dello Spencer non è,  come pare, un individualismo universale, ma un  individualismo particolare.   Cosi, i l difetto capitale del tipo di società dello  Spencer come in genere del cosidetto « Stato di  diritto » nasce non da quel che afferma, ma da  quel che dimentica ; non dal riconoscere e difendere  le esigenze della uguale libertà per tutti, ma dal  non riconoscerle tutte; cioè dal trascurare o dal-  1 omettere, come se fossero soddisfatte, mentre non  sono, le condizioni che rendono possibile 1’ uguale  libertà (1).   E, ad esprimerlo in termini kantiani, il difetto  si riduce a questo: Dove vi è cooperazione con  effettiva parità di diritti, ciascuno dei cooperanti  ha ad un tempo riguardo a qualsiasi degli scopi  della cooperazione, per un rispetto ragione di mezzo  e per l’altro ragione di fine. Se invece le esigenze  della cooperazione interdicono a qualsivoglia dei   (1) Nota il Loria che quando si grida contro la concorrenza come  causa di una infinità di mali, si attribuisce alla concorrenza la  produzione di effetti che nascono « dalla mancanza di concorrenza,  cioè dal monopolio. Perchè la concorrenza domina soltanto nel  campo innocente della circolazione, e qui ha una influenza benefica.  Mentre i mali lamentati nascono dalla distribuzione , e sono il ri¬  sultato, anziché della concorrenza che qui non esiste, della mancanza  di concorrenza fra lavoratori e capitalisti ». ( Cost. Ec. odierna  0. 11. 3. 6. ; p. 175, cfr. anche p. 60 e passim).    7           — 100 —    cooperanti la ricerca di una parte dei beni, a cui  ò condizione necessaria la cooperazione di tutti,  per questa parte 1’ escluso ha soltanto ragione di  mezzo, e non ragione di fine.   Il che avviene appunto, malgrado il riconosci¬  mento formale, o meglio, verbale, della uguale  libertà, anche nella società ideale dello Spencer.  La quale perciò non può aver valore di universale  e preminente desiderabilità perchè non soddisfa  alla condizione richiesta : che tutti i sodi trovino  nelle condizioni di esistenza della società la mede¬  sima o equivalente possibilità esteriore di rivolgere  la loro attività alla ricerca di qualsivoglia dei beni,  ai quali la cooperazione sociale è mezzo.   Questo è il postulato caratteristico della univer¬  sale desiderabilità di una forma di convivenza,  ossia è il postulato caratteristico della giustizia;  e supporre una società giusta di uomini giusti  equivale a supporre riconosciuta e applicata uni¬  versalmente e costantemente in qualunque specie  di azione o di influenza che si eserciti, così dalla  società come da ciascuno dei singoli, l’esigenza di  quel postulato.   Gap. IX. — Ufficio e limiti (li una costruzione scien¬  tifica dell’ Etica.   13. — La società giusta così intesa non rappre¬  senta dunque un tipo definitivo della vita più     — 107 —    elevata possibile, analogo ai tanti regni dell’Utopia  che la fantasia morale ò venuta fingendo nei  diversi tempi. Anzi per questo rispetto una mag¬  giore o minore elevatezza, complessità o intensità  di vita, di attività, di fini, non ò affatto implicita  nel postulato nè si può ricavare da esso ; e si può  concepire (e non ne mancano in effetto gli esempi)  una forma di società in cui sia, almeno parzialmente^   l'aggiunto un grado assai elevato di civiltà, la  quale sia tuttavia meno giusta di un’altra più  semplice e meno civile. Appunto perchè la giustizia  riguarda la universale possibilità di cercare i beni,  ai quali è condizione la convivenza e la coopera¬  zione sociale, e non include che questi beni siano  di molte o di poche specie, di maggiore o di minor  pregio.   Onde è pienamente compatibile col postulato  anche la concezione pessimistica della vita ; perchè,  anche dal punto di vista del pessimismo, uno stato  di giustizia, che è la condizione necessaria della  universalità della simpatia e quindi della compas¬  sione, deve apparire preferibile a ogni altro. E se  anche si riguardasse come fine ultimo la negazione  universale della volontà di vivere, lo stato di giu¬  stizia apparirebbe la condizione più favorevole  perchè 1’ uomo prenda coscienza della necessità  naturale c inevitabile della propria infelicità, spo¬  gliandosi dell’illusione che essa sia occasionale e                     — 108 —    contingente, ed effetto di malvagità degli uomini  o di iniquità degli istituti sociali. E questa desi¬  derabilità dello stato di giustizia anche rispetto al  pessimismo è forse una conferma non trascurabile  del valore di universale preferibilità che gli si è  riconosciuto, e a un tempo della sua indipendenza  da ogni particolare concezione metafisica.   Adunque, poiché uno stato di giustizia non è  caratterizzato da altro se non dall’ ipotesi che le  esigenze di quel postulato siano soddisfatte, non  si può nè si deve pretendere di ricavare dal po¬  stulato un contenuto determinato, ma soltanto la  forma generale delle norme. Il contenuto specifico  deve essere ricavato dai fini, ai quali si riconosce  o si suppone che la cooperazione sociale sia o  debba essere mezzo, e in relazione al quali si  possano definire le condizioni richieste dal postulato  della giustizia.   Quali siano questi fini non si può stabilire se  non o per constatazione o per ipotesi. Per consta¬  tazione, quando corrispondano alla osservazione  della realtà psicologica in un dato momento sto¬  rico, ossia in una forma di civiltà. Per ipotesi,  quando si voglia cercare preliminarmente quali sa¬  rebbero le condizioni richieste dalla possibilità di  ciascuno dei fini isolatamente preso o di un gruppo.  (Ed è inutile a questo proposito insistere qui sulla  eventuale opportunità o necessità di ricorrere a        — 109 —   tali ipotesi specialmente nelle ricerche, come questa,  nelle quali non è possibile la sperimentazione).   14. — Ma tanto nell’uno quanto Dell’altro caso  le condizioni che se ne ricavino e che vengano sta¬  bilite come proprie del tipo di società giusta con¬  siderato, presentano questo carattere : che non sono  date, ma costruite, che non sono reali, ma ideali.  Ora, se noi determiniamo quali siano le norme di  condotta corrispondenti a quelle condizioni, queste  norme esprimeranno quale sarebbe il modo di ope¬  rare nella supposizione che esse siano già date e  reali, e non quale sia il modo di operare che tende  a realizzarle, mentre sono date condizioni piu o  meno diverse.   La prima determinazione è oggetto di un’ Etica  Pura : la seconda di un ' Etica Applicata, nella quale  si consideri come fine il raggiungimento delle con¬  dizioni ideali che sono assunte nell’ Etica Pura, e  si stabilisca per approssimazione quale sia in un  dato momento storico la condotta sociale e indivi¬  duale, che, nei limiti necessariamente imposti dalle  condizioni reali date, ò più atta a favorire la tra¬  sformazione di queste nella direzione segnata da  quelle.   Soltanto così l’Etica può evitare un errore del  genere di quello nel quale cadevano gli economisti  della scuola Classica ; i quali, dopo aver supposto  l 'homo oeconomicus mosso unicamente dall’interesse          110 —    personale, il che avevano diritto di fare, lo consi¬  derarono poi come reale e die dero valore di leggi  n aturali e necessarie alle conclusioni ricavate da  questo e dagli altri dati astratti supposti (1). Ora  appunto percliò le condizioni soggettive e oggettive  dell’ homo iustus e della societas insta, sono supposte  e non reali, le norme che esprimono quale sarebbe  la condotta dell’ homo iustus e della societas iusta  non sono immediatamente nè integralmente appli¬  cabili in condizioni diverse dalle supposte. I « do¬  veri » e i « diritti » dell’ uomo giusto nella so¬  cietà giusta non coincidono coi doveri e i diritti  dell’ uomo storico in determinate condizioni sto¬  riche; alla stessa guisa che i « diritti naturali »  dei filosofi dello stato di Natura non coincidevano  coi diritti positivi delle società in cui vivevano.  Ma se si dà valore di fine all’attuazione delle con¬  dizioni proprie della societas iusta, i doveri e i di¬  ritti 1 dell’ homo iustus diventano il modello al quale  si riconosce desiderabile che cerchi di avvicinarsi  il sistema di doveri e di diritti che vale come  giusto in una società reale data. Alla stessa guisa,  se la costituzione di una società foggiata in con¬  formità all’ipotesi dello Stato di Natura e del Con¬  tratto, si fosse riconosciuta (con verisimiglianza  maggiore ed evitando la confusione fra giustifica¬    ci) Cfr. Ch. Gide. Principes d’ éc. poi. p. 20-22.           - Ili —    zione etica e spiegazione storica) come fine da rag¬  giungere invece che come stato originario, il « di¬    ritto naturale » ricavatone sarebbe legittimam ente    apparso come il tipo idealmente giusto, al quale il  diritto positivo doveva avvicinarsi e adattarsi.   Adunque/qu ando si eviti l’errore di scambiare  i dati ipotetici coi dati reali, c la pretensione uto¬  pistica di applicare direttamente e integralmente  le conclusioni ricavate dai primi alle relazioni che  sono imposte dai secondi A a ppare evi dente ad un  tempo e la 1 ( frittimi t à della distinzione, e la prio¬  rità logica dell’Etica Pura surf mica Applicata (1).    15. — Raccogliamo in breve i resultati dell’ a¬      nalisi.   0   Una scienza normativa etica non differisce dalle  altre scienze precettive se non pe ^ il valore, che si ^  attribuisce al line suo: il quale deve essere des i¬  d erabile univ ersalm ente jyjjma e_a preferenza di    ogni a ltro , se si vuole che sia riconosciuto lo stesso    carattere alle norme ricavate da esso. Questo fine  universalmente preferibile non nuò essere che un  fine relativamente prossimo, il quale (abbia o no  anche valore per sè) sia mezzo o condizione di tutti  i fini che si considerano come « ultimi » ; e quindi  non può essere che una forma di convivenza e di    */ . amw*    (l) Per maggiori chiarimenti sulla relazione fra le due Etiche  cosi intese e sulle parti di ciascuna, mi sia lecito riferirmi a quanto  ebbi occasione di dire nei « Prolegomeni ecc. » già citati.              — 112 —    coopcrazione, nella quale 1’ universalità dei singoli  possa riconoscere tale requisito. Ma una società  siffatta ò supposta, non reale, e le norme di con¬  dotta che se ne ricavano regolano delle relazioni  che sono parimenti assunte per ipotesi, e non sono  perciò applicabili direttamente a relazioni più o  meno diverse. Tuttavia la loro determinazione è  non soltanto utile, ma necessaria; necessaria dal  punto di vista scientifico alla determinazione delle  norme che debbono regolare le relazioni più com¬  plicate della realtà ; necessaria dal punto di vista  etico alla giustificazione di queste norme ; perchè  esse sono valide in quanto esprimono ravvicina¬  mento, nei limiti del possibile, di queste relazioni  reali a quelle relazioni ideali. Il che viene a dire  che l’Etica Pura fornisce all’Etica Applicata il  criterio per determinare le norme, e il valore che  le giustifica.   16. — Ma non bisogna dimenticare che le norme,  sia dell’Etica Pura, sia dell’Etica Applicata, hanno  il valore che si assegna a loro, nella ipotesi fonda¬  mentale che si accetti come valido e fuori di conte-  stazione il postulato della giustizia. Ossia hanno  valore se si suppone che ogni « socio » riconosca  che una forma di convivenza e di cooperazione  nella quale ciascuno abbia, quanto alle limitazioni  esterne, valore di fine a pari titolo di qualunque  altro è preferibile a una forma di cooperazione    — 113 —    nella quale una parte dei <? socii » abbia, per uno  o più rispetti, soltanto valore di mezzo e non di  fine.   Quindi, è bensì vero clic l’assunzione di quel  postulato è la condizione necessaria all’ universale  riconoscimento della norma, e clic perciò, se si  pone come caratteristica della norma morale 1’ u-  niversalità, rinunciare a quello vuol dire rinunciare  a questa ; ma ciò non toglie che si debba affermare  chiaramente e senza sottintesi che il sistema di  norme per tal guisa stabilito ha, come qualunque  altro sistema di norme, del quale si richieda una  giustificazione, valore ipotetico ; e che perciò questo  valore ò incontestabile solo in quanto si riconosce  incontestabile il postulato.   Appare di qui che è vano e illusorio cercare  la giustificazione di una norma morale nelle leggi |  naturali (i). Perchè ciò che giustifica una norma  di condotta non è la naturalità, ma la desiderabilità  dell’ effetto contemplato ; e le leggi naturali stesse  possono apparire giuste od ingiuste secondochè si  assumano come universalmente desiderabili o no  i resultati, ai quali la conformità della condotta    / ' fi 1   affo irafic-li itr [v  yJ.tA ttfilk t**'  he* ìtU 'o jqie j.    (1) La conoscenza delle leggi naturali suggerirà i mezzi neces¬  sari a raggiungere un fine; e darà modo di giudicare della come-  yuibìlità di questo o quel fine che eia proposto ; ma non serve a dar  valore di universale desiderabilità a un ordine di effetti, per il solo  fatto che ce ne riveli la produzione « naturale ».     — 114 —    a quelle leggi conduce, o ò creduta condurre. Può  essere vero (e non è da discutere qui) che l’essere  o no un ordine di effetti desiderabile (ossia, in  ultimo, l’essere o no presenti ed efficaci nella co¬  scienza umana certi bisogni, desideri, aspirazioni,  credenze), sia un portato necessario della natura  stessa delle cose e dell’ uomo, e che le tendenze  umane, si siano, rebus ipsis dictantibus, modellate  cosi da condurre a riconoscere nella osservanza  delle leggi naturali un valore di giustizia e di  bontà; ma anche in questo caso non ò la naturalità,  che ne fa ammettere la giustizia e la bontà, ma  è la loro, diretta o indiretta, desiderabilità. Onde  per questo rispetto nulla vieta che si concepiscano  possibili, almeno teoricamente, più Etiche diverse;  possibile, per esempio, (sebbene l’accoppiamento  esplicito dei termini ripugni) un’Etica dell’ingiu¬  stizia, quando si assuma come postulato la prefe-  ribilità di una comunione sociale in cui una parte  non abbia che diritti e un’altra non abbia che do¬  veri. Benché allora 1’ Etica si sdoppierebbe in due  Etiche diverse, anzi opposte : l’Etica degli uomini-  fini c l’Etica degli uomini-mezzi; o, per usare le  parole del Nietzsche, la Morale dei padroni e la  Morale degli schiavi ; e la medesima condotta sa¬  rebbe, seguita dagli uni, giusta, seguita dagli altri,  ingiusta.   Che una « giustizia » di questo genere ripugni     — 115 —    alla psiche del socius per una ragione analoga a  •quella per la quale ripugna alla psiche dell’ uomo  logico ammettere che un rapporto tra due cose o  fatti, sia vero per gli uni, e falso per gli altri, è  credibile; (sul presupposto di quella ripugnanza,  si fonda, io credo, la giustificazione etica della  coazione e delle sanzioni). E certamente rimane  aperto qui un campo ulteriore di indagini intorno  ai problemi che riguardano il come e il perchè il  postulato che assumiamo possa e debba essere ac¬  cettato ; e se alla esigenza che esso esprime si  possa o si debba assegnare un ufficio, e quale,  nella interpretazionetotale del mondo, dell’ uomo  e della storia. Ma da queste indagini, le quali sono  di natura metafisica, la costruzione scientifica del-  l’Etica, come qui fu abbozzata, può e deve tenersi  indipendente, per una ragione analoga a quella per  la quale l’igiene è e si mantiene indipendente da  ogni questione intorno al fondamento e al valore  del postulato assunto da lei, e dal quale deriva il  valore normativo dei suoi precetti: — che un or¬  ganismo sano sia preferibile a un organismo ma¬  lato. —   Perciò, finché si rimane nel campo della ri¬  cerca scientifica, la sincerità richiede che, anche  nell’Etica, malgrado ogni interiore certezza, questa  condizionalità del valore delle norme sia esplicita¬  mente riconosciuta, e che anche nei termini si    «      — 116 —       eviti 1 ’ equivoco, e fin dalle parole sia bandita ogni  pretensione a un valore che non sia condizionato  al presupposto assunto.   Per questa ragione, oltreché per fissare rispetto  alla dottrina dello Spencer le differenze notate nel  modo di intendere il fine, e di concepire la società   *   giusta e 1 ’ uomo giusto, e la priorità non soltanto  logica ma giustificativa di un’Etica rispetto all’altra,  LUa p«A* è conveniente, sostituire ai termini « Etica Asso-  ‘fvulfyh luta ed Etica Relat iva » i termini « Etica P ura    V'.',:r , ì '■ pvi n l iuta i v a » i ieri mmi «   e~=r . 1 ", della giustizia ed Etica Applicata della giustizia ». (^ 3 ;   n*fac- E se tosso poi, c'Sfne~r _ l n effetto, necessario od  'GlfiULiffil opportuno determinare quali dovrebbero essere le  norme di condotta nell’ ipotesi che, osservate pre¬  liminarmente le condizioni della giustizia, fosse    assunto come fine l’adempimento delle condizioni  richieste dalla universale solidarietà, si avrebbero  due ulteriori sezioni dell’Etica : l’ Etica Pura della  Simpatia e 1’ Etica Applicata della Simpatia.    della J    **1                              »                  —-PER UMA SCIENZA   FORMATIVA MORALE * -          \                   1                     PER UNA SCIENZA NORMATIVA MORALE    A leggere questo titolo, quelli che il Varisco ha  chiamato felicemente « i filosofi dell’ oramai» e  quegli altri che si potrebbero chiamare i girasoli  della filosofia (i due tipi coincidono in parte, ma  non in tutto) c’è da scommettere che sorrideranno.  — Non è « oramai » pacifico che di una scienza  della morale non si può parlare? E vale la pena  di perdere il tempo attorno a un problema « oltre¬  passato »? — Io mi rassegnerò a lasciarli sorridere;  ma non son persuaso dell’ oramai, e trovo che il  problema è tutt’ altro che superato. La quale per¬  suasione per altro non garantisce nulla, pur troppo,  rispetto all’ altra faccenda del perder tempo ; per¬  chè il tempo si può perdere, e far perdere, come  sappiamo benissimo tutti, anche trattando di ar¬  gomenti non « oltrepassati ».   'Dico dunque che il problema, almeno nel modo  nel quale credo che debba essere posto e ho cer¬  cato di porlo, è più vivo che mai e di interesse  capitale così per l’Etica come per la Filosofia del  diritto. E chiedo scusa fin da ora al lettore se do-    8      — 122 —    vrò, richiamandomi a cose già dette, parlare, più  spesso che le buone regole non consiglino, in prima  persona.   • •   1. — Quando sostengo la possibilità e la legit¬  timità di una scienza normativa morale, non in¬  tendo che una tale « scienza » possa o debba so¬  stituire la metafisica, e bandirla proprio da quel  campo che è il vero vivaio dei problemi metafisici,  il campo delle idee e dei sentimenti morali. E nem¬  meno che possa pretendere di costruire la morale ,  « F unica vera morale » erigendo a norme della  condotta certe leggi naturali cosmiche, o biologiche  o psichiche o sociologiche o storiche, alle quali si  presuma di dare valore imperativo. La tesi che ho  sostenuto e sostengo è diversa. Una scienza normativa    etica, non può, al pari di qualsivoglia scienza pre¬  cettiva, consistere in altro che in u n sistema di re ¬  l azioni e di legg i, le quali hanno valore di norme da  seguire nell’ ipotesi che sia assunto come fine quel-  F effet to o quell'ordine di effetti, del quale esse  ’-ggi esprimono le condizioni e i fattori. Ma dibo¬  sco dalle altre, perchè s uppone che al fine suo    [MJLjcTalfA   Ò)lCJUjLt> 'ittl-       , del quale esse    ’Sl'Kp tkf     si a rico n osc iuto un valore di universale pref eribilità    e precedenza sopra ogni altro fine.    Perciò una determinazione scientifica di norme    etiche richiede due condizioni : l.° Che il fine sia          — 123 —    umanamente possibile; cioò tale che se ne possa  stabilire la dipendenza condizionale da una certa  forma di condotta collettiva e individuale. Di qui  dipende il carattere scientifico della costruzione ;  perché la relazione che lega le norme con quel  fine potrà essere lunga, complicata e difficile, ma  non richiede ad essere conosciuta altri mezzi che  quelli di una indagine scientifica.   2.° Che sia ammesso come postulato che il ri¬  conoscere al fine assunto valore di universale pre-  feribilità e precedenza rispetto a qualsivoglia altro  fine umanamente possibile, è un 'esigenza morale.   É ovvio di per sè che se si ricusa di ammettere  questo postulato o se ne nega la legittimità, la de¬  terminazione delle norme di condotta richieste dal  fine contemplato non perde nulla del suo carattere  scientifico ; ma le norme non hanno valore morale.   •Ossia, il valore morale delle norme così ricavate  ò relativo alla accettazione del postulato; e la de¬  rivazione scentifica di un sistema di norme dal  fine in discorso non ò, a rigor di termini, la scienza  della condotta morale; ma la scienza di una certa  condotta; la quale è la condotta morale, se si am¬  mette e in quanto si ammette quel postulato.   Ma è altrettanto ovvio che non avrebbe senso,  o sarebbe al tutto arbitrario e fuori di proposito,  l’attribuire in ipotesi al fine un valore che nes- ’ v '’’   suno fosse disposto a riconoscergli, e assumere come Ua   esigenza morale una esigenza che non trovasse nella */ r f>' r \ c < ’• '   a • fi «.e  ^ 0 $/» Uiv -        — 124 —      l Vt p*|Ut-U4«  ^vw *    realtà nessuna corrispondenza. Ed è perciò che ho-  cercato di porre in chiaro in primo luogo quale  fosse l’esigenza caratteristica del valore morale di  una norma ; poi, se si potesse assegnare un fine  umano, e quale potesse essere, che rispondesse a  queste condizioni.   Non è il caso di ripetere il già detto (1); qui  ne ricordo soltanto le conclusioni : — che l ’esi-  genza che assum o, e, credo aver dimostrato, legit¬  timamente, come caratteristica di una norma mo-  r ale ò quella di una universale giustizia ; e che il  fine che soddisfa a questa esigenza non può essere  che una forma di società umana tale, che tutti i  sodi trovino nelle sue stesse condizioni di esistenza  la medesima o equivalente possibilità esteriore di  rivolgere la loro attività alla ricerca di qualsivo¬  glia dei beni ai quali la convivenza e cooperazione  sociale è mezzo. — Supponendo dunque ammesso  il postulato sopra detto, non ho fatto e non faccio  una ipotesi arbitraria; poiché Tesigenza della giu¬  stizia, alla quale il postulato fa appello, è la più  profonda e più tenace e più incoercibile dell’uomo    in quanto è socius, cioè in quanto è soggetto di  moralità e considera se stesso, ed è considerato,  come persona a pari titolo di ogni altro socio.    (1) Mi riferisco, qui e nel corso di questo scritto, a quello clie  che lo precede nel presente volume, e a un altro studio : Prolego¬  meni a una Morale indipendente dalla Metafisica, Pavia, Biz-  zoni, 1901.          — 125 —      Tuttavia per quanto possa parere ed essere le¬  gittimo prendere per concesso qu esto postulato, non  bisogna dimenticare, ma anzi importa rilevare chia¬  ramente , che il fine e le norme corrispondenti  hanno quel valore che si attribuisce a loro, soltanto  nell’ ipotesi che lo si accetti come valido e fuori di  contestazione.   Se non 6 ammesso, ò vano pretendere clic la  costruzione normativa valga a farlo accettare o  possa obbligare ad accettarlo. Essa non può che  mostrare la coerenza delle norme proposte col fine  assunto, e di questo colla esigenza della giustizia ;  e mostrare con ciò che non si può ragionevolmente  ammettere questa esigenza senza ammettere il va¬  lore di universale priorità attribuito al fine, e  quindi alle norme. Ma che l’esigenza invocata sia  ammessa in realtà, o sentita come tale, ò un dato  di fatto che la costruzione normativa trova, se c’è;  ma che non pone essa, ne per sò vale a mutare.   2. — Adunque la scienza normativa morale così  intesa si riduce alla determinazione delle norme di  condotta valide per una coscienza che anteponga a  ogni altra esigenza l’esigenza della universale giu¬  stizia. Se in ipotesi volesse determinare le norme  di condotta per una coscienza per la quale valga  come suprema l’esigenza egoistica, le norme risul¬  terebbero diverse. Ma il procedimento sarebbe il  medesimo ; la deduzione sarebbe, o si può concepire    *1 lyO           che potrebbe essere, ugualmente ragionata e scien¬  tifica. E del pari se si assumesse come regolatrice  l’esigenza dell’abnegazione o della rinuncia incon¬  dizionata di sò agli altri, o qualsivoglia altra esi¬  genza e un fine possibile corrispondente.   Di qui si vede quanto sia superficiale c vuota  di significato l’opinione tante-volte ripetuta, e che  forma quasi il leitmotiv di un’ opera che ha latto  gran rumore, che la ragione non ci comanda che  l’egoismo. La ragione per sè non comanda nulla ;  né l’egoismo, nè l’altruismo, nè la giustizia. La  ragione cerca, e mostra, se le riesce, i mezzi che  servono a conservar la vita a chi la vuol conser¬  vare, a distruggerla a chi la vuol distruggere; ad¬  dita ai pietosi le vie della pietà, ai giusti le vie  della giustizia, e le vie del proprio tornaconto agli  uomini senza scrupoli. Ma l’egoismo non 6 per sè  più « razionale » dell’altruismo, nè il regresso più  razionale del progresso, nè la conservazione del-  l’individuo più razionale di quella della specie, nè  1’ utile proprio più razionale che 1’ utile della col¬  lettività.   Razionali non sono i fini, ma le relazioni dei  mezzi ai fini (1). Ed è così ragionevole che dia la    (1) Dire che la ragione non consiglia che 1’ egoismo equivale a  dire che una condotta non egoistica non si può ragionevolmente  giustificare ; ossia viene a dire una di queste due cose : 0 che di  un fine non egoistico non si possono assegnare mezzi possibili, e     — 127 —    vita per un’idea chi pregia più l’idea che la vita,  come che taccia la verità per un ciondolo chi ama  più i ciondoli che la verità.   Ma forse dicendo così si è ancora giusti verso  la ragione. Perchè se ciò che si chiama uso della  ragione può avere, come non dubito che abbia, una  efficacia indiretta nella valutazione dei fini, non è  dubbio che questa efficacia si esercita in favore di  quei fini e di quelle norme che rispondono alla   quindi non si può determinare quale sia la condotta atta a rag¬  giungerlo ; cioè che si tratta di un fine fuori di ogni efficienza  umana. E in questo caso non ci sarebbe senso a proporlo come fine  dell’ operare nè in nome della ragione nè in nome di qualsivoglia  altra cosa, dal momento che qualsiasi condotta sarebbe rispetto ad  esso indifferente. Oppure che un fine non egoistico non è mai fine  per sfi, ma ha bisogno di essere giustificato da un fine egoistico al  quale sia mezzo o condizione. Ma il valore per sè di questo fine  egoistico ultimo, al quale si riporta la giustificazione, non può es¬  sere alla sua volta giustificato, ma deve essere un dato di fatto  reale o supposto ; il quale dunque, appunto per ciò, è fuori di ogni  ragionamento. E il vero senso dell’ affermazione in discorso è al¬  lora non che « la ragione consiglia l’egoismo » ; ma che « gli uo¬  mini sono tutti e sempre e inevitabilmente egoisti (poiché i fini ai  quali soltanto riconoscono valore per sè sono fini egoistici) ; e quindi,  finché sono e rimangono egoisti, non possono trovar ragionevole altra  condotta all’ infuori di quella suggerita dall’ egoismo ». Sapevhm-  celo ; ma non vuol dire che l 'essere egoisti sia più ragionevole die  il non essere.   D’altra parte, posto che gli uomini fossero inevitabilmente egoisti,  anche il precetto o il consiglio di non seguire la ragione, dovrebbe, per  avere valore pratico, fare appello in ultima istanza a in fine egoi¬  stico, nè più nè meno di quel che farebbero nello stessè caso i con¬  sigli della ragione. Con questo bel risultato : che gli uomini rinun¬  cino ad essere ragionevoli per.... continuare ad essere egoisti.      tendenza caratteristica dell’attività razionale : l’uni¬  versalità. Ora nel campo dell’attività pratica il  fine del quale soltanto si può concepire universale  il raggiungimento, e la norma, della quale soltanto  si può concepire universale V osservanza, sono un  fine e una norma conformi all’esigenza della giu¬  stizia (1).   Ma, tornando al nostro argomento, anche il ri¬  conoscere che il fino e le norme determinate in  conformità al postulato hanno, e possono avere essi  solamente, la nota razionale dell’universalità, non  ne toglie il carattere necessariamente e insupera¬  bilmente ipotetico; perchè se il loro valore si fa  dipendere da questa loro universalità, si prende  per concesso che l’universalità sia assunta come  criterio di valutazione; ossia che dell’esigenza ra-   (1) iSon trovo che si sia dato il peso dovuto alla considerazione  che non solo l’egoismo, ma neppure l’altruismo può fornire una  regola di condotta, che si possa concepire nei rapporti tra gli uo¬  mini universalmente e costantemente osservata, senza contraddizione,  o senza che sia necessario supporla subordinata alla sua volta a  una norma di giustizia. Perchè sia possibile l’abnegazione e la ri¬  nuncia incondizionata di sè agli altri, bisogna che gli uni si sa¬  crifichino, e gli altri o qualche altro accettino il sacrifizio ; cioè  che gli uni seguano la massima dell’ altruismo, e gli altri o qual¬  che altro quella dell’egoismo. Se poi si ammette che nessuno debba  poter sacrificarsi piu di un altro, (oltreché il sacrifizio si riduce a un  tacito scambio di servigi reciproci), bisogna che la condotta altrui¬  stica di ciascuno non impedisca o limiti una pari condotta altrui¬  stica degli altri ; cioè bisogna che 1’ altruismo alla sua volta sia  governato da una norma di giustizia.        — 129 —    zionalc e teoretica dell' universalità la coscienza  faccia una stima pratica, attribuendole un valore  e un’ autorità superiore ad ogni altra esigenza.   Concludendo: la scienza normativa etica, alla  quale mi riferisco, è la scienza della condotta ri¬  chiesta da un fine conforme all’ esigenza detta. Se  si riconosce come caratteristica del valor morale  di un fine e delle norme che ne dipendono una  esigenza diversa, o se si pone come congruo ad  essa un fine incongruo, o si assumono come con¬  dizioni conformi all’esigenza di una universale giu¬  stizia delle condizioni clic negano o limitano questa  universalità, le norme riconosciute e accettate come  morali saranno diverse.   3. — Ma non concluderebbe nulla contro la tesi  che difendo l’opporre che le norme o alcune delle  norme in effetto tenute o seguite come morali sono  diverse o contrarie a quelle proposte e ricavate in  conformità al postulato assunto. Perchè qui non si  tratta già di esporre (piali sono le norme accettate,  o di farne l’apologia ; nè di cercare che cosa bi¬  sogna ammettere per accettarle; ma di determinare  quali sarebbero le norme della condotta morale nel-  l’ ipotesi che si accetti il postulato.   Insomma si fa un’ ipotesi e si cerca che cosa  ne segua.   Ma per negare valore scientifico a una tale co¬  struzione ipotetica bisogna negare la dipendenza    — 180 —    condizionale del fine assunto da una certa condotta  collettiva e individuale; e per negarle valore mo¬  rale (1), bisogna negare il valore morale dell’esi¬  genza, o ammettere che essa è o dove essere subor¬  dinata a un’esigenza diversa. Finché non si giu¬  stifica nè l’una nè l’altra negazione, il dichiarare  « oltrepassato » il problema vale poco; e il sorri¬  dere vale anche meno.   Perchè esponendo questo concetto io non mi  sono dissimulato le difficoltà e le obbiezioni possi¬  bili; sopratutto quelle che fanno capo alla afferma¬  zione comune della impossibilità di una determi¬  nazione di norme morali che non si fondi sopra  una dottrina metafisica. Questa questione anzi ho  esaminato di proposito, e le conclusioni di quell’ana¬  lisi non furono confutate. Avrei dunque, « in tesi  di diritto » ragione di ritenere spostato l’obbligo  della prova.   Ma nel fatto, come tutti sanno, ò sempre chi  dissente dalle opinioni stabilite che ha torto; e  deve rassegnarsi a battere e ribattere per tutti i  versi lo stesso chiodo.    ì. — E prima di tutto occorre qualche parola  su quella che si potrebbe chiamare la tesi scettica,   (,1) Che essa possa e debba aver valore anche dal punto di vista  del Diritto è cosa evidente ; ma come c quanto non sono questioni  da risolvere cosi di sfuggita.       — 181 —    della impossibilità di una qualsiasi determinazione  di norme morali.   — Il fatto etico è contingente, multiforme e va¬  riabile in ogni circostanza, e sfugge ad ogni ten¬  tativo di determinazione razionale. Oltredichè esso  dipende dal sentimento e dalla volontà e non dalla  conoscenza, e non si può ricavare da un processo  di deduzione logica. —   Questa tesi ha il grave torto di confondere la  morale colla mora lità ; confusione sulla quale dovrò  tornare anche più innanzi.   « Il fatto etico ò variabile ». Certamente. E il  fatto giuridico, che ò una specie dell’ etico, non ò  esso pure variabile? E forse perciò non si stabili¬  scono nonne giuridiche determinate e precise, e  non si considera questa determinazione come un’e¬  sigenza della vita sociale, e non si misura dalla  sua precisione e coerenza il progresso della vita e  della coscienza giuridica ? E non è un luogo comune  la lode fatta a Roma di maestra del diritto ? Non  si venga a dire che il f atto "iuridico riguarda solo  la non, come   la inorale, anche e sopra tutto la interna ; qui si fa  questione, anche per la morale, appunto, della con¬  d otta ester na, nella quale la moralità interiore deve  pur tradursi ; ed è assurdo dire, per esempio, che  non ha senso il precetto « non frodare », e vano  cercar di determinare in che la frode consista, per-    La.    •H.              i tìtou -      — 132 —    w/# i-yW    t     Aj.oiU?    dolori*    ché la frode è, forse più che qualunque altra cosa  al mondo, contingente multiforme e variabile.   È pur fuori di dubbio che l’operare in un modo  piuttosto che in un altro, dipende dal sentimen to  e dall a vo lontà, e non dalla co noscenza del pre-    1 CJA k> W <Mj aI*   VtU'f’N®    . j r ‘ r , * cetto ; e che non si può dedurre da nessuna com¬   binazione di premesse l’azione. Nessun congegno  di premesse, nessun processo logico, nessun sistema  di conoscenze pone in essere la benché minima cosa ;  .A}* VcttmaJ. ’l| conseguenza di un ragionamento ò sempre fin   g iudiz io, non un ’azion e ; nella morale come in qua¬  lunque altro campo; l’azione., potrà.. o non potrà  seguire, secondo che le disposizioni sentimentali c.  volitiv e sono tali o tali altre; potrà anche seguire  senza che ci sia il giudizio. Verissimo e giustissimo.  Ma non conclude nulla al proposito. Perché qui è  questione non di fare, ma di sapere quel che con¬  venga fare, chi si proponga e ammesso che si pro¬  ponga un certo fine. Ora lo stabil ire queste rela¬  zioni tra un certo fine_e certe operazioni necessarie  a raggiungerla é ufficio della conoscenza, non della  volontà ; e io spero che nessun voluntarista vorrà  sostenere che è indifferen te a chi vuol andare, po¬  niamo, a Canossa, conoscere quale sia la strada  per arrivarvi. E il dire che non è la conoscenza  nè di un certo effetto, nè dei mezzi, ciò che fa vo¬  lere l’effetto e volere i mezzi, non toglie nulla al-  Pufficio specifico della conoscenza; anzi, e appunto                      — 183 —    perciò, lo determina. E rimproverare a un sistema  di norme di essere per sè inefficace a muovere Fa¬  zione non ha senso ; come non avrebbe senso pre¬  tendere che una formula chimica produca essa il  composto del quale indica la combinazione. L’ uf¬  ficio delle norme morali, come di ogni altro sistema  di norme qualesivoglia, non può essere che un uf¬  ficio informativo, non formativo ; di guida, non di  stimolo, di indicatore, non di propulsore. E quelli  che adducono, per mostr are l a inanità di una co¬  s truzione norma tiva, l a dipendenza dell’ azione dal  se ntimento e dalla volontà , non si accorgono di  confondere essi il conoscere coll’operare, cioè, come'  s’è detto, la ni qrfllo_nnIlp mo ralità, la determina-  zio ne_delle norm e colla c onformità alle norm e.   Senonchò si può soggiungere che la determina¬  zione in questo campo non serve, perchè la cono¬  scenza delle norme si sprigiona volta per volta  come da sè fuor dalle circostanze, per un intuito  naturale che è più fine e delicato di qualunque de¬  duzione scientifica. E così viene in campo, accanto  alla tesi dell’ impossibilità, quella dell’ inutilità : —  l a cos cienza morale rende inutile la dottrina mo¬  rale. —   - '* -** '   Lasciamo per ora la difficoltà capitale che nasce   dal fatto stesso da cui è nata la riflessione critica  della morale: il fatto della diversità di contenuto  nelle coscienze morali diverse; e poniamo — senza    *                — 134 —    concedere — che 1*i ntuit o basti per tutti e sempre  a segnare caso per caso la via. Non ne seguirebbe  ancora l’inutilità di una ricerca che si proponesse  la determi nazione sistema tica del fine a cui .intui ¬  ti vamente tend e e delle norme che intuitivamente  segue la co scienza mora le. Come la guida istintiva  dei bisogni (^feUe^enTazioni non basta a rendere  inutile l’igiene; o come non basta a condannare  la conoscenza fisiologica, per esempio, della dige¬  stione, il fatto che digeriscono bene, anzi di solito  digeriscono meglio, quelli che non sanno di quelli  che sanno come la digestione avvenga.    E veniamo alle obbiezioni che toccano diretta-  mente la nostra tesi.   5. — In primo luogo si può osservare che la  p retesa scienza della mora le, nell’ atto stesso che  dichiara di voler tenersi estranea a qualunque af¬  fermazione di carattere metafisico, presuppone una  certa soluzione di un problema essenzialmente me¬  tafisico. Perchè, assumendo come fine morale un  ordine di effetti umanamente possibile, pone come  risoluto il problema se il fine supremo possa o  debba essere umano o sovrumano, relativo o asso¬  luto; risolve cioè, sia pure negativamente, un pro¬  blema metafisico.         — 135 —    Cerchiamo di intenderci. Si supporrebbe risoluto  il problema, se assumendo un fine (diciamo per  brevità) umano, si ponesse questo fine come ultimo  assolutamente, come definitivamente supremo; cioè  se gli si assegnasse un valore assoluto ; e si ne¬  gasse la possibilità di una ulteriore valutazione del  fine stesso ; di una sopravalutazwWe^Tciafisica, per  la quale sia creduto mezzo alla sua volta, o condi¬  zione o preparazione di un fine sopraumano. Ma  questa possibilità 1* ipotesi non la esclude.   Si dirà che in tal caso il fine umano non è più  il vero fine; e che perciò le norme debbono essere  ricavate da quello a cui si dà davvero valore di  fine ultimo, valore assolutamente, non relativamente,  supremo; e che questa necessità riporta il problema  della determinazione delle norme in piena metaf쬠 sica. Ma è questo che io nego ; e dichiaro di non  capire come da un fine assoluto si possano ricavare  delle norme per la condotta in condizioni finite, da  un al di là le norme per un al di qua; e dubito  che quelli i quali dichiarassero di capire, equivo¬  chino sui termini. Perchè non si potrà mai dimo¬  strare un legame di condizionalità tra un certo  modo di operare o un fine sopra natura le ; essendo  il proprio e caratteristico del sopranaturale c del  sopraumano di esser fuori dalla efficienza naturale  e umana. Se si considera il fine sovraumano come  un effetto che può essere condizionato da mezzi pu-      — 136 —    ramente umani esso cessa di essere sovraumano.  Ma se invece rimane tale, cioè trascende la effi¬  cienza umana, si potrà bensì credere ed affermare  che a raggiungerlo si richiede una certa condotta,  ma non si può assegnare una relazione di condi¬  zione tra la condotta ed il fine, cioè non si può  ricavare dal fine la norma. La riprova si ha nel  fatto, evidente ad ogni osservatore non del tutto  superficiale, che, anche nei sistemi di morale teo¬  logica o metafisica, quando si tratta di determinare  le norme che debbono regolare la condotta nelle  relazioni della vita comune, famigliare e sociale,  non è più il fine assoluto quello da cui si deducono  le norme, ma un fine umano, sia prossimo, sia re¬  moto; un certo ordine e un certo tipo di vita in¬  dividuale e sociale.   Le norme dedotte da questo fine subordinato si  presentano bensì come derivate aneli’esse dal fine  assoluto, perchè si assume quello come posto o vo¬  luto o necessitato da questo ; ma in che modo dal  fine assoluto si ricavi il fine relativo, come e per¬  chè, per raggiungere o approssimarsi a quel fine  sopraumano, sia necessario tendere a questo fine  umano, non si dimostra nè si può dimostrare. E  quando par che si dimostri, gli è che si è assunto  tacitamente e come incorporato in modo surrettizio  nel fine assoluto il fine relativo, che poi se ne  deriva ; cioè in ultima analisi non si è fatto altro       che porre o assegnare un valore sopraumano al  fine umano; ossia si è fatta (fucila che ho chia¬  mata una sopravaluta;ione metafisica di quel certo  fine umano dal quale in realtà sono ricavate le  norme.   Xon è dunque vero che assumendo un fine  umano si risolva, o si postuli una certa risoluzione  di un problema metafisico. Non si la che ubbidire  a una esigenza, la quale sussiste sia che si risolva  positivamente, sia che si risolva negativamente il  problema intorno alla natura del fine assolutamente  ultimo o supremo; un’esigenza logica alla quale  non si può sfuggire: che un sistema di norme di  condotta individuale e sociale non si può stabilire  se non in relazione a un certo fine, esplicitamente  o implicitamente assunto, che dipenda condizional¬  mente dalla condotta, cioè che sia umanamente  possibile.   0. — Ma non è un’altra esigenza, un’ esigenza  propriamente morale, che il fine abbia un valore  assoluto e non soltanto relativo? —   Non discuto se sia o non sia ; perchè si tratta  in ultimo di constatare un fatto di coscienza, e per  la constatazione di un fatto la discussione non ap¬  proda. Poniamo che sia. Forsechè le dottrine che  pon gono un fine assoluto fanno qualcluTco^ ~~di  me glio che postulare la possibilità di quel fi ne e  postularne il valore ? Cioè supporre che quella pos-        — 138 —       4t>    siljilità e questo valore siano dati nelle intuizioni  o nelle credenze, dalle quali li prendono, per dir  cosi, a prestito, e sulle quali fanno assegnamento ?  E se è cosi, e non può essere altrimenti, se la cre¬  denza nel fine e il riconoscimento del suo valore  assoluto, e la derivazione da esso del (ine o dei  fini relativi della vita finita, non possono essere  dati o fondati dalla dottrina, ma soltanto assunti  o affermati, è facile vedere che la dottrina vale  per la coscienza clic la sente e, direi, la vive già,  e che accetta Vaffermazione perchè la trova corri¬  spondere a ciò che è già dato in lei stessa ; ma non  vale essa, la dottrina, a far accettare queste sue  affermazioni a una coscienza che intuisca e senta  c creda diversamente. La costruzione dottrinale  metafisica non riesce dunque clic a fare appello a  un a intuizione o a una v alufazio ne di cui ammette  o suppone 1’ esistenza, ma n on a farla sorgere dove  manca ; e quindi, di fronte a una coscienza diversa  da quella che essa suppone, si trova nella stessa  condizione della costruzione non metafisica. Cioè  vien meno alla ragione per la quale il valore as¬  soluto del fine è richiesto.   Questa ragione, se il valore assoluto del fine  non è già assunto come una constatazione di fatto,  consiste nella pretesa illusoria che la dottrina possa  e debba assicurare per questo modo alle norme  una validità universalmente riconosciuta ; e nasce         Mm&i   ^5_ 13<1   •da una preoccupazione pratica analoga a quella  dalla quale è ispirata l'altra pretesa che l’Etica  dia alle norme autorità imperativa.   7. — Ed eccoci all’argomento capitale: 1’ esi-  • gonza del carattere imperativo della norma. — Ho  già ripetutamente segnalato l’equivoco sul quale  si fonda la pretesa esigenza dell’obligatorietà della  norma morale. È in fondo il medesimo già notato  più sopra a proposito della istanza sulla inefficacia  •della conoscenza a determinare l’azione ; l’equivoco  di con fondere la morale colla moralità, la norma  col la conformità alla norma : e quindi di preten¬  dere da una dottrina quello che nessuna dottrina  nè metafisica nè non metafisica può dare : la ga¬  ranzia dell’osservanza, cioè 1’efficacia esecutiva. Il  linguaggio favorisce anche qui il persistere dell’er¬  rore; e l’uso di definire 1’ Etica la scie nza o la  dottrina de i -doveri, contribuisce a ribadire il pre¬  concetto. nato dalla preoccupazione pratica, che  compito di una dottrina morale possa o debba es¬  sere quello di costruire o fondare delle norme ób-  hliyatorie. Mentre l’etica, dico qualunque dottrina  etica,__non può fare altro che dedurre, o indurre,  o comporre a sistema, delle norme o ilei precetti,  i quali hanno valore di doveri, se e in quanto la  coscienza concepisce, o meglio sente e vuole , come  dovere, l’osservanza dei precetti stessi, o la prose¬  cuzione del fine (o dei fini) dal (piale quei precetti    Yi (yivuni   l&u vuxnrib I   nei         — 140 —    sono derivati. E se anche tutte le coscienze uni¬  versalmente, in ogni tempo e luogo, concordassero  nel sentire come obbligatoria 1’ osservanza di una  certa norma, non per questo si potrebbe dire che  l’imperativo è un carattere della norma ; l'impe¬  rativo sarebbe sempre anche in questo caso un ca¬  rattere del motivo che spinge all’ osservanza della  norma ; un dato della coscienza che la abbraccia,  che la riveste e la investe di questo motivo, clic  la sente così.   Quale sia la preoccupazione pratica da cui nasce  e si alimenta il preconcetto, e. quale, sia il processo  per cui si viene ad assegnare alla costruzione nor¬  mativa un compito al quale essa non può soddisfare  in nessun modo, ho pure già cercato di mostrare  altrove, e non serve di ripetere. Piuttosto non mi  par privo di interesse mettere in chiaro con 1’ a-  nalisi come i modi, nei quali può essere interpre¬  tato e tentato il proposito di « fondare una norma  obbligatoria » si riducano a postulare l’esistenza  dell’ obbligo, quando non riescono a una forma più  o meno larvata di imperativo ipotetico. E come  poi, per il verso opposto, assumendo l’imperativo  categorico per dato o postulato, non se ne possa  ricavare la determinazione delle norme; ma si ri¬  chieda perciò l’assunzione espressa o sottintesa di  un fine, o di un criterio di valutazione e deriva¬  zione, estraneo e indipendente da quello.    — 141    8. — Il compito di assegnare una norma che  abbia autorità obbligatoria può essere, e lu in ef¬  fetto, inteso in più significati diversi ; i quali si  possono ridurre ai quattro tipi seguenti :   1. ° Dimostrare che la norma proposta corri¬  sponde a un sentimento, a un motivo, a una di¬  sposizione che si manifesta nella coscienza come  •obbligo. — Allora il senso reale ò, non già che la  do ttrina dia essa autorità o bbligatoria alle su e  norme; bensì questo: che essa riduca, traduca o  formuli in norme i modi di condotta ai quali la  coscienz a si sente obbligata. Ma così la categoricità  del precetto è constatata e assunta, non posta, nè  fondata dalla dottrina ; e la norma obbliga solo se  •ed in quanto i suoi comandi ripetono i comandi  della coscienza; il suo tono imperativo è un’eco,  e vien meno se tace la voce della quale assume il  tono.   2. ° Presentare le norme come ordini di un  Potere (qualunque ne sia la natura) irresistibile,  che costringe volenti e nolenti a seguirlo. — In¬  tesa così l’autorità non viene nò dalla natura delle  norme, nò da quella del fine a cui sono ordinate,  ma da quel Potere del quale l’Etica fa, per dir  così, la presentazione ; anzi il suo ufficio si riduce      — 142 —    in realtà a quello di interprete ed araldo di quel  Potere ; che essa non pone, ma a cui là appello, e  che suppone sia riconosciuto dalle coscienze alle  quali parla in nome suo.   Ad ogni modo l’espressione analizzata, se si  usa ad indicar questo ullìcio, è del tutto abus iva;  l’espressione esatta ò questa: compito dell’Etica ò  di determinare quale sia la legge imposta da quel  potere indis cutibile e irresist ibile, di cui si am¬  mette o si riconosce l’esistenza.   3." Dimostrare che ciò che la norma prescrive  dovrebbe esser voluto dall’ uomo, sopra ogni altra  cosa : cioè sarebbe voluto in effetto, se, invece di  essere come ò, 1’ uomo fosse diverso ; seguisse la  sua vera natura, fosse giusto, o perfetto, o realiz¬  zasse un certo tipo ideale.   Ma è chiaro che in questo senso non si là che  o determinare il fine in l'unzione di un certo tipo  ideale, o il tipo in funzione del line ; ossia, in al¬  tre parole, determinare la relazione che sussiste  tra una certa natura e una certa condotta. La qual  relazione per necessaria che sia, non si vede come  [tossa far nascere la coscienza d’ un obbligo. Se si  pensa di fondare in tal modo 1’ obbligatorietà, ma¬  nifestamente si suppone ebe il conformarsi a un  certo tipo, il realizzare un certo ideale sia già  sentito come obbligo; e si rientra, quanto al fon¬  damento di questo, nel primo dei casi enumerati.         — 143 —    Se poi si intendesse dire che chi vuoi essere uomo  davvero, giusto, o perfetto, deve proporsi un certo  fine o seguire una certa condotta, si avrebbe non  piii un imperativo categorico, ma un imperativo  ipotetico.   4.° Dimostrare che ciò che la norma prescrive,  dece essere voluto universalmenta e incondiziona¬  tamente. — Questo ò manifestamente il significato  che pare più proprio, e nel quale intesero e inten¬  dono l’esigenza i moralisti i quali credono di po¬  ter ricavare l’obbligo dalla natura del fine che  assumono come ideale etico. Ma l’intendere la tesi  così, implica che si ammetta la possibilità di una  di queste due vie : a) o derivare 1’ obbligatorietà  dal valore riconosciuto al fine, assumendo questo  riconoscimento come dato o postulato ; h) o deri¬  vare dalla natura del fine l’ obbligo di riconoscere  al fine stesso un tal valore. E l’una e l’altra di  queste due tesi deve essere considerata distinta-  mente e un po’ più a lungo.   9. — a) — Posto pure che al fine assunto fosse  riconosciuto in realtà universalmente valore di  sommo bene, non ne seguirebbe in nessun modo  che il sentirlo e riconoscerlo come sommo bene  porti con se il sentirsi obbligati a volerlo e cercarlo.  Questo riconoscimento non genera la coscienza del-  Pobbligo, bensì ne mostra la ragionevolezza, fa  che la coscienza approvi l’autori tà ob bligante; cioè        • — 144 —    giustifica P obbligo, posto che ci sia. Ora una tale  giustificazione riesce a questa alternativa: o serve  a dimostrare che Insognerebbe ragionevolmente tro¬  var buona e seguire la norma anche se non si sen¬  tisse Vobbligo, perchè la norma è ordinata a quel  certo fine che è riconosciuto come sommamente  desiderabile. E in questa forma la pretesa fonda¬  zione dell’ imperativo categorico si riduce alla for¬  mulazione di un imperativo ipotetico, che si sosti¬  tuisce o si aggiunge al categorico. 0 riesce a un’ar¬  gomentazione di questo genere : Siccome è bene  sommo il fine, è bene l’osservanza della norma; e  poiché si ammette o si suppone che la coscienza  d’un obbligo assoluto sia necessaria a garantire  questa osservanza, l’imperativo categorico appare  la condizione sine qua non, acquista valore di mgzzo  indispensabile al proseguimento del fine.   Nel primo modo si viene a dire che l’impera¬  tivo categorico è giustificato perchè è bene ciò che  esso comanda; nel secondo che è giustificato per¬  chè è bene che esso comandi in quel tono. Ma nè  l’uno nè l’altro modo nè ambedue insieme riescono  a fondare l’obbligo assoluto; anzi appunto perchè   10 giustificano gli tolgono il carattere di categorico.   11 che se nel primo caso è più evidente, non è meno  vero nel secondo. Infatti, posto pure che la cate¬  goricità dell’ imperativo sia condizione necessaria  all’osservanza della norma, non ne viene perciò    — 145 -    che l’obbligo sia categorico, ma soltanto che sa¬  rebbe bene che fosse, che è desiderabile che sia: os¬  sia la pretesa derivazione che se ne fa, mostra la  necessità di una condizione, non la pone in atto  se manca; pone in chiaro un’esigenza, non la sod¬  disfa. In secondo luogo la dimostrazione stessa di  questa esigenza è contradditoria, perchè a convin¬  cere la necessità dell’obbligo categorico ne assegna  le ragioni ; il che equivale ad ammettere che ve¬  nendo meno queste ragioni verrebbe meno quella  necessità; ossia che l’obbligo dovrebbe valere come  categorico, finché è utile che valga; come chi di¬  cesse un’ autorità che si fa valere incondizionata¬  mente .. .. sotto certe condizioni (1).   Adunque, se la c Qscienza d’un obbligo asso luto  manca, la derivazione che se ne pretenda fare da  un fine, qualunque sia il valore che gli si attri¬  buisce, non può farla sorgere; se c’è, la giustifi¬  cazione riesce ad assegnare le condizioni della sua  validità, cioè a togliergli il carattere di obbligo  incondizionato.   (1) Il che può però aver un senso, se si guarda bene ; ma in un  caso soltanto : nel caso che la coscienza la quale si rende ragione  delle condizioni che importano questa necessità o utilità dell’ im¬  perativo categorico, e la coscienza nella quale 1’ imperativo vale  come categorico, siano due coscienze diverse ; ossia nel caso che  una coscienza riconosca la necessità che 1’ imperativo valga incon¬  dizionatamente per un’altra coscienza.   Che è un senso assai meno strano di quel che possa parere a  prima vista.        — 14U —    b) — Oppure finalmente si intende che ap¬  prendere ciò clic è posto come line equivalga per  ciascuno a dover riconoscerlo come tale; che non  si possa conoscere la natura del line senza sentirsi  obbligati a riconoscergli valore di bene supremo ;  cioè che la conoscenza generi la coscienza d’un  obbligo. — Questa che è in sostanza la tesi di¬  fesa, tra gli altri, con grande vigore dal nostro  Rosmini, è veramente l’interpretazione tipica, più  audace e radicale, del pensiero di derivare l’obbligo  dal fine, o di dare all’obbligo un fondamento og¬  gettivo nella natura stessa di quello.   Ma — senza dilungarmi su questo tema in una  critica troppo nota — è inevitabile questa alter¬  nativa : o il dover riconoscere esprime una neces¬  sità puramente logica, e non può dare quello a  cui è invocata, cioè nè il valore né l’obbligo di  riconoscere il valore; o vuol esprimere una neces¬  sità diversa, e si riduce a un paralogismo; perchè  pretende ricavare da una determinazione obbiet¬  tiva la constatazione di uno stato subiettivo, la  quale presuppone appunto resistenza di quella co¬  scienza dell’obbligo, che crede di far nascere e  senza della quale la constatazione non è possibile.  E per tal modo si ricade ancora una volta nel primo  tipo di interpretazione (V. p. 141); quando non si  voglia ammettere questa tesi : che è obbligo rico¬  noscere quel fine come sommo bene e volerlo, così        — 147 —    se lo si crede tale, come se non lo si crede; cioè  sia che la coscienza senta sia che non senta di  dover attribuirgli quel valore. Ossia non si am¬  metta la tesi dell’obbligo di credere anche senza  o contro l’attestazione della coscienza. Il che ren¬  derebbe inevitabile l’appello a una autorità esterna,  alla quale la coscienza si deve inchinare; e farebbe  della morale del bene oggettivo una morale dom-  matica, che rientra nel secondo tipo.   10. — Adunque l’analisi dei modi nei quali  può essere interpretato e tentato il compito di fon¬  dare una norma obbligatoria conduce a questa con¬  clusione: o si intende che « fondare una norma  obbligatoria » voglia dire derivare l’autorità della  norma dal valore del fine; e allora, come s’è visto,  c come avea notato chiarissimamente il Kant, non  si può per questa via riuscire che a un imperativo  ipotetico; o si intende che voglia dire assumere  come dato l’obbligo e determinare le norme in  conformità a questo dato.   Nel primo caso 1’ esigenza in questione non è  soddisfatta. Nel secondo 1’ obbligazione è assunta ,  non posta o dimostrata; ossia o esiste: e la sua  esistenza e validità sussiste all’ infuori della co¬  struzione dottrinale, che la postula, ma non la fa  essere; o non esiste: e il fatto di assumerla come  esistente non la pone in essere, nè ne legittima  per sè l’assunzione.       — 148 —    IL — Per tal modo, se il difetto capitale di  una scienza normativa etica conforme al concetto  esposto sul suo ufficio e i suoi limiti, è quello di  non^ poter presentare le norme col carattere di im¬  perativo categorico, questo difetto è comune, e non  potrebbe essere altrimenti, a qualsiasi costruz ione  dottrinale. die non si proponga di derivare le norme  da un imperativo categorico assunto come dato.   Ed allora resta da vedere se. prendendo l’impe¬  rativo categorico per dato o postulato, si possa ri¬  cavare da esso la determinazione delle norme; o  se non si debba ancora ricorrere all’ assunzione  espressa o sottintesa di un fine, o di un criterio di  valutazione e di derivazione, estraneo e indipen¬  dente da quello.   CJie^ i 1 dato dell’ imperatività sia per sè in suffi¬  ci ente alla d eterni i nazione .-dei le jparmc morali è  manifesto, qualora si intenda con esso assumere  null a più che la forma destinata a rivestire un con¬  tenuto qualsiasi ricavato d’altronde: nel qual caso è  pur manifesto che, appunto perciò, il dato dell’obbli-  gazione rimane estraneo alla costruzione dottrinale.   Ma non è altrettanto evidente, quando si ammetta  che nel dato dell’ obbligazione è contenuta ad un  tempo la forma dell’ imperativo e la m ater ia del  precetto ; ossia che da questo dato si possa ricavare,   hjUifot vtA »pUóh UàwtiH             o ad esso debba conformarsi e subordinarsi sia la  determinazione del fine sia il contenuto delle  norme.   Senonchè, quando si prenda come dato non la  pura ferina soltanto ma un cer to contenuto, si è  inevitabilmente condotti, come l’analisi precedente  ha dimostrato, a fondare la morale .sull’autorità,  superiore ad ogni discussione, di una certa rivela¬  zione, interna o esterna ; e ad assegnare all’ Etica  1’ ufficio di espositrice e interprete di questa.   Rilevando questa conseguenza io non intendo  affatto di darle il valore di una dimostrazione per  assurdo. La tesi nella forma a cui è ridotta ò tut-  t’altro che nuova e straordinaria; ed ha, in con¬  fronto dell’ affermazione generica e ambigua che  « la morale deve dare norme obbligatorie » il  pregio di essere chiara e non equivoca. .Ma appunto  perciò essa fa apparire manifesta la difficoltà, a cui  si trova di fronte.   12. — Tanto se si intende che la ri velazio ne  da interpretare sia in|£g^ quanto se si intende  che sia esterna, si presenta la medesima difficoltà;  quella difficoltà, antica e notissima, dalla quale          t ciu* oìaI   'R\)l£lp2:\0h/&   l'ileo ila.   £|Avh<*    venne il primo stimolo alla riflessione e alla cri¬  tica nel campo della morale: l a pluralità delle ri-  velazioni.   Poiché i responsi della cosc ienza morale sono  s toricamente diversi e anch e-apposti, come sono di-             vèrse e in parte op poste le rivelazioni religio se,  resta, o che si riconosca a tutte la medesima auto¬  rità, cosi co me i l tono imperativo è. il medesimo;    o che si scelga.     f Quan to alle. religion i ò .troppo chiaro che nessun  criterio ricavato dalla rivelazione stessa può valere  a dimostrar l’autorità di una piuttosto che del-  1’altra, poiché t utte si danno come assolutament e  certe e indiscutib ili ; e le stesse prove sulle quali  una rilevazione attesta la sua autorità sono ado¬  perate da ciascun’ altra per asserire la propria, e  da tutte risuona sui precetti morali diversi il me¬  desimo tono di comando.   Si cercherà il criterio della scelta nella natur a  del le cose co mandate o proibite, come avviene quando  si parla di m aggior sapienz a o el evatez za o n obiltà  de i prec etti morali di una religione rispetto a quelli  di un’altra? Allora è i ^conte nuto dei precetti mo¬  rali che viene assunto come criterio dell’autorità  della rivelazione.   E il valore di questo contenuto, che è così usato  a provare la superiorità di una rivelazione sulle   altre, si può dunque riconoscere indipendentemente  dal suo presentarsi sotto la forma di un comando  rivelato, dal momento che è esso invocato a pro¬  vare l’autorità del comando. Ma allora I’ulhcio  dell’Etica lungi dall’essere quello di interprete e                  — 151 —    araldo di una rivelazione, 6 quell,o_di giudice _deHc % U- t ? ^   rivelazio ni. Il che importa a ben più forte ragione  che tanto il fine quanto le norme morali si sup¬  pone che possano e debbano essere conosciute c de¬  terminate a ll’ infuori di ogni snodale rivelazione.    cioè all’infuori da ogni appello all’autorità.   Ciò che vale per l’autorità di una rivelazione    esterna, vale per quella di una rivelazione interna.  Tra due coscienze, delle quali rispetto alla mede¬  sima azione una ponga come obbligo il fare e l’altra  il non fare, il criterio di valutazione comparativa  non può esser dato dal carattere imperativo, che  è comune ad ambedue, ma deve essere un altro.   Ed anche allora il criterio che serve alla valu¬  tazione comparativa sarebbe esso in realtà quello  da cui dipende cosi la determinazione come la giu¬  stificazione delle norme.    l i. — Non resterebbe che riconoscere ja mede¬  sim a autorità a tutte le rivelazion i. Il che importa  l’una e l’altra di queste conseguenze: o la asso¬  luta indifferenza del contenuto per qualsiasi luogo   -“ --   e tempo; o la limitazione a determinate condizio ni  storiche dell’autorità e del valore di ciascuna.   Se non si vuol accettare la prima (1), si pre¬  senta la domanda: Questa limitazione ha o non ha         Uva*»    (1) Mi permetto di non fermarmi ad esaminare la tesi della as¬  soluta indifferenza del contenuto. Sarebbe come sostenere nel campo  della terapeutica che ciò che importa nella ricetta è la firma del              — 152 —    la sua ragion di essere nelle condizioni storiche,  dalla cui presenza è circoscritta la sua validità?   Se la limitazione non dipende da queste condi¬  zioni, ma essa pure non ha altra ragione di es¬  sere all’ infuori dell’ autorità o del carattere impe¬  rativo col quale hic et nunc si presenta, allora si  ammette che, astrazion l'atta da questo carattere  di obbligatorietà col quale una certa norma si pre¬  senta in quel certo tempo e luogo, non vi sarebbe  nessuna ragione di preferire nelle stesse circostanze  una norma ad un’ altra, cioè si giunge per un al¬  tra via all’indifferenza del contenuto (1).   Se poi questa limitazione ha la sua ragione di  essere nelle condizioni storiche stesse, entro le  quali è valida, cioè in una parola se__ò relativa a  queste condizioni, allora si ammette che sono queste  condizioni il criterio della limitazione ed è la corri¬  spondenza a queste condizioni storiche il criterio  della validità. Cioè si ammette che vi è qualche cosa  che dà alla norma il suo valore all’ infuori del-  1’ obbligazione e al disopra dell’autorità obbligante,    medico, e le prescrizioni di qualunque genere si equivalgono 1’ una  l’altra. E forse è ancor meno manifestamente falso questo che  quello.   Non sarà però inopportuno avvertire che ogni questione intorno  al merito dell’ agente rimane qui al tutto in disparte.   (lT E lascio^ le difficoltà che nascono dalla necessità di ammet¬  tere un’ altra rivelazione alla cui autorità si possa ricondurre la  limitazione in discorso.       — 153 —    dal momento che esso serve anche a stabilire i  limiti entro i quali 1 autorità è riconosciuta come  valida. Cioò si viene a riconoscere ancora come 1’ ob¬  bligazione non possa essere un dato sufficiente alla  determinazione e valutazione delle norme, e come  per essa non solo non possa essere negata, ma  venga confermata la legittimità di una scienza nor¬  mativa morale.   15. — Senoncliè a questo punto mi sento op¬  porre un nome, un gran nome: Kant. Ma dunque  non ^esiste la Morale Kantiana ? Non ricava egli  dalla volontà buona, dal dovere, dall’ osservanza  della l egge perda legge, la norma morale suprema,  nella notissima formula, nella quale, indipendente¬  mente da ogni particolare rivelazione storica, c  sopra ogni speciale contenuto materiale, si raccoglie  tutto un sistema di norme razionali ?   E s e la sua morale è f m^gle. cessa perciò di  avere il suo valore, e sopratutto cessa di esistere,  e, a fortiori, di essere possibile?   — Certamente a nessuno può venire in mente di  negare la possibilità di un sistema che ò esistito  ed esiste, e a me, forse meno che ad altri, di ne¬  garne il valore.   Così la grande costruzione razionale dei doveri  dell’ uomo del Kant, come la grande costruzione  razionale dei diritti dell’ 'uomo che piglia nome  dalla Rivoluzione Francese sono ben lungi dal me¬    lo         — 154 —    VFDFfiF sr   & )\<é   4   i'MSSfat    ri tare il facije compatimento col quale parlano di  astrazioni e di formalismo certi fonografi della so-  ciologia.   Ma qui al proposito nostro importerebbe vedere  la costruzione razionale del Kant sia fondata sul  d ato dell’ obbligazione, co me pare , o non ni ut trist o  sulbesigenza dell' universalitaTche nKanTcrede    bensì trovare implicita nel concetto del dovere, ma      v* /v T< ì»-^uAtv\  7 u-iC'    che è invec e caratteristica dell’ ide a_di  ' » senza la quale ci può essere Yobbligo, ma non Yap-   p robazione interiore dell’obbligo, che è propria della  ^ -y j coscienza del dovere (1).   Perchè i l concetto iÌT"degg e che serve al Kant  per passare dal dato del dovere all’esigenza dell’uni¬  versalità, non è un elemento contenuto nel dato  stesso e che possa esserne ricavato analiticamente,  ma (L una sintesi nella qual e insieme coll’obbliga-  zioneè già assunta l’esigenza dell’universalità che  la giustifica.   Ed è questa e sigenza dell’ universalit à, non il  dato dell’ obbligazione che fornisce al Kant il cri¬  terio supremo della morale.   Ma a ben chiarire questo punto — come, anche  nella morale kantiana, l’imperatività non sia un  dato sufficiente alla determinazione delle norme, e  come in realtà venga assunto non solo un criterio   (1) Di questo argomento ho trattato di proposito altrove. Cfr.   Prolegomeni ecc. pp. 19-88.   ( C* «M. ÀtydL* UO-rutL <.TKv tff» }rlv \ltj ’V- r ' P i* " I"," I   ]( Lo'h YcMufr Vvvt7 VX 0   u dU 'um^ìvc^ÌO p   c -‘ — ‘Oi "                      — 155 —    non ricavato da quella, ma implicitamente anche  un certo contenuto — occorrerebbe un’analisi assai  meno sommaria; poiché non è questo un argomento  da sbrigarsi così alla lesta.   Basti per ora non aver omesso 1’ accenno.               IL FONDAMENTO INTRINSECO DEL DIRITTO   secondo I il Vanni          Il Fondamento Intrinseco del Diritto   SECONDO IL VANNI (*)   -- Nota Critica -    Il volume dal titolo « Lezioni di Filosofìa del  Diritto », la cui pubblicazione fu curata con rive¬  rente pietà e con devota ammirazione dalla Vedova  e da alcuni tra i più valenti Discepoli poco dopo  la morte immatura dell’Autore, è forse tra gli  scritti del Vanni quello in cui la sua dottrina ap¬  pare più compiutamente ordinata a sistema, e nel  quale a un tempo si rivelano felicemente congiunte  le qualità dello scienziato e dell’insegnante; e ve¬  ramente si può considerare come il testamento  scientifico del celebrato Maestro. Certo, qualunque  giudizio porti sul fondamento e sulla validità in¬  trinseca del sistema, nessuno può disconoscere la  larghezza e la profondità della coltura filosofica e  giuridica, e la chiarezza della trattazione; e sopra¬  tutto la sincerità e, direi, 1’ onestà scientifica che  ò propria di chi medita e scrive per amore disin¬  teressato del vero.    (1) Icilio Vanni. — Lezioni di Filosofia del Diritto — Bologna,  Zanichelli, 1904.            La l'ilosofia del Diritto abbraccia, secondo il  ^ tre ricerche : la ricerca critica ; la ricerca  sintetica o lcnomenologia giuridica ; e la ricerca  deontologica.   Nella prima egli comprende non soltanto la de¬  terminazione dell’oggetto, dei metodi e dei rapporti  della filosofia del diritto colle scienze affini, ma  anche una indagine preliminare di critica gnoseo¬  logica. che il Groppa li accordandosi col Fraga pane  ritiene, a mio giudizio giustamente, estranea al  compito di questa disciplina. Giustamente, finché  si intende che la filosofia del diritto debba istituire  una sua propria ricerca gnoseologica ; ma non se  si intende anche di negare la opportunità di pre¬  mettere, come in fondo fa il Vanni in queste Le¬  zioni, quali sono i presupposti gnoseologici accettati.  Poiché ogni dottrina deve pur assumerne, di una  o d’altra speeie, esplicitamente o implicitamente.  Ed è bensì vero che essi si possono sottintendere  e si applicano di solito nelle ricerche speciali taci¬  tamente. Ma compito del filosofo è appunto, come  osservava il Rosmini, di c omprendere e fo rmulare  elii aramente quello che gli altri sottintendon o.   Del resto il fatto che il Vanni voglia prender  le mosse da una v alutazione critica sulla natura e   al sapere giuridico, prova quanta larghezza di pen¬  siero, e direi, di coscienza filosofica egli portasse            nelle sue ricerche, e con quanto scrupolo sentisse  l’obbligo di rendersi conto anche dei più lontani  e generali presupposti della sua dottrina.   La seconda ricerca si sdoppia in due parti :  statica, che determina la nozione logica del diritto,  inducendola dell’analisi del diritto positivo dei po¬  poli più progrediti, e similmente dello Stato; dina¬  mica (genetica o storica) che studia la genesi e la  formazione storica del Diritto e dello Stato; e si  potrebbe anche chiamare filosofìa della storia del  diritto. Alle quali due ricerche corrispondono le  parti II® e III® del volume.   Finalmente la terza ricerca di carattere etico o  valutativo ha per oggetto il problema della Giu¬  stizia, ossia del fondamento intrinseco e delle esi¬  genze razionali del diritto. Questa, che costituisce  la parte IV® ed ultima, ò senza dubbio la più im¬  portante, perchè riguarda quello che è il problema  centrale della filosofìa del diritto; e nella cui so¬  luzione principalmente Si manifesta la nota carat¬  teristica delle diverse dottrine. E la dottrina del  Vanni, benché l’indirizzo e. direi, la moda oggi  prevalente la consideri oltrepassata, merita di es¬  sere ricordata e discussa; perchè mentre intende il  compito della filosofia del diritto non soltanto come  storico-genetico, ma anche come normativo, (nel  che si accorda coll’ idealismo) si propone di assol¬  vere questo compito tenendosi nei limiti d’una co-     16 2 —    struzionc puramente scientifica, ed escludendo ogni  postulato di natura metafisica; nel che consente  col proposito, se non col metodo, dello storicismo  c del positivismo.   Ora il difetto principale della sua dottrina, non  nasce, come può parere a prima vista, dalla pre¬  tesa e comunemente ammessa inconciliabilità tra  il compito normativo e la validità scientifica ; chè  anzi questo intendimento, chiaramente concepito  e tenacemente proseguito, di una costruzione nor¬  mativa scientifica del diritto, è a mio giudizio, un  alto titolo di merito; ma nasce dall’essersi fermato,  direi, a mezza via nel rilevare a quali condizioni  sia possibile una costruzione etico-giuridica che sod¬  disfaccia a un tempo ad ambedue le esigenze.    La jiottrina del Vann i, per quel che riguarda  il fondamento intrinseco del diritto e il metodo, si  può considerare come una forma di quella che lo  Spencer ha propugnato e difeso col nome di utili¬  tarismo razionale: e infatti, pur rilevando giusta¬  mente l’importanza e il valore del pensiero del  Romagnosi, egli la riconosce come il precedente  più immediato e più notevole della sua. Ma la trova  erronea per tre rispetti ; perchè ammette un diritto  naturale; perchè pretende di costruire una norma            etico-giuridica assoluta ; e perchè Analmente lo  Spencer intende le condizioni di esistenza da cui  le norme devono essere dedotte, in un senso pura¬  mente biologico. Principalmente su questo ultimo  punto egli accentua il suo dissenso, prendendo come  base, non le condizioni dell’esistenza individuale  e la legge della sopravvivenza dei più adatti, ma  le condizioni dell’esistenza sociale. Il fondamento  dell’ etica sta dunque nella necessità per chi vive  in società (e la socialità è la esigenza suprema del-  1’esistenza umana) di uniformarsi alle condizioni  ed alle esigenze poste dallo stato sociale ; e l’etica  dimostra intrinsecamente necessarie quelle forme e  quei modi di condotta che sono richiesti dalle con¬  dizioni della vita in comune. Fra queste condizioni  ve ne sono alcune che hanno un’ importanza fon¬  damentale e primaria, in quanto rappresentano  l’indispensabile per la convivenza e la cooperazione;  e nell’osservanza delle quali consiste la giustizia.  Ma poiché queste potrebbero non essere spontanea¬  mente osservate, è necessario che le azioni relative  ad esse non restino abbandonate alla buona volontà  e alla spontaneità e che « con una norma di con¬  dotta irrefragabilmente obbligatoria ed eventual¬  mente coattiva s’induca all’osservanza anche il  volere recalcitrante. Quindi in altri termini la ne¬  cessità del diritto, il quale ci apparisce allora come  una norma che ha da garantire le condizioni fon-       — 164 —   (lamentali per la coesistenza e la cooperazione  umana. Cosi non soltanto l’Etica, ma anche il Di¬  ritto viene ad avere un fondamento intrinseco, e  viene ad averlo anche lo Stato, il quale è indispen¬  sabile alla funzionalità (tei Diritto » (pag. 314).   Xon è necessario un lungo discorso per vedere  che quando il Vanni crede di fondare in questo  modo F esigenza razionale del diritto finisce per  assumere in realtà come presupposto il principio  che egli vuole, e crede di dovere, derivare apodit¬  ticamente, e al quale appunto è subordinato il va¬  lore di necessità razionale assegnato alle norme  ideali che devono servire di modello e di criterio  di valutazione. Infatti la relazione naturale e ne¬  cessaria tra una certa condotta e certe condizioni,  necessarie alla loro volta alla convivenza e coope¬  razione sociale, serve bensì a stabilire che quella  condotta deve essere riconosciuta come un mezzo  necessario al fine di conservare e promuovere la  convivenza e la cooperazione sociale, posto che questo  sia riconosciuto e voluto come fine ; ma non vale  a stabilire la necessità razionale di riconoscerlo  come fine; e fine precedente in valore e autorità  ad ogni altro.   Il \ anni par che intenda superare la difficoltà  osservando che la necessità puramente naturale in  quanto è pensata dalla mente si trasforma appunto  in una esigenza ed in una necessità razionale. « Essa            — 105 —    allora esprime un principio logico fondamentale, il  principio di contraddizione ». Se in forza della na¬  tura stessa delle cose c dei rapporti causali, per  ottenere un certo fine è indispensabile un certo  mezzo, e per raggiungere un certo risultato è in¬  dispensabile un certo modo di condotta, impliche¬  rebbe contraddizione che si potesse impiegare un  mezzo diverso o seguire una condotta diversa  (p. 315).   Ma ò facile vedere 1’ equivoco. Contraddizione  vi è certamente tra il pensare che una condotta è  indispensabile a raggiungere un certo fine e pen¬  sare che questo stesso fine possa essere raggiunto  con una condotta diversa ; ma io non violo nes¬  sun principio logico e non sono punto in con¬  traddizione con me stesso se, ammettendo che un  certo fine dipende da certi mezzi, non voglio il fine  e non voglio perciò neanche i mezzi.   E neppure vale il ricongiungere Vordine sociale  all’ ordine cosmico, considerandolo come la forma  più alta a cui riesce 'iì processo della^ evoluzione  universale. Perchè non si fa altro in questo modo,  che spostare il presupposto; cioè ammettere, an¬  cora e sempre, che si riconosca valore di fine su¬  biremo a questo adattamento all’ ordine cosmico.   Il quale presupposto potrà o non potrà venir  legittimamente assunto come dato o postulato ; ma  è e rimane un presupposto. E perciò le norme ideali        che se ne deducono hanno questo valore di nonne  nell’ ipotesi che si accetti come fine supremo quel-  P ordine di effetti dal quale sono dedotte.   «   Ma rilevando cosi il carattere necessariamente  ipotetico della costruzione, alla quale riesce anche  il « sistema delle condizioni della vita in comune »  del Vanni, io non intendo, anzi escludo, che questo  carattere ipotetico costituisca per sò un vizio pro¬  prio di questa e di tutta una classe di costruzioni  etico-giuridiche, come pretende P idealismo metaf쬠 sico. Il quale si illude di poter esso sfuggire a  questo carattere ipotetico riallacciando quel tipo di  convivenza e di relazioni sociali, che assume come  modello e in conformità al quale determina le  norme ideali, a un fine di natura metafìsica, che  abbia perciò valore assoluto. Dove sono da notare,  sia detto di passata, due circostanze, a mio giudizio,  decisive : Primo : che le norme ideali sono pur  sempre ricavate o dedotte, malgrado ogni sforzo  od ogni apparenza contraria, dal tipo sociale as¬  sunto come modello, e non dal fine metafisico, della  cui autorità e del cui valore esso si riveste. Secondo:  che il valore assoluto di questo fine metafisico non  può essere che assunto aneli’esso o come dato o  come postulato.   La verità è semplicemente che un sistema di  norme giuridiche contempla di necessità un certo      — i<;7    ordino di vita individuale e sociale; e che la va¬  lidità dello norme dipende dal valore che si sup¬  pone riconosciuto a questo ordine di vita. Questo  riconoscimento di valore, questa valutazione del  fine è dunque il presupposto inevitabile della va¬  lidità etica del sistema (la quale non esclude la va¬  lidità scientifica, ma non si esaurisce in questa);  e la questione si riduce a decidere se si pub o non  si può assumere legittimamente come dato o come  postulato questo riconoscimento del valore che nel  sistema è assegnato al fine.   Ora è nel rispondere a questa questione, non  nel carattere ipotetico, che si rivela l’insufficienza  del sistema del Vanni e dell’ indirizzo naturalistico  in genere; e alla quale del resto non riesce a sfug¬  gire neppure l’indirizzo metafisico. Infatti una ri¬  sposta adeguata alla questione esige che si deter¬  minino le condizioni richieste perchè a un ordine  di convivenza e di cooperazione si riconosca valore  di fine universalmente regolatore, valore, direi,  (piuttosto che di summum bonum ) di primum de¬  siderabile ; ossia perchè si possa ammettere che tutti  i soci consentano liberamente nel valutarlo e vo¬  lerlo come tale. E che si assuma poi, come modello  per dedurne le norme ideali, il tipo sociale che  soddisfa a questa esigenza ; cioè il tipo sociale con¬  figurato in conformità di quelle condizioni.   Ma non è rispondere alla questione il dimostrare          la naturalità della convivenza sociale in genere, o  di un certo tipo che si assuma volta a volta come  modello. Questa dimostrazione può servire a farmi  trovar buona o giusta o desiderabile P osservanza  dell’ordine naturale, se io trovo già buono o giusto  o degno di essere voluto, quel tipo di vita sociale,  cbe si presenta come suo effetto ; ma non inversa¬  mente. E se, non trovandolo tale, mi rassegnassi  a subirlo per la coscienza della sua necessità natu¬  rale. chi potrebbe legittimamente scambiare questo  subire con un volere . e la rassegnazione a un male  con la aspirazione a un bene ?   Nemmeno gioverebbe, d’altra parte, il ricorrere  a postulati metafisici. Posto che io non riconosca  l’ordine sociaie ideale contemplato da un sistema  come degno di essere voluto, in qual modo si può  presumere legittimamente che valga a farmelo ri¬  conoscere tale Vaffermazione (poiché qui di dimo¬  strazione non si potrebbe parlare) che esso .ha un  fondamento o una giustificazione metafisica, se la  ragione per la quale il sistema gli assegna questo  fondamento consiste appunto nel valore di fine che  esso gli attribuisce e cbe io, per ipotesi, non gli  riconosco ?    Ma il Vanni (per restringermi a lui. poiché al-  1 indirizzo metafisico non ho accennato qui se non  per debito di sincerità e di chiarezza) obietterebbe       — 169 —    con tutta probabilità che per la via indicata come  la sola legittima si riesce a una costruzione pura¬  mente astratta, di un tipo utopistico di società  che non trova nella realtà storica nessuna corri¬  spondenza; e che si ricade nei difetti (ai quali ap¬  punto egli, d’accordo in ciò con la scuola storica,  s’ è proposto di sfuggire) o del puro formalismo, o  di un diritto assoluto valevole per tutto c sempre,  e senza riferimento possibile alla variabilità dei  rapporti sociali.   Mentre riponendo, come egli fa, il fondamento  intrinseco del Diritto n ella conformità della co n¬  d otta alle condizioni richieste dalla vita in comu ne,  questo riferimento non solo appare possibile ma  inevitabile. Infatti, insiste egli nel rilevare, le con¬  dizioni della vita in comune non sfuggono al moto  dell’ evoluzione e della storia ; e se anche alcune  hanno il carattere d’una certa uniformità e co¬  stanza, altre invece variano correlativamente al  grado di sviluppo umano e alle forme di organiz¬  zazione sociale, e sono proprie di ciascun grado e  di ciascuna forma. Il che importa che debbono va¬  riare corrispondentemente le norme regolatrici ; os¬  sia che nell’applicazione « il sistema etico-giuridico  fondato sulle condizioni di esistenza va combinato  col principio di evoluzione e subordinato al criterio  della relatività storica » (p. 318).   Ora, lasciando di rilevare come con questa su-    /    it       bordinazione si assuma sempre per presupposto che  l’osservanza delle condizioni richieste dal tipo so¬  ciale storicamente dato, abbia, per il solo l'atto che  la coscienza* ne riconosce la necessità storica, anche  valore di fine, importa notare come si venga con  ciò a rinunziare ad ogni valutazione comparativa  delle diverse forme storiche del diritto. Perchè una  valutazione comparativa richiede di necessità un  criterio, il quale non può essere dato dalla corri¬  spondenza alle condizioni storiche. E se si prende  un criterio diverso, allora è la conformità a questo  criterio e non la necessità storica, che si assume  come esigenza razionale o come giustificazione in¬  trinseca del diritto.   È certo che se una costruzione etico-giuridica  per essere razionale dovesse rimanere sospesa,  come gli Dei d’Epicuro, tra cielo e terra, e fuori  di ogni possibilità di applicazione alla condotta in¬  dividuale e collettiva, bisognerebbe accettare la tesi  del fenomenismo, e negare alla filosofia del diritto  qualsiasi funzione pratica riconducendola nell’ am¬  bito della pura sociologia.   Ma esiste davvero questa incompatibilità? E  non potrebbe essa dipendere, invece che dalla ra¬  dicale sterilità di una costruzione veramente ra¬  zionale (1), dalla preoccupazione di giustificare eti-   (1) Se, e a quali condizioni, una tale costruzione sia possibile,  è argomento del quale s 1 è già discorso altrove e che non può es¬  sere toccato di sfuggita.      — 171 —    camentc forme di diritto che non sono eticamente  giustificabili, di assumere come condizioni richieste  dalla giustizia e conformi ad essa certe condizioni,  reali sì, e storicamente date, ma che sono la nega¬  zione di quelle richieste dalle esigenze ideali? Per¬  chè se fosse cosi, Ih conclusione da trarne sarebbe  non che la costruzione razionale ò inapplicabile  come criterio di valutazione e come modello nor¬  mativo, ma che, essendo le condizioni reali diverse  da quelle idealmente contemplate, le norme ideali  non possono essere applicate simpliciter a condizioni  diverse dalle supposte. Ma esse potranno, anzi do¬  vranno ugualmente servire come criterio per de¬  terminare quale sia in un dato momento storico  la condotta sociale e individuale che, nei bifidi  delle esigenze reali necessariamente imposte dalle  condizioni in effetto esistenti, è più acconcia a favo¬  rire la trasformazione di queste nella direzione se¬  gnata da qualle esigenze ideali, ossia tende ad at¬  tuarle. il che importa che le esigenze corrispondenti  alle condizioni proprie di un certo momento storico  non siano assunte esse come esigenze razionali del  diritto, ma forniscano il criterio per stabilire entro  quali limiti sia possibile -tradurre in norme di di¬  ritto positivo le norme ideali.   Ossia in breve : l’esigenza razionale segna le  condizioni a cui deve soddisfare un ordino sociale  perchè possa aver valore di fine; la realtà storica         1      >       Indice Generale    1. ° La Dottrina delle Due Etiche   di H. Spencer e la Morale   come Scienza .... Pag. 3   ' * • ,   2. ° Per Una Scienza Normativa   Morale .„ 119   3. ° Il Fondamento Intrinseco del   Diritto secondo il Vanni    157Erminio Volfango Francesco Juvalta. Herren von Juvalt. Juvalta. Keywords: implicature, il metodo dell’economia pura nell’etica --. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Juvalta on the categorical imperative,” The Swimming-Pool Library, Villa Grice. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51689131181/in/photolist-2mLQdrQ-2mKbfaU-2mKAiSV

CHU CHU CHU

No comments:

Post a Comment